Giovanni
Battista Ramusio
NAVIGAZIONI
E VIAGGI
Volume
Quinto
Discorso di messer Gio. Battista Ramusio sopra il terzo volume delle Navigazioni e Viaggi nella parte del mondo nuovo.
All'eccellente messer Ieronimo Fracastoro.
Avendo Platone, eccellente Signor mio, da scrivere quel famoso e divino Dialogo nominato il Timeo, dove tratta della natura dell'universo, tolse per suo principio l'istoria dell'isola Atlantide, e dei re e dei popoli che abitavano in quella, e come combatterono con gli Ateniesi e furono vinti da loro. Egli fa raccontare questa istoria, come ben sa Vostra Eccellenzia, da un Crizia, che diceva averla intesa da un suo avolo detto similmente Crizia, il qual fu al tempo di Solone, uno de' sette savii della Grecia, e la seppe in questo modo: che essendo andato Solone in Egitto ad una città detta Saim, posta dove il fiume Nilo dividendosi fa l'isola Delta, quivi parlò con alcuni sacerdoti peritissimi dell'antichità del mondo, i quali li dissero che essi avevano memorie d'infinite cose, le quali erano avvenute avanti il diluvio di Deucalione e l'incendio di Fetonte; perciochè questa guerra de' popoli atlantici con gli Ateniesi fu molto prima del sopra detto diluvio e incendio. Il qual sacerdote parlò a Solone in questa forma:
"Molte veramente e mirabili opere si leggono, o Solone, d'alcune città nelle scritture e memorie nostre antiche: ma sopra l'altre d'una impresa per la sua grandezza e virtú singolare e maravigliosa. È fama che la vostra città altre volte facesse resistenza ad una innumerabile moltitudine di genti, le quali, venute dal mare Atlantico, quasi tutta l'Europa e l'Asia aveano assediato. Quel mare allora si potea navicare, e avea nella bocca e quasi nella prima entrata un'isola, dove voi chiamate le colonne d'Ercole, la qual si diceva ch'era maggior che non è tutta l'Africa e l'Asia insieme, e da quella si poteva andar all'altre vicine isole, e dall'isole poi alla terra ferma, ch'era posta all'incontro vicina al mare, ma dentro della bocca v'era un picciol colfo con un porto. Il mare profondo di fuori era il vero mare, e la terra di fuori il vero continente. Questa isola si chiamava Atlantide, e in quella era una maravigliosa e grandissima potenza di re che signoreggiavano e tutta la detta isola e molte altre e grandissima parte di quella terra che abbiamo detto esser continente, e oltre di ciò queste nostre parti ancora; perciochè erano signori della terza parte del mondo, che è chiamata Africa, insino all'Egitto, e dell'Europa insino al mare Tirreno. Ora, essendosi la potenza di costoro messa insieme, se ne venne ad assaltare il nostro e anco vostro paese, e tutte le parti che sono dentro delle colonne d'Ercole. Allora, o Solone, la virtú della vostra città verso tutti i popoli si dimostrò chiara e illustre; perciochè avanzando di gran lunga in eccellenza tutti gli altri, sí di grandezza d'animo come di perizia dell'arte militare, e in compagnia degl'altri Greci e anco sola, essendo stata da loro abbandonata, sostenne tutti gli estremi pericoli che dir si possano, fin che espugnò e mandò a terra i detti nemici, per conservare e restituire agli amici la lor primiera libertà. Poichè fu condotta a fine l'impresa, avvenne che, fattosi un grandissimo terremoto e inondazione, che durò per ispazio d'un giorno e d'una notte, la terra s'aperse e inghiottí tutti quei valorosi e bellicosi uomini, e l'isola Atlantide si sommerse nel profondo del mare. Il che fu cagione che da quel tempo in poi non s'è potuto navicare, per il gran fango e terra che v'è rimasa dell'isola sommersa".
Questa è la somma delle cose che Crizia il vecchio diceva avere inteso da Solone. Ora questa isola e guerra, da grandissimi filosofi che hanno commentato il detto Dialogo del Timeo, è stata riputata favola e cosa allegorica, perciochè alcuni hanno detto che ella voglia significar l'opposizioni che si fanno nell'universo, altri l'opposizioni che si fanno tra li pianeti e la terra, o vero la discordia fra li demonii superiori e inferiori e infinite altre chimere. Ma la verità è questa, che avendo Platone a scriver della fabrica del mondo, il qual teneva esser stato fatto per collocarvi l'uomo, animal divino, acciochè, vedendo egli tanti ornamenti di stelle nel cielo e il moto di cosí stupendi e maravigliosi luminari, conoscesse il suo fattore e conoscendolo di continuo lo laudasse, gli pareva cosa pur troppo fuor di ragione che due parti d'esso fossero abitate e l'altre prive d'uomini: e 'l sole e le stelle con loro splendore facessero la metà del corso indarno e senza frutto, non lucendo se non al mare e a' luoghi deserti e privi d'animali. E però, intesa che egli ebbe questa istoria de' sacerdoti d'Egitto, nella quale si faceva menzione d'un'altra parte del mondo oltra l'Asia e l'Europa e l'Africa, l'ammirò grandemente e, come cosa sacra e conforme a' suoi pensieri, la volse porre nel principio del predetto Dialogo. E veramente noi siamo, oltra gl'infiniti doni concessine da Iddio, obligati grandemente a sua divina Maestà di questo sopra tutti gli altri uomini stati nei secoli passati, che a' nostri tempi si sia scoperta questa nuova parte del mondo, della quale in cosí lungo spazio di tempo non se n'è avuta notizia, e appresso che siamo chiari come sotto la nostra Tramontana e sotto la linea dell'equinoziale vi siano abitatori, e che vivono cosí commodamente come fanno l'altre genti nel rimanente del mondo, la qual cosa gli antichi negarono.
Ma non sarà fuor di proposito (benchè Vostra Eccellenza sappia benissimo tutte queste cose) di parlar alquanto della Tramontana, avendo noi in diversi altri nostri discorsi a bastanza dimostrato sotto la detta linea il tutto essere abitato, con grandissimo temperamento d'aere, ma di quest'altra parte non n'avendo toccato, se non un poco nel parlar che facemmo del viaggio che per fortuna fece il magnifico messer Pietro Querini, gentiluomo veneziano, sotto la Tramontana, come si legge nel secondo libro de' Viaggi. E però qui ci sforzeremo il meglio che sapremo di dimostrare il maraviglioso e stupendo effetto che si vede far il sole, e sopra la linea e sotto ambedue i poli in un istante, ma diversamente e al contrario l'uno dall'altro. Avendo quel supremo e divino Fabricatore disposto il tutto con tanto artificio che, presso a coloro i quali sono sotto l'equinoziale, e hanno l'orizonte che passa per i due poli, il giorno è di ore dodeci e la notte d'altretante, e l'anno loro è diviso in 12 mesi, quelli che abitano sotto la nostra Tramontana, e che hanno l'orizonte il qual passa sopra la detta linea, e il polo per zenit, hanno il giorno di sei mesi continui, cioè cominciando da' 25 di marzo, che 'l sole vien sopra il detto orizonte, fin che ritorna a passar di sotto agli 8 di settembre; e all'incontro una notte d'altri sei mesi hanno gli abitanti sotto l'Antartico, e il lor anno, cioè tutto il corso che fa il sole per li 12 segni del zodiaco, si compie in un giorno e una notte.
Cosa veramente stupenda e maravigliosa, perchè, quando noi abbiamo la state, quelli che son sotto la nostra Tramontana hanno il giorno di detti sei mesi, e quelli dell'altra opposta la notte del medesimo spazio; e quando è il verno presso di noi, sotto la nostra Tramontana è la notte di detti sei mesi, e nella opposta il giorno d'altretanta lunghezza; sí che a vicenda ora i nostri hanno il giorno, ora quelli dell'altra, e al medesimo modo la notte. La quale, ancorchè sia cosí lunga e di tanto spazio di tempo, non è però di continue e oscurissime tenebre, ma il sole fa il suo corso con tal ordine che gli abitanti nella detta parte non come talpe vivono sepolti sotto terra, ma come l'altre creature che sono sopra questo globo terreno vengono illuminate, sí che possono benissimo sostenersi e riparar la lor vita; perciochè il corpo solare non declina mai, né di sotto della detta linea né di sopra di quella, che è l'orizonte di ambidue i poli, piú di 23 gradi, e anco in questi 23 non cammina per diametro opposto, ma va di continuo circondando attorno, sí che i suoi raggi, percotendo il cielo, rappresentano a loro quella sorte di luce ch'abbiamo noi qui la state due ore avanti che 'l sole lievi.
E questo esempio che abbiamo preso, della diversità degli orizonti dell'equinoziale e di sotto i poli, è stato per dimostrare il mirabile effetto che fa il sole, partendosi delle ore dodeci e venendo pian piano illuminando il globo della terra, riducendo l'anno di dodeci mesi in un sol giorno e una notte, come di sopra è stato detto; sotto l'infinite varietà del corso del quale, ora con giorni lunghi, ora con brevi, tutti gli abitanti sono stati formati e disposti con tal complessione e fortezza di corpo, che ciascuno è proporzionato al clima assegnatoli, o caldo o freddo che sia, e vi può abitare e ripararsi come in luogo suo naturale e temperato, non si lamentando o cercando di partirsi e andare altrove, ma si contenta di starvi per l'amor naturale del sito suo natio. Perciochè ragionevolmente non è da credere che il fattore di cosí bella e perfetta fabrica come sono i cieli, il sole e la luna, non abbia voluto che, essendo ella fatta con tanto stupendo e maraviglioso ordine, il sole non illumini se non una particella di questo globo che chiamano terra, e il resto del suo corso sia in vano sopra mari, nevi e ghiacci; ma l'ha coperta in ciascuna sua parte di diversi animali, e sopra gli altri dell'uomo, come padrone e signor di tutti, per cagion del quale ella era stata fabricata, avendolo dotato di quella divina e celeste parte che è l'anima: e appresso ha disposti e in ciascun luogo compartiti i doni necessarii al vivere, piú e meno, secondo che alla divina sua providenza è piaciuto. Di maniera che chi leggerà l'Istoria del reverendissimo monsignor Olavo Magno, gotto, arcivescovo d'Upsala, delle genti e natura delle cose settentrionali, descritta in 22 libri, quali ora si traducono di lingua latina nella toscana per dargli alla stampa, chiaramente conoscerà che questa tal parte di sotto la nostra Tramontana è tutta abitata d'infiniti popoli delle provincie e regioni di Biarmia, Finmarchia, Scrifnia, Lappia e Botnia, poste sotto li regni di Norvega e Svezia.
Ma per non partirmi dal parlar del viaggio che fa il sole in un anno intero, ora appressandosi a noi e ora allontanandosi, dico che in un medesimo tempo in diverse parti sopra questa rotondità della terra egli causa primavera, state, autunno e verno, e nel medesimo istante, e quasi punto, si veggono apparire i raggi del sole, esser mezzodí, e farsi sera e mezzanotte. La qual varietà, quantunque paia incomprensibile alla picciolezza dell'ingegno umano, pure, speculandola con l'occhio dell'intelletto, e mettendo avanti di quello il moto inestimabile che di continuo fa il sole, vedrassi esser vera a rispetto della diversità de' siti della terra che di continuo vengono illuminati. La qual varietà è fatta con tanta armonia e consonanza, e con una legge cosí immutabile e perpetua, che ogni picciol punto che vi mancasse si dubiteria che tutti gli elementi si confondessero insieme e ritornassero nel primo caos.
Ora, per le cose dette di sopra, penso che non ci sia piú dubbio alcuno che sotto l'equinoziale e sotto ambidue i poli non si trovi la medesima moltitudine degli abitanti che sono in tutte l'altre parti del mondo; e che per questo nuovo scoprir dell'Indie occidentali non si conosca chiaramente quanto tutti gli antichi filosofi con le lor sapienze e gran speculazioni si siano ingannati, pensando che la fabrica di questo mondo, fatta in ogni sua parte con sí mirabil disposizione e da cosí perfetto maestro, fosse la metà sotto il mare, difforme e guasta, e per il caldo e per il gielo inabitata.
Ritornando adunque al primo nostro proponimento, dico che questa parte del mondo nuovo fu trovata nell'anno 1492 dal signor don Cristoforo Colombo genovese, come si vedrà per un Sommario che scrisse in quei tempi don Pietro Martire milanese, che allora stava in Spagna col re catolico, e anco per un altro ch'ha scritto il signor Gonzalo Fernando d'Oviedo, ch'è tanto amico della Eccellenza Vostra, il qual Sommario egli ampliò dapoi e divise in tre parti, chiamandole l'Istorie generali e naturali dell'Indie, delle quali n'è venuta in luce la prima, come si leggerà in questo volume. L'altre due, cioè la seconda, che contien il discoprir di Mexico e la Nuova Spagna, e la terza, dell'acquisto della gran provincia del Perú, essendo, sí come ho inteso, venuto il prefato signor Gonzalo gli anni passati dall'isola Spagnuola fino in Sibilia per farle stampare (non so che cosa vogliamo dir che sia stata cagione) con gran danno de' studiosi di questa cognizione, egli poco dapoi se n'è ritornato alla città di S. Domenico nella Spagnuola, riportando seco dette due parti d'istoria soppresse. Nelle quali, secondo ch'egli medesimo scrisse all'Eccellenza Vostra quest'anni, v'erano piú di 400 figure de' ritratti delle cose naturali, come animali, uccelli, pesci, arbori, erbe, fiori e frutti delle dette due parti dell'Indie. Il che è stato di gran perdita a' studiosi, che desiderano di legger e intender particolarmente e piú volentieri le cose sopradette dalla natura prodotte in quelle parti, dissimili da quelle che nascono presso di noi, che di saper le guerre civili ch'hanno fatte molt'anni gli Spagnuoli tra loro, ribellandosi alla maestà cesarea di Carlo V imperatore per l'immensa ingordigia dell'oro.
Delle quali guerre tutti gl'istorici spagnuoli di questi tempi s'hanno affaticato e affaticano continuamente di scrivere con un'estrema diligenza, notando che ne' fatti d'arme di Salinas, Chupas, Quito, Guarina, Xaquixaguana v'erano i tali e tali capitani, alfieri e adelantadi, co' nomi di tutti i soldati spagnuoli, sí da cavallo come da piedi, e in qual città di Spagna ciascun di lor nacquero, cosa vana e ridicolosa; delle cose naturali veramente sopradette se ne passano brevemente, se non in quanto non possono far di meno di non nominarle alle fiate. Che all'incontro in dette due parti d'istoria del nostro signor Gonzalo vi sono scritte molte cose notabili, e fra l'altre che 'l Messico è in 19 gradi di latitudine di sopra la linea dell'equinoziale, e cento dall'isole Fortunate, dove Tolomeo incomincia le longitudini. Parimente, che v'è differenza d'ore otto del sole dalla città di Messico a quella di Toledo in Spagna, il che è stato osservato con gli ecclissi, cioè che 'l sole nasce otto ore avanti in Toledo che non fa nel Messico; e che 'l sole a' 18 di maggio passa sopra il Messico per andare al tropico di Cancro, e ch'ei ritorna indietro sopra detta città a' 15 di luglio, e getta l'ombre in tutto quello spazio di tempo verso mezzodí, e non vi è caldo di qualità che alcuno sia sforzato a lasciare le vesti; che 'l paese è molto sano e temperato, e nei monti che circondano la laguna del Messico, in gran parte simile a quella di questa nostra gloriosa città di Venezia, vi sono molti luoghi ameni per andar a piacere. E medesimamente come, all'incontro del mal francese, che già fu condotto a noi di dette Indie, i nostri vi portarono il male delle varuole, che mai piú non era stato veduto né udito in quelle parti: e furono alcuni marinari giovani dell'armata di Panfilo Narbaez, ai quali venne detto male, e lo communicarono con gl'Indiani della Spagnuola, in guisa che, d'un millione e seicentomila anime ch'erano sopra detta isola, non se ne ritrovano al presente intorno a 500, tanto questa malattia di varuole, accompagnata d'infiniti strazii e fatiche che gli fecero far gli Spagnuoli, ebbe poter di levar loro la vita. E non solamente nella Spagnuola, ma è passata questa contagione talmente alla Nuova Spagna e anco oltra il mar del Sur nel Perú, che molte provincie sono rimaste deserte e disabitate da Indiani per cagione di queste varuole, e delle guerre civili che hanno fatte gli Spagnuoli fra loro.
Si leggeva anco in detta istoria del signor Gonzalo, la forma e modo come essi con alcune imagini ieroglifice descrivono le loro istorie e notano le memorie dei loro re del Messico, che sono certe figure d'animali, fiori e uomini fatti in diversi atti e modi: sí come s'è veduto in quei libri che 'l detto signor Gonzalo mandò a donare a V.E. e a me, gli anni passati, pieni di varie figure e bizzarrie. Oltra di questo si trattava come nella provincia del Perú, per aver memoria de' loro re e degli anni che hanno regnato, fanno in questo modo, che hanno case grandi con alcune persone diputate, le quali tengono il conto delle cose segnalate con alcune corde fatte di bombagio, che gl'Indiani chiamano quippos, dinotando i numeri con groppi fatti in diversi modi, e cominciano sopra una corda da uno fino a dieci, e d'indi in su, mettendovi la corda del color della cosa che essi vogliono mostrare e significare. E, come è detto, in ciascuna provincia vi sono questi tali, ch'hanno carico di metter sopra quelle corde le cose generali, e chiamano quippos camaios. E se ne trovano case publiche piene di dette corde, con le quai facilmente dà ad intender, colui che n'ha il carico, le cose passate, benchè elle siano di molta età avanti di lui, sí come noi facciamo con le nostre lettere.
Ora, queste due parti d'istoria del detto signor Gonzalo non essendo venute ancora in luce, ed essendo stato divulgato che egli l'avea portate indrieto alla isola Spagnuola, forse per non volerle per ora publicare, acciochè gli studiosi di simili lezioni non stessero piú con l'animo sospeso, ma potessero in qualche parte sodisfarsi leggendo le cose che si trovano scritte di questo mondo nuovo, ho usato diligenza di far mettere insieme i sommarii e le relazioni che furono scritte dai medesimi capitani nel principio del trovar di quello. Il che s'è fatto nel miglior modo ch'è stato possibile, ancora che abbiamo avute le copie incorettissime; perciochè in ogni modo, per quel che vien detto, le due parti della detta istoria che non abbiamo potuto avere sono state tratte da simili relazioni.
Nell'ultima parte di questo volume sono state poste alcune relazioni di messer Giovanni da Verazzano fiorentino e d'un capitan francese, con le due navigazioni del capitan Iacques Carthier, il qual navigò alla terra posta sotto la Tramontana gradi 50, detta la Nuova Francia; delle quali fin ora non siamo chiari s'ella sia congionta con la terra ferma della provincia della Florida e della Nuova Spagna, overo s'ella sia divisa tutta in isole, e se per quella parte si possa andare alla provincia del Cataio, come mi fu scritto già molti anni sono dal signor Sebastian Gabotto nostro viniziano, uomo di grand'esperienza e raro nell'arte del navigare e nella scienza di cosmografia. Il qual avea navicato disopra di questa terra della Nuova Francia a spese già del re Enrico VII d'Inghilterra, e mi diceva come, essendo egli andato lungamente alla volta di ponente e quarta di maestro dietro queste isole, poste lungo la detta terra fino a gradi 67 e mezo sotto il nostro polo, a' 12 di giugno, e trovandosi il mare aperto e senza impedimento alcuno, pensava fermamente per quella via di poter passar alla volta del Cataio orientale: e l'avrebbe fatto se la malignità del padrone e de' marinari sollevati non l'avessero fatto tornare adietro. Ma Iddio forse riserba ancora lo scoprir di questo viaggio al Cataio per questa via, il qual per condur le spezie sarebbe piú facile e piú breve di tutti gli altri fin ad ora trovati, a qualche gran prencipe, come fa anco il discoprir l'altra parte della terra verso l'Antartico: il che fin al presente non vi è alcuno che abbia voluto o tentato di fare. E veramente questa sarebbe la maggiore e piú gloriosa impresa che alcuno imaginar si potesse, per fare il suo nome molto piú eterno e immortale a tutti i secoli futuri di quello che non faranno tanti travagli di guerra che di continuo si veggono nell'Europa fra i miseri cristiani.
Nel fine adunque di questo nostro discorso non pur è convenevole, ma parmi anco d'essere obligato a dire alquante parole accompagnate dalla verità per diffesa del signor Cristoforo Colombo, il quale fu il primo inventore di discoprire e far venire in luce questa metà del mondo, stata tanti secoli come sepolta e in tenebre, tal che a' tempi nostri s'adempia il detto del profeta della nostra santissima fede: "In omnem terram exivit sonus eorum", avendolo il nostro Signor Iddio eletto e datogli valore e grandezza d'animo per far cosí grande impresa. La qual essendo stata la piú maravigliosa e la piú grande che già infiniti secoli sia stata fatta, molti maestri, pilotti e marinari di Spagna, parendo loro in questa cosa esser tocchi pur troppo adentro nell'onore, essendo palese al mondo che ad un uomo forestiero e genovese era bastato l'animo di far quello che essi non avevano mai saputo né tentato di fare, s'imaginarono, per abbassar la gloria del signor Cristoforo, una favola piena di malignità e di tristizia.
Dipoi gli istorici spagnuoli, che scrivono tutto questo successo, non potendo far di meno di nominar l'auttore di cosí stupendo e glorioso fatto, che ha portati tanti tesori alla corona di Castiglia e a tutta la Spagna, tolsero ad approvar la detta favola e dipingerla con mille colori, la qual è tale. Che un padrone di caravella, navigando per il mare Oceano, fu assaltato da un vento di levante tanto sforzevole e cosí continuo che lo condusse nell'Indie occidentali; e che, ritornato poi indietro, per la fame e per li travagli non gli erano restati se non due o tre marinari, e quelli infermi, i quali, dapoi che furono giunti, incontanente morirono; e che anche il padrone mal condizionato alloggiò in casa del Colombo, il quale era suo amico, e perchè egli sapeva far carte da navicare, gli volse mostrar la terra che esso avea scoperta per la fortuna, e per qual vento aveva fatto questo pareggio. Alcuni dicono che questo padrone era d'Andaluzia, e facendo il viaggio delle Canarie nel suo ritorno arrivò all'isola della Madera, dove allora si trovava Colombo. Altri affermano che era biscaino, il qual andava in Inghilterra carico di tante vettovaglie che li furono bastanti per l'andarvi e per il ritorno. Altri vogliono ch'ei fosse certo Portoghese, che veniva dal castel della Mina; e chi dice ch'egli arrivò in Portogallo, chi all'isole d'Azori e chi alla Madera. E di questo non sanno però alcun di loro affermar cosa alcuna certa, ma ben tutti in ciò si conformano, che 'l detto, arrivato in casa del Colombo, fra spazio di pochi giorni vi morí, e in poter del Colombo rimasero le scritture e le relazioni del detto viaggio, e che per questa informazione il signor Cristoforo si pose in animo d'andare poi a trovar queste terre nuove.
Favola veramente e invenzione ridicolosa, composta e formata con tanta malignità, in pregiudicio del nome di questo gran gentiluomo, quanto dire o imaginar si possa. Né mi pare che l'uomo per confutarla si debba troppo affaticare, essendo assai chiaramente per se medesima conosciuta esser senza alcun fondamento, e finta con molta confusione, non esprimendo alcuno di questi né il luogo, né il tempo, né il nome dell'auttore, ma solamente volendo che si porga fede alla loro semplice parola. Ed è da credere che quelli, i quali volessero torre a provar con simil via che questo pilotto sia stato il primo a trovar queste Indie, appresso ogni prudente e giusto giudice sarebbono riprovati per manifesti calunniatori. Perchè se il signor Cristoforo Colombo avesse fatta questa impresa già 200 anni, la lunghezza del tempo potrebbe forse oscurar qualche parte della verità, e molte finzioni di simili favole potrebbono essere da alcuno credute; ma egli la fece del 1492, nel conspetto e negli occhi di tutto quel regno. E oggidí ancor vivono nella Spagna e nell'Italia di quelli che si trovarono alla corte quando esso fu spedito per andar al detto viaggio; dove non apparve pur un minimo segno di sospizione, né detto parola alcuna di questa caravella né d'altro marinaro: anzi tutto il mondo sapeva ed era chiaro che, perchè il detto era grandissimo marinaro e molto ben pratico del quadrante e dell'altezze del sole e dell'elevazioni del polo, e che aveva navigato gran parte della sua età per tutto il Mediterraneo e per l'Oceano verso Inghilterra, e verso mezogiorno alle Canarie e anco in Portogallo, sovra i liti del quale aveva osservato in certo tempo dell'anno una continua cola di venti di ponente, che tutte queste cose l'inducevano a voler far questo viaggio, avendo fisso nell'animo che, andando a dritto per ponente, esso troverebbe le parti di levante ove sono l'Indie.
E che ciò sia la verità, in tutta la corte a quel tempo non si parlò mai altramente: di che ne dà chiara testimonianza nella sua istoria don Pietro Martire, scrittor celebre in que' tempi che allora stava in Spagna a' servizii di quelli serenissimi re di gloriosa memoria, i quali, veduto il felice successo del viaggio, si trovarono tanto satisfatti del servizio suo che lo divulgarono per tutto il mondo, esaltandolo e inalzandolo fin al cielo, e gli fecero tutti quegli onori che si possono imaginar maggiori, confermandogli i privilegi che gli aveano fatti delle decime di tutte l'entrate e diritti reali che si cavassero di tutte le terre ch'egli scoprisse, creandolo perpetuo almirante dell'Indie, e lui e tutti li suoi descendenti, e facendolo sedere nel conspetto delle lor Maestà, che a privata persona è onor grandissimo in quei regni. E dandogli il titolo di don, volsero che egli aggiugnesse presso all'armi di casa sua quattro altre, cioè quelle del regno di Castiglia, di Leon, e il mar Oceano con tutte l'isole, e quattro ancore per dimostrar l'ufficio d'almirante, con un motto d'intorno che diceva: "Per Castiglia e per Leon nuovo mondo trovò Colon". Che se avessero avuto sospicion alcuna di questa favola, la qual maliziosamente dopo il suo ritorno fu per invidia finta dalla gente bassa e ignorante, affezionata a' detti pilotti, quei prencipi tanto savi e prudenti non gli averebbono fatti cosí gran privilegi, concessioni e onori. Oltre di ciò, si sa chiaramente che nel cuore e nell'animo di tutti i grandi e signori di Spagna è fin al presente scolpita la memoria di questo gran fatto del signor Cristoforo Colombo, e tutti ne parlano di continuo molto onoratamente. E ho già udito dire molte volte da molti gravissimi senatori, che in diversi tempi sono stati ambasciatori di questa Repubblica in Spagna, che ognuno di quella corte diceva ch'egli meriteria che gli fusse fatta una statua di bronzo, acciochè li posteri in tutti li regni di Spagna avessero sempre dinanzi agli occhi l'auttore di tanti tesori e grandezze aggiunte a quei regni.
Questo è quanto per difesa dell'onor di cosí grande uomo mi è parso che si dovesse toccare. La nobilissima adunque e ricchissima città di Genova si vanti e glorii di cosí eccellente uomo cittadin suo, e mettasi a paragone di qualunque altra città, perciochè costui non fu poeta, come Omero, del qual sette città delle maggiori che avesse la Grecia contesero insieme, affermando ciascuna che egli era suo cittadino; ma fu un uomo il quale ha fatto nascer al mondo un altro mondo, effetto in vero incomparabilmente molto maggiore del detto di sopra. Del quale non posso far che non mi stupisca, avendo trovato che un poeta spagnuolo di Cordova, nominato Seneca, già 1500 anni, mosso dal furor poetico ne dipinse tutta questa impresa, perciochè nella tragedia ch'egli compose di Medea, nel fine d'un coro, scrisse questi versi latini:
Venient annis
secula seris, quibus Oceanus
vincula rerum laxet, et ingens
pateat tellus, typhisque novos
detegat orbes.
nec sit terris ultima Thyle.
Li quali tradotti suonano in questo modo:
Tempi verranno ancora
dopo lunga dimora,
che 'l gran padre Oceano ad altre genti
delle cose mondane il fren rallenti,
che 'l gran corpo terreno
tutto apparisca e si dimostri a pieno
che di Tifi solcando a parte a parte
de l'onde il vasto seno
nuovi luoghi discopra il senno e l'arte,
né sia Tile del mondo ultima parte.
Ora, perchè l'Eccellenza Vostra piú volte per sue lettere m'ha esortato che della parte di questo mondo di nuovo ritrovato, ad imitazione di Tolomeo, ne volessi far fare quattro o cinque tavole di quanto se ne sapeva fin al presente, ch'erano i liti posti nelle carte da navicare, fatte per li pilotti e capitani spagnuoli, e appresso volutomi mandar quel tanto che lei n'avea già avuto dal predetto illustre signor Gonzalo Oviedo, istorico cesareo, sí delle marine della Nuova Spagna e isole del mar del Nort, come della parte che si chiama la terra del Brasil e Perú nel mar del Sur, non ho voluto mancar di non obedir a' suoi comandamenti, e ho fatto che messer Giacomo de' Gastaldi piamontese, cosmografo eccellente, n'ha ridotto in picciol compasso uno universale, e poi quello in quattro tavole diviso, con quella cura e diligenza ch'egli ha potuto maggiore, acciochè gli studiosi lettori vegghino di quanto per mezzo di V.E. se n'ha avuto notizia. Conciosiacosachè, sapendosi in Spagna e in Francia il piacer grande che ella ha di questa nuova parte del mondo, e come ella medesima di sua mano spesse volte ne suol far disegni, tutti gli uomini letterati ogni giorno la fanno partecipe di qualche discoprimento che è loro portato da capitano o pilotto che venga di quelle parti; e fra gli altri il sopradetto signor Gonzalo dall'isola Spagnuola, il quale ogn'anno una volta o due la visita con qualche carta fatta di nuovo. Il simile fanno alcuni eccellenti uomini francesi, che da Parigi gli hanno mandato le relazioni della Nuova Francia, con quattro disegni insieme, che saranno posti in questo volume a' suoi luoghi.
E questo è quanto, facendo fine, s'appartiene a queste tavole nuovamente fatte di geografia e relazioni, a contemplazione di Vostra Eccellenza e degli studiosi mandate in luce.
Sommario dell'istoria dell'Indie occidentali cavato dalli libri scritti dal signor don Pietro Martire milanese, del Consiglio delle Indie, prima del re catolico e poi della maestà dell'imperatore.
Come Cristoforo Colombo genovese, avendo proposta alla Signoria di Genova e poi al re di Portogallo di trovar il mondo nuovo, e non essendoli creduto, lo propose al re catolico, quale gli armò una nave e due caravelle e lo lasciò andare al detto viaggio.
In Genova, antica e nobil città d'Italia, nacque Cristoforo Colombo di famiglia popolare, e sí come è il costume de' Genovesi, si dette a navicare. Nel quale esercizio, essendo di grande ingegno e avendo bene imparato a conoscere li moti de' cieli e il modo d'adoperare il quadrante e l'astrolabio, in pochi anni divenne il piú pratico e sicuro capitano di navi che fusse al suo tempo. Navigando adunque come era suo costume, in molti viaggi fatti fuor dello stretto di Gibilterra inverso Portogallo e quelle marine, aveva molte volte osservato con diligenzia che in certi tempi dell'anno soffiavano da ponente alcuni venti, li quali duravano equalmente molti giorni: e conoscendo che non potevan venire d'altro luogo che dalla terra, che gli generava oltre al mare, fermò tanto il pensiero sopra questa cosa che deliberò volerla trovare. Ed essendo d'età d'anni XL, uomo di alta statura, di color rosso, di buona complessione e gagliardo, propose prima alla Signoria di Genova che, volendo quella armargli navili, si obligheria andar fuor dello stretto di Gibilterra e navicar tanto per ponente che, circondando il mondo, arriveria alla terra dove nascono le spezierie.
Questo viaggio parve a chiunque l'udí molto strano, come a quelli che mai avevano a tal cosa pensato o con l'intelletto fattone alcun discorso, e riputavansi saper tutto quel che fusse possibile dell'arte del navicare, e per questo tennero questo suo ragionamento per una favola e un sogno: ancor che avessero sentito dir che da qualche uno degli scrittori antichi è stata fatta menzione d'una grande isola molte miglia fuora di questo stretto alla volta di ponente. Vedendo Colombo che non era dato fede alle sue parole, gli parve di tentare il re di Portogallo. Né anche appresso questo prencipe gli fu prestato orecchi, essendo li capitani di navi di quel regno molto superbi, né giudicavan che alcuno meglio di loro potesse o sapesse parlare dell'arte del navicare. E questo solamente perchè sempre a vista di terra, né mai da quella allontanandosi e andando ogni sera in porto, avevano scorso tutta quella costa dell'Africa la quale in su l'oceano guarda verso mezzodí. Il qual viaggio de' Portoghesi mai bastò l'animo agli antichi fare, perchè tenevan per certo che fusse arso dal sole qualunque passava sotto l'equinoziale, e reputaron favola quando fu riferito loro che s'era trovato chi da Gades era andato circondando l'Africa insino al mar Rosso.
Rimaso adunque in questo modo ingannato, e avendo sentito parlar della grandezza d'animo del re catolico e della regina Isabella, si dirizzò alla corte loro, con fermo proposito di non partirsi da quelli fin che non gli armassino navili per andare a discoprir detta terra per ponente. E avendo molte volte a lor Maestà e a molti grandi d'Ispagna detto le ragioni che lo movevano a tener certo che questo fusse la verità, pareva che ancora in questa corte delle sue parole fusse tenuto poco conto, perchè lo reputavano uomo leggiero, e giudicavano che la cosa non manco si potesse fare che volare. Pure Iddio, il quale aveva determinato per mezzo di costui scoprir quello che tanto tempo aveva tenuto ascoso a tutti gli savi del mondo, dapoi che fu dimorato in quella corte alcuni anni, pose questa impresa in cuore alla regina Isabella, qual fu una delle rare donne e di tanto cuore quanto alcuna altra che giamai nascesse. E cosí essendo un giorno sollecitata dal detto Cristoforo, persuase al re catolico che non restasse per modo alcuno di far tale esperienzia. E fu tale la persuasione, che gli armorono una nave e due caravelle, con le quali al principio di agosto 1492 con 120 uomini si partí da Gades, e la prima scala fece all'isole Fortunate, le quali dagli Spagnuoli si chiamano le Canarie, gradi 28 in circa sopra l'equinoziale. Questa navigazion fu di mille miglia, perchè, secondo il conto de' marinari, queste isole sono lontane da Gades 250 leghe a quattro miglia per lega. Queste isole dagli antichi furon chiamate Fortunate perchè sono di aere temperatissimo e non senton mai per tutto l'anno né caldo eccessivo né freddo; ancora che alcuni pensino che l'isole Fortunate siano quelle che sono non molto lontane dal Capo Verde dell'Africa, tenute oggi da' Portoghesi, gradi 17 sopra l'equinoziale, chiamate l'isole di Capo Verde.
Delle isole Fortunate, dette ora Canarie, e di quelle che furono trovate a' tempi nostri. E come, navigato che ebbe Colombo trenta giorni per ponente, scoperse terra. E del sito e abitatori e animali di quella.
Ma come quelle che posseggon gli Spagnuoli, alli quali arrivò Colombo, la prima volta fusser trovate, non voglio lasciar di dire. Queste isole, ancor che appresso gli antichi fusser conosciute, pur la memoria dove quelle fussero era smarrita. E nel 1405 uno di nazion franzese, chiamato Giovanni Bentachor, avuta licenzia da una regina di Castiglia di scoprir terre nuove, trovò quelle due che si chiamano Lancilotto e Forteventura: le quali, morto Bentachor, dalli suoi eredi furon vendute agli Spagnuoli. La Gomera e l'isola del Ferro furono trovate da Ferrando Darias; le altre tre, cioè la Gran Canaria, Palma e Tenerife, alli tempi nostri sono state trovate da Pietro di Vera e Alfonso di Lucho.
Ma torniamo a Colombo, il quale, partito da queste isole al diritto di ponente, ancor che tenesse un poco a man sinistra verso gherbino, navigò trentatre giorni non vedendo altro che cielo e acqua, e ogni giorno con l'astrolabio osservava la declinazion del sole, e la notte l'altezza delle stelle fisse, non allontanandosi dal tropico del Cancro, e la Tramontana se gli levava gradi 20 in circa, e a questo modo comandava il cammino. Buttava ancor due volte il giorno lo scandaglio in mare, e notava li segnali della terra dove passava e l'altezza del mare. Ma gli Spagnuoli che erano sopra li navili, passati li primi dieci giorni, comincioron fra loro a mormorare secretamente, dipoi alla scoperta a lamentarsi di Colombo, e vennero a quello, che eran deliberati buttarlo in mare, dicendo che erano stati ingannati da un Genovese, e che lui gli aveva condotti in luogo donde mai piú potriano tornare. Pure andavano scorrendo, essendo nel miglior modo che era possibile da Colombo trattenuti; ma poi che furon passati venti giorni, entroron in gran furore gridando non voler andar piú avanti. Ma Colombo, or con umane parole, or dando loro speranza, e alcune volte arditamente dicendo loro che se gli facevano alcuna violenzia sarebbon tenuti ribelli delli re catolici, gli andava menando di giorno in giorno, tanto che tre giorni avanti che scoprissero terra, dormendo Colombo, gli apparve una mirabil visione, tale che destatosi pieno di allegrezza, chiamati a sé li compagni disse loro che in breve tempo vedrebbon terra. E una mattina, al far del giorno, buttato lo scandaglio in mare e veduta certa sorte di terreno del fondo di quello, conobbe non esser molto lontan da quella, e tanto piú di questo faceva congiettura perchè la notte avanti era soffiato una insolita inequalità di vento, il quale non era causato da altro che dal vento contrario che veniva dalla terra.
Mosso da questi segni, Colombo comandò che uno delli compagni montasse in su la gabbia della nave; il che fatto, non passò molte ore che cominciò di lontano a discoprir certi monti, li quali veduti, subito cominciò con grande allegrezza a gridar: "Terra, terra". Gli altri compagni e quelli delle caravelle, udita questa voce, gridorono ancor loro: "Terra, terra", discaricando tutti li pezzi che avevan di artigliarie. Cristoforo Colombo, vedendo li suoi disegni con l'aiuto di Dio avere avuto sí felice principio, si riempié di tanta allegrezza che era cosa mirabile a vederlo. E avendo buon vento, a mezzogiorno arrivorno appresso terra, qual viddero verdissima e piena di grandissimi arbori: dove arrivati, comandò che fussero buttati gli schifi della nave e caravelle, e che dodici uomini con lui smontassero. Il quale, primo, con una bandiera nella quale era figurato il nostro Signore Iesú Cristo in croce, saltò in terra e quella piantò, e poi tutti gli altri smontorono e inginocchiati baciorono la terra tre volte piangendo di allegrezza.
Dipoi Colombo, alzate le mani al cielo, lagrimando disse: "Signor Dio eterno, Signore omnipotente, tu creasti il cielo e la terra e il mare con la tua santa parola; sia benedetto e glorificato il nome tuo, sia ringraziata la tua maestà, la quale si è degnata per mezzo d'uno umil suo servo far che 'l suo santo nome sia conosciuto e divulgato in questa altra parte del mondo". Questa terra, secondo il conto che faceva Colombo, è lontana dalle Canarie 950 leghe. Nella quale dimorati alquanto, conobbero che era una isola disabitata, e per questo deliberorono andar piú avanti. Ma, per lasciare un segno d'aver preso la possessione in nome di nostro Signore Iesú Cristo, fece tagliare arbori e di quelli fare una gran croce, e collocata in luogo della bandiera, rimontorno in nave. E seguendo il loro viaggio al medesimo modo, dopo alcuni giorni scopersero sei isole, delle quali due erano molto grandi: di queste la maggiore nominarono Spagnuola e l'altra Giovanna, ma di questa non eran certi se la erano isola o terra ferma. E cosí, andando drieto alli litti di queste, sentirono tra boschi folti cantar li rosignuoli del mese di novembre.
In questo luogo trovarono gran fiumi di acque chiarissime e porti naturali capaci di gran navili. Ma a questo non stava contento Colombo, anzi pensava tanto andare avanti che trovasse il fine di questa terra, e arrivasse alli liti orientali e terre dove nascon le spezierie. E per questo andorono scorrendo per li litti di Giovanna, per il vento di maestro, piú di ottocento miglia, e giudicarono che quel fusse continente, come dapoi si è trovato esser la verità, non trovando segno alcuno di fine di quelli litti. Per questo, e per essere stretti dal tempo e fortune che avevano da tramontana, deliberarono di tornar indietro, e cosí ritornati verso levante di nuovo arrivorno all'isola Spagnuola. La natura della quale e gli abitatori desiderando di voler conoscere, si accostarono dalla banda di tramontana, dove la nave maggior dette sopra uno scoglio piano, che era coperto dall'acqua, e si ruppe; le altre due caravelle aiutarono gli uomini e le robe, e smontati in terra viddero una moltitudine di uomini tutti nudi, li quali, subito che viddero li cristiani, si miseno a fuggire con grande impeto in boschi grandissimi. Gli Spagnuoli, seguitandogli, presero una femina e la menarono alle navi, dove la vestirono bene e gli dettero da mangiare e da bere vino, e la lasciorono andare. Subito che fu giunta a' suoi, che sapeva ove stavano, mostrando il nostro vestire a loro maraviglioso e la liberalità delli nostri, tutti a regatta corsero alla marina, pensando questa esser gente mandata dal cielo, e si gittavano in acqua e portavano seco l'oro che avevano e barattavanlo a piatti di terra e tazze di vetro. Chi donava loro una stringa o sonaglio, overo un pezzo di specchio o altra simil cosa, davano in cambio oro.
Avendo già fatto commerzio famigliare, cercando li nostri li loro costumi, trovarono per segni e atti che avevano re tra loro; e dismontando in terra, furono ricevuti onoratissimamente dal re, il qual chiamavano Guaccanarillo, e dagli uomini dell'isola bene accarezzati. Venendo la sera e dato il segno dell'Ave Maria, inginocchiandosi li nostri, similmente facevano loro, e vedendo che li nostri adoravano la croce, e loro similmente l'adoravano. Vedendo ancora la sopradetta nave rotta, andavano con loro barche, che chiamavano canoe, a portar in terra li uomini e le robe, con tanta carità con quanta avrebber fatto se fussero stati de' lor proprii. Le loro barche sono di uno solo legno, lunghe e strette, cavate con pietre acutissime, delle quali alcune erano capaci di ottanta uomini. Appresso costoro non è notizia alcuna di ferro, per la qual cosa li nostri molto si maravigliorono come fabricassero le loro case, le quali maravigliosamente erano lavorate, e l'altre cose che a loro fanno di bisogno; ma si comprese che tutto facevano con alcune pietre di fiumi durissime e acutissime. Intesero che non molto lontano da quella isola erano alcune isole di crudelissimi uomini che si pascono di carne umana, e questa fu la causa che, al principio che viddero li nostri, si misono in fuga, credendo fussino di quelli, quali chiamano canibali. Li nostri aveano lasciato quelle isole quasi a mezzo il cammin dalla banda di mezzodí. Lamentavansi e mostravano con cenni li poveri uomini, che non altramente erano molestati e perseguitati da questi canibali che dalli cacciatori sono perseguitate le fiere salvatiche; e che li putti che loro pigliano, castrano, come facciamo noi li porci o capponi, acciochè diventino piú grassi per mangiarseli, e gli uomini maturi cosí come gli prendono gli ammazzano, e mangiano freschi gl'intestini e le estreme membra del corpo, il resto insalano e dapoi gli serbano alli suoi tempi, come facciamo noi li prosciutti. Non ammazzano le donne, ma le salvano a far figliuoli, non altrimenti che facciamo noi le galline per ova. Le vecchie usano per schiave.
In queste isole e nelle altre, cosí gli uomini come le femine, subito che presentono questi canibali approssimarsi a loro, non trovano per loro altra salute che fuggire, ancora che usino saette acutissime per difendersi; nondimeno, a reprimere il furore e la rabbia di quelli, trovano che poco gli giovano, e confessano che dieci canibali mettono in fuga cento di loro. Non poterono li nostri ben intendere che adorasse questa gente altro che il cielo, sole e luna. Delli costumi d'altre isole, la brevità del tempo e mancamento d'interpreti fu causa che non potettero saper altro. Gli uomini di quella isola usano in luogo di pane certe radici di grandezza e forma di navoni e carote, alquanto dolci, simili alle castagne fresche, le quali chiamano agies. Si trova ancora un'altra radice, che chiamano iuca, della qual fanno pane in questo modo, che la tagliano sottilmente e poi la pestano, la qual ha sugo assai, e ne fanno a modo di focaccie. Ma è cosa maravigliosa questa radice, che chi beve il suo succo subito muore, ma il pane che fanno della massa pesta, buttato via il succo, è sano e saporito. Èvvi ancora un'altra sorte di grano, che chiamano maiz, del qual fanno pane, ed è simile al cece bianco over piselli, e fa una panocchia lunga una spanna, acuta, grossa come è il braccio, dove sono messi li grani ad ordine. L'oro appresso di essi è in alquanta estimazione; ne portano alcuni pezzi appiccati all'orecchie e al naso.
Avendo conosciuti li nostri che da un luogo all'altro non fanno traffico alcuno, né si partono mai di suo paese, cominciorono a dimandare per segni dove trovavano quello oro ch'essi tenevano all'orecchie e al naso. Intesero che 'l trovavano nella rena di certi fiumi che corrono d'altissimi monti, né con gran fatica lo raccoglievano in grani e lo riducevano dapoi in lame. Ma non si trovava in quella parte dell'isola dove allora erano, come dapoi circundando l'isola cognoscettero per esperienzia, perchè, partiti di lí, s'abbatterono a caso a un fiume di smisurata grandezza, dove essendo smontati in terra per far acqua e pescare, trovorono la rena mescolata con molti grani d'oro. Dicono non aver visto in questa isola alcuno animale di quattro piedi, salvo di tre sorte conigli, e serpenti di grandezza e numero admirabile, quali la isola nutrisce, ma non nuocono ad alcuno. Viddono ancora oche salvatiche, tortore e anitre maggiori delle nostre, bianchissime col capo rosso. Viddero pappagalli, delli quali alcuni erano verdi, alcuni gialli tutto il corpo, altri simili a quelli di Levante con una gorgiera rossa, delli quali ne portarono quaranta, ma di diversi e variissimi colori, e massime nelle ale, la quale varietà di colori arrecava alla vista grandissimo piacere. Questa terra produce di sua natura copia di mastice, legno di aloe, cottoni e altre simili cose, certi grani in una scorza rossa piú acuti del pepe che noi abbiamo.
Come Colombo ritornò in Spagna, e del grande accetto fattoli per li re catolici, e come, preparatoli dicessette navili, ritornò al viaggio. Poi che fu partito dalle Canarie, tra l'altre terre scoperse una grande isola abitata dalli canibali, i quali mangiano gli uomini, nella qual si truovano otto grandissimi fiumi e gran copia di pappagalli.
Colombo, contento d'aver trovato questa nuova terra, qual è parte d'un nuovo mondo, essendo oramai la primavera, deliberò tornarsene e lasciò appresso al re sopradetto trentotto uomini (e fece far loro un castel di legno meglio che potette), li quali avessero ad investigare la natura de' luoghi e stagion de' tempi, insino che lui tornasse. Col quale fece lega e confederazione, per quelli cenni e modi che gli fu possibile, a salute e difensione di quelli che restavano. Il re, veduta la partita di Colombo e il restar delli compagni, parve che mosso a compassione lacrimasse, donde abbracciandogli monstrava loro grandissimo amore; e Colombo in questo fece vela per Spagna, e menò seco dieci uomini di quella isola. Dalli quali si comprese che la loro lingua facilmente s'impararebbe e con nostre lettere si scriverebbe. Chiamavano il cielo turei, la casa boia, l'oro cauni, uomo da ben tayno, niente mayani; gli altri loro vocaboli non proferiscono manco chiari che noi li nostri vulgari. E questo fu il successo della prima navigazione.
All'arrivar di Colombo in Spagna fu ricevuto dal re e dalla regina con gran festa, e li fecero grande onore, facendolo sedere publicamente avanti loro, il che appresso li re di Spagna è fra li primi onori, né usano farlo se non a quelli da' quali ricevono qualche gran servizio. E volsero che fusse chiamato admirante del mare Oceano, e a un suo fratello chiamato Bartolomeo dettero il governo dell'isola Spagnuola. Ma, per tornare alla nostra narrazione, dico che l'admirante Colombo, narrato tutto il successo alli re, affermava che sperava trar grandissima utilità di queste isole e per mezzo di queste trovare molti altri ricchissimi paesi. Onde sue Maestà fecero preparare dicessette navili, cioè tre navi con gabbie grandi e quattordeci caravelle senza gabbie, con piú di mille e dugento uomini fra a piè e a cavallo, con sue armadure. Oltra li quali erano ancora fabri, artefici di tutte le arti mecaniche salariati, alli quali comandò che portassero ciascuno tutti gl'istrumenti dell'arte sua, e ogni altra cosa che fusse a proposito per edificare una nuova città in paesi stranieri. Ma Colombo preparò cavalli, porci, vacche e molti altri animali con li suoi maschi, legumi, formento, orzo e altri simili semi, non solo per vivere ma ancora per il seminare, vite e molte altre piante d'arbori che non erano in quelli paesi: perchè non trovarono in tutta quella isola altro arbore di nostra cognizione che pini e palme altissime di maravigliosa durezza, dirittura e altezza, per la grassezza e bontà della terra, e altri assai che fanno frutti che ci sono ignoti, perchè quella terra è la piú abbondante che altra che sia sotto il sole.
Molti fidati e servidori del re si miseno di propria volontà a questa navigazione per desiderio di nuove cose e per l'auttorità dell'admirante. Alli venticinque di settembre del MCCCCXCIII con prospero vento fecero vela da Gades, e il primo d'ottobre arrivorono a una delle Canarie chiamata l'isola del Ferro: nella quale dicono non essere altra acqua da bere che di rugiada, la quale casca da uno arbore in una lacuna fatta a mano sopra un monte della detta isola. Alli tredici d'ottobre fecero vela, né si ebbe nuova di loro fino al marzo, che, essendo il re e la regina a Medina del Campo, a' ventitre di marzo per un corriero ebbero nuova esser giunte a Gades dodici di questi navili, l'anno MCCCCXCIIII. Dall'arrivar delli quali s'intese quanto qui sotto è scritto.
Alli tredici giorni d'ottobre partito l'admirante Colombo dalle Canarie con dicessette navi, navigò vintun giorno prima che scoprisse terra alcuna; ma andò piú a man sinistra verso ostro garbino che l'altro primo viaggio, onde incorsero nell'isole de' canibali, o vero caribbi, detti di sopra. Nella prima viddero una selva tanto spessa d'arbori che non si poteva discernere se sotto fusse o sasso o terra, e perchè era domenica il giorno che la viddero, la chiamarono Domenica: e accorgendosi che era disabitata, non si fermorono in essa, ma andorono avanti. In questi vintun giorno, secondo il giudicio loro feceno ottocento e venti leghe, tanto gli era stato favorevole il vento da tramontana. Dapoi partiti di questa isola, per poco spazio arrivorono a un'altra piena e abbondante di molti arbori, che rendevano odori suavissimi e admirabili. Alcuni che discesero in terra non viddero uomo alcuno, né animale di altra sorte che lacerti, come cocodrili d'inaudita grandezza. Questa isola chiamorono Marigalante, da un capo della quale avendo lontano in su un'altra isola veduto un monte, si partirono alla volta di quello, donde scopersono un fiume grandissimo, al quale andando, trovorono quella isola esser in quel luogo abitata, e fu la prima terra abitata che viddero dapoi il suo partire dalle Canarie.
Era questa isola delli canibali, come dapoi connobbero per esperienzia, e per gl'interpreti dell'isola Spagnuola che avevano seco. Cercando l'isola, trovorono molte ville e borghi di venti e trenta case l'uno, le quali erano tutte edificate per ordine attorno a una piazza tonda; le case, come dicono, tutte erano di legno fabricate in tondo in questo modo. Prima ficcano in terra tanti arbori altissimi, che fanno la circunferenzia della casa; dapoi mettono d'attorno alcuni travi corti, accostati a questi lunghi per puntello, acciochè non caschino, e il coperto fanno in forma di padiglione da campo, in modo che tutte queste hanno il tetto acuto. Dapoi cuoprono questi legni di foglie di palme e di certe altre simile foglie, che sono sicurissime per l'acqua; ma dentro, fra trave e trave tirate corde di cottone o di alcune radici che simigliano sparto, vi pongon su tele fatte di cottone. Hanno alcune sue lettiere che stanno in aere sopra le quali mettono bambagia e fieno per letto. Hanno le dette case ancora portichi, dove si riducono a giocare.
In un certo luogo avendo viste due statue di legno che soprastavano a due serpi, pensarono che fussero suoi idoli, ma intesero dipoi che erano in quel luogo poste solo per ornamento; perchè loro solamente adorano il cielo, ancora che finghino alcune imagini di cottone, le quali dicono essere a similitudine di demoni che veggono la notte. Accostandosi li nostri a questo luogo, gli uomini e le donne si miseno a fuggire e abbandonavano le sue case. Trenta femine e garzoni che erano prigioni, li quali questi canibali avevano presi d'alcune isole per mangiarseli e le femine per servirsene per schiave, fuggirono alli nostri, li quali, entrati nelle sue case, trovorono che avevano vasi di terra a nostra usanza e d'ogni sorte, e nelle cucine carni d'uomini lessate, insieme con pappagalli e oche e anitre, e altre in spiedi per arrostire. Per casa trovorono ossi di bracci e coscie umane, che salvavano per fare punte a sue freccie, perchè non hanno ferro; e trovorono ancora il capo d'un garzone morto poco avanti, che era appiccato ad un trave, e gocciava ancora il sangue.
Ha questa isola otto grandissimi fiumi, tra li quali n'è uno grande quanto il Tesino, con le ripe amenissime da ogni banda. Questa isola chiamorono Guadaluppa per esser simile al monte di Santa Maria di Guadaluppo di Spagna. Gli abitanti per proprio nome la chiamano Caruqueria, ed è la principale dell'isole de' Caribbi. Portorono da questa isola pappagalli maggiori che fagiani, molto differenti di colore dagli altri: hanno tutto il corpo e le spalle rosse, le ali di diversi colori. Non manco hanno copia di pappagalli che noi di passere. Ancora che li boschi siano pieni di pappagalli, nondimeno gli nutriscono e poi gli mangiano. L'admirante Colombo fece donar molti presenti alle donne che erano rifuggite a loro e ordinò che con quelli andassero a trovar li canibali, imperoch'esse sapevano dove stavano. E andate dette donne, dimorate con loro una notte, il giorno seguente menoron seco molti di quelli, i quali venivano per ingordigia delli doni. Ma subito che viddero li nostri, per paura che avessino o per conscienzia di loro sceleraggine, guardandosi l'un l'altro, con grande impeto si misero a fuggire alle valli e boschi vicini.
Come navigando, lasciate a man destra e sinistra molte isole, scoperse una grande isola Matityna, abitata solamente da femine, e come quelle si reggano. E poi ch'ebbe combattuto con una canoa di quegli uomini e donne, e quella messa in fondo, entrò in un mare pien d'isole innumerabili. E dell'isola chiamata San Giovanni, e suoi abitatori, e del re di quella.
Li nostri che erano scorsi per l'isola ridotti alle navi, rotte quante barche trovorono de' detti, si partirono da Guadaluppa alli dodici di novembre per andar a trovar li suoi compagni, li quali restorono nell'isola Spagnuola nel primo viaggio. E navigando lasciavano a man destra e sinistra molte isole. Scopersero in questo viaggio da tramontana una grande isola, la quale, e quelli Indiani che l'admirante aveva menati seco dall'isola Spagnuola, e quelli che erano recuperati dalle mani delli canibali, disseno che si chiamava Matityna, affermando che in essa non abitavano se non femine, le quali a certo tempo dell'anno si congiungevano con li canibali, e se partorivano maschi li nutrivano e poi gli mandavano alli loro padri, e le femine le tenevan seco. Dicevano ancora che queste femine hanno certe cave grandi sotto terra, nelle quali fuggivano se ad altro tempo dell'anno che l'ordinato alcuno andava ad esse, e se alcuno per forza o per insidie cercasse d'entrare a loro, che le si difendono con freccie, le quali traggono benissimo. Per allora non poterono li nostri accostarsi a quella isola, essendo impediti dal vento da tramontana.
Navigando dalla vista di questa isola lontani circa quaranta miglia, passorno per un'altra isola, la quale i predetti dell'isola Spagnuola dicevano esser popolatissima e abbondante di tutte le cose necessarie al vitto umano: e perchè quella era piena di alti monti, gli posono nome Monferrato. Li prefati dell'isola Spagnuola e li recuperati da' canibali dicevano che alcune volte essi canibali andavano mille miglia per prender uomini per mangiarli. Il seguente giorno scoprirono un'altra isola, la quale per esser tonda l'admirante chiamò Santa Maria Ritonda. Un'altra il giorno seguente chiamò San Martino. Ma in niuna di queste si fermorono. Il terzo giorno ne trovorono un'altra, la quale fecero giudicio esser lunga per costa da levante a ponente centocinquanta miglia. Gl'interpreti del paese affermano queste isole essere tutte di maravigliosa bellezza e fertilità. E questa ultima chiamarono Santa Maria Antica. Dapoi la quale trovò altre assaissime isole, ma di lí a quaranta miglia una maggior di tutte l'altre, la quale dagli abitanti è chiamata Ay Ay, e li nostri la chiamarono Santa Croce.
Qui smontorno per far acqua, e l'admirante mandò in terra trenta uomini della sua nave che ricercassero l'isola, li quali trovarono quattro canibali con quattro femine, le quali, visti li nostri, con man giunte pareva domandassero soccorso; le quali liberate per li nostri da' canibali, essi fuggirono alli boschi, come nell'isola Guadaluppa avevan fatto. E dimorando quivi l'admirante duo giorni, fece stare trenta delli suoi uomini in terra continuamente in agguato, nel qual tempo li nostri viddero venire una canoa, cioè una barca, con otto uomini e altretante donne: e fatto segno li nostri gli assaltorono, e loro con freccie si difendevano, per modo che, avanti che li nostri si coprissero con le targhe, un d'essi che era biscaino con una ferita fu morto da una delle femine, la quale similmente ne ferí un altro gravissimamente. Dalle quali due freccie li nostri s'accorsero che quelle e l'altre erano attossicate, perchè avevano in molti luoghi intaccata la punta e con certo liquore venenata. Fra questi era una femina alla quale pareva che tutti gli altri obbedissero come a regina, e con essa era un giovane suo figliuolo robusto, d'aspetto crudele e guardatura di leone. Li nostri, dubitando di non esser peggio trattati da lontano con freccie che combattendo da presso, giudicorono esser meglio da presso venir alle mani, e cosí, dato delli remi in acqua, con un batello di nave investiron la canoa e la misono in fondo. Loro veramente, cosí uomini come femine, notando non restavan di trarre freccie, né con manco impeto, alli nostri, che se fussero stati in barca, e montati sopra un sasso coperto d'acqua, combattendo valentemente furono presi, essendone stato morto uno e il figliuolo della regina ferito di due ferite. Li quali, condotti davanti a l'admirante, mostravano quanto fussino per natura atroci e crudeli: non era uomo che gli vedesse che non avesse paura, tanto atroce e diabolico era il loro aspetto.
Procedendo in questo modo l'admirante, ora per ostro, ora per gherbino, ora per ponente, entrò in un gran mare pieno d'innumerabili e varie isole. Alcune parevano boscose e amene, e altre secche e sterili, sassose, montose; altre mostravano fra sassi nudi colori rossi, altre di viole, altre bianchissimi, onde molti stimavano che fusser vene di metalli e pietre preziose. Non sorsero per queste perchè il tempo non era buono, e per paura della moltitudine e densità di tante isole, dubitando che le navi maggiori non investissero in qualche scoglio. Per questo riservorono a un altro tempo il ricercare le dette isole. Pure alcuni con legnetti piccioli, alli quali non bisognava troppo fondo, passorono per mezzo d'esse, e ne numerorono quarantasei, e questo mare chiamorono Arcipelago per tanto numero d'isole.
Passando avanti per questo mare, in mezzo del camino trovorono l'isola Burichena, da' nostri chiamata San Giovanni, nella quale quelli che furono liberati dalle mani de' canibali dicevano esser nati, e che era popolatissima, cultivata e piena di porti e boschi, e che gli abitatori d'essa erano stati sempre inimici delli canibali; e non hanno navili da poter andar a trovar li detti canibali, ma se per caso li canibali vanno alla sua isola per depredarli, e li possono metter le mani addosso, in presenza l'uno dell'altro tagliati in pezzi gli arrostiscono e gli divorano per vendetta. Tutte queste cose intendevano per gl'interpreti menati dall'isola Spagnuola.
Li nostri per non tardare troppo la lasciorono: pure dall'ultimo capo inverso ponente per far acqua smontorono in terra, dove trovorono una gran casa e bella a suo costume, con altre dodici picciole intorno a questa edificate, ma disabitate. Per qual causa non intesero, se 'l fusse o perchè per la stagion del tempo abitassero al monte per il caldo, o pur per paura delli canibali. Tutta questa isola ha un solo re, quale chiamano cacique, ed è ubbedito con grandissima reverenza da tutti. La costa di quest'isola verso mezzodí s'estende circa a dugento miglia. La notte due femine e un giovane liberati dalle mani delli canibali si gittorono in mare, e notorono all'isola ch'era la loro patria.
Della regione chiamata Xamana. Del re Guaccanarillo, e come da lui furono sviate sette femine cavate dalle mani de' canibali. Del porto reale. E come da una banda furono scoperti quattro gran fiumi e da un'altra tre, nell'arena de' quali si cava oro. E del signor cacique Caunoboa.
L'admirante finalmente giunse con la sua armata all'isola Spagnuola, distante dalla prima isola delli canibali cinquecento leghe, ma molto malcontento, perchè trovò morti tutti li compagni li quali vi aveva lasciati. In questa isola è una regione che si chiama Xamana, dalla quale l'admirante volendo tornar in Spagna la prima volta si partí, e menò seco dieci uomini di quelli dell'isola, delli quali tre solamente ne erano vivi in questa sua seconda tornata: gli altri tutti eran morti per la mutazione dell'aere e delli cibi. Delli quali per ordine dell'admirante uno, subito che arrivorono a Santo Eremo (che cosí chiamorono quella costa di Xamana) smontò in terra, per intendere quello che degli altri era seguito. Gli altri duoi di notte furtivamente si gittorono in mare, e notando scamporono. Della qual cosa però non si curò, credendo trovar vivi li trentotto che aveva lasciati, e cosí non gli dover mancare gl'interpreti. Ma andando un poco avanti incontrò una canoa di molti remi, nella quale era un fratello del re Guaccanarillo, col quale quando l'admirante si partí aveva fatta molto ferma confederazione e raccomandato li suoi. Costui, accompagnato da un solo, venne all'admirante e per nome di suo fratello gli portò in dono due imagini d'oro. E come dapoi s'intese in suo linguaggio, incominciò a narrar la morte delli nostri; ma per mancamento d'interprete al tutto non fu inteso.
Giunto l'admirante al castel di legno e alle case qual li nostri avevano fatte, trovò che tutte erano destrutte e arse, della qual cosa tutti ricevetteno gran passione. Pur, per veder se alcun di quelli eran restati vivi, fece discaricare molte artiglierie, acciochè se alcun fusse ascoso venisse fuora; ma tutto fu fatto in vano, perchè tutti erano morti. L'admirante mandò suoi messi al re Guaccanarillo, li quali riportarono quanto per segni avevan possuto comprendere: che in quella isola, per esser grande, sono molti signori maggiori di lui, delli quali duoi, avendo inteso la fama di questa nuova gente, vennero al castello con grande esercito, dove li nostri venti furono morti, e ruinorono il castello abbruciandolo tutto; e che lui volendoli aiutare era stato ferito d'una freccia (e mostrò una gamba che aveva fasciata con cotone), dicendo che questa era la causa, perchè non era venuto all'admirante come desiderava. L'altro seguente giorno l'admirante mandò un altro nunzio detto Marchiò di Sibilia al detto re, al quale levato via la fascia dalla gamba, trovò non avere ferita alcuna né segno di ferita; pur trovò che era in letto mostrando d'essere ammalato, il letto del quale era congiunto con altri sette letti di sue concubine. Onde incominciò a sospettare l'admirante e gli altri che li nostri fussero stati morti per consiglio e volontà di costui. Nondimeno, dissimulando, Marchiò messe ordine con lui che 'l seguente giorno venisse a visitare l'admirante alle navi. Il quale, arrivato alle navi, come avevano ordinato, fece buona cera e gran carezze alli nostri, facendo loro alcuni presenti, e molto si escusò della morte delli nostri. In questo mezzo, vista una delle femine cavata dalle mani delli canibali, la qual li nostri chiamavan Caterina, gli fece festa e parlò con essa molto amorosamente. Dapoi, domandato all'admirante licenzia, si partí, non senza grande admirazione per aver visto cavalli e altre cose a sé incognite. Furono alcuni che consigliavano che 'l si dovesse ritenere e far che confessasse come li nostri erano stati morti, e se si fusse trovato che lui fusse stato in causa, se gli facesse portar la debita pena; ma l'admirante considerò che non era tempo di irritar gli animi di quelli dell'isola.
Il giorno seguente il fratel di questo re venne alle navi, e parlò con le femine sopradette e le sviò, come mostrò l'esito della cosa; perchè la notte sequente quella Caterina, per liberarsi di cattività o per persuasione del re, si gittò in mare con sette altre femine tutte invitate da lei, e seguitando un fuoco che si vedeva sopra il lito, passorono circa tre miglia di mare, ancor che fusse turbato. Li nostri andorono dietro al medesimo lume, e seguitandole con le barche ne recuperorono tre solamente. Caterina con l'altre quattro se n'andorono al re, il quale la mattina seguente se ne fuggí con tutta la sua famiglia; onde li nostri compresero che quelli che eran restati fussero da costui stati morti.
L'admirante li mandò dietro il sopradetto Marchiò, il qual cercandolo arrivò a caso alla bocca d'un fiume, dove trovò un commodo e bonissimo porto, il qual chiamò Porto Reale. L'entrata è tanto ritorta che, come l'uomo è dentro, non conosce dove sia entrato, ancora che l'entrata sia sí grande che tre navi insieme vi potriano entrare. Intorno surgono alcuni colli in luogo di litti, li quali rompono tutti li venti che potessero farli fortuna, e nel mezzo è un monte tutto verde, pieno d'arbori, con pappagalli e altri uccelli che continuamente cantano suavemente, e massime intorno alla bocca di duoi fiumi, li quali vi metton capo. Procedendo piú avanti viddero un'altissima casa, e pensando che ivi fusse il re Guaccanarillo se n'andò a quella, e approssimandosi li venne incontro uno accompagnato da cento uomini ferocissimi in aspetto, tutti armati con archi, freccie e lancie acutissime, minacciando e gridando che non erano canibali ma taynos, cioè gentiluomini. Li nostri fattoli cenno di pace, e loro diposta la sua ferità, pigliando dalli nostri in dono ciascuno uno sonaglio da sparviere, si fecero insieme molto amici, e tanto che immediate senza rispetto dalle alte ripe del fiume discesero alle navi, dove loro all'incontro donorono alli nostri molte cose.
Noi dipoi entrammo in casa, la quale era tonda, e misurando la grandezza sua trovammo ch'era il diametro, cioè la larghezza, trentaduoi gran passi, e aveva all'intorno trenta altre case picciole. Li palchi erano di canne di diversi colori, con maraviglioso artificio tessuti. Dimandarono li nostri nel miglior modo che poterono dove fusse il re scampato; loro risposono che quella provincia non era del re Guaccanarillo, ma di quello che era lí presente, e che avevano inteso che Guaccanarillo era fuggito al monte; la qual nuova li nostri, fatto prima con questo cacique amicizia e lega, deliberarono far intender all'admirante. Il che inteso, l'admirante mandò in diverse parti diversi uomini ad investigar del detto re, tra' quali mandò Hoieda e Gorbolano, giovani nobili e animosi, accompagnati d'alcuni Indiani. Un di costoro trovò discendere da una banda di certi monti altissimi quattro gran fiumi, l'altro dall'altra ne trovò tre, nell'arena de' quali gl'Indiani, presenti li nostri, raccoglievano l'oro in questo modo: mettevano le braccia in alcune fosse, e con la man sinistra cavavano la rena e con la destra cernivano li grani dell'oro senza altra industria, e lo davano alli nostri; li quali dicono aver visto molti granelli di grandezza di cece. Tra gli altri io ne vidi uno, il quale fu mandato in dono da Hoieda al re, di peso di oncie nove, simile a una pietra di fiume, e questo fu visto da piú persone. Li nostri, visto questo, tornorono all'admirante, perchè quello aveva comandato sotto pena della vita che nessuno facesse altro che discoprire paese. Intesero ancora che uno certo signore delli monti donde discendevano li fiumi, il qual chiamavano cacique Caunoboa, cioè signore della casa dell'oro, perchè boa vuol dir casa, cauno oro e cacique signore.
Trovorono in questi fiumi pesci di eccellente sapore e bontà, e similmente l'acque sanissime. Dicono alcuni che il mese di decembre appresso li canibali è equinozio, ancorchè questo non sia in tutto conforme alle ragioni della sfera, e che quel mese gli uccelli facevano li suoi nidi, e alcuni avevano già figliuoli. Nondimeno, dimandati dell'altezza del polo, dicevano che appresso costoro gran parte del Carro era ascoso sotto il polo artico e che li Guardiani erano molto bassi. Né di questo si può dire altro, perchè di là non è infino a questa ora venuto a chi si possa prestar ferma fede, per esser uomini senza lettere e di tal cose ignoranti.
Dell'isola Spagnuola, e come l'admirante vi edificò in mezzo una città, e della maravigliosa fertilità di quel terreno. Della provincia di quell'isola detta Cibao e sue grandissime ricchezze. Delli gran fiumi che escono da quei monti, e della fortezza quivi edificata per il detto admirante.
L'admirante in questo tempo elesse un luogo alto, propinquo ad uno sicurissimo porto, per edificar una città. E in pochi giorni fabricò case ed edificò una chiesa, nella quale il giorno della Epifania fece solennemente cantare una messa, celebrata da tredici sacerdoti, la quale fu la prima che in questo nuovo mondo in onore di nostro Signore Dio fusse cantata. Ma approssimandosi il tempo che avea promesso al re notificarli del suo successo, rimandò dodici caravelle indietro con notizia di tutto quello che aveano visto e fatto infino all'anno 1494. Essendo rimaso l'admirante nell'isola Spagnuola (la quale per sua larghezza è miglia 220, e il polo si leva da tramontana gradi 22 e mezzo e da mezzogiorno da 19 in 20; la sua lunghezza da levante a ponente è miglia 600 in circa; la forma dell'isola è come la foglia del castagno), l'admirante deliberò edificare una città sopra un colle in mezzo l'isola dalla parte di tramontana, perchè lí appresso era un monte alto con boschi e sassi da fare la calcina, la qual chiamò Isabella. E alli piedi di questo monte era una pianura di 60 miglia lunga, e larga in alcun luogo 20, in alcun 12 e nel piú stretto sei, per la qual passavano molti fiumi, e il maggiore di essi scorreva davanti la porta della città un trar d'arco. In modo che questa pianura è tanto grassa, che in alcuni giardini che fecero sopra la rena del fiume seminandovi diverse sorti d'erbe, come lattughe, verze, borrana, tutte in termine di sedici giorni nacquero e vennero grandi; li melloni, cocomeri, zucche e altre simile cose in 36 giorni furono raccolte migliori che mai fussero mangiate. Ma quello che è piú maraviglioso fu che, essendo piantate alcune radici di canne di zuccaro, in quindeci giorni vennero all'altezza di due braccia e mature. Dicono ancora che le vite il secondo anno fecero uve suavissime, ma poche, per grassezza della terra; fu ancora uno che seminò al principio di febraio, per far prova, un pochetto di grano, il quale alli trenta di marzo (nel qual giorno fu Pasqua della Resurrezione) portò nella città un fascio di spighe mature.
In questo mezo l'admirante, per la notizia che aveva da quelli isolani che aveva seco, mandò trenta uomini ad una provincia di questa isola detta Cibauo, la qual in mezo dell'isola era situata, montuosa, con gran copia d'oro, per quello che mostravano gli abitanti. Questi uomini, ritornati, referirono maravigliose cose delle ricchezze di quel luogo, e che da quelli monti descendevano quattro grandissimi fiumi, che dividono l'isola in quattro parti quasi eguali: l'uno va verso levante, chiamato Iunna, l'altro inverso ponente, Attibunico, il terzo a tramontana, detto Iachen, il quarto a mezodí, Naiba.
Ma per tornar al proposito, l'admirante, fatta questa città circundata di argini e fossi, a fine che se, essendo lui absente, gl'Indiani gli assaltassero, si potessino li nostri difendere, a' dodici di marzo si partí con circa 400 fra a piedi e a cavallo, e si mise in camino per andar alla provincia dell'oro, dalla parte di mezodí. E dapoi passati monti, valli e fiumi, discese in una pianura, la quale è principio de' Cibaui; per la qual pianura corrono alcuni rivoli, nelle arene delli quali si trovava l'oro. Entrato adunque l'admirante per 72 miglia dentro dell'isola e distante dalla sua città, giunse alla ripa d'un gran fiume, sopra la quale in un colle eminente deliberò far una fortezza per poter piú securamente cercare li secreti del paese, e chiamò la fortezza S. Thomé. Mentre che l'admirante era occupato nell'edificar questa fortezza, molti paesani vennero a lui per aver sonagli e altre cose delle nostre, e lui all'incontro gli domandò che gli portassero dell'oro. Onde costoro, alla piú propinqua riva del fiume correndo, in breve spazio di tempo tornavano con le mani cariche d'oro; delli quali un vecchio portò due grani d'una oncia per un sonaglio, e vedendo che li cristiani si maravigliavano della grandezza di questi grani, per segni mostrava che quelli erano piccoli e di poco momento, e prese in mano quattro pietre, delle quali una era minore d'una noce, la maggiore come una arancia, cosí grandi grani d'oro accennava nella sua patria trovarsi, la quale da quel luogo era lontana meza giornata, e con poca fatica potersi cogliere. Oltre a questo vecchio vennero altri, li quali portavano pezzi di peso di piú di tre ducati l'uno e affermavano trovarsene ancora de' maggiori. L'admirante mandò alcuni de' suoi a quel luogo, li quali ritrovarono molto piú di quel che gli era stato detto.
Trovarono del mese di marzo uve salvatiche ben mature e di ottimo sapore, delle quali gli abitatori dell'isola tengono poca cura. Questa provincia, non obstante che sia sassosa, nondimeno è piena d'arbori e tutta di erbe verde. Dicesi ancora che tagliandosi l'erba di quelli monti, che in quattro giorni rimette e cresce all'altezza d'un braccio, e che vi piove assai e per questa cagione vi sono molti fiumi e rivi, la rena delli quali essendo mescolata con oro, tengono per certo che quell'oro tirato dalli torrenti descenda da quelli monti. Gli uomini sono molto oziosi e senza alcuna industria, di modo che d'inverno ne' monti tremano di freddo, e benchè abbino li boschi pieni di bombagia, nondimeno non sanno farsene vestimenti, il che non accade a quelli che abitano alla pianura.
D'una fertilissima isola piena di popoli, detta Iamaica, e d'uno bellissimo porto capace di cinquanta navi. Come ne' conviti regali si danno serpenti a mangiare. Di un fiume navigabile, l'acqua del quale è molto calda. Del modo di pescare d'alcune di quelle genti; e come scopersero un paese qual si crede esser terra ferma, dove si trovano ostriche, nelle quali nascono perle; e di certi fuoghi che si viddero continuar per spazio di 80 miglia.
Cercato quanto è detto, l'admirante se ne tornò alla rocca Isabella, dove lasciò al governo suo fratello con alcuni altri, e lui si partí con tre navili per andar a discoprir certa terra che lui pensava fusse continente, ed è miglia ottanta e non piú lontana dall'isola Spagnuola. La qual terra nel primo viaggio chiamoron Giovanna, e dipoi dalli paesani trovoron chiamarsi Cuba. All'incontro della quale nell'estrema parte della Spagnuola trovò un porto sicurissimo, al quale pose nome porto San Nicolò, il quale era lontano dalla Cuba 20 leghe. Passato de lí alla banda da mezzogiorno, si mise andar verso ponente: quanto piú andava innanzi, tanto piú si slungavano i liti e andavansi ingolfando verso mezzodí. Dalla qual banda trovorono un'isola chiamata da' paesani Iamaica, qual è maggior della Sicilia, e ha un sol monte in mezzo, che incomincia a levarsi da tutte le parti dell'isola, e va ascendendo cosí a poco a poco fino nel mezzo dell'isola, talmente che pare che non ascenda chi sale. Questa isola, cosí alle marine come al mezzo, è fertilissima e piena di popoli, li quali sono piú acuti e di maggior ingegno che gli uomini d'altre isole, e piú dediti alle arti manuali e atti alla guerra. Volendo l'admirante metter in terra in diversi luoghi, correvano armati e non lo lasciavano smontare, e in molti luoghi combatterono con li nostri, ma restando vinti si fecero dipoi amici.
Lasciata l'isola Iamaica, navigarono per ponente settanta giorni, nella quale navigazione, che fu circa 220 leghe, trovorono alcuna volta il mare che a modo d'un torrente correva, e spesse volte si trovorono in luoghi pieni di scogli e secche, per la grande quantità d'isole che da ogni banda si vedevano. Ma pure andavano avanti, per desiderio che avevano di vedere il fine di questa terra. Nel qual viaggio scopersero molte cose da non esser lasciate indietro senza farne menzione. Perchè partendosi dal capo della Cuba chiamato Alfa e Omega, trovorono un bellissimo porto capace di gran numero di navi, il quale era a modo d'un semicirculo e aveva all'intrata da ciascuna banda un monticello, che rompeva tutte le botte del mare che venivano; dentro si slargava ed era profondissimo. Alcuni di loro, smontati in terra con l'armi per sospetto, trovorono alcune case di paglia senza alcun dentrovi, e in molti luoghi il fuoco acceso con spiedi di legno pieni di pesce, e oltre a questo due serpenti di otto piedi l'uno. Visto che nessuno vedeano, incominciarono a mangiar il pesce e lasciarono li serpenti, che erano alla forma di cocodrilli. Dapoi si miseno a cercar un bosco lí vicino, e viddero molti di questi serpenti vivi legati ad arbori con corde, e scorrendo un pezzo avanti trovarono circa settanta uomini, che erano fuggiti in cima d'una grandissima rupe per veder quello che volesse questa nuova gente; ma li nostri fecero loro tante carezze con segni, mostrandoli sonagli e altre cose, che uno di loro s'arrischiò smontare in un'altra rupe vicina; allora uno dell'isola Guanaha, che è vicina alla Cuba, la lingua della quale ha similitudine con la lingua degli uomini della Cuba, nutrito in corte dell'admirante, s'avicinò a costui e gli parlò, e assicurando lui e gli altri, persuadendo loro che senza paura venissero, tutti discesero e fecero grande amicizia con li nostri e gli dichiarorono che loro erano pescatori venuti a pescare per il suo re, che faceva un solenne convito ad un altro re. Trovando che li nostri avevano mangiati li pesci e lasciati li serpenti, ne furono molto contenti e allegri, perchè quelli salvavano per la persona del re per pasto delicatissimo, come appresso di noi si salvano li fagiani e pavoni; dicendo che delli pesci la seguente notte ne piglieriano altretanti. Ed essendo domandati da' nostri perchè gli cocevano, risposero che lo facevano per poterli portare piú freschi e migliori.
L'admirante, avuta l'informazione che desiderava, gli lasciò andare, e lui seguí il suo viaggio verso ponente, e scorrendo quei liti, ancora che fussino pieni d'arbori, alcuni carichi di fiori, e alcuni di frutti, che davano grande odore alla marina, nientedimanco erano aspri e sassosi; il paese era fertile e pieno di genti mansuetissime, le quali senza alcun sospetto correvano alle navi e portavano a' nostri del pane che usavano e zucche piene d'acqua, e gl'invitavano a smontare in terra amorevolissimamente. Ma passando avanti arrivorono a una moltitudine d'isole di numero quasi infinito, le quali tutte conobbero essere abitate, piene d'arbori e fertilissime; e fra gl'altri arbori ne viddero una sorte di grandezza d'un olmo, li quali producono zucche, delle quali non si servono se non della scorza per portare acqua, per esser durissima, la midolla gettano via per essere amarissima. Nella costa che scorrevano trovarono un fiume navigabile, d'acqua tanto calda che non vi si poteva tenere le mani dentro. Trovarono dipoi andando piú avanti alcuni pescatori in certe sue barche d'un legno solo cavato, che pescavano in questo modo: avevano un pesce d'una forma a noi incognita, che ha sopra il corpo alcune squamme con spinette, e sopra la testa ha certa pelle tenacissima, che par una borsa grande; e questo lo tengono legato con una corda ad una banda della barca, tanto sotto acqua quanto va la barca, perchè non può patir vista di aere; e come veggono alcuni pesci grandi o testuggine, delle quali si trovano grandissime, gli slongano la corda e quello subito, sentendosi sciolto, corre come una saetta al pesce o testuggine, buttandogli adosso quella pelle s'appica, e con le spinette, tanto forte che non possono fuggire, e non gli lascia insino a tanto che lui insieme con la preda è tirato dalli pescatori vicino alla riva, li quali a poco a poco raccolgono la corda; e il pesce subito che sente l'aere lascia la preda, e li pescatori saltano con gran prestezza in acqua, tanti che siano sufficienti a tener la preda, la qual dapoi dagli altri compagni è tirata in barca. Presa la preda, di nuovo slongano tanto di corda al pesce cacciatore che possa tornare al luogo suo sotto la barca, dove con una corda della medesima preda gli danno a mangiare. Questo pesce gl'Indiani chiamano guaicano, e li nostri lo chiamarono roverscio perchè pesca roverscio. Questi pescatori, avendo preso quattro testuggini tanto grandi che con la loro grandezza occupavano tutta la barca, le donorono alli nostri per cibo delicatissimo; li quali domandando quanto durarebbe questa costa di terra verso ponente, risposero che non aveva fine e pregarono l'admirante che dismontasse in terra, o vero mandasse per suo nome a salutare il loro cacique, promettendo loro, se andassero, grandissimi presenti. Il che l'admirante per non perdere tempo non volse fare.
Partiti di qui, e scorrendo piú avanti pur per costa verso ponente, dopo pochi giorni s'abbatterono a un monte altissimo, il quale era benissimo cultivato e pieno di gente, le quali, vedute le navi, subito corsono a quelle portando pane, conigli, uccelli e cotone, e dallo interprete domandavano con gran maraviglia se la gente che era arrivata lí veniva dal cielo. Li nostri, veduta la umanità di costoro, all'incontro fecero loro gran carezze facendoli ancor alcuni presenti, e massime a quello che vedevano da costoro essere onorato come principale. Da questo cacique e molti altri uomini di gravità che gli erano appresso, intesero questa costa non essere isola, ma terra ferma.
Appresso questa terra scopersero un'isola a man sinistra, dove non viddero alcuno, perchè tutti, veduti li nostri, se n'erano fuggiti, ma solo viddero quattro cani di bruttissimo aspetto, e non abbaiavano, li quali costoro mangiano come noi li cavretti, ancora oche, anitre e aghironi. Tra questa isola e molte altre e la costa di terra ferma trovorono tanto stretti canali, con tanti gorghi e secche, che molte volte toccorono con il fondo delle navi la rena; durorono questi gorghi circa quaranta miglia, dove l'acqua era tanto spumosa e bianca e tanto spessa, che pareva vi fusse stata gittata farina. Finalmente usciti di queste secche, e intrati in alto mare circa ottanta miglia, viddero un monte altissimo, dove posero in terra alcuni uomini per far acqua e legne; li quali fra pini e palme altissime trovorono duoi fonti d'acqua dolcissima, e mentre che tagliavano le legne e impievonsi li vasi d'acqua, un balestriere de' nostri andò piú dentro nel bosco a spasso e si scontrò in un uomo vestito di bianco fino in terra, che gli fu sopra a capo che non se n'avidde. Nel principio credette che 'l fusse un frate che con loro avevano in nave, ma subito dietro costui ne apparsero due altri vestiti a quel medesimo modo, e cosí risguardando ne vidde una squadra da circa a trenta; li quali visti, subito incominciò a fuggire, e quelli seguitandolo facevano segno che non fuggisse, ma lui quanto piú presto potette venne alle navi e fece intendere all'admirante quanto aveva visto. Il qual mandò in terra per diverse vie molti uomini con ordine che bisognando andassino fra terra quaranta miglia, infino a tanto che trovassero o li vestiti di bianco o altri abitatori. Questi, passato il bosco, entrorono in una pianura piena di varie erbe, nella quale non era pur un segno di strada o sentiero, e volendo andare piú avanti per l'erba, s'invilupporono tanto nell'erba che per buono spazio di tempo con gran fatica fecero un miglio, e questo perchè l'erba era in tanta altezza in quanto sono li nostri formenti quando sono maturi; donde cosí stracchi se ne tornorono indietro.
Il giorno seguente l'admirante mandò altri venticinque uomini armati, alli quali similmente ordinò che con diligenzia cercassino che gente abitasse questa terra. Questi, avendo trovato non molto lontano dalla marina sopra quel lito pedate di grandi animali, pensando che fussero di leoni, impauriti si tornarono indietro per altra via; per la quale trovorono una selva d'arbori, alli quali erano appiccate vite prodotte dalla natura, cariche di grandi grappoli d'uve dolcissime, e altri arbori che avevano frutti odoratissimi e aromatici. Dell'uve seccorono alcuni grappoli, quali per mostra portoron seco, ma gli altri frutti, non potendo seccarsi, tutti si marcirono.
Fra questi boschi in alcuni prati viddero grue in gran quantità, il doppio maggiori delle nostre. Ed essendo andati piú avanti, smontati in terra arrivorono appresso ad alcuni monti, dove in due casette trovorono un solo Indiano, il quale, condotto davanti all'admirante, con cenni delle mani e della testa mostrava che di là da certi monti lí vicini erano luoghi molto abitati; dove, stando in questo luogo li cristiani alcuni giorni, molte barche di gente del paese gli vennero a trovare, e con cenni amichevolmente gli salutavano. Con cenni dico, perchè la lingua loro non era intesa, né ancora da quello Indiano il quale era famigliare dell'admirante e servivalo per interprete, e da questo manifestamente si conobbe fra gl'Indiani esser varie lingue. Pure in questo modo intesero fra terra essere uno potentissimo cacique, il quale andava vestito al modo nostro.
Questa costa è tutta paludosa e piena d'arbori, nella quale cercando li nostri far acqua, trovorono di quelle ostriche nelle quali nascono le perle, con alcune d'esse dentrovi. Né per questo parve loro dover dimorar lí lungo tempo, perchè il loro intento non era altro che scoprir piú terra che fusse lor possibile, secondo che era stato loro comandato dalli re, dubitando non esser prevenuti dal re di Portogallo, il quale, inteso l'acquisto di Colombo, aveva mandato uomini a questa volta, essendo questa consuetudine, che qualunche primo discoprisse fusse signore. Partiti adunque di qui e seguitando il loro viaggio, vedevano per tutti quelli liti fuochi grandi e in gran quantità, perchè essendovi assai monticelli nessuno v'era, per picciolo che fusse, che non avesse il suo, e questo si vedeva per lo spazio di circa ottanta miglia. Qual fusse causa di quei fuochi non potettero intendere, né sapere se fussero fatti ordinariamente dalle case per suoi bisogni, o pur fussero segni dati alli vicini per ridursi insieme, come si fa nelli luoghi di sospetto, al tempo di guerra, o pure perchè convocassino li popoli a vedere le nostre navi, come cosa mai piú da loro veduta. Li litti della detta costa, quanto piú andavano avanti, tanto piú ora ad ostro e ora a gherbino s'ingolfavano, e vedevasi il mare tutto pieno d'isole.
Come l'admirante, ritornando indietro, s'abbaté ad una parte di mare piena di testuggini molto grandi; e quel che gli disse un vecchio Indiano, d'aspetto di molta gravità, e la risposta fattali per l'admirante. In che modo quegli Indiani adorino il sole, e del vivere e costumi loro.
Ma trovandosi l'admirante con le navi per il lungo viaggio mal condizionate, e con mancamento di biscotto, prese partito di tornarsene indietro, e chiamò questa ultima parte della costa, che si pensò che fusse terra ferma, Evangelista. E nel tornare adietro, passando appresso ad altre isole, s'abbaté a una parte di mare tanto piena di testuggini, o vogliamo dire biscie scodellaie, e tanto grandi, che alcuna volta le navi non potevano andare avanti. Passata questa parte, scorse per alcuni gorghi d'acque bianche, simili a quelle delle quali di sopra si è detto. E finalmente, per schivar le secche dell'isole, fu constretto smontare in su li litti di detta terra, al quale molti Indiani vennero portandogli molti doni, come pappagalli, conigli, pane e acqua; ma il piú portavano alcuni colombi maggiori delli nostri e al gusto molto piú soavi, come dipoi riferí l'admirante, che le nostre pernici. Per il che quella sera nella quale erano arrivati in quel luogo, cenando e sentendo in essi certo odore aromatico, ordinò che ne fusse di subito morto alcuno e sgozzato: il che fatto, trovorono loro il gozzo pieno di fiori odorati, li quali davano cosí suave sapore alla carne.
La mattina sequente, secondo che era usato, fece l'admirante dir la messa; mentre che la si diceva, sopragiunse un vecchio d'anni circa ottanta, uomo nell'aspetto di molta gravità, accompagnato da molti Indiani tutti nudi, eccetto le parti pudibunde. Questo, vedendo celebrarsi la messa, stette intento con grande admirazione; la qual finita, subito presentò all'admirante un canestro pieno di frutti del paese, donde l'admirante l'accolse molto graziosamente e se lo fece sedere appresso. Il buon vecchio, per quello Indiano famigliare dell'admirante, del quale esso si serviva, come si è detto, per interprete, perchè intendeva questa lingua, parlò in questo modo: "Noi abbiamo inteso che tu hai molto arditamente scorso tutte queste terre infino a questo giorno da te non piú vedute, e hai molto spaventati questi popoli. Per la qual cosa io ti conforto e prego che sapendo tu che l'anime nostre hanno, poi che sono uscite del corpo, due vie, una oscura e tenebrosa, per la quale vanno l'anime di quelli che sono stati molesti all'umana generazione, un'altra lucida e chiara, ordinata per quelli li quali hanno amato la pace e quiete, essendo tu mortale e aspettando il premio delle tue operazioni, non vogli ad alcuno esser molesto". Alle quali parole l'admirante, restando stupefatto del giudicio di questo vecchio, rispose che sapeva e teneva per certo tutto quello che lui delle anime diceva, ma che si pensava che queste cose non si sapessero dagli abitatori di queste regioni, vedendogli contenti di quanto richiede la natura né cercar piú avanti; e che dalli re catolici era stato mandato con ordine che reducesse in pace e quiete tutte le parti del mondo da loro non piú conosciute, cioè perchè distruggesse li canibali e altri scelerati uomini di quel paese, e gli punisse secondo li meriti loro, e gli uomini quieti e da bene onorasse e defendesse; e che né lui né altri che avesse buona mente temesse di cosa alcuna, e di piú che se da alcuno gli fusse fatto ingiuria, o a lui o ad altri della sua sorte, lo manifestasse, che lui a tutto porrebbe rimedio. Queste parole dell'admirante piacquero grandemente al vecchio, in modo che, ancora che fusse di quella età, diceva esser deliberato di seguirlo dovunque andasse: il che sarebbe successo, se la moglie e figliuoli non gliel'avessero con molte lacrime proibito. Maravigliossi nondimeno il vecchio intendendo dall'interprete l'admirante avere altro signore sopra di sé, e molto piú quando intese quanto fusse la potenzia delli re catolici per li regni e città che avevano sotto il loro imperio, e piú volte domandò se quella terra nella quale nascevano cosí grandi uomini fusse il cielo.
L'admirante volse intendere qualche particularità di questo paese, e cosí per via dell'interprete intese come non hanno tra loro signore alcuno particulare, ma vivono a commune, e li vecchi sono quelli che governano, il numero de' quali è grande. Adorano il sole in questo modo: la mattina, avanti che apparisca a levante, vanno appresso il mare o fiumi o fonti, e come appariscono i primi raggi subito si bagnano le mani e il volto e gli fanno reverenzia. Poi li vecchi si riducono all'ombra d'alberi altissimi e verdissimi, non molto lontani dalle loro abitazioni, e quivi sedendo e ragionando stanno oziosi. Li giovani vanno a far tutte le cose necessarie, come seminare e ricorre il maiz, iuca e agyes, secondo il tempo, e ciascuno lo può ricorre dovunque gli piace per servirsene per casa sua, ancorchè da lui non sia seminato, sí perchè la terra ne produce in tanta quantità che avanza loro, sí ancora perchè hanno opinione che la terra, e ciò che di quella nasce, debba esser commune come è il sole e l'acqua. E per questa causa mai fra loro si sente dire "questo è mio e questo è tuo", né si vede por termini, over fosse e siepi, per dividersi l'uno dall'altro, ma in commune di quanto la natura produce vivono senza bisogno di legge overo giudicio, per lor medesimi naturalmente osservando il dovere.
Il principale intento delli vecchi è ammaestrare li giovani, che nelli cibi e nel resto, che fa lor di bisogno per il viver suo, si contentino di adoperar poche cose, e quelle ancora le quali nascono nel paese loro; e per questa cagione non lasciano venire a' paesi loro alcun forestiero che porti cose nuove, né vogliono far baratti, e proibiscono alli suoi partirsi del paese nativo e pratticar con forestieri, e questo per dubbio che hanno che, presi li costumi stranieri, non diventino scelerati. Spesse volte si riducono, sí gli uomini come le donne, sotto altissime ombre, e quivi ballano a lor modo e si danno buon tempo.
Come l'admirante fu assalito da una grave infermità, e Hoieda, fatta una imboscata, prese il cacique di Caunoboa, qual aveva disegnato di ammazzar l'admirante. Edifica un'altra fortezza, e per qual causa si rimuove dall'incominciato camino. Di alcuni boschi di verzino ritrovati, e come li caciqui del paese si obligorono dar tributo di quelle cose che avevano.
Intesi tutti questi particulari, l'admirante si partí di questo luogo, e di nuovo arrivò all'isola Iamaica, a quella banda che è volta a mezzodí, la qual tutta trascorse da ponente a levante. Dall'ultima parte della quale guardando verso tramontana, vidde a man sinistra alcuni alti monti, li quali conobbe esser nell'isola Spagnuola, in quella parte la quale per ancora lui non aveva scorsa. Desiderando vedergli si dirizzò a quella volta e arrivò al porto chiamato S. Nicolò, con animo di restaurar li navili per andare a ruinar li canibali e abbrucciar loro tutte le lor barche. Il che non potette mandare ad effetto, essendo soprapreso da gravissima malattia per li grandi disaggi e fatiche sopportate in questo viaggio, per la quale fu forzato farsi portare alla città Isabella dove erano due suoi fratelli e il resto di sua famiglia. Quivi recuperata la sanità, non potette esequir la sua impresa per le molte sedizioni nate nell'isola fra gli Spagnuoli, per le quali sedizioni fra le altre cose trovò che un Pietro Margarita, gentiluomo della corte delli re catolici, con molti altri, li quali lui aveva lasciati al governo dell'isola, s'erano partiti irati contra l'admirante e tornati in Spagna; per la qual cosa ancora lui deliberò andare alla corte, dubitando che quelli che si erano partiti non referissero mal di lui alli re, e per dimandar gente in luogo di quella che si era partita e vettovaglie come frumento e vino, perchè gli Spagnuoli non potevano molto facilmente assuefarsi alli cibi indiani. Ma prima che si partisse, cercò di mitigare alcuni di quelli signori del paese che s'erano ancor loro sdegnati contra gli Spagnuoli, per le insolenzie, furti, rapine e omicidii che facevano avanti li loro occhi senza alcuno rispetto; e prima reconciliò e si fe' amico un cacique detto Guarionesio, e perchè questo meglio gli succedesse, maritò una sorella del cacique a quello suo interprete indiano chiamato Didaco, allevato lungamente in sua corte.
Dopo questo andò al cacique Caunaboa, signore delli monti Cibaui, cioè della region nella quale cavano l'oro, dove aveva fatta la fortezza chiamata S. Thomé e postovi alla guardia Hoieda con cinquanta armati, la qual era stata assediata da quel cacique già trenta giorni, e la liberò; e perchè quel cacique aveva nella absenzia sua fatto morire molti delli nostri, deliberò l'admirante con ogni industria averlo nelle mani, e per far questo mandò Hoieda per persuadergli che gli venisse a parlare. Dove arrivato, Hoieda trovò molti mandati da' signori dell'isola a Caunaboa, li quali gli dicevano che non dovesse per alcun modo tenere amicizia con li cristiani, se non voleva diventare loro vasallo. All'incontro Hoieda, parte pregando e parte minacciando, s'ingegnava persuadergli il contrario, cioè che in persona andasse a l'admirante e con lui facesse confederazione. Finalmente Caunaboa, fingendo esser persuaso, disse volersi abboccare con l'admirante, e con questa coperta disegnava ammazzarlo; messo adunque in ordine tutta la sua famiglia e molti altri armati, andava a quella volta. Domandollo Hoieda perchè menasse tanta gente; rispose che un tal signore quale era lui, non doveva andare con manco compagnia. Ma Hoieda, conosciuto questo suo disegno, fatta una imboscata lo prese a man salva, e con ferri a' piedi lo menò all'admirante.
Preso Caunaboa, l'admirante aveva deliberato andar scorrendo tutta l'isola soggiogando quelli signori: ma inteso che per l'isola gli uomini si morivano di fame e che già n'erano morti circa a cinquanta mila (il che tutto aveniva per loro difetto, perchè, acciochè i cristiani patissero e fussero forzati abbandonar l'isola, non solo non avevano quell'anno voluto seminare o piantare le radici delle quali fanno pane e si nutriscono, come di sopra s'è detto; ma ancora avevano svelte e sbarbate ciascuno nel suo paese le seminate e piantate, e specialmente appresso i monti Cibaui, dove si cava l'oro, conoscendo esser potissima causa di far dimorar li nostri nell'isola, il che causò una fame grandissima: ma il male era sopra di loro, perchè li nostri furono soccorsi di vettovaglie da Guarionesio, il quale nel suo paese non aveva tanta necessità), per questa causa l'admirante si rimosse dall'incominciato camino. E perchè li suoi avessino piú ridotti in quella isola, per ogni occorrenzia e assalto che dagl'isolani potesse loro sopravenire, fra la città Isabella e la rocca di San Thomé, sopra una collina abbondante di acque, alli confini del paese di Guarionesio, edificò un'altra fortezza, qual chiamò la Concezione. Allora, vedendo gli uomini dell'isola che li cristiani ogni giorno fabricavano qualche nuova fortezza in su l'isola, e che quelli tenevano poco conto delle navi, le quali già erano quasi tutte marcie, si trovavano in grandissima ansietà conoscendo certo che del tutto erano per perdere la libertà, e cosí pieni di doglia spesso domandavano se li nostri mai erano per partirsi dell'isola. Li nostri, per non gl'indurre a disperazione, al meglio che potevano gli confortavano. E andando scorrendo non molto lontano dalla fortezza per li monti Cibaui, fu presentato loro da uno cacique un pezzo d'oro a similitudine d'un pezzo di tuffo di peso di venti oncie. Questo grano d'oro fu poi mandato in Spagna alli re, che si trovavano in Medina del Campo, e fu veduto da tutta la corte. Trovorono ancora in questi monti molti boschi di arbori di verzino, delli quali dapoi caricorono assai sopra navi per Spagna. Queste cose, quando erano vedute dagl'Indiani, davano loro grandissima molestia.
L'admirante adunque, vedendo gl'isolani afflitti e travagliati, sí per le cose sopradette sí ancora per le rapine delli nostri, quali non potevano tenere che non andassino facendo per tutta l'isola infiniti mali, fece convocare a sé tutti li caciqui del paese, con li quali venne a questo accordo, che lui non permettesse che gli suoi scorressino per l'isola, perchè loro, sotto pretesto di cercare oro, depredavano tutte l'altre cose dell'isola; li caciqui all'incontro s'obligarono dare tributo di quelle cose che avevano, una certa porzione per testa. Gli abitatori delli monti Cibaui si obligorono dare ogni tre mesi, che loro chiamano ogni tre lune, una certa misura piena d'oro e mandarla fino alla città; gli altri che stanno alla pianura, dove nascono li cottoni e altre cose da mercato, si obligorono dare di quelle una certa quantità per testa. Ma questo accordo fu rotto per la fame, perchè essendo mancate quelle sue semenze e radici delle quali facevano pane, avevano assai travagli andar tutto il giorno per boschi procurando da mangiare radici e frutti d'arbori salvatichi, in modo che non avevano tempo di cercare oro; pure alcuni attesero, e al tempo debito portorono parte dell'obligazione, escusandosi del resto, e promettevano che piú presto che si potessino restaurar pagariano il doppio, il che non potettero fare gli abitatori delli monti Cibaui, per esser piú che gli altri oppressi dalla fame.
In che modo gl'Indiani disposero le sue genti per combattere con cristiani, e come combattendo furono superati e vinti. Come furono trovate alcune minere d'oro, appresso le quali il governatore fratello dell'admirante edificò una fortezza.
Ma torniamo a Caunaboa prigione, il quale, pensando dí e notte in che modo potesse liberarsi, cominciò a persuadere all'admirante che avendo lui presa la defensione delli monti Cibaui, che dovesse mandare a quella volta qualche presidio de' cristiani, essendo quelli tutto il giorno infestati dagli nemici suoi vicini. Il che faceva con questo disegno, perchè trovandosi un suo fratello con molti Indiani da guerra in detta provincia, era possibile che, o per forza o per inganni, tanti delli nostri fussero presi da loro, che servissino al riscatto suo. L'admirante, accortosi dell'inganno, mandò Hoieda talmente accompagnato che potesse esser superiore alli Cibaui, se loro contro di lui movessero l'armi.
Subito che Hoieda fu arrivato al paese di Caunaboa, il fratello, secondo l'ordine datogli da quello, mise insieme circa cinquemila Indiani armati al modo loro, cioè nudi, con saette senza ferri, ma con punte di pietre acutissime, e con mazze e lancie. E come quello che avesse qualche notizia del combattere al modo indiano, s'accampò piú d'un trar d'arco lontano dalli nostri, dividendo le genti in cinque squadroni, assegnando a ciascuna squadra il luogo suo, egualmente lontano l'una dall'altra, ordinate in forma d'un semicircolo. Lo squadrone del quale lui era capo pose all'incontro delli nostri, e cosí avendo ordinate le squadre, comandò che si desse segno che tutti egualmente si movessino e che tutti gridando ad un tratto appiccassino la zuffa, acciochè nessuno delli nostri, essendo circundati da tale moltitudine, potesse scampare. Li nostri, vedendo questo, giudicarono esser meglio combattere con uno delli squadroni che con tutti, e cosí si caricorono adosso al maggiore che veniva per la piú piana, e questo perchè in quel luogo si potevano meglio adoperare li cavalli, con tanto impeto che non potettero gl'Indiani, essendo nudi, sostenere la furia delli cavalli, anzi rotti e mal trattati si misero in fuga. Il che fecero gli altri, spaventati per aver visto il primo squadrone ruinato e disfatto, e con quanta celerità potettero si ritirorono alli piú alti monti del paese, donde mandorono ambasciatori alli nostri, promettendo far quanto fusse lor comandato se fosse lor concesso stare in casa loro. Il che facilmente ottennero, poichè li cristiani ebbero nelle mani il fratello di Caunaboa. Li quali tutti due, essendo menati prigioni in Spagna per presentargli alli re catolici, nel viaggio di dolore si morirono.
Dopo questo restarono quieti tutti gli abitatori delli monti Cibaui, fra li quali è una valle, dove abitava il cacique Caunaboa, chiamata Gagona, piena di fiumi che menano oro e di fonti di acque chiarissime, il che fa la valle fertilissima. Questo anno, nel mese di giugno, sopra questa provincia si mosse dalla parte di levante, a ora quasi di mezzogiorno, una fortuna di vento furiosissima, la quale spigneva una moltitudine di nuvole grosse, le quali occupavano lo spazio di circa dieci miglia per ogni verso, e scontrandosi con un vento da ponente, tutti due insieme combattendo facevano cose inaudite e spaventevoli. Perchè or pareva che rompessino le nuvole e le mandassero infino al cielo con tuoni grandissimi e lucidissimi lampi, e ora, appressandosi alla terra, ciò che trovavano girando lo levavano da suolo, ed era tanta la oscurità dell'aere che gli uomini non vedevano l'un l'altro non altrimenti che se fusse stata mezzanotte, quando quella è piú oscura. Dove passava questo impetuoso turbine, non solo sbarbava quanti arbori trovava, e alcuni, che facevano per esser maggiori piú resistenzia, con maggior ferocia con tutte le radici portava lontani per aria, ma, mosse le pietre dalle cime de' monti, le facevano andare a basso con incredibil ruina. Di qui nasceva un rumore nell'aria e per la terra, tanto orribile e pieno di spavento che ognun pensava che il fin del mondo fosse venuto, né si sapeva dove fuggire perchè in ogni luogo appariva la morte manifesta; nelle case non pareva sicuro stare, essendosene vedute gran quantità sfondate dalli sassi e tronchi di alberi che pareva piovessino, e alcune levate in aria con gli abitatori insieme; solo a quelli pareva esser sicuri, come veramente erano, li quali, trovandosi appresso ad alcune caverne, in quelle rifuggirono. Giunse questa rabbia di vento al porto, dove erano tre navi dell'admirante surte con molte ancore, e di queste rotti li canapi e sartie, giratele tre volte le cacciò sotto, insieme con gli uomini che vi si trovoron suso. Il mare, il quale in quelle bande non è solito crescere o decrescere come in Spagna, ma sta sempre nelli suoi termini, e per questo si veggono li liti dove batte pieni di fiori ed erbe, per questo sí crudel temporale gonfiò in modo che allagò in molte parti i piani dell'isola, per lo spazio di tre o quattro miglia.
Gl'Indiani, cessato il vento, qual durò per tre ore, e venuto il sole, tutti attoniti guardavano l'un l'altro né potevano parlare, restando loro ancora nell'animo quel tanto orrore; pur doppo alquanto preso fiato, dicevano mai piú né alli tempi loro né delli loro antichi esser accaduti simili uracani, che cosí chiamano le tempeste, e pensavano che Iddio, vedendo tali mali e sceleraggini che facevano li cristiani per l'isola, volendogli punire avesse mandato loro questa ruina adosso, e dicevano questa gente esser venuta a muover l'aria, l'acqua e la terra per disturbare il lor tranquillo vivere. L'admirante, venuto al porto e visti rotti li suoi disegni d'andare in Spagna per esser rotte le navi, immediate fece far due caravelle, perchè aveva seco maestri sufficientissimi di tutte le arti. E mentre che le si fabricavano mandò Bartolomeo Colombo, suo fratello, che era governator dell'isola, con alcuni bene armati, alle minere dove cavavano l'oro, che sono sessanta leghe lontane dalla fortezza Isabella, per investigar pienamente la natura di quelli luoghi. Andato il detto governatore, trovò profondissime cave, come pozzi: li maestri di minere che aveva menato seco, crivellando la terra in diversi luoghi delle dette minere, quali duravano per spazio di circa sei miglia, giudicarono che quelli tenessero tanta quantità di oro che ogni maestro facilmente potesse cavar ogni giorno tre ducati di oro. Della qual cosa il governatore subito dette notizia all'admirante, il quale, inteso questo, deliberò tornarsi in Spagna. E cosí partí agli undici di marzo 1495.
Partito l'admirante, il governatore suo fratello, per consiglio di quello, edificò appresso le prefate minere dell'oro una fortezza, e la chiamò la fortezza dell'Oro, perchè nella terra con la quale facevano le mura trovorono mescolato oro. Consumò due mesi in far strumenti e vasi da ricorre e lavare l'oro, ma la fame il disturbò e costrinse a lasciar l'opera imperfetta; donde, partitosi di lí, lasciò alla guardia della fortezza dieci uomini, con quella parte che poté di pane dell'isola e un cane da prender alcuni animali simili a' conigli, li quali loro chiamano utias, e tornossi alla rocca della Concezione, nel mese che Guarionesio e Manicatesio signori dovevano pagar il tributo. E, stato lí tutto giugno, riscosse il tributo intiero da questi due caciqui, e oltre a questo ebbe molte cose necessarie al vivere, per sé e per gli suoi che aveva seco, li quali erano circa quattrocento uomini.
Come il detto governatore edificò una rocca sopra un colle propinquo alle minere dell'oro, e fece tagliar gran quantità di verzini nei boschi d'alcuni caciqui. Del grande apparecchio di Beuchio Anacauchoa fatto alla venuta di esso governatore con feste, giuochi e danze, e con far combatter due squadre di uomini armati. E come 10 mila Indiani ch'aveano deliberato venir alle mani con li nostri furono sconfitti, e castigati due de' prigioni, gli altri furono liberati.
E circa il primo giorno di luglio giunsero tre caravelle di Spagna con formento, olio, vino, carne di porco e di manzo salate; le quali tutte cose furono partite, e a ciascuno dato la sua porzione. Per queste caravelle ebbe commessione il governatore dalli re, e suo fratello lo admirante, il quale con li re di tal cosa aveva parlato, che dovesse andare ad abitare in quella parte dell'isola che è esposta a mezzogiorno, perchè stando lí era molto propinquo alle minere dell'oro; e di piú che mandasse prigioni in Spagna tutti li caciqui dell'isola li quali avesser morto cristiani: donde il governatore mandò trecento Indiani con alcuni signori. Dipoi, scorsa tutta la parte di mezzogiorno dell'isola, elesse un luogo per abitare sopra un colle propinquo a uno sicurissimo porto, in sul quale edificò una rocca, la qual chiamò di San Domenico, perchè in domenica arrivò a quello luogo.
Appiè del detto colle corre e sbocca nel porto un bellissimo e largo fiume di chiara acqua, abbondantissimo di diverse sorti di pesci, con le sue ripe da ogni banda amenissime per la diversità dell'erbe e arbori fruttiferi che in esse sono, con tanti frutti che possono li naviganti a loro piacer pigliarne. È questa parte della isola (come dicono) non manco fertile che la provincia dove è la fortezza Isabella; dalla quale partendo il governatore lasciò tutti gli ammalati con alcuni maestri, li quali avevan cominciate due caravelle, acciochè le facessino; gli altri menò a San Domenico. Fabricata questa rocca, la qual dapoi è diventata la principal città di quella isola, lasciò in guardia in detta venti uomini e si partí col resto, e andò per veder le parti fra terra dell'isola verso ponente, delle quali non aveva alcuna notizia. E messo in cammino, lontano da quel luogo trenta leghe, trovò il fiume Naiba, il qual, come è detto di sopra, descende dalli monti Cibaui dalla parte di ostro e corre a diritto per mezzo l'isola. Passato quello, mandò duoi capitani con gente a man sinistra alle terre di alcuni caciqui, che avevano molti boschi di verzini, li quali mai infino a quella ora erano stati tagliati, e di questi tagliorono gran quantità e li misero nelle case di quegli isolani per salvargli, fin che ritornassero a levargli co' navili.
Ma il governatore, scorrendo a man destra non molto distante dal fiume Naiba, trovò un cacique potente nominato Beuchio Anacauchoa, il quale con molta gente era alla campagna per subiugare li popoli di questi luoghi. Lo stato di questo cacique era in capo dell'isola verso ponente, qual si chiama Xaragua, lontan dal fiume Naiba trenta leghe, paese montuoso e aspro, e tutti li cacique di quelle parti gli danno obedienzia. In tutta questa parte da Naiba infino all'ultima parte dell'isola verso ponente non si truova oro. Questo cacique, veduto li nostri venire, poste giú l'armi e dato loro segno di pace, s'incontrò con il governatore, domandando quello che cercassino; al quale rispose che voleva che, sí come gli altri cacique dell'isola pagavan tributo a suo fratello lo admirante, per nome delli re catolici, cosí ancor lui pagasse. Beuchio, inteso questo, admirato disse (come quello che aveva inteso questa nuova gente non cercare altro che oro): "Come posso io pagarvi tributo, conciosiachè in tutto il mio stato non si trovi pur un gran d'oro?" Allora il governatore, conosciuta la verità della cosa, e inteso che aveva gran copia di cottone e canape, vennero all'accordo che di questo gli dovesse pagar tributo. Fatto l'accordo, questo cacique menò seco li nostri alla terra dove lui teneva corte, dove furono molto onorati. E gli venne incontro quel popolo con gran festa, e tra l'altre cose vi furono questi duoi spettacoli. Il primo, che venne loro incontra trenta belle giovani mogliere del cacique, nude tutto il corpo, eccetto quelle che avevan dormito con lui, le quali avevan coperte le parti pudibonde con un certo panno di cottone, secondo loro usanza; ma le donzelle erano tutte nude, con capelli sparsi per le spalle, ma legata la fronte con una benda. Queste eran bellissime e di colore ulivigno, e portavano in mano rami di palme, e venivano incontro al governatore con diversi suoni e canti, ballando: le quali, fattogli riverenzia con le ginocchia in terra, gli presentarono dette palme. Intrati in casa, gli fu apparecchiata una cena molto splendida a loro usanza, e dapoi tutti alloggiati, secondo la qualità di ciascuno. La notte dormirono in letti di corde sospesi da terra, come altra volta abbiamo detto.
Il seguente giorno furono menati ad una casa grande, nella qual usano quegli Indiani far lor feste, dove furon fatti molti giuochi e danze a loro usanza, molto lontane dal danzare nostro. Dopo questi, partiti di questa casa, andorono a una gran pianura, dove all'improviso vennero due squadre d'uomini armati al modo loro, da due diverse bande, le quali il cacique aveva fatto mettere in ordine solo per delettazion delli nostri. Queste vennero alle mani con dardi e freccie e altre armi, cosí ferocemente che pareva che fussero capitali nemici e combattessero per la moglie e figliuoli, in modo che in poco spazio di tempo ne furon morti quattro e molti feriti. E la zuffa sarebbe andata piú in lungo, e di morti e feriti sarebbero stati piú, se il cacique a preghiere delli nostri non avesse dato segno che restassero.
Il seguente giorno, avendo determinato partire, ragionando con il cacique lo consigliò che, acciochè piú facilmente potessero li popoli pagare il tributo impostoli del cottone, facesse seminar quello vicino alle rive delli fiumi. E cosí si partí, e arrivati alla rocca Isabella, dove aveva lasciati gli ammalati e li navili che incominciati si lavoravano, trovò che erano morti di quelli da trecento per varie infirmità. Di che si trovava molto malcontento, e piú perchè non vedeva apparir navili di Spagna con vettovaglie, delle quali aveva gran necessità. Finalmente deliberò divider il resto degli ammalati per li castelli edificati nell'isola, fra Isabella e San Domenico, che è camino diritto da ostro a tramontana, per veder se per mutare aere si potevano sanare. Li quali castelli son questi: prima partendosi da Isabella, lontan trentasei miglia, è la rocca Speranza, e da Speranza lontan ventiquattro miglia è Santa Caterina, da Santa Caterina lontan venti miglia San Iacopo, da San Iacopo altre venti la Concezione, posta alle radici de' monti Cibaui, in una pianura grassissima e molto popolata; tra la Concezione e San Domenico ne era un'altra chiamata Bonauo, dal nome d'un cacique lí vicino.
Partiti gli ammalati per questi castelli, lui se ne andò a San Domenico, riscottendo per il viaggio li tributi da quelli caciqui. E cosí stando, dopo pochi giorni gli venne a orecchi tutti li caciqui che erano vicini alla fortezza della Concezione, per li mali portamenti de' nostri viver malcontenti e desiderar cose nuove. Il che poi che ebbe inteso, subito si mosse a quella volta, e approssimandosi a quel luogo intese che dagli uomini della provincia era stato eletto Guarionesio per signore, e quasi per forza condotto a questa impresa; per forza dico, perchè, avendo provato altra volta l'armi de' nostri, temeva; pur convenne con costoro un dí determinato con quindicimila uomini venire alle mani con li nostri. Il che avendo inteso il governatore, consigliatosi con il capitano della fortezza e altri suoi soldati, determinò assaltar costoro ciascuno in disparte, avanti che si mettessino insieme, e cosí fu fatto. Perchè mandò diversi capitani alli borghi degl'Indiani, li quali erano senza alcun fosso o argine, e trovatigli alla sprovista e disarmati gli assaltorono e tutti gli presero, e legato ciascuno il suo gli menorono al governatore, il quale era andato alla volta di Guarionesio, come a quello che era piú potente, e avevalo preso alla medesima ora. Li presi furon quattordici, li quali tutti furon menati alla Concezione, delli quali duo soli furon castigati; gli altri licenziò il governatore insieme con Guarionesio, e gli licenziò solo per non spaventare gli uomini del paese, il che alli nostri sarebbe stato molto dannoso, perchè avrebbon lasciato di coltivar la terra.
Erano corsi alla fortezza, ciascuno per riscuotere il suo, circa cinquemila Indiani disarmati, i quali con le grida che andavano infino al cielo facevano tremar la terra. Il governatore, fatti molti presenti a Guarionesio e altri caciqui, con promesse e minaccie gli admoní che guardassino di non machinare altra volta cosa che tornasse contra alli re catolici. Allora Guarionesio parlò alli suoi, mostrando la potenzia delli nostri, e la clemenzia inverso chi errava e la liberalità inverso li fedeli, pregandoli che posassino l'animo e che non facessino cose che fussino contro li cristiani. Allora gl'Indiani preson Guarionesio e lo portorono in su le spalle infino alla casa dove abitava. E cosí quella provincia per qualche giorno stette in pace. Pur li nostri erano in gran fastidio trovandosi in paesi stranieri abandonati, conciosiachè già fusser passati quindici mesi dopo la partita dell'admirante, e già mancavan loro tutte le cose necessarie cosí al vivere come al vestire. Il governatore, pascendogli di speranza, meglio che poteva gli confortava.
Dell'ottime condizioni della moglie del cacique di Caunoboa ritornata dal fratello per la morte del marito, e in qual modo essi andorono incontra al governatore, e li presenti e grande accoglienze a lui fatte. E come ne' conviti de' signori usano mangiare serpenti per cibo delicatissimo, e il modo di cuocergli.
Mentre che stavano in questo modo vennero nuncii dal cacique Beuchio Anacauchoa, che aveva lo stato suo verso ponente, detto Xaragua, come di sopra si è detto, a fare intendere al governatore come era preparato tutto il cottone e altre cose delle quali erano debitori lui e tutti gli suoi subditi per tributo. Il governatore, inteso questo, si mise in cammino per andarlo a trovare, e questo faceva molto volentieri perchè aveva inteso che era tornata a casa del detto cacique una sua sorella, detta Anachaona, che in lingua nostra vuol dire "fior d'oro", qual fu moglie del cacique Caunoboa, che fu preso dalli nostri. Questa era reputata la piú bella donna dell'isola Spagnuola, e alla bellezza s'aggiugneva l'ingegno e piacevolezza, per le quali cose era di tanta autorità che la governava tutto lo stato del fratello, appresso il quale era ritornata dopo la morte del marito; e sapendo quello gli era intervenuto, acciochè 'l fratello non incorresse in simile errore, gli persuase che onorasse gli cristiani né negasse far cosa che da quelli gli fusse imposta. Intesa la venuta del governatore, questo cacique e Anacaona sua sorella per onorarlo gli andoron alquante miglia incontro. Con ordine diverso dal primo fecero andare insieme uomini e donne ballando e cantando avanti, poi veniva il cacique sopra un legno leggieri portato da sei Indiani, nudo eccetto le parti pudibunde; similmente Anacaona veniva appresso portata al medesimo modo da sei Indiani. Era costei nuda tutto il corpo, il quale aveva tutto dipinto a fiori rossi e bianchi, le parti vergognose aveva coperte con un telo sottilissimo di cottone di varii colori, in testa e al collo e braccia aveva ghirlande di fiori rossi e bianchi odoratissimi, e nell'aspetto veramente, come dicono, mostrava esser signora. Incontrato il governatore, si fecero porre in terra da quelli che gli portavano il cacique e la sorella, e gli fecero reverenzia. Dipoi l'accompagnarono a casa, dove erano congregati li tributi di trenta caciqui, e oltre a quel che erano obligati, per farsi benivoli li cristiani avevano portati diversi presenti, come pan di maiz e iucca e molti di quelli animali dell'isola chiamati utias, simili a' conigli, pesci di diverse sorti tutti arrostiti perchè non si guastassero, fra i quali eran certi serpi grandi e spaventosi al vederli, di quattro piedi, chiamati yuana, che nascono nell'isola, di diversi colori, con spine dal capo alla coda e con denti acutissimi. Gl'Indiani mangiano questi, e reputangli il migliore e il piú delicato cibo che si possa trovare, e cibo da signori. Li cristiani, ancorchè di questi avesser piú volte veduto mangiarne agl'Indiani, mai ne volser mangiare, perchè la bruttezza loro facea nausea grandissima allo stomaco.
Venuta la sera fu preparata la cena bellissima e abbondatissima di cibi fatti in diverse maniere. Sedeva ad una mensa separata dagli altri il governatore con il cacique e la sorella Anacoana; la qual mensa era un tela di cottone fatta di diversi colori distesa in terra, intorno la quale sedevano loro sopra monticelli, a modo di cussini, di foglie d'arbori tonde, un palmo l'una larghe, odoratissime. E qualunche volta li ministri portavano nuove vivande, portavano similmente un mazzo di dette foglie per nettarsi con esse le mani. Anacoana, ch'era quanto patiscono li costumi del paese delicatissima e bella, guardava il governatore molto amorosamente, parendogli il piú bell'uomo che giamai avesse veduto. Ed essendo ingegnosa e molto piacevole, motteggiava con lui diverse cose per via d'interpreti, e fra l'altre gli disse che teneva per certo che la bellezza del paese de' cristiani superasse la bellezza di qualunque altro paese, vedendo che in quello nascevano uomini tanto belli. E per questo lo pregava che gli dicesse per che causa, lasciando una cosa sí bella, andavano cercando le brutte, come sono le sue. E quando furono portati quelli serpi cotti, lei, spiccatone un pezzo della coda, lo presentò al governatore, con allegro viso invitandolo che per amor suo lo volesse gustare. Il governatore, già preso dalla gentilezza di costei, desiderando fargli piacere, ancorchè contra sua voglia pure lo accettò, e fatto animo lo cominciò a gustare con le labbra solamente, e non gli dispiacendo lo masticò e mangiò, e fu tanta l'eccellenza e la soavità di questa carne al gusto e al palato, che dapoi non volse mangiare altro che yuana. Il che veduto dagli altri Spagnuoli, ancor loro a regatta l'uno dell'altro si misero a mangiarne di questi serpi, né di altro parlavano che della loro bontà, dicendo che la soavità di questa carne passava di gran longa quella dei pavoni, fagiani e pernici. E perchè aveva inteso che la soavità di questa carne consisteva in saperla cuocere, volse il governatore intendere il modo, il quale gli fu detto esser questo: presi che sono questi animali, si aprono e cavano le budelle e tutte le altre interiora, e con grande diligenza dentro si nettano lavandogli, e levansi di fuora le loro squame meglio che si può; dapoi si mettono in un vaso di terra capace della loro grandezza, a modo di una conca, e messovi dentro un poco d'acqua con alquanto di quel pepe che abbiamo detto nascer in questa isola, si mette al fuoco e fassi lentamente bollire, e le legne vogliono esser di certo legno odorato, il quale non fa fumo alcuno. E perchè li serpi sono grassi fanno un brodo molto spesso e delicato. Fugli ancora detto che le ova di questi serpi cotte sono soavissime, ed è cibo che dura molti giorni. Con queste, e molte altre parole simili il governatore con li compagni furono menati a dormire in una camera, dove era un letto di corde di cottone sospeso e appiccato al modo loro, ma intorno e di sotto di quello la gentile Anacaona aveva fatto fare ghirlande di diversi fiori, i quali mescolati rendevano un soavissimo odore. Il quale poi che lei ebbe veduto spogliato ed entrato nel letto, se ne andò a dormire in un altro luogo, insieme con molte indiane sue schiave.
Ma per tornare al proposito nostro, poi che il governatore ebbe piena una certa cassa di cottone riscosso delli tributi, il cacique insieme con gli altri gli offersero dare tanto del suo pane quanto lui volesse, e lui, accettata la offerta, gli ringraziò. E mentre che il pane per il paese si faceva, mandò messi alla fortezza Isabella con ordine che conducessero in quelle bande una delle caravelle, le quali lui aveva lasciate incominciate, e che facessero intendere a quelli della fortezza che lui manderebbe in là carica di vettovaglie. Condussero costoro la caravella, secondo il comandamento del governatore, al lito chiamato Xaragua, il che poi che ebbe inteso Anacaona volse andare insieme con il fratello a vederlo. E andando stettero una notte ad un borgo, dove essa aveva il suo tesoro, non di oro né di argento o veramente di altre gioie, ma vasi di legno necessari al vivere, come piatti, scodelle, catini di legno nerissimo e lucidissimo, maravigliosamente dipinti con teste di animali, serpi, fiori e altre simili cose. Delli quali vasi ne donò sessanta al governatore, con quattuordeci scanni del medesimo legname e al medesimo modo dipinti, i quali tutti si lavorano nell'isola Guanaba, ch'è alla parte di ponente della Spagnuola, con pietre di fiumi acutissime. Dettegli ancora quattro grandi palle di cottone filato finissimo e di diversi colori da far tele.
Il giorno seguente andarono ad un villaggio del cacique appresso al lito; il governatore fece mettere ad ordine un suo brigantino, il cacique fece venir due canoe dipinte di varii colori, una per sé e altri suoi famigliari, l'altra per Anacaona e sue schiave. La quale, non tenendo gli occhi ad altro che al governatore, volse montar sola con il governatore in su 'l brigantino, le schiave la seguitorono in su la canoa. Giunti che furono non molto lontani dalla caravella, avendo il governatore fatto cenno, furono scariche tutte l'arteglierie, delle quali tanto fu lo strepito che risonò per il mare e monti vicini, con il fuoco e fumo che andava a l'aere, che Anacaona, attonita e fuor di sé, come morta cascò in braccio al governatore. Tutti gli altri similmente restorono spaventati, e pensorono che il mondo venisse al fine. Il governatore, sollevandola e ridendo in verso loro, liberò tutti di questo spavento, e massime che, cessato lo strepito delle artiglierie, cominciorono a sonare trombe, piffari e tamburi, il che dette gran piacere agl'Indiani. Dapoi il governatore, fatta montare Anacaona in su la nave, a mano la menò per tutto, mostrandogli particolarmente tutti li luoghi d'essa; dietro la quale venne il cacique con gli altri Indiani, li quali, entrati similmente nella nave, considerandola tutta di sotto e di sopra restorono admirati, né altro dicevano se non che guardavan l'un l'altro; il che veduto dal governatore comandò che si togliessero su le ancore e dessersi le vele a' venti, la qual cosa fu loro ancora di maggiore stupore, vedendo una sí gran macchina muoversi senza remi o fatica d'uomini, e piú quando vedevan la nave per il medesimo vento andare innanzi e indietro. Finalmente, carica la nave di pane di iucca e maiz, licenziò il cacique e la sorella, poichè ebbe donato loro molte cose di quelle che fra li cristiani si fanno. Anacaona nell'aspetto mostrava gran doglia di questa partita, e pregava il governatore che fusse contento o restar lí alquanti giorni o veramente voler che lei lo seguitasse. A questo il governatore disse assai parole, promettendogli tornare altra volta.
E finalmente, mandata la nave al suo viaggio, lui per terra insieme con li soldati se n'andò alla fortezza Isabella, dove trovò un Roldano, il quale, di vil condizione, servidore dell'admirante, era stato inalzato da quello e lo aveva lasciato alla sua partita presidente della giustizia, esser di molto male animo in verso di lui, ed esser andato per l'isola rubando. E per sua causa, e degli altri lasciati alla guardia della fortezza, Guarionesio cacique, non potendo tollerare li lor mali portamenti e insolenzie, se n'era fuggito con suoi famigliari a certi monti, lontani da Isabella circa dieci leghe verso ponente, in sul lito di tramontana; dove sono alcuni monti, gli abitatori delli quali si chiamano Ciquaghi, e il cacique Maiabonesio, lo stato del quale sono montagne aspre e dove difficilmente si può andare, talmente fatte dalla natura, che essendo vicini al mare si distendono in verso quello facendo un semicirculo a modo di duo corni. Nel mezzo di quelli è una pianura per la quale molti fiumi di chiarissime acque e abondanti sboccano in mare. Gli abitatori son tali che molti si pensano che abbino avuto origine da' canibali, perchè scendendo alla pianura per guerreggiare tanti quanti prendono degli inimici vicini se li mangiano. Guarionesio si rifuggí alla fortezza di questo cacique, chiamata Caprone, portandogli molti gran doni di quelli che hanno carestia gli abitatori di quelli monti, dicendogli esser stato molto mal trattato dalli nostri, né mai aver possuto con umiltà e buone parole aver pace con essi; e per questo esser ricorso a lui, pregandolo che lui lo volesse aiutare e difendere dalla furia di questi cosí cattivi uomini. Maiabonesio l'accettò e fecegli gran carezze, promettendogli ogni aiuto contro li cristiani.
Trovato adunque le cose cosí disposte, se n'andò alla fortezza della Concezione, vicino alla quale intese esser il detto Roldano, e che andava rubando quanto oro trovava in man degli Indiani, e sforzando tutte le femine che gli piacevano. Per le quali cose lo fece venire a sé domandandolo della causa di questa insolenzia. Lui sfacciatamente gli rispose: "Io ho inteso come l'admirante è morto, e che li re catolici non tengon piú cura alcuna delle cose dell'isola, e noi, seguitandoti e stando sotto il tuo governo, ci moiamo di fame e siamo constretti cercarci il vivere per l'isola. Oltre di questo, io penso aver qui tanta autorità quanto hai tu, e per questo son deliberato non stare piú a tua obedienzia". Per queste parole adirato il governatore gli volse far metter le mani adosso, ma lui, accortosene, si fuggí con sessanta uomini in verso ponente alla provincia Xaragua, dove cominciò a far il peggio che poteva, rubando, sforzando donne e ammazzando.
Delli mali portamenti di Roldano, già servitore dell'admirante. Di una impetuosissima correntia d'acqua salsa e d'acqua dolce, quali insieme facevano gran combattimenti. Come fu scoperta una pianura grandissima molto popolata da genti umanissime, le quali abondano d'oro e di perle.
Mentre che le cose dell'isola erano in questi travagli, li re catolici avevano assegnato dieci caravelle all'admirante, per mandare con vettovaglie a suo fratello, delle quali lui di subito ne mandò due a drittura all'isola Spagnuola; queste per ventura arrivorono a quella parte dell'isola di ponente dove si trovava Roldano con li compagni, il quale, veduti costoro e parlando con essi, subito cominciò a persuader loro che non stessero all'ubidienzia del governatore, promettendo loro, in cambio delle fatiche che avrebbero sotto quello, far loro aver grandissimi piaceri di donne e altre cose che loro venisse voglia, e che diventerebber ricchi con le prede e rapine fatte a quegli Indiani. Il che dal governatore era loro vietato. Queste cose tutte molto piacquero a quelli delle caravelle, e d'accordo insieme attesero a vivere delle vettovaglie che avevan condotte, e lo elessero per lor capo. E benchè avessero per certo e sapessero che presto l'admirante era per arrivare, non per questo restavan di far quanto mal potevano senza paura alcuna.
Dall'altra parte Guarionesio, messo insieme molti Indiani suoi amici con l'aiuto di Maiabonesio, spesso discendeva dalli monti alli piani, e tanti quanti cristiani trovava, o vero Indiani loro amici, tutti gli tagliava a pezzi, saccheggiando e ruinando tutto quel che trovava. In questo tempo, quando le cose della Spagnuola eran tanto perturbate, l'admirante si partí di Spagna, con il restante delli navilii assegnati dalli re catolici, a questa volta non per la diritta, ma tenne il camino piú verso mezzodí. Nella qual navigazion quel che discoprisse di paesi e mari si dirà nella seguente narrazione.
L'admirante Colombo, adí 28 di maggio 1498 partito da San Lucaar di Barameda, poco lontano dall'isola di Gades, in su la bocca del fiume Guadalchibiri, con otto grandi navili molto carichi, storcendo il consueto suo camino per le Canarie per paura d'alcuni corsali franzesi che lo aspettavano a quella volta, si voltò a man sinistra verso l'isola della Madera. E de lí mandò cinque navili a diritto camino all'isola Spagnuola, e seco ritenne una nave e due caravelle, con le quali si mise a navigare verso mezzodí, con intenzione di trovar la linea equinoziale, e de lí voltarsi poi verso ponente per investigar la natura di diversi luoghi. E navigando in quella parte arrivò all'isole Esperide, chiamate da' Portoghesi l'isole di Capo Verde, lontane da terra due giornate, in numero tredici, tutte disabitate eccetto una, la quale si chiama Buonavista; e da queste parti, per avervi trovato cattivo aere, per gherbino navigò quattrocentottanta miglia con tanta bonaccia e caldo, perchè era del mese di giugno, che quasi li navili s'abbrucciavano, e similmente li cerchi delle botti scoppiavano, in modo che l'acqua e il vino si perdeva, né gli uomini potevan tolerare il caldo, per esser lontani dall'equinoziale gradi cinque. Pure otto giorni tolerorono in questo travaglio, parendo lor sempre con le navi montare non altrimenti che se su per un alto monte salissero in verso il cielo; e il primo giorno fu sereno, e gli altri nebulosi con pioggia, e per questo piú volte si pentirono esser andati a quel camino. Passati gli otto giorni si misse il vento per levante, il qual tolto in poppa se n'andorono alla volta di ponente, continuamente trovando miglior temperie d'aere e la notte altro aspetto di stelle; in modo che il terzo giorno trovorono l'aere temperatissimo, e all'ultimo dí di luglio dalla gabbia della maggior nave si scopersero tre altissimi monti; della qual cosa non poco si rallegrorono, perchè stavano malcontenti per esser per il caldo mezzi abbruciati, e l'acqua gli cominciava a mancare.
Finalmente con l'aiuto di Dio giunsero a terra, ma per esser il mare tutto pieno di secche, non si potevano accostare. Ben compresono che era terra molto abitata, perchè dalle navi si vedeva bellissimi orti e prati pieni di fiori, li quali la mattina per tempo, con la rugiada, mandavano soavissimi odori fina alle navi. De lí a venti miglia trovorono un buonissimo porto, ma senza fiume, per la qual cosa scorsero piú avanti, e finalmente trovorono un porto altissimo da potersi ristorare, e far acqua e legne, il qual chiamorono Punta di Arena. Non trovorono vicino al porto alcuna abitazione, ma molte pedate d'animali simili a quelle delle capre, delle quali ne viddero una morta molto simile alle nostre. L'altro giorno viddero venir da lontano una canoa con ventiquattro giovani di bella e grande statura armati di freccie, arco, con targhe, oltre al costume degl'Indiani. Ed erano nudi, eccetto le parti vergognose, le quali avevan coperte con un panno di cottone di diversi colori, con li capelli lunghi distesi, e quasi al modo nostro partiti in su la fronte. L'admirante, per allettare e assicurare questi della barca, comandò fusse mostro loro specchi di vetro, scodelle e altri vasi di rame con sonagli; ma loro, quanto piú erano invitati, tanto piú temevano d'essere ingannati, sempre tirandosi indietro, e tenevano gli occhi fissi verso li nostri con grande admirazione. Donde, vedendo l'admirante non li poter tirar con queste cose, ordinò che nella gabbia della maggior nave si sonasse tamburini, pive e altri instrumenti, e da basso si cantasse e ballasse, sperando, con canti a lor nuovi, potergli dimesticare. Ma loro, pensando che quelli fussero suoni che gli invitassino a combattere, tutti in un tratto lasciati li remi tolsero gli archi e freccie in mano, e pensando che li nostri li volessero assaltare, tenevano diritte le punte verso di loro, stando a vedere quel che volessen dire questi suoni e canti. Li nostri all'incontro, ancor loro con le freccie in su gli archi a poco a poco s'accostavano alla barca. Ma gl'Indiani, partiti dalla nave maggiore, confidandosi nella celerità de' suoi remi s'accostarono ad una nave minore, e tanto se gli avicinarono che il patron della nave gittò nella barca un saio di panno e una berretta a uno de' primi di loro. Dal che successe che dipoi con segni si detter fede di scendere in sul lito, dove piú commodamente potrebbero insieme parlare. Ma andato il patron della nave a dimandar licenzia all'admirante, e loro temendo di qualche inganno, dettero delli remi in acqua e se n'andarono via. In modo che di questa terra non ebbero altra cognizione.
Non molto lontano da questo luogo trovorono una correntia d'acqua da levante in ponente, tanto celere e impetuosa che pareva un torrente che altissimi monti discendesse, tale che l'admirante affermava mai, dapoi che navigava, aver avuto maggior paura. Andato alquanto avanti per questa correntia, trovò una bocca di larghezza d'otto miglia, che pareva l'entrata d'un grandissimo porto, dove sboccava questa correntia, la quale chiamaron Bocca di Drago; e un'isola che era all'incontro, chiamaron Margarita. All'incontro di questa correntia d'acqua salsa veniva con non minore impeto da terra una correntia d'acqua dolce, e faceva forza di sboccare in mare, ma dalla salsa era impedita, in modo che insieme facevano gran combattimento, con bollori e spume. Entrati in questo golfo trovorono finalmente acqua dolcissima e buona; navigarono 104 miglia continuamente per acqua dolce, e quanto piú andavano verso ponente tanto piú erano dolci. Scopersero dipoi un monte altissimo, il quale dalla parte di levante era pieno di gatti mammoni, e disabitato per esser molto aspro; pure misero in terra, e videro molti campi cultivati. Ma non viddero uomini né anco case. E dal lato del monte verso ponente viddero una pianura grandissima, alla quale li nostri andorono per vedere chi l'abitasse.
Gl'Indiani, veduto arrivare alli suoi liti questa nova gente, correndo tutti a regatta senza alcuna paura andorono alle navi, dove con li nostri fatta amicizia, intesero per segni questa terra chiamarsi Paria ed esser grandissima, e che quanto piú s'andava a ponente tanto piú era popolata. Tolsero di qui quattro uomini in nave e andarono seguitando quella costa di ponente, per la qual navigando trovavano ogni giorno l'aere piú temperato e il paese piú popolato e ameno. Dalle quali cose compresero quella esser regione da tenere gran conto; e un giorno fra gli altri, la mattina avanti il levar del sole, tirati dall'amenità del luogo, perchè sentivano da' fiori e erbe delli prati grandissimi odori, volsero smontare, dove trovorono maggior numero d'uomini che in alcun luogo mai avesser trovato; e che, subito che furono smontati, vennero nuncii all'admirante per parte del cacique di questa terra, li quali con viso allegro, per cenni e segni e grande offerte l'invitavano a dismontar in terra. Il che ricusando l'admirante, quelli andorono alle navi con molte barche piene d'Indiani, ornati tutti le braccia e il collo di catene d'oro e perle orientali; e dimandati dove raccoglievano quelle perle e oro, con cenni rispondevano che le perle si trovavano nel lito del mare lí vicino. Dimostravano ancora con segni delle mani e muover della testa e torcer delle labra che appresso loro non se ne faceva conto alcuno. E presi alcuni vasi a modo di canestri, accennavano che se li nostri volessino star lí, ne potevano empir quelli a lor piacere. Ma, perchè li formenti che l'admirante portava all'isola Spagnuola si guastavano, deliberò differir questo commerzio ad altro tempo piú commodo, e mandò allora due barche d'uomini in terra, per investigare e intender la natura di quel paese e gli costumi degli uomini, e far pruova di barattare delle cose che avevano con le lor perle.
Degli abiti di quelle genti. D'un fiume profondissimo e di maravigliosa larghezza. Come Magnabonesio e Guarionesio caciqui furono presi e i lor popoli vennero all'obedienzia dell'admirante. Per qual causa fusse creato un nuovo governatore che andasse all'isola Spagnuola, e per ordine di quello mandati in ferri l'admirante e suo fratello in Spagna.
Andati adunque in terra furono li nostri ricevuti da loro molto amorevolmente, e correvano da ogni banda a vederli, come un miracolo. E duo di costoro, che parevano di piú stima e gravità degli altri, primi si ferono loro incontro; uno era vecchio, l'altro giovane suo figliuolo, li quali, secondo loro costume salutatili, gli menarono in una casa fatta in tondo, avanti la qual era una gran piazza, dove gli fecero sedere sopra alcune sedie fatte d'un legno nerissimo, e lavorate con grande arte; e sedendo li nostri insieme con quelli, vennero molti scudieri carichi di diverse sorti di vivande, e la maggior parte di frutti incogniti a noi e di vini bianchi e rossi, non di uve, ma fatti di diversi frutti molto suavi al gusto. Poi che ebber alquanto mangiato, il giovane, presi per mano li nostri amichevolmente li condusse in una camera dove erano molti uomini e donne, separati l'una parte dall'altra, bianchi come li nostri eccetto quelli che andavano per il sole. E nell'apparenza mostravano esser gente molto mansueta e benigna in verso li forestieri. Li quali tutti erano nudi eccetto le parti pudibunde, le quali portano coperte con certi veli di cottone tessuti di varii colori, e nessuno vi era, né uomo né donna, che non fusse ornato con filze di grosse perle e catene d'oro. E addimandati da' nostri donde avessero l'oro che portavano, rispondevano con segni che veniva da certi monti, li quali a dito mostravano, accennando che per modo alcuno li nostri non vi dovessero andare, perchè in quel luogo gli uomini erano mangiati. Ma li nostri non gli potevano intendere se dicevano da fiere o vero da' canibali, della qual cosa, cioè che loro non gli intendessero, mostravan pigliar gran molestia, dolendosi di non si potere parlare insieme l'un con l'altro e intendersi.
Stati adunque li nostri in terra fino a mezodí, tornorono alle navi con molte filze di perle. E l'admirante immediate si levò con tutte le navi, per rispetto che 'l formento, come abbiamo detto, si marciva, con animo di tornar un'altra volta, ordinate che fussero le cose dell'isola Spagnuola; sollecitollo al partire, ancora che l'acque in quello luogo erano molto basse e facevano gran correnzia, di modo che la nave maggiore per ogni piccol vento era travagliata e andava a gran pericolo, e per questo per molti giorni mandarono avanti una caravella minore con lo scandaglio che faceva la via all'altre, con la qual guida andorono scorrendo circa 230 miglia di questa provincia detta Paria, nella quale viddero Cumana, Manacapana e Curiana. Lontano da queste molte miglia, e andati per ponente molti giorni credendo che questa fosse isola, e de lí voltandosi per tramontana per poter andare alla Spagnuola, capitorono ad un fiume di profondità di trenta braccia e di larghezza inaudita, perchè dicevano ch'era largo circa 112 miglia. oco avanti pur per ponente ma un poco piú a mezodí, che cosí s'ingolfava quel lito, viddero il mar pieno d'erba che pareva che corresse come un fiume, e sopra il mare andavano alcune semenze che parevano lenti. Ed era tanta spessa l'erba che impediva il navigare delle navi. In questo luogo referisce l'admirante esser gran temperie d'aere. E il giorno tutto l'anno quasi è eguale e non molto varia, perchè non è lontano dall'equinoziale piú di cinque gradi; e vedendosi in questo gran golfo quasi intricato, non trovando essito per tramontana donde potesse andar all'isola Spagnuola, con grande fatica uscito dell'erbe, preso verso tramontana il diritto suo cammino con l'aiuto di Dio giunse all'isola Spagnuola, secondo il suo disegno, adí 28 d'aprile 1498.
Dove arrivato trovò ogni cosa in confusione, e che quel Roldano ch'era suo allievo con molti altri Spagnuoli s'era ribellato da suo fratello governatore. Il qual volendo mitigare, non solamente non si pacificò, ma scrisse alli re catolici tanto male dell'admirante quanto mai fusse possibile a dire; e ancora del fratello, accusandolo ch'egli era scelerato d'ogni disonestà, crudelissimo e ingiusto, che per ogni picciola cosa faceva appiccare e morire uomini, e tutti due erano superbi e invidiosi, e pieni di ambizione e intolerabili, e per questa causa essersi ribellati da loro, come da fiere che si allegrano di spandere sangue umano, e inimici dell'imperio di loro Maestà, e come da quelli che non cercano altro che usurpar lo stato di quell'isola, accrescendo questi carichi che davano loro con vane congietture, e massime che non lasciano andare alle cave dell'oro se non gli suoi famigliari. L'admirante similmente notificò alli detti re catolici la natura di questi uomini di mala sorte, dichiarando che non attendevano se non a sforzar donne e assassinamenti, e che temendo non esser puniti al suo ritorno si erano ribellati e andavano per la isola violando, rubando e assassinando.
Mentre si facevano queste accusazioni l'admirante mandò suo fratello con novanta fanti e alcuni cavalli ad espugnare il cacique Guarionesio, il quale con li popoli Ciguati si era ribellato e aveva messo insieme circa seimila uomini, tutti armati di archi e freccie, ma nudi, con il corpo dipinto di vari colori dal capo alli piedi. Con il quale il governatore venne piú volte alle mani, e massimamente al passare di un gran fiume, in su la riva del quale costoro si erano accampati, e con innumerabili saette e sassi impedivano il passo alli nostri; il che da loro conosciuto, subito mandorono occultamente alcuni cavalli a passare il fiume lontano da quel luogo. Gli Indiani, vedutosi li nostri alle spalle cosí all'improviso, restorono admirati, e dubitando di non esser messi in mezo si ritirono a capo de' monti Ciguaui, al cacique Maiabonesio, dal quale Guarionesio dimandò aiuto; né lo potette ottenere, perchè li popoli, sentita la venuta del governatore, dubitavano non essere tagliati a pezzi. Donde tutti due questi cacique furon constretti fuggirsi alle selve sopra altri monti altissimi, accompagnati da alcuni pochi Indiani. Il governatore, arrivato a Caprone e intesa la fuga delli caciqui, ancorchè gli paresse difficil cosa poterli trovare, pur deliberò fare ogn'opera per avergli nelle mani. Al che gli fu la fortuna favorevole, perchè alcuni cristiani, forzati dalla fame, cercando pigliare degli utias, i quali abbian detto esser simili a' conigli, a caso si abbatterono a due famigliari di Maiabonesio, che gli portavano per vivere del loro pane. I quali presi insegnorono a' nostri dove questo cacique fusse; il che inteso dal governatore, adoperati questi per guida, fece dipignere dodeci delli suoi al modo indiano e gli mandò al luogo dove era Maiabonesio, il quale vedendoli da lontano si credette che fussero Indiani; venendo loro incontro fu subito preso, lui con tutta la sua famiglia, insieme con Guarionesio. E in questo modo tutti li popoli Ciguati e gli altri vicini dopo la presa di questi caciqui vennero alla obedienza dell'admirante.
Mentre che l'admirante, insieme con suo fratello, con quanta diligenza si è detto, si affaticavano ridurre alla obedienza de' re catolici tutti li signori e popoli dell'isola Spagnuola, giunsero a' prefati re lettere degli Spagnuoli sollevati e appresso di quelle i nunzii mandati dall'admirante, come di sopra è detto. Oltre a questo la fama dell'oro di questa isola era tanto grande fra tutti gli uomini della corte, i quali erano usi vederne poco, che ciascun, tirato dalla cupidità di quello, desiderava aver questo governo, e non avendo animo dimandarlo per la gran reputazione e grazia che vedevano aver l'admirante, cominciorono a sparger per tutta la corte che il prefato con il fratello si volevano far signori di quella isola, con tutti li paesi nuovamente trovati; e dicevano che li segni si vedevan manifesti, perchè si intendevan per lettere di diversi che essi avevan cominciato a non volere che alcuno Spagnuolo praticasse alle minere dell'oro, e che l'avevan date in guardia a particolari persone loro intrinseche e famigliari, aggiugnendo che di quello si cavava essi ne mandavano poco in Spagna, ma lo serbavan per li loro bisogni. E che, a fine che questo loro disegno piú facilmente si potesse mandare ad effetto, essi volevano levarsi dagli occhi tutti gli Spagnuoli che erano sopra detta isola, e già ne avevan cominciati a far morir molti, sotto diversi pretesti e cause. Le quali parole, dicendosi per tutta la corte, operarono tanto che li re catolici furono forzati, vedendo in effetto che non gli era stato mandato quella quantità di oro che si diceva essersi cavato in detta isola (il che non procedeva d'altro che dalle discordie che erano in quella fra gli Spagnuoli), eleggere un nuovo governatore, il quale andasse a quella volta e arrivato intendesse quali fussero li colpevoli e gli castigasse.
Questo governatore adunque, partitosi con buon numero di fanti senza che l'admirante sapesse cosa alcuna, giunse alla Spagnuola, dove, intesasi la sua venuta, andò l'admirante col fratello ad incontrarlo, e volendolo accettar con allegro volto, all'improviso furono presi e spogliati di tutto quello ch'avevano, e in ferri per ordine del nuovo governatore mandati in Spagna.
Qui si può considerar la varietà e giuochi della fortuna, che quello che poco avanti era in tanta grazia delli re catolici, avendo lor fatto con la sua virtú e ingegno un tanto gran beneficio nel scoprirgli tanti nuovi paesi e signorie, che per opinion d'ogni uomo non pareva che mai si potesse trovar modo di rimunerarlo, in un momento insieme con il fratello cadesse in tanta miseria. Ma venuta la nuova alli re catolici che in ferri erano arrivati a Gades, subito mossi da grandissima compassione mandorono ad incontrarli diverse persone l'un dopo l'altro, con commession che subito fusser fatti liberi e che vestiti onorevolmente fusser menati alla lor presenzia, il che fu fatto. E inteso da costoro la verità della cosa, subito ordinorno che li delinquenti fusser puniti.
Come Pietro Alfonso chiamato Nigno, partito di Spagna per scoprir nuovi paesi, arrivato alla provincia detta Curiana, in un borgo di quella con certe cose che valevano pochi danari ebbe gran quantità di perle. E della gran copia d'animali di quel luogo. Della provincia di Cauchiete, dove si trova oro.
Dapoi che l'admirante Colombo fu arrivato in Spagna ed ebbe mostrato l'innocenzia sua alli re catolici, molti de' suoi pilotti e nochieri, che seco continuamente erano stati alle sopradette navigazioni, fecero tra loro deliberazione andar per l'oceano a discoprire nuovi paesi. E tolto dali re licenzia con promettere di darli il quinto del tesoro che trovassino, armarono alquanti navili a sue spese e se n'andarono a diversi camini, con ordine però di non s'accostare dove era stato l'admirante a cinquanta leghe.
Tra li quali Pietro Alfonso, chiamato Nigno, con una caravella si mise andar verso mezodí, e capitò a quella parte di terra ferma che si chiama Paria, nella quale già di sopra abbian detto che l'admirante trovò gli uomini e le donne con tanta copia di perle. E scorrendo piú avanti per quella costa per spazio di cinquanta leghe, lasciandosi a dietro le provincie di Cumana e Manacapana, arrivò alla provincia chiamata Curiana dagli abitanti, dove trovò un porto simile a quel di Gades, nel quale entrato vidde un borghetto d'otto case, e smontato in terra trovò cinquanta uomini nudi che non erano di quel luogo, ma d'un altro popolatissimo borgo tre miglia lontano; li quali con il suo cacique gli vennero incontro, pregandolo che l'andasse a porre in terra alle case loro. Ma Nigno, per allora non andando piú avanti, fece con loro permutazione di sonagli, aghi, specchi e filze di pater nostri di vetro; all'incontro ebbe da loro quindeci oncie di perle, di quelle che portavano al collo e alle braccia. Dopo molte preghiere il seguente giorno si levò con la nave e andò al loro borgo, dove giunto tutto il popolo, ch'era infinito, corse a marina, con atti e cenni pregando che dismontassero a terra; ma Alfonso Nigno (vedendo tanta moltitudine) ebbe paura, perchè non aveva seco se non trentatre uomini. Ma per cenni faceva loro intendere che se volevano comperare alcuna cosa andassino con le lor barche alla nave. Onde molti di loro, con sue barchette fatte d'un solo legno, le quali in quel paese chiaman galite, portando seco quantità di perle, per desiderio che avevano delle cose nostre vennero a regatta alla nave. In modo che con alcune cose che valevano pochi denari ebbero circa novantacinque libre di perle, le quali in sua lingua chiaman tenoras. Ma poi che Alfonso Nigno per spazio di venti giorni gli ebbe conosciuti umani, semplici e benigni in verso gli forestieri, deliberò smontare a terra, dove fu ricevuto amorevolissimamente.
Le loro abitazioni sono case di legno coperte di foglie di palme, e il loro famigliar cibo sono per la maggior parte l'ostriche, dalle quali cavano le perle, e n'hanno gran copia in quelli liti. Mangiano ancora animali salvatichi, come sono cervi, porci, cignali, conigli di colore e grandezza simili a' lepri; colombi e tortore hanno in grande abondanzia. Le donne nutriscono l'oche e anitre come si fa in Spagna. Nelli loro boschi sono pavoni, non però con penne di varii colori come li nostri, perchè il maschio è poco differente dalla femina. Sonvi ancora fagiani in gran copia. Costoro sono perfettissimi arcieri perchè con le freccie danno dovunche vogliono.
In questo luogo Alfonso Nigno con la sua compagnia, per quelli giorni che vi stettero ebber buon tempo, perchè aveano un pavone per quattro aghi, per dua un fagiano, una tortora, una oca e un colombo per un pater nostro di vetro. E in far questi baratti contrastavano non altrimenti che fanno le nostre donne, quando alli mercati voglion comperare qualche cosa. Ma andando nudi domandoron per atti e cenni a che si potessino servir delli aghi, alli quali fu risposto dalli nostri similmente per gesti che con quelli potevano curarsi li denti, e cavarsi le spine de' piedi, e per questo loro cominciorono a stimargli. Ma sopra tutte le cose piacevano loro li sonagli, e per aver questi non lasciavano di dar cosa alcuna.
Sentivasi di quel luogo, nelli boschi d'altissimi arbori e spessi che erano lí vicini, la notte spaventevoli mugghi d'animali. Nondimeno giudicavano che quelli non fussero nocivi, e questo perchè gli uomini del paese andavano sicuramente cosí nudi senza tema alcuna per quelli boschi con loro archi e freccie, né mai si trovò che alcuno da quelli animali fusse stato morto. Quanti o cervi o cigniali li nostri domandavano, tanti con le loro freccie n'ammazzavano. Non hanno buoi né capre né pecore, usano pane di radici e di maiz simile a quello dell'isola Spagnuola. Hanno capelli neri e grossi e mezi crespi, ma lunghi. E per aver i denti bianchi portano in bocca continuamente una certa erba atta a questa cosa, e come la buttano via si lavano la bocca. Le donne attendono piú all'agricoltura e alle cose di casa che gli uomini; ma gli uomini attendono alle caccie, guerre, giuochi, feste e altri sollazzi. Hanno pignatte, cantari, urne e altri simili vasi di terra, non fatte nel suo paese ma avuti per baratto in altre provincie, nelle quali fanno loro fiere e mercati dove concorrono tutti gli altri vicini, e portavi ciascuno quelle cose delle quali ha copia nella sua provincia. Fanno baratti e permutazioni d'una cosa all'altra secondo che a loro piace. E tutti hanno piacere portare in suo paese cose nuove né piú in quello luogo vedute. Portano al collo appiccati filze di perle, uccelletti e altri animaletti formati d'oro e ben lavorati, e questi hanno in baratto nell'altre provincie. Il quale oro è del caratto del fiorino di Reno. Gli uomini portano alle parti vergognose, in luogo di braghe, una zucca o un caragolo, le quali s'accommodano con una corda che portano cinta. Simili braghe portano ancora le donne, ma poche volte, perchè quelle per la maggior parte del tempo stanno in casa.
Dimandati quelli per cenni e atti se andando piú avanti si trovava mare o pur terra ferma, dimostravano non lo sapere. Ma facendo congiettura dagli animali che si trovano in quelle parti di Paria, si può facilmente credere che sia terra ferma. E tanto piú ancora perchè, avendo navigato per quelle costiere di ponente piú di tremila miglia, mai hanno trovato fine. Dimandorono dipoi da che luogo avevano quell'oro e da che banda venga; per cenni risposono che lo portavano d'una provincia chiamata Cauchiete, lontana da loro sei soli verso ponente, cioè sei giornate, accennando che gli artefici del paese lo formavano in quelli animali che portavano al collo. Inteso questo, Alfonso Nigno deliberò partirsi da Curiana e andar a quella volta. E il primo dí di novembre 1500 arrivò a Cauchiete dove surse con la nave. Gli uomini del paese, visti li nostri, subito vennero alla nave senza timore alcuno, e portorono quell'oro che allora si trovavano cavato nel paese loro, e della sorte e bontà sopradetta. Portavano ancor costoro perle al collo, le quali avevano da Curiana per baratto d'oro. Trovorono qui gatti mammoni e molti belli pappagalli di varii colori. Eravi suavissima temperie senza freddo alcuno. La gente è di buona natura, stanno senza sospetto alcuno; tutta la notte con le sue barche venivano alla nostra nave sicuramente, e in quella entravano come in casa loro; delle sue donne son molto gelosi, e per questo le facevano star indietro, e molto rimesse, se alcuna volta ancor quelle volevan vedere le cose nostre come miracolose. Hanno grande quantità di cottone, il quale da sua posta nasce senza cultura alcuna, del qual fanno loro brache. Di poi partendosi di qui e scorrendo piú avanti vidder un paese bellissimo con molte case e alcuni borghi con fiumi e luoghi ben cultivati. Al qual luogo volendo dismontare, gli vennero all'incontro piú di duomila uomini armati all'usanza loro, li quali mai per alcun modo volsero con li nostri né pace, né amicizia, né patto alcuno. Dimostravano grandissima rusticità, anzi pareano uomini quasi salvatichi, ancora che fussino belli uomini e di corpo proporzionatissimi, bruni di colore e universalmente magri. Per il che Alfonso Nigno, contento di quanto aveva trovato, deliberò tornarsi per la via che era venuto.
Quello accadete al detto Nigno con li canibali navigando con la compagnia verso Paria, e de' costumi di detti canibali. Come si faccia il sale nella provincia Haraia. E dell'osservanza di quel paese nel sepellir gli uomini da conto.
E cosí tornando indietro con l'aiuto di Dio giunse con la compagnia alla provincia delle perle chiamata Curiana, dove dapoi stettero giorni venti a darsi piacere. Ma quello che accadesse loro vedendo da lontano il paese di Paria, avanti che vi arrivassero, non mi par fuor di proposito narrarlo. Navigando adunque e andando avanti, a quel luogo che abbian detto chiamarsi Bocca di Drago s'incontrorono in 18 canoe, over barche di canibali, li quali andavan cercando di pigliare uomini. Costoro, visto la nave, con grande ardire l'assaltarono, e circondandola, con loro archi e freccie incominciarono a combattere. Ma gli Spagnuoli con loro artiglierie gli spaventoron molto, in modo che tutti si misero in fuga. Li nostri con la barca armata li seguitorono tanto che presero una loro barca, della quale molti delli canibali, buttatisi in acqua, notando scamporono. Solamente uno ne presero che scampar non poté, il qual aveva tre uomini legati con mani e piedi per volergli a suo bisogno mangiare; il che compreso dalli nostri disciolsero li legati; e il canibale legato dettero in man delli prigioni, dando lor licenzia che di lui facessero quella vendetta che a loro piaceva. Quelli immediate con pugni, calci e bastoni tanto lo batterono che lo lasciarono quasi morto, ricordandosi che li canibali avean mangiato li loro compagni, e che il sequente giorno similmente volevano mangiar loro. Dimandando li nostri de' costumi di questi canibali, risposero che costoro andavano per tutte queste isole scorseggiando e rubando tutte quelle provincie, e che subito che arrivano a terra fanno uno steccato di pali, li quali portan seco nelle barche, per poter la notte star sicuri, e de lí vanno a rubare. Trovorono in Curiana la testa d'un de' primi de' canibali appiccata a una porta, la qual tengon per memoria e in segno di vittoria.
Nella region di Paria è una provincia molto celebrata, chiamata Haraia, per la gran copia di sale che in quella si truova, il quale viene in questo modo. Quando li venti soffiano con impeto spingono l'acqua del mare in una gran pianura di questa provincia, la quale, quietato il vento e venendo il sole, in breve tempo si congela e diventa sale bianchissimo, e in tanta copia che andando a queste saline avanti che piova se ne potrebbono caricare navili assai, ma subito che piove si disfa e torna in acqua. Questo sale non solo serve agli uomini del paese, ma lo danno in baratto d'altre cose delle quali hanno carestia a tutti li vicini, ridotto in pezzi grandi.
Quando appresso costoro muore alcun uomo di conto, lo mettono sopra una gratella, sotto la qual fanno un fuoco lento, tanto che si distilli a poco a poco tutta la carne, e non resta se non la pelle e l'ossa; dipoi lo salvano e gli hanno reverenzia, e in questo tempo ne viddero duo posti in questo modo.
Alli tredici di febraio partirono di questa provincia per venir in Spagna con 96 libre di perle a oncie otto per libra, avute in baratto per cose di poco prezio. In 60 giorni arrivati in Galizia, il qual viaggio fu piú del dover lungo per le correnzie dell'acque, che tiravano la nave verso ponente, fu Alfonso Nigno dalli compagni accusato d'aver preso maggior parte di quello che se gli veniva di tutte le perle che in questo viaggio s'erano acquistate, e che n'avea defraudato li re catolici della lor porzione, ch'era la quinta parte. E per questo da Ferrando di Vega, governatore di Galizia, dove era arrivato, fu preso. Finalmente, trovato innocente, fu lasciato. Le perle quali portorono erano orientali e assai grosse; nondimeno, per non esser ben forate, come dicono molti mercatanti che le conoscono, non sono di molto prezzo.
Come Vicenzianes, detto Pinzone, e Aries suo nepote, armate quattro caravelle e partiti da Palos per scoprir nuovi paesi, persono la Tramontana, e trovato il Polo Antartico viddero un'altra forma di stelle molto differenti dalle nostre. Come, trovata gran quantità di genti di spaventevole aspetto, fu appiccata una gran zuffa con loro, e quello succedesse.
In questo medesimo tempo Vicenzianes, chiamato Pinzone, e Aries suo nepote, che si trovorono nel primo viaggio con l'admirante Colombo, armorono a sue spese quattro caravelle e adí 18 di novembre 1499, partiti da Palos per andare a discoprire nuove isole e terreni, in breve tempo arrivorono alle Canarie e de lí all'isole di Capo Verde. Dalle quali partendosi, e pigliando la via per gherbino navigorono con quel vento trecento leghe. Nel qual viaggio persono la Tramontana, la qual persa furono di subito assaliti da terribilissima fortuna di mare, con pioggia e vento crudelissimo. Nondimeno, seguitando il lor camino continuamente per gherbino non senza manifesto pericolo, andorono avanti dugentoquaranta leghe. Nel qual luogo, preso l'astrolabio in mano e trovato il polo antartico, non vi viddero alcuna stella simile alla nostra Tramontana: ma riferirono aver visto un'altra forma di stelle molto differenti dalle nostre, le quali non poterono ben conoscere per esser stati impediti da una certa caliggine che intorno a queste stelle si levava, e impediva loro la vista. Ma intorno, fuor della caliggine, si vedevano figure di stelle lucidissime e maggiori che le nostre.
E adí 20 di gennaio da lontano viddero terra, alla qual approssimandosi, e veduta l'acqua molto torbida, gittarono lo scandaglio e trovorono sedici braccia d'acqua. E finalmente, giunti a terra, dismontorono e lí stettero due giorni, che mai apparse uomo alcuno benchè trovassero molte pedate d'uomini. Costoro, acciochè da qualunque per ventura arrivasse a quel luogo fusse conosciuto come v'erano stati, segnorono le scorze degli arbori del suo nome e delli re catolici. E dipoi partiti de lí e scorrendo piú avanti, viddero la notte molte luci che pareva fussero in un campo di genti d'arme, verso le quali mandò il governatore 20 uomini bene armati e comandò loro che non facessero strepito alcuno; li quali andati e compreso esser gran moltitudine di gente, non le volsero per alcun modo disturbare, ma deliberarono aspettare la mattina e poi intender chi fussero. Fatta la mattina, al levar del sole mandò in terra quaranta uomini armati, li quali subito che furono da quelle genti visti, quelli mandorono all'incontro delli nostri 32 uomini a modo loro armati d'archi e freccie; dopo li quali veniva l'altra moltitudine, uomini grandi d'aspetto spaventevole e faccia crudele, e non cessavano di minacciare. Gli Spagnuoli quanto potevano mostravano voler esser loro amici e facevano loro molte carezze, ma quanto piú ne era lor fatte, tanto piú si dimostravano isdegnosi, né mai volsero o pace o accordo o amicizia con loro. Onde per allora se ne tornorono alle navi, con animo, la mattina seguente, di combattere con essi. Ma quelli, subitamente che apparse la notte, si levorono e andorono via. Quelli delle navi giudicarono che costoro fussero gente che andasse vagando, come i Tartari che non hanno propria casa ma vanno oggi in qua e domani in là, vivendo di quello che trovavano con sue mogliere e figliuoli. Li nostri volsero andar piú avanti seguendo le loro pedate, le quali trovorono nel sabbione esser il doppio maggiori delle nostre.
Navigando piú avanti trovorono un fiume, ma non di tanto fondo che le caravelle vi potessero surgere. Per la qual cosa mandorono a terra quattro barche cariche d'uomini armati, li quali andassino ricercando quelli paesi. Costoro, smontati in terra, viddero in su un monticello vicino al lito una compagnia d'uomini, li quali con cenni e atti dimostravano molto desiderare il commercio delli nostri. Ma gli Spagnuoli non s'assicurorono di accostarsi; ma mandorono uno de' suoi il quale da lontano gittò loro un sonaglio, e all'incontro quelli gittorono un pezzo d'oro, il quale volendo colui torre, subito una turba di quelle genti gli fu adosso per volerlo pigliare. Ma lui, defendendosi con la spada, non poteva al gran numero resistere, perchè quelli non stimavano morire; pur tanto si difese che saltorono in terra tutti gli uomini delle quattro barche, e appiccata una gran zuffa furono morti otto delli nostri, e gli altri ebbero gran fatica a scampare e a ritirarsi alle barche. Né gli giovò esser armati di lancie e spade, che questa gente, ancorchè di loro fussero morti molti, ne tenevano poco conto; ma sempre piú arditi gli seguitavano fino all'acqua, per modo che alla fine presero una delle quattro barche e amazzarono il padrone di essa. Il resto ebbe di grazia scampar con l'altre tre e andarsene alle navi. Pinzone, con li compagni, veduto questo si trovorono malcontenti, e deliberarono partir de lí, il che fecero e presero il loro camino per tramontana, che cosí s'ingolfa questa costa.
Come trovorono il mare d'acqua dolce e un grossissimo fiume detto Maragnon, alcune isole piene di verzino e altre copiose d'arbori di cassia fistula e altri grossissimi arbori; e di un nuovo e monstruoso animale.
Andati con questo vento quaranta leghe trovorono il mare d'acqua dolce, e ricercando donde quest'acqua venisse, trovorono discender da altissimi monti alcuni fiumi con grandissimo impeto e per una bocca entrare in questo mare, davanti della qual bocca erano molte isole abitate da umana e piacevole gente. Ma non vi trovorono cosa da contrattare. Tolsero solo trentasei schiavi, dapoi che altro non vi trovorono di che potessero guadagnare. Il nome di questa provincia si chiamava Mariatambal: la parte che è vicina al fiume verso levante chiamano gli uomini del paese Camomoro, e quella che è a ponente Paricora. Quelli del paese riferivano che fra terra si trovava gran quantità d'oro. Dapoi, partiti da questo fiume, in pochi giorni andando verso settentrione ritrovorono la Tramontana, che era quasi all'orizonte. Tutta questa costiera è della terra Paria, la qual fu scoperta, come abbiamo detto, dall'admirante Colombo, con tante perle.
Ma avanti che arrivassero alla Bocca del Dragon trovorono il Maragnon, fiume grossissimo, di larghezza, come dicono, di 90 miglia, pieno d'isolette, il qual sbocca con grande impeto in mare. Arrivati dipoi a detta bocca vicino a Paria, trovorono alcune isole molto copiose di verzini, delli quali caricorono le loro navi. Andando poi per greco trovorono molte isole disabitate per paura delli canibali, benchè la terra fusse buona e piena d'arbori ed erbe verdissime; viddero fra case ruinate molti uomini che fuggivano alli monti. Trovorono ancora molti arbori grossissimi di cassia fistula, della quale ne portorono in Spagna. E li medici che la viddero, dissero ch'ella sarebbe stata ottima se la fusse stata colta al suo debito tempo. Viddero ancora arbori di tal grossezza che sei uomini con fatica gli averebbero abbracciati. In questo luogo viddero un nuovo animale quasi mostruoso, perchè aveva il corpo e il muso di volpe, e la groppa e li piedi di dietro di gatto mammone, e quelli davanti quasi come la mano dell'uomo, l'orecchie come la nottola; e aveva sotto il ventre un altro ventre di fuora, come una tasca, dove asconde i suoi figliuoli dapoi che sono nati, né mai gli lascia uscire sino a tanto che da loro medesimi siano bastanti a nutrirsi. Uno di questi tali animali insieme con suoi figliuoli fu preso dagli Spagnuoli, e portavanlo alli re catolici, ma li figliuoli morirono in nave e la madre dopo pochi giorni per la mutazione dell'aria e cibi, li quali cosí morti furono visti da molte e diverse persone.
Questo Vicenzianes afferma aver navigato per la costa di Paria piú di seicento leghe, e giudica che là sia terra ferma, dalla qual partendosi con le quattro caravelle che avevano, furono assaliti da una gravissima fortuna del mese di luglio, due delle quali si sommersero, una si ruppe, e piú per esser gli uomini persi e smarriti che per altro. La quarta stette ferma, ma non senza molto travaglio, tanto che avevano già perso ogni speranza di salute. La qual cosí stando vidde una loro nave andare a seconda, perchè aveva pochi uomini, li quali, dubitandosi sommergere, si buttarono a terra, dove stavano in grandissimo dubbio e paura d'esser mal trattati da quella gente, ed erano ridotti a tale, che fecero deliberazione di tagliare a pezzi tutti gli uomini del paese vicino e fabricarsi case per abitare; e stettero cosí alcuni giorni, doppo li quali, abbonacciandosi il tempo, viddero la loro nave, ch'era restata solo con 18 uomini, in su la qual montati insieme con quell'altra che s'era salvata fecero vela alla volta di Spagna, e arrivorono a Palos appresso Sibilia l'ultimo di settembre.
Doppo costoro molti altri hanno navigato questo viaggio per mezzodí, e di continuo andati per la costa della terra Paria, né mai hanno trovato termine alcuno che sia isola. Per questo ciascuno manifestamente tiene esser terra ferma, dalla quale ultimamente è stata portata cassia in tutta perfezione, oro, perle, e verzini della sorte detta di sopra.
Come l'admirante Colombo, per ordine delli re catolici, ritornò per scoprir nuovi paesi e ritrovò l'isola detta Guanasa e un paese molto grande chiamato dagli abitanti Quiriquitana, abbondante di tutte le cose al viver necessarie. Del sito di detta isola. Della varietà de' frutti, grani e animali che vi si trovano, e degli abitatori e costumi di quella.
Dipoi l'admirante Colombo, essendo stato molto dalli re catolici accarezzato, passati due anni, per ordine di loro Maestà, insieme con suo fratello, armarono quattro navi per andar a discoprir terre nuove oltra l'isola Spagnuola verso ponente. E nel 1502, alli nuove di maggio, con 270 uomini si partirono dalli liti di Spagna e in cinque giorni vennero alle Canarie, donde partiti con buon vento giunsero all'isola Domenica delli canibali in giorni 16, e in altri cinque alla Spagnuola. Di modo che in 26 giorni fecero circa 1200 leghe secondo il conto suo.
Nell'isola Spagnuola dimorò l'admirante pochi giorni, né si sa la causa, o se fusse perchè il vice re di quella non volesse, overo perchè lui voluntariamente si volesse partire, e se n'andò verso ponente, lasciando a man destra verso tramontana l'isola Iamaica e la Cuba. E arrivò finalmente ad una isola piú verso mezzodí della Iamaica, detta Guanassa, la qual per allora fu reputata isola, qual viddero verdissima e piena d'arbori altissimi. E scorrendo per li liti di quella si abbatterono in due canoe grandi, le quali alcuni Indiani nudi, che avevano attorno alle spalle corde di cottone, tiravano per mare a canto il lito, sí come appresso di noi si tirano le barche al contrario delli fiumi: in dette canoe era il padrone dell'isola con la moglie e figliuoli nudi. Quelli che tiravan le canoe, veduti li nostri che già eran smontati in su 'l lito, gli fecer cenni con superbia per ordine del suo signore si tirassero indrieto, e gli dessero luogo. Mostrando li nostri di non ne far stima gli cominciorono a minacciare, ed era tanta la semplicità loro che non risguardavano alla grandezza de' nostri navili, né la moltitudine di gente che vi era sopra, e pareva loro che fosse il dovere che i nostri dovessero aver quella medesima reverenzia al lor signore che loro gli hanno. Ma li nostri, buttati gli schifi in mare, furono a torno le canoe, e quelle a man salva con tutti presero. E per via d'un interprete che avevano, intesero come costui era un gran mercatante, qual veniva di terre lontane dove era stato a barattare molte sue cose, e all'incontro ne portava dell'altre di quelli paesi, quali erano rasoi, coltelli e scure, fatte d'una pietra transparente di color giallo, con li manichi d'un legno molto tenace. Aveva ancora alcune masserizie di casa, come sarian vasi di cucina, parte di terra cotta molto ben lavorati, e alcuni della medesima pietra trasparente. Ma sopra tutto erano coltre lavorate con penne di papagalli e tele fatte di cottoni di varii colori. Il che inteso dall'admirante, lo fece lasciare e restituirli le cose sue, delle qual il detto Indiano volse donare parte alli nostri.
Da costui l'admirante si volse informare della costa di quella terra verso ponente, e inteso il tutto prese il camino verso quella parte. E avendo navicato da dieci miglia trovò un paese molto grande e spazioso, qual intese esser detto dagli abitanti Quiriquitana, ma l'admirante lo chiamò Ciamba; e parendoli bello e frutifero, pieno di molti arbori, volse in quello smontare per aver meglio notizia di che sorte uomini vi abitassero. Giunto in terra fece far molti padiglioni, parte di frasche di arbori e parte di tende, in un de' quali fece celebrare una messa per onor del nostro Signor Iddio. Quivi concorsero una infinita moltitudine d'Indiani, quali erano tutti nudi eccetto le parti pudibunde, perchè con foglie molto larghe di certi arbori grandi se le nascondevano, e senza paura alcuna vennero a veder li nostri come cosa maravigliosa; e alcuni di loro portavan frutti di diverse sorte che nascono in quel luogo, altri alcune zucche grandi piene d'acqua, e, presentate le loro cose, abbassavan la testa con certa reverenzia e si tiravan molto indietro.
L'admirante, veduta tanta umanità di costoro, fece loro assai carezze e donolli molti presenti all'incontro de' suoi, come alcuni specchietti e paternostri di vetro di diversi colori, e aghi e altre simili cose; alli detti piacquero molto. Conobbe che questi popoli erano molto pacifici e avean piacere di veder forestieri, e che in tutta quella costa, e ancor fra terra, l'aere era molto temperato e il paese amenissimo e grasso; perchè intese che hanno grandissima abondanza di ciò che fa loro di bisogno al vivere, e il sito parte è pianura e parte sono colline tutte verdissime, vestite e piene di arbori fruttiferi; e pare che sempre in quella costiera sia primavera e autunno, per li fiori e frutti continui. Sonvi molti fiumicelli e fontane che la vanno bagnando; vidde ancor molti boschi di lecci e pini altissimi, con diverse sorti di palme, delle quali parte avean li frutti di dattili, ma piccoli. Fra queste selve trovorono molte viti salvatiche ch'eran nate da loro medesime, e andavan sopra alberi cariche di uve mature. Fanno costoro, d'una certa sorte di legno di palma, spade larghe e aste da lanciare, e chiamanle machane. Il cottone per tutto il paese nasce da per sé senza alcuna cura; produce ancora quella terra alcuni arbori, li quali fanno frutti simili a susine molto suavi al gusto, quali si pensa che siano li veri mirabolani, li quali adoperano li medici. Nasconvi tutte le sorte di grani e radici da far pane, quali s'è detto nascere nelle altre parti di queste Indie. Nutrisce ancor leoni, tigri, cervi, cavrioli e altri simili animali; uccelli diversi, tra li quali sono alcuni di colore e grandezza delle pavonesse, e al gusto del medesimo sapore, e allevonseli in casa per mangiarseli, come noi le galline. Gli abitatori sono di grande statura, ben proporzionati. Vanno nudi, eccetto le parti vergognose, le qual cuoprono con certi panni fatti di cottone e di varii colori. Il resto del corpo per ornamento si dipingono con un sugo di certi frutti simili a' pomi, li quali per questo effetto piantano nelli lor orti; le pitture son varie, perchè alcuni si tingon tutto il corpo o di rosso o di nero, alcuni altri parte di quello; li piú si dipingono la persona a fiori e rose, o vero groppi moreschi. Il parlare di costoro è molto diverso da quello delle isole vicine.
In questo luogo vedendo lo admirante l'acque del mare correr con grande impeto in verso ponente, non altrimente che uno rapido torrente, deliberò non andar piú avanti, ma per questa costa voltarsi verso levante, e navigar tanto che arrivasse per questo lito a Paria e alla Bocca del Dragon, li quali luoghi pensava gli fussero vicini.
Come trovarono tre grandi fiumi pieni di pesci e testuggini, e gran quantità di animali molto differenti dalli nostri, e un altro fiume grosso con quattro isole. Di uno porto che s'ingolfa fra terra lo spazio di tre leghe e poco men largo. Di una selva piena di mirabolani. Del porto detto Cariai, e della civilità e varii costumi di quelle genti. Cose maravigliose d'un animale simile al gatto mamone.
A li 21 d'agosto partí da Quiriquetana, e poichè ebbe navigato 30 leghe trovò un fiume molto grande, fuor della bocca del quale molte leghe in mare prese acqua dolce. In questo luogo le navi potevano sicuramente surgere per esser il fondo molto atto a tener le ancore; il lito era tutto piano e verdissimo, ed era tanto grande la correnzia dell'acqua del mare verso ponente, che in 40 giorni con gran fatica fece 70 leghe volteggiando sempre; e alcuna volta tanta era la furia dell'acqua che si trovava molto piú adietro di quello era andato avanti, il che lo strigneva ogni sera andare in terra, acciochè la notte non fusser condotti in qualche secca. Andando a questo modo, in spazio di otto leghe trovorono tre fiumi grandi di acque chiarissime, pieni di pesci e testuggini, sopra le rive delli quali erano canne piú grosse della coscia d'uno uomo, fra le quali viddero gran quantità di animali simili a crocodilli, li quali stavano con la bocca aperta al sole, e altri animali assai differenti dalli nostri, tale che non gli sepper dar nome.
Tutta questa costa trovò varia, perchè quella in alcuni luoghi era sassosa, piena di scogli aspri e ripe salvatiche, in alcuni altri era piena, verde e molto amena, tale che invitava ciascuno a smontarvi. Andando adunque avanti in questo modo, e smontando ogni sera in terra ebbe comerzio con gli uomini del paese e da questi intese molte varie cose. Tra le altre, che quelli che gli altri chiaman cacique costoro chiamon quebi o ver tiba, gli altri gentiluomini sacco o ver iura, e quello che in guerra si è portato valentemente e ha avuto qualche ferita in sul viso lo chiaman capra, e fannone gran conto.
Non molto lontano di qui trovoron un fiume capace di navili grandi, in su la bocca del quale, alquanto lontano da terra, erano quattro isolette piene di fiori e arbori, li quali facevano con gli suoi lati un sicurissimo porto, alle quali pose nome Quattro Tempora. Di qui partendosi, navicando sempre verso levante, a contrario del corso del mare, trovò 12 isolette, sopra le quali smontato e avendole trovate piene di arbori, li quali perchè fanno frutti simili a' nostri limoni, chiamò Limonere. Di qui partito, poichè fu andato 12 o 13 leghe, trovò un gran porto il quale s'ingolfava infra terra lo spazio di tre leghe, e poco manco era largo; nel quale sboccava un gran fiume, dove Nicuessa, come si dirà, cercando la provincia di Beragua si perse, e per questo fu chiamato di poi fiume delli Persi.
Andando sempre a contrario d'acqua lo admirante trovò varii monti, valli e fiumi, pieni di tanti arbori e fiori che rendevano odore grandissimo a chi passava lor vicino; e di tanta temperie d'aere che mai alcuno delli suoi vi s'amalò, infino a quella parte la quale gli Indiani chiamano Quicuri, nella quale è uno porto detto Cariai. E perchè qui l'admirante trovò una selva di mirabolani chiamò questo porto Mirabolano, dove gli vennero incontro 200 delli paesani delli quali ciascuno avea in mano tre o quattro aste da lanciare; erano nondimeno mansueti e mostravano ricevergli amichevolmente, e aspettavano di vedere quel che questa nuova gente volesse fare, cercando e domandando di parlare insieme, e datosi segno di pace vennero alle navi e a quelle feciono assai baratti. L'admirante comandò che fusse dato loro di quelle cose che erano nelle navi qualunche piacesse loro, e questo faceva per entrar loro in grazia. Loro per cenni recusavano (per cenni dico, perchè le parole loro non si potevano intendere) perchè dubitavano che qualche fraude o inganno fusse nelle cose nostre. E tanto piú che li nostri non volevano accettare li doni che da quelli eran lor fatti, di modo che tutto quello che fu lor dato lasciorono in su 'l lito. E tanta è la civilità e benignità d'animo delli Cariai, che quelli vogliono piú presto dare che ricevere.
Mandorono alli nostri due femine vergini di bella forma, e per cenni rimettevano nell'arbitrio delli nostri il menarle via. Queste come l'altre erano coperte infino alle parte vergognose con una tela di cottone, che cosí è costume di questo paese. Gli uomini vanno nudi, radonsi la fronte e di dietro hanno li capelli lunghi; le femine se gli avoltono alla testa legati in una fascia di cottone, come veggian fare alle donne nostre. L'admirante onoratamente le vestí e con un cappelletto rosso in testa le rimandò al padre, ma e le veste e li capelli furon lasciati in su 'l lito, perchè li nostri non avevan voluto accettar li doni fattigli da quelli. Non recusoron già menar seco due uomini di quelli, acciochè o loro imparasser il linguaggio nostro o li nostri il suo.
Per tutta questa costa conobbe l'admirante che 'l mare cresceva poco da questo segno: li liti vicini all'acqua aveano molti arbori come si veggono in su le rive delli fiumi. Questo medesimo affermano tutti quelli ch'hanno dapoi navicato quelli mari, cioè che l'acque non crescono e scemano sí come si vede nelli mari di Francia e Inghilterra. Nascono in su le ripe di questo mare vicino all'acqua certe sorti di grandi arbori verdissimi, li quali, cresciuti alti, piegano li rami infino al fondo dell'acqua e sotto quella s'appiccono, e mandon fuora altri della medesima sorte, come si vede appresso di noi propaginare le viti.
Trovorono in questa provincia, oltre agli animali detti di sopra, uno animale simile al gatto mamone, ma maggiore e con la coda molto piú lunga e grossa, della quale si serve appiccandosi per quella qualunque volta vuol saltare d'alto a basso, o da ramo in ramo, o d'arbore in arbore, il che fa con gran velocità. Uno de' nostri balestrieri con una freccia ne ferí uno, il quale, con gran prestezza smontato dell'arbore, assaltò quello che l'aveva ferito, il quale messo mano alla spada ferí il gatto e taglioli una delle gambe davanti, e preso lo menò alle navi dove, legato con catene, diventò mansueto. Un giorno fra gli altri, essendo gli uomini delle navi andati per provedersi carne da mangiare, stretti da necessità, s'abbatterono a un porco cigniale, il quale preso lo menorono alle navi. Questo animale vedutolo con gran furia l'assaltò, e con la coda legandolo per il collo, con quella zampa che davanti gli era rimasta tanto lo strinse che lo strangolò.
Hanno li Cariai per antica usanza, quando muoiono li loro caciqui, seccargli nel modo che da noi è detto di sopra, e dipoi involti in foglie grandi d'arbori conservargli; gli altri tutti sotterrano nelli boschi e selve.
Del lito chiamato dal lato destro Cerebaro e dal sinistro Aburema, e sue isole, e fiumi dove si cava oro, e de' costumi degli uomini e re di quelle provincie, e come sono chiamate, e de' cocodrilli che quivi si trovano.
Partito di questo luogo l'admirante e lontanatosi circa venti leghe trovò un golfo molto amplo di circuito circa dieci leghe, alla bocca del quale sono quattro isolette non molto lontane l'una dall'altra, tutte verdi e molto fruttifere, le quali fanno che questo golfo è un porto sicurissimo. Il destro lato del quale dagl'Indiani è chiamato Cerebaro, e il sinistro Aburema. È questo golfo molto famoso per alcune isole che in esso sono fruttifere e piene d'arbori, e per la gran copia di pesci che in quello si trova. La terra che lo circonda è di tanta bontà e grassezza che non par sia inferiore ad alcuna infino a questa ora trovata. Entrato l'admirante in questo golfo e posto in terra, gli venne alle mani due Indiani del paese, quali avevano al collo catenelle d'oro, le quali loro chiamano guanine, che avevano appiccate certe figurette del medesimo oro d'aquile, leoni e simili animali. Ma quell'oro, per quello che si poteva vedere, non era di buon caratto. Da quelli due giovani, li quali, come abbiamo detto, l'admirante menò seco del paese de' Cariai, s'intese che queste provincie Cerebaro e Aburema erano molto ricche d'oro, e tutto l'oro del quale gli Cariai s'ornano lo cavano in baratto di sue cose di questi luoghi, nelli quali sono cinque casali, appresso li quali sono li luoghi donde cavano l'oro e, come intesero, non erano molto lontani da quel lito dove allora si trovavano. Gli uomini del paese di Cerebaro vanno in tutto nudi, ma dipinti il corpo in varii modi. In testa portano ghirlande di varii fiori, ma a quello pare averla preziosa il quale l'ha fatta d'unghie o di tigri o di leoni, e questo perchè è segno di gran fortezza e animo. Le femine vanno parimente nude, eccetto che portano alle parti vergognose una sottile fascia e stretta di cottone.
Partiti di qui, poichè furono andati avanti circa quattordici leghe per quella costa appresso le ripe d'un gran fiume, si fecero loro incontro trecento uomini nudi li quali con gran voci esclamando minacciavano. E presa in bocca acqua o erbe del lito sputavano inverso li nostri, e lanciando dardi e movendo l'aste e spade ch'avevano, come abbiamo detto, di legno, s'ingegnavano tenergli lontani dal lito. Questi erano tutti dipinti, alcuni tutto il corpo eccetto il volto, alcuni parte, e mostravano non voler per modo alcuno pace con li cristiani. L'admirante comandò che a voto si scaricasse qualche pezzo d'artiglieria, a voto dico, perchè questo sempre fu in animo di Colombo trattar le cose pacificamente con le genti nuove. Costoro, spaventati dallo strepito dell'artiglierie, tutti gittati in terra domandorono pace e cominciorono a mercatare e barattare insieme loro catene d'oro con paternostri di vetro e simili altre cose. Costoro hanno tamburri e cornetti fatti di caragoli marini, quali adoperano ad incitare gli uomini alla guerra.
In quella costa sono molti fiumi, fra li quali è il Beragua, e di tutti si cava oro. Gli abitatori di questo luogo, per defendersi dalla pioggia e dal caldo si cuoprono con foglie d'arbori molto grandi. Di qui andò vedendo le riviere di Ebetere ed Embigar, nelle quali sono duoi fiumi d'acqua dolce e abbondanti di pesci, Zachora e Cubigar. Lontano da questo luogo circa quattro leghe è la rupe, della quale si farà menzione quando si dirà della trista fortuna del capitan Nicuessa, chiamata dalli nostri Pegnone. La regione dagli abitatori si chiama Vibba, nella qual costa è un porto il quale da Colombo fu chiamato Porto Bello, la provincia del quale chiamano Xaguaguara. Tutta questa regione è popolatissima di gente tutta nuda. In Xaguaguara il re tiene il corpo tutto dipinto di nero; il resto del popolo il tigne di color rosso. Il re e sette altri primi appresso lui avevano appiccato al naso una lametta d'oro, la quale veniva insino sui labri, e questo par loro grandissimo ornamento. Gli uomini cuoprono le parti vergognose con la scorza d'una ostrica marina, le donne con una fascia fatta di cottone. Hanno questi popoli nelli loro giardini una pianta la quale fa il frutto simile al cardo, il qual frutto è molto delicato, e al gusto paion cotogne; è piú carnoso che la pesca, cibo veramente regale. Hanno zucche ancora, che fanno alcuni arbori, delle quali si servono a portare acqua o altro per bere. Incontravansi in questo luogo alcuna volta i cocodrilli, che chiaman lagarti, li quali veduti li cristiani fuggivano e fuggendo lasciavano un odore piú suave che il musco.
Come l'admirante, condotto al fiume Durubba, deliberò fermarsi quivi, e cominciato a fabricare fu proibito dagli Indiani; e riposatosi alquanti giorni nella città di San Domenico, ritornò in Castiglia a dar conto al re catolico dell'ultimo discoprimento ch'avea fatto verso terra ferma. E della morte sua, e le particularità che lasciò scritte di questa sua ultima navigazione.
L'admirante non volse andare piú avanti, sí perchè non poteva tollerare la corenzia dell'acqua che gli era contraria, sí ancora perchè li navili piú l'un dí che l'altro diventavano marci, e per questo si voltò verso ponente a seconda d'acqua e prese porto in un fiume chiamato Hiebra, capace di grandi navili, lontano da Beragua due leghe; la regione piglia il nome da Beragua, benchè sia minor fiume, perchè vicino a quello abita il signore. Stando cosí surto Colombo in Hiebra, mandò Bartolomeo suo fratello con schifi e uomini circa settanta al fiume Beragua, al quale si fece incontro il signore del luogo, venendo per il fiume a seconda d'acqua in certe barchette fatte d'un pezzo, accompagnato da una gran compagnia d'Indiani, ma tutti disarmati e dipinti. Il quale, subito che venne a parlamento con li nostri, stando in piedi, agl'Indiani parve cosa non conveniente alla sua grandezza, e per questo alcuni di loro corsero al fiume e di quello presero un gran sasso, e lavatolo bene lo portorono dove era il signore e lo fecero sedere. E cosí parlando, parve che facesse segno che fusse lecito andare per tutti li fiumi del suo stato. Allora il capitano, smontato in terra, andò su per le rive del fiume, lasciate le barche, e condussesi al fiume Durubba, il quale trovò piú abbondante d'oro che Hiebra o Beragua; del quale ancor questi tengano come tutti li fiumi di questi paesi. Fra le radici degli arbori lasciate scoperte dall'acqua, per esser gli arbori in su le ripe delli fiumi, e fra sassi e in ogni piccola fossa, pur che fusse un palmo profonda, trovavano l'oro mescolato con la terra.
Per questa causa deliberò fermarsi qui, ma gli Indiani, conosciuto il lor pensiero, glielo proibirono. Perchè, messisi insieme gran numero, vennero gridando con grande impeto adosso alli nostri, li quali di già avevano cominciato a fabricar qualche casetta, e con gran fatica potettero resistere al primo impeto, nel quale gl'Indiani combatterono da lontano, lanciando dardi e altre cose da trarre; dipoi d'apresso, con le spade di legno, con gran furore cominciorono a combattere, ed era tanta la rabbia loro che né da freccie o artiglierie che dalle navi venissero, le quali insieme con l'admirante erano venute a questa volta, potevano esser spaventati, e giudicavano meglio morire che veder la patria occupata. Come gente forestiera che andasse in viaggio gli ricettorono amichevolmente, ma come abitatori non gli volse a modo alcuno tolerare; e benchè fussero ributtati sempre tornavano con maggior impeto. In modo che, quanto piú li nostri facevano forza starvi, tanto maggior moltitudine d'Indiani veniva con impeto loro adosso per scacciarli, e d'ogni banda dí e notte gli combattevano.
Per il che l'admirante deliberò lasciar questa provincia e, perchè aveva le navi tutte abisciate, venirsene per la piú breve via gli fusse possibile all'isola Iamaica, la quale è all'incontro della Spagnuola e Cuba inverso mezzogiorno. E in questo viaggio patirono assai disagi, di modo che molto mal condizionati arrivorono alla detta isola, dove stettero molti mesi constretti dalla necessità, perchè avevano le navi che facevano acqua, in modo che di quelle non si potevano valere; con grandissima difficultà di vettovaglie, dove bisognava si contentassino delli cibi li quali produceva quella terra, e quando quelle genti barbare ne concedevano loro. Dette loro grande aiuto l'inimicizia che avevano quelli signori l'uno con l'altro, perchè ciascuno, per aver li nostri in favore, gli pasceva di quel pane che aveva.
Trovandosi l'admirante in queste difficultà, e volendo provedere d'aver soccorso dall'isola Spagnuola, mandò il suo maestro di casa Diego di Mendez con alcuni Indiani dell'isola Iamaica in una barca, li quali di scoglio in scoglio con gran difficultà finalmente arrivorno al primo capo dell'isola inverso ponente, il qual è lontano dall'isola Spagnuola quaranta leghe. Gl'Indiani, per la speranza delli premi promessi dall'admirante, tornorono indietro per dargli nuova d'aver messo il detto Diego di Mendez in su l'isola Spagnuola, e come lui s'era partito da loro a piedi alla volta della città di San Domenico; l'admirante di questa nuova rimase molto allegro.
Diego, arrivato a San Domenico, dette le lettere dell'admirante al comendador maggior, qual subito armò una caravella, e il medesimo volse far detto Diego, perchè, comprato un navilio dei danari dell'admirante e quello fornito di vettovaglie, insieme con la caravella del comendador mandorono a levar l'admirante di Iamaica e condurlo nella città di San Domenico, nella qual riposatosi alcuni giorni, con le prime navi che si partirono passò in Spagna, a dar conto al re catolico dell'ultimo discoprimento ch'egli avea fatto verso la terra ferma; la qual relazione fu udita da detta Maestà e da tutta la corte con grandissimo piacere e admirazione, e fu causa che molti si proposero in animo di voler andare ancor loro a discoprir detta terra ferma.
Ed essendo andato detto admirante in Castiglia per riposarsi, trovandosi vecchio e infermo massimamente delle gotte che lo tormentavano in tutta la persona, mancò di questa vita in Vagliadolit nel mese di maggio 1506. E per il suo testamento ordinò di esser portato a sepelir nella città di Sibilia nel monasterio della Certosa. Uomo veramente che se fosse stato appresso gli antichi, per l'admirabile e stupenda impresa d'aver trovato un mondo nuovo, oltra li tempii e statue gli averian dedicato qualche stella ne' segni celesti, come ad Ercole e a Bacco; e l'età nostra si puol tener gloriosa d'aver avuto in suo tempo un uomo italiano cosí grande e cosí famoso, le laudi del quale saranno celebrate per infiniti secoli. Al qual successe nello stato e titolo don Diego Colombo suo figliuolo, qual per le sue virtú e ottimi costumi, e del padre, meritò d'aver per moglie la signora Maria di Toledo, figliuola dell'illustre don Ferrando di Toledo comendador di Leon.
Ma non è da lasciare indietro come il detto admirante lasciò scritto alcune cose particolari di questa sua ultima navigazione, cioè che tutte quelle costiere che scorse, tutto l'anno avevano gli arbori verdissimi e carichi di fiori e frutti, ed erano di aere temperatissimo e salubre, in modo che mai alcuno delli compagni vi s'amalò. E che dal porto grande Cerbaroo infino al fiume Hiebra e Beragua, il qual spazio è di leghe cinquanta, mai sentiron né freddo eccessivo né caldo. E come li popoli Cerbaroi e gli altri sopradetti non attendono a cavar l'oro se non in alcuni tempi dell'anno determinati, della qual cosa sono perfetti maestri come appresso di noi li minerali; e che costoro conoscono li luoghi dove si trova maggior quantità d'oro dal corso dell'acque de' fiumi e dal colore dell'arena d'essi; e che credono oltra di questo ch'esso abbi in sé qualche divinità, secondo che dalli loro antichi avevano inteso, e per questo con gran cerimonie si preparavano quando l'andavano a cavare, e tutto il tempo che attendevano a questo essercizio stavano casti e mangiavano e bevevano poco per reverenzia, astenendosi d'ogni altro piacere. E che adorano il sole in questo modo, quando nasce facendogli reverenzia.
In tutte le navigazioni che fece l'admirante in questi mari, li quali continuamente corrono con grande impeto da levante in ponente non molto lontano dalli liti che sono in quella terra, che tenevon per certo fusse continente, esso diceva vedersi altissimi monti li quali scorrevano da levante a ponente, e cominciando dal capo di Sant'Agostino verso levante (il quale è di quella parte che oggi tocca al re di Portogallo), e passando per Uraba e il porto Cerbaroo, e altre provincie verso ponente trovate infino a questo giorno, sempre, quando da lontano e quando da presso, si offeriscono congiunti insieme agli occhi di quelli che navigano per queste parti, e in alcuni luoghi paiano colline piene d'arbori, erbe e terra molto atta a coltivarsi, con bellissime valli; in alcuni altri si veggono altistimi, aspri, sassosi e inculti. Quella parte di monti la qual è nella provincia di Beragua è tanto alta che molti pensano che con la sua cima passi le nuvole, perchè rare volte si può vedere detta cima per esser continuamente coperta da nebbie e nuvole. L'admirante, il quale fu il primo che gli scoperse, affermava l'altezza loro passare le cinquanta miglia.
Questo è quanto infino a quell'ora s'intese della longitudine di questa terra. Quello che per la latitudine e del mare di mezzogiorno si trovassi di questa terra, nelle seguenti narrazioni si dirà.
Come il re catolico, deliberando seguir l'impresa di scoprir altre terre del mondo nuovo, ordinò ad Alfonso Fogheda capitano di Uraba e a Diego Nicuessa capitano di Beragua che facessero abitar quelli luoghi da' cristiani, e quanto infelicemente gli successe detta espedizione.
Poi che fu morto Cristoforo Colombo primo admirante, il re catolico deliberò seguir l'impresa del discoprir queste parti del mondo nuovo e quelle dare ad abitare alli cristiani, e avendo inteso dal detto admirante che duoi principali luoghi, Uraba e Beragua, in detta terra ferma si dovevano far abitare, dette questo carico con sue lettere a duoi capitani, cioè al capitan Alfonso Fogheda di Uraba e al capitan Diego Nicuessa di Beragua, li quali luoghi non sono troppo lontani l'uno dall'altro e sono circa gradi sette sopra l'equinoziale.
Alfonso, avuto questo ordine, desideroso di essequirlo, trovandosi nella città di San Domenico, armati alcuni navili con circa trecento uomini si misse in mare, e dalla detta città prese il suo camino verso mezzodí, e navigando alcuni giorni arrivò ad un luogo in terra ferma il quale già per avanti fu discoperto da Colombo e nominato porto di Cartagenia, perchè ancor questo ha un'isola all'incontro della bocca chiamata dagl'Indiani Codego, la quale rompe l'impeto dell'onde del mare, e dentro è grandissimo e d'ogni banda falcato, non altrimenti che porto di Cartagenia di Spagna. Il paese si chiama Caramairi. Dove trovorono gli uomini e le donne di bella e grande statura, ma nudi, e gli uomini avevano li capegli fino alle orecchie tagliati, e le donne molto lunghi; ma tutti valentissimi arcieri. Viddero ancora molti arbori carichi di pomi, belli alla vista ma venenosi, perchè qualunque ne mangiava si sentiva rodere il corpo non altrimenti che se l'avesse pieno di vermini. E se alcuno dormiva all'ombra di quelli si destava con la testa enfiata e quasi cieco. Questo porto è distante da quella parte dell'isola Spagnuola dove è l'isola chiamata la Beata circa quattrocento e cinquantasei miglia. Entrato nel porto, Fogheda assaltò con impeto gli abitanti in quello all'improviso, come aveva commissione dal re catolico e n'ammazzò assai trovandogli separati l'uno dall'altro, e tutti nudi.
Questo ordine d'ammazzarli gli era stato dato imperochè per avanti, quando fu discoperto questo porto, mai poteron li cristiani persuader loro che fossero contenti ch'essi l'abitassero. Trovorono poca quantità d'oro, e quello ancora di basso caratto e fatto in alcune lame che per bellezza portano sopra il petto. Non contento di questa preda, Fogheda, da alcuni Indiani li quali aveva presi, si fece condurre ad un altro luogo distante dal porto dodeci miglia, dove erano stati ricevuti tutti quelli che dal porto s'erano fuggiti. E ancor che gli abitatori di detto luogo fossero nudi, nondimeno gli trovò molto atti e animosi al combattere, e armati con alcuni scudi tondi di legno e spade similmente d'un legno durissimo; gli arcieri avean le saette con le punte d'un osso molto acute e venenate. Questi, come viddero li nostri approssimarsi, si missero insieme con quelli che a loro s'eran rifuggiti, perchè per li danni che vedevan quelli aver patito, per essere stati molti di loro morti, e parte cosí maschi come femine fatti prigioni dalli nostri, s'eran mossi a compassione, e con tanta furia e impeto assaltorono li nostri, che alla prima zuffa con le freccie venenate li ruppero e n'ammazzarono circa settanta, tra li quali fu un Giovan della Cossa luogotenente, il quale fu il primo che con Colombo admirante trovò l'oro nel discoprir la provincia d'Uraba. Per il che fu forza al capitan Fogheda riffugirsene al porto dove erano li navili, e quivi essendo arrivati, pieni di dolore per la perdita fatta delli compagni, sopragiunse il capitan Diego di Nicuessa con cinque navili, e aveva seco settecento e ottantacinque uomini. La causa veramente che maggior numero d'uomini avevan seguitato Nicuessa era perchè, oltre che gli era piú vecchio e per questo di maggiore auttorità, si diceva che la provincia di Beragua concessagli dal re era piú ricca d'oro che la provincia di Uraba data ad Alfonso Fogheda.
Giunto che fu Nicuessa feceno consiglio quello che si dovesse fare, e tutti conclusero che si dovesse vendicar la morte delli compagni; e fatte le sue ordinanze la notte secretamente caminorono al luogo dove era stata la zuffa, e due ore avanti giorno all'improviso circondorono quella villa, la quale era di cento e piú case fatte di legname e coperte di foglie di palme, e messovi il fuoco dentro tutta l'abbrucciorono; né rimase maschio o femina che non fosse o abbrucciato o morto, eccetto sei fanciulli, dalli quali intesero come gl'Indiani avevano tagliati in pezzi il capitan Giovan Cossa con gli altri Spagnuoli morti, e quelli poi cotti mangiati. Questi Indiani, detti Caramairi, par che abbino origine dalli caribbi, overo canibali, quali mangiano carne umana. Fatta questa vendetta, avendo trovato fra la cenere alquanto d'oro, ritornorono al porto. E Alfonso Fogheda, ch'era stato il primo a venir a detto luogo, si partí per andar ad Uraba, provincia assegnatali dal re catolico, e passò per l'isola detta la Forte, la qual è in mezzo il cammino tra il porto di Cartagenia e Uraba, dove smontato conobbe quella esser abitata dalli prefati crudelissimi canibali, delli quali prese duoi maschi e sette femine, gli altri fuggirono. In questo luogo guadagnò oro fatto in diverse lamette di valuta di cento e novanta castigliani, e de lí partitosi, andando verso levante, arrivò alla provincia d'Uraba, e dismontò a un luogo detto Caribana, donde è opinione che si partissero li caribbi, overo canibali, che abitano nell'isole.
Quivi, essaminato il sito del luogo, parendogli bello e comodo per abitare, vi cominciò a far un borgo di case e una fortezza a canto, dove per ogni caso li suoi si potessino salvare. Dipoi, dimandando ad alcuni prigioni de' luoghi vicini, intese dodici miglia lontano esser una villa abitata dagl'Indiani detta Tirufi, appresso la quale si trovava una minera d'oro ricchissima. Il che inteso, parendogli a proposito pigliar detta villa, messosi ad ordine andò ad assaltarla; gl'Indiani, avendo inteso prima del giunger del prefato capitan Fogheda, e poi del fabricare ch'egli aveva fatto delle case, pensando che d'ora in ora gli verria a trovar s'erano messi in ponto di ciò che bisognava loro per difendersi. Per il che il detto Fogheda nel primo assalto fu ributtato con gran perdita delli suoi. Perchè ancor questi nel combattere adoperano saette venenate. E doppo alcuni giorni, volendo assaltare un'altra villa d'Indiani, fu rotto similmente e gli fu passata una coscia con una saetta venenata, per la qual stette grandissimo tempo infermo con grandissima carestia di vettovaglie, perchè aveva tutto il paese inimico.
Ma torniamo al capitan Nicuessa, il quale avea il carico d'abitar la provincia detta Beragua; partitosi ancor lui il giorno seguente dal porto di Cartagenia, cominciò a navigar per ponente verso Beragua, non partendosi troppo lontano dalla vista di terra. E giungendo a un golfo detto Coiba, dove era una terra con un cacique nominato Careta, trovò che queste genti parlavano di lingua molto diversa dagli abitatori dell'isola Spagnuola e di quelli che stanno nel porto di Cartagenia; perchè chiamavano il suo signore chebi, over tyba. Dove essendo stati alcuni giorni, volse de lí partirsi e seguir il viaggio suo. Navigando adunque pur sempre per ponente lasciò Uraba a man sinistra, e se n'andò verso Beragua, come al suo luogo si dirà.
Al capitan Fogheda, qual era ferito, in questo tempo venne un navilio dall'isola Spagnuola con vettovaglie, il quale ricreò alquanto lui e li compagni ch'eran molto affamati; pur essendo quelle dapoi consumate, assalendogli la fame, per non potersi aiutar in luogo alcuno vicino, cominciorono li compagni a sollevarsi contra di lui, dicendo che morivano di fame e non volevano piú star in quel luogo pasciuti di parole, perchè lui diceva loro che aspettava il baccalario Anciso, il quale, quando lui si partí dell'isola Spagnuola, aveva già caricato una nave di vettovaglie con ordine di venirgli subito drieto. Costoro adiratisi deliberavano tuor per forza duoi brigantini, e montati sopra quelli ritornarsi alla Spagnuola. La qual cosa intesa, il prefato Fogheda chiamatigli a sé disse che voleva andar lui in persona, cosí ferito, a far venir il ditto baccalario Anciso con vettovaglie. E che stessero quieti per 50 giorni, che prometteva loro andar e ritornare, e che guardassero con diligenza la fortezza che lui aveva fabricata, lasciandogli per lor capitano un gentiluomo nominato Francesco Pizaro, con 60 uomini, che tanti n'eran rimasti delli 300, perchè gli altri tutti o di fame o in zuffe d'Indiani erano morti.
Partitosi Fogheda, e passati li cinquanta giorni, non apparendo né lui né altri con vettovaglie, dalla fame astretti montorono sopra duoi brigantini, li quali erano restati loro per ritornarsene; delli quali uno, essendogli stato da un grandissimo pesce (delli quali in quelli mari è gran copia) con la coda rotto il timone, e sopragiuntali un poco di fortuna, se n'andò a fondo con tutti gli uomini appresso l'isola detta la Forte, fra Cartagenia e Uraba. L'altro, accostatosi a detta isola, fu ributtato ferocemente dagli uomini dell'isola con le freccie. Per il che seguitando costoro il suo viaggio, s'incontrorono per ventura nel detto baccalario Anciso tra il porto di Cartagenia e Cuchibacoa, appresso un fiume detto dalli nostri Boiagatto, quasi casa del gatto, avendo prima in quel luogo veduto un gatto; e boia in lingua dell'isola Spagnuola vuol dir casa.
Detto Anciso aveva una nave carica sí di vettovaglie come di cose da vestirsi e armarsi, e menava seco un brigantino. E quattro giorni dapoi partitosi dalla Spagnuola riconobbe alcuni monti altissimi in terra ferma, che furono chiamati da Cristoforo Colombo, il qual fu il primo che discoprisse quelli paesi, dalle continue nevi che sopra quelli si veggono, la Serra Nevada in lingua spagnuola. E passato detto fiume e la Bocca del Dragon s'appressorono con il brigantino al detto Anciso, e narrarongli come il loro capitan Alfonso Fogheda era venuto verso la Spagnuola, e come per la fame avevano lasciata Caribana. La qual cosa il baccalario Anciso non volse credere, ma per l'auttorità che aveva comandò loro che tornassero indietro, ch'aveva deliberato di far abitar Uraba. Quelli del brigantino all'incontro gli domandavano di grazia o che gli lasciasse tornare alla Spagnuola o veramente lui gli menasse ove era il capitan Nicuessa, e s'offerivano donargli due millia castigliani d'oro. Il che Anciso non volse far per modo alcuno, ma si misse a navigar verso Uraba insieme con il brigantino.
Come il signor di Caramairi fece pace con li nostri, e come si ruppe la nave del baccalario Anciso ben in ordine d'artigliarie e altre arme da combattere; e ritornato in Uraba, visto essere stata ruinata la fortezza e abbrucciate le case dagl'Indiani, andò piú avanti alla provincia Darien, cosí chiamata da un fiume che sbocca in quel mare, dove superati gl'Indiani, fatto un gran bottino, edificorno la città di Santa Maria dell'Antica del Darien.
Alla qual avanti che arrivassero, non sarà fuor di proposito narrar quello ch'intervenisse nella provincia de' Caramairi, dove è il porto di Cartagenia, come di sopra abbiamo detto. Buttate l'ancore per far acqua e per acconciare la barca della nave, ch'era un poco rotta, mandò alcuni uomini in terra, li quali, subito che furono smontati, furono circundati da una moltitudine grande d'Indiani armati con archi e saette; ma non traevano, e stavano in ordinanza con gli occhi fissi a guardar li nostri, li quali similmente in ordinanza con l'armi in mano guardavano quelli, né alcuno si moveva. E cosí stettero tre giorni, ma li nostri non restavano però di far quanto faceva lor dibisogno per acconciar la barca.
Mentre che stavano cosí, due delli nostri volsero andar fuor dell'ordine con due vasi a pigliar acqua al fiume vicino; il che veduto un Indiano, che pareva fra gli altri il primo, con dieci armati fu loro intorno con gli archi tesi. Allora un di questi due per paura si fuggí, l'altro piú ardito stette saldo e cominciò a riprendere colui che fuggiva, e perchè sapeva un poco della lingua indiana, imparata da alcuni schiavi li quali per avanti erano stati presi, cominciò a parlar con quel che gli pareva il signore. Costui, maravigliatosi di questo parlare in suo linguaggio, cominciò a farsegli domestico e mostrargli buona cera, domandando chi fussino. Il nostro gli disse ch'erano peregrini ch'andavano al suo viaggio, e ch'erano smontati per torre acqua, e che si portavano inumanamente se la volevano vietar loro, minacciandogli che se immediate non ponevan giú l'armi e gli accettavano amichevolmente sopragiugnerebbero altri uomini armati in tanto numero quanta è l'arena del mare, li quali gli taglierebbon tutti in pezzi.
In questo mezzo il baccalario Anciso, avendo inteso che li due compagni erano stati ritenuti, dubitando di qualche inganno, avea messo in ordine assai delli suoi con le targhe per paura delle freccie, e andava verso quella parte dove questo nostro parlava con il signore. Il che veduto il nostro di subito fece segno che stessero indietro, perchè costui mostrava di voler pace, e riferiva che la causa perchè stavan cosí armati era perchè poco avanti alcuni (volendo intender Fogheda e Nicuessa) avevano saccheggiato un loro borgo e fatti de' loro prigioni, e fra terra abbrucciatone un altro, e che desideravano vendicarsi dell'ingiuria ricevuta. Ma che non volevano contra chi non gli avesse ingiuriati far vendetta. E cosí fece immediate che tutti gli suoi, posti in terra gli archi e le freccie, se ne vennero con allegro volto a ricever li nostri, alli quali donorono alcuni pesci salati e pane di maiz e vino fatto di certi frutti molto buono, del quale empirono due botti; e cosí fu fatta la pace con li Caramairi del porto di Cartagenia.
Di qui partendosi alla volta d'Uraba il baccalario Anciso con la sua nave, sopra la qual erano 150 uomini con molti animali, cosí maschi come femine, per levarne la razza in quella provincia, e tra gli altri cavalli e cavalle, e gran copia d'artiglierie e altre armi, come spade, lancie, scudi e simili cose da combattere, la qual nave, subito che fu passata l'isola detta la Forte, volendo entrare in porto si ruppe, e il tutto fu perduto perchè andò in fondo, eccetto gli uomini li quali scamporono con un poco di pane fatto in biscotto. Per il che baccalario Anciso, giunto alla terra d'Uraba da lui tanto desiderata, si trovava in grandissimo affanno e angustia con tutti gli suoi. E oltre all'altre molestie erano tanto oppressi dalla fame che erano forzati per ogni luogo cercar da vivere, ed essendovi molti palmetti sopra li liti quelli mangiavano, e trovati porci salvatichi ne prendevano quanti potevano, quali parevano loro piú saporiti che i nostri; dicono che hanno la coda tanto picciola che pare che la sia stata tagliata, e ne' piedi di drieto hanno un deto senza ungia.
Andando fra terra il detto baccalario con 100 compagni, s'incontrò in tre Indiani nudi, ma armati d'archi e saette venenate, i quali ferirono assai de' nostri e alcuni ne ammazzorono, perchè come aveano tirate le saette come vento se ne fuggivano, per il che furono forzati a tornarsene a' compagni molto di mala voglia. Vedendosi in tanta infelicità e roina deliberarono di lasciar questa provincia, e massime perchè, dapoi il partir di Francesco Pizarro, gl'Indiani avean roinata la fortezza la quale avea fabricata il Fogheda e abbrucciate tutte le case d'intorno; pur ricercando intesono che la parte di questo golfo di Uraba qual è verso ponente era piú fertile e di miglior aere, e piú atta a fabricarvi una città.
È il detto golfo di circuito di 24 miglia, e quanto si va verso la terra ferma pare che si vada piú restringendo. Sboccano in esso diversi gran fiumi, tra gli altri uno detto il Darien ch'ha dato nome alla provincia, le ripe del quale sono amenissime per esser vestite tutto l'anno d'erbe e arbori verdissimi.
Fatta questa deliberazion il baccalario Anciso, lasciata la metà delli compagni sopra la detta parte di levante, con li brigantini cominciò a traghettar il resto verso questa parte del golfo di ponente. Gl'Indiani, vedendo venir li brigantini con le vele, quali sono molto maggiori delle sue canoe, prima stettero molto admirati, poi, vedendo che s'appressavano, mandorono via tutte le femine e fanciulli, e loro armati d'archi e freccie in un luogo alto messi in ordinanza aspettavano i nostri, e potevano esser da 500 uomini. Il baccalario Anciso, tenendo il luogo del capitan Fogheda, veduto questi Indiani ordinò la sua gente. E prima solennemente inginocchiati feceno un voto a Dio e alla Nostra Donna, la chiesa della qual in Sibilia si chiama Santa Maria dell'Antica, che se restavano vincitori di metter nome alla città che in quel luogo fabricariano Santa Maria dell'Antica. E appresso manderiano un pellegrino per nome loro a visitare la detta chiesa sino in Sibilia. E oltra di questo dedicheriano un palazzo del signor del detto luogo per chiesa di sua Maestà.
Il che fatto tutti giurorono di non voltar mai le spalle agl'inimici, e con grande impeto gli andorono ad assaltare. Gl'Indiani, vedutigli venir, tirorono ad un tratto tutte le sue freccie, che non una andò in fallo, ma per essere coperti li nostri di scudi di legno forte non furono feriti; poi con mirabil destrezza si tirorono indietro alquanti passi, e di nuovo tirorono un'altra moltitudine di freccie, le quali similmente non fecero danno alcuno; ma li nostri, discaricati alcuni schioppi, li fecero fuggire e voltar le spalle e abbandonar quel luogo dove abitavano, nel quale entrati li nostri trovorono assai pane di maiz e di iucca, con alcuna sorte di frutti dissimili alli nostri, i quali loro serban tutto l'anno come appresso di noi si salvano le castagne.
Gl'Indiani di questo paese vanno tutti nudi, ma le femine portano una camicia di cottone dall'umbilico in giuso. Questa regione è di temperato aere, e la bocca del fiume del Darien è lontana dall'equinoziale gradi sette, e li giorni di tutto l'anno sono quasi eguali con la notte, e talmente che vi si conosce poca differenza.
Il giorno drieto volsono li nostri andar a contrario d'acqua su per il fiume, e lontano da quel luogo un miglio trovorono un folto canneto nel quale, coperti con gli scudi per piú sicurtà, dubitando d'insidie, si missero ad andare con opinione che gl'Indiani si fussero in quello ascosi con le robbe loro; la quale opinione non fu falsa perchè, presentito gl'Indiani il venir de' nostri, l'aveano abbandonato e lasciate assai robe, come sono coltre di cottone dove dormono, masserizie di casa fatte a nostro modo di legno e di terra, e alcuni pettorali d'oro e catene che portano al collo, per valuta in tutto di 5000 castigliani, le quali catene erano molto ben lavorate; e come poi s'intese questi lavori d'oro sono portati in questa provincia d'altri paesi e barattati con pan di maiz e altre vettovaglie, perciochè tutti questi popoli non hanno commerzio alcuno tra loro se non con baratti, né conoscono alcuna sorte o uso di moneta. Li nostri veramente, avendo trovato quest'oro, con grand'allegrezza tornorono al borgo dove avevano rotti gl'Indiani, e quivi fatto venir gli altri compagni restati dall'altra parte del golfo, comincioron a fabricar la città di Santa Maria dell'Antica del Darien, che poi è diventata molto famosa e celebrata in terra ferma dell'Indie occidentali.
Come il capitan Nicuessa smarrí una notte li navili che lo seguivano, perse per fortuna la sua caravella, e smontato in terra andò piú e piú giorni errando fra le paludi e lito del mare. E in che modo ritornasse a Beragua. Dipoi de lí partito, procedendo avanti verso levante, giunto al luogo già da Colombo chiamato Marmore edificò una torricella, qual oggi è delle famose città dell'India.
Or ritorniamo a Nicuessa, ch'avea il carico d'abitar la region detta Beragua. Costui, partitosi come di sopra è detto d'Uraba, cominciò a navigar verso ponente e andò tanto avanti che passò la detta provincia, e una notte smarrí gli altri navili che lo seguivano, di sorte che un Lopes di Oliano, ch'era capo d'un di detti navili, insieme con un Pietro d'Umbria, capo di un altro brigantino, cercando il capitan Nicuessa si trovorono alla bocca di un fiume, il quale da Colombo era stato chiamato Lagarto perchè in quell'erano assai animali simili a' cocodrilli, dagli Spagnuoli detti lagarti; ed entrati in detto fiume trovoron il resto delli compagni, eccetto Nicuessa, li quali tutti, fatto consiglio di quello fusse da fare, deliberorono andare alla volta di Beragua come era il lor primo disegno. E cosí messeno ad effetto e la trovoron non molto lontano.
Beragua è un fiume che mena oro, e per questo è molto famoso in quelle parti, tanto che dà il nome alla provincia; allegri d'averlo trovato, tutti d'accordo elessero per suo capo, in luogo di Nicuessa, il detto Lopes d'Olano, qual con consiglio delli principali, acciochè ponessino da parte ogni pensiero di doversi partir piú di quel luogo e vi abitassero piú volentieri, subito permisse che 'l mare con l'onde rompesse tutti li navili con li quali eran venuti, avendo prima cavate le migliori tavole e tutti li serramenti; delli quali poi, con le tavole nuovamente fatte d'arbori grandissimi trovati in detta provincia, fabricorono una caravella sola, per qualche caso che gli potesse intervenire. Quivi sopra la ripa cominciorono a fabricar una fortezza, e in una valle molto fertile e grassa parte di loro, lavorata la terra, seminorono del maiz; gli altri compagni si missero andar fra terra e trovorono alcuni villaggi d'Indiani che loro chiamano mumu, gli abitatori delli quali erano persone molto inumane, in modo che non potettero aver con loro alcun commerzio.
Procedendo cosí le cose, un giorno viddero venir per mare una vela piccola, la qual giunse a costoro con grande allegrezza. Questo era un schifo d'un naviglio del capitan Nicuessa, sopra il qual ascosamente s'erano partiti tre compagni del detto capitano, non potendo piú sopportar l'estrema fame nella qual si trovavano; allegri d'aver ritrovati gli altri compagni sopra il fiume di Beragua, narrorono loro come il detto capitano, avendo perso per fortuna la caravella, era smontato in terra, dove andava errando fra paludi e il lito del mare, senza pane o altra cosa da vivere, ma si sostentava con li pochi compagni che avea, già settanta giorni, con radici d'erbe, e molte volte non avea acqua da bere, e che era sopra quella costa che va verso ponente, la qual da Cristoforo Colombo fu discoperta; e ad un luogo detto dagli Indiani Cerbaro pose nome la Grazia di Dio. Nella qual regione corre un fiume chiamato da' nostri San Matteo, il quale è lontano da Beragua verso ponente cento e trenta miglia.
Tutte queste particularità dalli detti avendo inteso, Lopes d'Olano mandò un brigantino a trovar Nicuessa, e fecelo venir in Beragua, dove giunto che fu ed ebbe inteso che Lopes d'Olano era fatto capo, immediate per l'autorità sua comandò che fosse messo in prigione, accusandolo di ribellione per essersi fatto capo e signore e che per sua negligenzia avea tanto tempo tardato a ricercarlo. Agli altri compagni disse che voleva che si partissero di quel luogo e lo seguissero dove lui gli meneria, ma dimandandogli loro di grazia che aspettasse tanto che cogliessero il grano, chè avean seminato del maiz, il qual in quattro mesi si matura, costui ostinatamente mai volse compiacergli, ma gli fece montar sopra brigantini e altri legnetti piccioli e far vela verso levante, non si discostando molto da terra; e andati circa quindici miglia riconobbero un porto grande, al quale da Colombo fu posto nome Porto Bello. E smontando sforzati dalla fame per il viaggio, alcuna volta in terra erano dagli uomini del paese molto mal trattati, li quali ammazzorono venti de' nostri con le loro saette venenate.
Arrivati a questo porto parve loro necessario di far smontar la metà dell'armata, e in quello si facesse un ridotto forte. Con l'altra metà Nicuessa passò piú avanti verso levante, e arrivato a un luogo dove la terra esce con un monte in mare e fa un capo che da Colombo fu chiamato Marmore, lontano da Porto Bello circa ventotto miglia, deliberò edificarvi una fortezza. Ma vedendo li compagni ridotti dalla fame in grande estremità, in modo che non si potevano a pena piú sostenere, essendo già ridotti da settecento e ottantacinque che venner in sua compagnia a cento (gli altri tutti erano morti per diverse cause, parte di fame, parte per varie zuffe fatte con gli Indiani), e per questo non arebber possuto edificar gran fortezza, fabricò meglio che potette una torricella, per poter sostener l'impeto degli Indiani se alcuni gli venisser ad assaltare, e pose nome a questo loco il Nome di Dio, il quale dapoi è venuto in tanta grandezza che è uno de' primi luoghi delle città famose dell'Indie; e questo fu il suo principio.
Come il capitan Rodorico Colmenar giunse nel golfo di Uraba con duoi navilii carichi di vettovaglie e panni, assalito prima da settecento Indiani posti in agguato, dove molti de' nostri morirono, e con quai mezzi ritrovasse li compagni che de lí erano partiti. E per qual causa mandassino a torre il capitan Nicuessa, e dipoi giunto fu constretto a partirsi, con un discorso sopra gli infortunii per lui patiti.
Ma lasciamo star Nicuessa con gli compagni affamati, e ritorniamo agli abitatori di Santa Maria Antica in Uraba, quali fra loro erano venuti a gran dispute chi di loro dovesse esser capo, essendo partito Alfonso Fogheda, qual pensavano fosse morto; queste dispute si facevano perchè fra loro era un Vasco Nunez Balboa, uomo molto insolente, che si voleva fare capo e non voleva che il baccalario Anciso governasse; e li piú, per non poter tolerar la sua insolenzia, dicevan che si doveva far venir Nicuessa, qual aveano inteso che per la sterilità della terra avea abbandonata Beragua. All'incontro, dubitando il detto Vasco che per la venuta di Nicuessa non gli fusse tolto il governo, non voleva che fosse chiamato, dicendo che ciascuno de' loro compagni era tanto sufficiente quanto Nicuessa a governargli. Ma stando in queste altercazioni fra loro, giunse il capitan Rodorico Colmenar con due navi grandi, con sessanta uomini e assai vettovaglie e panni per vestirgli. Della navigazion del quale, e come si partí dalla Spagnuola e giunse ad Uraba, non è fuor di proposito narrarne qualche parte.
Rodorico si partí dal porto dell'isola Beata, che è appresso alla Spagnuola, del 1510, alli tredici d'ottobre, e navigò verso terra ferma, e alli nove di novembre arrivò alla provincia detta Paria, tra il porto di Cartagenia e il paese di Cuchibacoa, qual similmente fu discoperto da Colombo per avanti. E avendo patito nel viaggio molti incommodi e disagi, un giorno per far acqua dismontò alla bocca d'un gran fiume atto a ricever navi, qual si chiama Gaira dagli Indiani. Questo fiume si vedeva descendere da un altissimo monte del medesimo nome, carico la cima di nevi, e come dissero li compagni del detto Rodorico, mai si vidde il piú alto. Ed era cosa ragionevole essendo carico di tante nevi, e lontano dall'equinoziale non piú di gradi dieci, che fusse altissimo.
Nella bocca di questo fiume avendo mandato un schifo a far acqua, e intrati nel fiume, ecco che viddero un uomo di bella statura, vestito di tela fatta di cottone, con venti compagni similmente vestiti. Costui portava a modo d'un fazuolo di tela di cottone in su le spalle, il quale gli copriva le braccia infino alla cintura; di sotto dal traverso avea un'altra vesta della medesima tela infino alli piedi. E venendo verso li nostri pareva che dicesse loro che non prendessero di quella acqua, perciochè ella era cattiva, mostrandogli non troppo lontano de lí un altro fiume di miglior acqua dove volendo li nostri andare, questo cacique over signore avea posto in aguato da settecento Indiani, nudi con gli archi e freccie, perciochè altri che li signori con quelli della sua corte non portan veste. Costoro assalirono li nostri, quali erano smontati per empier le barile d'acqua, con gran furia, e al primo tratto presero il battello e quello feceno in mille pezzi, poi tirorno verso li nostri tante freccie in un batter d'occhio che, avanti che si potessero coprir con gli scudi, ne ferirono circa quarantasette; de' quali, per il veneno che era sopra d'esse, un solo scampò, gli altri morirono, sette s'ascoson in un arbore corroso per vecchiezza e stettero fin a notte. Ma perchè la nave si partí la notte si pensa che ancor loro fossero morti dagli Indiani.
Detto Rodorico con questi infortuni finalmente giunse nel golfo di Uraba, in quella parte che guarda verso levante. E buttate l'ancore, non vedendo alcun delli compagni che pensava trovare, stette molto admirato. Non sapendo se fossero vivi overo avessero mutato luogo, deliberò di far loro segno della sua venuta, e però cariche tutte l'artigliarie a quelle ad un tratto fece dar fuoco, per il strepito delle quali tutto il golfo di Uraba risonò. E oltra di questo sopra le cime delli monti vicini fece far la notte fuochi grandissimi. Li nostri abitatori di Santa Maria dell'Antica, udito lo strepito e visti la notte li fuochi, conosciuto il giugner de' suoi, risposero ancor loro e con artiglierie e con fuochi. Per il che detto Rodorico se n'andò verso di loro, i quali corsono a riceverlo con tanta allegrezza che non potevano ritener le lagrime, perciochè per la fame e disagio erano ridotti in estrema necessità, oltr'a che non aveano da vestirsi; e con la giunta del detto Rodorico si vestirono e scacciarono via la fame.
Giunto che fu Rodorico Colmenar, li primi uomini di Uraba e quelli che eran riputati di maggior consiglio, come abbiam detto di sopra, erano d'opinion che si dovesse far venire Nicuessa per governatore, per levar via le discordie e contenzioni che eran tra loro di quel governo; la qual cosa non piaceva al baccalario Anciso né a Vasco Nunez. Nondimeno fu deliberato che 'l detto Rodorico, con una delle sue navi e un brigantino, andasse a farlo venire. La qual cosa esseguendo, in pochi giorni giunse in Beragua, dove trovò lo sfortunato capitano Nicuessa che appresso il capo d'un monte che si prolunga in mare detto Marmor fabricava una torricella, ridotto in estremo disagio, e di settecento e ottantacinque compagni n'avea vivi solamente sessanta, e quelli ancora di modo per la fame afflitti che con gran pena si reggevano in piedi. Del qual non è fuor di proposito discorrer da che procedesse, che avendo sí bella banda di gente armata di schioppi e di picche, e atta a far ogni grande impresa, e trovandosi in quella parte di terra ferma dove erano infinite terre e città d'Indiani, e ricche e abbondanti di vettovaglie, il prefato capitano si lasciasse piú presto morir di fame che esperimentar la fortuna. Certo chi leggerà le cose fatte dapoi per altri capitani con minor numero di gente in questa parte, comprenderà che la causa nascesse dalla poca prudenzia del detto capitano, qual dovea esser vile d'animo e di poco intelletto.
Dismontato in terra che fu il Colmenar, come gli vidde cosí afflitti, se gli rappresentò avanti gli occhi il volto di tanti uomini morti; pur, dato loro le vettovaglie che seco avea condotte, gli consolò grandemente, e ritrovato Nicuessa e quello abbracciato, gli disse ch'egli era molto desiderato da quelli di Santa Maria dell'Antica del Darien, perciochè, essendo tra loro grandissime discordie, speravano che con l'auttorità sua le si quetariano. Nicuessa ringraziò grandemente Colmenare che lo fusse venuto a trovare, e disse esser contento d'andarvi, e cosí d'accordo immediate montorono in nave; dove, dapoi che ebbero ragionato gli infortunii l'un dell'altro, Nicuessa, che già aveva scacciata la fame, cominciò a dir male degli Spagnuoli di Santa Maria dell'Antica, e che gli voleva levar via de lí e torgli ancora tutto l'oro che aveano, perciochè senza licenzia del capitano Fogheda, ch'era suo collega, o sua, che eran capitani del re catolico, non potevan partirse fra loro quell'oro. Le quali parole venute all'orecchie delli detti Spagnuoli, con l'aiuto di Vasco Nunez e del baccalario Anciso, come giunsero li detti Colmenare e Nicuessa li vennero all'incontro, e con minaccie grandi strinsero Nicuessa a montar sopra un brigantino, con diecisette compagni soli di sessanta ch'avea menati seco, e partirsi. La qual cosa dispiacque a tutti gli uomini da bene, pur non ardirono contradirgli per paura ch'avean della parte del detto Vasco. E questo fu l'anno 1511.
Nicuessa, entrato che fu in mare per andar all'isola Spagnuola a lamentarsi dell'oltraggio che 'l detto Vasco gli aveva fatto, mai piú fu veduto; credesi che s'annegasse con tutti gli uomini.
Come Vasco Nunez, fatto capo di cento e cinquanta uomini, tolto in compagnia il Colmenar, fecero prigione il cacique Caretta e saccheggiorono il suo villaggio, dipoi liberatolo mossono guerra unitamente al cacique Poncha; e del modo del combattere di quegl'Indiani. Della provincia chiamata Comogro, e dell'amicizia contratta col cacique di quella.
Partito che fu Nicuessa, avendo li detti di Santa Maria dell'Antica consumate tutte le vettovaglie che avea condotte Colmenar, furono forzati come lupi affamati andar cercando per il paese vicino da mangiare, per il che, fatto capo il detto Vasco Nunez di cento e cinquanta di loro, tolto in compagnia sua ancor Colmenar, si dirizzorono drieto al lito verso quella provincia che di sopra abbian detto chiamarsi Coiba. Dove trovorono il cacique Caretta, dal quale con minaccie volendo che gli desse vettovaglie, e lui scusandosi che non n'avea, perciochè n'avea dispensate assai ad altri cristiani che eran passati per quel luogo, e appresso, per la guerra che avea con il cacique vicino detto Poncha, non avea potuto raccoglier la semenza del maiz, costoro, fortemente adirati né admittendo alcuna scusa, prima saccheggiorno tutto quel suo villaggio, e poi, presolo con due mogli, figliuoli e famiglia, lo mandorono in prigione al Darien. Tra la famiglia del detto Caretta furon trovati tre Spagnuoli grassi del corpo ma nudi de' panni. Costoro fuggirono 18 mesi avanti da Nicuessa, quando andò verso Beragua, quali il detto Caretta avea trattato benissimo.
Vasco ritornò al Darien con quella poca di preda e vettovaglia che avea trovato, dove subito giunto fece metter in prigion il baccalario Anciso e confiscar tutto il suo avere, accusandolo che senza lettere del re catolico s'era fatto governatore. Pur furono tanti li preghi delli primi del Darien, che fu lasciato andarsene con una nave. Essendo queste discordie e travagli fra costoro, fu deliberato di mandar al vice re della Spagnuola, qual era il figliuol dell'admirante Colombo morto, e alli consiglieri datigli dal re catolico, per intendere come s'avessero a governare, avisandogli nelle calamità che si trovavano e ciò che speravan di trovare se fossero soccorsi di vettovaglie; e questo carico dettero ad un Valdiva, della fazion del detto Vasco, ordinandogli che, esposta l'imbasciata sua alli detti della Spagnuola, dovesse caricata una nave di vettovaglie ritornarsene al Darien.
In questo mezzo il detto Vasco non potendo star ozioso e desiderando di far qualche impresa, avendo parlato con interpreti al detto cacique Caretta imprigionato, si compose con lui prima di liberarlo, e poi d'andar a far guerra al cacique Poncha, assai fra terra ferma alli confini di Coiba, promettendogli il detto Caretta sumministrargli le vettovaglie e lui medesimo con la sua famiglia e subditi con l'arme andarlo ad aiutare. Gl'Indiani di questo paese non combattono con freccie venenate, come quelli che abitano la costa del golfo di Uraba verso levante, ma con spade molto lunghe, le quali chiamano machane, e son fatte di legno durissimo per non aver ferro, e con lancie con la punta acutissima fatta d'osso. Per esecuzion di questo ordine il cacique Caretta fece seminar del maiz quanto piú gli fu possibile dalli suoi, e doppo alcuni mesi raccolto il loro grano per far pane, si posero in cammino con il detto Vasco e suoi compagni verso il paese del detto Poncha, il qual, intendendo la venuta di costoro, se ne fuggí.
Li nostri, giunti al villaggio e non trovando il cacique, lo saccheggiorono tutto e si fornirono d'assai vettovaglie che trovorono, con alquanto oro fatto e lavorato in diversi ornamenti di quelli che portano gl'Indiani. Ma delle vettovaglie non poteron soccorrer alli compagni lasciati al Darien, perciochè la casa del detto Poncha era lontana dal Darien piú di cento miglia; e bisognava portar il tutto sopra le spalle, non avendo altro mezzo da condurle. E cosí ritornati al Darien deliberorono non andar piú tanto fra terra, ma dirizzarsi contra gli cacique vicini al lito, per potersi con le navi aiutar in condur via ciò che guadagnassero.
È posta non troppo lontan da Coiba una provincia detta Comogra, dove è una pianura circundata da' monti, di lunghezza di circa 36 miglia, molto bella e cultivata, appresso la radice de' quali è il palazzo del cacique di detta provincia, chiamato Comogro, con infinite altre case e abitazioni d'Indiani; fra le quali sono molte fontane che vengono da' detti monti vicini, le quali poi giunte tutte insieme, fanno correr un fiumicello per mezzo detta pianura. Vasco Nunez con la sua compagnia se ne andò a questa volta per saccheggiarla. Ma la ventura volse che per avanti un gentiluomo del cacique Caretta, che in loro lingua chiamano iura, s'era ritirato a questo cacique Comogro. Costui, intesa la venuta de' nostri, avendo amicizia con li tre Spagnuoli che abbian detto di sopra, che furono trovati nel prender il Caretta, s'interpose e fece con mezzo loro far amicizia grande tra il detto cacique Comogro e li nostri. Li quali per questa causa come amici introrono in questo paese di Comogro, qual è circa trenta leghe lontan dal Darien per via piana, la qual è necessario che si facci attorno ad alcuni monti che vi son in mezzo. Giunti al palazzo furono da Comogro e da sette giovani suoi figliuoli, di bello aspetto, ma nudi tutto il corpo eccetto le parti vergognose, allegramente raccolti.
Descrizione del palazzo di Comogro cacique, e del presente per lui fatto a Vasco Nunez e a Colmenar, d'oro lavorato per valuta di quattro mila castigliani, e sessanta schiavi, e come il figliuolo di Comogro gli fece avertiti di alcune provincie ricchissime d'oro.
Questo palazzo aveva avanti verso mezzodí una piazza di 150 passa e altretanto larga, la quale era circondata da palme altissime molto spesse, dove si stava all'ombra; in su questa piazza s'entrava in un portico della medesima longhezza e di larghezza di passa ottanta, il quale aveva davanti, posti ad uso di colonne, molti legni grossissimi e ben lavorati; l'altre tre parti erano circondate d'alberi al medesimo modo, ma serrati con pareti fatti tanto forti quanto si fussero stati fatti di pietra. In mezzo di questo portico era una porta grande, la quale entrava in su una sala quadra: da una parte di questa verso levante era una camera grande, nella quale dormiva il cacique. Di questa s'entrava in due camere, l'una delle quali serviva per il dormire delle donne del cacique, l'altra a canto a questa era piena di corpi morti secchi, legati con corde di cottone e appiccati al palco per il traverso. All'incontro di queste erano tre camere: una serviva per dispensa, ed era piena di pane e altre vivande le quali loro usano; l'altra era piena di vasi di legno e alcuni di terra al modo di Spagna, pieni di vino qual si fa in quella provincia, parte di maiz e radici d'agyes e iucca, e parte di frutti di palme di diversi colori, cioè neri e bianchi, e di perfetto sapore e bontà. Nella terza stanza stavano gli schiavi e quelli che tengon cura delle cose del vivere della corte, e questa serviva, per esser grande ancora per cucina. Li pavimenti tutti e palchi erano lavorati di bellissimi lavori; il coperto tutto era in forma di padiglione, con travi longhissimi coperti di foglie ed erbe, tanto dense che l'acqua non passava, e piovea in quattro faccie. Dimandati da' nostri perchè tenesser quelli corpi secchi cosí appiccati, gli risposero quelli esser i corpi di tutti i caciqui antecessori del parentado di Comogro, l'ultimo de' quali mostrorono, che fu suo padre, quali cosí ad ordine conservavano con gran diligenza e venerazione. Aveano questi corpi secchi intorno alcuni lenzoletti lavorati con oro, e alcuni ancora appresso l'oro qualche gioia; il modo nel qual gli seccano s'è detto di sopra.
Il maggiore delli figliuoli di Comogro mostrava nell'aspetto esser molto savio e prudente, il quale cominciò a parlare a suo padre e dirgli che queste tali genti, che andavano facendo guerra di qua e di là e vivevano solamente di rubare, era necessario di accarezzarle, per non dar loro causa che facessero dispiacere a loro e a casa sua, come aveano inteso che avean fatto in altri luoghi. E perchè vedeano che non dimandavano altro che oro, mandarono a donare a Vasco Nunez e Colmenar oro lavorato in diverse lame e cose per valuta di castigliani quattromila, e sessanta schiavi per servirli. Questa usanza di far schiavi è molto commune a questi Indiani, alcuni de' quali non fanno altro traffico che prendersi l'un l'altro e barattarsi per altre cose che gli siano necessarie.
E questo per non conoscer l'uso de' danari. Li nostri, avuto quest'oro, si misero in piazza a volerlo pesare insieme con altretanto guadagnato altrove, per cavar fuori la quinta parte, la qual ordinariamente si cava del tutto e s'assegnava alli tesori de' re. Il resto si parte egualmente. In questo partir d'oro vennero fra loro alle mani, la qual cosa vedendo questo figliuol maggiore di Comogro, mosso un poco ad ira dette con furia delle mani nelle bilancie, e sparse l'oro per tutta la piazza, dicendo per uno interprete: "Che vergogna è questa, o cristiani, che per cosí poca quantità di oro vi offendiate l'uno l'altro, e questo ancorchè è lavorato lo volete disfare e ridurre in piastre? Se avete tanto desiderio di oro, per il quale mi pare che andate perturbando la quiete di tutti gli uomini del mondo, partendovi da casa vostra e sofferendo tanti disaggi, io vi dimostrerò paesi ricchissimi d'oro nelli quali vi potrete saziare. Ma sarà di bisogno che abbiate piú numero di gente per poter combattere con alcuni caciqui, i quali sono potentissimi nelli loro paesi; fra gli altri vi verrà incontro Tumanama, quale è signor d'un paese ricchissimo, e non è distante da noi piú di sei soli". E questo disse perciochè gl'Indiani computano i giorni col sole. "Poi sopra alcuni monti che vi bisognano passare abitano una sorte di genti detti Caribbi, che mangiano carne umana e non hanno né signore né legge alcuna, e vivono oziosi. Costoro ne' tempi passati, lasciate le loro proprie abitazioni per aver oro da barattare in uomini per mangiarsegli, sapendo che in detti monti si cavano oro, v'andarono. Dove presi gli abitatori gli fanno cavar l'oro, e quello poi ridotto in lame per orefici che hanno, e altre cose lavorate, barattono in ciò che gli vien desiderio. Noi non facciamo maggior conto dell'oro non lavorato di quello che facciamo di un pugno di terra avanti che dalla mano di un artefice la sia formata in alcun vaso, de' quali, e di coltre di cottone, dalli detti nostri vicini ne abbiamo assai in cambio di schiavi presi, che loro pigliano da noi per mangiarsegli. Noi gli forniamo di molto pane per il loro vivere, del quale hanno gran carestia perciochè abitano sopra montagne. E però con le armi è necessario che vi facciate la strada e che passiate quelli monti". E con il deto glieli mostrava verso mezzogiorno. "Passati quelli, voi vederete un mare, il quale ha navili che vanno a vela come li vostri", dimostrando le nostre caravelle. "E gli abitatori di quelli liti, ancorchè siano nudi come siamo noi, pure sanno andare a vela e a remi in tutto quel mare che è di là da' detti monti dove è tanta copia di oro". E dimostrando alcuni piatti e scodelle di terra, diceva che 'l re Tumanama e tutti li paesani di quello aveano que' fatti d'oro, e cosí come appresso i cristiani era abbondanzia di ferro, non altrimenti appresso quelli popoli era d'oro. Disse del ferro, perciò che da' nostri intese noi averne gran copia, vedendo tante spade e armi intorno alli nostri.
Tutte le parole di questo giovane ci riferirono quelli tre Spagnuoli che erano stati diciotto mesi con Caretta, e aveano imparato il loro parlare, e furono di tanta efficacia a Vasco Nunez e Colmenar, che non pensavano altro e pareva loro mill'anni di trovarsi dove era quel tanto oro. E però, laudato il giovane di quanto gli aveva narrato, cominciorono di nuovo a dimandargli come doveriano governarsi contro quelle tanti genti, quando l'anderanno a trovare. Questo giovane, udite queste parole, stette un poco sopra di sé, mostrando di pensare, e poi disse: "Sappiate, cristiani, che ancor che noi siamo nudi e che 'l desiderio dell'aver l'oro non travagli gli animi nostri, non però stiamo quieti, ma la cupidità d'aver gran signorie ne fa star in continue guerre, volendo sempre esser signori del paese delli vicini; di qui nascon li nostri travagli e ruine, e gli antecessori nostri e il medesimo mio padre Comogro, per questa causa ha fatto gran guerre con li re che v'ho mostrati di là dalli monti. Nelle quali, secondo che suol accadere, ora siamo stati vincitori, ora abbiam perduto. E sí come avendo avuta vittoria contro li nemici nostri, di quelli abbiam fatti prigioni, delli quali ve ne abbiam donato sessanta, cosí loro alcune volte han preso delli nostri e menatigli schiavi". E cosí dicendo ci mostrò un Indiano suo famigliare, il qual era stato schiavo appresso uno di questi re di là da' monti, la provincia del quale è abbondantissima d'oro.
Come Comogro, cosí persuaso da' nostri, si battezzò con tutta la sua famiglia. Valdiva ritorna alla Spagnuola con la quinta parte dell'oro trovato aspettante alli re, per valuta di millecinquecento castigliani. Vasco Nunez, pervenuto ad un grossissimo fiume con molte abitazioni d'Indiani, il signor delle quali era fuggito, trovò lame e catenelle d'oro per molta valuta, e gran quantità d'archi e freccie.
"Da costui, e da molti altri uomini quando siamo in pace passano di qua e di là, vi potrete informare che quanto vi ho detto è la verità. Nondimeno, acciochè siate piú sicuri delle cose sopradette, e che io non v'inganno, io m'offerisco venir con voi, e non trovando esser cosí mi facciate morire. E però mettete ad ordine 1000 cristiani, che con l'armi, insieme con li soldati di mio padre, quali armati all'usanza nostra verranno con voi, possiamo discacciar gl'inimici nostri. Perciochè questo vi darà quanto oro saperete dimandare, e noi, in premio dell'aiuto che vi averemo dato, oltra la parte del paese che acquisteremo appresso al nostro, saremo sicuri di poter viver continuamente in pace, senza far piú guerra ad alcuno".
Da queste parole del prudente figliuolo di Comogro li nostri grandemente commossi per la speranza di tanto oro, a pena potevano rispondergli. E stati lí alcuni giorni, conosciuta la umanità e intelleto di costoro con il mezzo di quelli tre Spagnuoli interpreti, persuasero al vecchio Comogro di farsi cristiano. E cosí quello con li figliuoli e tutta sua famiglia battezzorono, e gli posero nome Carlo, perchè cosí allora si chiamava il prencipe di Spagna. Fatto questo deliberorono di tornar alli compagni suoi nel Darien, ben affermando che torneriano presto con gran numero di gente, con la qual potriano passar fino al mar di Mezzogiorno.
Partiti adunque di qui e arrivati a Santa Maria del Darien, intesero come Valdiva, mandato già sei mesi alla Spagnuola, era ritornato, e avea condotto poca quantità di vettovaglie, escusandosi che il navilio che avea menato era un poco piccolo, e che 'l vice re e gli consiglieri della Spagnuola gli avean promesso di mandargli dietro prestissimamente e vettovaglie e uomini assai. Il che fin allora non aveano fatto, tenendo certo che la nave che condusse il baccalario Anciso fosse venuta salva, ma che per l'avenir non gli mancheriano d'alcuno aiuto possibile. Queste vettovaglie che condusse Valdiva durorono pochi giorni, quali passati cominciorono a patir al medesimo modo come facevano per avanti. E la mala ventura di costoro, volendo aggiugner mal a male, si fece venire nel mese di novembre una fortuna di tempesta grossissima con tanti tuoni e saette spaventevoli, e con diluvio di tanta acqua, qual corse giú delli monti, che il maiz seminato il settembre fu annegato e menato via dalla furia dell'acqua. Questo maiz quelli di Uraba chiamano hoba, e tre volte l'anno si semina e raccoglie perchè, per esser vicini alla linea dell'equinoziale, questa provincia non patisce alcun freddo né caldo eccessivo.
Vedendosi quelli del Darien ridotti in queste calamità, deliberorono di mandar un'altra volta Valdiva alla Spagnuola, con relazion di quanto aveano inteso delle grandissime ricchezze e oro che era sopra l'altro mare, acciochè gli mandassero e vettovaglie e genti per poter far quella impresa, e discoprir il detto mare. E gli dettero di tutto l'oro trovato e partito fra loro, il quinto che toccava alli re, qual fu castigliani quindecimila, fatto in verghe, non cavato d'altro che d'alcune lamette che portano detti Indiani alle orecchie e naso, e catenelle alle braccia e collo e lame grandi avanti il petto. E cosí il detto Valdiva, con gli ordini datigli da Vasco Nunez, entrò di nuovo in mare con la sua caravella alli dieci di gennaio del 1512. Aveva ancor seco assai oro, che mandavano li detti dal Darien in Spagna, chi a suo padre e madre e chi a' suoi parenti.
Ma lasciamo il detto Valdiva andar al suo cammino, del qual al suo luogo diremo, e ritorniamo a quelli del Darien che, cacciati dalla fame deliberorono d'andar cercando tutti li luoghi lí vicini. Dalla bocca del golfo di Uraba fino all'ultimo angulo sono miglia ottanta in circa, e questo angulo li nostri chiamano Culata. Quivi andò Vasco Nunez con cento uomini sopra un brigantino e alcune canoe, le quali da quelli di Uraba si chiamano uru. In questo angulo cade un fiume dieci volte maggiore del Darien, su per il quale andati circa trenta miglia verso mezzodí trovorono assai abitazioni d'Indiani, il signor delli quali si chiamava Daiba, appresso il quale intesero che era fuggito Cemaco, signore del Darien, che fu rotto dalli nostri. Questo Daiba, non volendo aspettar li nostri, mosso dall'essempio di detto Cemaco se ne fuggí. E però smontati li nostri trovorono il tutto spogliato; solo v'era rimasto gran copia di fasci d'archi e freccie, e molte reti con barchette per andar a pescare. Quivi non trovoron troppo vettovaglie, perciochè tutti quelli luoghi sono paludosi e per questo non sono buoni per seminare, ma gli abitatori di quelli, con barattar il pesce che prendono, si forniscono da altri Indiani di pane. Nondimeno, cercando le case con diligenzia, trovorono diverse lame d'oro e catenelle per valuta di settemila castigliani. E levorono tutti gli archi e freccie e massarizie che poterono, e caricorono le barche di detti Indiani.
Vasco Nunez e Colmenar contrassono amicizia col signor Turui e trovorono l'isola detta della Cassia, abitata solamente da' pescatori, e un borgo di settecento fuochi. Come superorono il signor Abenamachei, e procedendo piú avanti trovorono il signor Abibeiba. Del suo palazzo, e richiesta a lui fatta, e la sua risposta.
Dicono questi che furono a questa impresa, che la notte veniva fuori di quelli paludi pipistrelli, overo nottole grandi come tortore, le quali mordevano, e il morso loro era come venenato, e al principio non sapevano come medicarsi; pur intesero da alcuni Indiani che erano seco che con l'acqua marina guaririano. E ritornando costoro indietro da questo ultimo angulo, e trovandosi in mezzo il golfo, gli sopravenne tanta fortuna di mare che quel che avevano guadagnato da' pescatori fu forza che 'l buttasseno in mare, e molte di quelle barche insieme con gli uomini annegorono.
Mentre che Vasco Nunez fece questa impresa verso mezzodí, Colmanar con sessanta uomini volse navicar per la bocca d'un altro gran fiume, che cade in detto golfo verso levante, per circa quaranta miglia all'insuso; dove trovò molte abitazioni fatte sopra la ripa, e il suo signore detto Turui, qual gli fece smontare e gli tolse in casa, facendogli buona cera e dandogli da mangiare quanto volevano. La qual amicizia come fu intesa da quelli del Darien, Vasco Nunez, che era ritornato, gli volse andar a trovare; dove arrivato, e saziati tutti li compagni con le vettovaglie dategli da questo signor Turui, deliberorono insieme d'andar su per detto fiume. E fatte altre quaranta miglia trovorono una isola grande circundata dal detto fiume, dove non abitavan altro che pescatori. Dismontati quivi viddero assai reti di cottone distese al sole, fatte in diverse maniere, alcune larghe e lunghe, altre come un sacco con la bocca stretta, e con alcuni legni che le tenevano aperte. Entrati nelle case, quali erano fatte picciole e tonde, coperte di molte foglie grandi d'arbori, viddero le lor femine che parte di loro facevano reti, altre aprivano pesci molto grandi e insalatili gli mettevano al sole, e ne viddero di secchi gran quantità. Questi Indiani pescatori non volsero fuggire, ma ricevettero li nostri allegramente, dando loro quanto pesce che volevano, ma poco pane, perchè n'avevano poco. E dissero che venivano Indiani d'altre provincie lontane e portavano loro pane, pignatte di terra e filo di cottone, e barattavano in questi pesci salati. Viddero quivi alcuni pesci grandi simili alla truta, ma la carne era piú rossa, de' quali n'avevano gran copia, e tutti gli seccavano al modo detto di sopra. Gli uomini e le femine delle reti vecchie e inutili si coprivano le parti inoneste. Il loro dormire era sopra certi monti di foglie grandi messe una sopra l'altra. E perchè viddeno li molti arbori di quelli che fanno la cassia, che eran naturali di quella terra, la chiamorono l'isola della Cassia.
Dalla banda destra di detta isola correva un altro fiume, qual chiamorono il Rio Nero. E andati da quella bocca da quindeci miglia in su trovorono un borgo di settecento case abitate, e il signor detto Abenamachei, qual sentiti li nostri abbandonò le case, dapoi mutatosi di pensiero, ne venne con gran furia adosso con spade grandi di legno durissimo e lancie lunghe, per non essere avezzi tirar archi e saette; nondimeno subito fu rotto dalli nostri, e preso Abenamachei con molti principali Indiani. Un fante a piedi spagnuolo, che era stato ferito, accostatosi al detto gli levò via con un colpo di spada la man destra, contra il voler però de' capitani, quali dapoi lo fecero medicare.
Tutti questi nostri che erano a questa impresa potevano esser da 150, de' quali la metà parse che dovesse restar quivi, gli altri con nuove uru, cioè barche al modo loro, navigorono al contrario del fiume, da una banda e dall'altra del quale ogni dí scorrendo, vedevano grandissimi fiumi che cadevano in quello, e andati per settanta miglia dal sopradetto fiume Nero, avendo per lor guida un Indiano pratico di quel fiume, s'abbatterono arrivar dove era la signoria d'un chiamato Abibeiba, ed era in mezzo di grandissimi paludi. E il palazzo suo, e tutte l'altre abitazioni qual erano minori, erano fabricate in questo modo: sopra li rami d'un grandissimo arbore, che da ogni canto si vedevano spessi e folti, avevano intraversati molti legni e di quelli fatto come un palco, qual poi era diviso in altre parti, le quali d'intorno erano serrate da legni, con tanto artificio collegati insieme, che potevano sopportar ogni impeto di vento per grande che 'l fusse; di sopra poi con alcune erbe e foglie erano coperti. È opinione che costoro abitino in questo modo per causa che li fiumi spesso allagano tutto quel paese. Detti arbori dapoi il detto palco vanno con la cima diritta, tanto in alto che per buon braccio che l'uomo abbia non potria trarvi con una pietra. E sono alcuni di grossezza che sette o otto uomini non gli potrian con le braccia circundare. In terra appresso li piedi hanno il luogo dove tengono il vino, qual fanno al modo detto di sopra, e questo perchè alcune volte soffia tanta furia di vento che, ancor che non rovini quel palco fatto sopra li rami, nondimeno fa muover e crollare, il che saria causa di guastar li vini, delli quali sempre hanno assai. Il resto tutto tengono di sopra. Quando questo signor mangia, li servitori corrono a trargli il vino di nuovo, e portanlo per alcuni scalini che son posti appresso il detto arbore, con quella medesima prestrezza che farian li nostri in un luogo piano.
Li nostri, giunti appresso questo arbore, feceno chiamar Abibeiba, pregandolo che 'l volesse descendere, facendogli segni di pace, e mostrando li presenti che gli portavano. Abibeiba fece lor rispondere che gli pregava che lo lasciassero star quieto in casa sua, e concedessergli che vivesse in pace senza dargli molestia. Ma non giovando le molte preghiere che gli feceno, vedendolo pur ostinato, i nostri gli feceno intendere che, s'el non descendeva con tutta la famiglia, che abbruciarebbono l'arbore, overo il tagliarebbono dalli piedi. Sopra il che stando pur fermo Abibeiba, li nostri cominciorono con molte scure a percuoter l'arbore, del qual vedendo Abibeiba saltar molte stelle mutò consiglio, e subito discese con duoi soli suoi figliuoli; dove fatta pace con li nostri gli domandò quel che volevan da lui. I nostri gli disseno che cercavan dell'oro, al che lui rispose che non avea oro, del quale non si servendo a cosa alcuna non avea mai pensato né posto cura d'averne. Ma facendo tanta instanzia e mostrando d'averne tanto desiderio, s'offerse d'andar a cercarne nelli monti vicini, dove diceva nascerne assai, e fra un certo termine portarlo; e cosí s'accordorono. Ma, passati i giorni del termine che dovea tornar Abibeiba con loro, vedendosi beffati, i nostri si partirono con vettovaglie assai che trovoron del detto Abibeiba, ma senza oro.
Come Abibeiba e Abenamachei caciqui combattendo con li nostri furono rotti, e mandati prigioni in Darien. E come fu scoperta la congiura di molti caciqui Indiani, i quali aveano ordinato d'assaltare e ammazzar li nostri.
Intesero qui dagli abitanti quel medesimo che aveano inteso dal cacique Comogro delli Caribbi, che mangiano carne umana, quali occupano nelli sopradetti monti le minere dell'oro. E per questa causa i nostri volsero andar circa trenta miglia ancor su per il fiume. E giunti a certe capanne di paglia dei detti caribbi, quelle trovorono abbandonate, perchè per la fama del venir de' cristiani avean fuggito, ciò che aveano portandolo sopra le spalle, alla sommità d'alti monti.
Mentre che Vasco Nunez e Colmenare andavan su per il detto fiume discoprendo nuove genti e nuovi paesi, un Spagnuolo detto Raia, delli lasciati alla guardia del paese d'Abenamachei, qual è nel Rio Nero come di sopra abbian detto, essendo astretto dalla fame, over desiderio di trovar oro, volse andar con nove compagni a cercar quel che fosse in alcune abitazioni d'un cacique non troppo lontano, detto Abraiba. Qual, avendo inteso la venuta di costoro, pose molti Indiani armati a lor modo di lancie in un bosco foltissimo, appresso una strada per la qual erano astretti i nostri passare. Quali non piú presto furono entrati nel bosco, che tutti gl'Indiani se gli spinsero adosso. E per esser pratichi del luogo immediate ammazzorono il detto Raia con duo compagni. Gli altri, veduto questo, perchè per la spessezza degl'arbori non potevano adoperar gli schioppi, si ridussero fuor in una pianura. Ma agli Indiani non bastò mai l'animo d'assalirgli, overo uscir del bosco, per il che i nostri ritornorono alla sua guardia donde s'erano partiti.
Gli Indiani, spogliati i cristiani morti nel bosco dell'armi di ferro, quelle portorono al suo cacique, dove s'erano ridotti d'Abibeiba, abitator di quel arbor grande, e Abenamachei fuggitosi, al qual fu mozza la mano. Costoro, vedute l'armi tolte alli nostri, cominciorono tra loro a metter ordine di far gran numero d'Indiani e andar ad assaltar quelli che erano alla guardia del Rio Nero e fargli morire, dicendo: "Noi vedemmo che sorte di gente è questa, arrabbiata d'aver oro, e per quello andar turbando la quiete e pace che noi abbiamo; doverian pur contentarsi possedendo cosí belle e resplendenti armi come sono queste spade, le quali tagliano e si possono adoperar in molte cose per uso degli uomini, e in difendersi dagl'inimici, il che dell'oro non si può fare. Voglian noi star sempre schiavi di costoro, insieme con nostre mogliere e figliuoli, e da loro esser spogliati tutto il giorno delle vettovaglie e altre cose che son per il viver nostro? Andiamo adosso a questi che sono stati lasciati alla guardia del paese di Abenamachei, poi piú facil ne sarà il distrugger gli altri passati su per il fiume".
Messo questo ordine e determinato il giorno, la fortuna volse che i nostri ritornorno con le barche dalle capanne delli Caribbi; e questo fu la notte avanti il giorno determinato, qual come fu venuto una gran moltitudine d'Indiani e con freccie e con lancie assaltorono li nostri, pensando che fossero pochi, ma vedutogli tanti, e che animosamente uscivano a combatter con loro, cominciorno a tirarsi un poco indietro, dove facendo forza li nostri e ammazzandone assai si missero poi in fuga; e molti di loro furono presi, ma tutti i caciqui scamporono. I prigioni furono mandati al Darien per adoperargli a far lavorar la terra. Acquietati gli uomini di quel paese, deliberarono li nostri di partirsi e di lasciarvi una conveniente guardia, e cosí feceno restar il capitan Hurtado con trenta uomini.
Costui un giorno deliberò mandar a seconda del fiume alcuni suoi compagni con femine e Indiani presi dal capitano Vasco Nunez, e gli fece montare sopra una delle barche d'Indiani, che gli feceno andar a fondo e quanti poteron aver ammazzorono. Solamente duoi compagni, appiccati a certi legni che venivano giú per il fiume, scapolorono; da questi duoi li nostri intesero come tutti gl'Indiani vicini erano sollevati, e quel che avean fatto a quelli della barca. Li nostri, sospesi di tal nuove, ogni giorno consigliavano fra loro la provision che dovessin fare. E come pur Iddio volse, la cosa fu scoperta in questo modo.
Vasco Nunez, che era il capo di quelli del Darien, tra le altre femine indiane che aveva menato via n'aveva una molto bella, quale amava molto e gli faceva gran carezze. A veder costei veniva spesso un suo fratello, qual un giorno gli disse: "Sorella, tu vedi la grande insolenzia che usano verso di noi questi cristiani, tale che piú i nostri caciqui non la possono sopportare; sappi che sono messi insieme cinque di loro con cento barche, e per terra piú di cinquemila Indiani, e nella villa de Tichri sono preparate tutte le vettovaglie, e ordinato il giorno che si venga ad assaltargli; e però ti prego che quel giorno tu vegga di trovar modo di non star lí fra loro, acciochè in quella furia tu non fussi morta". La giovane, intesa tal congiura, amando Vasco Nunez andò subito a manifestargli il tutto; la qual cosa tenne modo che 'l detto fratello, qual era famigliare d'un di questi caciqui, ritornasse a lei, qual subito fu preso e confessò come Cemaccho, che era uno de' detti caciqui, scacciato dal luogo dove edificorono la terra di Santa Maria del Darien, e avea fatto affondar la barca con gli uomini che venivano dal Rio Nero, e appresso avea messo ordine con quaranta delli suoi Indiani di far ammazzar Vasco Nunez un giorno che andasse fuori della città a veder gli Indiani che lavoravano gli maizali il che spesso soleva fare. Ma la fortuna l'aveva aiutato, che sempre che gli andava o era a cavallo overo armato con lancia e spada, per il che agli Indiani non era mai bastato l'animo di ammazzarlo, e che vedendo non gli esser riuscita questa via, avea fatto adunar tutte le genti delli caciqui vicini e voleva venir a destruggier li cristiani.
Intesa questa congiurazione, Vasco Nunez immediate ordinò che sessanta delli suoi ben armati lo seguitassino, non dicendo dove andava, e alla diritta s'indrizzò dove pensava che fusse il detto cacique Cemaccho, lontan dal Darien circa dieci miglia, qual trovò esser andato al cacique Daiba, signor di quel luogo che si chiama la Culata dalli nostri, e non gli potendo far altro prese un Indiano delli suoi primi, con molti servitori e alcune femine, e quegli menò prigioni.
Dall'altro canto Colmenar andò ancor lui con sessanta compagni a contrario d'acqua con quattro barche, e aveva per guida il fratello di quella innamorata di Vasco Nunez, e gionse alla villa sopradetta di Tichiri, dove abbian detto che si conducevan tutte le preparazioni per venir a la ruina de' cristiani. Ed entrati nelle case e trovata gran quantità di vini, cosí bianchi come neri, e d'ogni sorte di pane e altre vettovaglie, quelle tolsero per loro uso; poi presero il capo di detta villa, il qual aveva il carico d'esser capitano generale a questa impresa contra cristiani, e quello con quattro delli primi Indiani fece legare ad alcuni arbori, e con freccie ammazzare, per essempio degli altri. Il che messe tanto terror in quella provincia, che piú alcuno non ebbe ardire di sollevarsi contra di loro. I nostri stettero alcuni giorni in questo luogo di Tichiri, dove ebber buon tempo con le vettovaglie e vini che avean trovati.
Come Giovanni Quincedo e il Colmenare furono mandati alla Spagnuola, e poi al re catolico per narrargli le cose trovate, e dimandargli mille uomini per passar il mar di mezzogiorno, e quello che gli intravenisse in tal viaggio. Del giunger di baccalario Anciso ad un cacique per avanti battezzato, e d'uno stupendo e maraviglioso miracolo di Nostra Donna.
Partiti di qui e ritornati al Darien, deliberarono di mandar un imbasciatore prima alla Spagnuola, e poi in Spagna al re catolico, e narrar tutte le cose trovate e dimandare a sua Maestà cento uomini per passar al mar di mezzogiorno. La quale impresa cercò d'aver Vasco Nunez, ma quegli suoi partigiani e affezionati non volsero, pensando certo che come una volta si partissero, mai piú torneriano in tanti travagli e dissensioni. E però elessero un Giovanni Quincedo, uomo di gravità, il quale era tesoriero del re catolico, e perchè lasciava la moglie e figliuoli nel Darien non dubitavano che non tornasse; ma pareva loro dover dargli un compagno per ogni caso che potesse intervenire, e dicevan che essendo quasi assuefatti alla temperie di quel aere appresso l'equinoziale, come andassero in Spagna verso tramontana e mutassero li cibi, che potrian morire, e però elessero Colmenar. Li quali, montati in su uno brigantino, non avendo maggior nave, del mese di novembre l'anno 1512 partiron dal Darien, e drizzoron il cammin loro verso l'isola Spagnuola.
Nel qual viaggio ebbero infinite fortune, dalle quali furono condotti ora in qua ora in là, e finalmente per forza di venti scorsero all'ultima parte dell'isola Cuba che guarda verso ponente. E perchè eran già passati tre mesi dopo la partita dal Darien, e aveano consumate tutte le vettovaglie che portorono seco, furon forzati dismontar in terra per cercar qualche cosa da viver, trovandosi in estrema necessità. Giunti in terra viddono molti pezzi di tavole nella rena, quali parevano di qualche navilio rotto de' cristiani, e si maravigliarono molto. Ma avendo preso duoi degl'isolani, intesero come per avanti giunse lí un naviglio con cristiani, li quali dagl'Indiani dell'isola erano stati presi e morti, e spogliati di molto oro che avevano. Per alcuni segnali conobbero che questo era stato Valdiva. Per questa causa deliberorono Quincedo e Colmenar partirsi di quel luogo, e tornati nel navilio andorono al loro viaggio, come al suo luogo si dirà.
Ma avendo parlato della disgrazia accaduta a Valdiva sopra l'isola Cuba, non mi par fuor di proposito narrar quel che intervenne al baccalario Anciso, qual fu scacciato da quelli del Darien, come di sopra è detto. Costui ancor giunse all'isola di Cuba, ma la ventura il condusse nel paese d'un cacique che per avanti d'alcuni cristiani, né si sa in che modo, era stato battezzato e postogli nome il Comandatore. Qual, veduto detto Anciso, gli andò incontro e gli fece grandissime carezze, donandogli quante vettovaglie volse, e sopratutto il volse menar a veder dove aveano fatto una cappella con un altare alla Nostra Donna, e a quella ogni giorno al tardi andavano a far riverenza, e non sapevan dir altro che "Ave Maria, Ave Maria".
Detto Comandator narrò al detto Anciso come per avanti era stato lungamente con lui un marinaro cristiano, del quale si serviva per capitano in tutte le guerre che avea con gli suoi vicini; e che costui, per portar una imagine della Nostra Donna dipinta in petto, sempre avea avuto vittoria. E che gli cemi, degli inimici, che cosí chiamano li loro dei, fatti in forma di demoni neri e cornuti, quali portano ancor in guerra, non potevan resistere alla imagine della Nostra Donna, ma come s'appressava questa imagine alla figura de' cemi quella si vedeva tremare, e per questa causa gli avean fatto questa cappella e altare e l'andavano a salutare, alla quale offerivano ancora diverse collane d'oro e alcuni vasi pieni di diversi mangiari, altri acqua per bere, non volendo mancar di quell'onor che solevan far alli suoi cemi per avanti. Dapoi partitosi il detto marinaro sopra un navilio che giunse lí, detto Comandator avea sempre fatto il simile, di portar nelle guerre che gli accadevano la detta imagine.
E che una volta tra le altre, accadde un miracol grandissimo, qual tutti gli Indiani, che erano presenti quando il detto Comandator lo narrava al baccalario Anciso, confermorono aver loro medesimi veduto. Che essendo differenzia qual fosse miglior, la figura della Nostra Donna o la figura delli suoi cemi, e per questo volendo venir alle mani e tagliarsi a pezzi, si composero in questo modo; che in mezzo d'una grandissima pianura si mettesser duoi giovani Indiani per parte, quali fossero legati con le man di dietro con molte corde, cioè quelli del Comandator degl'inimici, e i duoi degl'inimici da quelli del Comandatore, cosí stretti come a lor paresse, e quel cemi saria miglior che prima anderia a dislegare i suoi giovani. Fatto questo, e tutto il popolo stando lontano a veder la fine, il Comandator gridò "Ave Maria, aiutami". Alla qual voce subito apparse una donna vestita di bianco, qual s'accostò alli duoi suoi giovani, e con una bacchetta toccò loro le mani, le quali subito furono dislegate, e li legami andorono di nuovo a legar i duoi giovani degli Indiani inimici. E a questo miracolo non volendo assentir ancor gli inimici, volsono di nuovo fargli legare, e similmente di nuovo venne la detta donna a dislegarli. Per la qual cosa tutti confessorono che la figura della Nostra Donna era migliore delli suoi cemi.
Intesosi il giugner del baccalario Anciso in questo luogo dal Comandatore, tutti gli Indiani vicini, che per avanti guerreggiavan con lui, mandorono suoi nunzii pregandolo che gli mandasse persone che gli battezzasse. Il che il baccalario Anciso fece, mandando loro duoi preti che per aventura si trovavan seco. Quali giunti a' detti Indiani ne battezzorno da cento e ottanta in un giorno, e ciascuno di quelli che si faceva battezzare gli donava una gallina overo un gallo, e altri pesci salati e alcune focaccie fatte del suo pane. E volendosi Anciso partire, il Comandator indiano gli domandò di grazia che gli lasciasse un cristiano che insegnasse a lui e a' suoi subditi l'Ave Maria intera, perchè pensavano far maggior riverenzia sapendola dir tutta che quelle due sole parole "Ave Maria". E per questo restò uno de' compagni con il detto Comandatore, e Anciso andò a drittura alla corte in Spagna. Dove, per le gran querele che fece appresso il re detto baccalario, Vasco Nunez fu sentenziato per rebelle alla corona.
Come Colmenare e Quincedo esposero al nuovo admirante, e dipoi al re catolico il successo dell'Indie, e quello aveano inteso delle ricchezze si truovano sopra il mar di mezzogiorno. Pietro Aria fu eletto governator di tutta terra ferma dell'Indie, con mille e dugento fanti.
Ritorniamo a Colmenar e Quincedo, nuncii di quelli del Darien, che 'l viaggio, che si suol fare con buon tempo in otto giorni fino all'isola Spagnuola, li prefati, per le continue fortune che ebbero, stettero tre mesi e mezzo a farlo. E giunti alla Spagnuola esposero al nuovo admirante, figliuolo di Colombo, e altri regii consiglieri, quanto avean in commission da quelli del Darien. E dapoi, montati sopra alcune navi di mercanzia, che molte ne vanno e vengono di Spagna alla detta isola, con quelle vennero alla corte del re catolico, nel 1513 del mese di maggio, e a sua Maestà minutamente narrano tutti i successi di quelle parti, e sopratutto quello che aveano inteso delle ricchezze che si trovavano sopra il mar di Mezzogiorno.
Sua Maestà, avuto sopra di questo maturo consiglio, sapendo esser morti i primi capitani Fogheda e Nicuessa, e che tutti li restati nel Darien erano fra loro in confusione, elesse per governator di tutta la terra ferma dell'Indie un Pietro Aria, che per sopranome in tutta la Spagna si chiamava il Giostrador, e avea fatte gran pruove d'esser valente della persona e dell'ingegno, nelle guerre di Barbaria. E ordinò che gli fossero pagati 1200 fanti e preparatogli navi con vettovaglie per passar all'Indie. Il vescovo di Burgos, qual avea questa cura, fece che 'l tutto fusse in ordine in Sibilia. Dove giunto il detto capitano, che fu al principio dell'anno 1514, trovò tanta moltitudine di gente che voleva andar con lui che era cosa incredibile, e non solamente di giovani, ma di vecchi e impotenti: tutti, tirati dall'avarizia e cupidità dell'oro che vedevan portarsi da quelle parti, s'offerivan senza pagamento alcuno andarlo a servire. Alli quali fu data licenzia, e scielti solamente 1200, e questo acciochè li navili non fossero troppo carichi e le vettovaglie per cammino non gli mancassino. E allora fu fatta una pubblica proibizione, che alcuno non potesse navigar a dette Indie senza licenzia del re. E quella ancora non si dava se non a Spagnuoli. E con gran preghi fu impetrata licenzia per alcuni genovesi, la qual ancor fu data per far piacere al nuovo admirante.
Questo Pietro Aria avea per moglie una gentildonna detta l'Isabetta Boadiglia, nepote della marchesana d'Amoia, delicatamente allevata, e di lei avea otto figliuoli. Costei, vedendo partir il marito, né paura del mare né amor delli figliuoli la potette ritenere che la non lo volesse accompagnare. Quali, come furono partiti di Sibilia e intrati nel mar Oceano, furono assaliti da tanta fortuna che due navi si ruppero, e l'altre furono forzate, buttando in mare gran parte delle vettovaglie che portavano, ritornarsene donde erano partiti. Ma immediate furono ristorati dagl'officiali regii, e di nuovo seguitorno il suo viaggio con bonissimo vento.
Governava per ordine regio la nave del capitano un Giovanni Vespucci fiorentino, uomo molto perito dell'arte del navigare, il quale ben sapeva conoscere le declinazioni del sole con il quadrante e i gradi dall'equinoziale al polo, il che aveva imparato da un suo zio, Amerigo Vespucci, con il quale s'era trovato in grandissimi viaggi. Questo Amerigo fu il primo che per ordine del re di Portogallo navigò tanto verso mezzodí che, passato l'equinoziale gradi cinquantacinque, discoperse terre infinite, come nelli libri da lui scritti si vede.
Come Vicentianes, fatto conoscer l'isola della Cuba non esser terra ferma, trovò molte terre già dall'admirante scoperte, e furono assaltati dalli signori delle terre vicine, chiamati chiaconi, i quali, dipoi fatta la pace, fecero un presente molto onorato a' nostri. Della gran copia e varietà de' papagalli di quel paese.
Ma lasciamo andar il governator Pietro Aria al suo viaggio, del qual dapoi si dirà, e diciamo al presente del secondo viaggio che fece il capitano Vincenzianes Pinzon, qual fu compagno in molti viaggi, come abbian detto, del primo admirante. Costui, l'anno avanti che si partisse Fogheda e Nicuessa dalla Spagnuola, era a sue spese, con licenzia però del re, andato a discoprir tutta la costa di mezzogiorno dell'isola della Cuba, e fatto conoscer che l'era isola, e non terra ferma come molti pensavano. Il che poi che ebbe fatto, gli parse di passar piú avanti verso ponente, oltra la detta isola di Cuba, e trovò molte terre le quali dal primo admirante erano state tocche. E navigato alcuni giorni a vista delle dette terre, si voltò indietro a man sinistra, e si misse a navigar per levante, e passò avanti i liti e i golfi di Beragua, poi di Uraba e Cuchibachoa, e giunse a quella parte terra ferma che abbian detto chiamarsi Paria, dove è la Bocca del Dragon con un golfo grandissimo d'acqua dolce e infinite isole dove si pescano perle assai, e lontane per levante dalla provincia detta Curiana cento e trenta miglia. Nel mezzo del qual spazio, come s'è detto, è Cumana e Manacapana.
In questo luogo avendo inteso li signori delle terre vicine, li quali chiamano chiaconi, il giugner di questa nave, mandorono alcune barche d'un pezzo solo, le quali chiamano chicos, con uomini armati d'archi e freccie, e come la viddero con le vele drizzate stettero tutti molto admirati. Ma dapoi, fatto animo, gli andorono appresso, e ad un tratto tutti tirorono le freccie, pensando ammazzare li nostri, overo spaventargli. Ma furono difesi dalle tavole bande della nave, in modo che non furono feriti. E immediate scaricorono alcuni pezzi d'artigliaria, delle quali fu tanto lo strepito che costoro restoron tutti attoniti, né seppeno fuggire. Li nostri con la barca della nave gli andorono a trovare, e parte ne ammazzorno, e parte feceno prigioni; altri si buttorono in mare. Sentita l'artiglieria dalli chiaconi e veduta la ruina delli suoi, dubitando che se i nostri come inimici fusser dismontati in terra non gli abbruciassero tutti i loro villaggi, menandogli via schiavi con le mogli e figliuoli, cominciorono con cenni e gesti del corpo a dimandar pace; perchè del parlare di costoro mai ne fu intesa parola alcuna, e per segno di pace dimostravan voler dar oro. Dismontati li nostri sul lito, gli appresentorono in lame e catene e simil cose lavorate tanto oro che valeva tremila castigliani, e un vaso come una botte di legno piena d'incenso che poteva esser da 2600 libbre a ragion di oncie otto per libra. Portorono ancora molti pavoni, molto differenti dalli nostri nel colore e nella grandezza. E oltra di questo alcuni panni di cottone lavorati di diversi colori, con alcune frangie overo cordelle alle quali erano appiccati alcuni pezzetti d'oro fatti di lamette.
Veduto Vincenzianes la umanità di costoro volse star alcuni giorni in quel luogo, dove viddero pappagalli in tanto numero come sono a noi li passeri, e di tanti colori che non si potrian narrare, e alcuni tutti bianchi over rossi. De' quali una sorte ne era di grandezza come un gran cappone, e altri d'una sorte molto minori che passeri. E tutti cantavano variatamente, che era cosa dilettevole ad udire. Di questi furon tolti assai e mandati in Spagna al re, e furon visti da molti.
Gli uomini andavano coperti con panni di cottone fino alle ginocchia, e le femine fino al collo de' piedi, ma il panno delle femine era semplice, quello degli uomini era doppio, e quasi come imbottito con altro cottone.
Conobbe detto Vincenzianes che gl'Indiani, in ciascuna villa di questa provincia di Paria, fanno di nuovo ogni anno i loro governatori, i quali chiamano chiaconi, che vuol dir li piú onorati, alli quali obbediscono in ciascuna cosa che loro gli comandano; e se gli accade far guerra o pace gli stanno con gli occhi fissi a guardar nel volto, e quel che loro accennano subito è fatto, e chi non obedisce subito è morto dagli altri senza un minimo rispetto. Cinque di questi chiaconi gli vennero a visitare e gli portorono diverse cose a donare, con qualche poco d'oro, ma la maggior parte delli doni erano diverse sorti d'uccelli e frutti da mangiare. Vincenzianes gli carezzò e donò loro all'incontro alcuni vasi di vetro per bere, filze di paternostri fatti di vetro di diversi colori i quali gli piacquero molto, perchè subito ciascuno se le misse atorno al collo.
Questo golfo dicevano alcuni marinari che da Cristoforo Colombo fu scoperto, e nominato il golfo della Natività. Fatta amicizia grande con detti chiaconi, Vincenzianes si partí, e messosi a navigar detta costa verso levante, trovò gran spazio di paese che dall'acque che venivano dalli monti era fatto a modo di palude, e per questo non abitato. E passati detti paludi e luoghi deserti navicò fino ad una punta di questa terra che guarda verso levante. E qui vi trovò aver passato l'equinoziale verso l'altro polo gradi sette, né andò piú avanti. Ma fermatosi lí, intese da alcuni Indiani di una provincia vicina, detta Ciamba, quali dimostravano monti altissimi verso mezzodí, che oltra quelli erano paesi ricchissimi d'oro, e per questo detto Vincenzianes, con cenni accarezzandoli, ne condusse alcuni in nave, quali menò alla Spagnuola e all'admirante acciochè imparassero la nostra lingua, per potergli poi adoperare per interpreti al discoprir de' detti paesi.
E partitosi dalla Spagnuola se ne venne di lungo in Spagna al re e impetrò d'esser fatto governator dell'isola Burichena, che dagli Spagnuoli si chiama San Giovanni, ed è lontana dalla Spagnuola venticinque leghe, la quale detto Vincenzianes per avanti discoperse avere molto oro.
Come nacque grandissima differenza tra Castigliani e Portoghesi per il trovar delle navigazioni, e quello che sopra ciò papa Alessandro Sesto fu eletto loro giudice terminasse. Vincenzianes impetrò d'esser governatore dell'isola di San Giovanni, nella qual già li canibali ammozzorono Cristoforo, figliuolo del conte di Carmigna, con tutti li cristiani. Nuova vendetta de' canibali contra il cacique di detta isola.
Ma perchè abbiam detto che 'l detto Vincenzianes non volse passar piú oltre che li sette gradi dell'equinoziale verso l'altro polo, è necessario che ne dichiamo la cagione, la qual fu questa. Regnando il re Giovanni in Portogallo, qual fu cognato e precessor del re Emanuel presente, nacque grandissima differenza fra Portoghesi e castigliani per il trovar di queste navigazioni. Perchè li Portoghesi dicevano quelle appartener a loro, per esser stati i primi che avevano cominciato a navigar il mar Oceano, e di questo non esser memoria alcuna in contrario. All'incontro i Castigliani dicevano che Iddio, nel principio che creò il mondo, aveva lasciato tutte le cose communi agli uomini, e per questo essergli lecito, dove non trovassero abitar cristiani, poter quel paese occupare e farselo suo. E adducendo l'una parte e l'altra molte ragioni apparenti in favor suo, doppo molto tempo divennero d'accordo che 'l sommo pontefice fusse giudice, promettendo con solenni patti di star quieti e contenti a quanto da sua santità fusse giudicato.
Governava a quelli tempi il regno di Castiglia la regina Isabella insieme con il re Ferdinando suo marito, per averlo dato in dote, la qual (come di sopra s'è detto) fu dotata di singolar virtú e prudenzia, e per esser costei cugina del detto re Giovanni di Portogallo piú facilmente l'accordo successe. Alessandro Sesto, che allora era sommo pontefice, sopra questa differenzia determinò, per un breve piombato, che 'l mondo fosse partito in due parti in questo modo, cioè che si tirasse una linea da tramontana verso mezodí, qual passasse sopra di una di quelle isole che, dal nome del promontorio d'Africa che gli è all'incontro, si chiamano dal Capo Verde. E che poi, partendosi dalla detta linea, s'andasse verso ponente trecento e settanta leghe, dove si verria andar sopra la terra ferma dell'Indie occidentali, non molto lontana dal fiume detto Maragnon, e che ivi cominciasser le parti de' Castigliani e Portoghesi, cioè, voltandosi verso levante, 180 gradi di lunghezza fussero de' Portoghesi, e altri 180 de' Castigliani verso ponente. E per esser il capo di Sant'Agostino di detta terra ferma intra li termini de' Portoghesi, però Vincenzianes non volse passar li detti gradi sette, ma tornò addietro, e andato in Spagna ottenne dal re, come è detto, d'esser governatore dell'isola di San Giovanni, qual già cominciava ad esser abitata da' cristiani, ancora ch'ella fusse vicina all'altre isole de' caribbi.
In detta isola soleva esser governatore un Cristoforo figliuol del conte di Carmigna, persona di buon ingegno e grand'animo, qual attendeva appresso un bellissimo e sicuro porto a fabricar una terra ed empierla di popolo, e fargli ancora una fortezza. La qual cosa intesa dalli canibali dell'isole vicine, o che gli dispiacesse che i cristiani si fermassero ad abitar lí vicini, overo che desiderassero d'averli per mangiarsegli, un giorno, adunate molte canoe di loro armate con archi e freccie, all'improvviso assaltorono detto Cristoforo, e quello con tutti li cristiani ammazzorono, e morti se li partirono tanti per canoa, ritornandosene a casa molto allegri. Solo l'episcopo, qual era stato ordinato che fusse in detta isola, se ne fuggí al bosco con li suoi famigliari, che non fu veduto. E perchè s'è detto che era un episcopo di detta isola, è da sapere che già dal sommo pontefice n'erano stati creati cinque in queste terre nuove, cioè in San Domenico della Spagnuola un frate di san Francesco; nel castello detto Concezione un dottor don Pietro Zuarez; nella Cuba un frate di san Domenico di Toledo; nel Darien un Giovan Cabedo predicator dell'ordine di san Francesco; in San Giovanni il licenziato Alfonso Manso. Costui, scampata la furia de' canibali, si ridusse ad un cacique di detta isola molto amico de' cristiani, e de lí se ne venne alla Spagnuola.
E passati alcuni mesi li canibali dell'isola nominata da' nostri Santa Croce, vicina a San Giovanni, messisi insieme con molti altri vennero alla detta isola di San Giovanni, e andorono al diritto dove abitava il sopradetto cacique, amico nostro, e quello preso con tutta la famiglia e gli abitanti in quella villa ammazzorono, e senza partirsi de lí arrostiti se gli mangiorono, e fatto questo abbrucciorono la villa. Dove dipoi giunti molti delli nostri partiti dalla Spagnuola, e per via d'interpreti dimandando da' detti caribbi perchè aveano abbrucciata quella contrada, e fatti morir tanti uomini, dissero averne avuto grandissima causa; la qual era che, essendo venuti a questa isola mandati da loro sette canibali, gran maestri di far quelle lor barche che sono d'un legno solo, perchè sapevano che in questa isola erano alberi molto grossi, crescendovi il doppio piú in grandezza e grossezza che in alcuna altra isola, detto cacique, dapoi accettatigli in casa, gli aveva fatti morire. E per questo aveano abbrucciato la villa e morti e mangiati il cacique e gli altri per far vendetta. E mostrorono alli nostri un gran fascio d'ossa di gambe e braccia delli sopradetti mangiati, quali volevano portar a casa loro per mostrarle alle mogli e figliuoli delli detti maestri, acciochè conoscessino che era stata vendicata la lor morte. Il che inteso dalli nostri, restorono stupidi e attoniti, e per non trovarsi tanto forti che potessino nuocer alli detti canibali non gli dissero altro, ma gli lasciorono andar al lor viaggio.
Della varietà degli arbori e gran copia de' soavissimi frutti del paese del Darien, e nomi di quelli, e degli animali di piú sorte, e de' fiumi. Impresa di Vasco Nunez per andar alle terre dell'oro.
Come s'è detto di sopra, l'admirante Colombo, avanti che 'l morisse, avea consigliato li re catolici che di tutte le parti di terra ferma detta Paria dell'Indie, due provincie sopra l'altre fussero abitate, cioè Beragua e Uraba, dove fussero porti principali a quelli che smontassero in detta terra ferma; e cosí fu fatto, chiamando Beragua Castiglia dell'Oro e Uraba l'Andalosia Nuova, e fabricate abitazioni e chiese, per commodità e ornamento di detti luoghi, fecero eleggere un episcopo per luogo, li quali instruissero gl'Indiani nella fede nostra. Feceno portar ancor di Spagna tutte le semenze d'erbe d'orto da mangiare, le quali crebbero fuor di misura e in poco tempo, perchè li cocomeri, melloni e zucche, dapoi che eran seminate venti giorni, vi si facevan maturi; le latughe, borragini, bietole e cavoli in termine di dieci giorni si potevan cogliere. Delle viti e altri arbori de' nostri che fanno frutti da mangiare, portati di Spagna, producevan frutti cosí presto come abbiam detto che facevano nella Spagnuola. Ma essendo in Santa Maria Antica del Darien in Uraba molti frutti naturali di quel luogo e di varie sorti, che sono molto suavi al mangiare e sani agli uomini, non mi par fuor di proposito parlar d'alcuni d'essi, cioè delli migliori.
Vi è un arbore, detto guainaba, che produce un frutto come pomi, molto simile alli limoni, e sono di sapor dolce mescolato con garbo. Trovavansi ancora molte palme, ma li frutti d'alcuni d'esse non si possono mangiare per esser sempre di sapor garbo. Èvvi ancora un arbore, detto guarabana, che è maggior dell'arbore dell'arancio, qual produce frutti maggiori de' cedri, grandi e grossi che paiono melloni, e son molto buoni a mangiare. Gli arbori detti havos fanno certi frutti come susine nel sapore e odore, e si pensa che questi sian quelli che noi chiamiamo mirobolani, che vengon condotti dall'India orientale, secchi, per medicina. Questo arbore è molto frequente in ciascuna parte dell'isola Spagnuola, e produce tanti frutti che li porci, quando gli trovan maturi, per mangiargli vanno alli monti dove ne è copia grande, e si fanno con quelli grassissimi, né gli pastori gli possono ridurre a casa, anzi molti per questa causa rimangono nelle selve e si fanno salvatichi, e per questo dicon che le carni di detti porci della Spagnuola mangiate si sentono piú saporite e migliori, e le trovano molto sane.
Il re catolico mangiò di uno delli sopradetti frutti detto guarabana, grande come un gran cedro, con alcune squame sopra a modo d'una pigna, ma nella tenerezza era come quella d'un mellone, e di sapore, come allora sua maestà disse, superava ogni altro frutto che mai avesse mangiato. Quello solo fu portato con gran diligenzia a sua maestà, perchè gli altri si guastorono nel viaggio. Hanno alcune radici dette batatas, le quali mangiano; io, come le viddi, giudicai che fussero navoni grandi, con la scorza nera e dentro bianchissime, e sono buone cotte e crude, e paiono della bontà delle castagne o migliori.
Ma lasciamo stare l'erbe e arbori e diciamo degli animali. In questa provincia si trovano, oltra molti leoni e tigri, gatti cervieri, volpi e cervi, ancora alcuni animali mostruosi, tra li quali ne è uno che è della grandezza d'un bue over mula, con un mostaccio lungo a modo d'elefante, e ha il color del pelo che s'assomiglia al bue, le unghie tonde come quelle del cavallo, e gli pendono l'orecchie quasi come all'elefante, ma sono minori. Sonovi ancora molti di quelli animali di quattro piedi, che portano in seno sotto la pancia li figliuoli piccioli quando poppano, e vanno correndo sopra gli arbori a mangiar frutti, come di sopra s'è detto.
In questo golfo di Uraba corrono molti fiumi, e tra gli altri il Darien, sopra le ripe del quale hanno fabricato la città di Santa Maria dell'Antica. Èvvi ancora un fiume grandissimo, qual fu navigato per Vasco Nunez, che è largo piú di quattro miglia e di grandissima profondità, e lo chiamarono il Rio Grande, nel quale trovorono infiniti lagarti. Nelle ripe di questi fiumi, e in alcuni luoghi dove per il suo crescer fanno palude, si trovano molti fagiani, pavoni d'altri colori che non sono li nostri, e infiniti altri uccelli differenti dalli nostri, quali sono eccellenti a mangiare e cantano soavemente. Ma gli Spagnuoli che abitano in questo luogo hanno l'animo intento ad altro che a pigliarli. Sonovi ancora pappagalli innumerabili, diversissimi fra loro di grandezza e colori.
Or ritorniamo a Vasco Nunez, qual, dipoi che intese delle gran ricchezze e ori che si trovavano appresso gli abitanti del mar del Sur, mai non pensava ad altro, e molte notti dormendo gli pareva di passar quegli altissimi monti che gli erano stati mostri, e veder tutto detto mare pieno d'oro. Costui, avendo speso tutto il tempo della sua gioventú sopra la guerra, era uomo di gran cuore e valente con l'arme in mano, e spesse volte per conto dell'onor aveva combattuto a corpo a corpo e riportatone vittoria. Ma dipoi, col tempo essendosi raffreddato il calor giovenile, era divenuto molto prudente e considerato nelle sue azioni, e per esser di buono intelletto e avere l'animo sempre volto a gran cose, con la liberalità s'era fatto capo di quelli del Darien. Ora, il detto avendo inteso che di Spagna il re catolico mandava Pietro Aria con molta gente a queste nuove Indie, dubitando che non gli togliessi la gloria del discoprir del detto mare, volse con la detta impresa vedere di placar l'animo del prefato re catolico, il quale intendeva esser seco molto adirato, sí ancora per farsi ricco e famoso al mondo.
Messi adunque insieme alcuni delli piú vecchi di Santa Maria dell'Antica, e alcuni che di nuovo erano venuti a trovarlo dall'isola Spagnuola, per la fama dell'oro che avevano inteso che 'l detto Vasco andava a trovare, con cento e novanta fanti armati, il primo giorno di settembre 1513 si partí dal Darien con un brigantino e venti canoe, e menò seco molti Indiani suoi amici, con scure e altri instrumenti, per farsi la strada per li boschi dove avevano a passare.
E andò per mare fin a Coiba, luogo del cacique Caretta, dove smontato e lasciati li navili in guardia del detto cacique, che era suo amico, avanti che 'l prendesse il camino verso li monti, fece che tutti li suoi s'inginocchiorono, pregando Iddio che gli desse favore al far tanta impresa. Poi se n'andò al diritto dove erano le terre del cacique Poncha, qual trovò che era fuggito come fece l'altra volta. Pur col mezzo di alcuni Indiani di Coiba, famigliari del detto Caretta, fece tanto che Poncha s'assicurò di venirlo a trovare, dove gli fece gran carezze e l'un all'altro fecero diversi presenti. Poncha donò a Vasco oro per valuta di cento e venti castigliani, per non ne aver piú essendo stato l'anno passato saccheggiato, come si disse. Vasco all'incontro donò a lui alcune filze di paternostri di vetro di diversi colori, da portar intorno al collo e alle braccia, e specchi di vetro e sonagli, delle quali cose questi Indiani, come s'è detto, hanno gran piacere. Sopratutto gli dette due scure di ferro, sapendo che di niuna cosa fanno tanto conto come di quello, perchè con maggior facilità possono tagliar arbori e fabricar case e cavar canoe, che sono le lor barche; non conoscendo questi popoli altro metallo che oro. E per far gli esercizii sopradetti, non adoperano altro che alcune pietre acutissime che si trovano ne' fiumi.
Detto cacique Poncha, per mostrare maggior benevolenzia verso Vasco, mandò seco molti Indiani di conto e suoi famigliari, che fussero la guida al dimostrargli la strada per quelli monti, e alcuni suoi schiavi, che portassero sopra le spalle il vivere, perciochè avevano a passar montagne per la densità d'arbori grandissimi, quasi inaccessibili. Né vi era strada, né sentiero, overo abitazione alcuna, pratticando rare volte l'un con l'altro per causa di commerzii o baratti, perchè andando nudi, né avendo l'uso di moneta, di poche cose gli fa mestiero per il viver loro, e quelle poche ancora prendono dalli piú vicini, quando gli accade, con baratti. E per questa cagione non hanno strade publiche dove vadino ordinariamente. Ma essendo costume fra un paese e l'altro di prendersi con agguati e inganni per farsi schiavi, e resistendo per ammazzarsi, hanno ciascuno le sue spie che fanno alcuni sentieri secreti e difficili, per li quali di notte fanno simil rubbarie.
Avendo dunque Vasco Nunez questi Indiani di Poncha per guida, con l'aiuto di quelli, che facevano la strada con le scure, passò molte montagne asprissime, e in molte valli dove correvano grandissimi fiumi, fatti ponti con attraversar legni lunghissimi che in quelli monti si trovano, fece passar tutta la gente commodamente.
Come Vasco Nunez, pervenuto alla provincia detta Esquaragua e appiccata una gran zuffa, furono tra morti e feriti di quelli Indiani da seicento, tra i quali fu morto anco il suo cacique, e come dette la morte a molti cortegiani imbrattati d'un orrendo vizio. E, giunto agli altissimi monti da' quali si vede il mar del Sur, asceso alla sommità di quelli vidde e salutò detto mare.
Non voglio qui narrar li travagli che ebbero, sí per il mancamento del vivere, come per le gran fatiche nel far detto camino. Solo dirò alcune cose degne di memoria, che intervennero loro con li caciqui che in questo viaggio trovorono. Avanti che montassero le alte cime delli monti, entrorono in una provincia detta Esquaragua; il cacique della qual, che avea il medesimo nome, venne loro all'incontro con gran moltitudine d'Indiani nudi, con archi, saette, e con alcune spade di legno fortissimo, quali per esser lunghe adoperano con tutte due le mani, e con esse alcuni dardi con la punta abbrucciata, li quali tirano con tal modo che mai non fallano. Costoro, fattisi all'incontro de' nostri, non volevano che passassero, e con feroce viso dimandavano dove andassero e quel che volessero, facendogli intendere per un suo Indiano che tornassero indietro, se non sariano tutti morti. Dette queste parole si fece avanti lui con tutti li famigliari vestiti di cottone, e cominciò a ferir li nostri che volevano passar avanti, li quali immediate discaricorono molti schioppi e balestre che avevano. Il strepito e rumor delli quali uditi dagl'Indiani, pensorono che le fussero saette che venissero dal cielo, e si misseno in tanta fuga e paura che molti di loro caddero in terra. Altri restorono attoniti, di modo che non sapevano fuggire. Dove giunti dalli nostri con le spade ne furono tra morti e feriti piú di seicento, e tra gli altri fu morto il cacique Esquaragua.
Fatto questo, Vasco s'avviò con gli altri verso la casa del detto, dove trovorono assai da mangiare. E viddero il fratello del detto cacique, insieme con molti altri, ch'erano vestiti a modo di femine. Del che si maravigliò forte, e massimamente che non s'era fuggito. E dimandata la causa, gli fu detto da tutti li vicini, li quali dapoi la morte del cacique corsero a vedere li cristiani come uomini venuti dal cielo, che 'l detto cacique con tutti li suoi cortegiani erano imbrattati di quel nefando vizio contra natura. E che per questo il detto fratello con gli altri ch'erano in casa andavano vestiti da femine, né potevano toccar archi né saette, ma attendevano a far servizi di casa, come fanno le femine. Vasco, udito il parlar di costoro, molto piú si maravigliò che fra quelli monti asperrimi e fra tante selve, dove vivon solamente di pan di maiz con bere acqua, né hanno frutti o uccelli né salvaticine come in altri luoghi dell'Indie, in queste genti prive di delizie vi fusse entrato simil abominevol peccato. E subito gli fece pigliare, che potevan esser circa quaranta, e legati gli fece stracciare e sbranare da alcuni cani grandi ch'aveva menato seco, e gli adoperava a seguire gl'Indiani quando fuggivano. Veduto il castigo di costoro da quelli della villa, ciascuno dove sapeva che fussero alcuni di questi simil tristi, li quali tutti erano delli cortegiani, perchè il vulgo non era tinto di simil macchia, lo prendevano, e sputandogli nel viso lo menavan a Vasco Nunez, pregandolo che li facesse morire.
E uno piú vecchio degli altri, alzate le mani e gli occhi verso il cielo, dimostrava il sole (quale adorano) e diceva ch'era irato per simil sceleraggine, e per questa causa si sentivan li tanti suoni e saette in quelle parti, e dalli monti correvan l'acque alcune volte con tanto impeto che menava via tutti li maizali, la qual cosa gli faceva morire di fame. E che levati via della terra simil tristi, il sole non saria piú adirato e gli lasciaria raccoglier il loro vivere. Queste parole piacquero molto a Vasco, e quanti di simil scelerati gli erano menati, tanti ne faceva morire. Conobbe che questi popoli erano molto docili, e che facilmente, se s'insegnasse loro, si redurriano a costumi civili. E oltre a questo, ch'erano uomini di cuore, e d'adoperarsi in guerra; però gli carezzò quanto potette.
Il paese è molto sterile, per esser tutto sasso e montagna con le selve sopra, e qualche poco di valle la quale lavorano, né vi si trova oro in alcun luogo. Fra quelli monti sono freddi maggiori che nelle parti di pianure. Per questo li signori con li suoi cortegiani vanno vestiti d'un drappo di cottone fin alla centura, e alcuni piú abbasso. Il resto delle genti, che non possono con baratti aver di detti panni, vanno nudi, e s'hanno freddo si cuoprono con una sorte di foglie grandi d'alcuni arbori salvatichi, quali secche sono dure e non si rompono, anzi, addoppiate con certi legami con li quali le cucino insieme, si acconciano a modo d'un panno di cottone, e con quelle si difendono dal freddo. Furono veduti in questo luogo alcuni schiavi tutti neri, come sono i saracini. E dimandati dove erano stati presi, dissero che lontano de lí due giornate abitava una generazione delli detti neri, quali sono molto feroci e terribili, e con li quali di continuo hanno grande inimicizia e guerra, e tutto il giorno si prendono l'un l'altro, overo s'ammazzano, e che avevano inteso dalli suoi antichi che questi neri non erano naturali di quel paese, ma venuti d'altro luogo ad abitarvi.
In questo luogo Esquaragua fu forza a Vasco Nunez lasciar alcuni delli suoi compagni, li quali, per la fatica ch'avea durata nel far il difficile e aspro camino per le montagne e foltissime selve, e per il disagio del vivere che alcuni giorni aveano sofferto, erano tanto afflitti e deboli che non potevano star in piedi, e tolse seco molti Indiani di Esquaragua che gli mostrassero il camino nell'ascendere la sommità delli monti, donde si poteva veder il mare. Ed essendo dal luogo del cacique di Poncha fin alla sommità di detti monti il camino di sei piccole giornate, detto Vasco, per la gran difficultà che trovò in quello, non lo poté far in manco di venticinque giorni.
Alli ventisei adunque di settembre, essendogli stato mostrato dalle guide d'Esquaragua le dette sommità, donde si poteva veder il mare, detto Vasco Nunez ordinò che tutte le genti si fermassero, e lui solo volse esser il primo che le montasse. Dove giunto e vedutolo, subito si buttò in terra inginocchioni, e con le mani alzate al cielo ringraziò Iddio e tutti li santi del cielo, che ad una persona bassa e rozza come lui era, e non di grande stato, avesse riservato vittoria di tanta impresa, e tre volte per riverenza volse basciar la terra. Poi levatosi cominciò a salutar il mare, dicendo: "O mare del Sur, veramente per le ricchezze che si trovano appresso delli tuoi abitatori re degli altri mari, fa' che placido e quieto riceva la mia venuta, né ti disdegni che, d'oscuro e ignobile ch'eri per avanti, ti faccia al presente chiaro e nobilissimo appresso tutto 'l mondo. Iddio ti ha riservato, con la infinita sua sapienzia, a dimostrarti a' nostri tempi per qualche grande effetto che tien determinato. E però di nuovo ti saluto, o re degli altri mari". Il che detto accennò che venissero tutte le genti, le quali giunte alla detta sommità, e dimostratogli il mare, fece che tutti inginocchiati ringraziorono Iddio che gli aveva dato grazia d'esser discopritori di cosí gran tesoro. La qual cosa tutti ad una voce con grandissima allegrezza facendo, li monti e colli vicini tutti risonarono. E Vasco, chiamatigli a sé, diceva: "O carissimi compagni, eccovi il desideratissimo mare che dal figliuol di Comogro e da tanti altri Indiani n'è stato predicato, dove ci potremo far ricchi e sodisfar alli desideri nostri. E però, acciochè nel tempo ch'ha a venire si conosca che noi siamo stati li primi a passar per questi luoghi, fatte in queste sommità da due bande monti di sassi, che saranno testimonii di questa verità". E cosí subito fu fatto, perchè con l'aiuto degl'Indiani ch'erano con loro, fecero duoi grandissimi monti, e in mezo vi posero una croce fatta d'un altissimo arbore. Poi, descendendo dalle dette sommità, nella scorza di ciascuno arbore che trovavano ordinava che scrivesse il nome di Castiglia, facendogli appresso qualche monticello di sassi.
Come, superato dalli nostri, il cacique Chiappe fece dipoi grande dimostrazione d'amicizia con Vasco Nunez. E come esso Vasco, per nome del re catolico, tolse il possesso del mare del Sur, e parimente delle terre e provincie del detto mare. E della fortuna ch'ebbero nel golfo di San Michele.
Partiti di quel luogo e pervenuti ad un vilaggio d'un cacique detto Chiappe, trovò che quello armato con gran moltitudine gli aspettava, non volendo non solamente che non passassero, ma n'anche s'avicinassero. Li nostri, ancor che fussero pochi, pur si missero in ordinanza con gl'Indiani amici ch'aveano, e con gli schioppi prima, e poi con li cani che aveano seco, salutorono la moltitudine del cacique Chiappe. Li quali, udito lo strepito delli schioppi che per il risonar de' monti li parve molto piú orrendo, e veduta la fiamma e il fumo, si misseno in fuga, pensando che fussero saette che dal ciel venissero. Delli quali li nostri n'ammazzorono pochi, perchè la voluntà di Vasco Nunez era di farsegli amici e con lor mezo conoscer quelli paesi. E però, entrato che fu nella casa del cacique Chiappe, la quale fra l'altre era maggiore, edificata in tondo con arbori dritti a modo di padiglione e coperta di foglie grandi, fece dislegar molti degl'Indiani presi, alli quali ordinò che andassero a ritrovar il signore, e gli affermassero che se 'l veniva li nostri fariano pace e amicizia con lui, e gli donariano molti presenti; ma stando ostinati gli abbrucciarebbono tutto il villaggio e taglieriano in pezzi tutti gl'Indiani restati. E acciochè 'l detto fusse piú sicuro di quanto gli mandava a dire, mandò insieme con detti Indiani alcuni di quelli d'Esquaragua, che di sopra abbiam detto ch'aveva menato seco; li quali, avendo trovato detto Chiappe, gli dissero prima ciò ch'era intravenuto loro e al suo cacique che fu morto, poi, predicata l'umanità di Vasco verso quelli che l'obedivano, fu contento di ritornarsene. E, giunto a Vasco, fecero amicizia grande insieme, e per maggior dimostrazione detto cacique gli donò oro in diverse lamette e catenelle per valuta di quattrocento castigliani, e Vasco all'incontro alcune filze di paternostri di vetro che li piacquero [piú] dell'oro donato, perchè di quelle n'ornano il collo a sue mogliere e figliuoli.
E dimorati alcuni giorni con questo cacique Chiappe, dette licenzia agl'Indiani d'Esquaragua, e tolse per sua guida il detto Chiappe e alcuni altri suoi famigliari, e in quattro giorni dalla sommità delli monti pervenne al desiderato lito del mare. Dove con gran solennità, in presenzia di molti testimoni sí degl'Indiani come delli nostri, tolse il possesso di quello, e di tutte le terre e provincie con termine al detto mare, per nome del re catolico. E di ciò ne fece far publici instrumenti, e pose le bandiere del regno di Castiglia in quattro luoghi. E lasciata parte della compagnia in casa del detto Chiappe, per poter piú facilmente andar a riconoscer le terre vicine, tolse nove barche fatte d'un legno che in quella lingua chiamano culche. Ed entratovi dentro Chiappe con alcuni suoi famigliari, e Vasco Nunez con ottanta compagni, passorono un gran fiume e andorono verso un signore detto Coquera, qual similmente volendo resister fu rotto e fugato, e fu deliberato che 'l cacique Chiappe l'andasse a trovare. Qual gli disse molte cose dell'incredibile fortezza delli nostri, e ch'avean le saette del cielo e le mandavan con fuoco adosso gli suoi vicini ogni volta ch'essi vogliono contrastare; ma venendo a dimandargli perdono gli usano misericordia e clemenzia. E che con l'amicizia delli nostri saria sicuro che mai alcun suo inimico li potria far guerra, ma staria in pace sempre. Da queste parole commosso, Coquera venne a trovar Vasco Nunez e fece pace con lui, e gli presentò oro in diverse cose piccole per valuta di seicento e cinquanta castigliani, e all'incontro Vasco gli donò delle cose sue. Il che fatto ritornorono a casa di Chiappe, dove si riposò alcuni dí.
Quivi, informatosi d'un golfo grande lí vicino che fa il detto mare, chiamato oggi il golfo di San Michele, il quale dalla bocca sua insino all'estremo angulo può esser circa sessanta miglia di lunghezza, e si vede pieno parte d'isole abitate e parte di scogli deserti, detto Vasco deliberò di vederlo, ancor che dal cacique Chiappe con molte parole fusse dissuaso, qual diceva che per modo alcuno non era da navigarlo, per esser allora li mesi dell'anno nelli quali vi facevan grandissime fortune, e che spesse volte avea veduto molte di quelle sue culche da onde grandissime essere state inghiottite con tutti gli uomini. Vasco veramente, il quale non poteva star quieto e indarno, diceva che sperava che 'l nostro Signor Dio gli sarebbe in aiuto, massime trattandosi di cosa pertinente alla religion cristiana, perchè si potria far duo servizii insieme, cioè raccorre oro assai per far guerra agl'inimici della fede nostra, e discoprire popoli nuovi e incogniti e poi fargli cristiani; e cosí persuasi tutti li compagni, montorono sopra nove culche, cioè barche.
Il cacique Chiappe, veduto il deliberato animo di Vasco, acciochè non dubitasse della fede sua, disse voler ancor lui andar ovunque Vasco andasse, e che per nessun modo voleva restare. Entrati costoro in detto mare e andati per alquante miglia, cominciò il mare a sgonfiarsi e l'onde a crescer di sorte che parevan monti, ed essendo li navili piccoli, e mal atti a reggersi in simil fortune, erano tanto travagliati che non sapevan che farsi, né potevan andar avanti né tornarsi indietro. E tutti impauriti si guardava l'un l'altro. Ma la paura era maggiore di Chiappe e delli suoi famigliari, perciochè conoscevano la natura del mare e il pericolo che vi soleva essere. Pur, affaticatisi molto con remi, giunsero ad un'isoletta vicina diserta, dove smontati, e legate le culche meglio che poterono, si ridussero sopra un colle di quella, dove tagliati rami d'arbori grandissimi si prepararono per dormirvi. Ma l'acqua del mare crebbe tanto alta la notte ch'ella coperse tutta l'isola, eccetto il colle ove li detti erano. Dicono tutti questi ch'hanno veduto questo mare del Sur, che fa ogni giorno le maree di crescere e decrescere simili a quelle che fa il mar nella costa di Spagna e Francia, fuor dello stretto di Gibilterra, e che quando il decresce, che lascia molti scogli che paion isole, le quali poi nel crescer si cuoprono d'acqua. E che al contrario il mar di Nort, che è quel che è dalla banda di tramontana, non cresce di piú di duo palmi. La qual cosa confermano tutti gli abitatori dell'isola Spagnuola.
Venuta la mattina, e andata giú la marea, li nostri come attoniti ritornorono al lito dove erano le culche, e quelle trovorono meze affondate e piene d'arena, perchè per il battersi l'una con l'altra, ancor che fossero fatte d'un legno solo, erano sfesse in molti luoghi e le corde tutte rotte. Per la qual cosa fu di bisogno legarle con certi legami, li quali fecero d'alcuni scorzi d'alberi e d'una sorte d'erbe marine ch'erano flessibili e tenacissime, e le fessure turorono con dette erbe il meglio che potettero. E fatta bonaccia, se ne ritornorono mezi morti di fame, avendo buttato in mare per avanti ciò ch'aveano da mangiare, per salvar le persone. In questo tempo si sentiva un rumor grandissimo che faceva il mare, e non traendo vento non si sapeva da che procedesse; adimandati gl'Indiani pratichi di quello, dicevano che nel crescere over scemare del mare, per esservi molti scogli e isole, l'acque stringendosi e urtandosi l'una con l'altra facevan sentire detto rumore di lontano, e massimamente nelli tre mesi detti dal cacique Chiappe, cioè ottobre, novembre e decembre, e perchè nominavano li mesi dalle lune, per esser il mese d'ottobre, mostrando la luna dicevano di quella e dell'altre due subseguenti.
Come Tumacco signor su l'altro lito del golfo fu messo in fuga, rotto e ferito, dipoi fatta amicizia con Vasco gli donò oro e molte perle. Del ritorno d'esso Vasco in Darien, avuta prima notizia d'alcune isole ricchissime, e come si pescano le perle.
Ristoratosi alcuni giorni, Vasco volse doppo andar a trovar un altro signore detto Tumacco, qual abita l'altro lato di quel golfo, dove giunto e trovatolo armato al modo degli altri fu messo in fuga e rotto, nel combatter ferito. Costui, né per parole del messo del cacique Chiappe, né per paura voleva venire, pur essendogli detto ch'abbrucierebbono tutto il suo paese, ordinò che 'n suo luogo il figliuol venisse. Qual come Vasco vidde subito gli fece carezze e lo vestí al modo nostro, e appresso gli donò alcune filze di paternostri di vetro, e gli fece dir ch'andasse a trovar suo padre e gli narrasse della fortezza delli nostri, che portano le saette dal cielo in mano, e come sono benigni verso quelli che gli vengono a trovare.
Tumacco, veduto il figliuol vestito e intese le parole, deliberò venir verso Vasco. E doppo tre giorni si mise in camino, accompagnato da molti suoi famigliari, e per allora non portò cosa alcuna a donargli, ma, avendo fatta amicizia grande con Vasco, subito mandò delli detti suoi famigliari e gli fece portar diversi lavori d'oro, per valuta di 614 castigliani, e 240 perle assai grosse e una infinità di minute. Li nostri, vedute le perle, s'allegrorono molto, le quali però non erano di quella bianchezza che doveano essere, e la causa intesero perchè non le sanno cavar dell'ostriche dove nascono se non le scaldano al fuoco tanto che da se medesime s'apprino, e dipoi mangiano la carne che v'è dentro. Ed è cibo da signori, del qual per esser molto buono tengon gran conto, e fannone maggior stima che delle perle che in quelle nascono. Tumacco, veduti li nostri che facevano tanto conto delle perle, ordinò ad alcuni Indiani lí presenti che andassero a pescarne, quali dipoi quattro giorni ritornarono con dodeci libre di perle tra grosse e minute. Le quali perle, perchè furono per consiglio de' nostri cavate senza scaldarle al fuoco, eran bianchissime. E con questi modi e presenti gl'Indiani accarezzavano li nostri, e li nostri donavano loro delle cose sue le quali erano loro gratissime, e Tumacco era molto allegro e si riputava felice per aver fatto amicizia con Vasco. Ma molto piú Vasco, vedendo le gran ricchezze ch'erano appresso costoro.
Il cacique Chiappe, per essere stato compagno a Vasco, si teneva molto altiero e superbo, perchè vedeva che li nostri erano assai satisfatti di lui, e che Tumacco conosceva la benevolenzia che gli portavano. E questo faceva perchè essendo Tumacco piú potente di lui, e appresso non troppo amico, li pareva accrescer gran riputazione allo stato suo quando mostrava che li nostri gli erano amici. Questi signori, ancor che vivino cosí poveramente, e gran parte dell'anno vadino nudi, e che l'animo loro non sia travagliato dalle cupidità d'aver ricchezze, pur sono tra loro molto ambiziosi e si portano odii capitali.
Tumacco, per acquistarsi la benevolenzia di Vasco, cominciò a dirgli che in questo golfo di San Michele era un'isola maggiore di tutte l'altre, signoreggiata da un re potentissimo, qual, a certi tempi dell'anno che 'l mare è quieto, faceva un'armata di molte culche e veniva a scorseggiar tutti li loro liti vicini, ammazzando e facendo qualunche trovava prigione; la qual isola era distante da quel lito venti miglia, e chi montava sopra li colli vicini poteva scoprirla, e vedere che per la sua lunghezza usciva fuor della bocca del golfo ed entrava per molte miglia nell'ampio mare; e che sapeva che appresso a quella si pescavano ostriche quali erano grandi come un cappello (dimostrandone una ch'avea uno delli nostri in capo) nelle quali si trovavano perle grandi come una fava, over oliva: il che dimostrò facendo una pallotta di terra picciola. E questo medesimo confermava il cacique Chiappe ch'era lí presente. La qual cosa intesa da Vasco, s'allegrò fuor di misura. E per farsi costoro amici e benevoli cominciò a far gran braverie contra il re di detta isola, e che voleva al tutto passar sopra quella e distruggerlo, e farne poi signori Tumacco e Chiappe. E in questo cominciò a ordinar che piú numero di culche che si potessero avere si mettessino insieme e anche loro facessino venir gli suoi sudditi a questa impresa, che in pochi giorni l'espedirebbe. Ma Chiappe e Tumacco cominciarono con una incredibile amorevolezza a disconfortarlo, pregandolo che 'l non volesse allora andar a far quel viaggio, ma differirlo a miglior tempo; perciochè non si troveria navilio alcuno atto a far quel pareggio, essendo il mare allora (ch'era alli cinque di novembre) troppo grosso con onde grandissime, talchè non si potria far questa impresa senza gran pericolo della vita di qualunche v'andasse. Delle quali cose si conosceva che dicevano la verità, perciochè soffiando il vento di sirocco levante insieme con ostro, per questi gonfiava fuor di misura il mare e faceva onde grandissime, e per il romper dell'acque in quelli scogli e isolette, si sentiva di continuo uno strepito e rumore spaventevole. Per alcuni giorni che stette Vasco appresso il lito del mare, furono grandissime fortune, accompagnate da venti e piogge con infinite saette e baleni che venivano dal cielo. E dalli monti corsero torrenti inestimabili, che oltra gli arbori intieri con tutte le radici menavano seco ancora sassi d'incredibile grandezza. Le quali cose, ancor che gli abitanti dicessero esser solite venir ogni anno a quelli tempi, pur pareva che fussero molto maggiori allora che mai piú per avanti si fussero vedute e sentite. E dicevano fra loro secretamente che pareva che 'l mar del Sur fusse sdegnato per la venuta de' cristiani.
Pur fattosi sereno l'aere, e Vasco inteso che Tumacco e Chiappe aveano non molto lontano dal lito, dove era fondo grandissimo, alcuni luoghi proprii tutti pieni d'ostriche di perle, dove altri non potevan andar a pescar che li pescatori suoi, lasciata l'impresa d'andar sopra l'isola all'estate futura, volse che li prefati mandassero a pigliarne. Questi Indiani pescatori di perle sono allevati da piccoli ad entrar nel mare quando gli è quieto e andar fino al fondo, perciochè dicono che le maggiori delle dette ostriche stanno in fondi grandissimi, e le mezzane si trovano poco lontano dal lito, ma le minori, nelle quali stanno le perle di poco pregio, sono a canto al lito, dove batte il mare. Chiappe, per satisfar al desiderio di Vasco, ancor che fusse la fortuna, ordinò che trenta di questi suoi andassaro al suo luogo, in compagnia delli quali Vasco mandò sei compagni, quali stessero a vedere sopra il lito come facessero a pigliarle.
Questo vivaio delle perle era distante dalla casa di Chiappe forse dieci miglia, dove giunti non ebbero animo d'entrar nelli gran fondi, per esser il mare troppo grosso, ma si missono a prender di quelle ch'erano appresso il lito, e in quattro giorni ne presero tante che caricorono sei indiani. Le quali crude furono tutte aperte, e cavate le perle si missero a mangiar la carne che v'era dentro, qual dicono che parse loro delicatissima, il che poteva proceder dalla fame la quale li nostri lungo tempo avevan tolerato. Le perle veramente non erano maggiori d'un gran di cece over di lente, ma di grandissima bianchezza e molto lustre.
Avendo conosciute e intese tutte le cose sopradette di questo mare, deliberò Vasco Nunez di tornarsene al Darien alli suoi compagni. Ma volse far un'altra strada diversa da quella per la quale era venuto, e prese licenzia dal cacique Chiappe e da Tumacco, con le miglior parole che seppe, pregandogli che si conservassero sani, e che presto gli ritorneria a veder per far l'impresa dell'isola. In questi pochi giorni che Vasco era stato con loro, essi gli avevan posta tanta affezzione che abbracciandolo non potevan far che non piangessero, e cosí toccorono la mano a tutti gli compagni, delli quali essendone alcuni molto infermi che non potevan caminare, Chiappe volse che restassero in casa sua fin che fussero sani, dicendo che poi gli remanderia con buona scorta.
E cosí fatto, Vasco, presi alcuni Indiani di Chiappe per guida, passò con le culche un fiume grande, ed entrò nel paese d'un cacique detto Teaocha, qual, inteso la venuta delli nostri, avendo per avanti avuto notizia di ciò che li nostri avean fatto in quelli paesi, gli venne incontro molto allegro e con umanissime parole a salutargli, invitandogli ad andar alloggiar in casa sua, nella quale entrati fece preparare da mangiare. E appresso fece un presente d'oro di valuta di 1000 castigliani, e 200 perle assai grandi ma non chiare, perchè l'avean cavate fuora col fuoco. Vasco all'incontro presentò a Teaocha due belli spechi di vetro e altre cose che gli furono molto care. E Teaocha gli disse che dovesse far tornar indietro gl'Indiani di Chiappe, perchè lui, acciochè conoscesse che gli era affezzionato, desiderava mandar delli suoi a fargli compagnia e mostrargli la strada. E cosí Vasco gli licenziò, ancor che recusassero perchè cosí da Chiappe avean commissione. E al partir de' nostri Teaocha gli consegnò alcuni Indiani per guida del camino, e altri ch'eran schiavi carichi di vettovaglie, e mandò per capo il maggior de' suoi figliuoli, ordinandogli che non si partisse mai da Vasco fin che da lui non gli fusse comandato. Questi Indiani schiavi erano carichi di pan fatto di iucca e di maiz e di pesci salati. Di vino costoro non hanno cognizione, ma bevon acqua.
Come Pacra cacique, prima fuggito, poi venuto nelle mani di Vasco, fu meritamente punito delle sue sceleraggini, e il ringraziamento fattogli per la punizione da Bononiama signore, con la risposta ch'esso Vasco gli fece.
Questa provisione avea fatto Teaocha, perchè sapeva che li nostri aveano a passar per monti e luoghi sterili e inabitati con infinite selve, dove si trovan assai tigri e leoni, che agl'Indiani che vanno nudi sono molto pericolosi. Presero li nostri il camino essendo guidati dagl'Indiani verso un cacique nominato Pacra, qual dicevano ch'era uomo molto crudele e inimico degli altri caciqui vicini allo stato suo, per essere piú potente di ciascuno di loro. Costui, conscio delle sue sceleraggini, e dubitando che li nostri non venissero a punirlo, sapendo non esser bastante a contrastargli immediate se ne fuggí.
In questo camino, che fu nel mese di novembre, in due giornate che fecero, ascendendo e descendendo dalli monti asprissimi, tutti di sasso senza erba over arbore alcuno, stettero li nostri in gran pericolo di morire di sete; perchè, appresso l'affanno del viaggio difficile, il sole batteva in quelle valli e monti tanto che gli abbrucciava; e avendo consumata tutta l'acqua che sopra le spalle portavano gl'Indiani cercavan dell'altra, né in alcun luogo in quelle valli ne trovavano. Ma Iddio volse aiutargli, perchè passando vicino a una rupe d'un alto monte, tutto di sopra vestito di selve e arbori grandissimi, per ventura vedute molte erbe verdissime e fermatisi per maraviglia, viddero a canto una grotta molto grande, che intrava in detta rupe, dentro della quale dalla banda di sopra per tutto stillavan acque chiarissime, le quali poi nel suo suolo si raccoglievano come in un gran vaso, dal quale per l'abbondanza dell'acqua nasceva un fiumicello che correva giú per il monte. A questo tutti corsero con una estrema allegrezza, e con alcuni vasi fatti di zucche d'arbori si missero a bere, e appresso empieron li vasi degl'Indiani.
Avean fantasia di fermarsi la notte in detto luogo, ma furono disconfortati dagl'Indiani per il pericolo che dicevano esservi delli leoni e altri animali terribili, i quali la notte si riducevan al detto luogo per bere. E per questo andati avanti giunsero alle case del cacique Pacra, qual trovorono senza alcun dentrovi, ma gli altri Indiani vicini, subditi del detto, vennero ad incontrargli, portando loro da mangiar e da bere, dalli quali s'intesero le molte sceleraggini del detto Pacra, qual si dilettava di quel abominevol peccato e usava violenzia a chi non gli compiaceva, e nuovamente avea per forza menate via quattro giovane figliuole d'alcuni signori lí vicini, delle quali faceva quello strazio che gli pareva per suo piacere.
Vasco deliberò, per farsi amici tutti li popoli e signori vicini, di veder d'aver nelle mani il detto Pacra, e parte con lusinghe, e parte con minaccie, fece tanto che s'assicurò di venirlo a trovare. E menò seco tre altri signori similmente imbrattati del medesimo vizio di Pacra. Scrisse Vasco che quello cacique Pacra era nell'aspetto il piú brutto e sozzo Indiano che mai avesse veduto, e che alla bruttezza se gli aggiugneva una ferocità nel guardare che piú presto pareva animale salvatico che persona umana. Giunto che fu, lo fece legare insieme con li tre compagni, dicendo voler udire le querele di quelli che si lamentavano di lui, e far giustizia. Il che intesosi, concorse una infinita moltitudine ad accusarlo, sí de' signori vicini come d'Indiani, provandogli su 'l viso gli enormi delitti e grandissime ribalderie, e principalmente d'aver sforzato tutti li giovani e le giovane che gli venivano avanti, overo che intendeva che fussero in alcun de' luoghi vicini. Per la qual cosa Vasco lo condannò che insieme con li tre compagni vivi fussero devorati da quelli cani che di sopra abbiam detto che Vasco menava seco; quali, avezzi a correr adosso agli Indiani nelle battaglie, come furono loro appresentati costoro legati, in un momento gli mangiorono insino agli ossi. Ma avanti che gli facesse morire, lo dimandò dove egli aveva il suo oro, qual disse non ne avere, e avendogli mostrato li nostri alcune lame e catenelle che in una sua camera avean trovate, qual poteva valer da 1500 castigliani, disse che quell'oro avea avuto dalli suoi antecessori, e ch'erano morti quelli che lo raccoglievano, e che mai s'era dilettato d'aver oro né postovi cura alcuna. Né altra parola di bocca gli potette cavare.
Per questa severità fatta contra Pacra, si fece tanti amici e benevoli tutti li caciqui vicini, che un di loro, nominato Bononiama inteso che Chiappe (appresso il qual restarono gli ammalati) gli rimandava a Vasco con scorta, gli andò ad incontrare menandogli a casa sua, dove dette loro da mangiare abbondantemente, e appresso, donatogli oro per valuta di 1000 castigliani, volse venirgli accompagnar fin al luogo di Pacra dove era Vasco. Al qual di sua mano gli consegnò dicendogli: "O uomo fortissimo e giustissimo, ecco che t'appresento li tuoi compagni, li quali, cosí come sono giunti alla mia casa, cosí te gli consegno. E se questo è stato poco servizio alli tanti beneficii che n'hai fatto, colui che fa venir li tuoni e le saette dal cielo sopra gli uomini cattivi, e a noi con buon tempo dona il maiz e la iucca, ti possi rimeritare". E detto questo, alzati gli occhi verso il sole, dimostrava quello. Poi disse: "Tu con la tua venuta n'hai levato via un crudelissimo tiranno e inimico, e dato pace perpetua a noi e a' nostri figliuoli. Per il che pensiamo che tu e li tuoi compagni siate discesi dal cielo, e però in eterno ne renderemo grazie a quello che t'ha mandato in queste bande". Con simili parole dicono che parlò Bononiama a Vasco, qual lo ringraziò grandemente della buona compagnia e accetto fatto alli suoi compagni, e appresso gli fece assai presenti delle cose sue.
Da costui Vasco intese molti secreti di quelli paesi, e dove si trovava oro assai, e veramente in ciascuna casa degl'Indiani trovorono qualche lama o catenella, che portavano al collo o alle braccia o sopra il petto. Detto Vasco non poté far alcuna esperienzia di far cercare, imperochè di 190 uomini che menò seco dal Darien, di settanta e alcune volte al piú di ottanta si poté servire. E gli altri bisognò andar lasciando indietro in diversi luoghi di quelli cacique amici suoi, perchè caddero in diverse infermità, e sopra gli altri quelli ch'erano venuti dall'isola Spagnuola, che non potettero tolerar il mangiar solamente pane di maiz con erbe salvatiche senza sale, e bere acqua, e qualche volta ancora non ne avendo da potersene saziare, essendo usi nella Spagnuola a viver con piú delicati cibi. Ma quelli del Darien erano assuefatti a disagi grandissimi, di sorte che non è uomo che 'l potesse pensare. E però costoro patirono piú gagliardamente l'asperità di questo viaggio.
La difficultà ch'ebbe Vasco nel passar certe selve e paludi. Del cacique Bucchebua. Ringraziamento e dono fatto a Vasco per Chioriso cacique per la giustizia usata contra gli scelerati. Costumi di quegli Indiani nel mangiare.
Vasco in questo luogo di Pacra stette trenta giorni, parte per farsi amici tutti li popoli vicini, e per aver di quelli cognizione, e parte per ristorare tutti li compagni. Dipoi con le guide dateli da Teaocha si drizzò verso il paese di Comogro, dove corre un fiume del medesimo nome, e passò alcune montagne al descendere in detto paese, nelle quali non trovò alcuna cosa da mangiare, salvo che erbe salvatiche e frutti d'arbori salvatichi. Quel paese era signoreggiato da duoi Indiani parenti, l'uno chiamato Catocho e l'altro Ciuriza. Costoro lo vennero ad incontrare e gli dettero un poco di pane, offerendosi di fargli compagnia. Per la qual cosa Vasco licenziò gl'Indiani del cacique Teaocha, e menò seco questi duoi caciqui, e stette tre giorni a far un camino molto difficile, per alcune selve tanto spesse, che con le scure era forza alcune volte farsi la strada; e poi bisognava passar attraversando valli sopra alcune paludi, nelle quali si affondava di sorte che spesso spesso qualche Indiano che andava avanti si vedeva inghiottirsi dalla palude, al che li nostri provedevano con tagliar assai legnami e distendergli sopra per potervi passare, e cosí passarono queste tre giornate con grandissimi travagli e quasi morti di fame. E la difficultà di questo camino causa il non esser commerzio alcuno di questi caciqui da un luogo all'altro, essendo inimici di continuo e facendosi schiavi e ammazzandosi l'un l'altro.
Pur, giunsero alle case d'un cacique detto Bucchebua, qual trovorono ch'era fuggito alle selve con tutti gli suoi e aveva lasciato le case vacue. Presi alcuni de' suoi Indiani, e mandatogli a dire che tornasse, che non gli fariano dispiacer alcuno, costui gli rispose che s'era fuggito non per altro se non per vergogna, che non aveva il modo di poter accettar li nostri onorevolmente e come meritariano, non avendo alcuna cosa da dargli da mangiare. E per segno d'amore gli mandò a donar alcuni vasi piccoli fatti d'oro, dicendo che se non fusse stato spogliato da un altro cacique in una guerra ch'avea avuto seco, gli averia portato piú oro. Li nostri veramente, ancorchè l'oro che gli mandò gli fusse piacciuto, averiano piú presto voluto qualche vettovaglia che oro, perchè con quello non si potevano aiutar a cavarsi la fame.
Pur, pasciuti con certe radici salvatiche e acqua, si partirono. E andati alcuni miglia, viddero sopra un colle alcuni Indiani nudi che facevano cenni alli nostri che si fermassero. Vasco ordinò che non s'andasse avanti, ma che si vedesse quel che volessin dire. Fermati li nostri, gli Indiani gli vennero subito a trovare, e col mezzo degli interpreti ch'erano con li nostri, s'intese il parlar di costoro, che fu in questo modo: "Il nostro signore Chioriso desidera la vostra salute e il vostro contento. E avendo inteso che siete uomini forti e giusti, perchè punite quelli che fanno ingiurie, e li cattivi e pessimi uomini levate via dalla terra, però per aver questa notizia di voi v'ama e ha in reverenza. Grande allegrezza gli saria stata se fusse arrivati a casa sua, dove v'avesse potuto accettare e darvi delle sue vettovaglie, e si saria reputato piú felice avendovi appresso, che non si reputano quelli ch'abitano doppo la morte appresso il sole. Ma dapoi che la sorte gli è stata contraria, che in questo vostro viaggio non siete passati appresso casa sua ma lontani, in segno di benevolenzia vi manda questi pochi pezzi d'oro". E con viso allegro, ridendo, gli detti Indiani gli porsero trenta come taglieri d'oro, simili a quelli con li quali li nostri preti coprono il calice nel dir la messa. Li quali taglieri questi Indiani con alcuni cordoni portavano appiccati al collo, che pesavano da settecento castigliani.
Dipoi stati un poco, ne feceno intendere ch'aveano non troppo lontano un signor loro inimico, qual era ricchissimo d'oro, e che ogni anno gli andava a molestar rubandogli e facendogli schiavi, e ancor che non lo esprimessero fuori, pur pareva che volesser dire che, ruinando questo signore, li cristiani averiano quanto oro volessino, e loro suoi amici sariano liberati da cosí crudel inimico. La qual cosa mostravano con gesti agl'interpreti che saria facile, volendo fargli spalle, e che loro sariano li primi a cominciar la guerra. Vasco gli fece risponder che ringraziava il suo signore della buona sua volontà e del presente, e che stesse di buona voglia, che presto gli mandaria aiuto che potria vendicarsi degl'inimici, e che gli accettasse all'incontro dell'oro quattro scure di ferro con le quali potria tagliare quel che volessero. Le quali loro presero con grande allegrezza, perchè di queste gl'Indiani tengono maggior conto che dell'oro, perchè dicono che l'oro è cosa vana e cercasi solo per satisfare all'appetito e agli sfrenati desiderii; e che chi mancava di quello non mancava d'alcuna sua commodità.
Costoro non usano nel cibarsi quelle delicatezze che usiamo noi, non vasi lavorati, non tovaglie, non mantili; solo gli signori hanno vasi d'oro in su la mensa, gli altri con una man tengono il pane, o di maiz o di iucca, con l'altra o pesce arrostito o altra cosa che mangia per companatico, e con queste cose caccian via la fame. Della carne rare volte gustano. Se qualche volta accade che s'abbino a nettare le dita, per aversele con qualche cibo unte, se le nettano o a piedi o a' fianchi. Questo medesimo si dice che fanno quelli che abitano la Spagnuola. Quando si voglion bene far netti si tuffano ne fiumi, il che fanno spesso, e cosí si lavano tutto il corpo.
Come arrivorono al cacique Pocchorrosa, e quivi lasciati gli ammalati andorno nello stato del cacique Tumanama, qual fatto prigione con ottanta femine per lui tolte per forza a diversi signori, iscusatosi e liberato fece a Vasco un presente di valuta di 4500 castigliani.
Li nostri partiti di qui andorono piú avanti con assai oro, ma molto mal condizionati per la fame, tanto che arrivorono al cacique Pocchorrosa, dove per trenta giorni pascendosi di pane di maiz essendo affamati si saziorono. Pocchorrosa, intesa la lor venuta, si fuggí; nientedimanco, persuaso dalle buone parole e promesse di Vasco, tornò, alla tornata del quale furono fatti dall'una parte e dall'altra diversi presenti; Vasco donò a Pocchorrosa delle cose che aveva, lui all'incontro donò a Vasco tanto oro che valeva 4500 castigliani, con alcuni schiavi. Volendo Vasco partir di quel luogo, gli fu fatto intendere che gli bisognava passar per lo stato d'un cacique chiamato Tumanama. Questo è quello signore ch'altra volta s'intese dal figliuol di Comogro esser potentissimo, e da temerne assai, appresso del quale molti de' famigliari del detto figliuolo di Comogro erano stati schiavi essendo stati vinti in guerra, la potenzia del quale all'arrivar delli cristiani fu conosciuta esser piccola.
Trovorono che questo cacique non era di là dalli monti, come si pensavano, né aveva tanto oro quanto aveva riferito il figliuolo di Comogro; pensorono non dimanco di saccheggiarlo. Era questo Tumanama nimico di Pocchorrosa. Per questo, quando Pocchorrosa intese la fantasia di Vasco, ch'era di distruggere il suo nemico, gli piacque molto questo disegno.
Lasciò adunque Vasco nel paese di Pocchorrosa tutti gli ammalati, e chiamati a sé sessanta, che aveva sani e molto animosi, espose loro quello fusse da fare, e in un giorno fatto il cammino di due, a fine che Tumanama non avesse tempo a mettere insieme gente, successe loro quanto avevan disegnato. Perchè al principio della notte insieme con gl'Indiani di Pocchorrosa l'assaltorono, e trovatolo sprovisto lo presero insieme con duoi Indiani che teneva appresso di sé e 80 femine, le quali per forza a diversi caciqui aveva tolte. Tutti gli altri subditi erano sparsi in diverse case all'intorno, non pensando a cosa alcuna di guerra, ma sicuri e oziosi.
Le abitazioni di costoro non sono contigue, anzi separate, e tutte di legname e coperte di paglia ed erba o altra simil cosa, molto forti. Alla casa di Tumanama n'era appiccata un'altra, non inferiore a quella; la lunghezza di queste due case fu referito esser di 120 passa, e la larghezza di 50, ed eran fatte cosí grandi per far rassegna degl'Indiani da guerra, qualunche volta a Tumanama era mosso guerra.
Preso che fu Tumanama con tutta la sua compagnia di femine, le genti di Pocchorrosa lo schernivano, sputando loro adosso e facendo molti altri atti di dispregio, i quali in quelle parti s'usano. E quando la nuova fu sparsa fra li vicini al suo stato, tutti ne facevan gran festa, perchè esso era loro molto in odio. Vasco minacciava Tumanama, ma simulatamente, perchè l'animo suo non era di fargli alcuna villania, e dicevagli: "Ladrone, tu patirai le pene delle tue sceleraggini; tu molte volte hai minacciati li cristiani, e detto che se mai venivano al paese tuo, che per li capelli gli strascinaresti al fiume che è qui vicino; tu sarai al medesimo fiume strascinato e dentrovi submerso". E subito comandò che fusse preso; nientedimanco accennò a' compagni che la volontà sua era di perdonarlo, e cosí l'infelice Tumanama, tutto spaventato, pensando che tutto questo fusse fatto e detto da vero, prostrato in terra domandò perdono a Vasco, affermando che mai aveva tali cose dette, e che forse qualcuno delli suoi cortegiani imbriaco aveva usate simili parole.
Li vini di quel paese, benchè non siano d'uve, come abbiam detto, nientedimanco sono atti a imbriacare. Aggiugneva alle sopradette parole ancora che gli signori vicini per invidia l'avevano accusato e finto di lui simili cose, e promesse, se gli era loro perdonato, dare a Vasco una gran quantità d'oro. E ponendosi la man destra al petto disse sempre avere amato e temuto gli cristiani, perchè aveva inteso che le machane, cioè le spade di quelli, tagliavano meglio ed erano piú acute che le spade delli suoi. E voltando gli occhi verso Vasco disse: "Chi sarebbe quello, se già non fusse fuor dell'intelletto, ch'avesse ardire alzar la mano contra la tua spada, con la quale puoi in un colpo fendere un uomo per mezo? Non sia alcuno che creda esser uscito mai di mia bocca parole simili a quelle che da te ho intese, contra li cristiani". Queste e molte altre parole disse Tumanama, e già pensava esser vicino alla morte quando Vasco finse essersi mosso per le sue lacrimose parole, e con benigna faccia parlandogli comandò che fusse lasciato.
Mentre ch'erano a questo ragionamento, gli fece portare Tumanama tanto oro che valeva 1500 castigliani, tutto di catene delle quali s'ornavano le sue femine. Il seguente giorno ne fu portato la valuta di 3000 castigliani dalli cortegiani, per la pena di quello ch'avevan detto contra li cristiani. Ma volendo Vasco sapere donde si cavasse quell'oro, non volse mai Tumanama confessare che si trovasse nel suo paese, ma sempre disse ch'era stato portato alli suoi antecessori dal fiume Comogro, il quale era a mezodí; ma gli uomini di Pocchorrosa dicevano che non voleva dirne la verità, e affermavano che 'l paese suo abondava d'oro, e ch'egli era ricchissimo. All'incontro Tumanama diceva non sapere esser nel suo paese alcuna minera d'oro, ed esser vero che se ne è trovato alcuna volta qualche grano, ma che lui di questo aveva tenuto poco conto, né mai v'aveva atteso, perchè non si poteva far tal cosa se non con lunghezza di tempo e con gran fatica, e poco utile.
Come Vasco, fatto cavare in alcune terre di Tumanama e trovato alquanto oro, essendosi ammalato ritornò al palazzo del vecchio Comogro, al quale per la sua morte era successo il figliuolo, e presentatisi l'un l'altro ritornò in Darien, fatto capitano di tutte quelle genti dal re catolico.
Trovandosi le cose in questo modo, a Vasco vennero quelli li quali eran rimasti ammalati a Pocchorrosa, e arrivarono alli 24 di dicembre 1513, e seco portavano alcuni instrumenti da cavare oro. E perchè il giorno seguente era la Natività di Nostro Signor Iesú Cristo, lo volse Vasco celebrar senza operar cosa alcuna, ma il giorno di San Stefano andò a un monticello non molto lontano dalla casa di Tumanama, e perchè gli parve che 'l terreno tenesse d'oro, fece fare una fossa profonda un palmo e mezo, e in questa trovò grani d'oro non molto grandi. Per questo si può dire che quello che dalli vicini era stato detto a Vasco era la verità, e che li fatti respondevano alle parole, ancor che mai potessino far dire a Tumanama che nel paese suo fusse oro. Il che pensavano alcuni farsi da Tumanama, perchè di quel poco oro ch'avevan trovato ne teneva poco conto. E altri dicevano che lui stava in questa ostinazione solo perchè non arebbe voluto che li nostri, tirati da questo oro, fusser andati ad abitare in quella provincia. Ma questo poco li giovò, perchè Vasco con gli altri suoi elessero per abitare la provincia di Tumanama e quella di Pocchorrosa, e pensavan d'edificare novi castelli in ciascuna di queste, sí perchè fusser come un ricetto a quelli cristiani ch'andassero a quelle bande per passare al mar del Sur, sí perchè pareva loro che quella terra fusse molto atta a produrre qualunche sorte di biada e arbori.
Volendo per allora partir Vasco di quel luogo, volse di nuovo far prova d'un'altra terra, la qual al colore mostrava esser molto atta a generar oro, e cosí, fatta una fossa non molto profonda, in poco tempo referiscono essersi trovato tanto oro quanto era un castigliano, non però in un solo grano, ma in piú. Vasco, allegro per questi segni, dette buona speranza a Tumanama d'avere a tenerlo per amico, pur che lui non desse molestia ad alcuno di quelli che lui suoi amici lasciassi in quelle bande, e gli persuase che attendesse a cavare oro piú che poteva; Tumanama, rimasto in buona amicizia con Vasco, per mostrare quanto di lui si fidava, volontariamente gli dette un suo figliuolo, solo acciochè conversando fra li nostri imparasse la lingua e li costumi nostri, insieme con la religione.
In questo tempo Vasco era gravemente ammalato di febre, per la fatica grande ch'aveva durata, e per la fame e sonno ch'aveva tolerato. Per questo partendo di quel luogo si fece portare su certi legni, che chiamano amache, da' suoi schiavi Indiani; gli altri compagni, parte andoron per lor medesimi, parte, per esser mal condizionati, andoron sostentati dagl'Indiani, li quali tanto eran debili che gli sostenevan sotto le braccia; e arrivato al palazzo del vecchio Comogro, del quale di sopra è fatta assai menzione, lo trovò morto, e che 'l figliuolo era successo in suo luogo, e preso il nome del padre si chiamava Carlo. È il palazzo di questo cacique appiè di monti molto ben cultivati, e ha dalla banda di mezodí una pianura di circa ventisei miglia, molto abbondante e grassa. Questa pianura gli abitatori chiaman zavana. Dopo questa sono li monti altissimi quali abbiam detto dividere li duoi mari, cioè il mare del Sur dal mare del Nort. Da questi monti discende il fiume Comogro, il quale, scorrendo per quella pianura e per valli d'altissimi monti, dove riceve molti fiumi e fonti che discendon da quelli, va a sboccare nel mar del Sur cioè di mezodí, ed è lontan dal Darien circa 70 leghe verso ponente.
Come Carlo intese il venir delli nostri, venne loro incontro ballando con molti Indiani, e facendo grandissima allegrezza menogli al palazzo, dove dette loro da mangiare abbondantissimamente, poi gli presentò oro per valuta di duemila castigliani. Ma Vasco gli donò all'incontro molte delle cose sue, e tra l'altro un saio di panno e una camiscia sottile di tela, e alcune scure per poter tagliar arbori e fabricar case, che gli furono molto care. E subito il detto Carlo si volse vestire delli presenti donatigli da Vasco, tenendosi molto superbo, e da piú d'alcun altro cacique vicino.
Stato qui Vasco alcuni giorni, avanti che partisse, chiamato a sé Carlo con molti delli suoi principali, gli disse ch'avendolo conosciuto prudente e grande amico delli cristiani, dalli quali vedeva essere stato onorato e accarezzato, lo pregava che dovesse continuare in questo buon volere, né mai partirsi dall'obedienzia del re catolico. E volendo che gl'inimici suoi vicini mai gli potessin nuocere, e che sempre li cristiani fussero in suo aiuto e difendessero le sue case, mogli e figliuoli, l'essortava a raccorre piú oro che gli fusse possibile, per presentar al tiba, che cosí chiaman un gran re, volendo intender il re catolico. Detto questo si misse in cammino a dirittura alla casa del cacique Poncha, dove avea promesso a quelli del Darien tornare subito che potesse. E in questo luogo trovò esser arrivati quattro giovani venuti dal Darien per incontrarlo per suo ordine, e per dargli nuova che là eran giunti alcuni navili dalla Spagnuola carichi di vettovaglie. Per la qual cosa lui, presi venti delli compagni li piú sani, a gran giornate se n'andò al Darien. Gli altri lasciò appresso Poncha con ordine di mandargli con duoi navili a levare, subito che fusse arrivato al Darien, come poi fece. E questo fu l'anno 1514 alli 19 di gennaio.
Arrivato Vasco al Darien, con quella prestezza che gli fu possibile scrisse al re catolico, dimostrandogli quanto aveva operato in quelle bande. Le lettere al re furon molto grate, il che dall'effetto si conobbe, perchè dove Vasco, come s'è detto, era stato giudicato rebelle di sua maestà, subito tornò in grazia e fu fatto capitano di tutte le genti che si trovavan nel Darien, e giustamente, perchè cosí meritavan le fatiche e disagi tollerati in una cosí grande e degna impresa, come a suo luogo si dirà.
Come Vasco, inteso che sopra il fiume Dabaiba in certi monti si trovava oro infinito, andò con 300 uomini a quella volta, e assaltati da quattromila Indiani, appiccatosi una gran zuffa prima furono superati gl'Indiani, dipoi, rinforzatasi la pugna, Vasco gravemente ferito fu costretto ritornarsi in Darien.
Essendosi riposato il capitan Vasco alcuni giorni e ristoratosi delle fatiche, molti uomini principali del Darien lo vennero a trovare, dicendogli che avevano inteso d'alcuni Indiani stati molte leghe fra terra, come sopra il fiume Dabaiba, qual mette capo nell'ultimo angulo del golfo d'Uraba con sette bocche, e per la sua grandezza, come di sopra s'è detto, fu chiamato il Rio Grande overo di S. Giovanni, abitavano in alcuni paludi molti Indiani, quali andavano alli monti vicini dove raccoglievan infinito oro, e quello poi barattavano in diverse cose che faceva lor di bisogno per il vivere e casa sua. E che chi facesse quella impresa troveria molto oro appresso detti Indiani, che tengon del continuo raccolto. Questo partito piacque grandemente a Vasco, perchè era desideroso di veder cose nuove.
Per il che, messi insieme 300 uomini con li detti del Darien e montati parte sopra brigantini, si misero a navigare al contrario d'acqua su per il detto fiume, qual dove sbocca nel golfo sopradetto è gradi sei sopra l'equinoziale. E andati per spazio di 40 miglia sempre trovavano d'una banda e dall'altra grandissimi paludi, con canne e giunchi ch'erano molto grossi; e la notte infiniti pipistreli e zanzare molto grandi che gli mordevano. Vedevan ben di lontano alcuni monti, ma non vi potevan andar, impediti dalle dette paludi; vedevan ancora molti arbori simili a palme, altissimi. Incontroronsi in molte canoe piene d'Indiani tutti armati di freccie e archi, quali come vedevan li nostri, tirate le freccie, si mettevan a fuggire per alcuni canaletti di detti paludi, tanto stretti ch'era impossibile potergli giugnere.
Pur, dapoi fatti circa 60 miglia, trovoron una grande pianura dove questo fiume faceva un lago, nel quale era una isola tutta piena d'arbori di palme altissime, sopra le quali, per esser nate una appresso l'altra, avean fatte le sue abitazioni gl'Indiani, attraversando legni dalli rami d'una all'altra, e poi serrando all'incontro con altri legni e foglie, tale che parevano come palchi coperti; e ciascuno aveva certi legami di stroppe appiccati al tronco, per li quali vi montavano sopra, e tutti questi palchi eran continui e appresso l'uno all'altro per la densità degli arbori, che di lontano pareva cosa strana a vedergli, perciò non si poteva comprender se fussero abitazioni overo bosco folto.
Di sotto questi palchi erano adunati circa quattromila Indiani, tutti armati d'archi e freccie venenate e dardi lunghissimi, quali con un certo legame appiccatovi tiravano ove volevano. Aveva tutta questa moltitudine di case un canale in mezzo che la divideva in due parti, dove erano legate molto delle loro canoe. In questo canal essendo entrato Vasco Nunez con tutti li compagni, furono assaltati d'ogni canto da detti Indiani, e gli furono tirate tante freccie venenate, e dietro e davanti, che non fu possibile di coprirsi tanto con gli scudi che non ne fussero feriti al primo tratto piú di 107, quali morirono.
Vasco, essendosi trovato in tante zuffe con Indiani, e in tutte riportatone vittoria, non volse patir questa vergogna, ma smontato sopra una ripa con il resto si misse ad ordine meglio che potette, per esser il sito tutto intricato d'arbori, e con gli schioppi cominciò a salutargli. Gl'Indiani, udito lo strepito e veduto il fuoco, si misero a fuggire, ma vedendo che li nostri volevano montare sopra li palchi, dove erano lor mogli e figliuoli, come arrabiati fra quella densità d'arbori vennero di nuovo ad assaltargli, non stimando la morte, e tirorono tante freccie e dardi che la maggior parte degli smontati furono feriti; e Vasco medesimo ebbe due ferite, una sopra 'l viso d'una spada di legno, la qual tagliava come se la fusse stata di ferro, l'altra fu d'un dardo che gli passò il braccio diritto. Quelli ch'eran restati ne' brigantini, dagl'Indiani ch'eran dall'altro canto del canale furono similmente per la maggior parte feriti, tanto che finalmente Vasco ferito, con gli altri molto maltrattati, furono costretti tornarsene alle barche a seconda del fiume e andarsene al Darien.
Come Petraria, governator della terra ferma dell'Indie occidentali, dopo scoperte alcune isole, monti, fiumi e porti, entrò nel porto di Santa Marta, dove abitano uomini ferocissimi, e come furono ribattuti da' nostri. Delle gioie trovate per Gonzalo Hermandes, e d'una gran valle molto abitata, e diverse cose che in quella si trovorono.
Ma torniamo a Petraria, governator della terra ferma dell'Indie occidentali, qual partí, come di sopra abbiam detto, con l'armata di 17 navili e 1200 uomini al principio dell'anno 1514, e in otto giorni giunse all'isola delle Canarie che si chiama la Gomera, dove stette 16 giorni per fornirsi di acqua e legne, e ancora per acconciare il timon della nave capitana, che per fortuna se gli era rotto. Poi, messosi in mare alla volta di ponente, ma un poco verso gherbino, a' 3 di giugno arrivò all'isola delli canibali detta la Domenica, gradi 14 sopra l'equinoziale, dove stette quattro giorni per far legne e acqua, né mai vidde uomo o vestigio d'alcuno che vi fusse stato, ma vi trovò gran copia di granchi marini e di lagarti.
Di qui partitosi, passando avanti l'isola Matitina, Guadaluppo e Galante, entrò in un mare pieno di molte erbe, per il quale abbiamo detto che navigò l'admirante Cristoforo Colombo. Né dal detto, né da questi altri s'è potuto intendere la vera causa donde procedino quelle tante erbe, né si sa se le naschino nel fondo del mare e poi venghino a pelo dell'acqua, come si vede in molti laghi, o vero che naschino negli scogli e isole vicine, le quali sono infinite, e poi per furia di venti spiccate da quelle, vadino notando sopra 'l mare.
Quattro giorni dipoi partiti dall'isola Domenica, andando verso ponente, scopersero monti altissimi sopra la terra ferma, carichi di nevi, dove trovorono grandissima correnzia del mare verso ponente; e pareva che l'acque fussero d'un rapido torrente. Da' detti monti correva il fiume Gaira, gradi 11 sopra l'equinoziale, dove furono rotti li nostri con Rodorico Colmenar, e molti altri fiumi della provincia de' Caramairi, dove sono due bellissimi porti, uno nominato di Cartagenia, gradi dieci e mezo, l'altro di Santa Marta, gradi undeci sopra l'equinoziale. Ma il porto di Santa Marta è piú vicino a' monti delle nevi, perciochè quasi giace alle radici di detti monti. Il porto di Cartagenia è piú verso ponente, circa 50 e piú leghe.
In questo porto di Santa Marta trovorono gli abitatori essere persone ferocissime e grandi arcieri, sí gli uomini come le femine, i quali veduti i nostri, si fecero loro incontro con tante saette venenate ch'era maraviglia a vedere e la moltitudine e l'animo di quelli ch'avessero ardire, vedendo tanta armata, volerla combattere. Pur, poi da' nostri furono discaricate l'artigliarie, per il fuoco e strepito che sentirono si missero a fuggire, perciochè parve loro che fussero saette che venissero dal cielo, le quali abitando appresso quegli alti monti sentono spesso.
Il governatore misse in terra in detto porto da 900 uomini, qual è di circonferenzia circa tre leghe, profondo, e d'acqua tanto chiara che si vedea nel fondo ogni picciola pietra. In questo porto sboccano due fiumi piccioli e atti solamente a navicarvi con canoe, nelli quali fiumi e porto trovorono gran quantità di pesci, cosí marini come d'acqua dolce, e molte erbe e case di pescatori, nelle quali erano infinite reti fatte a diversi modi di filo di cottone e di radici d'erbe, alcune lunghe e larghe, con pietre appiccate da una banda, altre strette e fatte in forma di sacco, legate ad alcuni legni lunghi, quali ficcano sotto il mare quando pescano. Trovoronvi ancora assai quantità di pesci salati e altri secchi, de' quali ne aveano acconci assai sopra legni con foglie, e pareva che fussero preparati per portar in qualche paese lontano; trovarono ancora cantari, scodelle, taglieri e pignatte fatte di terra cotta benissimo lavorate; ma sopra tutto si maravigliarono d'alcune, che erano come urne grandi di terra cotta, che adoperano a tenervi l'acqua fresca, tutte dipinte di varii colori con animali e fiori.
Gl'Indiani, ancorchè fussero stati ributtati, come viddero entrare i nostri nelle loro case, dove erano rimase molte femine e fanciulli, tornorono di nuovo come arrabbiati ad assaltare i nostri con freccie, ma similmente con gli schioppi furono fugati e rotti. E li nostri gli seguitorono per spacio di una lega.
Donde ritornati, trovorono in alcune altre case molte stuore, ch'erano fatte di canne sottili sfesse e d'alcune erbe e di sparto. Ma prima tutte queste cose erano state tinte di vari colori, cioè giallo, rosso, azurro finissimi, e poi tessute con grandissima arte, perchè si vedevano ritratti leoni, tigri, aquile e altre sorti d'animali. Similmente v'erano panni fatti di cottone tessuti con li medesimi animali di diversi colori; e con questi cuoprono li muri delle loro case, sopra le porte delle quali, e sopra quelle delle camere appiccano alcune filze fatte di scorze grandi di lumache marine, le quali, come il vento le muove, fa un certo suono che gli diletta grandemente.
Sopra questa armata del detto capitan Petraria si trovava un gentiluomo, Gonzalo Hernandes d'Oviedo, persona molto dotta e virtuosa, e al qual il re catolico avea dato il carico di veder il fonder l'oro di tutte le minere. Costui, dismontato e andato capo di molti uomini fra terra, trovò in alcuni monti alcune rocche di calcidono, diaspro, e un pezzo di zafiro maggiore d'un ovo di oca; trovò ancora pezzi d'ambra gialla; delle quali pietre preziose ne viddero anche in alcune case appiccate alli panni di cottone che tengono, come è detto, sopra li loro pareti. E che gran parte delli boschi di quelli paesi erano d'alberi di verzini. Intese il detto Gonzalo, d'alcuni Indiani presi, come alcuni di quelli popoli Caramairi di Gaira e Saturma, che è una provincia vicina gradi undici sopra l'equinoziale, li quali abitano appresso il mare, erano grandissimi pescatori, e che con li pesci insalati che danno per baratto, aveano da popoli lontani tutte le stuore e cottone e masserizie che fa loro di bisogno per casa sua.
Entrò il detto Gonzalo fra terra in una valle che poteva esser larga due leghe e lunga tre, tutta abitata, ma le case erano separate e lontane una dall'altra, poste tutte alle radici di colline verdissime e piene d'arbori fruttiferi, con fontane che d'ogni canto discendevano. In questa valle trovò infiniti orti e campi lavorati e seminati, quali adacquavano con quelle fontane per canali fatti a mano. In questi orti e campi erano agies, iucca, maiz, batatas e molti altri frutti naturali di quel paese, la descrizione e natura delli quali al presente non si dirà, avendone il detto Gonzalo Oviedo scritto particolarmente e distintamente. Il libro del quale sarà il secondo dell'istoria di queste Indie occidentali, per non esservi pretermesso di dire cosa alcuna che si possa desiderare.
L'aere di questi paesi è tanto benigno e temperato, ch'avendo dormito li nostri molte notti al discoperto, sopra le ripe de' fiumi, mai si sentirono la testa grave. Son fatte le strade tanto diritte e a filo che pareva che fusser state tirate a corda.
Presono molti di questi Indiani, quali menorono a veder le nostre navi, e dapoi vestitogli con nostri panni, e datogli da mangiar e bever del nostro vino, gli lasciavano andar a trovar gli altri, e questo facevano per dimesticargli e far amicizia con loro. Ma il tutto era indarno, perchè ogni volta che gl'Indiani vedevano li nostri gli salutavano con freccie venenate; delle quali, e d'archi in alcune case trovorono le camere piene, come per munizione, qual tutte furono abbruciate.
Nelle case fra terra trovorono assai carne di cervi e porchi cignali, e molte sorte d'uccelli ch'allevano in casa, con li quali per molti giorni li nostri ebber buon tempo. Eranvi ancora molte palle grandi di cottone filato, e tinto in diversi colori finissimi, e fasci di penne grandi d'uccelli di diversi colori, con le quali si fanno alcuni pennacchi che portano in capo, sopra alcune meze teste di dette penne, a modo che portano gli uomini nostri d'arme a cavallo. Fannosi ancora con dette penne certi vestimenti corti per ornamento.
Conservano in alcune camere separate dalla casa l'ossa e le cenere delli suoi signori, poste in alcuni vasi di terra cotta dipinti. Altri non gli abbrucciano, ma gli seccano, e coperti con tele di cottone, ch'hanno alcune lamette d'oro intorno, gli salvano con gran riverenza. Di queste lamette d'oro e catenelle ne trovorono assai, ma l'oro era di basso caratto, come al fonder si conobbe. Non molto lontano dal lito trovorono alcuni pezzi di marmo bianchissimo e durissimo, che si vedevano che di lontano erano stati portati in quel luogo, e pareva che fussero stati lavorati da maestri scarpellini. Il che fece maravigliar li nostri, non avendo detti Indiani ferro alcuno da poter tagliarli.
In questo luogo, per mezo d'alcuni Indiani presi, intesero come il fiume del Maragnon, qual abbiam detto esser tanto grande nella bocca, discendeva da quelli monti altissimi carichi di neve; qual poi facendo un gran circuito, passando per diversi paesi, e ricevendo in sé gran moltitudine di fiumi, andava a sboccare in mare.
Avendo li nostri intese le sopradette cose, ed essendo carichi di preda tolta nelle case di detti Indiani, montati in nave alli 15 di giugno si partirono, e presono il cammino verso il porto di Cartagenia e alcune isole lí vicine abitate da canibali per ruinargli, avendo cosí in commessione dal re catolico; ma era tanta la correnzia dell'acqua del mare verso ponente, che tutti li pilotti dell'armata si trovorono ingannati, ancor che fusser pratichi di quelli mari, perchè in una notte furono transportati 40 leghe piú in là di quello si pensavano.
La qual correnzia è tanto grande in alcuni luoghi di questa terra ferma, che l'admirante, qual fu il primo che la vidde, soleva dire che quando ei navigò appresso la costa di detta terra, dove è Beragua, verso ponente gradi sette sopra l'equinoziale, volendo tornare alla volta di levante, alcune volte buttato lo scandaglio in mare quello non poteva andar al fondo, perchè dal corso del mare era tirato a pelo d'acqua, e ancor ch'avesse vento in poppa non potevan però far un miglio il giorno.
Varie opinioni circa la correnzia del mare di continuo appresso li liti dell'Indie occidentali, e donde proceda il flusso e reflusso che 'l mare fa ogni giorno.
Della qual correnzia non mi par fuor di proposito parlare un poco, ancor che fin a ora (per quel che s'è inteso) non se ne sappi la vera causa, come anche non s'è potuto comprender da che proceda il flusso e reflusso che 'l mar fa ogni giorno, piú in una parte che in un'altra, come nel seguente libro si dirà; del qual alcuni assegnano la causa alli moti della luna, altri del sole, chi a' venti che sian sotto il mare, e chi pensa che li particolari siti della terra, dove quella è piana, facci parere detto reflusso maggiore e minore. Né manca chi dica il mar esser come un animal grande qual respiri, e da questo naschino questi flussi e reflussi. Ma di questo correr del mare del continuo appresso li liti di dette Indie occidentali da levante in ponente, che causa ne potremo assegnare? Quelli che dicono che 'l mar Maggiore sempre alla bocca che è appresso Costantinopoli corre fuori, oltre che dicono che venendo l'acqua di sotto tramontana, la qual parte tengono che sia la piú alta della terra, e per questo corrono all'ingiú, come a luogo piú basso, vogliono ancora che proceda dalli gran fiumi che in quello metton capo, e per la quantità di rena e terra che conducono in detto mare gli alzino il fondo, e di qui nasca il tanto correr dell'acque per quella bocca. La qual causa come potrem poi salvare, vedendosi che tutti li mari Mediterranei, nelli quali corrono innumerabili fiumi e non hanno altro esito che lo stretto di Ghibilterra, non sboccano per quello, anzi par che 'l mar Oceano vi corra dentro e si vada voltando a man dritta verso la costa di Barberia, e scorra a canto detta costa fino in Alessandria, che è da ponente in levante? Ancor che di questo entrar dell'Oceano per lo stretto di Ghibilterra un savio antico n'adducesse questa ragione, che essendo l'Oceano manco profondo che il mar Mediterraneo, perchè in quello non regnano venti che lo cavino come negli altri mari, e massime che quella parte che è vicina all'isola Corsica e Sardigna, nel qual luogo questo medesimo ha opinione che quel sia piú profondo che in alcun'altra parte del mare Mediterraneo, per questo l'Oceano sbocca per detto stretto nel detto mare, per correre a un luogo piú basso.
Quelli che hanno navigato la costa di detta terra ferma dell'Indie, pensano che in quelle parti dove la terra si ristrigne, fra il mar del Nort e il mar del Sur, o vogliam dir fra la Città del Nome di Dio e Panama, gradi sette sopra l'equinoziale per spazio di miglia ottanta, siano caverne grandissime, per le quali tutte l'acque d'un mare sbocchino nell'altro, girandosi poi verso levante, e che la causa di questo girare sia il moto del sole che le tiri seco. Altri credono che per queste caverne l'acque corrino al suo principio, il quale sia in mezzo della terra, secondo l'opinione d'un savio antico, dal quale di nuovo dipoi eschino e vadino girando successivamente. Altri dicono che le dette acque corrono a ponente, perchè sono strette da innumerabili isole, che di continuo si veggono, non troppo lontane dalla costa, e che poi che sono corse in capo d'un golfo che fa detta costa, l'ultimo angulo del quale è gradi ventitre sopra l'equinoziale, girino intorno, come si vede che fanno l'acque nelle volte d'alcuni fiumi grandi. E che la causa proceda dall'isole dicono toccarsi con mano, perciochè, partendo dalla Spagnuola e ritornando verso le parti nostre di levante, come si sono allontanati molte miglia in mare, non si sente correnzia alcuna. Sono alcuni che pensano che dette acque vadino correndo sempre appresso li liti e coste di detta terra ferma, la qual va verso ponente dove la fa il golfo sopradetto, e poi si voltino verso tramontana, dove ancora non si sa alcuno che abbi trovato dove termini la terra, la qual si pensa che sia appiccata con l'Europa.
Come Sebastian Gabotto viniziano, partitosi d'Inghilterra per scoprir nuove terre, in certo luogo trovò la Tramontana sopra di sé elevata cinquantacinque gradi, e la notte in quel luogo non esser simile alle nostre; e in che modo gli orsi faccino la caccia con certi pesci grandi detti baccalai.
Ma a questa ultima opinione è contraria la navigazione che fece il molto prudente e pratico dell'arte del navicare Sebastian Gabotto viniziano. Costui essendo piccolo fu menato da suo padre in Inghilterra, dapoi la morte del quale trovandosi ricchissimo e di grande animo, deliberò, sí come avea fatto Cristoforo Colombo, voler ancor lui scoprire qualche nuova parte del mondo. E a sue spese armò duoi navili, e del mese di luglio si misse a navigar tra il vento di maestro e tramontana, e tanto andò avanti che col quadrante vedeva che la Tramontana gli era levata gradi 55, dove trovò il mare pieno di pezzi grandissimi di ghiaccio quali andavan in qua e in là, e li navili andavano a gran pericolo se urtavano in quelli. In quel luogo allora non si vedeva la notte simile alle nostre, perchè quel spazio che è dal tramontar del sole al levare era chiaro come da noi si vede la state alle 24 ore. E per cagione di detto ghiaccio gli fu forza tornarsene adietro, e torre il camino per la costa, la qual scorre prima per un spazio verso mezodí, poi si drizza verso ponente, e perchè in detta parte trovò una moltitudine di pesci grandissimi che andavan insieme appresso li liti, e intese per cenni dagli abitatori che gli chiamano baccalai, chiamò questa la terra delli Baccalai. Con li quali abitatori avuto un poco di commercio, gli trovò esser di buono intelletto, e che andavan coperti tutto il corpo di pelli di diversi animali. In questo luogo, e poi nel resto della navigazion che fece dietro a questa costa verso ponente, disse che sempre trovava l'acque correr verso ponente, alla volta del golfo che abbiam detto che fa detta terra ferma.
Né voglio che lasciamo adietro un giuoco, qual referí detto Sebastian Gabotto aver veduto insieme con tutti li compagni con lor gran piacere, che molti orsi che si trovano in quel paese venivan a far la caccia di questi pesci baccalai in questo modo. Appresso li liti sono molti arbori grandi, le foglie de' quali cascano in mare, e li baccalai a schiere le vanno a mangiare. Gli orsi, che non si pascon d'altro che di questi pesci, stanno in agguato sopra li liti, e come veggono appressarsi le schiere di detti pesci, quali sono grandissimi e hanno la forma di tonni, si lanciano in mare abbracciandosi con un di loro, e appiccandogli l'unghie sotto le squamme non gli lascian partire, e si sforzan di tirargli su 'l lito. Ma li baccalai, ch'hanno gran forza, gli girono intorno e tuffano in mare, di maniera che essendo questi duoi animalacci insieme è grandissimo appiacere vedere ora un sotto il mare, ora l'altro di sopra, sbuffando l'acqua in aere. Pur alla fine l'orso tira il baccalao al lito, dove se lo mangia. Per questa causa si pensa che tale moltitudine d'orsi non faccino dispiacere agli uomini del paese.
Del giunger del governator Petraria all'isola detta Forte, e poi al Darien, e l'accetto fattogli per Vasco Nunez. Del cacique Caretta. Come esso governatore ordinò si facessero tre ridutti per facilitar il cammino del mar del Sur. Delle ruberie di Giovanni Aiera mandato per il governator per passar il mar di mezzodí.
Ma torniamo al governator Petraria, qual dalla correnzia del mare essendo transportato di là dal porto di Cartagenia, e alcune isole de' canibali, e l'isola di San Bernardo, e tutta la costa di Caramairi, giunse all'isola detta la Forte, gradi 9 sopra l'equinoziale; dove smontato, tutti gli abitanti fuggirono alle selve e abandonorono le case, nelle quali li nostri trovorono tra l'altre cose alcuni canestri fatti di canne marine, tessuti con tanta arte che piú non si potria dire, quali eran pieni di sale bianchissimo, il qual portano quelli popoli in terra ferma, e fanno baratto con altre cose le quali fanno lor di bisogno. Detta isola ha molti luoghi dove il sale da se medesimo si fa, come abbiam detto di sopra. Essendo quivi surte le navi, si viddero non molto lontano sopra certi scogli infiniti uccelli grandi con un gozzo rosso avanti il petto, tanto grande che vi poteva star dentro uno staio di grano. Delli quali un volò sopra la nave capitana e lasciossi pigliare, qual per esser bellissimo fu portato a torno a mostrare per tutta l'armata, ma dopo alcuni giorni morí.
Da questa isola finalmente arrivorono al golfo d'Uraba, e alla città di Santa Maria Antica del Darien, dove venne loro incontro tre miglia Vasco Nunez con tutto il popolo, e gli ricevette con grandissima allegrezza, e furono alloggiati in tutte le case piú commodamente che fu lor possibile; e la prima sera ebber da cena pan di maiz e iucca, con pesci salati e infinite frutte del paese, ma il giorno seguente, discaricate le farine, biscotto e carni salate, furon partite a casa per casa secondo il numero degli abitanti. Poi si ridussero a consiglio con il nuovo governatore piú di quattrocento degli abitatori del Darien, dove da Vasco Nunez, come capo, fu narrato il successo particolarmente del viaggio fatto nel scoprir il mar del Sur, e le ricchezze grandi ch'avean inteso in quelle isole e parti, e il modo che si doveva tenere per potervi andare commodamente. Le quali cose intese dal governatore, fu laudato grandemente Vasco, dicendo che meritava la grazia del re catolico d'esser tenuto fra li cari suoi capitani, e gli fece grandissime carezze.
In questo tempo il cacique Caretta, signor di Coiba, inteso il giunger del signor governatore, volse andarlo a visitare, e portogli molti presenti, tra li quali fu una veste con le maniche, non troppo lunga, tutta lavorata di penne d'uccelli di varii colori, e due coltre grandi fatte pur di dette penne, le quali d'ogni banda parevan di seta. Il governator gli donò all'incontro una veste di raso e un giuppone con una baretta di velluto, che gli furono molto care. Dimorò Caretta con il governatore tre giorni, sempre sedette alla sua mensa e fu servito con li cibi preparati al modo nostro, delli quali sopra gli altri gli piacquero il nostro pane e il vino; e dicevano non aver mai mangiato la miglior vivanda, né bevuto la miglior cosa. Dapoi il desinare il governator faceva sempre sonar diverse sorti d'instrumenti di musica, e avendo il Caretta quelli uditi con grandissima attenzione, sospirando disse che gli cristiani avevano molti piú doni dal sole che non avevan loro Indiani, imperochè sí come avevan le saette del cielo nelle lor mani, con le quali quando vogliono ammazzano li loro inimici, cosí ancora hanno suoni di tanta suavità e dolcezza che potevan far tornar vivi li loro amici quando fussero morti.
Il governator, per fargli maggior onore, fece metter ad ordine un squadrone di gente a cavallo, tutti armati d'armi bianche con li cavalli bardati, e fece far loro una mostra avanti quello, della qual cosa restò molto stupefatto, vedendo la bellezza e destrezza di quelli che maneggiavano li cavalli. Fu menato poi sopra le nostre navi, le quali similmente con grande ammirazione vidde; a proposito delle quali detto Caretta disse che si trovava in quella provincia arbori grandissimi, e il legno delli quali è tanto amaro, che facendone navili li vermini, li quali vi sogliono nascere sotto quando stanno gran tempo in mare, per causa della detta amaritudine non vi nasceriano. E di questo n'avevano fatto prova nelle loro canoe, imperochè quelle che erano fatte di detti arbori, mai si trovavano corrose da' vermini. E appresso esservi altri arbori tanto venenati che solamente il fumo di quelli, abbrucciandone, ammazzavano l'uomo che lo sentiva. Detto cacique, stato con li nostri tre giorni, ben contento e satisfatto si partí.
Il governator Petraria, per scoprir piú che fusse possibile di questa terra ferma e far piú facile il cammino verso il mar del Sur, ordinò, con il parere e consiglio di Vasco, che subito fussero fatti tre ridotti, dove li cristiani potessero alloggiarsi sicuramente quando passassero per quel cammino. Il primo fece far nel paese di Comogro. Il secondo nella provincia di Pocchorrosa. Il terzo in quella di Tumanama, e a ciascun d'essi pose sufficiente guardia. Mandò diversi capitani, altri ad una parte e altri ad un'altra, e prima mandò un Giovanni Aiora, gentiluomo di Cordova, molto onorato, con molti uomini sopra due caravelle, verso la costa del mare dove confina il paese di Comogro, per passare da quel luogo al mar di Mezzodí. Costui, smontato in terra, andato a trovar il cacique Carlo, che abbiam detto di sopra che fu battezzato da' nostri, cominciò a torgli per forza tutto l'oro e robe di casa che poteva trovare, né sazio di questo si misse a spogliare tutte le femine e uomini di quelli panni di cottone con li quali si coprivano le parti vergognose; e de lí partitosi, andato a diversi paesi di piú caciqui, tutti gli saccheggiava senza rispetto alcuno, di sorte che ovunque si sentiva la venuta di costui tutti fuggivano. Poi ch'ebbe fatte ruberie, dubitando d'essere punito dal governatore, se ne venne con alcuni suoi fidati verso il mare, dove sapeva trovarsi una caravella, e sopra quella ascosamente montato, con l'oro e robbe se ne fuggí, né di lui mai s'è saputo nuova alcuna.
Come Gasparo Morales, mandato dal governatore, pervenne all'isola delle perle, e superato dopo lunga battaglia il cacique di detta isola fece dipoi grande amicizia con lui, e donogli un canestro di perle, e battezzossi con tutta la sua famiglia, e fattosi tributario di pagar ogni anno al re catolico libre cento di perle. E come elle nascono.
Mandò similmente il detto governatore un Gasparo Morales a passar li monti verso il mar del Sur, e dettegli l'impresa di passar l'isola ch'è nel golfo di San Michele del detto mare, la quale si vedeva da' liti, e dicevan sopra quella nascer perle molto grosse, come da Vasco Nunez aveva inteso; e mandò con lui cento uomini, fra i quali erano alcuni di quelli che furono con il detto Vasco la prima volta che discoperse il detto mare. Costoro, passati li monti e giunti a' caciqui Tumacco e Chiappe, gli presentorono di varii doni, e dissero esser venuti per andare a subiugare il re dell'isola delle perle, che cosí allora la chiamarono, ancorchè d'altri sia stata chiamata l'isola dell'oro. Questi caciqui accettorno il detto Gasparo molto volentieri con tutta la sua compagnia, e fatta provvisione di lor vettovaglie, e delle barche che chiamano culche, passarono sopra l'isola. Ma per mancamento ch'avevano di culche, non vi poterono passare se non sessanta de' nostri.
Il cacique di questa isola, avendo inteso che i cristiani erano venuti nel paese di Tumacco e Chiappe, come vidde venir le culche per mare verso l'isola, se gli fece incontro con gran moltitudine d'Indiani armati di lancie e spade di legno, i quali gridavano "guazzavara guazzavara", che vuol dire alla guerra d'inimici. Con tanta ferocità e ardire assaltorono i nostri da diverse bande, che essendo tre volte stati ributtati sempre tornavano con maggior ardire ad assaltargli. Finalmente, essendone stati morti molti dagli schioppi, se ne fuggirono. Ma dopo questa rotta il cacique attendeva a mettere insieme piú gente che poteva, benchè fu persuaso dalli vicini, che lo confortavano che non volesse piú combattere con li nostri, ponendogli avanti agli occhi con lo essempio loro la ruina del suo stato se perseverasse, e mostrandogli l'amicizia delli cristiani avergli ad esser molto utile e gloriosa. E gli dicevano quel che a Poncha, a Pocchorrosa, a Chiappe e Tumacco fusse intervenuto, per aver voluto combatter con essi.
Finalmente costui, posate l'armi, venne incontro a' cristiani e menogli al suo palazzo, il quale era maravigliosamente edificato, e subito che furono entrati dentro presentò al governatore un canestro molto ben lavorato pieno di perle, la somma delle quali fu circa 110 libre, ad oncie otto per libra; e avendo avuto in cambio alcune filze di paternostri di vetro, specchi e sonagli, n'ebbe gran piacere, e ancora qualche scure, le quali stiman piú che i monti dell'oro. E perchè vedeano che' nostri lo stimavan molto, se ne rideano, e parea loro gran cosa che per un poco d'oro dessero una cosa sí grande e tanto utile, essendo le scure all'uso dell'uomo tanto necessarie.
Allegro adunque per la conversazion de' nostri, prese per mano i primi d'essi e gli menò alla piú alta parte del palazzo, dove era una torre dalla quale si potea veder tutto quel mare, e voltando gli occhi intorno disse: "Ecco qui questo gran mare". E dipoi mostrava la terra distendersi in infinito, e oltre a questo mostrò molte isole propinque e disse: "Queste tutte son sottoposte al nostro imperio, tutte felici e ricche, se voi chiamate quelle terre ricche le quali son piene d'oro e di perle. D'oro noi ne abbiam poco, ma di perle son pieni tutti questi mari vicini a queste isole. Di queste qualunche vorrete sarà vostra, purchè perseveriate in quell'amicizia che fra noi s'è cominciata. Io molto piú mi contenterò della utilità che avrò della vostra buona grazia, che delle perle. Per questo tenete per certo ch'io mai sarò per separarmi da voi". Queste e molt'altre parole furon dette fra loro, e volendosi i nostri partir di quel luogo vennero a questo patto, che questo cacique ciascuno anno mandasse un dono al re catolico di libre 100 di perle. Lui accettò la condizione e poco la stimò, perchè gli parve piccola cosa, né per questo si pensò esser fatto tributario.
È appresso questo signore, il paese del quale è sei gradi lontano dall'equinoziale, tanta copia di cervi e conigli che potevan li nostri di casa al lor piacere ammazzarne quanti volevano. Il pan di maiz e di radici e vino, con altri frutti del paese, è in questo luogo simile a quel di Comogro. Battezzossi costui con tutta la sua famiglia, e volle esser chiamato per il nome del governatore Pietro Aria, e perchè amichevolmente s'abboccorono insieme si spartirono nel medesimo modo, cioè avendo fatto insieme grandissima amicizia, e volse il cacique mandar molte delle sue culche in compagnia e aiuto delli nostri, acciochè piú commodamente potesser tornare in terra ferma, e lui in persona gli accompagnò infino al lito. Delle perle la quinta parte fu assegnata dipoi alli tesorieri del re, il restante fu diviso fra li compagni equalmente.
Fra queste perle che portò Gasparo Morales dalla detta isola, ne fu una grande come una noce mezzana, la quale fu messa all'incanto nel Darien, dopo molte contese di chi la dovesse essere, e fu comperata 1200 castigliani dal signor governatore per sua moglie signora Isabella Boadiglia, la qual, come è detto di sopra, era andata seco. Questi che ritornorono da detta isola non sanno referire altro del modo come nascono dette perle, se non che le ostriche che hanno perle grandi stanno in fondi grandissimi, e le altre minori piú vicine al lito. E assomiglian dette ostriche alle galline che abbin ova assai in corpo, che le mature mandano fuori e l'altre si ritengono fin che creschino. Il simile dicono delle dette ostriche, che quando le aprono trovan le perle grosse giacer loro vicine alla bocca, come che essendo mature volessero venir fuori, le picciole stanno nel fondo, nutrendosi per poter ancor loro con il tempo uscirsene. Il che veramente pensano che le ostriche faccino, e che le perle uscite nel profondo del mare, essendo tenere, sien mangiati dalli pesci.
Come Gonzalo Badaghiozzo e Ludovico Mercado capitani, andando al mar del Sur, saccheggiati i paesi di molti caciqui e raccolto grandissima quantità d'oro, pervenuto a un paese dove il cacique Parizza s'era posto in agguato con cinquemila Indiani, furono rotti con grande occisione, onde lasciato l'oro furono astretti ritornarsene al Darien.
Ma avendo detto a bastanza di Gasparo Morales, non lasceremo di dire del viaggio che fece lo sfortunato capitano Gonzalo Badaghiozzo, qual del 1515, al principio di marzo, con ottanta uomini fu mandato dal medesimo Petraria verso ponente, alla parte nominata Grazia di Dio, come s'è detto per adietro, la quale è gradi 14 sopra l'equinoziale.
Costui, giunto che fu al detto luogo, mai poté far tanto che alcuno delli caciqui vicini, quali tutti eran fuggiti, lo venisser a trovare; ancorchè per questo effetto usasse l'opera di molti Indiani, che mandar loro diversi presenti. E mentre che stava sopra queste pratiche giunse un altro capitan detto Ludovico Marcado con 50 compagni. Costoro, fatto consiglio di quel che fusse da fare, deliberorono di passar li monti e andare al mare del Sur, e preso il cammino, come furono alle sommità de' monti, trovorono il paese d'un cacique detto Iuanna, appresso il quale intesero esser molto oro, e che in tutti li fiumi vicini, quali vanno a sboccare nel detto mare, si trovava oro nella rena. Ma il cacique, come sentí il venir di costoro, subito se ne fuggí e portò seco tutto l'oro, per il che li nostri gli saccheggiorono tutto il villaggio.
In questo luogo viddero alcuni schiavi del detto cacique, quali avevano segnato il viso di color nero e rosso; e intesero che con stili fatti d'ossi facevan loro alcuni buchi nel viso, e messavi dentro certa polvere d'erba, venivan loro detti segni quali piú non si potevan levar via. Li detti capitani menorono via detti schiavi carichi della preda fatta. E allontanatisi da quel luogo dieci miglia, trovorono un cacique vecchio che gli aspettava, e fece loro buona ciera. Ma non trovorono oro, perchè non molti mesi avanti, per la guerra fattagli da un cacique vicino, era stato saccheggiato. In tutto questo paese intesero che si trovava oro, e viddero la terra molto grassa e piena d'arbori carichi di frutti e fiori. Ma partiti del detto luogo camminorono alcune giornate per paese diserto e non lavorato.
E un giorno viddero al traverso venire duoi Indiani carichi, quali presi trovorono che ciascuno avea un sacco pieno di pane di maiz, e dimandati donde venivano, dissero che erano pescatori d'un cacique detto Totonoga, qual abitava sopra il mare, e che lui gli avea mandati con detti sacchi pieni di pesce ad un altro cacique che abita fra terra, detto Periquete, con il qual avean barattato li pesci con pane. Con la guida di detti Indiani li nostri arrivorono al cacique Totonoga, il paese del quale è alla parte di ponente del golfo detto di San Michele, dove arrivati il detto cacique venne loro incontro, menato da alcuni schiavi Indiani perciochè gli era cieco. Entrati li nostri in casa, essendo stato presentato loro da mangiare, cominciorono a dimandar oro, minacciando d'ammazzarlo se non ne dava assai. Per questo il cacique gli dette oro in diverse cose per valuta di seimila castigliani, e tra questi un grano cosí come l'avean trovato nelli fiumi, di valuta di duoi castigliani.
Partiti di qui, seguendo il lito, arrivorono ad un cacique detto Taracura, al qual tolsero oro per valuta d'ottomila castigliani; ma volendo andar a far il simile ad un suo fratello detto Panome, non potetter farlo, perchè costui se ne fuggí e portò seco l'oro. Di questo luogo avendo saccheggiato il tutto, si partirono, e giunti dopo dodici miglia ad un altro cacique detto Cheru, il quale, avendo inteso la furia che li cristiani facevano per avere oro, per paura ne dette loro quanto n'avea, che fu di valuta di quattromila castigliani. Questo Cheru avea certi luoghi appresso il mare dove gli Indiani facevan sale bianchissimo e lo portavan a barattare in diversi paesi.
Andando cosí li nostri saccheggiando senza alcun rispetto tutti li paesi, e trovandosi aver raccolto oro in tanta quantità che per portarlo, e per le vettovaglie, menavan seco da quattrocento Indiani schiavi, s'abbaterono finalmente nel paese d'un cacique detto Pariza, quale intesa l'insolenzia de' nostri si messe in agguato con forse cinquemila Indiani arcieri a canto una strada posta fra duoi colli, tutti vestiti di selve e arbori spessissimi. Li nostri, giunti alla strada, non dubitando di cosa alcuna entrorono dentro, e andati circa un miglio subito furono assaltati da ogni canto da tanta moltitudine di freccie e dardi che non poterono né mettersi in ordinanza né coprirsi con gli scudi, e settanta di loro furono subito morti. Gli altri, strettisi insieme, se ne tornorono adietro, lasciando tutto l'oro e schiavi che avean guadagnato, e sconsolati e dolenti, sopportando grandissimi disagi nel cammino, giunsero al luogo detto la Grazia di Dio, dove avean li navili. E sopra quelli montati, mezzi morti di fame se n'andorono al Darien, dove, narrato ciò che gli era intervenuto, il governatore deliberò di andar lui medesimo a trovar questo cacique Pariza e far la vendetta delli nostri, ma essendosi ammalato differí l'andata sua ad un altro tempo.
Come Giovanni Soliseo capitano, per ordine del re catolico, passato il capo di S. Agostino, navigando a canto la costa di terra ferma tanto che 'l polo antartico se gli levava gradi trenta, vedute assai case d'Indiani, smontato nel lito con alquanti uomini, furono circondati e morti, arrostiti e mangiati da' canibali; e il simile intravenne a Giovanni Ponzio mandato dal re catolico.
Non mi par di restar di narrar quel che scrisse al re catolico un Corales dottor di legge, qual era ufficiale di sua maestà nel Darien, che essendogli stato menato un Indiano, qual diceva esser fuggito dal suo patrone di paesi molto lontani verso ponente, un giorno che 'l detto Corales leggeva una lettera, questo Indiano con grande admirazione corse a vederla, e per via d'interpreti disse che suo patron e tutti li popoli di quelli luoghi leggevan ancor loro lettere, e avean libri come noi, ma fatti di foglie d'arbori cucite insieme, e che tutte le loro città eran serrate con muraglie di pietre grossissime, e andavan vestiti tutto il corpo; costui non seppe dire altro.
In questo medesimo anno del 1515 il re catolico mandò con tre navili un capitan detto Giovanni Solisio, con ordine che passato il capo di Santo Agostino, qual è di là dall'equinoziale gradi sette, scoprisse quella costa verso mezzodí, la qual va scorrendo anche verso ponente ed entra nelle parti di sua maestà.
Costui, passato detto capo, andò navigando tanto a canto la costa di terra ferma, che 'l polo antartico se gli levava gradi trenta, vedendo ora monti ora fiumi grandissimi. Un giorno, vedute appresso il lito assai case d'Indiani, li quali con tutte le femine e loro figliuoli correvan al lito a veder passar le navi de' nostri e con cenni mostravan di voler far loro presenti mettendo alcune cose sopra il lito; detto capitano deliberò di voler aver cognizione di costoro, e fatta buttar in acqua la barca della nave, con tanti uomini quanti vi poteron stare smontò sul lito. Gl'Indiani, che non desideravan altro se non che li nostri smontassero, vedendogli cosí bianchi, per potersegli mangiare, avevan messo una gran moltitudine d'Indiani arcieri in agguato dietro ad una collina, e come li nostri s'allontanorono un poco dal lito, costoro gli circundorono con tanta furia di freccie e dardi che in un momento gli fecero tutti morire, né valse che quelli delle navi scaricassero l'artigliarie, perchè, toltigli in spalla, se gli portorono sopra un colle, non tanto lontano che quelli delle navi non vedessero ciò che facevano. Questi Indiani, avendo levato via alli morti tutte le teste, braccia e piedi, mettevan li corpi in alcuni legni lunghissimi e arrostivangli, e tanto era il desiderio che avean di mangiarsegli, che mezzi crudi e insanguinati gli levavan dal fuoco e tra loro se gli mangiavano.
Questo spettacolo orrendo e spaventoso avendo veduto li nostri dalle navi, con maggior prestezza che poterono voltorono adietro le prue; e giunti al capo di Santo Agostino, avendo veduti non molto lontano dal lito molti boschi di verzini, smontati e caricate le navi se ne tornorono di molta mala voglia in Spagna.
La medesima disaventura accadde ad un altro capitan detto Giovanni Ponzio, qual similmente nel detto anno fu mandato dal re catolico con alcune caravelle alla destruzione de' canibali. Costui, trovandosi in corte di sua maestà, e udendo tutto il giorno nuove di quelli che venivan dall'Indie, e come li canibali che abitano l'isole facevan gran danni a qualunque vi s'appressava, faceva gran bravarie, dicendo che se lui avesse carico e modo di far questa impresa in pochi giorni gli distruggerebbe. Per il che il re catolico gli armò due caravelle, con le quali messosi in cammino arrivò ad una di dette isole che si chiama Guadaluppa. Come li canibali lo viddero venire si misero in agguato, e non si mostrorono mai fin che questo capitano insieme con alcuni compagni smontati in terra appresso un fiume, per farsi d'alcune femine che avevan seco lavare li loro panni. Come li canibali gli viddero allontanati dal lito gli furono subito intorno, e prima ammazzate le femine con molti delli compagni, fecero che 'l capitan, ferito ancor lui d'una freccia, con duoi di loro soli fuggisse alli navili, dalli quali viddero che li canibali arrostirono tutte le femine e compagni morti e quelli si mangiorono. Questo capitan con la sua caravella non si sa dove capitasse, perchè dapoi non se n'ebbe novella alcuna. L'altra caravella si tornò in Spagna.
Come, nata inimicizia tra il governatore e Vasco Nunez, si partí con trecento uomini per andar ad abitar presso al mar del Sur, e fatto con gran prestezza quattro caravelle, il detto governatore, mandatolo a chiamare, lo fece miserabilmente morire.
Dapoi non molti mesi che 'l governator Petraria avea mandato diversi capitani con gente a scoprir nuovi paesi, come s'è detto, giunsero lettere al Darien del re catolico, per le quali s'intese la satisfazion grande che sua maestà avea ricevuto delle operazioni fatte per Vasco Nunez, nel discoprir del mar di Mezzodí; vennero ancor patente come l'avea creato capitano delle genti della città di Santa Maria Antica del Darien. Le quali lettere furono lette avanti tutto il popolo, perchè erano piene di laudi di Vasco. Il qual, vedendosi aver recuperata la grazia del re e che ancor lui era capitano di sua maestà in quelle parti, trovandosi assai oro e molti partigiani di quelli della detta città, cominciò a non far piú quella tanta stima del governator Petraria che per adietro avea fatta.
Similmente, il governatore, conoscendo il mal animo di costui, dimostrava di non volerlo tolerare. E dubitando li principali del Darien che dall'inimicizia di questi duoi non nascesse qualche tumulto, persuasero ad un frate di San Francesco, gran predicatore, che si trovava in quel luogo, che si mettesse di mezzo per accordargli; il qual parlò molte volte con l'uno e con l'altro, proposti diversi partiti, e tra gli altri offerse a Vasco Nunez di fargli dar per moglie una figliuola del governatore. Ma l'alterezza dell'animo ch'era in ciascun di loro non gli lasciò accordare. Per la qual cosa Vasco Nunez, volendo schivar ogni scandalo che potesse advenire, deliberò partirse e andar ad abitar sopra il mar del Sur. E messo insieme tutto l'oro e robbe sue menò seco 300 delli suoi fidati del Darien; quali molto volentieri lo seguitorono, sí per non star sotto il governatore, sí ancor perchè speravan farsi ricchissimi. E con molti schiavi indiani, che gli portorono dietro tutte le lor robbe e vettovaglie, in pochi giorni giunse al paese del cacique Chiappe e Tumacco, dove fu ricevuto con tanta allegrezza che piú non si potria dire.
Vasco, ancor che con speranza di far una città appresso li liti del detto mare, in qualche bel e commodo sito, avesse condotti li sopradetti 300 suoi fidati, volse pur fabricar quattro caravelle e con quelle andar scorrendo per detto mare, tanto che arrivasse all'isole dove nascon le spezierie, giudicando di far con questo suo viaggio grandissimo beneficio al re catolico. E fece far dette caravelle con l'aiuto delli detti caciqui, quali gli mostrorono boschi d'arbori grossissimi e pece assai di pini e altri simili arbori, e fu tanta la solicitudine delli maestri che menò seco Vasco, aiutati in molte cose dagl'Indiani di Chiappe e Tumacco, che in poco tempo furon fabricate le quattro caravelle, tutte confitte con chiodi di legno che non eran manco forti che se fussero stati di ferro. Mentre che le dette caravelle si fabricavano, Vasco fece condur dal Darien molte tele di cottone per far vele, e per le sartie presero l'erba del sparto e alcune radici d'erbe molto flessibili, le quali gli Indiani usano a questo ufficio.
Dapoi alcuni giorni che dette caravelle furon fornite, avendo presentito Vasco che molti delli suoi compagni andavan mormorando che non volevan esser condotti sempre alla ventura, senza saper dove andassero, e che volevan una volta riposare, e godere quel che avevan guadagnato senza travagliar di continuo, per quietargli e fargli piú pronti a seguitarlo ovunque andasse gli chiamò tutti insieme, alli quali parlò in questo modo: "Carissimi compagni, con la fortezza e pazienzia delli quali io ho espedito cosí gloriosa impresa, come è stato lo scoprir di questo mare, voi vedete la grande insolenzia e mali modi del governatore, qual, non contentandosi delli titoli e autorità che gli ha dato la maestà del re sopra la terra ferma dell'Indie, vorria ancora che io, il quale per le fatiche mie sono stato fatto da sua maestà capitano delle genti del Darien, gli fusse servitore, e comandarmi come a uno schiavo indiano. Il che veramente, ancor che mi fusse parso grave, pur pazientemente l'averei sopportato, quando in questo nostro obedire fusse stato il beneficio del re. Ma l'animo altiero e avaro di costui non era per questo per acquietarsi, perciochè avendo inteso il tanto oro che da noi con tanti sudori e fatiche era stato guadagnato, voleva, trovata questa occasione d'inobedienzia, spogliarci di quello insieme con la vita; e per questo siamo stati astretti, volendo viver sicuri, di partirci dal Darien e venir a questo alto mare, dove ancora, se non eleggiamo qualche luogo lontano e sicuro dove non possa facilmente trovarci, sappiate certo che non staremo sicuri dall'avidità di costui. E però, avendone il nostro Signor Dio preparato il modo con il quale possiam uscir di questo sospetto, che sono queste quattro caravelle, messe ad ordine con tutte le vettovaglie da questi caciqui nostri amici, montiamoci sopra allegramente, e seguitiamo il camino dove la maestà divina ne guiderà. Voi vedete la grandezza di questo mare e avete inteso l'infinite ricchezze d'oro e perle che si trovano appresso gli uomini che ci abitano intorno; a noi sta elegger quella provincia che sia d'aere temperato, e di sito atto a produrre ciò che fa di bisogno al viver nostro, e in quella fabricare una città dove possiamo allegramente, quel tempo che ci resta di vita, godere le ricchezze che abbiam guadagnate. E non dubitate che sí come fin ad ora Iddio in ogni impresa non c'è mancato, ma sempre ci è stato favorevole, cosí per l'avvenire non facci il medesimo. E però con lieto animo seguitatemi, perchè vi guiderò in luogo dove il nostro Signor Iesú Cristo prima, e poi la maestà del re sarà servita". Finito che ebbe Vasco, tutti li compagni ad una voce dissero che ovunque andasse mai erano per abandonarlo.
Queste parole subito furono scritte al governatore per alcuni suoi servitori, quali ascosamente avea fatto andar fra quelle genti del Darien. Quale appresso, avendo inteso il fabricar delle quattro caravelle, dubitando dell'animo grande di Vasco, e che con questa fizione d'andar a trovarsi un luogo per fabricarvi una città, non discoprisse qualche paese ricchissimo, e crescesse in maggior reputazione appresso il re, togliendoli la gloria che lui desiderava avere per trovar nuovi paesi, avuta questa occasione ordinò che per gli ufficiali regii fusse formato un processo contra il detto; e mandò quattro de' suoi primi capitani a trovar Vasco, e fargli intendere che lui insieme con quattro de' principali compagni, lasciate le caravelle, sotto pena della disgrazia del re, se ne venissero al Darien, perchè avea trovato che s'erano ribellati da sua maestà.
Vasco, intesa questa cosa, stimando l'onor suo sopra il tutto né volendo quello con la inobedienza macchiare, sapendo ch'era innocente, senza troppo pensare con parte de' compagni se ne andò al Darien, dove non fu prima giunto che per ordine del governatore gli fu posta una catena grossa al collo e menato prigione. Il simil fu fatto a quattro de' detti suoi compagni. E gridando Vasco per che causa gli era fatta questa villania, gli fu risposto perchè s'era voluto ribellare dal re, avendo parlato a' compagni come avea fatto. E negando Vasco d'averli dette quelle parole, se non a fine ch'andassero piú volentieri seco a discoprir nuovi paesi per beneficio di sua maestà, mai glielo volsero credere, anzi fu giudicato che gli fosse tagliata la testa in prigione. Dove il giorno dipoi, essendo giunti gli essecutori, Vasco dimandò di grazia che avanti che 'l morisse fussero chiamati sei de' principali ufficiali regii, alli quali disse l'animo e desiderio suo grande ch'avea avuto sempre di far servizio al re catolico, e che questo l'avea condotto a tanto miserabil fine, il qual non si dovea già da lui sperare dopo tante fatiche e disaggi patiti. E che di due cose si doleva, l'una che senza causa e innocentemente fusse fatto morire, l'altra che la maestà del re con sua morte fusse privata di tanto servizio, che sperava fargli. Ma che la morte lui sopportaria constantemente, sí come con deliberato animo, in molti pericoli dove molte volte l'aveva veduta manifesta, non l'aveva voluta temere. Ma che pregava Iddio che concedesse a sua maestà nell'avenir un servitore in queste parti di cosí grande animo e affezione al beneficio di quella, come lui era stato.
Queste parole furono di poco momento appresso i detti ufficiali, quali volsero essequire la sentenza del governatore senza altro indugio. Perchè, levatogli la catena dal collo e fattolo inginocchiare, gli fu tagliato la testa; poi fu messo il corpo sopra la piazza del Darien, per spettacolo di tutto il popolo, dove non passò alcuno, sí degli abitatori della città come delli venuti nuovamente con il governatore, che potesse ritenere le lagrime, pensando che un uomo di tanta grandezza d'animo, accompagnato da infinita liberalità, dopo tante fatiche e stenti patiti avesse fatto sí miserabil fine.
E veramente chi legge l'istorie antiche e moderne, dove si narra la vita di eccellenti e virtuosi capitani, debbe molto maravigliarsi che pochi si sono trovati che, dapoi che la fortuna ha lor concesso espedire qualche famosa e degna impresa, quella non faccia lor patir qualche crudel e miserabil morte.
Il governator Petraria, dopo la morte di Vasco, lasciata la moglie nella città del Darien, passò li monti, e arrivato al mar del Sur montò sopra le caravelle fatte per Vasco, dove essendo navigato alcuni giorni gli sopravenne tanta fortuna di mare che, rotte l'antenne e squarciate le vele, scorse per due giorni e notte per perso; e finalmente dette sopra un lito dove era un villaggio d'Indiani chiamato Panama, dove essendo smontato e veduto il sito atto e bello a fabricarvi, perchè intese ch'era il piú vicino luogo nello stretto di questa terra ferma del mar del Sur a quel del Nort, fabricò una città, la quale dapoi è venuta una delle famose città dell'Indie.
Minuta descrizione dell'isola Spagnuola, e de' primi abitatori suoi, e in quante provincie sia divisa; de' fiumi, laghi, spelonche, e di certi uomini salvatichi nell'ultima parte di quella abitanti.
Sí come debbono i buoni marinari, i quali non vogliono riportar biasimo della loro navigazione, poi che sono stati in diverse parti del mondo e hanno veduti diversi paesi e conosciute diverse nazioni, voltar la prua de' loro navili e tornarsene al porto donde prima partirono, cosí mi pare dover fare nel fine di questo primo libro della mia istoria, e però avendo io cominciato dall'isola Spagnuola, e scorsa tutta la costa di terra ferma dell'Indie occidentali, tornerò alla medesima isola, la quale è stata causa di questa mia narrazione, e ancorchè io l'abbia in qualche parte descritta secondo ch'è accaduto, pur, acciochè se n'abbia miglior notizia, fattane la figura, la descriveremo particolarmente con quella diligenzia che a noi sarà possibile.
L'isola Spagnuola adunche è posta fra la linea dell'equinoziale e il tropico del Cancro, e distendesi per longhezza da levante a ponente circa 500 miglia, e da mezodí a tramontana in alcune parti è larga miglia 300; la parte di mezodí, dove è la città principal detta San Domenico, è gradi 18 sopra l'equinoziale, la parte verso tramontana gradi 20 e mezo. Chi fussero li primi che l'abitassero si narra in questo modo, che trovandosi nell'isola detta Matitina, non molto lontana, due fazioni, vennero alle mani fra loro e fu forza alla parte piú debole fuggirsene con le mogli e figliuoli, e cosí con canoe, che abbiam detto esser lor barche, se n'andorono alla ventura per mare; pur veduti li liti della detta isola, smontorono in quella parte, la qual chiamano Cahonao, dove corre un fiume grosso detto Bahaboni, qual ha nella sua foce una isoletta sopra la quale è fama che li primi abitatori fabricassero la prima casa, la qual chiamano fino a oggi Camoteia, e l'hanno in tanta reverenzia che piú non si potria dire, perciochè vanno di tutta l'isola sí gli uomini come le donne a visitarla per devozione.
Giunti sopra l'isola e vedendola grandissima, né sapendo dove la terminasse, pensavano che quella fusse tutto il mondo, né che il sole scaldasse altra terra oltra quella e l'isole vicine, e però la chiamarono Quizqueia, perchè quizquei vuol dir in lor lingua il tutto. E intrativi poi fra terra, come viddero alcuni altissimi monti con rupe aspere la chiamorono anche Haiti, perchè haiti vuol dir aspro; gli posero ancor il terzo nome Cipanga per cagion di certi monti, simili ad alcuni monti che nell'isola Matitina chiamano Cipangi; ma li nostri la chiamorono Spagnuola.
Questa isola ha li giorni tutto l'anno quasi eguali, e quando il sole è nel tropico di Cancro non si altera il giorno a pena un'ora. È molto temperata d'aere, perciochè non vi è caldo né freddo eccessivo, ancora che in alcune parti dove sono li monti altissimi sia freddo; ma questo accade per causa de' detti monti. Si veggono di continuo in tutte le parti verdissimi gli arbori carichi di fiori e di frutti, né mai cascono le foglie se non nascendo le nuove. Tutte l'erbe d'orto da mangiare, e tutti gli arbori fruttiferi che vi sono stati condotti di Spagna, vengono in quella perfezione che nel seguente libro si dirà, e il medesimo dico degli altri animali, come buoi, cavalli, ecc. Il formento, avendone seminato in molti luoghi, trovano che risponde meglio a seminarlo sopra colline e monti, dove sia alcune volte freddo e la terra non cosí grassa, perchè seminandolo al piano è tanta la grassezza del terreno che divien piú longo con la paglia che appresso di noi la canna del sorgo; e non fa tanti grani nella spiga, ma ne' monti la spiga è grossa come è il braccio dell'uomo, tutta piena di grani che numerati passano duoimila. Ma è opinione, appresso quelli che sono andati di Spagna in questa isola e altre vicine, che mangiando pan di formento o pan di iucca, smaltiscono piú facilmente il pan di iucca, ancorchè non sia cosí suave al gusto.
Ma venendo alla particolar descrizione delle parti dell'isola, ancorchè di sopra abbiam detto che l'è divisa in quattro parti da quattro gran fiumi, che descendono da altissimi monti, cioè da levante dal fiume Iunna, da ponente Altibunico, da mezzodí Nabia e da tramontana Iacche. Pur sono venuti dapoi molti capitani e persone d'intelletto che si sono voluti informar piú particolarmente dagli abitatori di quella, e la dividono in cinque provincie principali. E cominciando dalla parte verso levante, dicono quella chiamarsi Caizcimu, che in lingua dell'isola Spagnuola vuol dire fronte, over principio; qual provincia confina al mezzodí co 'l fiume Ozama che passa per le città di San Domenico, e da tramontana con li monti altissimi detti Haiti per la sua asperità. La seconda è detta Huhabo, qual è tra li monti e un fiume detto Iaciga. La terza, Caiabo, abbraccia tutto lo spazio ch'è tra Cubaho e il fiume Iacche, e va fino alli monti Cibaui, dove è tanta grande copia d'oro, nelli quali nasce il fiume Neyba, che va a sboccare nel mar verso mezzodí. La quarta, detta Bainoa, comincia da' confini di Caiabo e si slunga verso tramontana, dove è il fiume detto Bagaboni, dove abbiam detto che fu fabricata la prima casa. Tutto il resto verso ponente occupa la provincia detta Guaccaiarima, perchè nella lor lingua caiarima vuol dir le natiche, e gl'Indiani tengono questa ultima parte dell'isola per la piú stretta, gua è l'articolo che in quella lingua appiccano a tutti li nomi propri, come è Guarionesio, Guaccanarillo. Ma lasciando li nomi a parte, diciamo di qualche luogo particolare, degno d'essere inteso.
Nella provincia Caizimu è un altissimo monte mezzo miglio lontano dal mare, qual ha una spelonca grandissima, l'entrata della quale s'assomiglia ad una porta d'un grandissimo palazzo. In questa spelonca si sentono cadere fiumi, con tanto romore e strepito che si sente di lontano cinque miglia, e chi va a dimorarvi appresso alquanto spazio diventa sordo. Questi fiumi fanno un grandissimo lago, dentro al qual sono alcuni bollori e rivolgimenti d'acque di continuo, e sí grandi che chi v'entrasse dentro sarebbe subito inghiottito. Perciochè si pensa che dette acque, dapoi cadute in quel luogo, siano inghiottite da altre caverne della terra. Nella parte di sopra di questa spelonca, secondo che per l'entrata si può vedere, è molto alta, e si veggono di continuo nebbie che nascono della umidità de' bollori di quelle acque. Sopra la sommità d'alcuni monti altissimi per mezzo la città di San Domenico, ma distante da quella miglia sessanta, è un lago, al quale per l'asprezza della strada con gran difficultà si può andare. Pur li nostri, che non potevano star oziosi, lo volser vedere, dove giunti essendo al principio del mese di giugno ebbero freddo, e trovorono oltra tutte l'altre erbe infinite felci, e di quelle spine che fanno le more per le siepi, le quali non si trovano nelli piani dell'isola.
Questo lago è d'acqua dolce, pieno d'infinite sorti di pesci, delli quali li nostri presero assai avendoli serrati con frasche e foglie in un seno che fa il lago in un monte vicino. Detto lago gira circa tre miglia, né però di quello sbocca alcun fiume, essendo li monti all'intorno altissimi, dalli quali si veggono corrervi dentro infinite fontane d'acqua chiarissime, con le ripe piene di molte erbe, essendo le altre parti di detti monti orride e sassose. Sopra questa isola in molte parti sono assai laghi d'acque dolci, alcuni di salse, e d'acque amare, come quel che è nella provincia di Bainoa, qual è di lunghezza di trenta miglia, e largo dove quindici e dove dodici, e si chiama dagli Indiani Haguey Gabon; ma li nostri lo chiamorono il mar Caspio, perchè correndovi dentro infiniti fiumi, nondimeno da questo non nasce alcun fiume. È opinione che per caverne di sotto terra v'entri il mare, per trovarvisi dentro molti pesci marini; fa questo lago fortune grandi, e molte volte affonda molte canoe con tutti gl'Indiani, alli quali, quando egli è turbato, non giova il saper notare, perchè esso gli inghiottisce con le canoe insieme, né mai s'è veduto che alcun che vi sia annegato dentro sia stato buttato dipoi dall'onde in sul lito.
In mezzo è un'isola detta Guarizacca, dove stanno molti pescatori indiani che prendono de' detti pesci e gli seccano. Sonvi duoi altri laghi salsi ma piccioli; non troppo lontani da questi sono altri laghetti d'acque dolci. Tutti questi laghi sono in una valle grandissima, la qual va da levante a ponente per lunghezza piú di cento miglia, e per larghezza, dove è piú larga, sono venticinque miglia; ha da una banda li monti detti Daiguani, dall'altra Caiguani. Non troppo lontano dalla detta è un'altra valle lunga circa dugento miglia, qual si chiama Maguana, dove è un bellissimo lago d'acqua dolce, non troppo grande, appresso del quale ha lo stato suo il cacique Caramatexio, e il suo palazzo, con infinite abitazioni d'Indiani.
Costui, dilettandosi d'andar a pescare, avea sempre in casa le maggiori e piú forti reti che si trovassero in tutto quel paese. E avendo, un giorno ch'egli era andato sopra il lito del mare, veduto prender dalli suoi pescatori un delli pesci detti manati, li quali, ancorchè venghino molto grandi, pur questo allora era piccolo, lo fece portar a casa vivo e buttar nel lago vicino, dove ogni giorno gli dava del pan di maiz e iucca, di modo che divenne tanto mansueto che veniva ogn'ora che lo chiamavano a pigliare il cibo che con la mano gli porgevano, lassandosi maneggiar tutto; e alcune volte, se qualcuno voleva passar dall'altra banda del lago, si lasciava cavalcare e lo conduceva dove voleva. Questo pesce è molto brutto a vedere, perchè ha il corpo grosso a modo d'animale di quattro piedi; non ha piedi, ma invece di quelli alcuni ossi grossi e duri che gli spuntano fuori del corpo, qual è coperto di squame durissime; ha la testa di bue, nel muoversi è pigro. Dicono che la carne è suavissima al gusto, e miglior di qualunque altro pesce. Questo pesce cosí piacevole e mansueto fu tenuto gran tempo in quel lago, con gran piacer di ciascuno che lo vedeva, perchè da ogni parte dell'isola andavan molti a vederlo chiamare e traiettare persone da una all'altra riva del lago. Ma essendo un giorno venuto un uracan grandissimo, cioè tempesta con vento e pioggia, di sorte che molti fiumi corsono grossissimi dalli monti vicini, e feceno che detto lago si gonfiò in modo che l'acque di quello corsono fino al mare, allora il pesce manati fu menato di nuovo in mare, né piú si poté vedere.
Qui non voglio distendermi piú in numerare le valli, monti, fiumi e li nomi loro, che saria cosa lunga e di tedio alli lettori; solo dirò d'alcuni, e massime del fiume detto Bahuam, qual passa per mezzo d'un paese detto Maguana della provincia Bainoa. Questo fiume nasce a' piedi d'un monte altissimo e corre tutto salso per molte miglia, fin che gli sbocca in mare, ancorchè in quello caschino molte fontane d'acqua dolci. È opinione che detto fiume passi di sotto li monti Diagoni, che sono in detta provincia di Bainoa, lontani dodici miglia dal lago salso nominato il mar Caspio. In questi monti cavando si trova il sale durissimo e chiaro come cristallo, del quale si servano gl'Indiani fra terra, avendo carestia di quello che si fa appresso il mare.
Nella sommità delli monti Cibaui, quali sono altissimi, dove abbiam detto che si cava l'oro, e che sono quasi nel mezzo dell'isola, nella provincia detta Caiabo, è un piano detto Cotohi lungo miglia 25 e largo 15; quale, ancora che sia altissimo e che di sotto quello pare che si vegghino le nuvole, pur ancor lui è circondato da altri monti, li quali par che signoreggino tutta l'isola. Da' detti monti corrono infinite fontane d'acque chiarissime nel detto piano, qual è cultivato e ha alcune ville d'Indiani. Questo luogo sente nell'anno la varietà de' tempi, cioè primavera, estate, autunno e inverno, imperochè vi è freddo di sorte che agli arbori cascano le foglie e l'erbe si seccano; la qual cosa non suol accader in alcuna parte di tutta l'isola, essendovi sempre primavera e autunno perchè gli arbori sono sempre carichi di fiori e frutti. Il freddo veramente non è però tanto grande che vi nevichi overo ghiacci, ma rispetto all'altre parti di detta isola è grande.
In detto piano nascono felce tanto grosse nel gambo quanto è una asta di giannetta, e molte di quelle spine che fanno le more rosse. Dicono nelli monti che circondano detto piano essere molto oro, ma li vicini che vi abitano non si curano di cercarlo, producendogli la terra per la sua grassezza tanta quantità di maiz e iucca che basta loro per il pane. Appresso delle fontane che corrono chiarissime si cavano la sete. Il resto del tempo, o stanno oziosi sedendo all'ombre, overo ballano a lor modo, né pensano ad altro.
È ancora un altro paese in questa isola, fra la provincia de Huhabo e quella di Caiabo, detta pur Cotohi, qual ha grandissime pianure, valli e monti, ma per esser tutti sterili non è abitato, e per questo rare volte vi vanno uomini. In questo luogo gl'Indiani dicono che è il principio della minera di tutto l'oro che è in quella isola, e che fra quelli monti si vede che gli esce fuor della terra, come se fusse una pianta che nascesse. La qual cosa, ancorchè paia incredibile che l'oro facci questo effetto, pur in queste nostre parti dell'Europa, nel reame d'Ungheria, in molti luoghi a' nostri tempi da infinite persone è stato trovato, e di continuo si trova l'oro uscir della terra, e andarsi appiccando a torno agli arbori come fanno le viti, ed è finissimo.
Nella provincia di Caizimu, nelle contrade dette Guanama, e Guariagua, sono alcune fonti, l'acqua delli quali nella superficie è dolcissima e buona per bere, a mezzo comincia a sentirsi salsa, e nel fondo è molto amara. Pensano che questi fonti naschino d'acqua salsa, e che di sopra vi corrino poi acque dolci dalli monti, le quali non si mescolino insieme. Appresso queste fonti, se alcun si distende in terra e mette l'orecchie sopra quella, sente che la è concava di sotto, perchè quella risuona, e un uomo a cavallo si sente venir tre miglia lontano, e un a piedi un miglio.
Nella ultima provincia, detta Guaccaiarina, sono uomini che abitano in caverne e sopra selve e monti altissimi, e non vivon se non di frutti salvatichi, li quali mai hanno voluto aver commerzio con gli altri uomini dell'isola, né, ancor che siano stati presi, si son potuti domesticare. È opinion che non abbino determinato parlare fra loro come han tutti gli altri uomini del mondo; e che non sappino ciò che sia signore, over legge alcuna, ma che sian del tutto salvatichi animali, eccetto che hanno l'effigie umana. Alcune volte si veggono e vanno del tutto nudi, né è possibile pigliargli, perchè son piú veloci nel correr dietro a cani velocissimi menati nell'isola, né mai gli hanno potuti giugnere. In questa ultima parte dell'isola, in una bellissima valle, avevan molti campi lavorati alcuni cristiani, dove essendo andati del mese di settembre a vedergli con tutta la lor famiglia e figliuoli, ed essendo sparsi chi in qua e chi in là, eccoti uscir d'un bosco vicino un di questi uomini salvatichi, grande e terribile, il qual, preso sotto il braccio un fanciullo piccolino, che giaceva sopra l'erba non molto lontano dal padre, se ne fuggí come un vento. Il padre e tutti gli altri, veduta questa cosa, messi stridi fino al cielo, con la maggior celerità del mondo si missero a corrergli dietro. Ma l'uom salvatico vedutili da lontano si fermò, e pareva che stesse ad aspettargli, fin che gli giunsero un poco appresso, ma poi un'altra volta si misse a correre, e piú non fu veduto. Il padre, dolente e come morto, pensava che 'l figliuolo fusse stato portato via per mangiarlo, ma l'uom salvatico, come s'accorse che non gli andavan piú dietro, veduti in una valle vicina certi pastori che pascevan una mandria di porci, andò pianamente dove erano, e lasciò il fanciullo alquanto lontano sopra una strada dove avean a passar li pastori, li quali, avedutisi del fanciullo, presolo in braccio lo portorono la sera al padre. Né si maraviglino li lettori che in questa isola tanto lontana da noi si truovi questa generazione d'uomini salvatichi, che ancora nell'isola Hibernia, qual è sotto il re d'Inghilterra, non troppo lontana da quella, nella parte fra terra, dove non è altro che selve e monti altissimi, si sa trovarsi uomini infiniti salvatichi, quali mai hanno voluto aver commerzio con quelli che abitano appresso il mare, né si son potuti mai espugnar dalle genti del detto re.
In questa isola si trova pece in copia grande, sopra molti pini che vi sono, e un altro arbore detto coppei, qual arbore è molto grande, e fa un frutto come susini assai buoni da mangiare, ma la foglia del detto è maravigliosa, perciochè è larga mezzo piede e molto tonda. Questa foglia, veduta dalli cristiani e conosciuto ch'era grossa e flessibile, cominciorono con un stilo a scrivervi su, e trovorono che le lettere si vedevano come se fosser state scritte sopra una carta con inchiostro. Per tanto, veduta questa commodità, non avendo carta si misero a scriver tutto quel che faceva lor di bisogno, e mandar Indiani di qua e di là con le dette lettere. Tra gli altri un capitano mandò per un suo schiavo con lettere quattro di quegli animali che si chiamano utias, simili a conigli, cotti, a donar ad un suo amico, scrivendogli quello che gli mandava. Lo schiavo nel viaggio ne mangiò duoi, donde l'amico riscrisse averne ricevuto solo duoi; giunto lo schiavo e dato la risposta al padrone, quello gli cominciò a far un rabuffo e dirgli la maggior villania del mondo, mostrandogli che quella foglia gli diceva che non avea dato se non duoi utias all'amico suo, e che gli altri duoi se gli aveva mangiati. Il che lo schiavo con paura confessò. Questa cosa, divulgatasi per l'isola, fece che tutti gli Indiani non ragionavan d'altro che delle foglie dell'arbor cotoy, e non si volevan appressar a quello quando parlavano insieme, acciochè quelle non dicesser alli cristiani quel che tra loro ragionavano.
Dicono li vecchi di questa isola, quali per la maggior parte vivon cento e dieci e cento e venti anni, aver sentito dire da' lor padri che sempre per il passato gli abitatori di quella eran vissuti di certe radici salvatiche, alcune delle quali sono simili a cipolle, altre come pastinache, e altre come noci, overo tartufe, quali chiamano con diversi nomi, cioè cibaio, macaone, caboie, guaiero; ma che un vecchio molto savio, stando un giorno sopra la ripa d'un fiume, vidde un'erba molto grande con le foglie simili al canapo, la qual portò a casa, e piantata la radice cominciò a farla diventar domestica, e gli misse nome iucca, la qual, essendo suave al gusto, di quella cominciorono a far il pane detto cazabi; qual voglion che sia molto sano e facile a digestire, e adesso è commune a tutti gli abitatori della Spagnuola. Questo vecchio trovò ancora le radici dette agies e batatas, delle quali, parlandosene copiosamente nel sequente libro, si resterà di dire altro.
Degli abitatori di detta isola, e diversi ridotti fatti per cristiani. De' costumi de' caciqui quando mangiano e quando nascono figliuoli.
Tutti gli abitatori di questa isola sono uomini semplici e attendono per la maggior parte a viver oziosi all'ombra, avendo bisogno di poche cose, andando sempre nudi, e producendogli la terra tanti frutti quanti hanno di bisogno, perchè si vede di continuo sopra gli arbori li fiori, insieme con li frutti maturi. E se vogliono hanno il modo ancora molto facile a pigliar pesci nel mare e ne' fiumi di detta isola, dove ne trovano gran quantità. Questi tali, dapoi che son venuti li cristiani, e che gli hanno constretti a star tutto il giorno al sole a cercar oro nell'arena di fiumi, ne sono morti infiniti, sí per non esser assuefatti a questa fatica, sí ancora perchè si sono ammazzati da loro medesimi per disperazione, vedendosi ridotti da una felice vita a cosí estrema miseria e servitú, e molti ancora di loro non si sono curati di maritarsi per non far figliuoli schiavi per li cristiani. Le femine medesime, come si son sentite esser gravide, con una certa erba hanno operato di disperdere, di sorte che chi avesse veduto il numero degli abitatori, qual si trovava al principio che li cristiani andorono alla sopradetta isola, a comparazion di quello che si truova al presente, staria molto stupefatto. E ancor che per ordine della maestà del re sian stati fatti liberi tutti gli abitatori di detta isola, né possino esser astretti ad alcuna cosa, pur gli officiali che si son trovati lí, di tempo in tempo, per avarizia hanno esseguito quel che gli è parso. È opinion che nel principio in detta isola fossero da novecentomila persone, e al presente sono tanti pochi che è vergogna a narrarlo.
Li nostri, dapoi che hanno fatto quelle fortezze nel mezzo dell'isola, come abbiam di sopra detto, hanno fabricato a marina ridotti in diverse parti, serrati con li suoi muri, nelli quali sono molte abitazioni, come è il porto della Plata, Porto Regal, Lares Villa Nuova, Azua, Salvaterra. In alcune parti di questa isola, come saria a dire nel paese del cacique Beuchio detto Xaragua, rare volte piove, e per questo dove sono seminati li suoi maiz, over iucca, conducono l'acque delle fontane per canali fatti a mano per adacquarli. In molte valli piove poi piú che non gli fa di bisogno, come in tutto il paese a torno la città di San Domenico. In altre parti piove temperatamente.
Quando li caciqui muoiono, come instituiscono li suoi eredi, e come molti suoi famigliari si ammazzino con esso loro, si pretermette di dire, dicendosene a bastanza nel seguente libro. Una particolarità non voglio restar di dire. Che essendo venuto a morte il cacique Beuchio fratello di Anacaona, del qual di sopra s'è fatta menzione, la detta sua sorella, per onorarlo, essendo stato riputato il piú valente cacique di tutta l'isola in componer areyti, che sono versi, come si dirà, ordinò che molte delle sue donne fossero sepolte vive con il detto. Ma trovandosi a caso in quel luogo alcuni frati di san Francesco, quali andavano ammaestrando gl'Indiani nella nostra fede, con gran preghere impetroron che una sola fusse sepolta, perchè non è possibile dir la grande opinion che hanno di questi suoi caciqui, che da poi che sono morti vadino al sole. Questa che volse morir volontariamente con il detto cacique Beuchio si chiamava Guanahatta Sienechena, ed era bellissima, e volse portar seco tutti li suoi ornamenti, con un vaso d'acqua e pan di maiz e iucca.
Quando ad alcun cacique nasce un figliuolo di nuovo, tutti li vicini del paese vanno a trovar la donna di parto, e come entrano nella camera dove ella giace salutano il figliuolo o figliuola, chi con un nome chi con un altro. Uno dirà "Facella rilucente", un altro "Facella piena di fiamme", altri "Vincitor degli inimici", over "di un fortissimo signore nepote", o "piú lucido dell'oro". Alle femine dicono "piú odorata di qualche fiore", e dicono il nome, "piú dolce che il tal frutto", "Occhi di sole", over "di stelle". Il cacique Beuchio sopradetto aveva molti nomi oltra il primo. Cioè Turehiguahobin, che vuol dir re resplendente piú che l'oro. Un altro Starei, cioè fiammeggiante. E Huiho, cioè altezza. E Duiheyniquen, cioè fiume ricco. E quando si ordinava alli paesani alcuna cosa per suo ordine, era necessario dir tutti li suoi nomi da un capo all'altro, altramente l'averia avuto forte per male, e quello che avesse lasciato di dire uno per negligenzia saria stato punito.
Della religione e cerimonie de' sopradetti Indiani.
Io mi penso, anzi tengo per certo, che molti che leggeranno la presente istoria desidereranno intendere quello che questi popoli dell'isola Spagnuola adorino, e che religione e cerimonie siano le loro. Delle quali, ancor che in molti luoghi sia stato detto che adorano il sole e la luna, nondimeno per far cosa grata alli lettori si dirà quello che se n'è possuto intendere.
L'admirante Colombo, nel secondo suo viaggio fatto all'isola Spagnuola, menò seco un frate dell'ordine degli eremitani, detto maestro Ramone, persona dotta e di santissima vita, acciochè egli ammaestrasse nella fede cristiana gli uomini dell'isola. Costui, avendo in breve tempo imparata la lingua loro, conversando famigliarmente con quelli, intese molte particulari loro superstizioni e cerimonie, e cosí ne compose un libro in lingua castigliana, del quale, lasciando da parte molte cose impertinenti, se ne dirà alcune brevemente.
Appresso questi popoli è questa opinione, che sia un primo motore, omnipotente, eterno e invisibile, qual ha duoi nomi: Iocauna, Guamaonocon. E che questo Iddio ha madre, la qual ha cinque nomi: Attabeira, Mamona, Guacarapita, Iiella, Guimazoa. Ma di Dio eterno, senza fine e omnipotente, dicono esser diversi messaggieri, li quali chiamono Cemi over Tuyra, e ciascun signore over cacique ha un particular Cemi over Tuyra, il qual lui adora. E affermano che questi Cemi appariscono loro la notte, e da loro intendono molte cose. La forma de' quali fanno di cottone tinto di nero, simile alla forma de' demoni piccoli, li quali dalla bocca gettan fuoco, e hanno la coda e piedi di serpi neri. E di questi Cemi ne fanno alcuni in piè, altri a sedere, e di diverse grandezze, e quando vanno a combattere contra gl'inimici ne portano legati alla fronte alcuni piccoli, e pensano che avendo quelli debbino esser vincitori. Da questi, se hanno bisogno di pioggia, over sole per li loro maizali, pensano di poterlo impetrare. E se per caso detti Cemi gli appariscono nelli boschi, delli quali son molti in questa isola grandissimi e folti, li fanno di legno; e se in qualche caverna, over monte lo fanno di pietra, e hannogli insomma venerazione in quelli luoghi dove gli hanno veduti. Altri gli fanno di radici di iucca, dicendo avergli veduti sopra quelle, e che hanno cura di farle crescere, delle quali fan pane.
E quando vogliono saper quel che sia per succeder d'una guerra, over altra lor cosa, come se sia per esser abondanzia di maiz e iucca per il loro vivere, over quando alcun gran maestro è ammalato, se debbe vivere o morire, uno delli caciqui principali entra in una casa fabricata alli Cemi, dove gli è preparata una bevanda fatta d'una erba detta chohobba, la qual pigliano con il naso. Il che fatto, subito comincia a diventar furioso, e pargli che la casa vadi sotto sopra e che gli uomini vadino con li piedi in su, e tanta è la forza di questa bevanda che gli leva via tutto l'intelletto e sapere, né sa ove si sia. Poi, come l'ha un poca digerita, si mette a sedere in terra con il capo chino, e le mani intorno alle ginocchia. E stato in questo modo un pezzo, come se da un gran sonno si levasse alza gli occhi e riguarda il cielo, parlando fra li denti e il palato certe parole che non s'intendono. Intorno a questo cacique stanno delli primi della sua corte, né ad alcun del vulgo è permesso che si truovi in queste cerimonie. Questi, come lo vedono un poco ritornato in sé, cominciano con voce alta a ringraziar il Cemi, che l'ha lasciato partir dal suo ragionamento, e che sia ritornato a loro, e gli dimandano quel che ha veduto. Questo come pazzo dice aver parlato allora con il Cemi, qual gli ha promesso di fargli aver vittoria contra gl'inimici, over avergli detto che sarà vinto e ruinato per qualche cosa che li detti non hanno voluto fare, e cosí referisce della abondanza o carestia, vita o morte, come al primo tratto gli vien in bocca.
E avendo detto di sopra che ciascun cacique ha il suo particolar Cemi, qual adora, dico che un cacique nominato Guaramento avea un Cemi detto Corochotto, fatto di cottone, e lo teneva legato sopra il piú alto palco della sua casa, il quale alcune volte rompendo li legami dicono che se ne fuggiva e andava a trovar qualche femina per mescolarsi con lei, over perchè desiderava mangiar qualche cibo che 'l cacique non gli dava; alcuna volta dicevan che gli era fuggito tutto adirato, perchè detto Guaramento avea pretermesso di fargli certi sacrificii in suo onore. Nel principal villaggio di questo cacique, come nascon fanciulli che abbino alcuno segnale sopra il capo over collo, dicono che quelli sono figliuoli del Cemi Corochotto.
Un altro cacique avea il suo Cemi fatto di legno a modo d'animale con quattro piedi, e chiamavalo Epileguanita; quale spesse volte diceva che si partiva dal luogo dove l'adorava e se n'andava alle selve, il che come presentiva mandava molti Indiani cercandone, e trovatolo se lo mettevan in spalla e con gran venerazion lo riportavano al suo luogo.
Ma venuti li cristiani nell'isola cessorono tutte queste illusioni diaboliche, e questo Cemi e tutti gli altri se ne fuggirono, né mai piú gli hanno potuti trovare. E da questo gli Indiani che erano vecchi facevano congiettura che tutte le signorie di quella isola dovean perdersi, e restar sotto altro signore. Alcuni fanno il suo Cemi di marmo, come è una femina, e appresso gli fanno duoi fanciulli come sarian duoi ministri; un di questi dicono che a modo d'un banditore per ordine di questa femina va facendo intender agli altri Cemi che venghino per comandamento di quella con venti, pioggie e nebbie grandissime; l'altro fanciullo d'ordine di quella mette insieme tutte l'acque che caggiono dalli monti e le sgonfia, di sorte che come un mare allagano tutti li maizali. E questi ufficii fanno questi duoi ministri ogni volta che gli Indiani mancano dalli debiti onori alli Cemi di marmo.
È costume antiquissimo appresso questi dell'isola Spagnuola, che tutti li figliuoli delli caciqui sieno ammaestrati da alcuni Indiani savi, che loro chiaman boitij over tequina, quali gli fanno imparar a mente molti versi, nelli quali insegnano loro due cose principalmente: l'una dell'origine e principii delle cose, e come le sono andate augumentandosi, cosí come di sotto si dirà; l'altra delle cose fatte per loro avi maggiori sí in guerra come in pace; e queste cose l'hanno composte in versi nella loro lingua, li quali chiaman areyti. E questi areyti con un certo tamburo fatto a lor usanza cantano, qual chiaman maguey, ed è fatto d'un legno tondo concavo, qual risuona grandemente essendo battuto con un altro legno su 'l fondo, a modo di tamburo de' nostri. E quelli cantando ballano tutti ad un tratto; e in questi balli sono molto piú agili e destri che non sian noi altri, perchè stanno nudi, e gran parte del tempo non spendono in altro che in ballare. Hanno, oltra le sopradette sorte di areyti delle origini delle cose e fatti de' lor antichi, alcuni altri composti d'amore, nelli qual laudano le loro innamorate e poi dicono le passioni che sentono come le veggono, over in sua absenzia quando di lor pensano. Ne hanno alcuni altri molto lamentevoli, e con voci rotte e delicate, quando voglion piangere. Altri terribili, e con voci piene di gravità, quando voglion inanimar gli Indiani, che vadin arditamente adosso gl'inimici e non dubitino di morire, perchè morendo per difension della lor patria anderanno a star appresso il sole. E alla sorte di questi suoi areyti accommodano la voce e gli suoni che fanno con quelli suoi maguey.
In questi suoi areyti ne hanno uno antichissimo, lasciatogli di mano in mano per molte età e generazioni dalli suoi antichi. Il qual è fatto con voci piatose e lamentevoli, nel qual è predetto la venuta delli nostri a quella isola. E quando lo cantavano sempre gli cadevan le lagrime dagli occhi, e gemendo dicevano Guamaonocon, cioè Dio eterno, aver determinato che maguacochios, cioè uomini vestiti, venissero in quella isola armati con spade, che in un colpo tagliariano un uomo dal capo in sino alli piedi, e levarian via tutti li lor Cemi e lor cerimonie, sotto il giogo delli quali tutti li loro figliuoli e posterità eternamente stariano. Molti delli detti Indiani pensavan che volesser dir delli canibali, che dovesser vestirsi e armarsi di spade di legno, e per questo ogni volta che gli vedevan venire fuggivano e ne avean grandissima paura. Ma è cosa certissima e a ciascuno dell'isola manifesta che, molti anni avanti che a quella gli Spagnuoli giongessero, furono duoi caciqui, delli quali l'un fu il padre di Guarionesio, di chi di sopra abbiam fatto menzione; costoro, avendo digiunato cinque giorni continui con gran reverenzia alli suoi Cemi, una notte da quelli gli fu detto che presto era per venir una sorte di gente coperta tutta di veste, la qual levaria via li Cemi e faria tutti li loro figliuoli schiavi. La qual cosa giunti li nostri si verificò perchè non molto dapoi son stati levati via li Cemi, e lo adorar di quelli, e si son battezzati tutti gl'Indiani, e dapoi che fu posto il segno della Santa Croce in quella isola, mai piú li Cemi sono apparsi.
Quali credano esser stati i primi principii delle cose, e il principio dell'umana generazione, e del principio del mare, e d'alcune vanissime loro superstizioni.
Delli principii delle cose prime, dimostrano una spelonca nel paese d'un cacique detto Machinnech, molto grande e oscura, a' piedi d'un altissimo monte, e la chiamano Iovana Boina, qual vanno a visitare con somma riverenza; e l'entrata è ornata con varie pitture, dove si veggon scolpiti duoi gran Cemi, differenti l'un dall'altro di figura, de' quali un è chiamato Binthaitelle, l'altro Marohu, e dimandati perchè vanno con tanta reverenza a visitar quel luogo, dicono con il maggior senno che abbino, che hanno per lor areyti che di quel luogo uscirono il sol e la luna a far luce al mondo.
Il principio dell'umana generazione dicono essere stato in questo modo. È nell'isola una provincia detta Caunana, dove è un grandissimo monte a piè del quale sono due spelonche, una grande detta Caxibaxagua, l'altra minore, Amaiauna. In queste spelonche dicono che abitavano tutti gli uomini, né uscivan fuora, perchè cosí dal sole era stato lor comandato, non volendo da loro esser veduto; per questo aveva posto alla guardia di dette spelonche uno tratto fuora chiamato Machochael. Costui, volendo conoscere quello che era per l'isola, oltre a dette spelonche, si misse andare per essa, e non tornando presto gli sopragiunse il sole, qual veduta la sua inobedienzia, lo convertí in un sasso, il quale ancora in quel luogo mostrano. Dicono ancora che molti di quelli uomini che eran in dette spelonche, avendo grandissimo desiderio d'andar ancor loro a vedere piú oltre, una notte si partirono, e andati per l'isola non poteron cosí presto tornarsi indietro, di modo che, sopravenendo il sole, quale non era lecito loro guardare, furono transformati ancor loro in certi arbori, che sono in ogni canto per la detta isola, e fanno certi frutti come susine; che dapoi dalli Spagnuoli è stato pensato che sian mirabolani, come abbiam detto di sopra. Dicono ancora trovarsi in queste spelonche uno detto Vaguoniona, che era delli primi e avea molti figliuoli; volse mandarne uno fuori, qual fu transformato dal sole in rosignuolo. E per questa causa dicono detto uccelletto cantar la sua sventura tutto l'anno dimandando aiuto a suo padre; perchè in questa isola li rosignuoli e altri simili uccelletti non restano mai di cantare. E che questo Vaguoniona, volendo andar a trovar detto suo figliuolo, perchè lo amava grandemente, lasciati gli altri in detta spelonca menò seco fuori tutte le femine che lattavano con li fanciulli al petto, e giunto alla ripa d'un gran fiume, li fanciulli, essendo affamati e gridando "toa toa", cioè mama mama, dicono che furono dal sole insieme con le madri convertiti in rane, e che per questo fanno quelle continuamente simil voce.
Ma questo Vaguoniona, per aver avuto spezial grazia dal sole, mai fu mutato in alcuna cosa, ma dapoi che fu andato in diversi luoghi, se ne andò per una grotta sotto la terra, dove trovò una bellissima donna qual gli donò certi sassetti piccioli tondi, che chiaman ciba, e certe lamette d'oro, le quali affermano esser fin al giorno presente appresso alcuni caciqui di detta isola, e mostrarsi con grandissima reverenzia. E che gli uomini restati soli nella spelonca, come abbiamo detto di sopra, andando la notte dove eran alcune fosse piene di acqua piovuta per lavarsi, viddero certi animali simili a femine, che andavan sopra gli arbori come fanno le formiche. E per desiderio d'aver femine, non essendone restate loro alcuna, corsero per voler pigliarne ciascuno una. Ma avendogli messe le mani adosso, fuggivano delle lor mani come se fussero state anguille. E cosí, essendo tutti disperati di non poterne pigliare, fecer consiglio quel che si dovesse fare, dove il piú vecchio disse che si eleggessero fra tutti loro quelli che avessero le mani callose e aspre, li quali chiaman caracaracoli, e con questi tornati a volerne pigliare, di molte che ne presero non ne poteron ritener se non quattro, che tutte l'altre gli fuggirono. E referiscono che li figliuoli che nacquero di queste uscirono delle spelonche, né piú il sole gli transformò in altra cosa, ma abitorono tutta la terra.
Del principio del mare dicono che già fu un uomo molto potente detto Iaia, al qual morse un figliuolo che aveva solo, e volendolo sepellire, né avendo dove, lo misse in una grandissima zucca, e questa collocò alle radici d'un monte non molto lontano dal luogo dove abitava, e spesso andava per desiderio che aveva del figliuolo, a vederla. E che un giorno fra gli altri, avendola aperta, saltoron fuori balene e altri pesci grandissimi. Dalla qual cosa spaventato Iaia, tornato a casa, narrò alli vicini tutto quello che gli era intervenuto, dicendo che quella zucca era piena d'acqua e d'infiniti pesci. Questa cosa divulgatasi, quattro fratelli nati d'un parto, per desiderio di pesci, andorono dove era la zucca, e toltala in mano per aprirla, sopragiunse Iaia. Costoro, vedutolo, per paura che ebbero la buttorno in terra, la qual per il gran peso ch'era in quella si ruppe, e per le fissure venne fuora il mare, e che tutta la pianura secca, qual si vedeva senza fine o termine alcuno da ogni canto, ripiena d'acqua fu sommersa. E che solo li monti, per la sua altezza, rimasero scoperti da tanta inundazione; e cosí credono che detti monti siano l'isole e l'altre parti della terra che si veggono al mondo.
Hanno una gran superstizione, che pensano che li morti il giorno stiano nascosi, e la notte vadino di qua e di là, e che mangiano un frutto detto guabana, del qual abbiam detto, e dirassene nel seguente libro. E qualche volta entrano in letto dove dormono le donne Indiane, presa forma d'uomo; e che le donne gli conoscono in questo modo. Se alcuna la notte dubita che alcun morto sia venuto nel suo letto, subito gli mette la mano sopra l'umbilico, qual non gli trovando subito il morto dispare. Perchè hanno opinione che li morti possino transformarsi con tutte le membra dell'uomo, eccetto che l'umbilico. Dicono che di notte spesso nelle strade publiche appariscono li morti, contra li quali, se l'uomo fa buon cuore e non si perde d'animo, subito il morto disparisce; ma se si mostra aver paura, quella ombra gli va adosso, e nuoce loro tanto che spesso rimangono storpiati e persi in qualche parte della persona.
In questa isola sono quelli che chiamano boitij, overo tequina, quali abbiamo detto che insegnano alli figliuoli delli caciqui gli areyti. Costoro sotto ombre grandi alcuni giorni determinati fanno congregare tutta la plebe, e stando a sedere sopra un arbore gli dicono tutte le sopradette superstizioni overo favole, e appresso come il Cemi over Tuyra gli ha parlato e dettogli quel che hanno a fare e quel che debbe venire, e sono di grande auttorità appresso ciascuno.
Sono ancora medici, perchè conoscono l'erbe e virtú di quelle, con il succo delle quali fanno maravigliose prove a sanar ferite. E quando alcun cacique s'ammala, chiamano uno di questi boitij, qual, pigliandolo a guarire, s'obbliga a digiunare e a pigliar dell'erba detta chohobba, la quale lo fa infuriare e voltar gli occhi e uscir fuori di sé; e dapoi alquanto spazio che costui ha fatto questo, fa collocare l'ammalato in mezzo una camera, dove non vuole che sian presenti se non duoi o tre delli suoi piú stretti parenti, e costui gli va intorno tre o quattro volte torcendo il viso e la bocca, e facendo li piú strani atti che mai si vedessero con le mani e co' piedi, e spesso gli soffia sopra la fronte, collo o tempie, e tira a sé il fiato, e dice cavargli delle vene tutto il male; dapoi gli frega le spalle, coscie e gambe, il che fatto strigne tutte due le mani insieme e va correndo alla porta, dove, scosse che l'ha molto bene, dice aver scacciato fuori il male e che fra pochi giorni l'ammalato guarirà. Dapoi, ritornato all'ammalato, gli dà a bere il succo d'alcune erbe che lo purgano, over gli ordina che non mangi fin l'altro giorno. E se vede che sia per guarire, un'altra volta gli va intorno facendo li sopradetti atti, e mostrando di soffiarsi sopra le mani si cava di bocca un pezzo di qualche frutto, o di maiz, o di pesce, over qualche osso, e dice: "Guarda, tu avevi mangiato questa cosa, la qual non hai potuto digestire, e io te l'ho levata del corpo". Se veramente vede che sia per morire, facendo li medesimi atti dice che 'l Cemi è adirato per non esser stata fatta una bella casa, over che se gli è mancato per il cacique della solita riverenza, e che per questo lo vuol far morire. E mancando il cacique, li suoi principali parenti alcune volte vogliono sapere se 'l Cemi l'ha fatto morire, over è morto per negligenzia, che 'l boitio non ha digiunato come doveva, e fatti alcuni strani atti la notte atorno il morto, si mettono a dormirgli intorno, e dicono essersi insognati donde è venuta la causa di tal sua morte, e per questo alcune volte fanno morire il boitio. Le femine veramente, se possono aver uno degli ossi, o frutto, o maiz, che abbi avuto in bocca il boitio nel sanar d'alcun cacique, lo salvano con grandissima devozione involto in alcun drappo, e dicono esser cosa esperimentata a far partorir subito una donna.
Queste sono le superstizioni, o per dir meglio le favole, che credono gli abitatori dell'isola Spagnuola, ingannati da questi suoi Cemi e boitij, le quali al presente, con la fatica e diligenzia di molti valenti predicatori mandati di Spagna a questo effetto, in gran parte sono levate loro via della mente, facendogli conoscere che erano ingannati dal demonio e ammaestrandogli nella fede cristiana piú che a lor è possibile.
Sommario della naturale e generale istoria dell'Indie occidentali, composta da Gonzalo Ferdinando d'Oviedo, altrimenti di Valde, natio della terra di Madrid, abitatore e rettore della città di S. Maria Antica del Darien, in terra ferma dell'Indie, il qual fu riveduto e corretto, per ordine della maestà dell'imperatore, per il suo real consiglio delle dette Indie.
Prologo e introduzione dell'autore della presente opera, dedicata alla sacra cesarea maestà dell'imperadore don Carlo, quinto di tal nome, re delle Spagne e delle due Sicilie, di qua e di là dal faro, e re di Gierusalem e d'Ungheria, duca di Borgogna e conte di Fiandra etc., signor nostro.
Le cose le quali principalmente conservano e mantengono l'opere della natura nella memoria degli uomini, sono le istorie, e i libri composti d'esse: e quelle verissime e autentiche esser si stimano, le quali l'ardito ingegno dell'uomo che ha peregrinato per il mondo, mediante il fidelissimo testimonio degli occhi, ha potuto descrivere, raccontando quello che ha veduto e udito di simile materia. Di questa sentenzia e opinione fu Plinio, il quale, meglio che alcun altro autore, tutto quello che all'istoria naturale s'apparteneva in trentasette libri raccolse, e in un volume a Vespasiano imperatore indirizzò, e come prudente istorico narrò quello che aveva udito; attribuendo, secondo che egli aveva letto, ogni cosa agli auttori i quali avanti a lui ne avevano scritto. E poi quel che egli stesso vide come occulato testimonio aggiunse alla medesima sua istoria.
Il cui esempio imitando io similmente, voglio in questo mio breve sommario ridurre e rappresentare alla real memoria di vostra maestà, quello che ho veduto nel suo imperio occidentale delle sue Indie, dell'isole e della terra ferma del mar Oceano, dove già sono dodici anni che io passai per riveditore del fondere dell'oro, per comandamento del catolico re don Ferdinando, quinto di tal nome, avolo di vostra maestà, a cui Dio abbia data la sua gloria. E cosí dipoi ho servito, e spero servire per l'avvenire quanto m'avanza di vita in quelle parti alla prefata maestà vostra. Delle quali cose e di molte altre simili piú copiosamente ho scritto in una istoria cominciata, poi che l'età mia fu atta ad esercitarse in tale materia; facendo memoria parimente delle cose accadute in Spagna dell'anno 1494, sino a questi tempi, e di quelle di fuori in quei regni e in quelle provincie dove io sono stato, distinguendo l'istorie e le vite delli re catolici don Ferdinando e donna Isabella, di gloriosa memoria, sino all'ultimo delli loro giorni; e cosí di quello che poi nel tempo della vostra felicissima successione è accaduto. E oltre acciò, io ho scritto particolarmente tutto quello che ho potuto comprendere e notare delle cose dell'Indie. Ma perchè tutto questo volume è rimaso nella città di S. Domenico dell'isola Spagnuola, dove abito e sono accasato con la moglie e figliuoli, né altro portai qua meco, né tengo ora de' detti miei scritti piú altro di quello che mi resta nella memoria e da essa posso raccorre, ho determinato, per dare qualche recreazione alla maestà vostra, mettere insieme con brevità alcune di quelle cose le quali mi parranno piú degne d'essere da lei udite; perchè, se bene qui da altri sono state scritte, e col testimonio della vista affermate, non saranno però forse cosí diligentemente state racconte, come da me puntualmente saranno narrate; benchè in alcune di quelle, e forse ancora in tutte, abbino detta la verità, conciosiachè coloro i quali vanno a negociare in dette parti dell'Indie, attendano ad altre cose che gli possano essere di maggior utilità di quelle che si cava della memoria delle cose di questa qualità, onde con minore attenzione le guardano e considerano che non ho fatto io, che naturalmente vi ho avuta inclinazione e ho desiderato saperle, mettendovi ogni opera e volgendovi gli occhi e la mente.
Questo presente Sommario non sarà contrario né diverso da quello che (come ho detto) piú distesamente ho scritto, ma sarà solo piú breve, e per far l'effetto di sopra narrato, insino a tanto che Dio mi conduca salvo a casa; onde io poi gli manderò tutto quello che io ho investigato e inteso di questa vera istoria. Alla quale dando principio, dico che don Cristoforo Colombo (come è cosa nota), primo admiraglio di questa India, la discoperse al tempo delli catolici re don Ferdinando e donna Isabella, avoli di vostra maestà, nell'anno 1492 alli 3 d'agosto, e venne a Barzellona l'anno 1493 con li primi Indiani, e con la mostra e saggio delle ricchezze e notizia di questo imperio occidentale. Il quale dono e beneficio è stato sino ad oggi un delli maggiori che mai vasallo o servidore abbia possuto fare al suo prencipe e signore, e tanto utile alli suoi regni (come è cosa manifesta). E dico tanto utile (parlando sempre per la verità) ch'io non reputo buon Castigliano né buono Spagnuolo colui che questo non volesse riconoscere. Ma perchè di ciò è stato scritto piú particolarmente nelle dette istorie, non voglio in questa materia dire altro, fuor che raccontare spezialmente alcune cose con brevità, come di sopra ho promesso; le quali certamente saranno molte poche, rispetto alle molte migliaia che di tal qualità si potriano raccontare. Per tanto tratterò prima del cammino che si fa in questa navigazione, poi dirò delle generazioni delle genti che in quelle parti si trovano, e oltre a questo diremo degli animali terrestri e uccelli, de' fonti e fiumi, mari e pesci, piante ed erbe e altre cose le quali produce la terra, e cosí d'alcuni riti, consuetudini e ceremonie di quelle genti salvatiche. E perchè io sono in ordine e spedito per tornarmi in quelle terre a servire la vostra maestà, se le cose in questo libro contenute non saranno cosí distinte con tanto ordine come io ho promesso che sarà quella opera maggiore e piú copiosa che io ho composta, non guardi vostra maestà a questo, ma attenda alla novità delle cose che voglio dire, la qual cosa è propriamente il fine che m'ha mosso a scrivere. Sichè io scriverò raccontando le cose secondo la verità di quelle, come potranno testificare molti uomini degni di fede, i quali sono stati in quelle parti, e al presente si trovano in questi regni in corte della vostra maestà.
Della navigazione.
Cap. I.
La navigazione che di Spagna communemente si fa verso l'Indie è da Sibilia, dove v. maestà ha la sua casa reale di contrattazione per quelle parti, e gli suoi ufficiali; dalli quali prendono licenzia li capitani e patroni delle navi che fanno quel viaggio, e s'imbarcano a San Lucar di Barameda, dove 'l fiume Guadalchibir entra nel mar Oceano, e de lí seguono il suo cammino verso l'isole di Canaria, e communemente toccano una di due delle sette che sono, cioè o la Gran Canaria o la Gomera, e ivi li navilii pigliano rinfrescamento d'acqua, legne, formaggio, carne fresca e altre cose che gli pare conveniente aggiungere a quelle che portano seco di Spagna. Di Spagna a queste isole si tarda communemente otto dí, poco piú o meno, e arrivati lí hanno navigato dugento e cinquanta leghe, che a quattro miglia per lega sono mille miglia. Dalle dette isole tornando a seguir il suo cammino tardano i navilii venticinque giorni, poco piú o meno, fino al veder la prima terra dell'isole che sono avanti di quella che chiamano la Spagnuola. E la terra che communemente si suol vedere prima è una dell'isole che dicono Ogni santi, Marigalante, La Desseada, Matitino, La Domenica, Guadalupe, San Cristoval etc., o alcuna dell'altre molte che sono con le sopradette. Pure alcuna volta accade che li navilii passano senza vista d'alcuna delle dette isole, né di quante sono in quel pareggio, finchè vegghino l'isola di San Giovanni o la Spagnuola o Iamaica o Cuba, che sono piú avanti, o per aventura niuna di quelle, finchè diano in terra ferma. Ma questo accade quando il pilotto non è pratico della navigazione, ma facendosi il viaggio con marinari pratichi (delli quali già se ne trovano molti) sempre si riconosce una delle prime isole sopradette. E dall'isole di Canaria fino lí sono novecento leghe di navigazione o piú; e di lí fino alla città di San Domenico, ch'è nell'isola Spagnuola, sono cento e cinquanta leghe; di modo che di Spagna fino lí sono mille e trecento leghe. Pure, perchè alle volte la navigazione non va cosí diritta che non si vadi vagando assai ad una parte e all'altra, ben si può dire che si vadano mille e cinquecento leghe, e piú.
Si tarda nel viaggio communemente trentacinque o quaranta dí, e questo suol accadere il piú delle volte, non pigliando gli estremi o di quelli che tardano molto o di quelli che arrivano molto piú presto, perchè qui non si debbe considerare se non quello che accade il piú delle volte. Il ritorno da quelle parti a queste suol esser d'alquanto piú tempo, come saria in 50 giorni, poco piú o meno. Tuttavia in questo presente anno 1525 sono venute quattro navi da S. Domenico fin a S. Luca di Spagna in 25 giorni; pur, come è detto, non abbiamo da giudicar quel che si fa rare volte, ma quello che è piú ordinario.
È la navigazione molto sicura fino alla detta isola, e da quella alla terra ferma attraversano le navi in cinque, sei e sette giorni e piú, secondo la parte dove sono dirizzati, perchè detta terra ferma è molto grande, e sono diverse navigazioni e viaggi a quella parte. Pure alla terra che è piú vicina di questa isola, e ch'è opposita a S. Domenico, si va nel tempo sopradetto. Ma tutto questo è meglio rimettere alle carte da navicare e cosmografia nuova, della qual Tolomeo e altri antiqui, per non averla intesa, non hanno detto cosa alcuna. Però, perchè questo non è di bisogno qui, passerò all'altre particolarità, nelle quali dimorerò piú che in questo, che è piú a proposito della generale istoria che scrivo delle Indie che di questo luogo.
Dell'isola Spagnuola.
Cap. II.
L'isola Spagnuola ha di longhezza dalla punta del Higuei fino al capo di Tiburon piú di 150 leghe, e di larghezza, dalla costa over spiaggia della Nativitade, ch'è da tramontana fin al capo di Lobos, che è dalla banda di mezodí, 55 leghe; è la propria città in 19 gradi alla parte di mezodí. Sono in questa isola molti be' fiumi e fonti, e alcuni di loro molto principali, com'è il fiume dell'Ozama, che è quel che entra in mar per la città di S. Domenico, e un altro che si chiama Neiva, che passa vicino alla terra di Santo Iuan della Maguana, e un altro che si chiama Hatibonico, e un altro detto Haina; e al detto Nizao, e altri minori, che non mi curo narrargli.
È in questa isola un lago, che comincia due leghe lontano dal mare, vicino alla terra di Iaguana, che dura quindeci leghe o piú verso levante; e in alcuna parte è largo una, due e tre leghe, nell'altre parti tutte è molto piú stretto, e in piú parti è salato e in alcuna è dolce, e specialmente dove entrano in lui alcuni fiumi o fonti. Pur la verità è ch'egli è come un occhio di mare, qual gli è molto vicino. In detto lago sono molti pesci di diverse sorti, e specialmente tiburoni, che del mar entrano nel detto per disotto della terra, o per quel luogo o parte che per disotto della terra il mar penetra, e genera il detto lago. E questa è la commune opinion di quelli che han veduto questo lago.
Questa isola fu molto abitata da Indiani, ed erano in essa due gran re, che furono Caonabo e Guarionez; e dipoi successe nella signoria Anacaona. Pure, perchè manco voglio dir a che modo fu acquistata questa isola, né la causa perchè gl'Indiani sono ridotti a poca moltitudine per non dimorare, né dir quel che lunga e veramente ho scritto in altra parte, e perchè questo non è quello che ho da trattare, d'altre particolarità delle quali vostra maestà non die aver tanta cognizione, o se le può aver scordate, risolvendomi in quel che ho proposto di dir qui di questa isola, dico che gl'Indiani che sono al presente sono sí pochi, e li cristiani non sono tanti quanti doveriano essere, perchè molti ch'erano in quella isola hanno passato ad altre isole e in terra ferma; perchè, oltra che gli uomini sono amici di novità, quelli che vanno a quelle parti li piú sono giovani, e non obligati per matrimonio a far residenzia in parte alcuna; e perchè, avendosi discoperto e discoprendosi altre terre nuove, gli par di dover empier piú presto la borsa in l'altre. Il che ancora che sia accaduto ad alcuni, li piú però si sono trovati ingannati, e specialmente quelli che avevano case e abitazioni in questa isola; perchè senza dubio alcuno io credo, formandomi con il parer di molti, che se un prencipe non avesse piú signoria di questa isola, in breve saria tale che non cederia né a Sicilia né ad Inghilterra; né al presente è cosa alcuna della qual si possi aver invidia ad alcuna delle dette, anzi quel che avanza nell'isola Spagnuola potria far ricche molte provincie e regni, perchè, oltra che ha piú ricche minere, e di miglior oro che fino ad oggi in alcuna parte del mondo si sia trovato né discoperto in tanta quantità, ivi la natura da sé produce tanto cottone che, se si mettessero a lavorarlo e aver cura d'esso, se ne faria piú e migliore che in alcuna parte del mondo.
Ivi è tanta cassia e sí eccellente che già se ne porta molta quantità in Spagna, e de lí poi si riparte in molte parti del mondo, e se ne va tanto aumentando che è maraviglia. In quella isola sono molte ricche botteghe, dove si lavora di zuccaro, ed è molto perfetto e buono, e in tanta quantità che le navi ne vengono cariche ogni anno. Ivi tutte le cose che si seminano e cultivano, di quelle che sono in Spagna, si fan molto migliori e in piú quantità che 'n parte alcuna della nostra Europa. E quelle non si fanno buone e non si moltiplicano delle quali gli uomini non hanno né pensiero né cura alcuna, perchè vogliono, il tempo ch'averiano ad aspettar queste cose, spender in altri guadagni e cose che piú presto empian l'ingordigia degli avari, che non hanno voglia di perseverar in quelle parti. Per questo non si mettono a seminar formenti, né piantar vigne, perchè in quel tempo che queste cose tardariano a far frutti, le truovano a buon mercato, e le navi le portano di Spagna, e lavorando le minere o esercitandosi in mercanzia o in pescar perle o in altri esercizii (come ho detto) piú presto accumulano roba di quello che fariano per via di seminar formento o piantar vigne; e tanto piú ch'alcuni particolarmente, che pensano continuar in quel paese, si son posti a piantarle.
Similmente sono molte frutte naturali di quel paese, e di quelle che vi si sono portate di Spagna, e quante se ne son portate rispondono molto bene; e perchè particolarmente si trattarà da qui avanti delle cose che la medesima isola e l'altre parti dell'Indie aveano naturali di quei luoghi, e che li cristiani trovorono in esse, dico che di quelle cose che portorono in Spagna è in quella isola, in tutti li tempi dell'anno, molta e gran quantità d'erbe da mangiar bonissime d'ogni sorte, molti pomi granati e buoni, molte naranze dolci e garbe, molti bei limoni e cedri, e di tutti questi agrumi molto gran quantità. Sonvi molti fichi tutto l'anno e molte palme di dattali, e altri arbori e piante che si sono portate di Spagna.
In questa isola non era animale alcuno di quattro piedi se non due sorti d'animali molto piccoli, che si chiamano l'un utias e l'altro coris, che sono quasi a maniera di conigli. Tutti gli altri animali che vi sono al presente, sono stati portati di Spagna; delli quali non mi pare che sia bisogno parlare, dapoi che si portorono di qui, né che si debba notar altro che la gran quantità nella quale sono cresciuti, cosí le mandrie di vacche come gli altri; ma sopra tutto le vacche, le quali sono augumentate in tanta quantità che sono molti patroni di bestiami che hanno piú di duemila capi, e assai passano tre e quattromila, e v'è chi arriva a piú di ottomila. Di cinquecento, o poco piú o manco, ne son molti che n'hanno. E la verità è che 'l paese ha li megliori pascoli del mondo per simili bestiami, e acque molto chiare e aere temperato; e cosí gli armenti sono maggiori e piú belli molto di tutti quelli che sono in Spagna. E perciochè il tempo in quelle parti è molto piacevole e soave, e di nissuno freddo, però non sono mai magre, anzi grassissime e di molto buon sapore; e similmente vi sono molte pecore e porci in gran quantità, delli quali e delle vacche molti ne sono fatti salvatichi; e medesimamente molti cani e gatti, di quelli che si menorono di Spagna per servizio degli abitanti che passorono in quelle parti, quali andorono al bosco. E vi sono di loro molti e cattivi, e spezialmente cani, che si mangiano già molti bestiami, per poca cura de' pastori che mal gli guardano. Vi sono molte cavalle e cavalli, e tutti gli altri animali delli quali si servono gli uomini in Spagna, che si sono augumentati di quelli che furono menati di qui.
Vi sono alcuni luoghi medesimamente che sono abitati, ancora che piccioli, nella detta isola, delli quali non curarò di dire altra cosa, se non questo, che veramente tutti sono in siti e regioni che, correndo il tempo, cresceranno e si faranno nobili, per causa della sua molta fertilità e abbondanzia del paese. Pur del principal di questi luoghi, ch'è la città di S. Domenico, parlando piú particolarmente, dico che quanto agli edificii non è terra alcuna in Spagna a tanto per tanto, ancora che sia Barzellona, la quale ho io molto ben visto molte volte, che se gli possa anteponere generalmente, perchè le case di S. Domenico sono di pietra come quelle di Barzellona per la maggior parte, o di terra sí ben lavorata e forte che fa una singulare e forte presa. E il sito è molto miglior di quel di Barzellona, perchè le strade sono tanto e piú piane, e molto piú larghe, e senza comparazione alcuna piú diritte, perchè, essendo stata fondata a' nostri tempi, oltra l'opportunità e apparecchio della disposizione che ha il luogo di fondarla, fu tutta dirizzata a corda e compasso; e tutte le strade a misura, nel che è molto superiore a tutte le città ch'io ho visto. Ha il mare sí vicino, che da una parte tra il mare e la città non è piú spazio della muraglia, e questo è circa di cinquanta passi largo donde è piú lontana, e per quella parte li battono l'onde negli vivi sassi e costa brava.
Dall'altra parte, a canto e a piè delle case, passa il fiume Ozama, che è porto maraviglioso, e le navi cariche surgono vicino alla terra e sotto le finestre, e non piú lontano dalla bocca dove il fiume entra in mare, di quanto è dal piè del colle di Monivie al monasterio di San Francesco, o alla loggia di Barzellona. E in mezo di questo spazio nella detta città è la fortezza e castello, sotto del quale e lontano venti passi passano le navi a surgere, alquanto piú avanti nel medesimo fiume e dall'entrar delle navi, finchè buttando l'ancora non si allontanano dalle case della città trenta o quaranta passi se non a lungo di ella, perciochè da quella parte l'abitazione è vicina al fiume. Dico che porto di tal sorte bello, né sí atto a discaricare non si trova in molte parti del mondo.
Li fuoghi che possono essere in questa città sono da settecento, e tali case come ho detto; e alcune particolarmente sono sí buone che qualsivoglia de' signori di Castiglia si potriano molto ben alloggiar in esse, e particolarmente quella che lo admirante don Diego Colombo, vice re di vostra maestà, vi ha, è tale che non so io alcuna in Spagna che per un quarto l'abbia tale, considerate le qualità di quella; cosí il sito, che è sopra il detto porto, come per esser tutta di pietra e aver molte buone e assai stanze, e della piú bella vista di mare e di terra che possa essere; e per l'altre quattro parti che si hanno a fare di questa casa, ha la disposizione simile a quello che è finito, che è tale che, come ho detto, vostra maestà vi potrebbe star sí ben alloggiato come in una delle piú compiute case di Castiglia.
Èvvi ancora una chiesa catedrale che ora si lavora, dove cosí l'episcopo come le dignità e canonici sono molto ben dotati, e secondo lo apparecchio che vi è di pietre, calcina e altro che lavorano, e la continuazione del lavoro, si spera che molto presto sarà compita, e sarà assai sontuosa e di buona proporzione e bello edificio, per quello ch'io viddi già fatto. Sonvi medesimamente tre monasterii, che sono San Domenico, San Francesco e Santa Maria della Mercede, ancora loro molto ben edificati, ma moderati però e non fatti con tanta curiosità come quelli di Spagna. Ma parlando senza pregiudicio di alcuno monasterio di religiosi, può vostra maestà tener per certo che in questi tre monasterii si serve ad Iddio molto devotamente, perciochè veramente sono in quelli santi religiosi e di molto buono esempio. Vi è ancora un molto bello ospitale, dove li poveri sono accettati e ben trattati, che fu fondato da Michel Passamonte, tesoriero di vostra maestà.
Vassi questa città di giorno in giorno augumentando e facendo piú nobile, e sempre sarà maggiore, sí perchè in quella fa la sua residenzia il detto admirante, vice re e consigliero, e la cancelleria reale che vostra maestà tiene in quelle parti, come perchè di quelli che vengono in quella isola li piú ricchi sono gli abitatori della detta città di San Domenico.
Della gente naturale di questa isola e d'altre particolarità di quella.
Cap. III.
La gente di questa isola è d'alquanto minor statura che comunemente è la spagnuola, e di color berettino chiaro. Hanno moglie proprie, né alcuno di loro toglie per mogliera sua figliuola o sua sorella, e s'abstien da sua madre, e in tutti gli altri gradi usan con loro, essendo e non essendo sue mogliere. Hanno la fronte larga, e li capelli neri e molto distesi, e niente di barba, né peli in alcuna parte della persona, cosí gli uomini come le donne; e s'alcuno o alcuna se ne trova ch'abbi alcune di queste cose, sono, tra mille, uno o pochissimi. Vanno nudi come nacquero, salvo che le parti che manco si debbon mostrare portano uno pampano, ch'è un pezzo di tela, grande quanto una mano, ma non messo con tanta diligenzia ch'impedisca che non si vegga quanto ch'hanno.
Ma mi par conveniente cosa, prima che io proceda piú avanti, dire la sorte del pan e mantenimento ch'hanno gl'Indiani di questa isola, acciochè ne resti manco che dir nelle cose di terra ferma, perchè in questa parte e questi e quelli hanno uno medesimo sostentamento.
Del pan che fanno gl'Indiani del maiz.
Cap. IIII.
Nella detta isola Spagnuola hanno gl'Indiani, e li cristiani ch'usano mangiare il pane degl'Indiani, due sorti di pane, una di maiz, ch'è grano, l'altro di cazabi, ch'è radice. Il maiz è un grano che nasce in certe panocchie di mezo piè l'una in circa di lunghezza, piene di grani grossissimi quasi come ceci bianchi, e seminasi e ricogliesi in questa maniera.
In prima si eradicono li canneti o boschi dove si vuol seminare, perchè la terra dove nasce erba, e non arbori o canne, non è tanto fertile. E dapoi che è fatto questa tagliata, s'abbruccia, e dipoi abbrucciata la terra tagliata, resta di quella cenere uno temperamento nella terra miglior che se fusse letame. E piglia un Indiano un legno in mano, alto quanto un uomo, e dà un colpo di punta in terra e subito lo tira fuora, e in quel buco ch'ha fatto butta con l'altra mano sette o otto, o poco piú o manco grani del detto maiz, e va subito un passo avanti e fa il medesimo, e in questo modo a compasso va seguitando, fin che giunge al capo della terra che si semina e va mettendo la detta semenza; e appresso del primo vanno altri dalle bande facendo il simile, e in questo modo tornano a dar la volta al contrario seminando, e continuando cosí fin che forniscono.
Questo maiz dopo pochi giorni nasce, tal che in quattro mesi si raccoglie, e in qualche luogo si trova alcuna volta piú presto, perchè viene in tre mesi; perochè, cosí come va nascendo, hanno cura di cavar via l'erbe che gli nascon attorno, fin che sia tanto alto che già il maiz vadi superchiando l'erbe. E come egli è già ben cresciuto e comincia a granire, bisogna guardarlo, nella qual cosa gl'Indiani tengono occupati li loro garzoni, li quali per tal causa fanno star in cima d'arbori o di solari, che loro fanno di canne e di legname, coperte di sopra per la pioggia o sole, da' quali danno gridi e voci, cacciando via li pappagalli che vengon in frotta a mangiar li detti maizali.
Questo grano ha la canna, over asta dove nasce grossa quanto il dito minore della mano, alcuni manco, alcuni alquanto piú; e cresce piú alto communemente che la statura d'un uomo; e la foglia è come quella della canna commune di qui, salvo ch'è piú lunga e piú flessibile e non tanto aspra, ma non manco stretta. Butta ogni canna una panocchia, nella quale sono dugento o trecento o cinquecento piú e manco grani, secondo la grandezza della panocchia, e alcune canne buttano due o tre panocchie, e ogni panocchia sta involta in tre o quattro o almanco due foglie o scorzi, congiunti e accostati a quella, aspri alquanto e quasi del colore o sorte delle foglie della canna, nella qual nasce e sta rinvolto il grano, di modo ch'è molto guardato dal sole e dal vento; e lí dentro si stagiona, e come egli è secco si raccoglie; però li pappagalli e gatti mammoni gli fanno molto danno, se non gli fanno la guardia.
Dalli gatti mammoni nell'isola stanno sicuri perchè, come da principio abbiam detto, nessuno animal di quattro piedi eccetto coris e utias si truova in quella, e questi duoi animali non lo mangiano; ma adesso gli porci portativi da' cristiani gli fanno danno. E in terra ferma molto piú, perchè sempre in essa sono stati de' salvatichi, e molti cervi e gatti mammoni che mangiano li detti maizali. Per questo, tanto per gli uccelli quanto per gli animali, convien aversene vigilante e continua guardia, mentre che nella campagna è il maiz, e questo avendo imparato li cristiani dagl'Indiani, lo fanno della medesima maniera tutti quelli ch'al presente in quella terra vivono.
Suole uno staio di seme renderne venti, trenta e cinquanta e ottanta; e in alcune parti piú di cento staia. Colto questo grano e posto in casa, si mangia in questo modo. Nell'isole lo mangiano in grani arrostito, o essendo tenero quasi in latte senza arrostirlo; e dipoi che li cristiani si posero ivi ad abitare, si dà a' cavalli e bestie delle quali si servono, ed è a quelli di gran sustanzia. Ma in terra ferma hanno gl'Indiani un altro uso di questo grano, ed è in questo modo. L'indiane lo macinano in una pietra alquanto concava con un'altra pietra tonda, come sogliono li dipintori macinar li colori, gettando a poco a poco un pochetto d'acqua, la qual cosí macinando si mescola col maiz, ed esce di questa macinatura una sorte di pasta come una massa, della quale pigliano un poco e rivoltanla in una foglia d'erba, che già loro hanno preparata per questo servizio, o nella foglia della canna del medesimo maiz o altra simile, e gettanla nella brace, dove s'arrostisce e s'indurisce e si fa come pane bianco, e fa la sua crosta di sopra e di dentro la midolla. Di questa sorte di pane è la midolla assai piú tenera che la crosta, e debbesi mangiar caldo perchè, essendo freddo, non ha tanto buon sapore, né è tanto facile a masticare, perchè è piú secco e aspro. Questa sorte di pane anco si lessa, pure non è sí buono al gusto; aggiugnesi che questo pane, dipoi lessato o arrostito, non si mantiene se non pochi giorni, ma subito fra quattro o cinque giorni diventa muffato né si può mangiare.
D'un'altra sorte di pane che fanno gl'Indiani d'una pianta che chiamano iuca.
Cap. V.
È un'altra sorte di pane, qual si chiama cazabi, che si fa di certa radice d'una pianta che gl'Indiani chiamano iuca: questo non è grano, ma pianta, la qual fa certi fusti piú alti d'un uomo, e ha la foglia della medesima maniera della canapa, grande come una palma di una mano d'un uomo ch'abbia aperte e distese le dita, salvo che questa foglia è maggiore e piú grossa di quella della canapa. Pigliano il fusto di detta pianta per seminarla, e partonla in pezzi grandi duoi palmi, e alcuni uomini fanno monticelli di terra per ordine a filo, egualmente lontani l'uno dall'altro, come in questo regno di Toledo piantano le viti a compasso, e in ogni monticello mettono o cinque o sei o piú pezzi di questa pianta; altri non curano di far monticelli, ma nella terra piana lasciando eguali spazii ficcano questi piantoni. Ma prima hanno tagliato e arso in bosco per seminar la detta iuca, come si disse nel capitolo del maiz scritto avanti a questo; e de lí a pochi dí nasce, perchè subito germuglia, e sí come va crescendo la iuca, cosí vanno nettando il terreno dall'erba, fin che detta pianta signoreggi l'erba, e questa non ha pericolo d'uccelli, ma di porci, se non è di quella che ammazza.
Questo dico perchè se ne trova una sorte venenosa, la quale loro non ardiscono mangiare, perchè mangiandola creperebbono. Dell'altra che non ammazza bisogna averne cura, perchè il frutto di questa nasce nelle radici della detta pianta, intra le quali nascono certe mazocchie, come carotte grosse e molto piú grandi communemente, le quali hanno la scorza aspra, di colore come leonato o bigio: dentro sono molto bianche, e per far pane di quello che chiamano cazabi la grattano, e dipoi quella ch'hanno grattata struccolano in uno cibucan, ch'è un instrumento come un sacco, di dieci palmi o piú longo e grosso come la gamba, che gl'Indiani fanno di palma, come stuora tessuta, e con quel detto cibucan cioè sacco torcendolo assai, come si costuma a fare quando delle mandole si vuol cavare il latte; e quel succo che si cava di questa iuca è mortifero e potentissimo veneno, perchè un fiato di quello preso subito ammazza, ma quello che resta, dapoi cavato il detto sugo o acqua della iuca, che resta come una semola trita, lo pigliano e mettonlo al fuoco in un tegame di terra, cioè intian, della grandezza che vogliono fare il pane, molto ben calda, e la mettono distesa, tenera e premuta molto bene, di modo che non vi sia succo alcuno, la qual subito si congela e fassi una torta, della grossezza che vogliono fare e della grandezza del detto tegame nel qual cuocono; e come è congelata la cavano e l'acconciano, ponendola alcune volte al sole, e dipoi la mangiano: ed è buon pane.
Ma dovete sapere che quell'acqua che prima vi dissi, ch'era uscita della detta iuca, dandogli alcuni bollori e ponendola al sereno alquanti giorni, s'addolcisce, e se ne servono gl'Indiani come di miele o altro liquor dolce per messedar con altri mangiari; e dipoi ancora, tornandola a bollire e mettere al sereno, diventa agro quel sugo, e se ne servono per aceto in quel che vogliono usare e mangiare senza pericolo alcuno. Questo pane di cazabi si mantiene un anno e piú, e portasi da luogo a luogo molto lontano senza guastarsi, e ancora per mare è buona provisione, e si naviga con esso per tutte quelle parti e isole e terra ferma; né si guasta se non si bagna.
La iuca di quella sorte, il succo della quale ammazza come è detto, se ne trova in gran quantità nell'isola di San Giovanni, Cuba e Iamaica. E nella Spagnuola n'è un'altra sorte, che si chiama boniata, il succo della quale non ammazza, anzi si mangia la iuca arrostita come le carotte, e con vino e senza, ed è buon mangiare; e in terra ferma tutta la iuca è di questa boniata, e io n'ho mangiato molte volte, perchè in quella terra non curano di far cazabi se non pochi, e communemente la mangiano nel modo ch'ho detto, arrostita sopra le brace, ed è molto buona.
Ma quella della quale il succo ammazza è nell'isole, dove è accaduto alcuna volta trovarsi alcun cacique o principal Indiano, e molti altri con lui, li quali, volendo volontariamente morir insieme, poichè il principale per esortazione del demonio, ha detto a quelli che vogliono morire con lui le cause che gli pareva per tirargli al suo diabolico fine, tolto ciascun di loro un fiato dell'acqua o succo della iuca, subitamente morivano tutti senza rimedio alcuno. Questa iuca non ha la sua perfezione e non è da raccogliere se non passano dieci mesi o un anno che sia seminata, e a questo tempo si comincia adoperare e servirsi d'essa.
Del mantenimento over provisione ch'hanno detti Indiani, dapoi il detto pane.
Cap. VI.
Dapoi che s'è detto del pane degl'Indiani, diremo delle altre provisioni di viver che in detta isola usano, con le quali si mantengono, piú che di frutti o peschiere, della qual cosa mi riserbo a dire per l'avenire, per esser commune a tutte l'Indie. Dico adunque che appresso di quello, mangiano li detti Indiani quelli cories e utias delli quali per avanti s'è fatto menzione: e li utias sono come sorzi grandi, o tengono con quelli qualche similitudine, e li cories sono come conigli o coniglietti piccoli, e non fanno male e sono molto belli, e ne sono di bianchi tutti, e alcuni bianchi e rossi e d'altri colori.
Mangiano similmente una sorte di serpi detti yuanas, che al veder sono molto fieri e spaventevoli, ma non fanno male, né ancora si sa se sono animali o pesci, perchè vanno per l'acqua e per gli arbori e per terra, e hanno quattro piedi, e sono maggiori che conigli, e tengono la coda come lagarti, cioè ramarri, e la pelle loro è dipinta, e di quella sorte di pellatura, benchè diversa e separata nelli colori; e per il filo della schiena hanno spini levati; e li denti acuti, e massime li canini, e hanno un gosso molto lungo e largo, che gli arriva dalla barba al petto, della medesima pelatura e sorte dell'altra sua pelle, e son muti, che non gemeno né gridano né suonano, e stanno legati al piè di una arca, o dove si voglia legargli, senza far male alcuno né strepito dieci, quindeci giorni senza mangiare né bere cosa alcuna; pure gli danno da mangiare qualche poco di cazabi o altra cosa simile. Ed è di quattro piedi, e ha li piedi davanti longhi con deta, e l'unghie longhe come di uccello, pure fiacche e non di presa. Ed è molto miglior per mangiare che da vedere, perchè pochi uomini sarebbero quelli che lo ardissero mangiare se lo vedessero vivo, eccetto quelli che già in quelle parti sono usati a non aver paura di esso, né di altri molto maggiori animali in effetto, chè questo non è se non in apparenzia. La carne di questo animale è cosí buona, e molto migliore di quella del coniglio, ed è sana, perchè non noce se non a quelli che hanno avuto il mal francioso; ma quelli che sono stati tocchi da questa infermità, benchè molto tempo siano stati sani, nondimeno gli fa danno, e si lamentano di questo mangiare quelli che l'hanno provato, secondo che da molti, che con la sua persona ne hanno fatto esperienzia, l'ho molte volte udito dire.
Degli uccelli dell'isola Spagnuola.
Cap. VII.
Degli uccelli che sono in questa isola non ho parlato, però dico che ho camminato piú di ottanta leghe per terra, che è dalla terra di Iaguana alla città di San Domenico, e ho fatto questo cammino piú di una volta, e in nessuna parte ho veduto manco uccelli che in quella isola. E perciò, perchè tutti quelli che in essa viddi sono ancora in terra ferma, delli quali al suo luogo per lo avenire piú largamente dirò tutto che in questo articulo overo parte si debbe dichiarare, solamente dico che parlando delle galline venute di Spagna ce ne sono molte, e molti buoni capponi. Dirò ancora molto manco di quello che appartiene ai frutti naturali del paese, overo altre piante ed erbe, come pesce di mare e acqua dolce, nella narrazione di questa isola, perchè tutti sono in terra ferma e piú copiosi, e molte altre cose che per l'avenire al suo luogo si diranno.
Dell'isola della Cuba, e altre.
Cap. VIII.
Nell'isola della Cuba e di altre, le quali sono San Giovanni e Iamaica, sono tutte queste cose che si sono dette delle genti e altre particolarità dell'isola Spagnuola; similmente si può dire, benchè non cosí copiosamente, perchè sono minori pure in tutte sono le medesime cose, cosí di minere di oro e di rame come bestiami, arbori, piante e pesci e di tutto quello che è detto. Pure similmente in alcune di queste non era animale alcuno di quattro piedi, se li cristiani non ve ne portavano, sí come nella Spagnuola, finchè li cristiani non gli portorono in quelle; e al presente in ciascuna n'è gran quantità, e similmente molti zuccari e canne di cassia e tutto che di piú è detto. Pure nell'isola di Cuba è una sorte di pernici, che sono picciole, e sono quasi di specie di tortore nelle penne, ma molto megliori di sapore, e pigliasene in grandissimo numero, e condotte in casa vive e salvatiche, in tre over quattro giorni diventano sí domestiche come se le fussero nate in casa. S'ingrassano in molti modi, e senza dubbio è un mangiar molto delicato nel sapore; e io le tengo per molto migliore che le pernici di Spagna, perchè non sono di cosí dura digestione.
Ma, lasciato da parte tutto quello che è detto, vi è due cose admirabili che sono nella detta isola di Cuba, che al mio parere mai piú si udirono né si scrissero. Una è che vi è una valle che dura due o tre leghe tra duoi monti, qual è piena di pallotte da bombarda, liscie e di sorte di pietra molto forte e tondissime, tali che con alcun artificio non si potriano far piú eguali o rotonde, ciascuna nell'esser che la tiene. E ne sono alcune cosí picciole come pallotte da schioppetto, e de lí in suso di maggior grossezza crescendo, ve ne sono tali e cosí grosse come per ciascuna sorte di artiglieria, benchè la portasse tanta polvere come un quintale, o di due o maggior quantità, e di grossezza come si volesse; e trovansi queste pietre in tutta quella valle, come se fussero di minera, e cavando si trovano secondo che le si vogliono, o se n'ha bisogno.
L'altra cosa è che nella detta isola, e non molto lontano dal mare, esce d'una montagna uno liquore o bitume come pegola, molto sufficiente e tale come si richiede per impalmare li navilii, della qual materia entra in mare continuamente molto copia, si vede andar sopra l'acqua in cima dell'onde d'ogni banda, secondo che i venti la muovono o corrono l'acque del mare, in quella costa dove questo bitume o materia ch'è detta va. Quinto Curzio nel suo libro dice che Alessandro arrivò alla città di Memi, dove è una gran caverna o spelonca, nella qual è una fontana che mirabilmente butta grandissima copia di bitume, di sorte che facil cosa è da credere che li muri di Babilonia potessero essere fatti di bitume, secondo che 'l detto autore dice. Non solamente nella detta isola di Cuba ho visto questa minera di bitume, ma un'altra tale nella Nuova Spagna, ch'è poco tempo che si trovò nella provincia che chiamano Panuco, il quale bitume è molto migliore che quello della Cuba, come s'ha visto per esperienzia impalmando alcuni navilii.
Ma lasciando questo da parte, e seguendo quel che mi ha mosso a scrivere questo Sommario, per ridurre alla memoria alcune cose notabili di quelle parti, e rapresentarle a vostra maestà, benchè non mi vengono in memoria cosí ordinarie e copiosamente come le tengo scritte, avanti che passi a parlare della terra ferma, voglio dir qui d'una certa sorte di pesci che gl'Indiani della Cuba e Iamaica pigliano, che usano nel mare, e in un altro modo di caccia o pescheria che in queste due isole li detti Indiani fanno quando cacciano o pescano l'oche salvatiche; ed è di questa sorte. Egli è un pesce longo un palmo o poco piú, che si chiama pesce roverso, brutto da vedere ma di grandissimo animo e intendimento, il qual accade alcune volte che vien preso con gli altri pesci nelle reti, delli quali io n'ho mangiati assai; e gl'Indiani, quando vogliono guardare e allevare alcuno di questi, lo tengono nell'acqua del mare, dove gli danno da mangiare, e quando vogliono pescare con esso lo portano al mare con la sua canova, ch'è come una barca, e tengonlo lí in acqua e gli attaccano una fune doppia molto forte; e quando veggono alcun pesce grande, come sarebbe una testudine o savalo, che ne sono di grandi in quelli mari, o altro qual si sia, che accade andar sopra acqua o di sorte che si possa vedere, l'Indiano piglia in una mano questo pesce roverso, e con l'altra carezzandolo gli dice nella sua lingua che 'l sia animoso e di buon cuore e diligente, e altre parole esortatorie per fargli ardire, e che facci d'esser valente e che s'attachi con il maggiore e miglior pesce che vedrà; e quando gli pare lo lascia e lancia verso dove li pesci vanno.
Il detto roverso va come una freccia e s'attacca da un lato con una testudine, o nel ventre o dove si può, e legasi con essa o con altro pesce grande con qual vuole, il qual, come si vede attaccato da quel pesce piccolo, fugge per il mare di qua e di là. In tanto l'Indiano non fa altro che dare e slungare la corda di tutto punto, la qual è di molte braccia, e nel fine di quella è attaccato un pezzo di sughero o legno o cosa leggiera per segnale che stia sopra l'acqua; e in poco processo di tempo il pesce o testudine grande, con la qual il detto roverso si afferrò, straccandosi, se ne viene verso la costa della terra; e l'Indiano comincia a raccoglier la sua fune nella canova, overo barca, e quando gli manca poche braccia da raccogliere comincia a tirare con destrezza a poco a poco, e tira guidando il roverso, e il pesce col quale sta attaccato, fin che arrivan a terra; e quando egli è a meza via, o l'intorno, l'onde medesime del mare lo gettan fuora, e l'Indiano similmente lo piglia e porta fin che lo mette in secco, e quando già è fuori dell'acqua il pesce è preso con molta desterità a poco a poco, e ringraziando con molte parole il roverso di quello che gli ha fatto e travagliato, lo spicca dall'altro pesce grande che cosí il prese; al quale sta tanto appiccato e fisso che, se per forza si spiccasse, si romperebbe o squarciarebbe il detto roverso.
E sono delle testudini tanto grandi che piglia, che duoi Indiani, e alle volte sei, hanno molta fatica a portarle in spalla fin alla villa. Conduce alla mazza alcuni altri pesci ancora cosí grandi e maggiori, delli quali il detto roverso è il boia che gli prende, nella forma che è detta di sopra. Questo pesce roverso ha alcune squamme fatte a foggia di scalini, o vero come è il palato nella bocca dell'uomo o d'un cavallo, e sopra quelle certe spinette sottilissime, aspre e forti, con le quali si appicca con li pesci che vuole. E queste squamme di spinette l'ha per la maggior parte del corpo.
Ma passando al secondo che di sopra è detto, del prendere dell'oche salvatiche, sappia vostra maestà che, al tempo del passaggio di questi uccelli, passa per quell'isola una molto grande moltitudine di quelli, quali sono molto belli, perchè sono tutti neri e il petto e il corpo bianco, e all'intorno degl'occhi come un cerchietto di carne tondo molto colorito, che pare verissimo e fin corallo; il quale si congiugne nelli cantoni degli occhi e similmente nel principio dell'occhio verso il collo, e de lí descendono per mezo del collo linee al diritto una dell'altra, fino al numero di sei e sette d'esse o poco manco. Queste oche in gran quantità si mettono insieme in una gran laguna ch'è in detta isola, e gl'Indiani che abitano ivi attorno gettano dentro detta laguna di gran zucche vote e tonde, le quali vanno sopra l'acqua, e il vento le porta d'una parte e dall'altra, e le mena fino alla riva. L'oche al principio si spauriscono, e si levano e dispardano vedendo le zucche; pure, quando le veggono che le non gli fanno male, a poco a poco perdono la paura, e di dí in dí, dimesticandosi con le zucche e senza pensamento alcuno, s'arrischiano a montar molte delle dette oche in cima di quelle, e cosí sono portate ora in una parte ora in un'altra, secondo che 'l vento le muove; di modo che, quando l'Indiano già conosce che le dette oche sono molto assicurate, e domestiche della vista del movimento e uso delle dette zucche, si mette una di quelle in testa fino alle spalle, e con tutto il resto del corpo va sotto acqua, e per un bucco piccolo guarda dove sono le dette oche, e si mette appresso quelle, e subito alcune nella zucca saltando in cima, e come lui la sente si parte molto pianamente, se vuole notando, senza esser veduto o sentito da quelle che porta sopra di sé, né d'alcuna altra.
Ma ha a sapere vostra maestà che in questo caso del notare hanno la maggiore agilità gl'Indiani che si possa pensare. E quando egli è un poco lontano dall'altre oche, e che gli pare che sia tempo, cava fuora la mano e se la tira per li piedi e la mette sotto acqua, e annegata l'appicca sotto alla cintura, e nella medesima maniera torna a prenderne dell'altre; e con questa forma e arte prendono gl'Indiani molta quantità delle dette oche, non le facendo disviar de lí: cosí come elle gli montano in cima, cosí le prendono e mettono sotto acqua e poi alla cintura, e l'altre non si levano né spaventano, perchè pensano che quelle tali medesime si siano buttate sotto acqua per prendere qualche pesce. E questo basti quanto a quello che appartiene all'isole, dapoi che del traffico e ricchezze di quelle, nella istoria quale scrivo, nissuna cosa resta a scrivere di quanto fin ad ora si sa.
E passiamo a quello che di terra ferma posso ridurmi alla memoria. Pure prima mi soviene d'una malatia che è nell'isola Spagnuola e altre isole che sono state abitate da' cristiani; la quale già non è cosí ordinaria come fu nelli principii che dette isole si acquistorono, ed è che agli uomini nasce nelli piedi tra pelle e carne, per industria d'un pulice, o cosa molto minore che il piú picciolo pulice, che entra lí dentro, a modo d'una borsa picciolina cosí grande come un cece, e si empie di lendine, che è il lavoro che quella cosa fa, e quando non si tira via con tempo lavora di sorte e cresce quella specie di niguas, perchè cosí si chiama questa bestiola, nigua, di modo che restano gli uomini deboli di qualche membro e storpiati delli piedi per sempre, tale che piú di loro non possono servirsi.
Delle cose della Terra ferma.
Cap. IX.
Gl'Indiani della terra ferma, quanto alla disposizione della persona, sono maggiori un poco, e piú uomini e meglio fatti, che quelli dell'isole, e in alcune parti sono belli e in altre non tanto; combattono con diverse armi e in diversi modi, secondo l'uso di quelle provincie o parti che stanno. Quanto al maritarsi, fanno nel modo che s'è detto che si maritano nelle isole; perchè in terra ferma similmente non si maritano con sue figliuole, né con sorelle, né con sua madre.
Qui non voglio dire né parlare della Nuova Spagna, benchè la sia parte di questa terra ferma, perchè di quella Hernando Cortese ha scritto secondo che gli è parso, e fatto relazione per sue lettere, e molto copiosamente. Io similmente ho raccolto molte cose nelli miei memoriali, per informazione di molti testimonii di veduta, come uomo che ha desiderato trovare e sapere la verità. Dapoi che il capitano qual prima signor Diego Velasque mandò fino alla Cuba il capitano chiamato Francesco Hermandes di Gordova, la discoperse, overo per dir meglio toccò primo in quella terra, perchè discopritore, parlando con la verità, nessuno si può chiamare se non lo admirante primo dell'Indie, don Cristoforo Colombo, padre dello admirante don Diego che al presente è, per aviso e cagione del quale gli altri sono andati e navigati in queste parti. E dietro al detto capitano Francesco Hernandes mandò il detto signor capitano Giovan Grisalva, che vidde molto di quella terra e costa, del quale furono quelle diverse mostre di robbe che a vostra maestà mandò a Barzellona l'anno MDXIX; e il terzo per comandamento del detto signor don Diego che in quella terra passò fu il capitano Hermando Cortese. Questo e molto piú si troverà, e piú copiosamente detto nel mio trattato, overo generale istoria delle Indie, quando piacerà a vostra maestà che si dia in publico.
Lasciata adunque la Nuova Spagna a parte, dirò qui alcuna di quelle che nelle altre provincie, overo al manco nelle città di Castiglia loro si sono vedute, e per costa del mare detto Nort, cioè Tramontana, e alcune del mare del Sur, cioè di Mezzodí. Ed essendo da non lasciare di notare una cosa singulare e admirabile che io ho compresa del mare Oceano, e della quale fino al presente nessuno, né cosmografo, né pilotto, né marinaio, né altra persona mi ha satisfatto. Dico che, come è noto a vostra maestà, e a tutti quelli che hanno notizia del mare Oceano, e hanno bene considerato le sue operazioni, questo gran mare Oceano butta da sé per la bocca del stretto di Gibilterra il mare Mediterraneo, nel quale le acque, alla bocca del detto stretto fino al fine del detto mare, né in levante, né in alcuna costa overo parte del detto mare Mediterraneo, il mare non cala né cresce tanto che sia bisogno di guardarsi da grande mare, cioè da grande calare overamente crescere; ma cresce in poco di spazio. E fora del detto stretto, nel mare Oceano, cresce e cala l'acqua grandemente in grande spazio di terra di sei ore in sei ore, cioè in tutta la costa di Spagna, Bretagna, Fiandra, Magna e costa della Inghilterra.
E il medesimo mare Oceano, in terra ferma trovata nuovamente, alla costa che guarda a settentrione, per lo spazio di tremila leghe non cresce né cala, né ancora nella isola Spagnuola e Cuba e tutte le altre del detto mare che guardano a settentrione, se non nel modo che in Italia il mare Mediterraneo, che è quasi niente a rispetto di quello del detto mare Oceano fa nelle dette coste della Spagna e parimente della Fiandra. Ma questo è maggior cosa, ancora che il medesimo mare Oceano nella costa di detta terra che guarda verso ostro nel Panama, e anco nella costa di quella che guarda verso levante e ponente di questa città e delle isole delle Perle, che gl'Indiani chiamano Teracequi, e ancora in quella di Taboga e in quella di Otoque e tutte l'altre del detto mare di Mezzodí, cresce e cala tanto l'acqua che quando cala quasi si perde di vista, la quale cosa io ho veduto moltissime volte.
Noti la vostra maestà un'altra cosa, che dal mare di Tramontana fino al mare Australe, che sono tanto differenti uno dall'altro nel crescere e calare delle maree, non è però da costa a costa per terra piú di disdotto overo venti leghe di traverso; si che essendo il detto Oceano uno medesimo mare, è cosa degna di considerazione grande, massime a quelli che ci hanno inclinazione e desiderano sapere tali secreti della natura; perchè io, dapoi che per persone dotte non mi sono potuto satisfare, né da quelli sapere intendere la causa, mi contenterò sapere e credere che colui che lo fa, che è Iddio, sa questo e molte altre cose che non concede sapere all'intelletto degli uomini, e specialmente a tanto basso ingegno come è il mio. Quelli veramente che hanno miglior ingegno, pensino per loro e per me quello che possa essere la vera causa di tal cosa, perchè io ho posto la questione in campo nelli termini veri, e come testimonio di vista, e fin tanto che la si truovi.
Tornando al proposito detto, che 'l fiume che li cristiani chiamano San Giovanni in Terra ferma entra nel golfo d'Uraba, dove chiamano la Culata, per sette bocche, e quando il mare cala quel poco che è detto che suole in questa costa di tramontana, cala per causa del detto fiume tutto il detto golfo d'Uraba, che è dodici leghe e piú di lunghezza, e sette overo otto di larghezza; resta dolce tutto quel mare, tanto che detta acqua è bonissima da bere, e io ho provato stando surto in una nave in sette braccia d'acqua, e piú d'una lega lontano dalla costa, per il che si può molto ben credere che la larghezza di detto fiume sia molto grande. Tutta volta, né questo né alcun altro che abbia veduto né udito overo letto fin a ora non si può comparar al fiume Maragnon, che è alla parte di levante nella medesima costa, il quale è nella bocca quando entra nel mare quaranta leghe, e piú di altretante leghe dentro in mare si truova acqua dolce del detto fiume.
Questo ho udito io dire molte volte al pilotto Vincenzianes Pinzon, che fu il primo de' cristiani che vidde detto fiume Maragnon, ed entrò in quello con una caravella piú di venti leghe, e trovò in quello molte isole e genti; e per aver cosí poca gente non gli bastò l'animo di smontar in terra, e ritornò fuora di detto fiume, e ben quaranta leghe dentro nel mare tolse acqua dolce del detto fiume. Altri navilii l'hanno veduto, ma quel che ne sa piú di detto fiume è il sopradetto. Tutta quella costa è terra, che ha molti legni di verzini, e le genti sono arcieri.
Tornando al golfo d'Uraba, e da quello verso ponente e alla parte di levante, è la costa alta, e differente le genti nel parlare e nell'armi. Nella costa veramente verso il ponente gl'Indiani combattono con mazze, overo bastoni: le mazze sono da lanciare, alcune di palma e altri legni duri e acuti nella punta, e queste lanciano con tutta la forza del braccio; ne hanno ancora d'un'altra sorte, di canne diritte e leggiere, alle quali mettono per punta una pietra dura, overo una punta d'un altro legno duro incassato, e queste tali traggono con legami che gl'Indiani chiamano torichia. La mazza è un legno un poco piú stretto di quattro dita e grosso, con duoi fili, e alto quanto è un uomo, poco piú o manco, come a ciascuno piace secondo le forze sue, e sono di legno di palma overo d'altro legno che sia forte: e con queste mazze combattono con due mani e danno gran colpi e ferite, come fa una mazzocchia, e di tal forza che, ancor che diano sopra un elmo, fanno uscir di sentimento ogni forte uomo.
Queste genti che tali armi usano, benchè la maggior parte di loro siano bellicosi, non sono però cosí valenti come gl'Indiani che usano l'arco e le freccie; e questi che sono arcieri abitano nel detto golfo d'Uraba, o punta che chiamano della Caribana, verso la parte di levante, la qual costa è similmente alta, e mangiano carne umana, e sono abominevoli sodomiti e crudeli, e tirano le sue freccie avelenate di tal erba che gran maraviglia è che ne scampi uomo. Quelli che sono feriti muoiono rabbiando, mangiandosi a pezzo a pezzo e mordendo la terra.
Da questo luogo Caribana, tutto quello che va costeggiando la provincia di Cenu e di Cartagenia, e li Coronati e la Bocca del Drago, e tutte l'isole che intorno a questa costa sono per spazio di seicento leghe, tutti, overo la maggior parte degl'Indiani sono arcieri, e con freccie avelenate, e fin ora non si è trovato rimedio alcuno a tal veleno, ancor che molti cristiani siano morti di quello. E perchè ho detto Coronati, è conveniente che io dica perchè si chiamano Coronati: e questo è che gl'Indiani vanno tosi, e il capello è tanto alto come cresce a quelli che si son fatti tosar già tre mesi, e nel mezzo del capel cresciuto è una gran cherica, come i frati di santo Agostino che fossero tosati, molto tonda. Tutti questi Indiani Coronati sono gente forte e arcieri, e abitano da trenta leghe di lunghezza per la costa, cioè dalla punta della canoa in suso, fin al fiume grande che chiamano Guadalchibir, appresso Santa Marta, del qual fiume, attraversando io per quella costa, empí una botte d'acqua dolce del medesimo, dapoi entrato nel mare piú di sei leghe.
Il veleno che questi Indiani usano, lo fanno (secondo che alcuni di loro mi hanno detto) d'alcuni pometti odorati e certe formiche grandi, delle quali nel processo del libro si farà menzione, e di marassi e di scorpioni, e altri veleni che loro mescolano, e lo fanno nero che pare una pegola molto nera; del qual veleno io feci bruciar in Santa Marta una quantità in un luogo, due leghe e piú fra terra, con gran quantità di freccie di munizione, nell'anno 1514, con tutta la casa nella quale stava detta munizione, nel tempo che v'arrivò l'armata co 'l capitano Petrarias d'Avila, mandato alla detta terra ferma per il re catolico don Ferdinando. Però, perchè a dietro s'è detto del modo del mangiare e sorte di vettovaglie, quasi gl'Indiani dell'isole si sustentano ad un medesimo modo come quelli della terra ferma. Dico che quanto al pane cosí è la verità, e quanto alla maggior parte de' frutti e pesci. Nondimeno communemente in terra ferma sono piú frutti, e credo piú differenzie di pesci. Hanno ancora molti strani animali e uccelli, e però, avanti che ad essa particolarità si proceda, mi par che sarà meglio dire alcune cose delli villaggi e case, e cerimonie e costumi degl'Indiani, e dipoi andrò discorrendo per l'altre cose che mi verranno a memoria di quelli genti e terre.
Degl'Indiani di terra ferma, de' suoi costumi e cerimonie.
Cap. X.
Questi Indiani di terra ferma sono della medesima statura e colore che quelli dell'isole, e se v'è alcuna differenzia piú tosto è in grandezza che altrimenti; e specialmente quelli che di sopra sono nominati Coronati, che sono forti e grandi senza dubio piú di tutti gli altri che in quelle parti abbia veduto, eccetto quelli dell'isole delli Giganti, che sono posti alla parte di mezzodí dell'isola Spagnuola, appresso la costa di terra ferma; e similmente alcuni altri che loro chiamano Iucatos, che sono alla banda di verso tramontana; e ciascuno di questi segnatamente, benchè non siano giganti, senza dubio sono maggiori degl'Indiani che fino ad ora si sappia, e sono maggiori communemente delli Todeschi, e specialmente molti di loro, cosí uomini come donne, sono molto alti. E sono tutti arcieri, cosí li maschi come le femine; non tirano però con veleno.
In terra ferma il principal signor si chiama in alcune parti quevi, e in altre cacique, e in altre tiba, e in altre guasiro, e in altre in altro modo: perchè tra quelle genti sono molto diverse e separate lingue; pure in una gran provincia di Castiglia dell'Oro, che si chiama Cueva, parlano e hanno miglior lingua che in alcuna altra parte, e questa provincia è dove li cristiani hanno maggior dominio che in altra parte, perchè tutto il detto paese di Cueva, overo la maggior parte tengono soggiogata. Nella qual provincia un uomo principale, che abbia vassalli e sia inferior del cacique, è chiamato sacho. Questo sacho ha molti altri Indiani a sé soggetti, che hanno terre e luoghi, li quali si chiamano cabra, che son come cavalieri overo gentiluomini, separati dalla gente commune e piú principali di quelli del vulgo, e comandano agli altri; pure il cacique, il sacho e il cabra hanno li suoi nomi proprii. E similmente le provincie, fiumi e valli e stanze dove abitano hanno li suoi nomi particolari. E il modo nel quale un Indiano di bassa condizione ascende ad esser cabra, e acquista questo nome e nobilità, è quando in alcuna battaglia d'un cacique o signor contra alcuno altro fa qualche pruova segnalata e che sia ferito: subito il signor principale gli dà il titolo di cabra, e gli dà gente alla qual comandi, gli dà terre o moglie, overo gli fa alcun'altra grazia segnalata per quello che fece in quel giorno; e dapoi è piú onorato degli altri, ed è separato dal vulgo e gente commune, e li figliuoli di tali valenti uomini succedeno nella nobiltà, e gli chiamano cabra, e sono obligati usar la milizia e arte della guerra; e le mogli di questi nominati cabra, oltre il suo nome proprio, le chiamano espaves, che vuol dire signora, e similmente le mogli delli caciqui e principali si chiamano espaves.
Questi Indiani hanno le sue stanze alcuni appresso il mare, altri vicine a qualche fiume over fonte d'acqua dove si possa pescare, perchè communemente la sua principal e piú ordinaria vettovaglia è il pesce; cosí perchè sono molto inclinati a tal cibo, come perchè facilmente lo possono avere in abbondanzia, e meglio che salvaticine, cioè porci e cervi, che similmente ammazzano e mangiano. Il modo come pescano è con reti, perchè le hanno e sanno fare molto bene di cottone, del qual la natura ha loro provisto largamente, e perchè ne hanno molti boschi e monti pieni; ma quello che loro vogliono far piú bianco e migliore, lo curano e piantanlo nelle sue stanze, overo appresso le sue case e luoghi dove abitano.
Le salvaticine e porci prendono con lacci e reti armate, e alcune volte vanno cacciandogli e gridandogli dietro, e con quantità di gente gli serrano e riducono in luoghi dove possono con freccie e mazze tratte uccidergli, e dapoi morti, perchè non hanno coltegli da scorticargli, gli fanno in quarti, il che fanno con pietre e sassi duri, e gli arrostiscono sopra alcuni pali che mettono in forma di graticola, che loro chiamano barbacoas, con il fuoco di sotto. E in questo medesimo modo arrostiscono li pesci, perciochè, essendo la detta terra in clima e regione naturalmente calida, benchè la sia temperata per la divina providenzia, pure presto si guasta il pesce e la carne, chi non l'arrostisce il medesimo giorno che la s'ammazza.
Io ho detto che la terra è naturalmente calida, e per providenzia di Dio temperata, ed è cosí. Non senza causa gli antichi hanno avuta opinione che la torrida zona dove passa la linea dell'equinoziale sia inabitabile, per aver il sole piú dominio in quel luogo che in alcuna altra parte della sfera, e star continuamente fra li duoi tropici Cancro e Capricorno; e cosí si vede cavando sotto che la superficie della terra quanto è l'altezza d'un uomo è temperata; e in quel spazio gli arbori e piante s'appiccano, né piú a basso passano le radici, anzi in tal spazio s'inzoccano e allargano, e tanto e piú spazio tengono di basso con la radice quanto occupano disopra co' rami, né passano piú a fondo le dette radici, perchè piú a basso si truova la terra caldissima, e la superficie di quella temperata e umida molto, sí per le molte acque che in quella terra dal ciel cascano ne' suoi tempi ordinarii tra l'anno, come per la grande quantità di grandissimi fiumi, torrenti, fonti e paludi, delli quali ben ha provisto a quella terra il superno Signor che la formò. Sonvi ancora molte aspre e alte montagne. Èvvi ancora temperato aere, con suavi sereni la notte. Delle quali particolarità non ne avendo notizia alcuna, gli antichi dicevano la detta torrida zona e linea equinoziale esser naturalmente inabitabile: le quali tutte cose io testifico e affermo come testimonio che le ha vedute, e molto meglio mi si può credere che a quelli che, non avendo veduto cosa alcuna, per congiettura hanno avute opinione contrarie.
È posta la costa del mar del Nort, cioè di Tramontana, nel detto golfo d'Uraba e nel porto del Darien, dove arrivano le navi che di Spagna vengono, in sette gradi e mezo, e in sette e manco, e da sei e mezo fino a otto, eccetto qualche punta che intrasse in mare verso settentrione: di queste ve ne sono poche. Quel che di questa terra e nuova parte del mondo giace piú verso il levante è il capo di Santo Agostino, il quale è in otto gradi, sí che il detto golfo d'Uraba è lontano dalla detta linea dell'equinoziale da cento venti fino a cento trenta leghe e tre quarti di lega, a ragion di 17 leghe e meza che si contano per ciascun grado da polo a polo, e cosí per piú o poco manco va tutta la costa; per la qual causa nella città di Santa Maria dell'Antica del Darien e in tutto quel pareggio del sopradetto golfo d'Uraba, tutto il tempo dell'anno sono i giorni e le notti quasi del tutto eguali e se gli è differenzia alcuna in dette notti e giorni per questa poca lontananza dall'equinoziale, è tanto poca che in ventiquattro ore, che è un giorno naturale, non si conosce se non per uomini speculativi e che intendono la sfera.
De lí si vede la Tramontana molto bassa, e quando quelle stelle di detta Tramontana che si chiamano i Guardiani sono di sotto del Carro lei non si può vedere, perchè essa è sotto l'orizonte. Ma perchè in questo libro non sono per dire il sito della terra, passerò alle altre particolarità, come è stato mio principale desiderio e intenzione.
Io ho detto di sopra che ai suoi ordinarii tempi in quella terra piove, e cosí è la verità, perchè v'è verno e state al contrario di quello che è in Spagna, dove è il maggior freddo il dicembre e gennaio di ghiaccio e pioggie, e la state e il tempo del caldo per san Giovanni, o il mese di luglio. In Castiglia veramente detta dell'Oro è a l'opposito. La state e il tempo piú asciuto e senza pioggie è per Natale, e un mese avanti e un mese poi. Il tempo veramente che piove molto è per san Giovanni, un mese poi, e quello ivi si chiama l'inverno, non già perchè allora faccia piú freddo, né per Natale maggior caldo, essendo in questa parte sempre il tempo d'una maniera, ma perchè in quella stagione di pioggie, non si vedendo il sole cosí ordinariamente, par che a quel tempo dell'acque le persone si ristringhino e sentino freddo, ancora che non ve ne sia.
Li caciqui e signori di questa gente tengono e pigliano quante moglie che vogliono, e possendone aver alcuna che gli piaccia e bella, essendo donne di buon parentado e figliuole d'uomini principali della sua nazione, perchè de' forestieri e altre lingue non le prenderiano, con quelle si maritano e hanno per favorite; ma non avendo di queste, pigliano di quelle che miglior gli paiono, e il primo figliuolo che hanno, essendo maschio, quel succede nello stato. E mancando li figliuoli, le figliuole maggiori ereditano, le quali maritano co' suoi principali vassalli. Ma se del maggior figliuolo saranno femine e non figliuoli maschi, non ereditano, ma i maschi della seconda figliuola, se ne sarà, succedono, perchè sanno che i figliuoli di quella sono della sua generazione necessariamente, si che li figliuoli di mia sorella sono veramente miei nepoti, dove di quelli del fratello se ne può avere dubitanza.
L'altre genti pigliano una sola moglie e non piú, e quelle alcuna volta lasciano e prendano altre, la qual cosa accade rare volte, né però a tal cosa bisogna molta occasione, se non la volontà d'una parte o vero di tutte due, e specialmente quando non partoriscono. E communemente sono continenti della sua persona; pur tutta volta vi sono anche molte che volontariamente si concedono a chi le richiede massimamente le principali, le quali da se medesime dicono che le donne nobili e signore non debbono negar alcuna cosa che le si dimandi, non volendo esser villane; tutta volta le dette hanno rispetto di non si mescolare con gente bassa, eccettuando però li cristiani, perchè, conoscendogli valent'uomini, gli tengono communemente tutti nobili, ancor che conoscono la differenzia che è fra l'uno e l'altro, specialmente di quelli che veggono che sono principali e che comandano agli altri, delli quali ne fanno gran conto e si tengono molto onorate quando alcuno di questi l'amano; e molte d'esse, dapoi che conoscono alcuno cristiano carnalmente, gli servano la fede se quello non sta molto tempo lontano o absente, perchè il fin suo non è di esser vedove o religiose che servano castità.
Hanno per costume molte di queste che, quando s'ingravidano, prendono un'erba con la quale subito disperdono, perchè dicono che le vecchie debbono partorire, e che esse non vogliono star occupate e lasciare li suoi piaceri né ingravidarsi; perchè partorendo le tette s'infiappiscono, le quali molto apprezzano e ne tengono conto. Però quando partoriscono vanno al fiume e si lavano, e il sangue e purgazion subito gli cessa, e pochi giorni restano di far servizii per causa del parto, anzi si stringono di modo che, secondo che dicono quelli che con esse usano, sono tanto strette donne che con fatica gli uomini satisfanno al suo appetito, e quelle che non hanno partorito sono sempre quasi come vergini.
In alcune parti portano alcuni lenzuoletti, dal traverso fino al ginocchio intorno intorno, che cuoprono le sue parti inoneste; il resto veramente del corpo vanno nude come nacquero. E gli uomini principali portano alle parti pudibunde una cannella d'oro; gli altri veramente portano alcuni buovoli, come caragoli grandi, nei quali mettono il membro virile, del resto vanno nudi, perchè dei testicoli che sono vicini, hanno detti Indiani opinione che non sia cosa di averne vergogna, e in molte provincie non portano né gli uomini né le donne alcuna cosa in tal parte né in altra della persona. Nominano la donna ira nella provincia di Cueva, e l'uomo chui. Questo nome ira posto alla donna parmi che non sia molto disconveniente né fuor di proposito a molte di quelle, né anche a queste di qua.
Le differenzie sopra le quali gl'Indiani fanno risse e guerreggiano, sono sopra alcuni che abbino piú terre o signorie, e quelli che possono ammazzare ammazzano, e qualche volta quelli che prendono inferrano e si servono d'essi per schiavi, e ciascun signore ha le sue catene particolarmente conosciute, e cosí incatenano gli suoi schiavi. Sono alcuni signori che cavano un dente di quelli davanti alli suoi schiavi, e quello è il suo segnale. Le nazioni de' Caribi arcieri, che sono quelli di Cartagenia e della maggior parte di quella costa, mangiano carne umana, né fanno schiavi né donano vita ad alcuno de' suoi nemici o forestieri, anzi tutti quelli che pigliano se gli mangiano, adoperando in servizio le donne che pigliano; e i figliuoli che dette donne parturiscono, se per caso alcuno caribe con esse s'impacciasse, da poi nato se lo mangiano, e i fanciulli de' forestieri che pigliano gli castrano e ingrassano e poi gli mangiano.
Nella guerra, over quando vogliono parer uomini di conto, si dipingono con xaugua, che è uno arbore del qual piú avanti si dirà, con il qual fanno una tintura nera, e con bixa, che è un'altra cosa colorata, delle quali cose fanno pallotte come di terra rossa (però la bixa è di piú fin colore), e fannosi molto brutti e di pitture molto differenti il volto e tutte le parti che vogliono della persona. E questa bixa è un color molto difficile a nettarsi se non passano molti giorni, e stringe molto le carni, e oltra che gl'Indiani pare che sia una bella dipintura, è di giovamento alla persona.
Quando cominciano le sue battaglie o vanno a combattere, over cominciano altre cose che gl'Indiani vogliono fare, hanno alcuni uomini eletti, i quali tengono in molta riverenza, chiamati da loro tequina, non ostante che ciascuno che sia eccellente in ciascuna arte, o cacciatore o pescatore, o che faccia meglio una rete o un arco o altra cosa, sia chiamato tequina, che vuol dire in nostra lingua maestro: sí che quelli che sono maestri delle sue responsioni e intelligenze con il diavolo gli chiamano tequina. E questo tequina parla col diavolo e ha da esso le risposte, e poi referisce a costoro quello che hanno a fare e quello che debbe essere domane, overo fin molti giorni. Perchè, essendo il diavolo tanto antico astrologo, conosce il tempo, e guarda dove si addrizzano le cose e dove le guidi la natura, e cosí, per l'effetto che naturalmente si spera, dà loro notizia di quello che debbe avenire, e gli dà ad intendere che per sua deità, e come signor del tutto e motor di tutto quello che è e sarà, sa le cose future e che in ogni momento occorrono, e che il fa li tuoni, fa sole, piove, guida le stagioni, e leva via overo dà il vivere.
Per la qual cosa li detti Indiani, essendo dal detto ingannati, vedendo ancora in effetto le cose a lor dette per avanti venute certe, gli credono in ogni altra cosa, tenendolo e onorandolo, facendogli sacrificii, e in molti luoghi di sangue e vite d'uomini, e in altre parti di buoni ed eccellenti odori aromatici, e similmente di cattivi. E quando Iddio dispone il contrario di quanto il diavol ha lor predetto e lo fa mentire, dà ad intendere a' detti Indiani aver mutato sentenza per alcun loro peccato, o con qualche altra bugia che gli pare, essendo sufficientissimo maestro a saper ordinar inganni alle genti, e spezialmente con quelli poveri ignoranti, che non hanno difensione contra sí potente adversario. Dicono chiaramente che 'l Tuira gli parla, perchè cosí nominano il diavolo; e con tal nome di Tuira in alcune parti chiamano ancora li cristiani, pensando con tal nome onorargli e laudargli molto.
È in verità buon nome, o per dir meglio conveniente ad alcuni, e che bene gli sta, perchè sono andate persone in quelle parti le quali, avendo posto da canto la conscienzia e timore della giustizia divina e umana, hanno fatto cose non da uomini ma da dragoni e infedeli; né avendo rispetto alcuno umano, sono stati causa che molti Indiani, quali forse si sarebbono potuti convertire e salvarsi, si sono morti per diverse maniere e forme; e ancorchè questi tali non si fussero convertiti, vivendo potevano esser utili al servizio di vostra maestà e giovamento a' cristiani, e non si sarebbero disabitate totalmente alcune parti della terra, le quali per tal causa son quasi prive di gente. E quelli che di tal danno sono stati causa chiamano il disabitato pacifico. Io veramente lo chiamo distrutto.
Però in questa parte ben satisfatto il Signor Dio e il mondo della santa intenzione e opera di v. maestà, avendo con consiglio di molti teologi e dottori e persone intelligenti provisto e rimediato con la giustizia a tutto quello ch'è stato possibile, e molto piú ora, con la nuova riformazione del suo Consiglio regale dell'Indie, essendovi tali prelati e tanti uomini detti canonisti e legisti, e di tanta integrità e bontà, che spero nel Signor Dio che tutti gli errori sin ad ora commessi per quelli che da lí sono passati, per la prudenza de' detti s'emenderanno, e per l'avenire s'indirizzeranno di modo che 'l nostro Sig. Iddio ne sarà servito, e v. maestà similmente, aumentando e facendo ricchi questi suoi regni di Spagna, per la grandissima ricchezza che Iddio a quella terra ha concesso e fin ora servata, acciò v. maestà sia universale e unico monarca del mondo.
Or, tornando al proposito del tequina che gl'Indiani tengono, e questo per parlare col diavolo, per mani e consiglio del quale si fanno quei diabolici sacrificii, costumi e ceremonie degl'Indiani, dico che gli antichi Romani, Greci, Troiani, Alessandro, Dario e altri prencipi antichi, eccettuati li cristiani, furono in questi errori e superstizioni, essendo ancora loro governati da quelli suoi indovini, e tanto soggietti agli errori e vanità e congietture de' suoi pazzi sacrificii, nelli quali adoperandosi il diavolo alcune volte gli accertava e prediceva tal cosa che dapoi aveniva, senza saper altra piú certezza se non quanto il commune adversario della natura umana gli insegnava per condurgli nella perdizione. E non gli succedendo alle volte quello che prima avevano detto, davano diverse esposizioni alle loro oscure e dubbiose risposte, e dicendo gli dei esser con loro indegnati.
Dapoi che vostra maestà è in questa città di Toledo, arrivò qui nel mese di novembre il pilotto Stefano Gomez, il quale nell'anno passato del 1524, per comandamento di vostra maestà, navigò alla parte di tramontana e trovò gran parte di terra continovata a quella che si chiama de los Bachallaos, scorrendo a occidente, e giace in 40 e 41 grado, e cosí poco piú e meno; del qual loco menò alcuni Indiani, e ne sono al presente in questa città, li quali sono di maggior grandezza di quelli di terra ferma, secondo che communemente sono, perchè ancora il detto pilotto disse aver visto molti che sono tutti di quella medesima grandezza; il color veramente è come quelli di terra ferma, sono grandi arcieri, e vanno coperti di pelle d'animali salvatichi e d'altri animali.
Sono in questa terra eccellenti martori e zibellini, e altre ricche fodere, delle quali ne portò alcune pelle il detto pilotto. Hanno argento e rame; e secondo che dicono questi Indiani, e con segni fanno intendere, adorano il sole e la luna; anche hanno altre idolatrie ed errori come quelli di terra ferma.
Or lasciando questo da parte, e tornaremo a continuovare nelli costumi ed errori degl'Indiani, delli quali prima narravamo. È da saper che in molti luoghi di terra ferma, quando alcun cacique o signor principal muore, tutti li piú domestici servitori e donne di casa sua che continovamente lo servivano s'ammazzano, perchè hanno opinione, e cosí gli ha dato ad intendere il Tuira, che quel che s'ammazza quando il cacique muore va con lui al cielo, e in quel luogo serve in dargli mangiare o bere, ove dimorerà sempre essercitando quell'istesso officio che qua vivendo avea in casa di tal cacique; e quello che questo non fa, quando poi muore di sua morte naturale o vero altra, insieme con il corpo muore la sua anima; e che tutti gli altri Indiani e subditi di detto cacique quando muoiono similmente col corpo muore l'anima, e cosí finiscono e si convertono in aere, e diventano niente, come il porco o uccello o pesce o vero altra cosa animata; e questa preminenzia hanno e godono solamente li servitori e famigliari che servivano alla casa del principal cacique in alcuno suo servizio. E da questa falsa opinione nasce che similmente quelli che attendevano a seminargli il pane o raccorlo, per godere di questa prerogativa, s'ammazzano e fanno sotterrare seco un poco di maiz e una mazza piccola: e dicono gl'Indiani che quello portano che, se per caso nel cielo gli mancasse semenza, abbiano quel poco per dar principio al suo esercizio, fin tanto che il Tuira, che tutte queste tristizie gli dà a intendere, gli provegga di maggior quantità di semenza.
Questo ho veduto ben io nella sommità delle montagne di Guaturo dove, tenendo prigion il cacique di quella provincia, che s'era ribellato dal servizio di vostra maestà, e domandandogli di cui erano alcune sepolture poste nella sua casa, mi rispose che erano d'alcuni Indiani che s'erano uccisi nella morte del cacique suo padre. E perchè molte volte hanno in costume sepelirgli con molta quantità d'oro lavorato, feci aprir due sepolture, dentro le quali si trovò il maiz e la mazza che di sopra ho detto: e domandato la causa al detto cacique e altri suoi Indiani, dissero che quelli che ivi erano sepolti erano lavoratori di terra, e persone che sapevano seminare e raccorre il pane, ed erano stati servitori del padre, e perchè non morissero le sue anime con li corpi s'erano uccisi nella morte del padre, e avevano quel maiz e mazza per seminarlo nel cielo. Alli quali io dissi: "Guardate come il Tuira v'inganna e tutto quello che vi dà ad intendere è falso, che dapoi tanto tempo che questi sono morti ancor non hanno portato il maiz e mazza, ma è diventato marcio né vale piú cosa alcuna, e manco l'hanno seminato nel cielo". A questo rispose il cacique che, non avendolo portato, era perchè ne dovieno aver trovato di sopra nel cielo, e di questo non aveano avuto di bisogno; a questo errore gli furno dette molte cose, le quali però sono di poco giovamento a rimuovergli di tal sue false opinioni, e specialmente quelli che si truovano in qualche età, essendo presi dal diavolo, il qual, dell'istessa forma che gli appare quando gli parla, è dipinto da loro di colori e di molte maniere. Similmente lo fanno d'oro di rilievo e l'intagliano in legno, molto spaventevole sempre e brutto, e tanto strano come di qui costumano li pittori dipingerlo alli piedi di santo Michel Arcangelo, o vero in altra parte ove piú spaventevole lo vogliono figurare. Similmente, quando il demonio gli vuole spaventare, gli promette il haurachan, che vuol dire tempesta, le quali fa tanto grandi che rovinano case, e cava di molti e grandi arbori; e io ho visto monti pieni d'arbori molto grandi e spessi, in spacio di mezza lega e d'un quarto di lega esser tutto il monte sotto sopra e ruinati tutti gli arbori piccoli e grandi, e molti di quelli cavati con tutte le radici di sopra la terra: cosa tanto spaventosa a vedere che senza dubbio par fatta per mano del demonio, né si può guardare senza paura. In questo caso debbono contemplar li cristiani, e con molta ragione, che in tutte quelle parti dove è riposto il Santo Sacramento giamai piú son stati li detti haurachani e tempesta di quella qualità, né che siano pericolose come soleano.
Similmente, in alcune parti della detta terra ferma, è costume tra li caciqui che, quando muoiono, prendono il corpo del cacique e l'appoggiano sopra un sasso over legno, intorno del quale molto appresso, guardando però che né la bracia né la fiamma tocchi il corpo del defunto, accendono un gran fuoco e continuo, fin tanto che tutto il grasso e umidità gli esce per l'unghie delli piedi e delle mani e va in sudore e s'asciuga, di modo che la pelle s'attacca agli ossi e tutta la polpa e carne si consuma; e poi che cosí è asciutto, senza aprirlo, chè non bisogna, lo mettono in una parte separata della sua casa, dove è anco il corpo del padre di tal cacique, che per avanti in questa medesima forma era stato posto. E cosí, vedendosi la quantità e numero delli morti, si conosce quanti signori ha avuto quello stato e qual fu figliuolo dell'altro, essendo ivi posti per ordine.
E dicono che quando muore alcuno cacique in alcuna battaglia di mare o di terra, e che sia rimasto in parte che gli suoi non abbiano potuto portar il suo corpo nel suo paese, e metterlo dove anco sono gli altri suoi caciqui, e manca in questo numero, acciò vi resti di lui memoria, non avendo lettere, subito fanno che gli suoi figliuoli imparino e sappino minutamente la maniera della morte e la causa perchè non furno ivi posti, e questa cantano nelle sue canzoni, che lor chiamano areytos.
Onde, poi che di sopra dissi che non hanno lettere, anzi mi dimenticai dire che di quelle stupiscono, dico che quando alcuno cristiano scrive, mandando per alcuno Indiano ad alcuna persona che sia in altre parti, overo lontano da quello che gli scrive la lettera, prendono tanta admirazione vedere che la carta dice in altro luogo quello che vuole il cristiano che la manda, e con tanto rispetto e cura la portano, che gli pare che la carta similmente saprà dire quello che per cammino al portatore sarà occorso, e alcune volte quelli di manco intelletto pensano che l'abbia anima.
Tornando ora a l'areytos, dico che è di questa sorte. Quando li detti vogliono darsi piacere e cantare, si mette insieme una compagnia d'uomini e di donne, e piglionsi per mano, e uno gli guida, al qual dicono che lui sia il tequina, cioè maestro; e quello che gli guida, o sia uomo o sia donna, va alcuni passi avanti e alcuni in dietro, a modo proprio di contrapasso, e in questo modo vanno intorno, e dice costui, cantando in voce bassa over alquanto moderata, quello che gli vien nella mente, e commoda il canto con li passi; e poi che lui ha cantato, tutta l'altra moltitudine gli risponde, la qual con il medesimo contrapasso e canto gli van dietro, ma con voce piú alta. E durano queste sue feste tre e quattro ore, e alle volte da un giorno all'altro, nel qual tempo vanno altre persone lor dietro, dandogli da bere un vino che lor chiamano chicha, del qual piú a basso sarà fatta menzione; e tanto beono che molte volte si imbriacano, di sorte che restano come senza sentimento, e cosí imbriachi dicono come morirono li suoi caciqui, come di sopra è detto, e similmente molte altre cose, come meglio viene loro nella fantasia. E molte volte ordiscono tradimenti contra chi vogliono, e alcuna volta mutano il taquina o maestro che guida il ballo, e quel che di nuovo guida la danza muta il tuono e 'l contrapasso e le parole. Questa sorte di ballar cantando (secondo che io ho detto) si assimiglia molto alla forma de' canti che usano li lavoratori e gente di villa, quando nella state si mettono insieme, uomini e donne, con li cembali nelli suoi sollazzi. Ho visto ancora questa istessa foggia e modo di cantar ballando in Fiandra.
E perchè non mi dimentichi di dir che cosa è quella chicha o vino che beono, e come lo fanno, dico che prendono il grano del maiz, secondo la quantità che voglion far di questa chicha, e lo mettono in molle in acqua, dove sta fin che comincia a dar fuora e che 'l gonfia, e mette alcuni rampolletti in quella parte che il grano stava attaccato nella panocchia di che nacque; e dapoi che è cosí stagionato lo cuocono in acqua, e poi che ha avuti alcuni bollori levano la caldiera nella qual si cuoce dal fuoco, e riposasi: e quel giorno non è da bere, ma il secondo dí comincia a riposar e si può bere, il terzo è bonissimo, perchè sta totalmente riposato, il quarto molto meglio, e passato il quinto giorno comincia a farsi aceto, il sesto piú, il settimo non si può bere, e per questa causa sempre ne fanno tanto che gli basti fin che si guasti. Però nel tempo che è buono è di molto miglior sapore che la sidra o vin di pome, e al mio gusto e di molti è miglior che la cervosa, ed è molto piú sano e temperato; e gl'Indiani hanno questa bevanda per principal sostenimento, e non hanno cosa che gli tenga piú sani e grassi.
Le case nelle qual questi Indiani abitano sono di diverse maniere: alcune sono tonde come un padiglione, e questa foggia di casa si chiama caney. È un'altra maniera di case nell'isola Spagnuola, il tetto delle quali piove a due acque, e queste chiamano in terra ferma buhyo. E l'una e l'altra sono di molto buoni legnami, e gli pareti di dentro di canne legate con besuchi, che sono certi legnami o coreggie rotonde che nascono appiccate a grandi arbori e abbracciati con essi; e ne sono di grosse e sottili come le vogliono, e alcuna volta le sfendono e fanno tali come loro hanno di bisogno per legar li legnami e legature di casa; e li parieti sono di canne congiunte una con l'altra, fitte in terra quattro e cinque dita sotto, e vengono fuora e fanno un certo pariete d'esse buono e bello a vedere. In cima sono le dette case coperte di paglia o d'erba lunga e molto buona e ben messa e dura assai, e non piove nelle case, anzi sono cosí coperte per sicurtà d'acqua come sono li coppi. Questo besucho con il qual legano è molto buono pesto e trattone il succo, del qual bevendo gl'Indiani si purgano; e anche alcuni cristiani hanno presa questa purgazione, qual gli è stata di giovamento e gli ha sanati; non è cosa pericolosa né violenta.
Questo modo di coprir case è alla similitudine del coprir le case e ville di Fiandra, e qual sia il migliore o meglio fatto, credo che quelle dell'Indie superino l'altre, perchè la paglia o erba è miglior di quella di Fiandra. Li cristiani fanno oramai queste case in duoi solari e con balconi, perchè sanno farle con inchiavature e con tavole molto buone, di sorte che qualsivoglia gran signore si può in alcuna d'esse molto bene e largamente alloggiare a suo buon piacere. E io n'ho fatto far una tra l'altre nella città di Santa Maria Antica del Darien, qual mi costò piú di mille e cinquecento castigliani, ed è di sorte che io potria accettar ogni signore, e molto commodamente alloggiarlo, restandomene parte dove ancora io potesse abitare: nella qual sono molte stanze, e in solaro e a basso, e ha il suo giardino con molti aranci dolci e garbi, cedri e limoni (delle quali cose già n'è molta quantità nelle case delli cristiani), e per una parte del detto giardino corre un bel fiume. Il sito è molto grazioso e sano, con bonissimo aere e con una bella vista sopra quel fiume; e la terra, quando noi cristiani andammo ad abitarvi, fu abbandonata dalli primi abitatori, per disordine e difetto di quelli che ne dettero causa, i quali qui non voglio nominare, perciochè vostra maestà ha provisto e ordinato, con il suo reale consiglio dell'Indie, che si faccia giustizia e siano satisfatti quelli ch'hanno patito. E Iddio giudicherà il tutto, secondo la santa intenzione di vostra maestà.
Seguitando ora la terza maniera di case, dico che nella provincia d'Abrayme, ch'è nella detta Castiglia dell'Oro, e anco lí intorno sono molte ville d'Indiani che abitano sopra arbori, e in cima di quelli hanno le sue case e abitazioni, e per ciascuna fatta una camera nella quale vivono con le sue mogliere e figliuoli; e sopra detti arbori monta una donna con suoi figliuoli in braccio, come andasse in terra piana, per certi scaloni che hanno legati all'arbore con besuco, o con legacci di corda di besuco. Da basso tutto il terreno è paludoso, d'acqua bassa di manco della statura d'un uomo, e in alcune parti di questi laghi o paludi, dov'è maggior fondo, tengono canoas, che sono una certa foggia di barche che sono fatte d'un albor incavato, della grandezza che la vogliono avere, con le quali vanno in terra asciutta a seminare gli suoi maizali, iucca, batatas e aies e altre cose ch'hanno per il viver loro; e di questa maniera s'hanno fatto gl'Indiani in questi luoghi le sue stanze per star piú sicuri dagli animali e bestie salvatiche e dagli suoi inimici, e piú forti e senza sospetto del fuoco. Questi Indiani non sono arcieri, ma combattono con mazze, delle quali n'hanno sempre gran quantità fatte per potersi difendere, le quali salvano in queste camere over case, con le quali si difendono e offendono gli suoi inimici.
Sonvi un'altra sorte di case, spezialmente nel Fiume Grande di S. Giovanni, che per avanti si disse ch'entra in mar nel golfo di Uraba, nel mezo del qual fiume sono molte palme nate una appresso l'altra, e sopra quelle nella sommità sono le case, fabricate secondo che di sopra è detto d'Abrayme, e assai maggiori, e dove sono molti abitatori insieme; e tengono le sue lettiere legate a' piedi delle dette palme; per servirsi della terra e uscir ed entrar quando gli piace, e queste palme sono tanto dure e difficili a tagliarsi, per esser forti, che con gran difficoltà se gli puol far danno. Questi che stanno in queste case nel detto fiume combattono ancora loro con mazze; e i cristiani che v'arrivorono con il capitano Vasco Nunez di Balboa e altri capitani ricevettero gran danno, né alcuno poteron far agl'Indiani, e tornoron con perdita e morte di gran parte della gente.
E questo basti quanto al modo delle case. Ma nell'abitar insieme delle ville o terre son differenti, perchè alcune terre son maggiori delle altre in alcune provincie, e communemente la maggior parte abitano separati per le valli e per le riviere. In alcuni luoghi stanno in alto, in altri appresso li fiumi, e alcuna volta lontani l'un dall'altro come sono li casoni in Biscaglia e nelle montagne, che sono case una separata dall'altra; nondimeno molte delle dette con gran paese è sotto l'obedienza d'un cacique, il qual sopramodo è ubidito e riverito dalla sua gente, e molto ben servito. E quando il detto mangia alla campagna, overo in casa, tutto quello che è da mangiar gli mettono davanti, e lui lo distribuisce agli altri e dà a ciascuno quel che gli piace. Continuamente ha uomini deputati che gli seminano, e altri per andar alla caccia, e altri che per lui vanno a pescare, e alcuna volta s'occupa in queste cose o in quel che piú gli dà piacere, pur che non sia occupato in guerra.
Li letti sopra li quali dormono si chiamano hamacas, e sono certe coperte di cottone molto ben tessute e di buona e bella tela, e alcune d'esse sottili, di due o tre braccia di lunghezza e alquanto piú strette che lunghe, e al capo sono piene di cordoni lunghi di cabuya e di henequen, la qual maniera di filo e la sua differenzia dipoi si dirà; e questi fili sono lunghi e congiungonsi insieme e serransi, e fanno al capo al modo d'una saccola, come la saccola che è in capo della balestra, e cosí forniscono, e quella legano ad un arbore e l'altro capo ad un altro, con corde di cottone che chiamano hicos, e resta il letto in aere quattro o cinque palmi alzato da terra in modo di fromba. Ed è molto buon dormire in tali letti, e sono molto netti, e per esser l'aere temperato, non bisogna tener altra coperta di sopra; vero è che dormendo in alcuna montagna dove faccia freddo, over ritrovandosi l'uomo bagnato, sogliono metter carboni di fuoco sotto le hamacas, cioè letti, per scaldarsi. E quelle corde con le quali si fa la saccola, overo il fin di detti letti, sono certe corde intorchiate e ben fatte, della grossezza che si conviene, di molto buon cottone. E quando non dormono alla campagna, dove si può legare da un arbore all'altro, ma dormono in casa, legano li letti da un pilastro all'altro, e sempre hanno luogo da tirargli e collocargli.
Sono molto grandi notatori communemente tutti gl'Indiani, cosí gli uomini come le donne, perchè come nascono continuamente vanno nell'acqua; né di questo altrimente dirò, avendo di sopra a bastanza detto, dove si narrò della maniera che nell'isola di Cuba e Iamayca prendono gl'Indiani le ocche.
Quello che di sopra dissi delli fili della cabuya e del henequen, e dove mi offersi particolarmente narrare, è in questo modo, che certe foglie d'un'erba, che è come gigli gialli o ghiacciuoli, fanno questi fili di cabuya e henequen, che tutto è una cosa, eccetto che 'l henequen è piú sottile e fassi del miglior della materia ed è come il lino, l'altro è piú grosso ed è come un lucignolo di canapa, e a comparazion dell'altro è piú imperfetto. Il color è come biondo, trovasene ancora del bianco. Con l'henequen, che è il piú sottil filo, tagliano gl'Indiani un paio di ceppi di ferro, o un baston di ferro, in questo modo. Muovono il filo del henequen di sopra il ferro qual voglion tagliare, come uno che sega, tirando e mollando da una mano verso l'altra, buttando arena molto minuta sopra il filo, o nel luogo o parte dove vanno fregando il detto fil con il ferro, e se il filo si consuma lo mutano e mettono del fil che sia intero e saldo, e a questo modo segano un ferro, per grosso che sia, e lo tagliano, come se fusse una cosa tenera e facile a tagliare.
Similmente mi vien a memoria una cosa che ho guardato molte volte in questi Indiani, che è che hanno l'osso della testa piú grosso quattro volte che li cristiani, e cosí, quando si fa con lor guerra e si vien alle mani, bisogna ben aver cura di non gli dar coltellate sopra la testa, perchè s'è visto rompere molte spade per la causa sopradetta, e per esser piú grosso il detto osso e piú forte. Similmente ho notato che gl'Indiani, quando conoscono che gli soprabonda il sangue, se lo cavano delli ventrini delle gambe e delle braccia, cioè delli gomiti verso le mani, e in quello che è piú largo nella commissura della mano, con una pietra viva molto aguzza, la quale loro tengono per questo, e alcuna volta con un dente d'una vipera molto sottile, overo con una cannetta.
Tutti gl'Indiani communemente sono senza barba, e per maraviglia o rarissimo è quel che abbia lanugine o pelo nella barba o in alcuna parte della persona, tanto gli uomini quanto le donne, ancora che io viddi il cacique della provincia di Catarapa che n'aveva, e similmente nell'altre parti della persona dove gli uomini qui gli hanno, e similmente sua mogliere n'aveva nelli luoghi e parti che le donne sogliono averne; li quali peli alcuni altri in quella provincia hanno, ma pochi, secondo che il medesimo cacique mi disse. E diceva che lui l'aveva per conto del suo parentado. Il qual cacique aveva gran parte della persona dipinta, e queste dipinture sono nere e perpetue, secondo quelle che li mori in Barberia sogliono portare per gentilezza, e massime le more nel viso e nella gola e in altre parti. E cosí tra gl'Indiani principali s'usano queste dipinture nelle braccia e nel petto; il viso non si dipingono, perchè quello è segno d'esser schiavo.
Quando vanno alla battaglia gl'Indiani in alcune provincie, massime li Caribbi arcieri, portano certi caragoli grandi, con li quali a modo di corni suonano forte, e similmente tamburi e pennacchi molto belli, e certe armadure d'oro, e massime alcuni pezzi tondi e grandi nel petto, e braccialetti e altri pezzi per mettersi in testa e in alcune parti della persona, e di nessuna cosa fanno tanto conto quanto di parer galanti uomini nella guerra, e d'andar meglio ad ordine che possono di gioie, d'oro e di penne. E di quelli caragoli fanno certi paternostri piccoli, bianchi, di molte sorti, altri colorati e altri neri, altri paonazzi. E fanno braccialetti mescolati con segnaletti d'oro, li quali si mettono principiando dal gomito fino alla giuntura della mano, rivoltati intorno, e il simil fanno dalli ginocchi fino alle cavicchie delli piedi, per gentilezza; e massime le donne onorate e principali portano queste cose nelli luoghi sopradetti, alla gola, e chiamano tal filze e cose simili chaquira. Oltra di questo portano cerchietti d'oro nelle orecchie e nel naso, bucandolo da tutte due le bande, quali pendono sopra il labro.
Alcuni Indiani si tosano, benchè communemente gli uomini e le donne apprezzano il portar capelli, e le donne gli portano lunghi fino a mezzo le spalle e tagliati egualmente, e massime sopra le ciglia, li quali tagliano con certe pietre durissime molto giustamente.
Le donne principali, quando gli cascano le tette, le levano con bastoni fatti d'oro d'un palmo e mezzo di lunghezza e ben lavorati, e pesano alcuni d'essi piú di dugento castigliani; il qual baston è forato nelli capi, e in quelli sono attaccati certi cordoni di cottone: uno di questi cordoni va sopra le spalle e l'altro va sotto le braccia, dove gli legano insieme, e questo fanno da tutte due le parti del bastone, e con questo sustentano le tette. E alcune di queste donne principali vanno alla battaglia con li suoi mariti, overo, quando loro medesime sono signore del paese, comandano e fanno l'ufficio di capitano sopra la sua gente, e si fanno portar per il cammino nel modo che io dirò.
Sempre il cacique principal tiene dodeci Indiani delli piú forti deputati per portarlo per cammino, sedendo in un letto posto sopra un legno lungo, qual di sua natura è leggiero; li quali Indiani vanno correndo o mezzo trottando, con lui posto sopra le spalle, e quando sono stracchi duoi che lo portano, senza turbar punto, entrano duoi altri sotto e continovano il cammino, e in un giorno, se camminano per pianura, anderanno in questo modo da quindeci in venti leghe. Gl'Indiani che a questo ufficio sono deputati sono la maggior parte schiavi o naboria. Naboria è una sorte d'Indiani che non sono schiavi, pur sono obligati a servir, ancora che non voglino.
E ancor che io non abbi cosí largamente e sufficientemente detto quello che fin al presente è scritto di quelle cose e di molte altre, le quali ho piú copiosamente notato nella mia general istoria dell'Indie, pur voglio passar alle altre parti e altre cose delle quali nel proemio ho fatto menzione, e primamente dirò d'alcuni animali terrestri, e spezialmente di quelli delli quali la mia memoria sarà piú certa.
Degli animali, e primamente del tigre.
Cap. XI
Il tigre è animale il qual, secondo che scrissero gli antichi, è il piú veloce di tutti gli altri animali terrestri. E per la velocità al fiume Tigris fu dato il medesimo nome. Li primi Spagnuoli che viddero questi tigri in terra ferma gli chiamorono cosí; li quali sono della sorte di quello che in questa città di Toledo diede a vostra maestà l'admirante don Diego Colombo, che gli era stato mandato dalla Nuova Spagna. Ha la fattezza della testa come il leone o lonza, ma grossa essa testa, e tutto il corpo e le gambe ha dipinte di macchie nere e attaccate l'una all'altra, profilate di color rosso, che fanno un bel lavoro e una corrispondente pittura; nelle groppe ha queste macchie maggiori, le quali si vanno diminuendo verso il ventre e le gambe e la testa. Quello che fu portato qui era picciolo e giovane, e a mio giudicio poteva esser di tre anni; ma molto maggiori si trovano in terra ferma, e io l'ho visto piú alto di tre palmi, e di lunghezza piú di cinque. Sono animali molto doppi e forti di gambe, e ben armati di que' denti che si chiamano canini, e unghie, e sono fieri di tal sorte che a mio parer non è alcun leon reale, delli molto grandi, che sia né tanto forte né tanto fiero. Di questi animali molti si trovano in terra ferma, li quali mangiano assai Indiani e fanno molto danno; pur non mi determino io d'affermare che siano tigri, vedendo quello che si scrive della leggierezza del tigre, e quel che si vede della pigrezza di questi, che si chiamano tigri in India.
Vero è che, secondo le maraviglie del mondo e le differenzie che le cose create hanno piú in un paese che nell'altro, secondo le diversità delle provincie e constellazioni dalle quali sono create, vediamo che le piante che sono nocive in un paese sono sane e utili in altri, e gli uccelli che in una provincia sono di buon sapore in altra non si mangiano, e gli uomini che in alcuna parte sono neri in altre provincie sono bianchi, e questi e quelli sono uomini. Cosí potria medesimamente essere che li tigri fussero in alcuna region leggieri come si scrivono, e che in India di vostra maestà, della qual qui si parla, fussero pigri e gravi. Gli uomini in alcuni regni sono animosi e di molto ardimento, e in altri naturalmente timidi e vili.
Tutte queste cose e altre molte che si potriano dire a questo proposito sono facili a provare, e molto degne d'esser credute da questi che hanno letto o sono andati per il mondo, alli quali la propria vista averà insegnato l'esperienzia di quel ch'io dico. Cosa manifesta è che la iuca, della qual si fa pane nell'isola Spagnuola, ha forza d'ammazzare con il succo suo e che non s'ardisce mangiar verde: pure in terra ferma non ha tal proprietà, perchè io n'ho mangiato molte volte ed è molto buon frutto. Le nottole over pipistrelli, in Spagna, ancor che becchino, non ammazzano né sono venenosi, ma in terra ferma moriron molti uomini de' morsi loro (come nel suo luogo si dirà). E cosí di questa forma si potriano dir tante cose che non ne bastaria il tempo di leggerle, ma il fin mio è dir che questo animale potria esser tigre, e non essere però della leggierezza de' tigri delli quali parla Plinio e altri autori.
Questi di terra ferma facilmente sono ammazzati molte volte dalli balestrieri a questo modo. Subito che il balestriero ha conoscimento e sa dove va alcun di quelli tigri, lo va a cercar con la sua balestra e con un cane piccolo seugio, e non con levrier: perchè subito ammazza il cane che s'attacca con lui, perchè è animale molto armato e di grandissima forza. Il seugio, sí come lo truova, va a torno abbaiando, morsecchiando e fuggendo, e tanto lo molesta che lo fa montar su 'l primo arbore che in quel luogo si truovi; e il detto tigre, per molestia che gli dà il detto cane, monta ad alto e si ferma, e il cane al piè dell'arbore abbaiandogli, e il tigre digrignando e mostrando li denti; arriva il balestriero, e dodici o quindici passi lontano gli tira con la balestra, e gli dà nel petto e si mette a fuggire; e il detto tigre resta co 'l suo travaglio e ferita, mordendo la terra e arbori; e dapoi, in spazio di due o tre ore o altro dí, torna il cacciatore lí, e con il can subito lo trova dove è morto.
Nell'anno 1522 io e altri reggitori delle città di S. Maria dell'Antiqua del Darien facemmo nel nostro capitolo e congregazione uno ordine, nel qual promettendo quattro o cinque pesi d'oro a quel che ammazzasse qual si voglia tigre di questi. E per questo premio furono ammazzati molti di loro in breve tempo, nel modo detto di sopra e con lacci medesimamente.
Per mia openione né tengo né lascio di tener per tigri questi tali animali, o per pantera o altro di quelli delli quali s'è scritto esser nel numero di quelli che hanno il pelo maculoso, o per aventura altro nuovo animale che medesimamente è maculato, e non è nel numero di quelli delli quali è stato scritto, perchè di molti animali che sono in quelle parti, e tra quelli di questi delli quali parlerò, o del piú di loro, nessun scrittor antiquo seppe cosa alcuna, per esser in parte e terra che fin alli nostri tempi era incognita, e della qual non faceva menzion alcuna la cosmografia di Tolomeo né altra, fino che l'admirante don Cristoforo Colombo ce la insegnò, cosa per certo piú degna e senza comparazion maggiore che non fu che Ercole desse intrata al mar Mediterraneo nell'Oceano, poi che li Greci fino a lui mai non l'avean saputo. E di qui viene quella favola che dice che li monti Calpe e Abila, che son quelli che nello stretto di Gibilterra, l'un in Spagna l'altro in Africa, son oppositi, l'un all'altro eran congiunti, e che Ercole gli aperse e diede per quel luogo l'entrata al mar Meditteraneo, e messe le sue colonne, le quali vostra maestà porta per impresa, con quelle sue parole che dice: "Plus ultra". Parole in vero degne di sí grande e universal imperadore, e non convenienti ad alcun altro prencipe, dapoi che in parti tanto strane, e tante migliara di leghe piú innanzi che dove Ercole e tutti li prencipi dell'universo mai hanno arrivato, le ha poste vostra sacra catolica maestà. E per certo, signor, ancora che a Colombo si fusse fatto una statua d'oro, non averiano pensato gli antiqui d'averlo pagato, se fusse stato alli loro tempi.
Tornando alla materia cominciata, dico che del modo e fazion di questo animale, dapoi che vostra maestà l'ha visto e al presente è vivo in questa città di Toledo, non è bisogno si dica piú di quello è detto; pur il guardian de' leoni di vostra maestà, che ha pigliato carico di dimesticarlo, potria metter la fatica sua in altra cosa che gli fusse piú utile per la sua vita, perchè questo tigre è giovane, e ogni giorno sarà piú forte e fiero e se gli radoppiarà la malizia. Questo animale chiamano gl'Indiani ochi, e spezialmente in terra ferma, nella provincia che il catolico re don Ferdinando comandò si chiamasse Castiglia dell'Oro. Dapoi scritto questo molti dí, successe che questo tigre, del quale abbiamo fatto menzione di sopra, volse ammazzar quello che lo governava, il quale già l'avea cavato della gabbia e l'aveva fatto molto domestico, e lo teneva legato con una corda molto sottile, e avevalo tanto famigliare che mi maravigliava di vederlo; ma non senza certa fede che questa amistà aveva a durar poco, in fin che un dí fu per ammazzar quello che ne teneva la cura, e de lí a poco tempo morí il detto tigre, overo l'aiutarono a morir, perchè in verità questi animali non sono da star fra gente, essendo feroci e di sua propria natura indomabili.
Del beori.
Cap. XII.
Li cristiani che vanno in terra ferma chiamano danta un animale che gl'Indiani nominano beori, perchè le pelli di questi animali son molto grosse, ma non son danta, e cosí hanno dato questo nome di danta al beori, tanto impropriamente quanto all'ochi quello del tigre. Questi animali beori è della grandezza d'una mula mediocre, e il pelo è berettino molto scuro, e piú folto di quello del bufalo, e non ha corni, ancora che alcuni lo chiamano vacca. È molto buona carne, benchè sia alquanto piú moliccia che quella del bue di Spagna. Li piedi di questo animale sono buoni da mangiare e molto saporosi, salvo che è necessario che bollino ventiquatro ore; li quali, cotti con questo tempo, sono una vivanda da dar a ciascuno che si diletti di mangiar cose di buon sapore e buona digestione.
Si ammazzano questi beori con cani, e dapoi che sono attaccati bisogna che 'l cacciator con molta diligenza ferisca questo animale avanti ch'entri nell'acqua, se per aventura ne è lí intorno, perchè, dapoi che è entrato in quella, si difende dalli cani e gli ammazza con grandi morsicature; e accade spesso che leva via un piede con la spalla ad un levriero, e ad un altro porta via un palmo e due della pelle cosí come si scorticassero: e io l'ho visto e l'uno e l'altro. Il che non fanno tanto con sua sicurtà fuora dell'acqua. Fin ad ora le pelli di questo animale non si son sapute conciare, né di loro si vagliono li cristiani, perchè non le sanno governare. Ma però sono cosí grosse o piú di quelle de' bufali.
Del gatto cerviero.
Cap. XIII.
Il gatto cerviero è molto fiero animale: è di maniera, fattezza e colore come li gatti berettini domestichi che tenghiamo in casa, ma sono grandi o maggiori che li tigri, delli quali di sopra è fatta menzione. Ed è il piú feroce animale che sia in quelle parti, e del quale li cristiani piú temono; è molto piú veloce di tutti gli altri che fin ad ora in quelle parti si siano veduti.
De' leoni reali.
Cap. XIIII.
In terra ferma sono leoni reali, non piú né manco di quelli che sono in Barbaria; sono un poco minori, e non cosí arditi, anzi sono di poco animo e fuggono; ma questo è commun difetto alli leoni, che non fanno male se non a quelli che gli seguitano e assaltano.
De' leopardi.
Cap. XV.
Si trovano similmente leopardi in terra ferma, e sono della medesima forma che in queste parti si sono visti o che siano in Barbaria, e sono veloci e fieri. Pure né questi né leoni reali fin a ora hanno fatto male alcuno a' cristiani, né mangiano gl'Indiani, come i tigri.
Della volpe.
Cap. XVI.
Sonvi volpi che sono né piú né meno di quelle di Spagna nella fazione, ma non nel colore, perchè sono tanto e piú nere d'un velluto molto nero. Sono molto leggieri, e alquanto minori di quelle di qui.
De' cervi.
Ap. XVII.
Cervi si trovano in terra ferma assai, né piú né manco di quelli che sono in Spagna di colore e grandezza, e nel vero però non sono cosí leggieri; e di questo io ne posso far fede, che gli ho cacciati e morti con cani in quelle parti alcune volte, e medesimamente ne ho ammazzati con la balestra.
De' daini.
Cap. XVIII.
Daini vi sono similmente e molti, e massime nella provincia di Santa Maria, e sono della forma e grandezza di quelli di Spagna, e nel sapore, cosí li daini come li cervi, sono cosí buoni e migliori che quelli di Spagna.
Delli porci.
Cap. XIX.
Li porci cinghiali sono moltiplicati nell'isole che sono state abitate da' cristiani, come è in San Domenico, Cuba, San Giovanni e Iamayca, di quelli che di Spagna furono condotti. Pure, ancora che delli porci che sono stati menati alla terra ferma alcuni siano andati al bosco, non vivono, perchè gli animali come tigri e gatti cervieri e leoni gli ammazzano subito. Ma delli naturali di terra ferma molti ne sono di salvatichi, delli quali molte volte si vedono quantità insieme, e come vanno molti uniti gli altri animali non hanno animo d'affrontargli, ancora che non tengono li denti canini lunghi come quelli di Spagna; pur mordono molto stranamente, e ammazzano li cani con li loro morsi.
Questi porci sono alquanto minori de' nostri, e di piú pelo e coperti di lana, e hanno l'umbilico in mezzo la schiena, e le unghie delli piedi non hanno partite in due parti, ma tutte unite; in tutto il resto sono come li nostri. Gl'Indiani gli ammazzano con lacci e con dardetti tirati. Chiamano il porco chuchie. Quando li cristiani scontrano una mandria di questi porci, procurano di montar in cima di qualche pietra o tronco d'arbore, ancora che non sia piú alto di tre o quattro piedi, e de lí, come passano loro, sempre con un lancione ferisce qualcuno di loro o piú, o quelli che può, e soccorrendo li cani restano presi alcuni di loro in questa maniera. Pur sono molto pericolosi quando si truovano cosí in compagnia, se non vi è luogo dal qual il cacciator possa ferire come è detto. Alcune volte, quando le porche si separano per partorire, si truovano e si pigliano alcuni porcelletti di loro, li quali hanno buon sapore, e se ne truova gran quantità.
Dell'orso formigaro.
Cap. XX.
L'orso formigaro è quasi di maniera d'orso nel pelo, e non ha coda. È minor degli orsi di Spagna, è quasi di quelle fattezze, eccetto che ha il muso molto piú lungo, ed è di molto poca vista. Molte volte si pigliano a bastonate, e non sono nocivi, e facilmente si pigliano con cani; e bisogna che siano soccorsi con diligenzia prima che li cani gli ammazzino, perchè non si sanno difendere, ancora che mordano alquanto. E truovansi quasi sempre, o il piú delle volte, intorno e vicino alle motte dove sono li formicari, nelle quali si genera una certa sorte di formiche molto minute, e nelle campagne e piani che non hanno arbori, dove per instinto naturale esse formiche si separano a generare fuora delli boschi, per paura di questo animale; il qual, perchè è vile e disarmato, sempre va tra luoghi pieni e spessi d'arbori, fin che la fame e necessità, o il desiderio di pascersi di queste formiche, lo fa uscir a questi luoghi a cacciarle.
Queste formiche fanno una motta di terra alta come un uomo, o poco piú, e alcune volte meno, e grossa come uno forziere e alcune volte come una botte, e durissima come pietra. E paiono queste motte termini di pietra tra confini. E dentro di quella terra durissima della qual sono fabricate, sono innumerabili e quasi infinite formiche molto piccole, le quali si potriano ricorre a staia, chi rompesse la detta motta; la quale alcune volte, bagnandosi con la pioggia, e sopravenendo dapoi l'acqua il caldo del sole, si rompe e si fanno in lei alcune fessure, ma sottilissime e di tanta sottilezza che un fil di coltello non può esser piú sottile. E par che la natura dia intendimento e saper a queste formiche per trovar tal materia di terra, con la qual possino far quella motta che di sopra è detta, tanto dura che par un forte battuto di calcina. E io ne ho fatto pruova, e n'ho fatto romper, e non vedendo non aver potuto credere la durezza che hanno, perchè con picchi di ferro sono molto difficili da disfarsi. E per intendere meglio questo secreto in mia presenzia l'ho fatta rovinare; e questo, come ho detto, fanno le dette formiche per guardarsi da questo suo adversario orso formigaro, che è quel che principalmente si sustenta di queste, o che gli è dato per suo emulo, a fin che si compia quel proverbio commune che dice: "Non è alcuna persona sí libera a chi manchi il suo bargello".
Questo emulo che la natura ha dato a sí piccolo animale tien questa forma per usar il suo ufficio contra le formiche nascose, per dargli la morte, che se ne va al formigaro che è detto, e per una sfenditura o rottura, sottile come è uno fil di spada, comincia a metter la lingua, e leccando fa umida quella sfenditura, per sottil che sia; e sono di tal proprietà le sue bave, e tanto continua la sua perseveranzia nel leccar, che a poco a poco fa luogo e allarga di sorte quella sfenditura, che senza fatica e largamente mette e cava la lingua a suo piacer nel formigaro, la qual ha lunghissima e disproporzionata secondo il corpo, e molto sottile. E dapoi che ha l'entrata e uscita a suo proposito, mette la lingua quanto può per quel buco che ha fatto, e stassi cosí quieto gran spazio: e come le formiche son molte e amiche della umidità, gran quantità di loro si caricano sopra la lingua, e tante che si potriano raccoglier a pugni; e quando gli par averne assai, cava presto la lingua ritirandola nella sua bocca e mangiasele, e torna poi per altre. E in questa forma mangia tutte quelle che esso vuole e che se gli mettono sopra la lingua. La carne di questo animale è sporca e di mal sapore. Ma perchè le disgrazie e necessità de' cristiani furono in quelle parti nelli principii molte ed estreme, non si lasciò di far la prova di mangiarne, ma sí presto venne in odio, come presto si provò per alcuni cristiani. Questi formigari, hanno di sotto a par del suolo l'entrata loro, e tanto picciola che con molta difficoltà si troveria, se non fusse vedendo entrar e uscir alcune formiche. Ma per tal luogo non gli potria a loro far danno l'orso, né tanto a suo proposito offenderle, come per lo alto in quelle sfenditurette, come abbiamo detto.
Delli conigli e lepri.
Cap. XXI.
Sono in terra ferma conigli e lepri, e gli chiamo cosí perchè le groppe hanno in quanto al colore simili al lepre. Il resto è bianco come è la pancia, e li fianchi e le gambe sono alquanto berrettine. Ma in verità, a quello che ho potuto comprendere, hanno piú conformità con lepri che con conigli, e sono minori che li conigli di Spagna. Prendonsi il piú delle volte quando s'abbruciano li boschi, e alcune volte con lacci, per mano d'Indiani.
Delli bardati.
Cap. XXII.
Li bardati sono animali molto maravigliosi a vedere, e molto nuovi alla vista de' cristiani, e molto differenti da tutti quelli che si è detto, o s'hanno visti in Spagna o in altre parti. Questi animali sono di quattro piedi, e la coda e tutto esso è di pelle. La pelle è come coperta o scorza del lagarto, del qual si dirà di sotto, ma è tra bianco e berrettino, ritirando piú al bianco; ed è della foggia e forma come un cavallo bardato, con le sue barde e fiancaletti in tutto e per tutto; e di sotto di quello che mostrano le barde e coperte esce la coda e li piedi in suo luogo, e il collo e l'orecchie nelle sue parti. Finalmente sono della medesima sorte che è un corsier con barde, e sono di grandezza d'un cagnuolo di questi communi; non fanno male e sono vili, e hanno la sua abitazione in motte di terra, e cavando con li piedi fanno profonde le sue cave e buche, della sorte come li conigli sogliono fare.
Sono eccellenti da mangiare e si pigliano con reti, e alcuni ne ammazzano li balestrieri; e il piú delle volte si prendono quando s'abbrucciano le stoppie ne' tempi per seminare o per rinovare gli erbaggi per le vacche e altri bestiami. Io ne ho mangiato alcune volte, e sono di miglior sapore che li capretti, ed è mangiar molto sano. Se questi animali si fussero visti nelle parti dove li primi cavalli bardati ebbero origine, non si potria se non giudicare che della vista di questi animali si fusse imparata la forma delle coperte per li cavalli di guerra.
Del cagnuolo leggiero.
Cap. XXIII.
Il cagnuol leggiero è un animale il piú pigro che si possi veder al mondo, e tanto grave e tardo nel muoversi che, volendo andar il cammino di cinquanta passi, tarda un giorno intiero. Li primi cristiani che viddero questo animale, ricordandosi che in Spagna solevano chiamar il nero Giovan bianco, perchè s'intenda l'opposito, cosí ancora, come trovorono tal animale, gli posero nome al contrario dell'esser suo, che essendo tanto tardo lo chiamorono leggiero.
Questo è un animale degli strani a veder che sia in terra ferma, per la disproporzione che ha con tutti gli altri animali. È lungo duoi palmi, quando è cresciuto tutto quello che debbe crescere, over poco piú di questa grandezza. Di minori se ne trovano molti, che sono giovani; sono poco manco grossi che lunghi. Hanno quattro piedi sottili, e in ciascun piè quattro unghie come d'uccello e giunte insieme; nondimeno né l'unghie, né li piedi sono di sorte che 'l possi sostener sopra di quelli, e per tal causa, e per la sottigliezza delle gambe e la gravezza del corpo, mena il ventre quasi strascinando per terra. Il collo del detto è alto e diritto e tutto eguale, come un pestello da mortaro che sia tutto eguale fin al capo, senza far della testa proporzione o differenzia, eccetto nella coppa; e in cima di quel collo ha la faccia molto rotonda, simile molto a quella dell'allocco, e ha un profilo del pelo proprio in modo d'un cerchio, che gli fa il volto alquanto piú lungo che largo. Ha gli occhi piccoli e rotondi, le nari come d'un gatto mammone, la bocca piccola, e muove il collo ad una parte e all'altra, come attonito. Il suo desiderio, o quel che par che piú procuri e appetisca, è attaccarsi ad arbori, o a cosa che 'l possi montar in alto; e cosí, il piú delle volte che si trovano tali animali, si trovano sopra gli arbori, per li quali attaccandosi lentamente montano, fermandosi sempre con l'unghie lunghe. Il pelo è tra berettino e bianco, e quasi del proprio colore del pelo della donnola, e non ha coda.
La sua voce è molto differente da quella degli altri animali, perchè di notte solamente canta, e tutta quella in continovato canto di tempo in tempo cantando sei voci, una piú alta dell'altra, sempre abbassando, talchè la piú alta voce è la prima, e da quella va diminuendo la voce o sbassandola, come s'un dicesse: "la sol fa mi re ut". Cosí questo animal dice: "ha ha ha ha ha ha". Senza dubio mi par, sí come ho detto nel capitolo delli bardati, che simil animali potriano esser stati l'origine o documento per imbardar li cavalli, cosí udendo questo animal, il primo inventor della musica averia potuto piú presto da esso fondarsi, per dar principio alla musica, che d'altra causa del mondo, perchè il detto cagnuol leggiero insegna per queste sei voci il medesimo che per la sol fa mi re ut. Or tornando all'istoria, dico che, dapoi che questo animal ha cantato, di lí a poco intervallo o spazio di tempo, torna a cantar il medesimo. Questo fa la notte, il giorno mai si sente cantare, e per tal causa, come anche per la poca vista, parmi che sia animal noturno e amico d'oscurità e tenebre.
Alcune volte li cristiani prendono questo animale e lo portano a casa. Va per quella con la natural sua tardità, né per minacci o per punture si muove piú o con maggior prestezza di quello che senza dargli è solito a muoversi. E se trova arbori subito se ne va a quelli, e monta nella cima delli piú alti rami e sta in quelli otto o dieci o venti giorni, né si può saper quel che mangi. Io ne ho tenuto in casa, e per quel che ho potuto comprendere di questo animale debbe vivere d'aere; e di questa opinion mia ho trovato molti in quel paese, perchè mai s'è visto mangiar cosa alcuna, ma voltar sempre la testa e bocca verso le parte dove tira il vento piú spesso che in alcun'altra parte, per il che si conosce che l'aere gli è molto grato. Non morde, né può, avendo picciolissima bocca, né è venenoso, né ho visto fin a ora animale sí brutto, né che paia tanto inutile come questo.
Delli martorelli.
Cap. XXIII.
Trovansi alcuni animali piccoli come piccoli cagnuoli, di color berettino, la metà delle gambe nere, e quasi della grandezza e forma delli martorelli di Spagna; e non sono manco maliciosi di quelli, e mordono molto. Ve ne sono ancora de' domestici, sono molto buffoni e giocano come fanno li gatti mammoni; e il principal cibo, e che piú volentiera mangiano, sono granchi, de' quali si crede che principalmente si nutrichino detti animali. Io ho avuto uno di questi animali, che una caravella mia mi portò dalla costa di Cartagenia, che gl'Indiani arcieri gli dettero a baratto di due ami da pescare, e lo tenni molto tempo attaccato ad una catenella. Sono animali molto piacevoli, e non tanto sporchi come li gatti mammoni.
Delli gatti mammoni.
Cap. XXV.
In quella terra ferma si trovano gatti di tante foggie e maniere, che non si potria dir in poca scrittura, volendo narrare le loro differenti forme e innumerabili diversità sue; perchè ogni giorno di tutte queste sorti ne sono portati in Spagna, non mi affaticherò in dir di loro se non alcune poche cose. Alcuni di questi gatti sono tanto astuti, che molte cose che veggon far agli uomini loro l'imitano e le fanno similmente, e massime quando veggono schiacciare una mandola over un pignuolo con un sasso, loro anche lo fanno, e rompono tutto quel che gli è dato, essendogli posta avanti una pietra con la qual la possa rompere; né piú né manco tirano una pietra della grandezza e peso che alla sua forza convenga, tanto come un uomo. E di piú di questo, quando li nostri cristiani vanno per il paese a guereggiarre in alcuna parte di terra ferma, e passano per boschi ove siano di questi gatti, d'una sorte che sono molto grandi e neri, non fanno altro che romper tronchi e rami dagli arbori, e fannogli cader sopra gli uomini per rompergli la testa; di modo che convien si cuoprino bene con le sue rotelle, e che vadino guardandosi acciò non ricevino danno e siano feriti.
Accade che, se si tiran pietre alli detti gatti, e che quelle restino sopra qualche tronco d'arbori, li gatti subito vanno a lanciarle contra gli uomini: in questo modo un gatto diede una sassata ad un Francesco di Villa Castin, rilevo del governator Pedrarias d'Avilla, che gli cavò di bocca quatro o cinque denti. Il qual Francesco io lo conosco, e lo viddi avanti che 'l gatto gli desse la sassata con gli suoi denti, e dapoi molte fiate lo viddi ancora senza essi, perchè gli perse come è detto. E quando gli tirano alcuna freccia e feriscono alcun gatto, loro se la cavano, e alcune volte la ritornano a tirare a basso, e alcune volte, come se la cavano, la mettono loro medesimi di sua mano sopra la parte alta, delli rami, di modo che non possa cadere piú a basso, acciochè non gli tornin a ferir con quella; e alcuni le scavezzano e fannone molti pezzi. Finalmente sarebbe tanto da dir delle sue astuzie e differenti foggie di tal gatti, che chi non gli vedesse non lo potria mai credere. Trovansene alcuni tanto piccoli quanto è la man d'un uomo, e minori, e altri tanto grandi come un can mastino mezzano. E fra questi duoi estremi ne sono di molte maniere e di diversi colori e figure, e molti varii e differenti l'uno dall'altro.
Delli cani.
Cap. XXVI.
In terra ferma, nel paese degl'Indiani caribbi arcieri, sono alcuni cagnuoli piccoli che si tengono in casa, di tutti li colori di pelo che sono in Spagna: alcuni pelosi, alcuni rasi; e sono muti, perchè mai abbaiano né gridano, né fanno segno di gridare né gemere, ancora che gli ammazzino con le bastonate; e somigliano li luppati, e pure sono cani. E io ne ho visto ammazzare e non si lamentar né gemere, e gli ho visti nel paese del Darien, portati dalla costa di Cartagenia del paese de' Caribbi, comperati a baratto di ami, dove gli battono né mai abbaiano, né fanno altro che mangiare e bere. E sono un poco manco domestici che li nostri, eccetto che con quelli con chi stanno, dove mostran amor a quelli che gli danno da mangiar, menando la coda e saltando, mostrando di voler compiacer loro, e mostrar che quelli tengono per signori.
Della chiurcha.
Cap. XXVII.
La chiurca è un animal piccolo, della grandezza d'un piccol coniglio, e di color leonato, e ha il pelo molto sottile e il ceffo molto acuto, e li denti canini e altri denti similmente acuti, e la coda lunga è sí come il sorzo, e gli orecchi a quello simili. Queste chiurche in terra ferma (come in Castiglia le foine) vengono la notte alle case a mangiar le galline, overo strangolare e suciargli il sangue; per il che sono piú dannose, perchè se ne ammazzassero una e di quella si saziassero minor danno fariano; onde accade che ne strangolano quindeci o venti e molto piú, fin che sono soccorse.
Però la novità e admirazion che si puole notar da questi animali è che, se al tempo che vanno ammazzar le galline nutriscon gli figliuoli, gli portan seco nel seno in questo modo: nel mezzo della pancia per lo lungo apre un seno che fa della sua medesima pelle, in modo che si faria addoppiando il panno d'una cappa e facendone una scarsella, la bocca della quale, dove una piega casca adosso l'altra, detto animal serra tanto che nessuno de' figliuoli, avendovegli dentro, può cascare, ancor che corresse; e quando vuole, apre quella scarsella e lascia andar li figliuoli, li quali vanno ancora loro aiutando la madre a succiar il sangue delle galline che essa ammazza; e come lei s'accorge d'esser stata sentita, e alcuno va con il lume per veder per che causa le galline stramazzano, allora la detta chiurcha mette in quella scarsella overo seno li figliuoli, e fugge, se truova luogo dove fuggire, e se gli è serrato il passo monta in alto sopra il luogo delle galline per ascondersi; le quali alcune volte prese, o vive o morte, hanno mostro chiaramente quel che di sopra è detto esser vero, perchè se gli son trovati li figliuoli messi in quella scarsella, dentro la quale tiene ancora le tette, e cosí li figliuoli posson tettare. Io ho veduto alcune di queste chiurche e quanto è detto, e anche m'han morte delle galline in casa nel modo detto. Questa chiurcha è animal che puzza; il pelo, la coda e l'orecchie ha come il sorzo, e nondimeno è molto maggiore
Degli uccelli.
Cap. XXVIII.
Poi che abbiam detto d'alcuni animali terrestri particolarmente voglio ancora narrar a vostra maestà quello che mi ricordo d'alcuni uccelli che ho visto e sono in quelle parti, li quali son molti e molto varii; e primamente dirò di quelli che hanno simiglianza con questi di queste nostre parti over sono come questi; dipoi proseguiremo particolarmente, narrando quello che mi occorrerà alla memoria degli altri, che sono differenti da questi delli quali qui abbiamo notizia, o si conoscono.
Degli uccelli noti e simili a quelli che sono in Spagna.
Cap. XXIX.
Sono nell'Indie aquile reali e delle nere, e aquile piccole e di color biondo, sonvi sparavieri, terzuoli, falconi villani e pellegrini, ma sono piú neri di qui. Si trovano nibbi che prendono li polli, e hanno la piuma e similitudine di questi nostri. Sonvi molti altri uccelli maggiori che grandi grifalchi, e di gran presa; e hanno gli occhi colorati in molti modi, e la piuma molto bella e dipinta a modo d'astori mudati molto galanti, e vanno accompagnati a due a due. Io ne buttai uno a terra, d'un arbore molto alto, con una freccia con la quale gli dette nel petto, il quale cascato a basso era quasi come un'aquila reale, ed era tanto armato di presa e becco ch'era cosa bella a vedersi. E vivette tutto quel giorno. Io non gli seppi dar nome, né alcuno di quanti Spagnuoli lo viddero; nondimeno questo uccello s'assimiglia piú agli astori molto grandi che ad alcun altro uccello, ed è maggiore di quelli; e cosí li Cristiani chiamano questi astori.
Sonvi colombi salvatichi, tordi, rondine, quaglie, garze, garzotti, flamencos, salvo che il color del pelo del petto è piú vivo e di piú bella piuma. Sonvi corvi marini, anitre, oche salvatiche, le quali son nere, come di sopra si è detto. Tutti questi uccelli sono di passaggio, né si veggono tutto il tempo dell'anno, ma solo ad un certo tempo. Sonvi similmente allocchi e coccali.
D'altri uccelli differenti dalli sopradetti.
Cap. XXX.
Trovansi in queste parti molti pappagalli, e di tante e diverse sorti che saria gran cosa a narrargli, e cosa piú appartenente al dipintore a dargli ad intendere, che alla lingua ad esprimergli: per tanto, perchè di tutte le sorti che vi si trovano si portano in Spagna, non è da perder tempo parlando di quelli.
Solo dirò che, pochi giorni avanti che 'l catolico re don Ferdinando passasse di questa vita, io gli portai nella città di Placentia di Spagna sei Indiani caribi arcieri, che mangiavano carne umana, e sei Indiane giovani, molto ben disposte della persona gli uomini e le femine. E gli portai la mostra del zuccaro che si cominciava a fare in quel tempo nell'isola Spagnuola, e certe canne di cassia, delle prime che in quelle parti per industria delli cristiani si cominciorono a raccogliere; e portai similmente a sua altezza trenta e piú pappagalli, li quali eran di dieci o dodici sorti; la maggior parte di loro parlavano molto bene. Questi pappagalli, ancora che dalle bande di qui paiono pigri, sono tutti molto gran volatori, e sempre vanno accompagnati a duoi a duoi, maschio e femina, e fanno gran danno al pane e alle cose che si seminano per il viver degl'Indiani.
Coda inforcata.
Caèp. XXXI.
Si trovano alcuni uccelli grandi, e volano molto, e il piú delle volte vanno molto alti; sono neri, e quasi come uccelli di rapina fanno molto lunghi e presti voli. È la punta delle ale davanti molto aguzza, e la coda larga come quella del nibbio; sono maggiori delli nibbii, e hanno tanta sicurtà nel suo volare che molte volte le navi che vanno in quelle parti gli veggono venti e trenta leghe e piú dentro del mare, volando molto alti.
Coda di giunco.
Cap. XXXII.
Questi sono uccelli bianchi e gran volatori, e sono maggiori che colombi salvatichi; e hanno la coda lunga e molto sottile, per la qual se gli dette il nome che è sopra detto di coda di giunco. E vedesi molte volte molto dentro dal mare, essendo però uccello che abita in terra.
Passere sempie.
Cap. XXXIII.
Vi sono ancora uccelli che si chiamano passere sempie, e sono minori che coccali, e hanno li piedi come anatre grandi, e stanno nell'acqua alcune volte; e quando le navi vanno a vela lí intorno alle isole, a cinquanta o cento leghe lontano da quelle, questi uccelli riguardano se li navilii vengono a loro, e stracchi dal volar, si buttano sopra le antenne, arbori o gabbia della nave, e sono tanto sempie e aspettano tanto che facilmente si lasciano prender con la mano: e per questa causa li naviganti le chiamano passare sempie. Sono neri, e sopra neri hanno il capo e le spalle d'una piuma berrettina scura, e non sono buoni da mangiare. Hanno un grande invoglio di piuma, rispetto alla poca carne che hanno; nondimeno li marinari alcuna volta se li mangiano.
Delli anitrini.
Cap. XXXIIII.
Si trovano altre passare minori che tordi, e sono molto fieri, e credo che siano li piú veloci uccelli del mondo nel suo volare, tanta velocità hanno. Vanno a pelo dell'acqua, o alte o basse che vadino l'onde del mare, e tanto destri nell'alzar e bassar il volo, nel medesimo modo che 'l mar va, quasi appiccati all'acqua, che non si potria creder chi non lo vedesse. Questi si fermano quando gli par nell'acqua, e quasi per la maggior parte di tutto il cammino dell'Indie gli vedemmo nel gran mar Oceano. Hanno li piedi come l'oche o anitre, e per questo si chiamano anitrini.
Passere notturne.
Cap. XXXV.
In terra ferma sono alcuni uccelli, che li cristiani chiamano passere notturne, che escono al tempo che 'l sol va a monte, quando escono le nottole; hanno grande inimicizia le dette passere con le nottole, perchè subito vanno volando e perseguitando le dette nottole e dandogli colpi, la qual cosa a chi la guarda è di grandissimo piacere. Di questi uccelli ne sono molti nel Darien, e sono un poco maggiori delli rondoni, e hanno quella maniera d'ale e tanta o maggior leggierezza nel volare; e per il mezzo di ciascuna ala al traverso hanno una banda di penne bianche, e tutto il resto delle sue penne è berrettina e quasi nera; li quali uccelli tutta la notte mai si fermano, e quando si schiarisce il giorno tornano a nascondersi, e non appaiono fin che il sole non è a monte, che subito tornano al suo consueto combatter contrastando con le dette nottole.
Delle nottole.
Cap. XXXVI.
Dapoi che nel capitolo di sopra s'è detto della contenzion delle passere notturne e delle nottole, voglio concludere con le dette nottole. E dico che in terra ferma sono molte d'esse, che furono molto pericolose alli cristiani nelli principii che in quelle parti passorono con il capitano Vasco Nunez di Valboa, e con il bacilier Enciso, che acquistò il Darien. Perchè, per non sapersi allora il facile e sicuro rimedio che si ha contra il morso della nottola, alcuni cristiani morirono allora, e altri stettero in pericolo di morire, fino che dagl'Indiani si seppe il modo nel quale s'aveva a medicar quel che fusse morso dalle dette nottole. Queste nottole sono né piú né manco come quelle che sono in queste parti; e sogliono mordere la notte, e per la maggior parte beccano la punta del naso, o la cima della testa, o delle dita della mano o delli piedi, e cavano tanto sangue del morso che non si potria creder chi non lo vedesse. Tengono un'altra proprietà, che è che, se fra cento persone beccano un uomo una notte, la seguente notte, o un'altra, non becca detta nottola se non quel medesimo morso, ancor che sia fra le cento persone.
Il rimedio del morso è di prender un poco di cenere, calda quanto si possa soffrire, e metterla sul morso. Ha ancora questo morso un altro rimedio, che è tor acqua calda quanto si possa soffrire il caldo di quella, e lavare il luogo morso, e subito cessa il sangue e il pericolo, e guarisce molto presto la piaga, la qual è picciola, perchè la nottola fa un morso picciolo tondo e leva via poca carne. Io questo testifico, perchè son stato morso e son guarito con l'acqua come ho detto. Altre nottole sono nell'isola di San Giovanni, le quali si mangiano, e sono molto grasse, e in acqua molto calda si scorticano facilmente, e restano della sorte delle passere che pigliano a canna col vischio, molto bianchi e molto grassi e di buon sapore, secondo che dicono gl'Indiani, e ancora alcuni cristiani che le mangiano similmente, e specialmente quelli che vogliono provar quello che veggono far ad altri.
De' pavoni.
Cap. XXXVII.
Sono in quelle parti pavoni di color biondo, altri neri, e hanno la coda della fatezza delle pavonesse di Spagna, nella penna e colore. Alcuni son tutti biondi, e la pancia con un poco del petto bianco, altri ne sono tutti neri, e cosí la pancia e parte del petto bianchi; e l'uno e l'altro tengono sopra la testa una bella cresta o pennacchio, di penne rosse quel ch'è rosso e nere quel ch'è nero. Sono megliori al gusto che quelli di Spagna; alcuni di questi pavoni sono salvatichi, e alcuni sono domestici quando gli allevano in casa da piccioli. I balestrieri n'ammazzano molti, per esserne in gran quantità.
Alcuni dicono che 'l pavone è rosso e la pavonessa nera, e alcuni hanno altra opinione e dicono che 'l pavon è quel ch'è nero, e la pavonessa bionda. Alcuni dicono che sono di due spezie, cioè bianco e nero, e che di tutte due le spezie è il maschio e la femina, e che quelli che sono di diversi colori sono di diverse spezie. Se 'l balestriero non gli dà nella testa o in luogo che 'l caggia morto subito, se per aventura gli desse in una ala, over in altra parte, corrono molto per terra: ed essendo il paese molto spesso d'arbori, bisogna che 'l balestriero abbi un buono cane e che sia presto, acciochè 'l cacciator non perda la sua fatica, e la caccia. Vale un pavone di questi un ducato, e alcuna volta un castigliano o un peso d'oro, il quale in quelli paesi si stima tanto quanto a spendere un reale in Spagna.
Altri pavoni maggiori, e megliori da mangiare e piú belli si son trovati nella provincia detta la Nuova Spagna; de' quali molti sono stati portati nell'isole e nella provincia di Castiglia dell'Oro, e s'allevano domestici in casa de' cristiani. Di questi le femine sono brutte e li maschi belli, e molto spesso fanno la ruota, benchè non abbino cosí gran coda né tanto bella come quei di Spagna, ma in tutto il resto della piuma sono bellissimi. Hanno il collo e la testa coperta d'una carnosità senza piuma, la quale mutano di diversi colori quando gli vien la fantasia, e spezialmente quando fanno la ruota, la fanno diventar molto rossa, e come la lasciano giú la tornano gialla e d'altri colori, e poi come nero verso il berrettino, e alcune volte bianca. Ha nella fronte, sopra il becco, a modo d'un picciolo corno d'una poppa, il qual quando fa la ruota slarga e cresce piú d'un palmo. A mezzo il petto gli nasce un fiocco di peli grosso come un dito, li quali peli sono né piú né manco che quelli della coda d'un cavallo, di color neri, e lunghi piú d'un palmo. La carne di questi pavoni è molto buona, e senza comparazione megliore e piú tenera che quella de' pavoni di Spagna.
Alcatrax.
Cap. XXXVIII.
Trovansi uccelli in quelle parti che si chiamano alcatraz. E sono molto maggiori che l'oche, e la maggior parte della piuma è berrettina e in parte gialla; il becco de' quali è di due palmi longo, poco piú o manco, molto largo appresso la testa, e si va diminuendo verso la ponta. Hanno un grosso e gran gosso; e sono questi della fazione e maniera d'un uccello che lo viddi in Fiandra, a Bruselles, nel palazzo di v. maestà, che i Fiamenghi chiamavano haina; e mi ricordo che, disnando un giorno v. maestà nella gran sala, fu portato in presenzia di v. maestà una caldiera di acqua con certi pesci vivi, i quali il detto uccello gli mangiò cosí interi. Il qual uccello io tengo che sia de' marini, perchè ha i piedi come gli uccelli dell'acqua o come l'oche sogliono avere, e cosí gli hanno gli alcatrazi, i quali similmente sono uccelli marini, e di tanta grandezza ch'io viddi metter ad un d'essi un saio intero d'un uomo nel gosso, in Panama, nell'anno 1521.
E perchè in quella spiaggia e costa del Panama passa volando moltitudine di questi alcatrazi, sendo cosa notabile, io la voglio narrare, e massime che non solo io, ma sono al presente in corte di v. maestà molte persone che l'hanno veduto assai volte. Sappia v. maestà che 'n quel luogo, come per avanti s'è detto, cresce e cala il mar del Sur due leghe e piú, di sei ore in sei ore, e quando cresce l'acqua del mare arriva cosí appresso alle case del Panama, come in Barzellona o in Napoli fa il mar Mediterraneo. E quando vien la detta crescente, vengon con lei tante sardelle ch'è cosa maravigliosa e da non creder l'abondanzia di quelle, chi non le vedesse. E il cacique di quella terra, nel tempo ch'io vi abitavo, ogni giorno era obligato, e gli era stato comandato dal governatore di v. maestà, che menasse ordinariamente tre canoe o barche piene delle dette sardelle e le scaricasse in piazza, e cosí si faceva continuamente, e un rettore di quella città le partiva fra i cristiani, senza che costasse loro cosa alcuna; e se 'l popolo fosse stato maggiore di quel ch'era ancor che fosse quanto al presente si trova in Toleto o maggiore, e che altra cosa non avessero avuto per vivere, si saria potuto sostentare delle dette sardelle; e ancora sariano avanzate.
Ma tornando agli alcatrazi, cosí come viene la marea, e le sardelle con quella, loro similmente vengono con la marea volando sopra di quella, e sono in tanta moltitudine che par che coprino l'aria, e continuamente non fanno altro che buttarsi dall'aere in acqua, e prender quelle sardelle che possono, e subito tornarsi volando in aria, e mangiandole molto presto, e subito tornano in acqua e di nuovo si levano similmente senza mai cessare; e cosí quando il mar cala vanno seguitando gli alcatrazi la sua pescheria, com'è detto. In compagnia vanno con questi uccelli un che si chiama coda inforcata, de' quali per avanti s'è fatto menzione, e cosí come l'alcatrazo si leva con la preda che fa delle sardelle, il detto coda inforcata gli dà tanti colpi, e lo persequita tanto, che gli fa buttar le sardelle che ha inghiottite, e cosí come quello le butta, avanti che le tocchino o arrivino all'acqua, il coda inforcata le piglia; ed è gran piacere a vedergli tutto il giorno a questo combattere.
Il numero di questi alcatrazi è tale che li cristiani mandano a certe isole e scogli che sono appresso il Panama, con barche e canoe, per pigliare alcatrazi, quando sono tanto piccioli che non possono volare, e con legni n'ammazzano quanti vogliono, fin che caricano le barche o canoe di quelli: e sono sí grassi e ben pasciuti che al tutto non si possono mangiare, né li prendono per altro che per far del grasso per servirsene da ardere la notte nelle lucerne, il qual grasso è molto buono a questo ufficio, e fa bella luce e facilmente arde. In questa maniera e per questo effetto se n'ammazza una quantità innumerabile, e sempre par che cresca il numero di quelli che vanno a pescar le sardelle, come è detto.
Delli corvi marini.
Cap. XXXIX.
Per avanti si disse che si trovavano corvi marini, della medesima forma che sono quelli di queste bande, delli quali non torneria a parlare se non fosse per dire la estrema moltitudine di quelli che si trovano nel mar del Sur, nella costa di Panama; delli quali vostra maestà sappia che alcune volte ne vengono tanti insieme e a frotta a pescar le sardelle, che nel capitolo passato si disse, che buttati nell'acqua cuoprono gran parte del mare, ed è la moltitudine di questi tanto grande, che par la campagna la quale è appresso alla città di Toledo; e queste squadre e moltitudine di questi corvi in molte parti e molto continuamente ogni giorno si veggono nella detta costa del mar del Sur, dove ho detto. Né par altro quello che cuopre l'acqua, che un velluto o panno molto nero, senza esservi intervallo, tanto stanno stretti l'un con l'altro, li quali fanno il simile che fanno gli alcatrazi, che vanno e vengono con le maree, seguitando il pescar delle sardelle, le quali ad alcuni piacciono al gusto, ma a me non paiono buone, perchè sono molto dolci; e la terza volta che di quelle mangiai mi vennero a fastidio, né è pesce alcuno, né in quelle bande né in queste, che io abbi veduto, che cosí contra mia voglia io mangiasse; pure ad altre persone paiono al gusto molto buone.
Delle galline odorate.
Cap. XL.
Delle galline ve ne sono assai di quelle di Spagna, e ogni giorno si vanno aumentando molto, perchè gli abitatori non lasciano di metter in covo quante ova possono coprire con l'ale, e hanno avuto principio da quelle che di qui furon portate in quelle parti; sonvi oltra di queste ancora galline salvatiche, che sono cosí grandi come pavoni, e sono nere, e la testa e parte del collo alquanto berrettina, o non cosí nera come è tutto il resto del corpo; e quel berrettino non è piuma, ma è la pelle che sta sopra il collo. Sono di molto mala carne e peggior sapore, e molto golose: mangiano molte sporcizie, e Indiani e animali morti, e hanno un odore come musco, e questo fin che sono vive, perchè come sono morte perdono quell'odore, e a nissuna cosa sono buone, salvo le sue penne, per impennar le freccie e verrettoni. E sopportano molto gran colpi, e vuol ben essere gagliarda la balestra che l'ammazza, se non sono ferite nella testa o che non gli sia rotta alcuna delle ale. E sono molto importune e desiderose di star in luoghi abitati o intorno di quelli, per mangiare le immundizie.
Delle pernici.
Cap. XLI.
In terra ferma sono pernici molto buone, e di sí buon sapore come quelle di Spagna, e sono cosí grandi come le galline di Castiglia; hanno le polpe doppie, una sopra l'altra, di modo che hanno di due sorti carne, e tanta che vuol ben essere un buon mangiatore quello che ad un pasto in una volta ne mangierà una. Le penne sono berrettine, e cosí nel petto come nelle ale e collo, e tutto il resto sono del medesimo colore e penne che hanno le pernici di qui sopra le spalle, e nessuna penna tengono d'altro colore. Le ova che queste pernici fanno, sono quasi cosí grandi come li grandi di queste galline communi di Spagna, e sono quasi tonde, e non lunghe come sono quelle delle galline, e sono azurre, del medesimo colore d'una finissima turchese.
Prendono gl'Indiani queste pernici allettandole con subbi o fischi, avendogli tesi lacci. Il modo dell'allettarle è questo, che l'Indiano piglia un groppetto de' suoi capelli, in cima della fronte, quasi nella sommità del capo, e tira e allenta quelli capelli giuocando con la testa, e con la bocca fa un certo suono, che è quasi un subbio, della maniera che le pernici cantano; le quali vengono a questo suono o allettamento, e caggiono nelli lacci che gli sono stati tesi, del fil di henequen, del qual fil si disse largamente nel capitolo decimo; e cosí le prendono, e sono molto eccellente a mangiar arrostite, pilottandole prima. Cosí in questo come in altro modo cotte che si mangiano, e assimigliansi molto al sapore delle pernici di Spagna, e la carne di quelle è cosí salda, e sono migliori da mangiar il secondo dí che sono ammazzate, perchè sono piú frole e piú tenere.
Sono ancora altre pernici, ma minori delle sopradette, che sono come starne o pernici di quelle di qui. Si chiamano pernici perchè sono assai buone, le quali, ancorchè nel sapore s'agguaglino a quelle di qui, non v'arrivano però a gran pezza come fanno le grandi; e queste piccole hanno la piuma similmente berrettina, pur tirano qualche poco al biondo quelle penne che sono piú che berrettine, e prendonsi molto piú spesso che le grandi, e sono migliori per gli ammalati, per non esser cosí dure da patire.
Delli fagiani.
Cap. XLII.
Li fagiani di terra ferma non hanno le penne come li fagiani di Spagna, né sono cosí belli nel vedere, ma sono molto buoni ed eccellenti nel sapore, e sono molto simili nel gusto alle pernici grandi, delle quali si trattò nel capitolo precedente. Le penne di questi uccelli sono berrettine, cosí come le pernici, ma non tanto grandi; sono ben piú alte nelli piedi, hanno la coda lunga e larga. Se n'ammazzano molti con balestre, e fanno certi canti a modo di fischi, molto differenti dal canto delle pernici, e molto piú alto, perchè ben da lontano s'odono, e stanno ad aspettar assai, e cosí li balestrieri n'ammazzano in gran numero.
Delli picuti.
Cap. XLIII.
Un uccello è in terra ferma che li cristiani chiamano picuto, perchè ha il becco molto grande a rispetto della piccolezza del corpo, il qual becco pesa molto, e piú che tutto il corpo. Questo passere non è maggiore d'una quaglia o poco piú, ma ha l'invoglio delle penne molto maggiore, perchè ha molto piú piuma che carne; le sue penne sono molto belle e di molti colori, il suo becco è lungo una quarta o piú, storto verso terra, e a principio e appresso la testa largo tre deta, la lingua che esso tiene è una penna, e dà gran fischi, e fa buchi negli arbori con il becco, donde entra, e fa gli suoi nidi lí dentro. E certo è uccello molto maraviglioso a vederlo, perchè è molto differente da tutti gli uccelli che io ho veduti, cosí per la lingua, che è, come ho detto, una penna, come per la sua vista e disproporzione del gran becco rispetto al restante del corpo.
Nissuno uccello si trova che quando fa li suoi figliuoli stia piú sicuro e senza paura delli gatti, sí perchè non possono entrare a torre l'ova o figliuoli per la maniera del nido, perchè, come sentono che gli gatti si approssimano, si mettono nel suo nido e tengono il becco verso la parte di fuora, e danno tal beccate che 'l gatto ha di grazia di levarsegli dinanzi.
Del passere matto.
Cap. XLIIII.
Sonvi ancora certi passeri, o celeghe, che li cristiani chiamano matti, per dargli il nome al contrario delli suoi effetti, come sogliono nominar altre cose, secondo che per avanti s'è detto, perchè per la verità nissuno uccello di quelli che in quelle parti ho veduto mostra esser piú savio e astuto, né di tanto ingegno per natura per allevar suoi figliuoli senza pericolo. Questi uccelli sono piccioli e quasi neri, e sono poco maggiori che li tordi di qui. Hanno alcune penne bianche nel collo. Hanno la sagacità delle gazzuole, chiare volte si buttano in terra.
Fanno gli suoi nidi sopra arbori separati dagli altri, perchè li gatti mammoni costumano d'andar d'arboro in arboro, e saltar d'uno nell'altro, e non dismontar in terra, per paura che hanno d'altri animali, se non quando hanno sete, che dismontano a bere in tempo che non possono esser molestati. E questi uccelli né vogliono né sogliono fare gli suoi nidi se non in arbore che sia alquanto lontano dagli altri, e fanno un nido lungo un braccio o piú, a modo d'un sachetto, e nel fondo è largo, e dalla banda di sopra dove sta attaccato si va stringendo, e fa un buco donde entra in quel sachetto, tanto grande che sia sufficiente a ricever il detto passere quando entra; e acciochè, se per caso li gatti montassero sopra quelli arbori dove si trovano questi nidi, non mangino loro li figliuoli, usano un'altra astuzia molto grande, che è che quelli rami o altro dove fanno questi nidi sono molto aspri e spinosi, e li gatti non gli possono toccare senza pungersi, e sono tanto tessuti e forti che uomo alcuno non lo saperia far di quella sorte, e se il gatto vuole metter la zampa per il buco del detto nido, per cavar fuora le ova o li figliuoli piccioli di questi uccelli, non può arrivar al fondo, perchè come è detto sono lunghi piú di tre o quattro palmi, e non può la zampa del gatto arrivare al fondo del nido. Fanno un'altra cosa, la quale è che in un arbore sono molti di questi nidi, e la causa perchè fanno molti di questi passeri gli suoi nidi in un medesimo arbore, debbe essere per una di due, o perchè di sua natura vanno in frotta e sono amiche di compagnia della sua medesima generazione, come sono gli stornelli; o perchè, se per caso li gatti montano nell'arbore dove fanno li nidi, ve ne siano diversi, acciochè stia alla ventura a quale il gatto debba dar molestia, e ve ne siano gran quantità di grandi, li quali facino la guardia per tutti, perchè quando veggono li gatti danno grandi gridi.
Delle picche, overo gazzuole.
Cap. XLV.
In terra ferma, e similmente nelle isole, sono alcune piche e gazzuole, che sono minori di quelle di Spagna, le quali vanno sempre a salti, e sono tutte nere, e hanno il becco fatto a modo di quello de' pappagalli e similmente nero; hanno la coda lunga, e sono poco maggiori de' tordi.
Degli uccelli detti pintadelli.
Cap. XLVI.
Sonvi certi passeri, che si chiamano pintadelli, che sono molto piccoli, come sono fringuelli montani o di sette colori. Questi passerini, per paura delli gatti, sempre fanno gli suoi nidi sopra la riva de' fiumi o del mare, dove le rame degli arbori arrivino con li nidi all'acqua, poco peso che sopra quelle si carichi. Fanno li detti nidi quasi nelle cime delli detti rami, e quando il gatto va sopra li rami, avanti s'abbassa e pende verso l'acqua; il gatto per paura torna in dietro, non curando piú de' nidi, per paura di cascare, perchè di tutti gli animali del mondo, non obstante che nessuno lo superi in malizia, e che naturalmente la maggior parte degli animali sappi notare, questo gatto non lo sa fare, e molto presto affoga. Questi passerini fanno gli suoi nidi in modo che, ancora che si bagnino ed empino d'acqua, subito tornano suso, e ancora che li passerini nuovi stiano sotto acqua, per piccolini che siano non s'anniegano.
Delli lusignuoli e altri passerini che cantano.
Cap. XLVII.
Sonvi molti lusignuoli, e molti altri uccellini che cantano maravigliosamente e con gran melodia e con differente modo di cantare, e sono molto diversi di colore un dall'altro: alcuni sono tutti gialli, alcuni sono colorati, d'un color tanto grande ed eccellente, che non si potria credere né veder altra cosa di maggior colore, e tanto quanto fosse un rubino; e ve ne sono degli altri di varii colori, alcuni di molti colori, altri di pochi, e altri di una sorte, e tanto belli che in lustrezza eccedeno, e superano tutti quelli che si trovano in Spagna e Italia e in altri regni e provincie che ho visto; molti delli quali si prendono con reti, vischio e trappole di molte sorti.
Del passere moschetto, molto piccolo.
Cap. XLVIII.
Trovansi alcuni passerini tanto piccoli, che tutto il corpo d'uno d'essi è minor della cima del deto grosso della mano, e pelato è la metà manco di quel che è detto. È uno uccellino che, oltra la sua picciolezza, ha tanta velocità e prestezza nel volare che, vedendolo nell'aere volare, non si vede batter l'ale, d'altra sorte di quello che si vede de' calabroni, e non è persona che gli veda volare che pensi che sia altro che calabrone. Li nidi sono secondo la proporzione e grandezza sua, e io ho veduto uno di questi passerini che, con il nido messo in una bilancia d'oro, pesò il tutto due tomini, che son ventiquattro grani, con la piuma, senza la quale averia pesato manco senza dubio. S'assomigliava, nella sottilezza de' piedi e dell'unghie, agli uccelletti che si dipingono nelli margini delli libri dell'officio che sogliono mettere gli miniatori, e la sua piuma è di molti belli colori, dorata e verde e altri colori, e il becco lungo secondo il corpo, e tanto sottile come un ago da cucire. Sono molto animosi, e quando vedono che alcun uomo monta in su l'arbore dove hanno gli suoi nidi vanno a dargli negli occhi, e con tanta prestezza va e fugge e torna, che non si può creder chi non lo vede. Certo è tanta la picciolezza di questo uccelletto, che non averia ardimento di parlarne, se non fusse che non solo io, ma altri ancora sono in questa corte testimonii di veduta. Fanno il suo nido di fiocco o pelo di cottone, del quale in questo luogo ne è abondanzia, e loro molto a proposito.
Passaggio d'uccelli.
Cap. XIL.
Io ho visto alcuni anni nel mese di marzo, in spazio di quindeci o venti giorni, e alcuni anni piú, dalla mattina fin alla notte, andar tutto il cielo coperto d'infiniti uccelli molto alti, e tanto elevati in aere che molti di loro si perdono di vista; alcuni altri vanno molto bassi a rispetto delli piú alti, nondimeno vanno molto alti a rispetto delle sommità de' monti del paese, e vanno del continuo in frotta, over un dietro l'altro; e questa via fanno dalla parte di tramontana verso mezzodí, e alcuni da parte del mar verso la terra, e cosí attraversano tutto quello che del cielo si può vedere in lunghezza, nel viaggio che fanno questi uccelli; e del largo occupano gran parte di quel che si vede del cielo. La maggior parte di questi uccelli sono al parer mio aquile nere, e altre di molte sorti e molto grandi; e altri uccelli di rapina. La differenzia e le piume delli detti non si può molto comprendere, perchè non s'abbassano tanto che si possino conoscere né discendere con la vista; nondimeno, per la maniera del volare, e per la sua grandezza e differenzia fra lor, si conosce molto bene che son di molte e diverse spezie. Il passar di questi uccelli è sopra la città e provincia di Santa Maria dell'Antiqua del Darien, in terra ferma, in quella parte che si chiama Castiglia dell'Oro.
Altre molte maniere di uccelli si trovano in terra ferma, che saria gran cosa a volerle descriver particolarmente; sí perchè di tutti quelli che si veggono, essendo infiniti, saria cosa impossibile a specificargli, come ancora perchè, di molte altre che ho scritto nella mia generale istoria, non mi occore altro alla memoria di quello che nel presente sommario ho detto.
Delle mosche, moscioni, ape, vespe e formiche e simili animali.
Cap. L.
Nell'Indie e Terra ferma sono molto poche mosche, e in comparazion di quelle che sono in questi nostri paesi d'Europa, si può dire che non ve ne siano, perchè rade volte si veggono. Moscioni, overo zenzare, ve ne sono molte, e fastidiose e di molte sorti, e spezialmente in alcune parti vicine al mare, e nondimeno in molte parti fra terra non se ne trovano. Sonvi molte vespe, e pericolose e venenose, e la sua morsicatura senza comparazion fa maggior dolore che quella delle vespe di Spagna; e hanno quasi il medesimo colore, ancora che siano maggiori, e hanno il color suo giallo inverso il bianco, e l'ali sono machiate di color nero, ma le punte dell'ale sono d'un bianco smarrito.
Sonvi molto grandi vespai, e pieni di buchi overo casette, della sorte di quelle che fanno le ape in Spagna, ma sono secchi e di color bianco sopra berrettino, e non hanno alcun liquor dentro, ma la sua generazione, overo quella materia di che nascono. Molti di questi vespaii si trovano negli albori e colmi e legni delle case.
Delle ape.
Cap. LI.
Sonovi molte ape, che si generano nelli buchi degli arbori, e sono piccole, della grandezza simili alle mosche o poco piú, e la punta delle ale è mozza al traverso, della maniera della punta delle coltelle che si fanno nella città di Vittoria; e per mezzo dell'ala hanno al traverso un segno bianco, e non mordono, né fanno male, né hanno l'ago, e fanno gran favi over cassette, e piú buchi sono in un di detti favi che 'n quattro di questi di qui, benchè le siano ape di quelle portate di Spagna; e il mele è molto buono e sano, ma è bianco e quasi come vin cotto.
Delle formiche.
Cap. LII.
La differenza delle formiche è grande, e la moltitudine di quelle è tanta, e tanto dannosa in alcune di loro, che non si potria mai credere chi non l'avesse veduto, perchè hanno fatto molto danno, cosí negli arbori come ne' zuccari, e altre cose necessarie al viver dell'uomo. Ma per non esser longo in questo parlare, dico che quelle che gli orsi formigari mangiano son d'una sorte, e sono picciole e nere, e altre son di color biondo, e altre sono che chiamano conixen, che la metà son formiche e l'altra metà un verme, qual porta attaccato una scorza bianca, strascinandola; e son molto dannose e penetrano i legnami, e alle case fanno molto danno queste formiche comixen, le quali, se montano sopra un arbore o per un pariete o dove si voglia che faccino il suo cammino, portano una cappa over coperta di terra grossa come un deto o come la metà, o piú o poco manco, e sotto di quell'artificio o cammino coperto vanno fino dove vogliono fermarsi; e dove si fermano portano molte di quelle coperte, e fanno una casa di terra coperta cosí grande come tre o quattro palmi, poco piú o manco, e cosí larga come è longa o come la vogliono fare, e lí fanno il suo nido, e quel luogo si marcisce; e rosegano il legno e similmente li parieti, fino che vi lasciano li buchi, come è ad un favo over carase. E bisogna aver aviso che, subito che cominciano a far quelle cappe over sentiero coperto, di romperle, avanti che abbino luogo da far danno nelle case, perchè questi animaletti nelle case sono come tarme ne' panni.
Vi sono ancora delle altre formiche, maggiori delle sopradette e con gran differenza; ma di tutte le piú triste sono quelle che sono nere, e sono quasi tanto grandi quanto l'ape di qui, e queste sono tante pestifere che con quelle e altre materie venenose gl'Indiani fanno il veneno che mettono in capo delle saette, il qual veneno è senza rimedio, e tutti quelli che sono feriti di quelle saette muoiono, che di cento non ne scampano quattro. Si è visto molte volte per sperienza, in molti cristiani morsi da queste formiche, che subito che sono morsi viene loro la febre grandissima, e nasce una panocchia a colui che è stato morso. Altre ne sono della grandezza di quelle di Spagna, ma sono rosse, e queste e la maggior parte delle dette di sopra, che sono in terra ferma, sono di passaggio.
De' tafani.
Cap. LIII.
In terra ferma sono molti tafani, e mordono molto, e sono di molte e differenti sorte, e tanti che sarebbe longo e noioso processo a scriverne, e non piacevole al lettore.
Delle formiche alate.
Cap. LIIII.
In quelle parti sono molte formiche alate, della medesima sorte di quelle di Spagna; e cosí si generano quando alle formiche nascono l'ale, e sono alquanto minori di quelle di qui.
Delle vipere e colubri e serpi e lacerti e rospi e altri simili animali.
Cap. LV.
In Terra ferma, in Castiglia dell'Oro, sono molte vipere, della medesima sorte di quelle di Spagna, e quelli che sono morsi da quelle muoiono molto presto, perchè pochi arrivano al quarto giorno se presto non sono aiutati; nondimeno infra quelle ne è una spezie minor dell'altre, e hanno la coda alquanto tonda, e saltano nell'aere a morder gli uomini: e per questo alcuni chiamano tiro questa sorte di vipera, e il morso di queste tali è piú venenoso, e per la maggior parte è incurabile. Una di queste morse una Indiana di quelle che mi servivano in casa, in una possessione, e gli fu fatto presto li remedii; e similmente fu salasciata e cavatogli sangue del piede dove era stata morsa, e gli fu fatto tutto quello ordinorono li chirurgici, e niente giovò, né gli poterono cavare gocciola di sangue, ma solo acqua gialla, e in tre dí morí, che non se gli trovò rimedio. E questo medesimo accade ad altre persone. Questa Indiana che ho detto che morí era d'età d'anni quattuordeci o manco, e molto latina, che parlava castigliano come se la fusse nata e allevata tutta la vita sua in Castiglia, e diceva che quella vipera che l'aveva morsa nel collo del piede era di due palmi o poco manco, e che la saltò nell'aere per morderla piú di sei passi: e con questo s'accordavano molte persone che avevano pratica di queste vipere o tiri, e che avevano veduto morire altre persone di simili morsi. Queste son le piú venenose che siano in quelle bande.
Delle biscie o serpenti.
Cap. LVI.
Io ho veduto in terra ferma una sorte di biscie sottili e longhe di sette in otto piedi, le quali sono tanto rosse che di notte paiono carboni accesi, e di giorno rosse come sangue. Queste sono assai venenose, ma non però tanto come le vipere. Ve ne sono dell'altre piú sottili e piú corte e piú nere, e queste escono delli fiumi e vanno in quelli e per terra quando vogliono, e sono similmente molto venenose. Sonvi parimenti altre biscie berrettine, e sono poco maggiori che le vipere, e sono nocive e venenose; sonvene delle altre di piú colori e molto longhe, e io ho veduto una di queste nell'anno 1515 nell'isola Spagnuola, appresso la costa del mare, a' piedi della montagna che si chiama Pedernales; e la misurai, ed era piú di venti piedi di longhezza, e il piú grosso di quella era molto piú di un pugno serrato, e doveva essere stata morta quel giorno perchè non puzzava e il sangue era fresco, e aveva tre o quattro coltellate. Queste tali bisce sono manco venenose delle soprascritte, salvo che per la grandezza sua mettono timor nel vederle.
Io mi ricordo che, essendo nel Darien in terra ferma nell'anno 1522, venne del campo molto spaventato Pietro della Calleia, montagnol nativo di Colimdres, una lega lontan da Laredo, uomo di credito e nobile, il qual disse che avea visto, in un sentier, in un campo di maizal, solamente la testa con poca parte del collo d'una biscia o serpente, e che non poté veder il resto per causa della spessezza del maiz; e che la testa era molto maggior che un ginocchio addoppiato della gamba di un uomo mezzano, e cosí giurava, e che gli occhi non gli erano parsi minori di quelli che sono d'un manzetto grande. E come la vidde, di lí alquanto slargatosi, non ebbe ardimento di passar per quel sentiero e si ritornò in dietro; la qual cosa il soprascritto narrò a molti e a me, e tutti il credemmo, per altre molte che in quelle parti aveano vedute alcuni di quelli che udirono il detto Pietro della Calleia. E pochi giorni dapoi, nel medesimo anno, fu morta una biscia da un mio servidor, che era dalla bocca fino alla punta della coda ventidoi piè, e il piú grosso di quella era piú che duoi pugni giunti della man d'un uomo mezzano, e la testa piú grossa che un pugno; e la maggior parte della gente la vidde, e quel che l'ammazzò si chiama Francesco Rao, nativo della città di Madril.
Yuana.
Cap. LVII.
Yuana è una sorte di serpente di quattro piedi, molto spaventoso a vedere e molto buon da mangiare, del qual nel capitolo sesto a dietro fu detto sufficientemente quel che si conveniva di questo animale; sonne molti d'essi nell'isole e in terra ferma.
De' lagarti o dragoni.
Cap. LVIII.
Sonvi molti lagarti, cioè lacerti o ramarri, della foggia di quelli di Spagna e non maggiori, ma non son venenosi; ve ne sono altri grandi, di dodici o quindici piedi di lunghezza e piú grossi che una cassa, e alcuni d'essi delli piú grandi sono grossi come una botte, e la testa e il resto a proporzione. Il mostaccio hanno molto lungo, e il labro di sopra bucato per mezzo delli denti che si chiamano canini, per li quali buchi escono detti denti canini, che hanno nella parte piú bassa della bocca, insieme con gli altri denti. Sono molto fieri nell'acqua e velocissimi, e in terra alquanto gravi e pigri, a rispetto della prestezza che hanno nell'acqua. Molti di questi animali vanno per le coste e spiaggie del mare, e vanno ed entrano per li fiumi e canali che descendono in mare, e sono di quattro piedi, e hanno molte dure squamme; e per mezzo del fil della schiena, tanto quanto è lunga, è pieno di punte o vero d'ossi alti, ed è tanto dura la sua pelle che niuna spada o lancia lo può offendere, se non fusse ferito sotto quella pelle durissima fra le coscie o nella pancia, nelle quali parti è la pelle piú tenera di questi lagarti o dragoni.
Li quali, quando fanno le sue ova, è nel tempo piú secco dell'anno, del mese di decembre, che li fiumi non escono del suo letto in quel tempo, mancandoli le pioggie, e per questo non gli può portar via il crescer de fiumi le uova. E fanno le sue ova a questa foggia: escono alla rena e spiaggia per la costa del mare o per le rive de' fiumi, e fanno un buco nella rena e mettono ivi dugento over trecento ova o piú, e cuopronle con la detta arena; le quali con il sole per putrefazione nascono e prendon vita, escono di sotto dell'arena e vanno al fiume che è lí vicino, non essendo maggiori d'una spanna o poco manco, e poi crescono e vengono tanto grandi come è detto.
In alcune parti sono tanti di questi che è cosa da spaventare; e il piú delle fiate stanno nelle volte e gran fondi de' fiumi, e quando escono d'essi e vanno per la terra e spiaggia, tutto quel luogo lí vicino sa di musco, ed escono molte volte a dormir nell'arena appresso l'acqua. E quando s'allarga alquanto e li cristiani gli truovano, subito fuggono all'acqua, e non sanno nel correr voltarsi d'una banda o dall'altra, ma vanno sempre a diritto; e se per aventura corressero dietro ad un uomo non lo possano arrivare, s'è avisato di quel che è detto, e che vadi torcendo il cammino o declini dalla strada; anzi molte volte per tal causa è occorso che molti sono andati dandogli bastonate e coltellate, fin che gli hanno ammazzati over fatti entrar nell'acqua. Nondimeno il meglio è tirargli con balestra e schioppi, perchè con altre armi, come sariano spade, dardi o lancie, poco danno se gli può fare, eccetto se non s'abbate a dargli nella pancia over sotto le coscie, nelli quali luoghi hanno la pelle piú sottile. E quando corrono per terra portano la coda levata sopra la schiena, inarcata come le penne della coda del gallo, e la pancia non strascinando, anzi alta da terra un palmo, poco piú o manco, a rispetto della grandezza e altezza de' piedi; e ha quattro piedi, in capo delli quali ha le dita sfesse e unghie molto lunghe. Finalmente questi lagarti sono molto spaventosi dragoni a vedere.
Alcuni vogliono dire che sono cocodrilli, però non sono, perchè il cocodrillo non ha luogo alcuno da spirare eccetto la bocca, e questi lagarti overo dragoni lo hanno, e il cocodrillo ha due mascelle, e cosí muove quella di sopra come quella di sotto, ma questi lagarti che io dico non hanno se non la mascella di sotto. Sono nell'acqua velocissimi e molto pericolosi, perchè mangiano molte volte gli uomini, li cani, li cavalli e le vacche quando che passano a guazzo; e per tal causa si debbe avere questo aviso, che quando la gente passa per qualche fiume dove sono questi animali, sempre si prende il guado dove l'acqua è piú bassa e sia piú corrente, perchè detti lagarti s'allargano dalle correnti e dove è poco fondo. Molte volte occorre che ammazzandogli gli truovano nel ventre una o due sporte di sassetti lisci, che 'l lagarto mangia per suo passa tempo, e gli patisce.
Ammazzansi molte volte, prendendogli con ami grossi incatenati e ad altre foggie, e alcune volte, ritrovandogli fuora dell'acqua, con gli schioppetti. Io tengo questi animali piú presto per bestie marine e d'acqua che terrestri, ancora che, come è detto, nascano in terra di quelle ova che sotterrano nell'arena. Le qual ova son tanto grandi o piú che quelle d'oca, e sono tanto larghi in un capo, over punta, come dall'altra banda, over capo, e se si gettano in terra non si rompono né si spandono, se ben si rompesse la prima scorza, che è come quella delle ova d'oca; e tra quella e la chiara è una tela sottile, che par simile ad un soatto, che non si rompe se non se gli dà con alcuna punta di ferro o di legno acuto; e battendo la terra con alcuni di questi ovi, salta in suso e fa un sbalzo come se fusse una palla da vento. Non hanno rosso, ma tutto è chiara, e acconci in tortelli sono buoni e di buon sapore.
Io ho mangiato alcune volte di queste ova, ma non di lagarti, ancora che molti cristiani gli mangiavano, quando gli potevano avere, massimamente li piccoli, al principio che la terra si conquistò, e dicevano che erano buoni. E quando questi lagarti lasciavano le sue ova coperte nell'arena, e alcuno cristiano gli trovava, toglieva tutto quel nido di ova e portavagli alla città del Darien, e gli vendevano cinque e sei castigliani e piú, secondo la quantità che portava, a ragion d'un real d'argento per ciascuno ovo. Io gli pagai a tal prezzo, e ne ho mangiato alcune volte nell'anno 1514; però, dapoi che si cominciò a trovar altre cose da mangiare e animali, lasciorono di cercargli, ancora che, quando gli truovano a caso, alcuni non restano di mangiarli volentieri.
Degli scorpioni.
Cap. LIX.
Vi sono in molte parti in terra ferma scorpioni venenosi, e io gli ho trovati in Santa Marta, fra terra ben tre leghe allargati dalla costa e porto del mare, dove nell'anno 1514 toccò l'armata che per comandamento del re catolico don Ferdinando passò in terra ferma. Sono neri in verso giallo, e in Panama, nella costa del mar del Sur, io gli ho veduti alcune volte.
De' ragni.
Cap. LX.
Vi sono ragni molto grandi, e io ne ho veduti di maggiori che una man distesa con le gambe e tutto il resto; ma il corpo solo di un ragno, che viddi una volta, era di grandezza d'una passera berrettina, e pieno di quel velo che fanno la sua tela, e il color era berrettin oscuro, e gli occhi maggiori che d'un passere di quelli che ho detto. Sono venenosi, ma di questi grandi ritrovansi rare volte; sono però communemente maggiori di quelli di queste bande.
De' granchi.
Cap. LXI.
Li granchi sono alcuni animali terrestri che escono di certi buchi che loro istessi fanno in terra, e la testa e il corpo è tutta una cosa tonda, e si assimiglia molto ad un cappelletto da falcone, e d'un de' lati gli escono quattro piedi e dall'altro altri quattro, e hanno due bocche come tanagliette, una maggior dell'altra, con la qual mordono; non duol però molto il suo morso, né è venenoso. La sua scorza e corpo è liscio e sottile come la scorza dell'ovo, salvo un poco piú dura. Il colore è berrettino, o bianco, o paonazzo, che tira all'azzurro, e camminano per lato e sono buoni a mangiare; e gl'Indiani si dilettan molto di questo mangiare, e similmente in terra ferma molti cristiani, perchè se ne truovano molti ed è mangiar di poca spesa, né hanno mal sapore. E quando li cristiani vanno fra terra molto, è cibo che si truova incontinente e che non dispiace, e mangiansi arrostiti in su le bracie.
Finalmente la fatezza di questi è della medesima maniera che si dipigne il segno di Cancer; e in Andalosia alla costa del mar, nel fiume Guadalchibir, dove quello entra in mare, a San Lucar e in altre parti, sono molti granchi, ma sono d'acqua, e li sopradetti sono di terra. Alcune volte sono dannosi e quelli che gli mangiano muoiono, specialmente quando detti granchi hanno mangiato qualche cosa venenosa, o di quelli pometti delli quali si fa il veneno, qual adoperano gl'Indiani Caribi arcieri nelle sue freccie, del qual si dirà poi; però per tal causa si guardano li cristiani da mangiar tal granchi, quando gli ritruovano appresso detti arbori che fanno tal pometti. E benchè si mangi molti di quelli che sono buoni, non fanno però male all'uomo, né è vivanda che sia dura da patire.
Delli rospi.
Cap. LXII.
Sono molti rospi in terra ferma, e molto noiosi per la gran quantità d'essi; non sono venenosi, ma dove piú di questi s'è visto è nella città del Darien, e molto grandi, tanto che quando muoiono, nel tempo del secco, vi rimangono tanto grandi gli ossi d'alcuni, e spezialmente le coste, che paiono di gatto o d'altro animal di tal grandezza; però, come cessano le acque, a poco a poco si consumano e finiscono, fin che l'anno seguente al tempo delle pioggie si ritorna a vederli. Nondimeno ormai non ne è tanta quantità come soleva, e la causa è che, cosí come la terra si va coltivando e abitando dalli cristiani, e tagliandosi molti arbori nelli monti, e con il fiato delle vacche, cavalle e altri bestiami, cosí pare che visibilmente e palpabilmente si vada levando via questo veneno, e ogni giorno vien piú sana e piacevole.
Questi rospi cantano di tre o quattro maniere, né alcuna d'esse è piacevole: alcuni come cantano quelli di qui, altri fischiano, e altri d'altra maniera. Ve ne sono di verdi, berrettini, e alcuni quasi neri, però di ciascuna sorte sono molto brutti, grandi e noiosi, per esserne molti; ma, come è detto, non sono venenosi, e dove si pone cura che non vi sia acqua morta, ma che corra o che si consumi subito, non sono rospi, perchè vanno a ritrovare li luoghi fangosi.
Degli arbori, piante ed erbe che sono nelle dette Indie, sí isole come terra ferma.
Poichè si è detto degli arbori che di Spagna si sono portati in quelle parti, e come tutti fanno grandissima copia di frutti, voglio ora dir degli altri nativi di quelli luoghi, e perchè tutti quelli che sono nell'isole sono ancora e in maggior copia in terra ferma. Dirò di quelli che mi verranno alla memoria, tuttavia con quella protestazione che feci nel principio, ch'è che tutto quello che dirò qui, e quel di piú che mi è uscito della memoria, è copiosamente scritto nella mia generale istoria dell'Indie. E cominciando dal mamei, dico cosí.
Del mamei.
Cap. LXIII
Le principali piante, e quello di che piú si nutriscono gl'Indiani, son iuca e maiz, delle quali fanno pane, e del maiz anco vino, come di sopra s'è detto. Sonvi altri frutti molto buoni oltra questi. Èvvi uno frutto che si chiama mamei, ch'è un arbore grande, di belle e fresche foglie, e fa uno grazioso ed eccellente frutto e di molto soave sapore, tanto grosso per la maggior parte quanto due pugni congiunti; il colore è come delle pere, con il scorzo leonato, ma piú duro alquanto e piú spesso, e l'osso è fato in tre parti, l'una appresso l'altra in mezzo del frutto a modo di semenze, e di colore e fatezza delle castagne monde, e a queste sí propriamente s'assimiglia che nissuna cosa gli mancheria ad esser le medesime castagne, se avesse quel sapore. Ma questo osso cosí diviso, o semenza, è amarissimo come fiele, ma sopra quello è una teletta molto sottile, tra la quale e la scorza è una carnosità come leonata, che ha il sapore di pesche o migliore, e ha un buonissimo odore. Ed è piú denso questo frutto e di piú soave gusto che la pesca, e questa carnosità che è dal detto osso fin alla scorza è tanto grossa quanto un deto o poco manco, e non si può migliorare né veder altro miglior frutto.
Del guanabano.
LXIIII.
Il guanabano è un arbore molto grande e bello in vista, ch'ha li rami diritti, la foglia longa e larga e molto verde, e fa un frutto che par pigna, grande quanto meloni longhi; e in cima ha certi lavori sottili che s'assimigliano a squame, ma non sono, né si aprono, anzi serrata intorno è tutta coperta d'una scorza della grossezza di quella di meloni e alquanto manco, e dentro è pieno d'una pasta come mangiar bianco, salvo che, ancorchè sia tanto spessa, è alquanto acquosa e di gentil sapore, temperato con un garbo soave e piacevole. E dentro a quella carnosità ha certe semenze, che sono maggiori che quelle della cassia e dell'istesso colore e quasi cosí dure; e ancora che un uomo mangi una di queste guanabane che pesi due o tre libre e piú, non gli fa mal né danno allo stomaco, ed è molto temperata e bella a vedere; solo si lascia di tal frutto quella scorza sottile che non si mangia e le semenze, e trovansi di quelle che sono di peso di quattro libre e piú. E se dapoi cominciata a mangiare si lasci per qualche dí, non si fa di mal sapore, se non che si va seccando e consumando in parte, distillandosi la umidità e acqua; e le formiche subito vanno a quella che è tagliata, e per questo non la cominciano mai a mangiare se non per finirla. E di queste guanabane si trovano molte e nell'isole e in terra ferma.
Del guaiaba.
Cap. LXV.
Il guaiaba è un arbore bello in vista, ch'ha la foglia quasi come di moro, se non che è minore. E quando è fiorito ha molto buon odore, e spezialmente il fior d'una certa sorte di questi guaiaba; getta certe pome piú massiccie che le pome di qui e di piú peso, ancora che fussero di egual grandezza, e hanno molte semenze, o per dir meglio son piene di granelletti molto piccioli e duri: perciò solamente son fastidiose da mangiare a quelli che di nuovo le provano, per causa di quei granelletti, ma a chi già l'ha provate pare molto gentil frutto e appetitoso. E dentro ne sono alcune colorite, altre bianche; e dove miglior le abbi trovate è nel Darien, e per quel paese dico miglior che in alcuna parte di terra ferma ch'io sia stato; ma quelle dell'isole non sono tali. E a quelli che sono usi a mangiarle lo tengono molto buon frutto, e assai migliore che le pome.
Del coco, cioè noci d'India.
Cap. LXVI.
Il coco è spezie di palma, e la grandezza e foglia dell'istessa sorte delle palme reali che fanno li dattili, eccetto che son differenti nel nascimento delle foglie, perchè quelle de' coci nascono ne' tronchi della palma, di quel modo che fanno le deta della mano quando si intertesseno l'una con l'altra, e cosí fanno dapoi ch'han piú sparte le foglie. Queste palme o coci son arbori alti, e trovasene molti nella costa del mar del Sur, nella provincia del cacique Chiman; il qual cacique ebbi certo tempo raccomandato con 200 Indiani.
Questi arbori o palme producono un frutto che si chiama coco, ch'è di questa sorte: tutto unito come sta nell'arbore ha maggior circonferenzia che una gran testa di un uomo, e dalla superficie fin a quel di mezzo, ch'è il frutto, è circondato e coperto da molte tele, della sorte di quella stoppa della qual son coperti li palmizi di terra nell'Andalosia (dico di terra, perchè non sono palmizi di palme alti); di quella stoppa e tele che in levante fanno gl'Indiani tele molto buone e sarte, e tele le fanno di tre o quattro sorti, sí per vele di navilii come per vestirsi, e le corde sottili e piú grosse e fino a sarte. Ma in queste Indie di vostra maestà non curano gl'Indiani di queste corde e tele che si possono fare della lana di questi detti coci, come fanno in Levante, perchè hanno molto cottone e bello.
Questo frutto ch'è in mezo della detta stoppa, com'è detto, è grande come un pugno serrato, e alcuni come due e piú e meno; ed è in forma di noce o altra cosa rotonda, alquanto piú longa che larga, e dura, e la scorza di quella è grossa come è un cerchio delle lettere d'un real d'argento; e di dentro è attaccato alla scorza di quella noce una carnosità di larghezza della metà della grossezza del minor dito della mano, la qual è bianca come una mandola monda, e di miglior sapor che mandorle e di molto suave gusto.
Mangiasi cosí come si mangeriano le mandorle monde, e dapoi masticate queste frutte, restano alcune fregolette come delle mandorle, ma a chi le vuol inghiottire non è dispiacevole, ancora che sia andato giú per la gola il succo avanti che queste fregole si inghiottischino; pare che quel che è masticato resti alquanto aspro, ma non molto, né di sorte che s'abbia a gettar via. Quando il coco è fresco, e che poco avanti è stato colto dall'arbore, di questa carnosità e frutto, non mangiandola, ma pestandola molto e dapoi colandola, se ne cava latte, molto migliore e piú suave che quello de' bestiami, e di molta sustanzia, la quale li cristiani di quel paese metton nelle torte che fanno di maiz o del pane fatto a modo di polenta; e per causa di questo latte de' coci son le dette torte eccellente a mangiare, e senza far mal allo stomaco, dilettano tanto al gusto e lasciano cosí satollo come se si fussino mangiati molti e molti buoni mangiari.
Ma, procedendo piú avanti, è da sapere che, in luogo dell'osso o midolla di questo frutto, è nel mezzo della detta carnosità un luogo vacuo, ma pieno d'un'acqua chiarissima ed eccellente, in tanta quantità che riempirebbe un ovo, o piú o manco, secondo la grandezza del coco: la qual bevuta è la piú sustanzial e la piú eccellente e la piú preciosa cosa che si possa pensare per bere. E par che, in quel momento che la passa il palato e che la s'inghiottisce, che dalla pianta de' piedi fin alla cima della testa nessuna cosa né parte resti nell'uomo che non senta consolazione e maraviglioso contento; certo par cosa di piú eccellenzia che tutto quel che di sopra la terra si può gustare, e in tanta eccellenzia che non lo so esprimere né dire.
Or, procedendo avanti, dico che il vaso di questo frutto, cavatone il mangiar, resta molto liscio, e lo nettano e puliscono sottilmente; e resta di fuora molto ben lustro, di colore che tira al nero, e di dentro non è di minor dilicatura. Quelli che costumano bere in questi vasi e han mal di fianco, dicono che trovano maraviglioso ed esperimentato rimedio contra tal infermità, e si rompe la pietra a quelli che l'hanno e la fanno orinare. Tutte queste qualità che ho detto sommariamente qui a vostra maestà ha il frutto di questi coci. Il nome di coco fu posto a questo frutto per questa causa, che quando si dispicca dal luogo dove è attaccato nell'arbore, vi resta un buco, e di sopra quel buco duoi altri buchi naturalmente, quali insieme rappresentano un gesto o figura d'un gatto mammone quando coca, overo grida: e perciò il detto frutto è chiamato coco. Ma in verità, come di sopra s'è detto, questo arbore è spezie di palma, e secondo Plinio e altri naturali, che scrivono che tutte le palme sono utili e giovano al mal del fianco: e di qui viene che li coci, come frutto di palma, sono utili a simile malattia.
Della palma.
Cap. LXVII.
Nel capitolo di sopra si disse che li coci sono spezie di palme, e per questo, prima che si dica degli altri arbori, sarà bene che si dica alcune cose delle palme. Di quelle che producon dattili fin ora non se ne son trovate in quelle parti, ma per industria de' cristiani ne sono molte nell'isola Spagnuola, e nella Cuba, e in S. Giovanni, e Iamayca, e in S. Domenico, sí nelle case dove s'abita come nelli loro giardini, perchè degli ossi degli dattili che si portorono di qui hanno avuto origine e principio; e nella città di S. Domenico in molte case si truovano molto belle. E in una casa che ora io abito in quella città è una palma che ogn'anno produce molti frutti, ed è molto grande e delle piú belle che sia in quel paese; ma delle palme naturali dell'isole e terra ferma son sette o otto sorti, differenti l'una dall'altra. Èvvi una sorte che ha le foglie come di palmizi del paese della Andalosia che è come una palma o mano d'un uomo con le dita aperte, e queste producono per frutto certe coccole piccole e rotonde. Èvvi un'altra sorte di palme che fanno la foglia come quella de' dattili, e queste producono un'altra forma di coccole maggiori, ma non sí dure come quelle che di sopra abbiamo detto. Un'altra sorte è della medesima maniera quanto alle foglie, e li palmetti di quelle sono molto eccellenti a mangiare e molto grandi e teneri, e medesimamente producono coccole d'un'altra sorte; ancora sono li palmetti buoni a mangiare, e sono le piante alquanto piú grosse e piú basse che le dette di sopra, e producono similmente coccole. Èvvi un'altra sorte di palme e che hanno buoni palmetti, che producono per frutto certi coci non maggiori delle olive cordovese, e son come il coco senza la stoppa, e hanno l'osso con li tre buchi che lo fan parer un gatto che coci o rida: ma questi coci son piccoli e saldi, e non sono buoni a niente. Èvvi un'altra sorte di palme alte e molto spinose, le quali sono di legno eccellentissimo e molto nero, grave e lustrante, e non può star questo sopra acqua, ma subito va al fondo: fassi di questo legno molte buone freccie e verrettoni e qual si voglia asta di lancia e picca, e dico picche perchè nella costa del mar del Sur, passato Esquegua e Uracha, portano gl'Indiani picche di queste palme molto belle e lunghe; e dove gl'Indiani combattono con aste da lanciare le fanno di questo legno, lunghe come dardi e accute le punte, le quali tirano e passano un uomo e una rotella. E medesimamente fan mazze per combattere, e qual si voglia asta o cosa che si faccia di questo legno è molto bella e molto buona, e bella per far gravicembali e liuti o qual si voglia instrumento di musica che si facci di legname, perchè, oltra che è molto dura, è nera come un'ambra nera.
Delli pini.
Cap. LXVIII.
Sono nell'isola Spagnuola molti pini naturali come quelli di Spagna, che non fanno pignuoli, e sono della medesima forma e maniera che quelli; né in altre parti delle isole o di terra ferma ho udito che ne siano, per quello che mi posso ricordar al presente.
Del ilice.
Cap. LXIX.
Nella costa del mar del Sur, a occidente partendo da Panama, nel principio della provincia di Esquegua, si sono trovati molti ilici che producono ghiande, e sono buone a mangiare: e questo intesi in terra ferma, e m'informai dalli medesimi cristiani, li quali avevano visto e mangiate delle dette ghiande.
Delle vigne e uve.
Cap. LXX.
In quelle parti in terra ferma, per li monti e boschi dove sono arbori, si trovano molte volte molto buone vigne salvatiche, e molto cariche d'uva e raspi non molto minuti, anzi piú grosse di quelle che nascono in Spagna nelle siepi, e non tanto garbe, ma molto migliori e di miglior sapore. Io ne ho mangiato molte volte e in molta quantità, donde voglio inferire che si piantarebbono e farebbono frutto le vigne e uve in quelle parti, se vi si desse opera. E tutte le uve che ho vedute e mangiate in questi luoghi erano nere. In San Domenico io ho ben mangiato molte buone uve, di quelle che sono nate di pergola, e di quelli sarmenti che sono stati portati in quelle bande di qui, bianche e di sí buon sapore come sono qui.
Delli fichi del nasturcio.
Cap. LXXI.
Nella costa di ponente, partendosi dalla villa d'Acla e passando avanti al golfo di San Biagio e al porto del Nome di Dio, la costa a basso nel paese di Beragua e nelle isole di Corobaro, sono arbori di fichi alti, che hanno le foglie tagliate e piú larghe che li fichi di Spagna; e producono certi fichi grandi come melloni piccioli, li quali nascono attaccati nel tronco principale del fico, nella sommità di quello, e molti nelli rami e in gran quantità, e hanno la scorza sottile, e tutto il resto dentro è d'una carnosità spessa come quella del mellone, e di buon sapore, e tagliansi a sonde o fette come il mellone; e nel mezzo del detto fico o frutto stanno le semenze, le quali sono minute e nere e involte in una materia e umore, della forma che sono quelle del cotogno; e sono tante insieme adunate quanto è un ovo di gallina, poco piú o manco, secondo la grandezza del fico o frutto sopradetto. E quelle semenze si mangiano e sono sane, ma del medesimo sapore, né piú né manco, che è il nasturcio, o vogliam dire agretti; e però quelli che vanno in quelle parti alli servizii di vostra maestà chiamano questo frutto il fico del nasturcio; e di questa semenza s'è piantata nel Darien, e sono nati gli arbori molto bene, e io ho mangiati molti fichi di quelli, e sono della maniera che io ho detto.
Delli cotogni.
Cap. LXXII.
Èvvi un frutto che in terra ferma li cristiani chiamano cotogno, ma non è ben di quella grandezza, rotondo e giallo, e ha la scorza verde e amara, la qual levano via facendolo in quattro parti; cavangli certe semenze che hanno amare, il resto mettono in una pignatta a bollire con la carne, o con altre cose che vogliono acconciare, ed è molto buono e di gran sustanzia, e di buon sapore e nutrimento. Gli arbori che producono questo frutto non sono grandi, e paiono piú presto piante che arbori, e se ne trovano in molta quantità; e la foglia è quasi come la foglia del cotogno di Spagna.
Delli peri.
Cap. LXXIII.
In terra ferma sono certi arbori che si chiamano peri, ma non sono peri come quelli di Spagna, ma sono d'altra sorte di non minor estimazione, anzi producono un frutto che supera di molto le pere di qui. Questi sono certi arbori grandi, e la foglia larga e alquanto simile a quella del lauro, ma è maggiore e piú verde. Produce questo arbore certe pere di peso d'una libra, e molto maggiori e alcune di manco; ma communemente sono d'una libra, poco piú o manco.
Il color e forma è di vere pere, e la scorza alquanto piú grossa ma piú tenera, e nel mezzo ha una semenza come una castagna monda, ma è amarissima, come di sopra abbiamo detto del mamei, salvo che questa è d'un pezzo e quella del mamei è di tre; ma è cosí amara e della medesima forma che quella. Ma sopra questa semenza è una teletta sottilissima, tra la quale e la prima scorza è quel che si mangia, che è molto, e d'un liquore o pasta molto simile al butiro, e di buon mangiare e di buon sapore, e tal che quelli che la possono avere l'apprezzano. E sono arbori salvatichi, cosí questi come tutti quelli delli quali abbiamo parlato, perchè il primo ortolano del mondo è Dio, né gl'Indiani durano in questi arbori fatica alcuna. Con il formaggio sono molto buone queste pere, e si raccogliono a buon'ora, prima che si maturino, e si serbano, e dapoi che sono state colte si stagionano e diventano in tutta perfezione da mangiarle; ma dapoi che sono stagionate per mangiarsele, diventano triste se si differisce il mangiarle e si lascia passar quella stagione nella qual sono buone.
Dell'arbore del fico.
Cap. LXXIV.
L'arbore del fico è un arbore mezzano, e alcuni sono grandi, secondo il paese dove nascono, e producono certe zucche rotonde, che si chiamano, fighere, delle quali fanno vasi per bere, come tazze; e in alcune parti di terra ferma le fanno tanto belle e sí ben lavorate e con tanto lustro che può bever con quelle qual si voglia prencipe, e l'ornano con gli suoi manichi d'oro; e sono molto nette, e l'acqua in quelle si gusta molto buona, e sono molto necessarie e utili per bere. E per questo gl'Indiani, per la maggior parte di terra ferma, non adoperando altri vasi.
Degli hobi.
Cap. LXXV.
Gli hobi sono arbori molto grandi e molto belli, li quali fanno molto buono aere e ombra molto sana, e di questi se ne trova gran quantità; e il frutto è molto buono e di buon sapore e odore, ed è come certe susine piccole gialle; ma l'osso è molto grande e ha poco da mangiare, e sono cattivi per li denti quando s'usano molto, per causa di certi sfilacci che sono attaccati all'osso, li quali passano per le gingive quando l'uomo vuol spiccare da quelle quel che si mangia di questo frutto. Le cime di questi arbori, messe in acqua cocendole con essa, fa quella molto buona per farsi la barba e lavar le gambe, ed è di molto buon odore. La scorza ancora, bollita in acqua, fa molto utile a lavarsene le gambe, perchè stringe e leva via la stracchezza sensibilmente, tal che è maraviglia: ed è uno eccellente e salutifero bagno, e il migliore che trovi in quelle parti. Per dormirvi sotto non causa alcuna gravezza alla testa come gli altri arbori; questo dico perchè li cristiani costumano molto in quel paese di starsene alla campagna, ed è cosa molto provata, e subito che trovano gli hobi, vi distendono sotto gli suoi stramazzi e letti per dormire.
Del legno per mal franzese, che in Spagna si chiama palo santo, e dagl'Indiani guaiacan.
Cap. LXXVI.
Cosí nell'Indie come in questi regni di Spagna, e fuori di quelli, è cosa molto nota il legno over palo santo, che gl'Indiani chiamano guaiacan, e gl'Italiani legno da guarire il mal franzese; e per questo dirò d'esso alcune cose con brevità. Questo è un arbore poco minor d'una noce, del quale se ne trova assai, e sonovi in quelle bande molti boschi, sí nell'isola Spagnuola come nell'altre isole di quelli mari; pure in terra ferma io non ho veduto né udito che siano delli detti arbori. Questo arbore ha la scorza tutta macchiata di verde, e d'alcune macchie piú verdi e alcune manco e berrettine, come suol esser un cavallo pezzato. La foglia d'esso è come d'un arbuto over corbezzolo, pure un poco minore e piú verde; produce certo frutto giallo piccolo, che pare due fave lupine congiunte insieme. Per tanto è legno fortissimo e grave, e ha la midolla quasi nera: dico quasi perchè pende in berrettino. E perchè la principal virtú di questo legno è sanare il mal franzese, ed è cosa molto nota, non mi distenderò molto in quella; solo dirò come del legno d'esso arbore prendono stellette sottili, e alcuni lo fanno limare, e quelle limature cuocono in certa quantità d'acqua, secondo il peso o parte che mettono di questo legno a cuocere; e dapoi che è scemata l'acqua nel cuocere li duoi terzi o piú, la levano dal fuoco e lascianla riposare, e dipoi la danno agli ammalati certi giorni, la mattina a digiuno, e fanno gran dieta, e fra giorno gli danno da bere altra acqua cotta con il detto guaiacan, e guariscono senza alcuna dubitazione molti di questo male.
Ma perchè io non dico cosí particolarmente il modo nel quale si piglia questo legno o acqua d'esso, ma dico come s'usa fare nelle dette Indie dove è piú fresco, colui che averà bisogno di questo rimedio non tenghi conto di quello che io scrivo qui, perchè questo è altro paese e altra temperie d'aere, ed è piú fredda regione, e bisogna che gli ammalati piú si guardino e usino altri termini, ma, cominciando la cosa esser in tanto uso, e sapendo molti come in queste bande si debba prendere, da questi tali s'informi chi ha bisogno medicarsi. Io gli sarò utile in avisarlo che, se vuole il miglior guaiacan che sia, cerchi d'averlo dell'isola detta La Beata.
Può vostra maestà tener per certo che questa infermità venne dall'Indie, ed è molto commune agl'Indiani, ma non è cosí cattiva in quelle parti come in queste nostre, anzi molto facilmente gli Indiani si sanano nell'isole con questo legno, e in terra ferma con altre erbe o cose che loro sanno, perchè sono molto grandi erbolari. La prima volta che questa infermità si vidde in Spagna, fu dapoi che don Cristoforo Colombo ebbe discoperte l'Indie e tornò a queste parti, e alcuni cristiani che vennero con lui, che si trovorono al discoprir di quelle terre, e quelli ancora che fecero il secondo viaggio, che furono molti, portorono questa malattia, e da loro s'attaccò ad altre persone.
L'anno 1495, che il gran capitan don Consalvo Ferrando di Cordoba passò in Italia con gente, in favor del re di Napoli don Ferdinando giovane, contra il re Carlo di Francia, per comandamento delli re catolici don Ferdinando e donna Isabella d'immortal memoria, avoli di vostra maestà, passò questa infermità con alcuni di quelli Spagnuoli; e fu la prima volta che in Italia si vidde; e come era nel tempo che li Francesi passoron con il detto re Carlo, chiamorono gl'Italiani questo male il mal francese, e li Francesi il mal di Napoli, perchè neanche loro l'aveano visto fino a quella guerra. Dopo la quale si sparse per tutta la cristianità e passò in Affrica, per mezzo d'alcune donne e uomini malati di questa infermità, perchè a nissun modo si attacca tanto quanto per il congiungimento dell'uomo con la donna, come si è visto molte volte; medesimamente nel mangiar nelle scodelle, e bere nelle tazze e coppe dove gl'infermi di questo mal usano, e molto piú nel dormir nelli lenzuoli e veste dove sian dormiti tali infermi; ed è tanto grave e travaglioso male che non è persona che abbi intelletto che non vegga tutto il giorno infinite persone rovinate per questo male, e che paiono peggio che gli ammalati di san Lazaro.
Il che è accaduto alli cristiani, in modo che molti di loro son morti, e pochi ne sono che non prendino questo male, se usano o si congiungono con l'Indiane: pure, come è detto, non è cosí cattivo in quelle bande come qui, sí perchè questo arbore è loro piú a proposito, e per esser fresco fa maggior operazione, sí ancora perchè la temperie dell'aere è senza freddo e aiuta piú tali infermi che non fa l'aere di qui, per il che è piú eccellente in quelle parti questo arbore per questo male; e per esperienzia fa maggior profitto quel che si porta dall'isola che si chiama La Beata, qual è appresso alla città di San Domenico dalla Spagnuola, alla banda di mezzodí.
Xagua.
Cap. LXXVII.
Tra gli altri arbori che sono nell'Indie, cosí nell'isole come in terra ferma, è una sorte di arbori che si chiamano xagua, della qual sorte ve ne sono in molta quantità. Sono molto alti, diritti e belli in vista, e si fanno di essi molte buone aste da lancie, lunghe e grosse quanto le vogliono; e sono di bel colore, tra berrettino e bianco. Questo arbore produce un frutto grande come papaveri, alli quali s'assomiglia molto, ed è buon a mangiare quando è maturo. Di questo frutto cavano acqua molto chiara, con la qual gl'Indiani si lavano le gambe e alle volte tutta la persona, quando si sentono le carne fiacche e sono stracchi. E anche per suo piacer si dipingono con questa acqua, la qual, oltra che ha virtú di restringere, fa ancora questo, che tutto quello che la detta acqua tocca a poco a poco fa nero come una fin ambra, o piú, e questo color non si può levare se non passano dodeci o quindeci dí, e quel che tocca l'unghie non si può levar fin che le non si mutano o siano tagliate a poco a poco, come crescono, se una volta si tingono con questo color nero: e questo io ho molto ben provato, che a quelli che camminano per quelle parti, li quali per li molti fiumi che passano ricevono alle gambe qualche nocumento, è molto utile le detta xagua lavandosi dalli ginocchi in giú. Soglionsi fare ancora molti giuochi alle donne, spargendole senza che si accorghino con acqua di questa xagua mescolata con altre acque odorate, perchè gli vengano piú segnali neri di quello che vorriano; e quella che non sa la causa si trova posta in grande affanno per trovar rimedio, ma tutti sono inutili, perchè detti segni si potriano piú presto abbrucciare scorticandosi la faccia che levargli via, fino a tanto che la detta tintura facci il suo corso e a poco a poco da se medesima si parta. Quando gl'Indiani vogliono andar in battaglia si dipingono con questa xagua e con bixa, che è una cosa a modo di sinopia overo imboro, ma piú rossa, e anche l'Indiane usano molto questa dipintura.
Delli pomi per il veneno.
Cap. LXXVIII.
Li pometti delli quali gl'Indiani caribbi arcieri fanno il veneno che tirano con le sue freccie, nascono in certi arbori coperti di molti rami e varie foglie spesse e molto verdi, e si caricano molto di questi mali frutti, e sono le foglie simili a quelle del pero, eccetto che sono minori e piú rotondi. Il frutto è della maniera di pere moscatelle di Sicilia o di Napoli, al parere, alla forma e grandezza, e in alcune parti sono macchiate di rosso, e sono di molto suave odore. Questi arbori per la maggior parte sempre nascono e stanno nella costa del mare e appresso l'acqua di quello, e non è uomo che gli veda che non desideri di mangiar molti di quelli peri o pometti. Di questi frutti, e delle formiche grandi che fanno enfiare col morso, delle quali a dietro si è detto, e delli marassi o vipere e altre cose venenose, fanno gl'Indiani Caribbi arcieri il veneno, con il quale e con le saette ammazzano li feriti.
Nascono come è detto questi pomi appresso al mare, e tutti li cristiani che in quelle parti servono a vostra maestà pensano che niun rimedio sia tanto utile al ferito con questo veneno quanto l'acqua del mare, e lavar molto la ferita con quella; nel qual modo sono scampati alcuni, ma molti pochi, perchè, dicendo la verità, benchè questa acqua del mare sia contra il veneno (se per ventura è), non si sa però ancora usare per rimedio, né fin a quest'ora li cristiani l'hanno compreso: di cinquanta che siano feriti, non ne guariscon tre. Ma perchè vostra maestà possa meglio considerare la forza del veneno di questi arbori, dico che un uomo, solamente gittandosi per poco spazio di ora a dormir all'ombra di uno di questi arbori, quando si leva ha la testa e gli occhi tanto infiati che se gli congiungono le ciglia con le guancie, e se per caso cade una gocciola o piú di rugiada di questi arbori negli occhi, a chi tocca gli rompe o diventa cieco. Non si potria dir la pestilenzial natura di questi arbori, delli quali è gran copia nel golfo d'Uraba, per la costa di tramontana alla banda di ponente o di levante, e tanti che sono infiniti. Le legne di quelli quando ardono fanno tanto gran puzzo, che non è alcun che 'l possa tollerare, perchè fa grandissimo dolor di testa.
Degli arbori grandi.
Cap. LXXIX.
In terra ferma sono tanto grandi arbori che, se io parlasse in luogo dove io non avessi tanti testimonii di veduta, con timore averia ardimento di dirne. Dico che, una lega lontano dal Darien o città di Santa Maria dell'Antiqua, passa un fiume molto largo e profondo che si chiama il Cuti, sopra il quale gl'Indiani tenevano un arbore grosso attraverso, che prende tutto il detto fiume per ponte a passare; e per questo son passati molte volte alcuni che in quelle parti sono stati, li quali al presente sono in questa corte, e io similmente. E perchè detto legno era molto grosso e molto lungo, e molto tempo stato in quel luogo a tal servizio, s'andava abbassando talmente che chi passava per un tratto di mano si bagnava fin al ginocchio; per la qual cosa già fa tre anni, e nell'anno 1522, essendo io ufficial di giustizia di vostra maestà in quella città, feci gettare un altro arbore, poco manco basso del sopradetto, che attraversò tutto il detto fiume e avanzò dall'altra parte piú di cinquanta piè, e molto grosso, e restò sopra l'acqua piú di duoi cubiti; e nel cadere che fece si menò dietro altri arbori e rami di quelli che gli erano da canto, e discoperse certe vigne, delle quali per avanti si fece menzione, di molto buone uve nere, delle qual mangiammo assai piú di cinquanta persone che eravamo lí. Era questo arbore nella piú grossa parte sua grosso piú di 16 palmi; nondimeno, a rispetto di molti altri che 'n quel paese si trovano, era molto sottile, imperochè gl'Indiani della costa e provincia di Cartagenia ne fanno canoe, che sono barche con le quali loro navigano, tanto grandi che in alcune vanno cento e centotrenta uomini, e sono d'un pezzo e di un arbore solo, e nel mezzo di quella sta commodamente una botte, restando da ciascun lato di quella spazio donde possano passare le genti della canoa; e alcune sono tante larghe che tengono dieci e dodeci palmi di larghezza, e le menano e navigano con due vele, cioè la maestra e trinchetto, le quali vele fanno di molto buon cottone.
Il maggiore arbore ch'io abbi veduto in quelle parti o in altre, fu nella provincia di Guaturo, il cacique della quale, essendosi ribellato dalla obedienza e servizio di vostra maestà, fu da me cerco e preso. E passando con la gente che meco veniva per una montagna molto alta e piena d'arbori, nella sommità di quella trovammo un arbore tra gli altri che teneva tre radici over parti in triangulo a modo d'un trepiedi, ed era tra ciascuno di questi tre piedi aperto per spazio di venti piedi, e tanto alto che un'alta caretta carica, della sorte che 'n questo regno di Toledo si usa al tempo che si raccoglie il grano, molto commodamente saria passata per ciascuno di questi tre lumi, overo spazii che erano fra piè e piè. E dalla terra in su era l'altezza d'una lancia da fante a piè, e dove si mettevano insieme questi tre legni o piedi si riducevano in un arbore o tronco, il qual montava molto piú alto in un pezzo solo, avanti che spargesse rami, che non è la torre di S. Roman di questa città di Toledo, e da quella altezza in suso gettava molti rami grandi. Alcuni Spagnuoli montarono sopra il detto arbore, e io fui uno di quelli: e quando fui arrivato sopra il detto, dove cominciava a gettare fuori i rami, era cosa maravigliosa a vedere il gran paese che de lí si discopriva verso la parte della provincia d'Abraime. Era molto facile il montare sopra detto arbore, perchè erano molti besuchi, de' quali è detto di sopra, intorti intorno al detto arbore, che facevano a modo di scalini sicuri. E in ciascun piè de' sopradetti ove nasceva, vi era fondato il detto arbore piú grosso di venti palmi, e dapoi che tutti tre li piedi nel piú alto si teneano insieme, quel troncon principal era piú di 45 palmi in tondo: e io posi nome a quella montagna la montagna dell'arbore di tre piedi. Questo ch'ho narrato vidde tutta la gente che meco veniva, quando come ho detto presi il cacique di Guaturo, nell'anno 1522.
Molte cose si potriano dire in questa materia, e come si trovano molti eccellenti legni e di molte maniere e differenze, sí di cedri odorati come di palme nere, e di molte altre sorti, molti de' quali sono tanto gravi che non possono stare sopra l'acqua, anzi subito vanno al fondo, altri cosí leggieri come il sughero. Solo voglio dire questo, che tutto quello che fino qui è scritto, sarebbe stato necessario di scriverlo piú diffusamente. E perchè al presente io sono sopra la materia degli arbori, avanti che passi ad altre cose, voglio dire il modo che gl'Indiani con legni accendono il fuoco, il quale è questo: prendono un legno lungo due palmi, grosso come il minor deto della mano, over come una freccia, molto ben rimondo e liscio, di una sorte di legno molto forte, che lo tengono solo per questo servizio; e dove si trovano che vogliono accendere il fuoco prendono due legni de' piú secchi e piú leggieri che trovano e legangli insieme, uno appresso all'altro come le deta congiunte, nel mezzo delli quali legni mettono la ponta di quella bacchetta dura, quale, fra le palme delle mani tenendola, la voltano forte, fregando molto continuamente la parte da basso di questa bachetta intorno intorno fra quelli due legni che stanno distesi in terra, i quali s'accendono infra poco spazio di tempo, e a questo modo fanno fuoco.
Similmente è bene ch'io dica quel che alla memoria m'occorre d'alcuni legni che sono in quella terra, e anco alcune volte si trovano in Spagna, i quali sono certi tronchi putrefatti di quelli che è molto tempo che sono caduti per terra, che sono leggierissimi e bianchi, e rilucono di notte propriamente come bracie accesa; e quando gli Spagnuoli trovano di questi legni, e vanno la notte per entrare e far guerra in qualche provincia, e gli è necessario andar alcune volte di notte per luogo che non si sappia il cammino, prende il primo cristiano che guida, e che va appresso l'Indiano che gl'insegna il cammino, una stelletta di questo legno e la mette nella berretta dietro sopra le spalle, e quello che lo segue va dietro tastandolo e vedendo quella stelletta che riluce, e il secondo porta un'altra, dietro al qual va il terzo; in questo modo tutti la portano, e cosí niuno si perde né s'allarga dal cammino che guida i primi. E perchè questo lume o splendor non si vede molto lontano, è uno aviso molto buono, perchè per esso non sono discoperti né sentiti li cristiani, non potendogli veder da lontano.
Una molto gran particolarità mi s'offerisce, della quale Plinio nella sua Naturale istoria fa espressa memoria, ed è che dice quali arbori son quelli che sempre stanno verdi e non perdono mai la foglia, com'è il lauro, il cedro, l'arancio e l'ulivo e altri, i quali in tutto nomina fino 5 o sei. A questo proposito io dico che nell'isole e terra ferma saria cosa molto difficile trovar due arbori che perdino la foglia in alcun tempo, perchè, ancorchè abbi advertito molto in tal cosa, non ho veduto alcuno che mi ricordi che la perda, né anco di quelli che abbiamo portato di Spagna, sí come aranci, limoni, cedri, palme e melagrani, e tutti gli altri di qualunque sorte esser si voglia; eccetto la cassia, che questa la perde e ha un'altra cosa maggiore, nella quale è sola, che sí come tutti gli arbori e le piante nell'Indie spargono le sue radici nel fondo della terra quanto saria l'altezza di un uomo o poco piú e piú basso non passano, per il caldo overo disposizione contraria che piú a basso di quello che è detto si trovano, la cassia non resta d'andare piú a basso fin tanto che la trovi l'acqua, né tal cosa fa alcun altro arbore over pianta in quelle parti. E questo basti quanto a quello che s'appartiene agli arbori, perchè, come è detto, di loro si potriano scriver grandissime istorie.
Delle canne.
Cap. LXXX.
Io non ho voluto mettere nel capitolo precedente quello che in questo si dirà delle canne, per non le mescolare con le piante, per essere in queste cose da notare e osservare molto particolarmente. In terra ferma sono molte sorti di canne, e in molti luoghi se ne fanno case, e copronsi con le cime d'esse, e fannosene pareti, come per avanti s'è detto. Nondimeno tra le molte sorti ne è una la quale è una grossissima, tal che ha li cannelli grossi quanto un ginocchio di uno uomo e longhi tre palmi o piú, in modo che ciascuno saria capace d'un secchio d'acqua. Trovansene delle altre di minor grossezza, minori e maggiori secondo che l'uomo vuole, delle quali alcuni ne fanno carcassi per portare le saette. Trovansene una sorte la quale è certa maravigliosa, grossa poco piú che una asta di giannetta, li cannelli delle quali sono piú longhi che due palmi, e nascon lontane una dall'altra alcuna volta venti e trenta passi, poco piú o manco, e alcune volte lontane due e tre leghe; ne nascono in tutte le provincie, ma nascono appresso di arbori molto alti alli quali si appoggiano, e si appiccano alla cima delli rami, e tornano in basso infino alla terra. Li cannelli di esse sono pieni di una chiarissima acqua senza sapore alcuno, overo di canna o di altra cosa, ma tale quale sarebbe se si pigliasse della migliore e piú fresca fontana del mondo, né mai si è trovato a chi abbi fatto male bevendola. È molte volte accaduto che, andando i cristiani per quelli paesi e in luoghi molto secchi, che per carestia d'acqua si son trovati in pericoli grandi di morir di sete, delli quali pericoli si sono liberati per aver trovate le sopradette canne, né, benchè ne abbin bevuta gran quantità, hanno però ricevuto alcuno nocumento; per questo gli uomini quando le truovano, fattone cannelli, se le portano ciascuno tante quante pensa dovergli bastare per una giornata, e tante alcuna volta ne portano che ne cavano due e tre inguistade d'acqua; e se ben le portassino molte giornate, mai si corrompe, ma si mantiene fresca e buona.
Delle piante ed erbe.
Cap. LXXXI.
Dapoi che la brevità della mia memoria ha dato fine alla narrazione di tutto quello che mi ha subministrato degli arbori, passeremo a dire delle piante ed erbe che in quelle parti si truovano, e di quelle che s'assomigliano a queste di Spagna nella figura o nel sapore, over in altra particolarità. Dirò adunque con poche parole quanto tocca alla terra ferma, perchè in quello che appartiene all'isole Spagnuola e altre che si sono acquistate e abitate, cosí degli arbori come delle piante ed erbe di quelle che si sono portate di Spagna, per avanti si è detto, delle quali tutte o la maggior parte d'esse similmente in terra ferma si truovano: come aranci forti e dolci, limoni, cedri e altre erbe d'orti; melloni molto buoni tutto l'anno; bassilico, il qual non è stato portato di Spagna ma è natural di quel paese, perchè per li monti e in molte parti si truova; similmente fragole porcellane, che sono naturali del paese, nella forma, grandezza, sapore e odore che sono in Castiglia. Oltra di questi vi è il nasturcio, cioè agretti in quantità, salvatico, che nel sapor non è né piú né meno di quel di Spagna, ma li rami sono grossi e maggiori e le foglie grandi. Similmente vi sono coriandri molto buoni, e come sono questi di qui nel sapore, ma molto differenti nella foglia, la qual è molto larga, e per quella sono alcune spine molto sottili e noiose, ma non tanto che si lasci d'adoperarlo. Èvvi similmente trifoglio, del medesimo odore di quel di Spagna, ma di molte foglie e belli rami; e ha il fior bianco e le foglie lunghe, e maggiori di quelle del lauro o di quella grandezza.
Èvvi un'altra erba, quasi della forma dell'erba fegatella, salvo che è piú sottil nelli rami e piú larga communemente la foglia, e chiamasi I, e se ne mette insieme a' monti grandi, la qual li porci mangiano molto volentieri, e s'ingrassano grandemente. Gli uomini veramente si purgano con quella, e fa ottima operazione: questa purgazione si può dar ad un fanciullo e ad una donna gravida, perchè chi la prende non va del corpo se non tre o quattro volte. Dassi in questo modo, che la pestano molto bene e il succo di quella colano, e acciochè perda quel sapore di verde lo mescolano con un poco di zuccaro, e ne beono una scodella piccola a digiuno, la qual non è amara, e ancorchè non vi si metta dentro zuccaro over mele si può bere molto bene, perciochè molte volte li cristiani non hanno il zuccaro preparato da mescolargli; e a tutti quelli che la prendono è di gran giovamento e se ne lodano, il che alcuni non dicono delle nocciuole, qual prendono per purgarsi, delle quali parlando di purgazione mi son ricordato. Non debbe esser ciascuno sicuro a prender dette nocciuole, perchè si è visto che ad alcuni che le hanno prese hanno fatto poco utile né gli hanno purgati, e ad alcuni nello stomaco hanno fatta tanta corruzione che gli hanno posti in grandissimo pericolo della vita, e alcuni ne hanno morti: e però, perchè sono molto violenti, bisogna aver gran considerazione in prenderle. Queste nascono nell'isola Spagnuola e altre isole, ma in terra ferma non ne ho visto, né in fino a questa ora ho udito dire ve ne siano. Queste son piante le quali paiono quasi arbori, e fanno certi fiocchi colorati a modo di certi mazzetti, che escono da uno gambo come fanno li grani del finocchio, e in quelli nascono le dette nocciuole; le quali nel sapore sono migliori delle nostre di Spagna, dove di queste è gran notizia, e molti ne vanno cercando e trovansele molto utili.
Sonvi ancora altre piante, le quali chiamano aies, e altre che chiamano batatas, e l'una e l'altra si pianta delli proprii rami, li quali e le foglie tengono come la fegatella overo edera distesa per terra, ma non sono cosí grosse come le foglie della edera, e sotto la terra producono certe mazzocchie come navoni, overo carote. Le aie hanno il colore pagonazzo nero e azurro, le batates l'hanno piú in verso berrettino, e l'una e l'altra arrostite sono a mangiarle molto cordiali e dellicate, ma le batates sono migliori. Truovansi similmente melloni, li quali si seminano dagl'Indiani, e vengono tanto grandi quanto è un secchio e piú e alcuni maggiori, e alcuni tanto grandi che un Indiano con gran fatica lo porta in spalla; sono massicci, e di dentro bianchi e alcuni gialli, e hanno delicate semenze, quasi della forma di quelle delle zucche, e durano gran tempo dell'anno; e tengonsi per il principal cibo, e sono molto sani, e mangiansi cotti, fatti in sonde over fette come zucche, e sono migliori di quelle. Sonvi ancora zucche e melanzane che sono state portate di Spagna, e le melanzane sono molto bene riuscite, che si sono fatte grandissime, perchè un piede d'una melanzana è cresciuto tanto grande quanto è alto un uomo e molte volte piú, e communemente li rami delle piú alte arrivano alla cintura; e un medesimo piede o gambo fa frutto tutto l'anno, e vanno cogliendo sempre le minori, dietro le quali ne nascono dell'altre, e proseguendo danno di continuo frutto. Il medesimo fanno in quelli paesi gli aranci e fichi.
Sonvi frutti che si chiamano pigne, le quali nascono d'una pianta come cardi overo aloe, con molte foglie acute, piú sottili di quelle dell'aloe, maggiori e spinose; in mezzo del cespuglio nasce un rampollo tanto alto quanto la metà dell'altezza d'un uomo, poco piú o manco, e grosso come due deta, e in cima di quello nasce una pigna grossa poco manco della testa d'un fanciullo alcune, ma la maggior parte minori, e piena di squame di sopra, ma piú alta una che l'altra, come son quelle de' pignuoli; ma non si dividono né aprono, ma stansi intere queste squame sopra una scorza della grossezza di quella del mellone, e quando sono gialle, dopo ad un anno che si sono seminate, sono mature e da mangiare, e alcune sono mature avanti. E nel troncon di quelle alcune volte nascono a queste pigne uno o due rampolli, e continuamente uno nell'estremità della detta pigna, il quale rampollo, subito che si mette sotto terra, s'appicca, e in spazio d'un altro anno nasce di quel rampollo un'altra pigna, come è detto; e quel cardo nel qual la pigna nasce, dapoi ch'è stata colta, non è d'alcuna utilità né dà piú frutto. Gl'Indiani e li cristiani pongon queste pigne, quando le piantano, a filo come se fussero viti; e dà odore questo frutto piú che le cotogne, e una o due di queste rendono grato odor per tutta la casa dove sono poste. Ed è tanto soave frutto che credo che sia un de' migliori del mondo, ed è di delicato sapore, e paiano al gusto cotogne, e sono piú carnose che non sono le pesche, e hanno alcuni filetti come il cardo, ma piú sottili, e molto cattivo per i denti quando si continua a mangiarne; e sono molto sugosi, e in alcuna parte gl'Indiani fanno vino d'essi, quale è molto buono. Sono tanto sani che si danno agli ammalati, perchè eccitano l'appetito a quei che l'hanno perso.
Altri arbori sono nell'isola Spagnuola spinosi, che al veder niuno arbore né pianta si può veder piú salvatica né piú brutta, e dalla forma di quelli non saperia determinare se sono arbori o piante. Fanno alcune rame piene di foglie larghe e deforme e di molta brutta vista, le quali rame furno a principio foglie come l'altre, e di dette foglie fatti rami e allongatisi ne nascono altre foglie. Finalmente è tanto difficile a scrivere la sua forma che, a doverla dar ad intendere, saria bisogno dipingerla, acciochè col mezo della vista si potesse piú facilmente comprendere quello che la lingua manca in questa parte. Questo arbore o pianta è di gran virtú perchè, pestando le dette foglie molto, e distese a modo di uno impiastro sopra un panno, e legato sopra una gamba o braccio, ancorchè ella sia rotta in molti pezzi, in spazio di quindeci giorni la salda e congiunge come se mai non fosse stata rotta; infino che fa la sua operazione sta tanto attaccata questa medicina con la carne che è molto difficile a levarla via, ma subito ch'è guarito il male, e fatta la sua operazione, per se stessa si spicca dal loco dove fu posta, del qual effetto e rimedio se ne sono viste molte esperienzie per molti che l'hanno provato.
Sonvi ancora alcune piante che li cristiani chiamano platani, i quali sono alti come arbori e diventano grossi nel tronco come uno grosso ginocchio d'un uomo, overamente anco qualche cosa piú, e dal piede alla cima getta certe foglie longhissime e molto larghe, tanto che tre palmi o piú sono larghe e piú di dieci o dodeci palmi longhe, le quali foglie, quando sono rotte dal vento, resta intera la schiena del mezzo. Nel mezzo di questa pianta, nella parte piú alta, nasce un raspo con quaranta o cinquanta platani in circa, e ciascuno platano è tanto lungo quanto un palmo e mezzo e di grossezza del braccio appresso la mano, piú o manco secondo la bontà della terra che lo produce, perchè in alcune parti sono minori; e hanno una scorza non molto grossa e facile a rompere, e di dentro tutto è midolla, e levatane la scorza s'assimiglia alla midolla d'un osso di bue. E hassi a levar questo raspo dalla pianta quando uno delli platani comincia a parer giallo, e s'appicca in casa, dove si matura tutto il raspo con li suoi platani, ed è molto buon frutto: e quando s'aprono e levasi la scorza paiano fichi passi molto buoni, e sendo arrostiti nel forno sopra una teggia o altra simil cosa sono molto buoni e saporiti frutti, e par una conserva di mele, e d'eccellente gusto. Portansi per mare e durano qualche giorno, ma bisogna coglierli alquanto verdi; e nel tempo che durano, che sono quindici giorni o piú, paiono molto migliori nel mare che in terra, non già perchè nel navicar se gli accresca la bontà, ma perchè nel mar mancano l'altre cose che in terra avanzano, e ciascun frutto è lí piú in pregio e di miglior gusto.
Questo tronco over rampollo il quale ha fatto il detto raspo, tarda un anno a crescere e far frutto, nel qual tempo ha buttato intorno di sé dieci o dodici rampolli, e tali ne sono grossi come il principale, il qual multiplica non altrimenti che il principale in far li raspi con li frutti al tempo come in produrre altri e tanti rampolli, come di sopra è detto; dalli quali rampolli, subito che è levato il raspo del frutto, si comincia seccare la pianta, la qual secca levano di terra, perchè non fanno altro che occuparla in vano e senza alcuno profitto. E sono tanti e tanto multiplicano che è cosa incredibile; sono umidissimi, e quando alcuna volta gli sbarbano dal luogo donde gli hanno levati esce gran quantità d'acqua, sí della pianta come del luogo donde è uscita, in modo che par che tutta la umidità della terra si fusse adunata appresso il tronco e ceppo di tal pianta; del frutto della quale le formiche sono molto amiche, tanto che se ne vede intorno e sopra li rami gran moltitudine, di sorte che alcuna volta è intervenuto in alcune parti che, per la moltitudine delle formiche, sono stati forzati gli uomini a levar via li detti platani dalle loro possessioni, per non potergli difendere dalle dette formiche. Li frutti si truovano tutto l'anno.
Èvvi ancora un'altra pianta salvatica che nasce per li campi, la quale io non ho vista se non nell'isola Spagnuola, ancora che se ne truovi in altre isole e parti dell'Indie: e il nome loro è tunas. Nascono d'un cardo molto spinoso, il quale fa il frutto cosí chiamato, che pare fior di fichi overo fichi grossi. Hanno la corona come le nespole, e dentro sono molto colorite; hanno grani nel modo che hanno li fichi e la scorza come quella del fico, e sono di buon sapore, e truovansene li campi pieni in molte parti, e fanno questo effetto a chi gli mangia, che mangiandone due o tre o piú lo fa orinare orina di colore di vero sangue. Il che intervenne una volta a me, che avendone mangiato e andando ad orinare, alla qual cosa questo frutto molto incita, come viddi il color dell'orina entrai in tanto sospetto della vita che restai come attonito e spaventato, pensando che questo accidente mi fusse intervenuto per altra causa. E senza dubbio la imaginazione mi poteva causar gran male, se non che quelli che eran meco subito mi confortorono dicendomi la causa, perchè erano persone esperimentate e antichi di quel luogo.
Nascevi ancora uno rampollo, il quale gli uomini del paese chiamano bihaos, che getta alcuni rametti diritti e foglie molto larghe, delle quali gl'Indiani molto si servono in questo modo. Delle foglie cuoprono alcune volte le case, ed è molto buona materia per simile ufficio, e alcune volte quando piove se la mettono sopra la testa e difendonsi dall'acqua; fannone similmente certe ceste, le quali loro chiamano havas, per suo uso, molto ben tessute, e fra esse intertessono questi bihaos, la qual tessitura è tale che, benchè sopra queste ceste piova o caschino in qualche fiume, non però si bagna quello che vi è stato messo dentro. Le dette ceste fanno delli rami di detti bihaos, delli quali con le foglie ne fanno per servirsene per il sale e altre cose piú sottili, e sono molto ben fatte. Servonsi oltra di questo di questi bihaos in questo modo, che trovandosi in campagna e avendo carestia di vettovaglia, cavano le radici di questa pianta, pur che sia giovane, o mangiano la pianta medesima in quella parte che è piú tenera, la quale ha da piè sotto terra una parte tenera e bianca come il giunco.
Dapoi che siamo venuti al fine di questa relazione, mi occorre far menzione d'un'altra cosa che non è fuor di proposito, la quale è che gl'Indiani adoperano per tignere li panni di cottone, o altro che loro vogliono tignere di varii colori, quali sono nero, leonato, verde, azurro, giallo e rosso, le scorze e foglie di certi arbori, li quali loro conoscono esser buoni a questo essercizio, e fanno li colori in tanta perfezione ed eccellenzia che non si potria dir piú; e in una caldiera medesima, poi che hanno fatto bollire queste scorze e foglie, senza far altra mutazione fanno tutti li colori che vogliono; e questo credo che nasca dalla disposizione del colore che prima hanno dato a quello che vogliono tignere, o sia filo o sia tela tessuta quello che vogliono tignere in detti colori.
Diverse particolarità di cose.
Cap. LXXXII.
Molte cose si potrian dire, e molto differenti da quelle che sono state dette; e alcune altre che mi vengono a memoria, perchè non cosí interamente come sono e come si doverian dire mi sovengono, lascio di scriverle qui. Dirò adunque di quelle le quali piú a punto posso narrare, e prima d'alcuni piccioli animali fastidiosi, i quali per molestia degli uomini sono prodotti dalla natura, per mostrargli e fargli intendere quanto picciola e vil cosa basti a offenderlo e inquietarlo, acciochè non si scordi del suo fine principale per il quale fu creato, ch'è il conoscere il suo Fattore e procacciare di salvarsi, poichè cosí aperta e piana via ha il cristiano a farlo, e tutti gli altri che vogliono aprire gli occhi dell'intelletto. E se ben alcune di queste cose che diremo saranno vili, e non cosí nette e condecenti ad udirle come quelle che fino a ora sono state scritte, non sono però men degne da notare e avertire, per intendere le differenzie e varie operazioni della natura; e dico cosí.
In molte parti di terra ferma, per le quali passano li cristiani o Indiani, per esservi molte acque da passare, portano le brache sempre dislegate, donde nasce che dall'erbe si appicca a loro alle gambe certi animaletti, i quali chiamano garapates, che sono come zecche, talmente minute che il sale ben pesto non è piú; e tanto forte si appiccano che per modo alcun non se gli possono spiccare, se non con l'ungersi con olio, e doppo che alquanto stanno unte le gambe, overo le parti dove queste zecchette si son appiccate, se le radono con un coltello e cosí le levano; ma gl'Indiani che non hanno olio l'affumano e arrostiscono con il fuoco, e nel levarsele patiscono e sopportano gran pena.
D'altri animali piccioli che molestano gli uomini che nascono nella testa e per il corpo, dico che li cristiani che vanno a quelle parti rare volte ne hanno se non uno o due, e questo è anco rarissimo, perchè passato per la linea del diametro, dove il bossolo fa la differenza dell'andar per greco e per maestro, che è nel pareggio dell'isole degli Azori, pochissimo camino si fa seguendo il nostro viaggio per ponente, e tutti li pidocchi che li cristiani portano seco, overo generano per il capo e restante del corpo, si moiono, e nettansi di modo che non si veggono né appariscono, e si consumano a poco a poco; e nell'India non ne generano se non alcuni putti piccioli, di quelli che nascono in quelle parti figliuoli de' cristiani; e communemente tutti gl'Indiani naturali, se hanno simil cose, tutti gli hanno in capo e anco in altre parti, e massime quelli della provincia di Cueva, che è paese longo piú di cento leghe, e abbraccia l'una e l'altra costa del mar di Tramontana e d'ostro. Gl'Indiani si spulciano l'un l'altro, e quelli massime che fanno questo essercizio sono le femmine, e tutto quel che pigliano in questa sua caccia si mangiano, e sono tanto avezzi a questo che con difficoltà grande possiamo noi cristiani far che gl'Indiani che ci servono in casa non faccino il medesimo (parlo di quelli che sono della detta provincia di Cueva).
Qui è da saper una cosa grande, che sí come li cristiani di là sono netti di questa sporcheria dell'Indie, cosí in capo come nel resto del corpo, che quando voltiamo per venir in Europa e cominciamo ad arrivare in quel luogo nel mar Oceano, dove di sopra dicemmo che cessorono questi pidocchi, subito nel ripassar (come se in quel luogo ne fossero stati ad aspettare) non si possono per alquanti giorni fuggire, se ben l'uomo si mutasse di camicia due e tre volte il giorno: e sono minuti e piccioli come lendini, e se ben a poco a poco si partono, alla fine l'uomo torna ad averne alcuni, sí come prima in Spagna soleva avere, overo secondo che l'uno piú che l'altro è diligente a tenersi netto di tal bruttura, talchè si rimane né piú né meno come prima era. Questo ho io molto ben provato, avendo fino ad ora quattro volte passato il mare Oceano e fatto questo viaggio.
Fra gl'Indiani in molte parti di loro è molto cosa commune il peccato nefando contra natura, e quelli che sono signori e principali usano questa cosa publicamente, e tengono giovani con chi usano questo maladetto peccato, i quali giovani, sí come si danno a questo mestiero, subito si vestono di alcuni panni che si chiamano naquas, come fanno le femine, che è una mantellina corta di cottone che usano le donne dalla cintura fino al ginocchio; e di piú portano questi giovani maniglie fatte a modo di pater nostri, e tutte l'altre cose appartenenti alle femine, né piú se essercitano nelle cose dell'armi, e in fine non fanno piú mestiero alcuno che si convenga ad uomini, ma subito si danno alle cose famigliari di casa, come è spazzare, nettare, e simili novelle appartenenti a donne. Questi tali sono estremamente odiati dalle femine, ma essendo loro soggette molto alli loro mariti, non ardiscono parlar di loro se non qualche volta, overamente con li cristiani. Chiamano in suo linguaggio di Cueva questi tali pazienti camayoa, e quando fra loro Indiani si ingiuriano overo si vituperano, che sono effeminati e da poco, chiamano camayoa.
Gl'Indiani in alcune parti, sí come loro affermano, barattano e permutano le loro mogli, e sempre pare che colui faccia miglior guadagno nella permutazione che ne ha una piú vecchia, perchè le vecchie gli servono meglio che non sapriano le giovani.
Sono questi Indiani eccellenti nel far del sale d'acqua marina, e in ciò non cedono a quelli che nel ducato di Zilanda, propinquo alla terra di Mediolburgo, lo fanno, perchè quello degli Indiani è cosí bianco e ancora piú, ma è poi molto piú forte e di piú operazione e non si liquefa cosí presto. Io ho veduto l'uno e l'altro benissimo, e l'ho veduto fare all'uno e l'altro.
Ed è opinione di molti che in quelle parti vi debbino essere pietre preziose assai, non dico già della Spagna Nuova, perchè già se ne sono vedute lí alcune, e son state portate in Spagna e in Vagliadolit: l'anno passato, che fu 1524, stando lí vostra maestà, viddi uno smeraldo portato da Iucatan overo Nuova Spagna, che vi era intagliato di rilievo una faccia rotonda a foggia di luna, il quale fu venduto piú di quattrocento ducati d'oro. Però in terra ferma, cioè in Santa Marta, al tempo che vi giunse l'armata la quale il catolico re don Ferdinando inviò per Castiglia dell'Oro, io smontai in terra con alcuni altri, e si prese mille e piú pesi d'oro, e certi mantelli e altre cose d'Indiani, nelle quali si viddero smeraldi, corniole, iaspidi, calcedonie, zafiri bianchi. Tutte queste cose trovammo dove ho detto, e credesi che debbano venire da paesi infra terra, per contrattazione e commerzio che debbe avere altra gente con quelli di quel paese: perchè naturalmente gl'Indiani piú che altra nazione del mondo sono inclinati a contrattare e al barattare, e cosí da un paese vanno all'altro in barche, e dove è abondanzia di sale lo levano e conduconlo dove n'è carestia, e lo barattano con oro o veste o cottone filato, o con schiavi o con pesci o con altra cosa.
E nel Cenu, che è una provincia d'Indiani arcieri detti caribbi, che confina con la provincia di Cartagenia, ed è fra la detta provincia e la punta di Caribana, certa gente che vi mandò una fiata Pedrarias d'Avilla, governator di Castiglia dell'Oro per nome di vostra maestà, furono rotti, e ammazzarono il capitan Diego di Bustamante e altri cristiani: e questi trovorono lí molti cestoni della grandezza di quelli che vengono dalla montagna di Biscaia con pesci besugi, li quali erano pieni di cicale e grilli e cavallette; e dissono gl'Indiani che furono presi che gli teniano per portargli in altro paese di terra ferma, lontano dalla costa di mare, dove non hanno pesci, e hanno questi animali in gran prezzo per mangiargli; e diceano che per prezzo di queste cose aveano altre cose in cambio, delle quali questi alle marine hanno bisogno, e le stimavano molto, e quelli di là aveano gran quantità di cose che davano in cambio, over le contavano per prezzo delle dette cicale e grilli.
Delle minere dell'oro.
Cap. LXXXIII.
Questa particolarità di minere è molto cosa da notare, e posso parlarne io d'esse molto meglio che alcun altro, perchè già fan dodici anni che io servo per riveditore in terra ferma delle fucine da fondere l'oro, e governatore delle minere del catolico re don Ferdinando, il qual ora si gode nel cielo, e dopo lui per nome anche di vostra maestà; sí che per questa cagione ho veduto molto bene come si cava l'oro e si lavorano le minere, e so molto bene come è ricchissima quella terra, avendo fatto io cavar per mio conto l'oro alli miei Indiani e schiavi, e ciò posso affermare come testimonio di veduta.
Io so che in nessuna parte di Castiglia dell'Oro, che è in terra ferma, nessuno mi dimanderà di minera d'oro che io non m'obligassi a darle discoperte in spazio di dieci leghe di paese dove mi fussero addimandate, e le trovaria molto ricche, pur che pagato mi fusse il costo del cercarle, perchè, se ben per tutto si truova oro, non si debbe però cavare in ogni luogo. Questo è perchè in alcuna parte ne è meno che nell'altra, e la minera o vena che si debbe seguire debbe essere in luogo che si possi star alla spesa delle genti e altre cose necessarie, tal che se ne cavi per cercarle la spesa con guadagno, perchè del trovar oro nel piú delli luoghi, o poco o molto, non è dubbio alcuno; e l'oro che si cava in Castiglia dell'Oro è molto buono, ed è di ventiduoi caratti, e de lí in su anche ne è di miglior sorte. E oltra quel che è detto che delle minere si cava, che è gran quantità, s'è acquistato e di giorno in giorno s'acquistano molti tesori d'oro lavorato che erano in potere degli Indiani che abbiamo soggiogati, o che da sua posta ci si son dati, e da quelli che, o per taglia di prigioni overo come amici di cristiani, volontariamente ce l'han dato; di questa sorte ve ne è molto buono, ma la maggior parte di questo oro lavorato che hanno gl'Indiani è basso e tiene di rame. Si servono di questo per loro uso in molte cose, come è legarvi gioie e altre cose simili, le quali e gli uomini e le femine portano sopra le lor persone, ed è quel che ancor loro communemente apprezzano piú che cosa del mondo.
Il modo come si cava l'oro è questo, che o lo truovano in zavana, cioè in fiumi: zavana chiamano la pianura e campagne, e che sono senza arbori e la terra è rasa con erbe o senza. Truovasene nondimeno qualche volta in terra, fuora de' fiumi, in luoghi dove sono arbori, tal che bisogna, a chi ne vuol cavare, tagliargli, e cavar molti e grandi arbori. Ma in qualunque di questi duoi modi si truovi, o in fiume o in rottura d'acqua o pure in terra, dirò di tutte e due le maniere quel che accade e che per trovarlo si fa. Quando alcuna fiata si scuopre la minera o vena dell'oro, questo è cercando e provando nelli luoghi che a quegli uomini minerali ed esperti in tal mestiero pare che le possino trovare. E se lo truovano seguono la mina e lavoranla, o sia in fiume overo in zavana, come è detto; e se è in zavana, prima nettano benissimo quel luogo dove vogliono cavare, e poi cavano otto o dieci piè per lungo e altre tanto per largo, ma sotto non van piú che un palmo o duoi, sí come al maestro della minera pare, ed egualmente cavando lavano tutta quella terra che han tratto dello spazio detto.
E se in quella trovano oro seguono, e se non, allora affondano un altro palmo e lavano la terra al modo medesimo che di sopra fecero, e se parimente non ne truovano vanno affondando e lavando la terra fin che aggiungono al sasso vivo; e se fin lí non trovano oro non curano piú di seguire né cercarlo piú in quel luogo, ma vanno ad un'altra parte.
È da sapere che quando lo truovano vanno cavando a quella misura e livello senza fondar piú che lo hanno trovato, finchè forniscano tutta la minera, la qual possiede quello che la truova, se gli pare che la sia ricca. Questa minera debbe essere di certi e piè o passi per il lungo e per il largo, secondo certi ordini li quali son già stati determinati, e in questo spazio di terreno niuno altro può cavare oro; e dove finisce la minera di quel che prima trovò l'oro, immediate a canto di quelli può ciascuno altro che vogli segnare con bastoni o pali, per mostrare che la mina seguente sia sua.
Queste minere di zavana, over trovate in terra, si debbono sempre cercar propinque ad un fiume o torrente, overo ruscel d'acqua o laghetto o fonte, acciochè si possi lavar l'oro, perchè si menano alcuni Indiani a cavar la terra, il che chiamano loro scopetare, e cavata che l'hanno empiono bateas di terreno; e altri Indiani hanno poi l'impresa di portar le dette batee di terra fino all'acqua dove si debbe lavarla, la quale non lavano quelli che portano, ma tornano a pigliarne dell'altra, e quella che han portato lasciano in altre batee, che quelli che lavano tengono in mano; e questi lavatori per il piú son femine indiane, perchè è mestiero d'assai minor fatica che gli altri. Queste femine si stanno a sedere alla riva dell'acqua, e tengono li piedi nell'acqua quasi fin alle ginocchia o poco meno, secondo il luogo dove s'acconciano, e tengono con le mani la detta batea per li manichi, e movendola, quasi crivellando e mettendovi dentro acqua, e con gran destrezza facendo in tal modo che non entri nelle batee piú acqua di quello che hanno bisogno, e con la medesima destrezza la getta fuori, la qual, uscendo a poco a poco, seco anche ne porta la terra della detta batea, e l'oro resta in fondo d'essa. La qual batea è concava, e della grandezza d'un bacino da barbiere e di tanta profondità. E dapoi che tutta la terra è gettata fuora e l'oro adunato nel fondo della batea, lo pongono da parte e tornano a pigliar dell'altra terra e lavanla come è detto, e cosí lavorando ciascuno che lava e fa questo mestiero cava ogni giorno quel che Iddio gli dà che si cavi, e secondo che piace a sua maestà che sia la ventura del padrone degl'Indiani e altri che fanno questo esercizio. Ed è da notare che per ogni duoi Indiani che lavan bisogna che duoi gli servino per portar la terra, e duoi altri che cavino e rompino ed empino le dette batee da servizio, perchè cosí si chiamano le batee nelle quali portano la terra fin a quelli che la lavano; e oltra di questo è di bisogno che vi sia altra gente nelli luoghi dove gl'Indiani abitano e vansi a riposar la notte, la qual gente fa il pane e altre vettovaglie, delle quali e loro e quelli che lavorano abbino a mangiare, sí che a una batea almeno per l'ordinario sono in tutto cinque persone.
L'altra foggia di lavorar la minera in fiume over torrente d'acqua si fa altrimenti, ed è che, gettando l'acqua fuora del suo corso, dapoi che è secco il letto del fiume e hanno xamurato, che in lingua delli minerali vuol dire votato, perchè xamurare è proprio cavar fuori fino all'ultimo, truovano l'oro tra li rottami delle pietre o fessure, e tra tutto quello che è in fondo del canale e dove naturalmente corre il fiume, tal che accade alcune volte, quando il letto del fiume è buono e ricco, che si truovano gran quantità d'oro in esso; per il che vostra maestà debbe sapere per una massima, e cosí in fatto appare, che tutto l'oro nasce nelle cime e nel piú alto delli monti, e le pioggie a poco a poco con lunghezza di tempo lo portano seco al basso, per li rivi e torrenti che nascono dalli monti, non obstante che molte volte se ne truova nelle campagne e pianure lontane assai da' monti. Ma quando accade che se ne truovi gran quantità, per la maggior parte però si vede essere fra monticelli e nelli fiumi overo rami d'acqua, piú che per altri luoghi del piano. Cosí adunque a questi duoi modi si cava oro.
In confirmazione che l'oro nasce nell'alto e venghi al basso, se n'ha un grande indicio che ce lo fa credere per certo, ed è questo. Il carbone mai si putrefa né si corrompe sotto terra, quando è di legno forte, onde accade che, lavorandosi la terra per le falde de' monti, overo intorno o d'altra banda, e rompendo una minera in terra, dove piú sia rotto, e avendo affondato una o due o tre pertiche di misura o piú, vi si truovano alcuni carboni di legne sotto nel livello che truovano l'oro, e avanti ancor che truovino il livello, dico nella terra che si tiene per terra vergine, cioè che piú non sia stata lavorata per minera, e che si voglia rompere e cavare. Li quali carboni non vi possono né entrare né nascere naturalmente, ma quando la superficie della terra era al livello e al segno al quale si truovano li carboni, ed essendo stati menati dall'acqua dalli luoghi alti, si fermarono lí, e per le pioggie spesse, per spazio di tempo, come si debbe credere, furono coperti di terra, fin tanto che per transcorso d'anni è cresciuta la terra sopra li carboni fin a quella misura o quantità che al presente si lavorano le minere, che è della superficie della terra, fin là dove si trovano li detti carboni e l'oro insieme.
Oltra di ciò dico che, quanto piú si truova scorso l'oro dal suo nascimento infino al luogo che si truova, tanto piú è purificato e netto e di miglior caratto, e quanto piú si truova vicino alla minera o vena dove è nato, tanto piú si truova brutto e basso e crudo, e di piú bassa lega e caratto, e tanto piú si diminuisce nel fonderlo e resta piú crudo. Alcune volte si truovano grani grandi d'oro e di molto peso sopra la terra, e tal volta anche sotto terra. Il maggior di tutti quelli che fino a oggi in queste Indie s'è trovato, fu quello che si perse nel mare intorno all'isola della Beata, che pesava tremila e dugento castigliani d'oro, che vagliono quattromila e centotrentaotto ducati d'oro in oro, che pesano una arrova e sette libbre, o veramente libbre trentadue d'onze sedici l'una, che sono sessantaquattro marche d'oro; ma altri molti si sono trovati, benchè non di tanto gran peso. Io viddi nell'anno 1515 in man di Michel Passamonte, tesoriero di vostra maestà, duoi grani, delli quali l'uno pesava sette libbre, che sono quattordici marche, che vagliono circa ducati sessantacinque d'oro la marca; e l'altro di dieci marche, che sono cinque libbre di simile valore, e di molto buon oro di ventiduoi caratti o piú.
E poi che qui parliamo dell'oro, mi pare che prima che si vada piú avanti e che si parli d'altre cose diciamo come gl'Indiani san tanto ben dorare li vasi di rame e oro molto basso che loro fanno, e li san dare tanto bel colore e acceso che pare che tutta quella massa che dorano sia di ventidue caratti e piú; il qual colore dan con certa erba tale che, se fusse dagli orefici di Spagna o d'Italia o d'altro luogo nel quale piú esperti se ne trovano, si potria tener per molto ricco quando sapesse questo secreto o maniera del dorare. E poichè delle minere abbiamo detto assai minutamente la verità e particolarità del cavar dell'oro, in quel che appartiene al rame dico che in molte parti delle dette isole e terra ferma di queste Indie s'è trovato e ogni giorno si trova gran quantità di rame, che tiene alquanto dell'oro; pur non curano di rame molto né lo cavano, e avenga che 'n altri luoghi saria grande il tesoro e utilità che del rame si potria avere, ma avendo oro non si curan di rame né d'altro metallo, né lo cavano. Ma l'argento è molto buono, e molto se ne trova nella Spagna Nuova. Per tanto, come al principio di questo trattato dissi, io non parlo in cosa alcuna di quella provincia, per ora, perchè il tutto è narrato e scritto per me nella General istoria dell'Indie.
Delli pesci e del modo del pescare.
Cap. LXXXIIII.
In terra ferma i pesci che vi sono e che ho visti sono molti, e anco molto differenti, e perchè di tutti non saria possibile a narrare, dirò almeno d'alcuni; e primamente dirò che vi si trovan alcune sardelle larghe, con la coda vermiglia, delicatissimo pesce e de' migliori che si trovano, moxarre, diahace, arbori pesci, dahaos, raze, salmoni: tutti questi, e altri molti de' quali non mi ricordo, si pigliano ne' fiumi in grande quantità, e parimente pigliansi gamberi buonissimi. Ancora similmente nel mare si trovano alcuni de' sopranominati, e palamite e sfoglie e suri e lizze e polpi e orate, e chieppe molto grandi, e locuste e xaybas, ostreghe e testudini grandissime, e tiburoni molto grandi, manaties e murene, e molti altri pesci, di tanta diversità e quantità d'essi che non si potria esprimere senza molta scrittura e tempo. Però solo in particolar dirò qui, e dirò alquanto diffusamente, quel che aspetta a tre sorti di pesci di sopra nominati: la prima è testudine, la seconda tiburon, il terzo è manatie.
E incominciando dal primo, dico che nell'isola di Cuba si trovano cosí grandi testudini che dieci o quindeci uomini bisogna a cavarne una d'esse fuori dell'acqua: questo ho udito io dire nella medesima isola a tante persone degne di fede, ch'io la tengo per cosa certissima. Ma di questo ch'io di veduta posso testificare, è che in terra ferma si pigliano e ammazzansi di queste nella villa d'Acla tanto grandi che sei uomini con gran fatica levavano una di queste, e communemente le minori son per una grossa carica di due uomini. Quella che viddi levar a sei uomini avea la sua coperta o scorza per il longo sei palmi di braccio, e per il traverso piú di cinque. Li modi del pigliarle son questi: alcuna volta accade che si trovano nelle gran reti, che si chiamano da tratta, alcune testudini, ma delle communi però in grande quantità, e questo aviene quando escono fuori del mare e partoriscono le ova, e insieme van pascendosi per le spiaggie a marina. E subito che i cristiani overo Indiani s'abbattono alle sue pedate trovate nell'arena, la seguono, e se la trovano quella subito fugge verso il mare. Ma perchè la testudine è grave, subito l'aggiungono con poco fatica, e mettono un palo sotto le zampe e voltanla con la schiena in giú sí come vanno correndo, e la testudine si sta in modo che non può tornare a dirizzarsi, e lascianla star cosí, seguendo le pedate di qualche altra, e se la trovano fanno il medesimo: e a questo modo ne pigliano molte, al tempo, come s'è detto, quando escono del mare. È veramente eccellente pesce, sano e di molto buon sapore.
Il secondo pesce che di sopra s'è detto delli tre, è il tiburon. Questo pesce è molto grande e molto leggiero in acqua, e molto gran beccaio crudele, e pigliansene assai cosí andando le navi alla vela per l'Oceano come stando surte sull'ancore overo altro modo, e massime li piccioli. Li maggiori si pigliano quando fanno le navi cammino, a questo modo: quando il tiburone vede le navi, le segue notando e vagli dietro, e mettesi tra loro per mangiar tutte le cose sporche che sono gettate nel mare dalli marinari; e vadino a vela pur con quanto gagliardo vento possono, e con quanta velocità possono desiderare, sempre questo pesce gli va a pari, e sta sul volteggiare molte volte intorno alle navi, e seguele alcuna volta cento e cinquanta leghe e piú, e cosí potria seguitar quello che volesse. E quando lo vogliono pigliare, gettano per poppa della nave un amo di ferro come uno deto grosso, incatenato e longo tre palmi, torto come sono gli ami; e gli suoi uncini ha a proporzione della grossezza, e in capo del manico ha attaccato quattro o cinque anelli di ferro grossi, legati poi ad una fune grossa due o tre volte ad esso amo, al quale appiccano per esca un pezzo di qualche pesce o carne di porco, overo carne di qualche altra sorte, overo budelli e interiori di tiburone, se per sorte ne hanno presi (che può agilmente essere, perchè n'ho veduti prendere in un dí ben nove, e se n'avessero voluti pigliare piú ancora, piú ne averiano presi). Ora il detto tiburone, per gran viaggio che la nave faccia, lui la segue gagliardamente e inghiotte lo amo, e per lo sbatter suo volendo fuggire, e per la gran furia che mena la nave, lo amo gli attraversa e passa ed esce fuori con la ponta per una delle mascelle; e preso che è, è tanto grande che bisogna dodeci o quindeci uomini a tirarlo dell'acqua e tirarlo alla nave; e tirato che l'hanno uno de' marinai gli dà molti colpi con un martello in su la testa, e lo finisce d'uccidere. La longhezza loro è alcuna volta di dieci o dodeci piedi, e per il largo, dove sono piú grossi, sono cinque e sei e sette palmi. Hanno la bocca molto grande, a proporzione del restante del corpo, con due ordini di denti separati l'uno dall'altro alquanto, molto spessi e fieri. E fornito che l'hanno d'ammazzare, lo taglion in pezzi sottili e lo pongono a seccare per duoi e tre giorni e piú, attaccato alle sarte della nave al vento, e dapoi lo mangiano. Certo è buon pesce, e di grande utilità per le navi per molti giorni per sue vettovaglie, per esser grande. Li minori però son piú sani e piú teneri. È pesce con la pelle, ma simile alle squatine, alle quali il detto tiburone s'assimiglia e par molto simile vivo: e questo dico perchè Plinio non pose alcuno di questi tre nel numero de' pesci, nella sua istoria naturale, che si vegga. Questi tiburoni escono del mare ed entrano nelli fiumi, e in essi non sono men pericolosi che li lacerti grandi, delli quali a dietro largamente s'è narrato, perchè né piú né meno li tiburoni mangiano gli uomini e le vacche e li cavalli, e sono molto pericolosi nelli luoghi dove li fiumi si guazzano e dove altra volta abbino mangiato.
Altri pesci molti e molto grandi e piccoli e di molte sorti si veggono dietro a navi che vanno a vela, delli quali dirò dopo che averò scritto del manati, che è il terzo delli tre che di sopra promessi dire. Il manati è un pesce di mare delli grandi, e molto maggiore che il tiburone nel lungo e nel traverso, ed è brutto molto, talchè pare un otro grande, di quelli che si porta il mosto in Medina del Campo, overo Arevalo. La testa di questo animale è come d'un bue, con gli occhi parimente simili, e ha come duoi zocchi grossi in luogo di bracci, con li quali nuota; è animale molto mansueto, e vien sopra l'acqua fin propinquo al lito, e se in quello può arrivare a qualche erba che sia nella costa in terra, se la mangia. Li balestrieri ne uccidono assai, e parimente ancora molti altri buoni pesci, con sua balestra andando in una barca overo canoa. E questo perchè li detti pesci vanno notando quasi sopra dell'acqua, talchè quando lo veggono gli tirano con un passatoio, con un uncino legato ad una fune assai sottile ma alquanto forte; il pesce se ne va fuggendo, e il balestriero li prolunga la fune a poco a poco, talchè ne lascia molte braccia, e nel fine della fune è legato un sughero o palo; e dopo che è andato un pezzo tingendo del suo sangue il mare, e che si sente mancare e vicinare a sé il fin di sua vita, s'appropinqua alla spiaggia overo costa. Il balestriero va raccogliendo la fune, e dapoi che gli è restato distante sette o otto braccia, poco piú o meno, va tirandolo in verso terra, e cosí il pesce s'avicina tanto che giunge a terra, e l'onde del mare l'aiutano ad appressarsi piú; e allora il detto balestriero, con altri che l'aiutano, forniscono di condurlo in terra, e per levarlo di là e condurlo alla città o vero dove lo vogliono partir bisogna una carretta con un buon paio di buoi, e alle volte non bastano, che ne bisognano piú, secondo che son grandi piú l'un che l'altro. Questo pesce alcune fiate, senza tirarlo nel lito, se lo levano nella barca, perchè subito che è finito di morire se ne viene sopra acqua. E credo che sia delli migliori pesci al gusto del mondo, e che piú s'assomigli alla carne: e in tanto al vederlo s'assomiglia al bue, che chi non l'ha veduto intero, vedendolo quando è tagliato in pezzi, non saprà che credere, cioè se è bue o vitello, e di certo ogniun crederà che sia carne, e in questo s'ingannariano tutti gli uomini del mondo. E parimente il sapor suo è di buonissimo vitello, e la salata sua è eccellente e dura gran tempo; né a modo alcuno è simile a questo il varolo di queste parti. Questo manati ha una certa pietra o vero osso nella testa, dentro al cervello, la quale è molto appropriata al mal della pietra, la quale s'abbrucia e macina sottilmente in polvere, e si piglia questa polvere quando la doglia si sente la mattina a digiuno, tanto quanto potria star sopra un quattrino, con un fiato di buon vino bianco; e toltola tre o quattro mattine s'acquieta la doglia, secondo alcuni che l'hanno provato e me l'han detto. E io, come buon testimonio di veduta, affermo aver veduto cercare questa pietra con gran diligenzia molti, per l'effetto che è detto.
Altri pesci vi sono poi, cosí grandi come questi manati, che chiamano pesce vihuella, che porta nella cima del corpo una spada che d'ogni banda è piena di denti molto acuti, la qual spada è d'una certa cosa natural sua molto dura e forte, ed è lunga quattro o cinque palmi, e a questa proporzione è la sua grossezza. Chiamasi questo pesce pesce spada, e truovasene delli piccoli quanto una sardella, e di grandi tanto che dua paia di buoi arebbero fatica a tirarlo sopra una caretta. Ma poi che mi son obligato di sopra a dir degli altri pesci che si pigliano per il mare andando alla vela, non voglio scordarmi della tonnina, la qual è un grande e buon pesce, e uccidonsi con foscine e uncini gettati in acqua quando passano intorno alli navili; e similmente pigliansi molte orate, che è un pesce delli buoni di tutto il mare.
È da notare che nel grande Oceano una cosa è, la quale affermeran tutti quelli che sono stati all'Indie, ed è che, sí come in terra sono provincie, alcune fertili, alcune sterili, il simile accade nel mare, tal che alcune fiate li navili corrono e cinquanta e cento e dugento leghe e piú senza poter pigliar un pesce o vederlo, e poi in altra parte del medesimo mare Oceano si vede tutta l'acqua buligare di pesci, e pigliansi di loro assaissimi. Soccorremi di dire d'un volare di pesci che è cosa bella a vedere, ed è cosí: quando li navili vanno per il gran mare Oceano seguendo suo viaggio, si sollevano dall'una e l'altra banda molte compagnie d'alcuni pesci, delli quali il maggiore è come una sardella, e da quella in giú si van minuendo, tal che ve ne sono di molti piccoli; e questi si chiamano pesci volatori. Levansi a schiere, e in tanta moltitudine che è un stupore a vedergli; alcune volte levansi pochi, e (come aviene) con un volo vanno a buttarsi cento passi lontano, e tal volta piú o manco, e tal ora caggiono nelli navili. Mi ricordo io che, stando una sera la gente tutta nella nave inginoccioni cantando la Salve Regina, nella piú alta parte del castello da poppa passò una certa banda di questi pesci volatori, e noi andavamo con vento buono scorrendo, e molti di questi pesci caddero nella nave: tra gli altri duoi o tre dettero in nave appresso me e gli presi vivi nelle mani, tal che molto ben gli potei vedere. Erano grandi come sardelle e di quella grossezza, e dalle guancie usciano due ale overo due penne, simili a quelle con che nuotano tutti li pesci di queste bande per li fiumi, lunghe come era tutto il pesce; e queste son le sue ale, e fin tanto che queste ale non s'asciugano nell'aere, dopo che son saliti dall'acqua, sempre possono sostenersi in alto; però, subito che son asciutte, che al piú è nello spazio overo tratto che ho detto, cascano in mare, e poi tornano a levarsi e fanno il medesimo, overo si fermano.
Nell'anno 1515, quando la prima volta venni a informare vostra maestà delle cose dell'Indie, e subito l'anno seguente che fui in Fiandra, nel tempo della sua ben fortunata successione in questi suoi regni d'Aragona e di Castiglia, e in quel viaggio veleggiando io con la nave sopra l'isola Bermuda, che altrimenti si chiama la Garza, la quale è la piú lontana di tutte l'isole che oggi si sappia nel mondo, e arrivai lí, tanto che stavamo in otto braccia d'acqua e lontani un trarre d'artiglieria, fui deliberato mandar in terra alcun della nave per saper quel che era lí, e insieme per far lasciar in quella isola alcuni porci vivi, di quelli che io portavo nella nave per viaggio, afin che multiplicassero. Ma il tempo saltò subito contrario e fece che non potemmo toccare la detta isola, la qual può essere di lunghezza di dodici leghe e di larghezza sei, e volge di circuito trenta leghe, ed è in trentatre gradi dalla banda di settentrione. Stando lí appresso viddi un contrasto di questi pesci volatori e delle orate e degli uccelli coccali e folighe, che in verità mi pareva cosa del maggior sollazzo che potessi avere: le orate andavano a pelo d'acqua, e alcune volte mostrandogli le spalle, e facevano levare questi pesci volatori fuora d'acqua per mangiarsegli, e questi fuggivano a volo, e le orate seguivano dietro loro notando dove cascavano; dall'altro canto li coccali e folighe nell'aria pigliavano molti di quelli pesci volatori, di modo che né nell'aere né nell'acqua stavano sicuri.
Questo medesimo pericolo tengono gli uomini nelle cose di questa vita mortale, che nessuno sta sicuro, né in alto stato né in umile: e questo solo doveria bastare a far che gli uomini si ricordassero di quello sicuro riposo che tiene apparecchiato Iddio per quelli che l'amano, il quale acqueta li travagli e fatiche del mondo, nel quale cosí pronti e apparecchiati stan li pericoli, e li ripone alla vita perpetua, nella quale si truova eterna sicurtà. Tornando alla mia istoria, questi uccelli che ho detto erano dell'isola Bermuda, e lí intorno viddi questo volare di pesci, perchè questi uccelli non s'allargano molto da terra, né potriano essere d'alcuna altra terra.
Del pescar delle perle.
Cap. LXXXV.
Dapoi che abbiam detto d'alcune cose che non son di tanto valore o prezzo come sono le perle, ragione mi pare che ora si dica come le dette si pescano, ed è cosí. Nella costa di settentrione, in Cubagua e Cumana, che sono luoghi dove costoro per il piú s'essercitano, sí come a pieno io fui informato dagl'Indiani e da' cristiani, dicono che partono di quella isola di Cubagua molti Indiani, che abitano in case di signori particolari, abitatori di San Domenico e San Giovanni; e in una canoa over barca se ne vanno la mattina, quattro o cinque o sei o piú, e dove gli pare o sanno che vi sia quantità di perle, e lí si fermano nell'acqua e si tuffono in acqua di sotto a nuoto, finchè giungono in fondo; e resta uno nella barca, il qual la tiene ferma quanto può, aspettando che venghino di sopra quelli che sono entrati nell'acqua. E cosí, doppo che l'Indiano è stato un buon spazio di tempo in fondo, vien di sopra e notando viene alla sua barca, entrandovi dentro e ponendovi tutte l'ostreghe che ha prese e seco portate, perchè nell'ostreghe si truovano le dette perle; e lí si riposa alquanto e alquanto mangia, e doppo ritorna nell'acqua e vi sta fin che vi può durare, e ritorna di sopra con quel che ha pescato, riponendolo nella barca come prima; e in questo modo fanno il medesimo tutti gli altri, che son notatori bonissimi a questo mestiero. E quando sopraviene la notte, e che gli par tempo da riposare, se ne ritornano all'isola a casa sua e consegnano l'ostreghe tutte al maestro di casa del suo signore, che tiene carico di detti Indiani; e costui gli fa dar mangiare, e ripone in salvo le dette ostreghe. E quando ne ha quantità, fa che loro le aprano, e in ciascuna d'esse truovano le perle, o grande o picciole, due o tre o quattro, e tal volta cinque e sei e molti piú grani, sí come la natura ve li ha posti. E le perle grandi e minute che truovano salvano, e l'ostreghe, se vogliono, o le mangiano overo le gettano via, avendone tante che quasi le aborriscano; e quel che avanza di dette ostreghe tutto gli viene a fastidio, tanto piú che l'ostreghe sono molto piú dure, e non cosí buone a mangiare come quelle di Spagna.
Questa isola di Cubagua ove si usa questo modo di pescare, è nella costa di tramontana, e non è maggior isola di Zilanda, ma è quasi a punto cosí grande. Molte volte che il mar cresce assai, e piú di quello che li pescatori delle perle vorriano, e anche perchè naturalmente, quando l'uomo sta sotto acqua ove sia molto fondo (sí come io l'ho molto ben provato), li piedi se li levano all'insú, tal che mal agevolmente possono stare in terra nel fondo dell'acqua per lungo spazio, a questo vi proveggono gl'Indiani benissimo con l'assettarsi alla schiena duoi sassi, un per canto, legati con una fune; e l'uomo sta nel mezzo, e con questi si lascia gir al fondo, ed essendo li sassi assai gravi, lo fan stare nel basso fermo. Quando gli pare e vuole tornar di sopra, con poca fatica può dislegar le pietre e uscirsene a suo piacere. Questo che ho detto non è però quello che debbe far maravigliare la gente della agilità che hanno gli Indiani nel fare questo esercizio, ma questo è che molti di loro stanno nel fondo d'acqua un'ora, e alcuni piú e alcuni meno, secondo che uno è piú atto a questa cosa che l'altro.
Un'altra cosa mi occorre che è grande, ed è che, dimandando io molte volte ad alcuno di quelli signori indiani che vanno ancora loro a pescare che, essendo il luogo ove si pigliano queste perle assai piccolo, si doverebbe in breve consumar tutte l'ostreghe, pigliandosene tante, tutti mi risposero che, se ben si consumava in una parte, che s'andava a pescare in un'altra, all'altra costa dell'isola overo all'altro vento contrario; e che fin tanto anche che quel si finiva, tornavano poi al primo luogo, overo ad alcuna di quelle parti ove prima era stato pescato, e lasciate per esser state vote di perle, che le trovavano cosí ben piene come se mai vi fusse stata pescata cosa alcuna. Dal che si può comprendere e giudicare che queste ostreghe o si muovono d'un luogo ad un altro come gli altri pesci, overo che nascono e si augumentano e si producono in luogo ordinario. Questa isola di Cumana e Cubagua, ove si pescano queste perle che ho detto, è in dodici gradi dalla parte della detta costa che guarda alla tramontana.
Parimente si trovano e pigliansi perle nel mar del Sur assai grosse, ma molto piú grosse nell'isola delle Perle, la quale gl'Indiani chiamano Terarequi, ed è nel golfo di San Michele; e sonvisi già prese perle maggiori assai e di maggior prezzo che in quest'altra costa di qua del mar del Nort, in Cumana o in alcuna sua parte. Dico questo come vero testimonio di veduta, per essere stato io in quelli mari meridionali, e per essermi minutissimamente informato di tutto quel che appartiene al pescar delle perle. Da questa isola di Terarequi è venuta una perla di trentaun caratto di peso, la qual ebbe Pedrarias fra mille e tanti pesi d'altre perle, la qual s'ebbe quando il capitano Gasparo di Morales (prima che 'l detto Pedrarias) passò alla detta isola dell'anno 1515, la qual perla fu di grandissimo prezzo.
Nella medesima isola venne ancora una perla rotondissima che io portai da quelli mari, grande come una pallotta piccola d'arco, e di peso di ventisei caratti: e la comperai nella città di Panama nel mar del Sur per secento e cinquanta pesi di buon oro, e tennila tre anni in mio potere; e dapoi la tornata mia in Spagna l'ho venduta al conte di Nansao, marchese de Zenete, gran camarlingo di vostra maestà, il qual la donò alla marchesana di Zenete, la signora Menzia di Mendozza, sua consorte. Questa perla credo io per cosa certa che sia delle maggiori, o per dir meglio la maggior, di tutte quelle che in queste parti si son vedute, e piú rotonda che sia, perchè debbe sapere vostra maestà che nella costa del mar del Sur piú presto si trovano cento perle grandi di forma di pera che una rotonda e grande.
Questa detta isola di Terarequi, che li cristiani chiamano isola delle Perle, e altri la chiamano isola di Fiori, si truova in otto gradi alla banda australe di terra ferma, nella provincia di Castiglia dell'Oro. In queste due parti che si è detto, dell'una e l'altra costa di terra ferma, sono li luoghi ove fin a ora si pescan le perle. Ho saputo ancora però che nella provincia e isole di Cartagenia son perle. E poichè vostra maestà mi comanda che io vade lí a servirla per suo governatore e capitano, io ho pensato di farle cercare, e non mi maraviglio punto che vi se ne truovino similmente, perchè quelli che questo mi han detto non parlano se non per udita dalli medesimi Indiani di quel paese, li quali l'hanno mostre alli cristiani nel porto e terra del cacique Carex; il quale è il primo della isola di Codego, che è alla bocca del porto di Cartagenia, che in lingua indiana si chiama Coro, la qual isola e porto è alla banda del nort, alla costa di terra ferma in dieci gradi.
Dello stretto e cammino che si fa dal mare del Nort, cioè tramontana, a quello del Sur, cioè mezzodí.
Cap. LXXXVI.
È stata opinione tra li cosmografi e pilotti moderni e persone che hanno pratica delle cose di mare, che sia uno stretto d'acqua dal mar austral, over del Sur, al mar di Tramontana in terra ferma, qual però non si è trovato né visto fin a ora. E lo stretto che vi è, noi che siamo stati in quelle parti piú presto crediamo che sia di terra che d'acqua, perchè la terra ferma in alcune parti è molto stretta; e in tanto che gl'Indiani dicono che dalle montagne della provincia d'Esquegua overo Urraca, che sono fra un mare e l'altro, andandovi uno uomo in cima e guardando alla parte di tramontana, vede l'acqua e mar di Tramontana della provincia di Beragua, e voltandosi all'opposito alla parte di mezzodí, si vede il mar e costa del Sur, e provincie che confinano con quello, che è di quelli duoi caciqui o signori delle dette provincie d'Urraca ed Esquegua.
Ben credo io che, se questo è cosí come dicono gl'Indiani, che di quello che fin al presente si sa questo sia il piú stretto di terra ferma, e secondo che alcuni dicono è adoppiato di montagne aspere. Ma io non l'ho per miglior cammino, né cosí breve come è quello che si fa dal porto nominato Nome di Dio, qual è nel mar di Tramontana, fino alla nuova città di Panama, che è nella costa e sopra la riva del mar del Sur; il qual cammino similmente è molto aspro, e pien di molte montagne e molto alte, con molte valli e fiumi e con monti asperrimi, pieni di boschi foltissimi e molto difficili a passargli, che senza gran travaglio non si posson passare.
Alcuni mettono per il cammino di questa parte da mar a mar diciotto leghe, e io lo fo piú di venti buone, non perchè il cammino possi essere piú di quello che è detto, ma perchè è molto cattivo, come è di sopra detto. E questo viaggio l'ho fatto io ben due volte a piè, e fo dal porto o villa detta del Nome di Dio fino al cacique di Ivanaga, che ancora si chiama di Capira, otto leghe, e di qui fino al fiume Chagre altre otto, ancora che sia maggior camino quello di questa seconda giornata, tal che fin a questo fiume fo sedeci leghe, e qui si finisce l'asperità del camino. Di qua poi fino al ponte Ammirabile son due leghe, e doppo il detto ponte sono due altre leghe fin al porto di Panama, talchè in tutto son venti al mio giudicio. Si che, essendo io andato tanto e tanto peregrinato per il mondo, e avendo tanto veduto d'esso come ho, non è maraviglia che io affermi la mia opinione di questo cosí breve camino come quel che io ho detto che è dal mar di Tramontana a quello di Mezzodí.
Se si troverrà (sí come speriamo in Dio) la navigazion delle speziarie, e che si conducano al detto porto di Panama, come è assai possibile (volendo Dio), di là poi agevolmente si può passare a questo mare di Tramontana, non obstante le difficultà del camino di queste venti leghe di sopra dette. E ciò affermo come uomo che molto ben ha veduto quel paese, e che ben due volte con li suoi piedi vi è passato, dell'anno 1521.
È da sapere che è una facilità maravigliosa a condur le specierie nel modo che ora dirò: da Panama fin al fiume Chagre son quattro leghe di molto buono e acconcio camino, per il quale a piacere a piacere vi possono andare le carette cariche, perchè, se ben vi è qualche montata, è però piccola, e la maggior parte di queste quattro leghe è pianura netta d'arbori. Arrivate che sono le carette al detto fiume, lí si potrian le specierie caricare in barche e spinazze; il qual fiume entra nel mar di Tramontana 5 o 6 leghe piú a basso del porto del Nome di Dio, e sbocca vicino ad una isola chiamata del Bastimento, dove è buonissimo e sicurissimo porto. Guardi vostra maestà che maravigliosa cosa e che gran commodità è per fare quanto si è di sopra detto, perchè questo fiume Chagre, nascendo sol due leghe lontan dal mar d'austro, viene però a metter capo nell'altro mare, detto di Tramontana. Questo fiume corre molto, ed è molto grosso e abbondante d'acqua, e tanto appropriato a quel che abbiam detto che piú non si potria dire né pensare, né anco desiderare che tanto fusse a proposito dell'effetto disegnato come questo. Il ponte Ammirabile o naturale, che è due leghe di là dal detto fiume e altre due di qua dal porto di Panama, al mezzo del camin sta in questo modo, che nissun che passa per questo viaggio vede detto ponte, per non pensare che in tal luogo sia alcun edificio, infino a tanto che non è in cima d'esso andando verso Panama; ma subito che arriva al ponte, guardando a man destra, vede ciascuno sotto di sé un fiumicello, il quale ha il letto suo lontan dalli piedi che passa due lancie di fante a piè o piú. L'acqua è piccola, perchè arriveria al piú infino al ginocchio d'un uomo; la larghezza è da 30 in 40 passi. Questo mette testa nel sopradetto fiume di Chagre. Da man sinistra, stando sopra detto ponte, non si vede altro che arbori; la larghezza sua è di passi 15, e la lunghezza da 70 in 80. L'arco è fatto dalla natura d'una durissima pietra, cosa da far maravigliare qualunque lo vedesse, essendo fatto dal supremo Fattore dell'universo.
Si che, tornando a proposito delle dette specierie, dico che, quando piacci a Iddio N. Sig. che per ventura di v. maestà si trovi la navigazion per quella parte, e si conduchino le specierie fin alla detta costa e porto di Panama, e che di là si conduchino come abbiamo detto per terra con carri fin al detto fiume Chagre, e di là fin in questo altro nostro mare di Tramontana, dal qual poi si venga in Spagna, dico che s'avanzarà di camino piú di settemila leghe, e con assai meno pericolo di quel che ora si fa andando per la via del comandator fra' Grazia dell'Aisa, capitan di vostra maestà, il quale questo anno presente s'è partito per andare al luogo di dette specierie. E di tre parti del tempo se ne abbreviarà una, e piú di due s'avanzerebbe per questo camino; e s'alcuni di quelli li quali l'averian potuto benissimo fare, per via del detto mare del Sur, si fussino affaticati a cercar le speziarie, ho ferma opinione che già molti giorni si sariano trovate; e si troveranno senza alcun dubio, volendole cercar per quella parte o vero mare, secondo la ragion della cosmografia.
Cap. LXXXVII.
Due cose notabili si possono raccorrer di questo imperio occidentale dell'Indie di vostra maestà, oltre l'altre particolarità dette e di tutto quello che si possa dire, che sono di grandissima importanzia ciascuna d'esse. L'una è la brevità del camino e ordine che si è messo nel mar del Sur, cioè australe, per andar a trovar l'isole dove nascono le specierie, e delle innumerabili ricchezze delli regni e signorie che confinano con il detto mare, dove sono persone di diverse lingue e nazion strane. L'altra cosa è considerar quanti innumerabili tesori sono entrati in Castiglia per causa di queste Indie, e quello che ogni dí entra e quello che si aspetta che sia per entrare, cosí d'oro e perle come di altre cose e mercanzie che da quelle parti continuamente si traggono e vengono nelli vostri regni, avanti che da alcuna altra generazion straniera siano stati trattati o visti, eccetto che dalli vassalli di vostra maestà spagnuoli. Il che non solamente fa ricchissimi questi regni e ogni giorno gli farà piú, ma ancora agli paesi vicini redonda tanto profitto e utilità, che non si potria dar ad intendere se non con gran lunghezza di parlare e piú ozio, il che io non ho al presente. E testimoni ne son questi ducati doppioni che vostra maestà fa battere e si spargono per il mondo, li quali, poi che di questi regni escono, mai piú tornano, perchè, essendo la miglior moneta che al presente per il mondo corra, come l'entra in man de' forestieri mai piú se ne può cavare. E se la torna in Spagna viene vestita in altro abito, perchè torna diminuita di bontà d'oro e mutate le reali insegne di vostra maestà, che, se la non avesse questo pericolo d'esser disfatta in altri regni per la causa detta, non si trovaria d'alcun prencipe del mondo tanta quantità d'oro in moneta battuta come di vostra maestà. E la causa di tutto questo sono l'Indie, delle quali brevemente ho detto quel che mi son ricordato.
Gonzalo Ferdinando d'Oviedo
Della naturale e generale istoria dell'Indie a' tempi nostri ritrovate
Libro primo
Che è il proemio drizzato alla cesarea e catolica maestà dell'imperatore Carlo Quinto.
Si legge appresso i buoni cosmografi antichi, e l'esperienzia ce 'l fa oggi chiaro, che l'India è posta molto verso oriente, fra il fiume Indo e 'l Gange, oltra il Gange anco piú verso oriente, e è piú di cinquecento leghe di là dal mar Rosso e dal mare di Persia; onde si sono ingannati alcuni che hanno detto che gli Etiopi son presso al fiume Indo, perciochè l'Etiopia, dove andò Mosè a combattere in favore degli Egizii, è posta sul mezzogiorno, e di qua dal mare Rosso. E questi Etiopi furono convertiti alla fede da quello eunuco, maggiordomo della regina Candace, che fu da san Filippo apostolo battezzato e nella fede instrutto. Quello che io voglio qui inferire si è che io non tratto qui di questa India che ho detto, ma dell'Indie che sono isole e terra ferma nel mare Oceano occidentale, e che ora sono sotto l'imperio della corona reale di Castiglia: e vi si comprendono infiniti gran regni e provincie, con tante ricchezze quanto nel processo di questa istoria si dirà.
Per tanto supplico la Vostra Maestà cesarea che faccia queste mie vigilie degne d'essere da lei vedute e lette, poichè naturalmente ogni uomo desia di sapere, e l'intelletto ragionevole è quello che ci fa piú che altro animali eccellenti, anzi che ci fa simili al grande Iddio, il quale disse nella creazione di questo intelletto: "Facciamo l'uomo ad imagine e similitudine nostra". Sí che per questa cagione non si contenta né si sodisfa il nostro animo con intendere e speculare poche cose, né con vedere l'ordinarie o vicine alla patria nostra; che anzi chiunque questo cosí bel desiderio ha, posponendo molti pericoli ne va per lontane e varie contrade pellegrinando, per investigare e nella terra e nel mare le tante maravigliose opere che ha fatte il grande Iddio, per sodisfare a questo bel desiderio della pellegrinazione nostra, e per farci conoscere che chi ha potuto far quello che noi vediamo nel mondo, è stato bastante a fare anco tutto quello che noi non possiamo con tutto il nostro ingegno intendere: cosí per la sua grandezza, come per la negligenzia nostra, e per la debolezza umana della quale tutti vestiti siamo, e medesimamente per altri inconvenienti, che possono impedire questo lodevole desiderio di vedere con gli occhi del corpo quello che vedere si può della tondezza e varietà di questo, che hanno i latini chiamato mondo. Del quale vogliono alcuni cosmografi che assai meno della quinta parte abitata ne sia: ma io sono molto da questa opinione lontano, come colui che, di piú di quello che Tolomeo ne scrisse, so che in questo imperio dell'Indie, che Vostra cesarea Maestà possiede, sono cosí gran regni e provincie, e di cosí strane e diverse genti e costumi, che assai breve è la vita dell'uomo per poter vederlo né fornire d'intenderlo.
Perciochè quale ingegno mortale potrà comprendere tanta diversità di lingue, di abiti, di costumi, che nelle genti di queste Indie si veggono? Chi potrà esplicare la tanta varietà d'animali, cosí domestici come salvatichi? La tanta copia d'alberi con tanta diversità di frutti, e altri anco sterili, cosí di quelli che gl'Indiani istessi coltivano, come di quelli che naturalmente senza l'aiuto umano si generano? Chi numererà le tante piante ed erbe utili agli uomini e all'uso della vita commune, senza l'altre tante che non sono conosciute? Ivi si veggono infinite differenzie di rose e d'altri varii fiori, con incredibile soavità; una diversità grande d'uccelli di rapina e d'altri di varie specie; un immenso numero d'altissime montagne e fertili, e d'altre aspre e silvose; campagne amplissime e ottime per l'agricoltura, con bellissime e vaghissime riviere. Vi si veggono monti piú maravigliosi e spaventevoli che non è Mongibello o Volcano o Stromboli in Italia: e sono e questi e quelli all'Altezza Vostra soggetti. Certo che non sarebbono, dagli istorici e dai poeti antichi, tanto questi maravigliosi monti della Sicilia celebrati, se fossero stati conosciuti Massaia e Maribio e Guassocingo, e gli altri che appresso in questa istoria si toccheranno.
In queste Indie si veggono tante valli e foreste e dilettevoli pianure; tante costiere di mare con tante e cosí lunghe piaggie, e con cosí securi e bei porti; tanti gran fiumi e navigabili; tanti gran laghi; tanti fonti e freddi e caldi, e vicini l'uno all'altro, e molti con bitume e altre varie materie e liquori; tante sorti di pesci di quelli che in Spagna si veggono e conoscono, e altre che né vi si conoscono né vi si veggono; tante minere d'oro, d'argento e di rame; tanta copia di perle e di unioni che ogni dí vi si ritrovano. In qual contrada si udí mai o si sa che in cosí breve tempo, e in terre cosí dalla nostra Europa remote, si producessero tanti animali d'armenti e di greggi e tante biade, come con gli occhi nostri in queste Indie vediamo che si producono, essendovi per tanta distanzia di mare condotti? E mi pare che questa terra non come madregna, ma come vera madre ricevuti gli abbia, poichè in maggior quantità e migliori alcuni di loro vi si generano che nella Spagna non fanno; dico cosí degli animali che per servigio dell'uomo sono, come del grano istesso e dell'altre biade, di legumi, delle frutte, del zuccaro e cannafistola, delle quali cose a' dí miei uscí la semente di Spagna e fu qui condotta; e fra poco tempo sono in tanta quantità moltiplicate tutte queste cose, che di qua se ne ritornano le navi in Europa cariche di zuccaro, di cannafistola e di cuoi di vacche. E il medesimo potrebbono fare d'altre cose, alle quali qui non molto s'attende, e che prima che gli Spagnuoli vi venissero queste Indie da se stesse producevano e producono, come sono cottone, o bambagio che vogliam dire, allume e altre mercanzie, che in molti regni del mondo sono desiderate, e se ne caverebbe grande utilità: ma i nostri mercadanti non se ne fanno conto, per non occupare i loro navili se non con oro, con argento, con perle e con altri simili cose.
E poi che quello che si potrebbe scrivere di questo nuovo e grandissimo imperio è tanto e cosí maraviglioso, questa istessa grandezza mi iscusi appo Vostra Maestà cesarea se non ne dirò cosí copiosamente come si richiederebbe. Basti che, come persona che tanti anni miro e veggo queste cose, abbia d'occupare tutto il restante della vita mia in notare e dedicare alla memoria de' posteri questa piacevole, soave, generale e naturale istoria dell'Indie, cosí di quello che fin qua ho veduto o mi è venuto a notizia, come di quello che, fin che questa vita mi durerà, e si discoprirà e ritroverà; poi che la Vostra Maestà cesarea, come a suo creato e servitore, mi impone e comanda che io la scriva e la mandi al suo consiglio reale dell'Indie, perchè, come queste cose s'aumentano e si fanno, cosí si pongano di mano in mano nella gloriosa cronica di Spagna. E in questo, oltra che la Maestà Vostra ne fa servigio a Dio nostro Signore, che si publichi e si sappia per lo restante del mondo quello che sotto lo scettro vostro reale di Castiglia posto si trova, ne fa anco segnalata mercé a tutti i regni di cristiani, in dar loro con questo trattato occasione di rendere infinite grazie a Dio per l'aumento della sua santa fede catolica, che ogni dí col vostro cristianissimo zelo in queste Indie s'aumenta. Il che sarà un glorioso colmo della immortalità della vostra rara e perpetua fama, perchè non solamente i fedeli cristiani si sentiranno a Vostra Maestà cesarea obligati, che con tanta benignità faccia lor questa nuova e vera istoria comunicare, ma gli infedeli anco, che fuori di queste parti per tutto il mondo si troveranno, udendo queste maraviglie gli resteranno medesimamente obligati, lodando il Fattore del tutto, che cosí strane cose create abbia in luoghi cosí incogniti e separati dall'emisferio e orizonte loro.
Questa è certo, potentissimo signore, una materia che, per la grandezza dell'obietto e delle sue circostanzie, né l'età né la diligenzia mia basteranno a terminarla perfettamente, per l'insufficienzia del mio stile e per la brevità de' miei giorni. Sarà nondimeno, quello che io scriverò, istoria vera, e del tutto lontana dalle favole che altri scrittori ne hanno detto, senza averne veduta cosa alcuna: ma, stando in Spagna a piede asciutto, hanno avuto ardire di scrivere con elegante parlare, e volgare e latino, queste cose, solamente per informazione di molti di differenti giudicii, e ne hanno formate l'istorie, che si sono piú appressate al buon stile che alla verità delle cose che scrivono, perchè né il cieco sa determinare de' colori, né l'absente può cosí far fede di queste cose come colui che le vede. Io voglio che la Maestà Vostra sia certa che questi miei scritti anderanno ignudi d'eleganzia di parole, per potere con l'artificio invitare i lettori a leggerli, ma saranno assai ben copiosi di verità e senza contradizione alcuna, pur che la vostra soprana clemenzia ordini che siano poi limati e politi; pure che chi questa impresa prenderà, di dire questa mia istoria in miglior stile, non si parta punto dall'intenzione e dalla sentenzia che qui vedrà, sí perchè non se ne offenda questo mio buon desio, come perchè non mi si nieghi la lode del travaglio, che in tanto tempo e con tanti pericoli ho sofferto, investigando per tutte le vie possibili la certezza di queste materie, da che nel 1513 il catolico re don Fernando di gloriosa memoria vostro avolo mi inviò, perchè io fossi sopra al fondere dell'oro che qui in terra ferma si faceva. Onde io mi occupai cosí in quello officio, quando lo richiedeva il bisogno, come nella conquista e pacificamento d'alcuni luoghi di questo imperio con l'arme in mano servendo a Dio e alle Maestà Vostre (come lor capitano e vassallo) in quelli asperi principii che si popolarono alcune città e terre che ora sono di cristiani, e con molta gloria dello scetro reale di Spagna vi si continua il culto divino della vera religione cristiana.
Nella quale conquista, quelli che in quel tempo passammo con Pedraria d'Avila, luogotenente e capitan generale del re catolico e poi delle Maestà Vostre, fummo da duemila uomini, e in quelle contrade ritrovammo altri cinquecento cristiani, sotto il capitan Vasco Nugnez di Balbua, nella città del Darien, che si chiamò prima La Guardia e poi Santa Maria dell'Antiqua, e fu la principale città del vescovado di Castiglia dell'Oro; e ora si ritrova disabitata, non senza gran colpa di chi ne è stato cagione, perchè stava in parte attissima per la conquista degli Indiani arcieri di quelle contrade. E di questi duomila e cinquecento uomini che ho detto, non se ne ritrovano al presente in tutte l'Indie né fuori a pena quaranta, secondo che io credo, perchè per servire a Iddio e alle Maestà Vostre, e perchè vivessero securi i cristiani che poi in quelle provincie passarono, fu bisogno che cosí avenisse; e la salvatichezza della terra e il suo aere, con la spessezza degli erbaggi e alberi de' campi, e insieme il pericolo dei fiumi, de' gran lacertoni e tigri, e il fare esperienza dell'acque e delle cose da mangiare, sono tutte queste cose state con costo delle vite nostre, in utilità de' mercatanti e degli altri che sono qui poi passati a vivere, che con le mani lavate si godono ora delli molti sudori d'altrui.
E perchè, stando la Vostra Maestà cesarea in Toledo nel 1525, scrissi io una sommaria relazione d'una parte di quello che qui si contiene, e fu il suo titolo Oviedo, nella naturale istoria dell'Indie, come questo libro ora si chiamerà La generale e naturale istoria dell'Indie, tutto quello che in quel sommario si conteneva si ritroverà ora in questo libro, e nell'altre due parti che appresso poi seguiranno, assai meglio e piú copiosamente detto: sí perchè quel sommario in Spagna si scrisse, avendo io lasciati i miei memoriali e libri in questa città di San Dominico dell'isola Spagnola, dove io tengo mia casa; come anco perchè di queste materie io ne ho assai piú veduto di quello che fino allora ne sapeva, nelli dieci anni che sono corsi da che quello scrissi fino a questa, ora facendo con maggiore attenzione isperienzia di quello che a questo effetto si conveniva, e piú particolarmente intendendo e vedendo le cose. Vi è questo anco, che ciò che quel sommario si conteneva, in questo libro e nelle sue parti è aumentato, e vi sono molte altre gran cose e nuove aggiunte, delle quali non poteva io in quel sommario fare relazione alcuna, per non averle ancora né vedute né intese. Sí che, potente signore, per le cause dette di sopra è giusto che queste istorie si manifestino per tutte le republiche del mondo, perchè per tutto si sappia la grandezza e ampiezza di questi stati, che il grande Iddio serbava alla vostra corona reale di Castiglia, per la buona fortuna e meriti della Vostra Maestà cesarea, sotto il cui favore e scudo io la presente opera offrisco; e la supplico umilmente che, in ristoro del tempo che io ho in ciò travagliato, e dell'antica servitú che io ho con la vostra casa reale di Castiglia (chè sono piú di quaranta anni che io sono nel numero de' suoi creati), si degni d'accettare questi miei libri, i quali, se non sono con molta industria e artificio scritti, né con molto ornamento di parole, sono nondimeno scritti di materie che con non poca fatica e travagli ritrovate e intese si sono, e sono per dare piacere e contentamento all'animo, intendendovisi tanti secreti di natura.
Se vi si ritroveranno alcune voci straniere e barbare, ne è cagione la novità della materia che vi si tratta: né s'attribuiscono alla mia lingua, perchè io in Madril nacqui, nella casa real mi creai, ho con persone nobili conversato e letto anco alquanto. Sí che se in questo libro serà cosa alcuna che con la lingua castigliana, che è tenuta la migliore di quante ne ha la Spagna, non consuoni, è solo perchè ho voluto con le proprie e stesse voci fare intendere le cose che presso gl'Indiani significano.
La Maestà Vostra nel tutto ricompensi col mio buon desio il difetto della penna, poichè Plinio, nel proemio della sua naturale istoria, dice che è assai difficile cosa fare le cose vecchie nuove, e alle nuove dare auttorità; e a quelle che escono dell'ordinario è consueto dare splendore, e alle oscure luce, e alle noievoli grazia, e alle dubbiose fede. Basti che io ho desiato e desio servire la Vostra Maestà cesarea e sodisfare chi questa mia opera vedrà: che se io non ho saputo farlo, si dee nondimeno la mia buona intenzione commendare, e si dee il lettore contentare che quello che io ho veduto e isperimentato con molti pericoli esso ne gode e 'l sa con tanta securtà, perchè può leggerlo senza soffrire fame né sete, né caldo né freddo, né altri infiniti travagli che vi si provano e sentono, e senza partirsi altramente dalla patria sua, ponendosi in aventura della tempesta del mare, né delle disgrazie che qui poi in terra s'incorrono. Onde pare che per suo passatempo e riposo io sia nato, e peregrinando abbia visto queste opere della natura, o per meglio dire del Maestro della natura, le quali io ho scritte nelli 20 libri che in questo primo volume si contengono, e negli altri della seconda e terza parte, che tratteranno delle cose di terra ferma, e ne' quali mi ritrovo ora occupato. Egli è il vero che l'ultimo libro di questi vinti si porrà poi nel fine della terza parte, perchè è di qualità che a tutte serve, e chiamasi Delle disgrazie e naufragii de' casi avvenuti ne' mari di queste Indie.
Tutti questi libri sono divisi secondo la maniera e qualità delle materie che vi si discorrono, e le quali non ho io cavate da duomila migliaia di volumi che io letti abbia, come diceva Plinio avere esso fatto. Onde pare che egli scrisse quello che avea letto, benchè egli dicesse anco alcune cose che non avevano gli antichi intese, o che dopo la lor vita si ritrovarono. Non dico io qui adunque cose che abbi lette in molti libri, ma vi scrivo quelle solamente che con duo miglioni di travagli, di necessità, di pericoli, ho in piú di ventiduoi anni vedute e isperimentate con la mia stessa persona, servendo a Dio e al mio re in queste Indie, e con avere otto volte passato il gran mare Oceano.
Ma perchè io a qualche modo intendo di imitare Plinio, non nel dire quello che egli disse (benchè qui talora le sue auttorità s'alleghino), ma nel distinguere i miei libri, come egli fece, secondo la varietà delle materie, confessarò quello che egli nella sua introduzione approva, quando dice che è cosa d'animo vizioso e d'ingegno infelice volere piú tosto essere preso col furto che restituire quello che gli fu imprestato, massimamente facendosi capitale dell'usura. Per non incorrere io adunque in simil fallo, e non negare quello che è da Plinio, quanto all'invenzione e titolo del libro io il seguo; ma nella mia opera sarà una cosa aliena dallo stile di Plinio, e sarà il referire in parte la conquista di queste Indie, e il dar conto come fossero primieramente discoverte e trovate, e altre simili cose che, se ben fuori della naturale istoria sono, vi saranno nondimeno assai necessarie, per potersi sapere il principio e 'l fondamento del tutto; e medesimamente perchè meglio s'intenda come i re catolici don Ferdinando e donna Isabella, avoli della Vostra Maestà cesarea, si movessero a mandare a cercare di queste terre, o per dire meglio come il Signore Iddio gli movesse, che già altri non fu. Tutto questo verrà distintamente tocco, secondo le particolari relazioni che se ne sono avute, con espresse proteste che quanto qui scriverò stia sotto la correzione ed emenda della nostra santa madre chiesa apostolica di Roma, di cui io sono minimo servo, e nella cui obedienza protesto di dovere vivere e morire.
Ma perchè tutti quelli che hanno zelo dell'onore e della vergogna propria temono la mormorazione de' detrattori, come fu Plinio e tanti famosi autori, e con loro anco il buon profeta David, quando pregava Iddio che dalla lingua dolosa il liberasse, ben debb'io anche giustamente temere il somigliante, e con maggior ragione, poi che i morti e gli absenti non possono per sé rispondere né difensarsi (e come il medesimo Plinio diceva, che i morti non contendono se non con l'ombre e fantasme notturne). Sichè io voglio per questo dire a quelli che in fin d'Europa o d'Asia o d'Affrica mi reprenderanno, che avertiscano che io in niuna di queste tre parti del mondo sto, come si può congietturare da quello che s'è veduto e scoperto nel mare di mezzogiorno, dove si gira tutta la terra intorno. E poi che i lettori hanno d'ascoltarmi cosí di lontano, non vogliano giudicarmi senza vedere questa terra dove io sto e della quale tratto. E basti loro ch'io qui scriva in tempo d'infiniti testimonii e di vista, e che questi miei libri siano drizzati a Vostra Maestà cesarea, di cui è questo imperio, e che per suo ordine si scrivano, e che io ne abbia il mangiare, come suo cronista in queste materie; e che non ho da essere di cosí poco intelletto che davanti a cosí gran prencipe abbi a dire altro che la pura verità, per non perdere la grazia sua e l'onor mio; e di piú di tutto questo, che le cose che qui si trattano non sono per acquistarne ambiziosamente onore né per esserne rimunerato da persone particolari, alle quali con finte parole si drizzi il libro. Anzi, conformandomi con quella vera sentenzia del savio, che dice che la bocca che mentisce ammazza l'anima, spero in Dio che guarderà da tal pericolo la mia, e ch'io come fidele scrittore ne sarò rimunerato, per l'infinita cortesia, dalla clemenzia divina e dalla real mano di Vostra Maestà cesarea; la cui gloriosa persona nostro Signore lungo tempo favorisca e lasci godere della monarchia del mondo, come il vostro alto cuore desia e i vostri leali subditi sperano e tutta la republica cristiana ha bisogno, poi che fra tutti li prencipi cristiani la Vostra Maestà solamente sostiene al presente la religione catolica e la chiesa di Dio e la difensa dalla malvagia setta e gran potenzia di maomettani, ponendo in rotta il lor principal capo e Gran Turco, con tanto spargimento del sangue turchesco, e con vittorie cosí segnalate, e in mare e in terra, come si sono vedute negli anni passati del 32 e del 33, standosi tutti gli altri re cristiani a vedere e aspettando il fine de' successi vostri. Ma il giusto Iddio, per la sua pietà, cosí bel fine riuscire ne fece che, mentre che 'l mondo sarà, con gloriosa memoria si celebrerà in terra, e sarà talmente nella vita celeste accetto che la Maestà Vostra ne sarà rimunerato e glorificato, con li felici re Ricaredo, primo di questo nome, e col suo fratello santo Emergildo martire, dalli quali la vostra real prosapia e corona di Spagna dependono e traggono origine; e de' quali parlando, il Burgense dice che, entrando nella Spagna 60 mila Francesi, in fin da Toledo mandò il re Ricaredo Claudio, suo capitan generale, contra di loro, e li vinse e pose a filo di spada, facendone la maggior parte prigioni. Onde disse quello istorico che mai nella Spagna si vidde simile vittoria. Il medesimo scrive l'arcivescovo don Rodrigo, che in questo il Burgense seguí. E assai meglio averebbero potuto delle vittorie di Spagna dire, se avessero veduto quello che i vostri capitani e vassalli oprarono nel 1525 contra il re di Francia e sua cavalleria, quando vi fu questo re nell'assedio di Pavia fatto prigione, con la maggior parte de' principali del suo regno che seco si ritrovavano; o se veduto avessero quello che si spera che debbia il grande Iddio oprare nella vostra buona fortuna e invitto nome.
Ma tutto questo si lascia a' vostri eleganti cronisti, che costà sono e si rallegrano di vedere tutte le cose già dette e le scrivono anco, perchè noi, che ci ritroviamo in questi cosí lontani regni, ancora che non vediamo quel che s'è detto di cosí gran vittorie, riceviamo nondimeno tanta parte del piacere quanta hanno d'averne quelli che il loro prencipe amano, come leali subditi e cristiani. Perchè in effetto non credo che possono chiamarsi tali quelli che non ringraziano del continovo il Signor Dio per l'aumento della Vostra cesarea persona e vita, poichè in essa le nostre consistono con tutto il bene della religione cristiana.
Della naturale e generale istoria dell'Indie a' tempi nostri ritrovate.
Libro secondo
Proemio
Perchè piú ordinatamente proceda e s'intenda questa generale e naturale istoria dell'Indie, bisogna fare distinzione de' miei libri: e perciò, nel proemio o principio di ciascun di loro, intendo di fare una sommaria relazione delle materie che s'hanno da scrivere e trattare in ciascuno, o almanco di quello che vi è piú sostanzievole. E a questo modo dico che in questo secondo libro si seguirà l'istoria continovandosi col precedente libro o proemio, e toccaremo il motivo della mia intenzione, e come, per compire a quello che per la Vostra Maestà cesarea m'è stato comandato, mi sono a questa impresa posto; e insieme dirò a che modo io voglio o desidero imitare Plinio, toccando brevemente le opinioni che sono sopra, a chi drizzò egli la sua naturale istoria. E dirò l'opinione che io ho, se gli antichi conobbero o no queste isole, e se sono quelle ch'essi chiamaron l'Esperidi. Mostrerò chi fosse don Cristoforo Colombo, che primieramente queste isole scoperse, e per che via e forma vi si mosse, e a che tempo le ritrovò, e di quello che gli accadette nel primo e nel secondo viaggio che egli vi fece, e quanto in ciascuno viaggio vi discoperse, e della donazione che il sommo pontefice fece di queste Indie alli re catolici don Fernando e donna Isabella e lor successori nel regno di Castiglia e di Leone (non ostante che, secondo l'opinion mia, antiquissimamente furono di Spagna). Dirò anco chi furono alcuni cavalieri e nobili che primieramente si ritrovarono nella conquista e pacificamento di questa isola Spagnuola, e che travagli vi passarono i cristiani mentre che l'admirante Colombo passò a discoprire l'isola di Iamarca; e toccherò l'origine del morbo delle bughe, e quattro cose assai segnalate che accadettero nell'anno 1492, quando queste Indie si discopersero; e l'ordine del viaggio e della navigazione che si fa di Spagna a queste parti, e il crescere e mancare del mare col suo flusso e reflusso, e il nordestrare e norvestrare delle aguglie da navigare; con altre particolarità convenienti al discorso dell'istoria, come piú distesamente ne' seguenti capitoli si vedrà. E perchè nel primo libro ho detto che ho passato otto volte il mare Oceano, le sette furono innanzi che io in questa ottava venissi a presentare questo libro al nostro gran Cesare, come già fatto ho: e piacendo a nostro Signore, la nona volta sarà ritornandomi a casa mia a servire Sua Maestà cesarea, e a scrivere di lungo la seconda e terza parte di queste istorie.
Delle opinioni a chi drizzò Plinio il suo libro della naturale istoria, con una relazione sommaria delle materie che in questo secondo libro si trattano.
Cap. I.
Scrisse Plinio trentasette libri della sua naturale istoria, e io in questa prima parte della mia opera ne scrivo venti, ne' quali (come ho già detto) per quanto potrò intendo d'imitarlo.
Il primo libro di Plinio fu il proemio drizzato con tutto il libro all'imperator Tito, benchè altri vogliano che a Domiziano il drizzasse, né mancano di quelli che dicono a Vespasiano: ma questo poco m'importa, poichè io non scrivo seguendo l'auttorità d'istorico alcuno o di poeta, ma come testimonio di vista nella maggior parte di quanto qui tratterò. E quello che non avrò io stesso veduto, il dirò per relazioni degne di fede, non dando in cosa alcuna credito a un solo testimonio, in quelle che non abbia io personalmente isperimentate, ma a molti sí bene; e le dirò nella maniera che io intese l'ho e da chi, perchè ho ordini e carte della Maestà cesarea che tutti i suoi governatori e ufficiali in tutte l'Indie mi diano aviso e vera relazione di quanto serà degno d'istoria, per testimoni autentici, con le ferme de' lor nomi e con segni di scrittori publici, di modo che facciano indubitata fede; perchè, come prencipi zelanti e amici della verità, vogliono che questa naturale istoria dell'Indie si scriva interamente e senza niuno fuco.
Perciochè, come Plinio dice, ancorchè paia chiaro il cammino da potersi intendere la verità, è nondimeno difficile, perchè gli uomini diligenti si stancano o stomacano d'investigare il certo, e per non parere ignoranti non si vergognano di mentire; onde è molto pericoloso il creder molto, quando che è autore del falso e persona grave e di auttorità. Certo che io veggo cose, scritte in Spagna, di queste Indie che mi maraviglio come abbiano tanto ardimento avuto gli auttori di dirle, isviandosi tanto dalla verità quanto il ciel dalla terra; e si fidano a' loro eleganti stili, e par loro di iscolparsi dicendo: "Cosí l'ho io udito, e se ben non l'ho veduto, l'ho però inteso da persone che veduto l'hanno e me l'hanno dato ad intendere", di modo che su questa fidanza hanno ardire di scriverlo al papa e alli re e prencipi stranieri. Io quello che qui dirò non ho da narrarlo a chi non mi conosce, né a quelli che fuori di Spagna vivono; onde io col profeta canto: "Dico ego opera mea regi", come colui che al suo proprio re e a cosí alto principe le referisce.
Pose Plinio il suo proemio per primo libro: a questo modo sia la precedente introduzione per principio de' miei, e questo chiamiamo secondo. Ho detto che Plinio drizzò la sua naturale istoria all'imperator Tito, e potrà dire alcuno che io contradico a me stesso, perchè in quel sommario delle cose dell'Indie che io scrissi in Toledo nel 1525, dissi che quello che Plinio di simili materie scriveva, a Domiziano imperatore il drizzava: e di questa opinione sono io. Per sodisfare adunque a coloro che volessero di questa inavertenza incolparmi (chè al parer mio non erro), dico che io udii già sopra la medesima questione disputare il Pontano in Napoli nel 1500, che era tenuto in quel tempo uno de' migliori litterati d'Italia: e teneva egli che Plinio scrivesse a Domiziano e non a Tito il fratello, e ne rendeva sofficienti ragioni. Non mancano però altri diversi pareri di scrittori, come è Antonio di Fiorenza, che vuol che Plinio a Vespasiano scrivesse: e secondo questa opinione al padre, e non ad alcuno de' figliuoli, averebbe Plinio drizzati i suoi libri.
Ma lasciamo questo, che non fa molto al caso, e ritorniamo al nostro principale intento. Io dico che Plinio nel secondo suo libro tratta degli elementi, delle stelle, de' pianeti, degli eclissi, del giorno, della notte, della geometria del mondo e delle misure e distanzie sue, e insieme anco de' venti, de' tuoni, de' lampi, e delli quattro tempi dell'anno, e de' prodigii e portenti, e dove e come si congela la neve e il grandine, e della natura della terra e della sua forma, e qual parte di lei sia abitata (benchè in quello che dice, che la zona torrida o linea equinoziale sia inabitabile, egli s'ingannò, come gli altri che lo scrissero medesimamente, perchè elle pienamente si abita, per quello che ne vediamo oggi nella terra ferma di queste Indie; e Avicenna lo scrisse e ne diede ragione, e come filosofo naturale non vi ebbe cosa che gli contradisse, e certo che egli scrisse e disse meglio in questa parte di niuno degli altri che ne scrivessero). Fece anco nel suo secondo libro Plinio menzione de' terremoti, e in qual terra non piove, e dove del continuo trema la terra, e come cresce e manca il mare, e referisce alcuni miracoli del fuoco. Di questa e altre molte cose che egli dice, quelle che averanno somiglianza con quelle che in questa istoria delle Indie si diranno, si toccaranno nelle provincie o terre, dove sarà da notare qualche cosa di simili materie.
E per questo non mi stenderò altramente a ragionarne in questo secondo, nel quale mostrerò la persona e l'essere di don Cristoforo Colombo, primo inventore e admirante di queste Indie, e dirò della sua origine e del primo, secondo, terzo e quarto viaggio che esso in queste parti fece. E perchè, avendo rispetto a' suoi gran servigi, i catolici re don Ferdinando e donna Isabella, che conquistarono li regni di Granata e di Napoli, gli fecero grazia dello stato e titolo di admirante perpetuo delle loro Indie, e non a lui solamente ma a tutti i suoi successori; e gli furono date l'insegne e arme reali di Castiglia e di Leone, e altre con queste e con quelle che egli aveva di casa sua, in certa forma, come appresso il suo luogo si dirà, e fu fatto nobile, con titolo di don per lui e tutti i suoi descendenti. Si dirà anco come egli si portò nel discoprire che egli fece d'una parte di terra ferma, la quale io credo che non sia minore che si siano tutte tre insieme l'Asia, l'Africa e l'Europa, per quello che la moderna cosmografia ne insegna: perciochè in quello che di questa nuova terra ferma si sa, vi è di terra continovata dallo stretto che discoprí il capitan Fernando di Magallanes, che sta dall'altra parte della linea equinoziale, dalla banda del Polo Antartico, fino all'ultimo della terra che si sa che è verso il nostro Polo Artico, vi è, dico costeggiando, piú di cinquemila leghe di terra continovata. Il che parrà al lettore cosa impossibile, avendo rispetto a quello che volge a torno o che ha di circonferenzia tutto l'orbe: ma non se ne dee maravigliare chi vede la figura che questa terra ferma ha, perchè ella sia inarcata a guisa d'una coronetta da cacciatore o d'un ferro da cavallo. E chi considera in che forma si ritrova situata questa altra metà del mondo, per mediocre cosmografo che sia, assai bene intenderà che è possibile essere tanto grande quanto s'è detto.
In alcune cose di quelle che io in questa prima parte scrivo non sarò molto lungo, per essere molto note. Vi dirò bene alcune opinioni che vanno oggi a torno sopra il primo discoprimento di questo nuovo mondo, e come n'ebbe notizia colui che fu il primo a scoprirle, essendo cosí incognite tutte queste terre e a Tolomeo e agli altri cosmografi antichi. Ma io non darò già in questo caso credito alcuno a quello che alcune genti volgari dicono, che ostinatamente contendono che altri fosse che primieramente questi mari e terre discoprissino, perchè in effetto, ancorchè si potesse congietturare qualche cosa in contrario, per impedire la lode di don Cristoforo Colombo, non si dee dire né credere. E tutta questa gloria è del Colombo, e al Colombo solo, doppo d'Iddio, ne sono debitori li re di Spagna passati e i presenti e i futuri, e non solamente tutta la nazione che a questi prencipi obedisce, ma li re stranieri anco, per l'utilità grande che è risultata in tutto il mondo per queste Indie, con tanti tesori che se ne sono cavati e che se ne cavano ogni giorno, e se ne caveranno mentre che sarà il mondo.
Dell'origine e persona del primo admirante delle Indie, chiamato Cristoforo Colombo, e per che via si mosse a discoprirle, secondo l'opinione del volgo.
Cap. II.
Dicono alcuni che questa nuova terra si seppe gran tempo fa, e che stava ben scritto e notata dove ella fosse e in che paralleli, ma che era già nella memoria degli uomini perduta la navigazione e cosmografia di queste parti, e che Cristoforo Colombo, come persona dotta in questa scienzia e che aveva letto, s'aventurò a discoprire queste isole: né io sto ancora fuori di questa suspezione, né resto di crederlo, per quello che nel seguente capitolo si dirà. Ma perchè è bene che persona a chi tanto si dee si ponga da noi per principio e come fondatore di cosí gran cosa come questa, dico che Cristoforo Colombo, per quello che io n'ho inteso da uomini della sua nazione, fu della provincia della Liguria dove è Genova capo. Alcuni dicono di Savona, altri d'un picciolo villaggio chiamato Nervi, che è due leghe lungi da Genova nella riviera di levante; ma per piú certo si tiene che egli fosse di Cugurco, luogo pur presso alla città di Genova. Egli nacque d'onesti parenti; fu di buona vita e statura e d'ingenuo aspetto; fu piú alto che mediocre, e di gagliardi membri; ebbe gli occhi vivi, e l'altre parti del viso ben proporzionate; ebbe i capelli assai rubicondi, e il viso alquanto acceso e impetiginoso. Fu persona assai ragionevole, cauta e di grande ingegno, buon letterato e dottissimo cosmografo, grazioso quando voleva e iracondo quando si sdegnava.
L'origine de' suoi passati venne dalla città di Piacenza in Lombardia, che è posta su la riva del Po, dall'antico e nobil sangue di Pelestrello. Vivendo Domenico Colombo suo padre, essendo egli giovanetto e ben dottrinato e già uscito dalla adolescenzia, si partí dalla patria sua e passò in ponente, e navigò la maggior parte del mare Mediterraneo, dove imparò con l'isperienzia l'essercizio del navigare. E avendo in queste parti fatti alcuni viaggi, perchè aveva animo di navigare per piú spaziosi mari, volse vedere il gran mare Oceano, e cosí se n'andò in Portogallo, dove visse qualche tempo nella città di Lisbona: dalla quale, e da ogni altro luogo dove si ritrovò, sempre da buon figlio soccorse il suo vecchio padre con qualche parte di quello che con suoi sudori guadagnava, e viveva in una vita assai limitata, e non con tanti beni di fortuna che avesse potuto senza molta necessità passarla.
Dicono alcuni che una caravella che passava di Spagna in Inghilterra, carica di mercanzie e di vettovaglie e di vino, e di altre cose che si sogliono in quella isola portare, perchè non ve ne sono, fu da cosí forzati e contrarii tempi assalita, che fu necessitata a correre verso ponente tanti giorni che riconobbe una o piú isole di queste parti dell'Indie, e che, smontandovi in terra, vi viddero gente ignuda del modo che qui ne sono; e che, mancando il vento che ve gli aveva contra lor voglia spenti, tolsero acqua e legne per ritornarsi al primo loro viaggio. Dicono di piú che la maggior parte di quello di che era questa caravella carica erano vettovaglie e cose da mangiare e vino, onde per questa via ebbero con che sostentarsi in cosí lungo viaggio e travaglio; e che, avendo poi il tempo al proposito, diedero la volta, e cosí prospero il vento ebbero che si ricondussero in Europa in Portogallo. Ma perchè il viaggio era stato cosí lungo e travagliato, e con tanto pericolo e paura, per presto che di questa navigazione ritornassero, durò quattro o cinque mesi o per aventura piú, fin che si ricondussero dove s'è detto; e in questo tempo si morí quasi tutta la gente del navilio, e non giunsero vivi in Portogallo se non il pilotto con tre o quattro marinai, e tutti cosí infermi che, fra pochi giorni doppo che furono giunti in Europa, morirono.
Dicono anco che questo pilotto [fu] intimo amico di Cristoforo Colombo, e che s'intendeva alquanto della altura di quella terra che ritrovata aveva nel modo che s'è detto, e che molto in secreto diede di ciò parte al Colombo, il quale il pregò che gli facesse una carta, e ve li ponesse quella terra che veduta aveva. Dicono che il Colombo lo raccolse in casa sua come amico e che lo fece curare, perchè anco il pilotto era venuto infermo: ma egli, non molto tempo poi, morí come gli altri compagni, e per questa via restò informato il Colombo della terra e navigazione di queste parti, e in lui solo restò questo secreto. Alcuni dicono che questo pilotto era d'Andaluz, alcuni altri lo fanno portogese, altri boscaino. Altri dicono che in questo tempo il Colombo si ritrovava nell'isola della Madera, e chi dice nell'isola di Capo Verde, e che ivi giunse la caravella che s'è detto, e per questa via fu informato il Colombo ed ebbe di questa terra notizia. Che questo passasse a questo modo o no, non è niuno che possa con verità affermarlo: pure quest'è novella per questa maniera che s'è detto, e va per lo mondo fra le genti volgari. Io per me lo tengo falso e, come dice Augustino, "Meglio è dubitare in quello che non sappiamo, che ostinatamente contendere quello che determinato non si truova".
Dell'opinione che l'autore di questa istoria ha sopra l'essersi saputo e scritto dagli antichi dove fossero queste Indie, e come e per chi si pruova.
Cap. III.
S'è nel precedente capitolo detta l'opinione che ha il volgo come queste Indie si discoprissero; ora voglio dire quello che io ne credo, e come al parer mio il Colombo si mosse come persona savia, dotta e ardita ad imprender una cosí fatta cosa, con la quale ne lasciò a' presenti e a' futuri tanta memoria, perchè egli conobbe (come era in effetto) che queste terre, che egli ben ritrovava scritte, erano del tutto uscite dalla memoria degli uomini. E io per me non dubito che si sapessero e possedessero anticamente dalli re di Spagna, e voglio qui dire quello che Aristotele in questo caso ne scrisse.
Egli dice che i mercadanti cartaginesi, usciti per lo stretto di Gibalterra verso il mare Atlantico, ritrovarono una grande isola, che non era stata ancora mai discoverta né abitata da persona umana, se non solamente da fiere e da animali selvaggi, onde era tutta boscareccia e piena di grand'alberi e di maravigliosi fiumi e atti a navigarsi, ma assai fertile e copiosa di tutte le cose che si possono piantare e seminare, che 'n grande abondanzia e ubertà vi cresceano. E dice ch'era assai lontana e remota dalla terra ferma dell'Africa, e per molti dí di navigazione. Ora, essendo qui questi mercatanti cartaginesi giunti, mossi per aventura dalla fertilità del luogo e dalla bontà e temperamento dell'aere, cominciarono ad abitarvi e a farvi stanze e terre. I Cartaginesi e il senato loro, inteso questo, fecero andar un bando, pena la vita, che niuno d'allora innanzi avesse ardire di navigare in que' luoghi, e che quelli che navigato v'avevano come nemici loro fossero morti, tosto che lor si desse occasione di poter farlo. E quello perchè si movessero a far questo, si era ch'era tanta la fama di quell'isola e terra ritrovata, che pensavano che, se altre potenti nazioni ne avessero avuto notizia e le avessero soggiogate, avrebbono per questa via potuto loro gran danni fare, e loro grandi inconvenienti nascerne.
Tutto questo pone nel suo repertorio f. Teofilo de Ferrariis cremonese, dell'ordine de' predicatori, seguendo quello che Aristotele ne scrisse "in admirandis in natura auditis". Questa è una gentile auttorità per congietturare che l'isola che pone Aristotele potesse essere una di queste che nelle nostre Indie sono, com'è quest'isola Spagnuola o quella della Cuba, o per aventura una parte della terra ferma. Questo che s'è detto non è cosí antico come quello ch'ora dirò, perchè, secondo che numera Eusebio, Alessandro Magno e Aristotele furono 351 anni innanzi alla venuta del Salvator nostro, e questo ch'io dire intendo fu molto innanzi. E in effetto, per quel che l'istorie ci accennano, e ci danno materia di fare congiettura sopra quest'isole, io tengo che queste Indie siano quelle antiche e famose isole Esperide, cosí dette da Espero XII re di Spagna.
E perchè questo s'intenda e provi con bastevoli auttorità, si dee sapere che 'l costume che serbarono gli antichi, in dare i titoli o i nomi a' regni e alle provincie, nacque doppo la divisione delle lingue fatta nella fondazione della torre di Babilonia, perchè allora tutte le genti viveano insieme, e qui furono divise e s'appartarono con differenti lingue e capitani, e per tutto il mondo si sparsero, come la scrittura sacra dice. Scrive Isidoro che gli Assirii tolsero il nome d'Assur, i Lidii da Lido, gli Ebrei da Eber, gli Ismaeliti da Ismael; da Moab descesero i Moabiti, da Amon gli Ammoniti, da Canaam i Cananei, da Saba i Sabei, da Sidon i Sidonii, da Iebus i Iebusei, da Gomer i Galati, cioè i Galli, da Tiras i Traci, dal re Perseo i Persi, da Caseth, figliuol di Nachor, che fu fratello d'Abraam, i Caldei, da Fenice, fratel di Cadmo, i Fenici; e cosí gli Egizii da Egitto loro re, gli Armeni da Armeno, che fu un de' compagni di Iasone, i Troiani da Troe, i Sicionii da Sicione, gli Arcadi da Arcade, figliuol di Giove, gli Argivi da Argo, i Macedoni da Emathion loro re, quelli d'Epiro da Pirro, figliuol d'Achille, i Lacedemonii da Lacedemone, figliuol di Giove, gli Alessandrini da Alessandro Magno, che edificò la lor città, i Romani da Romolo, che edificò Roma. E a questo modo si potrebbe dire di molti altri, che Isidoro similmente dice. Questo costume adunque restò da quei primi capitani o capi che, come s'è detto, s'appartarono doppo la torre di Babilonia in diverse parti del mondo. Conforme a questo dice Beroso che Ibero, secondo re di Spagna, figliuol di Tubal, diede il nome al fiume Ibero, donde le genti di quella contrada furono chiamate Ibere; e, come il medesimo Beroso dice, da Brigo quarto re di Spagna tolsero il nome i Brigi: e si crede che, corrompendosi questa voce, di Brigi fossero poi chiamati Frigii quelli del regno di Frigia, che poi da Troe loro re furono chiamati Troiani. Dal che si cava che i Troiani ebbero la lor prima origine da' Brigi ispani, perchè scrive Plinio che sono autori che dicono che d'Europa furono i Brigi, dai quali tolsero i Frigii il nome.
Ma, ritornando al proposito nostro, secondo il medesimo Beroso dico che Ispalo, che fu nono re di Spagna, diede il nome al fiume Ispali, o a Siviglia, che gli antichi Ispali chiamarono; e gli abitatori di questa contrada furono chiamati Ispali, che furono gente che dalla Scizia menò qui Ercole seco, come l'arcivescovo don Rodrigo dice. E si crede che 'l sopradetto Ispalo fosse figliuolo di questo Ercole libio (non già di quel forte tebano, che fu piú di 700 anni poi). A questo Ispalo succedette Ispano, dal quale fu cosí detta la Spagna, e il quale fu nepote del sopradetto Ercole libio, che, come vuol Beroso, fu 223 anni prima che s'edificasse Troia e 1710 prima che 'l Salvator nostro prendesse questa nostra carne nel mondo. E come da costui tolse la Spagna il nome, cosí si crede che ella fosse anco chiamata dal nome degli altri nove re passati, perchè questi vi fu il X re. Scrive l'arcivescovo don Rodrigo che il sopradetto Ercole condusse seco Atlante, che fu presso al tempo di Mosè, il quale Atlante dice Beroso che non fu moro ma Italiano, e ch'ebbe un fratello chiamato Espero, come Iginio scrive: e questi restò successore ed erede ad Ercole in Spagna e vi regnò dieci anni, perchè Atlante poi lo scacciò dal regno e lo fece ritornare in Italia, onde e la Spagna e l'Italia furono da lui chiamate Esperie; e non dalla stella Espero, come vogliono i Greci. Questo re Espero vuol Beroso che cominciasse dopo Ercole a regnare in Spagna, 171 anni prima che fosse edificata Troia, e 603 prima che Roma, e 1658 anni innanzi all'incarnazione di nostro Signore.
Adunque, per quello che s'è detto, resta provato che anticamente le provincie e i regni tolsero il nome da' prencipi che le fondarono o conquistarono o popolarono o le ereditarono. E come da Ispano tolse il nome Ispagna, e poi, mutandosi il nome, da Espero fu chiamata Esperia, cosí la maggior parte dell'altre terre e contrade furono chiamate del nome di coloro che le possedettero. Scrive l'Abulensi sopra Eusebio che furono tre Atlanti, e che un ne fu di Mauritania, e fu fratello d'Espero: e che amendue questi passarono in Africa dalla parte d'occidente, nella contrada di Marocco, dove un di loro si fermò; ed Espero passò nell'isole vicine, chiamate Fortunate, e che da Espero le chiamano i poeti Esperidi. Ma io credo che questo auttore s'inganni in pensare che i poeti chiamino Esperidi l'isole Fortunate, o le Canarie, che oggi diciamo, perchè Solino scrive, nell'ultimo capo del suo libro, che oltre l'isole Gorgone sono l'Esperidi, lungi (come Seboso vuole) quaranta giornate di navigazione, e poste negli intimi seni del mare. Queste Gorgone, secondo Tolomeo e gli altri veri cosmografi, sono quelle che chiamiamo ora generalmente di Capo Verde, e in particolare hanno questi nomi moderni: l'isola di Maio, l'isola di Bona Vista, l'isola del Sale, l'isola del Fuoco, l'isola Brava, e cosí dell'altre. Se dalle Gorgoni adunque sono 40 dí di navigazione lontane le Esperidi, non possono queste a niun conto essere altre che queste nostre dell'Indie, perchè al dritto delle Gorgoni verso ponente non vi sono altre isole, e nel detto tempo da questo luogo vi si naviga (come diceva Seboso); e in tanto tempo vi giunse il Colombo la seconda volta che vi navigò, e riconobbe l'isola Desiata e Marigalante, e l'altre che a quel diritto stanno, come se ne farà al suo luogo particolar menzione. E se ora vi si naviga in men delli quaranta giorni che Seboso dice, nasce dall'essere migliori vasselli, e le genti piú esperte e destre ora nel navigare che non erano forse in quel tempo.
L'isola Desiata che detta abbiamo, sta per dritto nell'occidente, posta verso Capo Verde e l'isole Gorgoni, come Solino diceva. E dall'isola di San Giacobo, che è una delle piú occidentali di Capo Verde, o delle Gorgoni, fino all'isola Desiata, sono seicento leghe, poco piú o meno. Vi è anco questo, che, avendo Solino parlato dell'isole Gorgoni e delle Esperidi, segue poi separatamente delle Fortunate, e le pone al suo luogo dove elle sono, e fra l'altre che vi nomina non tace la Canaria, onde ora tolgono il nome. Ora, questo che Solino dice, viene con l'auttorità di Plinio approbato, il quale dice che Stazio Seboso, dalle Gorgoni alle Esperidi, pone la navigazione di quaranta giorni. Dal che si cava che l'Abulensi inconsideratamente disse che i poeti chiamano Esperidi l'isole Fortunate: che, se i poeti in questa opinione erano, s'ingannarono medesimamente come in molte altre cose fecero, perciochè dalle Gorgoni alle Fortunate non sono piú che ducento leghe, e meno anco: il che non sarebbe navigazione di quaranta giorni, come i sopradetti auttori dicevano. In tanto che i poeti per l'Esperidi non intesero altro che queste isole dell'Indie nostre, tanto piú che Isidoro dice che l'isole Esperidi, cosí dette dalla città Esperide, posta negli ultimi termini della Mauritania, sono oltre le Gorgoni negli intimi seni del mare. Non discorda questa sentenzia da quella di Beroso, perchè Espero, che diede alla Spagna e all'Italia il nome, chiamò anco da sé quella città Esperide, dalla quale l'isole Esperidi poterono avere il nome, come gliele puote anche egli dare. E si concorda bene in quello che fa al proposito nostro, che l'isole Esperidi siano queste sole che noi nell'Indie della Spagna abitiamo, poi che ne accenna, come Solino e Plinio, il luogo.
Or, come la Spagna e l'Italia tolsero il nome da Espero XII re di Spagna, cosí anco da questo istesso lo tolsero queste isole Esperidi che noi diciamo, onde senza alcun dubio si dee tenere che in quel tempo queste isole sotto la signoria della Spagna stessero, e sotto un medesimo re, che fu (come Beroso dice) 1658 anni prima che il nostro Salvatore nascesse. E perchè al presente siamo nel 1535 della salute nostra, ne segue che siano ora tremila e 193 anni che la Spagna e 'l suo re Espero signoreggiavano queste Indie o isole Esperidi. E con sí antica ragione e per la via che s'è detta, o per quella che si dirà appresso ne' viaggi dell'admirante don Cristoforo Colombo, ritornò il Signore Iddio questa signoria alla Spagna in capo di tanti secoli. E come cosa sua pare che abbia la divina giustizia voluto ritornargliele, perchè perpetuamente la possegga per la buona fortuna delli duo felici e catolici re don Fernando e donna Isabella, che conquistarono Granata e Napoli, e nel cui tempo e per cui ordine andò l'admirante don Cristoforo Colombo a discoprire questo nuovo mondo, o parte cosí grande di lui incognita per tanti secoli, e che a tempo della maestà cesarea dell'imperator nostro s'è piú ampiamente discoverta e intesa, per maggiore ampiezza della sua monarchia. In tanto che, fondando la intenzione mia con gli auttori che allegati ho, dico che presso gli antichi queste nostre Indie si sapevano, e perciò ne toccarono quello che s'è detto. E per questo io credo che, o per l'auttorità sopradette o per aventura per altre anco che di piú il Colombo potea sapere, si movesse egli a dovere cercare quello che poi ritrovò, come animoso isperimentatore di cosí certi pericoli e d'un cosí lungo viaggio. O che sia questa o pur altra la verità del suo motivo, egli fece una impresa cosí grande e generosa che mai niuno innanzi a lui fece in questi mari, se l'auttorità già dette di sopra non avessero luogo.
Come Cristoforo Colombo fu colui che insegnò agli Spagnuoli di navigare per l'altura del sole e della Tramontana, e come in Portogallo e in molti altri luoghi cercò chi l'aiutasse a questa impresa, e come poi finalmente per ordine delli re catolici fece questo viaggio.
Cap. IIII
È opinione di molti, e la ragione ci inchina a crederlo, che Cristoforo Colombo fosse il primo che in Spagna insegnasse di navigare l'amplissimo mare Oceano per l'altezza de' gradi del sole e della Tramontana, e lo ponesse in opera, perchè fino a lui, ancorchè per le scuole si leggesse tale arte, pochi (o per meglio dire niuno) s'arrischiavano d'esperimentarlo nel mare; perchè questa è una scienzia che non si può interamente esercitare, per saperla per isperienzia e con effetto, se non si usa in golfi grandissimi e molto dalla terra lontani; e i marinai e pilotti fino a quel tempo, secondo un lor giudicio arbitrario, navigavano e non con l'arte né con la ragione che in questi mari oggi s'usa, ma nel modo che fanno nel mare Mediterraneo e nelle costiere di Spagna e di Fiandra e per tutta Europa e Africa, dove non molto dalla terra si scostano. Per navigare adunque in provincie cosí remote da terra ferma, come sono queste Indie, bisogna che il pilotto della ragione del quadrante si serva, e al contrario, per poter del quadrante servirsi, vi si richiedono mari di molta longhezza e ampiezza, come sono da questa parte fino in Europa, o pure di qua verso la terra ferma di queste Indie che abbiamo da ponente.
Ora, mosso il Colombo con questo desiderio, come colui che sapeva il secreto e l'arte di questa navigazione (quanto al saper navigarvi), e che si sentia certificato della cosa, o per l'aviso del pilotto, che abbiamo di sopra detto che gli diede di questa incognita terra notizia (se cosí fu), o per le auttorità tocche nel precedente capitolo, o in qualunque modo si fosse che il suo desiderio ve lo spingesse, egli travagliò molto, per mezzo di Bartolomeo Colombo suo fratello, col re Enrigo VII d'Inghilterra, padre d'Enrigo VIII che oggi vi regna, perchè il favorisse e l'aiutasse a potere andare a discoprire questi mari d'occidente, offerendosi di dover dargli molti tesori per aumento di sua corona e nuovi stati di gran signorie e regni. Ma il re, informato dai suoi consiglieri e da persone alle quali fu la essamina di questa cosa commessa, si fece beffe di quanto il Colombo diceva, e tenne tutte per vane le sue parole. Egli, che vidde non essere udito, non si sconfidò già per questo, ma cominciò a trattare di nuovo questo negozio col re don Giovanni, II di questo nome, in Portogallo; ma né anco qui ebbero effetto alcuno le sue parole, benchè fosse egli maritato in questo regno, e si fosse per questo maritaggio fatto vassallo di questo re.
Veggendosi egli anco da ogni aiuto e favore del re di Portogallo escluso, determinò d'andarsene in Castiglia, per ivi negoziarlo di nuovo, e giunto a Siviglia ebbe le sue intelligenzie con l'illustre e valoroso don Enrigo di Guzman, duca di Medina Sidonia: e né anco con costui ritrovò effetto alcuno di quello che cercava. Onde piú largamente esseguí il negozio con l'illustre don Luigi Della Cerda, primo duca di Medina Celi, il quale medesimamente tenne per favolose e vane le parole e l'offerte del Colombo, benchè dicono alcuni che il duca di Medina Celi volle andare ad armare il Colombo nella sua terra del porto di Santa Maria, e che il re catolico e la reina non volsero dargli licenzia.
Ora, perchè cosí gran stato non doveva essere se non di chi ora è, se ne andò il Colombo nella corte delli serenissimi e catolici re don Fernando e donna Isabella, dove stette un tempo con molto bisogno e povertà, senza essere inteso da coloro che l'ascoltavano: ed esso procurava d'essere da quelli felici re favorito, perchè gli armassero qualche caravella, per potere a lor nome andare a discoprire questo nuovo mondo, o parte del mondo in quel tempo incognito. E perchè questa impresa era cosa della quale quelli che l'ascoltavano non avevano il concetto, né il gusto, né la speranza, che il Colombo solo ne aveva, non solamente poco conto ne facevano, ma non ne gli avevano né anco credito alcuno, e tenevano quanto egli diceva per una vanità. E questi importunamenti del Colombo durarono quasi sette anni: che esso sempre faceva molte offerte di gran ricchezze e stati per la corona reale di Castiglia, ma, perchè egli portava la cappa spellata e povera, era tenuto per un cianciatore, e favoloso di quanto diceva, sí perchè non era conosciuto, come persona straniera, e non aveva chi lo favorisse, come anco perchè le cose che esso prometteva di condurre a fine erano cose grandi e non piú mai udite.
Ora vedete se il grande Iddio ebbe pensiero di dare queste Indie a colui di cui sono, poi che, essendone stato pregato Inghilterra e Portogallo, con gli altri duchi che si sono detti, non permesse che alcuno di quelli re cosí potenti o di quelli duchi cosí ricchi volessero aventurare cosí poca cosa come era quella che il Colombo chiedeva, acciò che egli, partito discontento da quelli prencipi, venisse a cercare quello che poi ritrovò in questi altri, che in quel tempo cosí occupati si ritrovavano nella santa impresa contra i mori del regno di Granata. E non si dee niuno maravigliare se questi re e reina cosí catolici, occupati tutti a cercare la salute delle anime, piú che i tesori e che i nuovi stati del mondo, deliberarono di favorire questa impresa del Colombo, poi che vedevano che anco qui (se la cosa riuscita fosse) era per farsi un gran servigio a Cristo. E tengasi di certo che non poteva questa gloriosa impresa negarsi alla buona fortuna di questi re catolici, poi che né occhio vidde mai, né orecchia udí, né in cuore d'uomo ascese quello che il benigno Iddio apparecchia per gli suoi servi che l'amano. Onde questa e altre molte buone fortune a questi nostri catolici re s'appresentarono e offerirono, per essere cosí veri servi del Salvatore nostro, e cosí desiderosi d'accrescere la sua santa religione e fede. E questo fu solo perchè la volontà divina, che tutte le cose vede e di tutte ha cura, desse a questi prencipi notizia di Cristoforo Colombo.
Il perchè, quando fu giunta l'ora che si dovesse questo cosí gran negozio concludere, per questi mezzi fu in quel tempo che, come dicevano, il Colombo nella corte dimorava, praticava spesso in casa d'Alonso di Quintaniglia, persona molto notata e contatore maggiore del re catolico, e desideroso del bene e del servigio del suo re. Costui faceva dare da mangiare e altre cose necessarie al Colombo, movendosi a compassione della sua povertà, onde in costui ritrovò il Colombo piú cortesia e accoglienze che in altro uomo di tutta Spagna; e per rispetto e intercessione di costui fu conosciuto dal reverendissimo don Pietro Gonzales di Mendoza, cardinale di Spagna e arcivescovo di Toledo, il quale cominciò a dargli audienzia, e s'accorse che egli era savio e intendente, e dava conto di quello che diceva, onde ne 'l riputò per uomo d'ingegno e molto abile, e per questa buona riputazione che gli ebbe volse favorirlo.
Per mezzo adunque di questo cardinale e d'Alonso di Quintaniglia fu il Colombo ascoltato dal re e dalla reina, e si cominciò a dare qualche credito a' suoi memoriali. Finalmente si venne a concludere questo negozio, stando i re catolici all'assedio della famosa città di Granata, nel 1492. E da quel campo questi felici prencipi diedero spacciamento al Colombo in quella terra, che nel mezzo degli esserciti loro fondarono chiamandola Santa Fé, nella quale, o per dir meglio nella medesima santa fede che in quei cuori reali si ritrovava, ebbe principio il discoprimento di queste Indie: perchè quelli santi prencipi non si contentavano di quella impresa e conquista santa che fra le mani avevano, e con la quale imposero fine ai regni de' Mori della Spagna, che l'avevano posseduta dal 720 anni della salute nostra fino a questo tempo, che volsero anco mandare a cercare di questo nuovo mondo, per piantarvi la santa fede e non lasciarne andare ora vacua del servigio d'Iddio.
Ora con questo santo proposito fecero ispedire il Colombo, dandogli le sue provisioni e cedule regie, perchè in Andaluzia gli fossero date tre caravelle della portata e della maniera che esso le chiedeva, e con quelle genti e vettovaglie che bisognavano in cosí lungo viaggio, e del quale niuna maggior certezza s'aveva che il buon zelo e santo fine di cosí cristianissimi prencipi, nella cui fortuna e per cui ordine cosí gran cosa s'imprendeva. E perchè per cagione della guerra non aveva la corte danari per questo bisogno del Colombo, per fare questa prima armata ne li imprestò lo scrivano di razione Luigi di Sant'Angelo. Questa prima capitulazione che il re e la reina col Colombo fecero, fu nella terra di Santa Fede, nel campo di Granata, a' 17 d'aprile del 1492, e fu passata per mezzo del secretario Giovan di Coloma, e fu confirmata, per un real privilegio che gli fu fatto, in capo di tredici giorni nella città di Granata. E cosí partí il Colombo dalla corte e andossene in Palo di Moguer, dove si pose in ordine per quel viaggio.
Del primo viaggio dell'Indie fatto per Cristoforo Colombo, che le discoverse, onde ne fu degnamente fatto admirante perpetuo di questi mari.
Cap. V.
S'è detto a che modo e con quante giravolte venne ad essere conosciuto Cristoforo Colombo dalli re catolici, stando con l'esercito sopra la città di Granata, e come, essendo stato spedito, se n'andò a Palo di Moguer, per porsi in punto per questo suo viaggio. Egli andò in questo primo viaggio con tre sole caravelle, fornite e armate di quanto facea di bisogno; e secondo la capitulazione che fatta s'era, doveva il Colombo avere il decimo dell'entrate e diritti che al re toccavano di quanto egli discopriva. E cosí gli si pagò poi tutto il tempo mentre egli visse, doppo che queste isole discoverse; e fu anco cosí pagato al secondo admirante don Diego Colombo, suo figlio, e cosí ora anco ne gode don Luigi Colombo suo nepote, terzo admirante.
Prima che Cristoforo Colombo si ponesse in mare, consultò alquanti giorni di lungo questo suo viaggio con un religioso chiamato fra' Giovan Perez, dell'ordine di san Francesco, che era suo confessore e stava nel monasterio della Rabida, che è una mezza lega lungi di Palo verso il mare. Con questo fra' Giovanni solo communicò il Colombo i suoi secreti, e ne ricevette molto aiuto, perchè questo religioso era buon cosmografo. Era con costui in questo monasterio stato il Colombo qualche tempo prima, e da lui era stato spinto agire nel campo di Granata, quando vi ottenne il suo intento. Nel ritorno adunque si venne a stare nel medesimo monasterio, e ordinò co 'l padre la vita e l'anima sua, perchè come buon cristiano si confessò e communicò, e pose nelle mani del misericordioso Iddio questo suo viaggio, come negozio nel quale doveva servirlo e accrescerne la sua republica cristiana e fede catolica.
Egli finalmente di venerdí, a' tre di agosto del medesimo anno del 1492, uscí dal porto di Palo, per lo fiume di Saltes, nel mare Oceano, con le sue tre caravelle armate: la capitana, su la quale esso andava, era chiamata la Gallega; delle altre due, una se ne chiamava la Pinta, e n'era capitano Martino Alonso Pinzon, l'altra era chiamata la Ninna, e n'era capitan Francesco Martino Pinzon, e con lui andava Vincenzio Pinzon; ed erano tutti tre questi capitani fratelli e pilotti e cittadini di Palo, e la maggior parte delle genti che in questa armata andavano erano di Palo medesimamente, e potevano esser tutti da 120 uomini. Usciti nel mare voltaron le prore per l'isole di Canaria, che gli antichi chiamarono Fortunate.
Queste isole stettero gran tempo che non vi si navigò, né vi si sapea navigare, finchè a tempo poi del re don Giovanni, secondo di questo nome, stando in Castiglia fanciullo e sotto la tutela della reina donna Caterina sua madre, furono ritrovate e vi si ritornò a navigare, perchè con ordine e licenzia di questi prencipi si conquistassero, come a lungo si scrive nella cronica di questo stesso re don Giovanni. Doppo il quale molti anni Pietro di Vera, nobile cavalliero di Scerez della Frontiera, e Michel di Moscica conquistarono la Gran Canaria in nome delli re catolici don Fernando e donna Isabella; e con questa anco tutte l'altre, fuori che la Palma e Tenerife, che per ordine delli medesimi re catolici furono conquistate da Alonso di Luco, che fu fatto come governatore di Tenerife. Queste genti delle Canarie erano molto valorose, ancorchè quasi ignude andassero, ed erano cosí selvaggie che alcuni affermano che essi non conoscessero che cosa fusse il lume, fin che i cristiani conquistarono quelle isole. Le loro arme erano pietre e bastoni, con i quali molti cristiani ammazzarono, finchè furono soggiogati e posti sotto l'obedienzia di Castiglia, di cui le dette isole sono.
Le prime e piú vicine stanno 200 leghe lontane da Spagna, e l'isola di Lazarote e l'isola del Ferro ne sono lontane 240, di modo che esse si rinchiudono e comprendono tutte nello spazio di 55 o 60 leghe, e stanno poste da 27 fino a 29 gradi dalla linea equinoziale, dalla parte del nostro Polo Artico. L'ultima loro isola o la piú occidentale era verso levante, al capo del Boiador che chiamano, in Africa, e ne è sessantacinque leghe lontana. Tutte queste sono isole fertili e abondanti di tutte le cose necessarie alla vita umana, di assai temperato aere. Al presente poche genti vi sono di quelle che vi erano prima che si conquistassero, ma tutte si abitano da' cristiani.
Ora qui, come in luogo per la sua navigazione al proposito, giunse il Colombo con le tre sue caravelle, e vi tolse acqua, carne, legna, pesce e altri rinfrescamenti che per seguire il suo viaggio gli bisognavano. Egli poi a' 6 di settembre del medesimo anno del 92 partí dell'isola di Gomera, e navigò molti giorni per lo gran mare Oceano, finchè coloro che con lui andavano incominciarono a sbigottirsi, e averebbero voluto ritornarsi a dietro. E perchè di questo camino temevano, e mormoravano della scienzia del Colombo e del suo tanto ardimento, e perchè ogni ora cresceva piú in loro il timore, e mancava la speranza di potere giungere alla terra che cercavano, incominciarono le genti e li capitani ad abbottinarsi, e alla sfacciata publicamente gli dicevano che esso gli aveva inganati e che gli conduceva a perdere, e che il re e la reina avevano fatto molto male e si erano con loro assai crudelmente portati in fidarsi d'un simile uomo e dar credito ad una persona straniera, che non sapeva quello che si dicesse. E venne a tanto la cosa che lo certificarono che s'egli non si ritornava l'averebbono fatto a suo malgrado volgere a dietro, o l'averebbono gettato in mare, perchè pareva loro che esso stesse disperato, ed essi non volevano insieme con lui disperarsi, e non credevano che esso avesse mai potuto giungere al fine di questa impresa nella quale posto si era. E per questo ad una voce tutti si accordavano di non seguitarlo.
In questo tempo e in queste contenzioni ritrovarono in mare gran praterie d'erbe sopra l'onde, che praterie a ponto parevano: onde, pensando che fosse terra sotto acqua e che perciò perduti fossero, raddoppiavano le voci e gli stridi. E senza alcun dubbio a chi mai tal cosa veduta non aveva era cosa da dovere molto temerne. Ma accortisi poi che non vi era pericolo alcuno, passò quella alterazione e spavento. Queste sono certe erbe che le chiamano salgazzi, e vanno sopra la superficie dell'acqua del mare, e secondo i tempi e le correnti vanno ora verso ponente, ora verso levante, ora verso mezzogiorno, ora verso tramontana, e alle volte si ritrovano a mezzo golfo, alle volte piú lontane o piú vicine alla Spagna; e in qualche viaggio accade che i vasselli ne incontrano poco o nulla, e alle volte anco tanto che paiono (come s'è detto) gran prati verdi e gialli, perchè a questi due colori in ogni tempo dependono.
Usciti da questi pensieri e paure dell'erbe, determinarono tutti tre i capitani con quanti marinari vi erano di volgere le prore adietro, e consultarono anco fra se stessi di gittare il Colombo nel mare, credendo di essere stati da lui burlati. Ma esso, che era savio e di questi mormoramenti s'accorse, come prudente, cominciò a confortargli con molte dolci parole, pregandogli che non avessero voluto perdere quel travaglio e tempo che fino a quell'ora speso avevano. Ricordava loro quanta gloria e utile sarebbe lor seguito dallo stare costanti e perseverare nel viaggio, e prometteva che fra pochi giorni si darebbe alle lor fatiche e viaggio fine, con molta e indubitata prosperità; e concludeva loro che fra il termine di tre giorni averebbono ritrovata la terra che cercando andavano, e che per questo stessero di buono animo e proseguissero il loro viaggio, che fra il termine che detto avea averebbe lor mostro un mondo e terra nuova, con por fine a' loro travagli, e con vedere che esso aveva detto sempre il vero al re e alla reina come a loro; e che, essendo altramente che come esso diceva, facessero quello che loro paresse, perchè esso teneva per certo che diceva il vero.
Con queste parole mosse que' cuori timidi a qualche vergogna, e spezialmente i tre capitani pilotti e fratelli: onde deliberarono tutti di fare quello che il Colombo diceva e di navigare quelli tre giorni e non piú, in fino del quale tempo non veggendo terra si sarebbono ritornati in Spagna. E questo tenevano essi piú per certo, perchè non era fra loro alcuno che pensasse che in quel parallelo e camino che facevano si fosse dovuta ritrovare terra alcuna. Dissero adunque al Colombo che quelli tre giorni il seguirebbono, ma non piú una ora, perchè credevano che non dovesse essere certa cosa alcuna di quante esso diceva, onde perciò tutti ricusavano di volere passare innanzi, dicendo che non volevano andare a morire di piano patto, e che la vettovaglia e l'acqua che avevano non potea bastare loro a ritornare in Spagna senza molto pericolo, benchè e nel mangiare e nel bere si regolassero. E perchè i cuori che temono ogni cosa a suo male rivolgono, massimamente nell'esercizio del navigare, non restavano momento alcuno di mormorare e di minacciare il loro capitano e guida; né egli manco si riposava né cessava ponto di confortargli e animargli, e quanto piú conturbati gli vedeva, piú esso si mostrava nel viso allegro, per cavare loro dai cuori il timore.
E quel dí stesso che il Colombo queste parole disse, realmente conobbe che stava presso a terra, alla vista dell'aere e di que' nuvoletti che nel por del sole nell'orizonte si veggono. E ordinò ai pilotti che, se per caso le caravelle s'appartassero alquanto l'una dall'altra, corressero verso la parte che esso lor disse, per ridursi di nuovo insieme in conserva; e sopravenendo la notte fece calar le vele e correre con li trinchetti solamente bassi. Mentre che a questo modo andavano, un marinaio di quelli che andavano nella capitania, che era di Lepe, disse: "Lume, lume; terra, terra". E tosto un servitore di Colombo, chiamato Salzedo, replicò dicendo: "Questo stesso e l'ha già detto l'admirante mio signore". E il Colombo tosto soggiunse: "Poco ha che io l'ho detto, e ho veduto quel lume che è in terra". E cosí fu che un giovedí, due ore doppo mezzanotte, l'admirante chiamò un gentiluomo chiamato Escobedo, repostiero di letti del re catolico, e gli disse che vedeva lume.
La mattina seguente, sul farsi dí, all'ora che aveva il giorno avanti il Colombo detto, dalla capitania si vidde l'isola che gli Indiani chiamano Guanahani, dalla parte di tramontana. E colui che vidde primo terra quando fu giorno si chiamava Rodrigo di Triana; e fu questo dí che si scoverse terra agli undici d'ottobre del medesimo anno del 92. E perchè le parole del Colombo riuscirono vere, in vedersi terra nel tempo che esso detto aveva, si suspicò maggiormente che egli ne fosse certificato prima da quel pilotto che s'è detto di sopra, che morí in casa sua. Potrebbe bene anco essere che, veggendo esso determinati tutti di volere ritornarsi adietro, confidandosi nella bontà d'Iddio, dicesse quelle parole e vi constituisse quel termine.
Ma, ritornando all'istoria, questa isola che prima si vidde, come s'è detto, è una dell'isole che chiamano delli Lucai. Quel marinaro che ho detto che vidde il lume in terra, ritornato poi in Spagna, perchè non gli si diede il beveraggio, licenziatosi se ne passò in Africa e rinegò la fede; e come s'è detto di sopra era di Lepe, che cosí m'hanno referito Vincenzio Iannez Pinzon e Fernando Perez Matheos, che in questo primo viaggio si ritrovarono.
Or, quando l'admirante vidde terra, inginocchiatosi e con le lagrime sugli occhi per soverchio piacere, cominciò a dire con Ambrogio e con Augustino: "Te Deum laudamus, te dominum confitemur, etc.". E cosí ringraziando nostro Signore, con tutti gli altri che seco andavano incredibile festa l'un l'altro facevano, e chi abbracciava il Colombo, chi gli baciava la mano, chi gli dimandava perdono della poca constanzia che mostro avevano, e altri gli domandavano grazie e gli s'offerivano per suoi. In effetto era cosí grande il piacere e la festa che si facevano, abbracciandosi l'uno con l'altro, che non si potrebbe di leggiero dire: e io lo credo bene e lo so, perchè se ora che il viaggio è securo e certo, tanto nel venir qui in queste isole come nel ritornare poi in Spagna, si sente incredibile piacere veggendosi terra, quanto si dee pensare che ne sentissero costoro, che cosí dubbio e incerto cammino facevano, quando si viddero certificati e securi del lor riposo? Ma si dee sapere che alcuni dicono il contrario di quello che qui s'è detto della constanzia del Colombo, perciochè affermano che egli di sua volontà si sarebbe ritornato a dietro e non sarebbe giunto al fin del viaggio, se que' fratelli Pinzoni non l'avessero fatto navigare oltre; onde dicono che per cagione di costoro si fece questo discoprimento dell'Indie, perchè il Colombo non aveva animo di passare piú oltre. Ma sarà meglio a rimettere questo a un lungo processo che s'è fatto fra l'admirante e il fiscal regio, dove s'allegano molte cose pro e contra: si che io in ciò non m'intrometto, per essere cose di giustizia e che per via di giustizia s'hanno a terminare. Basti che io abbia amendue l'opinioni dette: tolga il lettore quella che gli parrà piú vera secondo il giudicio suo. Tardò il Colombo in questa navigazione dall'isole di Canaria finchè vidde la prima terra che ho detto trentatre giorni, e giunse a vista di queste prime isole del mese d'ottobre del 1492.
Come l'admirante discoprí questa isola Spagnola e vi lasciò trentaotto cristiani, mentre che esso ritornava in Spagna a dar nuova di questo primo discoprimento.
Cap. VI.
Nell'isola di Guanahani che s'è detta, ebbe l'admirante con gli altri suoi vista di genti indiane ignude; e qui ebbero notizia dell'isola di Cuba, e scoversero tosto molte isolette che si veggono intorno a Guanahani, e le chiamarono i cristiani isole Bianche, perchè bianche paiono per la molta arena che v'è; ma l'admirante le chiamò Le Principesse, perchè furono il principio della vista di queste Indie. Giunse fra queste isole il Colombo, e specialmente fra questa di Guanahani e un'altra chiamata Caicos, ma non prese terra in niuna di queste isole, come dice Fernando Perez Matheos pilotto, che al presente si ritrova in questa città di San Domenico, e dice che vi si ritrovò. Ma io ho udito dire da molti altri che l'admirante smontò in terra nell'isola di Guanahani e la chiamò San Salvatore, e che qui tolse la possessione: e questo è piú certo, e che si dee piú tosto credere. E da questa isola ne venne poi a Baracoa, porto dell'isola di Cuba dalla banda di tramontana, il qual porto è dodici leghe piú verso ponente che non è la punta che chiamano Maici. Ora, qui ritrovò gente cosí dell'isola propria di Cuba, come delle altre che le stanno poste da tramontana, che sono la già detta isola di Guanahani e altre molte che ivi sono, e si chiamano l'isole delli Lucai, benchè abbiano ciascuna il suo proprio nome: come è Guanahani, Caicos, Giumeto, Iabache, Maiaguana, Samana, Guanima, Iuma, Curateo, Ciguateo, Bahama (che è la maggior di tutte), Iucaio, Nequa, Habacoa e altre molte isolette picciole che ivi sono.
Or, ritornando all'istoria, giunto l'admirante all'isola di Cuba, dove s'è detto, saltò in terra con alquanti cristiani, e dimandava a quelle genti dell'isola di Cipango; coloro per segni gli rispondevano, e gli segnalavano che era in questa isola di Haiti, che ora chiamiamo l'isola Spagnola. Credendo gl'Indiani che l'admirante non accertasse il nome che egli diceva, gli dicevano "Cibao, Cibao", pensando che per voler egli dire Cibao dicesse Cipango, perchè Cibao è quel luogo in questa isola Spagnuola dove sono le piú ricche minere e di piú fino oro. E cosí l'admirante con le tre caravelle, guidato d'alcuni Indiani che di lor volontà con lui s'imbarcarono, se ne venne da quel porto di Baracoa da Cuba in questa isola d'Haiti, che chiamiamo ora Spagnuola, e dalla banda di tramontana sorse in un buon porto, che il chiamò porto Reale. Ma nell'entrarvi toccò terra la capitana, chiamata la Gallega, e s'aperse: ma non vi perí uomo alcuno, e molti pensarono che il Colombo avesse ciò fatto studiosamente, per lasciar quivi parte della gente in terra, come poi lasciò.
Ora qui smontò con tutte le sue genti il Colombo, e tosto vennero a parlare e conversare con cristiani pacificamente molti Indiani di quella contrada, della quale era signore il re Guacanagari; che chiamano caciche in lor lingua, quello che noi diciamo re. Con costui si contrattò tosto pace e amistà, perchè egli vi venne assai volentieri, e l'admirante con gli altri suoi conversò domesticamente e spesso con lui, e gli donarono alcune cose di poco valore appresso i cristiani, ma molto dagli Indiani stimate, come sono sonagli, spilletti, aghi, e certi pater nostri di vetro di diversi colori, le quali cose il caciche e li suoi Indiani con molta maraviglia contemplando mostravano di stimar molto, e facevano molta festa quando si dava loro alcuna di queste cose; ed essi all'incontro portavano a' cristiani de' loro cibi e altre lor cose.
Veggendo l'admirante che queste genti erano cosí domestiche, gli parve di potere sicuramente lasciare quivi alcuni cristiani, perchè, mentre che esso ritornava in Spagna, apprendessero la lingua e i costumi di quelli luoghi; onde fece fare un castello quadro a modo d'uno steccato con li legni della caravella che s'era aperta in quel porto, e con fascine e terreno, il meglio che si puote, in quella costiera appresso del porto; e diede l'ordine a trentaotto uomini, che volle che quivi restassero, di quello che dovevano fare, mentre che esso portava cosí buone novelle alli re catolici e ritornasse con molte grazie per tutti; anzi di piú offeriva gran premii a quelli che quivi restavano. E a questi nominò e lasciò per capitano un gentiluomo di Cordova chiamato Roderigo d'Arane, comandando a tutti che l'ubbidissero come alla persona sua propria; e se costui fusse per disgrazia morto mentre che esso tardava a ritornare, nominò loro un altro per capitano, e per la morte di questo secondo nominò anco un terzo, e lasciò con loro un maestro, Giovanni Chirurgico, buona persona. A tutti ricordò che non dovessero entrare dentro terra né discompagnarsi dal capo loro né dividersi, né prendere donne né dare gravezza né noia alcuna agl'Indiani per niuna via, quanto lor fusse possibile.
E perchè s'era perduta la capitana, l'admirante se ne passò nella caravella chiamata la Ninna, dove andavano Francesco Martino e Vicenzo Iannez Pinzon. Ma perchè al padrone dell'altra caravella Pinta, chiamato Martino Alonso Pinzon, non piaceva che queste genti restassero, quanto egli puote vi contradisse, dicendo che era mal fatto che quelli cristiani restassero (essendo cosí pochi) tanto lontani da Spagna, perchè vi si sarebbono potuto facilmente perdere, non potendo provedersi delle cose necessarie né sostentarsi. E con queste disse molte altre parole a questo proposito, di che l'admirante si risentí molto e si crucciò. Martino Alonso, dubitando che il Colombo no 'l facesse prendere, si pose con la sua caravella in mare e se n'andò nel porto che fu poi chiamato della Grazia, venti leghe lontano dal porto Reale, verso levante. E mentre che l'admirante fu in quello edificio del castelletto occupato, s'intese d'alcuni Indiani dove Martino Alonso con la sua caravella stava.
Allora i duo fratelli Pinzoni che erano con l'admirante cercarono di ridurre il fratello nella grazia del Colombo, il quale facilmente per molti rispetti gli perdonò, e specialmente perchè la maggior parte delle genti marinaresche che seco aveva erano parenti e amici di questi fratelli Pinzoni e d'una medesima terra, e questi tre erano i piú principali, che si tiravano tutti gl'altri appresso. E gli scrisse adunque una lettera assai graziosa e come a quel proposito si conveniva, e la mandò a quel porto, che per ciò volle che si chiamasse il porto della Grazia, come fino a questa ora si chiama. E gli Indiani che la lettera portarono ritornarono con la risposta di Martino Alonso, che riputava in grazia il perdono. E cosí appontarono che in un certo dí si dovessero amendue le caravelle ritrovare insieme alla Isabella, che era un luogo per la medesima costiera, lungi da disdotto leghe da porto Reale verso oriente. Qui saltarono tutti in terra d'accordo e pacifici. Non poco si maravigliavano gl'Indiani veggendo come per mezzo di quelle lettere i cristiani s'intendessero, e però quei messi le portavano poste in certe bacchette, perchè con timore e rispetto le miravano, e credevano che qualche spirito avessero, e come gli altri uomini per qualche deità e non per arte umana parlassero.
Quando l'admirante vidde le due caravelle unite, avendo lasciati li trentaotto uomini dove s'è detto, prese acqua e legne e quel piú che poterono di vettovaglie del paese, acciochè piú lor durasse quel che di Castiglia portato avevano, e uscí di Isabella, che questo nome pose egli a quella provincia e porto, in memoria della reina donna Isabella. Indi amendue le caravelle se n'andarono al porto della Plata, che questo nome l'admirante gli pose, e poi passarono al porto di Samana, che cosí gl'Indiani lo chiamavano. E di Samana, che è pure nell'isola Spagnuola, dalla parte di tramontana, fecero le due caravelle vela alla volta di Castiglia con molto piacere, raccomandandosi tutti a Dio e alla buona fortuna delli re catolici, che aspettavano cosí gran nuove, non confidando tanto nella scienzia del Colombo quanto nella misericordia di Dio.
E in questo ritorno menò seco l'admirante in Spagna nove o dieci Indiani, perchè come testimonii della sua buona fortuna baciassero la mano al re e alla reina, e vedessero le terre de' cristiani e apprendessero la lingua, perchè poi nel ritorno nelle Indie fussero interpreti, insieme con gli altri cristiani che erano in quel castello restati, raccomandati a Goacanagari: e per questa via si potessero conversare e conquistare poi quelle genti. E come era al Signore Iddio piaciuto di fare la navigazione prospera in questo primo viaggio, perchè si ritrovassero e discoprissero questi luoghi, cosí permesse anco che fusse prospero il ritorno e a salvamento in Spagna.
E avendo prima riconosciute l'isole d'Azori, a' quattro di marzo del 1493 giunse l'admirante in Lisbona, donde poi si partí e giunse al porto di Palos, dove s'era già per questo viaggio imbarcato: e non stette piú che cinquanta dí da che partí da questa isola Spagnuola fin che prese terra in Castiglia. Ma prima che vi prendesse terra, stando già presso Europa, si separarono per tempesta le due caravelle l'una dall'altra, e l'admirante corse a Lisbona, e Martino Alonso a Baiona di Galizia, e poi tolsero amendue il cammino verso il fiume di Saltes, e casualmente v'entrarono amendue in un medesimo giorno, l'admirante la mattina e l'altra caravella la sera al tardi. E perchè Martino Alonso sospettava che per le cose passate nol facesse l'admirante prendere, montò sopra una barca della caravella e se n'andò dove gli parve secretamente. E perchè l'admirante si partí tosto alla volta della corte, con la gran nuova del discoprimento che fatto avea, Martino Alonso, tosto ch'egli l'intese, se n'andò a Palos a casa sua, dove fra pochi giorni morí, perchè molto infermo vi giunse. Stette l'admirante a riconoscere la prima terra di queste Indie nell'isole delli Lucai, come s'è detto, da che partí di Spagna quasi tre mesi, e altri tre n'andarono fra lo stare qui e 'l ritornarsi a dietro, di modo che in tutto questo viaggio fra l'andare e il venire consumò sei mesi e dieci dí, poco piú o meno.
Ma, ritornando all'istoria, il Colombo smontò in terra a Palos, con gl'Indiani che menava seco, de' quali n'era morto uno in mare: e due o tre ch'erano infermi gli lasciò in Palos, gli altri sei, che stavano sani, condusse seco alla corte delli re catolici, alli quali sperava dare cosí buona nuova in aumento de' lor regni di Castiglia. La qual nuova in cosí breve tempo non si sperava, perchè in effetto fu cosa di maraviglia quello, che s'è veduto poi, altre navi e caravelle andare e venire prima che questa navigazione fusse bene intesa; anzi fino ad oggi, che si sa e intende, avrebbon che fare due navi a fare in cosí breve tempo quello stesso viaggio; e pure allora andarono a tentoni, e sempre col piombo alla mano e abbassando le vele di notte e sempre dubbiosi, come sogliono fare i savi e prudenti pilotti quando vanno per discoprire e navigano mari che essi non sanno e che non hanno prima navigati.
Non piacerà per aventura o non sarà cosí dilettevole questa parte dell'opera mia a coloro che sogliono vivere in terra e non hanno navigato il mare. Ma abbiano rispetto che io scrivo e a questi e a quelli: tolgasi ciascuno quello che fa piú a suo proposito e gusto, e lasci l'altro per colui di cui è, che ben veggo che le genti di mare m'incolperebbono s'io non toccassi anco quello che fa per loro; e i cavallieri e le genti di terra, che non intendono alcuni termini della navigazione che io qui tocco, passino innanzi, che già questo non gli impedisce a potere proseguire commodamente il resto.
Di quattro cose notabili che avvennero nel millequattrocentonovantaduoi, e come il Colombo venne alla corte delli re catolici con la nuova delle nuove Indie, e delle grazie che gli furon fatte.
Cap. VII.
Con meno auttorità insegna chi parla le cose che ha udite che colui che dice quelle che ha vedute. Questo lo dice san Gregorio sopra Iob, e io nol reco qui a consequenzia solamente per quelli che hanno in Spagna scritte le cose dell'Indie per udita, ma lo dico perchè parlerò io qui nell'Indie di quelle di Spagna, e parrà strano ad alcuno. Ma io, se ben che qui vivo, nondimeno viddi anco con gli occhi quello che in Spagna accadette. Sí che, perchè non è fuori del proposito mio, dico che fu molto notabile in Spagna l'anno del 1492, perchè a' due di gennaio li re catolici don Fernando e donna Isabella presero la famosa città di Granata; e nella fine di luglio cacciarono dai regni loro i giudei; e a' sette di decembre, in venerdí, un villano di Remensa, terra di Catalogna, chiamato Giovanni di Cagnamares, dette in Barzellona una coltellata al re catolico nel collo, cosí pericolosa che egli fu per morirne. E di quel traditore fu fatta signalata giustizia, ancorchè, per quello che si vidde, egli fosse un matto, perchè sempre disse che se l'avesse morto sarebbe stato esso re.
Ora, in quel medesimo anno, discoperse il Colombo queste Indie, e giunse a Barzellona nell'anno seguente del novantatre, del mese d'aprile, e ritrovò il re assai debole, ma fuori di pericolo di quella ferita che avuta avea. Queste cose notabili ho voluto io recare a memoria, per mostrare il tempo nel quale giunse il Colombo alla corte: e io di ciò parlo come testimonio di vista, perchè mi ritrovai paggio e garzonetto nell'assedio di Granata e viddi fondare la terra di Santa Fede in quello esercito, e poi viddi entrare nella città di Granata il re catolico e la regina, quando i granatini s'arresero; e viddi cacciare i giudei di Castiglia; e mi ritrovai in Barzellona quando vi fu il re ferito, come s'è detto; e vi viddi poi venire l'admirante don Cristoforo Colombo, con li primi Indiani che di queste parti andassero in Spagna. Sí che non ragiono io per udita niuna di queste quattro cose, ma sí ben di vista, ancorchè le scriva di qua, dove ho i memoriali miei scritti in quel medesimo tempo.
Ma ritorniamo all'istoria nostra. Giunto il Colombo in Barzellona, con li sei Indiani che menò seco, e con alcune mostre d'oro, e con molti pappagalli e altre cose che queste genti quivi usavano, fu assai benignamente e graziosamente ricevuto dal re e dalla regina; e doppo che egli ebbe data longa relazione e particolare di quanto in questo suo viaggio passato aveva, gli fecero questi cortesi re molte grazie e lo cominciorono a trattare come persona generosa e di stato, tanto piú che l'essere di sua propria persona lo meritava assai bene. Ma al parer mio, sotto la protesta fatta da me nel primo libro, dico che si dee tenere che in queste nostre Indie fu la verità evangelica predicata, perciochè san Iacopo apostolo e poi san Paolo (come s. Gregorio ne' suoi Morali scrive) la predicarono prima nella nostra Spagna, donde poi nell'Indie la transferirono; ma l'avevano già queste genti selvaggie indiane posta del tutto in oblio, e adoravano i loro tanti idoli con le tante lor vane superstizioni; e ora sono ritornate a riconoscere questa verità santa, che tutta via non si resta di predicarvisi e d'ampliarvisi. Il che non è di poco merito appresso Iddio alla nostra nazione, che è in queste provincie cosí rimote penetrata, e posto per la via della salute tanti regni di genti idolatre e perse, mercé del primo admirante don Cristoforo Colombo, che a cosí bella impresa si mosse.
Ma lasciamo questa materia a' teologi, perchè se ne potrebbe tanto dire che se ne stancherebbono molte penne, massimamente nelle lodi de' re catolici don Fernando e donna Isabella e de' loro successori, che hanno perseverato in questo santo zelo della conversione di queste genti; perchè in effetto, per loro volontà ed espressi ordini, s'è sempre proveduto e a questo rimedio dell'anime di questi popoli rozzi, e a fare che ben trattati fussero. E se in ciò s'è punto mancato, ne sono stati i ministri solamente cagione, che venuti in queste parti per governatori o per prelati hanno poco pensiero avuto di quello che fare dovevano, benchè queste negligenzie tanto durano quanto tardano a venire a notizia o dell'imperatore o del suo consiglio reale dell'Indie, perchè tosto vi si provede con quella attenzione e amenda che si conviene. Ma io, nel vero, non voglio la cagione principale di questi inconvenienti attribuire agli officiali o ministri di cosí pia opera come è l'addottrinare queste genti indiane, ma a queste genti selvaggie stesse piú tosto, che per la loro incapacità e mala inclinazione ritornano facilmente al vomito; e rarissimi sono fra loro quelli che nella fede perseverano, perchè cosí ne saltano agevolmente a dietro, come fa il grandine che nella punta d'una lancia percuota. E bisogna che Iddio ponga in ciò la sua divina mano, perchè tanto quelli che insegnano quanto quelli che imparano abbiano a fare piú frutto di quello che fin qua fatto s'abbiano.
Ma, ritornando al nostro ordine, li sei Indiani che col Colombo in Barzellona giunsero, di lor propria volontà o pur che vi fossero consigliati, chiedettero il battesimo: e li re catolici per lor clemenzia gli fecero battezzare. E ambidue, insieme col prencipe don Giovanni, lor primogenito ed erede, furono i padrini, e chiamarono uno de' battezzati, che era il piú principale degli altri, don Fernando d'Aragona: ed era costui nativo dell'isola Spagnuola, e parente del caciche Goacanagari. Un altro ne chiamorono don Giovan di Castiglia, e agli altri altri nomi, come essi stessi chiesero o a lor padrini piacque. Ma quel secondo chiamato don Giovan di Castiglia lo volse il prencipe per sé, e lo fece in casa sua restare, e cosí ben trattare e mirare come se fusse figliuolo di qualche cavaliero principale che esso molto amasse, e lo fece addottrinare nelle cose della nostra fede, e ne diede al suo maiordomo il carico. E questo Indiano viddi io poi in stato che parlava benissimo la lingua castigliana; ma indi a duo anni morí. Tutti gli altri Indiani se ne tornarono in questa isola Spagnuola, nel secondo viaggio che fece l'admirante. Ma quelli grati e catolici prencipi fecero al Colombo segnalate grazie, e specialmente gli confirmarono il suo privilegio in Barzellona, a' 28 di maggio del 93. E fra l'altre molte cose lo fecero nobile, diedero a lui e a tutti i suoi descendenti titolo di admirante perpetuo di queste Indie, e che tutti i suoi posteri e i suoi fratelli anco si chiamassero donni, e gli diedero l'arme reali di Castiglia e di Leone mischiate e compartite con altre che di nuovo gli concedettero, approbando e confirmando le altre arme antiche del suo lignaggio: e cosí dell'une e delle altre formarono un nuovo e bello scudo, con le sue arme e divise, nella forma che qui si vede.
Questo è uno scudo con uno castello di oro in campo vermiglio, con le porte e sue fenestre azurre, e con un leone purpureo in campo d'argento, con una corona di oro in testa e con la lingua fuori, come li re di Castiglia che di Leone gli fanno; e questo castello e leone hanno da stare sopra la testa dello scudo, il castello da mano diritta e il leone da mano manca. Il resto poi di sotto ha da stare compartito in due parti: nell'una da mano diritta ha da stare un mare, in memoria del grande Oceano; l'acque hanno da essere dal naturale, azurre e bianche, che vi ha da stare posta la terra ferma dell'Indie, che occupi quasi tutta la circonferenzia di questo quarto, lasciando solamente la parte di sopra aperta e col mare, di modo che le ponte di questa terra ferma mostrino di occupare la parte di mezzodí e di tramontana. E la parte inferiore, che significa l'occidente, è la terra che con queste due punte va continuandosi; e in questo mare hanno a stare molte isole grandi e picciole di varie forme. La quale terra ferma e isole dell'Indie hanno a stare verdi, e con molti alberi che mai perdono la fronda; e si hanno a mostrare in questa terra ferma molti granelli d'oro, in memoria delle tante e cosí ricche miniere d'oro che in queste parti sono. Nell'altro quarto dello scudo, da mano manca, poi hanno da essere quattro ancore di oro in campo azurro, come insegna propriamente appropriata all'ufficio e titolo di admirante che scoperse quelle Indie. Nella parte inferiore dello scudo sono poi l'arme del lignaggio del Colombo, cioè una testa; e di qua in giú una benda overo lista azurra in campo di oro. Sopra lo scudo è poi una baviera di grandezza al naturale, con otto lumi o viste, con un torchio e dependenzie azurre e d'oro. E sopra alla baviera per cimera un mondo tondo con una croce sulla cima; e nel mondo vi ha dipinta la terra ferma e le isole, della maniera che si sono dette di sopra. E per fuori dello scudo uno scritto in uno rotolo bianco, che a questo modo dice: "Per Castiglia e per Leon, nuovo mondo trovò Colon".
Per rispetto dell'admirante, fecero medesimamente i re catolici Bartolomeo Colombo, suo fratello, adelantado di questa isola Spagnuola, la quale dignità d'adelantado è la principale e la piú degna che sia nel regno, ed è uno ufficio del regno di soprema auttorità. Gli fecero ancora molte altre segnalate grazie, che qui per evitare la prolissità si tacciono: ma ampiamente nel suo privilegio si veggono che questi prencipi gli concedettero, e che ciò ho molte volte veduto.
Del secondo viaggio che Cristoforo Colombo fece a questa isola Spagnuola, e della concessione che papa Alessandro sesto fece di queste isole alli re catolici e suoi successori; e come furono discoperte l'isole degl'Indiani chiamati Caribi, con altre cose notabili.
Cap. VIII,
Chi non sa che il Signore Iddio ci diede le cose terrene per nostro uso, e che creò l'anime degli uomini per l'uso suo, come san Gregorio sopra Iob dice? Ora a questo effetto i felici re don Fernando e donna Isabella, desiderosi della salute dell'anime di questi Indiani, fecero ritornare l'admirante don Cristoforo Colombo a questa isola Spagnuola con una buona armata, nella quale andorono alcuni cavalieri e nobili della corte del re, con altri gentiluomini desiderosi di vedere questa nuova terra e le sue cose. Ma prima che questa armata partisse, ebbero quei santi prencipi dal sommo pontefice la grazia e la concessione di queste Indie, acciochè con piú giusto titolo il santo proposito loro s'affettuasse, che era d'ampliare la religion cristiana; perchè ancor senza licenzia del pontefice potevano questa impresa esequire, per essere questi mari e imperio della conquista e corona di Castiglia, e per essersi solamente i re catolici don Fernando e donna Isabella occupati in questa santa e degna impresa, tanto piú che, come s'è detto di sopra, già molti secoli prima fu questa signoria delli re di Spagna.
Il pontefice adunque diede al re e alla regina, e a' lor successori nelli regni di Castiglia e di Leone, queste Indie con quanto è con loro annesso, tirando una linea da polo a polo per diametro, da cento leghe in là dell'isole degli Astori e di quelle di Capo Verde; sí che quanto si ritrova discorrendo da quella linea verso ponente, che non si possedesse attualmente da qualche prencipe cristiano, tutto per li re catolici si conquistava. E dopo di questo fu fra Castiglia e Portogallo di buono accordo concluso e fatto che dalle sopradette isole 370 leghe verso ponente si tirasse una linea da polo a polo, e quello che fra questa linea e l'altra detta di sopra si ritrovasse fosse di Portogallo. Onde perciò i Portoghesi interpretano che lor resta libera tutta la parte dell'oriente: ma essi in ciò s'ingannano, perchè, conforme alla bolla e donazione apostolica fatta alli re di Castiglia, si comprendono tutte l'isole delle Speciarie e di Maluco e Brunei, dove si coglie la cannella con tutte l'altre spezierie, e tutto quel piú del mondo che è fin che si ritorna per l'oriente alla prima linea che s'è detta di sopra, tirata da polo a polo cento leghe dall'isole degli Astori e di Capo Verde: e tutto questo, come s'è detto, cade nella parte concessa alli re catolici e alla corona di Castiglia.
Ma perchè tutte queste cose stanno approbate dal romano pontifice, non bisogna dirvi altro se non che io ho veduto un transunto autenticato e sigillato della bolla apostolica, fatta a' 4 di maggio del 1493. Ora, secondo che il papa nella sua bolla e donazione apostolica ordinava, sopra la cura che doveva aversi nel convertire alla santa fede le genti dell'Indie, andorono col Colombo nel secondo viaggio persone religiose e di santa e approbata vita e letteratura, fra li quali fu a questo effetto eletto fra Buil di Catalogna, dell'ordine di san Benedetto. E a costui il pontifice diede pienissima potestà per lo governo della Chiesa in queste parti dell'Indie, perchè vi fosse capo degli altri clerici e religiosi che allora vi passarono, per servire al culto divino e alla conversione di questi Indiani. E vi portarono costoro paramenti, croci, calici, imagini, e tutto quello che era necessario per le chiese che fare vi dovevano. E nella sopradetta bolla apostolica il papa comandò in virtú di santa obedienzia al re e alla regina che avessero dovuto a questo effetto mandare in queste Indie persone da bene e tementi Iddio, e dotti ed esperti, per instruire e insegnare a questi nuovi popoli la santa fede e i buoni costumi con ogni diligenzia debita.
E i re catolici, desiderosi di compire a questa giusta e santa volontà del papa, per tutti i regni loro cercarono di queste persone atte e sofficienti, cosí ecclesiastiche come secolari: onde l'admirante partí con una bella armata e con una fiorita e nobile compagnia. E nella città di Siviglia si adunò la gente per questa armata, e le navi e caravelle nella badia di Calis; e dato l'ordine a tutti i capitani, nocchieri e pilotti del camino che tenere dovevano, con la buona ventura in mercordí, a' 25 di settembre del 1493, fece la capitana vela, e dietro a lei tutte l'altre caravelle e navi, ch'erano in tutto 17 vele; e vi andarono mille e cinquecento uomini da far fatti, tutti bene in ordine e provisti d'arme, munizioni, vettovaglie, e d'ogni altra cosa necessaria. E tutte queste genti andorono al soldo del re. Andorono in questa armata persone religiose e cavalieri e gentiluomini onorati, quali si convenivano per dovere popolare nuove terre, e coltivarle santamente e rettamente nello spirituale e nel temporale; e vi erano molti creati della corte del re. E io viddi e conobbi tutti i principali di questa armata, e ne sono fino ad oggi alcuni vivi in queste Indie e in Spagna, benchè assai pochi siano.
Ritornando all'istoria, l'admirante, come destro in questa navigazione per l'isperienzia del primo viaggio, tenne in questo secondo piú dritto e piú giusto il pennello, onde la prima terra che ritrovò e riconobbe fu una isola, che egli, tosto che la vidde, la chiamò Desiata, per lo desio ch'esso e tutti gli altri della sua armata aveano di veder terra. Poco appresso vidde medesimamente un'altra isola, e la chiamò Marigalante, perchè cosí si chiamava la capitana su la quale il medesimo admirante andava. Egli pose anco il nome a tutte l'altre isole che sono in quel pareggio da polo a polo. Dalla banda di tramontana la prima e piú vicina isola è Guadaluppe, e cosí poi l'altre di mano in mano, la Barbata, la Aguglia, il Sombrero e molte altre; e verso ponente molte isolette chiamate le Vergini; e piú oltre è l'isola di Borichene, che ora la chiamano di San Giovanni, ed è una assai ricca isola e delle piú notabili, come si dirà appresso al suo luogo. Dalla parte poi di mezzogiorno, alla già detta isola Desiata quella che le è piú vicina è l'isola Domenica, che questo nome l'admirante le pose perchè di domenica la vidde. Tutti li Santi è un'altra isola, e piú verso mezzodí sta Matinino, che alcuni scrittori han detto che stesse popolata d'amazoni, con altre lor cose favolose che scrivono: perchè s'è poi ben ritrovata la verità, veggendosi questa con l'altre isole che le sono a pari, che né a questi tempi né ad altri che si sappia furono mai da donne abitate. Vi sono anco qui altre isole, come è S. Lucia, San Cristoforo, li Barbati, e altre che non fanno al proposito, perchè sono molte e picciole. Ma quando si dirà del discoprimento di terra ferma, diremo d'alcune altre che sono fra queste che si sono dette e tra terra ferma, come è Cibucheira, che noi cristiani chiamiamo Santa Croce; e Pietro Martire nella sua prima deca la chiama Ai Ai.
E quelle che sono al pari di questa, tutte o la maggior parte si abitavano da Indiani arcieri chiamati Caribi, che nella lingua indiana non vogliono altro dire che bravi e arditi. Questi tirano le lor frezze con una erba cosí pestifera e velenosa che non vi ha rimedio alcuno, e quelli che ne vengono feriti muoiono arrabbiati, e fanno molti motivi e si mordono le loro proprie mani e carni per lo dolore immenso che sentono. E quando ne scampa alcuno è solo per soprema deità e diligenzia d'alcune medicine appropriate contra il veleno, benchè fino a questa ora poche qui se ne veggano che vi giovino; e pare che questo sia piú vero, che quando alcuno ne guarisce e perchè l'erba è fatta di molti tempi innanzi, o perchè vi manca qualche uno de' materiali venenosi de' quali si compone, come si dirà appresso, perchè in diverse parti diversa maniera tengono gl'Indiani nel comporre questa erba.
Questi Caribi mangiano tutti carne umana, fuori che quelli dell'isola di Borichene: benchè di piú di questi dell'isole la mangiano anco in molte parti di terra ferma, come al suo luogo si dirà. Scrive Plinio che questo medesimo fanno nella Scizia gli antropofagi, anzi, di piú del mangiar carne umane, dice che bevono con le cocche delle teste degli uomini morti, delli cui denti e capelli si fanno collane, e le portano poi appese al collo per ornamento: e io di queste cosí fatte collane ne ho veduta alcuna qui in terra ferma dell'Indie. Ma di questi e altri strani costumi di queste genti si dirà appresso.
Ora, ritornando all'istoria, dico che, avendo l'admirante con la sua armata riconosciuta l'isola Desiata, con l'altre che si sono dette, seguendo il suo viaggio fra queste isole, doppo che ebbe presa acqua in una di loro, passando innanzi riconobbe l'isola del Borichene, che ora di San Giovanni diciamo, e che è la principale dell'altre che le son presso (e al suo luogo se ne ragionerà particolarmente). Né creda alcuno, come hanno alcuni scritto, che l'admirante in questo secondo viaggio discoprisse tutte l'isole che si sono dette, perchè, se bene esso ritrovò la Desiata, e l'altre che con veder questa bisognava anco vedersi, per essere cosí vicine l'una all'altra, col tempo poi nondimeno si ritrovarono e conquistarono da diversi capitani, continovandosi la navigazione di questi mari. Ritornando al proposito dico che, passando questa armata per l'isola di San Giovanni, ne venne a questa che chiamiamo Spagnuola, e vi prese porto nel mese di decembre del 93, nel porto d'Argento, che è dalla banda di tramontana. E indi poi navigando verso occidente giunse all'Isabella, e indi poi a Monte Cristo, dove signoreggiava il re Goacanagari, che è dove ora si chiama porto Reale.
Era questa contrada posseduta da un fratello di questo re, e qui erano restati li trentaotto uomini che l'admirante nel suo primo viaggio vi lasciò, e che erano stati tutti morti dagl'Indiani, i quali non avevano potuto sofferire i loro eccessi, perchè toglievano le mogli e se ne servivano a lor volontà, e facevano loro anco altre violenzie e oltraggi, come gente disordinata e senza capo. E s'erano già separati ad uno ad uno, a due a due e al piú a tre e a quattro insieme, e s'erano isviati per diverse parti dell'isola a dentro, sempre il loro disordine continovando, intanto che gli Indiani, quando a questo modo gli viddero divisi, perchè anco credevano che né l'admirante né cristiani vi fussero dovuti ritornare giamai, deliberarono d'ammazzargli, e cosí fecero. Fu anco di ciò cagione l'essere naturalmente le genti di queste contrade di poca o nulla prudenzia, perchè non hanno rispetto alcuno alle cose future.
Or l'admirante dagl'Indiani istessi intese la morte de' suoi che lasciati avea, e per questo tosto se ne ritornò in Isabella, e vi fece una terra che pure Isabella chiamò, in memoria della serenissima e catolica reina donna Isabella, e la popolò delle mille e cinquecento uomini che conduceva. E questa fu la seconda popolazione de' cristiani che in queste isole si fece, e particolarmente in questa Spagnuola: e fino al 1498 durò quella republica della città Isabella, che poi fu del tutto transferita a questa città di San Domenico, come appresso si dirà.
Ma acciochè non participiamo anche noi altri della colpa degli antichi, che seppero queste isole (se sono le Esperidi, come io credo che siano per quel che s'è detto) e non ci lasciarono il modo di questa navigazione scritto, prima che ad altro passiamo sarà bene che di ciò ragioniamo alquanto, perchè non si possa in tempo alcuno perdere mai piú questo camino, il qual si fa della maniera che nel seguente capitolo si dirà, secondo l'altezza del sole e della Tramontana e la regola delle carti moderne e l'isperimentata cosmografia.
Del viaggio che si fa di Spagna a queste Indie, e del modo che in questa navigazion si tiene; e dell'albero maraviglioso dell'isola del Ferro, che è una di quelle che chiamiamo ora le Canarie.
Cap. IX.
Nella città di Siviglia tiene l'imperatore e re nostro signore la sua casa reale de' contrattamenti per queste Indie, con gli suoi ufficiali, davanti a' quali si registrano le navi, le caravelle e le mercanzie, con tutto quello che a queste parti viene; e con lor licenzia s'imbarcano le genti, con li capitani e nocchieri, nel porto della terra di San Lucar di Barrameda, dove si scarica nel mare Oceano il fiume di Guadalchibir, chiamato dagli antichi Betis, da Beto, sesto re di Spagna, come vuol Beroso. E da questo luogo seguono poi il lor viaggio per l'isole di Canaria, dette dai cosmografi Fortunate, che sono queste: Lanzarotte, Forteventura, Grancanaria, Tenerife, La Palma, La Gomera, l'isola del Ferro; delle quali fa menzione Solino e piú copiosamente Plinio, ancorchè non ne scriva cosí particolarmente come oggi ne sappiamo, massimamente del miracolo dell'isola del Ferro, che egli Ombrio chiamò. E perchè è cosa molto notevole, dirò quello che ne ho inteso da persone degne di fede, senza che la cosa è assai nota e chiara.
Non ha l'isola del Ferro acqua alcuna dolce, né di fiume, né di fonte, né di lago, né di pozzo, e nondimeno si abita, perchè il Signore Iddio d'ogni tempo la provede di acqua celeste, senza altramente piovere. E a questo modo: ogni dí dell'anno, una o due ore prima che sia dí chiaro, finchè il sole monta su, suda uno albero che ivi è, e dal troncone e dai rami e dalle fronde cade molta acqua; e in quel tempo sempre si vede stare sopra questo albero una picciola nuvola o nebbia, finchè a due ore di sole o poco meno si disfa e sparisce, e l'acqua manca di gocciolare. E in questo tempo, che può esser da quattro ore, si raduna tanta acqua in una laguna fatta a mano, a piè di quello albero, che basta per tutte le genti dell'isola e per tutti li lor bestiami e greggi; e questa acqua che a questo modo cade è ottima e sana.
Questa isola e quella della Gomera sono del conte don Guillen Perazza, vassallo di sua maestà; tutte l'altre cinque sono della corona reale di Castiglia, eccetto che quella di Lanzarotte, che è d'un cavalliero di Siviglia, chiamato Fernando Arias di Saiavedra. Questa del Ferro è piccola, e io la ho già veduta tre volte venendo a queste Indie; corre levante e ponente con il picciol mare, che chiamano in Affrica, ed è posta 27 gradi e mezzo dall'equinoziale, dalla banda del nostro Polo Artico.
Ma, ritornando al nostro viaggio di queste Indie, dico che in una di queste sette isole, e spezialmente nella Gran Canaria o nella Gomera o nella Palma (perchè stanno piú al diritto e piú al proposito, e sono fertili e copiose di quanto bisogna per questo viaggio provedersi), prendono le navi rinfrescamento d'acqua e di legna, di pan fresco, di galline, di castrati, di capretti, di vacche vive e di carne salata e cacio, e di pesce salato, cioè tonina e pagri, e d'altre simili cose, che bisogna sopplire a quel che di Spagna si porta. Quello spazio e golfo di mare che è da Castiglia a queste isole si chiama il golfo delle Cavalle, per le tante che state gettate vi sono, perchè, essendo questo mare assai piú tempestoso e piú pericoloso che non è quello che segue poi fino all'Indie, nel principio che si cominciorono ad abitare da' cristiani queste contrade avenne che, conducendosi gli animali e le cavalle spezialmente di Spagna nell'Indie, la maggior parte di loro per tempesta in quel golfo restarono, o perchè nel viaggio si morirono e vi furon gettate; onde per questa difficultà del passarle incominciorono i marinari a chiamarlo il golfo delle Cavalle, e con questo nome si restò poi, perchè quelle cavalle che giungevano alle isole di Canaria vive, si tenevano già per navigare e poste in salvo. Avrebbono potuto anco chiamarlo il golfo delle Vacche, perchè per la medesima via non men vacche che cavalle vi perirono.
Tardano le navi a venire di Spagna fino a queste isole otto o dieci dí, poco piú o meno ordinariamente, e quando sono qui, cioè fino all'isola del Ferro, hanno navigato 250 leghe, perchè dal dritto di questa isola si toglie pareggio al diritto, per venire a queste Indie. E a vista di questa isola si segue il camino per giungere all'isola Desiata, o ad alcune delle altre che in quel pareggio sono; e si tarda a fare questo camino da quella del Ferro alla Desiata, o a Tutti i Santi, o ad altre delle convicine, 25 dí, poco piú o meno, secondo che si ha il tempo o secondo la prudenzia del pilotto in saper ben guidare il suo legno; benchè sia alcuna volta accaduto a passare innanzi le navi di notte, o forzate dal tempo o per star l'aere nubiloso, senza vedere niuna di queste isole, fino all'isola di S. Giovanni o a questa Spagnuola o a quella di Iamaica, che ora di S. Giacobo chiamano, o per aventura anco fino a quella di Cuba, che è posta piú verso ponente dell'altre che si sono dette; e qualche volta anco, per disgrazia o colpa de' pilotti e de' marinari, qualche vassello senza toccare né vedere alcuna di queste isole se n'è passato di lungo fino a terra ferma: ma pochi sono di costoro che si salvano. Quando questo viaggio si fa con pilotto esperto e destro (come ve ne sono molti), quasi sempre si riconosce qualche una delle prime isole già dette.
E fin qua si navigano dall'isole di Canaria 750 leghe, benchè in alcune carte da navigare chi ne pone qualche poco piú, chi qualche poco manco, che in effetto poca è differenzia che col numero che io ho detto fanno. Dalle prime isole che si trovano fino a questa città di San Domenico dell'isola Spagnuola si navigano altre 150 leghe, di modo che da Spagna fin qua sono 1150 o 1200 leghe. E questo è secondo le carte da navigare che oggi si tengono per piú corrette e per migliori, perchè nelle altre carte passate solevano fare questo viaggio di 1300 leghe e piú anco; ma perchè ogni dí si va meglio intendendo, si tiene dalla maggior parte per piú vero il primo numero che abbiamo detto, di 1200 leghe. È il vero che, per cagione della calamita che gregolizza o maistrizza, cosí nel giudicare questo diffetto del bossolo, come per le continove mutazioni de' tempi e correnzie dell'acque, si sogliono piú leghe porre in questo viaggio di quello che s'è detto molte volte nel venire a queste parte; ma assai piú spesso nel ritorno in Spagna, perchè altra navigazione bisogna fare e altro pennello tenere nel venire in queste isole, e altro nel ritornare poi in Europa, come qui appresso diremo.
Perchè si viene comunemente di Spagna a questa città di San Domenico in 35 o 40 dí (lasciando gli estremi di quelli che assai piú tardano o che piú presto vi vengono, perchè io non dico se non quello che per le piú volte accade), e nel ritorno vanno poi di qua in Castiglia in 55 dí, poco piú o meno: benchè nel 1525, stando la maestà cesarea in Toledo, due caravelle, partendo da questa città, in 25 dí entrarono nel fiume di Siviglia. Ma non si ha da prendere questo esempio, che rade volte accade, poichè non si debbono seguire gli estremi, ma quello che ordinariamente aviene: perchè solevano anco le navi tardare a ritornare in Spagna tre e quattro mesi, mentre che si forzavano fare il cammino e tenere il pennello che nel venire in qua fatto e tenuto avevano, onde qualche volta vi pericolavano e vi ponevano doppio tempo; il che si è ora meglio inteso, e i pilotti che si sono in questa navigazione piú addestrati lasciano correre i loro legni alla volta di tramontana, e vanno a trovare l'isola Bermuda, che la Garza anco si chiama, e sta in 33 gradi, 7 e alle volte la veggono, alle volte no. Ma quando in questa altezza del polo i vasselli si trovano, lasciano il pennello che fin là tenuto hanno alla volta di tramontana, e si voltano a correre verso levante, perchè questa isola delle Garze sta levante ponente con Azamor in Affrica; e d'Azamor a San Lucar, dove entra Guadalchivir in mare, sono da 80 leghe. E questa maniera di navigare ci mostrò l'isperienzia, perchè, doppo che le navi si pongono nelli 33 gradi dell'altezza del polo, hanno ordinariamente i venti di maestro e tramontana, co' quali vanno piú presto che per l'altra via che qui vennero le navi. Io son stato un tiro d'artigliaria lontano a quella isola di Bermuda o delle Garze, correndovi con la nave su la quale io era a otto braccia di fondo.
L'isola è picciola, e si crede che sia disabitata; e io andava con determinazione di farvi smontare dieci o dodeci giovani armati, perchè vi gettassero mezza dozina di porci e scrofe, di quelli che noi per nostra munizione portavamo, acciochè fussero nell'isola moltiplicati, e avessero a qualche tempo potuto servire per far carne. Ma mentre che io stava per fare gettare il battello in mare, ci sopragiunse un tempo cosí contrario al proposito mio che ci sforzò e disviò del cammino che io fare voleva. Non è questa terra molto alta, benchè abbia una schiena piú alta che tutta l'altra terra, e vi sono molti cocali e altri uccelli di mare e pesci che volano, de' quali al suo luogo si parlerà. Ha questa isola i due nomi già detti, perchè la nave che la discoprí si chiamava la Garza, e il capitano di questo legno si chiamava Giovan Bermudez, che era di Palo.
Molti pericoli accadettero ne' primi anni che queste Indie si ritrovarono, cosí nel venirvi come nel ritornare in Castiglia, e medesimamente poi in quest'altra navigazione di terra ferma. E ogni dí a quelli che vi navigano accadono cose notabili; onde, perchè vi sono avvenute cose segnalate d'alcuni che ne sono miracolosamente scampati, nell'ultimo libro ne diremo qualche cosa, acciochè qui non s'interrompa la materia di questo cammino che si fa di Spagna, il quale tutti quelli che l'hanno piú volte fatto, e che sono di grande esperienzia nelle cose di mare, affermano che sia la piú sicura navigazione che essi sappiano che nel mare Oceano si faccia. Le navi che da questa isola Spagnuola partono, o che vi toccano per passare oltre, in sette o otto o dieci dí giungono in terra ferma, secondo dove vi vanno a dare a porto, perchè la terra ferma è grande, e perciò quelli che vi vanno varii pareggi tengono. Ma perchè non è ancor tempo di ragionarne del suo discoprimento, lo serbiamo per quando sarà tempo al suo luogo.
Questo solamente dirò qui, che chi dall'isola del Ferro si parte (che è una delle Fortunate o Canarie, cosí notabile per causa della sua acqua) per andare a terra ferma dell'Indie, e a trovar quel gran fiume che chiamano Maragnone, navigarà 600 leghe o manco, come potrà meglio intenderlo chi serà curioso per la moderna e sperimentata cosmografia di quest'Indie; poichè Tolomeo, antico e vero cosmografo, non parlò di questa terra ferma cosa alcuna, e quel che s'è detto di sopra dell'auttorità d'Aristotele, Solino, Plinio e Isidoro, fu solamente dell'isole Esperidi e non della terra ferma. Il che io dico con protesto d'emendarmi per coloro che altra cosa letta ne avessero, perchè io per me ben credo che don Cristoforo Colombo, primo admirante, non si movesse a discoprire questi luoghi a lume di paglia, ma con auttorità chiare e vera notizia di questi luoghi. E per sodisfare particolarmente a quello che a questo viaggio tocca, dico che quelli che sapranno ben misurare ritroveranno che l'isola Desiata, che è la prima che vanno a ritrovare le navi che vengono di Spagna in queste Indie, si ritrova posta a 14 gradi della linea equinoziale, dalla parte del nostro Polo Artico; e l'altre isole a questa Desiata vicine sono tutte nell'orizonte del medesimo polo, alcune alli lati della Desiata verso mezzodí, e altre alla parte settentrionale, secondo che nel quarto capitolo s'è detto. Questa isola Spagnuola, dalla parte che mira all'austro, e specialmente in questa città di San Domenico, è distante dall'equinoziale 18 gradi, e dalla parte o costa di tramontana ne è 20 gradi, e in alcuna parte poco piú, in altra assai meno, secondo che si va l'isola allargando o restringendo; sí che la maggior sua latitudine è da 18 a 20, di modo che potrà essere di 37 leghe la sua larghezza; la lunghezza poi è di 120 o di 130 leghe, poco piú o meno. Dell'altre isole e della terra ferma ne' loro proprii luoghi ragionerò piú a lungo.
Alcuni di coloro che intendono bene la cosmografia, e la disputano e insegnano compiutamente stando in terra, e non l'hanno sperimentata né la sanno per vista, diranno qui che io ho fatto un grande errore nella pratica di questo viaggio, perchè ho detto che l'isola del Ferro, onde si dà principio a questo viaggio, sta posta in 27 gradi e mezzo; e che l'isola Desiata, che è quella che le navi vanno prima a ritrovare, sta in 14 gradi; e che questa isola Spagnuola, dalla parte di mezzogiorno e dove è apunto questa città di S. Domenico, sta in 18 gradi; e che il piú largo di questa isola dalla parte di tramontana sta in 20 gradi. Di modo che pare che al manco s'abbassano 4 gradi piú di quello che si converrebbe, per prendere navigando questa isola, e ogni grado da polo a polo occupa 17 leghe e mezza, in tanto che 70 leghe si discostano navigando dal parallelo di questa isola Spagnuola e la lasciano dalla parte di tramontana. E cosí è il vero. Ma se chi toglie li diciotto gradi non s'abbassasse fino a' 14, errarebbe molto in questo, navigato che egli avesse 20 giorni con mediocre tempo, perchè senza pigliarlo andarebbe con li 18 gradi a dar nell'isole che chiamano le Vergini, o piú fuori anco, dove sono molte secche e pericolose entrate fra l'isole; e se si ritrovasse nelli 19 o nelli 20 gradi, per aventura, con ogni poco di tempo contrario e per li diffetti del bussolo (che nel cap. seguente si diranno) non toccarebbe questa isola, e per le correnti andrebbe a dare nell'isole delli Lucai o nell'isola di Cuba, come all'admirante nel suo primo viaggio avenne. Sí che, per fuggire molti inconvenienti e pericoli, e perchè è piú sicura l'entrata dell'isole ne' 14 gradi fino a 15, si debbono a questo numero attenere, forzandosi sempre che sia da 15 a basso, perchè, doppo che le navi si trovano entrate per questo parallelo fra l'isole della Desiata e dell'Antica, che chiamano, e fra l'altre che ivi sono, fanno assai presto il restante del camino, per cagione delle correnti, e prendono con gran piacere questa isola.
Questo che io ho qui detto non si può imparare in Salamanca né in Bologna né in Parigi nelle scuole, ma solamente nella catedra della gelosia, che è quel luogo dove va posto il bussolo da navigare, e col quadrante in mano, togliendo ordinariamente in mare le notti la stella e li dí il sole con l'astrolabio, perchè, come si dice in Italia: "Altro ci vuole a tavola che tovaglia bianca". Voglio dire che la navigazione vuole altro che parole, perciochè, come ancorchè i mantili siano bianchi, non però con questo solo i convitati mangieranno, cosí non perchè uno studi cosmografia e la sappia meglio che Tolomeo saprà però navigare finchè non la ponga in uso, come né anco chi legge medicina curerà ben l'infermo finchè non abbia la pratica di conoscere il polso e i termini e gli accidenti dell'infermità. A questo modo il pilotto esperto, mirando al polso del suo bussolo, che è quella calamita temperata nel ferro, conoscerà la Tramontana, e con il quadrante la sua altezza, e dall'astrolabio quella del sole, e dalla sperienza intenderà e saprà come ha da moderare le vele e da governare i suoi marinari, e dal piombo imparerà la profondità dell'acque, essendosi infin dalla sua fanciulezza allevato nel mare, di modo che li resti fisso questo essercizio nel cuore quanto la sua natura e ingegno ve l'aiutano. Perciochè, ancorchè piccoli entrino nell'arte, non riescono però tutti i pilotti, come quanti vanno a studiare non riescono tutti dottori. Si può adunque tenere per cosa certa che chi non s'allieva nel mare da fanciullino non può riuscire marinaro perfetto: e con questo s'accorda un proverbio cortegiano, che chi non fu paggio sempre puzza di mulattiero. Voglio dire che, come da fanciulli si hanno da creare in corte li paggi, perchè diventino ben creati e gentili cortegiani e non rieschino grissoni, cosí quelli che hanno da essere marinari di prova e atti pilotti bisogna che dalla fanciullezza comincino a soffrire e patire i disagi e i travagli del mare, per non isbigottirsi né invilirsi nel tempo delli pericolosi naufragii. E questo basti quanto al camino e quanto al secondo viaggio che l'admirante Colombo fece, continovando il discoprire di queste nuove terre.
Del crescere e mancare del mare Mediterraneo; e del mare Oceano, dove cresce e manca quanto il Mediterraneo, e dove assai piú.
Cap. X.
Poi che abbiamo trattato dell'esercizio del navigare e di questi mari di qua, non è giusto che si lasci a dietro quello che ora qui si dirà che io ho veduto del mare Oceano, nel flusso e reflusso che fa, nel suo mancare e crescere, perchè fino a questa ora niun cosmografo, né astrologo, né esperto nelle cose di mare, di quanti ne ho io dimandati, mi ha sodisfatto, né data conveniente ragione della vera causa che opera quello che io ho con gli occhi miei molte volte veduto. E quello che io dire voglio è questo.
È cosa segnalata quel famoso stretto di Ghibilterra, dove sono que' duo monti che le favole dicono che Ercole tebano aperse, e che sono chiamati Abila e Calpe, l'uno dalla parte dell'Affrica, l'altro dalla parte d'Europa; e per questa cosí stretta bocca si congiunge il mare Mediterraneo col mare Oceano. Or, da questa bocca andando verso levante, tutto il mare Mediterraneo, con quanta acqua salsa qui si rinchiude fra l'Affrica, l'Asia e l'Europa, non cresce né manca communemente piú di quello che in Valenzia, in Barzellona o in Italia si vede, e quando qualche poco esce dall'ordinario (che assai poco è), non è per altro che per qualche segnalata fortuna; ma tosto che quella tempesta cessa, ritorna l'acqua a' suoi termini, e come ordinariamente si vede nel tempo di primavera. Ma dallo stretto di Ghibilterra in fuori, questo mare Oceano cresce e manca molto nella costiera d'Africa e d'Europa, come l'hanno veduto e veggono ogni dí quelli che mirano il mare per la costiera d'Andalusia, di Portogallo, di Galizia, d'Asturia, di Viscaia, di Normandia, di Bertagna, d'Inghilterra, di Fiandra, di Alemagna, con tutto il resto posto sotto Tramontana: e in questi luoghi in grandissima maniera manca e cresce l'oceano.
Dico di piú, che navigando questo stesso mare Oceano da quelle parti dove ho detto che tanto manca e cresce, e venendo all'isole di Canaria, cosí in queste come nell'isole di queste Indie che ho dette di sopra, e con la sua terra ferma anco dalla parte che a tramontana riguarda, per piú di tremila leghe di costiera, a punto non vi cresce né manca l'acqua del mare piú di quello che s'è detto che si faccia in Barzellona e negli altri luoghi del mare Mediterraneo, in tanto che a questo modo né vi cresce né vi manca il mare in quest'isola Spagnuola, né in quella di Cuba, né in alcuna dell'altre che si sono dette di sopra, se non come si vede fare ne' mari d'Italia; che è pochissimo rispetto a quello che veggiamo farsi nelle marine di Fiandra, d'Inghilterra e degli altri luoghi che si sono detti. Il che si dee bene dal lettore notare, perchè meglio intenda quello che qui appresso seguirà.
Dico appresso che questo istesso mare Oceano cresce e manca incredibilmente nella costiera della terra ferma dell'Indie che a mezzogiorno riguarda, incominciando dalla città di Panama e seguendo verso levante o verso ponente, con l'isole delle Perle e di Taboga, con tutte l'altre che chiamano di San Paolo, e che sono in quel mare da mezzogiorno verso ponente, per piú di 300 leghe che io ho navigato per quelle costiere. E vi cresce e manca tanto il mare che quando si ritrae pare che si perda di vista in alcuni luoghi: però in effetto due leghe o poco piú sono che si scosta dal lito il mare in alcune parti dalla città di Panama verso la costiera di ponente, e questo l'ho io veduto molte migliaia di volte. Vi ha in questa stessa materia un'altra cosa notabile e maravigliosa piú che la prima, perciochè dal mare di Tramontana a quel di Mezzodí (che ambidue da opposite parti della terra ferma delle Indie percuotono) vi è pochissima distanzia, perchè dalla città del Nome d'Iddio, che sta da questa parte di terra ferma verso tramontana, fino alla città di Panama, che sta in questa stessa terra ferma dalla parte opposita verso mezzodí, non sono piú di 18 o 20 leghe, che se la terra fosse piana e non montuosa e aspra come ella è non sarebbono 12. E nondimeno in cosí poca distanzia, essendo e questo e quello mare Oceano, vi si vede tanta differenzia nel crescere e nel mancare dell'acque quanta s'è detta; onde questa è certo cosa da contemplarsi e specularsi da coloro che sono inclinati a dovere simili secreti intendere, e cose di tanta maraviglia.
Io ho praticate e ragionate queste cose con persone di gran litteratura, e non mi hanno sodisfatto, o perchè nol sanno, o perchè non gliele ho io saputo dare ad intendere, e non l'hanno essi come io veduto. Io per me mi quieto in questo, ricordandomi che Colui che è cagione di queste cose di tanta maraviglia, sa dell'altre anco oprare cosí incomprensibili che senza speziale grazia non si concede all'intelletto umano d'intenderle. Io ho qui posta questa questione come testimonio di vista, né fino a questa ora sono ancora stato degno d'intenderne la soluzione; e certo che gran piacere avrei vederla decisa. Ho veduto quello che ne dice Plinio nel suo secondo libro, che del crescere e mancare del mare ne sono cagione il sole e la luna, e assegna perciò alcune ragioni del corso di questi pianeti. Dice anco che il crescere del mare Oceano è maggiore di quel del Mediterraneo, e che di ciò può esser la cagione l'essere piú animoso nel tutto che nella parte, o che la sua grandezza piú sparsa piú senta la forza del pianeta, che può piú stendervisi. Dice anco appresso che in alcuni luoghi fuori di ragione cresce e manca il mare, perchè non nascono i pianeti in un tempo stesso in tutte le terre, e perciò aviene che il crescere del mare non è d'una maniera per tutto; onde dice che nel tempo e nella forma questa differenzia consiste, perchè in alcuni luoghi vi ha una spezial natura o moto, come nell'isola di Negroponte si vede, che sette volte il giorno vi va e viene il mare, e vi sta fermo tre dí del mese, che sono il settimo, l'ottavo e il nono della luna.
Questo, con l'altre cose che Plinio in questa materia tratta, sono certo molto notabili, ma a me non pare che il sole e la luna siano la cagione della cosí gran differenzia che è del crescere e mancare del mare nella città del Nome d'Iddio, e in tutta la costiera di terra ferma da tramontana, rispetto a quello che cresce e manca nella città di Panama e nella sua costiera di mezzogiorno, per essere cosí poca distanzia dall'una città all'altra. Non mi sodisfa né anco Plinio dicendo che il crescere e mancare dell'oceano sia maggiore di quello del mare Mediterraneo, poichè non condescese a particularità, ma disse generalmente in tutto l'oceano: perchè veggiamo avvenire il contrario, che essendo tutto uno oceano, in Spagna vi cresce e manca molto, e in queste isole dell'India e per tutta la costiera di terra ferma da tramontana cosí poco, e della costiera di mezzogiorno tanto quanto s'è detto. Né mi sodisfa quando dice che ne è cagione il non nascere i pianeti in un tempo istesso in ogni contrada, né lo concedo che consista nel tempo questa differenzia, ma credo piú tosto che consista nella forma e nell'avere alcuni luoghi una speziale natura o moto; non già, come egli vuole, che nell'isola di Negroponte avenga, perchè quello che esso di questa isola scrive io il tengo incomprensibile all'ingegno umano, e penso che sia necessario che sia illuminato di sopra colui che vuole a questo secreto giungere, che sette volte il dí vi cresca e manchi il mare e che vi stia fermo tre dí del mese. Questa isola di Negroponte, che è nell'arcipelago, dice Plinio che fu distaccata dalla terra ferma della Boezia, con la quale era congiunta, come dice che avenne anco alla Sicilia, che era con l'Italia unita. Ho detto che al parer mio questo nasce dalla forma e dall'avere alcune parti del mondo una speziale natura: questo non lo intendo io a quel modo che Plinio pensava, e perciò io qui dirò quello che io di questo secreto penso overo sospetto.
Dallo stretto che nella terra ferma dell'Indie discoperse il capitano Fernando di Magaglianes (di che al suo luogo si farà piú particolare menzione), da questa bocca, dico, e ponta sua chiamata l'arcipelago del capo Desiato, fino a Panama (tirandovi una linea retta) sono piú di mille leghe: che assai piú seranno quando sarà del tutto quella costiera di mezogiorno scoperta, per le ponte e capi che si spargeranno in mare. Dura in longo questo stretto cento e dieci leghe, e ha di larghezza due overo tre leghe, e in qualche parte fino a sei, di modo che in un canale cosí grande e cosí stretto, e di terre cosí alte come si dice che amendue le sue costiere sono, si dee credere che l'acque che qui entrano nel mare di Mezogiorno con suprema velocità e impeto correranno; che cosí l'ho inteso dire dal capitan Giovan Sebastiano del Cano, che per quello stretto entrò con la nave Vittoria e andò alla Speziaria correndo verso ponente, e si voltò poi per levante, sí che questa nave andò quanto il sole va per quel parallelo, come al suo luogo si dirà. Il medesimo ho udito da Fernando di Bustamento e da altri gentili uomini che con quella nave andarono e ritornarono: e questi furono i primi che si sappia che abbiano mai quel cammino fatto e aggirato il mondo. È poco fa che piú particolarmente l'intesi da un clerico sacerdote, che poi in un altro viaggio passò per lo medesimo stretto. Sta questo stretto posto in 52 gradi e mezzo dallo equinoziale dalla parte del polo antartico, e la città di Panama sta in otto gradi e mezzo dall'equinoziale dalla banda del nostro polo artico.
Dirimpetto a Panama e per quelle costiere di mezzogiorno sono poste verso ponente molte isole, alcune presso terra ferma, alcune altre alquanto piú remote. Per la forma adunque e sito, tanto di queste isole come della terra ferma, penso io che le grandi correnti si causino, e che questa disposizione e del mare e della terra sia cagione che tanto vi cresca e manchi il mare. Ma contra a questo si potrebbe dire che, quando si viene di Spagna in queste Indie, si incontrano le prime isole, come sono la Marigalante, la Desiata e l'altre molte che in quel pareggio sono, che occupano piú di cento e cinquanta leghe di longo da tramontana a mezzogiorno (anzi occupano tutto quello che è dall'isole che chiamano Vergini fino al golfo della Bocca del Drago e della costiera di terra ferma), e nondimeno qui non si causano cosí grandi correnti, né vi cresce e manca il mare come si vede che avviene nella costiera che s'è detta che è da mezzogiorno, onde ciò nasce.
Qui si può fare una bella e naturale risposta. Ed è questa, che tutte l'isole poste da questa parte nostra di terra ferma che io dico, vengono tolte di traverso dal mare Oceano, onde l'acque fra loro con meno resistenzia passano, e senza tanto contrasto nel corso loro possono meglio essalare overo respirare, là dove l'isole del mare di mezzogiorno si trovano opposte in longo, da levante a ponente, longo la costiera di Panama, e cosí resistono naturalmente alla fuga e impeto dell'acque, che debbono di necessità venire dal detto stretto di Magaglianes; e perciò fra quelle isole e la terra ferma sono al parer mio maggiori le correnti, e consequentemente cosí grande il crescere, il mancare del mare, come s'è detto di sopra. Il che non aviene per altro che per la forma e sito delle terre, e da questo a me pare che nasca la cagione di ciò particolare. Che se questa non è, diremo che il medesimo Iddio sia la cagione, e che a lui cosí piacque di ordinarlo, tanto piú che in quello che io in questo caso non so, Aristotele con la sua morte mi scusa; nel che non penso io di imitarlo investigando questi secreti, perchè di lui scrive Giovanni Vallense che, volendo presso a Negroponte investigare la causa del flusso e reflusso del mare, e non potendo pienamente caperla né giungervi, sdegnato disse verso l'acqua queste parole: "Poichè non posso comprendere io te, comprendi tu me". E con queste parole si gettò nel mare e morí. Onde san Paolo apostolo dice che la sapienzia di questo mondo è una sciocchezza appresso d'Iddio; e perciò non si dee niun savio sdegnare perciochè non possa a qualche profonda cosa con lo intelletto giungere, ma si dee contentare di prenderne quello che ad Iddio piace di comunicarcelo, e ringraziarlo, credendo che egli ogni cosa fa per lo meglio. Ma perchè s'è qui di sopra detto che alcuni tengono che Aristotele facesse quel fine, dico che alcuni altri scrivono che non fosse egli colui che si gettò nel mare, ma che fusse un altro filosofo. Chiunque si fosse errò, e cosí erreranno tutti quelli che vorranno investigare e intendere col proprio discorso loro le maravigliose cose del grande Iddio.
Del tirar che fa verso il vento di maestro e verso greco il ferro del bossolo, e delle mutazioni della stella del Norte che chiamano la Tramontana, e delle quattro stelle che chiamano il Crosero del polo antartico.
Cap. XI.
S'è detto nel quinto capitolo che la ponta del ferro del bossolo da navigare era diffettosa nel tirare verso il vento greco e anco verso quello di maestro; e perchè può questo trattato esser utile non solo a quelli ch'hanno notizia di queste cose, ma anco giovare a quelli che mai non viddero il mare, avisando quei che mai questo non udirono e dilettando quelli che desiderano d'intendere cose rare e di simil maniera, dico che i ferri de' bossoli da navigare si temperano e compongono con la virtú della quale è la pietra calamita, e della sua proprietà fanno menzione i naturali, e di varii nomi la chiamano, com'è magnete, ematite, siderite, eraclione; e in Spagna la chiamano pietra iman. Ella è di diverse spezie, e una è piú forte che un'altra, né tutte le calamite sono d'un colore, e la miglior di tutte è quella d'Etiopia, la quale si vende a peso d'argento. Le vere calamite hanno grande efficacia e virtú nella medicina in piú infermità. Ma, parlando solo di quello che fa al proposito nostro, dico che le ponte di ferri di bossoli temperate con questa pietra insegnano a' naviganti il proprio luogo del nostro polo artico o della Tramontana, che in Spagna chiamano Norte, in qual si voglia tempo, ora e momento del dí o della notte, cosí stando il ciel sereno come offuscato e nubiloso. E benchè di dí non vediamo la stella piú propinqua al polo, che volgarmente chiamano Tramontana, o la notte non paia, per ritrovarsi il cielo di nuvoletti coperto, la ponta del bossolo nondimeno, per la virtú che ritiene dalla calamita, c'insegna il polo; e con questo mezo si reggono i pilotti e tutti quei che nell'esercizio del mare si travagliano. Né creda alcun che la stella che chiaman Tramontana sia il polo sul qual si volge il mondo, perchè il polo è un'altra cosa in effetto: e lui ha rispetto e mira la calamita e ponta del ferro del bossolo con lei temperata, perchè la stella che noi vediamo è mobile e non fissa, cioè che d'intorno al vero polo si move; poichè, stando le stelle che chiamano le Guardie (dell'istessa Tramontana) su la testa, si vede la stella della qual noi parliamo sotto 'l polo tre gradi, e quando quelle stelle stanno nel piè ella sta tre gradi sopra il polo, di modo ch'ella da tramontana a mezodí si move tre gradi. E stando dalla parte di ponente la stella sta un grado e mezo sopra il polo, sí che per questa via da oriente ad occidente un grado e mezo si discosta. Stando le Guardie nella linea del greco, la stella sta sotto al polo tre gradi e mezo; stando nella linea del garbin, ella si vede tre gradi e mezo sopra il polo. E stando le Guardie nella linea del maestro, si vede sotto il polo la stella mezo grado; e mezo altro si vede sopra il polo quando le Guardie stanno nella linea del siroco. In tanto che poichè tutte queste mutazioni si fanno da questa stella, non è ella il polo né è fissa, né sarebbe certa misura per i naviganti; ma perchè ella sta piú presso al polo, si deono tutte queste mutanze avvertire, poichè il vero polo non si può vedere, e si dee attendere alla saldezza della calamita e ponta temperata, che perpetua nel polo invisibile mira. Per questa via gli uomini nella scienzia o arte del navigare esperti accertano il camin loro, mirando insieme all'altezza del polo e del sole, e paragonando l'una con l'altra, conforme alla declinazione del sole. Tutto questo è per quei che usano questo esercizio del mare, e per loro è piú piacevole lezione che non per quelli che non navigaron mai.
Or, quanto alla difficoltà ch'io dicea che patiscon il ferro del bossolo, o per dir meglio l'intelletto degl'uomini (poichè lui c'insegna quello ch'ora qui dirò), si crede che 'l diametro o linea che stendendosi da polo a polo attraversa in croce la linea equinoziale passi per l'isole degli Astori, perchè mai non si ritrovano le ponte dritte di ferri e del tutto fisse da mezo a mezo nel polo artico, se non quando le navi e caravelle si ritrovan in quel pareggio e altezza ch'io dicea. E quando di questo termine escono verso queste parti occidentali, maestrizan ben una quarta quando piú indi si scostano, e passando questo termine verso levante dalle dette isole degli Astori, gregorizano, un'altra quarta quando piú se ne allontanano: sichè questo è quello ch'io volsi dire quando toccai questa difficoltà del ferro del bossolo al proposito nostro. Io voglio qui dire un'altra cosa assai notabile, che quelli che non hanno navigato per quest'Indie non la posson avere veduta, salvo se non fussero andati verso l'equinoziale, o fossero giunti al manco presso a 23 gradi dall'equinozio. E quello ch'io voglio dire è questo, che mirando alla parte di mezodí vedranno sopra l'orizonte 4 stelle in croce, che vanno intorno al circolo delle Guardie del polo antartico, e stanno in questa forma poste.
E la maestà cesarea me le diede per aumento dell'arme mie, acciochè io e tutti i miei successori le ponessimo insieme con le nostre antiche arme di Valdes, avendo rispetto a quello ch'io ho servito in queste Indie, e prima anco nella corte real di Castiglia da che ebbi tredici anni: perchè di tale età incominciai a servire in camera al serenissimo prencipe don Giovanni mio signore, zio della maestà cesarea, e doppo la sua morte alli re catolici don Fernando e donna Isabella, e doppo di costoro alle maestà cesaree. E queste arme mie si porranno nel fin di questo libro, poichè è stato scritto in queste parti dove tanti travagli soffriscono coloro che queste stelle veggono, e dove io ho spesa la maggior parte della vita mia. Ho toccata questa particolarità di queste stelle perchè sono una segnalata figura nel cielo. Presso al polo australe si veggono anco altre infinite e nuove stelle variamente figurate, che dalla Spagna non si possono vedere, né da altra parte di tutta Europa, e né anco nella maggior parte dell'Asia né dell'Africa, se non passando alli 22 gradi presso all'equinoziale, perchè quanto piú si va verso il mezzogiorno, tanto piú s'abbassa il polo artico e s'innalza l'antartico, né si possono le dette stelle vedere in tutto il tropico di cancro.
Ritornando all'istoria, è già tempo di dirsi per che cagione gl'Indiani e le genti del re Goacanagari ammazzarono in questa isola Spagnuola i cristiani che vi lasciò nel primo viaggio l'admirante don Cristoforo Colombo, e che genti ritrovò egli poi in questa isola; acciochè con maggior ordine e attenzione si scrivono appresso gli animali, gli uccelli, gli alberi, i frutti e l'altre cose che gli Indiani avevano per sostentarsi, con l'altre cose che fanno al proposito di questa istoria nostra.
Di quello che fece il Colombo quando seppe che gl'Indiani avevano ammazzati i suoi cristiani, e come fondò la città d'Isabella e discoperse l'isola di Iamaica; e delle prime mostre d'oro che si portarono in Spagna.
Cap, XII.
Quando don Cristoforo Colombo nel suo primo viaggio lasciò in questa isola Spagnuola quelli 38 cristiani, elesse quelli che gli parevano di maggior sforzo e prudenzia, sperando che si fossero dovuti fin al suo ritorno ben comportare e reggere, e che gli Indiani (perchè li parve gente assai domestica e mansueta) non avessero dovuto loro oltraggio alcuno fare; perchè, s'avesse sospettato del contrario, non ve gli averebbe lasciati mai. Egli ebbe solamente questo intento, che apprendessero la lingua e i costumi di quelle genti; e certo che per questo effetto sarebbono bastati 10 o 12, e non ve ne doveva piú lasciare, o ve ne doveva lasciare 200, li quali esso non aveva e non potea farlo, per potersene ritornare in Spagna. In effetto meno errò l'intenzion del Colombo in lasciarli che essi in non sapersi conservare e stare bene ordinati, tanto piú che gli aveva ammoniti e dato loro l'ordine che tenere dovevano per conservarsi fra quelle genti selvagge, promettendo loro anco molte cose, lasciandogli provisti di mangiare e di vestire; e gli lasciò anco loro dell'arme, gli essortò che non se ne servissero a niun modo se non forzatissimi, e gli raccomandò quanto piú affezionatamente seppe al Signore del paese Goacanagari, al quale donò anco molte cose perchè meglio gli trattasse e favorisse. Restò un buon gentil uomo di Cordova chiamato Roderigo l'Arana, capitan di queste genti, e anco un gentil chirurgico, come s'è detto di sopra; ma perchè la maggior parte di queste genti che restarono erano marinari e gente di libertà, e poco atti a sapere essequire quello perchè il Colombo gli lasciava, vi perirono malamente.
In effetto, parlando senza pregiudicio d'alcuni marinari, che sono uomini da bene e virtuosi e cortesi, io sono d'opinione che per la maggior parte quelli che s'esercitano nell'arte di mare vagliono poco, e con le persone e con l'ingegno, nelle cose di terra; perchè, oltra che per lo piú son gente bassa e mal dottrinata, sono anco avidi di soverchio e inchinati forte alla lussuria, alla gola e alla rapina, e mal possono cosa alcuna soffrire. Sí che, perchè in coloro che lasciò quivi il Colombo non era né prudenzia né vergogna perchè dovessero a' precetti di cosí accorto capitano obedire, fu facil cosí disordinarsi e lasciarvi la pelle; perchè, tosto che gl'Indiani si avvidero che questi toglievano loro le mogli e figlie con quanto avevano, se 'l tacquero da principio, veggendogli ristretti e uniti insieme, ma quando gli viddero poi disviarsi a poco a poco e disunirsi per dentro l'isola, gli ammazzarono tutti senza lasciarne uno in vita. Vi fu anco (secondo che gl'Indiani istessi poi all'admirante raccontorono) che ognun di quelli che il Colombo lasciò, che fussero l'un doppo l'altro capitani, voleva essere capo, e perciò si divisero e disunirono; e facendo poco conto degl'Indiani si sparsero a due a due e a tre a tre per diverse parti dell'isola, facendo come piú lor piaceva varii dispiaceri e oltraggi, di modo che facilmente capitarono tutti male.
Di tutte queste cose fu particolarmente informato il Colombo da quelli Indiani e dal re Goacanagari istesso, che assai mostrava di dolersene: e gli fu interprete un di quelli Indiani che ritornarono seco di Spagna, chiamato Diego Colombo, che aveva già appresa la lingua nostra e vi parlava mediocremente. Ora l'admirante, doppo che, con gran dispiacere di questa nuova, stette qui in porto Reale qualche dí, se ne venne in un'altra provincia dell'isola e vi fondò una città, che la chiamò Isabella. Da questo luogo partí poi con due caravelle per discoprir nuove terre, lasciando in quest'isola Spagnuola suo luogotenente e governator don Diego Colombo, suo fratello, mentre che don Bartolomeo Colombo, pur suo fratello, vi giungeva, che era restato in Spagna. Lasciò anco il commendatore M. Pietro Margarito per castellano d'una fortezza che aveva fatta fare nelle minere che chiamano di Cibao, che son le piú ricche che siano in questa isola e sono presso a un fiume chiamato Giamico. E qui gli Spagnuoli raccolsero alcuni granelli d'oro, perchè gl'Indiani, se nol ritrovavano sopra la terra, non l'andavano altramente cercando. Né anco gli Spagnuoli avevano quella isperienzia che solevano già anticamente dell'esercizio delle minere avere gli austriani, i lusitani e i galleci nelle provincie loro di Spagna, donde cavarono i Romani tanti tesori. Or, questa fortezza fu la seconda che si vidde in questa isola, e fu chiamata di S. Tomaso, e ne fu il primo castellano il commendator M. Pietro Margarito, come s'è detto. La chiamarono di questo nome perchè, dubitando che vi fosse oro, volsero vederlo, toccarlo con mano e crederlo, benchè in quel principio poco oro vi si cavasse: e per una mostra delle ricche minere di Cibao lo mandò l'admirante alli re catolici per il capitan Gorvalan, che ne fu ben rimunerato; benchè alcuni altri dicano che chi portò in Spagna le prime mostre dell'oro fosse il capitan Antonio di Torres, fratello del bailo del prencipe don Giovanni di gloriosa memoria.
Ma, ritornando all'istoria, ritrovato che ebbe l'admirante questo oro, con due caravelle ben armate e proviste si partí d'Isabella con molti cavalieri; e in questo viaggio discoperse l'isola di Iamaica, che ora si chiama di San Giacomo, ed è lontana vinticinque leghe dalla parte piú occidentale di questa isola Spagnuola, che l'admirante il capo di San Michele chiamò (benchè alcuni il capo del Tiburon lo chiamino); come l'altro capo piú orientale di quest'isola il chiamò di S. Rafaele. Ora Iamaica sta posta a 17 gradi dalla linea equinoziale; è lunga 50 leghe o piú, e larga 25. Ma prima che l'admirante la discoprisse andò all'isola di Cuba, che ora in memoria del re catolico Fernandina si chiama, e vidde piú particolarmente che non aveva fatto nel primo viaggio le sue costiere. E io credo che quest'isola sia quella che il cronista Pietro Martire chiamò Alfa e Omega, e altre volte la chiama Giovana, benchè non sia luogo alcuno per tutte queste Indie di simil nome. Ma perchè appresso si ha da ragionare piú particolarmente di quest'isole, basti quello che fin qua s'è detto, per ora.
Delli travagli che passarono i cristiani nella città d'Isabella mentre l'admirante non vi fu, e di quello che al castellano di San Tomaso avvenne con certe tortore, e come fu fondata questa città di S. Domenico.
Cap. XIII.
Mentre l'admirante andava discoprendo nuove terre, molti travagli sentirono i cristiani che nella città Isabella restati erano: e in quel medesimo anno del 94 si perderono in Isabella quattro navi, fra le quali ne fu una la capitana, chiamata Marigalante. Partito che fu da questa isola l'admirante con le due caravelle, attendevano i nostri ad edificarse le stanze nella città Isabella, secondo che erano lor state dal Colombo compartite insieme col territorio, perchè qui si fosse dovuto abitare di lungo. Il che gl'Indiani veggendo, e non piacendo loro troppo d'avere i cristiani per perpetui vicini, pensando di rimediarvi fecero un atto col quale morirono piú delle due parti, o almanco la metà degli Spagnuoli, e degl'Indiani istessi un incredibile numero. E fu questo di sorte che i cristiani, che erano nuovi nel paese, non l'intesero né vi poterono rimediare. Or, tutti gl'Indiani di quella provincia deliberarono di non seminare nel tempo debito, e lo fecero; onde, quando non ebbero piú maiz (che è una certa specie di grano) si mangiarono la iuca, che è una maniera di pianta onde medesimamente vivono: e sono queste le principali cose con le quali qui si mantengono nella vita. I cristiani si mangiarono le loro provisioni e vettovaglie, e fornite che l'ebbero, volendo valersi di quelle del paese che solevano costumare gl'Indiani, s'aviddero che non ve n'era né per sé né per gli altri; onde ne aveniva che i cristiani nella lor nuova città si cadevano morti di fame, e il medesimo aveniva nella fortezza di S. Tomaso; e per tutto il paese si vedevano d'ogni parte Indiani morti, di modo che ne nacque una puzza grande e pestifera. E di piú della fame i cristiani in altre molte infermità si trovavano, che ne effettuavano il cattivo desiderio degl'Indiani, ch'era che i nostri o fuggendo per non aver da mangiare si andassero con Dio, o che volendo restare vi morissero di fame. Quelli Indiani che non morivano si ponevano bene a dentro nell'isola per trovar da mangiare, e s'appartavano dalla conversazione de' nostri per far loro maggior danno. In questa tanta calamità si mangiarono i nostri quanti cani gozzi erano nell'isola, i quali erano muti e non abbaiavano. Si mangiarono anco tutti quelli che vi avevano condotti di Spagna, e insieme anco tutte le utie che poterono avere, e tutti li chemi, e altri animali che chiamano mohui, e altri che chiaman coris: delle quali quattro maniere d'animali, ch'erano grandi quanto i conigli e si cacciavano co' cani venuti di Spagna, si ragionerà particolarmente nel libro 12 di questa istoria.
Ora, mangiato che s'ebbero queste spezie d'animali a quattro piè che nell'isola erano, si voltorno a mangiare certi serpenti che si chiamano ivana, che sono con quattro piedi, e di tal vista che danno gran spavento a chi non gli conosce. Non vi lasciarono lacerti, né lacerte, né serpi, che di molte sorte ve ne sono e di varii colori, ma non già velenosi. E tutto questo per poter vivere. Mangiavano tutte queste cose o bollite o arrostite al fuoco, per la necessità nella quale si ritrovavano, se non volevano perdere la vita. Onde, sí per questo cattivo cibo come per l'umidità grande del paese, in molte e incurabili infermità ne venivano coloro che vi restavano vivi. E perciò que' primi Spagnuoli, quando di qua se ne ritornavano in Spagna, vi portavano nel viso un color giallo di zaffarano, e tanta infermità che tosto o poco tempo appresso morivano. Vi era anco che i cibi di Spagna sono di miglior nutrimento e piú digestibili che non erano l'erbe e vivande cattive dell'Indie, e l'aere di Spagna è piú delicato e piú freddo di quello di queste parti; di modo che, ancorchè se ne ritornassero in Castiglia, vi terminavano presto la vita loro.
Soffrirono anco i primi cristiani che abitarono questa isola strani dolori e passioni per le nigue e per lo mal delle bughe, cioè francese (de' quali due morbi si ragionerà appresso), perchè nell'Indie ebbero origine, sí per le donne di questi luoghi come per la contrada istessa. E quel delle bughe, per esser contagioso, passò al parer mio in Spagna con li primi Spagnuoli che qui vennero con l'admirante Colombo, e di Spagna poi passò in Italia e in molti altri luoghi, come si dirà appresso.
Ma, ritornando all'istoria, il commendatore D. Pietro Margarito, che con fino a trenta uomini si ritrovava nella fortezza di S. Tomaso, sentiva le medesime calamità che provavano quelli che erano nella città d'Isabella, onde ve ne morivano di continuo, e cosí ogni dí si facevano piú pochi; e perciò non potevano della fortezza uscire e lasciarla sola, perchè se disconveniva alla lealtà di un cosí buon cavaliero come era il commendatore. Quelli che erano nella città d'Isabella con don Bartolomeo Colombo, che era già venuto, in tanti affanni si ritrovavano che non si potevano prevalere, e quelli Indiani che erano per la fame scampati se ne erano molto a dentro nell'isola fuggiti.
Mentre che a questi termini le cose de' cristiani si ritrovavano, se ne venne un dí un Indiano al castello di S. Tomaso, e perchè, come esso dicea, il castellano era persona da bene e non faceva violenza né usava discortesia alcuna alle genti dell'isola, gli appresentò un paio di tortore vive. Il commendatore lo ringraziò e gli donò in compensa di queste tortore certe frascherie di vetro, che 'n quel tempo gl'Indiani stimavano molto per attaccarsele al collo. Partito l'Indiano molto lieto, disse il commendatore a' suoi che gli pareva che quelle tortore fossero poca cosa per mangiare a tutti, e che a sé solo sarebbon per quel dí bastate per viverne. Tutti risposero che egli dicea bene, perchè a tutti erano poco pasto, e a lui sarebbon bastate: tanto piú ch'esso piú bisogno n'avea, stando piú infermo che niuno degli altri. Allora il castellano: "Non piaccia a Dio - disse - ch'io solo abbia a vivere, perchè, poi che voi m'avete fatto fin qua compagnia nella fame e negli affanni, cosí voglio anch'io farla a voi, perchè o viviamo o moriamo tutti, finchè al Signor Iddio piacerà di darci rimedio o con la morte o con la vita". E dicendo questo lasciò volare libere le tortore per una fenestra della torre dove stava. Restarono di questo atto in modo tutti gli altri contenti e sazii come se ognun di loro amendue quelli uccelli avuti avesse, e cosí se ne trovarono al castellano obligati, che per travaglio del mondo non avrebbono né quella fortezza né lui lasciato giamai.
A queste tante calamità e infermità de' cristiani, perchè fossero i lor mali compiuti, sopragiunsero molti venti di tramontana, che in quest'isola sono molti cattivi; onde non solo i nostri, ma ne morivano anco gl'Indiani istessi. Non aspettando adunque altro soccorso che quello d'Iddio, piacque al pietoso signor di darvi rimedio, e fu con mutarsi la città d'Isabella in questa di S. Domenico, per la via e maniera ch'ora si dirà. Un giovane d'Aragona chiamato Michel Dias, facendo parole con un altro Spagnuolo, gli diede alcune ferite; e benchè non l'ammazzasse, non ebbe però ardire di restarsi qui, benchè fusse creato e servitore di D. Bartolomeo Colombo. Egli adunque s'appartò con 5 o 6 altri cristiani che l'accompagnarono, chi perchè s'era trovato a participare del delitto, chi perchè gli era amico. Fuggendo dalla città d'Isabella, se ne vennero per la costiera dell'isola verso levante, e voltorono tutta questa parte finchè vennero dalla parte di mezzodí, dove sta ora fondata questa città di S. Domenico. Qui si fermarono, perchè vi ritrovarono un popolo e una abitazione d'Indiani, e qui fece Michel Dias amistà con una Indiana, cacica o signora che vogliam dire, che poi si chiamò Caterina, e ne ebbe col tempo due figliuoli. Or, perchè questa Indiana principale di quel luogo gli volse bene, lo trattò come amico e amante caro; e per suo rispetto fece anco carezze agli altri, e gli diede notizia delle minere che sono sette leghe da questa città lontane, e lo pregò che chiamasse e facesse venire in questa contrada cosí fertile e bella, e con cosí bel fiume e porto, tutti que' cristiani suoi amici che nella città d'Isabella si ritrovavano, che essa gli manterebbe e darebbe quanto bisognato lor fosse.
Michel Dias, per compiacere a questa sua donna, o perchè gli parve che con questa buona nuova avrebbe dal don Bartolomeo Colombo ottenuto il perdono (ma principalmente fu che a Dio piaceva che cosí fusse, e che non morissero quegli altri cristiani che erano avanzati vivi), si partí co' suoi compagni, attraversando l'isola con la guida d'alcuni Indiani che quella sua amica gli diede, finchè giunsero ad Isabella, che è da 50 leghe da questa città di S. Domenico lontana. Qui tenne modo di parlare secretamente con alcuni suoi amici, e inteso che quel suo nemico stava già sano, ebbe ardire di comparire avanti al suo signore e di chiedergli perdono in pago de' suoi servigi, e della buona nuova che gli portava di quella fertile terra e delle minere dell'oro. Il Colombo lo ricevette caramente, e gli perdonò e pacificò col suo nemico. Egli, dopo ch'ebbe inteso le cose di questa provincia, deliberò d'andarvi in persona a vederle, e cosí, con quella compagnia che gli parve, vi venne, e ritrovò essere vero quanto il giovane detto aveva. Quivi, entrato in una barchetta di quelle degl'Indiani, fece tentare e vedere l'altezza di questo fiume chiamato Ozama che per questa città passa, e cosí anco l'altezza della bocca del porto, e ne restò molto contento. Volle anco andare alle minere dell'oro, ove stette due dí, e vi fu raccolto qualche poco d'oro Dopo questo se ne ritornò alla città d'Isabella, e con queste buone novelle fece senza fine lieti tutti i suoi; e fece tosto dar ordine per dover partire per questo luogo per terra, e tutte le loro robbe che ivi aveano fece portare per mare da due caravelle che ivi erano. E giunse in questo porto (come vogliono alcuni) di domenica a' 5 d'agosto, nel dí di S. Domenico del 1494, e fondò e diede principio a questa città; non già in quel luogo dove ora sta, perchè non volle dalla sua terra cacciare la signora Caterina né gli altri Indiani che vi vivevano, onde la fondò dall'altra parte di questo fiume Ozama, dirimpetto a questa nostra città. Ma, desideroso io di sapere la verità perchè questa città fosse chiamata di San Domenico, ritrovo che, di piú che di domenica e del dí di S. Domenico si cominciò ad abitare, e se le diede tal nome perchè il padre dell'admirante don Cristoforo Colombo e di questo don Bartolomeo suo fratello si chiamava Domenico, in memoria del quale suo figlio questo nome le pose.
Indi a duo mesi e mezo ritornò l'admirante, con gli altri ch'erano con lui andati a discoprir nova terra, e giunto in questa città mandò tosto a saper se 'l commendator messer Pietro Margarito era vivo, e gli scrisse che con tutti quelli ch'esso avea seco se ne venisse a ritrovarlo, e lasciasse la fortezza in poter del capitano Alonso d'Hogieda, che fu qui il secondo castellano. E cosí fu essequito, e giunti anco qui questi altri, tutti con la fertilità e ubertà della contrada si ricrearono. Ma poichè si ritrovorono qui tutti uniti, perchè l'aversario nostro non cessa mai tentar e seminar discordie fra buoni, avenne che nacquero molte contese fra l'admirante e quel reverendo padre fra Buil. Ed ebbero principio da questo, che l'admirante fece appiccar alcuni, e spezialmente un Gasparo Feriz d'Aragona, e molti altri fece frustare, mostrandosi piú severo e piú rigido del solito. E in effetto, benchè dovesse ragionevolmente essere rispettato, perchè, come ben diceva l'imperator Otone, che dove non è obedienza non è signoria, dice nondimeno anco Salomone che la carità cuopre tutti i delitti; onde mal fa chi non s'abbraccia con la misericordia, e specialmente in queste nuove terre, dove, per conservare la compagnia de' pochi, bisogna dissimularsi molte volte quello che spesse volte altrove sarebbe errore non castigarli; tanto piú che Salomone e san Paolo dicono queste parole: "Avendoti constituito capitano, non volere essaltarti ma mostrati come un di loro".
Or, l'admirante era tenuto crudele da quel padre che, essendo qui vicario del papa, ogni volta che gli pareva che nelle cose di giustizia il Colombo uscisse dal debito o nel rigore, tosto poneva interditti e faceva cessare gli ufficii divini: e l'admirante all'incontro non faceva né al frate né agli altri di casa sua dare da mangiare. Messer Pietro Margarito, e gli altri cavalieri che ivi erano, vi si traponevano e gli pacificavano; ma pochi dí questa pace durava, perchè, tosto che l'admirante faceva alcune delle cose già dette criminali, tosto il padre era con l'interditto alla mano e faceva cessare gli ufficii divini, e il Colombo all'incontro poneva a lui l'interditto al mangiare, e non voleva che fosse né a lui né agli altri clerici che lo servivan data cosa alcuna per potere vivere. Dice san Gregorio che non si può servare la concordia se non con la pazienzia solamente, perchè nelle operazioni umane nasce del continuo onde si disseparino e disunischino. Ora, a questi contrari voleri seguivano diverse opinioni, le quali, benchè non si publicassero, si scrivevano nondimeno dall'una parte e dall'altra in Spagna. Il perchè, informati diversamente, li re catolici mandarono in questa isola Giovanni Aguado lor creato, che ora vive in Siviglia.
Costui, partendo con 4 caravelle, se ne venne in queste Indie con una carta delli re catolici di credenza, fatta in Madril a' 9 d'aprile del 95, che a questo modo diceva: "Cavalieri e scudieri e voi altri tutti che per nostro ordine vi ritrovate nell'Indie, vi mandiamo Giovanni Aguado nostro repostiero, che da parte nostra vi parlerà. Noi vi comandiamo che li diate fede e credenza". Giunto questo capitan Aguado in questa isola Spagnuola, fece questa sua lettera di credenza bandire, onde quanti Spagnuoli vi erano gli s'offersero a quanto esso direbbe da parte delli re catolici. E cosí, pochi dí appresso, disse all'admirante che s'apparecchiasse per passare in Spagna: di che egli si resentí molto, e vestissi di pardo a maniera di frate e si lasciò crescere la barba.
Ritornò l'admirante in Spagna nel 96 a guisa di prigione, benchè non fusse fatto altramente prendere. Mandarono anco il re e la reina a chiamare il fra Buil e messer Pietro Margarito, i quali con la medesima armata se ne ritornarono in Spagna, e con loro il commendatore Gallego e 'l commendatore Arroio e 'l contator Bernardo da Pisa e Rodrigo Abarca e messer Girao e Pietro Navarro. Giunti in Spagna, se n'andarono tutti ciascun per la strada sua alla corte, a baciar la mano delli re catolici. Il fra Buil, benchè avesse anco dall'Indie scritto, insieme con gli altri che della sua opinione erano, informò li re catolici delle cose dell'admirante, facendole piú criminali di quello che erano. Ma quelli felici prencipi, udito che ebbero il tutto, avendo rispetto ai gran servigi dell'admirante e mossi dalla lor propria e real clemenzia, non solamente gli perdonarono, ma gli diedero anco licenzia di ritornarsi al governo di queste terre e a discoprire il restante di queste Indie, raccomandandogli molto il buon trattamento de' suoi vassalli Spagnuoli e degl'Indiani anco, e ordinandogli che fusse piú moderato e men rigoroso. Ed egli loro cosí promisse, benchè la maggior parte di quelli che erano di qua passati in Spagna parlassero assai male di lui. Di che non mi maraviglio io, benchè egli non vi avesse colpa alcuna, perchè alcuni di coloro che qui passano tosto vengono dall'aere del paese destati a suscitare novità e discordie, che è cosa propria nell'Indie; onde e per questo e per altri molti lor peccati sono gl'Indiani tanti secoli stati come dimenticati dal grande Iddio.
Furono anco in que' primi anni accresciute molto le discordie de' cristiani che qui passarono dall'essere gli animi degli Spagnuoli inchinati naturalmente piú alla guerra che all'ozio, e (come Iustino dice) quando non hanno inimici stranieri cercano fra se stessi d'averne, per la vivacità de' loro ingegni: or quanto piú, che in queste Indie passarono varie maniere di gente, perchè, se ben erano tutti vassalli delli re di Spagna, che avrebbe concordato il viscaino col catalano, che sono di cosí differenti provincie e lingue? Chi avrebbe uniti insieme quel d'Andalusia col valenziano, o quel di Perpignano col cordovese, o l'aragonese col guipuzuanno, o il gallego col castigliano (sospettando che egli sia portoghese), o l'asturiano col navarro, e cosí degli altri medesimamente? Sí che a questo modo non tutti i vassalli della corona di Spagna sono di conformi costumi né di simil lingue, massimamente che in quelli principii, se vi passava una persona nobile e di illustre sangue, ve ne venivano dieci discortesi e di basso e oscuro sangue.
Ma perchè la conquista è stata poi cosí grande, vi sono poi sempre passate persone principali e cavalieri e nobili, che hanno determinato di lasciare la patria loro di Spagna per far stanza in queste parti, e specialmente in questa città, dove si piantò e fondò principalmente la religione cristiana, come si dirà piú appresso. Ma perchè potrei essere notato per negligente, s'io lasciassi di dire due nuove infermità che i cristiani patirono in questo secondo viaggio dell'admirante, mi piace di dirle nel seguente capitolo, perchè furono di molta ammirazione e pericolose; e una di loro in questo secondo ritorno del Colombo fu trasferita in Spagna, e indi poi per tutte l'altre parti del mondo, come si crede.
Delle due infirmità notabili e pericolose che quei primi cristiani in queste Indie sentirono, e ve le sentono anche oggi alcuni, e una di loro fu transferita in Spagna, e poi per tutti gli altri luoghi del mondo.
Cap. XIV.
Poi che tanta parte dell'oro di quest'Indie è passata in Italia e in Francia, e nelle contrade di mori medesimamente, è ben giusto che provino anco tutti questi luoghi delle nostre fatiche e dolori, acciochè o per l'una via o per l'altra, cioè o del bene o del male che avuto ne hanno, si ricordino di ringraziar molto il Signor Iddio; e col male e col bene s'abbraccino con la santa pazienzia di Giob, che né con l'esser ricco fu superbo, né con l'esser povero e impiagato fu impaziente.
Mi ridea molte volte in Italia sentendo dagli Italiani nominare il mal francese, e dalli Francesi dir il male di Napoli: e in effetto, che e questi e quelli avrebbono indovinato il vero nome, se il male dell'Indie chiamato l'avessero. E che sia cosí il vero il mostrerò in questo capitolo, con la molta isperienzia che s'è già fatta del legno santo e del guaiacan, con che principalmente piú che con altra medicina si guarisce questa orrenda infermità delle bughe; perchè la clemenzia divina, dove per nostri peccati permette il male, ella per sua misericordia provede di rimedii. Ma di questi due alberi si dirà appresso, nel decimo libro. Ora diciamo come queste bughe passarono in Spagna da questa isola Spagnuola con le monstre dell'oro.
S'è nel precedente capitolo detto che nel 96 ritornò il Colombo in Spagna. Doppo il qual ritorno io viddi e parlai con alcuni di quelli che ritornarono allora in Castiglia, come fu il commendatore messer Pietro Margarito e i commendator l'Arroio e 'l Gallego, e Gabriel di Leon e Giovan della Vega e Pietro Navarro, e altri creati nella corte del re catolico, dai quali intesi molte cose che vedute e patite avevan in questo secondo viaggio; come n'aveva già intese di quelle del primo viaggio molte da Vincenzo Pinzon, che fu un di quelli primi pilotti che andarono col Colombo la prima volta, e col quale io ebbi amistà fino dal 1414[1514], che egli morí, e come ne fui anco informato dal pilotto Fernando Perez Matheos, che al presente vive in questa città, e si ritrovò nel primo e terzo viaggio che il primo admirante don Cristoforo Colombo fece a queste Indie. Ebbi anco notizia di molte cose di questa isola da due gentiluomini che nel secondo viaggio dell'admirante vi vennero, e oggi dí qui in questa città vivono, e sono Giovanni di Rogias e Alonso di Valenzia; e cosí anco da molti altri, che come testimonii di vista mi diedero particolare relazione di quanto s'è detto di questa isola, e degli affanni e travagli che vi sentirono. Ma piú che niuno degli altri che ho detti m'informò a pieno il commendator messer Pietro Margarito, uomo principale della casa reale e tenuto in buona estimazione dal re catolico; e questo cavaliero fu quello che il re e la reina per principale testimonio tolsero, e a chi maggior credito diedero delle cose che seranno qui nel secondo viaggio passate, come se n'è già ragionato di sopra.
Ora, questo cavaliero messer Pietro andava cosí infermo, e si lamentava e doleva tanto, che ben mi credo che esso sentisse i dolori che sentire sogliono quelli che sono da questa passione tocchi, ma non gli viddi però buga alcuna. Indi a pochi mesi, nel medesimo anno del 96, cominciò a sentirsi questa infermità fra alcuni cortigiani: ma in quelli principii andava questo male fra persone basse e di poca auttorità, e si credeva che si mischiasse questo morbo con accostarsi con donne publiche. Ma poi si sparse anco fra alcune persone principali, e gran maraviglia causava a quanti lo vedevano, sí perchè era il male orrendo e contagioso, come perchè se ne morivano molti. E perchè l'infermità era nuova, i medici non l'intendevano né sapevano curare né darvi consiglio.
Ora, seguí poi che fu mandato in Italia il gran capitano Gonzalo Fernandes di Cordova con una grossa e bella armata dai re catolici in favore del re Fernando secondo di Napoli, contra il re Carlo di Francia chiamato della testa grossa. E fra quelli Spagnuoli che con questa armata andarono ve ne furono alcuni ammorbati di questa infermità, onde col mezzo delle donne e col vivere mischiarono questo lor morbo agli Italiani e alli Francesi; e perchè né questi né quelli avevano giamai tale infermità sentita, cominciarono i Francesi a chiamarlo il mal di Napoli, credendo che proprio di quel regno fosse, e i Napolitani, pensando che con li Francesi fosse venuto, lo chiamarono mal francese; e cosí d'allora in poi per tutta Italia si chiama.
Ma nel vero da questa isola Spagnuola passò questo male in Europa. E qui è morbo molto ordinario agli Indiani, che se ne sanno guarire, e hanno a questo effetto eccellenti erbe e piante appropriate a questa e ad altre infermità, come è il guaiacan (che alcuni vogliono che sia l'ebeno) e 'l legno santo, come si dirà quando si ragionerà degli alberi. Si che delle due infermità pericolose che i cristiani sentirono da principio in queste Indie queste delle bughe n'è una, e fu (come s'è detto) transferita prima in Spagna e poi in tutte l'altre parti del mondo. L'altra è quella che chiamano delle nigue, la quale non è in effetto infermità, ma è un certo male a caso, perchè la nigua è una cosa viva e picciolissima, di modo che è minor che il piú piccolo pulice che si vegga; e in effetto è una specie di pulici, perchè va saltando come pulice, ma è assai piú picciolo. Questo animaletto va per la polvere, e dove l'uomo desidera che egli non vi sia, bisogna che vi scopi molto minutamente la casa. Egli se n'entra ne' piedi e in ogni altra parte della persona, e per lo piú nelle punte dei diti, senza esser sentito, finchè si sia già collocato fra la pelle e la carne; e comincia a corrodere e mangiare forte, e quanto piú vi sta piú mangia, di modo che, col raspare che l'uomo vi fa, questa nigua si dà molto fretta a moltiplicarvi molti altri animaletti della spezie sua, tal che in breve vi si fa un nido; perciochè, tosto che vi entra il primo, vi s'annida e vi fa una borsetta fra pelle e carne, grande quanto è una lenticchia, e piena di lentidini che tutti diventano nigue; e se per tempo non si cavano fuori con un ago o con una spingola, nel modo che si cavano i pedicelli, è una cattiva cosa, massimamente che, doppo che sono già create (che è quando cominciano molto corrodere), con il raspare si rompe la carne, e si spargono questi animaletti di modo che chi non vi sa ben rimediare vi avrà ben sempre che fare. In effetto, perchè i cristiani, come nel curarsi del male delle bughe cosí anco in questo erano poco diligenti, ne aveniva che molti per queste nigue perdevano i piedi o almanco i deti de' piedi, perchè, doppo che si gonfiavano e vi si faceva materia, bisognava curarle col ferro o col fuoco. Ma chi vi è presto a cavarle nel principio vi rimedia facilmente; benchè siano in alcuni neri pericolose, perchè, o per la lor mala carnatura o perchè sono bestiali e non si sanno nettare né dirlo a tempo, ne vengono a perder i piedi.
E io fra gli altri le ho avute ne' piedi miei in queste isole e in terra ferma, e non mi pare che in persone ragionevoli siano cosa da temersi, benchè sian in effetto noiose mentre che durano o che stanno dentro la carne. Ma è facil cosa cavarle da principio, e io ne ho fatto l'isperienzia, e cosí diranno anco coloro che le sanno cavare: e bisogna stare accorto quando si cavano per ammazzarle, perchè alcuna volta, tosto che l'ago rompendo la pelle del piè la scuopre, ella salta e se ne va via come un pulice, il che aviene quando è poco tempo che vi sia entrata. E per questo si crede che quella che vi entra, doppo che vi ha fatto la sua cattiva semenza, se ne salta via fuori e va a fare danno a qualche altra parte, lasciando nel piè uno isciamo di questa cosí malvagia generazione.
Della naturale e generale istoria dell'Indie a' tempi nostri ritrovate.
Libro terzo
Proemio
In questo terzo libro si tratterà della guerra che fece in nome dell'admirante don Cristoforo Colombo il capitan Alonso d'Hogieda col re Caonabo, e come vi fu questo re preso e morto, e delle vittorie che ebbe don Bartolomeo Colombo contra il re Guarionex e altri quattordeci caciqui che con costui si unirono; e come Roldan Scimenes s'appartò con alcuni cristiani dall'obedienzia dell'admirante e di suo fratello. Si dirà anco del terzo viaggio del primo admirante, quando discoprí e ritrovò parte della gran costiera di terra ferma e l'isola delle Perle chiamata Cubagua; e del governo dell'admirante, e che re e signori principali erano in questa isola; e del gran lago di Sciaragua, e d'un altro lago che è nella cima delli piú alti monti dell'isola; e come e con che arme combattevano gli Indiani, e che generazione sono i caribi e i freccieri.
Diremo medesimamente della miracolosa e devotissima croce della Vega; e della venuta del commendatore Francesco di Bovadiglia, il quale mandò in Spagna prigione con ferri l'admirante e i suoi duo fratelli don Bartolomeo e don Diego Colombo; e per che cagione si morirono molti Indiani che erano in questa isola Spagnuola; e della venuta del commendator maggior di Alcantara don fra' Nicola d'Ovando; e della partenza del commendatore Bovadiglia, che perí nel mare con molti vasselli e gente e molto oro; e del buon governo del commendatore maggiore; e come l'admirante vecchio e primo fece il quarto viaggio e venne a discoprire in queste Indie Veragua e altre provincie di terra ferma; e della sua morte che seguí poi in Spagna; e come questa città di S. Domenico si mutò e trasferí dove ora sta, e della nobiltà e particolarità di questa città e di questa isola con le sue terre; e d'altre cose appartenenti al proseguire questa naturale istoria, come piú particolarmente si vedrà ne' seguenti capitoli.
Della guerra che ebbe il capitano Alonso di Hogieda col caciche Caonabo,
e della prigione e morte di questo re.
Cap. I.
Nel secondo libro s'è detto come, dopo che il commendatore messer Pietro Margarito lasciò la fortezza di San Tomaso, l'admirante vi mandò il capitano Alonso d'Hogieda, facendone 'l castellano e dandogli cinquanta uomini che la guardassero; perchè stava in parte che importava molto, sí per le ricche minere di Cibao come per la riputazione e forza de' cristiani. Ma, come fu l'admirante partito per Spagna, gl'Indiani s'insuperbirono, e specialmente Caonabo, che era di quella provincia signore, e non si contentava di questa nuova e vicina fortezza de' cristiani: onde, insieme con freccieri indiani che tenevano la costiera di questa isola dalla parte di tramontana, deliberò di dare sopra questa fortezza e brucciarla o spianarla. Con piú di cinque o seimila uomini adunche assediò il castello, e lo tenne ben stretto un mese senza lasciarne uscire anima viva. Ma il castellano, che era savio e valoroso cavaliero, resisté, di modo che in capo di questo tempo gli inimici rallentorono, e come gente selvaggia diedero a' nostri commodità di poter lor fare molti danni. Il castellano, accorto e sollecito, maneggiò questa guerra e con l'armi e con l'arte, secondo che piú vedeva il bisogno; onde, benchè alcuni cristiani morissero, ma assai senza comparazione in maggior numero Indiani, l'Hogieda finalmente vinse il nemico e prese Caonabo con gran parte de' suoi principali: benchè si dicesse che il castellano non aveva servata la fede e la sicurtà che il caciche diceva essergli stata promessa, o pure era ch'esso inteso non l'avea. Questa presa di Caonabo fu cagion della pace, e che tutta l'isola fosse a' cristiani soggetta.
Aveva questo Caonabo un fratello molto valente e assai amato dagl'Indiani, il quale, pensando a forza d'arme riscuotere il fratello, con prendere quanti cristiani potesse e cambiarli poi con lui e con gli altri principali che prigioni si ritrovavano, raunò insieme piú di settemila uomini, la maggior parte freccieri, e fattone cinque schiere si venne a porre molto presso agli Spagnuoli del castello di S. Tomaso. Il castellano uscí con alcune genti da cavallo e con quelle da piè che puoté, lasciando guardata la fortezza, perchè don Bartolomeo Colombo gli aveva mandate alquante genti in soccorso (benchè tutti non fossero 300 uomini), e combattendo con gl'Indiani, piacque al Signore Iddio di dargli vittoria: perchè, come i ginetti nostri diedero nella prima lor schiera, gli posero in fuga, perchè molto gl'Indiani di questa novità si spaventarono, non avendo mai veduto prima questa sorte d'uomini a cavallo combattere. Fu adunche fatta di lor molta strage, e vi fu fatto prigione il fratello di Caonabo con molti altri Indiani. In questo dí fece l'Hogieda ufficio di valoroso soldato e di generoso cavaliero, e non meno di prudente capitano. Quando don Bartolomeo Colombo vidde che questo caciche e suo fratello erano prigioni, deliberò di mandargli in Spagna con alquanti altri de' principali Indiani che prigioni erano, parendogli essere molto inconveniente che 'n questa isola stesse ritenuto il detto Caonabo, e peggio essere se si lasciava in libertà, sí perchè v'era cosí principale signore, come perchè per sua cagione sempre vi sarebbe stato qualche motivo di guerra, per essere persona di molto valore e sforzo. Ordinò adunche che fossero imbarcati in due caravelle, che stavano già preste per dover partir alla volta di Spagna. Ma, avendo saputo Caonabo e 'l fratello che doveano essere mandati al re catolico, il fratello si morí fra pochi dí, ed esso imbarcato navigando indi a pochi dí morí medesimamente nel mare. E a questo modo restò pacifica a' cristiani tutta la contrada di questo Caonabo, la cui moglie, chiamata Anacoana e sorella del caciche Behecchio (ch'era signore nella parte occidentale di quest'isola), si partí dal regno di suo marito e se n'andò a vivere col fratello nella provincia che chiamano di Sciaragua, dove fu rispettata e tenuta per signora come l'istesso fratello. Di questa Anacaona si dirà appresso, perchè fu gran persona e riputata molto in quelle parti essere stata valorosa molto e di grand'animo e ingegno; e furon certo le cose di questa donna notabili, cosí in bene come 'n male, come al suo luogo si dirà.
Della battaglia e vittoria che ebbe don Bartolomeo Colombo contra il re Guarionex e altri quattordeci re, e come Roldan Scimenes si partí dalla obedienzia del Colombo.
Cap. II.
Quasi nel tempo che Caonabo teneva assediata la fortezza di S. Tomaso, come vogliono alcuni, o dopo quello assedio, come alcuni altri dicono, il caciche Guarionex convocò tutti quelli Indiani e cacichi ch'ei puoté (che furono piú di quindecimila uomini) per dar sopra a' cristiani ch'erano con don Bartolomeo Colombo; perchè, come s'è già detto, gl'Indiani mal volentieri soffrivano questa vicinanza de' cristiani, e non avrebbono per niun conto voluto che qui nell'isola restati fossero, sí perchè non fossero essi de' loro stati privi, secondo che già vi vedevano qualche principio, come perchè solevano all'aperta i cristiani biasmare le loro cerimonie e riti. E tanto piú in questo pensiero si fondarono, che vedevano l'occasione buona per loro, per li pochi cristiani ch'erano in tutta l'isola restati, essendone gran parte morti d'infermità e per i travagli che passati aveano: che già sapevano che l'admirante s'aspettava con nuove genti, nella venuta del quale, perchè i cristiani ormai sapeano i luoghi del paese, essi non avrebbono cosí potuto lor nocere. Posto adunche questo pensiero ad effetto, si mossero con grosso esercito sopra i cristiani.
Don Bartolomeo Colombo, avendo avuto di ciò aviso, non volle farsi forte in quel picciol luogo, né dare al nemico occasione d'attaccarvi di notte fuoco o d'assediarlo dentro, ma da buon cavaliero e atto capitano uscí in campo, e non s'arrestò giamai finchè presso al nemico si ritrovò; e alla seconda guardia o quasi, su la mezzanotte, con qualche 500 uomini, parte sani parte infermi, diede animosamente e con tanto impeto sopra gl'Indiani da due parti, che gli pose in rotta, ammazzandone molti e facendone la maggior parte prigioni; gli altri per l'oscurità della notte scamparono. Vi fu fatto il re stesso Guarionex prigione, con quattuordeci altri re o cacichi che nella battaglia si ritrovarono, la quale battaglia fu fatta presso dove è la terra del Benao edificata.
Fu cosí segnalata questa vittoria e cosí favorevole a' cristiani che, oltra che ne accrebbe lor il credito e la riputazione di valenti presso a quelle genti, fu anco cagione che gl'Indiani si acquietassero e ponessero a queste sue ribellioni e rivolte fine, e che cominciassero ad essere piú domestici e a conversare piú con cristiani, ponendo ogni pensiero di guerra da parte; benchè nel vero la gente di quest'isola è quella che men vale d'altre che si sia veduta in tutte quest'isole e terra ferma dell'Indie, e quella che piú quieta e pacificamente viveva, ancora che fra loro stessi qualche volta fossero discordi e guerreggiassero; ma le lor guerre non erano né cosí continove né sanguinose come in altre parti si veggono.
Ritornando all'istoria, avuta ch'ebbe don Bartolomeo Colombo questa vittoria, parendogli che gran cagione di perpetuare l'amistà e la pace fra cristiani e Indiani era il lasciare in libertà Guarionex con le migliori condizioni possibili, lo pose ad effetto e lo lasciò via libero; onde egli di allora in poi faceva carezze e trattava bene i cristiani nel suo paese quando vi andavano o ne passavano. Sono alcuni altri che dicono che questo caciche non si ritrovasse nella battaglia, ma che v'andasse capitano generale delle sue genti il caciche Maiobanex, e che questi fosse poi con gli altri lasciato libero; ma che nel processo della guerra era stata fatta prigione la moglie di Guarionex, il quale per riscuoterla era venuto a fare pace e amicizia con cristiani.
Ora, doppo di questa vittoria parve che don Bartolomeo Colombo cambiasse affatto natura, perchè si mostrò assai piú rigoroso che prima con cristiani, di modo che alcuni non lo potevano sofferire; e piú che tutti gli altri Roldan Scimenes, che era restato per alcaide maggiore dell'admirante, e al quale non usava don Bartolomeo la cortesia che esso pensava di meritare. Né acconsentiva Roldan che costui nelle cose di giustizia facesse quello che piú voleva; onde sopra di ciò ebbero male parole, e don Bartolomeo gli usò mali termini, perchè, secondo che alcuni dicono, li pose o li volse ponere le mani adosso. Di che egli in modo si sdegnò, che con settanta uomini s'appartò e se n'entrò molto nell'isola adentro, sviandosi dalla conversazione de' cristiani, predicando e dicendo ingiustizie dell'admirante e del fratello, con determinazione però di non appartarsi dal servigio delli re catolici; onde faceva le sue proteste di non volere solamente vivere sotto il governo né dell'admirante né del fratello, come in effetto poi mai non vi visse, perchè se n'andò nella provincia di Sciaragua nello stato del re Beheccio; e quivi stette finchè dopo qualche tempo venne nel governo di questa isola Spagnuola il commendatore Francesco di Bovadiglio, come appresso al suo luogo si dirà.
Del terzo viaggio che fece l'admirante in queste Indie, e come scoperse la costiera di terra ferma e l'isola di Cubagua dove si pescano le perle, e altre isole nuove che ritrovò.
Cap. III.
L'admirante Colombo stette qualche dí nella corte delli re catolici, sodisfacendo e risolvendo l'informazioni sinistre che avevano di lui date il fra Buil e gli altri: e fu con clemenzia ascoltato e assoluto, come nel precedente libro s'è detto. Poi, avuta licenzia di ritornare nel governo di queste terre e di dovere discoprire dell'altre nuove, si partí dal porto di Calis del mese di marzo del 96, benchè vogliano alcuni che fosse nel 97. E uscito nel mare Oceano, con sei caravelle ben armate e proviste di quanto per simil viaggio bisognava, se ne venne in Canaria. Qui ritenne seco tre caravelle; l'altre tre mandò in questa isola Spagnuola, con provisione di molte cose necessarie alla vita e con alcune genti. Ed esso poi si partí con le tre sue caravelle per la volta dell'isole di Capo Verde, chiamate dagli antichi Gorgone. E di qui partendo navigò verso garbin ben cento e cinquanta leghe, ed ebbe una cosí fatta tempesta che fu forzato a far tagliare gli alberi delle mezzane, e alleggerire gran parte delle robbe che portavano, onde in gran pericolo si videro; e cosí dice Fernando Perez Matheos pilotto, che oggi in questa città di San Domenico vive. Ma altramente dice don Fernando Colombo, figliuolo dell'admirante, che in quel viaggio si ritrovò, perchè dice che la tempesta fu di calma, e di tanto calore che gli s'aprivano i vasi e si putrefaceva il frumento, e fu lor necessario d'alleggiare e di scostarsi dall'equinoziale, e corsero al ponente maestro e andarono a riconoscere l'isola della Trinità; il qual nome l'admirante li pose perchè andava con pensiero di chiamare di questo nome la prima terra che vedesse, e cosí, vedendo terra ferma e questa isola con tre monti in un tempo e da presso, chiamò tosto quella isola la Trinità. E passando oltre, per quella bocca che la Bocca del Drago chiamano, vidde terra ferma e gran parte della sua costiera. Ma perchè l'isola e la costiera di terra ferma sono abitate da arcieri caribi, che tirano le freccie avelenate con un'erba alla qual non si trova rimedio, e sono gente assai fiera e selvaggia, non si puote qui avere lingua con gl'Indiani, ancorchè ne vedessero molti nelle lor pirague e canoe sulle quali navigano: delli quali vasselli e della lor forma si dirà appresso. Viddero medesimamente delle genti in terra ferma.
Sta posta questa isola della Trinità nove gradi lungi dall'equinoziale, dalla parte del nostro polo artico, dalla banda che ella verso mezzogiorno si stende, perchè dalla parte che è volta a settentrione sta in dieci gradi dall'equinoziale. È larga da 18 o 20 leghe, e lunga poco piú di 25. Quella terra che è a questa isola opposta dalla parte di mezzogiorno si chiama il Palmare, perchè gran quantità di palme si viddero. E piú verso levante lungo la costiera di terra ferma sta il fiume Salso, che cosí l'admirante il chiamò perchè, volendo torvi acqua, la ritrovò molto salsa. Da ponente in questa isola della Trinità sta la punta delle Saline, lungi dieci o dodeci leghe da terra ferma, e fra questa punta e terra ferma sta un golfo, che l'admirante il chiamò la Bocca del Drago, perchè a guisa d'una bocca aperta di drago sta la figura di questo imboccamento; e dentro questo golfo sono molte isolette. E dalla punta delle Saline, che sta in 10 gradi dall'equinoziale, discorse per la costiera l'admirante verso ponente, e riconobbe alcun'altre isole, che le chiamò i Testigos; e ad un'altra isola pose nome la Graziosa. E vidde molte altre isole che indi erano; e passando oltre scoperse la ricca isola chiamata Cubagua, che ora chiamiamo l'isola delle Perle, perchè qui è la principale peschiera delle perle in queste Indie. E vicina a questa sta un'altra isola maggiore, che l'admirante la chiamò la Margarita. L'isola di Cubagua o delle Perle sta dalla punta delle Saline già dette quasi 50 leghe verso ponente: questa isola è picciola, perchè non gira piú che tre leghe, e quattro leghe è lontana da terra ferma, della provincia che chiamano Araia. E qui discoperse i Testigos, che sono isolette, e l'isola delli Passeri e altre isole. Egli passò l'admirante con le sue tre caravelle lungi la costiera di terra ferma verso ponente, e ritrovò l'isola di Poregari, che sta 27 o 30 leghe lungi da Cubagua. E piú oltre discoperse altre isole, che si chiamano Li Rocchi e l'isola dell'Orchiglia, che si chiama anco Iaruma, dove, come si dice, ne è sí gran quantità. Questa isola è 12 leghe lontana da un'altra isola che discoprí anco l'admirante piú verso ponente, e che si chiama Corazao. Discoperse medesimamente molte altre isole e isolette, finchè giunse al capo della Vela, che questo nome gli pose perchè qui vidde una gran canoa d'Indiani che andava alla vela. Da questo capo alla punta delle Saline e Bocca del Drago sono da 180 leghe. E da questo capo della Vela attraversò l'admirante il golfo che è fra terra ferma e questa isola Spagnuola, e se ne venne in questa città, che a quel tempo stava dall'altra parte di questo fiume. Quel capo della Vela sta da polo in polo con l'isola Beata, che è una isoletta presso a questa Spagnuola, posta trentacinque leghe verso ponente lungi da questa città.
E questo fu il terzo viaggio e discoprimento che fece in queste Indie il primo admirante. Ma perchè abbiamo detto di sopra che in Cubagua ritrovò la pescheria delle perle, ed è cosa cosí segnalata e ricca, è bene che si dica a che modo seppe egli che qui si pescassero le perle, quando particolarmente tratteremo di questa isoletta.
Di quello che fece l'admirante Colombo in questa isola nel suo terzo viaggio, e delli re o signori che in questa isola Spagnuola erano.
Cap. IIII.
Mentre che l'admirante stette in Spagna, e che ritornò la terza volta a discoprire quella parte di terra ferma con l'isole che si sono pure ora dette, non venne mai vassello alcuno di Spagna in queste parti, né di qua ne passò in Spagna alcuno. E perchè quelli che erano da questa isola passati in Europa con l'admirante, e prima anco senza lui, per li travagli che passati avevano se n'erano tutti e poveri e infermi andati, e con tal colore che pareano morti, se ne infermò molto questa contrada delle Indie, e non si ritrovava niuno che vi fosse voluto venire. E io certo ne viddi molti di quelli che di qua se n'erano ritornati in Castiglia, con cosí fatti visi che, se il re m'avesse tutte queste sue Indie donate, dovendo io restare come coloro non vi sarei venuto giamai. E non era da maravigliare se alcuni a quel modo se ne ritornavano, che mi maraviglio come ne potesse scampare uomo vivo, facendo mutazione di terre cosí remote dalle patrie loro, e lasciando tante commodità e vezzi di case loro, e facendosi quasi esuli di tanti loro amici e parenti, e mancando loro le medicine e l'altre tante cose necessarie, che qui per brevità si tacciono.
Le genti adunque del continovo in questa isola mancavano, e quelli che v'erano tanto si restavano di ritornarsi in Spagna quanto che non avevano vascelli da ritornarsene, e del ritorno dell'admirante non s'aveva certezza alcuna; onde si teneva questo paese quasi per perduto e per disutile, e quelli che v'erano con gran paura vi stavano; e vi si sarebbono senza alcun dubio persi se non erano soccorsi da quelle tre caravelle che dalle isole di Canaria vi mandò l'admirante, le quali portarono piú di 300 uomini sentenziati a morte e banditi in questa isola, che furono cagione, con quelli pochi che v'erano, che questa isola non si disabitasse del tutto. E non avevano già i cristiani ardimento d'uscire dalla città, né di passare il fiume da questa altra parte. E si può dire di certo che per questo soccorso fu ristorata la vita di quelli che qui stavano, e si mantenne che non si perdesse del tutto questa isola, perchè fra queste nuove genti vennero molti valenti uomini e persone segnalate; onde perderono affatto gl'Indiani ogni speranza di dovere piú vedere senza cristiani questa isola, massimamente che indi a poco tempo vi videro anco venire l'admirante con l'altre tre caravelle e con buone genti, avendo già scoperte altre isole e parte di terra ferma, come s'è detto.
Egli, giunto in questa città, che allora stava dall'altra parte del fiume, ritrovò don Bartolomeo suo fratello con gli altri cristiani in pace, benchè alcuni stessero di malavoglia per l'absenzia di Roldan Scimenes e ne mormorassero, come è il costume di questa terra; perchè ancora v'erano alcuni affezionati e infetti delle vecchie passioni del tempo di fra' Buil. Ma tutti però ubbidirono e ricevettero l'admirante con lieto continente, come viceré e governatore che veniva in nome delli re catolici. E benchè esso esercitasse il suo ufficio e governo per il miglior modo che poteva, non mancarono però giammai di quelli che delle sue cose si lamentavano; il che bisognava che cosí fosse, perchè col favorire e aiutare uno bisognava che offendesse o mal trattasse un altro. E certo ch'ha da esser angelico piú tosto che umano quel governatore che vuol contentare tutti, perchè altri sono inchinati a' vizii, altri alle virtú, chi a travagliarsi ed esercitare le persone, e chi al riposo e all'ozio, chi a spendere chi a conservare, e chi a una cosa e chi a un'altra; di modo che non si possono tante maniere d'uomini contentare che, per avere diversi fini e intenzioni, è molto difficile il potere intenderli, e il governatore bisogna che abbia una special ventura e favore divino per essere amato; benchè non poco anco da lui dipenda, s'egli avrà queste tre cose sole, che sia retto e senza passione nelle cose della giustizia, che sia liberale e che non sia avaro.
Ma, ritornando all'istoria, l'admirante diede ordine in fondare, o per dir meglio in reformare la città della Concezione della Vega, e la terra di S. Giacomo e quella del Bonao. Queste tre terre furono in questa isola Spagnuola fondate dal primo admirante don Cristoforo Colombo, il quale prima di queste vi fondò anco Isabella, il cui popolo (come s'è detto di sopra) fu trasferito in questa città di San Domenico.
Ora, ritrovandosi in questo stato di cose, l'admirante don Cristoforo se ne ritornò in Spagna, e li re catolici, sentendosi assai ben serviti di lui, gli confermarono un'altra volta i suoi privilegii nella città di Burgos, a' 23 d'aprile del 1497. Ma perchè, per quello che si dirà appresso in questa istoria, bisogna sapersi quali re o prencipi signoreggiavano questa isola Spagnuola, dico che, secondo che io intesi e seppi da quelli che io ho allegati di sopra per testimonii, e per le memorie che io scrissi da che nel 93 viddi in Barzellona li primi Indiani col Colombo nella corte delli re catolici, erano cinque li re o cacichi, che essi chiamano, che signoreggiavano tutta l'isola; e sotto a questi erano altri cacichi di minor stato, che a qualch'uno de' cinque principali obedivano, e venivano alor chiamati o di pace o di guerra, e non mancavano a quanto loro si comandava.
Li nomi delli cinque principali erano questi: Guarionex, Behecchio, Goacanagari, Caiagoa, Caonabo. Il primo signoreggiava tutto il piano, che erano piú di settanta leghe nel mezzo dell'isola. Behecchio possedeva la parte occidentale e la provincia di Sciaragua, e nello stato di costui era quel gran lago del quale si parlerà appresso. Goacanagari signoreggiava dalla parte di tramontana, e nella signoria di costui lasciò l'admirante li trentotto cristiani, quando venne in questa isola la prima volta. Caiagoa regnava nella parte orientale di questa isola, fino a questa città e al fiume d'Aina, e fin dove il fiume Iuna scarica in mare: e questa era in effetto una delle maggiori signorie di tutta l'isola, e le genti di questo regno erano le piú animose, per la vicinanza che avevano de' Caribi; e questo re morí poco doppo che i cristiani gli mossero la guerra, e la moglie sua restò nello stato e fu dapoi cristiana, e si chiamò Anessa di Caiacoa. Il re Caonabo signoreggiava nelle montagne, ed era gran signore e di molto stato, e aveva un caciche per capitan generale in tutto lo stato suo, chiamato Usmatex, che in suo nome vi comandava: ed era questo un cosí valente uomo che ne temevano tutti gli altri cacichi e Indiani dell'isola.
Questo Caonabo s'accasò con Anacaona, sorella del cacico Behecchio; e perchè era un re principale, se ne venne come capitano aventuriero, e per lo valore di sua persona fece questo casamento, e fece sua principale stanza dove è ora la terra di S. Giovan della Maguana, e tutta quella provincia signoreggiò. Fra gl'Indiani di questa isola non erano mai guerre né differenzie, se non per una di queste tre cause: o per li termini e giurisdizioni, o per le pescherie, o quando dalle altre isole venivano Indiani caribi a farvi assalto. E quando questi stranieri vi venivano o v'erano sentiti, ancorchè i cacichi dell'isola fossero fra sé nemici e discordi, tosto si univano insieme e come amicissimi s'aiutavano l'un l'altro contra quelli che d'altre parti vi venivano.
Del lago di Sciaragua, e d'un altro lago posto nelle piú alte parti dell'isola;
e delle genti che in questa isola si trovarono, e con che arme combattevano,
e de' caribi arcieri, e della croce della Concezione della Vega.
Cap. V.
Io voglio qui dichiarare che cosa è il lago di Sciaragua e un altro lago medesimamente posto nelle piú alte montagne di questa isola; e chi sono gl'Indiani caribi, de' quali s'è fatta menzione di sopra, con altre cose assai degne da notare, come si vedrà. Il lago di Sciaragua comincia due leghe lungi dal mare, presso la terra della Iaguana; e chiamasi di Sciaragua perchè cosí chiamano gl'Indiani quella provincia dove egli è. Si stende verso oriente, e in alcune parti è largo tre leghe, il resto è di due leghe o poco piú, o meno d'una. È salso come il mare, perchè v'ha come un occhio che col mare corrisponde, benchè in alcune bocche di fiumi o di ruscelli sia dolce. Sono in questo lago tutte le sorte di pesci che sono nel mare, salvo che balene e altri simili grandi; benchè vi siano tiburoni, che sono assai grandi, con altre molte differenzie di pesci, e tartuche, che chiamano gl'Indiani hicoteas. E nel tempo che fu molto questa isola abitata, si vidde anco abitata tutta la costiera di questo lago da ogni parte. Nel 1515 lo camminai io quanto è lungo, e ritrovai molti Indiani che vivevano in certi bei luoghi posti al paro di questo lago. Si stende questo lago, dalla parte ch'è piú vicina al mare fin dove piú dentro terra se ne entra, disdotto leghe. E perchè vi sono molte peschiere era assai frequentato e abitato, perchè il pesce è quella cosa che piú ordinariamente gl'Indiani mangiano.
L'altro lago che ho detto che sia nella cima delle montagne di questa isola, è una cosa assai nuova e notabile, e benchè siano in questa isola alcuni che ne ragionano, sono pochi o rari coloro che veduto l'hanno. E in effetto io un solo n'ho visto a chi si debba piú credere, perchè è persona da bene, e oggi vive presso a questa città di San Domenico. Costui mi dice che nel tempo del governo del commendator maggiore don fra' Nicola d'Ovando, per ordine di lui andò con alcuni altri cristiani in quelle alte montagne dove nasce il fiume di Nicao, e spezialmente dove viveva il caciche Biauter, che stava a' piè d'un altissimo monte; il qual luogo è quindeci o sedeci leghe da questa città lontano. E da questa parte già detta non si può montare su nel monte, perchè vi sono le balze aspre e dritte, che è impossibile a potere montarvi suso.
Dall'altra parte opposita, adunque, costui, che ha nome Pietro di Lumbreras, montò su a vedere questo lago, e seco andò un gentil uomo chiamato Mescia, con fino a sei ben disposti Indiani. Ma quando furono presso alla cima si restarono gl'Indiani e 'l Mescia dietro, perchè cominciarono a sentire lo strepito che su si faceva. Dimandato il Mescia da Pietro perchè si restasse, rispose che era cosí stanco e morto di freddo che non potea piú passare oltre. Pietro allora, benchè egli stesse anco stanco e sentisse gran freddo, per essere quella montagna altissima, non per questo si restò di proseguire quel camino. Erano andati in su lungo un fiume chiamato Pani, che fra quelle montagne scorre, onde, perchè il fiume poi di traverso si scostava, Pietro di Lumbreras si pose a gire al diritto per la costiera rasa, che chiamano, in su; e molto stanco e attonito giunse quasi alla cima e piú alta parte del monte, dove si riposò alquanto raccomandandosi sempre a Dio, perchè sentiva gran spavento del gran strepito che su in alto si faceva. Pur tutta via volse a ogni modo giunger su, benchè con incredibile travaglio e per difficile camino; e giunto fin dove montare si poteva ritrovò quivi una lacuna, che al parer suo dice che era un tiro di balestra larga e tre tiri lunga, e stette mirando questo lago tanto spazio di tempo quanto si potrebbono dire tre Credi. Dice Pietro che lo strepito e 'l rumore che udiva era tanto che esso ne stava spaventato e attonito, e che non gli pareva quel rumore di voci umana, né sapeva discernere di che animali o fiere si fosse potuto essere; onde, perchè era solo e pien di spavento, se ne ritornò a dietro senza vedere altra cosa. Io l'ho dimandato s'egli giunse all'acqua, e s'era dolce o salsa, e m'ha risposto che non vi si accostò per dodeci o quindeci passi, e che, avendo veduto quanto s'è detto, se ne ritornò dove aveva lasciato Mescia con quelli Indiani. E questo è quanto di questo lago si sa, ancorchè per l'isola ne vadano molte novelle a torno, che io non le credo né son per scriverle finchè non se n'ha maggior certezza.
Veniamo ora a dire de' Caribi. Questi vivono nell'isole convicine, e la lor principale isola fu quella di Burichene, che ora si chiama di S. Giovanni; l'altre furono quelle di Guadalupe, la Domenica, Matitino, Cibucheira, che ora di Santa Croce si chiama, e l'altre che in quel pareggio sono. Da queste isole adunque ne venivano con archi e freccie sopra le lor canoe a fare guerra alle genti di questa isola Spagnuola. Questi Caribi arcieri sono piú disciolti e valenti che non erano quelli di questa isola, perchè in una sola parte di questa isola, dove si dice dei Ciguai, sotto la signoria del Caonabo, erano di questi arcieri, i quali non tiravano però con erba né la sapevano fare. Si crede che questi anticamente venissero d'alcuna dell'isole convicine de' Caribi, dove tanti arcieri sono, e che per l'antichità si fossero dimenticati della lingua loro e parlassero di quella di questa isola; che se questo non è, può essere per aventura che dalli loro inimici stessi, per difensarsi da loro, apprendessero l'uso di queste arme, benchè i Caribi tirano con un'erba assai cattiva e pestifera. Ma io tengo queste arme dell'arco e delle freccie assai naturali, o le piú antiche che fossero al mondo; benchè Plinio dica che Scitha figliuolo di Giove fusse il primo che ritrovò l'arco e le saette. Altri dicono che Perseo le ritrovasse, ma io tengo queste arme piú antiche di quello che dice Plinio, poi che si legge che Caim fu da Lamech morto con una saetta, la quale costui, credendo tirare a qualche fiera, la lasciò uscire dalla cocca. Questa auttorità ci fa chiaro che le saette sono le piú antiche arme che s'usassero o le piú naturali, e come tali poterono queste genti selvaggie naturalmente usarle.
Ma, ritornando al proposito nostro, dico che il colore di questi Caribi è misticcio di bianco e nero. Sono di minor statura che non è communemente la gente di Spagna, ma sono ben fatti e proporzionati, salvo che hanno la fronte ampia e i buchi del naso molto aperti, e il bianco degli occhi alquanto torbido. Ma questa maniera di fronte ampia e larga si fa da loro artificiosamente, perchè, quando nascono i putti, gli stringono le teste con mani di tal maniera, e nella fronte e nella parte opposita, che, perchè sono tenerelli, ne restano a quel modo le fronti piane e di mala grazia. Vanno tutti ignudi e non hanno barba, anzi per lo piú sono sbarbati e senza peli. Le lor donne vanno ignude, e dalla cinta in giú portano certe coverte di bambace che non giungono se non fino alla metà delle gambe; e le caciche e donne lor principali le portano che giungono fino a' calcagni; e le tette con quanto è dalla cinta in su portano discoverte. È questo l'abito delle donne accasate o che avevano conosciuto uomo, perchè le donzelle vergini andavano del tutto ignude senza altra benda. Ve ne sono alcune di buona disposizione. Hanno gli uomini e le donne buoni capelli, neri, piani e sottili, ma non hanno buoni denti. Doppo che i cristiani passarono in queste parti, con la lor conversazione, entrarono queste genti in qualche vergogna, e perciò gli uomini si posero un pezzo di panno quanto una mano appeso davanti alle lor parti vergognose: ma non già con tanta accortezza e aviso che ne coprissero di sorte queste parti che non le lasciassero vedere.
Combattono gl'Indiani di questa isola con certi bastoni la cui larghezza è di tre diti o poco piú, e sono cosí lunghi quanto è alto un uomo, e hanno duo fili o tagli aguzzi alquanto, e nel suo estremo è una manichetta, e se ne servivano come di azza a due mani. Sono queste armi di palma e d'altri alberi forti. Scrive Plinio che gli Africani furono i primi che con gli Egizii combattessero con bastoni di legno, che si chiamavano falangi, che a me a punto pare che siano queste armature d'Indiani che noi dicevamo, ancorchè i Latini chiamino falange lo squadrone di gente da piè posta in ordinanza, ed è chiamato anco di questo nome uno aragano venenoso; dicono anco i Latini falanga per palanca. E, ritornando all'ordine nostro, combattono medesimamente queste genti con bastoni da lanciare, come dardi, e alcuni ne sono piú sottili che dardi e con le punte aguzze, che sono fra gente ignuda arme assai pericolose, e fra gente anco che buon riparo non v'abbia; perchè quelli che sono di palma se cogliono di traverso si spezzano facilmente, ed è peggio cavare fuora della carne quelli pezzetti sottili che vi sogliono restare che non è a curare la piaga principale.
Or, quanto alla santa croce della Concezione della Vega, si dee sapere che nel secondo viaggio che l'admirante don Cristoforo Colombo fece a questa isola comandò ben a venti uomini de' suoi che tagliassero un albero diritto e alto e ne facessero una croce. La maggior parte di questi a chi fu imposto erano marinai, e con loro andò Alonso di Valenzia, e tagliarono un albero grosso e tondo e ne troncarono un pezzo della parte piú alta, e ve lo attraversarono facendone una croce, che fu da disdotto o venti palmi alta. Affermano molti, e per cosa publica e certa tengono, che questa croce abbia quivi poi fatti miracoli e che abbia questo legno sanati molti infermi; ed è tanta la devozione che v'hanno i cristiani che ne tagliano e furano alcuni pezzotti, per portarli come reliquie sante in Spagna e in altre parti. E in effetto ella è tenuta in molta venerazione, sí per li suoi miracoli come perchè, in tanto tempo che è stata scoverta a cielo aperto, non s'è mai putrefatta né caduta mai per tempesta di vento o d'acqua che fatta abbia; né la poterono mai gl'Indiani muovere da quel luogo, ancorchè con corde legandola s'ingegnassero gran quantità di loro di trarla fuori; onde pieni di spavento la lasciarono finalmente stare, quasi a questo modo della sua santità ammoniti. E veggendo come i cristiani hanno in molta riverenzia la croce, e che essi con tanta forza non erano bastanti a muoverla, la solevano poi con certo rispetto e riverenza mirare, e se gl'inchinavano e umiliavano veggendola.
Come il commendatore Francesco di Bovadiglia venne al governo di questa isola Spagnuola,
e mandò prigion l'admirante con li fratelli in Spagna; e di quanti Indiani furono già in questa isola,
e per che cagione morirono e se n'è quasi perduta la semenza.
Cap. VI.
Stette l'admirante in questo governo fino al 1499, che li re catolici, sdegnati della informazione che avevano del modo che don Cristoforo Colombo e 'l fratello tenevano nel governare questa isola, deliberarono di mandarvi per governatore un cavaliere antico creato della corte, persona molto onesta e religiosa, chiamato Francesco di Bovadiglia, cavaliere dell'ordine militare di Calatrava. Costui, spedito dalla corte e partito di Spagna, tosto che giunse a questa città prese l'admirante e suoi fratelli, don Bartolomeo e don Diego Colombi, e fattili imbarcare separati in tre caravelle li mandò con ferri a' piedi prigioni in Spagna, dove furono consegnati al castellano della città di Calis, fin che venisse ordine dal re e dalla reina di quello che se ne fusse dovuto fare. Dicono alcuni che 'l commendatore Bovadiglia non fu mandato perchè prendesse l'admirante, ma perchè fusse solo giudice di residenzia e perchè s'informasse della cagione perchè si fusse Roldan con compagni separato e tolto dalla obedienzia. Ma, o che li fusse stato ordinato o no egli prese e mandò prigion l'admirante e fratelli in Spagna, ed esso restò nel governo di questa isola e la tenne in molta pace e giustizia fino al 1502, che fu da questo governo rimosso ed ebbe licenzia di potere ritornarsi in Spagna, benchè non avesse tanta ventura che potesse giungere a salvamento in Castiglia.
Ora, tosto che questo cavaliero a questa isola Spagnuola giunse, gli scrisse il Roldano una lettera, e poco appresso se ne venne con tutti quegli altri che erano seco nella provincia di Sciaragua a servirlo, e a vivere sotto la debita obedienzia delli re catolici, de' quali erano vassalli. Questo commendatore Bovadiglia mandò in Spagna molte informazioni contra l'admirante e fratelli, mostrando le cagioni perchè presi gli avesse: però in effetto le piú vere cagioni si restavano occulte, perciochè sempre il re e la reina cercarono e tennero modo che questi Colombi s'emendassero piú tosto che restassero mal trattati. Io dirò qui quello che alcuni loro opponevano per colparli.
Si diceva che l'admirante aveva voluto tener secreto il discoprimento delle perle, e che non lo scrisse mai fin che intese che in Spagna si sapeva, perchè erano andati all'isola di Cubagua alcuni marinari nominati Nini: e che questo lo faceva per avere a capitulare di nuovo. Si diceva medesimamente che egli fusse assai superbo e oltraggioso, e che trattasse male i servitori e i creati della corte del re, e che troppo licenzioso si mostrasse, non obedendo alle lettere né agli ordini delli re suoi, se non quanto a lui piaceva, perchè nel resto dissimulava e ne faceva a sua volontà. Ma d'altra maniera raccontano tutto questo alcuni altri e dicono che la mostra delle prime perle che s'ebbero fu dall'admirante mandata alli re catolici per un gentiluomo chiamato Arroial, tosto che egli le discoprí e ritrovò. E quello che piú di certo s'ha, che mai non mancarono nel mondo detrattori e invidiosi, onde, perchè questo paese è lontano dal suo re, e quelli che qui vengono sono di differenti provincie e di contrarii desii e opinioni, ne nasce che le cose variamente si tolgano, perchè ad alcuni pare che l'admirante usasse la giustizia mosso da un buon zelo del servigio di Dio e del suo re, altri al contrario l'interpretano e biasimano una tanta rigorosità; si che secondo la varietà delle passioni chi la dipingeva a un modo e chi ad un altro, e chi ne scriveva una cosa e chi un'altra, di maniera che s'effettuò la prigione dell'admirante, e vi diede gran colore l'essere esso poco paziente, e l'essere mal visto e riputato crudele.
Ed essendo stato (come s'è detto) condotto in Spagna, subito che il re e la reina l'intesero mandarono a fare desligar lui e i fratelli, ordinando loro che alla corte andassero. V'andò tosto l'admirante, a baciare al re e alla reina la mano e a purgarsi con le lagrime agli occhi il meglio che poté. Udito che l'ebbero, con molta clemenza lo consolarono, e cosí fatte parole gli dissero che esso ne restò alquanto contento. E perchè i suoi servigi erano cosí segnalati, ancorchè vi fusse stato usato qualche disordine, non poterono cosí graziosi prencipi sofferire che l'admirante fusse maltrattato; e cosí subito gli fecero restituire tutte l'entrate ch'egli qui aveva, che gliele avevano tolte e ritenute tosto che egli fu prigione; ma non volsero che egli per niun conto ritornasse piú nel governo dell'Indie. Aveva già l'admirante, come savia persona, tosto che la prima volta ritornò in Spagna con le nuove del primo discoprimento di queste Indie, supplicato li re catolici che fusse lor piaciuto che il prencipe don Giovanni avesse i suoi figliuoli ricevuti per paggi. Ed erano questi suoi figli don Diego Colombo, suo legitimo e primogenito figliuolo, e l'altro era don Fernando Colombo, che anco oggi vive ed è un virtuoso cavaliere, e di piú dell'essere ben nobile e d'affabile e dolce conversazione, è anco dotto in diverse scienzie, e specialmente nella cosmografia: e la maestà cesarea ne fa meritamente conto, come di buon servitore e creato, e per li tanti servigi dell'admirante suo padre. Il prencipe don Giovanni adunque trattò questi figliuoli assai bene e gli tenne in casa sua, fin che piacque al Signore di condurlo nella sua santa gloria nella città di Salamanca nel 1497.
Ma, ritornando al proposito dell'istoria, doppo che ebbe l'admirante avuto il perdono, non fu men che prima dal re e dalla reina ben trattato, e come prudente cercò di potere per tutte le vie possibili riavere la grazia di quelli buoni prencipi, e d'avere licenzia di poter ritornar a queste Indie: ma furono tante le querele che avea avute contra che non puoté cosí presto ottenerlo. E in questo mezzo il governatore Bovadiglia governò questa isola fino a l'anno (come s'è detto) del 1502; nel qual tempo si cavò molto oro delle minere dell'isola, perchè vi erano molti Indiani che l'andavano cavando per li cristiani e per li re catolici, in nome de' quali vi si lavorava particolarmente, perchè avevano già le sue proprie minere e possessioni sotto il suo nome real; perchè tutti gl'Indiani furono ripartiti per l'admirante fra tutti gli abitatori che erano venuti a stare in queste parti, ed è opinion di molti che lo viddero, e parlano in questo come testimonii di veduta che, quando l'admirante discoprí questa isola vi ritrovò un million di persone fra Indiani e Indiane, o piú, di varie età, de' quali tutti, e di quelli anco che da poi vi nacquero, si crede che non ve ne siano al presente, che siamo nel 1535, fra piccioli e grandi, restati cinquecento che siano discesi da quelli primi che v'erano; perchè la maggior parte di quelli che oggi vi sono, vi sono stati condotti dalli cristiani per lor servigio o dalle altre isole o da terra ferma.
Perchè erano le minere assai ricche e l'avarizia degli uomini insaziabile, alcuni eccessivamente travagliarono gl'Indiani, altri non diedero lor da mangiare quanto si conveniva; e con tutto questo vi era anco che queste genti sono naturalmente oziose e viziose e di poca fatica e maninconici e codardi e vili e male rallevati e bugiardi e di poca memoria e inconstanti, onde molti di loro per non s'affaticare s'ammazzarono con veleno, altri s'impiccarono con le proprie mani, altri in cosí fatte infermità mancarono, e spezialmente d'alcune variole pestilenziali che vennero generalmente in tutta l'isola, che in breve tempo tutti gl'Indiani si finirono. Fu anco gran cagione della lor morte la mutazione de' governatori che li ripartirono, perchè, passando da signore a signore, e da un avaro ad un altro maggiore, ritrovarono quasi tanti istromenti della lor morte; ma, per qualunque cagione si morissero, che in effetto i ministri di quelle persone nobili che erano presso al re catolico e participavano di questi utili dell'Indie, con soverchio travagliarli ne furono cagione, non sarà cristiano alcuno che delle facoltà per questa via guadagnate n'abbia invidia.
Permise anco il Signore Iddio la rovina di questi Indiani e per li peccati de' cristiani discortesi e avari, che tanto del sudore di queste genti godevano senza dottrinarle e recarle al conoscimento del vero Iddio, e per li peccati anco grandi, enormi e abominevoli di queste genti selvaggie e bestiali. Perchè in effetto, come dicono tutti coloro che l'han veduto, in niuna di queste provincie dell'isole o di terra ferma che si sono scoperte non sono mai mancati né mancano sodomiti poltroni, né idolatri, né d'altri molti vizii e cosí nefandi che non si potrebbono né dire né ascoltare senza molta vergogna; senza che sono queste genti ingratissime, di poca memoria e meno capacità. E se in lor si trova qualche bene, è mentre che non giungono all'adolescenzia, perchè poi in tanti difetti s'infangano, che è una abominazione ad udirli. Tutte queste cose si sono praticate e disputate da molte religiose persone dotte e di molta conscienzia di varii ordini, perchè quivi sono di san Domenico, di san Francesco, delle Grazie, come della regola di san Pietro apostolo, e d'altri molti prelati e qui e in Spagna, per assecurarne le coscienzie delli re quanto al trattamento di questi popoli, sí perchè le loro anime si salvassero come perchè di lungo vivessero. E ne furono perciò fatti molti ordini e provisioni reali a' governatori e ufficiali loro, ma non v'ha bastato cosa alcuna a fare che questa infelice generazione non si consumassino queste isole. Né io voglio di questa colpa segnalare alcuno di quelli che qui sono stati: questo so bene io, che quello che dicevano i frati di san Domenico era contradetto da quelli di san Francesco, e quello che questi affermavano quegli altri negavano; e poi col tempo quello che tenevano prima i domenichini era reprobato dai franceschini, i quali quello che prima detto avevano essi stessi lo rifutavano, e i domenichini allora all'incontro l'approbavano; di modo che e questi e quelli ebbero una stessa opinione in diversi tempi, ma non dissero mai una cosa stessa insieme.
Or vedete come poteva bene intendere questa cosa chi l'ascoltava, o quale eleggere per la migliore per dovere accostarvisi. Le quali cose sono pericolose non solamente a quelli che vengono nuovi alla fede, ma alli cristiani antichi ancora, che in molti scrupoli entravano veggendo che questi frati non li volevano assolvere se non lasciavano via gl'Indiani, e quegli altri religiosi gli assolvevano e davano loro i sacramenti. Io scrivo quello che io ho veduto, e non voglio attribuirlo alla colpa di cosí buoni religiosi che sono stati e stanno in queste Indie, ma alla disaventura e infelicità degl'Indiani stessi: o, per dir meglio, questo secreto si lasci al grande Iddio, il quale non fa cosa ingiusta né permette che cose cosí importanti senza gran ministerio siano. Né voglio in questa materia piú stendermi, perchè mi sono ritrovato due volte in Spagna a giurare, per ordine delli signori del consiglio reale dell'Indie, quello che mi pare dell'essere e della capacità di questi Indiani e degli altri di terra ferma (quanto a que' luoghi i quali ho veduti): e una volta fu in Toledo nel 1525, l'altra volta fu in Medina del Campo nel 1532. E cosí ne giurarono anche altre persone segnalate, e credo che ognun guardassi bene alla conscienzia sua in dir la verità di quello che fu da quelli signori dimandato. E nel vero, se in quelli dí stessi quando io giurai fussi stato in articolo di morte, non avrei altro che quello stesso detto, sí che io mi rimetto a questi dotti religiosi, doppo che accordati seranno.
Fra tanto, chi avrà Indiani pensi di trattarli come prossimi, e guardi bene alla sua conscienzia: benchè in questo caso v'ha oggi poco che fare in questa isola e in quella di San Giovanni e in Cuba e in Iamaica, perchè in tutte queste è avenuto il medesimo. E ora che sono queste genti morte tutte, potranno questi padri religiosi per l'esperienzia meglio decidere quello che bisogna farsi con gli altri Indiani che s'hanno a soggiogare in quelli tanti altri regni e provincie di terra ferma; che io per me non assolvo i cristiani che si sono arricchiti con le fatiche degl'Indiani, se gli hanno maltrattati e non hanno usata ogni diligenzia perchè si salvassero. Né posso pensare che senza la lor colpa fussero gl'Indiani castigati e quasi estinti dal giusto Iddio, perchè erano viziosi e sacrificavano a' demonii, con le lor cerimonie e riti che si diranno appresso, quando sarà tempo: non già tutti, perchè sarebbe impossibile, ma una parte di loro.
Come il commendatore maggior d'Alcantara venne al governo di questa isola, e come, partendo Francesco di Bovadiglia con tutta l'armata, perí in mare con gran copia d'oro, benchè l'admirante, prevedendo questa tempesta, ne avesse il commendator maggiore avisato.
Cap. VII.
Nel tempo che il commendatore di Larez don fra' Nicola d'Ovando, dell'ordine e cavalleria militare d'Alcantara, passò in questa città di San Domenico, non era ancora commendator maggiore del suo ordine, ma, vacando in quel mezzo per la morte di don Alonso di Santigliano questa commenda, il re catolico ne fece grazia al detto commendatore di Larez, che era già qui stato qualche anno; e per questo, mentre che di lui tratterò, nol chiamerò altramente che commendator maggiore. Ora costui, per ordine delli re catolici, se ne venne a questa isola con trenta fra navi e caravelle; nella quale armata vennero molti cavalieri e nobili di diverse parti delli regni di Castiglia e di Leone. Perchè, mentre visse la reina donna Isabella, non si lasciavano passare a queste Indie se non i vassalli proprii degli stati del patrimonio della reina, benchè questi stessi furono coloro che le Indie discoprirono, e non gli aragonesi né i catalani né i valenziani né altri vassalli del patrimonio del re catolico. Solamente per speziale grazia si concedeva ad alcuno creato della corte il potere passarvi, ancorchè non fusse castigliano, perchè, essendo queste Indie della corona e conquista di Castiglia, cosí voleva la serenissima regina, che solamente i suoi vassalli passassino in queste parti e non alcun altro, se non era per farli qualche grazia segnalata. E questo vi si servò fino all'anno 1504, che ella se ne salí nella gloria del paradiso, perchè poi il re catolico, governando i regni della reina donna Giovanna, sua figlia e nostra signora, diede licenzia agli aragonesi e a tutti gli altri suoi vassalli di potere a queste Indie passare con ufficii; la qual licenzia s'ampliò poi maggiormente dalla maestà cesarea, e vi passano ora tutti quelli che vogliono pure che suoi vassalli siano.
Or, ritornando all'istoria nostra, giunse il commendatore maggiore a questa città di San Domenico a' quindeci d'aprile del 1502, stando i nostri ad abitare dall'altra parte di questo fiume Ozama. Egli fu tosto accettato per governatore, e il commendatore Bovadiglia diede ordine per doversi partire per Spagna, perchè li re catolici, sentendosi ben serviti di lui, gli diedero licenzia di potere ritornarsene. E cosí egli s'imbarcò per Castiglia nella armata con la quale era venuto il commendatore maggiore, e vi fece anco imbarcare piú di centomila pesi d'oro fuso e bollato, con alcuni granelli grossi da fondersi, perchè si vedessero in Spagna; perciochè, se bene altre volte ve n'era stato portato, e delli re catolici e di persone particolari, mai in niuno viaggio ve n'era stato portato insieme né in granelli cosí segnalati, perchè fra gli altri vi era un granello che pesava trentasei libbre, che sono pesi overo ducati 3600. E al parere d'uomini esperti nelle cose minerali non vi erano piú che tre libbre di pietra, di modo che sarebbe restato netto trentatre libbre d'oro, che sono ducati 3300; ed era questo grano grande quanto un pane grande schizzato, di quelli che si vendono in Utrera. Ma perchè nel memoriale che io scrissi in Toledo nel 1525 dissi che questo grano pesava trecentomiliadugento pesi, fu perchè io lo scrissi non avendo meco i miei memoriali, e tenendomi in molte cose al meno di quello che avrei potuto dire. Ora che sto in parte dove vivono molti testimoni che quel granello viddero, dico che pesava qualche poco piú di trentasei libbre, fra l'oro e la pietra che v'era. E fu questo granello ritrovato da una Indiana di Michel Dias, il qual, come si disse di sopra, fu cagione che questa città s'abitasse da' cristiani dall'altra parte del fiume; e perchè costui facea compagnia con Francesco di Garai, restò per amendue questo bel grano d'oro, e cavato il quinto che al re toccava fu loro pagato il resto, e restò il granello per li re catolici; ma in quella armata del Bovadiglia si perdé. Ed era questa bella gioia cosí grande che, quando quei cristiani l'ebbero in mano, tutti lieti deliberarono di mangiarvi sopra una porchetta, perchè un de' compagni disse: "Gran tempo fa che io ho avuto speranza di mangiare in piatti d'oro, e poi che di questo granello si possono molti piatti fare, io voglio tagliarvi sopra questa porchetta". E cosí fece, e sopra quel ricco piatto mangiarono: perchè era cosí grande come s'è detto, vi capeva la porchetta intera agiatamente.
Or, ritornando all'istoria, il commendator Bovadiglia con disgraziata aventura partí, e Antonio di Torres, fratello del bailo del prencipe, era capitano generale di questa armata. Ora, stando per partire, accadette che uno o duo dí prima che uscissero dal porto giunse qui l'admirante don Cristoforo Colombo, che con quattro caravelle veniva, per ordine delli re catolici, a discoprire nuove terre, e menava seco don Fernando Colombo suo figlio; e giunto una lega presso a questo porto di San Domenico, il commendatore maggiore vi mandò tosto un battello a vietarli che qui nel porto non entrasse: si crede che egli fusse stato prima di questa venuta avisato. L'admirante, udendo questo, rimandò a dire al commendatore maggiore che, poichè non voleva che esso entrasse in que' luoghi che esso avea discoverti, che l'obediva, ma che pensava che non era questo il servigio delli re catolici; solo li chiedeva di grazia che non avesse fatto uscire del porto quella armata, perchè non li pareva il tempo buono, e che esso perciò s'andava a cercare porto sicuro, poichè nol ritrovava quivi. E cosí se n'andò con le sue caravelle a porto Ascoso, che è in questa stessa isola, dieci leghe lontano da questa città di S. Domenico, dalla banda di mezzogiorno verso ponente, e quivi si stette finchè passò la tempesta che appresso diremo; e poi attraversò la volta della costiera di terra ferma, e discoprí quello che al suo luogo si dirà appresso. Alcuni altri dicono che egli se n'andasse ad Azua, e che quivi stesse finchè la tempesta cessò.
Di quello che discoprirono nella costiera di terra ferma
i capitani Alonso d'Hoggieda e Rodrigo di Bastidas.
Cap. VIII.
Mentre l'admirante don Cristoforo Colombo stette in Spagna, il capitano Alonso di Hoggieda, col favor del vescovo don Giovan Rodrigues di Fonseca, ch'era il principale che nel governo di queste Indie intendeva, andò a discoprire nella costiera di terra ferma, e tenne il suo pareggio a riconoscere sotto il fiume Maragnon nella provincia di Paria; e prese terra otto leghe sopra dove è la terra di Santa Marta, in una provincia che si chiamava Cinta, dove era uno caciche chiamato Aiaro, che restò pacifico e molto amico de' cristiani; il quale prese poi per inganno un altro capitano chiamato Cristoforo Guerra. E fu questo nell'anno 1501. Ma non furono questi soli che armarono, perchè anco il capitano Rodrigo di Bastidas corse dal capo della Vela (dove era già prima giunto l'admirante, quando discoprí la costiera di terra ferma) e passò oltre verso ponente.
Mi pare che non potrei senza esserne incolpato tacere quello che è a mia notizia venuto di quanto ha segnalatamente fatto in queste parti ciascuno. Pertanto dico che Rodrigo di Bastidas uscí di Spagna nel 1502 con due caravelle dal porto della città di Calis, a sue spese e di Giovanni di Ledsma e d'altri suoi amici, e fatta vela la prima terra che prese fu una isola che, per essere molto fresca e piena di grandi alberi, la chiamarono l'isola Verde. Sta questa isola alla parte che è dalla isola di Guadalupe verso terra ferma, e presso all'altre isole che in quel pareggio sono. Indi questi legni partirono per la costiera di terra ferma, dove, praticando con gli Indiani in diverse parti, ebbero fino a quaranta marche d'oro, e scorsero la costiera verso ponente, oltra il porto di Santa Marta dal capo della Vela, e poi oltre il fiume Grande. E piú innanzi discoprí il medesimo capitano Rodrigo il porto di Zamba e gl'Incoronati, che sono una terra dove portano tutti gl'Indiani certe corone grandi. E piú verso ponente discoprí il porto che chiamano di Cartagena e l'isole di San Bernardo e l'isole di Baru, e quelle che chiamano l'isole dell'Arene, che stanno dirimpetto e presso alla già detta Cartagena. E passando oltre discoprí l'isola Forte, che è un'isola piana, due leghe lontana dalla costiera di terra ferma, e vi si fa molto sale e buono. E piú innanzi sta l'isola della Tortuga, che è picciola e disabitata. E passando oltre discoprí il porto del Cenu, e poi oltre piú discoperse la punta di Caribana, che sta alla bocca del golfo d'Uraba, ed entrato in questo golfo vidde l'isolette che nell'altra costiera a fronte stanno presso a terra, nella provincia del Darien; e giunto qui si ritrovò avere discoperto cento e trenta leghe, che sono dal capo della Vela fin qua. E quando l'acqua è bassa nel mare, trovò la dolce in altezza di 4 braccia, dove ei poteva star sorto, e chiamò il golfo Dolce quello che si chiama d'Uraba; però non vidde il fiume di San Giovanni, che similmente chiamano il fiume Grande, ch'entra per sette bocche o sette rami nel detto golfo, il quale è causa che diventi dolce nel calare che fa l'acqua del detto mare, e in spazio di 12 leghe di longezza e d'altre 4 o 6 di larghezza, ch'è da costa a costa dentro il detto golfo d'Uraba. Ma del fiume e del golfo si ragionerà piú particolarmente, perchè io in quella contrada vi sono stato alquanti anni.
Ora in questo viaggio andava per pilotto principale Giovan della Cosa, che fu un eccellente uomo in mare. In quel golfo stettero costoro qualche giorno, e perchè i loro vasselli stavano molto abbissati e faceano molta acqua, deliberarono di dare la volta e attraversarono all'isola di Iamaica, dove tolsero rinfrescamento; e di qui poi se ne passarono all'isola Spagnuola, e se ne entrarono nel golfo di Sciaragua, dove perderono i legni, che non potevano piú sostentarsi in mare. Quando le genti furono in terra se ne andarono alla città di S. Domenico, dove ritrovarono che 'l commendatore Bovadiglia tenea già preso l'admirante. E fu anco tosto dal detto commendatore preso il capitan Rodrigo di Bastidas, perchè avesse fatti riscattar gl'Indiani della medesima isola Spagnuola; e fu nell'istesso legno nel quale andò l'admirante mandato prigione in Spagna. Ma il re e la reina fecero amendue subito liberare, e per questo servigio, che fu grande nel vero e fatto alle spese del medesimo capitano Rodrigo e d'altri suoi amici, come s'è detto, li re catolici li fecero grazia di 50 mila maravilis d'entrata sua in vita, in quella provincia del Darien.
Tutto quello che discoprí il capitan Rodrigo in questo viaggio, quale è fino alla ponta di Caribana, d'Indiani arcieri e della piú valente gente di terra ferma: e di questa sorte son tutti quelli che vi abitano, dal capo della Vela verso levante fino alla bocca delle Saline e alla bocca del Drago, che l'aveva già l'admirante prima scoperto in terra ferma. E queste genti della detta costiera e dell'isole che vi sono tirano con una certa erba velenosa e irremediabile, e se rimedio alcuno vi ha i cristiani nol sanno. Ma al suo luogo si dirà a che modo essi fanno e temprano questa venenosa erba. Ma è già tempo di ritornare all'admirante, e a quello ch'egli discoprí in quest'altro suo viaggio.
Come si perdé in mare l'armata del commendatore Bovadiglia, e dell'ultimo viaggio e discoprimento che fece in terra ferma l'admirante don Cristoforo Colombo.
Cap. IX.
Egli s'è detto di sopra come l'admirante venne di Spagna in questo suo ultimo viaggio per discoprire il resto di terra ferma, e cercare quello stretto che esso diceva dovere ritrovare per passare nel mare di Mezogiorno: nel che egli s'ingannò, perchè lo stretto ch'egli pensava che vi fosse di mare vi è di terra, come si dirà appresso. Ma il commendatore maggiore non volle che egli entrasse nel porto di questa città di S. Domenico, ed egli avisò lui che, perchè il tempo li pareva cattivo, non lasciasse navigare il commendatore Bovadiglia con l'armata, ch'era già in ponto per dover passare in Spagna. Ma, perchè non gli fu creduto, ne succedette quello di male che appresso si dirà. L'admirante, come accorto e savio nochiero, si ridusse tosto nel porto Alsoso, e passata poi la fortuna seguí il suo cammino a discoprire i luoghi di terra ferma; e perchè avea già avuto notizia che il capitano Rodrigo di Bastidas aveva discoperto fino al golfo d'Uraba, che sta in nove gradi e mezo la ponta di Caribana, ch'è alla bocca di quel golfo, passò oltre a discoprire la costiera di terra ferma piú verso ponente.
Ma prima che a dire di questo discoprimento passiamo, non voglio lasciare a dietro la morte del commendatore Bovadiglia e del capitano dell'armata Antonio di Torres, che a questo modo passò. Non volendo questi cavalieri seguire il consiglio dell'admirante, uscirono del porto di questa città di S. Domenico, ed essendo otto o dieci leghe l'armata in mare, le sopragionse tal tempo sopra che di trenta legni grossi non ne scamparono piú che quattro overo cinque. La maggior parte di quelli che si perderono andarono traversi per queste costiere; gli altri si affogarono in modo nel mare che non apparirono piú mai, e cosí si annegarono piú di cinquecento uomini, fra i quali i piú principali furono quelli che si sono già detti, con quel Roldano Scimenes che si ribellò contra l'admirante e il fratello, e con altri nobili e buona gente. E qui si perdé quel granello di oro che ho detto altre volte che pesava 3600 pesi di oro, con altri centomillia pesi di oro e altre molte cose di prezzo, di modo che questa fu una gran perdita e un cattivo viaggio.
L'admirante adunque, che questo cattivo tempo conobbe, si ritirò nel porto Ascoso, che egli cosí chiamò, e passata la tempesta attraversò la volta di terra ferma; e per quello che io ho udito dai pilotti Pietro di Umbria, Diego Martin Cabrera, e d'altri che in quel viaggio si ritrovarono, l'admirante andò a riconoscere la isola di Iamaica, e indi passò a riconoscere il capo di Higueras e l'isole delli Guanaggi (una delle quali è chiamata Guanascia), e se n'andò al porto di Honduras, e chiamò questa terra la ponta di Cascines; e poi se ne passò al capo di Grazie a Dio, e tirò la volta di levante per la costiera di terra ferma, e discoprí la provincia e fiume di Veragua; poi passò ad un altro gran fiume che sta piú tosto verso oriente, e chiamollo il fiume di Belen: e sta questo longi una lega dal fiume che gl'Indiani chiamano Iebra, che è il medesimo di Veragua, e che si crede che sia una delle piú ricche cose che siano in quanto si è discoverto. Di qua, costeggiando verso oriente, giunse ad un gran fiume e lo chiamò il fiume di Lagarti: ed è quello che ora i cristiani chiamano Chagre, e nasce presso al mare del Sur (cioè di Mezzogiorno), ancorchè venga poi a scaricare in questo di Tramontana, e passa quattro leghe lungi dalla città di Panama. E indi discorrendo giunse ad una isola che è vicina alla costiera di terra ferma, e la chiamò l'isola di Bastimientos e Porto Bello; e poi passò oltre al Nome d'Iddio (il qual nome pose poi a quel porto il capitano Diego di Nicuesa, come al suo luogo si dirà), e ne venne al fiume di Francesca e al porto del Ritretto; e indi corse fino al golfo che egli chiamò di San Biasio, e montò oltre per la costiera fino all'isole di Pocorosa, e qui chiamò l'admirante capo di Marmo. Di modo che, in questo ultimo suo viaggio, discoprí l'admirante 190 o 200 leghe della costiera di terra ferma.
E poi attraversò alla isola di Iamaica, la quale sta cento leghe lontana dal capo di Grazie a Dio la volta di greco, e ivi si perderono i due legni che conduceva, già molto stanchi e abbissati: perchè delle quattro caravelle con le quali era uscito ne aveva lasciato una persa nel fiume di Lebra, nella provincia di Veragua; l'altra l'avea lasciata nel mare, perchè non si reggea sopra l'acqua, perciochè in quella costiera di terra ferma, per li molti e gran fiumi che vi sono, vi è anco molta biscia, e se ne vengono perciò presto a perdere i vasselli. Ma prima che all'isola di Iamaica giungessero, attraversarono a riconoscere la terra di Omohaia, che è nell'isola di Cuba dalla banda di mezzogiorno, quasi nel fine dell'isola, dove sta ora edificata la terra della Trinità.
Ora, avendo navigato un mese in questo discoprimento, nell'isola di Iamaica (come s'è detto) si perderono l'altre due caravelle, nella costiera dove ora dicono Siviglia; e da questo luogo mandò l'admirante a dare notizia di sé al commendatore maggiore, che stava in questa città di San Domenico, e vi mandò, sopra una canoa guidata da alquanti Indiani, un Diego Mendez suo creato, gentiluomo molto onorato, abitator di questa città, che oggidí anco vive. Costui s'arrischiò e pose in gran pericolo, per essere la canoa assai picciola e perchè facilmente si volgono sozzopra nel mare queste canoe: e niuno che ami la vita sua s'ingolferà mai sopra cosí fatti vasselli, ma vi costeggierà solamente ben presso terra. Ma costui, animoso e da ben creato, per soccorrere in tanto bisogno il suo signore, s'arrischiò a passare tutto quel mare che è da quella isola a questa, acciochè il commendatore maggiore mandasse per l'admirante; onde per questo servigio, che fu nel vero segnalato quanto può dirsi, li portò sempre l'admirante molto amore e 'l favorí, e il re catolico, quando lo seppe, li fece anco delle grazie, e li diede per arme una canoa in segno della sua lealtà. E senza dubbio che fu cosa di grande animo e di segnalata lealtà il porsi in que' principii uno uomo in mare, in potere di nemici suoi, che erano cosí gran natatori, come son tutti, e in cosí fatta barca e in passaggio cosí pericoloso e incerto. Or, quando il commendatore maggiore vidde le lettere dell'admirante, mandò tosto una caravella a vedere se era il vero, e a che modo l'admirante stesse, non già per dovere condurlo. Il perchè Diego Mendez delli danari dell'admirante comprò un legno, e fornitolo di quanto bisognava lo mandò al suo signore, il quale sopra questo vassello se ne venne in questa isola Spagnuola. E in quel mezo il Diego se n'andò in Castiglia, a dar notizia alli re catolici di quello che avea l'admirante in quel viaggio fatta.
Ma non è ben che noi ne passiamo in silenzio quello che all'admirante in quella isola avenne doppo che mandò Diego Mendez con le sue lettere al commendatore maggiore, perchè è cosa degna di essere notata. Erano le genti che conduceva assai stanche, e una parte anco inferma, sí per li travagli passati in quel viaggio, come perchè mal mangiato avevano e peggio riposato; quelli che si ritrovavano sani s'abbottinarono, a persuasione di duo fratelli chiamati Francesco di Porras e Diego di Porras: quello era capitano d'una caravella, e questo era contatore dell'armata. Ora costoro tolsero tutte le canoe che ivi gl'Indiani avevano, e diedero voce che l'admirante non voleva ritornare in Castiglia, perchè aveva lor detto che aspettassero la risposta di Diego Mendez, che doveva lor mandare vasselli per ricondurli tutti. Non volendo adunque obedirli, s'imbarcarono in quelle canoe e si posero in mare, pensando potere passare su que' legni a questa isola Spagnuola; ma, perchè molte volte il tentassero, non poterono però mai recare ad effetto, anzi, volendo ostinatamente esequirlo, se n'annegarono alcuni, onde deliberarono di ritornarsi dove l'admirante stava, con intenzione di prenderli i vasselli che li verrebbono. Ma mentre che questi disubidienti e ribelli su questi loro disegni stavano, guarirono quelli che erano col Colombo restati, ancorchè pochi fussero. Il perchè, intesasi la malizia di coloro, l'admirante mandò don Bartolomeo, suo fratello, a resistere al loro mal proposito. Costui combattendo con que' ribelli li vinse e pose in fuga, e n'ammazzò tre o quattro e ne ferí molti altri; e questa fu la prima battaglia che si sa che si facesse fra cristiani in queste Indie, e i duoi fratelli Francesco e Diego di Porras furono prigioni.
Ma prima che questa battaglia succedesse, gl'Indiani, veggendo che i cristiani sani s'erano andati via, e lasciato l'admirante con quelli pochi e infermi, non volevano dare a costoro da mangiare né altra cosa alcuna. Il Colombo, che vidde questo, fece raunare molti Indiani insieme, e disse loro che tenessero di certo che, se non davano da mangiare a' cristiani, sarebbe presto venuta lor sopra una pestilenzia che gli avrebbe tutti tolti del mondo. E in segno che egli dicesse il vero, soggiunse che essi nel tal dí (e segnalò loro il dí) e nella tale ora vedrebbono insanguinata la luna: il che disse egli perchè, essendo buono astrologo, sapeva che doveva la luna di certo eclissare. Quando adunque gl'Indiani viddero, in quel tempo che egli detto aveva, eclissata la luna, credendo che quanto egli detto aveva fusse dovuto essere vero, molti di loro a gran voce e piangendo vennero a chiedere perdono, e a pregare l'admirante che non stesse sdegnato con loro, dandoli tutto quello che a lui e gli altri suoi facea di bisogno.
In questa vita travagliata stette l'admirante con gli altri che erano seco uno anno, dormendo e abitando nelle caravelle, che stavano traverse e fino alla coperta dentro l'acqua del mare presso terra, e dentro del porto dove ora sta Siviglia, che è la principale terra di quella isola, e ivi presso dove fu la battaglia che s'è detta; e 'l porto si chiama S. Gloria. Ora, passato tutto quel tempo, venne la caravella che Diego Mendez inviò; e quando l'admirante s'imbarcò tutti quelli Indiani piangevano perchè egli se n'andava, che già pensavano che esso e gli altri cristiani suoi fussero genti celesti. Giunto l'admirante in questa città di San Domenico, vi stette alquanti giorni riposandosi, e il commendatore maggiore il tenne in casa sua e 'l corteggiò, finchè egli poi si partí con li primi vasselli che passarono in Spagna, per dar conto al re catolico di quel che avea fatto in questo ultimo discoprimento di terra ferma. E ritornato in Castiglia, perchè era già vecchio e infermo e molto travagliato dalle gotte, morí in Valledolid di maggio nel 1506, stando il re catolico in Villa Franca di Valcazar, nel tempo che il re don Filippo e la reina donna Giovanna veniano a regnare in Castiglia. Morto l'admirante, fu portato il suo corpo in Siviglia, al monasterio che sta dall'altra parte del fiume Gualdachibir, chiamato Lasquevas, che è di certosini, e qui fu lasciato in deposito.
Piaccia a Dio di tenerlo nella sua santa gloria, perchè, oltra i servigi che alli re di Castiglia fece, gli sono tutti gli Spagnuoli obligati, perchè, se ben ne sono molti morti in queste conquiste dell'Indie, ne sono all'incontro molti altri restati ricchi; e quel che piú importa, in terre cosí remote d'Europa, e dove il demonio era tanto adorato e servito, ne l'hanno i cristiani bandito e piantatovi la santa fede catolica e la chiesa di Dio, solo per mezzo e industria dell'admirante don Cristoforo Colombo. Vi è anco di piú, che se ne sono cavati e caveranno tanti tesori d'oro, d'argento, di perle e d'altre molte ricchezze e mercanzie, che se ne è piena la Spagna; onde niuno Spagnuolo virtuoso potrà di questi tanti beneficii dimenticarsi, che alla patria loro risultano mediante Iddio e per la mano di questo primo admirante dell'Indie; al qual succedette, e nel titolo e nella casa e nello stato, l'admirante don Diego Colombo, suo figlio, il quale era stato da suo padre accasato con donna Maria di Toledo, nepote dell'illustre don Federico di Toledo duca di Alva, perchè fu figliuola di suo fratello don Fernando di Toledo, commendator maggiore di Leone nell'ordine militare di s. Giacomo. Di costei ebbe, questo secondo admirante, don Luigi Colombo, che fu poi suo erede nella casa e nello stato, come al presente vi è; e n'ebbe anco altri figliuoli.
Del governo del commendatore maggiore, e come si passò ad abitare da questa altra parte del fiume dove ora si sta; e delle chiese e prelati che ha avuti questa isola Spagnuola, con gli edificii di questa città di San Domenico e con altre cose notabili.
Cap. X.
Perchè nella seconda parte di queste istorie si seguiranno li discoprimenti fatti da' particolari in queste Indie, qui solamente dico che nel 1504 Giovan della Cosa e i compagni passarono con quattro vasselli alla costiera di terra ferma, e qui e in alcune isole vicine caricarono di verzini e di schiavi; nel qual tempo armò medesimamente un altro capitano chiamato Cristoforo Guerra, e passò pure in terra ferma a farvi tutti quelli danni che puoté. Ma del mal successo dell'uno e dell'altro si dirà al luogo suo, come anco della disgraziata morte del capitan Diego di Nicuesa, e del primo discoprimento del mar del Sur (cioè di Mezzogiorno), fatto per Vasco Nugnez di Galboa, e con che mal fine terminò egli la vita sua.
Ma perchè tutto questo, come in suo luogo conveniente, si dirà nella seconda parte della Naturale e generale istoria dell'Indie, lo lascieremo per ora, e ritorneremo a dire di questa città di San Domenico, dove a' 15 d'aprile del 1502 giunse il commendatore maggiore, abitandosi questa città dall'altra parte del fiume. E ne seguí poi (come s'è a lungo ragionato di sopra) la morte del Bovadiglia, con la perdita di tanti vasselli, e il discoprimento che nell'ultimo suo viaggio il Colombo fece; e giunto qui di Iamaica il Colombo, vi nacque una tempesta, che gl'Indiani chiamano huracane, a' 12 di settembre, che la maggior parte delle case di questa città ne mandò per terra. Ma perchè alcuni anni appresso due altre simili ma maggiori tempeste vi nacquero, ci riserbiamo per dire al suo luogo di questi uracani piú a lungo. Ed era già questa città passata da questa parte del fiume dove ora sta, per ordine del commendatore maggiore, onde da quella tempesta in poi si cominciarono ad edificare case e palazzi di sassi vivi, con altri buoni edificii.
Ma io non posso lodare che questa città fusse da quest'altra ripa del fiume passata, perchè in effetto piú salubre luogo era dall'altra parte dove prima era, e piú sano vivere; perciochè, passando il fiume d'Ozama fra questa città e 'l sole, ne aviene che le nebbie della mattina vengono dal sole tosto che nasce sopra la città riversate, e vi si causa perciò il male aere. E di piú di questo, che non è poco difetto, vi è anco che dall'altra parte del fiume è un ottimo fonte, dove si provede d'acqua la maggior parte di questo popolo: perchè tutti quelli che non vogliono bere dell'acque de' pozzi, che sono cattive, o che non si fanno di altre parti piú lontane condurre l'acqua, bisogna che del fonte già detto si servano. Onde, perchè questo fiume è molto profondo, non vi ha ponte, e perciò bisogna che la città vi tenga una barca ordinaria per passare quanti vogliono dall'una riva all'altra andare; e che ciascun vi tenga uno o piú schiavi o servitori, occupati solo in provedere la casa dell'acqua del detto fonte, si che questo è anco un grande inconveniente. Ma questa inavertenza del commendatore maggiore si causò da questo, che egli vidde che si potea a questa città condurre l'acqua da un fiume chiamato Haina, ch'è di qua tre leghe lontano, ed è di ottima acqua, e si potrebbe su la piazza e per tutte le case di questa città condurre: e certo che a questo modo questa sarebbe una delle belle città del mondo, e cesserebbe questo difetto dell'acqua. Puote anco esser questa la cagione del mutarsi questa città da un luogo ad un altro, che sempre i nuovi governatori vogliono le cose de' passati mutare, o fare di modo che se ne vadi in oblio quanto i passati fatto abbiano.
Con questi inconvenienti però ha questa città molte altre cose buone, fra le quali vi ha una bellissima chiesa catedrale, che fu fatta edificare dal re catolico e dalla reina donna Giovanna sua figlia: ed il primo suo vescovo fu d. fra' Grazia di Padiglia, dell'ordine di s. Francesco, che non passò mai a queste Indie perchè visse poco dopo ch'ebbe questa dignità. Il secondo fu maestro Alessandro Geraldino, che fu romano e buon prelato. Il terzo vescovo, che oggi vi abbiamo, è d. Bastiano Ramires di Fonte Leale, che fu già presidente della regia audienzia che quinci siede, ed è vescovo medesimamente della chiesa della Concezione della Vega, che 'n questa stessa isola Spagnuola sta; e sono queste due città 30 leghe l'una dall'altra distanti.
Ma perchè meglio s'intenda l'unione di queste due chiese e vescovadi, si dee sapere che, quando fu fatto il primo vescovo di questa città, fra' Garzia, fu anco fatto il primo vescovo alla città della Concezione della Vega, don Pietro Suares di Deza. E questo fu il primo vescovo che in queste Indie passò, doppo la cui morte non provedettero altramente di vescovo a questa città della Vega; perciochè, vacando la città della Vega del suo primo vescovo don Pietro, e questa di S. Domenico del suo secondo maestro Alessandro, volle la maestà cesarea unire amendue queste chiese sotto una mitra, perchè a due prelati l'entrate erano poche e ad uno erano sufficienti; e cosí vi creò vescovo fra' Luigi di Figueroa, dell'ordine di s. Hieronimo della Meggiorada, e furono ispedite le bolle in Roma nel 1524. Ma prima che elle venissero morí questo eletto nel suo monasterio della Maggiorada, dove era priore, e cosí la maestà cesarea ne fece grazia a d. Sebastiano Ramires, ch'è il vescovo che oggi abbiamo. Ed egli, stato che fu alquanto in questa città, passò per ordine di sua maestà nella Nuova Spagna, col medesimo carico di presidente che qui aveva, per riformar quella terra. E questo basti quanto ai prelati.
Parliamo ora della chiesa stessa, nella quale, oltre ch'ha i suoi canonici e l'altre sue dignità, con quanto al servigio del culto divino appartiene, è assai bene edificata in quello che se ne vede fatto e quando sarà fornita sarà tale che alcune delle chiese catedrali di Spagna non le avranno vantaggio, perchè è fatta di belli e forti marmi vivi, de' quali nella costiera del fiume presso la città ve n'ha gran quantità; in tanto che si trova cosí bene edificata questa città che non è terra in Spagna tanto per tanto che l'avanzi, lasciando da parte la nobile città di Barzellona, perchè, di piú di questa gran commodità della pietra ch'io ho detta, non vi manca cosa alcuna che per fare una eccellente fabrica sia di bisogno; onde vi sono molte case principali e palazzi ne' quali potrebbe ogni gran prencipe stare, e ve ne sono anco alcuni tali che di gran longa non vi giungono case nelle quali, in alcune buone terre di Spagna, ho io veduto alloggiare la maestà cesarea, e quanto al bello edificio e quanto alla vista e sito loro.
Questa città di S. Domenico è tutta piana come una tavola, e passa di longo da tramontana a mezzodí il fiume di Ozuma, ch'è navigabile, profondo e ben vago, per i poderi e giardini che presso le sue ripe ha, con tanti aranci, cannafistole e altri molti arbori di varie maniere. Dalla parte di mezodí questa città è battuta dal mare, di modo che il fiume e 'l mare ne circondano la metà o piú; e da ponente e da tramontana, dove è la terra, si stende la città con le sue belle strade, larghe e ben ordinate, e da questa parte ha belle uscite e vaghissimi prati. In conclusione ella ha cosí bel sito e vista che non si potrebbe chiedere migliore, benchè non si ritrovi oggi cosí popolata come stava nel 1525, quando io ne feci a Sua Maestà relazione in quel Sommario delle cose dell'Indie. Il che s'è causato dalla varietà e instabilità che 'n questa vita si trova, perchè molti che si sono ritrovati ricchi se ne son ritornati in Spagna, altri se ne sono andati ad abitar in altre isole o in terra ferma, perchè d'allora in qua si è discoperto molto paese, e da questa città, come capo e madre di tutte l'altre parti di questo imperio, si è sempre proveduto che nuovi abitatori vi passino a farvi stanza. Vi è stato anco questo che ha fatto da questa isola uscire molte genti, che sono in diversi tempi venute gran nuove sempre d'essersi il Perú con altre nuove contrade scoperte, onde le genti, che sono amiche di novità e desiderano d'arricchire presto, vi si sono tosto da varii luoghi mosse, e da questa isola specialmente; e molti, per troppo volere, se ne sono impoveriti.
Il porto di questa città è dodeci o quindeci passi lungi da terra, dove surgono le navi dalle case che nella ripa del fiume stanno; s'accostano cosí vicine le navi e gli altri vasselli, come si veggono stare nel porto di Napoli o nel Tevere di Roma, o in Gualdachibir, in Siviglia e Triana. E con quattro braccia d'acqua surgono cosí presso, come s'è detto, navi grandi a due gabbie; e altre navi alquanto minori s'accostano tanto a terra che gettano una panca sul molo, e senza oprarvi altramente barca per questa via caricano e discaricano le botte e tonnelli. Da dove surgono le navi fino alla bocca del mare e dove incomincia il porto vi ha un tiro e mezzo di schioppo o poco piú; ed entrando nel fiume a pari del porto si trova uno assai forte castello, per difensione e guardia del porto e della città: e l'edificò il commendatore maggiore, nel tempo che fu in governo di questa isola. Ma perchè non si perda la memoria di cosí segnalata particolarità, dico che il primo che fondò in questa città casa di sassi e al modo di Spagna fu Francesco di Garai, e doppo di lui fu frate Alonso del Viso, dell'ordine e cavalleria di Calatrava. Il terzo fu poi il pilotto Roldan nelle quattro strade. Il quarto fu Giovan Fernandes delle Vare; e doppo di costoro si diede principio alla fortezza, e si fecero molti altri edificii, come se ne fanno e lavorano ogni giorno, per la gran commodità che è qui delle cose che fabricare bisognano.
Del vantaggio e differenzia che ha questa isola Spagnuola con l'isole di Sicilia e di Inghilterra,
con le ragioni che sopra ciò sono.
Cap. XI.
Ben mi aveggo che ogni comparazione serà odiosa a quelli che ascolteranno quello che non vorrebbono udire, come averrà ad alcuni Siciliani e Inglesi che questo capitolo specialmente leggeranno, perciochè, ritornando io a dire quello ch'io ho detto e scritto altre volte, dico che, se un prencipe non avesse altra signoria che questa isola sola, avrebbe in breve tanto che non avrebbe invidia allo stato dell'isole di Sicilia e d'Inghilterra, perchè quello che qui avanza farebbe altre provincie assai ricche. E perchè ho fatta la comparazione di due isole, le maggiori e migliori di cristianità, bisogna che io dica onde mi muova a fare simile comparazione.
Quello che mi ha a ciò mosso si è l'essere queste due isole e ciascuna di loro assai ricche e bei regni, e l'essere assai bene conosciute d'ogni uomo. Mi vi ha mosso l'essere questa isola Spagnuola assai ricca di copiose e continove minere d'oro, che allora mancano, quando le genti restano d'essercitarvisi. Mi vi ha mosso l'avere io veduto venirvi a tempo nostro di Spagna le prime vacche, e l'esservisi poi tanto moltiplicate che ne ritornano le navi cariche di quoi in Europa; ed è avvenuto molte volte d'ammazzarne 300 o 500, secondo che piú piace ai padroni, e di lasciarne via perdere nella campagna la carne per portarne i quoi in Spagna. E perchè meglio s'intenda questo ch'io dico essere cosí il vero, dico che qui vale l'arrelde della carne di vacca (che è un peso di 32 oncie) duo quattrini solamente. Mi vi ha mosso che abbiamo a tempo nostro medesimamente veduto passarvi d'Andalusia le prime giumente, e ora vi sono tanto e le giumente e i cavalli moltiplicati che si è venduto a quattro e a tre pezzi d'oro castigliani il cavallo, e un castigliano una vacca grossa, e un real il castrato; e non solamente l'ho io veduto questo che ho detto del prezzo di questi animali, ma gli ho anco io venduti de' miei, a questo prezzo e meno, in San Giovan della Maguana. Di questi animali vaccini, e de' porci anco, se ne sono fatti molti selvaggi; il medesimo è avenuto de' cani e delle gatte domestiche che sono qui venute di Spagna, e per le montagne di questa isola ve ne sono ora molti selvatichi.
Mi ha mosso a fare questa comparazione il vedere che qui naturalmente nasce tanta bambace, che se le genti si dessero a procurarla e a lavorarla, vi si farebbe meglio e in maggiore quantità che in parte del mondo. Mi vi ha mosso il vedervi una infinità di cannafistola e di perfetta bontà, onde se ne porta assai del continovo in Spagna, perchè qui vale il cantaro quattro ducati e manco. Mi vi ha ancora mosso perchè veggo che vi si fa tanto zuccaro, e cosí buono, che ne vanno le navi e le caravelle cariche in Spagna, e sono ora in questa isola sola 23 ingegni grandi e belli da cavare il zuccaro dalle canne, che vale una rova un ducato d'oro o manco, senza altri trapeti che con cavalli si operano. Mi vi ha mosso perchè in questa isola è tanta copia di verzini, di bambace e d'altre molte mercanzie, con uno certo eccellente colore d'azurro che vi si ritrova, migliore di quello che si suol chiamare d'aere, come per i dipintori che si servono di questo colore. Mi vi ha mosso perchè di tutte le cose che sono venute di Spagna e si sono qui seminate, la maggior parte sono moltiplicate assai e vi hanno fatto bene.
Mi vi ha mosso perchè, quanto al moltiplicare degli animali, veggo che qui molti posseggono sette e ottomila teste di vacche, e alcuni piú. Né mi stendo piú in ciò, poi che don Rodrigo di Bastidas, vescovo di Veneluvola, ha in questa isola 16 mila teste di animali vaccini, e il tesoriero Passamonte quasi altretante; e delli castrati e giumente ve ne ha tanta copia che vagliono a quel basso prezzo che s'è detto. Tanta quantità di porci se ne è andata via alli boschi che vivono ora selvatichi a gran greggi. Il medesimo è avenuto delle vacche, perchè li pascoli vi son copiosi e ordinarii, l'acque assai buone, l'aere temperato, l'estate e l'inverno di tal maniera che d'ogni tempo è poca differenzia fra il giorno e la notte e l'inverno vi è senza freddo, e l'estate vi ha un calor temperato e non soverchio. E l'isola è assai grande, che vi si possono bene gli armenti distendere, e le genti ampliarvisi con lor coltivare, perchè questa isola costeggiandosi gira intorno 350 leghe.
In questa isola si sono fatti innumerabili aranci e cedri e limoni dolci e agri, e vi son cosí buone tutte queste cose come sono in Cordova o in Siviglia, e vi son d'ogni tempo. Vi sono molti fichi e granate, e solamente arbori di frutti con l'osso in questa isola non fanno frutto. Potrebbe bene alcun dire che in questa città siano alberi d'oliva, perchè ve ne sono e di belli, ma sono però sterili e non producono altro che le frondi loro. Vi sono molte buone erbe d'orti, come sono lattuche, ravani, curiandoli, finochi, cipolle, cavoli napolitani aperti e de' cappucci, e medesimamente le melanzane; anzi è loro cosí naturale e propria questa terra come ai negri la Guinea, che vi fanno assai meglio che non in Spagna, e un piedi di melanzane durerà dui e tre anni e produrrà sempre il suo frutto. Vi fanno anco i fagioli in gran copia e in perfezione, e medesimamente rape e pastinache e citriuoli. Vi si fanno meloni di Castiglia ottimi, e vi si trovano la maggior parte dell'anno; il medesimo avien delli fichi, che quasi tutto l'anno vi sono, o pochi o molti, come i meloni, ma nel tempo loro ordinario sono maggiori e migliori.
E in conclusione tutte le cose qui dette e condotte di Spagna tanto non vi fanno qui bene e non si moltiplicano quanto le genti n'hanno poco cura, volendo spendere il tempo in piú grossi guadagni per arricchire piú presto, massimamente quelli che non hanno pensiero di fermarsi in queste parti, ma, tutti volti al guadagno delle mercanzie e delle minere, o delle pescherie delle perle o d'altre simil cose, pensano di dovere poi ritornarsi alle patrie loro. E per questo assai rari son quelli che s'occupano in seminare grano o in piantar vigne, perchè quanti qui vengono tengono questa terra per matrigna, benchè a molti sia stata assai migliore che madre. Se qui adunque talor manca il frumento o il vino, non è per difetto del terreno, ma delle genti ad altro occupate, perchè s'è qui talor provato a seminarvi il grano, e vi ha fruttato eccellentemente. Il medesimo diciamo delle uve, come si può vedere da molti pergolati di buone uve che sono in questa città; e ancorchè non ne fussero venuti di Spagna i sarmenti, sono per l'isola molte uve selvaggie che si sarebbono potute piantare e innestare, come si crede che avessero principio tutte le buone uve del mondo. Per le cose già dette e che si diranno, si può chiaramente vedere quanto questa nostra isola Spagnuola ha vantaggio alle due famose isole tocche di sopra, e quanto la comparazione che io ne ho fatta segua.
Erano in questa isola naturalmente, che non si condussero, molte buone erbe come quelle di Spagna, che qui per li campi da per loro nascevano, come potrà vedere il lettore nell'undecimo libro. Ho detto di sopra della grande abbondanzia della carne, e a quanto basso prezzo qui si vende, che certo a chi nol vede parrà una cosa impossibile, perchè la relde di vaccina vale in questa città dua maravidis. Ma perchè tutte le genti non intenderanno che peso sia relde, né che valuta sia un maravidis, se il lettore non è Spagnuolo, però dico che una relde in questa città è un peso di 32 oncie, e un maravidis vale quanto un quattrino d'Italia, poco piú. Non vi erano qui galline come quelle di Castiglia, ma doppo che ve ne son state portate di Spagna vi sono in modo moltiplicate che in parte del mondo non se ne veggono in maggior copia, ed è cosa di maraviglia quando un solo ovo fallisce di quanti se ne pongono sotto una gallina a covare.
E cosí ho io tocco nel generale le cose di questa isola, e di questa città particolarmente, e della chiesa principale che vi è, cosí ben dotata di clero e del suo prelato. Dico anco che qui sono tre monasteri, San Francesco, San Domenico e Santa Maria della Grazia, che vi furono da principio in questa città fondati di modesti edificii ma belli, benchè quel della Grazia non sia ancora fornito. In questi monasterii, non offendendone niun di quanti ne ha il mondo di questi tre ordini, vi vivono persone cosí religiose e di tanto buono esempio che basterebbono a riformare molti monasterii che per molti regni si veggono. Vi è anco un bello spedale e dotato di molta entrata per li poveri che hanno bisogno d'esservi curati e soccorsi. E ogni dí si farà questa città piú nobile, perchè vi vivono e fanno residenza l'admirante don Luigi Colombo, nepote del primo admirante, e il presidente, e vi è la corte della audienzia e cancellaria reale, sotto la cui giurisdizione stanno non solamente questa isola e l'altre che si son dette, ma una buona parte anco di terra ferma. Da questa città sono usciti e governatori e capitani, che hanno conquistato e popolato una parte di quelle contrade che sono state discoverte, come a' luoghi proprii si dirà.
Ma, ritornando al proposito della comparazione che io feci di questa isola con quelle di Sicilia e di Inghilterra (che già questi discorsi per questo effetto solo fatti si sono), dico che io non ho già fornito di dire l'altre particolarità di questa contrada, per non essere prolisso, ma ne' seguenti capitoli si vedrà; cosí quando si ragionerà degli alberi e degli animali e del grano, come d'altre particolarità di medicina e de' costumi di queste genti dell'Indie, e specialmente di questa isola della quale ora si tratta, perchè di piú di quello che se ne è detto se ne ha a dire anco molto di piú.
Del governo del commendatore maggiore don fra' Nicola di Ovando e delle sue buone parti, e delle terre ch'egli fece abitare in questa isola Spagnuola.
Cap. XII.
Chi avrà ordinatamente questa istoria letta, avrà visto che nel 1502 giunse il commendator maggiore in questa città di San Domenico, che ancora stava da quell'altra parte del fiume, e come partendosi con quella armata il commendator Bovadiglia si perse in mare. Ora diciamo un poco che persona fu questo commendator maggiore, e che modi nel suo officio e governo tenne mentre vi fu. È certo che, per quello che io ne ho inteso dire da molte persone degne di fede, e che oggidí vivono lo dicono, non venne mai in queste Indie uomo che gli avesse vantaggio, e nel buon governo specialmente, perchè egli ebbe in sé tutte quelle parti che si debbono desiderare in uno che governa. Egli fu assai devoto e buon cristiano, e molto limosiniero e pietoso con poveri, e benigno e cortese con tutti; con li discortesi servava quella prudenza e rigore che si conveniva, favoriva e aiutava gli impotenti e gli umili, con superbi e altieri si mostrava severo, castigava i trasgressori delle leggi con quella temperanzia che bisognava; onde, tenendo in santa giustizia questa isola, era da tutti amato e temuto. Favorí molto gl'Indiani e trattò come padre tutti i cristiani che in questi luoghi sotto il suo governo militavano, e insegnava a tutti il ben vivere; e come cavaliero religioso e prudente tenne in molta pace e quiete questa isola. Quando egli giunse qui ritrovò il paese pacifico, fuori che la provincia chiamata Higuei, che egli in breve tempo rassettò, castigando i ribelli. Ed essendo poi avisato che la cacica Ana Caona, già moglie del caciche Caonabo, stava in punto per ribellarsi con molti altri cacichi, che d'ammazzar i cristiani che erano nella provincia di Sciaragua e nel contorno tentavano, mosse lor la guerra e ne fece molti prigioni, e fece attaccare fuoco in una casa dove avea posti piú di 40 cacichi, e ve li bruciò tutti, e fece anco severa giustizia di Ana Caona.
Il modo ch'egli in questa impresa tenne fu questo. Avisato egli nel 1503 di questo tradimento, se n'andò con 70 da cavallo e 200 uomini a piedi nella provincia di Sciaragua, dove questa ribellione secreta fatta s'era; ed essendosi accertato della verità di questa ribellione, ordinò a' suoi cristiani che una domenica venissero a giuocare alle canne, e che venissero non solamente provisti per lo giuoco, ma per dovere anco combattere, se bisognasse. Onde, stando la domenica dopo il desinare tutti quelli cacichi confederati dentro una gran casa, quando videro venire queste genti da cavallo su la piazza chiamarono il commendatore maggiore a vedere il giuoco, e lo ritrovarono che stava giuocando con certi gentiluomini, per dissimulare con gl'Indiani e dare loro ad intendere che esso del tradimento lor nulla sapesse. Sopragiunse qui tosto poi la cacica Ana Caona con sua figlia Aguaimota e con altre donne principali, e disse al commendator maggiore che ella con tutti quelli altri cacichi desiderava di veder il giuoco delle canne de' suoi cavalieri, e che perciò lo pregavano che gli avesse fatti chiamare. Egli mandò loro a dire che venissero, poi disse che voleva lor prima parlare, e dare certi capitoli di quello che a fare avessero: e cosí fece sonare una trombetta, e si raunarono tutti i cristiani insieme, e fece andar tutti i cacichi nella sua stanza, dove furono tutti tosto consegnati al capitan Diego Velasio e al capitan Rodrigo Mescia Triglio, i quali già sapevano la volontà del commendator maggiore. E fattili tutti legare, intesero facilmente tutta la verità del tradimento, onde furono sentenziati a morte e fatti dentro una casa ardere dal fuoco, e Ana Caona fu indi a tre mesi fatta giustificatamente appiccare per la gola. Un suo nepote, chiamato il caciche Guaorocuia, si rebellò nel monte che chiamano Boaruto, ma il commendator maggiore vi mandò 130 Spagnuoli, i quali tanto lo seguitorono che l'ebbero in mano e l'appiccarono.
E doppo di questo si guerreggiò con gli Indiani della provincia della Guahava e della Zavana e de Amiga Lagua e della provincia e Guacaiarima, dove erano molto selvagge le genti e vivevano per le caverne e spelonche e non seminavano, ma si mantenevano solamente con frutti, erbe e radici che da se stesse naturalmente la terra produceva, né si curavano d'avere altre case che quelle grotte. E questa fu la piú selvatica gente che si sia fino ad oggi nell'Indie veduta. In questa guerra stette con gente da cavallo e da piè sei mesi il capitan Diego Velasco, e nel mese di febraro del 1504 ebbe fine il conquisto delle già dette provincie; e cosí restò pacifica e quieta tutta questa isola.
Il castigo di Ana Caona e seguaci fu di tanto spavento agl'Indiani che d'allora in poi non si ribellaron mai piú, e in memoria di questo, e perchè stesse quella provincia in pace, il commendator maggiore fece quivi edificare una terra e la chiamò Santa Maria della Vera Pace, presso al gran lago di Sciaragua. E io fui in questa terra nel 1515, e vi era un bel popolo e di persone onorate e nobili. Ma perchè stava lontana dal porto e dal mare, col tempo si disabitò, e se ne passarono quelle genti in un'altra terra, che fu da loro presso al mare fondata e chiamata Santa Maria del Porto, che alcuni altri la chiamano la Giaguana. Ma prima che il commendator maggiore presso al lago quella terra fondasse, aveva già passata questa città di S. Domenico, dove ora sta con tutto il suo popolo, che dall'altra parte di questo fiume stava; e fece fare questa fortezza, e la diede a guardare ad un suo nepote, chiamato Diego Lopes di Salzedo. Compartí e assegnò i suoli delle case di questa città perchè vi edificassero, e fece drizzare le strade nel modo che ora si veggono, e vi fondò l'ospedale di S. Nicola e lo dotò di buone entrate, che l'ha anco oggi nelle miglior case che siano in questa città: e queste entrate son state poi accresciute dalle limosine di persone devote e caritative.
Fondò similmente il commendator la terra che si chiama Bonaventura, che è lontana otto leghe da questa, e similmente la terra di San Giovanni della Maguana, nella ripa del fiume di Neiva, che è quasi nel mezzo di questa isola verso i monti, quaranta leghe da questa città lontana e altre quaranta lungi dal porto della Giaguana o di Santa Maria del Porto. Item la terra che chiamiamo il Porto di Plata, che è 44 leghe lontana da questa città, nella costiera verso tramontana. Item la medesima costiera Porto Reale, apunto là dove il primo admirante, nel suo primo viaggio, lasciò li 38 uomini che poi nel suo ritorno ritrovò morti. Fondò ancora la terra d'Azua, che sta 24 leghe lungi da questa città, ed è una commoda e buona cosa per gl'ingegni da fare il zuccaro che sono quivi e per quel contorno. Item la terra di Lares di Guahaba, Higuei, Zavana, e la fortezza di Iachino, in tanto ch'egli fece questa città di San Domenico e la sua fortezza, con altre dieci terre di cristiani, come s'è detto.
Perchè le terre che il primo admirante d. Cristoforo Colombo in questa isola edificò furono queste: la Natività, che fu la prima abitazione che avessero i cristiani in questa isola, dove l'admirante lasciò quelli 38 de' suoi, e per loro capitano Rodrigo d'Arana; Isabella fu la città ch'egli nel secondo viaggio edificò e donde ebbe questa città principio, perchè, come s'è detto di sopra, qui furono le genti che quivi erano trasferite; la Concezion della Vega fu anco città edificata dal primo admirante, insieme con queste altre due terre, San Giacomo e del Bonao.
Ma perchè li re catolici don Fernando e donna Isabella sempre desiderarono che queste terre fussero abitate da persone da bene (perchè dal buon principio se ne aspetta sempre il buon fine), facevano scelta di creati proprii della lor corte, e ne' quali maggior speranza avevano, e li mandavano con ufficii in questa isola, per annobilirla e dargli ottimi principii, e in questa città specialmente; si che qui non vennero ad abitare in queste nuove città pastori, né rattori delle donne sabine, come fecero coloro che diedero già a Roma principio, ma cavalieri e persone di molta nobilità e virtú, e perfetti cristiani, de' quali ne sono molti morti, e molti altri fino ad oggi in questa città e nell'altre terre dell'isola vivono. Sapendo adunque quei degni prencipi che dal cattivo albero non può nascere buon frutto, e che da un poco di fermento vien corrotta tutta la massa, ordinaron espressamente in Siviglia, a' loro ufficiali che quivi risedevano per li traffichi di queste Indie, che non vi lasciassero per niun conto passare persona alcuna che della nostra santa fede catolica sospettasse, e spezialmente né figli né nepoti d'alcun brusciato né riconciliato: e cosí si è servato e serva. E se per caso si trovasse alcuni di questi tali, lo cacciano tosto via del paese.
Si che, e per questo bel pensiero delli re catolici, e per li generosi desiderii degli Spagnuoli stessi, sono nell'imperio di queste Indie passati molti cavalieri e nobili, che hanno abitata questa isola (e questa città di San Domenico spezialmente), e l'altre isole anco e terra ferma. Questo l'ho detto a proposito, che e il governatore Bovadiglia e il commendator maggiore erano nobilissimi cavalieri e persone principali, e con loro, e prima anco e poi, vennero molte altre persone segnalate, e di molta prudenzia e intelletto, per dovere governare ogni regno e per conquistare e tenere in pace e fare abitare questo nuovo mondo, che in questa cosí remota parte occulto stava. E di piú delle persone già nominate ne' capitoli di sopra, e che quando sarà al proposito si nomineranno, si solevano sempre eleggere per il governo e ufficii di queste parti persone create e conosciute nella corte regia.
Onde vi passò fra gli altri Michele di Passamonte, creato antico del re catolico, e venne in questa città per tesoriero regio nel mese di novembre del 1508, perchè era persona di grande autorità e di molta isperienzia ne' negozii, ed era ben dotto gran letterato e molto da bene, talchè è opinione di molti che egli, ancorchè di molta età morisse, non conoscesse mai donna. Costui fu adunque gran cagione del buon governo di questa isola, cosí nel tempo che la governò il commendator maggiore come poi, finchè egli passò da questa vita, perchè mentre visse tenne sempre mano nelle cose del governo, che già poteva al tutto stendersi per l'ordine che aveva del re catolico, che gran credito gli dava; di modo ch'egli fu perciò gran cagione delli travagli del secondo admirante don Diego Colombo, del quale, quando sarà tempo, si toccherà brevemente qualche cosa. Questo tesoriero adunque fu in effetto vero ufficiale di cosí gran re, e come debbono essere tutti quelli che in simili ufficii si trovano.
Ma, ritornando al commendator maggiore, per buono ch'egli fosse non gli mancarono travagli, poichè, tenendo in tanta pace e concordia tutti i cristiani che erano in queste parti, ebbe nondimeno tanti che di lui mormorarono (come era già prima al primo admirante avenuto) che il re catolico, essendo già morta la reina donna Isabella, mandò a chiamarlo, non già nel vero per suoi demeriti, ma perchè in questa vita non possono le cose in uno stato lungamente durare, benchè egli stesse qui assai meno di quello che i popoli ve l'avrebbono voluto e che sarebbe stato il bisogno. Gran cagione del partir suo fu questa fortezza di San Domenico, e il soverchio appetito d'averla nel quale entrò Cristoforo di Tapia, che era sopra il fondere dell'oro in questa isola, ed era stato creato del vescovo di Badagios don Giovan Rodrigues di Fonseca, che in quel tempo in fin di Spagna governava queste isole.
E fu il successo di questa cosa a questo modo. Il commendator maggiore, fatta che ebbe la fortezza di questa città, la diede in guardia ad un suo nepote, chiamato Diego Lopes di Salsedo, buon cavaliero. Ma Cristoforo di Tapia ne scrisse subito al vescovo suo signore, col cui favore ottenne d'esserne fatto castellano, e ne presentò la provisione che gli venne di Spagna al commendator maggiore, il quale se la pose in testa e disse che quanto al porla in esecuzione ne informarebbe il re catolico, e poi farebbe quello che fusse il servigio di Sua Maestà. E cosí, non dando altramente il possesso della fortezza a costui, scrisse al re che il Tapia era soprastante al fondere dell'oro, e gli bastava quello ufficio, senza avere questa castellaneria. Il re sospese quella grazia fatta al Tapia, perchè il commendator maggiore allegava anco che aveva egli quella fortezza fatta, e che aveva prima avuto grazia che, mentre egli era nel governo di questa isola, disponesse delli castelli e fortezze che vi fussero, onde non doveva il re innovare questa cosa in suo pregiudizio, poichè l'aveva assai ben servito.
Appresso poi stette il Tapia prigione nella medesima fortezza, per alcune parole ch'egli disse contra il commendator maggiore. E perchè questo negozio toccava a lui e a Diego Lopes suo nepote, che aveva le chiavi della fortezza, ordinò al suo giustiziero maggiore, Alonso Maldonato, che prendesse informazione delle discortesi parole del Tapia contra di lui e ne facesse la giustizia. Alonso, presa l'informazione, la mandò insieme col Tapia in Spagna. Ma perchè in quel tempo il vescovo Fonseca era il tutto delle cose dell'Indie, perchè solo col secretario Lopes Conciglio ne disponeva e produceva, e amendue questi erano persone molto accette al re catolico, poco giovò quanto il commendator maggiore sopra questa cosa scrisse e rescrisse. Onde, per opera del vescovo e del Tapia, si ottenne dal re che fusse di questa castellaneria proveduto un trinciante del vescovo istesso Fonseca e suo creato, chiamato Francesco di Tapia e fratello del detto Cristoforo di Tapia; e cosí costui se ne venne in questa città col titolo di castellano.
Aveva, poco innanzi a questo, il re catolico fatto grazia al secretario Lope Conciglio della scrivania maggiore delle minere, e che tutti quelli che andavan a cavar l'oro, non vi potesser andare senza una poliza d'un luogotenente di questo Lopes e degli altri ufficiali, sotto gravi pene, e che per questa licenzia si pagasse un tanto al Conciglio (le quali licenzie fino a quella ora s'erano date graziosamente senza pagare nulla); e che di piú di questo si dessero al secretario alquanti Indiani, per cagione dell'officio di scrivania maggiore.
Ora, quando queste provisioni vennero di Spagna a questa isola, il commendatore maggiore l'obedí, ma quanto a l'essequirle le sospese, per consultarne e informarne il re, onde gli scrisse mostrandoli quanto noto pregiudizio era questa cosí fatta imposizione in una terra cosí nuova. Il re, inteso questo, sospese per allora la cosa e se ne rimesse al commendatore maggiore istesso, e tassò queste licenzie nella metà di quello che s'era ordinato che si pagasse.
Per queste cose sempre il commendatore maggiore sospettò che il secretario Conciglio non li dovesse esser buon amico, e credette poi che per opera di costui e del vescovo e delli duo fratelli Tapii fusse dal governo di questa isola mosso; perchè fu dal re chiamato in Spagna e fu il governo di questa isola dato a don Diego Colombo, secondo admirante e primo genito di don Cristoforo Colombo, perchè questo giovane era andato molto importunando il re che avesse dovuto darli carico conforme ai privilegii concessi a suo padre. Onde il re nel provedette, sí per questo sí per amor del duca d'Alva, don Federigo di Toledo, suo cugino, che era la piú accetta persona che avesse ne' regni suoi, e favoriva don Diego perchè aveva per moglie una sua nepote, donna Maria di Toledo, figliuola del commendatore maggior di Leone, don Fernando di Toledo.
Queste furono potenti cagioni a fare torre dal governo di questa isola il commendatore maggiore d'Alcantara, perchè in effetto non era cosa che il duca d'Alva avesse in quel tempo chieduta al re sotto color di giustizia che non l'avesse ottenuta; perciochè, oltra che il re l'amava per lo vincolo del sangue che era fra loro, per essere nati di due sorelle, figliuole dell'admirante di Castiglia don Federico, vi era anco questo, che nel 1506, quando il re don Filippo e la reina donna Giovanna nostra signora vennero ad ereditare Castiglia per la morte della reina catolica donna Isabella, non ebbe il re catolico in quelli travagli niun parente né amico né vassallo cosí sempre seco e ne' suoi servigii come fu il duca d'Alva; onde per cosí segnalato servigio ne l'amò poi sempre e lo tenne appresso di sé, e fece a lui e ai figli e parenti suoi molte grazie.
Il re catolico adunque, sí per amore del duca come perchè donna Maria di Toledo, moglie del Colombo era, come s'è detto, sua nepote e del duca, e avendo medesimamente rispetto ai servigi del primo admirante suo padre, lo mandò in questa isola per governatore, comandando al commendatore maggiore che se ne ritornasse in Spagna. Il che egli essequí, non senza pensare che questa fusse opera del vescovo Fonseca e del Conciglio, come s'è detto di sopra, e non senza risentirsene molto quanti quivi erano, per essere egli onorato cavagliero e giusto, perchè era assai grazioso e fautore de' buoni, e faceva ben trattare gl'Indiani; e in somma egli fu tale che, mentre si abiterà questa isola, sempre vi sarà la memoria di lui, e quanti veggo oggi che di lui parlano tutti ne sospirano, e dicono che per propria disgrazia di queste contrade se ne partí un tal cavaliero, perchè nol meritavano.
Mi sovviene un'altra cosa notabile di questo cavaliero, la quale non si doveva a niun conto tacere. Egli aveva una buona entrata, perchè cosí della commenda d'Alcantara, come del salario che per questo governo aveva, passava ottomila ducati l'anno, e tutti gli spese, di modo che la maggior parte ne lasciò in questa città, fabricandovi le due belle case che son su la piazza del castello di questa città: e una ne lasciò all'ospedale de' poveri, e l'altra al suo ordine e convento, come buon religioso; onde, quando di qua volse partirsi, li prestarono cinquecento castigliani per questo suo ritorno. Perchè non era egli avaro, spese quanto aveva con li poveri e con bisognosi, per arricchire nel cielo, dove si crede che egli sia, per la clemenzia e bontà d'Iddio e per l'opere buone sue.
Della naturale e generale istoria dell'Indie a' tempi nostri ritrovate.
Libro quarto
Proemio
Già siamo a tempo di por fine alle cose del governo e alli governatori di questa città e isola, e fatto questo passeremo all'altre cose, che saranno di piú piacevole lezione, e se ne ricrearanno maggiormente i lettori. Per tanto io brevemente e in pochi fogli dirò in questo quarto libro quello che manca a dirsi in simili materie, per passare poi a cose di gran maraviglia e non piú udite. Dirò qui adunque la venuta del secondo admirante don Diego Colombo a questa città di San Domenico, e le mutazioni che furono poi nel governo di questi luoghi fino al tempo presente. Parlerò della persona e meriti di questo secondo admirante e della sua morte, e della successione di suo figlio don Luigi Colombo terzo admirante; e quando ebbe principio l'audienzia e cancellaria reale che in questa città di San Domenico risiede. Dirò della venuta delli padri dell'ordine di s. Hieronimo a questa isola e di quello che fecero; e degli altri giudici che vennero nella medesima regia audienzia, e chi sono quelli che al presente vi sono, con altre cose necessarie all'ordine dell'istoria.
Come l'admirante don Diego Colombo venne a questa città di San Domenico, con le mutazioni che nel governo di lei furono e altre cose notabili.
Cap. I.
Nel precedente libro s'è detto che nel 1506 venne a regnare in Castiglia il re don Filippo, il quale in quel medesimo anno morí. E il re catolico, ritornandosi di Napoli in Spagna, governò per la reina donna Giovanna sua figlia i suoi regni, e per intercessione del duca d'Alva diede il governo di questa isola a don Diego Colombo, secondo admirante; benchè, per quello che io dal medesimo don Diego intesi, il re catolico gli concesse questo governo prima che di Napoli ritornasse, per lettere. Egli se ne venne adunque in questa città il sopradetto secondo admirante, con la vice reina sua moglie, donna Maria di Toledo, a' 10 di luglio del 1509, con una bella corte di gentiluomini; e con la vice reina sua moglie vennero alcune donne e donzelle nobilissime, la maggior parte delle quali, perchè erano figliuole, s'accasarono in questa città e negli altri luoghi dell'isola con persone principali e ricche; perchè nel vero in questi luoghi non erano ancora passate delle donne di Castiglia, e importava molto il non esservene, perchè, sebene alcuni cristiani si maritavano con donne indiane, erano nondimeno assai piú quelli che non vi si potevano per niun conto indurre, per l'incapacità e bruttezza di quelle. Sí che con queste donne che vennero di Castiglia s'annobilí molto questa città, e vi sono oggi figli e nepoti loro che sono il maggior vincolo che questa città abbia; benchè vi passassero anco poi altri gentil uomini e persone principali con le lor mogli di Spagna, onde se ne è questa città aumentata tanto, e cosí bella republica divenuta, che se ne dee molto ringraziare il Signor Iddio, ricordandoci che, dove era già il demonio adorato, sia stato piantato il crocifisso, il quale s'adora da tanti popoli che qui sono.
Ma, ritornando al proposito nostro, dico che, tosto che l'admirante smontò di nave, se ne venne come a stanza sua nella fortezza di questa città di San Domenico; e non fu chi gliele vietasse, perchè il castellan Diego Lopes di Salsedo, per suo poco pensiero, si ritrovava in quel tempo fuori della città, e in questo tempo stesso si ritrovava molto adentro nell'isola il commendator maggiore, al quale rincrebbe molto quando intese che l'admirante s'era con tutta la casa sua posto nella fortezza; ma, ritornato in questa città, come persona prudente mostrò di rallegrarsi della venuta di don Diego Colombo, e tosto obedí a quello che il re catolico li comandava, che era che se ne ritornasse in Spagna a dar conto delle cose di qua. E cosí si partí da questa città, il settembre del medesimo anno del 1509.
Era venuto con l'admirante Francesco di Tapia, creato del vescovo Fonseca e fratello di Cristoforo di Tapia, e pochi dí dopo la sua venuta presentò il privilegio che portava della castellaneria di questa fortezza. Ma gli si differí il possesso, e fu avisato il re catolico come l'admirante s'era posto nel castello; onde li mandò ordine che sotto gravi pene ne uscisse tosto e lo consegnasse al tesoriero Michele di Passamonte, e che lo tenesse fin che il re ne provedesse altramente.
E cosí l'admirante se ne uscí tosto e consegnò il castello al tesoriero, ed esso se n'andò a stare nella casa di Francesco di Garai. Indi poi a cinque o sei mesi il Passamonte, per ordine del re, consegnò il castello a Francesco di Tapia, il quale vi restò per pacifico castellano; e gli furono con questo dati 200 buoni Indiani di piú del salario, con che fu poi ricco, e morí poi nell'anno 1533. E mentre che la maestà cesarea provedesse di altro castellano, gli auditori di questa reale audienzia e gli altri ufficiali regii depositarono questa fortezza, e la posero in potere del capitan Gonzalo Fernandes di Oviedo (che son io), cittadino di questa città e scrittore e cronista di queste istorie, come antico creato della casa reale, al quale poi la maestà cesarea fece grazia di questa stessa castellaneria, come al presente la tiene.
Ma, ritornando al primo proposito nostro, dico che il commendatore maggiore se ne ritornò in Spagna col licenziato Maldonato, suo giustiziero maggiore, il quale (come ne è publica fama) fu un de' migliori giudici che siano passati in queste Indie: perchè, essendo gentil uomo e virtuoso, amministrò rettamente il suo officio, essendo da tutti amato, temuto e rispettato; e non fu tiranno avaro, né restò di fare la giustizia, cosí nel tribunale come fuori, e dovunque se li chiedeva e quanto poteva risolveva gli aggravii e le contese. Ora, giunto il commendatore maggiore in Spagna, se ne andò in Madril, dove ritrovò il re catolico, il quale caramente lo ricevette e mostrò d'avere caro di vederlo, e lo trattò molto umilmente e piacevolmente; perchè, oltra che era molta la bontà e clemenzia del re, era il commendatore maggiore suo antico creato e della reina catolica, onde fu da loro, come cavaliero virtuoso e costumato, eletto e posto nel numero di que' primi che furono in tutti i lor regni scelti per dovere servire il prencipe don Giovanni; e stette in questi servigi finchè questo prencipe morí.
Ritornato adunque il commendatore maggiore in Spagna, benchè sospettasse che il vescovo Fonseca e il secretario Conciglio non dovessero essergli amici, non fu per questo mal raccolto dal re; anzi, doppo che l'ebbe assai bene udito e che da lui si fu di tutte le cose di queste Indie bene informato, publicamente si disse che aveva molto al re rincresciuto d'averlo da quel governo rimosso, perchè qui molti lo piangevano e lo desideravano. E se non che egli morí poco tempo appresso, si credeva che l'avesse di nuovo il re dovuto mandare in questo governo, per le necessità che poi qui della sua persona occorsero.
Sí che, facendo fine alle cose del commendatore maggiore, seguiremo il successo delle cose dell'admirante don Diego Colombo, che nel vero fu buon cavaliero e catolico, ma non li mancarono travagli mentre stette nel governo di questa isola, come non mancaranno né anco agli altri che vi verranno a governarla, per le cagioni che ora dirò. E la prima è questa, che da qui in Spagna sono molte leghe e un lungo camino, e se ben si vuole la verità ricercare e ritrovare, non vi è né il tempo né il modo appropriato per cagion di questa tanta distanzia; e quando pure in Spagna si sa qualche cosa che ha bisogno di previsione e di rimedio, sempre è tardo quando qui il rimedio giunge, e colui che si è querelato ed è stato punto non esce mai dal suo dolore e ramarico. L'altra cagione si è questa, che perchè il primo admirante suo padre discoprí queste terre, sempre saranno qui affezionati di lui e di tutti i suoi successori, e quelli spezialmente che ne avranno avuto favore o ne saranno stati beneficati. E perchè poi successe il governo del commendatore Francesco di Bovadiglia, e poi del commendatore maggiore di Alcantara, i quali ebbero de' servitori e degli amici, che con beneficii se gli obligarono, e questo secondo admirante medesimamente recò qui altri suoi creati e amici, e gli favorí e fece del bene, ne nacque facilmente da questa varietà di opinioni un mare di passioni, con una vana e litigiosa contenzione; onde fu il re catolico avvisato che in questa città e isola erano parzialità, e che una parte si mostrava particolarmente affezionata e serva all'admirante don Diego, un'altra che a questa repugnava si chiamava e mostrava affezionata del re, e ciascuna di queste parti del continuo scrivevano, e davano ad intendere al re quello che lor pareva. Di modo che il re catolico deliberò di mandare a stanziare in questa città alcune persone letterate, e le chiamò giudici di appellazione, perchè come a' superiori si potesse loro appellare e dall'admirante e da' suoi luogotenenti e giustizieri maggiori e minori: e cosí fece. Onde parve all'admirante che per questi giudici si limitassero i suoi privilegii e se ne diminuisse la sua auttorità, e cominciò perciò a querelarsi e a dolersi che gli si desse superiorità. E tali altre cose da queste succedettero, che egli mandò in Spagna a chiedere contra questi giudici un'altra residenzia, e a dolersi di questa novità. Ma non restarono anco di scrivere questi giudici, e con loro anco il tesoriero Michel di Passamonte; di modo che il re catolico mandò a chiamare in Spagna l'admirante, che vi andò tosto e vi stette qualche tempo, e poco frutto vi fece e vi spese molti danari. E in questo tempo venne qui per giudice di residenzia il licenziato Giovanni Ivagnes di Ibara, per vedere i conti e sindicare il licenziato Marco di Aguillar, giustiziere maggiore dell'admirante, e gli altri suoi ufficiali; ma poco doppo che qui giunse il Ivagnes morí, insieme col secretario Zavala, che con lui venuto era a questo istesso effetto. Per la morte di costoro vi venne poi nel 1515 il licenziato Cristoforo Lebron, il quale, per la absenzia dell'admirante e per le cose che succedettero, vi stette un tempo quasi solo nel governo. E quello che a questo diede maggiore opportunità fu che, poco doppo la giunta dell'admirante alla corte, passò il re catolico di questa vita, che fu nel 1516.
Ma prima che si proceda avanti, è bene che si sappia un detto da scriversi in lettere d'oro, che la reina catolica donna Isabella disse sopra la qualità di questa contrada e delle genti sue; perchè con questo detto, nato da un petto di naturale filosofo, possa io meglio fondare quello che ho detto di sopra, che non mancheranno mai travagli a coloro che verranno a governare queste Indie. Quello che questa savia reina disse fu questo. Avendo il primo admirante don Cristoforo Colombo scoperte queste Indie, e dandone dipoi particolar conto al re e alla reina, fra l'altre particolarità disse che in questo paese gli alberi, per grandi che siano, non stendono giú molto a basso profondamente le lor radici, ma le spargon poco sotto la superficie: e cosí è in effetto, e questo nasce perchè giú di sotto la terra è calda e secca, e appresso la superficie è umida, e perciò vi si mantengono e moltiplicano le radici degli alberi. È il vero che l'albero della cannafistola solo in queste parti giunge con le radici fino all'acqua, ma questi alberi non li vidde il Colombo, né ve n'erano, finchè col tempo vi s'incominciarono a fare della semente della cannafistola istessa, che si portò in questi luoghi per medicina; benchè nella maggior parte dell'Indie siano cannafistole selvagge, come si dirà appresso al suo luogo.
Sí che, ritornando all'istoria, quando la reina udí questo, che l'admirante degli alberi dell'Indie diceva, il dimandò a che l'attribuiva; ed egli rispose perchè in queste Indie piove molto, e vi sono molte acque naturali che temperano la superficie della terra, ne nasceva che gli alberi poco sotto terra stendessero le loro radici per non mandarle nel caldo che è piú di sotto, e che necessariamente ritroverebbono penetrando piú a basso, per ritrovarsi in tal clima; onde naturalmente fuggono quello che lor nocerebbe, e si spargono per quello fresco umido superficiale che le nutrisce. La reina allora, mostrando di avere dispiacere di udire queste ragioni, disse: "In questa terra, dove non s'arradicano gli alberi, sarà poca verità e meno costanzia negli uomini".
È certo che chi conosce bene questi Indiani non potrà negare che la reina catolica non parlasse da vero filosofo naturale, e di tal sorte che non vi ha risposta in contrario; perciochè questa generazione degl'Indiani è bugiardissima e non vi si ritrova constanzia alcuna, e sono piú incapaci e grossi che fanciulli di sei o sette anni, anzi assai meno. E cosí credo io che ne sian molto alcuni cristiani infettati, e massimamente quelli che male inchinati vi sono, perchè ve ne son bene molti altri di gran prudenzia. Ma vi so dire che ve ne sono anco venuti tali che averebbono bastato a porre in rivolta e sottosopra Roma e San Giacomo, come volgarmente si dice. E che quello che io dico degl'Indiani sia vero si prova per li mescolati figli nati di cristiani e d'Indiane, che con grandissimo travaglio s'allevano ne' buoni costumi, né si possono distorre da' loro vizii e cattive inclinazioni.
E perchè io ho detto che qui passarono alcuni che non dovevano, i re catolici e lor conseglio vi cominciarono a rimediare, procurando che in queste parti non vi passassero se non persone elette; talchè si dee pensare che né li re catolici prima, né la maestà cesarea poi si movessero per leggiere informazioni di particolari, ma con sano e retto giudicio, cosí nella mutazione che si fece prima del primo admirante, come nell'altre che seguirono appresso. Benchè anco li re, essendo uomini, possano come uomini errare, massimamente che la maggiore infelicità e piú ordinaria che allo scettro reale si attribuisce si è che pochi dicano al suo prencipe la verità, e se gli dice non si crede. E questa disgrazia va cosí unita e ristretta col regnare quanto la corona istessa regia. Ma vi è in questo che s'è detto un'altra cosa contraria, onde si debba credere che questo nella mano e in potere degli uomini sia, né in poco pensiero o infelicità del prencipe, poichè non si può quella autorità del savio negare, quando dice che il cuore del re è in mano di Iddio. Che se cosí è (che è cosí senza alcun dubbio), dovemo tenere per certo che, essendo queste cose di tanta importanzia per la fede e per li cristiani, e donde hanno ad essere governati e addottrinati tanti Indiani, tutti gli errori, o i buoni e retti giudicii che e nelli governatori e ne' popoli governati avenuti sono, non per altro sono avenuti che per permissione e causa occulta; e io per me cosí lo penso, rimettendomi però a migliore e piú vero giudicio. Ma non voglio per ora piú trattenermi in questo.
Ritornando all'istoria dico che, ritrovandosi le cose di questa isola ne' termini che ho detto, perchè nella morte del re catolico si ritrovava in Fiandra il prencipe don Carlo suo nepote, ordinò il re nel suo testamento che Castiglia e Leone e i suoi regni fussero governati dal cardinale don fra' Francesco Scimenes di Cisneros, arcivescovo di Toledo, mentre che non veniva il nuovo re e suo successore nelli regni di Spagna a prenderne la possessione. Ma questo prencipe, tosto che intese la morte del re catolico suo avolo, non solamente approvò il governo del cardinale, ma li mandò anco piú ampla potestà per la amministrazione e governo de' regni suoi, mentre che egli non veniva in Spagna.
Della persona ed essere del cardinale Scimenes, governatore di Spagna, e d'alcune cose che al suo tempo succedettero; e come mandò nel governo di queste Indie tre padri dell'ordine di s. Hieronimo e il licenziado Alonzo Zuazo, con altre cose notabili.
Cap. II.
Il cardinale don fra' Francesco Scimenes fu un grande uomo, e mentre ebbe il carico del governo delli regni di Castiglia e di Leone, che fu finchè morí, lo fece cosí bene che ne tenne que' regni in pace; ancorchè vi si cominciassero alcune novità e ragunanze di gente, e specialmente sopra il priorato di San Giovanni in Castiglia e Leone, del quale si trovava in possessione don Diego di Toledo, figliuol del duca d'Alva; e lo chiedeva e voleva per sé don Antonio di Zugnica, fratello del duca di Begiar: di modo che l'un duca per lo figliuolo e l'altro per lo fratello lo volevano, e ne eran in competenzia, e ne cominciarono a prender l'arme. Ma il cardinale vi s'interpose, di modo che non lasciò venire alle mani né fare cosa che al re dispiacesse; perchè s'impadroní egli del priorato e lo tolse in nome del re, finchè poi la Maestà Sua, venendo in Spagna, accordò amendue que' priori che vi pretendevano, compartendo loro l'entrate e i vassalli, con dare all'uno le cose che erano nel regno di Castiglia, e all'altro quelle che erano in quel di Leone, con tale regresso che, morendo l'un, ritornasse la parte del defunto a chi di loro restava vivo; e cosí a punto intervenne poi.
Ma lasciamo questo e ritorniamo alle nostre Indie, che si ritrovavano a quel tempo ch'io dico a carico del cardinale, e l'admirante don Diego Colombo si ritrovava in Spagna negoziando i suoi bisogni, e aveva anco in questa città e isola i suoi procuratori. Ma perchè il cardinale già molto tempo prima aveva ampia notizia delle cose di questi luoghi, deliberò per il bene loro di mandarvi tre religiosi dell'ordine di s. Hieronimo, persone di molta auttorità, dottrina e di approbata vita; e li mandò in questa città di San Domenico con ampia autorità per governare queste Indie. Li religiosi furono questi: fra' Luigi di Figueroa, priore del monasterio della Megliorada, che è una lega lungi d'Olmeda (e questo fu colui ch'io dissi di sopra nel terzo libro, che morí essendo stato eletto, e fatte già le bolle dal papa per l'unione di questo vescovado di San Domenico e di quello della Concezione della Vega; e l'aveva la maestà cesarea fatto vescovo di queste due chiese e presidente di questa audienzia reale, ma la morte vi s'interpose, e fu per aventura meglio per l'anima sua, perchè era tenuta santa persona; e morí nel 1524. Ma, come s'è detto di sopra, egli vi era passato assai prima, per ordine del cardinale, con gli altri duoi religiosi di ugual potestà con lui). Gli altri duoi religiosi furono frate Alonso di San Domenico, priore del monasterio di San Giovanni d'Ortega, che è otto leghe lungi dalla città di Burgos, e fra' Bernardino di Manzanedo.
E giunsero tutti tre in questa città di San Domenico poco prima di Natale del 1516, e alloggiarono nel monasterio di San Francesco, e molto notarono che, stando la notte di Natale al matutino co' frati franceschini, ebbero tanto caldo che sudarono; e in quel giorno istesso diedero lor quei frati a mangiare uve fresche e fichi, che erano stati da lor proprii colti dalle pergole e dagli alberi. Questi frutti e il caldo sono qui communemente in tal tempo, cosa non veduta giamai né udita ne' regni di Spagna né in tutta Europa; benchè si legga come il maestro Holcoo glosator della sfera, dice che, tenendo un santo uomo in Inghilterra un demonio assai rinchiuso e ristretto, perchè desiderava molto il demonio vedersi libero da quella prigione, promise a quel santo uomo, se lo lasciava libero del tutto, di portarli la notte di Natale fichi freschi dall'Indie; e cosí essendo con questa condizione liberato, in brevissimo spazio di tempo portò i fichi freschi; e ne fece molto meravigliato restare quel santo uomo, che perciò congietturava la gran temperanza che doveva essere in quella contrada dove tali frutti erano stati colti, poichè cosí gran freddo era in Inghilterra in quel tempo, onde credeva che quella cosí temperata contrada fusse assai vicina al paradiso terrestre.
Ritornando al proposito, il cardinale, che aveva gran volontà di rassettare le cose di queste Indie, per le tante querele e aggravii che ogni dí ne venivano, elesse da tutto l'ordine di s. Hieronimo questi tre religiosi, e gli mandò con piena potestà perchè intendessero e vedessero le passioni e gli aggravii di che tanto i cristiani che quivi erano del continuo si lamentavano, e vi ponessero ogni accordo e quiete, provedendo al servigio del Signore Iddio e sgravandone la conscienzia del re e rimediando alle cose dell'isola e di terra ferma. E con questi tre padri fu eletto per giudice nelle cose di giustizia, cosí criminali come civili, il licenziado Alonso Zuazo, il quale, essendo già prima qui i tre padri venuti, giunse in questa città poco appresso, e fu alli otto d'aprile del 1517. Nel tempo che i tre padri qui giunsero, perchè la morte del re catolico era fresca, i giudici d'appellazione che qui risedevano, e si chiamavano già auditori (come audienzia reale l'ufficio loro), volsero con molte altre persone principali di questa città informarsi della venuta loro e della potestà che portavano (e non si erano giamai piú prima veduti in queste parti frati dell'ordine di s. Hieronimo). E loro, come prudenti, mostrarono l'autorità con la quale venivano, e furono tosto ubediti, e cominciarono ad esercitare i loro ufficii e a voler intendere le cose; finchè il licenziato pochi mesi poi appresso venne, come s'è detto, e causò medesimamente maggior maraviglia, perchè, giunto e fatto alloggiare nella casa del capitolo di questa città, diede da maravigliar a tutti con la sua potestà che mostrò, e da temere anco ad alcuni, che vedevano con quanta brevità si dovevano le liti e i negozii criminali e civili ispedire e finire, senza appellazione né altra dilazione per Sua Maestà nelli regni di Spagna. Egli, conforme ai suoi ordini, incominciò a sindicare gli auditori, che erano in quel tempo i licenziati Marcello di Villalopi e Giovanni Ortiz di Matienzo e Luca Vasque d'Aillon; e sindicò medesimamente tutti gli altri governatori, giudici e giustizieri; e volle vedere i conti a tutti gli ufficiali di Sua Maestà e agli scrivani delle minere e a tutti quegli altri che avevano in questi luoghi avuto qualche ufficio; e fatti i suoi processi sentenziò. Egli fece anco fare alcuni edificii publici, rifece le strade e le prigioni, che stavano aperte e guaste, e per la comodità di questa città fece far una barca o scafa, perchè si potesse comodamente dall'una parte all'altra del fiume passare, e con questa fece anco molte altre opere publiche e utile a questa republica.
Il governo adunque di queste quattro persone, nel modo che s'è detto, fu assai buono mentre durò, e quei padri lo fecero il meglio che Iddio loro inspirò, e attesero anco a rimuovere gl'Indiani dallo stato nel qual si trovavano e a dare loro altro recapito; il che, ancorchè sia stato una pericolosissima cosa per le conscienzie de' governatori, fu nondimeno quello che questi padri in tal caso fecero una cosa santa, perchè tolsero gl'Indiani di mano a tutti quei cavalieri a' quali erano stati, per ordine del re catolico, compartiti e dati; e non gli lasciarono a niun di coloro che absenti erano, ma li compartirono per li popoli e abitatori dell'isola, e gli fecero ridurre in popoli e per le città, acciochè fossero lor meglio i santi sacramenti administrati, e fossero meglio instrutti nelle cose della santa fede.
Sopra questi servigi degl'Indiani s'è molto conteso e altercato in iure fra famosi legisti e canonisti e teologi e religiosi e prelati di molta coscienzia e dottrina, cioè se dovevano questi Indiani servire o no a' nostri, e se coloro a chi si raccomandano e danno possono con buona coscienzia tenerli o no, e con che qualità e limitazioni. Ma perchè sono state assai le loro opinioni differenti, non è questa loro disputa stata di alcun giovamento né alla contrada né agl'Indiani stessi.
Questi padri ritrovarono qui gran querele, per cagione di un generale compartimento di questi Indiani, che, col parere del tesoriero Michele di Passamonte, aveva già fatto Rodrigo di Albucherche, cugino del licenziato Luigi Zapata, che era in quel tempo il principale nel consiglio del re. Ora questo Rodrigo, che era cittadino della città della Concezione della Vega, venne col favore del detto licenziado a compartire gl'Indiani, col parere del detto tesoriero, per correggere un altro compartimento che aveva prima fatto l'admirante don Diego. Ma tante e maggiori querele nacquero da questo corregimento, che non erano nate da quello che aveva prima l'admirante fatto. E in effetto questa cosa è di qualità, che sempre hanno da risultar maggiori querelle dell'ultimo che gl'Indiani comparta che non del primo, ancorchè l'ultimo sia meglio visto e piú amato che il primo; perchè il mutare il costume, e spezialmente agl'Indiani, non è altro che accortare loro la vita. Onde per questa via restarono assai danneggiati tutti questi luoghi, perchè questi padri religiosi, pensando di fare bene, compartirono gl'Indiani per le terre dell'isola, e fu cagion della loro rovina; perciochè i cristiani, che tante mutazioni vedevano, e non erano perciò securi che si fossero lor dovuti lasciare gl'Indiani del tutto, o li travagliano di soverchio o non li trattano del modo che trattati gli averebbono se non avessero dubitato di queste tante rivolte e mutazioni che ogni dí si facevano. E se bene alcuni ben creati e buoni cristiani li trattavano bene, erano all'incontro tanti gli altri che li travagliavano duramente, che ne fecero in breve tempo morire gran copia. Ma, ridotti a questo modo e sparsi per le terre, sopravenne loro le variole pestilenziali; che fra pochi mesi si viddono e questa isola e le altre convicine di San Giovanni e Iamaica e Cuba desolate da loro, che parve a punto un gran giudicio d'Iddio.
Ben si dee credere (e cosí il tengo io per certo) che la intenzione di que' tre padri fu santa e buona, in torre gl'Indiani dal potere de' cavalieri spagnuoli absenti, pensando per questa via alleggierire piú le loro fatiche, perchè erano sommamente afflitti e faticati dalli creati e servitori di que' cavallieri che, stando in Spagna, si godevano di questi sudori illeciti. E questo fu che mosse questi religiosi a compartirli per coloro che abitavano le terre istesse dell'isola, e che avevano conquistato e pacificato il paese. Questa gente indiana però è da se stessa una cosa assai vile e da poco, e per ogni poca cosa si muovono e se ne vanno tosto alle montagne, perchè il principale loro intento è quello che avevano sempre fatto prima che i cristiani qui passassero: non era altro che mangiare e bere e lussuriare e starsi a piacere e idolatrare, ed essercitarsi in altre molte sordide bestialità, delle quali, e delle lor cerimonie e riti, si dirà appresso nel suo luogo particolare.
Come la maestà cesarea diede sotto certa forma licenzia all'admirante don Diego di ritornare in questa città di San Domenico, con altre cose.
Cap. III.
Quando il re nostro signore venne in Spagna nel 1517, e fu poi nel 19 eletto imperatore (la qual nuova Sua Maestà seppe nella città di Barzellona), si ritrovava quivi l'admirante don Diego Colombo litigando col fiscale regio sopra i suoi privilegii e preeminenzie. Ma Sua Maestà, senza decidersi altramente la causa, li diede nel 1520 licenzia di ritornarsi in queste Indie sotto certa forma; e cosí l'admirante se ne venne in questa città, essendo stato cinque anni litigando in Spagna. Ma non già per la sua venuta mancò questa audienzia, che ella restò nel suo essere e superiorità come cancellaria regia; e nel medesimo modo vi si ispedivano i negozii come ora vi si fa, benchè qui poi il sigillo reale venisse.
Poco prima che il Colombo qui ritornasse, aveva l'imperatore mandati a chiamare in Spagna i tre padri di s. Hieronimo, tenendosi ben servito di loro in quello che al lor governo toccava; perchè nel vero giovarono molto, e molta industria usaron in accrescere l'ingegni e i trapeti co' quali si fanno i zuccari in questa isola, favorendo coloro che gli facevano e aiutando e soccorrendo ai buoni cittadini. Ma si dee sapere che, continuando il lor governo questi padri col licenziato Zuazo, accadette che furono informati de' gran danni e morte degl'Indiani di questa isola, che si ritrovavano raccomandati a' cavalieri e prelati che in Spagna vivevano e che avevano molto favore nella corte, e de' quali alcuni anco avevano carico de' negozii dello stato delle Indie. Avevan questi cavalieri i loro creati e servitori in questa isola, onde scrivevano loro del continovo, e alle persone principali anco, che quivi erano e che essi li favorivano, che mandassero loro in Spagna dell'oro che con le vite di questi miseri Indiani si raccoglieva; onde questi, che desideravano il favore di que' cavalieri, davano eccessivo travaglio e mal trattavano gl'Indiani che erano loro stati in nome di quelli cavalieri compartiti; perchè ognun di loro aveva sotto di sé e a' suoi servigi dugento e trecento Indiani. Per questa tanta fatica adunque morivano facilmente questi meschini, e ritornava a niente il lor numero: il perchè tosto si rifaceva questo numero a ciascuno di quelli altri Indiani che si ritrovavano compartiti agli altri che abitavano le città di questa isola; di modo che il compartimento fatto agli abitatori di questi luoghi s'andava tuttavia diminuendo, e quello de' cavalieri cresceva, benchè con l'essere maltrattati e questi Indiani e quelli morissero tutti, in tanto che questa fu potissima causa della loro ultima rovina e distruzione.
Informati adunque i padri di questa rovina, vi rimediarono nel modo che s'è detto di sopra. Di che avisati i cavalieri in Spagna, come quelli che vi pativano interesse, mandarono tosto alla maestà cesarea, che allora si ritrovava in Fiandra e non era ancora passata in Spagna; e si disse che ne ottennero una certa provisione drizzata al licenziato Zuazo, perchè s'informasse di questa causa e restituisse ai cavalieri absenti tutti gl'Indiani che erano lor stati tolti, e che lor prima raccomandati stavano. Ma questo non si essequí né furono lor restituiti, perchè, informato il re della verità, tenne per bene quello che era stato fatto da quei padri, acciochè si togliesse ogni causa che quella gente misera non morisse, come senza alcun dubbio moriva essendo cosí mal trattata, per l'avarizia di quei cavalieri di Castiglia ai quali raccomandati e compartiti stavano. Il licenziato adunque, soprasedendo queste provisioni, informò Sua Maestà di quanto qui passava, e come questi Indiani si toglievano a persone che avevano conquistata questa isola, e che vi si erano fermi e vi facevano stanza, e li trattavano e tenevano come figliuoli, là dove i fattori di quei cavalieri di Castiglia, non avendo altro rispetto che a farli cavare oro per mandarlo a' signori loro in Spagna, gli facevano tutti col soverchio travaglio e fatica morire; e ne aveniva che i primi padroni, restandone destrutti, ne abbandonavano l'isola, e cosí se ne diminuiva e distruggeva l'abitare di queste contrade. Per queste cagioni la maestà cesarea, essendo importunata da coloro che chiedevano gl'Indiani, dissimulò, e la menava in lungo. Di che avendo notizia, quei cavalieri se ne risentirono molto, perchè perdevano gran quantità d'oro, che ogni anno col sudore di questi disgraziati lor si mandava. E per questo il licenziato credette che in Spagna non mancassero sollicitatori perchè esso fusse da quello ufficio rimosso.
Venne qui adunque a prender il luogo suo il licenziato Rodrigo di Figueroa, uomo molto astuto e non poco avaro, secondo che poi si vidde nel suo sindicato, come si dirà appresso. Egli giunse in questa isola nel 1520, con l'informazioni che portava in Spagna contra il licenziado Zuazo; e presa la bacchetta del suo ufficio, vennero tutte le città e terre di questa isola e dell'altre convicine, e fecero contra il Zuazo molte querele e accuse criminali e civili e di eccessive quantità. Ma egli si difese cosí gagliardamente, e cosí bene provò la sua limpidezza, che all'ultimo tutte le liti ebbero fine in favor suo, ancorchè fosse molto perseguitato dalli servitori e creati di quei cavalieri a' quali erano stati gl'Indiani tolti; e ancorchè il licenziado Figueroa fusse dalli nemici suoi stato dimandato ed eletto come persona rigorosissima, e vi venisse con intenzione di non perdonarli cosa alcuna, ancorchè colpa veniale fusse: ma egli non poté in niuna cosa offenderlo, per essersi assai rettamente nel suo ufficio portato. Ritrovandosi a questi termini le cose, e veggendosi il Zuazo fra li suoi emuli e fra persone che, per quel che s'è detto, lo disfavorivano (come suole avenire ai buoni e retti giudici), e veggendosi senza ufficio, ancorchè con molto favore di tutti i poveri e di coloro a' quali aveva nelle loro differenzie fatta giustizia; e accorgendosi anco che molti altri prendevano le pietre in mano per lapidarlo, ad esempio di nostro Signore, s'ascose da tutti loro e se ne passò all'isola di Cuba, con la potestà che l'admirante don Diego li diede per dovere governarla; nel qual ufficio si portò come si dirà appresso nel suo conveniente luogo.
Partito il Zuazo per Cuba, restò assolutamente nel governo di questa isola il licenziado Rodrigo di Figueroa, che non fece cosa, mentre qui fu, della quale potesse esser ringraziato: benchè non vi durò tanto quanto voluto avrebbe. Io nel 1520 passai per questa città andando in terra ferma, e intesi dalli cittadini di questo luogo, e da alcuni anco de' principali, che questo era un giudice assai terribile e avaro. E io, a chi questo mi diceva, dissi perchè non ne davano notizia a Sua Maestà, perchè vi avesse rimediato; e mi furon risposte queste parole: "Come ci può essere creduto, che noi stessi lo chiedemmo?" Sí che bene ho detto io di sopra che questo giudice era stato dimandato dagli appassionati contra il Zuazo. Ora, perchè questo giudice dall'opere sue conosceva che non aveva da durare nel suo ufficio, raccolse tanto oro e perle quanto egli puoté e se ne ritornò in Spagna, o per dir meglio nel fecero andar via; perchè la sua avarizia era insaziabile, e la sua pratica non era di giudice conversabile, né di potere comportarsi né soffrire. E doppo che li fu tolto l'ufficio, gli furono fatte molte querele e accuse, e ne fu condennato in molte. Egli s'appellò nel consiglio regio dell'Indie, che nella corte di Sua Maestà risiede, e quivi si rividde il suo governo: e ne risultò una sentenzia contra di lui, che fu pronunciata nella città di Toledo nel 1525, assai rigorosa e brutta; perchè fu condennato in quattro volte tanto quanto aveva rubbato e tolto in questa città di San Domenico e nell'isola Spagnuola, con altre condannagioni di pene pecuniarie, e con privazione di potere avere piú mai ufficio di giudice regio. La qual sentenzia originale viddi io e lessi in quel tempo in Toledo; donde questo licenziado se n'andò in Siviglia, e perchè non poteva avere piú ufficio regio, si pose e fermò nella corte del duca di Medina Sidonia.
Della ribellione de' neri, e del castigo che l'admirante don Diego Colombo lor diede.
Cap. IIII.
Avenne un caso di molta importanzia in questa isola, e fu per esser principio di molto male, se il Signor Iddio non vi rimediava: e fu la ribellione de' neri, la qual, per essere stata cosa cosí segnalata, non si dee per niun conto tacere, perchè tacendosi si tacerebbe anco il servigio ch'alcune persone onorate di questa città vi fecero. Onde, perchè non mi si possa dare questa colpa, né resti per me dirne la verità, dirò quello ch'ho potuto in questo caso intendere, e chi legge tenga per certo che, se cosa alcuna si lascia di dire, sarà solo per non averne potuto maggiore informazione avere.
Venendo adunque a questo motivo di neri, dico che nacque solo dagli schiavi neri dell'ingegno o trapeto dell'admirante don Diego, e non da tutti quelli che esso aveva. Furono questi neri da venti, e la maggior parte della lingua de' iolofi, che d'un consentimento il secondo dí di Natale, nel principio dell'anno del 1522, uscirono dal detto ingegno dell'admirante e s'andarono ad unire con altretanti, che nel medesimo concerto erano e gli aspettavano in certa parte. Questi 40, doppo ch'ebbero ammazzati alcuni cristiani, che si ritrovavano senza sospetto e securi nel campo, seguirono il lor viaggio alla volta della terra Azua: ma se ne ebbe tosto nuova in questa città, per un aviso che ne diede il licenziado Lebron, che nel suo ingegno stava. Intesosi adunque il mal animo di questi neri e quello che fatto avevano, subito in quell'instante montò a cavallo l'admirante per seguitarli, con alcuni pochi da cavallo e da piè. Ma, e per la diligenza dell'admirante, e per l'ordine buono di questa audienzia reale, tosto lo seguirono tutti que' cavallieri e nobili ch'erano a cavallo in questa città. Il secondo dí si fermò l'admirante presso la riva del fiume di Nizao, e quivi intese come i neri eran giunti in una mandria di vacche di Melchior di Castro, lungi nove leghe da questa città, dove avevano ammazzato un cristiano chiamato Albaguir, che stava quivi lavorando, e aveano saccheggiata e robbata quella casa, e toltone un nero con 12 altri schiavi indiani. E fatto questo passarono avanti per far peggio, dove si fusse loro la occasione offerta; e avendo in questo loro discorso morti nove cristiani, s'accamparono una lega lungi da Ocoa, ch'è dove sta un forte ingegno del licenziado Zuazo, auditore di Sua Maestà in questa audienzia reale, con determinazione di dare il dí seguente, tosto che la luce apparesse, sopra quell'ingegno, e ammazzarvi altri otto o dieci cristiani che vi erano e inforzarsi di piú gente nera: perchè avrebbono ritrovati in quel luogo piú d'altri 120 neri. E pensavano poi andare sopra la terra d'Azua e porla a sangue e insegnorirsene, e unire con loro altri neri, che quivi d'altri ingegni ritrovati avrebbono. E senza dubbio che eglino avrebbono il pensiero loro cattivo recato a fine, se la providenzia divina non vi avesse rimediato nel modo che si dirà.
Perchè l'admirante, intesi tutti questi danni che andavano i neri facendo e la strada che facevano, deliberò di fermarsi quivi quella notte, perchè si riposassero le genti che seco andavano, e quelli che venivano appresso l'avessero giunto, per potere il dí seguente ben per tempo partire dietro a questi ribelli scelerati. Fra questi che con l'admirante si ritrovavano vi era Melchior di Castro, al quale aveano i neri fatto quel danno che s'è detto; onde, perchè di piú del generale e commune danno gli rincresceva forte del proprio suo, deliberò di passare con due altri da cavallo innanzi, senza farne all'admirante motto: perchè credeva non ottenerne licenza chiedendola, per dovere cosí solo passare innanzi. Restandosi adunque l'admirante con l'altre sue genti in quel luogo, si partí secretamente Melchior con gli altri due e se n'andò alla stanza sua delle vacche, dove sotterrò Albaguir, che era stato dai neri morto, e ritrovò quella sua stanza rubbata e sola. Quivi, essendosi accompagnato seco un altro cristiano da cavallo, determinò di passare avanti, e mandò a dire all'admirante che egli andava con quelli tre da cavallo che seco erano per l'orme de' neri, e lo supplicava che gli avesse mandato qualche aiuto, perchè egli andava con deliberazione d'intertenere i neri, mentre che i cristiani con sua signoria giungessero, se vedeva che i neri fussero molti. L'admirante, quando questo intese, li mandò tosto otto da cavallo e cinque overo sei pedoni che l'aggiunsero, e tutti questi undeci da cavallo seguirono i neri fino dove s'è detto che stavano. Fra questi da cavallo, il principale di quelli che aveva l'admirante mandati a fare compagnia al detto Melchior, perciochè intertenessero i neri, fu Francesco d'Avila, cittadino di questa città.
Ora, questi undeci da cavallo, su la alba del giorno, si ritrovarono con i neri ribelli, che, accortosi di questi cavalieri, si restrinsero insieme e con gran gridi gli aspettarono. I cristiani, veggendosi la battaglia fra le mani, senza aspettare lo admirante, perchè non si unissero questi neri con gli altri di quello ingegno, deliberarono di andar lor sopra; sí che imbracciate le targhe loro e postosi le loro lancie alla coscia, chiamando Iddio e l'apostolo s. Giacomo, fatto uno squadrone di loro undeci, che in effetto erano pochi ma animosi molto, a tutta briglia spinsero i loro cavalli innanzi. I neri stavano con molto animo aspettando questo assalto, il quale fu tale che i cavalli ruppero per mezzo di loro e passarono dall'altra parte, e andarono di questo incontro alcuni neri per terra. Ma non già per questo restarono di unirsi tosto e ristringersi insieme, tirando del continuo molte pietre e bastoni e dardi; e con un'altra maggior grida aspettarono il secondo incontro de' cavalieri cristiani, il quale non fu molto differito né menato in longo, ancorchè gli adversarii lanciassero molti pali gagliardi. Chiamando adunque medesimamente s. Giacomo, spinsero i cristiani con molto ardimento i loro cavalli, e ritornarono a rompere di nuovo il drappello de' neri, i quali, veggendosi cosí separati, e con tanto ardimento e deliberazione da cosí pochi cavalieri assaliti e sbaragliati, non ebbero ardire di aspettare il terzo incontro; onde si posero in fuga per certe balze che quivi presso erano; e i cristiani restarono vittoriosi, e de' neri ne restarono sei morti nel campo e molti altri ne furono feriti. A Melchior di Castro fu da loro passato il braccio manco con un palo, e ne restò malamente ferito.
I vincitori restarono nel campo e aspettarono ivi fin che fu giorno chiaro, perchè, essendo di notte e il paese aspro e imboscato, non poterono vedere coloro che fuggivano né donde fuggivano. In quel medesimo luogo dove si fermarono fece Melchior da un suo vaccaro chiamare per nome il nero e gl'Indiani suoi, che gli erano da questi ribelli stati rubati dalla sua stanza; i quali, conoscendo la voce di chi gli chiamava, vi vennero, perchè non molto di quivi lungi stavano ascosi. Essendo dí chiaro, Melchior di Castro e Francesco d'Avila, con gli altri da cavallo che con loro erano, se ne andarono all'ingegno del licenziado Zuazo a riposarsi. E quel dí stesso quasi ad ora di vespro giunse quivi l'admirante, con le genti che conduceva, e tutti resero grazie a Dio di questa vittoria, che ritrovarono che avevano avuta i nostri. L'admirante ne mandò in questa città di San Domenico Melchior, perchè si curasse; ed egli restando fece con tanta diligenzia cercare de' neri colpevoli, che erano iscampati dalla battaglia, che in cinque o sei dí gli ebbe tutti in mano, e ne fece giustizia appiccandoli per diversi luoghi di quelle campagne. Di modo che la diligenzia di Melchior di Castro, con l'aiuto di Dio e col valore di Francesco d'Avila e di quelli altri pochi che con loro si ritrovarono, che furono in tutto undici o dodici da cavallo, fu cagione che si recasse a cosí buon fine questa impresa. E l'admirante, dato che ebbe questo castigo a' neri, se ne ritornò in questa città, compiendo nel vero al servigio di Dio e di Sua Maestà. E per questa via restarono i neri che s'erano rivoltati e ribellati con la penitenzia che all'ardimento e sciocchezza loro si conveniva, e con l'esempio loro lasciarono spaventati tutti gli altri, e certificati di quello che si sarebbe loro fatto se mai fusse loro tal cosa passata per lo pensiero.
Come l'admirante don Diego Colombo per ordine di Sua Maestà ritornò in Spagna, e come il licenziado Luca Vasques, auditore di questa audienzia reale, andò in certo governo di terra ferma, e d'altri giudici e auditori che qui succedettero.
Cap. V.
Egli s'è detto di sopra come il secondo admirante don Diego Colombo ritornò in questa città di San Domenico, dove erano giudici in questa audienzia reale i licenziadi già detti di sopra, e chiamati Villalopo, Matanzo, Aillon e Lebron, il quale era stato già ricevuto per auditore; e come fra l'admirante e costoro non mancarono contenzioni sopra le cose della giurisdizione. Ora, il licenziado Aillon se ne ritornò in Spagna, cosí sopra questo come sopra alcuni suoi negozii proprii, e a procurare certo governo e discoprimento in terra ferma dalla parte di tramontana. Sua Maestà li fece grazia di capitaneria generale e di governo, e li diede l'abito di S. Giacomo. In questo Sua Maestà mandò a chiamare l'admirante don Diego Colombo, per alcune querele che erano di lui venute in Spagna; e l'admirante di chi piú si doleva e lamentava era il licenziado Aillon, perchè credeva che egli avesse fatte queste informazioni contra di lui, essendo suo molto amico. Onde si partí da questa città di San Domenico a' 16 di settembre del 1523, e giunto in Spagna se n'andò alla corte dell'imperatore, dove giunse il gennaro del 1524. E tosto cominciò ad attendere sopra i suoi negozii, finchè Sua Maestà, poi, nel 26 partí di Toledo per Siviglia.
Ma nel tempo che l'admirante partí di Siviglia per la corte, che fu il decembre del 1523, il licenziado Aillon andava in Siviglia per passare in questa isola. E giunto quivi fece la sua armata per quel suo governo che aveva ottenuto, dal quale non ritornò mai piú, perchè vi morí indi a poco tempo che vi giunse, doppo d'avervi spesa gran parte delle sue facultà. E nel vero egli si occupò in impresa poco a lui convenevole, perchè qui stava assai ricco e onorato, ed era un degli auditori di questa reale audienzia, e delli piú antichi che in questa città riseggono, ma non contentandosi di questo cercò la morte per sé e per gli altri mal consigliati che lo seguirono, come piú particolarmente se ne ragionerà nella seconda parte; perchè di questi discoprimenti di terra ferma sono molte istorie e cose notabili, e quando noi vi passeremo ne ragioneremo in particolare a' suoi luoghi convenienti e proprii, perchè sono cose appertinenti alla seconda parte di questa Generale e naturale istoria delle Indie.
Ma, ritornando al proposito nostro delli giudici, dico che, partito il licenziado Aillon, restarono in questa cancelleria per auditori i già detti di sopra, il Villalopo, il Matienzo e il Lebron; ma non molto tempo appresso andò il Matienzo in Spagna, e Sua Maestà il fece auditore nella Nuova Spagna, e poco tempo poi morí il licenziado Villalopo, di modo che restò questa audienzia col Lebron solo. Ma poco appresso, essendo fatto auditore il licenziado Zuazo, venne come s'è detto in questa città con li tre padri di s. Gieronimo. Ma a costui succedette il licenziado Figueroa, e il Zuazo se ne passò in nome dell'admirante per governatore dell'isola di Cuba, dalla quale isola passò poi in nella Nuova Spagna; e per viaggio si perdé nell'isole degli Alacrani, onde miracolosamente scampò e seguitò il suo cammino, e Fernando Cortese li diede il carico della giustizia della Nuova Spagna. Ma stando quivi fu preso e menato all'isola di Cuba, a dar conto del tempo che vi aveva fatto residenzia e che vi era stato governatore; ed esso diede di sé tal conto quale si dirà appresso, quando si tratterà delle molte cose notabili che egli passò, nell'ultimo libro de' naufragii. E la maestà cesarea, come gratissimo prencipe, informato della verità e della lealtà e servigi di questo giudice, volse di nuovo servirsi di lui, come di persona che tanta esperienzia aveva delle cose di queste parti, e fattolo suo auditore ordinò che qui risedesse. Ma prima che questa elezione si facesse, passò questo cavaliero per molte disaventure e travagli, e fece gran prova della sua pazienzia.
Dopo di quello che s'è detto, entrò per auditore il licenziado Gaspar di Spinosa, in luogo del licenziado Villalopo. Costui venne anco per giudice di residenzia, la quale egli tolse agli altri auditori e giustizie, e fu un tempo governatore assoluto, benchè non ben visto d'alcuni, ancorchè all'incontro altri ne dicessero bene. Né mi maraviglio di cosa che io oda dire di giudice alcuno in queste parti, perchè, oltra che solo Iddio potrebbe contentare tutti, sempre nelle terre nuove sono pericolosi simili ufficii, e per il corpo e per l'anima.
Passata questa residenzia, restarono insieme di compagnia in questa reale audienzia i licenziadi Lebron, Zuazo e Spinosa; ma poco tempo appresso questo ultimo se ne passò a vivere in terra ferma, dove aveva certi Indiani che il servivano, per via di compartimento, da che era stato giustiziero maggiore del governatore Pedrarias d'Avila, nella provincia che chiamano Castiglia dell'Oro, come si dirà piú distesamente quando di questa terra si parlerà. Andato Spinosa dove s'è detto, entrò in suo luogo in questa audienzia il dottore Rodrigo Infante, e perchè era già morto il licenziado Cristoforo Lebron, nel suo luogo entrò il licenziado Giovan di Vadiglio, che stava in questa città di San Domenico dal 1525, intendendo sopra i conti e debiti delle cose regie. E questi tre auditori, il licenziado Zuazo, il dottore Infante e licenziado Giovan di Vadiglio, sono quelli che ora residono in questa reale audienzia e governano questa e l'altre isole, e riconoscono l'appellazioni di una gran parte di terra ferma, insieme col reverendo e nobile signore il licenziado Alonso di Fonte Maggiore, presidente per Sua Maestà, e che giunse in questa città nel tempo che si dirà appresso.
Del successo e vita del secondo admirante don Diego Colombo, doppo che ritornò in Spagna, fin che morí, con altre cose appartenenti all'ordine dell'istoria.
Cap. VI.
S'è nel capitolo precedente detto come l'admirante don Diego Colombo venne per ordine di Sua Maestà in Spagna, e giunse il gennaio del 1524 alla corte, stando l'imperatore nella città di Vittoria, dove cominciò l'admirante a trattare i suoi negozii, e vi stette fin che Sua Maestà e il suo consiglio reale dell'Indie stette in quella città; poi seguí la corte in Burgos, poi in Valledolid, poi in Madrid, e finalmente nella città di Toledo, finchè nel 1526 si partí l'imperatore per Siviglia. Nel qual tempo s'era l'admirante infermo e stava assai indisposto e debole; ma con tutta questa sua indisposizione volse seguire la corte, e determinò di fare la strada per Nostra Signora di Guadalupe. Due dí innanzi che egli partisse io il visitai, e li dissi che mi pareva che non faceva bene a porsi in cosí lungo cammino stando come esso stava; e glielo dissero anco molti altri, consigliandolo che, poi che si ritrovava in Toledo, dove non li mancavano eccellenti medici e medicine, con ogni altra cosa per la sua sanità e cura, non si fosse dovuto per niuno conto partire, perchè con questa andata non fosse stato cagione di accrescersi il male; e che, poi che guarito fosse, avrebbe potuto a sua voglia partirsi. Egli rispose che si sentia meglio, e che in pensar che andava verso l'Indie, dove aveva sua moglie e figli, e in andare in Siviglia, li pareva di essere già sano, e che voleva fare la strada di Nostra Signora di Guadalupe, perchè sperava che ella gli avrebbe dato isforzo per potere fare quel viaggio. E benchè li fosse replicato, per disturbarli quella andata, non gli giovò cosa che gli si dicesse, perchè doveva essere il suo fine, dove aveva il Signore Iddio ordinato.
Determinato adunque di fare questo cammino, si partí di Toledo in mercoledí, a' 21 di febraro del 1526, in una lettiga, e giunse quel dí in una terra di don Alonso Telles chiamata il Popolo di Montealbano, che sta sei leghe lungi da Toledo; allora quivi gli aggravò tanto il male che il giovedí sequente ordinò per l'anima sua, come buon cristiano, essendosi già confessato e comunicato il dí stesso che di Toledo partí; e il venerdí, che furono a' 23 di febraro, alle nove ore della notte spirò, con molta contrizione e ricordo, ringraziando molto il Signore Iddio e con grandissima pazienzia raccomandandoli l'anima sua, di modo che si dee credere che egli se n'andasse alla gloria celeste. E volle nostro Signore che, per sua consolazione e perchè meglio morisse, si ritrovassero con lui quattro religiosi dell'ordine di s. Francesco, della quale religione esso era molto devoto: questi li ricordarono sempre quello che alla sua salute conveniva. E subito, spirato che fu, i suoi servitori presero il suo corpo e lo condussero in Siviglia, nel monasterio delle Grotte, dove il depositarono presso al corpo del primo admirante suo padre. E a quel modo terminò questa misera vita l'admirante don Diego, e succedette nella sua casa e titolo il suo figliuolo maggiore Don Luigi Colombo, terzo admirante.
Del terzo admirante di queste Indie don Luigi Colombo; e come sua madre passò in Spagna a proseguire la lite di suo marito col fiscale sopra i suoi privilegii; e come venne per presidente in questa audienzia il vescovo di questa città don Sebastian Ramires.
Cap. VII.
Quando in questa città s'intese la morte dell'admirante don Diego Colombo, fu tosto chiamato admirante il suo figliuolo maggiore don Luigi Colombo, che in quel tempo non poteva avere piú che sei anni. E pochi dí prima era venuto per giudice di residenzia in questa isola il licenziado Gaspar di Spinosa, che, come s'è detto, mentre che in quello ufficio stette, governò questa isola e poi se ne passò in terra ferma: la cui partenza ad alcuni piacque, alcuni altri ve l'avrebbono voluto avere piú tempo. Questa cosa a tutti i governatori aviene, perchè sempre i popoli nuovi giudici desiderano, e perciò non mancarono né anco a costui mormoratori, come sempre ne furono e ne saranno. E in quel tempo vacava questa chiesa come anco molto prima quella della Concezione della Vega; e di amendue questi vescovadi ne aveva Sua Maestà fatta grazia sotto una mitria al reverendo padre fra' Luigi di Figueroa, priore della Magiorada, dell'ordine di s. Gieronimo, che morí essendo già ispedite le bolle in Roma; onde Sua Maestà ne provide, e di questo vescovado e della presidenzia di questa audienzia reale e cancellaria, il licenziado don Sebastiano Ramires di Fonte Leale, per essere persona atta e nello spirituale e nel temporale, e di molta scienzia ed esperienzia. E cosí, venuto egli in questa città, esercitò gli ufficii suoi, come buon pastore per le anime e buon presidente e governatore dello stato.
Ma perchè le cose della nuova Spagna avevano gran bisogno d'essere bene ordinate e rette, ebbe un nuovo ordine da Sua Maestà, che dovesse andarvi come presidente di quella audienzia reale che nella gran città di Mescico reside, per la giustizia e buon governo di quelle parti. Ma quando egli in questa città venne, poco tempo appresso uscí da questa audienzia Gaspar di Spinosa, e diceva che egli stesso l'aveva mandato a supplicare in Spagna. Ma nel vero fu per questo, che egli aveva in terra ferma, nel governo di Castiglia dell'Oro, un caciche con altri buoni Indiani, che il servivano già da molto tempo prima: che esso era stato in quella contrada giustiziero maggiore di Pedrarias d'Avila, come s'è anco detto di sopra. E quelli che in quel governo si ritrovavano si lamentavano, e dicevano che non doveva Sua Maestà acconsentire che né il licenziado Spinosa né alcuno altro absente vi potesse possedere Indiani: e perciò egli se ne andò a vivere nella città di Panama, dove il serviva il caciche di Pacora con gli suoi Indiani, e vi menò sua moglie e figli, e quivi si sta.
Ritornando al nuovo admirante, dico che quando la vice reina donna Maria di Toledo seppe la morte dell'admirante don Diego suo marito il pianse molto, e fattone l'essequie e il lutto che a simili persone fare si sogliono (perchè in effetto questa signora è stata in questa terra tenuta una onesta e generosa donna, e di grande esempio di sua persona, mostrando assai bene la generosità del suo sangue), determinò di passare in Spagna a seguire la lite di suo marito sopra le cose dello stato suo col fiscal regio; e cosí s'imbarcò e menò seco la sua figliuola minore donna Isabella e il minor de' figli suoi, chiamato don Diego, lasciando in questa città una sua figlia maggiore chiamata donna Filippa (la quale è inferma e santa persona), e l'admirante don Luigi e don Cristoforo Colombo, suoi figliuoli assai piccioli. E giunta che ella fu in Spagna, di quivi a pochi dí accasò la figliuola piccola che aveva menata seco con don Giorgio di Portogallo, conte di Gelves in Siviglia; ed essa se n'andò alla corte. Ma, perchè l'imperatore era già passato in Italia ad incoronarsi in Bologna, fu forzata a restare nella corte dell'imperatrice, a sollecitare i signori del consiglio di Sua Maestà sopra i negozii dell'admirante don Luigi suo figlio; e fu dall'imperatrice assai bene trattata e favorita, e fu don Diego Colombo suo minor figliuolo ricevuto per paggio del serenissimo prencipe don Filippo; e fu per ordine di Sua Maestà ordinato che si dessero per aiuto di costà 500 ducati ogni anno a don Luigi dell'entrate regie di questa isola, e li furono anco fatte altre grazie.
Ma, ritornando al governo di questa isola Spagnuola e alla audienzia reale, dico che, partito il vescovo presidente per la nuova Spagna, come s'è detto, ad altri piacque ad altri dispiacque, perchè alcuni non l'avrebbono voluto cosí giusto, altri come giusto lo desiderarono. E cosí restò questa audienzia con li tre auditori già detti, il licenziado Alonso Zuazo, il dottore Rodrigo Infante e il licenziado Giovan di Vadiglio, i quali governarono questa isola e l'altre, con una parte di terra ferma che è di lor giurisdizione, come persone di molta esperienzia e dottrina, facendo in questa città residenzia; finchè vi venne, come s'è detto, il reverendo signore il licenziado Alonso di Fonte Maggiore per presidente di Sua Maestà, e cosí vi risiede con gli auditori che si son detti. E in questo stato si ritrovano le cose del governo di questa isola Spagnuola fino a questo tempo.
Ma perchè è già tempo di passare ad altre materie di piú dolce lezione e di molti secreti di natura, finiamo di dire quello che ci avanza di questa isola; e per dare piú particolar conto di quello che si è tocco di sopra del zuccaro, voglio dire come avesse origine in questa isola, prima che ad altro si passi.
Degl'ingegni e trapeti da fare il zuccaro che sono ora in questa isola Spagnuola, e di chi sono, e come ebbe questo ricco guadagno in queste parti principio.
Cap. VIII.
Poichè questa cosa del zuccaro è un de' piú ricchi guadagni che in alcuna provincia o regno del mondo si possa fare, e poichè in questa isola vi se ne fa tanto e cosí buono, ragionevole cosa è [che], ancorchè la fertilità di questa terra e la disposizione dell'acque e dei gran boschi per aver legne siano molto al proposito per questo effetto, si debba anco sommamente ringraziare colui che qui questa invenzione ritrovò e la pose in opera; poichè tutti vi ebbero gli occhi chiusi fin che il baccellier Gonzales di Velosa, a suo proprio costo e con una eccessiva spesa (per quello che egli diceva), e con molto travaglio di sua persona, vi condusse i maestri e ufficiali da fare il zuccaro, e vi fece un trapeto di cavalli; e fu il primo che facesse zuccaro in questa isola, e a lui solo, come a primo inventore di questo guadagno, si debbono renderle grazie, non già perchè egli fusse il primo che piantasse canne di zuccaro in queste Indie, poichè ve le avevano molti piantate prima e ne facevano molto mele, ma perchè egli fu il primo che ne facesse e cavasse il zuccaro; e col suo esempio poi molti altri fecero il simigliante. Ora costui, quando ebbe quantità di canne, fece un trapeto di cavalli su la riva del fiume Nigua, e condusse i maestri per questo effetto infino dall'isole di Canaria, e macinò e fece zuccaro prima che niuno altro.
Ma, investigando la verità di questo, ritrovo che dicono alcuni uomini da bene e vecchi, che oggi in questa città vivono, che il primo che piantò canne di zuccaro in questa isola fu un Pietro di Atienza, nella città della Concezione della Vega, e che il castellano della Vega Michel Vallestriero di Catalogna fu il primo che fece zuccaro, e affermano che lo fece piú di due anni prima che lo facesse il baccelliero Velosa. Ma dicono anco che questo castellano ne fece pochissimo, e che tanto questo quanto quello di Velosa ebbero origine e principio dalle canne di Pietro di Atienza. Di modo che, o per questa o per quella via, ebbe in queste Indie origine il zuccaro, perchè da questo principio di Pietro di Atienza si moltiplicò tanto questo utile quanto ora si vede, e ogni giorno maggiormente si augmenta.
Ma, ritornando al baccelliero Velosa e al suo trapeto, quando il cominciò ad intendere meglio questo negozio, si unirono con lui il proveditore Cristoforo di Tapia e il castellano Francesco di Tapia suo fratello, e tutti tre fecero di compagnia uno ingegno nel Laguate, che è una lega e mezza longi dalla riva del fiume di Nizao. Ma qualche tempo appresso si disunirono, e il baccelliero vendette la parte sua ai Tapii, e il proveditore poi vendé la sua a Giovanni di Villoria, il quale poi anco la vendé al castellano Francesco di Tapia, al quale solo restò questo primo ingegno da zuccari che fu in questa isola. E perchè in que' principii non s'intendeva cosí bene la necessità che hanno di molti territorii e d'acqua e legna e d'altre cose questi negozii del zuccaro, perchè in quel luogo dove questo primo ingegno era non vi era tanta copia delle cose necessarie quanto bisognato sarebbe, il castellano Tapia disabitò questo ingegno e ne trasferí le migliori cose che puoté ad un altro miglior luogo e piú comodo, nella medesima riviera di Nigua, cinque leghe lungi da questa città; e quivi fece uno assai buono ingegno, finchè vi morí.
E perchè non si replichi molte volte quello che ora dirò, si debbe notare in questo ingegno quello che, per non replicarlo, in tutti gli altri si tace, che in ogni ingegno delli buoni e bene aviati, di piú del molto valore dell'edificio della casa dove si fa il zuccaro e dell'altra casa dove si purga e conserva, si spende piú di 10 o 12 mila ducati d'oro, finchè l'abbiano il macinante e il corrente; e vi bisogna tenere continovamente al manco 80 o cento neri e 120 anco, e in alcuni piú, perchè meglio drizzati vadano; e bisogna che quivi presso si tenga una over due grosse mandrie di vacche, di mille e duomila e tremila l'una, perchè abbia l'ingegno che mangiare; e costa molto di piú il salario de' maestri e ufficiali che non fa il zuccaro; e vi vuole gran spesa nelle carrette per condurre le cannamele e 'l zuccaro stesso e le legne per lavorarlo, e vi bisogna gran gente per fare il pane e curare le canne e irrigarle, e fare altre molte cose necessarie e di gran spesa. Però, in effetto, chi è signore di uno ingegno libero e bene addrizzato egli si può tenere di essere ben ricco, perchè grandissima utilità e ricchezza ne segue.
Ora, questo che si è detto fu il primo ingegno che si vedesse in questa isola, e mentre che qui non si fecero zuccari, se ne ritornavano vote le navi in Spagna, e ora ne vanno cariche, e con maggior nolo e utile che non guadagnano nel venire verso qua. E poichè questo negocio s'incominciò nella riviera di Nigua, voglio seguire degli altri ingegni che il medesimo fiume toccano, e per la maggior distinzione farne tanti paragrafi o parti.
Un altro grosso ingegno è nella medesima riviera del fiume di Nigua, che è del tesoriero Stefano di Passamonte e degli eredi suoi, ed è uno de' migliori che siano in questa isola, cosí negli edificii suoi come nell'avere molte acque e boschi e schiavi e quanto di piú vi bisogna; e sta sette leghe o poco piú lontano da questa città di San Domenico.
Nella medesima riviera di Nigua, piú sotto di quello che s'è detto, sta un altro ingegno assai buono che fece Francesco Tostado, sei leghe lungi da questa città, e restò agli eredi suoi: ed è una gentil cosa e molto utile, e non gli manca nulla di quanto per lo suo mestiero li fa di bisogno.
In questa stessa riviera di Nigua vi ha un altro ingegno, de' migliori e piú ricchi che abbia tutta questa isola, ed è presso al mare nella foce di questo fiume, quattro leghe e mezza lungi da questa città di San Domenico, ed è del secretario Diego cavaliero della Rosa; cosa in effetto degna molto di vedersi e di pregiarsi.
Giovanni d'Ampies, fattore di Sua Maestà, fece un altro ottimo ingegno in cima della riviera di Nigua, nel fiume che chiamano Iaman, otto leghe lontano da questa città; e restò agli eredi suoi, ed è una gentile eredità.
Un altro ingegno e de' migliori dell'isola ha l'admirante don Luigi. Ma, perchè questi ingegni e utili del zuccaro incominciarono presso al fiume di Nigua, per dire tutti quelli che in questa riviera sono e che con loro confinano, che sono i cinque detti di sopra, non si è posto questo dell'admirante al principio, come è ragione che in tutto quello che tocca all'Indie preceda egli a tutti gli altri: poichè quanto vi hanno tutti da mangiare o l'hanno con queste Indie acquistato tutto a lui si dee, essendo l'avolo suo stato causa che se ne abbia quanto se ne ha. Ma per andar ordinato (come ho detto) fu bisogno incominciare con l'ingegno di Francesco di Tapia, e di seguire poi nella guisa che s'è fatto, perchè quando questo dell'admirante si fece ve ne erano già in questa isola degli altri. Questo fu edificato dall'admirante don Diego Colombo 4 leghe lontano da questa città di San Domenico, dove dicono la Isabella Nova; ma poi la vicereina donna Maria lo trasferí nel luogo dove ora sta, che è migliore e piú presso alla città.
Un altro ingegno fu edificato dalli licenziadi Antonio Serrano e Francesco di Prato, che ora è del contatore Diego il cavaliero, ed è piú vicino di tutti gli altri a questa città, perchè non ne sta piú che due leghe lontano, presso al fiume che chiamano di Iuca.
Un altro ingegno de' buoni di questa isola, tre leghe lungi da questa città, fu presso la riviera del fiume Haina edificato dal licenziado Piero Vasque di Mella e da Stefano Iustiniano genovese, il quale è ora degli eredi loro.
Ha un altro ingegno Francesco di Tapia, figliuolo del proveditore Francesco di Tapia, dove si dice Itabo, 4 leghe da questa città lontano, e lo fondò ed edificò il detto proveditore.
Ne hanno un altro assai buono gli eredi del tesoriero Michele di Passamonte, che sta nella riviera del fiume Nizao, lungi otto leghe da questa città di San Domenico; ed è un de' migliori di questa isola. Il contatore Alonso d'Avila ne ha un altro assai buono, otto leghe lontano da questa città, ed è su la riviera del fiume Nizao, che è una gentile e bella entrata.
Un altro assai buono n'ha Lope di Bardecia, nella medesima riviera di Nizao, nove leghe da questa città. Il licenziado Alonso Zuazo, auditor di questa audienzia regia, che in questa città risiede, ha un altro bello e ricco ingegno da far zuccari su la riviera del fiume Ocoa, sedeci leghe lungi da questa città di San Domenico; ed è una delle buone e utili cose che in queste parti siano.
Il secretario Diego cavaliero della Rosa, di piú dell'ingegno che s'è detto di sopra, che è nella riviera di Nigua, ne ha un altro assai buono 20 leghe lontano da questa città, su la riva del fiume chiamato Cepi, e presso alla terra chiamata Azua, ed è una gentile e ottima eredità.
Un altro ne ha, che è una delle buone cose dell'isola, Giacomo di Castiglione, presso alla terra di Azua, nella riviera del fiume che chiamano Bia, 23 leghe da questa città lontano.
Fernando Gorgion, cittadino d'Azua, ha un altro buono ingegno da far zuccaro vicino alla terra stessa d'Azua, che è 23 o 24 leghe lontano da questa città di San Domenico.
Nella medesima terra d'Azua fece don Alonso di Peralta un trapeto da cavalli, che doppo la sua morte restò agli eredi suoi. E questi tali edificii non sono cosí gagliardi come quelli dell'acqua, ma sono di molto prezzo, perchè quello che dovea fare l'acqua volgendo le ruote per la macina del zuccaro si fa con la vita di molti cavalli, che bisognano in tale essercizio tenere. Questo trapeto è degli eredi del Peralta (come s'è detto) e di Pietro di Eredia, che è ora governatore nella provincia di Cartagenia in terra ferma.
È medesimamente un altro ingegno, o trapeto di cavalli per dir meglio, nella stessa terra d'Azua, ed è di uno onorato cittadino di quel luogo che si chiama Martino Garzia.
In San Giovanni della Maguana, che sta 40 leghe longi da questa città di San Domenico, è un altro gagliardo e ricco ingegno, che è degli eredi d'un cittadino di quella terra chiamato già Giovanni di Leone, e della compagnia de' belzari alemanni, che ne comprò la metà.
Dentro la medesima terra di San Giovanni della Maguana sta un altro buono e forte ingegno, fondato già da Pietro di Vadiglio e dal secretario Pietro di Ledesma e dal baccelliero Moreno, che sono già morti, e restò agli eredi loro; ed è una buona e utile cosa.
Undeci leghe lontano da questa città di San Domenico, a pari della riviera e fiume che chiamano Cazui, fondò e fece Giovanni di Villoria il vecchio un buono ingegno, insieme con Hieronimo d'Aguero suo cognato: e ora è degli eredi di amendue e degli eredi anco d'Agostino di Vivaldi genovese, che hanno in questo ingegno parte.
Il medesimo Giovan di Villoria fondò e fece un altro assai buono ingegno nel fiume che chiamano Sanate, 24 leghe longi da questa città, nel territorio della terra di Higuei; ora è degli eredi suoi, ed è una ricca e buona eredità.
Il licenziado Luca Vasches d'Aillon, che fu già auditore in questa regia audienzia, e Francesco di Zavaglios edificarono un buono e forte ingegno nella terra di Porto di Plata, che è 45 leghe lungi da questa città di San Domenico, dalla banda di tramontana; e ora è posseduto dalli figliuoli del detto licenziado e dal medesimo Francesco di Zavaglios, ed è una buona cosa. Duo gentil uomini della città di Soria, chiamati Diego di Morales e Pietro di Barrio Nuovo, ora cittadini di Porto di Plata, fecero anco un buono ingegno in quella terra, che è ora una gentil cosa.
Nella medesima terra di Porto di Plata fecero, e l'hanno ora, un buon trapeto di cavalli Francesco di Barrio Nuovo, che è ora governatore in Castiglia dell'Oro in terra ferma, e Fernando di Illescas; ed è una buona pezza, e ne sono amendue possessori.
Sancio di Monastero Burgales e Giovanni di Aguillar posseggono anco nella medesima terra di Porto di Plata uno acconcio e utile e buon trapeto di cavalli.
Nella terra del Bonao, che è lontana 19 leghe da questa città di San Domenico, sta un altro buono ingegno da zuccari, che lo posseggono i figli di Michel Giover e Sebastiano di Fonte e gli eredi di Fernando di Carrione.
Il licenziado Cristoforo Lebron, che fu già auditore in questa audienzia regia, fece un altro ingegno in un gentile e commodo luogo, dove dicono l'Albero Grosso, dieci leghe lungi da questa città di San Domenico; e questo è un bello e utile ingegno, e restò doppo la morte del Lebron agli eredi suoi.
Un altro buono ingegno fanno ora nella riviera del fiume Chiabon, 24 leghe lungi da questa città, Fernando di Carvagiale e Melchior di Castro, che serà una ricca e buona cosa, per quello che se ne vede.
Intanto che, riassumendo quello che s'è detto di questi ricchi ingegni da far zuccari, concludiamo che in questa isola ve ne sono 20 gagliardi macinanti e correnti, e altri tre che macineranno in questo anno del 1535, e altri cinque trapeti da cavalli, senza alcuni altri che sempre se ne edificano; e non si sa che isola né regno alcuno, fra cristiani o fra infedeli, simile guadagno cavi dal fare de' zuccari, e le navi che qui vengono di Spagna se ne ritornano del continovo cariche di zuccari assai buoni e fini. E le spiume e meli che di loro in questa isola si perdono o si danno di grazia farebbono un'altra gran provincia ricca. E quello che è di maggior maraviglia in questi cosí grossi negozii si è che, a tempo di molti che oggi in queste parti viviamo, da 22 o 23 anni in qua, niuno di questi ingegni già detti vi era, perchè tutti in cosí breve tempo si son fatti di mano nostra, col nostro ingegno e industria. E questo basti quanto al zuccaro e agli ingegni dove si fa. Il che sia anco detto per la comparazione che io feci di sopra, di questa isola e della sua fertilità, con l'isole di Sicilia e d'Inghilterra.
Della naturale e generale istoria dell'Indie a' tempi nostri ritrovate.
Libro quinto
Proemio
Nel terzo libro di questa naturale istoria si dissero alcune cause per le quali morirono e vennero meno gl'Indiani di questa isola Spagnuola; e di questa stessa materia si replicò alquanto poi appresso nel primo cap. del quarto libro, ragionandosi della qualità di questi Indiani. Ora, perchè meglio s'intenda che questo castigo venne principalmente per li delitti e abominevoli costumi e riti di queste genti, ragioneremo d'alcuni di loro in questo quinto libro, onde si potrà facilmente raccorre e vedere la giustizia di Dio, e quanto è stato egli misericordioso con loro aspettandoli tanti secoli, poichè non è creatura che non conosca che si ritrovi un omnipotente Dio; e come disopra dicevamo, la chiesa santa teneva che in tutto il mondo fusse stato predicato il misterio della redenzione nostra, come s. Gregorio diceva, il quale resse il papato negli anni 590 e fu da 14 anni pontifice; onde, ancor che nell'ultimo anno della sua vita si fusse fornito di predicare a tutte le genti il misterio della salute umana, finchè il Colombo primieramente a queste parti venne vi corsero da 888 anni, e dal primo viaggio del Colombo fino al presente del 1535 ve ne son corsi altri 43. Di modo che dovrebbono già queste genti avere inteso quello che tanto loro importa, che è la salute delle anime, non essendo loro mancati né mancando predicatori e persone religiose che loro lo ricordino, da che le bandiere di Cristo e di Castiglia in queste parti passarono; se ben se l'avevano dimenticato, e s'insegna ora loro di nuovo.
Ma in effetti questi Indiani sono una gente assai sviata e aliena di volere intendere la fede catolica, e non è altro che un battere il ferro freddo il pensare che questi abbiano da essere buoni cristiani; e ben se gli è paruto nelle cappe o per meglio dire nelle teste, perchè cappe non portavano essi né avevano né hanno le teste come le altre genti: perciochè vi hanno cosí grosse e forti le cocche e gli ossi che il principale aviso che hanno i cristiani quando con loro combattono si è di non dar loro cortellata in testa, perchè vi si rompono le spade. Sichè, come hanno le cocche grosse e dure, cosí hanno l'intelletto bestiale e male inchinato, come si dirà appresso de' lor costumi e cerimonie e riti, e di altre cose che al medesimo proposito mi occorreranno.
Come gl'Indiani tenevano l'imagini del demonio e idolatravano; e del modo che tengono perchè le cose passate non vadino in oblivione e passino a' posteri.
Cap. I.
Dapoi che in queste Indie passai, sempre ho per tutte le vie possibili procurato con molta attenzione, cosí in queste isole come in terra ferma, di sapere per che via e modo gl'Indiani si ricordano delle cose passate e de' loro antecessori, e se hanno libri, o con che segnali non si dimenticano il passato. E in questa isola, per quello ne ho potuto intendere, le lor ballate e canzoni, ch'essi chiamano areito, sono solo il libro e il memoriale che essi hanno e che si stende e passa da generazione in generazione, come qui appresso si dirà.
E non ho in questa nazione ritrovata cosa piú anticamente dipinta né scolpita, né cosí principalmente rispettata e riverita, come l'abominevole figura del demonio, in molte e varie maniere dipinto e scolpito, con molte teste e code e con brutte e spaventevoli e canine e feroci dentature con denti grandi e smisurate orecchie e con accesi occhi di drago e di feroce serpente, e d'altre varie e differenziate maniere, che la meno spaventevole pone gran timore e maraviglia ne' cuori umani. E nondimeno è a queste genti cosí associabile e commune che non solamente il tengono figurato in una parte della casa, ma ne' banchi anco dove seggono, volendo significare che colui che siede non sta solo, ma siede insieme con l'aversario di tutti; l'iscolpiscono anco e l'intagliano in tavole e in tutte l'altre maniere che possono, e lo fanno cosí feroce e orrendo come egli è a ponto, e lo chiamano Cemi. E questo tengono per loro dio, a questo chiedono l'acqua o il sole o il grano o la vittoria contra gli inimici, e in fine ciò che desiderano, e si credono che questo Cemi dia loro quanto li piace, e appare loro di notte in guisa di fantasma.
Aveano queste genti fra loro alcuni uomini che chiamano buhiti, e che faceano l'ufficio di auruspici o d'indovini, e davano loro ad intendere che 'l Cemi era signore del mondo e del cielo e della terra, e che la sua figura e imagine era quella, cosí brutta come s'è detto, e assai piú di quello che si può né pensare né dire, ma differente sempre e di varie maniere. E questi cemi o indovini predicevano molte cose che gli Indiani credevano che fussero dovute riuscire vere in lor favore o danno, e se ben molte volte riuscivano al contrario e bugiarde, non per questo se ne perdeva il credito, perchè questi indovini davano ad intendere che 'l Cemi avea mutata fantasia, o per maggior bene o per fare la sua propria volontà. Questi erano la maggior parte grandi erbolarii, e conoscevano la proprietà e natura di molti alberi ed erbe; e perchè guarivano con tale arte molti, n'erano come santi in gran riverenza e rispetto tenuti, ed erano fra queste genti tenuti a punto come fra i cristiani i sacerdoti; onde sempre portavano con seco quella maledetta figura del Cemi, e per questo ne erano anco essi chiamati cemi, di piú dell'essere del lor nome di buhiti detti. In terra ferma non solamente ne' loro idoli d'oro, di pietra e di legno e di terra amano di porre cosí esecrabili e diaboliche imagini, ma dipingono anco questa maladetta effigie sopra le loro stesse persone, facendovele perpetue e tingendole di nero, con rompervi la carne viva e la pelle, a punto come un suggello di cosa ch'hanno impressa nel cuore e che non si dimentica lor giamai, e con diverse maniere il nominano. In questa isola Spagnuola tanto è dire Cemi quanto è quello che noi chiamiamo diavolo, e tali erano quelli che questi Indiani tenevano effigiati nelle lor gioie, e nelle parti e luoghi che si sono detti e in altri, come piú lor piaceva o pareva.
Ho io questa parte notata fra queste genti una cosa, cioè che l'arte dell'indovinare e le vanità che questi cemi davano ad intendere a' popoli erano unite con la medicina e con l'arte magica. Il che pare concordi con quello che scrive Plinio nel 30 libro della sua istoria, quando dice che, benchè sia questa arte la piú fraudolente e ingannevole di tutte l'altre, ha nondimeno avuta grandissima reputazione in tutto il mondo e per tutti i secoli, per abbracciare in sé tre arti che predominano sopra la vita umana; perchè niuno dubita che questa arte magica sia venuta e nata dalla medicina, per essere tutta piena di speranze e di promesse, abbia anco in sé avuta la forza della religione; e poi appresso con amendue queste si congiunse l'astrologia giudiciaria, la quale può molto negli uomini, perchè ognun desidera di saper le cose future, e credono che si possa per via del cielo intendere. Avendo adunque quest'arte con tre nodi legati i sentimenti degli uomini, è montata a tanta altezza che anco oggi occupa la maggior parte delle genti, e nell'oriente al re degli re comanda: e non è maraviglia, poichè ivi nacque [e] Zoroastre re de' Batriani ne fu l'inventore; sichè in queste parti s'è questa vanità assai stesa e l'hanno con la medicina unita, poichè i principali loro medici sono e sacerdoti e indovini, e questi amministrano loro le cerimonie e idolatrie lor diaboliche.
Ma passiamo alla seconda cosa che nel titolo di questo capitolo si propose, che fu delle ballate o areiti loro. Avevano queste genti un modo di ricordarsi le cose passate e antiche, ed era con le ballate e canzoni loro, che essi chiamano areiti, che è a punto quello che noi altri diciamo ballare cantando. Scrive Livio nel settimo libro della prima deca, che di Toscana vennero i primi ballatori in Roma, e accordavan la voce co 'l moto del corpo: e vi furono chiamati perchè si dimenticasse l'affanno passato per la pestilenzia, in quello anno che Camillo morí. Dico questo perchè doveva essere il ballo e canto loro come questi areiti degl'Indiani, che a questo modo li facevano. Quando volevano prendersi piacere, celebrando fra loro qualche solenne festa, si ragunavano insieme molti Indiani e Indiane, e qualche volta gli uomini solamente e qualche volta solo le donne; ma nelle feste generali, come per qualche vittoria avuta o per l'accasamento del caciche o re della provincia o per altra simile cagione che il piacere fusse generalmente di tutti, e uomini e donne vi si ritrovavano mescolati insieme. Qui, per fare maggiore la loro allegrezza e piacere, alle volte si prendevano tutti per mano alle volte braccio con braccio, e facevano di molti presi a questo modo un cerchio intorno, e uno di loro, toltosi l'ufficio di guidar gli altri (ed era ora un uomo ora una donna), dava certi passi innanzi e a dietro a modo d'un contrapasso, bene ordinato, e a questo modo giravano intorno cantando, in quel tuono o alto o basso che la guida l'intonava; e questo numero de' passi andava molto misurato e concertato con le parole o versi che cantavano. Quel primo che guidava la danza diceva, e poi tutti gli altri replicavano cantando quello istesso, movendo e la voce e il passo a quella stessa misura che avevano veduto fare il primo; il quale, quando gli altri rispondevano, si taceva, ma moveva con loro i piedi. Finito che avevano tutti di replicare ballando quello che inteso avevano, tosto la guida con un altro verso e parole seguiva, e tosto anco poi gli altri a quel modo stesso lo replicavano. E di questo modo durava la ballata tre e quattro ore e piú, finchè il maestro della danza aveva fornita quella sua istoria, e alle volte durava anco da un dí all'altro. E qualche volta con la voce mescolavano anco il suon di un tamburo, che è fatto d'un pezzo sodo di legno ritondo e concavo, e grosso quanto è un uomo, e piú e meno secondo che piú lor piace di farlo, e ha un suono come l'hanno i tamburi sordi co' quali suonano i neri; ma non vi pongono però cuoio alcuno, ma vi fanno certi buchi e segni o linee, che trapassano fino al voto di dentro, onde di mala grazia ribombano. E con questo tristo istromento, o senza esso, dicono e replicano nelle lor ballate le memorie e istorie passate loro, perchè a questo modo referiscono di che modo morirono i cacichi passati, e quanti e quali furono, con altre cose che essi non vogliono che si dimentichino. Si cambiano alle volte que' maestri delle danze, e mutando il suono e il passo seguitano la medesima istoria, o pure un'altra, se la prima è fornita, e nel medesimo suono o in un altro. Questa maniera di balli si somiglia alquanto alle danze de' contadini, quando la primavera in alcuni luoghi di Spagna si prendono a questa guisa, e gli uomini e le donne sollazzano con cembali. E io ho in Fiandra veduto uomini e donne in molti cerchi cantare ballando, e rispondendo ad uno che guidava gli altri, ed era il primo a cantare nel modo che s'è detto di sopra. Nel tempo che 'l commendatore maggiore fra' Nicola d'Ovando governava questa isola, fece davanti a lui uno arieto l'Anacaona, che fu moglie del caciche Caonabo, la quale fu gran signora: e andavan in questa danza piú di 300 donzelle, tutte create sue e non ancora maritate, perchè non volle che nel ballo entrasse uomo alcuno, né donna che avesse conosciuto uomo.
Si che, ritornando al proposito nostro, questa maniera di cantare, in questa e nell'altre isole e in terra ferma anco, è una istoria o un ricordo delle cose passate, cosí di guerra come di pace; perchè, col continuare queste canzoni, non si vengono a dimenticare i gesti e l'altre cose accadute, che restano impresse nelle memorie loro in vece di libri. Per questa via recitano le genealogie de' loro cacichi e signori, e i gesti e l'opere loro, con li buoni o cattivi tempi che passati hanno, e altre cose che essi vogliono che si sappiano da' piccoli e da' grandi, e che non vadano in oblivione; e spezialmente le famose vittorie avute in battaglia. Ma di questa materia degli areiti si dirà piú a lungo appresso, quando si ragionerà della terra ferma, perchè quelli che io viddi in questa isola, ora sono 20 anni o piú, non mi parvero cose cosí da notare come quelli che io viddi prima e che ho veduti poi farsi in terra ferma.
E non paia al lettore che questo che io ho detto sia cosa molto selvaggia e strana, perchè in Spagna si usa il medesimo e in Italia, e nella maggior parte de' cristiani penso che debbia farsi cosí. Perciochè altra cosa sono li romanzi o canzoni che si fondan sopra cose vere, se non una parte dell'istorie passate? Almen, fra coloro che non sanno leggere, per via di canzoni si sa che, stando il re con Alfonso nella città di Siviglia, li venne in cuore d'andare ad assediare Algezira, perchè cosí si canta in una canzone; e cosí fu nel vero, che da Siviglia partí il re don Alfonso II quando quel luogo guadagnò, e fu a' 28 di marzo del 1344, di modo che ha 189 anni che questa canzone o areito dura. E per un'altra canzone si sa che il re don Alfonso VI fece corte in Toledo, per compire di giustizia al Cid Ruidas e alli conti di Carione. Questo re Alfonso VI morí il primo di luglio nel 1106; sí che son passati fino ad ora 429 anni, ed erano state già prima le contese delli conti di Carion e del Cid, e fino ad oggi dura questa memoria o canzone. Per un'altra canzonetta si sa anco che il re don Sancio di Leone, primo di questo nome, mandò a chiamare Fernan Gonzales suo vassallo perchè venisse alla corte di Leone: questo re don Sancio prese il regno nel 924 della salute nostra e regnò 12 anni, di modo che morí nel 936, e sono fino ad oggi piú di 597 anni che questo areito o canzone di Spagna dura.
In Italia anco si canta una canzonetta che dice: "Alla mia gran pena e forte, dolorosa, afflitta e rea, diviserunt vestem meam, et super eam miserunt sortem". E la compose il re Federigo di Napoli nel 1501, che perse il regno, perchè contra lui s'unirono, e toltogli il regno se lo divisero insieme, il re catolico di Spagna e il re Luigi di Francia, che fu predecessore del re Francesco che oggi vive; questa canzone ha che si canta 34 anni, e non si dimenticherà di molto altro tempo. Nella prigione del medesimo re Francesco si compose un'altra canzone o areito che dice: "Re Francesco, mala guida, dalla Francia voi portaste, poi che qui prigion restaste, di Spagnuoli presso a Pavia". E pur cosa nota è che questo passò cosí in effetto, che, stando il re Francesco di Franza con ogni suo sforzo sopra Pavia, fu in battaglia vinto e fatto prigione, col fiore della Francia, a' 24 di febraro del 1525 dal valoroso capitano il signor Antonio di Leva, e dall'essercito imperiale che lo soccorse. Sí che questa ballata o arieto è tale che a guisa d'una istoria farà sempre chiara una cosí gloriosa vittoria, per accrescere i trofei della maestà cesarea e de' suoi Spagnuoli; e mentre durerà il mondo e dai fanciulli e dai vecchi si canterà sempre questa canzone.
E di questo modo ne vanno oggi molte altre simili per tutto, che si cantano e si sanno da quelli anco che non sanno leggere; sí che bene fanno gl'Indiani a fare in questa parte il medesimo, poichè, non avendo lettere, suppliscono ad una lunga fama con queste ballate. Mentre che presso di loro queste ballate e canzoni durano, vanno alcuni altri Indiani e Indiane intorno, dando a bere a' ballatori, senza fermarsi però la danza: e bevono certi beveraggi che fra loro si usano, onde finita la festa restano la maggior parte di loro ebri e gittati per molte ore per terra; di modo che questa stessa ebrietà è quella che impone fine alla ballata. E questo è quando l'areito è solenne, perchè altramente bevono senza imbriacarsi. E cosí, chi per una via chi per un'altra, tutti sanno questo modo di istoriare, e alle volte alcuni, che fra loro sono riputati savii e di migliore ingegno in questa parte, ritrovavano da se stessi altre canzoni e danze, a quelle nondimeno simili.
La forma del tamburo, che s'è detto di sopra che suonano, è quella che qui dipinta si vede, e lo fanno d'un troncone d'albero ritondo, e cosí grosso quanto vogliono farlo; ed è questo tamburo da tutte le sue parti rinchiuso, fuori che dalla parte opposita a quella donde lo suonano, e vi danno con un bastone sopra quelle due lingue che del medesimo legno vi restano, come nella prima figura si vede. L'altro nero che è nella seconda figura è la parte opposita, per donde lo lavorano e fanno vacuo dentro; e questa banda del vacuo ha da star volto e posto in terra, l'altra banda che s'è detta prima ha da stare volta in su, e qui battono col bastone. È il vero che in alcuni luoghi tengono questi tamburi assai grandi, e in altri luoghi minori e bucati e coverti con un cuoio di cervo o di altro animale; ma perchè in queste isole non vi erano animali da potere coprire di cuoio, gli usavano nel modo che s'è già detto. E in terra ferma si usano oggi e di questi e di quelli, come si dirà nel suo conveniente luogo.
Delli tabacchi o suffumigii che costumavano gl'Indiani in questa isola Spagnuola, e della maniera de' letti loro dove dormono.
Cap. II.
Usavano gl'Indiani di questa isola, fra gli altri loro vizii, un costume molto cattivo: ed era questo, che prendevano certi fumi per il naso, che loro chiamano tabacco, per uscire dei sentimenti. E lo facevano col fumo d'una certa erba che, per quello che n'ho potuto intendere, è della qualità dell'iusquiamo; non già della fattezza o forma dell'iusquiamo istesso alla vista, perchè questa erba ha un piede di quattro o cinque palmi alto, e ha le foglie larghe e grosse e molle e pelose, e il suo verde pende alquanto al colore della buglossa. Questa erba che io dico, quanto all'effetto, non è altro che una spezie di molto simile all'iusquiamo, e di questa maniera la prendano, o per dir meglio il fumo di lei: i cacichi e persone principali aveano certi bastoncelli bucati e della grandezza d'una spanna, e fatti a questo modo, perchè da una parte ha duo cannoncelli che amendue rispondono ad uno, e sono tutti d'un pezzo.
Li duoi buchi dell'una banda si ponevano alle narici del naso, e il buco opposito ponevano nel fumo di quella erba posta al fuoco ad ardere; e per questa via attraevano a sé il fumo, e lo facevano una e due e tre e piú volte, quanto piú potevano durarvi, finchè restavano senza sentimenti, stesi per gran spazio di tempo in terra, addormentati d'un grave e profondo sonno. Gli altri Indiani, che non potevano avere que' bastoncelli concavi, s'attraevano nel naso quel fumo con certi calami o cannuzze sottili da fare graticchie. E questi stromenti co' quali prendono il fumo è chiamato tabacco dagl'Indiani, e non l'erba o il sonno che nasce, come credevano alcuni.
Tenevano gl'Indiani questa erba per una cosa molto pregiata, e la piantavano e facevano crescere ne' lor giardini e poderi, per l'effetto che s'è detto, dandosi ad intendere che questo suffumigio non solamente fusse cosa sana, ma santa anco. Or, tosto che il caciche o altro principale cade in terra, è preso dalle sue mogli (che sono molte) ed è gittato in sul letto, s'egli l'ha però comandato prima; perchè, s'egli nol disse avanti, vuol che lo lascino stare a quel modo fin che passi quello alloppiamento, e che si digerisca il vino e il fumo.
Io non so pensare che piacere si cavi da questo atto, se non è la gola del bere fino a tanto che si dia di spalle in terra. So ben questo, che alcuni cristiani l'usavano, e quelli spezialmente che erano afflitti dal mal francese, che solevano dire che, mentre a quel modo alloppiati stavano, non sentivano il dolore della loro infermità. Ma a me non pare altro se non che chi questo fa sta morto in vita: il che tengo io per peggio che non il dolore che fuggire vogliono, poichè non per questo ne guariscono. Al presente molti neri di quelli che stanno in questa città e nell'isola hanno preso questo costume, e fanno crescere a questo effetto questa erba ne' poderi de' loro padroni, e poi si tolgono i medesimi fumigii, e dicono che quando escono dalle loro fatiche e si fanno questi tabacchi lasciano ogni stanchezza via. A questo mi pare che si confaccia un vizioso e cattivo costume delle genti di Tracia, perchè (come scrive l'Abulensi sopra Eusebio) questi popoli, tanto gli uomini quanto le donne, hanno per costume di mangiare d'intorno al fuoco; e amano molto d'essere o di parere imbriachi; e perchè non hanno del vino, tolgono il seme d'alcune erbe che sono fra loro e le pongono su le bragia, perchè ne esce un tal odore che, senza altro bere, ne diventano ebrii quanti presenti vi si ritrovano. Il che al parer mio è una cosa istessa con questi tabacchi degl'Indiani.
Ma perchè s'è detto di sopra che, quando alcun principale o caciche cade in terra per questo tabacco, vien tosto posto sul letto, se esso l'ha comandato prima, è ragionevole cosa che noi diciamo che maniera di letti gl'Indiani hanno in questa isola. Essi in questa maniera gli hanno e costumano come qui si vede, perchè non è altro il loro letto che o una manta in parte tessuta in parte aperta e fatta a scacchi, o a modo di una rete perchè piú fresco sia, e la fanno di bombage o cottone; è lunga due canne e mezza o tre e larga quanto essi vogliono, e l'estremità di questa manta o tapedi stanno legate con molte fila di cabuia o di henechen (de' quali si parlerà nel decimo capitolo del settimo libro). Queste fila sono lunghe, e sono congiunte e legate nelle estremitadi o capi della hamaca (che cosí questo letto chiamano)
con un trafilo ben fatto, come si suol fare nella cocca trafilata d'una corda di balestra: e cosí la guarniscono, e la legano poi a due arbori con due corde di cottone o di cabuia ben fatte e forti, che le chiamano hico (perchè hico vuol dire la fune in lor lingua), e cosí resta il letto sospeso nell'aere, tanto alto da terra quanto piace loro di porlo. E perchè la contrada è temperata, non bisogna provedere d'altra coperta per sopra, salvo se stessero presso qualche alta montagna e vi facesse fresco. Perchè sono questi letti larghi, e gli attaccano e suspendono lenti, perchè piú morbidi e piacevoli siano, sempre v'avanza della medesima hamaca, che chi vuole starne coperto di sopra può addoppiarvela. Ma quando essi dormono in casa si servono degli stanti o posti della casa invece degli alberi per suspendere questi letti, e se fa freddo vi pongono o carbone o bragia di sotto o quivi presso. Però in effetto, a chi non è uso di simili letti, non piacciono molto, salvo se non sono molto larghi: perchè la testa e i piè di chi vi dorme vengono a stare in alto, e i lombi e la schiena a basso, che è una cosa molto disagiata. Ma quando sono ben larghi si può la persona coricare nel mezzo di loro per traverso, e cosí vengono a stare ugualmente tutte le membra.
Per dormire in campagna, e massimamente dove sono alberi per attaccarli, mi pare che questa sia la miglior maniera di letti che possa essere, perchè questa manta che s'è descritta e serve per letto è portatile, e un garzone la porta sotto il braccio: e non sarebbono poco giovevoli usandoli negli eserciti in Spagna, in Italia e negli altri luoghi del mondo, perchè non morrebbono tante genti l'inverno e ne' tempi tempestosi quanti ne muoiono per dormire in terra. E in queste Indie li portano gli uomini da guerra dentro della havas, ceste o serrate, come si dirà appresso, che si fanno delli bihaos, e a questo modo vanno ben conservati e netti, e le genti non dormono stese in terra come negli alloggiamenti di cristiani si fa in Europa, in Africa e nelle altre parti. Che se qui questo non si facesse, per essere la terra molto umida, questo sarebbe maggior pericolo per la vita degli uomini che non sarebbe la guerra istessa.
De' matrimonii degli Indiani, e quante mogli hanno, e della lor libidine; e in che gradi non prendono moglie, e con che religione raccolgono l'oro, con altre cose notabili.
Cap. III.
Essendosi nel precedente capitolo detto della forma de' letti degl'Indiani di questa isola, dicasi ora del matrimonio che usavano: benchè in effetto questo atto, che noi cristiani teniamo per sacramento, come egli è, si possa dire essere a presso questi Indiani un sacrilegio, poi che non può essere detto per loro "quos Deus coniunxit homo non separet". Che anzi si dee credere che il demonio costoro congiunga, tale è la forma che in questo servano; perchè in questa isola ciascuno aveva una moglie sola (se non ne poteva sostentare piú), ma molti n'avevano due e piú, e i cacichi tre e quattro e quante ne volevano, e il caciche Beheccio ebbe 30 mogli proprie; e non solamente l'avevano per l'uso del congiungimento, che sogliono i mariti naturalmente servare con le mogli loro, ma per altri nefandi anco e bestiali usi e peccati, perchè il caciche Goacanagari aveva certe mogli con le quali si congiungeva nel modo che sogliono fare le vipere. Or vedete che abominazione inaudita; e che le vipere questa proprietà e uso abbiano lo dicono Alberto Magno, Isidoro e Plinio; ma erano peggiori che vipere coloro che a queste bruttezze si lasciavano trascorrere, poi che alle vipere non ha la natura altra via da generare concessa, e vi vengono come forzate a cosí fatto atto; sí che non è maraviglia se tali vipere in vista umana hanno cosí gran castigo avuto dal grande Iddio.
Se di questo caciche adunque tal fama vola, bisogna che degli altri suoi anco si dica il medesimo, perchè i popoli e nel vizio e nella virtú sono atti ad imitare tosto il prencipe; onde di maggior castigo è degno l'inventor di qualche peccato che non l'imitatore, come all'incontro suprema gloria merita colui che è di qualche virtuoso atto autore. Egli è cosa assai publica questa che ho detto, cosí in queste isole come in terra ferma, ne' quali luoghi molti Indiani e Indiane erano sodomite, e si presume che ve ne siano anco oggi molti. E non solamente non se ne vergognano, ma se ne pregiano, e come l'altre nazioni portano attaccato al collo alcune gioie d'oro e di pietre preziose, cosí in alcuni luoghi di queste Indie portano per pendente e per un gioiello appeso al collo la effigie di duo uomini l'uno sopra l'altro in quel nefando atto sodomitico fatti d'oro; e io ho veduto un di questi gioielli diabolici d'oro che pesava poco meno di venti pezi di oro, ed era vacuo di dentro e ben lavorato, e s'ebbe nel porto di Santa Marta nella costiera di terra ferma nel 1514, quando toccò quivi l'armata con la quale passò Pedrarias in terra ferma; e perchè portarono una gran quantità d'oro che quivi ebbero a farlo fondere dinanzi a me, come ufficiale regio sopra il fondere dell'oro, io spezzai di mia mano con un martello quella disonesta effigie nella città del Darien. Sí che vedete se chi di tali gioie si pregia si vergognerà d'usare una tanta disonestà, e se è cosa nuova fra gl'Indiani, o piú tosto cosa ordinaria e comune fra loro.
Anzi io dico che colui che prende fra loro il luogo di paziente in quel bestiale atto, riceve anco tosto ufficio donnesco, e come donna ne porta le nague, che sono un fazzuolo di cottone che le donne di questa isola, per coprire le lor vergogne, si ponevano dalla cintura fino a mezze gambe; e le donne principali le portavano fino a' talloni, ma le donzelle vergini, come s'è detto altrove, niuna parte del corpo si coprivano, come né anco gli uomini, che non sapendo che cosa è vergogna non si curavano d'altra coverta.
Ritornando al proposito nostro, questo abominevole peccato s'usava molto fra gl'Indiani di questa isola, ma era molto dalle donne aborrito, per l'interesse loro piú che per scrupolo alcuno di conscienzia, benchè ne fussero alcune buone di lor persona, come che in questa isola erano le maggiori vigliacche e le piú disoneste e libidinose donne che si siano in tutte queste Indie vedute. Dico che erano buone e amavano i loro mariti, perchè quando qualche caciche moriva alcune delle sue mogli di loro volontà propria si facevano vive co' lor morti mariti sepelire, e si facevano porre nella sepoltura acqua e di quel pane che esse mangiavano con alcuni frutti. E quando queste mogli da se stesse non vi s'inducevano, erano loro malgrado forzate andare vive a sepelirvisi, come avenne a punto in questa isola quando morí il caciche Behechio, che era gran signore, e due delle moglie sue forzate furono vive col marito sepolte. Benchè questo costume non fusse generale per tutta l'isola, perchè nella morte degli altri cacichi non si costumava questo; ma doppo che era il caciche morto l'infasciavano tutto con certe bende di cottone intessute come cinte molto ben lunghe, e l'avolgevano a questo modo bene stretto dal capo al piè, e fatto un fosso ve lo ponevano dentro, e con lui le sue gioie e l'altre sue cose piú care. E facevano in quel fosso una volta di legni acciochè la terra nol toccasse, e postovi dentro il morto a sedere in un scanno ben lavorato, coprivano poi di sopra di terra. E 15 o 20 dí duravano le essequie che con lor canti gli facevano gl'Indiani suoi, con molti altri de' convicini, e vi venivano ad onorarlo gli altri cacichi e principali dell'isola, fra li quali stranieri si compartivano i beni mobili del re defunto. In quel cantare che facevano narravano l'opere e la vita del morto, e le battaglie che vinte aveva, e come aveva ben retto il suo regno, con l'altre sue cose degne di memoria. E cosí, dall'approbare che allora delle sue opere si faceva, si componevano gli areiti e canzoni che dovevano restare per istoria, come s'è detto di sopra nel primo capo di questo libro.
Ma perchè s'è di sopra tocco d'Anacaona, è ben che si sappia come tutta la bruttezza e libidinosa fiamma della lussuria non regnò negli uomini solamente di questa contrada, ma nelle donne anco. Questa donna ebbe qualche conformità con quella Semiramis reina degli Assirii, ma non già nei gran gesti che di [lei] Giustino scrive, né in fare ammazzare molti co' quali si congiugneva, né in fare andare assai onestamente le sue donzelle vestite, come il Boccaccio di questa reina dice, perchè Anacaona né voleva cosí oneste le sue create, né desiderava la morte agli adulteri suoi; ma le si rassomigliò in molte altre sozzure di lussuria. Questa Anacaona fu moglie del re Caonabo e sorella del re Beheccio, e fu molto dissoluta; e tanto ella quanto l'altre donne di questa isola, benchè fossero con gl'Indiani buone, si davano non di meno facilmente in preda de' cristiani, non negando mai lor le loro persone. Ma questa cacica, doppo la morte di suo marito e fratello, usò ogni maniera di libidine, perchè restò in tanto rispetto e riverenzia di tutti quanto fossero mai stati rispettati e riveriti il marito o il fratello, e tanto si faceva quanto ella comandava; e visse nella signoria del fratello nella provincia di Sciaragua, posta nell'ultimo di questa isola verso ponente.
Benchè avessero i cacichi sei e sette mogli, una era però la principale e la piú cara, e benchè mangiassero tutte insieme e vivessero sotto un tetto presso al letto del marito tutte, non era però fra loro mai differenzia né lite alcuna; il che pare impossibile cosa e non concessa se non alle galline e alle pecore, che con un solo gallo e con un solo montone vivono molte di loro, senza mostrare gelosia alcuna né mormorare. Fra le donne adunque questa è cosa rara, e fra tutte le nazioni non si serva questo costume se non fra queste Indiane e le donne di Tracia, le quali due nazioni si conformano anco in molte altre cose, come si dirà appresso. Ritornando al proposito, fra le molte mogli d'un caciche sempre ve ne era una principale e piú cara, senza mostrare però signoria alcuna sopra l'altre. E di questo modo era questa Anacaona in vita di suo marito, e doppo la morte di lui restò signora assoluta e molto dai suoi rispettata, ma molto disonesta nell'atto venereo con cristiani: e per questo fu riputata la piú dissoluta donna dell'isola, benchè con tutto questo fosse di grande ingegno, e si sapesse fare servire, rispettare e temere.
Ho detto di sopra che le donne di questa isola erano con li loro uomini continenti e a' cristiani facevano volentieri di se stesse copia; e perchè usciamo pure da questa sozza materia, non mi pare di tacere un religioso atto che questi Indiani servavano di castità con le mogli loro per qualche giorno, non per ben vivere ma per raccorre l'oro; nel che mi pare che essi imitassero le genti d'Arabia, dove quelli che raccolgono l'incenso non solamente dalle donne s'allontanano, ma sono del tutto e per tutto casti. Il primo admirante don Cristoforo Colombo, come catolico e buon capitano, doppo che ebbe notizia delle minere di Cimbao e vidde che gl'Indiani raccoglievano l'oro nell'acqua senza cavarlo, con la cerimonia e religione che s'è detta, non lasciava andare i cristiani a raccorlo senza confessarsi e comunicarsi prima; e diceva che, poi che gl'Indiani stavano venti dí lontani dalle donne loro e digiunavano prima che andassero a raccorre l'oro, e dicevano che quando con donne si ritrovavano non ritrovavano oro, che era ben giusto che anche essi s'allontanassero dal peccato e si confessassero, perchè stando in grazia d'Iddio averebbono piú compiutamente avuti i beni temporali e gli spirituali. Ma non piacea questa santimonia a tutti, e dicevano che quanto alle donne ne erano piú lontani che gl'Indiani, perchè le tenevano in Spagna, e quanto al digiunare molti cristiani si morivano di fame e mangiavano radici d'erbe e altre simili cose; e quanto alla confessione, che non v'erano dalla chiesa astretti piú che una volta l'anno la Pasqua, e che alcuni anco piú volte l'anno si confessavano. Ma l'admirante non dava a niun modo licenzia d'andare alle minere dell'oro se non a quelli che confessati e comunicati v'andavano, e tutti gli altri che senza sua espressa licenzia v'andavano li castigava.
Gli stati e regni di questi cacichi (come io ho voluto esserne informato da molti) s'ereditavano dal primogenito, nato da qualunque delle mogli dal re; ma se aveniva che questo primogenito fosse morto senza figliuoli, non ricadea lo stato al figliuol del fratello, ma al figliuolo o figliuola della sorella, se l'aveva avuta; perchè dicevano che questo nepote era piú certo erede, poichè era nato della sorella, che non quello che fusse nato della cognata, e come piú vero e certo nepote appresentava il tronco e la radice del sangue. Né mi pare che questa sia molta bestialità o errore, massimamente in paese dove le donne erano cosí disoneste e cattive; e gli uomini, ancorchè fussero peggiori di loro, avevano nondimeno generalmente un virtuoso costume nel maritarsi, perchè per niun conto prendevano per moglie né carnalmente conoscevano la madre, la figliuola o la sorella loro. In tutti gli altri gradi, o essendo moglie o non essendo moglie, licenziosamente con loro si giacevano.
Il che pare cosa maravigliosa in gente cosí disordinata e inclinata al vizio della carne, poichè fra cristiani in altre parti del mondo s'è qualche volta questa legge rotta, e non meno fra gentili ed ebrei; come si legge d'Amon e di Tamar, che erano amendue figliuoli del re David, e come si legge dell'imperator Caligula, che si giaceva con due sue sorelle, e di una di loro ebbe una figlia, la quale vogliono alcuni che anco violasse. De' Parti si legge medesimamente che senza rispetto alcuno si giacessero con le figliuole, con le sorelle e con ogni altra donna stretta o lontana di sangue; de' Garamanti anco si legge che tenevano per l'uso venereo tutte le donne communi senza distinzione alcuna: sí che non è da maravigliare se questa gente selvaggia di queste Indie in simile errore si ritrovasse.
Ma per quello che io ho letto, mi pare che le genti di Tracia siano piú che altre conformi al costume di questi Indiani quanto al tenere molte mogli e quanto al morire volontariamente coi mariti loro; perchè in Tracia quelle che piú amavano i mariti si gettavano nel fuoco ad ardere co' corpi di quelli, e quella che questo non faceva era tenuta per donna che non avesse al marito servata castità; e già s'è detto che in queste Indie alcune donne si sepeliscono vive co' loro morti mariti. Le genti di Tracia sacrificavano gli uomini stessi, e delle ossa delle teste loro fanno vasi per bere sangue e altre bevande; Isidoro dice che questa è una cosa favolosa, ma io penso che egli non n'avrebbe dubitato se avesse saputo quello che noi sappiamo dei Caribi in queste isole e delle genti della Nuova Spagna e delle provincie di Nicaragua e d'altre molte parti di terra ferma, dove per un continuato uso sacrificano uomini, e cosí mangiano communemente carne umana, come si mangia in Francia, in Spagna e in Italia carne di castrato o di vacca.
Ma lasciando questo per quando serà tempo di dirne a lungo, e ritornando all'errore degl'Indiani quanto alle mogli, dico che, poichè si sono ritrovati al mondo chi in simili errori incorsi siano, di conoscere la propria figliuola o sorella, mi maraviglio come questi Indiani selvaggi, colmi di tanti altri vizii, in questo di giacersi con la madre o sorelle o figliuole si siano saputi astenere. Né s'ha però da pensare che per atto alcuno virtuoso lo lasciassero, ma solo perchè per cosa certa tengono che colui che con sua madre o figliuola o sorella si giace di mala morte muoia; e questa opinione in loro fissa si dee credere che la sperienzia insegnata lor l'abbia. Né mi maraviglio che essi in questi errori e altri maggiori incorressero, poichè non conoscono il vero Iddio e adorano il demonio in varie forme e idoli, come s'è detto di sopra, sotto il nome di Cemi, dipingendolo e intagliandolo cosí orrendo e brutto come lo sogliono i cristiani dipignere a piè di s. Michele o di s. Bernardo; ma nol dipingono essi legato in catene né riversato in terra, ma in forma di riverenzia, alle volte assiso in un tribunale, alle volte in piè, e d'altre varie maniere. Queste infernali effigie tenevano nelle case loro e in certi altri luoghi oscuri e deputati per farvi le loro orazioni, perchè v'andavano ora a chiedere acqua per li loro campi e poderi, ora buona entrata de' frutti della terra, ora la vittoria contra loro nemici, e cosí ogni altra loro necessità. E dentro in quel luogo stava un Indiano vecchio, che rispondeva loro conforme alla lor dimanda e volere; e si dee pensare che in costui, come in suo ministro, entrasse il demonio e parlasse per la sua bocca. Per essere il demonio vecchio e antico astrologo, rispondeva al popolo e diceva il dí che doveva piovere e altre cose che per via della natura procedono; onde erano questi vecchi in gran riverenzia e riputazione tenuti e come sacerdoti e prelati. E questi erano quelli che piú ordinariamente quelli tabacchi e fumigii prendevano, e doppo che in sé ritornavano dicevano s'era bene a fare la guerra o a differirla. E in effetto, senza intenderne il parere del demonio per queste vie che si sono dette, non facevano né impresa né cosa altra alcuna d'importanzia.
L'esercizio principale degl'Indiani di questa isola, quando non avevano da guerreggiare e vacavano dalla agricoltura, era il mercatantare e il cambiare una cosa per un'altra, ma non già con l'astuzia de' mercatanti nostri, che chiedono il doppio di quel che la cosa vale e vi fanno molti giuramenti e spergiuri, perchè gli uomini semplici glielo credino; anzi, costoro tutto al riverso facevano, senza mirare né alla valuta né al prezzo della cosa, ma al contentamento lor solo, onde per lor passa tempo davano quello che valea cento per quel che non valea dieci né cinque; e accadette che i nostri davano loro per vestirsi un bel saio di seta o di grana o d'altro fino e buon panno, ed essi indi a poco spazio di tempo lo cambiavano e lo davano per un ago o per un paio di spilletti; e cosí per questa via tutte l'altre cose commutavano, e tosto quello che avevano ritornavano a rivenderlo per un altro simile modo, senza avere rispetto che piú o meno valesse, perchè l'intento loro principale si era il fare di sua volontà e non essere in cosa alcuna costanti.
Il maggior peccato e che piú gl'Indiani di questa isola aborrivano e con maggior rigorosità punivano era il furto. Onde era appresso di loro il ladro, per ogni picciola cosa che rubata avesse, impalato vivo, come si dice che si fa in Turchia; ed era lasciato a quel modo infilzato in un palo finchè moriva. Per la crudeltà di cosí fatta pena poche volte accadeva che simile errore e castigo fra loro si ritrovasse; e se pure si offriva il caso, non si dissimulava né perdonava tal delitto per niun conto, né vi giovava parentela o amistà; anzi tenevano quasi per un grande delitto intercedere per un ladro o procurare che si perdonasse o commutasse la pena di tal errore.
Già s'è dato bando a Satana da questa isola, ed è tutto questo di che s'è ragionato venuto a fine e mancato, con essere mancata e fornita la vita degl'Indiani; perchè quelli che v'avanzano sono assai pochi, e sono o nel servigio o nella amistà de' cristiani. Alcuni fanciulli di questi Indiani potrà essere che si salvino, essendo battezati e servando la fede catolica. Ma che diremo di coloro che, essendo cristiani, andavano alquanti anni a dietro ribellati fuggendo per le montagne col caciche don Enrico e altri principali Indiani, non senza gran vergogna e danno de' nostri che questa isola abitavano? E perchè questo è un passo notabile, e s'attende ora con molta attenzione al rimedio, ragionerò nel capitolo seguente di questa materia, perchè meglio la origine di questa ribellione s'intenda, e a che fine l'ha ridotta il Signore Iddio, con la clemenzia della maestà cesarea dell'imperator nostro.
Della ribellione del caciche don Enrico, e per che cagione vi si mosse, e della ribellione de' neri.
Cap. IIII.
Fra gli altri cacichi ultimi di questa isola Spagnuola ve n'è uno chiamato don Enrico, il quale è cristiano, battezato, e sa leggere e scrivere e parla bene nella lingua castigliana, perchè fu dalla sua fanciullezza allevato e dottrinato dalli frati di s. Francesco; e nel principio mostrava dovere riuscire catolico, e dovere nella fede cristiana perseverare. Quando egli fu poi d'età si maritò, e serviva con le sue genti ai cristiani nella terra di San Giovanni della Maguana, dove era luogotenente dell'admirante don Diego Colombo un gentiluomo chiamato Pietro di Vadiglio, persona oziosa nel suo ufficio di giustizia, poichè per sua cagione la ribellione di questo caciche nacque. Il quale caciche andò a querelarsi d'un cristiano, del quale aveva gelosia o sapeva che avesse a fare con sua moglie; ma questo giudice non solamente non castigò il delinquente, ma oltraggiò anco il querelante e lo tenne senza altra causa prigione; e dopo che l'ebbe bene minacciato con alcune parole discortesi lo liberò. Il caciche se ne venne a questa regia audienzia che in questa città di San Domenico risiede, e si querelò di questa ingiustizia, e fu perciò provisto che se gli facesse giustizia; ma non gli fu fatta, perchè fu rimesso al medesimo Pietro di Vadiglio che l'aveva prima aggravato, e che poi maggiormente l'aggravò, perchè lo pose di nuovo in prigione e lo trattò peggio che prima. Di modo che l'Enrico prese per partito di soffrirsi e di dissimulare le sue ingiurie e vergogne per allora, per potere vendicarsi poi, come fece, contra altri cristiani che niuna colpa v'avevano.
Essendo adunque stato lasciato libero, serví alquanti giorni quietamente, finchè diede effetto alla sua ribellione; e quando gli parve il tempo (che fu nel 1519) si ribellò e andossene alla montagna, con tutti quelli Indiani che puoté adunare insieme e al suo volere tirare, e se n'andò per li monti che chiamano del Beonico e per altri luoghi di questa isola presso a tredeci anni. Nel qual tempo uscí alcune volte di traverso su le strade con le sue genti, e ammazzò alcuni cristiani, e rubandoli tolse loro alcune migliaia di ducati d'oro. E alcune altre volte, dopo d'aver morti alcuni altri, fece di molti danni nelle terre e ne' campi dell'isola; e si spesero molte migliaia e migliaia di scudi per averlo nelle mani o ritrovarlo, e non fu possibile mai, fino a poco tempo fa; perchè egli andò di sorte e per tali luoghi che non si lasciò mai prendere. Il che pare che sia stata molta viltà degli uomini che ora abitano questa isola, poichè chiaro sta che, quando ella era abitata da tanti Indiani che non vi era numero, fu tutta soggiogata e vinta da trecento Spagnuoli e meno.
Ma io dirò quello che ne è stato cagione. Quando i cristiani, essendo pochi, vincevano gl'Indiani, che erano molti, dormivano sopra le targhe con le spade al fianco e stavano sempre vigilanti col nimico, là dove ora dormano in buoni e delicati letti, volti tutti al guadagno de' zuccari e delle altre cose che hanno lor del tutto occupata la memoria, e tolto di potere attendere al castigo di questi Indiani ribelli con quella diligenzia e attenzione che si richederebbe. E pure non ne dovevano far poco conto, veggendo che con loro si congiungevano alcuni neri, de' quali, per cagion di questi ingegni di zuccaro, è tanta copia in questa isola che pare a punto che stiamo in Guinea, terra di neri. Onde, se l'admirante don Diego Colombo nell'anno 1522 non era cosí presto a rimediare alla ribellione de' neri, che nel suo ingegno da zuccari ebbe principio, certo che avrebbe potuto essere che fusse stato bisogno di conquistare questa isola di nuovo, perchè non v'avrebbono lasciato cristiano in vita.
Ma, ritornando al caciche Enrico, la cesarea maestà e quelli del suo consiglio reale delle Indie mandarono con genti da guerra il capitan Francesco di Barrio Nuovo, che è ora governatore in Castiglia dell'Oro, perchè a questi lunghi e pericolosi motivi rimediasse; e doppo che queste genti qui vennero, uno Indiano chiamato Tamaio, capitano inferiore ad Enrico, fece alcuni assalti e danni e ammazzò un cristiano, ad un altro tagliò la mano dritta. Ma di questi Indiani, in effetto, poco o nulla dovevano i cristiani temere, e vi si rimediò facilmente quando vi s'andò con l'ordine; perchè Sua Maestà mandò che fusse da sua parte data securtà a questo Enrico e agli altri Indiani che seco ribellati s'erano, e che volendo ritornare al suo regio servigio fusse loro perdonato; ma non volendo venire ad obedienzia, per lo bene della pace, gli fusse fatta la guerra a fuoco e sangue. Sí che questa regia audienzia incominciò ad essequire il mandato di Sua Maestà, come nel seguente capitolo particolarmente si dirà. Ma perchè ho detto di sopra che dal non essere stata fatta giustizia ad Enrico da Petro di Vadiglio nacque questa ribellione, replico di nuovo che questa è cosa assai nota nell'isola; e perchè non paia che io con queste parole quel gentiluomo incolpi, dico che egli pagò già la colpa che in questo caso ebbe, essendo Iddio giudice superiore, che punisce e castiga quello che i giudici terreni dissimulano e non castigano. Egli, partito da questa città per Spagna, entrando nel fiume di Siviglia, s'affogò nell'acque con tutta la nave che lo conduceva e con tutti i compagni che con lui andavano, insieme con molta ricchezza, e cosí pagò la ingiustizia ad Enrico fatta.
Ma, ritornando a quello che noi a dietro dicevamo, si dee credere, per quello che s'è detto, che gl'Indiani di questa isola molte piú cerimonie e costumi delli già detti aveano. Ma perchè sono le genti stesse finite, e i vecchi loro e i piú intendenti sono morti, non si può piú sapere la verità d'ogni cosa. Ma quando si ragionerà della terra ferma si diranno molte piú cose e abominevoli delle loro cerimonie e idolatrie, perchè in quella contrada ho io speso piú tempo, e v'è molto piú che scrivere, perchè è paese grandissimo e di diverse lingue e costumi.
Del successo della ribellione del caciche Enrico, e come il capitano Francesco di Barrio Nuovo andò a trovarlo e a parlarli.
Cap. V.
Si toccò di sopra come Sua Maestà mandò il capitan Francesco di Barrio Nuovo a questa isola, perchè richiedesse di pace e recasse al suo servigio Enrico o gli facesse crudele e disperata guerra, e non con la tepidezza che s'era fatta prima; e però seguendo dico che questa audienzia regia volse sopra ciò intendere il parere delle persone principali di questa città. E dopo d'avervi molto discusso del modo che si doveva tenere o nella pace o nella guerra di questo caciche Enrico, fu concluso che il medesimo capitano Francesco di Barrio Nuovo andasse prima a tentare la pace, e non potendo accaparsi si servissero del rimedio delle arme; acciochè si facesse prima questa diligenzia per giustificarne la coscienzia della maestà cesarea e de' suoi vassalli in quello che fosse potuto seguirne, e la colpa della guerra non si potesse imputare ai cristiani.
Per questo effetto adunque partí da questa città di San Domenico, agli 8 di maggio del 1533, il capitan Francesco, con trentadue cristiani e altretanti Indiani sopra una caravella, e costeggiò l'isola dalla parte di mezzogiorno andando verso ponente porto per porto; e perchè non poteva andare la caravella molto presso terra, faceva spesso andare un battello in terra con gente, finchè giunse alla terra chiamata Iachimo, sotto le montagne del Bauruco. E in tutto questo cammino non ritrovò vestigio alcuno, né fumo né altro indizio, onde si potesse il caciche Enrico con le sue genti ritrovare. E perchè spesso dalle marine entrava dentro terra e poi si ritornava ad imbarcare, vi consumò duoi mesi; in capo del qual tempo, essendo un dí smontato in terra, montò su per la costiera d'un fiume e ritrovò una stanza d'Indiani, disabitata e senza persona alcuna; ma in quel d'intorno vide il terreno coltivato, onde non volle che ivi cosa alcuna si prendesse, perchè ben s'accorse che gl'Indiani di quella stanza dovevano essere andati a pescare o a cacciare. Visto questo se ne ritornò al mare e mandò per certe guide d'Indiani alla terra della Iaguana, e avutele mandò un di quelli Indiani con una carta al caciche Enrico, perchè dicea quella guida che sapeva dove egli stava; ma questo Indiano non ritornò piú giamai né se ne seppe mai nuova.
Il capitano, avendo aspettato questa guida venti giorni, quando vidde che non ritornava deliberò d'andarvi esso in persona, con un'altra guida che era restata seco, là dove questo Indiano diceva che averebbe ritrovato Enrico. E cosí, partendo con trenta de' suoi cristiani, avendo caminato tre giornate e mezza, ritrovò un lavoreccio nel campo, e cercando dell'acqua per bere ritrovò quattro Indiani, i quali furono tosto presi tutti; e da loro si seppe come Enrico stava nella lacuna o stagno che chiamano del commendatore Aibaguanes, che fu un Indiano cosí detto nel tempo che fu questa isola governata dal commendatore maggiore fra' Nicola d'Ovando. E questa lacuna era indi otto leghe lontana, di cattivo paese e di terra assai montuosa e piena, e chiusa tutta di spine e d'alberi e di cosí dense macchie quanto qui sogliono essere. Il capitan Francesco determinò d'andarvi; ma prima che alla lacuna giungesse ritrovò una buona terra e di buone case, e tale che ne' tempi passati v'avrebbono potuto vivere 1500 Indiani. Qui si credette che dovesse stare Enrico, il quale pensavano che fosse già ritornato dalla lacuna, dove in effetto stava facendo i suoi fumigii, che gl'Indiani fare sogliono, come di sopra si disse. Si fece notte al capitano ed era una mezza lega lungi da questa terra; e però non v'andò fino alla mattina, ma non vi ritrovò gente alcuna: vi ritrovò bene apparecchi di casa come sogliono gl'Indiani averli, onde chiaramente si conosceva che questo luogo s'abitava, ma che le sue genti si ritrovavano tutte fuori. Il capitano comandò che non vi toccassero cosa alcuna, fuori che alcune zuche per portare acqua, perchè non ne potevano per quella contrada avere; e da questa terra fino alla lacuna era un camino fatto a forza di mano, largo quanto potevano due carette incontrandovisi passare oltra di lungo. Per questa strada condussero quelli Indiani 13 canoe che avevano fino alla lacuna, e n'erano sette grandi e sei picciole. Il capitan Francesco, seguendo questo camino con suoi, udí colpi d'una scura dentro nel bosco, onde, fatti qui sedere i suoi, mandò d'ogni intorno alquanti degl'Indiani che aveva seco, perchè prendessero in mezzo colui che tagliava legna nel bosco: e cosí lo presero.
Si dee notare che in tutto questo camino dalla terra alla lacuna non avevano in parte alcuna ritrovato tagliato un stecco né un ramo d'albero, perchè l'Enrico, come persona avisata e di guerra, avea cosí comandato a' suoi sotto pena della vita, perchè il camino piú intricato fusse. Ora, preso l'Indiano che tagliava le legna, il capitano si ritirò da un lato nel bosco fuori di strada, e lasciò la sua guardia dove meglio li parve, perchè la gente che passasse non potesse andare a dare nuova che indi cristiani andassero. Egli s'informò a pieno da quello Indiano dove Enrico stava, e che bisognava andare una mezza lega per dentro la lacuna, alle volte fino a' ginocchi nell'acqua, alle volte fino alle spalle e piú e meno, e che dall'altra parte si ritrovavano scogli e balze e certi alberi densi e intricati per l'acqua e per la costiera, che facevano un cammino molto difficile. Informato molto bene della strada che a fare aveva, si partí tosto con le genti che erano seco fuori di strada e giunse alla lacuna.
Alcuni Indiani che stavano in terra fuori dell'acqua veggendoli cominciarono tosto a dare voce fra se stessi, e giunti insieme, da dodeci che erano, si posero dentro le canoe che ivi avevano e cominciarono a battere de' remi nell'acqua, perchè i cristiani sentissero che essi erano su le canoe, e gridavano dicendo: "Al mare, capitano; al mare, capitano". Ma il capitan Francesco non volle rispondere, ancorchè i suoi cristiani dicessero che rispondesse, perchè diceva che essi avevano il capitano, e non potevano sapere qual capitano chiamasse. Ma gl'Indiani ritornarono a chiamare, dicendo: "Signor capitano della maestà, al mare al mare". Allora uscí il capitano Francesco dal bosco, facendo andare alcuni de' suoi in ordine, per dubio che non stesse piú gente di quella d'Enrico imboscata.
Giunto all'acqua della lacuna, che gira intorno dieci o 12 leghe, parlò con gl'Indiani delle canoe e dimandò loro dove Enrico stava, perchè andava a parlarli in nome di Sua Maestà e a darli una lettera di lei; dimandò anco s'era ivi venuto uno Indiano che aveva mandato già prima solo. Risposero che non era qui tale Indiano venuto, ma che essi già sapevano come era venuto un capitano mandato da Sua Maestà. Allora il capitano li pregò che avessero voluto condurre ad Enrico una Indiana che esso conduceva, e che era già prima col medesimo Enrico stata, perchè l'informasse della venuta sua; ed essi, essendo molto importunati, la tolsero finalmente su la canoa, dicendo che dubitavano che il signor loro Enrico non se ne sdegnasse. La Indiana per imbarcarsi si pose nell'acqua, e v'andò fino alla cintura prima che s'imbarcasse. Partite le canoe, il capitano Francesco co' suoi s'appartò da quel luogo un tiro di balestra, e per maggior securtà si fermò e pose in un certo campo raso, dove quella notte dormirono.
Il dí seguente, a due ore di giorno, ritornarono due canoe, dove venne con dodeci Indiani un capitano principale del detto Enrico e suo parente, chiamato Martino Alfaro, e menava seco l'Indiana del giorno innanzi. Tutti costoro smontarono in terra con le lor lance e spade. Il capitano Francesco s'appartò alquanto dai suoi e venne ad abbracciare questo capitano Indiano, con gli altri che con lui venivano. Gli altri tutti se ne ritornarono tosto su le canoe, e il capitano Martino restò in terra a parlare col capitano Francesco; e perchè parlava assai bene in lingua castigliana, li disse che Enrico suo signore li chiedea di grazia, perchè esso si ritrovava indisposto, che avesse voluto andare fin là dove esso era. Il capitan Francesco pensò che li fusse mandato a dire questo per conoscere se esso andava da amico o con frode, perchè quel cammino era tale che, s'esso avesse mostrato timore o dubio alcuno d'andarvi, avrebbe Enrico co' suoi pensato che l'avessero voluto ingannare o prendere. E per questo, volendolo da tal sospetto cavare, determinò d'andarvi, ancorchè contra la volontà della maggior parte de' suoi, che dubitavano, vedendo cosí cattivo quel cammino, che gl'Indiani non gli avessero tutti a man salva presi o morti. Ma egli, eletti da 15 de' suoi, lasciò gli altri con quelli Indiani che erano venuti seco e seguí il suo cammino con Martino d'Alfaro, per cosí fatti passi che era ben ragione di temere del fine di quel viaggio. Onde alcuni de' cristiani che conduceva seco mormoravano, veggendo il paese cosí aspro e chiuso di spine e d'alberi, e la maggior parte di loro credevano di certo d'avere mal fatto a seguire quello Indiano, e si sarebbono volentieri ritornati a dietro; ma il capitano, che conobbe questo timore, parlò loro in questa maniera.
Di quello che il capitano Francesco di Barrio Nuovo parlò a' suoi che dubitavano di seguirlo,
e come giunse dove era Enrico indiano.
Cap. VI.
"Signori, io venni qui con voi altri non per altro che per servire Iddio e l'imperatore nostro signore, e non è bene che si vegga timore alcuno in niuno di voi, poichè siete gentiluomini e persone in maggiori pericoli esperimentate, tanto piú che qui non ci è di che temere; pure, chi vorrà ritornarsi ritornisi dove i nostri compagni ci aspettano, e chi ha volontà di seguirmi e di fare il debito vengane meco, perchè io non sono per ritornare a dietro, ancor ch'io pensassi di lasciarci la vita, poichè a questo effetto io ci venni". E detto questo passò oltre e seguí il suo cammino, con una spada al fianco e con una giannetta in mano, e senza altre arme difensive che un giuppone di canavazzio e certi calzoni, con calzette di canavazzio dalle ginocchia in giú e con scarpe di funicella in piedi.
E a questo modo, da buon capitano e d'animoso cavaliero essortando gli altri che seco andavano, giunse in un certo picciolo calle, che era duo tiri di balestra lontano dal luogo dove Enrico stava, e come stanco del travagliato cammino s'assise sotto un albero, e indi, nella rivolta della lacuna, vidde Enrico e gli altri che con lui stavano. Egli ebbe molta ragione di riposarsi, perchè finchè ivi giunse bisognò che molte volte andasse carponi e sotto gli alberi densi e intricati del bosco; si riposò medesimamente perchè, oltra che prendea spirito esso con tutti i suoi, poteva anco sotto questa dissimulazione intendere e congietturare meglio la disposizione di quel luogo, per quello che li fusse potuto accadere di dover fare. Or, da quel luogo fece attraversare per l'acqua un misticcio che seco andava, insieme col capitan Martin d'Alfaro, perchè dicessero ad Enrico che esso veniva stanco, e perciò e non per altro s'era ivi fermo; e che s'egli dubitava non aveva cagione di farlo, poichè vedeva come era esso ivi giunto con quelli pochi cristiani che erano seco; e che se con tutto questo non s'assecurava, se ne sarebbe egli ritornato a dietro in quel campo raso, ed esso sarebbe potuto venire su le canoe, perchè fusse piú securo stato; e che veniva a parlarli da parte di Sua Maestà per trarlo in pace al suo servigio, perchè l'imperatore li perdonava tutte le cose passate, ritornando ad obedienzia, come avrebbe potuto vedere per una sua lettera regia che li portava. E con queste li mandò a dire altre simili parole, convenienti a recarlo alla pace e all'amistà.
Quando Enrico intese tutte queste cose dal misticcio e dal capitano Martino, cominciò tosto a dare molta fretta a' suoi Indiani, chiamandoli vigliacchi perchè non avessero aperto il cammino. Il misticcio e il capitano Martino se ne ritornarono tosto dove il capitano Francesco stava, e li dissero che poteva già passare innanzi securamente con tutti i suoi. Allora il capitano Francesco mandò tosto per tutti gli altri che avea lasciati in quel campo raso, e quando li vide tutti seco s'aviò verso dove stava Enrico, per la strada che avevano già gl'Indiani aperta, e che pur tutta via proseguivano aprendola oltre.
Quando il capitano Francesco fu da presso ad Enrico, s'andarono amendue ad abbracciare con molto piacere, e presi per mano se n'andarono a sedere sotto un grande albero e ombroso che ivi era, perchè vi stava distesa in terra una coverta di cottone. Qui venne ad abbracciare il capitan nostro il capitano Tamaio, che è un altro Indiano principale e che maggior danno in questa isola faceva; dietro a lui vennero a fare il somigliante cinque altri, perchè questo caciche Enrico aveva sotto di sé sei capitani e principali uomini suoi creati. Gli altri, che erano da settanta, erano tutti persone di guerra e ben disposti, e la maggior parte di loro andavano con spade e rotelle, e in luogo di corazza portavano avolto il petto e le spalle di molte corde congiunte insieme, e tinte d'un color rosso piú che di marca, e andavano con molti pennacchi e posti in punto come sogliono nelle battaglie stare. Il capitano Francesco fece sedere i cristiani da parte, alquanto da lui scostati, ed Enrico disse a' suoi Indiani che si sedessero dall'altra banda. E fatto questo il capitano Francesco, con molto piacere e con lieto sembiante, fece ad Enrico un ragionamento del tenore seguente.
Di quello che il capitano Francesco parlò al caciche Enrico, e gli diede una lettera di Sua Maestà; e come restò fra loro appuntata la pace.
Cap. VII.
"Enrico, molto dovete voi ringraziare Iddio nostro Signore per la clemenzia che usa con voi, nelle segnalate grazie che vi fa l'imperator nostro, in ricordarsi di voi e in volere perdonarvi i vostri errori e ridurvi al suo servigio e obedienzia, e in volere che siate ben trattato come un de' vassalli suoi, né si tenga memoria alcuna delle cose passate; perchè vi vuole piú tosto per suo vassallo e servitore, e che v'emendiate, che non che siate castigato degli errori vostri, acciochè l'anima vostra si salvi e non vi perdiate insieme co' vostri; e poichè come cristiano riceveste la fede e 'l sacramento del battesmo, siate anco ricevuto con ogni clemenzia, come piú a lungo vedrete per questa carta che Sua Maestà vi scrive, facendovi e queste e molte altre grazie".
E detto questo li diede la lettera, la quale Enrico tolse in mano e poi gliela ritornò, pregandolo che la leggesse egli, perchè si fidava di lui, che esso non poteva leggerla, per avere male agli occhi. Allora il capitano Francesco la tolse e la lesse in voce alta, che quanti ivi erano potevano intenderla; e poi la ritornò a dare ad Enrico, dicendoli: "Signor donno Enrico, baciate la carta di Sua Maestà e ponetevela sopra il capo". Ed egli cosí fece con molto piacere.
Il capitano li donò tosto appresso un'altra carta di securtà delli signori auditori di Sua Maestà, che nella cancellaria di questa città di San Domenico riseggono, sigillata del sigillo regio, e a questo modo li disse: "Io sono venuto in questa isola per ordine di Sua Maestà con gente spagnuola da guerra, acciochè con ogni sforzo vi guerreggiasse, e mi comandò l'imperatore nostro signore che io prima da sua parte vi richiedessi di pace, perchè ritorniate al suo servigio e obedienzia, e che facendo voi cosí vi perdona tutti gli errori passati, come avete già per la sua lettera veduto; e cosí da sua parte vi comando e richiedo che lo facciate, acciochè si possa con voi tanta cortesia e clemenzia usare, e miriate che siete cristiano, onde dovete temere Iddio e renderli infinite grazie e mai non disconoscerlo, poichè v'ha dato il mezzo da non perdere il corpo e l'anima; perchè s'egli v'ha fin qua guardato da' pericoli della guerra, l'ha fatto perchè quando vi ribellaste aveste qualche ragione d'appartarvi da quella terra dove eravate, ma non già di isviarvi tanto dal servigio d'Iddio e del vostro re: perchè se fusse venuto a notizia di Sua Maestà che vi fusse stato fatto aggravio, siate certo che ella v'avrebbe fatto interamente rimediare, di modo che ne sareste restato sodisfatto e contento. Ma poichè la cosa a questi termini si ritrova, io vi certifico che se voi non verrete con tutto il cuore a riconoscere ora l'error vostro e ad obedire a Sua Maestà permetterà Iddio che presto vi perdiate, perchè la superbia vi condurrà a morte; e voglio che sappiate che la guerra non vi si farà come vi s'è fin qua fatta, né potrete fuggire o nascondervi, ancorchè aveste l'ale o vi poneste sotto terra, perchè la gente di Sua Maestà è molta, e la sua potenza è maggior d'altra che abbia il mondo, onde vi verran sopra da tante parte che dal centro della terra vi caveranno. E ricordatevi che ha 13 anni o piú che non dormite securo né senza sospetto e affanno e timor grande, cosí in terra come in mare; e che non avete a fare con un altro caciche che abbia poche forze come voi, ma col piú alto e potente re che sia sotto il cielo, e al quale altri re e molti regni obediscono e servono. E crediatemi che se Sua Maestà fusse stata bene informata prima della verità, gran tempo ha che voi sareste stato emendato o castigato, non venendo a mercé, perchè è costume della sua regia e catolica clemenzia di fare ammonire prima che castigare colui che gli disubbidisce, e fatto questo non è cosa che basti a difendere alcuno dalla sua giustizia e ira. E cosí vi dico che se voi verrete, come credo che farete, a conoscere quello che vi s'offerisce e ad essere colui che dovete, non pensate di dovere mai per niuno caso in tempo alcuno ritornare alla ribellione, perchè sarebbe assai maggiore lo sdegno di Sua Maestà, e con maggiore rigore s'esequirebbe il castigo contra di voi e della gente vostra; né vi si darà cagione di farlo, perchè ritroverete buon trattamento presso agli ufficiali suoi, né cristiano alcuno v'oltraggierà che non ne resti bene castigato e punito. E per questo alzate le mani al cielo e date infinite lodi al Signor Giesú Cristo, per le grazie che vi fa, se farete quello che Sua Maestà vi comanda e io in suo reale nome ve ne richiedo; perchè se amate la vita vostra e quella de' vostri amarete anco il suo regio servigio e la pace, e Sua Maestà terrà memoria di voi per farvi delle grazie, e io in suo nome vi darò tutto quello che avrete di bisogno, e vi concederò la pace e la securtà, e capitulerò con voi come abbiate a vivere onorato e in quella parte di questa isola che voi vi eleggerete con le genti vostre. Sí che, poichè inteso m'avete, ditemi il voler vostro e quello che intendete di fare".
A tutte queste parole stette il caciche molto attento e con molto silenzio, insieme con gli suoi Indiani e co' cristiani che ivi erano, e tosto a questo modo rispose: "Io non desiderava altra cosa fuori che la pace, e conosco la mercé che Iddio e l'imperatore nostro signore mi fanno in questo: e perciò ne bacio i suoi reali piedi e mani, e se non sono fino a questa ora venuto a questo, è stato solo per le burle che m'hanno fatte i cristiani e la poca verità e fede che m'hanno servata, e perciò non ho avuto ardire di fidarmi d'uomo alcuno dell'isola". E seguí facendo molte querele particolari di quello che gli era stata fatto, referendo quanto era passato dal principio della sua ribellione. E detto questo s'alzò e si tirò da parte co' suoi capitani, e mostrò loro le lettere e parlò alquanto con loro sopra quello che fare voleva. E perchè nella lettera che gli scriveva Sua Maestà lo chiamava don Enrico, da allora in poi tutti i suoi Indiani lo chiamarono "don Enrico, mio signore".
Ora egli, ritornato dove era il capitano Francesco, parlarono molte cose concernenti alla pace, ed esso promisse d'osservarla sempre inviolabilmente, e disse che richiamerebbe tutti gl'Indiani che aveva e che andavano guerreggiando per alcune parti dell'isola; e che ogni volta che i cristiani li facessero a sapere che qualche compagnia di neri per l'isola ribelli andassero, gli avrebbe fatti prendere, e bisognando vi sarebbe andato esso in persona e v'avrebbe i suoi capitani mandati, perchè gli avessero dati legati in potere de' cristiani loro padroni.
E fatto questo don Enrico se n'andò a mangiare con la moglie sua, e menò seco alcune delle sue genti che ivi erano; e ivi i suoi capitani restarono a mangiare col capitano Francesco. Verso il tardi poi ritornò don Enrico, e dimandò che li segnalasse fra gl'Indiani suoi stessi duoi bargelli della campagna, e che li tassasse quello che s'aveva a dare loro per ciascun nero fuggitivo che prendessero, e per ciascuno Indiano anco che da' cristiani s'appartasse e fuggisse: e cosí il capitano Francesco lo tassò, e disse che dicesse se voleva bestiame o altra cosa, che gliele farebbe dare. E don Enrico rispose che non aveva ivi contrada da tenere bestiame, per essere molto imboscato e aspro il paese, ma che quando s'avrebbe mangiato quello che ivi aveva calerebbe giú al piano, e con la fidanza di questa pace lo potrebbe tenere e lo terrebbe. Doppo di questo diede il capitano licenzia a' suoi cristiani di potere fare mercato con gl'Indiani di don Enrico di quello che piú lor piacesse; e cosí essi lo fecero, cambiando alcune cose di poca importanzia, perchè dicevano non avere oro, come in effetto non n'avevano.
E venuta l'ora di cena li capitani Indiani cenarono col capitan Francesco, e don Enrico vi fu presente, e non volle né mangiare né bere: e si credette che lo facesse perchè dubitasse. Doppo la cena don Enrico se n'andò, e il capitan co' suoi cristiani se ne ritornò a dormire in quel campo raso dove s'era già fermo prima; e in quella notte si fecero i cristiani le guardie finchè fu giorno, e poco doppo che il sole montò su venne Enrico dove il capitano Francesco stava, e menò seco da 50 uomini, la maggior parte disarmati e alcuni con spada; e qui don Enrico si licenziò dal capitano nostro, abbracciandolo con molto piacere, e cosí fecero tutti i suoi capitani. Abbracciò medesimamente con molta allegrezza don Enrico tutti gli altri cristiani, e poi diede un capitano e un altro Indiano de' suoi a' nostri, perchè gli accompagnassero fino al mare, dove era restata la caravella; dove giunti stettero a piacere un dí. E questi due Indiani di don Enrico ebbero a morire per ber soverchio del vino, perchè, non essendo soliti di berne e piacendo loro, tanto ne tracannarono che se ne mosse lor tanto il ventre, e in tanto affanno e angoscia ne vennero, che furono per lasciarne la vita. Di che non poco affanno si prendevano i nostri, perchè se senza lor colpa in tal tempo morivano di quel modo era grande inconveniente; onde con alcuni rimedii che li fecero, e con darli a bere olio, li fecero vomitare e ritornare in sé, benchè non pentiti di avere bevuto del vino. Il capitano Francesco diede loro robbe e vesti e per sé e per gli altri capitani, e mandò altre piú ricche robbe di seta per donno Enrico, con alcune altre cose di quelle che portava, perchè maggiore piacere e securtà avesse della nuova pace fatta con cristiani.
Menò seco il capitano Francesco fino a questa città un Indiano principale, che ve lo mandò don Enrico perchè se ne fidava molto, acciochè visitasse li signori auditori e ufficiali di Sua Maestà e i cavalieri e cittadini di questa città; e perchè udisse e vedesse bandire la pace, come vidde già fare prima per tutti li luoghi e terre onde passò doppo che smontò dalla caravella finchè giunse qui, dove vidde fare il medesimo. A questo Indiano si diede assai bene da vestire e se li fece il debito trattamento, ed egli, come astuto, in quelli dí che stette in questa città entrò in molte case, o nella maggior parte delle principali, per conoscere gli animi di tutti e quel che di questa pace sentivano o pur per provare piú vicini, perchè tosto li davano a fare collazione e a bere, e tutti mostravano avere gran piacere della pace e dell'amistà di don Enrico. E finalmente questa audienzia e ufficiali di Sua Maestà ordinarono che fusse questo Indiano ricondotto con una barca di cristiani a don Enrico, al quale mandarono buone veste di seta, con altri addobbamenti per lui e per donna Mencia sua moglie, e per gli suoi capitani e altri Indiani principali; e li mandarono anco altri rinfrescamenti di cose da mangiare, e vino e olio e ferramenti e azze per fare i loro lavorieri, benchè donno Enrico non chiedesse altro che qualche imagine: onde si cava che non era in tutto da lui disradicata la fede né la creanza che ebbe nella sua fanciullezza dalli religiosi del monasterio di San Francesco di questa città. Con le cose già dette, adunche, li mandarono a donare alcune imagini di devozione, per tenerlo piú obligato e piú quieto nella pace, perchè questi Indiani sono di poca capacità e di men constanzia in tutte le cose, onde bisogna che vi siano animati e accarezzati con qualche dono, e con arte siano recati alla benevolenzia e amistà de' cristiani; e medesimamente perchè paresse che si facea poco conto degli errori e delle altre cose che aveva Enrico e i suoi capitani fino a quella ora fatti da che s'erano ribellati.
Piaccia a Dio che questa pace lungo tempo si conservi, che nel vero ella era molto necessaria, perciochè per questa ribellione stava questa isola persa, e non aveva ormai niuno ardire d'andare verso que' luoghi né verso la Iaguana, se non a gran numero di cristiani insieme e ben provisti. In effetto il Signore Iddio e Sua Maestà restano ben serviti di questa pace per molte cause, e sopra a tutto perchè si battezzino i fanciulli che son nati e che nasceranno fra quelle genti di don Enrico, che al presente sono molte. E quello che m'ha paruto meglio di questo uomo si è che, nel concludersi questa pace, disse che una delle cose quali avea maggior pena e dolore si era che avevano molti fanciulli da battezzarsi, e altri molti si erano senza battesmo morti. Il che è segno che Iddio vuole che egli con gli altri suoi si salvi. M'avanzano a dire nel seguente capitolo due cose: l'una in grazia e onore di questo cavaliero Francesco di Barrio Nuovo, per fare ufficio debito di fidele scrittore, l'altra in quello che a don Enrico tocca.
Di due cose notabili, l'una appertinente al capitan Francesco di Barrio Nuovo, e l'altra l'onorata pace e riconciliazione di don Enrico con Sua Maestà.
Cap. VIII.
Cosa chiara è che è degno d'intendersi il servigio che Francesco di Barrio Nuovo fece a Dio e a Sua Maestà, nella pace e amistà che egli fece col caciche Enrico, con tanta utilità di tutta questa isola e d'altri luoghi fuori di lei; perchè, se bene io tengo per certo che quanto ben si conclude tutto nasce dalla buona fortuna dell'imperatore nostro signore, non per questo resta di meritare molto per cosí buona opra un cosí prudente capitano, e che con tanto sforzo e animo si determinò d'entrare dove facil cosa era perdersi con tutti i suoi, poichè erano cosí intricati e difficili que' luoghi che non vi si poteva senza estremo disagio andare. Se fusse in Spagna luogo al quale potessi io comparare questi, si conoscerebbono meglio i pericoli di queste parti; ma io non resterò di figurarli alquanto e dimostrarli a coloro che li leggono e non li veggono, perchè sono come è la montagna Morena o quella di Monferrato, o li porti di S. Giovanni di Lusa o le Alpi per le quali si passa in Italia, o le Alpe d'Alemagna o le montagne d'Abruzzo e di Tagliacozzo nel regno di Napoli, o le montagne di Guascogna. Tutto questo che ho detto con questi luoghi è come comparare il bianco col nero, cosí estremamente selvaggi e aspri sono questi; e veggo che gli uomini che per isperienzia li sanno non se ne sono ritornati se non assai rari alle patrie loro, e qui assai poco vivuti sono, perchè, di piú della disconvenienzia che ha qui il cielo con quello d'Europa dove nasciamo, non ritroviamo noi qui da mangiare come fu quello che ci diedero i nostri padri, ma quello che qui si mangiò buon tempo fu pane di radici d'erbe e frutti selvaggi e inusitati agli stomachi nostri, e l'acque di differenti gusti; né era qui sorte alcuna di carne, fuori che di quelli cani gozzi muti e d'altri pochi animali e differenti da quelli di Spagna, come sono serpi e lacerti, de' quali v'era gran copia in que' principii che l'isola si conquistò; e a que' primi che la conquistarono mancò ancora questa sorte di cibo, ma non mancarono già l'infermità che si cavavano dal mondo.
Ma perchè questo capitano Francesco aveva tutte queste cose provate nell'isola di S. Giovanni e in altre parti, si seppe cosí ben portare come s'è detto in queste difficultà; e senza alcun dubbio credo che, se vi fosse venuto alcuno nuovamente di Spagna, non si sarebbe mai questa pace conclusa. Né di quelli che quivi erano l'averebbe potuta niun meglio di lui accappare, benchè molti ve ne siano che l'avrebbono saputo ben fare. E vedete se questa guerricciuola di don Enrico ha costato danari in tredeci anni, che per li libri delli conti della spesa che vi s'è fatta si vede che ascende alla somma di piú di quattrocento libre d'oro, che da parte di Sua Maestà e di questa isola vi si sono spese. E quello che mi pare peggio d'ogni altra cosa si è che si sospettò che ad alcuni piacesse che andasse cosí lenta, e che non s'accappasse giamai la pace. Ma di tal piacere credo che non potessero participare se non quelli che come soldati poveri, per sostentarsi, amavano la guerra, o quelli che secretamente ponevano la mano in questa pecunia; tutti gli altri a' quali fosse l'accapparsi di questa pace dispiaciuto, io non li terrei né per cristiani né per servidori del suo re.
Di modo che ben mostrò Francesco di Barrio Nuovo essere numantino e avere l'isperienzia che per accappare tale negocio bisognava, poichè con tanta prudenzia e sforzo vi si portò: perchè un altro si sarebbe ritornato a dietro, veggendo i suoi mormorare e pentirsi di quel camino. L'ho chiamato numantino perchè egli è di Soria, la quale città io penso che fosse quella che gli antichi chiamarono Numanzia: poichè dice Plinio che il Duero è un de' maggiori fiumi di Spagna e nasce presso a Numanzia.
Or, quanto al caciche don Enrico, a me pare che egli abbia fatta la piú onorata pace che facesse mai cavaliero né prencipe al mondo da Adam in qua, e resta piú onorato che non il duca di Borbona nel vincere e far prigione il re Francesco di Francia in Pavia; poichè tanta disaguaglianza e disproporzione è dal maggior prencipe di cristiani e imperatore del tutto ad uno uomo tale quale era questo don Enrico, il quale fu da parte di Sua Maestà richiesto di pace, anzi chiamatovi, con esserli perdonati tutti gli errori suoi, con quante morti, arrobbii, incendii aveva con le sue genti fatti contra i cristiani, e con tante offerte di piú ed elezione di potere in quel luogo fermarsi dove piú li piaceva nell'isola.
Certo don Enrico, che se voi lo conoscete io vi tengo per un delli piú onorati e fortunati cavalieri che abbia il mondo. Di questo atto si cava il gran mare della clemenzia di Sua Maestà, che, benchè avesse fra pochi giorni potuto concludere questa guerra senza restare piú memoria alcuna né osso di don Enrico né de' suoi, nondimeno, ricordandosi che v'avrebbono potuto perire alcuni cristiani, per ritrovarsi questi Indiani in montagne asprissime e selvaggie, e considerando che questo caciche ebbe ragione d'appartarsi, per quelle ingiustizie che gli furono piú volte fatte, e spezialmente veggendo che egli con tutti gli altri suoi si sarebbono potuto salvare l'anime con questa pace, con la permissione di Dio si indusse a farla con tanta clemenzia e benignità. Ha ora il caciche Enrico ottanta o cento uomini da guerra, e con le loro mogli e figliuoli passano piú di trecento anime, le quali, unendosi con la republica della nostra religione cristiana, si spera che si debbano o si possano salvare; e piú di trecento altre persone di questi stessi morirono senza battesimo, nel tempo che questo Enrico nella sua ribellione perseverò. Ci dobbiamo adunque di questa riconciliazione e pace sommamente rallegrare, poichè l'Evangelio sacro dice che nel cielo si fa piú festa d'un peccatore che si converta e venga a penitenzia che di novantanove altri perfetti e giusti.
Come don Enrico se ne venne co' suoi presso Azua per vedere e sentire di questa pace, e di quello che dell'Indiano che egli mandò col capitan Francesco di Barrio Nuovo avvenne.
Cap. IX.
Ritrovandosi le cose nello stato che si è detto, un mercordí, a' 27 d'agosto del 1533, giunse questo don Enrico due leghe lungi dalla terra d'Azua e si pose nella entrata o falda del monte; e indi mandò a dire a quelli della terra che esso voleva lor parlare, se l'avevano per bene. Egli menava cinquanta o sessanta uomini da guerra bene addrizzati e in punto, benchè non facesse mostra di tanta gente, perchè ne imboscò la maggior parte presso là dove poi parlò co' cristiani. Quelli della terra, benchè qualche sospetto avessero, mandarono nondimeno a dirgli che venisse in buona ora, poichè Sua Maestà gli avea perdonato ed era già amico de' cristiani. E uscirono a riceverlo alcuni gentil uomini e persone onorate di questa città di San Domenico, che ivi casualmente si ritrovavano, e con loro gli ufficiali e cittadini d'Azua; nella quale compagnia erano da venticinque o trenta da cavallo e da cinquanta uomini a piè, tutti bene in ordine e per la pace e per la guerra, quando fusse stato bisognato d'adoperare l'arme. Tutti smontarono da cavallo e s'accostarono con don Enrico, il quale abbracciò tutti i cristiani; il medesimo tutti gl'Indiani suoi fecero. E per quello che da questa pratica s'intese, don Enrico veniva per sapere e intendere in che stato si ritrovava la pace che esso fatta aveva, perchè non aveva ancora veduto il suo messo, chiamato Gonzalo, che col capitan Francesco mandato aveva.
Questo Gonzalo quattro giorni a dietro s'era da questa stessa terra d'Azua partito con una caraveletta, e andava con alquanti cristiani a ritrovare don Enrico, il quale ebbe gran piacere quando l'intese, e mandò tosto con molta fretta un de' suoi per la costiera del mare a cercare di questa caravella. Ed esso riposatamente si fermò, e con viso lieto mostrava di sentire gran piacere in vedere i cristiani, che avevano portato ben da mangiare molte galline e capponi e prosciuti e buone carni, e il miglior pane e vino che avere si puote. E mangiarono insieme di compagnia, con gran piacere e festa, i cristiani e gl'Indiani principali con quanti ivi si ritrovavano, fuori che don Enrico solo, che non volle né mangiare né bere cosa alcuna, benchè ne fusse molto pregato da tutti; e si scusava che non stava sano e che avea poco innanzi mangiato, e con molta gravità pratticava con tutti con un aspetto molto riposato e d'autorità, mostrando e dicendo che esso si trovava molto contento della pace e d'essere amico di cristiani. In questo stettero da quattro ore o piú, doppo che ebbero mangiato e meglio bevuto, perchè questi Indiani assai volentieri bevono il vino quando si dà loro. E furono da trenta Indiani quelli che in questo convito si mostrarono, e tutti con giannette in mano e con spade e rotelle, e alcuni con pugnali.
Doppo che fu desinato, il fattore Francesco d'Avila, che qui fra gli altri a caso ritrovato s'era, e gli altri gentiluomini, gli dissero che tutti i cristiani erano suoi amici, perchè cosí l'imperatore nostro signor comandava; e perchè già in effetto amici erano, esso avrebbe in tutti i cristiani dell'isola ritrovata molta verità e amistà, onde senza niun timore poteva securamente e solo e accompagnato venire esso e i suoi in questa città di San Domenico, e per tutte l'altre città e terre anco dell'isola; e in ogni luogo gli avrebbono fatto ogni piacere che esso avesse voluto, perchè cosí era stato fatto bandire per ogni parte. Egli rispose che non aveva già da essere se non fratello e amico di tutti; abbracciando esso e gli altri suoi di nuovo come prima i cristiani, si licenziò da loro senza altramente andare in Azua, perchè diceva volere andare a cercare della caravella, acciochè il suo Gonzalo e i cristiani che con lui andavano non l'andassero per quelle costiere cercando invano.
Essendoli risposto che facesse il suo volere e andasse in buon'ora, s'aviò con le sue genti per quel medesmo monte dove stava, che era assai aspro e selvaggio, e quando fu alquanto discostato i nostri s'aviddero che egli menava piú gente di quella che nel mangiare mostrata aveva. E per quello che conobbero coloro che in questo abboccamento si ritrovarono, restò don Enrico assai maravigliato di vedere uscire d'Azua cosí buone genti e disposte e cosí bene in ordine e presto, cosí di quelli da cavallo come di quelli da piedi, e con molti schiavi neri anco, e con Indiani che portarono il mangiare e servirono ad avere cura de' cavalli; e la maraviglia si fu perchè quella terra è picciola. Ma la metà di quelle buone genti che ivi col fattor Francesco d'Avila si ritrovarono casualmente, erano di questa città di San Domenico, e venivano da San Giovanni della Maguana da vedere i loro poderi, e altri erano in Azua proprio andati per lor negozii. Il perchè poté ben don Enrico congietturare che, poi che ivi tante e cosí fatte persone erano, assai piú ne dovevano essere nelle altre terre maggiori e in questa città di San Domenico, che il medesimo Enrico la sa molto bene perchè vi s'allevò.
Sí che, partito questo caciche con gli suoi Indiani, indi a pochi giorni ritornò la caravella, co' cristiani che avevano accompagnato il Gonzalo e portato il presente che s'è detto, e dissero che n'avea preso gran piacere don Enrico, con la moglie sua e con tutti gli altri Indiani. Egli per la medesima caravella rimandò tutti i neri e gli schiavi che avea di cristiani, e mandò a dire che s'alcuno schiavo nero o indiano se ne fuggisse ne l'avisassero, perchè l'avrebbono fatto cercare e l'avrebbono poi rimandato legato al suo padrone, secondo che era stato col capitano Francesco appuntato. E cosí per principio questa paga li furono pagati que' neri che mandò, conforme al patto già fatto, e ricevettero questo prezzo alcuni Indiani che esso con la caravella rimandò e co' neri stessi; ed essendo sodisfatti se ne ritornarono poi a don Enrico.
Come in questo tempo vennero di Spagna alquanti lavoratori per abitare Monte Cristo e Porto Reale, per opra e sollicitudine di un cittadino di questa città chiamato Bolagnos.
Cap. X.
Nel medesimo anno del 1533, nel fine d'agosto, vennero sopra una nave in questa città di San Domenico da sessanta lavoratori o contadini, e la maggior parte di loro con moglie e figli, per abitare Monte Cristo e Porto Reale. E riposati che furono qualche dí in questa città di San Domenico, si partirono e andarono al destinato lor luogo, portando certi capitoli d'essenzioni e grazie che Sua Maestà loro concedeva, perchè avessero piú volentieri e meglio potuto abitare quel luogo. Il Signore Iddio presti loro grazia che si conservino e vivino, perchè queste terre non la perdonano a niuno che nuovamente vi venga, che non lo facciano in que' principii infermare. Il che non è maraviglia, poichè l'uomo tanto di lungo si scosta e allontana dalla terra dove è nato, e muta maniera di vivere e aere in cosí differenti regioni e clima.
Or, la contrada dove costoro vennero per abitarla è una delle migliori e piú fertili di tutta l'isola, ed è presso alle minere dell'oro. Menarono con essi loro i lor cappellani, perchè avessero a servire nelle chiese che fare ci dovevano. Piaccia a Dio nostro Signore che sempre si aumenti la sua fede e religione cristiana; e nel vero che questo uomo da bene chiamato Bolagnos, cittadino di questa città, ha fatto un gran servigio a Dio e a Sua Maestà, oltra che v'ha spese molte sue facultà, in condurre qui questa gente e in effettuare una sua cosí buona intenzione; perchè costui è stato origine e capo di fare questa cosí buona opra, veggendo che quel luogo era già disabitato, per essere già morti gli Indiani che solevano ivi a' nostri che in quella terra abitavano servire. Ma questi che vi vanno ora nuovamente ad abitare altra strada vi tengono, perchè pensano di farvi bene con l'agricoltura e col bestiame. Quello che ne succederà al tempo mio si dirà al suo luogo.
Come un frate di san Domenico andò da questa città a ritrovare don Enrico, e del buon successo di questa sua andata.
Cap. XI.
Nel monasterio de' frati di san Domenico di questa città v'è, fra gli altri devoti religiosi, un chiamato fra' Bartolomeo dalle Case, persona letterata e di buona vita; benchè nel tempo passato non si ritrovasse in buona riputazione appresso tutti, per cagion d'una sua certa impresa essendo clerico, e chiamandosi il licenziato Bartolomeo dalle Case, come piú distesamente si dirà nel 19 libro. Ma se ben quel negozio non riuscí, poté nondimeno il suo fine e la sua intenzione essere buona, onde alla fine si pose l'abito di s. Domenico a dosso. Or, questo padre, che al presente abita in questo monasterio, avendo inteso della pace fatta con don Enrico, mosso da buon zelo deliberò d'andare a vederlo, per consolarlo e ricordarli la salute e 'l bene dell'anima sua. Con licenzia adunche del suo priore v'andò e vi stette qualche giorno, e attese, come buon religioso, ad animarlo, consigliarlo, persuaderlo che esso e le genti sue fussero dovuti nella pace e amistà con cristiani perseverare, ed essere buoni servitori dell'imperatore nostro. Diede loro ad intendere quanto cristianissimo e catolico sia il re nostro, e quanto gran clemenzia avesse con loro usata, perchè non si perdessero l'anime loro, e come la pace e l'amistà sarebbe stata loro interamente servata, se essi stessi rotta non l'avessero. Egli portò seco paramenti da messa e il calice e ostie con tutto il bisogno da celebrare; e cosí, mentre che esso ivi fu, disse messa a don Enrico e suoi, e giovò questa cosa lor molto, per assecurarli e ricordarli le cose della nostra fede catolica. Onde con questo padre venne don Enrico, con molti Indiani e Indiane e fanciulli, fino alla terra d'Azua, dove il capitan Tamaio, del quale s'è fatta menzione di sopra, si battezzò insieme con altri Indiani maschi e femine, grandi e piccioli. E poi molto pacificamente e quietamente se ne ritornarono nelle lor pristine e imboscate stanze, dove il padre ritrovati gli aveva, e il capitano Francesco prima; e n'andavano tutti lieti e lodando Iddio, onde si spera che abbiano a perseverare nella fede. E già in tutto il tempo che quella ribellione durò, sempre don Enrico digiunava il venerdí e diceva del continovo il Pater nostro e l'Ave Maria, e molti giorni anco l'ore di nostra Signora. E secondo che alcuni cristiani dicono, egli teneva anco un altro stile, perchè, per conservare le sue genti per la guerra e dar lor maggior sforzo, non acconsentiva che con le lor donne s'accostassero se non passavano 25 anni.
Questo padre fra' Bartolomeo (come io intendo) dice questa e altre molte cose in lode del caciche don Enrico, le quali esso scriverà, perchè ho inteso che in questa professione s'esercita. Ma io non credo che don Enrico si ritruovi cosí avanti nelle cose della fede: prego Iddio che ve lo ponga molto piú che non v'è, e che li presti grazia di salvarsi insieme con gli altri suoi. I signori auditori di questa regia audienzia stavano molto sdegnati che questo padre fusse senza lor licenzia e saputa andato dove don Enrico era, dubitando che non l'avesse a qualche modo alterato, per essere fatta cosí di fresco la pace. Ma quando poi intesero che questa andata era stata tanto utile e santa quanto s'è detto, ne furono molto lieti e lo ringraziarono di quel travaglio che s'aveva in questo viaggio preso. E cosí si spera che di dí in dí debbia questo caciche con le sue genti essere piú domestico e miglior cristiano, che Iddio nostro Signore lo faccia, perchè sia in suo servigio e onore.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove di varie materie si tratta.
Libro sesto
Proemio
È tanta la copia delle materie che m'occorrono alla memoria, che con molta difficultà posso finire di scriverle e di distinguerle, volendo continovare a dire di quelle cose che alquanto si rassomigliano, e che sono piú all'ordine dell'istoria appropriate. E perchè nel volere trattare d'alcune cose particolari fra sé distinte e dissimili non sarebbe al proposito dare a ciascuna di loro un libro particolare, per essere la narrazione di loro assai breve, in questo sesto libro cumularò tutte quelle che sono di simile qualità, acciochè, quanto piú rare saranno e da non compararsi l'una all'altra, con tanta maggiore avidità si legghino e non si ponghino in oblio. E vi darò principio con le case che questi Indiani avevano. Appresso si dirà del giuoco del batei, che è quello stesso che è della palla, benchè in diverso modo giuocato; e poi di duo urracani e tempesta segnalate e di molto spavento che in questa isola Spagnuola furono. E cosí, procedendo da una cosa in un'altra, difformi e dissimili, m'ispedirò di maniera nel presente libro che piú facilmente poi ne' seguenti distinguerò l'altre cose d'una stessa natura o quasi, e potrò seguire e servare l'ordine che ho desiderato di tenere in questa generale istoria dell'Indie; perchè ne' libri precedenti è stato necessario mischiare molte materie insieme, per dire i viaggi e i discoprimenti di queste parti fatti e dal primo admirante e dagli altri capitani, e per riferire la lor vita e meriti e il modo del loro governo e de' lor successori; e per dar notizia della verità dell'istoria in molte cose che accadettero, e della vera cosmografia delle provincie e terre delle quali s'è ragionato; e delle genti di queste parti e come conquistate furono, con altre cose notabili e pellegrine, come sono state fin qua descritte di sopra.
Delle case o stanze degl'Indiani di questa isola Spagnuola.
Cap. I.
Gl'Indiani di questa isola Spagnuola vivevano appresso le rive de' fiumi o nelle costiere del mare, o ne' luoghi dove piú lor piaceva o era piú al proposito loro, cosí in luoghi erti come in luoghi piani e in valli e boschi; e vicino alle lor terre e abitazioni tenevano i loro lavorecci, dove raccoglievano i loro maiz e iuca e avevano i loro alberi fruttiferi. E in ogni piazza di ciascuna lor terra era un luogo deputato per lo giuoco della palla, che essi chiamano batei. Su l'uscire delle terre erano medesimamente luoghi eletti e maggiori delle piazze, per questo stesso effetto del giuoco della palla. Ora, le lor case e stanze, che essi chiamano buhio, erano fatte di due maniere, secondo la volontà dell'edificante. L'una maniera era questa. Ficcavano bene in terra molti travicelli forti e di conveniente grossezza, quattro o cinque passi l'uno dall'altro lontani, e collocati in circolo secondo la grandezza della casa; sopra questi travicelli poi stendevano dall'uno all'altro altri legni piani e grossi, e sopra di questi drizzavano certi lunghi perticoni col grosso in giú e col sottile in su, onde nella cima venivano ad unirsi tutte le punte loro a guisa di un padiglione; e sopra queste pertiche ponevano a traverso o canne o altre simili materie, a due a due e un palmo o meno l'una dall'altra distante; e sopra questo lavoro coprivano poi di paglia delicata, sottile e lunga (altri lo coprivano con foglie di bigai, altri con le cime istesse delle canne e altri con frondi di palme); e nella parte da basso, quanto erano alti i primi travicelli fissi in terra, in luogo di muro vi ponevano di passo in passo canne ben fisse in terra, e cosí giunte e ristrette insieme come stanno i diti nella mano, e le legavano ben forte con besciuchi, che sono certe correggie tonde che nascono avvolte negli alberi e ne pendono poi (e sono questi besciuchi una buona e forte legatura, perchè sono durabili e non si putrefanno, e servono a punto in vece di chiodi per legare e stringere forte insieme un legno con un altro, e le canne medesimamente). Questi buhii, o case di tal modo fatte sono dagl'Indiani chiamate canei, e sono migliori che l'altre per il vento, perchè nol raccolgano cosí di pieno. Di questi besciuchi o legami che si sono detti se ne trova gran quantità, e cosí grossi o sottili come ne hanno di bisogno, e alle volte li fendono per mezzo per legarne cose piú delicate; né solamente serve il besciuco per quello che s'è detto, che è anco cosa medicinale, ed è di diverse spezie, come si dirà al suo luogo, quando si ragionerà delle erbe e delle piante. Ora, questo tal canei o casa, perchè piú forte e immobile stia, ha d'avere nel mezzo un travo a guisa d'uno albero di barca, di conveniente grossezza e proporzionato alla grandezza dell'edificio, e che con la punta giunga alla cima della casa, perchè in lui s'hanno da legare tutte le punte delli perticoni che si son detti (a punto come un padiglione o tenda campale, quale veggiamo noi usarsi negli esserciti di Spagna e d'Italia), perchè in questo grosso travo di mezzo consiste tutta la stabilità e fortezza della casa. Ma perchè questo meglio s'intenda ho qui figurata, nel meglior modo che ho saputo, questa forma di casa o canei.
Fanno li medesimi Indiani altri buhii o case con li medesimi materiali, ma d'altra forma e di piú bella vista e piú capaci, e per persone piú principali e per li cacichi stessi, e le fanno a dua acque e lunghe nel modo che son quelle di cristiani; e vi fanno li parieti di canne, le quali sono massiccie e piú grosse che quelle di Castiglia e piú alte (ma le tagliano alla misura de' parieti che vogliono fare). Nel mezzo vi hanno i suoi forconi che arrivano fin al colmo o cavalletto, e nelle principali case vi fanno un portico che serve per ricevere le persone che vengono, coperti di paglia nel modo che io ho in Fiandra vedute coverte le case de' contadini nelli villaggi loro; e mi credo che come in queste Indie cuoprono le case sia assai meglio di quello che si fa in Fiandra, perchè queste paglie o erbe per fare questo effetto sono migliore di quelle. I cristiani fanno ora queste case in terra ferma con solari alti e con finestre, perciochè, oprandovi i chiodi e buone tavole, e sapendo molto meglio farlo che non gl'Indiani, n'edificano di questo modo alcune case cosí buone che vi potrebbe qual si voglia signore alloggiare. Io ne feci una nella città di Santa Maria dell'Antiqua del Darien, che era fatta solamente di legni e canne e paglia e qualche quantità di chiodi, e mi costò piú di millecinquecento ducati d'oro; ma vi sarebbe potuto albergare un prencipe, perchè avea buone stanze alte e basse, con un belgiardino di molti aranci e altri alberi, e posto su la riviera d'un gentil fiume che per quella città passa; la quale città, per disgrazia de' suoi cittadini, e in disservigio di Dio e di Sua Maestà, e in danno di molti particolari, si disabitò a fatto per la malignità di chi ne fu cagione.
Sí che di una delle due già dette maniere sono i buhii o case che gl'Indiani in queste parti fanno. Vi si fanno anco di altri piú differenti e strani modi, come nella seconda parte di questa naturale istoria si dirà, quando si tratterà delle cose di terra ferma; perchè in alcuni luoghi sono d'altra forma le case, e per aventura di tal garbo alcune di loro che non s'è mai visto né udito fuori che in quella contrada. Ma poichè s'è di sopra disegnata la forma del canei, o casa tonda, voglio anco qui disegnare medesimamente la seconda già detta forma di casa, perchè meglio e l'una e l'altra s'intenda e comprenda.
Del giuoco del batei degl'Indiani, che è quel medesimo che della palla,
benchè d'altra maniera si giuochi, come qui si dirà.
Cap. II.
Poichè s'è nel capitolo precedente detto delle terre e case degl'Indiani, e come in ogni lor terra abitata erano, e nelle piazze e su l'uscir della terra, luoghi deputati per lo giuoco della palla, voglio ora dire del modo nel quale si giuocava, perchè in effetto è cosa degna da vedersi e da notarsi. Giuocavano questo giuoco a dieci per dieci e vinti per vinti, e piú e meno uomini, secondo che convenivano, e d'intorno al luogo dove si giuocava avevano le genti che stavano a vedere li lor banchi di pietra; ma il caciche e gli altri uomini principali sedevano su certi banchetti di legno lavorati vagamente e intagliati di rilievo, che essi li chiamano duho. Le palle con le quali giuocano sono di certe radici d'alberi e di erba e sughi, delle quali fanno con altre cose una mistura che si somiglia alquanto alla cera o pece negra. Cuocono tutte queste materie insieme, e ne fanno una pasta della quale compongono e formano una palla, tanto grande quanto sono le palle a vento con le quali si giuoca in Spagna; e le fanno anco e maggiori e minori. Questa mistura, benchè sia come pece nera, non s'attacca però alla mano. Ella, doppo che è asciutta, diventa alquanto spongiosa; non però che abbia buco né vacuo alcuno, come la spugna, ma diventa bene alquanto leggiera.
Saltano queste palle senza comparazione, assai piú che quelle da vento, perchè, con lasciare solo cadere di mano in terra, sbalzano molto piú in su di quello che cadute sono, e danno uno e piú salti, diminuendo sempre da se stesse nel saltare, come sogliono le palle a vento fare e assai meglio; ma perchè sono massiccie, sono alquanto gravi, e se si percotessero con la mano aperta o col pugno chiuso con pochi colpi aprirebbono e sconcerebbono la mano. E per questa cagione le battono con la spalla e col cubito e con la testa, e piú spesso con l'anca o col ginocchio, ma con tanta prestezza e leggierezza che è una maraviglia; perchè, ancorchè la palla vada quasi a pari col terreno, si lanciano essi di modo indi tre o quattro passi lontani, stesi nell'aere, che attamente le danno con l'anca per ributtarla al contrario; che già ogni botta che si dia alla balla nell'aria e non vada strascinando per terra è buona, perchè essi non tengono palla alcuna mal giocata perchè abbia dati due o tre o piú salti in terra, pur che la botta si dia nell'aere. Non fanno caccie, ma posti tanti da un capo quanti dall'altro, si compartono con un segno il terreno del giuoco, e quelli d'una parte incominciano a giuocare e a tirare la palla, aspettando che alcun de' contrari la tocchi; e cosí la rimandano d'una parte all'altra. E la contenzione del giuoco consiste che quelli da un capo la facciano passare dall'altro oltra i termini già segnati prima, sí che non cessano mai finchè la palla vada strascinando per terra e non faccia piú botte, o che non vi sia stato il giuocatore a tempo, o che ella sia cosí lontana andata che non vi sia giunto egli a tempo per darla nell'aria; e questo vincimento si pone per una linea, e tornano a giuocare per l'altra. E cosí, quella parte che tante volte vince, quanti prima patteggiarono e volsero che fussero per la vittoria, se ne porta il pregio che fra loro posero.
Questo giuoco si somiglia alquanto a quel che chiamano in Spagna della ciuoca, quanto al contrasto che vi si fa; salvo che in luogo della ciuoca è la palla, e in luogo del baston curvo col qual la ciuoca o palla si batte è la spalla o l'anca del giuocatore. In Italia giuocano un giuoco di palla grossa, che la chiamano il pallone, e ho spezialmente in Lombardia e in Napoli veduto giuocare molte volte questo giuoco; e percuotono queste palle col piè, e quanto alla forma del giuoco si somiglia assai a questo che ho detto degl'Indiani, salvo che, perchè qui danno alla palla con la spalla o col ginocchio o con l'anca, non vanno queste palle cosí alte come va il pallone o la palla a vento, benchè queste palle dell'Indie saltino molto piú, e sia il giuoco in sé di maggiore artificio e di gran travaglio.
E certo è cosa da maraviglia vedere quanto vi vadano destri e presti gl'Indiani, e molte donne indiane anco. Questo giuoco il giuocano ordinariamente uomini con uomini e donne con donne, e qualche volta mescolati uomini e donne, e lo giuocano anco le donne maritate con le vergini. E si dee notare, come in altra parte s'è detto, che le donne che hanno conosciuto uomo portano avvolta al corpo una traversa di bombagio dalla cintura fino a mezza coscia, e che le vergini non vi portano cosa alcuna coperta, o che giuocando o non giuocando, e le caciche e donne principali maritate portano queste traverse sottili e bianche dalla cintura fino a terra; e se sono donne giovani e vogliono giuocare al batei, lasciano via quelle coperte lunghe e se ne pongono altre corte fino a mezza coscia, ed è cosa di molta maraviglia vedere con quanta prestezza e destrezza vi vadano, cosí gli uomini come le donne.
Gli uomini, prima che i cristiani abitassero questi luoghi, non portavano cosa alcuna dinanzi alle loro vergogne, come s'è anco detto di sopra; ma dapoi, per la conversazione degli Spagnuoli, vi si ponevano certe coperte come pampane di panno o di cottone o d'altra tela, larghe quanto è una mano, attaccate ad un filo che si cingevano; ma non già per questo restassino che non mostrassino quanto avevano, ancorchè non soffiasse vento alcuno, perchè quel panno andava sciolto e a libertà d'ogni banda, fuori che dalla parte di sopra dove l'attaccavano. Ma poi che l'intesero meglio, con la lunga conversazione de' nostri, cosí gli uomini come le donne si coprirono con camice assai buone che di cottone facevano; e al presente quelli pochi che vi sono avanzati vanno vestiti di camice o di altre vesti, massimamente quelli che sono in potere de' cristiani; e se vi sono alcuni che non fanno cosí, è solo questo loro antico costume restato fra quelli pochi che si sono ritirati col caciche don Enrico, del quale s'è fatta menzione a lungo nella fine del precedente libro.
Degli uracani o tempesta, che sono state in questa isola Spagnuola e in mare e in terra di molto spavento e danno, doppo che i cristiani in questa isola passarono.
Cap. III.
Uracane, in lingua di questa isola, vuol dire propriamente fortuna tempestuosa molto eccessiva, perchè in effetto non è altro che un grandissimo vento e pioggia insieme. Ora, accadette che un mercordí, a' tre d'agosto del 1508, essendo governatore di questa isola il commendator maggiore don fra' Nicola d'Ovando, quasi su l'ora del mezzogiorno si levò in un subito un vento grandissimo e acqua insieme, che in un tempo istesso fu da molte terre di questa isola sentito: e ne nacquero per ciò in un subito gran danni ne' campi, e ne restarono rovinati i poderi, e in questa città di San Domenico mandò per terra tutte le case di paglia che vi erano; e alcune anco di quelle che erano edificate di pietra restarono assai danneggiate e tormentate. E nella terra che chiamano la Buona Ventura vi andarono tutte le case per terra, onde restò di sorte che ben si poté per piú dritto nome chiamare la Mala Ventura, per li molti che rovinati vi furono. E quello che fu peggio e piú doloroso, che nel porto di questa città si perderono piú di venti navi e caravelle e altri vasselli.
Era il vento di tramontana cosí forte che, tosto che cominciò a cargare, entrarono i marinari ne' battelli e andarono a gettar nel mare piú ancore e a fermare con piú capi i vasselli loro per assicurarli; ma tanto crebbe il vento e la tempesta che non vi giovò provisione alcuna che si facesse per ostarle, perchè ogni cosa si ruppe e il vento cavò a forza tutti i vasselli e grandi e piccoli fuori del porto, per lo fiume in giú, e li pose in mare, e alcuni ne fece andare traversi per queste brave costiere, altre ne annegò che non apparvero piú mai; ma, cambiandosi poi d'un subito il vento al contrario, e con un meno impeto e furia, crebbe cosí grande il vento di mezzogiorno quanto era stato quel di tramontana, onde al lor mal grado ritornò furiosamente alcuni vasselli nel porto, e come gli aveva il vento di tramontana prima cacciati nel mare, cosí quest'altro opposito gli fece ritornare nel porto, e per lo fiume in su. Questi vasselli stessi si vedevano poi ritornare in giú, senza vedersi da alcuni di loro altro che le gabbie sole, perchè il resto andava tutto sotto acqua.
In questa calamità s'annegarono molti uomini, e il piú crudo di questa tempesta durò ventiquattro ore, fino al dí seguente a mezzogiorno; ma non cessò del tutto cosí d'un subito come d'un subito venuta era. Ella fu di sorte che molti che la viddero, e sono oggi vivi in questa città, affermano e dicono che fu la piú spaventevole e orrenda cosa che potessero mai occhi umani in simile caso vedere, e dicono che parea che fusse stato aperto l'inferno, cosí parea che i demonii portassero da una parte ad un'altra quelli vasselli. Ne portò il vento di peso molti uomini molti tiri d'archi per le strade e per le campagne, senza potere tenersi né aiutarsi, e a molti ne ruppe il capo e guastò miseramente. Trasse a forza fuori alcune pietre che stavano fabricate per le mura, e abbatté e fracassò molti folti boschi, rivolgendoli sottosopra e d'altri lanciandone gli alberi molto di lungo; e in effetto fu grandissimo e generale a tutta questa isola il danno che questo uracane o tempesta fece. Dicevano gl'Indiani che qui solevano essere altre volte uracani, ma non n'era accaduto mai un altro a questo simile, né in tempo loro né de' loro predecessori. E cosí, per questa orrenda tempesta, restarono in questa città e nella maggior parte dell'isola morti molti uomini e rovinate le loro facultà, e spezialmente i loro poderi ne' campi.
Il seguente anno del millecinquecentonove, a' dieci di luglio, venne in questa città l'admirante don Diego Colombo, come s'è altrove detto; e a' ventinove del medesimo mese nacque un altro uracane, maggiore del già detto: ma non fece però tanto danno nelle case, benchè lo facesse maggiore nel campo. Vi è stato anco altre volte dapoi, ma non giamai tale né di tanto spavento come questi due. Si crede, e l'affermano i catolici e l'esperienzia l'ha mostro, che doppo che il santissimo sacramento dell'altare s'è posto nelle chiese di questa città e dell'altre terre di questa isola, sono cessati questi uracani. Né si dee di ciò niuno maravigliare, poichè, avendo in questi luoghi perduto il demonio la sua signoria, e presola per sé il pietoso Iddio, che vi ha la sua santa fede e religione piantata, dee essere anco differenzia ne' tempi e nelle tempeste e in ogni altra cosa da prima a poi; e tanto senza comparazione quanto è il caso maggiore, poichè la potenzia del nostro Iddio è infinita, e per la sua clemenzia sono poi qui cessati questi pericolosi e spaventevoli uracani.
Un onorato cittadino di questa città, che ebbe nome Pietro Gallego, il quale poco tempo fa che morí, fu il primo che fece fare un bel sacrario di marmo, e ben lavorato, per tenervi il santo sacramento nel monasterio di San Francesco di questa città, doppo che furono passati quegli uracani che si sono detti, e che poi non se ne sono veduti piú mai. Onde, sí per questo come perchè egli era nobile, e de' primi che si ritrovarono nella conquista di questa isola, la maestà cesarea, essendosene informata, gli diede il titolo di mariscalco di questa isola, e con questo titolo poco fa che morí.
Ho toccato questo perchè, come ho in altre parti detto, non penso lasciare in potere della oblivione cosa alcuna degna che a mia notizia giunga: onde, al proposito di questi uracani, ho detto di questo primo sacrario in questi luoghi edificato, perchè prima non tenevano qui il sacramento per le chiese, essendo solamente gli edificii di legni e di paglia, e perciò poco a tal bisogno convenienti. Per certo che chi ha passato per qualche bosco di grandi e spessi alberi dove questi uracani giunti siano ha visto cose di molta maraviglia e di spaventevole scrima; perchè vi si veggono innumerabili e grossissimi alberi cavati dalle radici, che sono tanto alte quanto era l'albero fino alla sua piú alta cima, altri spezzati per mezzo e in piú parti, e posti di modo l'uno sopra l'altro che pare a punto un'opera diabolica. In alcuni luoghi di terra ferma ho io veduto, in piú spazio che non è uno o duoi tiri di balestra, stare tutto il territorio coperto d'alberi disradicati e spezzati, e posti l'uno sopra l'altro, come s'è detto, con maravigliosi intrichi. E perchè noi, che indi andavamo, bisognava che passassimo per quelli stessi luoghi e boschi cosí spezzati e intricati, non avendo altro cammino cosí sicuro o al nostro proposito, vietandocelo i gran fiumi e le aspre balze e le profonde valli e gli spinosi e chiusi boschi, con altre molte difficultà (come era il suspetto degli nemici e il non sapere il paese), era cosa da notare il vedere come i nostri andavano otto o dieci braccia l'un piú alto che l'altro, d'albero in albero e di ramo in ramo, travagliandosi incredibilmente per seguire il cammino nostro; onde con tutti questi disagi camminando sentivano e molta stanchezza delle persone e gran fatica dello spirito, con speranza di giungere al porto, benchè per cosí impedito cammino; e sempre ne uscivano alcuni de' compagni nostri flagellati, dirotti, e con le vesti tutte lacere e con le mani scorticate. E gli alberi che cosí tronchi o disradicati sono, sono grossissimi, e di molta maraviglia a vederli a quel modo, massimamente allontanati tanto da quel luogo dove cresciuti si erano, e di modo l'un sopra l'altro e l'un con l'altro intricati e intessuti che a punto pare, come s'è già detto, una opera diabolica; e non è occhio umano che veggendolo ne resti senza supremo spavento.
Delli due uracani che ho detto che in questa isola a' tempi nostri accadettero, ho in questa città molti testimonii degni, e del secondo ne ho alcuni qui dentro nella mia casa; e per tutta l'isola sono molte persone che molta facultà vi perderono, come ne sono anco molti in Spagna che con gran lor perdita e de' lor vasselli lo viddero e sentirono nel primo uracane. Queste due tempeste, in effetto, furono tali che non se ne perderà giamai la memoria fra quelli che oggi in questa isola vivono; e perciò è bene che se ne lasci anco notizia a' posteri, perchè preghino nostro Signore che di tal pericolo gli liberi: e cosí si spera che la sua clemenzia lo farà, sotto l'ombra e scudo del suo sacratissimo e vero corpo.
Ma passiamo ora all'altre cose, che io spero che non saranno men grate e piacevoli alli lettori di quello che fin qua si è detto.
Delle barche degl'Indiani, che essi chiamano canoe, che sono tutte di un pezzo.
Cap. IIII.
Parlando Plinio delle cose dell'India orientale, dice che da Modusa, città della regione chiamata Cotona, si porta il pepe al porto chiamato Becare con barchette fatte d'un legno. Queste cosí fatte barchette credo io che fussero come sono quelle che usano qui gl'Indiani, che di questo modo sono. In questa isola Spagnuola e in tutte l'altre parti di queste Indie che fino al presente si sanno, per tutte le costiere del mare e per li fiumi che hanno fino a questa ora i cristiani veduti, vi ha una maniera di barchette, che gl'Indiani chiamano canoe, con le quali navigano per li gran fiumi e medesimamente per questi mari, e se ne servono nelle loro guerre e nelli loro traffichi da una isola ad un'altra, e nelle loro peschiere e altri loro bisogni. I cristiani medesimamente che ora qui vivono, non si possono de' lor poderi servire, che presso le costiere del mare o de' fiumi grandi stanno, senza queste canoe.
Ogni canoa è fatta d'un solo pezzo o tronco d'albero, il quale gl'Indiani cavano a colpi di mannaie di pietre inastate; e con queste pietre mozzano il legno o l'infrangono a poco a poco, perchè vi adoprano il fuoco e ardonne quello che hanno a questo modo ben pesto e battuto e mozzo. E ismorzando il fuoco vi ritornano a percuotere come prima, e cosí continovando a questo modo ne vengono a fare una barchetta a modo d'uno albuolo, ma profonda, longa e stretta, e cosí grande e grossa come la longhezza e larghezza dell'albero lo sofferisce; di sotto è piana, e non vi è schiena né carena, come nelle nostre barche si vede. Ho veduto io di queste canoe di portata di quaranta e cinquanta uomini, e cosí larghe che vi potrebbe stare dentro agiatamente di traverso una botte, fra gl'Indiani caribbi arcieri; perciochè questi l'usano cosí grandi e maggiori, e le chiamano pirague, e le navigano con vele di cottone e a remi medesimamente, i quali loro remi essi chiamano nahes; e alcuna volta vi vogano in piedi, alcuna volta assentati, e quando vogliono ancora inginocchioni. Questi lor nahes sono come pale longhe, e hanno le lor teste o capi di sopra fatte con una traversetta, a guisa de' bastoni de zoppi, come qui dipinti i nahes o remi e la canoa si veggono.
Ve ne sono alcune, di queste canoe, cosí picciole che non vi capeno se non due o tre Indiani, e altre che ve ne capono sei, altre dieci, e cosí di mano in mano, secondo la lor grandezza. Ma tante l'une quanto l'altre sono assai leggiere, ma pericolose, perchè molte volte si traboccano: ma non s'anniegano, ancorchè d'acqua s'empino, ma, perchè questi Indiani sono gran natatori, le ritornano a ridrizzare e a votarle tosto dell'acqua. Non sono vasselli questi che si discostino molto lunghi dalla terra, perchè, essendo bassi, non possono soffrire gran mare, e facendo un poco di mal tempo tosto si traboccano; e benchè non si perdino o s'annieghino, non è ciancia però l'esporsi l'uomo a questo pericolo, massimamente chi non sa natare, com'è accaduto molte volte a' cristiani, che vi sono affogati. E pure con tutto questo sono piú secure queste canoe che non le barche nostre, in caso di traboccarsi, perchè, se bene le barche nostre assai piú di rado traboccano, per essere piú alte e piú atte a sostentarsi nel mare, queste nondimeno che una volta vanno sottopra ne vanno a ritrovare l'arena; là dove le canoe, ancorchè trabocchino e s'empino d'acqua, non per questo si perdono, perchè sopra acqua restano. Ma chi non è buon natatore non le continovi molto. Non è barca che vada tanto quanto la canoa, ancorchè ella con otto remi vada, e la barca con dodeci; e vi sono molte canoe che con la metà meno di gente andrà piú che la barca, ma ha da essere però in mare tranquillo e quieto e con bonaccia.
Del modo che gl'Indiani tengono in cavare fuoco e accendere lume, senza pietra e focile, ma con un legno solamente, torcendolo sopra un altro.
Cap. V.
Si può ogni ora vedere facilmente in molte cose quanto si ritrova la natura provista a dare agli uomini tutto quello che è lor necessario. Questa maniera dell'accendere del fuoco degl'Indiani, parrà in molti luoghi cosa nuova e di non poca maraviglia a quelli che non l'hanno ancora veduto, ma per tutte queste Indie è tanto commune, quanto è necessario il fuoco per la vita umana e per lo servigio delle genti. Ora, essi lo cavano a questo modo. Tolgono una bacchetta longa due palmi o piú, secondo che ciascun vuole, e cosí grossa quanto è il piú picciolo deto della mano o quanto è la grossezza d'una saetta, e la fanno ben lavorata e liscia, di un forte legno che essi ben conoscono quale sia atto per questo; e dove si fermano nella campagna a mangiare o a cenare e vogliono avervi il lume, tolgono duoi bastoni secchi, e i piú leggieri che ritrovano gettati per terra gli stringono e legano ben insieme. Gli pongono poi in terra, e fra la loro giontura pongono la ponta di quella forte bacchetta che ho detta, e ve la spingono dentro torcendo con mani e quasi pertugiandovi continuamente; e perchè la ponta della bacchetta frega, volgendosi intorno, i due bastoncelli stesi in terra e ben stretti insieme, gli accende in poco spazio di tempo, e di questa maniera hanno il fuoco.
Questo si fa in quest'isola Spagnuola e in tutte l'altre e in terra ferma anco, ma nella provincia di Nicaragua e in altre parti non tengono servata la bachetta liscia e forte, ch'io dissi che 'n vece di torvela serviva, ma del legno istesso dell'altre bachette e bastoncelli che si accendono si servono. In Castiglia dell'Oro però, e nell'isole dove gl'Indiani guerreggiano, perchè hanno bisogno piú minutamente del fuoco, si conservano e portano seco quella bachetta principale, perchè è liscia e lavorata al proposito, e con piú comodità e agevolezza s'adopera, e piú presto si cava e con meno affanno il fuoco che non si fa con que' bastoni che si ritrovano a caso, aspri e torti. Chi avrà letto i libri degli antichi meno si maravigliarà di molte cose che noi qui diciamo, perchè potrà averne avuto notizia prima, com'è a punto ora di questa; perchè Plinio, ragionando nel secondo libro delle sue istorie de' miracoli del fuoco, dice come fregandosi due legni insieme se ne cava 'l fuoco: di modo ch'è una cosa istessa quello che Plinio dice e che questi Indiani fanno. Ma perchè vo io adducendo l'autorità degli antichi nelle cose ch'io ho vedute, e che la natura a tutti insegna e si veggono ogni dí? Dimandate a' carrettieri, che si essercitano in condurre le carrette o i carri, e vi diranno quante volte gli s'accendono i poli delle ruote, per il fregare e rivolgere degli assi: che questo solo basterà a fare apprendere la maniera del cavare il fuoco che qui si tiene, e che io ho in questo capitolo distesamente narrato.
Delle saline naturali e artificiali che gl'Indiani di questa isola Spagnuola avevano, prima che i cristiani vi passassero; e di quelle che ora vi sono.
Cap. VI.
È cosa naturale e costumata dagl'Indiani il sapere fare il sale in tutte queste Indie, e a quelli spezialmente che nelle costiere del mare vivono, che l'acqua marina cuocono per cavarne 'l sale; e cosí costumarono di fare in quest'isola, ne' luoghi dove dimoravano lontani dalle naturali saline. Ma, perchè io ho veduto in terra ferma fare agl'Indiani il sale, dirò a che modo lo faceano quando io passerò a scrivere le cose di quella contrada; perchè, quanto a quello di quest'isola, io mi sodisfaccio in questo caso, poichè vi eran le saline naturali: che già nella riviera del fiume Iache, che va ad uscire dalla parte di tramontana, a pari di Monte Cristo, ed è un gran fiume, vi sono certe saline di buono sale.
Ho detto che questo fiume va ad uscire dalla parte di tramontana, perchè in quest'isola vi è un altro fiume dell'istesso nome che va ad uscire dalla parte di mezzodí; ma quest'altro, prima che giunga al mare, si incorpora e congiunge col fiume Neiva, sichè l'altro Iache ch'io dissi prima delle saline va a scaricare le sue acque nel mare di tramontana. Vi sono altre buone saline in Porto Formoso, ch'è 15 leghe lontano da questa città di S. Domenico, nella costiera di mezodí: e ivi questa città si provede di sale, perchè sono queste saline molto abondanti; benchè non l'avessero già gl'Indiani, perchè questa città da poco tempo in qua l'ha fatte.
Nel mezzo di quest'isola, nella provincia chiamata dagl'Indiani Bainoa, v'è una montagna di sale quasi cristallino o trasparente, presso la lacuna grande di Sciaragua, 14 o 15 leghe lungi dalla terra di S. Giovanni della Maguana; la qual salina non cede al sale che 'n Catalogna chiamano di Cardona, perchè cosí cresce qui come là. E questa di Cardona è una delle buone saline del mondo, e però io l'ho comparata a questa della quale qui tratto, e della quale dico che si cavano piastre e pietre di sale grosse: e io n'ho veduta alcuna nella terra di S. Giovanni della Maguana che pesava piú di 100 libre, e mi dicevano coloro che in questa pietra ivi condotta aveano che v'erano dell'altre maggiori, ma le lasciavano per non stancare di soverchio le bestie con cosí grave peso. Questo sale è tenuto per medicinale e per ottimo, e cosí è in effetto, perchè serve a tutto quello che suole il sale servir nell'uso degli uomini, e in tutte quelle utilità e commodità che possono dal sale nascere.
Delli fiumi principali di questa isola Spagnuola (e ne faremo nove paragrafi).
Cap. VII.
I fiumi principali che sono in quest'isola Spagnuola sono quelli ch'ora dirò. E perchè la principale città e porto di mare e capo di questo regno e isola è San Domenico, giusta cosa mi pare che 'l primo fiume che si ha a descrivere sia quello che per questa città passa, e che lo chiamano Ozuma. Questo fiume entra nel mare molto potente e profondo, onde vi entrano securamente alla vela le navi cariche, e si accostano ad otto e dieci passi a terra col fianco, tal che per una tavola che si stenda dalla nave in terra si caricano e iscaricano i vasselli; il che in poche parti del mondo si può fare senza molo con cosí grossi vasselli. Nel 1533 venne qui la nave chiamata Imperiale (perchè è di Sua Maestà, ed è di portata di piú di ottocento botti), carica di gente e d'altre cose che qui portò, e ritornossene poi molto piú carica a dietro. Dico questo perchè fin ad ora non è passato a queste parti cosí grosso legno; e nondimeno stette in questo porto a quindici o venti passi da terra. Da questo porto escono i vasselli (se vogliono) di notte senza pericolo; e da dove sorgono dentro fin che sono nel mare fuori del porto può esservi un tiro e mezzo di schiopetto, poco piú o meno. Io ne sono uscito di notte sopra una nave carica di portata di piú di cinquecento botti, perchè il letto del fiume sta quasi sempre a un modo stesso; e perciò ne escono le navi molto a piacere, e nell'entrare, per la maggior parte del tempo, da mezzodí a basso non vi mancano foci e bocche alte. Si che il fiume e il suo porto è assai bello e navigabile con molte barche e canoe, sí per le pescherie che ha come per li giardini e poderi che nell'una riviera e nell'altra sono; e dentro la terra e nel porto vi fanno caravelle e navi, perchè vi è molta commodità nel vararle e porle in acqua doppo che sono fatte.
Egli è adunque questo un notabile e bello e ricco fiume, ma non se ne può però bere, per stare come s'è detto e il porto e la città presso al mare; ma, montando per lo fiume in su poco piú d'una lega, l'acqua è buona e sana, e vi è dentro molto pesce e di molte belle lize, e s'ammazzano in esso molti e grandi manati, de' quali e d'altri pesci si tratterà appresso, nel 13 libro. Questo fiume Ozuma entra in mare nella costiera di questa isola volta a mezzodí, e viene in giú dalla parte verso tramontana. L'entrata del mare e bocca del porto ha di fondo quattro braccia e piú, e vi vanno le navi a sorgere a pari della città, come s'è detto, in quattro altre braccia di fondo.
Vi ha in questa isola un altro potente fiume chiamato Neiva, che corre per mezzo dell'isola e lo attraversa; e viene dalla parte di verso tramontana, ed entra nel mare che bagna questa isola dalla parte di mezzogiorno, e passa presso alla terra di San Giovanni della Maguana; e nella bocca e foce sua è profondo, ma a mezza lega doppo che s'è entrato in lui è basso e deserto.
Nizao è un altro buon fiume, ed entra medesimamente in mare dalla costa di mezzodí, come gli altri detti di sopra, ma non è egli però cosí gran fiume; è ben molto ricco di poderi e di campi piantati di cannamele da fare zuccari, onde vi sono molti belli ingegni da cavarli; e appresso queste riviere e contrada sono bellissimi pascoli, e perciò anco molti armenti di bestiame.
Haina è un altro fiume ricchissimo nelle sue rive di poderi e possessioni di cannamele e d'altre sorti di utilità, e ha la miglior acqua che alcun altro fiume di tutta questa isola, ed entra nel mare, come gli altri già detti, nella costiera di mezzodí, ma non è cosí violento né di tanta acqua come gli altri fiumi maggiori; è ben per la sua fertilità un de' migliori e piú utili che vi siano.
Nigua si chiama un altro ricchissimo fiume, e ha il nome da quel maledetto animale che si pone ed entra nelle deta de' piedi, come s'è già detto di sopra nel secondo libro. Questo fiume è de' principali, ed è di grandissima utilità per le gran possessioni e belli territorii e ingegni da zuccaro che nelle sue riviere e per tutta quella contrada sono. Questo solo fiume, con gl'ingegni da fare il zuccaro e con li bestiami e altre cose che per questo effetto solo si tengono, bastarebbe a fare ricchissima qual si voglia città del mondo dove ciò fosse. Entra questo fiume in mare da mezzodí, come gli altri che si sono detti, e lungi quattro leghe o poco piú da questa città di San Domenico.
Iuna è un altro fiume, un de' piú violenti di tutta questa isola, e passando per la terra del Bonao va a entrare nel mare dalla parte di tramontana; e ha presso le sue riviere molti poderi e ottimi pascoli.
Iache è il nome di due fiumi in questa stessa isola. L'uno di lor si congiunge con Neiva, che è uno altro fiume maggiore, nel quale Iache entra prima che nel mare giunga, di modo che non ha nome che di Neiva quando con l'onde salse si mescola: e per questo non si fa tanto conto di questo come dell'altro Iache del quale qui si tratta, e si dice che egli ne va nel mare dalla parte di tramontana al paro di Monte Cristo; e ha appresso le rive sue buone saline, come s'è nel precedente capitolo detto. Questo fiume è violento, e ha appresso di sé ottimi e gran pascoli, con campagne e prati bellissimi e altri ricchi poderi. L'altro Iache, o Iachitello, va nel mare insieme con Neiva dalla parte di mezzogiorno, come s'è già detto di sopra, ed è molto differente dall'altro Iache, che va, come s'è detto, ad uscire nel mare di mezzogiorno.
Hatibonico è un altro gran fiume e veloce, che va ad uscire nella parte occidentale di questa isola, e ha da presso molti pascoli e belli territorii da seminare; e in lui entrano altri fiumi minori, ed è fiume di gran pescherie.
Sono molti altri fiumi in questa isola di molte buone pescherie e acque e di vaghe e belle riviere, come sono il Macoris, il Catui e 'l Cibao; e questi due ultimi sono molto ricchi d'oro, come il primo di pesci. Vi sono altri varii fiumi che, per non esser prolisso, si taciono, e perchè non sono cosí grandi come quelli che si sono fin qua detti; e di molti altri non si sa il nome perchè, essendo già morti gli Indiani antichi di questa isola, si hanno gli altri dimenticato i nomi de' fiumi, e di altre cose anco. Molti di questi fiumi, di piú di essere fertili d'oro, sono anche molto copiosi di pesci buoni, che o vi entrano dal mare o nell'acqua istessa dolce dei fiumi nascono e vivono. E questo basti quanto ai fiumi di questa isola.
Delli metalli e minere d'oro che sono in questa isola Spagnuola, e del modo come si truova e raccoglie l'oro (che ne faremo XI paragrafi o parti).
Cap. VIII.
Nel precedente capitolo ho nominati alcuni principali e veloci fiumi di quelli che sono in questa isola Spagnuola, e me ne sono brevemente ispedito. Ora voglio ragionare d'altri fiumi che, se ben non sono cosí famosi per la loro grandezza e pescherecci, sono nondimeno assai piú chiari e noti per la gran copia dell'oro che s'è dalle loro riviere cavato e cava; e in questi si vengono ad incorporare e a mescolare le loro acque altri innumerabili torrenti, ruscelli e fossati che da fonti ricchissimi d'oro nascono e hanno origine. E fra questi il fiume che chiamano Cotui è ricchissimo, e ha appresso di sé una terricciuola abitata da gente minerale, ed esercitata in questo mestiero di cavare l'oro; e la terra e il fiume hanno un medesimo nome, benchè il nome sia propriamente del fiume. E qui s'è fatto molto essercizio in cavare oro. Ma perchè di ciò si dirà appresso piú particolarmente, e come e per qual via si cava, diciamo un poco prima degli altri metalli che in questa isola Spagnuola sono di piú dell'oro.
In questa isola si ritrova rame, e ve l'hanno molti molte volte ritrovato, e dicono anco ch'egli sia buono e fino; ma ne fanno poco caso, perchè sarebbe un error grande lasciar di cercare l'oro e di cavarlo, sapendo che ve ne sia, per cercare il rame, essendo cosí disuguale l'utile che da questo e da quello si cava. Si che per questa cagione non è chi si voglia occupare né perdere il tempo in tale esercizio di cavar il rame. Basti, per quello che fa qui al proposito nostro, che ve n'è molto.
Hanno detto alcuni che in questa isola si ritrovi anco ferro, ma io non l'ho veduto e non l'affermo. Ho bene udito dire da Lope di Bardel, che oggi vive ed è cittadino di questa città, ed è uno degli onorati e ricchi gentiluomini che qui siano, che egli si ritrovò nella riviera del fiume Nizao, e che fece in presenza sua fondere la vena del ferro, e che ne cavò e l'ebbe per certo (s'egli non fu ingannato da colui che lo fuse, il che non resto io di credere, poichè la malizia degli uomini è molta). Non voglio né anco con questa opinione restarmi che non ve ne sia, poichè in Spagna non è molte leghe lontana Viscaglia d'Asturia e da Galizia, e in Viscaglia vi è una infinita quantità di ferro, e in Asturia e Galizia furono già grandissime e ricchissime minere d'oro, secondo che Plinio e altri famosi auttori dicono; e a questo modo potrebbe essere che in questa isola, dove molto oro si trova, non vi mancasse del ferro, poichè il medesimo Maestro che in Spagna fece queste e altre maggiori cose naturali le ha potuto anco qui fare, come fa ciò che gli piace e dove gli piace.
È cosa molto antica l'uso de' metalli e dell'oro nel mondo, secondo che nelle istorie approbate si legge. Scrive Plinio che Cadmo ritrovò l'oro e il modo di fonderlo nel monte Pangeo; altri dicono che fusse Toante ed Eaclide o il Sole, figliuolo dell'Oceano, al quale Gellio attribuisce l'invenzione della medicina. E tutto questo è di Plinio. Il grande Iddio comandò a Mosè che prendesse l'oro e l'argento dalli figliuoli d'Israel per edificarne il tabernacolo. Gioseppe medesimamente, quando fece in Egitto empire di frumento i sacchi de' fratelli, fece nella bocca di ciascun sacco porre il danaio stesso loro, e nella bocca del sacco del fratello minore vi fece di piú porre una tazza d'argento. E già prima il medesimo Gioseppe era da questi stessi fratelli suoi stato venduto agli ismaeliti per trenta danari d'argento. Sí che si prova per questo che l'oro e l'argento e i metalli furono antichissimamente in uso degli uomini; che già, come Plinio scrive, Servio Tullo, re di Romani, fu il primo che fece battere il rame, perchè prima l'usavano e cambiavano rozzo e impolito; e l'imagine che fece segnare fu una pecora, onde ne fu detta pecunia la moneta.
Ma lasciamo l'istorie passate e ritorniamo a questa presente, poichè questa cosa dell'oro è un passo nel quale gli avari con maggiore attenzione si fermano ad ascoltare che in altra particolarità e secreto che in questa istoria dell'Indie si tratti. Ma le persone savie e naturali lo leggeranno non con altra maggior avidità e desiderio che per intendere e sapere l'opere di natura, in tanto che, avendo piú libero l'intelletto, piú caro avranno d'udirmi, poichè non scrivo le favole di Amadis e degli altri che da lui dependono. Anzi, molti virtuosi e catolici leggeranno questa materia non con altro disegno che per ringraziare il Signor Iddio, che abbia una cosí eccellente e perfetta cosa creata come è questo bello metallo dell'oro, che tanto piú vale e piú risplende quanto meglio e piú santamente si saprà spendere; perchè l'oro che mal si spende o che è in potere di meschini e d'avari non è di piú giovamento che si sia quello che sta sotto terra nascoso, e che non l'ha mai veduto il sole. E come quando questa terra nostra madre universale si rompe e apre in diverse parti vi ritrovano gli uomini nelle sue viscere l'oro, cosí quando i fianchi dell'avaro incominciano a putrefarsi e ad aprirsi per terminarli la vita salgono fuori le monete occulte, delle quali non seppe mai giovarsi quel misero che le cumulò. Voglio inferire che io ho veduto in queste Indie gran cumulatori di questo oro, e per non saperlo ben spendere hanno finita in molta miseria la vita loro, e a guisa di rugiada o d'ombra è fuggito lor dalle mani questo oro, e poi appresso anco le loro vite.
Ma, per qualunque fine che voglia il lettore ascoltarmi, io voglio che intenda e sappia quanto è ricco l'imperio di queste Indie, che il Signor Iddio tenea servato a cosí felice imperatore come è il nostro, e a cosí cortese dispensatore delle ricchezze umane, che cosí saviamente e santamente le spende e impiega in eserciti ed esercizii cosí catolici, perchè abbiano effetto i suoi santi pensieri contra infedeli ed eretici, nemici della religione cristiana; e voglio che le nazioni straniere vegghino e pienamente intendino che la Spagna fu da Dio dotata d'animosi e potenti eserciti, d'illustri e valorosi cavallieri, e d'una gran nobiltà, e come tutti gli Spagnuoli sono di sopremo ardimento e valore e isperienzia nell'armi, come tutti gli antichi e moderni istorici dicono. Onde non senza cagione disse Livio, nel quarto libro della prima deca, che gli Spagnuoli sono ferocissima nazione, e che pensano che non possa essere la vita lodevole senza l'esercizio dell'armi. Ma, senza cercare l'autorità degli antichi, quelli che oggi ci vivono l'hanno e veduto e saputo, per potere farne fede, con gl'invitti re di Spagna passati e con li catolici re don Fernando e donna Isabella, che conquistarono Granata e Napoli e Navarra e altri regni, e discoprirono questo Nuovo Mondo di queste Indie; e con li trofei e segnalate vittorie della maestà cesarea dell'imperatore nostro, che è stato degno d'essere signore di cosí valorosa nazione.
E per verificare quello che io dico della sua potenzia e tesori, puossi cosa piú chiara dire che i suoi capitani e gente gli abbiano nel mare del Sur di queste Indie, in un dí solo del 1533, dato con la prigione del re Athabaliba quattrocentomila castigliani d'oro di valuta in oro e argento per lo suo quinto solamente, restandone un milione e seicentomila castigliani d'oro di valuta in questi duoi soli metalli, oro e argento, per dovere compartirsi fra quelli pochi Spagnuoli che ivi si ritrovarono. E vedete quanto furono pochi in numero questi cristiani, che ad ogni cavaliero toccò a parte novemila castigliani d'oro, e ve ne fu tale che giunse a quindeci e vinti e cinquantamila, se era capitano, e il minimo fante a piè ne ebbe a parte tre o quattromila. Or, qual vittoria si può comparare a quella del re Montezuma della Nuova Spagna? Certo che ogni altra cosa pare come una notte oscura alla chiarezza delle ricchezze del mare del Sur, poichè Athabaliba cosí ricco, e quelle provincie onde altri milioni d'oro si sperano, fanno che paia poco quanto di ricco si sa nel mondo; e poi quelle genti che tanto oro posseggono non hanno saette avelenate, né sanno che cosa si siano schioppi, polvere, istromenti da guerra e arme né difensive né offensive, e cosí fuggono da un cavallo come i demonii dalla croce.
Di là sono venute in questa isola tinelle d'oro, che ho io con questi miei occhi veduti, e altre molte cose di gran maraviglia e non piú udite né scritte; ma molte piú ne sono andate in Spagna, in Siviglia, e non sarà favola quello che appresso si dirà nelle cose di terra ferma, nella seconda parte di questa generale istoria; poichè assai noto è che, nel tempo che l'imperatore nostro volse partire di Madril, nel principio di marzo nel 1525, per giungere insieme la sua armata ed eserciti in Barzellona contra gl'infedeli, giunsero in Siviglia tre navi o quattro che non vennero cariche d'altro che d'oro e d'argento, ne' quali duoi metalli soli vi erano piú di duoi milioni di castigliani d'oro di valuta.
Una cosa sola non voglio lasciare qui di dire, e non se la dimentichi il lettore, ed è questa, che come a tutti gli altri scrittori di simile materia ha mancato l'oggetto, e non ha niuno potuto tanto ritrovare che dire quanto avrebbe saputo riferire nella sua istoria, cosí per lo contrario nella istoria mia manca la lingua, e mancarà il tempo e la penna e la mano e l'eloquenzia, tanto soprabonda e avanza materia di queste maravigliose ricchezze che qui sono, e che io spero in Dio di dire particolarmente nella seconda e terza parte di questa istoria dell'Indie; perchè tutte queste cose si lasciano per dirsi al suo luogo, con le cose di terra ferma. Ho voluto qui solamente accennare questa vittoria che ebbe Francesco Pizarro, governatore del Perú per Sua Maestà, acciochè il lettore la vada a trovare nella terza parte di queste istorie dell'Indie, dove si ragionerà della conquista del Perú e del mare del Sur. E non è stato fuori di proposito quello che s'è detto, poichè voleva far vedere i tesori che il nostro imperatore ne cava, e il modo che ogni dí Idio li dà. Ma ritorniamo alla istoria, e diciamo a che modo gli Spagnuoli raccolgono questo oro.
Io ho nel terzo libro detto d'un granello d'oro che pesava 3600 castigliani e si perdé in mare, ed era stato ritrovato in questa isola. Questo solo deve bastare a far credere che, dove il grande Iddio creò quel granello, non ve lo creò solo, né la natura in quel granello perdé affatto il potere o l'arte di farne degli altri. Ma perchè io voglio anco nel resto sodisfare, dico che si può a me credere piú che a niun altro in questa materia, poichè dal 1513 fino al 1532 ho servito al re catolico don Fernando e alla serenissima reina donna Giovanna e alla maestà cesarea per proveditore del fondere dell'oro in terra ferma; e Sua Maestà poi, volendo che Francesco Gonzales di Valdes mio figlio la serva nel medesimo ufficio, ne li fece grazia, supplicandonela io, e volse che io, come persona di età e atta al riposo, mi stessi in casa mia, scrivendo per suo regio ordine queste nuove e naturali istorie dell'Indie. E per questa cagione so io molto bene e ho molte volte veduto come si cava l'oro, e come si lavora nelle minere di queste Indie. Onde, perchè per tutti questi luoghi è di una stessa maniera, e io l'ho fatto cavare per me dalli miei Indiani e schiavi in terra ferma, nella provincia e governo di Castiglia dell'Oro, e cosí ho inteso che si fa per tutto da quelli che l'hanno raccolto in questa isola e nell'altre, mi ha paruto di qui dirlo, per non avere a ripeterlo e a riferirlo poi in altro luogo.
In molte parti di questa isola Spagnuola si ritrova oro, cosí nelle montagne e fiumi che chiamano di Cibao (che è un fiume in questa isola molto famoso per l'oro che vi si ritrova), come nel Cotui, del quale s'è fatta menzione di sopra, e nelle minere che chiamano di San Cristoforo, e nelle minere vecchie e in altre parti. Ma non sogliono già ogni uomo raccorre l'oro in ogni parte dove si ritrova, per cagione della spesa grande che vi bisogna, cosí delle cose da mangiare e necessarie alla vita e altri apparecchi che vi bisogna, come delle compre degli schiavi e ferramenti e altre molte cose; sí che bisogna che chi in questo esercizio si pone abbia tanto che gli avanzino danari alla spesa che ci vuole, e il guadagno sia tale che vi si possa stare. Questo oro non è dovunque si trova ugualmente fino e d'una stessa lega e bontà, ancorchè e l'uno e l'altro in un medesimo fiume si trovi, e d'una stessa minera uscito sia. Non parlo io qui dell'oro che s'è avuto per riscatti o nelle guerre, né di quello che hanno gl'Indiani di lor volontà dato a' nostri in queste isole o in terra ferma, perchè essi sogliono lavorare questo tale oro e mescolarvi o rame o argento, e lo abbassano quanto essi vogliono, di modo che è di differenti caratti e valori; ma io parlo dell'oro vergine rozzo, che non sia stato mai toccato da mano mortale né in simili misture venuto, come s'intenderà appresso nel processo di questa materia. E si dee sapere che questo oro vergine si ritrova ne' fiumi, cosí nell'acqua come nelle sue ripe e ne' boschi e nelle tre palme de' monti, come ora particolarmente cosa per cosa distinguerò. E ricordisi il lettore che l'oro si ritrova in una di queste tre maniere: o in zavana, o in arcabuco, o in fiume.
Chiamano gl'Indiani zavana le campagne seminatorie e le riviere, con ogni terreno senza alberi, ma o con erba o senza. Arcabuco chiamano il bosco e ogni luogo con alberi, o che sia piano o che sia montuoso; e in ciascuna di queste due maniere che l'oro si trovi, vi tengono questo ordine in cercarlo. Gli uomini minerali ed esperti in cavarlo hanno carico d'alcuna compagnia d'Indiani o di schiavi, o che siano suoi o d'altrui, perchè vi vanno o per proprio utile o assalariati da altri. E questo tal minerale, che ha da far prova e vedere dove può ritrovar la minera, volendo o in zavana o in arcabuco provarla, fa a questo modo. Netta prima quanto sta sopra la terra, o d'alberi o d'erba o di pietre, e poi vi cava con le sue genti otto o dieci piedi, e piú e meno, in lungo, e altrettanto o quel che gli pare in largo, ma non profondando né cavando in giú sotto terra piú d'un palmo o due ugualmente; e senza andare piú in giú lavano tutta quella terra che cavata ne hanno, e se in quello spazio d'un palmo o due ritrova oro segue l'impresa a quel segno. Ma se non ve ne ritrova fa cavare in giú al basso un altro palmo, e lava medesimamente quel terreno nel modo che ha fatto del primo che si cavò; e se né anco in questo secondo ritrova oro fa cavar piú in giú e piú in giú sotto terra, col medesimo ordine che s'è detto, a palmo a palmo lavando sempre tutta la terra come la prima volta fece, finchè giunga al sasso vivo giú. E se fin là non ritrova oro non si cura di cercarlo piú in quel luogo, ma va a cercarlo altrove; ma se ve lo ritrovano in quella altezza, senza andare piú in giú, si stende in cercarlo per largo. Che se l'oro va verso in giú, gli vanno medesimamente dietro, e continovano il lor lavoro mentre la quantità della minera scuoprono; la quale minera ha già certa misura determinata con certi ordini regii della quantità del territorio, quanto si ha da stendere ogni minera per la superficie della terra: e dentro questa misura (ch'è quasi quadra) possono cavare in giú a basso quanto vogliono. Ma tosto che alcuno la minera ritrova, è obligato a notificarlo agli ufficiali regii, e spezialmente al proveditore e allo scrivano maggiore delle minere, perchè gli si misuri e con segnali gli si termini e circonscriva la minera, perchè possano gli altri prendersi altre minere a canto a quello che la discoperse prima; e in quel terreno cosí circonscritto e terminato di ciascuna minera non può niuno entrare, né toccarlo per cavarne oro senza commettere furto e incorrere in gravissime pene, che senza remissione alcuna si esseguiscono. Ma dove finisce e termina la minera del primo può colui che appresso prima vi giunge segnarsi un'altra minera, da quella parte onde piú li piace, con le stanghe; onde qui anco quel proverbio quadra che dice che chi ha buon vicino ha il buon mattino, perchè quel primo discopritor avisa colui che esso vuole aiutare e che vuole per vicino, e se lo pone a canto; e ordinariamente, per lo piú, quando una minera è ricca suole essere anco ricca quella che gli è vicina, ancorchè non sia tanto. Aviene anco alcuna volta d'essere piú ricca la seconda che la prima. Si vede medesimamente ogni dí accadere che uno raccoglie molto oro in una minera, e nell'altra che le sta vicina non se ne ritrova granello. E questa è una delle cose nelle quali si fa piú conoscere la ventura degli uomini, perchè accade che siano due e tre e sei e dieci minere in uno stesso termine o riviera di fiume, e si vedrà che tutti gli altri cavino dalle lor minere oro fino, e che un solo, che avrà piú genti e migliori, non ne ritroverà niente o assai poco. E al contrario si vede assai volte che un solo ritroverà molto oro, e molti altri ne raccorranno assai poco: come pochi giorni che sono accadette nell'isola di San Giovanni ad un certo portoghese chiamato Fullano di Melo, il quale in poco tempo cavò e ritrovò cinque o seimila castigliani d'oro; e molti altri, che vicino a lui facevano il medesimo di raccorre oro, non ne ritrovavano tanto che fusse bastato a pagare le spese che vi facevano.
Ma lasciamo questo, perchè niuno ha da essere né piú ricco né piú povero di quello che ha Iddio ordinato; e per aventura coloro che meno oro raccolgono sono piú fortunati, perchè il Signor Iddio serva loro altre ricchezze maggiori, se con la volontà sua si conformano e lo vogliono conoscere. Queste minere di zavana, o sul terreno ritrovate, sempre si vogliono cercare presso a qualche fiume o ruscello o torrente d'acqua o laguna o fonte, dove si possa lavare la terra per ritrovarvi l'oro. E perchè s'è detto di sopra che si ha da lavare quel palmo o duoi di terreno che si cava in giú, soggiungo che non s'intende che abbia a lavarsi in quel medesimo fosso fatto nella minera, perchè questo sarebbe un far fango e loto piú tosto che altra cosa; ma si ha da torre quel terreno a poco a poco e portarlo fuori della minera all'acqua o ruscello dove ha a lavarsi, e ivi si ha a purgar il terreno con l'acqua e veder se resta oro nelle batee, che sono certi istromenti ne' quali la detta terra si lava. E per lavare questa terra e lavorare la minera fanno a questo modo. Pongono alquanti Indiani a cavar il terreno nella minera (e questo cavare essi chiamano scopettare), e del terreno cavato empiono le batee, le quali altri Indiani tolgono, con tutto il terreno che dentro vi è, e le portano all'acqua, dove stanno assise l'Indiane e Indiani che le lavano. Or queste batee piene di terreno si votano in altre maggiori, che tengono in mano quelli che il terreno lavano; e fatto questo, quelli che portato l'hanno se ne ritornano alla minera per l'altro, mentre che gli altri lavano quel primo che portato hanno. Questi che lavano sono per lo piú donne Indiane, perchè l'ufficio del lavare è di piú importanzia e scienzia e di manco travaglio che non è il cavare né il portare il terreno. Queste donne, o altri che si siano che lavano, si stanno assise nella sponda presso l'acqua, nella quale tengono le gambe fino a' ginocchi o appresso, secondo la disposizione del luogo di sedere e dell'acqua, e tengono con amendue le mani presa la batea per due maniche o punte che a questo effetto vi si fanno. E tosto che vi hanno dentro il terreno che lor dalla minera si porta, muovono la batea in bilancio, prendendo l'acqua corrente con certa destrezza e arte che non ve ne entra piú di quello che esse vogliono, e con la medesima arte in un subito la votano e gettano fuori dall'altra parte; e tanta acqua ne esce quanta ve ne entra, non mancandovene però tanta quanta basti a bagnare e disfare il terreno. E cosí se ne esce a poco a poco il terreno con l'acqua, che a poco a poco lo ruba e nel porta seco, e l'oro, perchè è grave, va sempre al fondo della batea, dove, quando il terreno è gito tutto via, resta limpido l'oro; e il lavatore lo pone da parte e torna a prendere piú terra nella batea, e nel medesimo modo lo lava. E a questo modo continovando, colui che lava ritrova tanto oro il dí quanto a Dio piace di prosperare il padrone degli Indiani e della gente che in tale esercizio s'occupano.
Si dee notare che, per un paio d'Indiani che lavano, vi bisognano due persone che portino la terra, e altre due che la cavino e ne empino le batee del servigio: che cosí si chiamano quelle nelle quali il terreno fino all'acqua si porta. Questi Indiani stanno occupati in questo esercizio delle minere, senza gli altri Indiani e gente che ordinariamente attendono ne' poderi, e stanno nelle stanze dove poi questi si raccogliono a dormire e cenare e vi abitano; e in queste stanze sono donne che apparecchiano loro da mangiare, e altre che portano poi il desinare a quelli che stanno o ne' campi o nelle minere a lavorare; perciochè sono molti quelli che, per sostentamento loro e degli altri, seminano il grano e l'altre vettovaglie necessarie alla vita. In tanto che, quando si dimanda ad alcuno quante batee tiene da lavare nella minera, e risponde che sono dieci, si ha da intendere ordinariamente che costui tiene cinquanta Indiani, a ragione di cinque persone per batea da lavare, non ostante che con meno quantità di gente alcuni la facciano: ma questo che io ho detto s'intende quanto al convenevole e necessario, perchè siano le batee ben servite.
Nelli fiumi e ruscelli o lacune d'acqua si cava l'oro d'altra maniera, ed è di questo modo. Se gli è lacuna s'ingegnano di votarla, s'ella è picciola e si può fare, e da poi cavano e lavano quel terreno e ne raccolgono l'oro, se ve ne è, nel modo che s'è detto di sopra. Ma se gli è fiume o ruscello ne isviano l'acqua dal corso e letto suo, e doppo che lo veggono secco vanno a raccorre nel mezzo del letto l'oro, se ve ne è, fra le pietre e sassi ruvidi che ivi siano; e talvolta, quando s'imbatte in un di questi letti d'acqua corrente, vi si ritrova gran quantità d'oro. E si ha da tenere per certo (come da l'effetto si pare) che la maggior parte dell'oro nasce nelle cime e nelle piú alte parti de' monti, e si genera nelle viscere della terra, e piovendo poi l'acque ne mandano via il terreno, e a poco a poco col tempo ne portano giú l'oro ne' fiumi e ruscelli che ne' monti nascono; benchè molte volte anco si ritrovi l'oro nelle campagne piane e lontane da' monti: e quando questo accade tutta la contrada circonstante è terra d'oro, e vi se ne ritrova gran quantità. Ma per lo piú e piú ordinariamente si ritrova nelle falde de' monti, e nelli fiumi stessi e nelle sue balze, perchè di molto tempo vi si raccoglie. Sí che, per una di queste due maniere che ho dette, si cava comunemente l'oro in queste Indie.
Si ritrova anco alcuna volta che la vena dell'oro non corre a lungo, per potere farsi quello che s'è detto, nelle minere di terra e fuori de' fiumi, ma va in giú verso il centro al dritto, da' lati, calando giú piú verso una parte che un'altra; e questo non è già contrario a quello che s'è detto, perchè l'oro, ancorchè esca e si ritrovi nella superficie della terra, non per questo nasce ivi, ma nelle interiori e piú secrete parti di lei. E allora in questo caso si fanno e cavano le minere a modo di caverne, di pozzi o di grotte, e penetrando giú dietro all'oro le vanno sempre appuntellando, perchè sono pericolose e sogliono alcuna volta cadere giú e ammazzarvi le genti che vi lavorano dentro; e di questa maniera di minere sotterranee, nel modo che s'è detto, se ne sono vedute molte in questa isola Spagnuola.
Di questa maniera che s'è pur ora detto dovevano essere le minere antiche e ricchissime della Spagna, poichè Plinio dice che quelli che cercavano l'oro sotto della terra vi appuntellavano con travicelli e travi grossi, per sostenere le grotte che non cadessero. Dice anco questo stesso autore che li monti sterili della Spagna, e che niuna cosa producono, sono fertili e copiosi d'oro, e che gli Spagnuoli in Asturia e Galizia e Lusitania cavavano ogni anno 20 mila libbre d'oro, e che in Asturia se ne generava la maggior parte; e si maraviglia come in altra parte del mondo non si trovasse che una tanta copia d'oro tanti secoli durata vi fusse; si che, dove tanta quantità d'oro si ritrovava, piú ricche minere essere vi dovevano che qui non sono, o che non si sono in questa isola vedute. Tanto piú che, di piú dell'oro, vi sono anco oggi in Spagna molte minere d'argento, e se ne cava gran copia; e vi sono anco minere di ferro e d'acciaio e di colori, e d'alcune onde si cavano gran tesori, non solamente per la regia camera, ma per molti altri cavalieri particolari suoi vassalli anco, di cui le già dette minere sono. Il perchè, secondo l'opinione mia, io tengo la Spagna una delle piú ricche provincie che abbia il mondo: e per colmar le sue tante ricchezze volse Iddio aggiungerle anco queste altre delle nostre Indie.
Ma perchè io non tratto qui delle cose di Spagna, delle quali scrissero a lungo Plinio, Strabone, Trogo, Solino, Isidoro e altri buoni autori, ma delle cose che in queste Indie sono, e che io ho vedute e veggo, e quanti qui vengono lo sanno, ritornando all'ordine della istoria nostra dico che, quando si lavora in qualche riviera di fiume, o nel fiume stesso senza l'acqua, sempre quelli che piú in giú l'oro ritrovano lo ritrovano piú fino (piú in giú, dico, secondo il corso dell'acqua, e non verso il centro); di modo che quelli che lo ritroveranno mezza lega piú in giú degli altri l'avranno uno caratto e piú di finezza, perchè quanto è l'oro piú travagliato, piú fino diventa. Ma quelli però che piú in alto lo cavano, e piú appresso al suo nascimento, ordinariamente piú ne raccolgono; e che questo sia il vero, benchè non sia bisogno addurre autorità in quello che qui ogni dí si vede e che io ho infinite volte veduto, il medesimo Plinio dice che l'oro col percotersi nel corso del fiume si pulisce e affina. Vi ha anco un'altra cosa molto notabile, ed è che l'oro che si raccoglie, stando cosí vergine, prima che provi il fuoco ha piú bello, piú vago e piú lustro colore che non ha poi che è fuso e che si lavora; dal che chiaramente si comprende, e la natura ci insegna, quanto siano piú perfette l'opere sue schiette e pure che non quelle che dalla industria e artificio umano fatte vengono.
E perchè s'intenda e creda che l'oro nasce e si genera nelli luoghi alti, e ne viene poi giú a basso dove si trova, vi è uno indizio molto evidente, del quale ci fanno fede i carboni che di legna si fanno. Già si dice che il carbone sotto la terra non si putrefa mai, e io lo credo, che questa è una spezie sua proprietà; e se pure ciò non è in tutti li legni, tengo che alcuni questo privilegio abbiano, perchè accade che, lavorandosi e cavandosi alcune minere nelle falde d'un monte, o pur nel mezzo o in altra parte di lui, ed essendosi andato in giú in terreno in tutto quattro o cinque passi, in quella stessa bassezza dove si ritrova l'oro vi ritrovano anco carboni, e prima anco alcuna volta; e questo aviene in terra che si giudica essere intatta e vergine. E questi tali carboni stanno cosí freschi, come se il giorno avanti fusse in loro stato estinto il fuoco; e certo che non sono potuti ivi nascere né entrarvi naturalmente, ma bisogna dire che in quel paraggio dove si trovano fusse già a qualche tempo la superficie della terra, e che ivi fussero con l'oro dalli luoghi piú erti portati dall'acque; e perchè, come si dee credere, piové poi infinite altre volte, l'acqua condusse giú del continovo lo terreno, e a poco a poco, col corso di molti anni e secoli, crebbe tanto la terra sopra i carboni e l'oro istesso che nelle minere si ritrovano.
E che questo che io dico de' carboni sia vero, si prova medesimamente da questo, che essendo io sopra il fondere dell'oro di terra ferma, mi furono in diversi tempi portati innanzi da duoi di que' minerali duoi circelli d'oro, lavorati e lisci e tondi come anelletti (che li sogliono l'Indiane e gl'Indiani portare nell'orecchie); e gli avevano cavati piú di duoi o tre passi sotto terra piú di 15 piedi, e ritrovatili avolti con l'oro vergine e rozzo: i quali circelli non potevano essere ivi entrati se non del modo che ho detto che i carboni v'entrano. Si dee prosumere adunque che cotali circelli o anelletti, poichè lavorati erano, si perdessero in tempo di molte età prima, e che l'acque con gli anni vi cumulassero lo terreno sopra, tanto alto quanto s'è detto; e perchè l'oro non si corrompe mai, stavano cosí interi e lustri come se fussero stati lavorati quel giorno stesso. E io gli ebbi amendue in poter mio.
Ho detto di sopra che quanto piú si travaglia l'oro, andando in giú dal luogo ove nasce fino al fiume dove si trova, tanto piú liscio e pulito si vede, e di piú fina lega e caratto; cosí dico, per lo contrario, che quanto piú appresso alla vena e al suo nascimento si ritrova, tanto piú crespo e aspro e men fino è di quel che sarebbe se fusse in giú corso e travagliato, e molto piú manca e perde nel tempo che si fonde, e piú agro sta e piú duro.
Si ritrovano alle volte granelli grandi e di molto peso sopra la terra, e alle volte anco di sotto; e il maggiore di quanti ne abbiano fino ad oggi i cristiani in queste Indie veduti, fu quello che ho già detto che si perdé in mare quando s'annegò il commendatore Bovadiglia con tanti altri cavalieri e gente, come nel terzo libro si disse; il qual pezzo pesava piú di 3600 castigliani. Che se Plinio avesse saputo di questo granello, e di molti altri che io ho veduti che si sono ritrovati in questa isola, quasi della medesima grandezza, altramente averebbe detto di queste Indie che non disse della Dalmazia, quando queste parole ne disse: "Rara felicità è che si ritrovi l'oro nella superficie della terra, come poco fa si vede nella Dalmazia a tempo di Nerone, dove ogni dí se ne fondevano 50 libbre".
Ritornando al proposito nostro, io ho in questa città di San Domenico veduto nel 1515, in potere del tesoriero Michele di Passamonte, due granelli d'oro, che l'un pesava sette libre, che sono 700 castigliani, e l'altro cinque, che sono 500 castigliani d'oro di 22 caratti e mezzo. E in terra ferma io ho veduti molti altri granelli di cento e dugento e trecento castigliani, e qualche poco piú o meno, e ritrovati medesimamente sopra la terra. Ho però veduto molte volte assai piú rallegrarsi i minerali e i padroni delle minere dell'oro minuto che non delli granelli, perchè è segno che la minera è piú durabile e copiosa, e se ne cava piú utile che non da quella dove si ritrovano questi granelli; e vi si ritrova alle volte cosí minuto che bisogna mischiarvi argento vivo. E perchè si sappia che cosa è un peso e che cosa è un castigliano, dico che un castigliano e un peso d'oro valeno al medesimo, i quali pesano otto tomini, e un ducato d'oro spagnuolo pesa sei tomini; sí che lo peso, overo castigliano, viene a valere un quarto piú del ducato d'oro spagnuolo.
Mi soviene a dire qui una cosa molto notabile, che mi hanno molte volte detto uomini assai esperti nelle minere e nel cavare dell'oro, ed è questo: che è accaduto nell'andare seguendo la vena dell'oro, per la via che esso camina verso le parte interiori della terra o de' sassi, s'è ritrovato cosí sottile come un filo o spiletto, e dove ritrova qualche concavità si ferma ed empie tutto quel buco, e vi si fa un granello grosso, e poi passa oltre per li pori della terra o del sasso, per donde la natura lo guida. E accade che lo minerale lo va seguendo per quel camino, onde corre sotto terra, e lo ritrova cosí blando e molle come una tenera cera, e lo torce cosí facilmente e piega fra le dita come se fusse quasi una cera liquida; ma in quel punto stesso che dà l'aere sopra, s'indurisce.
Poichè s'è fin qua trattato delle minere e dell'oro, con quanto mi è paruto al proposito di qui dirne, prima che io passi ad altre materie, è bene che qui come in proprio luogo si dica come gl'Indiani sanno assai bene indorare l'opere che essi lavorano e fanno di rame e d'oro bassissimo. Nel che sono cosí eccellenti, e danno cosí subito e chiaro lustro alle cose che indorano, che pare che siano d'oro finissimo e di 23 caratti o piú, e lo fanno con certe erbe che essi hanno. Il quale secreto è cosí grande che ogni argentiero d'Europa o d'altra parte che lo sapesse e se ne servisse nella patria sua si terrebbe ricchissimo, e sarebbe per diventarvi in breve tempo con questa maniera d'indorare. Questo secreto non si sa in questa isola, né anco nell'altre, ma solo in terra ferma, dove si vede gran quantità d'oro basso indorato nel modo che s'è detto. Ho voluto qui fare di questa particolarità menzione perchè mi è paruto al proposito della materia. Io ho veduta l'erba con la quale si opra il secreto, e gl'Indiani stessi me l'hanno insegnata, ma né per lusinghe né per altra via ho potuto mai cavare da loro il modo che l'adoprano; anzi negavano e dicevano che non facevano essi queste opere, ma che venivano lor fatte d'altre terre e paesi lontani.
Non è cosí da lasciare alla oblivione quello che intervenne a tre contadini, che vennero di Spagna in questa isola Spagnuola a fare prova della fortuna loro. Questi erano di Garoviglia, e fecero compagnia e passarono sopra una nave in questa città di San Domenico, nel tempo che il commendatore maggiore d'Alcantara governava questa isola. Giunti qui, dimandarono tosto una poliza, che fanno gli ufficiali del re a chi vuol andar a cavar oro, perchè senza questa licenzia non vi può andar niuno: e cosí se n'andarono alle minere nuove, che stanno sette leghe lungi da questa città, e vi stettero cavando ben otto dí o quindeci. E perchè erano persone di poca isperienzia, travagliarono indarno in cercare dell'oro; onde, ritrovandosi un dí molto pentiti della loro venuta qui, ed essendosi assisi sotto un albero a marendare e prendere un poco di riposo per ritornare poi all'essercizio loro, incominciarono a condolersi della lor venuta, e se ne rammaricavano forte, come sogliono fare le genti basse e di poco animo, che non sanno col tacere soffrire le lor miserie, ma le hanno tosto su la lingua. L'un di loro dicea che avea venduti i buoi, co' quali travagliandosi sostentava la sua povertà in Castiglia, e viveva come ogni altro contadino della sua terra. L'altro, con la medesima passione, soggiungeva che aveva venduta la dote di sua moglie e quanto aveva al mondo, con che si sostentava con la sua moglie e figli in una estrema ma riposata vita, e che ora si vedeva come bandito da loro e senza speranza di rivederli mai piú. Non sentiva men dolore il terzo che amendue i compagni, e non restava né anco egli di fare i suoi lamenti, dicendo cose da disperato; e doppo ch'ebbe miseramente bestemmiato se stesso, che si fusse a cosí fatto viaggio posto, seguí bestemmiando l'anima del Colombo, che aveva cosí fatto camino mostro. Ma indi ad un pezzo, veggendo che i suoi lamenti erano al vento, riprendendo animo cominciò a consolare se stesso e compagni, e dicea che in un'ora non si conquistò Zamora, e che Iddio era grande, e darebbe loro quello che essi non avevano saputo ritrovare, acciochè se ne fussero potuti ritornare alle terre loro, a consolare le lor mogli e figli e a rallegrare i loro parenti e amici.
E ragionando, e rispondendo gli altri, e tutti insieme sospirando, un di loro vidde, piú di 20 passi lontano onde erano, lucere per lo splendore del sole un granello d'oro, onde tosto si alzò su dicendo: "Ancor potrebbe essere che avesse fine questo nostro ramarico". E con queste parole si aviò verso là dove vedea risplendere l'oro, e ve ne ritrovò un granello di 15 o 20 castigliani di valuta, e cominciò, saltanto per il piacere, a baciarlo e a ringraziare Iddio. Corsero tosto i compagni a partecipare di questo stesso piacere, e mirando ora a questa parte ora a quella ritrovarono molti altri granelli, e piú grandi e piú piccioli.
E per non menarla piú in lungo dico che sopra la superficie della terra e scavando, come persone meno atte che formate, s'iscalzarono certi bolzacchini o stivaletti ch'aveano in piedi e gli empierono di quelli granelli d'oro che ritrovarono, che giungevano alla valuta di piú di duemila o quasi tremila castigliani; e fatto questo se ne vennero in questa città e ne diedero notizia al commendatore maggiore. Ma questa notizia la diedero quando non ne poterono fare altro, perchè le minere stavano già affittate per lo re. Ma il commendator maggiore, perchè questi contadini erano d'un luogo presso la terra sua, volse aiutarli e non trattarli rigorosamente, acciochè si godessero della ventura loro, poichè Iddio gliela avea mandata; e cosí li favorí, ed ebbe gran piacere, insieme con tutta la città, che cosí ricche minere ritrovate si fossero. Ma non si puoté, con i tre contadini, ottenere che volessero andare a cavarvi piú oro né restare piú nel paese; onde, perchè erano villani e di poco animo, parendo loro d'essere ricchi con quello ch'avevano, e d'avere piú di quello ch'essi meritavano, se ne ritornarono subito in Spagna, con l'istessa nave con la quale venuti erano.
E da queste stesse minere cavò il licenziado Bezera, medico e cittadino di questa città, altri cinque o seimila castigliani d'oro. E dapoi si presero quelle minere per il re, e perchè era ivi proprio il nascimento dell'oro, se ne cavarono per i re catolici molte altre migliaia di castigliani. Fu cagione questa novella, che si sparse tosto per la Spagna, della buona fortuna de' tre di Garovilla, che molti contadini e altre persone di piú qualità passassero in quest'isola a far prova della lor sorte. E molti di loro in questa impresa morirono e molti altri vi si rimediarono, perchè alla fine non tutti con uguale ventura cavano l'oro; perchè ad alcuni pare che gli fugga l'oro dalle mani, ad alcuni altri pare che l'oro vada a trovarli, come suole l'istesso accadere nell'altre cose e negozii ne' quali l'uomo si pone.
E con questo ch'ho detto, ho compiuto a quello che tocca a' metalli di quest'isola Spagnuola; e il prudente lettore ne dee raccorre quanto gran tesoro potrà essere andato in Spagna da quest'isola, e dall'altre che sono abitate da' cristiani e dalla terra ferma di quest'Indie, dopo che queste contrade si discoprirono, non solo ad utile de' re di Spagna (de' quali è questo ricchissimo imperio), ma de' lor vassalli e sudditi anco assai piú, perchè il re non n'ha se non il quinto de' suoi diritti, e in alcune provincie, per fare grazie a' suoi vassalli, il decimo e meno; e questo d'oro puro solo, senza le perle e l'altre utilità grandi e di molta importanzia che 'n queste terre sono, e delle quali in tutto il mondo tanto utile ne risulta. Certo che questa statua chiamata Hollosphiraton, o l'altra di Gorgia Leontino, che fu il primo che nel tempio d'Apollo in Delfo drizzasse una statua d'oro massiccia, sarebbe degno che fossero state drizzate in onore di Cristoforo Colombo, primo inventore e discopritore di quest'Indie; poichè non come Gorgia Leontino, che con l'insegnare l'arte oratoria acquistò tant'oro che se ne fece una statua, ma come animoso nochieri e valoroso capitano ci insegnò e mostrò questo nuovo mondo, cosí pieno e colmo d'oro che se ne potrebbono fare mille grosse statue e degnissime d'immortale fama, per avere portata la fede catolica in questa isola e per tutte l'Indie, dove per grazia di nostro Signore ogni dí si aumenta la religione cristiana.
Che in altre parti del mondo si costumò di sacrificare gli uomini ai loro iddii e di mangiare carne umana, come al presente si fa in varii luoghi di terra ferma e in alcune isole.
Cap. IX.
In molti luoghi dell'istoria di Plinio si legge che gli uomini mangiavano carne umana, come erano gli antropofagi, nazione della Scizia, i quali bevevano anco, in vece di tazze, nelle cocche o ossa della testa de' morti; e si facevano collane de' denti e de' capelli di coloro che ammazzavano. Dice Plinio che questa gente abitava dieci giornate sopra il Boristene. Ora, queste cosí fatte collane ho io molte volte vedute al collo di alcuni Indiani in terra ferma, dove anco in molte parti mangiano carne umana e sacrificano gli uomini e le donne. Mangiano anco la carne umana nelle isole convicine a queste delle quali ho qui trattato, che sono la Domenica e Guadalupe e Matitino e Santa Croce e altre ivi intorno. Scrive l'Abulensi, parlando dei costumi delle genti di Tracia, che fra l'altre cose che di loro si favoleggiano è questa, che essi offeriscono agli iddii loro i forestieri che prendono, e gli uccidono e ne fanno sacrificio secondo il suo uso. Il che, qui in terra ferma, senza favoleggiarlo ma con molta verità si può dire, come lo scriverò piú a lungo nella seconda parte di questa naturale istoria dell'Indie, dove parleremo delle cose della Nuova Spagna e delle provincie di Nicaragua e di Nagrando e d'altre parti.
Ho qui solamente fatto menzione di questo per compire col titolo di questo sesto libro, che tratta di diverse materie; onde non vi doveva mancare questa, che è cosí rara e strana e molto usata fra gl'Indiani caribi e quelli che si chiamano Chorothegas, e altre nazioni di queste selvaggie e crude. Il perchè non senza cagione permette Iddio che siano rovinati e destrutti, e senza dubio io tengo che per la gran copia de' peccati loro anderanno tutti presto via, perchè sono generazione senza correzione alcuna, né giova con loro castigo né lusinghe né buon ricordi, e sono naturalmente gente senza pietà, né si vergognano di cosa alcuna; hanno pessimi desiderii e peggiori effetti, e non hanno niuna buona inchinazione. Potrà bene il grande Iddio emendarli, ma essi non hanno pensiero alcuno di correggersi né di salvarsi. Potrà bene essere che i loro fanciulli si salvino morendo battezzati, ma dapoi che essi entrano nella adolescenzia, pochissimi sono quelli che desiderano di essere cristiani, ancorchè si battezzino; perchè pare loro che sia una cosa travagliata, ed essi hanno poca memoria e quasi niuna attenzione, e ciò che s'insegna loro se lo dimenticano ad un tratto. Questo lo posso ben dire io, con molti altri, che ne abbiamo allevati alcuni in fin dalla lor fanciullezza; ma, come conoscono donne, si danno tanto in potere di questo vizio che non stimano tanto altro bene quanto questo peccato della lussuria e dell'usare crudeltà. Ma Iddio li paga secondo i lor meriti.
Che diremo noi qui, poi che vediamo anco che nel mezzo del mondo, che è Italia e Sicilia, furono i Ciclopi e i Lestrigoni? Dall'altra parte dell'Alpe medesimamente, come Plinio dice, si sacrificavano gli uomini, e in Francia un tal costume durò finchè Tiberio imperatore glielo tolse, come il medesimo autore dice. Né già meno in ciò gli Inglesi peccarono.
Ma perchè non dichino questi e quelli che io lor questa infamia do perchè non sogliono essere amici con Spagnuoli, voglio qui le stesse parole di Plinio nella lingua nostra addurre. Parlando egli adunque dell'arte magica e di questi diabolici sacrificii, a questo modo dice: "Nell'anno 757 doppo il principio di Roma, nel consolato di Corelio Lentulo e di Publio Licinio Crasso, fu nel Senato fatta una deliberanza e decreto, nel quale s'ordinò che non fusse piú uomo alcuno sacrificato, e per un tempo non si celebrò alla aperta un cosí abominevole sacrificio. Ma in Francia fino al tempo nostro si sacrificava, che Tiberio Cesare tolse questo orrendo costume, insieme con gli indovini e magici. Ma che dirò io, che questa arte passò anco il mare Oceano e penetrò nell'isola d'Inghilterra, dove con tanta cerimonia si celebrava questo sacrificio, che parea che gl'Inglesi l'avessero insegnato a quelli di Persia". Fin qua dice Plinio, e non sono io che né a Francesi né ad Inglesi questa infamia appongo. Ma passiamo all'altre cose di questa istoria dell'Indie.
Del diverso costume che in questi luoghi hanno i galli e le gatte a quello che in Europa hanno, e nel cantare e ne' congiungimenti loro.
Cap. X.
I galli, in Spagna e in molte altre parti di cristiani (e cosí penso io che in tutta Europa sia, o nella maggior parte di quello che se ne sa), cantano a mezzanotte e sul voler farsi del dí; e alcuni (i migliori) cantano tre volte in tre parti della notte, cioè a due o a tre ore di notte, e a punto su la mezzanotte e un quarto d'ora avanti all'aurora: e questo quanti a dí mirano si fa assai chiaro. Ma in queste nostre Indie d'altra maniera cantano, perchè alcuni ne cantano a prima sera, o a due ore di notte la sera e due altre ore prima che sia la mattina, e a mezzanotte non mai; alcuni altri ne cantano alla prima guardia e non cantano piú altramente nel resto della notte; di modo che, come ho detto, alcuni ne cantano due volte, alcuni altri una, ma su la mezzanotte niuno, e la maggior parte di loro cantano una ora e mezza o due prima che apparisca il sole nell'oriente.
Quanto alle gatte, dico che in Italia, Spagna, Francia e Sicilia e in tutti i luoghi d'Europa e Africa che io ho veduti, quando vanno in amore e la natura le chiama e inchina a congiungersi insieme, suole essere per lo piú nel mese di febraro, o 15 dí prima o poi di questo mese; e in tutto il resto dell'anno sono essenti e liberi da questo focoso e libidinoso desiderio, in tanto che rarissime volte si vede il contrario. Là dove in queste Indie altro costume le gatte serbano, ed è di oprarsi in questo libidinoso atto in tutti i mesi e tempi dell'anno: e lo fanno con meno voci e gridi di quello che in Europa si facciano, anzi per lo piú tacendo e senza fastidire l'orecchie de' cittadini. E certo, quanto a me, quando io in Spagna studiava di notte, o per mia recreazione leggeva qualche cosa, mi davano un fastidio e una noia incredibile nel tempo de' loro amori; ma qui, come ho detto, tutti i mesi e tempi dell'anno sono loro ordinarii per dovere insieme congiungersi, e senza gridi né voci. E vi sono qui tanto moltiplicati, che se ne sono molti di loro andati ne' boschi e vi sono diventati selvaggi, perchè vi ritrovano molti sorici e lacerte, de' quali si vivono mangiandoli.
Di un mostro che nel tempo che io scrivea questa istoria nacque in questa isola Spagnuola, e furono due fanciulle nate congiunte insieme.
Cap. XI.
Il beato Antonino da Fiorenza, nella terza parte della sua istoria, descrivendo l'anno del 1314, dice che nel territorio di Val d'Arno nacque in quello anno un fanciullo con due teste, e fu portato a Fiorenza allo Spedal della Scala, e in capo di venti dí morí. Dal che comprendo che, poi che a questo santo (che già canonizato e posto nel numero de' santi si trova) parve bene di fare con l'altre sue istorie menzione di quello che nel suo tempo accadette, che non sarà anco fuori del proposito mio, e di questa mia naturale istoria, fare qui menzione d'un altro mostro che in queste Indie si vidde, nel tempo che io queste materie scriveva, poichè è una cosa molto notabile e degna d'essere saputa al mondo. Perchè una opera di natura, e che cosí di rado accade, non si dee lasciare in oblio, massimamente che del mostro che io qui scrivo se ne debbono rallegrare e coloro che lo videro e coloro che legendo l'intenderanno, per essere certi che due anime ne montarono al cielo a riempire le vote sedie; perchè queste due fanciulle, prima che morissero, ebbero il sacramento del batesmo, e vissero otto dí, e non furono di forma brutta e difforme come negli altri mostri umani vedere si suole: onde quanti le videro ne restarono admirati, perciochè, oltra l'essere cosí ben proporzionate ne' membri loro, mostravano di dovere riuscire, vivendo ciascuna di loro, una bella donna.
Ma, venendo al caso, dico che in questa città di San Domenico, in giovedí, di notte, che furono a' 10 di luglio del 1533, Melchiora, moglie di Giovan Lopes balestriero, nato in Siviglia ma cittadino di questa città, partorí due figliuole congiunte insieme, del modo che qui appresso dirò. E il dí seguente lo vidi io stesso, insieme con la giustizia e altri rettori e persone principali e molti cittadini e dimoranti in questa città; e vi si ritrovarono anco alcuni religiosi e persone dotte. E stando la donna in letto e suo marito presente, a contemplazione di noi che ivi eramo, sfasiarono quelle creature, onde io vidi che dall'umbilico in su avevano il petto unito e congiunto insieme fin poco sotto le tette; di modo che amendue avevano un solo umbilico, ma le tette e il petto in su l'avevano distinto, perchè ognuna di loro aveva due braccia, due colli, due teste di grazioso e buon viso; dall'umbilico in giú medesimamente stavano disseparate. Ora, isfasciate che furono, incominciarono amendue a piangere, e quando poi le rinfasciarono e coprirono una di loro s'acchetò, e l'altra pur tutta via piangeva. Ci disse il padre loro che, tosto che elle nacquero, le fece da un clerico battizare, e ne chiamarono una Giovanna e l'altra Melchiora. E avendone il clerico battizata una, battizando l'altra a cautela disse: "Io ti battizo, se non sei battizata"; perchè egli non si seppe risolvere s'erano due persone e due anime o pure una.
Perchè poi, alli 18 del mese, la notte avanti queste fanciulle morirono, fu il lor padre contento che s'aprissero. Onde, poste sopra una tavola, furono aperte presso l'umbilico dal baccellieri Giovanni Camacio, in presenza di questi dottori di medicina, Fernando di Sepulveda e Rodrigo Navarro. Il chirurgico cavò fuori tutte l'interiore, e in ogni una delle fanciulle erano tutte quelle cose che in un corpo umano essere suole separate e distinte, perchè avevano due trippe, duo rignoni, duo pulmoni co' lor cuori e fegati e feli, salvo che il fegato dell'una stava congiunto e attaccato col fegato dell'altra; ma fra amendui questi fegati v'era una linea e un segno, col quale chiaramente si comprendeva e conosceva quello che era dell'una e quello che era dell'altra. Vi si vidde anco questo, che l'umbilico, che istrinsecamente pareva essere uno solo, nella parte interiore di dentro si divideva in due cannelle, ognuna delle quali andava nel corpo d'una di quelle creature, ancorchè di fuori (come s'è detto) paresse che fusse un solo. E da questo umbilico in giú stavano e si vedevano le fanciulle l'una dall'altra distinte e disseparate, e nel ventre e nelle coscie e nelle gambe e in ogni altra cosa, a punto come se ciascuna di loro fosse stata da se stessa intera e perfetta. Dall'umbilico in su stavano con le persone attaccate fino alla bocca dello stomaco o poco piú, e ognuna di loro aveva due tette, e la maggiore delle fanciulle teneva il costato diritto piú che il manco accostato e attaccato con l'altra, sí che il fianco diritto della maggiore col sinistro della minore piú si congiungevano che non dall'altra parte. Nel resto non mancava lor membro alcuno, né dito o unghia nelle mani o ne' piedi.
Dimandato il padre a che ora erano morte, disse che la sera innanzi a mezza ora di dí era spirata la maggiore, e fra una picciola ora appresso era spirata l'altra, come a punto nel nascere era avvenuto che altrotanto tempo era nata la maggiore avanti; di modo che tanto visse l'una quanto l'altra, e fu otto dí, come già s'è detto. Dimandato anco se nel tempo che vivevano si vedeva fra loro differenzia alcuna nell'alimentarsi e negli altri sentimenti e opre loro, rispose che qualche volta l'una piangeva e l'altra no; e questo viddi io la prima volta che mi furono mostre, come ho già detto. Disse anco che alcuna volta l'una dormiva e l'altra no, e che quando l'una andava del corpo o urinava l'altra nol faceva, e che accadeva anco alcuna volta di farlo amendue insieme in un tempo, e alle volte l'una anticipava l'altra: di modo che chiaramente si conosceva che erano due persone e che avevano due anime. Io, come ho detto, le viddi vive e le viddi anco poi aprire. E mi pare che questa sia una cosa piú degna da scriversi e notarsi che non quella che 'l beato Antonio da Fiorenza scrisse.
D'un fonte che sta dentro il mare, presso l'isola della Navaza.
Cap. XII.
Nella materia de' fonti, de' laghi e de' fiumi vi ha molto che dire, e per molto che io ne scriva non sarà tanto quanto quello che ne scrisse Plinio, nel secondo libro della sua istoria. Ben avrei io potuto fare un libro distinto in questa materia, e non sarebbe stato il piú breve degli altri di questa istoria dell'Indie, né di meno maraviglia che gli altri; ma perchè nelle provincie o isole che nel discorso di questa istoria si toccano ho di questi fonti qualche cosa particolarmente scritta, e il medesimo farò nella seconda parte, quando si ragionerà delle cose di terra ferma. Nel nono capo del secondo libro ho scritto di quel fonte o albero maraviglioso dell'isola del Ferro, che è una delle Canarie; e nell'ottavo capo del 17 libro scriverò d'un altro fonte di bitume che nell'isola delle Perle si vede. E ognuno di questi fonti sono nella spezie loro maravigliosi e notabili. E cosí io ora dirò qui di un altro fonte che sta nel mare presso l'isola della Navaza, da ponente a questa isola Spagnuola, e mi pare al proposito di parlarne in questo luogo perchè sta in mare e non in terra.
L'isola della Navaza è una isola picciola e disabitata, che sta nel cammino che navigando si fa da questa isola Spagnuola a la Iamaica o di San Giacomo, ed è dodeci leghe lungi dall'una e quasi altretanto dall'altra, ed è distante dall'equinoziale poco meno di 18 gradi. E nel mezzo del mare, mezza lega lungi da questa isola di Navazza, sono certe seccagne e scoglietti sotto acqua, e si vede con gli occhi il suolo e i sassi sotto l'onde. Fra quelli sassi, che sono un braccio e cinque piedi di fondo sotto l'acqua salsa, nasce e scaturisce su fin sopra l'acqua del mare un cannone d'acqua dolce assai buona, che certo cosa maravigliosa pare a vederlo. Ed è questo cannone d'acqua dolce piú grosso che non è un braccio d'uomo, e s'alza su sopra l'acqua salsa del mare, che se ne può commodamente raccorre la dolce. Questa fonte non l'ho veduta io, ma sta al presente in questa città un onorato cittadino, persona antica e di credito, chiamato Stefano della Rocca, che fa fede e dice avere esso veduto questa fonte, perchè vi è stato sopra e ha bevuto della medesima acqua. E costui è un di coloro a' quali in queste parti si da molto credito e fede.
D'un fonte caldo che passa sotto un fiume dolce e freddo nell'isola della Domenica.
Cap. XIII.
Poichè abbiamo qui questa materia mossa, voglio qui ragionare d'un altro fonte, sopra il quale sogliono molti uomini passare senza vederlo, e sta nell'isola Domenica. E di ciò non farò fede col mezzo d'altri che referito me l'abbiano, ma con l'isperienzia che io stesso ne ho fatta. Ed è di questa maniera. Io ho nelle altre parti detto che l'isola Domenica è una di quelle de' Caribi, e sta distante dall'equinoziale 14 gradi dalla parte del nostro polo artico, e ha dalla parte di ponente un buono porto e un buon fiume, che lo chiamano Acquata, dove toccano la maggior parte de' vasselli che di Siviglia in questa isola Spagnuola vengono, e vi prendono acqua; ma sempre bisogna stare sopra l'aviso e con l'arme in mano, per gl'Indiani caribi arcieri che in quella isola sono. Io vi stetti in terra duo giorni e mezzo e vi dormi' due notti, appresso a questo fiume che io dico, nel 1514, quando toccò quivi l'armata con la quale passò in terra ferma il governatore Pedrarias d'Avila, con duomila uomini. Dapoi, nel 1526, stetti un'altra volta nel medesimo porto, e smontai in terra presso al fiume già detto, quando passò in terra ferma il governatore Pietro delli Rii, successore di Pedrarias nel governo di Castiglia dell'Oro. E amendue queste volte viddi e isperimentai quello che ora dirò. Questo fiume, nella sua bocca, dove scarica le sue acque in mare, può essere da venti passi largo, e dove è piú fondale in questa bocca, non vi va uno uomo piú che fin che sotto le braccia. Or, presso alla sua riva, dalla parte di tramontana, è cosí caldo sotto l'acqua che, calando giú la mano e prendendone un pugno d'arena, pare che si prenda tanta cenere accesa, che quasi non si può soffrire; e a questo modo vi sta anco l'acqua calda di sotto, un palmo o poco piú sopra l'arena. E nondimeno l'altra acqua che il fiume porta per di sopra è fresca e buona a bere come l'altre acque di queste Indie, di modo che in quel luogo dee corrispondere qualche ruscello o cannone d'acqua calda.
Il che io cosí credo che sia, perchè da 300 passi indi lungi, nella medesima riviera del mare, verso la parte che ho detta di tramontana, è un ruscello d'acqua cosí calda che non si può bere, e presso a questo ruscello sta un stagno cosí torbido e feccioso che pare che mostri un colore d'una liscia gialla; e per tutta quella contrada debbono essere minere sulfuree, dalle quali si può congietturare che procedano tutte quelle acque calde. Io provai a porre sotto quella acqua fredda del fiume un fiasco voto e ben chiuso d'una zucca, e ivi di sotto, dove quel calore si sentiva, l'apersi e vi feci andare alquanta di quella acqua calda, e poi in quel medesimo luogo lo ritornai a rinchiudere, perchè nel tirarlo su non vi si mischiasse acqua fresca. Ella ne uscí cosí calda, quella che giú si prese, che non si poteva quasi soffrire in bocca. E di questo che ho detto se ne può ben fare la esperienzia, perchè dove è questa arena e acqua calda è presso la riva del fiume, e non vi è l'acqua piú profonda che poco piú che fino ai ginocchi.
Questo fiume ha in sé oro, e io vi guardai quando l'ultima volta vi fui, e vi viddi certe punte d'oro; e si crede che ne debba essere molto ricca, ma è di gente che non è stata ancor conquistata, e la contrada è molto aspra e molto intricata d'alberi e di palmeti e boschi, per quello che io n'ho visto presso la riviera del mare, e per quanto se ne vede costeggiandola. Ma, come ho detto, di questa materia de' fonti se ne dirà molto piú ne' libri che si scriveranno delle cose di terra ferma.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta dell'agricoltura.
Libro settimo
Proemio
Poichè ha piaciuto a Dio di condurmi a tempo che io possa occuparmi nella particolare relazione delle cose, delle quali si può fare secondo le spezie loro volume, perchè con la loro materia si possano i lettori recreare, voglio in questo settimo libro ragionare della agricoltura, e dire che sorte di pane e di principale sostentamento per la vita avevano e hanno gl'Indiani di questa isola, per mezzo della industria ed esercizio loro. E perchè di questo pane ve ne è di due sorte, e l'una assai differente dall'altra, dirò d'amendue, e a qual modo si semina e raccoglie, e come ne fanno poi il pane, e che proprietà ha. Dirò medesimamente d'alcune piante e legumi, e d'altre cose che queste genti coltivano per loro uso. E si dirà anco d'alcune altre provisioni necessarie alla vita che a questo proposito sono, acciochè molte cose che in questo e ne' seguenti libri si tratteranno non sia bisogno poi replicare altrove, nella seconda e terza parte di questa naturale istoria, dove si ragionerà delle cose di terra ferma; sí perchè non mi stanchi io, replicando molte volte una stessa cosa, sí anco perchè il lettore non se ne stomachi e fastidisca.
Poichè quello che tocca al governo non è quello che principalmente mi s'ordina e comanda che io scriva, né Sua Maestà vuole da me saperlo, avendo nel suo reale consiglio delle Indie cosí grandi e segnalati signori che ne la fanno avisata, insieme col reverendissimo cardinale il vescovo di Ciguenza, suo confessore e presidente del medesimo consiglio (benchè, mentre Sua Maestà è stata fuori di Spagna, ne è stato ed è presidente l'illustre signor don Garzia Mauriche conte d'Osorno); e di piú di tutti questi n'ha del continovo avisi da molti dotti e nobili cavalieri, deputati al governo di varii luoghi di queste Indie. E s'io ho qui detto cosa alcuna de' governi e de' governatori, per fare andare ordinata questa mia istoria, non già per questo resterò di riferire l'altre cose, che fanno al proposito della proprietà e fertilità e novità di queste terre. E poichè s'è detto de' riti e cerimonie e idolatrie e altri vizii degl'Indiani, ragionerò in questo settimo delle lor vettovaglie e cose appertinenti alla agricoltura. E doppo questo seguiranno altri libri particolari degli animali terrestri e degli acquatici, e degli uccelli e degli animali insetti, e degli alberi fruttiferi e selvaggi, e de' medicinali e delle erbe e delle piante, e finalmente di tutto quello che io nel proemio principale o primo libro ho promesso di dire; perchè questo che seguirà è quello che piú fa al proposito della ammirazione di cosí nuova e pellegrina istoria.
Del pane degl'Indiani, chiamato maiz, e come questo frumento si semina e raccoglie,
con altre cose a questo proposito.
Cap. I.
La maniera del pane degl'Indiani in questa isola Spagnuola è di due sorte, assai l'una dall'altra distante, e se ne servono communemente nella maggior parte di tutte queste isole e di terra ferma; onde, per non replicarlo altramente appresso, ne ragionerò qui, e dirò che cosa è questo cibo che chiamano maiz e quello che chiamano cazabi. Il maiz è grano, ma il cazabi si fa di radici e di certa pianta che chiamano iuca. Nel seminare il maiz tengono gl'Indiani questo ordine: nasce il maiz in certe canne che gettano e pullulano certe mazzocche d'un palmo, e maggiori e minori, ma grosse quanto è il pugno del braccio o meno, e sono piene di granelli grossi come ceci, ma non tondi del tutto; e quando vogliono seminarlo tagliano il bosco o il canneto, perchè il terreno dove nasce solamente erba non è cosí fertile come è quello dove sono canneti e alberi. Doppo che hanno il boschetto tagliato lo bruciano, e vi è quella cenere di tanta utilità quanto se col letame s'ingrassasse. Poi si pongono per ordine d'un lato cinque o sei Indiani (e piú e meno, secondo la possibilità del lavoratore), lontani un passo l'uno dall'altro, e con un palo aguzzo per uno in mano; e ficcando d'un colpo quel palo in terra il dimenano, perchè gli apra alquanto piú il terreno. E cavatolo tosto fuori, gettano con la mano sinistra in quel buco quattro o cinque granelli di maiz, che si cavano da una sacchetta o tasca che portano cinta o attaccata al collo, e poi col piè quel buco chiudono, perchè i pappagalli e gli altri uccelli non si mangino il grano. E fatto questo, danno tosto un passo avanti e fanno il medesimo, e di questo modo a compasso seguono oltre, finchè giungono in capo del terreno che seminano, e poi col medesimo ordine ritornano seminando, finchè tutta la campagna che seminare vogliono sia fornita. Ma un dí o due prima che seminino, pongono il maiz che hanno a seminare a fare molle nell'acqua; e perchè questo meglio si faccia, aspettano a seminare nel tempo che per le pioggie la terra stia tale, che la punta del palo possa con picciol colpo entrare tre o quattro dita sotto terra. Questo maiz fra pochi giorni nasce e in capo del quarto mese si raccoglie, e qualche volta piú presto, perchè in tre mesi si fa; e vi è semente che si raccoglie in capo di due mesi doppo che si semina. In Nicaragua, che è una provincia di terra ferma, vi ha semente di maiz che si raccoglie in 40 dí, ma quello che se ne raccoglie è poco e minuto, e non si tiene di lungo, né si fa per altro che per un soccorso, mentre che si fa l'altro maiz de' tre o de' quattro mesi. E questo de' 40 dí si fa a forza d'acquamento, e nel modo che appresso si dirà. Quando si vede che 'l maiz va crescendo, hanno cura di cavarne l'erbe d'appresso, finchè sia cosí alto che signoreggi l'erbe. E quando è poi cresciuto bisogna tenervi la guardia; nel che gl'Indiani si servono de' lor fanciulli, e li fanno stare sopra gli alberi e sopra alcuni palchi che lor fanno di legname e di canne, e li coprono poi di sopra per il sole e per l'acqua; ed essi lo chiamano barbacoas. Di sopra questi barbacoe adunque stanno del continuo i fanciulli, sgridando con gran voci a' papagalli e gli altri uccelli che vengono a mangiare il maiz. Si somiglia questa guardia a quella che in alcuni luoghi di Spagna si fa per guardare li canapi o panici, e l'altre cose ne campi dagli uccelli.
Questo maiz ha il fusto nel quale nasce grosso quanto è l'asta d'una giannetta, e alcuno l'ha grosso com'è il deto grosso della mano, e qualche cosa piú o meno, secondo la bontà del terreno. E communemente cresce assai piú che non è la statura d'un uomo, e le sue frondi sono come quelle delle canne di Castiglia, ma molto piú longhe e piú larghe e piú pieghevoli e piú verdi e meno aspre; e ogni fusto o canna fa almeno una mazzocca, e alcuno due e tre, e ogni mazzocca ha 200 o 500 granelli, e piú e meno, secondo che la mazzocca è grossa. E ogni mazzocca sta involta in tre o quattro frondi o scorze, attaccate col grano una sopra l'altra, alquanto aspre e quasi della spezie stessa delle frondi della canna dove nascono; di modo che con queste scorze si trova cosí ben coperto il grano che non viene né dal sole né dal vento offeso, e ivi dentro si matura e compie. È il vero che accade a scaldarsi e perdersi quando nel tempo dell'ingranarsi sopravengono certe stagioni d'estremi soli.
Quando è poi secco si raccoglie, e se non si guarda i pappagalli e gli altri uccelli di simile becco vi sogliono fare molto danno. In terra ferma, di piú del pericolo degli uccelli, vi sogliono fare gran danni gl'animali de' boschi, e i porci selvaggi e i gatti mammoni e scimie e altre simili fiere; onde ora bisogna in questa isola guardarsi il campo seminato piú che nel tempo degl'Indiani, per gli animali che si sono fatti selvaggi, come sono vacche, porci e cani, di quelli che si condussero di Spagna. Questo modo di seminare si imparò dagl'Indiani, che cosí lo fanno, ma i nostri cristiani lo fanno assai meglio, per cagione dell'arare della terra, dove si può, e d'altre megliori attezze e comodità che usano nella agricoltura meglio che gl'Indiani. Una misura di maiz che si semina suole darne di frutto sei e dieci e venti e trenta e cento, e piú e meno, secondo la loro bontà e fertilità del terreno dove si semina.
Raccolto questo grano e posto in casa, si mangia a questo modo: in questa isola e nelle altre lo mangiano o arrostito al fuoco o tenerello, quando è come un latte, e allora lo chiamano ector. Ma quello che è ben curato e di buona stagione (doppo che i cristiani abitarono questa isola) si dà ai cavalli e alle altre bestie da servizio, ed è loro di gran nutrimento e sostentamento. Ma in terra ferma lo mangiano gl'Indiani d'altra maniera, e io voglio qui referirlo, per non averlo a dire piú volte. L'Indiane spezialmente lo macinano in una pietra alquanto concava, con un'altra tonda e longa che tengono in mano, a forza di braccia, come sogliono i pittori i loro colori macinare; e nel macinarlo di tempo in tempo vi gettano acqua, di modo che ne vengono a fare in maniera d'una pasta, della quale tolgono un poco, e ne fanno una torta grossa due o tre deta, e la ravvolgono in una fronda del medesimo maiz o in un'altra simile e lo cuocono; e quando lor pare che sia cotto lo cavano fuori e lo mangiano. E se non vogliono cuocerlo l'arrostono su le bracie o presso; e si viene ad indurare e fassi come pane bianco, e fa di fuori una corteccia e dentro una medolla alquanto piú tenera della scorza. Lo tolgono dalla fronda nella quale involto l'hanno per cuocerlo, e lo mangiano alquanto caldo e non freddo del tutto, perchè quando è freddo non ha cosí buon sapore né si può ben masticare; e quanto è piú freddo piú si fa secco e aspro. Questo pane cotto o arrostito non si mantiene piú che due o tre dí, perchè dapoi si putrefa e non è buono a mangiare, e né anco per li denti; e per questo forse gl'Indiani hanno denti cattivissimi e sozzi, e non gli ho io veduti peggiori a nazione del mondo.
Nella provincia di Nicaragua e in altre parti di terra ferma sono maizali come quelli che ho detto; e del maiz si fanno certe torte grandi, sottili e bianche, l'arte delle quali venne dalla Nuova Spagna, cosí in Messico come dalle altre provincie sue, delle quali si vederanno gran cose e notabili nella seconda parte di queste istorie. Questo tal pane si chiama tascalpaccion, ed è assai saporoso. Si fanno anco altre torte di questa stessa massa del maiz, ma scielgono per questo effetto il grano piú bianco e lo mondano prima che lo macinano, togliendone una certa durezza che hanno da quella parte onde stavano nella spiga i granelli attaccati, che cosí riesce megliore e piú tenero il pane. Cocendolo medesimamente nel forno, al modo del pane di Castiglia, si fa anco il pane piú trattabile e piú saporoso, e se ne fanno buoni tortami. Quando si naviga per lo mare del Sur, si portano gl'Indiani, e i cristiani anco, farina di maiz arrostito, e postone un pugno in una scodella d'acqua la volgono e rivolgono, di modo che si viene a fare, a maniera d'una semola cotta e liquida, una buona bevanda, con la quale si mantengono, ancorchè altra cosa non mangiano, perchè quello è pane e acqua; e ha di piú una gran proprietà, ed è questa, che essendo una acqua trista e puzzolente, con questo se gli toglie ogni mal odore, e non odora d'altro che del maiz istesso arrostito, che ha un odore buono. Nella provincia di Cueva, in terra ferma, si fa anco della maiz buon vino, come si dirà quando si parlerà di que' luoghi. Quanto ho qui detto di questo pane del maiz l'ho io tutto esperimentato in 20 anni e piú che io lo veggo, e l'ho seminato e raccolto per casa mia, come ora tuttavia faccio.
Del pane che chiamano gl'Indiani cazabi, che è la seconda maniera di pane che essi usano, e alcuni l'usano e lo tengono migliore che il maiz.
Cap. II.
Passiamo ora a dire d'un'altra maniera di pane che gl'Indiani fanno della iuca in questa isola Spagnuola, e in tutte l'altre che sono da' cristiani abitate; e si fa di questa maniera. La pianta chiamata iuca son certe bachette o verghe nodose, poco piú alte che un uomo, e altre assai meno, e grosse come due deta, e alcune piú alcune meno, perchè questo della grossezza e dell'altezza è secondo ch'è piú fertile o meno il terreno.
Alcuna spezie di questa iuca si somiglia nella foglia al canape, o ad una palma di mano d'uomo aperta con le deta stese; salvo che questa foglia è maggiore e piú grossa di quella del canape, e ogni fronde ha sette o nove ponte dipartite e separate. Il suo fusto o stipite è molto nodoso, come s'è detto, e di color berrettino bianchetto, e la foglia è assai verde e pare bella, e fa vaga vista nel campo. Vi ha un'altra maniera di iuca, che ne' rami e nel frutto non è differente dalla già detta, ma sí ben nella foglia, perchè, ancorchè sia di sette o di nove partimenti ogni foglia, è nondimeno fatta di un altro modo, e per questo ho qui posta e lineata l'una e l'altra.
Quando vogliono seminare, o per dir meglio piantare ognuna di queste iuche, fanno certi monticelli di terra tondi per ordine, come pastinano nel regno di Toledo le vigne, e spezialmente in Madril, dove si pongono e pastinano i sarmenti a compasso. Ognuno di questi monticelli occupa 8 o 10 piedi in tondo, e le falde d'uno non toccano le falde dell'altro; l'altezza del monticello non è acuta, ma piana, e la maggior sua altezza sarà fino a' ginocchi. In ogni uno di questi monticelli piantano sei e otto o dieci bachette della medesima pianta della iuca, e le fanno entrare sotterra un palmo o meno, e ne resta altrettanto fuori. E perchè il terreno è molle, con facilità vi si pongono, perchè facendo questi monticelli di terra vi vanno ponendo queste piante; alcuni non fanno questi monticelli, ma su la terra piana questi pastini fanno, ponendo le piante della iuca a due a due; ma prima che questa piantata si faccia, tagliano il bosco e l'abbruciano nel modo che s'è detto di sopra del maiz. Fra pochi giorni apprende in terra la iuca, e si vede che quelle piante mettono le foglie, e come vanno crescendo i rami, cosí bisogna nettarvi le erbe di sotto, finchè la pianta signoreggi l'erbe. Questi terreni cosí piantati di iuca sono chiamati dagl'Indiani conuco, che non vuol dire altro che un podere piantato o coltivato.
Il frutto di questa pianta non ha pericolo che né gli uccelli né gli animali il mangiano, perchè egli è fatto a modo d'una mazzocchia di radici, che nascono fra li radiconi che questa pianta pullula di sotto terra, e qual si voglia uomo o animale che mangiasse di queste radici col succo, prima che se ne sprema e cavi, tosto morrebbe senza rimedio alcuno. In terra ferma però v'ha molta iuca che non è mortifera; e quanta iuca ne ho io veduta e buona, senza far questo effetto d'ammazzare? Ma in questa isola, e in tutte l'altre convicine, per lo piú ogni iuca col succo mangiato uccide; benchè ve ne sia d'una sorte, che la chiamano bonata, che è come quella di terra ferma, che non ammazza; e certo che dee essere indi venuta, perchè in terra ferma la mangiano come frutto, cotta e arrostita, ma non ne sanno ivi fare il pane, tuttochè alcuni cristiani pratichi in queste isole l'abbiano loro insegnato di fare; ma essi non si curano di farlo poichè, come ho detto, la mangiano cotta e arrostita con tutto il succo. E già si conosce qui l'una dall'altra, cioè la buona dalla cattiva.
Queste mazzocche o frutti della iuca sono come grosse pastinache, e ancor come grosse rape di Galizia e maggiori; e hanno una scorza aspra di color leonato oscuro, e alcune ne tirano al color berrettino, e dentro sono bianche e dense come una rapa. Di questa iuca fanno certe torte grandi, che le chiamano cazabi, e questo è il pane ordinario di questa isola e delle altre abitate da' cristiani; e di questa maniera si fa. Dapoi che gl'Indiani e Indiane hanno tolto al frutto della iuca quella sua scorza, raspandola come si fa alle rape e non lasciandovi punto di quella crosta, con certe loro concole o cappe sante, cosí mondo lo grattano con certe pietre aspre e con grattaruole che essi a questo effetto tengono; e grattato che l'hanno lo pongono in un cibucan, che essi dicono, che è una vite o soppressa fatta come una sachetta lunga a modo di sportella, tessuta di liscie scorze d'alberi, di lavoro d'una stuoia di palma, ed è lunga dieci o dodeci palmi e grossa come una gamba o poco meno, in tondo. Questa sacchetta o soppressa empiono di questa iuca grattata, e la pongono poi fra la vite di legno, legata da un capo, e dall'altra parte da basso vi attaccano gravi contrapesi di pietre grosse; onde si viene a stringer di modo il cibucan, che vi si spreme la iuca, di sorte che il succo se ne esce tutto e si scola in terra per le giunture della sacchetta o sportella. A questo modo, quando vogliono che si perda, si sparge tutta per terra quella pestifera acqua, e quello che resta spremuto dentro il cibucan è apunto come mandorle ben espresse e cavatone il succo. E perchè tengono da parte nel fuoco un buren, che essi chiamano, che è una cazzuola piana di creta, o tiano che noi diciamo, e grande quanto un cribro, ma senza sponde intorno, quando veggono che quella sia tanto calda quanto bisogna (vi fanno molto fuoco di sotto, ma non lasciano giungere alla cazzuola la fiamma), vi pongono sopra quella iuca spremuta e ne empiono la cazzuola, fuori che due dita intorno, che non ve ne pongono, e fanno questa torta alta due dita o piú, stesa in piano; e perchè quella tosto si quaglia, la volgono sottopra con certe tavolette che hanno in luogo di padella, acciochè si cuoca anco dall'altra parte; e cosí, in tanto tempo quanto si fa una frittella di ova in una padella, o piú presto anco, si fa questa torta del cazabi, nel modo che s'è detto. Poi la tengono uno o due dí al sole perchè s'asciughi, e diventa un buon pane. Dove sono molte genti e se ne vogliono fare gran quantità, operano molti cibucani e molte cazzuole. Questo è buon pane e di buono nutrimento, e si mantiene in mare, e lo fanno cosí grosso quanto è un mezzo deto per l'altre genti, e per le persone principali lo fanno cosí sottile come scalette: e questo ultimo lo chiamano sciausciau. E perchè vi è che notare in questa pianta della iuca, che in altro luogo non si potrebbe cosí al proposito dire come qui, dove s'è di questa materia parlato, seguiremo a dirne il resto.
Quello succo, che esce della iuca isprimendosi nel cibucan, è cosí pessimo veleno che con un picciolo e solo fiato che se ne tolga ammazza; e se ne fanno a questo medesimo succo mortale dare due o tre bolli lo mangiano gl'Indiani e vi fanno le suppe, come in un buon brodo. Ma quando veggono che si va raffreddando si restano di mangiare, perchè, ancorchè non ammazzarebbe, per essere cotto, dicono che è di mala digestione quando freddo si mangia. Se, quando questo succo esce dalla iuca, lo cuocono tanto che manchino le due parti e lo pongono al sereno per due o tre dí, si fa cosí dolce che se ne servono poi come d'un liquor dolce, mescolandolo con le altre loro vivande. E se, doppo che l'hanno fatto bollire e l'hanno tenuto al sereno, lo ritornano a fare bollire e serenare di nuovo, si fa egli agro di modo che come aceto o di liquor agro se ne servono, senza pericolo alcuno.
Questa cosa del farsi agro e dolce consiste nelle cotture; e questa esperienzia ormai pochi Indiani la sanno fare, perchè i loro vecchi sono morti, e i cristiani non ne hanno di bisogno: poichè per agro abbiamo in questa isola tanti aranci e limoncelli che non bisogna andare cercando d'avere quel succo che s'è detto, e per liquor dolce abbiamo nell'isola infinita copia di zuccari. Egli s'è adunque dimenticato quello che in questi duoi casi, dell'agro e del dolce, si dovea fare del succo della iuca, per servirsene. Quanto al vedere mangiare e fare le suppe nel fresco succo della iuca bollito, io l'ho molte volte veduto; e l'esperienzia d'ammazzare in un fiato bevendone, tosto che si spreme senza bollirlo, o mangiandosi la medesima iuca, s'è molte volte veduto, ed è qui e in tutte queste isole cosa assai nota.
Si mantiene il pane del cazabi un anno e piú, e si porta per mare per tutte queste isole e per le costiere di terra ferma, e io e molti altri l'abbiamo fino in Spagna portato; e in questi mari e per queste contrade è un buon cibo, perchè molto tempo si conserva senza corrompersi né guastarsi, salvo se si bagnasse. In tutte l'isole che io ho detto si truova questo pane di iuca chiamato cazabi, e quando si ha da raccorre questo frutto dal campo per doversi mangiare, ha da essere al manco di dieci mesi, e quello che passa un anno e piú da che si seminò è migliore.
Quando erano in questa isola molti Indiani e qualch'uno voleva ammazzarsi, mangiava di questa iuca in mazzocchia con tutto il succo, e in capo di due o tre dí moriva; ma se prendeva tosto il succo di lei non giovava a pentirsi, perchè tosto lasciava la vita. Molti adunche, o per non faticare, consigliati a quel modo dal Cemi loro, o pure perchè avevano volontà di morire, fornivano per mezzo di questa iuca i giorni loro. Alcuna volta accadette d'invitarsi l'un l'altro molti insieme ad uccidersi, per non s'affaticare né servire, e cosí a cinquanta a cinquanta, e piú e meno, s'ammazzavano con un fiato solo di questo succo. Queste due vettovaglie del maiz e del cazabi sono il principale pane e il piú necessario cibo che gl'Indiani abbiano.
Ma noi qui, prima che ad altro passiamo, raccorremo le grandi e segnalate qualità della iuca che dette abbiamo, perchè quella è pane per sostentare la vita, e liquore agro e dolce, e brodo che può mangiarsi, e se ne trovano gl'Indiani bene; de' rami della sua pianta se ne fanno legna per ardere, quando non se ne trovassero altre; e finalmente è veleno cosí potente e presentaneo quanto s'è detto.
Della pianta degli ages, che è un altro gran cibo e mantenimento degl'Indiani; e di che maniera si semina e raccoglie poi il frutto.
Cap. III.
In questa isola Spagnuola, e in tutte l'altre isole e terra ferma (parlo de' luoghi soggiogati e abitati da' cristiani) è una pianta chiamata ages, che si somiglia alle napi grandi di Spagna; ma per lo piú questi ages sono maggiori. Nascono sotto terra e buttano fuori della terra un gambo a modo di carrhuela, ma piú grossa, il qual con le sue foglie e rami copre tutta la superficie della terra dove è seminata; la forma della foglia è come quella delle corrhuela, over l'edera, con alcune vene sottili, e li piccioli ove dependono le foglie son lunghi. Quando vogliono piantare questi ages, fanno a linee la terra a monticelli, come s'è detto di sopra nel precedente capitolo della iuca, e in ogni monticello piantano cinque o sei germogli d'ages, con tutte le frondi sue, che tosto apprendono e poi (come s'è detto) crescono e fanno a se stessi ombra; e nelle radici sotto terra gettano il frutto, che sono gli ages istessi, che fra cinque o sei mesi li piú tardi hanno il frutto atto a raccogliersi, secondo la bontà del terreno; ma ne' sei mesi è il piú tardo che questo frutto si coglie. Quando veggono essere il tempo da corre questo frutto, aprono e discuoprono il monticello del terreno, e ne cavano dieci e dodeci e quindeci e venti e piú e meno ages, che sono buono cibo e assai ordinario qui per le genti che faticano; e perchè costano poco, molti non danno a' loro Indiani e neri altro cibo che questo, con la carne o col pesce, di modo che per tutti i poderi si veggono molti di questi monticelli d'ages: i quali cotti sono buoni, ma arrostiti hanno alquanto migliore sapore, e nell'un modo e nell'altro hanno sapore di buone castagne.
Ed è un gentil frutto per li cristiani, i quali nol mangiano per ordinario ma quando piú lor piace, perchè arrostiti e con vino sono dopo cena assai cordiali, e cotti nel pignatto sono anco buoni; e ne fanno le donne di Castiglia ottime vivande, e ancora lo friggono, tale che fuori anco di queste Indie si terrebbono per buoni. Sono di buona digestione, benchè alquanto ventosi, e vi nascono cosí grandi che ne pesano alcuni due e tre e quattro libre e piú; e come ho detto sono nel generale maggiori che le rape di Castiglia, e hanno dalla parte di fuori una scorza bianca, e alcuni la hanno leonata, e piú grossicella alquanto di quella delle rape, e tagliandoli per mezzo crudi si somigliano alle rape nella carne loro.
Della pianta delle batate, che è un altro gran cibo che gl'Indiani hanno, e come si pastina e raccoglie, e come lo conciano per mangiare.
Cap. IIII.
Le batate sono un gran cibo per gl'Indiani, cosí in questa isola Spagnuola come nelle altre, ed è un de' piú preziosi frutti che essi mangino, e si somigliano molto agli ages, ma nel sapore sono migliori; benchè a me paia tutta una cosa, cosí nella vista e nel coltivarli come nel sapore, salvo che queste batate sono un piú delicato frutto e cibo, e sono piú saporose e hanno piú sottile il cuoio; e una batata curata e concia non è altro che una torta marzapane che si fa di zuccaro e di mandorle, e di miglior gusto anco. Si pastinano sopra monticelli di terreno, nel modo che si fa della iuca e degli ages, e stanno ad essere mature e a potersi cogliere per mangiarsi tre e quattro e cinque e sei mesi al piú tardo, secondo che è fertile e no il terreno; ma le piú tarde non passano sei mesi. La lor fronde è piú uncinata e inarcata che non quella degli ages, ma sono quasi d'una maniera, e si stendono come gli ages sopra il terreno, e come gli ages si pastinano, si governano, si cogliono e si mangiano cotte o arroste, e in vivande e conserve; e di qual si voglia modo sono un buon frutto, e si potrebbono presentare alla maestà cesarea per un prezioso cibo.
Io per me tengo che gli ages e le batate siano una medesima spezie di frutto, ma che le batate siano migliori al gusto, per essere piú delicate e dolci; ma chi non conosce l'un frutto dall'altro, fin che non l'abbia provato ed esperimentato, dirà che sia tutta una cosa. Quando le batate sono ben concie si portano molte volte fino in Spagna, quando si fa presto il viaggio, perchè tardandosi per lo piú si guastano in mare. Io l'ho portate da questa città di San Domenico fino alla città d'Avila in Spagna, e benchè non vi giungessero tali quali qui erano e sono, furono nondimeno stimate molto e tenute per un singolare e prezioso frutto.
Del mani, che è un altro frutto che hanno qui in questa isola Spagnuola gl'Indiani per un ordinario cibo.
Cap. V.
Hanno in questa isola Spagnuola gl'Indiani un altro frutto, che lo chiamano mani; e lo piantano e cogliono e lo tengono per ordinario nei lor giardini, ed è cosí grosso come i pignoli con le scorze, e lo tengono per sano frutto; ma i cristiani ne fanno poco conto, salvo che le genti basse e i fanciulli e gli schiavi, che non è cosa che non si pongano fra i denti. È questo mani di mediocre sapore, ma non di sustanzia, ed è molto agl'Indiani ordinario; e cosí in questa isola come nelle altre ve ne è gran quantità.
Della pianta chiamata iahutia, con alcune particolarità di lei.
Cap. VI.
La iahutia è una pianta delle piú ordinarie che abbiano gl'Indiani, e la piantano e ne raccolgono il frutto come fanno nelle altre cose delle quali speziale cura hanno; e ne mangiano la radice e le frondi, che sono come di gran cavoli. Le radici hanno certe barbe, ma le mondano e le cuocono e le mangiano, e sono assai buone. Le frondi medesimamente sono un sano mangiare; ma gl'Indiani mangiano assai piú volentieri questo cibo che non fanno i cristiani, perchè non è cosa che se ne debba fare molto caso senza necessità: benchè gl'Indiani per una cosa assai buona lo tengano, e pongano e governano negli orti loro.
Dell'asci, che è una pianta del cui frutto gl'Indiani si servono in vece di pepe.
Cap. VII.
L'asci è una pianta assai nota in tutte queste isole e terra ferma dell'Indie, e assai ordinaria e necessaria agl'Indiani, perchè questo è il pepe loro; onde per tutte le loro possessioni e orti la pastinano e governano con molta diligenzia e attenzione, perciochè continovamente ne mangiano col pesce e con l'altre vivande loro. E non men piace al gusto de' cristiani che a quel degl'Indiani si faccia. Questa pianta è tanto alta che giunge alla cinta d'un uomo, benchè ve ne sia alcuna che passi l'altezza d'un uomo stando in piè: e questo avviene secondo che è piú o meno fertile il terreno dove si pone. Ma communemente è alta cinque o sei palmi in circa, e fa un stipite con molti rami. Il fiore di questo asci è bianco e picciolo e non odora; ma il frutto è alla vista di varie sorti e proporzione, benchè in effetto tutto sia acuto e mordichi come il pepe e alcuno piú. Cava fuori certi granelli o guaine, per dir meglio, bucate dentro e d'un color fino rosso, e ne sono alcuni cosí grandi e lunghi quanto è un deto. Vi sono alcuni altri asci che producono questi granelli rossi e tondi, e cosí grossi come marasche e meno. Ve ne sono altri che li fanno verdi, ma minori de' già detti; e ve ne sono alcuni di questi verdi assai piccioli. Altri ve ne sono dipinti da un capo di color nero, pendente ad azurro oscuro. In effetto, secondo la spezie dell'asci e la bontà del terreno dove si pianta, ne nasce poi il frutto e maggiore e minore e rosso o verde. E ve n'è alcuna spezie di asci che si può il suo frutto mangiar crudo, e non mordica. Delle frondi degli asci si fa cosí buona, o miglior salsa al gusto come quella che si fa del petrosemolo, temprata col brodo della carne. E in effetto l'asci è miglior con la carne e col pesce che non vi è il buon pepe; e già ne portano in Spagna come una buona speziaria, ed è una cosa molto salutifera, e se ne trovano bene gli uomini che l'usano, onde in fin da Europa mandano i mercatanti e altre genti a portarne di qua; e lo cercano con diligenzia per loro proprio appetito e gola, perchè hanno già con l'esperienzia veduto che gli è una cosa molto salutifera e buona, massimamente l'inverno e ne' tempi freddi.
Delle zucche che sono in questa isola Spagnuola e communemente in tutte l'altre isole e terra ferma di queste Indie.
Cap. VIII.
Le zucche in queste Indie vi sono cosí communemente come in Castiglia, e cosí delle lunghe come delle tonde segnate, e d'ogni altra forma che se ne sogliano in Castiglia vedere. Gli Indiani le seminano, le governano e ne hanno spezial cura, non già per mangiarle come facciamo noi, ma per tenervi acqua, e servirsene per cammino e quando vanno alle guerre. Nella provincia di Nicaragua non v'è Indiano che faccia un passo senza una zucca d'acqua al fianco, perchè il paese è secco; e per tutte le parti di queste Indie, cosí nell'isola come in terra ferma dove io sia stato, l'ho io veduto, ed è una delle cose e mercanzie alle quali piú gl'Indiani attendono d'averla in casa, negli orti e nelle possessioni loro, e ogni anno ne pongono gran quantità; e in alcune parti anco ne fanno fra loro gl'Indiani mercanzia, come fanno delli legumi e delle altre cose che essi hanno.
Del bihai, che è una certa erba che non si semina né coltiva, ma dalla natura stessa si produce; ed è molto utile e giovevole agl'Indiani nelle cose che qui si diranno.
Cap. IX.
In questa isola Spagnuola, e nelle altre isole e in terra ferma anco, sono certe erbe o piante nate da se stesse, e molto nelle frondi somigliano a quelle delle muse d'Alessandria d'Egitto, che qui chiamano platani, de' quali appresso al suo luogo si farà ampla menzione. Questi bihai (che cosí questa pianta chiamano) non producono frutto alcuno buono a mangiare, ma solamente certe cose a se stesse e non ad altra cosa simili, e molto rosse e aspre e intrattabili. Le foglie di questi bihai sono assai lunghe e larghe; producono certi fusti, overo ghette, nel cui mezzo e d'intorno stanno le foglie, che vanno montando su quasi dal piè del fusto. Di queste foglie si servono molto gl'Indiani, e massimamente in terra ferma, perchè ne cuoprono alcune case, e di miglior modo e piú acconciamente che con la paglia. Quando piove con queste foglie si cuoprono gl'Indiani la testa, se si trovano in luogo dove ne siano, e delle scorze del pedale o fusto loro, che fra le frondi sta, ne fanno certe ceste, che essi chiamano havas, per porvi la robba e quello che conservare vogliono; e le fanno bene intessute e doppie o foderate, di modo che una viene ad essere due, e fra l'una e l'altra vanno poste foglie di questo bihai, onde, ancorchè sopra queste ceste piova o che dentro un fiume si bagnino, non per questo si bagna quello che vi va dentro. Di queste stesse scorze fanno un'altra maniera di ceste, per porvi e portarvi il sale da una parte ad un'altra, e l'una e l'altra sorte sono assai gentili e belle. Di piú di questo, quando accade che gl'Indiani si ritrovano nelle campagne e manca loro da mangiare, cavano e tirano fuori questi bihai de' piú teneri, e mangiano della radice che sta sotterra: perchè è bianca e tenera e non ha male sapore, anzi si somiglia molto al tenero delli giunchi che sta sottoterra, ma è assai meglio.
Della cabuia e del henechen, e d'alcune particolarità dell'uno e dell'altro.
Cap. X.
La cabuia è una maniera d'erba che nelle frondi si somiglia alli cardi o hyrios; ma ha però le sue frondi piú larghe e piú grosse e piú verdi. L'henechen è un'altra erba che è pure come cardo, e ha le foglie piú strette ma piú lunghe di quelle della cabuia. E d'amendue queste erbe si fa filato e funi assai forti e belle; ma l'henechen ha il filo piú sottile. Per volere gl'Indiani lavorare queste funi, prendono le frondi già dette e le tengono alquanti dí nel fondo de' fiumi o de' ruscelli, con pietre attuffate giú sotto acqua, nel modo che in Castiglia vi tengono affogato e sommerso lo lino. Avendole a questo modo tenute alcuni giorni sotto acqua, le cavano e le spandono e fanno asciugare al sole; poi le rompono e ne fanno saltare le scorze e le lische con un buon pestello o bastoncello, nel modo che spatulano in Europa il canape e il lino; e cosí viene a restarvi solo la fibra netta, lunga come sono le foglie, la quale anco spatulano di nuovo poi, e la riducono a tale che pare a punto un lino assai bello e bianco, del quale fanno funi della grossezza che essi vogliono, cosí della cabuia come dell'henechen. E se ne servono poi in molti usi, e spezialmente in farne le corde, con le quali attaccano e tengono sospese nell'aere i loro letti, che essi chiamano hamachez, come se ne è nel quinto libro parlato. Cosí dell'henechen come della cabuia riescono fila assai bianche e gentile, e altre alquanto ruvide e aspre.
Ma non è bene che qui si taccia una particolare invenzione di questi Indiani, che la natura insegnò lor doppo che i cristiani li cominciarono a tenere prigioni e con ferri a' piedi, cioè di segare il ferro col filo di questa cabuia o dell'henechen, avendovi tempo; perciochè, stando di notte i cristiani senza pensarsi d'alcuni Indiani che tenevano con catene o con ferri, hanno poi ritrovato che se ne siano fuggiti, con aver rotto e segato il ferro nel modo che ora dirò. Nel modo che si sega con una sega il legno, pongono sopra il ferro che troncare vogliono un filo di henechen o di cabuia, e col tirare e lentare dall'una mano all'altra, gettando minutissima arena sopra il filo e nel luogo che segano, a poco a poco corrodono e segano il ferro, per grosso che sia, come se fusse un legno o qual si voglia cosa tenera e atta a segarsi. In terra ferma è accaduto che gl'Indiani a questo modo hanno segate e troncate le ancore delle navi. Ma quando si tratterà della seconda parte di queste istorie e delle cose di terra ferma, allora si diranno piú particolarità di queste corde della cabuia e dell'henechen, perchè ivi assai se ne servono.
Delle irache, che sono erbe nel generale (perchè in lor lingua iraca non vuole dire altro che erba), e come gl'Indiani nelle vivande loro ne mangiano.
Cap. XI.
Sono gl'Indiani molto amici di mangiare erbe cotte, e in terra ferma le chiamano irache, ch'è a punto tanto quanto dire erbe; perchè, ancorchè siano erbe note e fra loro abbiano i lor nomi particolari, quando le nominano insieme le chiamano irache, cioè erbe. E di quelle che essi tengono per sane e per buone a mangiare ne fanno una mescolanza e ne cuocono insieme di molte sorti, e ne fanno una vivanda che paiono spinaci ben conci, e vi pongono anco fiori d'altre erbe. E tutta questa mescolanza chiamano essi irache, e le mangiano volentieri, almanco in terra ferma, dove alcuni cristiani, o per necessità o per fame, e altri perchè vogliono provar ogni cosa, mangiano di questa vivanda e la stimano e lodano molto, e la continovano anco e dicono che se ne ritrovano bene; e vi aggiungono anco delle zucche e dell'asci, che è il pepe degl'Indiani, e ne fanno una acconcia minestra. Questo nome d'irache è della lingua della Cueva di terra ferma.
Della pianta e frutto chiamato lirenes.
Cap. XII.
Lirenes è un frutto che nasce in una pianta che coltivano gl'Indiani, e al presente anco i cristiani in questa isola, ne' loro poderi e giardini. Questa è una erba che si stende e sparge i suoi rami; e pastinano la pianta stessa di lei, come ho già detto degli ages e delle batate. Il suo frutto appresso terra è bianco, e cosí grosso quanto grossi dattoli, ed è alquanto maggiore e minore; e ognun di questi frutti sta come attaccato ad una sottile verghetta che dal ramo pende. Gl'Indiani cuocono questi frutti, e se ne veggono ora le piace piene, perchè li portano a vendere cotti; e toltone la scorza di sopra restano dentro assai bianchi e sono di buon sapore. Non ho visto in Spagna né in altro luogo frutto con sapore che io sapesse comparare a questi lirenes, perchè nel vero sono assai saporosi. E ne sono assai in questa isola Spagnuola e in terra ferma e in molte altre parti di queste Indie.
Del frutto iaiama, del quale ne sono anco due altre spezie, chiamate l'una boniama e l'altra aiagua, che s'assomigliano nella forma alle pigne de' cristiani.
Cap. XIII.
Sono in questa isola Spagnuola certi cardi, ognun de' quali ha una pigna, che è un de' piú bei frutti che io abbia veduto in tutte le parti d'Europa dove io sono stato, ancorchè vi si pongano i miglieruoli, le pere moscatelle, e tutti quei frutti eccellenti che il re Ferrando, primo di tal nome, in Napoli fece piantare ne' suoi giardini di Poggio Reale, del Paradiso e del Barco, di Schiavaonia del duca Ercole di Ferrara, posta in quella isola del Po, o quelli che si vedevano nel giardino portatile in carrettoni del signor Ludovico duca di Milano, nel quale si faceva portare fino in camera e a tavola gli alberi carichi di frutti. Non è frutto che io abbia conosciuto né visto in tutti i luoghi detti di sopra, né penso che nel mondo sia, che s'agguagli a questo che io diceva, e che abbia tutte queste cose in sé unite insieme, cioè bellezza di vista, soavità di odore e gusto d'un sapore eccellente. Talchè di cinque sentimenti questo frutto sopra tutti gli altri del mondo ne participa di tre, e ancor del quarto, che è il tatto; perchè del quinto, che è l'udito, non possono i frutti parteciparne. Ben potrà il lettore ascoltare attentamento quello che io di questo frutto dirò, e vedrà che io non m'inganno in questa parte. E se un frutto non può de' quattro sentimenti che io gli ho attribuiti participare, s'ha da intendere che la persona che lo mangia ne participa, e non il frutto, che non ha se non l'anima vegetativa, e non la sensitiva né la razionale.
L'uomo adunque, che ha tutte tre queste anime, e mirando e odorando e gustando e palpando queste pigne darà lor giustamente il principato di tutti i frutti, per le quattro qualità che attribuite l'abbiamo. Non può la lingua esprimere particolarmente né lineare questo frutto che sodisfaccia a punto quanto si converrebbe; onde, di piú delle parole, faremo anco al lettore con la vista partecipare di questa verità, lineandolo nel fine di questo capitolo il meglio che si potrà, benchè senza colori non si potrà del tutto dare ad intendere. Ma lasciando la pittura, che solamente alla vista tocca, io dico che alli occhi miei questo è il piú bello frutto che si vegga, cosí nella grandezza come nel colore, che è verde illustrato d'un fino giallo; e quanto piú si va maturando piú partecipa del giallo e va perdendo del verde, e si va accrescendo nell'odore, che è come di perfetti melocotogni. E una pigna di queste sola che stia in casa, fa odorare tutta la camera nel modo che s'è detto. Al gusto è migliore che non è il melocotogno, ed è piú sugoso. Si monda intorno e se ne fanno le fette o tagliate ritonde o come piú al trinciante piace, perchè e per lo lungo e per lo traverso ha buono e gentil taglio.
In tutte queste isole questo frutto si trova, e perchè hanno gl'Indiani diverse lingue, con diversi nomi lo chiamano, massimamente in terra ferma, dove in venti o trenta leghe accade d'esservi quattro o cinque linguaggi. E questa è una delle cagioni principali perchè in quelle parti, fra genti cosí barbare, i pochi cristiani si mantenghino.
Ma lasciamo questo per dirlo al suo luogo, e ritorniamo a questi frutti delle pigne, il qual nome le diedero i cristiani perchè ad un certo modo le si somigliano. Ma queste delle Indie delle quali parliamo, sono assai piú belle delle pigne d'Europa, e non hanno quella durezza che in quelle di Castiglia si vede, le quali non sono altro che un legno o quasi legno, là dove queste altre di qua si tagliano con un coltello come si fa d'un mellone o a fette tonde, avendole tolto prima quella scorza che sta a modo di squame rilevate, le quali le fanno parere come pigne. Ma non s'approno già né si dividono per quelle giunture delle squame, come si fa delle pigne dure onde si cavano i pignoli. Certo che, come fra gli uccelli la natura studiò molto nell'abbellire e fare vaghe le piume del pavone, come nella nostra Europa si vede, cosí studiò in comporre la bellezza di questo frutto piú che di niuno degli altri che io abbia visto, né posso pensare che nel mondo se ne truovi un altro piú vago.
Una sola di queste pigne odora quello che odorano molte persiche e molti melocotogni che insieme stessero, e assai meglio, perchè elle imitano amendue questi odori. Questo frutto è sugoso, e ha una buona carnosità e graziosa al gusto, ed è cosí grosso quanto è un mezzano mellone, e piú anco e meno. E di ciò ne è cagione il non essere tutte queste pigne né d'una spezie né d'un sapore, ancorchè si rassomigliano estrinsecamente. Alcune ne sono alquanto agre, o per essere campestri e mal coltivate o per stare in terreno disconvennevole e sproporzionato, o pure perchè in tutti i frutti accade che l'uno sia migliore dell'altro, come vediamo de' melloni, de' quali uno ne serà perfetto e buono, l'altro cattivo; il medesimo aviene delle pere e di tutti gli altri frutti. A questo modo una di queste pigne avrà gran vantaggio all'altra; ma con la buona e perfetta non si può comparare altro frutto alcuno di quelli che io ho veduti.
Credo bene che non mancaranno di quelli che non si conformeranno col parer mio, perchè ho veduto in Spagna e in altri luoghi del mondo contendere alcuni, e dire che le fiche siano migliori che le pere; e altri dire che il cotogno sia migliore che il persico e che la pera e fico; e altri che l'uve sono migliori che i melloni e che gli altri frutti già detti. Chi ha adunque un gusto a qualche cosa particolare inchinato, pensa che chi dice il contrario di quello che esso sente non abbia il gusto che doverebbe. Ma lasciando le affezzioni de' palati da una parte, che credo che siano cosí varii e differenti come sono i visi stessi degli uomini, dico che se questo s'ha da giudicare senza passione, crederei che la maggior parte delle genti sarebbono dell'opinione mia, ancorchè io meno che degli altri di questo frutto mangio.
Egli nasce ognuna di queste pigne in un cardo aspro e spinoso, e di lunghe e selvaggi foglie; e di mezzo di questo cardo esce un fusto o astile tondo, che fa una pigna sola, la quale tarda dieci mesi o un anno a maturarsi ed essere buona. E tagliata che è questa pigna, non dà quel cardo piú frutto, né serve ad altro che ad intricare il terreno. Potrà qui dire alcuno che, poichè è cardo quello che ci dà questo frutto, si doverebbe egli chiamare carcioffola. Al che rispondo che in potere de' primi cristiani che primieramente le viddero fu di chiamarle pigne, e questi stessi avrebbono anco piú giustamente potuto chiamarle carcioffole, avendo rispetto al cardo nel quale nascono; ma elle non hanno spine, e si somigliano alla pigna piú tosto che alla carcioffola. È ben vero che elle non sono del tutto fuori della spezie delle carcioffole, né senza spine, perchè nella lor cima hanno un certo broccoletto che le dà, a vederle, molto ornamento; e alcune ne hanno uno e due e tre cosí fatti rampolletti, attaccati e nati col fusto istesso del cardo sotto la pigna, i quali broccoletti poi sono come il seme di questi frutti, perchè si piantano e ne nascono nuovi cardi e pigne. E servono per piantarsi tanto quelli che stanno in cima della pigna come quelli che sono sotto, nel fusto del cardo; e pongono questi rampolli, pastinandoli, tre deti sotto terra, lasciandone la metà scoperto all'aere. Questo rampollo apprende ottimamente e fa le radici, e nel discorso del tempo che s'è detto genera il cardo, dal cui fusto nasce ed esce la pigna. Le foglie di questo cardo si somigliano alquanto a quelle della zavira, salvo che son piú lunghe e piú grosse e corpolente. Questo frutto si terrebbe in maggior conto se non ve ne fosse tanta copia, ma quelle di terra ferma tengo io migliori e maggiori che non sono quelle di queste isole.
Non si mantiene questo frutto dopo che è maturo piú che quindeci o venti dí, ma quando sta nel suo debito tempo, che non si putrefa né corrompe, è assai buono, benchè alcuni lo biasmano e tenghino che sia colerico: il che non so io di certo. So ben questo, che egli desta l'appetito, e a molti che per fastidio e nausea di stomaco non potevano mangiare ne fece venire la voglia, e diede loro sforzo e volontà di mangiare e di gustare. Il suo sapore a quel che può piú rassomigliarsi si è al melecotogno ch'abbia sapore di persico, e ha l'odore insieme e del persico e del cotogno; ma ha la pigna questo sapore mischiato con un certo che di moscatello, e per questo ha migliore sapore delli melicotogni. Un solo difetto ha, che fa che non piace a tutti i gusti, ed è che il vino, ancorchè sia il megliore del mondo, non si gusta né diletta se dopo il mangiare questo frutto si bee. Che se dilettasse cosí come diletta doppo l'avere mangiato pere buone a cuocersi, o altre simili cose che fanno saporoso il bere a coloro che sono amici del vino, al parer di costoro queste pigne sarebbono unico frutto. E questo credo io che sia la cagione perchè qui a molti non piaccia. Anzi, neanco l'acqua piace, bevendosi doppo queste pigne: ma questo, che alcuni il danno a questo frutto per difetto, a me pare che sia un suo gran privilegio ed eccellenzia, perchè si debba dare a mangiare agli idropici e agli amici del bere. Dico di piú questo anco, che la carnosità di queste pigne ha come certe sottili sfilati, come gli hanno i costoli delli cardi che si mangiano nella Spagna, ma gli hanno cosí secreti e occolti al palato che poco disturbo over impaccio fanno nel mangiarsi; e per questo non sono utili per le gengive e per li denti, continovandosi il mangiarle di lungo. In alcuni luoghi di terra ferma di queste pigne ne fanno gl'Indiani vino, e lo tengono per una cosa salubre: e io ne ho bevuto, ma di gran lunga non mi pare come il nostro, perchè è assai dolce, e niuno Spagnuolo né Indiano manco ne beverebbe, avendo del nostro vino di Castiglia, ancorchè il vino di Spagna non sia degli eccellenti del mondo.
Si è tocco di sopra che queste pigne sono di varie spezie, e cosí è in effetto, perchè sono di tre maniere particolarmente: una ne chiamano iaiama, l'altra boniama, l'altra iaiagua. Questa ultima maniera è alquanto agra e aspera, e dentro è bianca e vinosa. L'altra chiamata boniama è bianca di dentro, ma è dolce e stuposa alquanto. La iaiama poi è alquanto longhetta, e della fattezza di quella che qui di sopra dipinta si vede, perchè l'altre due maniere delle quali s'è detto sono piú tonde; ma questa ultima è la migliore di tutte, e dentro ha un color giallo oscuro, ed è molto dolce e soave al mangiare, e di questa s'ha da intendere tutto quello che s'è detto di sopra in lode di questo frutto.
In alcuni luoghi ne sono molte e dell'une e dell'altre selvaggie, che da per se stesse in gran copia per le campagne nascono; ma quelle che si coltivano sono senza comparazione migliori, e ben riconoscono il beneficio dell'agricoltore, perchè sono piú delicate. Ne sono state portate alcune in Spagna, ma assai poche ve ne giungono, e ancorchè vi giungono non possono essere perfette né buone, perchè bisogna che le taglino verdi e immature, perchè si facciano mature in mare nel viaggio; e a questo modo, quando giungono in Europa, perdono la bontà e il credito. Io ho provato a portarle, e perchè la navigazione tardò piú del solito alquanti giorni, mi si perderono nel camino e si putrefecero tutte. Provai anco a portare i lor rampolli o broccoli, e si perderono e guastarono medesimamente. Questo non è frutto se non per questo paese, o per altro che non sia cosí freddo come è la Spagna. È il vero che io ho veduto nel mio paese in Madril il maiz, che è il pane di questi luoghi, assai buono: e si pose e nacque in un podere del commendatore Hernando Ramires Galindo, presso a quel devoto eremo di Nostro Signore d'Atoccia. Ma in Andalusia in molte parti s'è fatto anco il maiz, il perchè io sono d'opinione che queste pigne anco vi farebbono, portandovi i cardi piantati e appresi già di tre o quattro mesi.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta degli alberi fruttiferi.
Libro ottavo
Proemio
Plinio, nel duodecimo libro della sua naturale istoria, tratta degli arberi odoriferi, e nel terzodecimo degli alberi stranieri e degli unguenti, e d'altre molte cose particolari e secreti di medicina, perchè gli scrive l'istoria di tutte le cose del mondo, e di tutti gli auttori de' quali esso ebbe notizia e di quanti lesse gli scritti; sí che egli nella sua istoria, volendo l'universo comprendere, ebbe assai piú che dire di quello che potrò io qui cumulare, perchè quello che io qui scrivo in questa prima parte è solamente di queste isole, che già nella seconda sarà questa materia degli alberi fruttiferi, de' quali io qui tratto, piú copiosa. Plinio nel suo quartodecimo parla delle viti, e nel quintodecimo degli alberi fruttiferi, e nel decimosesto degli alberi selvaggi, e nel decimosettimo degli alberi inestati o inseriti che vogliam dire. Tutte queste sei spezie d'alberi che egli in questi sei libri comparte, io penso comprenderle in cinque libri, come sono il precedente e questo presente ottavo, con gli altri tre seguenti. E se in questi non si scriveranno tante materie quante ne' suoi sei scrisse Plinio, sarà per essere questa terra nuova, e per la maggior parte anco in simili cose inesperta. E perciò sarà poco quello che qui se ne scriverà rispetto a quello che ne diremo nella seconda e terza parte delle cose di terra ferma, la quale, essendo una grandissima parte del mondo o forse la metà, e piena di molti regni, ci darà assai che fare e che dire in ciascuna di queste cose. Io in questo libro farò prima nel primo capitolo una breve relazione degli alberi e piante che non erano in questa isola, né nell'imperio di queste Indie, ma vi si sono condotte di Spagna; e poi seguirò degli alberi che in questi luoghi sono naturali e fruttiferi, di tutte quelle maniere che sono a mia notizia venute e che in questa isola Spagnuola sono; perchè degli altri alberi selvaggi e d'altre sorti si ragionerà appresso nel nono libro, poichè è la materia lor differente e separata.
Degli alberi che sono stati condotti di Spagna e d'Europa in questa isola Spagnuola: e ne faremo undeci capitoli.
Cap. I.
Sono state in questa isola Spagnuola portate fin da Castiglia le piante degli aranci, o melangole che chiamano; e vi sono qui tanto moltiplicati questi alberi che ve ne sono una quantità incredibile, e de' buoni, cosí dolci come agri, e cosí in questa città di San Domenico e ne' suoi confini come in tutte l'altre parti di questa isola che sono dai cristiani abitate.
Vi sono molti limoni e limoncelli e cetri, e tutti buoni frutti e di tanta eccellenza che in queste agrume, già nominate in amendue questi capitoli, non ha a questi luoghi l'Andalusia vantaggio.
Vi sono molti e buoni fichi, che in tutto l'anno o poche o molte vi se ne ritrovano, ma nella stagione loro una abondanza grande cosí in questa città e nelle sue possessioni come nell'altre parti di questa isola. Questi alberi vi fanno ottimamente, e le fiche sono di quelle che in Aragona e Catalogna chiamano burgenzotte; la maggior parte hanno il color rubicondo, e ve ne sono anco delle bianche, ma non già di gran lunga tante quanto delle altre. Questi alberi di fico perdono le frondi e ne stanno la maggior parte dell'anno senza, ma le cominciano poi a porre e a rinvestirsi del verde loro nel mese di febraro e nel principio di primavera.
Vi sono molte granate dolci e agre, cosí in questa città e nel suo territorio come nelle altre terre di questa isola.
Vi sono melicotogni, portati medesimamente di Castiglia, ma non vi fanno assai bene né in quantità come gli altri frutti che si son detti di sopra; e sono piccioli e non troppo buoni, perchè sono asperi, ma si crede che col tempo si faranno migliori e giungeranno alla perfezione loro.
Vi sono palme, che si sono piantate in questa città e in molte parti dell'isola, piantandovi le ossa de' dattoli che qui portati si sono; e vi si fanno questi alberi assai belli, e producono i dattoli. Ma qui non li sanno procurare, onde, benchè alcuni ne mangino, non sono però troppo buoni né perfetti. E credo che questo non avenga per difetto delle palme, ma perchè non sanno curare il frutto.
Vi sono molti belli alberi di cannafistola, cosí in questa città e nelle sue possessioni come in molte altre parti dell'isola. Questi sono belli e grandi alberi, e non sono venuti di Spagna, né erano anco prima in questa isola. Vi seminarono la semente, e vi fecero cosí bene questi alberi poi che ve ne sono ora ricchi poderi; e molti piú già ve ne furono, che le formiche li rovinarono, come appresso si dirà nel decimo libro al primo capo. Io credo che questi alberi v'abbiano fatto cosí bene perchè in queste isole e in terra ferma vi sono cannafistole selvagge, e sono alberi che comunemente in queste Indie nascono; ma la cannafistola di questi alberi selvaggi è molto grossa e quasi vana, là dove quella che vi s'è fatta per l'industria de' cristiani è ottima, come lo sa oggi Spagna con altre parti del mondo, per la gran quantità che ne hanno le navi portata e ogni dí ne portano da queste isole. La loro fronde ha il colore e il verde delle frondi delle noci di Castiglia, ed è cosí lunga, ma piú stretta e piú sottile. Il lor fiore è giallo e si somiglia alquanto a quello della ginestra. Quando questi alberi sono carichi dei lor frutti di cannafistola, paiono assai belli e vaghi. In effetto ce ne sono qui in tanta copia fatti che, come s'è detto di sopra nel terzo libro, vagliono in questa città a vilissimo prezzo, perchè a quattro ducati, e meno si vende il cantaro. Il primo albero di questa cannafistola che fu in questa isola fu nel monastero di San Francesco della città della Vega; e ad essempio di quello vi si posero degli altri, e se ne fecero le possessioni intere, che sono riuscite di grande utilità e ricchezza. E le navi che se ne ritornano in Spagna se ne portano le molte botte piene di questa buona e perfetta cannafistola.
Vi sono ora in questa città, che vi sono state poste, molte belle pergole di quelle di Castiglia, che producono buone uve: e cosí credo che in gran copia vi farebbono se le genti che qui sono vi si dessero e v'attendessero come si converrebbe, perchè, essendo il terreno qui umido, tosto che la pergola ha dato il frutto, se tosto si pota ritorna tosto a gemmare e a fare il frutto di nuovo, e per questa cagione s'invecchiano presto. Queste viti che vi sono si portarono di Castiglia, e per le possessioni e per l'altre terre dell'isola si veggono anco delle altre pergole, che pure di Spagna vennero, benchè e in questa isola e nelle altre e in molte parti di terra ferma siano molte pergole e viti selvagge e di buone uve; e ciò n'ho di molte mangiato in terra ferma, perchè comunemente ve ne sono. E cosí credo che avessero principio nel mondo le prime viti, le quali poi coltivandosi e procurandosi diventarono migliori e si dimesticarono.
Sono in questa città alcuni alberi d'olive belli e grandi, che vennero medesimamente di Spagna, ma sono sterili e non fanno frutto alcuno, se non solo fronde. Ne sono anco in alcuni poderi e in altre parti dell'isola, ma come ho detto sono infruttiferi. E certo che questa è una cosa molto notabile, che tutti gli alberi di frutti con osso che si sono portati di Spagna o d'altri luoghi in queste isole con gran difficultà vi apprendono, e se vi apprendono non producono frutto alcuno, ma frondi solamente. Io ho portato da Toledo ossa di persiche, di melicotogni, di albercoche, di prune di frati, di brisciole, di ciregie e di pignoli, e gli ho fatti tutti seminare e piantare in diverse parti e poderi, e niuno n'apprese mai. Scrive Plinio nel 6 capitolo del 12 libro, che nell'India le olive sono sterili e non producono altro frutto di quello che si facciano l'olive selvagge; in tanto che l'olive nostre di questa isola sono piú sterili di quelle dell'India che Plinio dice, perchè, se quelle producono il frutto delle olive selvagge, queste non producono altro che frondi e frutto niuno.
Qui è un frutto che lo chiamano platano, però nel vero questo non è né albero né il vero platano, ma è una certa pianta che in queste Indie non vi era, ma vi fu portata, e con questo improprio nome di platano vi restò. Si pianta una volta e non piú, perchè d'una pianta se ne moltiplicano molte e in grandissima copia vi aumentano, perciochè, quando il piú anticono platano ha gettati tre o quattro o sei o piú rampolli e figli intorno, produce un grappo e frutto; il quale poi tagliano e colgono, e tosto quella pianta che lo produsse si secca. E perchè non impacci né tardi a seccarsi, quando tagliano il frutto troncano anco il troncon della pianta, perchè non produce altro frutto né è d'altro giovamento alcuno, anzi tosto perde ogni sua virtú; ma vi restano i suoi figli e rampolli intorno.
Ho detto di sopra che questi non sono platani, perchè la forma del platano, secondo che se ne legge, è assai da questa pianta differente e di altra maniera. Questi improprii platani che qui abbiamo, hanno le frondi assai grandi e larghe, e sono alti come albori, e se ne fanno alcuni cosí grossi nel troncone quanto è uno uomo nella cintura, e altri quanto una coscia, e cosí piú o meno, secondo che è fertile o no il terreno. Dal basso fin su fanno certe frondi lunghissime, alcune di dodeci palmi e meno, e late tre o quattro palmi e piú e meno, secondo elle sono; ma il vento facilmente le rompe in molte parti, restando però intiere, attaccate al costolo della medesima fronda. Questa pianta è tutta come un rampollo, e nell'altro di lei s'inalza continovato col fusto di sotto un gambo o astile, grosso quanto è il braccio presso la mano, nella cui cima si fa un grappo con venti e trenta e alcuni con cento e piú e meno frutti, che li chiamano platani; e ognuno di questi frutti è piú o manco lungo d'un palmo, secondo la fertilità della pianta o la bontà del terreno, e grosso quanto è il braccio d'un uomo presso la mano. E cosí conforme a questa grossezza è la lunghezza, perchè in alcuni luoghi che si piantano si fanno assai piú piccioli. Ha questo frutto una scorza non molto grossa ma facile a scorticarsi, e di dentro è tutto un medollo, che pare a punto un midollo d'un osso di vacca. Si ha da troncare tutto il grappo di questi frutti tosto che comincia un di loro a farsi giallo; e poi appendono in casa tutto il grappo intiero, e cosí in casa si maturano tutti i platani che vi sono.
Questi sono buoni frutti, e quando si conciano bene, aprendoli in due parti a lungo con un coltello, e dando ad ogni parte un colpo di lungo col medesimo ferro, e tenendoli al sole, diventano d'un buon sapore e simili alli fichi secchi, o meglio anco. Sono anco saporosi e buoni cotti nel forno sopra un tegame di terra o altra cosa, e sono come una conserva melosa, e di cordiale e suave gusto. Cotti medesimamente nel pignatto con la carne sono un buon mangiare, ma non ha da essere il platano molto duro, quando s'ha da cuocere con la carne, né anco molto maturo, né si ha da porre al pignatto se non quando è quasi la carne cotta, perchè in uno o duo bogli facilmente si cuoce; e vi si vuol porre senza la scorza. Mangiandosi anco crudi, quando sono maturati, sono gentili frutti, e non bisogna insieme mangiarvi né pane né altra cosa; e oltre che hanno uno eccellente sapore, sono anco sani e di gentile digestione, talchè non ho mai inteso che facessero male a niuno. Portandosi per lo mare durano alcuni giorni, e si vogliono a questo effetto cogliere alquanto acerbi e verdi; e mentre che non si putrefanno e guastano, che per dodeci o quindeci giorni durano, sono piú saporosi in mare che in terra, come sogliono tutte le cose essere care dove meno avere si possono.
Il troncone o rampollo superiore, che produce il grappo con frutti, dura un anno a fare la sua operazione e a recare il frutto a fine; ma in questo stesso tempo si generano e nascono d'intorno al pedale di questa pianta quattro e cinque e sei e piú e meno germogli e figli, che col tempo poi producono il frutto e fanno il medesimo effetto che ha già la lor madre fatto. Ma tosto che troncano il grappo col frutto, troncano e tagliano anco la pianta che lo produsse, perchè non serve ad altro piú che ad imbrazzare il terreno. Moltiplicano tanto questi platani che mai non mancano, e sempre crescono e sono umidissimi; onde, quando vogliono estirparne e cavarne a forza dalle radici alcuni, tanta acqua dalle radici goccia, e tanta se ne vede nel terreno dove si cava, che pare che tutta l'umidità e acqua de' pori della terra a sé quelle radici attratta s'abbiano. Le formiche in questi luoghi sono molto amiche di questa pianta e vi vanno molto: il perchè se ne guastarono molti in questa città, perchè in tempo non avevano qui contra le formiche rimedio.
Questo frutto si ritrova del continuo in tutto il tempo dell'anno; ma, come ho detto, non è la sua origine in questi luoghi, né sanno il suo proprio nome darli, perchè non si possono nel vero chiamare platani, né sono platani. Ma, ciò che si siano, furono nel 1516 portati dall'isola della Gran Canaria dal reverendo padre fra' Tomaso di Berlanga dell'ordine dei predicatori a questa città di San Domenico, e di qui poi si sono sparsi per l'altre terre dell'isola e per tutte l'altre isole anco abitate da cristiani e in terra ferma; e dovunche sono stati piantati v'hanno fatto bene, e non è uomo di quanti in questa terra hanno possessioni che non n'abbiano molti. Ben credo io che nel mio podere ve ne siano quattromila piante, e in molti altri poderi, che sono maggiori che non è il mio, ve ne sono assai piú, perchè sono di molta utilità e tutti si mangiano, ed è per li padroni una buona entrata, perchè nulla vi spendono in farli.
Le prime piante di questi platani, come s'è detto, vennero dalla Gran Canaria, dove io in quella stessa città le viddi nel monasterio di San Francesco nel 1520. E cosí sono medesimamente nelle altre isole Fortunate o di Canaria. Ho anco udito dire che nella città d'Almeria, nel regno di Granata, vi siano medesimamente; ma per quello che io n'ho inteso da persone degne di fede, io credo che questo frutto sia di levante e dell'India orientale, che questa informazione n'ho da mercadanti genovesi, italiani e greci che sono in quelle parti stati: e mi dicono che questo frutto non solamente si trova in India dell'Oriente, ma copiosamente anco nell'Egitto e spezialmente nella città d'Alessandria, e che lo chiamano muse. Pietro Martire medesimamente, nella sua settima deca le chiama muse, perchè egli vidde in Alessandria questo frutto, e dice che non sono platani. E in effetto non può niuno con verità dire altra cosa. Lodovico di Vartema, bolognese, nel suo itinerario scrive che in Calicut questo frutto si ritrova, e che lo chiamano melapolanda; ma dice che non sono queste piante piú alte che un uomo o poco piú. Nel resto le descrive come io descritte l'ho, ma dice di piú che sono di tre maniere, l'una chiamata ciancapalon, l'altra e migliore gadelapalon, la terza dice che non è tale. Anche io dico che in questa isola non sono questi frutti tutti d'una bontà, perchè alcuni ne sono migliori e piú saporosi che gli altri; ma questo può procedere dalla disposizione del terreno, come accade in tutti gli altri frutti in Spagna e in altri luoghi, perchè il terreno sterile fa imbastardire i frutti.
E perchè ho detto di sopra che non sono veri platani, lo tengo io per certo, perchè Plinio dice che gli alberi de' platani furono portati in Italia e per lo mare Ionio vennero nell'isole Diomedee, e indi in Sicilia e di Sicilia in Italia. Dice anco che ne furono in Spagna nel tempo che fu presa Roma. E dice che in Licia fu un platano sopra un fonte, in forma di capanna o in guisa di spelonca, di 18 piedi, di modo che con molti rami che parevano tanti alberi lo coprivano tutto, insieme con buona parte del campo, con ombre longhissime. Scrive anco che Muziano, che fu tre volte consolo e legato di quella provincia, scrisse che aveva mangiato sotto a quel platano con disdotto compagni, e che restò largo spazio per tutti sotto le foglie, da starvi e dal vento e dalla pioggia securi. Dice anco che in Gorthinia, città di Candia, presso a un fonte è un platano che non perde mai le sue foglie, e che la favolosa Grecia dice che Giove sotto questo albero dormí con Europa. E conclude che la maggior lode che a questo albero si dà, è che nella primavera e nella estate si difende con la sua ombra dal sole. Da tutte queste proprietà e cose che Plinio del platano scrive, si raccoglie che questi che qui platani chiamano non sono platani, perchè quelli che sono descritti da Plinio niun frutto producono né altra utilità se ne cava che quella della ombra; là dove questi che qui abbiamo producono il frutto che s'è detto, e non può fare ombra una sola di queste piante, salvo se non molte insieme e dense, perchè non hanno rami, ma quelle frondi sole e rotte la maggior parte; né possono difensare niuno intieramente dal sole e dall'acqua, anzi pare che da loro piova piú tosto giú, perchè dalle medesime foglie cadono infinite goccie, perciochè poche se ne veggono del tutto intiere, l'altre sono in molte parti rotte. Quel platano di Candia non perde mai la foglia, e questi che qui abbiamo ne tengono piú secche che verdi, perchè sempre le prime si vanno seccando, e marcite che sono se ne cadono, e le piú alte vanno crescendo. E finalmente in capo d'un anno intiero compie il suo corso e la sua vita, come s'è detto, e restano suoi successori i figliuoli o rampolli intorno. Di modo che queste piante delle quali ho qui trattato, e onde tanta utilità si cava in questi luoghi, non si debbono tenere per platani né per alberi, ma per piante; e vennero qui per mezzo di quel reverendo padre fra' Tommaso, al quale meritamente la maestà cesarea ha fatto grazia del vescovado di Castiglia dell'Oro in terra ferma; perchè in effetto è religiosa persona e di buon esempio, e ha con la sua dottrina giovato molto in queste parti nelle cose del servigio d'Iddio, che già per tale fu eletto, non chiedendo né procurando egli tal cosa.
Le canne dolci delle quali si fa il zuccaro, e delle quali e in questa isola e nelle altre è risultato tanto utile, si portarono dalle isole di Canaria, come piú distesamente si disse nel quarto libro. Queste canne, ancorchè non siano alberi, mi è paruto nondimeno per concludere questo capitolo di darne questa breve relazione, per la utilità grande che hanno data a questa isola. E con questo passeremo a dire degli alberi naturali di questi luoghi.
Degli alberi fruttiferi e naturali di questa isola Spagnuola, e prima degli obi.
Cap. II.
L'obo è un albero grande e bello e fresco e di buona aria e di sana ombra; e ve ne è gran copia in questa isola e per tutte queste Indie. Il frutto che questo albero produce è buono e di gentil sapore e odore, ed è come picciole prune e gialletto; ma ha l'osso assai grande, secondo la proporzione del frutto, perchè vi ha poco che mangiare, ed è molto dannoso a' denti quando si continova a mangiarsi, per cagione d'alcune come schienze che hanno seco l'ossa attaccate; onde di necessità, quando vuole l'uomo distaccare co' denti il buono di questo frutto dall'osso, se ne vengono a dare nelle gengive. Ma egli è un sano cibo e di buona digestione, e ancorchè se ne mangino molti si mangia poco. I rampolli teneri o broccoli di questo albero si cuocuono con acqua, e questa decozione è poi ottima per fare la barba e per lavare le gambe, e ha un gentile odore. La decozione delle scorze di questo albero, lavandovisi le gambe, toglie la stanchezza ed è un salutifero bagno. Quando in campagna hanno le genti bisogno di dormire, sempre cercano di farlo sotto l'obo, perchè la sua ombra non dà gravezza né dolor di testa, come sogliono molti altri alberi fare. E cosí quelli che vanno alla guerra, come quelli che vanno con li bestiami o che camminano di viaggio, sempre cercano questi alberi per attaccarvi i loro letti o per dormirvi sotto. Questi frutti hanno fra sé nel sapore qualche differenza, perchè ne sono alcuni dolci, alcuni alquanto agri.
Dicono alcuni (fra li quali lo scrive Pietro Martire) che questo albero e frutti sono mirobalani: e questi sono quelli a' quali questo autore dà tal nome. Ma s'ingannò. I nostri medici e aromatarii (che ne sono qui passate segnalate e discrete persone, come il licenziado Bezerra, il licenziado Barreda e 'l dottor messer Codro italiano e altri) non hanno mai detto né pensato che questi frutti siano mirobalani, né spezie alcuna loro, perchè in effetto non sono. Ma io lascio questa disputa ai medici, che ancorchè gli vogliono fare mirobolani non essendo, non sarà questo il primo danno che essi fanno con la medicina, né l'ultima bugia che essi dicono; perchè in questa materia della medicina si usano grandi inavertenze, e piú pericolose che in arte altra alcuna che s'eserciti; e finchè un medico s'addestra a curare, fa piú disordini che non ha in vita sua letti versi e righe di scritto. Ma egli si può con verità di questo albero dire una proprietà esperimentata e veduta ogni giorno da quelli che vedere lo vogliono e che vi vengono dalla necessità astretti. Ed è questo, che quando non si ritrova acqua in campagna, onde per la sete sogliono di necessità perire le genti, se vi si veggono di questi alberi ne cavano alcune radici, e troncatone un pezzo, se ne pongono l'un capo in bocca come bocca di fiasco, e l'altro capo alzano su con mano: e ne goccia tanta acqua che basta a cavare di sete e d'affanno ogni assetato. Ne gocciola prima a poco a poco l'acqua, e poi ne scorre continovata come un filo. E questo l'ho io provato, ritrovandomi nella medesima sete e necessità; e l'hanno anco molti altri provato, e s'imparò dagl'Indiani.
Dell'albero chiamato cainito e del suo frutto.
Cap. III.
Il cainito è uno albero delli piú noti che possa avere il mondo, perchè ha le sue frondi quasi ritonde, e dall'una banda sono verdi, dall'altra hanno un colore che pare che siano secche o come passe; sí che, ancorchè fra densissimi alberi, questo si conosce, per essere molto fra tutti gli altri differente. Il suo frutto ha il color di paonazzo, ed è lunghetto e grande quanto è dall'una giuntura all'altra d'un deto, ma non è già grosso quanto è un deto; e dentro è bianco come latte e sugoso, e quando si mangia quel di dentro è come latte viscoso e denso. Questi alberi fanno il frutto quale abbiamo detto, e in questa isola e nelle altre medesimamente, ma in terra ferma il lor frutto è tondo e grosso quanto una palla picciola di giuocare o poco meno; e questa è la differenza che hanno questi frutti del cainito di questa isola con quelli di terra ferma, perchè nel resto sono una cosa stessa l'albero e le frondi. Questo è un sano frutto e di buona digestione, e nel tempo che questi frutti si trovano si vende gran quantità nella piazza di San Domenico. Il legno di questo albero è forte e buono per lavorarsi, se si lascia però stare per qualche tempo tagliato e non si lavora verde, come i legniaiuoli e i maestri di questa arte dicono.
Dell'albero chiamato higuero, pronunziandolo di quattro sillabe: hi.gu.e.ro.
Cap. IIII.
L'higuero è un albero grande, come sono i celsi neri di Castiglia, e piú e meno. I suoi frutti sono certe zucche tonde, e alcune ne sono lunghette; ma le tonde sono tondissime, e ne fanno gl'Indiani tazze e altri vasi per bere, e per altri varii usi. Il legno di questo albero è forte e buono per far carrieghe da sedere di spalle e seggie picciole, e selle di ginetti e altre cose. Si scorza facilmente ed è forte, e doppo che è lavorato pare di granato o di spino. La fronde di questo albero è lunga e stretta, e nella sua punta è piú larga, dalla quale si viene poi a poco a poco diminuendo fino al picciolo, onde comincia la fronde stessa a montare su, nel modo che qui lineata si vede. Gl'Indiani per necessità mangiano di questo frutto, cioè di quello di dentro, che è a punto come la carnosità della zucca quando sta verde, e la scorza resta col lustro e col garbo di zucca, e in effetto non pare che altro che zucche siano. Questo frutto o cocozze sono di questa grandezza, che la piú grande è quanto un pignatto capace di due buone giarre d'acqua e piú, e la piú picciola è quanto un pugno chiuso; sí che se ne fanno vasi di quella grandezza che vogliono fra questi duo estremi. Questi alberi sono ordinari e comuni in questa e in tutte l'altre isole e terra ferma di queste Indie; ma perchè in alcune provincie i vasi che di questi frutti si fanno sono preziosi e vaghi, senza che vi hanno nelle fronde un'altra differenza misteriosa che non è negli higueri di qua, lascieremo di dirne il resto per quando si tratterà delle cose di terra ferma, nella seconda parte di questa grande istoria delle Indie.
Dell'albero chiamato xagua e del suo frutto, e della tintura che se ne fa.
Cap. V.
La xagua è un bello albero e alto, e ne ho vedute fare e ne ho avute io belle aste di lancia, e cosí grosse e lunghe come altri le vuole. È un legno grieve piú che non è il frassino, ed è molto comune in questa e nelle altre isole e in terra ferma. Questi sono alberi alti e diritti e della forma de' frassini, belli a vedere, e le aste che se ne fanno hanno un vago colore fra berrettino e leonato. Producono un frutto cosí grande come papaveri, e molto lor si rassomigliano, salvo che le xague non hanno le coronette di sopra opposite al pidicino. Questo è un buon frutto a mangiare, quando è maturo e stagionato, e se ne cava una acqua assai chiara, con la quale gl'Indiani e le Indiane si lavano le gambe e alle volte tutta la persona, quando si sentono le carni deboli per la stanchezza. E per loro piacere medesimamente con questa acqua si dipingono, che, di piú che l'ha virtú d'astringere, ritorna a poco a poco ciò che ella bagna e tocca nero come un fino ebano; e questo colore per cosa alcuna non si può togliere prima che passino quindeci o venti giorni o piú. E molte volte, se ne tingono l'ungie e vi si lascia questa acqua asciugare, non lasciano mai quel nero finchè si mutino, tagliandole a poco a poco come elle vanno crescendo. Il che io ho alcuna volta provato, perchè noi anco siamo andati in terra ferma guerreggiando o travagliando, e per cagione de' molti fiumi che si passano è molto la xagua utile per le gambe, perchè, come ho detto, astringe.
Si sogliono fare delle burle a donne con questa acqua, spruzzandone lor nel viso, ma mischiata con altre acque odorifere, perchè elle non se ne accorgono; perchè indi a poco tempo salgono lor su la carne piú nei o nuvolette di quelle che non vorrebbono. E colei che non sa il secreto, cioè onde queste macchie si nascono, ne monta tosto in affanno e pensiero di ritrovarvi rimedii. Ma tutti i rimedii vi sono dannosi, e atti piú tosto a bruciare e scorticare loro il viso e 'l petto che a guarirle di quelle macchie, finchè passino li venti dí, che (come s'è detto di sopra) a poco a poco da se stessa quella tintura se ne vada. Quando in terra ferma vogliono gl'Indiani andare a combattere, si dipingono con questa xagua e con la bicia, che è un altro color rosso piú fino della macra. L'Indiane medesimamente, quando vogliono parere belle, s'acconciano il viso e la persona con un di questi due colori o con amendue; e certo che agli occhi miei poco meglio paiono che diavoli, cosí gli uomini come le donne di questi colori tinti.
Della bicia, che è una pianta che da se stessa nasce, come gli altri alberi che si sono detti.
Cap. VI.
La bicia è una pianta che da se stessa nasce, senza essere piantata dagli uomini, e la pongo io qui per quello che n'ho detto qui sopra, che se ne dipingono gl'Indiani di tutte queste isole e di terra ferma. Queste piante della bicia sono cosí alte quanto è una volta e mezza alto un uomo, o meno. Hanno le frondi quasi al modo di quelle del bambagio, e fanno certi frutti posti in scorze che si somigliano a quelli del cottone, salvo che per fuori hanno una teletta grossetta in certe vene, che dalla parte di fuori segnano gli appartamenti che dentro il guscio si veggono: dentro il quale sono certi granelli rossi che s'attaccano come cera, e sono piú viscosi anco. E di questi granelli compongono gl'Indiani certe palle con le quali poi si dipingono il viso; ma vi mescolano certe gomme, onde ne fanno una tintura come di cenaprio fino. E di questo colore si dipingono il viso e 'l corpo, di cosí buona grazia che si somigliano al medesimo diavolo; e le Indiane fanno il medesimo quando vogliono fare le lor feste e balli, come se ne tingono gli uomini quando vogliono parere belli e vaghi, o che vogliono andare alle guerre per parere feroci. Questo colore della bicia non si può di leggiero poi togliere finchè ne passino molti giorni, ma astringe assai la carne, e dicono che se ne ritrovano bene. Serve anco bene in questo agl'Indiani, che quando a questo modo dipinti stanno, perchè la tintura è rossa e del colore del sangue, essendo feriti non si sbigottiscono tanto quanto quelli che di questo rosso dipinti non sono. Ma essi questo non sbigottirsi l'attribuiscono alla virtú della bicia; il che è una falsa opinione, e non nasce da altro che non parervi il sangue.
Questa tintura, oltre che pare cosí brutta, non ha né anco buono odore, per cagione delle gomme o delle altre cose che in questa mistura entrano. Per lo combattere adunque, e parere feroci nella battaglia, si dipingono (come s'è detto) di tal colore. E non ci dobbiamo di ciò maravigliare, poichè i Romani, quando trionfavano, andavano sopra il carro in seggia indorata assisi e con la veste palmata indosso, e nondimeno col viso tinto di rosso, ad imitazione dell'elemento del fuoco, come scrive Cristoforo Landino esponendo la Comedia di Dante. Né solamente gli antichi Romani questo costume ebbero, perchè piú compiutamente il serbarono gli Inglesi, che (come Cesare ne' suoi Comentarii scrive) solevano tingersi con un certo unguento di color bigio o rosso, per comparire con piú orribile aspetto nella battaglia. Di questi Inglesi questo autore stesso scrive altri vizii, che sono di tanta o maggiore admirazione che gli errori di questi Indiani, perchè dice che dieci e dodeci uomini avevano una moglie commune, massimamente fratelli con fratelli e padri con figli; e quando ne nascevano i figliuoli poi erano di colui che aveva prima toccata e goduta la sposa. Certo che peggiori cose né simili non ho mai inteso nel mondo, né letto che mai in parte alcuna da genti selvagge e barbare si servassero. Ma, ritornando all'istoria dell'Indie, dico che questa bicia è un color che molto si pregia e stima qui, fra queste genti di tutte queste isole e di terra ferma, per gli effetti che detti di sopra se ne sono.
Dell'albero della guazuma, e del suo frutto.
Cap. VII.
La guazuma è un albero grande, che produce un frutto come il celso nero, e ha quasi la fronde come l'ha questo celso, salvo che l'ha minore. Di questi frutti fanno gl'Indiani una bevanda che gli ingrassa come porci; e per questo pongono di questi frutti nell'acqua e ne fanno la bevanda, che fra pochi giorni riempie e fa corpolenti gl'Indiani che ne bevono. Il medesimo fa de' cavalli, quando se ne trova alcuno che voglia berne. Il legno di questo albero è molto leggiero, e ne fanno in terra ferma gl'Indiani i bastoni da caricare, come si dirà al suo luogo nella seconda parte. S'è qui posto questo albero perchè è comune in tutte queste isole e terra ferma.
Dell'albero chiamato guama, e del suo frutto.
Cap. VIII.
La guama è un grande albero, e comunemente quello che piú si brucia in questa isola, per cagione che se ne ritrovano assai e grandi alberi, e ardono chiaro e puro. Qui se ne consuma una copia infinita nel cuocere i zuccari che si fanno. Il frutto della guama è come selleccole o scioscelle, grandi e maggiori di quelle di Castiglia, ma hanno quasi un medesimo sapore. Dicono che gl'Indiani e i cristiani anco le mangiavano, ma io non provai giamai tal frutto, ancorchè veduto l'abbia.
Degli alberi dello hicacos, e del frutto loro.
Cap. IX.
L'hicaco è un albero che nella foglia si somiglia molto al sorbo peloso, ma non gli si somiglia già al frutto, benchè non sia questo albero maggiore di quel del sorbo peloso. Il frutto dell'hicaco sono certi pomi piccioli, alcuni bianchi, alcuni rossi e altri quasi neri. Non è de' migliori frutti del mondo; non è né anco cattivo né dannoso. L'osso è grande, rispetto alla grandezza del frutto, perchè è poco quello che vi ha da mangiarsi, e se n'ha da distaccare corrodendolo ben bene; e per questo non è troppo buon cibo per le gengive. Quella poca carnosità che vi si trova è molto bianca, e non se ne distacca cosí presto che non sia bisogno ritornarvi con denti spesso, per lasciarne l'osso netto. Questi frutti sono buoni per lo flusso del ventre.
E questo albero, con tutti gli altri che io ho in questo ottavo libro descritti, sono selvaggi e naturali in questa e nelle altre isole e in terra ferma, e da se stessi vi nascono e riempono buona parte de' boschi e delle selve, benchè alcuni anco di loro se ne coltivino, perchè coloro che si dilettano d'agricoltura li lavorano e li fanno migliori frutti produrre. Questi alberi sono amici dell'aere del mare, perchè per lo piú sempre si ritrovano non molto lungi dalle costiere marine.
Dell'albero chiamato iaruma, e del suo frutto.
Cap. X.
Questi alberi della iaruma sono come fichi selvatici e assai grandi, e hanno le foglie grandi e aperte o fesse molto, e maggiori di quelle di Spagna, ancorchè paia che vogliano nella fronde imitarle. Producono un frutto lungo come un deto della mano, che pare un grosso verme, e sono questi frutti ben dolci. Questo albero è grande quanto un mezzano albero di noce, benchè ve ne siano anco alcuni come grandi alberi di noce. Il suo legno non è buono, perchè è leggiero e bucato e fragile. Gl'Indiani stimavano questi alberi e dicevano che erano buoni, ed essi se ne servivano in curarsi le piaghe. Di che non ho io veduto fare isperienzia, come degli altri alberi de' quali al suo luogo si dirà, ma ho bene udito dire a cristiani, persone di credito, che l'hanno essi nelle persone loro isperimentato, e lo lodano molto e dicono che sia caustico, e che le cime tenere delle punte de' rami, pestate e poste sopra le piaghe, ancorchè siano vecchie, vi corrodono e mangiano la carne cattiva e vi fanno crescere la buona e incarnano il luogo piagato, e col continovarvi questo rimedio vi inducono la pelle e del tutto lo guariscono. Questi alberi sono molto comuni, e se ne trova gran quantità in tutte queste isole e in terra ferma.
Dell'albero chiamato macagua, e del suo frutto e legno.
Cap. XI.
Il macagua è un gentile e grande albero, e il suo frutto è come olive picciole, ma il sapore è come di ciriegie. Il legno di questo albero è assai buono per lavorarsi, e la sua fronde è assai verde e fresca. Ma perchè molti degli alberi di questi luoghi si somigliano alla foglia, mi resto di descrivere in alcuni le particolarità che nelle foglie hanno, salvo se le avessero segnalate e molto dagli altri differenti, perchè meglio s'intenda. Voglio inferire che in queste Indie sono milioni d'alberi che hanno le foglie assai simili e della maniera che le hanno le noci, salvo che sono o maggiori o minori, o piú larghe o piú strette, o piú grosse o piú sottili, o piú o meno verdi. E sotto questa generalità si somigliano molti alberi l'un l'altro.
Dell'albero chiamato auzuba, e del suo frutto.
Cap. XII.
L'auzuba è un grande e gentile albero, ma il suo frutto è un degli eccellenti del mondo e sa come di buone pere moscatelle. Ne esce però tanto latte, e molto viscoso, che per voler mangiarlo bisogna porlo nell'acqua, e ivi co' deti stroppicciarlo, perchè mangiandosi non s'attacchi alle labbra. Questo latte è come quello che esce de' picciuoli de' fichi verdi, e piú fastidioso anco; ma gettandosi in acqua il frutto (come s'è detto) e stroppicciandosi con mani o spremendosi, se ne esce tosto quel latte e resta nell'acqua. Questi alberi sono grandi, e il legno loro è un de' migliori e piú forte e gagliardo che in tutta questa isola Spagnuola siano.
Dell'albero chiamato guaiabara, che i cristiani lo chiamano uvero, perchè produce per frutto una certa maniera di uve, e del suo legno, con altre sue particolarità.
Cap. XIII.
Il guaiabara è un buon albero e d'un gentil legno, massimamente per farne carboni, perchè, essendo albero sparso in rami e copputo, ancorchè sia grosso non è atto alle fabriche, e non serve per altro che per panche di macello e per ceppi e altre cose simili, che già non se ne possono cavare né fare travi né viti da torcoli. Il legno di questo albero è alquanto rossetto, che pare sorbo peloso, ma è piú gagliardo. Il suo frutto sono certi graspi d'uve, rare e sparse e come rosate o pavonazze, e son buone da mangiare, ancorchè poco da mangiare vi sia, perchè l'osso che hanno è soverchio rispetto alla grossezza delle uve o granelli del raspo; perchè li piú grossi granelli di queste uve sono come palle di schiopetti o qualche poco maggiori, e alcune come avellane con la scorza.
Ha questo albero la foglia nel modo che si vede qui lineata, e ve la ho posta per essere cosí differente e segnalata fra tutte l'altre. La maggior foglia è di larghezza d'un palmo o poco piú, e altrettanto in lungo. Nel tempo che in questa isola e nelle convicine e in terra ferma anco si continovava la guerra, non avendo i nostri cosí alla mano l'inchiostro e la carta, si servivano di queste foglie per scrivere da un luogo ad un altro. E questa foglia verde è grossa quanto sono due foglie d'ellera poste insieme l'una sopra l'altra, e sono le sue vene rosse. Con un spiletto adunque, o con un ago picciolo, scrivevano sopra queste foglie dall'un capo all'altro ciò che volevano, perchè, essendo verdi o colte quel dí dall'albero, v'appariscono le lettere intagliate bianche e belle, e differenti dalla superficie della foglia, che resta intiera fra lo scritto: e sono in effetto assai le lettere legibili, senza che si fori né si buchi la foglia dall'un canto all'altro. E quelle vene che si veggono (ancorchè quella schiena principale che passa per mezzo sia grossicella) sono tutte sottili, e non danno disturbo né impedimento alcuno allo scrivere.
Dell'albero chiamato copei, nelle cui foglie si può medesimamente scrivere.
Cap. XIIII.
Il copei è un buon albero e di gentil legno, e ha la foglia come il guaiabara o uvero che si è detto qui di sopra; ma il copei è assai maggiore albero, e ha la foglia minore di quella del guaiabara, ma piú grossa al doppio e piú atta per scrivervi con la punta d'uno spiletto o d'un ago, come si è nel precedente capitolo detto. E le vene di queste foglie sono piú sottili, e meno impediscono lo scrivere di quello che si facciano le vene delle frondi dell'uvero. E in que' primi tempi della conquista di questa e dell'altre isole di queste Indie, i cristiani ne facevano carte da giuocare, formandovi i re, i cavalli e le donne, con tutte l'altre figure e punti, perchè, essendo le foglie grosse, acconciamente dipingere con l'ago vi si potevano, e si potevano anco poi mischiare insieme, e vi si giuocavano molti danari, non potendo meglio averle. Il frutto di questo albero non ho io mai veduto, ancorchè abbia visto molte volte le foglie.
Dell'albero chiamato gaguei, e del suo frutto.
Cap. XV.
Il gaguei è un albero che produce un frutto come fico, ma non già piú grosso che l'avellana, e dentro è proprio come un fico di Castiglia, bianco e pieno di certi granelluzzi minutissimi, ma di buon sapore. Il legno di questo albero, ancorchè non sia de' buoni, non è però disutile, perchè delle sue scorze, nel tempo adietro, si facevano fune grosse e picciole e dagl'Indiani e dai cristiani, e scarpe di queste corde medesimamente, quando mancava loro il canapo o non ne veniva di Castiglia. E ancorchè ne venisse, non restavano di fare ogni sorte di corde delle scorze di questi alberi, perchè ne riescono assai buone e durano assai.
Dell'albero che chiamano cibucan, e del suo frutto.
Cap. XVI.
Il cibucan è un albero de' buoni che siano in questa isola Spagnuola, e ha la foglia come salce, e produce un frutto come avellane bianche, e che ha dentro granelli minutissimi che paiono lendini. E benchè questa comparazione sia brutta e schifa, è nondimeno il frutto dolce; e ho detto a quel modo perchè molti chiamano questo cibo il frutto o l'albero delli lendini, benchè si possa anco dire che come sale minutissimo siano. Il legno di questo albero è assai buono; e sono questi alberi assai freschi e di bella vista. Non si ha intendere, per questo nome di cibucan, che quella vite o soppressa dove si spreme il pan cazabi si faccia di questo albero, né sia questo albero: perchè non ha a fare nulla con questo albero quella sacchetta o soppressa dove si purga il cazabi, ma è solo perchè la lingua di questi Indiani è povera, e con una voce stessa chiamano molte cose; come si vede anco che non ha nulla che fare con quel fiume chiamato Nigua quello animaletto maledetto minor che pulce, che se ne entra ne' piè, e chiamato nigua medesimamente. Ma non ci debbiamo di ciò maravigliare, poichè vediamo anco che il Portoghese chiama il coltello e l'achinea d'uno stesso nome, faca; e il Castigliano, per onorare una donna e dire che ella sia savia, la chiamerà cuerda, e chiamerà cuerda medesimamente una corda d'arco o di balestra o altra corda comune. Questi stessi difetti delle voci si ritroverebbono in molte altre nazioni e lingue, se noi volessimo andarne cercando, benchè nel vero sia questa lingua degl'Indiani brevissima.
Dell'albero guanabano, e del suo frutto.
Cap. XVII.
Il guanabano è un alto e bello albero, e ha un bel frutto e cosí grande come mezzani melloni; e ve ne ha alcuno cosí grande quanto è la testa d'un fanciullo. È verde questo frutto, e ha di sopra segnate certe squamme come la pigna, ma le ha liscie e non rilevate come nella pigna si vede. Questo frutto è freddo e atto per quando sono i tempi caldi; e benchè si mangi un uomo una guanabana intiera, non gli farà male alcuno. Ha la scorza o la pelle cosí delicata e sottile come è quella d'un pero, e il mangiare di questo frutto è come natte di latte o bianco mangiare, perchè si stira e si fa a modo di coreggia. È un cibo bianchissimo e si disfa tosto in bocca come acqua, con buona e soave dolcezza. E fra la sua carnosità sono assai semente, grandi come quelle delle zucche, ma piú grossicelle e di color di leonato oscuro. Sono questi alberi, come ho detto, alti e grandi e belli e freschi, e con le foglie verdi e fatte quasi come quelle del limone. Il suo legno è di buona sorte, ma non forte e gagliardo.
Dell'albero chiamato anon e del suo frutto, che è simile assai alla guanabana.
Cap. XVIII.
L'anon è un albero il cui frutto ha gran somiglianza col frutto del guanabano, del quale s'è nel precedente capitolo ragionato. Anzi, l'albero istesso dell'anon a quello del guanabano si somiglia, cosí nella grandezza come nelle foglie, e nella fattezza e garbo del frutto, e nella carnosità anco e sementa. Ma in due cose sole sono differenti e vari: la prima è che l'anon ha il frutto assai piú picciolo, e l'altra che il frutto dell'anon al gusto mio ha miglior sapore, ancorchè io senta da alcuni contradirmi, o perchè essi hanno piú vivo il gusto di me, e con piú appetito e voglia lo gustano, o l'hanno essi per aventura piú aspero di me. È bene il vero che io son stato sempre piú amico delle frutte che della carne e delle altre cose simili. Non dipingo questo frutto altramente, perchè ha le medesime fattezze che ha la guanabana, salvo che la guanabana è verde e l'anon è giallo; ma hanno le medesime squamme ed è un medesimo mangiare, benchè al parer mio l'anon non sia cosí aquoso, ma alquanto piú denso e di miglior gusto, come ho detto, s'io non m'inganno. Il legno dell'anon è come quello del guanabano, e dell'uno e dell'altro facevano e fanno gran conto gl'Indiani ne' lor luoghi e poderi, e in gran pregio gli hanno.
Dell'albero chiamato guaiabo, e del suo frutto.
Cap. XIX.
Il guaiabo è un comune albero in questa e nelle altre isole e in terra ferma, ed è molto stimato ed è di buoni frutti e legno. Di questi alberi ne sono qui una copia infinita selvaggi, ma sono minori di quelli che si coltivano, e gl'Indiani hanno molta cura di coltivarli. Sono questi alberi cosí grandi come quelli delli naranci o melangole; ma hanno piú rari e piú sparsi i rami e non cosí verdi le foglie, ma della fattezza che sono quelle del lauro, benchè alquanto piú larghe e piú grosse e con le vene piú rilevate. Sono questi guaiabi di due spezie, ma tutti producono una maniera di pomi, alcuni lunghetti altri tondi; ma alcuni alberi fanno questi frutti rossi di dentro, altri li fanno bianchi. Ma e questi e quelli sono di fuori verdi o gialli, se molto a maturare li lasciano. Ma perchè quando sono assai maturi non hanno cosí buon sapore e s'empiono anco di vermetti, gli cogliono alquanto verdi, e ne sono alcuni cosí grossi come grosse mele e minori anco. E benchè stiano verdi di fuora, ve ne sono alcuni di tale spezie che non per questo sono maturi di dentro. Sono dentro massicci e divisi come in quattro quarti; e fra questa lor carnosità cosí distinta dentro sono certi granelli durissimi, ma s'inghiottono. Ed è un buon frutto e di buona digestione, e molto utile per lo flusso del ventre, perchè lo fermano e lo ristringono quando si mangiano alquanto duri e non del tutto maturi. Fra quelli granelli già detti e la scorza sta quella carnosità, cosí grossa quanto è una penna d'oca e meno, secondo che sono grandi o piccioli i frutti.
Chiamasi questo pomo guaiaba e l'albero guaiabo; e ha il frutto nella sua cima una coronetta di certe fogliette picciole, che facilmente gli cadono. Ed è la scorza di questo pomo cosí delicata e sottile come d'un pero moscatello, e a quel modo a punto si monda e scorza. L'albero fa buona ombra, ed è un gentil legno che serve per molti lavori minuti, e non già per vite da torcoli né per travi grossi, perchè il tronco e i rami sono torti e isgarbati. Ma il suo frutto qui si tiene per buono, ed è comune in tutte queste Indie o nella maggior parte, e sono nella spezie loro l'una guaiaba assai migliore dell'altra. Si ritrovano anco per li boschi questi alberi, ma quelli che sono selvaggi sono piccioli e il frutto anco mediocre. Ve ne sono alcuni di questi alberi che il fior loro odora come quello del gelsomino o meglio, e si somiglia questo fiore a quello del zaharo, ma non è cosí grosso. Gl'Indiani piantano questi alberi ne' lor poderi, e il medesimo fanno i cristiani. Ma chi non è avezzo a mangiare di questo frutto non ne resterà molto sodisfatto finchè nol continova, per cagione de' granelli, che bisogna che s'avezzi l'uomo a inghiottire, come si fa anco nell'altre difficultà e travagli di questi luoghi; ma in effetto questi sono buoni frutti. Questi alberi presto invecchiano e van via, perchè in cinque o sei anni son vecchi, e ce lo insegna il frutto, che ogni anno si fa minore e si diminuisce nella grandezza; e il sapore anco si va peggiorando e si fa piú aspero. E però si vogliono sempre riporre e pastinare degli altri nuovi guaiabi, e in buono terreno, perchè questo albero meglio che niuno altro riconosce il buon terreno, e nelle terre leggiere rade volte vi fanno bene.
Dell'albero del mamei e del suo frutto, chiamato del medesimo nome.
Cap. XX.
Il mamei è un de' belli alberi che possa avere il mondo, perchè son grandi alberi e con molti rami e vaghe foglie, e sono copputi e verdi e freschi, e cosí grandi come sono i grandi alberi delle noci di Spagna, benchè co' rami piú in sé raccolti e non cosí sparsi. La grandezza della sua fronde è quanto quella delle noci e piú, perchè è lunga un palmo e il lato è a proporzione del lungo; ed è fatta nel modo che qui lineata si vede, ed è piú verde da una banda che dall'altra, ed è piú grossa che quella della noce.
Il frutto di questo arbore è il migliore che sia in questa isola Spagnuola, e di buon sapore, ed è tondo al possibile, benchè ve ne siano alcuni non tanto tondi. È grosso quanto un pugno e mezzo, e come un pugno, e qualche poco meno. Ha una scorza che pende al color leonato, ed è aspera alquanto e simile alla scorza delle perazze, ma è piú dura e piú densa. Alcuni di questi frutti hanno un osso, altri ne hanno due, e alcuni tre giunti insieme ma distinti nel mezzo del pomo, a modo di semi, coverti d'una teluzza sottile. E questi semi hanno il colore e la coverta d'una castagna mondata; anzi, tagliandoli si vede che hanno dentro la carnosità della castagna, e le sono simili, di modo che per essere castagne non manca loro altro che il sapore, perciochè questo osso, o seme per dir meglio, è amarissimo come un fele. Fra la teluzza sottile che cuopre questo osso e la prima scorza di sopra del pomo sta una carnosità di color leonato o quasi, e ha sapore di cotogno o di persico, anzi ha migliore sapore, ma non è cosí sugosa come il persico, né cosí odora. Posta una fetta della carnosità di questo frutto in un piatto, da chi non lo conoscesse e non l'avesse veduto tagliare sarebbe giudicato per un cotogno di quelli di Valenzia buoni, ancorchè non avesse cosí il sapore di zuccaro. La carnosità che è in questo frutto, fra l'osso e la scorza di sopra, è grossa un deto o poco meno ne' frutti grossi, e alcune volte assai meno della metà d'un deto, secondo la grandezza o la picciolezza del mamei. Quando si parlerà delle cose di terra ferma, si diranno di questo stesso frutto e albero molte altre particolarità, perchè ivi questi alberi sono differenti, non nella grandezza né nella fattezza della foglia, ma nel sapore e grossezza del frutto e in altre particolarità. Il legno di questo albero è bello a vedere e assai grosso, ma non è forte, né dura tanto quanto gli altri negli edificii.
Delle pergole e viti selvagge di questa isola.
Cap. XXI.
Dove feci menzione degli alberi portati di Spagna, dissi che erano in questa città molte viti che producevano buone uve, e cosí ne sono nelle possessioni e in molte altre parti e terre dell'isola, che ne vennero i sarmenti di Castiglia per piantarli in questi luoghi. Di piú di questo dico ora che, cosí in questa isola come nell'altre circonstanti e in terra ferma, sono viti selvagge che producono buone uve nere, delle quali io ho molte volte mangiato. Dico buone per esser selvaggie; e queste viti si veggono comunemente in tutte quest'Indie. E di queste tali viti mi cred'io ch'avessero principio tutte le uve che si trovano, e che questa sia una pianta comune nel mondo. Non si piantano qui come si fa nel paese nostro di Castiglia nel regno di Toledo, ma qui montano su in alto abbracciandosi con gli alberi; e io penso che qui se ne farebbono belle possessioni e arbusti, nel modo che si veggono in Italia nel regno di Napoli le viti del vin greco e d'altri vini perfetti, appoggiate alle salci, agli oppi e ad altri alberi. In Barzellona anco e Catalogna ho io veduti alcuni di questi pergoletti e viti poste sopra gli albori; ma in Terra di Lavoro nel regno di Napoli sono buone uve di queste viti, cosí presso quella città come presso Capua, Aversa, Sorrento, Somma e altri luoghi di quel regno, e in Lombardia medesimamente e in altre parti di Italia. Dico che qui vi farebbono anco bene, se le sapessero coltivare e averne cura, perchè io ho veduto in queste Indie una vite di queste d'alberi grossa quanto un braccio d'uomo e piú. E non è dubbio che, dove la natura da se stessa produce alcuna di queste cose, molto meglio vi farebbono essendo aiutate dall'industria degli uomini, con l'adacquare e altre diligenze che sogliono i buoni agricoltori usare, come è l'innestare, il potare, il letamare e adacquare a' suoi tempi, e altre cose che si potrebbono a questo proposito dire.
Delle morole di questa isola Spagnuola.
Cap. XXII
In questa isola Spagnuola sono molte morole di quelle di Spagna, e nell'altre isole convicine medesimamente, e in alcuni luoghi anco di terra ferma. E benchè nel vero queste non si possono porre per alberi in Castiglia, qui nondimeno sono, perchè hanno i tronconi e i rami piú grossi, e s'inalzano su piú che non fanno quelle di Spagna. E in effetto è frutto, ma alquanto minore di quello che producono le spine o morole di Castiglia, e hanno il medesimo sapore, e non sono meno i loro rami spinosi, e hanno le medesime foglie.
Delli cardoni ne' quali nasce il frutto chiamato pitahaia.
Cap. XXIII.
La pithaia è un frutto grande quanto un pugno chiuso, e alcune poco piú o poco meno. Nasce in certi cardi assai spinosi e brutti alla vista, perchè non hanno foglie, ma certi rami solamente o braccia lunghe, che servono in luogo di rami e di foglia, e hanno quattro schiere o angoli; ognuno di questi rami è lungo un passo, e fra angolo e angolo si vede un canaletto. E per tutti gli angoli e canali si veggono di passo in passo sparse e nate certe spine fiere e acute, cosí lunghe quanto è la metà del maggiore deto della mano e piú, e stanno queste spine a tre a tre e a quattro a quattro. Fra queste foglie o rami nasce questo frutto chiamato pithaia, che è rossissimo, come un carmesino rosato, e ha come certe squame segnate su la scorza, che nel vero non vi sono; e ha una certa scorza grossa, ma che facilmente con un coltello si taglia; e dentro sta pieno di granelli come un fico, mischiati con la carnosità del frutto. E tanto questa come quelli sono di colore d'un fino carmisino, e si mangia tutta questa mistura con tutti i granelli. Quello che viene da questa mistura tocco, resta cosí tinto in rosso come lo sogliono i celsi nel fare, o piú.
Questo è un sano frutto e al gusto di molti piace, ma io eleggerei degli altri piú tosto che questo, il quale fa nell'urinare quello effetto che fa la tuna, che è un altro frutto del quale qui appresso si parlerà; ma nol fa cosí presto, perchè due ore doppo che ha l'uomo due o tre di questi frutti mangiato fa l'urina che pare un vero sangue. Non è cattivo frutto né dannoso, ed è molto vago alla vista, ma i cardoni dove essi nascono è una cosa fiera e orrida; i cardoni sono verdi e le spine berrettine o bianchette, e il frutto rosso, come s'è detto, e nella forma che s'è qui lineato. Chi vuole torre una pithaia del cardo dove ella è nata non bisogna aver fretta, ma usarvi avertenza, perchè quelli cardi pungenti son molti e ristretti insieme e bene armati.
Di certi cardi alti e dritti come picche lunghe, quadri e spinosi, e chiamati cerii dai cristiani, perchè paiono cerii o torchi di cera, fuor che nelle spine.
Cap. XXIIII.
I cardoni o cerii che chiamano i cristiani in questa isola, sono una maniera di cardi assai spinosi e selvaggi, in tanto che non è in loro parte onde si possino toccare, perchè d'ogni verso si ritrovano fiere e pungenti spine, benchè la natura ve l'abbia poste con un certo ordine e a compasso l'una dall'altra distante. Questi cerii sono assai verdi e tanto alti quanto una lancia, e alcuni quanto una picca e altri piú piccioli, e sono cosí grossi come è nella sua polpa la gamba d'uno uomo che sia né grossa né sottile. Nascono questi cerii insieme e molto diritti, come qui desegnati gli abbiamo; e producono uno frutto rosso come un carmesino e grosso quanto una noce, e dolce e buono a mangiare, ma pieno d'infiniti granelli; e dove il suo succo tocca vi tinge di un color rosso acceso, onde e le labbra e le mani di chi ne mangia se ne sogliono di questo colore tingere. Non è frutto da desiderarlo, ma non è però di male gusto né che non si possa mangiare, quando è maturo e ben stagionato. Questi cardi, poi che sono cresciuti quanto hanno a crescere, s'invecchiano e si seccano, e nascono loro presso altri teneri e nuovi rampolli; di modo che i nuovi stanno verdi e con le spine berrettine, e gli antichi e vecchi stanno secchi, e tutti insieme in un drappello.
Non ho potuto sapere in che si servivano gl'Indiani di questi cardi, i quali in terra ferma, nella provincia di Nicaragua, si veggono posti nelle possessioni degl'Indiani; onde, perchè mi pare che per lo frutto solamente non siano cosa di dovere molta cura averne, suspico e vo pensando che ivi per qualche maggior effetto, over per qualche loro speziale proprietà gli conservano. E cosí doveano fare qui in questa isola quando era dagl'Indiani abitata, benchè ne' boschi anco di questa isola si veggono molti di questi cardoni. Ma quello che ora si vede imboscato, e vi si ritrovano di questi cerii, nel tempo passato s'abitava. E questo è tutto quello ch'io ho potuto comprendere in questa cosa; e per aventura questo frutto, che a me non pare sustanzievole né di soave sapore, dee altro gusto aver nel palato degl'Indiani, o pur per altro effetto li pregiano, che i cristiani fino a quest'ora nol sanno. Io in questa isola non ho potuto piú intendere di quello che detto se ne è.
Delli cardi delle tune, e del frutto loro.
Cap. XXV.
Poichè s'è nel precedente capo ragionato de' cerii, che son cardoni, e s'era anco piú su degli altri cardi delle pitahaie parlato, parmi dover anco qui dire di certi altri cardi, che tune chiamano, e dell'istesso nome dicono il frutto loro. E perchè appresso nel decimo libro si parlerà dell'albero delle saldature, ricordisi il lettore di queste tune, perchè le foglie di questi cardi hanno gran somiglianza con quelle dell'arbore ch'io dico; né sono fuori d'opinione che questi stessi cardi in quegli alberi si convertano. E ancorchè questo non sia (perchè nel vero quanto al frutto sono molto differenti), alla vista nondimeno danno ad intendere che hanno qualche affinità insieme, per la somiglianza che hanno e delle frondi e delle spine. Questi cardi o tune fanno certi graziosi fichi, che sono il loro frutto, lunghi e verdi e alquanto in parte rubicondi di fuori; lo scorzo è come certe coronette in cima, come hanno le nespole di Castiglia, ma dentro sono molto rosse, che pendono alla rosa secca, e sono piene di granelli come i veri fichi. E la scorza di questo frutto è come quella del fico o poco piú grossa. Sono di buon gusto e di buona digestione, e se ne vendono ogni dí qui su la piazza di questa città. I cardi dove questi frutti nascono hanno le foglie alquanto ritonde e molto grosse e spinose, e per li cantoni e per lo piano loro hanno le loro pungenti e acute spine, a tre e a tre, a quattro a quattro e piú insieme. Ed è ciascuna foglia cosí grossa quanto è la metà over la terza parte della grossezza di un deto della mano di uno uomo, ed è tanto grande quanto è una mano aperta con tutti i deti, e alcuna ne è meno, perchè vanno crescendo e d'una fronde nascono l'altre per i cantoni, e da queste altre l'altre. E cosí si vanno inalzando in su questi cardi o tune, finchè sono tanto alti che arrivano ai ginocchi, o tre palmi alti da terra, poco piú o meno. E in questo dell'andare a questa forma crescendo, e nelle frondi anco e spine, si somigliano all'albero delle saldature che ho detto di sopra, e del quale si ragionerà appresso.
Ho di sopra chiamato grazioso questo frutto perchè, mangiandone cinque o sei, è gran burla per chi non n'ha mangiato mai, ed è per porlo in molto pensiero e spavento di morte, benchè non vi sia pericolo alcuno. E, come uomo che l'ho provato, dirò quello che m'avenne la prima volta ch'io ne mangiai, che certo io averei pagato quanto aveva per ritrovarmi dove mi fosse potuto consigliare col medico e cercare rimedio alla vita mia. E fu di questo modo. Venendo io nel 1515 da terra ferma in questa città di San Domenico, doppo ch'io mi sbarcai nel fine di questa isola Spagnuola, me ne veniva per la provincia di Sciaragua, accompagnato da molti, fra' quali vi era il pilotto Andrea Nigno. E perchè alcuni de' compagni erano piú pratichi di me nel paese e conoscevano questo frutto delle tune, ne mangiavano volentieri, perchè ne ritrovavamo molti per la campagna. Allora io cominciai a fare loro compagnia, e ne mangiai alquante e mi seppero molto buone. Quando fu poi ora di fermarci per mangiare, smontammo da cavallo nella campagna presso ad un fiume; e io mi tirai alquanto da parte per urinare, e urinai una gran quantità di sangue vero (che cosí mi parea che fosse), e non ebbi anco ardire di urinare tanto quanto avrei potuto e che la necessità mi richiedeva, dubitando che a quel modo non vi avesse anco col sangue lasciata la vita, che io senza alcun dubbio mi tenni di avere tutte le vene del corpo aperte e rotte, e che mi fosse tutto il mio sangue che indosso aveva concorso alla vescica. Come persona adunque che non aveva di quel frutto isperienza, né sapeva la composizione dell'ordine delle vene, né la proprietà delle tune che avea mangiate, restai spaventato e mi si cambiò per paura il colore. Allora mi s'accostò Andrea Nigno, che fu quel pilotto che si perdé poi nel mare del Sur, nel discoprimento del capitano Gil Gonzales d'Avila, come si dirà appresso al suo luogo. Costui, che era persona da bene e mio amico, volendo burlarmi disse: "Signore, mi pare che voi tegniate un mal colore. Come vi sentite? Duolvi cosa alcuna?" E dicea questo cosí sul saldo e senza alterazione che io credetti che, condolendosi del mio male, mi parlasse da dovero. Io li risposi che non mi doleva nulla, ma che avrei dato il mio cavallo e quattro altri anco per ritrovarmi presso a San Domenico o presso il licenziado Barreda (che è un gran medico), perchè senza alcun dubbio credeva di tenere rotte quante vene nel corpo aveva. Detto che io ebbi questo, non puoté egli piú coprire le risa. E perchè mi vidde in affanno (e nel vero non era poco), soggiunse ridendo: "Signor, non dubitate, perchè le tune son quelle che questo effetto fanno, e quando ritornarete ad urinare serà l'urina men turbida assai, e alla seconda o terza volta che urinerete appresso non vedrete piú tal colore, né avrete bisogno del licenziado Berreda, né vi bisognerà offerire i cavalli per la salute vostra". Io restai consolato e in parte curato, però non del tutto, finchè m'avidi che fra gli altri della compagnia ve ne erano alcuni novizii e spaventati medesimamente per la medesima cagione, e ne stavano nel medesimo affanno. Ma indi a poco ci avedemmo che il pilotto ci dicea il vero, onde io mi ritrovai cosí lieto come se fossi uscito del maggior pericolo del mondo; perchè mai non desiderai di morire con nome di goloso né di vizioso, anzi molte volte mi restai di mangiare, avendone gran necessità, solamente per non mangiare d'alcune cose che ho veduto in queste parti mangiare gli altri uomini. Sí che, ritornando al proposito, questo frutto è molto grazioso e da burla, ma non di picciolo spavento per chi non l'ha isperimentato.
Di questi frutti in molte parti di questa isola se ne veggono i campi pieni. E di questi cardi pongono per riparo in questa città su le mura de' cortigli e de' giardini, acciochè non vi possa altri entrare di sopra; e sono peggiori assai che non sono i calambroni di Spagna, e di piú irte e pungenti spine. Nelle altre isole di San Giovanni, di Cuba e di Iamaica io ho veduto medesimamente di queste tune e cardi, e in altre isole anco, perchè sono molto communi in queste Indie. Hanno le frondi verdi e le spine berrettine, e il frutto del modo che s'è detto. E quando si mangia fa le labbra e la mano, e dovunche il suo succo tocca, come sogliono fare i celsi neri di Castiglia, e tarda tanto a girsene questa tintura via quanto fa quella stessa de' celsi, e piú anco.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta degli alberi selvaggi.
Libro nono
Proemio
Non si tolga pena il lettore s'io mi trattenerò in alcune particolarità degli alberi selvaggi di questa isola, e in quelli di loro che sono atti e utili per gli edificii e per gl'altri servigi dell'uomo; poichè qual si voglia cosa o particolarità che delle opre della natura si dica è da mirarsi e considerarsi molto, cosí nella forma e differenza e composizione della lor bellezza come negli effetti, cosí differenti l'un dall'altro.
Veggiamo che la natura fa alcuni alberi di molta altezza, e con molti rami e differenti di frutti; altri ne fa ignudi e senza foglie la maggior parte dell'anno, benchè quelli di queste parti non le perdano mai e se ne veggano sempre coverti, fuori che assai pochi. E quello che è di maggior maraviglia, non vediamo cosa alcuna disutile e che non sia necessaria, fuori che quelle delle quali non sanno i secreti gli uomini, e la forza e virtú che ha la natura in lor posta. Quello che io in questa materia dirò, sarà assai poco in comparazione di quello che se n'ha a dire e se n'ha a sapere col tempo appresso; ma io mi sforzerò di scrivere quello che ho potuto di queste materie intendere. Io dico che, nel generale, gli alberi che sono in queste Indie sono cosa da non potersi per la lor moltitudine esplicare, perchè se ne vede cosí coverta la terra, e con tante differenze e dissomiglianze, cosí nella grandezza loro come nel tronco e rami e frondi e frutti, che né anco gl'Indiani istessi li conoscono né sanno i lor nomi dire, quanto meno i cristiani, a' quali è questa cosa cosí nuova, e non conosciuta né vista prima da loro.
In molte parti non si può vedere il cielo di sotto a questi alberi, cosí alti sono e densi e pieni di rami. E in molti luoghi non si può andare fra loro, perchè, di piú della spessezza degli alberi, vi sono tante piante e tante intricature e rivolgimenti di spine e d'altre materie, che con gran travaglio e a forza di taglio di ferro bisogna aprire il cammino. Quello in effetti che in questa materia dire si potrebbe è un mar magno, perchè, ancorchè si vegga, per lo piú non si sa né s'intende, non se ne sapendo i nomi (come s'è detto) né le loro proprietà. Ve ne sono alcuni di questi alberi di buono odore e di vaghi fiori, altri di varii frutti selvaggi, che i gatti mammoni solamente gli intendono, e sanno e conoscono quelli che sono loro al proposito. Ve ne sono altri cosí spinosi, e di cosí pungenti spine armati, che non si lasciano da niuno toccare. Altri ve ne sono di mala vista, selvaggissimi; altri carichi d'hellere e di besuchos e d'altre simili cose; altri pieni dal piè alla cima di certe fila, che pare a punto che stiano coverti di lana filata senza esservi. Altri tengono i frutti, altri i fiori, altri cominciano ad aprire e a germogliare le foglie, e tutti in un tempo stesso. E cosí varie spezie d'alberi, in un stesso tempo e in qual si voglia parte dell'anno si godono in differenti maniere del tempo.
E per questa cagione lascierò questo per ora, perchè questo mare di differenze e di spezie d'alberi s'anderanno meglio col tempo intendendo che non si fa ora, che non s'intende altro che la grandezza e vaghezza di queste foreste e boschi, che occupano la maggior parte di questa terra. Ma con tutto questo, ancorchè pochi anni siano che in queste parti i cristiani passarono (poi che io con questi occhi viddi e conobbi i primi, come viddi piú volte il primo admirante don Cristoforo Colombo e il pilotto Vincenzo Iannes, e altri che con loro nel primo viaggio vennero), non mi maraviglio di quello che non s'ha potuto fin qua intendere, ma del molto che se ne sa e conosce in cosí poco tempo. E cosí io dirò qui d'alcuni alberi ed eccellenti legni, de' quali gli Spagnuoli si servono ne' lor lavori ed edifici, e che qui per selvaggi si tengono. Chiamo io selvaggi quelli che non producono frutti che si possano mangiare; perchè di quelli che hanno il frutto buono s'è detto nel precedente libro, benchè quelli anco per lo piú siano dalla natura sola coltivati, e non dalle mani degli uomini. Parlo di quelli che non si portarono di Spagna. Pur tuttavia ricordo al lettore che non si tenga per sodisfatto in questa materia, come né anco nelle altre passate o che sono per dirsi in questa prima parte, finchè non leggerà anco la seconda e la terza, dove si tratterà delle cose di terra ferma; e vi è molto piú che notare in tutte queste materie che per allora si serbano, come quelle che a quella contrada e non a questa appartengono.
Dell'albero che qui chiamano spino i legnaioli, e in che se ne servono.
Cap. I.
Lo spino di questa isola Spagnuola, del quale i legnaioli o maestri di legname si servono, è un buono albero e utile; è di forte e bianco e buon legno, che è della maniera e vista che sono il granato o melarancio. Si servono i legnaioli di questo legno in molte cose della loro arte, come per farne carrieghe da poggiarvi le spalle e seggie picciole, e fusti per selle di ginetti, e guarnimenti di porte e finestre, e altre simili cose, nelle quali non bisogna esser larga la tavola né il legno molto lungo e diritto né molto grosso.
Degli alberi delle pigne di questa isola Spagnuola.
Cap. II.
Sono in questa isola molti alberi naturali di pigna e grandi e piccioli, tutti selvaggi, che non producono pigne se non picciolissime e vote. Ma è questo un buon legno, ancorchè qui non se ne servono per averlo lontano, e perchè non è cosí dolce né tale quale è il legno delle pigne di Castiglia. Questo ha molti piú nodi e gomma di quelle. È molto selvatico e ha grande odore, ma piú fastidioso di quel delle pigne di Spagna. Le foglie e di questi e di quelli è una medesima cosa, e la scorza medesimamente; ma questi di qui sono piú pieni di foglie e sono piú perfetti pini, ma non sono cosí alti né cosí grossi né cosí dritti come quelli di terra di Conca e dell'altre parti di Spagna.
Degli alberi delle noci di questa isola Spagnuola.
Cap. III.
Nelli boschi fieri, e nelle selve e montagne di questa isola, sono alcuni alberi di noci grandi, che e alla vista e all'odore e alla foglia e al frutto anco, cosí nella prima vista, sono come quelli di Spagna; salvo che le noci di questi di qua non sono perfette, né se ne può ben cavare il frutto né si può mangiare. Dicono questi agricoltori e persone intendenti che, se s'innestassero, si farebbono buone e perfette noci, cosí nel frutto come nel resto, perchè nel vero queste sono noci selvatiche e il legno loro è buono.
Delle palme che in questa isola Spagnuola sono.
Cap. IIII.
Sarebbe lunga cosa a volere referire le palme che sono in questa isola, con le lor differenti foglie, perchè sono molte, con la gran varietà che hanno ne' frutti e negli ossi, che di molte sorte e varie forme producono. Alcune hanno le foglie della maniera che l'hanno le palme che producono i dattoli, e se ben queste non producono dattoli, sono nondimeno i lor palmiti buoni. Alcune altre hanno la foglia come una palma di mano aperta co' diti stessi: e questa anco pare che si confaccia piú col nome di palma, e sono buoni medesimamente i suoi palmiti o cime tenerelle, quando queste palme son basse e non sono molto cresciute. Altre palme vi sono che, quando esse sono picciole, sono anco i lor palmiti buoni. E queste non crescono molto, e fanno tre differenzie nel troncone o pedale loro, perchè la prima parte del tronco presso terra è molto dura; la seconda, che fino alle foglie si stende, è piú grossa che la prima, e piú verde e piú liscia; e questa sua grossezza è cosí gonfia che pare che sia pregno l'albero, perchè sta come la borsa dove le cipolle producono la loro semente. La terza parte poi è la rotondità delle sue foglie, le quali producono per frutto certi come pater nostrelli, che non son buoni a mangiare. In quella seconda parte gonfia del troncone cavano molte volte e fanno i lor nidi i passeri carpentieri, de' quali si parlerà nel 14 libro, quando si ragionerà degli uccelli di questa isola; perchè in questo albero, per essere men duro, possono piú che in altro albero cavare col becco e farvi il lor nido.
Finalmente in questa isola sono sette o otto maniere di palme e, come ho detto, non producono frutto se non certe ossa di varie sorti. Ma della maggior parte di questi alberi ne sono buoni palmiti o cime, salvo che dalle palme nere, che sono sottili e spinose, e non piú grosse che aste di lancia, e producono certe ossa con tre buchi, e ognun di loro è grande quanto è una picciola noce o meno. Delle palme che si sono dette prima ne è buono il legno per poche cose, come è per farne casse da zuccari e per coprirne le case al modo degli Indiani, e sono di poco costo. Ma quando si tratterà delle cose di terra ferma, vi sarà assai piú che dire, in questa materia delle palme, di quello che se ne è detto; perchè palma medesimamente è l'albero dove nasce quello eccellente frutto che si chiama cocos, del quale allora si parlerà, e perchè d'altre palme nere anco si fanno li bastioni co' quali gl'Indiani in quella contrada combattono, e le pertiche e le lancie che essi usano medesimamente.
Dell'albero de' pater nostri e del sapone.
Cap. V.
Sono qui anco, e in queste isole e in terra ferma, certi alberi che si chiamano de' pater nostri e del sapone, la foglia de' quali si somiglia alquanto a quella delli felci, ma è picciola. Questi alberi sono alti e di buona vista, e fanno un frutto grosso come avellana o poco meno, che non è buono a mangiare; ma vi ha dentro un osso nero e grande quanto è una pallotta di schiopetto. Posto questo frutto con acqua calda sopra drappi, insaponerà come pane di sapone, ma i drappi continovandolo si consumeranno; ma può ben supplire per una necessità. L'osso che ho detto che è nero, ponendolo al sole pare che rosseggi; e di questi ossi, bucandoli, se ne fanno pater nostri come quelli di ebano o meglio, perchè sono piú leggieri e di miglior lustro, e non si rompono cosí facilmente come l'ebano. Ciascuno osso di questi ha dentro un seme picciolo e amaro, e questi pater nostri li fanno della grandezza che vogliono, e tutto quello che crescono è come una pallottola di schioppo; e il frutto è grande come ciriegia o chisciola, e si seccano al sole e vi resta alquanto di color giallo, e quella carnosità è quella con la quale s'insapona, e ha una coronella nera.
Dell'albero chiamato mangle.
Cap. VI.
Mangle è un albero de' migliori che siano in queste parti, e si trova e vede comunemente in queste Indie; e per farne legni grossi per le case degl'Indiani, e per pancuccie e guarnimenti di porte e di fenestre e per altri lavori minuti, è dei migliori legni che in queste parti siano. Questi alberi nascono nei luoghi fangosi, e per le costiere del mare e dei fiumi, e per li ruscelli e torrenti che corrono al mare. Sono alberi molto strani alla vista; la loro foglia è alquanto maggiore di quella dei peri grandi, ma è piú grossa e qualche poco piú lunga. Ne nascono infiniti insieme, e molti dei rami loro pare che si tornino a convertire in radici; perchè, di piú dei molti rami che con le lor foglie vanno in su, alti e distinti l'uno dall'altro, come in tutti gli altri alberi si vede, ve ne sono molti altri, e grossi e piccioli, senza foglie, che vanno con la cima in giú fin sotto l'acqua ad apprendersi e arradicarsi sotto la terra o l'arena, e appresi gettano altri rami in su; e vi stanno cosí fissi in terra come il pedale principale dell'albero, di modo che pare che questo abbia molti piedi attaccati tutti l'uno con l'altro. E nel vero quella di questi alberi con tanti piedi e rami volti a quel modo è una bella vista, perchè questa spezialità è in questo albero singulare. Questo albero produce certe guaine di duo palmi o piú, lunghe e grosse come i cannelli della cannafistola; e sono di color leonato, e dentro di loro è una certa medolla a maniera del midollo che è dentro l'osso, e gl'Indiani la mangiano quando non hanno altro che mangiare, perchè è assai amara; ma essi dicono che è un cibo molto salubre, benchè mi facesse già infermo, ancorchè io non sia stato molto delizioso né sia restato di mangiare quanto ho veduto mangiare agli altri delle cose oneste, e con necessità e alle volte anco senza necessità, per provarle e potere meglio scriverle. E a questo modo provai anco questo frutto, ma egli è bestial cibo e da gente selvaggia.
Dell'albero che qui chiamano cedro.
Cap. VII.
In questa isola Spagnuola sono certi alberi che chiamano cedri, ma nel vero non sono. Perchè hanno un certo miglior odore che gli altri alberi, gli hanno di questo nome gli maestri di lavorare legname chiamati. È un buon legno per lavorarlo e farne casse picciole e altre simili cose, e guarnimenti di finestre e porte. Questo è un arbore nel quale non fa tanto danno il tarlo o il vermo, e perciò hanno alcuni detto che il tarlo non vi possa e non vi entri; e s'ingannano forte, perchè s'è provato molte volte e se ne è veduto il contrario, come negli altri alberi si vede, che se ben al gusto e alla lingua dell'uomo pare questo legno piú amaro degli altri, non per questo il gusto delli vermi e dell'uomo sono una cosa stessa.
Delli roveri di questa isola Spagnuola.
Cap. VIII.
Sono in questa isola Spagnuola grandi roveri naturali di questi luoghi, e sono come quelli di Spagna, e di gagliardo e forte legno. Le sue foglie sono come quelle delli roveri di Castiglia. Di questo albero e di quello che si dirà nel seguente capitolo si fanno le fusa, le assi e le ruote degl'ingegni da zuccaro in questa isola, e i travi grossi medesimamente per le viti o soppresse, che sono assai lunghi e grossi, di modo che, lavorati a quattro faccie, sono di settanta e d'ottanta piedi lunghi e di sedeci palmi e piú di grossezza intorno; che certo è una gran cosa, e sono assai belle pezze di legni a vedere, per la loro lunghezza e grossezza. E, come ho detto, questo legno è assai forte e buono.
Dell'albero chiamato caoban in questa isola Spagnuola.
Cap. IX.
Il caoban è uno albero de' maggiori e migliori e di miglior legno e colore di quanti in questa isola Spagnuola ne siano. Questo legno è assai rosso, e se ne fanno buone porte e tavole e casse e tavoloni, per quello che l'uom vuole, e medesimamente bellissimi travi, e cosí lunghi e grossi quanto altrui piace; onde in tutte le parti del mondo sarebbe questo legno istimato molto, perchè è molto forte. Di questo caoban si fanno medesimamente (come s'è tocco di sopra nel precedente capitolo) bellissimi e grossissimi travi per le viti degl'ingegni da zuccari, e gli assi anco e fusi e ruote, e tutte quelle altre cose che fare ne vogliono. Per le travature degli edificii delle case, in questa città e negli altri luoghi dell'isola, questo legno è migliore di tutti gli altri, perchè, oltre che è forte e anco bello, è di vaga superficie. È bene il vero che, per essere moderne le terre di questa isola, si vede che presto si tarla e guasta dai vermi questo legno, il che può essere per aventura nato dal non essere stato tagliato a tempo e con la stagione, o dal non essere lasciato asciugarsi, ma si è tosto lavorato e posto cosí verde negli edificii. Ma questo si va ogni dí negli edificii correggendo, e lo tagliano nella mancanza della luna, e chi può lo lascia stare per qualche tempo tagliato prima che lo lavori e ponga nell'edificio. Ma in effetto il legno è un de' migliori che in questa isola siano.
Del therebinto di questa isola Spagnuola.
Cap. X.
Dicono alcuni che in questa isola Spagnuola e in terra ferma anco siano therebinti, e come alcuni affermano di questo albero si fa la terbentina. Ma, per li segnali che ci dà Plinio del therebinto nel sesto capitolo del decimoquarto libro, io vi ho mirato su, e mi paiono questi assai differenti da quelli che egli descrive. Dice Plinio che il therebinto maschio è senza frutto, e che il feminino è di due spezie: l'una fa il frutto rosso e grosso quanto una lentecchia, l'altra lo fa giallo, che matura ad un tempo con le viti, e non è maggior che una fava, ed è di piacevole odore, e toccandolo lo sentiamo resinoso, e nasce in Ida, monte di Troia. Ma in Macedonia questo albero è picciolo a maniera di frutice, là dove in Damasco di Soria è grande. Il suo legno è molto pieghevole e dura assai, ed è d'un vago e nero splendore, e fa il fiore come l'oliva, ma rosso, e ha le foglie sparpagliate. Produce certe pallotte, dalle quali nascon certi animali come zanzali, che cantano, e produce un certo liquore viscoso e come resina che dalla scorza esce. Dice anco che il maschio in Soria produce il rhus, e la femmina è sterile, e ha la foglia come l'oliva, ma alquanto piú lunga e pilosa, e sempre i pidicini delle foglie stanno al contrario posti fra loro, e i rami son sottili e corti; e di questi si fanno le pelli bianche, e la lor sementa è simile alle lentecchie, e si fa rossa insieme con le uve. È chiamato rhus, e serve nelle medicine.
Fin qua dice Plinio, e io l'ho scritto di lungo acciochè, ancorchè non fosse therebinto quello che qui alcuni therebinto chiamano, possano le genti stare avisate per quel che Plinio ne dice e mirarvi bene, occorrendo loro il bisogno; che io non dubito che per questi luoghi siano molti eccellenti e necessarii alberi, che ogni dí si veggono e non si conoscono.
Io in persona mi sono molte volte andato travagliando e inquirendo di questo albero, mentre che mi sono ritrovato in cammino per questi boschi e in varii luoghi di queste isole e di terra ferma, e s'uno albero con un di questi segnali s'aviene, si discorda poi ed è differente dagli altri segni. Ma le genti che hanno poco isperienzia delle cose, tosto che un solo segnale in un albero veggono, o una apparenzia di qualche pianta o veduta o udita, li danno senza avervi molto pensiero quel nome, a punto come se avesse tutte quelle qualità e circonstanzie che avere dovrebbe; come a punto in questo therebinto aviene.
Io ho veduto qui che d'alcuni alberi si producono e ne escono quei zanzali che si sono detti di sopra, e d'alcuni altri nascano certi pavegi o farfalla, come d'altri nascano vermi e gorgoglioni e altri animaletti di diverse spezie. E sono anco diversi alberi che generano i medesimi animali. A questi therebinti di qua, o qualunque alberi si siano che cosí si chiamano (che già non cresce per questo loro l'autorità), manca molto di quel che Plinio diceva perchè tali alberi siano; perciochè, se ben gettano resina, non è però terbentina, senza che né lo sente, né il frutto si conforma con quello che egli del therebinto dice. Questi sono grandi alberi, e sono i zanzali lor molto amici; ma non hanno la sementa che dice Plinio, né il frutto loro ha quella forma che egli ne scrive. E io per me non li tengo per therebinti, finchè non se ne intende maggiore verità e che l'isperienzia e 'l tempo ce l'insegni. Egli è il vero che Plinio non pone una spezie sola di therebinti, ma ne pone quattro spezie, come son quelli della selva d'Ida in Troia e quelli di Macedonia e quelli di Damasco e quelli di Soria. Sí che, poi che egli quattro spezie ne pone, non so se la natura con queste poche si contentò, o s'egli le seppe e pose tutte. Ma il tempo lo ci dirà, che io mi credo che sia piú quello che Plinio non scrisse di queste materie che quello che egli ne seppe, benchè egli sia tenuto per il primo e piú copioso autore che abbia di queste naturali istorie scritto; perchè, di piú che egli raccolse gli scritti di tutti gli autori passati fino al suo tempo, vi cumulò anco assai materie e cose al medesimo proposito, come prudente scrittore e savio.
Dell'albero chiamato ceiba.
Cap. XI.
Il ceiba è il maggiore albero di quanti per queste isole si veggono e per la terra ferma dell'Indie. Dicono (ed è cosa assai nota) che otto leghe lunghi da questa città, dove è anco restato il nome dell'Albero Grosso, fu un ceiba del quale ho molte volte udito parlare all'amirante don Diego Colombo, e dire che esso con quattordeci altri uomini, presisi l'un l'altro per mano, non l'avevano potuto abbracciare. E questo albero già perí e si putrefece, come mi dicono, e sono oggi molti che lo viddero, e che dicono della sua grandezza il medesimo. Ma a me non è di molta maraviglia, ricordandomi di quelli ceibi che ho visti maggiori in terra ferina. Onde, perchè nella seconda parte di queste istorie si ragionerà piú puntualmente della grandezza di questi alberi, quando si parlerà di quelle provincie dove io li vidi, non dirò qui altro se non che in questa isola ne sono anco, ma che quelli che io ho qui visti non sono molto grandi, a comparazione di quelli di terra ferma.
Il legno di questi alberi è come vacuo e spongoso dentro, e si taglia facilmente, ed è di leggiero peso; e finalmente non è per lavorarsi né per farne conto per altro che l'ombra che l'albero fa, perchè la fa grande, essendo l'albero grande e di stesi rami, e salubre. Voglio dire che non aggrava come fa l'ombra di molti altri alberi, che in questi luoghi è dannosa, come quella dell'albero del quale si fa il veleno col quale tirano gl'Indiani caribi arcieri. Di piú di quello albero grosso di ceiba che si è qui di sopra detto, ne fu anco un altro assai grande nella terra di San Giacomo; ma né questo né quello sono cosí grandi come ne sono nella provincia di Nicaragua, e in altre parte di terra ferma nella costiera del mare del Sur. Il frutto di questi alberi sono certe guaine grandi come il maggior deto della mano, e grosse come duo deti, e ritonde e piene di certa lana sottile. E quando sono mature si seccano e s'aprono da se stesse per lo calore del sole, e il vento poi ne porta via quella lana; fra la quale sono certi granelli che è la semente loro, nel modo che ne stanno anco fra la bambace.
Dell'albero o pomaro picedo, del cui frutto gl'Indiani caribi fanno il tossico col quale tirano; ed è cosí velenoso che è irremediabile.
Cap. XII.
In questa isola Spagnuola, nella riviera di ponente, ne' monti della punta del Tiburone e nella costiera del mare, e in altre parti di questa e dell'altre isole di queste Indie, e in gran parte di terra ferma dalla banda di tramontana al manco da Parias, e dalla Bocca del Drago verso occidente fino al golfo di San Biagio e presso al porto del Nome d'Iddio, che son piú di 400 leghe di costiera, sono una infinita quantità di questi alberi di pomaretti, delli quali sogliono gl'Indiani caribi, con altre lor velenose misture, fare quel diabolico e incurabile tossico che essi con le loro freccie tirano. Questi sono certi alberi impergolati o bassi, e alcuni piú alti ch'è tre volte l'altezza d'uno uomo, ma per lo piú sono alberi mezzani e bassi, ma molto sparsi a torno e pieni di foglie, le quali sono come quelle del pero o quasi. E producono gran copia di certi pometti di buon odore, e grandi come pere moscatelle ma ritonde, e alcune un poco lunghette e macchiate d'un poco di rosso, che dà lor buona grazia a vederle; però sono molto cattive e velenose, tanto esse quanto l'albero loro, per gli effetti che fanno.
In questa isola non sapevano gl'Indiani fare questo veleno né l'usavano, e per questo non ne parlerò qui, finchè si ragionerà della costiera de' Caribi. Il frutto però è certo di sorte che non è uomo che 'l vegga che, non conoscendolo, non desideri di saturarsene, perchè alla vista e l'odore ce l'invitano. Ma, perchè meglio il suo veleno s'intenda, dico che l'hanno molti molte volte provato che, gettandosi improvvisamente a dormire sotto questi alberi, non conoscendoli, se ne sono fra poco spazio desti e levati su con grandissimo dolor di testa, e con gli occhi e con le ciglia e con le mascelle gonfie. E se per caso la rugiada di questo albero tocca nel viso dell'uomo, vi fa quello effetto che vi farebbe il fuoco, perchè gonfia e brucia la pelle quanto giunge. E se toccasse negli occhi, o li crepa o li accieca o li pone in grande affanno e pericolo di perderli. Non è chi possa per molto spazio soffrire di stare da presso al fuoco di questo legno acceso, perchè se ne causa tosto tanta gravezza e dolore di testa, che bisogna che quanti intorno vi si ritrovano si facciano tosto a dietro, tanto essendo uomini quanto qual si voglia altro animale.
Dell'albero che qui si tiene per la tamarice, e lo somiglia molto.
Cap. XIII.
L'albero della tamarice è molto noto in Spagna, e io l'ho veduto molte volte in Castiglia nella riviera del fiume Tago e in quella di Sciarama e in quella del Duoro e d'Ibero, e in quella anco di Guadiana e in molte altre. Ma quanti ne ho io là veduti, tutti sono assai piccioli rispetto alla grandezza di questi che qui sono, e che hanno assai alti e grossi rami; ma nelle foglie non sono punto differenti dalle tamarici di Spagna che ho dette. Il legno però di questi di qua non è cosí massiccio né grieve come quello delle tamarici di Spagna, perchè questo è alquanto spongioso e leggiero. Non è egli però del tutto cattivo legno. Queste dell'Indie producono un frutto come cicerchie o fave nere e tonde e durissime, ma non buone a mangiare.
Degli alberi del felce che si vede in questa isola Spagnuola.
Cap. XIV.
Il felce è una cosa ordinaria e commune in molte parti di queste isole e terra ferma delle Indie, e vi è di molte maniere. Ve ne sono come quelli di Castiglia, nei monti di Segovia e in altri luoghi di Spagna; e ve ne sono anco altri molto maggiori, che i loro rami sono tanto alti come una bene alta lancia o piú. Ma di piú di tutti questi ve ne sono alcuni altri, ch'io li pongo per alberi, cosí grossi come sono i gran pini e bene alti; e hanno le foglie della medesima fattezza e maniera che l'hanno i felci di Spagna, benchè assai maggiori, ma di quel medesimo garbo che ogni foglia e molte foglie insieme, come può meglio intenderlo che io non so scriverlo chi ha ben visto e considerato il felce. Hanno dunque questi alberi la foglia della forma del proprio e vero felce, e sono assai freschi, e per lo piú nascono per le ripe dei ruscelli e per le balze delle montagne dove sia acqua. Ma e questi alberi e quelli che ho detti, o la maggior parte di loro, sono assai ravvolti e circondati di vitaggi e di belucos e d'altre simili cose, che nelle foglie si somigliano all'hellere e ad altre erbe simili.
Degli alberi del verzin di questa isola Spagnuola.
Cap. XV.
Cosa assai nota è di quanta utilità e prezzo sia il verzino, per darne il colore i tintori, i pittori e altri simili maestri, perchè con questo legno si fa un colore come di purpura. Sono in questa isola molti di questi alberi, nella costiera che è volta al mezzogiorno, nella provincia e monti del capo di Tiburone e presso al gran lago di Xaragua. Questi non sono grandi alberi né dritti, ma della maniera degli ilici, però piú sottili e torti e per lo piú non cosí alti. La loro scorza se ne salta netta, e la foglia è come spinosa, ma non è aspera. Nella gran costiera di terra ferma, dalla banda di tramontana, sono anco grandissimi boschi di questi alberi, e in molti altri luoghi medesimamente, e in speziale nella costiera del Maragnon e piú verso oriente. Ma perchè questo albero è cosí comune e notabile non ne dirò altro; perchè coloro che hanno con l'isperienzia l'arte delle sue tinture e degli altri suoi effetti, potranno meglio delle sue operazioni ragionare e far fede.
Di due cose notabili de' legni e alberi di questa isola Spagnuola, e dell'altre isole anco e terra ferma di queste Indie.
Cap. XVI.
Prima che ad altre materie si passi, dirò due cose notabili degli alberi e legni di questa e dell'altre isole, e di terra ferma nel generale. La prima è che assai pochi sono gli alberi che perdono in questi luoghi le foglie, come vediamo che in Africa, Asia ed Europa sono pochi quelli che le loro foglie serbano e tengono del continovo. Scrive Plinio che l'oliva, il lauro, la palma, il mirto, il cipresso, il pino, l'ellera e 'l rododendro non perdono la foglia giamai. Pone anco tredici alberi selvaggi che né anco giamai la perdono, come sono l'abiete, il larice, il pinastro, il giunipero, il cedro, il terebinto, il busso, l'illece, l'aquifolio, il sughero, il tasso, il tamarisco, il corbezzolo, che io penso che siano li salci. Di modo che sono in tutto 21 alberi quelli che Plinio pone che non perdono la foglia, e fra gli sterpi vi pone anco la canna e 'l ruvo. E cosí sono 23. E dice che nel territorio Taurino, dove fu la città di Sibari, era una quercia che non perdeva mai la foglia, e che non cominciava a germinare e a porre le foglie nuove prima che venisse la metà dell'estate. E cosí sono 24 spezie tutte quelle d'alberi che Plinio dice che conservano sempre le foglie, benchè dica anco che sogliano loro cadere, fuori che quelle della cima. Degli alberi di queste parti bisogna che io dica al contrario di quello che dicea Plinio, cioè che io non penso che in queste Indie si ritrovino sei alberi che perdino la foglia, perchè tutti gli altri del continuo la serbano. E di quelli che ora mi occorrono e che posso ricordarmi, duo soli sono quelli che qui la perdono: l'un è l'albero delle prune, che cosí nella provincia di Nicaragua lo chiamano, benchè non siano in effetto prune, ma certi frutti rossi che si somigliano alquanto, e ne fanno vino, e mangiandosi verde è un frutto alquanto buono. Egli è però piú tosto una spezie degli obi che si sono detti di sopra, e hanno come obi l'ossa, e si somiglia loro molto il frutto, salvo che nel colore. Or, queste che chiamano prune stanno un certo tempo dell'anno sfrondate, e il medesimo fanno in questa isola Spagnuola li fichi di Castiglia. E questi né anco del tutto perdono le foglie, perchè, o verde o secca, sempre ve ne resta alcuna fin alle foglie nuove. Scrive Plinio, che è tanta la forza del sito e del luogo, che presso a Menfi in Egitto, e in Elefantine di Tebaide, non si vede che ad albero alcuno cada una foglia, né anco alle viti. Di modo che quello che egli dice di provincie particolari diciamo noi di queste Indie.
Ma passiamo all'altra particolarità notabile dei legni di questi luoghi, e della loro fragilità, perchè, per quello che fin ad ora si vede, poco durano. Si veggono in questa città di San Domenico buoni edificii, per quel poco che ha che vi si cominciarono ad edificare le case; ma si veggono le tavole delle porte e i travi e tutte l'altre opere di legno cosí consumate e mangiate dalle tarle e dai vermi o comixen, e cosí invecchiate e guaste, che piú danno vi fa qui il tempo d'un mese che non suole fare quel di duo anni in Spagna. Ben credo che i difetti che nei primi edificii di questi luoghi si veggono debbono per lo piú nascere (come l'ho detto di sopra) dal non avere saputo tagliar i legni al lor tempo, e da l'avergli lavorati verdi e non asciutti e secchi, e dall'avere poca isperienzia avuta del legname, in sapere quali oprare dovessero perchè piú tempo durassero. Ma l'isperienzia è quella che insegna col tempo agli uomini, e non è maraviglia come, per essere stato cosí breve il tempo, siano questi errori fatti, ma piú tosto come si siano cosí in breve tante cose intese in questa città cosí modernamente edificata. Per questa stessa ragione, dunque, si crede che tutte queste difficoltà e altre simili nei legnami ed edifici si correggeranno per l'avenire, poichè s'incominciano già ad intendere gli errori e s'emendano tuttavia. E si vede che li legnami che si lavorano ora, sono migliori assai e piú al proposito che non furono già quando a pena ne sapevano il nome.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta degli alberi medicinali e delle proprietà di molte piante.
Libro decimo
Proemio
Essendosi nei libri precedenti trattato degli alberi fruttiferi e selvaggi e delle loro diversità, è cosa ragionevole che ora si passi a dire delli medicinali e segnalati per le virtú loro, e delle piante anco con le loro proprietà. Dove io spezialmente tratterò di quello ch'io ho veduto o mi è venuto a notizia per mezzo di sofficienti e vere informazioni; perciochè, dove io ogni minimo scrupolo avrò, non voglio che se ne debba credere piú di quello che delle cose dubie affermare si suole. Sí che, dove io non farò dubio alcuno, mi si potrà fedelmente credere e tenersi per certissimo, perchè né la maestà cesarea vuole intendere favole, né ciò saprei dirle dinanzi a sua maestà, massimamente che queste cose sono da se stesse cosí nuove e strane che non hanno bisogno di finzioni per dare admirazione alle genti, né per restare di ringraziarne infinitamente il Maestro della natura, che la fece di tanti modi abile a produrre tanti effetti e proprietà. Sí che potrà il lettore, senza sospetto di favole, vedere quanto sia la natura stessa capace, e quanto è poco quello che ella fa rispetto al molto che può lasciarle operare quello istesso che fece lei. E con questa considerazione ritroverà i maravigliosi effetti che qui degli alberi e delle piante si tratteranno, per segnalate e incurabili infermità e morbi, onde non ne ha da ringraziar le creature ma il creatore loro, che è il medesimo Iddio che ci dà e ci insegna cosí fatte cose perchè meglio lo conosciamo e serviamo, e con piú puro cuore l'amiamo, perchè esso ama noi. E cosí vi darò principio con un arbore, che nel vero io non so il nome che gl'Indiani li danno in questa isola o nell'altre né in terra ferma, perchè ogni parte di varie maniere lo chiamano, per la differenzia e copia delle lingue che in queste Indie sono. Né so neanco se saperò darle ad intendere come io vorrei, per la gran disconvenienzia che ha con tutti gli altri alberi, perchè è tanta che non so risolvermi se egli sia arbore o mostro piú tosto fra gli alberi. Ma il meglio che saperò, dirò quello che ne ho potuto comprendere, rimettendomi a chi meglio saperà disegnarlo e darlo ad intendere; perchè nel vero bisognerebbe dipingerlo quel Leonardo di Vince o quello Andrea Mantegna, famosi pittori che io conobbi in Italia, piú tosto che volerlo io con parole circonscriverlo. Ma meglio sarebbe a vederlo con gli occhi piantato in terra, che non dipinto né scritto in carta. I cristiani che in queste Indie sono, lo chiamano l'albero delle saldature o consolidature, e con molta ragione, per quello che s'è molte volte veduto e isperimentato della sua proprietà ed effetto. E cosí si procederà poi all'altre cose di simili materie che in questo libro a dire s'hanno.
Dell'albero o pianta con la quale saldano le rotture che accadono nella persona dell'uomo.
Cap. I.
Sono in questa isola Spagnuola certi alberi, che si veggono communemente in queste isole e in terra ferma, e ve ne sono molti e molti; e sono spinosi, e di tal sorte che alla vista non si può offerire arbore né pianta alcuna di maggiore selvatichezza. E per quel che si vede delle sue fattezze, io non so risolvermi s'egli si sia albero o pianta. Produce certi rami pieni di certi costoli ampii e contrafatti e brutti, d'assai mal garbo e vista e ben grossi e spinosi, i quali rami furon foglie prima o costoli, perchè da ciascuna foglia o costolo nascono altre simile foglie, e da queste poi anco altre simili; sí che le foglie o costole istesse, poste e nate di lungo l'una sopra l'altra, sono i rami. Egli è in effetto di tal garbo e maniera questo albero, che io tengo assai difficile poterlo dare ad intendere per scritto, e bisognerebbe dipingerlo qualche eccellente pittore e con appropriati colori, perchè si potesse con l'occhio su la carta discernere meglio che io non penso che si possa dalle mie parole cavare, come degli altri alberi fare si puote. Onde non mi pare che si possa alla tanta sua selvatichezza altro nome piú al proposito dare, che mostro della specie degli alberi.
Tolgono ai costoli o foglie di questo albero le spine acute che vi sono, e poi ne pestano o intondono alcuna, e la pongono in un panno di lino a modo d'empiastro, e la legano poi in una gamba o in un braccio rotto, avendovi però prima riposti gli ossi rotti a loro luogo. E con questo rimedio si consolida e unisce il luogo rotto e infermo, cosí perfettamente come se non si fosse mai rotto; pure che (come s'è detto) si coniungano attamente e riponghino nei loro luoghi prima l'ossa. E questo impiastro o medicina, finchè non ha fatta l'operazione sua, sta cosí stretto con la carne che con gran difficultà se ne può distaccare, là dove, dopo che ha operato e finita la sua buona cura, da se stesso tosto se ne distacca e leva.
Di questi alberi si vede anco in terra ferma gran copia nella provincia di Nicaragua, e fanno un frutto rosso, pieno come di spinette e grosso come una grossa oliva, e di colore d'un buon fino carmesí; e ha certe spine per disopra come peli, quasi invisibili per la loro sottigliezza e delicatezza, onde se ne entrano per li deti quando l'uomo toglie questo frutto in mano.
Di questo frutto fanno in quella contrada l'Indiane certa pasta, e la tagliano in pezzi quadri, sottili quasi come una nevola o una pastetella, e grandi come un'unghia del deto, e l'avolgono in cottone perchè non si spezzino. Poi le portano su la piazza e ai loro mercati a vendere, ed è una cosa molto pregiada, per dipingersi con questo colore gl'Indiani e l'Indiane, perchè ha uno eccellente colore di buono carmesí, e alcuno ve ne ha che declina a color rosado. È questo miglior colore per farsi belle le donne, che non quello che in Italia o in Spagna e in molti altri luoghi usano quelle che vogliono correggere, anzi guastare, la immagine che Iddio loro diede. Queste pizzette o pastilli di tal colore ho io sperimentati piú volte in lineamenti e pitture, per mio piacere e per vedere se questo è colore durabile, e lo ritrovo eccellente, perchè in alcune cose dipinte in carta, che ha piú di sei anni, oggi vi si vede piú vivo e piú bello il colore che non il primo giorno che si dipinse. E io lo tengo per gran cosa, poichè lo temprai con acqua chiara e senza gomma o altra diligenzia, come sogliono i pittori fare nel temprare i loro colori prima che li lavorino. Questo albero si somiglia molto nelle foglie alli cardi, i quali in questa città pongono su le mura de' cortili delle case, o sono le foglie sue come quelle delle tune, che sono questi stessi cardi, come nel 25 capitolo dell'ottavo libro si disse. Il maggiore albero di questi non cresce piú in alto che due volte tanto, o poco piú, di quello che è la statura d'un uomo.
Il colore del troncone è berrettino aspero, e i rami medesimamente, ma i loro estremi, che sono le foglie, stanno alquanto verdi, e ne nascono alcune per lo traverso, dove si vuole di nuovo nella medesima foglia principiare un altro ramo. Ma, come ho detto, tutte le foglie sono spinose assai, come le tune, e i rami medesimamente. Ma io qui disegnerò, se saprò fare, la forma di questo albore, perchè si possa meglio quello che ne ho detto comprendere e considerare. E, quando questo non basterà, dico che chi da questa città di San Domenico andrà alla terra di Iaguana, che è verso ponente in questa isola, troverà nella strada reale che farà molti di questi alberi, e v'ha da passare necessariamente da presso, senza potere fuggirli, prima che giunga alle campagne del porto del fiume Hatibonico; e indi venendosi a questa città, se ne ritrovano in molti luoghi.
Dell'albero chiamato guaiacan, col quale si cura il mal francese.
Cap. II
Sono in queste isole e in terra ferma anco due alberi eccellenti e molto notabili, perchè, essendo il male del mal francese molto in queste parti commune e ordinario, ha la misericordia divina voluto che vi sia anco il rimedio per curarlo. E benchè ora in altre parti questo morbo si ritrovi, la origine però di queste bolle, e dove i cristiani prima le videro, provarono e sentirono curare e fare esperienzia dell'arbore del guaiacan, che si fa in questa isola Spagnuola. L'altro albero si chiama il legno santo, il quale si trova nell'isola del Borichen, che ora la chiamano gli Spagnuoli di San Giovanni: e quando si parlerà di questa isola si ragionerà anco di questo legno. Sí che, ritornando al guaiacan, io l'ho veduto in questa e in altre isole e in terra ferma anco, nella provincia che gl'Indiani chiamano di Nagrando. E poichè gli Spagnuoli in questa isola lo conobbero, benchè anco in altri luoghi si trovi, qui ne ragionerò, e ne dirò quello che è già noto, cosí in queste Indie come in molte altre parti del mondo, dove l'hanno portato dietro al medesimo morbo, per curarlo.
Sono tanti alberi di guaiacani in queste Indie, che penso che sia minore il numero de' pini di terra di Conca e di tutti gli altri luoghi di Spagna. Questo è un eccellente albero e infinite volte isperimentato, cosí in questi luoghi come in Europa, dove è stato di qua portato per la orrenda infermità delle bolle, che in Italia chiamano il mal francese, e in Francia il mal di Napoli. E si sono di questo albero in Spagna e in altre parti del mondo vedute gran cure, fatte in uomini stati gran tempo rovinati e persi, con crude piaghe ed estremi dolori, perchè questo è uno de' piú disperati e dolorosi morbi che abbia il mondo, come sanno bene quelli che lo provano e ne possono con la isperienzia fare fede, e quelli che provato lo hanno e per la clemenzia divina se ne ritrovano liberi.
Fra gli Indiani non è questa infermità cosí gagliarda, né cosí pericolosa come è in Spagna e nell'altre contrade fredde; anzi facilmente gl'Indiani con questo albero si curano. La qual cura si fa con molta dieta e con bere dell'acqua dove abbiano questo legno cotto, perchè senza la dieta questo legno non giova, anzi fa danno. Non bisogna qui riferire il modo come questo rimedio s'applichi, perchè è molto noto e si sa quasi da ognuno usare questo legno, e medesimamente perchè, dove si ragionerà del legno santo dell'isola di S. Giovanni, se ne dirà piú a lungo; poichè l'uno e l'altro d'una maniera si cuoce e d'un medesimo modo si toglie, e già in Spagna lo sanno usare come qui per giovarsene. Ma bisogna sapere che il legno dee essere fresco il piú che è possibile, dico fuori dell'Indie, perchè qui si può ogni dí avere e tagliare nel campo. E per questo in Spagna e fuori di questi luoghi hanno da cercare il piú grosso, perchè piú tarda a seccarsi, e qui si ha a prendere il piú sottile, perchè è piú tenero e piú purgativo. Gl'Indiani si curano cosí facilmente di questo morbo come fanno in Spagna della rogna, e lo tengono in meno, perchè è loro molto commune. In questa isola Spagnola si tien famoso quel guaiacane che si porta d'una isoletta chiamata La Beata, che sta posta presso la costiera di questa isola. Altri si servono d'altro guaiacan, e l'eleggono secondo che piú loro piace.
Ha questo albero la scorza tutta come macchiata di color verde, e piú verde e berrettino, come suole parer un cavallo falbo o rotato. Ha la foglia simile a quella del gomero, ma l'ha piú picciola e piú verde. Produce per frutto certe cose gialle, che paiono come se due lupini stessero congiunti e attaccati insieme per li cantoni. Il suo legno è fortissimo e molto grieve, e ha il cuore o la midolla quasi nera sopra berrettina. E di piú della sua virtú già detta, se ne servono in molte cose, come nel farne i radii delle ruote degl'ingegni e trapeti del zuccaro, e in altre cose.
Ma perchè la principale virtú di questo legno si è di curare il male francese, e ho detto che il modo nel quale si prende si dirà quando si ragionerà del legno santo, voglio qui un'altra ricetta riferire, secondo che io l'ho qui veduta usare, benchè mi sia di sopra iscusato di non volere ragionare di questa cura. Ed è a questo modo. Prendono a stelletti sottili di questo legno, e alcuni il fanno minuzzare sottilmente, e in due caraffe d'acqua pongono mezza libra del legno o qualche piú, e lo fanno cuocere finchè ne manchino le due parti, poi lo tolgono dal fuoco e lo lascian apposare. E l'infermo ne beve poi una scodella a digiuno la mattina, per venti o trenta giorni; e chi vuole essere ben curato n'ha da bere almanco per venti dí. Nel quale tempo ha da serbare molta dieta e non ha da mangiare carne né pesce, ma uva passa e cose secche solamente e in poca quantità, che basti solo a sostentarsi in vita, con qualche poco di biscotto. E fra il giorno ha da bere di un'altra acqua, cotta col medesimo guaiacan. E con questa cura ho io veduti guarirne alcuni, ma senza piaghe. E hanno da stare questi pazienti in luogo molto rimoto dall'aere, mentre che tolgono questa acqua, e alcuni dí poi anco non hanno da uscire in luoghi aperti, né prendersi la libertà dei sani.
Non scrivo io qui come alcuni si prendano questo legno e acqua, ma come l'ho io visto fare qui, dove è piú fresco l'albero. Chi avrà bisogno di prenderlo non miri a quello che io dico, perchè questa contrada è molto differente da quella d'Europa, e qui bisogna usare grandissima diligenza per guardarsi dall'aere, colui che in questa infermità si truova, e molto maggior pensiero aver dee d'ascondersi dall'aere dove è piú delicato e piú sottile e dove è la terra fredda. E non dee per niun conto uscire l'infermo di una camera ben chiusa da tutte le parti, e al parer mio colui che vorrà con questo legno in Spagna curarsi si dee guardare e stare molto su l'aviso, cosí in quello che ho detto dell'aere, che nol colga, come nella dieta. Ma questo male s'è in tante parti sparso, che le genti si sono fatte assai pratiche in saper amministrare questo rimedio. Né solamente con questo gli Indiani si sanano e curano, ma vi hanno anco degli altri rimedii, cosí in questo come negli altri morbi, perchè sono grandi erbaruoli e conoscono molte erbe, e n'hanno fatto in molte infermità esperienzia.
Già s'è il mondo chiarito che questo morbo è contagioso e che di molte maniere si mischia, come in vestirsi il sano le vesti dell'infermo di questa passione, e nel mangiare e bere insieme e coi medesimi piatti e tazze che usa l'infermo e nel mangiare e nel bere; ma molto piú col dormir in uno stesso letto e participare del fiato e del sudore del paziente, e molto piú assai col giacersi carnalmente con qualche donna infranzosata, o che la donna sana si giaccia con uomo di cosí fatto morbo infetto, che allora diventano le loro persone come afflitte dal male di san Lazaro, e pare che i cancheri e le fistole gli si mangino a fatto.
In queste Indie pochi cristiani sono da questo disgraziato male scampati, i quali si siano carnalmente giaciuti con le donne indiane di questi luoghi; perchè nel vero questo è un proprio morbo di questa terra, e cosí ordinario agl'Indiani e Indiane come nell'altre parti vi sono l'altre infermità ordinarie. Io ho alcuna volta veduti Indiani, e specialmente in terra ferma, che, nel sentirsi con questa infermità, tosto senza molto dubitarne si sono posti a bere dell'acqua cotta con questo legno e a guardarsi per molti giorni d'usare con donne (perchè dicono che elle sono quelle che hanno il carico di comunicar altrui questo dolore e morbo); e spezialmente nella provincia di Nicaragua, dove è eccellentissimo guaiacan, cosí nella provincia di Nagrando come in altri luoghi di quella contrada.
Dell'albero che in questa isola Spagnuola chiamano balsamo,
dove s'è questo liquore fatto prima che in parte altra alcuna.
Cap. III.
In molte parti di questa isola sono certi alberi dei quali si fa questo liquore che qui chiamano balsamo, benchè nel vero non sia, ancorchè sia una medicina eccellente. Questi alberi non sono di bella vista, e si somigliano alquanto nella grandezza o altezza agli alberi delle pere di Castiglia; ma hanno le foglie come granati, benchè assai piú sottili. Ha questo albore un pedale, alle volte due, alle volte tre e piú giunti insieme, come vediamo in alcune parti averli lo fico, le granate e altri alberi; ma i tronconi e i rami paiono alla vista secchi, e le foglie sono verdi e fresche, né i rami si stendano e piegano intorno, ma vanno in su diritti. Gl'Indiani chiamano questo albero goaconax, ed è come una teda nell'accendersi. Onde, perchè arde volentieri, vanno gl'Indiani di notte a pescare con tizoni di queste legne, e nel romperle ne esce un buono odore; ma non odora già agl'Indiani, che anzi questo odore aborriscono. Per li boschi di queste isole e di terra ferma vi ha gran quantità di questi alberi, né ve ne è minor numero che si sia in Spagna quel delle quercie o dei pini.
Lo secreto di questo liquore, che qui chiamano balsamo (non essendo), e che si fa dall'albero che s'è detto, si publicò in nome di Antonio di Villa Santa, già cittadino di questa città di S. Domenico, che, secondo che io ho udito dire d'alcuni, lo ritrovò e lo seppe da sua moglie, che è Indiana e nata in questa isola. Alcuni altri dicono che colui che insegnò questo liquore fu un medico italiano, gran filosofo, chiamato Codro, che nel 1515 passò in queste Indie, e io lo viddi e conobbi in questa città. Ma poi morí in terra ferma, nella costiera del mare australe, presso l'isole di Zorobaro e del porto di Punuba. Era uomo nel vero di gran lettere, di umanità, e molto savio ed esperto nelle cose naturali, e che avea camminato una gran parte del mondo; e il desiderio che ebbe di vedere queste Indie vel condusse a morirvi. Ma sia chi si voglia l'inventore di questo balsamo artificiale, colui che lo publicò e ne ebbe il primo utile fu questo Antonio di Villa Santa, al quale per questo rispetto la maestà cesarea dell'imperatore nostro fece alcuni privilegii.
Ma, ritornando al proposito nostro, dico che sono ora molti in questa isola che sanno fare questo balsamo, che (come alcuni vogliono) si fa di pezzotti di questo albero, dai quali cotti in acqua esce un liquore come olio o piú denso, e di colore d'un vino cotto chiaro. E se ne servono poi per le ferite fresche di cortellata o lanzata o altra simile, pure che sia fresca, perchè tosto ristagna il sangue. Né s'è veduta né si sa altra cosa medicinale che saldi cosí presto e chiuda la piaga come fa questo. E certo si sono viste grandi esperienzie di questo balsamo in ferite grandi e mortali, che le ha curate e sanate bene e in breve tempo, e mitiga il dolore di cosí fatte ferite. Molti affermano che giovi anco ad altre grandi e gravi infermità, che si sogliono tenere per incurabili. Ma in questo io mi rimetto a quelli che ne hanno fatta l'esperienzia, perchè io non l'ho veduto usare né esercitare; ne ho ben da molti che l'hanno provato udito dirne gran cose e darli gran lodi.
Ho bene anco all'incontro udito da molti altri biastemarlo, e dire che è pericoloso dove non si sa applicare, e spezialmente in quello dove è la maggiore sua eccellenzia, che è del consolidare le ferite fresche, perchè assai presto fa questo effetto, e nel chiudere la piaga bisogna avere molta avertenzia. Ma non mi maraviglio che questo sia cosí, poi che può anco alcuno mangiare tanto pane che li farà poco utile, e può tanto vino bere che s'imbriachi e s'infermi: ma queste cose, e mangiate e bevute moderatamente, mantengono la vita e il corpo sano. Di modo che tutti gli estremi sono viziosi e dannosi, e tutte le cose medicinali hanno bisogno di molta esperienzia, massimamente quelle che vengono nuovamente a notizia degli uomini, e delle quali poco uso ed esperienzia si ha; tanto piú che le complessioni non sono tutte uguali, per avere a provarvi i rimedii nuovi, né tutti i medici intendono d'un modo l'infermità, né le vogliono alcuna volta sanare cosí presto come potrebbono, e quando vorrebbono poi non sono a tempo co' loro consigli giovevoli. Assai è che si tiene di certo nella comune opinione del vulgo che il liquore di questo balsamo è molto giovevole, se oprare lo sanno. Si cava anco da questo legno, per via di un'altra cottura che fanno qui alcuni, una certa acqua che è molto appropriata a tutti gli umori e morbi nati dal freddo.
Ma io non voglio né qui di questa acqua né del balsamo piú istendermi, poichè sono qui molti che per isperienzia ne possono piú amplamente parlare; e perchè è stato già vietato che niuno lo faccia, perciochè questo Antonio di Villa Santa diede ad intendere in Spagna che esso con questo balsamo avrebbe dato a Sua Maestà un gran tesoro, e cosí fu qui sotto gravi pene comandato che niuno lo facesse; ma si morí il Villa Santa senza compire la promessa. Io non dico però altro che quello che è publico, e che non si effettuò di dare il promesso tesoro. E nel vero, se il parer mio si prendesse, Sua Maestà non porrebbe tale interditto in cosa onde potrebbe tanto bene risultare, anzi ordinerebbe che quanti lo volessero fare lo facessero, e lo dispensassero poi per quanti ne avessero di bisogno, poichè non mancherebbono dell'altre utilità maggiori per il re e per accrescerne le sue entrate.
Queste cose di medicina, secondo l'opinione mia, sono tutte dubbiose. Io voglio in tutte le cose accostarmi con Plinio, il quale, ragionando della medicina e de' suoi secreti, dice che la calamita tira a sé il ferro, la quale virtú gliela fa perdere l'aglio, e che il sangue del becco spezza il diamante, il quale da niuna altra forza può essere vinto. Dice in un altro luogo che non ha la natura cosa alcuna produtta senza qualche occulta causa. Il che si dee credere che cosí sia, per quello che ogni giorno si vede nelle cose che si esperimentano, perchè molte di quelle che prima occorra il bisogno si dispregiano, quando s'oprano nelle necessità si vede poi che alcune ne tolgono il dolore, altre mitigano il calore, altre sedano la sete, e cosí opra nell'infermo tal rimedio che pongono sforzo nella persona e ricuperano la vita. Chi ritrovò cosí nascosi secreti, come sono quelli che Plinio qui di sopra diceva, e che ad una cosí eccellente e maravigliosa pietra quanto è la calamita (senza la quale andrebbono per il mare i marinai come ciechi) una cosí vil cosa come è l'aglio gli faccia forza? Chi accertò cosí maraviglioso secreto e cosí ascosa proprietà di natura, che il sangue d'un cosí vile animale come è il becco spezzasse cosí preziosa e indomita gioia quale è il diamante, al quale né il fuoco né altro elemento nuoce? Tutte queste cose penso io che si accertassero a caso, e per voler divino e col tempo. E cosí sono d'opinione che questo che chiamano balsamo (che se bene non è, è un buon liquore), come s'è ritrovato a caso, cosí con l'esperienzia di coloro che l'oprano sarebbe salutifero, apprehendosi col tempo in che quantità si ha da dare e a che complessioni o nature; e non ne averrebbe alcun danno, come veggiamo che ne avviene dalle melelle, con le quali alcuni si purgano in questi luoghi, e che ad alcuni giovano, ad alcuni altri nuociono.
Perchè io in effetto ritrovo che un sarto, prima che apprenda il suo mestiero, rompe e perde molti aghi, e, quello che è peggio, guasta anco alcune vesti; e un uomo d'arme, prima che si adestri, cade molte volte e perde molte lancie e altre di traverso ne rompe. Ma il sarto paga quello che rubba o guasta, e l'uomo d'arme col suo proprio pericolo impara, là dove un medico, prima che sappia curare e si possa chiamare maestro, è peggiore che una pestilenzia; perchè, s'alcuno dà un buffetto ad un altro, gli è tosto fatta tagliare la mano, e secondo il delitto la giustizia fa a tutti esequire il castigo; ma nella medicina non vi ha la giustizia gli occhi, e ogni suo rigore vi tace, poichè vediamo che un medico o un chirurgico, ancorchè uccidono molti, non ne hanno pena né castigo, anzi ne sono perciò anco pagati.
Io mi sono intertenuto alquanto in questo albero, del quale fanno il balsamo artificiale; e assai piú ne averei potuto io dire, per quel che io ne sono stato informato e per quello che n'ho visto degli effetti suoi in giovare e in nuocere; ma non voglio che niuno per le mie parole si curi, né cerco credito in medicina, poichè non la ho studiata mai, né è mia professione. Del vero balsamo Plinio e molti altri auttori ne hanno scritto, e non bisogna qui ragionarne, poichè gli effetti del buon balsamo sono assai remoti, e differenti da quelli che questo liquore artificiale fa, secondo che noi vediamo che molti l'oprano.
De' pometti come avellane per purgare.
Cap. IIII.
Pare chiarissima contradizione chiamare questo albero pometto e produrre poi avellane, poichè l'albero col nome del frutto discorda: ma questi sono errori del vulgo, e perchè i primi cristiani che in questi luoghi passarono chiamarono pomettino questo albero, s'è poi con questo improprio nome restato; perchè produce avellane, o un frutto che molto all'avellane s'assomiglia, doppo che mondate sono. Ma, restringendoci nel parlare, io no 'l tengo per arbore ma per pianta, e il maggiore che di loro si trovi è da quattordeci o quindeci palmi alto; e come i nostri aromatari e medici vogliono, questo è il ben che essi chiamano. Fanno una foglia che si somiglia alquanto a quella del canapo, ma maggiore e piú fresca; e fra le foglie producono un fiocco e ciocca come il finocchio, dove fanno la semente. Queste ciocche sono rosse, e in loro nascono certi cappulli o vessichette tonde (che perciò le chiamarono pometti), ma divise in quarti con una leggiera e sottile scorza; e dentro ognun di questi cappulli stanno certe semente bianche, a tre e a quattro insieme, che e nel sapore e nella bianchezza sono come buone avellane e migliori anco; ma negli effetti sono quello che ora si dirà.
Elle non sono per ogni stomaco né con tutti fanno il medesimo effetto, perchè io ho veduto in questa città una donna che si purgò, o volse medicinarsi (per dir meglio) con questo frutto, e non poté, perchè, benchè si mangiasse nove di queste avellane, non fece però il suo ventre mutazione alcuna; e io ho a lei stessa sentito giurarlo. E in Valladolid nel 1513 viddi un Giovan della Vega, che era stato proveditore nell'isola di Cuba, ed era già col primo admirante venuto in questi luoghi nel 1493, che, come bene sperto di questo frutto, ne aveva portato seco in Spagna, perchè diceva che se ne ritrovava bene quando aveva bisogno di purgarsi, e quando donava ad alcuno qualche una di questa avellane, pareva che gli donasse qualche preziosa cosa. Ora avvenne che in Valladolid gli s'infermò un giovanetto, suo nepote o parente, che esso voleva in queste Indie menare; e per purgarlo gli diede la metà di una di queste avellane, che l'evacuò di tal sorte che non li lasciò budella nel ventre, e in meno di 20 ore lo cavò dal mondo. E io viddi il Giovan della Vega piangere il suo nepote, e quando mai aveva imparato né oprato queste avellane.
Voglio qui inferire quello che ho tocco nel precedente capitolo, e dico che ad alcune persone o stomachi non nuocono questi frutti né li muovono un punto; e ad alcuni altri fanno tanto purgare che gli uccidono, e in tanta alterazione gl'inducono che li pongono fin presso l'uscio della morte. Ho bene io veduti anco molti altri purgarsene moderatamente e con loro molto utile. Ma perchè questa medicina è violenta, bisogna usare molta prudenzia e considerazione nel ministrarla e nel prenderla; e perciò quelli che queste avellane prendono si cenano prima una buona gallina e si saturano, e indi ad un'ora poi o piú tolgono una di queste avellane o mezza, secondo che a ciascun pare che le acconvenga.
Questa purga e il modo di purgarsi s'imparò dagli Indiani, che per questo effetto pongono nei loro poderi e orti queste piante, e anco oggi in questa città in molte case dei cristiani ve ne sono. Ma in casa mia, mentre che io vivo, non ve ne saranno, perchè, menando mia moglie e figli in terra ferma nel 1520, passai per questa città, e nella stanza dove io alloggiai in un certo cortile vi erano di questi pomaretti; e perchè i fanciulli sono golosi e si mangiano ciò che trovano, il maggiore de' figli miei, che non aveva ancora otto anni, coi fratelli suoi si mangiarono di queste avellane quante avere ne potero, o ne ritrovarono cadute in terra (perchè doppo che sono mature si spezzano facilmente quei pidicini dove attaccate stanno e cadono in terra, benchè si mantengano due e tre anni senza corrompersi). Onde indi a poco cominciarono i fanciulli ad andare del corpo, tanto che tramortiti e come morti cadettero in terra; e io tenni loro per morti e me senza figli. Ma Iddio li soccorse, perchè si diede loro tosto a bere olio perchè vomitassero, e se li fecero altri rimedii con li quali si aiutarono e scamparono la morte, ma non poco stanchi e deboli per qualche giorno.
Concludendo in questa materia, dico che ne' principii che cominciarono i cristiani a provare ed esperimentare in se stessi questa purga delle avellane, finchè accertarono a misurare gli stomachi loro con la quantità che prendere ne dovevano, se ne ritrovarono molti burlati e altri beneficiati, perchè i medici nostri non le conoscevano né le sapevano applicare. Ma ora molti le vogliono e le stimano, e ne mandano anco in fin di Spagna per esse.
Delle piante del bambagio in questa isola Spagnuola.
Cap. V.
In questa isola Spagnuola si ritrova molto bambagio selvaggio. Nelle possessioni medesimamente ne sono alcune piante poste a mano; e questo è migliore di quello che sta per li campi, ed è piú bianco e fa le piante piú alte, perchè ve ne ha alcuna che cresce quanto è una volta e mezza o due un uomo. E si pongono e, senza averne piú cura, continuano in dare il loro bambagio. Ma perchè ora in questa isola non vi si danno a cultivarlo, non se ne fa tanto quanto se ne faceva nel tempo degl'Indiani, che ne avevano piú cura. I cristiani non si curano di questo guadagno, ancorchè sia buono e che sarebbe per crescere quanto essi volessero, cosí qui come in terra ferma, dove tutto l'anno ordinariamente lo seminano e raccolgono. Ma quello di terra ferma è basso a comparazione di questo di qua, benchè abbia io anco là vedute di queste macchie e piante alte. Per tanto, quel di piú che si può dire del bambagio o cottone, si lascia per dirsi nella seconda parte di questa Naturale e generale istoria dell'Indie.
Delle fico dell'inferno che in questa isola Spagnuola sono.
Cap. VI.
Le fico che chiamano dell'inferno sono molto comuni e ordinarie in tutte queste isole e in terra ferma. Queste fico sono dai medici, dagli aromatari e dagli erbolari chiamate catapuzia maggiore. Non so io che proprietà nella medicina s'abbiano; ma ve ne è qui tanta copia che occupano ogni cosa, e non ne vorrebbono tante per li campi quante ve ne sono, e molto meno ne vorrebbono avere in questa città, dove fin dentro i cortili delle case e per tutto ne è gran quantità.
Delle canne e delle cannuccie di questa isola Spagnuola.
Cap. VII.
Sono in questa isola molte canne massiccie e grosse, e molte di loro alte come aste di lancie, e alcune piú alte che piche: ma, come ho detto, sono massiccie tutte, e sono buone per gli edifici delle case degl'Indiani, e se ne servono anco i cristiani in molte cose. Ne sono ordinariamente in questa isola e in tutte queste Indie. Il terreno dove queste canne nascono è fertile e ottimo per seminarvi il grano o maiz degli Indiani, e tutte quelle altre cose per le quali coltivano e procurano il terreno. Vi sono medesimamente nei laghi e paludi, e in molte costiere delle riviere di questa isola molte cannuccie o carecci, che sono sottili come calami, e ne fanno gl'Indiani caribi le lor freccie. Con questi anco ne adornano le case loro, e ne fanno gentili lavori e di bella vista. Ma non sono già però di quelli calami buoni per scrivere, ancorchè in questa isola ve ne siano alcuni pochi buoni.
Delli giunchi che in questa isola Spagnuola sono.
Cap. VIII.
Sono in questa isola giunchi come quelli di Spagna, ma minori assai, nelle ripe d'alcuni laghi o stagni. Ve ne sono anco certi altri che in Spagna li chiamano giunchi d'India, e in Castiglia e in altri luoghi sogliono li vecchi per bastoni servirsene, e alcuni anco li portano per certa autorità. Sono grossi a tre cantoni, e ve ne sono altri piú sottili e molto leggieri. Questi, ancorchè in Ispagna cosí li chiamano, non sono in effetto giunchi; e gli ho qui posti per cavare di questo errore coloro che di questo nome li chiamano, perchè nel vero non sono altro che foglie d'una certa spezie di palme che in questa e nell'altre isole di queste Indie sono, e molto piú in terra ferma. Piacque ad alcuni chiamarli giunchi perchè nel massiccio di questi bordoni si somigliano alli giunchi; ma nel vero qui sono palme, anzi frondi di palme, le quali nascono infin dal pedale e molte insieme e molto alte; né si fa grande questo albero, perchè non è altro che un circuito grande di queste foglie; e il forcolo o la schiena, che sta nel mezzo di queste pampane è il bordone, che ho detto che usano in Spagna i vecchi e che lo chiamano giunco. E questo tal bastone o pidicino fino ben alto da terra produce la foglia, come la palma. Ve ne sono bene grossi, ma portano li sottili in Spagna per farne bastoni da vecchi. E se ne ritrovano qui piú grossi di quello che sarebbono due o tre di questi piccioli giunti insieme, e sono assai leggieri e di poco peso.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta dell'erbe e semente che si portarono di Spagna in questa isola e dell'altre che vi erano.
Libro undecimo
Proemio
Benchè si sia nel terzo libro fatta menzione d'alcune cose che in questo si replicheranno, si soffrirà nondimeno perchè si continovi con maggior ordine questa istoria, perchè, se ivi si toccò qualche cosa di queste materie, fu solo perchè ivi era a qualche proposito: ma questo è il proprio loro luogo. E nel primo capitolo si ragionerà nel generale di quelle erbe e semente che di Spagna si portarono in questa isola, dove vi si fanno ordinariamente e vi si moltiplicano del continovo; poi si passerà a trattare dell'altre erbe che qui si ritrovano, e sono come quelle di Spagna. E finalmente dirò d'alcune piante ed erbe medicinali di questa isola che nella nostra Spagna non sono né vi si conoscono, e d'alcune loro proprietà, secondo che io ne averò avuto notizia.
Dell'erbe e piante che sono venute di Spagna in questa isola Spagnuola,
e quali qui fanno semente e quali no.
Cap. I.
Si sono portate di Castiglia in questa isola semente di melloni, quali vi sono ora tutto l'anno, e ve ne sono molti e vi fanno bene, benchè assai piú nella propria loro stagione ve ne siano. Ma, o pochi o molti, non ve ne mancano mai, e vi fanno buona semente; onde non è piú ora necessario farla venire di Castiglia.
Vi si sono portate anco semente di cetrioli, e vi sono fatti buoni e molti, e vi producono anco il seme buono; onde, perchè qui ne è assai buono, non bisogna piú che di Castiglia si porti.
L'erba buona, che in alcune parti chiamano erba santa e in molte altre menta, fa qui in queste Indie assai bene e vi è tutto l'anno, e non bisogna che piú ne venga di Spagna, perchè dove qui apprende vi si conserva e cresce.
Le melenzane fanno cosí bene in queste contrade, ed è loro cosí proprio questo terreno come è la terra di Guinea ai neri; onde non bisogna fare piú venire di Spagna il seme, perchè qui vi fanno assai meglio che là, e un piede di melenzano dura qui due e tre anni e piú e sempre produce e dà il frutto; onde quando queste sono picciole quelle sono grosse, e quelle altre stanno in fiore. E io ne ho veduti alcuni piedi piú alti che non è niuno uomo, e in effetto qui fanno assai meglio che in luogo alcuno di Spagna.
I fagioli vi fanno qui assai bene e vi è uno buono legume e in gran quantità; e non bisogna fare altramente piú venire di Castiglia la semente, perchè in queste isole e in terra ferma si cogliono ogni anno di questo legume gran copia.
L'apio, che si portò qui di Spagna, ora n'è in molte parte, e nelle case e ne' poderi di questa città, e non bisogna piú farne venire di Spagna perchè qui vi fa bene, e quando apprende una volta presso l'acqua non vi manca piú mai.
Le zavire vennero anco di Castiglia, e sono quelli cardoni verdi e grossi de' quali si fa l'acibar, che è una composizione amarissima e nera; e vi fanno ora molto bene, perchè se ne veggono in alcune case di questa città e nel monasterio di questa città molte, e nelle possessioni di questi cittadini medesimamente. E ve ne sarebbono in questi luoghi quante volessero, s'attendessero a questa mercanzia e ne volessero.
Ora diremo dell'erbe che si rinuovano, e ne portano la semente di Spagna, perchè, ancorchè qui la pongano, non è buona.
I cocomeri si sono fatti in questa isola, e ne venne la semente di Castiglia; quella che qui fanno non è buona, e perciò bisogna rinovellarla. Lattuche ve ne sono qui assai buone e quasi tutto l'anno, della sementa che di Castiglia venne, e che se ne fa del continovo venire, perchè quella che qui producono non vale nulla.
I ravani sono qui buoni e quasi d'ogni tempo, ma ci sono un tempo migliori che un altro, e la sementa che qui di loro si fa non è buona, e perciò bisogna medesimamente rinovarla e farla venire di Spagna.
I crescioni sono anco in questa isola, e bisognano rinovarsi con la semente di Spagna; qui sono assai poveri di foglie, ma sono assai buoni.
Petroselini di quelli di Spagna ne sono qui buoni e vi si fanno grandi, ma non producono sementa, onde bisogna farne venire di Castiglia.
Il coriandro medesimamente fa bene in questi luoghi, ma bisogna che pure di Spagna si rinovelli la sementa.
Le cipolle qui si fanno del seme che si porta di Spagna, e si potrebbono piú tosto chiamare cipollini che cipolle, poichè non vi si fanno mai tali, né cosí grandi, come sono quelle di Spagna; non fanno buona sementa, e però si fa venire di Castiglia.
Cavoli o verze, della forma che sono quelli di Napoli, ve ne sono qui medesimamente, benchè non siano cosí buoni. Vi sono anco di quelle che volgarmente chiamano cavoli cappucci, e vi fanno cosí bene che sono migliori e piú ristretti e piú saporosi di quelli di Spagna. Ma dell'una sorte e dell'altra vien di Castiglia il seme, perchè qui non aspettano che lo pongano.
I navoni sono cosí buoni qui come in Spagna, se ne viene la semente buona, perchè, non essendo buon il seme, non ne può riuscire buon il frutto; e qui bisogna rinovellare il seme da Spagna, non essendo questo buono.
Le carote si fanno qui, ma non cosí buone come in Spagna, né queste di qua fanno buona semente, né esse anco hanno cosí buon sapore come quelle di Castiglia, perchè queste sono insipide e disgraziate.
Le ramoraccie sono una spezie di radici selvatiche, e sono come rapi, ma sono piú acute e mordicano. Di queste mangiai io in Italia, cioè in Roma e in altri luoghi. Ne è in questa città per diligenzia d'alcuni Genovesi venuto il seme, e vi si sono fatte belle e assai piú grandi di quelle di Roma, e meno acute e mordicanti; ma poi l'hanno lasciate in oblio e al presente non ve ne sono. Ma come testimonio di vista io dico che ne ho io mangiate in questa città qualche volta, e che in questi luoghi vi fanno benissimo.
Dell'erbe che sono in questa isola Spagnuola, che sono come quelle di Spagna,
e che sono qui naturali di questi luoghi.
Cap. II.
Tutte queste erbe in questa isola si ritrovano, che prima che i cristiani vi passassero vi erano: la cicoria (è quella che gli erbolarii chiamano rostro porcino), la portulaca, la verbena, il solatro, la piantaggine, la bursa pastoris, la matricaria, il nenufar, il basilico, la scolopendria, il capello venere, il politrico, la ceteracche, l'adianto, il puleggio agreste, la malvavischia o altea, il polipodio, il visco della quercia (ancorchè qui nasca sopra alti alberi), la persicaria, il tribulo marino, la bieta, la salvia, il milium solis, il cipero, il trifoglio leporino. Tutte queste erbe sono qui, secondo ne sono stato informato dagli aromatari ed erbolari nostri, senza l'averne io veduto la maggior parte di loro in queste Indie. Di piú di quelle che io ho delle sopradette vedute, vi sono anco le seguenti, che qui da se stesse naturalmente nascono, come in Spagna. E sono i felci, che ve ne sono molti e di molte maniere, e la loro grandezza è tanta che vi sono alcuni alberi che paiono di questa spezie, o almeno che le sue foglie abbiano. Vi sono poi della medesima sorte di quelle di Castiglia, e del medesimo odore e fiori. Vi sono spine che producono more di quelle stesse di Spagna e d'altre molte maniere, e alcune piú grosse e di differenti fiori e alcune di loro di perfetto odore. Vi sono cardi piccioli e pungenti, di quelli medesimi che sono in Castiglia, rossi e della medesima foglia. Vi è marobbio, ma non hanno buon odore e sono piú alte di quelle di Castiglia. Vi è l'elitropia; però non ognuna produce quel frutto, o granelli, dei quali si fa il colore azuro per illustrare e abbellire le lettere grosse, che si sogliono fare da coloro che scrivono i libri di lettera tonda o formata.
Dell'erba che chiamano gl'Indiani "i", e della sua utilità e proprietà.
Cap. III.
È una erba in questa isola che la chiamano i, e non solamente in questa isola, ma in tutte le altre anco e in terra ferma di queste Indie. Nasce da se stessa, e ve ne è tanta copia che in molte parti se ne veggono le campagne piene. Fa un ramo lungo e s'alza in su come la coreggiuola o l'ellera, e ha quasi della fattezza di queste erbe la foglia, salvo che l'ha piú sottile. Questa i è un gran pascolo per li porci, perchè gl'ingrassa molto, ed è piú loro al proposito che non sono in Spagna le ghiande. In alcuni luoghi, e spezialmente in terra ferma, si purgano gli uomini con questa erba. Io la viddi prendere in Darien d'alcuni cristiani, ed è cosa cosí sicura che si può dare ad un fanciullo o ad una donna gravida, perchè non è violenta, né per fare andare nella purga piú che tre o quattro volte all'infermo. E a questo modo si prende. La pestano molto, e poi ne cavano il succo e lo colano, e perchè perda alquanto del verde, o del sapore dell'erba o dell'umidità, vi pongono in una scodella di lei un'oncia di zuccaro, e la bevono poi a digiuno; e non ha a dormire l'infermo finchè abbia purgato. E non è amara, ancorchè non vi si ponga il zuccaro; che, se non si trova zuccaro né mele per porvene quella quantità che s'è detta, farà nondimeno senza l'uno e senza l'altro il medesimo effetto. Io viddi in quelle parti di terra ferma lodar molto questa maniera di purga. Si ritrova questa erba copiosissimamente per le campagne, in tutte le provincie o isole che io ho di queste Indie vedute.
Dell'erba o pianta che i cristiani chiamano balsamo artificiale,
per lo liquore che ne cavano, che questo nome li danno.
Cap. IIII.
Nel terzo capo del precedente libro s'è ragionato del balsamo artificiale, che in queste Indie si fa dell'albero goacane, che fu ritrovato d'Antonio Villa Santa, o pur, secondo che altri dicono, dal dottor Codro. Oltra di questo balsamo, che come si disse balsamo non è, vi ha un altro certo liquore, che si tiene per cosí buono o migliore di quello, perchè s'è veduto essere utilissimo a diverse malattie dove s'è esperimentato, e spezialmente agli umori freddi e alle passioni che da frigidità procedono. Ma, parlando piú particolarmente di questo liquore, dico che a questo modo si fa. Questa è una pianta che da se stessa nasce, senza essere dalla industria degli uomini aiutata, e se ne trova gran quantità, e cresce tanto che pare albero, perchè va tanto in su quanto è una volta e mezza o due alto un uomo; e ha gli suoi gambi o fusticelli berrettini, e le foglie verdi e grosse e ample, e dalla parte di dentro sono piú verdi che dalla parte di fuori (chiamo la parte di fuori quella che ha piú rilevato il nervo che va, per mezzo della foglia, dal capo al piè). E il pidicino dove si sostiene la foglia non è verde ma è quasi rosso, e le foglie sono in qualche parte di loro illustrate d'una rossezza paonazza. Il suo frutto sono certi raspi lunghi quanto una mano coi deti stesi, e pieni di certe uve e granelli grandi poco men di pallotte di schiopetto, e rari alquanto e sparsi, e non densi come veggiamo essere le uve ne' graspi loro. Questi granelli di questa pianta stanno verdi e in qualche punto un poco rossi, nel modo che ho detto che sia il colore de' pidicini delle foglie; e quando maturano si vanno piú arrossando, e quando sono ben maturi stanno quasi paonazzi oscuri. Ora, prendono le cime tenerelle di questa pianta, e alcuni insieme con queste cime prendono anco questi graspi e granelli, e ne fanno pezzi, e cuocono ogni cosa in acqua finchè manchi per metà e piú e piú anco, finchè diventi spesso come un vin cotto o come un mele. Poi lo lasciano apposare e se ne servono nelle piaghe e nelle isgarrature, ancorchè vi manchi carne nella ferita; perchè vi stagna tosto il sangue e cura maravigliosamente le piaghe. E dicono qui alcuni che questo sia migliore che il balsamo, e l'hanno molto esperimentato. Ma la vera foglia ha da essere del modo che qui si linearà, con amendue le punte acute, cioè nella cima dove va a finire e verso il pidicino onde incomincia. Delle cime tenere di questa pianta si cava medesimamente per lambicco un'acqua che è migliore che non è l'acquavite o ardente che chiamano; e molti se ne ritrovano bene.
Poco tempo fa, che è accaduto che una rota di caretta si colse di sotto la gamba d'un nero, a punto nella polpa, ma per dritto e non di traverso; perchè non li ruppe osso alcuno, ma ne distaccò gran parte della carne pesta e rotta, di modo che si pensava colui perdere la gamba o la vita o restare stropiato. Ma in manco di 20 dí stette bene, e lavorava come se non avesse avuto alcun male, con porvi solamente panni netti di tela unti e bagnati di questo liquore, riponendoveli una o due volte il giorno. Quando duole il ventre o altra parte della persona, se è per freddezza, bevendosi alcuni sorsi dell'acqua che si è detto che da questa pianta si cava, tosto il dolore va via o si sente almanco assai miglioramento; ma continovandolo pochi giorni, si viene a togliere via tutto il freddo e l'umore e il dolore causato dalla frigidità. Questa è una pianta o frutice che si ritrova in molte parti di questa isola, e molti hanno provato quanto ho io qui detto. Pensano anco alcuni che hanno esperimentato questo liquore, e dicono, che sia migliore e piú securo del balsamo o liquore di Villa Santa. E in effetto sono infiniti rimedi che il pietoso Iddio mostra ai suoi fedeli, ancorchè piú lontani si ritrovino da' medici e dalle medicine. La foglia di questa pianta, che alcuni la chiamano del balsamo nuovo, è fatta a modo d'un ferro di lancia o di una giannetta che tagli, e che siano molto aguzze nella punta, come si solevano usare fra cavaglieri nelle guerre e fra buoni cacciatori per li boschi. E noi qui il meglio che si è potuto l'abbiamo disegnata. È lunga da sei deti e larga quattro nel mezzo.
Dell'erba o pianta chiamata perebecenuc.
Cap. V.
In questa isola Spagnuola è un'erba o pianta, che la chiamano perebecenuc, ed è maravigliosa per le piaghe, e se ne trova gran quantità, ed è stata da molti e da me stesso esperimentata. Di piú di questa e delle altre che ho dette, credo io che qui siano infinite altre erbe e piante e alberi appropriati alle infermità e piaghe umane. Ma perchè gl'Indiani antichi sono già morti, s'è con loro finita e sepolta la notizia di queste virtú e secreti della natura. Dico di quelli che gl'Indiani avevano già esperimentati e sapevano. E tutto questo che ora se ne può dire è poco e non bene inteso, perchè questa generazione è cosí avara di quel poco che sa, che né per utile, né per bene che se le faccia ne vuole cosa alcuna manifestare, massimamente di quelle che potrebbono (essendo medicinali) giovare a' cristiani. E quelle cose che si sono da' nostri sapute, non si sono sapute per volontà degl'Indiani, ma perchè non le hanno possuto celare. E benchè io abbia alcune cose sentite dire, che per diversi rimedi sono, non voglio però perdere il tempo in riferire cose confuse o non chiare, e perciò non dirò io qui se non quello che è assai noto o che io abbia veduto ed esperimentato, come ho fatto di questa erba o pianta della quale parlavo, e che come ho detto la chiamano perebecenuc. Se ne trova gran quantità in questa isola, e per le campagne e per li poderi e per dentro questa città anco: io dico che se ne ritrova tanta copia quanto di qual si voglia altra erba, ancorchè diciamo quanto delle porcellane, che non si può piú dire per la gran quantità che di loro qui si trovano.
Questa erba della quale parliamo, ha molte foglie larghe e aguzze nella punta, e si somigliano a ferri di giannette picciole. Onde pare che vogliano insegnare e accennare per questa via agli uomini che elle sono per curare le ferite di cosí fatti ferri. Sono queste foglie assai sottili e verdi, e nelle punte alquanto paonazze, e gli astili o pidicini, nei quali queste foglie nascono, sono medesimamente paonazzi come le punte delle foglie, benchè ve ne siano alcune non aguzze in punta, ma rotonde: ma e queste e quelle hanno la loro estremità di colore posto fra leonato e paonazzo. Questa pianta produce certi fiori rossi, lunghi, e con un fiocco o ciocca come il finocchio; ma sono separati l'uno dall'altro e sono lunghetti e sottili. Quando questa pianta è cresciuta tanto quanto dee crescere, e alto quanto è un uomo e piú, è nel suo operare maravigliosa, perchè facilmente e senza passione cura, che pare che l'abbia voluta Iddio insegnare per l'eccellenzia grande che ha in guarire le piaghe, ancora che siano vecchie e di cattiva disposizione, e incancherite o quasi incurabili. E usano il rimedio di questa erba a questo modo. Cuocono un pugno delle cime e delle foglie piú tenere di questa pianta in un bocale d'acqua, e quando veggono che ne sia desiccata e mancata la terza parte, levano il pignato dal fuoco e la lasciano quasi far fredda, e con un panno netto bagnato in questa acqua lavano la piaga molto bene, poi l'asciugano con panni di lino. E finalmente pigliano fra le mani alcune foglie crude di questa erba e ne cavano il succo, nel quale bagnano fila di tela bianca e nette, e le pongono su la piaga e la legano poi con un panno di lino. E a questo modo facendo due volte il giorno, in breve tempo guariscono la piaga maligna. Alcuni, in vece delle fila di tela, vi pongono l'erba stessa cosí premuta e pesta fra le mani, dapoi che hanno ben prima la piaga lavata, come si è detto; e la legano poi, e in breve tempo la guariscono.
Ho detto piaga e non ferita perchè questo rimedio è per le piaghe che per varie occasioni avvengano, e non per ferite fatte a mano e fresche. Dico anco che io ho curato in casa mia e fatto curarvi molti Indiani e schiavi neri e cristiani con questo rimedio, e si sono sanati benissimo. E nel vero alcuni di loro cosí fatte piaghe avevano, che mi sarebbe costato un gran danaio la loro sanità, se gli avesse posti in mano del chirurgico; e non so se gli avesse saputi curare. E a questo modo, senza pagare un soldo né ringraziare se non solo Iddio, gli ho veduti sani; perchè questi Indiani e negri vanno travagliando per la campagna, e questa terra, per essere umidissima, è cattiva per le gambe, onde per ogni grattatura si fanno loro nelle gambe cattive piaghe; e perchè al principio la ferita è picciola, non la curano e non ne fanno caso. Il perchè s'incancherisce e diventa spesso maligna piaga; ma tutte si curano bene nel modo che ho detto. La foglia di questa erba è della forma che qui di sopra lineata si vede. Quella ombratura che nelle punte di queste foglie qui dipinte si vede, è quella parte che hanno come paonazza, del quale colore o di leonato sono gli steli o pidicini di queste stesse foglie, a punto come quelli delle biete che si mangiano, che hanno il colore alquanto piú rosso che leonato. Tutto il restante della foglia è verde, e molto sottile.
Della naturale e generale istoria dell'Idie, dove si tratta degli animali che in questa isola si ritrovarono e di quelli che in fin di Spagna vi si portarono.
Libro duodecimo
Proemio
Plinio, nella sua naturale istoria, trattò degli animali terrestri nell'ottavo libro, perchè li parve che li venisse bene al proposito suo. Io, ancorchè abbia pensato d'imitarlo nella distinzione delle spezie delle cose che egli scrisse, non veggo che per questo sia anco necessitato, né che sia di sustanzia l'imitarlo nel numero a punto de' libri, cioè in dovere anco io trattare nell'ottavo o nel nono o nel decimo delle medesime materie che egli vi scrisse. E per questo io, in questo duodecimo libro, ho voluto parlare degli animali che in questa isola si ritrovarono nel tempo che vi vennero i primi cristiani con l'admirante don Cristoforo Colombo. Si farà anco menzione di quelli che gli Spagnuoli v'hanno portati d'Europa, e che tanto moltiplicati vi sono. Questo libro sarà breve in quello che tocca a questa e alle altre isole, perchè pochi animali terrestri e da quattro piè vi erano. Ma nella seconda e terza parte, quando si tratterà delle cose di terra ferma, vi sarà molto piú che scrivere di questa materia, perchè vi sono molti animali, e differenti assai da tutti quelli di Spagna. Tutti i cristiani antichi abitatori di questi luoghi, dicono che in questa isola erano cinque animali, che si chiamavano hutia, chemi, mohui, cori e cani gozi dei piccioli, come di piú lungo si vedrà nei seguenti capitoli. E si farà anco appresso menzione delle serpi e biscie, e d'altre cose al proposito di questa istoria che noi scriviamo.
Dell'animale chiamato hutia.
Cap. I.
Era in questa isola uno animale chiamato hutia, il quale era di quattro piedi a maniera di coniglio, ma alquanto piú picciolo e di piú picciole orecchie; anzi, e l'orecchie e la coda di questo animale erano come quelle del topo. Ammazzavano questi animali con piccioli cani gozzi, che gl'Indiani avevano con loro, domestici e muti; ma molto meglio poi fecero con levrieri e cani che poi vennero di Spagna. Questi hutii sono di colore bigio, secondo che ne sono stato informato da molti che gli viddero e ne mangiarono, e li lodano per un buon cibo. Sono fino ad oggi in questa città e in questa isola molte persone che fanno di questa cosa fede. Ora assai pochi di questi animali si ritrovano.
Dell'animale chiamato chemi e della sua forma.
Cap. II.
Un altro animale era in questa isola Spagnuola chiamato chemi, il quale non ho io veduto né al presente vi si ritrova. Ma, secondo che molti m'affermano, era di quattro piedi, e cosí grande quanto è un mezzano bracco; ed era di color berrettino come la hutia, e della medesima fattezza, salvo che questo era assai maggiore. Sono molti in questa isola e in questa città che viddero e mangiarono di questi animali, e gli approvano per un buon cibo. Ma nel vero, secondo che s'è detto delli travagli e fame che i primi cristiani in questa isola passarono, si può presumere che quanto vi era da mangiare tutto lor in quel tempo paresse assai saporoso e buono, ancorchè non fosse.
Dell'animale chiamato mohui, che era anco in questa isola Spagnuola.
Cap. III.
Il mohui è un animale alquanto piú picciolo della hutia, e del medesimo colore berrettino, ma piú chiaro. Questo era il cibo piú prezioso e piú stimato dalli cacichi e signori di questa isola. La forma e fattezza di questo animale era molto simile alla hutia, salvo che aveva il pelo piú grosso e piú duro, e piú acuto e arricciato. Io non ho veduto questo animale, ma tutte le cose che ne ho dette le ho intese da molti degni di fede, che vivono oggi in queste parti, e gli viddero e ne mangiarono, e lo lodono per carne migliore di niuna altra di quelli animali che piú di sopra si sono descritti.
Dell'animale cori, che già vi fu, e ora è in molte case di questa città di San Domenico.
Cap. IIII.
Cori è un animale picciolo, ha quattro piedi, ed è della grandezza d'un mediocre coniglio selvaggio; e paiono questi cori in effetto una spezie di conigli, ancorchè tenghino il mostaccio a maniera di topo, ma non già cosí acuto. Hanno l'orecchie assai picciole, e le portano cosí ristrette, e congiunte naturalmente col capo, che molte volte pare che non le abbiano. Non hanno coda alcuna, e hanno assai delicati i piedi dinanzi e di dietro, dalle giunture delle gambe in giú. Hanno tre deti, e un altro piú picciolo, che sono quattro. Sono assai delicati e sottili, e del tutto bianchi alcuni, alcuni del tutto neri, ma la maggior parte sono d'amendue questi colori macchiati. Ve ne sono anco alcuni del tutto vermigli, e alcuni macchiati di vermiglio e di bianco. Sono vaghi e puri animaletti, né punto fastidiosi, perchè sono assai domestici e vanno per la casa, e la tengono netta senza sporcarla; non stridono né fanno rumore, né corrodono per fare danno. Mangiano erba, e con ogni poco che lor si dia di quella che mangiano i cavalli si mantengono, ma assai meglio con un poco di cazabi, che piú gl'ingrassa, ancorchè l'erba sia loro piú naturale. Io ne ho mangiati, e sono nel sapore come conigli selvaggi, benchè abbiano la carne piú delicata e morbida, e men secca di quella delli conigli.
Delli cani piccioli che furono in questa isola Spagnuola.
Cap. V.
Si ritrovarono in questa isola, e in tutte l'altre che sono ora abitate da cristiani, cani piccoli, che gl'Indiani nelle case loro allevavano; ma ora non ve ne è niuno. Gl'Indiani se ne servivano alla caccia degli altri animali qui di sopra detti. Erano questi cani di tutti quelli colori che se ne veggono in Spagna, alcuni d'un color solo, altri macchiati di bianco, nero o vermiglio, o d'altro colore e pelo che si sogliono in Spagna vedere. E alcuni lanati come castrati, altri con una lana sottile e delicata e altri lisci; ma la maggior parte di loro è fra lanuto e liscio. E il pelo di tutti era piú aspero di quello che l'hanno i nostri in Castiglia, e con l'orecchie erte, appizzate e vive come le tengono i lupi. Tutti questi cani erano muti, di modo che, ancorchè fossero battuti o morti, non si lamentavano né gemivano mai, né sapevano abbaiare. Li cristiani che vennero in questa isola col primo admirante, nel secondo viaggio, morendosi di fame e non avendo che mangiare, si mangiarono tutti questi cani. E a questo modo questi cani erano. Ma in terra ferma ve ne ha gran quantità, in alcune provincie dove io gli ho veduti, e ne ho mangiati alcuni, ed è buon mangiare.
Certo che il non abbaiare né gemere di questi cani, essendo lor cosí naturale e proprio, è una cosa assai nuova, avendo rispetto a quelli che in Europa abbiamo. Ma questa e altre diversità fa la natura in varii animali e clima. E come diceva un poeta moderno che io conobbi in Italia, e molto stimato in quel tempo, chiamato Serafino dall'Aquila, in un suo sonetto dove parlava della varietà delle cose naturali: "E per tal variar natura è bella". Sí che in diverse regioni differenti e strane cose si trovano, e in una stessa spezie di animali si producono; perciochè, conforme al silenzio di questi cani, dice Plinio che in Cirene sono mute le ranocchie, le quale, portate via da quella contrada ad un'altra, cantano. E nell'isola di Serifo sono mute le cicale, le quali anco, portate in altre provincie, cantano. Ricordandomi io adunque d'aver letto questo, volsi provar se questi cani muti, cavati da quella loro contrada, abbaiassero in un'altra; e cosí cavai un cagnolino di questi dalla provincia di Nicaragua, e lo portai fino alla città di Panama, che è ben 300 leghe l'una provincia lontana dall'altra. E quando poi volsi partire per Spagna me lo rubarono. Io aveva allevato da picciolo questo cagnolo, di modo che era molto domestico, ma era muto cosí in Panama come in Nicaragua; e non me ne maraviglio, poichè tutta quella è una costiera in terra ferma. In questa isola Spagnuola non erano altri animali terrestri quadrupedi, fuori di queste cinque spezie d'animali che si sono dette, e per questo serà breve la lezione di questo duodecimo libro; ma sarà assai maggiore nella relazione delle cose di terra ferma, perchè ivi sono molti animali, cosí di quelli che sono nella nostra Spagna e in Europa, come di molte altre varie forme e spezie differenti, e assai varii da quelli che in altre parti si veggono.
Delli topi o ratti o sorzi di questa isola Spagnuola.
Cap. VI.
Cercando di queste materie, non ritrovo chi mi sappia dire se, nel tempo che l'admirante don Cristoforo Colombo venne a discoprire queste isole, erano o no in queste parti topi o sorici. Ma io in tutte l'isole e terra ferma dove sono stato ho veduto che ve ne sono molti. E cosí credo anco che qui essere dovevano quando i primi cristiani vi passarono, perchè questi animali non sono razza che abbiano bisogno di sementa per moltiplicare, ancorchè fra loro ne siano e maschi e femine, e che veggiamo moltiplicarli per via del coito; perchè, se ben si morissero quanti nel mondo ne sono, non per questo resterebbe la terra senza topi, perchè sono animali che di putrefazione si generano. E per questo si dee credere che anco in questa isola ne fosse prima che i nostri vi passassero, come nell'altre isole e in terra ferma ne sono in gran copia, cosí per le campagne e per li boschi come per li luoghi abitati. E il medesimo credo e dico delle api, delle vespe, delle mosche e d'altri simili animaletti.
Degli animali terrestri che si portarono di Spagna in questa isola, dove non vi erano.
Cap. VII.
In questa isola non erano cavalli, e vi si portarono di Spagna cavalli e cavalle, e ora ve ne sono tanti che non bisogna cercarli né d'altro luogo portarli. Anzi, in questa isola vi sono fatti armenti di cavalle, e cosí vi sono moltiplicate, che da questa isola hanno portati e cavalle e cavalli in tutte l'altre isole che s'abitano dai cristiani, e dove ve ne è ora la medesima abbondanza. Si sono anco da questa isola portate in terra ferma e nella Nuova Spagna, di modo che della razza di quelli di questo luogo ve ne sono per tutte l'altre parti delle Indie, dove ne sono altre razze fatte; e per la gran copia è loro giunto a valere, un puledro o una cavalla domata in questa isola, quattro o cinque castigliani e meno.
Delle vacche dico il medesimo, poichè, come cosa assai nota è, sono cosí grossi armenti di vacche in questa isola, e vi vale una vacca un castigliano d'oro. E molti le hanno morte, e di molte di lor perduta la carne, per vendere i cuoi e mandarli in Spagna, come ogni dí ve ne vanno le navi cariche; e sono uomini, in questa città e per l'isola, che hanno da due a diecimila capi di vacche e piú anco assai, perchè il vescovo di Venezuola, che è oggi decan di questa chiesa di San Domenico, possiede 16 mila teste di questi animali vaccini e piú; e da questo numero in basso gli altri posseggono di questi stessi armenti le già dette quantità.
Delli porci ne sono stati medesimamente gran greggi in questa isola. Ma poichè si diedero le genti al guadagno del zuccaro, perchè i porci erano dannosi a' campi, molti lasciarono via cosí fatti animali, benchè pur tuttavia ve ne siano molti; e si veggono le campagne piene di salvaggine, cosí di vacche e cinghiari come di molti cani che si sono fatti selvaggi, e sono peggiori che lupi. Molte gatte medesimamente, di quelle che si portarono di Castiglia per tenerle in casa, se ne sono ite al bosco e si sono fatte salvatiche. Sono qui medesimamente molti asini e mule e muli, che vi sono moltiplicate come in Castiglia.
Ma perchè di tutte queste cose s'è detto particolarmente, e a me non piace di ridire piú volte una cosa, basti quello che di questi animali s'è detto, poichè assai noti sono e ordinarii nella nostra Spagna. E, come altrove s'è tocco, ritorno a ricordare al lettore che un peso, che è poco meno di tre libbre di carne, vale in questa città due quattrini. Vi sono stati anco in questa città e isola portati conigli bianchi e neri, e ve ne sono per le case alcuni; ma non è troppo utile guadagno, per quello che s'è veduto del loro aumento nelle isole di Canaria, e sono naturalmente nelle possessioni dannosi. E, se vogliamo ricordarci di quello che si legge presso gli autori antichi, vediamo che in Spagna si disabitò una città per la copia grande delli conigli, che il tutto cavavano e guastavano: cosí lo scrive Plinio nel 29 capitolo del libro ottavo. Ma passiamo a dire degli altri animali che erano in questa isola, come serpenti e biscie e simili.
Delli serpi e biscie di questa isola Spagnuola.
Cap. VIII.
Sono innumerabili le biscie di questa isola Spagnuola, e di tutte l'altre isole e terra ferma di queste Indie, e vi sarebbe tanto che dire di loro che, a volerne particolarmente scrivere, sarebbe un non venire mai a capo: perchè ve ne sono verdi, ve ne sono berrettine, ve ne sono nere, e una piú verde che un'altra, e alcune d'un color quasi giallo. E come sono differenti ne' colori, cosí sono anco nella grandezza, benchè siano tutte picciole, e altre dipinte, altre lineate di vari lavori e colori, e di ognuna di queste spezie ve ne ha gran copia. Ve ne sono altre che, quando si fermano a mirare l'uomo, cavano fuori del gozzo all'aere una cresta tonda e rossa; e mentre ferme stanno la tengono a quel modo fuori, nel partirsi poi la ritornano dentro nel gozzo. Ve ne sono altre alquanto maggiori delle ordinarie e communi biscie di Spagna, e due e tre volte maggiori anco, ma non cosí grandi però quanto sono gli scorzoni di Castiglia.
Ma lasciamo le biscie, perchè sarebbe cosa da non venirne mai a capo, e sono qui molto comuni, e veniamo a parlare dei serpi; de' quali dico che in questa isola Spagnuola ve ne sono molti e di molte sorte e dipinture e grossi, ma è comune opinione degli abitatori di questa isola, e cristiani e Indiani, che non siano velenosi. Venendo io da terra ferma a questa isola, nel 1515, passai il fiume di Neiva in una zattera di canne, presso dove questo fiume entra in mare molto furibondo e largo, e conducevano questa zattera notando intorno 10 o 12 Indiani. Ho voluto dire come questo passò acciochè gli istorici, che in Spagna scrivono le cose di queste Indie, sappiano che cosí sono lontani dall'intenderle, anzi dall'intendere se stessi, quanto ne hanno lontani gli occhi; perchè, se io non fossi passato per questo fiume allora, non avrei potuto vedere un serpe, che io ritrovai da questa altra parte del fiume presso la riva del mare, a piè del monte che chiamano de' Pedernali. Il qual serpe io misurai, ed era piú di venti piè lungo, e nella parte piú grossa era molto maggiore d'un pugno chiuso; e lo dovevano aver morto quel dí stesso o poche ore inanzi, perchè non puzzava, e se ne vedea fresco il sangue che gli era uscito da tre o quattro coltellate che teneva. Questi cosí fatti serpi sono in queste parti meno velenosi che gli altri, ma sono di maggior spavento a vederli. Veniva di compagnia meco in quel viaggio, insieme con altri cristiani, Michel Giovan di Ribas, che è al presente fattore di Sua Maestà in Castiglia dell'Oro, e tutti insieme passammo il fiume con quella pericolosa zattera di canne.
E poichè non sarà forse fuori di proposito, dirò che modo di passaggio è questo, e quanto diverso da quello che in altre parti del mondo con ponti o con barche usano. Dico che erano sei o sette fasci di canna giunte e legate insieme con besciuchi, che in questo servono meglio che non farebbono le corde, e sopra questo piano di canne v'erano d'intorno, come in un cerchio quadrato, posti altri fasci pure di canna, erte e grosse quanto è uno uomo; di modo che nel mezzo di questo quadro, che era di sei o sette piedi per ogni verso, voto e capace, andava io assiso, e d'intorno notando andavano quelli Indiani che ho detto che guidavano la zattera: perchè li pagai, e diedi loro alcune cose di quello che essi estimavano, ma di poco valore, come sono ami da pescare e certi coltelli, e al caciche donai una camicia. Era il fiume quasi un miglio largo, dove il passai di quella maniera che io diceva; e perchè alcuni Indiani e Indiane che il fattore e io menavamo da terra ferma andavano notando, e per l'ampiezza del fiume si stancavano, s'afferravano alle canne della zattera, e quanto quelli del caciche aiutavano, tanto questi altri impedivano e disturbavano il viaggio; onde, dove io assiso andava, non poteva fuggire che l'acqua non mi desse quasi fino alla cintura, perchè poteva fra le canne facilmente entrare. E perchè tutte le canne di questa isola sono massiccie, e gli Indiani stanchi vi s'aggrappavano sopra, sempre s'andava piú la zattera affondando.
Portava io con meco, del secretario Lope Conciglio e di raccomandati d'altre persone particolari e mie, piú di tremila castigliani d'oro in verghe, le quali io alcuna volta pensai che dovessero restare nel fiume. Onde, perchè questo non avenisse, legai molto bene tutto l'oro in una tela, e con una buona cordella vi diedi molte volte, lasciandovi un capo lungo di piú di 12 o 15 braccia, con pensiero che, affondandosi del tutto la zattera, avrei io con meco quello oro tolto, o datolo a qualche uno di quelli Indiani migliori natatori, o l'avrei lasciato andare al fondo, restandovi nel capo di sopra della corda un bastoncello che io aveva legato per segnale. Io andava scalzo e in camicia, e m'aveva ben legate le falde e le maniche della camicia per notare, se bisognato fosse.
Ma volse il nostro Signore, per sua clemenzia, che passassimo tutti a salvamento, benchè con molto pericolo e stanchezza: perchè la corrente del fiume era molta e ci dibatteva forte, onde ci portò e pose quasi alla bocca del mare. Di modo che arrivammo da questa altra banda del fiume con ciò che io portava bagnato e perso, e delle mie carte e memoriali bagnati mi rincresceva piú che d'altro. Tutto questo avenne perchè, avendo con molto affanno e dispiacere aspettato cinque dí, quattro leghe piú in su, in quella stessa riviera del fiume, vedeva che ogni giorno piú cresceva il corso delle acque, e non m'arrischiava a guazzare a cavallo il fiume; onde ne mandammo co' cavalli i servitori nostri per quella via, perchè ci diedero ad intendere che quel caciche che era piú giú teneva canoe, e ci avrebbe fatto molto appiacere a passare. Ma fu per essere con tanto mio dispiacere, che non m'avanzerà vita per potermi ben pentire dell'errore che io feci.
Ora, venuti da questa altra parte, ritrovammo il gran serpe che io dissi, e poi montammo il colle de' Pedernali, che è molto aspero, e penammo due giorni e mezzo a passarlo; e vi dormimmo due notti senza ritrovare acqua né avere che mangiare altro che granchi, de' quali ve ne erano molti e buoni; ma non sono cibo per gente ischifa né delicata. E cosí nel terzo giorno giungemmo alla terra d'Azua. E a questo modo hanno da imparare di scrivere coloro che vogliono referire e narrare le cose dell'Indie. E nel vero, se qui dicessi i travagli che io ho passati finchè non l'ho apprese o vedute, verrebbe il doppio il volume di questi libri. E non vorrei io miglior premio delle fatiche mie che saperle cosí ben dire come sofferte le ho, per la clemenzia e bontà divina. E m'ha molte volte fatta Iddio cosí chiaro miracolosamente grazia della vita che, se io sapessi cosí bene isplicarlo, so che piú grate e di maggiore admirazione queste istorie sarebbono.
Ma, ritornando a quello che si propose nel titolo d'avere a dire, dico che io qui sarò breve, perchè nelle cose di terra ferma vi sarà molto piú che dire in simile materie, e per quel tempo le riserbo. Sono medesimamente in questa isola, e nelle altre convicine, certi serpi verdi e sottili ma velenosi molto; e di questi fanno gl'Indiani caribi il lor veleno. Questi tali serpi si attaccano da se stessi per la coda nei rami degli alberi, e si mantengono a quel modo sospesi, e mordono dovunque mordere e ferire possono chiunque indi passa che di lor non s'accorga; e sono questi cattivi e pieni di veleno. Ma perchè ho detto che ne fanno gl'Indiani caribi il veleno con il quale le lor freccie tirano, dico che non con questi serpi solamente lo fanno, ma con altri venenosi materiali, come al suo luogo piú di lungo si narrerà. Vi sono medesimamente certi altri serpi berrettini, e altri non molto verdi, e maggiori che non sono questi de' quali ho detto che è il veleno; ma (come dicono) non sono cosí cattivi né velenosi, benchè io non credo che si ritrovi alcun serpe senza veleno in tempo alcuno dell'anno. Vi sono anco altri serpi maggiori di quello che io ho prima detto che ritrovai morto a' piè del monte de' Pedernali, che cosí ho io inteso dire da molti, ma che non sono però maligni né fanno male. Gl'Indiani se li mangiavano tutti, e questi e quelli, senza differenzia alcuna, e lo tenevano per buon cibo, salvo che quelli verdi sottili, che essi con diligenzia cercano per ammazzarli, e farne quella lor diabolica e pestifera mistura con la quale le loro freccie ungono. Parlo degli Indiani caribi, che questo esercizio fanno.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta degli animali aquatici.
Libro decimoterzo
Proemio
Le opere del grande Iddio sono tutte maravigliose, e differenti nelle spezie loro in tutte le parti del mondo, cosí nella varietà della forma come nella grandezza e proporzione loro, e negli effetti e particolari nature medesimamente. Onde, per questa tanta varietà, non ha bastato la diligenzia umana, né le vite degli uomini che in questa contemplazione occupati si sono, a poter del tutto e compiutamente scrivere né sapere tutti gli animali della terra, né tutti i pesci e animali del mare; il perchè sempre avranno qualche cosa che dirvi di novo, e quelli che ora ci vivono e quelli che appresso di noi verranno.
Per tanto io in questo decimoterzo libro tratterò degli animali acquatici che in questi mari di queste Indie sono, e spezialmente di questa isola Spagnuola della quale qui si ragiona: perchè, cosí in questa materia come nell'altre si fa, seguirò lo stile di Plinio, e se bene non ne parlerò cosí bene come egli, ragionerò nondimeno il vero, e come testimonio di vista nella maggior parte delle cose delle quali qui si farà menzione. E non ho solamente veduti quei pesci che qui dirò, ma n'ho mangiato anco della maggior parte, onde anco col gusto farò qui di queste cose fede.
Delli pesci del mare e dei fiumi, e del modo come gl'Indiani pescano.
Cap. I.
Il cibo piú ordinario degl'Indiani, e al quale essi piú affezionati sono, sono i pesci dei fiumi e del mare; e sono gl'Indiani assai destri ed esperti nelle pescherie e nell'arte del prenderli, perchè, come alcuni pescano con canna in Spagna, cosí qui fanno anco costoro, con bastoni sottili e pieghevoli e con corde anco e bollettini, e con treccie di cottone assai ben fatte. Pescano anco con certi quasi steccati e viette che essi nelle costiere fanno, dove il mare nelle sue riviere cresce e manca, e nelle altre parti a questo atte; e da sopra le lor canoe medesimamente, che sono della maniera che s'è detto, e che appresso piú particolarmente si dirà. Usano anco certa erba chiamata baigua in luogo del verbasco: la minuzzano nell'acqua e, o che sia che il pesce ne mangia, o pure che per sua propria virtú penetri nell'acqua, s'inebriano i pesci, e fra poco spazio di tempo si veggono sopra l'acqua col venire in su, adormentati o attoniti, di sorte che li prendono con mano e in grandissima quantità. Questa erba baigua è come il besciuco, e giova, come s'è detto, pesta o minuzzata ad addormentare o inebriare il pesce; e di tutte queste sorte pescano e fanno gran caccie e nel mare e ne' fiumi.
E, come io credo, questi pesci di qua sono piú sani che non sono quelli di Spagna, perchè sono meno flegmatici, ma non di cosí buon sapore; benchè qui anco ne siano assai buoni, come sono le lize grandi e picciole, che è un pesce a modo di cefalo, e come sono le vope e le vermigliuole e l'occhiate e le gabine e le palamete e i savali e le spinole e le parguete, che sono come aurate grandi; e i corvi e le cornute e i polpi e i pescicani e le sarde e l'aguglie o ago e le sovaci e le lenguate o palaie e i salmonadi (non dico salmoni) e ostreche grandi e peludrini e conchiglie, con molte spezie di queste cose maritime ostreacee; e lagoste e cancri o granchi e gammarelli e raie in gran copia, e in alcuni luoghi assai grandi, e anguille e morene; e molti e assai gran tiburoni, che sono fiere di mare piú tosto che pesci, per la loro grandezza, come si dirà di loro particolarmente appresso, e lupi o vitelli marini e testudini assai grandi, e altre anco picciole, che gl'Indiani le chiamano hicotee; e molte aurate (e questo è un dei buoni pesci del mare), e pesce viola e pesci volatori in gran copia, non già della forma di quelli che sono nel mare di Spagna, che li chiamano rondinini, ma piú piccioli assai; e di tutte le spezie già dette ne è qui un gran numero, e vi sono anco molti marasci e tonni e balene.
Ma lasciamo questa generalità, poichè tutti questi pesci sono anco nel mare di Spagna, e nei suoi fiumi anco, quelli che sono di fiumi; e veniamo alla particolare e speziale relazione d'alcuni dei già detti e che sono in queste parti; perchè questo libro non ha da servire solamente a questa prima parte di questa naturale istoria dell'Indie, ma alla seconda parte anco, dove fuggirò di replicarvi molte cose che qui si dicono. E perchè ho detto in questa generalità del pescare degli Indiani, che pescano con bastoni imitando il pescare con canna che si fa in Spagna, e con corde anco e bollettini, dico che queste due maniere di pescare essi l'appresero da' nostri cristiani, perchè essi, prima che i nostri qui venissero, non avevano ami. Lasciando adunque queste due maniere di pescare da parte, dico che gl'Indiani si servivano degli altri modi che si sono detti, e d'altri medesimamente, come era con certa maniera di nasse picciole nei fiumi, e facevano per queste vie del continovo gran caccie. Ma veniamo a' pesci particolari.
Delle balene, che sono nei mari dell'isole e di terra ferma di queste Indie.
Cap. II.
Secondo che Plinio nel suo nono libro scrive, trattando degli animali acquatici, le balene sono assai grandi animali; ma io non posso cosí liberalmente parlare della misura o grandezza che esso loro dà, perchè non le ho misurate né vedute in terra. Le ho ben viste nel mare molte volte, e per quello che per l'estimativa degli uomini di mare, e a quello che esse mostrano quando spruzzano in alto l'acqua, che qualche poco di lontano pare che sia una vela di nave, si può giudicare che non siano minori di quelle che si veggono per le costiere di Spagna, e ve ne ammazzano alcune. Di queste n'ho molte volte ritrovate e viste in questi mari di tramontana, fra queste isole e terra ferma, e nelle costiere di terra ferma medesimamente, dalla parte di mezzogiorno, come lo scriverò piú particolarmente nella seconda parte di questa istoria.
Tutti coloro che io ho in questi mari di qua uditi parlare di questa materia, dicono che le balene che qui sono sono i maggiori animali d'acqua che in questi mari si trovino; ma non ho ancora inteso che in queste Indie ne sia stata ancora morta alcuna, né che ne sia stato raccolto ambracane, che, secondo l'opinione d'alcuni, procede dal coito loro.
Ben penso io che quello animale che Plinio nel nono libro chiama phiseter, e che dice che s'alza sopra l'acqua in forma di colonna, e che getta poi per la bocca in aere un diluvio d'acqua che paiono vele di navi, non sia altro che balena, poichè suole la balena fare il somigliante. A questo proposito dirò quello che io, insieme con molti altri, viddi nella bocca del golfo d'Orotigna, che è 200 leghe lungi dalla città di Panama verso ponente, nella costiera di terra ferma, dalla parte di mezzogiorno. Uscendo nel 1529 da quel golfetto nel mare grande, per andare nella città di Panama, vedemmo presso a quella bocca del golfo andare un pesce o animale aquatico grandissimo, e di tempo in tempo levarsi dritto su l'acqua; e quello che mostrava fuori del mare, che era solamente la testa e due braccia, era assai piú alto che la caravella nostra con tutti gli alberi. E inalzato a quel modo si lasciava poi cadere giú e dibatteva fortemente l'acqua, e indi a poco spazio ritornava a fare il medesimo; ma non gettava però acqua alcuna per bocca, benchè nel cader giú facesse, con quel colpo e caduta, saltare molta acqua in aere. E un figliuolo di questo animale, o simile a lui, ma molto minore, faceva il somigliante, isviandosi sempre dal maggior alquanto. E, per quello che i marinai e gli altri che nella caravella erano dicevano, la giudicavano per balena, e per balenotto il picciolo. Le braccia che mostravano erano grandissime, e alcuni dicevano che le balene non hanno braccia. Ma quello che io viddi era della maniera che ho detto, perchè io andava con gli altri dentro la caravella; dove veniva anco il padre Lorenzo Martino, canonico della chiesa di Castiglia dell'Oro, e il pilotto era Giovan Cabezas; e vi veniva anco un gentil uomo chiamato Sancio di Tudela, con molti altri che sono vivi e potranno testificare il medesimo, perchè non vorrei mai di simili cose parlare senza testimonii. Alla estimativa e parer mio, ogni braccio di questo animale poteva essere da venticinque piedi lungo, e cosí grosso come è una botte, e la testa era piú che quattordeci o quindeci piedi alta e piú larga assai, e il resto del corpo piú d'altretanto. Egli s'alzava su in alto, e quello che mostrava d'altezza era piú che non è cinque volte alto un mediocre uomo, che fanno venticinque passa. E non era poca la paura che avevano tutti, quando ella coi suoi salti si veniva al vassello nostro accostando, perchè la caravella nostra era picciola. E per quello che noi suspicare potevamo, pareva che questo animale sentisse piacere e facesse festa del tempo che venire doveva: perchè presto si pose in mare un gran ponente, il qual vento fu molto al proposito nostro, perchè navigando in pochi dí giungemmo alla città di Panama.
Della iuana, serpente della qual spezie ne erano molti in questa isola: e i cristiani non sanno determinare se è carne o pesce, e cosí alcuni per l'uno e per l'altro lo tengono.
Cap. III.
È in questa isola un animale chiamata iuana, il quale qui si tiene per neutrale, cioè in dubbio se è carne o pesce, perchè va per li fiumi e per gli alberi medesimamente; onde una volta mi pare di dovere porlo con gli animali terrestri, e un'altra di scriverlo con gli aquatici, perchè secondo a me pare nell'una spezie e nell'altra potrebbe porsi. Questo è un serpente che, a chi nol conosce, è d'orrenda e spaventevole vista. Ha le mani e i piedi come lacertone, e la testa assai maggiore, ma quasi di quella stessa forma; ha la coda di quattro o cinque palmi lunga, e piú e meno, secondo la proporzione della sua grandezza. Il corpo del maggiore di questi animali è di due palmi e mezzo lungo e un palmo o poco piú d'ampiezza, e pochi o niuno di questi animali questa grandezza passono; ma da questa grandezza in giú se ne ritrovano di varie sorti, fino ad essere come picciole lucertole. Hanno per mezzo della schiena alzato su un certo cristato a maniera di spine o d'una serra, e in sé pare una cosa assai fiera. Ha i denti molto aguzzi, e uno gozzo assai lungo e largo che li prende dalla barba al petto. Ed è questo animale cosí tacito, che né stride né geme, né stando legato dove si sia fa male alcuno o strepito, e vi starà dieci e venti giorni senza mangiare né bere; ma, se pur glie ne danno, mangierà un poco di cazabi o d'erba o d'altra simile cosa. È di quattro piedi, e le due mani dinanzi ha lunghe e compiute, deti lunghi, e le unghie sono lunghe e come d'uccelli, ma fiacche e non da presa. Ed è questo cosí fatto animale assai meglio a mangiare che a vedere. Ha cosí orrendo e terribile l'aspetto, che non è uomo che ardisca d'aspettarlo, se non ha un generoso e grande animo, e non s'astiene niun di mangiarlo, se non chi ha bestiale e mal conoscimento, e che non sappia la sua mansuetudine e lo suo buon gusto.
Questi animali, quando sono piccioli, passano notando su l'acqua per li fiumi e per li ruscelli, e si danno cosí gran fretta di menare le braccia, che non ha l'acqua tempo di impedirli o di farli andare giú al fondo: e questo stile hanno di passare notando a questo modo fin che sono presso a un palmo lunghi e sottili, perchè da questa grandezza in su passano sotto acqua coi piedi per terra, perchè non sanno notare e sono grevi. Generano in terra e presso i fiumi o ruscelli, e sono cosí del continovo nell'acqua che non sanno i cristiani determinare se sono di spezie d'animale terrestre o di pesce.
Egli è adunque questo animale, nel modo che ho detto, assai brutto e spaventevole, ma è un buon cibo e meglio assai che i conigli di Spagna, delli buoni di Sciarama, perchè i conigli che sono presso a questo fiume penso io che siano i migliori che nel mondo si trovino. Quando i cristiani provarono questi animali, cominciarono a stimarli molto, e oggi non li lasciano per danari, quando avere ne possono. Sola una cosa di male hanno, e n'ho sentiti lamentarsene molti, ed è questa, che dicono che chi ha avuto il mal francese, mangiando di questo animale ritorna a sentire le doglie antiche, ancorchè ne sia stato per qualche tempo sano. Io ho molte volte in terra ferma mangiato di questi animali, ed è un buon mangiare. E, come persona che n'ho fatta la esperienzia, voglio avisare coloro che in questi luoghi leggeranno (se vi mancaranno Indiani, come già vi mancano) del modo e dell'arte che hanno a tenere per cuocere e conciare l'ova della iuana; perchè ritroveranno per vero che, volendo fare di queste ova una frittata o pur cuocerle fritte intiere, non si potrà mai cuocere con olio o con butiro, ma con gettarvi un poco d'acqua sí bene invece dell'olio. E questa è cosa provata e certa.
Fa alle volte una iuana quaranta e cinquanta ova e piú, e sono queste ova buone e di buon sapore, e hanno dentro il rosso e il bianco come quello delle galline, salvo che la loro scorza è sottile; e le maggior ova della iuana sono quanto una noce o meno, ma tonde. Pietro Martire nel suo libro dice che queste iuane sono simili al cocodrillo, che è animale del fiume Nilo. Ma egli vi s'ingannò, perchè queste iuane non sono maggiori di quello che ho detto di sopra, e io le ho vedute da che son cosí picciole come è un deto, finchè sono grandi quanto ho detto che essere piú possano. E ho vedute molte delle picciole passare a noto per li fiumi e per li ruscelli, e delle grosse andare sotto acqua, e n'ho anco molte volte mangiato; là dove i cocodrilli sono grossi animali, e di differente forma e maniera e colore da queste iuane, senza molte altre particolarità che anco differire li fanno. Meglio averebbe adunque Pietro Martire detto che fossero cocodrilli, o della loro spezie, i lacertoni grandi di terra ferma, che maggior somiglianza e conformità v'hanno, come si dirà al suo luogo: poichè né l'uno né l'altro hanno lingua e sono amendue grandi animali.
E, ritornando a quello che qui sopra scriveva Plinio, dico che i lagarti, o scorzoni di terra ferma, hanno quelle istesse condizioni, perchè sono di quattro piedi, e sono nocivi e fieri e in acqua e in terra, e alzano la mascella di sopra e hanno i denti come pettine; ma non sono però di tanta grandezza di quanta dice Plinio che sono i cocodrilli, perchè, d'un gran numero che io n'ho veduto, il maggiore non passava 23 piedi (benchè io non dubito che ve ne siano degli altri assai maggiori) e le loro ova sono cosí grosse come sono quelle delle oche; e io di queste ova n'ho mangiato molte volte, ma non hanno il rosso, perchè quanto vi è dentro è bianco. Codro, filosofo italiano, averebbe saputo ben scrivere queste cose, perchè era dotto, e fu alla città del Cairo e vidde i cocodrili del Nilo; il quale morí presso l'isole di Zorobaro, che sono nella costiera del mare del Sur, non lungi da una provincia chiamata Ponuba. Diceva costui che questi lagarti che io dico erano cocodrilli; ma la iuana nel vero è animale molto dal cocodrillo differente, e quasi in niuna cosa li rassomiglia. Io ho qui di sopra il meglio che è stato possibile lineata la effigie della iuana, che, come nel principio si disse, è come animale neutrale.
Del pesce chiamato pesce viola, e delle sue arme.
Cap. IIII.
Il pesce chiamato pesce viola è un grande animale, e la sua mascella superiore è una spada ornata di certi lunghi denti o punte dall'una e dall'altra parte, e cosí lunga quanto è un braccio di uomo, e maggiori e minori secondo la grandezza del corpo del pesce che queste arme ha. Io l'ho veduto in terra ferma nel Darien cosí grande che un paio di buoi avevano che fare in portarlo sopra un carro dall'acqua alla città. Queste spade che io dico sono piene di certe punte d'osso massiccio, e acute e pungenti, e non è pesce che lor venga avanti che con queste spade non gli ammazzino.
Si trovano questi pesci anco nelle costiere di questa e delle altre isole delle Indie; e mi dicono le genti di mare che ne sono anco in Spagna, ma senza queste punte nelle spade. Ma io non so s'ho da crederlo, perchè io n'ho ben vedute in alcune chiese in Spagna attaccate, ma non so donde portate l'abbiano, o se cosí fiere nel mare di Spagna si ritrovino. Ma assai piú n'ho vedute di queste spade, della maniera ch'io ho detto, in questi mari dell'Indie e di terra ferma.
Questi sono buoni pesci a mangiare, ma non come i piccioli dell'istessa spezie, o gli altri anco piccioli d'altre spezie di pesci; perchè per lo piú i gran pesci qui non sono sani, per quello che n'ho inteso, e il piú delle volte si mangiano solo per necessità, eccetto che 'l manati, che, ancorchè sia gran pesce, è buono e sano. Ma del manati si dirà appresso al suo luogo.
De' pesci volatori, che nel gran golfo del mare Oceano si ritrovano,
venendo di Spagna in queste Indie.
Cap. V.
Mi dimanderà alcuno per che cagione io dico che questi pesci volatori si ritrovano venendo in queste parti nel gran golfo del mare Oceano, e non dico piú tosto che nel ritorno da queste Indie in Europa. A questo rispondo e dico che, ancorchè nel ritorno questi stessi pesci si trovino come si fa nel venire in qua, non sono però di gran longa tanti, perchè i vasselli non ritornano con l'istesso viaggio né per lo medesimo cammino che vennero; e dalla banda di tramontana non ne sono tanti quanti per l'altra via verso mezzodí, o dalla parte di terra ferma. Questi pesci si ritrovano i piú piccioli come una picciola ape, e i piú grandi come grosse sardelle. Quando le navi corrono al loro viaggio e vanno alla vela, questi pesci s'alzano su dal mare a schiere grandi e picciole, e da questa parte e da quella, ed è il loro numero infinito; e accade che d'un volo vanno a cadere per uno spazio di 200 passi, e piú e meno, e talora aviene che dentro le navi stesse cadono; e io n'ho tenuti vivi in mano e n'ho mangiati, e sono buoni pesci al sapore, salvo ch'hanno molte spine sottilissime. Presso le mascelle o poco piú in giú nascono loro due ale sottili, e della forma di quelle con le quali natano nei fiumi i pesci e barbi dei fiumi; ma sono cosí lunghe quanto è tutto il pesce stesso, e con queste ale volano. E mentre che queste ali s'asciugano nell'aere, quando a quel modo dall'acqua s'alzano, dura il volo; perchè, tosto che quelle asciutte sono (che al piú è quello spazio che s'è detto), cadono i pesci nell'acqua, e si ritornano tosto a levare su di nuovo e a fare l'istesso, o pure si restano sotto acqua e non piú volano.
Questo è un buon pesce a mangiare, ancorchè (come s'è detto) molte spine abbia; ma sono cosí sottili che, se ben se ne inghiotte alcuna, non fa male né impedisce molto. Ed è d'assai buon sapore e ha la testa rotonda alquanto, e il colore della schiena è come azurro, o del colore ceruleo del mare quando sta il cielo chiaro e sereno. E questo è quando questi pesci sono presso terra ferma, perchè quelli che piú ingolfati nel mare si trovano non sono cosí azurri. Mi dicono i marinai che ne' mari di Spagna questi stessi pesci si trovano, e altri maggiori che volano, e li chiamano golondrini o rondonini; ma io non ve n'ho mai veduti quante volte sono ito e venuto per questo cammino, né anco quando andai in Fiandra e ritornai in Castiglia per mare. Io qui scrivo quello ch'ho di questi pesci volatori veduto ed esperimentato nel viaggio di queste Indie.
Della grandezza dei lupi marini e dei lor differenti colori, con altre particolarità.
Cap. VI.
Si ritrovano molti lupi marini e grandi assai nei mari di queste Indie, cosí fra queste isole come nella costiera di terra ferma. Questi sono i piú leggieri e presti animali che nel mare siano, e sono inimicissimi e persequitati da' tiburioni; ma per avere a combattere con un lupo si stringono molti tiburioni insieme, come appresso si dirà. Escono questi lupi a dormire in terra, in molte isolette o nelle costiere di terra ferma e dell'altre isole; e hanno cosí profondo e grave 'l sonno, e cosí forte roncheggiano, che da lontano s'odono, e molte volte vengono cosí addormentati di notte ammazzati.
Ognun di questi animali (parlo delle femine) partorisce due luparelli, e gli alleva con due tette ch'ha fra le braccia, o due grandi aloni ch'hanno questi pesci in luogo di braccia. Il pelo ch'hanno di sopra è assai bello, e come un velluto fino e nero benchè ve ne siano anco di color vermiglio e di berrettino e d'altri colori. Ho detto ch'è assai bello il pelo loro, perchè ha gran vantaggio alle pelli di tutti i lupi marini di Spagna. Fra il cuoio e la carne, o parte magra di questo animale, vi ha una grossezza per tutto intorno che è quanto una mano o pure cinque deta alta e uguale; della quale si cava buono olio per ardere e per cuocere ova e altre cose, senza sapere né di rancido né d'altro cattivo sapore. Il resto di questo pesce è buono per mangiare, ma stomaca presto se si continova alcuni giorni.
Sono questi assai fieri animali e, come si è detto, grandi nimici de' tiburoni. Ma ad un per uno non si appressa loro il tiburone, perchè i lupi sono grandi, e ve ne sono alcuni di 17 piedi e piú lunghi, e di otto piedi a torno nella parte dove sono piú ampi e grossi, e sono di acutissimi denti armati, là dove se bene i tiburoni, ancor che siano grandi, non sono però cosí grandi, né hanno ardire di combattere con li lupi se non molti insieme uniti contra uno. E per ammazzarlo a loro salvo usano questa astuzia. Si stringono insieme molti tiburoni, e dove veggono un lupo solo gli vanno sopra, perchè il lupo gli aspetta e non ne ha paura né gli istima; lo circondano di ogni intorno per prenderlo in mezzo, e tosto che lo hanno a questo modo cinto, senza perdere tempo si move dalla schiera un tiburone dei piú arditi e feroci, e va di traverso o da dietro a dare un gran morso al nemico; e incontinente poi tutti gli altri si muovono e l'afferrano, lo mordono, lo battono, afferrandone a bocconi i pezzi coi denti e lasciandoli poi andar via. Ma in questo il lupo fa fra loro molto danno e dove giunge flagella; ma perchè gli inimici sono molti, fra poco spazio ne fanno pezzi, senza lasciarne parte da potere mangiarsi. E mentre che questa battaglia dura, vanno facendo uno strano e incredibile strepito, e l'acqua s'inalza in su cosí alta come un albero di caravella, per li colpi che con le code vi danno, che è una cosa di gran piacere a vederla. E dove questa battaglia si fa vi resta l'acqua di mare fatta di sangue, per quello che esce dal lupo e dalli tiburoni anco, che esso ferí essendo combattuto.
Questo non si può vedere cosí facilmente, né cosí in particolare come io l'ho detto, salvo che per una aventura, o per dir meglio disaventura, come accadette al licenziato Alonso Zuazo, che è al presente auditore di questa regia audienzia che in questa città di San Domenico risiede, allora che esso e altri cristiani stettero persi nell'isole degli Alacrani; e molte volte questo che si è qui detto viddero, come piú a lungo si narreranno i travagli di questo licenziado e degli altri che seco si ritrovarono, nell'ultimo libro delli naufragii.
Ma perchè è cosa da notare quella che ora dirò di questo lupo marino, non voglio restare di referirla, ed è che delle cinte e coreggie che si fanno del cuoio di questi animali per cingersene, e delle borse e delle altre cose anco che se ne fanno, sempre che il mare sta basso il lor pelo anco s'appiana e abbassa, e quando il mare sta alto s'inalza e fa erto questo pelo. Questa è cosa molto esperimentata, e qual si voglia cintura o parte di questi cuoi ogni dí si vede, e tutte le mutazioni che fa il mare nel pelo di questi animali si conoscono. Per questa cosa, e per quel che di sopra ho detto dei figli che fanno, e che essi con le loro tette gli allevano, credo che questi, che noi chiamiamo lupi marini, siano quelli stessi che Plinio nel nono libro della sua naturale istoria chiama vitelli marini.
Di piú di questo, dice anco il volgo che le cinture di questi cuoi dei lupi marini sono assai buone per lo dolore delli lombi o della schiena. E nel vero queste pelli sono assai belle alla vista, massimamente quelle che sono nere e di lupo vecchio, perchè sono piú caricate e piú dense di peli. E questo basti quanto ai lupi marini di queste parti.
Delli tiburoni e della loro grandezza, e come si prendono,
con altre particolarità di questo animale aquatico.
Cap. VII.
Benchè ne' mari e costiere di Spagna siano de' tiburoni, e non si debbia d'animale cosí noto parlare, non tacerò nondimeno qui quello che io di loro ho veduto in questo gran golfo del mare Oceano, e nelle costiere delle isole e terra ferma di queste Indie. Accade molte volte, venendo le navi alla vela o navigando al lor viaggio, ingolfate o per le costiere di queste Indie, che i marinai ammazzano molti tonni e maraxos e aurate e di questi tiburoni e altri pesci con arpioni e foscine e ami grossi con la lena; e cosí si servono di ciascuno di questi istromenti, come il richiede la forma del pesce. Ma lasciamo gli altri, poichè qui abbiamo preso a dire solamente dei tiburoni, e di questi diciamo qualche cosa, perchè se bene nei mari di Spagna ve ne sono, come ho detto, sono qui nondimeno piú comuni e piú particolarmente vi si veggono, e vi s'ammazzano piú del continovo, per cagion di questa navigazione. E se bene questi si lanciano, e si tira loro con la foscina quando sono piccioli, con li grandi però bisogna tenere altra via per ucciderli, perchè sono gran pesci e molto leggieri nell'acqua, e forte divoratori e golosi.
Quando s'accostano alle navi vanno assai presso alla superficie della acqua, di modo che chiaramente si veggono. Allora lasciano andare i marinai da poppa uno amo grosso, con catena come è il maggior deto della mano, e lungo un palmo e mezzo o piú, con la sua incurvatura come la sogliono gli ami avere, e con l'orecchielle proporzionate alla sua grandezza. E in capo dell'astile dell'amo sono tre o quattro grossi catenelli di ferro o piú, e all'ultimo di loro sta legata una corda grossa di canapa quanto è due volte e tre l'amo, nel quale pongono per esca un gran pezzo di pesce o di prosciuto o di qual si voglia altra carne, o un pezzo di un altro tiburone cotto, se l'hanno prima morto; perchè in un dí stesso ho io veduto prenderne dieci, e non ammazzarne tanti quanti averebbono potuto.
Ritornando al modo come li pescano e prendono, dico che va la nave con tutte le sue vele correndo, e questi tiburoni vanno molto piú, per buon tempo che la nave abbia, e vanno quasi sopra acqua, seguendo e mangiando l'immondizie che dalla nave si buttano. Ed è cosí disciolto e destro questo pesce, che dà d'intorno alla nave tutti li giri che egli vuole, e passa innanzi e torna a dietro cosí facilmente e con tanta agevolezza, che con tanta maggior velocità e corso corre che non la nave, con quanta correrebbe un disciolto e destro uomo piú che un fanciullo di quattro anni. E accade alle volte di seguire la nave senza lasciarla mai dugento leghe e piú, e cosí potrebbe anco seguirla tutto quel camino che volesse. Ora, strascinandosi l'amo da poppa, come s'è detto, il tiburone, che vede l'esca, la inghiotte con tutto l'amo; e volendosi con la caccia isviare e partire, col tirare della nave gli s'attraversa nella gola l'amo, e passandoli una mascella lo fa restare prigione; e ne sono alcuni di loro cosí grandi che vi bisognano 12 e 15 uomini per porlo in nave. Quando egli si vede preso, dà con la coda cosí fatti colpi alla nave che pare che voglia spezzarla e porne le tavole dentro. Ma salito e posto che l'hanno sopra coverta, prestamente un marinaio li dà con la testa d'una accetta sul capo tali colpi, che lo fa presto morire.
Ve ne sono alcuni di 12 piedi e piú lunghi, e sono grossi per mezzo del corpo sei e sette palmi in tondo e piú; hanno assai gran bocca a proporzion del corpo, e la maggior parte di loro hanno due ordini di denti continovati intorno l'un presso l'altro: ma ogni ordine e giro di questi denti è da per sé distinto, e gli hanno spessi e fieri, e fatti a punto un medesimo dente, come a serra o a merli.
Doppo che il tiburone è morto ne fanno pezzi sottili, e lo pongono ad asciugare all'aere, per le corde delle sarti della nave, per due o tre giorni o piú; e poi se li mangiano bolliti o arrosti e con salsa fatta con agli. Ne mangiano anco fresco, e io ne ho dell'una maniera e dell'altra mangiato; ma li piccioli, che li chiamano hachete, sono migliori. Ed è un buon pesce per le genti di mare, e una buona monizione per molti giorni, per essere cosí grandi; ma non è cosí buono per li passaggieri e per le persone non use al mare. Questo è pesce di cuoio come sono li pesci cazones, i cuoi dei quali e del tiburone paiono a punto come quando sono vivi. Il medesimo diciamo dei lupi marini e del manati, del quale si dirà appresso. Ma Plinio non pose niun di questi nel numero dei pesci che parturiscono, se non solo il lupo marino, che esso vitello marino chiamò. Dice bene anco questo, che gli animali acquatici che sono vestiti di pelo non parturiscono ova ma animali, come sono le pistre, la balena e 'l vitello marino, nel cui pelo dice che si conosce il crescere e 'l mancare del mare, come di sopra nel precedente capitolo s'è detto. Questi tiburoni, come né anco i pesci cani e i manati, non hanno peli ma sí bene il cuoio, che iscorticati paiono vivi, come si è detto.
Ritornando a' tiburoni, dico che questi pesci escono molte volte dal mare e montano su per li fiumi, dove non sono meno pericolosi che si siano in terra ferma que' gran scorzoni, perchè questi tiburoni anche essi mangiano gli uomini e le vacche e le cavalle, e sono molto dannosi nei vadi dei fiumi, e dove sono avvezzi o v'hanno avuto il pasto. Ho veduto io molti di questi tiburoni avere il membro virile o genitale doppio, cioè averne duoi, ognun dei quali cosí lungo quanto è dal cubito d'un grande uomo fino alla punta del maggior deto della mano, e alcuni o maggiori o minori, secondo la grandezza del pesce. Ma quello che ha queste cosí grosse arme in dosso è di setto o otto piè lungo, e da questa grandezza in su. Ma io non so se nel coito si servono d'amendue queste verghe, o pur se separatamente di ciascuna, o se in diversi tempi a vicenda, perchè non ho né veduta né udita mai questa particolarità. Ho ben veduti ammazzare molti di loro, e tutti i maschi hanno questi istromenti da generare doppi, nel modo che si è detto, e le femine hanno una sola natura. Di che si cava che ella è piú potente da ricevere che non è il maschio da operare, il che comunemente si vede al sesso femineo concesso. Accade che, ammazzando alcune di queste femine poco prima al tempo che parturire dovevano, ve ne ritrovano nel ventre molti tali pesci piccioli; e io ne ho vedute alcune nelle quali se ne sono alcuni ritrovati dentro, ma non già in tanta quantità quanta ho molte volte intesa dire dal licenziato Alonso Zuazo, auditore di questa regia audienzia; perchè mi dice che egli vidde cavare dal ventre d'un di questi pesci 35 tiburoncelli, ritrovandosi egli con altri cristiani perso nelle isole degli Alacrani.
Degli animali acquatici chiamati marasci.
Cap. VIII.
Il marascio è un pesce maggiore che il tiburone e piú fiero, ma non cosí disciolto né destro; e se gli rassomiglia, salvo che questo è maggiore, come ho detto. E qualche volta lo prendono medesimamente e ammazzano con ami grossi, come s'è nel precedente capitolo detto; ma non sono questi pesci buoni a mangiare, ancorchè alcuni marinai non restino di porvi bocca, massimamente quando lor manca che mangiare. Io ho veduti di questi pesci con nove ordini di denti in bocca, l'un ordine doppo l'altro, e sempre diminuendo la grandezza dei denti; e certo che è cosa molto strana vedere questa nuova forma di dentatura. Sí che, ancorchè prendino di questi pesci e gli ammazzino, li buttano poi nondimeno il piú delle volte in mare e non li mangiano, perchè (come ho detto) senza necessità non vi pongono bocca. Nelli mari di Spagna sono anco di questi pesci e della medesima maniera, secondo che da persone marinaresche intendo.
Delle tortughe o testudini, e delle hicotee di questa isola Spagnuola.
Cap. IX.
Le testudini del mare sono assai grandi, e io le ho molte volte vedute nel grande Oceano, addormentate sopra la superficie dell'acqua; e sono lor passate correndo a tutta vela da presso le navi, e non l'hanno sentite né si sono destate, e cosí ne sono state dormendo prese alle volte alcune. Ne ho veduto anco per la cima dell'acqua a due a due, cosí inebriate nel coito che vi si sono i marinai gettati a noto e l'hanno rivolte sossopra, e poi l'hanno poste su la caravella. Nella costiera di terra ferma, e spezialmente nella terra d'Acla e in altre parti, le ho vedute di sette o di otto palmi lunghe nella conca o scorzia di sopra, e di quattro e cinque palmi e piú larga, secondo la proporzion della lunghezza; e ne ho veduta alcuna cosí grande, che cinque e sei uomini hanno che fare in portarne una sola in spalla.
Queste sono della medesima forma delle testudini terrestri di Spagna, salvo che sono cosí grandi come s'è detto. Escono dal mare, e vanno a riporre le loro ova in terra nell'arene delle piaggie, dove fanno nella arena un fosso e delle loro ova l'empiono, ponendovene e 300 e 500 e piú e meno; e poi le cuoprono con la medesima arena, e per virtú del calore del sole, e per la providenzia della maestra natura, vi ischiudono poi, e ne nascono tante testudini quante ova sono. Quando ammazzano queste testudini grosse ritrovano alle volte le femine piene di queste ova, le quali sono bonissime: son tonde, e tutte col rosso solo, senza il bianco e senza scorcia, e grosse come noci le maggiori, perchè l'altre sono da questa grandezza in basso, e ve ne sono cosí minute come si sogliono in una gallina ritrovare. Quando i cristiani o gl'Indiani ritrovano per l'arena la traccia di queste testudini, la seguono, e ritrovandone alcuna la rivolgono sottosopra con un palo, e la lasciano a quel modo stare di spalle in terra, perchè per lo gran peso loro non si possono piú muovere, e vanno a cercare delle altre; e cosí accade che ne prendono molte, quando escono in terra a riporre le loro ova nella arena.
Coloro che non le hanno vedute o che non hanno letto, penseranno che io soverchio in queste e in altre cose m'allarghi; e nel vero io mi tengo piú tosto al meno, perchè sono amico della verità e bramo di non perdere il credito, ma di conservarlomi il piú che potrò. E per questo effetto qualche volta arreco per testimonii gli autori antichi, perchè mi si creda come ad autore moderno e testimonio di vista, mentre che io ragiono queste cose con coloro che si trovano da queste nostre Indie lontani; perchè qui quanti non sono ciechi le veggono. Sí che, chi di quello che ho detto di questi animali dubitasse, informisi da Plinio, il quale dice che nel mare dell'India sono le testudini cosí grandi che la coverta o osso superiore di una di loro basta a coprire una casa dove si possa abitare. Dice anco che fra l'isole del mare Rosso navigano con queste tali coverte o conche in luogo di barche. Chi avrà inteso e letto quello che costui e altri auttori scrivono, vedrà che io non ne dico tanto, e che posso testificarlo meglio che Plinio, poichè esso non dice averlo veduto e io dico averne molte volte mangiato; anzi, questa è qui cosa cosí ordinaria e nota, che non ve ne è altra piú isperimentata né cosí del continovo vista. Sono un buon cibo e sano, e non cosí fastidioso al gusto come gli altri pesci, ancorchè si continovi.
Le hicotee, che sono testudini minori, sono la maggior di loro lunga due palmi, e cosí da questa grandezza in giú, di varie sorti. Queste si ritrovano nei laghi e in molte parti di questa isola Spagnuola, e per le piazze di questa città di San Domenico ogni dí se ne vendono e sono un sano cibo. Fra questa spezie di testudini e quella detta di sopra non vi è altra differenzia alcuna fuori che nella grandezza e nel nome, perchè gl'Indiani chiamano hicotee queste picciole.
Del manati e della sua grandezza e forma, e di che modo talvolta
gl'Indiani prendevano questo gran pesce con il pesce roverscio.
Cap. X.
Il manati è un pesce de' piú notabili e inauditi che io abbia mai né uditi né letti. Di questo pesce non parlò Plinio né Alberto Magno, né in Spagna vi è né fu uomo mai, né di terra né di mare, che dicesse mai averli né visti né uditi, fuori che in queste isole e terra ferma delle Indie.
Questo è un gran pesce di mare, ancorchè del continovo anco ne' fiumi grandi di questa isola e d'altre parti gli ammazzano. Sono assai maggiori che i tiburoni e che i marasci, dei quali se ne è nei capitoli precedenti detto, cosí nella lunghezza come nella ampiezza. Quelli che sono grandi sono bruttissimi, e si somiglia molto il manati ad uno otre, di quelli dove portano il mosto in Medina del Campo e per quella contrada. La testa di questo pesce è come d'un bue e maggiore: ha gli occhi piccioli rispetto alla sua grandezza. Ha due come aloni co' quali nuota in luogo di braccia: sono grossi e posti in alto presso alla testa. Questo è pesce di cuoio e non di squama, mansuetissimo, e monta su per gli fiumi e si accosta alle ripe, e pasce in terra senza uscire dal fiume, se può dall'acqua giungere all'erba.
In terra ferma i balestrieri ammazzano di questi pesci e di molti altri ancora con la balestra, da sopra una barca o canoa, perchè questi animali vanno sopra acqua. Li tirano adunque con una saetta fatta ad amo, e nel capo dell'astile della saetta tengono legata una cordella sottile e forte; onde, mentre che il pesce ferito fugge, il balestriero li molla la corda, nella estremità della quale tiene legato un pezzo di legno o di sughero per segnale, acciochè non vada la corda giú sotto l'acqua. Il pesce, quando egli è uscito il sangue, e stanco e vicino alla morte, s'accosta alla piaggia. Allora il balestriero va raccogliendo la sua corda, e quando ne ha da raccogliere anco 10 o 12 braccia, tira la cordella verso terra; onde il pesce s'accosta tanto che tocca il terreno, e l'acqua stessa l'aiuta arrivare maggiormente. Il balestriero e compagni aiutano a cavarlo dell'acqua per condurlo in salvo; e vi bisogna una caretta con un paio di buoi per portarlo, cosí sono questi pesci grossi. Alcuna volta, doppo che il manati ferito va, come si è detto, verso il terreno, lo feriscono da sopra la barca con partigianotti grossi per farlo morire prima, perchè, morto che è, tosto va sopra l'acqua.
Io mi credo che questo sia uno dei buoni pesci del mondo, e che piú pare carne che altro; onde chi non lo avesse visto intiero o nol sapesse, veggendone un pezzo tagliato, lo giudicarebbe carne di vacca, e vi s'ingannarebbono tutti gli uomini del mondo, perchè quando è fresco è anco il suo sapore piú di carne che di pesce. La carne secca e fatta a pezzi di questo pesce è molto singolare, e si mantiene molto senza corrompersi né guastarsi. Io l'ho portato da questa città di San Domenico fino alla città d'Avila, in Spagna, nel 1531, che vi era la imperatrice nostra signora. E in Castiglia questa carne tale pare che sia, quanto alla vista, della buona e perfetta che si mangi in Inghilterra, e quando è cotta pare che l'uomo mangi un ottimo tonno, anzi ha miglior sapore che non ha il tonno: in effetto è un singolare e prezioso pesce quanto abbia il mondo. In questo fiume Ozama, che passa per questa città, sono in certe parti, presso la riva, erbe coverte dall'acqua, dove va il manati a pascerle, e i pescatori che lo veggono da sopra le barche o canoe li lanciano. Gli ammazzano anco con reti forti, fatte tali quali bisognano per prenderli.
Questi pesci hanno certe pietre o ossa in testa fra le cervella, le quali pietre sono molto utili per lo male dei fianchi o della renella, come qui la esperimentano e l'affermano persone che di tale infermità patiscono. Dicono che macinano a questo effetto questa pietra, doppo d'averla bene arsa prima, e la mattina a digiuno poi si prende il paziente tanta di questa polvere macinata e passata per setaccio quanta n'andrebbe sopra un giulio, e se la prende e beve con buon vino bianco in un sorzo. Dicono che, continovandolo alquante mattine, il dolor va via, e la pietra si rompe e fatta come arena se ne esce fuori con l'orina; il che ho io inteso da persone di credito che l'hanno provato, e ho veduti molti cercare con diligenzia di questa pietra per questo effetto che ho detto. Suole ogni manati avere due di queste pietre nel cervello, grandi come è una palla picciola da giuocare, o come una noce di balestra; ma non sono già tonde; e ve ne sono anco alcune maggiori di quello che ho detto, secondo che sono questi manati grandi. Ma io per me penso che debbiano la medesima proprietà avere le pietre che hanno anco in testa i corvinas e besugos, se crediamo a Plinio, il quale dice che nella testa di certo pesce si ritrovano quasi pietre che, bevute con acqua, sono un ottimo rimedio per lo male di fianco.
Ne sono di questi manati alcuni cosí grandi, che sono lunghi quattordeci e quindeci piedi e piú di otto palmi grossi. Sono ristretti e quasi cinti nella coda, e da questa cintura si va sempre ampliando la coda, facendosi e piú larga e piú grossa. Ha il manati due mani o braccia corte presso la testa, e per questo lo chiamarono i cristiani manati. Non ha il manati orecchie, ma in loro vece certi buchi piccioli per udire. Il suo cuoio pare come d'un porco spelato col fuoco, ed è d'un colore berrettino con alcuni peluzzi rari; ed è cosí grosso questo cuoio quanto è un deto, e curandosi al sole se ne fanno buone correggie e suole per scarpe e altre simili cose. La coda di questo pesce, da quella sua cintura che ho detta fino alla sua estremità, non pare altro tutta che un nervo: ne fanno pezzi e li tengono quattro o cinque dí al sole o piú, e veggendoli asciutti li cuocono, o per dir meglio li friggono in una padella, e ne cavano molto unto, nel quale si converte quasi tutta. Questo grasso o butiro è la migliore del mondo per farvi ova fritte, perchè, ancorchè sia di molto tempo, non perciò si fa rancido né di mal sapore, ed è anco assai buono per ardere nelle lucerne, e dicono che sia medesimamente medicinale.
Ha il manati due tette o mammelle nel petto, essendo femina, perchè parturisce due figli e se gli alleva a petto; il che non ho mai udito dire se non di questo pesce, e del vitello o lupo marino. Nella isola di Giamaica e in quella di Cuba vi si pescano di questi manati e delle testudini, e si crede anco che in questa isola Spagnuola, quando v'abitavano gl'Indiani nativi di lei, si prendessero anco questi animali aquatici col pesce riverso: il che non avrei io ardire di scrivere se non fosse cosa assai publica e nota, e se non l'avesse udito dire da persone di molto credito.
E poichè il discorso della istoria ci ha condotti a ragionare a lungo del manati, meglio è che in questo capitolo si dica questa maraviglia che in altra parte. Il perchè si dee sapere che un certo pesce grande quanto è un palmo, che lo chiamano il pesce riverso, brutto alla vista ma di grandissimo animo e intelletto, accade ad essere alcuna volta preso nella rete insieme con altri pesci. Questo è un buon pesce, e dei migliori che abbia il mare per mangiare, perchè è asciuto e duro e senza flegma, o ne ha ben poca: e io ne ho molte volte mangiato, per potere farne fede. Quando vogliono gl'Indiani serbare e allevare alcuni di questi pesci riversi per farne le caccie loro, li prendono piccioli e li tengono sempre in acqua salsa di mare, e ivi danno loro a mangiare e gli allevano domestici, finchè gli veggono della grandezza che ho detta, e atti per le caccie che fare ne vogliono. Allora legano con una cordela sottile ma forte un di questi pesci riversi, e li portano con le loro canoe o barche nel mare; e veggendo qualche gran pesce, come sono testudini o savali (che ve ne sono assai grandi per questi mari), o qualcuno di questi manati, o altro qual si sia che accada gir sopra acqua e si vegga, tosto toglie l'Indiano in una mano il suo pesce riverso, e con l'altra l'accarezza e lusinga, dicendogli in lingua sua che debbia essere manicato, che vuol dire valoroso e di buon cuore, e che sia diligente e gagliardo, e altre simili parole esortative, e che miri d'attaccarsi animosamente col maggiore e migliore pesce che ivi vedrà. E quando li pare che sia tempo, lo scioglie e lo lancia verso dove i gran pesci vede. Il riverso si muove e va come un saetta, e s'attacca nel fianco d'una testudine o nel ventre o dove meglio può, e si stringe forte con lei. Il medesimo fa con ogni altro gran pesce, il quale, quando si sente attaccato e preso da quel picciolo, fugge per lo mare ora a questa parte ora a quell'altra; e in questo mezzo il pescatore indiano rallenta la corda, che è di molte braccia lunga, e la lascia anco finalmente, perchè vi ha nel capo di lei attaccato un legno o un sughero per segnale, acciochè sopra l'acqua vada. E fra poco tempo il manati, o testudine, col quale il pesce riverso s'afferò, se ne va stanco alla volta di terra. Allora il pescatore incomincia a raccorre la sua cordella su la barca o canoa, e quando se ne ha da raccorre poche braccia, comincia a tirare a poco a poco, guidando il suo pesce riverso con quello che tiene prigione, finchè l'accosta a terra, e l'onde stesse del mare ve l'aiutano. Allora gl'Indiani che stanno su la caccia saltano su l'arena, e se è testudine la rivolgono sossopra; e ancorchè non giunga la testudine a terra, essi, perchè sono gran natatori, la rivolgono in mare e la conducono all'asciutto. E se è manati lo feriscono e forniscono d'uccidere, e posto che hanno questo tal pesce sul lito, bisogna che con molta avertenzia e a poco a poco ne distacchino il pesce riverso: il che gl'Indiani fanno con dolci parole, dandoli molte grazie di quello che ha fatto. Egli viene cosí ristretto e fisso questo riverso con l'altro pesce che, se 'l volessero con violenzia distaccare, ne farebbono mille pezzi.
E di questo modo si prendono anco questi cosí gran pesci, dei quali pare che abbia la natura fatto algozino e manigoldo, per prenderli e cacciarli, questo pesce riverso, il quale ha certe squame a modo di gradi, come ha il palato della bocca dell'uomo o d'un cavallo; ma vi ha certe spine sottilissime e aspere e forti, con le quali s'afferra con qual si voglia gran pesce. E queste squame piene di cosí fatte punte le ha il pesce riverso nella maggior parte del corpo dalla banda di fuori, e spezialmente dalla testa fino alla metà del corpo per lo lombo di sopra, cioè dal mezzo in su, e non nella parte del ventre; e per questa cagione lo chiamano riverso, perchè con le spalle s'attacca e s'afferra co' pesci.
Questa nazione degl'Indiani è cosí leggiera e sciocca, che credono di certo che il pesce riverso intenda molto bene il parlare degli uomini, e tutte quelle parole che essi li dicono animandolo prima che lo sciolghino e lascino dietro alla caccia, e che intenda medesimamente le grazie che dapoi gli rendono. E questa ignoranzia nasce dal non accorgersi essi che questa è una proprietà lor naturale, poichè, senza lor nulla dire di queste cose, accade molte volte nel mare Oceano, e io l'ho molte volte veduto, che si prendono i tiburoni e testudini, e vi vengono con loro questi pesci riversi attaccati, e per volerli distaccare se ne vengono a fare molti pezzi. Sí che si può da questo raccorre che, doppo che essi attaccati vi si sono, non è in potere loro il distaccarsene senza qualche intervallo di tempo, o pur per altra causa che vi sia che io non la so; poichè cosa ragionevole sarebbe che, quando è preso il tiburone o la testudine, doverebbono i pesci riversi che attaccati vi si trovano fuggire via, se potessero.
Una cosa dirò io qui notabile, che ho veduta tutte le otto volte che ho passato questo gran mare Oceano, venendo di Spagna e ritornandovi poi da queste Indie, e cosí penso io che lo diranno tutti quelli che hanno questo stesso viaggio fatto; ed è questa, che come sono in terra di provincie fertili e altre sterili, cosí credo io, per quello che ho veduto, che debbia essere in tutti i mari, perchè accade che qualche volta corrono le navi 50 e 100 e 200 leghe e piú senza potere mai prendere né vedere un pesce, e in altre parti del medesimo Oceano, dove quello che ho detto si vede, si ritrovano tanti pesci che pare che ne bolla il mare, e vi se n'ammazzano molti.
Gl'Indiani di questa isola Spagnuola chiamano il mare bagua: non dico baigua, perchè baigua è quella erba detta verbasco, con la quale prendono molto pesce, come s'è detto. Si potrebbono qui dire molte altre cose d'altri pesci, e delli granchi anco e delle loro molte differenzie, e delle lagoste che sono medesimamente in questa isola, ma, perchè sono cose comuni a tutti gli altri luoghi di queste Indie, non le dico qui; e medesimamente perchè li granchi, ancorchè siano d'acqua, ve ne sono anco di terra in queste parti, e vi è molto che dire di loro. Non ragiono né anco qui delle perle, poichè, ancorchè in questa città e isola vi se ne porti gran quantità, non si pescano però come si fa in certe altre isole picciole, nella costiera di terra ferma e in altre parti; e medesimamente perchè questa materia delle perle tocca all'isola di Cubagua, della quale si tratterà nel decimonono libro. E cosí per quando sarà tempo a dirne la lascio.
Delle rane e rospi, e come gl'Indiani li mangiano.
Cap. XI.
Aveva determinato di non parlare in questo libro delle botte né delle rane, e pensava porle con altre spezie d'animali. Ma poi, pensando che né anco in Spagna si rifiuta il mangiare delle ranocchie, anzi fino alla tavola dell'imperatore nostro vanno, mi è paruto conveniente non negare a questo animaletto il suo titolo, e porlo appresso a cosí eccellenti pesci come è il manati, con gli altri che si son detti. Credo che alle ranocchie si desse primieramente questa autorità da Mercurino, gran cancelliero di Sua Maestà, perchè io udii dire nella città di Vittoria, nel 1524, dal medesimo Mercurino, col quale in venerdí mangiava il signor don Ferrando d'Aragona duca di Calabria, e venne loro a tavola un piatto di ranocchie acconcie, che esso ne aveva la settimana innanzi mandato un altro piatto all'imperatore; e che gli era stato riferito che gli erano piaciute assai, e che perciò pensava di non dovergliene mandare piú, perchè non voleva che, se per altra cagione si fosse Sua Maestà infermato, ne fosse data alle sue rane la colpa. Ma che, poichè gli erano sapute buone, se esso ne voleva se ne facesse quando piú li piacesse acconciare. E non mi maraviglio che il gran cancelliero portasse questo cibo in Spagna, poichè esso era Italiano, dove gran tempo fa si costuma a mangiare le rane, e sono certo un buon mangiare; e molti anni a dietro io ne mangiai in Mantova e in Roma e in Napoli e in altre parti d'Italia, dove publicamente per le piazze le vendono come un sano cibo, e di buona digestione e gusto.
In questa isola Spagnuola, e in molte altre parti di queste Indie, sono molte di queste rane, ma in quest'isola non le mangiano, perchè non vi sono avezzi né soliti. De' rospi o botte voglio qui ragionare, per la somiglianza ch'hanno nella loro forma con le rane, ancorchè essi sono piú grossi e piú brutti per il lor gonfiamento. Ne sono molti in quest'isola, e non credo che farebbono prode a chi ne mangiasse, benchè in terra ferma li mangino in molte parti e nell'isola della costiera di mezzodí. Avevo io qui una schiava mia di quel paese, e non sono molti giorni che mangiò in un mio potere un di questi, e si crede che non fosse altra cosa che l'ammazzasse; perchè fra pochi dí doppo che l'ebbe mangiato si sentí male, e fra quattro o cinque dí poi si morí. Ella dovette pensare e credere che li rospi di quest'isola non fossero nocivi, come non sono quelli del suo paese, dove li mangiano.
Quelli di Spagna medesimamente sono velenosi e cattivi, e tanto sono peggiori quanto sono di piú fredda terra. In alcuni luoghi di terra ferma li crescono e allevano, e li tengono legati per cibarli e pascerli, per mangiarli poi per un prezioso cibo. Io gli ho veduti mangiare alcune volte a quelli Indiani, e non vidi in vita mia cibo che maggior nausea e stomaco mi facesse né che peggior mi paresse: di che si ridevano gl'Indiani molto, parendo loro che fosse una grande ignoranza la mia a non piacermi cosí aborrevole cibo agli occhi miei, e cosí grato al loro palato e gusto. Ma questo si lasci per quando sarà il suo proprio luogo da riferirlo, perchè non s'intrichino o cambino le materie né si tolghino dal proprio lor luogo; perchè questo cibo è di terra ferma, e là se n'ha da ragionare, dove l'istimano e pregiano e comunemente l'usano, come fanno in Spagna del pane o della carne di vacca o d'altri simili cose, piú ordinarie e comuni per lo vitto e sostentamento degli uomini.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta degli uccelli.
Libro decimoquarto
Proemio
E volendo continuare la naturale e generale istoria di queste Indie, bisogna fare anco espressa menzione degli uccelli che in queste isole sono, e che sono simili a quelli di Spagna o d'Europa; e poi passare a dire particolarmente di quelli che al parer mio in Europa non sono, o se alcun ve ne è dire le differenze loro, come appresso al suo luogo si dirà. Bene è il vero che 'n questo libro, e ne' precedenti anco, dove s'è parlato degli animali terrestri e de' pesci, e ne' sequenti medesimamente di questa parte, molte cose si lasciano che molto copiosamente si diranno poi nella seconda e terza parte di queste istorie, con le cose di terra ferma. Qui voglio ora solamente fare prima una breve e nuova relazione degli uccelli che sono e si veggono nel viaggio che si fa di Spagna a queste Indie, e da questi luoghi poi ritornando in Spagna, e poi appresso dirò dell'altre cose in particolare, perchè con piú ordine le cose degne di memoria si referiscono; perciochè tutte sono assai nuove a coloro che o non navigano, overo navigano solamente nelli mari d'Italia e nel canale di Fiandra e d'altri piccioli golfi.
Degli uccelli che si veggono per lo mare nel viaggio che si fa andando e tornando di Spagna a queste Indie, e di quelli che nelle caravelle si prendono.
Cap. I.
Quando si viene di Spagna a queste Indie, si veggono per tutto il viaggio certi passeri neri che volano mirabilmente, e vanno quasi radendo l'onde del mare. È cosa strana a vedere la loro velocità e destrezza nel volo, quando s'alzano o s'abbassano l'onde, ancorchè vada il mare assai tempestoso e bravo, nel volere essi prendere quelli pesci volatori de' quali s'è nel precedente libro detto, o pure altri pesci. Questi uccelli, quando vogliono, si pongono e fermano su l'acqua, e poi quando lor piace s'alzano e ritornano a fare le caccie loro. Questi sono piccioli uccelli, e i marinai li chiamano patini. Si veggono medesimamente in questo viaggio certi uccelli bianchi, grandi quanto colombi torquati o maggiori. Volano incredibilmente, e hanno la coda longa e forte sottile, e perciò li chiamano coda di giunco. E il piú delle volte si veggono a mezzo cammino di questa navigazione, o poco piú della metà del cammino venendo verso queste parti. Ma, per quello che ogni uomo ne dice, questi sono uccelli di terra; e io cosí lo credo, perchè tutti gli uccelli ch'hanno ad essere di terra è di necessità ch'abbino a nascere e ad allevarsi fuori dell'acqua. Alcuni di questi uccelli non son del tutto bianchi, ma vi hanno mischiato un certo color berrettino, e hanno la coda come palomba, ma alquanto piú corta e tonda, e nella metà di lei esce fuori dell'altre una penna sottile e piú d'un palmo longa, e quando volano pare che la coda sia tutta una penna longa: e per questo li diedero il nome che essi hanno. Ma, quando aprono poi volando la coda, si veggono anco l'altre sue penne minori.
La terza volta che io venni a queste Indie, fummo molti che vedemmo uno di questi uccelli, tutto bianco, nel golfo che chiamano delle Cavalle, che è fra la Spagna e l'isole di Canaria. Di che tutti i marinari si maravigliarono molto, e dissero che non avevano mai né veduto né udito che simili uccelli si fossero mai veduti cosí presso la Spagna, perchè dove si sogliono piú del continovo vedere è 350 leghe o poco piú prima che si giunga alle prime isole (la Desiata, la Domenica, la Guadalupe e l'altre) che in quel pareggio sono, e che stanno 150 leghe lontane da questa città di San Domenico. Quelli uccelli di questi che hanno la piuma bianca hanno il becco rosso, e gli occhi e le punte dell'ale nere. Quando le navi si trovano a 200 leghe o meno nel venire di Spagna verso queste Indie, si veggono certi altri uccelli che li chiamano rabiforcati, e sono grandi uccelli alla vista, e hanno gran volo e per lo piú vanno alti; e sono neri e quasi di rapina. Hanno lungo e delicato volo e molto acuti gli incontri o cubiti dell'ale; onde, cosí in questo come nella coda, questi uccelli si conoscono nell'aere piú che tutti gli altri che ho veduti, stando in alto. Hanno la coda maggiore e molto piú fessa che non hanno i nibbii: e per questo li chiamano rabiforcati. Alcuni di questi uccelli hanno il colore d'un nero che pende ad un berrettino rosso, e il petto e la testa bianca, e il goro distinto di leonato; e il volo loro è come del nibbio quando tranquillamente vola, perchè radissime volte questi rabiforcati battono l'ale; e hanno le gambe sottili e gialle e corte, e i deti come d'un palombo.
Ve ne sono alcuni altri di questi che sono del tutto neri; e tanto questi quanto quelli hanno il becco lungo e maggiore che un coccal, ma di quel garbo, perchè è alquanto grossetto nella punta e tondo. Io ho veduto questi uccelli piú di 200 leghe in mare, ma in terra ferma ne sono senza comparazione assai piú che non in queste isole.
Dicono gl'Indiani della provincia di Cuova che il grasso e l'assungia di questi uccelli è una cosa ottima per tor via le cicatrici e segni delle ferite, e per ungerne le gambe o le braccia che si seccano, e per altre infermità e mali. Questi uccelli si prendono con difficultà, salvo che in qualche isoletta deserta, dove sogliono fare i loro nidi e allevarvi i loro figliuoli.
Nel 1529 accadette nella città di Panama che uno di questi rabiforcati calò giú in un cortile, dove si tenevano molte sardelle a seccarsi al sole, perchè questi uccelli sono amici di questo pesce, e per ventura un mio negro gli diede con un legno che si ritrovò in mano un tal colpo in un'ala che gliela ruppe e lo fece ivi cadere: ed era uno de' grandi, e io lo tenni in mano e lo vidi doppo che fu pelato, e non aveva piú carne che una palomba, e quando con le sue piume sta, fa maggior gonfio che non fa un nibbio. Ha questo uccello cosí grandi ale che non avrei a niun potuto credere quello che io con questi occhi vidi, che molti uomini di buon corpo con le braccia stese si provarono per vedere se con le punte delle mani alle punte dell'ale di questo uccello giungevano, e con piú di quattro deti niuno vi giunse: e chi lo vede volando in alto su l'aria terrebbe per cosa incredibile questa che io dico. E ben sapeva Plinio che tutti gli uccelli che hanno grandi ale hanno il corpo picciolo, poichè cosí nel decimo libro, lo diceva.
Si ritrovano anco certi altri uccelli nel mare Oceano, che si chiamano passeri grossoni, e sono minori che gaviotte, e hanno i piedi come anatre e si posano quando vogliono nell'acqua. Si ritrovano venendo di Spagna, quando le navi sono a cento leghe e meno lungi dalle prime isole di queste Indie che si sono dette di sopra. Se ne vengono questi uccelli nelle navi e si pongono su le gabbie e su l'antenne, e sono cosí grossolani e sciocchi, e tanto aspettano, che lo prendono spesse volte con mano o con un laccio posto nella punta d'un dardo o d'altra asta corta. Sono neri, e sopra questo colore hanno la testa e le spalle d'una piuma berrettina oscura. Non sono buoni a mangiare, e fanno gran gonfio con le penne, rispetto alla lor poca carne. I marinari li scorticano e li mangiano poi o lessi o arrosti. Quando stanno con le penne sono cosí grossi quanto è un palombo, ma dapoi che sono spelati restano assai piú piccioli che una palomba spelata. Hanno l'ale lunghe, e sono questi uccelli di due spezie, perchè una ne hanno le piume che ho dette, l'altre l'hanno di color berrettino pendente al nero, e hanno berrettina la fronte e nero il becco e gli occhi e le gambe e i piedi; ma il becco l'hanno alquanto lungo e sottile. Io ho mangiato di questa seconda spezie d'uccelli e sono buoni, ma li bisogna scorticare prima, benchè qualche odore di pesce abbiano. Sono cosí semplici che accade molte volte che, cavando l'uomo un braccio fuori della nave, essi nella mano istessa si pongono, essendo di notte, perchè credono che sia qualche legno: e perciò gli posero questo nome di grossolani. Hanno gli occhi neri e belli e la loro maggior grandezza è come quella delli cornacchioni di Spagna; e quel berrettino che hanno pende alquanto al leonato. Molti di questi uccelli si prendono fra queste isole e terra ferma. Le navi, quando stanno già presso all'Indie, s'incontrano medesimamente con altri uccelli, che li chiamano alcatrazi e che sono di molte maniere: perchè alcuni ne sono grandi come corvi marini, altri alquanto piú piccioli, e sono alcuni neri pendenti al berrettino, altri berrettini e bianchi e d'altre simili maniere, altri ne sono neri berrettini che hanno le teste bianche con alcune penne rosse. E tutti questi alcatrazi escono molto in mare, e tutti hanno i piè come oche o anatre, perchè sono uccelli marini ed esercitati nel prendere pesci, perchè il pesce è il loro ordinario e particolare mantenimento.
E cosí, concludendo, dico che queste cinque maniere d'uccelli si ritrovano nel venire di Spagna a queste Indie, di piú di molte gaviotte e d'alcuni coccali che vi si ritrovano anco, ma presso all'isole di Canaria e all'isole di queste Indie e per le costiere di terra ferma, perchè né le gavie né le gaviotte s'allontanano molto da terra. Si ritrovano anco in mare alcuni altri uccelli di terra, e si prendono per stanchezza presso Spagna, nel ritorno che fanno le navi da questi luoghi. E quelli ch'io ho veduti prendere, nelle navi dove io ritrovato mi sono, sono questi moticelli, che sono quelli che non stanno mai con la coda saldi, e son bianchi e neri dipinti; tordi, lodole, uccelletti piccioli di quelli che si sogliono porre in gabbia, mezzi sparvieri e smerigli e falconi (non mi ricordo di che razza o spezie, perchè io m'intendo poco di caccie di falconina). E con questi altri uccelli d'altra razza e forma, che volando con alti voli attraversare e passare dal capo di San Vincenzo, o dall'ultime parti e piú occidentali di Spagna, per passare d'Europa in Africa o d'Africa in Spagna, si stancano e si vengono a porre su le gabbie delle navi che casualmente in quel tempo passano; e facendosi notte i marinai li prendono con mano. Ma questo basti quanto agli uccelli che in questa navigazione s'incontrano e ritrovano.
Degli uccelli che sono in questa isola simili a quelli di Spagna,
e che qui naturalmente e senza esserne altronde portati nascono.
Cap. II.
In quest'isola Spagnuola sono molti palombi torquati, e consequentemente anco palombi selvaggi, ma e questi e quelli minori che non sono quelli di Spagna. Vi sono tortore buone e di tre e quattro sorte, e una maggiore che l'altra. Vi sono rondinelle maggiori di quelle d'Europa, ma non hanno rosso il collo né la testa, né cosí fessa la coda, e il canto loro è piú sordo e non com'è quello delle nostre di Spagna, né fanno i loro nidi cosí domesticamente nelle case qua come là. Il che dee nascere per essere poco tempo che si sono qui fatte case di pietra; onde ora cominciano già a fare i nidi nella chiesa maggiore di questa città e nel monasterio de' frati di s. Domenico. Vi sono medesimamente rondoni, e in gran quantità. Vi sono garze reali, che son come gru, e garzotte e falconi pellegrini assai buoni, e alquanti piú neri di quello che si sogliono in Spagna e in Italia vedere. Vi sono astori grandi e aquile picciole, e guaragai, che chiamano. Ma di questi guaraguai non ne sono in Spagna, ma gli ho qui posti perchè sono della condizione de' nibbi, non già perchè lor si somigliano in altro che nell'ufficio loro di rubare i polli, perchè né nella piuma, né nella divisione della coda, né nella testa non gli somigliano; sono bene molto armati, e la piuma di questi guaraguai è come quella del borni, salvo che questi hanno gli occhi rossi.
Vi sono civette e alcatrazzi di molte sorti e aquile bianche d'acqua: dico d'acqua perchè vanno dietro a' pesci. Vi sono caudoni, gaviotte e gavie, ma poche, e polli e calamoni, che sono azurretti, e carpentieri della grandezza de' tordi. Questi carpentieri hanno la fronte della testa rossa, e sopra la coda anco rosse alcune penne, e tutto il resto dipinto al traverso di linee nere e verdi, ciascuna da per sé, e il verde pende alquanto al gialletto. Questi uccelli fanno nelle palme e in altri alberi un buso col becco, e dentro vi lavorano e fanno un conveniente vacuo per farvi il nido e per albergarvi. Non so se questo è il passaro che chiamano in Spagna il pico, perchè ho udito dire che 'l pico a questo modo fa 'l suo nido. Vi sono anco qui molte oche o anatre di passaggio brave e il decembre è il passaggio loro. Vi sono molti passeri, di quelli che 'n Spagna vanno per le selvette presso l'acque, e cantano molto bene, ma qui non sanno i lor nomi. Vi sono anco rossignuoli che cantano soavissimamente, ancorchè nel cantare non facciano quelle tante varietà e differenzie che fanno in Spagna. Vi sono innumerabili corvi marini, e gli smerigli vi sono d'ogni spezie. Vi sono aberramie, ma quelle di queste Indie hanno la piuma di colore incarnato, e il becco non cosí longo come quelle di Castiglia. Tutti questi uccelli de' quali ho fatto menzione in questo capitolo sono in questa isola cosí naturali e proprii come in Spagna; e tutti si ritrovano in queste isole e in terra ferma, e molti altri ancora in gran copia.
Degli uccelli che qui si sono portati di Spagna, e che in queste isole non erano.
Cap. III.
Sono state in quest'isola e nell'altre convicine e alla Nuova Spagna e in terra ferma portate molte galline e galli de' nostri di Spagna, e vi hanno fatto benissimo e in gran copia, e vi sono ora molti buoni capponi per tutte queste parti dell'Indie. Vi sono stati portati anco molti palombi domestici di casa, che vi hanno fatto bene, e ve ne sono ora in molte case di questa città, e ne' poderi e in altre parti di quest'isola, dove sono abitazioni di cristiani. Vi sono stati portati alcuni pavoni di quelli di Castiglia, però non vi fanno né vi moltiplicano bene come in Spagna. Il medesimo dico delle papere di Castiglia, perchè quelle che qui vengono non vi moltiplicano cosí bene come fanno là; benchè vi siano qui alcune anatre domestiche, di quelle che sono venute d'Europa, e vi hanno fatto bene e ve ne sono ora molte; tutto che qui ne siano infinite di quelle del paese stesso, ma sono molto piú picciole.
Degli uccelli che sono in questa isola Spagnuola, e che non sono in Spagna né vi fanno.
Cap. IIII.
In quest'isola sono molte maniere di pappagalli, cosí de' verdi grandi o maggiori che palombi, e che hanno un fiocco di piume bianche nel principio del becco, come degli altri della medesima grandezza e verdi, e che hanno anco quel fiocco che ho detto, ma rosso come un carmesí. Vi sono altri minori, con le code longhe e con gl'incontri dell'ale e sotto i titillichi rosso, e tutto il resto verde: e questi lo chiamano sciasciabi. Ve ne sono anco altri d'altre maniere, cosí in questa come nell'altre isole; ma perchè in terra ferma ve n'è assai maggior quantità e diversità, quando di quelle cose si ragionerà se ne dirà a pieno, perchè nel vero in questa isola non ve ne è gran copia, né di piú varietà di quello che se ne è detto di sopra. È il vero che qui sono certi passeretti tutti verdi, e non piú grandi che li cardilli di Castiglia, ma se ben sono verdi non sono già però pappagalli. Io credo che in terra ferma passino piú di cento maniere di pappagalli differenziati nella piuma, che già tutti o la maggior parte sono simili nella fattezza, e la lor varietà consiste solo nella grandezza loro e nel colore delle piume; quanto al becco e alla bruttezza e garbo de' piedi sono assai l'uno all'altro simili.
Sono medesimamente in questa isola certi passeretti cosí neri come un nero e fino terziopelo, e sono cosí piccioli che io non gli ho veduti minori in queste Indie, e li chiamano qui passeri moschitti. La lor grandezza è assai minore che la testa del deto grosso della mano. Io non ho in questa isola questo tal passerino visto, ma mi dicono che qui ne sono; e per questo resto di ragionarne ora, per dirne con le cose di terra ferma, dove io gli ho visti. Vi sono anco qui altri passeri di molti colori, e che soavemente e con differenti voci cantano. Ma perchè questo basta nel generale, dirò in particolare di alcuni uccelli che sono piú notabili e di memoria degni.
Delli passeri, che vivono a compagnie di molti insieme e in comune.
Cap. V.
Sono in questa isola una spezie di passeri, minori alquanto di quelli che chiamano in Castiglia gorrioni, che sono i passeri comuni, e loro alquanto si rassomigliano nella piuma e nella diligenzia, e non sono meno astuti né maliziosi. Il color loro è pardillo ben cupo, e sono di grande animo quando sono in quadriglia e in compagnia insieme. Fanno un nido cosí grande o maggiore che nol sogliono fare le cicogne su ne' campanili e nelle torri di Castiglia, e lo compongono di frasche e stecchi di tal modo intesti e forti che è gran maraviglia a vederli, per essere questi uccelli cosí piccolini; e dentro questo tal nido hanno le loro celle e appartamenti distinti, dove fanno i loro nidi e figliuoli: e al manco ognun di questi nidi alloggia 200 e 300 passeri. E se per caso comparisce ivi presso qualche uccello grande, ancorchè sia di rapina (come sono i guaraguai, che come s'è detto qui si mangiano i pulcini e le galline anco), gli escono tosto a squadroni questi passeri sopra con gran strepito, e cominciano con tanto ardire a ferirlo, che né le vespe né altro simile animale fastidioso potrebbono farne altretanto, e lo pongono finalmente in fuga, doppo di averli molti repoloni dati e d'averli cavate delle piume. In effetto dal luogo ove questi nidi sono fuggono e s'allontanano gli altri uccelli, come fuggono gli uomini dagli vespari. E certo che è cosa molto degna di vedersi quando questi passeri vengono a qualche contesa con qualche altro uccello di passaggio, che va indi procacciandosi il vitto.
Degli alcatrazi grandi che in questa isola Spagnuola sono e nell'altre isole e costiere di terra ferma.
Cap. VI.
Già s'è detto di sopra di alcune spezie d'uccelli che si comprendono sotto il nome d'alcatrazi, de' quali ne sono alcuni nelle costiere del mare di Spagna. Ma quelli de' quali io ora parlerò non ve gli ho io veduti, né credo che ivi ne siano, perchè solamente in queste parti ne sono, e non ho mai udito dire che altrove ne siano. Questi de' quali ora ragiono sono come gran paperoni, e sono tutti berrettini, e hanno le penne maestre e maggiori dell'ale nere nel gosso loro, e i piedi come di papere, ma vi ha questa differenzia, che tengono ne' talloni un sprone, dal quale si va continovando quella tela carnea del piede per tutti gli altri deti: talchè questa loro palma è molto maggiore che non sarebbe senza di quello, o che non sono li piedi sparsi de' paperoni. Ha questo uccello un becco cosí grande che è lungo duoi palmi, e presso alla testa è cosí largo o piú che non è una mano di uomo, e cosí si va poi diminuendo a poco a poco fino alla punta, che è nondimeno piú larga che non è un deto grosso, e declina alquanto in giú a maniera d'una unghia. La parte superiore del becco è tutta dura, e la mascella di sotto s'apre tanto che fa una boccia, che gli pende e giunge fino al petto; e perchè ha il collo grande, ho io alcuna volta veduto porli nella boccia un saio di un uomo, e alle volte una cappa, e qualche volta duo e tre giupponi e una mezza dozzina di scarpe e di bonette. Hanno nel petto la piuma bianca, e quando volano portano raccolto in sé il collo, e il becco cosí ristretto col corpo che pare che non abbiano collo. In effetto, quando questo uccello sta in terra e stende il collo, si somiglia molto ad un grande uccello che io viddi in Fiandra in Brussella, nel palagio dell'imperatore, nel 1516. E mi ricordo che lo chiamavano haina. Un dí, stando Sua Maestà mangiando in sala, portarono in presenzia di lei a mangiare a quello uccello certi pesci vivi dentro una caldiera d'acqua, e esso li mangiò e inghiottí cosí interi, come sogliono questi alcatrazi fare di quello che prendono e mangiano. Io credo che quello uccello che io viddi in Fiandra fosse di mare, e aveva i piedi e tutto il resto come questi alcatrazi l'hanno, salvo che non aveva la boccia che io dico che hanno qui questi uccelli. Però quello era maggiore di questi, e di piú bella piuma e di maggior becco, ma non tanto l'apriva perchè, come ho detto, non avea questa boccia.
Questi alcatrazi di qua quando volano se ne vanno su in alto, e perchè hanno buonissima vista si lasciano cadere giú nel mare, dove veggono il pesce, con l'ale ristrette, di modo che, del gran colpo che vi danno, ne salta molta acqua in su. Egli prende il pesce e tosto ritorna sopra l'acqua, e fermandosi ivi l'inghiotte intiero; e poi ritorna a volare su in alto, e fa molte altre volte il medesimo, e cosí va pescando nelle costiere e ne' fiumi, presso dove scarcano in mare. E nel fiume di questa città se ne veggono ogni dí molti presso la riva, e cosí presso che pochi dí sono che un scudiero di quelli che io qui tengo in guardia di questa fortezza di San Domenico, e che è un buon balestriero, tirò ad un alcatraze di questi de' quali parlo da dentro questa casa e gli ruppe un'ala, mentre che stava posto in uno scoglio a piè della fortezza. Questi servitori di casa in presenzia mia gli posero nella boccia un saio d'un paggio ben pieno di falde e di maniche grandi: e non era questo uno de' maggiori alcatrazi, perchè non era vecchio. E questa è cosa qui molto nota, che nella boccia di uno di questi uccelli cape una cappa che sia logora alquanto, o quell'altro che io ho detto di sopra. E quando gli ammazzano gli ritrovano nel ventre il pesce che mangiato avevano, o pure essi, essendo feriti, lo ributtano fuori, e alcuna volta è tanto questo pesce che ne potrebbono largamente mangiare due e tre uomini. Alle volte i cristiani hanno per necessità mangiato di questi uccelli, e non lo tengono per buon cibo, perchè sanno di pesce e hanno molto l'odore del mare.
Degli uccelli notturni che in questa isola Spagnuola sono.
Cap. VII.
Sono in questa isola certi uccelli maggiori che rondononi, ma hanno l'ale e il volo di una medesima sorte, e con la medesima velocità e maniera d'andare su e giú per l'aere come i rondononi stessi. Ma non escono né si veggono se non al tempo che il sole pone e va giú sotto l'orizonte, e qualche volta quando il sole non pare per ritrovarsi nubiloso il cielo, e medesimamente anco poco innanzi che il sole s'asconda, nella guisa che fanno i vespertelli; e poi vanno tutta la notte, e di tempo in tempo qualche volta stridono a un certo modo che si fanno udire di lontano. Io non so come gl'Indiani in questa contrada li chiamino, ma io ho veduti molti di questi uccelli in terra ferma, salvo che nelle penne sono da questi differenti alquanto. In quel breve Sommario che io scrissi in Toledo delle cose dell'Indie li chiamai passeri notturni, ma quelli di terra ferma sono molto nemici de' vespertelli, e gli vanno perseguendo e percotendo, ed è cosa molto piacevole vedere il contrasto loro. Ma questi altri che in questa isola sono, non vanno altramente dietro ai pipistrelli, né sono cosí grossi uccelli né hanno le medesime piume, benchè non differiscono nell'esercizio, perchè e questi e quelli fanno la caccia de' zanzali. I vespertelli di questa isola sono piccioli, e non ve ne sono molti, e si vanno a rinchiudere presto, al parer mio. Sono anco qui molte civette, e per le terre e dove sono anco case di paglia, ma sono assai minori di quelle di Castiglia, perchè queste di qua sono come piccioli sparvieri o minori. Vi sono bufi o gopi, ma piccioli e non maggiori che le civette che ho detto, ma hanno quelle orecchie o corna erte nella testa della penna propria loro, e hanno gli occhi piccioli a proporzione del corpo, ma molto chiari e lucenti, come quelli di Spagna. Sono anco qui medesimamente certi altri uccelli notturni, che chiamano mozzuoli, e sono piccioli come le civette e i gofi che si son detti, e alquanto anco minori, e hanno gli occhi a punto a quel modo come gli hanno quelli di Castiglia.
Di un uccello o quasi mostro fra gli altri che in questa e nell'altre isole si vede.
Cap. VIII.
Ho voluto serbare per questo ultimo capitolo degli uccelli che sono in questa e nelle altre isole circonstanti uno uccello assai raro e nuovo agli occhi miei, e da me non mai piú udito né letto. E al parer mio questa è una cosa notabile e maravigliosa, e s'è qui in questi luoghi molte volte vista. Questo è uno uccello grande quanto una grossa gavia, e ha le penne quasi a quel modo, di bianco mischiato di pardillo, e il becco medesimamente a quel modo, ma piú acuto. Questo si può dire uccello di rapina, e in terra e in acqua perchè cosí si può mantenere cacciando in terra come nel mare e ne' fiumi. Ha il piè manco come anatra o come gli altri uccelli che vivono in mare, e con questo piè si ferma nell'acqua quando vuole, e vi sta alla guisa d'una papera in piè. Ha il piede o la mano dritta da presa, come la sogliono avere i buoni astori o i sacri altri uccelli che meglio d'unghie armati stiano; e quando i pesci montano su presso alla superficie dell'acqua questo maraviglioso uccello si lascia cadere d'alto, onde volando va, con quelle forti unghie del piè diritto afferra il pesce, e se vuole si sta sopra l'acqua posto e quieto con quel piè piano e si mangia la caccia, e se non vuole fare cosí si alza su a volo, e portandosene fra l'unghia la caccia, la mangia nell'aria a volo, o pure sopra uno scoglio o sopra un arbore, dove piú li piace di fermarsi. Io non ho mai visto, né udito, né letto cosa cosí strana, né cosí appartata da quello che veggiamo in tutti gli altri uccelli del mondo, perchè, come ho detto, questo uccello è da terra e da mare, che già, come alcuni mi dicono, egli anco fa caccia in terra, e si mangia alcuni uccelli piccioli o lacerte e altre simili cose terrestri. Questi uccelli si sono veduti e si veggono molte volte in questa isola e in quella di San Giovanni e nell'altre di queste Indie, e i cristiani li chiamano astori d'acqua.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta degli animali insetti.
Libro quintodecimo
Proemio
Gli animali insetti o recinti, come sono le cicale, le formiche, le vespe e simili, saranno la materia di questo XV libro; e come Plinio dice, fu opinione d'alcuni che questi animaletti non avessero sangue né respirassero. Li chiamarono gli antichi insetti, perchè son ad un certo modo mozzi, o cinti nel collo o nel petto o nell'altre parti delle giunture loro. Si maraviglia molto Plinio come in cosí picciola cosa possa essere ragione né potenzia alcuna, e reputa inestricabile o incomprensibile la perfezione loro, perchè dice queste parole: "Come puote la natura collocare e porre tanto sentimento nelle zanzale? Come li diede la vista, come il gusto, come l'odorato? Onde gl'ingenerò cosí terribile voce, a comparazione di cosí picciolo corpo? Con che sottilità gli attaccò l'ale ne' fianchi, e gli fece quelle longhe gambe e il ventre digiuno e desideroso del sangue umano? O con che arteficio gli aguzzi il puntello, che è tanto sottile che non si vede, ed è atto a forar la pelle per succiarne il sangue? Che denti (come ne fa il suono testimonianza) ha la natura dati al tarlo, per potere forare e pertugiare qual si voglia duro legno? O perchè ha voluto che di legno si pasca e viva? Ma noi altri ci maravigliamo delle spalle degli elefanti, su le quali portano le torri intiere, e de' colli de' tori, e della rapina de' tigri, e de' crini de' leoni, e non miriamo dall'altro canto che la natura ha cosí dotati i piccioli come i grandi animali".
E per questo priega Plinio nel principio del suo XI libro quelli che le sue cose leggeranno che, se ben molti di questi animaletti sono in dispregio, non vogliano avere a schifo le cose che di loro referirà, perchè nella contemplazione della natura non può essere cosa superflua. Certo che tutto questo fu considerato e scritto da Plinio come da segnalata e dotta persona, poichè nell'opere di natura cose cosí maravigliose vediamo con gli occhi nostri e con le proprie mani tocchiamo che ogni una di loro basta a porre la mente umana in grandissima admirazione. Ma, recandoci noi a mente di quanto potere sia il Maestro che dà alla natura questo potere (che è solo il grande Iddio, che dà la vita e l'essere a tutte le cose create, e tutti questi effetti fa e dispensa che Plinio alla natura attribuisce), non ci dobbiamo maravigliare di cosa alcuna, poichè la sua potenzia è infinita, né ci dobbiamo occupare in maravigliarci, ma in renderli infinite grazie di quanto ci fa, e che ci dà, per via di queste maravigliose opere, ad amare chi le creò e ce le comunica poi, per sua benignità, acciochè meglio lo serviamo. Adunque non alla natura, come Plinio e i gentili facevano, ma al Maestro della natura debbiamo infinite grazie rendere per queste maraviglie, e io lo prego che voglia farmi grazia per quanto ho scritto e scriverò di questa naturale e generale istoria dell'Indie sia a sua lode, com'io non ho altra intenzione che di scrivere la pura verità di quello ch'ho veduto e inteso di queste materie; perchè in effetto il mio principale desiderio e intento è di servire a Dio e al mio re, empiendo queste carte di verità e non di favole ch'io ho visto scriversi in Spagna delle cose di quest'Indie, ch'io spero che senza isviarmi punto dalle cose certe non mi mancherà che scrivere, onde si debbano le genti leggendo maravigliare. E cosí, effettuando la promessa di queste istorie, toccarò qui brevemente degli animali insetti che 'n quest'isola sono simili a quelli di Spagna, e di quelli ch'io non ho là visti o qui non sono, e delle proprietà di quelli che non son a mia notizia venuti, benchè in questa prima parte sarà poco quello che si potrà di questa materia dire, perchè nella seconda e terza parte di quest'istorie, dove delle cose di terra ferma si tratterà, se ne ragionerà piú amplamente, per la copia grande che ivi di tali cose si vede.
Degli animali insetti che sono in quest'isola Spagnuola, e prima delle formiche e del comiscen.
Cap. I.
Scrive quell'autore unico della naturale istoria, Plinio, nel suo undecimo libro, l'opinione d'alcuni, che dicono che le formiche, le vespe e altri simili animaletti non hanno sangue, perchè non ha sangue quello animale che non ha né cuore né fegato, e cosí anco non respira quello che non ha pulmone. Ma nasce da questa gran contenzione, perchè vediamo il mormorare delle pecchie e il cantare delle cicale; onde dice Plinio che, quando contempla la natura, viene da lei persuaso a non tenere incredibile niuna dell'opere sue. E doppo che egli ha in questa disputa alcune cose dette, come investigatore naturale di cosí fatti secreti, dice che esso confessa che questi animaletti non hanno sangue, come se ne veggono anco degli altri che non hanno, quale è la sepia, che in luogo del sangue ha quel nero inchiostro, e quale è la purpura, che ha quel succo con il quale si tingoni i panni; sí che quello umore che gli animali insetti hanno è loro in vece di sangue. Dice anco Plinio di piú che ciascuno istimi e tenga quello che piú li pare, perchè la sua intenzione è di mostrare le cose che sono nella natura chiare e manifeste e non di giudicare le cause occulte; e cosí medesimamente dico io che la intenzione mia è di dire quelle cose ch'io so e ch'ho vedute, perchè se ne maravigli colui che di lontane contrade mi leggerà, e non di pormi a congietturare onde procedano gli effetti di questa novità che io referirò, perchè non sono tal filosofo che possa comprenderli, né voglio in argumenti trattenermi, ma dir solo quello che con la vista ho potuto comprendere e con gli altri sentimenti intendere.
E per darvi principio incominciarò con le formiche, delle quali dico che n'è in questa isola Spagnuola gran quantità, e in questa città di S. Domenico assai piú di quello che vorremmo; ma senza comparazione assai meno di quello che se ne è avuto, perchè nel 1519, e per due anni appresso o piú, ve ne furono tante che grandissimo danno fecero in tutta questa isola ne' poderi, rovinando e bruciando le cannafistole, gli aranzi e altri alberi fruttiferi, che fino ad oggi vi dura il danno, benchè quella tanta copia sia a lode di Dio cessata. In quel tempo che questa calamità durò non si potea né anco vivere per le case, né tenervi cosa alcuna da mangiare, che tosto non si coprisse di formiche minutissime e nere. E se fosse qualche tempo durato, non sarebbe stato gran cosa che fosse qui in questa isola avenuto quello che già in Spagna avenne, dove si disabitò una città per lo scavare de' conigli, o come avenne in Tessaglia, dove un'altra città si disabitò per li topi, o come in Francia, dove per la gran copia delle rane un'altra città si abbandonò, e un'altra in Africa per la moltitudine delle locuste o bruchi, e Amicle in Italia per la copia delle serpi, e come per altre simili calamità altre terre e provincie s'abbandonarono, come recita Plinio. Ma non mancano qui già formiche, se ben mancate e diminuite vi sono, perchè ve ne sono piú di quelle che sarebbe bisogno. Ve ne sono però anco certe altre, alquanto rossette e picciole, che sono inimicissime di quell'altre, e pare che sappiano il bisogno nostro. Egli è cosa maravigliosa che in uno stesso podere, dove accade essere e delle une e dell'altre, pare che si compartiscono il terreno; e in effetto se lo tengono diviso, perchè si conosce assai bene il terreno che posseggono queste senza far danno, e quello che si occupano l'altre rovinando e distruggendo, e le buone per niun conto lasciano passare dentro i loro termini quelle che nociono e sono dannose. Io parlo cose assai note in questa città e isola, e lo potrei anco mostrare in una mia possessione lungi da questa città una lega, come si può anco vedere in molte altre parti e poderi di questa isola. Né sarà fuori del proposito nostro, né della devozione cristiana, riferire quello che in questa città avenne nel tempo che si trovò questa isola in tanto travaglio e affanno per le formiche, che fu quasi per disabitarsi, acciochè il mondo sappia che i veri rimedii sono quello del signore Iddio, il quale ce li manda per sua misericordia e per intercessione de' santi suoi. Ora, la cosa passò di questa maniera.
Veggendosi i cristiani che in questa isola vivevano cosí molestati e travagliati dalla gran copia delle formiche, deliberò questa città d'eleggersi un santo per suo difensore al qual si votassero; e per farne l'elezione ne gettarono la sorte per mano del reverendo e devoto padre il vescovo Alessandro Giraldino, il quale disse solenne e pontificale messa, e doppo d'avere consecrato e alzato il Santissimo Sacramento, e fatta da lui e dal popolo devotamente orazione, aperse un libro dove era 'l catalogo de' santi, acciochè quel santo o santa ch'Iddio per questa via ci mostrasse fosse l'advocato di questa città e isola contra questa calamità delle formiche. E cadde la sorte al glorioso santo Saturnino, vescovo e martire, la cui festa viene a' 29 di novembre. Questo santo nacque in Roma, e fu di tanta santità che fu dal papa mandato a Tolosa, dove, entrato che egli fu, diventarono tutti gl'idoli muti. Onde un di quelli gentili disse che, se non ammazzavano Saturnino, non averebbono mai avuto risposta da' loro dei; e per questo lo legarono ai piedi di un toro, perchè lo strascinasse e lacerasse crudelmente, come piú ampiamente si legge nella istoria del suo glorioso martirio. Ora, doppo che questo glorioso santo fu tolto per avvocato di questa città, cessò la calamità delle formiche, e si diminuirono di modo che fu il danno loro tollerabile, e sempre a poco a poco sono mancate, per la clemenzia divina e intercessione di questo santo martire avvocato nostro. Ne noto io di questo misterio che il vescovo Alessandro Giraldino era Romano e devotissimo prelato, e che questo martire fu anco Romano; e che, come in Toledo ammutirono gl'idoli, cosí erano già in questi luoghi tutti gl'Indiani idolatri. Onde si cava che vuole Iddio che per la advocazione di questo santo si confonda e dissipi l'idolatria di queste contrade, e vi s'aumenti la santa fede cristiana e la devozione, perchè l'ira del Signore si mitighi e queste calamità cessino.
Ritornando all'istoria, dico che è molto varia la spezie delle formiche in questa isola, e dannosa, come s'è detto, per li zuccari e per le altre cose. Vi sono altre formiche, maggiori di quelle che si sono dette, e sono rosse e mordono assai e danno dolore; ma presto passa, se non sono molte insieme a mordere, benchè per donde passano vi lasciano un ardore come di fuoco. E queste sono medesimamente dannose ne' campi, ma sono poche e non per tutte le parti. Ve ne sono altre maggiori che niuna di tutte queste, e sono nere, e queste sono quelle che si convertono in formiche alate, e a certi tempi nascono loro le ale, e sono tante che se ne vede l'aere pieno. Ve ne sono certe altre, che le chiamano comiscen, che sono picciole e hanno la testa bianca, e sono molto nocive agli edificii, cosí nelle mura come nelle legname e solari delle case. Queste tali formiche escono dal muro che pare che ne gocciolano, e lo penetrano e vi vanno discorrendo per dove piú loro piace, e per il legname anco; e si fanno un certo cammino coperto a guisa d'una grotticella longa, vota di dentro e cosí grossa quanto è una penna da scrivere, e qualche volta come un deto o un poco meno, e sta questo cammino rilevato sopra il muro. E dove questo lavoro va a finire vi fanno una loro casa dell'istessa materia, grande quanto è la testa d'un uomo e quanto un fiascone anco ben grosso. E qualche volta, quando fanno negli alberi queste loro stanze, le fanno cosí grandi quanto potrebbe un uomo abbracciare intorno con ambedue le braccia. E in effetto rovinano le case, e bisogna avere cura d'ardere e disradicare questi comiscen, perchè sono molto dannosi. Fanno queste loro casuccie e cammini d'una certa pasta o materia che non è chi l'intenda, d'un color quasi nero e ben secca, e facilmente con un legno o col deto toccandola si rompe; ma sono queste formiche tante e cosí destre che ad un tratto ritornano a reedificarlo. Dov'è quella loro stanza maggiore e si raunano, là fanno i loro nidi e figli; di modo che vi fanno putrido e fragile il muro o legno sopra il quale questa loro abitazione fanno, e lo lasciano quasi fatto un vespaio, pieno di buchi e spognoso e voto. E sono peggiori questi animali per le case che non è la tignuola al panno. Vi ha anco un'altra maniera di comiscen o di formiche, che fanno queste stesse lor vie coverte e quelle lor stanze grandi dove fanno i nidi, ma piú chiaramente si conosce che questi tali loro edificii son di materia di terra, e son piú chiari, di colore berrettino, che di terra paiono, benchè non totalmente siano. E quest'altro comiscen è anco esso d'un'altra forma, perchè non è proprio formica, come s'è già dell'altro detto che sia, ma la metà ne è formica, l'altra metà è un vermicciuolo, o è la forma d'un mezzo verme, che pare che si meni dietro dalla cintura in giú, ch'è una cosella a modo d'una scorza bianca e grossa quanto un granello di grano che si strascina dietro. E non è questo comiscen meno dannoso per le case, edifici e legname che si siano quegli altri detti di sopra, ma non già tanto per i lavori di pietra, benchè con tutti i loro danni facciano questi un bene, che sono uno ottimo cibo per i polli.
E distaccano dagli alberi quelle loro stanze fatte come gran palle, e le portano dai campi alle case, e le rompono dinanzi a' polli, che tosto e con avidità tutte le formiche si mangiano, e se ne ingrassano e vengono bene, come d'un buon cibo. Tutte le formiche e i comiscen sono una generazione molto diligente e amica di republica, e cosí pare che in compagnia vivano e sia fra loro commune il cibo. E perchè la lor diligenzia si conosca, e quello che può il lor continuo uso fare, dico che, ancorchè per una pietra durissima passino, vi fanno a longo andare un segno, che assai chiaro si conosce e vede il cammino che fanno. Ma perchè di queste e d'altre formiche sarà molto che dire nella seconda parte, dove si scriveranno le cose di terra ferma, passiamo ora avanti a ragionare di quello che a quest'isola Spagnuola tocca quanto a questa materia di simili animali insetti.
Della scolopendria, o cento piedi che chiamano, e delle differenti
e varie maniere di questo animale, e delli vermi di molti piè.
Cap. II.
In questa isola Spagnuola sono molte maniere di scolopendrie o cento piedi, perchè vi sono alcune sottili e lunghe un deto, e di quella sorte che sono quelle di Spagna, ma queste mordono e danno gran dolore. Ve ne sono altre piú corte, ma piú grosse e pilose e con la testa rossa, il resto tutto dipinto, e sono piú venenose e cattive. Alcune altre, ancorchè siano dipinte e pilose, hanno la testa nera, con certe liste nere da lungo a lungo, e queste si tengono per le peggiori. Vi sono anco molti altri vermi e di differenti maniere e con molti piedi, ma questi vanno presto via, perchè non vengono se non quando piove e fa piú caldo del solito; onde, mancando quel caldo, non appaiono essi piú. Ma, mentre che durano, si mangiano i maizali e fanno danno nelle possessioni. Vi sono certi altri vermi, lunghi un mezzo deto e sottili e di molti piedi, e rilucono forte di notte, e fanno appresso di loro l'aere chiaro dovunque passano, e si veggono 50 o 100 passi lontani; né tutto il verme risplende, perchè solo nelle giunture onde escono le braccia del corpo rilucono, ma questo loro splendore è chiaro molto. Certi altri vermi vi sono anco, assai alli già detti somiglianti e quanto alla grandezza e quanto al rilucere che detto s'è, ma vi è questa gran differenzia, che la testa di questi anco riluce, ed è questa chiarezza della testa come d'una viva, accesa e rossa bragia. Io ho in questa città di S. Domenico veduto molte volte alcune scolopendrie o cento piedi lunghe un palmo o piú e larghe un deto, che certo è una cosa spaventevole e da temerne veggendole. Sono pilose, e hanno certe liste di color leonato donde lor escono le gambe, le quali insieme con le corna sono leonate, e il corpo è d'un colore piú oscuro. Non ho sentito lamentare niuno che questo animale morda, ancorchè di mala vista sia, e io non vorrei vederlo, perchè, ancorchè non faccia danno, pare che non se ne possa sospettare se non male, e che abbia a fare peggio che gli altri vermi. Questo si ritrova spesso per le case di questa città ma, come ho detto, non ho ancora udito niuno il quale da esso sia stato morsicato.
Delle vespe e scarafoni e mosche e simili.
Cap. III.
Ben sarebbe stato ragione che prima d'ogni altro si fosse in questo libro ragionato delle pecchie, poichè sono uno animale cosí utile e cosí segnalato al mondo, perciochè il mele e la cera che se ne hanno sono cose cosí necessarie e degne nell'uso della vita umana. Ma non se ne è fatta menzione perchè in questa isola Spagnuola non ve ne sono, e non ve lo ho io veduto né inteso dire che ve ne siano. In terra ferma ne sono bene molte e di molte maniere, cosí nella forma e fattezza dell'animaletto istesso come nella varietà del sapore e del colore del mele e nella differenzia della cera; onde, quando di quelle contrade si tratterà, se ne dirà tutto quello che io ne ho veduto, che è molto.
Ora ragionerò delle vespe, perchè in questa isola ne sono molte e cattive e velenose, e danno molto dolore quando pungono. Se ne veggono molte per li campi e per li boschi negli alberi, e sono come quelle di Castiglia e alquanto maggiori, e nell'ale sopra il giallo hanno verso la punta un poco di color leonato. Queste fanno i lor vespai e nidi negli alberi, ma non vi fanno né cera né mele, ma cosí secchi come li fanno in Spagna e in ogni altro luogo dove siano vespe. I crabroni o scarafoni fanno le loro celle e nidi (come Plinio dice) sotto la terra, e di questi nidi se ne veggono molti in questa isola; e il dolore che fanno le punture di questi crabroni sono maggiori assai di quelli che l'altre vespe fanno.
Vi sono qui mosche di molte maniere, e di quelle di Spagna, che ve ne solevano essere pochissime o nulle, già ve ne sono molte, benchè non tante quante in Spagna: ma sono piú fastidiose e noiose e piú forte mordono. Ve ne sono anco certe altre piú picciole, le quali però non vi sono d'ogni tempo come l'altre già dette. Vi sono certe altre mosche che vanno per gli alberi e per la campagna, alcune verdi e picciole, e altre di tante sorti e cosí differenziate, che è una cosa che non se ne verrebbe mai a capo scrivendole. Ma fra l'altre vi sono certe mosche verdi e dipinte, grosse come una vespa, e fanno i lor nidi in terra, perchè fanno certi buchi nel terreno, cavandovi con le braccia dinanzi e gittando co' piè di dietro la terra che cavano. Di queste ne sono molte in questa città di San Domenico per li cortili delle case, perchè, essendovi il terreno quasi arenoso, vi possono fare facilmente il lavoro che io dico. Queste mosche ammazzano le cicale delle verdi e picciole, e altri simili animaletti, e li portano volando di peso e li pongono dentro le lor caverne, e doppo che hanno alcuna di queste caccie fatta, e ripostala nella stanza loro sotterranea, escono di nuovo fuori e vanno per l'altre, né restano di fare mai questi viaggi. Onde si cava che questa provisione che fanno di vettovaglie dee essere per lo tempo che ha da venire, perchè queste mosche non compariscono in tutto l'anno, ma solamente quando sono poche pioggie e si comincia ad umettare la terra, e sono certe giornate calde che pare che arda il mondo piú per l'acque già fatte che per altro.
Sono qui tante maniere d'aponi e di scaraboni differenziati e varii, tanto ne' colori come nella grandezza, che è una materia della quale nel vero si potrebbe molto scriver, ma al parer mio senza utile e come quasi gittando al vento le parole che vi si spendessero. Ve ne sono neri, ve ne sono leonati, ve ne sono pendenti alquanto all'azurro, e altri di molte misture di colori insieme e di molte forme. Alcuni se ne vengono la notte al lume della candela, come fanno le farfalle in Europa; delle quali anco ne è qui un numero infinito e di strane maniere, perchè le piú picciole sono come quelle che io dico che entrano negli occhi come zanzali, e le piú grandi sono quanto è una mano co' deti stesi, e fra questi due estremi ne sono di varie grandezze, e alcune ne sono tutte azurre, del piú eccellente e fino azurro che si possa vedere, altre ne sono tutte gialle, altre miste di molta varietà di colori e lavori. Accade alle volte nelle pioggie, che in un battere d'occhi si vede l'aere pieno di queste zanzarelle, che poi diventano vermi che molto danno nelle possessioni fanno. Alcune di queste ne sono certi anni bianche tutte, certi altri anni sono bianche e nere, e certi altri d'altre varie differenzie e colori.
Sono anco qui certi aponi, di quelli che in Spagna vanno per le selvette e per le riviere de' fiumi, che sono lunghi come la metà d'un deto e sottili, e con le teste grosse e con due paia d'ali. Questi si veggono del continovo in Spagna ne' luoghi che ho detto, ma non in gran quantità, e cosí sono anco qui rari: ma molte volte anco ne vengono d'un subito all'improvviso per le pioggie tanti quanti ho detto che sogliono di quelle zanzarelle venire. Qui sono anco molte zanzale, e tante in certi tempi che sono un fastidio grande, e piú in un tempo che in un altro, e non con tutti i venti: ma nella campagna in certi luoghi ve ne sono tanti che non si possono sofferire, e li peggiori di tutti sono certi zanzali minutissimi, che li chiamano scisceni, e i quali pungono mirabilmente, e ve ne sono alcuni di loro che passano la calza. Quivi sono anco pulci, ma pochi e non in ogni tempo, e sono per lo piú assai piú piccioli di quelli di Castiglia, ma mordicano molto piú e sono peggiori.
In quel Sommario ch'io scrissi in Toledo nel 1525 dissi de' pidocchi, che nelle teste e ne' corpi degli uomini si generano, che pochissime volte ne hanno quelli che in queste contrade vengono, e sarebbe stato gran cosa chi ne avesse avuto uno o due, e questo era radissime volte, perchè, doppo che si passa, nel venire in qua, il dritto dell'isole degli Astori, tutti questi animaletti che o si portavano di Spagna o che si erano per cammino generati a questo segno e termine si fornivano tutti, e a poco a poco se ne perdeva il seme. E in questi luoghi piú non se ne vedeva niuno, fuori che in alcuni fanciulli che qui nascono figliuoli di cristiani, perchè gli Indiani ne avevano e hanno molti, cosí nella testa come nel corpo. Dissi anco che nel ritornare verso Europa, quando a quel segno istesso dell'isole degli Astori giungevamo, ritornavamo a ricuperare nella persona questi animaletti, a punto come se ivi aspettati ci avessero, e se ne caricavano tanti sopra che con molto affanno bisognava rimediarvi, per ritornare a starne netti, mutandoci spesso camicie nette e usandovi ogni diligenzia possibile. Quando io questo scrissi l'aveva esperimentato in me stesso e vedutolo in altri medesimamente, tutte quattro le volte che io aveva il mare Oceano passato. Io allora dissi il vero e quello che veduto aveva, ma ora ho fatto otto volte questo cammino, perchè dapoi venni a queste Indie e ritornai in Spagna, e poi ritornai a questa città di San Domenico e poi andai in Spagna: e in questa ultima e penultima volta ho io altramente che come l'altre veduto, perchè per tutto il cammino non mi mancarono mai di questi animali, e in tanta quantità che era un gran fastidio e travaglio.
Io non so in che consista questo secreto, o se questa calamità s'è arrischiata di fare anche essa questo cammino, o pure se ne sono i tempi cagione, perchè io viddi un tempo che non era necessario il ventaglio in questi luoghi mentre si mangiava, e ora bisogna che tutto l'anno si tenga in mano, per la gran copia delle mosche che vi sono; e come vi sono queste moltiplicate, cosí vi debbono avere fatto anco quegli altri animaletti sporchi de' quali ragionavo, e de' quali si crede che non possa scampare animale che abbia pelo, fuori che l'asino e la pecora. Ed è alle volte accaduto nel mondo nascere nella testa e nel corpo d'alcuni tanti che l'hanno cavato dal mondo, come si legge che avvenne a Silla, dittatore romano, e ad Alcmeone, poeta greco, che ne morirono. Né nuociono solamente agli uomini, ma agli uccelli anco, come nella sua naturale istoria lo descrive Plinio a lungo.
Sono in questa isola molte zecche, e spezialmente nelle bestie vaccine in campagna, e ne' buoi medesimamente che tirano i carri, ma poche se ne veggono ne' cani. Delle picciole che sono in terra ferma per la campagna dicono che qui non ne sono per queste isole, il che non è poco bene per gli uomini, perciochè, mentre durò la guerra della conquista di Castiglia dell'Oro, avevano ben che contare le genti di guerra e che dire delle zecche, come al suo luogo si dirà, quando nella seconda parte di questa istoria si parlerà delle cose di terra ferma.
In questa isola sono aragni di molte maniere e differenziati assai, e ve ne sono alcuni velenosi, e altri cosí grandi quanto è il cerchio che si può fare co' duoi primi deti della mano, andando a congiungere le lor punte insieme: dico del corpo loro solamente, senza quello che di piú occupano con le gambe. Alcuni altri ve ne sono non molto piccioli, che pare che abbiano a un certo modo la figura d'un viso umano, benchè, quando ben vi si mira, pare un'altra cosa di quello che a prima vista parea, e hanno molti raggi d'intorno, nel modo che dipingono un sole. Per la campagna vi sono molti altri aragni grossi e piccioli, con molte differenzie e varietà fra loro; e cosí fanno varie maniere di tele, e ve ne sono tali che non pare altro che una sottilissima e vera seta verde.
Sogliono essere in questa isola e in terra ferma alcuni anni locuste o grilli con l'ale: il che quando avviene, gl'Indiani e i cristiani anco lo tengono per una infelicità e per cosa molto travagliata, perchè rovinano i maizali queste locuste e fanno di strani danni nelle possessioni, e quando alcuno anno vi vengono suole essere il numero di loro infinito, ma è ordinario esservene d'ogni tempo alcune. Il medesimo dico de' grilli che saltano, perchè sono molto dannosi col corrodere e forare le veste, quando per le case nascono. Ve ne sono degli altri che cantano assai, e altri maggiori, altri minori, e cosí differenti nel corpo come nella voce e nel suono. Vi sono certe locuste o grilli piccioli, con assai lunghe gambe e sottili e verdi, che i fanciulli in Spagna li chiamano cervatichi. Gl'Indiani mangiano volentieri questi grilli o locuste già dette, e le tengono per un buon cibo, massimamente in terra ferma, dove a niuna cosa viva la perdonano che non voglino per lo palato loro passarla, come si dirà al suo luogo nella seconda parte di questa naturale istoria dell'Indie.
Degli animali che nascono nel legno e vi si generano di varie maniere, e della broma.
Cap. IIII.
Sono alcuni animali che per la pioggia si generano nel terreno, e altri nel legno, né solamente questi a questo modo nascono, che anco i tavani si generano dove sia molto umore, e, come Plinio nell'undecimo libro dice, nel ventre dell'uomo nascono i vermi di piú sorte, e nelle carni morte. Ma perchè vo' io servendomi di Plinio o d'altro auttore antico nelle cose chiare, e che ogni dí veggiamo con gli occhi e sono a tutto uomo note? Ritorniamo a questi animali che si generano nel legno, che non è picciolo morbo né poca calamità in queste parti; e questi tali vermi sogliono chiamare broma, ma quelli spezialmente che ne' legni delle navi si generano, dalla coperta in giú e dove tocca l'acqua. E di modo vi mangiano e corrodono che chi no 'l vede no 'l può credere né dirne tanto, ma io ne parlerò come testimonio di vista, e come di cosa che qui è molto ordinaria e comune. Dicono alcuni che questo verme viene dall'acqua e se ne entra nelle navi, altri credono che nel proprio legno si generi. E questo io piú credo, e che la umidità dell'acqua e la disposizione del legno e la potenzia del sole siano quelli che col tempo questo verme naturalmente in queste parti generino, perchè questo istesso si vede anco avvenire nelle botte e vasi di legno dove tengono o acqua o vino. Il caso è che, comunque questo verme si generi, è assai picciolo e come un sottilissimo filo di seta, e poi col rodere si fa cosí grosso come un deto, e tanto ben s'oprano che riducono le tavole come un favo di pecchie o come una spogna tutta smagnata, di modo che, quando si pongono poi in mare le navi, vi anniegano: e si sono spesse volte perduti co' vasselli per questa via i marinari con altre genti. E questa cosa è molto ordinaria, e la vediamo piú spesso accadere di quello che vorremmo.
Di questa spezie è il tarlo, corrodendo il legno ne fa polvere, e lo pertugia da banda a banda e lo guasta e rovina affatto: il che è assai noto e chiaro per tutto. Onde, perchè questa terra è umidissima, vengono per questa via presto meno i legni, cosí in questa città di S. Domenico come nell'altre isole abitate da' cristiani, dopo che gli hanno ne' loro edificii posti; e in quanto a' legni, si fa piú vecchia qui una casa in 30 anni che 'n Spagna in cento. Questo chiaramente si vede qui per queste case nostre, che tutte sono moderne e da poco tempo in qua fatte, e i lor legnami stanno tali che 'n Spagna starebbono meglio, ancorchè fossero state di 150 anni a dietro edificate. Scrive il protonotario Pietro Martire nella sua Deca, che delle cose di quest'Indie scrisse, senza altramente vederle (il quale libro egli intitolò Del nuovo mondo), che qui sono certi alberi che per la loro amarezza non vi possono né vi vanno i tarli né gli altri vermi. Il che sarebbe molto utile, se fosse il vero. Ma io sono stato in quella contrada che esso dice, e non vi sono tali alberi, né fino a quest'ora in queste parti si conoscono né legni né alberi che si possino dire da questi tarli e vermi liberi, perchè ve ne sono tanti, e cosí dannosi e nocivi, e a' vasselli di mare e agli edificii di terra, che, se tal legno vi fosse, sarebbe ben conosciuto e lo stimarebbono molto, e se una volta si sapesse non si lasciarebbe piú dalla memoria cadere, perchè non sarebbe in poco uso. Ma io lo tengo per favola e non per vero. E chi a quello scrittore tal cosa disse non li disse il vero, almeno mentre quell'autore visse, né fino ad dí d'oggi, che sono già tre anni che egli all'altra vita passò, e nostro Signore lo raccolga nella gloria sua; ch'io nel vero mi tengo che esso desiderasse di scrivere le cose vere e certe, se ne fosse stato fedelmente informato, ma perchè egli parla di quello che non vidde, non mi maraviglio che ne' suoi libri molti errori si veggano.
Delle fotule, che cosí in Andalusia chiamano.
Cap. V.
Le fotule sono certi animaluzzi leonati, e della grandezza che sono quelli neri che si veggono nel regno di Toledo: ma questi però son piú leggieri e volano quando vogliono, e sono importuni e fastidiosi incredibilmente e di cattivo odore, e poche casse di veste li possono fuggire, perchè tosto vi si pongono dentro e danneggiano la vesta. Dicono alcuni che non ve n'erano in quest'isola Spagnuola, e che vi vennero di Spagna con le casse de' mercatanti, e cosí ora ve ne sono molte per tutte quest'Indie, dovunque i cristiani abitano. In tutta Spagna non ne ho io vedute se non in Andalusia, e da quest'altra parte della Serra Morena verso l'Andalusia, presso a Cordova e a Siviglia; ma molte piú nelle costiere e porti dell'Andalusia e del regno di Granata, perchè mi pare che non si vogliono a contrade fredde accostare. Hanno certe ale come gli scarafoni, con le quali cuoprono certe altre alette sottili che loro sotto stanno. E sono tutte di colore leonato, come s'è detto, ma alcune piú oscure che l'altre, soglion in alcuni luoghi d'Italia chiamarli neri lanaroni, e pare che dentro le casse istesse naschino.
Degli animali che non hanno spiraglio, onde possino purgare quello che mangiano,
fuori che per la propria bocca onde tolgono il cibo.
Cap. VI.
Plinio, nel 34 capitolo del XI libro della sua Naturale istoria, ragiona di quelli animali che non hanno onde digerire né evacuare se non per la bocca stessa onde mangiano, e dice che questo è spezialmente uno animale che ficca la testa nel sangue e si sazia ed empie tanto che crepa e muore, e che questi tali animali si generano ne' buoi e ne' cani. Per questi segni penso io che siano le zecche, delle quali io sopra nel terzo capitolo feci una breve menzione. Ma poichè ora il caso mi si offerisce, dico che di piú di questo animale ve ne ha un altro che ha la medesima proprietà, ed è la sanguisuga vermiglia, che essendo picciolissima e sottile, s'alcuno insieme con l'acqua la bee e se l'attacca nella gola, vi si fa cosí grossa come un deto. Sono anco alcuni che costumano di cavarsi sangue con queste sanguisughe, perchè le si pongono nel braccio o nella gamba dove loro piace, ed esse tanto vi succiano sangue che vi diventano grosse e lunghe come un deto, non essendo prima lunghe quanto una unghia e sottili come un filo. Questa è cosa che si vede ogni giorno e si può provare da chi vuole, e io ne ho veduta l'esperienzia in un gentil uomo mio amico, il quale, sentendosi indisposto, perchè aveva per costume di cavarsi per questa via sangue, si pose in presenzia mia due sanguisughe in un braccio, le quali indi a mezza ora s'empierono di sangue e si fecero un deto grosse. Ed egli allora, levando queste via, vi pose dell'altre; e a questo modo fece finchè si cavò tanto sangue quanto egli volse, e poi si legò quelle piaghette con telette di lino, come si suole fare quando altri per la via ordinaria e col ferro si cavano sangue. Ma in quel dí stesso, andando negoziando per la terra, se gli disciolse una di queste fascette di tela senza accorgersene, finchè ebbe tutta la manica della camicia piena di sangue, e quella del giuppone anco. Onde se ne ebbe a trovare burlato. Questo che io dico del cavare sangue con le sanguisughe l'ho io veduto. Ma non s'è per altro di questo animale qui detto che perchè non ha né anco egli onde purgare il suo pasto, come la zecca. E ne sono anco qui sanguisughe, e di quelle anco che non sono rosse.
Molte volte riputai una pazzia quello che quel gentil uomo faceva in cavarsi a quel modo sangue, ma doppo molto tempo lo ritrovai scritto in Plinio, nel decimo capitolo del 32 libro, dove dice che queste sanguisughe fanno il medesimo utile che le ventose, e che sono medicinali per alleggierire il corpo del sangue, ma che è inconveniente purgazione, perchè bisogna ogni anno nel medesimo tempo fare il somigliante e cavarsi nel medesimo modo sangue. Dice anco che qualche volta queste sanguisughe vi lasciano la testa e vi fanno la ferita incurabile, e sogliono ammazzare molti, come intervenne a Messalino, patrizio e consolare, che se le aveva poste nelle ginocchie. E per questo sommamente si temono e fuggone le rosse. Onde questo autore dice che è bene che lor, mentre sugano, si tagli la bocca con le forbici. Vi ha anco un altro animale che, secondo che se ne scrive, non ha né anco egli spiraglio né buco alcuno dalla parte inferiore o conveniente a purgare il cibo, e questo è il cocodrillo. Ma passiamo agli altri animali insetti.
Delli scorpioni che sono in questa isola Spagnuola e nell'altre di queste Indie.
Cap. VII.
In queste isole dell'Indie e in terra ferma sono scorpioni come quelli di Castiglia, e in alcuni di questi luoghi ve ne sono molti. Scrive Plinio nel suo undecimo libro che questo animale, doppo che punge o morde, uccide per spazio di tre dí, e che la sua ferita è sempre mortale nelle vergini e quasi in tutte le femine. Ne dice anco altre particolarità, le quali per la maggior parte mancano agli scorpioni di queste parti, perchè qui non è mortale il loro morso, benchè dolga molto un quarto d'ora e qualche volta piú. E io ne sono stato in queste parti morsicato da molti di loro, e ho in me stesso esperimentato che uno dà piú dolore che un altro. Il che dee anco consistere nello stare l'uomo digiuno o satollo, o pur può anco nascere dallo stare o no digiuno il scorpione istesso. Ma, come che si sia, qui non è uomo, né donna né anco, che perciò ne corra pericolo. E io tengo per cosí gran dolore la puntura della vespa come quella dello scorpione in queste Indie, e quella d'alcune vespe anco maggiore, ancorchè, secondo mi pare, avendo l'uno e l'altro provato, piú tempo dura il dolore della puntura dello scorpione che quello che per la vespa si causa.
Delle mosche o zanzarelle e altri simili animaletti che volano e risplendono la notte, e specialmente d'alcuni di questi, che gl'Indiani in questa isola li chiamano cocuio.
Cap. VIII.
Molte moschette o zanzarelle e scarafoni sono per tutte queste isole che rilucono di notte, e vanno volando come quelle che chiamiamo in Europa lucciole, le quali di state la notte volano: ma qui questi animaletti quasi d'ogni tempo si veggono, perchè qui è poca differenzia fra il dí e la notte, e sempre vi è la stagione temperata, poichè non vi si sente soverchio calore e poche volte si sente freddo, che è quando in questa isola Spagnuola soffia il vento di tramontana, o che si sta presso ad alcuni monti, che qui molti ne sono. Sí che di queste lucciole ne sono qui molte e di varie maniere, ma picciole; e ve ne è d'una sorte particolarmente che la chiamano cocuio, che è cosa certo molto notabile. Questo è uno animaletto assai noto in questa isola Spagnuola e in tutte l'altre convicine, ed è della spezie de' scarafoni, e cosí grosso come è la testa del primo deto grosso della mano, o poco minore. Ha due ali dure, sotto le quali ne sono due altre piú sottili, che vi si conservano e cuoprono quando questo animale non vola; il quale ha gli occhi risplendenti come candele accese, di tal sorte che onde volando passa fa l'aere vicino cosí chiaro e lustro come suole un lume acceso farlo, e se a prima sera, essendo tenebroso e oscuro l'aere, alcuno portarà in mano un cocuio, tutti quelli che dalla lunga li vedranno e averanno bisogno d'accendere lume vi verranno, credendo che una candela accesa sia. In effetto dagli occhi di questo animaletto esce tanto lume e splendore, che dentro una camera oscura e chiusa a questo lume solamente si vede assai bene a leggere e a scrivere una carta. E s'accoppiano insieme e legano o infilzano quattro o cinque di questi cocui, se ne servono tanto quanto d'una buona lanterna, nella campagna o per li boschi o per qualunque altro luogo, essendo di notte ben oscura.
Quando si faceva in questa isola Spagnuola e nell'altre isole la guerra, si servivano i cristiani e gl'Indiani di questo lume per non si perdere e smarrire l'un l'altro la notte; e gl'Indiani spezialmente, che erano piú destri a prendere di questi animali, ne facevano collane, quando volevano essere visti una lega e piú lontani. E cosí in campagna e nelle caccie di notte con questi cocui fanno le genti quello che loro bisogna, senza temere né vento forte né acqua che smorzi loro il lume. Quando andavano di notte gli uomini da guerra in questa isola a far assalto, la sentinella o la scorta che giva avanti si poneva in testa un cocuio, e serviva per faro a tutte le altre genti che lo seguivano.
Questa chiarezza che ha questo animaletto negli occhi l'ha medesimamente ne' fianchi, onde, quando volando apre l'ale, mostra maggior chiarezza per quella che allora anco sotto l'ali discuopre, che è tanta quanta è quella degli occhi: e cosí volando si viene ad adoppiare la luce. Costumano di tenere presi e rinchiusi questi cocui per lo servigio di casa, e per cenarvi di notte senza altro lume. Il che facevano medesimamente nel tempo adietro alcuni cristiani per non spendere in oglio che per le lucerne bisognava, perciochè era l'oglio in quel tempo molto caro perchè non ve ne era; e quando vedevano che il cocuio si smorzava o andava perdendo questa virtú risplendente, o per l'affanno della sua prigione o pur perchè egli veniva meno, lo scioglievano e lo lasciavano in libertà, e prendevano degli altri per gli altri giorni seguenti. Si fregavano gl'Indiani il viso e 'l petto con certa pasta che di questi cocui facevano, e quando stavano nelle lor feste e volevano prendersi piacere, andavano a quel modo a porre spavento a chi del tutto fuori di questo pensiero si ritrovava, o che non sapeva quello che questo fosse, perciochè tutto quello che con questa pasta unto si ritrovava pareva proprio che di fuoco acceso fosse. Come va questo animale mancando e morendo, cosí va quella chiarezza perdendo a poco a poco, finchè del tutto si estingue e risolve in nulla. E questo quanto alle lucciole basti e quanto agli altri animali che risplendono, de' quali tutti credo io che questo cocuio, in questa parte del rilucere, ottenga il principato.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta della conquista dell'isola del Borichen, che ora i cristiani chiamano di S.Giovanni.
Libro sestodecimo
Proemio
Poi che bisogna, per concludere la prima parte di questa Naturale e generale istoria dell'Indie, dare anco dell'altre isole particolari conto, avendo ragionato tutto quello che ho potuto vederne e intenderne della principale di tutte queste isole, chiamata dagl'Indiani Haiti e da' nostri Spagnuola, passeremo ora a dire di quella del Borichen, che ora di San Giovanni la chiamano, perchè nel vero ella è assai ricca e fertile e molto stimata. Mi forzerò con la maggior brevità possibile di por fine a questo XVI libro, per passare poi a trattare negli altri seguenti dell'altre isole notabili di queste Indie, anzi di tutte, fuori che di quelle che stanno assai presso a terra ferma, perchè di loro si farà menzione nella seconda parte nel suo conveniente luogo.
E per non dare fastidio al lettore con ripetere piú volte una cosa stessa, nelle cose simili mi referirò a quello che se ne è detto con cose dell'isola Spagnuola, perchè vi hanno molte cose simili, cosí negli uccelli come negli animali e ne' pesci e in altre simili cose. E per essere meglio inteso, non seguirò autore alcuno antico, che si contentarono, nel descrivere qualche provincia, dire l'altre convicine per darle ad intenderle, che io mostrerò in che parallelo o altezza e gradi del polo situata si trovi tanto questa isola quanto l'altre delle quali appresso si parlerà, e quanta distanzia abbiano dall'equinoziale, che questo è il piú certo misurare, perchè da ogn'uomo s'intenda, che altro che si faccia. Che se a questo modo fatto avessero coloro che di queste isole Esperide scrissero (che io per tali le tengo, per le ragioni dette di sopra nel secondo libro), non se ne sarebbe perduta la navigazione, né le chiamarebbono ora Mondo Nuovo, come Pietro Martire le chiama nelle sue Decadi che di queste Indie scrisse, perciochè non è piú nuovo né piú vecchio questo mondo di qua che si siano Asia, Africa ed Europa. Ma perchè in niuna di queste tre parti nelle quali gli antichi cosmografi divisero il mondo posero questa gran terra dell'Indie, parve al sopradetto autore di Mondo Nuovo chiamarlo.
Cosa chiara è che né Africa né Europa possono essere queste Indie, poichè il Nilo divide l'Africa dall'Asia dalla parte d'oriente; e da ponente le circonda il mare Oceano, e da mezzogiorno medesimamente, e quanto è dal Nilo verso oriente s'attribuisce da Tolomeo all'Asia. L'Europa medesimamente, secondo gli antichi, viene divisa dall'Asia dal fiume Tanai, e dalla parte di mezzogiorno ha il mare Mediterraneo, e dall'occidente ne è gran parte dal mare Oceano girata a torno, e dalla parte superiore di tramontana ha il mare congelato e i monti Iperborei, e da oriente ha la Sarmazia e la Scizia e il mare Caspio, che tutto questo è d'Asia. Egli è cosa assai nota e chiara adunque, che queste nostre Indie non possono a niun modo essere parte né d'Africa né d'Europa, per quello che de' lor termini pure ora ho detto; e che, s'hanno da partecipare con niuna di queste tre parti, ha da essere con Asia, che allora chiaro sarebbe, quando si fosse già veduto e risoluto che l'ultima parte orientale dell'Asia si congiungesse e unisse con la parte piú occidentale della terra ferma di queste nostre Indie, che è quello che sta piú verso ponente della Nuova Spagna, che qui chiamiamo; che, per non essere stata ancora del tutto discoperta, non si sa se il suo fine è mare o terra, o se sta tutta da quella parte circondata dal mare Oceano. Il che io piú tosto credo, e non solamente la opinione mia, ma di molti altri fino a questa ora, si piega a credere che questa terra non sia parte d'Asia, né che si congiunga con quella che gli antichi Asia chiamarono; anzi per piú certo si tiene che la terra ferma di queste Indie sia un'altra metà del mondo, e per aventura maggiore di quella nella quale Asia, Africa ed Europa si comprendono, perchè si pensa che, essendo la terra tutta in due parti divisa, una ne sia quella che gli antichi Africa, Asia ed Europa chiamarono, e l'altra sia questa delle nostre Indie.
E per questa via ebbe ragione Pietro Martire di chiamarli Nuovo Mondo, per quello che si può considerare che gli antichi ne intesero e non ne intesero, poichè, come io ho altrove detto e provate, queste isole sono le Esperidi, conosciute dagli antichi; ma la terra ferma, che io non per l'Esperidi ma per una metà di tutto il mondo pongo, non fu da lor conosciuta. E che questa cosmografia della opinione mia sia vera, lo fa chiaro la pittura di tutto quello che è stato qui discoperto, e il bossolo da navigare ci insegna e mostra pontualmente la linea del diametro del mondo nell'isole degli Astori, come se ne è piú di lungo nel secondo libro ragionato. Sí che da questa linea verso oriente chiamo io una metà del mondo, nella quale Africa, Asia ed Europa si comprendono, e da quella stessa verso occidente chiamo l'altra metà, nella quale queste nostre Indie e terra ferma cadono.
Vediamo che questa terra ferma dell'Indie apre una bocca a modo d'una cornetta da cacciatore, e la sua punta, ch'è verso tramontana, è la terra che chiamano del Lavoratore, che sta 60 gradi o piú lontana dall'equinoziale; e l'altra ponta, ch'è verso mezzodí, sta 8 gradi dall'altra parte della linea dello equinozio, e quest'altra ponta si chiama il capo di S. Agostino. E partendo da una ponta per andare all'altra terra, bisognerebbe navigare, costeggiando a questo modo, piú di tremila leghe dalla parte interiore di queste ponte del Cornetto; ma volendo fare questa istessa navigazione per la parte di fuori, entrando dallo stretto che discoperse il capitano Fernando di Magaglianes, bisognerebbe fare piú di seimila leghe, chi tal cammino facesse per giungere dalla parte di fuori all'altra ponta di tramontana che s'è detta (se, come ho detto, questa ponta non si giunge con Asia, poi che secondo l'opinione mia tutta questa terra ferma viene abbracciata d'ogni intorno dal mare Oceano), perciochè, come la nuova cosmografia ci mostra, correndo dal detto capo di S. Agostino verso mezzodí si dilata questa terra ferma fino al detto stretto di Magaglianes, che sta a 25 gradi e mezzo dall'altra parte della linea equinoziale. Sí che entrate cosmografi per questo stretto ch'io dico, e andate girando intorno a trovare il capo del Lavoratore dalla parte di tramontana, e vedrete che sarà doppio il cammino di quello che sarebbe andando dalla parte di dentro dall'un capo di questi all'altro; tanto piú che né dalla parte di dentro, né dalla parte di fuori di questo ponte, non si sa pontalmente né s'è discoperto ancora quello che vi sia; benchè ne sia dalla parte di dentro stata la maggior parte vista di quanto è dall'un capo all'altro, e queste nostre isole vengono ad esservi come meditarranee: cosa conforme a quello che già s'è detto e che c'insegnano le carte moderne di navigare.
Di quest'isole adunche, che sono da ponente alla linea del diametro del mondo, che per l'isole degli Astori passa, e che 'n queste nostre Indie sono, scriverò io particolarmente, e di quelle spezialmente che sono da' cristiani abitate, di piú dell'isola Spagnuola, della quale, come della piú principale, s'è ne' precedenti libri ragionato. Queste delle quali voglio ora parlare sono l'isola del Borichen e quella che chiamano gli Indiani Cuba e i cristiani Ferrandina, e la Iamaica, chiamata ora di S. Giacomo, e la Cubagua, che i cristiani chiamano l'isola delle Perle o la nuova Calis. Ve ne sono anco due altre picciole, le quali sono abitate da' cristiani, ma da pochi, e l'una di loro si chiama la Margarita, ch'è presso all'isola di Cubagua, e l'altra è la Mona, che sta fra quest'isola Spagnuola e quella di S. Giovanni. D'ogniuna di queste si dirà qualche cosa, e prima della Mona, poichè per andare da quest'isola Spagnuola a quella di S. Giovanni s'ha da passare presso a quest'isoletta. E cosí, con l'aiuto di Dio, spedito che sarò dell'isole particolari ch'ho dette, parlerò nel generale dell'altre, per conchiudere e finire questa prima parte della Naturale istoria dell'Indie; dove, ancorchè vi siano molte cose nuove e notabili, assai piú e maggiori se ne vedranno nella seconda e terza parte, se al Signore Iddio piacerà di farmi con ordinato stile porre in carta quello ch'ho già notato e appontato delle cose di terra ferma, che nel vero sono cose che mai non si udirono né si scrissero d'alcuno autore antico, poichè né anco della terra notizia ebbero. Perciochè, se ben conobbero l'isole Esperidi, non per questo conobbero anco questa terra ferma, come dalle parole di Solino e degli altri autori che dicono l'istesso si cava, che dicono della navigazione de' quaranta giorni dall'isole Gorgoni o di capo Verde fino alle Esperidi, e non fanno parola della navigazione che da quelle isole stesse alla terra ferma fare si potrebbe, ch'è assai piú vicina loro e in assai minor tempo navigare vi si potrebbe, come dalla esperienzia ogni dí si fa chiaro.
Del sito dell'isola della Mona e di quella del Borichen, che ora di San Giovanni la chiamano, con alcune altre particolarità.
Cap. I.
Chiamano gl'Indiani Borichen l'isola ch'ora i cristiani chiamano di S. Giovanni, la quale sta da oriente a questa isola Spagnuola da 25 o 30 leghe. Ma nella metà di questo cammino sta l'isola della Mona, posta 17 gradi lontana dall'equinoziale, dalla banda del nostro polo. Quest'isola della Mona è assai picciola e bassa e piana, e può girare a torno da tre leghe, poco piú o meno, ma è fertile e abitata da pochi cristiani e d'alcuni Indiani; e l'ha ora in carico Francesco di Barrio Nuovo, che poco fa che fu governatore di Castiglia dell'Oro. In questa isoletta sono molte peschiere e v'è buona acqua, e l'utile che se ne cava è 'l pane del cazabi, ch'è quella buona vettovaglia degl'Indiani che s'è detto di sopra. Vi sono assai e buoni granchi de' rossi, che sono migliori degli altri, e vi sono assai buoni erbaggi di orti, e vi si fanno eccellenti melloni di quelli di Castiglia. Ma perchè la terra è poca, quello in che piú serve, e quello che s'è detto, è che alcune navi vi ritrovano acqua, quando nel viaggio accade averne necessità.
E passando all'isola di S. Giovanni, che sta altre 12 o 15 leghe piú oltre della Mona verso oriente, dico che presso la sua ponta da occidente ha una isoletta o scoglio tondo e alto, che lo chiamano Zicheo, ma è disabitato. L'isola istessa di S. Giovanni è longa 55 leghe, poco piú o meno, e larga 18 o 20 dove è piú larga, perchè in altre parte è 12 e 15, secondo la figura ch'ella ha. La parte occidentale di questa isola sta in 17 gradi dell'equinoziale, e la parte di tramontana quasi disdotto, e a questo modo va dal levante al ponente. Dalla parte di tramontana la costiera di questa isola che è brava, salvo che dove è ora la principale terra che vi sia; tutto il restante è pericoloso, per esservi la traversia di tramontana. Dalla parte di oriente ha molte isolette basse, che le chiamano le Vergini. E dalla parte di mezzogiorno ne ha alcune altre pure picciole longo la costiera. Da occidente ha quello scoglio di Zicheo che di sopra ho detto, e vi ha questa isola Spagnuola. Questa isola di San Giovanni è molto ricca d'oro, e vi se n'è cavato gran quantità e vi se ne cava continovamente, massimamente dalla costiera di tramontana, come dalla parte opposita di mezzogiorno è molto fertile di vettovaglie, perchè vi si fa molto grano di maiz e di cazabi, e tutte l'altre cose che gl'Indiani coltivavano e avevano nella isola Spagnuola; e vi sono anco buone peschiere. E per queste cagioni viveva e signoreggiava in questa parte il maggior signore dell'isola, al quale molti altri cacichi obedivano. Sono anco in questa costiera di mezzogiorno molti buoni porti. Quanto agli uccelli, agli animali terrestri e pesci e arbori, e alla portatura o abito e nella maniera delle genti, questa isola in cosa alcuna non differisce da quello che s'è già detto dell'isola Spagnuola, salvo che gl'Indiani del Borichen erano arcieri e piú uomini di guerra, ma cosí ignudi andavano, e del medesimo colore e statura erano. La maniera delle loro barche o canoe era quella stessa che s'è già nell'isola Spagnuola descritta.
Quello in che queste due isole differivano si dirà appresso in alcune cose particolari, perchè prima che vi passiamo è bene che si dica il modo come fu questa isola conquistata da' cristiani, insieme con alcune altre cose notabili che nella sua pacificazione passarono. Questa isola di Borichen ha quasi per lo mezzo suo un monte che vi si stende di lungo, con molti e buoni fiumi e acque che per molte parti la irrigano. Ma il maggior fiume e piú principale entra in mare dalla parte di tramontana, e si chiama Cairabon. Un altro, nella medesima costiera piú verso oriente, si chiama Tainiabon. Un altro, chiamato Baiamon, va in mare presso dove la sua foce confina con la isoletta nella quale sta fondata la principale città dell'isola, chiamata San Giovanni di Porto Ricco, perchè una lingua d'acqua salata, che entra dal mare alla detta foce, lascia quello spazio diviso, dove sta da una parte e nel piú erto luogo della costiera la detta città, chiamata di San Giovanni come l'isola; e ha vescovado, ed è una buona terra, che potrà avere da cento cittadini o case, con una bella chiesa catedrale, della quale ancor vive il primo vescovo, chiamato don Alonso Manso, buon prelato e religiosa persona, e che fu già sacrestano maggiore del serenissimo prencipe don Giovanni, mio signore, perchè doppo la morte del prencipe fu egli dal re catolico eletto a questa dignità vescovale, nel medesimo tempo che furono fondate le chiese e vescovadi della isola Spagnuola, nel 1511. E sempre è stato costui persona esemplare e di molta santità.
In questa città di San Giovanni è un gentile monasterio dell'ordine de' predicatori e bene edificato, benchè non sia ancora del tutto compito. Il fiume posto piú verso oriente da questa stessa costiera di tramontana, e che scorre da levante alla detta città, si chiama Luisa, dove stava già una cacica che fu poi cristiana, e si chiamò Luisa medesimamente, e l'ammazzarono gl'Indiani caribi, come si dirà appresso. Il fiume posto piú verso occidente in questa isola si chiama Canui, ma il maggiore che sia in tutta l'isola è, come s'è detto, il Cairabon. Dalla parte occidentale di questa isola è una terra chiamata San Germano, dove sono da cinquanta case di cittadini, e il suo porto non è buono, perchè è molto scoperto e aperto, ma vi entra un fiume chiamato Guaorabo. Nella medesima costiera di ponente vi sono altri fiumi, come sono l'Acquada e Culibrimas, fra li quali fu già una terra chiamata Soto maggiore; e dall'altra parte di S. Germano verso mezzogiorno nella medesima costiera di ponente stanno due altri fiumi, Maiagues e Corigues; e piú avanti sta la punta che chiamano di capo Rosso. Dalla parte di mezzogiorno, venendovi da ponente, si trova prima presso una foce di fiume, dove fu già un popolo che si chiamò Guanica; e piú verso levante sta un'altra foce ritonda, e con un buono porto chiamato Iauco. E piú verso oriente sta il fiume di Baramaia, e piú oltre se ne trova un altro, chiamato Sciaragua, dirimpetto al quale sta una isola chiamata Angulo, benchè ella tonda sia.
E piú verso levante, quasi nel mezzo di questa costiera di mezzodí, stanno le saline, e lor presso il fiume di Guaiama, e piú oltre se ne trova un altro chiamato Guaibana, e piú avanti un altro detto Guaianei, e piú oltre un altro che lo chiamano Macao. E passando oltre, nella fronte dell'isola che ad oriente riguarda, ve ne ha un altro chiamato Fagiardo. Tutti questi fiumi dalla parte di mezzogiorno e di tramontana nascono, e vengono dalla montagna che ho detto, che si stende di lungo per mezzo dell'isola da levante a ponente, e pare che questi fiumi si vadino compartendo per tutti que' luoghi dell'isola. E sono per la maggior parte piccioli, benchè ve ne siano alcuni ben buoni, ma il maggiore di tutti è Cairabon, che scorre dalla parte di tramontana, la qual costiera è la piú ricca d'oro che in tutta l'isola sia. Ora, perchè vi è temperato l'aere e l'acque vi sono copiose, come s'è detto, ne seguita che tutta l'isola sia fertilissima e copiosa d'animali di tutte le sorti, come è l'isola Spagnuola, cosí di vacche e pecore e porci e cavalli come di tutte quelle altre cose che si sono ne' precedenti libri dette in lode dell'isola Spagnuola.
Come, per ordine del commendatore maggiore d'Alcantara don fra' Nicola d'Ovando, si cominciò ad abitare da' cristiani l'isola di Borichen, per mezzo del capitan Giovan Ponze di Leone, con altre cose.
Cap. II.
Doppo che il commendatore maggiore don fra' Nicola d'Ovando venne per governatore di questa isola Spagnuola, e vi ebbe conquistata e pacificata la provincia di Higuei, che sta alla parte piú orientale di tutta l'isola, e piú vicina che altra all'isola del Borichen della quale ora si tratta, pose per suo luogotenente in quella terra di Higuei un capitan, persona da bene e gentil uomo, chiamato Giovan Ponze di Leone, il qual io conobbi assai bene, e fu un di coloro che passarono a queste parti col primo admirante don Cristoforo Colombo, nel secondo viaggio che a queste Indie fece. E perchè s'era ritrovato nelle guerre passate, e si era già fatta e veduta prova del suo valore, era tenuto per persona atta e da confidarsene in simili casi; e perchè era stato capitano nella conquista di Higuei, ebbe da quelli luoghi notizia, e intese dagl'Indiani che aveva seco, che nell'isola di Borichen era molto oro. Il che quando egli seppe, lo comunicò in secreto col commendatore maggiore, che in quel tempo in questa isola Spagnuola risedeva, e che li diede licenzia di passare all'isola di Borichen a tentare e vedere che cosa ci fosse, perchè, se ben si sapeva l'isola ed era stata già discoperta dal primo admirante, non si trovava però conquistata né pacifica.
Per questo effetto adunque il capitan Ponze tolse un caravellone, con certe genti e buone guide d'Indiani, e se ne venne alla terra del principale caciche o re dell'isola, il quale si chiamava Agueibana, come il fiume che s'è detto di sopra. Egli fu da costui ben ricevuto e corteggiato, perchè questo re li diede di quelle cose che gl'Indiani per loro sostentamento avevano, mostrando d'avere piacere di conoscere e d'essere amico de' cristiani. La madre e 'l padrigno di questo caciche mostravano d'avere molto cari i cristiani e facevano loro molta festa. Il capitan Giovanni Ponze pose nome a questa cacica donna Agnessa, e a suo marito don Francesco, e ad un fratello di lei Agnasco, perchè il medesimo Indiano volle essere cosí chiamato, dal nome d'un gentil uomo che col capitan Ponze andava, chiamato Luigi d'Agnasco. E il caciche istesso Aigueibana fu Giovan Ponze chiamato dal nome del capitano istesso, perchè costumano gl'Indiani in queste isole, quando una nuova amicizia prendono, di prendere anco il nome proprio del capitano, o d'altra persona che sia, con la quale la pace e l'amistà contraggono. Questo caciche era buona persona e molto obediente a sua madre, la quale era una buona donna, e come colei ch'era d'età, aveva notizia delle cose accadute nella conquista e pacificazione dell'isola Spagnuola, onde, come prudente, diceva del continovo e consigliava a suo figlio e agl'Indiani che fossero buoni amici de' cristiani, se non volevano tutti sicuramente morire. Per questi ricordi di sua madre se n'andò il caciche col capitano de' nostri, dandoli una sua sorella per amica, nella costiera di tramontana di quella isola, e li mostrò alcuni fiumi con oro; e quello spezialmente che nella lor lingua chiamano Manatuabon, e un altro che lo chiamano Cebuco, che sono duo ricchi fiumi, e da' quali il capitano fece raccorre dell'oro, e ne portò una buona mostra all'isola Spagnuola al commendatore maggiore, lasciando nell'isola di San Giovanni alcuni cristiani, assai in pace e in amistà con gl'Indiani.
Ma quando Giovan Ponze giunse a questa città di S. Domenico, ritrovò che era già venuto il secondo admirante don Diego Colombo, e che era stato già dal governo il governatore maggiore rimosso. E allora venne con l'admirante un cavaliero ch'era stato secretario del serenissimo re don Filippo, chiamato don Cristoforo di Soto maggiore, che lo conobbi assai bene, e fu figliuolo della contessa vecchia di Caminan e fratello del conte di Caminan. Questo don Cristoforo era persona generosa e nobile, e il re catolico lo mandava per governatore dell'isola di San Giovanni. Ma l'admirante, ancorchè fossero venuti di compagnia, non gliele concedette, né volle che egli vi restasse o vi andasse poi, perchè vi mandò per suo luogotenente e giustiziero maggiore Giovanni Zeron, e per algozilo maggiore Michele Dias, del quale s'è altrove fatta menzione. E Giovan Ponze, veggendosi fuori delle speranze che aveva col commendatore maggiore concepute, se ne passò dall'isola Spagnuola a quella di San Giovanni, con la moglie e le figlie sue. Quelli duo che l'admirante don Diego vi mandò governarono quasi un anno quella isola. Ma il commendator maggiore, che era andato in Spagna facendo relazione de' servigi di Giovanni Ponze, negoziò col re catolico che gli desse il governo di quella isola, e ottenutolo ne li mandò la provisione regia. In virtú della quale fu il Ponze ammesso all'ufficio come luogotenente dell'admirante don Diego, ma posto per lo re, che cosí gli parve che fosse suo servigio.
Pochi dí appresso il Ponze prese il giustiziero maggiore Giovan Zerron e l'algozilo maggior Michele Dias, per alcuni eccessi che a loro s'apponevano, e li mandò prigioni in Spagna a presentarsi davanti al re catolico, e cosí fece suo giustiziero maggiore don Cristoforo di Soto maggiore. Il che molto a dapochezza gli attribuirono, come nel vero era, in accettare e farsi inferiore, né in quello né in altro ufficio, a Giovan Ponze, per essere cosí generoso e ben nato, e per essere stato poco tempo innanzi secretario del re don Filippo, come s'è detto; là dove il Ponze era un povero scudiero quando in queste parti passò, e in Spagna era stato servitore di Pero Nugnes di Guzman, fratello di Ramiro Nugnes signore di Toral, il quale Nugnes, quando il Ponze da paggio lo serví, aveva poco piú di 300 scudi d'entrata, benchè di illustre sangue fosse, e poi fu avo dell'infante don Fernando, che è ora re de' Romani. Voglio inferire che fra la persona di don Cristoforo a quella di Giovan Ponze era gran disaguaglianza di generosità di sangue, benchè il Ponze fusse riputato e tenuto per gentil uomo e per persona da molto, per quello che fu poi, come appresso proseguendo l'istoria si dirà. Sí che, tanto quelli che erano andati col capitano Giovan Ponze, quanto quelli che don Cristoforo menò seco, tutti ebbero a male che egli questo ufficio accettasse. Il perchè egli, come scornato e pentito dell'error suo, lo lasciò e nol volse; ma non già senza essere cacciato di averlo preso.
Indi a poco tempo il capitano Ponze venne in questa città di S. Domenico, e menò seco il caciche Agueibana, che desiderava di vedere le cose di questa isola Spagnuola, che a quel tempo si ritrovava bene abitata da' Indiani e da' cristiani. E se questo caciche e sua madre fussero vivuti, non sarebbono mai seguite le ribellioni degl'Indiani di San Giovanni e le pazzie che ne seguirono; ma perchè poco tempo passò che morirono la madre e 'l figliuolo, ereditò quello stato un suo fratello, che era naturalmente cattivo e di pessimi desiderii e costumi. Costui stava per repartimento raccomandato a don Cristoforo di Soto maggiore, e però aveva tolto il nome di don Cristoforo. Era cosí buon cavaliere e cosí gentile questo suo avo, che quanto aveva dava a quel traditore di suo caciche, il quale, in pago di cosí buone opere, un dí crudelmente l'ammazzò, nella maniera che si dirà appresso, sí per sodisfare a se stesso e all'odio che al suo signore e alli cristiani portava, come perchè in effetto questa generazione d'Indiani è naturalmente ingrata e inchinata molto al male, né, per ben che se li faccia, dura lor la memoria né la volontà di renderne grazie alcune.
Del primo popolo di cristiani che fu in questa isola di Borichen,
e perchè poi si mutò da un luogo ad un altro.
Cap. III.
Nel tempo che Giovan Ponze governava questa isola di S. Giovanni, fece la prima terra nella quale i cristiani abitarono in quella isola, dalla banda di tramontana, e le pose nome Caparra. In questa terra fece egli una casa di terrappini, e col tempo ve ne fece un'altra di pietre, perchè era nel vero persona inchinata ad edificare e fare popolo. Ma, per la indisposizione del sito, fu questa terra mal sana e travagliata, perchè stava fra boschi e paludi, e le acque vi erano assai cattive; né i fanciulli vi si potevano allevare, perchè, come lasciavano il latte, s'infermavano e diventavano d'un colore pessimo, e fino alla morte sempre andavano di male in peggio; e tutti i cristiani andavano pallidi e infermi. Stava questa terra una lega lungi dal mare, e tutto questo spazio era paludoso e travagliato per condurre le vettovaglie dalla marina al popolo, il quale fu fondato ed ebbe principio nel 1509; e stette in piè da dodeci anni, finchè si mutò poi e trasferí dove sta al presente, che è una terricciuola posta nel medesimo luogo dove solevano discaricare le navi. E certo che qui dove ora sta vive assai sano il popolo, ma nel vero le cose necessarie con gran difficoltà e travaglio vi si hanno, perchè bisogna per mare con le barche e canoe condurle, come sono legna, acqua buona ed erba, cosí per li cavalli come per coprirne le case, e altre molte cose che in quel luogo non si hanno.
Della terra Guanica, e perchè si disabitò e fecesene un'altra chiamata Soto maggiore;
e della ribellione degl'Indiani, che ammazzarono la metà de' nostri che erano nell'isola,
e del gran valore del capitan Diego di Salazar.
Cap. IIII.
Nel principio del 1510 la gente che andò con don Cristoforo di Soto maggiore, e molti altri che da questa isola Spagnuola passarono a quella di San Giovanni, vi edificarono una terra che fu chiamata Guanica, quasi nel capo dell'isola, dove è un ridotto e foce di fiume, che si crede che sia una delle migliori che abbia il mondo; e da questo luogo si discoprirno cinque fiumi d'oro, chiamati Duiei, Horomico, Icau, In e Chiminen, cinque leghe lungi da Guanica. Ma furono in questa terra tanti i zanzali che bastarono a farla disabitare, onde se ne passarono le genti ad Aquada, che chiamano, e chiamarono questo altro nuovo sito e popolo Soto maggiore.
Ora, stando a questo modo le cose di questa isola, si ribellarono gli Indiani un venerdí, quasi al principio dell'anno del 1511, ritrovandosi in molta pace i cristiani e gl'Indiani insieme, e tennero nella ribellione questa forma. Veggendo gl'Indiani che i nostri stavano sparsi per l'isola, appuntarono che ogni caciche dovesse ammazzare quelli che erano nella sua terra, e cosí fecero, di modo che in uno stesso tempo ammazzarono piú di 80 cristiani. E il caciche Agueibana, che anco don Cristoforo si chiamava, come piú principale degli altri, comandò ad un altro caciche, chiamato Guarionex, che fosse capitano e raccogliesse tutti gli altri cacichi insieme, e andassero ad attaccare fuoco nel nuovo popolo di Soto maggiore. Onde a questo effetto s'unirono insieme piú di tremila Indiani, e perchè tutta la contrada che era d'intorno a questa terra era piena di boschi e di selve densissime, non furono costoro sentiti, finchè sopra questo popolo diedero, benchè un Indiano fanciullo li vedesse e lo dicesse: ma non li fu creduto. Ora, perchè l'assalto fu subito e all'improviso, ebbero tempo d'attaccare fuoco alla terra, dove ammazzarono alcuni cristiani, e non ne sarebbe restato niun in vita se non fosse stato per un gentil uomo chiamato Diego di Salazar, che in quella terra viveva. Costui, di piú di essere devoto di nostra Signora e di essere d'onesta vita, era anco molto animoso e di gran sforzo; onde, quando egli vidde la cosa a questi termini, e che era per morire quanti cristiani quivi erano, gli ristrinse insieme e pose in lor tanto cuore, tenendosi già per vinti, che con le sue animose parole li sforzò a resistere coraggiosamente. Onde essi cosí fecero, e combattendo con quella tanta moltitudine di nemici li ributtarono, e Salazar, da valoroso capitano, a vista degli nemici raccolse tutti i suoi e gli condusse a Caparra, dove stava il capitano Giovan Ponze di Leone, che come si è detto era governatore dell'isola: al quale tutti dissero che, doppo d'Iddio, essi per Diego di Salazar avevano la vita.
Restò per questo atto tanto spavento negli Indiani, e in tanta riputazione appresso di loro il Salazar, che lo temevano come il fuoco, perchè non potevano a niun modo credere che avesse il mondo uno uomo cosí degno di essere temuto. Ed è il vero che, innanzi a questo fatto, il medesimo Diego aveva con gl'Indiani mostrato esperienza di sua persona, e cosí grande che, s'essi pensato avessero di ritrovarlo in quella terra, non avrebbono mai avuto ardimento d'andarvi, ancorchè piú di tremila fossero. Ma perchè una cosa cosí segnalata di questo gentiluomo non ne passi in oblio, voglio riferirla, acciochè s'intenda anco insieme onde ebbe questa sua tanta riputazione presso gl'Indiani principio. Un caciche chiamato Aimanio prese un cristiano giovanetto, figliuolo di un Pero Scivares di Medina del Campo, e lo legò, e comandò a' suoi che lo giuocassero al giuoco della palla, che essi chiamano il batei, acciochè i vincitori poi l'amazzassero. Fu questo da tre mesi prima che dessero l'assalto già detto alla terra di Soto maggiore. Ora, mentre che gl'Indiani mangiavano, per dovere poi verso 'l tardi giuocare sopra la vita del povero giovane, fuggí un fanciullo indiano, servitore del Pero Scivares, e se n'andò alla terra del caciche Guarionex, dove allora si ritrovava Diego di Salazar; il quale, veggendolo molto piangere per quella disgrazia del suo signore, lo dimandò del suo padrone. E intesone quanto passava, deliberò d'andare a morirvi, o salvarlo potendo. Ma il fanciullo per paura non voleva ritornarvi né farli la scorta. Finalmente, minacciato fieramente, v'andò; e quando vi furono presso il Salazar, per non farsi vedere, aspettò il tempo per potere poi d'un subito dare sopra gl'Indiani. Egli se n'entrò in un canei, o casa tonda, dove il giovanetto cristiano legato stava e aspettava che gl'Indiani fornissero di mangiare, perchè poi volevano giuocarlo. Diego gli tagliò in un momento le corde con che legato si stava, e gli disse: "Fa' che tu sia uomo, e fa' come vedi a me fare". E tosto cominciò con una spada e una rotella a dare nel mezzo di piú di 300 Indiani, ammazzando e ferendo con tanto ardimento che parea ch'avesse alle spalle altretanti cristiani in suo favore. Egli ne fece tanta strage che, ancorchè coloro fossero uomini da guerra, lo lasciarono loro mal grado andar via col giovanetto sciolto. Il Salazar ferí malamente un capitano della casa stessa dove questo passò, e fu cagione di fare molto sbigottire gli altri e di potere per mezzo di loro, come s'è detto, passare.
Dapoi che egli si fu molto da quel luogo allontanato, gli mandarono messi dietro, pregandolo che ritornasse, perchè l'amavano, per essere cosí valente uomo, e lo volevano contentare e servire il piú che potevano. Udita l'ambasciata, ancorchè di gente cosí barbara e selvaggia, deliberò nondimeno di ritornare ad intendere che cosa volevano; ma il compagno, come colui che s'era già veduto in bocca della morte, gli s'inginocchiò dinanzi, pregandolo che per amore di Dio non vi ritornasse, poichè, sapevano che essi due contra tanti non potevano se non morire, e che questo era un tentare Iddio e non mostrare isforzo o valore. Diego di Salazar li rispose: "Scivares, se voi non volete ritornare con meco andatevene in buona ora, che in salvo state, perchè io voglio ritornare e vedere che cosa si vogliono questi Indiani, che io non voglio che pensino che per timore lo lascio". Allora il giovane non puoté altro fare che ritornarsi con lui, ancorchè di malavoglia.
Vedeva avere la vita per Salazar, e li pareva assai mal fatto lasciarlo solo. Ritornando adunque, ritrovarono assai mal ferito il capitano degl'Indiani, e Diego lo dimandò che voleva, ed egli disse che lo pregava che li desse il suo nome e che si contentasse che esso fosse del suo nome chiamato, e che voleva essere suo amico perpetuo e l'amava molto. Diego rispose che li piaceva che esso prendesse il nome di Salazar, e tosto che questo s'intese incominciorono gl'Indiani a chiamare "Salazar, Salazar", come se per questo consentimento e nome dovesse anco il valore e sforzo di Salazar avere. E cosí, per principio di questa amistà, e per la grazia che li faceva di lasciarli di sua volontà prendere il nome suo, li diede quattro schiavi perchè se ne servisse con certe altre gioie, e fatto questo se ne ritornarono pacificamente i due cristiani a dietro. D'allora in poi fu cosí temuto dagli Indiani Diego di Salazar che, quando qualche cristiano gli minacciava, rispondevano: "Pensi tu che io abbia a temerti come se tu fossi Salazar?"
Ma, ritornando all'ordine nostro della istoria, quando il governatore dell'isola Giovan Ponze vidde quello che aveva questo gentil uomo fatto in queste due cose segnalate, lo fece capitano fra gli altri che sotto al suo governo militavano, e furono mutati degli altri. E benchè si facessero poi mutazioni di governatori, sempre nondimeno questo Salazar fu capitano ed ebbe carico di gente, finchè morí poi di mal francese; e ancorchè poi molto infermo stesse, lo conducevano con tutta la sua infermità nel campo e dovunque andavano a combattere contra gl'Indiani, perchè questi di fatto pensavano che né essi potevano vincere né i cristiani esser vinti dove il capitano Diego di Salazar si ritrovasse, e la prima cosa della quale con ogni diligenzia s'informavano si era se con li cristiani questo capitano andava. Egli fu nel vero costui persona da farne conto, secondo che io ho udito dire da testimonii di vista e degni di fede, perchè, di piú d'essere uomo di gran forze e valore, era assai anco nelle sue cose modesto e ben creato, e da farsi stimare in tutte le parti del mondo, ed era da ogni uomo lodato come assai devoto di nostra Signora. Morí poi di quel travagliato male che ho detto, facendo una segnalata e paziente penitenzia, secondo che io di tutte queste cose fui in parte informato dal medesimo Giovan Ponze di Leone e da Pero Lopes d'Angolo, e da altri cavallieri e gentil uomini che si ritrovavano presenti nella isola nel tempo istesso che tutte queste cose passarono, e che vi ebbero anco essi parte di questi e d'altri molti travagli.
Della morte di don Cristoforo di Soto maggiore e d'altri cristiani, e come scampò Giovan Gonzales con quattro gran ferite, con altre cose appartenenti all'istoria.
Cap. V.
Ritornando all'istoria della ribellione degl'Indiani, dico che, poichè i principali di loro si confederarono per ribellarsi, toccò al caciche Agueibana (che era il maggiore signore dell'isola) di ammazzare don Cristoforo di Soto maggiore, suo signore e al quale serviva e stava raccomandato per ripartimento, come s'è anco tocco di sopra. Stava don Cristoforo in casa del caciche, il quale aveva ordinato che lo dovessero i suoi giuocare alla palla o al batei, perchè i vincitori l'avessero poi morto. Una sorella di questo caciche, la quale don Cristoforo si teneva per amica, l'avisò di questo tradimento e li disse: "Signore, partitevi di qua, perchè questo mio fratello è uno ribaldo e vi vuole ammazzare". Ma egli non glielo credette. Una lingua o turcimanno medesimamente che don Cristoforo teneva, chiamato Giovan Gonzales, si spogliò ignudo una notte e si dipinse tutto con quella biscia che tinge di rosso, come se ne è nell'ottavo libro parlato, la quale sogliono gl'Indiani usare, dipingendosene, o nel voler andare alle guerre o alle danze e arreiti loro. Ora il Gonzales, cosí ignudo e dipinto, se n'entrò una notte fra quelli che nel ballo cantavano, e vidde e udí che cantavano la morte di don Cristoforo di Soto maggiore e de' cristiani che con lui stavano. Onde, uscito da quel luogo, quando vi vidde il tempo, ne avisò don Cristoforo e li disse quanto quelli cattivi ordinato avevano. Ma egli, come non aveva dato credito alla cacica indiana, cosí né anco al Gonzales credette, che li diceva: "Signore, questa notte ce ne potremo andare, e guardate che vi ci va la vita, e io vi condurrò per luoghi che non ci potranno ritrovare". Ma egli, perchè era già giunto il suo fine, non volse farne niente.
Pure con tutto questo la mattina seguente, sentendosi stimulare nel cuore ed entrando sospetto, deliberò di partirsi; ma era fuori di tempo. Egli disse al caciche che voleva andare dove stava il capitan Giovan Ponze. Il caciche li rispose che andasse in buona ora, e fece tosto venire Indiani che l'accompagnassero e li portassero le sue robbe, e gli instrusse bene di quello che a fare avevano, comandando loro che, quando vedessero andar lor dietro l'altre sue genti, s'abbottinassero. E cosí a punto avvenne, perchè, partito che fu don Cristoforo, gli andò tosto il medesimo caciche dietro con genti, e l'arrivò una lega indi lungi, in un fiume chiamato Cavio.
Ma prima che qui giungessero ritrovarono il Giovan Gonzales, e li tolsero la spada e dieronli certe gran ferite, e volevano fornire d'ammazzarlo, se non che, sopragiungendo tosto l'Agueibana, li disse il Gonzales nella loro lingua: "Signor, perchè mi fate ammazzare? Io vi servirò e sarò vostro schiavo". Allora il caciche disse: "Avanti, avanti, al mio datihao - (che vuol dire"al mio signore", o"a quello che come me si chiama") - lasciate questo vigliacco". E cosí lo lasciarono, ma con tre grandi e pericolose ferite, e passando oltre ammazzarono il don Cristoforo, con gli altri cristiani che seco andavano (che erano quattro altri), a colpi di quelle loro macane di legno che usano per arme, e frezzandoli anco medesimamente. Fatto questo si ritornarono a dietro per fornire d'ammazzare il Gonzales, me egli se ne era montato sopra un arbore, e vidde come l'andavano cercando per l'orme del sangue; e non volse Iddio che lo vedessero né lo ritrovassero, perchè era di molto danno la perdita di costui, che aveva la lingua indiana assai buona. Perchè il paese è molto denso d'alberi, si era egli isviato dal camino e imboscatosi a quel modo. E venuta la notte smontò dall'albero, e tanto caminò e attraversò il monte di Sciaragua, che uscí finalmente a Toa, che era una stanza di quel re. E si crede che Iddio o l'angelo suo lo guidasse e li desse isforzo e vita per potere far tanto, cosí malamente ferito andava. Egli credette, veggendo Toa, che fusse Otoao, un altro luogo dove pensava dovere essere morto, perchè era una delle contrade ribellate. Ma sua imaginativa era figliuola del timore col quale andava, e aveva caminato quindeci leghe piú di quello che esso pensava. Ora, perchè in quel luogo erano cristiani, fu tosto da loro veduto e conosciuto: ma esso cosí indebilito stava, per lo molto sangue che perduto avea, che perdendo la vista cadde come morto a terra. Fu tosto soccorso con qualche cosa in bocca che li diedero a mangiare e a bere; onde li ritornò alquanto il vigore e puoté parlare, ancorchè con pena, e disse tutto quello che passato era.
Allora mandarono tosto a fare tutte queste cose intendere al capitan Giovan Ponze, il quale raunò tosto tutte le genti sue per castigare gl'Indiani e far loro la guerra. E in questo tempo a punto giunse Diego di Salazar, con le genti che erano scampate seco, come s'è nel capitolo precedente detto. Il governator Ponze mandò tosto il capitano Michel di Toro con quaranta uomini a cercare don Cristoforo, e lo ritrovarono sotterrato, perchè l'aveva fatto il caciche sepellire, ma cosí mal coperto di terreno lo avevano che vi parevano i piedi di fuori. Li fecero adunque ivi una sepoltura e lo posero dentro, con una alta e gran croce appresso. E questo principio ebbe la guerra che si fece contro Agueibana e gli altri Indiani dell'isola di Borichen.
De' primi capitani che furono nella conquista e pacificazione dell'isola di Borichen.
Cap. VI.
Ritornando Michel di Toro con gli altri quaranta cristiani da sepellire don Cristoforo, e gli altri quattro che con lui morti si ritrovarono, il governatore Giovan Ponze attese a tenere le sue genti in ordine e a stare vigilante, per difensarsi con li suoi pochi, mentre che non fosse dall'isola Spagnuola soccorso. E per questo fece tre capitani: il primo fu Michel di Toro, del quale qui di sopra s'è detto, ed era persona valorosa e da molto, ed era stato armato cavaliero dal re catolico, ancorchè egli fusse di basso sangue, perchè si era in terra ferma portato da valente uomo e s'aveva fatto onore, in compagnia del capitano Alonso d'Hogieda. L'altro capitano fu Diego di Salazar, del quale s'è anco di sopra fatta menzione. Il terzo capitano fu Luigi d'Almansa.
Ad ogni uno di questi tre capitani furono consegnati trenta uomini, e la maggior parte di loro zoppi e infermi: ma dalla lor debolezza cavavano forze e animo, perchè non avevano altra speranza che quella di Dio e delle mani loro, e si ricordavano della sentenzia de' savii, che è una sciocchezza temere di quello che non si può fuggire. Avevano gl'Indiani morto la metà de' cristiani che erano nell'isola, e per il piú fiorita gente, onde non passavano da cento in tutto quelli che il Ponze aveva seco, e alli quali sempre andava avanti come animoso, diligente e avisato nelle cose della guerra. E aveva fatto suo capitan generale e giustiziero maggiore un gentil uomo chiamato Giovan Gil, il quale fu poi anco di lungo in questo ufficio, e serví assai bene, finchè l'isola fu pacificata e dapoi anco, che a spese sue fece la guerra a' Caribi delle altre isole convicine, che sono molte, e le pose in gran travagli e necessità, di modo che non si potevano contra di lui prevalere e molte ne temevano. E soleva questo Gil, in queste guerre co' Caribi, menare seco per capitani Giovan di Leone, atto uomo nelle cose di terra e di mare e nelle cose di guerra savio e animoso, e Giovan Lopes, destra e accorta sentinella, con molti altri uomini valenti che erano restati della guerra di S. Giovanni, che, per esser animosi e atti in ogni impresa che si ritrovavano, la facevano assai bene, come nella guerra co' Caribi e in terra e in mare fecero.
D'alcune persone segnalate e valorose, e d'altre cose concernenti alla guerra e conquista dell'isola di San Giovanni.
Parmi che sia degno di riprensione quello scrittore che lascia di dire alcune cose particolari di quella qualità che in questo capitolo si ragioneranno, perchè, ancorchè il principale intento di questa istoria sia drizzato a fare spezialmente menzione de' secreti che la natura in queste Indie produce, è nondimeno anco conforme al titolo d'averla chiamata generale istoria il raccontare i meriti e valorosi gesti di coloro che questi luoghi conquistarono, acciochè, se restarono senza guiderdone e premio de' loro travagli, non manchi almeno loro, per colpa di questa penna e per pigrizia, la memoria della quale i lor gesti furono e sono dignissimi; perchè nel vero questa è una potissima sodisfazione de' loro meriti. Piú conto si dee fare di quello che in lode di quelli che ben vissero e che da valorosi morirono si scrive, che non di tutti i beni che puote lor dare o togliere la fortuna.
E perchè non resti per me cosa alcuna di queste in silenzio, dico che nella conquista dell'isole di Borichen si ritrovarono molti valorosi gentil uomini e persone di gran cuore; e non dico molti in numero, poichè erano tutti poca gente, ma di questa poca quantità ne furono la maggior parte di grandissimo isforzo e animo. Rara cosa e prezioso dono di natura, e non visto né concesso ad altra nazione fuori che alla nostra spagnuola: perchè in Italia, in Francia e nella maggior parte degli altri regni del mondo, solamente i nobili e i cavallieri si esercitano naturalmente e si dedicano alla guerra; dell'altre genti popolari e mecaniche e contadinesche, rari sono quelli che s'occupano nell'arme o che le vadino ad esercitare fra gli stranieri, là dove nella nostra nazione spagnuola pare ordinariamente che tutti gli uomini ci naschino spezialmente dati all'arme, e che l'esercizio militare sia loro cosa cosí propria che tutte le altre cose pare che si siano accessorie, onde ogni altra lasciano volentieri per la milizia. E per questa cagione i pochi Spagnuoli in numero hanno sempre nelle conquiste di questi luoghi fatto quello che non averebbono potuto fare molti d'altra nazione.
Fu adunque in questa conquista un Sebastiano Alonso di Niebba, persona contadinesca, e che in Spagna non fece mai altro che arare e cavare terra e altri simili esercizii rustici; ma egli fu uno animoso e destro e robusto uomo, e benchè nella sua prima vista mostrasse qualche rusticità, era nondimeno poi affabile e di buona conversazione. Costui riuscí gran sentinella, e aveva ardimento d'imprendere ogni gran cosa, delle quali, benchè paressero difficultose e aspere, ne riusciva vittorioso. E, perchè era destro e gran corritore, si arrischiava di fare quello che non averebbono gli altri fatto; perchè, di piú di queste parti che si sono dette che aveva, era di cosí gran forza che, quando afferrava uno Indiano, lo teneva cosí forte che quel misero pareva che ben legato stesse, stando fra quelle mani. Il perchè, quando di ciò gli Indiani s'accorsero e per esperienzia lo provarono, lo temevano molto. Ma perchè come alla fine nella guerra vi nascono pochi e vi moreno molti, questo valente uomo, per essere soverchio animoso, vi lasciò anco la vita, che per questa via fu, nel 1526.
Aveva questo Sebastiano casa sua e le sue facultà nell'isola di San Giovanni, in una provincia chiamata Lochiglio, e si ritrovava in gara e quasi inimico d'un gentil uomo boscaino chiamato Martino di Guiluz, che ora nella città di San Giovanni di Porto Ricco abita e vi è un de' principali di quella città; ma allora abitava presso a Sebastiano Alonso. E perchè solevano gl'Indiani caribi delle altre isole convicine venire con le loro canoe a fare assalto in quella di Borichen, accadette che una volta entrarono nell'isola e diedero nella stanza e potere di Martino di Guiluz. Quando venne all'orecchie di Sebastiano che i Caribi arcieri se ne portavano tutte le genti e facultà che avevano nella stanza del suo nemico ritrovate, si fece con gran fretta da un suo nero insellare un cavallo, dicendo: "Non piaccia a Dio che si dica che, per non stare io bene con Martino di Guiluz, gli lascio questa volta perdere quanto ha, ritrovandomi cosí d'appresso a coloro che rubbato l'hanno". E montato a cavallo si partí con due o tre neri suoi e con un cristiano a piedi; e seguendo i Caribi li giunse, e combattendo con loro li disbarattò e tolse loro la preda, con fare anco quattro di loro prigioni, che da sopra il cavallo li prendeva per li capelli, e cavandoli dalla compagnia loro li consegnava a' suoi neri, e ritornava per gli altri. Uno di questi che esso prese, avendo in mano una saetta avelenata, lo ferí presso l'anguinaglia, e di questa ferita egli poi morí. Ma esso, quando ferito si vidde, ammazzò quello Indiano e altri sette o otto medesimamente. E ritornandosi con la preda la diede a Martin di Guiluz, di cui era; ed esso di quella ferita avelenata morí, ma come buon cristiano compartí quanto aveva a persone povere e bisognose e in altre opere pie, e lasciò molto in dolore quanti Spagnuoli erano in quella isola, perchè nel vero era persona che, mancandovi esso, pareva che vi mancasse assai, tanto piú che era molto temuto da gl'Indiani e stava cosí presso loro come presso i nostri in gran riputazione e stima; perciochè, come s'è detto di sopra, era gran sentinella, e gran conoscenza e notizia aveva delle cose della guerra.
In compagnia di costui andava un altro valente uomo chiamato Giovan di Leon, che imitava assai Sebastiano Alonso, perchè era molto disciolto e ardito e di buone forze, e aveva bene la lingua indiana; e nelle cose dove si ritrovò, che furono molte e in terra e in mare, si segnalò molto come persona valorosa e di grande animo. Ma amendue costoro furono mal premiati de' loro servigi e travagli, perchè nel compartimento degl'Indiani né essi né gli altri valenti uomini che s'erano in quella conquista portati bene vi furono conosciuti non che premiati, come era il dovere, e se ad alcuno fu pure qualche cosa data, fu cosí poca che non se ne potevano sostentare. Cosí si costuma e si vive, che un si gode delli sudori e delli travagli dell'altro, e chi merita si lascia da parte in oblio e non ben sodisfatto, e quelli che non sono cosí degni di essere remunerati si godono de' premii che loro non toccano. Questi sono i frutti del mondo, e gli uomini fanno come uomini e si lasciano dalle passioni guidare, perchè meglio vediamo che solo Iddio è il vero e giusto premiatore; e il tempo ci insegna che, né quelli che compartirono, né quelli a' quali fu ingiustamente compartito, molto tempo ne godettero.
Vi fu anco un altro, Giovan Lopes, gran sentinella e molto esperto nelle cose del campo, ma non già di cosí grande animo quanto gli altri due detti di sopra. Questo ufficio di sentinella è piú artificioso e senza comparazione di maggiore accortezza in queste parti che non in Spagna, perchè qui il paese è molto intricato e pieno d'alberi, e non cosí aperto e chiaro come in Castiglia e negli altri regni de' cristiani. E poichè s'è qui mossa questa materia delle sentinelle, non voglio qui tacere d'uno che io conobbi un fatto notabile e al proposito di questo ufficio.
Fu in terra ferma di Castiglia dell'Oro un gentil uomo chiamato Bartolomeo d'Ocon, il quale passò una sola volta per una parte di certi densissimi e intricati boschi; e in capo di sette anni andò per certe altre contrade con alcuni compagni, e s'avenne presso dove nel tempo passato (come s'è detto) era stato. E fra costoro vi erano cinque o sei uomini di quelli che anco in quell'altra volta stati vi erano. Si ritrovavano in luogo cosí imboscato e spesso d'alberi, che a pena vi pareva il cielo, né potevano quasi caminare un passo senza farsi con le spade e co' pugnali la via; onde quanti ivi erano pensavano d'essere a fatto persi, perchè non sapevano dove s'andavano né dove andare si dovessero per seguire il viaggio loro. E stando cosí insieme in consiglio di quello che fare dovevano, disse Bartolomeo d'Ocon: "Non dubitate, gentil uomini, perchè men di duecento passi di qua sta nella tal parte un ruscello, - e accennava col deto il luogo, che già nol vedevano, né era possibile poterlo vedere per lo denso degli alberi e delle macchie, - e ivi ora sono sette anni che venendo anco in queste parti ci fermammo a bere; e se volete vederlo venghino due o tre di voi con meco, che io glielo mostrerò". E costoro andavano senza una goccia d'acqua da bere, e avevano la maggior necessità del mondo di ritrovare acqua, perchè cosí isbigottiti e assetati andavano che bisognava che ogni modo fossero dovuti alcuni di loro morire di sete. Vi andarono adunque alcuni di quelli che vi erano anco nell'altro viaggio stato, e giunti al ruscello, che andava tutto coverto e intricato di rami d'alberi, s'assise Bartolomeo in un sasso presso l'acqua e cominciando a bere disse: "Assiso in questa stessa pietra merendai con voi altri ora sono sette anni, e vedete là l'albero onde cogliemmo molte pere, e ve ne sono anco ora molte". Allora i compagni, per la pietra che era grande e nota e per l'albero del pero e per altri segnali, anzi per lo medesimo ruscello, vennero a conoscere che era cosí come egli diceva, e che alcuni di loro vi erano altra volta stati. Di che non poco maravigliati, e soccorsi tutti con l'acqua, restarono, e ne ringraziarono molto il signore Iddio. E non fu poco il credito che e per questa e per altre simili cose acquistò questo Bartolomeo d'Ocon, che nel vero in questo caso parea che egli speziale grazia avesse piú che tutti gli altri che per que' luoghi andavano, benchè nel resto fusse grosso, e cosí tenuto era.
Ma, ritornando al proposito di coloro che conquistarono l'isola di San Giovanni, dico che quel Giovan Lopes del quale s'è ragionato di sopra, ancorchè fosse gran sentinella, era men valoroso che astuto guerriero con gl'Indiani. Vi fu un altro giovane di color misticcio, creato del commendatore maggior don fra' Nicola d'Ovando e chiamato Mescia, animoso e destro e di vive forze, che fu poi ammazzato da' Caribi; e Luisa, cacica principal, l'avisò perchè si partisse, ed egli non volse farlo per non lasciarla sola. Onde coloro lo saettarono, ed esso, stando pieno di freccie, pose gli occhi sopra un principale de' Caribi e gli tirò una lancia che 'n mano avea, e gliela passò per le coste da banda a banda, avendo già prima morti due altri degli nemici e feritone alcuni altri: e a questo modo esso forní la vita sua.
Vi fu un altro uomo da bene chiamato Giovan Casado, buona persona e contadino alla piana, ma gentile sentinella e aventurato in molte cose di quelle che imprendeva, e di buono animo assai. Sichè questi ch'ho detti spezialmente fecero molte cose buone, e senza essi vi furono anco altri gentiluomini e giovanetti che, ancorchè non avessero tanta esperienzia delle cose, non mancò nondimeno loro animo per mostrarsi nelle guerre cosí valorosi e atti quanto bisognava. Fra i quali ne fu uno Francesco di Barrio Nuovo, ch'è ora governatore di Castiglia dell'Oro, e del quale si fece menzione di sopra nella pacificazione del caciche don Enrico; e se ben era egli giovanetto nella guerra di quest'isola di S. Giovanni, diede nondimeno sempre buona mostra di sé, come di persona che da buona razza venia. Un altro gentiluomo chiamato Pero Lopes d'Angolo, e Martin di Guiluz, e altri che sarebbe longo a dirli particolarmente, si ritrovarono in questa conquista, che, ancorchè non fosse la età loro cosí perfetta come era il corraggio e il desio di ben fare, oprarono nondimeno sempre da chi essi erano, e per niuno affanno né travaglio lasciavano di mostrarsi cosí presti ne' pericoli come il tempo e la necessità richiedeva. Onde, per essere gente cosí valorosa, ancorchè poca in numero, s'accapò la conquista in favore della fede nostra e con vittoria de' nostri Spagnuoli che in questa guerra si ritrovarono, a' quali fu da quest'isola Spagnuola con alcune genti soccorso, senza alcuni altri che di nuovo da Castiglia venivano; quali, per buoni che siano, bisogna che per qualche giorno stiano in queste contrade prima che siano atti a sofferire i travagli e le necessità con che qui si guerreggia. E questo aviene per la gran differenzia ch'è in tutte le cose, e nell'aere e temperamento di questa terra spezialmente, con la quale bisogna prima combattere che con gl'Indiani, perchè assai pochi sono quelli che non la provino tosto con infermarvisi; ma, per la grazia di Dio, rari son quelli che per questa cagione muoiono, se sono bene curati. Ma, prima che passiamo a dire d'altro, non ci lasciamo a dietro di dire la cagione perchè questi Indiani si movessero a ribellarsi.
Come gl'Indiani, tenendo i cristiani per immortali, non ebbero ardire di ribellarsi finchè non si certificarono se era cosí o no; e del modo che tennero per farne la prova.
Cap. VIII.
Per le cose ch'aveano gl'Indiani dell'isola di S. Giovanni udite della conquista e guerre passate in questa isola Spagnuola, sapendo che quest'isola era assai grande e bene popolata d'Indiani, credevano che fosse stato impossibile a soggiogarla i cristiani se non fossero stati immortali; e perciò credeano che né per ferite, né per altra disgrazia potessero morire, e che, perchè erano venuti da donde il sol nasce, pensavano che fosse gente celeste e figliuoli del sole, e che perciò gl'Indiani non potessero offenderli. Veggendo poi che erano nell'isola di S. Giovanni entrati e se ne erano insignoriti, ancorchè non fossero stati piú che 200 persone da prendere arme, stavano in pensiero di non lasciarsi soggiogare da cosí pochi, ma di procurar la lor libertà senza servire; e dall'altro canto li temeano, e pensavano che fossero dovuti essere immortali.
Raunati adunque i signori dell'isola insieme in secreto per discutere questa materia, deliberarono e conchiusero che, prima che ad altro si movessero, facessero prova e si chiarissero di questa cosa con qualche cristiano dimandato, o che potessero avere da parte e solo; e prese il carico di questo un caciche chiamato Uraioan, signore della provincia di Iaguaca, che per fare quest'effetto tale via tenne. Accadette a passare per la terra sua un giovanetto cristiano chiamato Salsedo, che andava dove gli altri cristiani stavano; e mostrando di volergli usare cortesia, dopo che gli ebbe dato da mangiare e mostratogli molto amore, mandò con lui 15 o 20 Indiani che l'accompagnassero e l'aiutassero a portare le sue robbe. Ma nel passare un fiume chiamato Guarabo, ch'è dalla parte occidentale dell'isola ed entra nel mare presso alla terra di S. Germano, gli dissero gl'Indiani: "Signore, volete che vi passiamo in spalle, che non vi bagnarete?" Egli, che l'ebbe in grazia e 'l tenne in favore, disse che sí. Ma egli non se ne dovea fidare, perchè, oltra il pericolo nel quale incorre chi degli suoi inimici si fida, si fa tener anco poco prudente. Ora gl'Indiani il tolsero su le spalle, i piú forzati, e quando nella metà del fiume furono lo lasciarono andare giú sotto acqua, e ve gli si caricarono tutti sopra e ve l'affogarono, perchè per questo effetto andavano; e dopo che morto l'ebbero lo cavarono alla ripa del fiume e gli diceano: "Signor Salzedo, alzatevi e perdonateci, perchè siamo caduti insieme con voi, e seguiamo il cammino nostro". E con queste e altre simili dimande il tennero tre dí, finchè egli cominciò a puzzare: e né anco con questo credevano che ei fosse morto, né che i cristiani morissero.
Ma, certificati che furono che mortali erano per questa via, lo fecero al caciche intendere, il quale ogni giorno mandava altri Indiani per vedere se il Salsedo si levasse su; e ancora dubitando se gli era detto il vero, volse esso in persona andare a vederlo. E non furono fuori di questo dubbio del tutto finchè, passati alquanti giorni, viddero che il meschino s'andava piú e piú corrompendo e guastando. E da questo presero ardimento e confidanza di dovere ribellarsi, e deliberarono e posero poi ad effetto d'ammazzare i cristiani e riscuotersi in libertà, e di fare quello che poi fecero, come s'è detto di sopra.
Delle battaglie e cose piú principali operate nella guerra e conquista dell'isola di San Giovanni.
Cap. IX.
Ribellati che furono gl'Indiani, e ammazzati che ebbero quasi la metà de' cristiani, il governatore Giovan Ponze fece quelli capitani che si sono detti di sopra, e diede ordine d'avere cura della salute e vita di quelli che restati vi erano. E cosí la prima battaglia che i cristiani e gl'Indiani fecero fu nella contrada d'Agueibana, presso la foce del fiume Caoiuco, e vi morirono molti Indiani, cosí de' Caribi dell'isole convicine, che erano venuti a soccorrere, come di quelli dell'isola stessa di San Giovanni, che se ne volevano passare ad una isoletta chiamata Angolo, che sta molto presso a quella di Borichen dalla parte di mezzogiorno, come s'è detto di sopra. In questa battaglia i cristiani di notte, al quarto dell'alba, diedero l'assalto e fecero gran strage delli nemici, i quali per questa perdita restarono molto sospetti della immortalità de' cristiani; e alcuni dicevano che non era possibile che quelli cristiani che erano stati morti a tradimento non fossero resuscitati, e altri dicevano che tanto facevano i pochi quanto i molti cristiani insieme, perciochè in questa battaglia che il capitano Giovanni Ponze vinse ogni cristiano aveva piú di dieci nemici contra. E fu questa zuffa pochi dí doppo la ribellione degl'Indiani.
Doppo di questa vittoria Giovan Ponze se n'andò in Caparra, dove riordinò le genti e le capitanie con qualche piú compagnia che ebbe, e tosto si mosse e andò ad accampare in Aimaco, e mandò i capitani Luigi d'Agnasco e Michel di Toro con fino a 50 uomini avanti; e perchè intese che il caciche Mabodomaca stava con 600 uomini in certa parte aspettando, e diceva che ivi i cristiani andassero, che gli aspettarebbe, e aveva fatti già nettare i passi, vi mandò il capitan Diego di Salazar, che lo chiamavano il capitano delli zoppi e delli fanciulli. Il che, benchè paresse che per ischerno si dicesse, per essere le genti di costui le piú deboli, i savii nondimeno lo prendevano per altro verso, perchè era cosí valorosa la persona del capitano che suppliva a tutti i diffetti de' suoi, non perchè di poco animo fossero, ma perchè erano la maggior parte o infermi o garzonetti, e di poca esperienzia nelle cose di guerra. Ma egli con tutte queste difficoltà giunse dove Mabodomaca con le sue genti stava, e combattendo ne fece quella notte tanta strage che vi morirono 150 Indiani, senza perdersi un solo de' nostri né avere ferita alcuna mortale, benchè alcuni feriti vi fossero; e il resto delli nemici pose in fuga.
In questa battaglia Giovan di Leone, del quale s'è fatta menzione di sopra, si dismondò dalla compagnia per seguire un caciche che vidde uscire dalla battaglia fuggendo, e portava nel petto un pezzo d'oro, come sogliono gl'Indiani principali portare appeso al collo. Questo Spagnuolo, perchè era giovane e leggiero, lo giunse e lo volse prendere, ma perchè l'Indiano aveva gran forze, vennero alle braccia e piú d'un quarto d'ora si dimenarono. Un degli altri Indiani che fuggivano venne a soccorrere il caciche che stava alle strette con Giovan di Leone, il quale, per non parere che dimandava soccorso, ebbe a perdere la vita. Ma non piacque a Dio che un cosí valente uomo morisse, perchè fece qui capitare un cristiano che un altro delli nemici seguiva, e che, veggendo Giovan di Leone combattere a quel modo con due e in pericolo della vita, si mosse a soccorrerlo. E cosí amendue ammazzarono li duoi Indiani, e Giovan di Leone iscampò da quel pericolo.
Avuta questa vittoria, doppo che fu il dí chiaro, venne il governatore Giovan Ponze con le genti che nella retroguardia menava, e non seppe di questa battaglia finchè ritrovò i vincitori stessi, bevendo e riposandosi dell'affanno passato in quelle due ore e mezza o tre che combattuto avevano. Di che tutti resero molte grazie a Dio che cosí miracolosamente li favorisse e desse aiuto.
Di un altro incontro che ebbero i cristiani con gl'Indiani dell'isola di Borichen.
Cap. X.
Passata la battaglia narrata nel precedente capitolo, s'unirono la maggior parte degl'Indiani dell'isola di San Giovanni nella provincia di Iagueca. Di che quando Giovan Ponze ebe nuova, e intese che stavano deliberati di morire tutti o di non lasciare cristiano in vita, poichè si erano accertati che erano mortali e pochi, giunse insieme con molta diligenzia i suoi capitani con poco piú di 80 uomini, e andò a ritrovare il nemico, che passava il numero di 11 mila Indiani. Furono a vista l'un dell'altro quasi al ponere del sole, e i nostri con alcune leggieri scaramuccie si fortificarono negli alloggiamenti. Gl'Indiani, che con tanto ardimento li viddero venire e con animo cosí pronto di combattere, cominciarono a tentare di potere presto porli in fuga o vincerli, ma i nostri, sofferendo e mantenendosi, a dispetto degli inimici accamparono nel forte loro. E benchè alcuni Indiani leggieri e animosi venissero a tentare la battaglia, i nostri nondimeno si stettero saldi e con molto ordine, e se alcuno de' giovani nostri usciva, avendo fatto qualche bel tiro di balestra o d'arma inastata, se ne ritornava nel suo battaglione. E cosí si temporeggiarono, aspettando l'uno che l'altro desse alla battaglia principio; ma ne seguí questo, che un scoppettiero de' nostri mandò a terra con un tiro un Indiano, e si credette che dovesse essere qualche uomo principale, perchè tosto gl'Indiani si perderono d'animo, e si fecero alquanto a dietro con l'esercito loro, dove con lo schioppetto non si giungesse. E cosí, quando la notte fu bene oscura, il governatore si ritirò con tutte le genti, ancorchè contra la volontà e parere d'alcuni, perchè parea che ricusassero per timore la battaglia. Ma a lui pareva che era un tentare Iddio il volere con tanta moltitudine combattere e porre a cosí gran rischio i pochi, perchè a guerra longa avrebbero meglio fatto i fatti loro. Al che come prudente capitano mirò, per lo effetto e successo che se ne vidde appresso.
Come Giovan Ponze andò a discoprire in terra ferma nella costiera delle isole di Bimini e ritrovò l'isola Bahama; e degli altri governatori che furono nell'isola di San Giovanni.
Cap.XI.
Avea il governatore Giovan Ponze già conquistata e pacificata l'isola di Borichen, benchè non vi mancassero alcuni assalti degl'Indiani caribi, a' quali si ostava anco valorosamente, e stava già molto ricco e quieto, quando Giovan Zeron e Michiel Dias, che erano andati prigioni in Spagna, essendo favoriti dall'admirante negoziarono la lor libertà: e il primo motivo che usarono in discolparsi fu in colpare Giovan Ponze, dicendo che gli avea ingiustamente presi e che esso avea assai maggiori errori fatti, e non se ne parlava. E in effetto costoro tanto oprarono, col mezzo del favore dell'admirante, che allegava che, essendo esso governatore e vice re di quei luoghi, doveva tutti gli ufficiali porre anco nell'isola di San Giovanni per vigor de' suoi privilegii, che 'l re catolico li rimandò amendue nell'isola di Borichen con le barchette degli ufficii loro, e con licenzia all'admirante di potere porvi gli ufficiali che a lui piacessero. Quando adunque il Giovan Ponze ebbe notizia di queste cose, tenendosi di certo di dovere essere deposto dall'admirante dell'ufficio suo, deliberò d'armare due caravelle; e cosí fece, e partisse e navigò dalla parte di tramontana, e discoperse l'isole di Bimini, che stanno da tramontana all'isola Fernandina. E in questo tempo si divulgò quella favola del fonte che faceva ringiovenire e tornare giovani e freschi i vecchi; e fu nel 1512. Si divulgò questa cosa tanto, e tanto si teneva per certa dagl'Indiani di quelle parti, che il capitano Giovan Ponze andò piú di sei mesi con le sue caravelle perso e con molto travaglio fra quelle isole cercando di questo fonte. Il che fu gran burla a dirlo gl'Indiani, e maggiore errore a crederlo i nostri e a spendere il tempo in cercarne. Ma egli in questo viaggio discoperse ed ebbe notizia di terra ferma, e la vidde, e pose nome la Fiorita a quella parte che esce come una manica in mare, per spazio di cento leghe in lungo e ben 50 in lato. La punta di questa terra Fiorita sta in 25 gradi dall'equinoziale dalla banda del nostro polo artico, e si stende e va ampliando verso il vento norveste. Presso questa punta o capo sono molte isolette e seccagne, che le chiamano i Martiri.
Mentre che il capitan Giovan Ponze andava in questo discoprimento, l'admirante don Diego Colombo ebbe tante querele del Zeron e del Dias, a' quali aveva dato il carico del governo di San Giovanni, che glielo tolse e vi mandò per suo luogotenente il commendatore Rodrigo di Mescoso, il quale poco tempo vi stette, e si sentirono di lui anco molte querele, ancorchè egli fusse buon cavaliero. Il perchè l'admirante deliberò d'andare in quella isola, e vi provedette di suo luogotenente un cavaliero chiamato Cristoforo di Mendoza, persona di buon sangue e nato di buona razza, e atto a quel carico e ad altro maggiore; onde tenne in pace e giustizia l'isola, e nelle cose della guerra e conquista de' Caribi si mostrò eccellente capitano, e si portò da valoroso e magnanimo tutte le volte che bisognò e che l'occasione gli s'offerisse.
Perciochè non solamente gli uomini debbono essere lodati e gratificati secondo le loro virtú e meriti, ma gli animali bruti anco, come alcuni degni scrittori hanno ragionevolmente d'alcuni fatto. E questo non solamente perchè una cosa rara e maravigliosa non si dee lasciare in oblio, ma perchè gli uomini dotati di ragione si vergognino di non fare quello che debbono, veggendo che nelle operazioni virtuose gli animali bruti si portano cosí bene che anco ne avanzano alcuni uomini stessi. Perciochè qual maggior vituperio può un codardo acquistare che vedere che una bestia guadagni il soldo fra gli uomini, e che ad un cane si dia una paga e mezza come si dà ad un balestiero? Questo fu un cane chiamato Bezerrillo, condotto da questa isola Spagnuola a quella di San Giovanni, di color vermiglio e col tondo d'intorno agli occhi nero, mezzano e non già bello, ma di grande intelletto e animosità. E senza dubio, per quello che a questo cane fare si vedeva, pensavano i cristiani che Iddio glielo avesse mandato per loro soccorso, perchè oprò tanto nella pacificazione dell'isola quanto la terza parte di que' pochi conquistatori che vi erano: perciochè fra dugento Indiani ne cavava uno che si fosse da' cristiani fuggito o che glielo insegnassero, e lo togliea per un braccio co' denti e lo forzava a gir seco, e lo conduceva nel campo o dove i cristiani si ritrovavano. E se colui si poneva in difesa e non voleva andare ne faceva pezzi. E se a mezzanotte si fosse sciolto un prigione, ancorchè fosse già una lega lontano, in dire: "Andato se ne è l'Indiano; va', cercane", tosto il cane li si poneva alle orme e lo ritrovava e riconduceva. E in effetto fece molte cose segnalate e d'ammirazione. E con gl'Indiani amici aveva tanto conoscimento quanto ve ne aveva uno uomo, né gli faceva male alcuno; e fra molti di questi domestici conosceva un indiano bravo, e non parea se non che avesse intelletto e giudicio d'uomo, e non di uomo grossolano. Onde, come ho detto, guadagnava una paga e mezza per suo padrone, come si dava ad un balestriero, in tutte l'imprese nelle quali il cane si ritrovava. Pensavano i cristiani che in condur questo cane conducessero doppio numero di gente, e piú animosi andavano: e certo che con ragione, poi che piú temevano gl'Indiani il cane che non i cristiani, perchè, come piú destri nel paese, de' Spagnuoli potevano fuggire, ma non dal cane, del quale restò eccellente razza nell'isola, e alcuni de' figli suoi in queste cosí fatte cose l'imitarono molto.
E io ne viddi in terra ferma un figliuolo chiamato Leoncico, ch'era dell'adelantado Vasco Nugnes di Balboa, e guadagnava medesimamente una parte e alle volte due, come i buoni soldati, e se gli pagavano al detto Vasco in oro e in schiavi. E come testimonio di vista so che li valse in piú volte piú di 500 castigliani, che li guadagnò. Ma era una cosa rara, e faceva tutto quello che di suo padre s'è detto.
Ma, ritornando al Bezerillo, i Caribi finalmente l'ammazzarono, conducendolo il capitano Sancio d'Arango, il quale per cagione di questo cane scampò dal mezzo degl'Indiani, ferito e combattendo tuttavia con loro, perchè il cane si gettò a nuoto dietro un Indiano, e fu cagione che il capitan Sancio e altri cristiani si salvassero; ma un altro Indiano che era fuori dell'acqua tirò una freccia avelenata al cane e lo fece perciò tosto morire. E cosí se ne ritornarono gl'Indiani con certa preda.
Il che quando Cristoforo di Mendoza che governava l'isola per l'admirante intese, uscí dalla terra di S. Germano con fino a 50 uomini che ivi erano, la maggior parte giovanetti, benchè vi fusse pure qualche reliquia di quelli soldati eletti e provati che si sono detti di sopra, e imbarcati in una caravella con due altre barche seguirono quelli Indiani e li giunsero; e fecero uno atto degno di memoria, perchè quasi tutta una notte combatterono con loro presso una isoletta chiamata Bieche, posta piú verso oriente che quella di Borichen, e ammazzarono il caciche capitano delli nemici, chiamato Iahureibo, e fratello d'un altro caciche chiamato Cacimar, che pochi giorni innanzi era stato morto da' cristiani nella medesima isola di S. Giovanni, dove era venuto a far preda. E morí a questo modo, che stando abbracciato con un gentil uomo chiamato Pero Lopes d'Angolo, e forzandosi d'ammazzare l'un l'altro, uscí di fianco un Francesco di Quindos, che con una lancia passò da banda a banda l'indiano, e poco mancò che non ammazzasse anco il Pero Lopes.
Questo Cacimar era valentissimo uomo e molto stimato capitano degli Indiani, onde, per vendicare la sua morte, era il fratello passato nell'isola di San Giovanni e aveva ferito il capitan Sancio d'Arango, con altri cristiani che per cagion del cane iscamparono. Ma fu lor non picciola perdita quella del cane, perchè non avrebbono tanto dispiacere avuto della morte d'alcuni cristiani, né se ne sarebbono risentiti tanto. Ma, ritornando a quello che noi dicevamo prima, il governatore Mendoza giunse i predatori indiani e ammazzò il caciche loro con molti altri, e alcuni altri ne prese, e con le pirague inimiche se ne ritornò vittorioso a S. Germano, compartendo a tutti con gran piacere la preda. Poi mandò una delle pirague che prese in questa città di S. Domenico all'admirante don Diego, ed era un grande e bel vassello, secondo lo sogliono quelle genti usare.
E perchè delle cose di quel cane se ne potrebbe fare un libro, qui non ne dirò altro che una sola cosa, che non mi pare di dovere lasciarla perchè la seppi e intesi da persone degne di fede e che vi si ritrovarono presenti: e fu questa. La notte che fu fatta la battaglia col caciche Mabodomaca (come se ne è scritto di sopra), prima che la mattina il governatore Giovan Ponze giungesse, deliberò il capitan Diego di Salazar di lasciar andar il cane sopra una Indiana vecchia, che era stata ivi fatta prigione fra l'altre. Diede adunque una carta alla vecchia, dicendole: "Va', porta questa carta al governatore che sta in Aimaco", che era una picciola lega indi lungi. E la mandava con intenzione di lasciarle il cane dietro, tosto che ella fusse dalle sue genti uscita. E cosí fece, perchè essendo ella, che tutta lieta andava pensando per quella carta avere la libertà, poco piú d'un tiro di pietra lontana da quel luogo, il capitano sciolse il cane, il quale tosto la giunse. Ma la povera vecchia, che lo vidde venire cosí furibondo verso di sé, s'assise in terra e cominciò parlarli in sua lingua, e dicevali: "Signor cane, signor cane, io vo a portare questa lettera al signor governatore", e mostravali la carta chiusa.
E seguivali: "Non mi far male, signor cane". Tosto che il cane la sentí parlare a questo modo si fermò, e tutto mansueto le s'appressò e alzò una gamba e le urinò a dosso, come sogliono fare i cani in un cantone di muro, e non le fece altro male. Di che restarono assai maravigliati i cristiani e lo tennero per cosa misteriosa, sapendo quanto egli fosse feroce e furibondo. E il capitano, che non volle essere dal cane vinto di clemenzia, fece legarlo, e la povera Indiana spaventata, essendo chiamata, si ritornò dove i nostri erano, pensando che l'avessero per lo cane fatta chiamare, e tremando tutta di paura s'assise. Poco appresso giunse il governatore Giovan Ponze, e inteso il caso, non volendo essere con colei men pietoso di quello che le era stato il cane, la fece liberare, perchè se ne potesse andare sicuramente dove piú piaciuto le fosse.
Del compartimento degl'Indiani della isola di San Giovanni, e come fusse esequito.
Cap. XII.
Ritrovandosi l'isola di S. Giovanni pacifica, e raccomandati gl'Indiani a chi tenere li dovea, parve a quelli che questa altra nuova provigione procurarono che un altro che andato vi fusse gli averebbe meglio saputo compartire fra i cittadini che chi aveva veduto conquistare l'isola stessa; onde, essendo stato procurato e sollecitato questo, vi fu mandato un giudice di residenzia chiamato il licenziado Velasques, al quale diedero ad intendere che non si facesse ingannare dagli ufficiali e procuratori del popolo. E chi furono costoro che gliele diedero e seppero dare ad intendere? Quelli che avevano piú vive e mobili le lingue che non travagliate le persone nel conquisto di quella terra, e che come sagaci e maligni procuravano che fussero senza guiderdone lasciati coloro che lo meritavano, perchè a sé e agli amici loro si desse quello che altrui dare si doveva; sí che diedero molti memoriali maliziosi a' giudici di quella che fare dovesse e di che doveva esso fare il contrario. Li dicevano: "Avertite, signore, che i tali e i tali sono contadini e a pena sanno lavorare la terra, e i tali e i tali sono vili e di bassa condizione". Ma quelli che queste accuse davano, meglio averebbono fatto a ricordarsi che essi con piú verità le meritavano che non quelli a' quali l'attribuivano e de' quali mormoravano, poichè i virtuosi gesti e i servigi segnalati di coloro meritavano altro che parole, avendo alle lor proprie spese e senza soldo alcuno conquistata l'isola, con spargiere molto del proprio sangue e molto piú di quello degli inimici. E a quelli pochi che vivi restati ne erano (che non erano la metà de' veri conquistatori dell'isola) non era stato né fu dato cosa alcuna da potere sostentarsi, fuori che parole e vane promesse, perchè questo licenziato offerse di dovere fra loro compartire gl'Indiani (come sarebbe in effetto stato piú giusto che avesse fatto che non come fece), ma poi fece tutto il contrario, e li diede a chi esso volse e non a chi averebbe dovuto.
Questo licenziado fu il primo che entrò in quella isola, senza il quale e senza gli altri che poi vi furono come persone letterate fu sempre meglio governato quel paese, come si vidde chiaramente in Cristoforo di Mendoza, poichè non fu persona che si querelasse di lui, anzi lo pianse tutta l'isola quando li fu tolto il carico di quel governo. Ma cosí vanno le cose del mondo, che alle volte permette Iddio che per li peccati del popolo gli si tolghino i buoni giudici, o pure per li meriti delli giudici stessi Iddio li toglie di là dove averebbono occasione di errare e d'offendere le loro conscienzie. E cosí si conobbe qui in effetto, perchè, doppo di quelle tante novità e mutazioni di governo, per la varietà de' costumi di coloro che v'hanno avuto il carico della giustizia, non ha quella isola guadagnato altro che affanno, là dove Cristoforo di Mendoza, andato in Spagna, vi stette piú onorato e la maestà cesarea li diede l'abito di san Giacobo, e li diede da mangiare come ad uno de' cavallieri della sua corte. Onde con maggiori grazie e favori si ritrovò e con meno pericoli che nella patria sua, e non cosí separato in questo nuovo mondo.
Della morte di Giovan Ponze di Leone, primo conquistatore dell'isola di Borichen, con altre cose appartenenti alla medesima isola.
Cap. XIII.
Egli s'è detto di sopra come Giovan Ponze, rimosso dal carico e governo dell'isola di S. Giovanni, se n'andò a discoprire nuove terre, e come andò cercando di quel favoloso fonte di Bimini che gl'Indiani dicevano che faceva ringiovenire i vecchi. Ma questo io senza il fonte l'ho veduto avenire, non già nel migliorare e accrescere le forze, ma nello indebolirsi il vigore dell'intelletto e nel ritornare nelli loro fatti e opere fanciulli e di poco discorso. E un di costoro fu il medesimo Giovan Ponze, mentre ebbe quella vanità nel cervello di dare in simile cosa credito agl'Indiani, e di fare alle spese sue armata di vasselli e di gente per questo effetto, benchè nel vero egli fosse onorato cavaliere e nobile, e travagliasse assai nella conquista e pacificazione di questa isola Spagnuola e nella guerra di Higuei, e fosse il primo che cominciasse ad abitare e pacificare l'isola di S. Giovanni, come si è detto di sopra; dove egli, con gli altri che con lui si ritrovarono, soffrirono molti travagli, cosí della guerra come d'infermità e di molte necessità delle cose della vita.
Ora questo capitano ritrovò, come s'è detto, quella terra chiamata Florida, e poi se ne ritornò all'isola di S. Giovanni e appresso poi in Spagna, dove di tutte queste cose diede relazione al re catolico, il quale, avendo rispetto a' suoi servigi, li diede il titolo d'adelantado di Bimini e li fece anco altre grazie. E in questo li giovò molto il favore del suo padrone, il commendatore maggiore di Calatrava Pero Nugnes di Gozman, balio dell'infante don Hernando, che è ora re de' Romani. Avute queste grazie il Ponze se ne ritornò all'isola di S. Giovanni e armò, con proposito d'andare a popolare quella terra che gli era stata data in governo e dove era esso adelantado, e spese molto in fare l'armata. Ma poi se ne ritornò da quel luogo disbarrattato e rotto e ferito d'una freccia, della quale ferita venne a morire nell'isola di Cuba. Né fu solo egli che perdé la vita, il tempo e la robba in questa dimanda, perchè molti altri che lo seguirono morirono nel viaggio, e doppo anco che ivi furono giunti, parte per mano degl'Indiani e parte d'infermità: e cosí guadagnarono l'adelantado e l'adelantamento.
Del popolo Daguao, che fece abitare l'admirante don Diego nell'isola di Borichen.
Cap. XIIII.
Essendo l'admirante don Diego informato che in una provincia dell'isola di San Giovanni si poteva fare una buona terra, là dove si diceva Daguao, perchè si credeva che fosse quella contrada ricca di minere, deliberò di mandare a farlavi: e cosí ne diede il carico ad un gentil uomo chiamato Giovanni Henrico, ch'era parente della vice reina sua moglie. Costui vi andò con certa gente e fece nel piú ricco dell'isola un popolo, dove esso era luogotenente dell'admirante. Ma, per dappochezza di queste genti, che non si diedero a cercare delle minere né s'industriarono per sostentarvisi, fra poco tempo per cagione de' Caribi questa terra si disabitò; e dopo che fu disabitata si ritrovarono presso a quel luogo molti fiumi e ruscelli ricchi d'oro. Ma perchè questa contrada stava molto atta a ricevere danno dai Caribi, che molte volte vi davano assalti, non vi si poté né abitare né ritornare a popolare quella terra. Che se le minere vi si ritrovavano prima, avrebbono ben ritrovato il modo da durarvi, e sarebbe stato gran securtà di tutta la isola, perchè la contrada era molto fertile e atta a lavorarsi e con buoni erbaggi, e ricca d'oro e di buone acque. E sono alcuni che dicono che non si sarebbe potuto fondare per que' luoghi terra alcuna cosí al proposito de' cristiani come sarebbe stata questa. Chiamarono S. Giacomo questo popolo, che cosí poco durò e si disabitò.
Delli governatori dell'isola di San Giovanni, doppo che vi fu
per giudice di residenzia il licenziado Velasques.
Cap. XV.
S'è detto di sopra come il licenziado Velasques fu giudice di residenzia nell'isola di S. Giovanni. Ma egli vi si portò di sorte che furono tante le querele che se ne facevano che Sua Maestà ne provedette di quello ufficio, e vi mandò il licenziado Antonio della Gama, il quale fece tutto quello che puoté e seppe, e poi si accasò con una donzella chiamata donna Isabella Ponze, figliuola dell'adelentado Giovan Ponze di Leone, del quale s'è ragionato di sopra a lungo, e ne ebbe una grossa dote, e si fece cittadino in quella isola, della quale fu governatore per lo re, mentre che li durò l'ufficio di giudice di residenzia; perchè, doppo che egli questo ufficio lasciò, ritornò l'isola in carico dell'admirante don Diego, il quale vi pose suo luogotenente Pietro Moreno, già cittadino di Borichen, del quale né anco mancarono querele, ancor che non tante quante se ne erano fatte degli altri che vi avevano governato prima.
E in questo tempo seguirono molte contese e gare fra Antonio Sedegno, contatore di quell'isola, e il tesoriero Blas di Villa Santa; onde amendue andarono alla corte nel 1523 e vi stetton piú d'un anno, litigando e accusandosi l'un l'altro davanti al consiglio regio dell'Indie, acciochè quel proverbio avesse luogo che dice: "Contendono le commadri, e si scuoprono le veritadi". E fra l'altre sue querele il Villasanta non si dimenticava del licenziado della Gama. Il perchè si ordinò al licenziado Luca Vasque di Aillon, auditore di questa audienzia regia dell'isola Spagnuola, che in quel tempo si ritrovava in Castiglia negoziando un governo dove poi andò a morire, che se ne venisse all'isola di San Giovanni e intendesse quelle differenzie degli uficiali. Era questo Antonio della Gama restato vedovo, e s'era di nuovo accostato con Isabella di Caceres, già moglie di quel Michiel Dias del quale s'è già fatta menzione, perchè questa donna stava assai ricca; e fu costui poi provisto d'ufficio, e fatto giudice di residenzia in terra ferma nella provincia e governo di Castiglia dell'Oro, dove in questo suo ufficio fece quello che appresso si dirà, quando nella seconda parte si tratterà delle cose di terra ferma.
Ora, il licenziado Aillon se ne venne nell'isola di San Giovanni, e ritornò il carico del governo dell'isola al luogotenente Pietro Moreno, perchè gliele aveva fatto deporre; e vi fu costui, mentre visse, governatore. Doppo la cui morte tenne e tiene infino ad ora il medesimo ufficio Francesco Manuele d'Olando, che è un buon cavaliero e nobile persona, e ha ottimamente governato, sempre conforme al volere di que' popoli e al servigio di Dio e di Sua Maestà, e piú al proposito de' vassalli che nol fecero mai li litterati passati che stati vi erano: perchè di questi e di quelli s'è molte volte veduto l'esperienzia. E non senza cagione, in Castiglia dell'Oro e in altre parti Sua Maestà ha ordinato che non vi passino persone literate né procuratori, perchè chiaramente sono pestilenziosi per li negozii altrui e per porre litigio dove non bisogna. Sí che non vorrei io questi carichi di giustizia vederli in coloro che piú legge sanno, ma in quelli che hanno le conscienzie piú giuste; perchè poche differenzie possono essere fra cittadini che i buoni giudici non le tronchino e quietino tosto, se essi hanno il petto sano e tengono la porta chiusa all'avarizia e all'insaziabilità, senza che Bartolo né Baldo né altri dottori vi operino.
Di diverse particolarità dell'isola di San Giovanni.
Cap. XVI:
Poichè si è detto del governo dell'isola di San Giovanni e delle cose che vi passarono ne' principii, quando fu conquistata e abitata, voglio qui dire alcune particolarità convenienti a questa stessa materia. Gl'Indiani di questa isola erano arcieri, ma non tiravano con quella erba avelenata, e qualche volta gl'Indiani caribi dell'isole convicine passavano in questa isola in favore loro contra i cristiani. E quelli Caribi tutti tirano con quella cattiva erba, che fino a questa ora non vi s'è ritrovato rimedio, né si sa curare colui che vien ferito. Dicono alcuni che gli Indiani di questa isola non mangiavano carne umana, ma io ne sto in dubbio, poichè i Caribi, che la mangiano, conversavano con loro e gli aiutavano. La gente di questa isola è di color mesticcio, e vanno ignudi, e son della statura e forma che s'è detto degl'Indiani dell'isola Spagnuola, e sono destri e ben disposti e in mare e in terra, e piú guerrieri di quelli.
Nell'idolatrie del cemi e negli arieti e giuochi del batei, e nel maneggiare delle canoe, e nei loro cibi e agricoltura e pescherie, e negli edificii delle case e de' letti, e nei matrimonii e successioni degli stati, e nelle loro differenze e in altre molte cose, sono questi assai simili a quelli. E tutti gli alberi e piante e frutti ed erbe e animali e uccelli e pesci e insetti che sono nell'isola Spagnuola, sono anco in quella di S. Giovanni. E cosí medesimamente tutto quello che s'è per industria e diligenza degli Spagnuoli fatto e moltiplicato nell'isola Spagnuola, cosí degli animali come degli aranci, granate, fichi, platani, erbaggi e simil cose venute di Spagna, s'è anco fatto assai bene in quella di S. Giovanni. Ma in quest'isola di S. Giovanni vi ha un albero, chiamato il legno santo, del quale, come di cosa assai degna, si farà nel capitolo seguente menzione, per dire qualche parte dell'eccellenzie sue. Vi ha quest'isola un ingegno da far zuccari, che lo fece Giovanni di Castiglione genovese, che degli eredi restò, ma non senza litigi; e dicono che sia una utile e gentil cosa.
Questi Indiani di S. Giovanni, e ordinariamente tutti quelli dell'Indie, accendono fuoco con que' bastoncelli, come a dietro al suo luogo si disse. Ha quest'isola buone saline, come s'è tocco di sopra, dalla parte di mezzodí, e buoni fiumi e acque, e ricche minere d'oro, delle quali s'è gran copia d'oro cavata e del continuo si cava. Vi sono communemente piú uccelli che nell'isola Spagnuola. Ma non lascierò qui di dire d'una caccia, che non la viddi mai fare fuori che 'n quella isola, né ho udito che in altra parte del mondo si faccia. E questa è di certi vespertelli, che gl'Indiani li mangiano, e i cristiani anco li mangiavano mentre durò la conquista dell'isola. E stanno questi uccelli assai pieni e grossi, e si pelano facilmente in acqua ben calda, e restano ben bianchi e a modo di ficaroli grassi. E sono di buon sapore, come gl'Indiani dicono, e li cristiani nol negano, che ne mangiarono molte volte per necessità, e alcuni anco perchè sono amici di provare ciò che vedono ad altrui fare. Finalmente questa isola è assai fertile e ricca, ed è una delle megliori di quante ne hanno fino al presente i cristiani abitate.
Dell'albero del legno santo e delle sue eccellenti proprietà.
Cap. XVII.
L'albero chiamato in queste Indie il legno santo, secondo l'opinione di molti, è un de' piú eccellenti alberi che abbia il mondo, per le infermità e piaghe e diverse passioni che con esso si curano. Molto lo tengono per lo guaiacan, overamente che sua spezie sia, cosí nel legno e nella sua medolla e peso come in altre particolarità ed effetti medicinali che fa, benchè nel vero questo legno santo ha fatto maggiori isperienze; perchè, oltra che con esso si cura il mal francese come col guaiacan e meglio, se ne curano anco molte altre infermità alle quali il guaiacan non giova, come i medici che lo usano sanno piú particolarmente applicarlo.
Io dirò qui solamente la isperienza che ho veduta farli in un infermo pieno di mal francese, che gran tempo avuto lo aveva e ne portava in una gamba una piaga vecchia di molti anni, e di tempo in tempo gli si rinfrescavano le sue passioni e ne passava una mala vita, e teneva questa sua infermità e piaga per incurabile: pure volse usare questa ricetta che ora dirò. Il paziente si ha da purgare con pilole, che io credo che chiamino de fumo terre, le quali si prendono doppo mezzanotte; e purgato che egli ha mangierà uno uccello e beverà un poco di vino bene adacquato. Indi a due giorni si ha da porre in letto, e in quel mezzo ha da mangiare moderatamente di buoni uccelli e polli. Quando egli si pone in letto, ha da stare già fatta l'acqua del legno santo, la quale in questo modo si fa.
Prendono un pezzo del legno e lo tagliano e minuzzano il piú minuto che è possibile, e con una libbra e mezza di questo legno sottile pongono dentro un pignatto nuovo tre misure d'acqua, e ve lo lasciano stare a molle da prima sera fino alla mattina seguente, e tosto che è giorno lo cuocono fino che manchi la terza parte dell'acqua. Allora il paziente si beverà una scodella di questa acqua cotta col legno, tanto calda quanto potrà sofferirla; e bevuta che la ha si farà coprire ben bene e suderà una ora overo due. Sul mezzodí poi beverà della medesima acqua, essendo fredda, tutte quelle volte che vorrà e potrà; e il suo mangiare ordinario sarà un poco di biscotto, overamente di uva passa over simili cose secche.
Ma il fatto sta che con questa dieta si ha da bere molta acqua fatta nel modo che si è detto, che questo è quello che fa al proposito. Fino a mezzodí adunque si ha da fare quello che ho detto, e poi cavare quella acqua fuori, e nel medesimo legno cotto porre altra acqua fresca e cuocerla di nuovo come la prima volta, e fra 'l dí s'ha da bere di quella fredda. E dee l'infermo avertire molto che stia ben coperto e rimotto al possibile, di modo che non vi penetri aere dentro. Il secondo dí si ha da gettar via quel legno del pignatto e vi si ha da porre altretanto legno nuovo minuzzato e acqua, come la prima volta si fece; e a questo modo si ha da continuare fino che passino 12 o 15 giorni. E se lo infermo in questo mezzo si sentirà debole, potrà mangiare un picciolo pollo, e ha da essere questo cibo per sustentamento e non per saturarsi, perchè nelli 12 o 15 giorni sentirà molto meglioramento. E cosí andrà continuando fino alli 90 giorni, in capo del qual tempo mangierà dei polli giovani; e come andrà di dí in dí megliorando, cosí si accrescerà il pasto. Alcuni, doppo gli 15 giorni che hanno preso l'acqua del legno, costumano a purgarsi di nuovo. Ma si dee stare avertito di non disordinare in mangiare cose acetose, né aceto, né pesce, né altre cose nocive, né congiungersi per quelli tre mesi con donna alcuna.
Quelli che hanno piaghe le lavano bene con questa acqua che ho detto, e nettatele bene e asciugatele le ungono con la schiuma che fa l'acqua quando si cuoce, che a questo effetto la serbano, e vi pongono sopra sfilacci bianchi, e le cuoprono poi con tele nette, ma non già di camicia di donne. E a questo modo guariscono le piaghe, che io per certo ne ho vedute per questa via guarire di tali che si tenevano per incurabili, per essere assai vecchie e gonfie e nere, che parevano piú tosto spezie di cancro o di male di san Lazaro che altro. E io mi tengo una opinione, che la medicina di questo legno santo che chiamano è una ottima e santa cosa.
D'alcune altre particolarità dell'isola di San Giovanni.
Cap. XVIII.
Nelli precedenti capitoli restano nel generale dette molte cose di questa isola di S. Giovanni, e molte altre se ne sono lasciate, referendomi a quello che s'è detto dell'isola Spagnuola. Ma mi occorre ora una certa gomma che in questa isola di Borichen si trova, che io non ho inteso mai ragionarne che si ritrovi altrove. E ne ho voluto io essere bene informato da Giovan Ponze di Leone e d'altre persone onorate che lo potevano ben sapere, e che mi dicono che presso le minere che chiamano di Loquillo vi è certa gomma che nasce negli alberi, ed è bianca come sevo ma molto amara, e mischiata con olio senza altra mistura serve ottimamente ad impecciare le navi; ed è molto buona, perchè essendo amara non vi entra la broma, come fa in quello dove s'opra la pece. Gl'Indiani, e i cristiani anco, chiamano in quella isola questa gomma tabunuco, ed è molto eccellente per quello che s'è detto, quando se ne può gran quantità avere.
E con questo imponiamo fine alle cose di questa isola di S. Giovanni fino al presente, che siamo nel 1535.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta dell'isola di Cuba, che ora chiamano Fernandina.
Libro decimosettimo
Proemio
Nel primo viaggio che il primo admirante don Cristoforo Colombo fece in queste Indie, come s'è già altrove in questa istoria detto, la prima terra che discoprí furono l'isole Bianche, che cosí le chiamarono perchè, essendo d'arena, pareano bianche: ma l'admirante volle che si chiamassero le Prencipesse, perchè furono il principio della vista e discoprimento di queste Indie, e giunse a quella che chiamano Guanahani, che sta nel mezzo di queste isolette Bianche, nel 1492. Questa isola di Guanahani è una di quelle che gl'Indiani chiamano delli Lucai, che stanno da tramontana all'isola di Cuba. Indi a quella di Cuba passò, che ne sta 60 leghe lontana.
In questo libro tratterò principalmente dell'isola di Cuba, chiamata per altro nome Fernandina, in memoria del re catolico don Fernando, di tal nome quinto in Castiglia, e dirò prima de' suoi termini e sito, e appresso poi passerò alla particolare istoria di lei. Potranno qui dire alcuni che, essendo stata questa isola prima discoverta che la Spagnuola o che quella di Borichen, doveva io prima di questa che di quelle parlare, massimamente che è cosí grande e cosí degna che non si dee quella di S. Giovanni anteporre. A questo rispondo che, se io avessi avuto intenzione di parlare prima delle piú orientali e delle piú vicine ad Europa, avrei prima parlato di quella di San Giovanni, perchè sta piú verso l'oriente posta, e poi della Spagnuola, e appresso di quella di Cuba, che piú verso occidente è posta. Ma io non mi sono curato di tenere questo ordine, come né anco fa al caso che, perchè quella di Cuba fosse discoverta qualche dí prima che la Spagnuola, si dovesse perciò di lei ragionare prima. Io ho cominciato a dire dell'isola Spagnuola come di quella che è maggiore di tutte l'altre isole che qui fino ad oggi ritrovate si sono, e che ha le piú nobil provincie e le piú principali città e terre di cristiani che per tutte queste altre isole siano. Ho poi ragionato di quella di San Giovanni, che è vicina, e che non era ragione di lasciarla a dietro per stare piú verso oriente posta. Ora passerò a quella di Cuba, che di tutte tre queste è la piú occidentale. E io in ognuna di loro servo l'ordine di dire quando e come furono discoverte, e perchè chi sa cosmografia intenda meglio il sito e termini loro, le distinguo e noto per l'altezza e gradi del polo. Dirò adunque appresso in questa di Cuba che terre di cristiani vi siano, e da chi e come fu conquistata e pacificata, e che governatori vi sono stati, e da chi e per qual via da questa isola di Cuba si discoprirono Iucatan e la Nuova Spagna. Si dirà anco degli animali, uccelli e pesci che vi sono, e de' serpenti grandi che vi si ritrovano, e degli alberi e piante medesimamente, e della forma degl'Indiani di quella isola, e d'alcune lor cerimonie e riti che usano nella loro idolatria e matrimonii, e del modo anco del viver loro, con altre particolarità e cose notabili che vi si veggono.
Del sito dell'isola di Cuba per li gradi del polo e per gli suoi piú vicini termini.
Cap. I.
L'isola di Cuba sta da questa Spagnuola lontana 20 leghe, che, a ragione di quattro miglia per lega, sono 80 miglia. Dalla punta o capo che chiamano Maici, che è la parte piú orientale dell'isola di Cuba, fino alla punta di Santo Nicola si stende questa isola in lungo quasi 300 leghe, benchè in molte carte non ne le attribuiscano piú che 220, e chi piú e chi meno. Quelli che l'hanno caminata particolarmente per terra dicono che ella è da 300 leghe, poco piú o meno, lunga: e cosí l'ho io molte volte inteso dire dall'adelantado Diego Velasques, che vi fu molti anni capitan generale e luogotenente dell'admirante. Il medesimo ho udito dire dal licenziado Alonso Zuazo, che vi fu anco un tempo, e costeggiò e caminò l'isola. Ma piú ampiamente ne fui informato dal capitano Panfilo di Narbaes, che forní di conquistare quella isola, e la caminò piú che niun altro e piú particolarmente la vidde. Senza questi sono molti altri che le danno anco 300 leghe di lungo e 65 di largo, dove piú si ampia, che è attraversando dalla punta delli Giardini a quella che chiamano di Iucanaca, benchè questo traverso non sia molto diritto da tramontana a mezzogiorno, perchè partecipa anco del sudueste al nordeste quasi un mezzo vento. Per lo piú poi nel resto è questa isola stretta, che non passa 15 leghe e 20 e meno, perchè è lunga e stretta. La punta di Maici, che ha da oriente, sta in 20 gradi e mezzo dall'equinoziale; la parte sua piú australe, che sta alli Giardini, che sono certe isolette con molte pericolose seccagne, sta in poco piú di 19 gradi dalla linea equinoziale, dalla parte del nostro polo artico. Quella banda poi che è da tramontana sta nella punta di Iucanana in 22 gradi e mezzo. La punta di Santo Antonio, che è la parte piú occidentale e nel fine dell'isola, sta in 21 gradi e mezzo.
Questo è il vero sito e i veri termini di questa isola, che, come s'è detto, ha da levante questa isola Spagnuola, e da ponente la terra di Iucatan e della Nuova Spagna, che sono provincie di terra ferma. Da mezzo giorno ha l'ultima e piú occidentale parte di questa isola Spagnuola, che è la punta che chiamano di San Michele, e che alcuni impropriamente chiamano il capo del Tiburone. Ha anco da mezzo giorno l'isola di Iamaica e l'isole de' Lagarti, che chiamano, e quelle delli Giardini che ho dette. Da tramontana ha l'isole delli Lucai e di Bimini, e la provincia chiamata Florida in terra ferma. Questi sono i confini dell'isola di Cuba, la quale è per la maggior parte molto aspera e montuosa, ma vi sono buoni fiumi e ricchi d'oro, e con molte buone acque. Vi sono medesimamente molte lacune e stagni d'acqua dolce, e alcuni salati anco che, per fuggire prolissità, si lasciano di scrivere, e per passare alle altre cose piú particolari dell'istoria.
De' popoli e terre principali dell'isola di Cuba o Fernandina, con altre sue particolarità.
Cap. II.
Nel proemio di questo libro s'è detto come il primo admirante, doppo che toccò nelle isole di Bimini, passò a questa di Cuba, della quale allora poco ne vidde, perchè discorse per la sua costiera del porto di Baracoa, che è dalla parte di tramontana, fino alla punta di Maici, che possono essere 12 o 13 leghe, e se ne passò a questa isola Spagnuola. Ma nel secondo viaggio che quello admirante stesso fece di Spagna in queste Indie, nel 1493, se ne venne diritto in questa isola Spagnuola e fondò la città d'Isabella, dalla quale ebbe poi principio e origine questa di San Domenico. Dalla città d'Isabella adunque si partí con due caravelle con intenzione di vedere che cosa era Cuba; e sí vi andò dalla parte di mezzogiorno, e di camino discoprí l'isola di Iamaica, della quale si farà nel seguente libro particolare menzione. Sí che, ritornando al proposito, egli, secondo che alcuni affermano, aggirò tutta l'isola di Cuba. Altri dicono che giunse solamente agli ultimi termini di lei e che si ritornò poi a questa isola Spagnuola, ma che ne vidde piú in questo viaggio che non ne aveva l'anno innanzi veduto. Dalla punta dell'isola Spagnuola, ch'è il capo di San Michele vi dicono, fino all'isola di Iamaica, sono da venticinque leghe, e altretanto è da quella di Iamaica alla punta delli Giardini, che è nell'isola di Cuba dalla parte di mezzogiorno.
Il cronista Pietro Martire intitolò questa isola di Cuba Alfa e O, e altre volte la chiama Givana, ma non è qui isola di simili nomi, né presso gl'Indiani né presso i cristiani. Anzi, da certo tempo in poi fu per ordine del re catolico don Fernando chiamata del nome suo Fernandina, in memoria di Sua Altezza, nel cui felice tempo s'era ritrovata, come la prima provincia e popolo abitato nell'isola Spagnuola da' cristiani fu chiamato Isabella, in memoria della serenissima e catolica reina donna Isabella. Il principale luogo e popolo dell'isola di Cuba è la città di San Giacomo, dove sono da dugento cittadini, e vi è un bel porto e sicuro, perchè sono quasi due leghe dalla bocca del mare fino alla città, ed entrano le navi per picciola bocca nel porto. E questo non è fiume, ma è un braccio d'acqua salsa del mare istesso, e dentro s'allarga poi questo golfetto o porto e vi sono molte isolette, e vi possono i vasselli stare quasi senza fune né ligati in terra altramente. E fra queste isolette dentro del porto vi sono gran pescherie. Questa città di San Giacomo ha una chiesa catedrale, della quale il primo vescovo fu fra' Bernardo di Mesa, dell'ordine di san Domenico, e appresso vi fu un capellano maggiore della serenissima madama Leonora, sorella della maestà cesarea e già reina di Portogallo (ora è di Francia); il qual vescovo era fiammingo e dell'ordine medesimamente de' predicatori. Il terzo vescovo fu un altro religioso del medesimo ordine, assai riverenda persona e predicatore di Sua Maestà, e si chiamò fra' Michele Ramires. Questa chiesa ha belle entrate, e i canonici e i capellani che vi servono sono di molta dignità e ricchi d'entrate.
Vi sono altre terre, come è quella della Havana, che è nel capo dell'isola dalla banda di tramontana, e quella della Trinità, che sta dalla parte di mezzogiorno, e quella di San Spirito, e quella del porto del Prencipe, e quella del Baiamo, che è trenta leghe lungi dalla città di San Giacomo. Ma tutte queste terre sono assai poco abitate, per cagione che la maggior parte de' loro cittadini se ne sono passati alla Nuova Spagna e ad altre terre nuove: perchè in tutte le parti del mondo, ma piú in queste Indie, la natura degli uomini è di non quietarsi mai, perchè, essendo la maggior parte di coloro che qui vengono giovani e di gentili desiderii, e molti di loro valorosi e bisognosi, non si contentano di fermarsi in quello che è già conquistato. Ma ritorniamo all'istoria. Queste terre che ho dette sono nell'isola di Cuba o Fernandina. E questo basti di loro. Passiamo ad altre particolarità, e spezialmente diciamo quello che fa al caso della conquista e pacificazione di quella isola, perchè con piú ordine si procede in quello che resta a dirsene.
Della conquista e pacificazione dell'isola di Cuba, e de' governatori che stati vi sono, e del primo discoprimento di Iucatan, donde si passò a discoprire la Nuova Spagna.
Cap. III.
Poco prima che il commendatore maggiore d'Alcantara don fra' Nicola d'Ovando fosse del governo di questi luoghi rimosso, mandò con due caravelle alquante genti a tentare se per via di pace si potea l'isola di Cuba popolare di cristiani, e vedere che provisione fare si dovesse quando gli Indiani vi ostassero. A fare questo effetto andò un gentil uomo chiamato Sebastiano di Ocampo, il quale prese terra in quella isola ma vi fece poco; perchè poco appresso se n'andò il commendatore maggiore in Spagna, e venne in governo di queste Indie il secondo admirante don Diego, che mandò in Cuba per suo luogotenente Diego Velasco, che era un di quelli che prima in queste parti vennero col primo admirante, nel secondo viaggio del 1493. Questo Diego Velasco fu quello che cominciò a conquistare la detta isola e a popolarla, e diede principio al fondare della città di San Giacomo e d'altre terre. E perchè era ricco, e s'era ritrovato nella prima conquista di questa isola Spagnuola e stava in buona riputazione, restò in Cuba assoluto governatore e cominciò, come ho detto, a fondare le terre delle quali s'è fatta menzione di sopra, e pacificò l'isola ponendola sotto l'ubbidienzia reale di Castiglia, e cosí in questo tempo assai piú ricco si fece.
Ora vennero poi que' frati di san Hieronimo, che il cardinale Scimenes, governatore di Spagna, mandò a questa isola Spagnuola col licenziado Alonso Zuazo, il quale fu da questi frati mandato a risedere nell'isola di Cuba in nome dell'admirante don Diego, perchè erano molte le querele che contra il Velasco s'udivano del continovo. Il perchè restò Diego Velasco sospeso del governo, ma assai ricco. Ma né anco contra il Zuazo, che amministrò giustizia in Cuba, mancarono querele. Per la qual cosa deliberò l'admirante di passarvi esso in persona a vederlo, e con lui andarono due auditori di questa regia audienzia, che furono i licenziadi Marcello di Villalopi e Giovanni Ortiz di Matienzo. Costoro non ritrovarono tanta colpa nel Zuazo quanta gli attribuivano; e perchè non avevano essi commissione di privarlo della residenzia, come né anco il Zuazo vi era andato con provisione di questa audienzia regia, le cose restarono per allora sospese, e l'admirante con quegli auditori attese ad altre cose e alla reformazione di quella isola, e prima che partisse ritornò quel governo a Diego Velasco, che ne era stato sospeso da che il Zuazo andato vi era. E poi se ne ritornò con gli auditori a questa isola Spagnuola, e non fu dal Velasco troppo ben pagato dell'opere buone che fatte verso lui aveva.
Ora, avendo il Velasco, e per sé e per mezzo del capitano Pamfilo di Narbaes, che era molto nella guerra esperto, pacificato la isola di Cuba e compartiti gl'Indiani, fece por mano alle minere d'oro, che ve ne sono assai ricche, e se ne cavò molto. Vi furono portati degli animali che erano già cresciuti in questa isola Spagnuola, e vi fecero benissimo; e non solamente gli animali vi sono assai bene aumentati, ma gli alberi anco e le piante e l'erbe, con quanto era stato portato di Spagna a questa isola. E in questo si mostrò molto diligente Diego Velasco, il quale, perchè era astuto e prudente, non si contentava d'essere ringraziato dagli uomini di quello che faceva, che voleva anco che la terra con la sua fertilità nel pagasse. Di modo che l'isola ne venne a stare molto prospera e bene popolata di cristiani e piena d'Indiani, e Diego Velasco assai ricco. E con sí fatti mezzi e modi tenne col re catolico (perchè esso era molto amico del tesoriero di questa isola Michele di Passamonte, al quale si dava gran credito) che, anco che l'admirante avesse voluto rimoverlo da quel carico, non averebbe potuto: e cosí si ritrovò in Cuba con l'ufficio approbato dal re, ma pure tutta via in nome e come luogotenente dell'admirante.
Doppo di questo, continovando nel suo governo il Velasco, nel 1517 con sua licenzia armarono per andare a discoprire nuove terre alcuni delli piú antichi conquistatori della isola di Cuba, che furono Francesco Hernandes di Cordova e Cristoforo Morante e Lope Occioa di Caizeto, e fu nominato per proveditore un Berardino Ignigues. Costoro, menando per pilotto principale un Antonio Alaminos, con cento e dieci uomini, e con tre vasselli che alle loro proprie spese armarono, si partirono dal capo di Santo Antonio, che è l'ultima parte dell'isola di Cuba da occidente, e corsero la via del sudueste, che è il vento che sta fra mezzogiorno e ponente. E in capo di sei giorni videro terra, che navigarono da 66 o 70 leghe. La prima terra che viddero fu della provincia di Iucatan, nella cui costiera si vedevano alcune torri di pietra, non già alte molto, che sono le moschee e gli oratori di quelle genti idolatri. E stavano questi edificii posti sopra certi gradi, e stavano coverti di paglia, e nella cima d'alcuni di loro si vedevano verdure di alberi fruttiferi piccioli, come sono guaiabi e altri simili. Qui viddero gente vestita di cottone, con mantiglie sottili e bianche, e con cerchelli agli orecchi e con catene e altre gioie di oro al collo, e con camisette anco di colori, di cottoni medesimamente. E le donne portavano la testa e 'l petto coverto, e con le loro brache e certe mantiglie sottili come veli in luogo di tovaglia o di manto. Fra queste genti si ritrovarono croci, secondo che io intesi dal pilotto Antonio d'Alamino, ma io il tengo per favola. E se pure vi erano, non penso che si sapessero quello che si facevano in farle, poichè sono in effetto idolatri, e come per esperienzia si è visto, non avevano memoria alcuna né sapevano nulla della croce e passione di nostro Signore. E se pure a qualche tempo il seppero (come credere si dee), già se l'avevano a fatto dimenticato.
Ma, ritornando all'istoria, avuta che ebbero i nostri lingua di queste genti, e veduto che la costiera di quella contrada era grande, deliberarono di ritornarsi e dare nuova di quello che veduto avevano, perchè veggendo cosí grande e cosí popolato il paese, non s'arrischiarono di restarvi con cosí poca gente. Pure passarono navigando oltre, finchè giunsero a una provincia chiamata Campecio, dove viddero una terra di fino a tremila case, con gran copia di gente che uscivano alla marina, e si maravigliavano veggendo cosí gran vasselli come erano i nostri (benchè picciole caravelle fossero), e stavano attoniti in vedere la forma cosí delle vele come delle sarti e d'ogni altra cosa; ma molto piú maravigliati restavano udendo alcuni tiri di bombarde e veggendo il fumo con l'odore del zolfo. Onde stavano in pensiero che questo fosse quello stesso che sono i tuoni e i lampi che dalle nuvole escono. Con tutto questo smontarono alcuni cristiani in terra, ed essi fecero loro festa, mostrando d'avere caro di vederli, e portarono loro da mangiare molti buoni uccelli, non minori che pavoni e non di men buon sapore, e altri uccelli anco, come coturnici, tortore, anatre, papere e cervi e lepori, con altri animali. Ma perchè, quando si ragionerà delle cose di terra ferma, si dirà di tutti questi animali particolarmente, passeremo ora al resto. A questa terra o popolo il capitan Francesco Hernandes puose nome il caciche di Lazaro, perchè nel dí di san Lazaro i nostri vi giunsero: e voleva questo denotare che, come Cristo nostro Signore resuscitò Lazaro, cosí andavano i cristiani destando e resuscitando queste genti da morte a vita, con ridurli alla vera religione cristiana.
Da questo luogo passarono poi quindeci leghe avanti, e giunsero ad un'altra provincia chiamata dagl'Indiani Aguanil, e la sua principale terra era chiamata Moscobo, e il caciche è re di quello stato Ciapoton. Pensavano i nostri che questi avessero dovuto fare come gli altri, che avevano loro fatte carezze e mostro di rallegrarsi del venir loro; ma altramente avenne, perchè in altra fantasia stavano, e mostrandosi molto feroci co' loro archi e frezze non volevano lasciare ismontare i nostri, e tenevano il viso e la fronte dipinta di varii colori. Essi pensarono un inganno per ammazzare i cristiani, a questo modo. Essendo loro da' nostri dimandata dell'acqua, risposero che andassero a prenderla alquanto dentro terra, perchè alquanto scostata dal mare era, e mostravano loro il camino per certe picciole viette e sospette. Quando si avidero poi che i cristiani, entrati sospetti, ricusavano d'andare avanti per l'acqua, e s'avidero d'essere scoverti, cominciarono a tirare le loro frezze: i nostri animosamente si difesero, e ammazzarono e ferirono alquanti degli adversarii. Ma perchè questi erano molti, furonvi gli Spagnuoli forzati a ritirarsi piú che di passo in barca, e vi restarono venti cristiani morti e piú di trenta altri feriti, fra li quali vi fu ferito il capitan Francesco Hernandes. E se fussero i nostri passati avanti, vi sarebbono tutti restati morti. Il meglio che poteron adunque si ritirarono in nave, con molto travaglio e con la già detta perdita, e se ne ritornarono alla volta dell'isola Fernandina, onde prima partiti s'erano. E questo fu il principio come si discoprí la Nuova Spagna.
Volendo ritornare al governo di Diego Velasco e alle altre cose di Cuba, poco vi è piú da dire di quello che se ne è detto, e che questo governatore Diego, al parer mio, perdette il tempo e la robba che aveva cumulata in questi nuovi discoprimenti, per arrichirne il marchese della Valle don Fernando Cortese, come s'intenderà appresso nel discorso dell'istoria. Ma perchè non abbiamo a ritornare un'altra volta alle particolarità di questa isola di Cuba e della sua fertilità, brevemente nel capitolo seguente le toccaremo, poichè la maggior parte di loro si è quasi intesa con quello che si è scritto di sopra di questa isola Spagnuola e di quella di San Giovanni.
Delle cose generali, della ricchezza e fertilità dell'isola di Cuba, con altre particolarità.
Cap. IIII.
La gente dell'isola di Cuba è simile a quella di questa isola Spagnuola, ancorchè nella lingua differiscano in molte voci, benchè l'uno l'altro s'intendano. La loro portatura è quella stessa con la quale nascono, perchè a questo modo e gli uomini e le donne ignudi vanno. La loro statura, il colore, i riti e l'idolatrie e 'l giuoco del batei sono una cosa stessa con quello che s'è nelle cose dell'isola Spagnuola detto; ma negli accasamenti differiscono, perchè, quando alcuno prende moglie, s'egli è caciche si giacciono con la sposa tutti quelli cacichi che nella festa si trovano. E se lo sposo è uomo principale si giacciono con la sposa prima tutti gli altri principali; e che se colui che s'accasa è plebeio tutti i plebei che alla festa vengono assaggiano prima che lo sposo stesso la sposa; e doppo che a questo modo l'hanno molti provata ella, menando il braccio col pugno chiuso e alto, viene a gran voce dicendo: "Manicato, manicato", che vuol dire forzata, e forte e di grande animo, quasi lodando se stessa d'esser valorosa e da molto.
Nel modo del governo delli cacichi di questa isola e in molti altri costumi sono una cosa stessa l'isola di Cuba e questa Spagnuola: parlo nel generale, perchè in alcune poche cose sono differenti. Anzi sono anco ne' loro vizii conformi, perchè sono libidinosi e di poca o niuna verità e ingrati, né vogliono essere piú cristiani di quello che si siano tutti gli altri Indiani, ancorchè Pietro Martire, informato dal baccilliero Enciso, dica maraviglie della devozione e conversione d'un caciche di Cuba che si chiamò il Comendatore e dell'altre sue genti. Io non ho di ciò udita cosa alcuna, ancorchè io sia stato in quell'isola, e perciò mi riferisco a chi il vide, se cosí fu come egli dice. Ma io ne dubito assai, perchè ho veduti piú Indiani di colui che ciò scrisse, e di colui anco che gliele referí; e per l'esperienzia che io ho di queste genti credo che niuno o assai pochi di loro siano cristiani di loro volontà, e quando alcuno, essendo d'età, si fa battezzare, il fa piú per una certa voglia che per zelo della fede, perchè non li resta altro che il nome, il quale anco presto li cade dalla memoria. È ben possibile che ve ne siano alcuni fedeli, ma io mi credo che assai rari siano.
Degli animali che di Spagna si condussero nell'isola di Cuba ve ne è gran copia, e vi fanno molto bene; il medesimo dico degli alberi ed erbaggi di Spagna. E vi sono anco tutti quegli alberi, piante ed erbe naturali dell'isola, che si sono di sopra detti che sono in questa isola Spagnuola; ma in quella di Cuba vi ha maggiore copia di rubia, che naturalmente vi nasce ed è molto buona. Vi sono tutti i pesci e animali insetti e tutte l'altre cose che si sono dette di questa isola Spagnuola, salvo che de' zuccari; perchè, ancorchè vi abbiano fatte le cannamele assai bene, e vi si farebbe del zuccaro come qui, non vi si sono però date le genti, per cagione che, stando cosí presso quella isola alla Nuova Spagna, conquistata che fu l'isola molti in que' luoghi di terra ferma se ne passarono: massimamente che, come s'è detto, da quella parte si passò primieramente a discoprire la Nuova Spagna, e indi medesimamente si passò con la seconda armata del capitano Giovanni di Grigialva, e con la terza anco del capitano Hernando Cortese, e con la quarta del capitan Panfilo di Narbaes, e tutti quattro questi per ordine del luogotenente Diego Velasco. Di modo che per questa via quasi si dispopolò l'isola di Cuba, e vi finirono di morire quasi del tutto gl'Indiani che vi erano, per quelle cause stesse per le quali in questa isola Spagnuola morirono, e perchè la infermità pestifera delle variole, che cosí chiamano, fu universale in tutte queste isole. Sí che gli ha quasi del tutto il grande Iddio estinti, per li loro vizii e idolatrie.
Gli areiti e balli dell'isola di Cuba sono come quelli di questa Spagnuola, anzi sono per tutte queste Indie communi, benchè in diverse lingue. I loro letti sono le amache, fatte nel modo che s'è detto di sopra, e le loro case medesimamente come dipinte o lineate di sopra abbiamo detto. In quella isola il maggior peccato era il rubbare, il quale delitto castigavano nel modo che s'è detto a dietro. La religione degl'Indiani di Cuba si era adorare il demonio, chiamato Cemi. Tenevano per gentilezza l'usare con donne, e non si risparmiavano dalla abominevolezza sodomitica. Si maritavan ne' gradi già distinti di sopra, e per ogni picciola cagione lasciavano le mogli, ma le piú volte erano essi da loro lasciati, e d'alcune meritamente, per essere essi tanto contra natura inchinati, e d'alcune altre per non volere esse perdere il tempo nella loro viziosa libidine. Li cacichi o re che vi erano prendevano quante mogli volevano, e gli altri ne prendevano tante a quante potevano dare mangiare e sostentarle.
Gl'Indiani di quella isola sono gran pescatori e cacciatori d'uccelli e di pesci col pesce riverso, e dell'oche salvatiche con le cocozze, come si dirà appresso al suo luogo, quando se ne parlerà a lungo. L'isola di Cuba è molto ricca d'oro, e vi se n'è cavato molto. Vi ha molto rame e buono, perchè, senza che la cosa è assai chiara, pochi mesi sono che uno Alonso del Castello, nativo di Iepes, terra di Toledo e ramaro, di cinque cantara della vena del rame, che ne fece l'esperienzia, ne cavò tre: e diceva costui che era assai meglio a lavorare questo rame che non quanto ne aveva mai altrove veduto. Questa vena o minera sta in un monte, tre leghe longi dalla città di S. Giacomo.
Ritornando a seguire dell'altre cose, dico che in quella isola le vettovaglie e biade di quelle genti sono quelle stesse dell'isola Spagnuola, e il medesimo modo vi tengono nelle cose della agricoltura, e vi sono le medesime piante, frutti e legumi. E vi furono quegli stessi animali di quattro piedi, e al presente ve ne sono anco certi altri, che sono maggiori che conigli e hanno della medesima maniera i piedi, salvo che la loro coda è come d'un sorice longa, e il pelo irto come d'un tescion, che è come volpe. Il qual pelo loro tolgono, ed essi restano bianchi e buoni a mangiare. Si prendono fra quelle piante che sono nel mare, dormendovi sopra, perchè pongono le canoe sotto l'albero, il quale scotendogli fanno cadere nell'acqua; onde vi si gettano tosto dalla canoa gl'Indiani a nuoto e ne prendono molti. Chiamano questo animale guabiniquinax, che è come una volpe, e della grandezza d'un lepore, e di color berrettino misto con vermiglio, e con la coda ben pilosa e con la testa come di martora o di donnola. E vi se ne trovano molti nella costiera dell'isola di Cuba, dove è anco un altro animale, che il chiamano aere, grande quanto un coniglio e di color fra berrettino e rosso, ed è molto duro a mangiare; ma non lo lasciano già per questo di porlo al pignatto o di farlo arrosto. Sono in Cuba medesimamente que' pesci stessi che sono nell'isola Spagnuola e i medesimi uccelli, con altri anco che appresso si diranno particolarmente. E la maggior parte degli anni, o almanco ogni terzo anno, vi è un passaggio d'uccelli, come nel capitolo seguente si dirà.
Il paese di quella isola è temperato, ma in ogni modo piú freddo che non è quello di questa isola Spagnuola, perchè, come si disse dove si trattò del suo sito e de' suoi termini, la parte di lei settentrionale sta in 22 gradi e mezzo dall'equinoziale.
Delle grue e pernici o tortore di Cuba, e del passaggio che sogliono quasi ogni anno fare gli uccelli per la isola di Cuba verso terra ferma, alla volta del vento sueste.
Cap. V.
Nell'isola di Cuba sono infinite grue di quella sorte che in Spagna si veggono, cioè di quella penna e grandezza e canto, e in quella isola vivono e fanno i nidi. Onde i fanciulli, e l'altre genti che vi vanno dietro, portano per le terre dove si abita infinite ova di questi uccelli e grue piccioli, che per le campagne e per altri varii luoghi dell'isola li prendono: e tutto l'anno questi uccelli vi sono. Vi sono medesimamente certe pernici picciole, che al giudicio mio, e quanto alla penna e quanto al mormorio che fanno, paiono tortore, ma hanno molto migliore sapore; e se ne prende un grandissimo numero, e le portano vive e assai selvaggie a casa, ma fra tre o quattro dí vi diventano cosí domestiche come se ivi nate fossero, e vi ingrassano in gran maniera; e senza dubbio sono un cibo molto delicato, saporoso e soave, e alcuni le lodano tanto che le tengono per miglior cibo che non è quello delle pernici di Spagna, sí perchè non sono men grate al gusto come perchè sono di migliore digestione. Non sono già maggiori delle tortore di Castiglia, e hanno nel collo una collana della medesima piuma, ma nera come è quella della calandra, benchè alquanto piú a basso nel petto è di maggiore ampiezza.
Ho nel capitolo precedente detto che qui direi d'un passaggio d'uccelli, e per questo dico che, quasi nel fine dell'isola di Cuba, vi passano quasi ogni anno per sopra infiniti uccelli di diverse spezie, che vengono dalla parte verso il fiume della Palme, che con la Nuova Spagna confina, e dalla parte di tramontana sopra terra ferma, e attraversano sopra l'isole degli Alacrani e di quella di Cuba; e passato il golfo che è fra queste isole e terra ferma, se ne passano oltre nel mare di Mezzogiorno. Io gli ho veduti passare sopra il Darien, che è nel golfo d'Uraba, e sopra il Nome di Dio e Panama in terra ferma in varii anni, e pare che ne vada coverto il cielo: e dura questo passaggio un mese o piú, e sono dal Darien fino al Nome di Dio o a Panama ottanta buone leghe. E io ho veduto alcuni anni questo passaggio in tutte tre le parti già dette, e ho veduto venire questi uccelli di verso Cuba e gli altri già detti luoghi e attraversare la terra ferma, e pare che se ne vadino verso il piú largo della terra alla volta del sueste. E poichè non li vediamo venire continuamente sempre uno anno doppo l'altro, né in niun tempo ritornare mai verso ponente o tramontana, credo che quelli che passano poi siano quelli stessi o quelli che di loro restano o che da quelli primi nascono, e che aggirino il mondo a torno per lo camino che ho detto. Fanno questo passaggio nel mese di marzo, in 20 o 30 dí e piú e meno, e dalla mattina fino alla sera a notte se ne vede quasi coverto l'aere, e cosí alti vanno che alcuni se ne perdono di vista; ne vanno anco alcuni altri bassi rispetto a' piú alti, ma cosí bassi che vanno piú alti che le cime de' monti della terra. E il lor camino è a lungo dalla parte del norveste e di tramontana, come s'è detto, a quella di mezzodí, e indi alla volta del sueste, e attraversano in lungo tutto quello che si può con gli occhi vedere, e occupano in lato assai gran parte del cielo.
Quelli uccelli di questi che volano piú bassi e presso la terra, sono certe aquilette nere e altre mezzane, ma aquile reali medesimamente e altri uccelli di varie maniere, e alcuni assai grandi, e tutti paiono di rapina, ancorchè siano le loro differenzie molte e varii di piume: parlo d'alcuni di quelli che si vanno abbassando, perchè in quelli che vanno alti non si può considerare la piuma né discernerli con la vista; solamente nel modo del volare e battere d'ale, e nella grandezza e fattezza loro si conosce assai chiaro che di diverse spezie e forme sono. Ma perchè questa materia del passaggio degli uccelli è con le cose di terra ferma, lasciamo il resto, per dirlo nella seconda parte di questa istoria dell'Indie.
Delli serpenti dell'isola di Cuba, o Fernandina.
Cap. VI.
Sono nell'isola di Cuba molti serpi, e di varie maniere e differenzie. E vi sono lacerte e scorpioni e scolopendrie e vespe, con altri simili animali, secondo che s'è ne' libri precedenti dell'isola Spagnuola detto. Ma in questa di Cuba si sono visti in particolare serpi assai maggiori che altrove, perchè ne sono stati morti alcuni cosí grossi o piú che non è la coscia d'uno uomo, e lunghi venticinque e trenta piedi e piú; ma sono assai vili e mansueti, e gli Indiani li mangiano, e ritrovano loro spesso nella gola sei o sette e piú anco di quelli animali che ho detto che li chiamano guabiniquinax che se gl'inghiottono intieri, ancorchè siano maggiori che conigli.
Delle palle tonde come pietre di bombarda, che naturalmente si producono
e trovano nella isola di Cuba o Fernandina.
Cap. VII.
È una certa valle nell'isola di Cuba che dura quasi tre leghe fra due monti, e sta piena di pietre tonde come sono quelle di bombarda che si fanno, e sono una spezie di pietre assai forte, e in tal maniera tonde che non si potrebbono fare piú con artificio niuno, ciascuna nella grandezza nella quale si trova essere. Ve ne sono anco picciole e minori che pallotte di schiopetto; e da questa misura in su ve ne sono d'ogni grandezza, finchè le piú grosse sono tali che servirebbono per qualsivoglia artiglieria, ancorchè vi bisognassero palle d'un cantaro e di due. E tutta questa valle si ritrova di simili pietre piena, come se fusse una minera di loro; perchè cavando si ritrovano nel modo che ciascuno le vuole, benchè ne siano anco molte nella superficie della terra, e particolarmente presso al fiume che chiamano del Vento contra maestro, che sta quindeci leghe lontano dalla città di S. Giacomo, andando alla terra di S. Salvatore del Baiamo, che è la via verso ponente. Ma perchè s'è fatto di sopra menzione della minera della pece che nell'isola di Cuba si trova, voglio che ne resti il lettore meglio informato, come potrà nel seguente capitolo vedere.
Del fonte o minera del bitume che nell'isola di Cuba si trova.
Cap. VIII.
Nella costiera dell'isola di Cuba da tramontana, presso al Porto del Prencipe, è una minera di pece, la quale si cava a lastre e pezzi, ed è ottima per impecciarne le navi, ma s'ha da mescolare prima con molto sevo o olio e poi questo effetto farne. Io non ho veduto questo fonte o minera, ancorchè io sia in quella isola stato. Ma questa è una cosa assai nota, e la intesi dall'adelantado Diego Velasco, che governò gran tempo quell'isola, e dal capitan Pamfilo di Narbaes, che accappò di conquistare Cuba, e da' pilotti Giovan Bono di Chescio e Antonio Alamines, e d'altri cavalieri e gentil uomini degni di fede, che molte volte questa pece o bitume viddero e il luogo dove ella nasce: e tutti l'approvano per buona, e sufficiente per impecciarne le navi. Io ho questa pece veduta, e me la mostrò e diede un pezzo Diego Velasco, e io la portai nel 1523 in Spagna per mostrarla in Europa. Ma questa non è cosa nuova, poichè Plinio nel secondo libro della sua istoria scrive che il lago Asfaltide in Giudea produce bitume, e nel sesto libro dice che in una provincia chiamata Corambi è un fonte di bitume. E non solamente Plinio scrive che le fonti de' bitumi si trovino, come ho detto, ma anco Q. Curzio nel V libro dice che nella città di Memi è una gran grotta, dove scaturisce un fonte che versa gran copia di bitume. Di modo che è facile cosa a credere che le mura di Babilonia di bitume si murassero e facessero, come questo autore stesso dice.
Parmi che per questi due autentici scrittori noi abbiamo notizia del lago Asfaltide e delle fonti di Corambi e di Memi, che sono tre luoghi dove questo bitume si trova. Ma in queste nostre Indie mostrerò io altri sei fonti o minere che fanno il medesimo. Una ne è questa dell'isola di Cuba, che ho detto che serve ottimamente ad impecciare le navi. Un'altra ne è nella Nova Spagna, nella provincia di Panuco, il cui bitume vogliono alcuni che sia meglio di quello di Cuba. Due altre fonti di bitume sono nella provincia del Perú, nel mare Australe di terra ferma, nella punta che chiamano Santa Elena; e una di queste dicono anco che sia di trementina. Il quinto fonte è nell'isola di Cubagua, ed è di un'altra certa forma di bitume. Un altro lago pur di bitume è nella provincia di Venezuola; e non resto di credere che se ne abbino a trovare delle altre, perchè la terra ferma è un altro mezzo mondo. Di questi fonti de' quali s'è qui fatta menzione piú particolarmente scriverò quando si ragionerà delle cose di terra ferma, nella seconda parte di questa istoria dell'Indie, e nel libro seguente medesimamente, quando si parlerà delle cose di Cubagua, perchè di ciascuno di loro si ha a trattare nel suo proprio e conveniente luogo.
Del secondo discoprimento fatto per l'adelantado Diego Velasco, che da Cuba mandò in suo nome il capitano Giovan di Grigialva in alcuni luoghi della Nuova Spagna.
Cap. IX.
Avendo Diego Velasco, capitan generale e compartitore delli cacichi e Indiani della isola di Cuba per Sua Maestà, e luogotenente di quell'isola per l'admirante e vice re don Diego Colombo, inteso quello che il capitan Francesco Hernandes aveva in quel viaggio discoperto di Iucatan, come s'è già detto di sopra, e avendone avute alcune lingue d'Indiani stessi di quella terra, deliberò di mandarvi un'armata, col capitan Giovan di Grigialva e col pilotto Antonio d'Alaminos, che s'era in quel discoprimento col capitan Francesco ritrovato, perchè discoprissero l'isole di Iucatan e di Cozumel con l'altre convicine (ma Iucatan non è isola, ancorchè in quelli principii pensassero che fosse, perchè è una parte di terra ferma). A questo effetto adunque, a' 20 di gennaio nel 1518, fece capitano di questa armata Giovan di Grigialva, e vi mandò per tesoriero Antonio di Villa Fagna; ma ne chiese prima licenzia dalli padri di san Hieronimo, che queste Indie governavano, e che gliele diedero, mandando su questa armata per proveditore un cavaliero giovane di Segovia chiamato Francesco di Pignalosa. Andarono da quaranta cavalieri e gentil uomini su questa armata, che fu di tre caravelle e un brigantino. La nave capitana si chiamava Santo Sebastiano. Un'altra ve ne era del medesimo nome, e l'altra si chiamava la Trinità, e il brigantino San Giacomo.
Questi quattro vasselli uscirono dal porto della città di San Giacomo a' 25 di gennaio, e se ne andarono al porto di Boiucar, dove tolsero quattro uomini esperti nel mare, e a' 12 di febraro giunsero al porto della Matanza, che è nella provincia della Navana, nell'isola stessa di Cuba, dove il capitano nella terra di San Cristoforo della Navana fece a' 7 d'aprile rasegna delle sue genti, e ritrovò avere in tutto 134 uomini, senza i marinai. Mentre che qui stavano, mandarono il brigantino avanti, perchè gli aspettasse nella punta o capo di Sant'Antonio, che è nell'ultimo dell'isola Fernandina. E alli 18 d'aprile, essendo qui venuta tutta la gente che da diverse parti dell'isola s'era qui raunata per imbarcarsi, fece il capitan Giovanni altri tre capitani particolari e a sé inferiori, e furono Alonso d'Avila, il commendatore Pietro d'Alvardo e Francesco di Monteggio. E fatta di nuovo di tutta la gente rassegna, si ritrovarono essere in tutto 200 uomini, i quali tutti s'imbarcarono nelle tre caravelle già dette e in un'altra chiamata Santa Maria delli Rimedii.
E un martedí, a' 20 d'aprile del medesimo anno del 1518, si partirono dal porto della Matanza per essere alla ponta di Santo Antonio, dove erano dal brigantino loro aspettati (fino alla quale ponta sono settanta leghe); e di là avevano pensiero di drizzare la prora alla volta dell'isola di Santa Maria delli Rimedii, che è oltra del detto capo di Santo Antonio novanta o cento leghe verso il sudueste, che è una quarta del mezzogiorno. Furono tutti i pilotti dal principale di loro Antonio d'Alamines, che guidava l'armata, avisati che per conoscere l'isola avevano a vedere prima dentro nel mare tre isolette bianche d'arena, con alcuni pochi alberi.
Ora, perchè le vele ebbero il tempo prospero, il giovedí seguente giunse l'armata al porto di Carenas, che è nella medesima provincia di Havana, per raccorre alcuni che ivi andati se ne erano per imbarcarsi, e per prendervi vettovaglie piú di quelle che avevano, e per sbarcarvi alcuni Indiani domestici dell'isola che su questa armata erano. Fatto che ebbero tutte queste cose, tosto il dí seguente, a' 23 d'aprile, uscirono dal porto di Carenas, e seguendo il viaggio loro giunsero il primo di maggio alla ponta del capo di Santo Antonio, ad ora di vespero; ma non vi ritrovarono il brigantino che credevano che vi fosse. Onde alcuni che smontarono in terra, veggendo una cocozza appesa in uno albero, la presero e vi ritrovarono dentro una carta, nella quale erano queste parole scritte: "Quelli che qui vennero col brigantino si ritornarono a dietro, perchè non avevano che mangiare". Veduto questo deliberarono di non piú trattenersi, ancorchè sarebbe loro stato di grande importanzia avere con esso loro il brigantino, per le cose che loro appresso poi succedettero. Il dí medesimo adunque, proseguendo il viaggio loro, tennero il pennello per l'isola di Santa Maria delli Rimedii, come s'è detto di sopra che fare dovevano. Il lunedí appresso, a' tre di maggio, riconobbero terra, e viddero una costiera piana dove da una parte era uno edificio quadro a maniera di torre, e basso e bianco, e pareva che avesse un campanile; e presso a questa torre si vedeva una casa coverta di paglia. Or, perchè era il dí della Croce, posero nome i nostri Santa Croce a questa isola, che gl'Indiani Cozumel chiamano. Costeggiando l'armata questa isola, viddero un altro edificio che pareva un'altra torre come la prima, e sorsero due leghe presso una ponta di questa terra. E poco prima che il sole ponesse venne verso l'armata una canoa con cinque Indiani, che si fermarono alquanto discostati dalle navi. Il capitan generale ordinò ad un Indiano dell'isola di Santa Maria delli Rimedii, chiamato Giuliano, che era buona lingua o interprete, e stava in potere de' cristiani dal primo viaggio che aveva l'anno innanzi fatto in quelle parti il capitan Francesco Hernandes, gli ordinò che dicesse a quelli Indiani che senza paura alcuna s'accostassero alle caravelle, perchè loro darebbe delle cose che portava, né loro farebbe dispiacere né male alcuno. L'interprete a voci alte fece l'effetto, perchè stavano alquanto lontani, ma coloro né risposero cosa alcuna né si volsero accostare, anzi parea che stessero mirando e considerando i vasselli nostri, e poco appresso se ne ritornarono in terra.
In questo tempo si vedevano di lungo in terra per la costiera molti fumi, a modo d'avisi per quelli della contrada a torno. Ma perchè s'è qui di sopra detto che i nostri offerivano delle loro cose agl'Indiani, si dee sapere che la principal cosa che per coloro portavano era buon vino di Guadalcana, perchè, dal primo viaggio che vi aveva fatto il capitan Francesco, si erano i nostri accorti che gl'Indiani di quel paese erano molti inchinati al vino e volentieri il bevevano. Ma io non dico di quel paese solamente, ma nella maggior parte de' luoghi che si sono discoverti in queste Indie, quando l'hanno una volta provato lo desiderano piú d'altra cosa che possano loro i cristiani dare, e ne bevono tanto, se tanto loro se ne dà, che s'imbriacano e vanno a cadere di spalle in terra.
Ora, il dí seguente, che erano a' quattro di maggio, venne una canoa con tre Indiani e s'accostò da presso alle caravelle. Il capitano comandò a Giuliano interprete che loro parlasse, e cosí parlarono un pezzo insieme. Poco appresso venne un'altra canoa con tre altri Indiani e s'accostò con la prima, e si continuò questa prattica, dicendo Giuliano quello che il capitano voleva, e rispondendo e replicando quelli delle canoe. Poco poi una di queste canoe se ne ritornò a terra, e l'altra che restò s'accostò con la nave capitana, e il capitano fece loro porgere con un bastone una camicia per uno a quelli Indiani, e un poco di vino in un fiasco, che essi volentieri il ricevettero. E in questo mezzo Giuliano l'interprete dava loro ad intendere che i cristiani non averebbono loro fatto alcun danno, e non volevano altro se non di loro voluntà far mercato con loro delle loro cose, e dimandaronli che terra era quella: e fu da loro risposto che era Cozumel, che è una dell'isole convicine a quella di Santa Maria delli Rimedii, e che l'altra terra che verso tramontana si vedeva era Iucatan, che i cristiani Santa Maria delli Rimedii chiamano. Fu loro dall'interprete dimandato se sapevano dove stessero due cristiani che Giuliano diceva che stavano in Iucatan; e risposero che l'un di loro era morto d'infermità e che l'altro era vivo. Ora, partite queste canoe, il capitano comandò che le navi si accostassero il piú che fosse possibile a terra, e cosí fu fatto. Questi due cristiani de' quali s'era dimandato erano restati persi nel viaggio avanti, e i nostri desideravano di ricuperarli, cosí per salvarli come perchè si pensava che avessero già appresa la lingua alquanto, e averebbono perciò potuto molto giovare.
L'isola di Cozumel che s'è detta sta a 19 gradi dell'equinoziale dalla parte del nostro polo, e presso alla costiera di Iucatan.
Come il capitan Giovanni di Grigialva saltò in terra nell'isola di Cozumel con una parte delle sue genti, e di quello che passò nella prima terra, dove tolse possessione dell'isola in nome di Sua Maestà.
Cap. X.
A' cinque di maggio del 1518, il capitan Giovan di Grigialva fece dalle navi gettare i battelli in mare, ed esso se ne entrò con le sue arme nella barca della sua nave capitana, e con certe genti. Il medesimo fecero i capitani dell'altre navi per dovere smontare in terra. Giunte tutte quattro queste barche alla costiera, comandò il capitan Giovanni che niuno dovesse senza suo ordine e licenzia smontare, ed egli solo saltò prima dalla sua barca in terra, e ginocchiandosi tosto sul lito fece una breve e secreta orazione al nostro Signore. E alzatosi poi tosto in piedi, comandò che tutti coloro che erano nelli battelli smontassero a terra. E ristretti tutti in un squadrone, con la reale bandiera di Spagna in mezzo, fece il capitano Giovanni leggere ad alta voce, da uno scrivano chiamato Diego di Godoi, un scritto che esso in mano aveva, nel quale si conteneva in effetto come il capitano Giovanni di Grigialva, in luogo e per ordine di Diego Velasco, governatore e capitano dell'isola Fernandina per Sua Maestà, era venuto, con quelli cavalieri e gentil uomini che presenti erano, a discoprire l'isole di Iucatan e di Cozumel, di Cicia, di Costiglia e l'altre convicine che stavano per discoprire; e che poi era piaciuto al nostro Signore di condurli a quella isola, che era una delle sopradette e che non era stata fino a quella ora scoverta, in luogo di Diego Velasco; e in nome delli serenissimi e catolici re, la reina donna Giovanna e 'l re don Carlo suo figlio, e per la corona reale di Castiglia, prendeva (come la prese) possessione e proprietà reale e corporalmente di quella isola Cozumel e de' suoi annessi e connessi e terre e mari, con quanto l'apparteneva o appartenere le poteva. E cosí fece il suo atto di prendere la possessione di que' luoghi, secondo la forma e ordini che portava, senza avervi contradizione alcuna, e richiedette il sopradetto scrivano che gliene facesse una fede. Fatti questi debiti atti della possessione, pose nome Santa Croce all'isola, perchè in tal dí discoverta l'aveva, e fece chiamare San Filippo e Giacomo la ponta della medesima isola detta di sopra.
E doppo questo il capitano volse andare, con quelle genti che aveva seco, verso quella casa che avevano prima vista, ma non fu possibile di potervi andare, perchè era quella contrada in parte fangosa e paludosa; e perciò s'imbarcarono ne' battelli e per andarvi per acqua, e andandovi viddero venire una canoa con certi Indiani che andavano verso le navi. Il perchè il capitano fece dare volta e si ritornò all'armata, per sapere che cosa costoro volessero. La canoa s'accostò alla capitana, e alcuni degl'Indiani vi montarono su e cominciarono a parlare co' cristiani. Ma tosto che il capitano vi ritornò, vennero a presentarli un vaso di mele come quello di Spagna, ancorchè alquanto agro, e dicevano che un di quelli Indiani era caciche e persona principale fra loro. Il capitano nostro li fece per Giuliano interprete dire che li cristiani erano del re di Spagna, e che venivano a vedere quella terra, che era sua. Offerirono loro da mangiare, ma non ne volsero, onde diedero loro camicie e altre cose che essi si tolsero. Dimandarono i nostri dove era il popolo loro, che il capitano co' suoi voleva andare a vederlo. L'Indiano principale rispose che stava ivi presso, e che aveva piacere che vi andassero, e che esso voleva andare con la sua canoa a terra, dove sul lito aspettarebbe i nostri per menarli nella sua città. Ed essendo restato appuntato a questo modo, si partí via la canoa, e il capitano e le sue genti mangiarono e poi smontarono tosto co' battelli in terra, ma non vi ritrovarono l'Indiano che doveva guidarli.
E perchè stettero aspettando un pezzo e non vi venne niuno, deliberarono d'andare per certe viette che riuscivano alla costiera del mare, per vedere se quello fosse il camino per andare alla città: ma tutte queste vie andavano a finire in fangacci e pantani, e non fu possibile potere passare oltre. In tanto che voltarono a dietro alla volta delle navi, e tosto il capitano fece fare vela, per costeggiare l'isola e vedere di potere avere notizia di qualche terra abitata. Ed essendo poco andati, viddero presso alla costa del mare alcune picciole case, poste un tiro d'arco l'una doppo l'altra, e bianche e alte quanto è un uomo, e poco piú o meno, che, secondo dapoi si vidde, erano oratorii, e dove gl'Indiani i loro idoli tengono: ed erano queste case ben lavorate. E seguendo il camino loro le navi alla vela, essendo quasi posto il sole, viddero nella costiera del mare un edificio grande, a modo di torre o di fortezza, con molta gente sopra; ed essendo già fatta notte, sorsero le navi un tiro di pietra in mare dirimpetto a quella torre, dove presso si vedevano molti lumi accesi.
I nostri attesero tutta la notte a fare buone guardie nelle navi, e venuta la mattina, che erano a dí 6 di maggio, viddero venire una canoa con certi Indiani, che s'accostarono al bordo della capitana, e il capitano fece loro dal suo interprete dire che esso voleva smontare a terra e parlare al caciche e vedere il suo popolo, e donarli di quello che i cristiani portavano. Risposero gl'Indiani che l'avevano caro, e che il loro caciche si sarebbe rallegrato di vedere lui e di parlarli. E cosí il capitano, con le sue quattro barchette e con le genti che capere vi poterono, andò a disbarcare in terra a' piedi della torre, che stava presso la riva del mare fondata, che era un edificio di pietra alto e ben lavorato, che girava 18 piedi intorno, e vi si montava con 18 gradi, doppo li quali si montava su per una scala di pietra; tutto il resto della torre parea massiccio, e nella cima vi s'andava di dentro, girando a torno per lo voto dell'edificio a guisa d'una garacola; e dalla parte di fuori era pure nella cima uno andito, nel quale potevano stare molte genti, ed era fatta a fianchi, in ogn'un de' quali era una porta onde vi si poteva entrare, e vi erano molti idoli dentro: di modo che si comprese bene che questo era oratorio di quelle genti idolatrie. Nella cima di questa torre stava nel mezzo un'altra torricella picciola di pietra, alta quanto è due volte un uomo, e fatta a fianchi o ad angoli, e sopra ogni fianco era un merlo.
In questa torre fece il capitano medesimamente gli atti suoi dell'apprendere della possessione, e vi piantò la bandiera reale di Castiglia, e tolse di tutte queste cose testimonii, e pose nome a questa torre S. Giovanni ante portam latinam. Qui venne allora un Indiano principale accompagnato da tre altri, e pose ivi una braciera con fuoco e con certi profumi che odoravano molto. Questo Indiano era vecchio e teneva i deti del piede mozzi, e fatti molti profumi agl'idoli che dentro la torre erano, disse ad alta voce, in un tuono piano e uguale, una sua canzone, e diede al capitano e agli altri cristiani una canna per uno in mano, che attaccandovi fuoco ardevano a poco a poco come que' longhi pezzotti di profumo che si fanno, e ne usciva un soavissimo odore. Tosto poi il cappellano che andava con l'armata, chiamato Giovan Dias, disse messa in cima della torre, sopra uno altare che d'una mensa vi fecero, e vi stettero alcuni Indiani presenti e non poco maravigliati, finchè fu la messa detta. La quale finita, portarono gl'Indiani al capitano certe galline di quelle dell'isola, che sono grandi come pavoni e di non meno buono gusto, e certi vasi di mele. Il capitano ricevette il presente, e si tirò da parte sotto un portico di pietra che presso a quella torre era, e mandato a far venire di nave alcune cose, fece a coloro dimandare dall'interprete Giuliano se avevano oro, che essi chiamano tachin, e se volevano barattarlo con alcune cose che loro mostrarono. Risposero di sí, e portarono guagnines da porre agli orecchi, con certe patene tonde pure di guanin, e dissero non aver altro oro che quello (sono i guagnines certi pezzi di rame indorati, e se pur vi è oro è pochissimo o nulla).
Il capitano entrò con le genti sue nella terra che ivi presso era, e vi erano case di pietra, ma coverte sopra di paglia; e di questa maniera vi erano altre molte sorti di edificii, alcuni nuovi, altri che mostravano essere antichi e parevano belli. Stette buona pezza il capitano aspettando il caciche per parlargli, ma egli giamai non venne, e dicevano che era andato a barattare o a cambiare non so che in terra ferma. Questa gente pareva dovere essere misera e povera. Presso la terra i nostri viddero lepori come quelli di Castiglia, ma piccioli. Il capitan Giovan di Grigialva fece andare un bando fra i suoi, sotto certe pene, che niuno contrattasse cosa alcuna con gl'Indiani ma lo rimettessero a lui, e che niun facesse loro male né danno alcuno, né li burlasse né parlasse con le loro donne, né togliesse loro cosa alcuna contra loro volontà, né ricevesse da loro nulla, né dessero loro causa di temere e di alterarsi. E che, sapendo che alcuno Indiano volesse barattare oro o perle o pietre preziose o altra cosa, lo menassero a lui, che esso avrebbe negoziato tutto il bisogno, e che niuno s'allontanasse un passo dalla sua bandiera o quadriglia o dove li fosse comandato che stesse, sotto gravi pene. Fatto questo, e veduto che in quella terra non era oro, si ritornò ad imbarcare co' suoi nell'armata. E questi bandi e ordini non erano solamente per allora né per tempo limitato, ma per mentre il suo ufficio e viaggio durava; onde a molti non piacquero e ne restarono di ponta col capitano.
Sono in questa isola molti cupi di pecchie come quelli di Castiglia, ma minori, e vi è molto mele e cera. Vi sono macchie imboscate come in Castiglia, e gl'Indiani dicevano che vi erano lepri, conigli, porci e altri animali da caccia. Ma, quanto a' lepori, i cristiani istessi ve gli avevano veduti.
Come il capitan Giovan di Grigialva partí con sua armata da Cozumel alla volta di Iucatan,
chiamata ora Santa Maria delli Rimedii, e di una Indiana che venne loro nelle mani,
e di quello che passò fra il capitano e 'l pilotto maggiore.
Cap. XI.
Imbarcato il capitan Giovanni di Grigialva con le sue genti, quel giorno stesso fece fare vela e costeggiare l'isola verso là dove l'altra di Santa Maria delli Rimedii si vedeva. Ma perchè il tempo era contrario e mancava loro l'acqua, bisognò che si ritornassero dove erano stati sorti prima, presso quella terra dell'isola di Cozumel che chiamano San Giovanni, perchè qui disegnavano prendere acqua. Gl'Indiani, che viddero ritornare le navi, fuggirono tutti e abbandonarono a fatto la terra e le case, senza lasciarvi altro che qualche poco di maiz e alcuni agies e mamei, con altre poche cose di niuno valore. I nostri qui presero acqua da certe lacune fatte a mano e picciole. Presa l'acqua ritornarono a fare vela, e costeggiando l'isola di Cozumel, che già si chiamava Santa Croce, un martedí, agli undeci di maggio, il pilotto maggiore Antonio d'Alaminos richiedette il capitan Giovanni di Grigialva che gli lasciasse fare il suo ufficio, poichè esso andava per pilotto maggiore della armata, e si fece certe proteste sopra questa richiesta. Il capitano rispose che era contento che esso facesse il suo ufficio come pilotto, e che quanto alla navigazione della armata parlasse e dicesse a suo modo; nel resto era esso capitano. E cosí, andando quel dí stesso alla vela, si restò un buon pezzo a dietro una delle caravelle e ammainò le vele presso terra. Il capitano Giovanni pensò che fosse in qualche secco ingagliata, onde montò tosto nella barchetta della sua capitana, con quelli che gli parve, e andò a vedere in che necessità quel vassello si ritrovasse. Ma quelli della caravella dissero che, avendo veduto per la costiera della isola venire un cristiano piú di due leghe a dietro chiamandoli, si erano sorti in quel luogo. Il capitano, quando udí questo, andò alla volta di terra, dove giunto vidde quattro cristiani ignudi nell'acqua, con una Indiana dentro una canoa. Di che egli ne fu molto lieto, pensando che fossero cristiani che in quella isola perduti stessero. Ma quando giunse dove essi erano, ritrovò che erano gente di quella caravella che stava sorta, e dicevano che per ordine del capitano Alonso Dattila erano andati notando per soccorrere il cristiano che credevano che fosse colui che per la riviera del mare veniva chiamando, ed era stata quella Indiana che con loro era. Il capitano gli tolse tutti su la sua barchetta e gli condusse nel loro navilio, ed esso se ne ritornò nella sua capitana menandovi la Indiana, che diceva essere della isola di Iamaica, e che era con alcuni altri Indiani andata in questa altra isola, dove erano dagl'isolani stati alcuni de' suoi compagni morti (gli altri erano fuggiti via, ma non sapeva essa dove); e che quelle cattive genti avevano tolta lei per male servirsene, onde essendo da loro trattata male, tosto che aveva conosciuti i cristiani era venuta dietro alle caravelle, gridando perchè la togliessero con loro.
Quello medesimo giorno il pilotto maggiore Antonio Alaminos fece una altra richiesta al capitano, e diceva che, perchè non andava tale da potere dare buon conto dell'ufficio suo, il richiedeva che avesse dovuto dare quel carico ad un'altra persona, perchè da quella ora in poi si restava d'essercitare piú l'ufficio di pilotto maggiore. Rispose il capitano che non gli toglieva né gli voleva torre il suo ufficio, anzi gli diceva che facesse come doveva per avere a dare buon conto di sé e dell'ufficio suo. E cosí, in richieste e proteste, se ne passò una parte di quel giorno. Non era necessario per l'istoria dire questo, perchè sono cose di poca sustanzia e di meno sapore a chi le legge, ma l'ho dette perchè mi pare che siano di qualità che possono essere un aviso per chi naviga e ha cura di qualche armata, acciochè con questo esempio impari a soffrire, che certo bisogna avere molto giudizio e pazienzia per avere a comportare e soffrire un marinaio discortese, delli quali ne sono gran parte discortesi e mal creati. Vedete che proposito di pilotto, andar in simili tempi facendo richieste e proteste. Avrebbe ben potuto egli imbattere con capitano che l'avesse in una antenna appiccato per la gola. Ma passiamo oltre.
Il dí seguente, che erano alli tredeci di maggio (e fu il giorno dell'Ascensione), giunse l'armata in una certa bocca della terra di Iucatan, e alla vista pareva che fosse una ponta dell'isola, ma ella entrava fra certe seccagne e scogli, onde con travaglio vi entrarono le navi, pensando per quella via ritrovare l'uscita. E perchè ad ogni passo l'acque eran piú basse o secche sorsero, e il pilotto maggiore entrò in una barchetta per vedere se quinci uscita alcuna era, e parendoli che non vi fosse, né di poter andar piú avanti, se ne ritornò alla caravella e disse che ivi era poca acqua, e che in alcuni luoghi non ve ne avea ritrovato piú che un braccio, onde pensava che fossero seccagne e forzieri che giungessero alla terra ferma. Il capitano fece unire tutti i pilotti insieme, i quali, doppo d'avere ben discusso il caso, deliberarono per comune parere e come cosa piú secura di ritornarsi onde venuti erano, perchè era meglio ad aggirare la terra dalla banda di tramontana. Il capitano pose nome a questo luogo il porto dell'Ascensione, perchè nel dí di questa festa giunti vi erano. Alli 15 di maggio, usciti da quel luogo volteggiando, sorsero presso certi forzieri o seccagne, perchè sopragiunse loro la notte. La domenica seguente con molto travaglio fornirono di uscire da quelle secche, e seguirono il camino loro costeggiando l'isola di Iucatan. Il lunedí, verso il tardi, viddero una ponta, dove erano due edificii come due torri, ma l'una era ampia, l'altra fatta a modo di cappella o come un campanile, sopra quattro pilastri assai bianchi. Vi erano anco certi altri edificii. La contrada, da quella parte onde le navi venivano fin agli edificii, era piana, ma di là in poi era alta. Qui sorsero le navi. Il lunedí mattino navigarono oltre, e la notte dietro a quella ponta sorsero. Il martedí seguirono costeggiando e navigando assai presso terra, e viddero un ridutto come una foce, e parea che facesse due isole. Il mercordí partirono da quel luogo e navigarono fino al venerdí, e sul mezzodí giunsero in una ponta piana che usciva dalla terra, e navigando tutto quel dí e la notte il sabbato mattina sorsero presso a certe piaggie d'arena.
Qui il pilotto maggiore non conobbe terra, perchè disse che il popolo di Lazaro restava dieci o dodeci leghe a dietro, e che dove essi stavano era il popolo di Ciampoton, dove l'anno innanzi, nel primo discoprimento di quella terra, avevano gl'Indiani morto molte genti al capitan Francesco Hernandes; e diceva che due case che restavano a dietro in una ponta era la terra di Ciampoton. Onde, perchè avevano gran necessità d'acqua e non avevano donde prenderne, deliberarono di ritornare a dietro al popolo di Lazaro, e non potendo ivi prenderla smontarono a prenderla in Ciampoton. Pensando che il pilotto maggiore dicesse il vero, si ritornarono a dietro la domenica alli ventitre di maggio, che era il dí di Pasqua rosata; e avendo navigato ben sei leghe a dietro, si avidero i pilotti che non facevano buon camino, e che il pilotto maggiore s'ingannava, perchè il popolo di Lazaro stava innanzi e non a dietro, ed esso non aveva ben riconosciuta la terra. Il pilotto maggiore, che se ne avide, disse che essi dicevano il vero e che il popolo di Lazaro stava da quindeci o venti leghe innanzi; e cosí il lunedí seguente il capitano e 'l pilotto maggiore e lo scrivano se ne passarono alla caravella chiamata Santa Maria delli Rimedii, perchè era il vassello piú picciolo e voleva meno acqua, perciochè pensavano di dovere piú presso terra andare. Quel dí, verso il tardi, sorsero, e il capitano smontò con alquante genti in terra per vedere se vi ritrovava acqua, perchè erano due o tre giorni che, per non avere acqua, bevevano le genti dell'armata vino: ma non ritrovarono in terra altro che fanghi.
Se ne ritornarono in nave, e il dí seguente navigarono oltre per giungere al popolo di Lazaro, presso al quale giunsero e sorsero a posta di sole. Vedevano di sopra le navi e nella terra e presso il lito molta gente, e tutta la notte udirono gran rumori, come di genti che facessero la guardia e stessero vigilanti, e sentivano sonare tamburi, o trombette che fossero, perchè non si poteva discernere che suono si fosse. Quella stessa notte il capitano pose la gente in ponto per saltare in terra prima che fosse dí, al quarto dell'alba, sperando cosí con meno pericolo fare l'effetto. Tutti animosamente e con pronta volontà stettero, aspettando l'ora per dovere isbarcare in terra, quando fosse loro dal capitano dato il segno, perchè pensavano dovere menare le mani e l'armi.
Come il capitan Giovan di Grigialva smontò con le genti sue in terra presso al popolo di Lazaro, e delle cose che passarono sopra il prendere dell'acqua per l'armata.
Cap. XII.
Alli ventisei di maggio del 1518, quasi due ore innanzi giorno, il capitano Giovan di Grigialva s'imbarcò nel battello della sua capitana, con la gente che vi puoté capere, e comandò che gli altri capitani dell'altre navi facessero co' loro battelli e gente il somigliante. E cosí smontarono in terra, il piú secreto e senza rumore che fu possibile, e smontarono tre pezzi d'artiglieria, e senza essere sentiti con molto ordine presero terra presso una casa che stava nella riviera del mare. Ma prima che saltassero i nostri in terra, si partirono da presso a quella casa certi Indiani, che a passo a passo e taciti se n'andavano verso la loro terra, che era presso alla marina, e pareva che fossero molti. Quando il capitano fu in terra, con quelle genti che erano per quella volta sbarcate, fece assestare duo tiri d'artigleria con le bocche verso quell'Indiani che andavano via, e drizzò tosto sue sentinelle e guardie, e fecero stare i suoi ristretti e su l'aviso, mentre che le barche ritornavano a prendere piú genti dalle navi. In questo mezzo, che si veniva a far giorno chiaro, si vedevano presso al mare verso il popolo loro molte genti dell'isola che parlavano l'un con l'altro, e si udivano, benchè non molto alto parlassero. In questo tempo ritornarono li battelli con altre genti delle nostre, che si restrinsero con quelli che erano smontati prima. E uscito il sole si viddero meglio gl'Indiani, che erano molti e tutti armati, chi con archi e frezze, chi con rodelle e lanze picciole, e facevano mostra di volere assalire li nostri e gli minacciavano, e facevano segno che se ne ritornassero e non passassero avanti.
Stando a questo modo, il capitano generale parlò agli altri capitani e al resto delle genti, e disse loro che esso non veniva per far male né danno a quelli Indiani, né a niuno degli altri dell'altre isole che discoprissero, né a torre loro cosa alcuna contra loro volontà, e che a questo effetto avea fatti bandire quegli ordini, come si è detto di sopra e a tutti era noto. E seguendo diceva che allora, per l'estrema necessità che avevano dell'acqua, erano smontati in terra per chiederla a quelli Indiani del popolo di Lazaro, pregandoli che gliela vendessino o cambiassino con alcune delle loro cose che essi portavano, per lasciarli contenti e non alterarli, e perchè i cristiani non ricevessero danno nel prenderla. E perciò comandava loro di nuovo e li pregava e richiedeva, sotto le pene che avea già poste, che niuno si disordinasse, né uscisse dal suo luogo per parlare né contrattare con gl'Indiani né per qualsivoglia altra cosa senza sua espressa licenzia, perchè facendo cosí si farebbe quello che Sua Maestà voleva; e col contrario incorrerebbono nelle pene già poste e bandite, le quali si sarebbono tosto rigorosamente esequite contra colui che disubidito avesse, che già di altra maniera non si poteva effettuare quello che tutti desideravano. Mentre che questo ragionamento si fece, gli Indiani già tuttavia perseveravano nelle loro fierezze e minaccie, volendo mostrare di volere combattere e assalire i nostri. Allora il capitano ordinò a Giuliano l'interprete, che era nativo di quella stessa isola, che chiamasse gli Indiani e dicesse loro che i cristiani non venivano a far loro male né danno alcuno, ma ad essere loro amici e a dar loro di quello che portavano.
Quando gl'Indiani intesero questo, s'accostarono alcuni di loro presso i nostri, e l'interprete ritornò a dire loro il medesimo, e che i cristiani non volevano entrare nella loro terra se loro non piacesse, né volevano altro che acqua per le genti delle navi, e gliela pagarebbono, e che perciò andassero a dirlo al loro calachuni o caciche. Mostrarono a costoro alcune cose che averebbono con loro barattate, se avevano dell'oro, e donarono anco loro non so che ciancie. Ora gl'Indiani risposero che il caciche ed essi tutti avrebbono avuto piacere di dare loro dell'acqua, ma che, presa che l'avessero, si ritornassero via, e che essi volevano medesimamente essere loro amici, ma non volevano che nella loro terra entrassero. L'interprete per ordine del capitano rispose che cosí si farebbe, e che tosto che avessero presa l'acqua si rimbarcarebbono. Allora quelli pochi Indiani si partirono, e con mano accennavano e chiamavano i cristiani, che lor dietro andassero.
Quella casa che ho detta era bianca e di pietra e bene edificata, e doveva essere oratorio, perchè vi erano dentro certi idoli o Cemi che quelli Indiani adorano, perciochè tutti sono idolatri. Il capitano fece da un prete che andava su l'armata dire messa prima che indi partissero. Colui si vestí e celebrò, e i cristiani con molta devozione l'ascoltarono a vista degl'Indiani. Finita la messa, il capitano si partí con le genti sue passo passo e con buon ordine verso dove gl'Indiani erano, per andare a prendere l'acqua d'un pozzo che ivi assai buona era. Gl'Indiani facevano segnale che si ritornassero e non passassero avanti, ma Giuliano l'interprete dicea loro che non temessero, perchè non andavano se non a prendere l'acqua, e tosto si sarebbono poi ritornati. A questo dissero che andassero avanti al pozzo, secondo che Giuliano riferiva; e cosí i nostri giunsero a un pozzo, che stava in un picciolo piano presso la riviera del mare, dirimpetto alla terra. Qui si fecero forte i nostri d'intorno al pozzo, per potere prendere acqua, e tosto incominciarono i marinai a cavarla fuori, e ne bevevano tutti con desiderio, perchè era loro mancata molti dí.
In questo si vedevano, fra certi alberi e boschetti che erano fra quel piano e la terra, molti Indiani, e alcuni altri ne andavano dinanzi a quelli alberi, armati di loro archi e frezze poste ne' carcassi, e alcuni ne portavano due carcassi pieni, altri portavano rotelle e picciole e corte lancie; e per mezzo de' corpi loro portavano molte ravvolte di certe lenze di cottone larghe una mano e ritorte poi. Erano grosse quanto è il primo deto della mano di un uomo, e se ne davano venti e trenta ravolte d'intorno al corpo nella cintura, d'un certo modo che ne venivano a coprire le loro vergogne con l'un capo; e facilmente si discoprivano i loro membri per urinare, perchè quel capo che per braga serviva, veniva da dietro, per l'inforcatura che è fra amendue le coscie, a dare dinanzi, e a legarsi con l'altre che erano nel ventre. I nostri pensavano che queste fossero arme difensive e che in luogo di corazze le portassero, ma non era questo altro che un loro consueto abito. E il gentil uomo giovane fra loro va a questo modo, ma con maggior numero di queste cinte ravvolte. È bene il vero che nelle battaglie men nocerebbe loro saetta o ferita che sopra queste cinture avessero che non negli altri luoghi della persona; per tutto il resto del corpo portano ignudo.
Perchè fra la terra e 'l mare era tutto scoverto, senza selva né bosco, si vedevano per tutto gran copia di quelli Indiani, che per difesa della terra loro vi avevano fatto come uno steccato, alto quanto è un uomo, e di legname assai bene collocato. E dalla parte di dentro vi si vedevano molte genti, armate nel modo che s'è detto, e molte altre ne andavano anco di fuori. Essendosi incominciato a prendere l'acqua e ad empirne le botti, venivano di tempo in tempo alcuni Indiani disarmati, e dicevano all'interprete nostro che dicesse a' cristiani che se ne andassero via, perchè non volevano che piú in quel luogo stessero. Il capitano faceva loro rispondere che, tosto che avessero presa l'acqua, se ne sarebbono andati, e che non dubitassero, perchè non stavano là per doverli fare danno alcuno né dispiacere, e che cosí andassero a dire al caciche loro, e che il pregava che venisse a vederlo, perchè voleva parlarli ed essere suo amico e donarli delle cose che portava. E cosí con questo se ne ritornavano, dicendo che essi andavano a dirglielo. E ritornando poi dicevano che presto verrebbe, e che i cristiani prendessero l'acqua e s'andassero con Dio. Parea che si prendessero piacere della risposta de' nostri, e s'accostavano a mirare i cristiani e poi ridevano. E portavano alcuni frutti di quelli che essi hanno, con certi tortanelli di maiz e altre cose da mangiare, e le davano a' cristiani, i quali davano loro all'incontro certi pater nostri di vetro di colore e altre simili cosette di poco prezzo, che essi con gran festa le ricevevano, e se ne ritornavano correndo agli altri e l'un l'altro le mostravano come per una maraviglia. E cosí vi ritornavano gli altri con altre piú cose da mangiare e maiz, perchè loro dessero di quelli pater nostri. E al suono d'un tamburino e d'un flauto che nel campo nostro si sonava, venivano molti di loro e i fanciulli anco a vedere sonare, e stavano isbigottiti udendolo, e ve ne furono alcuni che al suon del flauto ballarono. Ma, con tutto questo, di tempo in tempo non cessavano di dire che i cristiani se n'andassero via, e il capitano faceva sempre loro dall'interprete rispondere che presa l'acqua se n'anderebbono, con altre buone parole, per non sdegnarli né alterarli, e diceva che di sicuro il dí seguente si partirebbono.
In questo vennero alcuni Indiani, fra li quali dicevano che era un fratello del caciche; al quale e agli altri che seco venivano, fece il capitano del suo interprete dire come nel regno di Castiglia era un potente re, di cui era esso con tutti quelli cristiani vassallo, e che in un'altra isola chiamata Haiti era un altro gran signore, che il chiamavano l'admirante, e un altro ne era in terra ferma, e nell'isola di Cuba un altro, chiamato il signor Diego Velasco, per parte del quale esso con tutte quelle genti che seco erano veniva. E che in molte altre isole erano medesimamente in ciascuna di loro un governatore o caciche, che faceva molto bene e molte grazie agl'Indiani di tutte quelle contrade, e li favoriva e difendeva contra i loro inimici. E che questi governatori, insieme con l'admirante e con molti altri capitani, erano tutti vassalli di quel gran re di Castiglia, al quale molte altre sorte di gente servivano e obedivano; ed esso faceva di molte grazie a tutti, e cosí averebbe anco fatto a loro, se avessero voluto essere suoi amici e vassalli; e che, se essi davano loro qualche cosa, gliela averebbono pagata, e che se avevano oro o perle o pietre preziose o altra cosa buona e volevano barattarla l'avessero portata, che essi averebbono dato loro all'incontro delle sue cose: e ne mostrò loro molte perchè le vedessero. E l'interprete diceva che essi rispondevano che porterebbono delle loro cose.
E cosí andavano e venivano gl'Indiani, e non portavano altro che certe patene sottili e tonde come di rame, che gliele ritornavano a dietro dicendo non essere oro e non valere nulla, e perciò non volerlo. Sí che di quanto portarono non ne tolsero i nostri nulla, salvo che una patena come di guagnin, per la quale fu dato a colui che la portò tanto che ne restò contento. Dicevano che andavano a chiamare il caciche perchè venisse a parlare al capitano, ma egli non vi venne giamai. Anzi, essendo già passato mezzogiorno, cominciarono di nuovo a minacciare i cristiani, e imbracciavansi le loro rotelle e mostravano di volere combattere co' nostri. Ponevano le loro saette negli archi e davano fischi fra loro e si mostravano molto bravi, senza che loro occasione alcuna se ne desse; e questo il fecero molte volte. Ma il capitano, per mezzo dell'interprete, gli applacava e richiedeva che non cominciassero ad oprare l'armi, perchè l'altro dí a mezzogiorno se ne sarebbono andati: e detto questo coloro si ritornavano ad assecurare per alquanto altro spazio. E i nostri stavano nella loro ordinanza di battaglia, con due tiri mezzani di bronzo e una bombarda di ferro assestati verso gl'Indiani, e vi erano due scopetteri e alcuni balestrieri, il resto con spade e rotelle, e alcuni con lanze, ginette e targhe, e tutti stavano senza un ponto dal loro luogo muoversi. Indi a poco ritornavano gl'Indiani alle loro dimande e fierezze, e in tanta sfacciatezza montarono che la troppa pazienzia de' nostri diede loro ardimento a dovere tirare a' cristiani alcune frezze. Dicevano i capitani e gli altri che a gente cosí bestiale non si dovevano cosí fatte vigliaccherie e discortesie comportare. Ma il capitan generale li frenò e fece stare a dietro saldi, e fece di nuovo dall'interprete richiederli che non volessero piú tirare né simile atto usare, perchè altramente i cristiani avrebbono molti di loro ammazzati, e che esso non voleva se non prendere acqua e ritornarsene tosto il dí seguente. E fece le sue proteste con loro, dicendo che il re non voleva che si facesse loro alcun male, salvo se fossero essi tristi e incominciassero, e prese anco testimonianza delle sue proteste fatte per mezzo del suo interprete.
Gl'Indiani doppo questo stettero saldi e si ritirarono, essendo già posto il sole, andandosene l'un doppo l'altro nella terra, onde per quella notte non uscivano, ma stettero sempre vigilanti con i loro tamburi, e si udivano cornette e altri suoni, come di picciole trombe, e facevano altri simili rumori, come di gente che facessero la guardia. I nostri anco stettero vigilanti e con buone guardie, ordinando le loro ronde e sentinelle, come gente atta e destra in simile mestiero. E di questo modo si passò quella notte, non restandosi già per questo mai di prendere acqua, perchè il pozzo era rovinato e non vi aveva molta acqua, e bisognava aspettare buon spazio per potere poi empire i barili e portarli alle navi.
Il dí seguente, che erano alli 27 di maggio, si forní la mattina di prendere l'acqua, perchè a chi n'aveva il carico pareva che bastasse. E gl'Indiani incominciarono ad uscire dalla terra fra quegli alberi, in gran numero e senza comparazione piú di quelli del giorno avanti, e armati tutti nel modo che s'è detto di sopra. E fra tutti costoro se ne fecero due avanti e cominciarono a fare segno a' nostri con mano che s'andassero via e non stessero piú dove stavano, e l'un di loro si fece piú innanzi con un lume acceso, il quale pose sopra una pietra, dicendo certe parole in lingua sua; poi se ne ritornò a dietro dove gli suoi erano. Dimandò il capitano all'interprete che cosa si fosse quella, ed egli disse che era guaimaro che agli idoli loro offerivano, e li facevano orazione pregandoli che li facessero vittoriosi contra i cristiani, e che questo solevano farlo ogni volta che volevano dare la battaglia, onde, tosto che quel lume si fornisse d'ardere, senza alcun dubbio attaccarebbono la zuffa. E cosí a ponto fu poi, secondo si vidde. Il capitano mandò il suo interprete a dire agl'Indiani che non volessero simile cosa fare, poichè esso non aveva fatto loro male né danno alcuno, e che si stessero saldi, perchè quel dí verso il tardi s'andrebbono tutti con Dio. E a questo modo ne li richiese molte volte, come aveva il giorno avanti fatto. Allora vennero tosto nel campo nostro certi Indiani con alcune galline e le donarono al capitano, che le ricevette e fece a coloro carezze, e disse che portassero dell'altre, che gliele averebbe pagate bene. Ma, stando in questo, si forní d'ardere quella cosa accesa, e tosto gl'Indiani che stavano presso al bosco incominciarono a fare motivo, e quelli che erano col capitano nostro se ne andarono subito dove erano gli altri loro, e cominciarono tutti a fare gran gridi e fischi e a tirare molte pietre e frezze. Il capitano fece star saldi i suoi senza ponto muoversi finchè si tirasse l'artiglieria, e chiese Iddio e il mondo per testimonio che esso si difendeva da quelle genti, che senza averne cagione si movevano per offenderlo. E fatto tosto condur via nelle navi Giuliano l'interprete, perchè non si perdesse o se n'andasse via, fece attaccare fuoco all'artiglieria, e incontinente poi rimesse e diede dentro con tutte le sue genti, chiamando Iddio e S. Giacomo contra gl'Indiani, finchè li fece ritirare e fuggire nel bosco. E volendo ritirarsi, perchè i suoi non fossero dalle freccie danneggiati per lo denso degli alberi, perchè alcuni Spagnuoli leggieri erano dietro agl'Indiani fra questi boschetti entrati, perchè non vi morissero vi ritornò a soccorrerli. E cosí stettero ravvolti con loro combattendo insieme, e il capitan Giovan Grigialva ne uscí ferito e con un dente manco e con un altro rotto, e la lingua alquanto tagliata per una frecciata che vi ebbe, e aveva due altre ferite presso al ginocchio. Cavarono morto dal bosco uno che si chiamava Giovan di Guetaria, e molti altri ne uscirono feriti, perchè fra gli alberi gl'Indiani combattevano con vantaggio e a loro salvo, e quando bisognava fuggivano. E se non fosse stato per l'artiglieria e per quelli pochi balestrieri e schiopetteri che erano fra i nostri, vi sarebbono piú cristiani periti, perchè non si potevano d'altre arme che delle già dette servire. E si crede che quelli tiri d'artiglieria e i balestrieri facessero molto danno e ammazzassero molti Indiani, ma non se ne può sapere il numero, benchè se ne vedessero cadere alcuni e fosse in loro perciò la paura grande.
Il capitano fece condure in nave i feriti, ed esso restò in terra perchè si fornisse di prendere l'acqua, perchè alcuni dicevano che ne avevano di bisogno di piú di quella che tolta avevano. Egli fece di nuovo caricare l'artiglieria presso al pozzo, e si vedevano alcuni Indiani presso al bosco, ma tosto tutti si nascondevano e fuggivano quando i nostri qualche tiro facevano. Ed essendo ben calato il sole, vennero certi Indiani disarmati presso a' nostri a chiedere pace, e il capitano mandò loro uno incontra a sapere che volevano, il quale ritornò e disse che li pareva che il caciche volea la pace ed essere suo amico, e li manderebbe da mangiare e oro e verrebbe a vederlo. E detto questo (se ben seppero i nostri intenderlo) se ne ritornarono gl'Indiani a dietro, ma ritornarono poi due o tre volte a dire il medesimo. Allora il capitano mandò Antonio d'Amaia e 'l commendator Pietro d'Alvarado capitano ad intendere bene che cosa coloro volessero. Costoro andarono e parlarono con coloro, e se ritornarono al capitano con una maschera di legno indorata di sopra con una sfoglia d'oro sottile, e dissero che, per quello che ne avevano potuto a' segni intendere, il caciche mandava a lui quella maschera in segno di pace, e che voleva essere suo amico e che verrebbe a parlarli e li porterebbe molto oro. E tutta quella sera non fecero altro gl'Indiani che andare e venire con imbasciate. Onde il capitano mandò di nuovo Antonio d'Amaia e lo scrivano Godoi a dirli loro, il meglio che avessero saputo dargliele ad intendere, che non avessero paura. Questi giunsero fin dove stavano gl'Indiani sul forte loro, e pareva che volessero dire e dare ad intendere che il caciche voleva essere amico del capitano, come tutti gli altri anco, de' cristiani, e mostravano molto di temere, e alcuni ne tremavano e dicevano che portarebbono a' nostri da mangiare e dell'oro, e che il re loro sarebbe andato a parlare al capitano. I due nostri gli assecuravano con segnali, e come meglio potevano s'ingegnavano di dare loro ad intendere che senza spavento alcuno andassero nel campo de' cristiani, perchè non farebbono loro male. Gl'Indiani dicevano a questi due che andassero con loro, che gli averebbono dato da mangiare; ma essi se ne ritornarono al capitano e referirono quanto passato avevano.
Finita di prendere l'acqua, si posero le genti nostre in ordine, e a tre a tre in ordinanza fece il capitano fare da loro passo riposato, dare una volta per quel piano d'intorno al pozzo, e a questo modo se n'andarono fino a quella casa dove erano il giorno avanti smontati. Qui fece ne' battelli montare tutte le genti che andare vi poterono e li mandò nelle navi, ed esso si restò con gli altri in terra finchè le barche ritornarono. Ed essendosi finalmente tutti nelle caravelle imbarcati a posta di sole, non viddero se non alcuni pochi Indiani che uscirono fino al pozzo e non passarono un passo oltre. La mattina seguente fecero vela per cercare di qualche buon porto, per potere accommodare un de' vasselli che faceva molta acqua, e cosí navigando costeggiarono fino al lunedí, che era l'ultimo di maggio, che sorsero in una buona foce o ridutto fra certe isolette; e qui si conciò il vassello e si prese dell'acqua. E mentre le genti smontarono nel porto e in quelle isolette a ricrearsi, presero una canoa con quattro Indiani per servirsene per interpreti, perchè erano di quella medesima terra di Iucatan dove stavano, e il capitano ne fece in ogni caravella porre uno, e nella sua capitana quel che li parve che fosse il piú principale, che fu chiamato Pero Barba: perchè furono tutti quattro battezzati per mano del cappellan Giovan Dias, e di costui fu padrino un gentil uomo chiamato Pero Barba. E non si fece bisbiglio alcuno nella presa di questi Indiani, perchè fu fatta ad un tratto e senza che quelli della contrada il sapessero altramente.
Del sito e circonferenzia della terra da costoro discoverta e chiamata l'isola di Iucatan, ma da' nostri Santa Maria delli Rimedii, e quello che l'istoriografo ne sente.
Cap. XIII.
Il pilotto maggiore di questa armata, Antonio d'Alaminos, stando in terra in quel luogo che s'è detto, e che il chiamarono Porto Desiato, disse davanti al capitan Giovanni di Grigialva, e agli altri che ivi si ritrovavano, che esso avea assai ben mirato a quello ch'avevano aggirato dell'isola di Iucatan, dal porto o foce dell'Ascensione fino a quel Porto Desiato, dove si ritrovavano allora, e che ritrovava che da quel luogo fino all'Ascensione già detta potevano essere d'attraversamento fin a 20 leghe, le quali non si potevano navigare con quelli loro vasselli, per essere grandi, e poca acqua in que' luoghi bassi: onde, per fornire d'aggirarlo e vederlo tutto, bisognava andarvi con brigantini assai piccioli. Il perchè qui avrebbe servito molto quel brigantino che si ritornò dal capo di S. Antonio; e conchiudeva che al suo parere, e per quanto aveva in quella navigazione potuto comprendere, dalla detta foce o porto dell'Ascensione fino al Porto Desiato era il traverso dell'isola di Iucatan, e che quivi finiva e non andava piú oltre, e che con questo poco d'aggirata, che navigarsi non potea per quelle seccagne e scogli che v'erano, si sarebbe fornito di vedere quanto ella fosse. E dicea che questo avrebbe fatto bene e dato ad intendere dinanzi a Sua Maestà e dinanzi a Diego Velasco e a tutte le persone che volessero intenderlo, e che quella isoletta dove essi erano non era altro che uno scoglio o giardino della detta isola, e che cosí da quel luogo fino all'Ascensione erano tutti scogli, e che quella altra terra che si vedeva davanti a quella isoletta e presso a quel porto era terra nuova, che non era stata ancora discoperta, e che ivi poteva anco smontare il capitano e prenderne come di nuova contrada possessione. E il capitan cosí fece fare dallo scrivano di questa armata, chiamato Diego di Godoi, davanti a certi testimonii.
Ma io dico che, per quello che s'è poi per l'esperienzia veduto, quello che questo pilotto pensava che fossero seccagne e mare arenoso e scogli non è cosí, perchè non si passa a niun modo per acqua dal Porto Desiato alla foce dell'Ascensione, essendo tutta una costiera di longo, per la quale si può securamente passare a piedi dalla provincia (e non isola) di Iucatan alla terra ferma. E cosí pare nella figura di questa terra che nelle carte di navigare si dipinge, benchè in quelli principii si credesse che questa fosse isola e si potesse aggirare a torno. La foce o porto dell'Ascensione sta in 17 gradi dell'equinoziale dalla parte del nostro polo artico, e il Porto Desiato e scoglio principale che quivi è sta in 18 gradi, poco piú o meno. La parte piú orientale di Iucatan, che è la ponta dove sta l'isola di Cataccie, sta in 21 gradi, e da questa ponta correndo verso occidente, dalla banda di tramontana, viene ad essere la costiera di Iucatan piú di 80 leghe, fino all'altra ponta, che sta piú di 50 leghe prima che al Porto Desiato si giunga. E da quella ponta di Cataccie fino all'isola di Cozumel, che sta presso a Iucatan, sono 25 leghe, e dal fine dell'isola di Cozumel fino all'Ascensione sono da 90 leghe. Di modo che la terra di Iucatan gira 270 leghe di mare e di terra, ponendovi le venti che attraversano di terra dalla Ascensione fino al Porto Desiato, che alcuni tenevano che era terra e altri che era acqua; nella quale opinione fu il pilotto Antonio d'Alaminos con molti altri. Ma in effetto costoro s'ingannarono, perchè s'è già chiarito e visto che Iucatan si giunge con terra ferma, e che sono piú di 150 leghe quelle che costoro pensavano che venti fossero.
Del successo del capitan Giovan di Grigialva e della sua armata, da che partí dal Porto Desiato finchè giunse al fiume che si chiamò di Grigialva, nella costiera della Nuova Spagna.
Cap. XIIII.
Il capitan Giovanni di Grigialva partí con le quattro caravelle dal Porto Desiato alli cinque di giugno del 1518, e seguendo il suo viaggio per la costiera avanti la volta di ponente in dimanda di quella terra, che il pilotto Alaminos disse che era terra nuova, il lunedí, che era alli 7 di giugno, vidde un gran fiume che usciva di terra nel mare, e in quel paraggio molte genti indiane in terra. Passando oltre giunsero le navi ad un altro fiume molto maggiore, dove presso la foce sorsero, perchè non possettero entrare dentro per la sua molta corrente. In questo dí disse l'interprete Giuliano che l'altro indiano, chiamato Pero Barba, li raccontava e diceva che dal popolo di Cian fino ad un altro detto Ciatel era l'isola di Iucatan a dentro, e che vi erano tre giornate di camino, e che in Ciatel era un fiume dove si raccoglieva molto oro, anzi quanto gl'Indiani ne avevano, e che vi erano molte montagne, e da una costiera all'altra nella detta isola erano 50 e 60 giornate di camino; e che gl'Indiani che abitano dentro terra, quando qualche volta uscivano dal lor paese e giungevano a vedere il mare, tosto in vederlo ributtavano per bocca quanto nello stomaco avevano, e che vi erano molti alberi grandi e molti popoli e ampie campagne, e che gl'Indiani che abitano dentro terra non mangiavano pesce né lo desideravano, e che nella terra di questo Pero Barba si tagliavano l'orecchie e le sacrificavano agl'idoli loro.
A me pare, per quello che s'è detto, che questo Indiano Pero Barba fosse il primo che desse a' cristiani nuova di questa Nuova Spagna, che era quella stessa costiera dove sorti si ritrovavano. E cosí era il vero, come potrà nel processo dell'istoria il lettore vedere.
Il mercoledí entrarono le navi nel fiume una mezza lega, né possettero per la corrente montare piú su. D'amendue le ripe del fiume si vedeva gran copia d'Indiani, armati d'archi e freccie e di lancie e rotelle. E quel dí stesso vennero certi Indiani in una canoa, con le loro arme ivi dentro, e nella proda veniva un Indiano principale che comandava agli altri, e portava imbracciata una bella rotella coverta di vaghe piume di varii colori, e nel mezzo vi era una patena tonda che riluceva come oro, che già oro era. Il capitano Grigialva ordinò al suo interprete che parlasse a coloro; ma egli rispose che non sarebbe inteso né esso intenderebbe loro. E cosí il capitano li disse che parlasse al Pero Barba, perchè li fosse con quelli della canoa interprete, poichè costui doveva la loro lingua intendere. E cosí si fece, e per questa via fu fatto intendere agl'Indiani che i cristiani volevano esser loro amici, e venivano a barattare con loro e darli di quello che essi portavano. Allora si partí tosto la canoa; e verso il tardo del dí ritornò quella istessa, o un'altra che fosse, con quel medesimo capitano indiano e altri che il legnetto conducevano. S'accostarono al bordo della nave, e per mezzo degli due interpreti, che l'un riferiva all'altro, il capitano Grigialva e quegli Indiani s'intesero e fecero i loro baratti.
Le cose che il capitan nostro fece dare a questo Indiano principale e agli altri che seco erano furono queste: una medaglia, un specchio indorato, due filze di paternostri verdi di vetro, un paio di forfice, e un paio di coltella, una berretta senza pieghe di frisa, quindeci diamanti azurri (che sono certi cannelli di vetro quadri, grossi quanto un pignuolo) un paio di scarpe di corde, venti paternostri di vetro dipinti. Le quali cose erano fra cristiani di poco prezzo. E quello che l'Indiano in cambio diede fu tutto questo: una maschera grande di legno, indorata a quel modo stesso che s'indora una cona o un altro legno in Europa, un pennacchio di penne di papagallo con uno uccelletto in cima, posto in un osso che pareva umano. Disse l'indiano che il dí seguente verrebbe il caciche suo con molte cose. I nostri mostrarono loro il vino, ma essi non ne volsero.
Il giorno poi ritornò un'altra canoa con certi Indiani, fra li quali veniva uno che diceva che era il caciche e 'l signore di tutti, e portò al capitan Grigialva quello che ora si dirà. Una mezza testa indorata di legno e con due cornacchie in cima; una capillara di capelli neri, d'uomo o di donna che si fossero. Una maschera di legno, che dal naso in su era coverta di minute pietre ben collocate, a modo d'opera mosaica, le quali petruccie erano di colore come turchine; dal naso in giú era coverta d'una sottile sfoglia d'oro. Un'altra maschera della medesima maniera, ma l'opera di queste pietre era dagli occhi in su, e dagli occhi in giú era d'una sottile sfoglia d'oro coperta. Un'altra maschera di legno tutta coverta di sfoglia d'oro sottile, e l'orecchie erano a quel modo lavorate con picciole pietre. Un'altra maschera di legno fatta a bastoni, da alto a basso, e le due fasciete erano fatte del lavoro di quelle pietre che s'è detto, le altre tre restanti di sottile sfoglietta d'oro. Una patena sottile, come d'un Cemi, posta sopra sottile sfoglia d'oro, e in qualche parte vi erano alcune petruccie poste. Una tavoletta di legno, la cui ponta era come d'una testiera di cavallo d'arme, tutta d'una sottile sfoglia d'oro coverta, con certe liste di pietre nere ben poste fra loro. Quattro patene di legno tonde e coverte di sfoglie d'oro sottili. Due come mezzi gambali di legno per guardia delle ginocchia in vece d'arme, e coverti d'oro sottile; altre quattro armature per le gambe di scorza d'alberi, coverti di sottile oro; un altro gambaletto di legno coperto di sfoglia d'oro; una testa di cane coperta di pietre minute e molto ben fatta; un specchio di due lumi con un cerchio coperto di sfoglia d'oro sottile; un legno fatto a maniera di forfici, coperto medesimamente d'una sfoglia sottile d'oro, un picciolo pennacchio di cuoio e con sfogliette d'oro per sopra. Cinque filze di paternostri tondi di creta, inchiastrate per di sopra con una sfoglia d'oro: ed erano 106, e altri quattro voti o bucati. Sette coltelli o rasoi di pietra e due para di scarpe, come di cabuai o di henechen; sette fascette come collari di sfoglia d'oro sottile, poste sopra altre fascie di cuoio; una filza di 20 circelli d'oro, in ognun de' quali erano tre pendenti dello medesimo, posti in fascette di cuoio; un'altra filza delli medesimi circelli e con altri simili pendenti, di 20 pezzi; un paio di circelli d'oro per l'orecchie; una scarsella o borsa di sfoglia d'oro sottile; un paio di scodelle grandi, tonde e dipinte; una rotella dipinta coverta di piume di colori; una gentil robetta fatta tutta di penne di varii colori; un panno di colori, come per pettinarvisi; un pennacchio tondo di piume di colori, con certi fiori in cima e con un picciolo uccello fatto del medesimo. E tutte queste cose assai bene lavorate e vaghe a vedere.
Il capitan Grigialva diede in compensa di tutto questo al caciche due camicie di tela, un picciolo specchio indorato, una medaglia, un coltello, un paio di forfici, un paio di calzoni di tela, una tela come un muccaturo in triangolo; una berretta senza pieghe, un pettine, cinque filze di paternostri verdi di vetro, un altro specchio grande indorato, un paio di scarpe di cordelle, una borsa grande di cuoio lavorata, con una cintura del medesimo, e 25 pater nostri di vetro dipinti. E questo era per lo cambio o baratto. Ma di piú di questo il capitano li donò un giuppone di terzopelo verde, una collana di pater nostri minuti azurri, e una berretta di velluto. E perchè, come altrove s'è detto, costumano gl'Indiani di prendere il nome dalli capitani e persone con le quali contrattano la pace e l'amistà, volse questo caciche essere chiamato Grigialva; onde tosto i suoi Indiani gridavano e dicevano: "Grigialva, Grigialva". E molti lieti se ne entrarono tutti nella canoa e andarono via. Al fiume medesimamente posero quel nome, onde da allora in poi fu chiamato il fiume di Grigialva. Fu fatta forza perchè le navi montassero su per lo fiume per vedere quella terra, perchè, secondo le molte genti che ne vedevano venire, pensavano che quello fosse dovuto essere un gran popolo. Ma la gran corrente del fiume gliele vietò; e cosí il dí seguente si partirono per seguire questo discoprimento. Questo fiume può essere lontano dal Porto Desiato 25 o 30 leghe; viene da terra ferma a scaricare le sue acque nel mare che è verso ponente, in poco meno di 18 gradi dalla linea equinoziale dalla banda del nostro polo artico, e tiene volta la sua foce a tramontana.
Di quello che al capitano Grigialva succedette, partito che fu dal fiume che da lui tolse il nome, finchè giunse all'isola degli Sacrificii.
Cap. XV.
Uscí l'armata nostra dal fiume di Grigialva a' 11 di giugno, e seguendo per la medesima costiera verso ponente pareva che tutta la contrada stesse piena di gente e di edificii presso alla riviera del mare. Il dí seguente mandò in terra il capitano una barca con alquanti uomini, i quali presero quattro Indiani d'un'altra lingua. A questi mostrarono dell'oro che portavano, e per segni dimandarono loro se in quella terra ne avevano. Risposero, e a segni diedero ad intendere che n'avevano molto, e 'l raccoglievano ne' fiumi, e che n'avrebbono loro molto dato, se gli lasciavano andar via. Il seguente giorno presero nella riviera del mare quattro altri Indiani della medesima lingua, i quali co' segni mostravano di dire quel medesimo che avevano gli altri detto sopra 'l molto oro che ivi era. E pensando che i nostri gli avessero presi per ammazzargli, piangeano l'un con l'altro e cantavano in certo tono, che parea che nel suono si concordassero. Il capitano, che vidde questo, il dí seguente ne fece liberare sei, e dare loro la canoa perchè s'andassero con Dio, avendo loro prima mostro alcune cose da barattare con loro che essi dicevano volere portare, e promettendo di restituire loro gli altri due, che come per una securtà del loro ritorno restavano, acciochè se ne fossero poi tutti insieme alle case loro ritornati. A' 17 giugno si viddero la mattina per la riviera del mare molti Indiani con due bandiere bianche, con le quali facevano segno e chiamavano i cristiani. Il capitano, credendo che questi fossero quelli che avea fatti liberare, entrò nelle barchette con alquanti de' suoi per vedere che cosa costoro volevano, e se portavano l'oro che avevano detto. Ma perchè la costiera era brava e vi frangea molto il mare, dissero i marinai che vi sarebbono restate annegate le barche e la gente, se avessero voluto ogni modo giungere a terra. E per questo, essendo ben presso alla spiaggia, fecero segnale agl'Indiani che dovessero andare alle navi, o pure dove essi con le barchette erano, sopra le loro canoe. E veggendo che essi niuna di queste cose fare volevano, se ne ritornò co' battelli alle navi; e fatta vela seguirono il camino loro costeggiando quella terra.
E quel dí istesso giunsero presso a uno ridotto che era in una ponta di terra ferma, e nel mare ivi presso era una isoletta. Qui sorsero con le navi. E stando in questo luogo, il capitan Grigialva disse, in presenzia di molti di quelli che con questa armata andavano, che il pilotto maggiore Antonio d'Alaminos aveva data per girata l'isola di Iucatan stando nel Porto Desiato, e che la costiera che da quel porto si stendeva fin là dove stavano era una terra continuata, e pareva che nuova terra fosse; e perciò li pareva che in lei, come in luogo non ancora scoverto, si dovesse prendere nuova possessione, e che cosí il pilotto come tutte le altre genti di mare dicevano che quella era tutta costiera di terra ferma. E per saperlo anco meglio ne volse torre nuova informazione e parere da' pilotti, i quali tutti risposero che, avendo riguardo a' grandi e molti monti che vedevano per la costiera a dentro terra, e alli molti e gran fiumi che ne uscivano al mare d'acqua dolce, e che avevano navigato dal Porto Desiato fino a quella isoletta presso la quale sorti stavano piú di 130 leghe di costiera, pensavano e di certo tenevano che quella fosse terra ferma.
Il dí seguente, alli 18 di giugno, il capitano smontò in quella isoletta con alcune genti delle sue, e postosi per un sentiero, fra certi alberi che ne parevano essere alcuni fruttiferi, si vidde avanti certi edificii antichi di pietra a modo di muraglia, rovinati dal tempo e in parte abbattuta; e quasi nella metà dell'isola stava un edificio alquanto alto, nel quale montarono per una scala di pietra, e ritrovarono su, presso la cima della scala, un marmo sopra il quale stava un animale marmoreo, come leone, con la lingua fuori della bocca e con un buso nella testa. E presso al marmo stava una pila picciola di pietra posta in terra e tutta sanguinosa, e dinanzi alla pila stava ficcato un legno che sopra lei si piegava. Indi poco lontano si vedea un idolo di pietra posto in terra, con una piuma in testa e col viso volto alla pila. Piú avanti stavano molti legni come quello che s'è detto che sopra la pila cadeva, e tutti stavano fissi in terra, e loro presso si vedevano molte teste d'uomini, e molte ossa medesimamente, che dovevano essere di coloro di cui quelle teste erano. Vi erano anco alcuni altri corpi morti quasi intieri, che dovevano essere di fanciulli, e stavano quasi putrefatti e guasti. Della quale vista restarono i cristiani spaventati, perchè tosto suspicarono quello che essere poteva.
Il capitano dimandò ad un di quelli Indiani che di quella provincia erano che cosa poteva essere quella, e per quello che a' segni ne compresero dicevano che a quelli morti cavavano il cor del petto, con certi rasoi di pietra che presso quella pila erano, doppo che scanati gli avevano, e questi cuori bruciavano poi con certi fasci di legna di pino che ivi erano, e gli offerivano a quello idolo, e poi toglievano le polpe delle braccie e delle gambe di quelli morti e se le mangiavano. E che solevano questi sacrificii fare d'altri Indiani co' quali guerreggiavano. Questo stesso parve a' cristiani che esser dovesse, per quello che ne vedevano, e perciò il capitano chiamò quel luogo l'isola de' Sacrificii.
Essendone il capitano Grigialva ritornato in nave, quel dí stesso mandò il capitan Francesco di Montegio sopra una barca, con uno Indiano di quella provincia, per intendere che cosa volevano certi Indiani, che in fin dalla riviera chiamavano, mostrando certe bandiere. Andato il capitan Francesco in terra, ne ebbe molte coverte o mante dipinte assai belle. E dimandati essi s'avevano oro, risposero che ne porterebbono verso il tardo: e cosí se ne ritornò il capitano in nave. Verso il tardo venne una canoa con certi Indiani, che portarono alcune mante e dissero che ritornarebbono il dí seguente con molto oro, e cosí se n'andarono. La mattina seguente comparsero nella spiaggia della isoletta certe bandiere bianche, e chiamavano i cristiani: onde il capitan Grigialva deliberò di andare in terra, e v'andò, e ritrovò sotto certi rami d'alberi steso un tapeto o manta, sopra la quale stavano certi tiani piccioli pieni d'uccelli tagliati e cotti nel suo brodo gialletto, che parea che stesse acconcio con spezie. Ma perchè era venerdí, non volle niun cristiano mangiarne. Vi erano anco certe pizze di maiz o d'altri frutti, in luogo di pane. Avevano anco ivi il maiz in spiga, cosí tenero che parea cotto, per dare a mangiare al capitano e agli altri che erano smontati seco. E portarono alcune mantigliette di cottone tinto, che le compartirono a que' nostri che ivi erano, e diedero anco loro certi cannelli neri con suffumigii, che essi come tabacchi prendevano; e con cenni e segnali dissero al capitano che non si partisse, perchè averebbono portato oro e altre cose. Per le loro sette mante o coverte e due bambacigni o tovaglie, loro all'incontro diedero i nostri due berrette senza piega e duemila pater nostri verdi di vetro e tre pettini e un specchio.
E stando nella detta isoletta, disse il capitano al pilotto maggiore, in presenzia degli altri capitani e d'alcuni de' principali dell'armata, che già sapeva come esso e gli altri pilotti e altre persone avevano detto che quella contrada grande che essi vedevano era terra ferma e non isola, e che era terra nuova, perchè esso aveva loro data per aggirata la terra di Iucatan, chiamata Santa Maria delli Rimedii. E per questo voleva il suo parere, perchè dicesse se era bene a seguire per quella costiera, finchè avessero vettovaglie da potere ritornarsi all'isola Fernandina, per accertarsene maggiormente, o pure se li pareva di dovere dare la volta per discoprire l'altre isole, perchè esso pensava il dí seguente saltare in terra e prenderne il possesso in nome di Diego Velasco, per Sua Maestà e per Castiglia. E concludeva che, poichè questo toccava a lui, come a pilotto maggiore, dovesse dirvi il suo parere, che esso poi, come capitano generale, con gli altri principali dell'armata si sarebbe risoluto di quello che fare doveva, che già tutti stavano deliberati di seguire quel camino che il detto pilotto dicesse, finchè si potessero i vasselli sostentare in mare per potere ritornare all'isola Fernandina. Disse anco che sapevano tutti come in quella armata erano 150 uomini, di piú delli marinai, e che per aggirare solamente Iucatan e discoprire l'altre isole bastavano venticinque o trenta persone per caravella, con li marinai necessarii; e che, per essere tutti gli altri soverchi, li pareva che si dovesse con tutto il resto delle genti mandarne in Cuba una delle caravelle, chiamata la Trinità, che non stava atta a potere molto piú navigare perchè faceva molta acqua, e a dare relazione di quello che s'era fatto e discoperto, e a menarne anco via gl'Indiani che avuti avevano, che cosí sarebbono restati gli altri tre vasselli piú liberi, e piú loro durate le vettovaglie sarebbono. Di questo stesso parere erano gli altri capitani e persone principali dell'armata.
Il pilotto maggiore rispose che esso, come aveva già detto, dava per aggirata l'isola di Iucatan, e che tenea per terra ferma quell'altra contrada che vedevano, per li gran monti che vi erano, fra li quali ve ne vedevano anco uno pieno di neve, e per li gran fiumi, e molti d'acqua dolce, che costeggiando avevano veduto uscire nel mare, e per le differenti e varie lingue che fra gl'Indiani veduti avevano, perchè in ogni provincia variamente parlavano; e che per tutti questi rispetti li pareva che non dovessero passare avanti, tanto piú che diceva che era quella costiera pericolosa, ma che dovessero volgersi a cercare altre terre nuove, perchè era un perdere di tempo pensare d'aggirare quella terra e consumarvi quante vettovaglie avevano. Ma che, o essendo terra ferma (come esso pensava) o pure isola, preso che ne avesse il possesso navigassero a cercare d'altre isole e terre nuove. E che li pareva bene mandare in Cuba quel vassello che faceva acqua, anzi vedere molto bene se stava tale che avesse potuto in quella isola giungere a salvamento, che altramente bisognava prima conciarsi. E concluse che questo era il suo parere di quello che fare si dovesse.
Il dí seguente, che erano alli 19 di giugno, saltò in terra il capitano con parte delle genti e prese il possesso di quella terra ferma, facendo i suoi atti in forma e prendendo testimonii di quanto faceva; e pose nome a questa provincia, che era dirimpetto all'isola de' Sacrificii, San Giovanni. Questa isoletta, secondo la cosmografia e carta di Diego Ribero, sta in venti gradi, benchè alcuni pilotti dicano che in assai meno altezza, dalla parte del nostro polo. Nella medesima altezza sta la punta o capo di terra ferma, che sta nella foce del fiume del porto della Villa Ricca, che molto tempo poi si fondò, che, come appresso nella seconda parte di questa istoria si dirà, fu al tempo di Fernando Cortese.
Di quello che al capitan Giovan di Grigialva succedette, doppo che ebbe preso il possesso di quella provincia che ora si chiama la Nuova Spagna.
Cap. XVI.
Doppo che il capitan Giovanni ebbe nella provincia che chiamò San Giovanni preso il possesso in nome di Sua Maestà e della corona reale di Castiglia, vennero da dentro terra alcuni Indiani disarmati; e fra loro erano due principali, l'un vecchio, l'altro giovane, che erano padre e figliuolo, e dagli altri che con loro venivano erano come signori ubbediti. E il giovane alcuna volta si corrucciava con li suoi Indiani, commandando loro alcuna cosa, e dava loro bastonate e buffettate, e il tutto soffrivano con molta pazienzia e si tiravano con molto rispetto a dietro. E questi principali con molto piacere abbracciavano il capitano nostro, e mostravano con lui e con gli altri cristiani molta amorevolezza, come se gli avessero conosciuti prima, e spendevano il tempo in molte parole che in loro lingua dicevano, perchè né essi erano da' nostri intesi, né essi intendevano i nostri. Il piú vecchio di loro comandò agl'Indiani che portassero certi bihai, che sono certe frondi larghe, e le fece stendere sotto certi alberi, che erano stati posti a mano da quelli Indiani, perchè facessero ombra. Poi accennò al capitano che sopra quelli bihai sedesse. Volle che vi sedessero anco quelli cristiani che li pareva che fossero piú principali e piú al capitano accetti; e accenò che tutte l'altre genti nel campo scoverto si sedessero. Il capitano ordinò che si sedessero, ma che stessero in cervello e con buone guardie, perchè non incorressero, come ignoranti e sprovisti, in qualche aguato.
Il vecchio Indiano diede tosto al capitano in mano, e agli altri che seco assisi erano, una canna per uno accesa dall'un capo, ma senza alzar fiamma, e si vanno consumando e ardendo a poco a poco come una teda o come un torchio, e il fumo che ne usciva odorava molto. Gl'Indiani accennavano a' nostri che non lasciassero perdere il fumo, ma lo togliessero col naso.
Poco prima che gl'Indiani giungessero a parlare a' nostri, i due loro principali posero le palme delle mani in terra e le basciarono, in segno di pace o di salute. E perchè non avevano interprete, era cosa travagliata e impossibile il potersi intendere, benchè molte parole vi si spendessero: co' segni solamente qualche cosa l'un dell'altro intendeva. E mentre che questo passava, andavano e tornavano molti Indiani, e mostravano d'avere gran piacere co' cristiani, e senza spavento o timore vi conversavano, come se di gran tempo a dietro veduti si fossero. Venivano con molte risa e s'assettavano in conversazione co' nostri ispenseratamente, e parlavano di lungo, e con deti e con le mani facevano segni, come se intesi fossero da quelli che li miravano. Poi cominciarono a portare delle loro gioie, e diedero a' nostri due circelli da orecchie d'oro con sei pendenti, e un collaretto o gargantina di dodeci pezzi con 34 pendenti, e sette filze come di pater nostri di creta, tondi e vagamente indorati, e un'altra filza minore di pater nostri minuti indorati; e tre cuoi rossi a modo d'impiastri fatti, e un ventaglio, e due mascare di pietre minute, come turchine, e poste d'opera musaica sopra legno, e con alcune ponticelle d'oro nell'orecchie. In compensa di queste cose i nostri diedero loro certe filze di pater nostri dipinti e altri verdi di vetro, e un specchio indorato e certe scarpette da donna, cose che tutte in Europa non averebbono potuto valere piú che due o tre giulii d'argento. E gli altri Indiani che con questi principali venivano, barrattavano con gli altri cristiani mante e tovaglie sottili.
Il capitano diede loro ad intendere il meglio che seppe che li portassero dell'oro, mostrandoneli alcun pezzo e dicendo loro che i cristiani non volevano altra cosa. Il vecchio, per quello che si puoté intendere, mandò il giovane suo figlio per oro, e co' segni disse che in capo di tre giorni verrebbe, onde fra tanto se ne andassero i cristiani in nave, e ritornassero poi nel terzo giorno a quel luogo stesso, che ivi portarebbono dell'oro. Fra questi Indiani era anco un giovanetto che a' segni diceva il vecchio che era medesimamente suo figlio; ma non se ne facea però tanto caso quanto si facea dell'altro, che era andato per l'oro. Ora con molti abbracciamenti e piacere si restò il vecchio co' suoi in terra, e il capitano co' nostri s'imbarcò, avendoli prima il vecchio detto che la mattina seguente smontassero, che esso anco in quel luogo stesso verrebbe.
Il dí seguente, che era domenica e alli 20 di giugno, si vidde tosto che fu dí il vecchio con molti altri sul lito, e con due bandiere bianche chiamavano i nostri. Tosto che il capitano nostro co' suoi smontò a terra, quel vecchio principale pose le palme delle mani sul terreno e le basciò, e poi tosto andò ad abbracciare il capitano, e li diceva co' segni che andasse piú dentro terra. I nostri v'andarono, ma non fu molto indi lungi dove si fermarono, che vi era il campo netto e mondo d'erbe, e sparse poi frondi di sopra e bihai, come il giorno avanti. Qui s'assisero, e tosto l'Indiano diede quelle canne accese in mano al capitano e agli altri, perchè godessero di quel fumo, come s'era già fatto l'altra volta. Il capitano ordinò al capellano dell'armata che dicesse messa, ed egli la disse, dove fu fatto tosto uno altare; e gl'Indiani, mentre si disse, vi stettero intenti e taciti e pieni di maraviglia, e nel volere incominciarsi portarono un vaso di creta con certi suffumigii di buono odore e 'l posero sotto l'altare; un altro simile ne posero fra il sacerdote e l'altre genti. E detta la messa portano certi canestri o panieri ben fatti, uno con pasticci di pane di maiz pieni di carne minuzzata, di sorte che non si puoté comprendere che carne si fosse; e un altro con pani pure di maiz e altri due di tortanelli, e presentarono al capitano ogni cosa, ed egli a' compagni suoi lo dispensò, perchè mangiassero. Ne mangiarono tutti, e lodavano quel cibo delli pasticci, ne' quali al sapore pareva che stessero spezie, perchè dentro erano rossetti, e vi era assai di quel pepe d'India che chiamano asci.
Doppo questo desinare presentarono al capitano tre paia di scarpe all'uso loro e una manta dipinta, e tre granelli d'oro fatti a quel modo nel quale sogliono alcuna volta restare nel fondo de' coreggiuoli, e una fronde d'oro sottile fatta a modo di passamani, e una giara dipinta, e un altro granello d'oro simile a quello che s'è detto. Il capitano fece loro dare una berretta senza pieghe, e un pettine, e un specchio, e un paio di scarpe di cordelle, e un saio di colori di panno di poco prezzo, e un altro specchio, e certe scarpe da donna, e un paio di forfici, e una camicia di tela, e una borsa con la sua cintura di cuoio, e un coltello picciolo con altri piú piccioli, e tre paia di scarpe di funicelle, e certi pettini, con alcune filze di paternostri di vetro di colori e altre simili cosette, che non poteva ogni cosa valere due ducati: e fu con gran piacere ricevuto dagl'Indiani, i quali dissero che il dí seguente ritornarebbono, e pensavano che il giovane che era andato per l'oro dovesse ritornare anco. E cosí il vecchio con gli altri suoi si restò in terra, e i cristiani se ne ritornarono a dormire in nave.
La mattina seguente delli 21 giugno si viddero, tosto che fu il dí, nel lito, al luogo solito, molti Indiani con le loro bandiere bianche; onde il capitano co' suoi smontò a terra e fece drizzare una tavola, e sopra porvi molte cose che voleva fare barrattare. Il caciche vecchio venne con gli suoi Indiani disarmati con le seguenti cose, che co' nostri cambiare voleva. Ed erano queste. Quattro circelli di sfoglie d'oro sottile; un paio di scarpe, che chiamano gl'Indiani gutara, e sono solamente le suole, con certe correggie con le quali s'attaccano dalli deti al collo del piede sopra i talloni o presso; due filze di pater nostri, una di grossi, l'altra di minuti, ma tutti indorati di sopra; due altri circelli di pietre azurre poste in oro, con otto pendenti del medesimo per ciascuno; una testa come di cane, che era una pietra rossa e bianca, che penso che fosse spezie di calcedonia, perchè ne sono state da quelli luoghi portate molte. Diciassette altri pater nostri grossi indorati. Una maniglia piana di oro larga quattro deti; un'altra filza di pater nostri indorati, con una testicciuola come di leon d'oro: e i pater nostri erano 18. Un'altra filza di 27 pater nostri e un'altra di 73, tutti indorati, e nel fine della filza vi era una ranocchia d'oro. Un viso di pietra guarnito d'oro intorno, con una corona d'oro che aveva sopra una cresta del medesimo, e due pontali di oro medesimamente. Un Cemi o demonio d'oro, che era un idolo fatto alla sembianza d'un uomo brutto, con un ventaglio d'oro e con pendenti d'oro all'orecchie, e nella testa vi aveva certe cornette d'oro, nel ventre incastrata una pietra. Una filza di disdotto pater nostri indorati. In compensa e baratto di tutto questo si diede loro un saio di frisa, una berretta dello medesimo, una medaglia, una borsa di cuoio con la sua cintura, un coltello, un paio di forfici, un paio di scarpe di funicelle, certe scarpe da donna, un panno di tela e una camiscia lavorata da alto a basso, un paio di calzoni e due specchi e due pettini, e un altro paio di forfici, e un'altra camicia pur lavorata, un altro pettine, un altro coltello, un'altra berretta, un altro panno di tela come mucatturo, e certi pater nostri di vetro di colori. E queste cose doppie, come la camicia, le forfici, il coltello e la berretta, si davano per cagione di quelli Indiani principali che facevano il baratto. Quello che i nostri loro diedero non valeva in Castiglia quattro o cinque ducati, e quello che coloro diedero a' nostri valeva piú di mille.
Doppo di questo il mercordí seguente, che furono alli 23 di giugno, ritornarono di nuovo gl'Indiani a barrattare, e diedero cose di piú valore che non avevano fatto prima, perchè portarono sei granelli d'oro come fuso in coreggiuoli, e sette collane d'oro, e una maniglia piana d'oro, e due filze di pater nostri indorati, e un'altra filza di paternostri di pietra, e fra essi certi cannelletti d'oro; quattro altre collanette d'oro, e un'altra filza di pater nostri, e due altre collanette in due correggie co' suoi circelli e pendenti d'oro; un'altra filza di pater nostri indorati, e altri nove pater nostri con una testa d'oro. Per queste cose si diede loro all'incontro un saio azurro e rosso di panno di poco prezzo, una berretta, un paio di forfice, una camicia di tela, un coltello, uno specchio, un paio di scarpe di corda, e certe filze di pater nostri di vetro a colori, che non valeva in Spagna tutto questo che loro si diede due ducati.
Doppo di questo il giovedí smontò di nuovo il capitano a barrattare nel medesimo luogo, e vi venne il caciche vecchio, che li diede due granelli d'oro, che pesarono 13 castigliani, e un collaretto d'oro, e cinque filze di pater nostri indorati, e una maschera di pietre fine, come le altre che si sono dette, e nove pater nostri d'oro voti di dentro, e una testa d'oro. E con questo donò anco al capitan Grigialva una fanciulla indiana con una vesta sottile di cottone, e disse che gliela donava e non ne voleva pregio alcuno. Il capitano li diede all'incontro per le altre cose uno paio di scarpe di cordella, un paio di scarpe di donna, una cintura nera con la sua borsa e un panno da testa, e certe filze di pater nostri di vetro di colori, che potevano tutte queste cose valere in Siviglia o in altro luogo di Spagna quattro o cinque giulii.
Saranno alcuni che, leggendo questi barratti, desideraranno di farne anche essi simili delle cose loro, anzi di barrattarvi ciò che essi hanno. E certo che, senza considerare piú avanti, questa pare una cosa di molto utile, se dentro le nostre case però questi tali baratti e cambii si facessero. Ma chi l'intende come si dee intendere, e vede dove noi andiamo a farli, e con quanti travagli e pericoli, onde la metà di coloro che vi vanno non ne ritornano con la vita, d'altra sorte ne ragionarà e altro pensiero vi avrà, avendo a disporre la persona sua in cosí fatto esercizio. E piacesse a Dio che se n'assicurasse l'anima, perchè l'intenzione di tutti quelli che vanno a barrattare non è la medesima.
Lasciando adunque questo da parte e ritornando alla proposta materia, dico che quando la fortuna giunge alla porta chiama e instà anco per essere intesa, e chi non ne è degno le chiude l'orecchie, e per sua ignoranzia non l'ascolta né la raccoglie, ma passa di longo; come a ponto accadette a questo capitano Giovan di Grigialva, che non volle credere a niuno di quanti lo consigliavano che si fermasse e facesse popolo in questa terra, e mandasse a chiedere piú gente a Diego Velasco, e a farli tutto questo successo intendere. Tutti coloro che erano seco ne lo pregavano, gliele ricordavano, li dicevano che erano tutti felici se ivi restavano. Ma perchè questa buona ventura si serbava per altri, fatti questi barratti e cambi che si sono detti, il capitano Grigialva mandò all'isola Fernandina il capitano Pietro d'Alvarado, in quella caravella che aveva bisogno di raconciarsi, e con lui cinquanta uomini di quella armata, cosí di quelli che infermi stavano come di quelli che bisognavano per condurre il vassello. E di piú delle gioie e oro che mandò, vi mandò anco l'Indiana garzonetta che gli era stata da quel vecchio caciche donata, con particolare relazione al capitan Diego Velasco, per cui ordine e a cui spese s'era questa armata fatta, di quanto in quel viaggio era fino a quella ora successo.
Nel medesimo tempo che il capitan Alvarado fece vela per l'isola di Cuba, il capitan Grigialva con gli altri vasselli partí da quel luogo, e costeggiando navigò verso occidente, per vedere se quella era terra ferma. E andando alla vela viddero certi popoli e terre che assai grandi parevano, e le sue case biancheggiavano. A questo modo andarono quattro dí, fino alli 28 di giugno, che il pilotto maggiore disse al capitano, come gli aveva piú volte detto, che quella era terra ferma e che ogni ora piú vi si confermava, e che perciò vi si spendeva il tempo indarno, e le navi andavano molto cariche di gente e di vettovaglie, e che, poi che n'aveva già tolto il possesso e fatto quello che fare vi doveva, e che non andava piú per aggirare isole ma per discoprire nuove terre, sí per questo come perchè le correnti erano grandi e potevano nel ritorno pericolare, li pareva che si fossero dovuti ritornare a cercare della isola di Cuba e d'altre isole, se ritrovare le potevano, e prenderne possessione; tanto piú che l'inverno veniva loro sopra, ed era molto pericoloso il navigare in que' luoghi in simili tempi, perchè averebbe potuto facilmente succedere loro di perdere i vasselli e le persone in mare. Parendo al capitano di dovere seguire il parere del pilotto maggiore, disse che, poichè cosí li pareva piú securo, volgesse a dietro; e cosí voltarono le prore e se ne ritornarono per la medesima costiera a dietro onde venuti erano. Ma uscirono loro sopra dalla medesima riviera da quattordeci o quindeci canoe da guerra, con molti Indiani sopra, armati di rotelle e d'archi e frezze, assai buona gente e con animo di combattere le navi dei nostri. Ma ne succedette quello che nel capitolo seguente si dirà.
Come le tre caravelle del capitan Grigialva furono assalite da quattuordeci o quindeci canoe d'Indiani, e della battaglia che fecero, e come poi i nostri smontarono nel porto di Santo Antonio per acconciare la capitana e vi ritrovarono certi Indiani di poca età morti.
Cap. XVII.
Le quattuordeci o quindeci canoe d'Indiani animosamente andarono a ritrovare le tre caravelle nostre e si strinsero con loro, tirando molte frezze, senza avere riguardo alcuno che loro segni di pace si facessero. Il capitano, che vidde questo, fece loro tirare alcuni tiri di artiglieria, e i balestrieri e schioppettieri fecero medesimamente l'officio loro e ammazzarono alcuni Indiani. Allora le canoe con molta fretta voltarono a dietro, fuggendo alla volta di terra. Le caravelle seguirono il viaggio loro alla volta di levante, costeggiando sempre, fin che si fermarono, come i pilotti dicevano, dieci o dodeci leghe prima che giungessero al fiume di Grigialva, e ivi alli 9 di luglio sorsero; ma non poterono montare su per lo fiume, per cagione della corrente e del tempo contrario che era. Onde stettero quivi fino alla domenica, undeci di luglio, che la mattina deliberarono di tornare a dietro a cercare dell'acqua, che loro mancava. Si ritornarono adunque quindeci leghe a dietro in un fiume, dove il lunedí entrarono, e vi ritrovarono porto, benchè alla foce alcune seccagne vi fossero. Nell'una e nell'altra ripa di questo fiume erano molti alberi di varii frutti, e si viddero per lo bosco che ivi era alcuni porci e cervi e lepori. E chiamarono questo porto Santo Antonio. Vi stette tre giorni, prendendo acqua e aspettando il tempo. E in questo mezzo vennero alcuni Indiani disarmati e portarono quattro picciole ascie o azze in due volte, d'oro basso mischiato con rame: per le quali diedero loro i nostri certe filze di pater nostri di vetro.
Alli sedeci di luglio poi fecero vela le tre caravelle, e uscí dal fiume la minore prima. Appresso poi la capitana, la quale errò il canale e diede molti colpi in terra in quelle seccagne, onde si vidde in molto pericolo, e con travaglio uscí nel mare, facendo molta acqua. Il perchè fu forzata a tornarsi nel medesimo porto, che già non stava tal da potere navigare; per alleggerirla posero su le barchette parte delle genti, la quale, smontata a terra presso alla foce del fiume, ritornarono le barche ad aiutare la capitana.
Ma in questo mezzo che quelli pochi cristiani stavano in terra, vennero dall'altra parte del fiume alcuni Indiani, che un picciolo squadrone fatto avevano, perchè poco piú di venti potevano essere. Allora, con parere di tutti, andarono per la ripa in su quattro di que' nostri che stavano in terra, col proveditore Francesco di Pignalosa; e si fermarono dirimpetto a quelli Indiani, dove era il fiume piú stretto, per vedere di potere meglio intendere che gente fosse quella e che facessero. Tre o quattro di quelli Indiani passassero allora sopra una canoa il fiume. I nostri, che stavano in terra presso la foce del fiume, andarono tutti dove i quattro loro compagni erano, per sapere che cosa coloro volessero, e ritrovarono che avevano quelli Indiani loro dato trentadue azze o ascie picciole, come quelle che si sono dette di sopra, e poste tutte nelle loro aste, e certe mante grosse di cottone di poco prezzo, e una tazzetta medesimamente lavorata d'oro, e un alvaretto di oro lavorato, e un pomo di metallo fatto a modo d'un guaiabo. Dissero que' quattro cristiani a' compagni loro che essi avevano veduto fare molti atti agl'Indiani che stavano dall'altra parte del fiume, cioè che andavano da un capo all'altro della piaggia, e che un di loro usciva dalla compagnia e giunto all'acqua stendea le braccia e faceva segni co' pugni chiusi verso dove essi stavano, e verso i compagni loro stessi e verso le navi; e che ponea le mani nell'arena e poi ritornava dove erano i suoi compagni, i quali s'assettavano tutti e poi si ritornavano ad alzare su e andavano intorno in cerchio, e passava avanti, e portavano una certa cosa involta in un gran fagotto, il quale avevano finalmente sotto terra posto. E che avevano veduto loro fare questo tre volte, e non avevano potuto discernere né sapere che cosa fatta s'avessero, e che, date loro le azze, con quelle altre cose che si sono dette, se ne erano tutti andati via, che non erano piú comparsi.
In questo mezzo la capitana entrò con l'altre caravelle nel porto; e in questo dí stesso s'avidero che li due interpreti Giuliano e Pero Barba si erano andati via. Sorti che furono i vasselli, saltò in terra il capitano, dinanzi al quale portarono le azze, con l'altre cose che si sono dette, e dissongli tutto quello che passato era. Il capitano fece pesare quelle azze con l'altre quattro di prima, e pesarono tutte il peso di 1790 castigliani e piú, e la tazzetta con l'alvaretto o bozola pesò quello che 22 castigliani pesarebbono. I nostri drizzarono qui in terra presso al porto gli alloggiamenti, e non restò nelle caravelle niuno, se non que' pochi che bisognava che per guardarle vi fossero. Il capitano fece andare un bando e leggere certi suoi ordini, perchè niuno da quello steccato uscisse, né si parlasse di dovere fare stanza e popolo in que' luoghi, né che si facesse fra gli suoi lega né unione né monopolio, né vi si trattasse cosa contra quello che esso comandava e ordinava. E fece egli questo perchè s'accorse che si mormorava di lui, e avevano i suoi gran voglia di fare quivi il popolo e restare ad abitare in que' luoghi.
La domenica, che erano alli 18 di luglio, udita la messa, in presenza di tutti furono letti e publicati i sopradetti ordini. Il lunedí vennero sopra una canoa certi Indiani, con un principale che loro comandava e che accennò di volere da parte parlare al capo de' nostri. Il capitano vi mandò il tesoriero, il proveditore e lo scrivano, con altri due gentil uomini, perchè vedessero quello che coloro volevano. Coloro portarono alcune pigne e mamei e galline del paese, e accennavano di dovere portare anco dell'oro. I nostri diedero a loro un saio di colori a quarti di panno grosso e una camicia e un paio di scarpe di cordelle, e certe scarpe da donne e una berretta e un paio di forfici, e alcune filze di pater nostri di vetro di colori, che tutto potea valere un paio di ducati o poco piú. L'Indiano principale si vestí la camicia e il saio e si pose la berretta, e col maggior piacere del mondo si partí con gli altri suoi, dicendo di volere ritornare con oro.
Alli 21 di luglio vennero certi altri Indiani e portarono al capitano due picciole azze come quelle dette di sopra, che pesarono il peso che fanno 148 castigliani, e una tazza di pietre fine, fra le quali ve ne erano otto paonazze e 23 d'altre sorti; e 110 pater nostri d'oro voti di dentro, e 19 pater nostri come di stagno, e una tazzetta come salera, che pesò quattro castigliani e piú; in cambio delle quali cose furono lor dati certi paternostrelli e ciancie, che in Europa non valeva piú che sei o sette giulii. Un marinaio portò una picciola azza, come quelle che si sono dette di sopra, e pesò quanto pesano 59 castigliani, e disse che uno suo Indiano l'aveva avuta. Questo stesso dí, venendo da pescare dall'altra banda del fiume, alcuni compagni delle caravelle portarono davanti al capitano certe tenagliuole, come quelle che sogliono usare le donne in pelarsi le ciglia, e una sonaglia fatta con certe alette, e una testa di Cemi, e due aquile con tre pendenti per una, e un'altra sonaglia minore della già detta di sopra, e un cannello come una testa: e tutte queste cose erano d'oro, e pesarono tutte nove castigliani e un ducato. E dissero costoro che presso al fiume, in certa arena, avevano ritrovato dentro un fosso coverto di terra e con certi cardi sopra tre persone sotterrate di pochi giorni, le quali stavano scannate e aperte nel petto al diritto del cuore, dove avevano quelli pezzi d'oro ritrovati, e che avevano con quelli morti lasciato un Cemi o idolo di metallo che vi era. Il capitano allora vi fece tosto passare alcuni soldati con un scrivano, perchè mirassero bene e vedessero in che modo e forma que' defunti stessero, per potere migliore relazione fare.
Passati coloro dall'altra parte del fiume, ritrovarono li tre morti, l'un de' quali parea che fosse di 13 o 14 anni, gli altri due di cinque o sei, e tutti scannati e aperti nel petto, e posti in un fosso e coverti d'arena, con alcune fune o cardi di sopra. E stavano a punto in quel luogo dove i quattro nostri cristiani avevano quelli Indiani veduti, da' quali avuti avevano le 32 azze, con quelle altre cose che si sono dette di sopra, e i quali avevano quelli tanti atti fatti. Onde i morti stavano cosí freschi che ben si conosceva che il venerdí passato erano stati morti o sacrificati, quando si disse che le tre caravelle in quel porto entrarono. Tutti gl'Indiani che erano venuti in quella costiera a vedere i cristiani o a contrattare con loro portavano l'orecchie tagliate, o per dir meglio frappate, e versando sangue per lo viso. Ma questa è cosa comune nella Nuova Spagna e in altri luoghi di terra ferma, come piú a lungo si dirà nella seconda parte di questa Generale istoria dell'Indie.
E ritornando al proposito dico che i nostri che andarono a vedere quelli Indiani defunti, non si seppero risolvere se erano uomini o donne, perchè li ritrovarono guasti e molto puzzolenti, e perciò non li cavarono dal fosso dove erano, ma li discoprirono solamente e li svolsero da quella invoglia nella quale involti stavano, e cosí li lasciarono. Ma ben si dee credere che, se piú oro seco avuto avessero, ancorchè assai piú puzzati fossero, non si sarebbono i nostri restati di prenderlo, se ben glielo avessero dovuto cavare dallo stomaco.
Come il capitan Grigialva partí con le sue tre caravelle dal porto di Sant'Antonio e giunse al Porto Desiato, e come ritrovò certi idoli che facevano fede dell'abominevole peccato di que' popoli.
Cap. XVIII.
Uscirono a' 20 di luglio le tre caravelle che conduceva il capitan Giovan di Grigialva dal fiume e porto di Sant'Antonio, e drizzarono in pennello alla volta dell'isola di Cuba. Ma navigarono fino a' 17 d'agosto con contrario tempo, onde, perchè mancava loro l'acqua, deliberarono di volgersi a cercare la terra ferma e prendere acqua, perchè non avevano che bere e non sapevano dove si stessero. Navigando adunque verso terra ferma, giunsero in un porto che fra due terre si faceva, ed era posto fra Porto Desiato e 'l fiume di Grigialva. Onde, perchè il pilotto disse che fra amendue quelle isole stava, il capitano il chiamò il porto de' Termini. Qui si prese acqua in certe lacune padulose; e in questa contrada era gran caccia di lepori, ed è una deliziosa e bella terra. Mentre che qui stettero i nostri a prendere acqua, viddero attraversare ogni dí canoe alla vela, con gente che passavano all'altra terra dell'isola Ricca o di Iucatan.
Nella costiera di questo porto, ben mezza lega lungi di là dove le caravelle stavano sorte, erano due alberi solitari, e vi dovevano essere stati posti a mano; e fra loro, ad ogni 12 o 15 passi, stava un Cemi o idolo di creta, e vi se ne contarono che ve ne erano o quattuordeci o quindeci. E vi erano certi testi o tiani di creta co' piedi a modo di conchecciuole da bracia, e si credette che vi stessero per farvi i suffumigii agli idoli, perchè vi si vedeva cenere dentro e incenso, o certa maniera di resina che si fosse, che gl'Indiani per suffumigiare usano. I cristiani che in terra smontorono per vederlo dissero avere ritrovato fra quelli Cemi o idoli due effigie d'uomini fatte di copei (che è un certo albero cosí detto), e l'una cavalcata sopra l'altra, in forma di quel nefando e abominevole peccato sodomitico; e un'altra effigie di creta che si teneva con amendue le mani il suo membro virile, che come circonciso il teneva.
Questa abominazione sarebbe meglio lasciarla all'oblivione che porla nelle cose degne di memoria; ma ho voluto farne menzione per piú far chiara la colpa per la quale il grande Iddio questi Indiani castiga, avendoli già per tanti secoli tolti dal grembo della sua misericordia. E perchè ho nel secondo libro di questa prima parte detto che Sua Maestà comanda a tutti i suoi governatori e ufficiali che mi diano informazione vera delle cose di queste Indie, non ho voluto tacere questa, avendola intesa da Diego Velasco da che io passai per quella isola Fernandina nel 1523; e io, a' prieghi di lui, ne portai testimonianza in Spagna, per dare notizia di questo suo discoprimento a Sua Maestà. E questo cosí abominevole peccato fra questa disgraziata generazione non è cosa della quale essi conto facciano o che non si sappia, perchè ne è molto piú di quello che dire se ne può. Sí che, ritornando all'istoria, presa che ebbero l'acqua uscirono alli 23 d'agosto da questo porto de' Termini, e navigando a' 25 giunsero al Porto Desiato della terra di Iucatan, dove stettero due giorni prendendovi del pesce, che ve ne ha molto, e salandolo, per averne provigione per lo viaggio che facevano.
Come, partito dal Porto Desiato, il capitan Grigialva andò in Ciampoton, e di quello che qui gli avvenne, e poi anco appresso, finchè all'isola di Cuba giunse.
Cap. XIX.
Uscita l'armata dal Porto Desiato, navigò la costiera di Iucatan per essere al popolo di Ciampoton, dove gl'Indiani nel primo discoprimento ammazzarono venti e tanti cristiani al capitan Francesco Hernandes di Cordova, e molti piú ne li ferirono. Aveva già il capitan Grigialva fatti certi ordini che voleva che i suoi con gl'Indiani osservassero, proponendo gravi pene a chi offesi e oltraggiati gli avesse; e gli aveva già loro fatti notificare nel proprio Porto Desiato, che è da 15 leghe longhi da Ciampoton. A vista del quale popolo giunsero il primo di settembre, e la caravella capitana sorse due leghe in mare con tre braccia d'acqua. L'altra caravella, che era piú picciola, sorse una lega da terra; la terza, che era la minore, sorse a mezza lega: e non ebbero ardire di piú accostarsi, perchè ivi molto il mare manca e secca, acciochè non restassero i vasselli in secco o corressero rischio per tempo contrario. Il capitano fece quel dí stesso passare parte della gente al vassello minore, che piú presso terra stava, per potere saltare sul lito al quarto dell'alba senza scandalo né pericolo.
Fra la caravella minore e 'l lito, quasi nel mezzo, era una isoletta, nella quale era un scoglio o balza sopra la quale si vedeva una casa bianca, a maniera di fortezza o di castello. Quella notte dalla caravella picciola si udí come ivi erano Indiani, essi facevano le guardie e sonavano tamburi e stavano vigilanti. Al quarto dell'alba innanzi giorno giunse il capitano con le due barchette, cariche di gente che dalla capitana alla caravella picciola conduceva. Ma quando s'avide d'esser stato scoverto si pentí d'esservi andato, perchè vi aveva travagliato molto, e averebbe voluto non essersi qui fermato. Ma, poi che vi si ritrovava, deliberò d'andare ad isbarcare nella isoletta, e cosí fece. E prima che fosse giorno ritornarono le barche alla caravella picciola per l'altre genti, e le condusserro nella isoletta. Erano col capitano passate l'artiglierie, e que' pochi balestrieri e scoppiettieri che ivi erano. Onde, perchè prima che le seconde barcate giungessero gl'Indiani avevano assaltati i nostri, pensando ivi assediargli, e vi erano perciò molte canoe da terra ferma venute, il capitano fece tirare l'artigleria e pose una canoa a fondo e ammazzò uno o due Indiani, e gli fece perciò meglio che di passo ritornare a dietro.
Da questa isoletta si vedeva il popolo e terra di Ciampoton, circondata di bastioni o di sbarre e di molti alberi che intorno vi erano, e vi si udivano molti gridi e cornette e tamburi, e gl'Indiani che si vedevano stavano armati d'archi e freccie e di lancie e rotelle, e facevano gran mostra di volere combattere. La terra è poco lontana dalla marina, e dalla parte di basso vi corre un fiume, per lo quale possono uscire in mare le canoe e circondare da dietro quelli che dal mare saltassero in terra. Il capitano, che vedeva quanto era pericoloso lo smontare de' nostri sopra il lito, volse intendere il parere di coloro che seco erano, doppo d'avere loro detto gli inconvenienti che li pareva che per questa via s'incorressero. Risposero alcuni che a loro questo stesso pareva, cioè che non avessero dovuto smontare, ma ritornarsi in nave. Altri dicevano il contrario, cioè che dovevano smontare in terra; altri dicevano che essi erano per far quello che il capitano loro comandasse. Ed egli, che questo vidde, disse che voleva smontare, ma che si serbassero gli ordini che aveva a tutti fatti intendere, e li fece in quella isoletta leggere un'altra volta di nuovo. Allora la maggior parte dissero che non pareva lor bene con queste condizioni smontare, né sapevano o vedevano a che effetto fossero dovuti smontare, poichè cosí loro si legavano le mani.
Sí che non volevano altramente andarvi, e se pure andar vi conveniva non volevano ordine alcuno serbare, ma vendicare i cristiani già morti al capitan Francesco Hernandes, e attaccare fuoco a quella terra e darle un castigo che se ne ricordasse per sempre, perchè pensavano non lasciarvi uomo in vita, se potevano tanto. Conoscendo il capitano questa volontà de' suoi, e che non averebbe potuto frenarli se incominciato avessero, diede ordine che si ritornassero ad imbarcare tutti. E cosí si fece, ed esso si restò nella isoletta per andarne con le ultime barcate. Gl'Indiani, veggendoli andar via, si ponevano fino al petto nell'acqua co' loro archi in mano, e alzando gran gridi si mostravano fieri e tiravano le lor frezze il piú che potevano, con gran ferocità e ardire. Ma perchè la disposizione del luogo non era tale, né la volontà del capitano era d'aspettare né di fermarsi, quando furono tutti imbarcati fecero vela a' 3 di settembre il venerdí, e la domenica a sera poi giunsero a vista del popolo di Lazaro, dove deliberavano di prendere acqua, perchè ne stavano in necessità, e la riviera che seguiva appresso non era stata scoverta, e non erano certi se vi avessero dovuto acqua ritrovare.
Fece adunque il capitano smontare in terra una parte delle genti, con quattro tiri di polvere e con li balestrieri e schioppettieri, stando le caravelle sorte mezza lega in mare. Si fecero tosto innanzi alcuni Indiani senza arme, che col deto accennavano dove l'acqua fosse; e quando i nostri ivi giunti erano, coloro piú avanti col deto mostravano che l'acqua fosse; giunti anco dove la seconda volta accennato avevano, dicevano che l'acqua piú avanti stava. E giunti ivi non ve la ritrovarono, anzi si ritrovarono nel mezzo d'un aguaito, perchè uscirono da una imboscata piú di 30 Indiani, con le lor freccie, rotelle e lancie e ben armati all'usanza loro, e cominciorono a trar le loro freccie, e volevano prendere in mezzo e circondare i nostri, i quali allora tirarono 2 o 3 tiri d'artiglieria. E gl'Indiani, se ben fuggivano, ritornavano nondimeno poi dietro a' cristiani con le lor freccie. I nostri, che ingannati si viddero, se ne ritornarono al lito verso le barche loro. Quando il capitano Giovan di Grigialva vidde da su le navi ritornare a quel modo i nostri a dietro, smontò tosto col resto delle genti, e mentre che egli smontava tirarono i cristiani un'altra volta l'arteglieria, e cosí gl'Indiani cessarono e non s'appressarono tanto, e cosí il capitano ebbe tempo di giungere con tutti gli altri, e dormí quella notte in terra. E il dí sequente stettero medesimamente a quel modo, e il terzo dí anco, e presero tutta l'acqua che volsero e la posero in nave. Vi posero anco del maiz, che presero dal campo, dove ne era gran copia, acciochè, se per disgrazia fossero lor l'altre vettovaglie mancate, avessero avuto dove ricuperarsi finchè a Cuba giungessero, che già in effetto poca provigione loro restata era.
Montati su le caravelle tutti i nostri, agli otto di settembre fecero vela da quel luogo, ma perchè non avevano il tempo buono, s'andavano le caravelle temporizzando e ritornavano a dare la volta in terra; e a questo modo andarono volteggiando fino agli undeci di settembre, che al porre del sole viddero una terra nuova, come seccagne, onde, perchè era già tardi e l'aere si faceva oscuro, s'allontanarono da quel luogo, e volteggiarono la notte la volta del mare. La mattina seguente, che era domenica, ritornarono verso quella terra per vedere che cosa era, e non vi viddero altro che quelle seccagne, onde il pilotto maggiore disse che quelli doveano essere forzieri e scogli sotto acqua di qualche isola nuova che ivi presso essere doveva. E poichè le seccagne stavano di traverso al viaggio loro, bisognò che ritornassero a dare la volta verso Iucatan, perciochè non potevano indi passare avanti, e si ritornarono fino a vista della costiera di Iucatan, e s'accostarono a terra piú su del fiume che chiamano delli Lacerti, dove dicono il Palmaro; e indi costeggiando l'isola seguirono il camin loro fino a' 21 di settembre, e attraversarono da una terra chiamata Comi, secondo che gl'Indiani dissero, perciochè, avendo poca acqua, deliberarono di attraversare al diritto la volta di Cuba, rimettendosi del tutto nella volontà di Dio, perchè il tempo non era buono né speravano che si dovesse di corto conciare.
Navigando adunque a questo modo alli 29 di settembre, che fu il dí di Santo Angelo, ebbero la mattina a vista l'isola di Cuba, e ne viddero quella parte che si chiama il Marien. Il dí seguente giunsero presso terra dirimpetto al porto di Carenas. Il capitano, per sapere se era giunto a salvamento il capitano Alvarado, che avea mandato inanzi, come s'è detto, smontò con alcuni pochi in terra ed entrò in una stanza di certi cittadini di San Cristoforo, e vi ritrovò che li disse che il vassello d'Alvarado era giunto a salvamento, ancorchè con molto travaglio. Egli si stette quella notte in terra, e volendo la mattina ritornare ad imbarcarsi non vidde le caravelle, e pensò che la corrente le avesse trasportate. Il perchè, entrato nel suo battello con tutti i compagni che eran seco smontati, tutto quel giorno e la notte appresso navigò per la costiera, e la mattina dell'altro dí, che erano due d'ottobre, giunse presso al porto di Sciaruco in una stanza di Diego Velasco, dove smontato dimandò s'avevano vedute le caravelle; e inteso che no, mentre che qui si riposavano alquanto, le viddero venire, e cosí s'imbarcarono tutti. Ma perchè era il tempo contrario, non poterono prender il porto di Matanza, e cosí volteggiando andarono ora a questo capo ora a quello fin al lunedí, che erano quattro di ottobre. E il capitano, perchè la gente veniva molto stanca, fece prendere il porto di Sciaruco, dove a posta di sole entrarono. Il dí seguente smontò tutta la gente in terra e ciascuno se n'andò, chi a una parte chi ad un'altra, salvo che alcuni che col capitano restarono, e s'imbarcarono con lui nella caravella minore, chiamata Santa Maria delli Rimedii, e passarono navigando al porto detto Cipione e indi a quel della Matanza, dove agli otto del mese giunsero, e il sabbato appresso vi giunsero due caravelle. Qui ritrovarono il capitano Cristoforo d'Olit, che aveva già Diego Velasco mandato, con una nave fornita di gente armata, d'artiglieria e vettovaglie, a cercare dell'armata del capitan Grigialva; e diceva essere giunto all'isola di Cozumel e averne preso il possesso, credendo che non fosse stata ancora scoverta, e che aveva poi costeggiata la terra di Iucatan dalla banda di tramontana, e che era giunto ad un porto che si faceva nel capo di quella contrada, che, secondo i pilotti dell'armata dicevano, doveva essere un porto che sta fra Iucatan istesso e 'l Porto Desiato; e che, non avendo ritrovato vestigio né nuova dell'armata, e medesimamente perchè aveva perdute l'ancore e non aveva buoni capi, se ne era ritornato all'isola Fernandina ed era in quel porto della Matanza otto dí avanti giunto.
Mentre che il capitan Grigialva stava qui, preparandosi per la partenza e facendo mettere vettovaglie in nave, per essere alla città di S. Giacomo, dove Diego Velasco stava, li fu presentata una lettera di quello, per la quale li comandava che, il piú presto che fosse stato possibile, gli avesse mandate le caravelle e avesse detto alle genti sue che, perchè esso poneva in ponto a gran fretta una armata per mandare a popolare e abitare quella terra nuova che s'era scoverta, chi vi fosse voluto andare si fosse in quel luogo dove si ritrovavano restati, finchè vi avesse egli mandate le caravelle a prenderli: che sarebbe stato assai presto, e che sarebbe lor stato dato da' suoi fattori, che ivi nelle sue possessioni teneva, quanto loro fosse stato di bisogno. E cosí ne scrisse anco a' suoi, che a tutti quelli che aspettare volessero per questa causa, dessero quello che volevano. Scrisse anco agli ufficiali di quella terra di San Cristoforo che facessero a coloro che andare volevano ogni buon trattamento. E cosí si restarono ivi alcuni, aspettando i vasselli della nuova armata, per andare ad abitare e popolare l'isola Ricca, che è la terra di Iucatan; e alcuni altri se n'andarono a casa loro, con pensiero di ritornare quando fosse stato tempo.
Il capitan di Grigialva si partí tosto con gli altri suoi capitani alla volta della città di San Giacomo, facendo vela alli 22 di ottobre con le tre caravelle, e con lui partí anco il capitan Cristoforo d'Olit, con l'altra nave che conduceva; e perchè ebbero contrario il tempo, stettero qualche dí a giungere a San Giacomo, dove ritrovarono Diego Velasco e li diedero relazione di quanto s'è detto che in questi discoprimenti avenuto era.
Come Diego Velasco mandò nel terzo discoprimento per suo capitano Fernando Cortese, che restò poi governatore della Nuova Spagna, e della morte del povero Diego Velasco.
Cap. XX.
È stata alquanto lunga la relazione di questo discoprimento fatto dal capitan Giovan Grigialva, già cittadino della Trinità, terra dell'isola Fernandina, in nome del luogotenente Diego Velasco, alle cui spese fu fatta. E perciò è cosa ragionevole che non gli si tolga la lode che egli ne merita, poichè il tempo e la fortuna li tolsero gli altri premii e utilità che esso di cosí segnalato servigio sperava; perchè egli (come è opinione di molti) vi spese piú di centomila castigliani, e fu questa impresa cagione che egli morisse povero e discontento, come appresso si dirà.
Ma, ritornando all'istoria, dico che, ritornata che fu questa armata all'isola Fernandina, deliberò il Velasco di mandare in Spagna un suo cappellano, con quelle mostre d'oro che si sono dette e con la relazione del viaggio che avea il Grigialva fatto. Questo clerico giunse in Barzellona il maggio del seguente anno del 1519, nel tempo che in quella città venne la nuova che era stata Sua Maestà eletta in re di Romani e in futuro imperatore. Questo clerico, chiamato Benedetto Martino, conobbi io bene, perchè il passai con meco nel 1514 in terra ferma, donde poi se ne passò all'isola di Cuba, e viddi molte di quelle mostre e cose delle quali si è fatta menzione di sopra, e che il Velasco mandava al re nostro signore, che per questo segnalato servigio li diede il titolo d'adelantado e 'l governo di tutto quello che aveva discoperto, e si tenne Sua Maestà ben servita di lui, come era ragione, e gli fece anco altre grazie, e graziosamente gli scrisse ringraziandolo di quello che fatto aveva e animandolo a continovare quel discoprimento, come egli stesso diceva di voler fare e 'l poneva tuttavia in effetto: perchè già aveva mandata un'altra armata per convertire quelle genti alla nostra santa fede, e recarle ad obedienzia di Sua Maestà e porle sotto la signoria e patrimonio della corona reale di Castiglia.
E cosí fu in effetto perchè, come ho detto, quando mandò quel cappellano in Spagna avea già un'altra armata inviata, della quale andò per capitano e suo luogotenente Fernando Cortese, al quale non torrò io la lode che ei merita: ma non approbo io già quello che esso e alcuni altri dicono, cioè che il Cortese e compagni andassero alle spese loro proprie, perchè, ancorchè cosí fosse (che io nol credo), ho io nondimeno vedute scritture e testimoniali che altramente dicono, e ho in poter mio un transunto della instruzione e potere che egli ebbe da Diego Velasco perchè in suo nome andasse. E per questo io questa lode al Velasco e non ad altrui attribuisco, avendo egli dato principio a quanto poi della Nuova Spagna succedette, e avendo discoperto quella parte di lei che s'è detta per piú di 130 leghe di costiera. Ma il tutto si riservò alla buona fortuna di Fernando Cortese, mercé della disgrazia di Diego Velasco, causata da qualche superna disposizione. E perchè è molto che io odo dire quel proverbio che dice: "E chi prende diletto di far frode non si dee lamentar s'altrui l'inganna", dico che se Diego Velasco non fu cortese con l'admirante Diego Colombo, in torli a suo dispetto il governo dell'isola di Cuba, con le maniere e arte che vi tenne, non usò con lui piú cortesia poi Fernando Cortese in torli il carico della Nuova Spagna.
Non mi pare che alcun di loro di ciò lodare si debba, né tengo per ben detto quello che si legge che soleva Giulio Cesare dire, che se si hanno a rompere le leggi si debbono rompere solamente per aver a regnare, perchè questa mi pare piú tosto parola di avido e avaro, e di persona di poca conscienzia, che di chi si possa l'uomo a niun conto fidare. Ma non può niuno fuggire quello che gli sta ordinato e apparecchiato da Dio, e l'ufficio del mondo si è che un cacci dalla macchia il lepore e un altro l'ammazzi. E non senza cagione disse quel poeta Serafino dell'Aquila in un suo sonetto: "Chi sparge il seme e chi ricoglie il frutto".
Ora, comunque questo si passasse, dico che Diego Velasco, quando deliberò di mandare Fernando Cortese con l'altra armata, non aveva ancora avuta nuova alcuna di Giovan di Grigialva, né della caravella che avea mandata con Cristoforo d'Olit a cercarlo: onde nell'instruzioni che diede al Cortese caldamente gli ordinò e l'incaricò che il cercasse, e che vedesse medesimamente dove fosse con l'altra caravella andato Cristoforo d'Olit, e si forzasse di ricuperare ogni modo in Iucatan sei cristiani, che uno Indiano dicea che vi erano già restati d'una caravella che s'era in quella costiera perduta. Questo Indiano, chiamato Melchior, era stato molto tempo co' nostri, e perciò il Velasco il mandò con l'armata del Cortese perchè gli servisse per interprete.
Queste instruzioni e ordini furono al Cortese dati dal Velasco nella città di San Giacomo dell'isola Fernandina, alli 23 d'ottobre del 1518, davanti ad Alonso di Scalante, notaio publico e del consiglio di quella città. Posta adunque questa armata in ponto di gente, d'arme e di vettovaglie, e d'ogni altra provigione necessaria, passò Fernando Cortese alla Nuova Spagna, con sette navi e tre brigantini che il Velasco li diede. Ma l'anno sequente del 19, essendosi il Cortese insignorito d'una parte di terra ferma, non si curò piú di Diego Velasco che lo aveva mandato, né pensò di dovergli altramente dar conto di quello che fatto aveva, ma mandò al'imperatore nostro signore una relazione delle cose che vedute e fatte avea, con molte mostre e gioie d'oro e vaghe piume, e con un presente assai ricco di cose assai belle a vedere e di pregio. E mandò con queste cose due gentili uomini, l'un chiamato Alonso Fernandes Porto Carrero, l'altro Francesco di Monteggio. Queste cose io le viddi in Siviglia quando costoro le portavano, quasi alla fin di quell'anno ch'io alla terra ferma mi ritornava, e poco avanti erano questi messi in Europa giunti.
Quando Diego Velasco seppe questo, mandò il capitano Panfilo di Narbaes con un'altra armata, rivocando quanta potestà avea data al Cortese e chiamandolo ribelle. Questo capitano passò in quelle contrade con la sua armata, e si fece di sorte con buone parole dal Cortese ingannare, che si fece a man salva ispenseratamente prendere, e in questa presura gli fu cavato un occhio, e stette ivi poi gran tempo prigione. Fu di gran comodità e prosperità cagione questa cosa al Cortese per quello che ne seguí, perchè esso si ritrovava in gran bisogno di gente; e cosí ebbe tutta quella che Panfilo condotta aveva, e che tosto obedí e si ristrinse col vincitore, il quale, con queste e con l'altre genti che prima aveva, conquistò e prese la gran città di Mesciso o di Temistitan, e prese Montezuma, signor di quella provincia e di un gran stato, e s'insignorí della Nuova Spagna.
Diego Velasco, inteso il cattivo successo del capitan Panfilo, deliberò di passarvi esso in persona, e cosí armò sette overo otto navi e con buona gente vi montò, e navigando giunse alla vista di Iucatan e della Nuova Spagna. Ma per conseglio di un licenziado Parada che seco era, senza altramente smontare in terra se ne ritornò a dietro, con grandissima infamia sua e con grande perdita della molta spesa che fatta avea.
In questo mezo da molte parti concorrevano genti al Cortese, il quale donava cortesemente a tutti e ne era perciò da tutti i suoi molto amato, come ne era all'incontro odiato il Velasco. Egli fu cosí sollecito e seppe cosí ben negociare, che l'imperatore nostro, intese queste discordie, fece in Valladolid alli 22 d'ottobre del 1522 una provisione e ordine che, poi che per queste differenzie s'era ribellato Mescico e ne era successo molti scandali e arrobbi e morti, volendo provedervi, faceva suo governatore in quella terra Fernando Cortese, finchè altramente ordinasse, e si terminassero per giustizia e si vedessero nel conseglio reale dell'Indie queste loro differenzie, e che Diego Velasco non andasse né mandasse in quella contrada né armata né gente alcuna sotto certe pene. Fu questa provisione notificata al Velasco per Francesco delle Case, cognato del Cortese e del quale si farà menzione nelle cose della Nuova Spagna, nel mese di maggio del 1523, nella città di S. Giacomo nell'isola di Cuba. Questo fu un principio e fine della rovina del Velasco, il quale, obediendo a Sua Maestà, mandò nondimeno alla corte di Spagna un cavaliero suo amico, chiamato Manuele di Rogias, a notificare e dichiarare gli aggravii suoi e a chiedere giustizia di questo torto. E poi anco l'anno seguente del 24, avendo deliberato d'andare esso in persona a querelarsi del Cortese davanti all'imperatore, e dire i suoi servigi e le grosse spese che in quella impresa fatte aveva, vi si trapose in mezzo quella che tutte le contese termina, che è la morte. E cosí esso forní i giorni suoi insieme con suoi contrasti, e co' suoi danari anco, che molti avuti ne aveva, e il Cortese restò senza contradizione alcuna nel governo della Nuova Spagna e ricchissimo. Ma di lui e di quello che a quelli luoghi tocca si farà particolare menzione nella seconda parte di questa generale istoria dell'Indie.
Questo Diego Velasco fu un di quelli poveri gentil uomini che passarono a questa isola Spagnuola nel secondo viaggio dell'admirante don Cristoforo Colombo, ed era venuto a quello stato che s'è detto e ad esser ricchissimo, e poi morí cosí povero, infermo, disgraziato e mal contento. E la burla che aveva esso fatta a don Diego Colombo in torli il governo dell'isola di Cuba, dove l'aveva in suo luogo il medesimo Colombo mandato, fu poi a lui finalmente fatta da Fernando Cortese, che nel governo della Nuova Spagna si restò, senza riconoscere altri che l'imperatore per superiore: e pure ve l'avea il Velasco istesso mandato. Ma passiamo all'altre cose dell'istoria di questa isola di Cuba.
Del successo del governo dell'isola Fernandina, doppo la morte del Velasco.
Cap. XXI.
Egli s'è detto di sopra come, assai prima che il Velasco morisse, era stato scritto a Sua Maestà che il licenziado Zuazo, essendo nell'isola Fernandina giudice, aveva fatte molte ingiustizie, onde vi era da questa isola Spagnuola passato l'admirante don Diego Colombo con due auditori di questa regia audienzia, e tolto quello ufficio al Zuazo e l'aveva al Velasco ritornato. Fatto questo, l'admirante se ne ritornò con li due auditori in questa città di San Domenico, e il Zuazo si restò in Cuba alquanto disfavorito. Accadette pochi dí poi che, avendo Sua Maestà provisto Francesco di Garai del governo di Panuco e del fiume delle Palme, che è ne' confini della Nuova Spagna, costui con una grossa armata si partí dall'isola di Iamaica per andare a popolare quella contrada, e giunto nel'ultimo capo dell'isola Fernandina seppe che Fernando Cortese aveva già occupata e incominciata ad abitare quella provincia, e che aveva fermo proposito di non lasciarvi entrare sé né altri. Il perchè costui quivi si fermò, e scrisse e mandò a pregare il licenziado Alonzo Zuazo che volesse passare nella Nuova Spagna e negoziare questa cosa fra lui e 'l Cortese, per essere esso di amendue amico, e fare che non avessero a rompersi insieme, finchè Sua Maestà determinasse e provedesse quello che suo servigio fosse. Il Zuazo adunque partí per fare questo effetto, ma si perdé nell'isole degli Alacrani, come nell'ultimo libro degli naufragii si dirà particolarmente, e ne scampò con alcuni pochi miracolosamente. In quel mezzo Francesco di Garai passò pur tutta via a quella provincia che a popolare andava, e che era stata già del Cortese occupata; ma gli si perdé l'armata e gli furono morti alcuni de' suoi dagl'Indiani, e alla fine, non veggendo a' fatti suoi rimedio, se n'andò a Mescico, dove il Cortese stava, e poco appresso morí, come piú ampiamente si dirà al suo luogo, quando delle cose della Nuova Spagna si parlerà.
Doppo di tutte queste cose, il licenziado Zuazo, giunto nella Nuova Spagna, fu ben raccolto e favorito talmente dal Cortese che ne fu fatto suo luogotenente e giustiziero maggiore, ed era esso nella Nuova Spagna il tutto nelle cose della giustizia. Ma perchè il capitan Cristoforo d'Olit, del quale si farà piú particolare menzione al suo luogo, s'era ribellato in certa parte di terra ferma, e distoltosi dall'amistà e obedienzia del Cortese che ve l'aveva mandato, andò il Cortese istesso in persona a cercarlo, lasciando certe potestà agli ufficiali di Sua Maestà, perchè in sua absenzia governassero, e lasciando il Zuazo per la amministrazione della giustizia. Ma perchè erano già andate in Spagna molte sinistre informazioni contra il Zuazo, che i suoi emuli mandati vi avevano, fu provisto con una cedula regia che il Cortese il mandasse prigione all'isola Fernandina a darvi conto di sé. Ma quando questa cedula giunse il Cortese non vi era, che era già partito, onde venne in mano degli ufficiali regii, che stavano già in due parti divisi e in discordia quali di loro governatore dovessero (perchè si diceva che il Cortese era morto). Quella parte nelle cui mani venne questa cedula, che era quella che piú favorita stava, prese il Zuazo. Dicono alcuni che questa prigione non fu per virtú della cedula regia, perchè dicono che non era ancora venuta, ma che fu per potere piú senza impedimento esequire le loro contese.
Il mandarono adunque prigione in Cuba, a dare ivi di sé conto al licenziado Giovanni Altamirano, che vi era a questo effetto particolarmente andato. Diede il Zuazo ragione di sé, e si ritrovò essere senza colpa di quanto gli apponevano; onde fu liberato e assoluto e dichiarato anco per buon governatore e per persona che aveva ben servito. Il che quando Sua Maestà seppe, il fece un de' suoi auditori in questa regia audienzia che in questa città di San Domenico risiede, e cosí egli vi venne e vi esercitò il suo ufficio, come ora vi esercita.
Doppo di questo, il licenziado Altamirano se ne passò a Mescico, e Diego Velasco restò nel suo ufficio come prima, perchè, ancorchè tutte queste mutazioni di governo si facessero nell'isola Fernandina, sempre nondimeno era egli quel che piú in ogn'altra cosa vi poteva, per esser capitano e compartitore degl'Indiani di quella isola. Ma, come s'è detto nel precedente capitolo, pochi dí appresso Iddio lo levò da questa vita. E tosto l'admirante don Diego vi provedette di suo luogotenente per lo governo di Cuba un gentil uomo nato in Portiglio e cittadino di S. Giacomo, chiamato Gonzalo di Gozman, il quale in quello ufficio stette dal 1525 fino alli 1532, che per ordine di Sua Maestà ne fu distolto per un tempo dal licenziado Giovan di Vadiglio, che era uno degli auditori di questa regia audienzia. Onde restò in Cuba per luogotenente del governatore, in nome dell'admirante don Luigi Colombo, un gentil uomo chiamato Manuele di Rogias, persona savia e nobile e nato in Spagna nella terra di Collar. Ma ritornò poi nel medesimo governo e ufficio il medesimo Gonzalo di Gozman, in nome dell'admirante don Luigi. E questo basti quanto al governo e successo delle cose dell'isola Fernandina, fino all'ultimo del presente anno del 1534 della salute nostra.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta delle cose dell'isola di Iamaica, che ora di San Giacomo si chiama.
Libro decimo ottavo
Proemio
Quelli che si sono occupati in scrivere, come io ora faccio, e in dare notizia al mondo d'alcune cose naturali e non conosciute, se non col mezzo di coloro che l'andarono inquirendo e cercando, si sono sempre a molti pericoli esposti per potere vederle e considerarle, perchè chi in simile impresa si pone bisogna correre il mare e la terra e passare per varie regioni cosí differenti come è la natural composizione degli elementi, e correre nelli tanti inconvenienti che nella varietà di tante terre e di tanti mari si trova forzatamente, come sono i differenziati cibi e acque che per tutto si trovano, con la varietà della disposizione dell'aere e temperamenti de' boschi e de' piani; onde vanno costoro non sani né al proposito loro, senza che non sono di poco momento e pericolo i tigri, i leoni, i serpenti e altri tanti animali e occasioni nocive, con altre infinite difficoltà che non si potrebbono in cosí brevi versi esprimere. E ancorchè di cosí fatti pericoli fosse esente colui che in tale esercizio si pone, come potrebbe egli la lingua de' mormoratori fuggire? I quali, se ben parlano di quello che non intendono, e riprendono quello che non sanno né fare saprebbono, e che male grazie rendono a chi ha lor dato notizia di quello che non sapevano, non per questo restano mai di mordere chi perciò merita di essere ringraziato e che non gli offende.
Ritrovandomi io adunque in questi travagli e riprensioni, non resterò già per questo di scrivere senza timore alcuno quello che io ho veduto e inteso di queste maravigliose istorie, cosí nuove e cosí degne d'essere udite. Prestino pure le genti vane a lor posta gli orecchi a' libri di Amadis e di Splandiano, e degli altri che da loro dependono, che sono una prosapia tanto moltiplicata di favoleggiamenti che io ho certo vergogna d'udire che in Spagna tante vanità si scrivano, che hanno ormai fatte dimenticare quelle de' Greci. Mal si ricorda chi simili cose scrive o legge delle parole evangeliche che ci insegnano che il demonio è il padre della bugia, in tanto che chi la scrive viene ad essere suo figlio. Liberimi Iddio di cosí gran delitto, e drizzi di sorte la penna mia che sempre (ancorchè il buon stile mi manchi) abbia da dire e da scrivere la verità e quello che sia servigio della verità stessa, che è Iddio, col cui favore son io giunto a questo 18 libro; e spero cosí continuare negli altri restanti, non fidandomi nella eloquenzia o ornamento di stile (il che a fatto mi manca), ma appoggiandomi al bordone della medesima verità, e non dimenticandomi del costume che tiene la volpe quando vuol passare il gielo: perchè quando nella Tracia, che è regione assai fredda, vuol passare i fiumi o le lacune gelate, e vi va solamente per necessità del cibo, perchè è animal di sottile audito, prima che passi pone sopra il gielo le orecchie, e a questo modo congiettura la grossezza del giaccio, e parendole sofficiente a sostentarla e che possa senza pericolo andarvi, vi va. A questo modo so io che non si sommergeranno i miei libri, perchè passano per lo ponte della verità, che è cosí forte e potente che sosterrà e farà perpetue le vigilie mie, poichè sono in gloria del Creatore del tutto, a cui non è cosa alcuna impossibile; e prima mancheranno le lingue che le sue maraviglie dicano, [che] le materie e occasioni di ringraziarlo.
Io non scrivo per passare questi geli delli mormoratori senza proposito, ma per andar al pascolo della obedienzia, per servirne a Dio e al mio re, per cui ordine in questa materia mi occupo: e perciò penso di poter passar sicuro e senza calumnia, quanto al frutto dello scrivere cose certe e vere. Nel resto confesso che altri saprebbono meglio di me farlo, occupandovisi e veggendole, non infin dalla Grecia, né dalle stufe o giardini che alcuni scrittori secondo i tempi ebbero per scrivere le loro composizioni riposatamente, perchè in simili luoghi fruiscono i concetti degli studii e degl'ingegni loro. Ma le cose che qui si scrivono si notano con molta sete e fame e stanchezza, e nella guerra con gl'inimici, e nella pace contendendo con gli elementi e con molta necessità e pericoli; e chi qui le scrive il fa, ferito senza chirurgico, infermo senza medico né medicine, morto di fame senza avere che mangiare, morto di sete senza ritrovare acqua da bere, stanco senza potere ritrovare riposo, bisognoso del vestire e del calzare. E andando a piè chi saprebbe ben cavalcare un cavallo, e passando molti e gran fiumi senza sapere notare? Ma a tutte queste e altre infinite necessità supplisce la clemenzia di Dio, e dà industria e forza a' bisognosi di potere col suo favore uscirne, come per queste istorie potrà ciascuno che le legge vedere.
E credami il lettore, che molti di quelli che vanno per questi luoghi e hanno tutte queste calamità isperimentate, e piú anco assai di quello che s'è detto, saprebbono ben combattere con li Turchi e danzare con le dame quando bisognasse, e farsi e nella guerra e nella pace onore; perchè, se ben la necessità li conduce in questi esilii a vivere fra gente selvaggia, quella stessa li fa piú degni d'altri che piú ricchi nacquero e che vivono a gamba stesa, non sapendo già piú che gli altri della patria sua, e stando in molto riposo si danno ad intendere che infin da' loro delicati letti apprendono quello che non si può se non travagliando sapere, e si fanno beffe di quelli che, come valorosi e poco dati al guadagno, né a stare ballando nelle città né passano in queste peregrinazioni la vita loro.
Ma lasciamo questo, e passiamo all'isola di Iamaica, che ora i cristiani chiamano di San Giacomo, e che è una dell'isole da' Spagnuoli abitate: e ne parleremo breve e sommariamente quello che farà al proposito della sua conquista e fertilità, con l'altre cose appartenenti all'istoria di lei, con suoi termini e sito, secondo la vera cosmografia e la ragione dell'altezza del polo.
Del primo discoprimento dell'isola di Iamaica, che ora di San Giacomo la chiamano.
Cap. I.
Quando l'admirante don Cristoforo Colombo ritornò di Spagna la seconda volta in questa isola Spagnuola, vi fondò la città d'Isabella, che fu nel 1493. E indi, come nel secondo libro s'è detto, si partí con due caravelle a discoprire l'isola di Iamaica, menando seco quelli cavalieri e gente che li parve. E discoperta quella isola, vidde piú ampiamente quella di Cuba, come si è anco detto di sopra. Ma perchè nell'altre isole da noi descritte la prima cosa è stata il dire i suoi termini e sito, non è bene che qui si resti di proseguire questo ordine.
Perciò dico che dalla ponta di San Michele, che alcuni inconsideratamente chiamano il capo de' Tiburoni, che è la parte piú occidentale di questa isola Spagnuola, fino alla prima parte dell'isola di Iamaica, sono venticinque leghe, poco piú o meno. Sta questa isola di Iamaica in diecisette gradi dalla linea equinoziale, ed è longa da cinquantacinque leghe e quasi la metà larga, e a questo modo la misurano i marinai. Le genti di terra che abitano nella medesima isola, perchè anco in quello stesso luogo ho voluto informarmene, mi dicono che sia maggiore di quello che ho detto, perchè affermano averla vista e andata molte volte, e la fanno settantacinque o ottanta leghe lunga e 16 o 17 larga, e in 17 gradi dall'equinoziale dalla parte di mezzogiorno, e in disdotto dove ella è piú verso tramontana posta. La punta di questa isola piú orientale chiamano il capo di Morante, onde partendo e costeggiando dalla parte di mezzodí verso ponente si trova Mainoa, e 6 leghe appresso il porto di Iaguabo, onde si va poi alla provincia d'Aguaia; e piú giú poi sta la terra d'Oristane, e alla fine dell'isola è la ponta del Negrillo. E di qua, dando la volta per la banda di tramontana, si va alla terra chiamata Siviglia, che è il principale popolo de' cristiani in quella isola, nel cui mezzo è quasi posto. Costeggiando oltre poi si trova una isoletta picciola chiamata Melilla, dove stanno li cacichi e gl'Indiani che a' nostri servono. E piú verso oriente si trova il porto chiamato Guaigata; dal quale partendo e costeggiando oltre si va al porto d'Anton, che è buon porto e capace di molti vasselli. E questa è la circonferenzia di tutta l'isola, che potrà girare da 150 leghe tutta.
Dalla parte di mezzodí ha l'isole di San Bernardo e la provincia di Cartagena in terra ferma, dalla quale è da 120 leghe lontana. Dalla parte di tramontana all'isola Fernandina, che al piú vicino (che è la ponta delli Giardini) ne è 25 leghe lontana. Dalla parte d'oriente, dal capo di Mortane fino al capo del Tiburone dell'isola Spagnuola, possono essere da 25 altre leghe, come di sopra si disse. E da ponente ha, da 35 leghe lungi, l'isole delli Lagarti, che chiamano: ma perchè queste isole sono disabitate, dico che la terra ferma che questa isola di Iamaica ha da ponente è quella del Iucatan, e che è piú al porto dell'Ascensione vicina.
E questi sono i termini e i confini dell'isola di Iamaica, chiamata ora di San Giacomo, la quale è molto fertile, e vi sono quegli alberi e piante ed erbe che si sono detti essere nell'isola Spagnuola, e le genti sono della medesima maniera e lingua e vanno medesimamente ignude, ed è terra copiosa di tutte le cose che nell'altre isole già dette si trovano; e vi sono ricche minere, benchè non se ne sia cavato molto oro, sí perchè non vi ritrovarono le minere fino al 1418[1518], come perchè vi mancarono le genti, che vi morirono come nell'isola Spagnuola, e per quelle stesse occasioni e per quelle pestifere calloccole, che chiamano.
Le cerimonie e matrimonii e maniera di vita e l'arme degl'Indiani di Iamaica, con tutte l'altre cose, sono a punto come in questa isola Spagnuola erano. Gli armenti vi sono copiosamente cresciuti, cosí di vacche come di pecore e porci e cavalli, che di Castiglia vi si condussero, e spezialmente de' porci, onde i boschi di porci selvaggi son pieni. Vi sono i pascoli e l'acque perfette; la terra è molto salubre, e non cosí senza boschi come hanno detto e scritto alcuni senza vederla, perchè nel vero ve ne sono molti, e molti fiumi e laghi e di molti buoni pesci, di tutte le sorte che s'è detto che siano nell'altre isole abitate da' cristiani. Il maggior utile che i nostri di Iamaica cavano si è degli armenti degli animali e delle tele e letti di cottone, perchè vi se ne fa molto e buono. Vi hanno fatto anco bene le canne del zuccaro, e vi ha un buono ingegno che vi fece l'adelantado Francesco di Garai, e ora è degli eredi suoi.
Il primo governatore che passò a questa isola di Iamaica fu un cavaliero chiamato Giovanni di Eschivel, che passò a queste Indie col primo admirante don Cristoforo Colombo, nel secondo viaggio del 1493. E fu poi dal secondo admirante don Diego Colombo mandato con gente da questa isola Spagnuola a conquistare e porre in pace quella isola verso il fine del 1509; e vi si portò da buon cavaliero, perchè la conquistò e pacificò e la pose sotto l'obedienzia della corona reale di Castiglia, sí per forza d'arme, come si conveniva di fare, come benignamente con arte, fuggendo di versare il sangue umano, come persona zelante del servigio di Dio e prudente in quel che far in simile negozio si doveva. Doppo la qual conquista, in capo del terzo anno o poco piú, questo capitano mancò, onde il medesimo admirante don Diego vi mandò in suo luogo un altro gentil uomo chiamato Perea, il quale vi fu poco tempo, perchè ne fu rimosso, e vi fu mandato un altro gentil uomo di Burgos chiamato Camargo.
Ritrovandosi in questo stato le cose, andò in Spagna Francesco di Garai, algozile maggiore di questa città, e venne col re catolico don Fernando in questa convenzione, di partire per metà l'utile degli armenti e dell'altre cose che il re in quella isola aveva, e il Garai vi poneva anco i suoi: e per questo il re ordinò all'admirante che il facesse suo luogotenente in quella isola. L'admirante il fece volentieri, sí perchè il re il comandava, come perchè il Garai era suo molto amico e servitore e accasato con una sua parente, ed era delli antichi e primi abitatori nell'Indie, che con l'admirante vecchio vi passarono nel 1493. Fatto questo accordo e compagnia, fu in quel tempo stesso mandato per tesoriero della medesima isola Giovan di Mazzuolo, perchè ricevesse per lo re l'entrate e l'utile che per la sua metà li toccavano. Questo dispaccio si fece in Valladolit nel 1513. Doppo di questo, nel 1519, Francesco di Garai mandò in Barzellona a Sua Maestà un suo creato, chiamato Giovan Lopes di Torralva, con certe mostre d'oro, che non se ne era prima in quella isola ritrovato. L'imperatore, sentendosi ben servito del Garai, il fece compartitore degli Indiani, e fece il Torralva, che era stato il messo, contatore dell'isola. Era stato Francesco di Garai prima in questa isola Spagnuola, per la sua industria e cervello, un ricco uomo e molto utile a se stesso, e molto piú fu poi con questa compagnia che col fisco regio fece: onde ne nacque che, ritrovandosi assai prospero de' beni che dà la fortuna e toglie, venne in maggiori desiderii, che furono cagione della sua rovina e morte, che a questo modo seguí.
Nel 1523 fece il Garai una buona armata di navi e di gente, e bene provista di quanto bisognava, per passare in terra ferma a fare nuova terra e popolo presso al fiume che chiamano delle Palme, nella provincia di Panuco. Nel che si disse che li fu assai contrario Fernando Cortese, il quale, quando seppe che l'imperatore aveva fatto Francesco di Garai adelantado e governatore di quella provincia, si mosse tosto e andò a popolarla e farvi una terra, e quando poi il Garai vi passò, né gl'Indiani né i cristiani volsero all'ufficio admetterlo: e dicono alcuni che ciò per arte del Cortese avvenisse, ancorchè egli se ne iscusasse. In effetto, trovandosi il Garai disbarattato, se n'andò nella città di Mescico, dove fra pochi dí morí.
Sí che, essendo Francesco di Garai partito, restò l'isola di Iamaica sotto il governo dell'admirante don Diego, e poi dell'admirante don Luigi e de' luogotenenti e ministri, perchè nelle 4 isole che si son dette abitate da' cristiani e in quella di Cubagua, della qual appresso si tratterà, ha l'admirante giurisdizione, ma sotto la superiorità però della audienzia reale e cancellieria, che risiede in questa città di San Domenico. E questo basti quanto alla conquista e governo di Iamaica e delle sue genti.
Vi sono in quella isola due terre picciole abitate da' cristiani: la principale è chiamata Siviglia, e sta dalla banda di tramontana. L'altra si chiama Oristan, e sta dalla parte di mezzodí. La chiesa principale sta in Siviglia, sotto titolo d'abadia, e ne' tempi dietro ebbe buone entrate, quando il cronista Pietro Martire l'ebbe e vi fu abbate; ora non frutta tanto, perchè, come si è altrove detto, queste nuove delle ricchezze che ogni giorno si discuoprono in terra ferma hanno molto diminuito il numero degli abitatori di tutte queste isole. Ma non già per questo merita di essere posta in oblio questa di Iamaica, perchè nel vero ella è assai buona e fertile e salubre e di buone acque, e molte cose concorrono a farla stimare e tenere per buona, perchè ha buoni e sicuri porti e belle e gran pescherie, con tutto quello che si può desiderare nelle buone provincie dell'Indie.
Ma perchè la perdita di Francesco di Garai e la sua rovina fu cosa molto notabile, e fu esso un degli adelantadi che sotto questo titolo sono infelicemente in queste Indie morti, si dirà di lui piú a longo quando delle cose della Nuova Spagna si tratterà, perchè non fa al proposito di questa isola dirne piú di quello che se ne è detto, e che ivi lasciò agli eredi suoi una buona facoltà e un buono ingegno da zuccari, con altre cose, senza che in questa città di San Domenico anco aveva assai; ma egli assai piú spese e perdé che non lasciò, per cagione di quella sua spesa e armata, con la quale impresa, pensando diventare piú ricco, impoverí, e vi lasciò poi la vita, con avervi mal speso il tempo e mangiato con amici ingrati la robba. Il che dovrebbe essere uno esempio salutifero in tutti coloro che sanamente vorranno volgere gli occhi nell'adelantado Francesco di Garai, nell'adelantado Diego Velasco, nell'adelantado Giovan Ponze di Leone, e in altri adelantadi e capitani di questi luoghi.
Di alcune altre particolarità dell'isola di Iamaica, e come gl'Indiani
vi sogliono cacciando prendere le papere brave.
Cap. II.
Delli riti e cerimonie degl'Indiani dell'isola di San Giacomo non parlo altramente, perchè, come s'è già detto, del tutto serbavano il costume di quelli dell'isola d'Haiti e di Cuba. E a quel modo stesso erano idolatri, e in tutti quegli altri nefandi vizii involti. Il medesimo dico degli animali e uccelli e pesci e agricoltura e monizioni per la vita, e in tutte l'altre cose, e per questo, per non essere molesto al lettore replicando quello medesimo che s'è altrove detto, non mi fermerò altramente. Avevano e hanno quelle stesse case e stanze e arbori e frutti che si sono di sopra detti essere nell'altre isole. E perchè nel 13 libro, parlando della maniera che tengono in prendere li manati e le testudini col pesce riverscio, quanto si potrebbe qui dire ne dissi, non torno a replicarlo altramente. Questo solo dico, che sono informato che in questa isola di Iamaica piú che altrove si continuò già questa nuova maniera di pescare, non veduta né udita mai fuori che in queste Indie. Dicono anco che gl'Indiani di Iamaica o di San Giacomo furono gl'inventori di questa sottile e piacevole caccia, nella quale le papere brave prendono, che è di questa sorte.
Nel tempo del passaggio di questi uccelli, ne passano molte e grosse compagnie per quella isola, e perchè ivi sono alcune lacune e stagni, quando si posano in terra per pascere e per riposarsi presso a questi laghi s'impongono. Gl'Indiani che ivi presso vivono gettano in acqua certe gran cocozze, vote di dentro e tonde, che vanno alquanti giorni sopra l'acqua, e il vento le porta ora a questa parte ora a quella, e le conduce presso la terra. Le papere da principio se ne scandalizano, e s'alzano e s'allontanano dalle cocozze, veggendole muovere. Ma quando poi si accorgono che da quel moto non ne viene loro danno alcuno, s'assicurano a poco a poco, e di giorno in giorno vi si domesticano, e in tanta sicurtà ne vengono che molte di loro si arrischiano di montarvi suso. E a questo modo vi vanno notando, ora a questa parte ora a quella, secondo che il vento e l'aere muove quelle cocozze. Quando gl'Indiani veggono che le papere vi si siano bene assicurate e domesticate, senza punto spaventarsi di quel moto, se ne va il cacciatore e pone tutta la testa dentro una cocozza vota, come quelle che vanno notando per l'acqua, e si cala questa cocozza giú fino alle spalle; ed esso si pone con tutto il resto della persona dentro dell'acqua, e per un picciolo buco che ha fatto nella sua cocozza al diritto degli occhi mira dove le papere stiano, e cosí si va a porre loro da presso, e alcuna tosto su la testa li monta. Egli, quando se ne accorge, pian piano si scosta da quel luogo e notando anco, se vuole, senza essere inteso né da quella che ha sul capo né dall'altre, perchè questi Indiani sono piú atti al notare di quello che possa uomo pensare. Ora, quando egli si vede alquanto dall'altre papere scostato e li pare che sia tempo, cava la mano, e presala per le gambe la tira giú sotto l'acqua e ve l'affoga; e legatasela alla cintura nel medesimo modo ritorna a prendere dell'altre. E per questa via ne prendono gl'Indiani gran quantità. Sogliono anco, senza scostarsi altramente, tosto che se la sentono in testa, porla giú sotto l'acqua e legarsela alla cintura, senza che l'altre fuggano o si spaventino, perchè pensano che siano andate sotto acqua per prendere qualche pesce.
Passando io per quella isola mangiai alcuna di quelle papere cosí prese, e sono un buon cibo. Sono picciole e bianche, e nel tempo del passaggio loro se ne vede una copia infinita, e negli altri tempi dell'anno se ne ritrovano anco alcune. Le prendono anco alcuna volta di questo altro modo, che l'Indiano cacciatore s'avolge molto la testa di frasche e frondi verdi d'alberi, e s'accosta notando alla ripa della lacuna dove le papere stanno, onde alcuna di loro va a montar tosto sopra quelle frasche della ghirlanda del cacciatore, credendo che sia qualche cespa verde dell'acqua stessa. L'Indiano, tosto che la sente, vi stende la mano, e la prende a quel modo che s'è detto che con le cocozze fanno.
Come il licenziado Gil Gonzales Davila andò a sindicare gli ufficiali
dell'isola di Iamaica per ordine di Sua Maestà.
Cap. III.
Nel 1533 giunse a questa città di San Domenico un cavaliero litterato, nato in Toledo e chiamato il licenziado Gil Gonzales Davila, persona d'illustre e generoso sangue; ed era già stato per ordine di Sua Maestà col capitano Diego d'Ordas alla conquista del fiume Maragnon, che è nella costiera di terra ferma, la quale impresa ebbe infelice successo ed esito, e il medesimo capitano Diego, ritornando dopo questi travagli in Spagna, morí in mare per uscire del mondo con gli altri suoi, come piú di lungo nella seconda parte di questa Istoria si dirà; e quelli pochi che scamparono si ritirarono ciascuno per la via sua. Venne adunque in questa città questo cavaliero che io diceva, il quale, quello anno stesso, per ordine di Sua Maestà e del consiglio regio dell'Indie, passò all'isola di S. Giacomo, per sindicare il luogotenente e gli altri ufficiali che per l'admirante don Luigi Colombo vi erano, a vedere i conti delle case del fisco al tesoriero Giovan di Mazuolo e al contatore Giovan Lopes di Torralva: perchè si diceva che gran bisogno ne avevano, e perciò Sua Maestà, che ne era stato informato, vi mandava questo licenziado Gil Gonzales. E medesimamente perchè, nel vero, gli ufficiali che si lasciano molto tempo dimenticati negli ufficii ne' quali sono continui guadagni, hanno bisogno d'essere visitati e corretti. E già in questa regia audienzia erano molte querele di loro venute; sí che per questo effetto passò in quella isola il licenziado Gil Gonzales, e per riformarvi anco la giustizia e correggere gli ufficiali, con fare loro dar conto, secondo che il bisogno richiedeva. Ed egli andatovi cosí fece. Ma con questo s'impone fine all'istoria dell'isola di Iamaica o di S. Giacomo. Nella quale isola finí anco la vita sua di corto il medesimo cavaliero Gil Gonzales Davila, mentre che il suo ufficio già detto vi esercitava e ne serviva al suo re.
Della naturale e generale istoria dell'Indie, dove si tratta dell'isola di Cubagua.
Libro decimo nono
Proemio
Non fece il grande Iddio cosa alcuna disutile, e perciò, quando vidde quello che creato aveva, l'approbò tutto per buono. Di che si raccoglie che nelle provincie che paiono diserte in queste Indie (e in altre parti del mondo anco), vi sono altri secreti, con abbondanzia di quelle cose che ne' luoghi che teniamo per fertilissimi si desiderano, e sono di molto pregio. Veggiamo la terra in alcune parti coverta di spineti, di morole e di calambroni pongenti, e nelle sue viscere poi di sotto vi ritrovamo ricche minere d'argento e d'oro e d'altri mettalli, e cosí di pregio, tanto piú che le medesime spine e calambroni già detti non sono senza qualche virtú e proprietà giovevole.
Molte campagne disabitate e senza pascoli per gli armenti stanno coverte d'orciglia, che è una erba da tingere i panni, o d'altri alberi assai per altri effetti utili. Non è cosa mal composta né si ritrova errore nella natura, perchè il maestro e facitore di lei non puote errare, né fece cosa inconveniente né senza utilità, perchè fin ne veleni e nelle cose nocive si trovano secreti medicinali e proprietà maravigliose, e quanto piú varie e differenti sono, tanto è la natura piú bella. Quel serpe chiamato tiro, il cui morso dicono che senza rimedio sia, è medicina appropriata contra ogni veleno: come si vede che, posto in quella composizione che chiamano tiriaca, è salutifero contra le cose velenose, perciochè una picciola parte di lui, mischiata con l'altre cose medicinali, le porta tutte al cuore (perchè questa è la sua proprietà, di andar tosto in quel luogo), e vi cagiona salute con quella mistura, là dove da sé solo vi sarebbe mortifero. Egli si cerca il grasso delle serpi e del cane che morde i peli; di modo che, sapendonsi usare la proprietà di simili secreti, non si trova cosa cosí cattiva dalla natura creata che non giovi in qualche cosa.
E cosí a questo proposito parlerò in questo 19 libro dell'isola di Cubagua, che è assai picciola e sterilissima, e senza goccia d'acqua di fiume né di fonte né di lago né di stagno, né vi è dove si possa seminare né fare cosa alcuna per lo servigio dell'uomo né da potervi tenere armenti, e nondimeno, con tutte queste difficoltà, si abita, e vi è una gentile città, ed è tanta la sua ricchezza che tanto per tanto non è in tutte queste Indie cosa piú ricca né piú giovevole (parlo di quello che fino ad oggi da' cristiani si abita). Ella non ha maggior spazio o territorio che tre leghe di circonferenzia, poco piú o meno, e molti che lo possono sapere dicono che dal 1496, che fu dal primo admirante don Cristoforo Colombo discoverta, fino al presente, si sia da questa isoletta cavato tanto valore di perle che col quinto del re, e con quello che ne hanno avuto particolari, è una estimazione incredibile. E questo esercizio del continuo vi si esercita.
E perchè la istoria ordinatamente proceda, dirò tutto quello che ho potuto intendere del discoprimento e dell'altre cose di queste isolette, e poi farò anco menzione dell'altre isole e costiere di mare dove in queste Indie si ritrovano perle, e dirò d'alcune perle particolari e di prezzo che ritrovate si sono, perchè in questa parte non resti che dire né replicare appresso; ma solamente si accennino le provincie e luoghi dove le perle si trovano, perciochè, cosí nel pescarle come nell'altre particolarità, è una cosa medesima.
Ben è il vero che i naccaroni sono differenti maniere di conche, dove le perle nascono, e questi non si ritrovano in questa isola né in tutta la costiera di terra ferma che a tramontana è volta, ma dall'altra parte che riguarda a mezzogiorno ve ne sono in molte parti molti. E se io ne dirò anco qualche cosa, non sarà inconveniente alla materia delle perle, poichè anco in questi naccaroni nascono, i quali servono agl'Indiani non solamente con le perle e pesce che hanno, ma servono anco loro per pale e per altri istromenti della agricoltura, come piú ampiamente si dirà appresso al suo luogo.
Sí che stiavi il lettore attento, perchè, se ben Plinio ragiona a longo delle perle nella sua naturale istoria, e Alberto Magno medesimamente e Isidoro, ne' quali potranno i curiosi vedere molte cose che io qui non mi curerò di ripetere, dirò nondimeno io qui d'altre cose che niuno di questi eccellenti autori seppe né scrisse, né altro autore che io fin qua abbia letto. E potrò parlarne come testimonio di vista, perchè fino ad oggi pochi o niuno di quelli che sono in queste Indie passati hanno avuto migliori perle di me, in alcune pezze segnalate nelle quali io perde' il prezzo che mi costarono, perchè non le potei longo tempo presso di me avere: perciochè queste cosí fatte gioie non l'hanno a vendere se non quelli che le cercano, e non si ha a cercare chi le compri, come ho fatto io. Ma questo si dirà piú copiosamente appresso. Passiamo ora a dire del discoprimento dell'isola di Cubagua e delle sue perle, perchè ivi si sono ritrovate in assai maggiore quantità che in niuna altra parte, e ivi si viddero le prime che in tutte queste Indie si vedessero.
Del discoprimento dell'isola di Cubagua, dove si pescano le perle e dove prima in queste Indie si viddero; e come n'ebbero i cristiani notizia.
Cap. I.
Il terzo viaggio e discoprimento che il primo admirante don Cristoforo Colombo di queste Indie fece fu nel 1496, perchè nel mese di marzo di quello anno partí dal porto di Calis con sei caravelle bene armate, come di sopra nel terzo libro si disse, e per viaggio ne mandò tre alla volta dell'isola Spagnuola; con l'altre tre fra pochi giorni giunse all'isole di Canaria, dove provedutosi d'acqua e legne e d'altre cose per il viaggio, corse a riconoscere l'isole di Capo Verde, chiamate dagli antichi Gorgoni. Dalle quali fece volgere le prode e correre da 150 leghe verso il sudueste e, secondo dice il pilotto Hernan Peres Matteo, che oggi in questa città vive, gli sopragiunse tanta tempesta che li ridusse a termine che tagliarono gli alberi della mezzana e gettarono gran parte del carico in mare, e in tanto pericolo si viddero che pensarono di perdersi, e corsero al norveste e andarono a riconoscere l'isola della Trinità. Ma questa tempesta che il pilotto Hernando Peres Matteo dice, non l'approba don Fernando Colombo che oggi vive, figlio dell'admirante, che si ritrovò con suo padre nel medesimo viaggio; anzi dice che questo travaglio nel quale si ritrovarono fu di calma e di tanta arsura che i loro vasi di legno si aprivano, e il formento che portavano loro si putrefaceva, onde necessariamente aleggiarono e si scostarono dall'equinoziale.
Ora, riconoscendo la detta isola, dice don Fernando che l'admirante la chiamò della Trinità, perchè andava con pensiero di chiamare di questo nome la prima terra ferma che ritrovasse, tanto piú che si viddero a un tempo stesso tre monti vicini, o alla vista poco l'un dall'altro distanti. Passò poi quello imboccamento che chiamano la bocca del Drago, e vidde tosto la terra ferma, come si è ampiamente detto nel terzo libro. Dalla bocca del Drago, che sta a 10 gradi dalla linea equinoziale, corse l'admirante la costiera di terra ferma verso occidente, e riconobbe altre isole, come nel terzo libro si disse; e passando oltre discoprí la ricca isola chiamata Cubagua, della quale qui si tratta, e che i cristiani al presente chiamano la isola delle Perle, dove poi si fondò una buona terra, ch'ora si chiama la nuova città di Calis; e quivi è la peschiera delle perle. Presso a questa isola Cubagua ne è un'altra maggiore, chiamata la Margarita, che cosí l'admirante la nominò. Dalla ponta delle Saline, che è in terra ferma nella bocca del Drago, fino all'isola di Cubagua, che le è da ponente, sono cinquanta leghe. Questa isola è assai picciola, e gira a torno (come si è detto) da tre leghe; è distante dalla costiera di terra ferma, e in particolare dalla provincia chiamata Araia, che le è piú vicina, quattro leghe. E perchè, come si è di sopra nel proemio detto, non ha acqua questa isola, la vanno a prendere quelli che l'abitano in terra ferma, al fiume chiamato Cumana, che è sette leghe lontano dalla nuova Calis, come si dirà appresso.
È questa isoletta lontana dalla linea equinoziale quasi dieci gradi e mezzo dalla parte del nostro polo. Da Cubagua fino a questa città di San Domenico possono essere da 160 leghe e da 110 leghe fino alla isola di Santa Croce delli Caribi, la quale le sta posta da tramontana, perchè queste due isole stanno poste di filo da tramontana a mezzogiorno. Ha Cubagua, come si è detto, terra ferma da mezzogiorno, e quattro leghe il piú vicino, e ha da ponente 25 leghe l'isola di Poregari. E questo è il suo sito e i suoi termini. Ma la terra che le è piú vicina si è l'isola della Margarita, che ho detto che le sta da tramontana una lega lontana.
Di tutte l'altre cose che il primo admirante in questo suo terzo viaggio discoprí, si è detto nel terzo libro di sopra, e non bisogna qui altramente ripeterlo, ma quello solo dire che fa al proposito di questa isola, e come seppe egli che qui fossero perle: il che fu a questo modo. Sorto che egli fu presso a questa isoletta con le sue tre caravelle, fece sopra un battello montare alcuni marinai, perchè andassero ad una canoa che vedevano che andava pescando perle. Gl'Indiani, veggendo i nostri andare a trovarli, si ritirarono verso l'isola. I nostri, fra gli altri Indiani, viddero una donna che portava al collo una gran quantità di filze di perle e di unioni grossi (perchè delle minute non facevano gl'Indiani conto, né avevano l'arte da potere bucarle). Allora un di quelli marinai tolse un piatto di creta di quelli di Valenzia, che sono lavorati con certe figure e pitture e rilucono, e ne fece pezzi, e con queste teste di piatto barrattò con gl'Indiani e con la Indiana alcune filze di quelle grosse perle, e le portarono all'admirante; il quale, quando bene intese il negocio, pensò di dissimularlo, ma per lo gran piacere che ne ebbe non puoté fare che non dicesse: "Fratelli, io vi dico che voi oggi vi ritrovate nella piú ricca terra che tutto il mondo abbia, e ringraziato ne sia sommamente Dio". E cosí ritornò a mandare la barca a terra con alcuni altri uomini, perchè barrattassero tante perle grosse quante andassero in una scodella, a cambio d'un altro piatto spezzato medesimamente e di certe sonaglie. Giunti coloro all'isola barrattarono fino a tre libre di perle mischiate grosse e picciole, le quali l'admirante le prese per portarle o mandarle in Spagna al re catolico. E per non dare occasione che i marinai e l'altre genti che seco andavano s'inebriassero nelle avidità delle perle, non volse ivi trattenersi, pensando tenere la cosa secreta fino al suo tempo, e quando fosse stato bene a palesarla. E se avesse voluto avrebbe potuto allora barrattare mezzo tumolo di perle, secondo che dice il pilotto Hernan Peres Matteo, che qui vive, e mi afferma che ne vidde fra questi Indiani allora tanta o maggior quantità.
Ma perchè ne' marinai si serva poca secretezza, quando alcuni di quelli che ivi si ritrovarono si ritornarono poi in Spagna, si publicò questa cosa nella terra di Palos, di donde erano allora la maggior parte de' marinai che a queste parti passavano, e si seppe medesimamente in Moguer. Onde alcuni di quella terra che questo seppero, chiamati i Nigni, fra li quali era capitano un Pero Alfonso Nigno, menando seco alcuni di quelli che vi si erano ritrovati con l'admirante, si partirono con una nave e andarono alla volta dell'isola delle Perle, e ne barrattarono ed ebbero tanta quantità che se ne ritornarono ricchi in Spagna, se non vi avessero ritrovato intoppo. Ma perchè nel ritorno verso Europa andarono a dare di porto in Galizia, dove stava allora per vice re Fernando di Vega, signor di Gragial, che fu poi commendator maggior di Castiglia dell'ordine militare di san Giacomo, costui preso il Pero Alfonso nigno e tolse a lui e a' compagni le perle e il vassello, come a persone che erano senza licenzia a fare detto barratto andate, anzi li mandò di piú prigioni alla corte, dove poi con molto travaglio ottennero d'essere liberati. E per questo d'allora innanzi si pose in gran riputazione e guardia quella isola.
Dicono alcuni che il discoprimento di queste perle diminuí molto l'autorità e la fede dell'admirante, perchè dicono che si seppe in Spagna per detto de' marinai che con lui vi si ritrovarono, e per lettere di alcuni particolari, prima che per suo aviso, benchè alcuni altri dicono il contrario. Questo Pero Alfonso Nigno e compagni portarono da quel viaggio da 25 libre di perle, che avevano barrattate con spingole e sonaglie e altre simili ciancie. E fra quelle ve n'erano molte assai buone orientali e tonde, benchè picciole per lo piú, come io dal medesimo commendatore maggiore intesi dire.
In quella provincia chiamano gl'Indiani le perle thenoras e corissia anco, e d'altri diversi nomi, secondo le varietà delle lingue che per quella costiera sono. E questo basti quanto al discoprimento e notizia che si ebbe in queste Indie delle perle.
Dell'altre particolarità dell'isola di Cubagua, e d'un fonte di bitume che vi è.
Cap. II.
L'isola di Cubagua, come s'è detto, è picciola, perchè non gira piú di 3 leghe; è piana e tutta salnitrosa, e perciò è sterile d'ogni maniera d'erbe e d'arbori, di sorte che non vi se ne vede alcuno, se non certi di guaiacan e certi altri come spine da morole. In tutta l'isola non vi è acqua per bere, né vi nascono uccelli fuori che alcuni maritimi, come sono gaviotte e simili, né vi è alcuno animale, ancorchè nel principio che i cristiani l'abitarono vi fossero alcuni conigli. Vi ha un buon porto dalla banda di tramontana, e al suo diritto una lega è l'isola della Margarita, la quale la circonda ad un certo modo da levante fino al norveste, e dall'altra banda quella parte di terra ferma che si chiama Araia la circonda da levante quasi fino al mezzogiorno.
Nella sua ponta di levante, presso al mare, è un picciolo fonte che gocciola un liquore come olio, e corre nel mare e va sopra l'acqua, e piú di due o di tre leghe se ne vede longi dall'isola il segno; e dà anco il liquore un certo odore. Alcuni di quelli che l'hanno veduto dicono che è chiamato dai naturali stercus demonis, e che è utilissimo nella medicina.
Hanno in questa isola posti i nostri alcuni porci, e crescono loro tanto le ungie de' piedi dinanzi e di dietro che se le rivolgono in su, e in alcuni crescono finchè sono quanto un picciolo palmo. Quelli che in questa isoletta vivono se ne vanno a prendere l'acqua per bere in terra ferma dal fiume di Cumana, che è sette leghe lontano dall'isola, e dalla isola della Margarita si portano le legne.
D'intorno all'isola di Cubagua e oltre anco, dalla parte di levante, sono tutti luoghi arenosi, ne' quali nascono le ostreche dove si producono le perle, e qui come in loro proprio nido e stanza sono e vi fanno l'ova, e in gran quantità partoriscono, e per questo vi saranno perpetue; ma bisogna che si aspettino e che si lascino giongere a perfezione, perciochè se ne possono raccorre le perle ed essere piú giovevoli e megliori; perciochè, nel modo che la vigna produce l'uva e la va a poco a poco maturando, cosí in queste ostreche e conchiglie, nel seno istesso del pesce che dentro vi nasce, incominciano a poco a poco a farvisi, e nel principio quel suo granello è tenero come un latte, e si va poi col tempo la perla ingrandendo e facendosi dura, benchè vi ne siano molte dure, e cosí minute come arena o poco piú. Questo guadagno delle perle è stato una ricca entrata, perchè il quinto solo che si paga di queste perle a Sua Maestà ha valuto ogni anno 15 mila ducati e piú, senza quello che alcuni avranno fraudato per lor poca coscienzia e molta avarizia, benchè con lor molto pericolo, portandosi via secretamente molte libre di perle, e delle megliori e piú elette e piú preziose, come credere si dee. Egli è certo questa una cosa che in tutto il mondo non si sa fino al presente né si trova scritto, che in cosí poco spazio di mare si prenda cosí gran quantità di perle, come in questa isoletta si fa del continuo.
Come alcuni religiosi dell'ordine di s. Domenico e di s. Francesco, passando in terra ferma nella costiera che è presso a Cubagua per predicare a quelle genti, vi furono crudelmente marterizzati.
Cap. III.
In Cumana, provincia di terra ferma e vicinissima a questa isola di Cubagua, fondarono il primo lor monasterio i frati di s. Francesco, essendo lor guardiano un fra' Giovan Garzes, per dovere a poco a poco convertire quelle genti barbare e idolatre e recarle alla nostra santa fede. Fu questo nel 1516, nel qual anno passarono in terra ferma due frati anco di s. Domenico, per dovere fare l'istesso effetto della conversione degl'Indiani. Questi entrarono nella terra ferma piú verso ponente, 18 leghe da donde quelli di s. Francesco stavano, in una provincia chiamata Piritu, dove, in quella parte che chiamano Mangiar, furono dagl'Indiani ammazzati, in pago del buon desio loro e del volere con le lor prediche alla verità della fede ridurre.
L'anno seguente del 1517 passarono certi altri padri dell'istesso ordine di s. Domenico a fondare un altro monasterio per la conversione di quelle genti, in una provincia chiamata Chiribichi, che la chiamarono poi Santa Fede, e del medesimo nome fu il monasterio chiamato. E qui si stavano lontani cinque leghe da quelli di s. Francesco, che erano in Cumana. Questi due monasterii facevano di molto bene e carità agli Indiani di que' luoghi, cosí nel temporale come nello spirituale, se essi fossero stati capaci di conoscerlo e apprenderlo, perchè questi e quelli padri con gran fervore e carità si travagliavano, cosí nel dare a quelle genti ad intendere la nostra catolica fede e distorle dalle loro cerimonie e idolatrie, come nel curarli delle loro infermità e piaghe con tanta diligenzia quanta era loro possibile, per attraerli al servigio di Dio e alla communione della chiesa santa.
Nel quale tempo stavano nell'isola di Cubagua Spagnuoli, e vi abitavano in capanne, e barrattavano qui le perle con gl'Indiani di terra ferma, che in certi tempi dell'anno passavano nell'isola a fare questa pescheria, per provedersi delle cose che i nostri loro davano per le perle. E in quel tempo fu questa contrattazione e negozio molto utile a' cristiani, e allora stette la provincia o terra che è da Paria fino ad Unari, che vi sono cento leghe di costiera di terra ferma, cosí pacifica e quieta, che vi andavano per tutto uno o due cristiani soli, e contrattavano securissimamente con gl'Indiani. Ma nel 1519, quasi nel fin dell'anno, in un dí stesso gl'Indiani di Cumana e di Cariaco e di Chiribichi e di Maracapana e di Tacaris e di Neberi e di Unari, spronati dalla loro propria malizia, e perchè si sentivano importunati dai nostri nel barratto degli schiavi che da loro procuravano avere, si ribellarono; e nella provincia di Maracapana spezialmente ammazzarono da 80 cristiani Spagnuoli in poco piú d'un mese, perchè per loro disgrazia gionsero ivi quattro caravelle che, non sapendo la ribellione del paese, tosto che i nostri, assecurati dagl'Indiani, smontarono, ne erano morti.
E gli ultimi Indiani che si ribellarono furono quelli di Cumana, perchè ve ne erano molti che erano amici di quelli padri, per le buone opere che ricevute n'avevano; pure finalmente, come gente cattiva e ingrata, si lasciaro vincere dalla cattiva opinione dei pochi piú tosto che dalla buona intenzione di quelli che tal cosa fare aborrivano. Sí che all'ultimo tutti si condussero a questa malvagità e bruciarono i monasterii, e in quel di Cumana dell'ordine di s. Francesco ammazzarono un frate, chiamato fra' Dionigio. Gli altri compagni scamparono fuggendo dentro una canoa in Araia.
Quel fra' Dionigio che ho detto, quando vidde attaccare fuoco al monasterio, si tirò fuori e tanta alterazione sentí di questa cosa che non ebbe tempo né si ricordò di fuggire con gli altri frati. Egli stette due o tre dí nascosto in un certo canneto, pregando nostro Signore che si ricordasse di lui e 'l ponesse in parte dove piú suo servigio fosse. In capo di questo tempo deliberò di uscir fuori e palesarsi, perchè fra questi Indiani erano molti a' quali esso avea fatti molti servigi e opere di carità. Il tennero dunque tre giorni senza fargli alcun male, nel qual tempo non facevano altro che consultare e discorrere con molte parole di quello che avrebbono fatto di questo aventurato padre. Alcuni dicevano che il tenessero seco e non l'ammazzassero; altri dicevano che per mezzo di questo padre avrebbono avuta la pace de' cristiani; altri, perseverando nella loro crudeltà, dicevano che egli fosse dovuto morire. Onde puoté tanto la malvagità d'un solo Indiano, chiamato Ortega, che gli altri per suo consiglio si piegarono a doverlo ammazzare. Il perchè dissero poi gl'Indiani che per questo peccato castigati furono, perciochè in quelli tre dí che il tennero vivo sempre stette quel beato martire in orazione co' ginocchi in terra; e quando poi il presero per farlo morire, gli gettarono una corda al collo e se lo strascinarono crudelmente, facendogli mille vituperii e dandogli varie maniere di tormenti. E perchè esso li pregava che lo lasciassero ginocchione e fare orazione a Dio, e che mentre orava l'ammazzassero o facessero di lui quello che essi volevano, furono contenti di compiacerli in questo. Onde, mentre che egli con molte lagrime si raccomandava a Dio, li diedero tal colpo in testa che l'ammazzarono. E morto che l'ebbero vi usarono mille poltronerie, perchè lo strascinarono senza niuna pietà ora ad una parte ora ad un'altra, e ne fecero mille altri strazii.
Degli altri religiosi che stavano in Chiribichi non ne scampò niuno; gli ammazzarono di giorno, stando l'un di loro dicendo messa e gli altri nel coro dicendo l'ufficio. E tanta crudeltà vi usarono che ammazzarono anco i loro commessi e servitori, fino ad un maccietto col quale cavavano l'acqua da un pozzo, che il saettarono. In effetto fino alle gatte del convento perseguitarono, per non lasciarvi anima in vita; e in amendue questi monasterii bruciarono l'imagini e le croci; e d'un crocifisso grande che i frati di san Francesco avevano ne fecero pezzi, e li posero poi per li passi e per le strade piú segnalate, come si suol fare di qualche malfattore, del quale ne pone in diversi luoghi la giustizia i quarti.
Furono assai insolenti e malvaggi questi Indiani, perchè non fu malvagità che loro alla memoria venisse che non la ponessero in opera, come crudeli e bestiali. Presero la campana del monasterio di san Francesco e ne fecero minuti pezzi. Tagliarono gli alberi degli aranci che erano nel giardino di questi religiosi. E doppo di tutti questi danni si ponevano in ordine per passare all'isola di Cubagua, dove pensavano dare sopra i cristiani che vi erano.
E vi era in quel tempo per alcaide maggiore un Antonio Flores, il quale, avuta questa nuova, benchè avessero seco nell'isola 300 Spagnuoli o piú e molte vettovaglie e fornimenti, deliberò nondimeno, insieme con gli altri, di non aspettarvi questi nemici. E cosí s'imbarcarono tutti sopra certe caravelle che ivi erano, e sopra le barche con le quali solevano provedersi d'acqua, e senza vedere Indiano alcuno fuggirono e abbandonarono l'isola, lasciando nelle loro proprie stanze molte botti di vino e molte vettovaglie, con altre loro cose da barrattare e mobili di casa loro. E se ne vennero nell'isola Spagnuola, in questa città di San Domenico, non senza loro molta vergogna e vituperio. E cosí restò quella parte di terra ferma e l'isola di Cubagua abbandonata da' cristiani per allora; perchè, quando gl'Indiani seppero questo, passarono nell'isola e vi posero a sacco quanto vi ritrovarono, e conobbero che per paura di loro se ne erano i nostri cristiani partiti. Ed essi vi restarono signori afatto e senza contrasto.
Come l'admirante e questa regia audienzia mandarono da questa città un'armata col capitano Gonzalo d'Ocampo a castigare gl'Indiani che avevano morti i nostri in terra ferma, e a ricuperare l'isola di Cubagua; e della venuta del licenziado Bartolomeo delle Case, con altre cose.
Cap. IIII.
Quando in questa isola Spagnuola l'admirante don Diego Colombo e questa regia audienzia e ufficiali di Sua Maestà intesero la ribellione degl'Indiani della costiera di Cumana e delle altre provincie che si sono dette, e come i nostri avevano abbandonata l'isola di Cubagua, il piú tosto che fu possibile posero in punto una armata per dovere quelli ribelli castigare e ricuperare l'isola delle Perle, e ne fecero capitano un cavaliero, cittadino di questa città di San Domenico, chiamato Gonzalo d'Ocampo; il quale, conducendo da 300 uomini sopra alquante navi e caravelle ben fornite di quanto bisognava, passò nel 1520 in quella terra ferma, dove tenne bel modo in prendere alcuni de' principali Indiani malfattori, perchè, sorto che fu con l'armata, venivano gl'Indiani alla costiera e dimandavano i nostri donde venivano, e quelli rispondevano: "Castiglia, Castiglia". E gli Indiani replicavano: "Haiti, Haiti", che volevano dire che da questa isola Spagnuola, chiamata anco Haiti, venissero. Ma i nostri rispondevano: "Castiglia, Castiglia", e mostravano loro delle cose da barrattare e del vino, che è quello che essi piú vogliono. Credendo adunque essi che i nostri non sapessero nulla delli cristiani e frati che morti avevano, e che venissero di Spagna, avendo pensiero d'ammazzare anco questi altri, come a quelle altre caravelle fatto avevano, si arrischiarono alcuni de' principali ad entrare nelle navi, e dicevano al capitano che smontasse in terra, e portavanli a mangiare delle cose del paese, e facevano altre simili demostrazioni di pace, fingendo di sentire piacere della venuta di questa armata. Il capitano tenea le genti ascose sotto coverta, e non si vedevano nelle caravelle altri che i marinai, e con questi gl'Indiani si festeggiavano.
Ora, quando al capitano parve tempo, diede il segno a' suoi, i quali uscendo presero alcuni Indiani principali, de' nomi de' quali, e degli errori e falli loro, portavano lista e informazione. Il capitano, fatto loro confessare la verità di quello che avevano contra i nostri oprato, li fece appiccare alle antenne delle navi, per dare esempio ai traditori e ribelli che nella marina stavano tutto questo mirando. E fatto questo saviamente senza pericolo, se ne andò all'isola di Cubagua, dove smontò e accampò con le genti che conduceva. Indi poi passò alla provincia di Cumana e di Tacari ed entrò dentro terra, e prese in piú volte molti Indiani, e fece giustizia di quelli che li parve, e altri n'ammazzò che si difenderono per non essere presi.
Mentre che questa guerra durava, vennero i nostri a fare pace con un caciche principale di quella contrada chiamato don Diego, e per mezzo di questa pace si cominciò a fare popolo e terra in Cumana, appresso al fiume, lungi mezza lega dal mare, e chiamarono questa terra Toledo, dove stette questo capitano con le sue genti alcun mese; ma non era egli molto dai suoi stessi soldati amato.
In questo tempo avvenne che gionse quivi con certi vasselli un chierico chiamato il licenziado Bartolomeo dalle Case, con commissioni ampie di Sua Maestà per potere quivi far popolo e nuova abitazione, e portava le sue capitulazioni che sopra ciò fatte aveva, come piú di lungo nel seguente capitolo si dirà. Giunto adunque questo licenziado, fu in discordia ed ebbe molte differenzie col capitano Gonzalo. Onde, perchè né le sue genti stavano bene con lui né esso con loro, se ne passò esso all'isola di Cubagua, e il medesimo fecero poi le sue genti, abbandonando la terra che avevano fatta e chiamata Toledo, senza persona alcuna restarvi.
Come il licenziado Bartolomeo dalle Case andò con certi lavoratori a popolare nella costiera di Cubagua in terra ferma, e di quello che ne succedette.
Cap. V.
Nel 1519, nel tempo che giunse in Barzellona la nuova che era stato eletto in re di Romani e in futuro imperatore la maestà cesarea del nostro re, io mi ritrovai in quella sua corte per certi negozi di terra ferma (di Castiglia dell'Oro), e viddi quel reverendo padre, il licenziado Bartolomeo dalle Case, procurare con Sua Maestà e con il suo consiglio dell'Indie il governo di Cumana e di quelle costiere delle perle. E in quest'era favorito da' signori fiamenghi che presso Sua Maestà si ritrovavano, e particolarmente da monsignor di Lasciao, che poi morí essendo commendatore maggiore d'Alcantara, che era un de' piú accetti famigliari dell'imperator nostro. Per mezzo di costui adunque, e perchè il licenziado Bartolomeo promettea gran cose, e molto utile e aumentò dell'entrate regie, e sopra tutto di dovere tutte quelle genti perse convertire alla nostra santa fede, ottenne il suo intento, dicendo che assai il vescovo di Borgos don Giovan di Fonseca e il licenziado Luigi Zapata e 'l secretario Lope Conciglio, e gli altri che fino a quella ora in vita del re catolico avevano nelle cose di queste Indie inteso, l'avevano errata in molte cose, ingannando per varie vie il re catolico e giovando a se stessi delli sudori degli Indiani; e se ora a questo suo pensiero ostavano, era solo per mantenere e difensare l'errore che fatto avevano. E diceva anco, fra l'altre cose, che le genti che esso condurre voleva non avevano ad essere soldati né omicidiali né rivoltosi, ma pacifici e quieti e gente di contado, e che questi tali voleva poi fare nobili e cavalieri a sproni d'oro, dando loro il passaggio e da vivere e facendoli franchi, con altre grazie che egli per loro chiedeva.
Sí che egli alla fine ottenne il suo intento, ancorchè i signori del consiglio vi contradicessero, e che alcuni Spagnuoli, persone da bene, che si ritrovavano in quel tempo alla corte, isgannassero il re, dicendo che questo padre, desideroso di comandare, offeriva quello che esso poi non farebbe, e parlava di quella terra che esso non sapeva né aveva mai vista né postovi il piede, e che il re vi spenderebbe i suoi danari in vano, e quelli che con questo licenziado andrebbono si sarebbono a molto rischio e pericolo ritrovati.
Ma Lasciao, come ho detto, pesò e valse piú che tutti gli altri contrarii insieme, e il re alla fine vi perdé quanto vi spese, per dare fede a quel padre, e quelli che vi andarono vi lasciarono la vita. Per ordine e volontà del re adunque, quelli del suo consiglio e gli ufficiali di Siviglia lo despacciarono, come egli seppe piú chiedere, e avuti buoni vasselli e fornimenti di vettovaglie e di tutte l'altre cose necessarie a quel viaggio, con cose da barrattare e contrattare con gl'Indiani, si partí alla volta di terra ferma, con un buon numero di persone contadine e lavoratori grandi e piccioli. Questa andata costò a Sua Maestà parecchi migliaia di ducati.
Ora, questo padre licenziado, essendosi in questa isola Spagnuola allevato, sapeva bene come gl'Indiani di Cumana e di quelle altre provincie convicine stavano in pace co' nostri, ma non aveva inteso ancora della loro ribellione. Onde, perchè con quel pensiero andava, sperava che gli fosse dovuto tutto il suo disegno riuscire, e quanto aveva in Spagna promesso. Ma egli, giunto in terra con quelli suoi lavoratori, che esso pensava di fare nuovi cavalieri da sproni d'oro, volse la sua buona ventura che esso co' suoi berrettini soldati ritrovò che il capitano Gonzalo d'Ocampo aveva già castigato parte de' malfattori, e fatta ivi una terra che aveva chiamata Toledo, onde le cose si ritrovavano in altro stato di quello che esso pensato aveva. Ma perchè esso veniva molto favorito e con ampie commissioni e potestà, tosto cominciarono a contendere insieme e ad essere discordi esso e Gonzalo d'Ocampo.
Il licenziado Bartolomeo diede tosto ordine che si facesse una gran casa di legni e di paglia, presso dove era già stato il monasterio di San Francesco, dove pose alcuni delli Spagnuoli suoi che aveva seco menato, pieni di speranza della nuova cavaleria che loro esso promessa aveva, e con le sue croci rosse ciascuno, che volevano che alquanto si rassomigliassero a quelle che portano i cavalieri dell'ordine di Calatrava. In questa casa fece porre gran copia delle vettovaglie che portava, e dell'altre cose da far barratto e dell'arme che avea loro Sua Maestà fatte dare, con altre cose molte. Ogni cosa in quel luogo lasciò e se ne venne in questa città di S. Domenico a querelarsi, in questa regia audienzia, del capitano Gonzalo d'Ocampo.
Gl'Indiani, che viddero queste discordie di cristiani, e come costui s'era partito e Gonzalo aveva lasciata la terra che aveva presa ad abitare, persuasi dalla loro propria malizia e desiderosi di rubbare quanto in quella casa era, diedero sopra alli cristiani che ivi erano e ne ammazzarono quanti poterono, perchè alcuni fuggendo iscamparono e si salvarono in una caravella, che in quel tempo per buona sorte ivi nel mare si ritrovava. Gl'Indiani saccheggiarono quella casa con quanto vi era e poi vi attaccarono fuoco; e cosí restò per allora tutta questa costiera abbandonata da' cristiani.
Alcuni pochi de' nostri che erano nell'isola di Cubagua, e non bastavano a poter contendere con gl'Indiani, che non li lasciavano prendere acqua in terra ferma, bevevano d'una certa acqua d'una lacuna dell'isola della Margarita, che era tutta fangosa e cattiva, e con gran difficoltà anco e costo l'avevano. Ora, essendosene il capitan Gonzalo d'Ocampo passato da Cubagua a questa isola Spagnuola, a casa sua, in questa città di San Domenico, Francesco di Valleggio e Pietro Ortiz di Matienzo, che erano allora restati nell'isola di Cubagua alcaidi maggiori di quelle genti che v'erano col Gonzalo passate, deliberarono di conquistare il fiume di Cumana per aver acqua da bere, e vi passarono alcuna volta, ma indarno sempre, perchè quegl'Indiani loro il vietarono: e sono in quella costiera gente astuta e da guerra, e sono arcieri, e tirano con quella mistura d'erba velenosa e incurabile. In tanto che i nostri si fermarono in Cubagua, come alle frontiere degli nemici e in guardia dell'isola.
Quando il licenziado Bartolomeo dalle Case intese il disgraziato successo delle sue genti e conobbe quanto mal ricapito posto avesse, in quanto a sé, nel conservare la vita di quelli scempi e avidi lavoratori, che all'odore della promessa cavaleria e delle sue favole seguito l'avevano, e quanto mal fine avesse avuto il negocio nel quale posto s'era e che aveva con cosí mala guardia lasciato, poi che non aveva facultà di pagarlo, deliberò di farsi religioso, per sodisfare in parte con l'orazioni e co' sacrificii a' morti, e per restarsi di contendere co' vivi. E cosí fece, che tolse l'abito di san Domenico, dell'osservanzia nel qual oggi vive in questa città nel monasterio del suo ordine: e nel vero è tenuto per buon religioso, e cosí credo io che egli sarà meglio che non capitano in Cumana.
Dicono che egli per suo passatempo scrive queste cose dell'Indie, e va toccando la qualità degli Indiani e de' cristiani che per queste Indie vivono. E sarebbe bene che in vita sua questa opera uscisse, acciochè quelli che vi sono testimonii di vista lo approbassero e dicessero che egli dice il vero. Iddio li dia grazia che possa ben farlo, che io credo che in questa sua istoria sopra esso molte piú cose di dire di quelle che io n'ho dette, poichè egli stesso passò. Ma quello che in queste e in altre parti è publico e noto, questo che io ne ho detto è. Voglio dire che chi ha da essere capitano non ha da indovinare, senza essere esercitato e avere nelle cose della guerra esperienzia. Onde, perchè questo licenziado non sapeva di guerra e si confidava solo nella sua buona intenzione, che nel vero fu buona e santa, lo errò facilmente nel principio, e, pensando convertire gl'Indiani, diede loro arme con che i cristiani ammazzassero. Di che altri danni nacquero, che qui, per fuggire prolissità, si lasciano. E questo stesso o il simile avverrà e suole avvenire a tutti quelli che si prendono l'ufficio che non sanno: perciochè, se costui pensava, col fare la croce e con mostrare di sé buono esempio, pacificare quella terra, non dovea andarvi con arme, ma tenerle come in deposito in mano d'un capitano destro e atto, e quale s'acconveniva che tenere le dovesse per quello che accadere poteva.
Della seconda provigione che si fece per soggiogare la costiera di Cumana e castigare gl'Indiani ribelli, e della fortezza che ivi si fece per la guardia del fiume di Cumana, che è in terra ferma.
Cap. VI.
Ritornato che se ne fu il capitano Gonzalo d'Ocampo in questa città di San Domenico, tosto l'admirante don Diego Colombo e gli auditori di questa regia audienzia, con gli altri ufficiali di Sua Maestà, mandarono un altro capitano alla conquista di Cumana: e questi fu Giacomo di Casteglion, di questa città, che andava per rimediare agli errori delli capitani passati già detti e per raccorre e riunire insieme le genti che erano restate disperse, cosí di quelle del capitan Gonzalo come di quelle del licenziado Bartolomeo, benchè questi lavoratori di poco conto e utile fossero, e ne fossero assai pochi restati vivi. Questo capitan Giacomo da Casteglion partí con ampia potestà di potere chiamare a sé tutta la gente che era in Cubagua, e come capitan comandarla, e guerreggiare con gl'Indiani di quella costiera di terra ferma. Giunto nel mese d'ottobre del 1522 in Cubagua, raccolse seco tutta la gente dell'armata che era già andata col capitan Gonzalo, e con l'artiglierie e apparati necessarii da guerra passò alla fine del novembre in terra ferma, al fiume di Cumana, nel quale entrò e presso la foce pose in terra il suo campo e vi si fortificò. Questo luogo tennero i nostri liberamente e senza contradizione, e di qui cominciarono a fare la guerra agli Indiani, che erano caduti ne' maleficii e danni già detti di sopra ne' capitoli precedenti, e gran castigo ne fecero, con prigione e con morte di molti; onde gran quantità di schiavi di loro mandarono i nostri a questa isola Spagnuola. In effetto il capitan Giacomo ricuperò la possessione di quella terra e la ridusse al servigio di Sua Maestà, e fondò in Cumana, presso la bocca del fiume, un forte castello, con una buona stanza e con una torre, nella quale cominciando a fortificarsi alzò e pose le bandiere reali, che fu a' due di febraro del 1523; e ne fu poi da Sua Maestà fatto castellano.
Da quel tempo in poi si cominciò, senza timore alcuno, a fondare una nuova terra nell'isola di Cubagua, e fu chiamata la nuova città di Calis, perchè, con la sicurtà di quel castello in terra ferma e con avere avuti in quella guerra molti Indiani buoni pescatori di perle, incominciarono gli abitatori di questa isoletta a cavarne grande utilità. Onde nella terra che vi fondarono vi edificarono case di pietre e ben fatte, e vi si fondò una chiesa assai ben lavorata. E il primo che vi cominciò a fare casa di pietra fu un gentil uomo di Soria di Spagna, chiamato Pietro di Barrio Nuovo.
Doppo di queste cose che si sono dette, il capitano Giacomo di Casteglion fece pace con gl'Indiani, e si potette fra loro e i nostri negociare e praticare liberamente. Il che fino ad oggi dura, ed è una cosa utilissima per amendue le parti. E cosí restò soggiogata questa costiera di terra ferma, e l'isola di Cubagua sicura, e molto esercitata nella pescheria e negocio delle perle che vi si prendono.
D'una tempesta e terremoto che d'un subito nacque nella provincia di Cumana, e mandò giú la fortezza che i cristiani fatta v'avevano, onde vi si fece tosto un altro castello.
Cap. VII.
Nel mese di settembre del 1530, in un sereno e tranquillo giorno, alle dieci ore del dí, si levò su in uno instante nella provincia di Cumana il mare, e s'alzò quanto è quattro volte un uomo, e insieme diede la terra un terribile rugito e si profondò, montandovi il mare di sopra, e cominciò in quel medesimo instante a tremare, e continuò per tre quarti d'ora. Per lo qual terremoto cadde giú la fortezza che s'è nel precedente capitolo detta, e s'aperse in diversi luoghi la terra, e si fecero molti pozzi, con certa acqua nera puzzolente di solfo. Si sommersero molte terre d'Indiani, de' quali morirono molti: altri per le case che sopra cadettero, altri per lo gran spavento e paura. S'aperse un gran monte che è piú di cinque leghe lungi dal mare, e fu l'apertura di lui cosí grande che si vede [da] piú di sei leghe di lontano.
Ritornate l'acque a' termini suoi, ed essendo per miracolo scampati i cristiani che nella fortezza stava[no], il castellano, per non essere cacciato dalla contrada e per conservarla in servigio di Sua Maestà, con la gente che seco avea fece un riparo a guisa d'un bastione d'intorno ad un cantone della fortezza che restò in piedi. E dentro questo riparo si mantenne quattordeci mesi, finchè in quel mezzo s'edificò un altro nuovo castello, presso a quel rovinato. Lasciando poi quel bastione si ritirò e pose dentro la fortezza nuova: e questo fu nel 1531. E questa fortezza è quella che al presente tiene secura l'acqua per quelli che abitano nell'isola delle Perle, e signoreggia il fiume di Cumana e parte della provincia, perchè non hanno gl'Indiani ardimento di muoversi né di ribellarsi, né di usare que' loro ardimenti, come solevano del continuo fare.
D'alcune opinioni degli antichi circa le perle e d'alcune loro particolarità, e d'alcune perle grosse che si sono avute in queste Indie.
Cap. VIII.
Quanto al discoprimento e conquista delle isole delle Perle e parte della provincia di Cumana in terra ferma, e alle altre particolarità convenienti al discorso di questa materia, s'è ne' precedenti capitoli detto a bastanza. Ora dirò alcuna cosa delle opinioni degli antichi in quello che appartiene alle perle, o margarite che vogliamo dire. E benchè ad alcuni paia gran cosa riprobare e contradire a quello che cosí segnalati e dotti uomini dicono, non se ne ha però a maravigliare il lettore, perchè quelli possono ben dire il vero, e io medesimamente: quelli secondo che furono informati da diversi autori, o da altri sopra i quali si fondarono, e io secondo che dagli occhi miei istessi e dalla esperienzia l'ho appreso e saputo.
Scrive Isidoro che le perle si chiamano unioni, perchè si ritrovano ad una ad una e mai a due o a piú insieme giunte; e con questa opinione s'accosta Alberto Magno, e amendue questi autori tengono che si generino della rugiada in certo tempo dell'anno. E con queste dicono alcune altre cose, che il curioso di questa materia potrà volendo vederle ne' libri loro. Ma piú ampiamente lo scrive Plinio nel 35 capitolo del nono libro delle sue istorie, e assai meglio che niun degli altri che io abbia visti. Egli si conforma Plinio con gli autori detti di sopra, o per dir meglio essi lo poterono da lui apprendere, quanto al generarsi le perle della rugiada, perchè è autore piú antico e di maggior credito. Questo modo del concepersi per la rugiada le perle, è una delle cose che io non affermo e nella quale sto assai dubbioso, per quello che io dirò appresso. Tutti tre gli autori sopradetti si concordano in questo, che secondo la qualità della rugiada che le ostreche ricevono, cosí vengono ad essere le perle chiare o oscure, perchè dicono che se la rugiada è chiara ne nasce la perla chiara, e dalla oscura ne nasce oscura. E se il cielo va nubiloso quando le ostreche concepono, dicono che le perle nascono poi palide, perchè sono aerie, e con l'aere hanno piú conformità che col mare, e dall'aere prendono il colore, o nuvolo o sereno che sia.
Quanto a quello che i primi autori dicono del nome della perla, che sia chiamata unione per la cagione detta di sopra, Plinio non si concorda con loro, poichè dice che Aelio Stilone scrive che nella guerra di Iugurta fu alle grosse perle posto il nome di unioni, e nel medesimo luogo anco dice avere veduto molte volte, nell'orlo del nicchio della ostreca, in alcune quattro perle insieme e cinque. E ben puote ben egli dire questo, poichè in queste parti dell'Indie, e spezialmente nell'isola di Cubagua, della quale qui si tratta, si sono in una ostreca istessa veduti molti granelli di perle minute; e questo ogni dí si vede. Ma tutti gli autori concludono che le perle s'invecchiano. E per questo io dico che niun savio dee fare gran capitale di cosa che cosí presto e cosí manifestamente ci insegna questa verità della perdita della sua bellezza: dico capitale di tenerle per gioia che possa lungo tempo durare, poichè non è durabile il suo splendore; e perciò non è questa facoltà da conservarla di lungo, poichè ogni dí perde del suo vigore e vale meno invecchiandosi e arrugandosi. Sí che quanto si possono piú fresche avere tanto sono migliori, concorrendovi l'altre qualità che avere debbono per farsi istimare. Non mi curerò di dire molte altre particolarità che Plinio nel medesimo capitolo ragiona delle perle, benchè siano cose notabili e degne d'udirsi, cosí delle perle che ebbe Iulia Paulina, moglie dell'imperatore Caligula, come di quelle due eccellenti che ebbe Cleopatra, reina dell'Egitto.
Voglio ben qui dire cose nuove e non dagli antichi scritte, cioè che Pedrarias Davila, governatore di terra ferma, ebbe una perla che la comprò 1200 castigliani da un mercadante chiamato Pietro dal Porto, nel 1515, nella città del Darien. E questo mercadante l'aveva comprata un gran prezzo all'incanto dal capitan Gasparo di Morales e dalle genti che erano con lui andate nell'isola di Terarechi, che è nel mare di terra ferma da mezzodí. E nel medesimo tempo che il mercadante la comprò, la ritornò a vendere a Pedrarias perchè in quella notte che la ebbe non puoté mai chiudere occhi al sonno, ricordandosi del tanto oro che aveva per la perla dato, la quale pesava 31 caratti o grani ed era della forma d'un pero, e d'un vago colore e molto orientale; e la comprò poi la imperatrice nostra signora da donna Isabella di Bovadiglia, già moglie di Pedrarias; e nel vero quella perla è una gioia degna da chi la ha, e da essere molto istimata, come al presente è. Ma io ebbi già una perla tonda di peso di 27 caratti, e ne ebbi un'altra poi, nella città di Panama, nel 1529, della fatezza d'un pero, e la vendei poi in questa città di San Domenico ad uno alemagno, fattore della compagnia de' Belzari, 450 castigliani d'oro. Queste cosí gran perle e altre simili si sono ritrovate nel mare di Mezzogiorno nell'isola di Terarechi, perchè quelle di questa isola di Cubagua, delle quali si tratta, non sono grosse, ma le maggiori di loro sono di due e di tre e di quattro e di cinque caratti o poco piú: ma ne sono alcune perfette, e in gran quantità di grosse e picciole d'ogni sorte. Si ritrovano anco perle in altre parti di queste Indie, come si dirà parlando di que' luoghi dove si trovano.
Quanto a quello che io toccai di sopra, di voler riprobare o contradire a cosí segnalati autori in questa materia delle perle, dico che io tengo per impossibile quello che essi dicono quanto al generarsi della rugiada e all'essere torbide o chiare o pallide per li tuoni: perchè in una stessa ostreca non sono tutte le perle che vi si trovano d'una medesima bontà e tondezza, né d'una stessa perfezione di colore o di una stessa grandezza. Vi ha anco questo di piú, che molte ostreche si cavano 10 e 12 braccia sotto acqua, dove alcuna volta stanno forte attaccate co' scogli; onde, chi le vidde chiare prima che tonasse, e poi le vidde oscure e con altri simili difetti? Ma lasciamo questo credere a quelli che non sapranno contradirvi, perchè io le ho vedute e avute cosí nere come è un nero carbone, e altre leonate; altre pallide o risplendenti come oro, e altre coagulate e dense e senza splendore alcuno, e altre quasi azurre; altre pendono al verde o ad altri diversi colori. E cosí, quanto piú differenti sono, e quanto l'altre triste di poco pregio sono, tanto di maggior stima sono le perfette. E assai rade volte si ritrovano le buone e degne d'essere istimate, per poter venderle per gioia segnalata.
Quanto al modo del generarsi, ricordisi il lettore di quello che s'è detto di sopra, nel capitolo secondo di questo 19 libro, e quello tenga per cosa certa. Potrebbe anco bene essere che in queste parti si formassero e generassero d'una maniera e nell'oriente di un'altra; e cosí potrebbe essere vero quello che Plinio e gli altri dicono, che elle di rugiada si generino, perchè la natura in diversi luoghi diversamente opera in una stessa spezie.
Sí che contentisi il lettore di quello che detto se ne è, e passiamo ad un'altra maniera di perle, che nascono ne' naccaroni, de' quali s'è nel proemio fatta menzione: perchè di questi non ho io mai letto che alcuno autore ne ragioni, e io ne ho portati in Spagna, e ne sono molti nella costiera di terra ferma da mezzogiorno, nella provincia che chiamano di Nicaragua, e nell'isole di Chara e di Chira e di Pocoli, e in altre isole del golfo d'Orotigna.
Delli nicchi o naccaroni dove si ritrovano perle nella provincia di Nicaragua.
Cap. IX.
Nel golfo d'Orotigna e nell'isole che ivi sono, come è Chira e Chara e Pocosi, e le altre che sono dentro del capo Bianco, nella provincia di Nicaragua nel mare del Sur, ho io veduti molti di questi nicchi; e di questi furono quelli che io ho detto che portai in Spagna. Questi sono una maniera di conche, della fattezza che qui lineata si vede, e sono due conche attaccate insieme nel modo che stanno le ostreche, per le punte piú strette, e qualche poco di piú anco, di modo che la parte piú larga è quella che s'apre e chiude da se stessa. Sono questi nicchi e grandi e mezzani e piccioli, e i piú grandi sono lunghi quanto è dal cubito alla ponta delli deti stesi, e larghi un palmo o piú; e da questa grandezza in giú ve ne sono d'altre varie maniere. Hanno dentro certo pesce o carnosità come l'ostreche delle perle, ma in maggiore quantità, e secondo la proporzione della grandezza delle conche: ma non è di poco dura digestione. E nel vero né questi nicchi né le ostreche delle perle, per quanto io ne ho veduto, sono buono pesce, né cibo che si possa mangiare come le ostreche di Spagna: ma alla fine ogni cosa si mangia. Questi nicchi sono di dentro di bella vista e lustri, perchè risplendono come le ostreche delle perle nella parte loro piú sottile, fino alla metà della loro longhezza, e indi avanti verso il piú largo vanno quel colore perdendo, e una parte se ne converte in un colore di fino e risplendente azzurro; e sono dalla parte di fuori aspre e con canaletti o solchi, benchè dentro assai liscie e che piane siano. Le perle che si trovano nelle conche di questi naccaroni non sono fine né di buon colore, ma sono turbide, e alcune lionate e alcune quasi nere, e vi si ritrovano anco ben delle bianche, ma non già buone.
Queste conche di naccaroni già detti servono agl'Indiani per pale o per zappe per li lavori loro della agricoltura de' campi e orti, perchè dove io le ho vedute è terreno polveroso e non duro a cavarsi. Pongono il nicchio in una asta di un legno per la parte piú stretta, e con fila di cottone bene attorte ve lo legano forte, e se ne servono poi gentilmente; e le scelgono grandi e picciole secondo le vogliono, e l'oprano ne' mestieri della agricoltura.
Gl'Indiani, quando prendono questi naccaroni per mangiarli, non gettano già via le perle che vi ritrovano, ancorchè nulla vaglino, né i nostri mercadanti anco le buttano quando le hanno per le mani, perchè le mischiano con le buone fine che dalle ostreche cavano e vendono ogni cosa insieme, aciochè sia il peso maggiore. Il che non è altro se non come se uno vendesse il grano e vi mischiasse spelta, o se vendendo l'orzo vi mischiasse la avena; e già non è arte dove gli avari negozianti non usino fraude e inganno. Nelle perle adunche di questi naccaroni si commette frode, come s'è detto, vendendole con l'altre buone: ma quelli che sono accorti e hanno di queste fraude notizia a meno prezzo le comprano. E nel vero che nella spezie loro questi granelli che dentro questi naccaroni nascono sono tondissimi, e se ben sono le loro conche longhe, essi assai rade volte al longo pendono: e pare una cosa strana che ne' nicchi lunghi vi nascano per lo piú tonde le perle, perchè quelle che sono della forma del pero tutte nascono nelle ostreche tonde.
Ma passiamo ora a dire del modo nel quale gl'Indiani le perle pescano.
Della maniera che gl'Indiani, e i cristiani anco, tengono nel pescare e prendere le perle.
Cap. X.
In questa isola di Cubagua, della quale qui principalmente si tratta, si esercita piú che in altra parte di queste Indie la pescheria delle perle, e a questo modo le prendono. I cristiani che a questo guadagno intendono hanno gli schiavi indiani, gran nuotatori, e ciascuno manda i suoi in una canoa. In ogni canoa vanno sei o sette e piú e meno nuotatori, che dove loro pare o sanno che maggiore caccia fare debbino se ne vanno: e ivi sopra l'acqua si fermano. Poi, restando un solo per reggere la barchetta, gli altri tutti si pongono a nuotare sotto acqua e vanno fino giú a ritrovare il terreno. Ciascun di costoro, doppo che è stato buon pezzo sotto acqua, esce fuori e nuotando si va a porre nella canoa, con l'ostreche che prese ha, perchè nelle ostreche, o conche che dir vogliamo, si ritrovano le perle, e ne' nicchi o naccaroni che si sono detti di sopra. Le quali ostreche ciascuno pone e porta in una borsa di rete, fatta per questo effetto istesso, e se l'attacca o alla cintura o al collo. Ora, entrato il nuotatore nella canoa, si riposa alquanto e se vuole mangia anco qualche boccone; e poi ritorna a porsi giú sotto l'acqua di nuovo e ne esce con le ostreche come prima. E di questo modo fa molte volte il giorno; e cosí tutti gli altri nuotatori anco fanno.
Venendo la notte, o quando loro pare tempo di riposare, si ritirano nelle isole a casa loro e consegnano tutte le ostreche prese al padrone loro o al suo fattore, che le ripone e fa loro dare da cena; e quando ha poi grande quantità di ostreche le fa aprire, e in ogni una di loro ritrovano perle. In alcuna non ne ritrovano piú che uno granello solamente, in alcune altre dua e tre e alle volte quattro e cinque e sei e dieci, e piú e meno granelli, secondo che ve li pose la natura creandoli. Le perle si ripongono e la carnosità delle ostreche si mangiano, se vogliono, e se no la buttano via, perchè ve n'è tanta copia che s'aborrisce quel cibo e stomaca; tanto piú che, come s'è detto, sono d'assai dura digestione, e non di cosí buon sapore come sono l'ostreche nostre di Spagna.
Qualche volta che 'l mare va piú alto e gonfio di quello che i nuotatori vorrebbono, sí per questo come perchè naturalmente, stando uno molto giú sotto acqua, si lieva di piede verso in su e con difficoltà si può giú lungo spazio reggere in terra, vi usano quest'arte e vi proveggono a questo modo. Attaccano ai due capi d'una cordella due pietre, e se la pone su la schena del nuotatore, di sorte che una pietra viene a pendere da un fianco e l'altra dall'altro; poi si lascia andare giú l'Indiano sotto acqua, e perchè le pietre sono grievi viene egli con questo contrapeso a stare giú saldo co' piedi in terra. Ma quando poi li pare e vuole montarsene su, può facilmente gettare le pietre via e nuotare dove vuole. E alcuni di quest'Indiani che simile ufficio esercitano sono al nuotare cosí atti che stanno un quarto d'ora sotto acqua: e chi vi sta piú tempo e chi meno, secondo che v'è piú o meno atto.
M'occorre di dire di quest'isola un'altra gran cosa e degna d'essere notata, ed è questa, ch'io ho qualche volta dimandato a' padroni particolari di quest'Indiani che vi pescano le perle se elle si forniscono mai, poichè il sito dove si prendono è picciolo e quelli che le cercano son molti. E m'hanno risposto che, se fornivano bene in una parte, ma i nuotatori se ne passavano a pescarle in un'altra, dall'altro fianco dell'istessa isola all'opposito vento. E che, poi che qui anco si fornivano, se ne ritornavano a pescare in qualche un'altra parte dell'altre dove prima pescato aveano, e non ve ne aveano lasciato alcuna, e ve ne ritrovavano tante e cosí quel luogo pieno come se mai non vi fosse stato niuno a prendervele. Di che si cava e si può sospettare che siano di passaggio, come Plinio dice nel 35 capitolo del 9 libro, nella guisa che gli altri pesci sono, o che nascono e si producono e s'aumentano in luoghi segnalati. Ma, ancorchè questo cosí sia, si sono nondimeno posti i cristiani in tanta fretta nel cercare di queste perle che, non contenti de' nuotatori loro, vi hanno ritrovato anco altri artificii di rastelli e di reti per prenderle. Onde ne hanno preso tanta quantità che se ne è cominciato ad avere penuria, e già mancavano, e non le ritrovavano in tanta copia come prima. Ma fra poco spazio di tempo, che le genti se ne riposarono, se ne sono poi cominciate a ritrovare e prendere in gran numero. Questa pescheria in Cubagua è in quattro braccia di fondo e meno, benchè in alcuni luoghi dell'isola sia poco piú. Ma nell'isola di Terarechi, dalla parte del mare del Sur, si pescano a dieci e 12 braccia di fondo, come si dirà quando parleremo di quella isola e di quella d'Otoche, con le altre cose di terra ferma.
Diceva io di sopra che queste ostreche sono di passaggio, perchè Plinio nel luogo allegato dice che vogliono alcuni che le perle abbino il re loro come l'hanno le pecchie, dietro al quale re o guida vanno tutte l'altre, e che questa tal conca principale è maggiore delle altre e piú bella, e di somma industria e accortezza in guardarsi; e che li pescatori ogni loro ingegno pongono per prendere questa tal guida, perchè, presa che l'hanno, è facile cosa porre anco poi tutte l'altre nella rete. Dico io che se questo che dice Plinio è cosí vero e accade nelle parti anco, fino a questa ora in queste nostre Indie non si ha di questi tali re o guide notizia alcuna, né dagli Indiani né dai cristiani.
La perla è tenera nell'acqua, e tosto che ne esce s'indura, come il medesimo autore dice e come se ne è anco in questi luoghi veduta l'esperienzia. E per questo pensano alcuni che ella a poco a poco s'indurisca, o si vada facendo nel modo che s'è nel secondo capitolo detto. Il che s'è con l'esperienzia saputo e trovato. Un'altra grande e notabile cosa mi si offerisce qui, la quale si conferma da tutti quelli che per qualche tempo sono stati per stanza fermi nell'isola di Cubagua. Ed è questa, che in certo tempo le ostreche delle perle producono un certo umore rosso o sanguigno, in tanta abbondanzia che tingono e intorbidano del medesimo color l'acqua: onde dicono alcuni che vien loro il mestro, come suole alle donne ogni mese venire. La maggior parte delle perle che si generano fra scogli sono maggiori che non son quelle che si prendono ne' luoghi piani e arenosi. E queste ostreche de' sassi hanno nella giontura del capo loro certe fila alquanto verdi e d'altri colori, per le quali stanno come per li capelli fisse e attaccate con gli scogli, e ve ne stanno alcune di loro cosí ristrette che bisogna che abbia assai forze l'Indiano che vuole distaccarle, o che porti qualche cosa con che possa estirparle.
Si ritrovano di molte maniere e di varie fattezze le perle, altre fatte come pera, altre tonde (e queste sono migliori), altre che hanno la loro metà tonda e l'altra metà piana, e le chiamano qui alcuni panetti, e Plinio le chiama timpani. Ve ne sono altre ritorte e d'altre varie differenzie, come nelle pietre avvenire si vede, e queste le chiamano qui pietre. Altre ve ne sono che da una parte sono lustre e paiono molte giunte insieme, e d'altri varii garbi, che poi dal riverso sono vote come vessiche. Questa maniera di perle dice Plinio che viene cosí fatta per lo tonare, perchè si ristringono e si fanno a quel modo come vessiche, vacue a quel modo di dentro, e queste tali chiama egli fisemata.
Ed è conclusione di tutti i gioiellieri e di quanti scrivono di queste perle, e di Plinio spezialmente, che piú in particolare ne ragiona, che elle sono di molte sfoglie e che si arruggiano e guastano. Il che possiamo, volendo, dalli nostri occhi stessi apprenderlo, che sono come una cepolla con le sue sfoglie o con una camisetta sopra l'altra, e si va sempre a questo modo la grossezza della perla disminuendo, finchè si riduce ad un certo ponto che ha nel suo mezzo. E cosí, per questa proprietà, ha l'artefice esperto commodità di potere lavorarle e polirle, quando veggono che elle nelle prime sfoglie abbino qualche vizio o pelo o simile difficoltà, s'elle sono però di cosí gran corpo che possino sofferirlo, e se sono nella parte interiore poi nette o meno viziose. Ma poche volte può, dalle mani del piú sottile artefice che abbia il mondo, uscire una perla cosí perfetta come esce dalle mani della natura che la produce. Il medesimo dico dell'oro, perchè nol viddi giamai cosí ben lavorato che avesse il colore come quello che si cava dalle minere. Egli è bene il vero che le perle hanno bisogno d'essere da un tempo a un altro lavate, perchè s'impaniscono portandosi e si fanno brune, e vogliono essere ben trattate, per rendere e mostrare maggior la loro vaghezza.
Dell'aviso e avertenza che debbono avere quelli che comprano perle.
Cap. XI.
Non paia disconvenevole al lettore né al mercadante quello che io ora qui dirò, perchè, poichè l'aviso è che senza inganno le perle si vendono, non merita se non lode e grazie chi questa avvertenza dà, acciochè la perla buona stia nel suo pregio e la rotta nel suo medesimamente: poichè in un pignatto o in altro vaso di poco valore si mira tanto che non sia rotto, comprandosi. Questo che io ora dirò mi fu dalla esperienzia insegnato, e con non poca perdita di danari, per non averlo saputo nel tempo che io ne comprai alcune, ne me n'aviddi finchè poi col tempo e alle spese mie lo conobbi.
Molte perle si vendono e passano per sane che in effetto non sono, e gli occhi, ebbri nel loro buono splendore e grandezza e in altre loro buone circonstanzie, non mirando piú oltre, s'ingannano né veggono il loro difetto, se ben son rotte e fesse o per qualche colpo o per altra occasione. Non se n'aveggono, dico, finchè fra li deti le si pongono e vi fanno ripercuotere il sole col trasparente splendore del cielo. A questo modo tosto quella che è rotta si vede nella piú intrinseca e secreta sua parte, o se ha medesimamente qualche pelo o altro simile vizio dentro, senza avere di bisogno di prenderne informazione e di esserne fatto accorto da niun gioielliero né esperto maestro di loro se elle nette o viziose siano, acciochè inteso questo si possa passare a fare il prezzo che per simili gioie dare si dee. E questo basti quanto a questa materia.
Del governo dell'isola di Cubagua, e come fu tolta via la castellania del castel di Cumana.
Cap. XII.
L'isola di Cubagua si governa per li castellani ordinarii e rettori della città della nuova Calis, e al presente vi è andato per giudice di residenzia il licenziado Francesco di Prato, cittadino di questa città di S. Domenico, che ve lo mandarono Sua Maestà e i signori del suo reale consiglio dell'Indie. Costui, venendo di Spagna a questo effetto, fu assaltato presso all'isola di Lanzerote, che è una delle Canarie, da un corsaro francese, che li tolse quanto portava e 'l ferí anco discortesemente. Ma, poi che fu con gli altri compagni rubato, fu lasciato via, e cosí seguí il suo viaggio a Cubagua, dove, fino a questa ora è stato. Egli, tosto che vi giunse, sindicò gli ufficiali passati e rimosse dalla castellania della fortezza di Cubagua il castellano Giacomo di Casteglione, del quale si disse di sopra che egli aveva quel castello in terra ferma fondato, per securtà di quella provincia e per guardia del fiume di Cumana. E pose il detto licenziado questa fortezza sotto altra castellania, come fino ad ora sta, e vi starà finchè Sua Maestà ne provederà a chi piú le piacerà; perchè le diedero ad intendere che questa era una gran spesa e senza necessità, perchè la terra istessa avrebbe alle spese sue tenuto il castello. Ma a me non pare che fosse Sua Maestà del certo informata, come né anco la informano come sarebbe il bisogno di molte altre cose di queste parti, per esser il viaggio cosí lungo e medesimamente perchè, ancora che le si dica il vero, quando la provigione giunge o la relazione delle cose il tempo è già mutato e bisogna d'altra maniera provedersi. E questa è una delle cause perchè in alcune cose si erra, e per colpa del tempo e per la malizia delli diversi informatori che vi vanno in mezzo. Ma io non voglio piú di ciò fare parola, perchè non sarebbe né è al proposito di questa istoria, benchè assai al proposito fosse per lo naturale rimedio del quale hanno tanto queste Indie bisogno.
Di certi corsari stranieri che sono passati in queste Indie, e di quello che è loro avvenuto.
Cap. XIII.
Nel 1517 un corsaro inglese, sotto colore di venire a discoprire, se ne venne con una gran nave alla volta del Brasil nella costiera di terra ferma, e indi attraversò a questa isola Spagnuola e giunse presso la bocca del porto di questa città di San Domenico, e mandò in terra il suo battello pieno di gente e chiese licenzia di potere qui entrare, dicendo che venia con mercanzie a negociare. Ma in quello instante il castellano Francesco di Tapia fece tirare alla nave un tiro d'artegleria da questo castello, perchè ella se ne veniva diritta al porto. Quando gli Inglesi viddero questo si ritirarono fuori, e quelli del battello tosto si raccolsero in nave. E nel vero il castellan fece errore, perchè, se ben fosse nave entrata nel porto, non sarebbono le genti potuto smontare a terra senza volontà e della città e del castello. La nave adunque, veggendo come vi era ricevuta, tirò alla volta dell'isola di San Giovanni, ed entrata nel porto di San Germano parlarono gli Inglesi con quelli della terra e dimandarono vettovaglie e fornimenti per la nave, e si lamentarono di quelli di questa città, dicendo che essi non venivano per fare dispiacere, ma per contrattare e negociare con suoi danari e mercanzie. Ora quivi ebbero alcune vettovaglie, e in compensa essi diedero e pagarono in certi stagni lavorati e altre cose; e poi si partirono alla volta d'Europa, dove si crede che non giungessero perchè non se ne seppe piú nuova mai.
Il seguente anno un altro corsaro francese, sotto colore di venire a negociare nell'isola delle Perle, v'andò, guidato da un cattivo Spagnuolo chiamato Dieto Ingenio e nato in Cartaia, che lo serví in luogo di pilotto, ma non seppe darli aviso di quelli che in simili casi tiene Sua Maestà provisto per guardia delle sue Indie, di piú del valoroso sforzo delli suoi animosi Spagnuoli. Ora, un gentil uomo che nell'isola di Cubagua vive, chiamato il capitano Pero Ortiz di Matienzo, con altri gentil uomini e cittadini della nuova Calis, ebbe di ciò nuova da un degli abitatori stessi di Cubagua, che sopra una canoa dall'isola della Margarita veniva, il quale disse come esso aveva con questi Francesi parlato, che portavano una gran nave e una caravella portoghese, che presa avevano nella costiera di Brasil, e un altro vassello. E diceva costui che, avendo dimandato che nave era quella, gli era stato dalli Franzosi risposto che era la nave del Zarco e che venivano di Siviglia. Ma, perchè la nave del Zarco era otto o quindeci dí avanti venuta, quelli della canoa s'accorsero che quelli della nave dicevano la bugia e che dovevano andare armati in corso; onde, essendo da loro invitati che volessero nella nave entrare a fare colazione (chè li volevano prendere, per aver lingua e nuova delle cose della contrada), i nostri non solo non v'andarono, ma con molta diligenzia si discostarono da loro e se n'andarono alla città a dar nuova di questa cosa. Onde si posero tutti in guardia, e comparendo la mattina seguente il corsaro presso all'isola, volse co' suoi battelli pieni di gente smontare in terra; ma fu loro vietato valorosamente, di modo che, non potendo i Francesi smontare, cominciarono a bombardare la città, e quelli della città contra di loro.
Ma i nostri con molta destrezza e animo armarono tosto i suoi brigantini e barche, che n'avevano piú di 30, e postovi sopra molti Indiani arcieri, che con quella loro velenosa erba tirano, e alcuni tiri d'artiglieria, andarono a combattere la caravella inimica, che, benchè molta artiglieria avesse, vi morirono 13 Francesi, e delli nostri solamente due. E con questo cessò la battaglia per allora, ma non cessarono già gli adversarii d'andare in volta, pensando con le loro galliche astuzie ingannare gli Spagnuoli.
Ma tre o quattro Biscaini e Navarresi, che contra loro voglia con li Francesi andavano, in queste rivolte se ne fuggirono, e venuti in terra diedero notizia come quelli Francesi erano ladroni e venivano con pensiero d'impadronirsi di quella isola. Il che quando quelli della città intesero, deliberarono di morire o di porre a fondo quelli vasselli. Onde con molta diligenzia uscirono co' loro brigantini e altre barche che avevano a combattere il vassello picciolo delli nemici, e lo presero per forza d'arme, e vi guadagnarono la valuta di piú di 1500 ducati di roba; e vi furono fra morti e fatti prigioni 35 degli adversarii in tutto. Fatto questo, la nave non ebbe ardire d'aspettare e la seguirono finchè la perderono di vista. Ella se n'andò all'isola di S. Giovanni, e attaccò fuoco alla terra di San Germano. Indi poi se n'andò all'isoletta della Mona, dove pensò di rimediarsi, e qui sciolse e lasciò via la caravella di Portoghesi, che se ne venne in questa città di San Domenico e diede di tutto questo successo novella. Onde qui tosto armarono una nave e una caravella e andarono a cercare di questi corsari, e li ritrovarono e combatterono con loro due giorni continui, e loro diedero due dí la caccia. Ma, ancorchè quella nave scampasse, per cagione del tempo e della notte, si crede nondimeno che, per andare tutta sdrucciata, s'annegasse nel mare. E in questo modo si perderono questi corsari, e vi si perderanno anco tutti quelli che qua passeranno, e molto piú ora che prima, perchè al presente si sta già per tutto d'altra sorte provisto, e con maggior vigilanzia e ricapito.
Dell'isola della Margarita.
Cap. XIIII.
Non bisogna che noi qui diamo altramente i termini suoi, né l'altezza del polo all'isola della Margarita, poichè nel primo e secondo capitolo se ne è tanto detto che basta. Questa isola, come s'è anche altrove detto, fu discoperta dal primo admirante don Cristoforo Colombo, quando l'isola di Cubagua si discoprí; ed egli fu che pose nome a questa la Margarita, perchè l'era cosí da presso la pescheria delle perle, che margarite anco si chiamano. Questa è maggiore assai che non è l'isola di Cubagua, perchè gira da 35 leghe, e vi ha un buon porto dalla banda di tramontana. Presso alla ponta che è volta a levante sono molti scogli, che li chiamano li Testimonii. Questa sta per diritta linea da tramontana a mezzogiorno con l'isola delli Caribi, che chiamano Santa Croce, e ha da mezzodí l'isola di Cubagua, della quale s'è in questo libro tanto ragionato, e la terra ferma medesimamente che di sopra s'è detta.
Questa è una buona isola e fertile, e vi sono pochi Indiani e alcuni cristiani, sotto il governo di donna Isabella Manriche, moglie già del licenziado Marcello di Villalopi, già auditore di Sua Maestà in questa audienzia reale di San Domenico, e al quale era stato questo governo dato con certi patti del 1524: onde doppo la sua morte vi si restò anco la moglie con gli eredi suoi. Di questa isola non vi ho altra cosa che dire, se non che qui anco hanno gran bisogno d'acqua come quelli di Cubagua, perchè non ve ne hanno se non di triste lacune; onde vanno in terra ferma a prenderne della buona per bere dal fiume di Cumana. Ma egli è la Margarita fertile d'alberi e di pascoli per bestiame e atta per l'agricoltura degl'Indiani, cioè del maiz e d'altre loro simili cose.
Di molte isole nel generale che stanno dalla terra ferma di queste Indie, e da queste isole di Cubagua e dalla Margarita fino all'isola di Borichen, e indi poi fino alla terra ferma dalla parte di tramontana e provincia di Bimini e la Fiorita.
Cap. XV.
Si dee ricordare il lettore che ho altrove detto come il primo admirante don Cristoforo, nel secondo viaggio che fece dalla Spagna a queste Indie nel 1493, riconobbe l'isole Desiata e Marigalante e Guadalupe e l'altre che in quel paraggio sono, benchè da poi si seppero e aggirarono piú particolarmente, per cagione della guerra che i nostri fecero con gl'Indiani caribi arcieri di queste isole. Qui ora l'andrò solamente per una memoria cosí nel generale discorrendo e particolarmente nominando: perciochè, non essendo abitate da cristiani e non essendo in tutte loro se non pochi Indiani, e questi pochi ribelli e fuggiti per paura de' nostri, non se ne fa qui cosí particolare menzione come se ne farebbe se fossero abitate e stessero pacifiche, e si sapesse minutamente l'utile che di loro si potrebbe cavare, con l'altre loro particolarità.
Per tanto, cominciando dall'isola di Cubagua, che sta dove si è detto, segue una lega lontana l'isola della Margarita; e tirando alla volta di settentrione si ritrovano li Testimonii, e poi la Graziosa e i Barbati, e Santa Lucia e Matitino, e la Domenica e la Desiata, e Marigalante e Tutti i Santi, e Guadalupe e l'Antica, e la Barbara e l'Aguglia, e Santa Croce e 'l Sombrero, e San Cristoforo e l'Anegata, e le Vergini e Borichen, che è quella di San Giovanni. Tutte queste sono poste in 160 leghe, poco piú o meno, correndo da mezzodí a tramontana. È il vero che alcune di loro sono piú orientali che l'altre, ma tutte si rinchiudono nel numero delle leghe già dette, fino a quella di San Giovanni. L'Anegada è quella che è posta piú verso settentrione, longhi 17 gradi e mezzo dall'equinoziale. Dalla quale si corre verso ponente alla volta dell'isola di San Giovanni da 35 leghe: e nel mezzo di questo spazio stanno l'isole delle Vergini. E dall'isola di San Giovanni correndo al norveste 50 leghe si trovano le seccagne che chiamano di Babueca; e andando oltre col medesimo pennello a 25 leghe stanno l'isole d'Amuana, e piú innanzi si trova l'isola di Maiaguano, e piú oltre quella di Iabache. Doppo la quale si trova quella di Maiaguon, e appresso poi è quella che chiamano Manigua. E piú oltre stanno poi l'isole di Guanahani e le Principesse, o l'isole Bianche che vogliamo dire, e piú oltre è l'isola chiamata Huno. E seguendo avanti per lo medesimo camino o pennello si trova un'altra isola chiamata Guanima, e piú avanti un'altra chiamata Zaguareo, e appresso poi l'isola del Lucaio, che è grande e circondata di gran seccagne. E volgendo quasi al ponente si ritrova avanti l'isola di Bahama, dalla quale, correndo a ponente a quaranta leghe, si giunge alla terra di Bimini e a quella che chiamano la Fiorita, nella costiera di terra ferma dalla banda di tramontana.
Tutto questo cammino che si è detto, dall'isola di San Giovanni alla Fiorita, o Florida che si dicono, possono essere da 350 leghe. Egli è bene il vero che, partendo in dimanda d'una delle dette isole, non si farebbono queste giravolte, che sono, se altri le volesse una per una toccare, come si sono nominate di sopra. Ma questo che se ne è detto basta per ricordarle e sapere dove elle si stiano tutte, che è dalli 18 gradi dell'isola di San Giovanni fino al 28, nel quale sta il Lucaio grande, che di tutte le già dette isole questa è quella che è posta piú verso settentrione. E come quella di San Giovanni è posta nelli 28 gradi dell'equinoziale, cosí il fiume di Cumana in terra ferma, presso dove sono le prime isole che noi qui nominammo, che furono quella di Cubagua e della Margarita, sta in dieci gradi solamente.
E con questo s'impone fine alla prima parte di questa Generale e naturale istoria dell'Indie, ne' precedenti 19 libri distinta, perchè il seguente, che è il 20 nel numero, e tratta delli naufragii e disgrazie avvenute nelli mari di queste Indie, sarà l'ultimo che s'avrà a porre nel fine della terza parte di questa naturale istoria (la quale ancora non è fornita di scriversi distesamente e col suo debito ordine e modo), e sarà l'ultimo libro di tutte queste istorie dell'Indie. Ma, finchè escano tutte tre le parti in luce, questo libro delli naufragii andrà qui posto, come per una conclusione di questa prima parte. Quando poi avrà tutta l'opera il suo compiuto e perfetto fine, quello di piú che in simili materie di naufragii e di disgrazie maritime averrà s'aggiungerà a questo stesso libro, che a questo modo locupletato otterrà l'ultimo luogo, che io già designato infino da questa ora gli ho.
Delli naufragi e disgrazie avvenute nelli mari di queste Indie.
Libro XX.
Proemio, che è il primo capitolo
Io mi sono determinato di ridurre in questo ultimo libro alcuni naufragi e disgrazie accadute nel mare, sí perchè quelle che mi sono venute a notizia sono cose degne da notarsi e da udirsi, sí perchè gli uomini sappino da quanti pericoli vadino accompagnati coloro che navigano il mare. E se qui s'avessero da scrivere tutti quelli casi che non ho io saputi, questo sarebbe un de' maggior volumi che si siano mai scritti: perchè, essendo i mari in diverse parte navigati e da diverse genti e lingue, è impossibile che sia potuto venire a notizia nostra tutto quello che di simile materia accaduto ne è. Si deve ben credere che, se questo libro si fosse nel Bilbao fatto, non sarebbono mancate delle gran cose da scriversi; perchè essendo i Biscaini piú che altra nazione esercitati nelle cose del mare, di necessità avrano alcuni di loro esperimentato e altri dagli antichi loro intese gran cose della materia di questa qualità. Il medesimo potrebbono dire altre genti che vivono nelle altre costiere del mare di Spagna, le quali d'altri vari casi potrebbono fare fede, come altre varie nazioni del mondo medesimamente. Ma qui non si tratterà né si farà menzione d'altro che delle cose accadute ne' mari che sono dalla Spagna a queste Indie dal 1492, che questi luoghi si discoprirono dal primo admirante don Cristoforo Colombo.
Molte volte, quando io odo dire di queste disaventure, mi ricordo di Plinio, che parlando del lino dice che un strano miracolo è che una erba faccia cosí vicino l'Egitto all'Italia: volendo dire delle vele delle navi, che di lino si fanno. E segue che di cosí picciola sementa nasce cosa che tira il mondo da una parte ad un'altra, non bastando all'uomo di morire in terra, senza che anco nel mare senza sepoltura morisse. E perchè sappiamo che la pena ci è favorevole, non è erba che piú facilmente si generi e nasca che questa; e perchè intendiamo che questo contra volontà della natura avviene, il lino brucia il campo dove si fa, e lo fa piú che altra cosa sterile.
Tutto questo si legge nel principio del 19 libro delle sue istorie. Ma molto meglio e con piú ragione detto l'avrebbe se avesse avuto notizia di cosí remoti mari e cosí del continuo navigati come sono questi nostri, che è altra distanzia questa che non è quella che è dall'Egitto all'Italia, poichè dalla foce del Nilo che irriga l'Egitto sono fino in Italia poco piú di 300 leghe. E questo stesso lino e vele allontanarono tanto dalla Spagna il capitan Sebastiano del Cano e la nave Vittoria quanto si è di sopra ne' primi libri detto, perciochè, partendo questa nave dal fiume di Siviglia, diede una volta a tondo e girò tutto il mondo per quanto va il sole, andando per ponente e ritornando per levante, e volgendo alla medesima Siviglia onde partita s'era. Fece anco poi questa nave un viaggio da Spagna a questa città di San Domenico, e se ne ritornò poi in Siviglia; donde ritornò anco a questa isola, ma nel ritornarsi poi in Spagna si perdé, che non se ne seppe piú nuova mai. Quello adunque che s'è detto che questa prima navigò, fu senza comparazione piú di tutto quello che Plinio seppe che mai si navigasse nel mondo. Ma non si dee intendere che il lino solo sia l'istromento da fare le vele, perchè si fanno anco di canape, che è erba assai nota. Si costumano anco in molte parti del mondo le vele di frondi di palma fatte come stole, e in altre parti le usano anco di cottone, come in queste Indie gl'Indiani le usano.
Ma lasciamo le vele, che non sono piú degne d'essere incolpate che si siano li legnami o gli alberi stessi onde i vasselli si fabricano, e diasi solamente la colpa a coloro che potrebbono vivere in terra e si pongono in mare ad esperimentare questi travagli, che io per me mi viddi in mare in tal termine che avrei potuto con la propria esperienzia temere e conoscere i pericoli marittimi assai meglio che non Plinio, informato da' libri o da' marinai del suo tempo: perchè è gran differenzia fra il vederlo e l'udirlo. E non dirò io in questo caso cosa che la sappino pochi, che io nel 1523 attraversai da terra ferma, partendo di presso al porto di Santa Marta per venire in questa isola Spagnuola, e andai a quella di Cuba. E navigava una picciola caravella mia, che stava già sí mangiata e corrosa dalla broma che quanti v'andavamo dentro ci annegavamo in mare, e con le camicie nostre andavamo riturando alcuni buchi onde ci entrava dentro l'acqua, e faceva tanto vento e mare che l'onde molte volte ci coprivano. Noi ci vedemmo finalmente in tanto pericolo che d'ora in ora aspettavamo la morte; e io piú che niun altro, perchè, di piú delle difficoltà già dette, io andava molto infermo, e il vassello non aveva coverta alcuna dove si fosse potuto l'uomo nascondere dalle mareggiate e dal sole, e non avevamo né pane né vino. E con queste e altre molte difficoltà piacque a nostro Signore di porci a salvamento in Cuba, nel porto della città di San Giacomo, dove era allora governatore Diego Velasco, dal quale fui bene albergato, e ivi mi curai. E in capo di quindeci giorni mi ritornai a porre nel mare e a seguire il mio viaggio per l'isola Spagnuola. Ma io in Cuba vendei la caravella, con patto che conducesse me e gli altri miei fino alla Iaguana, che è un porto nel fine di questa isola verso ponente, perchè io non aveva per piú di bisogno del vassello, e perchè assai era imbromato. E cosí colui che il comprò, condotto che m'ebbe in Iaguana, se ne ritornò a Cuba e 'l riconciò, ma in questo stesso vassello si perdé poi il licenziado Zuazo nell'isola degli Alacrani, come si dirà appresso.
Ma questo travaglio mio non è stato solo né il piú pericoloso che io passato abbia, perchè nel 1530 io stetti a giungere dal porto che chiamano della Possessione, nella provincia di Nicaragua (dove stette per governatore e morí Pedrarias Davila nella costiera del mare del Sur), fino a Panama, che vi sono 300 leghe, presso a cinque mesi, per non avere prospero il tempo. E in una isola chiamata Pocosi, che è dentro il golfo d'Orotigna, stemmo piú di venti giorni, e quivi ritrovammo il timone tutto dalla broma mangiato, e due tavole del costato della caravella stessa tutte putride e corrose dalla broma. Onde tirammo il vassello in terra, e certo che per la diligenzia del maestro Giovan di Grado, asturiano e gentil pilotto, ci salvammo tutti. Ivi drizzammo il meglio che si puoté il legno, benchè quasi ogni cosa necessaria ci mancasse, e poi ritornammo in mare e navigammo 200 leghe fino a Panama in otto giorni o meno, perchè piacque a nostro Signore di darci buon tempo, essendo già stati piú di quattro mesi a fare l'altre cento leghe prime. E in tutto questo tempo io fui quartanario, e alcuni mesi da poi anco. E in tutto questo viaggio non avemmo mai pane né vino né altra monizione delle cose di Spagna, ma mangiavamo solo maiz e fagiuoli e delle altre cose di queste Indie. Aveamo sí bene pesce assai e altre vivande non buone, massimamente per gli infermi. Era anco questa navigazione in caravella rasa e discoverta al sole e alle pioggie, che ne avemmo molte.
Taccio le tante volte che in questi mari di qua, e in quelli di Spagna e d'Italia e di Fiandra, mi sono veduto in molte e gran tempeste d'alberi spezzati e di vele rotte e d'altri travagli, ognun de' quali pensai che fosse l'ultima ora della vita mia. Ma piacque alla clemenzia di Dio di soccorrermi, onde io li rendo infinite grazie, che s'è degnato d'aspettarmi a penitenzia, e lo prego che mi faccia finire la vita in grazia sua, e in tale stato che l'anima mia si salvi, poichè esso col suo prezioso sangue la ricomprò; che nel vero sempre in questi travagli mi ricordava delle parole di Seneca: "In fluctu viximus, moriamur in portu", cioè: "Siamo vivuti nella tempesta del mare, moriamo nel porto". E Iddio mi è testimonio che io sempre questo desiderai. Ma s'offeriscono cose alle volte agli uomini che, ancorchè conoschino i pericoli del mare, non possono però fuggirli, chi per necessità di procacciarsi la vita, chi per finire quello a che obligati sono, e per altre varie occasioni, che non possono i buoni senza vergogna restare d'avventurarsi in simili pericoli. E a questo modo ho io apparato di scrivere e di notare queste cose, che non si possono cosí bene sapere da chi scrive e non naviga.
Ma, lasciando tutte queste cose da parte, che sono quasi ordinarie a quanti vanno per mare, passeremo ad altre maggiori e piú particolari, ognuna delle quali è un miracolo, e da dovere molto lodare Iddio tutti quelli che simili naufragi udiranno o leggeranno, ma piú quelli che a tali termini si ritrovarono e l'esperimentarono. Onde di qui nacque quel proverbio volgare che dice: "Se voi sapere orare, impara a navigare", perchè senza dubbio è grande l'attenzione che li cristiani in simili necessità hanno in raccomandarsi a Dio e alla sua gloriosa madre, e cosí pare che allora esauditi e soccorsi miracolosamente siano, come per li seguenti esempi si vedrà.
D'un padre e d'un figliuolo che andarono per lo mare sopra una tavola, finchè il padre morí; e come il figliuolo iscampò.
Cap. II.
Venia nel 1513 una nave di Spagna a questa isola Spagnuola, ed errando il cammino andò a dare di traverso nella costiera di terra ferma, presso al gran fiume che sta sotto al porto di S. Marta. In questa nave andavano un padre e un figlio di Siviglia, e veggendo tutti non potere scampare, perchè non vi era rimedio che il vassello non s'andasse a perdere, e che, di piú del pericolo del mare, andavano a terreno d'Indiani fieri e non soggiogati, da' quali, ancorchè dal mare scampassero, sarebbono stati tutti morti, disse il povero vecchio a suo figlio, che era giovane di 25 anni, queste parole: "Figliuolo, tu vedi che questa nave è persa e va a dare di traverso in terra, onde non possiamo se non miracolosamente scampare. Per tanto bisogna che noi ci soccorriamo il meglio che possiamo con l'industria nostra, o che al manco non resti per noi che fare per scampare la vita. Né vi veggo altro rimedio se non che mi stia tu da presso, e abbi l'occhio a questa tavola alla quale io appoggiato sto, acciochè, perdendosi la nave, questa tavola ci resti, perchè con essa potremo per aventura salvarci, se piacerà a Dio". Il giovane l'intese, onde, dando la nave in certi scogli, si perdé cosí carica come era e vi s'affogò la maggior parte della gente; e quelli che andarono vivi in terra furono poi morti dagl'Indiani caribi e coronati che in quella provincia sono.
Il padre e il figlio, che stavano su l'aviso della tavola, vi scamparono per allora e vi andarono cavalcati sopra tre giorni, dove piú piaceva al vento e al mare di guidarli, senza mangiare né bere mai. In capo delli tre giorni si morí il vecchio padre. Il povero figliuolo, veggendo che la compagnia del morto padre dovea esserli piú travaglio e dargli solamente puzza, il gettò nel mare; e cosí restò esso solo sopra la tavola un altro giorno e mezzo, senza avere mangiato in tutto quel tempo cosa alcuna mai. Il quinto dí passò indi casualmente una caravella di cristiani, che, veggendo andare quella tavola per lo mare con quella cosa sopra abbracciata, vi drizzarono la proda per vedere che cosa fusse. E già il giovane andava cosí sbalordito che non poteva fare di non morire, se Dio nol soccorreva, perchè la corrente l'aveva discostato da terra piú di otto o dieci leghe in mare. La caravella, giunta sopra la tavola, raccolse il giovane e 'l pose dentro, il quale per questo modo si salvò e visse, e 'l viddi io poi sacristano della chiesa maggiore di questa città di S. Domenico nel 1515, e da lui stesso udi' già raccontare tutto questo in presenzia di molte persone onorate di questa città, alle quali era noto e publico questo caso.
Il domandai, quando in quella cosí gran necessità s'era veduto, che orazione particolare aveva fatta, raccomandandosi a Dio o a' santi suoi. E mi rispose che avea sempre avuto speranza certa nella gloriosa nostra Signora, che avesse dovuto soccorrerlo, e se gli era votato, e in suo nome, alla imagine della Antica che sta nella chiesa maggiore di Siviglia; e che era con questo sforzo e speranza andato sopra quella tavola li quattro giorni e mezzo che si sono detti, e che portò suo padre quasi un dí intiero morto, a quel modo che detto s'è.
D'una nave che, partendo da questa città di San Domenico, diede in uno scoglio di questa costiera,
e ne saltò dalla nave nello scoglio un marinaio che a questa città si ritornò,
e la nave si passò al suo viaggio a salvamento in Spagna.
Cap. III.
Poco tempo è che, uscendo una nave da questo porto di S. Domenico di notte, s'avviò alla volta d'Europa, e ne era capitano S. Giovan di Solorzano. Poco piú tardi di mezanotte cominciarono ad alzare l'ancore dal porto, e a due ore innanzi dí cominciarono a costeggiare questa isola alla volta di Spagna, col vento di terra. Onde, perchè meglio loro questo vento servisse, andavano assai presso terra costeggiando. Or, perchè i marinai aveano molto travagliato nell'alzare l'ancore, nel porre dentro la nave il battello e in altre simili cose, navigando s'addormentarono e non fecero con la vela il debito che dovevano: onde, quando fu nel farsi il dí chiaro, s'avvidero che stavano cosí presso terra che non potevano fuggire d'andare a dare nel capo di Caizedo, che sta tre leghe e mezza o piú da levante a questa città. Veggendosi perduti, cercarono di fare ogni forza per volgere verso il mare la nave: ma non poterono per niun conto fuggire di dare una botta di sbiagio negli scogli del detto capo. E volse Iddio che fu di maniera che il legno non pericolò, ma fu la botta di sorte che con la proda fece saltare verso il mare il vassello, che perciò s'allargò dalla ponta e senza pericolo o lesione alcuna se ne uscí a salvamento in mare.
Un marinaio boscaino, veggendo andare di rotta battuta la nave a dare in terra, si pose su la proda, in parte onde fosse potuto saltare in terra quando il legno sbattesse nel sasso vivo. E cosí avvenne a ponto, perchè in quell'istesso instante che la nave percosse, egli saltò dalla nave sopra lo scoglio, e restò in terra sano e sicuro. La nave seguí il suo viaggio a salvamento in Spagna, ed egli se ne ritornò per terra in questa città, dove il secondo dí appresso giunse, e la sua cassa e robe andarono con la nave in Spagna. Il che fu un gran miracolo a non rompersi e perdersi quella nave, perchè la costiera è assai brava e pericolosa: ma il Signore Iddio volse liberarla a quel modo che s'è detto, e che quel marinaio restasse in terra, perchè andasse a far fede di questo maraviglioso misterio.
D'una nave che si perdé nella costiera di terra ferma, e i marinai su la barchetta si partirono lasciando i passaggieri in terra, i quali fecero una barchetta, e a tale stato giunsero che gettarono le sorti quale di loro doveva essere mangiato dagli altri; ma Iddio li soccorse.
Cap. IIII.
Nel 1513 partí una nave dal porto di questa città di S. Domenico per andare al Darien, ch'era una città che stette un tempo presso al golfo d'Uraba, nella provincia che chiamano di Cemaco, che l'aveano poco avanti conquistata i nostri, e vi stava per governatore un capitano chiamato Vasco Nugnes di Balboa. Andava questa nave con molte mercanzie e passaggieri, che co' marinai erano in tutto piú di 50 uomini, i quali per loro peccati errarono il viaggio e andarono a riconoscere la terra ferma piú di 50 o 60 leghe piú giú del Darien, e né il pilotto né niun degli altri conobbe la terra. Ma sopragiunse loro tanto vento che furono forzati a gire con la nave di traverso in terra: onde si perdé il legno con quanto portava, ma si salvò tutta la gente. E si crede che dove costoro andarono traversi e smontarono in terra fosse nella provincia di Veragna o appresso. Andati tutti a quel modo perduti in terra, i marinai tosto pensarono piú allo scampo e al ben loro che a quel de' passaggieri; e come quelli che sono in queste cose piú atti e piú destri, nell'andare a sbattere a terra cavarono tosto il palischermo in mare e vi si lanciarono tutti, senza lasciarvi entrare passaggiero alcuno, de' quali, come ho detto, non se ne annegò niuno.
Ora i marinai, che con le spade in mano vietarono agli altri l'entrare nel battello, dissero che essi andavano a cercare il porto di Darien, che credevano che non stesse piú di cinque o sei leghe indi discosto, e che, ritrovatolo, vi farebbono venire una caravella o tante barche e canoe, che a loro piacere gli averebbono in terra secura condotti; e per piú consolati lasciargli affermavano questo loro con molti giuramenti. E cosí si partirono costeggiando in verso ponente, e cercando del porto che mai non ritrovarono, perchè credevano per quel cammino ritrovare il golfo di Uraba, e lo lasciavano a dietro in verso oriente. Onde, come essi ingannarono li passaggieri, non volendone niun sul battello torre, cosí furono alla fine essi gli ingannati, che nel mare si perderono né si seppe mai fino a questa ora novella alcuna di loro.
Li poveri passaggieri, abbandonati a quel modo in terra di bravi e fieri Indiani (e potevano essere da 35 persone o piú), stavano con speranza che dovessero ritornare i marinai, e cosí l'un dí doppo l'altro aspettarono piú di 20 giorni. E conoscendo alla fine l'inganno, e non sapendo che partito eleggersi, né se era bene ad avviarsi per la costiera in giú o in su, in gran pensieri si ritrovavano, senza sapere risolversi. E stando in questo, piú di 300 Indiani da guerra diedero loro sopra, ma quando viddero che i nostri erano pochi e senza arme, e non mostravano di volere combattere, deposero le loro arme di legno che portavano e s'accostarono a' nostri, dimandandoli che cosa volevano e dove andavano: e si parlavano l'un l'altro con segni e cenni, male intesi né questi da quelli né quelli da questi. I cristiani accennavano e dicevano che averebbono voluto da mangiare. Gl'Indiani mostravano loro molte cose d'oro che portavano, e dicevanli se le volevano (perchè tutti portavano circelli d'oro all'orecchie e maniglie piatte e collane e altre simili cose d'oro): e i nostri savii in questa parte dicevano non volerle. Gl'Indiani allora mostrarono loro Indiane giovanette ignude, come elle in quelle contrade vanno, e gliele davano: e i nostri né anco volsero prenderle. E in effetto, di quante cose loro mostre e offerte furono, non volsero niuna accettarne, se non solo quelle da mangiare. Veggendo gl'Indiani questo, deliberarono di non farli male né d'oltraggiarli a niun modo, e diedero loro da mangiare di quello che avevano, come era maiz e pesce e frutti che avevano.
A questo modo adunque domesticamente stettero i nostri fra quelli Indiani piú di 50 giorni, perdendo ogni dí piú affatto la speranza che dovessero i loro marinai ritornare. Onde [de]terminarono di fare una barca delle tavole della loro nave rotta, senza avere né serra né martello né ascia, né altra commodità necessaria per potere lavorarla. E pure, con tutte queste difficoltà, il meglio che poterono fecero una barca, male ingarbata e peggior lavorata, togliendo la pece dalli tavoloni rotti della nave e cavando la stoppa da dovunque la ritrovavano, e quelli chiodi che potevano, o ponendo in vece di chiodi zeppe di legni. In effetto tanto s'oprarono che fecero la barchetta e vi si posero tutti dentro, salvo che cinque o sei, che erano già morti d'infermità.
Postisi a questo modo in mare, senza carta e senza aguglia e senza pilotto, e senza sapere dove s'andassero né dove andare si dovessero, chi diceva che dovevano navigare verso oriente per ritrovare il Darien, chi diceva che verso ponente il ritrovarebbono. E cosí contendendo, vincevano quelli d'una parte, che l'una opinione avevano, e navigando verso dove costoro dicevano, e in capo di tre o quattro giorni, che navigando a quel modo non ritrovavano quello che voluto avrebbono, volgevano la proda al contrario. E a questo modo, alle volte a remi alle volte a vela, andavano persi come gente distordita e senza sapere dove si vada, ora a questa parte ora a quella. Alcune volte il vento e 'l mare gli allontanava da terra piú di quello che essi voluto avrebbono, onde con molto affanno se ne ritornavano al lito, desiderosi di giungere a terra in qualunque parte si fosse. Altre volte mancava loro il mangiare, e saltavano per le piaggie a cercare dell'acqua e a mangiare delle radici delle erbe e de' frutti che ritrovavano; altri si stancavano del remare, e per alleggierire la barca se ne andavano per terra lungo la piaggia, e quando ritrovavano qualche fiume chiamavano la barca e si facevano dall'altra parte passare, e altre volte non ritrovavano né piaggia né altra strada da potere andare oltre. Di questo modo ne passavano la vita, che sapranno meglio contemplarla quelli che leggono e sono per queste parti andati che non io scriverla, e a poco a poco se ne morirono tanti di loro che non restarono piú che 14, e questi istessi assai debili e infermi, perchè erano stati 10 mesi in questa miseria.
Ora avvenne che in questo stesso anno del 1513 il re catolico don Fernando ispacciò in Valladolid Pedrarias Davila per suo governatore e capitano generale, e 'l mandò con una armata in terra ferma nella medesima città del Darien, perchè, togliendo l'ufficio al capitan Vasco Nugnes, restasse esso ivi e conquistasse tutta la provincia. Andato poi Pedrarias in Siviglia e fatta la gente per quella armata, succedettero cosí fatti tempi e cose che egli non puoté porsi in mare fino all'anno seguente del 14. E giunto all'isola della Gomera, con 17 o 18 fra navi e caravelle, ne mandò una diritta a questa città di San Domenico, perchè prendesse qui certi interpreti e altre cose opportune e se ne andasse poi nel Darien dietro all'armata. E cosí fu esequito poi, perchè l'armata, nella quale andai anco io per proveditore e ufficiale regio, giunse nella città del Darien uno o due dí doppo la festa di san Giovanni di giugno, e pochi dí appresso vi giunse anco la nave che per gl'interpreti andata era in questa isola Spagnuola, e della quale era capitano Francesco Vasco Coronato e di Valdes, che oggi vive e sta nell'isola di Cuba accasato.
Ora questa nave, navigando, vidde nel mare quella barca dove quelle genti perdute andavano, e la barca vidde anco la nave, e cominciaronla ad ammattare e a chiamare con le maggiori voci che potevano. La nave rallentò alquanto la vela e aspettò; onde la barca l'aggiunse, con quel piacere che può facilmente ciascun pensare che costoro sentissero, per questo soccorso che loro Dio mandava. Perchè quel dí stesso che viddero la nave, non avendo piú che mangiare e trovandosi piú di 12 leghe dentro mare, né potendo ritornare a terra per lo tempo contrario che era, gettarono le sorti, con solenne giuramento di doverle osservare, che chi nella disgraziata sorte cadeva fosse dovuto morire perchè gli altri mangiassero, e mangiato il primo si gettassero le sorti dell'altro e poi dell'altro di mano in mano; perchè era meglio che uno o due o tre morissero che non tutti, perchè avevano speranza che in quel mezzo gli avesse Iddio dovuti soccorrere, e in quel mezzo colui a chi quella malvagia sorte toccasse si prendesse la morte in pazienzia.
Or, avevano gettata la sorte, ed era tocco d'esser morto ad un di loro, chiamato Alvaro d'Aghillar, della città di Toledo. Ma, perchè non li mancavano lagrime né contrizione per raccomandarsi a Dio, non permise la sua mercede infinita un cosí crudo e fiero partito avere fine, che già aspettavano la notte per ucciderlo e sodisfarne alle loro fameliche voglie. Ma volse Iddio che la nave vedessero, alla quale giunti e dimandati chi essi fossero (perchè la nave credea che fossero gente della città del Darien), risposero: "Signori, noi siamo quelli perduti per li peccati nostri in questi mari", come se quelli della nave avessero avuto notizia della loro perdita e calamità.
Tolti dentro la nave, narrarono quanto era loro avvenuto e quanto passato avevano, e furono condotti nel Darien, dove non arrivarono vivi se non 14 soli delli 35 che si erano in quella cosí fatta barca posti. Questi pochi raccolti fra gli altri si curarono, perchè andavano cosí infermi che parevano piú morti che vivi. Due di costoro stettero poi qualche tempo in casa mia e si fecero ricchi: l'un si chiamava Anton di Salamanca, che era di Segovia, e l'altro era quello Alvaro di Aghillar al quale era la prima sorte caduta di dovere esser morto e mangiato, e che io poi il feci luogotenente di scrivano generale per lo secretario Lope Conciglio in quella città del Darien, che fu poi chiamata Santa Maria dell'Antica, e guadagnò molto, e morí poi nella città di Panama nel 1530. E uno anno avanti era morto l'Anton di Salamanca, che era diventato mercadante e avea cumulato molti danari e robba. Un altro di coloro si chiamava Ternero, un altro Giovan Calderone, i quali con gli altri compagni indi a pochi anni morirono, doppo che quella tanta calamità loro avvenne.
Io dimandai molte volte ad alcuni di costoro che orazione specialmente facevano e se fecero voto alcuno, e mi dissero che ciascuno di loro si raccomandava a Dio e piangeva i suoi peccati. E l'Alvaro d'Aghillar e l'Anton di Salamanca e 'l Ternero mi dissero che avevano fatto voto d'andare in pellegrinaggio a Nostra Donna di Guadalupe, e che cosí credevano che la gloriosa madre del figliuolo di Dio gli avesse miracolosamente scampati.
D'una nave che si perdé nel mare e vi s'affogò, e si salvò nel battello tutta la gente, che stette dodeci dí senza mangiare né bere altro che due libbre di biscotto, perchè nel mezzo del mare si trovavano.
Cap. V.
Questo istesso anno del 1514 accadette un'altra cosa miracolosa, e fu di questo modo. Giunto che fu il governator Pedrarias d'Avila in terra ferma, nella città del Darien, come nel precedente capitolo si disse, alcune delle navi di quella armata, perchè erano vecchie e non atte a piú navigarsi, si lasciarono via in que' luoghi traverse; alcune altre se ne ritornarono in Spagna, fra le quali ne fu una che, se mal non mi ricordo, vi era nocchiero un Pero Hernandes Ervero di Palos, e vi era pilotto un Anton Calvo, persona da bene ed esperta nel mare. Questa nave partí dal porto del Darien e se ne venne a questa isola Spagnuola dalla parte di tramontana, e tolti rinfrescamenti e quello che gli parve per lo bisogno del viaggio che fare dovea, si partí con buon tempo alla volta di Spagna. Ed essendosi già in mare di piú di 300 leghe lontana da questa isola, cominciò a fare tanta acqua che con due trombe non potevano supplire a cavarnela, e alla fine se ne scese nel mare.
Vi andavano dentro 25 persone che, quando viddero non poter supplire a cavar fuori l'acqua, si diedero molta fretta a porre il battello in mare. E perchè le genti non erano tante che a questo e alle trombe avessero potuto supplire, stavano molto travagliate, quando Iddio gli aiutò: che il battello uscí dalla nave, e in quel tempo stesso la nave fu piena d'acqua quasi fino presso all'orlo, e incontinente se ne scese che non ne comparse piú cosa alcuna fuori. Per la fretta che ebbero d'entrare le genti nel battello, non ebbero tempo né si ricordarono di prendere cosa alcuna né da mangiare né da bere, né il pilotto si ricordò né ebbe tempo di prendere la sua carta di navigare, né una aguglia per potere poi regersi.
Accadette bene che in quella maggior fretta che si davano un giovane stava cavando da una cassa un poco di biscotto per mangiare con un suo compagno, e ne aveva già posto in una tovaglia ben due libbre, quando fu sforzato a saltare correndo nella barchetta, perchè poco piú che stava non averebbe potuto piú uscire di nave, e avrebbe pagato il peccato della gola prima che sodisfatta l'avesse. Ma piacque a Dio di conservarlo, perchè quel poco di pane fosse miracolosamente il sostentamento di tanti che senza esso non sarebbono potuto vivere, e perchè si ricordassero del miracolo che fece già nostro Signore in saziare tanta moltitudine con cinque pani e due pesci.
Questo mi pare certo un passo da dovere alquanto trattenermi, e di non tacere quello che ho io veduto e che sogliono gli uomini spenserati fare nel tempo, che chi è cristiano in simili casi non doverebbe occuparsi in altro che in raccomandarsi a Dio e chiederli mercede. E io non avrei voluto essere costui che prese il pane, poichè fra tanti afflitti e con la morte su gli occhi egli solo si ricordava di mangiare.
Non avrei né anco voluto essere un giovane creato dell'admirante don Diego Colombo, col quale mi ritrovai io in una nave nel 1523, nella quale era nocchiero Giovan Lopes d'Archuleta, che oggidí vive. E andando per annegati e quasi persi nel mare Oceano, e alleggiando la roba, quel giovane che io dico andava dormendo e ronchiando cosí riposatamente come se fosse stato in Toledo, e l'admirante il chiamava di tempo in tempo e dicevali: "Fulano non vedi tu che ci anneghiamo? Che non ti svegli, traditore, e raccomandati a Dio?" Ed esso qualche volta rispondeva: "Già, il veggo, signore", e poco appresso ritornava tosto a' suoi ronchi. Si potrebbono dire molte altre cose a questo proposito, che ci insegnano come molti, in effetto, non hanno d'uomo altro che il nome, e nel tempo che piú converrebbe che essi facessero il debito, si trovano molto dalla ragione e dalla vergogna lontani.
Ma, ritornando all'istoria, parve che quel pensiero che io riprendo di colui che si provedeva di pane fosse misterio e permissione divina, poichè con quel poco di biscotto si mantenne tutta quella afflitta compagnia per giungere dove Iddio li condusse, benchè niuna speranza avessero di dover giungere a terra, se il soccorso divino miracolosamente aiutati non gli avesse; perchè si ritrovarono ingolfati molto e posti nel mare, e presto perderono la mira del camino che fare dovevano, e non avendo aguglia che loro la via insegnasse non sapevano né dove s'andassero né dove si stessero. Per riposarsi alquanto del travaglio del remare deliberarono di fare una vela, e perchè non avevano di che altro farla che delle camicie stesse che vestite si trovavano, se le spogliarono tosto e ne fecero il garbo d'una picciola vela, e la cucirono con alcuni aghi che alcuni di loro casualmente si ritrovavano. Ma mancava loro il filo, e per averne si discucivano gli sai. Ora, in effetto, la vela si fece come si puoté, e secondo che il vento e l'onde volevano, cosí essi andavano alla misericordia di Dio, senza sapere dove fosse stato meglio a volgere la proda. Essi tosto fra sé compartirono quel poco di biscotto, che chi piú n'ebbe non ne ebbe piú che una oncia e mezza. E in vece d'acqua, che non ne avevano goccia per bere, si lavavano nel mare le mani e 'l viso, e quella amara e salsa umidità era loro in vece di bere. Altri sodisfacevano in parte alla sete con la propria urina, e tutti del continuo con lagrime e sospiri chiamavano Iddio e la sua gloriosa madre, e spezialmente si votarono a nostra Signora dell'Antica, che sta nella chiesa maggiore di Siviglia: e piacquele d'esaudirli, perchè in capo di 11 giorni si ritrovarono la mattina a due o tre leghe da questa isola Spagnuola, e conobbero la terra, e il pilotto che s'è detto disse: "In questo paraggio che noi andiamo ora sta il porto d'Argento". E cosí fu, che poco piú doppo mezzogiorno giunsero a quel porto, e saltati in terra si discalzarono, e ringraziando infinitamente Iddio se n'andarono diritti alla chiesa a rendere quelle grazie a Dio e a sua gloriosa madre, che per cosí segnalata mercé e miracolo rendere loro dovevano.
E cosí alcuni si restarono nell'isola, altri se ne andarono in Spagna; e l'anno seguente del 1515 parlai col medesimo pilotto Anton Calvo dentro la chiesa maggiore di Siviglia, e da lui e da altri di quelli che con lui in quel caso ritrovati s'erano intesi tutto quello che io qui n'ho scritto. Ed è già questa cosa assai nota e publica, cosí in questa isola Spagnuola come in Spagna.
Di un giovane Portoghese che, andando una nave a tutte vele, si gettò a nuoto con un pappafico in testa per passare ad un'altra nave dell'armata, e fu da un'altra nave che veniva appresso ricuperato.
Cap. VI.
Qui dirò un caso d'un giovane Portoghese, il quale non tanto è miracolo quanto pazzia e sciocchezza di quel temerario e scempio che il passò, ancorchè nel vero il soccorso di Dio vi fosse, scampandolo dalla morte. E fu a questo modo. Nel 1514, nel tempo che Pedrarias Davila passò alla terra ferma con 17 o 18 caravelle e navi per ordine del re catolico don Fernando, navigando un dí per lo gran golfo di questo mare Oceano, con prospero vento e con tutte le vele ben gonfie, accadette che in una nave dell'armata, che era di Palos e vi andava il tesoriero Alonso della Puente, vi andava anco un giovanetto Portoghese, col quale, perchè il vedevano alquanto leggiero, cominciarono a burlare e a passare tempo i marinai e l'altre genti da guerra che in quella nave andavano. Egli, sdegnato di quelle burle, disse che giurava a Dio che, se molto il tempestavano a quel modo, si sarebbe gettato in mare e se ne sarebbe andato nuotando a qualche altra nave di quelle della armata. Quanto esso piú fermamente questo giurava e prometteva, tanto piú caldamente gli altri giovani nelle loro burle instavano; di modo che esso, forte sdegnato e deliberato di serbare quello che promesso aveva, tolse un'altra camicia che aveva piú di quella che vestita portava e se la legò alla cintura, e tolto un suo pappafico di panno leonato se 'l pose in testa vestito, ancorchè niun freddo facesse e non fosse abito quello da portare nuotando. E posto che si fu a questo modo in ordine, montò sopra coverta e disse: "Fo voto a Dio, se voi piú burlate meco, di gettarmi in mare e passarmene in questa altra nave che va vicina alla nostra". La quale, per vicina che andasse, non poteva egli aggiungerla, per la velocità che tutta l'armata nel suo corso portava.
Molto di questi atti e parole tutte l'altre genti della nave ridevano, e chi li dicea che non averebbe avuto ardire di farlo, e chi li diceva che, se esso fosse stato Castigliano, averebbe la sua parola e 'l suo giuramento serbato. E di questa maniera chi li diceva una cosa e chi un'altra, non pensando che egli fosse dovuto essere cosí sciocco che fatto l'avesse. Ma egli poco aspettò che, fattosi nell'un costato della nave, si gettò in mare: e giunto nell'acqua, per presto che fosse, si restò gran pezzo a dietro da poppa. Allora quelli della nave, perchè quello sciocco non s'annegasse nel mare, cominciarono con una cappa a fare segno agli altri vasselli che venivano appresso. Onde volse Iddio che veniva appresso per quel medesimo camino, piú di due tiri di bombarda lontana, un'altra nave dell'armata, che, veggendo fare quelli segni, seguí a quel dritto, sospettando che le fosse dovuto essere andato qualche uomo in mare o che qualche altra necessità avuta avesse. E cosí piacque a nostro Signore che, ritrovando quel pazzarello stanco e perduto in mare, il tolse su, che poco piú che tardato fosse si sarebbe quel matto affogato in mare; e 'l condusse fino al Darien, dove io poi il viddi.
E il medesimo tesoriero, in presenzia di questo Portoghese e di molte persone che il viddero, mi raccontò quanto ne ho detto: e questa fu cosa assai publica e nota. Né già se ne riputava quel giovane meno, anzi diceva che niuno Castigliano averebbe avuto ardire di farlo. E io il credo che niun Castigliano né d'altra nazione si sarebbe ad una cosí vana e sciocca impresa posto come fu questa, se non fosse stato cosí scempio a fatto e senza cervello come fu costui che questo atto fece.
Come, di due navi che di Spagna in questa isola venivano, la prima si perdé, e se ne salvò la gente in una isoletta disabitata; e poco poi si perdé anco l'altra ivi presso, ma miracolosamente salvandosi ricuperò le genti sue e dell'altra nave perduta e seguí il suo viaggio.
Cap. VII.
Nel 1521 venivano di Spagna per questa città di S. Domenico due navi di conserva: dell'una era capitano Francesco di Vara, cittadino di Triana, dell'altra Diego Sances, pur di Triana o di Siviglia. E quando presso all'isole di queste Indie giunsero, la nave di Francesco di Vara si perdé nelle seccagne dell'isole che chiamano le Vergine, ma si salvò la gente, se ben si perdé la nave con quanto dentro vi era.
L'altra nave diede nelle seccagne d'un'altra isola che ivi presso era, chiamata l'Annegada perchè è una isola assai bassa e non si vede finchè non vi si giunge sopra; e fra quaterna e quaterna della nave, in quel percotere del forziero, vi restò ficcata nelle tavole una pietra dello scoglio nel quale il legno percosse. La nave passò oltre e la pietra restò molto nelle tavole fissa, ma non cosí misurata e giusta che non vi restasse fra lei e le tavole spazio onde potesse entrar acqua dentro; anzi, tanta ve ne entrò che il vassello se ne scese giú, finchè toccò in terra e vi si assise e restovi diritto. Cominciarono ad aggottare l'acqua con le trombe, ma non bastavano, ancorchè avessero alleggerito le botti e l'altre cose della nave. Ma, accortisi che il legno toccava in terra e che, se ben stava pieno d'acqua, si potea votare se si ritrovava onde l'acqua entrava, gettarono l'ancore, perchè la corrente e le onde non facessero volgere di costato la nave.
E allora Alonso Sances Albagnir, che oggi sta in questa città ed è persona ricca e di credito, e aveva la metà di quella nave caricata, disse che darebbe una buona veste a quel marinaio che ritrovasse il luogo onde entrava l'acqua. Un marinaio destro e buon natatore allora si pose in volta, e tanto si travagliò che ritrovò la pietra ficcata nelle tavole della nave, e con sevo e stoppa appilò que' buchi che restavano fra la pietra e le tavole, e poi di sopra alla pietra vi stese un quoio e ve l'inchiodò. Poi si diedero a votare l'acqua con le trombe e per ogni altra via che potevano, e cosí la nave s'alzò, e dentro il legno posero in quel luogo cosí ripezzato una continua guardia di marinai con lume di notte e di giorno, e ricuperarono gran parte del carico che allegiato avevano; e poi passarono due leghe avanti all'isole chiamate le Vergini, che disabitate sono, e vi ritrovarono tutte le genti dell'altra prima nave perduta due dí innanzi, che non avevano altro che le loro sole persone salvate, con una imagine grande di nostra Signora dell'Antica, che ora sta nella chiesa maggiore di questa città, nell'altare che sta presso al sacrario, la quale imagine è stata ritratta da quella dell'Antica che sta nella chiesa maggiore di Siviglia.
Ora, questa nave tolse sopra tutte quelle genti, e con quella pietra posta fra le tavole nel modo che s'è detto se ne venne in questa città di S. Domenico a salvamento, con le genti di amendue le navi, che passavano 150 persone. E qui s'accommodò e conciò, e ritornò poi in Spagna, e portarono quella pietra a Nostra Signora di Guadalupe, alla quale s'erano tutti votati e raccomandati. E oggidí sta in questa città di S. Domenico il medesimo Alonso Sanches, che, come s'è detto, aveva la metà di quella nave caricata. E tutto questo è assai publico e noto in questa città. Ben si dee credere che, veggendosi tanta gente in cosí pericoloso naufragio, non mancarono orazioni né lagrime, per dover essere esauditi da Dio, cosí di quelli che stavano persi nell'isole deserte delle Vergini, come di quelli altri che nella seconda nave erano, che volse Iddio che si salvassero perchè potesse porgere a questa e a quell'altra gente soccorso. Sí che quella che nostro Signore e sua gloriosa madre con quelli e con gli altri usò fu una soprema e gran maraviglia.
Di una nave nella quale s'accese fuoco e miracolosamente si smorzò, stando molto in mare.
Cap. VIII.
Nel mese di settembre del 1533, ritrovandosi una nave nel gran golfo del mare Oceano, e venendo con prospero tempo e con tutte le vele gonfie alla volta di questa città di S. Domenico, perchè non andava diritta ma pendea di costado dalla parte di proda, o perchè si avevano mangiato le monizioni che da quella parte erano, o perchè non era stata ben stipata e caricata al principio, per rimediare a questo inconveniente, che suole ogni dí accadere, empierono tre botti d'acqua di mare e le posero sotto coverta, da quella parte dove mancava il carico; e fatto questo la nave si drizzò e faceva meglio il suo camino.
Quattro o cinque dí doppo di questo, un marinaio o chi si fosse entrò sotto coverta con una candela accesa a cercare non so che, e senza avervi avertenzia la smoccò in quel luogo: e si suspicò che da questo nascesse il male che ne nacque. Ora, perchè sogliono fare la guardia la notte, e si compartono a questo effetto i marinai il tempo, nella prima guardia (che ne erano forse passate due ore) andava tanto fumo per la nave che né quelli della guardia né gli altri potevano ormai piú soffrire. Andarono a vedere se dal focone quel fumo procedeva, e quando s'avidero che da altra parte nasceva, in gran paura montarono. Correndo adunque a cercarlo, ritrovarono che il fuoco andava già sotto coverta molto appreso, e avea in molte parti arso un capo nuovo o fune, con che sogliono gettare le ancore in mare, che valeva 25 o 30 ducati; e si era medesimamente arsa una cassa di robbe, con altre cose che ivi presso erano, e il fuoco andava secreto e senza fiamma, perchè non avea donde uscire, e cosí s'andava a poco a poco accrescendo e bruciando quanto trovava. E volse Iddio che non fosse ancora giunto al costato e alle tavole della nave, perchè, essendo secco il legno e pieno di pece, tosto vi sarebbe appresa la fiamma e vi si sarebbe senza rimedio alcuno tutta la gente arsa dentro.
Ora, perchè di sotto non vi si potevano oprare a rimediarvi, per stare la nave stipata e piena di robe, ruppero con molta fretta la coverta di sopra con scure, e tosto che si aperse al dritto del fuoco ne uscí una gran fiamma che montò quasi fino al mezzo dell'albero della nave, la quale si sarebbe senza alcun dubio arsa a fatto tosto, con piú di cento persone che dentro v'erano, se la providenzia divina non avesse fatto pochi dí avanti porre quelle tre botti d'acqua di mare sotto coverta per drizzare il vassello; perciochè, stando presso dove il fuoco ardeva, le fondarono tosto, e versandosi l'acqua che v'era ne smorzò la maggior parte del fuoco, di maniera che ebbero tempo a prendere dal mare piú acqua e a finire di smorzare a fatto la fiamma. E per questa via scamparono da un cosí segnalato pericolo, e da una cosí crudele morte che loro si apparecchiava.
La misericordia di Dio è grande, che permise che la nave pendesse di fianco e avesse bisogno di piú dalla parte a quella opposita di caricarsi, e di caricarsi di cosa onde si potesse poi a quel modo l'incendio estinguere. Il che rade volte accade, perchè non si suole ciò fare con porvi botti d'acqua, ma con mutare le ancore grosse e l'artigliarie e le casse e altre cose grievi da un luogo ad un altro, perchè il vassello s'indrizzi. Ma piacque a Dio che in questo caso acciò con le botti piene d'acqua provedessero, per lo pericolo nel quale ritrovare si dovevano, perchè, come io udii dire dal nochiero e d'altre persone che vi si ritrovarono, era impossibile che essi fossero potuti scampare, se non si ritrovavano quelle botti d'acqua cosí alla mano.
Questa nave entrò poi nel fiume e porto di questa città di San Domenico a' 19 di settembre, otto o dieci dí doppo quel caso del fuoco; e avendo qui tolto rinfrescamento e acqua e legna, pochi dí appresso seguí il suo camino per la Nuova Spagna, per dove era stata noleggiata. In questo vassello andava una donna da bene chiamata Caterina Sances, che io tenni in casa mia mentre qui quella nave stette; e costei, come testimonio di vista, mi raccontò tutto il caso, e mi diceva anco che in quel tempo che l'incendio durava erano le voci e le grida molte delli passaggieri, e con tante lagrime e devozione come si dee e può credere, e che due persone di quelle che nella nave erano affermavano avere in quel maggior travaglio e pericolo veduta nostra Signora di Guadalupe, e che per suo mezzo credevano d'essersi salvati tutti. E nel vero, se ben costei mi negò sempre di non essere ella stata una di quelle due persone, anzi mi diceva non essere ella degna di tanto bene come era di vedere la Madre di Dio, io non mi maravigliarei che essa fosse stata una delle due devote persone, perchè è donna assai da bene e buona cristiana ed è già di piú di 50 anni.
Di tre navi che miracolosamente iscamparono con tutte le genti, ritrovandosi piú di 200 leghe in mare.
Cap. IX.
Ho udito molte volte dire a persone di mare, e ad altre anco di credito che hanno navigato e si son ritrovate in naufragi e gran tempesta, che hanno sentito voci come umane parlare nell'aere nel tempo del maggior pericolo, e hanno vedute cose spaventevoli e demonii. Onde a questo proposito narrerò quello che poco tempo fa accadette, e ne sono molti testimonii in questa isola, e alcuni cittadini anco di questa città, e in speziale Martin di Vergara, algazil maggiore dell'admirante don Luigi Colombo, e Cristoforo Peres, carcerario della regia prigione di questa città, i quali andavano in Spagna e si ritrovarono presenti al travaglio che io dico, che di questa maniera fu.
Nel mese d'agosto del 1533 uscí dal porto di questa città di San Domenico una nave carica di zuccari e di quoi di vacche e di cannafistola e d'altre cose, con oro anco, per andare in Spagna; e per camino il nocchiero, chiamato Giovan di Ermua, s'infermò, non molto da questa isola Spagnuola lontano, e sí l'agravò il male che per suo rispetto la nave non passò l'isola della Mona, che è fra questa isola e quella di San Giovanni e non piú che 40 leghe da questa città, perchè ivi si fermò e ivi il detto nocchiero morí. Doppo che l'ebbero sepolto seguirono il viaggio loro, e per questa poca dimora che qui fatta avevano furono aggiunti da un'altra nave, che partí appresso da questo porto di San Domenico, e ne era nochiero un pilotto chiamato Carregno.
Questa seconda nave andava carica medesimamente di molte casse di zuccari e di quoi e di cannafistola e oro, ed era in effetto di molte ricchezze carica; e in questa seconda nave andavano li due che ho nominati di sopra e recati per testimonii. Ma in capo di molti giorni che navigavano (che erano già piú di 40), e quando si pensava che fossero già arrivate in Spagna, giunse in questa città la novella della loro disaventura, perchè erano perse e rovinate tutte giunte alla terra di porto d'Argento in questa isola, che è dalla parte di tramontana, con gli alberi e l'antenne rotte e con avere alleggierito piú della metà del carico che portavano e gettatolo al mare.
Questa tempesta sopragiunse loro a' 21 d'ottobre e li durò tre giorni e due notti, e si viddero molte volte sotto l'onde del mare annegati, e chiamando nostro Signore e sua gloriosa Madre parea che dal profondo del mare montassero su. E quando quelli peccatori afflitti dicevano: "O Madre di Dio, vergine Maria", e con lagrime e attenzione li chiedevano soccorso, udivano nell'aere dire: "Perchè la dimandate, e che volete voi farne?" E a questo modo udivano a' demonii alcuna volta replicare, e alcuni affermano averli nell'aere senza alcun dubio veduti. Ma a nostra gloriosa Signora piacque, al dispetto degli adversarii, di soccorrere questa misera gente in tanto travaglio e affanno posta. Sí che doppo tre giorni, stanchi dal molto travaglio e rauchi per le voci e gridare che fatto avevano, furono dal pietoso Iddio e dalla sua benigna Madre soccorsi, perchè cessò quella tempesta, avendo (come s'è detto) gettato in mare piú di 300 casse di zuccaro e piú di mille quoi di vacche e molte botti di cannafistola. Ed è opinione che la mercanzia e robba che fu gettata qui in mare valesse piú di diecimila ducati.
Ora, perchè le genti si ritrovavano molto stanche, e le navi stavano tutte aperte per la gran tempesta e facevano tanta acqua che non si potevano navigare (perchè a cavarne dí e notte l'acqua con le trombe non bastavano a votarle, tanta ne sopragiungeva del continuo dell'altra), deliberarono di ritornar a dietro, e piacque a Dio di condurle miracolosamente al detto porto d'Argento, dove smontarono le genti sane e salve, ma non poco spaventate. E la maggior parte delle robbe che erano restate di non gettarsi in mare erano guaste e bagnate, anzi putrefatte, per tanti giorni che erano state a quel modo.
Con queste due navi se ne era già nel mare accompagnata un'altra, che venia dalla Nuova Spagna, carica di prosciutti e d'altra carne salata di porci: il che è cosa nuova e da notarsi, perchè quindeci anni a dietro non era in terra ferma porco alcuno. Quelli di Spagna e quelli che vi si portarono poi da queste isole vi sono tanto moltiplicati che è cosa da non credersi, e ne vanno le navi cariche di prosciutti in Spagna. Questa nave adunque che io dico andava di questa mercanzia carica, e portava 50 mila castigliani: ventimila ne erano di Sua Maestà, e gli altri di persone particolari, secondo che l'altre due navi dicevano averlo da questa altra terza inteso. Ella fece ogni sforzo di seguir il suo cammino, ma per quella tempesta che tanto l'altre due afflisse non puoté: onde a' 22 di novembre del medesimo anno giunse nel porto di questa città con le gabie perse e con altri molti danni. E ne era nochiero un Giovan Sances di Figueroa, col quale parlai io poi in questa città, e ne intesi l'estremo pericolo nel quale anco essi veduti s'erano: in tanto che il demonio non vuole solamente travagliare le genti di terra, che anco mi pare che travagli e molesti le navi e i naviganti. E perchè quelli che non hanno navigato sappiano che questa non è cosa nuova al nostro comune adversario, scriverò nel seguente capitolo un altro caso di non minore pericolo, e dove il maledetto Lucifero non pose men diligenzia che nel già detto. Onde i buoni cristiani veggano quanto debbia stare sempre viva ne' cuori loro la memoria di nostra gloriosa Signora.
Quello stesso che ho detto di queste tre navi mi raccontò medesimamente in questa città il nocchiero istesso Carregno, di cui era una di queste tre navi, e persona da bene e di credito, e chi piú in questo naufragio perdé. E perchè questo caso è notissimo e publico, per li molti particolari di questa città che vi perderono quelle casse di zuccaro e altre mercanzie, non mi curerò di referire altri testimonii in questo caso. Questo solo dirò, che era grossa e stolta risposta quella delli demonii, quando a' nostri che chiamavano la Madre di Dio diceva: "Che ne volete fare, che ne volete fare?", perchè doveano sapere che que' peccatori la chiamavano in quella tanta loro necessità per soccorso. Ma essi dicevano a quel modo per disturbarli e isviarli di chiedere quel cosí certo soccorso, che non mancò giamai a coloro che con tutto il core la chiamarono, come fecero costoro che meritarono d'esserne esauditi.
Della caravella che chiamarono delle Tavire per lo caso maraviglioso che qui si narrerà, che il grande Iddio e la sua gloriosa Madre oprarono per queste donne e altre persone che vi si ritrovarono sopra.
Cap. X:
Partí nel 1519 una caravella dal porto e città di Santa Maria dell'Antica del Darien, che è in terra ferma nel golfo d'Uraba, nel governo di Castiglia dell'Oro, per venire a queste isole. E attraversando questo golfo le sopragiunse una gran tempesta che la fece a forza correre alla volta dell'isola di Cuba, e si vidde molte volte persa e inghiottita dal mare; ma la cavò la gloriosa nostra Donna, alla quale con molte lagrime e devozione tutti quelli che dentro vi andavano con gran voci e gemiti si raccomandavano, tenendosi già piú morti che vivi.
In questa caravella andavano due donne chiamate le Tavire, e, secondo che gli altri che con loro erano dissero questo, con tutto il cuore lagrimarono e chiesero soccorso a nostra Signora, benchè anco gli altri tutti generalmente facessero il medesimo. Qui viddero visibilmente e nella proda e nella poppa della nave demonii fieri e spaventevoli, e udirono nell'aere dire da un di loro: "Torci la via", come s'un altro di loro stesse sopra al timone e governasse il vassello, e cercassero di mandarlo a perdere. E sentivano quell'altro rispondere e dire: "Io non posso". E poco appresso udirono un'altra voce che diceva: "Gettala a fondo, annegala", e un'altra voce rispondeva dicendo: "Non posso, non posso". E perchè tornava a replicare quella prima voce che comandava: "Perchè non poi?", rispondeva quell'altra: "Non posso perchè qui vi va quella di Guadalupe". Allora fu grande il grido e le lagrime copiose di tutti que' peccatori che nella nave erano, chiamando nostra Signora di Guadalupe e raccomandandosegli, che parea che si aprisse l'aere e giungessero quelle voci al cielo. E certo che penetrarono al fonte della misericordia, perchè in quel tempo la nave andava cosí presso terra che ognun pensava che se ne fossero dovuti fare mille pezzi in quella brava costiera. Ma venne una ondeggiata senza comparazione piú alta e maggiore dell'altre, e alzò di peso la caravella sopra gli scogli di quella aspra costiera e la gettò nella terra piana piú di cento passi fuori dell'acqua, senza che persona alcuna di quante dentro il legno erano pericolasse né morisse. E cosí il Signore Iddio miracolosamente li liberò, per intercessione della sua benedetta Madre, dal pericolo del mare e di Satanas.
Qui si dee anco un altro misterio sapere, che nella medesima caravella andava un uomo che venia da terra ferma da cercare elemosina per Nostra Donna di Guadalupe, il quale io viddi e conobbi: che tanto piú particolarmente si debbono i miracoli di nostra Signora di Guadalupe notare, alla quale si votarono la maggior parte di quelli che su quel vassello navigavano. Conobbi io anco le due donne chiamate le Tavire. E qui in questa città di San Domenico sta il licenziado Alonso Zuazo, che è uno degli auditori che qui in questa regia audienzia risiedono per Sua Maestà, che a quel tempo si ritrovava governatore dell'isola di Cuba; e dice avere udito tutto quello che ho qui detto e dalle due donne e da quel questore di elemosine e d'altri molti che in quel naufragio si ritrovarono, e scamparono in quella isola nel modo che detto abbiamo, doppo che la tempesta ebbe loro rotto l'albero e l'antenne e fatto alleggerire e gettare in mare la maggior parte di quanto nel vassello portavano, e facevano già tanta acqua che non la poteva ormai piú il legno sostenere. Dicevano anco avere veduto venire certi pesci grandi come tonni o delfini, e afferrare con denti le cinte della caravella (che sono quelle tavole con le quali coprono le giunture del vassello) e distaccarle e tirarle fuori, onde di qua entrava tanta acqua che non se ne potevano valere, né sarebbe stato possibile salvarsi altramente che per miracolo e col favore della Madre di Iddio.
Ho intitulato questo naufragio della caravella delle Tavire non perchè fosse di queste donne il vassello, ma perchè quanti ivi si ritrovarono tutti lodavano molto le lagrime e la devozione di queste due sorelle, e dicevano credere che queste fossero state gran parte a pregare Iddio e nostra Signora che soccorsi gli avesse. Qui si dee notare che il benigno Iddio ha cura d'ascoltare e difendere i peccatori e che non guarda a' peccati nostri, perchè, se ben non erano tenute in tanta stima queste donne che si pensasse che dalla devozione loro fosse tanto bene dovuto risultare, nondimeno, perchè il cibo di Dio è il cuore nostro, che esso meglio che niun altro il conosce e penetra e sa quale è giusto e qual peccatore, tutti coloro pensarono che queste fossero state esaudite da Dio e dalla sua pietosa Madre: onde pareva che ognun portasse fissa nel cuore una affezione e obligo grande a queste due donne, per intercessione delle quali credevano tutti avere salvata la vita.
Il vedere la caravella, dove restò fuori e lontana dall'acqua, e cosí fatti scogli e balze fra lei e 'l mare, era certo cosa di molta maraviglia, e da fare chiaro vedere che, senza misterio e potere divino, era impossibile uscire dal mare da quella parte onde uscita si vidde.
Come il licenziado Alonso Zuazo si perdé nell'isole degli Alacrani, cioè scorpioni, in una caravella dove andavano da 55 o 60 persone, delle quali se ne salvarono solamente 17 con lui; e di molte altre cose che in quel naufragio avennero.
Cap. XI.
S'è detto di sopra, nel secondo capitolo del quarto libro, come il licenziado Alonso Zuazo venne in questa città di San Domenico per giudice, poco tempo poi che que' padri di san Gieronimo vi erano venuti per governare queste parti, e come, per non avere voluto ritornare gli Indiani a' cavalieri accetti al re catolico, ne gli erano seguiti molti disfavori. Mi resta ora in questo ultimo libro a dire una sua pellegrinazione e naufragio che li seguí, perchè al parer mio questa è una delle maggiori novità, per una soprema isperienzia di travagli, che si sia mai udita né vista né letta, né anco nelle novelle de' favolosi Greci né delle metamorfosi d'Ovidio. E senza dubbio che questa è una maraviglia estrema e di quelle che suole il Signore Iddio fare per chi l'ama, e con intiera volontà gli si raccomanda. E perchè meglio questa cosa s'intenda, cominciarò da principio a discorrerla, acciochè si vegga la cagione che mosse questo cavaliero alla navigazione, onde cosí inauditi travagli gli seguirono. E perchè vi si mosse con buon zelo e vi ebbe santa e giusta intenzione, credo io che per questo Iddio il liberasse molte volte dalla morte, e non già dalla morte comune, ma da molte maniere di morire tutte strane e inaudite. Onde dico cosí.
Cosa nota è che Fernando Cortese stava dal 1518 nella Nuova Spagna. È noto anco come lo adelantado Francesco di Garai, essendo governatore dell'isola di Iamaica, fu provisto del governo e capitania generale della provincia di Panuco, nella quale cade il fiume delle Palme, che è presso alla Nuova Spagna, o pure ne è una parte. Queste parti di Iamaica con una buona e bella armata di caravelle e di navi, e accompagnato da cavalieri e gentil uomini e da una fiorita gente, per andare al suo governo, nel 1523, e fece vela a' 24 di giugno, e giunse all'isola di Cuba, in un bel porto chiamato la Sciagua, che è presso la terra della Trinità, e quivi ebbe nuova che Fernando Cortese aveva mandato a popolare quella provincia di Panuco, dove esso con la sua armata andava per farvi nuova terra.
In questo stesso tempo il licenziado Alonzo Zuazo si ritrovava nella città di San Giacomo, nella medesima isola di Cuba, dove era prima stato governatore, perchè in questo tempo la governava Diego Velasco, che l'avea anco altra volta governata prima.
Or, quando il Garai seppe questo, conoscendo che, poichè il Cortese avea preoccupato a fare abitare Panuco, dove esso andava governatore, se esso vi andava non ne averebbe potuto prendere il possesso senza molto litigio e contesa, benchè ampie provisioni regie portasse, deliberò per lo meglio di guidare questo suo negocio per alcuni mezzani, che cosí averebbe interrotte le morti di molte genti e non fattone disservigio né a Dio né a Sua Maestà. E per fare questo effetto non ritrovava persona piú atta col Cortese che il licenziado Zuazo, il quale, per essere litterato e amico di amendue, pensava che avesse dovuto farlo e saputo farlo senza che contesa o guerra seguita nel fosse, almanco finchè Sua Maestà avesse avuto di ciò notizia e proveduto vi avesse.
Con questa deliberazione, adunque, spacciò dal porto di Sciagua un corriere per la città di San Giacomo al licenziado Alonso Zuazo; il quale, lette le lettere del Garai, ne consultò con Diego Velasco, al quale n'aveva anco il Garai scritto, e ad altri amici del Zuazo medesimamente, perchè per ogni via l'astringessero a dovere questo effetto fare, perchè vi andava il servigio di Dio e di Sua Maestà. Ora, perchè il parere di tutti fu, senza discrepanzia alcuna, che il licenziado Zuazo dovesse partire e fare ogni sforzo che fra questi due cavalieri fosse pace, egli noleggiò tosto quel vassello, che nel proemio di questo ultimo libro io dissi che avea quello anno stesso in quella isola venduto, e che nel porto della città di San Giacomo si ritrovava. Provedutosi adunque d'ogni provigione necessaria per cosí lungo viaggio, e con pensiero che li fosse ogni cosa dovuto prosperamente riuscire, poichè per lo servigio di Dio e del suo re si moveva, e andava per porre pace e concordia fra quelli capitani, che cosí vicini a rompersi in guerra stavano, raccomandandosi a Dio si pose in mare; e fra quattro o cinque dí giunse alla terra della Trinità, e indi se n'andò al porto di Sciagua, che è un de' belli e securi porti che abbia il mondo. Qui Francesco di Garai li disse il servigio grande che esso in questo viaggio farebbe a Dio nostro Signore e a Sua Maestà, e quanto merito acquistava in distorre una cosí grande occasione di discordie, che sarebbono facilmente potuto seguire fra sé e 'l Cortese, se non gli avesse colui liberamente lasciato il governo e la terra che Sua Maestà data gli aveva e fattovelo capitan generale. E con queste li disse anco molte altre parole a questo proposito.
Il licenziado Zuazo, avendo promesso di farvi tutto il suo potere, montò nella sua caravella, e giunto al fine della medesima isola di Cuba, dove dicono il capo di Sant'Antonio, indi seguí poi il suo viaggio alla volta della Nuova Spagna. Ed essendo ingolfato, perchè gli sopragiunse il tempo contrario, doppo d'avere molto tempo navigato, o per dir meglio travagliato per quel mare a' ventiuno di gennaro del 1524, su la mezzanotte, fu da cosí forte e tempestoso temporale assalito che molte volte si viddero coverti dall'onde del mare, sí perchè la tempesta era grande come perchè la caravella era picciola, che a pena portava 45 botti. Perchè questo cavaliero era devoto e buon cristiano e animoso e prudente, con molto sforzo, chiamando Iddio e la sua gloriosa Madre (come sogliono e debbono fare in simili necessità tutti i veri fideli), non cessava un punto mai d'animare e isforzare tutti all'orazione, poichè altro soccorso allo scampo loro non aveano che quel del grande Iddio. E cosí il licenziado come gli altri tutti, con un mare di lagrime e minutamente, dicevano quel devoto verso: "Monstra te esse matrem".
E in quello instante che il dicevano parea che il vassello dal profondo del mare uscisse su, e vedevano fra quella notte oscura una luce che li guidava. Nel qual tempo e travaglio viddero molti gran tonni o pesci, a maniera di porci, che parea che volassero per l'aria d'intorno alla caravella, con altri orribili e spaventevoli segnali. Onde, senza sapere dove si stessero, fuori di ogni speranza della vita si ritrovavano, né potevano governare il vassello, né servirsi dell'aguglia né del quadrante, né fare altra cosa per la salute loro che raccomandarsi a Dio e riporsi del tutto nelle piatose sue braccia; e cosí in lui solo si confidavano, e non nell'arte o diligenzia del pilotto e de' marinai, che niun pro vi facevano. L'altro dí poi, al quarto dell'alba, diedero in certe seccagne e forzieri d'aspri scogli, dove si fecero del vassello in mille pezzi e si perdé quanto dentro vi era: e 'l licenziado vi perdé piú che niuno altro, anzi piú che tutti gli altri insieme, perchè vi perdé gli suoi libri e molto oro e argento e gioie e altre robe in gran quantità e valore. Ma in comparazione della vita ogni cosa istimavano poco, onde né anco vi volgevano il viso per ricuperarne alcuna, perchè il piú fa spregiare il meno.
Venuta la chiarezza della tempestosa mattina, si ritrovò il licenziado Zuazo fra li morti della sua compagnia, che ivi annegati s'erano, ignudo con gli altri che scampati erano (che erano da 47 persone), montati e aggraffiati tutti a quegli aspri scogli, che col crescere del mare si coprivano d'acqua, che dava fino al petto a quelli meschini: i quali non avevano né acqua né vino né pane né altra cosa con che potere sostentarsi, onde non pensava ad altro ciascuno che alla morte, alla quale cosí vicini si vedeano. E a questo modo stettero da che si annegò il vassello, come si è detto, fino a piú di mezzodí; e l'onde del mare alcuna volta andavano cosí alte, che passavano per sopra a questa dolorosa compagnia con tanta furia e impeto che a pena abbracciati con gli scogli sostenere si potevano, e alle volte la violenzia del mare ne distaccava alcuni, e gli smembrava e faceva pezzi fra quelle balze.
Verso il mezzogiorno questa afflizione s'isminuí alquanto, di modo che, essendo abbassate l'acque, potevano quelli miseri stare su quegli scogli senza bagnarsi. E perchè nostro Signore sempre nella maggiore necessità soccorre i suoi, il licenziado vidde, fra quelli forzieri e scogli che l'acqua mancando discopriva, una canoa, mezza dall'arena coperta, che di gran tempo stare vi doveva; ed era cosí picciola che a pena vi sarebbono cinque persone capute. Di che resero tutti infinite grazie a Dio, perchè veramente altro rimedio non vedevano, per potere uscire da quel luogo, fuori che questo, che miracolosamente la misericordia divina loro dava.
Tosto con molta diligenzia cavarono con le mani d'intorno alla canoa, che qualche tempesta ve la doveva già avere portata, e benchè stesse in molte parti rotta, il licenziado il meglio che si puoté insieme con gli altri la rimediò; e postala in mare v'entrò esso con tre altri, e cominciarono a navigare lasciando tutti gli altri sopra quegli scogli; e andavano cercando se forse ritrovassino luogo alcuno asciutto, per piangervi i lor peccati que' pochi giorni che pensavano di vivere, poichè non avevano né che mangiare né che bere. E navigando senza sapere dove s'andassero, ritrovò il licenziado su per l'onde gran parte della roba e de' libri che andavano nuotando, e con vento contrario venivano di là onde gli aveva la notte innanzi fatti correre il tempo. E non ritrovando riposo alcuno, salvo che alcune picciole pietre e scogli che le bagnava il mare, gli parve di dovere ritornare dove aveva lasciati i compagni, perchè non perissero o si sbigottissero del tutto; e giunto disse, per dare loro animo, quello che esso non sapeva, cioè che aveva ritrovato e veduto terra, benchè di lontano, e che stessero di buona voglia e si raccomandassero a Dio, mentre che esso andava a quella terra che di lontano si vedeva. E nel vero esso veduta non la aveva, né sapeva se vi fosse o no; e ritornandosi con questo pensiero, e con molte lagrime pregando nostro Signore che lo conducesse in qualche poca di terra dove potesse fare penitenzia, e morire con qualche riposo e fuori dell'onde del mare, gettò quattro sorti, e per oriente e per occidente e per tramontana e per mezzogiorno, sperando che per questa via l'avrebbe il Signore Dio guidato a quella parte dove piú suo servigio stato fosse, e avessero potuto di lui piú ricordarsi e meglio morire.
Gettate le sorte quattro volte, sempre vedevano che dovevano verso oriente andare, onde vedevano il sole montare su, ed era questo viaggio contrario a quello che faceano prima per la Nuova Spagna. Ma, conformandosi con la volontà di Dio, seguirono il camino che la sorte mostrava. Il licenziado, prima che partisse, animò molto gli altri che restavano, dando loro speranza certa che andavano in terra, e che tosto averebbe rimandata la canoa perchè vi fossero tutti a poco a poco andati. E gli avvertí tutti che verso dove esso con la canoa andava, tosto che vedessero abbassare il mare vi si movessero il meglio che potessero, per sopra quelli forzieri e scogli che sotto al mare s'andavano tutta via discoprendo. Egli ebbe una mezza spiga di maiz che fra la compagnia si ritrovò, che non aveva piú che fino a 20 granelli, e questa si mangiò egli in tre dí, senza avere goccia d'acqua né di altro liquore buono: e se ne mangiava sei o sette granelli il dí, avendo sempre nel cuore una ferma speranza in Dio e nella sua benedetta Madre. Ora, egli seguí il suo camino tutto quel giorno, finchè il sole stava già per porre, onde fra il sole e l'acqua si vidde una certa cosa bianca, che era una piaggetta d'arena di 10 passi larga e di 150 lunga. E quanto piú s'accostavano piú s'accertavano che quella era terra; onde con tanto piacere e con tanta fretta remando là andarono che, quando il sole pose, vi stavano da due tiri di balestra lontani.
Quando il licenziado con gli altri tre compagni vi giunse, saltati in terra s'inginocchiarono e con molte lagrime ringraziarono nostro Signore, sperando che, come aveva per sua misericordia insegnato loro quella poca di terra dove si potessero della sua santa passione ricordare, cosí avrebbe anco lor mostro il rimedio di poter salvarsi. Fatta che ebbero la loro orazione, spasseggiarono per quel poco di terreno o isoletta con molta allegrezza, e viddero nell'un suo capo molte cose nere, che parevano porci ingrassati alle ghiande, come si veggono in alcune parti da portarsi a vendere cosí grassi, e stare gettati in terra. Quando vi s'accostarono, benchè con molto timore, gli udirono ronchiare cosí forte che era una cosa strana e non mai piú da loro veduta. Ma perchè uno de' tre che col licenziado andavano era uomo di mare, e aveva per molte parti navigato, conobbe che quelli erano lupi o vitelli marini, che sono grandi e strani a vedere, come s'è di sopra ne' precedenti libri detto; e perchè sono animali d'acqua spesso da molti si veggono. Onde qui non ne dirò altro che quello che ne ho dal medesimo licenziado udito, che li vidde ivi cosí grandi che i maggiori di loro erano 17 piè longhi, e dove piú grossi sono giravano piú di otto piedi intorno. Ve ne erano anco altri assai minori e mezzani fra questi e quegli grandi, secondo la proprozione della loro età.
Stando tutti quattro maravigliati a vedere questi lupi marini, e sospesi a contemplare diverse cose, si ricordarono de' compagni che restavano nel pericolo che s'è detto, fra quelli scogli. Onde il licenziado pregò quelli tre che seco erano che volessero con la canoa ritornarvi e condurli a poco a poco in quella piaggetta. Risposero li tre che la notte era molto oscura e 'l vento contrario, e non avrebbono mai indovinato a quelli scogli o forzieri dove i compagni lasciati avevano, perchè era molto lontano, e che se essi con la canoa si perdessero erano anco tutti gli altri perduti. Perchè la scusa era lecita e giusta, deliberarono che s'aspettasse fino alla mattina, e perchè il vento era forte tirarono la canoa in terra e la stesero su l'arena di traverso e quasi per lor riparo; e perchè essi vi si coricorono appresso su l'arena, acciochè non cadesse lor sopra, perchè stava posta in terra di fianco, l'appuntellarono con certi legni. E cosí ivi dormirono mezzi coverti dall'arena il meglio che poterono, finchè fu giorno.
Poco prima che uscisse il sole, udirono molte voci che facevano tre cristiani della medesima compagnia, l'un de' quali stava ferito d'un morso che gli avea dato un tiburone, e gli altri due per la paura che avuta avevano, col darsi soverchio fretta al nuotare, avevano molta acqua del mare bevuta. Quel ferito morí tosto che all'isoletta giunse; gli altri due poco piú tempo vissero, che amendue medesimamente morirono, perchè l'acqua del mare è tale che chi molta ne bee non può vivere. E nel farsi il dí chiaro, il licenziado vidde tutta l'altra gente della compagnia che verso l'isoletta ne veniva, nuotando da scoglio in scoglio e da secco in secco e camminando alle volte co' piè per sopra quelli forzieri, benchè fossero in qualche parte fondali; onde questa pareva a punto una pittura o vista dell'universale giudicio che aspettiamo. Allora uscí tosto la canoa e ricoverò i piú deboli e stanchi, e tanto fece viaggi quel giorno che alla fine tutti nell'isoletta si raccolsero. E tre giorni passarono che il licenziado non mangiò altro che quelli pochi granelli di maiz che si sono detti, e gli altri della compagnia nulla.
Onde stavano tutti cosí sbigottiti che parea che volessero di fame e di sete spirare, di piú del travaglio e afflizione in che si ritrovavano; che già il savio lettore sa che la morte differita ma già incominciata ad esseguirsi è di maggior pena. Onde Giulio Cesare, la notte prima che morisse, cenando con Marco Lepido e disputandosi qual fosse la miglior morte, disse che l'improvisa e non aspettata. E in effetto la ragione ci insegna che quella che brevemente passa con meno angustia si pate. Ben si ricordava di questa sentenzia di Cesare il maestro di San Giacomo e contestabile di Castiglia quando, volendoglisi tagliare la testa nella piazza di Valladolid, per ordine del re don Giovanni il secondo, disse al manigoldo: "Deh, fratello, mira che abbi bene affilato e tagliente il ferro, aciochè presto mi ispedischi". Voglio io qui dire che quelli che s'annegarono in mare nel tempo che perderono la caravella men tormento sentirono morendo che non quelli che poi in questo naufragio lasciarono la vita, come piú appresso particolarmente si dirà.
Ritrovandosi adunque questa afflitta gente cosí sbigottita e travagliata dalla fame e dalla sete, senza speranza di potere avere come sostentarsi, essendo già una ora di notte entrarono nell'isoletta cinque testudini grandi. Il che quando fu detto al licenziado, che alquanto indi scostato s'era, raccomandandosi a Dio rispose: "Io l'offerisco alle cinque piaghe di nostro Signore, dalle quali la nostra salute nacque"; e alzatosi se n'andò con colui che questa novella portato gli aveva. Benchè siano assai grandi questi animali, nondimeno, perchè n'avevano delle altre nelle altre parti di queste Indie viste, non se ne maravigliarono, né fu poco il piacere che n'ebbero. Le rivoltarono tosto sotto sopra, perchè cosí rivolte non si possono dimenare né muovere. Ve n'erano cosí grandi, alcune di queste cinque, che il licenziado istesso con altri sei uomini cavalcarono sopra una di loro, che caminando li portava sopra. E perchè non paia errore il mio, né che troppo mi allarghi in questo, in questa stessa città sta ora il licenziado Zuazo, che ne farà fede e lo dirà; e senza che egli lo testifichi, io l'ho vedute nella costiera d'Acha, in terra ferma, e in altre parti, quasi della medesima grandezza che ho detta.
Sí che, ritornando all'istoria, già aveva ben letto il licenziado che, se ben ogni sangue ha in sé qualche veleno, quello della testudine nondimeno è buono e appropriato anco per li leprosi; e in effetto le testudini sono sanissime e contra molte infermità, come fa fede Plinio. Anzi, io credo che con questi animali si rimediò in parte all'infermità e mala disposizione e freddo che preso avevano, di piú di estinguere la fame e la sete, che era un de' maggiori inimici della loro vita. Ora, quando la mattina fu giorno, perchè la sete era insopportabile ed erano cinque giorni che bevuto non avevano, fece il licenziado aprire una di quelle testudini che rivolte sottosopra stavano, e torli da dosso la sua conca o scorcia superiore. Ed esso prima che niuno altro bevve un gran sorso di quel sangue, che pareva un orrore e spavento grande alla compagnia; e nettato che si fu, perchè parve che esso avesse agli altri fatta la credenza, si gettarono tosto l'un sopra l'altro sopra quella stessa testudine, come se veduta avessero qualche osteria di buon vino, o pure quella salubre riviera del Tago, che è una delle miglior acque di Spagna. Non fu mai bevenda piú dolce a gente alcuna che si fosse questo sangue a costoro; e nell'alzarsi ciascun da bere, prima che di quel sangue si nettasse il viso, alzava le mani e gli occhi al cielo, ringraziando Iddio di cosí fatto soccorso e mercé, che aveva loro dato a bere sangue in memoria della sua sacratissima passione, alle cui piaghe aveva il licenziado quelle testudini offerte. Ora con questo sangue, e con molte ova che dentro di questi animali ritrovarono, e con la carne di loro cruda, si sostennero alquanti giorni, finchè tutte cinque le mangiarono.
In questo tempo, da quella isoletta di rena dove perduti stavano (e vi erano miracolosamente venuti), si vedeva un'altra picciola isola da tre leghe indi lontana; onde, per volere del licenziado e degli altri, un dí montarono cinque di loro nella canoa e andaronvi, per vedere se vi poteano acqua ritrovare che fosse buona per bere, perchè dove stavano non ve ne era, ancorchè avessero per ogni parte di quella piaggia arenosa con le mani cavato. Andarono questi cinque con la canoa, e ritornando dissero che non avevano ritrovata acqua buona in quella altra isoletta, benchè vi avessero con mani cavato in molte parti, perchè sempre l'avevano ritrovata cosí amara come è quella del mare istesso; ma che vi erano tanti augelli e tanti nidi con le loro ova che a pena vi si poteva andare coi piedi che non le calpestassero, per la gran copia che per tutto quel luogo ne era.
Non fu poco lieta nuova questa, perchè parea che, mancando le testudini, nostro Signore gli provedesse di un'altra maniera di cibo, col quale potessero sostentarsi finchè la sua misericordia con piú intiero rimedio gli soccorresse. Il licenziado adunque, come pietoso e nobile capitano, diede tosto fretta che tutti a quell'altra isoletta passassero, ed esso volse essere l'ultimo a passarvi, perchè tanta cura aveva del piú minimo schiavo di tutta la compagnia quanto della sua persona stessa: e questa medesima equalità era nel mangiare e nel bere che Iddio miracolosamente lor dava.
Giunti tutti questi afflitti in quella seconda isola, ritrovarono essere cosí come quelli primi detto avevano, ed era tanto il numero degli uccelli che stavano in terra e nell'aria, che nello spazio di 50 passi non si potea un uomo da un altro discernere né chiaramente vedere. Il gracchiare e 'l rumore di questi uccelli e battere dell'ali faceano cosí gran strepito che i nostri non si udivano l'un l'altro. Perchè nella canoa non capevano piú che cinque uomini, e li due remavano, bisognava che a tre a tre vi passassero; i quali, tosto che nell'isoletta giungeano, s'inginocchiavano in terra e ringraziavano il pietoso Iddio, che tanta diversità di uccelli e di tante spezie che non si potevano numerare avesse loro mostrato, perchè sostentare nella vita potuto si fossero, finchè alla maestà sua piaceva di megliore rimedio provederli. E certo che il vedere tanto lieti quelli uccelli fra gli figli e le ova loro pareva una dell'opere maravigliose di Dio, il quale aveva quei famelici cristiani ivi condotti, perchè fra tanta fame e tribulazione avessero che mangiare per saziarsi.
Qui viddero anco molte testudini, e cosí grandi o forse maggiori dell'altre che mangiate prima si avevano, e un grandissimo numero anco di lupi marini, che era strana cosa a vederli e contemplarli.
Vi era alcuno fra quella compagnia che si mangiava e sorbiva 50 o 60 ova senza alzarsi da un luogo, senza l'altre molte che si mangiava di tempo in tempo. Altri mozzavano le teste di quelli uccelli, che non fuggivano da loro, e si succiavano quel sangue. Altri rivolgevano sossopra le testudini per mangiarle e berne il sangue, come già nell'altra isola fatto avevano. Onde, perchè mangiavano ogni cosa cruda, facilmente si infermavano, e la sete del continuo cresceva e si faceva maggiore, onde ne venivano a morire di giorno in giorno. E il sole era tanto che li penetrava fino alle viscere, senza avervi riparo alcuno.
In tante angustie e flagelli non cessavano mai dalla orazione, e il licenziado, come catolico e principale fra gli altri, faceva ufficio di capitano e di cappellano, aiutando a sepellire i morti ed esortando i vivi al ben morire, ricordando loro quello che il Salvatore nostro patí per la generazione umana, acciochè tutti quelli che in questo pericolo si ritrovavano si togliessero volontariamente in pazienzia l'affanno loro. Sí che il medesimo licenziado, cavando con le mani nell'arena, aiutava a fare le sepolture, e ancorchè non avesse ordine sacro diceva i responsorii e gli aiutava e nella vita e nella morte il meglio che poteva perchè si salvassero: onde tutti lo temevano e lo rispettavano come loro signore e come padre.
Certo che si dee pensare e credere, per quello che abbiamo detto e che medesimamente appresso si dirà, che tutti quelli che in questo naufragio da questa vita passarono stiano nella gloria del cielo, perchè la bontà e clemenzia di Dio sempre diede il guiderdone della sua felicità a chi nella sua santa fede perseverò. Veramente che questo cavaliero serví molto a nostro Signore, in quello che s'è detto e in quello che appresso si dirà: e ben si vidde per opera. Poi Iddio il cavò da tanti e cosí gran pericoli, finchè il ripose qui in questa città, dove tanto onorato e riputato si ritrova.
Il licenziado, come persona di discorso e che avea già veduto come gl'Indiani accendevano lume, come s'è detto nel sesto libro, conoscendo che la maggior parte dell'infermità delle quali alcuni de' suoi compagni morivano nascevano dal mangiar crude quelle carni e pesci, onde per rimediarvi, per quelli che vivi vi restavano, tolti due pezzi di legno secco che ivi il mare condotti aveva, ne cavò fuoco fregandoli forte insieme: di che sentirono una nuova maniera di piacere tutti. E appreso il fuoco cominciarono ad arrostire alcuni di quelli uccelli, che stavano ben grassi e molto odoravano. Ma non già per questo gli restava di crescere ogn'ora piú la sete, anzi pareva che dal medesimo rimedio maggiori inconvenienti nascessero, perchè piú vicini alla morte si vedessero. Stando in questa miseria ogni dí ne morivano, e senza dubio pareva che Iddio miracolosamente sostenesse in vita questo cavaliero, poichè, essendo esso piú delicato degli altri e meno uso a quelle miserie, anzi allevato in buoni cibi e ben servito a casa sua, doveva chiaramente maggiore alterazione sentire nella sua persona e piú infermarsi che niuno degli altri, per avere fatto cosí grande e cosí subita mutazione in mangiare carne cruda e bere sangue.
Ma, lasciando il miracolo da parte e attribuendolo alla ragion naturale (benchè solo Iddio sappia chi è degno di godere delle sue maraviglie), dico che egli, come prudente, mangiava poco, e perciò avea meno ardente lo stomaco e poteva meglio sostenere la sete, ed esso aveva per costume di non bere mai fra 'l giorno. Là dove gli altri, essendo persone piú sane e meno obligate a regola, perseveravano anco qui ne' soliti loro disordini; onde s'andavano di modo seccando che pareano imbalsimati, finchè all'ultimo non restava loro altro che il cuoio e l'ossa, senza perdere mai la parola fino all'ultimo ponto della morte. Il che era un'altra maraviglia, anzi una grazia speziale che pareva che Iddio per sua clemenzia concedesse loro, di potere morire con la lingua, acciochè l'avessero potuto ringraziare di quello che loro faceva.
Ebbero per costume tutti questi afflitti che in cosí aspera penitenzia si ritrovavano di non cessare mai niun dí dall'orazione, perchè da prima che fosse dí ciascuno si tirava solo da parte, per potere meglio nelle sue contemplazioni e particolari devozioni attendere, acciochè il Signore Iddio meglio gli audisse in cosí segnalato ed evidente pericolo di fame e di sete: perchè, se ben parea che stessero a qualche modo sodisfatti della vivanda che aveano, perchè mancava loro il pane e l'acqua parea che ogni altra cosa fosse nulla e che agli stomachi loro non satisfacesse. E sempre che voleano mangiare ginocchiati benedicevano Iddio che glielo dava, e con lagrime quotidiane infinitamente il ringraziavano e lo pregavano che, poichè col suo prezioso sangue riscossi gli aveva, non gli abbandonasse in quella tanta calamità, che essi avevano viva confidanza in lui, che cosí loro darebbe il cibo quotidiano come aveva già agli Israeliti nel deserto data la manna dal cielo, e cavata dalla viva pietra l'acque vive perchè bevessero, che già 12 dí passati erano che non avevano goccia d'acqua provata. E replicando nella loro orazione dicevano: "Pietoso padre, ben vedi tu quello di che noi bisogno abbiamo; niun ti può chiedere cosí giustamente come può la tua infinita misericordia e rimediare alle nostre necessità". E a questo proposito ciascuno, come piú loro Iddio poneva in bocca, porgeva il suoi prieghi, accompagnati da infiniti sospiri e lagrime, che a lui e alla sua gloriosa Madre offerivano. E piú che tutti gli altri ciò faceva il licenziado, che, essendo persona cosí ben nata e devota e savia, drizzava al Signore la sua orazione e le sue lagrime, mischiate dell'autorità della sacra scrittura. Il perchè parea che fosse Iddio obligato a soccorrerli e ad avere pietà di loro, poichè dalla loro parte facevano quanto potevano per conseguire la sua misericordia, e cercare da mangiare in tanta necessità e fame che pativano. E perchè Iddio ha promesso nel suo sacro Evangelio di dare copiosamente il cibo a quelli che in lui confideranno, e che perciò non dobbiamo pensare a quello che si dee mangiare, e ci pone l'esempio degli uccelli, che non seminano e non raccolgono, ed esso dà lor copiosamente quanto fa loro bisogno, stava il devoto licenziado in gran confidanzia che il signore Iddio non fosse loro dovuto mancare in tanta necessità. In effetto molte furono le lagrime che versarono questi sconsolati, e con grandissima attenzione l'orazione loro continuarono: parlo cosí di quelli che in questi travagli morirono come di quelli che restarono in vita, e ne ringraziarono il benigno nostro Signore.
Ritrovandosi le cose ne' termini che ho detto, benchè il sangue e 'l bianco delle ova crude mitigassero alquanto la sete per qualche poco spazio di tempo, sopragiongeva poi nondimeno tanto calore nello stomaco che s'addoppiava la sete, e ogni dí ne moriva alcuno. Era fra questa compagnia una fanciulla di 11 anni chiamata Agnesicca, la quale, essendo presso alla morte, accennò di voler parlare alcuna cosa. Onde le s'accostarono tre, chiamati Gonzalo Gomes, Francesco Valestrero e Giovanni d'Arenas, e la dimandarono che cosa dire volesse. Rispose la fanciulla che vi venissero piú genti, che voleva loro parlare. E cosí vi vennero da undeci uomini, in presenzia de' quali ella disse che l'era venuta una donna attempata, risplendente come il sole e con le sue vesti bianche e verdi, e le aveva detto che era santa Anna, madre della Madre di Dio, e che l'avea dimandata dove stava il licenziado (come se in quel tempo si fosse molto indi lontano ritrovato), e che essa aveva risposto accennando col deto: "Eccolo là, signora". E santa Anna avea replicato: "Va', digli adunque che se ne passi a quella altra isola che si vede dalla banda di ponente, che io là gli darò dell'acqua che possa bersi, e cosí non morirà in questi deserti". Il che quando coloro che ascoltavano la fanciulla intesero, con gran piacere se n'andarono correndo al licenziado, e circondatolo tutti li raccontarono tutto questo che passato era, ma con altre parole, volendo mostrarli che esso fosse amico di Dio; ed egli, riputandosi piú peccatore degli altri e non insuperbendosi di simil cosa, andò per certificarsi dalla fanciulla, e la ritrovò che già finiva di morire. Tutti ringraziarono il pietoso Iddio, sperando di dovere da cosí gran pericolo uscire quanto era quello nel quale si ritrovavano, perchè in quel dí che questo miracolo accadette morirono 9 persone, e tutti di sete, onde quelli che vivi restavano pensavano che, per molto che loro si differisse la morte, non potea essere piú che di 5 o 6 altri dí; e la maggior parte di loro aveano cosí gran limo su la lingua e nel palato e gingive che con gran fatica parlare potevano, e se dicevano cosa alcuna senza forza e cosí basso che a pena si potevano intendere.
Venuti a questa gran estremità, e parendo a quelli che vivi restati erano di non potere iscampare, diedero ordine di passare a quella isola che la benedetta madre della Madre di Dio aveva mostrato. Il licenziado fece passare prima tre barcate di gente, con quelle ova e uccelletti che portare poterono, e finchè non furono passati tutti non volse passarvi esso. Ma quando vi passò ritrovò tutta la gente assai sconsolata e quasi per spirare l'anima, e la cagione era che, se ben si erano isforzati alquanto con la speranza di dovere ritrovare l'acqua, avendo poi cavato per molti luoghi di questa ultima isoletta non vi avevano potuto acqua dolce ritrovare. Sí che, isconfidati di quello che sant'Anna rivelato aveva, uscirono a ricevere il licenziado, alcuni piangendo, altri ponendo fino alla cintura nell'acqua con certe gran conche di chiocciole piene d'acqua salsa, e dicendo: "Vedete qui, signore, l'acqua che ritroviamo"; la quale egli provò, e la ritrovò salsa e amara. Egli allora disse che si confidassero in Dio e avessero fede, che era facile cosa a nostro Signore cavare l'acqua da un scoglio, e molto piú facile gli era il convertire l'amara e salsa in saporosa e dolce, come il profeta Eliseo con un vaso nuovo fece, e che perciò pensassero tutti di rinovare l'anime loro e le coscienzie, pentendosi amaramente de' loro peccati, e tenessero di certo che con quella acqua salsa il benigno Salvator nostro e la benedetta sua avola loro darebbono acqua dolce da potere vivere.
Questa isola è differente dalle altre due prime, perchè l'altre erano strette e lunghe e senza erba alcuna, né vi si vedeva altro che conchiglie rotte e arena, e questa ultima era tonda e aveva tre maniere d'erbe: l'una era come masturzo, che arde molto, l'altra era di quelli triboli marini che van serpendo e stendendosi sopra la terra, la terza era di certi altri triboli, dal cui pedale molti rampolli uscivano. Dalla congiettura di queste erbe presero speranza di ritrovare quivi acqua. Ora il licenziado, confortati che ebbe tutti e postoli in speranza che queste erbe erano un segno naturale che qui fosse dovuto essere acqua dolce, provò l'acqua di tutti que' luoghi dove cavato avevano e la ritrovò amarissima. Onde disse che era possibile che in quella isola fosse acqua buona e che per li peccati loro Iddio non gliela mostrasse, e perciò per placarlo bisognava che tutti si confessassero e con contrizione vera e lagrime si pentissero, e che doppo questo esso avrebbe loro detto quello che fare si doveva. Allora tutti s'appartarono a due a due e si confessarono l'un l'altro. Poi disse loro il licenziado che tutti promettessero castità per un anno, che cosí Iddio gli essaudirebbe. Tutti tosto la votarono come esso disse, fuori che tre che la votarono perpetuamente, e di farsi frati di san Francesco. E questi furono un Sancio di Spinosa, creato dal licenziado, e quello Arenas che s'è detto di sopra, e un Pietro di Simancas.
E fatto questo fecero una processione, nella quale il licenziado era il prete, e andava con una croce in mano, d'un legno che ivi casualmente si ritrovò. E con molta devozione e lagrime andarono tutti d'intorno all'isoletta circondandola, e cantando le letanie con molte differenzie di voci e di toni, assai rauchi e deboli. E data una volta intorno (che tutta l'isoletta poteva essere quanto è la piazza di san Francesco di Siviglia o meno), attraversarono l'isola per mezzo, facendo co' piedi onde andavano una semita nell'arena, e con la medesima processione seguirono attraversandola medesimamente per l'altro verso in croce, lasciando co' piedi i medesimi vestigii, a punto come se un pane tondo si partisse in croce e se ne facessero quattro parti uguali. A questo modo restò partita co' piedi in croce questa isoletta, e nel mezzo fece il licenziado cavare; ma prima che vi si cavasse egli predicò, e recò nella memoria di tutti come Iddio fino a quella ora aveva loro dato a bere sangue crudo, ed essi lo avevano umilmente bevuto in memoria della sua sacratissima passione, nella quale era dal suo sacro costato uscita anco insieme col sangue l'acqua, e che per ciò la santa chiesa nella messa e communione del sacerdote col vino mischiava l'acqua anco. Onde tutti, con questa confidanza che, come il benigno Iddio aveva fino a quella ora loro dato il sangue, cosí anco darebbe loro dell'acqua, cavassero in quel luogo dove avevano fatto la croce, che vi la ritrovarebbono buona. E a questo proposito recò l'esempio di Eliseo profeta e l'esempio della samaritana e altre cose simili. Tutti allora, postisi d'intorno a quel luogo, cominciarono con molta fretta a cavare con le mani, e non andarono piú giú che un cubito e vi ritrovarono acqua dolce che si puoté ben bere, e con la quale si sostennero 135 dí che ivi furono.
Questo fu certo un miracolo grande, che in piú di duemila parti fu cavato in tutta quella isola, e mai non si ritrovò acqua dolce fuori che in questo luogo solo. Il licenziado allora, tolta una conchiglia di quella acqua, disse che niun bevesse, perchè prima d'ogni altra cosa voleva la prima acqua offerire al Signore Iddio e alla gloriosa sant'Anna, come aveva già fatto David dell'acqua della cisterna. E gettato di quella acqua per l'aere a modo di croce, offerendola al Signore Iddio e a santa Anna benedetta, di quello che vi avanzò ne diede un sorso per uno a modo di communione, e d'una licenzia che potessero poi tutti bere e si saziassero.
Vi fu un uomo (che fu il pilotto della nave) che da che il sole pose fino alla mattina seguente non fece altro che bere, senza pensarsi d'essere mai sazio, e quanto per bocca beveva lo gettava per di sotto: onde indi a duo giorni morí. Chi potrebbe o saprebbe dire le contemplazioni che facevano quelli pochi che vi avanzavano, e spezialmente alcune donne che ivi erano? Tutti stavano allegri col cuore e con buona disposizione di non dovere riputare amara la morte, quantunque venisse, cosí si erano nelle afflizioni assuefatti e avezzi.
Avendo già fuoco e acqua costoro, e di quelle testudini e ova e uccelli che dalla seconda isoletta portavano, erano in gran speranza venuti di dovere vivere, e dicevano che, poichè fino a quella ora cosí gran miracoli aveva per loro fatti il Signore Iddio, non si dovevano isconfidare di doverne anco la perfetta salute ottenere, e di dovere da quelli luoghi uscire.
Quest'acqua che bevevano a certi quarti della luna si faceva piú dolce che in altri tempi, e con certi venti medesimamente, che erano il nordeste e il sudueste, ed era piú salsa col sueste che col norveste. Di modo che era bisogno con questi tempi rimediare accecando il fonte e facendone un altro ivi da presso: e a questo rimediavano alla miseria loro.
E diede loro Iddio cosí copiosamente quest'acqua quanto si vede essere in qual si voglia indeficiente fonte. E si ha da tenere questo per certo, che di tutte le cose necessarie alla vita umana l'acqua buona è necessarissima, e quando ella sola manca non si può l'uomo, benchè tutte l'altre cose abbia, rallegrare, perchè tutti quelli di questa compagnia che dell'acqua del mare bevettero morirono, come se potentissimo veleno bevuto avessero.
Onde, perchè tutti vedevano che quest'acqua uccideva, un paggetto del licenziado, chiamato Luigicco, avendo gran sete (prima che l'acqua buona avessero), perchè vidde nel lito una lupa marina dare il latte a due suoi luparelli, s'accostò pian piano e, toltone uno dalla tetta di sua madre, vi pose esso la bocca il meglio che puoté, per non essere da quel ferocissimo animale sentito. Ma la lupa, conoscendo tosto che il suchiare non era di suo figliuolo, si rivoltò sopra un fianco e afferrò il paggio nella polpa d'una gamba e gliela tagliò a torno fino all'osso, benchè da una banda restasse tutta quella polpa ad un poco di carne appesa. E il licenziado suo signore poi gliela ritornò a porre nel suo proprio luogo e gliela legò, e con l'acqua del mare se la curò egli poi e se ne guarí.
Nel tempo che costoro si perderono e la caravella si spezzò, un Giovan Sances, esperto e destro nelle cose del mare e che s'era in altri naufragi e pericoli veduto, benchè non cosí grandi, perchè sapeva a che solevano simili cose riuscire, diede un grande aviso; e fu questo, che tutte le tavole della perduta caravella avere si potessero si raccogliessero con l'albero e con li capi e sarti e ogni altra cosa che fosse stata possibile, perchè di simili cose sogliono maggiori utili provenire che non d'argento rotto. Egli fece tutte queste cose raccolte legare a quelli scogli e forzieri che si sono detti, e dove traversi andarono. Quando essi poi andarono alla prima isoletta, il dissero al licenziado. Ora, poi che fu abbonacciato il mare, ritornarono con la canoa piú volte a portare via tutte queste cose da quelli scogli, benchè qui fusse per lo piú fiero il mare. E cosí ogni otto o ogni quindeci dí ricuperavano tre o quattro tavole di quelle che ivi lasciate legate avevano, con parte delli capi o sarti. Le quali funi il licenziado e gli altri ogni dí istorcevano e disfacevanle per farne stoppa. E in questo esercizio stettero tre mesi, finchè in tutto questo tempo, con alcune spade che erano loro avanzate, rompendole per mezzo, e con li chiodi che dalle medesime tavole cavarono, fecero una picciola barchetta nella quale potevano capire quattro uomini, e in luogo di trivella per potere ficcare questi chiodi toglievano dalle spade i pomi e le maniche, e come di spedo si servivano di quelle spichette di ferro infocate. E cosí pertuggiavano per legare e stringere una tavola con l'altra. E quella stoppa che delle sarti e capi fatta avevano ponevano fra le giunture delle tavole, perchè non vi potesse entrare l'acqua dentro. Egli in effetto si forní a poco a poco di fare questa barchetta, perchè tutto il tempo delli tre mesi non furono in altro occupati tutti che in questo lavoro, e nella orazione che ordinariamente facevano.
Il cibo del desinare e della cena erano le testudini, i lupi marini i granchi, i conchigli e altre cose marittime che ivi si ritrovavano. E la canoa andava e veniva dalla seconda isola, dove erano tutti quelli uccelli e ova e testudini, e portava di quello che vi ritrovava. Durarono gli uccelli a schiudere i loro figli un mese e mezzo, benchè fosse infinito il numero che i cristiani di quelle ova mangiarono. Passato adunque il mese e mezzo, se n'andarono via tutti questi uccelli, che non ve ne restò pure uno. Mangiavano questi cibi e bolliti e arrosti, e li cocevano in questo modo. Le legna che avevano in quest'isoletta erano certi alberi secchi che nascono, o pure, non nascendovi, li ritrovavano sotto il mare, ed erano cosí grandi che fino alla cintura vi giungevano. Il legno loro è nero, e cosí duro come un osso, e sta come foderato di sopra di una pietra. Ritrovavano questi legni sotto l'arena atterrati in quell'isoletta, che pareva che il mare condotti ve gli avesse. Li cavavano di sotto l'arena per arderli al fuoco; ma perchè stavano, come s'è detto, coperti di pietra, non potevano ardere. Onde il rimedio perchè ardessero era questo, che dalli lupi marini che ammazzavano cavano gran quantità di grasso o di assungia, come pani grassi di porco, e ne ponevano sopra quelli legni; onde, tosto che cominciava a scaldarsi, penetrava fra la pietra e 'l legno e l'accendeva mirabilmente, e faceva un chiaro e buon fuoco.
I vasi dove queste carni o pesci si cuocevano erano le conche delle testudini, in ognuna delle quali capiva mezzo lupo marino, e sei e dieci e dodici uccelli e piú ancora, e tre e quattro pezzi di testudine, e quelle ova che parea che vi bisognassero. E se una di queste calderate non bastava, ritornavano a fare l'altra e l'altra secondo il bisogno. La carne del lupo mangiavano in luogo di pane, e l'altre cose in luogo di vivanda. E cosí mangiavano questi cibi con gran voglia e sapore, per cagione della salsa dell'appetito, come se fossero state le piú soavi e le migliori vivande del mondo.
Stando in questa stretta e misera abitazione succedevano alcune tempeste; onde, perchè ivi era il mare bravo, non poteva la canoa andare all'isola di mezzo per monizione di mangiare, mentre che quelli uccelli vi furono, perchè nell'isola dove ritrovarono l'acqua e dove stavano fermi non vi era altra cosa da mangiare che lupi marini, delli quali stavano già ormai cosí stomacati che gli aborrivano, e mangiavano solamente alcuni piccioli granchi di poca sustanzia. Veggendosi adunque in estrema necessità, dimandò il licenziado a quelle genti di mare che ivi erano s'era possibile a prendere qualche tiburone, di quelli tanti che andavano d'intorno all'isoletta fra quelle seccagne, che per ordinario sempre se ne vedevano la mattina molti e alle volte anche la sera, a 30 e 40 insieme, con la schiena e con una parte del corpo scoverta. E come s'è di sopra di loro scritto, questi sono fieri animali, ed erano un gran passatempo a quella disconsolata compagnia, che fra tanti travagli ne prendeva qualche ricreazione: perchè accadeva alcuna volta che un tiro di pietra lontano stava un lupo marino ispenserato rinfrescandosi e trescando in quelle piagge, e li venivano alla traccia come cacciatori 20 e 30 di quelli tiburoni, e li si ponevano in ala intorno e a poco a poco il cingevano e 'l ponevano in mezzo; poi un solo tiburone, partendo con gran furia dagli altri, andava a dargli un gran morso che il disordinava, e sopragiungendo tosto tutti gli altri in un momento ne facevano pezzi e sel mangiavano tutto a fatto, e dove quella battaglia si faceva ne restava il mare tinto di sangue. Ma, mentre che la zuffa durava, col dibattere delle code facevano saltare l'acqua tanto alta quanto è una torre, che era cosa maravigliosa a vedere. Ho udito dire dal licenziado istesso che alcuni di questi lupi, che dovevano essere scampati d'alcuna simile battaglia, passavano poi a dormire in terra in quella isoletta, con qualche morso avuto d'un palmo e mezzo largo che li parivano le costole. E di questa maniera ritrovavano anche alcuna volta le testudini, che ad alcuna mancava un'ala, ad alcun'altra un piede: perchè non è cosa dove non stenda la bocca il tiburone e non la tronchi, per dura che sia, dovunque l'afferra, a punto come un rasoio si farebbe o con una ben tagliente azza. Gli ho anco udito dire che questi lupi sono piú disciolti e destri nell'acqua che non vi sono i tiburoni, di che resto io assai maravigliato, perchè ho io molte volte veduti i tiburoni seguire le navi con tutte le vele gonfie e con prospero vento, e passarle avanti e darle anco giri intorno, e passare nondimeno sempre poi oltre, come s'è a dietro detto nel luogo suo.
Dicevamo di sopra che il licenziado avea dimandato a quelle genti di mare se si fosse potuto prendere qualche tiburone. Li risposero che era impossibile perchè, oltra che quello era animale cosí grande e fiero, non avevano apparecchio alcuno, né sapevano come si fosse potuto prendere. Ma, perchè la necessità fa ingegnosi gli uomini di buon spirito e di gentile animo, trovandosi il licenziado astretto dalla fame, vidde il timone della caravella perduta con certi ferri che ordinariamente stare vi sogliono; onde s'imaginò tosto di cavarli da quel tavolone e d'attaccarne uno in un legno che ivi era, di sette palmi lungo, e di provare di potere con questo istromento ammazzare qualche tiburone. E cosí il pose tosto ad effetto, e chiavato che ebbe assai bene questo artificio fece nell'altro capo di quel legno legare una buona e grossa corda e lunga. I marinai e gli altri che questo vedevano se ne facevano beffe, e tenevano per una burla questa impresa del licenziado, che si avea posto in cuore d'ammazzare qualche tiburone prima che abbonacciasse il mare, e se potesse con la canoa all'altra isoletta andare per la monizione ordinaria. Sí, perchè impossibile il tenevano, non volsero gli altri seguirlo.
Allora esso e un suo creato chiamato Spinosa Montagnese, di gentil cuore, posero nell'acqua un lupo marino morto, di quelli che nella piaggia dell'isoletta stavano. Il licenziado diede quello istromento in man di Spinosa e cosí gli disse: "Vienmi dietro e fa' quello che io ti dirò". Esso si menava il lupo dinanzi, e l'acqua stessa glielo aiutava portare, e l'andava drizzando verso un gran tiburone che vedeva, e giunse finchè l'acqua li dava nel petto. Quando il tiburon vidde il lupo, gliene venne odore, se ne venne al dritto. Allora il licenziado accennò con l'occhio a Spinosa che si ponesse in certa parte della piaggia e stesse in cervello per non errare il colpo. Il tiburone, quando giunse, volse Iddio che egli non desse già di sotto il colpo, perchè sarebbe stato possibile che il licenziado fosse restato senza una gamba o pure senza la vita. Egli si faceva a poco a poco a dietro, tenendosi sempre il morto lupo dinanzi. Ora il pesce diede un gran morso nel lupo, e al tirar co' denti fece con la botta andare il licenziado a cadere sotto l'acqua. Ma esso si ritornò presto ad alzare, e a ritirarsi verso dove Spinosa stava con quello istromento a due mani alzato. Il tiburone, inghiottito quello che co' denti afferrato aveva, seguiva tuttavia dietro alla caccia, e perchè andava incarnato e cieco dalla sua golosità vi stese di nuovo la bocca. Onde, quando parve al licenziado il tempo, disse al suo servitore: "Dàlli, dàlli". Ed egli cosí fece, che li chiavò quel ferro, che era ben grande e grosso quanto un catenaccio, nel cerebro. Quando il pesce si sentí ferito, s'alzò e mosse in un subito e con tanta furia che ne fece andare Spinosa sotto acqua; il quale, insieme col licenziado, attaccati alla corda che si disse, furono buon pezzo dal pesce portati a forza dentro l'acqua, fin che alle voci d'amendue corse l'altra gente a soccorrerli, e tirando tutti la corda cavarono mezzo il tiburone in terra, che già venia morto.
Ed era femina, perchè, avendolo poi posto tutto su la piaggia, viddero che era già presso al parto. Tutti lieti di questa buona caccia sventrarono il pesce, e ne cavarono 35 tiburoncelli, ognun de' quali era duo palmi e mezzo: ed erano questi piccioli un buon mangiare. Ma non durarono piú che due giorni e mezzo con la carne della madre, perchè, non avendo sale, il resto poi si corroppe e guastò. Ma mentre si mantenne ebbero che mangiare, finchè il mare s'abbonacciò e si possette con la canoa all'altra isola passare. Di qui si cava che Iddio vuole che gli uomini facciano quello che è in loro, che esso col suo favore li soccorre e dà industria (come in questo caso si vidde), acciochè quello che pare impossibile si faccia facilissimo, quando a lui piace, e da quelli specialmente che hanno una intiera confidanza e fede nella bontà dell'omnipotente Iddio.
Non essendo ancora finite le disgrazie di questa afflitta gente, quando il mare poi abbonacciò partí la canoa con un Pietro di Medina e con cinque neri del licenziado Zuazo, per andare a portare dall'altra isoletta testudini e altri sostentamenti per la vita. Ma sopragiunse loro tanto vento di tramontana che annegò la canoa e quelli che dentro vi andavano, che non ne comparse giamai niuno né se ne seppe novella. Avendoli i compagni fin piú di mezzanotte aspettati, s'accorsero, del vento e tempesta che era stata, di quello che era loro potuto avvenire; di modo che le lagrime e 'l dispiacere di questa gente incominciarono a rinovellarsi. E certo con molta ragione, poichè, doppo d'Iddio, avevano in quella canoa gran speranza, che parea che miracolosamente fosse stata loro data da Dio, per salvarli e levarli da quelli scogli dove s'erano con la caravella perduti. Ma perchè s'erano già a tante adversità avvezzi (benchè questa di molta importanzia fosse), la passarono con l'altre molte il meglio che si puoté.
La perdita della canoa fu gran causa perchè piú affrettassero a fornire il lavoro della barchetta che facevano delle tavole della caravella fracassata e rotta, che avevano già incominciata ma non fornita. E recata che l'ebbero a fine, determinarono che si mandasse alla Nuova Spagna con tre uomini, che furono quelli che avevano votata perpetua castità, Gonzalo Gomes, Francesco Valestrero e Giovan d'Arenas; e con loro doveva andare un garzonetto indiano, per non fare altro che continuamente aggottare l'acqua che la barchetta faceva, perchè non vi avevano avuta comodità di poterla bene calafatare.
Ma prima che questi partissero, passò la barca all'isoletta di mezzo e portò tutte le testudini che vi puoté avere, acciochè quelli che restavano avessero avuto con che mantenersi mentre che la barchetta alla Nuova Spagna andava, e ritornasse (s'al Signor Dio piacesse) qualche vassello grosso per questa gente perduta, e acciochè avessero avuto medesimamente che mangiare in questo loro lungo viaggio li tre che navigare dovevano. Ora, nella prima barcata portarono cinque testudini, che ne fecero pezzi e li lasciarono seccare, perchè la barchetta avesse nel suo viaggio della Nuova Spagna questa provigione avuta. Cinque altre testudini che nella seconda volta portarono restavano alle genti che restava aspettando il soccorso di Dio.
E perchè non avevano comodità di portare acqua quelli che dovevano andare con la barchetta, non sapendo come rimediarvi, perchè non avevano vasi, il licenziado fece ammazzar alcuni lupi marini e scorticarli chiusi a modo di utri, e questi fece poi empire d'acqua. E certo che questi vasi da portare acqua erano li piú strani e nuovi che mai si udissero né vedessero al mondo. Fatti e pieni d'acqua quattro o cinque di questi utri, e con quelli pezzi di testudini per provigione del camino e per zavorra del legnetto, con alcuna conchiglia per potervi bere, si partirono li tre già detti di sopra con quel garzonetto indiano. Al miglior navigare che avessero potuto fare, dovevano costoro prendere terra nella Nuova Spagna, là dove dicono i Termini (secondo il dritto onde la barchetta partiva), che erano ben 60 leghe lungi dalla Villa Ricca, dove costoro desideravano andare.
Ma piacque a nostro Signore, che è la vera guida, e che con buon tempo li condusse contra l'ordinario di quel golfo, che suole sempre essere tempestoso, che senza sapere dove si fossero giunsero tre leghe lungi da Villa Ricca piú verso ponente. Smontati a terra viddero sterco di cavalli, e da questo conobbero che ivi erano cristiani; onde tanto fu il piacere che ne ebbero che ringraziando Iddio si chinarono a basciarlo, e con molta confidanza cominciarono a caminare, finchè giunsero ad una terra chiamata Diahustan, che era presso dove essi ismontati erano. Quivi il caciche, signor di quel popolo, diede loro a segnali notizia della Villa Ricca, e diede loro de' frutti della terra e una gallina perchè mangiassero. Era tanta la fame che avevano che non potevano aspettare che si pelasse, e senza aprirla altramente mezza cotta se la mangiarono. Poi, tolta una guida che il caciche lor diede, se ne andarono alla Villa Ricca, dove ritrovarono un Simon di Conca, luogotenente di Fernando Cortese in tutta quella contrada. Quando costui vidde questi tre col garzonetto indiano, cosí deboli e ignudi, non ne fece conto alcuno. Onde, quando Gonzalo Gomes s'avvide che costui dissimulava, li presentò una carta del licenziado Zuazo, che non era piú che duo diti larga ed era di pergamina, che l'avea tagliata da una carta di navigare, e scrittovi di sua mano col sangue di certe conchiglie, con le quali sogliono tingere i panni e darli il colore della purpura, che ne erano in quella isoletta dove questi afflitti si ritrovavano. E il licenziado, come io gli ho udito dire alcuna volta, tiene di certo che, secondo che Plinio ne scrive, quella che egli vidde e ritrovò per scriverne la sua carta fu vera purpura. E dice che molte di queste conchiglie si ritrovano in quelle isole degli Alacrani, che cosí chiamano quelle tre dove egli con la sua compagnia tanta penitenzia fece. Ora, in quella poca carta erano queste sole parole scritte: "Qual si voglia governatore che questa leggerà sappia che il licenziado Alonso Zuazo si truova nell'isole degli Alacrani tre mesi perduto e con molto pericolo, insieme con tutta la gente che seco andava quando si perdé, e perciò mandili tosto soccorso, del quale essi hanno molta necessità".
Prima che ad altro si passi, dico che queste picciole isolette, sterilissime e disabitate, e chiamate degli Alacrani, stanno a 22 gradi della linea equinoziale dalla parte del nostro polo, e poste verso ponente 106 leghe dalla ponta, o capo di Santo Antonio, che è l'ultima parte occidentale dell'isola di Cuba, e dalle dette isolette fino alla Villa Ricca in terra ferma sono da 155 leghe, se la moderna cosmografia e carta del pilotto Diego Ribero non mi inganna: sí che non è minor miracolo l'essere una cosí picciola barchetta e mal composta giunta a salvamento per cosí longo e furibondo mare, dove molti grossi e buoni vasselli e da esperti marinai guidati vi si sono persi. Il perchè voglio io inferire che quelli che Iddio vuol guardare possono navigare sicuro, e non hanno d'altra guida o pilotto bisogno.
Doppo che il luogotenente Simon di Conca ebbe quelli pochi versi letti, tosto mandò quella stessa carta con un'altra sua a Fernando Cortese. Poi fece molto onore alli tre uomini che il licenziado mandava, e volse intenderne tutto quello che avvenuto era. Appresso diede loro cavalcature perchè potessero tosto andare alla villa di Medellino, dove stava un altro luogotenente del Cortese, chiamato Diego d'Ocampo, che era già stato luogotenente del Zuazo in questa isola Spagnuola. Quando questi giunsero a Medellino, che è nove leghe dalla Villa Ricca, e del bisogno del licenziado diedero nuova particolarmente, tosto Diego d'Ocampo diede ordine che un legno, che stava già apparecchiato per fare vela, andasse a questo servigio. E vi fece con fretta porre dentro molte galline di quelle del paese, che sono grosse come i pavoni di Spagna e di non meno buon gusto; fece anco portare di quelle di Castiglia, e prosutti e pane e vino e conserva e altri rinfrescamenti. E con questa caravella partirono anco i tre messi che qui venuti a questo effetto erano, e non vi stettero qui in terra ferma piú che tre giorni da che giunti vi erano. Ma perchè non resti cosa alcuna sustanziale a dietro da dirsi, si dee sapere che la barchetta che portò questi tre messi del Zuazo alla Nuova Spagna in undeci dí vi giunse, là dove la caravella, ritornandovi con lo soccorso, penò ventiotto giorni a fare quel medesimo camino.
Un caso notabile avvenne, che è degno che non si taccia, che in quel dí stesso, anzi in quella stessa ora che il Gonzalo Gomes giunse in terra ferma, s'imposero nell'isoletta dove il licenziado e compagni erano cinque uccelli, che chiamano rabiforcati, la cui forma s'è di sopra descritta al suo luogo. Il che parve gran novità, cosí domestici stavano e presso i nostri senza spaventarsene: onde pensavano che questo volesse significare qualche buona nuova che loro Iddio mandava, e che la loro barchetta e gente dovevano esser giunte a salvamento nella Nuova Spagna. Con la quale speranza tanto piacere presero che deliberarono di non fare male alcuno a quelli uccelli, che cosí loro da presso stavano che con un bastone o con un dardo avrebbono potuto percuoterli. E i rabiforcati qui con tanta domestichezza s'espulciarono e polirono che non averebbono piú fatto se uccelli domestici stati fossero, e fra queste genti allevati.
Fernando Cortese faceva a quel tempo residenzia nella città di Mescico e Temistitan, che è nella Villa Ricca, settantacinque leghe lontano, e il messo o posta che Simon di Conca vi mandò vi giunse in meno di quattro giorni, perchè in quel tempo stavano gl'Indiani in poste, e correva uno o due o tre leghe meglio che un cavallo da posta, e costui dava le lettere ad un altro che faceva il medesimo, e l'altro all'altro. Onde per questa via, quando fu rotto Panfilo di Narbaes in Cempual, ne giunse in un dí la nuova a Mescico: ed è l'un luogo dall'altro settantacinque leghe lontano. Or, con questa stessa diligenzia, giunse presto la nuova della perdita del Zuazo a Fernando Cortese, il quale si ritrovava mangiando, e tanto di questa nuova si risentí che lasciò di mangiare, e mandò tosto due suoi servitori da staffa perchè andassero in Medellin, e donò loro cento castigliani d'oro, e cinquanta di piú ne promise a chi di loro prima vi giungeva, acciochè tosto nel giungere loro il suo luogotenente Diego d'Ocampo mandasse un legno per lo licenziado e per gli altri che seco erano; e mostrò molto di risentirsi di questa tanta adversità. Anzi egli disse anco questa parola, che Diego d'Ocampo sarebbe stato di gran colpa degno se tosto, nel giungere de' suoi staffieri, e molto prima anco, non avesse a tutto il bisogno provisto. E già cosí era stato, che quando costoro giunsero era già molto prima il vassello col soccorso partito, come si è detto di sopra.
Mentre che quella barchetta andava con li messi del Zuazo nella Nuova Spagna, e che la caravella col soccorso veniva, si mantenne quella afflitta compagnia con le cinque testudini che le restarono, mangiandole regolatamente, come persone che da tante tribulazioni circondati si vedevano, e col soccorso cosí lontano. E benchè la parte che se ne dava a ciascuno fosse assai poca, non bastò nondimeno questa provigione piú che quindeci giorni prima che la caravella col soccorso giungesse. Ma tosto che furono le testudini fornite, vennero nell'isoletta dove il licenziado stava un gran numero d'uccelli: alcuni se ne rassomigliavano a quelli che avevano nell'altra isoletta ritrovati, e altri d'altre spezie ne erano. Ma non vi facevano questi già il nido, come avevano già fatto nella seconda isoletta, se non che vi venivano al tardi del giorno e s'imponevano nella parte dell'isola da ponente, e qui con grande amore si congiungevano i maschi con le femine, che a questo modo era. Restavano le femine in terra e i maschi se ne ritornavano in alto mare, e poco appresso se ne ritornavano nell'isola con certi piccioli pesci nel becco, come se portassero il cibo a' loro piccioli figli, che ancor non avevano. Or, con quel cibo s'imponevano su l'arena presso alle femine, le quali tosto verso di loro correvano per torli il cibo che ogni maschio nel becco portava, e fuggiva un poco di dargliele; e a questo modo cianciando andavano finchè le femine toglievano loro dal becco quel cibo, e cosí poi si congiungevano insieme l'un con l'altro con grande gracchiare, che era cosa degna di vedersi e contemplarsi. Doppo questo loro congiungimento cominciarono a fare delle ova in gran copia. Il che fu un chiaro soccorso divino, per la necessità nella quale quegli afflitti si ritrovavano. E in questo esercizio stettero gli uccelli che io dico dieci giorni in quella isola, sostentando que' poveri famelici.
Non resto io di credere che quegli uccelli avessero anco delle altre volte per loro procreazione e aumento fatto il medesimo, e in quella stessa isola anco, che doveva essere forse il loro natural nido. Ma non già per questo non s'ha a dire che fosse altro che un gran misterio in venire a fare quelle ova a tempo, quando ne fossero dovuti que cristiani essere nel maggior bisogno soccorsi e sostentati. Che se questo non è cosí, e non solevano ogni anno fare in quella isoletta il medesimo, tanto maggior miracolo sarà.
Accadette anco molte volte che gli uccelli che chiamano rabiforcati volavano contra questi altri uccelli che si sono detti, fino in farli gettare via il pesce che nella bocca avevano; e allora il rabiforcato, lasciando l'uccello, seguiva il pesce, e 'l prendeva anco alle volte nell'aere prima che all'acqua cadesse, perchè sono questi uccelli gran volatori. E questo modo di caccia era qualche intertenimento o recreazione per questa isconsolata gente, benchè, stando a quel modo che stavano, non era piacere che avesse loro potuto penetrare nel cuore e cavarli da loro tristezza, perchè ben si ricordavano e vedevano dove e come stavano. Questi rabiforcati, medesimamente, molte volte accadeva a mangiare certi pesci che li chiamano dentati, perchè hanno aspri denti, e doppo che inghiottiti gli avevano, perchè ne erano morsicati dentro la bocca stessa, se ne venivano in questa isoletta e ributtavano per bocca quel tal pesce, il quale era tosto raccolto e preso da quelli cristiani, che se lo mangiavano con molto sapore e senza ischifo al mondo.
Nel tempo che questa gente nella terza isola degli Alacrani stette, vidde molti falconi pellegrini di passaggio, i quali non si davano però a mangiare gli uccelli che si sono detti, ancorchè per questi si conoscesse quando i falconi venivano: perchè molto prima come spaventati verso il mare volavano. E stando perciò i nostri molto attenti a vedere, vedevano tosto da ponente venire quelli falconi pellegrini giovani, assai belli, e si posavano in terra, dove prendevano alcuni granchi e vermicciuoli con altre cose simili, e le mangiavano, e alcuni altri ne stavano molto alti nell'aere sopra quella isoletta. E alla fine poi tutti, da quel luogo partendo, prendevano il camino verso dove il sole nasce.
Ogni volta che era tempesta nel mare venivano nuovi uccelli a quella isoletta, e con certo vento vi venivano di passaggio, e tosto che s'imponevano e non vi ritruovavano acqua s'andavano con Dio; e questi tali uccelli erano papere e anatre buone, che in acqua dolce vivono. Vi venivano anco certi altri uccelli piccioli, che aspettavano la tempesta in quella isola, e tosto che il gran vento sentivano, se ne montavano bene alti nell'aere e andavano a cercarsi terra. Tutte queste cose stava quella misera gente contemplando, e vedendo la gran libertà e facoltà che ha il grande Iddio agli animali e agli uccelli data, di potere per tutto il mondo andare la loro recreazione cercando, e in ogni luogo ritrovavano la mensa posta; là dove l'uomo solo è privo di quella tanta leggierezza per potere di quello godere di che gli animali brutti godono. Ma quelli spezialmente potevano piú questo dire, che in quella tanta miseria e travaglio si ritrovavano, e in cosí cruda e aspra prigione rattenuti. Si consolavano anco all'incontro veggendo alcuni altri uccelli di terra ivi come perduti giungere, e stare sei e sette giorni fra loro, e perchè non avevano che bervi essi poi ve li ritrovavano secchi e morti. E alcuni altri ve ne erano che gran piacere avevano in ritrovare quel fonticello, dove bevevano cosí alla cieca, per la gran sete con la quale venivano, che non restava di bere anco che i nostri loro molto s'appressassero.
Egli s'è detto di sopra che gli uccelli e le loro ova durarono in quella terza isola dieci giorni solamente, e che perciò restarono quelli afflitti senza avere che mangiare, né sapevano come o onde provedersene, perchè tanti lupi marini uccisi avevano che gli altri che restati vi erano, quasi avisati, non venivano già piú nell'isola dove i cristiani stavano. E in questa stessa isola non vi erano né testudini né uccelli, e per passare all'altra dove ne avrebbono forse trovato non v'avevano modo né comodità alcuna; di modo che da ogni parte stavano circondati d'angustie e di dolori di morte. E perchè pareva che ad un certo modo fossero diventati tepidi nell'orazioni, il licenziado ricordò di nuovo a tutti in che termini e necessità si ritrovavano: onde tutti con molte lagrime si voltarono a pregare nostro Signore che si ricordasse di loro. E io fui certificato che fra loro vi era una persona che diceva una lunga orazione, nella quale v'entrava "Gloria in excelsis Deo". E in questo passo stando egli ad orare presso l'acqua, comparsero cinque gran lupi marini nuotando nell'acqua, e pareva che certa allegrezza mostrassero, e volgevano sopra l'acqua il ventre. Poco appresso ne vennero tutti cinque in terra e si posero d'intorno a colui che orava ginocchioni in terra, due da una banda e due dall'altra, e un se li pose dinanzi, e cominciarono a dormire. Onde colui ebbe tempo d'ammazzarne uno. E con questo furono i lupi marini che in questa isola ammazzarono, fra piccioli e grandi, 373.
In capo di tre giorni, che s'avevano già fornito di mangiare questo lupo, se ne venne per alto mare una testudine, e s'accostò cosí presso all'isola che il licenziado se ne entrò nel mare verso lei, e quello Spinosa suo creato l'andò di dietro, e mentre che ella stava tutta fissa a mirare il Zuazo che le stava dinanzi, l'afferrò e rivoltolla sossopra, e poi la tirarono in terra e ne mangiarono tutti quella sera e 'l dí seguente e parte dell'altro; di modo che chiaramente pareva che Iddio nostro Signore avesse loro dato miracolosamente quello sostegno del lupo marino e della testudine. Ma nel restante tempo stavano senza avere che mangiare, come i passerotti che aspettano il cibo nel nido che il padre loro porti, tutti confidando nella misericordia divina, dalla quale tutti i buoni e sicuri rimedii procedono.
Ed ecco che a posta di sole veggono certi segni nell'aere, che ve li facevano le nuvole, e parevano veramente effigie di cinque gran navi che venissero alla vela e che si movessero e caminassero. Onde, pensando di certo che navi fossero, si stesero tanto avanti con questa imaginazione, accompagnata dal desiderio grande che n'avevano, che tolsero un lenzuolo che era loro avanzato e 'l posero sopra l'albero della caravella loro fracassata, per fare segnale a quelle che loro navi parevano. E a questo modo stettero tutta quella notte senza dormire, perciochè, se ben alla fine s'avidero che quelli segni e navi s'andavano a poco a poco disfacendo, vennero nondimeno in speranza che questo fosse un segnale che Iddio loro mandava per loro consolamento, e che come pietoso padre loro provederebbe in tempo di tanta necessità, perchè in estremità grandissima si ritrovavano e in pericolo di non dovere piú da quel luogo a salvamento uscire.
E fu per questo; che la sera avanti che essi quelli segnali delle nuvole vedessero, la caravella che di terra ferma venia per salvarli, navigando con tutte le vele gonfie, entrò per la bocca di certe seccagne e subito li diede calma. Di che accorti i marinai dubitarono assai di qualche pericolo, ma il pilotto diceva che lasciassero andare la nave avanti, perchè questo non era altro che contrasto di correnti. Ma un altro disse: "È sarà meglio che gettiamo una ancora e che aspettiamo fino a dí mattina, per vedere e sapere dove stiamo, perchè potrebbe essere che fossimo già da presso all'isole degli Alacrani, e fra qualche pericolosa seccagna dove noi ci perdissimo".Parve agli altri che questo consiglio fosse il migliore, e cosí lo seguirono, e gettata una ancora aspettarono fino al dí seguente.
Venuta la mattina, si viddero da ogni parte circondati da seccagne e forzieri, salvo che dalla bocca onde la caravella entrata era, onde, se non ritornavano ad uscire da questa stessa parte, vi restavano tutti annegati. E sarebbe stato di sorte che né essi avrebbono potuto aver nuova del licenziado e compagni, né questi di loro che col soccorso venivano, perchè ancora stavano cosí lontani che non discernevano né vedevano quelle isolette. O vita umana piena d'inconvenienti, quanto è facile cosa a perderti, e per quante vie, se la clemenzia del grande Dio con la sua infinita potenzia non ci soccorresse! Vedete quanto poco mancò di perdersi i soccorsi e quelli che li soccorrevano, se la caravella poco piú oltre andava, come il parere del pilotto che la governava era stato, o se nell'entrare per quella bocca avesse smarrita la foce.
Ora, veggendo il pericolo nel quale si ritrovavano, cominciarono ad aggirarsi pian piano, e col favor divino da quella bocca onde erano uscirono, e cominciarono a navigare con molta avertenzia, finchè fu ben chiaro il giorno e il sole alto. L'altro dí, poi che quelli della isoletta questa caravella viddero, conobbero che questo era il soccorso che dal cielo aspettavano, perchè la viddero andare volteggiando ora a questo capo ora a quello, e s'accorsero che andavano cercando delle isolette e di loro. Dalle quali isolette e seccagne fuggono e s'allontanano tutti quelli che per que' mari navigano, per lo pericolo grande delli molti forzieri e secche che vi sono. Ma la caravella ebbe cosí contrario il tempo che non puoté afferrare la ponta dell'isola dove il licenziado era, e bisognò che tutto quel giorno andasse volteggiando. Allora quelli che in terra stavano ricorsero al solito soccorso dell'orazione, chiamando e supplicando con molte lagrime e sospiri il pietoso Dio, che per sua misericordia desse a quella caravella prospero tempo da potere loro imbarcare. Perchè il vassello non aveva ardire di navigare di notte, né vi era dove potere prender porto sicuro fra quelle seccagne, fino alla mattina seguente alle otto ore di dí non gettò l'ancora, e sorse un tiro di balestra da dove quelle genti dolorose stavano. E perchè il giorno innanzi quelli che navigavano non avevano potuto vedere niuno di quelli che stavano nell'isoletta, pensavano che fossero tutti dovuti essere morti, perchè, essendo tardato quarantadue giorni questo soccorso a girli, tenevano di certo che non fossero loro potute bastare le cinque testudini che avevano e che si fossero già morti di fame. Questo era pensiero prudente e savio, e l'avrebbono indovinata se il pietoso Iddio non gli avesse in quel mezzo soccorsi con gli uccelli che nella isoletta vennero a fare i loro nidi e ova, e col lupo marino e testudine che poi per misterio grande ebbero, come s'è detto di sopra.
Sorta la caravella, quando viddero passeggiare la gente per l'isoletta fu tanta l'allegrezza delli tre servitori del licenziado, che erano con la barchetta andati in terra ferma per lo soccorso, e dell'altra gente anco, che cosí gran gridi alzarono che a quelli che stavano in terra parve che voci celesti fossero. E vi furono due della nave che non volsero aspettare che si ponesse in mare la barchetta, che gettandosi a nuoto vennero a terra, e restarono attoniti e maravigliati veggendo il licenziado e compagni cosí trasfigurati dal primo essere loro. E tosto andarono a vedere l'acqua della fonticella che costoro bevevano, e provandola la ritrovarono a punto di quel sapore che è l'acqua stessa del mare; e volendo allora tosto perciò provarla anco quelli che solevano berne, la ritrovarono cosí amara e salsa che non si poteva bere. Il che non fu picciolo miracolo, perchè la potenzia di Dio, perchè costoro si mantenessero in vita mentre soccorsi fossero, fece dolce e buona quella acqua amara e salsa, la quale ritornò nel suo primo essere quando piú non bisognava servire per buona. Or, mentre che stavano contemplando in terra questa cosí nuova maraviglia, giunse all'isola il battello con li tre servitori del licenziado e con altre genti, e portarono in terra una tavoletta e una seggia per potervi sedere e mangiare il licenziado, che già dalla notte avanti avevano per lui cotto in nave un pavone, con una buona fetta di prosciutto e con un pezzo di carne di porco fresca, che poco avanti avevano morto in nave.
Smontarono adunque a terra con questo pignatto ben concio, e pane e vino e conserve e altri rinfrescamenti; e poi chè abbracciati con lagrime si furono, s'assise nella seggia il licenziado, che non li fu poco riposo in tanta stanchezza, essendo tanto tempo stato in quella piana arena assiso. Posta poi per suo ordine la mensa ben bassa, perchè vi potessero mangiare tutti quelli che vi capevano, con gran piacere mangiarono, ragionando di quello che loro avvenuto era da che erano con la barchetta andati li tre in terra ferma per lo soccorso. E con questo ragionamento ritrovarono che, quando li cinque rabiforcati s'erano venuti ad imporre nell'isoletta, in quel giorno e ora stessa era la barchetta alla Nuova Spagna giunta. E per quelli che con la caravella venuti erano si numerò e si vidde che il licenziado e gli altri suoi avevano errati due giorni del conto che tenevano del tempo, perchè quando era venerdí dicevano che era domenica, e cosí il licenziado avea fatta memoria della passione nel dí della santa resurrezione, in un certo ufficciuolo che restato gli era, e l'aveva pietosamente cantata, con molte lagrime sue e degli altri che l'ascoltavano. E piacque cosí a nostro Signore che fosse, perchè, se ben quel giorno della domenica era di tanta allegrezza, a loro nondimeno era venerdí santo, in tante e cosí fatte angustie si ritrovavano. E non è da maravigliare che essi si dimenticassero del conto del tempo e del giorno, perchè è gran maraviglia come non si dimenticassero de' loro proprii nomi.
Quelli della caravella dissero al licenziado che Francesco di Garai, per cui esso nella Nuova Spagna andava, era morto, e tutta la sua gente era stata rotta e disbarrattata, e n'erano stati anco molti dalle freccie degl'Indiani morti. Li dissero medesimamente quanto buona dimostrazione avessero per lui fatto Simon di Conca e Diego d'Ocampo, luogotenente di Fernando Cortese, e come fra tre che erano i suoi messi in terra ferma gionti erano stato espediti col soccorso, e quanta compassione di lui avuta avessero tutti gli amici suoi, e che credevano che Fernando Cortese avesse dovuto tosto provedere di tutto il bisogno, perchè era stato tosto avisato del tutto da Simone di Conca.
A questa gente che tanto tempo s'era miracolosamente in quella isoletta sostentata, parve l'acqua che di nave smontarono un liquore soavissimo e il migliore che avessero gustato mai; la carne e gli uccelli parvero loro meglio che le coturnici o la manna che Iddio agli Ebrei mandò dal cielo nel deserto. Nel pane solamente dicevano non avere ritrovato tanto gusto, perchè gran tempo era che non ne mangiavano. Ma le conserve furono loro di gran recreazione, perchè, avendo i corpi pieni di sale, ogni cosa dolce era loro soavissima. Con li ragionamenti già detti, e con un piacere tanto desiderato quanto può ogni uomo pensare, fornirono di mangiare e diedero ordine di imbarcarsi tosto, perchè era tanto il desiderio che aveano d'uscire da quella catività che ogni ora parea loro mille anni per fuggire da que' luoghi senza mai volgervi il viso, come era già stato dagli angeli comandato alla moglie di Loth.
Prima che si passi al discorso del viaggio, e di quello che succedette al licenziado Zuazo, che senza dubbio è un specchio d'esempii miracolosi che il grande Iddio oprò con lui, cosí in quello che s'è detto come in quello che si dirà appresso, voglio ora qui narrare la disposizione e sito di queste isole degli Alacrani, ancorchè qualche cosa ne sia stato già detto. Elle stanno a 22 gradi dell'equinoziale dalla parte del nostro polo, e chiamansi degli Alacrani, che in lingua nostra vuol dire degli scorpioni, perchè questo animale è molto velenoso e dà gran dolore mordendo. Onde, perchè come a chi morde lo scorpione dolorosamente perisce, cosí anco chi in queste isole giunge e vi si perde miseramente vi lascia la vita, questo nome loro posero. Sono in queste isole 12 leghe o piú di seccagne e forzieri, che paiono terre lavorate di diversi colori, altre bianche, altre rosse, altre azurre, altre nere; e a questo modo si veggono listate per lo mare, in tutto quello spazio che detto s'è. E ne è la cagione che, quando son basse l'acque, si vede nell'arena che è di sotto quella bianchezza, e dove sono scogli e forzieri sotto l'acqua si veggono quelle gran liste di rosso e di leonato. E quando l'acqua è alta e profonda vi si vede il colore azurro, e quando è piú cupa vi si vede nero; e cosí li diversi colori vi si veggono come è diversa la qualità della terra e degli scogli e forzieri, i quali non si discoprono se non vi si sta ben vicino, salvo se assai basse fossero l'acque, onde gran pericolo vi corrono i vasselli che vi s'imbattono. E fra queste seccagne stanno queste tre isolette, cosí picciole e sterili e secche come s'è detto.
Ma perchè vi restavano molti morti di questo naufragio del licenziado Zuazo, parve a questo cavaliero di mutarle il nome e di dargliele piú proprio. E cosí fece, onde in alcune carte di navigare sono chiamate Insule Sepulcrorum, cioè isole de' sepolcri o della perdizione, come degnamente il Zuazo le chiamò, perchè la maggior parte della sua compagnia restò morta di fame e di sete e d'altre passioni in ognuna delle tre isolette. Ma egli diede anco a ciascuna in particolare il suo nome, e chiamò la prima Sitis Sanguinea Testudinum, cioè sete di sangue di testudini, perchè ivi (come di sopra si disse) incominciarono a bere del sangue delle cinque prime testudini, con le quali quelli che vivi si ritrovavano si mantennero dodeci giorni. Alla seconda isoletta pose nome Nolite Cogitare Quid Edatis, cioè: non pensate a quel che dovete mangiare, come il sacro Evangelio c'insegna con l'esempio degli uccelli del cielo, che non seminano e non mietono e Dio loro provede del cibo quotidiano. Perchè avevano qui miracolosamente avuto molto che mangiare, di questo nome la seconda isola chiamò. La terza nominò Fontinalia Helisei, che vuol dire le fonti d'Eliseo, che, essendo salse e amare, per ordine del grande Iddio le convertí in dolci e soavi. Il che a punto avvenne dell'acqua di questa ultima isoletta, che miracolosamente d'amara e salsa diventò dolce.
Seguendo l'ordine dell'istoria nostra delli naufragii, dico che quando questa caravella si perdé in queste isole degli Alacrani restarono vivi e attaccati per quelli scogli 47 o 48 persone di quelle che dentro v'andavano; e poi in questa altra caravella del soccorso montarono non piú che diecisette, con alcuni fanciulli de' quali non si fece menzione nel sopradetto numero. Entrati che furono tutti nella caravella fecero vela, cantando insieme quello imno "Te Deum laudamus, te Dominum confitemur". Il nostro Signore diede loro cosí buon vento e navigazione che in tredeci giorni giunsero alla Villa Ricca, dove erano i primi messi giunti prima con la mal composta barchetta. Quando Simon di Conca con gli altri cavalieri di quella terra vidde sorto il legno, se ne vennero tutti alla piaggia che ivi è, e non sapendo chi smontasse e venisse nel batello che vedevano andare a terra, dissero: "Che buona nuova ci portate voi?" E il licenziado stesso, che nel battello veniva, rispose con quelle parole della canzone del re Ramiro: "Buona la portiamo, signore, poichè costà veniamo". E tosto che conobbero il licenziado cominciarono tutti ad averne gran piacere e a farli lieta festa, perchè Fernando Cortese avea per quelli due suoi staffieri alli suoi luogotenenti scritto che facessero al licenziado tutte quelle accoglienze e buon trattamento che avrebbono alla sua propria persona fatto. E cosí fecero, perchè il luogotenente Simon condusse il licenziado con tutta la sua compagnia alla casa sua propria, e fece loro tutte quelle carezze che puoté seppe, e diede loro veste, perchè tutti andavano mezzo ignudi, e con varii rinfrescamenti e frutti della contrada li tenne a piacere, facendo loro molti buoni banchetti e conviti e feste. Nove giorni che qui si stettero per riposarsi alquanto, furono assai ben trattati e festeggiati tutti.
Doppo il qual tempo il Zuazo se n'andò a Medellin, dove aveva già scritto al luogotenente Diego d'Ocampo che andare dovea. E costui uscí a riceverlo con fino a trenta cavalli e lo menò a casa sua, dove ritrovò un fattore del governatore Fernando Cortese, che li disse che aveva avuto lettere e ordine dal suo signore che li desse fino a diecimila castigliani, e tutto quello che esso chiedesse per rifarsi la casa, con quanto li fosse stato necessario, e che esso era per compirlo allora secondo che esso glielo comandava.
Certo che a me pare che per principio d'uscire di tanta miseria, in quanta pochi dí adietro questo cavaliero era stato, e per non avere a dolersi delle sue argenterie e altre robe perdute, con tanti suoi neri annegati, questa non era picciola offerta, e non di Fernando Cortese ma d'un gran prencipe, perchè diecimila castigliani vagliono dodecimila ducati d'oro. Certo liberalità di magnanimo cavaliero e di persona degna di quello stato nel quale l'ha meritamente Iddio posto, per mezzo di Sua Maestà. Ma il Zuazo, come cortese cavaliero, non ne volle prendere se non 1300 castigliani in cavalli e veste per sé e gli altri che conduceva, e un paio di mule, con altre cose che piú necessarie gli erano. Egli scrisse tosto al governatore Fernando, dandoli conto della venuta sua a salvamento e baciandoli la mano per le cortesie che seco usate aveva in provederlo in tanta necessità. Di questa lettera ebbe presto risposta da Fernando Cortese, che mostrava avere gran piacere del suo venire, e li replicò come magnanimo signore e gentil cavaliero, pregandolo che non si prendesse travaglio in dovere andare cosí presto a vederlo, perchè il camino era lungo e la stanchezza della travagliata passata vita li richiedeva qualche riposo, e che esso sapeva che Diego d'Ocampo era suo molto amico, e che esso di piú gli aveva ordinato che lo trattasse come la sua persona propria; e con queste scriveva altre parole amorose e dolci. E nel vero il licenziado fu festeggiato e servito, in trentacinque giorni che ivi s'intertenne, come se in casa di un gran prencipe giunto fosse, né un gran prencipe averebbe piú potuto fare ad un suo stretto e principale parente o fratello di quello che qui fecero al licenziado, che nel vero assai degno n'era, per le sue rare qualità.
Riposato che si fu il Zuazo in Medellino 35 giorni, si partí con Diego d'Ocampo, con dieci cavalli e con fino a sessanta Indiani a piedi per servigio loro, cosí per governare i cavalli e portare loro dell'erba come per ogni altra cosa. Per tutti i luoghi onde passavano uscivano tosto fuori i cristiani e le genti principali delle terre a riceverli, e gli albergavano nelle principali e miglior case, e li servivano come signori di varie vivande, come erano pavoni, conigli, galline e coturnici, e del pane di quella contrada, che è assai buono, quel del maiz, che nella Nuova Spagna ne fanno gentili tortanelli. E nel principio del mangiare davano loro brisciole e altri frutti che ivi erano, e la bevanda era il cacao, del quale si dirà nella seconda parte di questa generale istoria dell'Indie, ed è una sana e preziosa bevanda in questi luoghi. Tosto che il licenziado e 'l luogotenente s'assedevano a tavola a mangiare, gl'Indiani e l'Indiane principali ponevano loro al collo una collana o ghirlanda fatta di rose e d'altri fiori odoriferi, e ponevano loro in mano altri rametti delle medesime rose e fiori variamente lavorati; e ciascuno si toglieva la cura di ben governare un cavallo, presso al quale ponevano un gran vaso d'acqua e molto maiz verde e secco nella mangiatoia, e li facevano letti con molta erba, su la quale gittavano rose e fiori: benchè in questo costume gl'Indiani perseverassero per la paura, che già da principio avuta ne avevano, quando Fernando Cortese conquistò e pacificò quella terra, dove i cavalli furono gran cagione di farla soggiogare.
Ma, ritornando al proposito nostro, tosto che era notte facevano gl'Indiani molti fuochi nelli cortigli delle case, e in ogni fuoco stavano sette e otto Indiani, che avevano cura di mantenerlo acceso e vivo fino alla mattina, e di fare a' cristiani la guardia tutta la notte, e stare a' loro comandamenti obbedienti, perchè tengono tutte le case senza porte, e dicono le genti di quel paese che è una codardia il tenerle. Hanno quelli Indiani molto rispetto a' cristiani, e spezialmente a' principali e a quelli che vanno a cavallo.
Ma lasciamo questo, perchè li costumi e cerimonie degl'Indiani della Nuova Spagna sono molti e varii, e se ne ragionerà ampiamente al suo luogo, e ritorniamo all'ordine preso del camino che il licenziado faceva, il quale giunse alla città di Mescico, dove Fernando Cortese caramente il ricevette e li fece gran favore e onore, e 'l fece nel suo palazzo alloggiare. Questo palazzo era non meno che il monasterio di Nostra Signora di Guadalupe, e dentro vi erano stanze di munizioni e d'artiglierie e camere con arme difensive e offensive molte, e vi era una cavallerizia per 200 cavalli, e appartamenti per fare polvere d'artiglieria, e sette o otto ferrarie che del continuo facevano arme e balestre nuove. Erano anco in questa stanza granai, per tenervi 70 o 80 mila misuri di maiz.
In un'altra certa parte del palazzo erano stanze di donne, dove stavano le figliuole delli signori di quella terra, con piú di cento altre donne. Nelli cantoni di questa casa erano quattro torri, e tutto questo edificio era di pietra e ben fatto. Il legname di che era questa casa fatta era di cedro, e fu primieramente questa stanza chiamata la casa da spasso di Montezuma; doppo la cui morte il Cortese la rifece alla maniera di Spagna.
Ma perchè qui non trattiamo particolarmente delle cose di Fernando Cortese, né della sua conquista della Nuova Spagna, che altrove se ne dirà ampiamente, basti dire che in questa cosí sontuosa casa alloggiò il licenziado Zuazo. E, per concluderla in breve, il Cortese li fece tutto quello onore e quelle accoglienze che fu possibile. Ma perchè egli stava determinato d'andare al capo delle Fichere e al porto delle Profondità a cercare di un suo capitano, Cristoforo d'Olite, che se gli era ribellato, diremo qui sommariamente quello che fa al proposito del licenziado Zuazo e non piú, perchè non avevano ancora i suoi travagli avuto fine, e quando piú si pensò di ritrovarsene fuori, allora parea che piú che mai incominciassero, per dare a noi esempio e farci vedere in quanto errore si ritrova colui che pensa di stare sicuro e di ritrovarsi a fatto fuori delle miserie e volubilità di questa vita mortale.
Avendo Fernando Cortese deliberato d'andare al capo delle Fichere, che fu poi un viaggio di piú di un anno, li parve di dovere in sua absenzia lasciare suo luogotenente nel governo di quelli luoghi il licenziado Zuazo, e cosí fece. Onde vi restò costui cosí ubbedito e rispettato come il medesimo Cortese. Ma fu con molto pericolo e risico di tutti i cristiani che in quella contrada erano, perchè gl'Indiani per l'absenzia del Cortese ebbero ardimento di ribellarsi e di voler ammazzare i cristiani, perchè erano tanti che per ogni cristiano erano trentamila Indiani, che già i nostri erano pochi ivi in quel tempo, e gl'Indiani tanti quanta è l'arena del mare. Ma piacque a Dio che il licenziado con la sua accortezza seppe questo tradimento e ne fece vigorosi castighi, facendone mangiare molti da' cani e squartarne molti altri di quelli Indiani principali che in questa congiura capevano. Egli stette in cervello e con buone guardie piú d'un anno, che non si lasciò mai che esso, con gli altri ufficiali di Sua Maestà, non facessero ordinariamente una notte per uno la guardia con trenta da cavallo sempre. Fece raccorre tutti i cristiani che per la contrada sparsi erano, e volse che seco dentro Mescico stessero. E in tutte le processioni che in questo tempo fecero (che furono molte, perchè Dio li liberasse da tanta moltitudine di nemici), come andavano a due a due, cosí dalla parte di fuori da' fianchi era a ciascuno di loro menato il suo cavallo per mano, insellato e in ordine, con le sue tarache attaccate all'arcione e con due o tre uomini armati a canto. E sempre, per gli altri luoghi della città onde la processione s'allontanava, stavano sei o sette baroncelli con gente di ronda che facevano buone guardie mentre la letania durava. Sí che, per cagione della molto vigilanzia del licenziado, gl'Indiani, che tutto questo vedevano, insieme col fiero castigo che degli altri fatto s'era, mutaronsi del mal proposito loro e non ebbero ardire d'esequirlo. E cosí Iddio guardò il suo popolo da quel tradimento.
Il licenziado Zuazo, che stava nell'esercizio e governo che s'è detto, come credere si dee per quello che seguirà, fu miracolosamente da Dio serbato nell'isole degli Alacrani, poichè da lui si aspettava cosí segnalato servigio a Dio nella Nuova Spagna. E fu questo, che essendo egli restato nel governo di quella contrada, ebbe una spezial cura e intento di rovinar tutti gl'idoli di quelle genti idolatre e selvagge. Del quale ardimento coloro si maravigliavano molto, veggendo con quanta prontezza e facilità, e quanto senza timore né rispetto alcuni gl'iddii loro bruciasse e dissipasse. Spaventati adunque e attoniti di questa cosa, come se vedessero rovinarsi il cielo o ardersi la terra, si raunarono un giorno insieme i piú principali di loro; e fatto il loro consiglio mandarono quattro uomini, i piú savii di loro, che dal licenziado intendessero perchè cosí temeraria violenzia usasse in avere cosí poco rispetto e rovinare i loro iddii, che dava loro a mangiare e a bere e vittoria nelle guerre contra i nemici, e moltiplicavano loro i figli, e davano loro l'acqua quando mancava e la salute nelle infermità; tanto piú che vedevano che i cristiani medesimamente teneano idoli e imagini, e le adoravano, servivano e rispettavano. Questi ambasciatori vennero davanti al licenziado, e tutte queste cose molto pesatamente li dissero. E perchè presso al letto del licenziado vedevano attaccata una imagine di s. Sebastiano dipinta in carta, mentre che le loro cose dicevano accennavano e mostravano questa imagine col deto, e dicevano che, come esso aveva in riverenzia quella figura, cosí avevano anco essi alle loro imagini e idoli riverenzia e rispetto.
Accorgendosi il licenziado che questi ambasciatori indiani erano savii, e de' principali signori di quelle contrade, e veggendo che questo negozio era d'Iddio e della sua santa fede, e perciò molto importante e da sperarne che nostro Signore li porrebbe la risposta in bocca, deliberò di piú maturamente consultarla e di ricorrere al fonte della sapienzia, che è il medesimo Salvatore nostro; e perciò con lieto sembiante rispose che esso si ritrovava occupato, e per questo li pregava che il dí seguente, a quella medesima ora, tornassero con un buon interprete, che esso risponderebbe loro e sodisfarebbe a quanto dicevano. Gl'Indiani si partirono, e il licenziado in quel mezzo pregò nostro Signor che l'illuminasse e ponesse nella lingua quello che dire dovesse perchè quella idolatria cessasse, e vi fosse conosciuto, riverito e temuto il suo santo nome; onde tanto bene e con universale a que' barbari sarebbe seguito, fra li quali tanta potenzia il demonio avea.
Il dí seguente ritornarono quegl'Indiani, con un buon interprete chiamato Meneses, senza aspettare d'essere dal Zuazo chiamati. Ed egli, doppo che gli ebbe fatti sedere disse: "Noialtri cristiani non adoriamo l'imagini in quanto sono imagini, ma in quanto rappresentano coloro che nel cielo stanno, e dalli quali ne viene la vita e la morte e il bene, con tutte l'altre cose che noi in questo mondo abbiamo". E perchè li fosse da loro creduto quello che dicea, tolse quella imagine di san Sebastiano, che era una carta, e ne fece pezzi davanti a loro, dicendo altre cose a questo proposito per isgannarli e torli da quella infidelità.
Quando gl'Indiani viddero questo, un di loro, sorridendo verso l'interprete, disse che essi non potevano credere che il licenziado li tenesse per cosí sciocchi e grossi quanto mostrava di tenerli, perchè essi ben sapeano che quelle imagini erano dipinte e fatte dalli maestri e dipintori, come facevano anco essi fare le loro: le quali né anco essi adoravano in quanto imagini, ma come noialtri facevamo, intendendole per lo sole, per la luna, e per quelli altri lumi e influssi celesti onde, come il licenziado istesso diceva, venia la vita e la morte e tutte l'altre cose nel mondo. Restò alquanto di questa risposta il licenziado confuso, e fra se stesso pregò Dio che li desse intelletto e sapienzia da difender la sua causa e da poter confondere quegli idolatri; e occorendoli alla memoria quello che doveva dire, si voltò all'interprete e disse che dicesse a coloro che Iddio nostro Signore, che aveva di nulla il cielo e la terra fatto, s'avea per sé eletto un popolo, al quale aveva comandato che non adorassero né sopra pietra né sopra legno né sopra muro né sopra altra cosa alcuna che forma di figura niuna avesse, perchè, essendo maliziosi, non venissero ad adorare imagini, nelle quali il demonio si traponesse, e ne lasciassero perciò d'adorare il creatore loro.
A queste parole stettero gl'Indiani molto attenti. Seguendo, il licenziado diceva come nel principio, quando questo nostro grande Iddio formò il mondo, fece spiriti di molto intelletto e capacità. E perchè non poteva l'interprete dare questo ad intendere agl'Indiani, né ritrovava vocaboli perchè essi il comprendessero, faceva il licenziado dall'interprete dimandarli se credevano che doppo la morte restasse dell'uomo l'anima o altra cosa che per sempre vivesse. Risposero che sí, e che questo era da loro chiamato antenotal, che vuole tanto dire quanto anima o spirito. Allora fece appresso dall'interprete dire loro che il grande Iddio avea creati quelli spiriti, ma per la disobbedienzia loro gli aveva poi mandati e abbattuti sotto la terra, dove sempre ardevano, come in un luogo che si vede 15 leghe lungi da Mescico, chiamato Guasciocingo, che si vede da un monte uscire una continua e gran fiamma di fuoco. E dicea che questi spiriti hanno tanto odio e inimistà con gli uomini, per l'invidia che n'hanno perchè gli ha fatti Iddio capaci della gloria che quelli spiriti perderono, che procurano e cercano sempre di fare quelle imagini che dagl'Indiani si tenevano (i cui nomi per lo piú sono de' medesimi demonii), acciochè gli uomini l'adorassero e volgessero le spalle al grande Iddio, che aveva di nulla creato il tutto. E che queste altre imagini che i cristiani tengono sono di Dio e degli amici suoi, che tiene nella sua gloria seco, là dove quelle che essi tenevano e adoravano erano degli demonii stessi, che, per l'invidia grande che si è detto che all'uomo portano, hanno per costume di farle sempre bagnare del sangue umano; e che perciò si usavano fra loro i sacrificii, ne' quali ordinariamente per leggerissime cause s'ammazzano gli uomini, e con uno acuto rasoio di pietra quelli loro sacerdoti, che essi chiamano pape, aprono il petto e con molta prestezza ne cavano il cuore, e cosí palpitante e fresco l'offeriscono agli loro idoli; là dove il grande Iddio de' cristiani e le sue imagini non sono crudeli, né vuole da noi altro se non che l'amiamo e abbiamo volontà di servirlo.
E seguendo diceva che, per dare ad intendere questo il nostro Iddio a quel suo popolo eletto, aveva loro comandato che non sacrificassero sopra cosa alcuna effigiata, ma sopra uno altare di terra solamente, acciochè non venissero nell'errore nel quale essi stavano d'adorare il sole e la luna e le stelle, e il nome loro quelli idoli, perchè tutte quelle erano creature di Dio, in presenzia del quale non si doveva di loro fare caso alcuno; e concludendo diceva che questa era la differenzia che era fra le loro imagini alle nostre. E a questo proposito furono anco molte altre cose lor dette, di maniera che quelli techi (che non vuole altro dire che signori), avendo bene tutte queste cose intese, assai maravigliati ne restarono, e finalmente risposero che essi conoscevano bene la verità che il licenziado diceva, e che perciò, se esso voleva essere lor padrino, si sarebbono battezzati con tutte le genti loro e destrutti gl'idoli della lor provincia; e volevano l'imagine di nostra Signora Santa Maria, perchè non comprendevano bene Iddio e la sua imagine. Allora il licenziado fece lor dare una imagine di nostra Signora, e menatili in chiesa li fece battezzare: e volsero esser chiamati del nome di lui, benchè non potessero bene esprimere questo nome di Zuazo. S'intese poi come costoro avevano fatta tosto collocare l'imagine di nostra Signora nel piú alto tempio loro, che essi Q chiamavano, distrugendovi tutti gl'idoli loro che v'avevano. Il che fu cagione di fare sentire a tutti i cristiani molta allegrezza, e di ritrovarsi molto sicuri e quieti in quella provincia, massimamente avendo prima assai dubitato e temuto di quella ribellione della quale s'è detto di sopra, perchè fu in tempo che, per l'absenzia del governatore Fernando Cortese, stava quella contrada a gran pericolo di perdersi.
Nacque un caso notabile da una certa sentenzia che il licenziado Zuazo diede fra certi principali Indiani della Nuova Spagna, e per questo mi pare cosa conveniente a dirlo; e fu di questo modo. Si litigava nella città di Mescico sopra certe possessioni fra due signori principali, per le quali differenzie era molta gente morta d'amendue le parti, e finalmente questa lite venne in potere del licenziado, perchè la terminasse e ne facesse giustizia. Il processo non era altro che una pittura, fatta per cosí fatte cifre o carattere e figure, che dichiarava cosí bene il fatto come si sarebbe potuto fare con qualsivoglia scrittura, perchè per confini e termini pongono certi vestigii figurati e fatti co' piedi, assai piccioli, e per la terra del frumento pongono certi fiori di una particolare figura. Per l'acqua pongono un'altra figura, con la quale si conosce quando è fiume o fonte o ruscello o lacuna; e cosí conseguentemente hanno di tutte l'altre cose le loro proprie figure distinte, che assai bene s'intendono massimamente da chi ha di loro qualche prattica ed esperienzia.
Ora, portando il processo davanti al licenziado, non s'accordavano nella pittura le parti; il perchè egli comandò che si ritornasse di nuovo a dipingere da' loro amantechi, che sono come misuradori di terreno e molto esperti in quella arte di misurare e di dividere i confini. Ma neanco in questa seconda pittura si concordavano le parti. Allora il licenziado, come sagace giudice e prudente, fece chiamare altri amantechi o agrimensori, che furono dalle parti che litigavano nominati. E qui fece egli venire un cane levriero assai feroce, col quale avea fatto morire e mangiare co' denti in piú volte piú di dugento Indiani, castigati per idolatri e sodomiti e altri abominevoli vizii, e disse loro che, se non dipingevano la verità di que' termini, sopra i quali quella differenzia consisteva, e come erano già stati anticamente divisi, li facea certi che gli averebbe fatti mangiare da quel cane: il quale stava cosí fiero e bravo che avevano assai che fare due uomini per tenerlo per il collare e per la lassa, perchè si mostrava isfrenato contra quelli Indiani per morderli. Di che in tanta paura e spavento entrarono li due signori litiganti e gli amantechi che non si potrebbe credere, e ne riuscí poi la pittura assai certa; ed essendo stata approbata dalle parti, il licenziado vi sentenziò. E parve che Iddio ve lo illuminasse, cosifatta sentenzia diede. Allora, mirandosi l'un l'altro, questi signori dissero fra sé in lingua loro queste parole: "Certo che gente che a questo modo giudica è di gran pregio, e la legge che essi tengono dee essere la migliore di tutte l'altre, e perciò diventiamo cristiani, e viviamo da oggi avanti nella loro legge in pace, e serbisi la sentenzia che data s'è". E cosí fu fatto, che tosto volsero essere battezzati, e il licenziado vi fu presente. E si seppe poi che questi spezzarono molti idoli per tutte le terre loro, tenendo solamente in riverenzia l'imagine di nostra Signora, che essi dicevano che era il Dio de' cristiani e che era migliore che i loro idoli, perciochè allora in quelli principii non stavano cosí bene instrutti nelle cose della nostra santa fede come ora vi stanno.
Ritorniamo ora alli travagli di cosí buon giudice, perchè si sappia di quanti modi fu egli tentato e perseguitato; e ben quadrano nel suo caso le parole che san Giacomo nella sua canonica dice: "Qui non est tentatus, nihil scit". Onde si può dire che questo cavaliero sapesse assai piú che gli altri, poichè seppe maggiori tentazioni e fatiche soffrire. E perchè meglio questo s'intenda, ci dobbiamo ricordare di quello che si disse di sopra di questo licenziado, che governò cosí bene questa isola Spagnuola, e poi anco quella di Cuba, mentre che fece nell'una e nell'altra residenzia. Ma perchè è infinito il numero de' detrattori, venne di Spagna in terra ferma uno ordine di Sua Maestà che dovesse il Zuazo ritornare a Cuba a dare conto della sua amministrazione, e fu a Fernando Cortese commesso che il rimandasse diligentemente in quella isola. Ma quando questa cedula alla città di Mescico giunse, già era molto tempo passato che non si sapeva del Cortese novella alcuna, per lo viaggio lungo che fatto aveva al capo delle Fichere per cercare del capitano Cristoforo d'Olit, che si disse che gli s'era ribellato; e andava fra alcuni una certa nuova sorda che il Cortese era morto. Il che fu cagione che in quella contrada molte passioni vi pullulassero e vi nascessero parzialità, perciochè da un capo si ritirò Gonzalo di Salazar, fattore del fisco, e Pietro Armides, proveditore di Sua Maestà, e dall'altro capo erano il tesoriero Alonso di Strada e il contatore Rodrigo d'Albornoz, ufficiali regii medesimamente. Ma perchè non potevano le lor volontà cattive esequire, per starvi il licenziado in mezzo, tentarono alcuni d'ammazzarlo, per sodisfarsi nel resto poi. Ma egli, che ne fu avisato, andava in cervello e stava con buona guardia, onde non si poteva esequire quello che alcuno voluto avrebbe.
In questo tempo giunse quella cedula di Sua Maestà che s'è detta, e si ritrovarono perciò insieme quelli scandalosi secretamente con un cugino di Fernando Cortese chiamato Rodrigo di Pace, nato in Salamanca e speziale amico del Zuazo, e che perciò costui di lui si fidava, pensando che da cosí stretto parente del Cortese non gli fosse mai dovuto venire altro che bene. Questo Rodrigo di Pace, nel fascio delle lettere che di Spagna al governator Cortese venivano, ritrovò (come dicono) la cedula che s'è detta, e cosí sotto questo colore ordinarono di prenderlo, nel palazzo stesso dove Rodrigo e 'l licenziado stesso alloggiavano. Altri dicono che non era allora venuta ancora cedula alcuna. Ma, comunche si fosse, stando il Zuazo in letto, su la mezzanotte entrarono dugento uomini dentro per prenderlo, ed egli, perchè teneva arme e gente dentro la casa, che era forte, si difese buon pezzo; e nol poterono mai prendere, finchè Rodrigo, come amico che gli si mostrava, gli disse che non temesse, che esso sopra la sua fede gli prometteva che non si porrebbe da niuno mano né sopra la persona sua né sopra le sue facultà; e 'l confortava ad uscirsene quella notte stessa dalla città e a girsene nella terra di Testuco, che per la lacuna in canoe era distante da Mescico quattro leghe e per terra nuove; e gli diceva che, perchè quell'altra terra era del governatore, vi sarebbe potuto stare a piacere, finchè quelle alterazioni e tumulti passassero. Con questa sicurtà, per evitare scandalo e morte d'uomini, che erano chiaramente per seguirne, il licenziado vi si piegò, e chiese un de' suoi cavalli per potere andarsene. E non glielo volsero dare, onde esso nol tenne per bene e cavalcò in una mula. E a questo modo uscirono amendue della città, con ben trenta uomini a cavallo, che sotto colore d'amicizia con loro andavano. E come ora il licenziado dice, questo Rodrigo ebbe poi le grazie che meritò di questo tratto che li fece.
Or, quando fu sul fare del giorno, si ritrovarono tre leghe presso a Testuco, e qui gli dissero alla aperta che esso v'andava prigione, e che indi l'accompagnarebbono poi fino a Medellin, dove nel primo vascello lo imbarcarebbono e 'l mandarebbono in Spagna. Di che egli, quando l'intese, ringraziò Iddio, ricordandosi che cosí era esso dalli suoi nemici per invidia mal trattato, come era già stato il Salvatore nostro dall'invidia de' giudei. Con lieto viso poi disse che esso aveva gran piacere di simile nuova, perchè credeva che Iddio gran grazia gli facesse a cavarlo da quella terra dove era, per le rivolte e fazioni che vi vedeva nascere a poco a poco, o esso vi sarebbe stato morto in sopirle, o non l'averebbe a niun modo sofferte. Il vespero dell'Ascensione, ad ora di mangiare, parlando e ridendo giunsero a Testuco, dove erano sette frati di san Francesco che, perchè erano del licenziado amici, dolenti della prigione di lui volsero andare a vederlo; ma non fu loro permesso.
Il giorno seguente il principale di questi padri gli andò a dire messa, per esser la festa solenne dell'Ascensione, e né anco volsero che li parlasse, temendo dell'ira del popolo, che si sarebbe potuto facilmente contra le guardie muovere, perchè v'era generalmente il licenziado ben visto. Il quale, perchè si sentia dirotto del camino e della mala notte avuta, e per essere quel dí cosí gran festa, averebbe voluto ivi quel giorno riposarsi; ma non vi fu ordine che consentire glielo volessero, onde, desinato che ebbero, si partirono. Qui un servitore del governatore Fernando Cortese, mosso a compassione di vedere andare un tale cavaliero a quel modo, gli diede tre muli carichi di rinfrescamento e un altro con un letto. E cosí si partirono, senza acconsentire che col Zuazo andasse niuno de' servitori suoi, né persona che avesse a fare cosa che comandata o voluta avesse. Di questo modo cavalcarono tre giorni, finchè giunsero dove dicono Tepeaca, e qui giunsero tre servidori del licenziado, che gli dissero quanto in Mescico si fosse ogni uomo della sua prigione risentito, e come si era molta gente armata per ammazzare il fattore e 'l proveditore regio, i quali si erano a strani termini ritrovati, finchè da certe fenestre di una stanza forte nella quale salvati si erano dissero che la prigione del licenziado si era esequita per mandato regio, e avevano mostrato la cedula e l'ordine di Sua Maestà. E benchè alcuni dicessero che la cedula e l'ordine non veniva a loro, ma al governatore Cortese, e che essi traposti vi si erano ad esequirla per malivolenzia e per odio che al licenziado portavano, e per ribellarsi e sollevare a loro voluntà quel popolo, nondimeno, sotto questo scudo che per vigore della cedula di Sua Maestà fatto s'era, si quietò il tumulto e lo scandalo. Ma dicevano però tutti che non vi si dovevano essi intromettere, poichè a niun di loro Sua Maestà comandava che preso l'avesse.
Ma, ritornando al viaggio che egli fece, tanto per loro giornate caminarono che da Tepeaca giunsero a Medellin il secondo giorno di Pasqua rosata. Tutti quelli di questa terra, quando viddero il Zuazo, gli fecero molto onore, e il luogotenente Francesco Bona il menò a cena seco. Ma doppo la cena l'algazil maggiore Alvaro di Saiavedrà, con la gente che si è detta e con molta altra, e per ordine del luogotenente, lo menò alla stanza sua, senza lasciarlo il giorno seguente uscire a messa né fare altra cosa, salvo che stare in una piazzetta che era dinanzi alla porta di casa; e il giorno di san Giovanni lo fece andare a vedere messa e cavalcare per tutta la terra fino a mezzo agosto. Ma a chi si ricordava della vita passata nell'isola degli Alacrani, questa altra pareva assai buona, e aveva confidanza in Dio e nella sua giustizia. Ma le sue guardie stavano molto in cervello e vigilanti, perchè niuno gli scrivesse né esso neanco scrivesse a parte alcuna del mondo, né parlasse se non con quelli co' quali i suoi emuli volevano.
In questo mezzo che il licenziado era a questo modo dalli nemici suoi condotto e trattato, gli ufficiali regii, non avendo chi gli disturbasse né impedisse, sfogarono fieramente le loro passioni fuori e ne posero sottosopra la città di Mescico, con tutto il resto di quella provincia, che pareva che queste dissensioni v'avessero attaccato il fuoco. E, come s'è detto di sopra, il fattore e 'l proveditore erano da una parte e volevano essi governare, e il tesoriero e 'l contatore erano dall'altra e volevano il medesimo fare. E sopra questo v'andarono per lo mezzo e pietrate e lanciate. Ora prendevano costui, ora colui, e un ne imprigionavano, all'altro davano bando. Ma alla fine, prevalendo piú la parte del fattore Gonzalo di Salazaro, fece prender Rodrigo di Pace, che era stato il mezzano nella presa del licenziado Zuazo, e fattoli dare crudeli tormenti, alla fine l'appiccarono per la gola publicamente sotto voce di giustizia.
Or, quando Francesco dalle Case intese della prigione del licenziado, l'andò a vedere in Medellin con fino a 200 uomini da cavallo, parendoli che già stesse la provincia tirannizata, e che il licenziado stava prigione e pativa per avere assai ben servito a Sua Maestà e per essere amico del governatore Fernando Cortese. Sí che visitandolo li disse che se ne ritornasse seco nella città di Mescico, che esso lo faceva certo che, tosto che ivi s'intendesse che esso v'andava, si sarebbono tosto altri 250 o 300 da cavallo uniti insieme, e con quelli che egli aveva seco avrebbono fatto e detto contra quegli emuli suoi, che in absenzia del Cortese tiranneggiavano quella provincia.
Il licenziado lo ringraziò di questa buona volontà e offerta, e disse non volere andarvi, per non accendere maggiormente quelle contese e per voler andar a dar conto di sé in Cuba, dove a Sua Maestà piaceva che egli andasse, perchè molto infamato l'avevano presso Sua Maestà e 'l consiglio reale dell'Indie. E se non vi fosse andato sarebbe stato un accrescere maggiore sospetto di quello che de' suoi fatti s'aveva, perchè stava in riputazione di tiranno e per non cosí buon servidore di Sua Maestà: come alla fine se ne vidde essere il contrario, onde doppio onore e credito egli accrebbe, come suole ordinariamente a tutti i buoni e calunniati a torto avvenire.
Ora, doppo che il Zuazo ebbe di questa offerta ringraziato molto Francesco dalle Case, soggiunse che né anco li pareva che questo negocio fosse in stato da dovere terminarsi con l'arme, la cui vittoria era dubiosa; e tanto piú per cagione degl'Indiani della contrada, che erano innumerabili, e veggendo le differenzie de' nostri si sarebbono tosto levati su e ne sarebbono potuti nascere maggiori scandali, massimamente che erano molti Indiani principali andati a parlare a lui secretamente nella prigione, e l'avevano dimandato che cosa voleva e comandava loro che essi facessero, e per che cagione erano quelle rivolte e differenzie nate fra cristiani; e che esso, che conosceva l'intenzione di quella gente, che è molto astuta e sagace, e che ciò dimandava per cavarli di bocca qualche parola o secreto del quale potessero giovarsi nel ribellarsi contra cristiani, a questo modo avea loro risposto, ringraziandoli prima del cosí gentil cuore che avevano per aiutarlo, e facendo loro poi a sapere che stessero in cervello e non pensassero di fare motivo alcuno né di ribellarsi, perchè i cristiani non aspettavano altro che ogni minima occasione per poter rubarli e ucciderli. E che, essendo i cristiani gente bellicosa, quando non avevano questi Spagnuoli con chi guerreggiare e oprare l'armi, contra se stessi volgevano la guerra, essendo loro costume di non stare giamai in pace. Onde per questo desideravano molto che gl'Indiani si ribellassero, per poter volgere sopra di loro la guerra e desolare il paese. E che esso di ciò gli avisava perchè voleva loro bene, e Fernando Cortese sarebbe presto venuto a difenderli e tenerli sicuri, massimamente che all'imperatore nostro signore sarebbe molto dispiaciuto d'ogni poco motivo che essi fatto avessero, sapendo che le sue genti non desideravano altro che potere rubare e uccidere con qualche causa. E concludendo li faceva certi che, se nella absenzia del governatore Fernando Cortese essi alterazione alcuna o mutamento fatto avessero, sarebbono in quella ora stessa stati tutti posti da' cristiani a filo di spada e morti. E con queste parole e simili diceva il licenziado che aveva quelli Indiani espediti che gli avevano secretamente parlato.
Questi e altri simili ragionamenti passarono fra il licenziado e Francesco dalle Case, e la ultima e migliore conclusione si fu che il licenziado si fosse tosto dovuto partire alla volta dell'isola Spagnuola, e, per rimediare a quelli scandali di terra ferma, avisarne e darne notizia all'admirante don Diego Colombo, se fosse ritornato di Spagna, e a questa audienzia regia, informandoli di quanto passava perchè vi rimediassero, mentre Sua Maestà non vi provedesse. E il licenziado pregò Francesco dalle Case che si ritirasse nelle sue buone terre con le sue genti e si stesse in pace in casa sua, ingegnandosi di sapere se il governatore Cortese fosse morto o vivo, perchè da ogni una di queste due cose pendeva la risoluzione di quello che fare si dovesse in cosí arduo caso. E cosí Francesco dalle Case, apprendendosi a questo consiglio, se ne ritornò alle terre delle quali aveva esso cura.
Queste visite non poterono essere cosí secrete che non venissero a notizia degli emuli del licenziado e seminatori di scandali, i quali, pensando che se il licenziado e Francesco dalle Case si fossero ristretti insieme gli altri si sarebbono ritrovati in pericolo, espedirono tosto da sessanta da cavallo con lettere al luogotenente del governatore di quella terra e all'algozil maggiore, in cui potere si ritrovava il licenziado prigione, e ordinavano loro vigorosamente che tosto nel ricevere della loro carta avessero dovuto imbarcare co' ferri a' piedi il Zuazo, e consegnarlo diligentemente al padrone di quella nave che stesse per partire piú presto. E perchè il licenziado stava alquando debile e infermo, v'aggiungevano che subito dovessero imbarcarlo e mandarlo via, o sano o infermo, o morto o vivo che stesse, e 'l facessero consegnare nell'isola di Cuba al luogotenente della terra chiamata Havana, che è l'ultimo luogo di quella isola verso ponente. E volse Iddio che quando questo ordine venne era già Francesco dalle Case partito, perchè, se ivi ritrovato si fosse con tutte quelle sue genti, vi sarebbe stato che dire e che fare, e con la morte per avventura di molti.
Fu una delle buone venture di questo cavaliero che egli nelle disgrazie di quelle isole degli Alacrani si ritrovò finchè fu morto l'adelantado Francesco di Garai, il quale, confidandosi molto del Zuazo, l'aveva a questo viaggio mandato; ed essendo poi successa la sua morte, si sarebbe detto che il licenziado ne fosse stato cagione, per li favori che esso dal governatore Cortese aveva, come si disse anco d'altre persone, delle quali non si poteva di ciò tanto presumere quanto si sarebbe del licenziado fatto; che chiaro sta che non si possono tenere le lingue, le quali sono piú pronte a dire male che bene. Sí che quelle isolette degli Alacrani e la prigione che dapoi gli succedette parvero (come in effetto erano) estremi affanni e travagli; ma maggiori sarebbono stati se esso fusse perseverato nel governo di Mescico fra quelle tante rivolte e scandali, benchè, senza questo anco, furono amendue quelle disgrazie un gran bene di questo cavaliero, poichè, volendo nostro Signore provarlo, l'affinò come oro al fuoco, dandoli pazienzia e prudenzia in simili casi.
Ora in effetto, a mezzo agosto del 1525, s'imbarcò il licenziado in Medellino nel porto di San Giovan di Colva, e in capo di cinquanta giorni giunse all'isola di Cuba e smontò in Havana. E perchè esso aveva già governata quella isola, vi era molto da tutti i principali conosciuto, i quali per ciò, quando l'intesero, gli vennero incontra nel porto a riceverlo con li rettori e ufficiali, e poco appresso vi venne anco il luogotenente Giovanni di Rogias; i quali tutti amichevolmente contesero, perchè ognun di loro si voleva menare il licenziado in casa, e alla fine il luogotenente l'ottenne, che è ivi un cavaliero principale. E stando circondato da quelli suoi amici e conoscenti, e dimandato delle sue pellegrinazioni e della cagione del venire suo, rispose che veniva per ordine di Sua Maestà a dar conto di sé e del male che in quella isola fatto aveva davanti al licenziado Giovanni Altamirano (che risedeva nella città di San Giacomo, che era lontana da quella terra ben trecento leghe), e che esso sperava dovere buon conto dare degli assassini e rubatori di che l'incolpavano e senza sua causa infamavano.
Tutti di ciò molto si risero, perchè sapevano che non era esso di tale infamia degno, e tosto cominciarono a negoziare sopra questa materia. Onde, partiti che indi furono, tutti quelli gentil uomini e cavalieri fecero consiglio, e mandarono un bel presente al Zuazo d'uccelli e pane e vino e frutti, e cose di latte e di cascio. E come quelli che si dolevano di questa informazione sinistra fatta di questo cavaliero a Sua Maestà, negoziarono il modo che tenere dovevano perchè l'innocenzia sua avesse il suo luogo. Onde, indi a duo giorni, da parte del consiglio di quella terra andarono a parlare al Zuazo due ufficiali ordinarii di giustizia e due rettori, e gli dissero che essi stavano informati che esso portava oro e argento, e per questo ne depositasse quello che gli paresse in potere del luogotenente Giovan di Rogias suo ospite, acciochè quella parte stesse manifesta e nota, per doversene di contanti pagare chi di lui querelandosi avesse giustizia; perchè volevano fare andar bando che chi di lui aggravato si sentisse, mentre che egli quella isola governata aveva, fra il termine di quindeci giorni comparisse, che gli sarebbe stata fatta giustizia. E cosí fu poi fatto bandire publicamente, acciochè non bisognasse che i querelanti andassero a fare tanta spesa fino alla città di San Giacomo, dove il giudice ordinario resideva, che in andare e venire vi sarebbono andate piú di seicento leghe di cammino, con molto travaglio. E benchè di prima faccia questo non paresse bene al licenziado, di fare quel deposito, conoscendo poi nondimeno l'intenzione e 'l fine di coloro che lo chiedevano, e confidandosi nella verità e giustizia, depositò trecento castigliani d'oro e trenta libbre d'argento in potere del luogotenente.
Fatto il bando, s'aspettarono li quindeci giorni, e non comparve alcuno che si querelasse. Allora gli ufficiali e rettori comparsero davanti al luogotenente, e dissero che, avendo udito quel bando, comparivano e dicevano, in nome loro e di tutta quella terra, che il governo del licenziado Zuazo in quella isola era stato giusto e santo, e cosí in servigio di Dio e di Sua Maestà che, s'egli nel tempo che vi venne a governarla venuto non vi fosse, si sarebbe quella isola perduta, e che per lo buon governo e industria di questo cavaliero s'era mantenuta e popolata, come era assai publico e noto a tutti. E che perciò richiedevano il notaio, davanti al quale e per cui mano era stato il bando fatto, che di ciò avesse dovuto farne un testimoniale, che essi quella fede ne facevano, acciochè si fosse il Zuazo potuto con questa scrittura presentare davanti al licenziado Giovanni Altamirano, giudice di residenzia in quella isola, e poi anco davanti a Sua Maestà e al regio consiglio dell'Indie, perchè fosse conforme a' servigi suoi rimunerato da Sua Maestà. Il richiedevano medesimamente che avesse voluto il luogotenente restituirli il suo oro e argento, che depositato avea presso di lui per questa stessa cagione.
Con questa testimonianza e fede si partí poi il licenziado Zuazo da quella terra, che, perchè era posta dalla banda di tramontana, bisognò attraversare tutta l'isola per passare dalla parte di mezzogiorno; e in tutto quel camino fu accompagnato e festeggiato, e assai bene albergato e servito nelle villette e poderi degli abitanti di quella contrada; e in alcuni luoghi li facevano giuochi di tori e altri spassi di molto piacere. E fece egli questo viaggio per imbarcarsi nella costiera di mezzogiorno e non andare per terra, perchè poco avanti era stato un grande uracane, cioè una tempesta grandissima, come se ne è ragionato di sopra, e il camino si ritrovava perciò occupato dagli alberi grossissimi che caduti erano per tutte quelle parti, e in modo impedito ne era che senza grandissima difficoltà non si poteva passare e andare avanti.
Sí che, giunto all'altra costiera, s'imbarcò ivi in una gran canoa, con fino a trenta Indiani che remavano e con cinque cristiani che menava seco, e navigava terra terra per luoghi solitarii e per isolette, passando alle volte nel mare istesso quattro e cinque leghe fra arbori alti e densi e verdi nati nell'acqua stessa marina, che li chiamano mangli. E passando per questi e altri simili passi, che qui non si scrivono per brevità, giunse alla terra della Trinità, dove fu assai ben ricevuto, e li fecero giuochi di tori e gran piacere mostrarono del suo venire. Ed esso mostrò loro quella testimonianza che portava da Havana. Onde qui anco fecero tosto consiglio, e posero ad effetto quello stesso che avevano prima quegli altri in Havana fatto, e doppo il sindicato li fecero un'altra fiorita fede.
E, per abbreviarla, egli andò poi in San Spirito, e con la medesima diligenzia e carezze li fecero un altro simile testimoniale. Il medesimo ottenne nella terra del porto del Prencipe, nella terra del Baiamo, che è trenta leghe lungi dalla città di San Giacomo. In tutti questi luoghi non vi erano altro che mandre d'armenti. E con queste testimonianze, assai stanco degli travagli del mare e della terra, giunse con piú di trecento leghe alla città di S. Giacomo, due giorni avanti a Natale del 1525, e vi fu ben ricevuto dal giudice di residenzia e da tutti gli altri buoni cittadini.
Tosto che il licenziado giunse a quella città, si presentò con quelli testimoniali davanti al licenziado Giovan Altamirano, giudice di residenzia per Sua Maestà, il quale l'aveva già incominciato a sindicare in sua absenzia. Onde, poichè venuto era, li parve di dovere incominciare da capo a rinovare i bandi, acciochè in presenzia sua si facesse. E cosí tenne questo sindicato ottanta giorni, nel quale il Zuazo diede tal conto di sé e del suo passato governo che il giudice il pronunciò e diede per libero e assoluto di quanto opposto gli avevano, e 'l dichiarò per buono e retto giudice, e governatore e servitore di Sua Maestà per sentenzia diffinitiva.
E in questo tempo e poi fu il Zuazo molto festeggiato e onorato da tutti i cavalieri e gentil uomini e ufficiali di Sua Maestà che in quella città stavano. E cosí l'anno seguente del 1526, con tutte queste sentenzie e testimoniali, si partí per questa isola Spagnuola, dove il mercordí santo isbarcò in Santa Maria del Porto della Iaguana, e vi stette finchè passò la festa di Pasqua. Indi se ne venne ottanta leghe per terra fino a questa città, dove ritrovò molti de' suoi contrarii prosperi e favoriti; di che ringraziò nostro Signore.
Da questa città mandò a fare relazione a Sua Maestà e al real consiglio delle Indie, con quelle testimonianze e prove de' servigi suoi e del suo passato retto governo, e come per quella sua ingiusta prigionia restavano le cose della Nuova Spagna molto atte a perdersi, per le già dette passioni e controversie che nate vi erano. E per queste ingiuste calunnie e persecuzioni che avute aveva, non chiedeva altro premio che quello che già avuto aveva, che questa sua innocenzia fusse stata scoverta e vista, con le false calunnie degli adversarii suoi; che già esso rimetteva la vendetta di queste sue ingiurie e travagli al signore Iddio, il quale è quel che castiga e rimunera con la sua giustizia e misericordia, secondo che si conviene alla salute di quelli che s'hanno a salvare, e al rigore che debbono patire quelli che non si ricordano di riconoscere i loro errori e colpe e di farne la debita e condegna penitenzia.
Informata Sua Maestà della verità, e intese le malignità de' calunniatori, fece il licenziado Zuazo suo auditore in questa regia audienzia e cancellaria che in questa città di San Domenico risiede, con una buona e onorata provigione; dove oggi sta, e vi è il piú antico giudice e auditore che vi sia, e vi è un de' ricchi uomini che in questa città e isola siano, e qui in questa città s'accasò e si fece cittadino.
E questo basti quanto alli naufragii e disgrazie e travagli di questo cavaliero, che è un esempio di pazienzia e di virtú, con la quale puoté a tanti e cosí difficili casi resistere, cosí nell'isole degli Alacrani come nel resto degli affanni che in vita sua ebbe; e ne' quali sempre il nostro pietoso Signore si ricordò di lui, e lo liberò dagli nemici suoi spirituali e temporali, per condurlo allo stato e luogo dove si ritrova meritamente, perchè è assai qui e altrove onorato e rispettato da tutti. Ho detto che Dio il liberò dalli suoi nemici spirituali, perchè io mi penso, e 'l pensa anco egli e gli altri che il viddero, che quelli delfini o tuoni che volare viddero sopra l'albero e l'antenne della caravella dove si perderono non furono altro che demonii e maligni spiriti, secondo s'è detto. Ma, per tutto quello che io ho di questo naufragio detto, si può facilmente raccorre e cavare quanto sia travagliata e di poca stabilità e fermezza la vita degli uomini. E con questo esempio si può intendere che quello che questo licenziado passò è un memorabile trofeo e una degna istoria, onde i savii e prudenti possano imparare di sofferire con pazienzia le disgrazie della fortuna, alle quali sono obligati tutti quelli che navigano il mare e che vivono in terra; perchè in niuna parte in questa vita mortale mancano all'uomo affanni e angoscie, e solamente nell'altra vita beata si ritrova quiete e contentezza, perciochè in quella patria, dove fu l'anima stessa nostra creata, non vi sono i dolori e le passioni che in questa mortale e caduca tutto il dí si veggono e provano da chi ci vive.
Il fine dell'ultimo libro di questa prima parte dell'istoria dell'Indie