Giovanni Battista Ramusio



NAVIGAZIONI E VIAGGI

Volume Sesto






Di Fernando Cortese la seconda relazione della Nuova Spagna, perchè la prima da lui fatta, benchè da noi diligentemente ricercata, non abbiamo potuto insino a oggi ritrovare.


Al serenissimo e invitissimo imperatore Carlo Quinto.

Come nella Nuova Spagna vi sono assaissime cose notabili. Della città di Vera Croce. Scusa del Cortese al re catolico di non poterli dar minutissima informazione delle cose ivi per lui ritrovate.

Con quella nave che ho spedito alli 16 di luglio del 1519 da questa Nuova Spagna di Vostra Maestà, mandai all'Altezza Vostra piena e particolare informazione di tutte quelle cose le quali dopo la venuta mia sono state fatte e sono avvenute in questi luoghi, la quale informazione diedi ad Alfonso Fernando Porto Carrero e Francesco da Monteio, procuratori della città della Vera Croce, che io da' fondamenti ho fatta fabricare a nome di Vostra Maestà. E dipoi, perchè non ho avuto occasione sí per mancamento di navilii, sí anco perchè mi sono trovato sommamente travagliato e occupato in acquistare e farci benevole queste contrade e provincie, e perchè della predetta nave e procuratori non avevo io inteso cosa alcuna, non diedi piú avanti aviso a Vostra Maestà di quelle cose che si trovano in questa patria e che sono state fatte, le quali sono tante e tali che, sí come altre volte nelle prime informazioni mandate a Vostra Maestà ho dimostrato, meritamente ella puote essere chiamata imperadore d'un nuovo mondo: e forse che questo titolo non è di esser riputato minore di quello d'Alemagna, il quale per lo aiuto de Iddio ottimo massimo e per le sue chiare virtú al presente è posseduto dalla Vostra catolica Maestà. E se io cominciassi a narrar particolarmente tutte quelle cose che in queste parti si trovano, non ne verrei mai a fine, e perciò, se per avventura, sí come l'Altezza Vostra desidera e io son tenuto di fare, non le darò piena notizia, ella benignamente degnerà di concedermi perdono, essendo io non molto atto a questo carico dello scrivere e non avendo commodità del tempo. Nondimeno con tutte le forze del mio ingegno mi affaticherò di narrar la verità della cosa, e oltra di ciò ancora tutto quello che conoscerò che a Vostra Maestà faccia bisogno di sapere. E supplico che Vostra Altezza mi perdoni se io appunto non le racconterò come e quando le cose siano state fatte, e se tralascierò alcuni nomi di città, di ville e de' loro signori, i quali, udito il nome di Vostra Maestà, spontaneamente s'offeriscono al servizio di quella e se le diedero per sudditi e per vassalli, perciochè per una grave disavventura la quale nuovamente ci è intravenuta, sí come nel processo della nostra narrazione alla Vostra Altezza sarà piú pienamente manifesto, e gli scritti e l'istorie tutte che con gli abitatori di questi paesi io avea insieme raccolte con altre varie cose le ho perdute.


Del potente signor Montezuma. Della partita del Cortese da Cimpual; della guardia per lui posta alla città di Vera Croce, e cura di fabricarvi una fortezza; la fideltà degli uomini di Cimpual verso l'imperatore. De' fanciulli sacrificati agl'idoli. De' soldati ch'avevano deliberato ribellarsi al Cortese, e gli congiurati, quai furono puniti, e come il Cortese fece tirar le navi in terra.

Nella prima relazione, invitissimo e serenissimo Imperatore, io aveva detto delle città e delle ville che al servizio di Vostra Maestà si erano offerte, e di quelle che io tenea acquistate da me. Oltra di ciò le dava aviso che mi era stato referto d'un certo potente signor nominato Montezuma, il quale gli abitatori di questa provincia secondo il lor conto stimavano che fosse lontano dal lito del mare e del porto, dove io era arrivato, per ispazio di 90 o 100 leghe. Confidandomi nell'aiuto d'Iddio e nella fama dell'onorato nome di Vostra Altezza, aveva determinato di passare a tutti que' luoghi che sono soggetti a lui. Oltra di questo mi ricordo, in quanto all'acquisto di cosí gran signore, essermi offerto a far sopra le mie forze, perciochè io aveva ingenuamente promesso all'Altezza Vostra che l'averei o fatto prigione o ucciso o del tutto fatto suddito alla vostra real corona. E con questa opinione dalla città di Cimpual, la quale mi è piaciuto chiamar la Siviglia, mi parti' alli 16 d'agosto con quindeci cavalli leggieri e cinquecento fanti de' meglio apparecchiati e piú atti al combattere che io potei trovare, e alla guardia della Vera Croce lasciai centocinquanta fanti e due cavalli leggieri, i quali avessero cura in tutti i modi di fabricar quivi una fortezza, o vogliamo dire una rocca, la quale è già quasi finita. E lasciai pacifica e quieta quella provincia di Cimpual e le montagne vicine alla detta città, ne' quali luoghi stimo che vi siano da cinquantamila uomini da guerra e cinquanta ville e castella fedeli e sinceramente soggetti alla Maestà Vostra, sí come per fin ora sono state e anco sono al presente; imperochè alla venuta mia erano soggette al signor Montezuma e, sí come essi mi raccontavano, non erano stati soggetti a lui per molto tempo, e subito che udirono la fama della grandissima e real potenzia della Maestà Vostra, gridarono di volere esser sudditi di quella e desiderar l'amicizia mia, pregandomi oltra di questo che io gli difendessi dal predetto Montezuma, il quale gli aveva tenuti soggetti per forza e con tirannia, e che pigliava i loro figliuoli per sacrificargli agli suoi idoli. E certamente sono sudditi fedeli alla Vostra Altezza, e tengo che perseveraranno in fede, e per esser liberati dalla tirannia del sopradetto signore, e anco perchè fin ora sono stati ben trattati da me e ho fatto loro grandissimi favori. E per maggior sicurezza di coloro che rimanevano nella città, menai meco alcuni de' principali con alcuni altri, i quali nel viaggio mi furono di non picciolo giovamento.
E perciochè, sí come penso, io aveva nella prima relazione dato avviso alla Maestà Vostra, alcuni che con esso meco erano venuti a questo viaggio, allievi, famigliari e amici di Diego Vellazquez, avevano dispiacere che io con animo valoroso e felicemente mandassi ad effetto cotal cose ad onore di Vostra Maestà e accrescimento dello stato suo, certi di costoro volsero ribellarsi da me e partirsi di questa patria, e massimamente quattro Spagnuoli, i nomi de' quali sono Giovanni Scutifero, Diego Armeno, Consalvo Dumbria, nocchieri o vogliamo dire pedoti, e Alfonso Pennato. I quali, come essi volontariamente hanno confessato, avevano fatto deliberazione di robbare un bergantino, il quale stava in porto fornito di pane e di carne salata, e ucciso il nocchiero col predetto bergantino andarsene all'isola Fernandina, per dare aviso a Diego Velazquez che io mandava una nave a Vostra Maestà, e farlo anco avvertito di tutte quelle cose di che ella era carica e donde aveva da passare acciochè il detto Diego Velazquez ponesse le sue navi in aguato per prenderla; come egli poi mostrò con effetto, perciochè, subito che ebbe notizia che la mia nave era passata, comandò ad una sua caravella che la dovesse seguitare per prenderla: il che non poté mandare ad esecuzione, imperochè la nostra nave era troppo avanti trapassata. Oltra di ciò, confessarono esser degli altri della medesima opinione di fare avisato Diego Velazquez della predetta nave. Veduta la confessione de' predetti malfattori, gli ho puniti secondo che ricercava la giustizia, la necessità del tempo e il servizio di Vostra Maestà, perciochè, oltra i famigliari e allievi e amici di Diego Velazquez, altri ancora desideravano sommamente d'uscire della provincia, che, vedendo il detto paese tanto grande e pieno di tante genti, e il poco numero di Spagnuoli, avevano la medesima opinione. Io, giudicando che, se le navi fossero rimase quivi, coloro che desideravano di ribellarsi e di uscir della provincia facilissimamente con quelle l'averiano potuto fare, e io sarei quasi rimasto solo, onde potriano esser impedite quelle cose che io aveva operato in queste parti nel servizio d'Iddio ottimo massimo e della Maestà Vostra, finsi che quelle navi non erano atte a navigare e procurai di farle tirare in terra. Per la qual cosa abbandonarono ogni speranza di partirsi da que' luoghi, e io piú sicuramente e senza timore feci il mio viaggio, perciochè, partito ch'io fussi dalla città, la gente postavi da me alla guardia non mi poteva mancare in modo alcuno.


Della venuta delle navi di Francesco de Garai. Dell'ambasciata de' nunzii al Cortese, e la risposta e offerte per lui fatteli, e l'astuzia ch'egli usò per conoscer l'intenzione del detto Francesco, e della partita e ritorno delle sue navi. E come Panuco signore manda un ambasciatore con presenti al Cortese.

Passati 10 dí poichè ebbi fatto tirar le navi in terra e mi fui partito dalla città della Vera Croce, e giunto alla città di Cimpual, che è lontana quattro leghe dalla città della Vera Croce, per seguitare il mio incominciato viaggio (e una lega è 4 miglia italiane), gli abitatori della città della Vera Croce mi diedero aviso che per quelle riviere andavano vagabonde quattro navi, e che 'l capitano che io avea lasciato nella città della Vera Croce, essendo montato in un battello, era andato a trovarle, al quale dissero come erano navi di Francesco de Garai, luogotenente e capitano nell'isola di Iamaica, e venivano a discoprir nuove provincie; e che 'l medesimo mio capitano a que' delle dette navi fece palese come io in nome di Vostra Maestà avea preso ad abitar quella provincia, ed edificatovi una città lontana per una lega da quel luogo dove le navi s'erano ferme, e che ivi se ne potevano andar seco, e che esso piglieria cura d'avisar me della loro venuta e, se avessero bisogno di cosa alcuna, quivi si potriano provedere e ristorarsi. Soggiunse il medesimo capitano che egli col suo battello andaria avanti di loro per guidargli in porto, e accennando con mano lo mostrò loro: e quei che erano nelle navi risposero di aver veduto il predetto porto, perciochè erano passati avanti d'esso, e che seguirebbono il suo consiglio. E avendo il capitano col suo battello preso il cammino verso il porto, le navi nol seguitarono, né andarono al porto ch'era loro stato mostrato, ma andavano tuttavia piú oltre vagando per quella costa.
Io subito mi parti' per andare a quel villaggio dove aveva inteso le navi star surte, il quale era lontano circa tre leghe sotto la città della Vera Croce, e, non essendo alcuno de' predetti Spagnuoli dismontati in terra, me n'andai per la medesima costa per saper la lor volontà e intenzione. E già io era lontano una lega dalle sopradette navi, quando d'esse mi vennero incontra tre compagni: il primo come publico notaio, e due altri come testimoni, erano venuti per farmi una monitoria per nome del lor capitano, la quale avevano portata in scrittura, dove si conteneva che egli mi certificava per mezo loro che esso era arrivato primo in quella contrada e che in quella aveva deliberato di abitare, e perciò mi faceva avisato ch'io dovessi metter i termini tra me e il predetto capitano, perciochè esso voleva poner la sua città e nuova abitazione cinque leghe sotto la villa di Nautel, lontana dodeci leghe dalla città la quale al presente è chiamata Almeria. Dapoi che ebbi intesa la loro imbasciata, risposi che dovessero dire al loro capitano che dovesse venir da me personalmente, arrivando con le sue navi al porto della Vera Croce, dove parlaremo, e allora conoscerei qual fusse la sua intenzione e, se per avventura le sue navi overamente i suoi soldati si ritrovassero in qualche necessità, procurerei in tutti modi di dar loro aiuto, massimamente poichè erano al servizio di Vostra Maestà, e io niun'altra cosa piú desiderava che aver occasione di poter far cosa grata all'Altezza Vostra: la quale occasione pensava che fusse venuta se io dava aiuto al suo capitano e ai suoi soldati, che si trovavano seco in servizii di Vostra Maestà. Essi mi risposero che a nessun modo il loro capitano o alcuni de' comiti voleva smontare in terra, o ridursi dove io fussi.
Io, dubitando che avesser fatto qualche danno al luogo dove si erano ferme, venuta la notte secretamente mi posi nel lito del mare all'incontro del luogo dove le navi erano surte, e quivi stetti in aguato insino alle dodeci ore del giorno seguente, pensandomi che 'l Capitano o alcuno de' patroni di nave dovesse pigliar terra, per poter intender da loro che cosa volessero fare e che paesi avessero cercati, e, se avessero fatto danno alcuno in quei luoghi, io ne potessi render certa la Maestà Vostra. Nondimeno, né egli mai né alcuno de' comiti discese in terra. E poichè niuno smontava, comandai a quei tre che erano venuti da me con la predetta monitoria che si spogliassero le lor vesti, e di quelle feci vestire tre de' miei soldati, i quali, andati subito al lito, fecero segno e chiamarono quei che eran nelle navi: e subito che furono veduti, vennero a riva con un battello dodeci uomini che erano nelle navi, armati di balestre e di schioppetti. Li Spagnuoli che gli avevano chiamati si discostarono dal lito, e, non altrimenti che se avessero bisogno di stare all'ombra, maliziosamente si ridussero quivi ad un boschetto vicino. E cosí quattro saltarono fuori del battello, due armati con balestre e gli altri di schioppetti, i quali, circondati da' miei soldati che io aveva posti in aguato nel lito, furono tutti presi: e un di questi prigioni, che era nocchiero, avrebbe ucciso il capitano che io aveva posto al governo della città della Vera Croce, con lo schioppo, se 'l fuoco non fusse mancato alla corda. Coloro che erano rimasti nel battello andarono alla volta delle navi, le quali, prima che a loro giugnesse il battello, avevan fatto vela senza aspettar di intender cosa alcuna da essi.
Dai medesimi quattro rimasi prigioni appresso di me, intesi come erano arrivati ad un certo fiume da basso circa trenta leghe sotto Almeria, e gli abitatori gli avevano volentieri e benignamente ricevuti, e per li lor danari gli avevano dato ogni cosa necessaria; e avevano visto anco dell'oro che gli abitatori avevano loro portato, ma in poca quantità, perciochè solamente avevano ricevuto circa tre pesi d'oro in cambio d'altre cose; e non erano arrivati al lito, ma da presso avevano veduto alcune terre poste nella ripa del fiume, essendo tanto vicine che facilissimamente si potevano vedere dalle navi: non vi era edificio alcuno di pietra, ma tutte le case erano di paglia, e hanno le porte fabricate molto alte. Le qual cose tutte dipoi piú chiara e ampiamente intesi da quel gran signor Montezuma e da certi altri della detta patria i quali egli teneva seco, e da un Indiano il quale era nelle medesime navi, abitatore d'un luogo del detto fiume: e io l'aveva ritenuto prigione appresso di me, e lo mandai insieme con gli ambasciadori del predetto gran signore Montezuma al signor di quel fiume, nominato Panuco, acciochè gli parlassero e lo tirassero al servizio e divozione di Vostra Maestà. Il qual Panuco mi mandò ambasciadore uno de' suoi baroni e, come dicono, signore d'una città, il quale da parte sua mi donò alcune veste, ornamenti di ricami e varie penne, dicendomi oltra di ciò che quel signore con tutto il suo paese desiderava grandemente d'esser suddito di Vostra Maestà e di aver l'amicizia mia. Io all'incontro gli feci parte di quelle cose ch'io aveva portate di Spagna, delle quali prese grandissimo piacere, e tanto che quando le navi di Francesco de Garai, delle quali ho di sopra fatto menzione, ritornarono a quei luoghi, subitamente procurò di farmi avisato le dette navi esser lontane dal predetto fiume per ispazio di cinque giornate, e che io gli dovessi dare aviso se le genti che erano nelle navi fussero della mia patria, perciochè egli darebbe loro ogni cosa necessaria, e già aveva fatto portare alle navi alcune femine e galline.


Della provincia chiamata Sienchimalen. Di un monte alto e difficile da salire. Come quelli Indiani danno al Cortese le cose al viaggio necessarie. Del monte del Nome d'Iddio, cosí chiamato, e del castello Teyxnacan.

Tre giorni continui, serenissimo e potentissimo Signore, ho camminato per la provincia di Cimpual, in tutti i luoghi benignamente ricevuto. Il quarto giorno entrai in un'altra provincia, chiamata Sienchimalen, nella quale è una terra fortissima posta in luogo sicuro e alto, perciochè è al lato d'uno monte asprissimo e non vi si può andare se non per un luogo a simiglianza di scala, dove possono salire solamente i fanti a piedi, ed essi difficilmente, se gli abitatori vogliono difendere il luogo. Nel piano sono assaissime ville e borghi, che fanno insino a cinquecento, trecento, ducento e cento fuochi, e questi luoghi tutti sono sottoposti al signor Montezuma. Fui ricevuto gratissimamente da loro e mi diedero le cose necessarie a seguitare il mio viaggio, e mostrarono che molto ben sapevano che noi andavamo a vedere il lor signor Montezuma, e avessi per certo quello essermi sinceramente amico, e che esso aveva comandato loro che mi ricevessero gratissimamente. Io satisfeci loro di tutto quel che ci avevano dato, e gli ringraziai infinitamente del loro animo grato verso di noi e de' benefici che ci avevano fatti; e oltra di ciò dissi che la fama di quel signore era pervenuta all'orecchie di Vostra Maestà, e perciò ella mi aveva veramente imposto che a nome di lei dovessi visitarlo, e che io andava solamente per visitar lui. E cosí passai la cima del monte, che è nel fine di questa provincia, e la chiamammo la cima del monte del Nome d'Iddio, essendo stata la prima che avemo passata in queste parti; ed è tanto alta e difficile che non mi penso che in Spagna, in quanto alla difficoltà del passare, se ne ritrovi una pari a questa, nondimeno la passai sicuramente. E nel discendere di detto monte si trovano altre ville, soggette ad un certo castello nominato Teyxnacan, gli abitatori delle quali ne ricevettero non meno benignamente di quei di Sienchimalen, e ci dichiarorno il buon animo del lor signor Montezuma verso di noi, e molte altre cose delle quali gli altri di sopra ci avevano avisati: e io parimente a ciascuno del tutto satisfeci.


Come alcuni Indiani morirono per il gran freddo. Della cima d'un monte nella cui sommità v'è una torre con idoli. Della valle chiamata Cartenai e case di quella ottimamente fabricate. Di un signore che negò al Cortese di dargli oro.

Quindi partiti, per ispazio di tre giorni camminammo per luoghi inculti e disabitati, per essere sterili, e per mancamento d'acqua e per li gran freddi. Iddio, conoscitore de' cuori, è testimonio quali e quante cose abbiamo patite, massimamente per sete e per fame, e per la grandissima tempesta di grandine e d'acqua, la qual ci colse in quel paese disabitato e per la qual pensai molti de' nostri dover morir di freddo; nondimeno morirono piú Indiani, i quali con esso noi avevamo menati dall'isola Fernandina molto ben vestiti. Dopo que' giorni che stemmo nel deserto, passammo un'altra gran cima di monte, non tanto difficile come era stata la prima, nella sommità della quale era una torre di mezana grandezza, quasi simile a colonne di pietra nelle quali appresso di noi nelli crociali delle vie e altri luoghi si mettono le sacrosante e venerande imagini, nella qual torre avevano posti i loro idoli; ed era circondata di molte legne tagliate e messe in catasta, forse oltra mille carri, e da cotale effetto la chiamammo la sommità della legna. Nella discesa della quale era una valle molto abitata, posta tra due monti asprissimi, e, sí come potemmo comprendere, gli abitatori erano assai poveri.
E avendo camminato circa due leghe per luoghi sempre abitati, giunsi in un paese piú piano, nel quale ci parve che dovesse far residenza il signor di quella provincia, essendo le case quivi meglio fabricate che in altro luogo dove siamo stati: erano tutte di pietre quadrate e nuovamente fatte, perciochè in esse erano molto belle, grandi e magnifiche sale e stanzie ottimamente fatte e bene ordinate. Questa valle con le sue terre si chiamano Cartenai, il signor delle quali e gli abitatori similmente ne ricevettero con molta allegrezza e n'albergarono commodamente. Poichè gli ebbi parlato a nome di Vostra Maestà ed espostogli le cagioni della venuta mia in questi paesi, gli dimandai se era sottoposto al signor Montezuma overo se fusse d'altra fazione; al quale la mia dimanda fu di grandissima maraviglia, e rispondendo disse: "Chi non è suddito e soggetto al signor Montezuma?", accennando che egli signoreggiasse quasi tutto il giro della terra. Allora io gli raccontai copiosamente le forze, la potenzia, e anco le varie genti e nazioni e i larghissimi imperii di Vostra Maestà, e assaissimi signori piú potenti del Montezuma ubbidire alla Vostra Altezza, il che gli fu molto grato udire; e similmente bisognava che facesse il signor Montezuma e gli altri abitatori di quelle provincie. E subito lo ricercai che si desse per vassallo di Vostra Maestà, aggiugnendo che, se egli si dava per vassallo di Vostra Altezza, ne conseguirebbe grandissimo favore e onore; e acciochè Vostra Maestà degnasse di riceverlo benignamente, gli dimandai in segno di ubbidienza qualche quantità d'oro da mandare a Vostra Maestà. E replicò che egli aveva dell'oro, ma negò di volermene punto dare se 'l suo signor Montezuma non glielo commetteva: e se quel signore glielo comandasse, era apparecchiato di spendere la propria vita, l'oro e ciò che possedeva, e che io non lo molestassi né astringessi a lasciar la sua impresa e opinione. Io il meglio che potei di tutto feci vista di non curare, e gli risposi che tosto il signor Montezuma gli avrebbe comandato che ci dovesse far parte e dell'oro e dell'altre cose che egli possedeva e che ci poteva dar commodamente.


Come altri signori andarono a visitar il Cortese, e doni per loro fatteli. Di una rocca fortissima della provincia Tascaltecal, e come quei popoli sono nemici del signor Montezuma. D'una muraglia mirabilmente fabricata dagl'Indiani. Della guerra continua tra la provincia Tascheltecal e 'l signor Montezuma. Consiglio dato al Cortese dagli uomini di Cimpual. L'entrata de' Spagnuoli nella provincia di Tascaltecal.

Vennero quivi due altri signori per visitarmi, i quali tenevano signoria nella medesima valle, l'uno per ispazio di quattro leghe nel descendere, l'altro di due nell'ascesa di detta valle. Mi donarono certe catene d'oro, nondimeno di poco valore e momento, e otto schiavi. Stemmo quivi cinque giorni, e lasciandoli sodisfatti venimmo ad un luogo dove era la residenza d'uno de' sopradetti signori, lontan due leghe nella salita della valle Yztalmastitam. Il suo dominio e città era di spesse case ed edificii insiememente congiunti e vicini, continuata per ispacio di quattro leghe nella ripa d'un certo fiume, che discorreva per quella valle. Nel colle vicino fa residenzia il signore in una secura e buonissima rocca, tal che non si potrebbe trovar simile nel mezzo della Spagna: la rocca è circondata di mura e di antimura molto forti e di profondissimi fossi. Nella cima del colle è una terra quasi di cinquemila alberghi, e sono le case molto ben fabricate; quivi gli uomini si vedevano alquanto piú ricchi che que' piú da basso. In questo luogo stessimo bene, e il signor d'esso faceva professione d'esser vassallo del signor Montezuma.
Quivi dimorai tre giorni, parte per ristorare i soldati dalle fatiche che avevano sostenuto nel passar la sopradetta provincia disabitata, parte per aspettare quattro uomini del paese di Cimpual i quali venivano meco, e già da Catamian gli aveva mandati ambasciadori in quella gran provincia che la chiamano Tascaltecal, la quale affermavano non esser molto lontana: il che dipoi si vidde chiaramente. E mi dissero che gli abitatori di detta provincia erano molto loro amici e nemici mortalissimi del signor Montezuma, e tutta quella provincia confinava col paese del detto signore, e di continuo quelle due provincie tenevano guerra l'una contra l'altra; e pensavano che essi sommamente si allegrarebbono della mia andata, e che erano per farmi ogni possibile favore, se 'l signor Montezuma volesse trattar cosa alcuna contra di me overo impedirmi e contrapormisi. Nondimeno in que' dí i quali stemmo nella predetta valle, che furono otto, i detti nunzii non tornarono mai. Allora io da' principali di Cimpual che si trovavano presenti dimandai per qual cagione i detti nunzii non fossero ritornati; essi mi risposero che, essendo per aventura quella provincia molto lontana, e in sí breve tempo non potevano tornare.
Io, vedendo il loro ritorno prolongarsi, e que' di Cimpual proponermi in ogni modo e con ogni sicurezza l'amistà della detta provincia, mi partii per andarvi. E nell'uscita della valle era fabricato un muro di pietra lavorata, e di altezza era quanto saria la statura d'un uomo e mezzo, il qual cominciava dall'uno de' monti e si stendeva insino all'altro, ed era venti piedi di larghezza, nella sommità del qual muro avevano fatto un grado circa un piede e mezzo, nel qual potessero fermarsi a gettar sassi quando facesse bisogno di combattere; e la sua entrata non era piú larga di dieci passi, e a questa entrata era raddoppiato il muro a guisa di antimuraglia, e l'entrata era non diritta, ma torta. Io dimandai a che fine fosse stato fatto quel muro; mi risposero che era stato fabricato per esser ne' confini della provincia di Tascaltecal, la quale contrastava col signor Montezuma e gli era nemica, e gli abitatori della detta valle facevano loro continua guerra. Mi confortarono, poichè io andava a visitare il signor Montezuma, che a nessun modo toccassi il paese de' suoi nemici, perciochè erano pessimi e forse potrebbono far qualche dispiacere a me e ai miei, e che essi piglieriano carico di sempre guidarmi per il paese del signor Montezuma, e in quello sempre sarei ottimamente ricevuto e commodamente albergato. Ma que' di Cimpual mi fecero avertito che per nissun modo io obedissi a' loro consigli, ma che dovesse seguitar il camino per la provincia di Tascaltecal, perciochè tutto ciò che essi mi ricordavano lo facevano con animo di separarmi dall'amicizia di quella provincia, e che tutti quelli di Montezuma erano malvagi e traditori, e, se io dessi credenza alle lor parole, mi condurrebbono in luogo donde poi non sarei potuto uscire. E perchè io prestava piú fede agli uomini di Cimpual che a que' di Montezuma, mi accostai al lor consiglio, seguitando il cominciato viaggio per il territorio di Tascaltecal. Conduceva i miei soldati con quella maggior cura e diligenza che si poté fare, e per aventura io andava inanzi quasi una mezza lega accompagnato da sette cavalli, pensando meco stesso d'andar vedendo il paese, acciochè, si avenisse caso alcuno, come poi intervenne, io potesse aver tempo di ragunare e mettere in ordinanza i soldati e combattere.


Battaglia tra gli Spagnuoli e Indiani di Tascaltecal. Come gl'Indiani mandano ambasciatori al Cortese e la risposta per lui fattali, e come un'altra volta in grandissimo numero vengono a battaglia con Spagnuoli. Della uscita d'essi Spagnuoli degli alloggiamenti a' danni de' nemici, e come centocinquantamila Indiani combatterono detti alloggiamenti.

Poichè io fui andato per ispazio di quattro leghe, nel salir d'un picciol colle due de' miei viddero venire alcuni Indiani che portavan penne in testa, le quali sogliono per ornamento usare andando alla guerra; erano armati di spade e di piccole rotelle, i quali, subito che viddero i nostri cavalli, si diedero a fuggire. Allora corsi verso loro e comandai che fussero chiamati adietro, avisandogli che non dovessero punto aver paura: e a questo modo n'andammo a loro. Erano quindeci, i quali subito si strinsero insieme per combatter con noi e cominciarono a gridare ad alta voce, accennando che quegli che erano ascosi in una certa valle verriano in loro soccorso; e combatterono contra di noi tanto valorosamente, che n'uccisero due cavalli e ne ferirono tre e due uomini. In questo mezo usciron fuori da cinquemila, e in tanto erano giunti otto de' nostri a cavallo. Entrammo a combattere, e alle volte gli sforzammo ritirarsi, finchè venissero gli Spagnuoli, ai quali aveva mandato a dire per uno de' miei cavalieri che s'affrettassero. E in quella battaglia facemmo loro qualche danno, avendone di loro uccisi circa sessanta senza alcuna perdita o incommodità de' nostri, benchè da valent'uomini e arditamente combattessero; nondimeno, essendo noi a cavallo, potevamo andar loro adosso con furia e urtargli e sicuramente ritirarci. Intesa la venuta de' nostri si partirono, perciochè erano pochi.
Doppo la lor partita vennero da noi ambasciadori che dicevan esser mandati dai signori di quelle provincie, e con esso loro erano due di quegli ambasciadori i quali ho detto ch'io mandai alla provincia di Tascaltecal, affermando che i signori delle provincie erano del tutto innocenti delle cose che erano successe, perciochè erano communità, e ciò era stato fatto senza lor consiglio e se ne dolevano grandemente, offerendosi a pagare i cavalli uccisi, e che sommamente desideravano la mia amicizia, e ch'io andassi da loro senza paura d'inganno alcuno, che mi riceverebbono con lieto e grato animo. Risposi che io gli ringraziava infinitamente e voleva sodisfare a lor desiderio. In quella notte io e i compagni fummo astretti alloggiare in campagna, per ispazio d'una lega lontano dal luogo dove era intervenuto il fatto, appresso un certo torrente, sí perchè l'ora era tarda, sí ancora perchè i soldati erano stanchi per la fatica del viaggio. Quivi, poste le guardie e le sentinelle de' fanti a piè e de' cavalli, stemmo fino al giorno, e de lí poi in ordinanza, con l'antiguarda e retroguarda e con alcuni che scorrevano avanti per riconoscere il paese, mi partii. E al levar del sole, essendo giunto ad un picciolo castello, gli altri due sopradetti ambasciadori di Tascaltecal piangendo mi vennero incontra, e dissero che quelle genti gli avevano fatti prigioni per ucciderli ed essi quella notte ascosamente se n'erano fuggiti.
Per ispazio non compiuto di due tiri di sasso con mano si scoprí una moltitudine d'Indiani bene armati, e alzati i gridi cominciarono a combatter con noi, aventando freccie e dardi. Io, chiamati gl'interpreti che menava meco, in presenza del notaio cominciai ammonirgli e dir che desiderava aver pace con esso loro: e quanto piú gli ammoniva, tanto piú fortemente ci venivano adosso con l'arme. Veduto che le buone parole non giovavano, cominciammo a difender noi e offender loro quanto potevano le nostre forze, e cosí combattendo ci trovammo tra quasi centomila armati guerrieri, i quali ne avevano circondato d'ogni banda. Combattemmo in quel giorno aspramente sino all'ora avanti il tramontar del sole, perciochè a quel tempo gli nemici si ritirarono; e con sei bombarde, sei schioppi, quaranta balestre, tredici uomini a cavallo che erano rimasi, e co' sopradetti fanti a piedi, feci gran danno e messi grande spavento agli nimici senza danno e perdita de' miei, salvo la fatica del combattere, la sete e la fame. E veramente si può dire che Iddio ottimo massimo combattesse per noi contra i nostri nimici, conciosiachè in tanta moltitudine d'uomini, mossa con animo tanto acceso e con tanta destrezza alla guerra, e fornita di tante sorti d'armi, rimanessimo liberi senza offesa alcuna. Quella notte ponemmo gli alloggiamenti appresso una certa picciola torre posta nella cima d'un colle vicino, la quale era consecrata ai loro idoli.
Venuto il giorno, perciochè io moveva guerra loro, lasciai negli alloggiamenti l'artegliarie con duecento uomini, e con tredici cavalieri e cento Spagnuoli e quattrocento Indiani che aveva menati meco dalla provincia di Cimpual me n'andai a danneggiar gli nimici; e prima che avessero tempo di ragunarsi, abbruciai sei villaggi, che ciascuno d'essi era quasi di cento case, e avendo fatto prigioni forse trecento persone tra maschi e femine, rimenai salvi i miei soldati negli alloggiamenti, insino a' quali ne seguitarono combattendo con esso noi. La mattina seguente a buon'ora forse centocinquantamila uomini assalirono i nostri alloggiamenti, e tanta era la moltitudine de' nimici che n'era coperta tutta la campagna, e con tanto ardire e tanto valorosamente ci assalivano che alcuni d'essi v'entrarono dentro, dove combattevano co' Spagnuoli. Andammo loro adosso e, dandoci aiuto il sommo Iddio, gli uccidemmo, e in ispazio di quattro ore fortificammo i nostri alloggiamenti di maniera che, standovi noi, in niun modo ci potevano far danno, benchè spesse volte ci dessero l'assalto. E cosí ci tennero combattendo insino a notte, la quale essendo venuta, si ritirarono.


Gli Spagnuoli escono un'altra volta a danno de' nimici. I signori di quelle provincie gli mandano ambasciadori dimandando pace. Come a cinquanta Indiani ch'erano andati per ispiar detti alloggiamenti il Cortese fece tagliar le mani, e la prudenzia ch'egli usò prima che gl'Indiani gli assaltassero, e come di nuovo usciti solamente con cavalli gli sconfisse.

Il secondo giorno dopo che io posi gli alloggiamenti appresso la detta torre, innanzi dí, con sí gran silenzio di tutti che niuno de' nimici sentí, io usci' fuori con li cavalli, con cento fanti e con li miei amici indiani, e scorrendo abbruciai da dieci terre, una delle quali arrivava a tremila case: e con gli abitatori di questa avemmo da combattere, che eccetto essi nessuno ci dava molestia, perciochè gli altri erano absenti. E perchè si portavano avanti l'insegne della santa croce, e combattevamo per la fede cattolica e per servizio della Vostra reale Altezza, Iddio omnipotente felicemente ne prestava tante forze che uccidemmo senza nostro incommodo molti di loro, e innanzi mezzogiorno, sopragiugnendo infinita moltitudine di nemici, ottenuta già la vittoria ci eravamo ritirati negli alloggiamenti. Il terzo dí dai medesimi signori delle dette provincie i nemici vennero a noi ambasciatori, dicendone di voler essere soggetti a Vostra Maestà e amici a me, pregando oltra di questo ch'io perdonassi loro i commessi falli; e ne portarono vettovaglie e altre cose lavorate di piume e di penne che essi usano, le quali appresso di loro sono in grandissimo prezzo. Io diedi loro benigna risposta, mostrando che non avevano fatto bene, nondimeno gli riceveva per amici e perdonava a tutti ciò che avevano fatto contra di me.
Il quarto giorno entrarono nei nostri alloggiamenti cinquanta Indiani, e per quanto potei ritrarre erano tra tutti i paesani di grandissima auttorità, i quali fingevano d'essere venuti per portar vettovaglie, e diligentemente guardavano l'entrata e l'uscita de' nostri alloggiamenti e certe tende che noi abitavamo. Ma quei di Cimpual secretamente mi fecero a sapere che io avessi buona cura, perciochè coloro erano di cattivo animo, e per niun'altra cagione erano venuti ne' nostri alloggiamenti che per ispiare in che modo ci potessero offendere, e che tenessi per certo non esser venuti per altro effetto. Io procurai che secretamente fusse preso uno d'essi, e tanto secretamente che niuno de' compagni se n'avidde, e, chiamati gli interpreti, lo minacciai che mi dovesse dire il vero di quelle cose ch'io gli dimandarei: il quale mi confessò che Sintegal, gran capitano di quella provincia, conducendo gran numero di gente stava ascoso dopo un colle all'incontro de' nostri alloggiamenti, per assaltarci alla sprovista la notte seguente, perciochè diceva che già tre giorni aveva fatto prova di combatter con noi e non aveva potuto fare alcun buono effetto, e che desiderava grandemente di notte venire alle man con esso noi, acciochè i nostri cavalli, l'artegliarie e le spade non mettessero spavento ai suoi soldati; e che esso gli aveva mandati per vedere i nostri alloggiamenti, e i luoghi onde facilmente potessero entrare, e in che modo abbrucciar quelle tende. Subito ordinai che fusse pigliato un altro di quei cinquanta, e ancora il secondo raccontò l'istesse cose ch'io aveva intese dal primo, e con le medesime parole. E poichè questi due erano conformi, diedi commissione che ne fussero presi altri cinque, e finalmente tutti i cinquanta, e feci lor tagliar le mani e mandogli via, acciochè dicessero al lor signore che di giorno e di notte e ogni volta che venisse provarebbe quali noi fussimo per dover essere.
Facemmo i nostri alloggiamenti piú sicuri e allogai i soldati ne' luoghi necessari, e di questa maniera stemmo finchè sopravenisse la notte, la qual venuta gli inimici già cominciavano discendere il colle da due valli, alle quali pensavano di venir secretamente per circondarne e venirne appresso, per mandare ad esecuzione quel che si avevan proposto nell'animo. Ed essendo già provisto e apparecchiato ad ogni cosa, mi parve, se io gli lasciava avicinare ai nostri alloggiamenti, che facillissimamente ci saria potuto avenir qualche danno, e perciochè di notte, non vedendo i soldati che fussero meco, senza paura alcuna ci assalirebbono, e ancora perchè i nostri soldati spagnuoli non vedendo averiano piú paura; oltra di ciò avendo sospetto che in qualche modo non gettassero il fuoco nelle nostre tende, il che se fusse avenuto, ne saria stato di tanto danno che niun di noi saria potuto scampare, deliberai co' cavalli d'assalir gli nemici per ispaventargli e disordinargli. La qual cosa ne successe secondo il nostro disegno, conciosiachè, subito che ebbero sentito noi arditamente andar contra di loro co' cavalli senza temere e senza gridare, lasciate l'armi si gettarono giú per li monti, e tanta fu la moltitudine di coloro che vi si gettavano, che n'erano pieni d'ogn'intorno tutti i luoghi vicini. Lasciarono anco le vettovaglie che con esso loro avevano portate, per rinfrescarsi quando in quella notte ci avessero vinti ed estinti del tutto: e a questo modo rimanemmo sicuri. Fatto questo, ce ne stessimo dentro gli alloggiamenti per alquanti giorni e non ne uscimmo, se non quivi attorno, per difender che non v'entrassero certi Indiani che con grandissimi gridi scaramucciando ci assalivano. E stemmo alquanto di tempo negli alloggiamenti, non senza maninconia.


Come il Cortese la terza volta esce degli alloggiamenti di notte a' danni de' nemici, onde gli Indiani gli dimandarono pace. E come gli Spagnuoli furono da gran paura soprapresi, e, confortati dal Cortese, conclusero voler seguitarlo.

Dapoi una notte con cento fanti, con tutti li cavalli e amici miei indiani, dopo l'ore della prima guardia me n'usci' degli alloggiamenti, dai quali essendo lontano per spazio d'una lega, cinque cavalieri con le cavalle che cavalcavano cascarono, di modo che non poterono andar piú avanti. Io gli rimandai agli alloggiamenti, esortandomi li compagni che ancor io dovessi ritornar con loro, attribuendo cotal accidente a cattivo augurio. Ma io, rivolgendomi nell'animo Iddio esser sopra la natura, seguitai il cominciato viaggio, e prima che venisse giorno assaltai due terre, nelle quali furono uccisi molti; ma non comportai che fussero abbrucciate, acciochè l'altre che erano vicine, vedendo il fuoco, non si pensassero ch'io fussi appresso. Ed essendo venuto il giorno diedi l'assalto ad un'altra, tanto grande che, avendo poi fatta diligente investigazione, conobbi che in quella erano ventimila case. Essi, sprovisti e non apparecchiati a tal cose, uscivano fuori delle case disarmati, e si vedevano per tutte le contrade femine nude co' fanciulli, e già aveva cominciato a far loro del danno. E vedendo che a nessun modo potevano resistere, alcuni de' principali di detta terra umilmente vennero a me, pregandomi che io non lasciassi far loro piú danno, perciochè volevano farsi soggetti alla Maestà Vostra ed esser miei amici, e che molto ben conoscevano essi medesimi essere stati cagione del lor danno, per non aver dato fede alle mie parole, ma che d'allora innanzi chiaramente conoscerei che essi ubbidiriano ai miei comandamenti e sariano fedeli e veramente sudditi alla Maestà Vostra. E, poste giú l'arme, vennero alla mia presenza da quattromila uomini, e appresso un certo fonte ne portarono ottime vettovaglie. E cosí, lasciandogli in pace, me ne ritornai agli alloggiamenti, dove trovai tutti stare in grandissima paura, sospettando che non ci fusse intervenuto qualche male per la caduta de' sopradetti cavalieri, che con le lor cavalle erano tornati negli alloggiamenti: i quali, intesa la vittoria che la clemenzia d'Iddio n'aveva conceduto, e che le predette terre erano congiunte in amistà con esso noi, ebbero grandissima allegrezza.
E sappia la Maestà Vostra che niuno de' nostri era che non avesse grandissima paura, vedendoci esser penetrati tanto avanti nella provincia di costoro, e fra tanta e tal moltitudine d'uomini e senza alcuna speranza di soccorso, di maniera che con le proprie orecchie ho udito che dicevano nei loro ragionamenti privati, e in pubblico Pietro Carbonero, che io gli aveva condotti in luogo donde non n'uscirebbono mai; e di piú, parlando insieme i soldati in una certa tenda e non vedendo me ebbero ardimento di dire che, se io era poco prudente e volessi condurgli in luogo donde non potessero uscire, non dovessero seguitarmi ma ritornare alle navi, e se io voleva andar con loro io poteva farlo, e quando che no mi dovessero quivi lasciare: e piú volte cercarono con diligenza di farmi acconsentire alla loro opinione. Io gli confortava a star di buon animo e a ricordarsi esser sudditi di Vostra Maestà, e che gli Spagnuoli non avevano mai in altro luogo mancato d'animo, ed eravamo in tal felicità che potremmo acquistare alla Maestà Vostra maggior regni e imperii che si trovino in tutto il circuito della terra; e tali bisognava che ci dimostrassimo essere quali convien che siano i buoni cristiani combattendo contra gl'infedeli, e che nell'altro mondo acquisterebbono la somma felicità, e in questo otterremmo maggior onore e gloria che abbia conseguito insin ora nazione alcuna; e considerassero che Iddio ottimo massimo, al quale niuna cosa è impossibile, ci era favorevole, il che piú chiaro che la luce potevano vedere dalle vittorie che per suo aiuto avevano ottenute, nelle quali erano morti tanti nemici e de' nostri non pur uno. Oltra di ciò dissi molte cose in questo tenore, e certamente per lo real favore di Vostra Maestà cominciarono grandemente a ripigliare ardimento, e tirai loro nella mia opinione e me gli feci ubbidienti, e gli disposi ad essere apparecchiati a metter fine alla nostra cominciata impresa.


Come Sicutengal, capitano della provincia di Tascaltecal, venne al Cortese dimandandoli pace. E come Tascaltecal per avanti sempre era stata libera, e da qual provincie sia circondata, e come in quella non si usa sale, né vesti di seta. Con la risposta fatta al detto capitano dal Cortese.

Il giorno seguente a dieci ore venne a trovarmi Sicutengal, capitano e prefetto di tutta quella provincia, con cinquanta de' lor principali e magiscacin, che è la prima dignità di tutta quella provincia, e, per nome d'altri assaissimi prencipi e signori che sono in essa, mi pregarono ch'io gli ricevessi nel real servizio di Vostra Altezza e nella mia amicizia e perdonassi ai loro passati errori, perciochè essi per avanti non avevano avuto notizia né pratica alcuna di noi, né chi noi fussimo avevano conosciuto. Nondimeno in tutti i modi e di notte e di giorno avevano fatto prova di non esser sottoposti ad alcuno, non essendo mai detta provincia in nessun tempo stata serva, né aveva avuto né aveva altro forestiero per signore, ma, dapoi che vi è ricordanza di uomini, sempre erano vivuti liberi e sempre si erano difesi da quel potente signor Montezuma e da suo padre e avolo: e benchè quella provincia fusse tutta soggetta a lui, nondimeno non gli aveva mai potuti far suggetti loro, se ben erano da ogni banda circondati e non avessero uscita alcuna dalla patria. E non usavano punto di sale, non se ne facendo nella lor provincia, né permettendo che si vada fuori della provincia a comprarne; e non usavano vesti di seta, non nascendo in quel luogo per i gran freddi i vermi che la fanno, e mancavano d'altre assaissime cose necessarie all'uso umano, perciochè erano serrati d'ogni lato: le qual cose tutte senza noia e di buon animo comportavano per non farsi soggetti ad alcuno, e meco fare il medesimo avevano tentato con tutte le lor forze. Ma vedevano apertamente che né tutte quelle cose che avevano provate né anco le forze avevano lor potuto giovare, e volevano piú tosto esser sottoposti alla Maestà Vostra che esser crudelmente uccisi, e le lor case ruinate e distrutte, e menate via le mogliere e i figliuoli.
Io risposi che potevano conoscere come essi medesimi erano stati cagione de' lor danni, e io pensava di venire nella lor provincia come amico, benigno e favorevole, sí come quelli di Cimpual molte volte ci avevano raccontato che ella era e che desiderava d'essere; e perciò io avanti aveva mandato loro li miei ambasciadori, che li facessero certi della mia venuta e mostrassero l'amichevole animo mio verso di loro, ed essi ne avevano gran contento, sí come aveva inteso da quei di Cimpual; e che, andando io senza alcuna risposta e senza alcuna paura, mi avevano assaltato e ucciso due de' miei cavalli e gli altri feriti; e poichè avevano combattuto meco, mi avevano mandati i loro ambasciadori, facendomi sapere e affermare tutte quelle cose essere state fatte senza lor saputa, e che non erano procedute da lor volontà o consiglio, e che certe communità senza farne motto a loro si erano mosse, e che essi già l'avevano riprese e desideravano la mia amistà. E io aveva creduto tal parole esser venute da buon animo: aveva lor risposto che mi piacevano le cose proposte da loro, e liberamente il vegnente giorno andai ad alloggiar con loro come con amici, e che il dí seguente nel viaggio mi combatterono finchè sopravenne la notte. E raccontava tutte l'altre cose che li medesimi avevano fatte e commesse contra di me, le quali, per non offender le sacre orecchie di Vostra Maestà, lascierò di dire. In somma sono rimasi sudditi di Vostra Maestà, e le hanno offerto e se stessi e le lor facoltà, e tali gli ho trovati insin ora e per l'avenire spero di trovargli, sí come nel procedere avanti piú chiaramente sarà manifesto a Vostra Maestà.


Come i signori di Tascaltecal pregorono il Cortese ch'entrasse nella città, e come v'entrò con gli Spagnuoli. Del bel sito e piazza maravigliosa e abbondanzia di detta città, e come si governa a republica. Di una dignità loro detta magiscacin, del modo che osservano in punir i ladri; e della provincia chiamata Gnasincango.

Appresso quella torre ne' medesimi alloggiamenti me ne stetti sei giorni, non mi fidando ancora di loro, né mi volsi partire, benchè piú volte con grande instanzia di prieghi mi richiedessero che io andassi ad una certa gran città, dove tutti i baroni e signori di quella provincia facevano residenza, insin che tutti quei signori vennero ne' miei alloggiamenti a pregarmi ch'io entrassi nella città, che in essa meglio che nel campo ci fornirebbono delle cose necessarie; e dicevano aver gran dispiacere che, poichè io era diventato lor amico, avessi cosí tristo albergo. Onde vinto dai lor prieghi entrai nella città, la quale era lontana sei leghe dal detto nostro campo e torre dove era alloggiato.
La città è tanto grande e maravigliosa che, benchè molte cose io lasci che potrei raccontare, nondimeno questo parerà ancora incredibile, perciochè giudico che di circuito sia maggior della città di Granata, e piú forte, e d'edificii tanto belli e forse piú ricchi, e piú piena di popolo che non era Granata in quel tempo che i nostri la tolsero delle mani de' Mori, e molto piú abbondante di quelle cose che sono nella nostra patria, come di pane, d'uccelli, di pesci sí di fiumi come di laghi, similmente di cacciagioni, e d'altre cose che usano, ottime secondo il lor vivere. In questa città è una piazza nella quale ogni giorno si veggono piú di trentamila persone vendere e comprare, oltra l'altre piazze picciole che sono nella città. In questa piazza vi si trovano da vendere tutte le sorti di vestimenti che essi usano; quivi son luoghi ordinati per vendere oro, argento, gioie e altre sorti d'ornamenti e di penne, tanto bene acconcie che in niun altro mercato o piazza di tutto 'l mondo si potriano ritrovar le piú belle. Son quivi luoghi tanto atti alla caccia che non debbono cedere ai migliori di Spagna. Vi si vendono erbe e da mangiare e medicinali, e legne e carboni in buona quantità; vi sono anche bagni, e finalmente tra di loro apparisce una vista d'ogni buon ordine e regola. Ed è gente molto ragionevole, e talmente che la miglior che sia in Africa non è con questa d'esser posta in comparazione. Questa provincia ha valli e pianure acconcie, lavorate e seminate, sí che niente v'è che non sia coltivato.
Secondo che ha potuto comprendere, questa gente seguita il governo de' Veneziani, de' Genovesi e de' Pisani, perciochè non hanno signore particolare, ma sono molti signori, che tutti dimorano nella medesima città. Gli abitatori del paese sono lavoratori, e sono sudditi a questi signori, ciascuno de' quali ha le sue proprie città, ma uno ne ha piú dell'altro; e secondo le facende e guerre che nascono, si ragunano tutti insieme e deliberano e proveggono alle lor cose. Pensiamo anco i medesimi nell'amministrar giustizia e nel castigare i tristi tener qualche ordine, perciochè un certo de' loro abitatori aveva rubbato non so che oro ad uno de' nostri: lo denunziai al loro magiscacin, che è la lor maggior degnità; usarono ogni diligenza e procurarono di farlo seguitare insino ad una certa città nominata Churultecal, vicina a quella provincia, e lo rimenarono e lo diedero nelle mie mani insieme con l'oro, e mi dissero ch'io lo punissi. Io gli ringraziai che avessero usata cotal diligenza, e risposi che, poichè essi erano nella lor provincia, lo castigassero secondo il lor costume, e trovandomi nel lor paese non voleva impacciarmi di punire i loro uomini. Essi lo ripigliarono, e mandando avanti un pubblico trombetta che ad alta voce raccontava il suo delitto, ed era costretto andare attorno la predetta gran piazza; e cosí fatto comandarono che fusse fermo appresso un certo grande edificio fatto a guisa di teatro, che stava nel mezzo della detta piazza, e di nuovo ad alta voce publicava il delitto e sceleratezza di colui, e con un legno fatto ritondo nella sommità a guisa d'un martello gli percossero la testa, finchè alla presenza del popolo uscisse di vita. Vedemmo oltra di ciò assaissimi tenuti in prigione, e dicevano esser ritenuti e per furti e per altre loro commesse sceleraggini. In questa provincia, secondo il conto ch'io feci far diligentemente, sono piú di centocinquantamila case, insieme con un'altra picciola provincia a lei vicina chiamata Gnasincango, che vive con le medesime leggi e costumi, senza signore: e sono non meno sudditi alla real corona di Vostra Maestà che siano quelli della provincia di Tascaltecal.


Ambasciatori e presenti mandati dal signor Montezuma al Cortese; come quei di Tascaltecal confortano il Cortese a non fidarsi del detto signore; e della città Rultecal.

Essendo io in campo, serenissimo e potentissimo Signore, e facendo guerra con le genti di questa patria Tascaltecal, quattro dei piú potenti vassalli del signor Montezuma vennero a trovarmi con ducento suoi famigliari, e dissero che venivano per farmi ambasciata come il lor signore desiderava esser suddito di Vostra Maestà e far amicizia meco, e quel che io voleva constituire che egli dovesse pagare ogn'anno di tributo a Vostra Maestà, tanto in oro, argento, veste di seta, quanto in altre cose delle quali la provincia avesse abbondanza, che di tutte ne faria parte, pur che io non entrassi nella sua provincia: e questo desiderava solamente perchè ella era sterile e non aveva copia di vettovaglie, e che averia dispiacere che io insieme co' miei soldati patissi qualche incommodo e carestia. E per li medesimi mi mandò a donare quasi mille pesi di oro e altrettante vesti di seta, le quali essi sogliono molto usare. Costoro stettero meco nella maggior parte di quella guerra, e molto ben poterono vedere di quanto valor siano gli Spagnuoli, e si trovarono presenti quando facemmo pace e convenzione con quei signori di Tascaltecal, e a quei servizii di Vostra Maestà s'erano offerti i signori e tutti i paesani. E pareva che essi n'avessero gran dispiacere, perciochè in varii modi tentarono di menarmi seco, affermando quelle promissioni e offerte che avevano fatte quei signori e sudditi non dover essere con animo buono, né aver fatto amicizia sinceramente, ma questo fingevano a fine ch'io liberamente mi fidassi di loro, per poter poi usar insidie contra di me, standomene sicuro ed isprovisto. Ma quei di Tascaltecal piú volte mi avevano avvertito che in nessun modo mi fidassi dei sudditi del signor Montezuma, perciochè erano veramente traditori e ogni cosa facevano con fraude, e il lor signore aveva soggiogata tutta quella provincia con inganni: e me ne avevano voluto fare avvertito come sono tenuti di fare i veri amici, e che hanno per lungo tempo conosciuto il Montezuma. Vista la dissensione e gli odii d'ambedue le parti, ebbi non picciolo piacere, perciochè io conosceva ciò esser molto utile alle cose mie, che averei facilissima strada a soggiogarli, secondo quel comune proverbio che dice: "Dal monte nasce quel che 'l monte abbruccia". Mi rivolgeva anco per la mente quel detto del sacro Evangelio: "Ogni regno che in se stesso è diviso sarà mandato in ruina". Nondimeno ora io parlava di secreto con questi, ora con quelli, e rendeva grazie a ciascuno del lor ottimo animo, consiglio e ammonizione, e mostrava d'amar piú coloro che mi erano presenti e co' quali io parlava, che coloro che erano absenti e de' quali dicevano male.
Dimorammo in questa famosa città venti giorni, e gli ambasciatori del signor Montezuma, i quali di sopra ho detto che erano appresso di me, mi confortarono che io dovessi andare alla città di Churultecal, che era lontana circa sei leghe, e i cittadini e abitatori di quella erano collegati di strettissima amistà col lor signor Montezuma, e quivi piú facilmente potrei comprendere il suo animo, se egli desiderasse ch'io andassi nella sua provincia, e che alcuno di quella potrebbe andare a parlare al lor signore Montezuma per dirgli quelle cose ch'io comandassi e ritornar con risposta: e tenevano per certo che in quella mi aspettavano altri ambasciatori per parlar con loro. Risposi che mi piaceva andarvi, ma che ci partissimo un certo giorno che io determinai.


Come i signori di Tascaltecal parlano al Cortese circa l'andar al signor Montezuma e gli manifestano il tradimento. Venuta degli ambasciatori di Churultecal al Cortese, e la risposta e minaccie che ei gli fece; e come poi vennero gli signori istessi, e il Cortese delibera d'andar a detta città.

Poichè li signori di Tascaltecal riseppero le cose ch'io aveva trattate con li predetti ambasciatori, e che aveva deliberato di andare a quella città, pieni di maninconia mi vennero a trovare, pregandomi che a niun modo io dovessi andarvi, perciochè già mi aveano poste insidie per uccidermi insieme co' miei soldati: e a questo effetto esso Montezuma dalla provincia vicina alla detta città aveva mandati da cinquantamila uomini, e si erano fermi presso a due leghe lunge dalla sopradetta città; e avevano prese le strade usate onde io doveva passare e n'avevano fatto una nuova, piena di alte fosse nelle quali avevano fitti pali aguzzi, e coperte con la terra, acciochè vi precipitassero i cavalli e a questo modo si ferissero; e a posta avevano serrate molte contrade, e nell'alte e discoperte terrazze delle case avevano per tutto ragunato de' sassi, a fine di poterci prendere, entrati che fussimo nella città, e far di noi ogni lor piacere. E per conoscer questa verità, io usassi questa ragione, che li signori di quella città non erano mai venuti né a vedermi né a parlarmi, essendo già molto tempo che erano venuti quei di Gnasancigo, i quali erano piú lontani di loro; e ch'io mandassi a chiamargli, e vedrei se venissero.
Io gli ringraziai infinitamente, e dimandai che mi dessero alcuni che a mio nome gli andassero a pregare che dovessero venire a trovarmi, perciochè io aveva alcune cose da communicar con loro pertinenti al commodo di Vostra Maestà; e a' medesimi nunzii esposi a cagione della mia venuta, che gliela dicessero. I quali andati esposero la mia ambasciata ai signori di quella città, e con loro vennero tre persone di non molta stima e riferirono esser venute da parte dei signori di quella città, e che essi non erano potuti venire per esser ammalati, e ch'io esponessi loro la mia intenzione, che la riferirebbono a quei signori. Ma quei di Tascaltecal mi avisarono quelle persone tra i lor cittadini esser di niuna auttorità, e pareva che li predetti cittadini mi beffassero, e che non prestassi lor fede se personalmente i signori della città non venissero a trovarmi. Io ascoltai li detti ambasciatori e risposi che l'ambasciata di sí alto e possente prencipe, quale è la Maestà Vostra, non è convenevole di palesarla a persone basse, e non solamente ad essi ambasciatori, ma appena i lor signori erano di tanta dignità che io dovessi esponer la detta ambasciata: e perciò comandava che in spazio di tre giorni comparissero avanti di me per dare ubbidienza a Vostra Maestà e a lei darsi per sudditi, protestando prima che, se non comparissero nel termine assegnato, anderei con le mie genti contra di loro come contra ribelli di Vostra Maestà e ricusanti esser soggetti al suo imperio. E per questa cagione mandai un comandamento di mano propria, sottoscritto dal notaio, con larga commissione di Vostra Maestà, nel medesimo commemorando la cagione della mia venuta, e che queste provincie e molte altre erano soggette alla Maestà Vostra, e quegli che di buona volontà volessero esser soggetti a lei sariano ben trattati da me, e faria loro grandissimi onori e favori, e il contrario farei ai ribelli.
Il giorno seguente vennero a me quasi tutti i signori della detta città iscusandosi che, se non erano venuti prima, affermavano ciò esser avenuto perchè quegli della provincia dove io dimorava erano lor nemici, e non avevano avuto ardimento di andarvi, pensando di non dover esser sicuri. Ed istimavano che essi dovevano avergli rapportato qualche cosa contra di loro, ma che io non dovessi crederla, come detta da nemici del lor nome, e che non era cosí; e s'andassimo con esso loro alla città, quivi conoscerei le cose dette dai lor nemici esser false, e vere quelle che essi proponevano; e da ora innanzi si rendevano soggetti a Vostra Maestà e avevano animo di perseverare, e che ubbidiriano, apparecchiandosi a contribuire tutte quelle cose che a nome di Vostra Maestà io avessi imposte loro: e di tutto ciò per via d'interpreti fu fatta scrittura dal notaio. Allora io deliberai d'andarvi, parte per non parer d'esser mancato d'animo, parte perchè io sperava di poter quivi piú felicemente trattar le cose che aveva da far col signor Montezuma, perciochè, sí come mi fu riferito, quella città è vicina a quella provincia, conciosiachè i sudditi del Montezuma vi vadano sicuramente, e cosí all'incontro, non essendo al loro andare impedimento alcuno.


Come quei di Tascaltecal disconfortarono il Cortese dell'andar a Churultecal, e l'accompagnarono con centomila uomini fuori della città, e seimila andarono con lui. Come entrò in Churultecal e trovò quei segni che gli dissero quelli di Tascaltecal.

Il che avendo inteso, li signori di Tascaltecal si dolsero grandissimamente e molte volte mi dissero che io faceva grande errore, e, poichè s'erano dati alla Maestà Vostra e avevano presa l'amicizia mia, volevano venir meco e in ogni cosa che avenisse darmi aiuto, non curando ch'io molto ricusassi e con prieghi contendessi che non venissero, non facendo in modo alcuno di bisogno; nondimeno mi seguitarono da centomila uomini da combattere, e mi fecero compagnia per spazio di due leghe lontano dalla città, dal qual luogo con miei grandissimi prieghi, eccetto seimila uomini, se ne ritornarono adietro. In quella notte posi gli alloggiamenti presso ad un certo fiume, due leghe discosto dalla detta città, parte per licenziare gli uomini di Tascaltecal che erano venuti meco, acciochè tanta moltitudine non apportasse qualche scandalo alla città, parte perchè s'avicinava la notte e a quell'ora io non voleva entrar nella città. Il giorno seguente tutti i cittadini mi vennero incontra con trombe e tamburi per ricevermi, con molte altre persone che appresso di loro sono religiose, vestite con le lor solite vesti, cantando e salmeggiando come sogliono fare nelle loro moschee, che essi tengono per chiese; e con quella solennità ci condussero infino all'entrata della città, e ne misero in una ottima casa, dove io insieme con tutti i miei compagni fui albergato commodamente e secondo il nostro desiderio, e ne portarono vettovaglie, ma leggieri però. E mentre caminavamo per andare alla città, c'incontrammo in molti di quei segni che n'avevano palesato quei di Tascaltecal, perciochè trovammo la solita via serrata e un'altra fatta di nuovo, e fosse alte nelle quali cascavano gli uomini, e nella città alcune strade chiuse e sassi ragunati nelle terrazze scoperte delle case: le quai cose ne fecero star piú apparecchiati e piú vigilanti.


Come alcuni ambasciatori del signor Montezuma si partono dal Cortese; e come, scoperto il tradimento, li signori di Churultecal furono presi e legati, e il Cortese s'impatronisce della città di Churultecal, e quelli signori si scusano con lui e promettono di riducere il popolo nella città. E descrizione della città di Churulthecal.

Quivi trovai alcuni nunzii mandati dal Montezuma acciochè parlassero con quegli ambasciatori che erano appresso di me; nondimeno dissero di non aver cosa alcuna da trattar meco, ma solamente esser venuti per intender dagli ambasciatori quel che avessero fatto e deliberato meco, acciò lo potessero riferire al lor signore: e avendomi cosí parlato si partirono, e uno de' principali ambasciadori del Montezuma, che era meco, se n'andò con esso loro. E in quei tre giorni che dimorai quivi mi diedero pochissima vettovaglia, e ogni dí s'andava peggiorando, e rade volte i signori e principali della città venivano a visitarmi o a parlarmi. E mentre per questo eravamo in qualche sospetto e paura, al mio interprete ordinario, che è una femina di quelle indiane, la quale presi a Putuncha, fiume di Grizalva, della quale feci menzione nella prima relazione mandata a Vostra Maestà, fu fatto palese da uno abitante di Tascaltecal come non molto lontano si era insieme ragunata una grandissima moltitudine di uomini, sudditi del signor Montezuma, e che tutti gli abitatori della città avevano menato fuori le moglieri, i figlioli e le facultà, e desideravano d'assaltarne e ucciderne tutti; e che, se ella voleva andar con esso lui, la salvarebbe. Le qual tutte cose raccontò a quel Ieronimo Agillari che io ebbi in Iucatan, e del quale altre volte ho fatto menzione alla Maestà Vostra, ed egli poi le rapportò a me: e procurai che subito fosse preso quell'uomo di Tascaltecal, il quale, avendolo posto in luogo secreto, l'esaminai diligentemente, e mi palesò quelle cose che aveva dette a quella femina di Churultecal mia interprete. E perciò dagl'indicii precedenti, che prima nel viaggio avevamo visti, deliberai che fusse meglio d'assalir loro che essi assalissero me. Procurai di ragunar tutti i signori della città con scusa di voler parlar con loro, i quali poichè si furono ragunati, gli misi in una certa gran sala; e in questo mezzo comandai a' soldati che stessero in arme, e apparecchiati ad ogni cosa subito assaltassero quel numero degl'Indiani che erano nel mio albergo e nel luogo piú vicino. E cosí avenne, perciochè, poi che i signori si furono ragunati, quivi gli lasciai legati; montato a cavallo ed iscaricato uno schioppo, facemmo talmente che in spazio di due ore uccidemmo da tremila uomini. E appresso sappia la Maestà Vostra anco il modo che si erano apparecchiati contra di noi. Prima che io uscissi del mio albergo, avevano serrate quasi tutte le contrade e tutti stavano in ordine; e nondimeno, perchè gli assaltammo alla sprovista, fu facil cosa mettergli in rotta, massimamente mancando i lor capitani, i quali io teneva legati nella sala. Comandai che fusse messo fuoco in certe torri e case fortificate nelle quali si difendevano, e combattendo io andai per tutta la città, avendo nondimeno lasciato ottima guardia nell'albergo: e a questo modo per spazio di cinque ore sforzai tutto il popolo uscir della città, con l'aiuto di quattromila uomini di Tascaltecal e di quattrocento di Cimpual.
Dopo il mio ritorno all'albergo parlai con quei signori della città che tenevo prigioni, e dimandavo loro per qual cagione avessero procacciato d'uccidermi cosí a tradimento. Mi risposero la cagione non esser proceduta da loro, ma dagli abitatori di Culua, sudditi del signor Montezuma, i quali con lor lusinghe gli avevano sospinti a commetter simile sceleratezza; e che 'l signor Montezuma, lontano da quella città per spazio d'una lega e meza (come essi potevano pensare), aveva poste in ordine da cinquantamila persone per mandar la cosa ad effetto, ma che già conoscevano essere stati ingannati. E mi pregavano ch'io volessi lasciare uno o due di loro, che promettevano di riducere il popolo ch'io aveva discacciato, e le donne e li figliuoli e le robbe che avevano tratte fuori; e umilmente mi pregavano ch'io perdonassi loro, promettendo che per l'avenire da niuno mai piú si lascieriano ingannare, e volevano esser veri e fedeli sudditi di Vostra Maestà. E poichè io ebbi biasimati e ripresi grandemente i loro errori e sceleraggini, lasciai andar due di loro. Il giorno seguente la città pareva abitata e piena di donne e di fanciulli, e il popolo pacifico, non altramente che se non fusse avenuto cosa alcuna; e liberai tutti gli altri signori della città, avendo promesso d'esser perpetuamente servitori di Vostra Maestà. E in quei venti giorni ch'io dimorai quivi fu la città molto pacifica, e non altramente pareva che se niuno fusse stato ucciso o mancasse, e andavano alle piazze ed esercitavano le lor mercanzie per la città, come prima solevano fare. E feci che quei di Churultecal e Tascaltecal facessero insieme lega e amicizia e di nemici diventassero amici, che da pochi anni il Montezuma gli aveva fatti benevoli a sé e nemici a quei di Tascaltecal.
Questa città di Churultecal è posta in un luogo piano, e dentro delle mura ha ventimila case e altrettante nei borghi. Sono signori da per sé e hanno i confini separati, e non ubbidiscono ad alcuno, né alcuno riconoscono per signore o superiore, e hanno il governo simile agli abitatori di Tascaltecal. Questa gente usa migliori ornamenti che non fanno quei di Tascaltecal. Tutti, dopo questa rotta, e sono stati fedeli sudditi alla real Maestà Vostra, e spero che anco nell'avenire persevereranno. Questa provincia è fertilissima, perciochè ha il paese e i confini molto larghi, e per la maggior parte luoghi che si possono inacquare. La città è bellissima da veder di fuori, perciochè è molto piena di case e ha assaissime torri: e dico il vero a Vostra Maestà che io, guardando da un'alta torre di certa moschea, numerai quattrocento torri di moschee nella detta città. E di tutte le provincie che insin ora io ho vedute in questi paesi, questa è piú accommodata all'abitar di Spagnuoli, perciochè vi sono pascoli e acque buone per nutrir animali, che gli altri luoghi per li quali fin ora siamo passati non l'hanno; perciochè nell'altre provincie è tanta copia di persone che niuna parte di quelli paesi, ancora che minima, si lascia che non sia coltivata, e nondimeno in molti patiscono carestia di pane; vi sono anche molti poveri, e vanno mendicando alle case e alle lor moschee, sí come soglion fare in Spagna e in altri luoghi.


Lamento del Cortese agli ambasciatori del signor Montezuma, e la risposta a lui data per essi ambasciatori Doni mandati dal detto signor al Cortese. Panicacap, che sorte di bevanda sia. Delle provincie Acanzigo e Izuchan. Come detti ambasciatori pregano il Cortese che non entri nella provincia del signor sopradetto, e la risposta per lui fattali.

Parlai agli ambasciatori del Montezuma intorno al tradimento che avevano apparecchiato di farmi i signori di Churultecal, e qualmente i predetti signori affermavano esser avenuto e aver avuto principio dalla persuasione di Montezuma, e che simil tradimento non mi pareva degno di tanto uomo quale era il lor signore, che da una banda mi mandava onorati ambasciatori offerendomi la sua amicizia, e dall'altra cercava a tradimento insidiarmi con l'altrui forze, per poter coprire il delitto ed iscusarsi quando le cose non succedessero secondo il suo desiderio; e che, poichè egli aveva rotta la promessa fede né attesa la promessa, io ancora mi era mutato d'opinione e, se prima io desiderava d'andar nella sua provincia solamente per cagione di visitarlo e di parlar seco e per pigliar sua amicizia e pratica, ora io m'affrettava d'entrarvi come nemico, desiderando di fargli tutti quei danni e incommodi che un nemico può fare; la qual cosa mi dispiaceva sommamente, perciochè mi saria stato molto caro averlo amico e seco consigliarmi di tutte quelle cose ch'io ero per fare in quelle parti, ed esequire il consiglio datomi da lui. Gli ambasciatori mi risposero che erano stati appresso di me lungo tempo e che di simil tradimento a loro non era pervenuta notizia alcuna, e che a niun modo si potevano persuadere che le cose che erano state fatte fussero state esequite di ordine e consiglio del signor Montezuma; e mi ricercavano che, prima che deliberassi di rifiutar la sua amicizia e prender guerra contra di lui, sí come io diceva, dovessi prima molto bene intendere ogni cosa e far ogni prova per trovar la verità, e che io dessi licenzia ad un di loro, che andarebbe a parlare al suo signore e ritornarebbe tosto. Sono da questa città al luogo dove fa residenza il Montezuma venti leghe. Risposi che mi piaceva e licenziai alcuni di loro.
Ed essi, insieme con un altro che prima si era partito, ritornarono dopo sei giorni e mi portarono a donare dieci piatti d'oro fino e millecinquecento vesti, e vettovaglie di galline e panicacap, che è una sorte di bevanda che usano. E riferirono il lor signore Montezuma aver avuto a dispiacere che quei di Churultecal mi avessero fatte insidie, e che certamente io non credessi che esso avesse prestato consiglio e favore in simil negozio, perciochè egli mi dava la sua fede la cosa non esser cosí, e quella gente esser sua ed essersi ragunata dove si è detto di sopra, nondimeno di propria volontà, non di suo comandamento, a persuasione di quei di Churultecal; perchè erano di due provincie, l'una delle quali è chiamata Accancigo, l'altra Izuchan, che sono vicine al paese di Tascaltecal, e per la vicinità aver fatto una certa confederazione tra di loro di aiutarsi l'una l'altra, e per questa cagione s'erano ragunati insieme, ma non per suo comandamento; e per l'avenire vederei dalle sue opere se quelle cose ch'io gli aveva mandate a dire sarebbono vere o no. E di nuovo mi pregava con grande instanzia ch'io non dovessi andare alla sua provincia, perchè, essendo sterile, potrei patir di molte cose; ma dovunque io fussi mandassi a chiamarlo, che in ogni cosa adempirebbe il voler mio. Risposi che 'l mio viaggio per la sua provincia non si poteva schifare, perciochè io era tenuto a dar particolarmente aviso a Vostra Maestà e d'esso Montezuma e di tutta la sua provincia; e fingeva di credere quelle cose che mi avevano riferito gli ambasciatori. E perchè non si poteva ciò fare se io non andava a visitarlo, che non l'avesse a dispiacere; e se pensasse di fare altramente gliene potrebbe avenire male, e mi dispiacerebbe che gli fusse fatto danno o incommodo alcuno.
Egli, poichè conobbe che io aveva determinato d'andare a vederlo, rispose ch'io andassi con buona ventura, e che mi aspettarebbe in quella città dove al presente si ritrovava, e mi mandò molti de' suoi che là mi accompagnassero, perciochè già io era entrato nella sua provincia. Desideravano di condurmi per quei luoghi e vie nelle quali pensai che mi avessero posto insidie per trattarci malamente, come si comprese per le cose che dipoi avennero; perciochè molti Spagnuoli, i quali aveva mandati per quella provincia a diversi negozii, avevano veduti piú ponti e vie strette, per le quali se fussimo andati, facilissimamente averiano potuto mandare ad effetto la loro intenzione. Ma Iddio ottimo massimo, il quale ha difeso insin dai teneri anni la Maestà Vostra, vedendo noi essere intenti al servizio di quella, ne mostrò altro viaggio, e benchè fusse piú aspro, nondimeno non era sottoposto a tanti pericoli come era quello per il quale si sforzavano di condurci. Il quale ci fu mostrato in questa maniera.


Di due monti freddissimi e d'una palla di fumo che esce dalla cima d'uno di quelli,
e come il Cortese vi mandò uomini per investigar tal secreto, e quello che riportarono.
Della provincia detta Chalco.

Discosto da questa città di Churultecal sono due monti altissimi e freddissimi, e nel fine del mese d'agosto vi sono tanto gran nevi, che nelle lor cime non si vede altro che neve. E da uno di quelli, il quale è piú alto, molte volte, tanto di giorno quanto di notte, esce una gran palla di fumo a guisa d'una gran casa, e sopra la cima di quello si lieva insin alle nuvole, tanto dirittamente e con tanta velocità che una saetta non lo vincerebbe di prestezza; e benchè nella sommità di quei monti regnino grandissimi e fortissimi venti, nondimeno non han forza né di rompere né di piegare quella palla di fumo. Ma perchè sempre ho desiderato di tutte quelle cose che sono in questi luoghi riferire a Vostra Maestà particolarmente la verità, parendomi nel veder tal cosa vedere un miracolo, a fine d'investigar tal secreto vi mandai con alcuni di quel paese dieci de' miei soldati spagnuoli, di quegli ch'io giudicava esser atti a tale investigazione, e da dovero comandai loro che in ogni modo salissero sul detto monte e investigassero il secreto di detto fumo e donde e come uscisse. E quanto a lor fu possibile s'affaticarono di salirvi, nondimeno non poterono mai farlo, essendo impediti dalli spessi rivolgimenti di venti con le ceneri che escono dal detto monte, e dalle gran nevi ed estremi freddi che vi sono. Nondimeno si avicinarono alla cima, di modo che, mentre erano quivi, cominciò a uscir fuori quella palla di fumo, con tanto impeto e strepito che pareva che 'l monte ruinasse; e senza far altro se ne ritornarono, portando molta neve e ghiaccio, perciochè pareva loro che, essendo in queste parti cosí calde, avessimo da veder cosa nuova, secondo l'opinione de' nocchieri, che affermano questa provincia esser posta nel ventesimo grado, che è nel parallelo dell'isola Spagnuola, dove continuamente sono grandissimi caldi. E mentre andavano per cercar questo secreto trovarono una certa strada, e dimandando dagli uomini del paese che aveva mandati con esso loro dove s'andasse per quella via, dissero che de lí s'andava a Culua, e per andarvi quella era la buona strada, e non quella per la quale gli uomini di Culua ci volevano guidare. E gli Spagnuoli camminarono per quella insino al fine de' monti, perciochè la strada è nel mezzo d'essi; finalmente cominciò a vedersi la pianura di Culua e la gran città di Temistitan e i laghi che sono in quella provincia, i quali di sotto racconterò all'Altezza Vostra.
E quegli Spagnuoli ch'io aveva mandati ad investigare il secreto co' compagni se ne ritornarono tutti allegri, avendo trovato la buona strada; ed essendo da loro e da quei della provincia stato fatto certo della nuova buona via ritrovata, parlai agli ambasciatori del Montezuma, ammonendogli che mi dovesser conducere a quella provincia per la via ritrovata, e non per quella che essi avevano disegnato. Risposero che ella era piú piana e piú breve, e la cagione perchè non mi guidavano per quella dissero che era per aver noi a passare per la provincia Guasacingo, li cui abitatori erano nemici del lor signor Montezuma, e in quella non potevamo trovar vettovaglie né cose necessarie come nei luoghi del lor signore; ma poichè io aveva deliberato di passar per quella via, essi procureriano di portar la vettovaglia d'altronde. E passammo con gran sospetto, temendo che non volessero perseverar nella lor malignità e di nuovo insidiarci; e perchè già era venuto a notizia di tutti che io voleva passar di là, non pareva a proposito di tornare adietro, acciò non ne fusse attribuito a paura e viltà.
In quel giorno che ci partimmo da Churultecal, avendo camminato quattro leghe, arrivammo a certi villaggi sottoposti alla città di Guasacingo. Quivi fui ben visto dagli abitatori, e mi donarono certi schiavi e vesti e alcuni piccioli pezzetti d'oro, le qual cose tutte erano di pochissimo momento, perciochè non ne hanno nella lor provincia. Seguitano la fazione di quei di Tascaltecal, e d'ogni lato sono chiusi dal paese del signor Montezuma, tal che non hanno commerzio alcuno se non con gli abitatori della propria patria, e perciò vivono miseramente. Il seguente giorno salimmo su la foce posta tra li due monti che ho detto a Vostra Maestà, e nel discender di quella, poichè agli occhi nostri si mostrò la provincia del signor Montezuma, venimmo per una certa provincia che è chiamata Chalco. Per spazio di due leghe avanti che venissimo a' luoghi abitati, trovammo un ottimo albergo, nuovamente fabricato di travi e di paglia. In quello alloggiai commodamente insieme con tutti i miei compagni e con tutti gl'Indiani che aveva condotti meco, che erano da quattromila uomini di queste provincie, cioè di Tascaltecal, di Guasacingo, di Churultecal e di Simpual. Ne diedero le cose necessarie al vivere, e avemmo in tutte le abitazioni fuochi fatti con legne abbondantemente, perciochè vi erano grandissimi freddi, essendo circondati da due monti altissimi, ne' quali era grandissima copia di neve.


Dono di quattromila pesi d'oro fatto al Cortese in nome del signor Montezuma, con pregarlo che non andasse alla sua città, e la risposta ch'ei gli fece.

In questo luogo mi vennero a trovare alcuni in nome del Montezuma, i quali mi parevano baroni, e tra loro dicevano esser venuto il fratello del Montezuma, e mi portarono quattromila pesi d'oro da parte del lor signore Montezuma, pregandomi ch'io mi levassi dell'animo di proceder piú innanzi per andare a quella città, perciochè la sua provincia pativa carestia di vettovaglie, ed era difficile la strada d'andarvi, essendo tutta circondata d'acque, né vi poteva esser condotto se non con le canoe (canoa è una barca d'un legno solo incavato), che usano per traghettare; gli abitatori le chiamano accaler. Fingevano molte altre cose difficili nel viaggio, dicendomi che gli facessi sapere ciò che io dimandava da lui, che volentieri, ovunque io mi trovassi, egli procureria senza dubbio di mandarmi, e insino al mare e dove mi piacesse, in segno di tributo, tutte quelle cose che gli chiedessi. Io con benignità e amichevolmente gli ricevetti, e donai loro alcune cose ch'io aveva portate di Spagna, le quali appresso di loro erano tenute in grandissima stima, e massimamente appresso di colui che dicevano esser fratello del Montezuma. All'ambasciata fatta per nome del signor loro risposi con queste parole: "Io, se fusse in mia potestà il partirmi di questa provincia, per compiacere al vostro magnanimo signore piú volentieri lo farei ch'egli non lo desidera. Ma perchè i commandamenti della sacra cattolica Maestà del mio signore e re non mi concedono poterlo fare, di ordine suo io son venuto in questo paese; e tra l'altre cose che la catolica Maestà e il grande imperatore mi ha dato in commissione, fu principalmente ch'io dessi aviso a sua Maestà del magnanimo vostro signore Montezuma e della città sua tanto famosa, la cui fama già fa molto tempo è pervenuta alle sacre orechie di sua Maestà. E di questo vi voglio pregare, che da parte mia diciate al vostro signore che riceva la mia venuta a lui con buono e lieto animo, perciochè né a lui né alla sua provincia puote arrecar danno o incommodo alcuno, ma piú tosto molta utilità, onore e accrescimento. E poichè averò parlato al vostro signore, se non vorrà tenir mia pratica me ne tornerò subito adietro, che mi sarà a bastanza il parlar con esso lui, per determinar tra noi con che modi si possino in queste parti indirizzar i negozii del mio sacratissimo e potentissimo re; il che non si potrebbe determinare per via di persone mezane, benchè idonee e alle quali si dovesse prestar grandissima fede". E avuta questa risposta si partirono.
In questo albergo del quale ho fatto menzione di sopra, sí come per indicii e apparecchi potette comprendere, avevano pensato d'offenderci in quella notte e farci qualche danno: il che avendo io compreso, vi trovai rimedio. E perciò, poichè conobbero ch'io aveva mutata opinione, di nascoso commandarono a quelle genti che erano ne' monti ascose dovessero andare al predetto albergo, e vedute dalle mie guardie e sentinelle si partirono.


Della terra detta Amaqueruca, e il dono di mille pesi d'oro e schiavi fatto al Cortese per il signor di quella. In che luogo quelli del signor Montezuma s'apparecchiorono ad offender gli Spagnuoli. Come le spie furono uccise e vennero dodeci de' primarii del detto signore, e le parole che usorono al Cortese e la risposta fattali. D'una città posta nel lago e una via con molto artificio fabricata, e delle città Izapalapa e Cannalcan.

Il giorno seguente camminando giunsi ad una certa terra, che la chiamano Amaqueruca, che è sottoposta alla provincia di Chalco, la quale fra la principal terra e fra le ville per due leghe d'intorno ha piú di tremila case: e in questa terra fummo alloggiati molto bene in una bella casa del signore. Vennero molti a vedermi, che mi parevano de' primarii, affermando d'essere stati mandati dal lor signore per aspettarmi quivi e provedere per me e per le mie genti di tutto ciò che facesse di bisogno. Il signore di questa provincia mi donò mille pesi d'oro e quaranta schiavi, e quivi stemmo due giorni commodamente, e abbondantemente ci fornirono di tutte le cose che ne bisognavano.
Il seguente giorno, essendo venuti a me alcuni de' principali, mi certificarono che 'l signor Montezuma m'aspettava. Mi partii, e in quella notte giugnemmo ad una certa picciola terra, lontana de lí forse quattro leghe, appresso un grandissimo lago: e quasi la metà d'essa si sporge in acqua, e verso terra ferma ha un asprissimo monte di ripe e sassi grandissimi. E quivi con tutti li modi s'apparecchiavano d'offenderci, ma la cosa avenne altramente di quel che cercavano. Avevano deliberato di assalirci la notte alla sprovista, ma, essendo io notte e giorno diligente e vigilantissimo, feci tornar vani i lor pensieri. In quella notte posi per tutto le guardie, talmente che le loro spie, e quelle che venivano per acqua con le canoe e quelle che scendevano dal monte, poterono conoscere se avessero possuto mandare ad effetto la loro intenzione. La mattina furono trovate circa venti spie uccise dai nostri, di modo che poche ne ritornarono ai signori che l'avevano mandate; e vedendo che noi eravamo apparecchiati e pronti ad ogni cosa, deliberarono di mutare opinione e condurne come amici.
Il dí seguente, la mattina a buon'ora, avendo determinato di partire, mi vennero innanzi dodeci uomini de' primarii, come dipoi compresi, tra i quali di maggior dignità era un giovane di venticinque anni, che principalmente tutti lo riverivano di maniera che, quando discendeva della lettica nella quale era portato, gli altri tutti andavano innanzi levando li sassi e le paglie del mezo della strada donde aveva da passare. Ed essendo venuti a trovarmi, dissero esser venuti da parte del lor signor Montezuma per accompagnarmi nel viaggio, e che io dovessi perdonare al lor signore se esso non mi era venuto incontra sino a quel luogo, perciochè si trovava ammalato, e che la sua nobil città non era molto lontana; e poichè io aveva deliberato di andare a trovarlo, averemmo potuto parlare a bocca e conoscere di che animo fussero verso di Vostra Maestà. Nondimeno con grandissimi prieghi mi chiedeva che non vi andassi, imperochè averei patito molta fatica e carestia, e molto minacciava che egli quivi non averia potuto procurare che mi fusse stato proveduto delle cose necessarie nel modo che aveva in animo: e in questo perseveravano e s'affaticavano grandemente i predetti ambasciadori, sí che altro non restava se non che dicessero apertamente che se io seguitava di volervi andare, che volevano farmi resistenza.
Ma io risposi loro benignamente e con parole piú umili che mi fu possibile, affermando che di questa mia andata non gliene poteva succedere incommodo alcuno, ma ben molta utilità. E avendo donate loro alcune di quelle cose che avevo arrecate meco di Spagna, gli licenziai, e subito mi partii accompagnato da molta gente, perciochè m'accompagnavano uomini i quali, sí come poi si vidde, erano di grandissima auttorità. E sempre camminavamo vicino della ripa di quel gran lago.
E andato appena una lega lontano dalla casa nella quale era stato alloggiato, viddi nel detto lago una picciola città, che era tanto lontana da noi quanto sariano due tiri di balestra: è posta nel detto lago e ha insino a duemila case, e non si vedeva strada alcuna d'andarvi per terra e, per quanto potevamo scorgere, aveva molte torri. Camminato che ebbi una lega, entrai in una via fatta a mano e artificiosamente fabricata nel detto lago, larga quanto è lunga una lancia spagnuola da uomo d'arme, per la quale avendo camminato quasi una lega arrivammo ad una città, della quale insin ora non abbiamo veduta la piú bella, benchè non fusse di gran circuito. In questa picciola città erano bellissime case, e non tanto ci maravigliavamo delle case cosí ben fabricate quanto dei fondamenti di esse, i quali con maraviglioso artificio erano posti in acqua, che, sí come è detto, la città è situata nel lago. In questa, che ha quasi duemila case, stemmo commodissimamente e molto sontuosamente ne ricevettero; e i primarii e il signore della città desideravano grandemente che quella notte io riposassi quivi, ma gli ambasciatori del signor Montezuma mi dissero che io non dovessi star quivi, ma per spazio di tre leghe andare ad una città nominata Iztapalapa, la quale è suddita ad un de' fratelli del signor Montezuma. L'uscita di questa città dove noi desinammo, il cui nome ora non mi sovviene, è per un'altra simile strada fatta a mano, la quale conduce sino in terra ferma per spazio d'una lega. E avicinandomi alla città, il signore di quella, insieme con un gran signore d'un'altra che è lontana da quella tre leghe, che la chiamano Canaalcan, e molti altri baroni e signori che quivi m'aspettavano, mi vennero incontra e mi portarono quattromila pesi d'oro e certe vesti di seta, e mi ricevettero umanissimamente.


Sito della città Iztapalapa, e de' bellissimi palazzi e giardini e d'un maraviglioso belveder di quella. Delle città di Temistitan, Mesicaloingo, Hyciaca e Huchilohuhico, e come vi si faccia il sale. Il numero de' baroni che vennero a visitar il Cortese e le cerimonie che usarono.

Iztapalapa, la quale è al lato d'un gran lago d'acqua salsa, ha per fino a quindecimila case, e la maggior parte sono in acqua e altre sono in terra ferma. Il signore ha certi palazzi alti che ancora non sono finiti, e sono sí grandi e sí belli come si possino trovare in tutta la Spagna, dico de' grandi e ben fabricati, tanto di pietre quanto di travi e di pavimento e d'ogn'altra cosa necessaria in fabricar palazzi e d'altri ornamenti di casa, eccetto che di lavori di legname e di figure e d'altre cose ricche, di pareti e di palchi usati appresso di noi, i quali quivi nelle abitazioni di sopra non sogliono usare. Da basso hanno giardini dilettevoli pieni d'arbori e di fiori odoriferi, e oltra di ciò peschiere o vero vivai molto ben fabricati, con le scale di pietra da sommo insino a basso. Appresso il detto palazzo ha un gran giardino, nel quale è un belvedere con varie e belle sale e loggie. E nel giardino è un lago d'acqua dolce tirato in forma quadrangolare, fatto di pietre concie, e intorno al lago è una larga loggia con un bellissimo pavimento fatto di mattoni, e tanto larga che quattro uomini di pari facilissimamente senza incommodarsi vi potrebbono passeggiare, e ciascuna parte di essa è quattrocento passi e tutto 'l circuito è mille e seicento. La parte della loggia vicina al giardino è fatta di canne, dopo le quali sono degli arbori e di varie erbe odorifere. Nel lago si veggono nuotare assaissimi pesci d'ogni sorte e uccelli, come sono anetre, foliche e altri assai, di modo che alle volte cuoprono il lago.
Il giorno seguente, partendomi da questa città, avendo camminato mezza lega entrai in un'altra strada mattonata che divideva il lago per mezo, per la qual in spazio di tre leghe si perviene a quella famosa città di Temistitan, posta nel mezo del lago. Questa strada è tanto larga quanto sariano lunghe due lancie spagnuole di uomini d'arme congiunte insieme, per la quale otto uomini a cavallo di pari insieme commodamente potriano passare. Dall'uno e dall'altro lato di detta strada sono tre città, una delle quali è chiamata Mesicaloingo, che per la maggior parte è posta in detto lago, e l'altre due, cioè Hyciaca e Huchilohuhico, che cosí sono dette, sono situate appresso il lago; e molte case delle predette città sono bagnate dall'acqua. Dicono che la prima arriva a tremila case, la seconda a seimila, l'ultima a cinquemila; in ciascuna delle quali sono ottime case e torri, massimamente quelle dove abitano i signori, e le lor chiese, che le chiamano meschite, o vogliamo dir moschee, dove fanno loro orazioni e metton i loro idoli. Qui si fa gran mercanzia di sale, che lo soglion fare dell'acqua del detto lago e del fior della terra dal lago inondata, che, come ella è bollita, la riducano in masse in forma di pane, e lo vendono cosí a' paesani come a' forestieri.
Per spazio di mezza lega prima che si venga a quella famosa città di Temistitan, dove un'altra via fatta in simile maniera sottentra alla prima che viene da terra ferma, è un muro fortissimo con due torri circondate di muro di larghezza di due stature d'uomo, con un antimuro e con torrioni per tutto il circuito, il qual muro riceve ambedue le predette strade. La città di Temistitan ha solamente due porte: una per la quale entrano, l'altra per la quale escono. Vennero qua ad incontrarmi da mille baroni della città, con abito d'una istessa livrea, secondo il lor costume e usanza. E mentre s'appressavano ciascuno di loro usava la ceremonia della patria, che è tale: ciascuno, secondo che si trovava nell'ordine, quando veniva a salutarmi toccava la terra con mano e dipoi se la basciava, per segno di grandissima riverenza. E quivi consumammo un'ora, prima che ciascuno finisse la ceremonia. Non lunge dalla città era un ponte di legno di larghezza di dieci passi: qui è interrotta la detta strada, e questo ponte è per il crescimento e mancamento dell'acque (perciochè l'acque di questa palude crescono e scemano come quelle del mare), e anco per sicurezza e difesa della città, conciosiachè quelle travi lunghe delle quali è fatto il ponte le mettino e lievino come a lor piace. E a simiglianza di questo ne sono molti altri per tutta quella famosa città, sí come dirò piú largamente nel processo della mia relazione.


Con quanta pompa venne il signor Montezuma a parlar al Cortese,
e il parlamento ch'ebbero insieme.

Poichè ebbi passato il detto ponte, mi venne incontra quel potente signor Montezuma per ricevermi, e con esso lui ducento signori co' piedi nudi e con altro piú ricco abito di livrea che li primi; e andavano a due a due in modo di processione e s'accostavano molto ai muri delle case, ancora che la strada fusse agevole, larga e dilettevole, essendo quasi per una lega tutta diritta, e tanto diritta che potevamo veder dal principio insino all'ultimo di detta via; e da ambidue i lati d'essa sono case ottime e grandi, parte per uso di moschee e parte per abitare. Il signor Montezuma andava in mezzo di due gran baroni, l'uno de' quali era quel gran signore di cui feci menzione di sopra, che mi venne a parlare portato in lettica, e l'altro era il fratello del signor Montezuma, che signoreggiava la città dalla quale quel giorno istesso mi era partito: e questi tre vestiti d'una medesima livrea, salvo che il signor Montezuma portava le scarpe e gli altri andavano co' piè nudi, benchè tutti gli abitatori usino scarpe; uno dalla destra e l'altro dalla sinistra sostenevano le braccia al signor Montezuma. E appressatomi smontai da cavallo per andare ad abbracciarlo, ma due di quei signori con le mani m'accennarono che ciò io non dovessi fare, né anco toccarlo. E primamente il signor Montezuma, e dipoi quei due signori, fecero la predetta ceremonia della lor patria, la qual finita comandò al fratello che prima accompagnava lui d'allora innanzi dovesse far compagnia a me, ed egli accompagnato dall'altro signore se n'andava un poco avanti. E dove mi aveva parlato vennero anco gli altri ducento signori che ho detto di sopra a salutarmi ordinatamente, e, fatta la cerimonia, ciascuno ritornava al luogo donde si era partito. E quando parlai al signor Montezuma, mi cavai una collana ch'io portava al collo, di gioie e di diamanti di vetro, e la gettai al collo al signor Montezuma; e avendo camminato alquanto, venne un suo famigliare portando due collane lavorate a modo di piccioli gambari marini, involte in un panno ricamato di porcellette rosse, le quali essi stimano grandemente, e da ciascuna collana pendevano otto gambari d'oro di maravigliosa perfezione, di larghezza d'un palmo: e subito me le gettò al collo. E seguitando il cammino di donde s'era partito, andò con l'ordine e abito detti di sopra, finchè giugnemmo ad un grande e bel palazzo apparecchiato per nostro alloggiamento. E subito, pigliatomi per le mani, mi condusse in una gran sala, che era avanti il cortile dove eravamo entrati, e mi pose a sedere in una ricca e ornata sedia, la quale egli aveva ordinato che fusse apparecchiata per me, e dissemi che quivi io dovessi aspettarlo.
E poco dopo, avendo avuto i miei ottimi alloggiamenti, se ne tornò a me con varie e diverse cose, e ornamenti d'oro e d'argento, e cose lavorate di penne e di piume molto vagamente, e con cinquemila vesti di seta in varii modi e preziosamente lavorate e ricamate. Delle qual tutte cose poichè m'ebbe fatto parte, si pose a sedere in un'altra sedia non molto distante dalla mia, che egli si aveva fatta apparecchiare, e parlò in questo tenore: "È gran tempo che, per l'istorie e scritture de' nostri antichi, abbiamo per certo che io e tutti quegli che abitiamo in questa provincia non siamo discesi di qui, ma siamo forestieri, e venimmo qua da lontani paesi del mondo; e sappiamo che noi arrivammo in questa provincia condotti da un gran signore e capitano, del quale eravamo sudditi.
E lasciando qui noi, se ne tornò a riveder la patria, e non molto tempo dopo se ne ritornò a noi, e ne trovò tutti aver tolte per moglie le native di questo paese, e aver preso ad abitar le terre, e oltra di ciò aver generati figliuoli. Egli tentava con ogni sforzo di levarci di questa provincia, il che noi ricusammo di fare, né piú lo volemmo ricever per signore e capitano; onde egli si partí, e insin ora avemmo creduto di certo che i suoi successori dovessero venire a soggiogare e queste provincie e noi, come proprii e veri sudditi suoi. E considerando il luogo onde voi dite di esser venuti, e le cose che predicate del grande e potente signore e re il quale vi ha mandato qua, credemo veramente che egli sia il nostro vero signore, e tanto piú che voi dite che egli sa noi aver per longo tempo abitati questi luoghi. Per la qual cosa proponetevi che noi siamo per ubbidirvi del tutto e ricever voi per signore, in luogo e nome di colui il quale affermate avervi mandato qua, e in questo non vi mancheremo, né vi useremo inganno. E potete comandare a vostro piacere a tutta la provincia che è sottoposta all'imperio mio, perciochè tutti vi saranno ubbidienti, e potete come vi piace servirvi di tutto ciò che noi possediamo, essendo voi nella vostra propria casa e provincia. State di buon animo e riposatevi, che so di certo che avete patito diverse fatiche, sí per il viaggio, sí per le spesse battaglie che insin ora vi è accaduto di fare. So molto bene le cose che da Pannachanaca fin qua vi sono intervenute. Né dubito punto che quei di Churultecal e di Cimpual vi aranno detto male di me. Vi prego che non crediate piú di quel che per pruova e co' proprii occhi vedete, massimamente essendo cose dette da miei nemici, de' quali alcuni erano miei sudditi e per la vostra venuta mi si sono ribellati, e per ottener favore e grazia da voi dicono simili cose. Io so certamente che essi v'hanno affermato ch'io aveva le case con le mura d'oro, e d'oro la sedia e tutte le masserizie d'oro, e parimenti ch'io era Iddio e per Dio mi riputavano, e altre simil cose. Le case vedete voi stessi esser di pietre di calcina e di terra". E cosí detto s'alzò le vesti mostrando il corpo e dicendo: "Non vedete voi ch'io son fatto di carne e d'ossa, mortale e palpabile? Vedete che già essi hanno mentito. Io certamente ho alcune masserizie che i miei antiqui mi lasciarono: tutte quelle che averò siano vostre, e di quelle disponete a vostro piacere. Io me n'anderò in altre case dove soglio abitare, e averò cura che vi sia proveduto d'ogni cosa conveniente a voi e ai vostri compagni. E non pigliate dispiacere alcuno, anzi rallegratevi, che sete in casa vostra e nella vostra patria".
Io risposi con poche parole, e toccai principalmente quelle cose che mi parevano a proposito del fatto nostro, e spezialmente di metter loro in animo che la Maestà Vostra fusse veramente quel signore che pensavano dover venire. Finito che ebbi di parlare si partí, e dopo la sua partita ci portarono pane, galline, varii frutti e altre cose pertinenti all'uso di casa e dell'albergo. Stemmo quivi sei giorni, molto ben trattati, e spesse volte i signori di quella provincia mi venivano a vedere e parlare.


L'inganno che usò il signor della città di Almeria contra il governator della Vera Croce, e come gli Spagnuoli presero per forza la detta città di Almeria.

Già nel principio di questa mia narrazione esposi a Vostra Maestà ch'io, quando mi partii dalla città della Vera Croce per intender diligentemente di questo potente signor Montezuma, quivi avea lasciati centocinquanta Spagnuoli per finir la fortezza incominciata da me, e anco avevo lasciate molte ville e castelli vicini alla detta città della Vera Croce, sudditi alla sacra Maestà Vostra, e gli abitatori veramente fedeli. Ma, essendo io nella città di Churultecal, mi furono portate lettere del governatore ch'io aveva posto quivi in mio luogo, per le quali mi dava aviso che Qualpopoca, signore della città chiamata Almeria, per li suoi ambasciatori aveva fatto intendere al detto governatore che desiderava esser vassallo di Vostra Maestà, e se insino a quell'ora non gli aveva prestata quella ubbidienza che era tenuto di fare, e se non era venuto con tutta la sua provincia ad offerirsegli, era restato perchè gli bisognava passare per una provincia che gli era nemica e, temendo di ricever offesa nel passare, non aveva potuto mettere in esecuzione quanto desiderava: e perciò lo richiedeva che degnasse mandargli quattro Spagnuoli, i quali andassero seco per le provincie de' nemici, che, essendo guidato da Spagnuoli, aveva fidanza di andar sicuramente al detto governatore e a questo modo gli potrebbe render la debita ubbidienza. Il qual governatore, prestando fede alle parole che gli erano riferite in nome del detto Qualpopoca, e che verrebbe a rendergli ubbidienza come avevano fatto ancora gli altri, gli mandò quattro de' suoi Spagnuoli, i quali, poi che furono in casa del detto Qualpopoca, fingendo di non esser lui cagion della morte, procurò che fussero uccisi: e n'avevano uccisi due, e gli altri feriti erano scampati per li monti. Il detto governatore, avendo ciò inteso, con cinquanta fanti spagnuoli e duoi a cavallo e diecimila Indiani amici nostri era da nemico andato contra la città d'Almeria, e, venuti a combatter co' nemici, furono uccisi sette Spagnuoli; ma alla fine avevano preso per forza la detta città d'Almeria, e avevano uccisi molti cittadini e gli altri mandati fuori, e abbruciata e distrutta la città: ed essendo gli Indiani che aveva menati seco cotali nemici degli Almeriani, avevano in ciò usato ogni diligenza. Ma che Qualpopoca e gli altri suoi confederati e quegli che in questo gli avevano prestato favore fuggendo si erano salvati, e che da certi fatti prigioni aveva dimandato chi fussero stati coloro i quali avevano dato aiuto alla città e a Qualpopoca, e perchè avevano commesso tal delitto, e che cosa gli avessero spinti a uccidere gli Spagnuoli che egli aveva mandati al detto Qualpopoca. Essi risposero quel delitto essere stato commesso per comandamento del signor Montezuma, e che gli altri signori che avevano dato aiuto alla città erano venuti quivi di commissione del Montezuma, acciochè, dapoi che io fussi partito dalla città della Vera Croce, andassero contra coloro che ivi erano rimasi e contra coloro che a lui si erano ribellati e venuti alla divozione di Vostra Maestà, e che usassero ogni diligenza che fusse possibile di uccidere gli Spagnuoli quivi lasciati, acciochè non si potessero l'un l'altro dar favore né aiuto: e che perciò erano cotal cose avenute.


Con che buon modo il Cortese ritenesse il signor Montezuma.

Passati li sei giorni dopo la mia entrata nella famosa città di Temistitan, e poichè ebbi vedute alcune cose di quella, benchè minime rispetto alle molte che si possono vedere, considerate le cose che si hanno nella provincia, giudicai grandemente appartenere all'utile e accrescimento dello stato di Vostra Maestà e alla nostra difesa e fortezza se il detto signore Montezuma venisse nelle mie mani e che del tutto non avesse la sua libertà, acciò non gli occorresse di mutar l'animo inclinato a servir Vostra Maestà; e tanto maggiormente che noi Spagnuoli siamo alquanto fastidiosi e importuni, e se loro si sdegnassero contra di noi, ci potrebbono far qualche incommodo e danno, e tanto che niuno di noi rimarrebbe vivo da riportar nuova di tanto male; parte perchè sono grandissime potenzie e parte perchè, se io lo riteneva appresso di me, l'altre provincie che erano suddite a lui piú facilmente si sariano date a Vostra Maestà, come dipoi avenne. Deliberai di ritenerlo in quella casa dove io abitavo, riputando che ella fusse assai forte e sicura, e pensando io che, mentre cerco di farlo prigione, non ne nascesse qualche scandalo o tumulto, mi venne nell'animo il delitto commesso nella città d'Almeria, del quale per lettere mi aveva fatto intendere il governatore ch'io aveva lasciato nella città della Vera Croce, sí come ho narrato nel precedente capitolo, e come io aveva certezza tutte le cose ivi fatte esser seguite di ordine e comandamento del detto signor Montezuma. E poste le guardie nelle vie strette, me n'andai al palazzo del signor Montezuma, come altre volte io soleva fare, e per alcuno spazio cianciai con esso lui e parlammo di cose piacevoli. E poichè ebbe dato a me alcuni presenti d'oro e sua figliuola, e le figliuole degli altri signori a certi miei soldati, gli esposi per ordine quel che era avenuto nella città di Nautecal over di Almeria, e che avevano ucciso gli Spagnuoli. Oltra di ciò soggiunsi che Qualpopoca e gli altri avevano con inganni ordinate cotal cose di suo comandamento: affermavano non l'aver fatte di loro libera volontà, e non avevano avuto ardimento di non ubbidire al lor signore; che in modo alcuno io non poteva credere tal cose essere state fatte di suo consiglio e commissione, come Qualpopoca e gli altri affermavano; che mandasse a chiamare il detto Qualpopoca con li signori che con lui erano confederati, acciochè apparisse la verità e i malfattori patissero le meritate pene, e la Maestà Vostra conoscerebbe il buon animo di lui verso di lei; e che per questo la Maestà Vostra, in cambio del ringraziamento che ella dovesse commettere che gli fusse fatto, allo incontro non fusse astretto a dar commissione che gli fusse fatto qualche danno e dispiacere, poichè la verità nasceva da quel che dicevano Qualpopoca e i suoi confederati.
Egli subito comandò che certi de' suoi venissero a lui, a' quali diede il sigillo, che era di gioie e lo portava al braccio, e comandò loro che andassero alla città di Almeria, la quale è distante dalla famosa città di Temistitan settanta leghe, e menassero il detto Qualpopoca con gli altri che avevano ucciso gli Spagnuoli; e se non volessero venire spontaneamente gli menassero legati per forza, e se facessero loro resistenza chiamassero in aiuto certe communità, le quali mostrò, che erano vicine alla detta città d'Almeria, e procurassero che fussero presi per forza, e a niun modo tornassero a lui senza i predetti: e per ubbidire al suo comandamento si partirono. I quali essendo già messi in viaggio, resi grazie al signor Montezuma dell'accurata diligenza usata da lui in provedere che li sopranominati fussero presi, perciochè io ero astretto render conto a Vostra Maestà di tutti gli Spagnuoli che meco avevano passato il mare; e acciochè io potessi render vera ragione a Vostra Maestà, era necessario ch'egli venisse e dimorasse nel mio albergo insin che la verità venisse in luce, e sin a tanto che si mostrasse esso non aver di ciò colpa alcuna. E gli chiedevo che non l'avesse a male e non ne prendesse dispiacere alcuno, perciochè in casa mia non era per esser prigione, ma in ogni parte libero; e che io avevo fatto ferma deliberazione non m'intramettere in modo alcuno nelle sue ubbidienze e governo, ed era in suo arbitrio di elegger qual parte voleva del palazzo nel quale io dimoravo allora; e gli promettevo la fede mia che di questa retenzione non gliene poteva avenire fastidio né molestia alcuna, e oltra il servizio de' suoi vi si aggiugnerebbe ancora quel de' miei, e a tutti senza dubbio potrebbe comandare come gli piacesse. Intorno a questo per molto spazio stemmo a contendere, e ciò che fu detto dall'una e dall'altra parte sarebbe lungo a raccontare. Finalmente acconsentí di venir meco a casa mia, e comandò che gli fusse apparecchiato e guarnito un luogo nel mio palazzo; il quale apparecchiato, s'appresentarono molti gran signori e, cavatesi le vesti e alzate le braccia, co' piè nudi conducevano la sua lettica non molto ornata, e con grandissimo silenzio piangendo lo posero in lettica, e andammo al nostro palazzo senza tumulto alcuno, benchè poi il popolo cominciasse a tumultuare. Nondimeno, subito che ciò venne all'orechie di Montezuma, tosto comandò che tutti si dovessero acquietare: e cosí tutto il popolo in quel giorno e sempre, mentre il signor Montezuma stette appresso di me ritenuto, visse pacificamente, perchè era ottimamente albergato e riteneva il medesimo servizio che prima in casa sua, il che fu gran cosa e degna di ammirazione, sí come racconterò poi. E anco i miei compagni gli facevano ogni commodità e servizio che potevano.


Come Qualpopoca e altri furon condotti prigioni e dati nelle mani del Cortese,
e come furono abbruciati publicamente in piazza, e il signor Montezuma posto in ceppi,
i quali poco dipoi gli furon cavati.

Mentre il signor Montezuma stava ritenuto da me, coloro che erano andati a menar Qualpopoca e gli altri compagni che avevano uccisi gli Spagnuoli ritornarono, menando il predetto Qualpopoca con uno de' suoi figliuoli e altri uomini, che si diceva essersi ritrovati alla morte de' detti Spagnuoli. Condussero Qualpopoca in lettica, all'usanza di gran signore, e lo diedero nelle mie mani insieme con gli altri; il quale con gli altri insieme comandai che fusse posto in prigione e legato con le manette e co' ceppi. E poichè ebbero confessato di avere uccisi gli Spagnuoli, dimandai loro se erano sudditi al signor Montezuma. Il predetto Qualpopoca rispondendo mi dimandò se si trovava altro signore a cui dovesse esser suggetto, quasi volesse dire che niun altro ne era al quale dovesse esser suggetto, e che era vassallo del signor Montezuma. Dipoi ricercai dai medesimi se quel che avevano fatto fusse stato di loro spontanea volontà o di comandamento e consiglio del lor signor Montezuma. Tutti dissero che di lor volontà, non di comandamento del lor signore, benchè dapoi, mentre si mandava ad esecuzione la sentenzia data contra di loro e dovevano essere abbruciati, gridassero tutti ad una voce aver commesso tal delitto per consiglio del lor signore, e di suo comandamento l'avevan fatto. E a questo modo furono abbruciati publicamente nella piazza, senza alcun tumulto e sedizione.
E nel giorno medesimo che furono arsi, perchè avevano confessato il signor Montezuma essere stato cagione del predetto omicidio commesso negli Spagnuoli, commandai che egli fusse posto nei ceppi: per la qual vista si sbigottí grandissimamente, benchè il giorno istesso, poichè ebbi molto parlato seco, ordinai che gli fussero levati i ceppi, il che gli ritornò lo smarrito animo e apportogli grandissima allegrezza. E poi di continuo attesi con ogni diligenzia, per quanto mi era possibile, fargli piacere in ogni cosa, e spezialmente perchè in publico in ciascun luogo io confessavo, tanto a' sudditi quanto a' signori delle provincie che mi venivano a trovare, sommamente piacere a Vostra Maestà che 'l signor Montezuma regnasse come prima soleva regnare, nondimeno con questa condizione, che riconoscesse la Maestà Vostra per superiore e per signore, come Vostra Maestà è riconosciuta da tutti gli altri, e che quei sudditi fariano cosa grata a Vostra Maestà se per l'avenire lo tenessero per signore e superiore nella maniera che avevano fatto avanti la mia venuta. E mi portai seco tanto bene e sí bene gli satisfeci che piú volte pregandolo gli commessi che se n'andasse a casa sua, nondimeno sempre mi dava risposta che egli stava bene in quella casa appresso di me, non gli mancando cosa alcuna, non altrimenti che se fusse in casa sua; perciochè, se in casa sua fusse, facilissimamente potrebbe avenire che li signori delle provincie, presa occasione, lo solleciteriano e induceriano contra il suo volere ad operar qualche cosa contra di me, che ritorneria in danno di Vostra Maestà, alla quale già egli aveva deliberato per quanto poteva di sempre servire; e fin che egli certificasse i suoi di quel che avesse in animo, era bene che stesse appresso di me, e, benchè sopra di ciò gli proponessero alcuna cosa, poteva facilissimamente rispondere che esso non era in sua potestà e a questo modo si poteva scusare. E molte volte mi dimandò di poter andare a sollazzo, e da me non gli fu mai negato di potere andar solazzandosi nell'altre case, le quali erano fabricate per andarvi a piacere; e alle volte usciva a sollazzo fuori della città per due leghe, accompagnato da quattro o cinque Spagnuoli, e ogni fiata che ritornava pareva contento e di allegro aspetto. E quando usciva donava varie gioie e vesti tanto agli Spagnuoli quanto a quegli del paese, che sempre era accompagnato da grandissima moltitudine, che almeno erano tremila uomini, e la maggior parte erano baroni e signori di quella provincia; e si dilettava di far continuamente magnifici conviti e feste e balli, i quali poi in vero dovevano esser da tutti con grandissime laudi meritamente commendati.


Come il signor Montezuma, cosí richiesto dal Cortese, manda alcuni suoi famigliari in ciascuna provincia dove si cava oro. Delle provincie Cuzzula, Tamazalapa, Malinaltebeque e Tenis, e del signor di quella detto Coatelicamat, e di molti fiumi dalli quali si cava oro, e della provincia Tuchitebeque.

Poichè io conobbi ch'egli di cuore desiderava d'esser nel real servizio di Vostra Maestà, lo pregai, acciò io potessi mandar piú piena relazione a Vostra Maestà di quelle cose che sono in questi luoghi e provincie, che procurasse che mi fussero mostrate le minere dell'oro: il che con allegro volto e parole dimostrò di piacergli. E in quell'ora egli comandò che fussero chiamati alcuni suoi famigliari, e in ciascuna provincia dove si cavava l'oro mandò due di loro, pregandomi che in lor compagnia io mandassi altrettanti Spagnuoli, i quali vedessero con che ingegno si cavava l'oro; il che facilmente gli concessi, e a ciascuna provincia assegnai due Spagnuoli che accompagnassero gli Indiani. E le provincie erano quattro.
Alcuni di loro vennero ad una certa provincia che la chiamano Cuzula, la quale è distante dalla famosa città del Temistitan ottanta leghe. Gli abitatori di questa provincia sono sudditi al signor Montezuma, ed essi mostrarono tre larghi fiumi, e da tutti portarono mostre d'oro purissimo, benchè poco ne portassero, perchè non avevano gli altri stromenti, ma solamente quegli co' quali gli Indiani sogliono cavarlo. E, sí come gli Spagnuoli mi hanno riferito, sono passati per tre provincie piene di molti borghi, ville ed edificii, tali che nella Spagna non se ne troveriano migliori. Sono in quelle provincie molte città e terre in gran numero, e m'affermarono aver vista una certa abitazione con una rocca, la quale è piú grande e piú forte del castello della città di Burgos di Spagna. E gli abitatori d'una di queste provincie, la qual è chiamata Tamazalapa, portano abiti piú ornati e piú ricchi dell'altre provincie che abbiamo viste insin ora, e sono di grandissima prudenzia.
Li secondi se n'andarono ad una provincia nominata Malinaltebeque, distante dalla detta gran città di Temistitan per leghe settanta, e volgesi piú alla marina, e quegli portarono le mostre dell'oro da un gran fiume che per quella trascorre. I terzi andarono in un'altra provincia, che ha diverso linguaggio dalla vicina provincia di Culua, e la chiamano Tenis, il signor della quale è chiamato Coatelicamat. E perchè ha la provincia fra monti grandissimi, non rende ubbidienza al detto signor Montezuma, e anco perchè gli suoi sudditi sono bellicosi e combattono con asta di lunghezza di venticinque e di trenta palmi. E perciochè questi non sono sudditi del signor Montezuma, gl'Indiani che erano andati co' Spagnuoli non ebbero ardimento di entrare in quella provincia, se della lor venuta non ne facevano prima avisato il signor di quella e da lui ottenessero il salvocondotto, dicendo d'esser venuti per domandargli grazia di poter vedere le sue minere dell'oro, e che in mio nome e del signor Montezuma si degnasse di mostrarle. Coatelicamat rispose che gli Spagnuoli andassero sicuri e liberamente e vedessero le minere e ciò che piaceva lor di vedere, ma quegli di Culua, che sapeva esser mandati da parte di Montezuma, faceva avisati che non entrassero nella sua provincia, perciochè gli aveva in luogo di nemici. Gli Spagnuoli stettero grandissima pezza con animo dubbioso se dovevano andar soli o no, massimamente che gl'Indiani che avevano menati seco gli confortavano a non andare, perchè introduceva lor soli a fine di potergli piú facilmente uccidere; nondimeno gli Spagnuoli d'animo invitto deliberarono di proceder piú avanti. Furono bene e cortesemente ricevuti da' paesani e dal lor signore, e furon lor mostrati sette over otto fiumi, da' quali dicevano cavar oro. Gli Spagnuoli insieme con gl'Indiani cavarono oro e portarono le mostre de' predetti fiumi; e co' medesimi Spagnuoli il detto Coatelicamat mi mandò suoi ambasciadori, per mezzo de' quali offeriva al servizio di Vostra real Maestà se stesso e la sua provincia, e mandommi per li medesimi certi fregi d'oro, e veste di quella sorte che molto usano gli abitatori di quella provincia.
Gli ultimi passarono in una provincia nominata Tuchitebeque, che nella medesima dirittura si volge al mare per dodeci leghe dalla provincia Malinaltebeque, nella quale già ho detto di sopra essere stato trovato dell'oro, e li paesani mostrarono loro due fiumi, da' quali parimente arrecarono mostre d'oro. E per quanto potete intendere dagli Spagnuoli che vi andarono, quella provincia è molto accommodata a potervi fare abitazioni e a cavar l'oro.


Come a richiesta del Cortese nella provincia Malinaltebeque furon fabricate due grandi abitazioni con una peschiera, e il signor Montezuma fece dipingere in un piano le marine e golfi di quel mare con li fiumi che sboccano in quello, e il Cortese mandò dieci Spagnuoli per cercar quei liti, se vi trovassero golfo dove potessero entrar le navi. Del porto Chalchilmera, detto Santiuan. Della provincia Quacaltalco, del signor di quella, detto Tuchintecla, e doni e offerte sue.

Ricercai dal signor Montezuma che nella provincia Malinaltebeque, perchè mi pareva piú commoda al fabricare, fusse fatta una abitazione per la Maestà Vostra: e in farla fare pose ogni possibil diligenza, e tale che per spazio di due mesi in quel luogo già avevano seminato sessanta misure, che noi Spagnuoli chiamiamo anegas, d'una certa semenza nominata da loro maiz, della quale fanno pane, e similmente dieci misure di ceci e di cacap, che è un frutto simile alla mandorla, il qual ridotto in polvere l'usano in luogo di vino; e in quella provincia è di tanta stima, che con quello in vece di danari nelle piazze e ne' mercati e in ogni luogo comprano tutte le cose necessarie. Quivi procurò che fussero edificate due grandi abitazioni, e in un'altra abitazione vi fecero una peschiera, dove avevano a posta messe cinquecento oche, le quali qui sono in grandissimo prezzo, perciochè ogn'anno le pelano e si servono delle lor penne e della piuma. Nella detta abitazione misero anco oltra mille e cinquecento galline e altre cose assaissime necessarie per l'uso di casa. E molte volte gli Spagnuoli che hanno vedute le dette abitazioni, e considerati diligentemente gli ornamenti, hanno giudicato valer da ventimila ducati castigliani.
Similmente dimandai al medesimo signor Montezuma che mi volesse dire se nella costa di quel mare fusse fiume o golfo alcuno, dove le navi che ivi arrivassero facilmente potessero entrare e sicuramente fermarsi. Il qual mi rispose che di tal cosa egli nulla sapeva, nondimeno che gli farebbe dipingere in un panno le marine e i golfi di quel mare e i fiumi che v'entrano, e che io poi averia potuto mandare i miei Spagnuoli a cercare e veder diligentemente, ed esso Montezuma eleggerebbe per lor guide i paesani di detta provincia: il che poi fece con effetto, perciochè il giorno seguente mi portarono in un panno di lino dipinte tutte le marine e golfi del mare, e i fiumi che sboccano in quello. Ivi si vedeva un certo fiume maggior degli altri, sí come da quella si poteva comprendere, il quale entrava in mare e pareva che scorresse tra due monti, che sono chiamati Sanmyn, in un certo golfo, insino al qual luogo i nocchieri pensavano che si dividesse la provincia chiamata Mazamalco. E mi disse ch'io mandassi chiunque mi piacesse, e cosí mandai dieci Spagnuoli, tra i quali alcuni ve n'erano che molto valevano nell'arte marinaresca. E andati con le guide che avea date loro Montezuma, cercarono tutte quelle marine dal porto Chalchilmera, che lo chiamano Santiuan, dove io ero arrivato con le mie navi: e tutto questo viaggio è piú di 60 leghe; e non trovarono fiume né golfo alcuno dove potessero entrar navi, benchè in detta costa ve ne siano molti e grandissimi. E portati dalle canoe, mandata al fondo la sonda, andavano tastando per tutti quei fiumi, e cosí vennero alla provincia Quacalcalco, per la quale il sopradetto fiume trascorre.
Il signor di quella provincia, nominato Tuchintecla, gli ricevette benignamente e ordinò che fossero loro date delle canoe, con le quali potessero entrare nel fiume; nella cui bocca trovarono l'acqua esser profonda quanto sariano due stature e mezza d'uomo, ed era al tempo che l'acque erano grandemente abbassate. E navigarono su per il detto fiume dodeci leghe, e la minor profondità che si truova in detto spazio è quanto sariano sei stature d'uomo, e, per quel che potevano giudicare, andava piú di trenta leghe con tal profondità. Nella ripa del fiume sono molte e gran città, e tutta quella provincia è in pianura, fertile e abbondante di tutte quelle cose che suol producer la terra. Le genti sono quasi infinite, e non sono suddite al signor Montezuma, anzi sono acerbissimi suoi nemici; e parimente, allora che gli Spagnuoli andarono a lui, volse avisargli che que' di Culua a niun modo entrassero nella sua provincia, perciochè erano suoi nemici. Quando quegli Spagnuoli ritornarono a farmi relazione di tal cose, insieme con esso loro mandò certi suoi ambasciatori per li quali mi mandò alcune cose d'oro e molte pelle di tigri, e molte cose tessute di piuma e vestimenti; e mi affermarono che il lor signore Tuchintecla molto tempo fa aveva inteso della mia fama, perciochè que' di Puchunchan, che è un fiume di Grisalva, sono grandissimi suoi amici, e gli avevano fatto sapere che io era passato di là ed ero venuto alle mani con loro, perchè mi vietavano di smontare in terra e d'andare nella città, e come anco dipoi eravamo diventati amici ed essi s'erano sottoposti all'imperio della Maestà Vostra. Ed egli ancor s'offeriva con tutta la sua provincia al real servizio di Vostra Maestà, e mi pregava ch'io lo ricevessi per amico, nondimeno con questa condizione, che gli abitatori della provincia di Culua per niun modo entrassero nel suo paese, e chiedessi di quelle cose che si truovano in quella provincia, perciochè era apparecchiato di fargli parte di tutto quel che io gli avessi dimandato.


Come il Cortese, avuta relazione dagli uomini per lui mandati della qualità della provincia,
mandò a fabricarvi una fortezza, e quanto fusse a grado al signor Tuchintecla
che gli Spagnuoli si fermassero nella sua provincia.

Poi che mi fu riferito da quegli Spagnuoli che ritornavano da veder quella provincia quella essere atta e commoda per edificarvi una nuova città, e anco aver trovato un porto, ebbi grandissima allegrezza, perciochè da quel tempo che io arrivai in questi paesi sono stato sempre in travaglio di cercar porto in queste marine, e anco poter trovare un luogo vicino a quello che fusse commodo per farvi abitazioni; nondimeno insino a quell'ora non l'avevano potuto ritrovare, dal lito over costa che comincia dal fiume di Sant'Antonio, che è vicino al fiume Grisalva, fino al fiume Panuco, che è nella costa piú bassa, dove alcuni Spagnuoli per commissione di Francesco di Garai avevano posta la lor nuova città, de' quali farò poi menzione. E per aver piú certa informazione delle cose di quella provincia e del porto sopradetto, e degli animi de' paesani verso di noi, e d'altre cose necessarie ad abitar ivi, ordinai ancora che alcuni altri de' miei soldati idonei a simili imprese, co' medesimi ambasciadori che Tuchintecla, signor di quella provincia, con presenti mi aveva mandati, andassero portando alcuni doni a quel signore. Dal quale benignamente ricevuti, di nuovo andarono a riguardare il detto porto e a tentar, come fecero gli altri, e trovarono luogo idoneo a fare abitazioni e a porre una città; e di tutto mi rapportarono il vero, e dissero esservi ogni cosa necessaria per fare una città, e che 'l signor della provincia se ne rallegrava grandemente, e che aveva gran desiderio di servire a Vostra Maestà. I quali essendo ritornati con tal relazione, subito mandai un governatore in quel luogo a fabricarvi una fortezza: e a fabricarla s'era offerto il signor della provincia, e parimente tutte le cose delle quali noi avessimo di bisogno per nostro abitare e quelle che io gl'imponessi. E subitamente, dove io aveva determinato che si fabricasse la città, egli procurò che fussero edificate sei case, e dimostrò che egli era grato che si fermassero nella sua provincia e che la prendessero ad abitare.


Della provincia Aculuacan; delle città Tescucu, Acuruma e Otumpa; e come Cacumacin, signor di dette città, si ribellò, e in che maniera fu fatto prigione e dato nelle mani del Cortese, il qual fece render ubbidienza a Cucuzcacim, fratello del detto signore.

Ne' precedenti capitoli della narrazione, potentissimo Signore, io raccontai che in quel tempo che io andavo alla famosa città di Temistitan mi era venuto incontra un certo grande e potente signore, il qual diceva d'esser stato mandato dal signor Montezuma e, come intesi poi, era suo parente; e la provincia la quale egli signoreggiava era vicina a quella di Montezuma, ed era chiamata Aculuacan. Il capo di tal provincia è una città vicina ad un lago salso, e da quella per il lago alla gran città di Temistitan con le canoe sono sei leghe solamente, ma chi andasse a piedi vi ha dieci leghe: e questa città la chiamano Tescucu e ha piú di trentamila case. Il signor di quella vi ha maravigliosi palazzi e abitazioni, moschee e luoghi da fare orazioni molto grandi e ben fatti, e signoreggia anco due altre città: una è distante dalla città di Tescucu per ispazio di tre leghe, nominata Acuruma, l'altra per spazio di quattro, che la chiamano Otumpa; ciascuna di queste ha da quattromila case. Oltra di ciò la detta provincia di Aculuacan ha borghi e ville assai; è terra fertilissima per coltivare, e tutto il paese che signoreggia da un lato confina con la provincia di Churultecal, della quale già feci menzione.
Questo signore, nominato Cacamacin, doppo la ritenzione che lo feci della persona del signor Montezuma, s'era ribellato e dalla Maestà Vostra, alla qual si era fatto suddito, e anco dal signor Montezuma; e benchè molte volte io l'ammonissi che volesse rendere ubidienza e real servizio a Vostra Maestà, nondimeno, ammonito e da me e dal signor Montezuma, non ha voluto mai ubidire, anzi superbamente rispondendo diceva che, se alcuno voleva da lui qualche cosa, andasse nella sua provincia, e quivi proverebbe quanto egli potesse e qual fusse il real servizio che era tenuto a fare. Aveva poste in ordine, come io già avevo inteso, grandissimo numero di gente molto bellicosa. E poichè io non lo potette indurre con ammonizioni, parlai col signor Montezuma e gli dimandai quel che in questo caso gli pareva che dovessimo fare, acciochè non andasse senza pena della ribellione fatta contra di noi. Mi rispose che il volerlo espugnar per forza era grandissima difficoltà, perciochè era tenuto gran signore e potente e molto ben fornito di gente da guerra, e senza grandissimo pericolo e perdita di soldati non pensava che si potesse espugnare; ma che esso Montezuma aveva nella provincia di Cacamacin molti de' principali che dimoravano appresso di lui e da lui avevano stipendio, e che aveva deliberato di parlar con loro, che essi corrompessero alcuni de' soldati del detto Cacamacin, i quali, dando noi loro la nostra fede che sariano sicuri e salvi, favorissero la nostra parte: e a questo modo facilmente lo potremmo espugnare. Sí come avvenne, perciochè il detto signor Montezuma operò di maniera con loro, che persuasero al detto Cacamacin che con loro insieme si volesse ridurre nella città di Tescucu, ed essi come principali attenderiano a provedere alle cose pertinenti al commodo del lor signore, e che averiano gran dispiacere, se egli facesse cosa alcuna onde pericolasse e potesse cadere nell'ultima ruina. E cosí insieme si ragunarono in un grande e bel palazzo del detto Cacamacin, che è nella ripa del lago, e fu di maniera fabricato che vi si può passar di sotto con le canoe e uscire nel lago. Quivi avevano messe alcune canoe apparecchiate secretamente, e in quel luogo medesimo avevano ordinati molti uomini, acciochè, se Cacamacin facesse resistenza e non si lasciasse pigliare, lo potessero prender per forza. Ed essendosi ragunati tutti li principali congiurati, presero Cacamacin prima che fusse udito da' suoi e, postolo in una canoa, lo condussero per il lago alla gran città, la quale, come dissi di sopra, è lontana sei leghe, e condotto lo misero in una lettica, come si conveniva ad un tanto signore, e me lo diedero: il quale comandai che subito fusse messo in ceppi e ben guardato. E, consigliatomi col signor Montezuma, posi al governo di quella provincia in nome di Vostra Altezza il fratello del ritenuto, che era nominato Cocuzcacim, e procurai in tutti i modi che gli fusse resa la debita ubidienza da tutte le communità e signori di detta provincia come al lor signore, finchè fusse ordinato altramente da Vostra Maestà. E cosí fu eseguito, perciochè nell'avvenire tutti l'ubidirono come signore, e nel modo che prima avevano ubidito il detto Cacamazin; ed egli volentieri e fedelissimamente eseguí tutto ciò che gli comandai in nome di Vostra Maestà.


Come il signor Montezuma fece ragunare tutti li signori delle sue provincie, e le parole che gli usò per render l'ubidienza all'imperatore, e la gran quantità d'oro e d'argento e di diversi bellissimi e molto ricchi ornamenti di casa dati al Cortese per mandarli a sua Maestà.

Alquanti giorni doppo la presa di Cacamacin il signor Montezuma comandò che tutti li signori delle sue provincie e città vicine si ragunassero, e, ragunati che furono, mi fece avisato ch'io dovessi andar là, e dapoi che fui giunto parlò di questa maniera: "Carissimi fratelli e amici, lungo tempo è che ottimamente sapete voi tutti, vostri padri e maggiori, essere stati sudditi a me e agli antecessori miei, e da me e da loro essere stati trattati ottimamente e ornati con ogni sorte d'onore; e voi ancora a me e ai miei antichi avete resa quella ubidienza che sono tenuti a render i buoni e fedeli vassalli ai lor signori. E anco penso che teniate a memoria quel che abbiamo avuto da' nostri antichi, che la nostra schiatta non piglia origine da queste provincie, ma è venuta da lontani paesi; perciochè i nostri maggiori gli condusse qua un certo signore il quale gli lasciò qui e partissi, e doppo lungo tempo ritornò e trovò che li nostri padri avevano fatte città in questi paesi, e tolte per moglie le paesane e di quelle generati figliuoli, di maniera che non volsero piú andar con lui, né riceverlo per signore. Ed egli partendosi promise o di tornare personalmente o mandar altri qua in nome suo, con tante genti, potenzia e forze che potrebbe costringerci alli suoi servizii. Sapete che insin ora di giorno in giorno l'abbiamo aspettato, e per le cose che 'l presente suo capitano ci ha racconte di quel re e potente signore il quale afferma che l'ha mandato qua, e per il luogo donde fa professione d'esser venuto, tengo per fermo, e similmente voi dovete tenere, che questo veramente è quel signore che noi aspettavamo, e massimamente che 'l suo capitano afferma che egli già lungo spazio di tempo avea avuto notizia di noi. Ma poichè i nostri antichi non fecero quel che erano tenuti di fare verso i loro signori, bisogna che lo facciamo noi, e rendiamo grazie alli nostri Iddi che quel che abbiamo aspettato sí gran tempo sia venuto a' nostri giorni. E perciò voglio pregarvi tutti, poichè quel che vi ho narrato già molto fa è a tutti voi notissimo, che, sí come insin qui avete tenuto me per signore e a me avete ubbedito, da ora innanzi rendiate obbedienzia a questo grandissimo e potentissimo re, e lui in ogni conto abbiate per signore, poichè egli è vostro signor naturale, e in luogo suo abbiate per signore, onoriate e osserviate questo suo capitano; e tutti li tributi e servigii che fin al presente siate soliti di rendere a me, rendetegli a questo suo capitano, perciochè ancor io parimente sono astretto di contribuire e ubbedire a tutti gli suoi comandamenti; e da ora innanzi esequite e fate ogni cosa che legitimamente a signore siate tenuti di fare, e in questo mi farete cosa gratissima".
Tutte queste parole disse spargendo molte lacrime, e traendo dal profondo cuore maggior sospiri che alcuno potesse mai dire. Gli altri signori tutti accompagnavano le lacrime di Montezuma con lacrime tanto spesse, che stettero assai buono spazio prima che potessero rispondere. E certamente, serenissimo Signore, niuno degli Spagnuoli si trovò presente che non gli avesse grandissima compassione. Finalmente, asciugate le lacrime, risposero che essi gli si erano dati per sudditi e lo riputavano e tenevano per signore, e perciò promettevano di dovere esequire tutte le cose che egli ordinasse; e per questa cagione e per le ragioni addutte da lui volevano mandare ad esecuzione con lieto animo gli suoi comandamenti, e da quell'ora si davano in perpetuo sudditi a Vostra Maestà e offerivanseli per vassalli. E quivi ciascun di loro promise di far quanto in nome di Vostra Maestà gli fusse imposto, e dar tutti li tributi e servizii che erano soliti rendere al detto signor Montezuma, e tutte l'altre cose che loro fussero comandate per nome della Vostra real Maestà: le qual cose tutte furono scritte per alcuni publici notarii e fattone publico instrumento, la copia del quale vi mandai, essendo presenti molti Spagnuoli.
Poichè tutti gli predetti signori si erano dati per sudditi a Vostra Maestà, parlai al signor Montezuma e gli narrai che Vostra Maestà aveva di bisogno di qualche quantità di oro per finire certe sue imprese, e lo pregavo che egli alcuni de' suoi, e io similmente alcuni de' miei, mandassimo per le provincie e abitazioni di quegli signori che in quel giorno si erano offerti, confortandogli che di quella quantità d'oro e d'argento che avevano oltra il lor bisogno ne servissero Vostra Maestà: e a questo modo si mostrerebbe ch'essi già avessero cominciato a far servizio, e la Maestà Vostra conoscerebbe il lor nobile animo in servirla; e similmente il signor Montezuma di quel che egli avea mi faria parte, perciochè avea deliberato mandar tutte quelle cose a Vostra Maestà per li primi nunzii ch'io era per mandar con altre cose a Vostra Altezza. E in quel punto mi dimandò che io gli assignassi due Spagnuoli, i quali mandò ad esequir la cosa in diverse provincie, i nomi delle quali, perciochè ho perdute tutte le mie scritture, non mi vengono in mente, essendo assaissime e diverse: alcune di quelle della detta città di Temistitan sono lontane ottanta e alcune cento leghe. Insieme con li predetti Spagnuoli ordinò che v'andassero alcuni de' suoi, a' quali comandò che andassero a' signori delle dette provincie e dicessero che a ciascuno io imponeva che desse una certa somma d'oro che esso aveva ordinato. E cosí fu mandato ad esecuzione, perciochè tutti que' signori a quali andarono dettero la comandata somma e di ornamenti, e d'oro in masse e in foglie, e d'altre cose che essi possedevano. E avendo fuso quello che poteva fondere, della quinta porzione delle cose che è dovuta a Vostra Maestà furono trentaduemila e quattrocento pesi d'oro, senza le masserizie d'oro e d'argento, e gli lavori fatti di penne, le rotelle e le gioie e molte altre cose di grandissimo valore: le qual tutte ho consegnate e poste da banda per Vostra Maestà, che ascendono al valore di centomila ducati. Erano oltra di ciò tali e tanto maravigliose che per la lor varietà e novità erano inestimabili, né giudico s'abbia da pensare che appresso tutti gli prencipi, tanto cristiani quanto infedeli, de' quali al presente s'abbia notizia, si possano trovar simil cose.
E certamente elle non debbono a Vostra Maestà parer troppo grandi, poichè la verità sta cosí, che di quelle cose che si possono trovar in mare e in terra, e di quelle che esso aveva qualche cognizione, ne aveva l'imagini secondo la vera forma e d'oro e d'argento e di gioie e di penne, in tale eccellenzia e perfezione che a chiunque le vedeva parevano vive; delle quali mi fece non picciola parte per la Maestà Vostra, senza l'altre che io gli diedi dipinte, che tutte le fece far d'oro, come sono l'imagini del Salvator crocifisso, li ricami, le collane, le medaglie e molte altre cose delle nostre, simili alle quali egli se ne fece fare. S'aggiunse anco alla porzione di Vostra Maestà dell'argento ricevuto, oltra cento marche, quello che ho distribuito in far varii piatti, sí piccioli come grandi, e scodelle e tazze e cucchiari. E oltra queste cose il detto Montezuma mi donò molti ornamenti de' suoi, che erano tali che riguardando che erano in tutto di seta e senza seta, in tutto 'l mondo non se ne potria fare né tessere di simili, né di tanti diversi e fini colori e lavori, e tra quegli erano alcune sorti di veste da donne e da uomini maravigliose. Oltra di ciò v'erano fornimenti da camere, a' quali quegli che sono fatti di seta non si possono agguagliare; v'erano altri fornimenti, i quali si potriano usare nelle chiese e nelle sale; v'erano coperte da letti e di penne e di seta di varii e maravigliosi colori, e infinite altre cose che, essendo tali e tante, non le so esprimere a Vostra Maestà. Mi offerse anco dodeci cerbottane: cerbottana è un legno longo concavo, col quale andiamo uccellando ai piccioli uccelletti, da quello mandando fuori col fiato alcune picciole palle, come fave, che sono fatte di creta; la bellezza di queste cerbottane io non posso esprimere, perciochè elle erano fatte con pitture e colori perfettissimi, ed era nel mezzo e nelle estremità oro di altezza d'un palmo lavorato con arte maravigliosa; e una scarsella tessuta di fila d'oro, e le palle sopradette da mettervi, che mi promise darmele d'oro, e per farle mi diede la forma, che era medesimamente di oro, e altre cose di numero infinito.


Siti e della provincia dove è posta la città di Temistitan e d'essa città. Delle varie e molte sorti d'ogni maniera di mercanzie che si vendono nelle piazze, e ciascuna sorte di mercanzia ha la sua ruga propria, senza mescolamento d'altre merci. D'un palazzo dove si rende ragione, e la diligenza che usano nel ricercare quel che si vende e le misure.

Per render certa la Maestà Vostra, potentissimo Signore, delle varie e maravigliose cose di questa città di Temistitan, del dominio che ha questo signore e della ubbidienza che gli è resa, dell'usanza e costume che hanno i paesani, dell'ordine e governo sí di questa città come dell'altre sottoposte al detto signor Montezuma, bisognerebbe starvi lungo tempo e aver molti in tal cosa esercitati che le sapessero raccontare. Io non ne potrei raccontare delle mille parti l'una, ma il meglio ch'io potrò di quelle che io ho veduto ne dirò alcune, e, se ben le dirò rozzamente, nondimeno saranno di tanta maraviglia che con difficultà potranno esser credute, perciochè noi, essendo presenti e vedendole co' proprii occhi, appena le possiamo comprender con l'intelletto. Nondimeno sappia la Maestà Vostra che, se io mancherò in parte alcuna nella relazione delle predette, piú tosto peccherò nel diminuire che nell'accrescere, tanto in queste quanto in altre cose che racconterò alla Vostra Altezza, parendomi che sia giusto che, dovendo riferir queste cose al mio re e signore, le venga a raccontare avendo sempre innanzi la verità, senza accrescere o diminuire o interporre alcuna cosa.
Ma, prima ch'io cominci a narrar le cose di questa famosa città di Temistitan e l'altre che ho dette nel precedente capitolo, mi pare, acciochè meglio il tutto si possa intendere, esplicare il sito della provincia di Messico, dove è posta la detta gran città e dove è la sedia e corte del signor Montezuma. Questa provincia è circondata di altissimi e asprissimi monti, e, in quella è una pianura che di circuito è settanta leghe; nella qual pianura sono due laghi che quasi l'occupano tutta, perciochè ambidue tengono lo spazio di cinquanta leghe: e uno de' laghi è d'acqua dolce, l'altro, che è maggiore, è d'acqua salsa. Ma quella pianura da un lato è divisa da certe picciole colline che sono nel mezzo della pianura, e i detti laghi nel fine si coniungono in una certa stretta pianura che è tra le dette colline e gli alti monti, nella quale lo stretto si stende per un tratto di balestra, e per quella l'un lago entra nell'altro, e gli uomini senza toccar terra con le canoe passano alle città e terre che sono in detti laghi. Ma perchè quello che è d'acqua salsa è grande, ha il crescimento e mancamento dell'acqua a similitudine del mare: ogni volta che 'l detto lago cresce, l'acqua salsa entra nel lago d'acqua dolce, e tanto violentemente quanto se vi entrasse un grande e rapidissimo fiume; e per il contrario, quando cresce l'altro lago, entra in quello dell'acqua salsa. E la ricca città di Temistitan è fondata in quel gran lago salso, e da terra ferma, dalla quale insino alla detta città è il cammino di due leghe, ha quattro entrate per vie fatte a mano, larghe quanto saria lunga un'asta spagnuola d'uomo d'arme. La città è grande quanto Siviglia o Cordova. Le principali contrade di quella sono larghissime, e veggonsi esser poste con diritto ordine, e anco tutte l'altre: e la metà d'alcune è in acqua e l'altre in terra, per le quali si passa con le canoe, e tutte le contrade hanno le loro uscite, acciochè dall'una all'altra possa trapassar l'acqua. Tutte queste uscite, delle quali alcune sono larghissime, hanno travi grandi ottimamente ripuliti, e tali che in alcuni luoghi per esse potriano passare dieci uomini a cavallo giunti insieme. E considerando che se 'l popolo volesse far congiura contra di me lo potrebbe far commodamente, essendo la città posta in quel golfo, come ho detto di sopra, e levando via i ponti che sono entrata e uscita della detta città facilissimamente ci averiano potuto far morir di fame, prima che potessimo arrivare in terra ferma, subito entrato feci far quattro bregantini: e furono fatti sí tosto e tali che con essi potevo mettere in terra ducento uomini coi cavalli ogni volta che mi piacesse.
Ha questa illustre città assaissime piazze, dove continuamente fanno i lor mercati e traffichi per vendere e comprare. È nella medesima città una piazza il doppio maggiore di quella di Salamanca, che ha portici d'intorno intorno, dove ogni dí si veggono piú di sessantamila uomini vendere e comprare, dove si trovano tutte le sorti di mercanzie che si possono trovare in quelle provincie, e per mangiare e per vestire. Vi si vendono cose d'oro, d'argento, di piombo, di rame, d'ottone, di gioie, d'ossi, di cocchiglie, di coralli, e lavori fatti di penne. Vi si vende calcina, pietre lavorate e non lavorate, mattoni crudi e cotti, legni puliti in varii modi e non puliti. Evvi una contrada nella qual si vendono tutte le sorti di uccelli che uccellando si pigliano, come galline, pernici, coturnici, anatre, tordi, foliche, tortore, colombe e passare, tenendole col collo stretto nelle canne, e pappagalli e nibbi piccioli, ascioni, tinunculi, sparvieri, falconi, aquile, e certi di questi uccelli che vivono di rapina, con le piume, col capo, becco e unghie. Vi vendono conigli, lepri, cervi, cani castrati piccioli, i quali allievano per mangiare. Vi sono contrade da vendere erbe, e sonvi tutte l'erbe e radici medicinali che nascono in tutta la provincia. Vi sono luoghi da vender medicine, sí di quelle da prender per bocca, come d'unguenti e d'empiastri. Vi sono barberie, dove gli uomini si fanno lavare la testa e si fanno radere. Vi sono anco abitazioni dove con pagamento si riducono a mangiare e a bevere. Vi sono assaissimi bastagi, come in Spagna, i quali a prezzo portano carichi da casa di coloro che hanno venduto a casa de compratori.
Vi sono molte legne, carboni, fornimenti da fuoco, stuore di varie sorti per far letti, altre piú sottili per ornar le panche e le camere e le sale. Vi è ogni sorte di erbaggi e massimamente cipolle, porri, agli, agretto, tanto terrestre quanto aquatico, cauli, acetosa e cardi. Vi sono varii frutti, tra' quali sono le ciriegie, le susine, che sono similissime a quelle di Spagna; vi sono pomi, uva e altri frutti assaissimi, che quella provincia produce molto eccellenti. Vendono mele d'api, cera e mele di canne di maiz, le quai canne hanno tanto mele e sono cosí dolce come quelle delle quali si fa il zuccaro. Vendono mele di certi arbori che nell'altre isole sono chiamati magney, ed è piú dolce del mosto cotto, e vendono anco il vino che si fa di questo mele. Vendono varie sorti di filo in matasse di varii colori, ed è simile alla ruga dove in Granata si vendono le cose di seta, ma in maggior quantità. Vi si vendono colori per pittori d'ogni sorte, come in Spagna, e tanto belli e fini che migliori non si potrebbon fare. Vi si vendono pelli di cervo ottimamente concie, col pelo e senza, bianche e tinte di varii colori. Vi si vendono molti vasi di terra e molto ben vetriati; vi si vendono zare grandi e picciole, fiaschi, pignatte e altre infinite sorti di vasellami, e per la maggior parte vetriati. Vendono assai maiz, e crudo in semenza e cotto fattone pane, e di questo maiz ne fanno gran mercanzia, e in semenza e in pane, che ritiene il medesimo sapore che suole avere nell'altre isole. Vendono pasticci fatti d'uccelli e di pesci freschi e salati, crudi e cotti. Vendono ova di galline, di oche e d'uccelli in grandissima copia; vendono focaccie d'ova; e finalmente in dette piazze vendono ciò che nasce e cresce in quelle provincie. Le quai cose, oltre quelle che ho detto, sono tali e sí diverse che per la lunghezza e perchè non mi ricordo de' lor nomi non le racconterò. E ciascuna sorte di mercanzia ha la sua propria ruga, senza mescolamento di altre merci, e in questo tengono ottimo ordine; e tutte le cose si vendono ben contate over ben misurate, e per fin ora non si è visto che vendano cosa alcuna a peso.
In questa gran piazza è un'ampia casa a modo di luogo da tener ragione, dove sempre dimorano 10 o 12 persone che giudicano e determinano d'ogni cosa che interviene in detta piazza e delle differenze che vi nascono, e comandano che li malvagi e delinquenti siano castigati. Praticano in dette piazze altre persone che di continuo diligentemente vanno ricercando quel che si vende, e guardano le misure con le quali vendono.


Delle moschee della città di Temistitan, e de' religiosi, e abiti e costumi suoi. Del vestir de' figliuoli di quelli primarii. Come il Cortese fece levar via tutti gl'idoli d'una grandissima e bellissima moschea e porvi l'imagini della gloriosa Vergine e altri santi, e con che forma di parole gli fece rimover dal culto e sacrificio degl'idoli. Del costume di quelle genti nel far l'imagini de' loro idoli e del sacrificarli.

In questa città sono assaissimi edificii e parrochie e contrade loro, e nelle piú onorate stanno gli uomini che secondo la loro usanza sono tenuti per religiosi, e continuamente vi fanno residenza, per li quali, oltra i luoghi dove pongono i loro idoli, si trovano ottime abitazioni. Tutti quei lor religiosi usano vesti nere, e non si tagliano i capelli né si pettinano dal giorno che entrano nella religione insino che n'escono. Quasi tutti i figliuoli de' primarii della città e de' signori della provincia vanno con quell'abito dalli sei e sette anni fin che i padri averanno deliberato di maritargli, e questo aviene ne' primigeniti e in quegli che succedono nelle eredità piú spesso che negli altri. Mentre dimorano in quei luoghi non possono andare a donne, né a donne è lecito andare in quei luoghi; s'astengono da alcuni cibi, ma piú in un tempo che in un altro.
Tra le moschee ve n'è una principale, la cui grandezza e le parti e le cose che vi sono non potrebbe esprimer lingua umana, perciochè la sua grandezza si estende tanto che dentro d'essa, che è circondata di muro altissimo e fortissimo, si potria mettere una città di cinquecento case. Vi sono dentro nel circuito intorno intorno bellissime abitazioni, nelle quali sono gran sale e loggie, nelle quali stanno i religiosi quivi messi. Sono in quel circuito quaranta torre altissime e ben fabricate, alla parte di dentro delle quali si va per cinquanta gradi: e la minor di esse è di tanta altezza di quanta è la torre della chiesa catedrale di Siviglia. E sono sí ben fabricate, e di pietre concie e di travi, che non si potriano far piú polite di quelle o fabricare in alcun luogo, perciochè tutte le pietre lavorate delle capelle dove mettono i loro idoli sono scolpite di varie imagini, e i soppalchi e le travi tutte che ivi si veggono sono ornate e lavorate di varie pitture e fregi. E tutte le sopradette torri sono sepolture de' signori di questa provincia, e le capelle che in quelle sono fatte, ciascuna è dedicata al suo idolo a cui hanno piú divozione. In questa cosí gran moschea sono tre grandissime sale, nelle quali sono assaissimi idoli di maravigliosa grandezza e altezza, con varie figure e arti scolpite e nelle pietre e ne' soppalchi. E nelle dette sale sono altre piccole cappelle con le porte molto strette, e le cappelle non hanno lume alcuno dal cielo, e non v'entrano se non religiosi, e i religiosi non tutti; in quelle sono imagini e statue d'idoli, benchè ancora di fuori ve ne mettano, come ho detto di sopra.
Le piú degne statue de' detti idoli, e di quei a' quali hanno piú devozione, feci levar dalle loro sedie e gettare a terra, e le cappelle dove erano state commessi che fussero mondate e lavate, essendo tutte lorde del sangue degli uomini uccisi in sacrificio, e quivi posi le imagini della gloriosa nostra advocata santa Maria e degli altri santi. Delle qual cose tutte il signor Montezuma e il popolo ebbe grandissimo dispiacere, e da principio m'avisarono che io non dovessi far tal cose, che, se ciò si divulgasse nell'altre communità e luoghi, facilissimamente mi si potriano ribellare; perciochè e' si pensavano tutti i beni temporali esser dati loro e conceduti dai predetti idoli, e, se i popoli comportassero che fussero loro fatte tali ingiurie, si sdegnarebbono e non dariano loro piú cosa alcuna, e i frutti della terra si seccarebbono, onde le genti sariano astrette a morir di fame. Io di continuo per via degl'interpreti gli amoniva, dicendo che s'ingannavano grandissimamente a por la loro speranza in quegl'idoli, i quali essi con le proprie mani d'immondizie gli avevano fatti, e che bisogna che sappiano un solo Iddio essere universal signore di tutti, il quale aveva creato il cielo e la terra e tutte l'altre cose visibili e invisibili, e parimente aver creati loro e tutti noi altri; e Iddio esser senza principio e immortale, e che doveano a lui solo credere e lui solo adorare, e non alcun'altra creatura o cosa. E altre cose dissi loro che in tal occasione seppi dire per rimuovergli dalla loro idolatria e ridurgli alla cognizione del vero, sommo e omnipotente Iddio. Tutti, e spezialmente Montezuma, risposero che essi già avevano detto di non avere origine da questa provincia, e già è grandissimo spazio di tempo che i loro padri antichi vennero in queste provincie, e ben poteva accadere che essi fussero caduti in qualche errore circa le cose che adoravano, essendo già sí gran tempo che erano usciti della lor patria; e come io, che ultimamente era venuto, doveva meglio ricordarmi di quel che essi avevano da credere e d'adorare, e che dovessi farne lor parte e ammaestrargli; e si offerivano apparecchiati a far quelle cose che io proponessi loro come migliori. E il detto Montezuma e molti altri de' primi erano presenti quando gettava a terra gl'idoli delle cappelle e mentre le faceva far nette e vi poneva nuove imagini, e, per quanto potetti comprendere, tutti ne mostravano allegrezza. E da dovero comandai loro che per l'avenire non sacrificassero piú gli fanciulli agl'idoli, perciochè simil cosa molto dispiaceva a Iddio, e Vostra Maestà nelle sue sacre leggi ordinava che ciascuno che uccide sia ucciso. Subito si rimossero da quella usanza di sacrificare, e in tutto quel tempo che io dimorai in quella città non fu mai visto fanciulli esser uccisi o sacrificati agl'idoli.
L'imagini le quali costoro adorano sono di maggior altezza che non è la statura di qualunque grandissimo uomo. Le fanno di tutte le semenze e legumi che essi usano, pesti e mescolati insieme, e l'incorporano col sangue de' cuori di coloro che sono stati uccisi per sacrificio: e i detti cuori gli cavano fuori del petto di coloro che sacrificano mentre sono ancora vivi, e del sangue uscito dai cuori n'impastano farina in tanta quantità che può bastare a far quelle statue cosí grandi; e finite che l'hanno e poste nelle cappelle, offeriscono molti cuori d'uomini e gli sacrificano, e del sangue che n'esce ne ungono loro la faccia. E per ciascuna necessità che può avenire all'uomo hanno gli proprii idoli, secondo il costume antico de' gentili, che ne' tempi passati adoravano i loro idoli, sí che per ottener buona fortuna nella guerra hanno un idolo, per la coltivazione delle lor biade un altro; dipoi, per ciascuna cosa che cercano o desiderano che abbia felice successo, hanno un particolare idolo, il quale adorano.


Delle case della città; di due acquedutti; come conducono l'acque dolce e quella vendono per tutta la terra. Del modo che tengono nella ubbidienza, nel vivere e nelle constituzioni loro.

In questa famosa città sono molte grandi e ottime case, e vi sono tanti be' palazzi, perciochè tutti i principali signori di quelle provincie e vassalli del signor Montezuma vi hanno le loro abitazioni, e vi abitano ad un certo tempo dell'anno; oltra di ciò gli primi della città sono ricchissimi; e similmente bellissime case, oltra le quali hanno di vaghi giardini pieni di varii fiori, tanto nelle abitazioni di sopra quanto in quelle di sotto. Per una delle quattro vie mattonate per le quali s'entra nella città s'estendono due acquedutti la larghezza de' quali è circa due passi e la altezza quanta saria la statura d'un uomo; e per uno di quelli si conduce acqua dolce d'ottimo sapore, per canali di grossezza quasi d'un corpo umano, la qual passa per mezzo la città, e ne bevono e l'usano per altre cose necessarie. L'altro acquedutto è voto, e mentre da uno di loro vogliono mandar fuori l'immondizie, conducono l'acque per l'altro, finchè sia netto. E perciochè passa per i ponti, per rispetto degli ispazii per li quali entra ed esce l'acqua salsa, conducono le predette acque dolci per certi canali di grossezza d'un gran bue, i quali s'estendono quanto le travi di detti ponti, e quella è comune a tutti gli abitanti. Conducono acqua da vendere per tutto con le canoe, e la pigliano da' canali in questo modo: mettono le canoe sotto i ponti, ne' quali stanno gli uomini, ed empiono le canoe d'acqua, e pagano coloro che l'empiono, e similmente in tutte l'entrate della città e dove scaricano le canoe. Il luogo dove la maggior parte delle vettovaglie che sono portate entrano nella città sono picciole casette, nelle quali stanno guardiani che, per ciascuna cosa che entra overo è portata nella città, piglia un certo che di dazio; ma non so se pervenga al signor Montezuma over particolarmente alla città, non avendo insin ora cercato d'intenderlo; nondimeno credo che sia del signore, perciochè nelle fiere dell'altre provincie quel dazio si vede esser riscosso per utile de' signori delle provincie. In tutte le publiche piazze di questa città ogni giorno si trovano assaissimi lavoranti e maestri di ciascun'arte, aspettando chi gli conduca a lavorare.
Gli abitatori di questa città hanno miglior modo e sono piú sottili circa il vivere e altre cose domestiche che non sono quegli dell'altre provincie e città, perciochè, dimorando sempre in quella il signor Montezuma e venendovi spesso tutti i vassalli delle provincie di quel signore, avevano in tutte le cose miglior ordine e governo. E per non esser piú lungo nel raccontar le cose di questa gran città, non me ne potendo tosto spedire, non seguirò piú oltre se non questo, che nelle ubbidienze e vivere tengono il modo servato nella Spagna, e similmente nelle loro ordinazioni e constituzioni. E benchè queste genti siano barbare, e tanto lontane dalla cognizione del sommo Iddio e dalla pratica dell'altre nazioni, è gran maraviglia vedere il modo che osservano in ogni lor cosa.


Della magnificenzia, ricchezza e gran dominio del signor Montezuma. Del fiume Putunchan, detto Grisalva. Della città Cumatan. Di molti gran palazzi, tra' quali n'è uno con dieci peschiere magnifiche e con gran numero d'uccelli aquatici, al nutrir de' quali sono deputati trecento uomini; un altro dove sono animali, tanto volatili quanto da quattro piedi, alla guardia de' quali stanno trecento uomini; e un altro con gran copia d'uomini e donne monstruose.

Ma bisogna scriver qualche particella circa i servizii domestici d'esso signor Montezuma e le cose maravigliose che egli aveva per magnificenza del suo stato: e prometto ingenuamente che non so donde incominciare né come possa impor fine, sí che ne possa dir una minima parte, perciochè, come ho riferito altre volte a Vostra Maestà, qual potenza o ricchezza d'un barbaro signore come questo potrebbe esser maggiore, che nel suo stato potesse possedere imagini d'oro e d'argento e di penne e di gioie e d'ogni sorte che siano sotto il cielo? E l'imagini d'oro e d'argento tanto bene scolpite che niuno scultore le potrebbe far meglio; quelle che sono fatte di gioie, umano giudizio non potrebbe indovinare con che istrumento tanto perfettamente siano fatte; quelle che sono di penne erano tali che né in cera, né in cose ricamate di seta si potrebbono far piú maravigliose.
Non ho potuto intendere quanto s'estenda lo stato del detto signor Montezuma. Egli veramente dalla sua gran città per tutto manda nunzii con suoi comandamenti per ispazio di ducento leghe, a' quali ognuno ubbidisce, benchè avesse certe provincie circondate dalle sue con le quali faceva guerra. E, sí come potei comprendere, il suo regno è tanto grande quanto è tutta la Spagna, perciochè da sessanta leghe oltra il Putunchan, che è il fiume Grisalva, mandò i suoi nunzii ad una città chiamata Cumatan, acciochè venisse a rendere ubbidienza alla Maestà Vostra, che è lontana dalla gran città ducento e venti leghe; ma insino alle centocinquanta comandai alli nostri Spagnuoli che essi andassero a vedere. Quasi tutti li signori di queste provincie, e massimamente gli circonvicini, fanno residenza per la maggior parte dell'anno in questa città, come ho detto di sopra, e per lo piú li detti signori tengono i loro figliuoli primogeniti al servizio del signor Montezuma. E ciascuno di quei signori ha ne' suoi luoghi castelli, e in essi tiene i suoi soldati e li riscuotitori e governatori dell'entrate e de' servizii che a loro pervengono di tutte le provincie, e hanno il conto di tutte le cose che ciascuna provincia è obligata a contribuire. Hanno certi caratteri e figure in carta che fanno, le quali essi intendono. Ciascuna provincia ha il suo servizio e tributo separato, secondo la qualità della servitú, di modo che venivano alle mani del signor Montezuma ogni sorte di cose che si potevano trovare in dette provincie, e da presso e da lontano lo temevano tanto che non credo signor alcuno in terra sia piú temuto.
Ha dentro della città e di fuori molti palazzi per andare a piacere, meglio fabricati che dir si possa, e che veramente sono degni di gran prencipe e signore. Ha nella città per suo uso palazzi sí grandi e maravigliosi che mi pare impossibile raccontar la grandezza, la magnificenza e la bontà di quelli: e perciò non mi metterò a dirne cosa alcuna, ma quest'una sola dirò, che in Spagna non ve ne sono simili. Ha un altro palazzo, quasi non men bello di quello, nel quale era un bellissimo giardino, con certe loggie sopra, e i marmi e gli altri ornamenti erano di diaspro egregiamente lavorato. In quel palazzo erano stanze da poter albergar due gran prencipi con le loro corti; in questo erano dieci peschiere, dove tenevano ogni sorte d'uccelli acquatici di queste provincie, li quali erano molti e varii, e di tutti gli animaletti da ingrassare. Per gli uccelli che si nutriscono in mare erano peschiere d'acqua salsa, per quegli che usano ne' fiumi erano d'acqua dolce: le quali acque ad un certo tempo determinato le cavavano fuori per mondar le peschiere, dipoi co' lor canali le riempievano. E ad ogni sorte d'uccelli compartivano il cibo che era lor proprio, di maniera che a quegli che si nutriscono di pesce davano pesci, a quei che di vermi vermi, a quei di maiz maiz, a quei che di minute semenze semenze minute davano. E racconto cose certe a Vostra Maestà, che agli uccelli che mangiano pesce davano ducento e cinquanta libre ogni giorno di quei pesci che si pigliavano in detto lago; a nutrir questi uccelli attendevano trecento uomini, che di niun'altra facenda aveano cura, e oltra di questi vi erano altri uomini posti a dar medicamenti agli uccelli. In ciascuna peschiera erano loggie e caminate belle e magnifiche, dove il detto signor Montezuma soleva andare a solazzo. In una picciola parte di questo palazzo teneva uomini, donne e fanciulli dal nascimento bianchi di faccia, di corpo, di capelli, di sopracigli e di palpebre.
Avea un'altra casa larghissima e fortissima, nella quale era un largo chiostro con colonne, che avea il pavimento di pezzi di marmi eccellenti lavorato a modo di tavole da scacchi, e le stanze erano profonde quasi la statura di un uomo e mezzo e per quadro di grandezza di sei passi. E nel mezzo di ciascuna di queste stanze si vedevano uccelli che vivono di rapina, cominciando dal tinnuncolo insino all'aquila, e di quante sorti se ne trovano in Spagna e di molte che in Spagna non furono mai vedute, e di ciascuna sorte gran copia. E in ciascuna di queste stanze era una stanga, sopra la quale si posano gli uccelli, e un'altra di fuori sotto una rete: e in una si posavano gli uccelli di notte, quando il tempo era piovoso, nell'altra potevano stare uscendo al sole e all'aria, mentre hanno qualche male. A tutti questi uccelli per lor cibo compartiscono galline e non altro. In questo medesimo palazzo piú a basso sono certe gran sale piene di gabbie grandi, di legni grandi fatte e congiunte insieme: e per lo piú in quelle tenevano leoni, tigri, lupi, volpi e gatti varii. E di tutti questi animali, tanto de' volatili quanto di quattro piedi, ve ne era grandissima copia, a' quali davano a mangiar galline finchè si saziavano: e alla guardia di questi animali erano trecento uomini. Avea un altro palazzo dove tenea gran copia d'uomini e di donne mostruose, nani, gobbi, contrafatti e altri uomini di grandissima bruttezza, e ogni sorte di mostro avea le sue stanze separate, ed erano uomini eletti ad aver cura delle loro infermità. Lascio andar gli altri palazzi nella detta città fatti per pigliar solazzo, che ve ne sono molti e diversi.


Del modo del vivere e vestir del signor Montezuma, l'ordine che teneva nell'uscir del palazzo,
e con quante cerimonie era servito.

L'ordine del suo servizio era tale. La mattina a giorno andavano al suo palazzo cinquecento o seicento uomini de' primarii, parte de' quali sedeva, parte passeggiava per le sale e per le loggie che erano nel palazzo, e quivi dimoravano, ma non entravano dentro al signore; i loro servidori e coloro che l'accompagnavano occupavano due o tre cortili del palazzo e una gran contrada; e questi dimoravano quivi tutto 'l giorno e non si partivano se non venuta la notte. E nell'ora medesima che 'l signor Montezuma si poneva a tavola per mangiare, vi si mettevano ancora essi, e avanti a loro erano posti cibi non meno delicati che dinanzi al signore, e ne facevano parte a' loro famigliari; e le dispense e le cantine erano aperte a tutti che venivano, e a tutti che avevano fame e sete davano da mangiare e da bere. Nel portar da mangiare al signore si servava quest'ordine: trecento o piú giovani portano gran numero di vivande, sí a desinare come a cena, d'ogni sorte di cose da mangiare e di carne e di pesce le quali si possono aver in quel paese; e per il freddo che vi è ciascun piatto e scodella avea sotto uno scaldavivande con carboni accesi, acciò le vivande per il freddo non diventassero cattive; e le ponevano tutte insieme in una gran sala dove era solito mangiare, e quasi tutta la sala, ornata di stuore e netta, era ripiena di vivande. Il signore sedeva in un picciolo cussino di cuoio eccellentemente lavorato. Nel tempo che esso mangiava, discosto da lui mangiavano cinque o sei vecchi, a' quali egli porgeva delle vivande poste dinanzi a sé. Eravi uno de' servidori che poneva e levava le vivande, e dagli altri che erano di fuori domandava i cibi che piú piacevano al signore. Egli si lavava le mani nel principio e fine del desinare e della cena; di quello sciugatoio col quale una volta s'asciugava le mani non si serviva piú. Similmente era vietato metter piú le vivande in quei piatti e scodelle nelle quali erano state portate una volta, se non si facevano di nuovo, e il medesimo modo si servava negli scaldavivande. Si vestiva quattro volte il giorno, e non usava mai la medesima veste.
Ciascuno che entrava nel palazzo bisognava che v'entrasse co' piedi nudi, e quando chiamati s'appresentavano a lui andavano con a testa e con gli occhi bassi, con la testa inclinata e col corpo inclinato, e parlandogli non gli guardavano la faccia, il che era segno d'onore e di riverenza: e conobbi che lo facevano per tal cagione perciochè alcuni signori di quella provincia riprendevano gli Spagnuoli che, quando mi parlavano, tenendo la testa alzata mi guardavano, il che attribuivano a poco rispetto e riverenza. Quando il signor Montezuma usciva di palazzo, la qual cosa rade volte aveniva, tutti coloro che lo accompagnavano e che in lui si incontravano si schifavano di guardarlo, volgendosi con la faccia in altro lato, e in modo alcuno non lo guardavano, e tutti, finchè egli passava, stavano fermi senza punto muoversi. Di continuo gli andava innanzi uno de' suoi portando tre verghe sottili e diritte, il che pensai che si facesse per significare che il signore veniva; e mentre scendeva della lettica egli portava in mano una di queste verghe, e la teneva fin che era giunto al luogo determinato. Erano tante e sí diverse le cerimonie e modi che questo signore voleva che si servassero nel servirlo, che averei di bisogno di piú ozio che io non mi ritrovo al presente e di piú salda memoria per potermi ricordare di tutte. In vero io non penso che niuno de' soldani o de' signori infedeli de' quali abbiamo cognizione serva tante e tali cerimonie ne' suoi servizii.
Fui in questa famosa città per provedere alle cose che appartenevano al servizio di Vostra Altezza, e per acquietar la provincia e per tirar a devozion di Vostra Maestà i paesi e luoghi abitati, con molte e grandissime città, ville e castelli, e per investigar le minere d'oro e intender li secreti delle provincie, tanto di esso signor Montezuma quanto degli altri che gli erano vicini e co' quali ha intendimento. Le cose sono tali e sí maravigliose che mi par che debbano parere incredibili. E queste cose erano fatte da me con suo consentimento e de' paesani, non altrimenti che se da principio avessero conosciuto Vostra Altezza per loro vero re e proprio signore; né men volentieri facevano ciò che da me era lor commandato in nome di Vostra real Altezza. E stetti quivi occupato in certe cose utili al servizio di Vostra Maestà dagli otto di novembre 1519 insino all'entrata del mese di maggio dell'anno presente 1520, nel quale io me ne stavo nella predetta famosa città quieto e tranquillamente, e avevo compartito molti Spagnuoli per tener quieti varii e diversi paesi e per fabricar nuove città in queste provincie. Ero in grandissimo desiderio e aspettavo una nave, con la risposta della relazione la quale da questi paesi avevo da principio mandato a Vostra Maestà, per poterla far partecipe di ciò che ora le mando e di tutte quelle cose d'oro e di tarsie ch'io avevo avute qui per la Maestà Vostra.


Come il Cortese, avisato del giunger di diciotto navi, spedí diversi nunzii per intender chi fussero, e in che forma scrivesse al capitano di quelle. Inteso poi ch'erano venute per ordine di Didaco Velazquez con mal animo contra di lui, in che modo rescrivesse a Pamfilo Narvaez, capitano predetto. E come il dottor Roderico di Figueroa, giudice della presidenzia di Villa Nuova, mandò ad amonire e comandare a Didaco sopradetto che non andasse a quella impresa.

Vennero a me alcuni abitatori di questa provincia, vassalli del signor Montezuma, di quegli che sono vicini al mare, annunciandomi che appresso gli monti di San Martino, i quali sono nel lito avanti il porto overo stazio di S. Giovanni, erano arrivate diciotto navi; e chi fussero dicevano di non saperlo, perciochè subito che l'ebbero viste vennero in fretta ad avisarmene. E doppo questi giunse un altro dell'isola Fernandina e mi portò lettere di uno Spagnuolo ch'io aveva lasciato nella costa di detto mare, affinchè, se quivi giungessero navi, procurasse di dar loro notizia e di me e di quella città ch'io aveva tolta ad abitare appresso al porto, acciochè non andassero vagando, non sapendo in che luogo mi trovasse. Mi portò, dico, lettere, qualmente un giorno era stata vista una sola nave avanti il porto di San Giovanni, e quanto egli avea potuto stendere la vista diligentemente aveva guardato per la costa del mare e niun'altra n'aveva veduta, e pensava che fusse quella nave che aveva mandata a Vostra Maestà, avicinandosi già il tempo del suo ritorno; e per certificarsi aspettava finchè la detta nave arrivasse o entrasse nel porto, per aver informazione da quella e subito venirsene correndo ad avisarmi d'ogni cosa. Lette queste lettere spedii due Spagnuoli, che uno andasse per una via e l'altro per un'altra, acciò non avenisse che coloro i quali per aventura fussero mandati dalla detta nave non s'incontrassero in essi, e comandai loro che non si fermassero mai finchè arrivassero al detto porto, e intendessero quante navi erano venute e di che patria fussero e quel che portassero, e ritornassero a dirmelo. Un altro ne mandai alla città della Vera Croce per dare aviso di quelle cose ch'io aveva inteso delle predette navi, e ordinava che essi ancora investigassero e riferissero quel che avessero trovato. L'altro mandai a quel governatore al quale, come di sopra ho dichiarato a Vostra Maestà, avevo ordinato che andasse a fondare una nuova città nella provincia e porto di Quacucalco, al quale comandai per mie lettere che, in qualunque luogo il nunzio lo trovasse, si fermasse quivi né piú oltre andasse finchè avesse da me altra commissione, perciochè io diceva essermi stato avisato certe navi essere arrivate in porto: il quale, sí come poi si vidde, già aveva inteso della lor venuta prima che gli fussero rese le mie lettere.
E doppo la lor partita, stemmo quindeci giorni continui che del tutto non intendemmo cosa alcuna, né d'alcuno di loro ebbi risposta: di che pigliai non picciola maraviglia. I quali giorni essendo passati, vennero altri Indiani, vassalli anco del detto signor Montezuma, i quali mi certificarono le dette navi essere surte in porto, e che gli uomini erano discesi delle navi: e ne portavano seco il numero loro, che erano ottanta cavalli e ottocento fanti e dieci o dodeci pezzi d'arteglieria; e tutte queste cose si vedevano dipinte in una carta fatta in quel paese per mostrarla al detto signor Montezuma; e mi avisarono che quello Spagnuolo il quale aveva lasciato sopra il lito e gli altri nunzii che io aveva mandati erano appresso gli uomini che erano smontati di nave, e avevano ordinato a' detti Indiani che mi riferissero che 'l loro capitano non gli aveva lasciati ritornare. Inteso questo deliberai di mandare un prete, il quale avevo menato meco, e con mie lettere e con quelle de' giudici e reggenti della città della Vera Croce, i quali erano meco nella predetta città; le qual lettere erano indrizzate al capitano e uomini che erano giunti in porto, facendo loro noto tutte quelle cose che m'erano avenute in queste parti, e che io aveva soggiogate e acquistate molte città, ville e castella, e quelle riteneva pacificamente suddite al real servizio di Vostra Maestà, e che teneva prigione il principal signore di queste provincie, e che io dimorava in quella famosa città, e della qualità di essa, e dell'oro e delle tarsie che io teneva per la Maestà Vostra, e che già a lei aveva mandato la relazione di queste provincie. E gli pregava che mi dessero aviso chi essi fussero, e se erano de' regni e stati di Vostra Altezza, e scrivessero se erano venuti a queste provincie di suo real comandamento, o per fondare nuove città e dimorare in quelle, overo s'erano per andar piú oltre, overo volevano tornare adietro, e se avevano necessità di cosa alcuna, che farei ogni opera che fussero sovvenuti; e se non fussero de' regni di Vostra Altezza, similmente mi facessero avisato se erano oppressi da cosa alcuna, che mi offerivo, potendo, di dar loro rimedio; e quando che no, io per nome di Vostra Altezza comandavo loro che si partissero dalle nostre provincie né dismontassero in quelle: e s'altramente avessero fatto, con tutte le mie forze e degli Spagnuoli e de' paesani gli assalterei e userei ogni diligenza che fussero uccisi o presi, come forestieri che abbiano avuto ardire di impacciarsi de' regni e stati del nostro re e signore.
E dopo la partita del detto prete con le sopradette lettere a loro indirizzate, il quinto giorno vennero a me, essendo nella città di Temistitan, venti Spagnuoli di quegli ch'io avevo lasciato alla città della Vera Croce, menando il prete e i due secolari trovati nella detta città della Veracroce. Da' quali conobbi l'armata e gli uomini che al detto porto erano giunti, ed erano venuti per commissione di Didaco Velazquez, il quale è governatore dell'isola Fernandina, e il luogotenente e duce e capitano di quell'armata era un certo Pamfilo di Narvaez, abitatore della detta isola; e aveva menati seco ottanta cavalli e molte artegliarie e ottocento fanti, tra' quali dicevano esservene ottanta che portavano schiopetti e centoventi con balestre. E veniva capitano generale e luogotenente e governatore di tutte queste provincie in vece e nome del predetto Didaco Velazquez, e quello aver commissione da Vostra Maestà; e che lo Spagnuolo ch'io avevo lasciato al lito e i nunzii mandati da me erano appresso il predetto Narvaez, il quale non gli lasciava partire. E aveva inteso da loro che io in quella provincia avevo posta nuova città lontana dal detto porto dodeci leghe, e le genti che erano in quella, e parimente che uomini io avevo mandati nella provincia di Quacucalco, e che erano distanti trenta leghe nella provincia chiamata Tuchitebeque, e tutte le cose ch'io avevo fatte in questi paesi a servizio di Vostra Altezza, e le ville e le città che gli avevo acquistato e rendute pacifiche, e la famosa città di Temistitan, e l'oro e le tarsie che avevamo avute in dette provincie; e volse esser certificato da me di tutto ciò che insino allora mi era intravenuto. E il detto Narvaez gli aveva mandati alla città della Veracroce, acciochè vedessero di poter parlare con loro che in essa dimoravano e gli persuadessero a seguitar lui e a pigliar l'armi contra di me; e portarono seco forse cento lettere, che erano mandate dal detto Narvaez ai suoi compagni che dimoravano nella detta città, nelle quali si conteneva che dovessero prestar ferma fede a tutto ciò che 'l predetto prete e altri suoi compagni dicessero, promettendo di trattar bene coloro che ciò facessero, e minacciava di castigare chi non ubbidisse, e molte altre cose che erano contenute in dette lettere.
Questo espose il predetto prete e quegli che erano venuti seco, e quasi nel medesimo punto sopravenne un altro Spagnuolo, di quegli ch'io avevo mandato nella provincia di Quacucalco, e mi portò lettere di Giovanni Velazquez da Leone, lor capitano: e per quelle mi avisava che quella gente la quale era arrivata in porto era Pamfilo di Narvaez, il quale veniva qua con commissione del detto Didaco Velazquez, con soldati che menava seco. E le lettere che 'l detto Narvaez aveva date ad un certo Indiano, indirizzate a quel capitano come parente del detto Didaco Velazquez e cognato del detto Narvaez, procurò che mi fussero per il medesimo mandate; nelle quali era scritto che egli da' miei nunzii aveva inteso il detto mio capitano essersi quivi fermato con quei soldati, e gli persuadeva che egli subito co' soldati se n'andasse al medesimo Narvaez, il che se ei seguisse farebbe quel che doveva ed era tenuto di fare; e che molto ben sapeva che egli stava per forza appresso di me. Il qual capitano, come uomo obligato al servizio di Vostra Maestà, non solamente rifiutò di far ciò che gli era proposto nelle lettere dal detto Narvaez; avendo scritto a me, subito per unirsi meco si partí con tutti i soldati, avendo avuta ottima informazione dal detto prete e dalli suoi due compagni di molte cose, e di ciò che avevano pensato il detto Didaco Velazquez e Narvaez, e qualmente con quell'armata e uomini s'era mosso contra di me per avere io mandato la relazione e le cose di questa provincia alla catolica Maestà Vostra, e come con cattivo animo venivano per far morir me insieme con molti ch'io avevo meco, i quali già avevano banditi.
Oltra di ciò avevo io inteso il dottor Roderico di Figueroa, giudice della presidenzia dell'Isola Nuova, i giudici e gli altri ufficiali di Vostra Altezza che in quell'isola fanno residenza, subito che venne loro all'orecchie il detto Didaco Velazquez apparecchiar quell'armata, veduto con che animo egli la mandava, essendo loro palese e manifesto l'incommodo e il danno che di tal successo ne potrebbe resultare a Vostra Maestà, aver mandato il dottor Luca Vasquez Alion, uno dei predetti giudici, con procura ad ammonire e comandare al detto Didaco Velazquez che in niun modo mandasse la detta armata. Il quale, andato là, trovò il detto Didaco Velazquez con l'armata e con gli uomini nell'entrata di detta isola Fernandina che s'apparecchiava di far vela, e ammoní lui e tutti coloro che andavano con detta armata che non dovessero venire, perciochè di questo la Maestà Vostra era per patirne incommodo e danno, e oltra di questo v'aggiunse la pena: le qual cose non lo ritenendo, né tutte quelle che per il detto dottore gli erano state comandate, né anco l'ammonizione, aveva comandato che l'armata si partisse. E affermava che 'l dottore era nel detto porto, e che esso era venuto con l'armata con intenzione di poter rimuover il danno che di tal viaggio risulterebbe, essendo ottimamente noto a lui e a tutti con che animo e mente la detta armata avesse fatto vela.
Già mandai il sopradetto prete con mie lettere, per le quali gli significavo ch'io avevo inteso dal prete e da quegli che erano venuti seco che esso aveva il carico di governar quelle genti le quali erano condotte con quella nave, di che me ne rallegrava grandemente, perciochè pensava altramente, non ritornando i nunzii che io avevo mandati; e che io mi maravigliavo che, poichè egli aveva inteso che io mi trovavo in queste provincie per servizii di Vostra Maestà, non m'avesse mandato né lettere né nunzio per avisarmi della sua venuta, sapendo egli di certo che, avendone aviso, me ne saria sommamente rallegrato, parte perciochè per lo passato avevamo tenuta stretta amicizia insieme, parte perchè stimava anco loro esser venuti qua per servir la Maestà Vostra, di che niuna cosa mi poteva accader piú grata. Ma all'incontro avevo grandissimo dispiacere che egli mandava seduttori, come facea, e lettere persuasive a' miei soldati, che sono al servizio di Vostra Maestà, che pigliassero l'armi contra di me e se ne fuggissero a lui, non altrimenti che se alcuni di noi fussero cristiani e alcuni infideli, overo altri fussero di Vostra Maestà e altri no; e lo pregavo che per l'avenire non usasse piú cotal via, ma dovesse palesarmi le cagioni della sua venuta. E che coloro m'avevano detto che si chiamava general capitano, luogotenente e governatore per Didaco Velazquez, e che publicamente avea comandato in tutta quella provincia esser chiamato con tal nome, e che già aveva constituiti giudici e reggenti e avea amministrato giustizia: il che era contra il servizio di Vostra Maestà, essendo a lei sottoposte queste provincie e da' suoi sudditi abitate; ed essendo ordinati chi rendesse ragione e li reggenti, non dovea usar que' titoli, non essendo stato ricevuto d'alcuno, benchè avesse avuto commissione da Vostra Maestà d'esercitar tal cose. E io gli dimandava ed esortava che la mostrasse a me e al reggimento della città della Vera Croce, alla quale e io e gli reggenti eravamo apparecchiati d'ubbidire come a' comandamenti del nostro re e vero signore, e con effetto si faria quanto fusse utile al real servizio di Vostra Maestà; perciochè io ero in quella città, dove io tenea prigione il signore, e in quella avevo ragunato grandissima quantità d'oro, e per la Vostra Altezza e per coloro che erano meco e per me stesso, il quale non avevo ardir di lasciare, temendo che dopo il partir mio di quella città gli abitatori non mi si ribellassero, e tal città e quantità d'oro e copia di tarsie si perdesse: la qual città perduta che fusse, tutte quelle provincie si ribellariano. E similmente diedi lettere al detto prete drizzate al detto dottore Ailon, il quale, come poi riseppi, quando il prete arrivò quivi, il detto Narvaez l'aveva preso e rimandatolo indietro prigione con due navi.


L'aviso ch'ebbe il Cortese delle provincie che s'erano ribellate e datesi a Narvaez, e massime Cimpual, per il che deliberò andarsene al detto Narvaez. Le lettere che per il viaggio gli furono presentate e quello contenevano. I mezzi che tenne detto Narvaez per corrompere il signor Montezuma. Il patto ch'ei facea al Cortese, volendo egli partirsi, e la risposta. Come l'un l'altro fecero i salvicondotti per abboccarsi, e l'insidie che pose Narvaez per uccider il Cortese nel parlamento, onde il Cortese procurò di pigliar Narvaez.

Nel giorno medesimo che 'l detto prete si partí, mi venne un nunzio di quelli che erano nella città della Vera Croce, per il quale mi significavano tutti gli abitatori di quelle provincie essersi ribellati e datisi al detto Narvaez, e massimamente quegli di Cimpual e gli confederati con loro, e niuno degli abitanti di dette provincie voler piú andare alla detta città a far servizii, sí nella rocca come nell'altre cose che prima erano soliti fare; perciochè affermavano Narvaez aver detto loro ch'io era un cattivo uomo, e che egli era venuto per prender me e tutti i miei soldati e menarcene prigioni, e lasciarebbe la provincia libera; e che aveva menato seco molte genti e le mie erano in poco numero, e che aveva menati molti cavalli e piú artegliarie che non erano le mie, ed essi volevano seguitar le parti del vincitore. E dicevano di piú che avea avuto notizia dalli medesimi Indiani che 'l detto Narvaez doveva venire ad alloggiare nella città di Cimpual, che sapevano molto bene quanto era lontana dalla città della Vera Croce, e pensavano, considerato il mal animo del detto Narvaez verso di tutti, da quel luogo dover muover le genti contra di loro, e massimamente tenendosi per amici gl'Indiani di quella città; e perciò avisavano che erano per abbandonarla e salire il monte per andare ad un certo signore vassallo di Vostra Altezza e nostro amico, e quivi stariano finchè io avisassi quel che dovessero fare.
Considerato il gran danno che soprastava, essendo cominciate a ribellarsi le dette provincie per la persuasione del detto Narvaez, mi parea che, se me n'andava là dove egli fusse, molto raffrenarei gli paesani, vedendomi presente, né averiano ardire di pigliar l'armi contra di me; e anco pensavo trovare il modo di poter dar rimedio al male incominciato. Il medesimo giorno mi parti' de lí, lasciando la fortezza piena di maiz, con centoquaranta uomini, acqua e alcuni pezzi di artiglierie; e con gli altri che io avevo quivi, che erano sessanta, seguitai il mio viaggio, accompagnandomi alcuni baroni del signore Montezuma, al quale prima che io partissi parlai longamente, proponendogli che considerasse d'essere vassallo di Vostra Altezza, la quale ora gli aveva da rendere grazie di tutti quei servizii che egli le aveva fatti. Quegli Spagnuoli che rimanevano glieli raccommandavo grandemente, con l'oro e con le tarsie che egli m'aveva donato per l'Altezza Vostra e comandato che anco gli altri mi dessero, perciochè io volevo andare a veder chi fussero coloro che erano arrivati al nostro porto, che in fin allora io non sapevo chi fussero; nondimeno giudicavo quegli esser uomini malvagi e non punto sudditi di Vostra Altezza. Egli promise che a coloro ch'io lasciavo si sarebbe provisto di tutte le cose a lor necessarie, e che terrebbe guardate le cose lasciate da me, appartenendo ciò a Vostra Maestà; e quegli che verrebbono meco mi condurriano per camino tale che io non uscirei delle sue provincie, e attenderiano che mi fusse proveduto d'ogni cosa. E mi pregava con grande instanzia che, se io trovavo coloro esser uomini scelerati, subito gliene dessi aviso, che in un momento ragunarebbe grandissimo numero di genti, le quali anderiano a combattergli e a cacciargli della provincia. Io lo ringraziai d'ogni cosa e liberamente gli affermai che Vostra Maestà per questo gli userebbe qualche gratitudine, e donai di molte gioie e vesti ad uno de' suoi figliuoli e a molti altri signori che si trovavano appresso di lui.
Nella città di Churultecal mi venne incontra Giovanni Velazquez, il quale altre volte ho detto che era partito e l'avevo mandato a Quacucalco, che veniva a trovarmi con tutti i soldati, se non alcuni che erano infermi, i quali ordinai che andassero nella città. Io con lui insieme e con quegli altri seguitai il cominciato viaggio, e quindeci leghe di là della città di Churultecal trovai il prete, che era uno de' miei compagni che avevo mandato a cercare chi fussero coloro che erano entrati nel porto con l'armata, e mi presentò le lettere del detto Narvaez, nelle quali si conteneva che egli aveva alcune commissioni che gli fussero consegnate dette provincie a nome di Didaco Velazquez, e che subito andassi da lui per ubbidire a quelle, e che egli già aveva edificato una città, e ordinati giudici e reggenti. E intesi dal detto prete come aveva fatto prigione il detto dottore Aylon e il suo cancelliere ed esecutore, e posti sopra due navi gli aveva mandati via, e con doni aveva richiesto lui che volesse confortare alcuni de' nostri compagni che volessero fuggirsene al detto Narvaez; e che aveva fatto la mostra di certi Indiani che erano venuti seco, tanto de' cavalli quanto de' fanti, e aveva fatto trarre tutta l'artegliaria, sí quella che era nelle navi come quella che era nel lito, per metter loro spavento, dicendo: "Considerate in che modo vi potrete difender da noi, se voi non ci darete ubbidienza". Raccontò anco aver veduto appresso il detto Narvaez uno de' signori di questa provincia, vassallo del signor Montezuma, al quale aveva dato carico di tutte le sue provincie da' monti insino alla marina; e seppi che egli parlò a Narvaez in nome del detto signor Montezuma, e che gli aveva donato alcuni ornamenti d'oro, e all'incontro Narvaez aveva dati a lui varii doni. E similmente sapeva che egli da quel luogo aveva mandati alcuni nunzii al signor Montezuma, promettendo di liberarlo, e che era venuto in questi paesi per prender me co' miei soldati e subito partirsi e lasciare star le provincie, né desiderava oro, ma solamente preso me co' miei soldati ritornarsene, donando la libertà alle provincie e agli abitatori di quelle.
Ultimamente, avendo compreso la sua opinione essere di mettersi in questi luoghi per propria auttorità, non essendo ricevuto da alcuno, e, non volendo né io né i miei soldati riceverlo per capitano e per giudice, assaltarci e combattendo vincerne, e a questo effetto essersi collegato con gli abitatori delle provincie, e principalmente col detto signor Montezuma per via de' suoi nunzii; e vedendo manifestamente l'incommodo e 'l danno che dalle predette cose potria nascere a Vostra Maestà, benchè mi riferissero che veniva con grandissima forza e che aveva commissione dal detto Didaco Velazquez che me e alcuni de' miei, i quali già aveva banditi, se venivamo nelle sue mani subito ne facesse impiccare, non recusai d'andar piú avanti, e, pensando di mostrargli in qualche modo il grandissimo incommodo e danno che faceva a Vostra Maestà, e di poterlo rimuovere dal cattivo animo e pensiero, seguitai l'incominciato viaggio. E per quindeci leghe avanti ch'io arrivassi alla città di Cimpual, nella qual dimorava il detto Narvaez, ritornò a me quel prete, il qual dissi che li soldati della città della Veracroce m'avevano mandato, e al quale io avevo date lettere indirizzate a Narvaez e al dottor Aylon, in compagnia d'un altro prete e d'un certo Andrea de Duero, abitante dell'isola Fernandina, che era venuto quivi col detto Narvaez. I quali, in cambio e luogo di risposta alle mie lettere, m'imposero da parte di Narvaez che del tutto dovessi andare a rendergli ubbidienza e averlo per capitano e a lui lasciar la provincia, altramente me ne potrebbe avenir grandissimo danno, affermando il detto Narvaez aver grandissimo potere e noi piccolissimo e quasi niuno, e oltra gli Spagnuoli che aveva menati seco ancora li paesani lo favorivano. E se io deliberassi di consegnargli le provincie, mi promettevano a mio piacere le navi e la vettovaglia, e che io potevo partirmi senza impedimento alcuno, con tutti coloro che desideravano venir meco e con tutto ciò che volessimo portare. E l'altro prete mi disse cosí essere stato ordinato da Didaco Velazquez che facessero questo patto meco, e a tal fine aveva data la procura al detto Narvaez e insiememente a quegli due preti, e intorno a questo erano apparecchiati a pattuir meco in qualunque modo mi piacesse. Risposi ch'io voleva vedere la commissione di Vostra Maestà ch'io dovessi dare le dette provincie, e se alcuna n'avevano la mostrassero a me e alli reggenti della città della Veracroce, come è l'ordine e l'usanza nella Spagna, perciochè era per ubbidirgli e per mandargli ad effetto; e per fin che io non la vedevo m'avevo proposto a niun modo acconsentire a ciò che avevano detto, ma io e i miei soldati tutti eravamo apparecchiati a metter la vita per difesa delle provincie, poichè l'avevamo e le tenevamo pacifiche e sicure per la Maestà Vostra, che mostrarci traditori e infideli al nostro re. Oltra di ciò mi proposero piú condizioni per tirarmi nella loro opinione; nondimeno io non volsi acconsentire ad alcuna di quelle, se prima non vedevo la commissione di Vostra Altezza, la quale non volsero mai mostrare.
Finalmente quegli due preti, Andrea de Duero e io fummo d'accordo che 'l detto Narvaez, accompagnato da dieci uomini, e io da altretanti, mandandoci i salvicondotti l'un l'altro parlassimo insieme, e quivi se avesse commissione alcuna la mostrasse, e io gli dovessi rispondere. Io gli mandai il salvocondotto sottoscritto ed egli similmente mi mandò il suo, sottoscritto di sua propria mano. Il quale Narvaez, come poi si vidde, m'aveva poste insidie per uccidermi in quel parlamento, e a questo negozio avea eletto due di que' dieci che aveva determinato di menar seco, e gli altri combattessero con quegli che io dovevo menar meco, perciochè diceva che, morto che io fussi, averebbe posto fine al negozio. Come veramente saria stato, se il sommo Iddio, che in simil cose suol dar soccorso, non vi avesse trovato rimedio, imperochè ne fui fatto certo nel medesimo tempo che quegli che avevano congiurato contra di me mi portarono il salvocondotto. Il che inteso, subito per mie lettere feci sapere al detto Narvaez che io avevo conosciuto il suo mal animo verso di me, e che io non volevo andar là dove ci eravamo convenuti di trovarci insieme. E in quell'ora ordinai che in mio nome gli fusse fatta una monitoria e comandamento, col quale ammoniva il detto Narvaez che, se egli aveva commissione alcuna da Vostra Maestà, me la dovesse presentare, e insino a tanto non si usurpasse il nome di capitano né di giudice, né, sotto la pena impostagli, s'impacciasse in cosa alcuna pertinente a' detti officii. E nel detto commandamento commandavo a tutti coloro che erano venuti con Narvaez che per niun modo lo tenessero per capitano o veramente l'obbedissero come capitano o giudice, anzi fra un certo termine assegnato nel commandamento dovessero comparire avanti di me per intendere ciò che avevano da fare in servizio di Vostra Altezza, protestando che, se facessero altramente, procederei contra di loro come contra di ribelli e traditori e perfidi e malvagi sudditi, che si ribellano al lor re e usurpano le provincie e gli stati di quello, e desiderano darne il possesso a coloro che non v'hanno né ragione né azione alcuna. E se per vigore di tal commandamento non comparissero e non esequissero ciò che si conteneva in esso, procederei contra di loro secondo la forma della giustizia.
E la risposta che mi diede fu che mise in prigione il notaio e colui che con la mia procura era andato a mostrare il mio commandamento, e certi Indiani che avevano con esso loro, i quali furono ritenuti finchè sopragiunse un altro mio nunzio, ch'io avevo mandato per saper dove si trovassero: in presenza de' quali di nuovo fecero la mostra di tutti i soldati, e minacciarono loro e me se non gli consegnammo le provincie. E conoscendo non poter schifar tanto male e scandalo, e vedendo che gli abitatori delle provincie già avevano cominciato a tumultuare e ogni dí piú se ne levavano contra, raccommandandomi a Iddio e ponendo giú la paura del danno che ne poteva seguire, deliberando meco istesso morir per servizio del nostro re e per difesa delle sue provincie, e se io non le lasciassi usurpare ne poteva nascere a me e a' miei soldati grandissima gloria, ordinai a Consalvo di Sandoval, mio maggiore esecutore, che procurasse di pigliare Narvaez e tutti coloro che volevano esser chiamati giudici e reggenti, e gli diedi ottanta de' miei soldati, a' quali comandai che dovessero seguitarlo e pigliassero coloro. Io con gli altri centosettanta, che in tutto erano ducentocinquanta, senza artegliaria né cavalleria, ma solo co' fanti a piè, andai dopo il detto mio maggiore esecutore, per dargli soccorso se 'l detto Narvaez e gli altri non si lasciassero pigliare.


Come Cortese andò a Cimpoal, e in qual modo combattendo fece prigion Narvaez.

Il giorno medesimo che 'l detto maggiore esecutore e io insieme arrivammo alla città di Cimpoal, dove Narvaez s'era fermo co' suoi soldati, subito che egli intese la nostra venuta, con ottanta cavalli e cinquecento fanti, oltra quegli che aveva lasciati nell'albergo, uscí fuori della città. Era il suo albergo una moschea, la maggior che fusse in quella città, la quale era molto ben fortificata. Egli, accompagnato da questa cavalleria e fanteria, venne due leghe vicino al luogo dove io ero. E se egli avea presentita la mia venuta, l'avea intesa per relazione degl'Indiani, e non mi avendo trovato, pensandosi che l'avessero beffato, se ne ritornò al suo albergo, nondimeno sempre tenendo in ordine gli suoi soldati; e lontano quasi una lega dalla città avea lasciato due sentinelle. E perchè io desideravo grandemente schifar gli scandoli, mi parve che piú commodo e minore scandalo fusse andarvi la notte, s'era possibile, che sarei entrato sí tacitamente che non m'ariano sentito e saremmo andati diritto all'albergo di Narvaez, il quale ben sapeva io e i miei solati, per pigliarlo. Il qual preso, stimavo che non avria piú altro scandalo, perciochè giudicavano gli altri dover esser ubbedienti alla giustizia, e massimamente che la maggior parte di loro v'era venuta astretta, e per forza che aveva fatto loro Didaco Velazquez, e per paura che il detto non togliesse loro gli schiavi che avevano nell'isola Fernandina.
E cosí avvenne, imperochè il giorno della Pentecoste, poco dopo mezzanotte, assaltai il detto albergo; nondimeno trovai prima le sentinelle che 'l detto Narvaez aveva poste nella strada, e coloro ch'io avevo mandato avanti ne presero una, e l'altra fuggí, dalla qual compresi che ordine tenessero; e acciochè la sentinella che era fuggita non giugnesse là prima di me, m'affrettai quanto potette, ma non potei tanto affrettarmi che egli non arrivasse prima per ispazio di mezza ora. E quando arrivai Narvaez e tutti li compagni s'avevano messe l'armi e apparecchiati i lor cavalli, e molto bene apparecchiati per ciascun de' quattro cantoni dell'albergo stavano vegghiando ducento uomini. E arrivammo quivi tanto quietamente che, mentre intesero noi esser giunti e che fu gridato all'arme, già io ero entrato nel cortile del suo albergo, nel quale tutti albergavano e insieme ragunati dimoravano, e avevano preso tre o quattro torri che erano in quello e l'altre stanze fortificate. Nelle scale d'una delle dette torri, dove abitava Narvaez, erano posti 19 pezzi d'artegliaria di bronzo; ma fummo tanto presti nel salire che non poterono dar fuoco all'artegliarie, salvo che ad un pezzo, il quale per volontà d'Iddio non mandò fuori la palla e non fece danno ad alcuno. E cosí salimmo nella predetta torre fin che arrivammo alla stanza di Narvaez, la quale egli in compagnia di cinquanta soldati difendeva valorosamente, combattendo col maggior esecutore e co' suoi compagni. Benchè molte volte li confortasse a rendersi prigioni alla Maestà Vostra, nondimeno non volsero acconsentire, fin che non fu posto fuoco alla torre, e stringendoli il fuoco si renderono. Mentre il detto maggiore esecutore faceva ogni sforzo di prendere Narvaez, io, insieme con gli altri che erano rimasi meco, difendeva l'ascender la torre contra coloro che gli davano soccorso. E feci pigliar tutte l'artegliarie e con esse mi fortificai, di maniera che senza uccisione d'uomini, salvo che di due che morirono di colpo d'artegliaria, per spazio d'una ora tutti quegli ch'io voleva prendere vennero in poter mio e gli altri tutti, date l'arme, promisero ubbidire a me e alla giustizia e alla Maestà Vostra, affermando essere stati ingannati, perciochè insin a quell'ora egli aveva detto loro aver commissione da Vostra Altezza, e che io insieme con la provincia m'avevo ribellato ed era traditore di Vostra Maestà, e molte altre cose che avevano detto loro. E avendo conosciuta la verità, e il cattivo animo e intenzione per la quale Didaco Velazquez e Narvaez s'erano mossi, ebbero grandissimo piacere che Iddio avesse permesso che cosí fusse avenuto.
E rendo certa la Maestà Vostra che, se Iddio per la sua solita misericordia e pietà non avesse posta la mano in questo negozio, e che 'l detto Narvaez avesse ottenuto vittoria, ne saria seguito maggior incommodo e danno che già per molto tempo a comparazione sia seguito tra Spagnuoli, perciochè averia ubbidito al comandamento di Didaco Velazquez d'appiccarmi insieme con molti miei compagni, acciochè niuno ve ne restasse che de' lor fatti dessi notizia alcuna. Imperochè, sí come poi intesi dagl'Indiani, se per aventura il detto Narvaez avesse preso me, come egli aveva lor manifestato, non si potendo far senza danno suo e de' suoi, e che molti de' suoi e de' miei soldati non perissero, avevano determinato che fra questo mezzo quelli uccidessero coloro ch'io avevo lasciati nella città, come anco avevano cominciato, e dipoi tutti insieme ragunandosi assaltar coloro che qui fussero rimasi, di maniera che tutte le loro provincie rimanessero libere e non vi restasse ricordanza di Spagnuoli. E la Maestà Vostra non ha da dubitar punto che se cosí avessero fatto e avessero eseguito la loro intenzione, che per le provincie ora soggiogate e quietate non si vincerebbono e non si quietarebbono per spazio di venti anni.


Come il Cortese, mancando la città di vettovaglie, ispedí in due luoghi due capitani con trecento uomini per ciascuno, e ducento ne mandò alla città di Veracroce. Poi, inteso che in Temistitan gl'Indiani combattevano la fortezza e avevano abbrucciati i quattro brigantini che avea fatto fare, gli fece tornar adietro.

Tre giorni doppo la presa di Narvaez, non si potendo nutrir tanta moltitudine nella città ed essendo già quasi distrutta, perchè Narvaez co' suoi compagni l'avevano saccheggiata, non vi essendo gli abitanti, ma solamente le case, ispedi' due capitani e a ciascuno di loro diedi trecento uomini: uno ne mandai alla nuovamente cominciata città nel porto, della quale ho già fatto menzione a Vostra Maestà; l'altro inviai a quel fiume nel quale dicevano aver vedute le navi di Francesco de Garay, perciochè io quel luogo fermamente lo tenevo per mio. E dugento ne mandai con gli altri soldati alla città della Veracroce, dove tutte le navi che aveva menato il detto Narvaez io avevo inteso che stavano surte, e quivi provederei a quelle cose che io stimassi appartenere al commodo di Vostra Maestà; e mandai un nunzio alla città di Temistitan, per il quale davo nuova di tutte quelle cose che mi erano avenute agli Spagnuoli ch'io avevo quivi lasciati. Il quale per spazio di dodeci giorni ritornò e portommi lettere del mio capitano e da' soldati, che mi certificavano che gl'Indiani con grande sforzo avevano combattuto la fortezza e in molti luoghi avevano messo fuoco e fatte alcune mine, e che erano stati in grandissima fatica e pericolo, e sariano stati uccisi se il signor Montezuma non avesse comandato loro che si levassero da detta impresa; e nondimeno affermavano che erano ancora assediati, benchè non fussero combattuti, e per due passi fuori della fortezza gl'Indiani non lasciavano uscire nessuno di loro, e avevano tolto una grandissima parte della vettovaglia ch'io avevo lasciata, e avevano abbrucciati li quattro brigantini che io avevo fatti fare nella detta città di Temistitan, e si trovavano in grandissima carestia d'ogni cosa, pregandomi che sollecitasse di dar loro aiuto. Io, veduta la loro necessità, e considerato che oltra gli Spagnuoli uccisi si perderebbe tutto l'oro e l'argento e le gioie che s'erano avute dalle provincie, e si perderia la migliore e piú nobile città che sia in tutto il mondo nuovamente ritrovata; la qual perduta che fusse, si perdevano tutte le cose che insin ora io avevo acquistate in queste provincie, essendo ella la principale, alla qual tutte l'altre rendevano ubbidienza; subito commandai che li nunzii seguitassero i capitani che erano andati co' sopradetti soldati, raccontando loro tutto ciò che i soldati spagnuoli m'aveano scritto da quella città, e che subito, ovunque gli trovassero, gli facessero tornare adietro per la piú breve strada che si potesse fare alla città di Tascaltecal, per congiungermi con loro insieme co' soldati che erano meco e con tutte l'artigliarie ch'io potetti e con settanta a cavallo. E poi che furono giunti là, io feci far la mostra di tutti i soldati, che erano settanta a cavallo e cinquecento a piè, e con questa compagnia, con la maggior prestezza ch'io potessi, me n'andai verso Temistitan.
In quel viaggio nessuno de' sudditi del signor Montezuma mi venne incontra, sí come prima erano soliti di fare, e tutte quelle provincie erano in tumulto, e le case quasi tutte disabitate. Per questa cosa io ero in grandissima sospizione che gli Spagnuoli ch'io avevo lasciati nella detta città di Temistitan già fussero stati uccisi, e che tutti i popoli delle provincie si fussero ragunati e mi aspettassero in qualche luogo difficile o in qualche strettezza, dove piú facilmente mi potessero nuocere: e per questo sospetto tenni i miei piú apparecchiati che possibile mi fusse, finchè giunsi alla città di Tesnacan, la quale, come ho detto di sopra, è nella ripa del lago, e dimandai certi paesani quel che fusse avenuto degli Spagnuoli che avevo lasciati in Temistitan. Mi risposero che erano vivi. Comandai loro che mi menassero una canoa, perciochè con quella voleva mandare uno Spagnuolo a veder Temistitan, e che, mentre egli andava là, bisognava che uno degli abitanti dimorasse appresso di me. Uno degli abitatori della detta città, il quale mi pareva de' principali, perchè gli altri co' quali io avevo pratica non apparivano, procurò che fusse condotta una canoa, e allo Spagnuolo ch'io mandavo diede per compagnia certi Indiani, ed egli rimase meco. E mentre il detto Spagnuolo montava nella canoa per andare alla città di Temistitan, vidde andarvi anco un'altra canoa e l'aspettò, acciochè gli andasse piú appresso. In quella vi era uno Spagnuolo di quegli che io avevo lasciati in detta città, e da lui intesi che tutti gli Spagnuoli erano vivi, se non quattro o sei che erano stati uccisi dagli Indiani, e gli altri erano assediati e non gli lasciavano uscir della fortezza, e non era loro dato alcuna cosa se non con molti danari, benchè, avendo udito la mia venuta, gli Indiani gli avevano cominciati a trattar meglio; e che Montezuma non desiderava altro che la mia venuta, per poter aver libertà d'andare a solazzo per la città come prima era solito di fare, e che bene egli considerava che io già avevo risaputo le cose le quali erano successe nella città, e per ciò essere sdegnato e andar là con animo di far qualche danno; e con molti prieghi mi pregava ch'io diponessi lo sdegno, imperochè egli n'aveva ricevuto non minor dispiacere di me, e che niuna cosa era stata fatta di suo consentimento o volontà. E diede commissione che mi fussero esposte molte altre cose, per rimuovermi dallo sdegno che s'imaginava ch'io avessi conceputo per le cose commesse, e che andasse alla città tale quale io era stato prima, perciochè al presente mandariano ad esecuzione i miei comandamenti non meno di prima e a quelli ubbidiriano. Risposi che io non avevo conceputo sdegno alcuno contra di lui, conoscendo il suo buon animo e stimando di certo esser tale.


Come il Cortese giunse a Temistitan ed entrò nella fortezza, e come gli Indiani con infinita moltitudine di gente vennero ad assaltargli; e il Cortese andò ad affrontargli, e combatterono gagliardamente. Come i nemici posero fuoco nella fortezza e come fu estinto.

Il giorno seguente, la vigilia di san Giovan Battista, mi parti' e alloggiai tre leghe lontano da Temistitan, e l'altro giorno, dapoi che ebbi udita la messa, seguitai il mio viaggio e quasi avanti mezogiorno entrai nella città, e vi viddi non molti uomini e alcune porte nei crociali delle vie esser state levate; il che non mi piacque punto, nondimeno pensai che l'avessero fatto per timore delle cose che avevano commesse, e acciochè giunto quivi gli facessi sicuri. Ma io me n'andai diritto alla fortezza, nella quale, e nella moschea maggiore a canto alla fortezza, alloggiarono tutti coloro che erano venuti meco. Quelli Spagnuoli che erano assediati nella fortezza ne ricevettero con quella allegrezza che se avessimo data loro la vita, overo donata di nuovo, pensandosi già d'averla perduta. Quel giorno passammo con gran letizia e festa, sperando d'aver quiete.
L'altro dí, dopo la messa, mandai un nunzio alla città della Vera Croce a dar buone nuove che gli cristiani ancora erano vivi, e ch'io era entrato nella città e in quella me ne stava sicuro; il qual nunzio fra lo spazio di due ore ritornò con molte ferite, gridando che tutti gli Indiani della città atti a portar arme ne venivano ad assaltarci, e aver levati via i ponti della città. E dopo lui seguendo una infinita moltitudine di gente da ogni banda n'assaltarono, di maniera che nelle contrade, nelle terrazze, nelle strade per il gran numero delle genti si vedevano, che ne venivano co' maggiori urli e con li piú terribili gridi che si potessero imaginare; e tanti erano li sassi che con le fionde gettavano nella fortezza che pareva che 'l cielo piovesse sassi, ed era tanto il numero delle freccie e de' dardi che tutte le mura e li cortili n'erano pieni, sí che non vi si poteva andare. Io uscito di casa andai ad affrontarli, e combatterono contra di noi gagliardamente; e da una banda era uscito della fortezza uno de' miei capitani con ducento uomini, e prima che potessi ritirarsi furono uccisi quattro de' suoi, e ferirono il capitano con molti altri. Ma noi potevamo uccider pochi di loro, perciochè si ritiravano di là da' ponti, e co' sassi n'offendevano grandemente dalle terrazze, delle quali n'espugnammo e abbrucciammo alcune; nondimeno erano tanto spesse e tanto fortificate, e piene di tanti uomini e di sassi e d'altre varie sorti d'armi, che non eravamo potenti a combatterle tutte e a difenderci, che non ci potessero offender come piaceva loro. Combatterono tanto fortemente la nostra fortezza che in varii luoghi vi posero il fuoco, e in uno se n'abbrucciò la maggior parte prima che gli potessimo dar soccorso, finchè lo schifammo col tagliar li pareti, e col violento gettare a terra de' pareti il fuoco fu estinto. E se quivi non avessi posto grandissima guardia, cioè uomini con balestre, con schioppetti e altre artegliarie, certamente col lor subito assalto, non potendo noi far resistenza, sariano entrati nella fortezza. Consumammo tutto quel giorno insino alla notte scura; nondimeno, essendo venuta, non fummo sicuri dai loro gridi e romori finchè sopragiunse il giorno. Tutta quella notte attesi a rifar tutto ciò che essi avevano ruinato, e ad apparecchiar molte altre cose che la fortezza mi pareva che avesse di bisogno; e accommodai alcuni forti, e in quello allogai gli soldati che gli difendessero e nel giorno seguente avessero da combattere. Furono medicati i soldati feriti, che erano piú d'ottanta.


Come i nemici diedero un altro terribile assalto alla fortezza, e uscito il Cortese uccise assai di loro e abbrucciò certe case: furono feriti cinquanta Spagnuoli. Delle macchine che gli Spagnuoli fabricarono. Come il signor Montezuma fu crudelmente percosso con un sasso e morí.

Venuto il dí, gli nemici ne combatterono piú gagliardamente che non fecero il giorno avanti, e vi era concorsa tanta moltitudine e ai bombardieri non faceva di bisogno usare diligenza in pigliar a mira con arte, ma solamente, veduta la moltitudine degli Indiani, dar fuoco all'artegliarie. E benchè con quelle facessero loro gran danno, perciochè oltra gli schioppi e le balestre adoperavamo contra gli nemici quattordeci pezzi d'artegliarie, nondimeno tutti quegli facevano sí leggier danno a tanta moltitudine che ci pareva di non offendergli punto, perciochè, tirato un pezzo d'artegliaria, a dieci o dodeci che ne venivano uccisi ne sottentravano degli altri. Avendo lasciato nella fortezza conveniente guardia e quella che ci si poteva lasciare, usci' subito fuori e presi alcuni ponti, e abbrucciai certe case, e uccidemmo assai di loro che si sforzavano di difenderle. Ed era tanta la moltitudine che, benchè avessimo fatta grandissima uccisione, nondimeno pareva che poco si diminuissero le lor forze, conciosiachè noi fussimo astretti a combattere tutto 'l giorno intero ed essi per spazio di poche ore, avendo modo da potersi cambiare: e tuttavia crescevano, e in un medesimo dí ferirono cinquanta o sessanta Spagnuoli, ancora che non ne morisse alcuno. Combattemmo insino a notte, e stanchi ritornammo alla fortezza.
Considerato il grandissimo danno fattoci da' nemici, e che essi stando in luogo sicuro ne ferivano e uccidevano, e il danno che noi facevamo loro non si vedeva, essendo la moltitudine infinita, quella notte e il giorno seguente consumammo in fabricar tre macchine di legno, in ciascuna delle quali potevano star dentro venti soldati, che non potevano esser offesi da' sassi che gli Indiani gettavano dalle terrazze. E di quegli che vi erano dentro alcuni portavano schioppi o balestre, e altri martelli aguzzi di ferro e vanghe e zappe, per cavare e rompere le case e guastar li ripari che avevano fatti per le contrade. Quando noi attendevamo diligentemente a far le macchine, gli nemici però non mancavano di combatterci, di maniera che, mentre noi non uscivamo della fortezza, essi facevano ogni sforzo d'entrarvi: a' quali, acciochè non vi entrassero, con grandissima difficoltà e fatica potevamo resistere. Ma il detto Montezuma, il quale sempre insieme col figliuolo e con molti baroni ritenuti da principio era dimorato appresso di noi, disse che lo conducessimo nella terrazza della fortezza, che aveva deliberato di parlare ai capitani di quel popolo, e sperava di fare che si rimarriano da tale assedio. Comandai che fusse cavato fuori, e, affacciatosi ad una volta per parlar con loro di quivi, i suoi gli percossero la testa con un sasso, e gli fecero sí crudel ferita che per spazio di tre giorni se ne morí. Comandai a due Indiani ch'io teneva prigioni che lo cavassero fuori della fortezza: essi lo portarono al popolo, nondimeno quel che avenisse non lo so; ma per questo non cessò il combattimento, anzi ogni giorno s'accresceva e diventava piú gagliardo e maggiore.


Come gli Indiani chiamano il Cortese a parlamento, e quello gli dissero e la risposta fattali. Come i Spagnuoli uscirono con le macchine e combatterono longamente. I nemici prendono una gran moschea e fanno gran danni ai Spagnuoli. Il Cortese, uscito della fortezza, prende una torre e la moschea e v'appiccò il fuoco.

In quel medesimo dí, a quell'istesso luogo dove avevano ferito il signor Montezuma, chiamarono me con dirmi ch'io andassi là, che alcuni de' lor capitani desideravano parlar meco: e cosí feci. Parlammo di molte cose, e dimandai perchè m'assediassero, non avendo cagione alcuna, e che guardassero quanto bene avevano avuto da me e quanto mi fussi portato bene con esso loro. Rispondevano che s'io mi partiva della provincia subito cessarebbe l'assedio, altramente io tenesse di certo che volevano o tutti morire o del tutto mandar noi in ruina; i quali, sí come poi si vidde, dicevano cosí in fin che io uscissi della fortezza, e nell'uscir della città a lor piacere ritenermi tra i ponti. Risposi che non dovevano pensare ch'io dimandasse la pace perch'io temesse di cosa alcuna, ma per dispiacermi e aver dolore del danno fatto loro, e d'esser costretto a distruggere sí famosa città come era quella. Mi davano la medesima risposta, che non lasciariano il predetto assedio se non uscisse della città.
Fornite le machine, subito usci' fuori per combattere alcune terrazze e ponti, mandando avanti gl'Indiani, e dopo loro quattro pezzi d'artegliaria, e molti altri con balestre e rotelle, e piú di tremila Indiani che erano venuti meco delle provincie di Tascaltecal e servivano gli Spagnuoli. Poichè fummo arrivati al ponte, accostammo le machine alle mura di certe terrazze, e le scale che avevamo portate per salirvi; ma tanta moltitudine d'uomini difendeva il ponte e le terrazze, e tanto spessi e grossi erano i sassi che essi a forza gettavano, che fracassarono le nostre machine, e uccisero uno Spagnuolo e molti ne ferirono: e benchè gagliardamente si fusse combattuto, nondimeno non potemmo avere uscita alcuna. Combattemmo dalla mattina a buon'ora insin a mezzogiorno, e con grandissimo nostro dispiacere ne ritornammo alla fortezza, onde gli nemici presero tant'animo che ardivano di scorrere fino alle porte della fortezza, e presero quella gran moschea. E forse cinquecento uomini de' primi salirono in una delle piú alte e gran torri di quella, e vi portarono di molta vettovaglia, come pane e acqua e altri cibi, e grandissima copia di sassi, e la maggior parte di loro aveva le aste con le punte di pietra larghe piú delle nostre e non meno aguzze, e da quella torre offendevano grandemente i nostri che erano nella fortezza congiunta con quella.
A questa torre gli Spagnuoli diedero l'assalto invano due o tre volte, e per salirvi fecero arditamente ogni sforzo: ed essendo alta e difficile da salire, che era piú di cento gradi, e coloro che stavano di sopra essendo forniti di sassi e di molte altre sorti d'arme, e avendo preso maggiore ardire per non aver noi potuto occupare alcuna delle terrazze, non cominciò mai a salirvi alcuno degli Spagnuoli che scendendo non ne cadesse, e ne ferivano molti. Coloro che vedevano far queste cose prendevano tanto animo, che senza paura davano l'assalto alla fortezza. Io, vedendo che, se essi tenevano longamente quella torre, oltra i danni ogni giorno fattici crescerebbono d'ardire per offenderci, uscii della fortezza, benchè poco mi potesse prevaler della man sinistra per una ferita datami da loro il primo giorno. Legatami la rotella al braccio, con certi Spagnuoli che mi seguitarono m'appressai alla torre e procurai che diligentemente il piè di quella fosse circondato, e coloro che la circondavano non riposavano, anzi da ogni lato combattevano co' nemici, e per dar soccorso a quegli che stavano nella torre corsero molti. Noi cominciammo a montar su le scale, e benchè con ogni sforzo difendessero il salirvi, tre solamente o quattro Spagnuoli gettarono giú dalle scale. Vi salimmo finalmente, con l'aiuto del Salvator nostro e della beatissima sua madre Maria, e combattemmo tanto gagliardamente nella parte di sopra della torre, che gli sforzammo dalla detta torre saltare in una loggia che circondava la torre, di larghezza d'una statura d'un uomo. Ed erano d'intorno alla torre tre simili a quella, distanti quasi quanto sariano tre stature d'uomini. Alcuni di loro cadettero dalla cima al piè della torre, i quali, oltra che pativano per la caduta, quivi erano uccisi dagli Spagnuoli; ma quegli che erano fermi nelle dette loggie combatterono tanto gagliardamente con noi che consumammo tre ore prima che gli potessimo uccidere, de' quali niuno scampò, ma tutti furono uccisi. E Vostra sacra Maestà presti fede alle mie parole, che fu cosa tanto difficile l'espugnar questa torre che, se Iddio non avesse tolto loro le forze e l'animo, venti di loro facilissimamente averiano potuto vietare il salirvi a mille spagnuoli, benchè fortemente avessero combattuto insino alla morte. Procurai di metter fuoco a quella torre e a tutte le cose che erano nella detta moschea, dalle quali già avevano levate tutte l'imagini che noi vi avevamo poste.


Come gl'Indiani avevano al tutto deliberato d'uccider gli Spagnuoli. Come gli Spagnuoli uscirono e abbrucciorono assaissime case, terrazze e torri e presero quattro ponti, e come gli riempierono, e molti Spagnuoli furono feriti.

Espugnata che fu questa torre, perdettero alquanto l'ardire, e talmente che in molti luoghi si ritirarono. Io allora ritornai a quella terrazza e chiamai quei capitani che prima m'avevano parlato, i quali parevano alquanto avere abbassato l'ardire per le cose che avevano viste, e subito s'avicinarono; e dimostrai loro che ormai non mi potevano resistere, e che noi ogni dí facevamo loro grandissimo danno e assaissimi n'erano uccisi, e abbrucciavamo e distruggevamo la lor famosa città, né cesseremmo finchè di lei e di loro vi fusse vestigio alcuno. Risposero che ben vedevano il gran danno che ricevevano da noi e che molti ne morivano, nondimeno che essi avevano del tutto deliberato d'ucciderne; e mi dicevano ch'io guardassi le contrade, le piazze e le terrazze tutte piene d'uomini, perchè affermavano aver fatto conto che se di loro ne morissero ventimila e de' nostri uno, che tosto ne ridurrebbono a niente, dicendo noi esser pochi e che erano essi senza numero, e ne certificavano tutte le strade mattonate per le quali s'andava in terra ferma esser state guaste, come con effetto erano, salvo una, e da niuna parte ci era aperta la via se non per acqua; e ben dovevamo sapere che non avevamo abbondanza di vettovaglie né d'acqua, e non poter resister molto, che moriremmo di fame, ancora che essi non n'uccidessero. E certamente dicevano il vero, che, se non avessimo avuto altro combattimento che la fame e la carestia delle vettovaglie, era a bastanza a farne morire. Contendemmo assai, e ciascuno difendeva la sua causa.
Venuta la notte uscii in compagnia d'alcuni Spagnuoli e, trovando gli Indiani alla sprovista, per forza prendemmo una contrada e in quella abbrucciammo piú di trecento case; e mentre vi concorreva la moltitudine me ne ritornai per un'altra, e a questo modo abbrucciammo piú case di quella contrada, e massimamente certe terrazze vicine alla nostra fortezza, dalle quali n'offendevano grandemente. Per le cose fatte in quella notte mettemmo loro qualche spavento, e nella medesima notte attesi a rifar quelle machine di legno che l'altro giorno ci avevano fracassate, per attendere alla vettoria che l'onnipotente Iddio ci donava. Andai alla medesima contrada dove il giorno avanti ci avevano guaste le machine, e quivi non men gagliardamente che con valoroso animo ne fecero resistenza. Nondimeno, trattandosi della vita e dell'onore, essendo quell'una sola strada rimasa intera di quelle che conducevano in terra ferma, benchè prima che avessimo potuto giugnere a quella vi fussero di mezzo due grandissimi e alti ponti e tutta la contrada fusse fortificata di pareti altissimi, di case e di torri, ci venne lume di tanto vigore e ardimento e combattemmo di maniera che, prestandoci Iddio e favore e aiuto, pigliammo in quel giorno quattro ponti, e furono abbrucciate tutte quelle terrazze e case e torri insino all'ultima; benchè la notte avanti avevano fatti molti ripari di mattoni crudi e di creta ne' detti ponti, per le cose avenute la precedente notte, di modo che l'arteglierie e le balestre non potevano lor nuocere; i quali quattro ponti riempiemmo di terra e di mattoni crudi, e di molti sassi e di travi delle case abbrucciate. Nondimeno non si poté far tanto che non fossero feriti molti Spagnuoli. Usai gran diligenzia quella notte in guardar quei ponti, acciochè di nuovo non ce gli ritogliessero.


Come gli Spagnuoli pigliano gli altri ponti; i nemici fanno patto dell'accordo; i detti ponti piú volte per l'una e l'altra parte si pigliano e ripigliano. Del ponte che fece fabricar il Cortese, e come a compiacenzia de' suoi soldati uscí della città, consegnato l'oro e le gioie della sacra Maestà alli giudici e reggenti. Come nel passar combatterono fortemente e gli Spagnuoli perdettero l'oro, le gioie, le vesti e l'artegliarie ch'avevano cavate, e andorno a Catacuba città, sempre combattendo.

Il giorno seguente, la mattina a buon'ora uscii e Iddio onnipotente mi concedette buon successo, perciochè, avegna che fusse infinita la moltitudine che difendeva gli altri ponti, e v'erano di mezzo e fossi e argini grandissimi, noi gli pigliammo ed empiemmo, e alcuni a cavallo perseguitarono gl'Indiani sino in terra ferma seguitando la vettoria. Mentre io faceva acconciar li ponti e riempierli, vennero a chiamarmi con gran prestezza, dicendo che gl'Indiani che avevano combattuto la fortezza desideravano la concordia e la pace, e che aspettavano certi lor signori e capitani. Quivi lasciati tutti i miei soldati e certi pezzi d'artegliaria, con tutta la cavalleria andai a vedere quel che volessero quei baroni, i quali affermarono che, se io prestassi lor fede e perdonassi loro i commissi falli, non combatterebbono piú contra di me, e di nuovo procureriano di far rifar i ponti e le strade ruinate, e sariano al servizio di Vostra Maestà come avevano fatto prima; e che io facessi menar quivi un certo de' lor religiosi prigione appresso di me, il quale essi onorano come generale della lor religione. Venuto che fu, parlò loro, e tra loro e me confermò il patto. E subito si vidde, come egli affermava, che avevano comandato a' soldati, i quali stavano ne' forti, che subito si rimanessero del combattere la detta fortezza e da ogn'altra offensione: e con questo patto ci partimmo.
Entrato nella fortezza, avevo cominciato a desinare quando mi fu nunziato che gl'Indiani di nuovo avevano pigliati i ponti, i quali in quel giorno noi gli avevamo guadagnati loro, e avevano uccisi alcuni Spagnuoli; per la qual nuova Dio sa quanto dispiacere mi s'aggiugnesse, perciochè m'aveva pensato che, presi li ponti, avendo l'uscita libera in terra ferma, non mi restasse gran difficoltà. Con la maggior prestezza ch'io potei cavalcai là, e quanto piú tosto potei, con alquanti a cavallo che mi seguitarono, camminai tutto quello spazio e senza fermarmi in luogo alcuno di nuovo corsi in mezzo degl'Indiani, e ripresi li detti ponti e perseguitai loro sin in terra ferma, che, essendo i miei fanti a piè stanchi per la fatica e feriti e impauriti, e vedendo il presente pericolo, niuno di loro seguitò. Onde avenne che, volendo io poi ritirarmi, trovai li ponti già presi dagl'Indiani, e avevano già tolta via gran parte di quella materia dai ponti della quale io gli aveva fatti riempiere, e nella città si vedeva ogni cosa piena di moltitudine, e per terra e per il luogo nelle canoe; la qual moltitudine aventava tanto spesso da ogni banda e dardi e sassi sopra di noi che, se l'onnipotente Iddio miracolosamente non ci avesse liberati da quel pericolo, era impossibile scampare: e già publicamente, tra' Spagnuoli che erano rimasi nella città, s'era sparsa la fama ch'io ero morto. Ed essendo giunto all'ultimo ponte vicino alla città, trovai tutti li cavalieri i quali erano venuti meco esser in quello caduti, e un cavallo sopra 'l quale non era alcuno, e non lo potei passare, e io solo fui astretto ad assalire gli nemici: e a questo modo i cavalieri ebbero spazio di poter passare il ponte, il quale trovai esser vacuo e passai con gran pericolo, perciochè dall'una e dall'altra parte, per tanto spazio quanto saria la statura d'un uomo, bisognava saltar col cavallo. E mentre io usciva del ponte, percotevano me e 'l cavallo con bastoni; nondimeno, essendo bene armati, altro male non ci fecero piú che 'l dolore che pativamo per la percossa, onde rimanemo vincitori, avendo presi quattro ponti. Agli altri quattro avendo lasciato buona guardia, me n'andai alla fortezza, e feci fabricare un ponte di legno, che commodamente lo potevano portar quaranta uomini.
Considerato il gran pericolo nel quale eravamo e il grandissimo danno che ogni giorno ci facevano gli Indiani, e temendo che non guastassero, come aveano fatto l'altre, anco quella via mattonata che vi era sola rimasa, la quale essendo guasta saremmo astretti a morire; e anco perchè molte volte fui pregato da' miei soldati che ci partissimo della città, che la maggior parte di loro erano feriti, e sí malamente che non potrebbono piú combatter co' nemici; quella notte deliberai di compiacer loro e, pigliato l'oro della Maestà Vostra e le gioie che si potevano cavare, in quella sala in picciole some le consegnai agli ufficiali di Vostra Maestà, i quali io avevo ordinati per nome di lei, e ai reggenti e ai giudici e altri che si trovavano esser presenti, e gli pregai e confortai che dessero favore e aiuto a cavarle fuori. E a questo effetto diedi loro una mia cavalla, sopra la quale ne posero quella parte ch'ella poteva portare, e ordinai che certi Spagnuoli e miei famigliari e d'altri andassero accompagnare detta cavalla, e il resto del detto oro gli ufficiali, i giudici e i reggenti e io lo demmo e compartimmo tra Spagnuoli, che lo cavassero fuori. E lasciata la fortezza con gran richezze e della Altezza Vostra e de' Spagnuoli e mie, per lo piú secreto modo che potemmo uscimmo, e menammo con noi uno de' figliuoli e le figliuole del detto Montezuma, e Cacamacin, signore in Aculuacan, e suo fratello, che io avevo fatto signore in luogo suo, e i signori d'altre provincie e città, i quali io tenevo prigioni. Ed essendo giunto ai ponti occupati dagli Indiani, nel primo gettammo il ponte che avevo fatto portar con esso noi senza molta fatica, perciochè niuno ci faceva resistenza, eccetto alcune guardie che stavano nel ponte, le quali si misero a gridare. E prima che io arrivassi al secondo ponte, si ragunò infinita moltitudine de' nemici, e da ogni banda, e per acqua e per terra, si studiava d'offenderci. Io subito passai con cinque a cavallo e forse cento fanti, co' quali nuotando passammo tutti i ponti, e gli avevo occupati tutti sino in terra ferma; e lasciati a fronte i fanti, ritornai al secondo ponte a coloro che erano nell'ultima squadra, dove trovai che si combatteva sí fortemente che non si può estimare il danno che gli Indiani facevano, e agli spagnuoli e agli Indiani di Churultecal che erano venuti con esso noi, i quali gli avevano quasi tutti uccisi, e anco avevano uccise molte donne che servivano agli Spagnuoli, insieme con gli Spagnuoli e cavalli. E già avevano perduto l'oro e le gioie e le vesti, e molte altre cose che noi cavamo fuori, e tutte l'arteglierie. Ragunai quegli che erano rimasti vivi e comandai che essi andassero avanti, e io, accompagnato da forse cinque a cavallo e settanta fanti, che avevano avuto ardire di restar meco, rimasi dopo loro, sempre combattendo co' nemici, finchè arrivammo ad una certa città nominata Catacuba, la quale è posta fuori oltra tutta la strada mattonata. Dove Iddio mi è testimonio quanta fatica e pericolo io sostenessi, perciochè, ogni volta che andavo addosso a' nemici, ne ritornavo pieno di freccie e percosso da ogni banda da' bastoni e da' sassi, conciosiachè dall'uno e l'altro lato vi fusse il lago, e coloro che erano nelle canoe sicuramente ne potevano ferire, e quegli che pigliavano terra, subito che andavo loro adosso, si gettavano in acqua e a quel modo pativano poco danno, se non alcuni che, essendo la moltitudine grandissima e l'uno urtando l'altro, cadevano e s'uccidevano. Con tal fatica e travaglio gli condusse tutti alla detta città, che non ferirono se non uno a cavallo che veniva dopo me. E combattevasi con grande sforzo per fronte e per fianchi, ma con maggior impeto alla coda, perciochè la moltitudine che era nella città sempre sottentrava a combattere piú fresca.


Il contrasto ch'ebbe il Cortese partendosi di Catacuba, e fortificatisi in un colle furono longamente combattuti. Il numero degli Spagnuoli e suoi Indiani e Indiane che si trovarono mancare. Il figliuolo e figliuole del Montezuma furono uccisi. Come, posti i soldati in ordinanza, e caminarono tutto il giorno combattendo, e arrivati ad uno ottimo albergo si fortificarono.

Ed essendo giunto alla detta città di Catacuba, già essendo giorno, trovai i nostri soldati in una delle piazze della città che s'erano ristretti insieme, dicendo di non saper dove s'andare, a' quali comandai che s'affrettassero d'uscir della città, prima che il numero degli nemici crescesse e occupasse le terrazze, che da quelle ci potevano offendere grandemente. Quegli che erano posti alla fronte dissero di non saper dove andare; io gli misi alla coda, e io andai alla testa finchè uscissimo della città. Gli aspettai in certi campi lavorati, e quivi essendo giunti quegli ch'erano rimasi alle spalle, intesi che avevano ricevuto grandissimo danno, e che erano stati uccisi alcuni Spagnuoli e Indiani, e rimaso nel viaggio molto oro, il quale gli nemici andavano raccogliendo. Quivi combattei con gli Indiani finchè i miei passassero avanti: gli sostenni finchè i nostri occuparono un colle, nel quale era una torre e un albergo assai forte, e l'occuparono senza nostro danno, perciochè non mi partii de lí, né lasciai passar gli nemici, finchè i nostri non presero il colle. Dove sa Iddio che fatica abbiamo sopportata, conciosiachè già niuno de' cavalli, che n'erano rimasi ventiquattro, poteva correre, né cavalieri che potessero alzar le braccia, né alcuno de' fanti non infermo che si potesse mover piú. Ed entrati in quello albergo, in esso ci fortificammo, e quivi fummo combattuti insino a notte, di maniera che non potevamo riposar un'ora. Di questo travaglio, fatta la rassegna, trovammo che erano morti degli Spagnuoli centocinquanta, e tra cavalle e cavalli quarantasei, e piú di duomila tra Indiani e Indiane che servivano a' Spagnuoli: tra' quali uccisero il figliuolo e le figliuole di Montezuma e gli altri che menavamo prigioni.
A mezzanotte, pensando di non esser uditi da alcuno, tacitamente ne partimmo dall'albergo, lasciandovi dentro molti fuochi: e niuno era tra noi che sapesse dove fussimo o dove dovessimo andare, se non uno del paese di Tascaltecal, che affermava di volerci guidare nella sua provincia, se 'l viaggio non ci fusse impedito. Appresso il detto albergo erano state poste molte sentinelle, che, subito che ci sentirono, gridando chiamarono in aiuto le città vicine, e da quelle fu mandata fuori gran moltitudine d'Indiani, la quale ne seguitò insino al giorno. E cinque a cavallo, che andavano avanti per discoprire, andarono adosso ad una squadra d'Indiani che nel viaggio s'era fatta loro incontra, e n'uccisero alcuni di essa, i quali, non servando l'ordine, si erano sparsi, che si pensavano che seguitassero piú cavalli e fanti. E perciochè d'ogn'intorno crescevano gli nemici, di tutti i soldati che erano tra noi feci scelta de' piú sani e gli misi in ordinanza, ponendogli alla fronte, alle spalle e a' fianchi, e ordinai che li feriti stessero in mezzo, e compartii gli uomini a cavallo: e con quell'ordine camminammo tutto 'l giorno combattendo d'ogni banda, di maniera che in quella notte e in tutto 'l giorno non andammo piú di tre leghe. E per grazia d'Iddio, venendo già la notte, vedemmo una certa torre e un ottimo albergo dove ci fortificammo; e quella notte si rimasero di combatterci, benchè quasi all'alba avessimo qualche tumulto, avegna che non sapessimo che altro aver piú da temere che la moltitudine la qual ne perseguitava.


Come il Cortese, quindi partendosi, fu perseguitato di giorno in giorno sempre combattendo, e ogni dí piú acrescendo la moltitudine di quelle genti. Come trovò un aguato e combattette con loro e fu ferito da due colpi di sassi, e il seguente giorno gli Spagnuoli furono assaltati da un'altra molto maggior moltitudine, e gli misero in rotta e sconfissero, e morti assaissimi de' lor principali e ucciso il capo loro.

Il giorno seguente alla prima ora del giorno col medesimo ordine mi partii menando i soldati e alla coda e alla testa apparecchiati; nondimeno dall'uno e l'altro lato gli nemici ne perseguitavano, gridando e chiamando per tutta quella provincia, la quale era molto abitata. E benchè fussimo pochi a cavallo, pur gli assaltavamo; nondimeno poco danno facemmo loro, che, essendo quel colle aspro, in quello si ritiravano. E cosí in quel giorno camminammo a lato a certi laghi, finchè arrivammo ad una certa città, dove pensavamo aver qualche contrasto con gli abitatori di quella: e subito che giugnemmo, abbandonate le case, se n'andarono ad altre città vicine. E quivi dimorammo quel giorno e l'altro, perciochè e li sani e gl'infermi erano stanchi per la fatica e per la fame e arsi per la gran sete, e i cavalli non si potevano piú sostenere in piè; e quivi trovammo del maiz, del quale mangiammo, e lesso e arrostito ne portammo con noi in viaggio. Il giorno seguente mi partii, essendo sempre seguitato da' nemici, i quali e di dietro e davanti di continuo ci assalivano con altissimi gridi. Seguitammo il cammino, per il quale ne conduceva uno di Tascaltecal, dove patimmo varie fatiche e travagli, perchè molte volte eravamo astretti ad uscire e traviare dal dritto cammino. E avicinandosi la sera venimmo ad una certa pianura, nella quale erano alcune picciole abitazioni, e quella notte alloggiammo incommodamente e con carestia di vettovaglie.
L'altro giorno, la mattina a buon'ora, cominciammo indirizzarci al viaggio, nel quale non eravamo ancora entrati quando gli nemici ne cominciarono a seguitare, e con loro scaramucciando arrivammo ad una gran terra, al cui sinistro lato, in cima d'un picciolo colle, erano alcuni Indiani. Noi pensando di potergli prendere, essendo vicini al nostro cammino, e per certificarne se fussero piú di quelli che si vedevano, me n'andai là accompagnato da cinque cavalli e dodeci fanti, circondando il colle; dopo il quale era una grandissima moltitudine d'uomini posti in aguato, co' quali combattemmo tanto che, essendo il luogo dove si erano fermi alquanto aspro e sassoso, e la gente infinita e noi pochi, fu necessario ritirarsi verso la terra dove erano i nostri, e de lí mi partii malamente ferito da due colpi di sassi. Poichè m'ebbi legate le ferite, ordinai agli Spagnuoli che si partissero della terra, perciochè non mi pareva che l'alloggiamento fusse sicuro, e procedendo di questa maniera, seguitati dagl'Indiani, andammo ad un'altra terra che dalla sopradetta era distante due leghe: e quivi nel viaggio un numero infinito d'Indiani ci assaltò, e combatterono con noi talmente che ferirono quattro o cinque Spagnuoli e altrettanti cavalli, e un cavallo uccisero. E benchè il mancamento di quello ci fusse di grandissimo incommodo e ci gravasse molto la sua morte, che dopo Iddio non avevamo difesa alcuna se non li cavalli, nondimeno ci ristorò grandemente, e mangiammo la sua carne e la sua pelle, di modo che nulla vi rimase, tanto eravamo stretti dalla fame; perciochè, dopo la nostra partita dalla gran città, non avevamo mangiato cosa alcuna se non maiz lesso e arrostito, ma di maniera che mai non ne restavamo satolli, e similmente erbe che coglievamo ne' campi.
E considerato che ogni giorno crescevano le genti de' nemici e noi ogni giorno scemavamo, quella notte, medicati li feriti e gl'infermi che menavamo, ordinai che alcuni fussero posti a cavallo, ad alcuni feci metter le crocciole sotto le braccia, e feci fabricare altre sorti di sostegni e aiuti per far viaggio, acciochè gli Spagnuoli che erano senza infermità o ferite fussero liberi al combattere. E penso che Iddio mi concedesse tal providenza, sí come per prova si vidde il giorno seguente, perciochè, essendomi quella mattina partito dal detto albergo, ci assaltò una grande e infinita moltitudine d'Indiani e tanta di dietro, dinanzi e da' fianchi che niente appariva di vacuo della campagna che mi era posta davanti; e attaccarono con noi d'ogni banda sí aspra battaglia che noi non ci potevamo conoscere l'un l'altro, tanto camminavamo stretti e mescolati insieme. E certamente credemmo quello esser l'ultimo giorno della vita di tutti noi, considerando la moltitudine de' nemici e la debolezza che trovarono in noi da resister loro, essendo tutti quasi feriti e mezzi morti; nondimeno l'onnipotente Iddio si degnò mostrar la sua misericordia, perciochè con la nostra stanchezza rompemmo la ferocità e superbia loro, e de' loro principali furono morti assaissimi, essendo tanta la moltitudine che combattendo s'impedivano l'un l'altro. Camminammo con questa fatica la maggior parte del giorno, finchè l'onnipotente Iddio ne fece grazia che fusse ucciso colui che era il capo tra' nemici, il qual tolto via cessò ogni combattimento: e a quel modo stemmo alquanto spazio quieti, benchè ne seguitassero andandone sempre toccando insino ad una certa picciola casa che era nella pianura, dove quella notte alloggiammo al sereno, donde vedevamo certi monti della provincia di Tascaltecal. Della qual cosa presi non picciolo piacere, conoscendo la provincia e verso qual luogo dovevamo andare, ancora che non tenessimo per certo gli abitatori di quella provincia esserci fedeli amici, perciochè credevamo, vedendoci cosí debili, dovessero esser quelli che ponessero fine alla nostra vita per conseguir la pristina libertà: il qual sospetto ci arrecò tanta afflizione quanta n'avevamo quando combattevamo co' nemici.


Come il Cortese arrivò nella provincia di Tascaltecal alla città di Gualipan, dove fu benignamente ricevuto e visitato da tutti i signori di quelle provincie; e, fattoli molte offerte, l'accompagnarono ad una città poco distante, acciò si riposasse e ristorassesi, dove intese che un suo famigliare, che li portava oro e altre cose al valor di trentamila pesi d'oro, fu ucciso dagli Indiani di Culua, e che gli Spagnuoli che erano rimasi nella città di Veracroce erano salvi.

Il giorno seguente, la mattina all'alba, cominciammo ad entrare in una via piana per la quale a diritto s'andava alla provincia di Tascaltecal, e per la quale pochi de' nemici ne seguitarono, benchè quivi fussero vicine assaissime e grandissime città; nondimeno da quelle picciole colline alcuni da lontano ne gridavano dietro. E cosí in quel giorno, che fu di domenica, agli otto di luglio 1520, uscimmo di tutta la provincia di Culua e arrivammo ai luoghi della detta provincia di Tascaltecal, alla città di Gualipan, che ha quasi quattromila case; dove fummo dagli abitatori ricevuti benignamente, e ci ristorammo alquanto dalla fame e dalla stanchezza che pativamo, benchè molte cose da viver che ne davano ne le davano per danari, e alcuni non volevano se non oro, ed eravamo a forza costretti a darlo per la necessità che pativamo. Qui stemmo tre giorni, dove mi vennero a vedere il magiscacin di Secutengal e tutti i signori di quelle provincie, e si sforzarono di consolarmi circa le cose che m'erano intervenute, dicendo che spesso mi avevano avisato che quegli di Culua erano traditori, e che mi dovessi guardar da loro, nondimeno che io non avevo voluto mai prestar lor fede. Ma, poi che io avevo scampata la vita, dovessi rallegrarmi, che erano per darmi aiuto finchè avessero lo spirito, per ristorarmi del danno che quei di Culua mi avevano fatto, perchè, oltra l'obligo che erano sudditi dell'Altezza Vostra, si dolevano e attristavano della morte di molti lor fratelli e figliuoli che nella mia compagnia erano stati uccisi, e d'altre varie ingiurie fatte da quegli a loro ne' tempi passati. E che io tenesse per certo che mi sariano fedeli e veri amici, e perchè io e gli altri miei compagni tutti eravamo feriti, dovessimo andare ad una città che era distante quattro leghe da quella terra, e quivi ci riposaressimo, e che provederiano che fussimo medicati e ristorati delle nostre fatiche e stanchezza. Gli ringraziai e acconsentii alla lor richiesta, e feci lor parte d'alcune tarsie di quelle che avevamo portate, benchè poche, delle quali ebbero gran piacere. Andai con loro alla città e avemmo buono albergo, e 'l magiscacin providde che mi fusse portato un letto composto di legni con alcuni ornamenti che essi usano, dove io dormi', che non ne avevamo portato alcuno con esso noi; e ci fece parte d'ogni cosa che aveva e poteva per nostro ristoro.
In questa città alcuni miei famigliari e altri della mia compagnia, quando passai andando alla città di Temistitan, lasciarono alcune cose (cioè argento, vesti e altri ornamenti di casa, e alcune cose da vivere, che le facevo condur meco) acciò fussimo piú ispediti nel viaggio, se cosa alcuna c'intervenisse, che non fussemo impediti d'alcun altro peso che delle proprie vesti e arme. E intesi che uno altro mio famigliare venuto dalla città della Veracroce mi portava vettovaglie e altre cose, e con lui esser cinque a cavallo e quarantacinque fanti oppressi da malatia, i quali similmente avevano portate certe cose ivi rimase, e già erano risanati, e tutto l'argento e altre cose e mie e de' miei compagni, e settemila pesi d'oro colato (contiene il peso dell'oro il valor quasi di due fiorini), i quali io avevo lasciati ivi in due casse, e altri fregi e ornamenti, oltra gli altri quattordecimila castigliani in pezzi d'oro che aveva avuti nella provincia di Teuchitibeque quel capitano ch'io mandavo a fabricar nuova città in Quacucalco, ed egli quivi gli avea lasciati, e molti altri, al valor di piú di trentamila pesi d'oro. E li predetti Indiani di Culua l'avevano ucciso nel viaggio insieme co' detti Spagnuoli, e gli avevano tolto ogni cosa che portavano, e alcune scritture che io avevo raccolte insieme con gli abitatori di queste provincie. Similmente intesi che avevano uccisi piú Spagnuoli nel viaggio, che andavano alla città di Temistitan, pensandosi che io quivi me ne vivesse pacificamente, e che le strade fussero sicure come solevano esser prima. Per la qual cosa (io dico il vero alla Maestà Vostra) tutti sí fortemente ci attristavamo e dolevamo che nulla piú ci potevamo dolere né attristare, perciochè, oltra la perdita de' detti Spagnuoli e dell'altre cose, che erano molte, vi fu il ritornarci alla mente la morte degli Spagnuoli uccisi nella gran città e ne' ponti e ciò che poi n'intervenne nel viaggio, e massimamente che mi avevano messo in sospetto che avessero assaliti ancora quegli che erano rimasi nella città della Veracroce, e coloro che erano amici nostri, udita la nostra rotta, si fussero ribellati. E subito ispedi' alcuni nunzii con certi Indiani che gli guidassero, a' quali ordinai che non andassero insino a quella città per le strade comuni, e che tosto mi avisassero di ciò che ivi si faceva. Piacque all'altissimo Iddio che fussero trovati salvi gli Spagnuoli, e tutti li paesani che avevamo per confederati star pacifici e quieti: la qual nuova apportò grandissimo alleviamento alla nostra perdita e maninconia, e all'incontro essi presero dispiacere della nostra rotta.
Stetti in questa provincia di Tascaltecal venti giorni attendendo a far medicar le mie ferite, le quali erano cresciute e per la longhezza del viaggio e per non averle medicate, e massimamente quelle della testa; il simile facendo delle ferite de' miei compagni, de' quali alcuni morirono in parte per le ferite e in parte per le patite fatiche, e alcuni rimasero storpiati o zoppi per le ferite, e pochi medicamenti e ripari si trovavano per rimedio, e io rimasi storpiato di due deta della mano sinistra.


Come il Cortese, esortato da' Spagnuoli d'andar alla città di Veracroce, non volse acconsentirli, ma se n'andò alla provincia Tepeaca, dove gli si fecero incontro assaissime genti con arme, i quali, venuti alle mani, furono in gran parte uccisi; e il Cortese in venti giorni soggiogò molte città e terre, scrisse per ischiavi alcuni degli abitatori, e perchè. Del giunger di Francesco di Garai al porto di Veracroce, mal in punto, uccisi e feriti molti de' suoi.

Li miei compagni, vedendo già molti esser morti e quegli che erano rimasi vivi esser deboli e pieni di ferite, divenuti piú timidi per li pericoli e per le fatiche nelle quali si erano ritrovati, temendo delle cose future, mi richiesero ch'io dovessi andare alla città della Veracroce, e quivi ci fortificaremmo prima che gli abitatori delle provincie amici nostri, sapendo la nostra rotta e le picciole forze, facessero lega co' nostri nemici e occupassero gli stretti e li passi per i quali dovevamo andare, e ne assalirebbono da un lato, e dall'altro quei della città della Veracroce; ed essendo noi uniti, e anco essendo quivi le navi, saremmo piú sicuri e meglio ne potremmo difendere se ne volessero assalire, finchè mandassimo all'isole per dimandar soccorso. E vedendo che, se io mostrasse a' paesani e massimamente agli amici paura alcuna, potrebbe esser cagione che piú tosto n'abbandoneriano e si leveriano contra di noi, e tenendo a memoria che sempre la fortuna aiuta gli audaci, e che noi eravamo cristiani, e confidatomi nella divina bontà e misericordia, che del tutto non moriremmo, e si perderebbono tante e sí nobili provincie che sí pacificamente possedevo per la Maestà Vostra, e in tale stato che le pacificaremmo; né si lasciarebbe tal servizio continuando la guerra che si faceva, per via della quale doveva seguir la quiete di tutte quelle provincie, come era stato prima; perciò deliberai per niun modo passar li monti verso 'l mare, ponendo da banda tutte le fatiche e disagi che potessimo patire, e dissi ch'io non volevo rimanermi da questa guerra, perciochè, oltra il biasimo e la vergogna che ne risultava alla mia persona e miei compagni, era cosa di molto pericolo a Vostra Maestà, e pareva che noi facessimo congiura contra di lei. Anzi, io avevo determinato in tutti i modi a me possibile ritornar contra gli nemici e offendergli in tutto ciò che io potevo. E cosí, essendo dimorato venti giorni in questa provincia, non guarito ancora delle ferite, co' compagni deboli, andai ad un'altra provincia nominata Tepeaca, che era confederata con quegli di Culua nostri nemici, nella quale io avevo inteso che erano stati uccisi dieci Spagnuoli che venivano dalla città della Veracroce alla gran città di Temistitan, perciochè per quella provincia era il dritto viaggio a Temistitan. La provincia di Tepeaca confina con Tascaltecal, la quale è grandissima provincia. E nell'entrar della provincia di Tepeaca ci si fecero incontra con l'arme assaissime genti, e ne vietarono l'entrata con ogni loro sforzo, ponendosi ne' luoghi difficili e forti. E per non andar raccontando particolarmente ogni cosa che ne occorse in quella guerra, perciochè sarei molto lungo e molto accrescerei il libro, fatta l'ammonizione che dovessero venire a dar ubbidienza a' comandamenti fatti loro circa la pace per nome di Vostra Maestà, e non gli volendo essi seguire, facemmo lor guerra, e spesse volte vennero alle mani con esso noi. Nondimeno, per divino aiuto e per la real fortuna di Vostra Maestà, facemmo loro gran danno e molti n'uccidemmo, ed essi in quella guerra non ferirono né uccisero Spagnuolo alcuno. E benchè questa provincia sia larghissima, nondimeno per spazio di venti giorni soggiogai molte città e terre di quella e pacifica e quietamente, e li signori e baroni di quelle vennero ad offerirsi per vassalli a Vostra Maestà, e da tutte quelle ne cacciammo via molti di Culua, che erano venuti in quella provincia per infiammar gli animi degli abitatori di quelle a far guerra, e impedire che né per forza né liberamente pigliassero nostra amicizia: di maniera che insin ora sono stato sempre occupato in questa guerra, la quale non è ancora finita, che ci rimangono ancora certe ville e terre da pacificare, le quali spero in breve col favor d'Iddio di metterle sotto la real signoria di Vostra Maestà.
In una parte di questa provincia, dove uccisero quei dieci Spagnuoli, ho scritto per schiavi alcuni degli abitatori, de' quali la quinta parte è stata consegnata agli ufficiali di Vostra Maestà, perciochè in quella gli abitatori sono sempre stati bellicosi e molto ribelli, e furono presi per forza d'arme; e oltra il delitto commesso d'aver uccisi gli Spagnuoli e di ribellarsi alla Maestà Vostra, tutti mangiano carne umana, e perciochè questo è publicamente manifesto, non mando cosa alcuna a Vostra Maestà. E anco mi son mosso a scrivergli per schiavi per metter qualche paura agli abitatori di Culua: e ne sono in quella provincia molti non dissimili a questi, e se per aventura non fussero severamente castigati, non si partirebbono mai dal mal fare. In questa guerra ci hanno dato aiuto gli abitanti di Tascaltecal, di Churultecal e di Guasucingo, che hanno con noi confermata l'amicizia, e crediamo che sempre serviranno come fedeli vassalli della Maestà Vostra.
Quando stavamo in questa provincia di Tepeaca impacciati in questa guerra, mi furono portate lettere della città di Veracroce, per le quali mi era dato aviso che due nave di Francesco di Garai erano arrivate al porto della Veracroce tutte battute: e, come già si vede, il detto Francesco di Garai di nuovo aveva mandato a quel fiume del quale già di sopra feci menzione a Vostra Maestà, e gli abitatori di quella provincia avevano combattuto con esso loro, e di loro n'avevano uccisi sedici o diecisette e molti feriti, e uccisi anco sette cavalli; e coloro che erano scampati nuotando erano entrati nelle navi e fuggendo si erano salvati. Il capitano ed essi erano gravemente battuti e feriti, e il luogotenente ch'io avevo quivi lasciato al governo gli aveva ricevuti benignamente e fatti medicare, e acciò meglio si risanassero aveva mandato una parte de' predetti Spagnuoli ad un certo signor di quella provincia, vicino alla detta città e nostro amico, dove egli ben provedeva loro di tutto. La qual cosa non fu di non minor dispiacere che li nostri patiti disagi. E forse che non gli sariano intervenute cotal cose se altre volte fusse venuto da me, come di sopra ho raccontato a Vostra Maestà, perciochè, conoscendo tutte le cose che sono in queste provincie, ne poteva esser certificato da me e non gli sariano intervenute le cose che gli erano accadute, conciosiachè 'l signore di quel fiume e della provincia, il qual si chiamava Panuco, si fusse dato per suddito a Vostra Maestà, e per segno d'ubbidienza mi aveva mandati suoi ambasciatori con certi presenti alla città di Temistitan, come dissi di sopra alla Maestà Vostra. Scrissi che, se quel capitano di Francesco di Garai si volesse partire, gli facesse ogni favore e gli desse ogni aiuto, acciò si potesse ispedire con le sue navi.


Come il Cortese, fatto consiglio con gli ufficiali, per molte ragioni deliberò di edificar una città nella provincia di Tepeaca qual si chiamasse Securezza de' Confini; e ordinò giudici, reggenti e altri ufficiali, e dove la città fu cominciata procurò di fabricarvi una rocca.

Poichè ebbi racquietata una parte di questa provincia, la quale fin ora sta pacifica e soggetta al real servizio della Vostra Altezza, io insieme co' suoi ufficiali facemmo consiglio che ordine si doveva tenere per conservazione di quella provincia. E vedendo che gli abitatori di quella, poichè si erano fatti sudditi di Vostra Altezza, se gli erano ribellati e avevano uccisi li detti Spagnuoli, e anco essendo per quella provincia il viaggio e il passo di tutte le mercatanzie dai porti maritimi all'altre provincie in terra ferma, e se la detta provincia rimanesse sola, come prima, gli abitatori della provincia e lo stato di Culua che confina con loro di nuovo gli induceriano e persuaderiano che di nuovo si levassero contra di noi e si ribellassero alla Maestà Vostra; onde nasceria impedimento e danno incredibile e alla difesa di queste provincie e al servizio di Vostra Altezza, e cessariano le mercatanzie, e massimamente che in tutta quella marina non vi erano se non due porti, e quegli molti aspri e difficili, che sono vicini a quella provincia, e gli abitatori d'essa facilmente possono andare a quelli: e per queste e per molte altre ragioni che fanno al proposito ne parve, per ischifar le sopradette cose, che in luogo piú accomodato di questa provincia Tepeaca si dovesse edificare una città, dove concorressero le qualità e cose necessarie per gli abitatori. E per mandar la cosa ad effetto ponemmo nome alla città Securezza de' Confini, e ordinai li giudici, li reggenti e gli altri ufficiali, sí come è costume di fare; e per maggior fortezza degli abitatori di questa città, in quel luogo dove ella fu cominciata, procurai che fussero portate le cose necessarie per fabricare una rocca, perciochè in questa provincia si trovano cose ottime, e in questa userò quella maggior diligenza che mi sarà possibile.


Delle provincie Guacabula e Messico, e come quelli signori vennero a darsi al Cortese e fargli intendere come erano in arme da trentamila uomini di Culua. Gli Spagnuoli che accompagnavano i detti signori, avertiti di certo inganno, gli fecero prigioni e mandarongli al Cortese; e come furono relassati, e il Cortese s'inviò alla volta di Culua per ispedir quella guerra.

Mentre io scrivevo questa relazione, mi vennero a trovare gli ambasciatori d'un signore d'una certa città, la qual si dice che è lontana quindeci leghe da questa provincia, che è chiamata Guacachula, ed è nella foce d'un monte, per la qual si passa nella provincia nominata Messico. E per suo nome mi esposero che da pochi giorni in qua erano venuti per render la dovuta ubbidienza alla sacra Maestà Vostra e se gli erano dati per sudditi e vassalli, e non gli riprendessi pensandosi che fusse di suo consentimento, perchè mi facevano certo che in quella città erano albergati molti capitani de' soldati di Culua, e in quella e per due leghe intorno erano in arme da vinticinque in trentamila uomini, stando a guardare la foce e il passo acciò non potessimo passar di là, e anco per vietar gli abitatori della detta città e dell'altre provincie confederati con quella, acciò non facessero servizio all'Altezza Vostra né pigliassero amicizia meco: e alcuni già sariano venuti al servizio di Vostra Maestà, se coloro non gli avessero impediti. E mi confortavano a dar rimedio a questa cosa, perciochè, oltra l'impedimento fatto loro, che erano di buon animo, gli abitatori della detta città e tutti i circonvicini pativano grandissimo danno, essendo infinita moltitudine di gente atta alla guerra, e n'erano sommamente gravati e trattati da loro malamente, e che toglievano le lor robbe e moglieri e altre cose: che guardasse io quel che voleva che essi facessero. Soggiunsero che, se io prestava lor favore, eseguirebbono i miei comandamenti. Poichè gli ebbi ringraziati del loro aviso e offerta, assegnai loro tredici a cavallo e ducento fanti e trentamila Indiani amici nostri, e promisero di condurgli per luogo che gli nemici non ne potrebbono aver notizia, e, giunti che fussero appresso la città, il signore e gli abitanti di quella, li vassalli e li confederati seco sariano apparecchiati e circondariano gli alberghi dove erano alloggiati li predetti capitani, e gli arebbono o presi overo uccisi prima che le lor genti potessero soccorrerli e aiutarli: e mentre la moltitudine delle genti compariria, gli Spagnuoli sariano già entrati nella città e combatteriano con loro, e a quel modo gli vincerebbono.
Essi partendosi passarono per la città di Churultecal e per qualche parte della provincia di Guasucingo, che confina con la provincia di questa città Guacachula. Lontano quattro leghe da quella, e in una certa terra della detta provincia di Guasucingo, dicono essere stati avertiti gli Spagnuoli che gli abitatori della detta provincia erano confederati con quegli di Guacachula e con quei di Culua, e con questa scusa menavano gli Spagnuoli a questa città, per assalir tutti gli Spagnuoli insieme e uccidergli. E rinovandosi la paura che ne misero quegli di Culua nella lor provincia e città, e questo aviso apportò gran timore alli Spagnuoli, i quali andarono investigando ed esaminando, e, poichè ebbero intesa la cosa, fecero prigioni tutti li signori di Guasucingo che andavano con esso loro, e similmente gli ambasciatori della città di Guacachula. E avendogli fatti prigioni, se ne ritornarono alla città di Churultecal, che era lontana quattro leghe da quel luogo, e de lí mi mandarono tutti li prigioni accompagnati da alcuni cavalli e fanti, con l'informazione avuta; e li capitani scrivevano che li nostri soldati erano diventati molto timidi, e pareva loro quella guerra pericolosa. Poichè furono venuti, ogni giorno parlava loro per interpreti e, usata ogni diligenza per trovar la verità, mi parve che gli Spagnuoli non avevano ben compreso; e subito comandai che fussero liberati e feci loro molte carezze, affermando che io del detto veramente credeva loro esser fedeli vassalli della Maestà Vostra, e che io voleva andare a combatter con quei di Culua. E per non mostrar viltà e paura agli abitanti delle provincie, sí amici come nemici, mi parve, poichè avevo cominciato a far lor guerra, di non rimanermene; e similmente per levar la paura che era entrata agli Spagnuoli, deliberai di lasciar li negozii e l'espedizioni alle quali attendevo per la Maestà Vostra, e subito piú tosto ch'io potesse mi partii. E in quel giorno andai alla città di Churultecal, che da quella città è lontana otto leghe: quivi trovai gli Spagnuoli, i quali ancora affermavano che essi tenevano per certo il tradimento. Nel medesimo giorno albergai in una terra suddita alla provincia di Guasucingo, dove quei signori erano stati fatti prigioni.


Come, avicinandosi il Cortese a Guacachula, quegli abitatori combatterono gli alloggiamenti dove erano i capitani di Culua, uccidendo quelli che erano alloggiati per la città; e come, venendo da trentamila uomini benissimo in ordine per aiutar li loro, cominciando a metter fuoco in quella banda ch'entravano nella città, furono assaltati dal Cortese con la cavalleria e aiuto d'Indiani, e ritiratisi sopra un monte furono per la maggior parte uccisi, e i loro alberghi, ch'erano grandissimi, furono dati a sacco e a fuoco: e con questa vittoria discacciò gli nemici.

Il giorno seguente, posto l'ordine con gli ambasciatori di Guacachula donde e in che modo dovessimo entrare nella detta città, mi partii de lí un'ora avanti giorno, e quasi a dieci ore di giorno arrivammo a quella dove andavamo. E due leghe lontano mi vennero incontra per ricevermi alcuni ambasciatori della detta città, e mi avisarono che già tutta era apparecchiata all'impresa e che gli nemici non avevano intesa la mia venuta, perciochè le spie e le vedette che avevano poste nella strada, le quali erano degli abitatori della città, le avevano fatte prigioni, e similmente l'altre tutte che li capitani di Culua avevano ordinato che salissero sopra le mura e torri, donde potessero guardar la pianura: e perciò tutta la gente nemica stava sprovista e in ozio, confidandosi nelle guardie che avevano poste, e che io mi potevo appressare senza loro saputa. E mi affrettai per arrivar là prima che intendessero la nostra andata, perciochè noi camminavamo per la pianura e facilmente ne potevano vedere dalla città. E con effetto si conobbe che noi fummo visti dagli abitatori della città, che, vedendoci esser vicini, subito circondarono gli alloggiamenti ne' quali erano i capitani di Culua, e cominciarono a combattere con gli altri che erano alloggiati per la città; ed essendo io lontano da quella quasi un tiro di balestra, mi vennero incontra menandomi quaranta prigioni. Nondimeno sempre sollecitavo d'entrar nella città, nella quale si sentivano grandissimi gridi di coloro che combattevano co' nemici per tutte le contrade. Guidato da uno della città, giunsi all'albergo dove stavano li capitani, il quale era circondato da tremila uomini che combattevano per entrarvi e occupavano tutti li luoghi alti e le terrazze. E li capitani e coloro che si ritrovavano seco combattevano gagliardamente e con molto ardire, sí che non vi potevano entrare, benchè fussero di poco numero, perciochè, oltra che combattevano forte e valorosamente, il loro alloggiamento era fortificato. Nondimeno subito arrivati entrammo, e seguitò dopo noi tanta gente della città che per niun modo potemmo riparare che non uccidessero alcuni di quei di Culua: e io desiderava di pigliarne vivo qualcuno, per certificarmi dello stato della gran città e intendere chi ne fusse rimasto signore dopo il signor Montezuma, e desideravo di sapere molte altre cose. Non ne potetti aver se non uno quasi mezzo morto, dal quale fui certificato come dirò di sotto.
Nella città furono uccisi molti di quegli che v'erano albergati, e coloro che erano rimasti vivi, quando io entrai nella città, intesa la mia venuta, se ne fuggirono dove era l'esercito di quei di Culua, e seguitandogli n'uccidemmo molti. E tanto tosto fu udito il romore da coloro che stavano per dar soccorso, trovandosi esser in luogo alto ed eminente che d'ogn'intorno soprastava alla città e alla pianura, e quasi tanto presto vennero alla città per aiutare i loro, come uscirono quegli che erano dentro: e venivano in lor soccorso da trentamila uomini, la qual gente era piú in ordine che alcun'altra che fin ora abbiamo veduto. Portavano molti ornamenti e fregi d'oro, d'argento e di penne. Ed essendo la città grande, cominciarono a metter fuoco in quel luogo dove entravano, il che mi fu riferito dalli terrazzani; e perciò subito, essendo li fanti a piè per la fatica stanchi, me n'andai là co' cavalli e assaltammo gli nemici, li quali si ritirarono ad un passo difficile. Nondimeno lo pigliammo e gli seguitammo nella salita, ferendone molti con le lance, salendo nell'alto monte: e tanto alto che, mentre giugnemmo alla cima, né noi ne alcuno de' nemici si poteva muovere, e molti di loro oppressi al gran caldo morivano senza esser feriti in parte alcuna, e due de' nostri cavalli si arrestarono, de' quali uno morí. Ci diedero soccorso molti Indiani amici nostri, e con l'aiuto loro facemmo grandissimo danno agli nemici, perciochè, essendo loro oppressi dalla stanchezza e i nostri freschi dal riposo, facevano poca resistenza, di modo che 'l campo, il qual prima si vedeva pieno di vivi, n'era voto ed era ripieno di morti. Venimmo alle lor casette e alberghi, fatti da loro nuovamente in tre luoghi, ciascuno de' quali occupava lo spazio d'una gran città; e oltra li soldati avevano gran numero di servidori, e avevano quivi fatti molti apparecchi per il campo, perciochè tra loro erano molti baroni: e lo misero a sacco e a fuoco gl'Indiani amici nostri, de' quali (dico la verità alla Maestà Vostra) ve n'erano venuti piú di centomila. E con questa vittoria discacciammo tutti gli nemici dalla provincia, insino a certi passi di ponti e uscite difficili che essi tenevano. Noi ritornammo nella città, dove da' cittadini fummo benignamente ricevuti, e quivi ci riposammo per tre giorni, che invero ne avevamo bisogno di riposo.


Come alcuni cittadini d'Ocupatuio, i quali ad instanzia del lor signore avean seguito la fazion di quelli di Culua, vennero ad offerirsi al Cortese, pregandolo che volesse perdonargli e che 'l fratel del signore tenesse lo stato, e la risposta a loro fatta. E sito della città di Guacachula.

Fra questo mezzo vennero a trovarmi i cittadini d'una gran città, offerendosi al servizio della Maestà Vostra; la qual città è situata nella cima di quei monti, lontana dal sopradetto campo de' nemici per due leghe, e anco dal piede del monte, dal quale già ho detto che usciva quella palla di fumo: questa città è nominata Ocupatuio. E mi fecero a sapere che 'l signore che prima gli governava aveva seguitati quegli di Culua, nel tempo che noi fummo per quei luoghi, pensandosi che noi non ci dovessimo fermare finchè venissimo alla sua città; e già molti giorni avevano cercato di pigliar la mia amicizia, e sariano venuti a render ubbidienza a Vostra Maestà, ma il lor signor non aveva voluto né l'aveva comportato, benchè molte fiate l'avessero richiesto. Ora essi volevano sottoporsi al servizio di Vostra Altezza; e che ivi era rimasto il fratello del detto lor signore, il qual era sempre stato di quella opinione e parere, e che io dovessi volentieri comportare che egli al presente tenesse lo stato, e, benchè quello ritornasse, io non acconsentissi che fusse ricevuto per signore, perciochè né anco essi lo riceverebbono. Risposi che, avegna che essi fin ora avessero seguitato la fazione di quei di Culua e si fussero ribellati dal servizio di Vostra Maestà, nondimeno io avevo deliberato di perdonare e alle persone e alle facoltà loro, essendo venuti e avendo palesato che 'l signore era stato capo e guida della lor ribellione e temerario ardire. Io per nome della Vostra Altezza perdonavo loro li passati errori e li ricevevo al suo real servizio, e volevo che, se per l'avenire cadessero in simili errori, fussero da me castigati e puniti gravemente; ma se fussero fedeli vassalli di Vostra Altezza, io per nome di Vostra Maestà prestaria loro ogni favor e aiuto: e cosí promisero.
Questa città di Guacachula è situata in una pianura, da un lato accostata a monti grandi e asprissimi, e dall'altro ha attorno attorno due fiumi distanti tra loro un tiro di balestra, che circondano la pianura. Ciascuno d'essi ha profonde e altissime spelonche, di maniera che impediscono che da quel lato non vi si può andare, se non per alcune poche vie, e quelle sono difficilissime da salire e a cavallo appena vi si può andare. La città è circondata di fortissime mura fatte di pietre concie e di calcina, d'altezza di quattro stature di uomo di fuori della città; ma di dentro sono eguali alla terra, e attorno attorno le mura è alzato un muro alto quanto saria la statura di mezzo uomo, il quale è per difesa de' combattenti. Ha quattro entrate tanto larghe quanto vi può commodamente entrare uno a cavallo, e ciascuna entrata ha tre o quattro rivolgimenti nelle mura, dove una parte del muro entra nell'altra. Nelle mura vi è sempre grandissima copia di sassi, li quali usano per combattere. La città contiene piú di cinque o seimila case, e altrettante nelli borghi a lei sottoposti; è di grandissimo circuito, perciochè vi sono di molti giardini con varii frutti.


Dell'acquisto della città Izzuacan, e come le città circonvicine vennero ad offerirsi al Cortese. Che, essendo contesa circa la successione dello stato di Izzuacan, fu data l'ubbedienza ad un nepote del signor naturale; e il sito d'essa città.

Poichè noi fummo riposati in questa città per spazio di tre giorni, n'andammo ad un'altra nominata Izzuacan, la quale è distante da Guacachula quattro leghe, perciochè avevo inteso che in quella vi erano alla guardia molti de' nostri nemici di Culua e gli abitatori di detta città e degli altri luoghi circonvicini sudditi favorivano grandemente quelli di Culua, avendo il loro signore origine da Culua ed essendo parente del signor Montezuma. Venivano meco tanti paesani di quelle provincie vassalli di Vostra Maestà, che quasi coprivano gli campi i quali noi potevamo vedere, e in verità vi erano concorsi piú di centoventimila uomini. Arrivammo alla detta città Izzuacan quasi a dieci ore: era vota di donne e di fanciulli, e vi stavano dentro cinque o seimila soldati molto ben in ordine; ed essendo gli Spagnuoli alquanto andati innanzi, cominciarono a difender la città, nondimeno tosto l'abbandonarono. E perchè quel luogo per il quale fummo guidati per entrarvi era debile e facile, gli seguitammo per tutta la città, e gli sforzammo gettarsi giú dalle mura nel fiume che dall'altro lato circonda tutta la città, i ponti del qual fiume essi gli avevano tutti rotti e gettati a basso, onde mettemmo alquanto d'indugio in passarlo; e gli seguitammo piú d'una lega e mezza, e di quegli che fuggendo non si salvarono pochi stimo che ne rimanessero vivi.
Ritornato nella città, mandai due cittadini che io tenevo prigioni acciochè parlassero ai principali della città (perciochè il lor signore aveva seguito que' di Culua, che vi erano stati posti alla guardia), che gli confortassero a tornar dentro: e io, per nome di Vostra Maestà, promettevo loro che se per l'avenire erano per esser fedeli vassalli di Vostra Maestà, che sariano ben trattati da me. Tre giorni dopo la lor partita mi vennero innanzi alcuni dei principali, dimandandomi perdono dei loro falli, iscusandosi non aver potuto fare altramente, avendo avuto necessità di esequire gli commandamenti del lor signore; e poichè egli se ne era partito e gli aveva lasciati, promettevano da quell'ora innanzi bene e fedelmente voler servire a Vostra Maestà. Io promisi loro la mia fede, e commisi che sicuramente ritornassero a casa e conducessero le loro moglieri e figliuoli, che erano in altri luoghi e ville della medesima fazione. Ordinai ancora che parlassero con gli abitatori di quella provincia, che venissero da me, che perdonarei loro i commessi errori, e non aspettassero che io gli andassi ad assalire, perciochè ne patirebbono grandissimo danno e io n'avrei dispiacere. E cosí avenne, conciosiachè dopo due giorni li cittadini se ne ritornarono in Izzuacan, e tutte le città circonvicine vennero ad offerir servizio a Vostra Maestà e se stessi per vassalli, e quella provincia rimase in grandissima amicizia e stretta confederazione con quelli di Guacachula.
Fu ben discordia intorno al determinare a cui appartenesse lo stato di quella provincia, in absenzia del signore, che si era partito e andato a Messico. E benchè fussero alcune contese e fazioni tra un certo figliuolo bastardo del signor naturale di detta provincia, che era stato ucciso dal signor Montezuma, e vi aveva messo colui che ora signoreggiava e gli aveva data una sua nipote per moglie, e tra 'l nipote del detto natural signore, che era figliuolo d'una figliuola legitima che era maritata nel signore di Guacachula e aveva generato quel figliuolo, nepote del signor naturale di Izzuacan finalmente si accordavano tra loro che quel figliuolo del signor di Guacachula avesse la eredità, che discendeva da legitima linea del vero signore di quello stato: e benchè quell'altro fusse figliuolo, essendo bastardo non dovea succedere nello stato. E in presenza mia resero ubbidienza al detto nepote, fanciullo di età di dieci anni; e perchè non era di età che fusse atta a regnare, ordinarono che quel suo zio bastardo e tre altri primarii, uno della città di Guacachula e due d'Izzuacan, fussero governatori della provincia e tenessero il fanciullo in potestà loro finchè fusse di età atta al governare.
Questa città d'Izzuacan ha da mille e cinquecento abitazioni, ed è molto vagamente fabricata nelle sue contrade; aveva cento case appresso le moschee e luoghi da far orazione ai loro idoli, fortissime, con le torri, le quali tutte furono abbrucciate. Ella è posta in una pianura a piè d'un mezzano colle, dove da una parte è una fortezza molto ben fornita, e dall'altra verso la pianura è circondata da uno profondo fiume che passa al lato delle mura; e il fiume è circondato da una spelonca la quale è di grandissima profondità, e sopra la spelonca è un picciolo muro d'altezza quanto saria mezza statura di uomo, nel quale erano raunati molti sassi. Ha una valle rotonda e abbondantissima di frutti e di vermi da seta, perciochè ne monti sopradetti non ne nascono per li gran freddi: e quivi è il paese piú caldo, il che aviene per esser circondato da' monti. Tutta questa valle è bagnata da assaissimi rivi ben fatti e ordinati.


Come i signori di Guagucingo e d'un'altra città dieci leghe lontana vennero ad offerirsi,
e altre otto città delle provincie Caastraca, Cucula e Tamacula,
e come gli abitatori di quelle città parimente si offerirono.

In questa città dimorai finchè ritornarono ad abitarla come prima, dove vennero ad offerirsi per vassalli di Vostra Maestà il signor una città chiamata Guagucingo e gli signori d'un'altra, che sono lontane da questa città di Izzuacan dieci leghe e confinano con la provincia di Messico. Ne vennero anco da otto città di quella provincia Caastraca, che è una di quelle provincie delle quali ne' precedenti capitoli ho fatto menzione, che l'avevano vista gli Spagnuoli che io avevo mandati a raccorre dell'oro alla provincia Cucula; nella quale, e in quella di Tamacula, che gli è vicina, dissi esser grandissime città e ben fabricate, e di migliori pietre concie che insin ora abbiamo viste in alcuna di queste parti. La qual provincia Castraoceaca è lontana quaranta leghe dalla città di Izzuacan. Gli abitatori delle dette città similmente si offerirono per vassalli di Vostra Altezza, e affermarono che anco erano quattro città nella detta provincia le quali tosto verriano, dicendomi che io perdonassi loro se non erano venuti prima, perciochè non avevano avuto ardir di venire temendo quegli di Culua, e che essi non avevano mai prese le armi contra di me, né si erano trovati alla morte d'alcun Spagnuolo: e dopo che avevano resa ubbidienza, erano sempre stati di buon animo e fedeli vassalli di Vostra Maestà, nondimeno non avevano avuto ardire di mostrarlo per tema di que' di Culua, come prima avevano detto. Di modo che prometto alla sacra cesarea e catolica Maestà Vostra che, se piacerà al sommo Iddio e alla fortuna di Vostra Altezza, in breve racquisteremo ciò che abbiamo perduto o parte di quello, perciochè ogni giorno vengono molte provincie e città ad offerirsi al servizio di Vostra Altezza, le quali già erano soggette allo stato del signor Montezuma, e coloro che fanno questo sono ricevuti e trattati da me benignamente, e quelli che ricusano di giorno in giorno sono distrutti.


Come il fratello di Montezuma ottenne lo stato di suo fratello.
Le provisioni che 'l Cortese faceva per la guerra.

Da coloro che erano stati presi nella città di Guacachula, e massimamente da colui che io dissi aver preso pieno di ferite, particolarmente intesi le cose di Temistitan, e seppi che dopo la morte del signor Montezuma suo fratello, che era signor della città d'Iztapalapa, aveva ottenuto lo stato: ed era nominato Cuetrauacin, del qual già ho fatto menzione. E successe egli nel principato perchè ne' ponti appresso la città di Temistitan era mancato un figliuolo primogenito del detto Montezuma, e due altri che vivevano non erano atti a signoreggiare, essendo (come dicevano) l'uno pazzo e l'altro paralitico; e per questo si diceva che suo fratello aveva conseguito la signoria, e anco perchè era stimato di gran valore, feroce nella guerra e parimente savio. E intesi che essi fortificavano cosí la gran città come gli altri luoghi del suo stato, e in molte parti facevano nuove mura e fossi, e apparecchiavano varie sorti d'arme, e massimamente lance lunghe, che chiamiamo picche, contra li cavalli: delle quali ne vedemmo alcune, che furono trovate in questa provincia Tepeaca, di coloro che combattevano contra di noi in quelle grandi abitazioni dove alloggiavano in Guacachula, e similmente ne trovammo alcune ne' detti alloggiamenti. E intesi assai altre cose, ch'io lascio per non esser tedioso all'Altezza Vostra.
Mando quattro navi all'isola Spagnuola, affine che imbarchino soldati e cavalli e subito ritornino in soccorso nostro, e altre quattro che nella detta isola comprino cavalli, arme, balestre e polvere d'artegliaria, perciochè in queste parti n'abbiamo piú di bisogno, perchè li fanti urtati da tanta moltitudine poco vagliano a far resistenza con picciole rotelle, e in queste parti si trovano fortificate molte e grandi e nobili città e fortezze. Oltre di ciò scrivo al dottor Rodorico de Figueroa e agli ufficiali di Vostra Altezza che fanno residenza nella detta isola Spagnuola, che prestino ogni possibil favore e aiuto a questa impresa, essendo ciò appartenente al servizio di Vostra Maestà, e alla conservazione dell'acquisto fatto in queste parti, e alla difesa e sicurezza delle nostre persone; perciochè, poichè sarà giunto il detto soccorso, ho animo di ritornare a quella gran città di Temistitan, e spero nel divino aiuto che in breve la ridurrò in poter mio, come l'avevo prima, e racquisteremo le cose perdute. In questo mezzo sollecito che siano fabricati dodeci brigantini e altre imfrate navi per passare il lago, e ora ci affatichiamo intorno a' chiodi, alle tavole e agli altri legni, le qual cose tutte provederemo che siano portate per terra, per poterle subito mettere insieme: e a questo sono apparecchiate le vele, la stoppa, la pece, li remi e ogn'altra cosa necessaria. E rendo certa la Maestà Vostra che, in fin che non adempio questo mio desiderio, non penso di potere aver riposto né rimanermi di cercare tutte le vie a me possibili, non recusando pericolo alcuno né spesa che si possa fare.


Venuta d'una nave picciola di Francesco di Garai nel porto della Vera Croce, qual il Cortese mandò a ricercar le due navi nel fiume Panuco, temendo non patissero qualche danno. Apparecchio del signor di Temistitan contra gli Spagnuoli.
Necessità che aveva il Cortese per dar aiuto agli amici.

Già sono due giorni che mi furono portate lettere del mio luogotenente nella città della Vera Croce, per le quali intesi una picciola nave esser arrivata in porto con trenta uomini, computando gli marinai e gli soldati, e si diceva esser venuta a cercar coloro che Francesco de Garai aveva mandati in queste provincie, de' quali altre volte ho detto a Vostra Maestà; e affermavano aver patito grandissima carestia di vettovaglie, e tale che, se quivi non era dato lor aiuto, sarebbono tutti morti di fame. E intesi che erano arrivati a porto Panuco, e in quello avendo indugiato quaranta giorni, e nel fiume e nella provincia non aver veduto mai alcuno, e perciò dalle cose che successero stimavano che quella provincia fusse rimasta disabitata; e parimente li medesimi avevano detto che subito dopo loro dovevano venire due navi del detto Francesco di Garai con soldati e cavalli, e credevano che già fussero passati alla costa da basso. E però mi è paruto appartenere al servizio di Vostra Altezza che quella nave e quegli che erano in essa non si perdessero, avendolo prima avisato delle cose fatte nella provincia, perciochè gli abitatori di quella potrebbono fargli piú danno. Comandai che la detta nave dovesse andare a cercare l'altre e le certificasse delle cose che erano successe, e venissero al porto della detta città della Vera Croce, dove il capitano che prima il detto Francesco di Garai aveva mandato gli aspettava. Piaccia a Iddio ottimo massimo che li ritrovino avanti che smontino in terra, perciochè gli abitatori della provincia hanno avertito a questo, ma non già gli Spagnuoli: temo che non caschino in qualche gran ruina, il che saria contra il servizio dell'onnipotente Iddio e dell'Altezza Vostra, e questo saria uno accrescer l'audacia delli detti cani di assalire gli altri che per l'avenire fussero per dovere andare in que' luoghi.
Nel precedente capitolo narrai che io avevo inteso dopo la morte del signor Montezuma essere stato fatto signore un suo fratello nominato Coretacuacin, il quale metteva insieme varie sorti di arme e fortificava la gran città e tutte le altre vicine al lago. Ora da pochi giorni in qua sono stato avisato che Coretacuacin aveva mandato gli suoi nunzii a tutte le provincie e città a lui suddite, a far noto a' suoi vassalli che esso per grazia rimetteva loro tutti li tributi e servizii che erano tenuti a fargli, che non gli diano o paghino cosa alcuna, pur che in tutti li modi che potessero facessero guerra a' cristiani, finchè o gli uccidessero o cacciassero fuori della provincia, e similmente facessero guerra a tutti gli abitatori di queste provincie che tengono amistà o confederazione con esso noi. Nondimeno confido in Dio ottimo massimo che niente succederà secondo i lor desiderii; pur mi trovo in grandissima necessità, per dare aiuto agl'Indiani amici nostri, concorrendone ogni giorno da molte città e terre a dimandar soccorso contra li paesani di Culua e loro e nostri nemici, i quali con ogni sforzo facevano lor guerra, per aver essi amicizia e confederazione con esso noi. Io veramente non posso, come vorrei, dar soccorso a tutti i luoghi; nondimeno, sí come ho detto, a Iddio onnipotente piacerà di supplire alle nostre picciole forze e mandarci il suo aiuto, e quello che ho mandato a chiedere dall'isola Spagnuola.


Il Cortese, per la similitudine del luogo, chiama le terre per lui scoperte Nuova Spagna
del mare Oceano; supplica l'imperatore che mandi un uomo
a cui per nome di sua Maestà si presti piena fede.

Per le cose ch'io ho vedute e ho potuto comprendere circa la similitudine che hanno tutte queste provincie con la Spagna, sí nella fertilità come nella grandezza e ne' freddi che vi sono, e in molte altre cose nelle quali a quella si possono aguagliare, mi è paruto non potersi metter loro nome piú conveniente che Nuova Spagna del mare Oceano, il qual nome fu posto per nome della sacra e catolica Maestà Vostra, la qual supplico si degni acconsentire al detto nome e cosí dia commissione ch'ella sia nominata.
Ho scritto alla Maestà Vostra, benchè rozzamente, la verità di tutte le cose avenute in queste parti, e quelle massimamente che piú fa di bisogno che ella sappia; e mando con le altre mie alligata una supplicazione, che sia mandato qua un uomo, al quale per nome di Vostra Maestà si abbia da prestar piena fede, che prenda informazione d'ogni cosa.
Altissimo e potentissimo Principe, Iddio ottimo massimo conservi la vita e la real persona e il potentissimo stato di Vostra catolica Maestà, e l'accresca per lunghi tempi con accrescimento di maggior regni e signorie, come il suo real cuore desidera.
Della città della Securezza de' Confini della Nuova Spagna del mare Oceano, alli 30 d'ottobre 1520.



Di Fernando Cortese la terza relazione della Nuova Spagna.


Come il Cortese, avuto aviso che le provincie Cecatami e Xalacingo s'erano ribellate, mandò a quella ispedizione un capitano. Quello che operò nella città detta Chucula a satisfazione di quegli abitatori. Come, giunto in Tascaltecal, trovato morto il magiscacin, primo tra quelli signori, investí di quello stato un suo figliuolo.

Per Alfonso Mendoza da Medelino, il quale alli 5 di marzo dell'anno passato 1521 lo ispedi' da questa Nuova Spagna, e mandai alla Maestà Vostra la relazione di tutte le cose che erano avenute in questa provincia, la qual relazione io l'aveva finita alli 30 d'ottobre l'anno 1520. E perchè il tempo non era buono e le navi ch'io avevo, tre avevano patito naufragio, una per mandare alla Maestà Vostra la detta relazione, l'altre per mandare a condurre il soccorso dall'isola Spagnuola, perciò si è prolungata assai la partita del predetto Alfonso Mendoza, sí come per il medesimo piú a pieno ne ho dato aviso alla Maestà Vostra. E nel fine di detta relazione io le facevo a sapere che, dapoi che gl'Indiani abitatori della famosa città di Temistitan ci aveano di quella cacciati fuori per forza, avevano mosso guerra alla provincia di Tepeaca, la quale era loro suddita, e ribellatasi a Vostra Maestà. Io, con quegli Spagnuoli che erano rimasi vivi, insieme con gl'Indiani amici nostri, avevo mosso lor guerra e ridutteli al servizio della Maestà Vostra. E tenendo ancora fisso nella memoria il passato tradimento, il grandissimo danno e la tanto fresca uccisione degli Spagnuoli, avevo deliberato d'assaltar quegli della predetta città che erano stati cagione di tanta ruina, e a questo effetto cominciavo ad apparecchiare tredici brigantini per danneggiar la detta città quanto mi fusse possibile per la via del lago, quando essi perseverassero nel lor cattivo proposito. Scrissi alla Maestà Vostra che, mentre si fabricavano li predetti brigantini, e ch'io e gl'Indiani amici nostri apparecchiavamo d'assaltargli, io mandavo all'isola Spagnuola per far condurre in nostro aiuto uomini, cavalli, artegliarie e armi: e per questo io scrivevo agli ufficiali di Vostra Maestà che in quella isola fanno residenza, e mandavo danari per ogni spesa; e anco feci a sapere a Vostra Maestà ch'io non pensavo di riposarmi né volevo cessare finchè conseguivo la vittoria de' nemici, e in ciò ero per metter ogni possibil diligenza, non curando né spesa né fatica né pericolo alcuno che me ne potesse avenire, e con quest'animo apparecchiavo di partirmi dalla provincia di Tepeaca.
Similmente diedi aviso alla Maestà Vostra come nel porto della città della Veracroce era giunta una nave di Francesco di Garai, luogotenente e governatore dell'isola Iamaica, con grandissima carestia d'ogni cosa; nella qual nave erano forse da trenta uomini, e riferivano che due altre navi aveano fatto vela per andare al fiume Panuco, dove era stato rotto un certo capitano di Francesco de Garai: e temevamo, se andavano là, che ricevessero qualche danno dagli abitanti appresso il detto fiume. Feci ancora sapere a Vostra Maestà come subito ordinai che una nave la dovesse seguitare e farle avisate del tutto. E poichè ebbi scritto, piacque a Iddio che alla città della Veracroce arrivò una delle dette navi, nelle quali erano forse centovinti uomini, e fui fatto certo che quel capitano di Francesco de Garai che era venuto da prima era stato rotto, e avevano parlato col medesimo capitano, che si era trovato presente alla rotta: e lo feci avvertito che, s'andavano là, non poteva essere senza suo gran danno e ruina. E mentre stavano in porto con ferma opinione di andare al detto fiume, si levò una fortuna con gagliardissimo vento accompagnata, e rotte le funi sforzò la nave ad uscir fuori, e prese porto nella costa di sopra, lontano dodeci leghe dalla città della Veracroce, nel porto di Santo Iuan; ed essendo smontati di nave con otto cavalli e altretante cavalle che menavano seco, tirarono la nave in terra, perciochè ella pigliava troppa acqua. Subito ch'io l'intesi, scrissi al lor capitano, certificandolo che mi erano di grandissimo dispiacere i mali che gli erano intervenuti, e come avevo dato commessione al mio luogotenente, ch'io avevo lasciato nella città della Veracroce, che ricevesse benignamente lui e gli uomini che menava seco, e facesse lor parte di tutte le cose necessarie, e vedesse quel che voleva deliberare e, se tutti o alcuni di loro volessero ritornare alle navi che erano quivi, assicurandogli con la scorta gli lasciasse andare e desse loro ogni aiuto. Il detto capitano e coloro che erano seco avevano deliberato di rimanere, e vennero a trovarmi; dell'altra nave insin ora non abbiamo inteso cosa alcuna, ed essendo ciò stato già molto tempo, molto dubitiamo della sua salute. Piaccia a Iddio che ella sia salva.
Avendo deliberato di partirmi dalla provincia di Tepeaca, mi venne novella che due provincie chiamate Cecatami e Xalacingo, le quali sono sottoposte al signor di Temistitan, si erano ribellate; e perchè dalla città della Veracroce si può passare a quelle parti, avevano in quella uccisi alcuni Spagnuoli, e gli abitatori si erano ribellati e avevano pessima intenzione. E acciochè la strada fusse sicura, e per dar loro qualche castigo, se non volessero vivere pacificamente, ispedi' un capitano con venti uomini a cavallo e ducento fanti a piè con gli Indiani amici nostri, al qual feci espresso comandamento che dovesse ammonire gli abitatori delle dette provincie che concordevolmente si dessero per vassalli di Vostra Maestà, come avevano fatto dell'altre volte, e in questo usasse ogni possibil diligenza: e se non lo volessero ricever pacificamente facesse lor guerra, la qual finita che egli avesse, e prese anco le due provincie, con tutti gli soldati se ne ritornasse alla città di Tascaltecal, dove io l'aspettarei. E cosí nel principio di decembre, l'anno 1520, egli andò seguendo il suo viaggio alle già dette provincie, le quali da quel luogo sono lontane venti leghe.
Finite queste cose, al mezzo del mese di decembre del detto anno, io mi parti' dalla città della Securezza de' Confini, che è nella provincia di Tepeaca, nella quale io lasciai un capitano con sessanta soldati, essendone stato con grande instanza di prieghi richiesto dagli abitatori di quella. Ordinai che tutti li fanti andassero alla città di Tascaltecal, dove si fabricavano li bregantini, la quale è lontana dalla provincia di Tepeaca nove o dieci leghe, e io quella notte andai a dormire ad una città nominata Chulula, perciochè gli abitatori di quella desideravano grandemente la mia andata, per esser molti signori di quella morti del mal di variole: la quale infermità suol prender spesso gli abitatori di queste provincie, sí come fa ancora quegli dell'isole. Essi desideravano che, per loro e mio consiglio, in luogo de' signori morti ne fussino rimessi degli altri. Ed essendo giunti là, fummo ricevuti molto commodamente, e fatto ciò che ho detto di sopra, e avendo satisfatto al lor desiderio, feci lor a sapere che 'l mio viaggio era per andar a far guerra alle provincie di Messico e di Temistitan. Io gli pregai che, essendo vassalli di Vostra Maestà, dovessero procurare in tutti i modi di mantener l'amicizia con esso noi, e a noi si conveniva fare il medesimo insino che avessimo la vita; e gli richiesi che, in tutto quel tempo ch'io era per tener guerra contra le sopradette provincie, mi dovessero dare aiuto di gente, e con quegli Spagnuoli ch'io mandassi nella lor provincia, overo in quella abitassero, si portassero come son tenuti di fare gli amici con gli amici. E avuta la promissione da loro di cosí dover fare, dopo due o tre giorni mi partii andando verso Tascaltecal, che è distante per spazio di sei leghe, ed essendo arrivato là trovai che vi erano tutti gli Spagnuoli, insieme con gli abitatori della città, i quali grandemente si rallegrarono della mia venuta. Il giorno seguente tutti li signori della predetta città e provincia vennero a parlarmi, e mi fecero a sapere che 'l magiscacin, il quale è tenuto il primo tra gli altri signori della detta provincia, era morto del male di variole, e molto ben sapevano che la sua morte mi saria dispiaciuta, avendo egli avuto meco sí stretta amicizia; nondimeno aveva lasciato un figliuolo di età di dodeci anni, al quale dicevano appartenersi la signoria che tenne il padre, e sopra modo mi pregavano ch'io volessi investirlo dello stato come legitimo erede: satisfeci al lor desiderio, onde ne presero grandissimo piacere.


Come, trovati li maestri solleciti a finir i brigantini, fece provisione dell'altre cose necessarie. Dello acquisto delle provincie Cecatami e Xalacingo, e come il Cortese perdonò ad alcuni signori che s'erano ribellati.

Essendo giunto in questa città, trovai i legnaiuoli e maestri de' bregantini molto sollecitar di finir di lavorare il legname e le tavole per fargli, e aver fatto ciò che in detta opera era di bisogno; e subito procurai che dalla città della Veracroce fusse portato e ferro e chiodi che io avevo quivi, e vele e sarte e altre cose necessarie per finirgli. E perchè non avevo pece, ordinai che certi Spagnuoli andassero a raccoglierla in un alto monte che ivi era assai vicino, acciochè tutti gli apparecchi per finir li detti bregantini potessero esser in ordine, onde poi con l'aiuto d'Iddio, mentre io fussi nelle provincie di Messico e di Temistitan, potesse proveder di fargli condurre, perciochè le dette provincie sono lontane dieci o dodeci leghe dalla città di Tascaltecal. In tutti quei quindeci giorni che dimorai quivi, non attesi ad altro che a sollecitar diligentemente li maestri de' detti bregantini, e cercar d'apparecchiar l'armi, e a metter ordine per fare il nostro viaggio.
Due giorni avanti la festa del Natale di nostro Signore, ritornò il capitano coi fanti e coi cavalli che erano andati alla provincia di Cecatami e di Xalacingo, e intesi che una parte degli abitatori aveva combattuto con loro, e l'altra alla fine in parte volontariamente e in parte a forza esser venuta alla pace; e mi condussero alcuni signori di quelle provincie, alli quali, avenga che fussero degni di grandissimo castigo per la lor ribellione e per aver uccisi li cristiani, avendomi promesso da ora innanzi dover essere ottimi e fedeli vassalli di Vostra Maestà, io in nome di lei gli ho perdonato, e ho dato lor licenza di ritornarsene nella patria. E cosí concludemmo in quel giorno, il che risultò in grandissimo servizio di Vostra Maestà, sí per la quiete degli abitatori delle dette provincie, sí ancora per la sicurezza degli Spagnuoli, ai quali per andare e tornare dalla città della Veracroce era necessario passar per le dette provincie.


Come il Cortese fece la rassegna de' suoi soldati e le parole che gli usò, per le quali essi ripigliorono le forze e l'ardire. Le grandi offerte che li fecero gli signori di Tascaltecal di darli aiuto con tutte le forze delle lor provincie. Come si partí e arrivò alla terra detta Tezmoluca.

Il secondo giorno di Natale nella detta città di Tascaltecal feci la rassegna di tutti i soldati, e trovai aver quaranta uomini a cavallo e cinquecentocinquanta fanti a piè, de' quali ottanta adoperavano balestre e schioppetti; e avemmo otto over nove pezzi d'artegliaria da campo e un poco di polvere. Divisa la cavalleria in quattro squadre, ciascuna delle quali n'aveva dieci, alli fanti preposi nove capi, e a ciascuno di loro assegnai sessanta fanti. E parlai a tutti insieme, rammentando loro come io ed essi tutti avevamo preso ad abitar queste provincie per servire alla Maestà Vostra, e che tutti gli abitatori d'esse s'erano dati per vassalli di Vostra Maestà, e per qualche tempo avevano perseverato d'esser vassalli, tra noi facendo scambievolmente di buone opere; e similmente que' di Culua, che abitano la famosa città di Temistitan, e tutti gli abitatori dell'altre provincie suddite a quella, senza cagione alcuna non pur s'erano ribellati alla Maestà Vostra, ma avevano uccisi molti nostri amici e parenti e ne avevano discacciati di tutta la lor provincia. E oltra di ciò si ricordassero quanti pericoli e fatiche avevamo patite, e guardassero quanto importasse alle cose della nostra religione e della Maestà Vostra se di nuovo ricoverassimo ciò che avevamo perduto, massimamente movendoci a far questo per giusta cagione, perciochè facevamo guerra per accrescer la nostra sacrosanta fede e contra genti barbare, e per commodo di Vostra Maestà e per sicurezza delle nostre persone, e alla fine per esser noi favoriti e aiutati a questa impresa da molti nostri amici abitatori delle dette provincie, i quali a far ciò dovevano render gli animi nostri molto piú arditi. Per la qual cosa io gli pregava che, posta giú la paura, ripigliassero le forze e l'ardire; e avendo io fatti alcuni ordini per nome di Vostra Maestà appartenenti alla guerra che si aveva da fare, procurai che fussero publicati, e gli pregava che dovessero osservargli, essendo per servizio dell'onnipotente Iddio e di Vostra Maestà. E di comune consentimento promisero di cosí voler fare e di mettergli ad esecuzione, e volentieri esporsi alla morte per servizio della nostra sacrosanta fede e di Vostra Maestà, e racquistare le cose perdute, e far vendetta del tradimento degli abitatori di Temistitan e de' loro confederati fatto contra di noi. Io per nome di Vostra Maestà gli ringraziai infinitamente, e cosí con grandissima allegrezza ce ne ritornammo ne' nostri alberghi.
Il giorno seguente, che fu il dí di s. Giovanni Evangelista, comandai che tutti gli signori della provincia di Tascaltecal dovessero ridursi insieme e, ridutti che furono, dissi loro come già potevano ben comprendere ch'io era per muovere il mio esercito contra gli nemici e per entrare nella lor provincia, e molto ben potevano vedere che la città di Temistitan non poteva espugnarsi senza que' brigantini ch'io faceva fabricare, e perciò gli ricercava che dovessero far partecipi gli legnaiuoli e gli Spagnuoli ch'io lasciavo quivi di tutte le cose necessarie, e con loro si portassero di quella maniera che insin allora si erano portati con esso noi, e stessero apparecchiati (se l'onnipotente Iddio ne facesse grazia di ottenere auttorità) quando dalla città di Tessaico io mandassi per le travi, tavole e altri apparecchi per gli detti brigantini. Ed essi promisero di cosí fare, e similmente dissero di voler mandar soldati meco, e quando si condurriano li brigantini essi medesimi signori volevano venire in campo contra gli nemici con tutte le forze delle loro provincie, e morire quando facesse di bisogno, o veramente vendicarsi contra que' di Culua, nemici mortalissimi. L'altro giorno, alli 28 di decembre, che fu il dí degl'Innocenti, mi partii con le genti in ordinanza e andai ad alloggiare sei leghe lontano dalla città di Tascaltecal, ad una certa terra nominata Tezmoluca, sottoposta alla provincia di Guasacingo, gli abitatori della quale hanno tenuto e tengono la medesima amicizia e confederazione con esso noi che hanno quegli di Tascaltecal; e quivi ci riposammo quella notte.


Partita del Cortese di Tezmoluca, e il grande impedimento che trovarono per il camino. Come assalirono alcune squadre d'Indiani che se gli contraposero, ferendo e uccidendo alcuni di loro, e come alloggiarono in Coatabeque.

Nell'altra relazione diedi aviso alla Maestà Vostra che gli abitatori di Messico e di Temistitan apparecchiavano molte armi, e in tutte le lor provincie facevano cavare infinite fosse e far argini e altre sorti di difese, per poterci fare e resistenza e danno, perciochè essi già avevano inteso che io era per muover guerra contra di loro. E avendo io ciò risaputo, e conoscendo quanto fussero ingegnosi e arditi nelle cose da guerra, spesse volte mi andavo rivolgendo per la mente per la qual provincia potessimo entrare per trovargli e offendergli in qualche parte alla sprovista; ed essi molto ben sapevano che noi avevamo buona notizia di tre vie e passi, per li quali potevo entrare nella lor provincia. Deliberai di assalirgli per questa via di Tezmoluca, perciochè, essendo ella passo piú aspro e piú pieno di sassi che non sono gli altri, io pensavo che meno per questa via venissero a farci resistenza e non tanto attendessero a guardarla. Il seguente giorno dopo la messa ci partimmo dalla detta terra di Tezmoluca, e io stavo all'avantiguarda con dieci a cavallo e sessanta fanti destri e atti al combattere, e seguimmo l'incominciato viaggio, salendo il monte vicino con ogni ordine e apparecchio a noi possibile. E la sera andammo ad alloggiare lontano quattro leghe dalla detta terra nella cima del monte, dove sono gli confini di Culua; e benchè fussero grandissimi freddi, facendo fuoco con molte legne, delle quali ivi è grandissima copia, quella notte ci difendemmo dal freddo.
Il dí vegnente, la domenica mattina, cominciammo a seguitare il nostro viaggio per la pianura della foce, e ordinai che quattro a cavallo e tre o quattro fanti a piè andassero avanti a riconoscer la provincia. Noi seguitando il nostro cammino cominciammo a descender dal monte, e comandai che la cavalleria andasse innanzi, e dopo lei senza intervallo alcuno seguitassero gli schioppettieri e i balestrieri e gli altri secondo il lor ordine, acciò piú facilmente potessimo alla sprovista offender gli nemici; nondimeno io stimavo che essi dovessero assalirci, tenendo per certo che ci avessero posto qualche aguato e fussero per usar qualche astuzia per poterci offendere. Mentre li quattro a cavallo e li quattro fanti a piè procedevano piú avanti, trovarono il cammino impedito e serrato con arbori e con rami, e tagliati molti e gran pini e cipressi e in quello attraversati, li quali parevano allora allora tagliati; e pensandosi che 'l resto del viaggio non dovesse esser impedito, seguitarono di andare avanti, e quanto piú andavano, tanto piú trovavano il cammino impacciato di pini e di rami. Ed essendo tutta la cima del monte piena di spessi arbori e di grandissime siepi, andavano innanzi con gran difficoltà, e vedendo cotale strada entrarono in gran paura, pensandosi che dopo ciascuno arbore stessero nascosti gli nemici, e anco perchè non potevano maneggiar li cavalli per l'impedimento degli arbori tagliati: e quanto piú avanti andavano, tanto piú cresceva la paura. Ed essendo per alquanto spazio andati di questa maniera, un di loro parlando agli altri disse: "Fratelli, se vi par giusto e onesto, non procediamo piú innanzi, ma ritorniamo adietro e diamo nuova al nostro capitano dell'impedimento che abbiamo trovato e nel pericolo che noi entriamo, non potendo adoperar li cavalli; e quando cosí non vi paia, andiamo pure, che la mia vita è sottoposta alla morte come quella di tutti gli altri, finchè ponghiamo fine a questa cominciata impresa". Gli altri risposero che 'l suo consiglio era ottimo, ma a loro non pareva ben fatto ritornar prima che vedessero alcuno dei nemici, o sapessero fin dove arrivava quella strada. E ricominciarono a seguitare il cammino, e, vedendo che tuttavia si estendeva piú avanti, si fermarono e mandarono un fante a piedi a farmi intendere ciò che avevano trovato. Ed essendomi posto nella fronte dell'ordinanza co' cavalli, ci raccomandammo all'onnipotente Iddio e camminammo piú avanti per quel cattivo sentiero, e ordinai che fussero fatti avisati coloro che seguitavano nell'ultima schiera che s'affrettassero, che tosto arrivariano nella pianura; e subito ch'io trovai li quattro a cavallo, cominciammo a procedere innanzi, nondimeno con grande impedimento e difficoltà, per ispazio di mezza lega. Piacque al sommo Iddio che scendessimo nella pianura, e quivi mi fermai per aspettar gli altri, a' quali arrivati che furono, feci intendere che dovessero render grazie all'onnipotente Iddio che n'avesse conceduto di giugner salvi insino a quel luogo, onde cominciammo a vedere tutta la provincia di Messico e di Temistitan, che sono e dentro ne' laghi e all'intorno di essi. E benchè con grandissima allegrezza le riguardassimo, nondimeno, considerando il passato danno che in quel giorno avevamo patito, ci apportò qualche dispiacere, e tutti d'un animo congiurammo di non ci partir mai di quella provincia senza vittoria, overamente lasciarvi la vita. E con questo proponimento camminavamo allegri, non altramente che se dovessimo andare a far cosa che fusse d'infinito piacere.
Subito che gli nemici l'intesero, cominciarono a far grandissimi fumi per tutta la provincia, e io di nuovo pregai gli Spagnuoli che per l'avenire si portassero come per il passato avevano fatto, e io speravo che dovessero fare, e niuno uscisse dell'ordinanza, che ogni cosa procederia con ottimo ordine nel viaggio. E già gl'Indiani cominciavano a chiamare da alcune abitazioni e picciole ville, facendo segno agli abitatori che si ragunassero insieme per offenderci in alcuni ponti e vie strette che vi erano; nondimeno noi tanto sollecitammo che, prima che si ragunassero, eravamo giunti alla pianura, e uscendo in quella ci si contraposero alcune squadre d'Indiani. Io comandai a quindeci cavalieri che andassero ad urtarle, e veramente gli assalirono senza essere offesi, ferendone e uccidendone alcuni di loro. E seguitammo l'incominciato viaggio verso la città di Tessaico, che è delle maggiori e piú belle che siano in tutte queste provincie, benchè tutte l'altre siano bellissime. Ed essendo li fanti a piè alquanto stanchi per la fatica del viaggio, e avicinandosi già la notte, alloggiammo in una città chiamata Coatebeque, la qual e suddita alla città di Tessaico e da lei è lontana tre leghe. Noi quella notte la trovammo tutta vota, ed essendo questa città e quella provincia, che è chiamata Aculuacan, grandissima e piena di tanti uomini, e in vero possiamo credere che a quel tempo ve ne fussero centocinquantamilla, pensammo che ci volessero assalire. Io con dieci a cavallo feci la prima guardia, e comandai che tutti li soldati stessero in ordine.


Come gli vennero incontra quattro Indiani con una bandiera d'oro in nome del signor Guanacacin chiedendo pace, e la risposta che gli fece il Cortese. Delle terre Coatincan e Guaxuta. Come giunse in Tessaico, e il bando che fece far per il trombetta.

Il giorno seguente, che fu il lunedí, l'ultimo dí di decembre, seguitammo il nostro viaggio con l'ordine solito, e lontano quattro leghe dalla detta città di Coatebeque, andando noi dubbiosi e ragionando se ne riceverebbono pacificamente o pur combatteriano con noi, ci vennero incontra quattro Indiani de' primarii con una bandiera d'oro in una verga di peso di quattro marche d'oro, con la qual bandiera davano segno che venivano a noi per chieder pace: e Iddio ci è testimonio quanto noi la desiderassimo e quanto n'avessimo di bisogno, essendo noi in numero sí pochi e lontani da ogni soccorso e posti fra nemici. E avendo visto quei quattro Indiani, tra' quali era uno ch'io conosceva, comandai a tutti i soldati che si fermassero e me n'andai a loro. E salutatici l'un l'altro, mi riferirono esser venuti in nome del signore di quella città e provincia, nominato Guanacacin, e da sua parte umilmente mi pregavano ch'io non facesse né comportasse che fusse fatto danno alcuno nella sua provincia, perciochè de' danni che noi avevamo patiti se ne doveva dar la colpa a quei di Temistitan e non a loro, ed essi desideravano di esser vassalli di Vostra Maestà e stringersi in amicizia con noi e sempre osservarla per l'avenire, e che entrassimo nella città e dalle loro opere conosceremmo l'animo loro. Io per interpreti risposi che la lor venuta mi era stata molto grata e pigliavo grandissimo piacere della loro pace e amicizia. E poi che ebbero fatta la scusa circa l'assedio e combattimento fatto contra di me nella città di Temistitan, dissi che essi molto ben sapevano che lontano sei leghe da quel luogo e dalla città di Tessaico, in certe terre a quella soggette, altre volte mi avevano uccisi cinque cavalli e quaranta o cinquanta fanti spagnuoli e trecento Indiani di Tascaltecal, i quali erano tutti carichi e n'avevano tolto molto argento, oro, vesti e altre cose. E poichè non se ne potevano scusare ne fussero puniti con la pena di renderci le nostre cose, e a questo modo, benchè fussero degni di morte per aver uccisi tanti Cristiani, averei fatto pace con loro, poichè essi la dimandavano; altramente io procederei contra di loro con tutta quella crudeltà ch'io potessi. Risposero che tutto ciò che quivi n'era stato tolto li signori e primarii di Temistitan se l'avevano portato; nondimeno che essi fariano cercare, e tutte quelle cose che si trovassero delle nostre ce le restituerebbono. E mi dimandarono se quella notte anderei alla città overo se alloggerei in una di quelle terre, che sono come borghi della città, nominate Coatincan e Guaxuta, che sono distanti per una lega e mezza dalla detta città, e le abitazioni sono tuttavia continuate: il che essi desideravano grandemente, secondo che si poté comprendere dalle cose che dipoi successero. Risposi non mi voler posare fin che non giugnessi alla detta città di Tessaico. Mi dissero ch'io andassi in buon'ora, e che volevano andare avanti per apparecchiar gli alloggiamenti per gli Spagnuoli e per me, e cosí si partirono. Ed essendo giunti alle dette terre, ci vennero incontra alcuni de' primarii di quelle, e ne ricevettero benignamente e ne dettero le cose necessarie al vivere.
A mezzogiorno giugnemmo alla città e andammo alla casa dove avevamo d'albergare, spaziosa e larghissima, la quale era stata del padre di Guanacacin, signore della città. E prima che entrassimo nell'albergo, essendo ancora tutti insieme, comandai al trombetta che facesse un bando che, sotto pena della testa, niuno senza mia saputa si partisse dall'albergo né dalla detta casa; la quale è tanto larga che in essa tutti noi Spagnuoli commodamente potevamo alloggiare, ancora che fussimo stati piú d'altritanti. E questo ordinai acciochè gli abitatori della detta città si fidassero e stessero in casa, perciochè mi pareva di non vedere la terza parte della moltitudine che soleva essere nella detta città, e non si vedevano né donne né fanciulli, il che era segno che pensavano di non esser sicuri.


Come gli abitatori di Thessaico insieme col signore abbandonarono la città. Li signori di Coatican e Guaxuta e Autengo vengono a parlare e offerirsi al Cortese, e la risposta loro fatta. Quelli di Tessaico, udita l'imbasciata de' signori de Messico e Temistitan, presero gli nunzii e menarongli al Cortese: quel che dissero e ciò che gli fu risposto, e come furono sciolti e per qual cagione.

Quel giorno che entrammo in questa città, nell'ora di vespero dell'anno nuovo, attendemmo ad accommodarci, e vedendo il poco numero degli abitatori, e quegli essere inquieti, ci maravigliammo e credemmo veramente che, sbigottiti, non avessero ardir di comparire né camminare per la città: e per questa cagione ce ne stavamo alquanto disprovisti. Ed essendo venuta la sera, alcuni Spagnuoli salirono sopra certe terrazze, dalle quali potevano veder tutta la città, e s'accorsero che tutti si partivano, e portando via le lor robbe con le lor canoe, che essi chiamano acaler, si mettevano nel lago, e alcuni se n'andavano ai monti. E benchè io avessi dato commissione che fusse impedito loro il viaggio, nondimeno, essendo l'ora tarda e venuta la notte, ed essi affrettandosi molto, niente giovò. E cosí il signor della detta città, il quale insieme co' primarii d'essa io desiderava per nostra salvezza aver nelle mani, se n'andò alla città di Temistitan, che da quel luogo per il lago è lontana sei leghe, e se ne portarono via le lor robbe. E per mandare ad effetto la cosa che s'avevano pensata secondo il lor desiderio, ci vennero incontra quei quattro dei quali ho detto di sopra, per disturbarmi, ch'io non facessi loro alcun danno, e in quella notte abbandonarono e noi e la lor città.
Avendo noi dimorato in questa città per spazio di tre giorni, senza esserci fatto contrasto alcuno dagli Indiani (perciochè essi allora non ardivano d'assaltar noi, e noi non cercavamo d'assaltar loro da lontano, avendo io sempre avuto opinione, quando avessero voluto portarsi meco benignamente, di volergli ricevere in pace e cercar pace da loro in ogni tempo), mi vennero a parlare i signori di Coatincan, Guaxuta e Autengo, le quali sono terre grandissime e, come ho detto, sono vicine e molto appresso della detta città, e mi pregarono ch'io perdonasse loro il fallo dell'essersi fuggiti dalle lor terre, e che certamente essi non avevano combattuto contra di noi di propria volontà, e avevano deliberato di sottomettersi a tutto ciò che io comandassi loro per nome di Vostra Maestà. Io per via di interpreti risposi che essi molto ben sapevano ch'io gli avevo molto cortesemente trattati, e dell'avere abbandonata la lor patria e d'altre cose essi medesimi se n'avevano dato cagione; ma, poichè promettevano d'esser nostri amici, se ne stessero in casa loro e riconducessero le mogliere e i figliuoli, che da me sariano trattati secondo l'opere loro. E, sí come potemmo comprendere, si partirono non molto contenti.
Subito che li signori di Messico e di Temistitan e tutti gli altri signori di Culua (sotto questo nome di Culua s'intendono tutte le provincie di questi paesi suddite al dominio della città di Temistitan) intesero li signori di quelle terre essersi offerti per vassalli e sudditi a Vostra Maestà, mandarono nunzii facendo loro sapere che non avevano fatto bene, perciochè, se l'avevano fatto mossi da paura, dovevano ben sapere che essi erano di numero infinito e di grandissimo potere, sí che tosto erano per uccider tutti noi Spagnuoli insieme con gli abitatori di Tascaltecal; e se avevano fatto ciò per non abbandonar la patria, l'abbandonassero e se n'andassero alla città di Temistitan, perciochè essi concederiano loro terre maggiori e migliori, nelle quali potrebbono e vivere e abitare. Questi signori di Coatincan e Guaxuta presero gli nunzii e fecero condurgli legati dinanzi a me, e subito in mia presenza confessarono quelle cose che erano venuti a dire per nome de' signori di Temistitan; nondimeno dissero d'esser venuti per andar là per poter esser mezzani, poichè erano diventati nostri amici, di componer le cose pacificamente tra me e li signori di Culua. Ma quei di Guaxuta e Coatincan affermavano il fatto non andar cosí, e che quei di Messico e di Temistitan ad ogni modo avevano deliberato di far guerra; nondimeno, benchè cosí stesse la verità, finsi di credere alli nunzii, perciochè io desideravo di tirar li signori della famosa città a pigliar l'amicizia nostra, conciosiachè da questo pendesse la pace e la guerra di tutte l'altre provincie che s'erano ribellate dalla Maestà Vostra. Comandai che fussero sciolti e feci lor sapere che non temessero, ch'io volevo che tornassero alla città di Temistitan, e li pregavo che dicessero alli signori della città ch'io non desideravo guerra con esso loro, benchè n'avessi giusta cagione, e che saremmo amici come solevamo esser prima. E per poterli meglio indurre al servizio di Vostra Maestà, mandai a dir loro ch'io molto ben sapevo esser già morti coloro i quali erano stati cagione della guerra fatta contra di me, e che lasciassino andar le cose passate, e non volessero dare occasione che le lor provincie e città fussero distrutte, che io n'avevo dispiacere. Sciolti che furono, si partirono, promettendo di tornare a darmi risposta. Li signori di Coatincan e di Guaxuta e io per cosí buona opera rimanemmo amici e confederati, e io in nome di Vostra Maestà perdonai loro li passati errori, ed essi n'ebbero grandissima allegrezza.


Come il Cortese andò alla città Iztapalapa, donde fu scacciato dal fratello di Montezuma. Gli Indiani se gli appresentarono, co' quali andò combattendo fin che arrivò a detta città, non ostante che nel lago dolce cominciasse ad uscir acqua con grandissimo impeto per spazio di mezza lega. Entrò insieme con gli nemici nella città e, fatto grandissimo danno e postovi dentro fuoco, uscí, ricordatosi dell'argine rotto; e trovata molto grande acqua, la passò in grandissima fretta e ritornò in Tessaico.

Noi stemmo in questa città di Tessaico sette overo otto giorni senza battaglia alcuna o contrasto, fortificando il nostro albergo e ponendo ordine alle cose necessarie e opportune alla nostra difesa e a poter offendere li nostri nemici. Vedendo che non si movevano contra di noi, uscii della città con ducento Spagnuoli, tra i quali n'erano diciotto a cavallo, trenta con balestre e dieci con gli schioppi, e tre o quattromila Indiani amici nostri, e me n'andai alla riva del lago insino ad una certa città nominata Iztapalapa, che è lontana due leghe dalla famosa città di Temistitan e sei da Tessaico, la qual città contiene diecimila case, e la metà d'essa e forse delle tre parti le due sono poste in acqua. Il signore, che era fratello di Montezuma, il quale gli Indiani dopo la morte del detto Montezuma l'avevano fatto signore, fu il primo che ne facesse guerra e ne cacciasse della città, sí che per questo, e anco perchè avevo conosciuto che gli abitatori della detta città erano di cattivo animo verso di noi, deliberai d'andar là. E avendo essi presentito la mia venuta, per spazio di due leghe prima che io arrivassi là, in un subito mi s'appresentarono gli soldati indiani, alcuni nella pianura e alcuni nel lago portati dalle canoe, e cosí tutto quello spazio di due leghe andammo insieme mescolati, combattendo e contra quegli che erano in terra ferma e contra quegli che uscivano del lago, insin che arrivammo alla detta città. E prima quasi per due terzi d'una lega aprivano una strada mattonata, che è tra il lago dell'acqua dolce, e 'l lago dell'acqua salsa a guisa di riparo o d'argine, sí come per la figura della città di Temistitan che mandai alla Maestà Vostra si può vedere; la quale strada o riparo essendo rotto, dal lago salso nel lago dolce cominciò ad uscir l'acqua con grandissimo impeto, benchè siano distanti per spazio di piú di mezza lega. E non ci accorgendo noi di cotale inganno, per il desiderio della vittoria che ottenevamo, passammo via e gli seguitammo tanto che, mescolati insieme co' nemici, entrammo nella detta città. E perchè già erano avisati, tutte le case che erano situate in terra ferma erano vote, e le persone tutte con le lor robbe erano andate nelle case poste nel lago, e quivi si fermarono coloro che fuggivano e aspramente combatterono contra di noi. Nondimeno l'onnipotente Iddio si degnò di prestarci tanto di forze che entrammo insin dove entravano nell'acqua, alle volte insino al petto e tal volta nuotando, e pigliammo assai case di quelle che erano poste in acqua, e appresso piú di seimila tra uomini, donne e fanciulli, perciochè gl'Indiani amici nostri, veduta la vittoria che n'aveva conceduta l'onnipotente Iddio, non avevano altra cura che attendere a fare uccisione da ogni lato. Ed essendo già venuta la notte, raccolsi li soldati e attaccai fuoco in alcune case; e mentre s'abbrucciavano, parve che Iddio allora movesse lo spirito mio e mi ritornasse a memoria la via mattonata over l'argine rotto ch'io avevo visto nel viaggio, sovvenendomi il grandissimo danno che da quello poteva venire, onde in fretta co' miei soldati posti in ordinanza uscii della città.
Essendo già la notte scura, e giunto a quell'acqua che poteva già esser nove ore di notte, e ne era uscita tanta e con sí grande impeto che ci fu forza di passarla con grandissima fretta, e s'affogarono degl'Indiani amici nostri, e perdetti tutta la preda ch'io avevo tolta della detta città. E senza dubbio racconto il vero alla Maestà Vostra, che, se noi non fussimo passati quella notte overo avessimo indugiato tre ore di piú, niuno di noi scampava, perciochè eravamo circondati dall'acque, senza aver passo alcuno donde potessimo uscire. Ed essendo venuto il giorno chiaro, vedemmo l'un lago esser pieno come l'altro, e l'acqua non correva piú, e tutto il lago dell'acqua salsa era pieno di canoe, nelle quali erano portati uomini da combattere, che si pensarono di poterci prendere in quel luogo. Io quel giorno istesso me ne tornai alla città di Tessaico combattendo alle volte con quegli che uscivano del lago, benchè poco danno potessimo far loro, perciochè subito si ritiravano nelle lor canoe. Ed essendo giunto alla città di Tessaico, trovai li soldati che furono lasciati quivi ben sicuri, né avevano patito travaglio alcuno, e ricevettono grandissimo piacere per la nostra tornata e per la ottenuta vittoria. Il giorno seguente, poichè fummo arrivati, morí quello Spagnuolo il quale era venuto ferito, e fu il primo che gl'Indiani uccisero insino a quell'ora.


Gli ambasciadori della città d'Otumba e di quattro altre città vicine vengono al Cortese ad offerirsi, chiedendo perdono de' passati errori; e come si scusorono, e quello ch'ei gli rispose.

Il dí seguente mi vennero a trovare certi ambasciadori della città d'Otumba e di quattro altre città a quella vicine, le quali sono distanti quattro, cinque o sei leghe da Tessaico, e umilmente mi pregarono ch'io perdonassi loro li passati errori commessi nella passata guerra, perciochè quivi in Otumba si ragunarono tutte le forze di Messico e di Temistitan, quando ci partimmo da quella e rotti e messi in fuga, pensandosi di poterci del tutto mandare in ruina. E ben conoscevano gli abitatori d'Otumba che non si potevano scusare, benchè si scusassero con dire che cosí era stato loro commesso, e per muovermi e tirarmi piú facilmente nella loro amicizia, dissero che li signori di Temistitan avevano loro mandati ambasciadori per tirarli a seguitar la lor parte, e a confortargli a non pigliare in modo alcuno l'amicizia nostra, altramente fariano lor guerra e gli distruggerebbono: ma essi avevano eletto d'esser vassalli della Maestà Vostra e d'eseguir li miei comandamenti. Risposi che molto ben sapevano di qual castigo fussero degni circa le cose passate, e se volevano ch'io perdonassi loro e credessi che le cose dettemi venissero da sincero animo, mi menassero prima prigioni quegli ambasciadori che avevano detto esser venuti a loro, e tutti quegli di Messico e di Temistitan che si trovassero nella lor provincia, altramente io non perdonarei loro; e che se ne ritornassero a casa, e si portassero di modo che dalle loro opere potesse conoscere esser fedeli sudditi di Vostra Maestà. E benchè adducessero molte altre ragioni, nondimeno da me non poterono ottenere altro, e se ne ritornarono nella lor provincia promettendo di volere eseguir li miei comandamenti, e cosí dipoi sempre sono stati e sono fedeli sudditi di Vostra Maestà.


Come Ispasuchil altrimenti detto Cucascacin, già signor di Tessaico, fuggí di prigione, e come fu ucciso. Il Cortese manda Consalvo, esecutor maggiore, per accompagnar i suoi nunzii e per assicurar la provincia d'Aculuacan e altri effetti. Come, assaliti da' nemici e tolta loro la preda, il capitano quivi arrivato co' cavalli urtarono aspramente i nemici e, uccisi molti, li misero in fuga. Come, andando alla provincia detta Calco, ruppero le squadre dalle quali furono assaliti; e come quelli di Calco vennero a trovar il Cortese, e il presente che gli fecero e le parole che insieme usorono.

Nell'altra relazione, fortunatissimo ed eccellentissimo Signore, significai alla Maestà Vostra che, in quel tempo che mi misero in fuga e discacciarono dalla città di Temistitan, io menavo meco un figliuolo e due figliuole del signor Montezuma, e anco il signor di Tessaico, che era nominato Cacamacin, e due suoi fratelli e molti altri signori ch'io tenevo prigioni; e come tutti erano stati uccisi dagli nemici, benchè fussero della lor nazione, e alcuni anco de' lor signori, eccetto due fratelli carnali del detto Cacamacin, che per buona ventura appena poterono scampare, l'uno de' quali era chiamato Ispasuchil, e anco in un altro modo Cucascacin: il quale già a nome di Vostra Maestà, consigliatomi col signor Montezuma, l'avevo fatto signore della detta città di Tessaico e della provincia d'Aculuacan. Tenendolo io prigione nella città di Tascaltecal, ed essendosi sciolto, se ne fuggí e se ne tornò alla detta città di Tessaico, e già avevano creato un altro signore suo fratello, nominato Guanacacin, del quale di sopra ho fatto menzione. Dicono che egli commise che 'l detto suo fratello Cucascacin fusse ucciso, e la cosa passò in questo modo: subito che Cucascacin entrò nella provincia di Tessaico, i guardiani lo fecero prigione e ne fecero avisato Guanacacin lor signore, ed esso lo fece sapere al signor di Temistitan, il quale, inteso che ebbe il detto Cucascacin essere arrivato, pensandosi che egli non avesse potuto romper la prigione ed esser fuggito, ma esser andato a nostra istanzia acciochè ne potesse dar qualche aviso, subito comandò al detto Guanacacin che uccidesse Cucascacin suo fratello, ed egli senza indugio eseguí il comandamento. L'altro lor fratello, che era minor di loro, il quale rimase appresso di noi, essendo fanciullo apprese li nostri costumi e diventò cristiano, e gli ponemmo nome don Fernando. E mentre mi partii della provincia di Tascaltecal alla volta delle provincie di Messico e di Temistitan, lo lasciai quivi con alcuni Spagnuoli, del quale e di quel che di lui avvenne a pieno narrerò poi alla Maestà Vostra.
Il giorno seguente, dapoi che fui tornato dalla città di Iztapalapa alla città di Tessaico, deliberai di mandare Consalvo di Sandoval, esecutor maggiore di Vostra Maestà, capitano con venti a cavallo e dugento fanti armati con balestre, schioppi e rotelle, per due necessarii effetti. L'uno era per accompagnare alcuni nunzii fuori della detta provincia, ch'io mandavo alla città di Tascaltecal, per sapere a che termine fussero quei tredici brigantini i quali s'apparecchiavano quivi, e apparecchiare altre cose opportune sí per coloro che erano rimasi nella città della Veracroce, sí anco per quegli che erano meco.
L'altro era per far sicura una parte della provincia, sí che gli Spagnuoli potessero sicuramente andare e tornare, perciochè a quel tempo non potevamo uscir della provincia d'Aculuacan, se non passavamo per li luoghi de' nemici, e gli Spagnuoli che dimoravano nella città della Veracroce e altrove non potevano venirci a trovare senza grandissimo pericolo. E commisi al detto esecutor maggiore che, dopo che gli avesse condotto gli nunzii in luoghi siuri, arrivasse fino a una certa provincia nominata Calco, la qual confina con questa provincia di Culuacan, perciochè io tenevo per cosa certa che gli abitatori d'essa, benchè fussero della fazione di quelli di Culua, volevano farsi sudditi di Vostra Maestà, e non avevano ardir di farlo per paura d'una certa guardia che vi tenevano quei di Culua. Il detto capitano si partí, e fu accompagnato da tutti quegl'Indiani di Tescaltecal i quali avevano condotte quivi le nostre some, e d'alcuni altri che erano venuti per darci soccorso e avevano fatto qualche preda nella guerra. Subito che cominciarono ad inviarsi, il capitano giudicò che nel marchiare gli nemici non averiano ardir di assaltargli, se gli Spagnuoli stessero per retroguarda; ma gli nemici, che erano nella terra del lago e su per la riva, assaltarono la schiera delle genti di Tascaltecal e tolsero loro la preda e n'uccisero alcuni. Ed essendo quivi arrivato il capitano co' cavalli, urtarono gli nemici aspramente e ne ferirono e uccisero molti; quegli che rimasero si misero in fuga, e si ritirarono all'acqua e alle terre che sono su la riva del lago. E gl'Indiani di Tascaltecal se n'andarono nella patria con le cose che erano avanzate loro, e similmente gli nunzii ch'io mandavo a Tascaltecal; i quali poichè furono giunti in luogo sicuro e fuor d'ogni paura, il detto Consalvo di Sandoval dirizzò il suo cammino alla detta provincia di Calco, che era vicina. E il giorno seguente, la mattina a buon'ora, molti de' nemici si misero insieme per riceverlo con l'arme, ed essendo l'una e l'altra parte in campagna, li nostri assalirono gli nemici e co' cavalli ruppero due squadre, di maniera che in breve spazio ottennero la vittoria e andarono abbrucciandogli e uccidendogli.
Il che fatto e assicurato quella strada, gli uomini di Calco uscirono e benignamente ricevettero gli Spagnuoli, e l'una e l'altra parte ebbe grandissima allegrezza. E i lor baroni mi fecero a sapere che volevano venire a parlarmi, e partendosi vennero ad alloggiare nella città di Tessaico. E giunti quivi con due figliuoli del signor della detta provincia di Calco mi vennero a trovare, e mi donarono trecento pesi d'oro in pezzi, e mi dissero che 'l lor padre era morto e che morendo egli aveva detto loro che niun maggior dispiacere sentiva che morir prima che m'avesse veduto, e che m'aveva aspettato lungo tempo, e aveva comandato loro che, subito ch'io giugnessi a quella provincia, venissero a farmi riverenza e a parlare e mi tenessero in luogo di padre; e che, avendo intesa la mia venuta alla città di Tessaico, subito desiderarono di venire a trovarmi, nondimeno non ardirono di farlo per paura di quei di Culua, e che né anco allora averiano avuto ardimento di venire, se quel capitano ch'io avevo mandato non fusse giunto nella lor provincia; e similmente, acciò potessero ritornar sicuri, bisognava ch'io gli facessi accompagnare da altrettanti Spagnuoli. Oltra di ciò mi dissero ch'io molto ben sapevo che essi non m'erano stati mai nemici, né in guerra né fuor di guerra, e anco sapevo che, mentre gli abitatori di Culua assediavano la fortezza e la casa nella città di Temistitan, e gli Spagnuoli che io avevo lasciati quivi mentre andai a Cimpoal a parlare a Narbaez, e anco due Spagnuoli che erano nella lor provincia per guardia di certa quantità di maiz che io avevo mandato a ricogliere nella detta provincia, gli avevano cavati fuori di quella insino alla provincia di Guasucingo, perciochè conoscevano gli abitatori di quella esser nostri amici, acciò quelli di Culua non gli uccidessero, sí come avevano uccisi tutti quegli che avevano trovati fuori della fortezza nella città di Temistitan. E con le lagrime sugli occhi mi dissero queste e molte altre cose. Io gli ringraziai e del loro buon animo verso di noi e buoni effetti, e promisi di fare ogni cosa che essi desiderassero, e che sariano ben trattati da me. E d'allora innanzi sempre mostrarono buon animo verso di noi, e rendono ubbidienza in tutte quelle cose che io comando loro in nome di Vostra Maestà.


Come Ferdinando, fratello di Cacamacin, è creato signor della provincia Aculuacan.

I figliuoli del detto signor di Calco e quegli che erano venuti con esso loro dimorarono quivi un giorno, e, perchè desideravano di ritornar nella patria, mi pregavano che io dessi loro dei miei soldati che gli conducessero sicuri. E Consalvo di Sandoval accompagnato da alcuni cavalli e fanti se n'andò con loro, a' quali comandai che, poichè gli avessero accompagnati nella provincia, arrivassero a Tascaltecal e menassero certi Spagnuoli che dimoravano quivi, e anco don Ferdinando, fratello del detto Cacamacin, del quale di sopra ho fatto menzione. E dopo quattro o cinque dí ritornò il detto maggior esecutore con li detti Spagnuoli e menò il detto don Ferdinando. E de lí a pochi giorni intesi che, essendo egli fratello de' detti signori della detta provincia, a lui apparteneva tal dominio, benchè avesse altri fratelli, sí che per questa cagione, e anco perchè la detta provincia era senza signore (avendo Cacamacin signor di quella lasciato ogni cosa e fuggitosene alla città di Temistitan), e similmente perchè egli era molto amico de' cristiani, procurai in nome di Vostra Maestà che lo ricevessero per signore. E gli abitatori di quella città, benchè fussero pochi, lo ricevettero e gli resero poi ubbidienza, e molti che s'erano partiti e fuggiti ritornarono nella detta città e provincia d'Aculuacan e servivano al detto don Ferdinando, e cominciossi poi a riformare e abitar la detta città.


Come li signori di Coatincan e Guaxuta vennero ad avisar il Cortese dell'apparecchio de' nemici,
e quello ch'ei li rispose. Come due terre si ribellarono: il Cortese andò dove scorrevano i nemici e molti n'uccise; que' delle dette due terre vengono a chieder perdono ed è loro concesso,
e quello ordinò per poterlo soccorrere.

Dopo questo, de lí a due giorni mi vennero a trovare li signori di Coatincan e di Guaxuta, e mi dissero ch'io tenessi per certo che tutte le forze di que' di Culua si movevano contra di me e contra degli Spagnuoli, e tutto 'l paese era pieno di nemici; e ch'io dicessi loro se dovevano menar le moglie e figliuoli dove io era, overo ne' monti, perciochè essi stavano in grandissima paura. Io gli confortai a star con animo ardito, e che non temessero, e dimorassero in casa loro né si movessero, perciochè di niuna cosa pigliavo maggior piacere che di combattere contra di que' di Culua; e che stessero apparecchiati e mettessero le guardie in tutta la lor provincia, e, vedendo e sentendo gli nemici venire, subito me lo facessero a sapere. E cosí si partirono, avendo in animo di voler esequir quel che io avevo ordinato. Quella notte misi in ordine i miei soldati e posi le guardie dove conobbi che facesse di bisogno, e quella notte noi non andammo a dormire, né attendemmo ad altro; e tutta quella notte e l'altro giorno stemmo aspettando, giudicando che dovesse avenire ciò che ne avevano detto que' di Guaxuta e di Coatincan. Il giorno seguente mi fu riferito che gli nemici andavano trascorrendo per la riviera del lago con intenzione di pigliar qualcuno degl'Indiani di Tascaltecal, che andavano e tornavano per portar le cose necessarie all'esercito; e avevo inteso che avevano fatto lega con due terre suddite alla città di Tessaico, che erano vicine al lago, per farci da quella via ogni danno che potevano, e per fortificarsi facevano argini e fossi e diverse altre cose per loro difesa.
Udito questo, il giorno seguente, con dodeci cavalli e dugento fanti e due piccioli pezzi d'artegliaria da campo, me ne andai dove gli nemici andavano scorrendo, il qual luogo è lontano dalla città per spazio di una lega e mezza. Ed essendo uscito, trovai certe spie mandate da' nemici, e altri che erano posti in aguato, e andammo loro adosso e perseguitandoli ne uccidemmo alcuni; quegli che rimasero si gettarono all'acqua, e noi abbrucciammo una parte delle dette terre, e allegri per la ottenuta vittoria ritornammo alla città. Il giorno seguente tre de' principali di dette terre vennero umilmente a dimandarmi perdono, pregandomi che io non volesse piú distruggerli, e mi promettevano per l'avenire di non ricevere piú alcuno di que' di Temistitan: ed essendo costoro persone di non molta importanza, e sudditi di Ferdinando, per nome di Vostra Maestà perdonai loro. Un altro giorno vennero altri abitatori delle dette terre, feriti e mal trattati, e mi diedero nuova che quegli di Messico e di Temistitan erano di nuovo tornati alle loro terre, e, non vi essendo stati ricevuti cosí benignamente come prima erano soliti, gli avevano malamente trattati e alcuni n'avevano menati prigioni, e se io non gli difendevo gli avrebbono menati via tutti: e mi pregavano che io fussi pronto e apparecchiato a dar loro aiuto, se per aventura di nuovo vi ritornassero, che essi certamente credevano che vi dovessero tornare con maggior esercito per condurgli all'ultima ruina. E avendogli consolati, ordinai che stessero attenti e provisti di maniera che, mentre quegli di Temistitan si movessero contra di loro, io lo potesse sapere a tempo per potergli soccorrere. E avuto questa risposta se ne ritornarono nelle loro terre.


In che modo fusse avisato il Cortese del soccorso che era giunto alla Vera Croce. Come, richiesto d'aiuto da quei di Calco, non li potendo egli a quel tempo abilmente soccorrere, gli mise in lega con que' di Guasucingo e Guadacacula, e come dipoi sempre s'aiutarono l'un l'altro.

Gli uomini ch'io avevo lasciati nella città di Tascaltecal per fabricar gli brigantini avevano inteso che nel porto della città della Vera Croce era giunta una nave, nella quale oltra li marinai erano trenta o quaranta Spagnuoli, otto cavalli, alcune balestre e schioppi e polvere; e non sapendo ancora come andassero le cose in quella guerra, né confidandosi di potere venire a noi, s'attristavano grandemente. Erano in quella città certi Spagnuoli che non ardivano di venirmi a trovare, benchè grandemente desiderassero di portarmi questa buona nuova; ma subito che un mio servidore, ch'io avevo lasciato quivi, intesi che alcuni voleano tentar di venire a trovarmi, feci fare un bando con gravissima pena, che niuno si partisse di quel luogo finchè non avessero commissione da me. E il mio servitore, conoscendo che di niuna cosa io potevo aver maggior piacere che della venuta di quella nave e soccorso che ne conduceva, ancora che 'l viaggio non fusse sicuro, si partí di notte e venne alla città di Tessaico: e noi in vero ci maravigliammo grandemente come egli fusse potuto giugner là vivo, e di simil nuova ci rallegrammo sommamente, perciochè avevamo grandissimo bisogno d'aiuto.
Il dí medesimo arrivarono nella città di Tessaico certi uomini da bene nunzii de' signori di Calco, e mi fecero intendere che, per essersi dati per vassalli a Vostra Maestà, tutti quegli di Messico e di Temistitan venivano contra di loro per distruggerli e uccidergli; e per questo avevano convocati tutti e i lor convicini e ordinato che stessero provisti, e pregavano me che io gli aiutassi in tal necessità, perciochè pensavano, non gli aiutando io, di dover patir grandissimo danno. E liberamente confesso a Vostra Maestà, sí come altre volte nell'altra relazione le ho detto, che oltra le nostre fatiche e necessità il maggior mio carico e dolore era il non poter dar aiuto agli amici nostri, i quali, per essersi fatti sudditi di Vostra Maestà, erano gravissimamente molestati da' nostri nemici di Culua. E benchè io e tutti i miei soldati usassimo in ciò ogni diligenza, parendoci in niuna cosa piú compiacere alla Maestà Vostra che in dar favore e soccorso a' sudditi suoi, nondimeno, perchè 'l tempo che vennero que' di Calco a trovarmi non mi lasciavo conceder loro quel che desideravano, dissi che allora volevo mandar a condur gli brigantini, e a questo s'apparecchiavano tutti gli abitatori di Tascaltecal, donde doveano esser condotti in pezzi li detti brigantini, e a questo effetto era forzato mandare alquanti cavalli e fanti; e sapendo io che gli abitatori delle provincie di Guasucingo, di Churultecal e di Guadacacula erano vassalli di Vostra Maestà e amici nostri, ordinai che se ne andassero a loro e in mio nome, essendo lor vicini, da essi dimandassero aiuto e soccorso, acciò fra questo mezzo potessero esser sicuri finchè io stesso gli soccorressi, perciochè allora io non potevo altramente provedere. E avenga che tal cose non fussero loro cosí grate come saria stato lo aver mandato alquanti Spagnuoli, nondimeno mi ringraziarono e dimandarono ch'io dessi loro lettere di credenza, acciò fosse prestato lor fede e piú sicuramente potessero richiedergli, perciochè tra gli abitatori di Calco e l'altre due provincie, essendo di diversa fazione, sempre era stata nemicizia. E per aventura, quando io trattavo questo negozio, vennero certi ambasciadori dalle dette provincie di Guasucingo e di Guadacacula, e in presenza degli ambasciatori di Calco dissero che li signori delle dette provincie non avevano avuto nuova alcuna di me, dapoi che m'ero partito dalla città di Tascaltecal, e che tenevano le lor vedette nella cima de' monti che soprastanno a tutta la provincia di Messico e di Temistitan, acciochè, subito che vedessero fumi spesso, i quali sono indizii di battaglia, venissero co' lor sudditi e soldati per darmi aiuto: e perciochè in poco tempo avevano visti piú fumi del solito, erano venuti per intendere come io mi ritrovavo, e, bisognandomi soccorso alcuno, subito potessero fare un esercito. Io gli ringraziai e risposi che, per favor d'Iddio, tutti gli Spagnuoli e io insieme stavamo bene, e sempre avevamo avuto vittoria de' nostri nemici; e oltra il piacer ch'io pigliavo del lor buon animo e presenza, mi rallegravo infinitamente della lor venuta per mettergli in lega con que' di Calco, che erano presenti, e gli pregavo, essendo tutti vassalli di Vostra Maestà, ad esser buoni amici e aiutar l'un l'altro contra gli abitatori di Culua, che sono uomini malvagi e pessimi: e massimamente allora dovevano farlo, che quelli di Calco avevano bisogno del loro aiuto, perciochè que' di Culua volevano assalirgli. E a questo modo rimasero amici e confederati. E avendo essi dimorato quivi due giorni meco, si partirono tutti molto allegri e contenti, e d'allora innanzi l'un l'altro si diedero aiuto.


Come, andando Consalvo per condur i brigantin, fece molti prigioni d'una terra li cui abitatori avevano ucciso cinque Spagnuoli, e nondimeno, avanti che si partisse, fece ragunar detti abitatori e abitar la lor terra. Come furono condotti i detti brigantini, e con qual modo e ordinanza.

De lí a tre giorni, avendo saputo che già erano finiti tredici bregantini, e gli uomini che gli dovevano condurre essere apparecchiati, mandai Consalvo di Sandoval esecutor maggiore con quindeci cavalli e ducento fanti, acciò avessi cura di fargli condurre; al quale diedi ordine che distruggesse e del tutto rovinasse una gran terra suddita a questa città di Tessaico, che confina con la città di Tascaltecal, perciochè gli abitatori di quella avevano uccisi cinque de' nostri cavalieri che dalla città della Veracroce andavano alla famosa città di Temistitan, quando io vi stavo assediato, in niun modo pensando che ci potesse esser fatto un simil tradimento. E quando la prima volta entrammo in questa città di Tessaico, trovammo negli oratorii e moschee della detta città i cuoi delli detti cinque cavalli, co' piedi e co' ferramenti, cuciti e sí bene acconci che non potria imaginar di far meglio; e per segno di vittoria e quegli e molte robbe e varie cose di Spagnuoli avevano offerto a' loro idoli, e trovammo il sangue de' compagni e fratelli nostri sparso e sacrificato in tutte quelle torri e moschee. Questa cosa ne fu di tanto dispiacere, che ci fu forza rinovare tutte le nostre fatiche e travagli. E gli uomini di quella terra e gli altri circonvicini, allora che li detti cristiani passarono de lí, finsero, come fanno i traditori, di ricevergli benignamente, acciochè si dessero a credere d'esser sicuri, per poter essi usar verso di loro la maggior crudeltà che alcuno giamai usasse; perciochè li sudetti cristiani, scendendo da una certa piaggia e camminando per un sentiero difficile, furono astretti a montar da' cavalli e menargli per le briglie, ed essendo cosí impacciati furono rinchiusi da' nemici da ogni banda in quel luogo difficile, dove s'erano posti in aguato. Di questi cinque alcuni n'uccisero e altri tennero prigioni, per condurgli alla città di Tessaico e sacrificargli e cavar loro il cuore dinanzi a' loro idoli. Noi crediamo che cosí avenisse, conciosiachè, passando di là il detto maggiore esecutore, certi Spagnuoli che andavano seco, in una casa d'una terra che è tra la città di Tessaico e quella terra dove furono uccisi e presi li predetti cristiani, in un muro biancheggiato trovarono scritte queste parole: "Qui fu preso lo sfortunato Giovanni Iusta". Era costui un gentiluomo dei sopradetti cinque a cavallo. Il quale spettacolo senza dubbio a coloro che 'l viddero apportò grandissima maninconia e dispiacere.
Essendo arrivato là il maggiore esecutore, subito gli abitatori di quella terra conobbero il loro grande errore e sceleraggine, e fuggendo cominciarono a cercar di salvarsi; ma li nostri fanti e cavalli e gli Indiani amici nostri gli perseguitarono e n'uccisero molti, ed ebbero prigioni assaissime donne e tanti fanciulli quanti poterono avere e gli fecero schiavi; benchè, mosso a pietà, non volse che si facesse tanta uccisione né tanta ruina quanta poteva, e prima che si partisse comandò che si ragunassero e abitassero nella lor terra. E al presente v'abitano, e sono del loro errore pentiti grandemente.
Il detto maggiore esecutore andò piú avanti cinque o sei leghe, ad una certa terra della provincia di Tascaltecal che è la piú vicina alli confini di Culua, e quivi trovò gli Spagnuoli e gli uomini che conducevano li brigantini. E il giorno seguente si partí con le tavole e con le travi, che le portavano con un bell'ordine piú di ottomila uomini: ed era cosa mirabile da vedere, e cosí penso che sia maravigliosa da credere, il portar dieci brigantini per terra per spazio di diciotto leghe. E riporto il vero alla Maestà Vostra, che dalla prima all'ultima schiera vi era lo spazio di tre leghe. E quando cominciarono a camminare andavano avanti otto Spagnuoli a cavallo e cento fanti; dai fianchi vi erano a difesa piú di diecimila uomini della provincia di Tascaltecal, de' quali erano capi Iutecal e Teutipil, che sono due signori de' principali della detta provincia; alla retroguardia erano cento Spagnuoli, e oltra li fanti e otto a cavallo forse diecimila uomini da combattere, de' quali era capo Chichimecatecle, che è de' primarii di quella provincia, con altri capitani che menava seco. Quando si partirono, nella prima ordinanza conducevano le tavole e nell'ultima le travi; e come entrarono nella provincia di Culua, maestri de' brigantini comandarono che nella prima ordinanza fussero poste le travi e le tavole nell'ultima, perciochè quelle erano per esser di maggiore impedimento quando fusse avenuto accidente alcuno, e, se doveva avenire, era ragionevole che dovesse essere nella prima ordinanza. Cichimecatecle, che conduceva le tavole e insin allora con i suoi soldati aveva tenuta la prima schiera, stette ostinato e fece grandissima resistenza, e vi fu molta difficultà a far che egli andasse all'ultimo luogo, imperochè esso voleva mettersi ad ogni pericolo che ne potesse avenire; ma, conceduto che ebbe questo, non voleva patire che alcun Spagnuolo stesse nell'ultima schiera, che, essendo egli uomo di gran valore e fortezza, cercava d'aver cotale onore. Li predetti capitani menavano duemila uomini carichi di vettovaglie, e con quell'ordine e maniera seguitarono il lor viaggio, nel quale stettero tre dí. Il quarto dí entrarono in questa città con grandissima allegrezza e festa e con suoni di timpani, e io andai loro incontra per ricevergli. E, come ho detto di sopra, quella moltitudine s'estendeva tanto che, dall'ora che cominciarono ad entrar li primi, passò lo spazio di sei ore prima che gli ultimi entrassero, non si rompendo mai le file di coloro che entravano. Appressato che mi fui a loro, e ringraziati che ebbi quei signori de' beneficii che ne avevano fatti, assegnai loro gli alloggiamenti e feci provedere delle cose necessarie il meglio che si poté. E mi dissero che desideravano d'azzufarsi con quei di Culua, e vedessi io quel che mi piacesse comandar loro, e che essi, con gli altri i quali avevano menati seco, erano venuti con quell'animo, e volevano o morire insieme con gli Spagnuoli o vendicarsi. Io gli ringraziai e dissi che si riposassero, che tosto satisfarei al lor desiderio.


Come il Cortese, uscito fuori della città, trovò un squadrone de' nemici, quali mise in fuga, molti di loro uccisi. Come giunsero alla città Xaltoca e combattendo entrarono e, discacciati i nemici, n'abbrucciorono parte. Il seguente giorno, trovati i nemici, gli perseguitano, e arrivorono alla città Guantican, a Tenainca e Acapuzzalco. Appresso la città Atacuba assaltano i nemici, entrano nella città, v'appiccano il fuoco; e perchè abbrucciorono la quarta parte dell'albergo dove alloggiorono.

Poichè tutti questi di Tascaltecal si furono riposati tre o quattro giorni nella città di Tessaico, i quali certamente in comparazione degli uomini di questi paesi sono valorosissimi, comandai che si mettessero in ordine cinque cavalli, trecento fanti e cinquanta tra balestrieri e schiopettieri, e sei piccioli pezzi d'artegliaria da campo; e senza che niuno sapesse dove andassimo, a nona ci partimmo da questa città, e vennero meco li predetti capitani con forse trentamila uomini, con le loro schiere molto ben ordinate secondo la loro usanza. Lontano da questa città quattro leghe, essendo già l'ora tarda, trovammo una schiera di nemici, e noi a cavallo gli andammo adosso e gli mettemmo in fuga; quegli di Tascaltecal, essendo destri e leggieri, ne seguitarono, e uccidemmo molti nemici. Quella notte stemmo sempre in campagna e al sereno, con grandissime guardie e del tutto apparecchiati. Il dí seguente, la mattina a buon'ora, cominciammo a seguitar l'incominciato viaggio: e insin ora io non avevo palesato ad alcuno dove io volessi andare, e ciò avevo fatto guardandomi da certi di Tessaico che venivano con esso noi, acciochè non lo manifestassero a que' di Messico e di Temistitan, che ancora non mi fidavo molto di loro. Giugnemmo ad una terra nominata Xaltoca, che è situata nel mezzo del lago, e d'intorno di quella trovammo e molte e gran fosse d'acqua, e attorno attorno facevano forte la detta terra, che non ci potevano entrar i cavalli; e gli nemici mettevano grandissimi gridi, e aventavano contra di noi bastoni acuti nella cima e dardi. Li fanti, benchè con gran fatica, pur v'entrarono e gli cacciarono fuori della terra, e abbrucciarono gran parte d'essa. E quella notte andammo ad alloggiare lontano de lí una lega.
Venuto il giorno, seguitando il nostro viaggio trovammo gli nemici, li quali da lontano cominciarono a gridare, come è lor costume di fare nella battaglia: e cotai gridi sono orribili da sentire. Noi cominciammo a perseguitargli, e perseguitandogli arrivammo ad una grande e bella città nominata Guantican, e la trovammo disabitata, dove dimorammo quella notte. Il giorno seguente, essendo andati piú avanti, arrivammo ad una città nominata Tenainca, nella quale non trovammo ostaculo alcuno. Ed essendoci riposati, andammo poi anco ad una altra città, il cui nome è Acapuzalco, la quale è tutta posta nel circuito del lago, e in quella non ci fermammo troppo, desiderando io grandemente arrivare ad un'altra città detta Atacuba, che è vicina alla città di Temistitan. Ed essendo avicinati a quelle, trovammo d'intorno intorno molte fosse d'acqua, e gli nemici molto pronti e apparecchiati. E subito che noi e gl'Indiani amici nostri gli vedemmo, andammo ad assaltargli, ed entrammo nella città uccidendogli e cacciandogli fuori; ed essendo già l'ora tarda, non facemmo altro che metterci nell'albergo, il quale era tanto grande che commodamente vi potemmo stare. Venuto il giorno, gl'Indiani amici nostri cominciarono a guastare e abbrucciare la città, salvo l'albergo dove noi alloggiavamo, e in questo usammo tal diligenzia che fu abbrucciata la quarta parte del nostro albergo; e ciò fu fatto perciochè un'altra volta, quando ci partimmo dalla famosa città di Temistitan essendo stati rotti, gli abitatori di questa città, insieme con que' di Temistitan, in quella ci combatterono aspramente e uccisero molti Spagnuoli.


Come, dimorando in Atacuba, fecero molte scaramuccie, con gran danno de' nemici e senza lesion degli Spagnuoli. Parole che usarono il Cortese e Spagnuoli con li nemici, e le pronte risposte che li furon fatte. Come, ritornando a Tessaico, essendo perseguitati da' nemici, si rivolsero loro adosso e molti n'uccisero, sí che si restarono di piú oltre perseguitargli.

In quei sei giorni che stemmo in questa città d'Atacuba, niun giorno fu che non venissimo alle mani con li nemici e non facessimo scaramuccie; e li capitani di quei di Tascaltecal e i loro soldati facevano molti duelli con quegli di Tascaltecal, e combattevano tra loro e forte e valorosamente, e passavano tra loro di molte cose, e si minacciavano e dicevano villania l'uno l'altro, che senza dubbio era cosa degna da vedere. E in tutto questo tempo morirono molti dei nemici, senza morte di alcuno dei nostri, perciochè assai volte entrammo in quelle strade mattonate e nei ponti della città, benchè, avendo tanti ripari, facessero gagliarda resistenza. E spesse fiate fingevano di ritirarsi a fin che entrassimo nella città, con dire: "Entrate, entrate, acciò possiate darvi piacere". Alcune volte dicevano: "Vi pensate forsi che vi sia un altro Montezuma che satisfaccia a' vostri desiderii?" E mentre la cosa passava di questa maniera, arrivai una volta ad un certo ponte ch'io avevo espugnato, ed essendo essi de là da quel ponte, feci segno a' miei che si fermassero, e similmente essi, vedendo il mio segno, accennarono ai loro che tacessero; e dissi loro per che cagione fussero diventati sí pazzi che volessero esser distrutti, e che, se tra loro si trovava alcuno de' principali della città, dovesse venir là, ch'io desideravo di parlargli. Essi mi risposero che tutta quella moltitudine d'uomini ch'io vedevo erano signori, e perciò io dicessi lí in mezzo tutto quello ch'io volevo. E non avendo dato loro alcuna risposta, cominciarono a venire alle villanie, e certi de' nostri dissero loro che morirebbono di fame, e non gli lascieremmo uscir de lí per andare a cercar vettovaglie; risposero che non n'avevano di bisogno, e se n'avessero di bisogno mangiarebbono noi Spagnuoli e gli uomini di Tascaltecal.
E perchè l'andata mia a questa città di Tacuba era stata principalmente per venire a qualche convenzione con quei di Temistitan, e per intender che intenzione avessero, e vedendo che 'l mio dimorar quivi nulla giovava, dopo sei giorni deliberai di tornare a Tessaico per sollecitar che fussero finiti li brigantini, per poter assediargli per terra e per acqua. Il giorno che ci partimmo venimmo la sera ad alloggiare alla città di Coantincan, della quale di sopra ho fatto menzione, e gli nemici sempre ne perseguitarono, e noi co' cavalli spesse volte andammo loro adosso, e cosí alcuni rimasero nostri prigioni. Il giorno seguente cominciammo a seguitare il nostro viaggio, e gli nemici, vedendo che ci partivamo, pensandosi che lo facessimo per paura, si misero insieme molti di loro e cominciarono a seguitarne. Io, vedendo questo, comandai a' fanti che andassero innanzi, e quando si fermassero nella loro ultima schiera stessero cinque cavalli; e io rimasi con gli altri venti e comandai che sei a cavallo andassero in un certo luogo a far imboscata, e altri sei in un altro e cinque in un altro, e io con tre in un altro, e subito che gli nemici fussero passati, pensandosi tutti noi insieme essere andati avanti, quando sentissero gridar "San Giacomo" saltassero fuori e gli andassero alle spalle. Ed essendo venuto il tempo, saltammo fuori e gli cominciammo a ferir con le lanze, e per due leghe gli perseguitammo sempre in una pianura che era bella da vedere, e cosí perirono molti di loro, uccisi parte da noi e parte dagl'Indiani amici nostri, e si rimasero senza seguitarne piú oltre. Noi ci ritirammo e arrivammo i nostri, e quella notte alloggiammo in una nobil terra nominata Aculman, che è lontana due leghe dalla città di Tessaico, onde ci partimmo il giorno seguente, e a mezzodí arrivammo alla città di Tessaico. Fummo ricevuti allegramente dall'esecutor maggiore, il quale io avevo lasciato al governo, e anco da tutti gli altri, avendo grandissimo piacere della nostra ritornata, perciochè, dopo la nostra partita de lí, non avevano avuto mai novella alcuna di noi né ciò che ne fusse intervenuto, e pur grandissimamente desideravano saperlo. Il giorno dopo che noi fummo arrivati, li signori e capitani di Tascaltecal mi richiesero d'esser licenziati, e se n'andarono alla lor città molto lieti, avendo avuta qualche preda de' nemici.


Come il Cortese mandò soccorso a quei di Calco, e, andati ad una terra detta Guastepeque, fecero gran danno a quei di Culua; dipoi combatterono piú e piú volte, con danno sempre de' nemici. Poscia, andati ad una fortissima città chiamata Acapichtla, finalmente la presero per forza, con tanta uccisione de' nemici che 'l fiume che la circonda corse tutto sangue; e lasciate dette due terre pacifiche, gli Spagnuoli ritornarono in Tessaico.

Due giorni dopo che noi fummo entrati nella città di Tessaico, vennero a trovarmi alcuni Indiani, ambasciadori de' signori di Calco, e mi dissero che i lor signori gli avevano mandati per dirmi a nome loro che quegli di Messico e di Temistitan gli volevano assaltare, e assaltargli per distruggerli, e mi pregavano ch'io dovessi mandar loro soccorso, come altre volte m'avevano dimandato. Io subito procurai di mandarvi Consalvo di Sandoval con venti cavalli e trecento fanti, al quale comandai che sollecitasse l'andare e, giunto che fusse là, provedesse in tutti li modi di dare aiuto e prestare ogni possibil favore a quei vassalli di Vostra Maestà e amici nostri. Ed essendo giunto, trovò quivi essersi raunati molti delle provincie di Guassucingo e di Guacachula che stavano aspettando, e, messe le cose in ordine, si partirono per andare ad una terra nominata Guastepeque, dove erano quei di Culua, donde facevano gran danno a quei di Calco. E molti de' nostri nemici uscirono fuori d'una certa terra che era nel viaggio, e gl'Indiani amici nostri, essendo in gran numero, confidandosi ne' cavalieri spagnuoli unitamente gli assalirono e presero il lor campo. E quella notte si fermarono a quella terra vicina a Guastepeque, e il dí vegnente si partirono. Essendo giunti appresso Guastepeque, quegli di Culua cominciarono a combatter con gli Spagnuoli, nondimeno in poco spazio messi in fuga, uccisi e cacciati della terra. Li cavalieri si fermarono per dar da mangiare a' cavalli e per albergare, e, stando cosí sprovisti, gli nemici arrivarono insino alla piazza che era dinanzi all'albergo, gridando e tirando sassi, bastoni e freccie. Gli Spagnuoli, pigliate l'armi, insieme con gl'Indiani amici nostri andarono loro adosso e gli discacciarono della detta terra, e gli seguitarono per spazio d'una lega e n'uccisero molti. E quella notte, essendo molto stanchi, se ne ritornarono a Guastapeque, dove si riposarono due giorni.
Allora l'esecutor maggiore intese che in un'altra terra piú in là, nominata Acapichtla, s'era ridotta una grandissima moltitudine di nemici, e determinò di andare là per veder se volevano darsi pacificamente e aver pace. Questa terra era molto forte e situata in un luogo alto, dove non potevano esser né molestati, né offesi da' cavalli. Quivi essendo giunti gli Spagnuoli, subito gli nemici cominciarono a venire alle mani e dal luogo alto gettar sassi, e benchè col detto maggiore esecutore molti de' nostri amici, considerando la fortezza del luogo, non aveano ardire di dar l'assalto, subito che 'l detto esecutor maggiore e gli Spagnuoli viddero questo, deliberarono o di morire o di salir per forza sopra quel luogo e, raccomandatisi a san Giacomo, incominciarono a salire. E piacque a Iddio dar loro tante forze che, benchè gli nemici facessero grandissima resistenza, vi salirono pure, ma ne furono feriti molti; e dopo loro seguitarono gl'Indiani amici nostri, e gli nemici si viddero già esser vinti. E inondava tanto il sangue sí di coloro che erano uccisi per mano di Spagnuoli, sí anco di coloro che cascavano da alto, che tutti quelli che vi si trovarono presenti affermano che un picciol fiume, che circondava quella terra, corse tutto rosso di sangue de' morti; e dipoi stettero assai prima che potessero cavarne acqua buona da bevere, che, essendo gran caldo, avevano grandissimo bisogno d'acqua. Avendo il predetto esecutor maggiore posto fine a questa impresa, lasciando le due sopranominate terre quiete e punite col meritato castigo, perchè da prima rifiutarono la pace, se ne ritornò in compagnia di tutti alla città di Tessaico. E creda la Vostra sacra cattolica Maestà che questa è stata una vittoria notabile, nella quale gli Spagnuoli hanno molto ben mostrato le loro forze.


Come il Cortese mandò un'altra volta l'esecutor maggiore in soccorso a que' di Calco, e, avanti che arrivasse là, trovò che avevano fatto la giornata co' nemici e fatti molti prigioni. Come, fatta sicura la strada, quei della Vera Croce mandarono al Cortese balestre, schioppi e polvere, e gli fecero sapere che erano giunte tre navi con soldati e cavalli.

Gli abitatori di Messico e di Temistitan, avendo inteso il grandissimo danno fatto alle loro genti dagli Spagnuoli e da quelli di Calco, deliberarono di mandar contra di loro certi capitani con grandissimo esercito. Il che avendo saputo quelli di Calco, me lo fecero a sapere, pregandomi che subitamente io dovessi mandar loro soccorso: e io di subito spedi' il detto esecutor maggiore con certi fanti e cavalli. Nondimeno, quando egli arrivò là, gli nemici nostri di Culua avevano fatto giornata con gli amici nostri di Calco, e piacque a Iddio che quegli di Calco ottenessero la vittoria e uccidessero molti de' nemici; e ne fecero prigioni quaranta, tra i quali era un certo capitano di Messico e due altri de' primarii, i quali tutti furono da quelli di Calco consegnati al detto esecutor maggiore, che gli conducesse a me. Alcuni de' quali me gli mandò, gli altri ritenne appresso di sé, perciochè volse rimanere alla guardia di quelli di Calco in una certa terra ne' confini di Messico; e poichè gli parve la sua dimora non esser necessaria, ritornò a Tessaico, e menò seco gli altri prigioni che erano rimasi appresso di lui. In questo mezzo facemmo assai altre scaramuccie e zuffe con gli abitatori di Culua, le quali tutte lascio di raccontare per fuggire la lunghezza.
Essendo già sicura la strada dalla città della Vera Croce a questa, e potendo quegli della detta città andare e tornar sicuri, ogni giorno intendevano qualche cosa di noi, e noi similmente di loro, il che prima non si poteva fare. E per un certo nunzio mi mandarono certe balestre e schioppi e polvere, di che pigliammo grandissimo piacere, e de lí a due giorni, mandandomi un altro nunzio, mi fecero a sapere esser arrivate in porto tre navi, nelle quali erano stati portati molti soldati e cavalli, e che subito ce gli mandarebbono. Noi, avendo sí gran bisogno di aiuto, credemmo che ci fusse stato mandato da Iddio.


Come il Cortese mandò in Temistitan due de' primarii di detta città, che erano prigioni di quei di Calco, a pregar quei signori che si rendessero. Del soccorso mandato a quei di Calco. Come vennero ambasciadori di Tazapan, Mascalango e Neuten ad offerirsi.

Io cercava per tutti i modi possibili di tirare all'amicizia nostra gli abitatori di Temistitan, parte acciò per lor cagione non fussero distrutti, e parte per riposarci dalle fatiche delle passate guerre, e massimamente che di ciò io giudicavo venirne grandissima utilità alla Maestà Vostra: e dovunque io potevo avere alcuno di quegli della città, lo rimandavo dentro, acciochè confortasse gli altri a darsi pacificamente. E il mercordí santo dell'anno 1521 comandai che venissero alla presenza mia que' primarii di Temistitan che erano stati fatti prigioni da quei di Calco, e feci loro intendere se alcuno di essi volesse andare nella città e per mio nome parlare ai signori di quella, e pregargli che non cercassero piú di far guerra meco e si dessero per vassalli di Vostra Maestà, come avevano fatto prima, perciochè io non desideravo di ruinargli, ma di tenergli per amici. E benchè non andassero volentieri, temendo che, se portassero tale ambasciata, sariano uccisi da loro, nondimeno due d'essi deliberarono di andare e mi dimandarono lettere; e se ben non intendevano le cose che in quelle si contenevano, nondimeno sapevano esser tale usanza che, giunti che fussero là, gli cittadini prestariano lor fede. E però feci loro palesare dagl'interpreti ciò che nelle dette lettere era contenuto, cioè quel che aveva imposto a lor medesimi, e a quel modo si partirono, e comandai a cinque cavalieri che gli accompagnassero fin che giugnessero in luogo sicuro.
Il sabbato santo gli abitatori di Calco e i loro confederati e amici ebbero cura d'avisarmi che quegli di Messico si movevano contra di loro, e in un certo panno bianco mi mostrarono dipinte tutte le terre che andavano contra di loro e le vie per le quali dovevano andare, e mi supplicavano che ad ogni modo io dovessi mandar loro soccorso. Risposi che de lí a sei giorni lo manderei, e se tra questo mezzo fussero astretti da bisogno alcuno, me lo facessero sapere, che gli aiuterei. Il terzo giorno di Pasqua ritornarono a pregarmi ch'io mandassi il soccorso prestissimamente, perciochè gli nemici s'avicinavano con quella maggior prestezza che potevano. Io dissi di volere andare a soccorrerli, e feci comandare a suono di tromba che si mettessero in ordine venticinque cavalieri e trecento fanti a piedi.
Il giovedí avanti che fusse questo, vennero alla città di Tessaico, certi ambasciadori dalle provincie di Tazapan, di Mascalango e Neuten e d'altre provincie, e mi fecero sapere che erano venuti a darsi per vassalli di Vostra Maestà e per pigliare amicizia con esso noi, non avendo essi ucciso mai alcuno Spagnuolo, e né essendosi volti mai contra il servizio di Vostra Maestà. Portarono certe vesti di seta. Io gli ringraziai e promisi loro, quando fussero buoni e fedeli, di trattargli bene, e cosí se ne tornarono tutti allegri.


Come il Cortese uscí di Thessaico con trentamila uomini e alloggiò in Tamanalco; il parlar che fece a' signori di Calco; come nel viaggio s'unirono con lui da quarantamila combattenti. Dell'assalto che diede da tre bande ad un monte asprissimo e molto erto, in cima del quale era gran moltitudine di gente; come assaltò quelli ch'erano nella pianura, ferendone e uccidendone molti.

Il giorno seguente, che fu il venerdí il quinto d'aprile del detto anno 1521, mi partii da questa città di Tessaico in compagnia di trenta cavalieri e trecento fanti, a' quali diedi per capitano Consalvo di Sandoval, esecutor maggiore, e meco uscirono da ventimila uomini di Tessaico. E in ordinanza andammo la sera ad alloggiare ad una terra della provincia di Calco, nominata Tamanalco, dove fummo ricevuti e albergati ottimamente: e quivi perchè è luogo fortissimo, poi che quegli di Calco diventarono amici nostri, sempre tennero la guardia, essendo ne' confini della provincia di Culua. Il giorno seguente pervenimmo a Calco ad ora di nona e non indugiammo punto, se non quanto parlammo a' signori di quel luogo, a' quali palesai l'animo mio, che era una volta circondare il lago, pensando che passato quel giorno, che era di gran momento, quei tredeci brigantini sariano finiti e apparecchiati da potergli mettere nel lago. E avendo parlato co' signori di Calco, ad ora di vespro ci partimmo e arrivammo ad una lor terra, dove s'unirono con noi da quarantamila uomini combattenti amici nostri, e quivi ci riposammo quella notte. E perchè gli abitatori di quella terra mi dissero che quei di Culua m'aspettavano in una pianura, comandai che all'alba tutte le genti fussero in arme ed espedite, e il dí seguente dopo la messa cominciammo a marchiare. Io ero nell'antiguardia con venti cavalli, e nella retroguarda ne rimasero dieci, e a questo modo passammo un'altra cima di montagna.
Dopo mezzogiorno arrivammo ad un erto e alto monte, nella cui cima era una gran moltitudine di donne e di fanciulli, e dalle bande erano uomini armati, i quali subito cominciarono a gridare e a far molti fumi, con frombe e senza, aventando contra di noi sassi, freccie, dardi e bastoni aguzzati, di modo che, mentre ne giunsero appresso, avevamo patito assai gran travaglio. E benchè avessimo visto che non avessino avuto ardir d'aspettarci nella pianura, mi parve, ancora che altrove doveva esser il nostro viaggio, che fusse segno di poco animo andar piú avanti senza far loro qualche danno, acciochè gli amici nostri non si pensassero che lasciassimo di farlo per viltà. Riguardai il monte, che di circuito era quasi una lega, e veramente era tanto forte per natura e tanto erto che pareva sciocchezza il volervi salire e prenderlo, e benchè io avesse potuto assediarli e astringergli ad arrendersi, nondimeno non potevo quivi molto soggiornare. Stando cosí in dubbio, deliberai di salirvi da tre luoghi ch'io avevo veduti, e diedi commissione a Cristoforo Coral, alfiero di sessanta fanti, il quale sempre m'accompagnava, che con la sua insegna gli andasse ad assalire, e salissero sopra del luogo piú erto, e comandai ad alcuni schioppettieri e balestrieri che arditamente lo seguitassero; e similmente ordinai che il capitano Giovanni Rodriguez da Villa Forte e a Francesco Verdugo che co' lor compagni e con certi balestrieri salissero da un altro luogo, e che 'l capitan Pietro Dircio e Andrea da Monioraz dessero l'assalto da un'altra banda con alquanti schioppettieri e balestrieri. E ordinarono tutti nel sentire il tiro d'uno schioppo di salire, o di morire overo ottener la vittoria. E avendo sentito il tiro dello schioppo, subito cominciarono a salire il monte, e tolsero a' nemici due giri del monte; e non poterono salir piú avanti, perciochè né con piedi né con mani si potevano sostenere, essendo incredibile l'asprezza e altezza del monte. E da alto gettavano di molti sassi con le mani, i quali, benchè si rompessero, facevano grandissimo danno; e tanto fu gagliarda la difesa de' nemici, che n'uccisero due Spagnuoli e ne ferirono piú di venti, e per niun modo potemmo passar di là. Io, vedendo esser impossibile di far piú di quello che avevamo fatto, e che si ragunava gran moltitudine de' nemici per soccorrer quelli ch'erano nel monte, di modo che tutta la pianura n'era piena, comandai a' capitani che si ritirassero, ed essendo discesi a basso assaltammo quegli che erano nella pianura, ferendogli e uccidendogli: e cotal battaglia durò piú d'un'ora e mezza. Ed essendo la moltitudine de' nemici quasi infinita, gli uomini a cavallo si sparsero in varie parti, ed essendosi ridotti insieme, fui certificato da loro sí come erano andati per spazio d'una lega lontani da quel luogo, e aveano visto un altro monte ripieno di molte genti; nondimeno non era tanto erto, e nella pianura d'intorno erano assaissime terre, e due cose non sariano mancate ivi che qui ne mancavano: l'una era l'acqua, e l'altra che, essendo il monte non cosí erto, non fariano tanta resistenzia. E perchè quelle genti non si potevano pigliar senza pericolo, e vedendo di non poter ottener quella vittoria, ci partimmo de lí con grandissimo dispiacere e andammo ad alloggiare ad un'altra terra appresso il detto monte, dove patimmo grandemente, perciochè quivi non potemmo trovare acqua, e tutto quel giorno né noi né gli cavalli ne toccammo goccia. E cosí stemmo tutta quella notte, sentendo timpani e corni e gridi.


Come, dato l'assalto ad un altro erto e difficil monte, quelli che v'erano sopra s'arrenderono, e parimente quelli ch'erano su l'altro monte vennero a dimandar perdono. Come serrorno i nemici in una terra detta Giluteque e molti ne uccisero, poi misero fuoco in la terra. Quelli di Iattepeque vennero a pregar il Cortese che perdonasse loro i commessi errori.

Essendo venuta l'alba, io insieme con certi capitani vedemmo un monte che non era meno erto del primo: egli aveva le rupi certamente piú alte, nondimeno non difficili a salire, dove molte genti atte a combattere stavano per vietare chiunque avesse voluto salirvi. E li capitani e io, con altri gentiluomini che si trovavano presenti, pigliate le rotelle, a piedi (perciochè aveano condotti i cavalli per dar loro da bevere lontano una lega da quel luogo) andammo insin là per vedere almeno il sito del monte e donde lo potessimo combattere, e gli altri, benchè non fusse loro commesso cosa alcuna, cominciarono a seguirne. Subito che arrivammo al monte, coloro che stavano su le rupe, pensandosi che io volessi dar l'assalto nel mezzo, lasciarono le rupi per dar soccorso ai loro. Io, subito che viddi il lor mal ordine, e pensando s'io pigliavo quelle due rupi potevo far loro di molto danno, chetamente comandai ad un capitano che co' suoi soldati salisse sopra una di quelle, e occupasse la piú erta e difficile; e io insieme con gli altri cominciai a salire il monte da quella parte dove gli nemici erano piú spessi. E piacque a Iddio ch'io prendessi un giro del monte, e ci ponemmo in luogo tanto alto che quasi agguagliavo quello dove combattevano, il qual pareva impossibile di poterlo pigliar per forza, se non con grandissimo pericolo e danno. Già uno de' capitani aveva posta la sua bandiera nella piú alta parte del detto monte, e de lí cominciò a batter gli nemici con le balestre e con schioppi. Essi, vedendo il danno che pativano e considerando ciò che poteva seguire, accennarono di volersi arrendere e posero giú le armi in terra. Ed essendo l'animo mio stato sempre di mostrar loro, benchè fussero degni di grandissima pena, che noi non gli volevamo offendere né far danno alcuno, massimamente poichè volevano esser vassalli di Vostra Maestà, ed essendo gente di tanta ragione che molto bene intende tutte queste cose, comandai che si rimanessero da offendergli. E quando vennero a parlarmi io gli ricevetti con lieto volto, ed essi, avendo veduto quanto benignamente ci portavamo con esso loro, ne diedero aviso a quelli che erano nell'altro monte; i quali, benchè fussero rimasti vincitori, nondimeno deliberarono di darsi per vassalli alla Maestà Vostra, e vennero dimandando perdono de' lor commessi errori. In quella terra appresso il monte stemmo due giorni, e de lí feci condur li soldati feriti alla città di Tessaico.
Essendoci partiti de lí, arrivammo a dieci ore di giorno alla città di Guastapeque, della quale di sopra è fatto menzione, e fummo tutti alloggiati nella casa del giardino del signore. Il qual giardino è il maggiore e il piú bello di tutti che siano stati mai visti in alcun tempo, perciochè egli è quattro leghe di circuito, per il mezzo del quale passa uno notabile fiume, e di luogo in luogo a due tiri di balestra vi sono case co' loro giardini piccioli, con varii arbori di diversi frutti e con erbe e fiori odoriferi. E certamente è cosa bella da vedere la vaghezza e grandezza di questo giardino, nel quale alloggiammo in quel giorno; e gli abitatori ne fecero ogni possibil servigio. Il giorno seguente ne partimmo, e a otto ore del giorno arrivammo ad una gran terra nominata Iattepeque, nella quale n'aspettava un gran numero di gente nemica: ed essendo noi giunti là, parve che volessero portarsi con noi pacificamente, o da paura oppressi o per ingannarci, perciochè subito senza venire a convenzione alcuna cominciarono a fuggir e abbandonar la terra. E io non mi curai punto di dimorare in essa, ma con que' trenta cavalli gli perseguitammo per spazio di due leghe insin che gli serrammo in un'altra terra, la quale è chiamata Giluteque, dove molti ne ferimmo e uccidemmo, trovando gli abitatori molto sprovisti, perciochè noi arrivammo là prima che giungessero le loro spie, e alcune di loro furono uccise. Pigliammo assai donne e fanciulli; tutti gli altri fuggendo scamparono. Io dimorai in quella terra due giorni, pensandomi che 'l signor di quella dovesse venire per rendersi suddito a Vostra Maestà; e non essendo venuto, nel partir mio ordinai che fusse dato fuoco alla terra. E prima che mi partissi de lí vennero da me certi d'un'altra terra che era piú avanti, nominata Iattepeque, e umilmente mi pregarono che io perdonassi loro i loro errori, poichè volevano esser vassalli di Vostra Maestà: e io gli ricevetti benignamente, essendo stati già castigati secondo che meritavano.


Dell'acquisto della città chiamata Coadinabaced, e come l'abbrucciorono. In che modo si scusassero i nemici perchè cosí tardi si rendessero. Come gli Spagnuoli presero la miglior parte della bellissima città detta Sichimilco e dipoi, andati adosso a' nemici che s'erano ragunati in gran numero, gli fecero voltar le spalle; e il pericolo che scorse il Cortese.

Il medesimo giorno ch'io mi partii, giunsi dinanzi ad una certa terra fortissima nominata Coadinabaced, nella quale erano molti uomini da combattere; e la terra era molto forte, essendo circondata di monticelli e di spelonche di tanta profondità quanta saria l'altezza della statura di dieci uomini insieme, e a cavallo non vi si poteva andare se non da due luoghi, i quali allora non gli sapevamo, e per poter entrar da quei luoghi era necessità d'andare attorno per spazio di una lega e mezza. Potevamo anco entrar per ponti di legno, ma gli avevano levati via, ed erano posti in sí alto luogo e sicuro che, se fussimo stati dieci volte tanti, ci averiano stimati per niente; e quando ci approssimavamo, ne aventavano molte freccie, sassi e bastoni aguzzati. Mentre combattevamo di questa maniera, un certo Indiano di Tascaltecal, non visto da' nemici, saltò oltra per un luogo molto difficile. Subito che gl'Indiani lo viddero, si pensarono che gli Spagnuoli fussero entrati de lí, e a questo modo soprapresi da maraviglia e da spavento si diedero a fuggire, e quell'Indiano e quattro miei servidori gli perseguitarono; e due capitani poi, subito che viddero l'Indiano passato, lo seguitarono e passarono anch'essi. Io co' cavalieri cominciai andare attorno quei luoghi insino al monte per poter trovare l'entrata nella terra, e gl'Indiani nemici nostri sempre tiravano contra di noi e freccie e bastoni aguzzati, perciochè tra loro e noi non v'era se non lo spazio d'una spelonca in modo d'una fossa. Ed essendo intenti alla battaglia cominciata con noi, e non avendo ancora visti quei cinque cavalieri spagnuoli, furono da loro assaliti di dietro alla sprovista e cominciati a ferire. Ed essendo stati trovati tanto sprovisti, e non si pensando di poter esser offesi di dietro, perciochè non avevano saputo che li compagni avessero abbandonato il passo donde quell'Indiano e gli Spagnuoli erano passati, stavano maravigliati e non avevano ardir di combattere, e gli Spagnuoli n'uccidevano qualcuno; ma poichè viddero la verità della cosa, cominciarono a darsi a fuggire. E già li nostri erano entrati nella terra e l'avevano cominciata ad abbrucciare, e gli nemici tutti fuggivano, e cosí fuggendo si ritirorno al monte, benchè molti di loro ne morissero, e li cavalieri spagnuoli n'uccisero molti.
Poichè avemmo trovata l'entrata nella terra circa a mezzogiorno, ci fermammo in quella in una certa casa posta in un giardino, perciochè già la terra era del tutto abbrucciata e l'ora già tarda. Il signor della terra e alcuni de' principali, vedendo che in luogo sí difficile e sicuro non s'erano potuti difendere, temendo che salissimo il monte per uccidergli, deliberarono di venire ad offerirsi per vassalli di Vostra Maestà, e io per tali gli ricevetti, e mi promisero d'esser nostri amici per l'avenire. Questi Indiani e gli altri che venivano a sottomettersi per vassalli di Vostra Maestà, dopo l'abbrucciamento delle case e il saccheggiamento delle robbe, dissero che la cagione d'aver sí tardi presa l'amicizia nostra era stata perchè credevano far la penitenza de' commessi errori, quando patissero d'esser prima danneggiati, pensandosi che, avendo essi patito danno, noi non dovessimo portar loro piú odio.
Quella notte alloggiammo in quella terra, e il giorno seguente seguitammo il nostro viaggio per provincia e ville disabitate e senza acqua, la qual provincia e anco la cima d'un monte trapassammo con grandissima fatica e stenti e senza aver da bevere, di maniera che molti degl'Indiani che erano con esso noi morirono di sete. E sei leghe lontano da quella città ci riposammo in una certa abitazione. E all'alba avendo seguitato il nostro viaggio, giungemmo in vista d'una bellissima città nominata Sichimilco, la quale è posta in un lago d'acqua dolce; e gli abitatori di quella, avendo molto prima inteso la nostra venuta, avevano fatti molti argini e fossi, e avevano levati li ponti di tutti li luoghi donde s'entrava nella detta città, che è lontana dalla famosa Temistitan tre o quattro leghe; e in essa erano molti uomini valorosi, li quali avevano determinato o di difendere la città o di morire. Quivi essendo giunto e avendo posti li soldati in ordinanza, smontai da cavallo e in compagnia d'alquanti fanti arrivai ad un certo argine che avevano fatto, doppo il quale era nascoso gran numero di gente; e quando cominciammo a combatter l'argine, perciochè li balestrieri e gli schioppettieri facevano loro grandissimo danno, l'abbandonarono, e gli Spagnuoli entrarono in acqua e, passati avanti, trovarono terra, e per spazio di mezz'ora che combattemmo con loro pigliammo la miglior parte della città. E gli nemici ritirandosi montarono nelle lor canoe e combatterono con noi fin che sopravenne la notte, e alcuni dimandavano la pace e altri per questo non lasciavano di combattere, e molte volte accennavano di voler la pace, ma non vennero mai ad effetto, onde ci trovammo beffati da loro: e questo facevano prima per trasportar fra questo mezzo le lor robbe, e poi per indugiar tanto che quegli di Messico e di Temistitan giugnessero in lor soccorso. In quel giorno uccisero due Spagnuoli, i quali per far preda s'erano separati dagli altri, e furono in tanta strettezza che non si poté mai dar loro aiuto.
La sera gli nemici cominciarono a pensar come potessero far che non potessimo uscir mai vivi dalla lor città, e raunatosi un gran numero di loro deliberarono di assalirci da quella parte donde eravamo entrati. E vedendogli venire ci maravigliammo grandemente del lor valore e prestezza, e sei cavalieri e io, che eravamo piú apparecchiati degli altri, andammo loro adosso. Essi, sbigottiti per lo strepito de' cavalli, voltarono le spalle, e cosí gli perseguitammo fuori della città uccidendone molti, benchè stessimo in grandissimo pericolo, perciochè combattevano sí vigorosamente che molti di loro ebbero ardire d'aspettar li cavalli con le loro spade e rotelle. Ed essendo noi mescolati con loro e avendogli perseguitati per molto spazio, essendo già stanco il mio cavallo cadette, e gli nemici vedendomi a piedi, alcuni di loro si mossero contra di me: io cominciai a difendermi con la lancia, e un Indiano di Tascaltecal molto conosciuto da me, vedendomi serrato in quel pericolo, corse per aiutarmi, ed esso col mio servidore che venne levarono suso il cavallo. E in quel punto sopravennero gli Spagnuoli e gli nemici se ne fuggirono, e io insieme co' cavalieri, essendo già stanchi, ritornammo nella città. E benchè s'avicinasse la notte e noi ci dovessimo riposare, nondimeno comandai che tutti i ponti alzati da' quali passava l'acqua fussero serrati, ripieni con sassi e cespugli che quivi si trovavano, acciochè i cavalli potessero entrar nella città e uscir senza fatica o pericolo; e non mi parti' de lí finchè quelle cattive strade non furono racconcie, e quella notte la passammo con grandissimo ordine di guardie.


Come i nemici deliberarono circondar Sichimilto per terra e per acqua, e in che modo il Cortese li ruppe, e dipoi rotti e messi in fuga due altri squadroni, e il Cortese, fatta abbrucciar la città, si partí.

Il giorno seguente tutti gli abitatori di Messico e di Temistitan, conoscendo che noi eravamo nella città di Sichimilco, deliberarono di circondarne in qualche modo per terra e per acqua, pensandosi che noi non potessimo scampare. Io montai sopra una torre dedicata ai loro idoli, per guardar che ordine tenessero e donde ne potessero assaltare, per dar rimedio a quanto bisognava. E avendo apparecchiato ogni cosa, venne un grandissimo numero di canoe, che arrivava a piú di duemila, nelle quali erano piú di dodecimila uomini, e per terra veniva tanta moltitudine che copriva tutta la pianura; e i lor capitani che andavano avanti portavano in mano delle nostre spade, gridando: "Messico, Messico! Temistitan, Temistitan!" e dicendone molte villanie, e minacciando di volerne uccidere con quelle spade, che ne aveano tolte nella città di Temistitan. E avendo già ordinato qual luogo dovesse tener ciascun capitano, perchè di verso terra ferma veniva infinito numero di nemici, gli assaltai con 25 a cavallo e 500 Indiani di Tascaltecal; e dividendoci in tre parti comandai che, poichè avessero combattuto, si ritirassero alle radici d'un monte, il quale era distante per spazio di mezza lega, perciochè anco molti de' nostri nemici quivi s'erano fermi. Essendo cosí divisi, ciascuna schiera da per sé assaltò gli nemici, e avendogli combattuti e feriti, e anco uccisone molti, ci ritirammo alle radici del monte, dove comandai a certi fanti miei famigliari che già m'avevano servito, i quali erano molto destri, che provassero di salire il monte da quella parte che paresse piú aspra, e io co' cavalli circonderei il monte dove il luogo era piú piano, e cosí gli torremmo in mezzo: come avvenne, perciochè, mentre viddero che li Spagnuoli salivano il monte, pensandosi di poter fuggire sicuramente, voltarono le spalle e s'incontrarono in noi, che eravamo 15 a cavallo. Insieme con quelli di Tascaltecal andammo loro adosso, di modo che in breve spazio furono uccisi piú di 500 di loro, e gli altri tutti scamparono e fuggirono a' monti. Gli altri nostri sei a cavallo per sorte erano entrati in una strada larga e piana, ferendo i nemici, e lontano una lega e mezza da Sichimilco trovarono una schiera di soldati che venivano per soccorrer gli nemici, e, avendone feriti molti, gli misero in rotta.
Noi, essendo già tutti ridotti insieme, circa a dieci ore di giorno ritornammo nella città di Sichimilco, dove ritrovai molti Spagnuoli che aspettavano il nostro ritorno per sapere quel che ne fusse avvenuto: e mi esposero che erano stati in grandissimo pericolo e avevano fatto ogni loro sforzo di cacciar via gli nemici, de' quali n'aveano ucciso grandissimo numero; e mi donarono due spade che i nostri l'avevano tolte agl'Indiani, dicendomi che li balestrieri non aveano piú saette, né gli schioppettieri piú polvere. E stando cosí, prima che smontassimo da cavallo, sopravenne un grandissimo squadrone di nemici per una strada larga mattonata, con grandissime grida. Noi subito andammo loro adosso, ed essendo il lago dalle due bande della strada, essi vi si gettarono dentro, e a quel modo gli rompemmo: e cosí, ridotti insieme li soldati, essendo noi molto stanchi, ce ne ritornammo nella città, e comandai che tutta fusse abbrucciata, salvo l'albergo dove noi alloggiavamo. Stemmo tre dí in questa città, né passammo giorno alcuno senza combattere; finalmente, lasciandola arsa e distrutta, ne partimmo. E veramente ella era bella, essendovi molte case e torri dedicate a' loro idoli, fatte di pietre quadrate; ma, per non esser piú lungo, lascio molte cose maravigliose che erano in questa città.


Come, partendosi gli Spagnuoli, gli abitatori di Sichimilco gli assalirono di dietro, e il Cortese gli affrontò e combattette, di maniera che furono sforzati saltar in acqua. Come giunse a Cuioacan città, la quale era vota di abitatori. Visto e considerato il sito della città, e andati alla riva del lago, presero uno argine con grande uccisione di nemici. Vanno alla città di Tabuca; sono presi due giovani del Cortese; assaltorno un'altra volta i nemici e ne uccidono molti.

In quel giorno che io mi partii, uscii fuori della città ad una certa piazza che è in terra ferma appresso la città, nel qual luogo gli abitatori fanno i lor mercati; e ponevo ordine che dieci a cavallo tenessero la prima schiera, e 10 altri la schiera de' fanti nel mezzo, e io con 10 altri l'ultimo squadrone. Gli abitatori di Sichimilco, vedendo che noi marciavamo, pensandosi che noi ci partissimo per paura, ci assalirono di dietro con grandissimi gridi, e io insieme con dieci a cavallo gli affrontammo, combattendo di maniera che gli sforzammo saltare in acqua, sí che non ne perseguitarono piú avanti. E a questo modo seguitammo il nostro cominciato viaggio, e a dieci ore di giorno giugnemmo alla città di Cuioacan, che è lontana due leghe da Sichimilco e dalle città di Temistitan, Culuacan, Uchilubuzco, Iztapalapa, Cuitagnaca e Mizqueque, le quali tutte sono poste in acqua, e di queste niuna è distante l'una dall'altra piú d'una lega e mezza. Noi trovammo la predetta città vota di abitatori, dove alloggiammo nel palazzo del signore della città, e quivi stemmo e quel giorno che v'entrammo e il seguente. E avendo deliberato, finiti li bregantini, d'assediar la città di Temistitan, volsi prima vedere il sito di questa città, e donde s'entrava e usciva, e in che luogo gli Spagnuoli potessero offendere ed essere offesi. Il giorno dopo ch'io fui arrivato, insieme con cinque a cavallo e dugento fanti andai alle rive del lago, che era appresso la via mattonata che entra nella città di Temistitan, e vedemo tante canoe piene di soldati, che 'l lor numero era quasi infinito. E giunti all'argine che avevano fatto in quella via mattonata, i fanti cominciarono a combatterlo, e benchè fusse gran combattimento, e facessero gran resistenza, e fussero feriti dieci Spagnuoli, nondimeno alla fine lo presero con grande uccisione de' nemici, avenga che li balestrieri e gli schioppettieri rimanessero senza polvere e senza saette. Da questo argine vedemmo la detta via mattonata a diritto cammino per acqua andare alla città di Temistitan per spazio d'una lega e mezza, la quale, insieme con quella che va alla città d'Iztapalapa, era piena d'infinito numero d'uomini. E considerato ciò che io desideravo di vedere, perciochè in quella città aveva da stare la guardia de' cavalli e de' fanti, ragunai li nostri e cosí ritornammo, abbrucciando le case e le torri de' loro idoli.
E il giorno seguente ci partimmo da questa città, andando alla città di Tacuba, che è distante due leghe; e giugnemmo là a dieci ore di giorno combattendo da ogni banda, perciochè gli nemici uscivano dell'acqua per assalir gli Indiani che portavano le nostre bagaglie, ma si trovavano ingannati, sí che ne lasciavano andare in pace. Ed essendo, come ho detto, l'opinion mia d'andare attorno tutto 'l lago, per vedere e conoscer meglio il sito della provincia e anco per dar aiuto agli Indiani amici nostri, non volsi dimorare in Tacuba. Quando gli abitatori di Temistitan, che gli è vicina (perciochè tanto si estende la città che arriva insino alla terra ferma della detta città di Tacuba), viddero che noi andavamo piú oltra, crebbe loro l'animo, e con grandissima allegrezza cominciarono ad assalire le nostre bagaglie; ed essendo noi a cavallo, e molto bene in ordinanza, e nella pianura, senza nostro disaggio facevamo gran danni a' nemici. E correndo or là or qua, io ero alle volte seguitato da certi giovani miei intrinsechi famigliari, e una volta fra l'altre due di loro non mi seguitarono, ma andarono in luogo dove furono presi da' nemici. Per la qual cosa ci pensammo che gli dovessero punire grandissimamente, come sogliono fare, e Iddio mi è testimonio quanto dolore io n'avessi, sí perchè erano cristiani, sí anco perchè erano valent'uomini, e in questa guerra avevano molto ben servito alla Maestà Vostra. Essendo noi usciti di questa città, cominciammo a seguitare il nostro viaggio per l'altre terre circonvicine, e, appressandoci alla moltitudine, ivi conobbi gli Indiani aver fatti prigioni quei miei giovani. Io per vendicar la lor morte, e perchè anco gli nemici ne perseguitavano con le maggior grida che si possano dire, con venti a cavallo andai a pormi in aguato dopo certe case. Gli Indiani, vedendo gli altri dieci a cavallo con le bagaglie e il resto delle genti andare avanti, sempre gli seguitavano per una strada che era larga e piana, senza sospettar di cosa alcuna. E avendo veduto già esserne passati alcuni, diedi il segno chiamando il nome di san Giacomo e gli assaltammo vigorosamente, e prima che ne conducessero alli fossi, che erano vicini, avevamo uccisi di loro piú di cento, e de' principali e valorosi: e non ne volsero seguitar piú oltra.
Quel giorno andammo a riposarci alla città di Coatincan, tutti stanchi e bagnati, essendo piovuto assai: e già l'ora era tarda, e trovammo la città vota d'abitatori. Il giorno seguente ricominciammo a seguitare il nostro viaggio, sempre combattendo con qualcheduno degli Indiani che gridando ne venivano ad assaltare. La sera andammo ad alloggiare ad una certa terra nominata Gilotepeque, e la trovammo tutta disabitata. E l'altro giorno a dodeci ore del dí arrivammo alla città d'Aculman, che è sottoposta al signore di Tessaico, dove ci riposammo quella notte; e fummo molto ben ricevuti dalli Spagnuoli, e si rallegrarono grandissimamente della nostra ritornata, perciochè dopo la partita mia da loro non n'avevano avuto mai nuova alcuna insino a quel giorno che noi arrivammo, ed erano stati con molti sospetti nella città, avendo i cittadini ogni giorno fatto loro intendere che quei di Messico e di Temistitan erano per far guerra contra d'essi, mentre io andavo vedendo quei luoghi. E cosí fu deliberato in quel giorno (il che fu cosa maravigliosa), nel quale la Maestà Vostra acquistò grandissima utilità, per molte ragioni che poi racconteremo.


Come gli Spagnuoli ch'erano in Tepiaca ebbero aviso e lettere dalli Spagnuoli ch'abitavano Chinanta, le qual lettere quel governatore mandò al Cortese.

In quel tempo, Signor potentissimo e invitissimo, ch'io dimoravo nella città di Temistitan, dal principio che arrivai là, come nella prima relazione ho narrato alla Maestà Vostra, in due o tre provincie assegnate a questo si facevano per nome di Vostra Maestà certe case per abitazioni de' lavoratori, e altre cose simili a quelle che si costuma di fare nella patria. Ad una di quelle, che è nominata Chinanta, mandai due Spagnuoli, la qual provincia non è sottoposta a Culua. E nell'altre che gli erano suddite, nel tempo che io ero assediato nella città di Temistitan, avevano uccisi quegli Spagnuoli che dimoravano in quei luoghi, e fecero preda di tutte le lor cose che ivi si trovavano, le quali, avendo riguardo al luogo, erano di gran momento. E delli Spagnuoli che erano rimasti a Chinanta passò un anno prima ch'io n'udissi nuova alcuna, perciochè, essendosi ribellate tutte quelle provincie, essi non potevano aver novella di noi, né noi di loro. Questi abitatori di Chinanta, essendo vassalli di Vostra Maestà e nemici di quei di Culua, fecero intendere alli predetti cristiani che per niun conto si partissero dalla lor provincia, perchè quei di Culua ne avevano combattuti grandemente, e pensavano che di noi fussero rimasti pochi o nessuno. E cosí li detti Spagnuoli si fermarono in quella provincia, e fecero capo uno di loro, che era giovane e bellicoso; e fra questo mezzo insieme con essi assaltava gli nemici, e il piú delle volte esso e gli abitatori di Chinanta avevano vittoria. Ed essendoci per l'aiuto d'Iddio alquanto rifatti, e avendo cominciato ad aver qualche vittoria de' nemici, che n'avevano battuti e cacciati della città di Temistitan, gli abitatori di Chinanta fecero a sapere a quegli Spagnuoli che essi avevano inteso gli altri Spagnuoli esser nella provincia di Tepeaca; e se essi desideravano saper la verità, mandassero due Indiani, e, avendo da passar per molte provincie de' nemici, dovessero tener cura d'andar di notte e fuori della strada ordinaria, finchè giugnessero a Tepeaca. E uno degli Spagnuoli, che era piú prudente degli altri, ne mandò lettere del seguente tenore.


Lettere degli Spagnuoli che abitavano in Chinanta agli Spagnuoli ch'erano in Tepeaca.

Nobili Signori, ho scritto alle nobiltà vostre due o tre lettere, ma non so già se vi siano state portate: io non ho avuto risposta alcuna d'esse, e parimente dubito questa non poter pervenire alle vostre mani. Faccio intendere alle nobiltà vostre che tutti gli abitatori di Culua si sono ribellati e fannoci guerra, e ne hanno assaltato piú volte; nondimeno a laude dell'onnipotente Iddio abbiamo ottenuto vittoria, e continuamente facciamo guerra con gli abitatori di Tuxtebeque e confederati di Culua. Li sudditi e vassalli della sacra Maestà, che sono sette città della provincia di Tenez, e io e Nicolò che siamo stati sempre in Chinanta, la quale è la principale, desidereriamo grandissimamente saper dove si trovi il capitano, per potergli mandar lettere e renderlo certo di tutte le cose che qui sono state fatte. E se mi darete aviso dove si trovi e mi manderete venti o trenta Spagnuoli, volentieri me ne verrò là con due abitatori di queste provincie, i quali similmente desiderano vedere il capitano e parlargli: il che saria molto a proposito, perciochè, sopravenendo già il tempo di raccogliere il cacap, quegli di Culua facendone guerra non lo permetteranno. Il Signore conservi le vostre nobili persone, come esse medesime desiderano.
Di Chinanta, non so qual dí d'aprile 1521.
Al servizio delle S.V.
Ferdinando di Aartuntos.

Subito che li detti Indiani giunsero alla provincia di Tepeaca con la sopra scritta lettera, il governatore ch'io avevo lasciato quivi con alcuni Spagnuoli sollecitò che mi fusse portata alla città di Tessaico. La qual ricevuta avemmo grandissimo piacere, imperochè, se ben io conoscevo il fedelissimo animo di quei di Chinanta, nondimeno istimavo che, se si fussero confederati con quei di Culua, ariano uccisi quegli Spagnuoli che ivi si trovavano. A' quali subito risposi, avisandogli di tutte le cose che erano avenute, e che sperassero, benchè fussero circondati d'ogn'intorno, che col favor d'Iddio tosto sariano liberi e securamente potrebbono entrare e uscire.


Come il Cortese, fatta una machina per condur i brigantini nel lago, e fatta la rassegna de' soldati, e quelli esortati a portarsi valorosamente contra nemici, mandò nunzii a Tascaltecal, Guasucingo e Churultecal, che venissero a trovarlo con quel piú numero di gente e piú fiorite che li fusse possibile: e cosí vennero, secondo l'ordine dato loro, con piú di cinquantamila combattenti.

Poichè fummo andati attorno al lago, dalla qual vista comprendemmo piú modi da potere e per acqua e per terra assediar Temistitan, dimorai nella città di Tessaico, apparecchiando il meglio che si poté e genti e arme, e usando diligenza in far fornire i brigantini e una certa machina da condurgli al lago, la quale fu cominciata a fabricare subito che arrivarono le travi e le tavole di detti brigantini, in un certo fossato che era dinanzi alle case della città e scorreva tanto che entrava nel lago. E da quel luogo dove furon fatti li brigantini e la detta machina, insino al lago vi è la distanzia quasi di mezza lega. E a quest'opera attesero ogni giorno da ottomila uomini degli abitatori d'Aculuacan e di Tessaico, perciochè quella machina era di altezza quanto saria la statura di due uomini, di modo che li brigantini potevano esser condotti al lago senza pericolo e fatica: la qual opera fu grande e degna di maraviglia. Finiti li brigantini e posti sopra la machina, alli XXVIII d'aprile del predetto anno feci la rassegna di tutte le nostre genti e trovai ottantasei cavalieri, cento e diciotto fra balestrieri e schioppettieri, e settecento e piú fanti con le spade e rottelle, e tre gran pezzi d'artegliaria di ferro, e quindeci piccioli di bronzo, e dieci centinaia di polvere. E avendo fatto la mostra, comandai a tutti gli Spagnuoli che quanto fusse possibile e servassero e adempissero gli ordini che io avevo posti tra loro per le cose della guerra, e stessero di buon animo e prendessero forze e ardire, vedendo che Iddio ci dava il modo d'aver la vittoria contra gli nemici nostri. E molto ben sapevano che noi, quando entrammo nella città di Tessaico, non avevamo piú di quaranta cavalli, e Iddio ci avea dato migliore aiuto che noi non pensavamo, e che erano venute navi piene di cavalli e d'uomini e d'arme; delle qual cose tutte essi aveano certa notizia, e principalmente conoscevano che, combattendo noi per favore e accrescimento della nostra santa fede, e per costrignere a servizio di Vostra Maestà tante città e provincie le quali si erano ribellate, essi meritamente dovevano deliberare o di vincere o di morire. Risposero e mostrarono d'esser apparecchiati a questo, e con gran desiderio. E quel giorno che fu fatta la rassegna de' soldati stemmo in grandissima allegrezza e desiderio di veder l'assedio e finir questa guerra, dalla qual dipendeva tutta la pace e ruina di queste provincie.
Il giorno appresso mandai nunzii a quei della città di Tascaltecal, di Guassucingo e Churultecal, per avisar che li brigantini erano finiti e che io con tutti li soldati ero apparecchiato per andar all'assedio di Temistitan; per la qual cosa gli pregavo che, avendogli io avisati, e avendo le lor genti apparecchiate, essi con le maggiori e piú fiorite genti venissero a trovarmi alla città di Tessaico, dove io gli aspetterei dieci giorni: e per nulla dovessero mancare, perciochè sariano di grandissimo impedimento a tutto ciò che io avevo disegnato di fare. Essendo arrivati li nunzii ed essendo le genti apparecchiate, e desiderando d'affrontarsi con quei di Culua, gli abitatori di Guassucingo e di Churultecal andarono alla città di Calco, perciochè io avevo ordinato che dovessero entrar da quella parte per assediar la città. Li capitani delle genti di Tascaltecal, accompagnati da valorosi soldati e atti alla guerra, se n'andarono alla città di Tessaico cinque o sei giorni avanti la Pasqua dello Spirito Santo, che fu il tempo a loro assegnato. E sapendo io il giorno che s'approssimavano, andai loro incontra con grandissima allegrezza; ed essi venivano tanto allegri e ordinati che non si potrebbe dir meglio, e secondo che ci fu detto da' capitani erano piú di cinquantamila combattenti, i quali furono ricevuti da noi benignamente e bene alloggiati.


L'ordinanza che fece il Cortese della fanteria e cavalleria; i capitani e le genti loro assegnate per guardia di tre città, cioè Tacuba, Culoacan e Iztapalapa; dove di passo in passo alloggiarono le genti. Come un capitano messe in rotta i nemici, tolse l'acqua che entrava nella città di Temistitan. Come fecero acconciar le strade, ponti e fossati ch'erano intorno il lago,
e ogni giorno facevano battaglie e scaramuccie co' nemici.

Il secondo giorno dopo Pasqua comandai che tutta la fanteria e cavalleria si ritrovasse nella piazza di questa città, per metterla in ordinanza e assegnare a' capitani quel numero di gente che dovevano menare alla guardia di tre città, le quali era necessario di guardare, essendo elle attorno la città di Temistitan. E d'una delle guardie feci capitano Pietro d'Alvarado, assegnandogli trenta cavalieri, diciotto tra balestrieri e schioppettieri e cinquanta fanti con le spade e rotelle, e piú di venticinquemilla uomini da combattere di quei di Tascaltecal, i quali dovevano porre il campo nella città di Tacuba. Alla seconda guardia diedi per capitano Cristoforo Dolid, al quale assegnai trentatre a cavallo, diciotto fra balestrieri e schioppettieri e centosettanta fanti armati a spada e rotella, e piú di ventimila uomini indiani amici nostri: e questi dovevano mettere il lor campo alla città di Cuioacan. Della terza guardia feci capitano Consalvo di Sandoval, esecutor maggiore, e a lui assegnai ventiquattro a cavallo, quattro schioppettieri e tredici balestrieri e centocinquanta fanti con spada e rotella, tra' quali erano quei cinquanta giovani eletti ch'io avevo sempre appresso di me, e tutte le genti di Guassucingo, di Churultecal e di Calco, che arrivavano alla somma di trentamila uomini: e questi dovevano andare alla città d'Iztapalapa per distruggerla, e dipoi andar piú avanti per la via mattonata, con l'aiuto de' brigantini, e congiugnersi con la guardia posta alla città di Cuioacan, acciochè, entrato ch'io fussi ne' brigantini, il detto maggiore esecutore s'accampasse con le sue genti in luogo piú commodo e piú conveniente che fusse possibile. Per li brigantini co' quali io dovevo entrar nel lago lasciai trecento uomini, per lo piú assuefatti al mare e destri, di modo che in ciascun brigantino erano venticinque Spagnuoli, e ogni brigantino aveva il suo capitano e il suo nocchiero, e sei tra balestrieri e schioppettieri.
Dato il sopradetto ordine, due capitani che dovevano essere con le genti nella città di Tacuba e di Cuioacan, avendo avuta la instruzione di tutte le cose che avevano da fare, si partirono dalla città di Tessaico alli dieci di maggio, e la sera andarono ad alloggiare distante de lí due leghe e mezza, ad una buona terra nominata Aculman. E quel giorno intesi che tra' capitani era stato contesa circa gli alloggiamenti, e la sera subito vi posi fine pacificando ogni cosa, perciochè in quel giorno mandai uno che gli riprese. E il dí seguente si partirono e andarono ad un'altra terra nominata Gilotepeque, la qual trovarono disabitata, che già erano entrati nelle provincie de' nemici; e il dí seguente seguitarono il viaggio con le lor genti in ordinanza, e la notte si riposarono in una certa città nominata Coantican, della quale ho fatto menzione alla Maestà Vostra, e parimente la trovarono disabitata. E il medesimo giorno trapassarono due città e due terre nelle quali non era persona alcuna, e ad ora di vespro entrarono nella città di Tacuba, che similmente era disabitata, e alloggiarono nelle case del signor di quella, le quali sono e belle e grandi: e benchè fusse l'ora tarda, andarono alle strade mattonate che conducono a Temistitan e combatterono per tre ore con quei della città, ma, essendo sopravenuta la notte, se ne ritornarono senza alcun pericolo nella città di Tacuba.
Il giorno seguente, la mattina a buon'ora, quei due capitani si consigliarono in che maniera potessero volgere altrove l'acqua dolce che entrava per canali nella città di Temistitan, e uno di loro andò al nascimento del fiume, accompagnato da venti cavalli e da alquanti balestrieri e schioppettieri. Era il fiume lontano una quarta parte d'una lega, e quivi tagliò e ruppe li canali, che erano di legno e di pietre quadrate, e cominciò una crudel battaglia co' nemici che l'impedivano per acqua e per terra; finalmente gli mise in rotta e ispedí quel che egli era andato per fare, cioè per toglier l'acqua che entrava nella città: la quale impresa fu veramente d'uomo ardito e valoroso. Il medesimo giorno i capitani providdero che fussero acconcie alcune male strade e ponti e fossati che si trovavano quivi intorno al lago, acciochè li cavalli potessero scorrere qua e là. Finito questo, in che bisognò dimorar tre o quattro giorni, nei quali piú volte si venne a scaramuccie con quei di Temistitan, nelle quali alcuni Spagnuoli furono feriti e molti de' nemici uccisi, e li nostri presero assai argini e ponti, e nacquero parlamenti e duelli fra gli abitatori della città e quei di Tascaltecal (il che era cosa mirabile), subito il capitan Cristoforo Dolid, che doveva esser alla guardia nella città di Cuioacan all'assedio, la quale è distante due leghe da Tacuba, si partí co' suoi soldati; e il capitan Pietro d'Alvarado rimase all'assedio della città di Tacuba, dove ogni dí facevano qualche battaglia e scaramuccia con gli abitanti della città.
E quel giorno che Cristoforo Dolid si partí per Cuioacan, esso co' compagni giunsero a dieci ore di giorno, e fermarono d'alloggiare nel palazzo del signor della città, la qual trovarono vota d'abitatori. Il giorno seguente se n'andarono alla via mattonata per la quale si va in Temistitan, accompagnato da venti a cavallo e da alcuni balestrieri e forse da settemila Indiani di Tascaltecal, e trovarono gli nemici con grandissimo apparecchio, e la via mattonata tutta disfatta e fatti molti argini; ed entrati a battaglia con loro, i balestrieri ne ferirono e uccisero alcuni, e per spazio di sei giorni fu sempre fatta qualche battaglia e scaramuccia. Una notte tra l'altre le sentinelle de' nemici andarono a gridare appresso gli alloggiamenti de' nostri, e le sentinelle degli Spagnuoli gridando all'arme, li soldati uscirono degli alloggiamenti, ma non trovarono alcuno dei nemici, perciochè le grida erano state molto lontane dagli alloggiamenti: il che messe a' nostri qualche paura. E per trovarsi divisi in tante parti, li capitani delle due guardie desideravano la mia andata coi bregantini come lor propria salute, e con quella speranza stettero alquanti giorni, fin che io arrivai, come dirò di sotto. In questi sei gioRNi li soldati delli due campi ogni giorno si mettevano insieme, e la gente a cavallo, essendo vicini l'uno dell'altro, andava scorrendo per le provincie, ferendo e uccidendo de' nemici; e per uso del campo conducevano molto maiz, che è il pane che usano in questi paesi, ed è migliore di quello che nasce nell'isole.


Come il Cortese, mandato l'esecutor maggiore ad Iztapalapa, montò sui bregantini, e vedendo che si abbrucciava la detta città, sopra la quale stava gran moltitudine d'uomini de' quali niun scampò, se non le donne e fanciulli. Come, ridotto gran numero di canoe nel lago, gli Spagnuoli con vento prospero gli assaltarono e molti ne affogarono, e uccisero gran numero de' nemici, i quali furono altresí perseguitati dagli Indiani di Tascaltecal e dagli Spagnuoli, onde alcuni restarono morti e alcuni si gettarono in acqua.

Nelli precedenti capitoli ho racconto ch'io mi trovo nella città di Tessaico con trecento soldati spagnuoli e tredici bregantini, perciochè, quando sapessi le guardie essere in quei luoghi nei quali dovevano metter li lor campi, io sarei montato sui bregantini e per far qualche danno alle canoe e per veder la città. E benchè io desiderassi grandemente andar per terra per metter ordine nelli campi, nondimeno, essendo i capitani tali che mi potevo molto fidar di loro nelle cose ch'io avevo ordinate, ed essendo l'impresa de' bregantini di molta importanza e ricercando grandissimo ordine e ingegno, deliberai di montarvi suso, poichè maggior ventura e sorte s'aspettava per acqua, non ostante che li miei principali soldati mi facessero un protesto, secondo la forma che si richiede in farlo, ch'io andassi con le guardie, istimando essi che in questo fusse maggior pericolo.
Il giorno seguente, dopo la festa del Corpo di Cristo, all'alba comandai a Consalvo di Sandoval, esecutor maggiore, che uscisse della città di Tessaico con le sue genti verso Iztapalapa: e intorno a mezzodí arrivarono là, che era lontana per spazio di sei leghe, e cominciarono ad abbrucciarla e a combatter con gli abitatori, li quali, vedendo la potenza che aveva il detto esecutore maggiore, perciochè aveva piú di quarantamila uomini indiani amici nostri, si ritirarono all'acqua e montarono su le canoe. L'esecutore maggiore, con tutte le sue genti che menava, entrò nella detta città, e quivi dimorò tutto quel giorno, aspettando il successo della mia impresa. Avendo io licenziato l'esecutor maggiore, subito montai sui bregantini e n'andammo a vele e remi; e quando egli combatteva e abbrucciava la città d'Iztapalapa, arrivammo in vista d'un colle alto e forte che è presso alla città d'Iztapalapa, ed è tutto in acqua e fortissimo, sopra 'l quale stava grandissima moltitudine d'uomini e delle terre circonvicine e degli abitatori di Temistitan, avendo essi molto ben compreso che mi sarei messo prima a combatter Iztapalapa. Eransi fermi su questo colle per difendersi da noi e per offenderci se potessero, e vedendoci arrivar là cominciarono a gridare e far fumi, acciochè tutte le città poste nel lago, vedendogli, intendessero e stessero apparecchiate. E benchè la mia opinione fusse d'andare a combatter quella parte della città d'Iztapalapa che è appresso al lago, nondimeno assalimmo quegli che erano nel detto colle, e smontai con centocinquanta uomini: e se ben era erto e alto, pur cominciammo a salirvi con gran difficoltà, e per forza pigliammo gli argini che avevano fatti per lor difesa, e cosí entrammo, di modo che niun di loro scampò, se non le donne e i fanciulli. Furono in questa battaglia feriti venti Spagnuoli, nondimeno ottenemmo la vittoria.
Avendo gli abitatori d'Iztapalapa mandati fuori li fumi da certe torri d'idoli, che erano poste in un colle alto e vicino alla lor città, quegli di Temistitan e dell'altre città poste nel lago conobbero ch'io entravo nel lago co' brigantini, e subito si ridusse insieme gran numero di canoe per assalirci e venire a tentar che cosa fussero li brigantini, e, sí come potei comprendere, erano piú di cinquecento. E vedendo che venivano alla volta nostra, io e quegli che eravamo saliti sopra il colle scendemmo de' brigantini con grandissima prestezza, e comandai a' capitani de' brigantini che per niun modo si movessero, acciochè coloro che erano nelle canoe deliberassero d'assaltarci e credessero che noi avessimo paura non avendo ardir d'assaltargli: onde cominciarono con grande impeto a dirizzar le canoe contra di noi, nondimeno a due tiri di balestra si fermarono. E rivolgendomi per l'animo come potessi nel primo assalto ottener la vittoria, e far di modo che mettessimo un grandissimo spavento agli nemici, essendo in loro posta la somma di tutta la guerra, e pensando donde essi potevano da noi e noi da loro ricevere il maggior danno per acqua, piacque a Iddio che, mentre stavamo a guardarci l'un l'altro, si levasse un vento da terra molto a noi favorevole e prospero, di modo che potevamo andar loro adosso: e subito comandai a' capitani che dessero l'assalto alle canoe, perseguitandole finchè entrassero in Temistitan. Essendo il vento prospero, benchè fuggissero quanto potevano, entrammo con impeto nel mezzo de' nemici e rompemmo di molte canoe, e uccidemmo e affogammo gran numero de' nemici, perseguitandogli quasi per spazio di tre leghe, finchè gli forzammo entrar nelle case della città. E cosí piacque all'onnipotente Iddio che ottenessimo la maggiore e piú bella vittoria, che noi medesimi non avevamo dimandata né desiderata.
Coloro che erano all'assedio della città di Cuioacan e che potevano meglio vedere di che maniera eravamo portati da' brigantini, quando viddero li tredeci brigantini in acqua andar con vento prospero, e che battevamo tutte le canoe de' nemici, sí come poi mi raccontarono, ne ricevettero grandissimo piacere. E come ho detto di sopra, ed essi e coloro che erano all'assedio della città di Tacuba desideravano grandemente la venuta mia, e ragionevolmente, perciochè l'uno e l'altro esercito era circondato da tanta moltitudine de' nemici che miracolosamente Iddio dava l'ardire a loro e lo toglieva a' nemici, che non uscissero ad assaltare il lor campo; il che se fusse avenuto, non poteva esser senza danno degli Spagnuoli, benchè stessero sempre apparecchiati e avessero deliberato o di morire o d'ottener la vittoria, come quegli che erano lontani d'ogni soccorso, salvo da quello che speravano aver da Iddio. Mentre coloro che erano all'assedio di Cuioacan viddero che noi perseguitavamo le canoe, la maggior parte della gente a cavallo e de' fanti che ivi era cominciò a inviarsi verso la città, e aspramente combatté con gl'Indiani, e prese la strada mattonata e gli argini che avevano fatto. E li fanti e i cavalli passarono molti ponti, i quali già avevano levati, e con l'aiuto de' brigantini, che andavano insino alla strada mattonata, gl'Indiani di Tascaltecal amici nostri e gli Spagnuoli perseguitavano gli nemici, de' quali alcuni restavano morti e alcuni si gettavano in acqua dall'altro lato, dove non erano i brigantini. E con questa vittoria gli seguitarono piú d'una lega, finchè giunsero al medesimo luogo dove io mi ero fermo co' brigantini, come dirò di sotto.


Il Cortese prende due torri; vengono i nemici a mezzanotte e cominciano a combattere. Di diverse battaglie che in piú volte furon fatte con gran danno de' nemici. S'abbruccia una città e molte case del borgo; al maggior esecutore è trapassato un piede.

Avendo seguitato le canoe co' brigantini per spazio di tre leghe, quelle che scamparono entrarono fra le case della città. Ed essendo già passata l'ora di vespro, comandai che i brigantini si riducessero insieme, e con essi arrivai alla strada mattonata, e quivi deliberai di smontare in terra accompagnato da trenta Spagnuoli, per espugnar due picciole torri dedicate a' loro idoli, che erano cerchiate di muro non troppo alto di pietre quadrate: e quando smontavamo, combattevano crudelmente contra di noi per difenderle. E finalmente con gran pericolo e fatica avendo pigliate le dette torri, subito feci metter su la riva due pezzi d'artegliaria di ferro che portavo ne' brigantini, perciochè il resto della via mattonata da quel luogo insino alla città (che poteva esser lo spazio di mezza lega) era piena di nemici, e da amendue li lati della detta via era lago, e ogni cosa era piena di canoe, nelle quali erano genti da combattere. Comandai che fusse dirizzato un de' predetti pezzi d'arteglieria per la detta strada, col tiro del quale fu fatto gran danno a' nemici, e per negligenza di colui che metteva a segno l'arteglieria s'abbrucciò la polvere che quivi avevamo, benchè non fusse gran quantità: ed essendo venuta la notte, mandai un brigantino a Iztapalapa, dove si era fermato l'esecutor maggiore, che poteva esser lontana da due leghe, per condur tutta la polvere che egli aveva. E se bene da principio la mia opinione era, subito ch'io fussi entrato nel lago co' brigantini, d'andare alla città di Cuioacan e proveder che ogni cosa andasse con buon ordine, facendo ai nemici il maggior danno che si potesse fare, subito che quel giorno smontai in quella strada mattonata e presi quelle due torri, deliberai di porre quivi il campo, e che li brigantini stessero appresso quelle torri, e la metà delle genti poste all'assedio della città di Cuioacan e cinquanta fanti dell'esecutor maggiore il giorno seguente andassero là. Avendo ordinato la cosa a questo modo, quella notte stemmo vigilanti, perciochè eravamo in grandissimo pericolo, concorrendo tutta la moltitudine della città là a quella strada e discorrendo per il lago; e a mezzanotte venne un grandissimo numero di gente nelle canoe e per la strada per assalire il nostro campo, e certamente ne misero grandissima paura e spavento, specialmente essendo di notte, nel qual tempo essi non sogliono mai venire alle mani co' nemici, né si è veduto mai che siano venuti a battaglia di notte, salvo che quando hanno veduto la vittoria manifesta. E trovandoci noi apparecchiati, cominciammo a combatter con loro, e contra di loro tiravamo l'artegliaria dai brigantini, essendone un picciol pezzo in ciascheduno, facendo il medesimo anco li balestrieri e gli schioppettieri, onde non ebbero ardire di passar piú oltra; ma tanto s'erano appressati che ne fecero qualche danno. E ciò fatto, senza proceder piú avanti, consumammo il rimanente della notte.
Il giorno seguente all'alba vennero al nostro campo, che era posto in quella strada mattonata dove io stavo, quindeci tra balestrieri e schioppettieri e cinquanta con spade e rotelle e sette over otto a cavallo di quegli che stavano all'assedio di Cuioacan: e quando essi arrivarono, già gli nemici e per acqua e per terra combattevano con esso noi, e tanta era la moltitudine della gente e per acqua e per terra che non vedevamo altro che gente, e con tanti rumori e gridi che pareva che rovinasse il mondo. Noi cominciammo a combatter con loro in quella strada, e pigliammo un ponte che avevano levato e un argine che avevano fatto nell'entrata del ponte, e con le arteglierie e co' cavalli facemmo tanto danno, che gli sforzammo quasi entrar nelle prime case che si trovano andando alla città. E perchè dall'altro lato della strada non si potevano condur li brigantini, vi erano molte canoe, e con saette e con bastoni aguzzati ne facevano grandissimo danno, aventandogli contra di noi che eravamo nella strada; della quale feci rompere una parte, facendo passar quattro brigantini, i quali passati forzarono le canoe ritirarsi fra le case della città, di maniera che in niun modo aveano ardir di uscir piú fuori dell'altro lato della strada. I soldati che erano negli altri otto brigantini combattevano con l'altre canoe, e le cacciarono fin alle case della città, ed essi entrarono in mezzo di quelle: e se prima non avevano avuto ardir d'entrarvi, fu per esservi molti luoghi bassi d'acqua che gli impedivano l'entrata; ma avendola trovata poi e profonda e sicura, combattevano con quegli che erano nelle canoe, e pigliarono alcuni di loro, e abbrucciarono molte case di quel borgo. E consumammo tutto quel giorno in combatter nel modo che ho detto.
Il dí seguente l'esecutor maggiore, con tutte le genti che teneva in Iztapalapa, e Spagnuoli e Indiani amici nostri, se n'andò verso Cuioacan: e de lí fino in terra ferma è una via mattonata lunga una lega e mezza. E avendo camminato per una quarta parte d'una lega, arrivò ad una certa città, che similmente è posta nel lago, e per piú luoghi di quella può entrar gente a cavallo; e gli abitatori cominciarono a combatter con loro, ma il predetto maggiore esecutore gli mise in fuga, e n'uccise molti, e distrusse e abbrucciò la città. E perchè io avevo inteso che gli Indiani avevano disfatta una gran parte della detta strada, e quella gente non poteva commodamente passare, ordinai che dovessero andar là due brigantini che nel passare dessero loro aiuto: de' quali ne fecero ponti, e passarono di là a piedi, e passati che furono andarono ad albergare nella città di Cuioacan. E il maggiore esecutore con dieci a cavallo per la via mattonata arrivò al nostro campo, dove essendo giunto ne trovò a combattere co' nemici, onde esso, insieme co' cavalieri che erano venuti seco, diedero l'assalto entrando a combattere con gli uomini che erano in quella strada, co' quali noi eravamo mescolati. E quando egli cominciò a combattere, gli nemici gli trapassarono un piede con un bastone aguzzato; e benchè quel giorno ferissero e lui e molti altri de' nostri, nondimeno con le balestre e con gli schioppi facemmo loro grandissimo danno, di modo che né coloro che erano nella strada, né quegli che erano nelle canoe, ebbero ardir d'appressarsi tanto quanto facevano prima, e mostravano aver tema e minor audacia del solito. Stemmo in questo modo sei dí, combattendo con esso loro, e gli bregantini andavano attorno la città abbrucciando tutte le case che potevano; e trovarono una entrata d'acqua alta onde potevano circondar la città e tutti li borghi e passar dentro in quella, il che ci fu di molto aiuto, avendo in quel modo impedito la venuta delle canoe, perciochè nessuno aveva ardire d'appressarsi al nostro campo per spazio d'un quarto d'una lega.


Come il Cortese, inteso per qual vie uscivano ed entravano gli abitatori di Temistitan, mandò l'esecutor maggiore a quella volta. Come circondò la città per darvi l'assalto. Le città che s'erano ribellate e aiutavano i nemici. Come presero molti argini, torri e ponti, e due volte la piazza; quanto aspramente combatterono e con quanto pericolo; come uscirono combattendo, lasciato il fuoco alle piú belle case di quella contrada.

L'altro giorno Pietro d'Alvarado, che era capitano delle genti lasciate all'assedio della città di Tacuba, mi fece intendere come dall'altro lato della città, per la via mattonata che conduce a certe terre poste in terra ferma e per un'altra picciola a quella vicina, gli abitatori di Temistitan entravano e uscivano a loro piacere, e aveva opinione che uscissero tutti da quel luogo forzatamente. E benchè io desiderassi la loro uscita piú che essi medesimi, potendo noi piú facilmente far lor danno trovandogli alla campagna che nella fortezza che avevano in acqua, nondimeno avevo caro che fussero d'ogni banda circondati, e in niuna cosa potessero aver commodità alcuna di terra ferma; e avegna che l'esecutor maggiore fusse ferito, gli ordinai che andasse con le sue genti ad una picciola terra, dove arrivava una delle vie mattonate. Egli si partí accompagnato da ventitre a cavallo, da cento fanti e diciotto tra balestrieri e schioppettieri, e mi lasciò quei cinquanta fanti ch'io solevo sempre condur meco; e il giorno seguente arrivò là, e in quel luogo dove io gli avevo comandato pose gli suoi alloggiamenti, sí che fu attorno attorno posto l'assedio alla città di Temistitan, di maniera che niuno poteva uscir per quei luoghi donde per le vie mattonate si usciva in terra ferma.
Io avevo, potentissimo Signore, nel mio campo, che era posto in quella via, dugento fanti spagnuoli, tra i quali erano venticinque tra balestrieri e schioppettieri, senza li soldati messi alla guardia de' brigantini, che erano piú di dugentocinquanta. E tenendo noi gli nemici alquanto serrati, e avendo meco molti de' nostri amici indiani, uomini atti a combattere, ordinai d'entrar nella città per la detta via mattonata quanto piú gagliardamente potevo, e che li brigantini fussero apparecchiati dall'uno e dall'altro lato, acciò potessero fare spalle a' soldati. Dipoi comandai ad alcuni a cavallo e a' fanti a piè, di quegli che dimoravano nella città di Cuioacan, che venissero al nostro campo per dar l'assalto alla città insieme con esso noi, e dieci cavalli tenessero l'entrata di quella via, facendo spalle a noi mentre combattevamo; e alcuni ne rimasero nella città di Cuioacan, perciochè gli abitatori delle città di Sichimilco, Culuacan, Iztapalapa, Chilubusco, Mechichalcingo, Guitagnaca e Mizqueque, poste nel lago e già ribellatesi, aiutavano quei di Temistitan; e volendo essi assaltarne alle spalle, eravamo sicuri, difendendoci li detti dieci o dodeci a cavallo, i quali ordinai che andassero scorrendo per quella via, e altrettanti n'erano sempre nella città di Cuioacan, oltra li diecimila Indiani amici nostri. Similmente ordinai all'esecutor maggiore e a Pietro d'Alvarado che uscissero de' loro alloggiamenti e assaltassero la città, che dal mio lato prenderei d'essa la maggior parte ch'io potessi.
E con quest'ordine la mattina a buon'ora uscimmo de' nostri alloggiamenti e a piedi n'andammo per quella via mattonata, e appresso trovammo gli nemici che stavano in quella per difenderne una parte che n'avevano ruinata, di tanta larghezza quanto è lunga una lancia spagnuola, e di tanta altezza avevano fatto un argine: e combattendo insieme con loro valorosamente, alla fine lo pigliammo, e gli seguitammo insino all'entrata della città, dove era una torre dedicata a' lor idoli e a piè di quella un gran ponte alzato, sotto 'l quale passava un'acqua alta con un altro argine molto forte. Quando noi arrivammo là, cominciarono a combatter con esso noi; nondimeno lo pigliammo senza pericolo, avendo d'ogni banda li brigantini, senza l'aiuto de' quali saria stato impossibile di prenderlo. E avendo essi cominciato ad abbandonare l'argine, coloro che erano ne' brigantini smontarono in terra e noi altri passammo l'acqua, e similmente fecero gli abitatori di Tascaltecal, di Guassucingo, Calco e Tessaico, che erano piú di ottantamila persone. E mentre empievamo quel ponte di sassi e di mattoni crudi, gli Spagnuoli presero un altro argine, che era in una contrada delle principali e piú larghe che siano in tutta la città, il quale non essendo fortificato con l'acqua, fu cosa facilissima da prenderlo. E perseguitammo gli nemici per la medesima contrada, finchè arrivammo ad un altro ponte che avevano levato, salvo la trave larga, per la quale passavano: ed entrando per quella e per l'acqua sicuramente, presto lo pigliammo. Nell'altra parte del ponte avevano fatto un altro grande argine di cespugli e di mattoni crudi, ed essendo noi giunti là, non potevamo passar se non ci gettavamo in acqua, e questo era con grandissimo nostro pericolo, massimamente combattendo gli nemici molto vigorosamente: e da l'uno e l'altro lato della detta contrada era una infinita moltitudine di nemici, che con grande ardire combattevano dalle terrazze. Ed essendo arrivati là molti balestrieri e schioppettieri, e tirati due pezzi d'artegliaria per quella contrada, facevamo loro grandissimo danno; e sapendo questo, alcuni Spagnuoli si gettarono all'acqua e passarono all'altra riva, e stemmo due ore combattendo prima che potessimo pigliar quell'argine. E gli nimici, vedendo che passavano, abbandonando l'argine e le terrazze, si diedero a fuggir per quella contrada: e cosí passò tutta la gente, e io subito feci riempiere il detto ponte e disfar l'argine.
Tra questo mezzo gli Spagnuoli con gl'Indiani amici nostri seguitarono gli nemici per quella contrada per spazio d'un tiro di balestra insino all'altro ponte, che è vicino alla piazza e al palazzo, che è tra li principali alberghi della città. Questo ponte non l'avevano levato, né fattovi argine alcuno, perciochè si avevano pensato che noi quel giorno non dovessimo pigliar punto di quel che pigliammo, né anco noi pensavamo di poterne prender la metà. E nell'entrata della detta piazza posi un pezzo d'artegliaria, che faceva gran danno agli nemici, che erano di sí gran numero che non capivano nella piazza. Gli Spagnuoli, vedendo che non vi era acqua, nella quale suol esser pericolo, deliberarono d'entrar nella piazza. Li cittadini, vedendo che la deliberazione si mandava ad effetto, e vedendo la grandissima moltitudine degl'Indiani nostri amici, benchè ne facessero poca stima senza la presenza degli Spagnuoli, nondimeno si diedero a fuggire, essendo gli Spagnuoli e dagl'Indiani amici nostri seguitati tanto che gli sforzarono entrare in una piazza dove stanno i loro idoli, la qual è circondata di muro e, come si è detto nell'altra relazione, è di sí gran circuito che si potrebbe far dentro una città di quattrocento case. Questa piazza subito fu abbandonata da loro, e gli Spagnuoli e gli Indiani amici nostri la presero e si fermarono alquanto in quelle torri. Li cittadini, vedendo che non c'erano i cavalli, andarono addosso agli Spagnuoli e per forza gli cacciarono delle torri e della piazza, per la qual cosa li nostri si viddero in grandissimo pericolo, ed essendosi ritirati si fermarono piú a basso ne' portici della detta piazza; ma, essendo gravemente battuti da' nemici, ritornarono alla piazza, della quale essendo discacciati furono costretti a tornar nella contrada, di modo che ne tolsero un pezzo d'artegliaria che vi era. Gli Spagnuoli, non potendo sostener l'impeto de' nemici, con grandissimo pericolo si ritirarono: e con effetto sariano stati in grandissimo pericolo, ma piacque a Iddio che in quell'ora sopragiunsero tre a cavallo ed entrarono nella piazza. Gli nemici, avendogli visti, pensando che fussero maggior numero, si misero in fuga, e i nostri presero il cortile e la piazza della quale di sopra ho fatto menzione. Nella piú alta torre d'essa (la quale era piú di cento gradi insino alla sommità) dieci o dodeci de' principali della città si fortificarono, e quattro o cinque Spagnuoli vi salirono: e benchè si difendessero valorosamente, nondimeno gli Spagnuoli la presero e gli uccisero tutti. Dipoi vennero cinque o sei altri a cavallo, e gli ultimi insieme co' primi si posero a far insidie ai nemici, e n'uccisero piú di trenta. Ed essendo già l'ora tarda, comandai che si sonasse a raccolta.
Mentre li soldati si ritiravano, sopraveniva tanta moltitudine di nemici che, se li cavalli non soccorrevano gli Spagnuoli, era impossibile non cadere in grandissimo danno. E perchè io avevo molto bene acconci e li luoghi stretti e le strade mattonate, dove era il pericolo nel tempo che si ritiravano, si poteva per quelle scorrere agevolmente con li cavalli, e, quando gli nemici assalivano la nostra retroguarda, li nostri cavalieri gli andavano addosso e sempre ne ferivano e uccidevano qualcuno. Ed essendo la contrada assai lunga, poterono tre o quattro volte andar loro addosso: e benchè gli nemici vedessero farsi gran danno, nondimeno come cani rabbiosi tanto fieramente ci venivano addosso, che in niun modo gli potevamo sostenere né resistere, né far che non ci seguitassero. E averemmo in simil contesa consumato tutto quel giorno, se gli nemici non avessero preso di molte terrazze che soprastavano alla detta contrada, donde ci potevano offendere di sorte che li cavalli andavano a grandissimo pericolo. E a questo modo per la medesima via mattonata ritornammo alli nostri alloggiamenti, senza perdita di alcuno Spagnuolo, avenga che molti ne fussero feriti; e lasciammo il fuoco attaccato alle maggiori e piú belle case di quella contrada, acciochè un'altra volta ritornandovi non ci potessero offendere dalle terrazze.
Il giorno medesimo l'esecutor maggiore e Pietro d'Alvarado combatterono aspramente co' nemici della città, ciascuno dalla banda de' suoi alloggiamenti, e mentre combattevamo eravamo lontani per una lega e mezza, che tanto si estendevano i luoghi abitati della città. Benchè fusse picciolo spazio, gli amici nostri, che appresso di loro erano di numero infinito, combatterono vigorosamente, e si ritirarono agli alloggiamenti senza aver in quel giorno ricevuto danno alcuno.


Del soccorso dei trentamila uomini che mandò don Fernando agli Spagnuoli, e agli altri due eserciti s'aggiunsero ventimila uomini. Gli abitatori di Sichimilco e d'Otumia vengono ad offerirsi. Come il Cortese mandò tre brigantini all'esecutor maggiore e tre a Pietro Alvarado. Come gli Spagnuoli presero gli argini e aspramente combatterono, e attaccarono il fuoco nelle maggiori e piú belle case della piazza, dove solevano alloggiare.

Tra questo mezzo don Fernando, signor della città di Tessaico e della provincia di Aculuacan, del quale di sopra io ho fatto menzione, procurava di far diventar nostri amici tutti gli abitatori della città e provincia a lui sudditi, e massimamente de' principali, perciochè insino allora non erano confermati, come ultimamente si confermarono; e ogni giorno andavano al detto don Fernando varii signori e fratelli suoi, con intenzione di favorirci e combattere con quei di Temistitan e di Messico. Ed essendo il detto don Fernando giovane e molto affezionato, e conoscendo li benefici che gli ha fatti Vostra Maestà, vedendosi avere in dono cosí gran dominio, massimamente vedendo che di ragione gli altri dovevano essere anteposti a lui, sollecitava quanto piú egli poteva di far che tutti li suoi sudditi venissero a combattere contra quei di Temistitan, ed entrassero ne' medesimi pericoli e fatiche che noi pativamo. Parlò co' suoi fratelli, che erano sei o sette e giovani e atti alla guerra, e comandò loro che con tutti li suoi sudditi venissero a darci soccorso; e fece capitano uno di loro, nominato Istrusuchil, giovane di ventiquattro anni valoroso e amato da tutti, il qual giunse al nostro esercito, che era alloggiato nella via mattonata, accompagnato da trentamila uomini da combattere molto bene in ordine secondo la loro usanza, e agli altri due eserciti s'aggiunsero ventimila uomini; e io gli ricevetti benignamente e ringraziai del lor buon animo ed effetti verso di noi. Vostra sacra catolica Maestà potrà aver ben conosciuto se l'amicizia del nostro don Fernando sia stata buona, e di che animo fussero quei di Temistitan vedendo che coloro che tenevano per sudditi, per amici, parenti e fratelli, e anco per padri e per figliuoli, andavano a combatter contra di loro.
Dopo due giorni dell'assalto detto di sopra, essendo venuti gli predetti soccorsi, gli abitatori di Sichimilco, che è situata in acqua, e certe terre d'Otumia, che sono montanari e di maggior numero di quei di Sichimilco, ed erano schiavi de' signori di Temistitan, vennero ad offerirsi per vassalli di V.M. pregandomi ch'io perdonassi alla lor tardezza: e io gli ricevetti benignamente e infinitamente mi rallegrai della loro venuta, perciochè, se gli abitatori di Cuioacan potevano ricever danno alcuno, lo potevano ricever dalli sopradetti.
Avendo noi dalla banda del nostro campo, posto nella via mattonata, con l'aiuto de' brigantini abbrucciate molte terrazze ne' borghi della città, e non avendo piú ardire di comparire alcuna delle canoe, mi parve per sicurtà del nostro campo essere a bastanza sette brigantini, e perciò deliberai mandare al campo dell'esecutor maggiore tre brigantini, e tre altri a quello di Pietro d'Alvarado; e comandai espressamente ai loro capitani che dalle bande d'ambidue gli eserciti, provedendosi gli nemici con le loro canoe e conducendo dentro acqua, varii frutti, maiz e diverse vettovaglie, dovessero andare scorrendo qua e là, e oltra di ciò dessero aiuto alle genti dell'uno e l'altro campo, ogni volta che volessero dar l'assalto e combatter la città. E per questo effetto li sei brigantini se n'andarono ai detti campi, la qual cosa fu molto utile e necessaria, facendo notte e giorno tra loro maravigliose battaglie: e pigliavano gran numero di canoe de' nemici, e anco molti di loro.
Avendo posto l'ordine sopradetto, ed essendo venute cotante genti in aiuto nostro, e pacificamente, come ho detto di sopra, io parlai loro di voler de lí a due giorni dar l'assalto alla città, e perciò dovessero allora comparir bene apparecchiati, che a questo ponto conoscerei se fossero veri amici. Essi promisero di dover cosí fare, e il giorno seguente comandai a' soldati che stessero in arme, e feci a sapere a tutti quei del campo e quei de' brigantini quel che io avevo deliberato e ciò che essi avevano da fare. Il giorno sequente, dopo la messa, e poichè ebbi data la informazione a' capitani di quello che avevano da fare, me n'uscii de' nostri alloggiamenti accompagnato dalla gente a cavallo e da trecento fanti spagnuoli e da tutti gl'Indiani amici nostri, il cui numero era infinito. E andando per la via mattonata, lontano tre tiri di balestra gli nemici già n'aspettavano con grandissimi gridi, e perchè già erano passati tre giorni che noi non avevamo combattuto con loro, aveano disfatti e voti tutti quei luoghi che noi aveamo ripieni, ed erano piú difficili da espugnare che prima non erano. Ed essendo i brigantini arrivati dall'uno e l'altro lato della via, e potendo con essi andare piú appresso con le artiglierie, con gli schioppetti e con le balestre, facevamo loro grandissimo danno. Vedendo questo, saltammo in terra e pigliammo l'argine insieme col ponte, e cominciammo andare innanzi e seguitar gli nemici; ma essi si fortificavano negli altri ponti e argini che aveano fatti, i quali prendemmo con maggior fatica e pericolo che l'altra volta, e gli cacciammo della contrada, della piazza e di quelle gran case della città. E allora comandai agli Spagnuoli che non procedessero piú avanti, perciochè io coi miei riempievo di sassi e di mattoni il passo dove scorreva l'acqua, in che era grandissima fatica, conciosiachè, se ben a tal cosa v'attendevano a lavorar diecimila Indiani amici nostri, nondimeno fu ora di vespero avanti che fusse finita. In quel mezzo gli Spagnuoli e i nostri Indiani combatterono sempre coi nemici, facendo loro insidie, onde ne uccisero molti. Io, accompagnato dalla gente a cavallo, andai per la città e per quelle contrade dove era acqua: ne ferimmo di molti, e facemmo di modo che ritornarono adietro e non ebbero ardire di andar piú in terra ferma.
Conoscendo che gli abitatori della città erano ostinati e mostravano animo o di morire o di difendersi gagliardamente, mi vennero nella mente due cose: una, che eravamo per racquistare poco o niente di quelle ricchezze che già ci avevano tolte; l'altra, che ci dariano occasione di mandargli del tutto in rovina. E quest'ultima mi pareva piú vera, il che mi dispiaceva grandemente, onde io andavo pensando il modo col quale io potesse far loro paura, sí che si rimovessero dal loro errore e conoscessero il danno ch'io potevo far loro, e tuttavia rovinavo e abbrucciavo le torri degl'idoli e delle loro case. E acciochè piú dapresso il vedessero, io feci quel giorno taccare il fuoco a quelle gran case poste nella piazza, dove l'altra volta che ci cacciarono della città io e gli Spagnuoli solevamo alloggiare, le quali erano tanto grandi che commodamente vi saria potuto albergare ogni prencipe con seicento persone al suo servizio. E benchè il far questo mi dispiacesse, conoscendo che molto piú dispiaceva a' nemici deliberai di abbruciarle, della qual cosa ne presero grandissimo dispiacere, e similmente gli altri loro confederati che erano nel lago, perciochè non si pensarono mai che le nostre forze tanto potessero, né fussimo di tanto valore che potessimo arrivare insino là: e questo dispiacque loro molto piú d'ogni altra cosa.


Come ritirandosi gli Spagnuoli combatterono co' nemici che gli vennero adosso. Fazioni de' brigantini. Come quella notte, delle tre parti d'acqua e delle strade, le due furono rifatte, e con quanta difficoltà le prendessero. La cagione perchè gli bisognasse ogni dí ripigliar li ponti e argini; il pericolo che avevano nel ritirarsi; e come gli altri due campi ebbero le cose prospere.

Attaccato il fuoco alle dette case, subitamente comandai che si sonasse a raccolta, e fece che si ragunassero tutti i soldati, e, perciochè l'ora era tarda, ritornammo a' nostri alloggiamenti. Gli nemici, vedendo che noi ci ritirammo, ci vennero adosso con una grandissima moltitudine, assaltando l'ultima schiera de' nostri: ed essendo la via acconcia ed isgombrata, e potendosi liberamente scorrere co' cavalli, andavamo loro adosso e sempre ne ferivamo qualcuno, nondimeno gridandoci dietro non restavano di seguitarci. In quel giorno mostrarono aver grandissimo dispiacere, vedendo che eravamo entrati nella città e che l'andavamo tuttavia dissolando e abbrucciando, e che contra di loro combattevano gli abitatori di Calco, di Tessaico e di Sichilmico e parimente quei d'Otumia, perseguitandogli e ciascuno gridando il nome della sua patria mentre combatteva; e dall'altro lato quei di Tascaltecal, mostrando loro i cittadini di Temistitan i quali erano stati tagliati in pezzi, e dicendo volergli serbare quella sera per cena e la mattina seguente per desinare, sí come con effetto facevano. E cosí giugnemmo a' nostri alloggiamenti e ci riposammo, perchè quel giorno avevamo portato grandissima fatica. Li sette brigantini ch'io ritenevo appresso di me quel giorno entrarono per li canali della città, della quale abbrucciarono una gran parte. Li capitani degli altri campi e sei altri brigantini quel giorno combatterono valorosamente, e delle cose che accascarono loro potrei diffusamente a Vostra Maestà narrare, le quali lascio per fuggire la longhezza, e dico solamente che ritornarono ai loro alloggiamenti senza pericolo di alcuno di loro.
Il giorno seguente, la mattina a buon'ora, col predetto ordine, dopo la messa con tutte le genti ritornai alla città, acciò gli nemici non avessero tempo di votar li ponti e di rifar gli argini. E benchè io mi fusse levato a buon'ora, nondimeno, di tre parti d'acqua e di strade che vi sono di mezzo, le due dal nostro campo insino a quelle gran case e la piazza erano rifatte come il giorno avanti: nel prendere delle quali fu difficoltà sí grande che si combatté da otto ore insino ad un'ora doppo mezzogiorno, nel qual tempo mancarono tutte le freccie e palle che avevano portate seco li balestrieri e gli schioppettieri. E Vostra sacra Maestà creda che entravamo in grandissimi pericoli ogni volta che pigliavamo li predetti ponti, essendo necessità per pigliarli di passar nuotando, onde li nostri non potevano molto adoperar le forze, che, stando gli nemici su la riva, a colpi di spade e di lancie facevano resistenza che non passassero. Nondimeno, non avendo essi da' lati le terrazze donde ne potessero offendere, e dall'altra parte lanciando noi dardi contra di loro (perciochè non eravamo distanti l'uno dall'altro piú d'un tiro di sasso con mano), cresceva tuttavia l'animo agli Spagnuoli e deliberavano di passare, sí perchè vedevano che io cosí avevo deliberato, sí perchè o cadendo o levandosi non bisognava fare altramente.
Parrà alla Maestà Vostra, andando noi a pigliare li detti ponti e argini con tanti pericoli, che fussimo negligenti in lasciargli e non tenergli, poichè gli avevamo con tanta fatica acquistati, per non trovarsi, volendogli di nuovo ripigliare, ogni giorno in simili pericoli, i quali certamente erano grandissimi. E senza dubbio alcuno cosí parrà a ciascuno che ne sia lontano; nondimeno sappia la sacra Vostra Maestà che in niun modo si poteva fare, perciochè a mandar ciò ad effetto eravamo astretti a fare l'una delle due cose, overo porre il campo in quella piazza e circuito delle torri degl'idoli, overamente metter gente a guardare di notte li ponti; ma in ciascuno erano grandissimi pericoli e le forze non ci bastavano. Se facevamo il campo dentro nella città, ogni notte e ogni ora, essendo gli nemici di numero infinito e noi molto pochi, si sarebbe gridato mille volte all'arme e averiano combattuto con noi, e le fatiche sarebbero state intollerabili; e d'ogni banda ci averebbero potuto piú facilmente assaltare, perchè il tenere di notte guardati li ponti era quasi una cosa impossibile il poterla fare, perciochè gli Spagnuoli la sera erano sí stanchi dal combattimento del giorno che in niun modo si potevano mettere a guardarli: e perciò eravamo astretti di nuovo pigliargli ogni giorno che entravamo nella città.
E avendo quel giorno medesimamente consumato il tempo in prendere e riempiere quei ponti, non avemmo agio di far altro, se non che in una contrada che va insino alla città di Tacuba furono presi duo altri ponti e ripieni, e abbrucciate molte e grandi e belle case di quella contrada. In questo mezzo sopravenendo l'ora tarda e il tempo di ritirarsi, e allora ci trovavamo in grandissimo pericolo, non minore che nel pigliar li ponti, perciochè gli nemici, vedendoci ritirare, prendevano tanto piú ardire, non altrimenti che se essi avessero avuto vittoria e che noi ci fussimo dati a fuggire, onde era necessario che i ponti fussero ben ripieni e il terreno pareggiato con la via della contrada, acciochè li cavalli potessero da ogni banda scorrere. E a questo modo ritirandoci e perseguitandoci essi cosí facilmente, alle volte fingevamo di fuggire, e noi a cavallo ritornavamo contra di loro, e sempre ne pigliavamo dodeci o tredici de' piú valenti: e a quel modo, e con alcune altre insidie che facevamo loro, venivano ad esser molto da noi offesi. Ma certamente questo era bello e degno di grandissima maraviglia, che, essendo loro notissimo il danno che noi facevamo in perseguitargli, nondimeno non restavano di seguitarci finchè ci vedevano uscire della città.
E cosí ritornammo al campo, e i capitani degli altri campi mi fecero intendere come quel giorno per la grazia d'Iddio avevano avuto ogni cosa prospera, con una grandissima uccisione de' nemici e per acqua e per terra. Pietro d'Alvarado, che stava nella città di Tacuba, mi scrisse aver presi due overo tre ponti, perciochè, trovandosi egli in una via mattonata che esce dalla piazza di Temistitan e arriva a Tacuba, avendo quelli tre brigantini ch'io gli avevo dati da un lato potuto appressarsi alla detta strada, non era stato in tanto pericolo quanto alli giorni passati. E dalla banda dove si trovava Pietro d'Alvarado erano piú ponti e piú uscite di acqua in detta strada, benchè le terrazze non fussero cosí spesse come negli altri luoghi.


Come gli abitatori della città posta nel lago, avendo lungamente combattuto, s'arrenderono e, cosí richiesti, fecero fabricar molte casette d'alloggiare gli Spagnuoli nel campo. E con che ordinanza dessero l'assalto alla famosa città, e come quel giorno e il seguente furono vittoriosi.

In tutto quel tempo che gli abitatori della città d'Iztapalapa, di Oichilubuzzo, Mechicacingo, Culuacan, Mezqueque e Cuitaguaca, le quali, come ho detto di sopra, sono poste nel lago dell'acqua dolce, non volsero mai pace meco, né in tutto quel tempo mi diedero travaglio o danno alcuno; ed essendo gli abitatori di Calco fedeli vassalli alla Maestà Vostra, e considerando essi che noi avevamo molto da fare con quei di Temistitan, fecero lega insieme con certe terre che sono sulla riva del lago, facendo a coloro che erano nel lago ogni danno che fusse possibile. Ma, conoscendo che noi sempre avevamo vittoria contra quelli di Temistitan, e considerando il danno fatto e che si poteva far loro da' nostri amici, si arrenderono e vennero nel nostro campo, umilmente chiedendo che io perdonasse loro li passati errori, e commettesse agli abitatori di Calco e a' loro vicini che non gli danneggiassero piú. Risposi che mi piaceva, e che queste cose non le riceveva se non da quelli di Temistitan. E afinchè io credesse la loro amistà essere veramente di cuore, gli pregavo, poichè io avevo deliberato di non levar mai l'assedio finchè pigliasse la città overo a patti overamente per forza, se essi avevano delle canoe con le quali mi potessero dare aiuto, che apparecchiassero tutte quelle che aveano, insieme con tutte le genti delle loro terre, per darmi nell'avenire tutto quello aiuto che potevano per acqua; e gli pregavo ancora parimente che, avendo gli Spagnuoli poche e cattive casette d'alloggiare nel campo, ed essendo i tempi piovosi, procacciassero di fare quanto prima che potevano fabricare ne' nostri campi piú numero di casette, e che menassero le loro sopradette canoe per poter condurre piú facilmente travi e mattoni delle case della città piú vicine alli campi. Dissero che le case e gli uomini da combattere erano apparecchiati qualunque giorno io volevo, e nel fabricare le casette furono molto diligenti, perciochè dall'uno e dall'altro lato di quelle due torri della via mattonata, dove io mi ero accampato, ne fabricarono tante che dalla piú vicina alla ultima vi era lo spazio di piú di tre o quattro tiri di balestra: e la Maestà Vostra consideri la larghezza della detta via, che è fondata nel piú profondo luogo del detto lago; e dall'uno e dall'altro lato della via erano poste le dette case, e vi rimaneva tanto spazio voto che le genti a cavallo e fanti potevano andare e tornare commodamente a loro piacere. E nel campo, numerando gli Spagnuoli e gl'Indiani che servivano loro, erano piú di duemila persone; il resto degl'Indiani amici nostri alloggiavano in Cuioacan, che era lontana una lega e mezza dal nostro campo. Gli abitatori delle dette terre molte volte ne davano delle vettovaglie, delle quali avevamo grandissimo bisogno, ed erano spezialmente pesci e ciregie, che ve ne sono in grandissima quantità, che basterebbero cinque e anco sei mesi continui, e se ne trovano in queste parti il doppio di piú.
Essendo per due o tre giorni continui entrati nella città dalla banda del nostro campo, eccettuando quegli altri tre o quattro dí che eravamo entrati, e sempre ottenuto vittoria de' nemici, e con l'arteglierie e schioppi e balestre ne avevamo uccisi molti, aspettavamo ogni ora che venissero a dimandar la pace, che la desideravamo come la propria salute: nondimeno niente gli giovava per indurgli a farla. E per far loro maggior danni e astringergli a venire alla pace con esso noi, deliberai di entrare nella città ogni giorno e di combatterla ogni ora con tutte le genti ch'io avevo da quattro luoghi, comandando oltra di questo che tutte le genti delle città che erano nel lago venissero con le loro canoe: e in quel giorno la mattina per tempo si trovavano nel nostro campo piú di centomila Indiani amici nostri. Ordinai che tre brigantini con la metà delle genti, che erano da mille e cinquecento, andassero da una banda, e tre altri con il restante delle canoe dall'altra, per circondare la città e abbrucciarla e fare il maggior danno che si potesse; e io me ne andai per la principale strada mattonata, e la trovai senza alcuno impedimento insino alle case grandi, e niuno ponte era levato, e cosí me ne andai insino ad una strada mattonata, donde si sale ad una contrada per la quale si va alla città di Tacuba, che vi si trovavano da sei overamente sette ponti. Quivi ordinai ad un certo capitano che andasse a pigliare un'altra contrada con sessanta o settanta fanti e sette a cavallo dietro per loro guardia, accompagnati da dieci overo dodecimila Indiani amici nostri, e similmente comandai ad un altro capitano che dovesse occupare una altra contrada; e io con i soldati che erano rimasi seguitai di andar per una contrada per la qual si va alla città di Tacuba, e pigliammo tre ponti riempiendogli, e lasciando gli altri da pigliare il giorno sequente, per essere l'ora tarda, e meglio e piú commodamente potendogli prendere il giorno seguente. E invero che io sommamente desideravo di occupare quella contrada, acciochè gli soldati di Pietro d'Alvarado si potessero unire con noi e venire dal loro campo al nostro, e il medesimo facessero anco li brigantini. Quel giorno avemmo grandissima vittoria per acqua e per terra, facendo acquisto di qualche preda degli abitatori della città, e quei del campo di Pietro di Alvarado e del maggiore esecutore ebbero medesimamente non picciola vittoria.
Il giorno sequente ritornai alla città con quell'ordine ch'io vi andai il giorno avanti, e finalmente Iddio ne diede vittoria, sí che dovunque andavo con i miei soldati non trovavo contrasto alcuno, e gli nemici si ritiravano con tanta celerità che pareva loro che noi delle quattro parti della città ne avessimo prese le tre; e dalla banda del campo di Pietro d'Alvarado gli stringevano grandemente. E senza dubbio in quel giorno e nel precedente pensavo che dovessero venire a pace con esso noi, la quale io proponevo sempre, e con la vittoria e senza: nondimeno non viddi mai in essi alcun segno di voler pace. E avegna che quel giorno ritornassimo con grandissima allegrezza ai nostri campi, pure avevamo grandissimo dispiacere che gli abitatori della città avessero del tutto deliberato di morire.


Come Pietro Alvarado prese gran parte della città e fu constretto a fuggire,
e fu presi tre o quattro Spagnuoli.

Quei giorni passati Pietro d'Alvarado aveva presi di molti ponti, e per guardargli vi teneva la notte e fanti e cavalli, e gli altri se ne tornavano al campo, che era distante quasi una lega. Ed essendo cotal fatica intollerabile, deliberò di mettere il campo nel fine della strada mattonata che va alla città, a fine di prender la piazza, la qual piazza è piú larga di quella della città di Salamanca, e ha portici d'intorno intorno; e a poter giugnere alla detta piazza non mancava altro che pigliar dua o tre ponti, che erano larghi e molto difficili da prendere, onde a quel modo se ne stette per alquanti giorni, e combattendo sempre ebbe vittoria. E quel giorno ch'io ho detto di sopra, vedendo egli che gli nemici mostravano d'esser stanchi e ch'io di continuo acerbamente gli combattevo, alzatosi per la vittoria d'aver presi li ponti e gli argini, deliberò di proceder piú avanti e di pigliar quel ponte della strada mattonata già guasta, che era di larghezza di sessanta passi e di altezza della statura di piú d'un uomo e mezzo. E avendo cominciato arditamente, quel giorno li brigantini gli furono di grandissimo aiuto, che passarono l'acqua e pigliarono il ponte e perseguitarono gli nemici; e Pietro d'Alvarado sollecitava di far riempiere quel luogo, acciò li cavalli potessero passare, e anco perchè ogni dí io l'esortava a bocca e per lettere che non pigliasse pur un palmo di luogo se non fusse sicuro, e che li cavalli potessero sicuramente entrare e uscire, perciochè co' cavalli si fa loro grandissima guerra. Li cittadini, vedendo che non erano passati se non quaranta o cinquanta Spagnuoli e alcuni Indiani amici nostri, e che i nostri cavalli non potevano passare sí tosto, si rivoltarono di modo che gli forzarono a darsi a fuggire e gettarsi in acqua, e fecero prigioni tre o quattro Spagnuoli, i quali subito menarono a farne sacrificio a' loro idoli, e uccisero alcuni de' nostri amici. E finalmente Pietro d'Alvarado se ne ritornò al suo campo.
Quel giorno, essendo io tornato al nostro campo, intesi quel che gli era avenuto, di che presi grandissimo dispiacere, essendo ciò un dare occasione a' nemici di pigliare ardire, e di credere che a niun modo per l'avenire dovessimo aver animo d'assaltargli. La ragione perchè Pietro d'Alvarado aveva deliberato d'espugnar quel luogo difficile fu perchè, come ho detto, egli si vedeva per la maggior parte aver presi i luoghi forti de' nemici, ed essi mostravano qualche paura e stanchezza; e spezialmente fu perchè coloro che erano nel suo campo facevano grande instanza che egli prendesse la detta piazza, la quale essendo presa, pareva che fusse presa quasi tutta la città. E tutto ciò avenne per il desiderio e stimolo degl'Indiani che si trovavano presenti, i quali, essendo nel detto campo e considerando li continui assalti ch'io davo alla città, pensavano che io piú tosto di loro prenderia la detta piazza: e perciò Pietro d'Alvarado era grandemente sollecitato. Il medesimo interveniva a me nel mio campo, perciochè gli Spagnuoli instantemente sollecitavano che entrassimo per una delle tre vie che arrivavano nella predetta piazza, non avendo noi impedimento alcuno; la quale si era presa, ci restava minor fatica. Io dissimulavo in tutti li modi ch'io potevo, benchè di ciò non dicessi la cagione: e questo era per li pericoli e disturbi che mi s'appresentavano, conciosiachè avanti l'entrata della piazza si trovassero molte terrazze, ponti e strade guaste, di modo che tutte le case donde dovevamo passare erano come isole nel mezzo del mare.
La sera essendo giunto agli alloggiamenti e avendo inteso la rotta di Pietro d'Alvarado, il giorno seguente a buon'ora deliberai d'andare al suo campo, per riprenderlo del passato errore e intender quel che egli aveva preso e dove fusse accampato, e per avisarlo d'ogni cosa che appartenesse alla sua difesa e all'offesa de' nemici. Giunto che fui nel suo campo, ebbi grandissima maraviglia come avessero potuto prender sí gran parte della città e tanti e sí cattivi ponti, e, avendo ciò visto, non lo riputai degno di tanta grave riprensione quanto mi pareva prima; e, posto l'ordine di ciò che si aveva da fare, il giorno istesso me ne ritornai al mio campo.


L'ordine dato dal Cortese per dar l'assalto alla città.

Dopo questo molte fiate entrai nella città per i luoghi soliti, e in due luoghi combattevano coloro che erano ne' brigantini e nelle canoe, e io nella città in quattro luoghi, avendo continuamente vittoria e morendo grandissimo numero de' nemici, perciochè ogni giorno veniva gran moltitudine di gente in nostro aiuto. Indugiavo d'andar piú oltre, prima per veder se gli nemici lasciassero la ostinazione e il mal animo che avevano, dipoi perchè la nostra entrata non poteva esser senza grandissimo pericolo, essendo essi molto uniti e allegri e avendo deliberato di morire. Gli Spagnuoli, vedendo questa cosa prolungarsi tanto, essendo già passati venti giorni che non avevano mai mancato di combattere, molto piú che si potesse credere mi erano importuni, come ho detto di sopra, che entrassimo a prender la piazza: la quale essendo pigliata, rimaneva a' nemici pochissimo spazio dove potessero mettersi a difesa, e se non si avessero voluto arrendere sariano stati astretti a morirsi di fame e di sete, non avendo da bere salvo che l'acqua salsa di quel lago. E facendo io mia scusa, il tesoriero di Vostra Maestà mi fece a sapere che tutti coloro che erano nel campo erano di parere che io dovessi pigliar la piazza, onde e a lui e ad alcuni altri uomini da bene che si trovavano presenti risposi che la loro intenzione era ottima, e che io piú che gli altri desideravo cotal cosa; nondimeno non la mandavo ad effetto solamente per la cagione che essi per la lor grande instanzia mi sforzavano dire, la quale era questa, che avegna che gli altri facessero ciò di buon animo, nondimeno, essendo in questa impresa grandissimo pericolo, che sariano molti i quali non la mandariano ad esecuzione. E finalmente per la loro importunità acconsentii di fare ogni cosa a me possibile in tal impresa, avendo prima comunicato il mio consiglio co' soldati degli altri campi.
Il dí seguente parlai con alcuni de' principali, e deliberai di far a sapere all'esecutor maggiore e a Pietro d'Alvarado che 'l giorno seguente eravamo apparecchiati d'entrar nella città e affaticarci d'arrivare alla piazza; e scrissi ciò che essi avevano da fare dalla banda della città di Tacuba, e oltra le lettere mandai là due miei famigliari che li certificassero del tutto. E l'ordine col quale doveva procedere ogni cosa era tale: che l'esecutor maggiore con dieci cavalieri cento fanti e quindeci tra balestrieri e schioppettieri andasse agli alloggiamenti di Pietro d'Alvarado, e ne' suoi rimanessero gli altri dieci cavalieri, e tra loro ponessero ordine che 'l giorno vegnente, che si doveva dar l'assalto, si mettessero in aguato dopo certe case e conducessero le lor bagaglie non altrimenti che se volessero partirsi, acciò gli abitatori della città uscissero a seguitargli e i cavalieri posti in aguato gli assalissero dietro; e il detto esecutor maggiore con tre brigantini che aveva e tre altri di Pietro d'Alvarado andasse a quel mal passo dove fu rotto il detto Pietro, e sollecitasse di riempire il predetto passo, andando e prendendo tuttavia piú avanti, né piú avanti andassero né prendessero se prima non riempivano e acconciavano i luoghi presi; e se potevano senza lor gran pericolo pigliare insino alla piazza, ne facessero ogni opera, perciochè io ero per fare il medesimo, e avertissero che se ben io gli facevo avisati di questo, che non gli obligavo però a prender pur un passo della città onde ne potessero venire in danno alcuno.
Io dissi questo conoscendo loro esser tali che averiano poste le loro persone dove io avessi comandato, benchè avessero vista la morte manifesta. Espediti che si furono da me, se n'andarono ai campi a trovar l'esecutor maggiore e Pietro d'Alvarado, a' quali palesarono ogni cosa, come avevamo ordinato nel nostro campo. E perchè essi avevano da combattere un luogo solo, comandai che mi mandassero settanta o ottanta fanti, acciochè 'l giorno seguente insieme convenissero ad entrar nella città; i quali quella notte vennero ad alloggiare nel nostro campo, sí come io avevo comandato loro.


Come il Cortese entra nella città; in che modo divise i soldati e l'avvertimento che ei gli diede quando combattevano; come gli Spagnuoli furono rotti. Il gran pericolo che scorse il Cortese e come si salvò con le genti che avea. Il numero di Spagnuoli e Indiani amici che nella battaglia furon uccisi; come restò ferito il Cortese; il sacrificio fatto d'alcuni Spagnuoli.

Messo il predetto ordine, il dí seguente dopo messa si mossero dal nostro campo quei sette brigantini, accompagnati da piú di tremila canoe de' nostri amici, e io accompagnato da venticinque a cavallo e dagli altri ch'io avevo nel campo, e da quei settanta che erano venuti dal campo da Tacuba, seguitammo il nostro viaggio ed entrammo nella città, nella quale poichè fui entrato, divisi li soldati in questo modo. Erano tre contrade ne' luoghi presi per le quali era aperta la strada alla piazza, che gli Indiani chiamano Tianguizco (tutto quel sito dove è posta è nominato Tlatelulco), e di queste tre contrade la migliore era quella per la quale s'andava alla detta piazza. Feci intendere al tesoriero e al contatore di Vostra Maestà che entrassero con settanta fanti e quindeci o ventimila Indiani amici nostri, e per retroguarda tenessero sette over otto a cavallo, e quanti ponti e argini pigliassero, subito gli riempissero, menando seco dieci uomini con zappe e altri Indiani amici nostri, che ci erano di grande aiuto a riempire li ponti. L'altre due contrade vanno alla piazza dalla contrada di Tacuba, e sono piú strette, di strade piú spesse e di canali pieni d'acqua: per la piú larga di quelle comandai che andassero due capitani, con ottanta fanti e con piú di diecimila Indiani amici nostri. Nella bocca della contrada di Tacuba lasciai due gran pezzi d'artegliaria, e alla guardia vi posi dieci cavalieri. Ma io con otto cavalli e con cento fanti, tra' quali erano piú di venticinque tra balestrieri e schioppettieri, e con un numero infinito d'Indiani amici nostri, seguitai il mio viaggio per entrare quanto piú avanti potevo in una altra contrada stretta; e nella bocca di quella ordinai che stessero li cavalli, e comandai che per niun conto procedessero piú oltre o mi seguitassero, se prima io nol comandassi loro. E smontato da cavallo a piedi arrivai ad un argine, che avevano fatto dinanzi ad un certo ponte, e con un picciol pezzo d'artegliaria da campo e con balestrieri e schioppettieri avendolo pigliato, procedemmo avanti per quella strada mattonata già guasta in due o tre luoghi; e oltra che in quei tre luoghi combattevamo co' cittadini, era sí grande il numero degli Indiani amici nostri che salivano sopra le terrazze, che ci pareva che non ci potesse esser fatto danno alcuno, e con essi pigliammo quei due ponti, l'argine e la contrada.
Gli Spagnuoli e i nostri Indiani gli seguitarono per la medesima contrada senza indugio alcuno, e io rimasi con forse venti Spagnuoli in una certa casa vicina posta in isola, vedendo certi nostri Indiani mescolati co' nemici, che alle volte gli sforzavano a ritirarsi, di maniera che si gettavano in acqua, e confidando nel nostro soccorso vigorosamente andavano loro adosso. Oltra di ciò guardavamo che per certe vie attraverso gli cittadini non assalissero di dietro gli Spagnuoli, che erano andati avanti in quella contrada; i quali in quel punto mandarono a dire che essi avevano occupato una gran parte della città, e non esser lontani dalla detta piazza del palazzo, e ad ogni modo avere determinato di proceder piú avanti, essendo quei del campo dell'esecutor maggiore e di Pietro d'Alvarado venuti a battaglia co' nemici. Io mandai a dir loro che in niun modo si movessero se prima li ponti non erano bene ripieni, acciochè, se per ventura fussero astretti a ritirarsi, l'acqua non gli impedisse, conoscendosi che in questo consisteva tutto il pericolo; ed essi mi mandarono a dire che tutto passava con buon ordine, e ch'io andassi là, che co' proprii occhi vederei esser cosí. Io, sospettando che non s'ingannassero e non tenessero cura di riempire i ponti, andai là e trovai che avevano passata una parte guasta d'una strada di larghezza di dieci o dodeci passi, e l'acqua montava a tanta altezza quanta saria di due stature d'uomo, e quando passarono v'avevano gettati legni e canne; e passando essi a poco a poco e con gran desiderio, il legname non era andato a fondo, ed essi, per il piacer della vittoria che ottenevano, erano tanti allegri che pensavano quei legnami dovere star fermi e durar lungo tempo. E a quell'ora ch'io arrivai al ponte, trovai gli Spagnuoli e molti altri de' nostri amici essersi messi in fuga, e gli nemici come cani rabbiosi venirgli perseguitando; e vedendogli disordinati, cominciai a gridar che si fermassero, e, avvicinatomi all'acqua, la viddi piena di Spagnuoli e d'Indiani, di modo che non pareva che ci avessero gettato pur una paglia. E gli nemici andavano addosso gli Spagnuoli con tanto impeto, che seguitandogli si gettavano in acqua per andare a uccidergli, e le canoe de nemici uscivano fuori di quei canali e facevano prigioni gli Spagnuoli: ed essendo stata la cosa cosí subita, e vedendo che uccidevano li miei soldati, deliberai di fermarmi quivi e combattendo morire. Ma il maggior aiuto che potessimo dare era il porger mano a certi meschini Spagnuoli, che uscissero dell'acqua, i quali si sommergevano: e alcuni n'uscivano feriti, e alcuni mezzi annegati e altri senza arme. E comandato loro che andassero avanti, era sopravenuta tanta moltitudine di nemici che avevano circondato e me e dodeci o quindeci che erano meco, perciochè, essendo io attento a dare aiuto a coloro che s'annegavano, non me n'avedevo, né mi ricordavo del danno che poteva seguire; e alcuni Indiani nemici mi avevano già preso e m'averiano menato via, se non fusse stato un capitano con cinquanta soldati, il quale io solevo sempre menar meco, e l'aiuto anco d'un giovane di quella compagnia, che dopo Iddio mi liberò dalla morte, e per salvar me egli valorosamente combattendo passò di questa vita.
In questo mezzo gli Spagnuoli, che rotti erano fuggiti, se n'andavano per quella via mattonata, la quale era breve e stretta ed equale all'acqua, avendo gli nemici a posta fabricata di cotal maniera. Per la medesima n'andavano anco messi in fuga ed isconfitti molti de' nostri amici indiani, onde la strada era tanto impedita ed essi erano sí lenti nell'andare, che davano tempo a' nemici di poter passar l'acqua d'ogni banda, e pigliarne e uccidere quanti pareva loro. Per la qual cosa quel capitano che era meco, nominato Antonio Evignone, disse: "Partiamoci di qui e salviamo voi, essendo certi che, se vi perderemo, niun di noi potrà scampare". E appena poté far tanto ch'io mi partissi de lí, e, vedendo egli questo, con le braccia in croce mi pregava che tornassimo adietro. E benchè io desiderassi piú di morire che di vivere, nondimeno, per esortazione del predetto capitano e degli altri soldati che vi erano, cominciammo a ritirarci, combattendo a spade e rotelle co' nemici che ne venivano a ferire. In questo tempo venne un mio servidore e aprí alquanto la strada; nondimeno subito da una terrazza assai bassa lo ferirono nella gola, di modo che fu forzato a cadere. E trovandomi in tal combattimento, aspettando che la gente passasse, acciò si riducesse in luogo sicuro, venne un mio servidore con un cavallo, afinchè io vi montassi; ma era tanto fango in quella via stretta, per la moltitudine di coloro che entravano e uscivano dell'acqua, che niuno vi si poteva fermare. Io montai a cavallo, non già per combattere, perciochè era impossibile quivi mettersi a combattere a cavallo. E se per quella strada stretta fussi potuto andare all'isola, averia trovati quegli otto cavalieri che vi avevo lasciati, che piú avanti non aveano proceduto, ma erano stati forzati tornare adietro; ed essendo la tornata molto difficile, due cavalle, sopra le quali venivano due miei famigliari, da quella via stretta caddero in acqua: e una gli nemici l'uccisero, e l'altra la difesero certi nostri fanti. Ed essendo un altro giovane mio famigliare, nominato Cristoforo de Guzman, montato sopra un cavallo che mi mandavano coloro che erano nell'isola, acciò mi potessi ritirar sicuramente, gli nemici, prima che egli potessi arrivar da me, l'uccisero insieme col cavallo; la cui morte fu di tanto dolore a tutto 'l campo, che insino a questo giorno è fresco il dolor della sua morte a tutti coloro che avevano avuto sua pratica e conoscenza.
E alla fine, con tutte le nostre fatiche, piacque all'onnipotente Iddio che arrivassimo salvi alla via e contrada per la quale si va a Tacuba, che è molto larga. Poi che si furono ridotti li soldati, io mi posi nell'ultima schiera con nove cavalli; ma gli nemici erano tanto insuperbiti per la vittoria contra di noi, che pareva che niuno potessi scampar dalle lor mani. E col miglior modo ch'io potei ritirandomi, feci sapere al tesoriero e al contatore che in ordinanza si riducessero in piazza, e il medesimo ordinai che fusse fatto intendere alli due altri capitani che erano entrati in quella via e contrada per la quale si va al palazzo; e ciascuno di loro aveva combattuto valorosamente, pigliando molti argini e ponti, li quali avevano molto ben ripieni: il che fu cagione che nel tornare adietro non patissero danno alcuno. E prima che 'l tesoriero e 'l contatore ritornassero, gli nemici da un certo argine dove si combatteva aveano gettate due o tre teste de' cristiani, benchè allora non sapessero se erano de' soldati di Pietro d'Alvarado o del nostro campo. Essendo noi giunti alla piazza, concorreva da ogni banda tanta moltitudine de' nemici, che avemmo grandissima fatica prima che gli potessimo sforzare a voltarsi per certi luoghi, dove avanti questa battaglia non aveano ardir d'aspettar tre a cavallo e dieci fanti: e subito in un'alta torre dedicata a' loro idoli, che era vicina alla piazza, posero odori e profumi d'una certa gomma la qual nasce in questi paesi, che essi offeriscono a' loro iddii per segno di vittoria. E benchè noi volessimo impedirgli, nondimeno non avemmo mai potere di farlo, perciochè li soldati con veloce passo andavano verso il nostro campo. In questa battaglia i nemici uccisero trentacinque o quaranta Spagnuoli e piú di mille Indiani amici nostri, e ferirono piú di venti cristiani, e io ebbi una ferita nella gamba; e perdessimo quel picciol pezzo d'artegliaria da campo che aveamo condotto, e piú balestre e schioppi, con molte altre sorti d'arme.
Li cittadini, subito ottenuta la vittoria, per ispaventar l'esecutor maggiore e Pietro d'Alvarado, condussero tutti gli Spagnuoli che avevano presi e vivi e morti al Catebulco, dove è il palazzo, e in certe torri altissime vicine, e quelli nudi gli sacrificarono, e aprirono i lor petti cavando loro i cuori per offerirli agl'idoli. Le qual cose tutte gli Spagnuoli del campo di Pietro d'Alvarado potevano molto ben vedere dal luogo dove combattevano, e vedendo essi li corpi bianchi, conobbero che erano cristiani, di che ebbero grandissimo dispiacere, e sbigottiti se ne tornarono al campo.
Dipoi otto dí, e quel giorno e il seguente gli nemici con corni e timpani mostravano grandissima allegrezza, di modo che pareva che rovinasse la città, e aprirono tutti li canali e li ponti, nelli quali scorreva l'acqua come da prima, e vennero a tale che ponevano i fuochi e le lor guardie lontane due tiri di balestra dai nostri campi. Ed essendo tutti rotti, feriti e disarmati, avevamo di bisogno di ricreazione e di riposo. Con questa occasione gli abitatori della città ebbero spazio di mandare ambasciadori a diverse provincie suddite loro a dar nuova dell'avuta vittoria, e d'aver uccisi molti cristiani, e d'avere speranza di tosto mandarci del tutto in rovina, e che per niun modo pigliassero amicizia con esso noi. E acciochè fusse prestato lor fede, menavano intorno due cavalli e portavano alcune teste de' cristiani, le quali mostravano in quei luoghi che a lor pareva a proposito: il che fu di grandissimo momento a far piú ostinati che prima coloro che s'erano ribellati.


Come il Cortese, cosí richiesto, diede soccorso a quei di Quernaquacar, e l'ordine che diede al capitano che vi mandò, e vittoria ch'egli ebbe. La mirabil fazione che fece il signor Chichimicatecle in uno assalto che diede alla città di Temistitan.

De lí a due giorni, dopo la rotta, la quale già era nota e n'era sparsa la fama per tutti quei luoghi circonvicini, gli abitatori d'una terra nominata Quernaquacar, che era suddita alla città di Temistitan, e s'erano fatti nostri amici, vennero nel nostro campo e mi fecero a sapere che quei della terra di Marinalco, vicini, facevano grandissimi danni e guastavano la lor provincia, e allora si volevano unire con gli abitatori della provincia di Guisco, la quale è grandissima, e avevano fatto deliberazione d'andare ad assaltargli e uccidergli, per essersi fatti sudditi di Vostra Maestà e per aver presa l'amicizia nostra. Oltra di questo dicevano che gli nemici avevano deliberato, distrutto che avessero loro, d'assaltar noi. E benchè la rotta che avevamo avuta fusse fresca, e piú tosto avessimo di bisogno d'aiuto che darlo ad altri, nondimeno, facendomene grande instanzia, deliberai di dar loro aiuto in parte, benchè in tal cosa fussero molti a contradirmi, affermando che io metterei in ruina me stesso, mandando soldati fuori del campo. Ma io con tutto questo mandai insieme con li predetti nunzii ottanta fanti e dieci cavalli, de' quali feci capo Andrea di Tapia, al quale comandai che facessi tutto ciò che vedessi tornar commodo e utile al servizio di Vostra Maestà e alla sicurezza nostra, avendo riguardo alla necessità nella quale ci ritrovavamo, e nell'andare e nel tornare non ponessi piú di dieci giorni. E partitosi con quest'ordine, giunse ad una certa picciola terra, che è posta tra Marinalco e Coadnoacad. Quivi trovò gli nemici che gli aspettavano, onde, insieme con gli abitatori di Coadnoacad e con quei soldati che menava seco, cominciò a combatter contra di loro sí vigorosamente, che gli misero in fuga e ruppero e perseguitarono tanto che gli forzarono entrar nella terra di Marinalco, che è situata in un colle sí alto che gli uomini a cavallo non vi potevano salire. Il che veduto, essi distrussero ogni cosa che era nella pianura, e ottenuta questa vittoria, nello spazio di dieci giorni assegnato loro, se ne ritornarono al nostro campo.
Uno degli signori della provincia di Tascaltecal, nominato Chichimecatecle, del quale ho fatto menzione altre volte, che condusse le tavole per far li brigantini che erano sute apparecchiate in quella provincia, dal principio della guerra sempre era stato nel campo di Pietro d'Alvarado. Questo signore dopo questa rotta, vedendo che gli Spagnuoli non andavano ad affrontar gli nemici come solevano prima fare, deliberò accompagnato da' suoi entrar nella città e combatterla, lasciando quattrocento arcieri de' suoi appresso un certo ponte levato assai pericoloso, il quale egli aveva tolto a quei della città, il che non aveniva mai senza nostro aiuto. Egli andò accompagnato da' suoi, che mettevano gridi grandissimi, nominando la lor provincia e il lor signore. Quel giorno fu aspramente combattuto, e da ogni banda ne rimasero molti feriti e uccisi. E quei della città credevano fermamente avergli chiusi in una gabbia, perciochè, essendo essi gente di tal natura che, mentre i lor nemici si ritirano, benchè non siano vittoriosi, perseguitano con animo ostinatissimo, nel passar dell'acqua, dove suol esser evidente e certo pericolo, pensarono di dover vendicar le loro ingiurie. E perciò Chichimecatecle aveva lasciati al passo dell'acqua li detti quattrocento arcieri, e venendo a ritirarsi, gli nemici andaron loro adosso con grandissimo impeto, e le genti di Tascaltecal si gettarono in acqua e con l'aiuto degli arcieri passarono. E gli nemici, vedendo che facevano resistenza, si fermarono e maravigliaronsi grandemente dell'ardire di Chichimecatecle.


Come il Cortese mandò l'esecutor maggiore in soccorso a quelli di Matalcingo, e la vittoria ch'egli ebbe. Come li signori di Matalcingo, Marinalta e Guiscon vennero ad offerirsi.

Due giorni dopo la tornata degli Spagnuoli che erano andati alla guerra di Marinalco, sí come la Maestà Vostra ha potuto intendere ne' precedenti capitoli, vennero nel nostro campo dieci Indiani d'Otumia (e gli Otumiesi erano scritti schiavi de' signori di Temistitan e, come ho detto, s'erano fatti sudditi della Maestà Vostra, e ogni dí ci davano aiuto combattendo co' nostri nemici), e mi fecero a sapere come li signori della provincia di Matalcingo, i quali confinano con essi, facendo lor guerra, e avevano abbrucciato una certa terra e menati prigioni alcuni di loro, e quanto potevano gli mettevano in rovina, con animo d'assalire i nostri campi, acciochè quei della città uscissero fuori e ne distruggessero del tutto. Noi prestammo lor fede, perciochè dopo alcuni giorni, ogni volta ch'entravamo nella città per combattere, ci minacciavano col nominar questi capitani della provincia di Matalcingo; la quale, benchè non ci fussi molto nota, nondimeno ben sapevamo che era grande, e distante per spazio di venti leghe dal nostro campo. E per il lamento che gli Ottumiesi facevano contra de' lor nemici, ci mostravano che dessimo loro soccorso. E benchè lo dimandassero in tempo molto strano, nondimeno, confidandomi nell'aiuto divino, per rompere le ale dell'audacia della città, che ogni dí ci minacciava per via di questi capitani di Matalcingo, e mostravano speranza di dover avere aiuto da loro, e soccorso d'altronde non poteva venire se non da quella banda, deliberai mandar Consalvo di Sandoval esecutor maggiore con dieciotto uomini a cavallo e cento fanti, tra i quali era un balestriere, da' quali tutti e da altri Ottumesi amici nostri accompagnato si partí. E Iddio è testimonio a che pericolo essi andavano, e in quale restavamo noi; ma, bisognando mostrar maggior fortezza d'animo che mai prima avessimo fatto e morir combattendo, dissimulavamo la debolezza delle nostre forze e con gli amici e co' nemici. Nondimeno spesse volte gli Spagnuoli l'un l'altro si confortavano a ripigliar finalmente vigore e a mostrarci vincitori contra que' della città, benchè in essa e in tutte l'altre provincie non dovessero conseguir utilità alcuna; onde si può comprendere la fortuna e la necessità nella quale eravamo posti col corpo e con l'animo.
L'esecutor maggiore quella notte andò ad alloggiare ad una certa terra degli Otumiesi che è all'incontro di Matalcingo, e il giorno seguente a buon'ora si partí e arrivò alle stanze degli Otumiesi, le quali trovò abbandonate e per la maggior parte abbrucciate. E giunto nella pianura appresso un certo fiume, trovò una grandissima moltitudine di gente, che avevano già finito d'abbrucciare una altra terra, e avendo veduti li nostri cominciarono a fuggire; e per la strada che passavano, dopo loro seguitavano molte some di maiz e di piccioli fanciullini, che per vettovaglia menavano seco, e le avevano lasciate subito che sentirono gli Spagnuoli esser arrivati. E poichè ebbero passato il fiume, che scorreva piú oltre, si cominciarono a fermar nella pianura, e l'esecutor maggiore gli assaltò con la gente a cavallo e gli ruppe; ed essendosi messi in fuga, se n'andarono a diritto alla loro terra di Matalcingo, che era lontana tre leghe, e gli seguitò di continuo finchè furono astretti ad entrar nella terra; e quivi aspettarono gli Spagnuoli e gli amici nostri, i quali andavano uccidendo coloro che le genti a cavallo avevano rinchiusi tra loro e la fanteria e lasciati adietro: e in questa fuga furono uccisi duemila de' nemici. Li fanti, essendo giunti al luogo dove s'era ferma la gente da cavallo, e i nostri amici, che erano da sessantamila uomini, cominciarono a caminar verso la terra, dove gli nemici fecero lor resistenza, finchè si conducevano le loro donne, li figliuoli e le robbe in una certa fortezza posta in un colle altissimo quivi vicino. Nondimeno, subito che gli assaltarono, gli costrinsero a ritirarsi nella rocca, che avevano in quella sommità molto erta e forte; e misero a sacco e abbrucciarono la città in brevissimo spazio, fuggendosi gli nemici alla rocca, la quale l'esecutor maggiore non volse che si combattesse, per esser già l'ora tarda e la gente molto stanca per la fatica, avendo combattuto tutto 'l dí. Gli nemici consumarono tutta quella notte in grandissimi gridi e strepiti di timpani e di corni.
Il giorno seguente a buon'ora l'esecutor maggiore cominciò a condurre li soldati, acciò salissero il colle per combattere con gli nemici ritirati nella rocca, benchè ciò facessi con qualche paura, pensando che dovessero far resistenza. Essendo giunti là suso, non trovarono alcuno de' nemici, e certi Indiani amici nostri descendendo dal colle rapportarono che non vi era alcuno, ma all'alba tutti s'erano partiti; e subito viddero nella pianura d'ogn'intorno grandissimo numero di gente, che erano gli Ottumiesi. Li nostri da cavallo, pensando che fussero nemici, andarono contra di loro e ne ferirono tre o quattro: ed essendo il linguaggio degli Ottumiesi differente da quello di Culua, non gli intendevano, se non che gettate l'armi ricorrevano agli Spagnuoli, e nondimeno ne avevano feriti tre o quattro; ma essi ben conobbero ciò esser avenuto perchè non erano stati conosciuti. E poichè gli nemici non aveano aspettato, gli Spagnuoli deliberarono di ritornare per un'altra lor terra che similmente s'era ribellata, la qual, vedendo tante genti muoversi contra di lei, gli ricevette benignamente. E l'esecutor maggiore parlò col signor della provincia, e gli fece intendere che egli ben doveva sapere che io ricevevo benignamente tutti coloro che venivano ad offerirsi per vassalli di Vostra Maestà, avegna che avessero sommamente errato, e lo pregavo che parlasse agli abitatori di Matalcingo, che venissero a trovarmi: e cosí promise di fare, e d'indurre anco gli abitatori di Marinalco a pacificarsi con esso noi.
L'esecutor maggiore, avuta questa vittoria, se ne ritornò al campo. E quel giorno che egli arrivò, alcuni Spagnuoli stavano combattendo nella città, e li cittadini fecero loro intendere che 'l nostro interprete andasse là, che volevano trattar la pace, la quale (come poi si vidde) non la volevano se non ci partivamo di tutta la provincia: e questo fecero acciochè gli lasciassimo riposare per qualche giorno, e per fornirsi d'alcune cose delle quali avevano di bisogno, benchè non gli trovassimo mai schifi del combattere. Mentre la cosa si trattava per interprete, essendo li nostri vicini agli nemici, perciochè non v'era altro di spazio che un ponte alzato, un vecchio de' loro si cavò di seno alcune cose, che egli mangiò, per mostrar che non erano astretti da necessità alcuna, avendo noi fatto loro intendere che morirebbono di fame. E gli amici nostri avisavano gli Spagnuoli che quella pace era finta e che dovessero combattere con loro; nondimeno quel giorno non si combatté, perciochè i principali della città commisero all'interprete che mi parlasse.
Circa quattro giorni dopo la tornata dell'esecutor maggiore dalla provincia di Matalcingo, i signori di quella e di Marinalco e i signori della provincia di Guiscon, che è larghissima e s'era anco ribellata, vennero al nostro campo e mi pregarono umilmente ch'io perdonassi loro i passati errori, e mi promisero di volerci servire e di mandare ad effetto le loro promesse: e continuamente insin ora ci hanno servito.


Come i nemici vennero di notte ad assaltar il campo di Pietro d'Alvarado,
e, trovato esserli fatto resistenza, ritornorono nella città. Deliberazione del Cortese
di gettar a terra quanto prendessero della città.

Mentre l'esecutor maggiore era absente nella provincia di Matalcingo, gli nemici deliberarono d'uscir la notte e assaltar il campo di Pietro d'Alvarado, e all'alba l'assaltarono; ma essendo stati sentiti dalle sentinelle e dalle guardie, fu gridato all'arme, e coloro che si trovarono presenti andarono ad affrontargli. Li nemici, uditi i cavalli, si gettarono all'acqua, e tra questo mezzo i nostri s'appresentarono, e combatterono tre ore continue. Noi, stando ne' nostri alloggiamenti, sentimmo un tiro d'un picciol pezzo d'artegliaria che s'adoprava contra gli nemici, e perchè avevamo sospetto che gli rompessero, comandai che li soldati si mettessero in arme per entrar nella città, acciochè gli nemici non ardissero di combatter contra Pietro d'Alvarado. E trovando che era loro fatto resistenza gagliarda e valorosa, deliberarono tornarsene nella città, la quale noi altri quel giorno andammo a combattere.
In quel tempo noi che dalla prima rotta eravamo scampati feriti eravamo risanati, e a Villa Ricca era giunta una nave di Giovanni Ponci da Leone, il quale era stato rotto nella provincia dell'isola Florida, e gli abitatori della città mi fecero portar certa quantità di polvere con alcune balestre, delle quali avevamo grandissimo bisogno; e già per la grazia d'Iddio d'intorno intorno non era provincia alcuna che non ci facesse grandissimo favore. E vedendo io gli abitatori della città tanto ostinati, e con maggior dimostrazione e certezza di morire che mai si sia stata nazione alcuna, non sapevo io stesso come dovessi portarmi con esso loro e in che maniera potessimo scampar da tante fatiche e pericoli, e in che modo noi dovessimo fare per non mettere in estrema rovina e loro e la città, essendo la piú egregia e la piú bella che sia in tutto l'universo mondo. Né ci poteva giovare che noi li facevamo avisati che non ci eravamo per partir di quel luogo né dal campo, e che li brigantini non cessariano di fare ogni danno, e che avevamo rovinati gli abitatori di Matalcingo e di Marinalco, e che in tutte le provincie non avevano alcuno che desse loro aiuto, né avevano donde cavar maiz, carne, frutti e acqua e finalmente niuna cosa appartenente al vivere; ma quanto piú facevamo loro note cotal cose, tanto meno pareva che mancassero d'animo, anzi nel venir a combattere e in tutte l'altre cose gli trovavamo piú animosi che mai fussero stati. Onde io, vedendo la cosa andar di questa maniera e già esser passati piú di quarantacinque giorni che tenevamo assediata la detta città, deliberai e per nostra sicurezza e per poter meglio stancar gli nemici usare un rimedio, cioè che quanto pigliassimo della città tanto gettassimo a terra da ogni banda, di maniera che non andassimo pur un passo avanti che tutto non abbattessimo, e dove era acqua facessimo terra ferma, se bene in ciò fussimo astretti a consumar gran tempo. E perciò ordinai che si ragunassero i signori e i grandi degl'Indiani amici nostri e palesai loro la mia deliberazione, richiedendogli che per questo effetto chiamassero tutti li villani con li lor coi, che sono una sorte di pali che usano in queste parti, sí come in Spagna li zappatori adoperano le zappe. Essi risposero che lo fariano volentieri e che era buona deliberazione, e n'ebbero grandissimo piacere, essendo questo un modo da gettare a terra tutta la città, il che era da tutti grandemente desiderato.
Fra questo mezzo che si deliberava di queste cose passarono tre o quattro giorni, e li cittadini si pensarono che noi trattassimo qualche gran cosa contra di loro, e noi sospettammo che ancora essi, per quel che poi si vidde, apparecchiassino ogni cosa possibile a lor difesa. E posto ordine co' nostri amici che dovessimo andare a combatter la città per acqua e per terra, il giorno seguente doppo la messa cominciammo andare verso la città, e giunti che fummo al passo dell'acqua e all'argine che è nel principio delle case grandi poste nella piazza, e volendolo noi combattere, i cittadini accennarono che ci fermassimo, dicendo di voler venire alla pace; e io comandai a' nostri che lasciassero di combattere, e feci intendere che 'l signor della città dovesse venir là a parlarmi, acciò si potesse trattar la pace. E dicendo che alcuni erano andati a chiamarlo, mi tennero a bada piú d'un'ora, non avendo essi veramente desiderio alcuno di pace: e con veri effetti lo mostrarono, che, essendoci noi posati, incontinente cominciarono a tirar freccie, bastoni aguzzati e sassi contra di noi. Noi, veduto questo, cominciammo a combatter l'argine e, avendolo preso, entrammo in piazza: e la trovammo piena di gran sassi, che ve gli avevano messi acciochè gli uomini a cavallo non potessero scorrere, de' quali temono solamente in luogo fermo e aperto; e trovammo una contrada serrata con sassi soli, e di sassi l'altra medesimamente ripiena, a fin che li cavalli non potessero scorrer per tutto. E da quel giorno innanzi riempiemmo quella via dove scorreva l'acqua e per la quale s'andava in piazza, di maniera che dipoi gl'Indiani non la poterono mai piú votare, e poscia a poco a poco cominciammo a gettare a terra le case e a riparar dall'acqua que' luoghi che pigliavamo. Ed essendo i nostri centocinquantamila uomini combattenti, in quel giorno si distrussero molte case, e poi si ritirammo al campo; e i brigantini con le canoe de' nostri amici fecero gran danno alla città, e ancor loro si ritirarono per riposarsi.
Il dí seguente entrammo nella città col medesimo ordine, e, arrivato a quel circuito e portici colonnati dove sono le torri de' loro idoli, comandai a capitani che non dovessero far altro se non riempire li canali delle contrade, nelle quali scorreva l'acqua, e acconciassero alcuni cattivi passi che avevamo presi; e che gl'Indiani amici nostri, abbrucciate le case, le gettassero a terra, e gli altri andassero a combatter contra gli nemici ne' luoghi soliti, e li cavaleri tutti tenessero guardato che non ci assaltassero di dietro. Io dipoi montai sopra una delle piú alte torri degl'idoli, che, essendo molto ben conosciuto dagl'Indiani, sapea d'apportar loro gran dispiacere con la mia salita, facendo io da quella torre animo agli amici, ordinando che ci dessero soccorso quando la necessità lo richiedeva, perciochè, combattendosi di continuo, alle volte si ritiravano gli nemici e alle volte i nostri, i quali subito erano sollevati da quattro da cavallo, che facevano lor animo che andassero adosso agli nemici. A questo modo e con quest'ordine entrammo nella città cinque o sei giorni continui, e nella ritirata comandavamo sempre che li nostri amici andassero avanti, e alle volte, ponendo in aguato alcuni Spagnuoli in certe case, i cavalieri rimanevano e noi fingevamo di ritirarci per forza per indurgli ad entrar nella piazza, e cosí, col mettere in aguato li fanti, ogni dí al tardi ne ferivamo qualcuno. E un giorno tra gli altri erano in piazza 7 over 8 cavalieri aspettando l'uscita de nemici, e non gli vedendo uscire finsero di partirsi, e gli nemici, sospettando d'esser feriti nel ritorno da que' cavalieri, come solevano fare, se ne stavano ascosi dopo li muri e ne' cortili: ed era infinito il numero de' nemici che seguitavano questi otto o nove, e avevano presa la bocca d'una strada che non li lasciava offendere; onde i nostri furono astretti a ritornarsene e gli nemici, insuperbiti per averli forzati a ritirarsi, a guisa di cani rabbiosi andavano loro adosso. Coloro, che combattevano con riguardo, si ritiravano dove non potessero patir danno; i nostri ricevevano gran danno da coloro che stavano dietro i muri, sí che furono astretti di ritirarsi e ferirono due cavalli, il che fu cagione che io ordinai d'ingannarli con insidie, come racconto alla Maestà Vostra. E quel giorno ad ora assai tarda giugnemmo al campo, lasciando sicuri i luoghi presi per esser gettati a terra: e gli abitatori della città erano molto lieti, pensandosi che noi ci fussimo partiti di paura. E quella notte mandai messaggi all'esecutor maggiore, che avanti dí con quindeci cavalli tra' suoi e quelli di Pietro d'Alvarado venisse al nostro campo.


Astuzia che usò il Cortese, per la qual furono uccisi gran quantità di nemici; e come gli Spagnuoli trovarono in una sepoltura varie cose d'oro di gran valuta.

Il giorno seguente a buon'ora l'esecutor maggiore arrivò nel campo in compagnia di quindeci cavalieri, e io n'avevo venticinque di quelli che erano alla guardia di Cuioacan, ed erano in tutto quaranta cavalieri. E comandai a dieci di loro che subito la mattina si partissero con tutti gli altri fanti, ed essi insieme con gli altri entrassero a combattere, cercando di prendere e di gettare a terra ogni cosa che potessero, perciochè, mentre fusse venuto il tempo di ritirarsi, sarei andato là con gli altri trenta uomini da cavallo; e sapendo che la maggior parte della città fusse abbattuta, seguitassero gli nemici quanto piú potessero, finchè gli forzassero ridursi in luoghi sicuri e nelle contrade che hanno canali, dove suol correre l'acqua, e quivi dimorassero insino a tanto che venisse il tempo di ritirarsi; e io insieme con quei trenta a cavallo di nascoso mi metterei in aguato in certe case grandi, che sono vicine a quelle grandi che sono nella piazza. I Spagnuoli mandarono ad effetto quanto da me era stato imposto loro, e io un'ora dopo mezzogiorno con li trenta cavalieri entrai nella città, e giunto là li misi in quelle gran case, e partito da loro montai sopra una gran torre, come era mio costume. E mentre io dimoravo quivi, alcuni Spagnuoli aprirono una sepoltura, nella quale trovarono varie cose d'oro, di valore di mille e cinquecento castigliani. Dipoi ordinai che, quando fusse l'ora di ritirarsi, cominciassero a farlo con grandissimo ordine, e che la gente da cavallo, poichè si fusse ritirata alla piazza, fingessero di volerli assaltare e poscia mostrassero di non aver ardire, e questo facessero mentre fusse gran numero di nemici in piazza. Quelli che erano posti in aguato desideravano sopra modo che venisse il tempo, e desideravano di far riuscire la cosa bene, e già era loro di molta noia il lungo tardare. Io mi misi insieme con essi, e già gli Spagnuoli cosí a cavallo come a piedi si ritiravano alla piazza, e anco gl'Indiani amici nostri, che già avevano intesa l'astuzia; gli nemici seguitavano con tante grida che pareva che avessero ottenuta una grandissima vittoria. Quei nove cavalieri fingevano d'assaltargli per la piazza e poi si ritiravano, e, avendo già due volte fatto vista d'assaltargli, li nemici avevano preso tanto ardimento che venivano a ferir fin su la groppa de' cavalli; e finalmente gli condussero in quella contrada dove erano posti gli aguati. Quando vedemmo gli Spagnuoli andare avanti e sentimmo scaricare uno schioppo, che era il segno che avevamo ordinato tra noi, conoscemmo esser venuto il tempo d'uscire e, chiamato il nome di san Giacomo, di subito gli assaltammo e gli seguitammo fino in piazza, ferendogli e gettandogli per terra e serrandone molti, i quali poi erano presi da' nostri amici che venivano doppo noi, di modo che in tutti questi aguati che facemmo furono uccisi piú di cinquecento de' nemici. E gli amici nostri quella sera godettero d'una cena sontuosa fatta di carne de' corpi de' nemici, di quegli dico che erano li primarii piú gagliardi e piú valorosi, perciochè raccolsero i corpi morti e gli portarono in pezzi per mangiarli a cena.
Sí grande fu la maraviglia che presero, quando si viddero in un subito rotti, che non parlarono né gridarono in tutta quella notte, e cominciarono a non aver ardir di comparire nelle contrade, né anco nelle terrazze, se non quando vedevano manifestamente esser sicuri. E venendo la notte e partendoci, si vidde che gli abitatori della città mandarono certi loro schiavi a veder se ci partivamo: e quando cominciarono a comparire in una contrada, dieci o dodeci cavalieri gli assaltarono, e perseguitandogli fecero di modo che niuno scampò. Gli nemici per questa nostra vittoria entrarono in tanta paura che non ebbero mai ardir, durando questa guerra, di venire nella piazza quando ci partivamo, benchè in essa non vi fussero altri che un solo a cavallo, né ebbero ardimento di perseguitar piú alcuno Indiano o fante de' nostri, pensandosi che di nuovo gli avessimo poste insidie: e in vero che li fatti di quel giorno, e medesimamente la vittoria che Iddio ne concesse, furono potentissima cagione che prendemmo la città molto piú tosto, perciochè i cittadini furono soprapresi da grandissima paura, e agli amici nostri crebbe l'ardire.
E cosí ci ritornammo al campo, con ferma opinione di sollecitar di finir questa guerra e non tralasciar giorno alcuno di entrar nella città, fin tanto che se ne venisse a fine. E quel dí non avemmo danno alcuno nel nostro campo, salvo che, uscendo noi dell'agguato, avenne che, scorrendo due cavalieri, cadde uno di loro d'una cavalla, la quale se n'andò a diritto nella schiera de' nemici, che di molti colpi di freccie la ferirono: ed ella, sentendosi ferita, se ne ritornò a noi e morí quella notte. Benchè n'avessimo gran dispiacere, essendo li cavalli e le cavalle molto a proposito per nostra salvezza, nondimeno non tanto ci dolse quanto se fusse morta appresso li nemici, come pensammo che dovesse esser con effetto, perciochè, se cosí fusse avenuto, averiano avuto maggiore allegrezza che dolore della lor gente che avevamo uccisa. Quel giorno medesimo li brigantini con le canoe de' nostri amici fecero grandissima uccisione de' nemici, senza ricever danno alcuno.


Come il Cortese entrò all'alba nella città e fece gran danno a' nemici, molti di loro uccisi e molti fatti prigioni con grandissima preda; prese del tutto la strada che va a Tacuba, abbrucciate le gran case del signor Guautimucin e piú altre, e molte gettate a terra.

Sapendo noi che li cittadini già erano sbigottiti, da due di loro di mezana condizione, li quali di notte erano usciti della città e venuti nel nostro campo cacciati dalla fame, intendemmo che la notte essi uscivano a pescar tra le case della città, e venivano in quella parte che avevamo presa, cercando legne, erbaggi e radici da mangiare; e avendo ripieni molti canali delle contrade dove scorreva l'acqua, e acconci molti cattivi passi, deliberai di entrar nella città all'alba e di far loro ogni danno che fusse possibile. Onde li brigantini avanti giorno e io con dieci o quindeci a cavallo e alcuni fanti e Indiani amici nostri entrammo dentro, avendo prima posti alcuni alla vedetta, li quali, essendo noi messi in aguato, venuto il giorno ne fecero segno: e assalimmo un numero infinito di gente, ma la maggior parte era della piú miserabile della città, e per lo piú erano donne e fanciulli, e tanto danno facemmo loro in quei luoghi onde potevamo andar per la città, che tra li morti e li prigioni furono piú di ottocento. E similmente li brigantini presero di molti nemici, insieme con le canoe con le quali essi pescavano, e fecero grandissimo danno alla città, li principali e capi della quale, vedendoci passar di là ad ora non consueta, si maravigliarono grandemente, come prima s'erano maravigliati dell'insidie che già avevamo fatte loro, e niuno d'essi ebbe ardire d'affrontarsi a battaglia con esso noi. E cosí ritornammo al nostro campo, portando grandissima preda e vettovaglia per li nostri amici.
Il giorno seguente, la mattina a buon'ora ritornammo nella città, e gli amici nostri vedendo il buon ordine che tenevamo per metterla in estrema rovina, tanta era la moltitudine che sopragiugneva ogni giorno che non si poteva numerare. E quel giorno ponemmo fine di prender la contrada onde si va a Tacuba, e anco di riempire co' mattoni li cattivi passi che in quella si trovavano, di modo che li soldati del campo di Pietro d'Alvarado potevano venire ad unirsi con esso noi nella città. Medesimamente pigliammo nella strada per la quale si va in piazza due altri ponti, riempiendogli molto bene, e abbrucciando anco le case del signore, nominato Guautimucin, giovane di dieciotto anni, ch'era il secondo signor dopo la morte di Montezuma: nelle quai case, per esser grandissime e fortificate e circondate d'acqua, gli nemici avevano poste varie monizioni. Pigliammo anco due ponti d'altre strade che sono appresso quella che si va in piazza, acconciando di molti cattivi passi, di maniera che di quattro parti della città n'avevamo prese tre: e gli nemici niente altro facevano che ritirarsi a' luoghi piú sicuri, cioè alle case che erano poste in acqua.
Il giorno appresso, che fu la festa di san Giacomo, col predetto ordine entrammo nella città e, seguitando d'andare per quella contrada onde si va alla piazza, pigliammo una strada larga nella quale era acqua, dove gli nemici si pensavano esser molto sicuri: e veramente nel pigliarla dimorassimo assai e ci trovammo in molti pericoli, né avemmo possanza in tutto quel giorno di far tanto che, per esser ella molto larga, la potessimo riempiere del tutto, sí che li cavalli potessero passare all'altra strada. Ed essendo noi tutti a piedi e gli nemici vedendo che li cavalli non erano passati, molti di loro de' piú freschi e de' piú valenti ci vennero ad assaltare, ai quali di subito facemmo resistenza; e avendo con esso noi molti balestrieri, gli nemici se ne ritornarono agli argini e ripari che avevano fatti, benchè molti ne morissero feriti di saette; e in questa battaglia tutti gli Spagnuoli adoperorno le loro aste, che in Spagna chiamamo picche, le quali io avevo fatte fare dopo la nostra rotta: il che ne fu di grandissimo aiuto. Dall'altro lato in quel giorno non attendemmo ad altra cosa che ad abbrucciare e a gettare a terra le case di quella contrada, che era cosa miserabile da vedere; e non potendo far altro, eravamo forzati a seguitar quell'ordine. Quando li cittadini sentivano e vedevano tanto fracasso e rovina, per mostrare animo dicevano agl'Indiani amici nostri che attendessero pure ad abbrucciare e a gettare a terra le case, che poi essi a forza gliele fariano rifare: conciosiachè, se essi ottenevano vittoria, sapevamo molto bene dover esser cosí come dicevano, e quando no, che essi per nostro abitare sariano astretti medesimamente a rifarle. E piacque a Iddio che nell'ultimo lor detto la cosa fusse verificata, avegna che essi medesimi le rifacciano.


Come piú volte entrorono nella città combattendo sempre. Fazione di Pietro d'Alvarado, e come arrivò nella strada ch'avea preso il Cortese, qual era piena d'acqua col suo argine. La risposta che facevano i nemici essendo loro proposta alcuna condizione di pace.

L'altro giorno, la mattina a buon'ora, con l'ordine solito entrammo nella città, e, quando arrivammo alla strada che 'l giorno precedente avevamo ripiena, la trovammo nel modo che l'avevamo lasciata. E andati piú avanti per due tiri di balestra, pigliammo due gran fossi d'acqua, che essi avevano cavati nell'istessa strada soda, e arrivammo a una picciola torre consecrata a' loro idoli, dove ritrovammo alcune teste di cristiani che avevano uccisi, di che ricevemmo grandissimo dispiacere. E da quella torre era una strada diritta insino al campo di Pietro d'Alvarado, e dal lato destro vi era una strada per la quale s'andava alla piazza, dove era già l'acqua, salvo che in una strada che essi difendevano. Quel giorno non passammo piú avanti, ma combattemmo aspramente e per molto spazio co' nemici: e concedendone l'onnipotente Iddio aver ogni giorno vittoria, sempre essi restavano inferiori. Ed essendo già l'ora tarda, ce ne ritornammo al campo.
Il dí seguente, avendo posto ordine d'entrar nella città, a nona stando noi ancora nel campo vedemmo uscir fumo di due torri della piazza, overo del Tetebulco, ma non potevamo imaginarci quel che volesse significare; e vedendo quel fumo esser maggiore che quando fanno profumi a' loro idoli, sospettammo i soldati di Pietro d'Alvarado esser venuti là: e benchè per la verità fusse cosí, nondimeno non pensavamo che potesse essere. E certamente quel giorno Pietro d'Alvarado insieme co' suoi soldati si portò valorosamente, perciochè gli restava da pigliar molti ponti e argini, e a difendergli v'andava sempre la maggior parte della gente della città; nondimeno, vedendo che dal nostro campo noi stringevamo gli nemici, con tutti li modi possibili egli si sforzò d'entrar nella piazza, essendo quivi tutto lo sforzo loro. Ma con tutto ciò non poté passar piú avanti che alla vista di quella e pigliar quelle due torri, con molte altre che erano vicine al palazzo, il quale era tanto largo quanto il circuito di molte torri della città; e gli uomini da cavallo ebbero grandissima fatica e travaglio e furono costretti a ritirarsi, e ritirandosi furono feriti tre cavalli: e cosí Pietro d'Alvarado insieme co' suoi soldati se ne ritornò nel suo campo. Noi quel giorno non volemmo pigliare un ponte e una strada onde correva acqua, la qual sola ci restava da prendere per poter arrivare in piazza, ma solamente attendemmo a riempire e acconciare certi cattivi passi; nondimeno nella ritirata ci strinsero fortemente, benchè tornasse piú tosto in danno loro.
Il giorno vegnente, la mattina a buon'ora entrammo nella città, e, non ci avanzando altro da pigliare per giugnere in piazza se non una strada piena d'acqua col suo argine, che era accosto la torre della qual parlai di sopra, cominciammo a combatterla: e in questo un banderaio e tre o quattro Spagnuoli gettati all'acqua, gli nemici subito lasciarono il luogo, e noi incontanente cominciammo a riempierlo, di modo che li cavalli potessero passare. E mentre ciò si faceva, Pietro d'Alvarado arrivò nella medesima strada, accompagnato da quattro cavalieri: e veramente l'allegrezza che ebbero li soldati d'amendue li campi fu incredibile, perciochè quella era la via e 'l modo da metter presto fine alla guerra. Pietro d'Alvarado si lasciava la guardia di dietro e dalle bande, e per difesa della sua persona e dei luoghi acquistati. Subito che fu acconcio quel passo, io, accompagnato da alcuni a cavallo, andai per vedere il palazzo, e comandai a' soldati del nostro campo che a niun modo procedessero piú avanti. E avendo passeggiato alquanto per la piazza, riguardando li portici e le loggie piene di nemici, che, essendo la piazza sí larga che vi si potevano maneggiar li cavalli, non ebbero ardir d'avicinarsi, io montai sopra quella gran torre vicina al palazzo, e in quella trovammo le teste de' cristiani che ci avevano uccisi e offerti agl'idoli; dalla qual torre viddi quanta parte della città avevamo presa, e senza dubbio delle otto parti ne avevamo pigliate le sette. E conoscendo tanta gran moltitudine di gente de' nostri nemici esser ridotta in sí stretto spazio, massimamente che quelle case dove si trovavano erano molto strette, e ciascuna da per sé posta sopra l'acqua, e principalmente avevano grandissima carestia d'ogni cosa, perciochè per le strade vedevamo che avevano cavate le radice e le scorze degli arbori, deliberai non volergli combattere per qualche giorno, ma proponer loro qualche condizione d'accordo, acciochè non fusse astretta a morir tanta moltitudine di gente: e in vero m'arrecava dolore incredibile il danno che facevamo loro. Pur io di continuo procuravo che fussero esortati a venire a pace con esso noi, ma essi rispondevano che per niun modo volevano arrendersi, e che un solo che vi rimanesse aveva da morir combattendo; e di tutte quelle cose che essi possedevano, niente n'era per venire alle nostre mani, ma erano per abbrucciarle e gettarle in acqua, dove non potessero esser viste né apparissero mai. E io, per non render mal per male, dissimulavo e non lasciavo che fussero combattuti dai nostri.


D'una machina che fecero fabricar gli Spagnuoli. Come il Cortese, confortati piú volte i nemici alla pace, vedendo le lor risposte esser finte, combattete con la città, e furono uccisi piú di dodecimila de' nemici. Quel che dicessero i primarii della città al Cortese, qual mandorno a chiamar a parlamento. Dell'idolo detto Ochilubo.

Trovandoci noi aver poca polvere d'artiglieria, quindeci giorni avanti avevamo consigliato di fare una machina, o veramente edificio che vogliamo chiamarlo; e se ben non v'erano artefici che la sapessero ben fare, nondimeno alcuni legnaiuoli s'offersero di farla, ma picciola però, e avegna ch'io pensassi che non potessero far cosa buona, nondimeno diedi lor licenza di fabricarla. Fu finita in quei giorni che noi tenevamo gli nemici serrati in cosí stretto luogo, e la condussero per metterla in certo luogo fatto a guisa di teatro, che è nel mezzo della piazza, fabricato con calcina e con pietre quadrate, alto quanto saria la statura di due uomini e mezzo, e da un angolo all'altro vi può esser lo spazio di trenta passi. Questo luogo era stato ordinato da loro per mettervi, quando si facevano feste e giuochi publici, coloro che rappresentavano li giuochi, acciochè tutte quelle persone che erano nel palazzo e da basso e ne' portici potessero vedere quel che s'appresentava. Qui essendo stata condotta la predetta machina, consumarono tre o quattro giorni prima che l'allogassero, e gl'Indiani amici nostri minacciavano i cittadini, dicendo che con quella tutti avevano da esser uccisi: e benchè ciò non fusse d'alcuno giovamento, nondimeno assai era la paura che li nostri Indiani facevano agli nemici, pensandosi che s'arrendessero. Ma non seguí però né l'uno né l'altro, perciochè i legnaiuoli non finirono la machina, e li cittadini, avegna che temessero grandemente, non mostrarono però segno alcuno di darsi a patto. E noi dissimulammo il difetto della machina, dicendo che eravamo mossi a compassione, che a fatto non fussero tutti uccisi.
Il giorno seguente, poichè fu quivi posta la machina, ritornammo nella città, ed essendo già passati tre o quattro dí che non l'avevamo combattuta, trovammo le strade donde passavamo piene di donne e di fanciulli e d'altre miserabili persone che morivano di fame, e uscivano fuori deboli e mezzi morti, il che era la piú miserabil cosa da vedere che si potesse trovare in tutto l'universo mondo. Io comandai a' nostri amici che in modo alcuno non facessero loro danno, ma niuno però veniva fuori atto a combattere, il quale meritasse d'esser offeso: ben gli vedevamo nelle loggie con le loro vesti solamente e senza arme; e tutto quel giorno sollecitai che fussero confortati alla pace, ma le lor risposte erano finte, e cosí la maggior parte del giorno ne tennero in longhezza. Io feci loro intendere d'aver deliberato d'assaltargli, e che comandassero alla lor moltitudine che si ritirasse, altramente lascierei che gl'Indiani amici nostri gli uccidessero; ed essi risposero di voler la pace. Diedi risposta loro che io non vedevo il signore, col quale ragionevolmente doveva esser trattata, e quando egli fusse venuto, arei dato loro ogni salvocondotto che avessero dimandato per venire a parlar della pace. E vedendo che era una beffa, e gli nemici tutti apparecchiati, avendogli molte volte amorevolmente confortati alla pace, io, per ridurgli in piú strettezza e condurgli all'estremo, comandai a Pietro d'Alvarado che con tutte le sue genti entrasse dalla banda d'una gran contrada, la qual tenevano gli nemici, che aveva piú di mille case, e io dall'altra banda a piedi, non potendo a cavallo far profitto alcuno, entrai accompagnato da tutte le genti del nostro campo. E noi con gli amici nostri combattemmo sí gagliardamente che pigliammo tutta quella contrada, facendo sí grande uccisione de' nemici che tra uccisi e presi quel giorno furono piú di dodecimila; e gl'Indiani amici nostri usavano tanta crudeltà che non ne lasciavano vivo alcuno, ancora che noi gli reprendessimo grandemente.
L'altro giorno appresso, ritornando noi nella città, comandai ai nostri che non combattessero, né facessero danno alcuno alli nemici; i quali, vedendo tanto numero di gente muoversi contra di loro, e conoscendo i lor vassalli e che coloro a' quali solevano comandare minacciavano d'uccidergli, e vedendosi condotti all'estremo, e non avendo dove fermarsi se non sopra li corpi morti de' lor cittadini, desiderando pur alla fine di levarsi da sí acerba miseria, gridando ne domandavano per qual cagione ormai non gli uccidevamo: e mostrando d'aver desiderio di parlarmi, con gran prestezza mi fecero chiamare. E perchè tutti gli Spagnuoli sopra modo desideravano il compimento di questa guerra, e avevano gran dispiacere di tanto danno che facevamo loro, ebbero grandissimo piacere, pensando che volessero la pace; onde mi vennero a chiamare con grandissima allegrezza, facendomi grand'instanzia ch'io andassi ad un certo argine, nel quale erano alcuni de' primarii che volevano parlar meco. E benchè io vedessi la mia andata dover esser di poco profitto, nondimeno deliberai andare a vedere come stesse la cosa, conoscendo io che l'arrendersi consisteva tutto nel signor solo e in tre o quattro altri de' principali della città, perciochè tutti gli altri già desideravano d'esser posti fuori di quel luogo o vivi o morti. Giunto che fui all'argine, mi fecero intendere, essendo io figliuol del sole, sí come essi tenevano di certo, e il sole nel breve spazio d'un giorno e d'una notte girando attorno tutta la terra, per qual cagione io anco nel medesimo spazio non gli uccidevo per cavargli fuori di tante pene, desiderando essi ormai di morire e ascendere in cielo al loro Ochilubo, che là suso gli aspettava per donar loro riposo. Ochilubo è un idolo, che gl'Indiani l'hanno in grandissima riverenza. Io risposi loro con molte parole per indurgli ad arrendersi, nondimeno nulla giovava, vedendo essi in noi, per divino aiuto vincitori, quei segni di pace che essi vinti non mostrarono mai.


Come il Cortese mandò uno de' primarii che era prigione per parlar col signore e co' principali della pace, e il signor immediate lo fece uccidere e sacrificare, e la risposta fu che combatterebbono aspramente. Come, dicendo i nemici al Cortese che 'l signore verrà a parlargli, ei gli fece apparecchiare un letto da seder basso e da mangiare; e come vennero due altre volte, ma il signore non volse venire, e per che cagione, e ciò che li rispose il Cortese.

Avendo noi condotti gli nemici all'estremo, come dalle cose precedenti si può comprendere, io per rimuovergli dal lor cattivo proponimento, essendo l'animo loro di morire, parlai con uno de' lor primarii che io avevo prigione, e prima due o tre dí l'avea anco tenuto il zio di don Ferdinando, signor di Tessaico, mentre si combatté nella detta città; e benchè egli fusse ferito, lo dimandai se voleva ritornar dentro in Temistitan. Ei mi rispose di sí, onde il giorno seguente, essendo noi entrati nella città, lo mandai con alcuni de' nemici, che l'appresentarono a' cittadini: e già io gli avevo parlato diffusamente, che col signore e co' principali della città ragionasse del venire alla pace, ed egli in ciò promise di fare ogni cosa a lui possibile. Li cittadini lo ricevettero con grandissima riverenza, come uno de' primarii, ma, subito che lo condussero alla presenza di Guautimucin e che cominciò a parlar della pace, detto signor comandò che allora allora fusse ucciso e sacrificato. E la risposta che ne diedero fu che vennero con altissimi gridi a dire che volevano morire, e cominciarono ad aventar saette, bastoni aguzzati e sassi contra di noi e a combattere aspramente, sí che n'uccisero un cavallo con un dardo, che essi aveano fatto d'una spada la qual ci aveano tolta; ma alla fine costò lor caro, perciochè furono uccisi molti di loro. E cosí ne ritornammo nel nostro campo.
Il giorno vegnente ritornammo nella città, e gli nemici erano venuti a tale, che una infinita moltitudine d'Indiani amici nostri aveano ardimento d'alloggiar la notte nella città; ed essendo noi venuti in faccia de' nemici, non volemmo combattere con loro, ma solamente andammo per la città indugiando, perciochè aspettavamo che d'ora in ora e di momento in momento dovessero venire a noi pacificamente. E per indurgli all'accordo cavalcando me n'andai ad un certo argine molto forte, e quivi chiamai alcuni de' primarii de' quali io avevo conoscenza, che stavano ascosi dopo l'argine, e dissi loro, poichè già si poteano veder rotti, e che se io volevo in un'ora potevo fargli uccider tutti, sí che non ne sarebbe rimaso vivo alcuno, per qual cagione Guautimucin lor signore non veniva a parlarmi, che in vero io gli promettevo di non gli far danno alcuno, se egli insieme con essi voleano pacificamente portarsi meco, e sariano ricevuti e trattati da me amorevolmente. E molte altre cose parlai con loro, per le quali gli mossi a compassione, e piangendo mi risposero di conoscer molto bene il lor errore e rovina, e di voler anco andar a parlare al lor signore, e che tosto ritorneriano con la risposta, richiedendomi che non mi dovesse partir de lí. Essi, essendosi partiti, non molto indugiarono a ritornare, dicendomi che per esser l'ora tarda il lor signore non era venuto; nondimeno pensavano che senza dubbio il dí seguente sul mezzodí saria venuto a parlar meco nella piazza del palazzo. E cosí ne ritornammo agli alloggiamenti. Io ordinai che in quel luogo quadro che è nel mezzo della piazza fusse apparecchiato un letto da seder basso per il signore e per li primarii della città, come essi sogliono avere, e oltra di ciò apparecchiassero anco da mangiare: e cosí fu fatto.
Il giorno seguente, entrando nella città, comandai alle nostre genti che stessero apparecchiate, acciochè se li nemici ci ponessero insidie, che non ci trovassero disprovisti; e il medesimo fece intendere a Pietro d'Alvarado, che ivi medesimamente si ritrovava. Subito che arrivammo al palazzo, ordinai che fusse fatto a sapere a Guautimucin che io l'aspettavo in piazza; il quale, sí come poi si vidde manifestamente, deliberò di non venirvi, e mandò cinque de' principali della città, i nomi de' quali, non facendo molto a proposito, non gli racconto. Giunti che furono, mi dissero che 'l lor signore mi faceva a sapere e pregare che io gli perdonassi se non era venuto, che per paura egli non ardiva di comparirmi avanti, e oltra di ciò si sentiva mal disposto; e che in vece sua erano venuti essi, e che io comandassi quel che io volevo, che lo manderiano ad esecuzione. Noi, benchè il lor signore non fusse venuto, nondimeno avemmo grandissimo piacere della venuta delli sopradetti primarii, parendoci che fusse la via da metter tosto fine all'impresa. Io gli ricevetti benignamente, ordinando che fusse dato loro da mangiare e da bere, onde mostrarono la fame che essi pativano. Poichè ebbero mangiato, dissi loro che parlassero al signore, che non temesse punto, ch'io promettevo loro la mia fede che, se veniva alla mia presenza, non lo lascierei offendere, né in modo alcuno saria ritenuto; e che in vero bisognava che egli venisse, non si potendo senza la persona sua né trattare, né concluder cosa buona. Feci poi dar loro alcune cose da mangiare, che le portassero per ristorarsi; e mi promisero in questa facenda di fare ogni cosa a lor possibile, e con questo si partirono. De lí a due ore ritornarono portandomi alcune vesti di seta che essi usano, con dirmi come Guautimucin lor signore aveva fatto deliberazione di non venire a parlar meco, e ne faceva sua scusa. Io replicai che non sapevo la cagione perchè egli temesse di comparire alla mia presenza, poichè vedeva ch'io mi portavo sí bene con quegli ch'erano stati la cagione e il nutrimento della guerra, lasciandogli andare e tornare senza offesa alcuna. Dipoi gli pregai che tornassero a parlargli e facessero ogni opera che egli venisse, poichè la sua venuta gli era per esser di tanto profitto, e io facevo tutto questo a suo commodo. Essi mi risposero che cosí fariano, e il dí vegnente ritorneriano a me con la risposta; ed essendosi partiti, noi tornammo al nostro campo.


Come il Cortese, vedendo che 'l signor non veniva a parlarli, circondati i nemici li diede l'assalto, in modo che per terra e per acqua furono tra uccisi e fatti prigioni piú di cinquantamila uomini, e per il bere dell'acqua salsa e per la fame e puzzo ne morirono piú d'altri cinquantamila. E come Garzi Hulguin capitano fece prigioni Guautimucin, signore di Temistitan, e il signor di Tacuba.

Il giorno seguente, a buon'ora li primarii della città vennero ai nostri alloggiamenti, per farmi a sapere ch'io andassi alla piazza della città dove è il palazzo, che 'l signor voleva venire a parlamento meco. Io, pensandomi che in vero cosí fusse, montai a cavallo e andai, aspettandolo quivi per tre o quattro ore; nondimeno non volse mai venire né comparirmi dinanzi. Onde vedendo che era una beffa, ed essendo già l'ora tarda, né il signore né anco gli suoi nunzii ritornando, commisi che fussero chiamati gli Indiani amici nostri che erano rimasi nell'entrata della città, quasi una lega lontani da quel luogo dove noi eravamo; ai quali avevo comandato che non venissero piú avanti, perciochè li cittadini m'aveano richiesto che nel parlamento della pace non vi si dovesse trovar presente alcuno di loro. Essi ne vennero incontanente, come anco fecero le genti di Pietro d'Alvarado. Giunti che furono, cominciammo a combattere certi argini e alcune strade con canali pieni d'acqua che erano ancora in poter de' nemici, che erano la maggior fortezza che fusse rimasa loro, e insieme con gli Indiani amici nostri andammo tanto avanti quanto ci parve. Ma quando io usci' degli alloggiamenti, ordinai a Consalvo di Sandoval che entrasse dall'altra parte delle case, dove s'erano fortificati gli nemici, di modo che gli tenessimo circondati, ma però non venisse a battaglia se prima non sapeva che noi ci fussimo affrontati con loro. Sí che, essendo cosí circondati e ristretti, non avevano via alcuna da passare, se non sopra li corpi morti e per le loggie e per li portici che ancora restavano in man di loro, e perciò non trovavano né saette, né bastoni, né sassi coi quali ci potessero offendere; e con esso noi venivano gli Indiani amici nostri armati a spade e rotelle. E quel giorno fu fatta sí grande uccisione, per acqua e per terra, che tra uccisi e presi furono piú di cinquantamila uomini; e le grida e li pianti de' fanciulli e delle donne erano tali e tanti, che niuno era che non si movesse a pietà. E noi altri in ritener gli amici nostri, che non gli uccidessero e non usassero tanta crudeltà, avevamo piú da fare che nel combatter contra gli nemici: e giudico che non si trovi, né mai si sia trovata in nazione alcuna maggior crudeltà che negli abitatori di queste provincie, aliene da ogni naturale umanità e ordine.
Gl'Indiani amici nostri quel giorno fecero grandissima preda, i quali in nessun modo potevamo ritenere, essendo noi Spagnuoli forse novecento ed essi piú di centocinquantamila: ed era impossibile aver tanta cura e diligenza da potergli impedire né ritirar dalla rapina, ancora che noi facessimo ogni cosa possibile. E una delle ragioni perch'io ricusavo di venire a battaglia con gli abitatori della città, era perciochè, se gli prendevamo per forza, essi avevano gettate in acqua tutte le lor robbe; e se non ve le gettavano, gl'Indiani amici nostri averiano messo a sacco ciò che avessero trovato, overo la maggior parte, onde consideravo che poco toccarebbe alla Maestà Vostra di tante ricchezze che erano in questa città, appresso quelle che io avevo da prima per la Maestà Vostra. Ed essendo già l'ora tarda, né potendo piú sopportare il puzzo de' corpi morti che in quelle strade erano giaciuti per terra molti giorni, che era la piú pestilente e brutta cosa che si potesse vedere, ce ne ritornammo nel nostro campo. La sera posi ordine che 'l giorno seguente dovessimo entrar nella città, e che s'apparecchiassero tre pezzi d'artiglieria grossa che avevamo per condurgli là, perciochè mi pensavo che, essendo gli nemici tanto stretti che non potevano volgersi, e volendo noi entrar senza combattere, essi averiano potuto annegar gli Spagnuoli, onde io volevo da lontano battergli con l'artiglieria per levargli dalla difesa contra di noi. Parimente ordinai all'esecutor maggiore che 'l giorno seguente fusse apparecchiato ad entrar co' brigantini per un certo lago molto grande che era fra le case, dove erano ragunate tutte le canoe de' nemici: e tenevano sí picciol numero di case dove potessero stare, che 'l signor della città con alcuni primarii se ne stava nelle canoe, non sapendo che si fare. E noi quel giorno facemmo parlamento e ferma deliberazione che dovessimo entrare nella città.
La seguente mattina per tempo comandai che tutti stessero apparecchiati, e fussero condotti que' due pezzi grossi d'arteglieria, avendo prima il giorno innanzi mandato a dire a Pietro d'Alvarado che mi aspettasse in piazza, e non combattesse co' nemici finchè io non arrivasse là. Essendo noi già ridotti insieme, e stando li brigantini apparecchiati dopo le case nelle quali erano gli nemici, comandai che, sentendo scaricare uno schioppo, entrassero da una certa parte che mancava da prendere, e quivi facessero di modo che gli nemici fussero forzati a gettarsi in acqua verso questa parte dove avevano da stare apparecchiati li brigantini, imponendo loro che mettessero ogni cura e fatica di pigliar vivo Guautimucin, perciochè, subito che egli fusse preso, la guerra sarebbe finita. Io montai sopra una loggia e, prima che entrassero a combattere, parlai con alcuni primarii della città conosciuti da me, dimandando loro per qual cagione il lor signore non volesse venire alla mia presenza, aggiungendo che, poichè si vedevano giunti all'estremo, non dessero essi medesimi occasione di morir tutti, ma che lo dovessero chiamar fuori senza temer di cosa alcuna. Parve che due de' primarii andassero a chiamarlo, e poco dopo ritornò con essi uno de' principali tra loro, nominato Ciuacoacin, che era duce e governatore di tutti loro, per consiglio del quale erano indrizzate tutte le cose della guerra. Io me gli mostrai grato e benigno, acciochè, lasciando la paura da parte, prendesse speranza e sicurtà. Egli m'annunciò che 'l signore a niun modo voleva comparir dinanzi a me, anzi piú tosto voleva morire che condursi a far questo, ed esso n'aveva gran dispiacere, sí che facessi io quel che mi pareva. Avendo compreso l'animo suo, dissi che se ne ritornasse a' suoi, ed egli con loro insieme s'apparecchiasse, ch'io volevo entrar a combattere con loro e ucciderli tutti.
E avendo noi consumato piú di cinque ore in simili ragionamenti, li cittadini tutti stavano sopra li corpi morti, e alcuni in acqua: alcuni notavano e alcuni si sommergevano nel lago dove si ragunavano le canoe, che era molto largo. E sí grandi erano le lor miserie, che niuno saria bastante a poter pensare come le potessero sopportare; e grandissima moltitudine di donne e di fanciulli correvano a noi, e affrettandosi ciascuno d'esser il primo, e venivano a gettarsi l'un l'altro in acqua e anco affogarsi tra li corpi morti. E parmi che per l'acqua salsa che bevevano e per la fame e per il puzzo fussero assaliti da sí grave pestilenza, che ne morirono piú di cinquantamila uomini; li corpi morti de' quali, acciochè noi non conoscessimo la lor carestia e necessità, gli gettavano in acqua di modo che li brigantini non li potessero trovare, e non gli gettavano fuori, acciochè noi altri nella città non gli vedessimo: onde in quelle strade nelle quali essi dimoravano trovammo i monti di corpi morti, di modo che niuno poteva mettere il piede altrove se non sopra d'essi. Or io avevo dato ordine che in tutte le strade stessero gli Spagnuoli, acciochè gl'Indiani amici nostri non uccidessero que' miseri cittadini che venivano a darsi nelle nostre mani, i quali erano quasi senza numero; medesimamente feci avisati i capitani de' nostri amici che a niun modo comportassero che fussero uccisi coloro che ricorrevano a noi; ma non si poté fare tanto, né tanto resistere, che in quel giorno non fussero uccisi e sacrificati piú di quindecimila uomini. E fra questo mezzo tutti li primarii della città, e gli altri tutti atti a combattere, erano ristretti in certe loggie e case e acque, dove non giovava loro fingere sí che non vedessimo apertamente la lor debolezza e consumamento. Ma essendo già l'ora tarda e non volendo essi arrendersi, comandai che fussero drizzati que' pezzi d'artegliaria contra di loro, per tentar se si volevano arrendere, perciochè averiano patito maggior danno dall'aver noi comportato che gli Indiani amici nostri gli avessero assaliti, che dall'arteglierie, le quali fecero loro pur danno in qualche parte. E questo giovando poco, comandai che fusse scaricato un schioppo; al qual segno li nostri subito occuparono quel canto che mancava lor di prendere, e, gettati in acqua coloro che vi erano, gli altri che rimasero s'arrenderono senza combattere; e li brigantini, entrati insieme in quel lago, assaltarono le canoe, e gli uomini che in quelle si trovavano non ebbero ardire di affrontarsi a battaglia.
E piacque all'onnipotente Dio che un certo capitano dei nostri, nominato Garci Holguin, si mise a seguitare una canoa, nella quale gli pareva che fussero portati uomini di qualche riputazione; e avendo egli a proda due o tre balestrieri, si apparecchiavano di saettare coloro che erano nelle canoe, i quali accennarono che in quella canoa vi era il signore della città, e perciò non volessero altrimenti contra di loro tirare saette. Allora essi di subito corsero a pigliare il detto signore, che era Guautimucin, e anco il signore della città di Tacuba e molti altri che erano nella detta canoa; e incontanente il predetto capitano Garci Holguin condusse prigione quel signore, insieme con gli altri primarii, a quella loggia dove io stavo, che era appresso il lago del signore della città. Il quale, poichè fu a sedere, non gli avendo io usato asprezza alcuna, fattomisi vicino mi disse in suo linguaggio che aveva fatto ciò che era tenuto a fare per difendere se stesso e i suoi, di modo che era condotto in simile stato, e che per l'avenire io disponessi di lui a mio piacere; e ponendo mano ad un certo mio pugnale, mi pregò che ficcandoglielo nel petto l'uccidesse, ma io gli commandai che dovesse star di buon animo. Preso che egli fu, cessò tutta la guerra, alla quale piacque al sommo Iddio d'imponer fine un martedí, la festa di sant'Ippolito, a' tredici d'agosto 1521: sí che dal dí che fu posto l'assedio alla città e che fu presa, il che fu alli 30 di maggio del detto anno, insino alla espugnazione, v'andarono settantacinque giorni. Onde la Maestà Vostra comprenderà le fatiche, li pericoli e le disgrazie che hanno avuto gli suoi vassalli; e quanto in ciò abbiano adoperato le loro persone, si può molto ben dai fatti istessi comprendere.


La somma dell'oro che fu raccolto in Temistitan. Come il signor della provincia Michuacan mandò ambasciatori al Cortese ad offerirsi, e, pigliata da quegli informazione se per quella provincia si può andar al mar d'Ostro, mandò con loro due Spagnuoli, che li conducessero lí.

Di quelli settantacinque giorni che durò l'assedio, niuno ve ne fu che passasse senza battaglia, o grande o picciola. E quel giorno che fu preso Guautimucin ed espugnata la città di Temistitan, poichè furono raccolte le spoglie e la preda che potemmo avere, ritornammo nel campo, rendendo grazia a Iddio della misericordia che ci avea usata e della vittoria tanto desiderata, che benignamente n'avea conceduto che ottenessimo. Stemmo quivi nel campo tre o quattro giorni, mettendo ordine a molte cose che bisognavano; dipoi venimmo alla città di Cuioacan, dove fin ora ho dimorato, attendendo a dare ordine e governo e a pacificar queste provincie. Raccolto l'oro e l'altre cose, per consiglio degli ufficiali di Vostra Maestà procurai di farlo fondere, ed essendo fuso arrivò alla somma di centoventimila castigliani, della quale ne fu consegnata la quinta parte al suo tesoriero, senza la quinta parte che toccava alla Maestà Vostra sí degli schiavi come dell'altre cose, sí come piú diffusamente apparirà nella relazione di tutte le cose che apparteranno alla Maestà Vostra, che sarà sottoscritta co' nostri nomi. L'oro che avanzò fu partito tra me e gli Spagnuoli, secondo che 'l costume, il servizio e la qualità di ciascuno richiedeva, e oltra il predetto oro furono trovati alcuni fregi d'oro, e de' migliori ne fu data la quinta parte al tesoriero di Vostra Maestà. Tra la preda che noi facemmo, avemmo certe rotelle d'oro e penne e altri lavori fatti di penne, tanto maravigliosi che non si potria con i scritti dimostrare, né si può comprender la loro eccellenza se non da chi gli vede; onde, essendo tali, non mi parve che si dovessero partire, ma donarli alla Maestà Vostra. Per la qual cosa comandai che si ragunassero tutti li soldati, e li pregai ad essere contenti che fussero mandati alla Maestà Vostra, e alla Vostra Maestà donassimo quella parte che a loro e a me perveniva: ed essi lietamente lo concedettero, e cosí mandammo alla Maestà Vostra il detto dono per li procuratori che manda il consiglio di questa Nuova Spagna.
Tenendo la città di Temistitan il prencipato in queste provincie, ed essendo ella di grandissima e illustrissima fama, parve che ad un certo potente signore d'una grandissima provincia, che è lontana settanta leghe da Temistitan, nominata Mechuacan, venisse a notizia come noi l'avevamo distrutta e gettata a terra. E rivolgendosi per l'animo la grandezza del dominio e la fortezza della detta città, gli parve che, poichè essa non aveva potuto farci resistenza, niente ci potesse resistere; onde mosso da paura mi mandò alcuni ambasciatori, e in nome suo per interpreti mi fecero intendere che 'l loro signore aveva saputo che noi eravamo vassalli d'un gran signore, e che, se io mi contentavo, esso co' suoi desideravano d'esser vassalli della Maestà Vostra e di tener con noi strettissima amistà. Io risposi loro esser vero che noi eravamo vassalli d'un gran signore, che è la Maestà Vostra, e a tutti quegli che ricusassero d'essere avevamo deliberato di far guerra, e che 'l lor signore ed essi avevano fatto bene a venire a darsi per vassalli della Maestà Vostra. Ed essendomi da un tempo in qua venuta notizia del mar d'India verso ostro, pigliai informazione da loro se vi poteva andar per la lor provincia. Essi mi risposero di sí, e io gli pregai, per poter mandare informazione a Vostra Maestà circa il detto mare, che conducessero li due Spagnuoli per la lor provincia i quali assegnerei loro. Mi risposero di volerlo far volentieri, ma per poter giugnere al mare erano astretti passar per una provincia d'un certo gran signore, col quale essi facevano guerra, e perciò allora non potevano giugnere insino al mare. Li sopradetti ambasciatori dimorarono appresso di me tre o quattro giorni, e ordinai che in lor presenza le genti da cavallo facessero alcune scaramuccie, acciò poi le raccontassero nel lor paese; e avendo donato loro alcuni fregi, gli spedi' insieme con gli Spagnuoli, che andassero alla detta provincia di Mechuacan.


Come il Cortese mandò quattro Spagnuoli, due in una parte e gli altri in un'altra, con alcuni Indiani in compagnia, per scoprir il mar d'Ostro; i quali ritornarono con la risposta di quanto aveano scoperto e particolare informazione di tutte le cose, con le mostre dell'oro che trovarono nelle minere di quelle provincie, condotti con loro alcuni abitatori di quelle marine presa la possessione di quel mare in nome della sacra Maestà e postovi alcune croci per segno nel lito.

Sí come ho detto nel precedente capitolo, non molto prima avevo avuto qualche notizia d'un altro mare australe d'India, e intendeva che in due o tre luoghi era distante da dodeci, tredici o quattordeci giornate da questo luogo. E io ero molto desideroso d'averne chiara notizia, sapendo che di ciò n'era per risultar grandissimo servigio alla Maestà Vostra, massimamente che tutti coloro che hanno scienza o vero esperienza delle navigazioni dell'Indie credono fermamente che, se per aventura si scoprisse in queste parti il mare australe dell'Indie, si scoprirebbono molte isole ricche d'oro e di gemme e d'ornamenti e di spezierie, insieme con molte cose secrete e di meraviglia, e il medesimo affermano tutti li dotti ed esperti nella cosmografia. Per questo desiderio adunche, e acciochè la Maestà Vostra avesse da me questo servizio singulare e degno di memoria, mandai quattro Spagnuoli, due in una parte e gli altri in un'altra, con la conformazione del viaggio che dovessero tenere; e avendo dati loro alcuni Indiani amici nostri che li guidassero, andando in lor compagnia, si partirono, e comandai che non si fermassero fin che non giugnessero a quel mare, e scoprendolo ne pigliassero la reale e personal possessione per nome della Maestà Vostra. E alcuni d'essi camminarono per spazio di centotrenta leghe per molte buone provincie senza impedimento, e, andatisene al mare, ne presero la possessione, ponendo per segno di ciò alcune croci nel lito; e de lí ad alquanti giorni se ne ritornarono con la risposta del detto discoprimento, dandomi particolarmente informazione di tutte le cose e conducendomi alcuni abitatori delle dette marine. Similmente mi portarono mostre dell'oro di molte minere, che trovarono in quelle provincie per le quali passarono, che con altre mostre al presente mando alla Maestà Vostra. Gli altri due indugiarono alquanto piú, perciochè fecero un viaggio di centocinquanta leghe da un altro lato, finchè giunsero al detto mare, del quale essi presero la possessione nel medesimo modo, arrecando pienissima informazione di quelle marine e menandosene alcuni abitatori di quelle. I quali insieme con gli altri io ricevetti lietamente, e, data loro informazione della gran potenza della Maestà Vostra, se ne ritornarono nella lor patria.


Come il Cortese mandò l'esecutor maggiore alle provincie Tatectelco, Tuxtebeque, Guatuxto e Aulicaba, le quali s'erano ribellate, e al luogotenente di Tepeaca mandò soccorso per la guerra di Guaxacaque. Come ordinò che nella provincia Tuxtebeque fusse fabricata una città, qual si chiamasse Modelin. Quei della provincia Guxuca s'arrenderono.

Nell'altra relazione significai alla Maestà Vostra come, nel tempo che gli Indiani mi ruppero, e la prima volta che mi cacciarono di Temistitan, si ribellarono alla Maestà Vostra tutte le provincie suddite alla detta città, e ci aveano mosso guerra. Ella per via di questa relazione potrà comandar che si vegga come noi avemo astretti al suo real servizio la maggior parte delle provincie che s'erano ribellate. E perchè alcune provincie vicine al mar d'India verso ostro per dieci, quindeci o trenta leghe dopo la rebellione di Temistitan s'erano ribellate, e gli abitatori a tradimento avevano uccisi piú di cento Spagnuoli, e non avendo io forze da poter mandare genti contra di loro, ispediti quelli Spagnuoli che erano ritornati da scoprire il mar verso ostro, deliberai di mandar Consalvo da Sandoval executor maggiore con trenta a cavallo e dugento fanti a piè e gli Indiani amici nostri, con alcuni primarii della città di Temistitan, alle provincie di Tatactetelco, Tuxtebeque, Guatuxto e Aulicaba. E datogli l'ordine che dovesse tenere in questa espedizione, cominciò a inviarsi per mandarlo ad effetto.
In quel tempo il luogotenente ch'io avevo lasciato nella città della Securezza de' Confini, che è nella provincia di Tepeaca, venne alla città di Cuioacan per farmi sapere come gli abitatori della detta provincia e delle altre a lei vicina, vassalli di Vostra Maestà, pativano gran danno dagli abitatori d'una certa provincia nominata Guaxacaque, i quali facevano lor guerra per esser nostri amici; e che, oltra il dar rimedio a questo male, era ottima cosa render sicura la provincia di Guaxacaque, perciochè per quella si passava al mar d'India verso ostro; e che, se la mantenessimo pacifica, saria cosa molto giovevole, sí per la già detta cagione come per molte altre, le quali poi dirò alla Maestà Vostra. Il detto luogotenente mi disse che egli avea ottima informazione particolarmente di tutta quella provincia, e che con pochi soldati la potremo soggiogare, perciochè, mentre io ero all'assedio di Temistitan, egli vi era andato, avendogli fatto instanza gli abitatori di Tepeaca a far quella guerra: e non avendo egli condotto piú di venti o trenta Spagnuoli, lo costrinsero a ritornare, benchè non a quel termine che egli averia desiderato. Io, intesa che ebbi la sua relazione, gli assegnai dodeci uomini a cavallo e ottanta fanti spagnuoli, e il detto esecutor maggiore insieme col luogotenente si partirono co' lor soldati da questa città di Cuioacan alli 30 d'ottobre del 1521; ed essendo giunti alla provincia di Tepeaca, fecero la rassegna de' lor soldati, e ciascuno se n'andò alla sua impresa.
L'esecutor maggiore indi a venti giorni mi scrisse che era giunto alla provincia di Guatusco, e avenga che temesse di ricever qualche disturbo da' nemici, essendo gente molto destra al combattere e avendo grandissime forze, nondimeno piacque all'onnipotente Iddio che lo ricevessero pacificamente; e ancora che non fusse passato all'altre provincie, istimava certamente che gli abitatori di quelle dovessero arrendersi alla M.V. Dopo quindeci giorni ebbi sue lettere, per le quali mi avisava che era passato piú avanti e che tutte quelle provincie già erano quiete; e parevagli che, volendo cavar di quella gran frutto, vi si dovesse fabricare una terra, come molto prima avevamo consigliato, e che io guardassi quel che volevo che egli in questo caso dovesse fare. Risposi ringraziandolo della fatica presa da lui in quella espedizione per commodo della Maestà Vostra, e gli feci intendere che la sua opinione era ottima in fabricarvi una terra e condurvi abitatori; onde gli ordinai che facesse fabricare una città per abitazione di Spagnuoli nella provincia di Taxtebeque e le ponesse nome Medelin, e gli mandai la elezione de' giudici e reggenti e d'altri officiali, a' quali tutti comandai che attendessero molto bene a tutte le cose che fussero a commodo e a servizio di Vostra Maestà, e che li paesani fossero ben trattati.
Il luogotenente della città della Sicurezza de' Confini se n'andò co' suoi soldati alla provincia di Guaxaca, con gran numero d'uomini circonvicini amici nostri, e benchè gli abitatori della detta provincia avessero cominciato a far lor resistenza, e tre o quattro volte valorosamente venissero a combattere, alla fine si arresero pacificamente, senza lor danno alcuno. E mi scrisse d'ogni cosa particolarmente, avisandomi che la provincia era ottima e piena di minere, delle quali mi mandò finissime mostre, che insieme con l'altre cose indirizzo alla Maestà Vostra. Egli se ne rimase in quella provincia, aspettando quel che io gli volessi comandare.


Come nella città di Temistitan si fabricavano le case già destrutte, compartiti i fondi del terreno a coloro che deliberarono d'abitarvi. Il signor della provincia Tatutebeque manda suoi baroni con presenti ad offerirsi. Come con gli Spagnuoli mandati a Mechuacan vennero altri baroni di quel signor, chiamato Calcucin, con circa mille uomini; e il presente che portarono, e come, maravigliatosi delle cose che gli fece vedere il Cortese, lietamente se ne ritornarono alla patria, col presente dato loro da portar al signore.

Io avevo posto ordine di soggiogar queste due provincie, vedendo il felice successo, e avendo anco già fatte fare tre colonie di Spagnuoli, la maggior parte de' quali era appresso di me nella città di Cuioacan. Ed essendoci consigliati in qual luogo dovessimo porre un'altra colonia che fusse vicina al lago, avendone grandissimo bisogno per sicurezza e quiete di tutte queste provincie, ci parve che si dovesse porre nella città di Temistitan, essendo tutta già abbattuta a terra: la quale, come abbiamo detto, era tanto famosa e insin ora da noi tanto stimata. Per la qual cosa io compartii li fondi del terreno a coloro che deliberavano di abitarvi, e furono eletti gli giudici e reggenti per nome di Vostra Maestà, come si suol fare ne' suoi regni. Insino che si fabrichino le case, avemo deliberato dimorare in questa città di Cuioacan, dove al presente siamo da quattro o cinque mesi in qua, che si rifà la città di Temistitan. E in vero è una bellissima città, e creda la Maestà Vostra che ogni giorno diventa piú nobile e piú grande, di modo che, sí come ne' tempi passati è stata la principale e la signoria di tutte queste provincie, cosí speriamo ancora che abbia da esser per l'avenire. E si fa e farassi di maniera che gli Spagnuoli stiano fortificati e sicuri, e molto piú possenti de' cittadini, e di tal sorte che non possano esser offesi da loro.
Tra questo mezzo il signor della provincia Tatutepeque, che è vicina al mar d'India verso ostro, per la qual passarono quei due Spagnuoli che andarono a scoprire il detto mare, mi mandò certi suoi baroni e per loro mezzo si offerse per vassallo alla Maestà Vostra, mandando alcuni doni, cioè fregi e pezzi d'oro e altri lavori fatti di penne, le qual cose tutte furono consegnate al tesoriero di Vostra Maestà. E io, ringraziando li predetti ambasciatori di tutto ciò che mi aveano esposto per nome del signore, diedi loro alcune cose da portargli: e se n'andarono molto allegri.
In questo medesimo tempo arrivarono quei due Spagnuoli che erano andati alla provincia di Mechuacan, per la quale, secondo che mi raccontavano gli ambasciatori che mi avea mandato quel signore, si poteva andare al mar d'India verso ostro, ma bisognava passar per la provincia d'un certo loro nemico. Venne insieme con gli Spagnuoli il fratello del detto signore di Mechuachan con altri baroni e famigliari, che erano da mille uomini, li quali ricevetti benignamente; e per nome di Calcucin, signore della detta provincia, donarono alla Maestà Vostra un presente di rotelle d'argento che pesavano molte libre e anco altre cose, le quali tutte furono consegnate al tesoriero di Vostra Maestà. E acciochè vedessero li nostri modi e gli potessero raccontare al lor signore, ordinai che, ragunatisi tutti gli uomini a cavallo in una certa piazza, corressero in presenza loro, facendo alcune scaramuccie, e li fanti a piè con la loro ordinanza facessero il medesimo, e alcuni di loro scaricassero gli schioppi. Feci medesimamente battere una certa torre con l'artigliarie, di modo che si maravigliavano grandemente delle cose che furono fatte intorno la detta torre, sí come anco quando viddero correr li cavalli. Oltra di ciò ordinai che fussero menati a veder la distruzione della città di Temistitan, la qual veduta, e compresa la sua potenza e fortezza, vedendola posta in acqua, ebbero molto maggior maraviglia. Dopo quattro o cinque giorni, avendo date loro molte cose da portare al signore, e anco a loro medesimi doni di cose che essi ne fanno grandissimo conto, se ne ritornarono lietamente nella patria.


Come il Cortese ebbe lettere della venuta di Cristoforo Tapia venuto in quelle parti per pigliar il governo di esse, e la risposta fattali, mandato a lui fra Pietro Malgerzio per ordinar insieme quanto era ispediente al servizio della sacra Maestà. L'ordine che que' di Messico e Temistitan avean posto per ribellarsi.

Io scrissi già nell'altra relazione alla Maestà Vostra del fiume Panuco, che è nella marina di sotto la città della Vera Croce per spazio di 50 o 60 leghe; al quale già due o tre volte erano arrivate le navi di Francesco di Garai, e aveano anco ricevuto gran danno da quegli che abitano appresso quel fiume, per la mala e sinistra maniera che tennero i capitani che egli avea mandati là in contrattar co' detti Indiani. Io, vedendo che in tutto il mar d'India verso tramontana è grandissima carestia di porti, e niuno è simile al porto di quel fiume, e anco essendo già prima venuti a me gli abitatori di quello e offertisi per vassalli di Vostra Maestà, e avendo fatto e facendo ora guerra a' vassalli di lei e amici nostri, ho deliberato di mandar là un capitano con alcuni soldati per tener in pace tutte quelle provincie, e, se vi fusse luogo buono, fabricar quivi nella ripa del fiume una terra, perciochè cosí terrei quieti e sicuri tutti i convicini. Ma, essendo noi pochi e divisi in tre o quattro parti, vi era qualche contradizione, che io non dovessi cavar piú soldati di questo luogo. Parte per aiutar gli amici nostri, e parte perchè dopo la espugnazione di Temistitan erano giunte certe navi, che avevano condotti alcuni cavalieri, ordinai che si mettessero in ordine venticinque a cavallo e centocinquanta fanti, e con loro un capitano, che andassero al detto fiume.
Quando spedivo il sopranominato capitano, vennero lettere dalla città della Vera Croce, che narravano esser giunta una nave al porto della detta città, nella quale era venuto Cristoforo da Tapia, riveditor delle fabriche dell'isola Spagnuola. Dal quale ebbi lettere il giorno seguente, dove m'avisava della sua venuta in queste parti non essere stata per altra cagione che per pigliar il governo d'esse per nome della Maestà Vostra; e di questo egli aveva le sue reali commissioni, la copia delle quali non voleva dare in luogo alcuno, finchè non parlavamo insieme: il che egli averia voluto far subito, ma, per aver li cavalli battuti dal mare, non si era posto in viaggio; ben mi pregava ch'io mettessi ordine come ci potessimo trovar insieme, o venendo egli qua, o andando io là alla marina. Ricevute le lettere, incontinente gli diedi risposta, dicendogli ch'io grandemente mi rallegravo della sua venuta, e che niuno poteva venire di commissione di Vostra Maestà al governo di queste provincie del quale io n'avessi maggior allegrezza, parte per la conoscenza che era stata tra noi, parte per la pratica e vicinanza che avevamo avuta insieme nell'isola Spagnuola. E perchè lo stato pacifico di queste provincie non era ancora fermo come si conveniva, e perchè anco per ogni picciola novità daremmo occasione agli abitatori di esse di cercar di ribellarsi, ed essendo fra Pietro Malgerzio da Urea, commissario della crociata, stato presente a tutte le nostre fatiche e conoscendo egli ottimamente in che termine qui stessero le cose, ed essendo stata la sua venuta di molto utile alla Maestà Vostra e la sua dottrina e consiglio molto giovevole a noi altri, lo pregai con grande instanzia che volesse pigliar fatica d'andar a parlare al detto Tapia, e vedesse le commissioni di Vostra Maestà; e poichè egli meglio di alcun altro conosceva quel che apparteneva al suo real servizio e al bene di tutte queste provincie, egli insieme col detto Tapia ordinassero quelle cose che fussero convenevoli, sapendo che io non mi torrei da quelle in niun modo. E di questo lo pregai in presenza del tesoriero di Vostra Maestà, il quale gli commise il medesimo. E cosí si partí per andare alla città della Vera Croce, dove dimorava il detto Tapia; e acciochè nella detta città, e dovunque si trovasse il detto Tapia, gli fusse provisto d'ogni cosa e ricevuto commodamente, spedi' il detto padre con due o tre miei soldati. Ed essendo essi partiti, aspettavo la lor risposta, e tra questo mezzo mi apparecchiavo alla partita, accommodando alcune cose che appartenevano al servizio della Maestà Vostra e alla pace e quiete di tutte queste provincie.
De lí a dieci o dodeci giorni i giudici e reggenti della città della Vera Croce mi scrissero che 'l detto Tapia aveva mostrate le commissioni della Maestà Vostra e de' suoi governatori, col suo real nome, ed essi gli avevano ubbidito con ogni debita riverenza; ma, quanto al mandarle ad esecuzione, gli avevano risposto che, essendo la maggior parte de' governatori qui appresso di me, per essersi trovati all'assedio ed espugnazione di Temistitan, essi ne dariano loro aviso, facendo tutti quel che piú pareva esser conveniente al servizio di Vostra Maestà e al bene delle provincie. Oltra di questo avisavano che 'l sopranominato Tapia per la detta risposta prese qualche sdegno, e anco avea tentato di fare alcune cose scandalose. E avenga che questo mi dispiacesse molto, risposi loro pregandoli e ammonendoli che, riguardando principalmente al real servizio della Maestà Vostra, si sforzassero d'ubbidire al detto Tapia e non dessero occasione che nascesse qualche discordia, perciochè io mi apparecchiavo al viaggio per andare a parlargli e adempire gli comandamenti della Maestà Vostra e fare quello che convenisse al servizio di quella. E volendo già partirmi, e avendo rimesso il viaggio di quel capitano al fiume Panuco, conciosiachè, partendomi io, fusse necessario lasciar qui una buona guardia, li procuratori del consiglio di questa Nuova Spagna del mare Oceano mi fecero una monitoria, con grandissimi protesti che non mi partisse di qui, perciochè le provincie di Temistitan e di Messico, che in breve tempo erano ridotte a pacifico stato, per l'absenzia mia potrebbono far novità e tumulto, onde ne nascerebbe grandissimo danno alla Maestà Vostra e la provincia ne verrebbe ad esser in disturbo. Nella detta monitoria si contenevano molte altre cagioni, per le quali dimostravano che al presente non dovessi partir di questa città, dicendomi oltra di questo che essi con l'auttorità del consiglio anderiano alla città della Vera Croce, dove era il detto Tapia, e vederebbono li provedimenti e commissioni della Maestà Vostra, e fariano ciò che vedessero esser utile al real servizio di quella. E perchè ci parve che bisognasse far cosí, e li detti procuratori si partivano, per loro scrissi al detto Tapia, narrandogli tutte quelle cose che erano fatte, e che in mio luogo mettevo e davo commissione a Consalvo di Sandoval esecutor maggiore, a Didaco di Sotto e a Didaco di Valdenebro, che erano quivi nella città della Vera Croce, che in mio nome, insieme con quel comune e insieme co' procuratori degli altri comuni, vedessero ed eseguissero quel che appartenesse al servizio di Vostra Maestà e al commodo delle provincie: e in vero essi erano e sono tali che non erano per fare altramente.
Giunti che furono dove si trovava il detto Tapia, il quale già si era messo in viaggio col padre fra Pietro, gli dissero che tornasse adietro, e ritornarono insieme alla città di Cimpual; e quivi il detto Cristoforo mostrò le commissioni e provedimenti della Maestà Vostra, alle quali tutti ubbidirono con quella riverenza che si debbe alla Vostra Maestà. Nondimeno, in quanto al mandarle ad esecuzione, ne supplicavano alla Maestà Vostra, giudicando cosí esser convenevole al suo real servizio, per le ragioni e cagioni contenute nella supplicazione, dove hanno scritto piú diffusamente come tal cose siano passate: la qual supplicazione li procuratori che vengono dalla Nuova Spagna la portano, sottoscritta di mano di notaio publico. Dopo molte monitorie fatte d'amendue le bande tra 'l detto Tapia e i procuratori, il Tapia montò sopra la sua nave, essendogli stata fatta la monitoria che cosí dovesse fare, perciochè, per la sua venuta e dimora in queste provincie, e per il publicarsi governatore ed esser venuto per capitano d'esse, nasceva sedizione, e gli abitatori di Messico e di Temistitan già avevano posto ordine con queste provincie di ribellarsi e far tradimento, dal quale sarebbe stato piú difficile scampare che dal primo. E questo era ordito in questa maniera, che alcuni abitatori di Messico avevano messo ordine, con gli abitatori di quelle provincie alle quali io avevo mandato l'esecutor maggiore per soggiogarle, che venissero a me con grandissima celerità, annunciandomi che intorno a quelle marine andavano errando dieciotto navi con gran numero di gente, ma non prendevano terra; e perchè non poteva esser gente amica, se mi fusse piaciuto, loro si sarebbono apparecchiati e là ne sariano venuti meco per darmi aiuto. E acciò io prestasse lor fede, mi portarono dipinte in carta le forme delle navi. E avendomi essi avisato secretamente di questa cosa, di subito compresi l'animo loro, ed esser un inganno e tradimento per levarmi di questa provincia; e perciochè alcuni de' primarii, vedendomi rimanere ora che io dovevo partire, aveano messo un altro ordine, finsi di non me n'accorger, facendo poi metter in prigione alcuni di loro che cotal cosa avevano trattate.
Sí che la venuta del Tapia e 'l non aver egli notizia del paese né degli abitanti aveva suscitato grandissima sedizione, e veramente lo star suo qui sarebbe stato danno incredibile, se Iddio non vi avesse dato rimedio. E senza dubbio sarebbe stato piú utile a Vostra Maestà che egli se ne fusse stato nell'isola Spagnuola e avesse lasciato andar la sua venuta qua, e chiestone consiglio da lei, e avisarla in che stato fussero le cose di queste provincie, poichè tutto egli aveva inteso per le navi ch'io avevo mandate alla sudetta isola per chieder soccorso. Ed esso molto ben sapeva il rimedio che fu fatto allo scandolo che intervenne per la venuta di Panfilo di Narvaez, spezialmente per quelle cose le quali erano state ordinate dal consiglio e reggimento della Maestà Vostra, e che l'almiraglio, i giudici e gli ufficiali di Vostra Maestà, che fanno residenzia nella sopradetta isola Spagnuola, molte fiate avevano ammonito il sopranominato Tapia che non attendesse a voler navigare a queste provincie, se prima non fusse certificata la Maestà Vostra di tutte quelle cose che in quelle fussero intervenute, onde sotto certe pene gli vietarono il venirvi; ma egli con alcuni modi che tenne con loro, considerando piú tosto il suo particolare interesse che quel che fusse servizio di Vostra Maestà, fece tanto che rivocorono la proibizione della sua già detta venuta. Ho dato aviso d'ogni cosa alla Maestà Vostra; ma quando il Tapia si partí di questi paesi, né io né li procuratori scrivemmo, non ne parendo conveniente portator delle nostre lettere, e anco acciochè la Maestà Vostra creda e conosca che ella, non essendo stato ricevuto il Tapia, ha conseguito grandissima utilità, come piú chiaramente si dimostrerà quando e quante volte farà di bisogno.


Come Pietro d'Alvarado diede notizia al Cortese d'aver soggiogata la provincia di Tatutepeque e, scoperto un certo tradimento, aver ritenuto quel signor e suo figliuolo, e quella provincia esser copiosissima di minere; e come avea preso la possessione di quel mare per nome della sacra Maestà, mandate le mostre delle minere e perle ch'avean cavate. Come fu scoperto il tradimento ch'era stato posto d'uccider il Cortese, e condannato a morte Antonio di Villafagna.

In uno de' capitoli di sopra significai alla Maestà Vostra come quel capitano ch'io avevo mandato a soggiogar la provincia di Guaxaca la teneva pacificamente, quivi aspettando quel che io gli comandasse. E perchè avevo di bisogno di lui, essendo egli luogotenente e giudice nella città della Sicurezza de' Confini, gli scrissi che gli ottanta fanti e i dieci cavalli che aveva seco li consegnasse a Pietro d'Alvarado, il quale io mandavo a soggiogar la provincia di Tatupeque, che è distante quaranta leghe dalla provincia di Guaxaca, appresso il mar d'India verso ostro, e faceva guerra e danni intollerabili a coloro che si erano dati per sudditi della Maestà Vostra e agli abitatori della provincia di Tatupeque, per averci essi promesso che noi passeremmo per la lor provincia a discoprir il mare verso ostro. Il detto Pietro d'Alvarado si partí di questa città all'ultimo di gennaio dell'anno presente, e tra li soldati che trasse di qui e quegli che gli furono consegnati in Guaxaca ragunò insieme quaranta cavalli e dugento fanti, tra i quali n'erano quaranta tra schioppettieri e balestrieri, e avevano due pezzi piccioli d'artegliaria da campo. De lí a venti giorni ebbi lettere dal detto Pietro d'Alvarado, che narravano trovarsi in viaggio per andare alla detta provincia di Tatutepeque, e mi certificava aver avuti prigioni certe spie abitatori della detta provincia, ed esaminandoli gli avevano detto che 'l signor di Tatutepeque insieme con le sue genti l'aspettavano alla campagna; ed egli andava con intenzione di fare ogni cosa a lui possibile per quietar quella provincia, e che oltra gli Spagnuoli menava anco seco molti e valorosi uomini. E aspettando io con grandissimo desiderio il fine di questa impresa, alli quattro di marzo del presente anno ricevetti lettere da Pietro d'Alvarado, nelle quali mi avisava esser entrato nella provincia, e che tre o quattro terre avevano avuto ardire di far resistenza, ma durarono poco; e che era entrato nella città di Tatuteque e, per quanto si poté vedere, fu ricevuto molto cortesemente, avendo il signore voluto che egli alloggiasse in certe sue case grandi coperte di paglia; nelle quali, per esser situate in luogo non molto commodo per la gente da cavallo, non volse alloggiare, ma discese ad un'altra parte della città, che era piú piana. E lo fece anco perchè gli era venuto all'orecchie che essi avevano deliberato d'uccider lui e tutti i suoi compagni, attaccando il fuoco la notte alle case, mentre gli Spagnuoli con lui vi fussero messi dentro ad albergare: e avendogli Iddio discoperto questo tradimento, avea finto di non se ne esser accorto, conducendo seco nel piano il signore della provincia insieme col suo figliuolo, li quali aveva ritenuti e gli aveva in sua potestà come prigioni, e da loro avea avuto piú di venticinquemila castigliani. E secondo che aveva inteso per relazione de' suoi sudditi, istimava che egli avesse grandissimo tesoro, e che quella provincia era tanto pacifica che nulla piú, perciochè facevano le lor fiere e i lor traffici come erano già soliti di fare, e dicevano esser copiosissima di miniere, e in sua presenza averne cavate le mostre, le quali mi mandò; e che per tre o quattro giorni era andato al mare, e di quello aveva preso la possessione per nome di Vostra Maestà, e alla sua presenza avevano cavata la mostra delle perle, la qual similmente mi mandò: e io insieme con quella delle minere la mando alla Maestà Vostra.
Indirizzando l'onnipotente Iddio questa impresa ottimamente, si adempieva il desiderio che ho di servire alla Maestà Vostra in discoprir questo mare verso ostro; ed essendo cosa di tanto momento, ho procurato diligentissimamente che in uno de' tre luoghi dove scopersi il mare si fabrichino due mediocri caravelle e due brigantini: le caravelle saranno per discoprire e i brigantini per andar presso terra alle marine. E a questo effetto mandai quaranta Spagnuoli, guidati da un uomo molto diligente, tra i quali erano legnaiuoli, segatori di tavole e fabri e uomini pratichi del mare, comandando che nella città della Vera Croce si apparecchiasse di far chiodi, vele e altre cose che faccino di bisogno per li detti legni: e solleciteremo quanto ne sarà possibile che si finischino e mettinsi in mare. La qual opera finita, creda la Maestà Vostra che sarà cosa dalla quale risulterà maggior commodo a Vostra Maestà che sia risultato di cosa alcuna, dapoi che sono state ritrovate l'Indie.
Essendo io nella città di Tessaico, prima che n'uscissi per andare all'assedio di Temistitan, ordinando e inviando quelle cose che erano opportune al detto assedio, non ponendo cura a quel che alcuni trattavano, ne venne a me uno che si era trovato presente a quel trattato, certificandomi che alcuni amici di Didaco Velazquez, miei soldati, avevano trattato d'uccidermi a tradimento, e già tra loro avevano eletto chi dovesse esser capitano, podestà e altri ufficiali; e che in ogni modo io vi rimediasse, perchè egli vedeva che, oltra lo scandalo che ne succederebbe nella persona mia, era cosa certa che niuno Spagnuolo saria potuto scampare, essendo noi l'uno l'altro contrarii; e che per questo troveremmo non solamente apparecchiati gli nemici, ma ancora quegli che pensavamo che ci fussero amici si affaticheriano ad ucciderne tutti. Subito che io viddi discoperto cosí gran tradimento, ringraziai Iddio, essendo in lui posto ogni rimedio, e incontinente feci pigliare uno di quegli che ne era capo; il quale spontaneamente confessò che aveva deliberato e con molti, i quali egli nella sua confessione nominò, posto ordine d'uccidermi o di farmi prigione, e pigliar il governo delle provincie per Didaco Velazquez. E la verità era che egli aveva determinato di fare Didaco capitano e giudice maggiore e se stesso esecutor maggiore, e mi dovevano overo uccidere o veramente far prigione, e in questo si erano accordati molti, de' quali ne aveva fatto una lista che fu trovata nella sua casa, benchè era squarciata, con alcuni di coloro ch'egli nominò, co' quali aveva fatto il trattato. E non solamente queste cose erano tutte trattate e consigliate nella città di Tessaico, ma le avevano già cominciate a trattare mentre attendevano a far guerra nella provincia di Tepeaca. Vista la sua confessione (egli era nominato Antonio da Villafagna, e per origine era da Zamora), e avendola un giudice e io per vera e provata, lo condennammo alla morte, e cosí fu esequita la giustizia nella persona di colui. E benchè di questo ritrovassimo molti esser consapevoli, feci vista di non saperlo, portandomi con loro amichevolmente, perciochè, appartenendo il caso a me, anzi meglio si potrebbe forse dire alla Maestà Vostra, non volsi proceder severamente contra di loro. Ma questa mia simulazione non molto giovò, conciosiachè dipoi alcuni dalla parte del detto Didaco Velazquez cercassero piú volte d'insidiarmi e secretamente far molte novità e scandali di modo che piú mi bisognava guardar da loro che da' nostri nemici. Nondimeno l'onnipotente Iddio indrizzò tutte le cose di maniera che, senza alcun loro castigo, è tra noi ogni pace e tranquillità: e se per l'avenire sentirò cosa alcuna, gli castigherò come vorrà la giustizia.


Della morte di don Ferdinando, signor di Tessaico, e come il governo fu conceduto al suo fratel minore, il quale fu battezzato, e gli fu posto nome don Carlo. Come certi Spagnuoli salirono sul monte dal quale esce una palla di fumo a guisa d'una saetta, e ciò che gli intravenne. Ordine posto dal Cortese per conservazione e sostegno degli Spagnuoli.

Doppo l'espugnazione di Temistitan, mentre io dimoravo nella città di Cuioacan, passò di questa vita don Ferdinando, signor della città di Tessaico: della cui morte tutti avemmo grandissimo dispiacere, essendo egli fedel vassallo di Vostra Maestà e amicissimo de' cristiani. E per consiglio e consentimento de' signori e primarii di quella città e provincia, in nome di Vostra Maestà fu conceduto il governo al suo fratel minore, il quale si battezzò, e gli ponemmo nome don Carlo; e, come insin ora si può vedere, egli seguita le vestigie di suo fratello, e molto si diletta del nostro abito e costumi.
Nell'altra relazione diedi notizia alla Maestà Vostra come appresso la provincia di Tascaltecal e di Guaxacingo era un monte ritondo e alto, dal quale quasi sempre usciva una palla di fumo, che a diritto a guisa d'una veloce saetta saliva in alto. E perciochè ci affermavano quella esser cosa piena di pericolo, e che morivano coloro che salivano sul detto monte, comandai a certi Spagnuoli che vi salissero e vedessero come stesse il monte nella cima. Poichè vi furono saliti, quella palla di fumo uscí con tanto strepito che non poterono né ebbero ardire d'arrivare alla cima, donde usciva quel fumo; e d'una bocca all'altra era lo spazio di due tiri di balestra, perciochè questo monte è di circuito tre o quattro leghe, e di tanta altezza che non potevano veder la parte da basso. Quivi trovarono molti pezzi di solfo gettati fuori dal fumo, e una volta, mentre se ne stavano quivi, sentirono lo strepito del fumo che veniva suso, e con tutto che molto s'affrettassero di smontare, prima che scendessero a mezzo 'l monte cadevano giú rotolando gran numero di sassi, onde si videro posti in grandissimo pericolo. E gl'Indiani riputarono esser un fatto notabile l'andare là su, dove gli Spagnuoli salirono.
Per altre lettere ho dato notizia alla Maestà Vostra che gli abitatori di queste provincie sono di maggior capacità e ingegno di tutto il resto degli abitatori dell'altre isole, e ci sono paruti di tanto intelletto e ragione quanto mediocremente può bastare all'uomo; onde allora non mi parve che dovessero esser astretti a servir gli Spagnuoli come gli abitatori dell'altre isole; e, mancando questo, gli acquistatori e le colonie che avemo poste in queste parti non si potrebbono sostentare né nutrire. Sí che, per non astringere allora gl'Indiani e per dar qualche compenso agli Spagnuoli, mi pareva che la Maestà Vostra dovesse commettere che, delle rendite le quali in queste parti pervengono a lei, ne fussero alleggeriti per il vivere e per le spese fatte; e in questo ordinasse che si facesse quella provisione che paresse piú convenevole al suo servizio, come copiosamente gliene ho scritto. Ma poi, vedute e considerate le grandissime e continue spese della Maestà Vostra, e dovendo piú tosto accrescere le sue entrate che dare occasione di diminuirle, riguardando anco il lungo tempo che avemo atteso alla guerra, e la necessità e li debiti da' quali eravamo astretti, e l'indugio che vi era fin che la Maestà Vostra potesse deliberar di cosa alcuna, e anco vedendo la importunità degli ufficiali suoi e insieme di tutti gli Spagnuoli, sono stato quasi costretto dare nelle loro mani i signori e abitatori di queste provincie, considerando i servizii e le imprese che hanno fatte in queste parti per la Maestà Vostra, acciochè, tra questo mezzo che ella comandi altro overo confermi questo medesimo, li detti signori e abitatori servano agli Spagnuoli, provedendo a ciascuno Spagnuolo il quale sarà loro assegnato di quelle cose che gli faranno di bisogno per suo sostegno. E fu preso quest'ordine per consiglio di molti che molto ben conoscono e intendono li costumi di queste provincie, e non si può tener modo migliore né piú convenevole, sí per sostenimento degli Spagnuoli, come per conservazione degl'Indiani. E acciochè le cose passino per buona via, come piú appieno esporranno alla Maestà Vostra li procuratori che verranno di questa Nuova Spagna, per le cose e paghe di Vostra Maestà sono consegnate le provincie e le città migliori e piú ricche. Supplico la Maestà Vostra debba commettere che in questo si faccia quella provisione che parrà piú utile e convenevole al servizio suo.

Catolico Signore, l'onnipotente Iddio conservi e accresca con accrescimento di maggior regni e dominii la vita e real persona e il potentissimo stato di Vostra cesarea Maestà, come il suo real cuore desidera.
Della città di Cuioacan di questa sua Nuova Spagna del mare Oceano, alli quindeci di maggio, l'anno del Signore 1522.
Potentissimo signore, della Vostra cesarea Maestà umilissimo servo e vassallo, il quale baccia li real piedi e mani,

Fernando Cortese.


Potentissimo Signore, fa relazione alla Vostra cesarea Maestà Fernando Cortese, suo capitano e giustizia maggiore in questa Nuova Spagna del mare Oceano, sí come la Maestà Vostra potrà comandare che si vegga, perciochè noi ufficiali della Maestà Vostra siamo tenuti a riferire ogni cosa e dar conto di tutto quello che è successo in queste parti, e tutto si manda in queste lettere, e questa è la pura verità: e perciò non bisogna che non scriviamo piú diffusamente, ma in tutto ci rimettiamo alla relazione del predetto capitano.

Invittissimo e catolico Signore, Iddio onnipotente conservi e accresca con accrescimento di maggior regni e dominii la vita e real persona e il potentissimo stato di Vostra Maestà, secondo che 'l suo real cuore desidera. Di Cuioacan, alli quindeci di maggio 1522.
Potentissimo Signore, della Vostra cesarea Maestà umili servi e vassalli, i quali bacciano li real piedi e mani della Maestà Vostra,

Iuliano Alderete, Alfonso da Grado,
Bernandino Vazquez da Tapia.


Di Fernando Cortese la quarta relazione della Nuova Spagna.



Come l'algozin maggiore, andato alla provincia Guallacalco, la trovò essersi ribellata, e come prese una signora a cui tutti davano obedienza in quei luoghi. Delle provincie di Tabasco, Cimaclan, Quechiula e Quizzaltepeque. Come il Cortese mandò un capitano per ridur quelle che s'erano ribellate e castigarle.

Quando avisai Vostra Maestà, col mezzo di Giovan di Riviera partito di qua, delle cose accadutemi in queste parti, dopo li secondi avisi che gliene mandai, le feci sapere come io avevo spedito con gente l'algozin maggior a causa di sottometter di nuovo al servizio di lei le provincie di Guatusco, Tustepeque e Guatasca, con l'altre convicine verso il mare di Tramontana, che si ribellarno sin dalla sollevazion di questa città, di quanto gli era occorso nel viaggio, e come egli avea in commission da me di far una terra abitata in esse provincie e chiamarla per nome terra di Medellino. Saprà ora la Maestà Vostra che tal terra fu fatta e si abita, e sottomesso tutto il paese: dove sendo pacificato mandai piú gente, comandandoli ch'egli mandasse lungo il sito in suso sino alla provincia di Guallacalco, 50 leghe lontana d'onde si situò Medellin, e di qua centoventi. Però che, stando io qui nella città di Temistitan mentre che Montezuma signor d'essa era vivo, come quel ch'ero desideroso di voler sapere tutti i segreti di queste parti per darne a Vostra Maestà conto intero, avevo mandato Diego d'Ordas, che al presente si trova costí in corte, il qual fu raccettato da' signori e paesani di quella provincia molto volentieri, sendoseglino offerti per vassalli e sudditi di Vostra Maestà. Io tenevo aviso qualmente si trovava un porto per navili molto buono in un fiume grande, il qual passa per essa provincia ed esce nel mare, perchè 'l medesimo Ordas e quei che andarono con esso lui l'avevano riconosciuto. E il paese era attissimo ad abitarvi, e, per mancar porti a questi liti, io desideravo trovarne un buono e farvi abitare.
Comandai al suddetto algozin maggiore che, prima ch'egli entrasse in quella provincia, mandasse dai confini alcuni suoi messi che li diedi io, nativi di qui, a far saper a coloro come io lo mandavo, e ad intender da loro se perseveravano nel buon animo che dinanzi avean mostrato e offerto al servizio di Vostra Maestà e all'amicizia nostra; con ordine ancora che ei facesse saper loro che, per le guerre passate col signor di questa città e con le sue terre, io non gli avevo mandato a visitar di già tanto tempo, ma nondimeno gli avevo tenuto sempre per amici e vassalli di Vostra Maestà, sí che come tali si credessero dover trovarmi ben animato a ciò che tornasse lor bene; e che, a fine di favorirgli e aiutargli in qualsivoglia bisogno loro, io mandavo là tal gente per abitar in quella provincia. Andato l'algozin maggiore e con esso la gente, e fatto secondo la commissione, non li trovò di quel volere che ci avevan mostro prima, anzi con gente ordinata a guerra e a vietargli l'entrata nel lor paese; laond'egli tenne sí bel modo in assalirgli di notte una, ove prese una signora a cui davano tutti ubbidienza in quei luoghi, che si quietò ogni cosa, mandando ella per tutti quei signori, ai quali comandò che ubbidissero in quanto venisse lor comandato a nome della Maestà Vostra, perchè altrettanto farebbe ella. Cosí arrivarono al sudetto fiume, ove quattro leghe lontana dalla sua foce, non vi essendo sito piú vicino al mare, si edificò da fondamenti una città, la qual nominossi lo Spirito Santo. E quivi fu per alquanti dí la residenza dell'algozin maggiore, per insino che furono quietate e ridotte al servizio di Vostra catolica Maestà molte altre provincie, delle quali fu quella di Tabasco, ch'è nel fiume della Vittoria, o di Grisalva che lor chiamino, e quella di Cimaclan e Quechiula e Quizzaltepeque e altre che per essere picciole non si dicono; i nativi delle quali si diedero e raccomandarono alla sudetta terra, agli abitatori della quale han servito e servano insin ad ora, ancor che si sieno ribellate di nuovo alcune d'esse, come Cimaclan, Tavasco e Quizzaltepeque. Contro alle quali ho mandato un mese fa un capitan con gente di questa città, per ridurle al servizio della Maestà Vostra e castigarle per la ribellione, né per ancora ho saputo che sia successo di lui. Credo bene che a Dio piacendo faranno assai, perchè sono andati con buono apparecchio d'artegliaria, di munizioni, di balestrieri e di cavalli.


Come il Cortese mandò un capitano per riconoscer la provincia di Mechuacan, e del presente che gli fu fatto. Della città detta Huicicila e di Ciacatula. Della provincia nominata Coliman, alla quale andato senza licenza il detto capitano con la sua gente e altra d'amici, furono rotti e scacciati dal paese, e come di ciò ne fu punito il detto capitano.

Io feci saper medesimamente alla Maestà Vostra, negli avisi mandatile per Giovan di Riviera, come una provincia grande detta Mechuacan, il signor della qual è chiamato Casulci, si era offerto con esso il signore e i suoi nativi di star soggetta a Vostra Maestà, e mi avevan portato certo presente, ch'io lo mandai co' procuratori che di qui della Nuova Spagna vennero a lei. E per esser essa provincia e dominio del Casulci grande, secondo mi avean riferito alcuni Spagnuoli che io vi mandai, per avervisi veduti segni di gran ricchezza, sendo cosí prossima a questa gran città, rassettatomi con alquanto piú gente e cavalli, vi mandai un capitano con settanta cavalli e dugento fanti ben armati con artiglieria, ad effetto che riconoscessero tutta quella provincia e suoi secreti, e caso che fusse tale abitassero in Huicicila, città quivi principale. Arrivati là, furono ben raccolti da quel signor e paesani e alloggiati in essa città; alli quali, oltre alla provisione lor necessaria di vettovaglie, essi diedero da tremila marchi d'argento misto con metallo, qual sarebbe mezzo argento, e oro per circa seimila ducati castigliani misto similmente con argento, di che non s'è fatto il saggio, e panni di bambagia con altre cosette che loro usano. D'onde tratto il quinto di Vostra Maestà, si compartí il resto fra' Spagnuoli che andaron là, i quali, come non ben sodisfatti del paese per abitarvi, si mostraron mal disposti a ciò, e fecero inoltre qualche motivo di che fur puniti. Per il che feci ritornar di là quelli che volsero tornare, e agli altri comandai ch'andassero con un capitano nel mare di verso mezzodí, ove io ho fatto abitar una terra detta Ciacatula, cento leghe lontan da Huicicila: e quivi tengo quattro navili fabricati di nuovo in terra, per scoprir quanto mi sarà possibile e sarà servizio di Dio in quel mare.
Andando questo capitan e gente a Ciacatula, ebbero indizio d'una provincia nominata Coliman, lontana cinquanta leghe dal viaggio ch'eglino avevan da fare in su la man diritta verso ponente: dove andò senza la mia licenza con esso tal gente, e con molt'altra d'amici della provincia di Michuacan, ed entrovi alquante giornate, con qualche incontro de' paesani suoi contrari. Donde, ancor che fussero in tutto quaranta cavalli e piú di cento, chi con balestre e chi con rotelle, a piedi, furon rotti e cacciati del paese, con morte di tre Spagnuoli e di molti degli amici, e andorno a Ciacatula. Il che saputosi da me, mi feci condurre e preso il capitano, lo punii per la disubbidienza.


Come Pietro d'Alvarado, mandato alla provincia Tutepeque, prese il signor di quella col figliuolo; del presente che gli fecero. Della terra detta Segura la Frontura, e in che modo il Cortese fece abitarla. Della setta che fecero i reggenti di quella terra, per la qual fu disabitata, e come i ribelli furon presi, e della loro condannagione. Come, morto il signor di Tatubeteque, la qual con l'altre s'eran ribellate, il Cortese vi mandò Pietro d'Alvarado col figliuol del signor, e tutte quelle terre s'arresero.

Perchè nel dar conto a Vostra Maestà cesarea qualmente io aveo mandato Pietro d'Alvarado nella provincia di Tutepeque, qual è sopra 'l mare di verso mezzodí, non mi occorse avisarla se non ch'egli vi era arrivato e vi avea preso il signor d'essa col figliuolo, e che gli avevan fatto certo presente d'oro, con alcune mostre fattegli d'oro di minere e perle, non ci sendo per allora altro da scrivere; saprà Vostra Maestà che 'n risposta di tal nuove avute da lui li comandai ch'ei cercasse in quella provincia convenevol sito e vi facesse abitare, commettendo io che gli abitatori della terra di Segura la Frontiera si trasferissero ad abitar quivi, perochè quel che là si abitava non era piú necessario, essendo quivi assai d'appresso. Il che fatto, chiamossi la terra Segura la Frontiera, come il principio dell'altra fatto prima. E compartironsi con esso gli abitatori di tal terra nativi di quella provincia, e di quella di Guassaca e Coaclan e di Cosclahuaca, e di Tachquiaco e d'altre convicine, e servivangli e gli profittavano molto volentieri. E restò quivi mio luogotenente Pietro d'Alvarado.
Accadde che, mentre io conquistavo la provincia di Panuco, come io racconterò piú avanti li capi e reggenti di quella terra pregaron Pietro d'Alvarado a venir con lor mandato a negoziar d'alcune cose meco che li raccommandarono; qual accettato e venutosene, essi capi e reggenti fecero certa setta e lega, chiamando la communità, e crearono un capo e, contra il volere dell'altro lasciato quivi capitano dall'Alvarado, disabitorno la terra e vennono nella provincia di Guassaca: il che fu cagion d'inquietar e alterar molto quei luoghi. Avisato ch'io fui di questo da colui che quivi era rimaso capitano, mandai là Diego di Campo, capo maggior di giustizia, acciochè, informatosi d'ogni cosa, ei castigasse i colpevoli. Il che inteso da loro, si fuggirono e stettero parecchi dí absenti, per insin ch'io li presi, ond'esso capo maggior di giustizia non potette pigliare piú d'uno dei ribelli, il qual condannò alla morte, e quello appellossi a me. Io, avendo presi gli altri, li feci consegnare al medesimo, il qual, proceduto contra di loro, li condannò come l'altro. Questi ancor appellaronsi, e son di già conclusi dinanzi a me i loro processi da sentenziarvi in seconda instanzia; gli ho veduti, e ben che sia stato grave il lor fallo, per rispetto del lungo tempo che sono in prigione, penso di commutar la pena del morir naturale, a che furon condannati, in morir civilmente, che sarà il dar lor bando da queste parti, con proibizione che non ci entrino senza licenza di Vostra Maestà, sotto pena d'incorrer nella pena della prima sentenza.
Morí in questo mezzo il signor della provincia di Tequantepeque, la qual e l'altre convicine si ribellarono. Vi mandai con gente, e col figliuolo di quel signore tenuto presso di me, Pietro d'Alvarado, dove, benchè in qualche scaramuccie morissero alcuni Spagnuoli, quelle nondimeno s'arresono di nuovo a Vostra Maestà. Stannosi al presente pacifiche e servon in tranquillità e sicurezza agli Spagnuoli a' quali son assegnate, se ben per mancar la gente non si è tornato ad abitar la terra; né men fa bisogno adesso che si riabita, perciochè per il castigo avuto son rimase quelle genti cosí ben dome, che per ciò che si comanda loro se ne vengon fino a questa città.


Come Tequantepeque e Mezclitan provincie s'arresero, poi per la venuta di Cristoforo Tapia danneggiarono grandemente i convicini, e, mandatovi un capitano con molta gente, dopo alcune scaramuccie si pacificarono. E come di nuovo si ribellò Tequantepeque, e del gran danno che fece; come il Cortese la racquistò e il castigo che li dette.

Subito che questa città di Temistitan col suo dominio fu ricuperata, si ridusse in soggezione della sua corona imperiale. Due provincie verso tramontana, lontana di qua 40 leghe, a' confini della provincia di Panuco, chiamate Tequantepeque e Mezclitan, assai forte di paese e ben avezze nell'esercizio dell'arme per li nemici che elle hanno d'ogni parte, vedendo quel che si era fatto con questa gente, e che nulla si difendeva contra Vostra Maestà, mi mandarono messi ad offerirsi vassalli e sudditi di lei, quali io gli ricevei a suo nome reale.
Tali si rimasero e tali sono stati fin alla venuta di Cristoforo di Tapia, che, per li movimenti e inquietudini causate in quest'altre genti, non pur non adempierono l'offerte loro di ubbidienza, ma danneggiorono assai i convicini al paese vassalli di Vostra Maestà, con incendii di molte terre e con l'uccisione di molta gente. E posto che, per sí fatto accidente, io non mi trovasse abbondanza di gente per averla divisa in tante parti, conoscendo che 'l non vi provedere ci dava gran danno, per tema che i confinanti con esse provincie non si aggiungessero a loro, pel danno che ne ricevevano e perchè eziandio non mi sodisfaceva l'animo loro, mandai là un capitano con trenta cavalli e cento fanti con balestre, schioppetti e rotelle, e con molta gente d'amici. I quali andati, e scaramucciato con loro qualche volta, vi morirono certi de' nostri amici e due Spagnuoli. Piacque al nostro Signor Dio che volontariamente vennero a pacificarsi e mi condussero que' signori, a' quali io perdonai, per esser venuti a me senza esser presi.
Stando io dipoi nella provincia di Panuco, mandarono fuori voce i nativi di queste bande che io tornavo in Castiglia, laonde si causò alterazione e ribellossi di nuovo Tequantepeque, ma dal cui tenitorio scese il signor di essa con molta gente, e abbrucciò piú di venti terre de' nostri amici, de' quali ammazzò e fece assai prigioni. Perciò nel mio ritorno da Panuco li conquistai di nuovo, e, quantunque all'entrarvi ci ammazzassero alcuni de' miei amici che restavano adietro, e vi crepassero dieci o dodeci cavalli per l'asprezza delle montagne, conquistossi tutta la provincia e fu fatto prigion il signore, con un suo fratel garzone e con un suo capitan generale, che insieme col suo signore fu incontinente impiccato. E fatti schiavi tutti i prigioni di quella fazione, alla somma di 200 uomini, si bollorno e fur venduti all'incanto publico; di che, tutto pagato il quinto pertinente a Vostra Maestà, si divise il restante fra' soldati di quella guerra, benchè non vi fusse a bastanza per pagar i cavalli che vi morirono, che, per esser la region povera, non vi fu altro bottino. L'altra gente rimasta in detta provincia venne a pacificarsi, e cosí stassi, il cui signore è il garzon fratello del signor morto. Al presente però non ci serve né giova punto, stante la povertà del paese, in altro che d'assicurarci che ei non ci sollevino coloro che ci servono; ove, per piú assicurarmi, ho posti alcuni nativi di qui.


Come per la venuta di Giovan Buono da Quesso, qual portò da cento lettere del vescovo di Burgos per far admettere Cristoforo Tapia governatore, s'era alterata la gente del Cortese, e come ei gli acquetasse, onde rimasero molto contenti.

Arrivò in tal tempo nel porto e terra dello Spirito Santo, di che adietro ho fatto menzione, un brigantino assai picciolo venuto da Cuba, e con esso un Giovan Buono da Quesso, venuto in qua per patron di navilio nell'armata condotta da Pamfilo di Narvaez; il quale, com'egli appareva per gli spacci ch'avea recati seco, veniva di commissione di don Giovanni da Fonseca, vescovo di Burgos, credendosi che qui si trovasse Cristoforo di Tapia, ch'egli aveva cerco per ambizione di farcelo venir governatore, per il contrasto che notoria e ragionevolmente si tenea che ci dovesse esser in admetterlo. E l'avea mandato il vescovo per l'isola di Cuba, acciochè, come questo fece, communicasse la cosa con Diego Velasco, che li diede il brigantino per questo passaggio. Costui portava da cento lettere d'uno istesso tenore sottoscritte dal vescovo, e forse in bianco, da doversi dare a giudizio suo a persone che qui si trovassero, in che ei diceva loro che servirebbono molto alla Maestà Vostra in far admettere il Tapia, e che perciò prometteva loro notabili premii, e che sapessero come gli stavano meco in compagnia contra la volontà di Vostra Maestà, con altri particolari troppo incentivi a' movimenti e stati inquieti. Il quale pur anco scrisse a me una sua lettera, con dirmi il medesimo e con promettermi che, s'io ubbidivo al Tapia, egli opererebbe che Vostra Maestà mi gratificasse grandemente, e, quando io facesse altrimente, mi promettesse al fermo che ei mi saria nemico notabile.
Per la venuta di questo Giovan Buono e per le lettere portate da lui si alterò tanto la gente della mia compagnia, che io certifico la Maestà Vostra che, s'io non l'assicuravo con dir a tutti la causa perchè cosí scriveva loro il vescovo, e che non temessero le sue minaccie, che non riceverebbe Vostra Maestà maggior servizio, né che maggiormente la movesse a far lor grazie, che 'l non consentire che 'l vescovo né alcun di sua aderenza s'intromettesse in questi affari, conciosiachè egli procurasse questo per asconderne il vero alla Maestà Vostra e domandargliene grazie senza che ella sapesse ciò che li desse, io averei avuto troppo da fare in quietarli; sendo io massimamente stato informato (il che dissimulai a tempo) che alcuni avevano praticato poichè si metteva lor paura in premio de' suoi servizii, che egli sarebbe bene sollevarsi qua a commune, sí come s'era fatto in Castiglia, per insin che Vostra Maestà fusse informata del vero, poichè 'l vescovo era sí valente in questa negoziazione che ei faceva che ella non sapesse punto de' lor avertimenti, e aveva in baglia gli ufficii della casa de' traffichi di Siviglia, dove gli agenti loro erano mal trattati, sendogli tolte le relazioni e lettere e danari loro, e proibitogli il venirgli soccorso di gente e d'armi né di vettovaglie. Imperò, inteso da me il sudetto, e che Vostra Maestà non sapeva nulla di questo, e che fussero certi che, saputosi da lei i suoi servigi, ne conseguirebbono le grazie che meritano i buoni e leali vassalli che servono il re e signor suo, come essi hanno servito, si acquetorno; e per la grazia che la Maestà Vostra s'è degnata farmi delle sue reali provisioni son rimasi tanto contenti, e servono con tanta affezione, quanto ne è testimonio il frutto de' lor servigi, per li quali meritano che a lei piaccia far premiarli sí del passato come del presente, e per il buon animo di tutti in servirla. Io quanto a me la supplico di questo umilissimamente, ch'io non riceverò per minor grazia quella che si degnerà far Vostra Maestà a qualunque di loro che si facesse a me proprio, posciachè io non l'averei potuto servir senza loro come io l'ho servita. Io la supplico sopra tutto molto umilmente che ella faccia scrivergli, con riconoscer in servizio i loro travagli e offerirgli per tanto gratitudine, che, oltre a sodisfar con questo al debito di Vostra Maestà, vien a dargli animo d'affaticarsi da qui inanzi con piú fervente affezione.


Come il Cortese, avisato che l'armiraglio don Diego Colon, Diego Velasco e Francesco de Garai s'erano congiunti nell'isola Cuba come nemici per danneggiarlo, con quarantamila uomini e assaltogli, gli ruppe e mise in fuga. Come quei di là dal fiume assaltorono il campo del Cortese, e furono rotti e incalzati piú d'una lega. Come trovò gran numero di genti in agguato e combatterono fieramente, e rotti tre o quattro volte si rimisero, pur furono rotti. Dell'assalto dato a' paesani di là dal fiume alla sproveduta, e come si arrenderono con tutti gli altri del paese.

Per una cedola che la Maestà Vostra fece spedir ad instanza di Giovan di Riviera per quello si appartenea all'adelantado Francesco de Garai, pare ch'ella sia stata informata come io ero per andar o mandar al fiume di Panuco a pacificarlo, però che si diceva esser buon porto in quel fiume, e perchè quivi avevano ammazzati di molti Spagnuoli, sí di quelli di un capitano che vi mandò Francesco de Garai, come di un'altra nave che per tempesta diede in quel lito, non ne lasciando vivo pur uno; e perchè i nativi di là eran venuti ad iscusarsi meco di tali uccisioni, dicendomi averle fatte per aver saputo che coloro non erano delli miei e per esser stati mal trattati da loro, e che, volendo io mandar là de' miei, essi gli stimerebbono molto e servirebbongli in quel che potessero, e mi arebbono grado che io ve gli mandasse, perochè temevano non ritornassero contra di loro quelli co' quali avean combattuto per vendicarsi; e perchè anco vi erano de' convicini nemici loro che li danneggiavano, onde ei si aiuterebbono con gli Spagnuoli ch'io dessi loro. Ma per mancarmi la gente quando ei mi domandaron questo, non potei compiacernegli, ma ben promise di contentarli quanto prima io potesse, laonde si partirono satisfatti, restando offerti vassalli di Vostra Maestà. Dieci o dodeci luoghi abitati delli piú propinqui a' confini de' sudditi di questa città ritornorno da me pochi dí dapoi, instandomi molto che, poichè io mandavo gli Spagnuoli ad abitar in molte parti, ne mandasse ancora ad abitar quivi con esso loro, perchè ei ricevevano gran danno da que' suoi nemici e da quelli del medesimo fiume abitanti al lito del mare, che, se ben era tutta una nazione, perchè essi eran venuti da me, gli era fatto da quelli mal trattamento. Per satisfar adunque costoro e per far abitar quella regione, e per trovarmi aver ancor piú gente, disegnai mandar un capitano con certi compagni a quel fiume; il qual sendo a punto per partirsi, seppi per un navilio venuto dall'isola di Cuba come l'armiraglio don Diego Colon e gli adelantadi Diego Velasco e Francesco de Garai s'erano congiunti nella medesima isola e collegatisi, per entrar di là come miei nemici a danneggiarmi il piú che potessino. Imperò, per non lasciargli conseguire tanto mal animo, io mi deliberai, lasciando in questa città la miglior provisione che potetti, d'andar in persona, acciochè, in caso ch'eglino o alcun di loro vi venisse, s'incontrassero piú presto in me che in verun altro, perchè io potrei meglio schivar il danno.
Partii dunque con centoventi cavalli e con trecento fanti e qualche pezzo d'artigliaria, e circa quarantamila uomini da guerra di questa città e de' convicini. Arrivato a' confini della region loro, 25 leghe di qua dal fiume, in luogo grande abitato detto Aintuscotaclan, mi assaltò marciando molta gente da guerra, con la qual combattemmo. Laonde, sí per aver io tanta gente d'amici quanti essi erano in tutto, come per trovarmi in pianura atta a cavalleria non durò molto la battaglia, e, benchè mi ferirno alcuni cavalli e Spagnuoli e vi restar morti de' nostri amici, essi n'ebbero la peggiore, perchè molti di loro vi morirono e molti n'andarono in fuga. Io mi trattenni due dí in quel luogo, sí per medicar i feriti, come per esser venuti ancora là da me quei che erano venuti qua ad offerirsi vassalli di Vostra Maestà, e mi seguitorno di là fin ch'io arrivai al porto, e dal porto in là, servendo in tutto quel che potevano. Io caminai a giornate per insin ch'arrivai al porto, né vi fu in parte alcuna da contrastar con loro, anzi gli abitatori de' luoghi per dove io marciava mi venivano a chieder perdono del loro eccesso e ad offerirsi al servizio di Vostra Altezza.
Arrivato a quel porto e fiume, alloggiai in una terra discosto dal mare cinque leghe chiamata Chila, disabitata e abbrucciata, perchè quivi era stata la rotta del capitano e della gente di Francesco de Garai. Io mandai in quella messi di là dal fiume e per tutte le palude abitate da gran popoli, facendogli intendere che non avessero paura d'esser danneggiati da me per causa del passato, perch'io sapevo che s'erano rivoltati contra quelli nostri per esser stati mal trattati da loro, onde loro non ne avevano colpa; né mai volsero passar da me, anzi trattarono malamente i messi e n'uccisero ancor qualcheduno, e per esser l'acqua dolce di che ci fornivamo di là dal fiume, si mettevano colà in arme e assaltavano i nostri che andavano a pigliarla. Cosí stetti io piú di quindeci giorni, credendo di poter tirargli a noi per amore, e che, vedendo come quelli che s'erano riconciliati erano ben trattati, essi ancora si riconcilierebbono, ma loro si confidavano tanto nel forte de' paludi ov'erano, che non se ne mossero mai. Vedendo che nulla mi giovava operar per amore, cominciai a cercar rimedio e, prese dell'altre canoe, che è una sorte di barche d'un pezzo, con alcune che vi avevamo avute da principio, cominciai con esse una notte a passar il fiume, tragettando cavalli e gente, de' quali nel far del giorno io tenevo già copia, senza essere stato sentito, su l'altra riva. Passai ancor io, con lasciar nell'alloggiamento del mio campo buona provisione. Sentiti che ci ebbero dalla banda loro, ne vennero contra con molta gente e ci dettero dentro con tanta gagliardia che, dapoi ch'io sono in queste bande, non ho ancor veduto dar l'assalto in campagna cosí resoluto come quei dettero: nel quale assalto ci ammazzarono due cavalli, e ne ferirono piú di dieci tanto malamente che non poterono servir per quella giornata. Con l'aiuto di Dio li rompemmo, con incalzarli piú d'una lega, con morte di molti, e io con trenta cavalli che mi erano restati e con cento fanti seguitai la vittoria, e dormii la notte in un luogo che ritrovai disabitato, tre leghe discosto dal mio campo. Quivi si trovarono nelle moschee di molte cose tolte a' Spagnuoli che ammazzarono di Francesco de Garay.
Cominciai il giorno seguente a caminare a canto ad una palude, per trovare innanzi il guado da passarla, parendomi trovarsi della gente e luoghi abitati dall'altra parte: e camminai tutto 'l giorno, non vi trovando guado né fine. E sendo già l'ora di vespro, se ne scoperse a vista un bel luogo abitato, verso il quale prendemmo il viaggio, tuttavia a canto ad essa palude, dove accostandoci in sul tardi non vi pareva gente; dove, per piú assicurarmi, mandai dieci cavalli ch'entrassero nell'abitato, e con altri dieci mi vi posi su un canto per di fuori verso la palude, non essendo per anco arrivata la retroguardia degli altri dieci. Entrando nell'abitato, si scoperse gran quantità di gente, messasi in aguato dentro alle case per pigliarne sproveduti, la qual combatté sí fieramente che ci ammazzarono un cavallo e ferirono quasi tutti gli altri, insieme con molti Spagnuoli. E furono tanto ostinati nel combattere, e duraronvi sí gran pezzo, che, rotti tre o quattro volte, si rimisero altrettante. E, fatto dell'ordinanza com'una mola rotonda, mettevansi cosí con le ginocchia in terra e aspettavanci senza parlare né alzar grido, come sogliono far gli altri; né noi entravamo volta fra loro che non c'investissero con molte freccie, e tante erano che, se non ci trovavamo ben armati, ei si averebbono dato un bel vanto di noi altri, e per aventura non ne scampava contra di loro alcuno. Volle Dio che certi di loro, piú acosto ad un fiume che scorrea d'appresso in quella palude ch'io avea costeggiata il dí, cominciarono a gettarsi all'acqua, dietro alli quali si dettero a fuggire gli altri pur al fiume, e cosí furono rotti; ma non fuggirono piú lontano che di là dal fiume, sopra lo quale stemmo, lor d'una banda e noi dall'altra, sino all'oscurar della notte, che, per esser profondo il fiume, non potevamo passar ad assaltargli, e non ci increbbe punto quando essi lo passarono. Di qui n'andammo ad un luogo lontano un tratto di fromba dal fiume, dove stemmo quella notte con la maggior guardia che potemmo, e vi mangiammo, per non esservi altro cibo, il cavallo che ci avevano morto.
N'andammo il giorno appresso per una strada, non comparendo alcuni di quelli del giorno avanti, per la qual arrivammo in tre o quattro luoghi abitati, dove non si trovò gente alcuna, né altro che cellari da vino il quale si fa da loro, del quale trovammo molte tinaccie. Noi passammo quel giorno senza intoppo di gente, e dormimmo in campagna, avendo trovati certi seminati di maiz, ch'è il lor formento, dove gli uomini e cavalli poterono alquanto rinfrescarsi. Cosí me n'andai due o tre dí senza ritrovar gente, ancorchè passassimo di molti luoghi abitati, e perchè pativamo per necessità di vettovaglie, non avendo avuto fra tutti in questo tempo cinquanta libre di pane, ritornammo al campo, dove trovai star bene e senza aver avuto contrasto la gente ch'io vi avevo lasciata. Parendomi subito che tutta la gente paesana si stava dalla banda della palude ch'io tutti avevo potuto passare, vi feci tragettar una notte fanti e cavalli con le canoe, ch'è una sorte di barche di un pezzo, con ordine ch'andassero uomini con balestre e schiopetti lungo la palude e il resto per terra. Assalirono in questo modo un gran luogo abitato e, per esser colto alla sproveduta, vi ammazzarono molti; per il qual assalto loro s'impaurirono tanto, in veder che essendo circondati dall'acqua gli avevamo assaltati senza esser sentiti, che subito vennero a pace, e in poco men di venti giorni fecero il medesimo tutti gli altri del paese, e offerironsi per vassalli di Vostra Maestà.


Come il Cortese edificò una terra e chiamolla San Stefano del Porto. Come si ruppe un navilio carico di munizioni. Della spesa che fece il Cortese in questa andata.

Poi che si fu posta pace in tal paese, mandai persone che lo vedessero e riconoscessero ben per tutto, dandomi riporto appresso delle terre e popoli che v'erano. Il qual datomi, elessi il luogo che miglior mi parve e vi fondai una terra, chiamandola San Stefano del Porto, assegnando a nome della Maestà Vostra que' luoghi abitati da mantenersi a coloro che vi volsero restar abitatori; e, fattivi reggenti e capi di giustizia, vi lasciai un mio luogotenente d'un capitano. Vi rimasono in tutto ad abitare trenta cavalli e cento fanti, a' quali lasciai una barca con un naviliotto mandatomi dalla Vera Croce. Mi mandava pur dalla Vera Croce un famigliar mio che vi sta un navilio carico di munizioni di carne e pane e vino e olio e aceto, con altre cose, il qual si perdette: e di quello si salvarono tre uomini in una isoletta nel mare, cinque leghe lontana da terra, i quali mandai a levar con una barca, e trovarongli vivi, sendosi mantenuti di vecchi marini, essendone in quell'isola molti, e di frutti che dicono esser come fichi.
Io certifico la Maestà Vostra ch'io solo in questa andata spesi piú di trentamila ducati d'oro, sí come, sendo cosí servita, potrà far vedere ne' miei conti; né manco costò a coloro che vennono meco in cavalli, munizioni e arme e ferramenti, perchè la pesavano egualmente con l'oro overo a doppio peso con l'argento. Imperò, conosciuto ch'ella era tanto ben servita di quel viaggio, ancor che si fusse occorsa maggior spesa, l'avressimo fatta molto volentieri; perchè, oltre al metter quegli Indi sotto 'l suo giogo imperiale, tal nostra andata fece gran frutto, perchè, arrivato subito là un navilio con gente e robbe assai, diede in terra per non poter far di manco, e, se la regione non stava in pace, non ne saria scampato niuno, come di quei dell'altro che prima aveano morti, de' quali ritrovammo le pelli de' loro visi posti ne' loro oratorii, acconcie sí fattamente che se ne riconobbero molti. Quando ancor arrivò in essa regione l'adelantado Francesco di Garai, sí come io narrerò piú avanti, non sarebbe restato vivo uomo delli suoi se non la trovavano in pace, perchè, forzati dal tempo, capitorno trenta leghe di sotto dal fiume di Panuco, con perdita di qualche navilio, e si misero in terra molto malandati; ma trovorno la gente pacificata, che li portava in collo servendogli per insin che li posorno nell'abitato dagli Spagnuoli, che ancor senza aver guerra sariano morti: tanto bene si causò loro dall'aver pace in tal parte.


Del soccorso mandato contra la provincia d'Impilcingo, e instruzione data al capitano, e la cagione perchè il detto capitano non conquistasse affatto la detta provincia. E come, andato alla provincia di Coliman, pacificati alquanti luoghi che non erano pacifichi, trovò in punto molta gente da guerra; e, venuti alle mani, gli Spagnuoli furono vittoriosi, in modo che non solo quella provincia, ma molte altre ancora d'appresso s'offersero. D'un'isola abitata da donne senza alcun maschio, molto ricca di perle e d'oro.

Ho detto ne' capitoli adietro come, dopo pacificata la provincia di Panuco nel viaggio, fu conquistata la provincia di Tequantepeque, già ribellatasi, e tutto quello che vi si fece. Avendo aviso che un'altra provincia presso al mare di Mezzogiorno, chiamata Impilcingo, della sorte di questa di Tepantepeque, per il forte delle montagne e per la gente non manco bellicosa, dava con i suoi di gran danni a' vassalli di Vostra Maestà cesarea suoi confinanti, de' quali alcuni mi si erano querelati con domandarmi soccorso, se ben la mia gente si trovava poco riposata, sendo per quel viaggio dugento leghe da un mar all'altro, io misi incontinente insieme venticinque cavalli e settanta over ottanta fanti e li mandai con un capitano in quella provincia, commettendoli nell'instruzion data che lui facesse opera di indurgli per amore a servirla, e se ciò ricusassero facesse lor guerra. Questi vi andò e fu con essi alle mani, e, per esser il paese asprissimo, non poté lasciarlo conquistato affatto. E perchè li diedi pur in instruzione che, fatto questo, egli andasse alla città di Ciacatula e con le sue genti e con quella di piú che potesse trovarne ne andasse alla provincia di Coliman, dove ho detto negli altri capitoli ch'avevano rotto il capitano e gente che andavano a quella città dalla provincia di Chichiuacan, e ch'egli operasse di amicarnegli overo, non potendo, li conquistasse, egli si partí: e, tra la gente avuta da me e quella ch'ei levò di là, fece cinquanta cavalli e centocinquanta fanti. Se n'andò a quella provincia, posta sessanta leghe dalla città di Ciacatula, al lito inverso del mare di Mezzogiorno, pacificando di passata alquanti luoghi che non erano pacifici. Arrivatovi, nel luogo ove avevano rotto l'altro capitano, vi trovò in punto molta gente da guerra che l'aspettava, con credere di portarsi cosí ben seco come con l'altro; perciò serratosi contro dall'una e l'altra parte, piacque a Dio dare la vittoria a' nostri senza morte d'uomo, benchè de' cavalli e d'essi nostri fussero feriti molti. E ben ci fu pagato da' nemici il danno datoci, che tanto grave fu loro questo castigo, che senza altra guerra ci si fece amico tutto il paese; né solo questa provincia, ma molte altre ancora d'appresso s'offersero al vassallaggio di Vostra Maestà: queste furono Aliman, Colimonte, Ceguatate.

Di là mi scrisse egli tutto 'l successo. Li mandai commissione di cercar sito a proposito e fondarvi una terra, da chiamarsi Coliman dal nome della provincia, e gli mandai la nominazion de' capi e reggenti di giustizia da deputarvi, comandandogli che andasse a visitar i luoghi abitati e le genti di quelle provincie, per darne il riporto a me, con quella piú ampia informazione che egli potesse darmi del tutto. Egli ritornò e portollami, con la mostra di perle che vi trovò, e io a nome di Vostra Maestà divisi le terre e luoghi di tal provincie agli abitatori rimasi là, che furono venticinque a cavallo e centoventi a piedi. Tra l'altre cose che egli mi riferí, mi diede nuova d'un bonissimo porto trovato in quel lito, di che, per esservene pochi, m'allegrai molto. Mi riferí similmente de' signori della provincia di Ciguatan, i quali affermasi molto ch'hanno un'isola tutta abitata da donne senza alcun maschio, e che vi vanno a certi tempi uomini co' quali elle usano, e quelle di loro che s'ingravidano, partorendo femine le serbano, e partorendo maschi li cacciano da sé; e che quest'isola è dieci giornate discosto da tal provincia, e molti di loro vi sono andati e l'hanno veduta. Mi dicono in oltre ch'ella è molto ricca di perle e d'oro, e com'io tenghi apparecchio procurerò di saperne la verità e darne pieno aviso alla Maestà Vostra.


Come dalle città di Uclacan e Guatemala vennero al Cortese con due Spagnuoli da cento uomini nativi di quelle città, di comandamento de' lor signori, ad offerirsi; dipoi, informato che le dette città e un'altra detta Chiapan erano di mal animo, preparò le genti per mandar là e una armata per far abitazioni nel promontorio over capo d'Higueras; fu avisato della venuta di Francesco di Garai, che s'intitolava governatore della regione, e quello che ne successe.

Nel venir della provincia di Panuco in una città chiamata Tuzzapan, arrivorono due Spagnuoli ch'io avevo inviato con persone native di Temistitan e con altri della provincia di Soncomisco, qual è sopra 'l mare di Mezzogiorno lungo, verso il lito dove Pietro Arias è governator di Vostra Maestà, lontana da questa gran città di Temistitan dugento leghe, a certe città di che io di già molti giorni avevo notizia, dette Uclacan e Guatemala, poste altre sessanta leghe lontane da questa provincia; co' quali Spagnuoli vennono circa cento uomini nativi di quelle città, per comandamento de' signori loro, offerendosi vassalli e sudditi di Vostra catolica Maestà. Io li ricevei a suo nome reale, con certificarli che, volendo e facendo eglino quanto offerivano, sarebbono sotto il medesimo nome ben trattati e favoriti da me e dalli miei, e diedi loro alcune cose delle mie ch'essi pur prezzano, parte per se medesimi e parte per portar a' loro signori, rimandando in sua compagnia altri due Spagnuoli per proveder loro di cose necessarie a cammino. Sono dipoi stato informato da Spagnuoli ch'io ho nella provincia di Soncomisco che tai città con le sue provincie, e un'altra detta Chiapan che v'è d'appresso, non hanno la volontà che mostrorono e offerirono prima, anzi dicono che le fanno danno nei luoghi di Soncomisco, perchè ei ci sono amici; e mi scrivono essi cristiani che per altra via mandano sempre a lor messi ad iscusarsi, ch'eglino non fanno questo, ma altri. Per saper il vero di questo, io avevo spedito Pietro d'Alvarado con piú d'ottanta cavalli e dugento fanti, fra' quali erano molti balestrieri e schioppettieri, e con quattro pezzi d'arteglieria e molta munizione. Avevo medesimamente fatto un'armata di navilii, mandandone capitano un Cristoforo Dolit che passò di qua meco in compagnia, per mandarla lungo il lito di tramontana a far abitazioni nel promontorio over capo d'Higuerras, il qual è sessanta leghe lontano dal porto dell'Ascensione, la qual è a barlavento di quel che è chiamato Iucatan, lungo il lito di terra ferma verso 'l Darien, sí per esser stato informato che quell'è ricchissima regione, come per esser parere di molti pilotti, che egli esca per quella baia lo stretto in l'altro mare: cosa ch'io desidero sopra tutte l'altre che mi si scuopra, imaginandomi il gran servizio che Vostra Maestà n'averia.
Sendo già in procinto questi capitani con ciò che lor facea mestieri al viaggio per ciascuno, ebbi un messo dalla terra di San Stefano del Porto, ch'io feci abitar al fiume di Panuco, col qual mi avisavano i capi di quella come era arrivato al fiume l'adelantado Francesco di Garai con centoventi cavalli e quattrocento fanti e molt'artiglieria, e ch'ei s'intitolava governatore della regione, e cosí faceva intenderlo a' paesani per un interprete ch'egli avea seco, dicendo di aver a far le lor vendette de' danni patiti per opera mia; e gli invitava seco a cacciarne gli Spagnuoli ch'io avevo messo là e gli altri ch'io vi fussi per mandare, ch'egli gli aiuterebbe a questo, con molt'altre cose scandolose, d'onde li paesani stavano alquanto alterati. E per piú accertarmi del sospetto avuto della sua lega con l'almiraglio e con Diego Velasco, arrivò pochi giorni dopo a quel fiume una caravella dell'isola di Cuba, nella qual venivano degli amici e famigliari di Diego Velasco e un servitor del vescovo di Burgos, qual dicesi che veniva fattore di Iucatan; il resto della compagnia era di servitori e parenti di Diego Velasco e servitori dell'almiraglio. La qual nuova intesa, cosí debole com'io ero d'un braccio per una caduta da cavallo, e nel letto, mi risolvei d'andarlo a trovare per schivar quell'alterazione, e, mandato innanzi Pietro d'Alvarado con tutta la gente ch'egli tenea in punto pel suo viaggio, ero per partirmi fra due giorni. Ed essendo già incaminato il mio carriaggio e letto, lontani dieci leghe da questa città, dove il giorno dapoi mi dovea trovare a dormire, arrivò un messo dalla terra della Veracroce in su la mezzanotte, con lettere d'un navilio arrivato di Spagna, e con esso una cedola sottoscritta del nome reale della Maestà Vostra, per la qual comandava all'adelantado Francesco di Garai ch'ei non s'impacciasse in quel fiume, né in parte alcuna ch'io avessi fatto abitare, perch'ella era sicura ch'io la tenesse a suo nome reale: ond'io gliene bacio centomila volte i piedi. Io cessai d'andare per questa cedola, né mi fu di poco utile alla sanità, per essere stato sessanta giorni senza dormire e molto travagliato, tal che, se mi partivo allora, non ci era sicurezza della mia vita: il che tutto non curavo, eleggendo per il meglio di morire in questa giornata che, per conservarmi vivo, esser cagione di molti scandoli e movimenti e altre morti che si vedevano ben chiare.
Io spedii subito Diego di Campo, capo maggior di giustizia, con la medesima cedola dietro a Pietro d'Alvarado, perchè uno gli diede una lettera con ordine che in modo alcuno ei non si avicinasse dove si trovava la gente dell'adelantado, perchè non s'attaccassero, comandando al capo maggior di giustizia ch'egli intimasse tal cedola all'adelantado e mi rispondesse incontinente quel ch'egli dicesse. Il qual, partitosi, presto arrivò alla provincia di Guatesque, dove era stato Pietro d'Alvarado, che di già era entrato innanzi nella provincia; e sapendo che gli andava dietro il capo maggiore di giustizia e io restavo, li fece intender subito com'esso Pietro avea saputo che un capitano di Francesco di Garai, chiamato Gonsalvo del Valle, se n'andava con ventidua cavalli danneggiando i luoghi di quella provincia e sollevando la gente, e ch'egli era stato avisato che tal capitano aveva messo l'ascolte pel viaggio ch'egli avea da fare. Laonde era alterato l'Alvarado, credendo che quel capitano Consalvo volesse offenderlo, per il che condusse la gente sua tutta in battaglia, per insin che arrivò ad un luogo abitato detto di Laslaias, ove si trovò Consalvo con la sua gente; col qual cercò di parlar l'Alvarado, e li disse quel ch'avea saputo ch'esso andava facendo, e che si maravigliava di lui, atteso che non era stata intenzione del governatore né de' suoi capitani d'offenderli né far loro danno veruno, anzi ch'egli avea comandato che fussero favoriti e proveduti di ciò che era loro necessario. E poichè tanto s'era innovato da loro, acciochè si potesse star sicuro che fra la gente d'una parte e l'altra non venisse scandolo né danno, li domandava in grazia ch'ei non avesse per male di far consegnar l'arme e cavalli della gente che aveva seco, per insin che si mettesse ordine al tutto. Iscusavasi Gonsalvo dal Valle che cosí non era in fatti come quello era stato informato, ma che con tutto questo li piaceva fare quanto egli era pregato. Cosí stettero quelli e questi insieme mangiando e godendo, sí li capitani come tutta la gente, senza essere fra loro disparere né rissa. Il che tosto che seppe il capo maggior di giustizia, ordinò che un mio segretario qual gli andava appresso, nominato Francesco d'Ordugna, andasse là dove erano ambidue quei capitani, con commissione di far restituir a chi l'aveva consegnate l'arme e cavalli, facendogli intendere ch'io avevo animo di prestar lor ogni aiuto e favore dovunque n'avessero bisogno, mentre non disordinassero in metterci scandalo nel paese, comandando medesimamente all'Alvarado a favoreggiarli e a non interporsi in niuna lor cosa, né farli sdegnare: il che egli adempí.


Come, ritrovandosi le navi di Francesco di Garai sopra la foce del fiume Panuco, il luogotenente di San Stefano richiese i capitani e padroni che venissero in porto e, avendo provvisioni dalla cesarea Maestà, le mostrassero. Quello che gli risposero i padroni, e che poi li mandorono a dir di secreto; come il luogotenente andò là. De' commandamenti che fecero l'una e l'altra parte. Della retenzione e liberazione di Giovanni Grisalva, general dell'armata.

Avenne in questo medesimo tempo che, trovandosi le navi d'esso adelantado in mare sopra la foce del fiume Panuco circa tre leghe, come ad offesa degli abitatori di S. Stefano, ch'io avevo quivi edificato, dove sogliono star surti tutti i navili ch'arrivano in quel porto, per il qual rispetto Pietro di Vallesia, mio luogotenente in quella terra, per assicurarla dal pericolo che v'aspettava per l'innovazione di quelli tali navili, richiese certe cose a' capitani e patroni di quelli, a fin che ne venissero suso in porto e vi surgessero amichevolmente senza far aggravio né dar alterazione alla terra, ricercandogli ancora che, se avessero provisioni dalla Maestà Vostra d'abitare overo entrar in tal terra, o in qualsivoglia maniera che stesse, le presentassero, protestandogli che presentate s'esequirebbono in tutto e per tutto, secondo ch'ella per esse comandasse. A che essi capitani e padroni dettono certa forma di risposta, che in effetto concludeva come essi non volevano far nulla di quanto il luogotenente avea ricerco; per il che esso fece la seconda richiesta diritta a' medesimi capitani e padroni, mettendogli pena per fargli esequir la prima richiesta e comandamento: al che di nuovo risposero quel che prima aveano risposto. Vedendo in questo punto i padroni e capitani come dallo star loro con li navili alla foce del fiume di già due mesi e piú risultava scandolo, tanto tra' Spagnuoli che quivi residevano come tra' paesani, Castromachio, padron d'uno di quei navili, e Martin di S. Giovanni Lipuzcano, padron d'un altro navilio, mandorono di secreto suoi messi al luogotenente, a fargli sapere che volevano essergli amici, e ubidire a' comandamenti della giustizia; onde li ricercavano ch'egli andasse a' lor navili, che 'l riceverebbono e adempierebbono quel ch'egli comandasse, aggiungendovi ch'ei terrebbono modo che gli altri navili, oltre a quei loro, si metterebbono nel medesimo modo e amichevolmente in man di lui e farebbono ciò ch'egli comandasse.
Laonde deliberossi il luogotenente d'andarsene con cinque uomini a quelli navilii, dove arrivato fu ricevuto da' padroni; di là mandò al capitan Giovanni di Grisalva, generale di quell'armata, che allora si trovava nella nave capitana, ad effetto ch'egli seguisse in tutto le richieste e comandamenti fattili dal luogotenente. A che egli non solamente non volle ubidire, ma comandò alle navi ivi presente che s'accompagnassero con la sua dove egli era; e accompagnati ch'ei l'ebbe, eccetto le due sopradette, con esse navi insieme, circondandole con la sua capitania, comandò a' capitani di quelle che sparassino l'arteglieria che avevano contro alli due navili, finchè si mettessero in fondo. Fatto quel comandamento publico, sí che tutti l'udirono, comandò il luogotenente che tenesse in ordine l'artegliaria delli due navili che gli avevano ubbidito; nel qual tempo non volsero ubidire al comandamento di Giovanni di Grisalva le navi ch'erano intorno alla sua capitana, dove li padroni e capitan di quelle. Ed egli in quel mezzo mandò un suo scrivano, chiamato Vicenzo Lopes, per parlar al luogotenente. Udita la sua imbasciata, egli li rispose giustificando la sudetta causa sua, che 'l venir suo là era stato solamente a fine di buona amicizia, per schivare scandoli e movimenti che seguivano dallo star di que' navili fuori del porto dove si solea sorgere, come corsali in luogo sospettoso a fare qualche assalto in terra di sua Maestà, cosa che stava molto male, con altre ragioni che venivano in proposito. Le quali operarono tanto che lo scrivano, tornato con la risposta al capitan Grisalva, l'informò di quanto il luogotenente gli aveva detto, inducendo il capitano ad ubidirlo, poichè egli era chiaro quelli esser sopra la giustizia in quella provincia; e sapeva esso capitano che insino allora non s'erano mostrate patenti né provisioni reali da parte dell'adelantado Francesco di Garai né da parte sua, a che il luogotenente e abitatori della terra di S. Stefano avessero ad offerirsi, e ch'era cosa assai brutta lo star di quella maniera come corsali in stato della Maestà Vostra. Mosso da queste ragioni, il Grisalva con gli altri padroni e capitani di nave, ubidirono al luogotenente e vennono su pel fiume innanti, dove sogliono sorgere gli altri navili; i quali entrati nel porto, il luogotenente fece prender Giovan di Grisalva per la disubidienza passata. La quale prigionia saputasi dal mio capo di giustizia maggiore, gli mandò l'altro giorno comandamento che fusse liberato e favoreggiato, con tutti gli altri venuti in que' navili, senza toccare alcuna lor cosa: e cosí fu fatto.


Delle lettere e andata del capo maggior di giustizia a Francesco di Garai, il qual, viste le patenti e provisioni del Cortese, con la cedola mandatali dalla cesarea Maestà, disse ch'egli era apparecchiato di adempire; e quello richiese al detto capo, il che tutto fu fatto.
Delle lettere che 'l detto Francesco scrisse al Cortese, e come andò a trovarlo;
il grande accetto fattoli e il parentado che conclusero.

Scrisse medesimamente esso capo maggior di giustizia a Francesco di Garai, il qual era lontano di là dieci o dodeci leghe in un altro porto, facendoli sapere come io non potevo andar ad abboccarmi con lui, e ch'io mandavo esso capo con mia procura di pigliar con lui ordine sopra di quel che fusse da fare, e acciochè si mostrassero le spedizioni d'una parte e l'altra e si ponesse conclusione in ciò che Vostra Maestà fusse meglio servita. Poichè tal lettera del capo maggior di giustizia fu letta da Francesco di Garai, egli l'andò a trovare, e fu da lui ben ricevuto, e provistoli con tutta la sua gente di tutto quel che lor era necessario. E ragionatosi fra loro in quel congresso, vedute le nostre patenti e provisioni, e veduta la cedola di che Vostra Maestà m'aveva fatto grazia, l'adelantado la ubidí, sendone cosí richiesto dal capo maggior di giustizia, e disse ch'egli era apparecchiato ad adempirla e che per tal adempimento voler ritirarsi a' suoi navili con la gente sua, per girsene ad abitar altro paese fuor del compreso in essa cedola di Vostra Maestà; e poichè l'intenzione mia era di favorirlo, ch'ei lo pregava a farli raccor tutta la sua gente, perochè molti di que' ch'avea condotti voleano restarsi e altri se n'erano andati, e gli facesse proveder di vettovaglie, delle quali egli avea bisogno per li navili e per la gente. Il che tutto fu fatto dal capo maggior di giustizia, come gli aveano comandato. E andò incontinente il bando in quel porto, dove erano piú la gente d'ambe le parti, che tutte le persone venute con l'armata di Francesco di Garai lo seguitassero e mettessersi in compagnia di lui, sotto pena al contrafattore, s'egli fusse a cavallo, di perder l'arme e 'l cavallo ed esser messo in prigione, e al fante a piedi d'aver cento frustate e star similmente in prigione. Domandò in oltre l'adelantado ad esso capo maggior di giustizia che, avendo vendute alcuni de' suoi l'arme e cavalli nel porto di S. Stefano e in quel dove erano e altrove in quel contorno, se gli facessero restituire, perchè senza tali arme e cavalli non si potrebbe servire della sua gente. Cosí ordinò il capo maggior di giustizia che, dovunque si trovassero arme e cavalli di tal gente, si togliessero a chiunque l'avea comperate, e fece restituirle all'adelantado; egli fece in oltre che i suoi bargelli n'andassero alla strada e ritenessino tutti coloro che se ne fuggivano, i quali diedi prigioni all'adelantado, e furono molti. E gli mandò ancora il bargel maggiore, alla terra di San Stefano, qual è il porto, e con esso un mio secretario, ad effetto che in quella terra e porto si facessero simili diligenzie, col far de' bandi e raccor la gente che se n'andava, e se li rimandasse, e acciochè s'adunasse quanta vettovaglia si potesse per provederne le navi dell'adelantado; e commisegli ch'ancor pigliassero tutte l'arme e cavalli venduti, e si dessero pur all'adelantado.
Il che tutto fatto con somma diligenza, ritornò l'adelantado al porto per imbarcarsi, e restossi con la sua gente il capo maggiore di giustizia, per non mettere piú carestia nel porto di quella che vi era e perchè essi si potessero proveder meglio. E quivi stette da sei o sette giorni, per saper come s'esequiva l'ordine mio e quel che egli aveva proveduto; e perchè vi mancavano le vettovaglie, scrisse il capo maggiore di giustizia all'adelantado se li commandava piú cosa alcuna, perchè ei se ne tornava alla città di Messico, dove io risiedo. E l'adelantado gli fece a sapere per un suo messo com'egli non teneva apparecchio per andarsene, per aver trovato che se gli erano perduti sei navili, e gli altri che gli erano rimasi non erano buoni da navigar con essi; e ch'ei si stava facendo un'informazione per la qual mi constasse di tutto questo, sí come li mancava l'apparecchio per partire; e che egli mi faceva ancor a sapere che la gente sua si metteva a liti e contese con esso lui, con dire che ei non erano obligati a seguirlo, e che s'erano appellati dai comandamenti fatti del mio capo maggior di giustizia, dicendo non esser tenuti adempierli, per sedeci o diciassette cause ch'allegavano, una delle quali era ch'alcune persone della lor compagnia erano morte di fame, e ve n'erano dell'altre non troppo oneste contra la persona di lui. Li fece saper inoltre che, con tutte le diligenze ch'ei faceva, non gli era possibile ritener la gente, perchè quella che vi era la sera non si trovava la mattina, perchè coloro che gli erano menati prigioni, posti ch'erano il giorno dipoi in libertà, se n'andavano; e che dalla sera alla mattina gli accadé veder mancarsi dugento uomini. Sí che ei lo pregava per tanto molto affettuosamente a non partirsi per insin che giungesse da lui, perch'egli volea venir meco a ragionamento in questa città, e che, se lo lasciavano là, pensava di morirsi di dolore. E veduta tal lettera di lui, si risolvé il capo maggior di giustizia d'aspettarlo. Cosí ne venne a quello di là a due dí doppo scrittogli, e di là mi spedirono un messo, col qual mi faceva a sapere il capo sudetto che l'adelantado veniva ad abboccarsi meco in questa città, e venendosene a picciole giornate sin ad un luogo abitato chiamato Cicoache, a' confini di queste provincie, che aspettarebbono in quello la mia risposta. Mi scrisse appresso l'adelantado, per aviso del mal apparecchio ch'egli avea e del mal animo che la sua gente gli avea mostrato; laonde, perchè ei credeva ch'io avrei apparecchio da poter rimediarli, cosí in provederlo della mia gente come nel resto che li bisognasse, e perchè conoscea di non poter esser aiutato né sovvenuto per man d'altri, s'era risoluto di venir meco a ragionamento; e m'offeriva il suo figliuolo maggiore con ciò che egli aveva, e sperava di lasciarmelo, ch'egli mi fusse genero, maritandosi con una mia figliuola picciola.
Constando in questo medesimo tempo il capo maggior di giustizia, mentr'erano per venir qua, ch'erano venute in quell'armata di Francesco di Garai certe persone d'averne assai sospetto, come amici e servitori di Diego Velasco, i quali s'erano mostrati contrarii alle cose mie, e vedendo che non era ben che rimanessero in provincia, perchè dal loro conversare s'aspettavano motivi e inquietudini nel paese, in conformità d'un spaccio reale che la Maestà Vostra mi mandò per cacciar del paese tai persone scandolose, comandò che ne fussero cacciati. Costor furono Gonsalvo di Figueroa, Alfonso di Mendozza, Antonio della Cerda, Giovanni d'Avila, Lorenzo d'Uglioa e Taborda, Giovanni di Grisalva, Giovanni di Medina e altri. Il che fatto, ne vennono sin al detto luogo di Cicoache, dove giunse loro la mia risposta alle lettere che m'aveano mandate, con le quali io gli avisavo allegrarmi molto della venuta dell'adelantado: il qual venendo qua, s'attenderebbe molto volentieri a quanto egli m'aveva scritto, e a far che conforme al suo desiderio egli si partisse benissimo ispedito. Io proveddi appresso che la persona sua venisse ben trattata nel viaggio, comandando a' signori de' luoghi che li dessero a compimento tutto quel che li fusse necessario. E arrivato ch'ei fu a questa città, io lo raccolsi con tutta la bontà dell'animo e dell'opere che si richiedea e ch'io potei far per lui, sí come averei fatto per un mio fratello, che in vero m'increbbe assai della perdita de' suoi navilii e dello sviamento della sua gente; per il che gli offersi la volontà mia, come veramente ell'era, di far per lui quanto mi fusse possibile. Egli, come molto desideroso di veder effettuarsi tutto quello che m'aveva scritto intorno al maritaggio, cominciò ad importunarmi molto instantemente che lo concludessimo, e io, per farli piacere, mi risolsi di fare quel di che egli mi pregava e desiderava tanto; sopra di che si fecero di consenso d'ambedue le parti, con assai chiarezza e giuramenti, certi capitoli che concludevano il parentado e quel che per eseguirlo si dovea far dell'una e l'altra parte, con questo però, che sopra tutto, sendo la Maestà Vostra avisata di quanto avevamo capitolato, ne restasse ben servita. Sí che noi, oltre la nostra antiqua amicizia, pel contratto e capitoli fra noi, insieme con la parentela mediante i nostri figliuoli, restammo cosí unanimi e di par volontà, che niun di noi attendeva ad altro che a quel che bene stava a cadaun di noi, nella spedizione massime dell'adelantado.


Come la gente dell'adelantado, non volendo andar con lui, se n'andò fra terra ferma, e per gli suoi disordini si causò revoluzione del paese. Della morte del detto adelantado.

Ho dato conto di sopra alla Maestà Vostra del molto operare del mio capo maggiore di giustizia, a fine che la gente dell'adelantado che andava sparsa per il paese s'adunasse con quello, e delle diligenze usateli, le quali, ancorchè fossero molte, non bastarono però a levar loro la scontentezza concetta contro ad esso Francesco di Garai. Anzi, credendosi dover esser costretti conforme a' bandi e commandamenti ad irsene con lui, se n'andorono fra terra ferma, spartiti in piú bande, a tre a tre e a sei a sei, e stettero ascosi di quella maniera senza poter essere trovati: cosa che fu cagione di alterar gli Indi di quella provincia, tanto per veder gli Spagnuoli sparsi in piú bande, quanto per i disordini che ei facevano tra' paesani, togliendo loro per forza le donne e 'l mangiare, con altre inquietazioni e motivi. Onde si causò la revoluzione di tutto il paese, credendosi che, sí come l'adelantado aveva messa voce, fusse divisione fra Spagnuoli sotto diversi superiori: il che ho racconto di sopra alla Maestà Vostra, e di che tutto fu publicata la fama da lui per interprete, che gl'Indi poterono molto ben intenderlo. Per il che, avendo prima avuta informazione gl'Indi dove, come e in che parti si trovavano gli Spagnuoli, tennero tal arte che di dí e di notte diedero loro dentro, in que' luoghi abitati dove eglino s'eran sparsi, e, sí come li colsero sproveduti e disarmati, ammazzarono gran numero di loro. E crebbero in tanto ardire ch'arrivorno alla terra di San Stefano del Porto, dove dettono sí gagliardo assalto che misero gli abitatori in gran disagio, talchè si tennero perduti, e perdevansi, se non si fussero trovati provisti e uniti, laonde si poterono fortificare e resistere a' suoi nemici, sin all'uscire fuori contra di loro molte volte e romperli.
Le qual cose mentre si facevano, ebbi nuova da un uomo a piè ch'era campato da tai rotte qualmente tutta la provincia di Panuco e suoi nativi s'eran ribellati, e aveano ucciso gran numero di Spagnuoli che erano rimasi della detta gente dell'adelantado, con altre del popolo della sudetta terra ch'io v'avevo fondata a nome di Vostra Maestà; e ch'ei credeva, considerata la rotta grande di quelli, che niun Castigliano vi fusse restato vivo. Di che Iddio benedetto sa quanto io mi contristai, vedendo massimamente che niuna innovazione tale occorre in queste parti, che non ci costi troppo e che non le ponga a rischio di perdersi. E tanto s'adolorò l'adelantado di questa nuova, sí per parerli d'esser stato cagione di questo, come perchè egli avea in quella provincia un suo figliuolo con tutto quel che s'avea portato, che s'amalò di dolore, e di tal malattia morí fra spazio di tre giorni.


D'alcuni che furono assaliti alla strada. Come gli uomini del luogotenente furono uccisi, fuori che lui e due a cavallo. Come il Cortese ispedí un capitano con due altri della terra, con quindecimila uomini per uno, e l'ordine datoli. Il capitano combatte in due luoghi e ha vittoria. Come della provincia di Ganuco furon fatti prigioni da quattrocento tra signori e principali, oltre il vulgo, i quali tutti, cioè i principali, furono abbrucciati per giustizia, e pacificata la provincia.

Ma perchè la Maestà Vostra s'informi piú particolarmente del successo dopo avuto questa prima nuova, ciò fu che, poichè quello Spagnuolo portò nuova della sollevazion di quella gente di Panuco, perchè egli non dava conto d'altro, salvo che in un luogo detto Tacetuco, mentre che egli e tre altri a cavallo e uno a piedi venivano a viaggio, que' di tal luogo gli assaltarono alla strada e combatterono con loro, e vi furono uccisi due a cavallo e l'altro a piedi e il cavallo dell'altro, e che ambidue s'erano salvati fuggendo, sopravenuta la notte, e che avean veduto un alloggiamento di quel luogo, dove egli dovea aspettar il luogotenente con quindeci cavalli e quaranta fanti, starsi tuttavia abbrucciando, e che per i segnali vedutivi si credea che vi fusser rimasi tutti morti, aspettai sei over sette dí per altra nuova di questo. E mi giunse in tal tempo un altro messo del luogotenente, i quali dicea restar in un luogo detto Tenestechipa, della giuridizione di questa città, che divide i confini da quella provincia; il qual mi facea a saper per sua lettera come, trovandosi in Tacetuco con quindeci cavalli e quaranta fanti, aspettando piú gente che s'avea a congiunger con lui, perchè egli andava dall'altra banda del fiume ad amicarne certi luoghi che ancor non ci erano amici, una notte all'alba gli avevano circondato l'alloggiamento con di molta gente e messovi fuoco. E per quanto presto eglino avean cavalcato, stando alla sproveduta, per esser venuto insin là tanto al sicuro com'erano venuti, gli avevano appressati tanto che gli avevano uccisi tutti, da lui e da due altri a cavallo in fuori, che s'erano salvati fuggendo, benchè avessero morto a lui il cavallo, d'onde un altro se 'l portò via in groppa; e che si erano salvati perochè, di là a due leghe, ritrovorno un capo di giustizia d'essa terra con certa gente che li raccolse, benchè non vi s'intertennero molto, ch'egli e loro uscirono fuggendo di quella provincia. E non tenevano aviso né sapevano altro della gente rimasa in essa terra, né dell'altra dell'adelantado Francesco de Garai, divisa in certe parti, perchè, sí come ho detto alla Maestà Vostra, dapoi che l'adelantado era venuto là con quella gente e avea parlato a' paesani, dicendo ch'io non avevo da impacciarmi con esso loro perch'egli era il governatore e quello al quale dovevano ubbidire, e che unendosi essi con lui scacciarebbono tutti quegli Spagnuoli ch'io avevo e que' di quella terra e quanto piú io ve ne mandasse, essi s'erano alterati, né mai piú volsero servir bene a Spagnuolo alcuno, anzi, n'avevano uccisi alcuni trovati a caso soli per le strade. Onde egli credeva ch'ei si fussero congiurati a far quanto fecero, e come avevano battuto lui e coloro che erano con lui, cosí credea che avesser battuti tutti gli altri, sparsi chi qua chi là, perchè si stavano senza un minimo sospetto di quella revoluzione, vedendo come insin allora essi avevano servito loro senza risentimento di star soggetti.
Avendomi significato in oltre con questo aviso della ribellione de' nativi di quella provincia, e sapendo l'uccisioni di quegli Spagnuoli, quanto piú presto io potetti spedii subito cinquanta cavalli e cento fanti balestrieri e schioppettieri con quattro pezzi d'artiglieria, con assai polvere e munizione, sotto un capitano spagnuolo e con altri due di questa città, quindecimila uomini per uno, comandando ad esso capitano che con la maggior fretta ch'ei potesse arrivasse in quella provincia e s'affaticasse d'entrarvi senza intrattenersi altrove, non lo sforzando gran necessità, sino ad arrivar alla terra di San Stefano del Porto, a saper nuova degli abitatori e gente che io v'avevo lasciato, potendo essere che fussero assediati in qualche parte e acciochè desse lor soccorso: il che fu cosí. E s'affrettò il capitano quanto piú poté ed entrò nella provincia, e combatterono con lui in due luoghi; e dandoli Dio vittoria, seguí marciando per insin ch'egli arrivò a quella terra, dove ritrovò ventidue cavalli e cento fanti tenuti quivi assediati e combattuti sei o sette volte, ma difesesi con alcuni pezzi d'arteglieria che avevano, ancor che 'l poter loro non era di piú oltre difendersi, né anco con poca fatica. E se 'l capitano che io mandai indugiava tre dí, non vi saria restato uomo di loro, che ormai morivano tutti di fame; e avevano mandato un brigantino, di que' navili che condusse là l'adelantado, alla Vera Croce per darmi la nuova di là, che per altra via non potevano, e per vettovagliarsi con quello, come dapoi si vettovagliorno, benchè erano di già stati soccorsi dalla gente che io avevo lor mandato. Quivi seppero come la gente lasciata da Francesco de Garai in un luogo detto Tamaguilche era sin a cento Spagnuoli a piè e a cavallo, i quali erano stati tutti morti, non essendo scappato piú che uno Indo dell'isola di Giamaica, il qual si fuggí su per i monti, dal quale s'informarono come gli aveano soprapresi di notte; e trovossi per conto esser morti della gente dell'adelantado 200 e 10 uomini, e 43 degli abitatori ch'io avevo lasciato in quella terra, i quali andavano per i luoghi raccomandati a loro; e credesi ancora che furono piú di quei dell'adelantado, che di tutti non si ricordano.
Con la gente menata là dal capitano, e che 'l luogotenente e capo di giustizia avevano per la terra, si trovarono in tutto ottanta cavalli, e partiti in tre parti fecero tal guerra in quella provincia, che ei fecero prigioni oltre al vulgo da 400 tra signori e uomini principali: i quali tutti, cioè i principali, s'abbrucciorno per giustizia, avendo confessato com'essi erano stati i motori di quella guerra, e che qualunque di loro s'era trovato alla morte o egli aveva morti degli Spagnuoli. Il che fatto, liberarono degli altri che avevano prigioni, co' quali ridussero la gente all'abitazion de' suoi luoghi, e providde il capitano a quelli di nuovi signori a nome della Maestà Vostra, in persona di quelli che secondo il costume loro per successione doveano ereditargli. In quest'ora ho ricevuto lettere dal medesimo capitano e d'altri che sono con lui, con aviso che ormai, a Dio grazia, tutta la provincia è pacifica e sicura e i provinciali servono bene, e credo che 'l disturbo della rissa passata farà pace per tutto l'anno.
Creda la Maestà Vostra che queste nazioni sono tanto sollevabili, che qualsivoglia novità o apparato di sollevazione che veggano le commuove, però che di già era loro in consuetudine il ribellarsi e sollevarsi contra i lor signori, né vederanno mai occasioni a questo che non la piglino.


Come il Cortese, comprati cinque navilii e un brigantino e fatto quattrocento uomini, li mandò al capo over promontorio d'Hibuere, e con che ordine e per che cagione, e ducati ottomila all'isola della Cuba. Le provisioni ed espedizioni fatte per scoprir nuovi paesi e varie nazioni.

Io dissi ne' precedenti capitoli come, al tempo che io ebbi nuova dell'arrivo dell'adelantado Francesco de Garai a quel fiume di Panuco, io avevo in esser armata o gente da mandar al capo o promontorio de Hibuere, e le cause che mi muovevano a questo; da che si soprasedé per tal arrivo, credendo che esso adelantado d'autorità propria si volesse metter a possedere il paese, e che volendo io resistere, s'egli l'avesse fatto, mi fu necessario tener tutta la gente. Dopo finita quella spedizione con lui, se ben mi seguiva spesa grande nel soldo de' marinari e fornimenti per navilii e nella gente che vi dovea navigare, parendomi che di questo Vostra Maestà ne fusse molto ben servita, perseverai nel mio primo proposito e comperai altri navilii, oltre a quelli che io avevo, che furono cinque piú grossi e un brigantino, e feci quattrocento uomini; i quali forniti d'arteglieria, monizioni e arme e d'altre robbe e vettovaglie, oltre a quello di che furono proveduti in questo luogo, io mandai a due miei famigliari piú d'ottomila ducati di oro all'isola di Cuba, acciochè si comperassero cavalli e robbe, sí da portar in questo primo viaggio, come perchè tenessero in punto da caricar i navilii alla tornata, acciochè non restassero di far l'effetto a che io li mandavo per mancamento di cosa alcuna, e acciochè in sul principio per mancamento di robbe non faticassino gli uomini del paese, ma piú tosto gli dessino essi di quel che portavano che togliessino il loro. Con tal ordine si sono partiti dal porto di S. Giovanni di Chalchiqueca alli 11 di gennaro 1524 per andarsene all'Habana, che è la punta dell'isola di Cuba, dove s'hanno da fornire di tutto quello che mancherà loro, e specialmente di cavalli, e quivi unire i navilii e dipoi con la benedizione di Dio seguire il lor viaggio verso il detto paese; e arrivando al primo porto di essa, saltare in terra e sbarcare tutta la gente, cavalli e monizioni e con ciò che portano in detti navilii, e dipoi nel miglior sito che parerà loro fortificarli con sua arteglieria, che portano molta e buona, e fondarvi una popolazione; e subito le tre navi maggior che ho spedite per l'isola di Cuba al porto della città della Trinità, per esser luogo migliore da fermarvisi, dove abbi da restare uno de' miei creati, per far provisione delle cose che li fussino di bisogno e che 'l capitano mandasse a richiedere. Gli altri navilii piú piccioli e il brigantino, col pilotto maggiore e con un mio cugino loro capitano detto Diego Murtado, debbano trascorrere tutta la riviera del porto dell'Ascensione, investigando di quello stretto che si crede esservi, e vi si fermino tanto che non resti lor piú da vedere cosa alcuna, e veduta che l'averanno ritornarsene dove sarà il sudetto capitano Cristoforo Dolid. E di là con uno de' navilii m'aviseranno di quel che averanno ritrovato, e che esso Dolid averà saputo del paese e che li sarà successo in quello, acciochè di tutto io possi dar copioso aviso alla Maestà Vostra.
Io dissi ancora qualmente io avevo gente per mandare con Pietro d'Alvarado a quelle città d'Uclaclan e Guatemala, delle quali ho fatto menzione ne' capitoli passati, e ad altre provincie delle quali ho notizia che sono innanzi a quelle, e come s'era sopraseduto per l'arrivo del detto adelantado Francesco de Garai. E perch'io tenevo già fatto molta spesa, sí de' cavalli e arme e artiglieria e munizione, come di denari dati per sovenzione alla gente; e perchè io credo che di ciò nostro Signor Dio e la Maestà Vostra hanno da tenersi molto serviti; e perchè, secondo la notizia avuta, io penso scoprire per quella parte di molti e molto ricchi e strani paesi e di molte e varie nazioni, son ritornato a perseverare nel mio primo proposito. E oltre di quel che prima s'era provisto per tal viaggio, io rifeci la provisione ad esso Pietro d'Alvarado, e lo spedii di questa città alli 6 di decembre del 1523, e condusse seco centoventi da cavallo, con li quali e li carriaggi erano cento e settanta cavalli, e trecento fanti, tra li quali sono centotrenta balestrieri e schioppettieri; e conduceva anco quattro pezzi d'artegliaria, con assai polvere e munizione. E ne andavano seco alcuni uomini segnalati, sí de' nativi di questa città come dell'altre di questo contorno, e con loro dell'altra gente, non però molta, per esser tanto lungo il viaggio.


Del giunger di Pietro d'Alvarado nella provincia Techantepeque. Quello che si trovi aver speso il Cortese per il bisogno delle guerre. Del paese acquistato verso il mare di Tramontana e per il mare a Mezzogiorno. Del guerreggiar de' popoli Ciaputechi e Messi, e delle genti mandate contra quelli.

Ho avuto nuova di loro, qualmente alli dodeci di gennaro di quest'anno erano arrivati nella provincia di Techantepeque, e che andavano sani: piaccia a nostro Signor Dio di guidarli tutti secondo ch'egli ne sia servito, che ben credo io, come essi vanno indrizzati al suo servizio e nel real nome di Vostra Maestà, non possin mancar di prospero e buon successo. Io al detto Pietro commisi ancora ch'egli avesse particolar cura di darmi piena e particolar notizia delle cose che gli accadessero di là, acciochè si potessero mandar a communicar con Vostra Altezza. E ho per cosa molto certa, secondo gli avisi e disegni ch'io ho di quel paese, che esso Alvarado e Cristoforo Dolid sieno per unirsi, se qualche stretto non li divide. Molti viaggi si sarebbono fatti a tal paese, e molti secreti vi si sarebbono scoperti, se non m'avesse impedito il disturbo dell'armate venute in qua: in che certifico la Maestà Vostra ch'ella ha ricevuto assai danno, e per non essersi scoperto paese assai, e per aversi tralasciato d'acquistare alla sua camera reale gran somma d'oro e di perle. Imperò, se d'ora in poi non ne verranno piú, m'affaticherò di ristorar il perduto, né si rimarrà da questo per fatica della persona mia né per spesa della mia facultà, che io certifico la Maestà Vostra che, oltre ad aver speso ciò che avevo in denari, io son debitore dell'oro avuto delle sue rendite di piú di settantamila ducati larghi, per i bisogni delle spese che le costeranno, quando sarà servita che si veggano i conti, senza altri dodecimila prestatimi per le spese della mia casa da altre persone.
Ho detto ne' capitoli precedenti come le provincie convicine alla terra dello Spirito Santo, e quelle che servivano agli abitatori di essa, s'erano in parte ribellate e avevano uccisi alcuni Spagnuoli. Per ridurle adunque al real servizio della Maestà Vostra, e tirarvi insieme dell'altre vicine a quelle, non bastando la gente che stava in tal terra per conservar l'acquistato e acquistar queste, ispedi' un capitano con trenta cavalli e cento fanti, parte balestrieri e parte schioppettieri, e con due pezzi d'artegliaria e provisione di munizioni e polvere, i quali partirono agli 8 di decembre del 1523, né infino a qui ho saputo altro di loro. Penso che faranno gran frutto, e che di questo viaggio si farà servizio grande a Dio e alla Maestà Vostra e si scopriranno assai secreti, per esser questo un pezzo di terra ferma tra la conquista di Pietro d'Alvarado e di Cristoforo Dolid, quello che insino ad ora si stava pacifico verso il mare di Tramontana; il quale come si è conquistato e fatto amico, perchè è assai poco, Vostra sacra Maestà viene ad avere piú di quattrocento leghe di paese amico e soggetto al suo real servizio a tramontana, tutto continuato senza intermezo, e pel mare a mezogiorno piú di cinquecento leghe, tutto da un mare all'altro, che serve senza contradizione alcuna, da due provincie in fuori, poste nella provincia di Techantepeque e in quella di Chinanta e di Guassaca e Gualzacalco, in mezzo a lor quattro, della cui gente chiamasi l'una i Ciaputechi e l'altra i Missi. Le quali per esser tanto aspre che non vi si può pur camminar a piedi, con tutto che oramai due volte io abbi mandato gente per conquistarle e non ci sia riuscito, però che hanno le forze gagliarde e il paese aspro e l'arme buone, combattendosi da quelli con lancie di venticinque in trenta palmi lunghe e assai grosse e ben fatte, le cui punte sono di selci durissime, con che si sono difesi coloro, con morte di molti Spagnuoli ch'erano andati là, e hanno dato e danno di gran danni a' luoghi prossimi sudditi di Vostra Maestà con assaltarli di notte, abbrucciargli e ammazzar di molte persone, in maniera che s'hanno fatto che molti luoghi a loro prossimi si sono ribellati e confederati con loro. E perchè ciò non proceda piú avanti, ancorchè non m'abbondava la gente, per averne mandata a tante parti, io posi insieme cento e cinquanta uomini a piedi, li piú balestrieri e schioppettieri, non servendo in que' luoghi i cavalli, e quattro pezzi d'artiglieria con la munizione necessaria, e con provisione d'ogni cosa necessaria a' balestrieri e schioppettieri; con i quali mandai per capitano Roderico Rangel, capo di giustizia di questa città, che un'altra volta era stato contra quelle genti e, per essere allora di molte acque, non aveva potuto far nulla, e ritornosse doppo esservi stato due mesi. Il qual capitano, insieme con tal gente, partí di questa città alli cinque di febraro del presente anno.
Io credo, sendone cosí Dio servito, che per andar egli ben provisto, e per andar in tempo buono, e perchè menai di molta gente atta da guerra nativa di questa città e de' suoi contorni, che si metterà fine a questa controversia: da che non ne risulterà poco servizio alla corona imperiale di Vostra Altezza, perchè quelli non solamente non servono, ma fanno ancor danno grande a quei che ci hanno buona volontà, e il paese ha molta ricchezza e minere d'oro. Quando costoro si stessero in pace, dicono quei lor vicini ch'essi anderebbono a torgliene, per esser stati tanto ribelli, dapoi che sono stati invitati alla pace tante volte, e sendosi offerti vassalli di Vostra Maestà hanno ammazzato gli Spagnuoli, e per aver fatti tanti danni s'hanno a pronunciar per ischiavi. Cosí comandai che quei che si potessero pigliar vivi si marchiassero del marco di Vostra Maestà, e, trattane la parte sua, si dividesse il resto fra' conquistatori. Ella in vero può credere molto certo che la minor di queste entrate a che si va mi costi del mio piú di cinquemila ducati d'oro, e li due dati a Pietro d'Alvarado non ci si numerano né si mettono a memoria; ma, come s'impiega tutto in servizio di Vostra Altezza, se con questo insieme si spendesse la persona mia, lo riconoscerei per maggior grazia, né mi si presenterà mai cosa in che poter metterla ch'io non ve la metta.


La cagione perchè i navilii che già furono cominciati a far nel mare di Mezzodí non siano al dí d'oggi finiti.

Ho fatto menzione, sí nella relazione passata come in questa, di quattro navilii ch'io ho cominciato a fare nel mare a Mezzogiorno, i quali per esser molto tempo che s'incominciorono, parerà a Vostra Altezza ch'io sia stato alquanto trascurato, non si essendo finiti al dí d'oggi. Gliene dico la cagione, ed è che, sendo il mar a Mezzogiorno, quella parte massime dove io fabrico i navilii, lontano dal mar a Tramontana, dove si scarica ciò che viene a questa Nuova Spagna, dugento e piú leghe, e in parte mal portuosa per li scogli e montagne e per esservi in altra parte di molti grandi e principali fiumi, come di qui s'hanno a portar tutte le cose necessarie a' navilii, non essendo luogo ond'elle si possino provedere, vi si sono portate e portansi con difficoltà grande. Intervenne di piú in questo che, poi ch'io avevo là nel porto dove tai navilii si fanno tutto ciò che v'era bisogno di vele, capi, gomene, funi, chioderia, ancore, pece, sevo, stoppa, bitume, olio e altre cose, vi s'appicciò il fuoco una notte e s'abbrucciò tutto, non ne rimanendo altro che l'ancore, che non poterono abbrucciarsi. Ora di nuovo v'ho fatta la medesima provisione, per essermi di già due mesi arrivata una nave di Castiglia, in che mi portarono cose necessarie a' navilii, che, per paura di quel che m'intervenne, io avevo di già mandato a domandarle. E io fo certa la Maestà Vostra che a quest'ora mi costano i navilii, non gli avendo per ancora messi in acqua, piú di novemila ducati d'oro, senza altre cose necessarie. Ma laudato ne sia nostro Signor Dio, perchè stanno oramai in termine che a Pasqua del Spirito Santo o a san Giovan di giugno potran navigare, se non mi mancherà bitume, che, sendosi abbrucciata quella ch'io avea, non ho avuto onde provedermi. Io spero nondimeno che me la porteranno a tempo da cotesti regni, però ch'io ho provisto che mi sia mandata. Io apprezzo tanto tai navilii che non potrei significarlo, considerando per certissimo che col mezzo d'essi, se Dio cosí sarà servito, sarò cagione che Vostra sacra Maestà sia padrona in queste parti di piú regni e signorie di quei che sin oggi si sanno nella nazione nostra: piaccia a lui d'aviar tutto secondo ch'ei si serve, e che Vostra Maestà può conseguirne tanto bene, poi ch'io credo che col far io questo non le rimarrà altro da fare.


Come ora sia abitata e si va riedificando la città di Temistitan; dell'arti, traffichi e mercanzie di quella; d'un forte notabile che s'è fatto in detta città.

Poichè fu servito nostro Signor Dio che s'acquistasse questa gran città di Temistitan, mi parve di presente non esser ben a risedervi, per molti inconvenienti che occorrevano, e mi trasferi' con tutta la gente ad un luogo detto Cuyuacan, nella riviera di questa palude, di che ho già fatta menzione. E perchè io desiderai sempre che tal città si riedificassi, per la grandezza e sito suo maraviglioso, m'affaticai di raccorre tutti i suoi terrazzani absenti in molte parti, dalla guerra in qua, e quantunche io abbi sempre tenuto e tenghi ancora il signor suo prigione, feci che un capitano suo generale nella guerra, il qual io conobbi dal tempo di Montezuma, pigliasse carico di farla riabitare: e acciochè fusse di maggior autorità la persona sua, li diedi il carico medesimo ch'egli avea in tempo del suo signore, il quale carico è ciguacoat, che vuol dire come luogotenente del signore. E diedi altre cure di governo in questa città, soliti aversi fra loro, ad altri principali uomini ch'io conoscevo prima, e diedi giuridizione di terre con che ei si mantenessero a questo ciguacoat e agli altri: non però tanta quanta essi avevano prima, né tanta che in tempo alcuno potessero offendere; e mi sono sempre studiato d'onorargli e favorirgli, ed eglino si sono cosí ben portati che sino oggi s'è riabitata la città di piú di trentamila fuochi, e ci si serva l'ordine già consueto ne' lor mercati e traffichi. Io ho dato loro tanta libertà ed esenzioni che ogni dí si riempie piú di popolo, perchè vivono molto a piacer loro. Gli artigiani, che vi è gran numero di mecanici, vivono per giornate cogli Spagnuoli, come legnaiuoli, imbiancatori di case, tagliapietre, orefici e simili arti; e i mercanti si tengono molto sicuramente le lor mercatanzie e vendonle; e l'altre genti vivono alcuni di pescherie, che assai se ne spaccia in questa città, altre d'agricoltura, sendoci oggimai molti che hanno fatti suoi orti e seminatici ortami di Spagna, de' quali s'è potuto aver seme qua. E certifico la Maestà Vostra che s'eglino avessero piante e semi da orti di Spagna, ed ella fusse servita di farceli mandare, come io la supplicai con gli altri avisi, perchè costoro si danno volentieri all'agricoltura e ad allevar arbori, che in processo di poco tempo ne sarebbe qua copia grande; da che ridonderebbe a lei non poco servizio, perchè sarebbe causa di perpetuar di qua e averci maggior entrata e dominio di quel che ora, la Dio mercé, si possede da Vostra Altezza. Al che fare ella si può render ben certa ch'io non mancherò punto, e mi ci affaticherò con tutte le forze e poter ch'io sarò sufficiente.
Operai, subito che s'acquistò questa città, di farci una fortezza in acqua, in parte d'essa dove io potesse tener sicuri i brigantini, e da quello offenderla tutta, se volesse innovare, e dove fusse in mia libertà l'uscire e l'entrare quand'io volesse: e fecesi, ed è talmente fatto che, di quante cose d'arsenali e forti io ho veduto (che ne ho vedute molte), non so a qual d'esse l'agguagliare; e molti che ne han veduto piú di me affermano quel ch'io dico. Egli è in questo modo: egli ha nella palude due torri ben forti, con le sue cannoniere in luoghi convenienti; l'una di queste due torri si porge in fuori dalla cortina verso l'una parte del forte, con cannoniere che spacciano tutta una cortina, e l'altra verso l'altra parte nel medesimo modo. Dall'una all'altra di queste due torri è un corpo di casa di tre vasi, dove stanno i brigantini, la porta dei quali per l'entrata e per l'uscita è verso l'acqua fra esse due torri; e in tutto questo corso di casa sono parimente le cannoniere, in capo al quale verso la città è un'altra molto gran torre, di molti alloggiamenti al basso e all'alto, con le difese e offese per la città. E perchè io ne manderò il disegno alla Maestà Vostra, onde si comprenda meglio, non ne dirò piú particolarità, se non ch'egli è tale che, tenendolo noi, è in arbitrio nostro la pace e la guerra, quando ci piacerà, mentre vi si tengono i navili e l'artegliaria che or vi si tiene.
Fatta questa fortezza, parendomi che oramai io potevo adempir sicuramente il mio desiderio di tirar popolo a questa città, io ci venni con tutta la mia compagnia, e si divisero i suoli per le case fra gli abitatori: nella qual divisione io diedi un suolo per uno a tutti coloro che furono de' conquistatori, in nome di Vostra Altezza, per la fatica passata, oltre a quello che s'ha da dar loro come ad abitatori che hanno ad essere secondo l'ordine di qua. Insino a qui si sono studiati tanto in far le case degli abitatori, che ce n'è gran quantità di fatte, e altre si trovano oramai a buon principio. E per esservi copia di pietra, calcina e legnami e d'assai mattoni, che costoro del paese fanno, essi fanno da tutti cosí buone e grandi case che la Maestà Vostra può credere che, di qua a cinque anni, questa sarà la piú nobile e popolata città e di migliori edificii che alcun'altra sia, dovunque s'abita il mondo. L'abitato da noi Spagnuoli è diviso da quel de' terrazzani, dividendoci un braccio d'acqua, benchè tutte le strade che attraversano l'abitato hanno ponti di legname, per li quali si pratica dall'una parte all'altra. Fannosi due mercati da' terrazzani: l'uno è nel lor abitato, l'altro in quel degli Spagnuoli. In questi si portano d'ogni guisa vettovaglie e robbe che si trovino in paese, dal qual tutto si concorre a vender qua, né qui manca cosa alcuna che ci soleva essere in tempo di prosperità. Vero è che di gioie, d'oro, d'argento, né di piume, né d'altra cosa di gran prezzo non ce ne sono come ci solevano essere, con tutto che si scoprino qualche pezzo fatto d'oro e d'argento, ma piccioli e non come prima.


Il modo che tenne il Cortese per aver artegliaria, e quanti pezzi ora se ne truovi avere. Delle minere di rame, ferro e solfore che si sono ritrovate.

Per le differenze che Diego Velasco ha voluto aver meco, e per la mala volontà che per causa e intercessione di lui m'ha portata don Giovanni da Fonseca, vescovo di Burgos, e per quelli gli ministri della casa de' traffichi di Siviglia, alli quali egli avea cosí commandato, e Giovan Lopez de Recalde, computista di quella, in specie, da' quali dependeva il tutto in tempo del vescovo, io non sono stato provisto d'artegliarie e arme come m'era necessario, posto che molte volte io abbi mandato il denaro per averne. E perchè non è cosa che piú svegli l'ingegno umano che la necessità, io, come uomo che la provavo tanto estrema e irremediabile, poichè questi non lo lasciavano venire a notizia di Vostra Maestà, m'affaticai in cercar modo pel quale non si perdesse in quella quel che con tanto travaglio e pericolo s'era guadagnato, d'onde ne saria potuto venir tanto deservizio a nostro Signor Dio e a Vostra Maestà cesarea, e pericolo a tutti noi che ne troviamo qua. E mi sollecitai grandemente di cercar rame in queste provincie, e acciochè egli si trovasse piú presto, lo pagai per assai riscatto, e avutane quantità feci che un maestro, qual si trovò qua per sorte, ne facesse artegliaria: e fecemi due mezze colubrine, che sono riuscite cosí buone che d'ugual misura non possono esser migliori. E perchè, trovato il rame, mi mancava ancor lo stagno, senza il quale non si può fondere, e per essi due pezzi n'avea trovato con difficoltà grande, costandomi molto, da qualcheduno che n'avevano piatti e credenze, né piú ne ritrovavo di caro né a buon mercato, cominciai ad investigar per tutte le parti s'egli ve n'era in qualcheduna. E volle Dio, che cura e curò sempre a proveder al maggior bisogno, che tra nativi d'una provincia chiamata Tachco se ne scoperse certi piccioli pezzi, in foggia di monete assai sottili, e, seguitando d'investigare, io ritrovai che in quella provincia e anco in altre vi si spendeva per moneta, e con procedere piú innanzi seppi al fine ch'ei si cavava in tal provincia di Tachco, posta lontana da questa città ventisei leghe. E sapute le minere, incontinente io mandai là ferramenti e Spagnuoli, che me ne portarono la mostra, e da quell'in poi ordinai in modo che me n'han cavato quel che mi è bisognato, e se ne caverà piú, secondo il bisogno, benchè con assai fatica. Cercandosi ancor di questi metalli, si scoperse una vena di ferro assai grande, secondo m'informarono quei che dicono di conoscerla. Lo qual stagno scoperto, io ho fatto e faccio ogni dí qualche artegliaria.
Li pezzi che a quest'ora sono finiti sono cinque: due mezze colubrine e due alquanto minori di misura e un cannone, e due sagri ch'io portai quando venni in queste bande, e un'altra mezza colubrina ch'io comperai de' beni dell'adelantado Giovan Ponce di Leon. De' navili venuti in qua io ho, tra tutte l'artegliarie di metallo picciole e grandi maggiori de' falconetti, trentacinque pezzi, e di ferro colato, tra bombarde e passavolanti e altri tiri, sino a settanta pezzi: sí che oggimai, laudato ne sia Dio, ci potremo difendere. E non manco ci ha provisto Dio per la munizione, avendo noi trovato tanto e sí buono salnitro che ne potremo fare provisione per altre necessità, caso che noi avessimo le caldaie da cuocerlo, ancorchè assai se ne dispensa di qua nelle molte imprese che si fanno. Quanto al zolfo, io ho di già fatto menzione a Vostra sacra Maestà d'una montagna qual è in questa provincia, che esala gran fumo, dalla qual, calatovi per la bocca in giuso uno Spagnuolo settanta over ottanta braccia, se n'è cavato tanto che insino a qui ci è bastato; ma d'ora innanzi non aremo necessità a porci in sí fatto travaglio, per esser il luogo pericoloso, e io ogni volta scrivo che ce lo mandino di Spagna, e Vostra Maestà è stata servita che piú non vi sia vescovo che ce l'impedisca.


Come, avendo il Cortese ritrovato due leghe discosto dal porto di San Giovanni un bel sito per fondarvi una terra, con tutte le qualità che si richieggono, vi ha fatto fabricar una città, qual spera ch'abbi ad esser delle migliori della Nuova Spagna.

Dopo aver situata la terra di San Stefano, che s'abitò nel fiume di Panuco, e aver posto fine alla conquista della provincia di Tequantepeque e aver spedito il capitano che andò agli Impilcinghi e a Coliman, di che tutto ho fatto menzione in uno dei precedenti capitoli, innanzi ch'io venissi in questa città andai alla terra della Veracroce e a quella di Medellino, a causa di visitarle e proveder ad alcune cose che n'aveano mestieri in quei porti. E perchè io trovai che, per non aver luogo abitato dagli Spagnuoli piú presso al porto di San Giovanni di Chalchiqueca che la terra della Veracroce, andavano là a scaricarsi i navili, e che, non essendo sicuro il porto come converria, per le tramontane che regnano in quella spiaggia, se ne perdevano molti, andai ad esso porto di S. Giovanni a cercarvi d'appresso alcuno sito per far abitarlo, ancorchè, nel tempo ch'io già vi fui, ci si cercasse con gran diligenza e non trovasse, per esser tutto montagne di rena ch'ogni volta si mutano. Ora io stetti quivi qualche dí cercandolo, e volle Iddio che si trovò due leghe discosto da quel porto buon sito, con tutte le qualità che si richiedono a fondar terra, perochè vi sono di molta legne, acqua e pascoli, salvo che non vi si trova legname né pietre da fabriche, se non molto lontano. Trovossi a canto a questo sito un fiumicello, pel quale io mandai giuso un burchio per vedere se si usciva per quello in mare, o se per quello potrebbono venir barche sino al luogo che vi s'abitasse; e trovossi ch'egli metteva capo in un fiume che esce nel mare, e trovossi in bocca del fiume essere un braccio piú d'acqua, in maniera che, nettandosi il fiumicello, il qual è occupato d'assai legni d'arbori, potriano venir le barche contra acqua a scaricarsi sin nelle case degli abitatori. Vedendo dunque tal sito a proposito, e la necessità del rimedio per li navili, io feci che la terra di Medellino, posta venti leghe fra terra ferma nella provincia di Tatalptetelco, si trasferisse quivi; e cosí fecessi, che oramai vi si sono trasferiti tutti questi abitanti là, e vi tengono fatte le case loro, e si mette ordine a nettar il fiumicello e a fare casa de' trafichi in quella terra, che, ancorchè si ritenghino i navili allo scaricarsi, dovendosi andar due leghe in su per acqua, saranno nondimeno sicuri che non si perderanno. E io credo certo che, dopo questa città, quella sia per essere la miglior terra che sia in questa Nuova Spagna, perchè d'allora in qua vi si sono scaricati navili, e le barche ne vanno con le mercanzie sino alle case di quella, e vi vanno i brigantini. E io procurerò per tanto di tenerlo sí ben in punto che vi scarichino senza una minima fatica, e starannovi da qui innanzi i navili ben sicuri, perchè 'l porto è molto buono. Affrettai medesimamente di far le strade che di là vengono a questa città, con che si darà miglior spacio alle mercatanzie che infin adesso non s'è dato, però che la strada è migliore e si scurta una giornata.


Provisione fatta per il Cortese di caravelle, brigantini e altri navilii per mandar a scoprir uno stretto per il qual si passi nel mar a Mezzogiorno, e l'utilità che per quello, ritrovandosi, ne seguirebbe alla cesarea Maestà.

Nei capitoli passati ho detto per quai parti io ho spedite gente, sí per mare come per terra, ond'io credo che, guidandola nostro Signor Dio, la Maestà Vostra si troverà ben servita, e come io di continuo non occupo in altro il pensiero che in considerar tutti i modi che si possino tenere per effettuar il desiderio ch'io ho di servirla. Vedendo non mi restar altro a questo che saper il secreto della riviera che ci resta a scoprire tra il fiume di Panuco e la Fiorita, per la banda di tramontana, sino che s'arrivi alli Bacagliai, perchè si tiene per certo essere in quella riviera uno stretto per il qual si passi nel mare di Mezzogiorno, e s'egli si trovasse, secondo un certo disegno che ho io della navigazione dove è l'arcipelago che scoperse Magaglianes per comandamento di Vostra Altezza, pare ch'egli uscirebbe molto d'appresso a quello; e sendo servito nostro Signor Dio che per quella banda si trovasse tale stretto, sarebbe il navigar sin d'onde s'hanno le specierie a' reami di Vostra Maestà molto buono e breve, tanto che sarebbe li due terzi manco del viaggio che ora si fa, e senza risico né pericolo de' navili all'andare e tornare; perochè sempre anderebbono per li reami e stati della Maestà Vostra, che, in qualunque necessità occorresse loro si potrebbono riparar senza pericolo in qualsivoglia parte dove volessero pigliar porto, come in terra di Vostra Maestà. E per rappresentarmisi il gran servizio che di qui le resulta, ancor ch'io sia consummato dalle spese e impegnato per li molti debiti e costi dell'altre armate fatte per terra e per mare, e in mantener ordini di legname e artegliarie ch'io ho in questa città e ch'io mando in tutte le parti, e per altre assai spese che m'occorrono tutto il dí, sendosi fatte e facendosi tutte a costo mio, ed essendo tutte le cose di che ci abbiamo da provedere tanto care e di prezzo tanto eccessivo che, ancor che 'l paese sia ricco, l'interesse ch'io ne posso avere non basta alle grandi spese ch'io ho; ma con tutto ciò, avendo rispetto a quel ch'io dico in questo capitolo, e postponendo ogni necessità che me ne possa venire, se ben posso certificar la Maestà Vostra che a questo fine io piglio denari in prestito, ho determinato di mandar tre caravelle e due brigantini in questa impresa, bench'io pensi dovermi costar piú di undecimila ducati, e aggiunger questo agli altri servizii ch'io ho fatti, perch'io 'l tengo per il maggiore se, com'io ho detto, si truova lo stretto. E, posto che ei non si truovi, egli non è possibile che non si scuoprino molti ricchi e gran paesi, onde Vostra Maestà cesarea sia molto servita, e suoi stati e regni s'aumentino grandemente. E di qui, quando anco non si trovasse tale stretto, ne seguirà che Vostra Altezza verrà a sapere che egli non vi è, e ordinerassi in che modo per altre parti ella si serva de' paesi delle specierie e di tutti quei che con essi confinano. E quanto a questa, io da ora me l'offerisco che, sendo servita di comandar ch'io l'abbi (in caso che il stretto non si ritruovi), opererò che Vostra Maestà resterà servita e con manco spesa. Piaccia a Dio che l'armata consegua il fine a che si fa, ch'è di scoprir quello stretto, che sarebbe il meglio: e questo credo io che succederà, poichè nulla si può ascondere alla sua real ventura, e a me non mancherà diligenza, né buono ricapito, né volontà per procurarlo.
Io penso altresí di mandar li navili ch'io ho fatto nel mar a Mezzodí, che a Dio piacendo navicheranno alla fin di luglio del presente anno del 1524, lontano la medesima riviera in cerca di tale stretto, che, s'egli vi è, non si può ascondere a costoro per il mare a Mezzodí, e agli altri per mare a Tramontana: perochè costoro a mezzodí scorreranno la riviera sin a trovarlo o coniunger la terra con quella che scoperse Magaglianes, e gli altri a tramontana sino a congiungerla con gli Bacagliai, sí che o per una parte o per l'altra non si rimanga di saper il secreto. Io certifico la Maestà Vostra che, secondo l'informazione datami de' paesi lungo il lito del mare di Mezzogiorno, mandando per quella banda questi navili io vi averei fatto di gran guadagni; ma, per saper il suo gran desiderio di conoscere il secreto di questo stretto, e il notabil servizio che con scoprirlo si farebbe alla sua corona reale, io pospongo ogni altro profitto e guadagno che mi è di qua assai chiaro, per seguir quest'altra strada. L'incamini nostro Signor Dio com'egli ne sia piú servito, e la Maestà Vostra adempia il suo desiderio, e io parimente il mio, di scoprirlo.


Supplica il Cortese che avendo egli speso da ducati sessantamila delle rendite della cesarea Maestà, e piú di cinquantamila de' suoi, per pacificar i paesi e ampliare gli stati di lei, che, trovandosi esser cosí, gli siano pagati per li ministri ch'ella ha mandato per riveder i conti delle sue entrate reali.

Sono arrivati li ministri che la Maestà Vostra ha fatto venire per attendere a' negozii delle sue entrate e facultà reali, e hanno cominciato a riveder i conti a coloro che avevano dinanzi questa cura, datagli da me a nome di Vostra Altezza. E perchè tai ministri l'aviseranno del ricapito a che insin qui sono state le cose, io non mi stenderò in darle conto particolar di tutto, ma mi rimetterò solo a quel che gliene sarà dato da loro, qual io credo che sarà tale che si potrà conoscer da quello la sollecitudine e vigilanza avuta sempre da me in ciò che s'appartenga al suo servizio reale, e che, se ben l'occupazione delle guerre e la pacificazione del paese è stata tanta quanta il successo la dimostra, io non per tanto mi sono dismenticato di tener special cura di conservare e adunare tutto quel che mi sia stato possibile, di ciò che le è appartenuto e s'è potuto applicarle. E perchè per il calculo ch'essi ministri ne mandano a Vostra Maestà appare, com'ella vedrà, ch'io ho speso delle sue entrate, in pacificar paesi e in ampliar gli stati ch'ella ha in essi, piú di sessantaduemila e tanti ducati d'oro, egli è bene che Vostra Altezza sappia non essersi potuto far altro, perchè, poi ch'io cominciai a spendergli, a me non era già rimaso altro da spendere, ed ero impegnato per piú di trentamila ducati d'oro avuti in prestito da piú persone; e non potendosi far altro, né si potesse eseguir altrimente il suo servizio, come la necessità e il mio desiderio richiedevono, io fui forzato a spenderli: ma non credo che 'l frutto già redondato e che ne ridonderà per l'avenire sia stato tanto poco, che non ci renda piú di mille per cento. E perchè i ministri di Vostra Maestà, con tutto che costi loro come per avergli spesi ella ne sia stato molto ben servita, non me l'accettano ne' conti, con dire che non hanno commissione di questo, io la supplico a comandare che, apparendo ch'eglino sieno stati bene spesi, mi sieno accettati, e mi sieno pagati altri cinquanta e tanti mila ducati d'oro che io ho speso della mia facultà e ch'io ho tolti in prestito dagli amici, perchè, se non mi fussero pagati, non potrei satisfar a coloro che me gli hanno prestati e resterei in grande necessità. Il che non penso io che sia permesso da Vostra Maestà, ma piú tosto che, oltre a far pagarmeli, ella ha da commettere che mi si faccino di molte e grandi grazie, che, oltre all'esser lei tanto catolico prencipe e cristiano, i miei servizii quanto a loro non ne sono indegni, e il lor frutto dà di ciò testimonio.


Come, essendo state tolte le cose che 'l Cortese mandava all'imperatore, ei procurerà di mandargliene di piú preziose, e di quelle che ora li manda, tra le quali vi è una colubrina d'argento, e dell'oro delle sue entrate ducati sessantamila. De' sinistri portamenti di Diego Velasco.

Ho saputo da' sudetti ministri e da altre persone venute in compagnia loro, e per lettere ricevute da cotesti regni, che le cose ch'io mandai alla Maestà Vostra per Antonio di Quignones e per Alfonso d'Avila, partiti di qua procuratori di questa Nuova Spagna, non se le presentorno, perchè furon pigliate da' Francesi, per la mala provisione che mandorno quei della casa de' traffichi di Siviglia, per accompagnarli fin dall'isola degli Astori. E benchè per il gran pregio e novità di tai cose io desiderasse che Vostra Maestà l'avesse vedute, perochè, insieme col servizio che a lei se ne faceva, i miei servigi sarebbono ancor stati piú manifesti, e per questo me ne è incresciuto assai, ma mi sono anco allegrato che le pigliassero, perchè vien per tanto a mancar poco alla Maestà Vostra, e io procurerò di mandargliene dell'altre molto piú preziose e nuove, sí come io n'ho nuova per alcune provincie che io ho di già mandato a conquistare e per altre dove io manderò ben presto, avendo la gente per questo effetto; e i Francesi e altri prencipi alli quali saranno palesi le sudette cose, conosceranno per quelle la ragione ch'egli hanno di sottoporsi alla corona imperiale di Vostra Maestà, poichè, oltre de' molti e gran regni e stati ch'ella possiede in coteste parti, da queste tanto divise e appartate, io, che sono il minor de' suoi vassalli, le posso far tanti e tai servigi.
Per cominciamento adunque dell'offerte mie, io le mando ora per Diego de Soto, mio famigliare, alcune cosette restatemi allora per rifiuto, come non degne d'accompagnar l'altre, e alcune ch'io ho fatte d'allora in qua; che, se bene, com'io dico, mi restarono per rifiutate, hanno pur qualche vista. Io mando con esse una colubrina d'argento, nella qual fonditura vi sono iti 24 cantari e 50 libre, benchè, per essersi fusa due volte, credo se ne sia perduto qualche poco; e benchè ella mi sia costata assai, perchè, oltre al costo del metallo, il qual fu di piú di quattromila e cinquecento ducati d'oro, a ragion di piú di cinque ducati d'oro il marco, con le altre spese de' fonditori e d'altri e di condurla sin al porto ci si sono spesi piú d'altri tremila ducati d'oro, imperò, essendo cosa di tanto prezzo, tanto da vedere e degna di tanto alto prencipe ed eccellentissimo, mi diedi a farla e spenderci. Io supplico Vostra cesarea Maestà che accetti il mio picciol servizio, stimandolo quanto merita la mia gran volontà di farnele de' maggiori, s'io avesse potuto; perchè, ancorchè, com'io ho detto di sopra, io fussi indebitato, io mi volsi ancor piú indebitare pel desiderio mio ch'ella conosca quanto io desideri servirla, sendo io stato cosí mal fortunato che insin qui ho avute tante contrarietati innanti a lei, che non m'hanno dato oportunità con che manifestarle tal mio desiderio.
Io mando medesimamente alla Maestà Vostra oro per 60 e piú mila ducati di quel che le è apertenuto delle sue entrate reali, secondo vedrà per il conto che i suoi ministri e io gliene mandiamo: e ne siamo arrischiati a mandarle tanta somma in una volta, sí per la necessità che appare che ella debba avere per le guerre e altre cose, come perchè Vostra Maestà non si curi molto della perdita del passato. Se ne manderà dopo questo, qualunche volta ci sarà il modo, tutto quel piú ch'io potrò. E creda Vostra Maestà che secondo sieno indrizzate le cose, e che in queste parti s'ampliano li suoi regni e signorie, ch'ella avrà in questi piú sicure entrate senza spesa che in nissun degli altri, salvo se non ci occorrono disturbi, come quelli che infino a qui ci sono occorsi. Dico questo però che due dí fa arrivò al porto di S. Giovanni di questa Nuova Spagna Gonsalvo di Salar, fattor di Vostra Altezza, dal qual ho saputo che nell'isola di Cuba, per dove ei passò, li dissero che Diego Velasco, luogotenente in quella parte dell'almiraglio, avea tenuto modi col capitano Cristoforo Dolid, spedito da me per nome di Vostra Maestà a far abitare le Hibuere, e che s'erano convenuti ch'egli si dichiararebbe col paese per esso Diego Velasco: caso che, per esser tanto brutto e in tanto diservizio di Vostra Maestà, non mi par da credere. Per altra parte però lo credo, conoscendo i tratti che sempre ha voluto usar Diego Velasco per farmi danno e disturbarmi sí ch'io non servi, che, quand'ei non può far altro, procura che non venga gente in queste parti; e, come ei comanda a quell'isola, prende coloro che vi vanno di qua e fa loro di molte oppressioni e aggravii, togliendo lor quel che portano, e li fa provar ciò ch'ei vuole per liberargli, i quali per vedersi liberi dicono e fanno quanto egli vuole. Io m'informerò della verità, e, s'io trovo che cosí sia, penso di mandar per esso Diego Velasco e prenderlo e mandarlo preso a Vostra Maestà, perchè, tagliandosi la radice di tutti questi mali, la qual è quest'uomo, si seccheranno tutti gli altri rami, e io potrò effettuar piú liberamente i miei servigi cominciati e per incominciarsi.


Supplica il Cortese la cesarea Maestà che, per esser alcuni di quelli paesi ben disposti a convertirsi alla nostra santa fede catolica, vogli far valida e gagliarda provisione in mandar persone religiose di buona vita ed esempio, e il modo che li parrebbe doversi tenere per sostegno loro, e fabricar conventi e altre cose necessarie. Dell'affittar delle decime.

Quante volte io ho scritto a Vostra sacra Maestà, le ho detto della disposizione che si truova in alcuni di questi paesi di convertirsi alla nostra santa fede catolica ed esser cristiani, e ho fatto supplicarla che per ciò facesse provedere di persone religiose, di buona vita ed esempio. E perchè sin al presente ne sono venuti qua molti pochi o quasi niuno, e certo è che farebbono frutto grandissimo, gliene riduco a memoria, e la supplico a farci provisione quanto piú si possa in breve, che di ciò sarà molto servito nostro Signor Dio, e s'effettuerà il desiderio che Vostra Altezza ha in questo caso come catolica. E perchè i communi delle terre di questa Nuova Spagna e io mandammo a supplicarla, per li detti procuratori Antonio di Quignones e Alfonso d'Avila, che facesse proveder loro di vescovi e d'altri prelati per l'administrazioni degli ufficii e culto divino, e ci parve allora che cosí convenisse, e consideratosi ora bene, mi è parso che Vostra Maestà ci debba proveder d'altra maniera, a fine che costoro di qua si convertino e possino esser instrutti nelle cose della nostra santa fede. E tal maniera da tener in questo caso a me par che sia ch'ella, com'io ho detto, faccia venir a queste bande molte persone religiose e grandemente gelose del fine della conversione di questa gente, e di lor si faccino conventi e monasteri, per le provincie che a noi parranno convenienti, e si diano lor le decime per fabricar e sustentarsi la vita, e l'avanzo di loro sia per le chiese e per ornamento de' luoghi dove abiteranno Spagnuoli, e per servire in quelle de' sacerdoti. E queste decime si ricuperino da' ministri di Vostra Maestà, i quali ne tenghino conto e ne provegghino ad essi monasteri e chiese, che basterà per tutti, e ne avanzerà anche assai, da servirsene la Maestà Vostra; e che ella supplichi sua Santità che le conceda le decime di questi paesi per questo effetto, facendole a sapere il servizio che si fa a nostro Signor Dio in convertir questa gente, il che non può farsi se non per questa via, però che, sendoci vescovi e altri prelati, ei non cesserebbono dal costume che osservano oggidí per i peccati nostri in disporre de' beni ecclesiastici, con lo spendergli in pompe e altri vizii e in lasciar patrimoni a' lor figliuoli e a' parenti. E ci sarebbe anco altro maggior male, che, dove queste genti al tempo suo avevano persone religiose, quali attendevano alli riti e cerimonie del paese, ed erano tanto ben composte d'onestà e castitade che, se si sentiva in qualcheduno cosa aliena da questo, n'era punito con pena di morte, se ci vedessero le cose della chiesa e del servizio di Dio in poter de' canonici e d'altre dignitati, e sapessero ch'ei fussero ministri di Dio, e gli vedessero usar gli vizii e profanerie che or a' tempi nostri usano in cotesti regni, sarebbe un disprezzar la fede nostra e tenerla come da burla, e di tanto gran danno ch'io credo che non gioveria predica alcuna che lor si facesse.
E poi ch'egli è di tanto momento, e l'intento principal di Vostra Maestà è e deve essere che queste genti si convertino, e noi residenti qua a suo real nome dobbiamo eseguirlo e averne sopra ogni altra cosa cura, come cristiani, ho voluto avisarnela e dirgliene il parer mio: il qual io la supplico ad accettar come di suo suddito e vassallo, che, sí come io m'affatico e m'affaticherò con le forze del corpo che li regni e stati suoi fra queste nazioni s'amplifichino, e vi si dilati la sua real fama e poter grande, io non desidero meno, né m'affaticherò meno con l'anima, a fine che Vostra Altezza faccia seminar fra loro la nostra fede santa, acciochè ella meriti per questo la felicità di vita eterna. E perchè al dar gli ordini, al benedir le chiese e far li sacramenti e altre cose, non sendo qua li vescovi, saria difficile andarne a cercar provisione altrove, Vostra Maestà dee medesimamente supplicar sua Santità che dia sue facultà di subdelegati in queste regioni a due principali persone religiose che ci verranno, l'uno dell'ordine di S. Francesco e l'altro dell'ordine di S. Domenico; e sieno le facultà piú copiose ch'ella potrà impetrare, perchè, per esser queste regioni tanto remote dalla chiesa di Roma, e noi cristiani che ci stiamo e quei che ci staranno tanto lontani da' rimedi per le conscienze nostre, e tanto soggetti a' peccati, come umani, gli è necessario che sua Santità stenda le mani con noi altri in questo, in dare ample facultadi a tai persone, e concedere che ancor l'abbino coloro che succederanno qua residenti, quai saranno o il general o il provincial di ciascuno di questi ordini in questi paesi.
Si sono affittate le decime in queste bande d'alcune terre, e dell'altre si fa l'incanto, e affittansi dall'anno ventitre in qua, perchè degli anni piú adietro a me pare che non sia da curare, sendo stati pochi, e avendo coloro ch'erano di qualche creanza in quei tempi, per rispetto delle guerre, speso piú in mantenersi che non era il profitto che ne cavavano. Se altro comanderà Vostra Maestà che si faccia, si farà quello che piú le sarà di servizio. Si summarono le decime di questa città del detto anno e di questo del ventiquattro per piú di cinquemila e cinquecentocinquanta ducati d'oro; quelle delle terre di Medellino e della Veracroce si prezzano per piú di mille ducati d'oro dei medesimi anni: non si sono sommate, e io credo che monteranno piú. Non ho saputo se quelle dell'altre terre si sono prezzate, perchè, sendo lontane, non me n'è venuta risposta. Si spenderanno di questi danari in far le chiese e pagarne i rettori, i sagrestani e gl'ornamenti, e in altre bisogne d'esse chiese; di che tutto terrà il conto il computista e 'l tesoriero di Vostra Maestà, al qual tesoriere si depositerà tutto il denaro, e quello che se ne spenderà sarà con mia licenza e sua.


Della proibizione fatta per li presidenti circa il trarre da quell'isole cavalle e altre cose da moltiplicare. D'alcuni ordini fatti per il Cortese, acciò gli Spagnuoli e quelli abitatori si conservino, perpetuando.

Io sono anco informato, per li navili venuti ora dall'isole, che i giudici e ministri di Vostra Maestà residenti nell'isola Spagnuola hanno fatto proibire, col mandar bando publico in quell'isola e nell'altre, che non si cavino di là cavalle né altra cosa buona a moltiplicar in questa Nuova Spagna, sotto pena di morte: il che hanno fatto a fine che noi abbiamo sempre necessità di comperar le mandrie e bestiami loro, ed essi ce li vendono per prezzi disonesti. E non dovrebbono però farlo, sí per esser notorio il gran deservizio che si fa a Vostra Maestà in divietare che questa regione si empia di popoli e si pacifichi, poichè e' sanno quanto questo che ci proibiscono sia necessario a sostentamento dell'acquistato e all'acquistar quel che ci rimane, come per la cortesia dell'opere e magnificenze che quell'isole hanno ricevuto da questa Nuova Spagna, e per aver essi in vero ben poca necessità da quello di che non danno le tratte. Io supplico Vostra Maestà che provegga a questo col mandar suo spaccio reale a quell'isole, per il quale qualunque vorrà possa estraer ciò che li piace senza incorrer alcuna pena, e quelli isolani non possino divietarlo, perchè, oltre che lor non mancherebbe nulla per questo, ella ne saria molto deservita, perochè noi non potressimo far niente qua in acquistar cosa alcuna di piú, né meno in conservar l'acquistato. Io mi sarei ben riscosso contra di loro quanto a questo, tal che sarebbe lor stato in piacere riponer le proibizioni e bandi, perchè, col mandar io un altro bando che non si scaricasse qua niente che si portasse da quell'isola salvo lo divietato da loro, sarebbono contentissimi di liberare le tratte, tanto perchè si ricevessero qua, quanto per non aver provisione d'onde guadagnar ben niuno se non per li traffichi di questa regione, i quali innanzi che cominciassero, non si trovavano tra tutti gli abitatori di tali isole mille ducati d'oro, e posseggono ora piú che mai possedessero. Ma, per non dar occasione a quei ch'hanno voluto esser maldicenti di sciorre la lingua, ho voluto dissimular questo per insino ch'io lo manifestassi alla Maestà Vostra, acciochè ella vi faccia provedere secondo le pare che si richiegga al suo servizio.
Io ho similmente fatto saper a Vostra Maestà cesarea la necessità di qua d'aver piante di tutte le sorti, per la commodità del paese ad ogni uso d'agricoltura, e, per non si esser proveduto sino ad ora di cosa alcuna, io la supplico di nuovo, vedendo che ne sarà ben servita, a comandar alla casa di traffichi di Siviglia che non lasci partir navilio il qual non porti in qua certa quantità di piante, che ciò sarà cagione suffficiente all'abitar e perpetuar di qua.
Io, come a chi si conviene procurar ogni buono ordine che si possa per far che s'abitino queste terre, e che gli Spagnuoli abitatori e li nativi d'esse si conservino perpetuando, e la nostra fede santa si radichi, poichè Vostra Maestà mi ha fatto grazia di darmi cargo, e nostro Signor Dio è stato servito ch'io abbi mezzo da venir conoscendolo, e sotto il suo giogo imperiale, ho fatto certe ordinazioni e pubblicatole per bando: e perchè ne invio l'esempio alla Maestà Vostra non mi accaderà dir altro, salvo che, per quanto io ho potuto sentir di qua, è cosa convenevolissima ch'elle s'osservino. D'alcune di loro non si satisfanno molto gli Spagnuoli residenti in queste parti, di quelle massimamente che gli astringono a stabilirsi nel paese, pensando li piú di passarsela con questi luoghi come se la passarono con l'isole che s'abitarono prima, cioè di fruttarsegli e struggerli e dipoi abbandonarle. E perchè parmi che saremmo degni di gran colpa, noi che abbiamo isperienza del passato, se non rimediassimo al presente, e per non mancar di proveder alle cose che ci costa aver rovinate tali isole, tanto piú essendo il paese qui, come io le ho molte volte scritto, di tanta magnificenza e grandezza e da il quale tanto si possa servir Iddio, e per accrescer le reali entrate di Vostra Maestà, io la supplico che si degni far vederle e m'invii la commissione di quello ch'io debba eseguire, secondo che meglio ne sarà servita, sí nelle sudette ordinazioni come in altre di piú che a lei sia servito che s'osservino ed eseguischino. E io terrò sempre avertenza d'aggiungere quel che piú mi parrà convenirsi, però chè, rispetto alla grandezza e diversità de' paesi che ogni dí si scuoprono, e a' molti secreti che ogni dí conosciamo da quel che s'è scoperto, convengono di necessità a' nuovi avenimenti nuovi pareri e consigli. E se in qualcheduno delli già detti, o ch'io arò a dire a Vostra Maestà nell'avenire, le parrà ch'io contradica alli precedenti, creda Vostra Maestà che mi fa dar nuovo parere il nuovo accidente.
Invittissimo Cesare, nostro Signor Dio guardi l'imperial persona di Vostra Maestà, e la prosperi e conservi in augmento di molti maggiori regni e stati lunghissimo tempo al suo santo servizio, con quanto piú ella desidera.
Dalla gran città di Temistitan di questa Nuova Spagna, il quindeci d'ottobre del 1524.
Di Vostra sacra Maestà molto umil servo e vassallo, che a lei bacia i reali piedi e mani,

Fernando Cortese.



Le relazioni di Pietro d'Alvarado e di Diego Godoy sul Guatemala



Di Pietro D'alvarado a Fernando Cortese


Lettere di Pietro d'Alvarado, nelle quali racconta le guerre e battaglie fatte nell'acquisto di Ciapotulan, Checialtenego e Vilatan, e de' pericoli ne' quali incorse, come fece abbrucciar li signori di Vilatan e parimente essa città, e constituí signori i loro figliuoli di due montagne, una d'allumi e l'altra di zolfo.

Signor, da Soncomisco, scrissi a Vostra Signoria tutto quello che insin là m'era successo, e qualche cosa ancora di quel che s'aspettava d'allora innanzi, dopo aver mandato de' miei messi a questa terra, facendo saper qualmente io ci venivo per conquistare e mettere in pace le provincie che ricusassero il dominio di sua Maestà, e domandando aiuto e favore a costoro qui e il passo per il territorio loro, come a vassalli di quella, poichè s'erano offerti tali a Vostra Signoria: il che facendo, essi farebbono da leali e buoni vassalli di sua Maestà, e sarebbono molto favoreggiati e si manterebbe loro buona giustizia da me e da tutti gli Spagnuoli; e che, se ciò non volessero, io protestavo di far loro guerra, come a traditori, ribelli e sollevati contra 'l servigio dell'imperator nostro signore, e li dichiaravo per tali, dichiarando in oltre per gli schiavi tutti coloro che si prendessero vivi nella guerra. Questo fatto e significato a loro per messi della propria nazione, io feci mostra di tutta la mia gente a piè e a cavallo, e la mattina del giorno seguente partii per andargli a trovar nelle proprie case, e marciai tre giorni per un monte disabitato. E avendo alloggiato il campo, le mie guardie pigliarono tre spie d'un luogo del lor paese chiamato Ciapotulan, alli quali domandai quel ch'andavano facendo, e mi risposero: "A raccor del mele", ancorchè, come apparve poi, essi erano notariamente spie; né con tutto questo io gli volsi punire, anzi io feci loro buona ciera, e li rimandai con commissione e richiesta simile alla sopradetta a' signori di Ciapotulan, dalli quali, quanto a questo né ad altro, non ebbi mai risposta. Andato io dunque là, arrivato che vi fui vi trovai tutte le strade aperte e molto larghe, cosí la maggiore come l'altre di traverso, e le strade che andavano alle contrade principali erano turate, onde incontinente li giudicai di mal proposito e che avessero fatto ciò per combattere. Uscirono di là certi mandati a me, che mi dicevano da lontano ch'io entrassi nell'abitato ad alloggiarmi, per combattercisi poi con piú lor acconcio, sí come avevano ordinato. Io mi accampai quel giorno accosto all'abitato, tanto ch'io considerasse il territorio e vedesse che pensiero fusse il loro, e loro subito quella sera non poterono ascondere il lor mal animo, e mi uccisero e ferirono degli Indiani delle mie bande: di che avuto aviso, mandai in quel punto gente a cavallo a stracorrere, la qual s'incontrò in molta gente da guerra e scaramucciarono, e ci ferirono certi cavalli. Il giorno dopo andai a veder la strada che io avevo a fare, e viddi pur gente da guerra, e il paese tanto montuoso di tante macchie e alberi, ch'egli era assai piú forte per loro che per noi altri. Io mi raccolsi all'alloggiamento, e mi partii il giorno appresso con tutta la gente per entrar nell'abitato. Eravi per la strada un fiume cattivo da passare, e l'aveano occupato gli Indi: quivi combattendo con loro ce 'l guadagnammo, e io sopra 'l piú alto della sponda del fiume, in una pianura, aspettai la gente rimasa adietro, per essere il passo pericoloso: e con tutto ch'io andasse col miglior ordine ch'io potesse, correvo gran rischio. Stando in quello alto, loro vennero da molte bande per li monti e m'assalirono di nuovo, e in quella facemmo loro resistenza, sino a tanto che passarono tutte le bagaglie. Ed entrati che fumo nelle case, assalimmo quella gente e seguitammo ad incalzarla meza lega oltre la piazza, e poi tornammo ad alloggiar nella piazza istessa, dove stetti due giorni scorrendo per il paese, dopo i quali mi parti' per andar ad un villaggio nominato Quecialtenago.
In questo giorno passai due fiumi pericolosi, che escono per un sasso tagliato: quivi passai con gran fatica, e cominciai a montar un passo lungo sei leghe, e a mezzo cammino feci gli alloggiamenti quella notte, perchè era il passo tanto aspro e malagevole che a fatica potemmo condurvi i cavalli. La vegnente mattina segui' il mio viaggio, e andando trovai ad una picciola costa, ma erta assai, una donna sacrificata e un cane: la qual cosa, per quanto mi disse l'interprete, significava disfida; andando piú avanti, trovai un passo stretto attraversato con uno steccato di pali molto forte, ma non vi era gente che lo difendesse. Fornito di montar il passo, mandai avanti i balestrieri e la fanteria, perchè non vi potevamo mandar i cavalli, essendo la strada molto aspra; in quella si mostrarono circa tre o quattromila uomini da guerra sopra una elevatura, i quali assalirono i nostri amici, e quelli tirarono a basso, ma noi li porgemmo subito aiuto. E io, stando alla parte di sopra per raccorre la gente e rifarmi, viddi piú di trentamila uomini venire alla volta nostra, e piacque a Dio che trovammo quivi certi piani, e, quantunque i cavalli fussero stanchi e affaticati dal cammino, gli aspettammo finchè ne poterono giugner con le saette: e assaltandogli, essi, che mai avevano veduto cavalli, si sbigottirono di sorte che gli incalzammo per buona pezza, sí che sbandandosi qua e là ne morirono molti di loro. Io aspettai quivi tutta la gente, e, posti di nuovo in ordinanza, andammo ad alloggiare lontani una lega a certi fonti d'acqua, perchè non ne era in quei luoghi, e la sete ci affliggeva di maniera che, essendo stracchi, ogni luogo ne faceva buon riposo. E per essere io quivi il principale, mi posi nell'antiguardia con trenta a cavallo, e molti di noi avevamo tolto cavalli freschi; tutta l'altra gente seguiva in un battaglione, e io smontai a pigliar l'acqua. Ed essendo smontati a bere, vedemmo venirci sopra molta gente armata, e lasciandogli avicinare, perchè venivano per li piani, gli assalimmo, e postigli in fuga li perseguitammo assai, e trovammo tra quella gente che uno aspettava due uomini a cavallo. Noi li perseguitammo ben una lega, finchè giunsero ad una montagna, dove fecero testa. Io mi posi a fuggire con certi cavalli per ritrarli al campo, e vi vennero con noi, finchè giunsero alle code de' cavalli: allora stringendomi con i cavalli mi voltai contra di loro, e si fece grande uccisione, alla qual seguí la vittoria, e vi morí uno dei quattro signori di Vilatan città, il quale veniva per capitano generale di tutto il paese. E io mi ritrassi alle fonti, dove feci gli alloggiamenti, essendo molto stanchi gli Spagnuoli e feriti alcuni cavalli.
La mattina seguente mi levai per andar a Quecialtenago, villaggio lontano una lega, la qual per la passata uccisione trovai disabitata, di sorte che non vi era persona. Quivi mi fermai ristorando me e l'esercito, scorrendo il paese, che è non meno populato che Talcalteque, e né piú né meno quanto ai terreni lavorati, ma è freddo oltra modo. E stato quivi sei giorni, un giovedí a mezzogiorno comparse gran numero di gente da piú parti, che, secondo che da loro intesi, erano di quelli di dentro la città da dodecimila, ma d'altri luoghi circonvicini erano infiniti. E quando gli vidi, posi la gente in ordinanza e andai ad assaltargli nel mezzo d'un piano, che era lungo tre leghe, con novanta a cavallo, e lasciai l'altra gente che guardassino gli alloggiamenti, e che potevano essere un tiro di balestra lontani dal campo. Quivi li mettemmo in scompiglio e li perseguitai due leghe e mezza, sinchè, passando tra loro tutta la nostra gente, non avevamo piú alcuno davanti; dapoi voltandoci sopra loro, i nostri amici e la fanteria facevano la maggior ruina del mondo sopra di quelli in un torrente, e circondarono una montagna senza alberi, ove quelli erano ricorsi: i nostri vi montarono suso, pigliandone quanti vi erano ascesi. In questo giorno furono ammazzati e presi molti di questi popoli, tra' quali erano assai capitani e signori e persone segnalate.
I signori di questa città, quando ebbero inteso la sconfitta della lor gente, s'accordarono con tutto il paese e, convocate altre provincie a questo effetto, diedero ostaggi a' suoi nemici, i quali tutti disposero di unirsi con loro per ammazzarci, e conclusero di mandarci a dire come di nuovo davano obedienzia all'imperatore nostro signore, e ch'io andassi in Vilatan città, dove poi mi condussero con animo d'alloggiarmivi, e poi una notte appiccar fuoco nella città e arderci tutti senza che potessimo defenderci. E averebbono mandato ad effetto il loro mal proposito, se non che Iddio nostro Signore non permesse ch'avessino vittoria sopra di noi, perchè la città è fortissima, e ha solamente due intrate, l'una di trenta e piú gradi di pietra molto alta, e dall'altra parte una strada fatta a mano e lastricata, la qual era tagliata in piú parti: e volevano finir di tagliarla quella notte, perchè niuno cavallo vi potesse passare: e perchè la città è molto spessa di case e ha le vie strettissime, non potevamo a modo alcuno far difesa di non arderci o precipitarci dalle balze. Poichè vi fummo entrati e ch'io mi vidi nella città, che era fortissima e che non potevamo prevalerci dei cavalli, per esser le vie tanto strette e torte, determinai di uscirmene al piano, benchè quei signori mi dissuadevano, dicendo che io mi assettassi a mangiare, e che dipoi mi potrei partire: ma questo facevano per aver tempo di condur ad effetto la loro mala intenzione. Ma io, vedendo in quanto pericolo stavamo, mandai subito a pigliar la via lastricata e il ponte per ridurmi nel piano, la qual via stava in tal termine che appena vi poteva montar un cavallo; ed era d'intorno la città molta gente armata, i quali, poichè mi videro uscito al piano, si ritirarono, ma non già tanto che io non ricevessi danno da quelli. Ma io dissimulavo il tutto per pigliar i signori, che già s'erano assentati, e con destrezza ch'io usai e doni che gli feci per assicurarli io li presi, e tenevoli prigioni nella mia stanza: ma non per ciò si rimanevano i suoi di combattermi d'intorno, ferendo e uccidendo molti de' miei Indiani che andavano per erba; e ad un Spagnuolo, cogliendo erba lontano un tiro di balestra dal campo, sopra un alto, tirarono d'una gran saetta e l'uccisero. Ed è tanto forte il paese, per li molti dirupi che vi sono, i quali hanno cento pertiche di fondo, che non potemmo per tali rotture venir con loro alle mani, né castigarli come era il lor merito. Ma vedendo che col scorrere per il paese e ardendolo potevo ritirarli al servizio di sua Maestà, determinai di arder i signori, i quali dovendo esser arsi dissero (come si vede per le loro confessioni) che essi facevano far la guerra contra di noi, e qual ordine doveano tenere per ardermi nella città, dove m'aveano condotto con tal pensiero, e che avevano comandato ai loro vassalli che non venissero a dar obedienzia all'imperatore signor nostro, che non gli servissero, né facessero per noi altra opera buona. Cosí intendendo la loro trista volontà quanto al servizio a sua Maestà, e anco avendo riguardo alla tranquillità del paese, gli arsi e comandai che fusse arsa la città, rovinandola da' fondamenti, perchè è tanto pericolosa e forte che pare piú tosto uno ridutto di ladri che stanza di cittadini. Ma per cercarli mandai alla città di Guatermala, lontana dieci leghe da questa, a richieder per nome di sua Maestà che mi mandassero gente da guerra, sí per conoscere la loro mente verso di noi, come ancora per tenere il paese in spavento: la città fu contenta di questa mia dimanda e mi mandò quattromila uomini, con li quali e con la gente ch'avevo entrai piú avanti, e facendo correrie li cacciai di tutto il lor paese. Essi, vedendo quanto era grande il danno che gli facevo, mi mandarono suoi messi, facendomi intendere come già si erano disposti di portarsi bene con noi, e s'aveano errato, che questo gli era avenuto per commissione dei loro signori, e vivendo quelli non sarebbono stati arditi di far altramente, ma che ora, poi ch'erano morti, mi pregavano che li perdonasse. Io gli assicurai della vita, commettendoli che venissero alle lor case e che abitassero nella città, come per il passato, a servizio di sua Maestà; e per meglio assicurar il paese liberai duoi figliuoli de' morti signori, ai quali diedi le signorie de' loro padri, e credo che faranno quanto si conviene al servizio di sua Maestà e a beneficio del paese. Al presente non ho altro che dire circa le cose pertinenti a questa guerra, se non che tutti coloro che si presero nella guerra sono stati bollati e fatti schiavi, dei quali si diede il quinto di sua Maestà a Baltasar di Mendozza tesoriero, e questo quinto fu venduto all'incanto, acciochè fusse piú sicura la rendita di sua Maestà.
Circa la terra, fo saper a Vostra Signoria che essa è temperata, sana, e da gente robusta abitata. Questa città è ben fatta a maraviglia, ha lunghi terreni da seminarvi e assai gente soggetta, tutti i quali popoli a quella soggetti e i popoli convicini lascio sottoposti al giogo e al servizio della real corona di sua Maestà. In questo villaggio è una montagna d'alume, una di vetriolo e un'altra di zolfo, il miglior che sin ad ora sia stato ritrovato, e che, con un pezzo che mi fu portato, senza affinarlo né farvi altro, ne cavai diciasette libre di polvere molto buona. E perchè mandai Argueta e lui non volse aspettare, non mando a Vostra Signoria cinquanta some d'esso, ma gliele manderò al suo tempo, in quel modo e per chi meglio si potrà.
Lunedí agli undeci d'aprile mi parto di qua per andar a Guatemala città, dove penso fermarmi, perchè un villaggio posto in acqua, nominato Aticlan, ha guerra con noi e mi ha morto quattro messi. Io penso, con l'aiuto del nostro Signore, di ridurla tosto al servizio di sua Maestà, perchè, per quanto mi sono informato, ho assai da fare piú avanti; per ciò mi piglierò fretta a caminare per poter invernare cinquanta o cento leghe oltra Guatemala, dove mi dicono, e s'intende dagli uomini di questo paese, che di là avanti sono maravigliosi e larghi edificii e città molto grandi. Parimente mi hanno detto che cinque giornate oltre una città molto grande, che è lontana di qua venti giornate, si finisce il villaggio di questa regione, e cosí mi affermano: il che se è cosí, tengo certissimo che ivi sia lo stretto. Piaccia a nostro Signor Iddio di darmi vittoria contra questi infedeli, acciochè io li conduca al suo servizio e di sua Maestà.
Non averei voluto mandarvi questa relazione cosí spezzata, ma tutto continuamente descritto dal principio sin al fine, perchè averei avuto assai piú che dire. La gente spagnuola ch'è in mia compagnia, sí a piedi come a cavallo, s'è portata sí bene in la guerra, la quale se gli è presentata, che tutti sono meritevoli di gran beneficii. Ora non mi resta a dire altro che importi, se non che ci troviamo in paese di gente la piú robusta che fusse mai veduta, e acciochè nostro Signor Iddio ci dia vittoria, supplico V.S. che faccia far processioni per la città da preti e frati, pregando la nostra Donna che ci aiuti, poichè siamo tanto fuori d'ogni speranza d'aver soccorso, se non viene per sua intercessione. V.S. parimente faccia sapere a sua Maestà come la serviamo con le persone e con le facultà a nostre spese, e far questo prima per scaricare la conscienzia di V.S., e poi acciochè sua Maestà ci premii come è convenevole. Nostro Signore conservi lo stato magnifico di Vostra Signoria lungo tempo, come quella desidera.
Di Vilatan, agli undeci d'aprile.

Perchè lungo è quel viaggio ch'ho da fare, penso che mi mancherà li ferri da cavalli: se Vostra Signoria potrà provedermi di quelli per la primavera futura, sarà molto bene e utile a sua Maestà, perchè ora vale tra noi piú di cento e novanta ducati larghi la dozena, e cosí li paghiamo ad oro. Bacio la mano a Vostra Signoria.

Pietro Alvarado



Altra relazione fatta per Pietro di Alvarado a Fernando Cortese


Nella quale si contiene l'acquisto di molte città e provincie, le guerre, scaramuccie e battaglie, tradimenti e ribellioni che vi sono seguite; com'egli edificò una città; di due montagne, una che getta fuoco, l'altra che esala fumo; di un fiume che arde tutto e di un altro freddo; e come l'Alvarado d'una saetta rimase storpiato.

Signor mio, circa quelle cose che sin a Vilatan mi sono successe, sí nella guerra come nella pace, ho dato copiosa relazione a Vostra Altezza; ora vi voglio avisare di tutti i paesi per i quali sono andato e ho conquistato, e d'ogni altra cosa che mi sia succeduta. Cioè, che mi parti' da Vilatan città e venni alla città di Guatemala, dove fui da que' signori sí ben ricevuto che io non saria stato meglio in casa de' nostri padri, e ci fu proveduto di quanto faceva mestiero, di tal maniera che non ci mancò alcuna cosa. Ed essendovi stato otto giorni, seppi da' signori di quel luogo come, sette leghe lontano di qua, era una città molto grande sopra una laguna, che faceva guerra a Vilatan e all'altre città convicine per il commodo ch'aveva dell'acqua e delle barche ch'aveva, e che di là veniva la notte ad assaltare il territorio di costoro; perciò essi, vedendo quanto danno vi facevano, mi dissero come erano verso di noi di buon animo e che stavano alli servizii di sua Maestà, e per questo che non cercavano muover guerra senza mia licenzia, perciò ch'io li provedesse. La mia risposta fu che io li manderia a chiamare per nome dell'imperatore signor nostro, e che, se venissero, li comanderei che non facessino guerra nel lor paese come sin allora fatto avevano; quando che non venissino, io andarei in persona da loro a farli guerra. Cosí mandai subito due messi di que' del paese, ed essi gli uccisono senza riguardo alcuno. Io, quando intesi la loro trista intenzione, mi parti' di questa città per andar contra quelli, con sessanta cavalli e cento e cinquanta pedoni, e con li signori e gente di questo villaggio; e vi andai con tanta fretta che quel giorno arrivai al suo villaggio, e non mi venne alcuno incontro a ricevermi pacificamente, perciò entrai con trenta a cavallo nel loro paese per la costa nella laguna. Quando giunsi ad un scoglio che era situato nell'acqua, vedemmo un squadron di gente molto vicino a noi. Io gli assaltai con quelli cavalli ch'io mi ritrovavo, ma, seguitandogli, essi entrorono per una via lastricata e stretta che conduceva allo scoglio sopradetto, per la qual non potevano andar i cavalli; perciò smontando lí i miei compagni tutti ristretti seguitorono gl'Indiani, e arrivammo allo scoglio cosí presto che non ebbero tempo di rompere i ponti, perchè levandoli non averemmo potuto entrarvi. Fra tanto giunsono molti de' miei che venivano dietro, e pigliammo lo scoglio, che era ben abitato, e tutta la gente di quel luogo si gettò a nuoto verso un'altra isola: e ne fuggirono molti, perchè non giunsero cosí subito trecento barche, d'un pezzo, che erano de' nostri amici, le quali conducevano per l'acqua. Io al tardi usci' del scoglio e alloggiai in un piano di maizzali, ove dormi' quella notte. E la mattina seguente, ricomandandoci al nostro Signor Iddio, entrammo per il paese abitato, il qual era molto forte per le molte roccie che vi erano, e lo trovammo abbandonato, perchè, avendo perduto quel forte ch'avevano in acqua, non ardirono aspettarci in terra, benchè tuttavia ci aspettarono alcuni al confino del paese abitato: ma tanta è l'asprezza di que' luoghi, che non fu ammazzato piú gente. In quel luogo posi gli alloggiamenti a mezzodí e, cominciando a far correrie per il paese, pigliammo certi Indiani del paese, tre de' quali mandai per messi a' signori di quel villaggio, ammonendoli che venissero a dar obedienzia a sua Maestà, sottomettendosi alla sua corona imperiale e a me in nome di quella, altramenti che io seguiria la guerra, perseguitandoli sempre e cercandoli per i monti. Questi mi risposono che sin a quel tempo non era stato sforzato il lor paese, né vi era entrata gente d'arme per forza, ma che, essendovi entrato io, si contentavano di servir all'imperatore nella maniera ch'io gli comanderei: e subito venendo si posono in mio potere; e io gli narrai la grandezza e potenzia dell'imperatore signor nostro, ma che sapessino come io in nome di sua Maestà gli perdonavo tutti i passati errori, perciò che per l'avenire si portassino bene, non facendo guerra ad alcuno de' convicini, i quali s'erano fatti vassalli di sua Maestà. Cosí li mandai via e, lasciandoli sicuri e in pace, tornai a questa città; dove essendo stati tre giorni, vennero a me tutti i signori e principali capitani di detta laguna con presenti, dicendomi ch'erano nostri amici e si recavano a gran ventura d'esser vassalli di sua Maestà, per levar via i travagli e le guerre e le differenzie che erano tra loro. Io li raccolsi lietamente e, dategli delle mie gioie, li rimandai al suo paese con molto amore: e sono i piú pacifici che siano in questo paese.
Stando io in questa città, vennero molti signori d'altre provincie della riviera di mezzodí, nominata dal mar del Sur, a dar obedienzia a sua Maestà, dicendomi che volevano esser suoi vassalli e non volevano guerra con alcuno, sí che io per questa loro causa gli accettassi per tali, e difendendoli gli mantenessi in giustizia. Io gli accettai benignamente, com'era il dovere, e dissi che in nome di sua Maestà li darei favore e aiuto. Allora mi fecero sapere come un altro villaggio, nominato Yzcuititepeche, posti assai infra terra, non li lasciava venir a dar obedienzia a sua Maestà, e che non solamente impediva loro, ma che ad alcune provincie che sono in quel paese, e di buona mente verso gli Spagnuoli, che vorrebbono venire a far amicizia con loro, vietavano il passo, dicendogli dove andavano e che erano pazzi, ma che mi lasciassero andar là, essi tutti guerreggiarebbono meco. Quando fui certo esser cosí il vero, mosso dal desiderio di satisfare a quelle provincie e a' signori di questa città di Guatemala, mi parti' con tutta la mia gente da piedi e da cavallo, e per tre giorni dormi' in luogo disabitato. La mattina del quarto giorno, entrando nel territorio di quel villaggio, che è tutta piena d'alberi molto spessi, vi trovai le strade tutte serrate e molto strette, sí che vi erano solamente sentieri, perchè non contrattava questo villaggio con persona alcuna, né aveva strada aperta; perciò, non vi potendo combattere i cavalli per i molti pantani e boscaglie del monte, mandai avanti i balestrieri. Ma, perchè pioveva sconciamente, l'acqua era tanta che le loro guardie e scolte si ritirarono al villaggio, e, non pensando ch'io giugnessi quel giorno sopra di loro, stracurorono le guardie, né seppero della mia venuta finchè mi ritrovai con loro nel villaggio: e quando v'entrai, trovai i soldati che stavano tutti al coperto per fuggir la pioggia. Quando volsero unirsi insieme non ebbero spazio, benchè alcuni di loro ci aspettarono, e ferirono alcuni Spagnuoli e molti degl'Indiani amici che conducevo meco; e servendosi della foltezza degli alberi e della molta pioggia, si posero per i boschi, senza che potessimo fargli altro danno d'ardergli il paese abitato. Subito mandai messi a que' signori, avisandoli che venissero a dare obedienzia a sua Maestà, e a me in suo nome, se non che li danneggierei assai nel villaggio e li darei il guasto a' maizali. Essi vennero, dandosi per vassalli di sua Maestà, e gli accettai, commettendoli che per l'avenire fussero buoni. E stando in questo villaggio otto giorni, vi vennero piú altri popoli e provincie per aver la nostra amicizia, i quali s'offersero per vassalli dell'imperial signor nostro.
E desiderando penetrare nel paese e saper i secreti di quello, acciochè sua Maestà fusse meglio servita e signoreggiasse a piú larghi paesi, determinai di partirmi di là e andai ad un villaggio nominato Atiepar, dove fui raccolto da que' signori e dagli uomini del paese: questa è una gente da per sé, ch'ha un altro linguaggio. Questo villaggio al tramontar del sole, senza che ne avesse causa alcuna, rimase abbandonato, di sorte che non vi si trovò uomo in parte alcuna. Ma perchè il cuore dell'inverno non mi sopragiungesse e m'impedisse il camino, determinai lasciarli cosí, e passai da lungi con buonissimo ordine nella mia gente e nelle bagaglie, perchè era mia intenzione d'entrar avanti cento leghe e per strade pormi ad ogni impresa che mi si offerisse, fin ch'io avesse veduto tanto paese, e poi dar volta sopra que' villaggi e pacificarli. Il giorno seguente mi parti' di là e giunsi ad un villaggio detto Tacuilula, e qua fecero il medesimo come quelli di Atiepar, cioè che mi riceverono in pace, e indi ad una ora se n'andorono. Di qui partitomi, giunsi ad un altro villaggio nominato Tassisco, che è molto forte e copioso di gente, dove fui raccolto come nelli sopradetti, e vi dormi' quella notte. L'altro giorno mi parti' per andar ad un altro villaggio molto grande, nominato Nacendelan, e temendo di quella gente, perchè non l'intendevo, lasciai dieci cavalli nella retroguardia e altri dieci nel mezzo della battaglia, e cosí mi posi in camino. Non potevo essermi allontanato da quel villaggio di Tassisco due o tre leghe, quando intesi come era sopragiunta alla retroguarda gente armata, la quale aveva ucciso molti degl'Indiani amici e toltomi parte delle bagaglie, tutte le corde delle balestre e i ferramenti che io portavo per l'esercito, e non se li poté resistere. Subito mandai don Georgio d'Alvarado mio fratello, con quaranta o cinquanta cavalli, a cercar di riaver quello che ci avevano tolto; ed egli, trovata molta gente armata, combattendo con quelli gli vinse, ma non si poté ricuperar cosa alcuna delle perdute, perchè già avevano diviso il bottino, e ciascuno portava nella guerra la sua particella. Georgio d'Alvarado, poichè fu giunto a Nacendelan villaggio, tornò adietro, perchè tutti quegli Indiani erano fuggiti alla montagna. Subito mandai don Pietro con gente a piè che andasse cercandoli nella montagna, per veder se poteva ridurgli al servizio di sua Maestà: e non puoté mai far cosa alcuna, per le gran boscaglie che sono ne' monti, e cosí ritornò adietro; e io li mandai messi indiani de' suoi medesimi con richieste, commissioni e protesti che, se non venivano, li farei schiavi, ma con tutto questo non volsero venire essi né i messaggi.
Passati otto giorni che io stavo in Nacendelan, venne gente d'un villaggio nominato Paciaco, la qual era lungo la strada ch'avevamo da fare, ad amicarsi con noi: io gli accettai benignamente e, dategli alcune delle cose mie, li pregai che fussero verso di noi fedeli. La mattina seguente mi parti' per questo villaggio, ed entrando nel loro paese trovai le strade sbarrate e alquante saette fitte in diversi luoghi; entrando per la gente, vidi che certi Indiani facevano in quarti un cane in foggia di sacrificio. Dipoi nel villaggio sopradetto levorono un alto grido, e vedemmo levarsi contra di noi molta gente da terra, li quali noi assalimmo, tanto arditamente combattendo con loro che li cacciammo del villaggio, e gli seguimmo incalzandoli quanto fu possibile. E indi mi parti' per andar ad un altro villaggio, nominato Mopicalco, dove fui raccolto come negli altri; ma quando giunsi al villaggio non vi trovai persona niuna, perciò andai ad un villaggio detto Acatepeque, dove non trovai persona alcuna, anzi era tutto disabitato. E seguendo la mia intenzione di entrarvi a vedere cento leghe di paese, mi parti' per andar ad Acasual, villaggio ch'è battuto dal mar del Sur, e quando giunsi mezza lega vicino al detto villaggio, vidi i campi pieni di gente da guerra, con li suoi pennacchi, divise e arme da difendere e da offendere, nel mezzo d'un campo che ci stava ad aspettare: e giunto che fui vicino a quelli un tiro di balestra, mi fermai finchè giungeva la mia gente, la qual giunta e posta in ordinanza, mi avicinai a quelli mezo tiro di balestra, e non viddi che facessero movimento alcuno di guerra. E parendomi che stavano alquanto vicini ad un monte dove potevano fuggirsi da me, comandai alla mia gente che si ritirasse là, la qual era cento a cavallo e cento e cinquanta pedoni, e cinque o seimila Indiani nostri amici: cosí andavamo ritirandoci, e io rimasi nella coda per farli ritirare. Gli Indiani ebbero tanto piacer di vederci ritirare che ci seguirono fin alle code dei cavalli, e le lor saette giungevano quei davanti, e tutto questo si faceva in un piano, dove né noi né essi potevano intopparsi. Quando mi vidi esser ritirato il quarto d'una lega, dove ciascuno aveva da prevalersi delle mani, diedi volta contra di loro con tutta la gente, e combattendo virilmente ne facemmo sí gran strage che, in poco spazio, non ne rimase alcun vivo di coloro che ci erano venuti contra, perchè erano tanto carichi d'arme che chi cadeva a terra non poteva levarsi. Le loro armi sono casacche di cottone, grosse tre deta, lunghe sin ai piedi, e saette e lancie lunghe, e quando cadevano i nostri pedoni gli uccidevano tutti. In questo incontro ferirono molti Spagnuoli, e me ancora con una saetta che mi passò la coscia e si ficcò nella sella: della qual ferita rimango stropiato, con una gamba piú corta che l'altra piú di quattro deta. Fui astretto di fermarmi in questo villaggio cinque giorni per medicarmi.
Dipoi mi aviai a Tacuscalco villaggio, mandando a far la scoperta don Pietro con altri cavai leggieri, i quali presero due spie, le quali mi dissero come piú avanti era molta gente venuta dal detto villaggio e da altri suoi convicini, che ci stava ad aspettare: e per meglio certificarci andarono sin a vista della detta gente, e viddero che era gran moltitudine. Allora giunse Gonzalo d'Alvarado con quaranta a cavallo, ch'avea l'artegliaria; ma perch'io stavo ancor male della ferita, si stette in ordinanza sinchè giungemmo tutti. Cosí raccolta la gente, io montai sopra un cavallo al meglio che puoti, per dar ordine come si dovesse dar lo assalto, e vidi come i nemici erano un corpo di gente da guerra in ordinanza: e mandai Gomez d'Alvarado che da mano sinistra dovesse dar l'assalto con venti cavalli, Gonzalo d'Alvarado da man destra con trenta cavalli, e che Giorgio d'Alvarado con il resto della gente assaltasse i nemici, i quali veduti da lontano mettevano spavento, perchè la maggior parte aveva lancie lunghe trenta palmi tutte ritte. Io mi posi in un colle per veder come andasse la battaglia, e vidi come tutti gli Spagnuoli giunsero ad un tiro di dardo vicini agli Indiani, ed essi Indiani non fuggivano, benchè fussero assaliti da' Spagnuoli, sí che rimasi stupito che gli Indiani fussero stati tanto arditi d'aspettarli. Gli Spagnuoli non aveano dato l'assalto, pensando che un prato qual era tra loro e gli Indiani fusse pantano; ma, quando viddero come era sodo e fermo, entrarono tra gli Indiani e, avendoli rotti, li perseguitarono per li luoghi abitati piú d'una lega, e fecesi di loro grande uccisione. I popoli piú avanti, quando viddero di non poter resistere, determinarono di levarsi e lasciarci i villaggi.
Stetti in questo villaggio due giorni a goder e ristorar la gente, dapoi mi parti' per andar a Miguaclan, i cui abitatori, sí come gli altri, fuggirono al monte. E aviandomi ad Atecuan, ivi mi mandarono i signori di Cuscaclan suoi messi, per dar obedienzia a sua Maestà, e a dire che volevano esser suoi vassalli e fedeli, e cosí diedero a me obedienzia in nome di sua Maestà: io gli accettai, pensando che non dovessero mentire come fecero gli altri. Quando giunsi alla città Cuscaclan, trovai molti Indiani che mi raccettarono, ma tutta la gente sollevata, e mentre che pigliamo alloggiamento non rimase uomo nella città, perchè tutti fuggirono alla montagna. Quando io viddi questo, mandai a dire a quei signori che non stessero ostinati, e che cosí tornassero come avevano dato obedienzia a sua Maestà e a me per suo nome, assicurandoli a venire, perchè non venivo per offenderli né a pigliar il suo avere, ma solamente per ridurli al servizio del nostro Signor Dio e di sua Maestà. Essi mi mandarono a dire che non conoscevano alcuno di noi, sí che non volevano venire, e che s'io volevo da loro qualche cosa, che mi aspettavano con l'arme. Quando io vidi la perversa intenzione, mandai a comandargli e richiederli per nome dell'imperatore signor nostro che non rompessero la pace e non si ribellassero, poichè già s'aveano dati per suoi vassalli, e che, se contravenivano a questo, io procederei contra di loro come traditori, sediziosi e ribelli contra la servitú che doveano a sua Maestà, e che, facendoli guerra, tutti coloro che fussero presi vivi sarebbono fatti schiavi e bollati, ma che se fussero fedeli io li favorirei e defenderei, come vassalli di sua Maestà: e a questo aviso non tornarono i messi né risposta alcuna. Quando vidi la loro ostinazione perversa, perchè non rimanesse quel paese senza castigo, mandai gente a cercarli per le montagne, i quali furono dai nostri trovati in arme, e combattendo con loro ferirono alcuni Spagnuoli e Indiani miei amici; ma finalmente fu preso un uomo principale di questa città, il quale per mia maggior giustificazione mandai a loro con un altro comandamento e richiesta, alla quale risposero come prima. Subito ch'io vidi questo, feci processo contra di loro e contra gli altri ch'aveano guerreggiato meco, e li chiamai per publici banditori: ma non per tanto volsero venire. Perciò, vedendo la loro ribellione, e che 'l processo era concluso e fornito, gli sentenziai per traditori, dannando i signori di queste provincie a morte, e che tutti gli altri che fussero presi durando la guerra e dopo, finchè dessero obedienzia a sua Maestà, fussero fatti schiavi, e che di loro o del suo avere fussero pagati medici, cavalli che combattendo con loro aveano ammazzati e quanti ne ammazzassino per l'avenire, e parimente pagassino l'arme e altre cose necessarie a questo conquisto che si perdessero. Io passai diciasette giorni sopra questo caso degl'Indiani di Cuscaclan, né mai per assalti che gli feci dare né per messi che gli mandai, come ho detto, puoti indurli che venissino a me, essendo difesi da folti boschi e gran montagne e dirupi, con altri loro forti luoghi fabricativi dalla natura.
In questo luogo s'intese come erano gran paesi e luoghi abitati infra terra, delle città di pietra e calce, e intesi dagli uomini del paese come questa terra non finisce nella regione dove è, perciò che, essendo grande e benissimo popolata, vi farebbe mistiero di lungo tempo a conquistarla. Ma perchè eramo nel mezzo del verno, non passai piú avanti a conquistare, anzi determinai di tornar in questa città di Guatemala, e nel ritorno pacificar le terre che io avevo lasciate di dietro; ma, per quanto feci e m'affaticai, non mai puoti ridurgli al servizio di sua Maestà, perchè tutta questa riviera del mar del Sur per la qual entrai è montuosa, e ha le montagne vicine, dove questi popoli si riducono. Cosí sono ridotto in questa città per causa delle molte acque, dove, per pacificar questo paese sí grande e gente tanto valorosa, ho edificato in nome di sua Maestà una città abitata da Spagnuoli, nominata Sant'Iago, perchè sin qua essa è nel mezzo di tutta la terra, e ha maggior e miglior apparecchio per acquistare e per tener in pace e abitarvi il paese piú adentro. Ho eletto i giudici ordinarii per mantenervi giustizia e quattro governatori, come Vostra Altezza vedrà li nomi loro che le mando.
Passati questi due mesi d'inverno che restano, e che sono i piú aspri di tutti, uscirò di questa città a cercar la provincia di Tapalan, che è lontana di qua quindeci giornate infra terra: e, per quanto sono informato, la sua città è grande come Messico, e ha grandi edificii di calcina e di pietra con terrazze sopra il tetto. E oltre di questa ve ne sono molte altre città, quattro e cinque delle quali sono venute a dar obedienzia a sua Maestà, e dicono che una di quelle ha trentamila case; della qual cosa non mi maraviglio, perchè, essendo grande le città di questa costa, non è fuor di ragione che siano ben popolate come dicono quelle infra terra. La primavera seguente, piacendo al nostro Signore, penso di passare avanti dugento leghe, ove per mio credere sua Maestà sarà servita e aumentato il suo stato, e Vostra Altezza averà notizia di cose nuove. Da Messico città sin dove sono andato conquistando sono quattrocento leghe, e credami Vostra Signoria che questo paese è meglio abitato e da piú gente che tutto quello che Vostra Signoria sin ora ha governato.
In questa provincia abbiamo trovato una bocca di vulcano, cosa piú spaventevole che mai sia stata veduta, la quale manda fuori pietre cosí grandi come una casa, ardendo in vive fiamme, e cadendo si fanno in pezzi e cuoprono tutta la montagna di fuoco. Sessanta leghe piú avanti vedemmo un altro vulcano, che manda fuori un fumo spaventevole che ascende sin al cielo, e il corpo del fumo circonda mezza lega. Niuno beve dell'acqua di quei fiumi che descendono di là, perchè ha odore di zolfo. E specialmente viene di là un fiume principale molto bello, ma tanto ardente che non lo poterno passar certa gente de' miei compagni, che andavano per scorrere in certi luoghi; e cercando il guado, trovarono un altro fiume freddo che entrava in questo, e là dove si univano trovarono il guado temperato, di maniera che poterno passare. Circa le cose di questo paese non ho piú che dire a Vostra Signoria, se non che mi dicono gl'Indiani che da questo mare del Sur a quello di Tramontana è il viaggio d'un inverno e d'una state.
Vostra Signoria mi fece grazia d'esser governatore di questa città, e io aiutai a conquistarla e la difesi quando vi ero dentro, con quel pericolo e fatica che vi è manifesto. S'io fussi andato in Spagna, sua Maestà me l'avrebbono confirmata e fattomi altri beneficii, intesa ch'avesse la mia servitú. Ma ho inteso che sua Maestà l'ha concessa ad altri, né già me ne maraviglio, perchè non ha cognizion di me: e di questo niuno ha la colpa se non Vostra Signoria, per non aver notificato a sua Maestà ch'io sono e la mia servitú in questo paese dove io sono, quanto nuovamente gli ho conquistato, la volontà mia di servir per l'avenire, e come gl'Indiani m'hanno storpiato d'una gamba nel suo servizio, quanto poco soldo sin ad ora io e questi nobili che vengono meco abbino guadagnato, e il poco utile che ci è seguito.
Nostro Signore prosperamente cresca la vita e il magnifico stato vostro per lungo tempo.
Di questa città di Sant'Iago, a' ventiotto di luglio 1524.

Pietro d'Alvarado



Relazion fatta per Diego Godoy a Fernando Cortese


Lettere di Diego nelle quali tratta del scoprimento e acquisto di diverse città e provincie; delle guerre e battaglie che per tal causa furon fatte; la maniera dell'arme da combattere e da coprirsi che usano quelli della provincia di Chamula; di alcune strade molto difficili e pericolose; de' portamenti del reggente, e della divisione de' beni che già furono divisi in quelle bande.

Molto magnifico Signore, io scrissi a Vostra Altezza sin da Cenacantean quello che sin allora mi pareva che si dovesse far sapere a Vostra Altezza, e questo sarà per avisarvi di quanto poi è succeduto, il che mi è paruto convenevole che sia manifestato a Vostra Signoria. Saperà adunque come martedí, che fu il terzo giorno della Resurrezione, a' 29 di marzo, la mattina si partí di qua il luogotenente con la gente per andar ad una terra nominata Guegueiztean, perchè di là era venuto a Cenacantean Francesco di Medina pacificamente, prima che vi venisse il luogotenente, che ve l'avea mandato sin da Chiapa; e mandò me con sei cavalli e sette balestrieri per un altro cammino, perchè andasse a visitar un'altra provincia detta Chamula, perchè medesimamente ero andato pacificamente al luogotenente a Chiapa, per andar poi di là dove egli avea d'andare, perchè non è molto lontano un luogo dall'altro. E per la via che mi guidarono fino alli cinque villaggi piccioli della detta provincia, che sono a vista l'uno dell'altro, erano tre leghe di tristo cammino, per le quali poco potemmo andar a cavallo, e giunti al primo villaggio trovammo come era disabitato, e che non vi era una minima cosa da mangiare, né anco una pignatta né pietra. Questo luogo era in una altura, e descendemmo da quello ad una valle stretta che conduceva agli altri villaggi, che da questa parte ch'io dico ben si vedevano, li quali stavano in un altro fianco molto alto e molto vicini l'uno all'altro, dove per montarvi si faceva una costa alta e tanto aspra che i cavalli, menati a mano, a fatica potevano montarvi. E cominciando a montare vedemmo nella cima del monte, nella medesima strada, un squadron di gente da guerra con le lancie inalberate e lunghe come lancie alla giannetta; e andando all'insú per la costa, vedemmo che per la collina di quel fianco venivano a picciola squadra gl'Indiani, correndo con le sue arme ad unirsi con gli altri che erano nella strada, animandosi e chiamandosi a nome l'uno l'altro. Io vedendo questo, e che il paese che io avevo lasciato adietro, dovendo io ritirarmi combattendo, era tanto pericoloso che, venendo loro a combatter con noi, correvamo gran risico, e correndolo noi lo correvano ancora gli altri Spagnuoli che stavano col luogotenente, determinai per miglior partito di lasciar quell'erta e tornarmi alla terra che mi lasciai di dietro, la qual dissi ch'era disabitata. E di qui li mandai a dire per un Indiano di Cenecantean come s'erano portati male, non acconciando le strade in tal modo che potessimo andar all'insú con li cavalli, perchè altrimenti non potevamo salirvi: perciò che i signori e alcuni de' principali venissino a trovarmi, dove li direi quanto il luogotenente ci aveva comandato che li dicessimo e li facessimo a sapere. Essi mi risposero che non volevano venire, che non andassimo là, e che cosa volevamo da loro: che ritornassimo adietro, altramente che stavano in punto con le sue arme per raccoglierci. Perciò, vedendo questo e sovenendomi del caso d'Almesia, che mi pareva simile a questo, acciochè non accadesse qualche sinistro, come si può credere che sarebbe accaduto per quello che poi successe, sí che sarebbe stato un miracolo a salvarsi alcuno di noi, non potendo combatter a cavallo né ritirarsi, tornarono indietro, perchè il luogotenente con tutta la gente ritornando poi sopra di loro gli avrebbe potuto castigar da vantaggio. E tornando adietro la guida ci condusse per un traverso che abbreviò la strada, sí che al tramontar del sole riuscimmo dove era alloggiato il luogotenente, che era lungo la strada in un bello e largo piano, vicino ad un fiume, circondato da molti e bei pini, a vista di tre villaggi di Cenacantean posti nella montagna che cominciava da questo primo, dal quale sin a Canatan erano due leghe e mezza. Giunti che fummo, feci a sapere al luogotenente ciò ch'avevamo veduto, e ch'io ero di parere che quegli Indiani non restassero senza castigo: il che pareva ancora a lui buon discorso.
La mattina seguente, a' 30 di marzo, di mercoledí, ci partimmo per andar sopra la gente di Chamula, e arrivando nel detto campo le bagaglie, e con loro Francesco di Ledema reggitore a guardare gli alloggiamenti, ci guidarono per un'altra via che conduceva al campo della detta provincia, e vi giungemmo ad ore dieci del giorno. E prima che vi si giunga vi è una gran costa e molto pericolosa per descendere, sí che nel ritorno caddero molti cavalli molto d'alto, ma tuttavia non pericolarono, perchè non vi erano pietre e vi si trovano certe macchie d'erbaggi grandi.
Signor mio, poichè fummo scesi la costa d'intorno il villaggio, ch'è posto in alto, v'è una stretta valle, e credendo che si potesse pigliar subito, dividemmo i cavalli in tre picciole squadre, per circondar il villaggio e dar sopra la gente che fuggisse. Avendo in compagnia de' nostri amici indiani, il luogotenente con la fantaria e gli altri amici, non potendo per modo alcuno montarvi a cavallo tanto era il pericolo, cominciai con destrezza a montar per un fianco ch'aveva una via stretta e in alcuni luoghi tagliata nel sasso. Giunto ch'io fui di sopra, prima che giungessi al villaggio, a canto di certe case, fui con molti sassi e saette ricevuto e con le lancie sopradette: perchè queste sono le loro armi con le quali combatterono, e con certi scudi nominati pavesi che gli cuoprono il corpo da capo a piedi, e quando vogliono fuggire leggiermente gli aviluppano e se li pongono sotto il braccio, e quando vogliono far testa gli stendono subito. Il luogotenente combatté con loro per buon spazio, finchè gli spinse dentro da un bastion molto forte e fatto di questa foggia, che era alto due stature d'uomini e grosso quattro piè, tutto di pietra e di terra interposta, tessuto con molti alberi e fatti per durar lungo tempo; nella parte piú aspra era una scala di gradi molto stretta, che conducono sin di sopra, per la qual vi entravano. Sopra quel bastione erano poste a lungo tavole molto forti e alte come un'altra statura d'uomo, molto ben fermate e con legnami dentro e fuori, e con forti radici ritorte e corde ligate; prima che si giunga al detto bastione, era una palificata di legnami in terra e incrociata una con l'altra, e ligata sí forte che ne stavamo pieni di stupore. Dal sopradetto bastione di pietra, dentro d'un picciol colle che era pieno di macchie, combattevano sí valorosamente e con tante sassate che non vi si poteva entrare da parte alcuna. E stando le cose in tal termine, certi Spagnuoli assalsero la scala credendo entrarvi, e non furono ancora giunti di sopra quando li levarono di peso con le lancie e li fecero andar rotolando per la scala: e il medesimo li fecero due o tre volte che diedero l'assalto per entrarvi, il che era impossibile, perchè di dentro era profondo, sí che valorosamente si difendevano, e ferivano molti Spagnuoli e degli amici; benchè con l'artigliaria e con le balestre se gli faceva gran danno, perchè essi per combattere si scoprivano, e non potevano far altramente e pochissimi colpi si tiravano che non facessero rovina tra loro.
Noi, o Signore, che aspettavamo a cavallo a piè del colle, vedendo come i nemici non volevano fuggire, determinammo di smontare e lasciar i cavalli: cosí, montati di sopra, combattemmo tutto quel giorno sin a notte, perchè si consumò tutto 'l giorno a disfar lo steccato di legname che era avanti il detto bastione. Il luogotenente mandò al campo a pigliar accette, zapponi e pali di ferro per rovinar il bastione di pietra, perchè non vi era altro modo di potervi entrare, perchè non si dimostrava persona alcuna che non avesse venti lancie contra la faccia. Venuta poi la notte, ci ritirammo in due o tre case, dalle quali si combatteva tenendo tuttavia buone guardie; il che fecero ancora quei di dentro, che tutta notte fecero gran strepiti e alti gridi, sonando tamburi, e ci lanciavano spesso pietre e talora saette, e udivasi lo strepito delle pietre che scaricavano.
Subito che fu giorno cominciammo a battere il bastione, e levando il sole vennero l'accette, i zapponi e i pali di ferro, le quai cose avevamo mandato a torre: cosí cominciammo a rompere il bastione. E quando si cominciò a rompere, i nostri amici indiani vennero con facelle di paglia accese, e le lanciavano alle tavole sopra il bastione per arderle; ma sí tosto come le tavole cominciarono ad ardere, vennero essi con vasi d'acqua ad estinguerlo. Ma prima che questi venissero, avevano fatto una certa loro difesa, dalla quale gettavano acqua bollente con cenere e calcina. Combattendosi in questo modo, ci lanciarono fuori un pezzo d'oro, dicendo che ne aveano due masse, acciochè entrassimo a pigliarle, dimostrando in questo di far poca stima di noi. Ed essendo passato mezzodí e quasi ora di vespro, avevamo già fatto due gran bocche, per le quali entrando ci stringemmo di maniera con loro che combattevamo a faccia a faccia con essi, e loro come fecero da principio stavano fermi, sí che i balestrieri senza torgli di mira appresentavano le balestre ai lor petti, e scaricandole spesso gli atterravano. Durante questo conflitto sopravenne una grandissima pioggia, con nugole tanto scure che non vedevamo l'un l'altro, sí che fu forza ritirarsi dal bastione alle case: e durò la pioggia ben tre ore. E sparita che fu la nugola tornammo alla battaglia, ma ci trovammo scherniti, perchè, quanto si comprese, quando si viddero stringere la notte passata e quel giorno, ad altro non avevano atteso che a levar le robbe con le donne e fuggirsi: perciò poichè fummo ascesi sul bastione non vi trovammo persona, ma, perchè si credesse che vi fussero, lasciarono le lancie appoggiate al bastione ritte e in modo che si vedevano di fuori. Noi entrammo avanti nella terra, ma vi si andava con gran fatica, perchè ad ogni cinque o sei case vi era un forte, e i torrenti tanto grandi, perchè era piovuto, che non potevamo andar avanti senza cader spesso. I nostri Indiani seguirono i nemici sin a basso, e presero donne, fanciulli e alcuni uomini. Medesimamente aveano appoggiato le lancie alle case, per dare ad intendere che fussero dentro. Stemmo qua il giorno e quella notte, dove trovammo robba assai da mangiare: e ben ne avevamo bisogno, perchè i due giorni passati non avevamo mangiato, non ne avendo per noi né per li cavalli; ma non vi trovammo altra cosa. Intendemmo da quei prigioni come il giorno avanti erano stati ammazzati dugento uomini, e che in quel giorno ne erano morti tanti che non gli avevano annumerati; e ci dissero come era stata con loro gente dell'altra provincia di Guegueiztean.
Al primo d'aprile, di venere, tornammo agli alloggiamenti, e perchè gli Spagnuoli si riposassero, sendo feriti li piú di loro, e si facesse provisione di cose necessarie, perchè se n'era consumata gran parte, vi restammo anco il sabbato appresso.
Domenica a' tre d'aprile, dopo udita messa, ci partimmo per andar al detto villaggio e provincia di Guegueiztean. Il cammino sinchè si giunge a vista di questo villaggio, che è capo della provincia, è tutto buono e piano, con buoni pini e un monte senza alberi; prima che si giunga alla provincia è una gran costa che scende sin al basso, e il villaggio è sopra un alto. E vedemmo come da un altro villaggio per una collina molta gente correva con le sue arme a porsi nel detto villaggio, dove quando fummo giunti ci parvero molto grandi i loro bastioni, ma non tanto forti come quei di Chamula; ma perchè essi erano informati di quanto s'era fatto in Chamula, abbandonando il villaggio e i bastioni, molti di loro si posero a fuggire per un fianco di certi colli, e la maggior parte per una bassa valle e seminata di maiz. Ma perchè noi non vi avevamo posto buon ordine, non ne furono ammazzati e presi piú di cinquanta, e tutti uomini, perchè il luogotenente non volse aspettare che fusse giunta tutta la gente, ma si fece avanti con cinque o sei cavalli che eravamo con lui, e seguimmo per la strada dietro a quelli che andavano per il fianco; ma perchè ci trovavamo nell'alta parte, e le strade erano molto aspre, ne aggiugnemmo pochi, i quali uccidemmo, e furono prese molte donne. Quei che fuggivano da basso empievano la valle, di maniera che camminavano con gran fatica, ma tardò tanto a giungere la nostra gente che tutti se n'erano andati. Tutti lasciarono l'arme, come quelli che si tenevano perduti, e noi cinque o sei cavalli che andavamo col luogotenente seguimmo, finchè si giunse ad un altro villaggio piccolo mezza lega avanti, e ben forte, dove aspettammo la gente, e per commissione del luogotenente vi facemmo gli alloggiamenti.
L'altro giorno, che fu il lunedí, il luogotenente mandò Alfonso di Grado con certe gente ad uno villaggio che si vedeva sin di là, per una casa bianca lontana due buone leghe, come narravano quei che v'erano stati, e dicevano che ivi s'era raccolta assai gente: quel luogo li pareva molto forte, per esser situato nella piú alta parte della montagna. E tornò la notte seguente, dicendo che non aveva trovato cosa alcuna. Da questo villaggio, che è capo di Guegueiztean, si veggono dieci o dodeci villaggi d'intorno a quello, tutti nella montagna, e sono a quello soggette. La valle a basso è molto bella e ben coltivata, e scorre un picciol fiume per quella. Tutti i villaggi di questo paese sono di tal qualità che guerreggiano l'uno con l'altro. Il luogotenente mandò di qua un Indiano di quelli ch'aveva, a dire a quei signori che venissero a far la pace, e gli aspettò quel lunedí e tutto 'l martedí, ma non venne persona.
Il mercoledí, a' sei d'aprile, ci partimmo dalli sopradetti villaggi ritornando a Canacantean, e seguimmo il cammino a Cematan, perchè, vedendo come i villaggi che si rendevano pacificamente cosí tosto si ribellavano, tutti gli Spagnuoli perderono la speranza; benchè poi la ricuperassimo assai buona, vedendo come si scoprivano molti luoghi abitati che venivano ad amicarsi con noi, donde gli Spagnuoli erano spinti dall'ingordigia di chieder le stanze e possessioni in quei luoghi. Cosí, avendo mutato parere, dicevano come era bene passar avanti, perchè quel paese era tale che non vi era uomo il qual ardisse di pigliar alcuno Indiano. Il luogotenente, vedendo questo, era della istessa mente, perchè non era uomo che non venisse ad affirmare quel medesimo: perciò, come ho detto, ritornammo adietro a Cenacantean, e di qua Alfonso di Grado andò a Chiapa, dove fu ben raccolto da altri Spagnuoli che erano andati a veder altri luoghi dal luogotenente a loro assegnati.
Stando in Cenacantean intesi come Francesco di Medina era stato la causa che queste due provincie si ribellassero: feci inquisizion contra di lui e, presolo, tolsi il suo constituto. Ma perchè, se fusse punito in questo luogo, gl'Indiani non lo potrebbono sapere, perchè mai non erano venuti a noi pacificamente, perchè stavamo per partirci, lo lasciai con sicurtà che giungendo a questo villaggio potesse proceder contra di lui. Ora, Signor, lo tengo prigione con buona guardia, e si farà giustizia. E perchè sappi V.S. in qual modo esso gl'indusse alla ribellione, mandovi la copia del processo, col quale Vostra Altezza vederà il tutto: perciò non mi estendo a ragionar sopra di questo caso.
Lunedí, che fu agli undeci d'aprile, ci partimmo da Cenacantean, e venne col luogotenente il signor accompagnato da alcuni Indiani, e fu sempre con noi sin a Cematan, e poi sin che giungemmo su quel de' nostri amici, accompagnandoci sempre e molto volentieri. E in questo giorno andammo a dormire lontano tre leghe, tra certi pini, a vista d'uno villaggio soggetto a Cenacantean, dove ci aveano fatta buona compagnia e spianataci la strada: qua ci providero gl'Indiani bene da mangiare. E il martedí andammo avanti tre leghe ad altre capanne, ove certi popoli ci portarono da mangiare, e da questi intese il luogotenente assai cose, come faceva da ciascuno Indiano che li veniva avanti. Io non ne do aviso a V.S. perchè non le intesi.
Il mercoledí camminammo tre leghe e mezza a certe capanne, e qua vennero certi Nagatuti di Apanasclan provincia, i quali altre volte erano venuti ad amicarsi con noi, e con loro certi Indiani di Michiampa, mandati dal luogotenente con li detti Nagatuti. Questi ci portarono un poco d'oro e un carcasso con certi ferri da saette, e dissero come quel Spagnuolo che era governatore in Sancomisco gli avea comandato che le facessero per Pietro d'Alvarado: né so se questa provincia o popoli che stanno d'intorno a Sancomisco gli sono soggetti. Gl'Indiani che vennero erano di bonissimo animo verso gli Spagnuoli, il che deve esser cosa buona, quanto noi tutti crediamo. Dissero ancora come Pietro Alvarado era entrato in Velatan, e che, fattavi la guerra, aveva morto assai gente; affirmarono ancora che dal suo villaggio sin a Velatan non vi erano piú di sette giornate, da Chiapa al loro villaggio tre giornate, sí che, per quanto dicevano gl'Indiani, da questo villaggio a Velatan possono esser cento leghe o poco piú. Vennero qua altri Indiani d'altri villaggi ad offerirsi per amici al luogotenente, e d'un altro villaggio detto Guzitempan, e d'un altro nominato Tesistebeque, che ci portarono un poco d'oro. Il luogotenente mandò con costoro duoi Spagnuoli a veder quei paesi.
Il giovedí avanti ci partimmo da queste capanne e andammo a dormire lontano tre leghe, dove erano anco altre capannuccie e spianata la strada. Ivi comparve una persona di presenzia onorata, dicendo come era il signor di Catepilula ch'avea fatto far tali capanne, e, portataci vettovaglia in copia, ci disse come avea spianato il cammino sin al suo villaggio, sí che gli comandasse quanto li piaceva: di che il luogotenente gli rendé molte grazie.
Il venerdí ci partimmo da queste capanne per andar a Catepilula, che pareva esser lontana tre leghe, ma peggior strada che fusse mai veduta; sí che, se gl'Indiani non l'avessero accommodata, era impossibile andar avanti, anzi di certo saremmo tornati adietro, perchè essa era piena di montagne alte e aspre, con una lega e mezza di smontata, sí difficile che non poteva esser piú pericolosa, perchè dalla parte d'un fianco erano certi profondi precipizii e, dall'altra, il sasso tanto rozzo che non potevano i cavalli fermarvi i piedi. Ma l'aveano essi Indiani tanto bene acconciata con palificate che la fermavano alla smontata del fianco, e con grossi legnami fortemente ligata, e postavi terra assai, tanto che l'opera era ridotta a quella perfezione che era possibile, e in qualche parte aveano tagliato della istessa pietra, e tagliati alberi infiniti per spianar il cammino che era da quelli impedito, e vi era alcun albero che fu misurato nove palmi per diametro e altri alberi molto grossi: il che manifestava come l'aveano fatta volentieri, e che vi si era adoperata molta gente, e in vero, se vi si fussero adoperati gli Spagnuoli con gl'Indiani a farla, non sarebbe stata meglio assettata. Discesi che fummo da questo passo difficile, ci condussero ad alloggiare fuori del villaggio, a certe capanne che ci aveano fatte, e il signore vi venne con un presente d'oro e alquante penne, con certi uccelli morti che le fanno; molta della sua gente ci portò vettovaglia in copia e, servendoci di quanto faceva mestiero, ci portavano acqua e legne. Questo villaggio e altri che li danno obedienzia sono in una bella valle lungo un fiume, con montagne da un capo e dall'altro. E vennero qua altri popoli per pacificarsi con noi, e portarono vettovaglia e alquanto oro al luogotenente; e per aspettar gli Spagnuoli mandati dal luogotenente a Guitempan, stemmo in questo luogo quattro giorni, sinchè vennero certi Indiani con una berretta di quei Spagnuoli, a dirci come quelli andavano per altra via a riuscire ad un villaggio ove noi dovevamo andare. Vennero qua certi Indiani dei Zapotechi, i quali erano andati ad abitar da Chiapa a Quicula, perchè è vicino a questo villaggio, e venivano a portar da mangiare senza prezzo e veder che cosa gli fusse da noi comandata.
Il mercoledí a' venti d'aprile ci partimmo da Apilula per seguir il nostro cammino, e, allontanati due leghe, giugnemmo ad un villaggio lungo la riva del fiume di Chapilula, posto tra certe montagne e soggetto ad un altro posto avanti a Silusinchiapa: e poteva esser lontano due leghe da quel luogo, ove giugnemmo in questo giorno. Fra queste due leghe sono altri piccioli villaggi che li sono soggetti, e tutti posti su la istessa riviera del detto fiume tra le montagne. La strada che conduce a questo villaggio Silusinchiapa è tanto aspra che non so come poter narrarlo, quantunque in vero gli uomini del paese l'aveano spianata e assettata al meglio ch'era stato possibile, avendo riguardo alla qualità del luogo; tuttavia passammo con gran fatica, e i paesani ci raccolsero amorevolmente, provedendoci di vettovaglia d'avantaggio, e alloggiando noi in quel luogo la medesima notte. Il giovedí e il venerdí non fece altro che piovere tant'acqua che il fiume crebbe di sorte che, essendo questo villaggio tra montagne, e scorrendo il fiume lungo la strada molto furibondo, non potemmo andar avanti né indietro. In questo spazio di tempo gl'Indiani tutti di questo villaggio se n'andarono, né piú tornorno, né comparve alcuno di loro: non saprei dire per qual causa se n'andarono, avendoci tanto benignamente raccolti e affaticatosi a spianar la strada.
La domenica, poichè fu cessata l'acqua, il luogotenente mandò certi pedoni a veder se potevano trovar alcune genti, i quali tornarono senza aver trovato cosa alcuna. Nei giorni che stemmo qua, mentre che non piovve, cercammo per questo fiume, parendoci che fusse di qualità di produr oro, e vi trovammo alcune particelle tanto sottili che erano come nulla: ma vi si cercò come da scherzo, perchè non vi erano gl'istromenti da cavarlo. Il luogotenente mandò sin di qua un comandamento agli uomini d'un villaggio detto Clapa, piú avanti di queste: come si dice, è soggetto a Cematan.
Il lunedí ci partimmo e andammo avanti due leghe e mezza, ad un villaggio soggetto a Cematan, nominato Estapaguaioia, ch'aveva da cinquecento case. E tutta quella strada si fa per il detto fiume, il qual si passa piú volte, sí che noi vi passammo con gran fatica, e alcuni Spagnuoli corsero gran pericolo per esser la strada tutta piena di scogli, e il fiume, che corre velocissimamente, ha di molte gran pietre. E veramente credo che i cavalli non mai fecero il peggior cammino per tutto 'l mondo, e perchè ci partimmo di giorno, avemmo assai che fare a giungervi al tramontar del sole, senza mai posarsi. Tutti i cavalli erano sferrati e stanchi dalla molta fatica, e ne caddero alcuni nell'acqua, i quali corsero gran pericolo.
Questo villaggio è buono e molto dilettevole, e ha una buona piazza e case e buoni alloggiamenti, con una bella valle di terreno coltivato lungo il detto fiume, e con montagne da amendue i capi, ma non tanto alte come le passate. Il giorno dietro, che fu martedí, il villaggio rimase disabitato. Perciò l'uomo, quando pensa di non aver piú che domandare, allora comincia a mordere e danneggiare, sí che, quantunque ogniuno che vuol contrariar con lui stia bene attento, nondimeno una volta overo un'altra lo farà errare. Non so qual trista sorte sia questa dell'uomo, che quando parla finge e inganna, tuttavia par che lo faccia per bene, e quando l'uomo si tiene d'esser sicuro e fermo dell'amore d'un altro, allora subito colui procura di farlo errare, con certi tratti che la persona non sa come intenderla in bene o in male. E io credo veramente che non potrà vivere alcun in pace dove si troverà un tal uomo, cosí quest'uomo non doveria stare se non dove sta Vostra Signoria, perchè non sarebbe ardito a muoversi: e tutti crediamo che, non stando lui in questo villaggio, viveremo pacificamente, e non saremmo stati quando egli non vi fusse venuto. E credami Vostra Altezza che l'uomo non si può separare da lui, quantunque lo procuri. Io vi scrivo questo perchè gli è cosí in effetto, e anco perchè Vostra Signoria lo conosce molto bene.
Io, Signore, partitomi di questo villaggio dal capo di Compilco venni avanti, sí perchè ero indisposto del corpo, come per visitar alcuni piccioli villaggi soggetti a Compilco, delli quali Vostra Signoria fece grazia a Pietro Castellar e a me, in duoi delli quali non trovammo persona; nelli altri duoi erano circa trenta uomini indiani per ciascuno, e ci diedero da centomila mandorle di massa di mistura di metalli, che chiamano cacao, e circa quaranta ducati d'oro e di rame, e dissero come tutta la gente era morta. Cosí passai da lontano e venni a questo villaggio, e avanti ad un poggio mi cadde morta una cavalla, di due ch'aveva, e un cavallo ch'avea condotto per servirmene alla guerra: questo cavallo ch'era mio, dei buoni del paese, quando mi parti' di questo villaggio, ed era infermo a morte, la qual infermità egli aveva contratta per la molta fatica ch'io gli diedi per il cammino. E sappia Vostra Altezza che quando ci partimmo di questo villaggio tutti noi da cavallo, avanti il luogotenente, il podestà di giustizia e i reggitori, ci obligammo che se alcuna bestia morisse o si storpiasse, non vi essendo da pagarla dell'entrata, che la pagassimo tra tutti: e perchè il luogotenente aveva diviso l'oro, non vi era piú di che pagarlo. Dimandai che mi facessino pagare o di quello che sua Signoria aveva avuto o tra tutti, come s'avevano obligato, e quantunque mi fusse costato ducati ducento e trenta, e ne puoti avere ducento e cinquanta, tuttavia me lo tassarono ducento, e alcuni cominciarono a dire che se la facevano pagare si partirebbono da quel villaggio. Allora io dissi: non voglia Iddio che per pagarmi una cavalla se n'andassero, e che non volevo far tal dimanda, perchè Vostra Signoria me la farebbe pagare, se fusse di giustizia. Vi supplico adunque ch'avendo riguardo al disio col qual io andai a servire, con tanto incommodo del mio cavallo che condusse quasi morto, e d'un poledro che mi cadde d'una balza e si storpiò d'una coscia, e d'un altro poledro che mi morí, poichè il guadagno il quale facciamo dagl'Indiani non lo concede, Vostra Signoria si contenti che mi sia pagato dell'oro che s'è avuto o di quello che si obligarono. Scrivo al presente questo a V.S. acciò quella lo sappia, ma io vi manderò prima informazione di questo, come tutti s'obligarono in persona, perchè io lo procurai, acciochè Vostra Signoria mi faccia grazia di mandar un comandamento a questo effetto.
Poichè fummo venuti in questo villaggio, a me parve come sarebbe cosa buona che venisse avanti Vostra Signoria un procuratore, ch'avesse relazione di tutti i successi, e informassivi sí circa le divisioni di ciascuna cosa e di chi ha e chi non ha, per supplicarle e chiedere che Vostra Signoria ci facesse grazia di quelle cose che questo villaggio ha bisogno; e parlai sopra di ciò al luogotenente e ai reggitori, i quali tutti conchiusero che gli era ben fatto, e si rimase che l'altro giorno ci riducessimo insieme a ragionare di questo; ed essendo uniti, trovammo Giovanni di Limpias e Bustamante molto dissimili di parere, sí che Vostra Signoria sia informata di quanto si conviene, come non giovò cosa alcuna a rimoverli della loro opinione, e volevano che si aspettasse Mormoleo, il quale, come si disse qua, è andato là dove sta Pietro d'Alvarado. Non so a chi assegnar questo, se non a poca cura che si pigliano di guardar a quello che si conviene alla republica. Ed essi sono piú ricchi d'Indiani che posseggono che qualunque altro di noi che abiti in questo villaggio, perchè Giovanni Limpias e suo fratello hanno il capo o frontiera di Quachula, ch'è il miglior luogo che sia qua, e un altro capo nominato Anaclansiquipila, villaggio buono, Quenchula e altri villaggi soggetti a quello, e a canto a questo villaggio il luogo di Cateclesiguata Sabion, nominato Anazanclan, che sono villaggi sí buoni come Caltiva; Bustamante solamente con una sua cedula ebbe da Vostra Signoria per grazia la metà di Ultapeche e de' suoi soggetti, in compagnia di Tapia, e la metà di Tilcecapan, che costeggia questo villaggio ed è buon luogo. Ancora possiede a canto a Quenchula e a Teapa e di sopra altri otto o dieci villaggi, delli quali Vostra Signoria non ne sa alcuni, perchè, quando facesti grazia di Ultapeche e di Tilcecoapan, questo avenne perchè vi dissero come non possedevano alcuno vassallo indiano, e ora egli possiede tanto che non è venuto a notizia di Vostra Signoria, che potrebbe bastare a due de' nostri abitatori in questo paese, come dicono tutti. Quando io viddi questo, conobbi come ad essi non piaceva che si scrivesse a V.S. quel che era di ragione che sapesti, perciò determinai di scrivere il mio parere. Supplico Vostra Signoria che accetti la mia sincera e buona volontà, che è parata ad ogni cosa che toccherà al servizio di sua Maestà e di V.S. e al bene della republica. Quanto agl'Indiani e alle divisioni, saprà V.S. che molti abitatori di questo villaggio già piú giorni posseggono Indiani senza averne titolo alcuno da Vostra Signoria, e credo ancora che non gli abbia assegnato loro l'ufficiale maggiore per nome vostro. Alcuni tengono masnade di popoli, e altri, perchè non hanno Indiani, si partono da questo villaggio: e dico masnade e gran copia di popoli perchè gli è cosí in fatto; e alcuni che non ne hanno sono cosí meritevoli e forse migliori d'averne che quelli che ne posseggono, parlando tuttavia di coloro che ne hanno di soverchio, rispetto ad altri che con la buona servitú meritano piú di loro. Sí che, Signore, non intendo come vadino le cose circa questi Indiani, né in qual modo alcuni di loro servono. Veggo bene che da tutti si cava poco utile, ma ne cavano meno que' che non hanno alcuno, e non ne avendo si partono di qua, i quali non si partirebbono quando si satisfacesse loro di quello che ad altri sopravanza, perchè, conformandosi alle divisioni fatte a persone le quali Vostra Signoria vuol ristorare, alcuni hanno di piú: ed è bene che tutti ne abbino, perchè vi è il modo di dargliene e di contentarli. Ma, dovendo Vostra Signoria sapere quanto ciascuno possiede, questo non si può far per via di visita né di assegnamento che egli abbi avuto o che ordini Vostra Signoria, se quella non manda espresso comandamento che si debba sapere chiaramente ciò che possiede ciascuno, in qual parte e con qual titolo, altramente V.S. non mai sarà ben informata per poter dar a tutti, come è di vostro desio e che ricerca la ragione, avendo riguardo a quelli che se gli deve. E in questo comandi V.S. come piú le aggrada, ma, per mio parere, quel che io dico sarebbe utile per quanto s'appartiene al bene commune di questa republica, prima che V.S. confermi e faccia le divisioni; perchè, altramente facendo, quelli che non hanno qua la debita provisione se n'andaranno, come vedrete per opera, e che già cominciano a partirsi.
Io lascierò di scrivere alcuna cosa in questa parte per non dir male d'alcuni, ma perchè mi spiace assai che alcuno sia ingrato a Vostra Signoria di que' beneficii ch'essa gli fa, e per quanto s'appartiene a tutti gli abitatori di questo villaggio, sappia Vostra Signoria che alcuni conoscono gli avuti beneficii e alcuni no, e avisovi come, andando per questi viaggi passati, Bustamante reggitore, quanto di lui si narra, disse piú volte che vorrebbe piú tosto esser un cimice che reggitore di questo villaggio. Non creda Vostra Signoria che se io l'avesse udito, che me ne fussi passato cosí di leggiero, né manco s'io l'udisse: ma perchè l'avea detto avanti al luogotenente, me ne tacqui per onore di quello. Ora son certo che egli l'ha detto, perchè un giorno Giovanni di Salamanca venendo in parole di questo con lui, e affermando ch'aveva parlato male, Bustamante rispose che lo aveva detto per conoscere di che animo fussero gli altri. Consideri adunque Vostra Signoria quanta cura si piglierà egli di far quanto s'appartiene al reggimento, oltra piú altre triste qualità che sono in lui, delle quali Vostra Signoria si potrà informare da quanti vengono là; e vi aviso di questo perchè so come V.S. è mal informata e s'inganna di lui, non sapendo le sue astute arti ch'egli usa. Non niego ch'egli non sia gentiluomo e che non meriti che V.S. gli faccia de' beneficii, ma dico che, dandogli simil carico, vi caricherà molto la conscienzia, non essendo Vostra Altezza ben informata di lui. Non creda V.S. ch'io scriva questo perch'io li porti odio, anzi tengo verso di lui buona intenzione; ma perchè mi doglio non veder riuscir bene quello che s'appartiene al servizio di Vostra Altezza, mi son mosso a scrivervi quello che è pura verità, e tuttavia passo altre cose che circa di questo si potrebbono scrivere.
Il quarto giorno che giungemmo in questo villaggio, venne il signor di Uluisponal e quello di Tititepaque, e mi diedero una lettera di Vostra Signoria, nella qual essa mi comandava che in ogni modo faccia la sua casa, nella qual non è stato lavorato perchè non sono stato qua, e parmi che 'l signore al quale avevo comandato che trovasse i legnami non gli ha cercati, e si scusò d'esser stato gravemente infermo: e veramente io lo lasciai infermo, come credo d'aver scritto a V.S. Egli stette qua cinque giorni, e feci chiamar i principali del villaggio di Pietro di Castellar e mio, e, andando con loro, stettero due giorni cercando legnami per li villaggi lungo il fiume all'insú, e tornati mi dissero come aveano trovato quanto facea mestiero, e che vi verrebbe la gente quando volesse. Io gli dissi che venissero dopo s. Giovanni, e cosí farò che di subito darò principio all'opera al meglio che io potrò, perchè i pavimenti da edificare sono in buon termine e sopra il fiume.
Parimente V.S. mi scrivea che uno Indiano venuto a Vostra Signoria avea detto come io avevo dimandato oro a Luigi Marino: V.S. mi comandò che non gliene dimandasse, e io cosí gli ho detto. Dissi al cacique quanto si conteneva nella lettera, il quale si sbigottí, e rispose che l'Indiano non sapeva quello che si dicesse. Il signor mi disse ch'aveva raccolto moneta di metalli mescolati per darla a Vostra Signoria, ma che non voleva mandarla finchè io non vedesse, e per servirvi lasciai di passar oltra 'l fiume per vederla e spedirla. Il giorno dopo san Giovanni anderò là, e la manderò ad Horrera di Tustebeque, e la maggior copia d'accette che io potrò: gli Indiani ne hanno alcune, e sono traportate dalli suoi villaggi ad Uluta e Titiquipaque. Io ne dimandai al cacique e a Cristoval, e mi dissero di non ne avere. Ed è generale opinione che l'avessino preso di quest'anno, che Giovanni Limpias disse publicamente come gli Indiani suoi dicevano che Marino, quando venne, avea posto un tributo o gravezza a tutti li villaggi di Spagnuoli e a ciascuna casa di quaranta mandorle al giorno, e che egli avea detto che non dessero a noi oro né metallo mescolato, ma solamente da mangiare, perchè stavamo qua solo per guardar questo fiume, perchè l'oro era per Vostra Signoria e il metallo mescolato per Marino. Ed è vero che Giovanni di Limpias disse questo piú volte, presente di me e del luogotenente e di molti altri.
Gli schiavi ch'io condusse di V.S., che sono 34, perchè sono donne e fanciulli, se si conducessero alla città morirebbono tutti per cammino. Perciò mi parve che al presente starebbono meglio in Oluta, sinchè avisasse V.S. se vi paresse meglio di condurli a Corusca o alla Villa Ricca, perchè ivi avete case e roba dove possono stare, per esservi tanto caldo, e vi staranno piú sani, overo se a voi pare che si vendano: V.S. mi avisi di quello che piú le sarà grato, acciochè si mandi ad effetto. Se V.S. comanderà che si vendino, supplico quella ad ordinar ancora che si vendino a credenza, perchè non è in questa villa uomo che abbia un quattrino.
Non so che altro scrivervi al presente, o Signor mio, ma ben vi supplico che facciate cessar il dividere i luoghi, sinchè V.S. sia informata di quanto ho sopra detto, perchè in tal modo si gioverà a questo villaggio; altramente la divisione sarà come di furto. Cosí ogni dí verranno di qua persone a darvi noia, come sempre hanno fatto per questa causa.
Iddio nostro Signore conservi la magnifica persona vostra, e vi aumenti lo stato come quella desia.

Diego di Godoy.

Relazione d'alcune cose della Nuova Spagna e della gran città di Temistitan Messico fatta per un gentiluomo del signor Fernando Cortese.



Il paese della Nuova Spagna è a guisa di Spagna, e quasi della medesima maniera sono le montagne, le valli e le campagne, eccetto che le montagne son piú terribili e aspre, da non potervisi ascender se non con infiniti travagli: e vi è montagne, per quel che si sa, che durano meglio di dugento leghe. Sono in questa provincia della Nuova Spagna gran fiumi e fonti d'acque dolci e molto belli, gran boschi ne' monti e pianure d'altissimi pini, cedri, roveri e cipressi, elci e molte diverse sorte d'alberi di montagne. I colli sono molto ameni nel mezzo della provincia, e vicino alla costa del mare sono monti spiccati dall'un mare all'altro. La distanzia che è dall'un mare all'altro per il piú corto è di centocinquanta leghe, e per un'altra centosessanta, e dall'altra dugento, e da un'altra passan trecento, e da un'altra banda presso cinquecento; e piú sopra è distanzia cosí grande e tanta che non se ne sa il numero delle leghe, perchè non si è veduto da Spagnuoli, e ci è da veder ancora di qua a cent'anni, e ogni dí si vede cosa nuova.
Sono in questa provincia mine d'oro e d'argento, di rame e di stagno, di acciaio e di ferro. Vi sono molte sorte di frutti che paiono simili a quei di Spagna, avenga che nel gusto non sieno in quella perfezione, né nel sapore, né nel colore; ancora che ce ne sieno molti bonissimi, e cosí buoni come sono quei di Spagna, ma non generalmente. Le campagne sono dilettevoli, molto piene di bellissime erbe, alte fino a mezza gamba. Il paese è molto fertile e abbondante, e produce qualunque cosa che ci vien seminata, e in molti luoghi rende il frutto due o tre volte l'anno.


Degli animali.

Vi sono molti animali di diverse maniere, come sono tigri, leoni e lupi, e similmente adibes, che sono tra volpi e cani, e altri che sono fra leoni e lupi. I tigri sono della grandezza o forse qualche poco maggiori che i leoni, eccetto che sono piú grossi e forti e piú feroci; hanno tutto 'l corpo pieno di macchie bianche. E niuno di questi animali fa male a' Spagnuoli, ancorchè alle genti del paese non faccino carezze, anzi se gli mangiano. Vi sono anco cervi e volpi salvatiche, daini, lepri e conigli. I porci hanno l'ombelico sopra il fil della schiena. E vi sono molti altri e diversi animali, e specialmente ve ne è uno, che è poco maggior che il gatto, che ha una borsa nel ventre, dove asconde i figliuoli quando vuol fuggir con essi, perchè non gli sieno tolti: e quivi gli portano senza che si conosca né si veda se vi porta cosa alcuna, e con essi monta fuggendo sopra gli alberi.
La provincia di questa Nuova Spagna è molto ben popolata per la maggior parte: vi sono di gran città e terre, cosí nella pianura come nelle montagne, e le case sono fatte di calcina e pietre e di terra e quadrelli crudi, e tutte con le sue terrazze, quei popoli però che vivon nel mezzo del paese; ma quei che abitano vicini al mare hanno quasi tutti le case e pareti di quadrelli crudi e terra e di tavole, col tetto di paglia. Solevano avere i naturali del paese bellissime meschite con gran torri e abitazioni, nelle quali onoravano e sacrificavano i loro idoli, e molte di quelle città son meglio ordinate che quelle di qua, con molto belle strade e piazze, dove fanno i lor mercati.


La sorte de' soldati loro.

La gente di questa provincia è ben disposta, piú tosto grande che picciola; son tutti di color berrettino come pardi, di buone fazioni e gesti; sono per la maggior parte molto destri, gagliardi e sopportatori delle fatiche, ed è gente che si mantiene con manco cibo d'ogni altra. È gente molto bellicosa, e che molto determinatamente hanno ardimento di morire. Solevano aver gran guerre e gran differenzie fra loro, e tutti quei che si pigliavano nella guerra, o erano mangiati da loro, o erano tenuti per schiavi. Se i nemici andavano a porre assedio a qualche villaggio, se gli assediati se gli rendevano senza far resistenza o guerra, restavano solamente vassalli de' vincitori; ma se erano presi per forza, restavano per schiavi tutti. Hanno i loro ordini nella guerra, che hanno i loro capitani generali, e hanno i particolari capitani di quattrocento e dugento uomini. Ha ogni compagnia il suo alfiere, con la sua insegna inastata e in tal modo ligata sopra le spalle, che non gli dà alcun disturbo di poter combattere né far ciò che vuole: e la porta cosí ligata bene al corpo che, se non fanno del suo corpo pezzi, non se gli può sligare né torgliela mai. Hanno per costume di gratificare e pagar molto bene coloro che servono ben su la guerra e che si faccino conoscere segnalatamente con qualche opera virtuosa, che, ancora che sia il piú disgraziato schiavo fra loro, lo fanno capitano e signore e gli danno vassalli e lo stimano, in modo che per tutto dove lui va lo servono, e l'hanno in tanto rispetto e riverenzia come al proprio signore. E nella persona propria di questo tale segnalato gli fanno un segno ne' capegli, acciochè sia conosciuto per quell'opera virtuosa che ha fatto e ciascuno lo veda apertamente, perchè essi non usano di portar berrette; e ogni volta che fa qualche buona opera nuova, gli fanno addosso in testimonio di virtú qualche altro simile segnale, e da' signori se gli concede sempre altre grazie.


L'arme offensive che portano e difensive.

L'arme difensive che portano in guerra sono certi saietti a guisa di giupponi di cottone imbottiti, cosí grosso come un deto e mezzo, e tali come due deta, che vengono ad esser molto forti; e sopra d'essi portano altri giupponi e calze che son tutti insieme e che si allacciano dalla parte di dietro, e sono d'una tela grossa, e il giuppone e le calze sono coperte di sopra di piume di diversi colori, che sono molto galanti: e una compagnia di soldati le portano bianche e rosse, e altri azzurre e gialle, e altre di diverse maniere. I signori portano di sopra certi saietti, come giacchi che fra noi si usano di maglia, ma sono d'oro o d'argento indorati; e quel vestito che portano di piuma è forte al proposito delle sue armi, acciochè non riceva saette né dardi, anzi ritornano adietro senza farvi colpo, né anco le spade non possono molto bene prenderne. Portano in testa per difesa una cosa, come teste di serpenti o di tigri o di leoni o di lupi, che ha le mascelle, ed è la testa dell'uomo messa nella testa di questo animale, come se lo volesse divorare: sono di legno, e sopra vi è la penna, e di piastra d'oro e di pietre preciose coperte, che è cosa maravigliosa da vedere. Portano rotelle di diverse maniere, fatte di buone canne massiccie che sono in quel paese, tessute con cottone grosso doppio, e sopra vi sono penne e piastre rottonde d'oro: e sono cosí forte che se non è una buona balestra non la passa, però ve ne sono di tali che la passano, ma la saetta non li fa male. E perchè qua in Spagna sono state vedute alcune di queste rotelle, dico che non sono di quelle che portano su la guerra, ma sono di quelle che essi portano nelle loro feste e balli sollazzevoli, che usano di fare.
L'arme offensive che portano sono archi e frezze e dardi, che essi tirano con un mangano fatto di un altro bastone; i ferri che hanno in punta sono o di pietra viva o di un osso di pesce, che è molto forte e acuto. Alcuni dardi hanno tre ferri con che fanno tre ferite, perchè in una mazza inseriscono tre punte di bacchette con loro ferri della sorte sopradetta, e cosí d'un colpo tirano tre botte in una lanciata. Hanno le spade, che sono di questa maniera: fanno una spada di legno come a due mani, ancora che non sia sí lunga la impugnatura, ma larga tre deta, e nel taglio d'essa lasciano certe incavature nelle quali inseriscono un rasoio di pietra viva, che taglia come un rasoio di Tolosa. Io viddi che, combattendosi un dí, diede uno Indiano una cortellata ad un cavallo, sopra il qual era un cavalliero con chi combatteva, nel petto, che glielo aperse fin alle interiora, e cadde incontinente morto; e il medesimo dí viddi che un altro Indiano diede un'altra cortellata ad un altro cavallo sul collo, che se lo gettò morto a' piedi. Portano frombe con le quali tirano molto lungi, e molti o la maggior parte d'essi portano tutte queste sorti d'armi con che combattono, ed è una delle belle cose del mondo vederli alla guerra in compagnia, perchè vanno maravigliosamente in ordine e galanti, e compariscono cosí bene quanto si possa vedere. Sono fra loro di valentissimi uomini e che osano morir ostinatissimamente. E io ho veduto un d'essi difendersi valentemente da due cavalli leggieri, e un altro da tre e quattro, né potendolo essi uccidere, da disperazione un di loro gli lanciò la lancia, ed egli prima che gli arrivasse addosso la raccolse in aere e con essa combattette piú d'una ora con esso loro, finchè quivi giunsero due pedoni che lo ferirono di due o tre saette, onde egli mossosi contra un di loro, uno di quelli pedoni l'abbracciò di dietro e gli diede delle pugnalate.
Nel tempo che combattono cantano e ballano, e tal volta danno i piú fieri gridi e fischi del mondo, e specialmente se conoscano d'averne il meglio: ed è cosa certa che, a que' che non gli hanno veduti combattere altre volte, mettono gran terrore con le loro grida e bravura. Ed è gente la piú crudele che si trovi in guerra, perchè non perdonano né a fratello né a parente né ad amico, né gli pigliano a vita ancora che fussino donne e belle, che tutte l'uccidono e se le mangiano; e quando non posson portarsene la preda e le spoglie de' nemici, l'abbrucciano. Solo i signori non è lecito d'uccidere, ma gli portano presi sotto buona custodia. E dopo ordinate certe feste, in mezzo di tutte le piazze della città erano certi circuiti murati con calcina e pietre massiccie, tanto alti quanto una statura e mezza d'uomo, che ascendevano in essi per gradi, e di sopra era una piazza come un giuoco di tegola rotondo, e nel mezo di questa piazza era una pietra rotonda ficcata con un buso in mezzo: e quivi montava il signor prigione, e lo legavano lungo con una sottil corda al collo del piede, e li davano una spada e una rotella, e cosí veniva a combatter con esso lui colui che l'avea preso: e se questo tale che l'avea preso di nuovo tornava a vincerlo, era tenuto per valentissimo uomo, e gli davano un certo segno per la valente prova ch'avea fatta, e il signore li facea grazia; e se il signor preso vincea lui e sei altri, in modo che fussero in numero di sette, lo liberavano ed erano obligati di restituirgli tutto quel che gli avessero tolto nella guerra. E avenne che, combattendo un giorno quelli di una signoria chiamata Huecicingo con que' d'un'altra città chiamata Tula, il signor di Tula si pose tanto fra gli nemici che si perse da' suoi, e ancora che facesse cose maravigliose in arme, caricarono nondimeno tanto i nemici sopra di lui, che lo presero e lo condussero alla città loro: e fecero essi secondo il costume le loro feste, ponendolo nel circuito, contra il quale vennero sette uomini a combattere, li quali tutti uccise ad uno ad uno, essendo egli legato secondo l'usanza. Veduto questo da quei di Huecicingo, fecero pensiero che, se essi lo avessero sciolto, essendo egli cosí valent'uomo e di gran cuore, non sarebbe mai restato fin tanto che non gli avesse destrutti, onde si risolvettero di ucciderlo, e cosí fecero; del qual atto rimase a loro un'infamia grande per tutto quel paese di traditori e di disleali, per aver rotta la legge e il costume contra quel signore, e per non aver osservato con esso lui tutto quel che si soleva osservare con tutti quelli ch'erano signori.


La maniera del vestire degli uomini.

I vestimenti loro son certi manti di bambagia come lenzuola, ma non cosí grandi, lavorati di gentili lavori di diverse maniere, e con le lor franze e orletti, e di questi ciascun n'ha due o tre e se gli liga per davanti al petto. Al tempo dell'inverno si cuoprono con certi pellizzoni fatti di una piuma molto minuta, che pare che sia cremesino, come i nostri cappelli pelosi, de' quali n'hanno rossi, neri e bianchi, berrettini e gialli. Cuoprono le loro parti vergognose, cosí di dietro come dinanzi, con certi sciugatoi molto galanti, che sono come gran fazzuoli che si legano il capo per viaggio, di diversi colori, e orlati di varie foggie e di colori similmente diversi, con i suoi fiocchi, che nel cingerseli viene l'un capo davanti e l'altro di dietro. Portano scarpe che non hanno tomara, ma solamente le suola e i calcagni, molto galanti, e di dentro dalle deta dei piedi vengono al collo del piede certe correggie larghe, che con certi bottoni si ligano quivi. Non portano in testa cosa veruna, eccetto che nella guerra o nelle loro feste e danze, e portano i capelli lunghi ligati in diverse foggie.


Del vestire delle donne.

Le donne portano certe lor camicie di bambagia senza maniche, ch'assomigliano a quelle che in Spagna chiamano soprapelizze; sono lunghe e larghe, lavorate di bellissimi e molto gentili lavori sparsi per esse, con le loro frangie o orletti ben lavorati, che compariscono benissimo: e di queste portano due, tre e quattro di diverse maniere, e una è piú lunga dell'altre, perchè si vedano come sottane. Portano poi dalla cintura a basso un'altra sorte di vestire di bambagia pura, che gli arriva al collo del piede, similmente galante e molto ben lavorate. Non portano sopra la testa cosa alcuna, specialmente in terra fredda, se non che portano i capegli lunghi, e gli hanno belli, ancora che neri e castagnini; onde con queste loro veste e i capegli lunghi sparsi, che gli cuoprono le spalle, fanno bellissimo vedere. Ne' paesi caldi che sono vicini al mare, portano le donne una foggia di velo fatto a reticello, di colore leonato.


La seta con che lavorano.

La seta con che lavorano è che pigliano i peli della pancia del lepre e conigli e gli tingono in lana di quel colore vogliono, e glielo danno in tanta perfezione che non si può dimandare meglio; dopo lo filano e con esso lavorano, e fanno sí gentili lavori quasi come con la nostra seta, e ancora che si lavi mai perde il suo colore, e il lavoro che si fa con essi dura gran tempo.


I cibi che hanno e che usano.

Il grano di che fanno il pane è un grano a guisa di cece, alcuni bianchi e altri rossi, e altri neri e vermigli; lo seminano, e fa una canna alta come una mezza lancia, e butta due o tre panocchie, dove è quel grano a guisa di panico. Il modo con che fanno il pane è che mettono una pignatta grande sopra il fuoco, che tiene quattro o cinque cantara d'acqua, e gli accendono sotto il fuoco, fin che bolla l'acqua, e allora gli lievano il fuoco e dentro vi gettano il grano, che da loro si chiama tayul, e sopra esso gettano poi un poco di calcina perchè gli lievi la scorza che lo copre; e l'altro giorno, overo de lí a tre o quattro ore, che si è raffreddato, lo lavano molto bene al fiume o in casa con molte acque, onde resta molto netto della calcina, e doppo lo macinano con certe pietre fatte a posta, e, secondo che lo vengono macinando, gli vengono gettando l'acqua e si va facendo pasta: e cosí in un punto macinandolo e impastandolo fanno il pane, e cuoconlo in certe cose come tecchie grandi, poco maggiori che un crivello. E cosí facendo il pane, subito lo mangiano, per esser meglio caldo che freddo. Hanno anco altri modi da farlo, che fanno certi pani buffetti della massa e gli involtano in certe foglie d'erbe, e doppo li mettono in una gran pignatta con poca acqua e la cuoprono molto bene, e quivi col caldo e col tenerli stufati li cuocono, e anco in padelle con diverse cose che mangiano.
Hanno molte galline grandi a guisa di pavoni molto saporite e hanno molte coturnici di quattro o cinque sorti, e sono alcune di esse come pernici; hanno molte oche e anatri di molte sorte, cosí domestiche come salvatiche, della piuma delle quali fanno i loro vestimenti per la guerra e festa, e di queste penne si prevagliono molto per piú cose, perchè hanno diversi colori, e ogni anno la levano a questi loro uccelli. Hanno pappagalli grandi e piccioli, che gli tengono in casa, e si prevagliono similmente della loro penna. Occidono per loro mangiare molti cervi, cavrioli, lepri e conigli, che in molte parti ce ne sono molti. Hanno varie sorti d'erbe d'orto e da mangiar di diverse maniere, di che essi sono molto amici, che le mangiano talor verdi e talora in varie minestre. Hanno una sorte di pepe da condire che si chiama chil, che niuna cosa mangiano senza esso. Sono genti che con manco cibo si sostentano e che meno mangiano di quante altre sono al mondo.
I signori mangiano molto sontuosamente molte sorti di vivande, sapori e minestre, focaccie e pasticci di tutti gli animali che hanno, frutti, verdure e pesci, che hanno in buona quantità. Si portano ai signori tutte queste sorte di cibi, e gliele portano innanzi ne' piatti e scodelle e sopra certe stuore di palma molto gentilmente lavorate, e in tutti gli alloggiamenti ve ne sono, e vi sono anco delle sedie di diverse sorti fatte, dove seggono, tanto basse che non sono piú alte d'un palmo. Questi cibi gli mettono anco inanzi a' signori, e una tovaglia di bombagia con che si nettano le mani e la bocca, e sono serviti da duoi o tre scalchi e maestri di sala: e mangiano di quello che piú loro piace, e doppo fanno che il restante sia dato ad altri signori suoi vassalli, che stanno quivi a fargli corte.


Le bevande che usano.

Fanno il vino di diverse sorti che bevono, però la principale e piú nobile che usano è una bevanda che si chiama cachanatle, e sono certi semi fatti del frutto d'un albero, il qual frutto è a guisa di cocomero e dentro ha certi grani grossi, che sono quasi della sorte dell'ossa de' dattili. L'albero che fa questo frutto è il piú delicato di tutti gli altri alberi: non nasce se non in terra calda e grossa, e prima che si semini seminansi duoi altri alberi che hanno gran foglia, e come questi sono all'altezza di due stature d'uomini, in mezzo a tutti duoi seminano quest'altro che produce questo frutto, acciochè quei duoi altri alberi, per esser questo delicato, lo guardino e difendino dal vento e dal sole e lo tengano coperto. Sono questi alberi in grande stimazione, perchè quei grani sono tenuti per la principal moneta che corra in quel paese, e vale ciascuno come un mezzo marchetto fra noi; ed è moneta la piú commune, ma molto incommoda, doppo l'oro e l'argento, e che piú si costuma di quante sono in quel paese.


Come si faccia il cacao.

Questi semi, che chiamano mandorle o cacao, si macinano e si fanno polvere, e macinansi altre semenze picciole che hanno, e gettano quella polvere in certi bacini che hanno con una punta; poi vi gettano l'acqua e la mescolano con un cucchiaro, e doppo l'averlo molto ben mescolato lo mutano da un bacino all'altro, in modo che leva una spuma, la quale raccogliono in un vaso fatto a posta. E quando lo vogliono bevere, lo rivoltano con certi cucchiari piccioli d'oro o d'argento o di legno e lo bevono: e nel bever si ha da aprir ben la bocca, perchè, essendo spuma, è necessario di darli luogo che la si venga disfacendo e mandando giú a poco a poco. È questa bevanda la piú sana cosa e della maggior sustanza di quanti cibi si mangiano e bevanda che si beva al mondo, perchè colui che beve una tazza di questo liquore potrà, quantunque camini, passarsene tutto il dí senza mangiare altro; ed è meglio al tempo del caldo che del freddo, per esser di sua natura fredda.


Un'altra sorte di vino che hanno.

Vi sono certi alberi, overo fra alberi e cardi, che hanno le foglie grosse come il ginocchio e lunghe quanto un braccio, poco piú o meno secondo il tempo che hanno, e gettano nel mezzo un tronco che si fa cosí alto come sono due o tre altezze d'uomo, poco piú o manco, e cosí grosso come un fanciullo di sei o sette anni. E in certo tempo dell'anno, che è maturo e ha la sua stagione, con una trivella forano questo albero da basso, d'onde stilla un umore, che lo mettono in conserva in certe scorze d'alberi che hanno: e de lí ad un dí o due lo beono, cosí smisuratamente che finchè cadono in terra embriachi senza sentimento non lasciano di bere, e si reputano onore grande beverne assai ed embriacarsi. Ed è di tanta utilità questo albero che d'esso fanno vino e aceto, mele, sapa, fanno veste per vestirsi uomini e donne, ne fanno scarpe, ne fanno corde, legnami per case e tegole per coprirle, e aghi per cucire e serrare le ferite e altre cose. E similmente cogliono le foglie di quest'albero o cardo, che si tengono là come qua le vigne, e chiamanlo magueis, e mettono a cuocere queste foglie in forni bassi da terra, e dipoi struccano con certo loro artificio di legno dette foglie arrostite, levandoli via le scorze o radici che sogliono avere. E di questa bevanda bevono tanto che si embriacano. Hanno un'altra sorte di vino di grano che mangiano, che si chiama chicha, di diverse sorti, rosso e bianco.


Il modo di fare i comandamenti.

Avevano queste genti un gran signore, che era come l'imperatore, e avevano poi e hanno altri, come re e duchi e conti, governatori, cavalieri, scudieri e uomini di guerra. I signori mettono i loro governatori e rettori nelle loro terre, e altri ufficiali. Sono i signori tanto temuti e obediti, che non gli manca altro che essere adorati come dii. Era cosí gran giustizia fra loro che, per il minor delitto che uno avesse fatto, era morto o era fatto schiavo. Qualunque furto o assassinamento che si fosse fatto si castigava molto severamente, e massimamente quando altri entravano nelle possessioni altrui per rubbare frutti o il grano che essi hanno, che, per entrare in un campo e rubbare tre o quattro mazzoche overo spighe di quel loro grano, lo facevano schiavo del patrone di quel campo rubbato. E se qualche uno facea tradimento, overamente commetteva delitto alcuno, contra la persona dello imperatore overo re, era ucciso insieme con tutti gli suoi parenti fin alla quarta generazione.


La fede e l'adorazione che facevano e i loro tempii.

Avevano grandissimi e bellissimi casamenti dei loro idoli, dove gli facevano orazione, sacrificavano e onoravano, e vi erano persone religiose deputate al servigio d'esse, come vescovi e canonici e altre dignità, i quali servivano il tempio e in esso viveano e residevano la maggior parte del tempo, perchè in essi loro tempii erano di buoni e grandi alloggiamenti dove potevano stare, e dove si allevavano tutti i figliuoli dei signori, servendo i loro idoli, finchè erano in età di pigliar moglie: e in tutto il tempo che vi stavano, giamai si partivano de lí né si tagliavano i capegli, ma levandoli via allora gli tagliavano che si maritavano. Queste meschite, over tempii, hanno le sue entrate ordinate per riparare e provedere di quel che avevano di bisogno quei religiosi che gli servivano. Gli idoli che adoravano erano certe statue della grandezza d'uno uomo e maggiori, fatte d'una massa di tutte le semenze che essi hanno e che mangiano, e le impastavano con sangue di cuori d'uomini: e di questa materia erano i loro iddii. Gli teneano posti a sedere in certe sedie, come cattedre, con la rotella in un braccio e nell'altro la spada, e i luoghi dove gli tenevano erano certe torri della maniera che si vede nella figura a fronte.


La sorte di queste torri.

Fanno uno edificio d'una torre in quadro di cento e cinquanta passi o poco piú di lunghezza e cento e quindeci o cento e venti di larghezza, e comincia questo edificio tutto massiccio, e doppo che è tanto alto come due stature d'un uomo, per le tre parti all'intorno lasciano una strada di larghezza di duo passi, e dalla parte del lungo cominciano a montare scalini; e doppo tornano a salire con altre due stature d'uomo in alto, e la materia è tutta massiccia, fatta di calcina e pietre, e quivi poi per tre parti lasciano la strada di duo passi, e per l'altra saliscono gli scalini: e saliscono tanto in questo modo che vanno in alto cento e venti e cento e trenta gradi, e di sopra resta una piazzetta ragionevole, e in mezzo di essa cominciano altre due torri di dentro che vanno in alto dieci o dodeci stature d'uomo, e nella cima vi sono le sue finestre. In queste torri alte tengono i loro idoli molto ben ordinati e apparati, ed è anco ben concia e ordinata tutta la stanza, e dove avevano il loro dio principale (che secondo le provincie cosí era il nome di esso, perchè il dio principale della gran città di Messico si chiamava Horchilouos, e in un'altra città che si chiama Chuennila, Quecadquaal, e in altre di diversi nomi), e in quella stanza dove stava questo idolo principale non era concesso a niuno l'entrarvi, eccetto al sommo pontefice che hanno. E tutte le volte che facevano festa ai loro idoli sacrificavano molti uomini, donne e fanciulli e fanciulle, e quando avevano qualche necessità, come della pioggia, o che cessi di piovere quando piove troppo, o che siano assediati dai loro nemici, o per altre necessità, gli fanno i sacrifici in questo modo.


Il modo di sacrificare.

Pigliano quello che hanno da sacrificare e prima lo conducono per le strade e per le piazze, molto bene adornato e con gran festa e allegrezza, e ciascuno gli racconta i suoi bisogni, dicendogli che poichè ha d'andare dove sta il suo dio, che gli dica quel bisogno che ha acciochè vi rimedii, e gli dà qualche cosa da mangiare o altra robba: e in questo modo raccoglie molte cose, come sogliono avere coloro che portano in volta le teste di lupo, il che tutto viene ai sacrificatori; e lo portano al tempio, dove fanno una gran festa e balli, nella quale egli ancora festeggia e balla con esso loro. Dopo colui che l'ha da uccidere lo spoglia e lo conduce allato alle scale della torre, dove è un idolo di pietra, e lo appoggia sopra le spalle, ligandoli una mano e dall'altra parte l'altra, e poi un piedi legato ad una parte e l'altro dall'altra, e quivi di nuovo tutti ricominciano a ballare e cantare a torno a lui e gli dicono la principale ambasciata che ha da fare a quello iddio loro. E viene il sacrificatore, che non è il minor ufficio fra loro, e con un rasoio di pietra che taglia come se fosse di ferro, però assai grande, come un gran coltello, e in tanto quanto uno si farebbe segno di croce gli dà con esso nel petto e glielo apre, e gli cava il cuore cosí caldo e bollente: il quale piglia incontanente il sommo pontefice, e con il sangue d'esso unge la bocca del loro idolo principale, e subito getta di quel sangue verso il sole o alcuna stella (se è di notte), e dopo ungano la bocca agli altri idoli di pietra e di legno che essi hanno, e la cornice della porta della cappella dove sta l'idolo principale. Dipoi abbrucciano il cuore, riserbando la polvere d'esso per gran reliquia, e similmente abbrucciano il corpo del sacrificato, e la polvere d'esso conservano in un altro vaso separato da quel del cuore. Altre volte gli sacrificano per punti e ore, e arrostiscono il cuore, e l'ossa delle gambe o braccia, involti in molte carte, le conservano per una gran reliquia. E cosí in ciascuna provincia hanno gli abitatori il loro particolar modo e cerimonie di idolatria e sacrificio, perchè in altri luoghi adorano il sole, in altri la luna e in altri le stelle, in altri i serpi e in altri i leoni o altri simili feroci animali, delle quali cose tengono le imagine e statue nelle loro meschite; e in altre provincie, e particolarmente in quella di Panuco, adorano il membro che portano gli uomini fra le gambe, e lo tengono nella meschita e posto similmente sopra la piazza, insieme con le imagini di rilievo di tutti i modi di piaceri che possono essere fra l'uomo e la donna, e gli hanno di ritratto con le gambe alzate in diversi modi.
In questa provincia di Panuco sono gran sodomiti gli uomini, e gran poltroni e imbriachi, in tanto che, stanchi di non poter bere piú vino per bocca, si colcano e alzando le gambe se lo fanno metter con una cannella per le parti di sotto, fintanto che il corpo ne può tenere. È cosa molto notoria che quelle genti vedeano il diavolo in quelle figure che essi facevano e che tengono i loro idoli, e che il demonio si metteva dentro a quelli idoli e de lí parlava con esso loro, egli comandava che sacrificassero e a loro dessero i cuori degli uomini, perciochè essi non mangiavano altra cosa: e per questo effetto erano tanto solleciti a sacrificar uomini, e gli davano i cuori e il sangue d'essi; e gli comandava ancora molte altre cose, che essi facevano pontalmente come gliele diceva. Sono queste le piú devote genti e piú osservatrici della religione loro di quante nazioni abbia create Iddio, in tanto che essi istessi s'offerivano volontariamente a dover essere sacrificati, pensandosi di salvare con questo modo l'anime loro, e si cavavano essi istessi il sangue dalle lingue e dall'orecchie e dalle coscie e dalle braccia, per sacrificarlo e offerirlo agli idoli loro. Hanno di fuora e per cammini molti eremitorii, dove i viandanti vanno a sparger il lor sangue e offerirlo agli idoli, e n'hanno ancora su le montagne altissimi di questi eremitorii, che erano luoghi di gran devozione, sacrificandosi il sangue e offerendosi ai loro iddii.


Delle città che vi sono e della maniera d'alcune d'esse.

Vi sono di gran città, e specialmente quella di Tascala, che in alcune cose s'assimiglia a Granata e in altro a Segovia, ancora che sia piú popolosa d'alcuna d'esse; è signoria e governata da alcuni signori, ancorachè in certo modo s'abbia rispetto ad uno, che è il maggior signore, che tiene e tenea un capitano generale per la guerra. Ha bel paese di pianure e montagne, ed è provincia popolosa, e vi si raccoglie molto pane. A sei leghe lungi da questa è un'altra città piana e molto bella, che s'assimiglia a Vagliadolid, nella quale io vi contai cento e novanta torri fra meschite e case de' signori, che similmente è signoria, e governata da 27 uomini onorati, fra i quali tutti avevano in riverenza e rispetto un vecchio che passava centoventi anni, ch'era portato in lettiga. Ha paese e sito bellissimo e di molti arbori fruttiferi, e spezialmente di cerase e pomi, e produce molto pane. A sei altre leghe lontano v'è un'altra città chiamata Huezucingo, che sta in una costa d'un monte, che s'assimiglia a Burgos; similmente signoria, che è governata da consoli, e ha paese bellissimo e fertili pianure e colli ameni e buoni.


Il lago di Messico.

Da tutte le bande è circondata da montagne la città di Temistitan Messico, eccetto dalla banda fra tramontana e levante. D'alcun lato ha montagne asprissime, che è quel del mezzogiorno, che è il monte di vulcano e Pocatepeque, ed è simile ad un monte di grano rotondo, e ha quattro leghe d'altezza o poco piú: nell'alto d'essa è un vulcano che tiene in circuito un quarto di lega, per la bocca del quale due volte il dí e qualche volta la notte usciva d'esso la maggior furia di fumo del mondo, e andava per l'aere cosí intiero, ancorachè facesse gran vento, fino alla prima regione delle nuvole, e ivi si mescolava con esse e si dissolveva, né piú si vedeva intiero. È questo monte undeci leghe lontano da Messico. Vicino a questa sono altre montagne altissime, e quasi dell'altezza di quest'altra, che d'alcuna parte sono dieci leghe lontane da Messico, e dall'altra sette o otto. Tutte queste montagne sono coperte di neve la maggior parte dell'anno, e al piè d'esse da una parte e l'altra sono di bellissime ville e villaggi abitati; l'altre montagne che vi sono non sono molto alte, ma tra monti e pianure, e in tutte queste montagne da una parte e dall'altra sono bellissimi boschi pieni di molti pini, elci e roveri. E al piè di queste montagne nasce un lago d'acqua dolce, che si fa cosí grande che tiene trenta leghe di circuito o piú: la metà d'esso verso la banda di quelle montagne dove nasce è acqua dolce e molto buona, e come nasce con la furia che mena va correndo verso settentrione, e dopo tutta l'altra metà è acqua salsa. E dove è l'acqua dolce vi sono molti canneti di cannevere e molto bei luoghi abitati, come è Cuetavaca, che ora si chiama Veneziuola, che è un luogo grande e buono; v'è un altro luogo maggior che si dice Mezquique, e un altro chiamato Caloacan, come gli altri di grandezza o poco meno; ve ne è un altro, detto Suchimilco, che è maggiore che niun di tutti gli altri, e questo è alquanto fuor dell'acqua, e piú vicino all'orlo del lago che niuno; v'è un altro villaggio che si dice Huichilusbusaco, e un altro chiamato Messicalcingo, che è in mezo dell'acqua dolce e la salsa. Tutti questi luoghi abitati sono nell'acqua dolce, come ho detto, e la maggior parte d'essi nel mezzo. Il lago dolce è stretto e lungo, e il salso è quasi rotondo. Sono in questa parte di acqua dolce certi pesci piccioli, e nell'altra salsa sono piú piccioli.


Della gran città di Temistitan Messico.

Questa gran città di Temistitan Messico è edificata dentro di questa parte del lago che ha l'acqua salata, non cosí nel mezzo, però alla riva dell'acqua, circa un quarto di lega longe da terra ferma per il piú vicino. Può aver questa città di Temistitan piú di due leghe e mezza e presso a tre, poco piú o meno, di circuito; la maggior parte di coloro che l'hanno veduta giudica che vi sieno meglio di sessantamila abitatori, e piú tosto piú che meno. Entrano in essa per tre strade alte di pietra e di terra, ciascuna larga trenta passi o piú: una di queste strade vien per l'acqua piú di due leghe fino alla città, un'altra una lega e mezza; queste due strade attraversano il lago ed entrano per mezzo della città, e nel mezzo si vengono a congiongere insieme, in modo che si potrebbe dire che sono tutte una. L'altra strada vien dalla terra ferma qualche un quarto di lega alla città, e per questa strada vien per spazio di tre quarti di lega una seriola o ruscello d'acqua alla città da terra ferma, ch'è dolce e molto buona e piú grossa che il corpo d'un uomo, e arriva fin dentro la terra, della quale bevono tutte le genti: e nasce al piè d'un sasso e colle e quivi si fa uno fonte grande, e de lí è poi stata tirata alla città.


Le strade che vi sono.

Aveva e ha la gran città di Temistitan Messico assai e belle strade e larghe, ancora che ce ne sieno due o tre principali; tutte l'altre erano la metà di terra come mattonata e l'altra metà d'acqua, e se n'escano per la parte di terra e per la parte dell'acqua nelle lor barchette e canoe, che sono d'un legno concavo, ancora che ce ne sieno di cosí grande che agiatamente vi stanno dentro cinque persone per ciascuna, e se ne vanno a solazzo le genti, altri per acqua in queste lor barche e altri per terra ragionando insieme. Vi sono molte altre strade pur maestre che tutte son di acqua, né servano ad altro che a ricever barche e canoe secondo l'usanza loro che si è detto, perchè senza esse non possono entrare né uscir dalle lor case. E di questa maniera sono tutte l'altre terre che abbiamo detto, poste in questo lago nella parte dell'acqua dolce.


Le piazze e i mercati.

Sono nella città di Temistitan Messico grandissime e bellissime piazze, dove si vendono tutte le cose che s'usano fra loro, e spezialmente la piazza maggiore, ch'essi chiamano il Tutelula, che può esser cosí grande come sarebbe tre volte la piazza di Salamanca, e sono all'intorno d'essa tutti portici: in questa piazza sono communalmente ogni dí a comprare e vendere 20 o 25 mila persone, e il dí del mercato, che si fa di 5 in 5 giorni, vi sono da 40 o 50 mila persone. Ha il suo ordine, cosí in essere ogni mercanzia separata al luogo suo come nel vendere, perchè da una banda della piazza sono coloro che vendono l'oro e dall'altra, vicini a questa, sono quei che vendono pietre di diverse sorti legate in oro, in forma di varii uccelli e animali; dall'altra parte si vendono i paternostri e gli specchi; dall'altra penne e penacchi d'ogni colore da lavorare e cucir in veste, per portar alla guerra e nelle lor feste; dall'altra parte cavano le pietre da rasoi e di spade, ch'è cosa di maraviglia a vederle, che di qua da noi non si può intendere, e ne fanno le spade e rotelle. Dall'una banda vendono i panni e vestimenti degli uomini di varie sorti e dall'altra i vestimenti delle donne, e dall'altra si vendono le scarpe, e dall'altra parte i cuori acconci di cervi e altri animali, concieri di testa fatti di capelli, che usano tutte l'Indiane, e dall'altra il bambace; dove si vende il grano ch'essi usano e dove il pane di diverse sorti, e dove si vendono pasticci, e dove le galline e polli e le ova, e quivi vicino lepri, conigli, cervi, cotornici, oche e annatre. In un'altra parte poi si vende il vino di varie sorti e nell'altra l'erbe dell'orto di diverse sorti, il pepe in quella strada, in un'altra le radici e l'erbe da medicine, che fra loro ve ne sono infinite, e in altra i frutti varii, in altra legname per le case, e quivi vicino la calcina e appresso le pietre, e finalmente ogni cosa sta da sua parte per ordine. E oltra questa gran piazza ve ne sono delle altre, e mercati in che si vendono cose da mangiare, in diverse parti della città.


De' tempii e meschite che avevano.

Solevano essere in questa gran città molte gran meschite o tempii ne' quali onoravano e sacrificavano le genti a' suoi idoli, però la maggiore meschita era cosa maravigliosa da vedere, perciochè era cosí grande quanto una città. Era circondata d'una alta muraglia fatta di calce e di pietra e avea quattro porte principali, e sopra ogni porta era uno edificio di casa come fortezza, i quali tutti erano pieni di diverse sorti d'armi, di quelle che essi portavano alla guerra, che il signor maggior loro Montezuma quivi le teneva in conserva per questo effetto. E di piú v'aveva una guarnigione di diecimila uomini di guerra, tutti eletti per uomini valenti, e questi accompagnavano e guardavano la sua persona, e quando si facea qualche rumore o ribellione nella città o nel paese circunvicino andavano questi o parte d'essi per capitani, e un'altra maggior quantità, se era bisogno, si facea presto nella città e fuora a' confini: e prima che si partissero andavano tutti alla meschita maggiore, e quivi s'armavano di queste armi che erano sopra queste porte, e faceano subito sacrificio a' lor idoli, e pigliando la sua benedizione si partivano per andar alla guerra. Era in quel circuito del tempio maggiore grandi alloggiamenti e sale di diverse maniere, che v'erano sale dove poteano star senza darsi fastidio l'un l'altro mille persone; v'erano dentro a questo circuito piú di 20 torri, che erano della sorte che ho già narrato, posto che fra l'altre ce ne fusse una maggior e piú lunga e larga e piú alta, che era lo alloggiamento dello iddio principale e maggiore, nel quale aveano lor tutti maggior devozione. E nell'alto della torre aveano i lor iddii e tenevangli in gran venerazione, e in tutti gli altri alloggiamenti e sale stanziavano e viveano i loro religiosi, che servivano al tempio, e i sacrificatori in altre stanze. Nell'altre meschite d'altre terre cantano di notte come si dicessero i mattutini, e in molte ore del dí per ordine, intonando una parte d'essi da una banda e una parte dall'altra, che dicono gli inni, e rispondono gli altri come se dicessero vespro o compieta. E aveano dentro questa meschita fontane e luoghi da lavarsi per servizio d'essa.


De' casamenti.

Erano e sono ancora in questa città molte belle e buone case de' signori, cosí grande e con tante stanze e appartamenti, e con giardini alti e bassi, che era cosa maravigliosa da vedere: e io entrai piú di quattro volte in una casa del gran signor non per altro effetto che per vederla, e ogni volta vi caminavo tanto che mi stancavo, e mai la fini' di vedere tutta. Aveano per costume che in tutte le case de' signori, all'intorno d'una gran corte, fossero prima grandissime sale e stanzie, però v'era una sala cosí grande che vi potevano star dentro senza dar l'un fastidio all'altro piú di tremila persone; ed era sí grande che nel corridore dell'alto d'essa casa v'era una sí gran piazza, che v'averebbono potuto giocar al giuoco delle canne, come in altra gran piazza, trenta uomini a cavallo.
Questa gran città di Temistitan è alquanto piú lunga che larga, e nel cuore e mezzo di essa, dove era la meschita maggior e le case del signor, si riedificò la contrada e castello degli Spagnuoli, cosí ben ordinato e di sí belle piazze e strade quanto d'altre città che siano al mondo, che sono le strade larghe e spaziose, e all'intorno d'essa vi sono edificii di belle e sontuose case di calcina e mattoni tutte uguale, che l'una non è piú alta dell'altra, eccetto alcune che hanno le torri, e per questa ugualità compariscono assai meglio che l'altre della città. Sono in questa contrada o castel di Spagnuoli piú di 400 case principali, che in niuna città in Spagna per sí gran tratto l'ha migliore né piú grande, e tutte sono case forti, per esser tutte di calcina e pietra murate. Vi sono due gran piazze, una grande, attorno alla quale sono molti belli porticali: s'è fatta una chiesa maggiore nella piazza grande, ed è molto buona. Vi è un monasterio di S. Francesco, che è assai bell'edificio; v'è un altro monasterio di S. Domenico, che è uno de' grandi e forti edificii e buoni che sia in Spagna: e in questi monasterii sono frati di buonissima vita, e gran letterati e predicatori. Vi è un buono ospitale e altri eremitorii. Le abitazioni degl'Indiani sono attorno a questo castello e contrada o cittadella di questi Spagnuoli, in modo che stanno circondati da tutti i lati: e in esso sono meglio di trenta chiese, dove i cittadini della città nativi odano messa e sono instrutti nelle cose della nostra fede.
La gente di questa città e del suo territorio è molto abile per tutte le cose, e i piú ingegnosi e industriosi di quanti sono al mondo. Sono fra essi maestri in ciascuna sorte d'esercizio, e per far una cosa non hanno bisogno d'altro che di vederla una volta fare ad altri. Ed è gente che stima meno le donne di quante nazioni sono al mondo, perchè non gli comunicherebbe mai i fatti loro, ancora che conoscesse che il farlo gli potesse metter conto. Hanno molte mogli, come i mori, però una è la principale e patrona, e i figliuoli che hanno di questa ereditano quel che hanno.


Dei matrimonii.

Tengono molte moglie e tante quante ne possono mantenere, come i mori, però, come si è detto, una è la principale e patrona, e i figliuoli di questa ereditano e que' dell'altre no, che non possono, anzi son tenuti per bastardi. Nelle nozze di questa patrona principale fanno alcune cerimonie, il che non si osserva nelle nozze dell'altre. Hanno un costume gli uomini di pisciare stando accosciati come le nostre donne, e le donne stanno in piedi.


Del sepellire.

Facevano una fossa murata di calcina e pietra sotto la terra, e quivi poneano il morto assiso sopra una sedia, e gli poneano appresso la sua spada e rotella, e con esso mettevano certe gioie d'oro: e io aiutai a cavar d'una sepoltura tremila castigliani, poco piú o meno. Gli mettevano quivi cose da mangiare e da bere per certi giorni, e se era femina gli mettevano appresso la roca e il fuso e tutti i suoi instrumenti da lavorare, dicendo che là dove andava aveva da attendere a fare qualche cosa, e che quel che gli ponevano da mangiare era per sostentarsi nel camino. Molti altri poi abbrucciavano e sepellivano la polvere.
Tutti que' di questa provincia della Nuova Spagna, e ancora que' dell'altre provincie della sua circonvicinanza, mangiano carne umana e la stimano piú che tutte l'altre imbandigioni del mondo, tanto che molte volte vanno alla guerra e pongono in sbaraglio le vite loro per uccidere qualcuno e mangiarselo. Sono, come si è detto, per la maggior parte sodomiti, e bevono smisuratamente.




Relazione che fece Alvaro Nunez, detto Capo di Vacca, di quello che intervenne nell'indie all'armata della qual era governatore Panfilo Narvaez, dell'anno 1527 fino al 1536, che ritornò in Sibilia con tre soli suoi compagni.


A' dicessette di giugno del 1527 partí del porto di San Lucar di Barrameda il governator Panfilo di Narvaez, con potestà e mandato dalla Maestà Vostra, per conquistare e governar le provincie che sono dal fiume delle Palme insino al capo di Florida, tutte in terra ferma; e l'armata che il detto governatore menava seco erano cinque navilii, ne' quali andavano da seicento uomini. Gli ufficiali, perchè d'essi s'ha da far particolar menzione nel libro, erano questi: Capo di Vacca per tesoriere e agozino maggiore, Alonso Enriquez contatore, Alonso de Solis per fattore di sua Maestà e per riveditore; ed eravi ancora per commissario un frate dell'ordine di San Francesco, chiamato fra Giovanni Gottierrez, e seco altri quattro frati del medesimo ordine.
Arrivammo primieramente all'isola di S. Domenico, dove ci fermammo da 45 giorni per provederci d'alcune cose necessarie, e principalmente di cavalli. Quivi ne mancarono piú di centoquaranta de' nostri uomini, che volsero restare per le promesse e partiti che li fecero quei del villaggio. Indi partiti arrivammo a San Giacomo, che è porto nell'isola di Cuba, e quivi riposatici alcuni giorni, il capitano si rifece di gente, d'arme e di cavalli. Avvenne in quel luogo che uno gentiluomo chiamato Vasco Porcalle, vicino alla villa della Trinità, che è nell'isola medesima, offerse al governatore di dargli alcune vettovaglie che egli avea in detta villa della Trinità, la quale è lontana cento leghe dal detto porto di San Giacomo, onde il governatore partí con tutta l'armata alla volta di quella villa. Ma, arrivati a mezo il cammino ad un porto che chiamano il capo di Santa Croce, parve al governatore che fosse bene d'aspettar quivi, e mandar solamente un navilio a pigliare quelle vettovaglie; e cosí ordinò ad un capitano Pantoxa che v'andasse col suo navilio, e che per maggior sicurezza v'andasse seco ancor io, ed egli si rimase quivi con quattro navilii, avendone già comprato un altro nell'isola di San Domenico. Arrivati noi co' nostri due navilii al porto della Trinità, il capitano Pantoxa se n'andò con Vasco Porcalle per pigliare le vettovaglie alla villa, che è lontana dal porto una lega, e io mi fermai quivi in mare co' pilotti, i quali ci dissero che quanto piú presto fusse possibile ci disbrigassimo di quei luoghi, perchè quello era un molto mal porto e vi soleano perire molti navili. E perchè quello che quivi ci avenne fu cosa molto segnalata, parmi che non sia fuor del proposito dell'intenzione mia in descriver questo viaggio e narrarla.
La mattina seguente il tempo cominciò a dar tristi segni, cominciando a piovere e il mare a turbarsi, in modo che quantunque io dessi licenza alla gente che smontasse in terra, nondimeno, vedendo il tempo che faceva, ed essendo la villa lontana una lega, molti di loro per non stare all'acqua e al freddo se ne ritornarono in nave. In questo venne una canoa dalla villa, ove mi portavano una lettera d'un vicino d'essa villa, che mi pregava ch'io andasse da lui, che mi darebbe tutte quelle vettovaglie che bisognassero: ma io mi scusai con dir che non potevo lasciare i navilii. Sul mezzogiorno ritornò la canoa con un'altra lettera, nella quale con molta importunità mi pregava del medesimo che con la prima, e menavano un cavallo che mi portasse. Io diedi la medesima risposta che avevo data la prima volta, ma i pilotti e l'altra gente mi pregarono molto ch'io vi andasse, per sollecitare che le vettovaglie si portassero il piú presto che fusse possibile, per partirci subito di quel porto, dove stavamo con molta temenza di perderci con tutti i navilii se vi stavamo troppo. Laonde io mi disposi d'andarvi, e lasciai ordine ai pilotti che, se si alzasse il vento ostro, col quale in quei luoghi sogliono spesse volte rovinarsi i navilii, ed essi si vedessero in pericolo manifesto, dessero co' navilii a traverso in parte che si salvasse la gente e i cavalli. E cosí io smontai in terra, e, quantunque volesse menare alcuni in mia compagnia, essi non volsero venirvi, dicendo che pioveva troppo forte ed era troppo gran freddo, e la villa stava assai lontana, ma che il dí seguente, che era domenica, essi con l'aiuto di Dio uscirebbono per udir messa. Un'ora dipoi che io fui in terra, il mare cominciò a divenire molto fiero, e la tramontana fu tanto potente che i battelli non ebbero ardimento di dare in terra, né con navilii poterono in alcuna guisa dare a traverso, per essere il vento in prua, onde con molto gran travaglio, con due tempi contrari e con molta pioggia si stettero tutto quel giorno e la domenica. La notte appresso, l'acqua e la tempesta cominciò a crescer tanto che non meno tormentava quei di terra che quei di mare, perchè caddero tutte le case e tutte le chiese, ed era di mestieri che andassimo sette e otto uomini abbracciati insieme per poter resistere al vento, che non ci portasse, e fuggire la rovina delle case; fuggendo alla foresta, non minor tema ci davano gli arbori di quella che ci avessero date le case, perciochè ancor quelli cadendo ci tenevano in continuo timore di ammazzarci. In questa tempesta e pericolo passammo tutta la notte, senza trovare parte né luogo dove pure una mezza ora potessimo star sicuri; ma principalmente dalla mezzanotte innanti udimo romori e gridi grandi, e suoni di sonagli, di flauti e di tamburi e altri stromenti, che durarono insino alla mattina, che la tempesta cessò. In que' paesi non fu veduta giamai cosa tanto spaventevole, e io ne feci fare una testimonianza o fede, la qual mandai alla Maestà Vostra. Il lunedí mattina ce ne scendemmo al porto, e non vi trovammo i navilii; ma vedemmo de' suoi arnesi nell'acqua, onde conoscemmo che erano perduti. E cosí ci demmo ad andar per la costa cercando se ritrovassimo qualche cosa, ma non ritrovando nulla ci mettemmo a cercar per i monti, e andati da un quarto di lega lontani dall'acqua, trovammo la barchetta d'un navilio posta sopra certi arbori, e piú oltre dieci leghe per la costa si ritrovarono due persone del mio navilio, e alcuni coverchi di cassa: e quei due uomini erano sí fattamente trasfigurati e contraffatti da' colpi del lito e del mare, che non si potevano riconoscere chi fossero. Trovammo ancora una cappa e una coltra fatta in pezzi, né altra persona o cosa di piú si ritrovò mai. Perderonsi in que' due navilii sessanta uomini e venti cavalli, e que' che rimasero vivi furono solamente da trenta, che il dí medesimo che arrivammo in quel porto scesero in terra insieme col capitano Pantoxa. Stemmo in tal maniera alcuni giorni con molto travaglio e con molta necessità, perchè il sostentamento e la provisione di quel popolo era tutto perduto e andato in rovina con alcuni bestiami, e il paese rimase in modo che era gran compassione a vederlo, caduti gli arbori, brucciati i monti e rimasi senza frondi e senza erba. E cosí passammo insino a' cinque di novembre, che vi sopragiunse il governatore della nostra armata co' suoi altri quattro navilii, i quali avevano ancor essi passati gran pericoli e tormenti, ed erano scampati perchè con tempo buono s'erano ritirati al sicuro. La gente che egli avea menato seco e que' che vi ritrovò erano tanto spaventati e impauriti de' pericoli e danni passati, che non s'assicuravano piú d'imbarcarsi d'inverno, e pregarono il governatore che gli facesse posare in que' luoghi: e cosí egli vedendo la volontà loro e quella de' vicini, cosí fece, e a me diede il carico de' navilii e della gente, che con essi me n'andassi ad invernare al porto di Sagua, che è 12 leghe lontana da quel luogo. E cosí, andativi, stemmo insino a' 20 di febraro che seguí.
In questo tempo arrivò quivi da noi il governatore con un brigantino che aveva comperato alla Trinità, e menò seco un pilotto che si chiamava Miruelo, il quale dicevano che era molto pratico e che era molto buon pilotto di tutta la costa di tramontana. Lasciava oltre a ciò il governatore nella costa di Lassarte il capitan Alvaro della Cerda, con un navilio che esso governatore avea quivi comprato, e con esso lasciò quaranta uomini e 12 altri a cavallo. Due giorni dipoi che il governatore arrivò da noi, c'imbarcammo, ed eravamo in tutto 400 uomini e ottanta cavalli sopra quattro navilii e un brigantino. Il pilotto che di nuovo avevamo preso mise i navilii per le seccagne che dicono di Canarreo, in modo che il dí seguente ci trovammo in secco, e cosí stemmo cinque giorni, toccando molte volte il fondo de' navilii in secco. In fine di quei cinque giorni, una fortuna di ostro spinse tant'acqua nelle seccagne che noi potemmo uscire, ancorchè non senza molto pericolo. Partiti di quivi, arrivammo a Guaniguanico, dove ne assalse un'altra tempesta cosí fiera che stemmo a gran pericolo di perderci; al capo di Corrientes n'avemmo un'altra, dove stemmo tre giorni. E passati questi intorniamo il capo di Santo Antonio, e con tempo contrario andammo, finchè arrivammo dodeci leghe vicine alla Havana; e stando il dí seguente per entrarvi, ci prese un tempo d'ostro che ci allungò dalla terra, e attraversammo per la costa di Florida, e arrivammo a' 12 d'aprile alla terra Martes. Cosí costeggiando la via di Florida, il giovedí santo surgemmo nella medesima costa, nella bocca d'una spiaggia, in capo della quale vedemmo alcune case e abitazioni degl'Indi.
In quel giorno medesimo uscí di nave il contator Alonso Enriquez, e si mise in una isola che è nella medesima spiaggia, e chiamò di quegli Indi, i quali vennero e stettero con esso noi buona pezza, e per via di riscatto gli diedero pesce e alcuni pezzi di carne di cervio. Il giorno appresso, che fu il venerdí santo, il governatore si sbarcò con quanta gente poterono portare i battelli, e andammo alle ville o case che avevamo vedute degl'Indi, le quali trovammo tutte sgombrate e sole, perchè la gente se n'era quella notte andata nelle loro canoe. Una di quelle case era molto grande, che capiva piú di trecento persone, le altre erano piú picciole: e vi trovammo una campanella d'oro tra le reti. L'altro giorno il governatore alzò le bandiere per Vostra Maestà e prese la possessione del villaggio nel suo real nome, e presentò le provisioni e fu ricevuto e obedito per governatore, sí come Vostra Maestà ordinava. E cosí medesimamente presentammo noi altri le nostre provisioni avanti a lui, il quale l'accettò e obedí come in esso si conteneva, e subito fece sbarcare il resto della gente e i cavalli, che non erano piú che quarantadue, perchè gli altri per le molte tempeste e colpi di mare, e per la longhezza del tempo, erano morti: e questi pochi che erano rimasi stavano tanto fiacchi e affaticati, che per allora poco ce ne potemmo servire. Il dí seguente gl'Indi di quei luoghi vennero a noi, e quantunque ci parlassero, nondimeno non erano da noi intesi, ma facevano molti segnali e minaccie, e ci parea che dicessero che noi ci partissimo di quel villaggio, e cosí senza farci veruno impedimento se n'andarono.
Il dí appresso il governatore volle entrar per il villaggio, per discoprirlo e veder che cosa vi fosse. Fummo seco il commissario, il veditore e io con quarant'altri uomini, tra' quali n'erano sei a cavallo, de' quali poco ci potevamo valere. Prendemmo il cammino verso tramontana, e all'ora del vespro arrivammo ad un golfo molto grande, che ci pareva che entrasse molto per dentro il villaggio, e quivi fermatici quella notte, il dí seguente ritornammo dove stavano i navili e la gente nostra. Il governatore comandò che il brigantino andasse costeggiando la via di Florida, e cercasse il porto che il pilotto Miruelo avea detto di sapere: ma già l'aveva smarrito e non sapeva in che parte noi fossimo, né dove era il porto; e fu ordinato al detto brigantino che, se non trovava il porto, attraversasse alla Havana e trovasse il navilio che teneva Alvaro della Cerda, e presa qualche vettovaglia ci tornasse a trovare. Partito il brigantino, ritornammo ad entrar per il villaggio di quei medesimi di prima, con alcuni di piú e costeggiammo il golfo che avevamo trovato, e andati da quattro leghe pigliammo quattro Indiani e mostrammo loro del maiz, perchè insino a quel giorno non n'avevamo ancor veduto segnale alcuno: essi dicessero di menarci dove n'era, e cosí ci menarono al villaggio loro, ch'era non lontano di là al capo del golfo, e quivi ci mostrarono un poco di maiz, che ancora non era maturo da cogliersi. Trovammo quivi molte casse di mercatanti di Castiglia, e in ciascuna di esse era un corpo d'uomo morto, coperti tutti di pelli di cervi dipinti: al commissario parve che quella fosse spezie d'idolatria, e bruciò le casse con tutti i corpi. Trovammovi ancora pezzi di tela di panni e pennacchi che parevano della Nuova Spagna, e alcune mostre d'oro, e con segni domandammo a quegli Indiani onde avessero avute tai cose. Essi pur a segni ci mostrarono che molto lontano di quivi era una provincia che si chiamava Apalachen, nella quale era gran quantità d'oro: e facevano gran segni per darci ad intendere che in detta provincia era molta copia di tutto quello che dicevano, che in Palachen ve ne era molto, e a noi è tenuto in pregio. Noi partiti di là andammo avanti, menando per guida quei quattro Indiani che avevamo presi prima, e cosí, lontano dieci o dodeci leghe di quel luogo, trovammo un altro popolo di quindeci case, dove era una buona campagna di maiz seminato, il quale già stava da potersi cogliere, e trovammone ancor del secco. Quivi ci fermammo duoi giorni, e dipoi tornammo dove stava il contatore con la gente e navilii, e narrammo loro tutto quello che avevamo veduto, e le nuove che quegli Indi ci avean date.
E il dí seguente, che fu il primo di maggio, il governatore chiamò da parte il commissario, il contatore, il veditore e me, e un marinaro che si chiamava Bartolomeo Fernandez, e uno scrivano chiamato Girolamo d'Alaniz, e a tutti insieme disse che egli era d'animo d'entrar per la terra adentro, e che i navilii s'andassero costeggiando finchè trovassero il porto, e che i pilotti dicevano e credevano che, andando alla via delle Palme, non potevano esserne molto lontani: onde ci dimandava il parer nostro. Io risposi che per niun modo mi pareva che si dovessero lasciare i navilii finchè non fossero in porto sicuro e popolato, e che considerasse bene, perchè i pilotti non dicevano alcuna cosa di certo, e non si fermavano in un parere, e non sapevano dove fussino; e che, oltre a ciò, i cavalli non stavano in modo che per alcun bisogno che ci avenisse potessero servirci, e sopra tutto che noi andavamo muti e senza lingua da poterci intendere con gl'Indi, né saper da essi quel che cerchiamo; e che noi entravamo in paese del quale non avevamo relazione alcuna, né sapevamo di che sorte fosse, né che cose vi si trovassero, né da che gente abitata, né in che parte di quella stavamo, e sopra tutto non avevamo vettovaglia per entrare in luoghi incogniti, perchè, veduto quello ch'era ne' nostri navilii, non si potea dare all'entrar per terra piú che una libra di biscotto e una di carne di porco per persona; e finalmente che il parer mio era che ci dovessimo imbarcare e andar a trovar porto e terra migliore e piú popolata di quella che quivi avevamo veduta, la quale era tanto disabitata e povera quanto altra che se ne potesse trovare in quelle parti. Al commissario pareva tutto il contrario, dicendo che non era da imbarcarsi, ma che andando sempre per terra costeggiando si cercasse il porto, poichè i pilotti dicevano che la via di Panuco non poteva esser lungi piú di dieci o 15 leghe, e che non era possibile che andando sempre alla costa non lo trovassimo, perchè dicevano ch'era dodeci leghe dentro terra, e che i primi che lo trovassero aspettassero finchè arrivassero gli altri; e che l'imbarcarsi era un tentare Iddio, poichè dal dí che ci eravamo imbarcati in Castiglia avevamo passate tante fortune, tanti travagli, e perduta tanta gente e navilii: onde si dovea andar lungo la costa fino che si trovasse il porto, e che i navilii con l'altra gente anderia per l'istessa via, finchè arrivasse al medesimo porto. A tutti gli altri che quivi erano parve che fussi bene che cosí si facesse, eccetto che allo scrivano, il qual disse che, avanti che abbandonasse i navilii, gli doveva lasciare in porto conosciuto e sicuro e in paese popolato, e che, fatto ciò, si poteva poi entrar per terra e far tutto quello che gli paresse. Il governatore volle seguire il parer di se stesso e di quegli altri che l'aveano consigliato prima. Io, veduta questa sua determinazione, lo richiesi da parte della Maestà Vostra che non si dovessero lasciare i navilii finchè non fossero in porto e sicuri, e cosí richiesi lo scrivano che ne facesse testimonio. Il governatore mi rispose che, poichè egli seguiva il parer di piú altri ufficiali e del commissario, io non ero parte sofficiente a farli questa richiesta, e domandò allo scrivano che facesse testimonianza come, non essendo in quel villaggio sostentamento da potervi abitare, né porto per li navilii, egli levava quel popolo che vi era e andavasene in cerca di porto e di paese migliore di quello: e cosí mandò subito a far intendere a quei che dovevano andar seco che si provedessero di tutto quello che giornalmente loro bisognasse. E doppo questo, in presenzia di tutti coloro che quivi erano, mi disse che, poi ch'io tanto disturbavo e tanto temevo l'entrar per terra, mi rimanesse e mi prendessi la cura de' navilii e della gente, e che stanziasse e abitasse se arrivavo prima di lui. Io mi scusai di non volerlo fare. Dipoi la sera medesima mi mandò a pregare ch'io volessi pigliarmi quel carico de' navilii, ma, vedendo che con tutto quel suo importunamento io tuttavia ricusavo, mi domandò per qual cagione io cosí stesse ostinato a non volerlo accettare. Al che io risposi ch'io fuggivo quel carico perchè tenevo per cosa certissima che né egli era per riveder mai piú i navilii, né i navilii lui, e che questo giudicio io facevo dal vedere che cosí male in ordine e senza provisione s'entrava per la terra adentro; onde io volevo piú tosto arrischiarmi al pericolo al quale s'arrischiava egli e gli altri, e passar quello ch'essi passavano, che prendermi il peso de' navilii e dare occasione che si dicesse che, doppo l'aver contradetto all'entrar per terra, mi fussi rimaso per paura, e l'onor mio andasse in disputa, volendo io piú tosto esporre la vita ad ogni pericolo che mettere l'onor mio a condizione tale. Il governatore, vedendo che egli meco non faceva frutto alcuno, fece che molti altri me ne pregarono, alli quali io risposi il medesimo che a lui; e cosí finalmente egli fece suo luogotenente per li navilii uno alcalde che non aveva menato seco, e chiamavasi Caravallo.
Il sabbato, che fu il primo giorno di maggio, quel dí medesimo che ciò s'era fatto, il governatore fece dare a ciascuno di quei che dovevano venir con noi due libre di biscotto e mezza libra di carne di porco, e cosí ci partimmo per entrar per la terra adentro. La somma di tutti quei che vennero fu di trecento uomini in tutto, tra li quali era il commissario fra Giovanni Sciuarez, e un altro frate che si chiamava fra Giovanni de Palis, e tre cherici e gli ufficiali; a cavallo noi eravamo 40. E cosí, con quella provisione che avevamo portato, andammo 15 giorni senza trovare altra cosa da mangiare, fuor che palmizi alla guisa di quei dell'Andaluzia. In tutto questo tempo non trovammo Indiano alcuno, né vedemmo casa né luogo abitato, e alla fine trovammo un fiume, il qual passammo con molto travaglio notando e con zattere, e stemmo un giorno a passarlo, perchè correva con molta furia. Passati dall'altra riva del fiume, ci vennero incontra da dugento Indiani, e il governatore nostro si fece avanti e, dopo l'aver parlato loro per segni, essi ci fecero all'incontro tai segni che ci attaccammo con esso loro, prendendone cinque o sei, i quali ci menarono alle lor case, ch'erano vicine da mezza lega: e quivi trovammo gran quantità di maiz che stava già da potersi cogliere, onde rendemmo infinite grazie a nostro Signore Iddio che ci avesse soccorso in cosí estrema necessità, perciochè veramente, essendo noi ancor nuovi nei travagli, oltra alla stanchezza che allora avevamo de' corpi, eravamo ancor molto sbattuti dalla fame. Il terzo giorno dipoi che quivi eravamo arrivati, fumo insieme il contatore, il riveditore, il commissario e io, e pregammo il governatore che mandasse alcuni a cercar in mare, per veder se trovassimo porto, perchè quegli Indi dicevano che il mare non era molto lontano di quivi. Egli ci rispose che non ci curassimo di parlare in ciò, perchè il mare era troppo lungo, ma, poichè io era quello che piú l'importunavo, mi disse che io andasse a scoprire il mare e cercare il porto, e che andasse a piè con quaranta uomini. E cosí il dí sequente io mi partii insieme col capitano Alonso del Castiglio e quaranta uomini della sua compagnia, e cosí andammo fino all'ora del mezzogiorno, che arrivammo ad alcune spiaggette del mare, che pareva che si stendessero molto dentro terra, e per quegli andammo da una lega e mezza con l'acqua fino a mezza gamba, calpestando sopra ostriche che ci tagliavano tutti i piedi e ci fecero molti disturbi, finchè arrivammo a quel medesimo fiume che avevamo passato prima, il quale entrava in quel medesimo golfo: e non lo potendo noi passare per il tristo apparecchio che avevamo, ce ne ritornammo al governatore, narrandogli ciò che avevamo trovato, e come era di mestiero di ripassar di nuovo quel primo fiume per quel medesimo luogo ove l'avevamo passato la prima volta, per discoprir bene quel golfo e vedere se per quei luoghi vi fusse porto. E cosí il dí appresso il governatore ordinò al capitano Valenzuela che con sessanta uomini a piede e sei a cavallo passasse quel fiume, e andasse seguitandolo in giuso, fin che arrivasse al mare, e cercasse se vi fusse porto. Colui di lí a due giorni ritornò e disse che avevano scoperto il golfo, e che tutto era spiaggia bassa fino al ginocchio: non si trovava porto; e che aveva vedute cinque o sei canoe d'Indiani, che passavano da una parte all'altra e portavano molti penacchi.
Saputo questo, il dí appresso ci partimmo di quel luogo, andando sempre dimandando di quella provincia che gl'Indiani ci avevano detto, chiamata Apalachen, e menavamo per guida quelli che avevamo presi; e cosí andammo fino a' 17 di giugno, che non trovammo Indiani ch'ardissero d'aspettarci. Quivi venne da noi un signore, che lo portava un Indiano in collo, ed era coperto d'un cuoio di cervo dipinto, e menava seco molta gente, e davanti a lui andavano sonando alcuni flauti di canna: e cosí arrivò al governatore e stette un'ora seco, e per segnali gli facemmo intendere come andavamo ad Apalachen, e per quei segnali ch'egli ci fece ci parve di comprendere ch'ei fosse nemico di quei d'Apalachen, e che verrebbe ad aiutarci contra loro. Noi gli donammo corone, sonagli, e altre cose tali, ed egli donò al governatore il cuoio che portava sopra, e cosí diede volta indietro e noi li seguimmo appresso. Quella sera arrivammo ad un fiume, il quale era molto profondo e molto largo e correva molto forte, e non ci bastando l'animo di passarlo con zattere, facemmo una canoa, e stemmo tutto un giorno a passarlo: e se gl'Indi ci avessero voluto offendere, potevano agevolmente disturbarci il passo, e ancora, con tutto che essi ci aiutarono, ci avemmo molto travaglio. Uno de' nostri a cavallo, chiamato Giovan Velasco, ch'era nativo di Cuellar, per non volere aspettare entrò nel fiume col suo cavallo, ed essendo la corrente del fiume molto gagliarda lo gettò da cavallo, ed egli, attenendosi alle redine, affogò se stesso e il cavallo insieme. E quegli Indiani di quel signore, che si chiamava Dulcancellin, trovarono il cavallo e ci dissero dove troveremo lui per lo fiume a basso, e cosí s'andò a cercarlo: e la morte sua ci diede molto dispiacere, perchè fino a quel punto non ci era mancato niuno de' nostri. Il cavallo quella notte diede da cenare a molti. E cosí, passato quel fiume, il dí seguente arrivammo alla gente di quel signore, dove ci mandò del loro maiz. La sera, andando alcuni de' nostri a pigliare acqua, fu tirata una frezza dagl'Indiani, e diede ad uno cristiano, ma piacque a Dio che non lo ferisse.
Il dí seguente ci partimmo di quel luogo, senza che alcuno di quegli Indiani comparisse, perchè tutti s'erano fuggiti. Ma nell'andare avanti si viddero alcuni Indiani che venivano di guerra, e quantunche noi li chiamassimo, essi non vollono tardare né aspettarci, ma ritirandosi ci seguivano poi per la via medesima che noi facevamo. Il governatore lasciò fra via una imboscata d'alcuni a cavallo, i quali, come quegl'Indi passarono, furon loro sopra e ne presero tre o quattro, che de lí avanti ci servirono per guida, e ci menarono per paese molto travaglioso a camminare e maraviglioso a vedere, essendo monti molto grandi e arbori altissimi, delli quali tanti n'erano caduti a terra che ci intrigavano il cammino, di maniera che non potevamo passare senza girar molto con gran nostro travaglio: e di quegli arbori ch'erano caduti, la maggior parte erano fessi dall'un capo all'altro dalle saette che quivi caggiono, essendovi sempre gran tempeste. Con questo travaglio camminammo insino al giorno doppo san Giovanni, nel qual giorno arrivammo a vista d'Apalachen, senza che quelli del villaggio ci sentissino. Rendemo noi molte grazie a Dio vedendoci cosí vicini a quel luogo, e credendo che fosse vero quello che ci era stato detto, e sperando che quivi si finirebbono i nostri travagli grandi ch'avevamo passati, sí per il lungo e tristo cammino come per la gran fame che avevamo patito, perciochè, quantunche alcune volte trovassimo del maiz, nondimeno le piú volte andavamo sette e otto leghe senza trovarne. E molti n'erano tra noi che, oltre alla fame e alla stanchezza, avevano impiagate le spalle dal continuo portar dell'arme, senza che degli altri travagli s'incontravano giornalmente. Ma pur tuttavia, vedendoci arrivati dove desideravamo, e dove ci avevano detto ch'era tanto sostenimento e tanto oro, ci era aviso d'avere passato gran parte de' travagli e della stanchezza.
Arrivati cosí a vista d'Apalachen, il governatore mi comandò ch'io pigliassi meco nove a cavallo e cinquanta a piedi ed entrasse nel villaggio: e cosí facemmo il reveditore e io, ed entrati non trovammo se non fanciulli e donne, perchè allora gli uomini non erano quivi; ma indi a poco, andando noi per quelli luoghi, vennero e cominciarono a combattere e a saettarci, e ammazzarono il cavallo al reveditore, ma alla fine fuggirono e lasciaronci. Quivi trovammo gran quantità di maiz che stava già per cogliersi, e assai del secco n'avevano rimesso; trovammovi molte pelle di cacciagioni e alcune mante di filo, picciole e triste, con le quali le donne cuoprono alcune parti della lor persona; avevano molti vasi da macinare il maiz. In quel popolo erano quaranta case piccole ed edificate basse e in luoghi raccolti, per tema delle tempeste grandi che quel paese suole aver di continuo; le fabriche sono di paglia, e stanno intorniati da monti molto spessi e grandi arboreti e molti pelaghi d'acqua ove sono tanti e tanto grandi arbori caduti che intricano ogni cosa, e fanno che non vi si può camminare senza gran travaglio.
Il terreno, dal luogo ove noi sbarcammo insino a questo popolo d'Apalachen, per la maggior parte è piano, e il suolo è d'arena duro e saldo, e per tutto si truovano molti grandi arbori e monti chiari, ove sono noci e labrani e altri che chiamano laquidambares; vi sono cedri e savine ed elci e pini e roveri e palmizi bassi, come sono quei di Castiglia. Per tutto quel paese sono molte lacune grande e picciole, e alcune ne sono molto travagliose a passare, sí per esser molto profonde, sí ancora per molti arbori che vi sono caduti; il suolo loro è d'arena, e quelle lacune che trovammo nella marca d'Apalachen sono molto maggiori che tutte l'altre che avevamo trovate fino là. In questa provincia sono molti campi del loro maiz, e le case sono sparse per la campagna, come quelle delle Gerbe. Gli animali che vi vedemmo sono cervi di tre sorti, conigli, lepri, orsi, leoni e altri sí fatti, tra' quali ne vedemmo uno che porta i figliuoli in una bolgia che ha nella pancia, e quivi li porta tutto il tempo che sono piccioli, finchè si sanno andar procacciando il mangiar da se stessi: e se a caso i figliuoli stanno in cerca del mangiare senza la madre, e a lei sopravenga gente, ella non fugge finchè se gli ha raccolti nella sua bolgia. Per que' luoghi la terra è molto fredda, e vi sono molto buoni pascoli per greggie; vi sono uccelli di molte sorti, paperi in gran quantità, oche, anatre, garze, tordi e altri uccelli di simil sorte, e vi vedemmo molti falconi, grifalchi, sparvieri e altre molte sorti d'uccelli.
Duoi giorni dipoi che noi arrivammo in Apalachen, gl'Indi che n'erano fuggiti ritornarono a noi con pace, dimandandoci i figliuoli e le donne loro: e noi li demmo tutti, se non che il governatore si ritenne un lor cazique, che fu cagione di fargli partir scandalizati. E il dí seguente ritornarono come nemici, e con tanta furia e prestezza ci assalirono, che arrivarono a mettere fuoco fino alle case dove stavamo; ma come noi uscimmo fuori, se ne fuggirono e si raccolsero alle lacune, che erano quivi molto vicine, onde per quelle, e per li frumenti che v'erano molto grandi, noi non potemmo far loro alcun danno, se non che n'ammazzammo un solo. Il dí appresso altri Indiani d'un altro popolo, che era dall'altra banda, vennero da noi e ci assalirono nel modo stesso che aveano fatto gli altri prima, e nella medesima guisa se ne fuggirono, e fu similmente ucciso un di loro. Stemmo quivi XXV giorni, ne' quali facemmo tre entrate per la terra adentro, e trovammola molto povera di gente e molto malagevole per camminare, per rispetto di tristi passi e monti e lacune che vi sono. Noi a quel cazique che avevamo ritenuto, e agli altri Indiani che menavamo con noi ed erano vicini e nemici di questi d'Apalachen, domandammo delle qualità di quel paese, della gente e delle vettovaglie e altre cose intorno a ciò; e ciascuno appertamente ci rispose che il maggior popolo di tutto quel paese era quello d'Apalachen, e che piú oltre era manco gente e molto piú povera che loro, e tutto quel paese era mal popolato, e gli abitatori stavano molto sparsi, e passando piú avanti si trovavano grandissime lacune, monti spessi e diserti grandi e disabitati. Domandammo loro del paese che era verso il sur, che popolo e mantenimenti tenesse, e ci risposero che, di quivi andando verso il mare, a nove giornate era un popolo che si chiamava Aute, e che gl'Indi di quel luogo aveano molto maiz, e che vi erano fagioli, che sono simili a li nostri cesari, e zucche, e che per esser cosí vicini al mare vi si trovava del pesce, e ch'erano amici loro. Noi, veduta la povertà del paese e come fosse mal popolato, e intesa la mala relazione che ce ne davano, e che quegl'Indi ci faceano guerra ferendoci le persone e i cavalli ne' luoghi ove andavamo a pigliare acqua, stando essi di là dalle lacune e tanto al sicuro che non gli potevamo offendere, ed essi ci frezzavano, e ammazzarono un signor di Dezaico che si chiamava don Pietro, il quale il commissario menava seco, ci accordammo finalmente di partirci de lí, e andare a cercare il mare e quel popolo d'Aute che coloro ci dicevano: e cosí ci partimmo, in capo di XXV giorni che quivi eravamo arrivati.
Il primo giorno passammo quelle lacune e tristi passi senza veder Indiano alcuno, ma il secondo dí ci venner sopra ad una lacuna di molto tristo passo, che l'acqua ci dava fino al petto e vi erano molti arbori caduti: ed essendo noi in mezo a quella gl'Indi ci assalirono, essendosi essi nascosti dietro degli arbori perchè non gli vedessimo, e altri n'erano sopra gli arbori caduti, e cominciaronci a frezzare in modo che ci ferirono molti uomini e cavalli, e ci tolsero la guida che menavamo: e questo fecero prima che noi uscissimo delle lacune. Dipoi, essendone usciti, ci furono appresso perseguitandoci per impedirne il passo, in modo che non ci giovava di spinger loro avanti, né di farci forti e voler combattere con esso loro, perchè essi subito si ficcavano nelle lacune e quindi ci ferivano i cavalli e gli uomini. Il che vedendo, il governatore comandò che quegli a cavallo scendessero e gli assalissero a piè, e cosí fecero, e il contatore scavalcò con essi, e assalitoli li posero tutti in fuga, e se ne entrarono in una lacuna: e cosí guadagnammo loro il passo. In quella mischia rimasero feriti alcuni de' nostri, che lor non valsero le buone arme che portavano, e vi furono di quei che giurarono d'aver veduto duoi roveri, grossi ciascuno come la gamba, che erano dalle frezze di quegl'Indi stati passati da banda a banda; il che perciò non è cosa da maravigliarsene, vista la forza con che le mandano, e io medesimo viddi una frezza in un piè d'un alamo, che vi entrava dentro un sommesso. Quanti Indiani noi vedemmo dalla Florida insino a quel luogo, tutti sono arcieri, ed essendo alti di corpo e andando ignudi, paiono a vederli di lontano tanti giganti. Sono gente maravigliosamente ben disposti, molto asciutti e di molta forza e leggierezza. Gli archi che usano sono grossi come il braccio, d'undeci e dodeci palmi, e tirano lontano dugento passi, e cosí di mira e giusto che non tirano mai in fallo.
Passato che avemmo questo passo, indi ad una lega arrivammo ad un'altra lacuna della medesima sorte, se non che, per esser lunga da meza lega, era molto peggior che la prima: questa passammo noi liberamente e senza disturbo d'Indiani, perciochè, avendo essi spesa tutta la munizione delle frezze loro in quel primo assalto, non ne erano rimase loro da poterci assalir di nuovo. L'altro giorno appresso, passando un altro passo tale, io trovai bestie di gente che andava avanti, e ne diedi aviso al governatore che veniva nella retroguardia, e cosí, andando noi ordinati e provisti, non ci poterono offendere. E usciti che fummo alla pianura, essi ci venivano tuttavia perseguitando, onde noi rivoltici da due parti ne ammazammo duoi di loro, ed essi ferirono me e duoi altri cristiani: e perchè essi si tirarono alla montagna, noi non potemmo far loro altro male. In questa guisa noi andammo otto giorni, e da questo passo che ho detto insino ad una lega vicino al luogo dove andavamo, non ci vennero a dar noia altri Indiani. Quivi ce ne usciron sopra alcuni e senza esser sentiti diedero nella retroguardia, e al grido che diede un ragazzo d'un gentiluomo de' nostri, chiamato Avellaneda, il già detto Avellaneda rivolgendosi corse a soccorrere, e gl'Indi lo colsero con una frezza dalla costa della corazza, e fu tale la ferita che passò quasi tutta la frezza per dietro la testa: e colui morí subito, e noi lo portammo cosí morto fino ad Aute.
Arrivammo in Aute il nono giorno doppo la partita d'Appalachen. Trovammo tutta la gente di quel luogo fuggita, e avevano brucciate le case, e vi trovammo molto maiz e zucche e fagioli, che già stavano per cogliersi. Quivi ci riposammo duoi giorni, e dipoi il governatore mi pregò ch'io andassi a scoprire il mare, poichè gl'Indiani diceano che era tanto vicino, e già ancor noi per cammino l'avevamo scoperto per un fiume molto grande che fra via avevamo trovato, e gli avevamo posto nome il fiume della Madalena. E cosí il dí seguente io andai a discoprire insieme col commissario, col capitan Castiglio e Andrea Dorantes, e con altri sette a cavallo e cinquanta a piedi; e camminammo fino all'ora del vespro, che arrivammo ad un golfo o entrata di mare, ove trovammo molte ostriche, e ringraziammo molto Iddio che ci avea condotti in tal luogo. Il dí appresso io mandai venti uomini a riconoscere la costa e considerare la disposizione del luogo. Costoro tornarono la notte seguente, e dissero che quegli golfi e spiagge erano molto grande, ed entravano tanto per la terra adentro che disturbavan molto il poter discoprir quello che noi cercavamo, e che la costa stava molto lontana de lí. Sapute queste nuove, e veduta la mala disposizione e apparecchio che quivi era per discoprir la costa, io me ne ritornai dal governatore, e lo trovai ammalato con molti altri; e la notte avanti gli Indiani gli avevano assaliti e dato loro molta noia, per avergli trovati infermi, e avevano ucciso un cavallo. Io diedi conto al governatore di quello che avevo fatto e della mala disposizione della terra, e per quel giorno ci stemmo quivi.
Il giorno seguente ci partimmo d'Aute, e camminammo tutto quel giorno fino ad arrivar dove io ero stato prima: fu il cammino molto travaglioso, perchè né i cavalli bastavano a portare gli infermi, né sapevamo che remedio pigliare, perchè ogni giorno s'amalavano piú, che certo fu cosa di molta gran compassione e dolore a veder la gran necessità e travaglio in che stavamo. Arrivati vedemmo il poco rimedio che vi era per passar avanti, per esser la maggior parte de' nostri infermi, e in tal maniera che pochi ve n'erano che in alcuna guisa ci potevamo valer di loro. Lascio io qui di narrar questo piú a lungo, perchè ciascuno può considerar per se stesso come si stia in paese cosí strano e tristo, e senza alcun rimedio per fermarsi né per passare oltre. Ma, essendo il piú certo rimedio Iddio Signor nostro, e di questo noi non ci sconfidammo giamai, avenne quivi cosa che aggravava molto piú, e questo fu che la maggior parte della gente nostra a cavallo si cominciò a partir segretamente, pensando di trovar da se stessi rimedio, e lasciare il governatore e gli infermi, che stavano senza alcuna forza o potere. Ma pur tuttavia essendo tra loro molti gentiluomini e persone da bene, non volsero che ciò si facesse senza saputa del governatore e ufficiali della M.V., e come noi biasmammo quel lor proposito e lor facemmo vedere in che termine lasciassero il lor capitano e gl'infermi, e sopra tutto ricordammo loro il servigio di V.M., s'accordarono di rimanere, e che quello che avenisse ad uno di noi avenisse a tutti, né uno abandonasse mai l'altro. Doppo questo il governatore li fece chiamar tutti, e a ciascuno dimandò il parere loro, come si potesse uscir di simil paese e trovar qualche rimedio, essendo piú della terza parte de' nostri infermi: e potevamo tener per certo che, seguendosi cosí, d'ora in ora infermeriamo tutti, e non se ne poteva sperare se non la morte, la quale per trovarci in que' luoghi ci dovea parer piú grave. Finalmente, veduto e conservato molto bene questo e molt'altri inconvenienti, e tentati molti rimedii, convenimmo tutti in un parer molto mal agevole a metter in opera, e questo era di far navilii per andarcene. A tutti pareva cosa impossibile, perchè noi altri non gli sapevamo fare, né avevamo ferramenti né fucina né stoppa né pece né sarte, né finalmente cosa alcuna di tante che ne bisognano in tale esercizio, e sopra tutto non avendo che mangiar fra tanto che si facessero. E cosí, considerato tutto questo, ci accordammo che si dovesse in ciò pensar con piú tempo, e cosí per quel giorno cessò quella pratica e ciascuno se n'andò, raccomandandoci a Dio che c'indrizzasse come piú gli fusse servizio.
Il dí seguente piacque a Dio che venne uno de' nostri, il qual disse che egli faria alcuni canoni di legno, e con alcuni pelli di selvaggine si farebbono alcuni folli da soffiare. E trovandoci noi a tempo che qualsivoglia cosa che avesse ogni poco di colore o d'ombra di rimedio ci pareva assai, dicemmo che si facesse, e ci convenimmo che delle staffe e degli sproni e balestre e altre cose di ferro che erano tra noi si facessero i chiodi, le seghe, l'accette e altri ferramenti, poi che tanto bisognavano. E prendemmo per rimedio che, per avere alcun sostentamento finchè questo si mettesse in opera, si facessero quattro entrate in Aute con tutti i cavalli e altri che potessero andarvi, e che ogni terzo giorno s'ammazzasse un cavallo, il quale si compartisse tra quei che lavoravano nel far delle barche e tra gli infermi. L'entrate si fecero con quei cavalli e gente che fu possibile, nelle quali si portarono da quattrocento stara di maiz, benchè non senza contesa e questioni con quegli Indi. Facemmo cogliere molti palmizi per poterci valere della lana e corteccie loro, torcendole e indirizzandole per usare in vece di stoppa per le barche, le quali si cominciarono a fare con un solo carpentiere che era nella compagnia nostra. E tanta diligenza vi ponemmo che, essendosi cominciate a' quattro d'agosto, a' venti del settembre prossimo furono finite cinque barche di ventidue codami per una, e riempiemo le fessure e calcate con stoppe de' palmizi, e impegolammole con certa ragia che un Greco chiamato don Teodoro portò d'alcuni pini, e della medesima robba de' palmizi, e delle code e crini de' cavalli facemmo corde e sarte, e delle nostre camicie facemmo vele, e delle savine che quivi erano facemmo que' remi che ci parvero esser necessarii. E tale era quel paese, nel quale i peccati nostri ci aveano condotti, che non vi si trovavano pietre per lastrigar le barche, né per tutto quel paese n'avevamo veduta alcuna. Scorticammo similmente le gambe intere de' cavalli, e conciammo i cuoi per farne vasi da portar acqua. In questo tempo alcuni de' nostri andavano cogliendo tamarindi per gli angoli ed entrata del mare, ove gl'Indi in due volte che gl'incontrarono ammazzarono X cristiani, cosí vicini agli alloggiamenti nostri che gli vedemmo e non gli potemmo soccorrere, e gli trovammo da parte a parte passati con frezze, che, quantunque i nostri avessero buonissime armature, non bastarono a resistere a' colpi loro, tirando quegl'Indi con tanta forza e destrezza con quanta di sopra s'è detto. E al detto e giuramento de' nostri pilotti, della spiaggia alla quale ponemmo nome della Croce insino a questo luogo noi andammo da dugentottanta leghe, poco piú o meno, e in tutto quel paese non vedemmo montagne, né avemmo alcuna notizia per alcuna via che ve ne fussero; e avanti che ci imbarcassimo, oltre a que' che ci avevano uccisi gl'Indi, ci morirono piú di quaranta altri uomini d'infermità e di fame. A' XXII di settembre si finirono di mangiare i cavalli, che solamente uno ce ne rimase, e in quel giorno ci imbarcammo con questo ordine: nella barca del governatore andavano quarantanove uomini, e nell'altra ch'egli diede al contatore e al commissario andavano altrettanti; la terza diede al capitan Alonso del Castiglio e Andrea Durante con quarantaotto uomini, e altra ne diede a due altri capitani, che si chiamavano l'uno Telles e l'altro Pignalosa, con quarantasette uomini; l'altra al veditore e a me con quarantanove uomini. E dipoi che furono imbarcati le vettovaglie e gli arnesi e cose nostre, alla barca non avanzava piú d'una quarta sopra l'acqua, e oltre a ciò andammo tanto stretti che non ci potevamo menare né rivoltare per la barca: e tanto potette la necessità, che ci fece arrischiare ad andare in questa guisa e mettersi in un mare cosí pericoloso, senza che niuno di noi sapesse l'arte del navigare.
Quella spiaggia onde partimmo ha per nome la spiaggia de' Cavalli, e andammo sette giorni per que' golfi con l'acqua fino alla cintura, senza vedere alcun segnale di costa, e al fine di quei sette giorni arrivammo ad un'isola che sta vicina alla terra. La barca mia andava davanti, e vedemmo venir cinque canoe d'Indiani, i quali le sgombrarono tutte e le lasciarono nelle nostre mani, vedendo che noi andavamo verso loro. L'altre barche nostre passarono avanti e diedero in alcune case dell'isola medesima, ove trovarono molte lize e ova loro, che erano secche, e ci fu molto rimedio per la necessità in che noi stavamo. Doppo questo passiamo avanti, e indi a due leghe passiamo uno stretto che fa quell'isola con la terra, e lo chiamammo lo stretto di San Michele, perchè nel giorno di detto santo vi passammo. Usciti di quello stretto arrivammo alla costa, ove, con le cinque canoe che io aveva tolte agl'Indi, rimediammo ad alcune cose delle nostre barche, facendone falque e aggiungendole alle nostre, in modo che uscirono due palmi sopra l'acqua. E con questo tornammo a caminar lungo la costa per la via del fiume delle Palme, crescendoci tuttavia la sete e la fame, perchè le vettovaglie erano molto poche e stavano molto al fine, e l'acqua ci mancò, perchè le botti che avevamo fatte delle pelli de' cavalli subito furono marcie e non ci giovarono di nulla, e molte volte entrammo per alcuno golfo e spiaggie che entravano molto per entro terra, e le trovammo basse tutte e pericolose: e cosí andammo XXX giorni, e alcune volte trovammo alcuni Indiani pescatori, gente povera e miserabile. E a capo di questi XXX giorni, che la necessità dell'acqua era estrema, andando noi vicini alla costa, una notte sentimmo venire una canoa, e vedendola aspettammo che arrivasse, ed ella, ancorchè noi la chiamassimo, non volse venire né guardarci, e per essere notte non la seguitammo e andammo al viaggio nostro. Nel far del giorno vedemmo un'isoletta e andammovi per vedere se vi trovassimo dell'acqua, ma ci affaticammo in vano, perchè non ve n'era. Stando quivi surti ci prese una tempesta molto grande, onde vi stemmo sei giorni senza aver animo di rientrare in mare, e avendo cinque giorni che non avevamo bevuto, la sete era tanto grande che ci fu forza di bevere dell'acqua del mare, e alcuni s'allargaron tanto nel bevere che di subito ci morirono cinque uomini. Io racconto queste cose cosí brievemente perchè non credo che sia di mestieri narrar particolarmente le miserie in che ci trovammo, poichè, considerando il luogo ove stavamo e la poca esperienza d'alcun rimedio, ciascuno può pensar da se stesso in che termine ci ritrovassimo.
Finalmente, vedendo che la sete cresceva e l'acqua salata ci ammazzava, ci disponemmo, se ben la tempesta non era ancor cessata, di raccomandarci a Dio nostro Signore, e piú tosto arrischiarci al pericolo del mare che aspettar la certezza della morte che la sete ci dava: e cosí uscimmo per la via onde avevamo veduta passar la canoa la notte che di quivi eravamo passati. In questo giorno ci vedemmo molte volte annegati, e tanto perduti che non era alcuno di noi che non ci tenesse per certa la morte. Piacque a nostro Signore Dio, il quale nelle maggiori necessità suol mostrare il favor suo, che a posta di sole voltammo una ponta che fa la terra, ove trovammo molta bonaccia e tranquillità. Uscirono verso noi molte canoe, e gl'Indi che v'eran dentro ci parlarono e senza mirarci se ne tornarono: erano gente grande di corpo e ben disposti, e non portavano frezze né archi. Noi altri gli seguimmo insino alle case loro, che stavano quivi vicini alla lingua dell'acqua, e saltammo in terra, e davanti alle case trovammo molti cantari d'acqua e molta quantità di pesce condito, e il signor di quella terra l'offerí tutto al governatore, e pigliandolo per mano lo menò alla casa sua. Le case di costoro erano di stuore, molto bene fabricate. E dipoi che entrammo in casa del cacico o signore loro, ci diede molto pesce, e noi gli demmo del pane di frumento che portavamo, e lo mangiarono in nostra presenzia e ce ne domandarono dell'altro, e noi ne demmo a loro, e il governatore diede al caciche molte cosette. E stando seco nella sua casa, intorno a mezza ora di notte gli Indi assaltarono noi e quegli altri de' nostri che stavano molto male, gettati per quella costa, e assalirono ancora la casa del cacico, dove era il governatore, e lo ferirono d'una pietra nel viso e presero il cacico. Ma egli, avendo i suoi cosí vicini, scampò via e lasciò una sua manta di pelli di mardole zibelline, che sono al parer mio le megliori di tutto il mondo, e hanno uno odore che non pare se non d'ambra e muschio, e si sente l'odore gran pezzo lontano: ve ne vedemmo ancor dell'altre, ma niuna ve ne era che fusse come quella. Noi, vedendo il governatore ferito, lo mettemmo nella barca e facemmo che seco si riducesse alle barche la maggior parte della gente, e restammo in terra solamente cinquanta uomini per combattere con gl'Indi, che quella notte ci assalirono tre volte, e con tanto impeto che ogni volta ci facevano ritirare un tratto di pietra: e niuno vi ebbe de' nostri che non fusse ferito, e io fui ferito nella faccia, e se, come essi si ritrovarono con poche frezze, ne avessero cosí avute molte, per certo ci averebbono fatto troppo gran danno. L'ultima volta si posero in aguato i capitani Dorante, Pegnalosa e Tellos con quindeci uomini, e diedero loro nelle spalle, e in modo tale che gli fecero fuggire e ci lasciarono; e il dí seguente io ruppi a loro piú di venti canoe, che ci valsero per una tramontana che soffiava, e per tutto quel giorno ci convenne star quivi con molto freddo, senza avere ardire d'entrare in mare per la gran tempesta che vi era.
Doppo questo tornammo ad imbarcarci e navigammo tre giorni, e avendo presa poca acqua, come pochi ancora erano i vasi che avevamo ove portarla, tornammo a cadere nella medesima necessità di prima. E seguendo il viaggio nostro entrammo nello stretto, ove stando vedemmo venire una canoa d'Indiani, e come noi li chiamammo vennero, e il governatore, alla barca del quale s'erano accostati, loro domandò dell'acqua, ed essi gliene offersero, purchè si dessero loro vasi dove portarla. E un cristiano greco chiamato Doroteo Teodoro, del quale disopra s'è fatta menzione, disse che voleva andar con essi loro, e quantunque il governatore e molti altri s'affatigassero di sconsigliarlo, egli tuttavia volle andarvi, e menò seco un nero, e gl'Indiani lasciarono per ostaggi due di loro. La sera quelli Indiani tornarono e portaronci i nostri vasi senza acqua, e non rimenarono i due cristiani nostri; e quelli due loro che erano rimasi per ostaggi, tosto che essi parlarono loro, si volsero gettare in acqua, ma i nostri che gli avevano in barca li ritennero, e cosí gli altri Indiani se ne fuggirono, e lasciaronci molto confusi e tristi per li due cristiani che avevamo perduti.
La mattina seguente vennero da noi molte altre canoe d'Indiani, domandandoci i duoi loro compagni che ci avevano lasciati per ostaggi: il governatore rispose che li darebbe, purchè essi ci rendessero i due cristiani. Con questa gente venivano da cinque o sei signori, e ci parve la piú ben disposta e di maggiore autorità e conserto di quanti altri ne avevamo trovati fin qui, benchè di persona non fussero cosí grandi come gli altri che abbiamo contati. Portavano i capelli sciolti e molto lunghi, ed erano coperti di mante di mardole della sorte di quelle che di sopra si dissero, e alcune d'esse erano fatte di molto strana guisa, avendovi alcuni lacci di lavoro di pelle leonate che parevano molto belle. Ci pregavano che noi andassimo con esso loro, che ci darebbono i nostri due cristiani e acqua e altre molte cose, e di continuo venivano sopra noi molte canoe, procurando di pigliar la bocca di quella entrata, e cosí per questo come perchè il luogo era molto pericoloso, ce ne uscimmo al mare, dove stemmo con esso loro fino a mezzogiorno. Ma, non volendoci rendere i nostri cristiani, e per questo non volendo ancor noi rendere loro i due ostaggi, cominciarono a tirarci pietre con frombe, con mostrar di volerci frezzare, benchè tra essi non vedemmo se non tre o quattro archi. E cosí stando, il vento si rinfrescò ed essi se n'andarono, e noi navigammo tutto quel giorno fino all'ora del vespero, quando la barca mia che andava avanti discoperse una punta che la terra faceva, e dall'altro capo si vedeva un fiume, e io feci sorgere in una isoletta che faceva quella punta per aspettar l'altre barche.
Il governatore non volse accostare, ma si mise in una spiaggia che era quivi molto vicina, ove erano molte isolette, e quivi si ragunammo tutti, e da dentro il mare pigliammo acqua dolce, perchè il fiume entrava nel mare di tratto e con furia; e per poter brustolare un poco di maiz che portavamo, che già due giorni lo mangiammo crudo, saltammo in terra in quell'isola, ma, non trovando legne, ci accordammo d'andare al fiume che era di dietro alla punta, una lega di quivi. E andando era tanta la corrente del fiume che in niuna maniera non ci lasciava arrivare, anzi ci rispingeva dalla terra, e noi altri affaticandoci e ostinandoci per prenderla, la tramontana che veniva da terra cominciò a crescer tanto che ci rigettò al mare, senza che potessimo fare altro: ed essendo a meza lega in mare, misurammo e trovammo che con trenta braccia non potevamo prender fondo, e non potemmo conoscere se la corrente era cagione che non potessimo pigliare. E cosí navigammo due giorni, travagliando tuttavia per pigliar terra, e al fine di quelli duoi giorni un poco avanti l'uscita del sole vedemmo molti fiumi per la costa, e affaticandoci per arrivar dove quegli erano, ci trovammo in tre braccia d'acqua, e per essere notte non ardimmo di pigliar terra, perchè, avendo veduti tanti, credevamo che ci potesse avenir qualche pericolo, senza che noi per la molta scorrenza potessimo vedere che facevamo: e per questo determinammo d'aspettare alla mattina, e cosí, essendo venuto il giorno, ciascuna delle nostre barche si trovò separata dall'altre, e io mi trovai in trenta braccia. E seguendo il viaggio mio, all'ora del vespro viddi due barche, e accostatomi alla prima viddi che era quella del governatore, il qual mi dimandò che mi parea che dovesse farsi; e io gli disse che mi pareva di ricuperar quella barca che andava avanti, e che in niuna guisa non la lasciasse, e che, unite tutte tre quelle nostre barche, noi seguissimo poi il viaggio nostro ove Iddio ci guidasse. Egli mi rispose che ciò non poteva farsi, perchè quella barca era molto dentro al mare, e vi volea prender terra, e che, se io voleva esser seco, facesse che quei della barca mia prendessero i remi e si sforzassero quanto poteano, perchè a forza di braccia conveniva prender terra: e a questo lo consigliava un capitano che era seco, chiamato il capitan Pantossa, dicendo che se quel giorno non si prendeva terra, non si prenderebbe poscia in altri sei, e tra tanto era necessario morir di fame. Io veduta la volontà sua presi il mio remo, e cosí fecero tutti gli altri che erano nella barca mia, e vogammo finchè quasi fu tramontato il sole; ma, avendo il governator nella sua la piú sana e gagliarda gente de' nostri, noi in niuna guisa lo potemmo seguire. Il che vedendo, io gli domandai che per poterlo seguire mi desse un capo della sua barca, ed egli mi rispose che essi non farebbon poco se essi soli, quella notte, potessero arrivare a terra. E io gli disse che, poi ch'io vedeva la poca possibilità che vi era da poterlo seguire e far quello che esso avea comandato, mi dicesse allora che comandava ch'io facesse: egli mi rispose che non era piú tempo di comandar uno ad altri, ma che ciascuno facesse quello che li parea meglio per salvezza della vita sua, e cosí dicendo s'allungò da noi con la barca sua. E non potendolo io seguire, arrivai sopra l'altra barca che andava in alto mare, e trovai che era quella de' capitani Pignalosa e Telles, e cosí navigammo quattro giorni, mangiando ciascuno per tassa mezo pugno di maiz crudo il dí.
In capo di questi quattro giorni, ci prese una tempesta che fece prendere l'altra barca, e per molta misericordia che Iddio ebbe di noi altri non ci affondammo del tutto. Ed essendo il verno e grandissimo freddo, e tanti giorni che pativamo fame, co' molti colpi che avevamo ricevuti dal mare, il dí appresso la gente cominciò molto a cadere, in tal modo che, quando il sole si colcò, tutti quei che erano nella barca mia stavano caduti uno sopra l'altro, tanto vicini alla morte che pochi ve n'avea che si sentissero, e tra tutti loro non ve ne avea cinque che stessero in piè. E come fu fatta notte, non restammo se non il maestro e io che potessimo maneggiar la barca, e alle due ore di notte il maestro mi disse che io prendesse cura della barca, perchè egli stava tale che si tenea per fermo di morir quella notte; e cosí io presi il timone, e passata mezanotte andai a veder se 'l maestro era morto, ed egli mi disse che piú tosto stava meglio e che governeria la barca fino al giorno. Io certamente mi ritrovavo allora in tale stato, che molto piú volentieri averia pigliata la morte, che veder tanta gente avanti a me in quella maniera che quegli stavano. E dipoi che il maestro prese il carico della barca, io mi riposai un poco, ma molto inquietamente, che allora non era cosa da me piú lontana che il sonno, e appresso all'aurora mi parvi d'udire il tumulto e romor del mare, perchè, essendo la costa molto bassa, sonava molto; onde con questo io chiamai il maestro, il quale mi rispose che credeva che già noi fossimo vicini a terra, e tentando ci trovammo in sette braccia, e gli parve che ci dovessimo stare in mare insino al far del giorno. E cosí io presi un remo e vogai dalla banda della terra, che ci trovammo una lega vicini, e demmo la poppa al mare, e vicino a terra ci prese una onda, che rigittò la barca in mare un buon tratto di mano, e col gran colpo che diede quasi tutta la gente, che vi stava come morta si risentí. E vedendoci vicini a terra, ci cominciammo a levare e andar con mani e con piedi, e usciti in terra facemmo del fuoco a certi fossi, e cocemmo del maiz che portavamo e trovammo dell'acqua piovuta, e col calor del fuoco la gente si riebbe e cominciarono a prender forza. E il dí che quivi arrivammo era il sesto di novembre.
Dipoi che la gente ebbe mangiato, io comandai a Lope d'Oviedo, il quale avea piú forza ed era piú gagliardo di tutti gli altri, che s'accostasse a qualche arbore di quei ch'erano quivi presso, che, salito in uno d'essi, discoprisse la terra ove stavamo e vedesse d'averne qualche notizia. Egli cosí fece, e vidde che stavamo in isola, e che la terra era cavata alla sorte che suole star la terra dove vada bestiame, e per questo gli parve che dovesse esser terra di cristiani, e cosí ce lo disse. Io gli replicai che tornasse a guardarla molto meglio e particolarmente, e vedesse se vi era alcun cammino che fosse seguito, ma che però non si dilungasse molto, per il pericolo che vi potrebbe essere. Egli andò e, dato in una stradela, andò per quella avanti fino a meza lega, e trovò alcune capanne d'Indi che stavano sole, perchè quegl'Indi erano andati al campo, e cosí egli prese un'olla e un cagnoletto picciolo e un poco di lize, e se ne tornò da noi. E parendoci che tardasse troppo, li mandammo appresso duoi altri cristiani per cercarlo e veder che gli fosse avvenuto, e cosí l'incontrarono quivi appresso, e viddero che tre Indi con archi e frezze gli venian dietro chiamandolo, ed egli chiamava loro per segni. E cosí arrivò dove noi altri stavamo, e quegli Indi si fermarono un poco adietro assisi nella medesima riviera; e indi a meza ora sopragiunsero altri cento Indi arcieri, i quali ancorchè fosser grandi, nondimeno il timore ce li faceva parer giganti, e si fermarono intorno a noi altri, ove stavano quei tre di prima. Tra noi era cosa vana il pensar che vi fusse chi si difendesse, perchè appena ve ne erano sei che si potessero alzar da terra. Il veditore e io ci accostammo verso loro e chiamammoli, ed essi s'accostarono a noi, e, come potemmo il meglio, procurammo d'assicurar loro e noi stessi: demmo loro corone e sonagli, e ciascuno d'essi mi diede una frezza, che è segno d'amicizia, e per segnali dissero che la mattina tornerebbono da noi e ci porteriano da mangiare, perchè allora non ne aveano.
Il dí appresso, nel far del giorno, che era l'ora che gli Indi avevano detto, essi vennero a noi e ci portarono molto pesce e alcune radici che essi mangiano, e sono come noci, e qual piú e qual manco, e si cavano di sotto l'acqua con molto stento. Al tardi ritornarono di nuovo e ci portarono piú pesce e delle medesime radici, e menarono con essi loro le donne e i figliuoli, perchè ci vedessero, e cosí se ne tornarono ricchi di corone e sonagli che loro donammo, e l'altro giorno ci tornarono a visitare con le medesime cose che l'altre volte. Ora, vedendo noi altri che eravamo già provisti di pesce, di quelle radici, d'acqua e d'altre cose che potemmo, ci accordammo d'imbarcarci e seguire il viaggio nostro, e cavammo la barca dell'arena nella quale era fitta: e ci bisognò spogliare nudi, e patimmo gran fatica per vararla in acqua, per esser noi altri tanto deboli che cosa piú leggiera che quella ci averia dato gran fatica. E cosí imbarcati a due tratti di balestra dentro il mare, ci diede tal colpo d'acqua che ci bagnò tutti, ed essendo noi ignudi e il freddo molto grande, rallentammo le mani ai remi, e un altro colpo che il mare diede la barca si rivoltò; onde il veditore e due altri uscirono fuora per scampar nuotando, ma a loro avenne molto al contrario, perchè la barca li colse sotto e s'affogarono. Essendo quella costa molto brava, il mare con un'onda ci gettò tutti a terra nella medesima costa, tutti involti nell'acqua e mezzo affogati, senza che di noi mancassero altri che quei tre, i quali la barca si aveva colti sotto. Noi che eravamo rimasi vivi eravamo tutti nudi, con aver perduto quanto avevamo, che, quantunque fosse poco, nondimeno a noi per allora era molto; ed essendo allora il novembre e il freddo molto grande, e noi tali che agevolmente ci potevano contar tutte l'ossa, parevamo divenuti propria figura della morte. Di me io so dire che dal mese di maggio passato io non avevo mangiato altra cosa che brustolato; alcune volte fui in tanta necessità che lo mangiavo crudo; perciochè, quantunque s'ammazzassero i cavalli mentre si facevano le barche, io non ne potei mangiar mai, e non furono dieci le volte ch'io mangiassi pesce. Questo dico perchè ciascuno possi considerare come noi potessimo stare in quel punto, e sopra tutto quel giorno aveva soffiato una tramontana, che stavamo piú vicini alla morte che alla vita. Piacque a Dio che, cercando noi i tizzoni del fuoco che quivi avevamo fatto avanti che c'imbarcassimo, vi trovammo lume, e cosí facendo grandi fuochi ci stavamo, chiedendo a nostro Signore misericordia e perdono de' nostri peccati, con molte lagrime, avendo ciascuno di noi dolore non solamente di se medesimo, ma di tutti gli altri che si vedeva nel medesimo stato.
Al tramontar del sole gli Indi, credendo che noi non ci fussimo partiti altrimenti, ci vennero a ritrovare e portaronci da mangiare, ma quando ci videro cosí, in abito tanto differente dal primo e in cosí strana maniera, si spaventarono tanto che si rivolsero indietro. Io andai verso loro e li chiamai, e mi videro con molto spavento; feci loro intendere per segni come ci si era affondata la barca e affogati tre uomini, e quivi essi medesimi videro due morti, e gli altri che eravamo rimasi già andavamo a quel cammino della morte. Gli Indi, vedendo la disgrazia che ci era avenuta e il disagio in che stavamo con tanta sventura e miseria, si misero tra noi altri, e col gran dolore e compassione che n'ebbero, cominciarono a pianger forte e tanto di cuore che lunge di quivi si poteva udire, e cosí piansero piú di mez'ora: e certamente, vedendo che questi uomini tanto privi di ragione e tanto crudi, a guisa d'animali bruti, si dolevano delle nostre miserie, fece che in me e in tutti i nostri crescesse molto piú la compassione e la considerazione delle nostre sventure. Racquetato il pianto alquanto, io domandai ai cristiani che, se loro paresse, io pregherei quegli Indi che ci menassero alle case loro. Al che alcuni d'essi, che erano stati nella Nuova Spagna, mi risposero che di ciò non si dovesse far parola, perchè se coloro ci menavano alle loro case, ci averebbono sacrificati a' loro idoli; tuttavia, veduto che altro rimedio non vi era, e che per qualsivoglia altra via la morte ci era piú certa e piú vicina, io non curai di quello che costoro diceano, ma pregai gli Indi che ci volessero menare alle loro case: ed essi mostrarono che loro piaceva molto, e che noi aspettassimo un poco, che farebbono quanto noi volessimo. E subito trenta d'essi si caricarono di legna e andarono alle loro case, che erano lontane di quivi, e noi rimanemmo con gli altri insino che fu quasi notte, e allora ci presero e menandoci con molta fretta andammo alle case loro: e perchè temevano che per il gran freddo nel cammino non ne morisse o spasimasse e assiderassesi alcuno, aveano provisto che fra via si facessero quattro o cinque fuochi molto grandi, posti a spazii, e a ciascuno di quelli ci scaldavano, e come vedevano che avevamo preso un poco di forza e di caldo, ci menavano fino all'altro, con tanta fretta che quasi non ci lasciavano mettere i piedi in terra. E di questa maniera fummo insino alle case loro, ove trovammo che aveano fatta una casa per noi altri, e in quella molti fuochi; e indi ad un'ora che eravamo arrivati cominciarono a ballare e far gran festa, che durò tutta la notte, benchè per noi non vi era né festa né sonno, aspettando quando ci avessero a sacrificare. La mattina ci tornarono a dar pesce e radici, e a farci tanto buoni portamenti che ci assicurammo alquanto, e perdemmo in qualche parte la temenza del sacrificio.
In quei giorni medesimi io viddi ad uno di quegli Indi uno riscatto, e conobbi che non era di quei che noi gli avevamo dati; e dimandando onde l'avessero avuto, essi mi risposero per segni che l'aveano dato loro altri uomini come noi, che stavano di dietro a quel luogo. Io, veduto questo, mandai duoi cristiani e duoi Indi che lor mostrassero quella gente, e andati s'incontrarono in essi molto vicino, che venivano a cercar noi, perchè gl'Indi di quei luoghi aveano detto loro di noi altri. Questi erano i capitani Andrea Dorante e Alonso del Castiglio, con tutta la gente della lor barca, e venuti da noi si spaventarono molto di vederci nella guisa che stavamo, ed ebbono gran dolore di non avere alcuna cosa che darci, perchè non aveano altra robba che quella che portavano vestita. E stettero quivi con noi altri, e ci contarono come a' cinque di quel mese medesimo la barca loro avea dato a traverso, una lega e meza lontano di quivi, ed essi erano scampati senza perdere alcuna cosa; e tutti insieme ci accordammo di rassettare quella barca loro e andarcene in essa, tutti coloro che avesser forza e disposizione da poterlo fare, e gli altri rimanessino quivi finchè si riavessero, e come potessero se ne andassero lungo la costa e quivi aspettassero, finchè Iddio gli avesse condotti con noi altri a terra di cristiani. E sí come divisammo cosí facemmo, e avanti che mettessimo la barca in acqua Tavera, un cavaliere della compagnia nostra, si morí, e la barca che noi altri pensavamo che ci portasse fece ancor ella il fin suo, e non poté sostenere se stessa e subito s'affondò. Onde, stando noi nella maniera che s'è detto e nudi, e il tempo cosí forte per camminare e passar fiumi e golfi a nuoto, né avendo vettovaglia o sostentamento alcuno, né modo da portarne, determinammo di far quello a che il bisogno e la forza ci stringeva, cioè d'invernar quivi; e accordammoci similmente che quattro de' nostri piú forti andassero a Panuco, credendoci di starvi presso, e che, se a Dio nostro Signore fosse piaciuto che vi arrivassero, dessero nuova come noi eravamo quivi e della nostra necessità e travagli. Questi che andavano erano molto grandi natatori, e l'uno si chiamava Alnaro Ferrante, portoghese, carpentiere e marinaro, il secondo si chiamava Mendos, e il terzo Figheroa, che era natio di Toleto, il quarto essendo natio di Zaffra e menavano seco un Indo che era dell'isola de Avia.
Partiti questi quattro cristiani, indi a pochi giorni venne un tempo tale di freddo e di tempeste, che gl'Indi non poteano trovar le radici, e de' canali ove soleano pescare non cavavano frutto alcuno; ed essendo le cose cosí triste si cominciarono a morire molte genti, e cinque cristiani che stavano in Xamo, nella costa, vennero a tale estremità che si mangiarono l'un l'altro, finchè restò un solo, per non aver chi lo mangiasse. I nomi loro sono questi: Siera, Piego Lopes, Corral, Palatio, Gonzalo Ruis. Di questo caso si alterarono tanto gl'Indiani e tanto scandalo ne presero, che senza dubbio, se l'avessero saputo da principio, gli ammazzavano tutti, e tutti noi saremmo stati in grandissimo travaglio. Finalmente, che in poco tempo di ottanta uomini che noi eravamo restammo soli quindeci, doppo morti questi, venne agl'Indi una infirmità di stomaco della quale morí la metà di loro, e credettero che noi altri fussimo quei che gli ammazzassimo, e tenendolo per cosa molto certa concertarono tra loro d'ammazzarci tutti, quei pochi che eravamo rimasi. E già venendo per mandarlo ad effetto, un Indo che io tenevo disse loro che non credessero noi altri fossimo quei che gli ammazzavamo, perchè, se noi avessimo tal potere, faremmo che di noi altri non ne morisse tanti, com'essi aveano veduto che ce n'erano morti, senza poterli rimediare, e che già eravamo rimasi molti pochi, de' quali niuno facea loro danno né pregiudizio alcuno: onde il meglio era che ci lasciassero vivi. E piacque a nostro Signore che gli altri seguirono questo suo consiglio e parere, e cosí si rimossero da quel proposito.
A questa isola noi mettemmo nome l'isola di Malfatto. La gente che quivi trovammo sono grandi e ben disposti; non hanno altre armi che frezze e archi, nel che sono sommamente destri. Hanno gli uomini una tetta forata dall'una parte all'altra, e alcuni vi sono che l'hanno forate ambedue, e per il pertugio che vi fanno portano una canna attraversata, di lunghezza di due palmi e mezzo e grossa due deta. Portano similmente pertugiato il labro di sotto, e per entro vi portano un pezzo di canna sottile come mezo deto. Le donne sono di molta fatica. L'abitazione che essi fanno in quell'isola è da ottobre insino al fin di febraro, e il mantenimento loro sono le radici che ho detto, cavate di sotto l'acqua il novembre e il decembre. Hanno canali, ma non hanno pesce piú che per questo tempo, e de lí avanti mangiano le radici; al fin di febraro vanno in altre parti a cercar da mangiare, perchè allora le radici cominciano a nascere e non sono piú buone. È gente che piú d'ogn'altra del mondo ama i figliuoli, e miglior trattamento lor fanno: e quando accade che ad alcuno gli muore il figliuolo, lo piangono il padre, la madre, i parenti con tutto il popolo, e il pianto dura un anno intero, che ogni giorno avanti che esca il sole incominciano prima a piangere i padri, e dipoi secondo tutto il popolo, e il medesimo fanno a mezzodí e all'aurora: e finito l'anno, li fanno loro esequie e onori che si fanno ai morti, ed essi si lavano e mondano del lutto che portavano. Tutti i morti loro piangono in questa guisa, fuor che i vecchi, de' quali non fanno stima, perchè dicono che già han passato il lor tempo e che non vagliono piú a nulla, anzi occupano la terra e tolgono il mantenimento ai fanciulli. Usano di sepellire i morti, se non quei che tra loro sono fisici, i quali brucciano, e mentre il fuoco arde tutti stanno danzando e facendo molta festa, e fanno polvere dell'ossa; e passato l'anno, quando fanno gli onori ai loro morti, tutti si rivolgono per terra, e ai parenti danno quella polvere dell'ossa a bere in acqua. Ciascuno ha una moglie sua propria; i fisici sono quei che hanno piú libertà, e ne possono tener due e tre, ed è tra loro molto grande amicizia e conformità. Quando alcuno marita la sua figliuola, colui che la piglia, fino al giorno che si congiunge seco, tutto quello che prende cacciando o pescando lo lascia alla moglie, che lo porti a casa del padre, senza avere ardire di pigliarne né mangiarne cosa alcuna, e da casa del suocero portano poi da mangiare a lui; e in tutto questo tempo né il suocero né la suocera entrano in casa sua, né egli ha da entrare in casa loro né de' cognati, e se a caso s'incontrano tra via si dilungano un tiro di balestra l'uno dall'altro, e fra tanto che cosí si vanno dilungando portano la testa bassa e gli occhi in terra, perchè tengono per cosa trista il vedersi e il parlarsi. Le donne hanno libertà di conversare co' suoceri e altri parenti. E questa usanza hanno da quell'isola fino a piú di cinquanta leghe dentro terra. Un'altra usanza hanno, e questa è che quando muore fratello o figliuolo loro, per tre mesi non si procaccia da mangiare da quei della casa ove muore, anzi si lasciariano morir di fame, se non che i parenti e vicini proveggono loro di quello che hanno da mangiare; onde nel tempo che noi quivi stemmo, essendo morta molta gente, era nella maggior parte delle case molta gran fame, perchè essi osservano molto bene l'usanze e cerimonie loro, e quei che ne procacciavano da mangiar per loro, per essere in tempo cosí forte, non ne potevano trovar se non molto poco. E per questa cagione quegl'Indi che mi teneano se ne uscirono dell'isola, e in alcune canoe se ne passarono in terra ferma, ad alcune spiagge ove avevano molte ostriche: e per tre mesi dell'anno non si mangia altro, e bevono molta trista acqua. Hanno gran carestia di legnami e gran quantità di moscioni; le case loro sono edificate di stuore sopra scorze d'ostriche, e sopra di esse dormono sopra cuoi d'animali, i quali ancora non tengono se non a caso. E cosí stemmo insino alla fine del mese d'aprile, che andammo alla costa del mare, ove mangiammo more di tutto quel mese, nel quale finiscono di fare i giuochi e le feste loro.
In quell'isola ch'io ho detto ci volevano far fisici senza esaminarci né domandarci i titoli, perchè essi medicano le infermità soffiando nell'infermo, e con quello e con le mani gli sanano, e volsero che noi facessimo il medesimo e servissimo in qualche cosa. Noi ci ridevamo di tal cosa, dicendo che era burla e che non sapevamo medicare, onde ci levarono il mangiare, finchè facessimo quel che diceano: e vedendo la nostra perfidia, un Indiano mi disse che io non sapea ciò ch'io diceva, perciochè le pietre ed erbe che nascono per li campi hanno virtú, e che egli con una pietra calda, menandola per sopra lo stomaco, ne sanava il dolore, e che noi che siamo uomini è cosa certa che dobbiamo aver maggior virtú che tutte l'altre cose del mondo. Alla fine, vedendoci in tanta necessità, ci fu forza di farlo, senza però sperare che ci giovasse di nulla. La sorte e modo che essi tengono in curarsi è questa, che vedendosi infermi chiamano un medico, al quale dipoi che sono sanati danno tutto quello che hanno e procurano ancor altre cose da' parenti loro per dargliene.
La cura che lor fanno i medici è dare alcuni tagli dove tiene il male o dolore, e lo succhiano attorno; danno cauterii di fuoco, che tra loro è tenuta cosa molto utile, e io lo provai e me ne succedette bene; doppo questo soffiano in quel luogo che duole, e con questo credono che se gli levi il male. Il modo col quale noi li curavamo era benedirli e soffiarli, e dire un Paternostro e un'Ave Maria, e pregare come potevamo il meglio nostro Signor Iddio, che lor desse la sanità e mettessegli in cuore di farci qualche buon trattamento. Piacque alla sua misericordia che tutti quei per chi noi pregavamo, subito che gli avevamo benedetti e santificati, dicevano agli altri che stavano sani e bene, e per questo ci faceano molto buon trattamento, e lasciavano di mangiare essi per darne a noi, e ci davano pelle e altre cosette. Fu tanto grande la fame in quel luogo che molte volte io stetti tre giorni che non mangiai cosa alcuna, e cosí stavano ancor essi, e mi pareva impossibile di poter vivere, benchè in molta maggior fame e necessità mi trovai dipoi, come dirò appresso.
Gl'Indi che teneano Alonso del Castiglio e Andrea Dorante e quegli altri che erano rimasi vivi, essendo d'altra lingua e d'altro parentado, se ne passarono ad altra parte di terra ferma a mangiar ostriche, e quivi stettero insino al primo dí d'aprile, e subito poi se ne ritornarono all'isola, che era vicina fino a due leghe per lo piú largo dell'acqua: e l'isola tiene meza lega di traverso e cinque di lungo. Tutta la gente di quel paese va ignuda, e solamente le donne portano coperte alcune parti de' corpi loro con certa lana che colgono da certi arbori, e le donzelle si cuoprono con cuoi di salvadigine. È gente molto separata l'una dall'altra nella robba; tra loro non è signore alcuno, e tutti quei che sono d'una stirpe vanno insieme. Abitano quivi due sorti di lingue, una parte de' quali si chiamano di Capoques e l'altra di Han. Tengono per usanza quei che si conoscono, quando si veggono di tempo in tempo, avanti che si parlino star meza ora piangendo, e dipoi quello che è visitato s'alza prima e dona all'altro tutto quello ch'egli possiede, e colui lo riceve e indi a poco se ne va con quella robba: e alcune volte, dipoi che l'hanno ricevuta, se ne vanno senza dir parola. Altri strani costumi e usanze hanno, ma io ho contate le piú rare e le piú principali, per passare avanti a quello che a noi avenne.
Dipoi che Dorante e Castiglio ritornarono all'isola, raccolsero tutti i cristiani, che stavano alquanto sparsi, e se ne trovarono in tutto quattordeci. Io, come ho detto, stavo dall'altra parte in terra ferma, ove i miei Indiani mi aveano menato e dove mi avea presa una grande infermità, che già, se alcuna cosa mi avesse data speranza di vivere, quella bastava per levarmela in tutto. E come i cristiani lo seppero, diedero ad un Indo la manta di martori che avevamo tolta al cacico, come per avanti s'è detto, perchè li menasse dove io era a vedermi: e cosí ne vennero dodeci, perchè gli altri due stavano tanto deboli che non s'assicurarono a menarli seco. I nomi di que' che allora vennero sono questi: Alonso del Castiglio, Andrea Dorante, Diego Dorante, Valdeviesso, Estrada, Tostado, Caves Gottieres, Esturiano cherico, Diego di Huelva, Estevanico il nero, Betines; e venuti che furono a terra ferma, trovarono un altro de' nostri, chiamato Francesco del Leon. E tutti questi tredeci andarono lungo la costa, e subito che ebbero passato gl'Indi che mi teneano me ne diedero aviso, e come erano ancora in quell'isola Ieronimo d'Alaniz e Lope d'Oviedo. L'infermità mia disturbò ch'io non li potei seguire, e non gli viddi altrimenti, e mi convenne star con que' medesimi Indiani dell'isola piú d'un anno. E per il molto travaglio che mi davano e mal portamento che mi faceano, mi determinai di fuggirmene e passar da quei che stanno ne' monti e in terra ferma, che si chiamano Indi del Carruco, perchè io non potevo soffrir la vita che facea con quest'altri, che, tra molti altri travagli, mi conveniva cavar le radici di sotto l'acqua e tra le canne dove stavano sotto terra: e da questo io avevo le deta cosí guaste che una paglia che mi toccassi me ne faceva uscir sangue, e le canne mi rompevano per molte parti, essendone molte rotte, tra le quali mi conveniva andare con la roba che di sopra ho detto ch'io portavo. Laonde io operai di passarmene a quegli altri, e con essi stetti alquanto meglio: e perchè io mi feci mercatante, procurai di far quell'ufficio come seppi il meglio, e per questo mi davano da mangiare e mi faceano buoni portamenti, e mi pregavano ch'io andasse da un luogo all'altro per cose che lor bisognavano, perciochè, per rispetto della guerra che fanno di continuo tra loro, non si camina né si negocia tra essi molto: e io già con miei traffichi e mercatanzie entravo per tutto il paese quanto volevo, e lungo la costa mi stendevo 40 e 50 leghe. Il principal traffico mio erano pezzi di cochiglie di mare e di lor cuori e conche, con le quali essi tagliavano un certo frutto, che è come fasuoli, col quale si curano e fanno i balli e le feste loro, e questa è la cosa di piú prezzo che sia tra loro, e corone di mare e altre cose tali: e questo era quello che io portavo dentro terra. In cambio poi portavo cuoi e almagra, con la quale essi si ungono e tingonsi il volto e i capelli; portavo pietre focate per far punte di frezze, e colla e canne sode per farle, e alcuni fiocchi che si fanno di peli di cervo, che le tingono e rimangono colorite. E questo ufficio a me s'affaceva molto, perchè io avevo libertà di andar dove volevo e non ero obligato a far cosa alcuna e non ero schiavo, e ovunque andavo m'era fatto buon portamento e mi davano da mangiare per rispetto delle mie mercatanzie; ma quello che piú m'importava era che, cosí andando, io cercavo e vedevo per dove me ne potesse andar avanti. E tra loro ero molto conosciuto e avevano gran piacer di vedermi, e io portavo loro quello di che aveano bisogno, e que' che non mi conosceano mi desideravano e procuravano di conoscermi, per la fama che tra loro io avevo. Saria cosa lunga il narrare i travagli che in questo tempo io passai, sí per li pericoli come per la fame e per le fortune e freddo che molte volte mi sopravennero alla campagna, ed essendo io solo, onde pure io per gran misericordia di Dio scampai; e per questi rispetti io non facevo tale ufficio il verno, per esser tempo che essi medesimi, stando nelle lor capanne, non potevano valersi né muoversi.
Furon quasi sei anni quelli ch'io stetti con esso loro in quel paese, solo e nudo come tutti vanno, e la cagione perchè io stetti tanto fu per menar meco un cristiano che stava nell'isola, chiamato Lope d'Oviedo, uno di quei due che rimasero quando Alonso del Castiglio e Andrea Dorante con tutti gli altri si partirono: l'altro compagno, che era chiamato Alaniz, morí subito che essi furono partiti. E per cavar io il detto Lope andava ogni anno a quell'isola, e lo pregavo che con quel miglior modo che potessimo ce ne andassimo in terra di cristiani, ed egli ogn'anno m'intratteneva, dicendomi che l'anno appresso ce ne anderiamo. E alla fine io lo cavai, e passai il golfo e quattro fiumi, perchè egli non sapea notare, e cosí con alcuni Indi passammo avanti finchè arrivammo ad un fosso, che tira una lega a traverso e da tutte le parti è molto fondo: e per quanto ce ne parve e per quanto ne vedemmo, è quello che chiamano dello Spirito Santo. E dall'altro canto di quello vedemmo alcuni Indi, i quali vennero a vedere i nostri, e ci dissero come piú avanti erano tre uomini come noi altri, dicendoci i nomi loro; e domandandogli degli altri, ci dissero che tutti erano morti di freddo e di fame, e che quegl'Indi davanti da se stessi e per passatempo aveano uccisi Diego Dorante, Valdenieso e Diego de Huela, perchè se n'erano passati da una casa all'altra, e che gli altri Indi lor vicini, co' quali ora stava il capitan Dorante, per un segno che aveano fatto aveano ammazzati Esquinel e Mendes. Domandammoli come stavano i vicini; ci risposero che molto mal trattati, perchè i fanciulli e altri Indi che sono tra loro sono molto fastidiosi e di mala condizione, davano lor molti sorgozzoni e buffetti e bastonate, e che questa era la vita che con esso loro teneano. Volemmo informarci della terra avanti e del sostentamento da vivere che vi era, e ci risposero che era molto povera di gente e che non vi era che mangiare, e morivano di freddo perchè non avevano pelli né cosa con che coprirsi; e ci dissero ancora che, se noi volevamo vedere que' tre cristiani, de lí a due giorni gl'Indi che li teneano verrebbono a mangiar noci una lega di quivi, alla riviera di quel fiume. E perchè vedessimo che quello che ci avevano detto del mal trattamento degli altri era vero, stando noi cosí con essi, diedero al compagno mio buffetti e bastonate, e io non rimasi senza la mia parte, e di molti pezzi di luto che ci tiravano; e ogni giorno ci mettevano le frezze al petto sopra il cuore, dicendo che ci volevano ammazzare come gli altri nostri compagni. E temendo questo, Lope de Oviedo mio compagno mi disse che voleva ritornarsene, con alcune donne di quegl'Indi coi quali avevano passato il golfo, le quali erano alquanto adietro: io contesi molto seco che non lo facesse, ma per niuna via lo potei ritenere, e cosí se ne ritornò, e io rimasi solo con quegl'Indi, i quali si chiamavano Quevenes, e quei con chi Lope se n'andò si chiamavano Deaguanes.
Duoi giorni dapoi che Lope d'Oviedo se ne fu andato, gl'Indi che tenevano Alonso del Castiglio e Andrea Dorante vennero al luogo che quegli altri ci aveano detto a mangiar di quelle noci, delle quali si mantengono, macinando alcuni granelli con esse, duoi mesi dell'anno senza mangiar altra cosa. E ancor di queste non ne hanno ogni anno, perchè tale anno ne nascono e tale no; sono della grandezza di quelle di Galizia, e gli arbori sono molto grandi e ve ne sono in gran numero. Un Indo mi avisò come i cristiani erano venuti, e che, s'io li voleva vedere, me ne fuggissi e m'ascondessi ad un canto d'un monte che egli mi mostrò, perchè esso e altri parenti suoi avevano da venire a veder quegl'Indi, e mi menerebbono con esso loro dove i cristiani stavano. Io mi fidai di costoro e mi disposi di farlo, perchè aveano altra lingua diversa da quella de' miei Indiani; e cosí avendo io fatto, essi il dí seguente vennero e mi trovarono nel luogo che m'aveano insegnato, e cosí mi menarono seco. Ed essendo già vicini al luogo ove coloro avevano gli alloggiamenti, Andrea Dorante uscí a veder chi era, perchè gl'Indi avevano detto anco a lui come veniva un cristiano, e come mi vidde rimase molto spaventato, perchè avea molti giorni che mi tenevano per morto, che gl'Indi cosí gli aveano detto. Ringraziammo molto Iddio di vederci insieme, e quel dí fu uno di quelli ne' quali abbiamo avuto maggiore allegrezza nella vita nostra. E arrivati poi dove stava Castiglio, mi domandarono ov'io andassi; risposi che l'intenzione mia era di passare in terra di cristiani, e che questo andavo cercando e procacciando di poter fare. Andrea Dorante rispose che molti giorni erano che esso pregava Castiglio ed Estevanicco che passassimo avanti, ma che non si assicuravano di farlo perchè non sapevano notare, e che molto temevano i fiumi e golfi che lor conveniva passare, essendone molti per quei paesi; onde, poichè a Iddio Signor nostro era piaciuto salvarmi tra tanti pericoli e infermità, e alla fine condurmi alla lor compagnia, essi determinavano di fuggire, e io li porterei per li fiumi e golfi che ritrovassimo. E avvertironmi che in niuna maniera io mi lasciasse intendere dagl'Indi di voler passare avanti, perchè subito me ucciderebbono, e che per questo conveniva che io mi stessi con esso loro sei mesi, che era il tempo nel quale quegl'Indi andavano in altro paese a mangiar tune. Queste tune sono certi frutti della grandezza d'un ovo, rosse e nere e di molto buon sapore: le mangiano tre mesi dell'anno, ne' quali non mangiano alcun'altra cosa; e perchè nel tempo che le coglievano venivano altri Indi piú avanti con archi per contrattare e cambiar con essi, noi, quando coloro se ne tornassero, fuggiremmo da' nostri e ce ne anderemmo con quelli.
Con questo appuntamento io mi rimasi quivi, e mi diedero per ischiavo ad un Indo col quale stava Dorante. Questi Indi si chiamano Marianes, e Castiglio stava con altri lor vicini, chiamati Iguales. E quivi stando mi raccontarono che, dipoi che essi uscirono dell'isola di Malhado, nella costa del mare trovarono la barca ove andavano il contatore e i frati a traverso, e che passando quei fiumi, che sono quattro, molto grandi, le molte correnti lor tolsero la barca con la quale se ne passavano al mare, e se n'affogarono quattro d'essi, e gli altri con molto travaglio passarono il golfo; e che quindeci leghe avanti ne trovarono un altro, e che, giunti che essi furono quivi, già s'erano morti duoi loro compagni, in sessanta leghe che avean fatte, e che tutti gli altri stavano ancora a quel termine di morirsi, e che in tutto quel cammino non avevano mangiato se non granchi ed erba di muri. E arrivati a quest'ultimo golfo, dicevano d'aver trovati Indi che stavano mangiando more, i quali come viddero i cristiani se n'andarono ad un altro capo, e cosí stando essi e procurando modo di passare il golfo, passaron da loro un Indo e un cristiano, e arrivati conobbero che era Figheroa, uno de' quattro che avevamo mandati avanti nell'isola di Malhado; ove egli contò loro in che maniera egli e i suoi compagni fussero arrivati fino a quel luogo, ove due di essi e un Indo s'erano morti tutti di freddo e di fame, perchè erano venuti e andati nel piú forte tempo dell'anno; e che gl'Indi aveano preso esso Figheroa e Mendes, il qual Mendes se n'era poi fuggito, andando al meglio che potea verso Panuco, e che gl'Indi l'aveano seguitato e ucciso. E che, stando cosí egli con quegl'Indi, seppe come con Marianes era un cristiano che avea passato dall'altra parte, e l'avea trovato con quei che chiamano Quevenes, il qual cristiano era Gernando d'Esquivel, natio di Badaioz, che veniva in compagnia del commissario; e ch'egli da Esquivel seppe il fine ch'avea fatto il governatore, il contatore e gli altri, dicendoli come il contatore e i frati aveano gettata la barca loro ne' fiumi, e venendosene lungo la costa arrivò il governatore a terra con la gente sua, ed egli se n'andò con la barca sua, finchè arrivarono a quel golfo grande, ove tornò a pigliar la gente sua e passolla dall'altro capo, e tornò per il contatore e per li frati con tutti gli altri. E narrò come, stando cosí sbarcati, il governatore aveva revocato la potestà di luogotenente suo che aveva il contatore, e dato tal carico ad un capitano che andava seco, chiamato Pantossa; e che il governatore quella notte se ne stava nella barca sua e non volse smontare in terra, e con esso rimasero un maestro e un paggio che stava male, e nella barca non aveano acqua né cosa alcuna da mangiare, e a mezzanotte sopravenne una tramontana tanto forte che spinse la barca in mare, senza che alcuno la vedesse, perchè non avea per sostegno se non una pietra, e non ne seppero poi mai piú cosa alcuna. E che, veduto questo, la gente che era rimasa in terra se n'andò per lungo la costa, e trovando tanto disturbo d'acqua fecero zattere con molto travaglio, e cosí passarono dall'altra parte, e andando avanti arrivarono ad una ponta d'un monte in riva dell'acqua; e che trovarono Indi, i quali, come li viddero venire, posero le lor cose nelle canoe e se ne passarono dall'altra parte della costa: e i cristiani, vedendo il tempo che era, essendo di novembre, si fermarono in quel monte, perchè vi trovarono acqua, legne e alcuni gamberi, ove di freddo e di fame si cominciarono a poco a poco a morire. E oltre a ciò Pantossa, il quale era rimaso per luogotenente, facea lor tristi portamenti, e non potendolo soffrire Sottomagiore, fratello di Vasco Porcalle, quello dell'isola di Cuba che nell'armata era venuto per maestro di campo, si rivoltò contra di esso Pantossa e diedeli di un legno, dal qual colpo Pantossa rimase morto: e cosí si vennero finendo, e que' che morivano erano fatti pezzi dagli altri, e l'ultimo che morí fu Sottomagior, ed Esquevel lo fece, e mangiandolo si mantenne insino al primo di marzo, che un Indo di quei che quivi erano fuggito venne a veder se erano morti, e menossene poi Esquivel con lui. E stando in poter di questo Indo, Figheroa gli parlò e seppe da lui tutto quello che di sopra abbiamo narrato, e pregollo che se ne venisse con lui per andarsene insieme alla via del Panuco: ed Esquivel non lo volse fare, dicendo che da' frati egli avea inteso come Panuco era rimaso adietro, e cosí si rimase quivi, e Figheroa se n'andò alla costa ove solea stare.
Questo tutto ci raccontò Figheroa per relazione a lui fatta da Esquivel, e cosí di mano in mano arrivò da me: onde si può vedere e sapere il fine che ebbe tutta quella armata, e i casi particolari che a ciascuno degli altri avennero. E disse di piú che, se i cristiani per alcun tempo andassero per quelle parti, potrebbe essere che vedessero Esquivel, perchè sapea che se ne era fuggito da quell'Indo col quale stava, ad altri che si chiamano Maremaes, che erano quivi vicini. E cosí avendo finito di dire, egli e l'Asturiano se ne voleano andare agli altri Indi che stavano piú avanti, ma sentendoli quegl'Indi che li teneano uscirono e vennero a dar loro molte bastonate, e spogliarono l'Asturiano e ferirongli un braccio con una frezza; ma pure alla fine se ne fuggirono, e gli altri cristiani si rimasero, e fecero con quegl'Indi che li prendessero per schiavi: benchè, stando con esso loro e servendoli, furon trattati cosí male come mai fussero schiavi o altra gente del mondo, perciochè, di sei che erano, non contenti di dar loro continuamente molti buffetti, bastonate e pelar loro la barba, per solo passatempo e spasso loro e per passar solamente da una casa all'altra ne ammazzarono tre, che sono que' ch'io dissi di sopra, Diego Dorante, Valdeniesso e Diego de Huelva, e gli altri tre che eran rimasi aspettavano di fare ancor essi il medesimo fine. E per non soffrir quella vita, Andrea Dorante se ne fuggí ai Mareames, che erano quelli co' quali si era fermato Esquivel, ed essi gli raccontarono come avean quivi tenuto Esquivel, il qual poi se n'era voluto fuggire, perchè una donna avea sognato che egli le dovea ammazzare un figliuolo, e cosí fuggendo gl'Indi lo seguitarono e ucciserlo: e mostraron poi ad Andrea Dorante la spada sua, la corona, il libro e altre cose ch'egli avea.
Questo costume hanno costoro d'ammazzar anco i medesimi figliuoli per sogni che fanno, e le figliuole femine, nascendo, le lasciano mangiare a cani e le gettano per que' luoghi. E la ragione perchè lo fanno è che dicono che tutti quei del paese sono lor nemici e hanno con esso loro grandissima guerra, onde, se a caso maritassero le lor figliuole, moltiplicherebbon tanto i lor nemici che li soggiogheriano e piglieriano tutti: e per questa cagione voleano piú tosto ammazzarli che da lor medesimi avesse a nascere chi fusse nemico loro. Noi altri li domandammo perchè non le maritavano con lor stessi, e risposero che era cosa brutta il maritarle co' lor parenti, e che era molto meglio ucciderle che darle per moglie a' parenti e nemici loro: e questa usanza osservano costoro e altri vicini loro che si chiamano Iaguazes, né altri di quel paese se non essi l'osserva. E quando costoro hanno da tor moglie, comprano le donne da' lor nemici, e il prezzo che ne pagano è un arco, il miglior che possono avere, con due frezze; e se per sorte non hanno arco, danno una rete larga un braccio e lunga altrettanto.
Dorante stette con costoro, e indi a non molti dí se ne fuggí; Castiglio ed Estevanicco se ne vennero dentro terra ferma agli Iaguazes. Tutti questi sono arcieri e ben disposti, benchè non cosí grandi come gli altri che adietro avevamo lasciati, e portano le tette e i labri forati come coloro. Il sostentamento lor sono principalmente radici di due o tre sorti, le quali cercano per tutto il paese, e sono molto triste ed enfiano gli uomini che le mangiano; tardano due dí a rostirsi e molte d'esse sono molto amare, e con tutto ciò si cavano con molto travaglio, ma è tanta la fame che è in que' paesi che non posson far senz'esse, e vanno due e tre leghe cercandone. Alcune volte uccidono qualche selvadigina, e a' tempi pigliano del pesce, ma questo è tanto poco e la fame loro tanto grande che mangiano ragni, ova di formiche, vermi e lucerte e salamandre, serpi, vipere che col morso uccidono gli uomini, mangian terra, legno e tutto quello che possono avere, sterco d'animali selvaggi e altre cose ch'io lascio di raccontare: e credo per certo che, se in quel paese fusser pietre, le mangierebbono. Servano le spine de' pesci e delle serpi che mangiano, per macinarle dipoi tutte e mangiar quella polvere. Tra costoro gli uomini non si caricano né portano pesi, ma tutto ciò fanno le donne e i vecchi, che sono la gente ch'essi manco stimano; non hanno tanto amore a' figliuoli come gli altri che di sopra dicemmo; sono alcuni tra essi che usano peccato contra natura. Le donne sono molto affaticante e sofficienti, perchè delle 24 ore tra dí e notte non hanno se non sei ore di riposo, e tutta la maggior parte della notte passano in scaldare i loro forni per seccar quelle radici che mangiano, e, come s'incomincia a far giorno, esse cominciano a cavare e a portar legna e acqua alle case loro, e dan ordine alle altre cose di che hanno bisogno. La maggior parte di loro sono gran ladroni, perciochè, quantunque tra loro sieno ben compartiti, nondimeno, nel volger il padre la testa o il figliuolo, l'uno toglie all'altro ciò che può; sono gran mentitori e bugiardi e gran ebbriachi, e a tale effetto beono una certa bevanda loro. Sono tanto usati al correre che senza mai riposarsi, e senza stancarsi, corrono dalla mattina alla sera seguendo un cervo, e in tal modo ne ammazzano molti, perchè li seguono finchè gli straccano, e alcune volte li prendono vivi. Le case loro sono di stuore poste sopra quattro archi, e le levano, e mutansi ogni due o tre giorni per cercar da mangiare: niuna cosa seminano da poterne aver frutto. È gente molto allegra, e per la molta fame che hanno non lasciano di ballare e di far le lor feste; il miglior tempo che costoro hanno è quando mangiano le tune, perchè allora non hanno fame, e tutto il tempo passano in balli, e ne mangiano notte e giorno tutto il tempo che ne hanno. Le stringono e aprono e le pongon a seccare, e cosí secche le mettono in alcune serte, come fichi, e le serbano per mangiare per camino quando se ne tornano, e le scorze loro seccano e ne fanno polvere.
Molte volte, stando noi con costoro, ci avenne di star quattro giorni senza mangiare perchè non ve n'era, ed essi, per farci stare allegri, ci dicevano che non stessimo di mala voglia, che presto averemmo tune e ne mangeremmo molte e beveremmo del succo loro, ed empiremmo molto bene il ventre, e staremmo molto allegri e contenti e senza fame alcuna: e quando ci diceano questo, insino al tempo delle tune vi erano cinque e sei mesi. E quando fu il tempo andammo a mangiar le tune, e per camino trovammo molti moscioni di tre sorte, che sono molto tristi, noiosi, e tutto il rimanente della state ci davano molta fatica. E per difenderci da loro faceamo fuoghi di legne marcie e molli, perchè non ardessero, ma facessero fumo: ma questa difesa ci dava altro travaglio, perchè in tutta la notte non facevamo se non piangere dal fumo che ci dava negli occhi, e oltre a ciò il gran calore che i molti fuoghi ci davano; e uscivamo a dormire alla costa, e se alcuna volta potevamo dormire, essi ci ricordavano a bastonate il tornare a far ardere i fuoghi. Quei della terra piú adentro usano per questi moscioni un rimedio cosí incomportabile come questo e piú, cioè d'andar con tizzoni in mano bruciando i campi e i boschi ovunque si incontrano, per farne fuggire i moscioni, e cosí ancora per cavar di sotto la terra le lucerte e altre cose tali per mangiarsele, e sogliono ancora uccidere cervi intorniandoli con molti fuoghi; il che fanno ancora per togliere il pasto agli animali, acciochè sieno astretti d'andarne a trovare ov'essi vogliono, perchè non si fermano mai con le lor case se non dove sia acqua e legna. E alcune volte si caricano tutti di questa provisione e vanno a cercare i cervi, che molto ordinariamente stanno dove non è acqua né legna, e il giorno che arrivano ammazzano cervi e qualche altra cacciagione che possono, e consumano tutta l'acqua e la legna in acconciarsi da mangiare e ne' fuoghi che fanno per cacciare i moscioni, e aspettano all'altro giorno per prender alcuna cosa da portar per camino: e quando si partono, vanno cosí conci da' moscioni che paiono avere il mal di s. Lazaro. E in questa guisa si cavano la fame due o tre volte l'anno, con tanto gran costo come ho detto: e per averlo io provato, posso affermare che niun travaglio si trovi al mondo simile a questo. Per entro il paese sono molte cacciagioni e uccelli e animali, di quei che per adietro s'è detto. Vi si trovano delle vacche, e io ne ho vedute tre volte e mangiatene, e parmi che siano della grandezza di quelle di Spagna; hanno i corni piccioli come le moresche e il pelo molto lungo, e alcune ne sono berrettine e altre nere, e al parer mio hanno miglior pelli e piú grosse che quelle de' nostri paesi: di quelle che non son grandi fanno gl'Indi veste da coprirsi, e delle maggiori fanno scarpe e rotelle. E queste vengono di verso la tramontana per la terra avanti insino alla costa di Florida, e stendonsi per la terra adentro piú di quattrocento leghe, e in tutto questo camino per le valli per onde elle vengono descendono le genti che ivi abitano e si mantengono di loro, e mettono nel paese gran quantità di cuoi.
Quando furono finiti i sei mesi che io stetti co' cristiani, sperando di mettere in effetto l'appontamento preso tra noi, gl'Indi se ne andarono a mangiar tune, che possono esser lontani di quivi da trenta leghe. E stando noi già per fuggircene, gl'Indi co' quali noi stavamo vennero a questione tra loro per una donna, e si diedero pugna e bastonate e si ruppero il capo, e per lo sdegno e odio grande che ebbero si presero le case loro e ciascuno se n'andò a' suoi luoghi, onde bisognò che tutti i cristiani che quivi eravamo ci separassimo con esso loro, e in niuno modo non ci potemmo riunire insino all'altr'anno. E in questo tempo io passai molta fatica, sí per la molta fame come per li tristi portamenti che quegl'Indi mi faceano, che furon tali che tre volte mi convenne fuggire da que' padroni che mi teneano: e tutti mi vennero a cercare con diligenza per ammazzarmi, ma piacque a nostro Signor Iddio di non me lasciar trovare e di guardarmi dalle lor mani, per sua infinita misericordia.
Tornato che fu il tempo delle tune, noi cristiani ci ritrovammo insieme nel medesimo luogo di prima, e avendo già concertato di fuggircene e appuntato il giorno, quel giorno medesimo gl'Indi ci separarono, e ciascuno se n'andò al suo luogo: e io dissi a' cristiani che gli aspetterei nelle tune finchè la luna fusse piena, e questo giorno quando ciò lor dissi era il primo di settembre e il primo della luna, facendoli certi che, se in tal tempo non venissero, io me n'andrei solo e gli lascierei. E cosí ci separammo e ciascuno se n'andò co' suoi Indi, e io stetti co' miei fino a' tredeci della luna, e la deliberazione mia era di fuggirmene agli altri Indi quando la luna fusse piena. A' tredeci del detto mese arrivarono da me Andrea Dorante ed Estevanicco, e mi dissero che avevano lasciato Castiglio con altri Indi che si chiamavano Canagadi, che stavano quivi vicini, e che essi avevano passato molto travaglio e s'erano perduti fra via, e che il giorno avanti i nostri Indi s'erano mutati di luogo e andati verso dove stava Castiglio, per unirsi con quei che lo tenevano e farsi amici tra loro, essendo insino a quel giorno stati nemici e in guerra: e in questo modo noi ricuperammo ancor Castiglio.
In tutto il tempo che noi mangiavamo le tune avevamo sete, e per rimedio bevevamo del succo loro, il quale cavavamo in una fossa che facevamo in terra, e come era piena ne bevevamo finchè eravamo sazii: è dolce e di color di mosto cotto; e questo si fa per non vi esser altri vasi dove metterlo. Vi sono molte sorti di tune, tra le quali ve ne sono di molto buone, benchè a me tutte mi pareano buone, e la fame non mi lasciò mai spazio da poter fare scelta e giudicio di qual fusse migliore tra tutte. La maggior parte di tutta questa gente beve acqua piovuta e raccolta in alcune parti, perciochè, quantunque vi sieno fiumi, nondimeno, perchè essi non hanno mai stanza ferma, non hanno acqua particolarmente da lor conosciuta o luogo assegnato ove prenderla. Per tutto il paese son molte grandi e belli difese e di molto buoni pascoli per greggie, e parmi che sarebbe paese molto fruttifero, se fusse lavorato e abitato da gente che avesse ragione e conoscimento. Non vi vedemmo montagne, in tutto quel paese, per tutto il tempo che vi stemmo. Quegl'Indi ci dissero che piú avanti erano altri popoli, chiamati Camoni, che vivono verso la costa, i quali avevano uccisa tutta la gente che veniva nella barca di Pignalosa e Telliz, e che tutti erano cosí deboli e languidi che, ancorchè gli ammazzassero, non si difendevano in modo alcuno, e cosí gli finiron tutti: e ci mostraron robe e armi loro, dicendoci che la barca stava quivi a traverso. Questa è la quinta barca che mancava al conto, perciochè di quella del governatore già dicemmo che il mare se la portò, e quella del contatore e de' frati era stata veduta gettata a traverso nella costa, ed Esquivel ce ne raccontò il fin loro; le due ove andavamo Castiglio, io e Dorante, già abbiamo detto come all'Inda di Malfato si ci erano affondate.
Dipoi che ci fummo mutati di luogo, de lí a due dí ci raccomandammo a Dio nostro Signore e ce ne andammo fuggendo confidandoci che, quantunque la stagione fusse già tarda e le tune si finivano, nondimeno co' frutti che rimanevano ne' campi saremmo potuti andar gran parte del paese. E andando cosí quel primo giorno, con molto timore che gl'Indi ci avessero a seguire, vedemmo alcuni fumi, e andando verso quelli doppo vespero vedemmo un Indo, che come ci vidde se ne fuggí senza volerci aspettare. Noi gli mandammo appresso il nero, e colui, come lo vidde solo, l'attese. Il nero gli disse che noi andavamo a cercar quella gente che facean quei fumi, e colui rispose che quivi vicino eran le lor case, e che egli vi ci guiderebbe: e cosí lo seguimmo, ed egli andò correndo a dar aviso come noi andavamo. E a posta di sole vedemmo le case, e a due tiri di balestra avanti che arrivassimo, trovammo quattro Indi che ci aspettarono: ci riceverono benignamente. Dicemmo loro in lingua di Mareames che andavamo a cercarli, ed essi mostrarono di rallegrarsi della compagnia nostra, e cosí ci menaron alle case loro, e posero Dorante e il nero in casa d'un fisico, e me e Castiglio con alcuni altri. Costoro hanno altra lingua e si chiamano Avavares, e sono que' che soleano portar gli archi a quei nostri primi patroni, e a contrattare con esso loro; e ancorchè sieno d'altra nazione e lingua, nondimeno intendono la lingua di quelli con chi noi stavamo prima, e quel dí medesimo erano arrivati in quel luogo ancor essi con le case loro. Subito il popolo ci offerse molte tune, perchè già aveano notizia di noi, e come medicavamo, e delle maraviglie che 'l nostro Signore operava per nostro mezzo; che quando mai altre non ce ne avesse fatte, assai grande era l'aprirci il camino per paese cosí disabitato, e darci compagnia di gente dove per molti tempi non ve n'era stata, e liberarci da tanti pericoli e non permettere che ci uccidessero, e sostentarci tra tanta fame, e mettere in cuore a quelle genti che ci trattassero bene, come appresso diremo.
Quella notte medesima che noi arrivammo, vennero alcuni Indi a Castiglio e gli dissero che stavano molto male della testa, pregandolo che li sanasse: e doppo l'averli benedetti e raccomandati a Dio, in quel punto dissero che stavano bene e che il male s'era partito, e andarono alle case loro e ci portarono molte tune e un pezzo di carne di salvadigina, che ancor non sapevamo che cosa fusse. Ed essendosi ciò publicato tra loro, vennero molti altri infermi quella notte perchè li sanasse, e ciascun di loro portava un pezzo di salvadigina, e tanti ce ne portavano che non sapevamo dove metterli. Noi ringraziammo molto Iddio, che ogni giorno ci andava crescendo la sua misericordia e grazia. E finite che furono le cure, incominciarono a ballare e a cantare i loro versi e feste, fino all'altro giorno al nascer del sole: e durò tre giorni tal festa per la venuta nostra. Dipoi li domandammo del paese avanti e delle genti e vittuarie che vi si trovano, e ci risposero che per tutto quel paese sono molte tune, ma che già erano finite, e che non troveremmo gente alcuna, perchè doppo l'aver colte le tune ciascuno se n'era tornato alle sue case, e che era paese molto freddo e vi si trovavano poche pelle. Noi, udendo questo e vedendo che il verno e tempo freddo entrava, ci accordammo di farlo con costoro. E in capo di cinque giorni da che eravamo arrivati, si partirono e andarono a cercar altre tune dove erano altre genti d'altre nazioni e di lingue diverse; e andati cinque giornate con molta fame, perchè fra via non si trovano tune né altri frutti, arrivammo ad un fiume, e quivi fermammo le case nostre, e dipoi ce n'andammo a cercare alcuni frutti d'un arbore che è a somiglianza di fichi. E non vi essendo per tutti quei luoghi strada alcuna, io m'indugiai piú degli altri in trovarle, e cosí essi se ne tornarono alle case e io rimasi solo, e venendo a cercare i nostri quella notte mi smarrii, e piacque a Dio ch'io trovassi un arbore sotto il quale era stato fatto fuoco, e al fuoco suo io passai il freddo di quella notte. La mattina mi caricai di legna e pigliai duoi tizzoni e me ne tornai a cercarli, e andai in questa guisa cinque giorni, sempre col mio fuoco e carico di legna, perchè, se il fuoco mi si spegnesse in parte dove non fusser legna, come in molti luoghi non ve ne sono, io avesse come fare altri tizzoni e non rimaner senza fuoco, che non avevo altro rimedio per il freddo, essendo io nudo come nacqui. E per la notte io avevo questo rimedio, che me n'andavo appresso qualche cespuglio de' boschetti ch'erano appresso i fiumi, e quivi mi fermavo avanti che il sole si corcasse e facevo in terra una fossa, e in essa mettevo molte legna, che si fanno d'alcuni arbori de' quali per quei luoghi è gran quantità; e mettevo insieme molte legna di quelle che erano cadute e secche, e intorno a quella fossa io facevo quattro fuochi in croce, e avevo pensiero di venir d'ora in ora rifacendo i fuochi; e facevo alcuni fasci di paglia, che per quei luoghi ve ne è molta, e con quella mi coprivo in quella fossa, e a questa guisa mi difendevo dal freddo delle notti. E una notte il fuoco cadde sopra la paglia che mi copriva, e stando io dormendo nel fosso, il fuoco cominciò ad ardere molto forte, e quantunque io saltassi fuori con molta furia, nondimeno mi rimase nei capelli il segno del pericolo che avevo passato. In tutto questo tempo io non mangiai boccone né trovai che mangiare, e andando scalzo m'uscí molto sangue dai piedi, e Iddio usò meco gran misericordia, che in tutto questo tempo non soffiò mai la tramontana, che altrimenti non vi era rimedio alcuno ch'io rimanessi vivo. In capo di cinque giorni arrivai ad una riviera dove trovai i miei Indi, i quali insieme coi cristiani mi teneano già per morto, e sempre credettero che qualche vipera m'avesse morso. Ebbero tutti gran piacere di vedermi, e principalmente i cristiani, e mi dissero che insino allora aveano camminato con molta fame, e per questo non mi erano venuti cercando: e quella notte mi diedero delle tune che aveano. Il dí appresso ci partimmo di quivi e andammo in luogo dove erano molte tune, con le quali tutte sodisfecero alla gran fame che avevamo; e noi cristiani ringraziammo molto il nostro Signore Iddio, che non ci mancava mai di rimedio.
Il dí seguente, la mattina vennero da noi molti Indi, e menavano seco cinque infermi che stavano attrati e molto male, e venivano a cercar Castiglio che li medicasse; e ciascuno degli infermi offerse l'arco suo e le frezze, ed egli le prese, e a posta di sole gli benedisse e raccommandò a Dio: e tutti lo pregammo con piú devozione che potemmo che lor desse sanità, poichè vedevo che non vi era altro rimedio per fare che quella gente ci aiutasse, e potessimo uscire di cosí miserabil vita: e la somma bontà sua lo fece tanto misericordiosamente che, venuta la mattina, tutti si levarono cosí sani e gagliardi come se mai non avessero avuto alcun male. Questo cagionò a loro molta maraviglia, e a noi risvegliamento a rendere infinite grazie a nostro Signore, e che piú intieramente conoscessimo la gran bontà sua, e tenessimo ferma speranza che ci avesse da liberare e condurci in luogo dove lo potessimo servire; e di me io so dire che sempre ebbi ferma speranza nella sua misericordia, che m'avesse da levare di quella cattività, e cosí lo dissi sempre co' miei compagni. Come gli Indi se ne furono andati via, e portati i loro infermi sani, noi ce ne andammo dove stavano altri mangiando tune: e questi si chiamano Cacalcuches e Maliconis, che sono d'altra lingua, e insieme con essi erano altri che si chiamano Coaios e Susolas, e d'altra parte altri chiamati Ataios, e questi tengono guerra coi Susolas, e si frezzavano ogni giorno tra loro. E perchè in quei luoghi non si ragionava se non de' miracoli che nostro Signore Iddio operava per mezzo nostro, vennero da molte parti a cercarci perchè gli sanassimo, e in fin di due giorni che quivi eravamo vennero a noi alcuni Indi de' Susolas, e pregarono Castiglio che andasse a curare un ferito e altri infermi, dicendo che tra essi ve n'era uno che stava in fin di morte. Castiglio era medico molto timoroso, e principalmente quando le cure erano gravi e pericolose, e credeva che i suoi peccati avessero a fare che non tutte le cure succedessero bene. Gli Indi mi dissero che andasse io a curarli, perchè essi mi volevano bene e si ricordavano ch'io gli avevo curati altre volte alle noci, e che per quello mi aveano date noci e cuoi: e questo era stato quando io venivo a unirmi co' cristiani; onde mi convenne andare con esso loro, e venner con me Dorante ed Estevanicco e quando fummo arrivati vicino alle capanne che essi teneano, io viddi l'infermo il quale andavamo a curare che già era morto, e intorno a lui stava molta gente piangendo, e la casa sua disfatta, che tra loro è segno che il patron suo è morto: e cosí, quando io arrivai, lo trovai con gli occhi rivolti e senza alcun polso e con tutti i segnali di morto, e a me cosí parea che fusse, e il medesimo mi disse Dorante. Io gli levai una stuora che teneva di sopra per coperta, e come potei il meglio pregai nostro Signore, che mi desse grazia di dar sanità a quello infermo e a tutti gli altri che n'aveano bisogno: e doppo ch'io l'ebbi benedetto e soffiato molte volte, mi portarono l'arco suo e me lo diedero, e una cesta di tune, e mi menarono a curare molti altri che stavano male di mazzucco, e mi diedero due altre ceste di tune, le quali io diedi ai nostri Indi che erano venuti con noi. E fatto questo ce ne tornammo agli alloggiamenti nostri, e i nostri Indi ai quali avevo date le tune si rimasero quivi; e la notte se ne tornarono alle loro case ancor essi, e dissero che colui che era già morto, il quale io avevo curato in presenza loro, s'era levato sano e avea passeggiato e mangiato e parlato con esso loro, e cosí tutti gli altri ch'io avevo curati erano rimasi sani, senza febre e molto allegri. Questo cagionò molta grande ammirazione e spavento, e per tutto quel paese non si parlava d'altra cosa. Tutti coloro ai quali arrivava questa fama ci venivano a cercare, perchè li curassimo e benedicessimo i loro figliuoli. E quando gl'Indi che stavano in compagnia de' nostri, che erano i Catalcuchi, se n'ebbero da andare, avanti che si partissero ci offersero tutte le tune che aveano per il lor cammino, senza che se ne lasciassero alcuna per se stessi, e ci diedero pietre focate lunghe da un palmo e mezzo, con le quali essi tagliano e tra loro son tenute in molta stima. Ci pregarono che ci ricordassimo di loro e pregassimo Iddio che sempre stessero sani, e noi lo promettemmo di farlo, e con questo se ne andarono i piú contenti uomini del mondo, avendoci dato tutto il meglio di quel che avevano.
Noi stemmo con quegli Indi Avavares otto mesi, e questi conti facevamo con la luna. In tutto questo tempo ci venivano molte genti a cercare, e diceano per cosa certa che noi eravamo figliuoli del sole. Dorante e il negro fino allora non aveano medicato, ma per la molta importunità di tante genti che ci concorrevano da ogni parte divenimmo tutti medici, ancorchè nella securezza di prendere ogni cura era io il piú segnalato tra tutti: e niuno ne curammo mai che non ci dicesse d'esser sano, e tanta confidanza teneano in noi che non pareva loro potere essere sanati se non per nostra mano, e credeano che finchè noi stavamo con esso loro niuno d'essi potesse morire. Costoro e quei piú addietro ci contarono una cosa molto strana, e per li segnali che ce ne fecero parea che avesse 15 o 16 anni che era accaduto, e questo è che diceano che per quel paese andò attorno un uomo ch'essi chiamavano Mala Cosa, che era picciolo di corpo e avea barba, benchè non gli poterono mai vedere chiaramente il viso, e quando veniva a qualche casa, a tutti quei che vi erano dentro s'arricciavano i capelli e tremavano, e subito appariva alla porta della casa un tizzone ardente: e allora quell'uomo entrava in casa e pigliava qual volea di loro, e davali tre gran cortellate per li fianchi con una pietra focata molto aguza, larga come una mano e lunga due palmi, e metteva la mano per quei tagli e cavavagli le budella, e tagliavane da un palmo, e quel pezzo che tagliava metteva a cuocere sopra le brascie; e subito gli dava tre altre cortellate in un braccio, e la seconda gli dava per la salassatura, e staccavaglielo, e indi a poco glielo tornava a rattaccare, e mettevali la mano sopra la ferita, e diceano che subito colui ritornava sano. E che molte volte, mentr'essi ballavano, quella Mala Cosa appariva tra loro, alcuna volta in abito di donna e altra come uomo, e alcune volte pigliava la capanna o casa e alzavala in alto e de lí a poco cadeva insieme con essa e dava molto gran colpo. Ci dissero ancora che essi gli davano da mangiare, ma che non mangiò mai, e che lo dimandavano donde veniva e in che parte avesse la casa sua, ed egli mostrò loro una fenditura della terra e disse che la casa sua era là sotto. Di queste cose che essi ci narravano noi ce ne ridevamo molto e ce ne facevamo beffe, ed essi, vedendo che non lo credevamo, ci menarono molti di coloro che diceano che quell'uomo avea presi, e vedemmo i segnali delle cortellate che gli avea date ne' luoghi che coloro ci aveano detto. Noi dicemmo loro che colui era un uomo tristo, e nel meglio modo che potemmo demmo loro ad intendere che, se essi credessero in Dio nostro Signore e fussero cristiani come noi altri, non averiano timor di colui né gli averia ardire di venire a far loro quelle cose, e che tenessero per certo che, mentre noi stessimo in quel paese, egli non ardirebbe di comparirvi. Di questo essi si contentarono molto, e perdettero gran parte della paura che aveano. Questi Indi ci dissero che avean veduto l'Asturiano e Figheroa, con altri che stavano nella costa avanti, i quali noi altri chiamavamo quei de' fichi.
Tutta questa gente non conoscevano i tempi per sole né per luna, né tengono conto de' mesi né dell'anno, ma sanno le differenze de' tempi secondo che i frutti vengono a maturarsi, e nel tempo che si muovono i pesci, e all'apparir delle stelle, in che essi sono molto accorti ed esercitati. Con costoro noi fummo sempre ben trattati, benchè quello che avevamo da mangiare si conveniva cavar con le nostre mani, e portar le nostre carche d'acqua e di legna. Le case e sostentamento loro sono come quelle degli altri adietro, benchè hanno molto maggior fame, perchè non hanno né maiz, né ghiande, né noci. Andammo sempre in cuoio come essi, e di notte ci coprivamo con cuoi di cervi. Di otto mesi che stemmo con esso loro, i sei patimmo molta fame, che né ancor pesce non si trovava; e al fine di questo tempo già le tune cominciavano a maturarsi, e senza che quegli Indi ci sentissero noi ce ne passammo avanti ad altri, che si chiamano Malicones.
Costoro stavano una giornata di là, dove io e il negro arrivammo, e in capo di tre giorni io mandai il negro che menasse Dorante e Castiglio, e venuti ci partimmo tutti insieme con quegl'Indi, i quali andavano a mangiare alcuni fruttarelli di certi arbori, di che si mantengono dieci o dodeci giorni fra tanto che vengono le tune. E quivi con costoro s'unirono altri Indi, che si chiamano Arbadaos, e tra costoro trovammo molti infermi, deboli ed enfiati, tanto che ce ne maravigliammo molto. E gl'Indi coi quali eravamo venuti se ne tornarono per il medesimo cammino, e noi dicemmo di volerci rimaner con quegli altri, di che essi mostrarono d'aver gran dispiacere; e cosí ci fermammo nel campo con coloro, vicino a quelle case, e quando essi ci viddero si ristrinsero tra loro e, doppo l'aver ragionato un poco, ciascuno d'essi prese uno di noi per mano, e ci menarono alle lor case. Con costoro noi patimmo maggior fame che con quegli altri, che in tutto il giorno non mangiammo se non duoi pugni di quei frutti, che eran verdi e avean tanto latte che ci brucciava la bocca, ed essendoci carestia d'acqua dava molta sete a chi li mangiava: ed essendo la fame sí grande, ci convenne comperare da loro duoi porci, e in cambio loro demmo certe reti e altre cose, e un cuoio col quale io mi copriva. Già ho detto come per tutto quel paese andammo nudi e, non essendovi noi avezzi per avanti, mutavamo a guisa di serpi il cuoio duoi volte l'anno, e col sole e con l'aria ci si faceva nel petto e nelle spalle alcune piaghe molto grandi, che ci davano gran pena per rispetto delle carche che portavamo, molto grandi e pesanti, e faceano che le corde ci si ficcavano per le braccia. E il terreno è tanto aspro e serrato che molte volte facevamo legna de' boschi, che quando l'avevamo finito di cavare ci correva il sangue da molte parti, per le spine e cespugli dove intoppavamo, che ci rompevano ovunque toccavano. Alle volte m'avenne di far legna e, dipoi l'avermi cavato molto sangue, non le poteva portare, né in spalla né strascinando. Quando mi ritrovavo in questi travagli, non avevo altro rimedio né consolamento che pensare nella passione del nostro Signor Giesú Cristo e nel sangue che per me egli sparse, e considerare quanto maggiore dovea essere il tormento che egli patí dalla corona di spine, che quello ch'io soffriva. Contrattavo io con questi Indi, facendo loro pettini, e con archi e con frezze e con reti; facevamo stuore, che sono cose delle quali essi hanno molto bisogno, e ancorchè le sappiano fare, non voglion far nulla per cercar fra tanto da mangiare, e quando si pongono a lavorare passano molta gran fame. Altre volte mi faceano rader pelli e intenerirle, e la maggior prosperità ch'io avessi tra loro era il dí che mi davano a rader qualche cuoio, perchè lo radevo molto e mangiavo di quelle raditure, e quello mi bastava per due o tre giorni. Ci avenne ancora con questi e con gli altri che avevamo lasciati adietro che, dandoci essi un pezzo di carne, ce la mangiavamo cruda, perchè, se l'avessimo posta a cuocere, il primo di loro che fusse arrivato ce la avrebbe tolta e mangiatola, onde ci pareva che non fusse bene d'arrischiarla a questo pericolo, oltre che noi non stavamo di sorte che ci dessimo pensieri di volerla mangiare piú cotta che cruda. Questa fu la vita che con questi Indi passammo, e quel poco sostentamento che avevamo ce lo guadagnavamo con cosette che facevamo con le nostre mani.
Dipoi che noi avemmo mangiati quei cani, parendoci d'aver qualche vigore da poter passare avanti, ci raccomandammo a Dio nostro Signore che ci guidasse e ci spedimmo da quegl'Indi, ed essi ci menarono ad altri della lor lingua che stavano quivi vicini. E cosí andando piovve tutto quel giorno, e oltre a ciò smarrimmo il camino e fummo a fermarci ad un monte molto grande, dove cogliemmo molte foglie di tune, e le cocemmo quella notte in un forno che facemmo, e demmo loro tanto fuoco che la mattina stavano da poterle mangiare; e doppo l'averle mangiate ci raccomandammo a Dio e ce ne andammo, e ritrovammo il cammino che avevamo smarrito. E passando il monte trovammo altre case degl'Indi, e arrivati vi vedemmo due donne e alcuni fanciulli, che andavano per quel monte: e vedendoci si spaventarono, e fuggirono a chiamare gl'Indi loro che andavano per il monte. E venuti si fermarono a guardarci di dietro a certi arbori, e noi li chiamammo e vennero con molta paura, e dipoi che avemmo parlato loro, ci dissero che avevano gran fame, e che quivi vicino stavano molte delle lor case, e dissero di menarci là e cosí quella notte arrivammo dove erano cinquanta case, e tutti si spaventavano molto di vederci e stavano con molto timore, e dipoi che erano stati alquanti sbigottiti, si ci accostavano e ci menavano le mani per il viso e per il corpo, e dipoi se le menavano sopra il viso e corpo lor proprio. E cosí stemmo quella notte, e venuta la mattina ci menarono gl'infermi che eran tra loro, pregandoci che li benedicessimo, e ci diedero di quello che aveano da mangiare, che erano foglie di tune e tune verdi arrostite o secche: e per il buon portamento che ci faceano, e perchè quel poco che aveano ce lo davano volentieri, e aveano piacer di star senza mangiar essi per darne a noi, ci stemmo con esso loro alcuni giorni. E cosí stando, vennero altri Indi di quei piú avanti, e quando se ne vollono andare noi dicemmo ai nostri primi che ce ne volevamo andar con quegli altri, il che dispiacque lor molto, e ci pregarono molto strettamente che non ci partissimo; ma alla fine ci sbrigammo da loro, e lasciammoli piangendo della nostra partita, della quale aveano grandissimo dispiacere.
Dall'isola di Malhado, tutti gl'Indi che in quel paese vedemmo hanno per usanza, dal giorno che le donne loro si sentono gravide, non dormono con esse finchè sieno passati duoi anni dall'aver creati i figliuoli, i quali elle allattano finchè sono d'età di dodeci anni, che già sono da sapersi da se stessi procacciar da mangiare. Dimandavamoli noi per qual cagione cosí gli nodrissero, e ci rispondevano che lo faceano per la molta fame che era in quel paese, dove, come noi vedevamo, alcune volte conveniva star tre e alcune volte quattro giorni senza mangiare: e per questo gli lasciavano allattare, perchè in quei tempi non morisser di fame; e se pure ancora alcuni ne fussero scampati, sarebbono stati troppo delicati e di poca forza. Se per sorte aviene che alcuno tra loro s'infermi, lo lasciano morire in quei campi, se non è figliuolo, e tutti gli altri, se non possono andar con essi, si rimangono; ma per un figlio o fratello loro, essi se li caricano in collo e cosí gli portano. Tutti costoro hanno usanza di separarsi dalle mogli loro quando tra loro non è conformità o accordo, e si rimaritano essi ed esse con chi vogliono: e questo si fa tra i giovani, ma quei che già hanno figliuoli non lasciano mai le lor mogli. E quando contendono con altri popoli e fanno questioni un con l'altro, si danno pugni e bastonate finchè sono molto stanchi, e allora si spartono, e alcuna volta gli spartono le donne entrando tra loro, perchè uomini non entrano a spartirli: e per qualsivoglia colera o passione che abbiano, non combattono con archi né con frezze. E dipoi che si hanno dati pugni e bastonate e finita la mischia, prendono le case e le donne loro e se ne vanno a vivere per i campi e separati dagli altri, finchè lor si passa lo sdegno e la colera; e quando già stanno cosí senza colera, se ne tornano alla gente loro, e da indi inanti sono amici come se mai non fusse stata tra lor cosa alcuna, né è bisogno che altri s'interponga a far le paci o l'amicizie, perchè in questa guisa le fanno da se stessi. E se quei che fanno questioni non hanno mogliera, se ne vanno da altri lor vicini, e se ben fussero lor nemici li ricevono benignamente e fanno loro molte carezze, e danno loro di quel che hanno, di modo che, passata che è loro la colera, se ne tornano al suo popolo ricchi. Tutti sono gente di guerra, e usano tanta astuzia per guardarsi da' lor nemici, come farebbono se fussero nodriti in Italia e in continua guerra. Quando sono in parte che i lor nemici li possono offendere, posano le lor case alla radicie del monte piú aspro e piú folto che quivi possin trovare, e allato a quello hanno un fosso, e quivi dormono. Tutti quei che sono da combattere stanno coperti con legna minute, e fanno le lor saettiere, e stanno tanto coperti e ascosi che, ancorchè gl'inimici lor sieno appresso, non gli veggono; e fanno una strada molto stretta fino a mezzo dentro il monte, e quivi fanno luogo perchè dormano le donne e i fanciulli. E quando viene la notte accendono lumi nelle lor case, perchè, se gl'inimici tenessero spie, si credano che essi vi sieno, e avanti l'alba accendono similmente fuochi: e se a caso i nemici vengono a dare in quelle case, quei che stanno nel fosso escono fuori, e insino alle trinciere fanno lor molto danno, senza che quei di fuori li veggano né li possano trovare. E quando non vi sono monti dove possano in tal maniera nascondersi e fare i loro aguati, si mettono al piano nella parte che loro par migliore, e intorniansi di trincere coperte di legna minute, e fanno le lor saettiere, onde saettano i nemici, e questi ripari essi fanno per la notte.
Stando io con gli Aguenes, a mezzanotte sopravenner loro i nemici all'improvviso e assalirongli, e n'uccisero tre e ferironne molti, di sorte che se ne fuggirono per il monte avanti; e poi, sentendo che i nemici se n'erano andati dalle lor case, essi ritornarono, e raccolsero tutte le frezze che coloro aveano tirate, e piú copertamente che poterono li seguirono. E quella notte vennero alle lor case senz'esser sentiti, e vicino all'alba gli assalirono e ne ammazzarono cinque de' loro, senza molt'altri che ne ferirono, e gli fecero fuggire e lasciar le case e gli archi con tutta la roba loro: e indi a poco spazio vennero le donne di quei che si chiamavano Quevenes, e si poser tra loro e gli fecero amici, quantunque alcune volte elle sieno principio della guerra. Tutte queste genti, quando tengono inimicizie particolari, se non sono d'una stessa famiglia si uccidono di notte con aguati e tradimenti, e usan tra loro gran crudeltà.
Questa è la piú sollecita gente per una armata di quante io ne ho mai vedute al mondo, perciochè, se temono de' loro nemici, tutta la notte stanno svegliati co' loro archi appresso e con una dozena di frezze, e colui che dorme tasta l'arco suo, e se non lo truova in corda gli dà la volta che gli bisogna. Escono molte volte delle lor case e vanno bassi bassi per terra, in modo che non possono esser veduti, e guardano e spiano per ogni parte per sentir che si fa, e se alcuna cosa sentono in un punto sono al campo con gli archi loro e con le frezze, e vanno scorrendo insino al giorno qua e là, dove veggono o sentono che bisogni, o pensano che possano essere i nemici. Quando viene il giorno, tornano a rallentare i loro archi, finchè poi vanno a caccia; le corde degli archi loro sono nervi di cervo. Il modo che tengono di combattere è d'andar bassi per terra, e mentre si frezzano vanno parlando e saltando sempre da un capo all'altro, guardandosi dalle frezze de' nemici, tanto che in luoghi tali possono con tal modo di combattere ricevere molto poco danno di balestre o d'archibugi, anzi gl'Indi se ne fanno beffe, perchè tale arme non vagliono contra loro in campi piani, dov'essi vanno sciolti, e solamente vagliono per luoghi stretti e d'acqua. Nel resto i cavalli son quegli che gli hanno da soggiogare, e quei che gl'Indi universalmente temono. Chi ha da combattere con esso loro conviene che stia molto avvertito che essi non conoscano che sia stanco o codardo, e mentre dura la guerra gli ha da trattare il peggio che può, perciochè, se timore conoscessero in lui o alcuna codardia, quella è gente che sa molto ben conoscere il tempo da vendicarsi, e prende ardire e forza dalla temenza de' loro adversarii. Quando nella guerra si son frezzati e hanno consumata la lor munizione, se ne ritorna ciascuno al cammino suo, senza che i nemici gli seguano quantunque l'una parte fusser pochi e gli altri molti: e questa è usanza loro. Molte volte si passano da parte a parte con le frezze, e non muoiono se non toccano le trippe o il cuore, anzi sanano molto presto. Veggono e odono e hanno i sentimenti piú acuti di quanti uomini io credo che sieno nel mondo. Sono grandemente pazienti della fame e della sete e del freddo, come quei che piú vi sono avezzi che tutti gli altri. Questo ho voluto raccontare perchè, oltre che ciascuno è desideroso di sapere i costumi e gli esercizii degli altri, quei che alcune volte si verranno a veder con essi sieno avisati de' lor costumi e arditezze, che sogliono molto giovare inverso tali.
Voglio similmente raccontare le nazioni e lingue che sono tra essi, dall'isola di Malhada insino agli ultimi Cuchendadi. Nell'isola di Malhada sono due lingue: questi si chiamano Cavoques, quegli altri di Han. In terra ferma, a fronte a quell'isola, sono altri che si chiamano di Carruco, e pigliano tal nome dai monti dove vivono; avanti nella costa del mare sono altri che chiamano Deguenes, e in fronte a questi sono altri che chiamano di Mendica. Piú avanti nella costa sono i Quevenes, e a fronte a questi dentro in terra ferma sono i Mariames, e andando per la costa avanti sono altri chiamati Guaicones, e in fronte a questi dentro in terra ferma l'Iguazes. In capo a questi sono altri che chiamano gli Ataios, e dietro a questi altri che chiamano Acubadaos, e di questi sono molti per questa riviera avanti. Nella costa vivono altri chiamati Quitoles, e in fronte a questi dentro in terra ferma i Avavares, e con questi si uniscono i Maliacones e i Cultalculches, e altri che si chiamano Susolas, e altri chiamati Comos, e davanti nella costa stanno i Camoles, e nella medesima costa avanti sono altri che noi chiamiamo quei de' fichi. Tutte queste genti tengono abitazioni e popoli e lingue diverse: tra costoro è una lingua nella quale, dicendo agli uomini "guarda qua", dicono arraca e ai cani dicono xo. E in tutto quel paese s'imbriacano con certo fumo, che danno ciò che hanno per averne. Beono similmente un'altra cosa che cavano delle frondi degli arbori, come d'elci, e le cuocono in alcune botti al fuoco, e dipoi che l'hanno cotta empiono la botte d'acqua, e cosí lo tengono sopra il fuoco, e quando ha bollito due volte la buttano in alcuni vasi e la raffreddano con una mezza zucca: e quando sta con molta schiuma, la beono quanta piú calda la posson soffrire, e finchè la cavano della botte e finchè la beono stanno gridando "chi vuol bevere". E quando le donne sentono questi gridi, subito si fermano senza aver ardir di muoversi, se ben si trovassero d'esser molto cariche: e se per sorte alcuna d'esse si movesse, la svergognano e danno delle bastonate, e con molto sdegno e colera essi gettan via quell'acqua o bevanda che hanno fatta, e se ne hanno bevuta la vomitano fuori, il che essi fanno molto agevolmente. La ragione di questa loro usanza essi dicono che è questa, che se, quando essi vogliono bere di quell'acqua, le donne si muovono da dove le prende quella voce, in quella bevanda si mette una cosa trista, la quale entrando nel corpo in breve spazio gli fa morire. E tutto il tempo che quell'acqua si cuoce, il vaso ha da star bene turato e chiuso, e se per sorte stesse scoperto e venisse a passare alcuna donna, la gettano via e non ne beono piú. È di color giallo, e la beono tre giorni senza mangiare, e ogni giorno ne beono un'anfora e mezza. E quando le donne hanno le loro purgazioni, non procacciano da mangiare se non per se stessi, perchè niun'altra persona mangia di quello ch'ella porta. Nel tempo ch'io stavo tra costoro viddi un bruttissimo costume, cioè un uomo che era maritato con un altro: e questi sono alcuni uomini effeminati e impotenti, e vanno vestiti e coperti come donna e fanno ufficio di donna, e non tirano archi e portano molto gran pesi. E tra costoro ne vedemmo molti cosí effeminati come ho detto, e sono piú membruti e piú alti che gli altri uomini.
Dipoi che noi ci partimmo da quei che lasciammo piangendo, fummo con gli altri alle case loro, e da essi fummo molto ben ricevuti, e ci menarono i figliuoli loro perchè toccassimo loro le mani, e ci davano molta farina di mesquiquez. Questi sono alcuni frutti che quando stanno negli arbori sono molto amari, e sono della sorte che sono le carobe, e mangiansi con terra, e con essa sono molto dolci e buoni da mangiare. Il modo col quale li conciano è che fanno una fossa in terra dell'altezza che vogliono, e dipoi che in questa fossa hanno gettati i frutti, con un legno grosso come una gamba e lungo un braccio e mezzo gli macinano molto bene, e piú che gli si attacca della terra della fossa, ne pigliano dell'altra crivellata e la mettano nella detta fossa e tornano a macinarla un altro poco; e dipoi la pongono in un vaso a modo d'una sporta, e vi buttan sopra tanta acqua che basti a coprirla, in modo che l'acqua avanzi per sopra, e colui che l'ha macinata la pruova in bocca, e se gli pare che non sia dolce dimanda terra e la mescola seco, e questo fa finchè la truova dolce. E cosí poi si mettono a sedere intorno intorno, e ciascuno vi mette la mano e ne piglia quanto può, e la sementa o amandole di quei frutti e cosí le scorze si gettano sopra d'alcuni cuoi, e colui che gli ha macinati le raccoglie e le torna a metter poi tutte nella sporta, e gettali sopra acqua come prima, e tornano a sprimer il sugo e acqua che ne può uscire, e similmente tornano a mettere le semenze e le scorze sopra il cuoio. E cosí in questa guisa fanno tre o quattro volte per ogni macinatura, e quei che si trovano a questo banchetto, che per essi è molto grande, rimangono con la pancia molto enfiata per la terra e acqua che beono. E di questo ci fecero gli Indi molta gran festa, e fecero tra loro molti balli e feste fintanto che quivi stemmo, e quando la notte noi dormivamo, alla porta della capanna dove stavamo vegghiavano sei uomini con molta cura, non lasciando entrar da noi alcuno finchè il sol fusse uscito. E quando ci volemmo partir da loro, arrivarono quivi alcune donne d'altri che vivevano piú avanti, e informati da loro dove stavano quelle case, ci partimmo verso quella parte, ancorchè coloro molto ci pregassero che per quel giorno non ci partissemo, perchè quelle case stavano molto lunge di quivi e non vi era cammino per andarvi, e che quelle donne erano venute stanche, ma riposandosi fino all'altro giorno verrebbono poi con noi e ci guiderebbono. Ma noi ce ne spedimmo e andammo via, e indi a poco quelle donne che erano venute quivi, con alcune altre di quei primi, se ne vennero dietro a noi; ma, non vi essendo strada battuta né sentiero, subito ci perdemmo, e cosí andammo quattro leghe, in fin delle quali arrivammo a bere ad un'acqua dove trovammo le donne che ci aveano seguito, e ci dissero il travaglio che aveano passato per ritrovarci.
Quindi partiti e menando quelle donne per guida, passammo un fiume in sul tardi, e l'acqua ci dava insino al petto, e poteva esser largo come quel di Siviglia e correva molto forte. E al colcar del sole arrivammo a cento case d'Indi, e avanti che arrivassimo uscirono tutti a riceverci, con tanto grido che era un spavento, e davansi gran palmate nelle coscie, e portavano zucche forate con pietre dentro, che è l'istrumento delle lor maggior feste: e non le cavano se non per ballare o per medicare, né è alcuno che l'ardisca pigliare in mano se non essi. E dicono che quelle zucche hanno virtú e che vengono dal cielo, perchè in quei paesi non ne nasce, né sanno onde vengano, se non che le portano i fiumi quando vengono grossi. Era tanto il timore e la confusione di costoro che, per accostarsi a noi piú presto l'un dell'altro e toccarci, ci strinsero tanto che mancò poco che non ci ammazzassero, e senza lasciarci mettere i piedi in terra ci portarono alle case loro, e tanto ci caricavano sopra e tanto ci stringea la calca, che ce ne entravamo nelle case che aveano fatte per noi, e non consentimmo che per quella notte facessero piú festa con noi. Tutta quella notte passarono tra loro in giuochi e balli, e il dí seguente a buon'ora ci menarono davanti tutta la gente di quel luogo, che noi li toccassimo e benedicessimo come avevamo fatti agli altri co' quali eravamo stati, e doppo questo diedero molte frezze alle donne dell'altro popolo, che erano venute con le loro.
Il dí appresso partimmo di quivi e tutta quella gente venne con noi, e come arrivammo ad altri Indi, fummo molto bene ricevuti come dagli altri, e ci diedero di quello che aveano, e i cervi che quel giorno avevano uccisi. E tra costoro vedemmo una nuova usanza, cioè che a quei che venivano da noi a curarsi, coloro che erano prima con noi toglievano gli archi, le frezze, le scarpe e le corone se ne aveano, e dipoi che cosí l'avevano lor tolte ce li menavano inanti perchè li medicassimo, e medicati che gli avevamo se n'andavano molto contenti, dicendo che erano sani. Cosí ci partimmo da costoro e andammo ad altri, da' quali fummo molto ben ricevuti, e ci menarono i loro infermi che, benedicendoli noi, diceano che erano sanati: e chi non sanava credeva che potessimo sanarlo, e per quello che lor diceano gli altri che noi curavamo, faceano tanta festa e balli che non ci lasciavano dormire. Partiti da costoro andammo dove erano molt'altre case, e qui cominciò un'altra nuova usanza, cioè che, ricevendoci ciascuno molto bene, coloro che venivano con noi toglievano loro tutta la robba e loro saccheggiavano le case, senza lasciar loro cosa alcuna: il che a noi dispiacque molto, vedendo cosí tristi portamenti verso quei che con tanta cortesia ci riceveano, e temendo ancora che tal cosa cagioneria qualche alterazione o scandolo tra loro. Ma, non essendo noi bastanti a rimediarvi e a castigar quei che lo faceano, ci convenne per allora soffrirlo, finchè ci vedessimo d'aver tra loro piú autorità. E cosí ancora quei medesimi che perdeano le robbe, vedendo il dispiacer nostro, ci consolavano, dicendo che di ciò non ricevessimo dispiacere, che essi erano tanto contenti d'averci veduti che aveano per bene impiegata la robba loro, e che avanti sarebbono pagati da altri che erano molto ricchi. Per tutto questo cammino avemmo molta noia per la gran gente che ci seguiva, e non potevamo separarci da loro, con tutto che molto lo procurassimo, perchè era molto grande la pressa che faceano per venirci a toccare, ed era tanta l'importunità loro, che passavano tre ore prima che potessimo fare che ci lasciassero. Il dí seguente ci menarono davanti tutta la gente loro, e la maggior parte sono sguerzi, e altri sono ciechi da se medesimi, di che restammo molto maravigliati; sono ben disposti e di buone maniere, e piú bianchi di tutti gli altri che fin qui avevamo veduti. Quivi cominciammo a veder montagne, che pareano che venissero verso il mare di Tramontana, e per la relazione che gli Indi ce ne fecero credo che stieno quindeci leghe lungi dal mare.
Quindi ci partimmo con quegli Indi verso quelle montagne che ho già dette, e ci menarono dove stavano alcuni parenti loro, perchè non ci voleano menare se non dove fussero lor parenti, non volendo che i loro nemici avessero tanto bene come parea loro che fusse il vederci. E quando fummo arrivati quei che venivano con noi saccheggiarono gli altri, i quali, perchè già sapeano l'usanza, avanti che arrivassimo aveano nascoste alcune cose; e dipoi che ci ebbero ricevuti, con molta festa e allegrezza trasser fuori quello che aveano ascoso e ce lo appresentarono, e queste erano corone, magra e alcuni ligazetti d'argento. Noi secondo l'usanza nostra le demmo subito tutte agl'Indi che venivano con noi, e cosí, dato che ce l'ebbero, cominciarono i balli e le feste loro, e mandarono a chiamare altro popolo che era quivi presso perchè ci venissero a vedere, i quali sul tardi venner tutti e ci portarono corone, archi e altre cosette, che noi pure dividemmo tra quegli altri. E il dí seguente, volendoci partire, ciascuno ci voleva menar dagli amici loro, che erano alla punta delle montagne, dicendo che quivi erano molte case e genti e che ci darebbono molte cose; ma, per esser fuori del viaggio nostro, non volemmo andarvi altrimenti, e pigliammo la via per la pianura vicina alle montagne, le quali credevamo che non dovesser esser lontane dalla costa. Tutte quelle gente sono molto triste, e tenevamo per meglio d'attraversar la terra, perchè la gente che sta piú in dentro è meglio condizionata e ci tratterebbono meglio, e tenevamo per certo che troveremmo il paese piú popolato e di miglior sostentamento; e ultimamente lo facevamo ancora perchè, attraversando la terra, vedevamo piú particolarità, perchè, se ad Iddio nostro Signore fosse piaciuto di cavarci di quel paese alcuno di noi e condurci in terra di cristiani, ne potessimo dar nuove e relazione. E vedendo gl'Indi che noi eravamo determinati di non voler andare ond'essi voleano, ci dissero che per donde noi volevamo andare non vi era né gente, né tune, né alcuna altra cosa da mangiare, e pregaronci che ci stessimo quivi quel giorno: e cosí facemmo. Allora essi mandarono duoi Indi perchè cercassero gente per quel cammino che noi volevamo fare, e il dí seguente ci partimmo, menando con esso noi molti di loro; e le donne andavano cariche d'acqua, ed era tanto grande tra loro l'autorità nostra, che niuno non ardiva di bere senza nostra licenza. Due leghe di quivi incontrammo gl'Indi che erano andati a cercar gente, e dissero che non ne trovavano, di che gli altri mostrarono d'aver dispiacere, e ci tornarono a pregare che andassimo per la montagna. Noi non lo volemmo fare ed essi, vedendo la volontà nostra, si spedirono da noi, benchè con molto lor dispiacere, e lungo il fiume all'ingiuso se ne tornarono alle case loro. E noi camminammo lungo il fiume in suso, e indi a poco incontrammo due donne, le quali erano cariche, e come ci viddero si fermarono e discaricaronsi e ci portarono di quello che aveano, che era farina del lor frumento, e ci dissero che avanti in quel fiume troveremmo molte case e tune e di quella farina: e cosí ci spedimmo da loro, che andavano a quegl'Indi onde noi eravamo partiti.
Andammo insino a posta di sole e arrivammo ad un popolo di 20 case, dove fummo ricevuti piangendo e con gran dispiacere, perchè già aveano inteso che ovunque noi arrivavamo erano saccheggiati da coloro che venivano con noi; ma, come ci viddero soli, perderono la paura e ci diedero tune e non altra cosa. Stemmo quivi quella notte, e all'alba quegl'Indi che ci aveano lasciati il dí avanti diedero nelle case loro, e cogliendoli sprovisti e sicuri tolser loro quanto aveano, senza che potessero asconder cosa alcuna: di che essi piansero molto, e i rubatori per consolarli dissero che noi eravamo figliuoli del sole, e che avevamo potere di sanar gl'infermi e d'ammazzarli, e altre lor menzogne maggiori di queste, come essi sanno dire molto bene quando veggono che lor bisognino. E soggiunsero che ci menassero con molto risguardo, e avesser cura di non offenderci né disobedirci in alcun modo, e che ci dessero quanto aveano e procurassero di menarci dove fusse molta gente, e che dove noi arrivassimo essi rubassero e saccheggiassero tutto quello che gli altri aveano, perchè cosí era usanza. E cosí, doppo l'avergli informati e ammaestrati di quanto doveano fare, se ne ritornarono e ci lasciarono con quelli, i quali, tenendo bene a memoria quello che coloro avean detto, ci cominciarono a trattare con la medesima riverenza e rispetto che gli altri.
E fummo con essi tre giornate, e ci menarono dov'era molta gente, e avanti che arrivassimo diedero aviso a coloro come noi andavamo, e dissero di noi tutto quello che gli altri avean loro insegnato e vi aggiunsero molto piú, perchè tutta questa gente indiana è molto amica di novelle, e sono gran bugiardi, e tanto piú quando vi va qualche loro interesse. Quando noi arrivammo vicino alle case, uscí tutto il popolo a riceverci con molto piacere e festa, e tra le altre cose duoi de' lor fisici ci diedero due zucche, e d'allora in poi cominciammo a portar zucche con noi, e aggiungemmo all'autorità nostra questa cerimonia, che con quelle genti è molto grande. Quelli che ci aveano accompagnati saccheggiarono le case, ma, essendo le case molte ed essi pochi, non poterono portarsene ogni cosa, ma ne lasciarono perdere la metà. E di qui per le falde del monte ce ne andammo, mettendoci per la terra adentro piú di cinquanta leghe, in fine delle quali trovammo quaranta case, e tra le altre cose che ci diedero ebbe Andrea Dorante un sonaglio grosso e grande di rame, dove era un volto intagliato, e mostravano di tenerlo in grande stima, dicendo che l'aveano avuto da altri loro vicini: e dimandatili donde coloro l'avessero avuto, dissero che l'aveano portato di verso la tramontana, e che quivi valea molto ed era tenuto in molto pregio. Noi conoscemmo che, dovunque fusse venuto, dovea quivi esser l'arte di fondere e di tragettare.
E con questo ci partimmo il dí seguente, e attraversammo un monte di sette leghe, e le pietre che vi erano eran di schiuma di ferro. E la sera arrivammo a molte case che eran poste alla riviera d'un vaghissimo fiume, e i signori di quelle uscirono a mezza strada a riceverne con i lor figliuoli in braccio, e ci diedero molti ligazetti d'argento e d'antimonio macinato, col quale essi s'ungono il viso, e diederci molte corone e molte mante di vacca, e caricarono tutti quei che venivano con noi di quanto essi aveano. Mangiavano tune e pignuoli: sono per quei luoghi pini piccioli, le cui pigne sono come uova piccole, ma i lor pignuoli sono migliori che quei di Castiglia, perchè hanno le scorze molto sottili, e quando son verdi li macinano e ne fanno pallotte, e se sono secchi li macinano con le scorze e li mangiano in polvere. E quei che quivi ci riceveano, come ci aveano toccati, si voltavano correndo verso le lor case, e subito ritornavano verso di noi altri, e cosí non restavano di correre andando e venendo di continuo, e in questa guisa ci portavano molte cose per il nostro cammino. Qui mi menarono un uomo, e mi dissero che era molto tempo che era stato ferito d'una frezza nella spalla dritta, e avea la punta della frezza sopra il cuore, e dicea che gli dava molta pena e che per quello stava sempre infermo. Io lo toccai e sentii la ponta della frezza, e conobbi che la teneva attraversata per la ternilla, e con un cortello ch'io avevo gli tagliai la carne e aprigli il petto insino a quella parte dove viddi la ponta attraversata, e viddi che era molto malagevole a cavarsi; tornai a tagliar piú e ficcai la ponta del cortello, e con gran travaglio finalmente la cavai, che era molto lunga, e con un osso di cervo, usando l'uficio mio di medicina, gli diedi duoi ponti. E quando io ebbi cavata la ponta me la dimandarono, e la donai loro, e il popolo corse tutto a vederla, e la mandarono per la terra adentro perchè tutti coloro la vedessero: e per questo fecero molti balli e feste, come sono usati di fare. E indi a duoi giorni io tagliai i duoi ponti all'Indo, e fu sano, e disse che non sentiva dolore né noia alcuna, e questa cura ci diede tra loro tanto credito per tutto quel paese, quanto mai da loro si potesse e sapesse stimare. Mostrammo loro quel sonaglio che portavamo, e ci dissero che nel luogo dove quei si faceano erano molte lamine di quelle sotterrate, e che quel sonaglio tra loro era cosa di molta stima, e che ivi eran case fabricate: e questo credemmo noi che fusse il mare del Sur, di che sempre avemmo notizia che quel mare era piú ricco che quello di Tramontana.
Da costoro noi ci partimmo, e andammo per tante sorte di gente e tanto diverse lingue che non basta memoria d'uomo a raccontarle, e sempre l'un popolo saccheggiava l'altro, e cosí quei che perdeano come quei che guadagnavano rimaneano contentissimi. Menavamo tanta compagnia che in niuna maniera ci potevamo valer con essi. Per quelle valli onde passavamo ciascuno d'essi portava un bastone lungo tre palmi, e andavano tutti in ala, e saltando alcuna lepre, che per quel paese ne sono molte, l'intorniavano subito, e cadeano tanti bastoni sopra di lei che era cosa maravigliosa, e in questa guisa la faceano andar dall'uno all'altro, che per mio aviso era la piú bella caccia che si potesse imaginare, perchè alcune volte elle venivano insino alle mani: e quando la notte ci fermavamo, erano tante quelle che ce ne aveano date che ciascuno di noi altri ne portava otto o dieci. E quei che portavano archi non comparivano tra noi altri, ma se ne andavano separati per la montagna a cercar cervi, e la sera quando venivano ne portavano per ciascun di noi cinque o sei, e molti uccelli e quaglie e altre cacciagioni; e finalmente quanto tutte quelle genti prendeano ce lo metteano inanzi, senza che essi ardissero di pigliarne né toccarne per se stessi alcuna cosa, ancorchè si morissero di fame, che cosí l'aveano in costume da che venivano con noi altri, se prima noi non lo benedicevamo. Le donne portavano molte stuore, delle quali ci facevano case, a ciascuno la sua separatamente, e con tutta la gente conosciuta da lui; e quando ciò era fatto, noi comandavamo che si arrostissero quei cervi e quelle lepri e tutto quello che aveano preso, il che si facea molto presto, in alcuni forni che a tale effetto essi faceano. E di tutte noi pigliavamo primieramente un poco, e il rimanente davamo al principale della gente, che lo spartisse tra tutti loro: e come ciascuno avea avuta la parte sua, se ne venivano a noi che la soffiassimo e benedicessimo, che altrimenti non avrebbono avuto ardir di mangiarne. E molte volte menavamo con noi tre e quattromila persone, onde era molto il travaglio nostro d'avere a soffiare e benedire il mangiare e bere di ciascuno di loro; e d'ogni altra lor cosa che volean fare ci venivano a dimandar licenzia, che si può considerare quanto fusse il fastidio che ne ricevevamo. Le donne ci portavano davanti le tune, i ragni, i vermi e tutto quello che poteano avere, perciochè, se ben si fussero morte di fame, non avrebbono mangiato cosa alcuna che non l'avessero avuta di nostra mano. E cosí andando con costoro passammo un gran fiume, che veniva dalla parte di tramontana, e passate alcune pianure di 30 leghe, trovammo molta gente che molto di lontano veniva a riceverci, e uscivano alla via onde noi avevamo da passare, e ci riceverono nel modo che aveano fatto gli altri.
Di qui avanti tennero altro modo di riceverci in quanto al saccheggiarsi, perciochè coloro che uscivano alla strada a portarci alcuna cosa non erano saccheggiati da quei che venivano con noi, ma, dipoi che eravamo entrati nelle case loro, da se stessi ci offerivano quanto aveano e le case ancora. Noi davamo tutto ai principali, che la dividessero tra loro, e sempre quei che rimanevano cosí spogliati ci seguitavano, onde ci cresceva molta gente per sodisfarsi della lor perdita, e diceano agli altri che si guardassero di non asconder cosa alcuna, perchè non potea esser che noi non lo sapessimo, e faremmoli morir tutti di subito. Erano tanto grande le paure che loro metteano che, i primi giorni che stavano con noi, stavano sempre tremando e senza ardir di parlare né d'alzar gli occhi al cielo. Costoro ci guidarono per piú di cinquanta leghe di paese diserto e montagne molto aspre, e per esser tanto secche non vi era caccia alcuna, onde sopportammo molta fame. Alla fine, passati un fiume molto grande, che l'acqua ci dava fino al petto, cominciarono molti di quei che venivano con noi a lamentarsi per la molta fame e travaglio che avevano patito per quelle montagne, le quali erano estremamente aspre e travagliose. Costoro medesimi ci menarono ad alcune pianure in fine di quelle montagne: vennero molta gente di lontano a riceverci, come i passati, e diedero poi tanta robba a quei che erano con noi che, per non poterla portare, ne lasciarono la metà. E noi dicemmo a quegli Indi che l'avevano portata che se la ripigliassero, perchè non si perdesse, ed essi ci risposero che per niente non lo farebbono, che non era usanza loro, dipoi che una volta aveano offerta la cosa, ritornarsela poi a pigliare, e cosí la lasciarono perdere.
A costoro noi dicemmo che volevamo andare verso dove il sole si colca, e ci dissero che per quei luoghi stava la gente molto lontana. Noi comandammo che mandassero a far loro intendere come noi andavamo, ed essi si scusarono come meglio poterono, dicendo che coloro eran loro nemici e che non avrebbono voluto che noi vi fossimo andati; ma non avendo ardimento di far contra la volontà nostra, vi mandarono due donne, l'una loro e l'altra che di quei lor nemici teneano prigione: e mandarono queste perchè le donne possono negoziare, se ben tra gli uomini è guerra. E noi le seguimmo e ci fermammo in un luogo dove era determinato che l'aspettassimo, ma esse tardarono 5 giorni a tornare, e gli Indi diceano che non doveano trovar gente. Noi dicemmo che ci menassero verso la tramontana, e ci risposero il medesimo, cioè che per quei luoghi non vi era gente se non molto di lunge, e che non vi era che mangiare, né vi si trovava acqua: e con tutto questo noi ci ostinammo e dicemmo che di là volevamo andare, ed essi tuttavia si scusavano del meglio modo che potevano. E per questo noi ci sdegnammo, e io una notte me ne uscii a dormire in campagna separato da essi, ma subito essi vennero dove io stavo, e tutta la notte non dormirono mai, con molta paura, e parlandomi e dicendomi che non stessimo piú in colera, che, se bene essi fussero certi morir fra via, ci menerebbono dove noi volessimo. Noi altri fingevamo tuttavia di star colerichi, e perchè la paura loro non si levasse, avenne un caso molto strano, cioè che in quel giorno medesimo s'infermarono molti di loro, e il dí seguente ne morirono otto; onde per tutto il paese dove ciò si seppe presero tanta paura di noi, che vedendoci pareva che morissero di paura. Ci pregarono che non stessimo piú in colera e che non volessimo che de' loro ne morissero piú, tenendosi per cosa certa che noi altri gli ammazzassimo solamente col volere. Ma certamente noi di ciò avevamo tanto dispiacere che non si potrebbe dir piú, perciochè, oltre il vederli morire, che pur ci dovea dispiacere, temevamo che non si morissero tutti e ci lasciassero soli per paura, e che tutti gli altri di quivi avanti ci fuggissero, vedendo quello che a costoro fusse avvenuto: pregammo Iddio Signor nostro che ci rimediasse, e cosí cominciarono a risanar tutti quei che s'erano ammalati. E vedemmo una cosa molto maravigliosa, cioè che i padri, fratelli e le mogliere di quei che morirono aveano grandissimo dolore di cosí vederli, e dipoi che erano morti non mostrarono alcun segno di doglia, né li vedemmo piangere, né parlar l'un con l'altro, né fare alcun altro segno, né ardivano d'appressarsi loro, finchè noi comandavamo che li sepellissero; e per piú di quindeci giorni che stemmo con esso loro, non vedemmo mai che l'uno parlasse con l'altro, né ridere né piangere alcun fanciullino dei loro. Anzi, perchè una pianse, la portarono molto lontano di quivi, e con alcuni denti di surzo acuti gli dierono de' tagli dagli umeri insino alle gambe: e io, vedendo questa crudeltà e sdegnatomene, dimandai perchè l'avessero fatto, e mi risposero per castigarla per avere ella pianto davanti a me. Tutte queste temenze che essi aveano di noi le metteano ancora a tutti quei che venivano nuovamente a conoscerci, acciochè ci dessero quanto aveano, perchè sapeano che noi non prendevamo nulla per noi, ma davamo ogni cosa a loro. Questa fu la piú obediente gente e di miglior condizione di quanta ne trovammo per tutto quel paese, e communemente sono molto disposti.
Riavuti e risanati quei che languivano, ed essendo noi stati quivi tre giorni, arrivarono le donne che avevamo mandate, e dissero d'aver trovata molto poca gente, perchè tutti erano andati alle vacche, che già era il lor tempo. Noi commandammo a quei che erano stati infermi che si rimanessero, e a quei che stavano bene che venissero con esso noi, e che due giornate di là quelle due donne anderebbono con due dei nostri a fare uscir gente alla strada, che ci ricevessero. E cosí la mattina seguente tutti quei che erano piú gagliardi partirono con noi, e a tre giornate ci fermammo, e il dí seguente partí Alonso del Castiglio ed Estevanicco il negro, insieme con quelle due donne per guida; e quella che di loro era prigione li menò ad un fiume che correva per entro una montagna, dove stava un popolo tra i quali era il padre di lei, e questo furono le prime case che vedessimo, le quali avessero forma e maniera di vere case. Quivi arrivò Castiglio ed Estevanicco, e doppo l'aver parlato con quegli Indi, in capo di tre giorni tornò Castiglio dove ci aveva lasciati, e menò cinque o sei di quegli Indi, e disse come avea trovate case di gente e di fabrica, e che quella gente mangiava frigioli e zucche, e vi avea veduto maiz: questa fu la cosa che piú d'altra del mondo ci rallegrò, e ne rendemmo infinite grazie a nostro Signore Iddio. E disse che il negro verria con tutta la gente di quelle case ad aspettarci nel cammino quivi vicino, e per questo noi ci partimmo, e andati una lega e mezza incontrammo il negro e la gente che veniva a riceverne, e ci diedero frigioli e molte zucche per mangiare e per portar acqua, e mante di vacca e altre cose. E perchè questi erano nemici e non si intendeano, noi ci partimmo dai primi, dando loro tutto quello che costoro ci avevano dato, e andammo con questi altri; e indi a sei leghe, che già si facea notte, arrivammo alle case loro, ma ne aveano fatte dell'altre per noi. Quivi stemmo un giorno e il seguente ci partimmo, menandoli con noi ad altre case fabricate, dove mangiavamo quello medesimo che loro mangiavano.
E dapoi per il tempo avenir era un altro uso, che quelli che sapevano della nostra venuta non ne uscivano all'incontro alle strade come faceano gli altri, ma gli trovavamo nelle case loro, e ne tenevano fatte altre per noi: e stavano tutti assisi, e tutti teneano volto il viso verso la parete, con le teste basse e coi capelli davanti agli occhi, e tutta la robba loro ammontonata in mezzo alla casa. E di qui avanti cominciarono a darci molte mante di cuoio, e non aveano cosa che non ci dessero. È gente di miglior corpo di quante ne vedemmo, e di maggior vivacità e agevolezza, e che meglio ci intendeano e rispondeano a tutto quello di che gli domandavamo; e gli chiamammo quei delle vacche, perchè la maggior parte delle vacche che muoiono in quei paesi è quivi vicino, e per quel fiume in suso piú di cinquanta leghe ne vanno ammazzando molte. Questa gente vanno tutti nudi nel modo de' primi che trovammo; le donne vanno coperte con alcuni cuoi di cervi, e cosí alcuni pochi uomini, e particolarmente i vecchi, che non servono per la guerra. È paese molto popoloso. E dimandatili perchè non seminavano maiz, dissono che lo faceano per non perdere quello che seminassero, perchè duoi anni adietro eran lor mancate l'acque ed erano state le stagioni tanto secche che tutti aveano perduto tutto il maiz che aveano seminato, e che non si assicureriano per alcuna guisa a seminare se prima non avesse piovuto molto: e ci pregarono che noi dicessimo al cielo che piovesse e ne lo pregassimo, e cosí promettemmo di farlo. Volemmo similmente sapere onde avessero trovato quel maiz che aveano, e ci dissero che l'aveano avuto da donde il sole si colca, dove n'era per tutto il paese, ma il piú vicino era per quel cammino. Dimandammoli per qual via noi andremmo bene a quella volta, perchè noi volevamo andarvi, e che ci informassero del viaggio: e ci dissero che il cammino era per quel fiume in suso verso tramontana, e che per diciassette giornate non troveremmo alcuna cosa da mangiare, fuor che certi frutti d'alcuni arbori che chiamano sciacan, e nascono tra le pietre, e ancor doppo fatta tal diligenza non si poteva mangiare, cosí era aspra e secca. E ciò era vero, perchè quivi ce ne mostrarono e non ne potemmo mangiare. E ci dissero ancora che, fintanto che noi andassimo lungo il fiume, andremmo sempre tra gente che erano nemici loro e parlavano la medesima lingua, e che non aveano cosa che darci da mangiare, ma che ci riceveriano di molto buona voglia, e che ci darebbono molte coperte di bombagio e cuoi e altre cose di quelle che essi aveano, ma tuttavia lor parea che per niuna maniera noi non pigliassimo quel cammino. Dubitando noi quel che dovessimo fare, e qual via prendere che piú fusse al proposito e util nostro, c'intrattenemmo con costoro duoi giorni, e ci davano da mangiar frigioli e zucche. Il modo col quale le cuocono è tanto nuovo che l'ho voluto scrivere in questo luogo, perchè si veggia e conosca quanto diversi e strani sono gl'ingegni e l'industrie degli uomini. Essi non hanno pignatte, e per cuocere quello che hanno da mangiare empiono mezza cocozza grande d'acqua, e nel fuoco mettono molte pietre, di quelle che piú agevolmente s'incendono, e quando le veggono infocate le pigliano con alcune tanaglie di legno e le gettano in quell'acqua nella zucca, finchè la fanno bollire con quel fuoco di quelle pietre; e quando veggono che l'acqua bolle vi buttano quello che hanno da cuocere, e in tutto questo tempo non fanno se non cavare una pietra e mettere l'altra infocata, per far che l'acqua bolla e la cosa che vogliono si cuoca.
Passati duoi giorni che quivi eravamo stati, ci determinammo d'andare a trovare del maiz, e non volemmo seguire il cammino delle vacche, perchè è verso tramontana, e questo per noi era troppo gran giro, perchè sempre tenemmo per fermo che andando verso ponente troveremmo quello che desideravamo. E cosí seguimmo il viaggio nostro, e attraversammo tutta la terra finchè uscimmo al mar del Sur d'ostro, e non bastò a distorcene il timore che ci aveano posto della gran fame che avevamo da passare, come veramente la passammo per tutte le diciassette giornate che ci aveano detto. Per tutte quelle del fiume in suso ci diedero molte mante di vacca, e non mangiammo di quei lor frutti, ma il sostentamento nostro era ogni giorno un pezzo di grasso di cervo grande quanto una mano, che per questa necessità procuravamo d'aver sempre: e cosí passammo tutte le 17 giornate. E in fine di quelle attraversammo il fiume e camminammone altre diciassette a ponente, per alcune pianure e tra alcune montagne molto grande che vi si trovano, e quivi trovammo una gente che la terza parte dell'anno non mangia se non alcuna polvere di paglia; e per esser quel tempo quando noi vi passammo, ci convenne mangiarne anco a noi, finchè finite quelle giornate trovammo case stabili, dove era gran quantità di maiz: e di quello e di farina ci diedero assai, e zucche e frigioli e mante di bambage, e di tutto caricammo coloro che quivi ci aveano condotti, e se ne ritornarono i piú contenti del mondo. Noi rendemmo molte grazie a Dio d'averci condotti quivi, dove avevamo trovato tanto sostentamento. Tra queste case ve ne aveano alcune che erano di terra, e tutte l'altre sono di stuore. E di quivi passammo piú di cento leghe di paese, e sempre trovammo case e stabili e molto sostentamento di maiz e frigioli, e davanci molti cuoi di cervi e mante di bambagio, migliori che quelle della Nuova Spagna, e davanci molte corone, e di certi coralli che nascono nel mare del Sur, molte turchine molto buone che vengono di verso tramontana, e finalmente ci dieder quivi quanto aveano, e a Dorante diedero smeraldi conci in punte di frezze. E con quelle frezze essi fanno i giuochi e le feste loro, e, parendomi ch'elle fussero molto buone, gli dimandai onde l'avessero avute, e mi dissero che le portavano d'alcune montagne molto alte che sono verso la tramontana, e che le comperavano a baratto di pennacchi e penne di pappagalli, e che quivi era popolo di molta gente e di case molto grandi. Tra costoro vedemmo le donne piú onestamente trattate che in niun'altra parte dell'India che avessimo veduto. Portano alcune camicie di bombagio insino al ginocchio, e sopra quelle certe mezze maniche d'alcune faldiglie di cuoio di cervo senza pelo, che toccano fino in terra, e le insaponano con certe radici che nettano molto, e cosí le tengono molto ben trattate; sono aperte davanti e allacciate con alcuni nastri. Vanno calzate con scarpe. Tutta questa gente veniva da noi che li toccassimo e benedicessimo, ed erano in ciò tanto importuni che ci davano molto fastidio, perchè, infermi e sani, tutti voleano andarsene benedetti; accadeva molte volte che delle donne che venivano con noi altri alcune ne partorivano, e subito nate le creature ce le menavano, acciochè le benedicessimo e toccassimo. Ci accompagnavano finchè ci lasciavano con altra gente, e tra tutti questi popoli si tenea per cosa molto certa che noi venivamo dal cielo perciochè tutte le cose che essi non hanno, e non sanno onde vengano, dicono che sono discese dal cielo.
Fra tanto che con costoro noi andammo, caminammo tutto il giorno senza mangiar fino a notte, e mangiavamo tanto poco che si spaventavano di vederlo. Non ci conobbero mai stanchi, e veramente noi eravamo tanto avezzi al travaglio che non ci stancavamo quasi mai. Avevamo con esso loro molta auttorità e gravità, e per conservarcela parlavamo loro poche volte: il negro era quello che parlava sempre, e s'informava del cammino che volevamo fare, delle genti che vi erano, e d'ogni altra cosa che volevamo sapere. Passammo per gran numero e diversità di lingue, e con tutte nostro Signore Iddio ci favoriva, perchè sempre ci intesero e noi intendemmo loro, e gli domandavamo per segni ed essi ci rispondevano, come se essi parlassero la lingua nostra e noi la loro; perciochè, quantunque noi sapessimo sei lingue, non potevamo valercene con tutte, perchè trovammo piú di mille differenzie di linguaggi. Per tutti quei paesi coloro che aveano guerra tra essi si faceano subito amici per venirci a ricevere e portarci quanto aveano, e in questa guisa gli lasciammo tutti, e dicemmo loro per segni, che ci intendeano, come nel cielo era un uomo che chiamano Iddio, il quale ha creato il cielo e la terra, e che esso adoravamo e tenevamo per Signore noi altri, e facevamo quello che ci comandava, e che di sua mano vengono tutte le cose buone, e che se essi facessero come noi se ne troverebbono molto bene: e cosí bene li trovammo disposti che, se avessimo avuta lingua da farci intendere perfettamente, gli averemmo lasciati tutti cristiani. Questo demmo loro ad intendere il meglio che potemmo, e de lí avanti sempre che levava il sole con molti gridi alzavano le mani al cielo e poi se le menavano per il corpo loro, e il medesimo faceano quando il sole si colcava. È gente ben condizionata e acconcia a seguir qualsivoglia cosa buona.
Nel popolo che ci diedero gli smeraldi, diedero a Dorante piú di seicento cuori di cervo aperti, de' quali essi tengono sempre grande abondanza per sostegno loro, e per questo li chiamammo il popolo de' cuori. Per questo paese s'entra a molte provincie che stanno al mare del Sur, e se quei che vi vogliono andare non entrano di qua si perdono, perchè la costa non ha maiz, e mangiano polvere di biete e di paglia, e di pesce che pigliano in mare con zattere, perchè non hanno canoe né barca alcuna. Le donne cuoprono le parti loro vergognose con erbe e paglia; è gente molta dappoca e trista. Crediamo che vicino alla costa, per la via di quei popoli che noi menammo, sieno piú di mille leghe di paese popolato, e hanno molto da vivere, perchè seminano tre volte l'anno fasuoli e maiz. Vi sono tre sorti di cervi, l'una grande come manzi molto grandi di Castiglia. Di tutta la gente le case da stanziare sono capanne. Hanno veneno, e questo è d'una sorte d'arbori della grandezza di pomari, e non bisogna se non cogliere il frutto e ungere la frezza con esso, e se non ha frutti, ne rompono un ramo e con certo latte che ha fanno il medesimo. Vi sono molti di questi arbori, che sono tanto venenosi che, se le foglie loro si pestano in qualche acqua raccolta e non corrente, tutti i cervi e qualsivoglia altro animale che ne beva subito crepano. Con questo popolo stemmo tre dí, e indi ad un'altra giornata ne era un altro, dove ci piovero tante acque che, per esser molto cresciuto un fiume che vi era, noi non lo potemmo passare e ci intrattenemmo quivi quindeci giorni.
In questo tempo Castiglio vidde al collo d'un Indo una fibia di cintura di Spagna, e con quella cucito un chiodo da ferrare; gliela tolse, e dimandamogli che cosa era quella, e risposero che era venuta dal cielo. E dimandati chi l'avesse portata, risposero che l'aveano portata alcuni uomini che portavano barba come noi, che erano venuti dal cielo, e arrivati a quel fiume con cavalli: portavano lanze e spade, e aveano passati con la lancia duoi di loro. Noi piú dissimulatamente che potemmo gli domandammo che fusse poi stato di quegli uomini, e ci risposero che se ne erano andati al mare e che aveano poste le lancie sotto l'acqua, e che ancor essi s'erano posti sotto l'acqua, e dipoi gli aveano veduti andar per sopra l'acqua verso dove il sole si colca. Noi ringraziammo molto nostro Signore Iddio per quello che intendemmo, perchè già eravamo fuor d'ogni speranza d'aver piú nuove di cristiani, e d'altra parte ci vedemmo in gran confusione e dispiacere, credendo che quella gente non saria se non alcuni che erano venuti per lo mare a discoprire. Ma al fine, avendo cosí certa nuova di loro, affrettammo piú il nostro cammino, e sempre trovavamo piú nuove di cristiani, e noi altri dicevamo che andavamo a trovar quei cristiani per dir loro che non gli uccidessero né li facessero schiavi, né li togliessero dalle terre loro, né lor facessero alcun altro male: di che essi aveano gran contentezza. Andammo per molto paese e tutto lo trovammo disabitato, perchè i paesani se n'andavano fuggendo per le montagne, senza aver ardimento di tener case né lavorare per tema de' cristiani. Ci diede gran dispiacere, vedendo il paese molto fertile e molto bello e pieno d'acque e di fiumi, e vederli poi cosí solitarii e brucciati, e la gente cosí debole e inferma, fuggita e nascosa tutta: e perchè non seminavano, con tanta fame si mantenevano solo con corteccie d'arbori e radici. Di questa fame patimmo noi la parte nostra in tutto questo cammino, perchè mal ci potevamo provedere, stando tanto mal condotti che parea che si volessero morir tutti. Ci portarono coperte e paternostri, le quali essi aveano ascose per tema de' cristiani, e ce le donarono, e ci raccontarono come altre volte i cristiani erano entrati per quel paese e aveano distrutto e brucciati i popoli, e portatosene la metà degli uomini e tutte le donne e fanciulli, e quei che aveano potuto scampare dalle mani loro andavano fuggendo. Noi, vedendoli cosí impauriti che non s'assicuravano di fermarsi in alcuna parte, e che non voleano né poteano seminare né lavorare il paese, anzi erano determinati di lasciarsi morire, il che lor parea meglio che aspettare d'esser cosí mal trattati con tanta crudeltà come sino a quel tempo, e mostravano grandissimo piacer con noi altri; ancor che temevamo che, arrivati noi a quei che stavano alle frontiere e in guerra coi cristiani, non ci avessero da trattar male e farci pagar quello che loro i cristiani faceano. Ma, essendo piaciuto a Iddio di condurci dove essi erano, cominciarono a temerci e riverirci come i passati, e ancora qualche cosa di piú, di che noi restammo non poco maravigliati: onde chiaramente si vidde che questa gente, per esser tratti a farsi cristiani e obedienti alla imperial Maiestà, dovrebbono esser tolti con buoni portamenti, e che questa sola via è la piú certa d'ogn'altra.
Costoro ci menarono ad un popolo che sta alla sommità d'una montagna, e vi si conviene salire con molta asprezza de' luoghi, e quivi trovammo raccolta molta gente per temenza de' cristiani. Ci riceverono molto volentieri e ci diedero quanto aveano, e piú di duemila cariche di maiz, il quale noi demmo a quei miserabili e affamati, che ci aveano seguiti e condotti fin là. E il dí seguente spedimmo quattro messaggieri per il paese, come eravamo usati fare, perchè convocassero e ragunassero gente piú che potessero ad un popolo che stava lontano di quivi tre giornate. E fatto questo, il dí seguente ci partimmo con tutta la gente che quivi era, e sempre trovavamo traccia e segnali dove aveano dormito cristiani; e a mezzogiorno trovammo i nostri messaggieri, che ci dissero che non aveano trovata gente, perchè tutti andavano per li monti ascosi e fuggendo, perchè li cristiani non gli ammazzassero e facessero schiavi, e che la notte passata aveano veduti i cristiani, stando essi di dietro a certi arbori guardando quello che faceano, e viddero che menavano alcuni Indiani in catena. E di questo si alterarono molto quei che venivano con esso noi, e alcuni d'essi se ne ritornarono per dare aviso per il paese come i cristiani venivano, e molto piú avrebbono fatto se noi altri non avessimo lor detto che non lo facessero e che non avessero paura: e con questo s'assicurarono, e n'ebbero molta contentezza. Venivano allora con noi Indi di piú di cento leghe lontani di quivi, e non potevamo far con loro che se ne ritornassero alle lor case, e per assicurarli dormimmo quivi quella notte, e l'altro dí caminammo e dormimmo fra via. E il dí seguente quei che avevamo mandati per messaggieri ci guidarono dove aveano veduti i cristiani, e, arrivati all'ora del vespro, vedemmo chiaramente che aveano detto il vero, e conoscemmo che le genti erano a cavallo per li pali dove erano stati attaccati i cavalli. Da questo luogo, che si chiama il fiume di Petutan, insino al fiume dove arrivò Diego di Guzman, può essere fino a dove sapemmo de' cristiani da ottanta leghe, e di là al popolo dove ci colsero l'acque dodeci leghe, e d'indi a quei che avevamo chiamati de' cuori cinque leghe, e di quivi fino al mare del Sur erano dodeci leghe. Per tutto questo paese, ovunque si trovano montagne, vedemmo gran mostre e segni d'oro, di ferro, d'antimonio, di rame e d'altri metalli. In quei luoghi dove sono case ferme è tanto caldo, che di gennaro vi fa caldo grande. Di quindi verso il mezzogiorno del paese disabitato, insino al mare di Tramontana, è molto scommodato paese e povero, dove passammo incredibile fame, e quei che vi abitano sono gente crudelissima e di molto mala natura e costumi. Gl'Indi che tengono case ferme, e cosí gli altri, non fanno alcuna stima dell'oro né dell'argento, né trovano cosa in che possa servire.
Dipoi che noi vedemmo vestigi certi di cristiani e intendemmo che eravamo cosí vicini, ringraziammo molto nostro Signore Iddio, che ci volesse liberare di cosí miserabile cattività: e il piacere che di ciò avemmo si può giudicare da ciascuno che si rechi a memoria il tempo che noi stemmo in quel paese, e i pericoli e travagli che vi passammo. Quella notte io pregai uno de' miei compagni che andasse dietro a' cristiani, che andavano per quei luoghi che noi avevamo assicurati, e avevamo tre dí di camino. Coloro non ebbero caro di far tale ufficio, e si scusarono per esser molto stanchi e affaticati. E ancorchè ciascuno d'essi lo potesse far meglio che io, per esser piú gagliardi e piú giovani, nientedimeno io, veduta la volontà loro, il dí appresso la mattina presi con meco il nero e undeci Indiani, e per la traccia che trovavo seguendo i cristiani passai per tre luoghi dove aveano dormito, e quel primo giorno caminai dieci leghe, e la mattina seguente trovai quattro cristiani a cavallo, che ebbero gran maraviglia di vedermi cosí stranamente vestito e in compagnia d'Indi: stettero guardandomi buona pezza, tanto attoniti che non ardivano di parlarmi né di domandarmi cosa alcuna. Io dissi loro che mi menassero dove era il loro capitano, e cosí andammo mezza lega dove era Diego di Alcaraz, che era il capitano; e doppo l'avergli io parlato, mi disse che egli stava quivi molto perduto, perchè era stato molti giorni senza poter prendere alcuni Indi, e che non aveva onde andare, perchè tra loro cominciava ad esservi molta necessità e fame. Io gli dissi come di dietro erano rimasi Dorante e Castiglio, i quali stavano dieci leghe di quivi con molta gente che ci avevano guidati, e gli mandò subito tre a cavallo e cinquanta Indi di que' che essi menavano; e il nero se ne tornò con essi per guidarli, e io mi rimasi qui, e lo richiesi che mi facesse testimoniale dell'anno, mese e giorno che io ero arrivato in quel luogo: e cosí lo fecero. Da questo fiume fino al popolo de' cristiani che si chiama S. Michele, che è del governo della provincia che chiamano la Nuova Galizia, sono trenta leghe.
Passati cinque giorni, arrivarono Andrea Dorante e Alonso del Castiglio con que' che erano andati per essi, e menavano con esso loro piú di seicento persone, che erano di coloro che i cristiani aveano fatti salire a' monti, e andavano ascosi per il paese: e quei che fin là erano venuti con noi gli aveano cavati e accompagnati co' cristiani, ed essi aveano spedite via tutte l'altre genti che fin quivi aveano menati. E arrivati ov'io stava, Alcaraz mi pregò che mandassimo a chiamar la gente che stava alle rive del fiume e andavan fuggendo per li monti, e che comandassero che portasser da mangiare, benchè questo non era bisogno, perchè essi sempre da se stessi ci portavano quanto poteano. E cosí mandammo subito i nostri messaggieri che li chiamassero, e vennero seicento persone che ci portarono tutto il maiz che aveano, e portavanlo in alcune pignatte coperte con luto, nelle quali l'aveano nascosto sotto terra: e ci portarono tutto quello che aveano di piú, ma noi non volemmo pigliare se non le cose da mangiare, e demmo tutto il resto a' cristiani che se lo dividessero tra loro. E doppo questo avemmo molte contese con essi loro, perchè ci voleano fare schiavi quegl'Indi che noi menavamo con noi, e con questo dispiacere e sdegno al partire lasciammo molti archi turcheschi che portavamo, e molte bisaccie e frezze, e tra esse quelle cinque di smeraldo, che non ce ne ricordammo e cosí le perdemmo. Demmo a' cristiani molte mante di vacca e altre cose che portavamo, e avemmo con gl'Indi molto travaglio per farli ritornare alle case loro, e che si assicurassero e seminassero il maiz loro. Essi non voleano venir se non con noi altri, finchè ci lasciassero con altri Indi com'era l'usanza, che altrimenti, se ne tornavano senza essere lasciati con altri, temeano di morirsi, e venendo con noi non temeano i cristiani né le lancie loro. Questa cosa dispiaceva molto a' cristiani, e facean lor dire in lingua loro che noi altri eravamo de' loro medesimi, che da molto tempo ci eravamo smarriti e perduti, e che eravamo gente di poca condizione e di poco valore, e che essi erano i signori del paese, a' quali essi aveano da servire. Ma di tutto questo gl'Indi faceano poca o nulla stima, anzi l'uno con l'altro tra loro diceano che i cristiani mentivano, perchè noi venivamo onde il sole esce fuori ed essi onde il sole si colca, e che noi altri sanavamo gl'infermi ed essi ammazzavano quei che erano sani, e che noi andavamo nudi e scalzi ed essi vestiti, a cavallo e con lancie, e che noi non avevamo ingordigia alcuna, anzi tutto quello che ci era dato lo tornavamo a dar subito ad altri e ci stavamo con nulla, e i cristiani non aveano altro fine che di rubar quanto trovavano e non davano mai cosa alcuna a veruno: e in questa guisa quegl'Indi faceano giudicio di noi, e giudicavano tutte le cose nostre al contrario di quello che faceano i cristiani, e cosí risposero loro in lingua di cristiani, e il medesimo fecero intendere agli altri per una lingua che era tra loro, con la quale ci intendevamo, e que' che l'usano chiamammo Primhaitú, la quale trovammo usata piú di quattrocento leghe del paese dove passammo, anzi non ne trovammo altre per tutto il detto spazio di quattrocento leghe e piú. Finalmente non si poté mai finir con quegl'Indi di farli credere che noi fossimo di quegli altri cristiani, e con molta fatica e travaglio li facemmo ritornare alle case loro, comandando che s'assicurassero e riducessero le genti loro, e seminassero e lavorassero la terra, che per esser cosí desolata era già piena di boschi, essendo veramente di sua natura la migliore e piú fertile e abondante di quante ne sono in quell'Indie: e seminano tre volte l'anno, hanno molti frutti, e molti bei fiumi e altre acque molto buone. Vi sono mostre e segnali grandi di minere d'oro e d'argento. La gente è molto ben condizionata, servono i cristiani che son loro amici di molto buon volere, sono molto piú disposti che que' di Messico, e finalmente è terra che niuna cosa li manca ad esser sommamente buona.
Spediti gl'Indi, ci dissero che farebbono quanto noi comandavamo e ridurriano i loro popoli, se i cristiani gli lasciassero stare: e io cosí dico e affermo per cosa certissima che, se non lo faranno, sarà per colpa de' cristiani. E dipoi che gli avemmo mandati via, i cristiani ci mandarono con un alcaldo che si chiamava Zebrero, e con esso altri tre cristiani, dove si vede quanto s'ingannano i pensieri degli uomini, che noi altri andavamo a cercar libertà tra i cristiani e, quando pensavamo d'averla trovata, ci avvenne tutto il contrario: e per separarci dalla conversazione degl'Indi, ci menarono per monti desolati, acciochè non vedessimo quello che essi facevano nei loro trattamenti, perchè aveano appuntato d'andare assaltare gl'Indi, che noi avevamo mandati via assicurati e in pace, e cosí fecero come aveano pensato. Menaronci per quei monti duoi giorni senza acqua e senza sentiero, che pensammo di crepar di sete, onde ci morirono sette uomini, e molti amici che i cristiani menavano con loro non poterono arrivare fino a mezzo il dí seguente, dove noi trovammo dell'acqua; e caminammo con essi da venticinque leghe, in fine delle quali arrivammo ad un popolo d'Indiani che erano in pace, e quivi l'alcaldo che ci menava ci lasciò; ed egli passò avanti tre leghe ad un popolo che si chiamava Culiazzan, dove stava Melchior Diaz, alcaldo maggiore e capitano di quella provincia. Egli, come seppe della venuta nostra, subito quella notte medesima se ne venne a trovarci, e pianse molto con noi, lodando molto nostro Signor Iddio per la misericordia che ci avea usata, e ci parlò e trattò molto bene, e da parte del governator Nunno di Guzman e sua ci offerse tutto quello che aveva e poteva, e mostrò di risentirsi molto del tristo trattamento che Alcaraz e gli altri ci aveano usato: e tenemo per certo che, se egli vi si fusse trovato, non si sarebbe fatto quello che si fece con noi e con gl'Indi.
E passata quella notte, il dí appresso ci partimmo per Auhacan, e l'alcaldo maggiore ci pregò molto che ci stessimo quivi, che ne faremmo gran servizio a Dio nostro Signore e alla M.V. perchè il paese era desolato, senza lavorarsi e tutto distrutto, e gl'Indi andavano ascosi e fuggendo per i monti, senza voler venire a stanziar co' loro popoli, e che noi gli mandassimo a chiamare e comandassimo loro, da parte di Dio e di V.M., che venissero e abitassero nella pianura e lavorassero il paese. A noi parve questa cosa di molta fatica a mettersi in effetto, perchè non avevamo Indo alcuno de' nostri, e di quei che ci soleano accompagnare e adoprarsi in simili ufficii. Tuttavia ci parve d'arrischiarvi duoi Indi di quei che aveano quivi prigioni, che erano de' medesimi di quel paese e si erano trovati co' cristiani quando la prima volta arrivammo tra loro, e viddero la gente che ci accompagnava, e seppero da loro la molta autorità e dominio che per tutti quei paesi avevamo avuto, e le cose maravigliose che avevamo fatte, e gl'infermi sanati e molt'altre cose; e con questi mandammo altri di quel popolo, che fussero insieme con loro a chiamar gl'Indi che stavano per le montagne, e quei del fiume Patachan dove avevamo trovati i cristiani, e che dicessero che venisser da noi, perchè volevamo parlare con esso loro. E per assicurare questi che andassero e gli altri che venissero, demmo loro una zucca grande di quelle che noi portavamo in mano, che era principale insegna e mostra di grande stato. E con questo andarono e camminarono sette giorni, e al fine vennero e menarono seco tre signori di quei che stavano fuggiti per le montagne, co' quali erano quindeci uomini, e ci portarono corone, turchine e piume da pennachi; e i messaggieri ci dissero che non aveano trovati quei del fiume onde eravamo usciti, perchè i cristiani gli aveano altre volte fatti fuggire ai monti. E Melchior Diaz disse all'interprete che da parte nostra parlasse a quegl'Indi, e dicesse come noi venivamo da parte di Dio che sta in cielo, ed eravamo andati per lo mondo nove anni, dicendo a tutti quei che trovavamo che credessero in Dio e lo servissero, perchè egli è il Signore di tutte le cose del mondo; e che egli dà il guiderdone e pagamento a' buoni e pena perpetua di fuoco a' tristi, e che quando i buoni muoiono gli inalza al cielo, dove poi non si muore mai piú, né vi si sente fame né freddo né altra necessità, ma vi è la maggior gloria che si possa imaginare, e quei che non gli voleano credere né obedirlo erano ficcati sotto la terra in compagnia di demonii in grandissimo fuoco, il quale non finiva mai e li tormentava di continuo ed eternamente. E oltre a ciò, se essi volessero esser cristiani e servire a Dio nel modo che noi diremmo, i cristiani li terrebbono per fratelli e li tratteriano molto bene, e noi comandaremmo che non facessino loro alcuno male, né li cavassero delle terre loro, ma fussero lor buoni amici; ma, se essi non lo facessero, i cristiani gli tratteriano molto male e gli meneriano per ischiavi in altri paesi. A questo essi risposero all'interprete che essi sarebbono molto buoni cristiani e serviriano Iddio, e domandandoli che adoravano e a chi sacrificavano, e a chi dimandavano l'acqua per le loro semente e la salute per se stessi, risposero: "Ad un uomo che sta nel cielo"; e dimandati come si chiamasse dissero: "Aguar", e che credevano che egli avesse creato tutto il mondo e le cose sue. Tornammo a dimandarli onde avesser saputo tal cosa; risposero che l'aveano detto loro i lor padri, e che di molto tempo s'avea tra loro tal notizia, e sapeano che colui manda l'acqua e tutte le buone cose. Noi facemmo dir loro che colui che essi chiamavano Aguar noi chiamavamo Iddio, e che cosí lo chiamassero ancor essi, e lo servissero e adorassero come noi ordinavamo, che se ne troverebbono molto bene. Risposero che tutto aveano molto bene inteso e che cosí farebbono, e comandammo loro che scendessero dalle montagne e vivesser sicuri e in pace, e che abitassero il paese e facessero le lor case, e che tra esse facessero una casa per Dio, e all'entrata sua mettessero una croce come quella che noi quivi tenevamo; e che quando venissero i cristiani andassero loro incontro con le croci, senza archi e senza arme, e gli menassero alle case loro e desser loro da mangiare di quello che aveano, e in questa guisa non farebbono loro male alcuno, anzi sarebbono lor amici. Ed essi dissero di cosí fare, e il capitano diede loro delle mante e gli trattò molto bene, e cosí si partirono menando i duoi che prima erano prigioni, i quali noi avevamo mandati per messaggieri. E tutto questo si fece in presenza dello scrivano del governatore e d'altri molti testimonii.
Come gl'Indi se ne ritornarono, tutti gli altri di quella provincia che erano amici de' cristiani ci vennero a vedere e ci portarono corone e piume, e noi comandammo loro che facessero chiese e vi ponessero croci, perchè insino allora non l'avean fatte, e facemmo portare i figliuoli de' principali signori a battezzarli: e subito il capitano fece voto e promessa a Dio di non fare né lasciar fare entrata alcuna, né prendere schiavi né gente, per quei paesi che noi avevamo assicurati, e che questo egli osserveria finchè Vostra Maestà, o il governator Nunno di Guzman o il viceré in suo nome, provedessero quello che piú fusse servigio di Dio nostro Signore e della Maestà Vostra. Doppo battezzati i figliuoli, noi ci partimmo per la villa di San Michele, dove arrivati vennero gl'Indi e ci dissero come molta gente scendeva dalle montagne e abitavano nella pianura, e faceano chiese e croci e tutto quello che loro avevamo comandato, e ogni dí avevamo nuove come ciò si veniva tuttavia piú facendo e mettendo in opera. E passati 15 giorni arrivò Alcaraz coi cristiani che erano andati a quella entrata, e contarono al capitano come erano scesi dalle montagne i popoli e aveano fatte stanze nella pianura, e aveano trovata gente dove prima era tutto abandonato e solo il paese; e che gl'Indi erano scesi a riceverli con croci in mano e menatigli alle lor case e dato loro di quel che aveano, e che aveano dormito con esso loro quella notte, tutti spaventati di tal novità, e che gl'Indi dissero come già stavano assicurati, ed egli avea comandato che non si facesse loro male alcuno: e cosí si spedirono.
A Dio nostro Signore piaccia che nei giorni della M.V. e sotto l'imperio e poter suo questa gente venga ad essere veramente e con intera volontà soggetta al vero Signore, che gli ha creati e ricomperati: il che tenemo per certo che sarà fermamente e che la M.V. sarà quella che lo metterà ad effetto, che però non sarà cosa tanto malagevole a farsi, perchè, duemila leghe che noi andammo senza fermarci, non trovammo mai sacrificii né idolatrie. In questo tempo attraversammo da un mare all'altro, e, per la notizia che con molta diligenza procurammo d'avere, dall'una costa all'altra per lo piú largo possono essere dugento leghe, e intendemmo che nella costa del mare del Sur sono perle e molte ricchezze, e che tutto il migliore e piú ricco sta quivi vicino.
Nella villa di San Michele stemmo fino a' 15 del mese di maggio, e la cagione perchè tanto vi ci fermassimo fu perchè di là insino alla città di Compostella, dove il governator Nunno di Gusman facea residenzia, sono cento leghe, e il paese è tutto disabitato e di nemici, e convenne che venisser con noi altre genti ad accompagnarci, tra' quali n'erano 40 a cavallo, e ci accompagnarono fino a 40 leghe e de lí avanti vennero con noi sei cristiani che menavano 500 Indi fatti schiavi. E arrivati in Compostella, il governator Nunno ci ricevé molto benignamente, e di quello che avea ci diede da vestire, il qual vestito io per molti giorni non potevo portare, e non potevamo dormire se non in terra. E passati dieci o dodeci giorni partimmo per Messico, e per tutto fummo ben trattati da' cristiani, e molti ci uscivano a veder fra via, e ringraziavano molto Iddio nostro Signore che ci avesse liberati da tanti pericoli. Arrivammo a Messico la domenica, un dí avanti della vigilia di san Giacomo, dove dal viceré e dal marchese della Valle fummo molto ben trattati e ricevuti con molto piacere, e ci diedero da vestire e ci offerirono tutto quello che aveano, e il dí di san Giacomo si fecero feste e giuochi di canna e tori.
Dipoi che in Messico ci fummo riposati duoi mesi, io me ne volli venire in questi regni, e andando ad imbarcarmi nel mese d'ottobre, venne una tempesta che diede col navilio a traverso e perdettesi: il che vedendo, io mi disposi di lasciar passare il verno, perchè in quelle parti è tempo molto forte per navigare. Dipoi la quaresima ci partimmo di Messico Dorante e io per la Veracroce per imbarcarci, e quivi stemmo aspettando tempo fino alla domenica delle palme, che ci imbarcammo, e stemmo imbarcati piú di 15 giorni per mancamento di tempo, e il navilio dove stavamo facea molta acqua. Io mi partii di quello e andai in un altro di quei che stavano per partire, e Dorante si rimase quivi. E a' dieci d'aprile partimmo del porto tre navilii e navigammo insieme centocinquanta leghe, e per cammino i duoi navilii faceano molta acqua, e una notte ci perdemmo dalla compagnia loro, perciochè, per quanto dipoi si conobbe, i pilotti non s'assicurarono di passare avanti con quei navilii e se ne tornarono di traverso al porto onde eravamo partiti, e non ci fecero motto: e noi altri seguimmo il viaggio nostro, e a' 4 di maggio arrivammo nel porto della Havana, che è nell'isola di Cuba, dove stemmo aspettando gli altri due navilii, credendo che verrebbono. E a' duoi di giugno ci partimmo, con molto timore d'incontrarci con Francesi, che pochi giorni avanti avean quivi presi duoi de' nostri navilii, e arrivati sopra l'isola di Belmada ci prese una tempesta, che suol pigliare tutti quei che di quivi passano, la qual tempesta è conforme alla gente trista che dicono che vi sta, e tutta una notte ci tenemmo per perduti: piacque a Dio che, venuta la mattina, la tempesta cessò, e seguimmo il cammino nostro. In capo di 29 giorni che eravamo partiti dalla Havana, avevamo navigato mille e cento leghe, che dicono che sono di quivi insino al popolo degli Azore, e passando il dí appresso per l'isola che chiamano del Corvo demmo in un navilio di Francesi, il quale all'ora di mezodí ci cominciò a seguire con una caravella che si menava drieto, tolta da' Portoghesi, e ci diedero la caccia; e al tardi vedemmo altre nove vele, ma stavano tanto lontano che non potemmo conoscere se fussero di Portoghesi o di coloro medesimi che ci seguitavano. E come fu fatto notte il Francese stava vicino a noi ad un tiro di bombarda, e come fu scuro noi demmo volta al cammino per fuggirci da loro, ma, standoli cosí vicini, ci vidde e venne verso noi: e questo facemmo 3 o 4 volte, ed essi ci poteano pigliar se voleano, ma si reservarono a farlo la mattina. Piacque a Dio che, come fu fatto giorno, il Francese e noi ci trovammo intorniati dalle nove vele che ho detto che avevamo vedute la sera avanti, e le conoscemmo esser dell'armata del re di Portogallo: e ringraziai molto nostro Signor Iddio, che m'avesse scampato de' travagli della terra e pericoli del mare. Il Francese, come le conobbe esser dell'armata di Portogallo, sciolse la caravella che menava presa, la quale era carica di negri, e la menavan seco perchè credessimo che erano Portoghesi e gli aspettassimo; e quando la sciolse disse al maestro e pilotto d'essa che noi altri eravamo Francesi e di lor compagnia, e cosí detto mise sessanta remi nel suo navilio, e cosí a remi e vele se ne cominciò a fuggire, e camminava tanto che non si può credere. La caravella sciolta se n'andò al galione e disse al capitano che il nostro navilio e l'altro erano di Francesi, e andando il nostro navilio per accostarci al galione, coloro, tenendo per certo che noi eravamo Francesi, si posero in ponto di guerra e ci vennero sopra; ma, avendoli noi salutati e conosciuti per amici, si trovarono beffati per esserci scampato quel corsale con aver detto che noi eravamo Francesi e di sua compagnia: e cosí gli andarono dietro 4 caravelle. E accostatosi a noi il galione, dopo l'averlo salutato, il capitan Diego de Silveria ci domandò onde venivamo e che mercatanzie portavamo. Gli rispondemmo che venivamo dalla Nuova Spagna e che portavamo argento e oro, e domandatoci quanto poteva essere la somma, il maestro gli disse che portava da trecentomila castigliani. Rispose il capitano: "In buona fé, che venite molto ricchi, però portate molto tristo navilio e molta trista artiglieria. O figlio di puttana, can rinegato francese, che buon boccone che avete perduto, per Dio! Orsú, poi che siete scampati seguitemi e non vi separate da me, che con l'aiuto di Dio vi metterò in Castiglia". E indi a poco ritornarono le caravelle che aveano seguito il navilio francese, perchè lor parve che camminasse troppo, e per non lasciar l'armata, che andava a guardia di tre navi cariche di specierie; e cosí arrivammo all'isola Terzera, dove ci riposammo 15 giorni, pigliando rinfrescamenti e aspettando un'altra nave che veniva caricata dall'India, ed era della compagnia di quell'altre tre navi che erano con l'armata. E passati quei 15 giorni partimmo con l'armata, e arrivammo al porto di Lisbona a' nove d'agosto, la vigilia di s. Lorenzo, l'anno 1537. E per esser cosí il vero come in questa relazione io ho detto, l'ho sottoscritta del nome mio:
Capo di vacca

(Era sottoscritta col nome suo, e col bollo dello scudo delle sue armi, nell'originale onde questa copia si trasse).

E poi ch'io ho detto in questa relazione tutto il viaggio, con l'andata e ritornata di quel paese insino al giunger in questi regni, voglio similmente far memoria di quello che fecero i navili e la gente che in essi rimase, di che di sopra non ho fatta memoria, perchè non ne avemmo mai notizia finchè fummo ritornati, che trovammo molti di quelli che vi erano dentro nella Nuova Spagna e altri qui in Castiglia, da' quali sapemmo il successo e tutto il fine loro. Dipoi che lasciammo quei tre navilii (perchè l'altro s'era perduto nella costa brava), ch'erano rimasi a molto pericolo, con cento persone e con poco sostentamento da vivere, erano tra quelli dieci donne maritate, e una d'esse avea detto al governatore molte cose che avennero in quel viaggio, avanti che avenissero. Costei gli disse, quando volea entrare per la terra adentro, che non entrasse, perchè ella credeva che niun di coloro che gisser con lui non ne uscirebbe, e se pure alcuno ne uscisse saria per gran miracolo di Dio, ma che credeva che fusser pochi quei che ne scampassero o niuno. E il governatore allora le rispose che egli e tutti quei che andavano seco andavano per combattere e per conquistar molte genti e terre strane, e che teneva per cosa molto certa che conquistandoli vi aveano da morir molti, ma che quei che rimanessero sarebbono di buona ventura e molto ricchi, per la notizia che esso avea della ricchezza di quel paese; e pregolla che gli volesse dire da chi ella avesse sapute le cose passate e presenti che essa gli avea dette. Ella gli rispose che in Castiglia una mora de Hornachos gli avea detto tutto ciò, e che ella, avanti che partissimo di Castiglia, ci aveva predetto tutto il viaggio che avevamo fatto, e che tutto ci era cosí succeduto puntalmente. E dipoi che il governatore lasciò per suo luogotenente e capitano di tutti i navilii Caravallo, natio di Cuenca de Huete, noi altri ci partimmo da loro, avendo il governatore comandato loro che tutti si raunassero negli navilii e seguissero il viaggio loro diritto la via del Panuco, andando sempre costeggiando la riviera e cercando il porto al meglio che potevano, e trovato si fermassero e ci aspettassero. In quel tempo che coloro si ragunavano nei navilii, dicono che tutti viddero e intesero chiaramente come quella donna disse a tutte l'altre che, poichè i lor mariti entravano per la terra adentro e si metteano a tanto pericolo, non facessero piú conto di loro, come se piú non fussero, e che allora vedessero con chi s'avessero a maritare, perchè cosí volea fare essa: e cosí ella e tutte l'altre si maritarono con quei gioveni ch'erano rimasi nei navilii. E dipoi partiti di quivi fecero vela e seguirono il viaggio loro, e non trovando il porto avanti se ne tornarono adietro, e cinque leghe piú sotto dove eravamo sbarcati trovarono il porto, che entrava sette o otto leghe dentro terra: ed era quel medesimo che noi altri avevamo scoperto, dove trovammo le casse di Castiglia, dove erano i corpi morti dei cristiani, come di sopra si disse. E in questo porto e in questa costa i navilii, con l'altro che venne dalla Havana e il brigantino, gli andarono cercando intorno ad un anno, e non ci trovando se n'andarono alla Nuova Spagna. Questo porto è il miglior del mondo ed entra fra terra da sette o otto leghe, e ha di fondo sei braccia all'entrata e vicino a terra ne ha cinque, e il suolo suo è lama, e non vi fa mare o tempesta fiera, e vi stanno sorti molti navilii; ha gran quantità di pesci; distante cento leghe dalla Havana, che è un popolo di cristiani in Cuba, e corre tramontana e mezzodí con questo popolo, dove quivi di continuo regnan quei venti detti brisas, e vanno e vengono dall'una banda all'altra in quattro giorni, perchè i navilii vanno e vengono a' quartieri col medesimo vento.
E poi ch'io ho data relazione de' navilii sarà bene di dire di chi ei sono e di che luoghi di questi regni, a' quali Dio nostro Signore piacque far grazia di scampare di questi travagli. Il primo è Alonso del Castiglio Maldonato, abitatore di Salamanca, figliuolo del dottor Castiglio e di donna Aldonsa Maldonata. Il secondo è Andrea Dorante, figliuolo di Paolo Dorante di Beiar e abitante di Gibraleon. Il terzo è Alvaro Nunez, Capo di Vacca, figliuolo di Francesco de Vera e nipote di Pietro de Vera, che guadagnò le Canarie, e sua madre si chiamava donna Teresa Capo di Vacca, natia di Xarez della Frontiera. Il quarto si chiama Estevanico, il negro arabo, natio di Azamor.


Il fine


Discorso sopra la relazione di Nunno di Gusman.


Essendo fatto cosí gran prencipe e signor di tanti paesi e provincie il signore Ferrando Cortese, e con tanto oro, argento e gioie ch'era fama che l'avesse guadagnato nella presa del Messico, l'era accresciuta tanta invidia nella corte dell'imperatore per le lettere che ognora venivano scritte, che tutti gli suoi amici e fautori lo consigliarono che 'l venisse alla corte, e sopra gli altri don Garzia di Loysa, confessore dell'imperatore e presidente de las Indias, che fu poi cardinale, affermandosi che sua Maestà lo vederia volentieri e con la sua presenzia si acquieteria il tutto. Questa fu una delle cause che lo fece venir in Spagna, appresso la qual fu anco per pigliar moglie, ritrovandosi oramai di molti anni: e cosí se ne venne e arrivò in Spagna nella fin dell'anno MDXXVIII, con grandissimi presenti d'oro e argento che 'l portò a donar all'imperatore, e all'arrivar del quale si dice che tutta la Spagna si mosse per venir a vederlo, tanto era famoso il suo nome e desiderato da tutti. L'imperatore li fece grandissimi onori, e fra gl'altri fu che, essendo venuto amalato per causa del viaggio, sua Maestà lo volse andar a visitar in persona fin al letto; fecegli poi infinite grazie degne di tante fatiche e sudori, e fra le altre marchese di Tutantepeche, come lui medesimo dimandò, e Guatemala e molti altri paesi sopra il mar del Sur, con titolo di capitano generale della Nuova Spagna e di tutta la costa del detto mare, come discopritor di quello, assegnandogli entrate grande per sé e suoi eredi. Detto signor Ferrando li domandò il governo del Messico, ma sua Maestà non glielo volse dare, perchè avanti il suo arrivare v'avea ordinata una audienzia e cancelleria, etiam auditori e presidenti, dove potessero ricorrer quelli che dimandassero giustizia; e avea comandato a Nunno di Gusman, che era governatore nella provincia del Panuco, che dovesse andarvi per presidente con quattro dottori.
Costui, essendo inimico del Cortese, giunto che fu in detta città cominciò a fargli processo contra, qual era partito per Spagna, né si sapeva ancor del suo arrivare. E andò la cosa tanto avanti e con tanta rigorosità, che 'l venne fino a confiscargli i beni e mettergli all'incanto, e perchè il signor Pietro Alvarado, che era amico del Cortese, dicea ben di lui e lo difendea, lo fece ritenere e mettere in prigione, tanto era l'odio estremo che 'l detto Nunno con i suoi compagni portavano al prefato Cortese. Or queste operazioni non poterono durar lungamente, che essendo state scritte alla corte insieme con molte ingiustizie e rapine che 'l prefato Nunno e suoi compagni facevano, che sua Maestà lo remosse dal detto governo e pose in luogo suo Sebastian Ramirez. Nunno, vedendo aver persa la grazia dell'imperatore, pensò di volerla recuperare con qualche segnalata impresa, e, trovandosi assai oro e argento, avendosi informato da quelli che erano ritornati dal viaggio del Capo di Vacca delli gran paesi per li quali erano passati, come per avanti si è veduto, deliberò d'andar ancor lui a discoprir qualche gran provincia. E fatto un esercito di Spagnuoli a cavallo e d'Indiani amici a piedi, si mise ad andar verso li popoli Chichimechi, che confinano con la Nuova Spagna, e passò per Mechuacan, dove prese il signor Cazotia, al qual tolse duoimila marche d'argento e molto oro basso, e appresso si fece dar quattromila Indiani per portar le cariche delle vettovaglie e bagaglie dell'esercito e viaggio: e acciò che 'l detto signore non potesse mai dolersi né querelarsi alli ministri di sua Maestà, lo fece abbrucciar con diverse calumnie. Entrò nella provincia di Xalisco, qual nominò la Nuova Galizia per esser regione aspra e li popoli feroci, dove fece abitar una città detta Compostella, per conformarsi col nome di Spagna, e alcune altre dette dal Spirito, Conceptione e San Michiel, quale corrono sotto gradi trentaquattro. Quivi stette alcuni anni, fino che venne viceré della Nuova Spagna il signor don Antonio di Mendoza, qual giunto nel Messico, insieme con la cavalleria, mandorono a ritenerlo per farlo andar in Spagna a dar conto delle operazioni sue, né mai piú lo lasciaron tornar nella detta provincia che egli avea acquistato. E questa fu la fine del detto Nunno di Gusman.




Relazione di Nunno di Gusman, scritta in Omitlan, provincia di Mechuacan della Maggior Spagna, nel mdxxx alli otto di luglio.



Nunno di Gusman entra nella provincia di Mechuachan per scoprire e conquistar del paese; ivi giunto, vi pianta tre croci e prende la possessione in nome di sua Maestà, e per molte querele condanna al fuoco Caconci, signore del Mechuachan.

Scrissi fin da Mechuacan a Vostra Maestà, doppo averli scritto da Messico, come io me n'andavo per quel paese con 150 uomini a cavallo, altritanti pedoni ben armati, e con dodeci pezzi d'artiglieria minuta e con sette o ottomila Indiani amici, provisti di vettovaglia e di tutte le cose necessarie, per andare a scoprire il paese e conquistarlo da' Terlichichimechi che continovano con la Nuova Spagna, e tutto quel piú che mi venisse occasione di pigliare, con animo di vedere d'arrivare al passo del fiume di Nostra Donna della Purificazione di Santa Maria: cosí questo nome gli fu imposto per averlo passato in quel giorno. E per esser questa terra de' nemici, determinai di piantarvi tre croci grandi che io portavo con esso meco, lavorate e fatte con buona proporzione, le quali, doppo l'aver detto messa, in processione con trombe i capitani e io la portammo in spalla, e l'una piantammo sopra il fiume, e l'altra innanzi una chiesa della Purificazione di Nostra Donna che già fu cominciata ad edificare, e l'altra in fronte d'una strada per dove io avevo da passare, alle quali doppo con ogni devozione facemmo la debita orazione. E ciò fatto, si cominciarono a levar gli stendardi della croce del nostro Signor Giesú Cristo in terra da questi infedeli, che anco non s'era giamai posta doppo che i cristiani c'erano entrati. Incontinente ci vennero ad incontrar alcuni popoli in atto di pace, rendendocisi e promettendo servitú. In questo tempo si finí la chiesa, circondata di muraglia, acciochè dentro potessero alloggiar quindeci o venti da cavallo: quivi si disse messa e si predicò, e doppo furono lette certe ordinazioni per il buon concerto che si avea da tener nello esercito. Ciò fatto, alli sette di febraio fu tolta la possessione in nome di V.M. di quel nuovo scoprimento, e alli 14 del detto mese si fece la richiesta che s'accostuma di fare. In tanto io mandai duoi capitani di cavalli a scoprir il paese, per vedere da qual parte s'avea da entrare. E similmente, per molte querele e accuse che s'eran fatte del Caconci, signor di Mechuacan, e particolarmente per una informazione fatta contra di lui d'essersi ribellato con una parte di quella provincia, con aver congiurato di voler ucciderci se avesse potuto, io procedetti contra di lui, e trovato esser vera la rebellione della gente e il disegno suo oltre l'informazione, con la verificazione di molti altri gravi ed enormi delitti ch'avea commessi in sacrificar Indiani e cristiani, come era solito di far per innanzi prima che fusse cristiano, io lo sentenziai al fuoco, come si potrà veder nel processo fatto contra di lui. Or con la giustizia fatta di questo uomo, e con l'aver io mandata alcuna gente a quei popoli che s'erano ribellati per persuaderli a lasciar l'arme, si quietarono, e ora servano bene e lealmente. Questo signor era stato per innanzi molte volte accusato e mai castigato, perchè chi era là per questo si pigliava poca cura di castigar gli suoi eccessi.


Nunno con l'esercito parte del Mechuachan e gionge nella provincia Cuinao; ivi, fatto scoprire il paese, ritrova le genti di quello con l'armi per far resistenza, gli ricerca di pace e, non consentendo, da molte parti gli assalta e resta superiore.

Venuti i capitani adunque e da loro inteso il cammino che s'avea da pigliare, fatta rassegna della mia gente mi parti', lasciando in quella fortezza che fu fatta per gli Indiani uno Spagnuolo abitator di Mechuachano, e camminai sei giorni per cammino non abitato, la metà d'essi per il fiume a basso, lasciato in ciascuno alloggiamento una croce piantata. Il sesto giorno giunsi lunge due leghe da una provincia chiamata Cuinao, piena di buone terre e abondante di vettovaglia, di che cominciavo aver già gran necessità. E il giorno innanzi ch'io ci arrivasse, che fu il sabbato alli venti di febraio, mandai Perar Mildez Chirino, riveditore della M.V., e un luogotenente di capitano generale, che è capitano di trenta cavalli, a riconoscere il paese e i nemici, e acciò vedesser che genti v'erano, essendomi stato riferito che erano in punto con l'arme per voler farci resistenza; e perchè gli ricercassero che volesser venire con la pace, ci mandai anco il commendator Barrio per il medesimo effetto. Costoro, giunti al luogo, non ritrovaron gente alcuna con l'arme, però senza far altro gli fecero la richiesta che io avevo lor imposto, e fu la risposta che tutti fuggiron alle montagne; i cavalli leggieri presero alcuni di quei piú pigri a fuggire, però non senza aver fatta qualche difesa. Ciò fatto, il detto riveditor entrò nel luogo, dove non trovò persona alcuna. E tornati adietro quella notte, mandai lor a dir per messaggieri che non avesser paura, ma che dovesser ritornar alle case loro a servire e dare l'obedienza, che altro non voleam da loro: i quali mi mandarono per risposta che essi m'aspettavano l'altro giorno con i loro archi e frezze. Onde mi parti' la domenica da mattina, fatti tre squadroni della mia gente, cosí di Spagnuoli come degli Indiani, e quando arrivai ad un fossato grande che era innanzi la terra, dove pensavo che mi aspettassero, non trovai alcuno, né meno dentro la terra, perchè come viddero l'ordine e la molta gente che io avevo con meco non ardirono d'aspettarmi. In questo luogo si rinfrescarono le genti e i cavalli, per l'abondanza del maiz e altre vettovaglie del paese; e quel medesimo giorno, dopo il mangiare, mandai il detto riveditor da una parte e il capitano Cristoforo d'Ognate con sua gente da cavallo dall'altra, e io con gli assaltatori fui loro alle spalle. Il riveditore non trovò gente alcuna, eccetto femine e fanciulli; Cristoforo d'Ognate s'incontrò con presso a cento uomini con loro archi e frezze, che se gli opposero e gli ferirono due cavalli e tre uomini, benchè non fusse cosa di pericolo; ma d'essi rimasero molti morti e altri presi, con molte donne e fanciulli, che potevano esser in tutto presso a cinquecento persone, le quali feci raccogliere tutte insieme acciò quegli Indiani che avevo con me non gli sacrificassero, come sogliono fare.
Quivi me ne stetti riparando la gente e i cavalli fino al giovedí, sempre mandando messaggieri al cacico, acciochè venisse con me in atto di pace, perchè mi dissero che s'era ritirato ad un'altra provincia vicina a quella, chiamata Cuinaquiro, che è d'un'altra signoria e d'un altro linguaggio. Ma veduto che non volea venire, io mi parti' per cercarlo, essendomi stato detto che aveva molta gente con seco, avendo lasciato nel campo il capitan Francesco Verdugo, uomo molto onorato e antico conquistatore di quei paesi; e avendo quel giorno medesimo passato una selva e un monte, i cavalli scoprirono molta gente di guerra in una costa d'esso e n'uccisero certi. Io posi in ordine la gente e segui' il cammino che mi fu detto che aveano tenuto, ma giamai m'incontrai con essa, per esser la selva molto folta.


Nunno entra nella provincia Cuinaquiro seguendo il cacique di Cuinao, per viaggio e luoghi molto difficili: la scuopre con molte terre abitate e abondantissima di frutti, vede molti Indiani sacrificati, molte volte combatte e ne riporta vittoria.

Entrai nell'altra provincia che ho detto, dove erano molte terre abitate e grande abondanzia di maiz e frutti del monte, e vi trovammo molta gente morta sacrificata che era della provincia passata, che quivi s'era ritirata per tema di noi, con molte membra di carne che usano essi di mangiare, che ai nostri non dispiaceva di mangiarne, benchè alcuni dicessero esser castroni, come dirò poi. Si trovò qualche gente di quella provincia, cosí d'uomini come di donne, la cui lingua niuno intendeva, e molto piú della provincia passata; portano gli uomini di questa provincia barbe di paglia. Quel giorno giunsi da una banda sopra una rottura di monte che facea un fiume, che mi pareva che andasse nell'abisso, dove diceano che erano passati gli nemici dall'altra parte, che è un'altra provincia. Consumai tutto quel giorno nel descendere per la detta rottura, e viddi esser la gente fermata dall'altra parte, e me ne passai quella notte con grandissima abondanzia di maiz e uccelli di quel paese. L'altro giorno mandai al campo meglio di diecimila persone d'uomini, donne e fanciulli che quivi se n'erano fuggiti, e gli altri della medesima provincia, che poteano esser qualche trecento, li rimandai ai lor parenti e amici, acciochè conoscessero che io non ero quivi venuto per ucciderli. Io, passata la rottura, me n'entrai per mezzo del paese e venni in una selva, dove mi fu detto che s'era ritirata una parte de' nemici, e seguendo il mio cammino pervenni alla cima d'un'alta montagna, che avea una discesa di quasi una lega, la piú aspra che io abbia ancor veduta, per la quale ci assicurammo di descendere in una valle, dove appariva un altro gran luogo abitato, dove non si trovò persona alcuna. E dopo l'aver rinfrescato la gente, cavalcai passando il guado, dove trovai gente morta, sacrificata per quei di quella provincia, la quale era del paese che prima avevamo passato, e insieme alcuni vivi che vi erano fuggiti: e per il poco amore che era fra loro, essendo differenti di linguaggio, gli usavano questa caritevole ospitalità di sacrificarli.
Sul tardi arrivai quel giorno sopra un'altra rottura, che mi parve peggior della prima, per dove corre un fiume di onesta larghezza; e per essere l'ora tarda e non vi essere albero alcuno, me ne tornai alla prima terra di quella valle, il nome della quale fino a quest'ora non ho potuto sapere, per non aver saputo intendere quel parlare ed essersene gli abitatori fuggiti, e per non avere interprete del paese. Quivi piantai il campo e il giorno seguente, che fu il sabbato, mandai il riveditore e Cristoforo d'Ognate, ciascuno dal suo canto, a cercar la gente di quel paese, che mi era stato detto essersi ritirata in certe falde d'una montagna che si vedeva. Cristoforo non ritrovò niuno, ma il riveditor incontrò da un lato della rottura circa trecento Indiani da guerra con suoi archi e frezze, che il giorno innanzi aveano morti quattro Indiani amici nostri, e menavano prigione un moro d'un scudiero morto, che s'era allontanato dagli altri: di che molto allegri, cantando diedero fra i nostri, e combattendo uccisero d'una frezza passato per il petto un cavallo, e d'essi rimasero morti presso a cento; il rimanente per avere la detta rottura vicina, ancora che pericolosa, si salvarono in essa, benchè non senza pericolo. In questo tempo non essendo io molto lungi da questo luogo, senti' dare all'arme, ed essendovi corso trovai i miei smontati a terra, tagliando in pezzi il caval morto, acciò non fusse quivi trovato e veduto da' nemici segno d'esso, onde avessero considerato che fusse potuto morire.
Quel medesimo giorno mandai il mastro di campo Antonio di Viglia Roel a cercar il guado nel fiume della rottura, il quale trovato, passò dall'altra parte a riconoscere che terra era e se vi era luogo abitato. E avendo finito di montar la costa del monte, s'incontrarono in lui tre Indiani armati dei loro archi e frezze, e un di loro si mosse contra di lui con una spada a due mani di legno, e gli menò due colpi, con uno de' quali lo ferí in una mano: e al fine rimase l'Indiano in terra morto. Questo ho voluto dire alla M.V. acciochè sappia che molti d'essi sono animosi, e hanno cuore d'affrontare qualunque nostro Spagnuolo. Ciò fatto, mi spinsi innanti e scopersi molti luoghi abitati.
E la domenica vegnente mandai il riveditore con la sua gente a veder chi era dall'altra parte, pensando che tutta la gente di quella provincia che non si vedeva, e quella che quivi s'era ridotta fuggendo dall'altre provincie, si fusse in qualche luogo forte unita insieme. Mandai poi un'altra compagnia di fanti di Cristoforo di Barrio a cercar la rottura, per essermi stato detto che in essa vi s'era ridotta una gran gente nascosta, e costoro non ritrovarono persona alcuna. Il riveditore s'incontrò in uno squadrone d'Indiani armati, senza bagaglie o altra cosa che l'impedisse, e senza aspettare o dir cosa alcuna si misero ad assaltarlo con molte frezzate, e ferirono due cavalli e il mastro di campo che andava con esso lui in una gamba, e di loro rimasero morti piú di cento. E perchè s'era ordinato che dovessi ritornar adietro quella medesima notte, non passò piú oltre, ancora che vedesse di molte gran ville poste in una pianura; e trovarono molti membri d'Indiani morti, che dovean esser dei fuggiti in quella provincia, e condusse via molte donne.
Hanno tutte queste provincie molto maiz, fasuoli, galline, pappagalli e palmetti. È paese dove nasce gran quantità di bambaso; è abitato da molta gente, e si crede, considerata la qualità e disposizion del sito di queste provincie, che vi sia oro e argento, perchè se ne ritrovò presso ad alcuni abitatori. Ma perchè cominciava a mancare vettovaglia e altre cose necessarie, determinai di ritornarmene al campo, dove arrivai il giorno di carnovale.

Nunno al cacique di Cuinaquiro lungamente ragiona delle cose di nostra fede, e dell'obedienza che egli è tenuto prestare al re di Castiglia. Rispondegli il cacique umilmente e si sottomette. Gli dona tutti gli Indiani in guerra presi, e ivi per S.M. tolto il possesso, passa nella provincia di Ciuseo, dove con quegli Indiani combatte felicemente.

E incontinente diedi opera di far venire quivi il cacique, e cosí venuto con tutta la gente principale, i quali tutti io ricevetti con molte carezze, e feci loro un parlamento con dargli ad intendere che cosa fusse Iddio e il papa, e quel che aveano da far per salvarsi, e come il re di Castiglia era ministro di Dio in terra e signor di tutte quelle parti a lui soggiette, e come a me in suo real nome aveano da dar l'obedienza e servire, e che s'astenessero di sacrificare e adorare gli idoli e i diavoli come aveano fatto per l'adietro, perciochè solo Iddio era quel che essi aveano da adorare, temere e servire, e doppo servire e obedire in terra il re di Castiglia. Mi rispose il cacique che fin a quell'ora non avea mai saputo cosa alcuna di quel ch'io avea detto, né mai l'aveva udito da persona alcuna, se non da me che glielo avevo dichiarato, però che avea gran piacer d'averlo inteso, e che da indi adietro teneria per Dio il re di Castiglia e adoraria. E io gli risposi che non l'avea da fare, perciochè il re di Castiglia era uomo come noi altri e mortale, ma che era superiore e signore di tutti noi, e datoci da Dio perchè ci regga e governi, e noi l'abbiamo da servire e obedire; e solo Iddio, quel che creò i cieli e la terra e tutte le cose che si vedono e non si vedono, è quello che ha da esser adorato, temuto e servito sopra tutte l'altre cose, per esser quel che ci dà, e dalle sue mani tenemo la vita e l'essere che abbiamo, ed è potente per torcela quando gli piace. In questo modo e con queste parole rimase avisato di quel che dovea fare, ancora che la capacità e l'ingegno che hanno sia molto poco, e la volontà di farlo molto lontana, per l'antica consuetudine che han da servir il diavolo. Ma essendo che tutte le cose vogliono principio e fatica, e in questo piú che nel resto ha da intervenirci la grazia di Dio e lo Spirito Santo che la infonda loro, e si de' credere e sperar della sua infinita clemenza e misericordia che, poi che ha indrizzata V.M. a far scoprir questo paese e conquista, in virtú della quale e buona fortuna, doppo quella di Dio, si farà tutto prosperamente, e permetterà di dar a questa gente cognizione della verità; e se non fia cosí presto, sarà almeno aperto il cammino, e il paese conversato e abitato da cristiani che adorano e lodano il suo santo nome, dove era prima il demonio adorato con tante idolatrie, e restando fissi gli stendardi della sua santissima croce per tutte queste contrade, acciochè, quando gli piacerà di mandar la sua grazia, sieno quelle genti disposte a riceverla.
Io donai a questo cacique tutta quella gente che s'era presa, e cominciarono tutti a riabitar le case loro. E posta dopo una sontuosissima croce in quel luogo, e tolta la possession da quelle provincie in nome della Maestà Vostra, mi parti' il sabbato per la strada d'un'altra provincia chiamata Cuiseo, che è posta dall'altra parte d'un gran fiume, che esce d'un gran lacume: da questa parte del fiume sono alcune terre abitate soggiette al detto Cuiseo. Prima che io giongesse a questa provincia, vennero i corridori a riferirmi come aveano trovate gente in atto di guerra, onde poste in punto quelle che io conduceva, cominciai a camminare, avendo mandati innanzi quattro cavalli leggieri degli assaltatori e duoi altri dalla banda del fiume che esce dal detto lacume, i quali trovarono molti Indiani armati che gli cominciarono a tirar delle frezze dentro certe case, e ferirono un di loro in una gamba: ma furono morti alcuni d'essi, e menarono uno interprete prigione, dal qual seppi che era gran gente de' nemici in punto aspettandomi. Cosí galoppando giunsi dall'altra parte, che lo circonda un altro fiume, che non ha guado ed entra nell'altro maggiore. Quivi m'assaltarono da quattrocento Indiani nascosi in certe case, ed entrai in contesa con esso loro: si ritirarono all'acqua, donde mi tiravano con le frezze con tutto lo sforzo che poteano, e quei che erano dall'altra parte facendo il medesimo; onde non volsi che niuno da cavallo passasse, perchè senza molto pericolo non poteano farlo, e similmente perchè alcayde delle fortezze, che s'era messo nell'acqua dietro certi Indiani, era stato per affogarsi e con fatica se n'uscí fuori notando. Vedute queste difese, io feci porre in ordine l'arteglieria e gli schioppettieri con i balestrieri per torgli da quel luogo, e con questo rimedio gli feci abandonar quell'acqua e andar a passar l'altra riviera grande alla principal terra di Cuyseo. Ciò fatto me ne venni a questa maggior riviera, e gli Indiani adversarii con gran bravura ci tiravano delle frezzate dall'altra parte, ma avevamo questo vantaggio, che era il tratto sí lontano che appena ci giungevano. Feci porre in punto l'arteglieria e si cominciò a far zattere per passarla dall'altra banda; in tanto mandai alcuni cavalli leggieri a basso, perchè cercassero il guado per combattergli, benchè non si ritrovasse.

Il cacico di Cuiseo manda un interprete a Nunno ad offerirgli vettovaglie e sapere ciò che con la sua gente in quella provincia ricerca. Risposta di Nunno, e come con l'esercito passa un fiume, e felicemente con molta quantità d'Indiani fatti forti sopra un'isola di quello combatte, e fra li prigioni fa abbrucciare un Indiano sodomito.

Mentre che eravamo in questo, veduto da quei dell'altra parte l'apparecchio che si faceva per espugnarli, passò dalla nostra banda uno interprete loro a guazzo, al luogo dove io stavo, e mi disse quel che volevamo e a che effetto io venivo, che se cercavamo vettovaglia, che il cacique suo signore ce n'avrebbe proveduto. Io gli feci dire che venivamo per avergli per amici e per prendere il possesso di quel paese in nome del re di Castiglia, e che intendevo di passare oltre per sapere in che luogo fussero dall'altra parte, e ancora per dare il debito castigo a quei che avevano avuto ardire di tirarmi con le frezze. Egli mi rispose che mi pregava a non volere passar oltre per quella sera, perchè il cacique m'averebbe mandato vettovaglia a bastanza; e avendogli risposto che non potevo fare di meno di non passare oltre, mi dissero che poichè cosí mi ero determinato di fare, che dovesse passare in buon'ora, ma che prima lo lasciasse andare per fare apparecchiare la vettovaglia per la gente: il che fece subito. Fra questo mezzo furono fatte alcune zattere di canne, nelle quali passarono venti uomini da cavallo e quaranta pedoni insieme col riveditore, ai quali providdero quei del paese abondantemente di vettovaglia, il medesimo facendo a me ancora. Non consentii che alloggiassero nella terra, perchè non facessero loro qualche danno, essendo grande e molto abitata e bella da vedere. Seppi quella notte che nel fiume vi era un guado lunge tre leghe da quel luogo, e determinai d'andarvi con tutta la gente, onde feci intendere ai miei che erano passati che, senza entrare nella terra, se n'andassero lungo il fiume a basso per averci ad incontrare nel guado, e posti in cammino trovammo che per tutte quelle tre leghe di qua e di là dal fiume erano luoghi abitati, e pieni di molti alberi abondanti di frutti di quel paese.
Prima che io arrivasse al passo, mandai il capitano Ognate e il mastro di campo per vedere se con effetto c'erano, e ve lo trovarono, ancora che cattivo e petroso, e viddero dall'altra parte un buon luogo e qualche dugento Indiani con i loro archi e frezze, che gli dissero che passassero: il che fecero essi senza che mai fusse loro tirato, anzi s'appartarono da loro e se ne fuggirono. E io in tanto giunsi e passai il guado con tutta la gente, e me n'andai ad incontrarmi con il riveditore, che ancora non era arrivato, e lo trovai a mezza lega lontano, che menava alcuni Indiani uomini e donne che aveva presi; i quali tutti con uno interprete che era con esso loro rimandai alle case loro, e a trovare il signore e dirgli che non dovesse aver paura alcuna, ma che venisse a vedermi. E quando giunsi alla terra dove era tutta la gente, fermato il campo, dierono all'arme, e uscito per lungo il fiume presi molti Indiani e fanciulli e donne, che se n'andavano fuggendo, e si mettevano a nuoto nel fiume per passare dall'altra parte della man diritta ad una isoletta che era nel fiume, dove s'era ridotto fuggendo da trecento Indiani con l'arme: e di qua era uscito il rumore dell'arme. E andando dietro gli altri, saputo che in quel luogo s'erano fatti gli adversarii forti, comandai al riveditore che dovesse andarsene là, e giuntovi, si cominciarono essi a difendere bravamente, pensandosi d'essere quivi sicuri per essere circondati dall'acqua, che quantunque fusse molto alta, che copriva le selle dei cavalli, entrò il riveditore con alcuni da cavallo, e il capitano Vazquez che è di gente a piedi con alcuni balestrieri. Ma già perciò gli Indiani non restavano di difendersi quanto poteano, resistendo la entrata dei nostri per essere la salita alta, e stettero piú di due ore a combattere, che mai poterono essere rotti, difendendosi con archi, spade e bastoni contra i nostri balestrieri. Al fine s'entrò in quel forte, dove fu ferito il capitano Vazquez di due frezzate, l'una delle quali fu molto cattiva; similmente Diego Mignez, cirurgico di questo esercito, e altri compagni. Fu morta la maggior parte d'essi, e l'altra si gettò per il fiume a nuoto, donde non rimaneano di tirare frezze con tanto sforzo e animo come se fussero stati Spagnuoli; e incontraronsi nel capitano Verdugo, che era stato mandato a star dall'altra parte fin che passasse il campo, che gli finí di rompere e uccidere, e menò prigione molti con assai donne e fanciulli.
Tra gli altri che si difesero in questa isoletta fu veduto combattere un uomo in abito di donna, cosí bene e sí animosamente che fu l'ultimo che fusse preso, onde tutti rimasero ammirati come in una donna potesse essere tanto cuore e valore, che per tale era reputato dall'abito che portava. Ma conosciuto per uomo doppo che fu preso, volendo sapere io la cagione perchè cosí vestisse, confessò che fin da piccolino l'aveva costumato, e che guadagnava il vivere suo con gli uomini facendo officio di donna, onde comandai che fusse abbrucciato: e cosí fu fatto.

Nunno alli signori di Ciuseo usa cortesia e se gli dimostra amico, esponendogli voler prender il possesso di quelli luoghi per il re di Castiglia, e in quali errori si ritrovano servendo il demonio. Obedienza de' detti signori e confessione de' loro errori. Della terra detta Guanzebi; e possesso preso della provincia in nome di sua Maestà.

Ritornato al campo diedi opera di far venire da me i signori principali del paese, i quali vennero, ancora che paurosi per le cose avenute, e quivi gli pacificai, fece lor donare vestimenti e tutta la gente che era stata presa, de' quali alcuni si partirono di mala voglia e specialmente le donne, e doppo l'aver comandato che venissero ad abitare le lor case, dando loro ad intendere (come sempre si fa a tutti) che io venivo a torre la possessione di quei paesi da parte del re di Castiglia, che n'era signore e ministro di Dio in terra; nel quale Iddio il re e tutti gli uomini del mondo aveano da credere, adorarlo e temerlo e servire come a solo Iddio, fattore e creatore di tutte le cose, e in terra essere vassalli e ubidire a' comandamenti del re di Castiglia come suo ministro, e a me in suo real nome, e che non aveano da adorare idoli né mangiare carne umana. Risposemi che cosí volevano fare e che, se fin a quell'ora avevano sacrificato agli idoli, era proceduto per non sapere che cosa fusse Iddio, e perchè il demonio commandava loro a dover tenere quelle figure, onde sacrificavano, perchè gli chiedeva sangue e carne, dando loro ad intendere che era signor di tutto il mondo: perochè per paura avevano fatto questo errore, che per l'avenire averebbono cessato di farlo. Gran peccati sono quelli di tutti i viventi, poichè permette Iddio che sí grandi e abominevoli si commettino contra la sua maestà divina, negando la deità sua e non essendo conosciuto per Dio fattore di tutte le cose, ma il demonio, che procura di dannarci e distruggerci come cosa che poco gli importi, non ci avendo né creati né redenti, e che tanta moltitudine d'anime si perda e stia cieca e ingannata come bestie insensibili, e peggio, poichè esse seguono il lor naturale e questi l'hanno del tutto perso; perchè alcuni non solamente publicano essere ingiusta la guerra che si fa loro, ma ancora procurano disturbarla, essendo la piú degna e santa opera e di piú merito (col castigare questa gente) che cosa che in servizio di Dio si possa far maggiore, ancora che sia fatta per le mani di gran peccatori, e specialmente da me che sono il maggiore di tutti, poichè niuno è che s'asconda dal calor suo. E come misericordioso e datore d'ogni bene, spero nella sua infinita clemenza che riceverà il mio tepido desiderio e picciola fatica e opera in diminuzione de' miei peccati, e permetterà per la sua infinita bontade e grazia, e per fare Vostra Maestà per servizio di Dio tutto quel che fa, poichè suo è il carico di guidare l'impresa, di tal maniera che si comincia a manifestare il suo nome dove prima quel del nemico era servito totalmente e adorato
Saperà la Maestà Vostra che, in qualunque parte che io arrivo, a tutta la gente do ad intendere che cosa sia Dio e che sia la Vostra Maestà, quello che sono obligati di fare: e questo sia detto per sempre alla Maestà Vostra.
La terra che è sopra di questo guado si chiama Guanzebi, dove si piantò una croce. E quivi avendo lasciato l'esercito, me ne ritornai alle frontiere e principio della provincia di Cuiseo, cosí per vederla e pigliare la possessione in nome di quella, come per mandare il mastro di campo a passare il fiume con alcuni cavalli contra certe terre che s'erano ribellate, e che 'l Caconci gli avea fatti sollevare e cosí si serviva d'essi, come si fa, e similmente per scoprire se ci erano altri luoghi abitati all'intorno del detto lagume; e mandai fra terra il reveditore per veder se ci era altre abitazioni. Giunto a Cuiseo, dove stette duoi giorni, e pacificati quelli Indiani, presi il possesso di quella provincia, e posta la croce in un colle molto alto e brucciati gli idoli, che erano molti, ordinando che fusse mandato al campo gran quantità di maiz e bambasine, di che è in quel paese grande abbondanzia, me ne ritornai all'esercito.

Nunno, partito di Cuiseo, divide il suo esercito: l'una parte manda nella provincia di Cuinaccaro per pacificarla e avere il signore di quella, con l'altra entra nella provincia di Tonola; dove giunto, quelli Indiani fingendo voler pace l'assaltano e valorosamente combattono, quantunque restino perditori, e danno ubidienza a sua Maestà.

Donde mi parti' poi con esso il lunedí seguente verso la provincia di Tonolan, lontano otto leghe di quivi, della quale ebbi informazione essere molto buona, e mandai il riveditore con la sua compagnia e un'altra da piè dall'altra banda del fiume alla provincia di Cuinaccaro, dove io ero stato prima, perchè mi conducessero il signore e la pacificasse, fornendo di vedere che cosa era; con ordine che poi si venisse ad unire con meco dall'altra parte del fiume il giorno che io fussi entrato in Tonola, acciochè, se que' del paese mi fussero usciti incontro con guerra, io da una banda ed egli dall'altra avessimo assaltati i nemici. Quel giorno alloggiammo col campo in una costa d'un monte presso il fiume, dove mi vennero messaggieri da parte della signoria di quella provincia (perchè non ha particolar signore), a dirmi che ella sapeva la venuta mia e che stava ad aspettarmi con buona volontà di ricevermi con pace e darmi ciò che io avesse voluto, ancora che i suoi vicini che abitavano dall'altra parte del fiume, che erano tre provincie, Coiula, Coiutla, e Cuynacaro, fussero pazzi e non avessero voluto pace, e che il giorno inanzi erano usciti a far la guerra, perchè s'era risoluta di ricevermi pacificamente. Io, quantunque m'avedessi che questa era una finzione, risposi loro che la signoria dovea fare tutto quel che potea per stare in pace, e che gli altri che non la volevano gli avrei castigati della lor pazzia in non fare il medesimo.
Il giorno seguente spinsi a quella volta il campo, mandando innanzi il maestro di campo con alcuni cavalli leggieri a riconoscer il sito, e prima che io arrivasse mi vennero altri messi con galline da parte della signoria a dire che dovesse andare, perchè la vettovaglia era in ordine, ancora che quei vicini contra sua volontà s'erano messi in punto presso la terra sua per farmi contrasto, di che ella avea dispiacere di non potere impedirglielo; e il maestro di campo che lo vidde mi mandò a dire il medesimo, e che la signoria aveva in essere molta vettovaglia. Onde caminando col campo giunsi ad una costa che era vicina alla terra, e perchè non avesser danno i miei quivi, feci far alto e trasse tutta la gente da guerra, cosí da cavallo come da piè, con animo di non menare con me Indiani amici, acciochè non distruggessero quel luogo per il quale io ero per passare; ma gli lasciai in ordine con comandamento che non dovessero partirsi, e spinsi oltra per vedere il sito e lo squadrone degl'Indiani, ch'era in un colle spogliato e sassoso, dove era un passo a loro giudicio molto forte, ancora che ci si potesse montare a cavallo. Io, ciò visto, mandai a loro uno interprete perchè volessero lasciare l'arme, al quale risposero che essi non solevano dare galline, ma frezzate, però che i cristiani dovessero andare a trovargli, che gli aspettavano: onde io di nuovo tornai a cacciar fuori la gente e alcuni di quelli Indiani amici, parendomi essere ben fatto di menargli, lasciato in guardia del campo il capitan Barrio, e feci tre squadre della gente da cavallo e una de' pedoni. E mandai alcuni di quelli Indiani amici a pigliar loro la costa del colle dalla banda che pendea verso il fiume, lontan mezza lega, con disegno che se fussero fuggiti da quella banda gli pigliassero il passo; dall'altra costa del colle contraria mandai il capitano Verdugo con un'altra parte d'Indiani, e io presi il mezzo per dirittura d'esso colle con l'artiglieria e la compagnia de' pedoni che sono in guardia della mia persona, accostandomi tuttavia a' piè del colle, dove andai innanzi agli altri con lo scrivano a protestarli che lasciassino l'arme. La risposta che essi mi fecero fu un gran grido, e alcuni cominciorno a calar a basso per le spalle del colle: e veduto che non conformavano i fatti con le parole, cominciai ad andare verso di loro con la gente, e ciascun con la sua fece il medesimo, e quando giunsi al colle tutti s'erano gettati a basso voltando le spalle; e io, pensandomi che volessero pace, andavo loro dicendo che dovessero aspettare e non temere, perchè fra loro era ch'intendeva il parlare di Messico, e a' cristiani comandai che non fusse uomo che ammazzasse alcuno di loro, finchè io viddi che combattevano valorosamente con gl'Indiani nostri amici e che si rivoltavano, affrontando i cristiani con gran cuore. In questo modo si cominciò a dare in essi da molte parti, onde incontinente si divisero per varii sentieri, fra certi grandi arbori di frutti e seminate che duravano piú di due leghe; e in questo modo si ritrovarono pochi insieme quel giorno, e i nostri, con l'avidità che aveano di seguitargli, non gli lasciavano in posa. Ed essi combatterono cosí bene e con tanto ardire, che vi furono molti Indiani che un solo di loro faceva testa ad un cavallo leggiero, e gli pigliava la lancia con l'una mano, e con l'altra, armata d'una certa mazza che sono soliti di portare di legno, gli dava di gran bastonate; e altri pigliavano i freni de' cavalli e con gli archi davano di gran colpi. E venendo solamente con me il capitano Ognate e suo fratello, che ha carico dello stendardo reale, trovai l'alcaide, che era caduto col suo cavallo in un fosso fra piú di dugento Indiani, dai quali s'era valorosamente difeso, e con l'arrivar mio se gli levarono da dosso. E secondo quel che dicono coloro che si sono trovati nella Nuova Spagna e nell'altre parti con questa gente, non si sono visti ancora i piú coraggiosi né valenti Indiani di questi; portano archi e frezze, mazze e spade a due mani di legno, fromba e alcune rotelle, e loro molto impiumati e tinti, perchè si pensano che col farsi cosí brutti, ancorchè di lor natura non sieno molto belli, parendo diavoli, hanno da mettere paura ai cristiani. E alcuni de' nostri che quivi caddero da cavallo vennero alle braccia con esso loro, e se non si fussero aiutati con i pugnali si sarebbono trovati in gran travaglio; e uno Indo con una pietra tirata con una fromba che essi fanno di bambagio roppe una costa ad un uomo a cavallo, e recuperò uno Indiano al quale era stato passato il corpo con una lancia da una parte all'altra, e ferí tre cavalli. Questo dico perchè, ancora che si sia visto che mille di loro abbino paura di tre a cavallo, nondimeno si è visto ancora esservi stato alcuno di loro che ha avuto ardire di aspettare uno da cavallo e afferargli la lancia, quantunque sia malamente ferito. Ferirono pochi cristiani e niuno cavallo vi morí, e pochi degli Indiani amici, e delli loro scamparono alcuni, ma non molti, per rispetto della rottura del fiume, dove si ridussero da mille di loro dei piú valenti, che ben si conobbe nel combattere. Temono molto i cavalli, perchè hanno opinione d'essere mangiati da loro. Si ritirarono da due leghe, sempre combattendo.
Dapoi raccolsi il campo e quattro o cinque cavalli che andavano senza i lor padroni, e ritornai all'alloggiamento due ore presso il mezzodí con tutta la gente, rendendo grazie a Dio per la grazia che m'avea fatto. E penso che giovasse molto quel che si fece, perchè incontanente vennero tutti i signori e tutto il paese a servire e dar l'ubidienza, portando molta vettovaglia, ancora che nella terra ce ne fusse fatta grossa provisione. È paese molto buono, ben popolato e abondante del vivere, e credo che se si facesse una residenzia in mezzo di questi popoli sarebbe gran bene, e l'uomo gli potrebbe ben reggere e se ne potrebbe ben servire. È questo paese temperato, pieno di molti uccelli; sono gran sacrificatori; hanno argento e qualche poco d'oro e vestimenti, ancora che da principio tutti lo niegano: e ora io non mostro d'aver voglia di volerlo né che venga per oro, e ancora che tutti mandino a dire che lo daranno, io ho lor mandato a dire che io non ho bisogno d'oro, ma che sieno buoni e servino, né sieno sacrificatori.

Della Vittoria della Croce e Santa Maria, chiese fabricate nella provincia di Tonola, e del possesso di quella preso da Nunno. E come, di quivi partito, riconosce con l'esercito molte città: Zapatula, Ixtatlan, Atacotla, Contla, Tolilitla, Michetlant (contra gl'Indiani della quale combatte), Theulcano e Xelpa, e dell'oro che ivi si ritrova.

Il giorno seguente sopragiunse il reveditore dall'altra parte, che non era potuto arrivare prima, perchè s'era occupato in esaminare ben il sito di quella provincia, dove si incontrò con alcuni del paese. E venuto, determinai di mandarlo con altri capitani, con la gente da piedi e Indiani amici, a passar dall'altra parte del fiume e a cercar quella rottura, dove avevo avuto relazione esservi ridotti molti Indiani fuggiti della battaglia, i quali mandavano a minacciare di volere sacrificare gli uomini di quella signoria, perchè m'avevano raccettato con pace; ma non poterono passare a quella parte per essere forte e aspera per le molte pietre, e i pedoni, non ritrovandovi la gente, si ritornarono adietro.
Nel colle dove s'erano ridotti questi Indiani fu fatta una chiesa assai bella, che si chiama la Vittoria della Croce, e vi si piantò una croce di sessanta piedi lunga, che si vide lunge piú di quattro leghe, con i suoi gradili assai sontuosi. E un'altra chiesa si fece nella terra, che si chiama Santa Maria, e ho poi inteso che gl'Indiani l'hanno finita con porvi un'altra croce ben grande, e nello alloggiamento mio ne fu alzata un'altra.
Si tolse la possessione di quella provincia alli 25 di marzo, e il giorno seguente mi parti' e me n'andai a dormire a Zapatula, che m'uscí incontro in atto di pace, che è questa una buona terra di quella provincia di Tonola, dandomi vettovaglia e Indiani per servigio del campo. Di quivi me n'andai l'altro dí a Aximocuntla, che la trovai disabitata, ancora che mi mandasse molta vettovaglia, mandandomi a dire che per tema non aveano voluto aspettarmi. Il dí che venne poi venni a dare sopra la rottura per il piú faticoso e disperato cammino del mondo, per una costa che dura una lega e mezza sino al fiume, che appena che si potevano sostenere i piedi, per dove i miei cavalli e mule traboccavano: e quivi me ne stetti la notte presso una terra chiamata Ixtatlan, dove mi portarono certa vettovaglia in segno d'ubidienza. E il dí poi venni ad Atacotla, che trovai senza gente, ancora che molti Indiani, uomini, donne e fanciulli, si trovassero nascosi fuori di essa terra, che è grande e molto abitata, quando non è il sospetto; è cinta di molti boschi di frutti, ma con tutto ciò ha carestia d'acqua, e quella è molto cattiva. Di quivi me ne venni a Cotla, passando per un luogo dove il reveditore era già stato e l'avea abbrucciato, quando gli imposi che passasse il fiume, che è della provincia di Cuynaccaro. Prima che giungesse a Cotla, quei che erano andati col mastro di campo a scoprire dierono in alcuni pochi Indiani di Chichimecas, che s'erano arrisicati a dar nelle bagaglie delle genti da cavallo, e uccisero alcuni di essi. Quivi fu tagliato un piede ad un mio staffiere per aver tagliato mezza una mano ad un altro, della quale ferita restò quasi libero, e perchè restasse il piè sotterrato si piantò una croce. Quindi partendomi, pervenni col campo il dí che venne poi a Tolilitla, che è in un alto e in un sasso quasi tagliato da tutte le parti, del qual luogo è signora una donna che è patrona d'un gran paese. Gli trovai in un sito non forte, e perciò credo che rimanessero di uscirci contro con l'arme, e ci dierono vettovaglia.
Il giorno seguente, che fu il venerdí, pervenni a Michetlan, dove m'era stato detto che erano molti uomini di guerra con l'arme in mano per assaltarmi. Io gli mandai il giorno innanzi messaggieri indiani a persuadergli che fussero voluti venire pacificamente all'ubidienza che io cercavo da loro, dei quali, prima che giungessero a loro, alcuni che erano andati in compagnia vennero fuggendo e malamente feriti, riferendomi che aveano uccisi i messaggieri che io avevo lor mandati, come si verificò poi, e che m'aspettavano per resistermi con l'arme. Ordinata adunque la gente, comandai che andassero innanzi con alcuni corridori il mastro di campo, e doppo io mi spinsi innanzi con uno mio creato per riconoscere il sito e la gente da un colle che mi era innanzi, e viddi che s'andava ritirando al monte, e i nostri amici, che sempre erano innanzi piú degli altri, piú per rubbare che per combattere, gli andavano seguitando col favor de' cavalli leggieri, senza i quali non avrebbono animo di farlo. E avendo aggiunto il mastro di campo presso alla terra, lo mandai a quella volta, acciochè gli facesse spalle, e io lo seguitai, e si presero quel dí alcuni Indiani. Sono tre contrade insieme in distanzia di una lega, le piú bene popolate che in tutto quel paese si sieno vedute ancora, e di buonissima sorte di case, di terra migliore e maggior lavoro che si possino vedere, dove si ritrovarno zappe di rame con che lavorano la terra.
Mi riposai il sabbato che venne e la domenica, per esser opera in che si serve a Dio. Dopo mandai il proveditore con una compagnia da piè in un luogo chiamato Teulchano, ch'è un capo di quella provincia de' principali, di che parlerò poi, ch'era lungi dodeci leghe de lí; dall'altra parte trovai il capitan Verdugo e Barrio ad un'altra gran terra che si chiama Xelpa, posta sopra un fiume. E il lunedí vegnente mandai certi che trovarono le miniere in quel luogo del fiume, dove trovarono una ponta d'oro che pesava tre o quattro reali, e seguendo l'alto del fiume dierono in una compagnia di donne e fanciulli, la quale essendo soccorsa da' mariti, che non erano molto lontani, gli cavatori dell'oro se ne tornarono adietro lasciando di piú cercar oro. Si crede, secondo la disposizione del paese, che ce ne sia. Il giorno seguente mandai il capitan Ognate a cercargli, e ne trovò pochi, e la maggior parte donne e fanciulli; e il mercordí che venne i capitani Verdugo e Barrio tornarono dal lor viaggio e condussero gran moltitudine di persone, ma per il piú fanciulli e donne, perciochè i lor mariti non avevano avuto voglia di por in aventura le proprie vite loro per riscattarle. E per il camino che tennero nella tornata trovarono un'altra terra grande nella medesima riva del fiume, ma gli abitatori d'essa non l'aspettarono punto.


D'alcune zuffe accadute tra gl'Indiani e Spagnuoi; e quanto siano gl'Indiani; quantunque fatti cristiani, pertinaci in sacrificare gli uomini.

Quel giorno al tardi, cavalcando io vicino al campo dalla parte contraria d'un monte molto abitato, mezza lega lontano, si arrisicarono di venire qualche cinquecento uomini giovani, destri, a provedersi di maiz, che in quel luogo ne avevano in grande abondanzia, e nel luogo dove si erano ridotti ne dovevano aver carestia; ed essi spinsero innanzi verso il nostro campo qualche cento, perseguitando gl'Indiani del nostro esercito che erano usciti fuori inconsideratamente, de' quali ne uccisero due o tre, e giunsero qualche un tiro di archibuso vicini alli nostri steccati: e penso che quei morti furono raccomandati a' loro demonii. Nel tempo che mi ritornavo adietro con due o tre che venivano con meco, senti' il rumor dell'armi, e giunto al campo, doppo che fui armato cavalcai, e mandai in tanto alcuni cavalli avanti, fra i quali due miei creati spinsero inanzi agli altri e giunsero cento che si ritiravano in su la sera, de' quali uccisero sette o otto, e il resto di essi se ne fuggirono per essere oggimai buio. Io in tanto giunsi con alcune genti al monticello e passai dall'altra parte, ma per non essere ora di seguire i nemici me ne tornai; e al quarto dell'alba mandai il capitano Ognate a cercargli, credendo non dovere essere molto lontani, e io prima che fusse giorno usci' con gli assaltatori a fargli spalle due leghe innanzi. All'entrata di un monte diedi d'incontro in cinquecento o seicento uomini, i quali si difesero e combatterono quanto potettono; al fine rimasero di essi morti da centoventi o centotrenta, e il rimanente di essi si ritirò alla montagna e altri alle rotture. Ferirono di frezze cinque cavalli, e due di quelli morirono de lí a dieci giorni, e credo piú tosto per negligenza e mala cura di coloro che gli governarono, che per essere pericolose le ferite.
In questo modo caminando io oltre per seguirgli, mi fu fatto a sapere che avevano i nostri dato in essi, e al galoppo della gente gli giunsi vicino ad una lega, che già si ritornavano adietro: e quantunque paresse a me che non si potessero piú giungere né ritrovare, spinsi tuttavia piú innanzi a cercar certe rotture che si vedevano di lontano, dove mi parea che si fussino potuti ritirare. E doppo l'essere andato oltre mezza altra lega senza scoprir cosa veruna, trovandomi sotto il cavallo tutto stanco e il medesimo avenendo agli altri, feci alto per raccogliere i miei, e in questo che due miei creati andavano per far questo effetto, dierono in una gran frotta d'alcuni Chichimecas, che davano la caccia a certi degli Indiani amici nostri, e all'arme che dierono io mi rivolsi adietro sopra di loro seguendogli a tutto corso del cavallo. E l'alcayde e un altro mio allievo, che quivi si trovavano insieme e andavano innanzi, dierono in un luogo dove erano piú di quattromila persone che erano quivi nascosi, fra donne e fanciulli, e con tutta la robba loro, le quali tosto che gli viddero si posero in fuga: e quando io giunsi viddi le pedate loro, e camminando trovai il sangue di alcune donne e fanciulli che gl'Indiani nostri amici aveano uccisi e sacrificati, che è cosa impossibile di rimediare che non gli faccino per molto castigo che io gli dia, ancora che molti affermano che sono buonissimi cristiani. E creda Vostra Maestà che cosí fanno al presente tempo come facevano prima, se ben lo fanno nascosamente, e per questa e per altre giuste cagioni che ho scritto alla Maestà Vostra non si doveria dar loro tanta libertà, né piú di quella che al stato e vivere loro si costumava, perchè far altrimenti è un dar loro occasione di essere piú cattivi e fargli sacrificar piú tosto un uomo che niun'altra cosa, che di quelle persone che usano la loro libertà franca, e non hanno virtú né umanità nel vivere, né verità in bocca, che con essa possino emendare le vite loro ed essere migliori cristiani, massimamente che è di tal natura questa gente, che bisogna che stieno molto soggetti e che temano perchè sieno buoni cristiani. E tenga Vostra Maestà per fermo ciò che le dico.
Or doppo l'aver seguita la vittoria e scorso per molte parti il campo, ed esserci stata molta gente, mi ritornai a mangiare a quel fiume, e de lí me ne venni poi all'esercito, avendo trascorso undeci o dodeci leghe.


Dell'obedienza data da quelli di Xalpa, e possesso di quella da Nunno pigliato. Sito della terra di Tespano, di Amec monte disabitato, della terra di Theulican e de' suoi edificii.

Il giorno vegnente poi ritornò il riveditore dal suo camino e impresa, nella quale non ritrovò resistenza, perchè la gente era fuggita alle montagne, e quella che vi ritrovò era inutile e poca. In questo tempo attesi a mandar di continuo messaggieri e cercar i signori del paese, con presenti d'alcune cappe di panno, perchè venissero con meco a pace: de' quali alcuni ritornavano, e altri rimanevano là e mi rispondevano che sarebbono venuti. Di Xalpa mi vennero tre ambasciatori a dire che volevano gli abitatori di quel luogo venire a trovarmi in atto di pace e per servir i cristiani, con certe lame d'argento in dono che erano di poca valuta, e con un idolo fatto di bambace e pieno di sangue, e un rasoio di pietra nel mezzo con che sacrificano, che penso che essi s'immaginassero che si avessino a destrugger tutti; ma non poté diffendersi dal fuoco, che non lo brucciasse al cospetto loro, di che rimasero molto spaventati. Questo fu il giorno dell'olive, e per esser la settimana santa e il paese abondante molto di maiz, determinai di farla quivi, e far l'ufficio in una chiesa che si fece in un giorno di canne, coperta di paglia assai buona, con una croce innanti e i suoi gradili in mezzo di buona grandezza; e un'altra ne feci piantar sopra il monticello che ho detto, che si vedea di lontano da tutti quei di quel paese. Si celebrò l'ufficio al meglio che potemmo per esser in luogo di guerra, e il sepolcro di nostro Signore della piú nuova maniera che si fusse veduto giamai, perchè tutto fu fatto di penne ricche, e per le stazioni avemmo cinque altre case di eremitorii con alcune gran croci, che in esse rimasero: e si fece il giovedí santo una devota processione di disciplinanti di piú di trenta. E quivi lasciata tutta la gente che era stata pigliata e tolta la possessione di quella terra, mi parti' il martedí di Pasqua, e quel giorno feci l'alloggiamento in un monte disabitato; e di quivi pervenni poi ad una terra che è chiamata Tespano, che è situata sopra un fiume assai buono, piena di molte case e buone, dove era già stato il riveditore e gl'Indiani del nostro campo e l'aveano brucciata. In mezzo di essa terra è un monticello fortissimo e abitato; questo è uno paese abondante di molto maiz e bambace, e dicono che vi si cava dell'oro. Si trovarono in una sepoltura certi braccialetti d'argento buono.
Da questa terra di Tespano feci l'altra giornata in un monte disabitato chiamato Amec, per il piú tristo e malagevol camino che si sia mai visto in quelle contrade, donde traboccarono molti Indiani e cavalli, e cadevano certi pezzi di pietra che gli infrangevano, chiamate da loro golghe. Montammo poi una montagna molto aspera a piè. Da Amec venni a Teulincha, dove era già stato il riveditore, luogo posto in un monticello il piú forte che si sia visto ancora, per esser tutto di sasso tagliato all'intorno: e mostra esser cosa di molta grandezza, perciochè per il piú v'erano edificii molto sontuosi, che ciascuno signor di quella provincia ve ne dovea aver uno per andarvi a fare i suoi sacrificii, e cosí dicono tutti gli abitatori d'esso che v'era un idolo d'oro grandissimo, il quale era stato fonduto e destrutto in altri tempi di guerra. I palazzi ed edificii erano di pietra intagliata molto buona, dove erano pezzi di dieciotto palmi, con statue di uomini grandi di pietra, dove si sacrificava, e molte altre cose simili a quelle di Messico, che i Messicani che erano nel campo dicevano che erano conformi alle loro. Erano i cortili de' palagi molto spaziosi e belli, con molte fontane d'acqua buona. Mi riferiva il riveditore, che v'era stato prima, che era un gentil luogo da vedere innanzi che gli Indiani nostri lo avessero brucciato, che non fu chi glielo potesse proibire, che fanno di queste simili insolenzie assai, ancora che si faccia di loro gran giustizia. Ha questo luogo all'intorno un paese, benchè non molto abitato, con un fiume che gli passa vicino, il quale signoreggia molto paese, e si vede da molte strade che escono da molte parti, se non che, come ho detto, dicono che fu destrutto.

Nunno manda a riconoscer la terra di Saltenango, ed egli prende il possesso di Teulicano. E del suo esercito fa due parti: l'una manda a scoprire la provincia di Mecuacano, contermine al mar del Sur; l'altra per sé ritenuta, perviene ad Atlan e poi a Guaxaca, e d'indi a Guatatlan, a Cinagtlan, Hespa, Tetitlan, e alla provincia Xalisco e a Tepeque.

Di qui mandai il capitan Verdugo ad una terra chiamata Saltenango, lontana sei leghe, soggetta a quel luogo, e dicono che dura la valle sei leghe per il fiume a basso, le tre delle quali son piene d'abitazioni. Vi trovò poca gente, che tutta si era quasi ritirata alle montagne, e gli fu detto che ci erano altre terre piú innanti cosí grandi come era quella, ma, perciochè io gli avevo imposto che non si dovesse spingersi piú oltre, se ne ritornò adietro senza vederle. Condusse seco alcuni Indiani prigioni, e alcuni che s'erano mossi a tirar con le frezze ad alcuni amici indiani, che avea con esso lui, lo pagarono caramente. Piantai una croce nel piú alto di quel monticello, dove si disse una messa, perchè fusse Iddio lodato e adorato dove il demonio era stato tanto tempo servito e avea tanti sacrificii ricevuti. E presa la possessione per la Maestà Vostra, lasciai quivi tutte le donne e fanciulli che erano stati presi.
E doppo determinai di far due parti della gente, e mandai per una strada il riveditore con il capitano Verdugo e il capitano Proagno, capitani di fanteria, con alcuni dei nostri Indiani, che uscissero alla provincia di Mechuacano, che è un'altra diversa da quella della Nuova Spagna e sta vicina al mare del Sur, a quel luogo dodeci giornate di cattivo cammino, e specialmente per i cavalli, che quasi pareva impossibile il passarlo. E ciò feci perchè ebbi relazione che era abitato molto, acciò venissero con informazione di quel che era e sapessero dar relazione di ciò che si ritrovava in quella parte, perchè alle volte le cose non vedute ci si rendono piú impossibili di quel che sono, e specialmente per questa gente, a cui non piace la compagnia nostra. Il paese si mostrava molto doppio e montuoso, e se lo ritrovavano di tal disposizione che non l'avessero potuto passare, avevano in commissione che lo attraversassero e si venissero a congiunger con meco.
Quel medesimo giorno mi parti' anch'io, che fu il lunedí, e andai a far l'alloggiamento in una rottura d'un fiume, non per miglior cammino che avessero avuti gli altri; e l'altro giorno fui ad alloggiare ad un monte assai piacevole, dove gli amici nostri indiani andando a buscar da saccomannare, dierono in una valle dove erano molte genti di quelle che erano fuggite da quei luoghi, e condussero al campo assai donne e fanciulli, che io lasciai in quel luogo. Il giorno seguente me ne venni, per cammino non men difficile e montuoso dell'altro, a tornar a passar la rottura di prima, che il parlar della asprezza e malignità sua sarebbe fastidioso, perciochè, oltre l'esser lunga e faticosa, è pericolosa per i molti sassi che cadono da l'alto. La smontammo a piedi e facemmo l'alloggiamento alla metà d'essa, e il giorno che venne poi giungemmo al fiume, con gran pericolo e fatica delle nostre persone e cavalli. E passato il fiume pervenimmo ad un luogo disabitato chiamato Atlan, che è vicino alle terre, e tornai a ripigliar il cammino, acciò tutti non fussimo alla ventura per il mal sentiero che aveva pigliato il riveditore; dove aspettai le bagaglie e il bestiame che conducevo con meco per uso del campo, del qual se ne perdé qualche parte, e il resto tardò a raggiungerci tre giorni per il passaggio aspro del monte, che era due leghe di tratto. E per questi monti e luoghi disabitati si patí qualche poco di fame. Quivi fermati tre dí, e doppo l'aver piantata una croce in un monticello posto sopra un fiume, mi parti' e giunsi ad una terra disabitata, e il dí che venne poi pervenni ad un luogo chiamato Guaxaca, che era in arme, dove, per esser poca cosa e star gl'Indiani alle montagne, non volsi fermarmi ad Ispano. E tutti questi tre giorni per molto perversi cammini di montagne me ne venni ad uno altro luogo, dove gli abitatori mi vennero incontro in atto di pace, e mi dierono molta vettovaglia. L'altro dí che venne poi giunsi a Guatatlan, passato per Cinagitlan e Nespa, che sono di due caciqui o signori, ciascuno però da per sé, in una valle molto abitata e che avea molta vettovaglia.
Da Guatatlan, dove io stetti quattro giorni, e vi lasciai piantata una croce sopra un colle, giunsi a Tetitlan, accompagnato da tutti i caciqui di quelle terre: e la gente d'esse era fuggita quasi tutta alle montagne. Da Tetitlan venni due giornate per paese inabitato, e l'altro dí, prima che io giungesse ad una provincia chiamata Xalisco, mandai il mastro di campo innanzi, per veder se gli abitatori stavano in arme per voler guerra. E quivi seppi che il riveditore era due leghe lontano de lí, e passato oltre me lo fece intendere, e quando venne a Xalisco l'incontrai, che m'era venuto a rincontrar su la strada. E quantunque il viaggio di quel giorno fusse stato onestamente grande, pur me n'andai con esso lui quel giorno medesimo, che era venerdí, a Tepique, dove egli era alloggiato già tre giorni innanzi, che vi era giunto per un cammino il piú aspro e il piú difficile che si sia mai trovato, perchè in quattordeci o quindeci giorni che vi consumò non andò tre dí a cavallo, per non poter andarvisi se non a piede, e gli traboccò al basso un cavallo che se gli roppe il collo, oltre che patí gran necessità di vettovaglie, perchè non trovò mai niuna terra abitata di quelle che mi fu riferito che si sarebbono trovate: e ben mostravano i cavalli e le persone il gran patir che aveano fatto. Perderono per strada gran parte del bestiame che si conduceva per vivere alla giornata, che qua è tutto il capital nostro e mantenimento, che, ancora che sia il paese molto abondante di galline, nondimeno non se ne trovano sempre, perchè le ritiravano ne' luoghi nascosi e secreti dei monti.


Nunno, non volendo rendergli ubidienza gli signori di Xalisco, con l'esercito per combattere gli va a ritrovare, e passa per molti luoghi contermini al mar del Sur, e di quello per S.M. prende il possesso. Poi, gionto a Mutoche, terra con buon porto, li detti signori con pace vengono a prestargli ubidienza.

In Tepique stetti io il sabbato e feci chiamar i principali e signori di Xalisco, a' quali feci la richiesta che si costuma, perchè quando io passai trovai che erano ritirati alla montagna, e non erano voluti venire, né meno aveano voluto farlo quando gli mandai il riveditore, prima che io arrivassi, anzi lo mandavano a minacciare che lo avrebbono sacrificato insieme con gl'altri. E quando arrivò il riveditor dall'altra parte, prima che io giungesse, non lo poteano credere, pensando che fusse impossibile poter venire per il cammino che venne, e non credendolo, quando i lor vicini glielo fecero a sapere, diceano che non erano uccelli i cristiani. E acciochè questi signori non pigliassero fatica e sospetto in venir a trovarci, io determinai di prevenirgli, e il dí innanzi, prima che venisse il giorno, mandai il riveditore con il capitano Barrio e il capitano Proagno da una parte a torgli la montagna, e da un altro lato d'un altro monte mandai il capitano Ognate e il capitano Vazquez, e io con la gente che mi accompagnava e con la gente da piè fui dietro al luogo nello schiarir dell'alba, lasciato in campo il capitano Verdugo. Dove giunto non vi trovai niuno, perchè tutti si erano ritirati alle montagne con le lor donne e figliuoli, per aver avuto aviso dell'andata mia, onde io determinai d'andar a trovargli, perciochè mi indovinavo che gli avrei incontrati. Cosí me n'andai tutto quel giorno attraversando monti e valle asprissime e faticose, ma del resto trovai luoghi ben abitati e d'artificiosa struttura secondo la qualità del paese, che cosí sono tutte quelle terre di piú sottili lavori che si sieno ritrovati ancora, oltre i molti giardini di frutti.
Venni a dar quella notte, doppo l'aver camminato meglio di dieci leghe, a certe picciole villette due leghe lontane dal mare, per un sentiero il piú aspro per una parte che si fusse trovato ancora, e tal che niun cavallo poteva andarvi. Il riveditore se ne ritornò quel giorno in campo, e il medesimo fece il capitano Barrio, con una gran quantità di prigioni che aveano avuti gl'Indiani amici, avendo fatto un grandissimo danno per tutto il paese; e il capitano Vazquez e Ognate se ne vennero con meco quella notte, ma per il mal cammino pochi ci poterono seguire, perciochè, per il luogo che io ascesi il monte, si erano arrisicati da sette o otto cavalli a montare, e gli altri non poterono giamai tenergli dietro. Ma l'altro giorno mi raggiunsero poi, e, per trovarmi cosí vicino al mare, determinai d'andarvi per pigliar la possessione di esso in nome della Maestà Vostra, come si fece. E camminando la costa di sopra verso tramontana piú di due leghe, entrando i corridori in un spesso bosco, vennero a scoprir un monticello posto sopra il mare, dove erano da sessanta case e piú di dugento uomini, e avendogli colti allo improviso si risolverono di fuggire, che in altro modo se fussero stati da loro veduti o sentiti, sarebbe stato impossibile di prenderli. Quivi entrati i nostri, ne fuggirono molto sicuri quegli Indiani per quelle selve folte. Si trovò in quel luogo quantità grande di pesce e ostrighe e di tutto il resto di vettovaglia necessaria, e di mele, cera e molto bambaso; e chiamasi quel luogo Mutochel, ed è soggetto a questa provincia dove mi ritrovo ora, stando sopra un porto, giudicato da noi esser il migliore che si sia in quelle parti veduto ancora. Non potette misurar il fondo che avea, per non aver con meco instrumenti apparecchiati per farlo.
Di qua tardai a tornar al campo duoi giorni per un perverso e assai malagevol cammino, e a due leghe lontano dal campo incontrai il capitano Barrio, che per ordine del riveditore andava per veder da qual parte si avea a passare il fiume grande della rottura, di che ho parlato un'altra volta, che era otto leghe lunge da Tepique. Dove giunto ritrovò molta gente di guerra in guarnigione, e passato il fiume per un guado assai facile da passare, diede in quella gente, e ancora che fussero pochi gli dierono che fare, essendo con esso lui pochissimi, non essendo egli uscito ad altro effetto che per ritrovar quel guado. Alla fine si ritirò, avendo morti alcuni dei nimici e de' suoi restati feriti tre o quattro Spagnuoli e un cavallo, e ciò fece perchè si avvidde che calava per dargli la carica molta gente, e gli aveano fatte due imboscate; onde preso il passo del fiume, portò certe cinte d'oro e d'argento tolte a' nemici, che le portano cinte in fronte, nelle braccia e alla cintura, e coloro che vi furono dicono che tutti ne avevano. Doppo che io giunsi a Tepique i signori di Xalisco, che son duoi, vennero in atto di pace e a prestar ubidienza, come l'altre tre buone terre che son poste vicine al mare, dove si dice esser minere d'oro. Dimorai in questo luogo di Tepique tre settimane, cosí per rifar i cavalli, che dai viaggi passati erano molto fiacchi e travagliati, come perchè io aspettavo certa gente che mi veniva da Messico, perchè potessero passar sicuri.

Officiali fatti da Nunno nelle terre di Xalisco e Tepique, delle quali preso il pacifico possesso, con la sua gente parte e perviene ad Atacla, e d'indi al fiume del Spirito Santo, vicino al quale scopre un esercito d'Indiani inimici, contra i quali combattendo valorosamente riporta vittoria.

Quivi io feci officiali in nome di Vostra Maestà, finchè provede a quel che è espediente perchè sia piú servita, per esser nuova scoperta e conquista separata dalla Nuova Spagna, e acciochè vi fusse chi avesse cura delle cose di Vostra Maestà e ricevesse i suoi quinti e altri dritti che gli appartengono. Feci contador Cristoforo d'Ognate, che in absenzia del contador ha fatto questo ufficio in Messico, persona onorata e di buona qualità, e che ha molto ben servitala negli affari suoi di Messico, e di chi si può in tutto fidare. Feci tesoriero il capitano Francesco Verdugo, uomo di molta reputazione, e degli antichi conquistatori della Nuova Spagna, e del numero di quei che l'ha ben servito. Fattore feci Giovanni Disamano, cugino di Giovanni Disamano secretario della Maestà Vostra; riveditore Ferrando Chirino, nepote del riveditore Peramildez Chirino, che tanto la serve e ha servito in questa impresa e nelle cose passate, come Vostra Maestà sa, informato dalla audienza, e come si vedrà per la residenzia, che per saperlo io e conoscerlo mi assicurai a condurlo con meco in questo viaggio in suo servigio, e per il zelo che so che tiene alle cose sue.
Furono poste due croci in Xalisco e altre due in Tepique, che è un luogo temperato e pieno di molte fontane, e sito molto dilettevole per il qual passa un buon fiume; è paese molto abondante di vettovaglia e d'ogni sorte di frutti, e produce bombaso assai. Restovi per far un alloggiamento per gli Spagnuoli che vi capitassero, e quivi feci rassegna della gente; e presa con essa la possessione, veduto che quella che s'aspettava tardava molto a venire, mi parti' il venerdí innanzi la Pasqua dello Spirito Santo, e venni a dormire ad Ataclapa, un buon luogo soggetto a Tapique. E il sabbato che venne piantai il campo in un luogo pieno di palme, lunge una lega e mezza dal fiume grande, avendo mandato quella mattina il maestro di campo a veder in che termine si trovava il fiume, pel luogo dove l'avea passato il capitano Barrio quando l'andò a vedere; e in tanto che si ponea il campo, accomodandosi gli alloggiamenti, presi quindeci cavalli leggieri e con essi me n'andai a veder il fiume da un'altra parte, e nella strada presi uno Indiano che portava legna al suo campo, il qual mi disse che dall'altra parte vi era gente di guerra. E giunto al fiume e trovato il passo buono, comparsero sopra il fiume alcuni Indiani, che gridarono e si misero dentro un boschetto che quivi era, dove erano alcune case: penso, per quel che mi avvidi il giorno seguente, che mi volevano adescare e farmi passare, poco stimandoci, come aveano mandato a dire agl'Indiani di Tepique che dovessimo andar a trovargli, che eravamo tanti vecchi e che ci averiano tutti mangiati; e per fargli star men vigilanti, e acciochè pensassero che io non passavo per paura, non volsi farlo.
L'altro giorno, che fu la domenica dello Spirito Santo, prima che si facesse giorno si partí il campo ad aspettarmi al fiume, e doppo l'aver udito messa e ricevuto il santo Sacramento mi parti', e giunto al fiume, ordinai che non passassero le bagaglie, e che restassero i capitani Verdugo e Barrio con le genti loro a cavallo, e Vazquez con le sue da piedi: e io con tutti i miei Indiani di guerra, il riveditore e Cristoforo d'Ognate con le compagnie loro, con Proagno e il capitano Villalva della mia guardia con le loro, passammo il fiume e nel mezzo pigliammo la possessione per la Maestà Vostra, ponendogli nome il fiume dello Spirito Santo, e il conquistamento dello Spirito Santo della Maggior Spagna, perchè senza il suo lume e grazia mal si può far cosa veruna, massimamente in terra non conosciuta e cosí strana. Supplico Vostra Maestà similmente che confermi questi nomi cosí dovuti, poichè in tal giorno se gl'imposero, e tutti gli altri che io ho posti in questo paese in nome suo.
Passato il fiume e finito di pigliar la possessione in terra con le cerimonie solite, furono con tromba banditi questi nomi e publicati, e incontanente feci armar tutta la gente e la posi in ordinanza; e perchè dai lati dove passava l'esercito vi erano selve spesse e folte, ancora che il resto del sito sia piano, posi dalla mano sinistra una diffesa d'uno squadrone d'Indiani amici, e dalla man dritta un altro squadrone dei medesimi guidato dal riveditore (perchè l'altro lo governava il capitano Ognate). Io poi con le compagnie da piè e con l'arteglieria andai nel mezzo, e perchè subito si cominciò a scoprir gente inimica, che fin allora non s'era mai veduta, mandai sei corridori perchè riferissero quel che era, comandandogli che in conto alcuno non dovessero combattere. Questa generazione ci stimava sí poco che lo squadrone che era innanzi a me per antiguardia, che dicono che erano piú di duomilia Indiani, s'era gettato in terra perchè noi non l'avessimo a vedere, acciochè per paura non ci ponessimo a fuggire: e secondo quel che ci riferirono i corridori, tosto che ci viddero s'accennavano l'un l'altro che si dovesse star cheti, perchè potessimo appressarci. E subito che i corridori se gli ritrovarono vicini, volendo tornar adietro per darci aviso della cosa, cominciarono a tirargli delle frezze, e perciò, non potendo ritornar adietro senza dar in essi, assaltati posero mano all'arme, e fu cagione che ne scampassero assai, non si potendo trovar con meco tutta la gente da piè per poter dar in essi. E cosí stando viddi duoi squadroni de' nimici dai lati della strada, uno che parea di piú gente che quella dello squadrone contra il qual mi drizzai io, e tutti duoi aveano assaltato il riveditore e Ognate nell'uscir d'un boschetto, dove s'erano messi per assaltarci alle spalle, pensandosi che niun di noi dovesse scampar dalle lor mani. Io feci loro intendere che si rivoltassero contra di loro e diedi nel mezzo, ma i nemici già s'erano messi contra di me, con tanto ardire come se fussero stati Spagnuoli assuefatti tutto il tempo della vita loro alla guerra, sapendo cosí ben schifare i colpi delle lancie e scostarsi dagli urti dei cavalli come soldati accostumati in quello esercizio: e passando i nostri cavalli, subito poneano le frezze e gli archi contra i cavalli o i cavalieri. Durò il combatter due ore, che sempre andammo mescolati fra loro, i quali aveano buone arme: archi, frezze e rotelle di tartaruche assai grande, e lancie e mazze; e ancora che le lor rotelle fusser molto forti, non perciò mancarono quel giorno braccia da passarle con le lancie, insieme con chi le portavano. Avevano certe altre rotelle alcuni d'essi d'un cuoio che pareva di vacca, pensiamo che sia di danta, si fece una mortalità grande di loro, perchè alcuni Indiani che furono prigioni riferirono che del squadrone che venne contra di me innanzi ne erano pochi scampati, e degli altri duoi similmente ne rimasero pochi, e piú se ne sarebbono uccisi, se non che si ripararono in certi boschetti. I piú scelti e i piú valenti di tutta la provincia vi morirono, insieme con molti loro signori. Erano benissimo adobbati di vestimenti e di pennacchi molto leggiadri, con carcassi di frezze di bel lavoro, ancora che non ci si vedesser l'oro e l'argento che diceano, e affermavano che non ci è niun quasi di loro che stia senza quelle cinte. Essendo cosí a combatter con essi, venne a darci sopra uno squadrone di piú di mille Indiani nelle bagaglie che erano già da questa parte del fiume, e come uscirono quei da cavallo contra di loro, si gettarono nel fiume uccidendone alcuni. E in vero sempre si pensarono, come ho detto, che non ne scampasse un vivo di noi, cosí ben aveano ordinato l'assalto. Io segui' poi le reliquie dei nemici posti in rotta una lega, e tornai a raccogliere la mia gente e gl'Indiani amici, per dar grazie a Dio della vittoria che ci avea concessa lo Spirito Santo, per esser suo il conquistamento, in pagamento del picciolo servigio che quel giorno gli avevamo fatto.

Del danno qual patí Nunno nella gente e ne' cavalli combattendo contra gl'Indiani. Come, doppo l'aver ringraziato Dio della vittoria, si parte e perviene ad una terra detta Sila, e d'indi al fiume della Trinità, e poi alla terra d'Omitlan, capo della provincia di Mecuacan: descrizione e fertilità di quel paese. Relazione della provincia d'Atztatlan e del regno delle Amazone.

Non fu questa vittoria cosí franca per noi che non restassino dal canto nostro feriti cinquanta cavalli, dei quali ne son morti sei, penso ben per non esser sofficientemente medicati, e a me ne toccaron duoi: e faccio sapere a V.M. che vale un cavallo quattrocento pesi di mine e piú, e per questa cagione faccio menzione d'essi. Feriron l'alcayldo nella faccia d'un mal colpo di frezza, il capitan Ognate in un fianco, che gli entrò il ferro assai dentro, e il capitan della mia guardia rimase ferito in una spalla, e al capitan dell'artiglieria fu passato un braccio, e ad un servitore toccò una frezzata nel viso, e uno lo colse nell'inguinaglia giungendo fin alla camisa, ad altri furon passate le mani e ad uno una gamba con una lancia, e agli altri non mancaron frezzate ancora che non ricevessero danno. Degl'Indiani nostri amici moriron qualche dieci o dodeci, e alcuni d'essi di lanciate uscite di mano di cristiani per non conoscergli, e molti altri di loro furon feriti, e fra gli altri Tapia, Indiano signor di Messico, fu ferito nella bocca dello stomaco d'una frezza. Ma è piaciuto a Dio che si sieno tutti risanati, quantunche si temesse molto d'alcuna erba velenosa, perciochè in terra avevamo veduta un'erba che si assimigliava ad una del nostro paese di Messico velenosa: e in vero si prese dei feriti una diligente cura, prima che s'attendesse a far altro.
Dopo essendo giunti ad un luogo che è posto vicino al fiume, quivi feci medicargli, e il giorno seguente si fece una processione con un Te Deum laudamus, rendendo grazie a Dio per la vittoria e la grazia che ci avea fatta in virtú della M.V., che in vero io la tengo per cosí grande, secondo il mio poco merito e per quel che dicon tutti, che mai viddero gente indiana affrontar i nostri cavalli senza esser prima essa affrontata, come fecero costoro.
Passata la Pasqua determinai di venir ad un luogo che si chiama Sila, due leghe lontano de lí, dove si diceva che vi era gente di nemici, ma non ve la trovai, ma sí bene vi vennero alcuni in atto di pace a portarmi vettovaglia. Il giorno seguente venni a passar un altro gran fiume, il quale nominai il fiume della Trinità, e porre il campo qui dove sto ora, che si chiama Omitlan, capo di tutta questa provincia, per aspettarvi la gente che venia da Messico, e anco acciochè le mie genti e li cavalli si riposassero e medicassero; dove sempre son venuti alcuni paesani a portarmi vettovaglia, di che è abondantissimo tutto questo paese, che fa tre volte l'anno il maiz e i frutti, e ha molto pesce, vicino dieci leghe dal mare. La terra è calida fuor di modo, e i fiumi son pieni di caimani, che son certe lagarti d'acqua, e vi son molti scorpioni, che sono velenosi. Da questo luogo mandai alcuni cavalli a Topique a metter la gente che aspettavo, e il sabbato, la cui festa celebrammo del Corpo de Cristo, con molta pioggia ancora che l'ordinassimo molto bene, e tanto quanto si fosse potuto far nella città di Messico, vennero quei ch'io aspettavo. Quivi si è fatta una buonissima chiesa intitolata dello Spirito Santo, e piantatevi due croce, l'una innanzi d'essa e l'altra al fiume. Mi ho da partire con l'aiuto di Dio fra quattro o cinque giorni, ancora che l'acque cominciano a farsi grande e venghino i fiumi gonfii da mare a mare, dove mi sono affogati due Spagnuoli, uno da cavallo e l'altro da piè, e ce ne son molti per queste provincie. Me n'anderò nella provincia di Aztatlan, che intendo esser molto grande ed esservi molta gente che mi aspettano con la guerra, che è longe di qui tre giornate.
Di qua mediante la sua grazia me n'anderò a ritrovar l'Amazone, che intendo esser lontane a dieci giornate. Alcuni mi dicono che abitano dentro il mare, e altri che stanno in una parte d'un braccio di mare, e che sono ricche e son tenute dagli abitatori del paese per dee, e son piú bianche che queste altre donne; portano archi, frezze e rotelle. Hanno commerzio in un certo tempo dell'anno con gli uomini lor vicini, e quel che nasce di loro, se è maschio dicono che l'uccidono, e riserbano le donne; hanno molte terre e grandi. Prima che s'arrivi ad esse, di quivi mediante la volontà di Dio entrarò dentro la terra verso il mare di Tramontana, e altri manderò per la costa del mar del Sur di mezzodí, a scoprir quel che ci fosse di piú, donde darò aviso a V.M., la qual supplico con quella umiltà che vasallo e servo deve a suo signore che riceva questi piccioli servigi per tali, poichè si fanno con ogni fedel e sincerità d'animo, la quale mai mancherà in me fino alla morte. E cosí creda che tale sono state l'opere mie in tutto il tempo che sono stato nella Nuova Spagna e Panuco, e pareggiandole con quelle di quei che han voluto informare, per lor passioni e interessi, troverà che son molto limpide e degne della grazia che V.M. mi farà; e perchè non fa a proposito che in ciò dica piú in questa relazione, lo diffinirò da dirlo in un'altra lettera che scrivo a V.M., la qual supplico a volerla leggere senza volerlo udir per relazione, con tutto il rimanente che sempre scriverò.
Da Omitlan, provincia di Mecuacan della Maggior Spagna, a' otto di luglio del MDXXX.



Relazione dello scoprimento di Francesco di Ulloa

Discorso sopra la relazione di Francesco Ulloa.


Giunto il signor Fernando Cortese in Spagna, come è sopra detto, si maritò con la signora Gioanna di Zunica, figliuola del conte di Aguillara don Carlo Arellano, e aveva molti fratelli, molto favoriti dell'imperadore. Questo parentado nobilitò molto il signor Fernando. Donò alla sposa cinque smeraldi, fra molti altri che l'aveva, quali furon stimati centomila ducati, e perchè questi pezzi furono i piú nobili che sieno stati portati di quelle Indie in Spagna, e però dirò la forma di essi, secondo che raccontano coloro che gli viddono in potere della detta signora: uno d'essi era intagliato a modo d'una rosa con le foglie; l'altro come un cornetto; il terzo in forma di pesce con occhi d'oro, opera tutta d'Indiani molto maravigliosa; la quarta era una campanella con una perla grossa per batocchio; la quinta era una tazzetta tutta di smeraldo col piede d'oro, con quattro catenelle per alzarla, attaccate ad una perla grossa per bottone: per questo sol pezzo, che era il piú grande e il piú bello, alcuni Genovesi gli volsero dare quarantamila ducati, sperando di venderlo al gran Turco per molto maggior prezzo. Queste furon le gioie che donò alla signora Gioanna di Zunica, la quale menò seco al Messico, dove giunto, non pensò di fare altro che andare a discoprire per il mar del Sur le specierie, e fece fare molte navi nel luogo detto Acapulco. E la prima armata che egli fece fu del 1532, e il giorno del Corpo di Cristo fece uscire di detto porto verso ponente due navi, capitano Diego Urtado di Mendozza, suo germano, l'una delle quali si chiamava S. Michele e l'altra S. Marco. Prese il viaggio verso ponente ed entrò nel porto di Xalisco per far acqua, e Nunno di Gusman, che allora governava quel paese, come è detto di sopra, mandò gente a proibirglielo, perchè era nemico del Cortese. Passò avanti forse dugento leghe, costeggiando la terra meglio che poté, e in questo viaggio si sollevorono molti della sua compagnia, i quali fece prendere e mettere in un navilio e mandarli alla Nuova Spagna; con l'altra nave seguí il suo viaggio, ma non fece cosa che sia da contare, ancora che navicasse e stesse molto tempo che di lui non si sapesse cosa alcuna. Mandò la seconda volta due altre navi, e capitano Diego Bezera di Mendozza, i quali similmente non fecero cosa alcuna, ma furono quasi tutti morti dagl'Indiani nell'isola di S. Tomaso, quale è in gradi 20 sopra l'equinoziale, nel fiume detto Vermiglio, come si vedrà: e questo fu dell'anno 1532. Poi dell'anno 1539 armò tre altre navi, capitano Francesco Ulloa, come per relazione che qui sotto sarà scritto si vedrà. Spese per quel che fu detto, per queste armate e discoprimenti, al conto che lui dava piú di 200000 ducati, perchè mandò piú gente di quelle che al principio si pensò.


Relazione dello scoprimento che nel nome di Dio va a far l'armata dell'illustrissimo Fernando Cortese, marchese di Valle, con tre navi; chiamata l'una Santa Agata, di grandezza di dugentoquaranta botte, l'altra la Trinità, di grandezza di settanta, e la terza di San Tomaso, di quaranta; della quale armata fu capitano il molto magnifico cavaliero Francesco di Ulloa, abitator della città di Merida.


Francesco Ulloa, capitano del Cortese, con l'armata parte del porto di Capulco e va a discoprire terra incognita, passa la costa di Cacatala e Motino, per fortuna scorre a Guaiavale, nella provincia di Culiacano. Si ferma nel porto di Santa Croce, ove lungo la sua costa scopre tre isolette, e doppo tre giornate il fiume di San Pietro e Paolo, e non molto distante duoi fiumi maggiori quello di Guadalchivir di Siviglia, con la loro origine.

Primieramente noi c'imbarcammo nel porto del Capulco agli 8 di luglio dell'anno 1539, invocando Iddio onnipotente perchè ci avesse a guidar con la sua santa mano in parte donde fusse servito e inalzata la sua fede santa, e ce n'andammo camminando dal detto porto per la costa Cacatala e Motino, la qual è aerosa e dilettevole per i molti alberi che ci sono e fiumi che ci passano, di che molte volte rendevamo grazie a Dio che l'avea fatta. Cosí navigando pervenimmo al porto di S. Giacomo, nella provincia di Colina, ma, prima che vi arrivassimo, da una burrasca di vento che ci sopragiunse ci si ruppe l'albero della nave di S. Agata, onde cosí senza esso ci bisognò andarcene fin al porto. Tardammo dal porto di Capulco fin a questo di Colina 20 giorni. Quivi ce ne stemmo a rifar l'albero, pigliando certa vettovaglia, acqua e legna, 27 dí, e uscimmo del detto porto a' 23 d'agosto; e navigando all'incontro dell'isole di Xalisco, a' 27 del detto mese o a' 28 fummo assaltati da una tempesta molto gagliarda, per la quale pensammo di aver a perire, e andammo sbattuti e corremmo fina al Guaiavale, che è nella provincia di Culiacano. Questa fortuna ci fece perdere la nave di S. Tomaso, e per averla smarrita arrivammo al porto di Santa Croce, perchè, mentre che eravamo cosí sbattuti dalla tempesta, il pilotto d'essa nave ci avea detto che la sentiva sdrucire e che di già vi entrava molta acqua e tanta che s'annegava, onde per rimediarla e per poter riunirci insieme in porto conosciuto, se per sorte la tempesta ci avesse separati, come ci separò, gli avevamo detto che si ritirasse al porto di S. Croce, dove avremmo dato rimedio al fatto loro e nostro.
In questo luogo adunque arrivati tutti, vi dimorammo 5 dí e pigliammo acqua senza che mai comparisse questa nave nostra smarrita, onde il capitano prese risoluzione ch'avessimo da seguitar il nostro viaggio, e perciò demmo vela a' 12 di settembre, e navigando vedemmo lungo la costa di detto porto tre isole, delle quali il capitano non volse far conto, parendogli che in niuna d'esse potesse esser cosa buona: quest'isole non mostravano d'esser grandi, però ordinò a' maestri e pilotti che seguissero il cammino e non si perdesse tempo senza utilità. cosí navigando in due giornate e mezza arrivammo al fiume di S. Pietro e di S. Paolo, trovando prima che vi entrassimo una isoletta sopra esso fiume, distante 4 o 5 miglia da terra; nei lati di questo fiume si vedevano gentile e vaghe pianure grande, piene di molti alberi verdi e molto dilettevoli, e piú dentro in terra si vedeano altissime montagne piene di boschi e dilettevole molto a' risguardanti. Corremmo da questo fiume, navigando sempre la costa, fina a 15 leghe, nel qual cammino trovammo due altri fiumi, al parer nostro cosí grandi o maggiori del fiume di Siviglia. Tutta la costa per questi fiumi è piana come la passata, con molti boschi, e similmente dentro in terra vi si scorgeano gran montagne coperte di boschi e belle a vedere, e al basso nella pianura si comprendevano lagumi d'acqua. Da questi fiumi navigammo fin a 18 leghe, e trovammo pianure molto amene, e certe lagune grande, le cui entrate e uscite andavano al mare. Quivi parse al capitano di voler sapere che lagune erano quelle, e per veder se quivi fusse alcun porto, dove potesser surger le navi o pigliarci alcun riparo se qualche fortuna ci sopragiungesse, e comandò che si gettasse un battello in mare con un patrone in compagnia di 5 o 6 uomini che andasser a vederle, tastando il fondo per veder quanto ce n'era: i quali v'andarono e trovarono la costa molto bassa, e cosí le bocche delle lagune, onde non se ne fece conto, non già perchè avesse la terra cattiva disposizione, ma per esser cosí bassa. Quivi la notte vedemmo alla riva 10 o 12 Indiani con fuochi. Questi fiumi sopradetti son distanti l'un dall'altro due leghe, poco piú o meno, e come ho detto sono grandi, e nell'ultimo montammo su le gabbie e vedemmo lagumi assai, e fra gli altri un grandissimo, e di questo gran lagume si presumea che nascessero come dagli altri ancora questi due fiumi, perchè vedemmo il cammino d'essi ciascuno per la sua strada, pieni di molti boschi e molto segnalati. Si conoscea il corso dell'acque di questi fiumi dentro in mare 3 leghe, e nell'ultimo d'essi fiumi v'erano molti pali piccioli per segno d'essi. La costa è piana e arenosa, ed è paese molto dilettevole.


Navigano per la costa de' duoi fiumi maggiori di Gualdachivir, scopreno tre bocche di lacune con paese dilettevole, giungono a capo Rosso, e prendono la possessione di quelli stati per sua Maestà. Narrazione de' belli porti che sono in quelle costiere, e delle molte isole che si veggono avanti che si gionga al capo delle Piaghe

Questo giorno ce n'andammo camminando per quella costa fin a 16 leghe, e nel mezo di questo viaggio si fa un seno di 4 o 5 leghe molto bello, con alcuni argini dentro, di che pigliammo noi gran piacere in mirarlo. La notte che seguí surgemmo in 20 braccia e l'altro giorno seguimmo il nostro viaggio alla via di tramontana, ed essendo camminati 3 o 4 leghe, vedemmo tre bocche di lagune che entravano tutte dentro fra terra, dove si fanno a guisa di stagni. Surgemmo noi una lega lungi da queste bocche in sei braccia per veder quel che erano, e il batello v'andò con alcuni per vedere se vi fusse stata entrata per le navi, perchè a mezza lega della terra non avea il mare fondo piú di un braccio o due. Quivi furono veduti da 7 o otto Indiani. Vi sono erbe fresche, ancora che differente da quelle della Nuova Spagna; il paese è piano, e dentro da lungi vi si scorgono montagne grandi e picciole che continuano in lungo tratto, molto belle e vaghe da vedere. Il giorno che venne facemmo il nostro cammino sempre a vista della costa piana verso il vento maestrale, per dieci o quindeci braccia di fondo, e, avendo camminato ben sei leghe, trovammo dentro della terra alla riva uno seno di qualche cinque leghe, dal quale tornava ad uscir la costa verso maestrale: e potemmo camminar questo giorno da 16 leghe. Tutta quella costa è piana e non cosí aggradevole come la passata; vi sono alcuni monticelli, ma non molti alti, come avevamo trovato per innanzi. Cosí navigammo tutta la notte per la via di maestro, e fino al mezzodí che venne poi, che trovammo sopra un capo d'arena bianca, che, per l'altezza che si prese quel dí, eravamo in 29 gradi e tre quarti. Questo capo fu da noi nominato capo Rosso. Tutta la costa è piana e d'arena bella e netta, e dentro in terra si vedeano alcuni pochi alberi non molto grandi, e alcuni monti e selve lunge 3 o 4 leghe da questo capo; e si vidde quivi una bocca d'un fiume, il quale, per quel che si potea scorgere, faceva certi laguni dentro in terra: dalla bocca d'essa fino ad una lega in mare parea che fusse molto basso, perchè rompea molto l'acqua marina. Quivi vedemmo in terra tre over quattro fiumi.
In questo modo ce n'andammo navigando al nostro viaggio per la via di tramontana, e, per non aver buon tempo, surgemmo la notte in un gran porto che quivi si faceva, dove vedemmo esser alla riva alcune pianure, e dentro in terra alcune montagne non molto alte. E continuando il nostro viaggio alla via di tramontana, tre leghe di questo porto trovammo un'isola di giro di qualche una lega dalla entrata d'esso porto, e seguendo piú oltre trovammo un porto ch'ha due bocche di mare, per una delle quali entrammo, che fu quella di tramontana, che può aver da 10 o 12 braccia di fondo, e cosí andava sminuendo fino a 5, dove surgemmo in certa concavità che fa il mare: cosa maravigliosa da vedere, perchè si faceano dentro la terra tante entrate e bocche d'acque e porti che tutti ci stupimmo, e sono quei porti fatti da natura i migliori che si potessero vedere al mondo, dove si trovan di molti pesci. Quivi surgemmo, e uscí il capitano in terra e prese la possessione, facendo quelle diligenzie e cerimonie che si ricercano. Si trovavano quivi peschiere fatte manualmente dagl'Indiani, e alcune picciole capanne, ove eran pezzi di pignatte cosí sottili come quelle di Castiglia. Quivi sopra un monticello fu piantata una croce per ordine del capitano, e la pose Francesco Prezzato. Vedeasi in questo luogo la terra piena di molta erba fresca e verde, quantunque differente da quella della Nuova Spagna, e dentro in terra pareva paese di grosse montagne e molto verdeggianti: a tutti noi ci parse giocondo e dilettevole questo paese, per esser cosí verde e bello, e considerammo che dentro in terra fosse molto popolato.
Da questo porto uscimmo al nostro cammino di maestro con buon tempo, e cominciammo a trovare vicino alla lingua dell'acqua del mare altissime montagne machiate di bianco, e in esse vedemmo molti uccelli, ch'aveano i nidi in certi buchi di quei sassi: e caminammo 10 leghe fino alla notte, nella quale sempre fummo in calma. Il dí seguente ripigliammo la nostra via con buon tempo verso maestro, e da quel dí in poi cominciammo a vedere per quest'altra via del porto di S. Croce isole o terre alte, di che noi avemmo gran piacere. E cosí navigando ci incontrammo in un'isola di grandezza di fino due leghe, e dall'altra parte sempre scoprendosi il paese di terra ferma e isole, caminammo fino a sera 15 leghe, sempre trovando alla costa del mare montagne altissime spogliate e senza alcuna erba, sempre vedendo dall'altra banda del porto piú chiara la terra, onde furono tra noi varii giudicii e pareri che questo porto fusse terra ferma, e che si venisse a congiungere con la terra ferma che tenevamo per larghezza della Nuova Spagna; altri dicevano di no, ma che erano solamente isole che erano da quella banda. E in questo modo seguimmo il nostro viaggio, avendo terra dall'una parte e l'altra, e tanta che ci faceva maravigliare tutti. Potemmo navigar questo dí qualche quindeci leghe, e ponemmo nome a questo capo il capo delle Piaghe.


Dello stretto scoperto nella costa del capo delle Piaghe, e del vago paese che si ritrova avanti che si pervenga agli scogli detti Diamanti. Della maravigliosa bianchezza di quel mare, col suo flusso e reflusso, e delle molte isole e terre che sono avanti il porto Santa Croce.

Il dí che venne poi caminammo fin alla notte con buon tempo, che fin a sera potemmo far viaggio di 20 leghe; tutta quella costa lungo la terra è piena di picciole montagne senza erba e senza alberi, e quella notte surgemmo in 20 braccia. L'altro dí poi facemmo il nostro viaggio, cominciando a navigare innanzi all'apparir del dí alla via di maestro, e venimmo a veder a mezzo d'uno stretto e bocca di qualche 12 leghe da una terra all'altra, il quale stretto aveva nel mezzo due isole, lontane 4 leghe l'una dall'altra: e quivi vedeasi la terra piana con alcune montagne, e pareva che per la pianura venisse una rottura di acqua, come una fiumana. Questo stretto, per quel che si potea considerare, era profondo molto, perchè non ci sapemmo trovar fondo, e quivi vedemmo terra molto longa d'un capo all'altro, e dal capo del porto di Santa Croce era la terra piú alta, di montagne molto spogliate. Seguimmo il dí vegnente il nostro cammino verso settentrione, e potemmo andar qualche 15 leghe, e trovammo in mezzo del cammino un circuito o seno di sei leghe adentro in terra, con molte calette o porticelli. E il dí che seguí poi, facendo la continuazione della nostra via, camminammo qualche dieci leghe, e la costa di quella giornata era di montagne molto alte, tutte spogliate e pellate, senza niuno albero. Son rasente la costa gran fondi. E in quella notte ci bisognò fermarci per il vento ch'aveamo contrario, ma il dí che venne poi, prima che venisse il giorno, facemmo vela tuttavia per la costa al maestro fin alla notte, e potemmo camminare qualche 15 leghe: in tutta quella costa si vedevano assai buone montagne dentro in terra, e molte pianure e colli con alcuni pochi alberi, e la riva del mare era tutta arenosa. In mezzo di questo viaggio trovammo dentro in mare certi piccioli scogli lontani da terra 4 leghe, dove fa la detta terra una gran ponta dentro in mare, e quivi ci riposammo quel che ci era restato della notte, con una pioggia che ci dette sopra assai grande.
Seguimmo il viaggio nostro poi il dí che venne, e camminammo fin a notte per un giro o volta qualche 8 o 9 leghe, e vedemmo dentro in terra poche montagne e senz'albero alcuno, ma sí ben scorgendo di continuo chiaramente il sole, che per quel che si potea vedere erano molto grandi, dalla banda del porto di Santa Croce. Quivi ci fermammo la notte, perchè vi trovammo pochissimo fondo, e vi vedemmo il mare molto bianco e quasi a guisa di calce, in modo che ci fece maravigliar tutti. Il dí che venne ripigliammo il nostro cammino longo la costa alla via di maestro, e camminammo 8 leghe, e vedemmo altra terra che era esposta al maestro e piena d'alte montagne. Seguendo tuttavia questo cammino, andavamo attenti per veder s'era uscita tra l'una terra e l'altra, perchè in mezo non vedemmo terra, e cosí andando sempre trovammo manco fondo, e il mar era torbido, nero e molto fangoso, e venimmo a dar in fondo di cinque braccia. E veduto questo, ci risolvemmo d'appressarci alla terra dall'altra parte che avevamo veduta, e quivi anco trovammo cosí poco fondo e forse meno, onde surgemmo la notte in fondo di cinque braccia, e sentivamo correre il mare con tanto empito verso la terra che era cosa di grande ammirazione, e con la medesima furia ritornava col reflusso adietro, nel qual tempo ci trovammo in fondo di undeci braccia: ed era il flusso e reflusso di sei in sei ore.
Il giorno seguente salirono il capitano e il pilotto sopra le gabbie, e vidder tutta la terra piena d'arena che si faceva in circuito e andava a congiungersi con l'altra terra, e cosí bassa che, essendo una lega lontani da essa, non la potevamo veder bene, e pareva che facesse dentro una entrata di bocche di lagune, per donde entrava e usciva il mare. Si fece fra noi varii giudicii, e fu pensato che quel corrente entrasse dentro di quelle lagune, e che ancora poteva esser che lo causasse qualche fiumana grande che vi fosse. E veduto che non avea uscita, e che non si scorgeva che fosse quel paese abitato, andò il capitano a prendere la possessione d'esso con certi de' nostri. Questo medesimo dí, con il reflusso del mare ci venimmo a ritirar in fuori dall'altra costa dalla banda della Nuova Spagna, ancora che sempre avessimo e vista la terra ferma e altre isole da mano stanca dalla banda del porto di Santa Croce, perchè vi erano tante isole e terre, a quel che si potea scorgere, che era cosa di gran maraviglia, che dal detto porto e dal parizo di Culiacan quasi sempre avemmo terra da una banda e dall'altra, e tanto che giudico che, se cosí continuano dentro alquanto, ci è paese da conquistar per mille anni. Quel giorno avemmo il vento contrario, e surgemmo fin che crebbe la marea, che fu dopo il mezzodí, e navigammo similmente col vento contrario fin alla mezzanotte, che surgemmo. Il dí che seguí poi partimmo, pigliando la via verso la costa al garbino fin alla notte con poco vento, e vedemmo dentro in terra montagne alte con alcune aperture: e potemmo navigar qualche tre leghe, e tutta la seguente notte fummo in calma. E l'altro dí continuammo il viaggio poco tempo, perchè non navigammo piú di cinque leghe, e tutta notte stemmo in calma, e vedemmo la terra piena di molte montagne spogliate e alte, e alla mano stanca vedemmo paese piano, e di notte vi vedemmo alcuni fuoghi.


Discendono sopra un'isola per discoprirla, e vi vedono molti fuochi quali uscivano di alcune montagne, e molti lupi marini; vi prendono un Indiano, né possono il suo linguaggio intendere. Scorrendo poi un'altra ne discoprono, e per sua Maestà il possesso ne prendono, e la chiamano il porto di Santo Andrea.

Seguitando poi l'altro dí il nostro cammino, vedemmo che si faceva un gran porto con una isola dentro in mare, a parte da terra ferma qualche un tiro di balestra, e in questa isola e in terra ferma furon veduti molti fumi, al giudicio di tutti. Onde parve al capitano che fosse bene che smontassimo in terra per chiarirci di quel che erano questi fumi e fuoghi, in un battello dieci o dodeci di noi con il capitano, e arrivati alla terra e isola trovammo che i fumi erano di certe montagne e rotture di terra brucciata, della quale si levava in aere un polverino che ascendeva fino a mezzo del cammino tra il cielo e la terra, tanto che non pareva al giudicio di ogni uno se non che di ciascun fumo si brucciassero venti cariche di legna, di che rimanemmo tutti molto stupiti. Era in questa isola una tanta abondanzia di lupi marini che era cosa di gran meraviglia. Quivi ci fermammo quel giorno, uccidendo gran numero di questi lupi, co' quali avemmo qualche fatica, perchè eran tanti e s'aiutavano cosí bene che era cosa di stupore, perchè ci avenne che, essendo occupati in ammazzarne alcuni con bastoni, si mettevano insieme venti o trenta di loro che, alzandosi con i piedi dinanzi, ci venivano affrontare in un drapello, e buttaron due o tre de' nostri compagni in terra: onde lasciati quei che avevano tra le mani, essi con gli altri ci si fuggivano entrando in mare, ancora che con tutto ciò ne uccidemmo molti, i quali erano cosí grassi che era maraviglia. Aprendone alcuni per avere il figato, trovammo nel corpo alcuni sassetti neri, che ne restammo molto maravigliati.
L'altro giorno ce ne stemmo qui sorti per non aver buon tempo per navigare, e per questa cagione determinò il capitano d'uscir in terra con altri nove o dieci compagni, per vedere se vi era gente o segno che ve ne fosse. E trovaron in terra ferma sette o otto Indiani come i Chichimechi, che andavano a pescare e avevano una zattera di canne, i quali tosto che ci viddero saltare a terra si posero a fuggire, ma, seguitati da' nostri, al fine ne fu preso uno, che era d'un linguaggio molto strano, che non si poté mai intendere. Il suo vestire non era cosa veruna, perchè era ignudo; portavano costoro l'acqua in utri di pelle di bestie salvatiche, pescavano con ami d'osso: gli trovammo quantità di quei pesci, de' quali noi gliene togliemmo tre o quattro dozzine. L'Indiano prigione tosto che si vidde nelle nostre mani non facea se non piagnere, ma il capitano lo chiamò e l'accarezzò molto, dandogli certi paternostri con una beretta e certi ami de' nostri, poi lo lasciò andare; e parve che tornato a' suoi dovesse riferire come da noi non gli era stato fatto male veruno, mostrando loro quel che gli era stato donato, onde essi deliberarono di venire verso noi alla barca: ma per esser già notte e trovarsi le navi molto apparate, non ci curammo d'aspettargli, massimamente parendoci il passo molto cattivo e di non molto buona disposizione. Questo paese ha nella costa del mare alte montagne pelate, con alcuna erba a guisa delle nostre scope in alcuni luoghi, overo come selve d'erbe marine.
L'altro dí andammo vicini alla costa da questa mano con pochissimo vento e quasi come calma, né camminammo piú di cinque leghe, e tutta la notte che venne stemmo in calma, e furono da noi veduti in terra cinque o sei fuochi: la terra è alta e d'altissime montagne senza erba, con alcune grotte. E l'altro giorno similmente con parte della notte che seguí ci ritrovammo in calma, e il dí che venne poi seguimmo il viaggio per la medesima costa ed entrammo per entro una isola, grande e piena d'altissime montagne, e la terra ferma, dove vedemmo un porto molto grande in terra ferma, nel quale andammo a surgere per veder ciò che era. E surti, uscí il capitano quel dí con alcuni di noi a terra per veder se ci fosse gente alcuna e acqua, e trovammo certe capanette coperte d'erba secca con certi piccioli bastoni attraversati, e andammo un pezzo per il paese, che era molto arido, per certi sentiretti piccioli e molti stretti, e trovammo un ruscello o picciolo fossato, ma secco e senza acqua alcuna. E quivi prese il capitano la possessione per il marchese da Valle in nome di Vostra Maestà, e doppo ce ne ritornammo alla nave, e la notte vedemmo in terra quattro o cinque fuochi. Il giorno vegnente determinò il capitano per aver veduti questi fuochi uscire in terra, e ce ne andammo con due barche e quindeci o venti di noi a certe piaggie incurvate e lunghe due leghe dal luogo dove stavano le navi, e dove avevamo veduti i fuochi, e trovammo due Indiani di grandissima statura, tanto che ci dettono gran maraviglia: portavano i lor archi in mano e le frezze, i quali, tosto che ci viddono saltar in terra, fuggirono, e gli seguimmo fino dove erano le stanzie e alloggiamenti loro, che erano certe cappanne d'erba e frasche, e vi trovammo pedate di molte persone picciole e grande, né avevano niuna sorte di vettovaglia se non pesce polpi che vi trovammo. La disposizione del paese pareva cattiva alla costa del mare, perciochè non vi si vedevano alberi né erba verde; vi erano alcuni piccioli sentieri mal usati, e lungo la costa del mare si vedevano molte pedate d'adibes, lepri e di conigli; si vedeano vicino a terra in certe isolette alcuni lupi marini. Chiamasi questo porto il porto di Santo Andrea.


Scuoprono un'isola montuosa molto grande, e appresso alcune altre, con paese vago, verde e dilettevole. Compariscono certi Indiani in canove di canne, con voce come fiaminga, co' quali non possono avere commerzio.

Il giorno vegnente ripigliammo il nostro viaggio fra la terra ferma e una isola, che credemo che abbia di circuito piú di cento e ottanta leghe, vicini a terra quando una lega e quando due. Il paese di questa isola è di certe montagne non molto alte con alcune grotte, e, per quanto si potea scorgere alla costa, non mostrava segno che ci fusse pianura di niuna sorte. Quivi da quel giorno cominciammo ad aver paura, considerando che avevamo da ritornar al porto di Santa Croce, perchè si giudicava che da Culiacan fin al detto porto fusse tutta terra ferma, e similmente perchè avevamo la terra ferma sempre dalla mano nostra, e va girando al detto porto; ma molti avevamo opinione e speranza che qui vicino fussimo per trovar alcuna bocca o porta per dove potessimo uscire a quell'altra costa, e quel che succedea lo metteremo in relazione qui sotto. L'altro dí, che fu il giovedí, navigammo con poco buon tempo, che quasi fu calma, e uscimmo da questa isola grande, restandoci sempre la terra ferma alla man dritta, e come dico, molto vicina ad essa; e il giorno seguente navigammo similmente con poco vento, quasi calma, e andammo vicino alla costa per certi porti inarcati e certe punte che facea la terra, che era di buono aspetto, alquanto verde, e mostrava esservi qualche grotta. Questa notte seguente del venerdí camminammo tutti con vento fresco, e nel far del giorno ci ritrovammo tra la terra ferma e una isola alla mano sinistra, che era alquanto grande, per quanto potevamo scorgere; nella terra ferma si faceva uno gran seno, e innanzi si faceva una punta che usciva assai dentro in mare. La terra ferma mostrava esser piú verdeggiante e di miglior disposizione che l'altre lasciate adietro, con molte ripe e montagne non molto alte, ma di bella sorte, terra per quanto si potea considerar piacevole e vistosa, che tutti desideravamo uscir in essa e caminarla due e tre giornate, per vedere e sentire se era abitata; dentro vedemmo nella costa di quel seno duoi fuochi. La notte seguente, che fu sabbato a notte, la camminammo tutta con vento prospero e fresco, e tanto che si trasse la bonetta alla vela maggiore, e in questo modo andammo fino allo schiarar del giorno, la domenica a' dodeci dí d'ottobre, che ci trovammo circondati da un capo all'altro di terra: alla man dritta della terra ferma, che cingea per davanti e di dietro, e alla mano stanca una isola di qualche una lega e mezza, e in mezzo della terra e dell'isola in mare era una isolettina picciola, e tra la terra ferma e l'isola eran due bocche, per dove si mostrava l'uscita donde noi poi uscimmo. Questa terra ferma era assai piú fresca e verde che l'altra che avevamo lasciata adietro, e con alcune pianure e punte di montagna di vaga veduta, piene similmente d'erbe verde. Quivi vedemmo tutta la notte duoi o tre luoghi assai grandi, e vedemmo sul far del giorno una canova, o battello di canne, che usciva di terra da una rottura e vogando contra di noi, e noi stemmo cheti finchè arrivò vicino a quei che erano dentro, e cominciarono a parlar in suo linguaggio, che niuno gl'intendeva, con una voce come di Fiammenghi: ed essendo chiamato si ritornò con gran prestezza in terra, e noi restammo con gran pena, per non esser il nostro battello andatogli dietro.
Quivi ci avenne una molto strana cosa, e fu che, cosí come questo Indiano ritornò in terra, in certe di queste lor rotture dove era un numero d'altri Indiani, stando cosí a por mente a quella parte, vedemmo uscir cinque canoe che venivano vogando verso di noi, onde ci mettemmo ad aspettar di veder ciò che volevano fare. In tanto si congiunse la nave capitana nostra con noi, che era vicina a terra, perciochè l'avea vedute, e cosí messi insieme demmo fondo, ponendo mente a quel che facevano quelle canoe. In tanto comandò il capitano che si mettesse in punto la nostra barca e s'armasse di remi e gente, per veder se si potesse far sforzo di pigliar qualche uno di loro, per poter aver notizia di loro e per donargli di quelle cosette che si portavano, e massimamente degli ami e paternostri, per domesticarsegli amici. Gl'Indiani con le loro cinque canoe s'approssimarono ad un tiro o due di pietra a noi, e quivi ci cominciarono a parlar molto forte, con linguaggio molto strano, sempre stando sopraviso per dar con prestezza la volta adietro. Ciò veduto dal capitano, e come non si volevano appressare a noi, anzi s'andavano ritirando, ordinò dalla poppa della nave che entrassero sei marinai, ed egli con essi uscí con la maggior prestezza che si poté alla volta loro. Gl'Indiani si rivoltarono alla volta della terra con tanta prestezza che pareva che volassero con quelle picciole canoe di canne, nondimeno si usò sí gran diligenza che ne fu giunta una e l'investí; ma l'Indiano che v'era dentro, vedutosi già preso, si gettò nell'acqua, e i nostri gli andaron con la barca sopra per prenderlo, ma egli come si vedea in poter loro si gettava col capo sotto la barca e cosí gl'ingannava, poi tornava di sopra, ed essi con i remi e con bastoni gli davan qualche colpo per spaventarlo, ma nulla gli rilevava, che come eran per dargli poi la mano adosso egli di nuovo si gettava sotto, e con le mani e co' piedi si veniva accostando alla terra, e come riusciva in alto chiamava gli altri che stavano in sicuro a por mente, dicendo "Belen" con voce alta. E cosí s'andò travagliandolo e combattendolo presso un'ora, essendo già vicini a terra, e sempre egli andava chiamando gli altri che lo venissero a soccorrere, onde de lí a poco usciron per aiutarlo altre tre canoe, co' loro archi e frezze in mano, gridando in voce alta che uscissimo in terra. Erano questi Indiani grandi di statura e barbati, grassi, ben disposti e di mediocre colore. Questo veduto dal capitano, acciò non gli ferissero di frezze qualcuno de' suoi, si ritornò e subito comandò che si dessero le vele, e tosto ci partimmo.
Quivi ci mancò il vento quel giorno e tornammo a surger nel medesimo luogo, e la capitana s'appartò da terra ferma verso l'isola, e noi che eramo nella nave della Trinità restammo vicini a terra, e prima che apparisse il giorno ci partimmo con vento fresco. E prima che disboccassimo da quella bocca, vedemmo una certa erba assai alta e verde in terra, onde un marinaro e il pilotto montarono sopra la gabbia, e viddero una bocca di fiume che entrava per quella verdura a dar in mare. Per andare la capitana a tutte vele assai lontana da noi, non potemmo dirle di questo fiume, dove avremmo pigliata acqua, della quale avevamo qualche bisogno, e per esser assai buon porto da smontar per prenderla: e però senza averne seguimmo il nostro camino. Il lunedí ci partimmo, come dico, da questo porto come lagume, perchè da tutte le parti eravamo circondati dalla terra, avendo la terra ferma inanzi e di dietro e dalla parte diritta, e dalla stanca l'isola; e uscimmo per quelle bocche già dette, che mostravano uscita al largo del mare. In questo modo navigando venivamo sempre considerando il sito di quel paese, restando consolati tutti in vederlo, perchè sempre piú ci aggradava, vedutolo ognora piú verde e ameno, e l'erba che trovavamo vicino alla riva era vaga e dilettevole, ma non molto alta, che non passava una spanna al parer di tutti. Similmente le montagnuole che noi vedevamo, che erano molte, con assai colline, ci rallegravano molto la vista, massimamente che si giudicava che fra l'una e l'altra vi fussero d'amene valli e grotte.


Scuoprono un seno di mare assai grande, con quattro isolette: ivi prendono la possessione. Navigando e discoprendo varie isole pervengono al porto di Santa Croce, ove non potendo aver cognizione di quelli Indiani, benchè ponessero aguati nel luogo di Griflua, partendo, hanno pericolosa e lunga fortuna, qual cessò poichè viddero santo Ermo.

Nell'uscire di queste bocche cominciammo a trovare un seno con un porto assai grande, circondato di molti monticelli, con selve similmente verdeggianti e d'aggradevol vista. In questo seno e spiaggia erano vicine a terra due isolette, l'una delle quali era a guisa d'una tavola da mensa, di grandezza d'una mezza lega, e l'altra era un colle rotondo, quasi della medesima grandezza. Queste isole ci serviron solo in contentarci la vista, che nel resto la passammo senza fermarci, con poco vento, il lunedí di mattina. Seguimmo tutto quel giorno il nostro viaggio con il medesimo vento debole, e indi a poco ci si mostrò tutto contrario, in modo che fummo costretti di surgere nella punta di questo porto; e nel venir del giorno il martedí facemmo vela, ma poco caminammo tutto il giorno, per esserci similmente il vento contrario, benchè molto debole. La notte seguente stemmo in calma poco innanzi della punta di questo porto, ma da mezzanotte dipoi cominciò il vento a rinfrescarsi, e il mercoledí da mattina ci trovammo sette leghe lungi da quella punta. Questo paese mostrava (come era) piú piano degli altri, con alcuni piccioli colli selvosi, e nell'altra punta, che innanzi si scorgeva, si mostrava esser quel sito piú vago e piú dilettoso degli altri lasciati adietro; nell'ultimo al par della punta erano due picciole isolette. E questo medesimo mercoledí dalle nove ore ci si rinfrescò il vento, e potemmo caminar fino al tardi da sette in otto leghe, e giungemmo all'incontro d'un paese non molto alto, ove si vedevano certe rotture non molto aspre, che ciascuna pareva che avesse un fiume, perchè era la terra molto verde, e con certi alberi assai piú grandi di quei che avevamo trovati per l'adietro. Quivi uscí il capitano con cinque o sei uomini, e presa la possessione saltò in uno di quei fiumi, e su l'arena trovò molte pedate d'Indiani; viddero alle rive del fiume molti alberi fruttiferi, come di cerase e di piccioli pomi, con altre piante bianche; trovarono tre o quattro animali, detti adibes dentro il bosco. Ove quella medesima notte demmo la vela col vento di terra, che avevamo molto fresco, e tanto che ci fece levar il trinchetto, e alle nove ore, venendo il dí sedeci d'ottobre, ci ritrovammo vicino ad una punta di certe montagne alte. Questo giorno, che fu il giovedí, camminammo poco perchè cessò il vento, e la notte ci si rinfrescò, onde nel far del giorno del venerdí ci trovammo innanzi quella punta sei o sette leghe lungi: la terra pareva che fosse montuosa molto, con certe punte acute, né pareano molto erbose, ma alquanto spogliate d'erba. Si vedeano alla mano stanca due isole, l'una di qualche una lega e mezza e l'altra non sí grande, e parea che ci trovassimo vicini al porto di Santa Croce, onde andavamo di mala voglia, perchè avevamo sempre imaginatoci che fussimo per trovar uscita al mar largo da qualche parte di quella terra, e che 'l detto porto fosse la medesima, e che per la detta costa avevamo da ritornare al detto porto di Santa Croce, e che s'era fatto error grande di non voler accertarci del secreto, se era uno stretto o un fiume quel che ci lasciavamo adietro nel medesimo seno. Camminammo tutto il venerdí col vento cosí scarso, con la seguente notte, e il sabbato nel far del giorno ci trovammo fra due punte che fanno un seno, nel quale si vedea per davanti e per poppa quattro o cinque isole grande e piccole. La terra aveva di molti colli ed era montuosa, della quale parte era con erba e parte no; per dentro verso la terra si vedevano piú montagne e colli. E già ci ritrovammo in questo luogo vicini al detto porto di Santa Croce, il quale è tutto terra ferma, eccetto se nel cantone non fa qualche stretto o fiume grande che lo parta, che, per non aver procurato di saperlo, sentivamo non picciol dispiacere tutti che avevamo fatto questo viaggio. Ed è sí lunga questa terra ferma che non lo saprei esprimere, perciochè fin da Capulco sempre avevamo avuto la costa d'essa terra ferma alla mano, finchè ci mettemmo nella gran correntia del mar bianco e rosso, e quivi, come ho detto, non si seppe il secreto di questa correntia, se lo causava o fiume o stretto; e cosí, pensando che era chiusa la costa che avevamo alla mano, ci ritornammo adietro, sempre descendendo per i nostri gradi, finchè ritornammo al detto porto di Santa Croce, trovando per la costa paese ameno e piacevole, e sempre vedendoci fuochi d'Indiani con battelli di canne.
In esso porto di Santa Croce s'era determinato di pigliar acqua dolce, per correre per lungo la costa e saper quel che vi fosse, se Iddio fosse servito. Quivi ci posammo e mangiammo delle prune e pithayas, ed entrammo nel porto di Santa Croce la domenica alli diciotto d'ottobre, e in essa dimorammo otto giorni a pigliar acqua e legna, riposandoci per tutto questo tempo, acciochè la gente ripigliasse forze e si rinfrescasse. Determinò il capitano che si dividessero fra noi certe vesti di taffetà e cappe e saii e una pezza di taffetà, e similmente ordinò che uscissimo in terra per prender un par d'Indiani, perchè parlassero col nostro interprete, e posseder quel linguaggio; onde uscimmo in numero di tredeci compagni la notte fuor delle navi e andammo a poner l'aguato in un luogo che si chiama il pozzo di Grisalva, dove aspettammo fino al mezzogiorno fra certe strade nascose, né mai vedemmo o sentimmo Indiano alcuno, onde ce ne ritornammo alle navi con i duoi cani che avevamo menati con esso noi per poter piú facilmente pigliar l'Indiani. E nel ritornare trovammo in certe carrezze nascosi duoi Indiani, quivi venuti per spiare quel che noi facevamo, ma perciochè noi venivamo insieme con i cani stanchi e senza pensieri, usciron fuori de' carrezzi questi Indiani fuggendo, e noi ci mettemmo a seguitargli, e i cani giamai gli viddero: però, per la spessezza de' cardoni selvatici e delle spine e macchie, e per essere stanchi, non gli potemmo aggiungere giamai. Ci lasciarono certi bastoni molto ben lavorati, che era cosa bella da vedere, considerando come eran ben fatti, col manico e corda da lanciare.
Alli ventinove d'ottobre, che fu il mercoledí, noi demmo le vele a' venti per questo porto di Santa Croce, con vento scarso, e nel venir per il canale dette in secco la nave della Trinità in certe basse: e fu questo a mezzodí, che era il mar basso, e con tutti i remedii non la potemmo trar fuori, onde fummo costretti d'appuntarla e aspettar l'altra marea. E cosí, come poi cominciò a tornar il reflusso, cominciammo a far ogni opera per tirarla e mai potemmo, di che ricevemmo non poco affanno tutti insieme col capitano, perchè ci pensammo di perderla quivi, né lasciammo d'affaticarci con ogni sforzo, operandoci duo battelli e il canape e l'argano. Al fine piacque a Dio che a mezzanotte, che finí d'empire la marea, con lo sforzo grande che facemmo per riaverla la tirammo fuor dell'arena, del che ringraziammo Iddio molto, e stemmo surti tutto quel che ci rimase della notte, aspettando che il giorno ci facesse il lume, per non dare in qualche altro inciampo con qualche altra disgrazia. E comparso il dí ci levammo con vento fresco e ripigliammo il nostro viaggio, drizzando la punta al mare spazioso, per veder se Iddio fosse servito di poterci far sapere quel che vi fosse; ma, o che alla sua gran bontà non piacque, o per i nostri peccati, stemmo dal porto fin all'uscir della punta otto giorni, che non vi potemmo rivoltare per i venti contrarii e pioggie, che furono assai grande, e fulgori e oscurità ogni notte: e crebbero i venti cosí furibondi e gagliardi, che ci faceano tremare tutti e chiamare Iddio in soccorso continuamente. E insieme con ciò portavamo apparecchiate le gomene e l'ancore, e con ogni diligenza il pilotto maggiore comandava che si desse fondo, e in questo modo passavamo i nostri travagli; e altre volte, col veder venire il vento cosí impetuoso, e non essere noi surti in parte sicura, con ogni prestezza faceva levar via l'ancore e seguire il cammino dove ci guidava il vento. E in questa maniera ce ne passammo quelli otto giorni, ritornando adietro di notte quel cammino che avevamo fatto il giorno, e altre volte tornando a camminare di notte quel che avevamo disavanzato il dí, non senza gran desiderio di tutti d'aver a vedere vento che ci portasse innanzi al nostro viaggio, afflitti dai travagli che pativamo di tuoni, fulgori e acqua, di che eravamo tutti bagnati di sopra e di sotto, per le fatiche che facevamo in levare e mettere l'ancore secondo che ci pareva dover essere il bisogno. E una notte di queste, che fece una oscurità grande e tempesta e vento con acqua, per il che pensammo di dover perire, essendo massimamente vicini a terra, pregammo Iddio che si degnasse d'aiutarci e salvarci, senza por mente ai nostri peccati: vedemmo incontanente sopra la gabbia della Trinità una candela, che dava di sé uno splendore e lume che ci rallegrò tutti infinitamente, e tanto che non ci saziavamo di dare grazie a Dio, onde ci confirmammo nell'animo che per sua clemenzia ci avesse da guidare e salvare, e che non avevamo da perire. Sí come avenne, perchè l'altro dí avemmo buon tempo, e tutti i marinari dissero che quella fu la luce di santo Ermo che era apparsa in su la gabbia, e la salutarono con i loro canti e orazioni. Queste pioggie ci colsero tra l'isole di San Giacomo e San Filippo e l'isola delle Perle, all'incontro della terra ferma.


Navigando scuoprono paese dilettevole e per loro giudicio molto abitato, e la costa del mare molto profondo. Vanno a riconoscere l'isola delle Perle, e per correntia una lor nave dall'altre si separa, e con grande allegrezza doppo tre giorni la riveggono; e seguendo il viaggio scuoprono piani grandi, verdi e dilettevoli.

Cominciammo a navigar alli sette di novembre o alli otto lungo la costa, sempre vedendo essa terra molto verdeggiante d'erba dilettevole a vedere, con alcune pianure alla costa, e per adentro molto piacevoli colline di selve e d'alcune valle, in modo che restammo infinitamente sodisfatti e maravigliati della grandezza e bella disposizione di quel paese; e sempre la notte vedevamo fuochi, che mostravano essere paese molto abitato. Continuammo adunque il nostro viaggio fino alli dieci del detto mese di novembre, avendo sempre la costa alla mano del mar grande, e quanto piú ci avanzavamo sempre trovavamo paese piú dilettevole e piú vago, cosí per vederlo verdeggiante, come in mostrare alcune pianure e valloni di fiumi, che discendeano al basso verso la terra dentro di certe montagne e colline di selve grande, ma non molto alte, che si vedeano dentro in terra. Quivi ci ritrovammo cinquantaquattro leghe lontani dalla California, poco piú o poco meno, sempre dalla parte di garbino, vedendo la notte tre o quattro fuochi, per i quali si dimostrava essere il paese abitato e da molta gente, perciochè la grandezza della terra cosí lo mostra: e pensiamo che dentro in terra non può essere che non siano gran città abitate, ancora che in ciò fra noi sieno differenti opinioni. Tutta questa costa è mare profondo, che quasi in cinquantaquattro braccia non trovavamo fondo; nella maggior parte d'essa sono montoni d'arena molto bianca, e mostra parimente che debbe esser costa brava e che vi sia gran reflusso, perchè l'arena ne dà segno, per dieci in dodeci leghe, perchè cosí dicevano i pilotti.
Questo giorno di sabbato ci rinfrescò il tempo e fummo a riconoscere l'isola delle Perle, che è da questa parte del seno, e si vede una rottura profonda, tutta coperta d'arbori e di piú bella vista che dall'altra parte, e ci trovammo dentro il porto di Santa Croce. Dalli X di novembre fin alli XV non navigammo piú di dieci leghe, perciochè avevamo venti contrarii e con grande acque, e insieme con ciò ci avvenne un'altra disgrazia, di che ricevemmo non poca pena, imperochè la nave della Trinità si smarrí da noi, né la vedemmo per tre giorni mai, onde sospettammo che se ne fosse ritornata adietro nella Nuova Spagna o andatasene dispersa; onde avemmo dispiacer infinito di vederci rimasi cosí soli, e sopra tutti che s'attristò fu il capitano, quantunque non restasse d'inanimare noi a dover seguitare il nostro viaggio, dicendo che non dovevamo perciò restare di dar fine all'impresa cominciata di questo cammino, e che quanto manco fussimo stati, piú avremmo meritato e piú saremmo stati stimati. E tutti gli rispondemmo che non dovesse pensare che alcuno di noi si fosse mai perduto d'animo per non volere seguirlo, fintanto ch'egli avesse veduto che con ragione non si dovea proseguire piú quella impresa, e che fussimo stati in pericolo di perderci, però che fino a quell'ora eravamo pronti; ma ben lo persuadevamo che, doppo l'aver veduta la difficultà di potere ire piú innanzi, saria stato bene di ritornar a dar conto del successo all'illustrissimo signore il marchese della Valle. E ciò fatto, ci fece egli un sermone e ragionamento, nel quale ci disse ch'egli non potea credere né men sapeva per qual cagione si fosse la nave della Trinità ritornata nella Nuova Spagna, né meno di sua volontà appartatasi da noi e itasene in altro luogo, e che egli si pensava per ragion naturale che qualche corrente l'avea segregata dalla vista nostra, e che per i tempi contrarii e tempestosi non ci avea potuto arrivare; e che, non ostante questo ch'avevamo fatto per questo viaggio, aveva avuto una instruzione che, se per aventura ci avesse la tempesta separati, il modo che si aveva da tenere per tornarci a riunire insieme era di ritornare adietro a ricercarci otto o dieci leghe, oltra a certe punte che v'erano di mare: però che era bene di andare a ritrovarla adietro. Piacque il parere a tutti, e cosí ritornando per cercarla la vedemmo due leghe lungi da noi, con un venticello fresco, che veniva arrivandoci, di che ricevemmo non poco contento. Riunitici adunque insieme, per quel giorno surgemmo perchè i tempi ci si mostravano molto contrarii, e il capitano riprese coloro della poco diligenza loro nel navigare, perchè s'erano cosí da noi appartati; ed essi fecero la lor scusa, che non avevano potuto fare di manco, perciochè una corrente gli aveva fatto correre piú di tre leghe, onde non ci avevano poi potuto raggiunger mai.
L'altro giorno, che fu a' sedeci del mese di novembre, ci levammo, ma poco navigando, perchè la tramontana e il maestrale ci erano contrarii: quivi scoprimmo alcuni piani, al mio parere molto grandi e verdi, e per innanzi non si vedevano montagne alcune né selve, di che ci maravigliammo, veduto cosí bel paese. E ci si fece incontro uno Indiano con una canova alla ripa dove si rompe il mare, e ci stette a guardare un gran pezzo, e molte volte si sollevava in alto per poter meglio vederci, e doppo si ritornò adietro lungo la costa: e da noi s'usava ogni diligenza in vedere se si fosse disviato molto dalla riva, per dargli la caccia e vedere di pigliarlo, ma egli molto prudentemente ci guardò senza punto approssimarcisi, e se ne ritornò in terra con la sua canova. Quivi non vedemmo la sera se non un fuoco, né sapemmo se ciò fu per accortezza degl'Indiani, per non darci ad intendere che ci fosse gente, o se lo faceano perchè veramente cosí fosse. Dal detto giorno XV di novembre fino alli XXIIII del detto mese non potemmo seguir il cammin nostro se non per dodeci o quindeci leghe, e, veduta la nostra carta, trovammo che potevamo essere lontani dallo Xaguges del porto di Santa Croce fino a settanta leghe. Ora alli detti XXIIII, che fu il lunedí, molto di buon'ora cominciammo a risguardare molto ben per quel paese, e sempre alla costa vedemmo molte gentile pianure con alcuni solchi fatti in mezzo a guisa di certe mezze piane, sempre dentro nella terra scorgendosi la medesima pianura e dilettevol campagna, per essere l'erba che produceva di bello essere minuta e verde, come erba da pascoli per bestiame, ancora che, per trovarci cosí surti di lontano, non potessimo distintamente giudicare qual sorte d'erba fosse: ma a vederla era molto corta e verde e senza spine. Queste pianure alla man dritta facevano un seno d'una valle che pareva un pezzo di monte; nel resto tutti i piani si vedeano senza niun cardo o altra erba salvatica, ma piena d'erba da pascere animali, verde e bella, come ho detto.


Una nave per fortuna dall'altre si separa, poi, congiunte insieme, fa relazione la terra per la bocca d'una laguna riuscire al ponente; gli pilotti vengono in diversi pareri dello stato di questa costa, abitata da Chichimechi, e che sia male abitata per il gran freddo che vi si sente. Entrano in porto per prender acqua dolce, e sono da due squadre d'Indiani all'improviso assaltati: valorosamente si difendono, e il capitano con altri soldati restano gravemente feriti.

Alli ventisei di questo mese, che fu mercoledí notte, ci dette addosso una tramontana che sempre si veniva piú rinfrescando, e tanto che ci affannò molto, perchè ci durò duoi giorni, nei quali il mare sempre si mostrava turbato. E in questa notte di nuovo ci si smarrí la nave della Trinità, sbattuta da questa tramontana che ho detto, e la avevamo veduta il lunedí alli XXIIII, di che sentimmo molto dolore tutti, cosí il capitano come i soldati e marinari, perchè ci pareva di ritrovarci soli; e la nave Santa Agata, nella quale noi eravamo, non era troppo ben condizionata, e di questo avevamo piú affanno che per la fatica del mare adirato, pensando che se la Trinità ci mancava o ci avesse fatto qualche tristizia, che per aventura non avremmo potuto seguir il viaggio conforme alli desiderii del capitano e nostri. Questo detto lunedí alli XXIIII vedemmo un paese di alti monti verso maestro, e pareva che sempre piú oltre apparisse terra, di che ci rallegrammo infinitamente, perchè ci pareva che ci si allargasse il paese e che ci avevamo da incontrare in qualche buona cosa, aspettando perciò con desiderio che Iddio fesse servizio di darci tempo buono per navigare, che per l'adietro avevamo sempre avutolo contrario, quasi che in ventisei dí non avevamo camminato piú di settanta leghe: e questo con gran fatica, or surgendo or levandoci, e cercando rimedii e commodità della terra per non pericolare. In questo paese che trovammo alli ventisei sempre vedemmo, come ho detto, per la costa e dentro in terra pianure belle e senza albore alcuno, e nel mezzo d'esse si faceva uno lagume o una raccolta d'acqua del mare, che al parer nostro poteva essere meglio di dodeci leghe di grandezza, e andava a marina verso le montagne che ho detto.
E questo medesimo giorno vedemmo la nave nostra della Trinità che stava surta due gran leghe lontana da noi, la qual tosto che ci vidde fece vela, e ci riunimmo insieme e facemmoci gran festa. Portavano essi gran quantità di pesce pardos e d'un'altra sorte, perchè alla punta di quelle montagne avevano trovato una peschiera che era cosa maravigliosa, perciochè si lassavano pigliare a mano, e i pesci erano sí grandi che ciascuno aveva che fare di trovar luogo dove mettere il suo; avevano parimente trovato in quella punta un fonte d'acqua dolce, che discendeva da quelle montagne, e ci dissero che nel medesimo luogo avean trovato una calle per dove entrava il mare in quel lagume. Ci rallegraron molto col raccontarci queste cose e con dirci che la terra riusciva al ponente, perchè pensava il pilotto maggiore, e l'altro pilotto era del medesimo parere, cioè che si saria trovato buon paese, quantunque altri fossero di contraria opinione, che per quella costa non si avea da ritrovare cosa buona fino alla China, ma sempre in questo modo paese poco abitato e da Chichimechi: e questo giudicio si faceva perchè quivi trovammo sí gran freddo che non ci potevamo durare, con una tramontana che vi soffiava che ci seccava la faccia, il naso e tutte le membra, che non ci giovava di coprirci né con saii né con pelle, calze e scarpe, che tuttavia tremavamo di freddo. La notte ci levammo per andarcene a questa punta, per pigliar acqua, che ci mancava, e per vedere questo lagume, e fare andar qualche gente in terra, e doppo la mezzanotte ci sopragiunse una tramontana sí gagliarda che non ci potevamo restare, onde fummo costretti di ritirarci piú in alto mare, e per la medesima strada tornammo poi alla volta di terra, con non poca fatica, e venimmo a surgere assai piú adietro donde noi ci eravamo levati. E quivi ce ne stemmo dal mezzodí del giovedí con questa tramontana cosí aspra, e il venerdí sul mezzogiorno, nel tempo che piú pensavamo che dovesse mancare, cominciò a crescere di nuovo, di che sentimmo gran discontento, vedutoci il tempo cosí contrario, sempre con speranza che dovesse cessare e vedere che venisse qualche vento di terra, con che avessimo potuto pigliare la punta di terra per fare acqua dolce e chiarirci se a torno a quel lagume era gente alcuna.
Quivi ci stemmo temporeggiando dalli XXVI del detto mese fino alli ventinove, intratenendoci per mare con l'aggirare a poco a poco, finchè pigliammo il riparo di quelle montagne; e preso quel riparo, surgemmo alli XXIX del detto mese a mezza lega di quelle montagne selvose che avevamo vedute dentro in mare. In questo luogo ce ne stemmo la domenica a piacere, e Giovanni Castiglione, pilotto maggiore, uscí quel giorno con sette compagni col battello in terra, e smontarono vicino al mare, e in certa bassa trovarono quattro o cinque Indiani Chichimechi grandi di corpo, e si misero alla volta loro, i quali si ritirarono fuggendo a guisa di cervi spaventati. Doppo il pilotto andò alquanto per la costa del mare e poi tornò a rimbarcarsi, e già che s'imbarcava con i compagni vidde da quindeci Indiani similmente di grande statura, con i loro archi e frezze, che gli parlarono in voce alta e forte accennando con gli archi; ma il pilotto non si curò dei fatti loro, anzi se ne venne alle navi e raccontò ciò che gli era advenuto con quelli Indiani. Comandò quel medesimo giorno il capitano che fossero apparecchiate le botte e le vasa per prender acqua il giorno vegnente di mattina, che fra tutte dua le navi ci potevamo trovare vote 25 botte. Il primo di decembre e l'altro giorno di mattina, che fu il secondo, uscí il capitano con amendue le barche a terra con qualche dodeci soldati, e similmente con la maggior parte dei marinari, che bisognavano per pigliar acqua, lasciando nelle navi le genti ch'erano di bisogno: e saltati che fummo al luogo dell'acqua, fece il capitano trar fuori le botti con diligenza, acciochè si pigliasse l'acqua. E mentre tornavano a trar fuori i barili delle navi e le botticelle, il capitano con i soldati diede una volta lungo della costa un tiro o duoi di balestra, e doppo uscimmo per alcune di quelle montagne per vedere la disposizione della terra, e in verità che in quel luogo la trovammo molto cattiva al parer nostro, perciochè era asprissima, piena di selve e grotte e tutta petrosa, che con gran fatica potevamo camminarci. Saliti all'alto poi trovammo certi monticelli di selve e ripe non cosí aspre, ancora che molto faticose da camminarle, e dalla vista di questi monticelli ci pareva di non vedere piú montagne, anzi giudicammo che da quello in là si sarebbono trovate di gran pianure. Il capitano non consentí che di qua passassimo piú oltre, perciochè per essi luoghi avevamo veduti alcuni Indiani che ci parevano dover essere spie, e quasi avedutosene ci commandò che ce ne ritornassimo alla marina, dove avevamo da pigliar l'acqua, per far presto quel che s'aveva a fare: e ordinò che acciochè l'acqua si potesse mettere nelle botti piú agiatamente si facessero certi pozzi, e poste le nostre guardie o sentinelle si cominciò a pigliar l'acqua. Fra tanto prese il capitano alcuni soldati e montò sopra un colle alto, dal quale si vedeva una gran parte del mare e d'un lagume che si fa dentro in terra, perchè v'entra una bocca di mare di presso una lega, e tutto all'intorno teneva di pescagione, ed era il lagume cosí grande che ci pareva che avesse di circuito presso a trenta leghe, perciochè noi non potevamo vedere il fine d'esso.
Doppo ce ne ritornammo al basso, non con men fatica quasi di quella con che avevamo salito il poggio, per l'asprezza del sito, e alcuni vi furono che lo discesero rotolandosi al basso, con non poca risa degli altri; e giunti al luogo dove si pigliava l'acqua ad ora tarda, ch'era già passato il mezzogiorno, apparecchiandoci per voler mangiare, sempre posto in sentinella qualcuno di noi fino che fossimo chiamati a mangiare, e già che fummo chiamati noi e lassatevi sempre due uomini. E poteva esser già le dua ore doppo il mezzodí, quando, stando il capitano e gli altri senza pensar pericolo alcuno d'assalto d'Indiani, sí perchè ci pareva il sito cattivo e sí per aver le sentinelle ai passi, diedero sopra di noi dua squadre d'Indiani molto secrete e copertamente, perciochè l'una venne per una valle grande per dove discendeva l'acqua che pigliavamo, e l'altra venne per la parte di quel colle grande dove eravamo ascesi per veder il lagume, e tutti vennero cosí coperti che le nostre sentinelle non gli poteron né vedere né sentire, e noi non ce ne avedevamo se non che, alzando a caso un soldato gli occhi, disse: "All'armi, signori, che ci vengono addosso molti Indiani!" Questo udito, il capitano saltò in piedi con non poco dispiacere, perchè le guardie erano state transmutate, e con la spada e la rotella, seguiti da un soldato che si chiama Haro, e poi dagli altri. Però il capitano e quel soldato vanno alla volta d'una porticella di certi sassi per dove noi altri avevamo da montare, perciochè, se gl'Indiani ci avessero tolto quel luogo, noi saremmo incorsi in gran risico, che ci avrebbono ben uccisi la maggior parte di noi, né sarebbono scampati se non coloro che per ventura fossero potuti salire su le barche: e il reflusso era cosí grande che, se non fosse stato notator piú che eccellente, non si sarebbe niun salvato. Finalmente il capitano seppe usar tanta destrezza, e con prestezza tale, qual fosse stata possibile ad usarsi: preso dunque che ebbe con Haro la porticella, dietro loro montarono gli altri soldati; però il capitano e Haro si voltarono agli Indiani e gli mostrarono faccia, e gli Indiani investirono in essi con tante pietre, frezze e aste che era una cosa maravigliosa, che la rotella che aveva il capitano nel braccio gliela ridussero in pezzi, e in oltre lo feriron d'una frezza nella piegatura del ginocchio, che, ancora che la ferita non fosse grande, si sentiva egli però molto doglioso. Cosí, stando a resister all'impeto loro, percossero con una pietra Haro, che era dall'altra banda, sí fortemente che lo gettorno disteso in terra, e incontinente arrivò un altro gran sasso al medesimo che gli fracassò la rotella, e d'un altro colpo di frezza dierono al capitano e gli passaron una orecchia netta; venne un'altra frezza e ferí un altro soldato, chiamato Graviello Marchese, in una gamba, di che si sentiva gran dolore e andava zoppicando. Giunse in tanto Francesco Preciato con alcuni degli altri soldati, e s'uní con gli altri dal lato stanco del capitano, dicendogli: "Signor, tiratevi fuora, che voi sete ferito; non abbiate affanno, che al fin sono Indiani e non ci posson nuocere". In questo modo cominciammo a metterci fra loro sopra una costa d'un sasso, sempre guadagnandoli terreno, di che sentivamo crescerci molto animo, e quando cominciammo a farli ritirare guadagnammo un monticello di selva, dove noi ci assicurammo, perciochè per innanzi essi ci tiravan dall'alto, perchè ci erano a cavaliero alla scoperta a lor salvo, e noi con niuna cosa potevamo offender loro per allora, se non col fare sforzo d'arrivargli con le nostre rotelle nelle braccia e le nostre spade in mano. Dall'altra banda il giongerli e accostarsi a loro era affaticarsi in vano, essendo veloci come capre di montagna.
In questo tempo s'era levato in piedi Haro, e postosi un panno in testa, onde gli era uscito assai sangue, e s'era unito con noi altri, e da lui ricevemmo non poco aiuto. Si fecero in tanto forti gli Indiani in un sasso d'uno scoglio, donde ci facevan non poca guerra, e noi parimente ci facemmo forti in un monticello per il quale si calava al basso nel forte loro, e fra loro e noi era una valletta, che dalla parte di sopra non era molto profonda. Quivi eravamo col capitano sei soldati e due negri, e tutti eramo di parere che non si passasse questo luogo, acciochè per esser gli Indiani molti non ci uccidessero tutti, perchè il rimanente dei nostri soldati, che stavan da basso alla punta del monticello facendo faccia all'altro squadrone degli Indiani, disturbavan che non facessero danno a coloro che stavano a prender l'acqua nella spiaggia, e similmente non rompessero le botti dell'acqua. Ed essendo noi pochi, fu concluso che quivi ci fermassimo e stessimo cheti, fortificandoci bene, massimamente per non aver da niuno dei canti aiuto alcuno, perciochè Berciillo, che era quello che ci avea da aiutare, era molto malamente ferito di tre frezzate e per conto alcuno non voleva appartarsi da noi: e fu questo cane ferito nel primo assalto, quando s'appressarono a noi gli Indiani, e si portò molto bene aiutandoci valentemente, perchè gli affrontò e ne disordinò otto o dieci di loro, che gli fece lassar fuggendo molte frezze. Ora, come è detto, al fin fu ferito, in modo che né per burla né da dovero lo potevamo far partire da noi per andare piú ad affrontar gli Indiani; e gli altri duoi cani piú tosto ci facevano danno che utile alcuno, perchè, se andavano contra di loro, essi si mettevanci a tirargli con gli archi, e noi per voler difendergli ricevemmo danno e fatica. S'era in tanto enfiata la gamba al capitano nel raffreddarsi, che gliel'avevamo fasciata con un panno, e zoppicava molto. E stando cosí cheti gli Indiani, una parte di loro cominciò a far balli e cantare e gridarci, dipoi tutti insieme si caricarono di pietre, e por negli archi le frezze, e a venir al basso verso di noi, molto determinati d'affrontarci, e con molte grida cominciarono a tirar le pietre e frezze.
In questo tempo si rivoltò Francesco Preciato al capitano e disse: "Signor, questi Indiani conoscono o pensano che abbiamo paura di loro, e invero che è grand'errore il dar loro questa baldanza. Sarà meglio che determinatamente con questi cani facciamo sforzo e gli affrontiamo su in questa costa, acciochè non sentan che in noi sia viltà d'animo alcuna, che al fin sono Indiani e non ci aspetteranno, e guadagnato il forte di quel colle, Iddio ci darà grazia per tutto il rimanente". Il capitano rispose che gli parea ben fatto e che cosí si facesse, ancora che nel resto a lui pareva di doversi far altra cosa. Stando in questo, Francesco Preciato imbracciò la sua rotella e con la spada in mano saltò dall'altra parte della valle, che già da quel canto non era molto alta, dicendo: "Or su, signori, sant'Iago, a loro"; e dietro lui saltaron Haro, Teraza, Spinosa e un balestriero chiamato Montagno, e doppo gli seguí il capitano, ancora che molto zoppo, con un moro e un soldato che andava con lui, inanimando e confortando che non gli dovessero temere. In questo modo gli riducemmo fin al luogo dove s'erano fatti forti e donde erano discesi, e noi pigliammo un altro colle all'incontro di loro, lungi una tirata di dardo; e riposati che fummo alquanto, giunse il capitano che ci disse: "Or su, signori, addosso, prima che si riabbino in quel colle, che già notoriamente vedemo che temono di noi, poichè ogni volta noi gli scacciamo dai loro forti". E subito tre o quattro di noi andammo alla volta loro, molto coperti delle nostre rotelle, al piè del forte dove essi s'erano raccolti, e dietro ci seguirono gli altri. Gli Indiani rincominciarono a mostrarci la faccia e a tirarci molte pietre e frezze, e noi con le spade nelle mani ci mettemmo fra loro in tal modo che, avendo veduto con quanto empito noi gli combattevamo, abandonarono quel forte e per la costa a basso come cervi se ne passarono al colle dall'altra parte, dove stanziava l'altro squadron d'Indiani, da' quali furono raccolti. E si misero a parlar fra loro, ma in voce bassa, e si posero a sei a sei accoppiati, e a otto a otto, e fecero fuoco e si scaldavano: e noi all'incontro guardavamo questo stando cheti.


Il capitano ferito con altri suoi soldati, doppo la zuffa, vedendo partire gli Indiani vanno alle navi; il giorno seguente nell'istesso luogo prendendo acqua, manda i marinari a scandigliare la bocca della lacuna. Di quivi partiti giungono nel porto di Santo Abbate e provano pericolosa fortuna di mare; approssimati poi alla costa per prender acqua dolce nel detto porto, vengono alcuni Indiani pacifici.

Era già l'ora sí tarda che si cominciava a far notte, e ciò vedendo gli Indiani di quivi ad un pochetto determinaron d'andarsene, e ciascun d'essi o la maggior parte prese un pezzo di legna infocato in mano, e si ritirarono per luoghi difficili. Questo vedendo il capitano comandò che dovessimo ritornar per imbarcarci, essendo già notte oscura, ringraziandoci tutti per il ben che gli avevamo fatto; e già non si potendo sostener sopra la gamba, appoggiò un braccio sopra di Francesco Preciato, e con questo modo ce ne ritornammo a' battelli, dove ci imbarcammo con non poco travaglio per la gran marea e il gran reflusso dell'acqua, che era tanta che in ogni ondata ci si empievano i battelli. In questo modo, molto stanchi e bagnati e alcuni feriti, come s'è detto, ciascuno se ne ritornò alla sua nave, dove i letti che vi ritrovammo e il refrigerio e l'apparecchio della cena non ci dieron molto conforto ai travagli passati. Quella notte ce la passammo in questo modo, e l'altro giorno, che fu il martedí, il capitano si ritrovò molto travagliato delle sue ferite, e maggiormente per quella della gamba, perciochè per averci camminato se gli era molto infiata. Ci erano restate da empiere dodeci botti d'acqua e i barili fra tutte le navi, e il capitano voleva uscir per fargli empire, ma non glielo consentimmo, e perciò quel giorno fu lasciata questa impresa; ma ordinò che si mettessero in punto le balestre e duo archibusi assai buoni, e il giorno che seguitò del mercoledí, di buonissima ora, comandò a Giovan Castiglioni, pilotto maggiore, che uscisse con ciascuno battello e con tutti i soldati e marinari che si potesse, avendo ordinato il dí innanzi che la Trinità s'accostasse a terra quanto piú potesse, e apparecchiassero alcuni masti d'artiglieria, acciochè, se gli Indiani fossero comparsi, gli impaurissero e gli facessero danno quanto potessero. Il mercoledí adunque uscimmo fuori tutti i soldati, eccetto i feriti, e alcuni marinai meglio in ordine che potemmo, e andammo a pigliar il primo colle dove noi ci eravamo fatti forti, stando tutti sopraviso, finchè si prese l'acqua e che fummo chiamati, che giamai comparse Indo veruno. In questo modo ce ne imbarcammo a piacer nostro, almeno senza sospetto degli Indiani, quantunque il gran reflusso del mare ci desse un gran travaglio, perchè ci investiva molte volte con assai acqua dentro le barche. Era questo il mercoledí, adí tre di decembre.
Il dí innanzi, non avendo noi a niun patto consentito che il capitano fosse uscito fuori, per esser cosí mal disposto, per finir di portar l'acqua, in altro non ci occupammo che in mettere all'ordine gli archibusi e balestre, e far dei verrettoni, che il giorno innanzi s'eran consumati; e per non perder tempo il capitano comandò a Giovan Castiglione, pilotto maggiore, che pigliasse un battello con alcuni marinari che piú li fosse parso al proposito e andasse a veder la bocca della laguna, per veder se era tonda nella entrata, in modo che ci fosser potute entrar le navi. Egli, preso il battello della capitana con otto marinai e il nostro della Trinità, andarono a scandigliar l'entrata, e nel piú basso del banco di fuori trovaron tre braccia di fondo, e piú innanzi quattro e piú oltre cinque, crescendo sempre fino a dieci o dodeci, quando eran cosí innanzi le due punte del detto lagume, che era di larghezza d'una punta all'altra una lega, e tutto era piacevolissimo fondo. Doppo s'accostarono alla punta di sirocco, e quivi viddero una zattera grande, la quale volsero pigliare per portarla alle navi. Stando in questo viddero non so quante capanne, onde il pilotto determinò d'andarle a vedere, ed essendogli già vicino viddero tre altre zattere con tre Indiani dentro, lontane dalle capanne qualche una tirata o due di balestra, e saltò in terra con quattro compagni marinari. E stando a guardare quelle capanne, viddero uscir d'un monticello molti Indiani da guerra con i loro archi e frezze, onde si determinaron di ritornare ad imbarcarsi e ritornarsene alle navi; e non erano appena appartatosi dalla costa del mare un tiro di pietra, quando sopragiunsero gl'Indiani a tirargli delle frezze, e per esser disarmati non si curaron di loro, non essendo iti ad altro effetto che per scandigliare quella bocca ed entrata di quel lagume.
Giovedí, alli quattro del mese di decembre, facemmo vela con un venticello fresco e navigammo qualche otto o dieci leghe, e giungemmo a certe bocche, che a tutti ci parsero che dovessino esser isole, e noi entrammo per una d'esse e ci ritrovammo dentro uno porto chiamato di Santo Abate, tutto serrato e circondato dalla terra, che era una delle belle cose che si potesse vedere: e all'intorno d'essa, massimamente da due bande, era terra verde e di bella veduta. Scorgemmo verso quella parte che si mostrava verde certi fiumi e perciò ci ritornammo adietro, uscendo per la bocca donde eravamo entrati, sempre con vento contrario: però si affaticarono molto i pilotti per guadagnar cammino; e vedemmo davanti per la prora certi monticelli selvosi, e innanzi d'essi alcuni piani. Questo vedemmo il venerdí, che fummo alli cinque del detto mese, fino al martedí, che fummo alli nove. Nell'avvicinarci che facemmo a queste selve, mostrava esser molto dilettevole, ed eranvi colli ameni e spaciosi, ed erano innanzi d'essi verso il mare alcune pianure, e in tutta la provincia si vedevano di queste selve. Dal giorno innanzi, che fu la Concezion della nostra Donna, vedemmo molti fumi grandi, di che ci maravigliammo assai, facendo fra noi varii giudicii se potevan esser di gente abitatrice o no. All'incontro di quelle selve si faceva la notte tanta rugiada, che ogni mattina che ci levavamo era la coperta della nave cosí bagnata che, fra tanto che il sole non era ben alto, sempre facevamo fango passeggiando per la coverta.
Stemmo surti all'incontro di queste selve dal martedí mattina che ci levammo fino al giovedí alla mezzanotte, che ci sopragiunse un maestrale molto furioso, che, ancora che non volessimo, ci fece levare: e fu sí grande che la nave Santa Agata cominciava a dar volta per la prua, finchè si ruppe il canape, e la nave se n'andava al traverso, e subito con gran furia si ruppero il trinchetto e la mezzana, sempre crescendo piú il vento maestrale; indi a poco si ruppe la maggior vela, e a gran furia, perchè ci trovavamo fra le due punte, che i soldati, il capitano e tutti eravamo intenti in acconciar le vele; e convenne di far il medesimo alla Trinità, perchè andando aggirando sopra l'ancora, già che stava a picco, si ruppe il canape, in modo che vi perdemmo due ancore, ciascuna nave la sua. Venimmo a ritrovar il porto di Santo Abate, che ci eravamo vicini presso venti leghe, e in questo dí arrivammo vicini a quattro leghe, né potendo attragerla per il vento grande contrario, surgemmo al riparo di certe montagne e colli pelati e con poca erba, presso una spiaggia tutta di arena in montoni. Quivi vicino trovammo un luogo da pescare presso un ponte, dove gettato lo scandaglio per veder che fondo v'era, fu preso da un pesce per la bocca e lo cominciò a tirare, e colui che avea lo scandaglio, gridando e manifestando ai compagni la presa, che lo dovessimo aiutare, già che l'avea sopra l'acqua lo prese e sciolse la corda dello scandaglio, tornando a gettarlo in mare per veder se v'era gran fondo, e di nuovo gli fu presa, onde ricominciò a gridare che l'aiutassimo, e tutti cominciammo a gridare d'allegrezza. Cosí tirando il pesce ci si ruppe la corda dello scandaglio, che era assai grossa; pur avemmo al fin il pesce, molto bello.
Quivi ce ne dimorammo dal venerdí che arrivammo fino al lunedí, che parve al capitano che ci dovessimo accostare al luogo dell'acqua dolce, donde potevamo esser lontani sei leghe, per pigliar dodeci botte d'acqua che avevamo bevuta e consumata, per non saper se da lí innanzi ne avevamo da trovare: e già che si trovasse era dubbio che, per il gran reflusso dell'acqua che era in quella costa, per aventura non l'avemmo potuta pigliare. Giungemmo vicini a quel luogo il lunedí di notte, nel quale vedemmo alcuni fuochi d'Indiani. E comparso il martedí, comandò il capitano che la nave della Trinità s'avvicinasse piú presso alla nostra nave e a terra che avesse potuto, acciochè bisognando ci avesse aiutati coi masti o code d'artiglieria; e avendogli dato tre o quattro girate per accostarle al rivo dell'acqua, vennero al lito quattro o cinque Indiani, che si posero a guardarci come fusse gettato il battello e l'ancora, ponendo anco mente come andava il sughero sopra dell'acqua. E come il battello venne alla nave, si gettarono dua di loro in mare e vennero al sughero e lo guardarono gran pezza, poi presero una canna da frezze e ligarono a detto sughero una conca marina assai bella e lucente delle perle, poi se ne ritornarono in terra vicini al rivo dell'acqua dolce.


Con molte cosette presentano gli Indiani, quali sono sopra il lito a vedergli, e, col mezzo del loro interprete chichimeco non potendo il loro linguaggio intendere, vanno per prendere acqua dolce. Francesco Preciato con molti cenni e baratti trapassa con loro il tempo, e per la loro moltitudine temendo, con suoi compagni prudentemente si ritira, e si salva nelle navi.

Questo veduto dal capitano e da noi altri, giudicammo che costoro fossero di pace, onde prese il capitano la barca o battello con quattro o cinque marinari, portando seco alcuni paternostri da barattare, e andò a parlar loro; intanto ordinò che si chiamasse dal capitan l'Indiano nostro interprete chichimeco, acciò parlasse con esso loro. E il capitano s'accostò al sughero, e gli pose sopra certe cose di baratto e gli fece cenno che venisser a torle, e l'Indiano con le mani, con le braccia e la testa fece loro cenno che non gli intendevano, però che s'appartassero de lí; onde il capitano si tolse da quel luogo col battello alquanto, e di nuovo essi accennorono che si dovesse allontanare piú, onde appartatisi piú longi assai, gli stessi Indiani si gettarono nell'acqua e s'accostaron al sughero, presero quelli paternostri e ritornaronsi adietro in terra. E poi s'avicinarono agli altri tre e tutti insieme, veduti i nostri baratti, dierono un arco e certe frezze ad un Indiano e lo mandorono molto correndo per la spiaggia, e ci fece cenno che aveano fatto intendere al signor loro le cose che gli avevamo date, e che sarebbe venuto quivi. Indi a poco ritornò il medesimo Indiano correndo come prima, e ci ricominciò a far cenni che già veniva, e cosí stando vedemmo assommare per la spiaggia dieci o dodeci Indiani, che vennero a congiungersi con gli altri, e incontanente vedemmo comparire un'altra squadra d'altri dodeci o quindeci e congiungersi tutti: e di nuovo ci ritornaron a far cenni che dovessimo uscir là col battello, e ci mostravano di molte conche in cima ad alcune canne, accennandoci che ce ne avrebbono date. E veduto questo, comandò il capitano che si mettesse in punto la barca ed entrò in essa con i detti marinari, e passò a certo sasso in forma di scoglio, che era dentro in mar vicino a terra; e quivi entrorono prima dua o tre Indiani e ci posero una di quelle conche e una ghirlanda fatta di penne di pappagalli o di passeri, come dipinte di color rosso, e vi posero anco certi pennacchi di penne bianche e altre di color quasi azzurro. In tanto si vedeano comparire ogni ora Indiani alla spiaggia di dieci in dieci, e cosí a poco a poco in squadre venivano, e uno di lor, tosto che vidde quella barca, cominciò a saltare innanzi e indietro con tanta leggierezza che veramente a tutti ci parve uomo di molta destrezza, e ci dette sollazzo a vedergli fare quelle rimesse; ma gli altri Indiani che erano alla bocca di quell'acqua dolce corsero da lui e gli gridarono che non dovesse far quei salti, perciochè noi eravamo quivi in atto di pace, e in questo modo se n'andò insieme con gli altri al luogo dell'acqua, dove pian piano in questa guisa si ragunarono meglio di cento di loro, tutti in ordine e con alcuni bastoni con le corde da lanciare e con i loro archi e loro frezze, e tutti dipinti. In tanto venne l'interprete chichimeco dell'isola California, e il capitano comandò di nuovo ad un marinaro che si spogliasse e tornasse a porre in quello scoglio certi sonagli e piú paternostri, e nel porvegli gl'Indiani fecero cenno che si levassero de lí, ed essi entrarono a pigliarli e s'accostarono con la barca. Il capitano comandò che l'Indiano nostro chichimeco gli parlasse, ma mai l'intesero, in modo che tenemmo al fermo che non intendesse il linguaggio dell'isola California.
Questo giorno, che fu il martedí, fino a notte stettero gli Indiani in quell'acqua, pigliando da noi alcuni di quelli piccioli paternostri e dando a noi di quelle lor piume e altre cose, ed essendo l'ora tarda si partirono; e il capitano comandò che la mattina seguente di buona ora, che fu il mercoledí, si ponessero in punto le botti, perchè prima che venisse il giorno, e che gli Indiani comparissero a pigliar il colle che soprastava alla fontana, noi fussimo in ordine usciti in terra. Il che fu esequito, perciochè uscimmo con tutti quei che poterono venire, eccetto quei che aveano la cura di pigliar l'acqua e quei che aveano da restare nelle navi, che potevamo ascender tutti fino alla somma di quatuordeci o quindeci uomini, meglio ordinati che ci fosse stato possibile, che vi avemmo quattro balestrieri, duoi archibusieri e otto o nove con rotelle, i quali per la maggior parte portavamo presso di noi le frombe assai ben ordinate, e ognuno una dozzina e mezza di pietre di fiumi. E la invenzione di queste arme ritrovò il capitano per averci la prima volta molto mal trattati gli Indiani con le molte pietre che ci tirarono, e noi non avevamo con che difenderci, eccetto col rimedio delle nostre rotelle, e cercar di guadagnarli i forti donde ci danneggiavano: gli parve che con le frombe avremmo potuto offendergli, e a noi parve anco buona pensata, perchè, provandoci con esse, le tiravamo molto bene e arrivavamo assai piú lungi di quel che ci pensavamo, perchè essendo le frombe di canapo tiravamo molto. Or giunti al luogo dell'acqua il detto mercoledí nello spuntar dell'alba, pigliammo il forte d'esso fonte, che erano certi sassi o scogli che gli soprastavano, fra' quali era una apertura o vallata profonda per donde passa questa acqua, che non è molta, ma un roscello quanto è la larghezza d'un braccio.
Cosí stando tutti all'ordine, vennero altri quattro o cinque Indiani, che, tosto che ci viddero smontati in terra e sopra il luogo dell'acqua, si ritirarono ad un monticello che era dall'altra parte, perchè la vallata era in mezzo fra loro e noi; né tardaron molto a cominciar a giungere, come il giorno passato, a dieci a dieci e a quindeci a quindeci, questi Indiani tutti riducendosi in quello alto colle, dove ci facean cenni. E Francesco Preciato chiese licenzia al capitano di poter parlar con quegli Indiani e poter dargli qualche cosa, di che si contentò egli, vietandogli che non se gli dovesse loro molto accostare, né si ponesse in luogo dove lo potessero dannificare. Se n'andò dunque Francesco in un luogo piano sotto il colle dove stavano gli Indiani, e quivi per assicurargli pose giú la sua rotella e la spada, solo restando con un pugnale drieto alla cintura e in uno fazzoletto che portava al collo certi di quei paternostri da far baratto, pettini, ami e confetti, e cominciò a sallir su per il colle e a mostrargli di quella sua mercanzia. Gli Indiani, posto che ebbe egli in terra quelle cose e ritiratosi alquanto, discesero al basso, e le pigliarono e portarono all'alto, perchè fra essi pareva che dovesse essere il signor loro, e gli portaron quelle cosette; dopo ritornarono al basso, e posero per dare a lui nel medesimo luogo una conca marina e due penne come d'astore, accennando al Preciato che dovesse venire a torle: il che fece, e di nuovo vi mise una filza di sonagli e un amo grande e certi paternostri. Ed essi, presili, ritornaron a metterci un'altra conca e certe altre penne, ed egli vi rimise altri paternostri, duoi ami e piú confetti, e gli Indiani vennero a torle e s'avicinarono assai piú che l'altre volte, e tanto che con una asta d'una picca si sarian potuti toccare. Poi si misero a parlar insieme, e sopravennero altri sette o otto di loro, e Francesco Preciato gli fece cenno che non dovessero calar piú a basso; ed essi incontanente posero gli archi e le frezze in terra, e lasciatele se ne vennero piú a basso, e quivi a cenni, insieme con quei che v'eran prima, si misero a parlare con esso lui, e gli domandavano calzoni marinareschi e veste, e sopra tutto lor piaceva molto una beretta di rosato che il detto Francesco portava in testa, e gli domandavano che la dovesse por quivi. E dopo alcuni gli accennavano se volea cosa alcuna da fornicare, accennandogli col deto quelle poltronarie e atti disonesti, e fra gli altri si trasse avanti un Indiano grande tinto tutto di nero, con certe conche al collo e in testa, e parlando per cenni a Francesco Preciato sopra l'istesso atto di fornicare, mettendo il deto per un pertugio, gli dicea che se voleva donna alcuna, che gliela avrebbe condotta: ed egli rispose che gli piacea, però che gliela dovesse condurre.
Stando in questo, dall'altre parte dove stava il capitano con i compagni si vidde affacciare un altro squadrone d'Indiani, per il che il capitano con i compagni tumultuò e si misero in punto per combattere, onde convenne a Francesco Preciato di ritirarsi al basso per congiungersi col capitano e con compagni. E quivi gli ultimi che vennero cominciarono a far cenni che volessimo porre per contracambiare qualche cosa, ch'essi avrebbono dato loro delle conche, le quali avean portate in certe bacchette: e con questo si veniano molto accostando a noi, di che non restavamo sodisfatti molto; e Francesco Preciato disse al capitano che, se egli voleva, averebbe fatto che tutti gl'Indiani si fussero congiunti insieme e fermati sopra quel colle alto, e gli rispose che era meglio che si fussero uniti, perchè già i nostri aveano finito di pigliar l'acqua e il batello ci aspettava. Onde Francesco, preso una corona di paternostri, n'andò verso la valle donde veniva l'acqua al par degl'Indiani, e a quelli fece cenno che dovessero chiamar gli altri e che tutti si fussero messi insieme, perchè egli sarebbe andato là a porgli le cose da cambiar in terra come prima; ed essi risposero che dovesse farlo, ch'aveano chiamati gli altri e si sarebbe fatto come voleva, e cosí fecero, perchè gli chiamarono che dovessero andar da loro, il che fecero, e Francesco passò similmente solo, avendo ordinato il capitano in tanto che si cominciassero ad imbarcare. Francesco, arrivato al luogo, cominciò a por giú quelle sue mercanzie da contracambiare, e poi fece lor cenno che dovessero aspettar quivi, perchè egli sarebbe ito alle navi per portarne dell'altre, e se ne ritornò dove era stato il capitano, e trovò ch'esso capitano e tre o 4 altri in fuori essersi tutti imbarcati; e il capitano finse di dar altre cosette al Preciato, che le dovesse portare agl'Indiani, e lontanatosi alquanto lo chiamò, e a tutto questo stettero gl'Indiani sempre cheti. E venuto a lui, noi pian piano ce n'andammo alle barche e intrammo dentro a nostro bell'agio, senza far pressa niuna, e quindi ce n'entrammo nella nave.
Gl'Indiani, avendoci veduti cosí imbarcati, calarono alla spiaggia dove era il rivo dell'acqua, e ci chiamarono che dovessimo salire nei batelli e venire a terra, e che portassimo de' paternostri, perchè ci avrebbono dato delle loro conche; ma noi, che già ci eravamo posti a mangiare, non ci curammo di loro, onde cominciarono a tirarci delle frezze alla nave e, se bene giungevano vicine, non però ci arrivavano. In questo uscirono con il batello alcuni marinari per prender l'ancore, onde, veduti dagl'Indiani che s'andava verso di loro né si portava cosa veruna, cominciarono per scherno a mostrarci le natiche, facendo cenni che gli baciassimo di dietro: e questi doveano essere di quei che erano venuti ultimamente. Il capitano, veduto questo, comandò che si tirasse un pezzo di moschetto o due, e che si ponesse ben la mira. Essi, veduto che si maneggiavano questi pezzi, si levarono alcuni d'essi e andarono a tirar le frezze ai marinari che andavano a ripigliare l'ancore, e allora comandò il capitano che si tirasse presto l'arteglieria, onde furono tirate tre o 4 botte, e ponemmo mente che uccidemmo un di loro, perciochè lo vedemmo per cosa certa morto nella spiaggia, e credo anco che alcuni ne rimanessero feriti. Essi, udito quello strepito e veduto colui morto, si misero a fuggire quanto poterono, chi per la spiaggia e chi per le valli, nascondendosi fra quegli scogli, portandosene strascinando l'Indiano morto; né doppo apparse piú veruno di loro eccetto dieci o dodeci che s'affacciarono con le teste fra quei sassi, onde fu tirato un altro pezzo d'arteglieria all'alto dove erano, né mai piú ve ne vedemmo niuno.


Alla ponta della Trinità pescando e con altri sollazzi dimorano tre giorni, poi navigando scuoprono dilettevoli paesi e montagne nude d'erbe, e una isola poi detta dei Cedri, non discosto alla quale patiscono aspro freddo e pioggie, e per salvarsi fanno a lei ritorno.

Incontinente demmo la vela a' venti per venire a congiungerci con la nave di S. Agata, ch'era piú di mezza lega in alto mare longi da noi: e fu questo il mercordí a' 17 di decembre. Unitici insieme, perchè faceano venti contrarii ci accostammo alla ponta della Trinità, e quivi ci fermammo pescando e pigliandoci solazzo due o tre giorni, ancora che sempre con gran piova. Doppo cominciammo a navigare a poco a poco, e la notte venimmo a surgere al par di quelle montagne dove ci restarono l'ancore, e conosciuto il luogo ricevemmo non poco contento, veduto ch'aveamo camminato qualche 35 leghe, che poteano esser dal luogo dove pigliammo l'acqua: né è maraviglia che cosí ci rallegrassimo, perciochè la paura che avevamo de' venti contrarii ci faceano star cosí contenti del cammino che faceamo. Il giorno della Natività santa del nostro Signore, che fu il giovedí a' 25 del detto mese, ci cominciò Iddio per sua misericordia a farci grazia di darci un vento fresco quasi alla poppa, che ci fece passare il pareggio di quelle montagne di dieci o 12 leghe, trovando sempre la costa piana, e per dentro a due leghe, che passavamo cosí di longo per la terra, e fra queste montagne era molto spazio di terra piana, agli occhi nostri molto appariscente, ancora che altri fussino d'altra opinione
Cominciammo dal giorno di Natale a navigare a poco a poco con certi venticelli di terra, e cominciammo fra notte e giorno fare fino a sette, overo otto leghe, che non ci parve d'aver fatto poco, pregando sempre Iddio che ci confermasse quella grazia e lodando il suo santo Natale: e tutti i giorni di quella pasqua ci dissero messa i frati nella capitana, e ci predicò il padre frate Raimondo che ci diede non picciola consolazione con lo inanimarci al servizio d'Iddio. Venimmo a surgere il sabbato al tardi, che fummo alli ventisette del detto mese, presso una ponta che per la costa si vedeva essere tutta terra piana e per di dentro montagne alte con alcune selve, le quali con le montagne andavano traversando la terra e per il lungo continuavano per monticelli acuti in cima, e trovasi alcune vallette fra quelle montagne: paesi che in vero a me pareva che, guardato con buoni occhi, secondo la lunghezza e larghezza che mostrava, non poteva esser se non buono, e che vi fussero gran cose, cosí d'abitazioni d'Indiani come d'oro e d'argento, perciochè mostrava al sembiante che ve ne fusse. Questa notte vedemmo un fuoco ben dentro in terra verso quelle montagne, che ci faceva credere che fusse il paese tutto abitato. L'altro giorno, che fu domenica e il dí degli Innocenti, a' ventiotto del detto mese, nel far del giorno ci levammo e camminammo fino alle nove e le dieci ore tre o quattro leghe, e ci si mostrò una punta che usciva verso ponente, che ci dette qualche allegrezza per parerci sito ameno. Dalli ventiotto di decembre camminammo fino al giovedí d'anno nuovo 1540, e potemmo andare qualche quaranta leghe per certe rivolte e seni che erano in quella costa e certe montagne alte coperte di certe erbe di colore di ramerino, da una banda pur verso il mare molto pelate e arse, e piú verso la cima si vedeva sassi che tiravano in color rosso; e piú innanzi a queste si vedeva certe montagne bianche, e cosí si mostrava esser tutto quel che si vedeva, fino ad una punta che si scorgeva innanzi, di montagne cosí arse e rosse e bianche e senza niuna sorte di erba né albero, di che ci maravigliammo pur assai.
Questo dí d'anno nuovo vedemmo vicino a terra due isolette picciole, e sentimmo gran piacere di vederle, perciochè andavamo paurosi molto che i venti contrarii non ci facessino ritornare adietro in un dí quel che avevamo navigato in dieci, che, se ci avessero assaltati, non ci potevamo difendere. Camminammo dal primo dí di gennaro fino al lunedí, che furono cinque giorni: sempre la terra correva verso il maestro di queste montagne che ho detto, e la domenica vedemmo per la prora da lontano un paese alto, alquanto appartato dall'altra terra della costa, e tutti cominciammo a far giudicio ch'era la terra che si rivoltava al maestrale, perchè da quella banda i pilotti dicevano che avean speranza di trovar miglior paese. E il detto lunedí, che fu ai cinque di gennaio, arrivammo a questo paese alto ch'io dico, ed erano due isole, l'una picciola e l'altra grande: passammo longi da queste due isole qualche sei leghe, e parevano verdi, e nella cima apparivano molti alboretti alti, e al parer nostro poteva essere questa isola di circuito fino a venti leghe. La passammo per sei leghe di lunghezza senza vedere né sapere altro d'essa, ma avevamo innanzi a noi terra alta che usciva a tramontana, dove stemmo il lunedí a notte, e fino a otto o dieci leghe. Venimmo a camminare dal giovedí, che fu anno nuovo, fino al dí d'oggi, che è lunedí, fino a 35 leghe, e in questo pareggio sentimmo gran freddo che ci dava molta pena, massimamente essendo assaliti da due o tre pioggie con vento, che col freddo ci afflissero molto. Stemmo al par di questa terra due o tre notte surti, vedendocela innanzi molto vicina, sempre facendo la guardia per ore compartite i marinari e soldati tutta la notte, molto vigilanti.
Il martedí, che fu la festa de' Re, giungemmo qualche tre o quattro leghe da questa terra che avevamo veduta il giorno innanzi, la quale secondo il giudicio nostro mostrava d'essere molto amena, perciochè mostrava verdura, con alberi verdeggianti di comune grandezza, e si vedeva molte valli, delle quali surgevano certe picciole nebbie che continuano per lungo spazio in esse, onde noi facemmo giudicio che uscissero da qualche fiume. Vedemmo quella mattina con nostro gran piacere le fumate grande, quantunque fussimo lontani da esse meglio di quattro leghe, e il capitano non si curava molto che noi ce gli appressassimo, né che si sentisse o sapesse quel che vi fusse: e forse perchè esso capitano non si trovava allora nella nave Santa Agata, ma s'era trasferito nella Trinità, come era sua usanza d'andarvi a stare talora duoi o tre giorni, cosí per passar tempo come per dar ordine a quel che le bisognasse. In questo paese ci pareva che fusse l'inverno e il piover naturale di quel di Castiglia. Ce ne stemmo la notte surti lungi due o tre leghe da terra, e su verso la sera vedemmo cinque o sei fuochi, di che ci rallegrammo tutti, né ce ne maravigliammo, perciochè il sito di quel paese dimostrava esser abitabile, per essere ameno, dilettoso e tutto verdeggiante, e parimente perchè l'isola che ci avevamo lasciata adietro, di venti leghe di grandezza in circuito, come si è detto, dava segno che fusse ben popolata. Venuto il giorno del mercoledí, noi ci trovammo a largo alla terra per il mare altre tre o quattro leghe, e ricominciammo a vedere altri duoi fuochi, e perciò ci certificammo dover essere il paese molto ben popolato, e che per lo innanzi avevamo sempre trovatolo piú domestico. E 50 leghe adietro vedemmo sempre andar per mare alcune zattere d'erba, di grandezza d'una nave e dua per larghezza, rotonde, piene di zucche, e di sotto di queste erbe v'erano molti pesci, e sopra d'alcune molti uccelli come coccali bianchi: crediamo che queste zattere naschino di qualche scoglio o roca posta sotto acqua. Ci trovammo in 30 gradi d'altezza.
Dai sette di gennaio camminammo fino alli nove sempre con venti contrarii, e il venerdí sul mezzogiorno si levò una tramontana e greco che ci convenne ritornare al riparo a quella isola che avevamo lasciata adietro, della quale eravamo lontani meglio di venti leghe: e quella sera del venerdí al tardi ne camminammo piú di dodeci, e per esser notte ci riparammo a quel traverso del mare, dove ricevemmo non poca pena noi e le navi, che in tutta notte niuno uomo dormí mai, ma tutti stemmo vigilanti. La mattina seguente, che fu il sabbato, a buon'ora ci mettemmo in viaggio e pigliammo la detta isola al riparo, surgendo in trenta braccia: e da quella parte dove surgemmo trovammo montagne alte e chiuse con argini d'una terra tutta cenere e arsa, e in altri luoghi arsiccia e nera come 'l carbone e come schiuma di ferro, e per altre parte bianchetta e intessuta di colline colorate, di che ci maravigliammo noi fuor di modo, attento che quando noi passammo ci parve terra domestica, piena d'alberi, e ora non se ne mostrava tronco da questa parte. Tutti giudicammo che dall'altra banda verso terra ferma fusser gli alboreti che noi vedemmo, ancora che, come dissi, andavamo lontani da essa 4 o 5 leghe. Ce ne stemmo quivi al riparo di queste montagne il sabbato, la domenica e il lunedí, sempre avendo questo vento di tramontana, cosí gagliardo che credemmo che, se ci avesse colti in mare, ci saremmo annegati.


Aggirano e smontano nell'isola dei Cedri per scoprirla e avere acqua e legna; sono dagli Indiani assaltati, e molti di loro con i sassi feriti; al fine restati superiori, vanno alle lor capanne e, scorrendo piú adentro l'isola, ritrovano varie cose abandonate nella lor fuga.

Martedí, che fummo a' 13 di febraio, comandò il capitano che si tirasse fuori i battelli e smontassimo in terra, il che si fece, andandocene per la costa fino a mezza lega buona, ed entrammo per una vallata, che, come ho detto, tutto questo paese era di monti molto alti e pelati della qualità che s'è detto: e in questa e in altre picciole basse trovammo alquanto d'acqua e che avea del salso, e non molto lungi certe capanne d'erba a guisa di scope, e parimente trovando pedate di Indiani piccioli e grandi: onde restammo fortemente maravigliati che in terra cosí aspra e indiavolata, per quel che potea vedersi, fusse gente. Quivi ce ne stemmo tutto il dí facendo 4 o 5 ingegni da pigliar acqua, che ci mancava, né per esser cattiva e poca si lasciò di pigliarla, e cosí, essendo già l'ora tarda, tornammo ad imbarcarsi e ce ne venimmo alle navi, che stavano surte ben circa una lega da terra. L'altro dí, che fu il mercoledí a' 24 del detto mese, sul far del dí il capitano comandò che facessimo vela, e ce ne venimmo circondando la medesima isola per la medesima banda per donde noi eravamo venuti dalla Nuova Spagna, perciochè avevamo veduti quando arrivammo 5 o 6 fuochi, onde se voleva veder d'intender s'era abitata. Nel capo adunque di questa rivolta o seno dove eravamo surti, ci uscí innanzi una canoa dove erano 4 Indiani, che venivano vogando con certi piccioli remi, e s'accostaron per riconoscerci molto vicini; onde dicemmo al capitano che sarebbe stato ben fatto che fussero alcuni di noi usciti su qualche uno de' nostri battelli per pigliar questi Indiani, o qualcuno di loro, per donargli qualche cosa, acciò vedessero che noi eravamo buone genti. Ma egli non volse farlo per non s'aver a fermare, avendo allora un poco di buon vento per poter circondar questa isola, con pensare che per innanzi avremmo potuti trovarne e pigliarne degli altri da poter parlargli e dargli quel che avessimo voluto verso la terra; e già che andavamo piú approssimandoci, vedemmo un colle grande pieno di belli alberi, della grandezza degli alberi e cipressi di Castiglia. In questa isola trovammo pedate di salvaticine e conigli, e vedemmo un pezzo di legno di pino, onde considerammo che in quel paese ce ne fussero assai. Cosí navigando vicini a terra, vedemmo un'altra canoa con altri quattro Indiani che veniva verso noi, ma non s'accostava molto, e allora guardammo per prora e vedemmo verso una punta che avevamo innanzi, assai vicina a noi, altre tre canoe: una parte al capo della ponta fra certe bassure, altre piú dentro in mare, per poter conoscer senza approssimarsici molto; parimente fra certi poggi che erano presso la punta si mostravano dove tre e dove quattro di loro, e dopo vedemmo un squadroncello insieme di qualche venti, in modo che tutti ci rallegrammo molto in vedergli. Si vedeva da quel lato la terra verde con pezzi di pianura che era vicina al mare, e similmente tutte quelle coste di colline si mostravano verdeggianti e di molti alberi, ancora che non molto spessi. Quivi vicini a terra surgemmo questo dí al tardi vicino a quella punta, per veder se avessimo potuto parlar con quelli Indiani, e similmente per veder di pigliar acqua dolce, che già ci mancava: e sempre, dopo che fummo surti, vedevamo apparir Indiani in terra vicini a' loro alloggiamenti, venendo similmente a vederci con una canoa e riconoscersi, a sei o sette alla volta, di che ci maravigliammo, perchè non ci pensavamo mai che una canoa ne capisse tanti. In questo modo ce ne stemmo aspettando quel che fusse successo, ed eravamo lontani dal luogo dove stemmo surti da questa terra, dove trovammo questi Indiani con queste canoe, qualche due leghe scarse; onde ci maravigliammo non poco di veder che in sí poca distanzia di paese fusse tanta mutazione, cosí in veder tuttavia scoprirsi terra verdeggiante e con alberi, dove dall'altra banda non ve n'erano, come per esser cosí popolata di questi Indiani, e aver tante canoe, che erano di legno per quel che potevamo vedere, e non zattere o balse, cosí chiamate da loro quelle che sono tutte di canna distese.
Il dí seguente, che fu il giovedí alli 15 del detto mese, sul far del giorno apparsero a capo della punta 4 o 5 Indiani, i quali subito che ci viddero si rimisero dietro la ponta e a certe macchie in piccioli colli che quivi erano, dove riuscivano e terminavano tutti i poggi e monti verdeggianti di quel pareggio, onde si comprendeva che quivi dovessero costoro aver l'alloggiamento loro, per la commodità dell'acqua e diffesa dal mal tempo e l'agio del pescare. Nello apparir del sole si viddero comparir Indiani in maggior frotta e porsi su in quelle colline in piccioli squadroni o compagnie, e di quivi si mettevano a guardarci; incontanente vedemmo uscire in mare cinque o sei canoe ben sequestrate da noi, e quei che erano dentro si vedevano spesse volte salir in piè per vederci e riconoscerci bene. Noi all'incontro a tutti questi loro atti non facemmo una minima mutazione, se non starcene cosí cheti surti, e il capitano mostrava d'aver poca voglia che si pigliasse niuno di loro, anzi la mattina a buon'ora di questo medesimo giorno comandò al contramaestro che lo trasportasse all'altra nave della Trinità. In questo stato erano le cose, quando all'ora decima si vidde uscir tre canove a largo in mare a pescare quasi vicino a noi, onde si potea pigliar gran piacere. A ore 12 ritornò il capitano dalla nave Trinità e comandò che si mettesse in punto il battello e la gente, cosí soldati come marinari, e che uscissimo in terra a veder se si trovasse qualche pezzo di legna e acqua, e per veder se si poteva pigliar un di quelli Indiani, per aver la lingua loro se fosse possibile: e in questo modo entrò nel battello della capitana tutta la gente apparecchiata, e noi ce n'andammo alla nave della Trinità, la quale insieme con l'altre ebbe in questo tempo un venticello fresco, col quale entrarono piú dentro della ponta, e discoprimmo gli alloggiamenti e case degli Indiani, e vedemmo vicino alla lingua dell'acqua quelle cinque o sei canoe, che da prima erano uscite per vederci, tirate a terra. E a questo paro tornarono a surger le navi a trenta e trentacinque braccia, ed eravamo assai vicini a terra, onde ci maravigliammo molto di trovar tanto fondo cosí presso la riva.
Entrati ne' battelli, ce n'andammo alla volta di terra all'incontro del villaggio degl'Indiani, i quali, tosto che ci viddero in atto di voler smontare, abandonarono un colle dove stettono a por mente a quel che noi facevamo, e se ne vennero alla spiaggia dove eravamo indrizzati per pigliar terra; ma prima che ci venissero contra fecero fuggire le donne con i fanciulli e la robba alla volta delle montagne, e poi se ne vennero diritti verso di noi e cominciarono a gridar forte, minacciando con certi bastoni grossi che portavano nelle mani, lunghi un braccio e mezzo, piú grossi che lo spazio della congiuntura della mano: ma avedutisi che non per questo noi tuttavia restavamo d'accostarci alla riva del mare per smontare in terra, si cominciarono a caricare di sassi e a tirarci fieramente, e ferirono quattro o cinque uomini, fra' quali colsono il capitano con due sassate. Arrivò in tanto l'altro battello alquanto piú basso, onde, veduto da loro esser forzati di dividersi per andar a diffendere lo smontar a quelli altri, si cominciarono a perder d'animo, non offendendo piú tanto il battello del capitano, il quale cominciò a far smontar i suoi con non poco travaglio, perchè, ancora che fusse vicino a terra, cosí come saltavano s'affondavano, perchè non trovavano luogo da posar il piè fermo. E in questo modo, nuotando o in qual altra via che potevano, smontò in terra un soldato che si chiamava Spinosa, e dietro lui il capitano e poi alcuni degli altri, e cominciarono ad affrontarsi con gli Indiani: ed essi se ne venivano passo passo con quelli bastoni nelle mani, che altra sorte d'arme non se gli vidde, eccetto archi con frezze di pino. Non aveano altra sorte di cibi se non pesce e un mascalmonte. In breve spazio combattendo disfecero in pezzi le rotelle al capitano e a Spinosa.
In questo tempo quei dell'altro battello s'erano sbarcati, non però senza gran travaglio, per le spesse pietre che di continuo piovevano sopra di loro, e ferirono Terazzo nella testa d'una mala botta: e se non fossero state le rotelle, si sarebbono veduti molti feriti, e si sarebbono i nostri trovati in gran necessità, ancora che i nemici non fossero in numero grande. In questo modo uscirono tutti a terra, similmente a nuoto e con grande affanno, e se non fosse stato che l'un l'altro s'aiutavano, se ne sarebbe affogato qualcuno. Smontati adunque, e di poco anco che smontassero quelli di questo battello, già gli Indiani se n'andavano fuggendo, pigliando il camino verso le montagne, dove aveano indrizzate le lor donne, i fanciulli e le robbe loro; dall'altra banda noi ci mettemmo a seguitargli, e su la spiaggia fu morto uno Indiano di quelli che si vennero ad affrontare col battello del capitano, e ne furono feriti altri due o tre, e anco si disse di piú. In questa maniera perseguitandogli, Berecillo nostro cane aggiunse uno non molto lungi da noi, che per esser cosí bagnati non potevano correre molto, e lo gettò a terra avendolo ben afferrato, e veramente lo averebbe tenuto fin tanto che noi fussimo giunti, se non fosse avenuto che dietro quell'Indiano che il cane avea sotto veniva un altro suo compagno, e con un bastone che portava nelle mani diede al cane una fiera bastonata su la schena, e senza punto fermarsi se ne tirò al diritto come un cervo, onde a Berecillo per il dolore convenne di lasciarlo: né a pena se gli tolse da dosso che l'Indiano si levò in piedi, e si mise a fuggire al monte di sí buona voglia che in pochissimo spazio raggiunse colui che l'aveva liberato dalle branche del cane, il quale egli ancora, per quel che si vedeva, non perdonava alle gambe; e in questo modo raggiunsero gli altri che non erano discesi alla spiaggia, che poteano essere qualche venti, e fra tutti fino a cinquanta o sessanta. Noi doppo l'aver ripigliato alquanto il fiato, guardando le capanne dove stavano, ch'erano certi coperti d'erbe come scope e rosmarini con alcuni legni ficcati in terra, e disse il capitano che cosí unitamente senza allargarci dovessimo alquanto andare verso quelle montagne, per vedere se vi fosse acqua e qualche poco di legna, perchè di tutto avevamo necessità grande, e caminando oltre vedemmo verso certe picciole basse la robba che le donne aveano nel fuggire quivi lasciata, perciochè gli Indiani, tosto che viddero che noi gli seguitavamo, gli raggiunsero e per paura commisero loro che scampassero con i figliuoli, lasciando quivi quei loro mobili. Ce n'andammo a questo bottino e ci trovammo buona quantità di pesce fresco e secco e alcuni otri della grandezza di piú d'una roba di pesce macinato e secco, e molte pelli di lupi marini, la maggior parte concie con bel reverscio bianco, e altri poi molto mal ordinate; v'erano anco instrumenti da pescare, come d'ami d'alcune punte d'erbe e legno. Quivi togliemmo questi cuoi senza lassarvene pur uno, e poi ce ne tornammo al mare, per essere oggimai notte o almeno molto tardi, e trovammo i battelli che ci aspettavano.


Descrizione delle canoe degl'Indiani dell'isola de' Cedri, e come, aggirandola per aver acqua dolce, la ritrovano, e piú desiderandone smontano in terra e dagl'Indiani sono con l'arme variamente travagliati; fanno cristiano un vecchio Indiano e ritornano alle navi.

I battelli o canoe che avevano costoro erano certi legni di cedri grossi, alcuni d'essi della grossezza di due uomini e di tre braccia di larghezza, né aveano niuna incavatura, ma cosí distesi uniti insieme li buttavano in mare, e non erano manco bene spianati, perchè non trovammo niuna sorte d'instrumento da tagliare, eccetto se non erano certe pietre acute che trovammo in certi scogli molto taglienti, che con quelle facemmo giudicio che dovessero tagliare e scorticare quei lupi marini. E giunti alla spiaggia, fu trovata certa acqua, della quale empiemmo utri fatti delle pelle di quei lupi marini, che ciascuno teneva meglio di una gran secchia d'acqua. L'altro dí comandò il capitano che dessimo la vela a' venti, onde navigando con tempo fresco a due leghe di terra di questa isola, andando circuendola per vedere il capo d'essa e similmente per avicinarci alla terra ferma in certificarne di quel che fosse, per averci visti cinque o sei fuochi, la circondammo, perchè venivamo con ciò a far due o tre cose buone, che per essa noi ritornammo al nostro dritto viaggio, e ci certificavamo se della costa di terra ferma usciva fiumana veruna, e se v'erano alberi e se si vedeva quantità d'Indiani o no. In questo modo andandocene navigando tutto il venerdí, alli sedeci di gennaio, essendo già notte e volendo spuntare la punta di questa isola, ci sopragiunse una tramontana cosí gagliarda e contraria che ci fece ritornare quella notte al par degli alloggiamenti e abitazioni degli Indiani, e quivi ce ne rimanemmo il sabbato, nel quale ci si smarrí di nuovo la Trinità: però al tardi la vedemmo poi la domenica alli diciotto, e cominciammo a seguire il nostro cammino per circundar quell'isola, se fosse piaciuto a Dio di darci buon tempo.
Domenica, lunedí e martedí, che fummo alli venti d'esso mese di gennaio, navigammo con venti deboli e contrarii, e al fin giungemmo fin quasi al capo della punta dell'isola, chiamata l'isola dei Cedri perchè nella cima delle montagne d'essa vi è una selva di questi cedri, molto alti, come è la natura d'essi. Questo giorno la nave Trinità scoperse una villa e ridotto di Indiani e acqua, perchè la domenica di notte l'avevamo nuovamente smarrita, e non la vedemmo fino al martedí, che stava surta vicino a terra e presso a queste capanne d'Indiani; e incontanente che la vedemmo ce n'andammo a trovarla, né l'avevamo anco arrivata quando scoprimmo tre canove d'Indiani che si venivano accostando alla detta nave Trinità, tanto che toccava quasi l'orlo d'essa, e gli donarono del pesce, e i nostri all'incontro donarono loro robba di baratto, e parlato che ebbero con loro se ne tornarono a terra gli Indiani. In questo ad un tempo giungemmo noi colla nave capitana e surgemmo presso d'essa, e tutti ci salutarono, dicendo che gli Indiani gli erano stati vicini e quel che avean fatto con esso loro, di che prese il capitano e noi altri gran piacere; ci dissero poi che avevano trovato acqua dolce, che ci fecero accrescere l'allegrezza grande, perciochè ne avevamo gran bisogno, che nell'altro luogo degli Indiani ne avevamo potuto avere se non poca. Cosí stando, vedemmo che uscí una canova in mare con tre Indiani dalle lor capanne, e se n'andarono ad un luogo da pescare fra certa grande erba e alta che nasceva in questo mare fra certi scogli, che la maggior parte d'essa è in quindeci o in venti braccia di fondo, e con molta prestezza presero sette o otto pesci, e con essi se ne tornarono alla Trinità e glielo dierono, ed essi in contracambio donarono a loro alcune cosette di baratto. Quivi doppo se ne stavano gli Indiani alla poppa della nave guardandola piú di tre ore, e pigliati i remi del battello si provavano a vogare, di che pigliavano gran piacere, e noi che eravamo nella capitana in tanto non facevamo motto né movimento alcuno, acciochè piú s'assicurassero e non fuggissero, anzi vedessero che noi non gli volevamo far male alcuno e che eravamo buone genti. Incontanente che fummo surti e guardato ben tutto quel che gli Indiani faceano con quei della nave Trinità, già che se n'erano andati nelle lor canove di travi a terra, comandò il capitano che gli fosse condotto il battello che teneva di fuori e, venuto, v'entrò egli con Francesco Preciato e altri dua compagni, e ce n'andammo alla Trinità. Gli Indiani, avendo veduto che di questa altra nave era entrata gente nella Trinità, mandarono due canove alla poppa della nave e ci portarono un utro d'acqua, e noi all'incontro donammo loro certi paternostri, e ce ne stemmo a parlare con essi loro un pezzo; ma venuta l'ora tarda, si rinfrescò piú l'aere, ancora che il paese sia sempre ordinariamente freddoso; gli Indiani se ne ritornarono a terra nei loro alloggiamenti, e il capitano e noi altri ci riducemmo alla nostra nave.
Il giorno seguente, che fu il mercoledí, sul far del giorno comandò il capitano che dovessimo passare alcuni di noi nel battello, e che saltassimo in terra per vedere se si vedea roscello o fonte d'acqua dolce negli alloggiamenti degli Indiani, parendogli che non fosse possibile che dimorassero quivi senza aver acqua da bere. Vi uscí in compagnia similmente il padre fra Raimondo, perciochè, essendo il giorno innanzi venuti essi alla poppa della nave e parlato con noi altri, gli parve che con la medesima famigliarità avrebbe potuto parlare con loro qualche poco; uscirono parimente molti marinari e soldati col battello della Trinità. E tutti insieme con le nostre arme andando verso terra, alquanto piú sopra degli alloggiamenti degli Indiani, ed essendo di molto buon'ora, essi guardarono i battelli e s'aviddero che noi volevamo pigliar terra, onde mandarono le moglie e fanciulli con alcuni di loro, portandone la robba, verso certi balze altissime e valloni, e vennero alla volta nostra cinque o sei di loro, benissimo disposti e di buona statura: i dua d'essi con archi e frezze, e altri dua con duoi bastonacci grossi assai piú che la congiuntura della mano, e gli altri dua con due aste lunghe come zagaglie, con le punte molto acute. E si vennero a porre assai vicini a noi, che già eravamo smontati in terra, e cominciando a farci con cenni fiere bravate, e s'accostarono tanto che quasi vennero a dar con una di quelle aste nella rotella ad uno dei nostri soldati, chiamato Garzia, di nobil nazione: ma il capitano gli comandò che si tirasse adietro, e che non facesse a niun di loro alcun dispiacere. In questo il detto capitano e frate Raimondo si misero innanzi, portando il frate però il mantello involto al braccio, perchè aveano prese le pietre nelle mani e temean che non gli facesser dispiacere; poi tutti duoi cominciarono a parlar loro per cenni e con parole che stessero cheti, che non gli voleano far male, ma solo erano venuti per pigliar acqua, e il frate gli mostrava una scodella; ma nulla poté mai giovare a far che essi non bravassero piú sempre e tirassero delle pietre. E stando pur il capitano in quel pensiero di non volergli far male, disse a' suoi che si venisser sempre con dolcezza accostando a loro, e che con cenni tutti mostrassero che non gli voleano nuocere in conto alcuno, ma solo eravamo smontati per prender acqua; dall'altra banda essi, senza punto voler intender queste cose, s'insuperbivano ognora piú, onde Francesco Preciato persuase il capitano di lasciar che se ne uccidesse uno, perchè tutti gli altri se ne sarebbono iti fuggendo, onde agiatamente si sarebbe potuto pigliar acqua: ma egli rispose che non si facesse, ma sí bene si sciogliessero duo cani, Berecillo e Acchillo. Furon dunque lasciati questi cani, e tosto che essi gli viddero si dileguaron di subito, mettendosi a correre e fuggir per que' bricchi come cavalli, e si posono in fuga parimente altri, che venivano dall'alto in soccorso loro. I cani aggiunsero due di loro e gli morderono alquanto, e noi correndo gli pigliammo: ed erano in vista cosí fieri come feroci animali e indomiti, perchè erano tre o quattro a tener un di loro per accarezzargli e assicurargli e per voler dargli qualche cosa, ma nulla giovava, perchè ci mordeano le mani e s'abbassavano per pigliar delle pietre per darci con esse. Gli conducemmo in questa guisa un pezzo e giungemmo alle abitazioni loro, dove il capitano fece uno editto che non fusse persona che toccasse cosa veruna, comandando a Francesco Preciato che avesse cura che s'osservasse l'ordine suo in non torgli cosa alcuna, ancora che per la verità poco ci fusse, perchè le donne e gli Indiani fuggiti l'aveano portate via.
Quivi ritrovammo un vecchio in una grotta, e di tale vecchiezza che era cosa maravigliosa, che non poteva vedere né camminare, tanto era gobbo e curvato. Il padre frate Raimondo disse che sarebbe stato ben fatto, poichè era cosí vecchio, che l'avessimo fatto cristiano, e cosí facemmo. Il capitano donò agli Indiani prigioni due para d'ornamenti da orecchie e certi diamanti, e accarezzatigli gli lasciò andare a piacer loro: e in questo modo a passo a passo se ne tornarono agli altri in quella montagna. Noi pigliammo l'acqua di quella villa, che era poca, onde comandò il capitano che dovessimo tornarcene alla nave, perchè non avevamo mangiato ancora, e dopo il mangiare facemmo vela verso un seno che si faceva piú innanzi di quel villaggio, dove si vedeva un vallone molto grande, e quei della Trinità dicevano averci veduta quantità d'acqua e a bastanza per noi. Surgemmo adunque vicini a questo vallone, e saltò in terra il capitano con amendue i battelli e la gente che era uscita in terra la mattina, con i duoi padri, frate Raimondo e frate Antonio, e, andati qualche un tiro di balestra per quel fosso, trovammo un roscello d'acqua assai picciolo: pur era a bastanza per il nostro bisogno, che n'empiemmo la sera dua botti, lasciando gli instrumenti da pigliarla in terra per l'altra mattina; né fummo poco allegri d'aver trovata questa acqua, perciochè era dolce, e l'acqua che pigliammo per l'adietro era stata un poco salsa, e ci avea fatto gran danno al corpo e al gusto.


Prendono dell'isola de' Cedri per sua Maestà la possessione. Indi partiti, sono dalla fortuna di mare diversamente travagliati, e all'istessa isola come a sicuro porto si riducono.

L'altro giorno, che fu il giovedí a' 22 di gennaro, molto di buon'ora ordinò il capitano che saltassimo in terra, dove si portasse il nostro desinare e si pigliasse il resto dell'acqua: il che facemmo, empiendone 17 botte, senza veder un Indiano mai. Il giorno vegnente, volendo pur uscir per empiere otto o nove vaselli che ci erano restati da empiere, ci sopragiunse un maestrale molto gagliardo, onde dalle navi ci fu fatto cenno che con ogni prestezza ritornassimo dentro, perchè rinforzava tuttavia piú il vento, e i patroni aveano paura che non si rompessero i canapi, cosí ci trovavamo alla scoperta. Rientrati adunque, non senza gran travaglio, ci ritornammo adietro all'incontro del villaggio degli Indiani dove prima avevamo ucciso l'Indiano, e perciochè si placò alquanto il vento su la mezzanotte, i pilotti non tornarono a surgere, ma si tennero al riparo di questa isola, la qual si chiama, come si disse, l'isola dei Cedri ed è una delle tre isole di San Stefano, la maggiore e piú principale, dove il capitano pigliò la possessione. Quivi stando a mezzanotte, venendo il venerdí alli 23 del mese, senza surgere, ci venne improvvisamente addosso un sirocco fresco molto favorevole per il nostro viaggio, e quanto piú s'andava innanzi piú soffiava, in modo che fra quella notte e l'altro dí di sabbato, che era il 24 del detto mese, camminammo diciotto buone leghe, che cosí navigando ci si mutò il tempo in tanto contrario e sí impetuoso che ci convenne rivoltar le briglie alle navi, a mal grado nostro, e tornammo indrieto venti leghe, ripigliando per riparo un'altra volta la punta degli alloggiamenti degli Indiani dove fu ammazzato quello Indiano. E quivi ce ne stemmo lunedí e martedí e il mercoledí, che sempre soffiava quel vento, chiamato maestrale, e maestro e tramontana insieme, con disegno di non ci muover di quivi fintanto che non vedessimo il tempo buono per il nostro viaggio bene indrizzato, perciochè per quel paese regnan tanto questi venti, che temevamo che quivi non ci facesser tardar piú giorni che non avessimo voluto, che già eravamo tanto stracchi che ogni giorno di cammino ci parve un mese: e fa tanto freddo quando soffiano questi venti, che non ci bastava di porre adosso quanti panni potevamo sopportare, che sempre tremavamo.
Ci fermammo surti in questo riparo il giovedí, il venere e il sabbato fino a mezzogiorno, che fu l'ultimo di gennaio, mese e anno del 1540. Sul mezzodí poi cominciò a soffiare un garbino non molto gagliardo, onde il capitano disse ai pilotti che sarebbe stato bene che ci fussimo accostati alla costa di terra ferma, dove con qualche vento di terra e con la grazia di Dio saremmo iti qualche poco innanti; in questo modo facemmo vela e camminammo fino a sera tre o quattro leghe, perchè ci mancò il vento e restammo in calma. Venuta la notte ci si levò vento contrario, e di pura necessità ci riducemmo di nuovo al medesimo riparo dell'isola dei Cedri, dove stemmo fino alla domenica di carnovale, nel qual tempo tornammo a ripigliar due botticelle d'acqua che avevamo bevuto. In questi otto giorni tentammo di rimetter vela due o tre volte, ma, come uscivamo un poco fuor della punta della detta isola, trovavamo tanto vento e sí contrario, e il mar cosí alterato, che per forza ci bisognava ridurci al riparo dell'isola, e molte volte ci vedemmo in grandi affanni per dubbio di non poterci rientrare. In questo medesimo tempo che non potevamo andare, ci mettemmo a far un poco di pesca per la quadragesima.
Dalla domenica di carnovale, che fu agli otto di febraio, nel qual dí facemmo vela, camminammo con pochissimo vento e piú calma fino al dí di carnovale, che arrivammo a vista della terraferma, donde tornammo indietro le 20 leghe, che potevamo aver camminato in questi due dí e mezzo qualche 20 leghe scarse, e stemmo a vista della detta punta di terra ferma; e il martedí restammo in calma, aspettando che Dio per sua misericordia ci soccorresse con qualche vento prospero per andar innanzi. La notte di carnovale avemmo per far buona cera un vento con acqua cosí grande, che non restò cosa che non si mollasse nelle nostre navi, e uno aere cosí freddo che ci gelavamo vivi. Il mercoledí delle cenere nel spuntar del sole amainammo appresso la punta dove eravamo arrivati, alquanto piú basso, in uno gran seno che si fa in questa terra ferma, e questo è il luogo dove vedemmo li cinque o sei fuochi; e nell'uscir del sole essendo vicini alla terra, che ben la potevamo vedere e guardare a nostro piacere, vedemmo che era molto amena, perchè ci scorgevamo, per quanto potevamo arrivare con gli occhi, gentili valli e monticelli, con macchie verdeggianti e di dilettevole aspetto, ancora che senza niuno albero. Il sito mostrava la sua grandezza e larghezza. Quivi comparse il giorno con poco vento e quasi calma, di che sentendo non poca pena, e il padre fra Raimondo ci disse messa secca e ci dette la cenere, predicandoci conforme al tempo e stato in che ci ritrovammo, del qual sermone restammo molto consolati. Dopo il mezzodí con vento contrario, il qual ci era sempre nemico per tutto il cammino, almeno dalla punta del porto di Santa Croce, quivi ci bisognò surgere in cinque braccia di fondo, e dopo l'esser surti ci ponemmo a guardare la terra, pigliandoci piacere in contemplarla, quanto era dilettevole e vaga, e vicino al mare ci pareva di veder una valle di terra bianca. Venuta poi la notte, ci sopravenne una traversia cosí grande con acqua e vento, che fu una cosa tanto spaventevole e travagliosa che non si potrebbe dir maggiore, perchè ci trasportava a dare a traverso in quella costa; e il pilotto maggiore fece gettare un'altra grande ancora in mare, e con tutto questo non bastava, perchè con tutta due non potea fermarsi la nave, onde tutti domandavamo misericordia a Dio, aspettando di veder quel che disponeva di noi. Il quale si degnò per sua gran bontà di fare che, mentre eravamo in questo pericolo, s'allargò il tempo un poco, e con molta prestezza comandò il pilotto maggiore a' marinari che gettassino il legno al cabestrante, e il capitano comandò e pregò tutti i soldati che aiutassero a girare il cabestrante, di che non furono pigri a farlo, e in questo modo cominciammo a levar l'ancore. E levandone una, che era molto maggiore dell'altra, essendo cosí alterato il mare, forzò il cabestrante con le genti che non lo poteron tenere, e percosse in modo un moro del capitano che lo gettò in terra disteso, e similmente un marinaro, e percosse col focone uno dei legni, che lo gettò atraversato in mare. Pur con tutti questi travagli ci levammo e ponemmo a navigare, e con tutto che avessimo nel mare gran fortuna, non però la stimammo niente, rispetto al contento che avemmo di vederci liberati da quel pericolo di dare a traverso con le navi in quella costa, essendo massimamente su la mezzanotte, nel qual tempo niuno sarebbe scampato se non per mero miracolo di Dio.
Andammo per il mare giovedí e venerdí fino a che venne giorno, che fu ai quattordeci di febraio, e i colpi dell'onde ogni volta ci bagnavano sopra la coperta. Alla fine il sabbato, nel far del giorno, non potemmo trovare rimedio veruno ai venti contrarii, ancora che il capitano si ostinasse molto a voler tenersi al mare, non ostante che fusse turbato, per non avere di nuovo a dare indietro. Ma non vi valse diligenza né rimedio alcuno, perchè i venti erano cosí grandi e cosí contrarii che non potevano essere maggiori, e il mare s'andava di continuo piú inalzando e insuperbendo, e tanto che avemmo paura grande di annegar tutti; onde parve ai pilotti che fusse ben fatto di dover ritornare all'isola dei Cedri, dove già tre o quattro altre volte eravamo arrivati per questi medesimi venti contrarii, perchè avevamo questa isola per nostro padre e madre, ancora che d'essa non cavassimo beneficio alcuno, se non questo di ridurci in essa in queste necessità e provederci d'acqua e d'alcuno picciol pesce. Arrivati adunque in questa isola e surti in quella coperta, sempre soffiavano venti contrarii molto gagliardi; pigliammo l'acqua che bevevamo e la legna che brucciavamo, ed eravamo posti in gran desiderio che i venti ci fossero piú favorevoli nel passare innanzi, e quantunque stessimo sotto questa coperta dell'isola, sentivamo nondimeno il grande empito di quei venti e l'alterazione del mare, né le nostre navi cessavano di ballare. Nel far del giorno, che fu ai venti di febraio, trovammo il canape della capitana spezzato, onde con molta tristezza ci convenne metterci alla vela e chinarci piú basso per spazio d'una lega, e la nave della Trinità si venne a congiungere con noi altri.


Smontano sopra l'isola dei Cedri, prendono diversi animali e si danno al riposo e piacere; sono dal vento maestro stranamente travagliati, e piú volte tentando partire, per non provare varii disagi, sono sforzati per porto ivi ricorrere.

Alli 22 del mese di febraio, che fu la seconda domenica di quaresima, saltò il capitano a terra con tutta la maggior parte delle genti e i frati, presso d'una vallata che vedevamo innanzi. E udita messa in terra, entrorono per essa vallata alcuni soldati e marinari, con alcuni cani che avevamo con esso noi, e ci incontrammo in alcuni cervi, de' quali pigliammo una femina picciola, ma grassa, il pelo della quale s'assimigliava piú a camozza che a cervo; e ci pareva che non fosse legitimamente cervo, che avea quattro poppe a guisa di vacca piene di latte, che ci dette gran maraviglia, e doppo, avendo scorticata la pelle, ci parea la carne piú tosto di capra che di cervo. Ammazzammo similmente un conello berrettino naturale, come quel della Nuova Spagna, e un altro nero come ebano. Nelle capanne piú di sopra, al paro dove ci si roppe il canape, trovammo quantità di pigne aperte, che al parer mio dovevano gli Indiani averle colte per mangiare i pinochi di quelle. Il lunedí a' ventitre del detto mese noi stemmo surti, pigliandoci piacere e sollazzo col pescare, e cominciò a soffiare il vento maestrale, il quale crebbe tanto da poco innanzi la mezzanotte che era cosa di gran maraviglia, in modo che, quantunque fussimo a coperta di quella isola e molto difesi da questo vento, nondimeno era cosí foribondo, e il mare s'era tanto turbato e travagliato, che conquassava molto le navi, e stavamo in gran paura che non ci si rompessero i canapi, dei quali invero avevamo bisogno grande, imperochè, avendo consumato piú tempo in questo viaggio che non ci pensavamo, ci se ne erano rotti due e avevamo perdute due ancore, le migliori che ci fossero. Regnò questo vento cosí impetuoso fino all'altro giorno, che fu martedí a' ventiquattro, nel quale saltammo in terra con i frati, che ci dissero messa, e ci raccomandammo a Dio e la sua benedetta Madre, pregandola che le piacesse di soccorrerci e aiutarci con qualche buon tempo, per poter ire innanzi al nostro viaggio in parte che lo potessimo servire. E tuttavia erano i venti cosí gagliardi e furiosi che parea che i demonii si fossero sciolti per l'aere, e per questo i pilotti fecero calare tutti gli alberi al basso, acciochè non pigliassero vento, e levar tutte le sarti, e fecero similmente disfare le camere delle poppe per allargare piú le strade in sicurezza delle navi, e con tutto ciò non restavamo di stare in gran travaglio.
Il martedí che fu alli X di marzo, poteva esser mezzanotte o poco piú, essendo surti nella medesima isola con questo affanno, venne uno empito di maestrale, e alla nave capitana s'allungò il canape e alla Trinità si roppe il suo, e piú si saria perduto se Iddio per sua misericordia non ci avesse proveduto, con la diligenza che usarono i pilotti in dar le vele dei trinchetti e la mezzana, con che uscirono in mare, e sursero con un'altra ancora fino al giorno, che venuto, andò la gente di tutte dua le navi per trovare con le barche l'ancora fino al mezzodí; la quale si trovò al fine e si riebbe, non senza gran travaglio e gran diligenza che si usò in tastarla, che fino al mezzodí durò il cercarla, e nel voler riaverla ci vedemmo in molto affanno. Dopo procurammo di acconciare le sarti e tutte le cose necessarie per navigare, acciochè, se Iddio fosse servito, fossimo in viaggio, per non dimorare sempre in quel luogo come persi e disperati. In questo modo il mercoledí doppo il disnare di due o tre ore demmo le vele ad un poco di siroco, che avemmo favorevole per il nostro cammino, assai scarso, e con non picciola paura dei pilotti e di tutti noi altri che ci avesse a durar poco. Cominciammo adunque a camminare, ancora che innanzi gli occhi ci paresse di veder che allo spontare dell'isola avremmo trovato vento contrario di tramontana e maestro. Questo giorno, già che cominciava a farsi notte, le navi andavano discoprendo la punta di questa isola dei Cedri, quando cominciammo a sentire questi venti contrarii e ad insuperbirsi il mare, che era cosa di gran terrore a vederlo; e quanto piú passavamo innanzi, piú rinfrescavano i venti, in modo che ci posero in gran necessità, andando sempre con le corde della vela maggiore e del trinchetto nelle mani, all'erta e con molta diligenza, levando le aggiunte di tutte le vele per assicurarle piú, perchè il vento non le potesse molto caricare. Con tutto questo parse a' marinari che dovessimo tornare adietro, e che a niun patto ci dovessimo scoprire al mare, perciochè correvamo un estremo pericolo, onde pigliammo il consiglio loro, riducendosi quasi al luogo donde ci eravamo partiti; di che sentimmo tutti non poco dolore, per non potere proseguire il nostro viaggio, e cominciammo a patire di molte cose degli apparecchi delle navi.
Alli otto di marzo, il lunedí, comandò il capitano sul mezzogiorno che ci mettessimo alla vela, perchè veniva un poco di vento da ponente, che era quello che piú ci bisognava a seguitare il nostro viaggio, che ci rallegrò tutti, pel gran desiderio che avevamo d'uscir di quel luogo. Cominciammo adunque a camminare e a uscire alla punta dell'isola e a pigliare la via della costa di terra ferma per vedere il sito d'essa, e navigammo fino a notte, e già che uscivamo dall'isola, fra essa e la terra ferma cominciò a soffiar il maestrale, vento contrario, che crebbe a poco a poco tanto che bisognò levare le bonette delle vele per assicurarle amainandole molto: e la Trinità, come vidde il mal tempo, se ne ritornò incontanente al luogo donde eravamo usciti, e la capitana andò aggirando in mare tutta la notte, finchè venne il giorno, che, veduto dal pilotto maggiore che a niun patto potevamo andar innanzi senza pericolare, se piú quivi ci fossimo fermati, determinò che noi ci riducessimo di nuovo a quella coperta, dove ce ne stemmo surti fino al giovedí. E il venerdí a mezzodí rimettemmo la vela con vento scarso, e nell'uscire alla punta dell'isola di nuovo ci si scoperse il maestrale, vento contrario, onde correndo tutta notte verso la terra ferma, ci si fece giorno il sabato di Lazaro sopra essa, che fu alli tredeci di marzo, che tutti ci rallegrammo col vederla, e avremmo voluto noi soldati smontarvi volentieri. La notte venne gran pioggia, simile a quella di Castiglia, e tutti ci trovammo bagnati la mattina. Prendemmo gran piacere di vedere il sito di quella terra ferma, per essere verde e scoprirsi una valle amena di buona grandezza, e pianure, le quali parevano circondate d'una ghirlanda di montagne. Al fin per tema delle traversie, veduto il mare alto, non ardimmo di star quivi o arrivare alla terra, e per aver gran bisogno di canapi e ancore ci convenne dare un'altra volta al mare, e postici in esso, sentendosi pur quei venti contrarii, giudicorono i pilotti che non ci fosse altro rimedio se non di nuovo ridurci al nostro riparo, e in questo modo ce ne ritornammo, ma alquanto piú sopra del luogo primo. La domenica surgemmo qui con gran dolore di tutti, veduto quanto pativamo, né potevamo spontare innanzi, che questo ci era un affanno che niuno altro ci poteva essere piú intollerabile. Sentivamo questo giorno doppo l'essere surti grandissimo vento maestrale, nostro contrario e nemico capitale, e a notte chiusa cominciò a rinforzarsi sempre maggiore, tanto che le navi travagliavano molto, e dopo la mezanotte, al quarto dell'alba, si ruppero duo canapi alla nave Trinità, che tenevano due ancore che aveva: e vedutasi cosí in abandono, andò volteggiando per mare fin al giorno, che se ne ritornò a surgere presso di noi con una ancora che gli era rimasa. Questo giorno ci mettemmo tutti per cercar queste ancore perdute, e con tutta la diligenzia che ci usammo non se ne poté trovar piú che una. Stemmo tutto il dí surti fino alla notte, che di nuovo alla Trinità si ruppe un canape che certi scogli troncarono, onde commise il capitano che non surgesse piú, ma che se n'andasse torneggiando, in quel modo a vista di noi altri, il che fece ella tutto il dí e la notte, che fu a surger all'incontro d'una acqua dolce piú a basso; e noi ce n'andammo a surger vicino ad essa, dove ce ne stemmo fino alla domenica. La domenica dell'Olive uscimmo in terra con i padri, che ci dissero la Passione e la messa, e andammo in processione con rami in mano, e cosí, consolati per aver veduto Iddio nostro Signore, ce ne ritornammo alle navi.


Ritornandosi nell'isola de' Cedri, travagliati e con le navi mal condizionate, concludemmo che la nave Santa Agata facesse ritorno nella Spagna. Delle balene che navigando ritrovano; con la descrizione e figura d'un'erba, qual nasce fra l'isole di quelli mari.

Quivi ce ne stemmo fermi fino al mercoledí santo, a' 24 di marzo, nel qual dí si ragionò fra noi che, per esser le navi mal condizionate e che gli mancavano gli apparecchi necessarii, non potevamo passare innanzi, che sarebbe stato bene di ritornarcene alla Nuova Spagna, e similmente perchè i nostri panni s'andavano consumando; ma il capitano non mostrò d'aver voglia di tornar adietro, ma di seguir il cammino. E al fin fu determinato che poichè le due navi non poteano andar piú innanzi per gli instrumenti che avevano perduti, come per aver bisogno d'esser risarcita alquanto Sant'Agata, perchè v'entrava di molta acqua, che si dovesse ritornar adietro, ma prima spingerne le due piú mal in arnese indietro per avisare il marchese di quel che era successo in questo viaggio, e il disturbo che ci causava a non poter proseguirlo, e nel termine che ci trovavamo sforniti degli apparecchi necessarii; e perciochè la nave della Trinità era la piú spedita ed era meglio in punto di tutte l'altre, fu concluso che si mettesse in ordine quanto piú si fusse potuto, e che con essa andasse innanzi il capitano con quei che li fussero parsi, e gli altri si fussero ritornati in buon'ora. Con questa determinazione adunque andammo sotto una punta di questa isola, per esser luogo atto per dar carena alla nave, e nel pigliar quella punta ci consumammo il mercoledí e giovedí fino al venere a mezzogiorno, e ancora non la spuntammo bene fino alla domenica di Pasqua sul mezzodí. Quivi surgemmo molto vicini a terra, e in una valle trovammo una gentilissima acqua dolce, della quale facemmo gran festa, e ce ne stemmo fermi tutte le feste di Pasqua per metter mano a risarcir la nave Trinità, e doppo se gli diè principio per duoi maestri molto sofficienti spalmatori, l'uno de' quali fu Giovanni Castigliano, pilotto maggiore, e l'altro Peruccio di Bermes, che la finirono in cinque giorni cosí bene che fu una maraviglia, perchè in niun lato si potea imaginare che vi dovesse entrar gocciola d'acqua. E dopo si vennero risarcendo l'altre nave, dal sabbato fino al lunedí; nel qual tempo si confessarono tutti quei che restavano a confessarsi e si communicarono, e per ordine dei confessori fu risoluto che si rendessero tutte quelle pelli di lupi marini che erano state tolte agl'Indiani, e il capitano diede assunto a Francesco Preciato che dovesse tutte restituirle, incaricandogli nella propria conscienzia: in questo modo si raccolsero e si dierono in mano di quei padri, che le avessero in custodia finchè ritornassero al luogo di restituirle.
In questa maniera il lunedí innanzi il mezzogiorno ci licenziammo dal capitano Francesco di Ulloa e con la gente che restò seco, con non poche lagrime di quei che restarono, e pigliammo per capitano nella nave S. Agata mastro Giovanni, pilotto maggiore, cosí della nave come di noi, e facemmo vela questo dí 5 d'aprile, conducendo il nostro battello ligato alla poppa, fino al giunger al paro delle capanne dove furono tolte le pelle de' lupi marini.
Eravamo lontani dal paese di cristiani e dal porto di Colima (ch'è il primo porto dove aveamo risoluto di far la prima scala) qualche 300 leghe, e nel passar oltre una lega dalla nave Trinità, il capitano Giovanni Castigliano ordinò che salutassimo con tre colpi d'arteglieria, ed ella ci rispose con altri tre, e dopo noi rispondemmo a lei ciascuna con due tiri. Navigammo il lunedí e martedí fin al mezzodí con vento contrario a vista dell'isola, e al mezzodí ci diede vento fresco in poppa, che ci portò allo incontro delle capanne degl'Indiani, dove togliemmo quelle pelle de' lupi marini: e quivi saltarono nel battello alcuni soldati e marinari col padre frate Antonio di Melo, portando i cuoi, e gli gettarono in dette capanne donde erano stati già tolti, e se ne ritornarono alla nave. Questo giorno si calmò il tempo, onde ci bisognò quivi surgere incontanente, temendo di ritrovarci in affanno se le vettovaglie ci fussero mancate per stare quivi in lungo tempo; ma Iddio, che è vero rimediatore, ci rimediò meglio che noi non meritavamo né pensavamo, che, passata la mezzanotte cosí surti e venuto il mercoledí, innanzi le dieci ore ci cominciò a favorire un vento fresco di siroco che ci tirò in mare, dove usciti ci sopragiunse un maestrale cosí buono e durabile che in sei giorni ci condusse fino al capo della punta del porto di Santa Croce, di che demmo infinite grazie a Dio per averci fatto sí gran bene, e quivi cominciando a mangiar piú largamente che non avevamo fatto per l'adietro, perciochè, per tema che ci mancasse la vettovaglia, avevamo mangiato molto parcamente. Prima che giungessimo a questa punta del porto di Santa Croce, a sei o sette leghe vedemmo in terra fra certi valloni alcune fumane grandi, e già che lasciavamo la punta di questo porto, piacque al capitano nostro che dovessimo traversar il mare, entrando nel mare grande. Però, cosí navigando alla spedita, ci vennero ad attraversare in due o tre squadre in spazio d'un'ora piú di cinquecento balene, e cosí grande che era cosa d'ammirazione, e in tal modo alcune d'esse si venivano ad accostarsi con la nave, che sotto essa nave passavano da una parte e l'altra, onde avevamo gran paura che non ci facessero qualche danno: ma non poteano, perciochè la nave aveva un vento prospero e buono e caminava molto, onde non potea ricever danno veruno, ancora che se l'accostassero o l'urtassino.


Fra quest'isole è tanta quantità di queste erbe, la figura delle quali è qui di sopra ritratta, che, se alcune volte ci bisognava di passar sopra di esse, ci ritenevan le navi: nascono in fondo di 14 o 15 braccia, e con le cime vengono sopra l'acqua 4 o 5 braccia. Il color d'esse è come di cera gialla, e il festuco proporzionatamente grosso; è quest'erba assai piú bella che non è dipinta, e non è da maravigliarsi, perchè il pittore e artefice d'essa è molto eccellente.
Questa relazione si tolse da quella che portò il Preciato. Dopo queste navi del capitano Ulloa si partí e ritornò adietro anco ella a' 5 d'aprile, e arrivò al porto di Sant'Iago di Buona Speranza a' 18 dell'istesso mese, e passò avanti, dopo l'essere stata quivi 4 o 5 dí: e fino ad oggi, 17 di maggio di questo anno del 1540, non ho avuto aviso ne' nuova d'essa.


Discorso sopra i tre viaggi susseguenti


Essendo stato mandato l'illustrissimo Giovanni Antonio di Mendozza dalla Maestà cesarea vice re del Messico e della Nuova Spagna, e avendo inteso che 'l signor Fernando Cortese avea mandato molti navili per la costa della Nuova Spagna a discoprire paesi per trovar le Moluche, venne voglia di fare ancor a lui il medesimo come vice re della Nuova Spagna, e per questo si fecero nemici l'uno dell'altro, perciocbé il Cortese dicea che era capitano generale e discopritore del mare del Sur, e cbe toccava a luí a far fare quei viaggi; dall'altro canto il signor don Antonio dicea come vice re della Nuova Spagna appartenersi a lui questo scoprimento, di sorte cbe vennero alle mani e il Cortese ritornò in Spagna a lamentarsi a Cesare. E don Antonio fra questo mezzo, avendo avuto notizia del viaggio che aveva fatto Andrea Dorantes (che fu uno di quelli restati, come si legge nella relazione del Capo di Vacca), volse mandare fra Marco da Nizza insieme con il detto a discoprire quel paese; qual tornato e datogli notizia di quello che egli aveva trovato, mandò il capitano Francesco Vaschez di Coronado con molti Spagnuoli a cavallo e Indiani a piedi, e similmente mandò un'armaia, capitano il signor Fernando Alarcon, come si vederà per le relazioni infrascritte.




Sommario di lettere del capitano Francesco Vasquez di Coronado, scritte ad un secretario dell'illustrissimo don Antonio di Mendozza, viceré della Nuova Spagna, date a Culnacan del 1539, agli 8 di marzo.


Dice come fra Marco da Nizza arrivò alla provincia di Tropera, dove trovò tutti gl'Indiani fuggiti alle montagne per paura de' cristiani, e che per amor suo tutti discesero per trovarlo con grande allegrezza e sicurtà. Sono uomini ben disposti e piú bianchi che gli altri, e le donne piú belle. Non vi sono città grosse, nondimeno le case son fatte di pietra e molto buone, e in quelle hanno dell'oro assai, ch'è come perso, per non se ne servire di quello in alcun uso. Gli abitanti portano smeraldi e altre gioie di valore sopra la persona; sono valenti, e hanno armi fatte d'argento molto forte, fatte in diverse figure d'animali. Adorano le cose ch'hanno in casa, come saria a dir erbe e uccelli, per suoi dei, e gli cantano orazioni nella sua lingua, la qual è poco differente da quella di Culnacan. Dissero al frate che volevano esser cristiani e vassalli dell'imperadore, perchè loro stavano senza governo, con condizione che non gli facesse danno, e che cambiariano quell'oro in quelle cose che gli mancano e non hanno appresso di loro. È stato comandato che siano ricevuti senza fargli dispiacere.
Appresso di questa v'è un'altra provincia, che si chiama Xalisco, già discoperta per gli nostri, dove gli uomini vanno nudi senza alcuna cosa davanti. Questi molto difficilmente si fanno cristiani. Son valenti e bravi; le sue abitazioni son di paglia, non attendono ad altra ricchezza se non a pascere bestiami. Vanno a' tempi ordinati a' suoi sacrificii in una valle che è in quella provincia, abitata da genti che per quelli del paese vengono reputati come santi e sacerdoti, e gli chiamano Chichimecas, i quali abitano alla foresta senza case, mangiano quello che gli danno quelli della terra per elemosina, vanno nudi e tinti di caligine, portano il membro ligato con una cordella al ginocchio, e le femine similmente nude del tutto. Hanno alcuni tempii coperti di paglia, ne' quali vi sono alcune finestrelle tonde, piene di teste d'uomini morti; davanti il tempio v'è una gran fossa tonda, e la bocca di quella è circondata da una figura di serpente fatta d'oro e d'argento e altra mistura di metalli, che non sanno ciò che sia, e ha la ponta della coda messa nella bocca. E di tempo in tempo buttano le sorti sopra di loro quelli della valle, qual ha da toccare d'esser sacrificato, e a quello a chi tocca gli fanno conviti e con gran festa lo coronano di fiori, e sopra un letto acconcio nella detta fossa tutto di fiori e erbe odorifere, dove lo distendono e gli mettono da ciascun lato molte legne secche, e gli accendono il fuoco da una parte e l'altra, e cosí muore. Quivi costui sta tanto cheto, senza esser ligato, come facesse alcuna cosa che gli desse piacere: e dicono che quello è santo, e l'adorano tutto quell'anno e gli cantano laudi e inni, e poi mettono la sua testa con l'altre nel tempio in quelle finestre. Sacrificano anco i prigioni, ma gli brusano in un'altra fossa piú bassa, e senza quelle ceremonie. Scrivono gli Spagnuoli che si trovano in Xalisco ch'hanno speranza che, facendogli buona compagnia, quelli popoli si faranno cristiani. Il paese è molto buono e fruttifero, con molte acque e buone.


Copia delle lettere di Francesco Vazquez di Coronado, governatore della Nuova Galizia, al signor Antonio di Mendozza, vice re della Nuova Spagna, date in San Michiele di Culnacan, agli otto di marzo mdxxxix.


Della difficile navigazione da San Michiel di Culnacan a Topira; descrizione di quella provincia e di un'altra a lei vicina, molto ricca d'oro e pietre preciose; numero delle genti che seco condusse il Vazquez per andarvi, e quanto sia onorato fra Marco da Nizza dagl'Indiani di Petatlan.

Con l'aiuto del Signor Iddio io partirò da questa terra di S. Michiel di Culnacan per Topira alli dieci d'aprile, e non potrà esser avanti, perchè allora sarà venuta la polvere e la corda che mi manda Vostra Signoria, e penso che debbi esser già in Compostella; e oltra di questo ho da camminare tante leghe all'intorno di montagne altissime che vanno in cielo, e un fiume ch'è al presente cosí grosso e gonfio che non v'è luogo dove si possi guadarlo, e partendo al tempo sopradetto dicono che si potrà guazzare. Mi avevano detto che di qui a Topira non v'erano piú di cinquanta leghe, e ho saputo che ve ne sono piú di ottanta. Non mi ricordo se ho scritto a Vostra Signoria la relazione che tengo di Topira, nondimeno, ancorchè l'abbi fatto, perchè dapoi qui mi sono informato d'alcune cose di piú, mi par di scriverle a Vostra Signoria in queste mie. Sappia adunque quella che mi dicono che Topira è una provincia molto popolata, posta fra due fiumi, e che vi sono piú di cinquanta luoghi abitati, e che piú avanti di lei v'è un'altra provincia maggiore (e non mi seppero dire gl'Indiani il nome di quella) dove vi sono molte vettovaglie di maiz, fasoli e axi, melloni e zucche, e copia grande di galline del paese. Portano adosso gli abitatori oro, smeraldi e altre pietre preziose, e si servono ordinariamente con oro e argento, col quale cuoprono le case; e li principali portano a torno al collo catene d'oro grosse e ben lavorate, e vanno vestiti con coperte dipinte. E vi sono molte vacche, ma non domestiche. E mi dicono che non vadi a trovargli, per aver poche genti di quelle di questo paese, perchè gl'Indiani sono molti e valenti uomini. Questo che io dico l'ho inteso per due altre relazioni d'Indiani vicini a quelli.
Io mi partirò al tempo che ho detto, e meno meco 150 uomini a cavallo, e dodeci cavalli a mano, e 200 fanti a piedi, balestrieri e schiopettieri; conduco porci, castrati e tutto quello che ho potuto trovar da comperare. Vostra Signoria sia certa ch'io non ritornerò al Messico fintanto che non possi dire a quella quel che vi sarà con maggior certezza, e se troverò cosa sopra la quale si possi far frutto, mi fermerò fino che avisi Vostra Signoria, acciochè comandi quello che s'abbi da fare. E se per disgrazia non vi sarà cosa alcuna, procurerò di dar conto d'altre 100 leghe avanti, dove spero in Dio che ivi sarà cosa per la qual Vostra Signoria potrà adoperar tutti questi cavalieri, e quelli che sopravenissero. Io penso che non potrò far che non mi fermi lí, e l'acque, i tempi e la disposizione del paese e quello che troverò mi dirà quello che averò da fare.
Fra Marco entrò nella terra piú dentro, e con lui Stefano, a' sette del mese passato di febraro. Quando mi parti' da loro, gli lasciai in poter piú di cento Indiani di Petatlan, e da quel capo che erano venuti, portavano il padre in palma di mano, facendoli tutti i piaceri che possibili fosse. Non si potria dimandare né dipingere la sua intrada meglio di quello che è stato fatto in tutte le relazioni fatte per mie lettere in Compostella e in San Michiele: le scrissi le maggior che potessero essere, e ancorchè sian la decima parte è gran cosa. Con questa mando a Vostra Signoria una lettera che ho ricevuto dal detto padre. Mi dicono gli Indiani che tutti ivi l'adorano, e cosí credo che 'l potria andar duemila leghe avanti. Dice che trovando buon paese mi scriverà: non v'andrò senza farlo a sapere a Vostra Signoria. Spero in Dio che per una parte o per l'altra siamo per trovar alcuna buona cosa.



Lettere scritte dall'illustrissimo signor don Antonio di Mendozza, vice re Della Nuova Spagna, alla Maestà dell'imperatore.


Delli cavalieri i quali con lor gran danno si sono affaticati per scoprire il capo della terra ferma della Nuova Spagna verso tramontana; il gionger del Vazquez con fra Marco a San Michiel di Culnacan, con commissione a quelli reggenti d'assicurare e non far piú schiavi gl'Indiani.

Nelle navi passate, nelle quali fu Michiel Usnago, scrissi alla Maestà Vostra come avevo mandato due religiosi dell'ordine di San Francesco a discoprir il capo di questa terra ferma che corre alla parte della tramontana, e perchè la sua andata è successa di maggior qualità di quel che si pensava, dirò questa materia dal suo principio. Vostra Maestà debbe aver memoria quante volte gli ho scritto ch'io desideravo saper dove finisse questa provincia della Nuova Spagna, per esser cosí gran pezzo di terra e non aversi notizia di quella: e non son stato io solamente che ho avuto questo desiderio, perchè Nunno di Gusman uscí di questa città con quattrocento uomini a cavallo e quattordecimila uomini da piè delli naturali di queste Indie, la miglior gente e meglio ad ordine che s'abbia visto in queste parti, e fece tanto poco con loro che quasi tutti si consumorno nella impresa, e non poté penetrare né sapere piú del passato. Dopo questo, stando il detto governatore nella Nuova Galizia, mandò alcune volte capitani con gente da cavallo, li quali non fecero maggior frutto di quello che egli avea fatto. Similmente il marchese de Valle, Hernando Cortese, mandò con un capitano due navi per scoprir la costa, le qual navi e lui insieme si perdettero. Dipoi tornò a mandar due altre navi, una delle quali si separò dall'altra, e il pilotto con alcuni marinari s'impatronirono della nave e ammazzorono il capitano; fatto questo arrivarono ad un'isola, nella qual dismontando il pilotto con alcuni marinai, gl'Indiani della terra gli ammazzarono e presero la barca, e la nave ritornò con quelli che erano rimasi in essa alla costa della Nuova Galizia, dove dette al traverso. Degli uomini che vennero in questa nave ebbe notizia il marchese della terra che avean discoperto, e allora, o per discontento che gli aveva col vescovo di S. Domenico e degli auditori di questa real audienzia, o veramente per esserli successo tanto prosperamente tutte le cose in questa Nuova Spagna, senza guardar d'avere maggior certificazione di quello che era in quella isola, con tre navi e con alcune genti da piè e da cavallo, non molto ben provisto delle cose necessarie, se n'andò a quel camino; il quale gli successe tanto a roverso da quello che pensava, che la maggior parte della gente che gli avea seco li morisse di fame, e ancorchè gli avesse navi e la terra molto propinqua con abondanzia di vettovaglie, mai però poté trovar modo di poterla conquistare, anzi pareva che Dio miracolosamente gliela levasse davanti, e senza far altro se ne ritornò a casa.
Dopo questo, avendo qui in mia compagnia Andrea Dorantes, che è uno di quelli che furono con l'esercito di Pamfilo Narbaez, praticai con lui molte volte, parendomi che poteva far gran servizio a Vostra Maestà, mandandolo con quaranta over cinquanta cavalli per saper il secreto di quelle parti. E avendo ad ordine quel ch'era necessario per il suo camino, e spesi molti danari per questa causa, non so come la cosa si disfece e cessò di farsi tal impresa, e delle cose che erano apparecchiate per far questo effetto mi restò un nero che venne con Dorante, e certi schiavi che avevo comprato, e alcuni Indiani ch'avevo raccolti naturali di quelle parti, li quali mandai con fra Marco da Nizza e un suo compagno religioso dell'ordine di San Francesco, per esser uomini che già gran tempo stavano in queste parti, esercitati nella fatica e con esperienzia delle cose dell'Indie, e persone di buona vita e conscienzia. Li domandai al suo provinciale, e cosí se n'andorono con Francesco Vazquez di Coronado, governatore della Nuova Galizia, fin alla villa di S. Michiel di Culiacan, ch'è l'ultimo redutto di Spagnuoli verso quella parte, ducento leghe di questa città. Arrivato che fu il governator in quel luogo, con li religiosi mandò certi Indiani di quelli ch'io gli avevo dato, che ammaestrassero nelle sue terre e dicessero alle genti di quelle che dovessero sapere che V.M. aveva ordinato che non si facessero piú schiavi, e che non avessero piú paura e ritornassero alle case sue e vivessero pacificamente in quelle, perchè per il passato erano stati molto travagliati per li trattamenti che gli erano stati fatti, e che V.M. faria castigare quelli che erano stati causa di questo. Con questi Indiani in capo di venti dí ritornarono da circa quattrocento uomini, i quali, venuti avanti il governatore, li dissero che loro venivano da parte di tutti gli abitatori a dirli che desideravano vedere e conoscere quelli che li facevano tanto bene, come è lasciarli ritornar a casa sua, e che seminassero maiz per poter mangiare, perchè erano molti anni che andavano fuggendo per li monti, nascondendosi come fiere salvatiche per paura che non li facesser schiavi, e loro e tutti erano apparecchiati di far quel che li fosse comandato. Li quali il governatore consolò con buone parole, e feceli dar da mangiare, e ci tenne seco tre o quattro dí: e in quelli giorni i religiosi frati gl'insegnarono a farsi la croce e nominare il nome di Iesú Cristo nostro Signore, ed essi con grande efficacia procuravano di saperlo. Passati questi giorni li rimandò a casa sua, dicendoli che non avessero paura ma che stessero cheti, donandoli veste, paternostri, coltelli e altre cose simili, le quali io gli avevo date per simili effetti. Li detti se n'andarono molto contenti, e dissero che, ogni volta che li mandasse a chiamare, loro e molti altri verriano a far quello che li comandasse.
Preparata l'entrata di questa maniera, fra Marco col suo compagno, passati dieci o dodeci giorni, col nero e con altri schiavi e Indiani che io gli avevo dati si partirono. E perchè io similmente avevo notizia d'una provincia che si chiama Topira, situata tra montagne, e avevo ordinato col governatore che tenesse modo di saper quel che l'era, tenendo questo per cosa principale, determinò d'andar in persona a vederla, avendo posto ordine col detto religioso che per quel luogo della montagna daria la volta a congiungersi con lui ad una villa dimandata Deloz Corazones, 120 leghe da Culiacan. E andato lui in questa provincia, trovò essere, come ho scritto in altre mie lettere, gran mancamento di vettovaglie, e tanto aspra la montagna che per niuna via trovò camino per poter andar avanti, e fu forzato ritornarsene a San Michiel; di maniera che nell'elleggere l'andata, come di non poter trovar strada, par a tutti che 'l nostro Signor Dio vogli serrar la porta a tutti quelli che hanno per vigor di forze umane voluto tentar questa impresa, e mostrarla ad un frate povero e scalzo. E cosí cominciò ad entrar nella terra dentro, il quale, per trovar l'entrata tanto ben preparata, fu molto ben ricevuto. E perchè quello che gli è successo in tutto il viaggio egli lo scrisse sotto la instruzione che io li detti per far questo camino, non mi estenderò piú avanti, ma trascriverò a Vostra Maestà quanto per lui fu notato.




Relazione del reverendo fra Marco da Nizza

Fra Marco da Nizza parte da Culnacan, e, gionto a Petatlan, riceve molte cortesie da quegli Indiani. Di quivi partito, avuta relazione di molte isole e d'un paese grande abitato da gente civile, perviene a Vacupa. Mentre ivi dimora, gli è dato relazione di Cevola, e dello stato delle sette città, e d'altre provincie e isole ricche di perle, quali corrano a tramontana dietro la costa.

Con l'aiuto e favor della sacratissima Vergine Maria, nostra Signora, e del serafico nostro padre san Francesco, io fra Marco da Nizza, professo dell'ordine di San Francesco, per esecuzione dell'instruzione di sopra contenuta dell'illustrissimo signor don Antonio di Mendozza, viceré e capitano generale per sua Maestà nella Nuova Spagna, parti' dalla villa di San Michiel della provincia di Culnacan venerdí alli 7 del mese di marzo 1539, avendo per compagno fra Onorato e menato meco Stefano di Dorante, negro, e alcuni Indiani di quelli che 'l detto signor viceré ha fatto liberi, e li comprò per questo effetto, li quali mi consignò Francesco Vazquez di Coronado, governator della Nuova Galizia, e con altra gran quantità d'Indiani di Petatlan e della villa che si chiama del Cuchillo, che può esser da cinquanta leghe da Petatlan, li quali vennero alla valle di Culiacan mostrando grandissima allegrezza per averli certificati gl'Indiani liberati, che 'l detto governator mandò avanti a farli a saper la sua libertà, che non si doveva far piú alcuni schiavi di loro, né farli guerra né mal trattamento alcuno, dicendoli che cosí vuole e ordina sua Maestà. E con questa compagnia ch'io dico presi il mio cammino, fin ch'io arrivai al popolo di Petatlan, trovando nel cammino grandi ricevimenti e apparecchi da mangiar, con rose e fiori e altre cose di questa qualità, e case che mi facevano di creta con rami infrascati, in tutte le parti dove non erano abitazioni. In questo popolo di Petatlan riposai tre giorni, perchè il mio compagno fra Onorato s'ammalò di sorte ch'io fui astretto a lasciarlo lí, e secondo la detta instruzione seguitai il mio cammino per dove mi guidava il Spirito Santo, senza alcuno mio merito, e venendo meco il detto Stefano Dorantes negro e alcuni degl'Indiani liberati, e molte genti del paese facendomi in tutte le parti ch'io arrivavo grandi ricevimenti e allegrezze e frascate d'arbori, dandomi da mangiar di quel che avevano, ancor che fusse poco, perchè dicevano che erano tre anni che non vi aveva piovuto, e perchè gl'Indiani di quel paese avevano piú atteso a nascondersi che a seminare, per paura de' cristiani della villa di San Michiel, che fino lí solevano trascorrere facendoli guerra e menandoli schiavi.
In tutto questo cammino, che possono essere da venticinque in trenta leghe da quella parte di Petatlan, non vidi cosa degna da notare, eccetto che mi vennero a trovar alcuni Indiani dall'isola dove andò Fernando Cortese, marchese di Vales, dalli quali mi certificai come la era isola e non (come alcuni vogliono dire) esser terra ferma: passavano sopra alcune zattare, e dalla terra ferma all'isola v'è il spazio di mezza lega di mare, poco piú o meno. Similmente mi vennero a vedere alcuni Indiani d'un'altra isola maggior di questa, la qual è posta piú avanti, dalli quali ebbi relazione esservi altre 30 isole piccole, abitate da gente e povere di vettovaglia, eccetto due che tengono del maiz. Questi Indiani avevano intorno al collo molte cappe grandi, madre di perle. Io li mostrai perle che portavo con me per mostra: mi dissero che di quelle ve n'erano molte e molto grosse nell'isole, nientedimeno non ve ne viddi alcuna. Seguitai il mio cammino per un luogo disabitato da 4 giorni, venendo meco gl'Indiani cosí dell'isole come de' monti che lasciavo adietro, e in capo di questo paese disabitato trovai altri Indiani, che si maravigliavano di vedermi, perchè niuna notizia tenevano de' cristiani per non esser contrattazion alcuna con quelli da dietro, essendo tanto paese disabitato. Questi mi fecero grandissimo ricevimento e mi dettero molto da mangiare, e procuravano di toccarmi in la vesta, e mi chiamavano hayota, che vuol dire nella sua lingua "uomo dal cielo"; alli quali meglio che potette feci intender l'interprete quanto si contiene nella instruzione del conoscimento del nostro Signor Dio nel cielo e sua Maestà.
In queste terre e sempre, per tutte le vie e mezzi che potevo, procuravo di saper paese dove fussero molte città e gente di piú civilità e intelletto di quelli che m'incontravano, e non ebbi nuova alcuna, ma mi dissero che dentro fra terra quattro o cinque giornate, dove s'abbassano le falde de' monti, si fa una pianura larga e di gran paese, nella qual mi dissero esser molte grandi abitazioni, dove è gente vestita di cottone. E mostrandoli io alcuni metalli, che portavo per prender instruzione delli metalli della terra, presero il metallo dell'oro e mi dissero che di quello v'erano vasi tra quella gente della pianura, e che portano attaccate alli buchi del naso e all'orecchie certe cose tonde verdi, e che tengono certe palette di quell'oro, con le quali si radono e tirano via il sudore, e che nelli tempii i pareti stanno coperti di quello e che l'usano in tutte le cose di casa. E perchè questa pianura s'apparta dalla costa del mare, e la mia instruzione era di non partirmi da quella, determinai di lasciarla per la ritornata, e che allora si potria veder meglio, e cosí andai per tre giorni per luoghi abitati dalle dette genti, dalle quali fui ricevuto come da quelli da drieto. Arrivai ad un ragionevole ridutto che si chiama Vacapa, dove mi fecero gran carezze e mi dettero ben da mangiare e abbondantemente, perchè è terra fertile e che si può adacquare. Sono da questa abitazione fino al mare quaranta leghe, e per trovarmi tanto a largo dal mare, e per esser duoi giorni avanti la domenica di passione, determinai di star quivi fino a Pasqua, per certificarmi dell'isole che di sopra ho detto averne avuto notizia. E cosí mandai alcuni messi indiani al mare per tre vie, alli quali ordinai che mi menassero Indiani della costa e d'alcune di quelle isole per informarmi da loro, e per un'altra parte mandai Stefano Dorantes negro, al qual dissi che andasse per il dritto della tramontana cinquanta o sessanta leghe, per veder se per quella via si potesse aver relazione d'alcuna cosa notabile di quelle ch'andavamo cercando; e composi con lui che se egli avesse notizia di terra popolata e ricca che fosse cosa grande, che 'l non andasse avanti, ma che 'l se ne tornasse in persona, over che 'l mandasse Indiani con questo segnale che convenimmo insieme, cioè che se la cosa fosse ragionevole mi mandasse una croce bianca d'un palmo, e se la fosse grande di duoi palmi, e se la fusse cosa maggior e migliore della Nuova Spagna mi mandasse una gran croce.
E cosí si partí il detto Stefano da me la domenica di passione dopo desinare, e de lí a quattro giorni vennero li messi di Stefano con una croce grande di statura d'un uomo, e mi dissero da parte di Stefano che in quell'ora mi partisse seguitandolo, perchè gli aveva trovato gente che li davano relazione d'una provincia grandissima, e che gli aveva seco Indiani che erano stati in quella, e mi mandò un di loro, e mi disse che v'erano trenta giornate da quel luogo dove stava Stefano fino alla prima città della terra, che si nomina Cevola. Afferma che in questa provincia vi sono sette città molto grande, tutte sotto un signore, e di case fatte di pietra e calcina molto grandi, e la piú piccola con un solaro di sopra, e altre di duoi e tre solari, e quella del signor di quattro, tutte l'una appresso l'altra per il suo ordine; e in li portali delle case principali vi sono molti lavori di pietre turchese, delle quali disse che ve n'erano in grande abondanzia, e che le genti di queste città vanno molto ben vestite, e che vi sono altre provincie piú avanti, ciascuna delle quali disse esser molto piú grande che queste sette città. Io gliel credette, perchè lo viddi uomo di buon intelletto, e cosí differiti il mio partir a seguir Stefano Dorantes pensando che 'l mi aspettaria, e anco per aspettar li messi che avevo mandato al mare, quali vennero il dí di Pasqua fiorita, e con loro gente della costa del mare e di due isole, dalli quali seppi l'isole che di sopra dico esser povere di vettovaglia, come l'avevo saputo avanti, e che sono abitate da gente che portano cappe di perle sopra la fronte, e dicono di tener perle grosse e molto oro. Mi certificorono di trentaquattro isole una appresso l'altra. La gente della costa del mar dicono aver poca vettovaglia, cosí loro come quelli dell'isole, e contrattano un con l'altro con zatte. Quella costa corre alla tramontana quanto si può vedere. Questi Indiani della costa mi portarono rotelle di cuoi di vacca molto ben lavorate, tanto grande che li coprivano dalla testa fin alla punta de' piedi, con un buco in cima dell'imbracciatura per poter veder di drieto di quelle; sono tanto forte ch'io credo che non le passaria una balestra.


Da certi Indiani, detti Pintados, ha di nuovo relazione delle sette città e d'altri tre regni, detti Marata, Usacus e Totonteac, paesi molto ricchi di turchese e cuoi d'animali. Seguendo il viaggio per quelli luoghi, prende per sua Maestà il possesso, ed è dagl'Indiani molto onorato e di vettovaglie servito.

In questo giorno mi vennero a trovare tre Indiani di quelli che chiamano Pintados, che aveano dipinto il volto, il petto e le braccia: questi stanno in alto alla parte di levante, e vengono a confinar alcuni di loro circa delle sette città; quali dissero che mi venivano a vedere perchè ebbero notizia di me, e tra l'altre cose mi dettero notizia delle sette città e provincie che l'Indiano di Stefano mi aveva detto, quasi per la medesima maniera che Stefano mi aveva mandato a dire. E cosí licenziai le genti della costa, e duoi Indiani dell'isole dissero che volevano venir meco sette over otto dí, e con quelli e con li tre dipinti ch'io dico mi parti' da Vacapa il secondo dí di Pasqua fiorita, per il cammino che tenea Stefano, dal qual avevo ricevuto altri messi con un'altra croce della grandezza della prima, la qual mi mandò dandomi pressa e affirmandomi esser la terra la qual io cercavo la maggior e miglior cosa che sia in quelle parti; i quali messi particolarmente mi dissero senza mancar in cosa né punto alcuno di quello che mi disse il primo, anzi dissero molto piú e mi dettero piú chiara relazione. E cosí camminai quel giorno secondo di Pasqua e altri duoi dí per le medesime strade ch'era andato Stefano, in capo delle quali mi dissero che de lí s'anderia in trenta giorni alla città di Cevola, ch'è la prima delle sette: e non mi disse questo un solo, ma molti, e molto particolarmente mi dissero la grandezza delle case e la maniera di quelle, come m'avevano detto i primi, e mi dissero che di piú di queste sette città vi sono altri tre regni, che si chiamano Marata, Vacus, Totonteac. Volsi sapere perchè andavano cosí da lungi delle sue case; mi dissero che andavano per turchese, per cuoi di vacche e altre cose, e che dell'una e l'altra vi si ha in questo paese gran quantità. E similmente volsi saper con che modo e via si avevano; mi dissero che col servizio e sudore delle sue persone, che andavano alla prima città, che si chiama Cevola, e che servano lí in lavorare la terra e altri servigi, e che li danno cuoi di vacca di quelli che hanno in quel luogo e turchese per il suo servizio. E questi di questa città portano tutti turchese attaccate all'orecchie e alli buchi del naso, finissime e buone, e dicono che di quelle sono fatti lavori nelle porte principali delle case di Cevola. Mi dissero che la maniera delle vesti degli abitanti in Cevola è una camicia di cotton lunga fino alla punta de' piedi, con un botton alla gola e un cordon lungo che pende da quello, e le maniche di queste camicie larghe tanto disopra come disotto; dicono che vanno cinti con cinture di turchese, e che sopra queste camicie alcuni portano buone vesti, altri cuoi di vacca ben lavorati, quali tengono miglior vestir di quel paese, dove n'è gran quantità. Il medesimo le donne vanno vestite, e ben coperte fino alli piedi ancor lor similmente.
Questi Indiani mi ricevettero molto bene, e volsero saper con diligenza il giorno che mi parti' da Vacapa, per potermi proveder nel viaggio al ritorno del vivere e del dormire. Mi menavano avanti alcuni ammalati acciochè gli sanassi, procuravano di toccarmi la veste, mi dettero alcuni cuoi di vacca, tanto bene acconci e lavorati che da quelli si poteva estimar essere stati fatti da uomini molto civili, e tutti dicevano che venivano da Cevola. L'altro giorno seguitai il mio cammino menando meco li Pintadi, quali non mi volsero lasciare. Arrivai ad un altro villaggio, dove fui ben ricevuto dalle genti di quello, i quali similmente procuravano di toccarmi la veste, e mi dettero notizia della terra la qual io sapevo cosí particolarmente come avevo avuto da quelli per avanti, e mi dissero come da quel luogo era andata gente con Stefano Dorantes quattro o cinque giornate: e qui trovai una croce grande, che Stefano mi aveva lasciato per segno che la nuova della buona terra cresceva, e ordinò che mi dessino molta pressa, perchè m'aspetteria al capo del primo del disabitato. Qui io posi due croci e presi il possesso conforme alla instruzione, perchè quella terra mi pareva esser migliore di quella ch'avevo lasciato adietro, e che mi conveniva fino lí far un atto di possessione. E in questa maniera andai cinque giorni, trovando sempre luoghi abitati e grande ospitalità e ricevimenti, e molte turchese e cuoi di vacca, e la medesima relazion della terra. Quivi intesi che doppo due giornate ritroveria un paese disabitato, dove non v'è da mangiare, ma che già era stato prevenuto di farmi case e portarmi vettovaglia: per il che sollecitai il cammino, pensando di trovar al fin di quello Stefano, perchè in quel luogo mi mandò a dire che 'l mi aspetteria. Avanti che arrivassi al disabitato, mi trovai in un villaggio fresco per molte acque, che vi sono condotte per adacquare: qui mi vennero incontro molte genti, sí uomini come donne, vestiti di cottone, e alcuni coperti con cuoi di vacca, che generalmente tengono per miglior vestito che quello di cottone. Tutti quelli di questo villaggio vanno in caconados, cioè con turchese che gli pendono dalli buchi del naso e orecchie, e chiamano queste turchese cacona; fra li quali veniva il signor di questo villaggio e duoi suoi fratelli, molto ben vestiti di cottone, ancor loro in caconados, col suo collar ciascuno di turchese al collo, e mi appresentarono molte salvaticine, come conigli, coturnici, maiz, pignoli, e tutto in grande abbondanzia, e mi offersero molte turchese e cuoi di vacca, e vasi da bevere molto belli e altre cose, delle quali non volsi tor cosa alcuna. E io avevo la mia veste di panno berretin, che si chiama in Spagna da Xaragosa, e questo signor di questo villaggio e altri Indiani toccorono l'abito con le mani, e mi dissero che di quello ve n'era molto in Totonteac, e che lo portavano per vesti gli abitatori di quel paese; del che io mi risi, e dissi che non saria se non di quelle vesti di cottone che loro portano, e loro mi dissero: "Pensa che noi sappiamo che quello che tu porti e quelle che noi portiamo è differente. Sappi che in Cevola tutte le case sono piene di questa robba che noi portiamo, ma in Totonteac sono alcuni animali piccoli, dalli quali levano quello col quale si fa quel che tu porti", Io volsi informazion piú particolarmente di questo; mi dissero che gli animali sono della grandezza di duoi bracchi di Castiglia, che menava seco Stefano, e dicono che di detti animali ve ne sono molti in Totonteac.


Entra in una valle disabitata, e dagl'Indiani non gli è lasciato patire alcuno incommodo. Seguendo il viaggio entra in paese fertile, e gli è dato certezza, sí come prima, del stato di Cevola e di Totonteac, e che la costa del mare a trentacinque gradi volge molto a ponente, e delli regni di Marata e Acus.

L'altro dí entrai nel disabitato, e dove avevo a desinare trovai case fatte, vettovaglie a bastanza appresso ad un rivo d'acqua, e alla notte trovai case e similmente vettovaglia, e cosí trovai per quattro dí che durò il disabitato, al capo delli quali entrai in una valle molto ben abitata da gente. Nel primo villaggio mi vennero incontra molti uomini e donne con cose da mangiare, e tutti avevano turchese che li pendevano dalli buchi del naso e dell'orecchio, e alcuni avean collari di turchese, della sorte che portava il signore e gli suoi fratelli del villaggio avanti il disabitato, eccetto che quelli che gli avevano d'una sola volta e questi 3 e 4, con buona veste e cuoi di vacca, e le donne le medesime turchese nelli buchi del naso e dell'orecchie, e molte buone naguas e camicie. Quivi era tanta notizia di Cevola come nella Nuova Spagna di Temistitan e nel Perú del Cusco, e tanto particolarmente raccontavano la maniera delle case, delle abitazioni, strade e piazze di quelle, come persone che v'erano state molte volte e che si fornivano da quelle delle cose necessarie per servizio di casa sua, sí come quelli di drieto facevano. Io li diceva che non era possibile che le case fussero della maniera che mi dicevano, e loro per darmelo ad intendere prendevano terra o cenere e li buttavano sopra acqua, e mi mostravano come mettevano le pietre e cresceva lo edificio in suso, mettendoli in quello le pietre fino che gli andava in alto. Io li domandavo se gli uomini di quella terra avevano ale per montar sopra quelli solari; si ridevano, e mi mostravano la scala, cosí ben come io la potria designare. Prendevano un legno e se lo mettevano sopra la testa, e dicevano che quella altezza era da solaro a solaro. Similmente ebbi qui relazione del panno di lana di Totonteac, dove dicono che vi sono case come quelle di Cevola e migliori e molto piú, e che è una cosa grande e che non tien capo. Qui seppi che la costa del mare si voltava verso ponente molto forte, perchè fin alla intrata di questo primo disabitato ch'io passai sempre la costa s'andava mettendo verso tramontana: e come cosa che importa molto il voltar della costa, lo volsi saper e vedere, e cosí fui in dimanda di quella, e viddi chiaramente che lí a 35 gradi la volge al ponente, del che minor allegrezza non ebbi che della buona nuova della terra. E cosí mi ritornai a proseguire il mio cammino, e fui per quella valle cinque giorni, la qual è abitata da bella gente, e tanto abondante di vettovaglie che basteria per dar da mangiare a piú di tremila cavalli; adacquasi tutta, ed è come un giardino. Sono li borghi e casali mezza lega e un quarto di lega, e in ciascuno di questi villaggi trovavo molto larga relazione di Cevola, e tanto particolarmente mi raccontavano di quella, come gente che va ogni anno a guadagnar il suo vivere.
Qui trovai un uomo naturale di Cevola, il qual disse esser venuto lí fuggendo il governatore o la persona che v'è posta per il signore, perchè il signore di queste sette città vive e tiene la sua residenzia in una di quelle, che si chiama Ahacus, e nell'altre tien posto persone che comandano per lui. Questo abitator di Cevola è uomo bianco, di buona disposizione, alquanto vecchio e di molto piú intelletto che gli abitatori di questa valle e di quelli dell'altre adietro; mi disse che 'l voleva venir meco, acciochè gli facesse perdonare. M'informai particolarmente da lui. Mi disse che Cevola è una gran città, nella quale v'è molta gente e strade e piazze, e che in alcune parti della città vi sono certe case molto grandi, che hanno dieci solari, e in queste si riducono li principali certi giorni dell'anno. Dice che le case sono di pietra e calcina, della maniera che mi dissero quelli disopra, e che le porte e pilastri delle case principali sono di turchese, e li vasi con li quali si servono e altri ornamenti sono d'oro, e che della forma di questa città sono l'altre sette, alcune maggiori, e che la piú principale di quelle è Ahacus. Dice che dalla parte di sirocco v'è un regno che si chiama Marata, e vi solevano essere assai città e molto grandi, le qual tutte erano fatte con case di pietra e solari, e che questi hanno fatto guerra e la fanno col signor delle sette città, per la qual guerra si ha sminuito in gran parte questo regno di Marata, ancor che tuttavia stia in piedi e mantenga la guerra contra questi altri. Similmente dice che alla parte di ponente v'è il regno nominato Totonteac, qual dice essere cosa grandissima e d'infinita gente e ricchezze, e che nel detto regno vestono panno della sorte che è quello che io porto, e d'alcuni piú delicati, che si cavano dagli animali che di sopra mi designarono, e che la gente è molto civile e differente dalla gente che ho veduto. Similmente mi disse che v'è un'altra provincia e regno molto grande, che si chiama Acus, perchè v'è Acus e Ahacus con l'aspirazione, ch'è una delle sette città, la piú principale, e senza aspirazione Acus è regno e provincia da per sé. Mi disse che le veste che portano in Cevola sono della maniera che per avanti m'aveano detto, e che tutti gli abitatori della città dormono in letti alti dal suolo, con coltre e padiglioni disopra che coprono li letti; e mi disse che veneriano con meco in Cevola e piú avanti, se volesse menarlo. La medesima relazione mi fu data in questo villaggio per altre molte persone, ma non cosí particolarmente.
Io camminai per questa valle tre giorni, facendomi gli abitatori di quella grandissima festa e accoglienza. In questa valle viddi piú di mille cuoi di vacche eccellentissimamente acconci e lavorati; viddi molto maggior quantità di turchese e collari fatti di quelle in questa valle, che in tutte quelle che avevo lasciato adietro; e dicono che tutto viene dalla città di Cevola, della qual tengono molta notizia, e similmente del regno di Marata e di quel di Acus e di Totonteac.


D'un animale molto grande, qual ha un corno in fronte, e delle cortesie quale da quelli Indiani per il viaggio gli furno usate. Stefano Dorantes con suoi compagni quanto fussero mal trattati nel giungere a Cevola da quel signore.

Qui mi mostraron un cuoio, la metà maggiore di quello d'una gran vacca, e mi dissero ch'era d'un animale che tien un sol corno nella fronte, e che questo corno si torze verso il petto, e che de lí volge una ponta dritta, nella quale ha tanta forza che niuna cosa, per forte che la sia, non lascia di rompere se 'l s'incontra con quella, e che di questi tal animali ve ne sono molti in quel paese. Il color del cuoio è come d'un caprone, e il pelo tanto grosso come il detto. Qui ebbi messi da Stefano, li quali da sua parte mi dissero che gli andava già nell'ultima parte del disabitato, e molto allegro, per andare molto piú certificato della grandezza del paese; e mi mandò a dire che, dapoi che 'l si partí da me, mai non aveva trovato gl'Indiani in alcuna bugia, perchè fino lí il tutto aveva trovato della maniera che gli avevano detto, e cosí pensava di trovar nell'avenire in questa valle, come negli altri villaggi da dietro. Io posi croci, e feci gli atti e diligenze che si convenivano, conformi alla instruzione. Li paesani mi pregorono ch'io dovesse riposar qui tre o quattro giorni, perchè fino al disabitato vi erano ancora quattro giornate da quel luogo, e dal principio di quello fino all'arrivar alla città di Cevola vi sono larghi quindeci giorni di camino, e che mi voleano far da mangiare e apparecchiarmi le cose necessarie per quello; e mi dissero che con Stefano nero erano andati di quel luogo piú di trecento uomini per accompagnarlo e portargli dietro il vivere, e che meco similmente volevano venire molti per servirmi, perchè pensavano che torneriano ricchi. Io gli ringraziai e gli dissi che lo mettessero ad ordine presto, e cosí stetti tre giorni senza passar avanti, nelli quali sempre m'informai di Cevola e di tutto quel piú ch'io potevo, e non facevo altro se non chiamar Indiani e interrogarli a parte ciascun da per sé: e tutti si conformavano in una medesima cosa, e mi dicevano della moltitudine grande di gente, e l'ordine delle strade, la grandezza delle case e la forza delli portali, il tutto come quelli per avanti mi avean detto. Passati li tre giorni si misero insieme molti per venire meco, delli quali presi fino a trenta delli principali, molto ben vestiti e con quelli collari di turchese, che alcuni di loro tenevano cinque o sei volte, e con questi la gente necessaria che portasse il vivere per loro e per me, e mi posi in camino, ed entrai nel deserto a' nove di maggio, e cosí andammo il primo dí per un camino molto largo e usato. Arrivammo a desinare appresso un'acqua, dove gl'Indiani mi avevano apparecchiato, e a dormire appresso un'altra acqua, dove trovai una casa che aveano compita di fare per me, e un'altra stava fatta, dove dormí Stefano quando egli passò, e molte capanne vecchie, molti segnali di fuoco della gente che andava a Cevola per questo camino. E con questo medesimo ordine caminai dodeci dí, sempre ben proveduto del vivere, di salvaticine, lepri e pernici, del medesimo colore e sapore che sono quelle di Spagna, ancorchè non siano cosí grandi, perchè sono un poco minori.
Quivi arrivò un Indiano, figliuolo d'un principale di quelli che venivano meco, il qual era andato in compagnia di Stefano, qual veniva tutto spaventato, avendo tutto il viso e il corpo coperto di sudore, e mostrava grandissima tristezza nella persona. E mi disse che, una giornata avanti che Stefano arrivasse a Cevola, mandò il suo gran cappel di zucca con suoi messi, come sempre costumava di mandare avanti, acciochè sapessero come lui veniva, il qual zuccon avea una filza di sonagli e due penne, una bianca e l'altra di color, che è in segnal di dimandar sicurtà e mostrar che non si vien per far danno; e come arrivorono a Cevola, avanti la persona che 'l signor tien lí posto per capo, li dettero il detto zuccon: lui lo prese nelle mani e, visti li sonagli, con gran'ira e noia trasse il zuccon per terra, e disse alli messi che subito si partissero via, perchè conosceva che gente era quella, e che li dicessero che non dovessero entrar nella città, perchè facendo altramente tutti gli ammazzeria. Li messi ritornarono e dissero a Stefano come la cosa passava, il qual gli rispose che questo non era d'importanza, e volse proseguire il suo viaggio fino all'arrivare alla città di Cevola, dove trovò gente che non li permisero entrar dentro e lo misero in una casa grande, qual era posta fuori della città, e gli tolsero subito tutto quello che 'l portava per contrattare, e alcune turchese e altre cose che gli avea avuto per camino dagl'Indiani; e che gli stette quivi quella notte senza darli da mangiare né da bere, e che l'altro dí da mattina questo Indiano ebbe sete e uscí della casa a bere in un rio ch'era lí appresso, e de lí ad un pochetto vidde Stefano andare fuggendo, e dietro di lui v'andava gente della città, e che ammazzavano alcuni di quelli che erano andati in sua compagnia: e come questo Indiano vidde questa cosa, s'andò a nascondere sopra del rio, e dipoi attraversò il camino del deserto. Le quali nuove udite dagl'Indiani che venivano meco, subito cominciorno a piangere, e io per cosí triste e cattive nuove dubitai di perdermi, e non temevo tanto di perder la vita, quanto era di non poter ritornare a dar aviso della grandezza della terra, dove il nostro Signor Iddio possi esser servito. E subito tagliai le corde delle valigie che portavo con le robbe da contrattare, che fin allora non avevo voluto fare, né dar cosa ad alcuno, e cominciai a partir quanto ch'io portavo con li principali, e li dissi che non temessero e venissero meco, e cosí fecero. E andando per il nostro camino una giornata da Cevola, trovammo altri due Indiani di quelli ch'erano andati con Stefano, i quali venivano insanguinati e con molte ferite: e come arrivarono, quelli che venivano meco cominciorono a far un gran pianto. Dimandai alli feriti di Stefano, e, conformandosi col primo Indiano in tutto, dissero che, dapoi che gli avean tenuti in quella casa senza darli da mangiare né da bere tutto quel giorno e la notte, tolsero a Stefano tutto quel che lui portava: "L'altro giorno, essendo il sole alto una lancia, uscí Stefano della casa e alcuni de' principali con lui, e subito venne molta gente dalla città, e come lui li vidde cominciò a fuggire e noi altri similmente, e subito ne dettero delle frezze e ferite, e cademmo, e sopra noi caddero alcuni morti. E cosí stemmo fino la notte senza ardir di muoversi, e udimmo di gran voci nella città, e vedemmo sopra le terrazze molti uomini e donne che guardavano, e non vedemmo piú Stefano: e crediamo che l'abbino infrezzato, come hanno fatto tutti gli altri che andavano con lui, sichè non è scampato se non noi soli".


Sito e grandezza della città di Cevola, e come di quella e altre provincie fra Marco ne prende il possesso, nominandola il Nuovo Regno di S. Francesco; e di quivi partito, preservato dal nostro Signor Dio in sí periglioso viaggio, giunge in Compostella.

Veduto io quello che gli Indiani dicevano, e il mal ordine che era per seguire il mio viaggio come desideravo, non volse consentire di perder la mia vita insieme con quella di Stefano, e dissi che 'l nostro Signor Dio castigheria quelli di Cevola, e come il viceré sapesse quel che fosse intravenuto, manderia molti cristiani che gli castigheriano: e non me lo volsero credere, perchè dicevano che niuno era bastante contra il potere di Cevola. E con questo gli lasciai e mi discostai un tratto o duoi di pietra, e quando ritornai trovai un Indiano mio ch'io menai da Messico, nominato Marco, il qual piangeva, e mi disse: "Padre, costoro si sono consigliati d'ammazzarci, perchè dicono che per te e per Stefano sono stati morti i suoi padri, e che non ha da restar di tutti loro uomo né donna che non sia morto". Io tornai a repartire fra costoro alcune altre cose che mi restavano per mitigarli: con questo si placarono alquanto, ancorchè tuttavia mostravano gran dolore per la gente ch'era stata morta. Io pregai alcuni di loro che volessero andar a Cevola, a vedere s'era scampato alcuno altro Indiano, e questo acciochè sapessero alcuna nuova di Stefano, la qual cosa non potette impetrare da loro. Visto questo, io gli dissi che in ogni caso io volevo vedere la città di Cevola; mi dissero che niuno vorria venire con me, e alla fine, vedendomi determinato, duoi de' principali mi dissero che verriano meco, con li quali e con gli miei Indiani e interpreti seguitai il mio cammino fin alla vista di Cevola, la qual è posta in una pianura alla costa d'un monte ritondo, e fa una bella mostra di città, e piú bel sito d'alcuna che in queste parti io abbia veduto. Sono le case all'ordine secondo che gl'Indiani mi dissero, tutte di pietra, con gli suoi solari e terrazze, a quel che mi parve di vedere da un monte, dove mi posi a guardare la città.
La città è maggior che la città di Temistitan, la qual passa ventimila case; le genti sono quasi bianche, vanno vestiti e dormono in letti, tengono archi per arme; hanno molti smeraldi e altre gioie, ancor che non apprezzino se non turchese, con le quali adornano li pareti delli portali delle case e le vesti e li vasi, e si spende come moneta in tutto quel paese. Vestono di cottone e di cuoi di vacca, e questo è il piú apprezzato e onorevole vestire; usano vasi d'oro e d'argento, perchè non hanno altro metallo, del quale vi è maggior uso e maggior abondanza che nel Perú, e questo comprano per turchese nella provincia delli Pintadi, dove si dice che vi sono le minere in grande abondanza. D'altri regni non potette avere instruzione cosí particolare. Alcune volte fui tentato andarmene fino lí, perchè sapevo che non arrisigavo se non la vita, e questa io avevo offerta a Dio il primo dí ch'io cominciai l'andata; alla fine mi venne paura, considerando il mio pericolo, che, se io morivo, non si poteva aver relazione di questa terra, che al mio parere è la maggiore e miglior di tutte le discoperte. E dicendo io alli principali quanto bella mi pareva Cevola, mi risposero che l'era la minor delle sette città, e che Totonteac è la maggior e miglior di tutte, per tante case e gente che tiene, che non v'è fine.
Vista la disposizione e sito del luogo, mi parve di nominar quel paese il Nuovo Regno di San Francesco, nel qual luogo feci con l'aiuto degl'Indiani un gran monton di pietre, e in cima di quello vi posi una croce piccola e sottile, perchè non avevo modo di farvela maggiore, e disse che quella croce e monton mettevo in nome dell'illustrissimo signor don Antonio di Mendozza, viceré e capitano generale della Nuova Spagna per l'imperator nostro signore, in segno di possession, conforme alla instruzione; la qual possession disse ch'io prendevo in quel luogo di tutte le città, e delli regni di Totonteac, di Acus, di Marata. E cosí ritornai con molto piú paura che vettovaglia, e andai fino ch'io trovai la gente che era adietro restata, con la maggior pressa ch'io potette; alli quali arrivai in due giornate di cammino, e con loro venni fino a passar il diserto, dove non mi fu fatto tante carezze come per avanti, perchè cosí gli uomini come le donne facevano gran pianto per le persone che gli erano state ammazzate in Cevola. E con paura mi espedí dalla gente di quella valle, e camminai il primo dí 10 leghe, e cosí andai a otto e 10 leghe senza tenermi fino al passare il secondo luogo disabitato ritornando: e ancor ch'io avessi paura, determinai d'arrivare alla campagna della qual disopra dico che avevo relazione, dove s'abbassarno le montagne, e in quel luogo intesi che quella campagna è abitata per molte giornate verso levante. Non ardivo entrare in quella, parendomi che, se avevo da venire ad abitare questa altra terra delle sette città e regni ch'io dico, allora si potria meglio vedere, senza metter a pericolo la mia persona e lasciar per questo di dar relazione delle cose vedute: solamente viddi dalla bocca della campagna sette villaggi ragionevoli, alquanto lontani, in una valle di sotto molto fresca e di molto buona terra, onde uscivano molti fiumi. Ebbe informazione che in quella era molto oro, e che gli abitatori l'adoperano in vasi e palettine, con le quali si radono e levano via il sudore; e che sono gente che non consentono che quelli d'altra parte della campagna contrattino con loro, e non mi seppero dir la causa. Qui posi due croci e tolsi il possesso di tutta la campagna e valle, per la maniera e ordine delli possessi tolti da me di sopra, conforme alla instruzione; e de lí prosegui' il ritorno del mio viaggio con la maggior pressa ch'io potei, fin ch'io arrivai alla terra di San Michiele della provincia di Culiacan, credendo trovar in quel luogo Francesco Vazquez di Coronado, governator della Nuova Galizia: e non trovandolo, prosegui' il mio cammino fino alla città di Compostella, dove lo trovai. Non scrivo qui molte altre particolarità, perchè non sono pertinenti a questo caso; solamente dico quello ch'io viddi e mi fu detto delle terre per dove andai e di quelle che ebbi informazione.



Relazione che mandò Francesco Vazquez di Coronado, capitano generale della gente che fu mandata in nome di sua Maestà al paese nuovamente scoperto: quel che successe nel viaggio, dalli ventidue d'aprile di questo anno MDXL, che partì da Culiacan per innanzi, e di quel che trovò nel paese dove andava.


Francesco Vazquez con esercito parte di Culiacan e, doppo il patire diversi incommodi nel mal viaggio, gionge alla valle dei Caraconi; la ritrova sterile di maiz: per averne manda nella valle detta del Signore; ha relazione della grandezza della valle di Caraconi, e di quelli popoli, e d'alcune isole poste in quelle costiere.

Alli ventiduoi del mese d'aprile passato, parti' dalla provincia di Culiacan con parte dell'esercito e con l'ordine che io scrisse a V.S., e secondo il successo tengo per certo che s'indovinò a non metter tutto l'esercito unito in questa impresa, perchè sono stati cosí grandi i travagli e mancamento della vettovaglia, che credo che in tutto questo anno non si potesse effettuar l'impresa, e già che si effettuasse sarebbe con gran perdita di gente; perchè come scrissi a V.S. io feci il viaggio di Culiacan in 80 giorni di strada, la quale io e quei gentiluomini a cavallo miei compagni portammo su le spalle e ne' nostri cavalli un poco di vettovaglia, in modo che da questa in poi non portammo niuno di noi d'altre robbe necessarie tanto che passasse una libra, e con tutto ciò, e con l'essersi messa in questa poca vettovaglia che portammo tutta quella regola e ordine possibile, ci mancò: e non è da farsene maraviglia, perchè il cammino è aspro e lungo, e fra gli archibusi che si portavano, nel salir delle montagne e coste e nel passar dei fiumi, ci si guastò la maggior parte del maiz. E perchè io mando a V.S. dipinto questo viaggio, non le dirò in ciò altro per questa mia.
Trenta leghe prima che s'arrivasse al luogo che il padre provinciale nella sua relazione cosí ben diceva, mandai Melchior Diaz con quindeci da cavallo innanzi, ordinandogli che facesse di due giornate una, acciochè avesse esaminato il tutto quando io giongesse. Il quale camminò quattro giorni per certe montagne asprissime, e non trovò quivi né da vivere, né gente, né informazione d'alcuna cosa, eccetto che trovò due o tre povere villette di venti o trenta capanne l'una, e dagli abitatori d'essa seppe che da lí avanti non si trovava se non asprissime montagne, che continovavano, disabitate da tutte le genti: e perchè era cosa perduta, non volse di qui mandar di ciò messo a V.S. Diedi dispiacere a tutti i compagni che una cosa tanto lodata, e di che il padre aveva detto tante cose, si fosse trovato tanto al contrario, e si fece giudicio che il rimanente fosse tutto di quella sorte; e veduto io questo, procurai di rallegrargli al meglio che io potei, dicendogli che V.S. sempre ebbe opinione che questo viaggio fosse una cosa gettata via, e che dovessimo metter il nostro pensiero in quelle sette città e l'altre provincie di che avevamo notizia, che quivi sarebbe il fine della nostra impresa. E con questa resoluzione e disegno tutti camminammo con allegrezza per molto mal cammino, che non si poteva passar senza o farne uno o rindrizzare quel sentiero che v'era, di che non eran poco afflitti i soldati, veduto che tutto quel che aveva detto il frate si trovava al roverscio, perchè fra l'altre cose che il padre diceva e affermava era che il cammino fosse piano e buono, e che non ci era se non una picciola costa di mezza lega. Ed è vero che vi sono montagne che, con tutto che si racconciasse ben la strada, non vi si poteva passare senza gran pericolo di trabboccarvi i cavalli, ed era tale che del bestiame che V.S. mandò per provisione dell'esercito ve ne rimase gran parte in questo viaggio, per l'asprezza del sasso: gli agnelli e castrati lasciavano l'unghie per terra, e di quei che condusse da Culiacano la maggior parte lasciai nel fiume di Lachimi, perchè non potevano camminare; e perchè venissero pian piano rimasero con essi 4 uomini a cavallo, che son arrivati ora, né avean condotti piú di 24 agnelli e quattro castrati, che il rimanente rimase morto per quella balza, se ben non si camminò se non due leghe. E riposatoci qualche dí, arrivai poi alla valle dei Coraconi, alli ventisei dí del mese di maggio, e da Culiacano fino lí non mi prevalse se non d'una gran massa di pane di maiz, perchè, non essendo i maizali stagionati, mi convenne lasciarli tutti.
In questa valle de' Coraconi trovammo piú gente che in niuna parte di tutto il paese che avevamo lasciato adietro, e gran quantità di semenze, ma non ci è fra loro maiz da mangiare; ma sí ben intesi esserne in un'altra valle, chiamata del Signor, che non volsi molestar con forza, ma vi mandai con robba di baratto per averne Melchior Diaz, per darne agl'Indiani amici che conducevamo con noi, e per alcuni che avevan perdute delle bestie nel viaggio, e non avevan potuto portarsi vettovaglia dietro, che condussero fuor di Culiacano fin lí. Piacque a nostro Signor che s'ebbe con questi baratti qualche poco di maiz, con che si remediarono gl'Indiani amici e alcuni Spagnuoli. E fino a questa valle di Coraconi rimasero morti di stracchezza qualche dieci o dodeci nostri cavalli, perchè, portando gran carichi e mangiando poco, non poteron sopportar la fatica; similmente ci si partirono alcuni nostri mori e alcuni Indiani, che non ci fu di poco mancamento per il servigio della impresa. Questa valle dei Coraconi mi dicono esser lunga cinque giornate dal mare di ponente. Mandai a chiamare gl'Indiani della costa per informarmi dell'esser loro, e in tanto che gli aspettavo si riposassero i cavalli; e vi dimorai quattro giorni, ne' quali vennero gl'Indiani del mare, che mi dissero che due giornate da quella costa di mare erano sette o otto isole al dritto di loro, ben popolate di gente ma povere di vettovaglia, ed era gente brutta, e mi dissero aver veduto passare una nave non molto lungi da terra, che non so pensar se era di quei che andavano a scoprir il paese o pur di Portogallesi.


Giungono a Chichilticale; doppo l'avere preso due giornate di riposo, entrano in paese molto sterile di vettovaglie e difficile viaggio per trenta leghe, oltra 'l quale ritrovano paese assai ameno e il fiume detto del Lino; combattono contra gl'Indiani, essendo da lor assaltati, e con vittoria acquistata la lor città, si sollevano dal disagio della fame.

Mi parti' dai Coraconi, e sempre m'accostavo piú al mare al mio giudicio e con effetto sempre me gli ritrovavo piú lontano, in modo che, quando giunsi a Chichilticale, mi ritrovavo lungi dal mare quindeci giornate, e il padre provinciale diceva che v'era distanzia solamente da cinque leghe e che egli l'avea veduto. Ricevemmo tutti grande affanno e confusione con vedere che ogni cosa trovavamo al roverscio di quel che aveva detto a V.S. Gli Indiani di Chichilticale dicono che, se vanno mai al mare per pesce e altre cose che portano, vanno traversando e vi fan dieci giornate, e mi par che fosse vera l'informazione ch'io ebbi dagl'Indiani. Il mare si rivolta a ponente a quel dritto dei Coraconi per dieci o dodeci leghe, dove compresi che fussero comparse le navi di V.S. che andavano a cercare il porto di Chichilticale, che il padre disse che stava in trentacinque gradi. Iddio sa la pena che io ne ho, perchè temo che non gli avvenga qualche disgrazia. E se essi seguiranno la costa, come dissero, fin che loro durerà il vivere che portano con esso loro, di che io gli lasciai provisione in Culiacano, e se non saranno incorsi in qualche contrarietà, spererò bene in Dio che abbin già scoperto qualche cosa buona, e con questo se gli perdonerà il tardar che hanno fatto.
In Chichilticale mi riposai duoi giorni, e sarebbe bisognato che ce ne fosse stato piú, secondo che ci trovavamo stanchi i cavalli, ma perchè ci mancava la vettovaglia non ci fu dato luogo a riposar piú. Entrai nel fine del paese disabitato la vigilia di san Giovanni, e per refrigerio dei travagli passati nei primi giorni non trovammo erba, ma peggior cammino di montagne e cattivi passi che non avevamo fatto per l'adietro; e venendo i cavalli stanchi, se ne sentirono molto, in modo che in questo ultimo deserto perdemmo piú cavalli che non avevamo fatto per l'adietro, e mi morirono alcuni Indiani amici, e uno Spagnuolo che si chiamava Spinosa, e duoi mori che morirono mangiando certe erbe per esserli mancata la vettovaglia.
Da questo luogo feci andar innanzi a me una giornata il mastro di campo don Garzia Lopez di Cardena con quindeci cavalli, perchè discoprissero il paese e perchè ridrizzasser il cammino, al quale si è affaticato da quel uomo che egli è, e conforme alla confidanza che Vostra Signoria aveva nella sua persona. So che non gli mancò da fare perchè, come gli ho detto, il cammino è tristissimo, almeno le trenta leghe e piú, per esser montagne inaccessibili; ma passate queste trenta leghe, trovammo fiumi freschi e dell'erba come quella di Castiglia, e specialmente d'una sorte che noi chiamiamo scaramoio, molti alberi di noce e di mori, ma le noci sono differenti da quelle della Spagna nella foglia, e vi era lino massimamente alla riva d'una fiumana, e perciò si chiama il fiume del Lino. Non si trovò quasi niuno Indiano fino a una giornata; di quivi poi uscirono quattro Indiani in atto di pace, dicendo che eran stati mandati fino a quel luogo deserto a dir che noi fossimo i ben venuti, che l'altro giorno saria uscita alla strada tutta la gente con vettovaglia. E il mastro di campo diede loro una croce, dicendogli dovesser dire a quei della lor città che non dovesser temere, e che dovesser pur lasciar che la gente se ne stesse nelle proprie case, perchè io venivo solamente in nome di sua Maestà per difendergli e aitargli; e ciò fatto ritornò Ferrando Alvarado a dirmi che erano venuti certi Indiani in atto di pace, e che duoi d'essi mi aspettavano col mastro di campo, onde io andai a loro e gli donai dei paternostri e certi mantelli, dicendogli che ritornassero alla città e dicessero che dovessero star tutti cheti nelle lor case e che non dovessero temere. E ciò fatto ordinai al mastro di campo che andasse a veder se vi fosse qualche mal passo che gli Indiani avesser potuto difendere, che lo pigliasse e difendesse fino all'altro dí, che io vi sarei giunto: e cosí andò e trovò nella strada un passo ben cattivo, dove avremmo potuto ricever gran male, onde quivi si pose egli con la gente che conduceva. E quella medesima notte vennero gl'Indiani a pigliar quel passo per difenderlo, e, trovatolo preso, assaltarono i nostri quivi e, secondo che mi dicono, gli assaltaron da uomini valorosi, ancora che alla fine ritornassero adietro fuggendo, perchè il mastro di campo vegghiava ed era all'ordine con i suoi: toccarono una trombettina gl'Indiani in segno di raccolta, e non fecero alcuno danno negli Spagnuoli. La notte medesima mi diede di ciò aviso il mastro di campo, onde il dí seguente col miglior ordine che potei parti', con tanto mancamento di vettovaglia che pensai che, dovendo aspettar piú un giorno, saremmo morti di fame tutti, massimamente gl'Indiani, perchè fra tutti noi non avevamo due mine di maiz, onde mi convenne spinger oltra senza tardare. Gl'Indiani a passo per passo facevano i lor fumi, e gli era da lungi risposto con tanto concerto quanto avessimo saputo far noi, acciochè si fosse dato aviso come noi andavamo e dove eravamo giunti.
Subito che io arrivai a vista di questa città, mandai don Garzia Lopez, mastro di campo, frate Daniello e frate Luigi e Ferrando Vermizzo alquanto innanzi con alcuna gente da cavallo, perchè ritrovassero gl'Indiani e gli dicessero che la venuta nostra non era per far lor danno, ma per difendergli in nome dell'imperatore signor nostro il ricercamento, in forma come sua Maestà comanda per instruzione, il che si diede ad intender per interprete ai naturali di quel paese; ma essi lo stimaron poco, come gente superba, perchè pareva lor che noi fossimo pochi e che non avrebbono avuto difficultà d'ucciderci, e feriron fra Luigi d'una frezza nell'abito, che piacque a Dio che non li fece male. In questo giunsi io con tutto il resto dei cavalli e pedoni, e trovai in campagna gran parte degl'Indiani, che si mossero a tirarci con le frezze, e io per obedire il parer di Vostra Signoria e del marchese non volse che si desse dentro, proibendo a' compagni che mi sollecitavano a farlo che non dovessero muoversi, e che quel che facevano i nemici non era niente, e che non era d'affrontar sí poca gente. Dall'altra banda gl'Indiani per veder che noi non ci movevamo pigliavano maggior animo e alterezza, tanto che s'appressavano alle gambe dei nostri cavalli a tirarci delle frezze, onde, veduto che non era piú tempo da stare e che cosí pareva ai religiosi, diede dentro, e ci fu poco che fare, perchè subito fuggirono in parte alla città, che era vicina e ben fortificata, e altri per la campagna, dove gli guidava la ventura. E morirono alcuni Indiani, e piú sarebbono morti se io l'avesse consentito che si fussero seguitati; però, veduto che di ciò ci poteva venir poco frutto, perchè gl'Indiani che erano fuori eran pochi, e quei che s'erano ritirati nella città con quei che v'erano rimasi prima erano molti, dove era la vettovaglia di che avevamo tanto di bisogno, raccolsi tutta la mia gente e la divisi come meglio mi parve per combatter la città, e la circundai. E perchè la fame che noi avevamo non pativa dilazione, io smontai con alcuni di questi gentiluomini e soldati, e comandai che i balestrieri e archibusieri facessero empito e levassero dalle diffese i nemici, acciochè non ci facessero danno, e io assaltai le mura da una banda, dove mi dissero ch'era stata appoggiata una scala levatoia e che v'era una porta. Ma a' balestrieri si romperono tosto le corde delle balestre, e gli archibusieri non fecero nulla, perciochè venivano cosí deboli e fiacchi che quasi non si potevano sostenere in piedi: e in questo modo le genti che erano all'alto per difendere non ebbero disturbo alcuno di poter far sopra di noi il danno che potevano, onde a me mi gettaron due volte in terra con infinite pietre grandi che gettavano dall'alto, e se io non fosse stato difeso da una buonissima armatura di testa che io portavo, penso che mi sarebbe successo male; tuttavia mi tolsero di terra con due picciole ferite in faccia e una frezza nel piede, e con molte sassate nelle braccia e gambe, e in questa maniera usci' dalla battaglia ben stanco. Penso che se don Garzia Lopez di Cardena, la seconda volta che mi gettarono per terra, non m'avesse aiutato con por la sua persona come buon cavaliero sopra la mia, averei corso assai maggior pericolo di quel che corsi. Ma piacque a Dio che gl'Indiani ci si resero, e fu nostro Signor servito che si prese questa città, e si trovò in essa tanta abbondanza di maiz quanto la nostra necessità ricercava.
Uscendo il mastro di campo e don Pietro di Tovar e Ferando d'Alvarado e Paulo di Melgosa, capitani della fanteria, con alcune sassate, ancora che non fussino feriti niun d'essi, fu ferito Agoniez Quarez in un braccio di una frezzata, e a Torres abitator di Panuco in faccia d'un'altra, e altri duoi pedoni furon feriti di due frezzate ancora picciole. E perchè eran le mie armi dorate e rilucenti, tutti caricavano addosso a me, e per questa cagione rimasi piú ferito degli altri, non per aver fatto piú e messomi piú innanzi degli altri, perchè tutti questi gentiluomini e soldati si portarono cosí bene come si sperava di loro. Io ora sto bene, lodato sia Iddio, ancora che alquanto pesto dalle pietre. Nella battaglia che avevamo in campagna similmente rimasero feriti duoi o tre altri compagni, e vi rimasero morti tre cavalli, l'un di don Lopez e l'altro di Vigliega e il terzo di don Alfonso Manrich, e vi furono altri sette o otto cavalli feriti: ma ora cosí gli uomini come i cavalli sono guariti e ben sani.


Del sito e stato delle sette città dette il regno di Cevola, e de' costumi e qualità de' suoi popoli, e degli animali che quivi si ritrovano.

Restami ora a dar conto delle sette città e regni e provincie, di che il padre provinciale diede relazione a Vostra Signoria, e per non dilattarmi molto posso dirle in verità che in niuna cosa che disse ha detto il vero, ma è stato tutto al roverscio, eccetto nel nome delle città e delle case grandi di pietra, perchè, avvenga che sian lavorate di turchino, né di calcina né di mattoni sono, nondimeno buonissime case, di tre, di quattro e di cinque solari, dove sono buoni alloggiamenti e belle stanze con corridori, e certe stanze sotto terra assai buone e mattonate, le quali son fatte per l'inverno e sono quasi alla maniera delle stufe, e le scale che hanno per le lor case son quasi tutte levatoie e portatili, che si levano e mettono quando lor piace, e son fatte di due legni con i lor scaloni come le nostre. Le sette città sono sette terre picciole, tutte di queste case che io dico, e stan tutte vicine a quattro leghe, e si chiamano tutti regno di Cevola e ciascuna ha il suo nome, e niuna si chiama Cevola, ma tutte insieme si chiamano Cevola; e questa che io chiamo città gli ho posto nome Granata, cosí perchè ne ha qualche simiglianza, come per la memoria di Vostra Signoria. In questo dove io sto ora alloggiato possono esservi qualche dugento case, tutte circondate di muro, e parmi che con l'altre, che non sono cosí, possono arrivare a cinquecento fuochi. V'è un'altra terra vicina, che è una delle sette ed è alquanto maggior di questa, e un'altra della medesima grandezza di questa, e l'altre quattro sono alquanto minori, e tutte io le mando dipinte a Vostra Signoria con il viaggio: e pergamino dove va la pittura si trovò qui con altri pergamini.
La gente di queste terre mi pare ragionevolmente grande e accorta, però non l'ho per tale che mi paia che arrivi col giudicio e intelletto a saper far queste case nel modo che sono; per la maggior parte van tutti nudi, però coperti delle vergogne loro, e hanno mantelli dipinti della maniera che io mando a Vostra Signoria. Non raccolgono bombaso per esser il paese frigidissimo, però ne portano mantelli, come ella vedrà per la mostra, ed è vero che si ritrovò nelle lor case certo bambaso filato. Portano in testa cappelli come quei di Messico, e sono tutti ben creati e disposti, e hanno delle turchine, penso in quantità, le qual col rimanente delle robbe che aveano, eccetto il maiz, avevan fuggito quando io giunsi, perchè non vi trovai donna alcuna, né giovane di quindeci anni a basso, né da sessanta in su, eccetto dui o tre vecchi quivi rimasi per comandar a tutti gli altri giovani e uomini da guerra. Si trovaron in una carta due punte di smeraldi e certe picciole pietre rotte che tirano al color di granate, assai cattive, e altre pietre di cristallo ch'io diedi a riporre a un mio creato per mandarle a V. S.: e le ha perdute, secondo che mi dicono. Si trovaron galline però poche, pur ce ne sono; in tutte queste sette terre mi dicono gl'Indiani che non le mangiano, ma che solo le tengono per prevalersi della penna: io non glielo credo, perchè son buonissime e maggiori che quelle di Messico.
Il tempo che è in questo paese e la temperie dell'aere è quasi come quella di Messico, perciochè ora è caldo e ora piove, però non ho veduto insino a qui piover mai, ma sí ben è venuta una piovegina picciola con vento, come quelle che soglion cader in Spagna. Le neve e i freddi sogliono esser molto grandi, perchè cosí dicono i nativi del paese, e par ben che sia cosí e nella maniera della terra e nella sorte delle stanze loro e le pelli e altre cose che queste genti tengono per difendersi dal freddo. Non v'è niuna sorte di frutti, né d'alberi d'essi. È paese tutto piano, e da niuna banda si scorge esser montagne, ancora che vi sia qualche poggio e passo cattivo. Uccelli ve ne son pochi: debbelo causar il freddo, e per non vi esser montagne vicine. Quivi non sono molti alberi per far legna, posto che per abbrucciarne per loro uso ve ne abbino a bastanza a quattro leghe lungi da una selva di cedri molto picciole. Si trovò buonissima erba ad un quarto di lega di qua per i nostri cavalli, cosí per pascerli in passata in erba come segata per fieno, di che avevamo gran bisogno, per esser giunti quivi i nostri cavalli cosí stanchi e lassi. La vettovaglia che hanno quelli di questo paese è il maiz, di che ne hanno essi grande abbondanzia, e di fasuoli e cacciagione, che essi debbono mangiare, posto che dicono che no, perchè si trovaron molte pelle di cervi, di lepri e di conigli. Mangiano le migliori tortelle che io abbia veduto in alcuna parte, e le mangian generalmente tutti. Hanno il piú bello ordine e politezza nel macinare che si sia veduto altrove, e macina tanto una Indiana di quelle di questo paese quanto quattro di quelle di Messico. Hanno buonissimo sale in grano, che levano da un lagume che è longi una giornata di qua.
Niuna notizia è appresso di loro del mare del settentrione né di quel di ponente, né saprei dir a Vostra Signoria a qual siamo piú vicini, posto che ragionevolmente siam piú vicini a quel di ponente: e al piú vicino mi truovo lontano da esso a centocinquanta leghe, e quel di settentrione deve esser assai piú lontano. Veda Vostra Signoria quanto s'allarga qui la terra. Vi sono di molti animali, orsi, tigri, leoni e porci spinosi, e certi castrati della grandezza d'un cavallo, con corni molto grandi e code picciole: ho veduto i corni d'essi, che è cosa di maraviglia la sua grandezza. Vi sono delle capre salvatiche, delle quali ho similmente vedute le teste, e le branche degli orsi e le pelli dei cingiali. Vi sono cacciagioni di cervi, pardi, cavrioli molto grandi, e tutti hanno giudicato che ve ne sieno alcuni maggiori di quel animale di che V.S. mi fece grazia, ch'era di Giovan Melaz. Fanno otto giornate verso le campagne al mare di settentrione. Quivi sono certe pelli ben concie, e la concia e pittura gli dan dove uccidon le vacche, che cosí riferiscono essi.


Dello stato e qualità delli regni di Totonteac, Marata e Acus, in tutto contraria alla relazione di fra Marco. Il parlamento che hanno con gl'Indiani della città di Granata, da lor presa, i quali aveano già cinquanta anni preveduto l'andata de' cristiani ne' loro paesi; relazione che da lor hanno d'altre sette città, delle quali è la principale Tucano, e come mandano a discoprirle; presente di varie mostre avuto in quelli stati, dal Vazquez mandato al Mendozza.

Il regno di Totonteac tanto lodato dal padre provinciale, che diceva che v'erano cose sí maravigliose e tante grandezze, e che vi si facevano panni, dicono gl'Indiani esser un lago caldo, a torno al quale sono cinque o sei case, e che ve ne solean esser certe altre, però che sono state rovinate per le guerre. Il regno di Marata non v'è, né gl'Indiani hanno d'esso notizia alcuna. Il regno di Acus è una città sola picciola, dove si raccoglie bombaso, che è chiamata Acucu, e dico che questa è una terra, perchè Acus con aspirazione né senza non è vocabolo del paese, e perchè mi pare che Acucu voglian tirarsi da Acus, dico che è questa terra, nella quale si è convertito il regno di Acus. Piú oltre di questo popolo, dicono che ve ne sono altri piccioli, che stanno vicino ad un fiume, che io l'ho veduto e ho avuto per relazione dagl'Indiani. Iddio sa s'io avessi voluto aver miglior nuova da scriver a Vostra Signoria: però ho da dir il vero e, come l'ho scritto da Culiacano, cosí del prospero come dell'avverso io l'ho d'avisare. Però sia certo che, se quivi fossero tutte le ricchezze e tesori del mondo, io non averei potuto far piú in servizio di sua Maestà e di Vostra Signoria di quel che ho fatto in venire dove mi ha comandato, portando i miei compagni e io sopra le spalle trecento leghe la vettovaglia e nei nostri cavalli, e molti giorni camminando a piedi, facendo cammini per balze e aspre montagne, con altri travagli che io lascio di dire; né penso di partirmi fino alla morte, se sua maestà o Vostra Signoria sarà servita che cosí sia.
Passati tre giorni che si prese questa città, vennero alcuni Indiani di quei popoli ad offerirmi pace, e mi portarono alcune turchine e mantelletti cattivi: e io gli ricevetti in nome di sua Maestà con tutte le miglior parole ch'io potetti, dandogli ad intendere il fine della mia venuta in questo paese, che è in nome di sua Maestà e per comandamento di Vostra Signoria, perchè essi e tutti gli altri di questa provincia debbono essere cristiani, e conoscono il vero Iddio per lor Signore e sua Maestà per re e per lor signore terreno. E con questo se ne ritornarono alle lor case, e subito il giorno seguente posero in ordine le robbe e sostanze loro, donne e figliuoli, e se ne fuggirono ai colli, lasciando quasi abbandonate le terre loro, che non vi rimasero se non alcuni pochi di loro. Veduto questo, de lí a otto o dieci giorni, che fui finito di guarire delle mie ferite, me n'andai alla terra che ho detto che è maggior di questa, e vi trovai pochi di loro, a' quali dissi che non dovessero aver paura e che chiamassero a me il signor loro, ancora che, per quel che ho inteso e compreso, niuna di queste terre lo abbi, che non vi ho veduta niuna casa principale, dove si conosca niun vantaggio dall'altre. Venne poi un vecchio, che disse che era il signore, con un pezzo di mantello fatto di molti pezzi, col quale io ragionai alquanto, che restò con meco e disse che de lí a tre giorni sarebbe venuto egli e il resto dei principali della terra a vedermi e a dar ordine del modo che si ha da tener con esso loro. Il che fecero, perchè mi portarono certi mantelletti rotti e alcune turchine: rimasero di aver a descendere dai loro poggi e ritornarsene con le lor moglie e figliuoli alle lor case, e che sarebbono cristiani, e che averiano riconosciuto sua Maestà per lor re e signore. E fin qui ancora tengono in quei lor forti le donne e figliuoli e tutto il bene che hanno. Gli comandai che mi volessero dipinger un panno degli animali di che hanno notizia in quel paese, e, cosí cattivi pittori come sono, mi dipinsero presto due tele, una degli animali e l'altra d'uccelli e pesci. Dicono che condurranno i loro figliuoli, acciochè i nostri religiosi gl'insegnino, e che desiderano di saper la nostra legge; e affermano che sono piú di cinquanta anni che si disse fra loro che doveva venire una gente della sorte di noi altri, e dalla banda che siamo venuti, e che avea a soggiogar tutto questo paese. Quel che adorano questi Indiani, secondo che s'ha inteso fin qui, è l'acqua, perchè dicono che la gli genera il lor maiz e gli sostenta la vita, e che non sanno altra ragione se non che cosí facevano gli antichi loro.
Ho procurato con ogni sforzo possibile di sapere dai naturali di questi popoli se hanno notizia d'altre genti, provincie e città, e mi dicono di sette terre che stanno lontane di qua, che sono come queste, ancora che non abitano case come queste, ma sono di terraccia e picciole, e che fra loro si raccoglie molto bombaso. Il primo di questi quattro luoghi di che hanno notizia dicono che si chiama Tucano, e non mi danno chiarezze d'altri, e credo che non mi dicano il vero, con pensiero che in ogni modo io mi abbia da partir presto da loro e tornarmene adietro: ma di ciò rimarranno presto ingannati. Mando don Pietro di Tovar a vederlo con la sua compagnia e con alcuni altri da cavallo, e non averei spacciato questo plico alla Signoria Vostra finchè non avesse saputo quel che n'è, se avessi considerato che in dodeci o quindeci giorni si fosse potuto aver nuova da lui, perchè per il meno si tarderà trenta dí: ed esaminato che questa notizia importi poco e che già i freddi e l'acque si avicinano, mi parve di dover fare quel che Vostra Signoria mi comandava per sua instruzione, che è che subito che io fosse quivi la dovesse avisare, e cosí faccio con mandar la sola relazione di quel che ho veduto, che è ben cattiva, come ella vedrà.
Io ho determinato di quivi mandar per tutto il contorno per avere notizia d'ogni cosa, e patir prima ogni esterminio che lasciare questa impresa, di far il servizio di sua Maestà, se qua si troverà a farlo, e non mancarvi di diligenza, intanto che Vostra Signoria mi ordini quello che averò a fare. Noi abbiamo gran carestia di pascoli, e saperete anco che fra tutti quei che son quivi non v'è una libra d'uva passa, né zucchero, né olio, né vino, eccetto qualche mezza quarta che v'è riserbata per le messe, che tutto s'è consumato e parte perduto per la strada. Ora ella potrà provederci di quel che le parerà, e se penserà di volerci mandare bestiame, sappia che bisognerà per il meno tardar un anno nel cammino, che in altro modo e piú presto non vi verrà niuno. Io averei voluto mandar a Vostra Signoria con questo spaccio molte mostre di cose che sono in questo paese, però il viaggio è sí lungo e aspro che mi è difficile a farlo. Però mandole dodeci mantelli piccioli, di quei che le genti del paese sogliono portare, e una veste ancora che a me pare che sia ben fatta: guardila, che a me par che la sia molto ben lavorata, perchè non credo che in queste Indie sia stata veduta cosa alcuna lavorata ad ago, se non doppo che gli Spagnuoli vi abitano. E le mando anco duoi panni dipinti degli animali che sono in questo paese, ancora che come dico la pittura sia molto mal fatta, perchè in dipingerla non vi consumò il mastro piú d'un giorno: io ho vedute altre pitture nelle mura delle case di questa città, con assai miglior proporzione e meglio fatte. Le mando una pelle di vacca, certe turchine e duoi pendenti d'orecchie delle medesime, e quindeci pettini degl'Indiani, e alcune tavolette guarnite di queste turchine, e duoi canestretti di vimene lavorati, di che g'Indiani hanno grande abbondanza. Le mando similmente due coroglie, di quelle che accostumano quivi le donne portar in testa quando portano l'acqua dalla fontana, alla maniera di quei di Spagna: e una Indiana di queste, con una di queste coroglie in testa, porterà un cantaro d'acqua senza toccarlo con mano su per una scala. Le mando similmente la mostra dell'armi con che combattono i naturali di questo paese: una rotella, una mazza e un arco con alcune frezze, fra le quali ve ne sono due di certe ponte d'osso che, secondo che riferiscono questi conquistatori, non se ne sono vedute simili. Per quel che posso considerare, non mi pare che vi sia speranza d'aver oro né argento, però spero in Dio che, se ve ne sarà, noi ne averemo, né si restarà per mancamento di cercarne. Dei vestimenti delle donne non posso dir a Vostra Signoria certezza alcuna, perchè gl'Indiani le tengono con tanta guardia che fin qui non ho veduto se non due vecchie, e queste aveano due camicie lunghe fino a' piedi, aperte davanti e cinte, e sono affibbiate con certi cordoni di bambaso. Domandai agl'Indiani che me ne dessero una di quelle che portavano per mandargliela, poi che non mi volevano mostrare le donne, e mi portarono duoi manti, che son questi che gli mando, quasi come dipinti; hanno duoi pendenti, come le donne di Spagna, che pendono alquanto sopra le spalle.
La morte del moro è cosa certa, perchè qua si sono trovate molte cose di quelle che portava, e mi dicono gl'Indiani che l'uccisero quivi perchè gl'Indiani di Chichiticale gli dissero che era un tristo, e non come i cristiani, perchè i cristiani non uccidono le donne a niuno ed egli le uccideva, e perchè anco toccava le donne loro, che gl'Indiani l'amano piú che se stessi: però determinaron d'ucciderlo, ma non lo fecero nel modo che fu riferito, perchè non uccisero niuno altro di quei che venivan con esso lui, né feriron quel giovanetto che era seco, della provincia di Petatlan, ma ben lo presero, e l'han tenuto con buona guardia fino adesso. E quando io ho procurato di averlo, si sono escusati duoi o tre dí di darlo, dicendomi che era morto, e altre volte che l'avevano menato via gl'Indiani d'Acucu; ma al fine, dicendogli io che mi adirerei molto se non me l'avesser dato, me lo dierono. L'interprete, ancora che non sia atto a parlare, però intende molto bene.
In questo luogo s'è trovato alquanto oro e argento che quei che s'intendon di miniera non l'han reputato per cattivo: fin qui non ho potuto cavar da queste genti donde se lo cavino, e vedo che niegano di dirmi il vero in tutte le cose, con pensare che io in breve, come ho detto, mi debba partir di qui, però spero in Dio che non potran piú scusarsi. Supplico Vostra Signoria che faccia relazione a sua Maestà del successo di questo viaggio, perchè per non aver piú di quel che ho detto e fintanto che piacerà a Dio che c'incontriamo in quel che desideriamo non lo faccino. Nostro Signor Dio guardi e conservi Vostra Signoria illustrissima.
Dalla provincia di Cevola e da questa città di Granata, il terzo dí d'agosto 1540.
Francesco Vazquez di Coronado bacia le mani di Vostra Signoria illustrissima.




Relazione della navigazione e scoperta che fece il capitano Fernando Alarcon per ordine dello illustrissimo signor don Antonio di Mendozza, vice re Della Nuova Spagna, data in Colima, porto della Nuova Spagna.

Fernando Alarcon, doppo aver patito fortuna, giunge con l'armata nel porto di Sant'Iago e di quivi al porto Aguaiaval. Scorre molto pericolo nel voler scoprir un golfo; di quello uscito, scopre un fiume nella costa con gran correntia; in quello entrato, scorrendo scuopre gran numero d'Indiani armati, con cenni ha con quelli commercio, e temendo di qualche pericolo fa ritorno alla nave.

La domenica che fu alli nove di maggio del 1540 diedi vela con due navi, l'una chiamata San Pietro, che era la capitana, e l'altra Santa Caterina, e ce n'andammo ricercando il porto di Sant'Iago di Buona Speranza, dove prima che giungessimo avemmo una fortuna terribile, per la quale coloro che si trovavano nella nave di Santa Caterina, essendo piú spaventati di quel che era il dovere, gettarono via nove pezzi d'artiglieria, due ancore, un canape e molte altre cose, cosí necessarie per l'impresa in che andavamo come la nave istessa. Giunti che fummo al porto di Sant'Iago, mi rifeci del danno che avevo ricevuto e mi providdi delle cose necessarie, e tolsi nelle navi la gente che quivi m'aspettava, e drizzai il cammino verso il porto d'Aguaiavale: e quivi arrivato intesi come il generale Francesco Vazquez di Coronado era partito con tutta la sua gente, onde, tolta la nave chiamata San Gabriel, che andava con vettovaglia per l'esercito, la condussi meco in esecuzione dell'ordine della S.V. Doppo segui' il cammino per la costa senza partirmi da quella, per vedere se potevo trovare segno alcuno o qualche Indiano che mi potesse dar notizia d'esso, e per andar cosí vicino a terra venni a scoprire altri porti assai buoni, perchè non viddero né trovarono le navi che conduceva il capitano Francesco di Ulloa per il marchese di Valle; e arrivati alli luoghi bassi donde erano ritornate le dette navi, parve cosí a me come agli altri aver terra ferma innanzi, ed esser cosí pericolose e spaventose quelle basse che era forte cosa di pensar anco con battelli poter entrare per esse: e i pilotti e l'altra gente volevan che facessimo il medesimo che aveva fatto il capitano di Ulloa. Ma, per avermi Vostra Signoria comandato che io gli avesse a rapportare il secreto di quel golfo, determinai, ancora che avessi saputo di perder le navi, per cosa alcuna non restare di vedere il capo, e perciò comandai a Nicola Camorano, pilotto maggiore, e a Domenico del Castello, che pigliassero un battello per uno e lo scandaglio in mano ed entrassero per quelle basse, per vedere di trovarvi il canale onde potessero entrar le navi: a' quali pareva che le navi potessero, ancora che con gran fatica e pericolo, passar innanzi. E in questo modo io insieme con lui cominciai a seguir il cammino che essi presero, e indi a poco ci ritrovammo con tutte tre le navi piantate nell'arena, di maniera che uno non poteva soccorrer l'altro, né i battelli potevan anco darci soccorso, imperochè era il corrente cosí grande ch'era impossibile accostarsi l'uno all'altro; onde corremmo tanto gran rischio che stette molte volte l'orlo della capitania sotto l'acqua, e se non fosse miracolosamente venuto un gran colpo di mare, che ci ridrizzò la nave e la fece respirare, noi ci saremmo annegati; e similmente l'altre due navi si ritrovarono in assai gran rischio, pur, per essere minore e ricercare meno acqua, non fu tanto quanto il nostro.
Or volse Iddio che crescendo la marea ritornarono le navi a nuoto, e con questo andammo innanzi, e ancora che la gente volesse ritornare adietro, tuttavia determinai che s'andasse oltre e si seguisse il viaggio preso, e passammo innanzi con gran fatica, girando la prora or di qua or di là per vedere di ritrovar il canale: e piacque a Dio che in questo modo venimmo a dare nel capo del seno, dove trovammo un fiume molto potente, che menava cosí gran furia di corrente che a pena potevamo navigare per esso. In questo modo determinai d'andare al meglio che si potesse per il detto fiume, e con due barche, lasciando l'altra con le navi e con venti compagni e io in una d'esse con Rodrigo Maldonato, tesoriero di questa armata, e Gaspar di Castilleia, contadore, e con alcuni pezzi d'artiglieria minuti, cominciai a montare il fiume e comandai a tutta la gente che niuno si movesse né facesse segno alcuno, se non colui a ch'io l'ordinassi, ancora che trovassimo Indiani.
Quel medesimo giorno, che fu il giovedí a' ventisei d'agosto, seguendo il navigar nostro col tirar dell'alzana andammo tanto quanto saria sei leghe, e l'altro giorno, che fu il venere nell'apparir dell'alba, cosí seguendo il cammino all'insú, io viddi alcuni Indiani che andavano a certe capanne vicine all'acqua; i quali subito che viddero noi, si levaron qualche dieci o dodeci di loro alteratamente, e gridando a gran voce quivi concorsero altri compagni fino al numero di cinquanta, che a gran fretta trassero fuori ciò che avevano nelle capanne e lo portavano sotto certi boschetti, e molti di loro venivano correndo verso quella parte donde noi venivamo, facendoci gran cenni che ci tornassimo adietro, con farci fiere minaccie, correndo chi da una banda e chi dall'altra. Io, vedutogli cosí alterati, feci ridurre le barche nel mezzo del fiume, perchè quegl'Indiani s'assicurassero, e andai a surgere, e posi la gente in ordine al meglio che io puoti, comandando che niuno parlasse né facesse segno o movimento alcuno, né si movesse dal suo luogo, né si alterasse per cosa che gl'Indiani facessero, né mostrasse maniera di guerra: e con questo modo gli Indiani si venivano ogni volta accostando piú al fiume a vederci, e io me ne andai a poco a poco dove il fiume mostrava maggior fondo verso di loro. Tra questo mezzo erano in esser meglio di dugentocinquanta Indiani con i suoi archi e frezze e con certe bandiere in atto di guerra, nella maniera che usano quelli della Nuova Spagna, e veduto che io andavo verso terra, vennero con gran gridi alla volta nostra, con archi e frezze poste in essi e con le lor bandiere alzate; e io mi posi alla prora della barca con lo interprete che menavo meco, al qual comandai che li parlasse: e parlando né essi lo intendevano né egli loro, ancora che per vederlo esser al modo suo si ritenessero. E veduto questo mi accostai piú a terra, ed essi con gran gridare mi vennero a pigliar la riva del fiume, facendo cenni che io non dovesse passar piú avanti, mettendomi pali fra l'acqua e la terra piantati: e quanto piú io tardavo, piú gente di continuo si vedea giunger di loro. Al che avendo io posto mente, cominciai a far lor segni di pace e, presa la spada e la rotella, le gettai in terra nella barca ponendovi sopra i piedi, dando lor ad intender con questo e altri segni che io non volevo guerra con esso loro, e che essi dovessero fare il medesimo; presi doppo una bandiera e l'abbassai, e feci che la gente che avevo meco s'abbassasse similmente, e pigliando delle cose da contracambiare che io portavo meco gli chiamavo per dargliele: ma con tutto ciò niuno di loro si mosse per venire a pigliarne, anzi si misero insieme e cominciarono a fare fra loro un gran mormorio. E subito uscí uno fra di loro con un bastone nel quale erano poste certe cappe, ed entrò nell'acqua a darmele, e io le tolsi e gli feci cenno che mi s'appressasse: il che avendo egli fatto, io l'abbracciai, e gli diedi in contracambio alcuni paternostri e altro. Ed egli, tornato con essi a' suoi, cominciò a guardarli e a parlare fra loro, e indi a poco vennero alla volta mia molti d'essi, a' quali feci cenno che dovessero abbassare le bandiere e lasciare l'armi, il che fecero incontanente; poi gli accennai che le mettessero tutte in un luogo e appartassero da loro, il che similmente fecero, e a quegli Indiani che quivi comparivano di nuovo gliele faceano lasciare e porle insieme con l'altre.
Doppo questo io gli chiamai che venissero da me, e a tutti quei che venivano io davo qualche cosa da contracambiare, trattandogli amorevolmente, e di già erano tanti quei che mi s'appressavano che mi parea di non stare quivi piú ormai sicuro, e feci lor cenno che si ritirassero e che si mettessino tutti da una parte d'un colle che era quivi, fra una pianura e il fiume, e che non s'appressassero a me piú di dieci alla volta: e incontanente i piú vecchi di loro gli chiamarono in voce alta, dicendo loro che dovessero farlo, e vennero dove ero qualche dieci o dodeci d'essi. Onde, vedutomi quasi sicuro, determinai smontare in terra per piú assicurargli, e per piú assicurar me gli acennai che s'assentassero in terra, il che fecero essi; ma veduto che dietro mi venivano in terra dieci o dodeci de' miei, s'alterarono, e io accennai loro che fra noi sarebbe pace e che non dovessero temere, e con questo si quietarono, che si remisero a sedere come dinanzi. E io m'accostai a loro e gli abbracciai dando loro alcune cosette, commettendo al mio interprete che li parlasse, perchè io desideravo molto intendere il modo del parlar loro e il gridare che mi facevano; e per sapere che sorte di cibo avevano, feci lor cenno che avevamo voglia di mangiare, e mi portarono certe mazoche di maiz e un pane di mizquiqui. E mi accennarono che voleano veder tirare un archibuso, il quale io feci disserare, e tutti si spaventarono con maraviglia, eccetto due o tre vecchi di loro che non fecero movimento alcuno, anzi gridavano agli altri perchè avevano avuto paura, e per il dire di uno di quei vecchi cominciavano a levarsi di terra e a ripigliare le loro armi: il quale volendo io placare, gli volsi dare un cordon di seta di variati colori, ed egli in gran colera si morsicò il labro da basso forte, e mi diede con un gombito nel petto, e tornò a parlare alla gente con maggior furia. Io, doppo che viddi alzare le bandiere, determinai di ridurmi dolcemente alle mie barche, e con un poco di vento feci dar vela, con che potemmo rompere il corrente, che era molto grande, ancora che a' miei compagni dispiacesse dover andare innanzi. In tanto gl'Indiani se ne venivano seguitandoci longo la riva del fiume, facendo cenni che dovesse saltare in terra, che mi darebbono robba da mangiare, succiandosi le deta alcuni, e altri entravano nell'acqua con alcune mazoche di maiz a darmele nella barca.


Degli abiti, arme e statura degl'Indiani scoperti. Relazione di molti altri co' quali egli ha con cenni commerzio, vettovaglia e molte cortesie.

In questo modo andammo due leghe, e arrivai presso ad una rottura di monte, sopra la quale era una frascata fatta di nuovo, dove mi accennavano gridando che io dovesse andare, mostrandomela con le mani e dicendomi che quivi era da mangiare. Io, veduto che il luogo era atto per esservi qualche imboscata, non vi volsi andare, ma segui' innanzi il mio viaggio. Indi a poco uscirono di quivi piú di mille uomini, armati dei loro archi e frezze, e poi comparsero molte donne e fanciulli, a' quali io non volsi approssimarmi, ma, già che era per tramontare il sole, io sursi in mezzo il fiume. Venivano questi Indiani adornati in differente foggie: alcuni venivano con un segnal che gli pigliava in coperta la faccia a longo, altri coperta la metà di essa, ma tutti tinti di carbone e ciascuno come meglio gli pareva. Altri poi portavano grembiali innanzi del medesimo colore che avevano l'insegna della faccia; portavano in testa un pezzo di cuoio di cervo, di larghezza di duoi palmi, posto a guisa di cimiero, e sopra certe bacchette con alcune penne. L'armi loro erano archi e frezze di legno duro, e due e tre sorte di mazze di legno brustolato. Questa gente è grande, ben disposta e senza alcuna corpulenzia; hanno il naso da basso forato, dove sono attaccati alcuni pendenti, e altri ci portano cappe, e l'orecchie forate con molti busi, nelli quali attaccano paternostri e cappe. Portano tutti, piccoli e grandi, un cordone all'ombilico fatto di varii colori, e in mezzo v'è legato un mazo di penne ritondo, il quale gli cade di dietro come coda; similmente nella polpa delle braccia hanno un cordone stretto, al quale danno tante volte che viene ad esser di larghezza d'una mano. Portano certi stecchi d'osso di cervo ligati al braccio, con li quali si nettano il sudore, e nell'altro certe cannelle di canna; portano similmente certi sacchetti lunghi, di larghezza d'una mano, legati al braccio sinistro, che gli servano ancora per braccialetto per l'arco, pieni di certa semenza, della quale fanno un lor beveraggio. Hanno il corpo segnato col fuoco, i capegli tagliati dinnanzi, e quelli di dietro fin alla cintura. Le donne vanno ignude, e portano un gran rinvolto di piume di dietro e davanti dipinto e incollato, e i capelli come gli uomini. Erano fra questi Indiani tre o quattro uomini con il medesimo abito delle donne.
Or l'altro giorno, che fu sabbato di buon'ora, io mi mise a seguir il mio cammino montando il fiume, avendo tolti fuori duoi uomini per ciascuno battello perchè tirassero l'alzana, e nel spuntar del sole udimmo un grandissimo gridar d'Indiani da una banda e l'altra del fiume con le lor armi, però senza bandiera alcuna. A me parve ben fatto d'aspettargli, cosí per veder quel che voleano, come per veder se il nostro interprete gli avesse potuti intendere. Costoro, giunti al dritto nostro, si gettavano dall'una e l'altra riva nel fiume con i lor archi e frezze, e parlando l'interprete non gl'intendeva, onde io cominciai a far lor cenno che dovessero lasciar l'arme, come aveano fatto gli altri. Alcuni lo facevano e alcuni no, e quei che le lasciavano io gli facevo accostar a me e donavo loro alcune cose di cambio, onde, questo veduto dagli altri, per averne anco essi la parte loro le lasciavano similmente. Io, giudicando esser sicuro, saltai con esso loro in terra e mi posi in mezzo d'essi, i quali, conoscendo che io non volevo guerra, mi cominciarono a dar di quelle concole e paternostri, e chi mi portava alcune pelle ben aconcie, e altri del maiz e una torta del medesimo maiz macinato, in modo che niuno vi fu che non venisse con robba: e prima che me la dessero, alquanto da me appartati cominciavano a gridar forte e faceano cenno col corpo e con le braccia, e poi s'appressavano a darmi quel che portavano. E già che era tramontato il sole, io mi feci alla larga e sursi in mezzo il fiume.
Il giorno seguente, che ancora non era dí chiaro, quando dall'una e l'altra parte del fiume si sentivano maggior gridi e di piú Indiani, i quali si gettavano nel fiume a nuoto e venivano a portarmi alcune mazoche di maiz e di quelle torte che ho detto: io mostravo a loro grano e fava e altre semenze, per veder se n'avean alcuna d'esse, ma mostravano di non ne aver notizia e di tutto si maravigliavano. E per cenni venni io a conoscer che quello che aveano in maggior stima e riverenza era il sole, e io davo ad intender loro che venivo dal sole, di che essi si maravigliavano, e allora si mettevano a contemplarmi dal capo alle piante, e mostravanmi maggior amor che prima; e domandandogli io da mangiare, me ne portavano tanto che fui sforzato d'alleggerir duoi volte le barche, e da qui avanti di tutto quel che mi portavano ne lanciavano una parte al sole, e poi si voltavano a me a darmi l'altra. E cosí fui sempre meglio servito ed istimato da loro, cosí in tirar dell'alzana come in darmi da mangiare, e mi mostravano tanto amore che nel fermarmi ci voleano portar di peso su le braccia alle lor case, e in niuna cosa eccedevano quel che io comandavo loro. E per mia sicurezza gl'imposi che non dovessero portar arme al mio cospetto, e avean tanta avvertenza di farlo che, s'alcuno veniva quivi di nuovo con esse, subito gli andavano incontro a fargliele lasciare molto lontane da me, e io mostravo che aveo di ciò grandissimo piacere: e ad alcuni d'essi de' principali io davo alcuni mantelletti e altre cosette, perchè se io avessi avuto da dar in generale a tutti, non saria bastata tutta la robba della Nuova Spagna. Avvenia talora, tanto era l'amor e buona volontà che mi mostravano, che se per sorte venivano Indiani quivi di nuovo con arme, e alcuno avisato di lasciarle per negligenza o non intender alla prima parola non l'avesse lasciate, correvano essi e gliele levavano per forza e gliele spezzavano alla mia presenza; poi pigliavano l'alzana con tanta amorevolezza, e a ragatta l'un dell'altro, che non era necessario di comandarglielo, onde, se non fusse stato questo aiuto, essendo il corrente del fiume grandissimo e chi tirava l'alzana mal pratichi, sarebbe stato impossibile di montar il fiume cosí contra acqua. Io, veduto che m'intendevano ormai in tutte le cose, e che similmente intendevo io loro, mi parve di vedere per qualche via dar buon principio per far sortir buon fine al desiderio che io avevo, e d'alcune bacchette e carta feci fare alcune croci, e fra gli altri dove io gliele davo per cose piú stimate, e le basciavo io, accennando loro che le dovessero onorare e apprezzar molto, e che se le portassero al collo, dando loro ad intendere che quel segno era dal cielo. Ed essi le pigliavano e baciavano e l'alzavano in alto, e mostravano di sentirne grande allegrezza e contento quando faceano questo; e questi io talora mettevo nella mia barca, mostrando loro amor grande, e talora davo lor delle cosette che io vi portavo. E venne poi la cosa a tanto, che non bastavano né carta né bastoni per far croci.
In questo modo fui quel dí assai bene accompagnato, finchè, venuta la notte, mi volse allargar nel fiume e venni a surger nel mezzo, ed essi veniano a domandarmi licenza per partirsi, dicendo che sarebbono tornati a vedermi il giorno seguente con vettovaglia. E cosí a poco a poco si partirono, che non vi restarono se non da cinquanta, i quali fecero fuochi all'incontro di noi e stettero quivi tutta notte chiamandoci, né era ben chiaro il giorno quando si veniano a gettare a nuoto nell'acqua a domandarci l'alzana: e noi gliela dessimo di buona voglia, ringraziando Iddio del buono apparecchio che ci dava di poter montare il fiume, perchè erano gl'Indiani tanti che, se avessero voluto impedirci il passaggio, ancora che noi fussimo stati assai piú di quei che eravamo, l'avrebbono fatto.


Uno degli Indiani, avendo inteso il linguaggio dell'interprete, fa a quello diverse dimande dell'origine degli Spagnuoli: gli dice che il loro capitano è figliuolo del sole e che da quello è a loro mandato, e lo vogliono accettare per loro signore. Togliono tale Indiano in nave, e da lui hanno molte relazioni di quel paese.

In questo modo navigammo fino al martedí al tardi, andando come solevamo, facendo parlare dal mio interprete alla gente, per vedere se a caso alcuno l'avesse inteso. Senti' che uno li rispose, onde feci fermare i battelli e chiamai colui che intendevo, imponendo al mio interprete che non dovesse parlare né rispondere piú, se non quel tanto ch'io li dicesse. E viddi, cosí stando, che quell'Indiano cominciò a parlare a quella gente con gran furia, onde tutti si cominciarono ad unire insieme, e l'interprete mio intese che colui, che venia nella barca, diceva loro che voleva sapere che gente eravamo e donde venivamo, e se eravamo usciti di sotto l'acqua o della terra o caduti dal cielo: e a questo dire si mise insieme infinita gente, che si maravigliava di vedermi parlare, e questo Indiano ritornava di volta in volta a parlar loro in altra lingua, che il mio interprete non intendeva. A quel che mi domandò chi eravamo, risposi che noi eravamo cristiani, e che venivamo di longe a vedergli; e rispondendo all'interrogazione di chi mi mandava, disse essere mandato dal sole, mostrandolo a cenno come prima, perchè non mi pigliassero in bugia. Mi ricominciò egli a dire come m'avea mandato il sole, andando egli per l'alto né mai fermandosi, ed essendo molti anni che né egli né i vecchi aveano veduti altri tali come noi, de' quali mai aveano avuto notizia veruna, né il sole fino a quell'ora avea mai mandato alcun altro. Io li risposi che era vero che il sole cominciava cosí da alto e che giamai si fermava, però che essi poteano ben vedere che al coricarsi e al levarsi la mattina si veniva appressarsi alla terra, dove era il suo domicilio, e che sempre lo vedeano uscire d'un medesimo luogo, e che mi aveva creato in quella terra e paese donde egli usciva, in quel modo che avea ancora creati molti altri che egli mandava in altre parti; e che allora avea mandato me a visitare e vedere quel fiume e la gente che vi abitava vicina, perchè io le dovesse parlare e li congiungesse in amicizia meco e li desse di quel che non aveano, e che li dicesse che non dovessero far guerra fra loro. Al che rispose egli che li dovesse dire la cagione perchè il sole non m'avea mandato prima per quietar le guerre, che erano fra loro di molto tempo, e si uccideano molti; io li risposi essere proceduto perch'io ero stato fanciullo. Poi domandò all'interprete se noi lo conducevamo forzatamente, che l'avessimo pigliato nella guerra, o pur egli vi veniva di sua buona volontà; li rispose che era con noi di sua propria volontà, e molto sodisfatto della compagnia nostra. Tornò a dimandare perchè non menavamo con noi se non lui solo che gl'intendesse, e perchè noi non intendevamo tutti gli altri, poichè eravamo figliuoli del sole; li rispose che 'l sole ancora avea generato lui e gli avea dato linguaggio per potere intender lui e me e gli altri, che il sole sapeva bene che essi dimoravano quivi, ma che, per avere da fare molte altre cose ed essere io piccolo, non m'avea mandato prima. Ed egli rivolto a me disse subito: "Vieni dunque tu qua per esser signor nostro, e che ti abbiamo a servire?" Io, pensando che non li dovesse piacere che li dicesse di sí, li risposi che non per signore, ma ben per fratello, e per dargli di quel che avesse. Mi domandò se mi avea generato il sole come gli altri, e se ero suo parente o suo figliuolo; li risposi che ero suo figliuolo. Seguitò egli a domandare se gli altri che erano meco erano figliuoli anch'essi del sole; risposegli che no, ma che s'erano creati con me nella medesima terra dove io m'ero allevato. Allora egli gridò con voce alta e disse: "Poichè ci fai tanto bene e non vuoi che facciamo guerra e sei figliuolo del sole, e vogliamoti tutti tenere per signor nostro e servirti sempre, però ti preghiamo che tu non te ne vada né ti parta da noi". E subito si voltò alla gente e gli cominciò a dire come io ero figliuolo del sole, e però tutti m'eleggessero per signore. Quegl'Indiani, udito questo, rimasero stupefatti oltre modo, e si veniano accostando tuttavia pur a guardarmi. Mi fece quell'Indiano anco altre domande, che per evitare d'essere troppo longo io non le narro, e con questo ce ne passammo il giorno.
E già che s'approssimava la notte, incominciai ad affaticarmi col miglior modo che potette di metter quell'uomo con esso noi nella barca, ed egli recusando di farlo, gli disse l'interprete che l'averemmo lasciato dall'altra parte del fiume, e con questa condizione egli v'entrò: e quivi io gli feci molte carezze e il miglior trattamento che potette, assicurandolo tuttavia, e quando giudicai che si fosse tolto d'ogni sospetto, mi parve di domandarli qualche cosa di quel paese. E tra le prime che io li domandasse fu se mai per innanzi aveva veduti altri come noi, o sentito nominargli; rispose di no, eccetto che aveva inteso dalli vecchi che molto lontano di quel paese v'erano altri uomini bianchi e con barbe come noi, e che altro non sapeva. Gli domandai se avea notizia d'un luogo che si chiamava Cevola e d'un fiume che si chiamava Totontoac, e rispose di no, onde io, veduto che non mi potea dar nuova di Francesco Vazquez né della sua gente, determinai d'interrogarlo delle cose di quel paese e del loro modo di vivere, e cominciai a dirgli se teneano che vi fosse un Dio creator del cielo e della terra o pur alcun idolo: e risposemi che no, ma che tenevano il sole in maggior stima e venerazione di tutte l'altre cose, perchè gli scaldava e gli facea nascere le loro semenze, e che di tutto quel che mangiavano gliene lanciavano un poco all'aere. Dissegli poi se aveano signore, e rispose di no, ma che ben sapeano che v'era un grandissimo signore, ma non aveano notizia a qual parte fusse; e io li disse che stava nel cielo e che si chiamava Giesú Cristo, e non mi curai di stendermi in piú teologie con esso lui. Gli domandai se aveano guerra e per qual cagione; mi rispose di sí e molta grande e sopra cose leggierissime, perchè, quando non aveano causa da farle, s'univano insieme, e qualunque di loro dicea: "Andiamo a far guerra in tal parte", allora tutti si moveano con l'armi.
Gli disse chi di loro comandava alla gente; rispose che li piú vecchi e i piú valenti, e che quando questi dicevano che non facessero piú, subito si ritiravano dalla guerra. Gli domandai che mi dicesse che facevano di quegli uomini che uccidevan in battaglia; risposemi che ad alcuni cavavano il cuore e se lo mangiavano e altri brucciavano, e soggiunse che se non fosse stato per la mia giunta in quel luogo, che già essi sarebbono in guerra: e perchè io gli comandavo che non la dovessero fare e lasciassero l'armi, però, fin tanto che io non dicesse loro che le repigliassero, non si sariano mossi a guerreggiare con altri, e che fra loro diceano che, poi ch'io ero venuto a loro, aveano rimossa la volontà di far guerra e aveano animo buono di seguire la pace. Si lamentò d'alcuni che restavano adietro in una montagna, che faceano loro gran guerra e uccideano molti di loro; gli risposi che da lí avanti non dovesser piú temere, perchè io gli avevo comandato che stessero in pace, e che quando non l'avesser fatto li castigaria e ammazzeria. Mi rispose in qual modo, essendo noi sí pochi ed essi in tanto numero, li potria uccidere. E perciochè era oggimai tardi, e già vedevo che riceveva molestia di stare piú meco, lo lasciai uscire fuori e ne lo mandai molto contento.


Da Naguachato e altri principali di quelli Indiani ricevono molte vettovaglie; oprano che piantino nelle loro terre la croce e insegnagli ad adorarla. Hanno relazione di molti popoli, di loro diversi linguaggi e de' costumi circa il matrimonio, come puniscono l'adulterio, delle opinioni che hanno de' morti e delle infermità che patiscono.

L'altro giorno di buon'ora venne il principal loro, detto Naguachato, e dissemi che io uscisse in terra, perchè avea gran vettovaglia da darmi: e perciochè mi vedevo in parte sicura, lo feci senza indugio. E incontinente venne un vecchio con torte di quel maiz e certe piccole zucche, e chiamandomi ad alta voce e facendo molti atti con la persona e con le braccia si venne ad accostarmisi, e fattomi rivoltar verso quella gente e similmente rivoltatosi anch'egli le disse: "Sagueyca", e tutta quella gente a gran voce rispose: "Hu", e offerse al sole di quel che avea quivi d'ogni cosa un poco, e cosí a me un altro poco (benchè poi mi desse il restante), e il medesimo ordine tenne con tutti quei che erano meco. E venuto fuori l'interprete, io per suo mezzo gliene resi grazie, dicendo loro che, per esser le barche cosí picciole, non avea condotte meco molte cose da poter dar loro in contracambio, ma che ritornando un'altra volta l'avrei fatto, e che, se fussero voluti venire con meco in quelle barche alle navi che avevo a basso del fiume, gli avrei dato molte cose. Essi risposero che l'avriano fatto, molto allegri in vista.
Quivi per mezzo dell'interprete volse lor dare ad intendere che cosa era il segno della croce, e imposi loro che mi portassero un legno, del quale feci fare una gran croce, e comandai a tutti quei che erano meco che nel farla l'adorassero e supplicasser il nostro Signor, che gli desse la grazia che tanta gente venisse in cognizione della sua santa fede catolica. E fatto questo disse loro per l'interprete che io gli lasciavo quel segno in segnal che io gli tenevo per fratelli, e che me lo guardassero con diligenzia finchè io fusse ritornato, e che ogni mattina si dovessero tutti inginocchiare nel levar del sole innanzi d'esso: ed eglino la tolsero incontanente, e senza toccar terra la portarono a piantare nel mezzo delle case loro, dove tutti la potessero vedere; e disse loro che sempre la adorassero, perchè quella sarebbe che gli guardarebbe da male. Mi domandarono fino a quanto l'aveano essi a metter sotto terra, e io glielo mostrai. Fu molta la gente che andò ad accompagnarla, e quei che quivi restarono m'interrogarono in qual modo aveano da giungere le mani e a che guisa s'aveano da inginocchiare per adorarla, e mostravano d'aver un gran pensiero d'impararlo.
Questo fatto, presi quel principale della terra e con esso entrato nelle barche mi mise al mio cammino nel fiume, e tutti di qua e di là della riva m'accompagnavano con grande amorevolezza, e mi servivano in tirar l'alzana e tirarci dalla ghiaia dove spesso entravamo, perciochè in molti luoghi trovavamo il fiume cosí basso che non v'era acqua per le barche. Cosí andando, venivano degl'Indiani che io avevo lasciati a basso a dirmi che io gl'insegnasse bene la maniera come che aveano da giungere le mani nell'adorazione di quella croce, altri mostravano se le stavan bene poste in quel modo, in modo che non mi lasciavan riposare. Vicino all'altra riva del fiume era maggior quantità di gente, che a gran fretta mi chiamavano, che dovesse pigliar delle vettovaglie che mi portavano. E perchè m'accorsi che l'uno aveva invidia all'altro, per non lasciar costoro discontenti lo feci, e quivi comparse un altro vecchio come il passato, che mi portò della vettovaglia con le medesime cerimonie e offerte, e volse da lui intender qualche cosa come dall'altro. Costui similmente diceva all'altra gente: "Questo è il signor nostro. Già voi sapete quanto tempo è che noi sentimmo dire dagli antichi nostri che al mondo era gente barbata e bianca, e noi ce ne facevamo beffe. Io che sono vecchio e altri che qui sono non abbiamo giamai veduta altra simil gente come questa, e se non lo volete credere, guardate quelle che sono in questo fiume. Diamogli adunque da mangiare, poichè essi danno anco a noi dei cibi loro; serviamo di buon animo questo signore che ha buona volontà, e vieta che non dobbiamo far guerra, e tutti ci abbraccia; e hanno bocca, mani e occhi come abbiamo noi, e parlano come noi". A costoro diedi similmente un'altra croce, come avevo fatto a quei da basso, e disse lor le medesime parole: le quali ascoltarono essi di miglior voglia, e usavano maggior diligenza di imparare quel che io gli dicevo.
Passando poi piú sopra trovai altra gente, dai quali l'interprete non intendeva cosa alcuna, onde io diedi loro ad intender per cenni le medesime cerimonie dell'adorazione della croce che agli altri. E quel principale uomo che io avevo tolto meco mi disse che piú alto avrei trovata gente che avrebbe inteso l'interprete mio; ed essendo già tardi, alcuni di questi uomini mi chiamarono per darmi della vettovaglia, e fecero il medesimo che gli altri, facendo feste e giuochi per darmi piacere. Io volsi intender che gente vivevano alla riva di questo fiume, e da quello uomo intesi che era abitata da ventitre linguaggi, e questi erano i vicini al fiume, senza altri poco lontani, e che v'erano oltre questi ventitre linguaggi sul fiume anco altri, che egli non conosceva. Gli domandai se ogni popolo era in un solo ridotto, e mi rispose che non, ma che erano piú case sparse per la campagna, e che ogni popolo aveva il suo paese separato e conosciuto, e che in ogni abitazione era gente assai. Mi mostrò una villa che era in una montagna, che diceva esservi gran moltitudine di gente e di mala sorte, che faceva a coloro continua guerra, che, essendo senza signore e abitando quel luogo deserto, dove si raccoglieva poco maiz, descendeano alla pianura a pigliarlo a baratto di pelle di cervo, delle quali andavano vestiti, con veste lunghe, le quali tagliavano con rasoi e le cucivano con aghi fatti d'osso di cervo; e che aveano le case grandi di pietra. Io li domandai se quivi v'era persona alcuna di quel paese, e trovai una donna che portava un vestimento come una mantellina, che le pigliava dalla cintura fino in terra, di cuoio di cervo ben concio. Gli domandai poi se la gente che abitava la riva di quel fiume stava sempre ferma quivi, o pur a qualche tempo andava a viver altrove; mi rispose che di state facevano l'abitazione quivi e vi seminavano, e fatto il raccolto se n'andavano ad abitar ad altre case che avevano alla falda della montagna, lontani dal fiume: e m'acennò che le case erano di legno, interrazzate dalle parti di fuori, e seppi che facevano una stanza tonda dove dimoravano tutti insieme, uomini e donne. Lo domandai se essi avevano donne a commune; mi disse di no, che colui che si maritava aveva da tener una sola moglie. Volse intender l'ordine che teneano nel maritarsi, e dissemi che, s'alcuno aveva qualche figliuola, se n'andava dove era la gente e diceva: "Io ho una figliuola da maritare, ci è qui persona alcuna che la voglia?" E se quivi era chi la volesse, rispondea volerla e si concertava il matrimonio; e che il padre di quel che la voleva portava qualche cosa a donar alla giovane, e da quell'ora avanti s'intendeva esser fatto il matrimonio, e che cantavano e ballavano, e venuta la sera i parenti li pigliavano e li lasciavano soli in luogo che niuno li potesse vedere. E seppi che non si maritavano fratelli con sorelle né con parenti, e che le donne, prima che fussero maritate, non praticavano né parlavano con gli uomini, ma se ne stavano in casa loro e nelle sue possessioni a lavorare; e che, se per caso alcuna aveva avuto commercio con gli uomini prima che si maritasse, il marito la lasciava e se n'andava in altri paesi, e che quelle che cadevano in questo errore erano tenute cattive femine; e che, se dopo che eran maritati alcuno fusse stato trovato con altra donna in adulterio, l'uccidevano, e che niuno poteva aver piú che una moglie, se non nascosa. Mi dissero che abbrucciavano i morti, e quei che rimanevano vedovi stavano mezzo anno o uno senza rimaritarsi. Volse intender ciò che credevano dei morti; mi rispose che se n'andavano all'altro mondo, ma che non avean né pena né gloria. La principale infirmità di che quelle genti muoiono è di gettar sangue per la bocca; e hanno i medici che gli curano con parole e soffiar che gli fanno. L'abito di costoro era come degli altri di sopra; portano le sue cannelle a farsi profumi, come li popoli tavagi della Nuova Spagna. Volse intendere se costoro avevano signore alcuno, e seppi che no, ma che ciascuna casa faceva il suo signor da per sé. Costoro hanno di piú del maiz certe zucche e un'altra semenza a guisa di miglio; hanno pietre da macinare e pignatte, nelle quali cuocono quelle zucche e pesce del fiume, che l'hanno assai buono.
Da qui innanzi non potté venir l'interprete, perchè diceva che quei che noi avevamo da trovar nel cammino piú oltre erano suoi nemici, e perciò io lo rimandai adietro molto sodisfatto. Non tardò molto che viddi venir molti Indiani, gridando a gran voce e correndo drieto di me. Io mi fermai per saper quel che volevano, e mi dissero che la croce che io avevo lor data avean posta in mezzo l'abitazioni loro, sí come io gli avevo ordinato, ma che io dovesse sapere che, quando il fiume inondava, soleva arrivar fin lí: però che io li desse licenzia per poterla mutar e collocar in altra parte, dove non potesse aggiunger il fiume e portarla via. Il che io gli concessi.


Da un Indiano di quella riviera hanno relazione dello stato di Cevola e della qualità e costumi di quelle genti e del lor signore, e parimente delle terre, ivi non molto distanti, dette l'una Quicama e l'altra Coana. Da quelli di Quicama e da altri Indiani indi non molto distanti ricevono cortesia.

Cosí navigando giunsi dove erano molti Indiani, e un altro interprete, il quale io feci entrare con meco nella barca. E perchè faceva freddo e la gente veniva bagnata, saltai in terra e comandai che si facesse fuoco, e stando cosí a scaldarci, arrivò un Indiano che mi dette nel braccio mostrandomi col deto un bosco, fuor del quale viddi uscire duoi squadroni di gente con le lor armi, e mi mostrò come venivano a darci alla fronte: e io, perchè non volevo rompermi con niuno, raccolsi la mia gente nei battelli, e gl'Indiani che erano con esso meco si gettarono a nuoto e si salvarono all'altra riva. Io in tanto domandai a quello Indiano che avevo con meco che gente era quella che era venuta fuor del bosco; mi disse che erano suoi nemici, e però che questi altri nel giunger loro senza dir motto s'erano messi nell'acqua, e ciò avean fatto perchè voleano tornar adietro, trovandosi senz'armi, per non l'aver portate nel venire con esso loro, avendo inteso il comandamento e voler mio, che non volevo che si portassero. Volsi domandare a questo interprete il medesimo che avevo domandato all'altro delle cose di quel paese, perchè in alcuni popoli io avevo inteso che un uomo usava d'avere molte moglie, e in altri non piú d'una. Or seppi da lui, che era stato in Cevola, che ci era il cammino d'un mese dalla terra sua, e che da quel luogo agiatamente per un sentiero che andava seguitando quel fiume s'andava in quaranta giorni, e che la cagion che lo mosse ad andarvi era stata solo per vedere Cevola, per esser cosa grande, che aveva le case altissime di pietra di tre e quattro solari, e con finestre da ciascuna banda, circondate all'intorno d'un muro d'una statura e mezza d'uomo d'altezza, e che disopra e da basso erano abitate da gente; e che usavano le medesime armi che usavano quegli altri che avevo veduti, cioè archi e frezze, mazze, bastoni e rotelle, e che avevano un signore; e che andavano vestiti di mantelli e con cuoi di vacche, e che i loro mantelli avevano una pittura a torno. E il signor portava una camicia lunga molto sottile cinta, e di sopra piú mantelli, e le donne vestivano vestimenti molto lunghi, e che erano bianche e andavano tutte coperte; e che ogni giorno stavano alla porta del signor molti Indiani per servirlo, e che portavano molte pietre azzurre, le quali si cavano d'una rocca di sasso, e che costoro non avevano piú d'una moglie con chi si maritavano; e quando che morivano i signori, si sepelivano con esso loro tutte le robbe che avevano, e similmente, nel tempo che mangiano, vi stanno molti de' suoi alla lor tavola a corteggiarlo e a vederlo mangiare, e che mangiano con tovaglie, e che hanno bagni.
Or giovedí nel far del giorno venivano gl'Indiani col medesimo grido alla riva del fiume, e con maggior volontà di servirci, portandomi da mangiare e faciendomi la medesima buona cera che mi avevano fatto gli altri, avendo inteso chi io ero, e dando loro le medesime croci col medesimo ordine che agli altri. E camminando poi piú in su, pervenni ad una terra dove trovai miglior ordine, perciochè obediscono totalmente gli abitatori che vi sono ad un solo.
Or ritornando a parlare di nuovo con l'interprete dell'abitazioni di quei di Cevola, mi disse che quel signore aveva un cane simile a quel ch'io menavo. Volendo io poi mangiare, viddi questo interprete portar innanzi e indietro certi piatti, onde mi disse che il signor di Cevola n'aveva di simili anch'egli, ma che erano verdi, e che niun altro v'era che n'avesse se non il signore, e che erano quattro, i quali aveva avuti con quel cane e altre cose da un uomo nero che portava la barba; ma che egli non sapeva da qual banda fosse quivi capitato, e che il signore poi lo fece uccidere, per quanto egli aveva inteso dire. Gli domandai se sapeva che alcuna terra fosse quivi vicina; mi rispose che nel montare del fiume ne sapeva alcune, e che fra gli altri v'era un signore d'un luogo chiamato Chicama, e uno d'un'altra terra chiamata Coana, e che aveva sotto di loro molta gente. E dipoi, datomi questo aviso, mi chiese licenzia per potere ritornare dai suoi compagni.
Di qua mi posi a navigare di nuovo, e appresso ad una giornata trovai un luogo disabitato, dove essendo io entrato, sopravennero forse cinquecento Indiani con suoi archi e frezze, e insieme con loro era quel principale indiano detto Naguachato ch'io avevo lasciato, e mi portarono a donare certi conigli e yucas: e avendo fatti a tutti buona cera, volendo partirmi, gli diedi licenzia di ritornare alle lor case. Passando il diserto piú innanzi arrivai a certe capanne, donde m'uscí incontro molta gente con un vecchio innanzi, gridando in linguaggio che il mio interprete ben intendeva, e diceva a quegli uomini: "Fratelli, vedete qui il signore; diamogli di quel che avemo, poichè ci fa del bene, ed è passato per tante genti discortesi per venirci a vedere". E detto questo offerse al sole e poi a me medesimamente, come aveano fatto gli altri. Costoro avevano certi sacchi grandi e ben fatti di scorze di bessuchi, e intesi che era questa terra del signor di Quicoma, i quali veniano solamente a raccogliere il frutto delle loro semenze quivi la state; e fra loro trovai uno che intendeva molto bene il mio interprete, onde io con molta facilità feci a costoro il medesimo officio delle croci, che avevo fatto con gli altri da basso. Avevano queste genti del bambaso, ma non pigliavano molta cura di farlo, per non essere fra loro persona che sapessi tessere per farne vestimenti. Mi domandarono come avevano da piantare la croce quando fossero ritornati a casa loro, che era alla montagna, e se era bene di farle una casa a torno acciò non si bagnasse, e se gli dovevano porre cosa alcuna alle braccia; io gli dissi di no, e che solo bastava che la ponessero in luogo che da tutti fusse veduta, finchè io ritornasse. E se per caso venisse alcuna gente da guerra, mi offersono di mandare meco piú gente, dicendo che erano cattivi uomini quei che io troverei disopra, ma io non volsi accettarla; tuttavia vi vennero venti di loro, i quali, nell'avicinarmi a quei che erano nemici loro, me ne avisarono, e io trovai le loro sentinelle poste alla guardia nei loro confini.
Sabbato da mattina trovai un gran squadrone di gente assisa sotto una frascata grandissima, e un'altra parte di fuori, e veduto che non si levavano in piè, io me ne passai di longo al mio viaggio. Ciò veduto da loro, si levò in piedi un vecchio che mi disse: "Signore, perchè non vuoi pigliare da noi da mangiare, avendone pigliato dagli altri?" Io gli risposi che non pigliavo se non quel che mi era dato, e non andavo se non da quei che mi domandavano. Quivi senza indugiare mi portarono molta vettovaglia, dicendomi che poichè non entravamo nelle case loro, e ci stavamo di dí e di notte nel fiume, ed essendo io figliuolo del sole, tutti mi dovessino tenere per signore. Io feci lor cenno che si ponessero a sedere, e chiamai quel vecchio che intendeva l'interprete mio, e gli domandai di chi era quella terra e se quivi era il signore; mi risposero di sí, e lo feci chiamare, e venuto l'abbracciai monstrandogli grande amore. E vedendo io che tutti avevano piacere delle carezze ch'io gli facevo, lo vesti' d'una camicia e gli donai altre cosette, e ordinai all'interprete che dicesse a quel signore il medesimo che avevo detto agli altri; doppo gli diedi una croce, la quale egli prese di molto buona voglia come gli altri. E questo signore se ne venne un gran pezzo con meco, fintanto che fui chiamato dall'altra parte del fiume, dove stava il medesimo vecchio con molta gente, alla quale io detti un'altra croce, dicendogli il medesimo che avevo detto agli altri, cioè quel che ne aveva a fare.
Seguendo poi il mio cammino incontrai un'altra moltitudine di gente, co' quali venne il medesimo vecchio che intendeva l'interprete mio, e veduto il signor loro che mi mostrava, lo pregai che se ne volessi venire con meco nella barca: il che egli fece di buona voglia. E cosí me n'andavo per il fiume sempre montando, e il vecchio mi veniva mostrando quali erano i signori, e io parlavo loro sempre con grande affezione, e tutti mostravano d'aver grande allegrezza e dicevano molto bene della mia venuta. La notte mi ritiravo nel largo del fiume, e domandavogli di molte cose di quel paese, e trovai in lui cosí buona voglia e disposizione nel dirmele, come in me desiderio di voler saperle. Gli domandai di Cevola, e mi disse che egli v'era stato e che era una nobil cosa, e il signor d'essa era molto ubbidito, e che v'erano altri signori all'intorno co' quali egli aveva continua guerra. Gli domandai se avevano argento e oro, ed egli, veduti certi sonagli, disse che n'aveva del color di quelli; volsi intendere se lo facevano lí, e mi rispose di no, ma che lo portavano d'una montagna dove stava una vecchia. Gli domandai se aveva notizia d'un fiume che si chiamava Totonteac; mi rispose che no, ma sí ben d'un altro fiume grandissimo, dove si trovavano lagartos sí grandi che di loro cuoi si facevano rotelle; e che adorano il sole, né piú né meno come gli altri passati, e quando gli offeriscono dei frutti della terra li dicono: "Piglia, poichè tu ce gli hai generati"; e che l'amavano molto perchè gli scaldava, e che quando non usciva sentivano freddo. Quivi poi nel ragionare cominciò a dolersi alquanto, dicendomi: "Non so perchè il sole usi questi termini con noi, che non ci dà panni, né chi gli fili, né chi gli tessa, e altre cose che dà a molti altri"; e si lamentava che quei del paese non gli lasciavano entrare dentro e non gli volevano dare delle loro semenze. Io gli dissi che ci averei dato rimedio, di che egli rimase molto sodisfatto.


Dagl'Indiani hanno relazione perchè li signori di Cevola uccisero il moro qual andò con fra Marco, e altre molte cose; e della vecchia detta Guatazaca, qual vive in una lacuna senza prender cibo. Descrizione d'un animale, con la pelle del quale fanno targhe. Sospizione che di lor prendono che siano di quelli cristiani veduti in Cevola, e come accortamente si salvano.

L'altro dí, che fu la domenica, non era anco ben giorno quando incominciò il gridar come si soleva, ed era di tre o quattro popoli che avevano dormito vicino al fiume aspettandomi, e prendevano il maiz e altre semenze in bocca e mi spargevano con quelle, dicendo che quella era la maniera del sacrificio che facevano al sole; doppo dieronmi di questa vettovaglia da mangiare, e fra l'altre cose di molti fasuoli. Io donai a costoro la croce, come avevo fatto agli altri, e in tanto quel vecchio diceva loro cose grandi del fatto mio, e mi segnalava col deto dicendo: "Questo è il signore, figliuolo del sole"; e mi facevano pettinar la barba e ben ordinare la veste che io portavo addosso. E tanto era la credenza che avevano in me, che tutti mi dicevano le cose che erano passate e passavano fra loro, e l'animo buono o cattivo che avevano l'uno all'altro; io gli domandai per qual cagione essi dicevano a me tutte le cose loro, e quel vecchio mi rispose: "Tu sei signore, e al signore non si debbe tener celato cosa veruna". Doppo queste cose seguendo il cammino, ricominciai a domandargli delle cose di Cevola, e se sapeva che quei di quel paese avessino veduto mai gente simili a noi; mi rispose di no, eccetto un negro, che portava a' piedi e alle braccia certe cose che sonavano. Vostra Signoria debbe avere in memoria come stava questo negro che andò con fra Marco, che portava li sonagli e le penne nelle brazza e gambe, e che 'l portava piatti di diversi colori, e che era poco piú d'un anno che era capitato quivi. Gli domandai la cagione perchè fu morto, ed egli mi rispose che il signore di Cevola gli aveva domandato se aveva altri fratelli: gli rispose che n'aveva infiniti e che avevano molte arme con loro, né erano molto lontani de lí; il che udito, si misero in consiglio molti signori e concertaron d'ucciderlo, acciochè non avesse da dar nuova a questi suoi fratelli dove essi stavano, e che per questa cagione l'uccisero e ne fecero molti pezzi, i quali furono divisi fra tutti quei signori acciò sapessero del certo esser morto, e che similmente aveva un cane come il mio, il quale fece anco uccidere de lí a molti giorni. L'interrogai se quei di Cevola avevano nemici, e mi disse che sí, e mi raccontò quattordeci o quindeci signori che avevano guerra con esso loro, e che avevano mantelli e gli archi proprii delli sopradetti: ben mi disse che averei trovato, nel montar su pel fiume, gente che non aveva guerra alcuna, né con vicini né con altri. Dissemi che avevano tre o quattro sorte d'alberi di buonissimi frutti da mangiare, e che in una certa laguna abitava una vecchia, la quale era molto osservata e servita da loro, e stanciava in una certa casetta che quivi era, e che non mangiava giamai, e che quivi si facevano di quelle cose che sonavano, e che a lei erano donati molti mantelli, piume e maiz; gli domandai del nome, e mi disse che si chiamava Guatuzaca; e che erano in quel contorno molti signori che nel lor vivere e morire usavano li medesimi costumi di quei di Cevola, i quali avevano loro abitazioni di state con mante dipinte, e d'inverno abitavano in case di legname di duoi o tre solari d'altezza, e che tutte queste cose aveva egli vedute, eccetto che la vecchia. E ritornando a domandargli anco piú cose, non volse rispondermi, dicendo che era stanco di me. Ed essendosi posti molti di questi Indiani all'intorno, dicevano fra loro: "Guardiamolo bene, perchè lo riconosciamo quando ritornerà".
Il lunedí seguente era il fiume circondato di gente della medesima maniera, e io ricominciai a domandare il vecchio che volesse dirmi la gente che era in quel paese, il quale mi rispose che pensava che già me ne fusse dimenticato, e quivi mi raccontò d'una infinità di signori e di popoli, che passavano dugento: e ragionandomi dell'armi, mi disse che alcuni di loro avevano certe rotelle grandissime di cuoio, grosse piú di due deta. Gli domandai di che animali le facessero, e mi descrisse una bestia molto grande, a guisa di vacca, ma piú d'un gran palmo piú longa, e li piedi larghi, i bracci grossi come una coscia d'uomo, e la testa di lunghezza di sette palmi, il fronte di tre spanne, e gli occhi piú grossi che un pugno, e le corna della longhezza d'uno schinco, delle quali uscivan punte acute lunghe d'un palmo, i piedi e le mani grandi piú di sette palmi, con una coda torta ma molto grossa: e distendendo le braccia sopra 'l capo, diceva che era anco piú alta. Mi diede poi notizia d'un'altra vecchia, che abitava dalla banda del mare.
Questo dí consumai in dar delle croci a quelle genti, come avevo fatto agli altri. Quel mio vecchio smontò a terra e si mise a parlamento con un altro, che quel giorno l'aveva chiamato molte volte, e quivi amendui facevano nel parlare molti atti, maneggiando le braccia e mostrandomi. Io mandai perciò fuori il mio interprete, perchè si ponesse a lato di loro e gli ascoltasse, e indi a poco lo chiamai e gli domandai di che parlavan coloro; ed egli disse che colui che faceva quelli atti diceva all'altro che in Cevola erano altri simili a noi con le barbe, e che dicevano che erano cristiani, e che amendui dicevano che tutti dovevamo esser una cosa medesima, e che sarebbe stato bene d'ammazzarci, acciochè quegli altri non sapessero cosa alcuna di noi, onde venissero a farci noia. E che il vecchio gli aveva risposto: "Costui è figliuol del sole e signor nostro, ci fa del bene, né vuol venire alle case nostre, ancora che ne lo preghiamo; non ci toglie cosa niuna del nostro, non vuole le donne nostre"; e che finalmente aveva dette molte altre cose in mia lode e favore, e con tutto ciò l'altro si ostinava che noi dovevamo esser tutti una cosa medesima; e che il vecchio disse: "Andiamo da lui e domandiamogli se è cristiano come gli altri o pur figliuol del sole". E il vecchio se ne venne a me e dissemi: "Nel paese che voi mi domandasti di Cevola dimoran altri uomini della qualità vostra?" Io feci allora del maraviglioso, e risposi che non era possibile, ed essi mi affirmaron che era vero, e che avean veduti duoi uomini venuti di là, i quali referivan che portavano come noi tiri di fuoco e spade. Io li dimandai se coloro gli avevan veduti co' proprii occhi, e mi risposero di no, ma che gli avevan veduti certi suoi compagni. Allora mi domandò se io ero figliuolo del sole, e gli risposi di sí; essi dissero che il medesimo dicevan quei cristiani di Cevola, e io gli risposi che sarebbe ben potuto essere. Mi interrogarono poi se quei cristiani di Cevola fossero venuti a congiungersi meco ciò che avremmo fatto, e io risposi loro che non dovevano temere di cosa veruna, perchè se essi fossero figliuoli del sole, come dicevano, sarebbono miei fratelli e avrebbon usato verso di tutti la medesima cortesia e amore che io facevo: onde con questo parve che rimanessero sodisfatti alquanto.


Gli è detto che sono distanti da Cevola dieci giornate, e che vi sono delli cristiani che a quelli signori fanno guerra. Della sodomia che esercitano quegli Indiani, con quattro giovani a tal servigio dedicati, quali portano abito muliebre. Non potendo dar di sé novella a quelli di Cevola, a seconda del fiume fanno ritorno alle navi.

Gli richiesi poi che mi dicessero quante giornate era quel regno di Cevola che dicevano lungi da quel fiume, e quell'uomo rispose che ci era uno spazio di dieci giornate senza abitazione, e che da lí avanti egli non ne faceva stima, perchè vi si trovavano gente. Io con questo aviso venni in desiderio di dar notizia di me al capitano, e lo communicai con i miei soldati, fra' quali non ritrovai niuno che volesse andarvi, ancora che io offerisse loro molte cose da parte della Signoria Vostra: solo uno schiavo moro, ancor di mala voglia, mi si offerse d'andarvi; ma io aspettavo che venissero quegli Indiani che mi era stato detto, e con questo ce n'andammo al nostro cammino pel fiume contra acqua, con il medesimo ordine di prima. Quivi mi mostrò il vecchio per cosa maravigliosa un suo figliuolo vestito in abito di donna, esercitando il suo officio. Io gli domandai quanti ve ne era di quei tali fra loro, e dissemi ch'erano quattro, e che quando qualcuno di essi moriva, si faceva descrizione di tutte le donne gravide che erano nella terra, e che la prima di esse che partoriva maschio, era deputato a dover far quell'esercizio muliebre, e le donne lo vestivano dell'abito loro, dicendo che, poichè aveva da far quel che dovevano far esse, si pigliasse quel vestimento. Questi tali non possono aver commercio carnale con donna alcuna, ma sí ben con essi tutti i giovani della terra che sono da maritarsi; costoro non ricevono cosa veruna per questo atto meretricale da quei del luogo, perciochè hanno libertà di pigliar ciò che trovano in ciascuna casa per bisogno del viver loro. Viddi similmente alcune donne che conversavano disonestamente fra gli uomini, e domandai il vecchio se erano maritate; il quale mi rispose di no, ma che erano femine del mondo, che vivevano separatamente dalle donne maritate.
Io venivo pur con questi ragionamenti sollecitando che venissero quegli Indiani che dicevano d'esser stati a Cevola, e mi dissero che erano lontani a otto giornate de lí, però che vi era ben fra loro uno che era compagno d'essi e che gli aveva parlato, essendosi incontrato in loro quando andaron per veder il regno di Cevola, e gli dissero che non dovesse ir piú oltre, imperochè quivi avrebbe trovata una gente brava come noi e delle medesime qualità e fatezze nostre, la quale aveva molto conteso con gli uomini di Cevola, perchè gli avevano ucciso un lor compagno moro, dicendo: "Perchè l'avete voi morto? Che vi ha fatto egli? Vi ha forse tolto il pane o fattovi altro male?" e simili parole. E dicevano di piú che questi tali si chiamavano cristiani, che abitavano in un gran casamento, e che molti d'essi avevano delle vacche come quelle di Cevola e altri piccoli animali neri e con lana e con corna, e che ne avevano alcuni che loro cavalcavano, che correvano molto; e che un giorno prima che si partissero non avevano fatto altro, dal nascer al tramontar del sole, che arrivar questi cristiani, e tutti si fermavano quivi dove stanziavano gli altri, e che questi duoi si erano incontrati in duoi cristiani, che gli avevano domandato donde erano e se avevano luoghi seminati, ed essi gli avevano detto che erano di paese lontano e che avevano le seminate; e che allora gli donarono una picciola cappa per uno, e gliene dierono una che la dovessero portare agli altri compagni loro, il che promisero essi di fare e si partirono tosto. Questo inteso, di nuovo parlai con i miei compagni per vedere se qualcuno volesse andarvi, ma gli trovai del medesimo volere di prima, e mi opposero maggiori inconvenienti. Doppo chiamai il vecchio, per veder se mi avesse voluto dar gente da menar con meco e vettovaglia per quel deserto, ma mi mise innanzi molti inconvenienti e disagi in che io avrei potuto incorrere in quel viaggio, mostrandomi il pericolo che era in andar avanti per un signor di Cumana, il quale minacciava di venire a far loro guerra, perchè i suoi erano entrati nel suo paese per pigliar un cervo, e che io non dovevo perciò partirmi di qui senza castigarlo. E replicando io che ero forzato d'andare in ogni modo a Cevola, ed egli mi disse che io lasciasse di farlo, perchè s'aspettava che in ogni modo questo signore veneria ai danni loro, e però non potevano essi abbandonare la sua terra per venire meco; e che sarebbe meglio che io avessi dato per loro fine a quella guerra, e poi avrei potuto andare accompagnato a Cevola. E sopra di ciò venimmo a contendere tanto che ci cominciammo a scorrocciare, e in colera volse uscire della barca; ma io lo ritenni e con buone parole l'incominciai a placare, veduto che importava molto averlo amico, ma per carezze che io gli facesse non potei levarlo dal suo volere, nel quale rimase sempre ostinato. Io in tanto avevo già mandato un uomo alle navi, per dargli notizia del cammino che avevo disegnato di fare; doppo richiesi il vecchio che lo facesse tornare, perchè determinai che, già che non vedevo alcun ordine di poter andare a Cevola, e di non ritardare piú fra quella gente acciò non mi scoprissero, e similmente volsi tornare in persona a visitare le navi, con determinazione di ritornare un'altra volta per il fiume ad alto, menando con esso meco altri compagni, e lasciarvene altri che mi s'erano ammalati. E dicendo al vecchio e agli altri che io sarei tornato, e lasciandogli al meglio sodisfatti che potette, ancora che sempre dicessero che io mi partivo per paura, me ne tornai per il fiume a Cevola, e quel cammino che avevo fatto in montare il fiume contra acqua in quindeci giorni e mezzo, feci nel ritornare in duoi dí e mezzo, per essere il corrente grande e rapido molto. In questo modo camminando per il fiume a basso, veniva alle rive molta gente a dirmi: "Perchè ti parti, signore, da noi? Che dispiacere ti è stato fatto? Non dicevi tu che avevi da startene sempre con esso noi ed esser signor nostro? Ritorna adietro, che se alcuno dalla banda di sopra ti ha fatto ingiuria alcuna, noi verremo con le nostre armi teco per ucciderlo", e simili parole piene d'amorevolezza e cortesia.


Giunti alle navi, il capitano fa nominare quella costa la campagna della Croce, e vi fa edificare un oratorio a nostra Signora, e il fiume chiama Buona Guida, e all'insú di quello fa ritorno. Pervenuto a Quicama e a Coano, da quelli signori gli è usata molta cortesia.

Giunto che io fui alle navi, trovai tutta la mia gente in buon essere, quantunque molto afflitta per rispetto del lungo tardar mio, e anco perchè il gran corrente gli aveva spezzati quattro sartie, e avevano perso due ancore, le quali si ricuperarono. Ragunate le navi insieme, le feci mettere sotto un riparo, e dar carena alla nave San Pietro e redrizzar tutto quello che era necessario. Quivi fatta adunanza di tutta la gente, gli esposi loro la notizia che avevo avuto da Francesco Vazquez, e come potrebbe esser che, in quel tempo delli sedeci giorni che io ero ito navigando per il fiume, egli per aventura avrebbe avuto notizia di me, e che ero d'animo di ritornar su un'altra volta, per veder se si fosse potuto trovare qualche mezzo di congiungermi con esso lui: e ancora che mi fusse contradetto, feci metter in ordine tutte le barche, perchè per il servizio delle navi non erano necessarie. L'una di esse io feci empiere di robba con cose da contracambiare, di formento e altre semenze, con galline e galli di Castiglia, e mi parti' su per la fiumana, lasciato ordine che in quella campagna chiamata della Croce facessero un oratorio over cappella, e lo chiamassero la chiesa della Madonna della Buona Guida, e che chiamassero quel fiume la Buona Guida, per esser la divisa di Vostra Signoria. Menai con esso meco Nicola Camorano, maggior pilotto, perchè prendesse l'altezze, e parti' il martedí che fu il quattordeci di settembre; e il mercoledí giunsi nelle abitazioni dei primi Indiani, i quali corsero per vietarmi il passo, credendosi che fussimo altre genti, perciochè conducevamo con esso noi un piffero e un tamburino, e io ero vestito di diversi panni da quei che portavo quando mi viddero la prima volta: e quando mi conobbero si fermarono, ancora che non potesse ridurmeli buoni amici, onde io andavo lor dando di quelle semenze che io portavo, insegnandogli in qual modo le dovevano seminare. E navigato che ebbi tre leghe, mi venne a trovare fin alla barca il primo interprete con grande allegrezza, al quale domandai perchè mi avea lasciato: disse che certi suoi compagni lo avevano disviato. Io gli feci buona ciera e miglior trattamento, acciochè fosse venuto di nuovo con meco, veduto quanto m'importava d'averlo appresso. Si scusò poi ch'era quivi rimaso per portarmi alcune penne di papagallo, le quali mi diede. Gli dimandai che gente era quella e se aveva signor alcuno, e mi rispose di sí, e me ne nominò tre o quattro, appresso a quegli ventiquattro o venticinque nomi di popoli ch'egli sapeva, e che aveano le case dipinte di dentro, e che costoro aveano contrattazione con quei di Cevola, e che in due lune giungeva in quel regno. Dissemi oltre di questo molti altri nomi di signori e d'altri popoli, i quali io ho descritti in un mio libro, che io porterò in persona a Vostra Signoria; ma questa relazione summaria ho voluto dar in questo porto di Colima ad Agostino Guerriero, acciochè la mandi per terra a Vostra Signoria, alla quale ho da dire molte altre cose di piú.
Ma tornando al mio cammino giunsi a Quicama, donde quegli Indiani uscirono a ricevermi con molto piacere e gran festa, dicendomi che il signor loro mi stava aspettando; al qual giunto, trovai che avea seco cinque o seimila uomini senza arme, dai quali s'appartò con forse dugento solamente, che tutti portavano vettovaglia. Si mosse verso di me, ed egli veniva innanzi gli altri con grande auttorità, e innanzi d'esso e a lato erano alcuni che facevano venire scostando la gente, facendogli strada per donde potesse passare. Portava una veste serrata dinanzi e di dietro e aperta dai lati, allacciata con bottoni, lavorata a scacchi bianchi e neri: era di scorze di bessugos, molto sottile e ben fatta. Gionto che fui all'acqua, i suoi servitori lo presero a braccia e lo misero nella barca, dove fu da me abbracciato e ricevuto con gran festa, mostrandoli molto amore: del qual atto la sua gente, che quivi stava a vedere, mostrava grande allegrezza. Questo signore si rivolse a' suoi, dicendoli che ponessero mente alla mia cortesia, che egli essendo entrato alla libera con tal gente straniera, potevano vedere quanto io fosse da bene e con quanto amore io lo trattavo, e perciò sapessero che io ero suo signore, onde tutti mi avevano da servire e far quanto io gli avesse comandato. Quivi lo feci sedere a mangiare di alcune conserve di zucchero che io portavo, e disse all'interprete che lo ringraziasse in mio nome del favor che mi aveva fatto in venire a vedermi, raccomandandogli l'adorazione della croce e tutto il rimanente ch'io avevo raccomandato agli altri, cioè che vivessero in pace e lasciassero le guerre, e che fossero fra loro buoni amici sempre. Egli rispose ch'era gran tempo che fra loro continuava la guerra con vicini, ma che da lí avanti egli comanderia che fosse dato da mangiare a tutti quei che passassero per il suo regno, e che non gli facessero male alcuno; e che, se pur qualche popolo venisse a farli guerra, egli gli diria come io avevo comandato che si vivesse in pace, e che se non la volessero il se difenderia, e che mi prometteva che giamai non andrebbe a cercar guerra, s'altri non venissero a dargliela. Quivi io gli donai alcune cosette, cosí delle semenze che io portavo come delle galline di Castiglia, di che ricevette grandissimo contento. E partendo menai con esso meco alcuni de' suoi per contraere amicizia fra loro e quegli altri popoli che erano di sopra, e quivi venne a me l'interprete per ritornarsene a casa sua, e io gli donai alcuni doni, con che si partí molto contento.
Il giorno seguente giunsi a Coano, e molti non mi conobbero, vedendomi con altri panni vestito, ma il vecchio che quivi era, incontanente che mi riconobbe, si gettò nell'acqua dicendomi: "Signore, ecco con esso meco l'uomo che mi lasciasti"; il quale comparse quivi allegro e molto contento, dicendomi le gran carezze che gli avean fatto quella gente, dicendo che combattevano insieme ciascuno in volerlo menar a casa sua, e che era cosa incredibile il pensiero che avevano, nello apparire del sole, di giunger le mani e inginocchiarsi innanzi la croce. Io donai loro di quelle semenze, ringraziandogli molto del buon trattamento che avean fatto al mio Spagnuolo, ed essi mi pregarono che lo volesse lasciare con loro: il che gli concessi io fin alla mia tornata, ed egli vi rimase molto contento fra loro. In questo modo me ne montai il fiume, conducendo con meco quel vecchio, il quale mi riferí che erano venuti due Indiani da Cumana a domandar de' cristiani, e che egli aveva risposto che non gli conosceva, ma che ben conosceva il figliuolo del sole, e che l'avevano persuaso che si fosse unito con esso loro per uccider me e i miei compagni. Io gli disse che mi dessi due Indiani, e che gli andassero a dire come io andrei a trovarli, e volevo la sua amistà, ma che se essi all'incontro volevano guerra, che io gliela faria di modo che saria loro dispiaciuto. E cosí andavo fra tutta quella gente, e alcuni mi venivano a dire perchè non davo loro la croce, come avevo fatto agli altri, e cosí gliene davo.


Smontano in terra e veggono che i popoli adoravano la croce che gli avevano data. Da un Indiano fanno dipingere quel paese, mandano una croce al signor di Cumana, e discende a seconda del fiume giungono alle navi. Dell'errore che presero i pilotti del Cortese in situare quella costa.

L'altro giorno volsi saltar in terra a vedere certe capanne, e trovai molti fanciulli e donne con le mani giunte e inginocchiati innanzi ad una croce che io gli avevo data. Quivi giunto che fui, feci il medesimo anch'io, e parlando col vecchio mi cominciò a dar informazione di piú gente e piú terre che egli sapeva. E venuta l'ora tarda, chiamai il vecchio che venisse a dormire alla barca; mi rispose di non voler venire, perchè io lo stancheria interrogandolo di tante cose. Io gli risposi che non gli averei domandato altro se non che in una carta mi notasse ciò che egli sapeva di quel fiume, e di che esser era la gente che abitavano su le rive di esso da tutti i lati, il che egli fece volentieri; e doppo mi disse ch'io gli dipingessi il mio paese in quel modo che egli mi aveva dipinto il suo, e per contentarlo gli feci far una pittura d'alcune cose. E il giorno che venne poi entrai in certe montagne molto alte, fra le quali caminava quel fiume molto stretto, e le barche vi passarono faticosamente, per non aver chi tirasse l'alzana. Quivi mi vennero a dir alcuni Indiani che ci erano gente di Cumana, e fra gli altri v'era un incantatore, che domandava per qual luogo noi averiamo da passare: e dicendoli che per il fiume, andava ponendo dall'una e l'altra riva del fiume certe canne, fra le quali noi passammo senza ricever danno alcuno, che pensavano essi di farci. Cosí caminando giunsi alla casa del vecchio che veniva con meco, e quivi feci porre una croce molto alta, e in essa feci metter lettere come io v'ero arrivato: e ciò feci perchè, se per caso fosse quivi capitata gente alcuna del generale, potesse aver notizia di me.
Veduto finalmente poi che non potevo venir a cognizione di quel che io desideravo di sapere, determinai di ritornarmene alle navi, ed essendo in punto di partire, sopragiunsero quivi due Indiani, che per interpretatori del vecchio mi dissero che essi venivano per ordine mio, che erano di Cumana, e che il signor per esser da quel luogo lontano molto non potea venire, però ch'io gli dicesse quel che volevo. Io gli dissi che si ricordasse di voler sempre pace, e come io andavo per visitare quel paese, ma, essendo forzato di ritornarmene per il fiume a basso, non lo facevo, ma che ritorneria, e che in tanto essi dessero quella croce al suo signore: il che mi promisero di fare, e che se n'andavano diritto a portarli la croce, con certe penne che in quella v'erano. Da costoro io volsi intendere che gente abitava le rive del fiume di sopra, i quali mi dierono notizia di molti popoli, e dissonmi che il fiume montava assai piú che io non avevo visto, ma che essi non sapeano il principio d'esso per venir molto lontano, e che in esso entravano molti altri fiumi.
Ciò fatto, l'altro giorno da mattina me ne venni per il fiume a basso, e il dí seguente giunsi dove avevo lasciato lo Spagnuolo, al quale parlai e dissi che le cose m'eran passate bene, e che in questa e l'altra volta ero entrato dentro in terra piú di trenta leghe. Gl'Indiani da quel luogo mi domandarono della cagione perchè io mi partivo, e quando saria la mia tornata, a' quali risposi che sarebbe presto. Cosí navigando a basso, una donna si gettò nell'acqua gridando che la dovessimo aspettare, ed entrò nella nostra barca mettendosi sotto una banca, donde mai la potemmo far uscire. Seppi che ciò faceva perchè il marito ne teneva un'altra, della quale avea figliuoli, dicendo che non intendeva di star piú con esso lui, poichè n'avea un'altra. Cosí ella e un altro Indiano se ne vennero con meco di lor buona voglia. In questo modo giunsi alle navi, e fattele por in ordine ce ne venimmo al nostro viaggio, costeggiando e molte volte saltando in terra, entrando adentro per gran spazio, per vedere se si poteva intendere qualche cosa del capitano Francesco Vazquez e sua compagnia, della quale non avemmo altro indicio se non quel che intesi in quella riviera.
Io porto con meco molti atti di possessione di tutta quella costa, e per il fiume, e per l'altezza che presi trovo che quella che fecero i patroni e pilotti del marchese è falsa, e s'ingannarono di due gradi. E son passato piú oltra di loro meglio di quattro gradi. Montai per il fiume ottantacinque leghe, dove viddi e intesi tutto quel che ho detto e molte altre cose, delle quali, concedendomisi di poter venir a baciar le mani alla Signoria Vostra, le darò lunga e intera relazione. Mi riputai aver gran sorte in aver trovato don Luigi di Castiglia e Agostino Ghenero nel porto di Colima, perciochè la galeotta dell'adelantado se ne veniva sopra di me, qual era ivi con la sua armata e voleva che si calasse le vele: e parendomi cosa nuova, né sapendo in che stato fussero le cose della Nuova Spagna, mi posi in ordine di difendermi e non farlo. In questo tempo arrivò don Alvise di Castiglia in un battello e mi parlò, e io sorsi dall'altra parte del porto dove stava detta armata, e li detti questa relazione, ed essendo di notte volsi far vela per levar via gli scandoli: la qual relazione io portavo scritta in sommario, perchè sempre ebbi presupposito di darla toccando terra di questa Nuova Spagna, per avisar Vostra Signoria.



Discorso sopra il discoprimento e conquista del Perù.


Ora che abbiamo finite le narrazioni che da noi si son potute aver del discoprimento e conquista della Nuova Spagna fatta per il signor Fernando Cortese, si comincierà a dire di quella parte di terra ferma sopra il mar del Sur chiamata il Perú, la quale al presente è discoperta intorno intorno con diverse navigazioni, e tien di larghezza mille leghe e di lunghezza 1200 e di circunferenza 4065. Dico, cominciando da quella parte di detta terra ferma che si ristringe tanto fra il mar del Nort e quello del Sur, che non vi è di spazio piú che 60 leghe, cioè dalla città del Nome di Dio, ch'è verso levante, a quella del Panama, che è verso ponente, il qual Panama sta in gradi otto e mezzo di sopra dell'equinoziale: e se questo stretto di terra di 60 leghe fussi tagliato, tutto il Perú della grandezza che abbiamo detto sarebbe isola e corre da questi gradi otto e mezzo di sopra l'equinoziale fino a 52 sotto il polo antartico, dove è il stretto di Magalianes. Ora di questo gran pezzo del mondo di nuovo trovato vi sono stati varii discopritori, perchè di quella parte che guarda verso levante nel mare del Nort si son vedute varie navigazioni nel libro del signor Pietro Martire, e della terra del Brasil per le navi de' Portughesi, e della navigazion scritta per il signor Antonio Pigafetta; e avendosi letto il discoprir che fece Vasco Nunez di Balboa del mar del Sur, si proseguiranno le narrazioni del conquistare del detto paese del Perú, fatto d'alcuni capitani spagnuoli. E però dico, avendo Pedrarias d'Avila fondato la città del Panama, come s'è letto, si trovarono fra gli abitatori di detto luogo due cavalieri ricchissimi per l'imprese passate, che, desiderosi di non stare in ozio, s'accordarono di mandar a discoprire piú oltre la terra che correva sopra il detto mar del Sur verso ponente: e questi furono Francesco Pizarro e Diego d'Almagro; e determinarono che un di lor andasse in Spagna a farsi dar la governazion della terra che scoprissero, che fusse commune fra loro; e andatovi il Pizarro, promettendo gran tesori alla Maestà cesarea, fu fatto capitano generale e governatore del Perú e della Nuova Castiglia, che cosí fu chiamato detto paese. Condusse di Spagna detto Francesco quattro suoi fratelli, cioè Ferrando, Gonzalo e Giovan Pizarro e Francesco Martin d'Alcantara, fratello di madre. Giunti questi Pizarri nel Panama con gran fausto e pompa, non furon ben veduti dall'Almagro, qual si vedea escluso dagli onori e titoli, essendo compagno dell'impresa: e furono in grandissima discordia; pur, intravenendo molti gentiluomini, e specialmente quelli venuti di Spagna nuovamente, s'accordorno insieme, promettendoli il Pizarro di procurargli un'altra governazione nella detta terra.
Or l'Almagro, acquietatosi, dette 700 pesi di oro, l'armi e vettovaglie che avea al Pizarro, qual andò a far l'impresa, come si vedrà nelle sotto scritte tre narrazioni. E veramente questi due capitani meriterebbono grandissime lodi di questa cosí gloriosa impresa, se alla fine per avarizia, accompagnata con l'ambizione, non si fossero ribellati contro alla Maestà cesarea, e tra loro non avessin fatto molte guerre civili con li Spagnuoli medesimi, le quali ebbero infelice e sfortunato esito. E tutti quelli che si trovarono alla morte del caciche Atabalipa, nominati nelle infrascritte relazioni, fecero cattivo fine, come si vedrà nel quarto volume di queste navigazioni. E acciochè si sappin le condizioni di detti due cavalieri, dico che Diego d'Almagro era nativo della città d'Almagro in Spagna, il padre del qual non si seppe, ancor che lui procurasse d'intenderlo, poichè si vidde ricco. Non sapeva leggere, ma era valente, diligente e amico d'onore, e desideroso d'esser lodato, e sopra tutto liberalissim,. e per questa causa tutti i soldati l'amavano fuor di misura, perchè dall'altro canto era molto aspro e di parole e di fatti. Donò piú di centomila ducati del suo a quelli che furono con lui all'impresa de Chili: liberalità piú tosto di prencipe che di soldato. Alla fine per ambizione di signoreggiare venne alle mani con Francesco Pizarro, qual lo fece prender da Hernando Pizarro suo fratello e, posto in prigione nel Cusco, lo fece strangolare, e poi in su la piazza gli fece tagliar la testa, nell'anno 1538. Mai ebbe moglie, ma di una Indiana nel Panama ebbe un figliuolo del suo nome medesimo: fecegli insegnare e ammaestrarlo con ogni diligenza, riuscí un valente cavaliero e piú che alcuno altro nato d'Indiana, ma alla fine fu fatto morir per le mani di detti Pizarri.
Francesco Pizarro fu figliuolo naturale di Gonzalo Pizarro, capitano in Navarra. Nacque nella terra di Trugillo, e fu da sua madre posto sopra la porta d'una chiesa: pur, riconosciuto dal padre doppo alcuni giorni, lo pose a stare in villa alle sue possessioni. Non seppe leggere, e vedendosi in quel stato, essendo grande, sdegnatosi si partí e venne in Sibilia, e de lí nell'Indie. Stette in S. Domenico, e passò ad Uraba con Alfonso d'Hoieda e Vasco Nunez di Balboa, a discoprire il mar del Sur, e con Pedrarias d'Avila nel Panama. Costui possedette piú oro e argento che alcun Spagnuolo over capitano che sia mai stato per il mondo; non era liberale né scarso, né si vantava di quel che donava, ma era sollecito molto del util del re; giocava largamente con ogni sorte d'uomini senza far differenza d'alcuno. Non vestiva riccamente, ancorchè alcune fiate portassi una vesta foderata di martori, che Fernando Cortese li mandò a donare; si dilettava di portare le scarpe e il cappello di seta di color bianco, perchè cosí portava il gran capitan Consalvo Ferrando. Fu uomo grosso, non seppe leggere, fu animoso, robusto e valente, ma negligente in guardare la sua vita, perchè li fu detto e fatto intendere che Diego d'Almagro, al quale avea fatto morire il padre, come è detto, trattava di farlo ammazzare, ed egli non lo volse mai credere, finchè i congiurati non gli furono adosso nella città de los Reyes e con le spade lo finirono: e fu del 1541, a' 24 di zugno.
Gonzalo Pizarro, dapoi la morte di Diego d'Almagro e di Francesco suo fratello, si ribellò contra alla Maestà cesarea e si fece chiamar re del Cusco; e dapoi molti conflitti con capitani di Cesare, fu preso e fattogli tagliar la testa nella città de los Reyes del 1548. E non è fuor di proposito di considerare come tutti i capitani che furon al discoprimento del Perú e alla morte del cacique Atabalipa feciono mala fine: perchè Giovan Pizarro, fratello di Francesco, fu morto dagli Indiani nel Cusco; e Francesco Pizarro e suoi fratelli feciono strangolare Diego d'Almagro; e Diego d'Almagro suo figliuolo fece ammazzare Francesco Pizarro; e il licenziado Vacca di Castro fece tagliar la testa al detto Diego; e Blasco Nunez Vela fece prigione Vacca di Castro, il qual non è ancor fuor di prigione di Spagna; Gonzalo Pizarro amazzò in battaglia Vasco Nunez; e Gasca giustiziò Gonzalo Pizarro, e mandò preso in Spagna l'auditore Cepeda, perchè gli altri suoi compagni erano morti: di sorte che chi volesse andare dietro raccontando troveria piú di 150 capitani, uomini con carico di governo e di giustizia e d'eserciti, esser periti, alcuni per mano d'Indiani, altri combattendo fra loro, ma il piú di lor fatti appiccare. Gl'Indiani di quel paese, uomini vecchi e prudenti, e molti Spagnuoli dicono queste morti e guerre procedere dalla constellazione della terra e dalla ricchezza di quella; ma li piú prudenti l'attribuiscono alla malizia e avarizia degli uomini, ancorchè dicono che, dapoi che s'arricordano (ancora che abbino cento anni), mai mancò la guerra nel Perú, perchè Guainaca, Opanguy suo padre, ebbero continuamente guerra co' suoi vicini per signoreggiar soli quella terra, e Guaxcar e Atabalipa fratelli combatterono sopra il dominare quanto potettono, e Atabalipa ammazzò Guaxacar suo fratello maggiore, e Francesco Pizarro amazzò e privò del regno Atabalipa per traditore. E quanti procurarono la morte del detto fecero la sua fine infelice e dolorosa, come è sopra detto; e il reverendo fra Vicenzio Valverde, che fu alla presa del Cusco, come si leggerà, fu fatto vescovo del Cusco, e alla fine, fuggendo da Diego d'Almagro, fu fatto morir dagl'Indiani dell'isola della Puna. Hernando di Soto, partito dal Perú e andato nel paese della Florida, fu morto dagl'Indiani; e Hernando Pizarro, se ben non si trovò alla morte d'Atabalipa, pur fu mandato prigion in Spagna in la Mota di Medina del Campo, per causa della morte d'Almagro.
Sopra tutta questa regione del Perú sono state fondate diverse città, alle quali è stato posto i nomi di quelle città di Spagna, e a ciascuna assegnato il suo vescovo, come la città de los Reyes sopra il mar del Perú è fatto arcivescovado, e li suoi suffraganei sono il vescovo del Cusco, del Quito, Carcas e Tumbez, e ogni dí si va nobilitando. Tutta questa regione del Perú è divisa in tre parti, cioè pianura, montagna e andes. La pianura è molto calida e arenosa e s'estende lungo la marina, e cominciando da Tumbez non vi piove né tuona né vi vengono saette, e corre di costa 500 leghe o piú, e di larghezza fino in dieci o dodeci, fin al piede della montagna; e gli uomini si servon, tanto per il bere quanto per lo irrigare i terreni lavorati e seminati, delli fiumi e fontane che descendon dalli sopradetti monti, quali non s'allontanano 15 o 20 leghe dal mare. La montagna è una schiena di monti altissimi che corre 700 o piú leghe, su le quali vi piovono grandissime acque e vi nevica in gran copia, ed è molto fredda; e gli abitatori che stanno fra quel freddo e caldo sono per la maggior parte guerci o ciechi, ed è gran maraviglia che fra tanti uomini non ve se ne trova a pena due soli che non sieno ciechi o guerci. Queste son le piú asprissime montagne che si trovino al mondo, e hanno principio nella Nuova Spagna e piú oltra, ed entrano fra il Panama e il Nome di Dio, e s'estendon sino al stretto di Magalianes; da' quali monti nascon grandissimi fiumi, che descendon nel mar del Sur e nel mar del Nort, com'è il fiume della Plata e del Maragnon. Andes son valle molto popolate e ricchissime d'oro e d'argento e d'animali, ma non s'ha di queste tanta notizia come della montagna e della pianura.

E questa narrazione con brevità abbiamo voluto discorrer per satisfazione de' lettori, la qual piú distintamente leggeranno nel 4° volume.


Relazione d'un capitano spagnolo della conquista del Perù.


Come il signor Francesco Pizarro e il signor Hernando suo fratello, desiderosi di scoprir cose nuove nel mar del Sur, partitisi di Panama, dopo trovate molte terre e città, venuti in notizia d'Atabalipa cacique, il qual aveva distrutto il paese del Cusco suo fratello e minacciava i cristiani, mandorono contra lui Hernando di Soto capitano. E de' costumi di quelli abitatori.

Sí come nelli precedenti libri s'è veduto chiaramente nella terra ferma dell'Indie occidentali, gradi sette sopra la linea dell'equinoziale, nelle provincie d'Esquegua e Uracca è la terra tanto stretta che da mar a mar non è piú di diciotto in venti leghe, che a miglia quattro per lega sariano circa ottanta miglia, di modo che chi stesse in su la piú alta sommità delle montagne d'Esquegua e guardasse verso tramontana vederebbe il mar che si chiama del Nort, e voltandosi all'opposito verso mezzodí vederebbe il mar del Sur. Nelle quali parti sono stati fatti abitar dal signor Pedrarias, capitano dell'imperatore, duoi porti molto commodi nella navigazione di quelli mari, cioè nel mar del Nort, qual vien verso Spagna, una città con un porto detto il Nome di Dio, e nell'altro mar del Sur Panama, città e porto antico degli Indiani, ma al presente pieno di cristiani con il suo vescovo. In questa città adunque trovandosi il valoroso cavaliero Francesco Pizarro capitano, con suo fratello il signor Hernando Pizarro, desiderosi di scoprir cose nuove in questo mare del Sur, cioè di mezzodí, fabricorono alcuni navilii, avendovi abbondanzia grandissima di legnami e altre cose necessarie a tale impresa, e pensorono d'andar tanto navigando che trovassero l'isole delle Molucche, dove nascono tutte le specierie. Ma la fortuna fu loro molto piú favorevole di quel che pensorono, perchè avanti trovorono tanti ori e argenti che dimenticorono d'andar a trovar dette Molucche, e fu il viaggio in questo modo, secondo che da persona prudente e pratica che vi fu presente brevemente è descritto.

Nel anno 1531 del mese di febraio noi imbarcammo nel porto di Panama, il quale è in terra ferma dell'Indie gradi sette sopra l'equinoziale, nel mar del Sur, cioè verso mezzodí, e fummo dugentocinquanta uomini a piè e ottanta a cavallo, sotto il capitano e valoroso cavalier Francesco Pizarro. E navigando per il detto mare quindeci giorni, dismontammo in una spiaggia che al presente si chiama San Matteo, e dismontati in terra andammo circa cento leghe, che a quattro miglia per lega sono quattrocento miglia, conquistando sempre molti luoghi abitati da Indiani, e arrivammo ad una terra chiamata Coaque, qual è sotto la linea equinoziale, dove trovammo qualche poco d'oro e qualche pietra di smeraldo. In questa terra s'ammalorno assai delli nostri. E quindi passammo ad una isola allora chiamata la Pugna, oggi Sant'Iago, due leghe lontana da terra ferma, di circuito di leghe quindeci, molto popolata e ben cultivata, e per questo abondantissima di vettovaglie: e il cacique dell'isola, volendoci far piacere, ci mandava delle vettovaglie, e avanti di quelli che le portavano erano persone che sonavano di diversi instrumenti; nella qual stemmo cinque o sei mesi, dove morirono otto o dieci de' nostri. De lí con navili attraversammo e arrivammo in terra ferma alla città di Tumbez, dove stemmo tre mesi, e di quindi andammo ad una terra detta Tangarara, nella quale facemmo un ridotto per abitare, qual chiamammo San Michele; nel qual luogo cominciammo aver notizia d'un gran cacique over signor nominato Atabalipa, e d'un suo fratello chiamato Cusco, con il qual faceva guerra, e dalli capitani d'Atabalipa fu seguitato con grande esercito, tanto che fu fatto prigione. In questo tempo che costoro guerreggiavano, arrivò il signor Francesco Pizarro con sessanta cavalli e novanta fanti, perchè gli altri restorono nel ridotto di San Michele. Quando Atabalipa intese che venivano li cristiani, mandò un capitano a spiar che gente eravamo. Questo capitano venne verso il nostro campo, e non gli bastò l'animo, con le genti che aveva, combatter con esso noi, ma subito ritornò indreto a dar risposta al suo signore, con dirgli che se gli desse piú gente, che ritorneria a combattere. Il cacique gli rispose, secondo che dipoi ci fu detto, che piú sicuramente prenderia li cristiani quando loro arrivassero dove lui era.
Intendendo il signor governator Francesco Pizarro che questo cacique andava acquistando quel paese con gran numero di gente, determinò d'andarlo a trovar con quella poca gente che avea, che eravamo in tutto 150, tra li quali erano circa sessanta a cavallo; e cosí andammo a trovar questo cacique, il quale minacciava di venire ad assaltarci, onde il governator volse andar a trovar lui. E giunti ad un luogo detto Piura, il governator trovò un capitano suo fratello, qual avea mandato avanti con quaranta tra fanti e cavalli, e da lui seppe come tutti quelli caciqui over signori lo minacciavano con Atabalipa. Qui s'informò il governatore dagli Indiani, dalli quali intese come questo cacique Atabalipa stava in una terra chiamata Caxamalca, dove l'aspettava con molta gente; e dimandando del cammino e come il paese era abitato, intese da quelli e da una Indiana che menavamo con esso noi che in quel cammino erano assai luoghi disabitati, e che v'era una montagna nel passar della quale, per esser molto alta, si sentiva gran freddo per cinque giornate, e che duoi giorni non troveremmo acqua. Nientedimeno il signor governator si partí con le sue genti molto allegro, ma sette delli suoi fanti se ne ritornorono al ridotto, avendo paura del cammino, per esser cattivo e con poca acqua: ma il gran desiderio del signor governator e della sua compagnia, che avevano da servir la cesarea Maestà, fece che non ricusorno a travaglio o a fatica che potessino avere. E andorono ad un luogo lontano da quello due leghe, dove quattro giorni avanti era arrivato il signor capitano Hernando Pizarro per pacificare quel cacique. Quando il governator arrivò a questo luogo, intese che tre giornate lontano da quel luogo era una terra detta Caxas, nella quale erano alloggiati molti Indiani, uomini da guerra, e avevano accumulati molti tributi, con li quali Atabalipa forniva il suo campo. Hernando Pizarro volse andarlo a trovare, ma il governator non gli volse dar licenzia e mandò Hernando di Soto, con molto sospetto per la poca gente che avevano, e gli dette cinquanta over sessanta uomini, con dirli che l'aspetteria in un luogo che si chiama Caran, e che lo venisse a trovare o gli mandasse alcun fra dieci giorni.
Il capitano Hernando di Soto si partí con la detta gente verso il detto luogo di Caxas, e arrivandogli appresso seppe che la gente di guerra era stata sopra una montagna aspettandoli, donde s'erano partiti. Arrivarono costoro al luogo, ch'era grande, e in alcune case molto alte trovarono gran quantità di maiz, ch'è uno grano come ceci bianco del quale fanno pane, e molte scarpe, e l'altre case erano piene di lana; e trovorono piú di cinquanta donne, che non facevano altro che vesti, e similmente vino di maiz, cioè di quel grano, per gli uomini da guerra, del qual vino per le case non era poca quantità. Le vesti che facevano erano di tale finezza che noi pensavamo che fussino di seta, lavorate con figure d'oro tirato o battuto, benissimo commesso. Le donne vestono veste lunghe, talmente che le strascinano per terra; gli uomini portano certe camicie corte senza maniche e son brutti. Il mangiar loro è quasi di cose crude, eccetto il maiz, che cuocono. Sacrificano ogni mese le piú care cose che abbino, e alcuna volta li proprii figliuoli, ad uno idolo, il volto del quale bagnano con il sangue, e ancora le porte delle moschee. Questa terra era molto destrutta per la guerra che gli avea fatto Atabalipa, e sopra gli arbori erano molti Indiani ascosi, li quali non se gli erano voluti dare: tutti questi popoli avanti erano sotto il Cusco, e quello tenevano per signore e pagavangli tributo. Il capitano allora mandò a chiamar il cacique di quel luogo, qual subito venne, dolendosi molto fortemente d'Atabalipa, che cosí gli aveva destrutta la terra e mortogli molta gente, che di dieci o dodecimila Indiani che aveva non gli eran rimasti piú che tremila; e che nelli giorni passati era la gente da guerra in quel luogo e, come seppono che vi venivano li cristiani, per paura di quelli se n'erano partiti. Allora il signor capitano disse a tutti che stessero in buona pace con li cristiani e fussero vassalli dell'imperatore, e che non avessero paura d'Atabalipa. Il cacique ebbe molto piacere di tal cosa, e subito aperse una casa di quelle ch'erano serrate e poste in guardia per Atabalipa, e cavò di quella quattro o cinque donne e dettele al capitano, perchè servissero alli cristiani in apparechiarli da mangiar per il cammino. Dell'oro dissero che non ne avevano, perchè tutto l'aveva tolto Atabalipa; pur gli dette quattro o cinque tegole, che sono piastre tonde d'oro di minera.


Del presente mandato per Atabalipa a' cristiani, e quello gli fu dato e risposto all'incontro. E come il governatore, passate certe montagne molto difficili, arrivò alla città chiamata Caxamalca, dove era il campo del detto cacique.

In questo mezzo venne un capitano d'Atabalipa. Il cacique ebbe gran paura e levossi in piede, non avendo ardimento di star a sedere avanti quello, ma il signor Hernando di Soto se lo fece sedere appresso. Questo capitan portava un presente alli cristiani da parte d'Atabalipa: il presente era due fontane di pietra fatte a modo di fortezza, per bere, e due some d'uccelli che parevano oche scorticate secche, delli quali in quel paese fanno gran conto, perchè ne fanno polvere e con quella si profumano. Il capitan Hernando di Soto si partí di quel luogo, menò seco quel capitano d'Atabalipa e andò a trovare il governatore, qual ebbe molto piacer di veder quel capitano, e dettegli una camicia molto ricca e due coppe di vetro, le quali presentasse al suo signore, e gli dicesse che egli era suo amico e che averia piacer di vederlo, e che se aveva guerra con alcuno, che l'aiutarebbe. Partissi il capitano alla volta del suo signore, e dopo duoi giorni si partí il governatore per andarsi ad incontrar con Atabalipa. E trovò per il cammino destrutto quasi tutto il paese, e i caciqui fuggiti, che tutti erano ridotti con il suo signore; e andando per quel cammino, ch'era la maggior parte fatto con argini di terra da ogni banda e pien d'arbori che facevano ombra, di due in due leghe trovavano alloggiamenti con alcuni condotti d'acque per commodità delli viandanti. E arrivando appresso alla montagna, Hernando Pizarro e Hernando di Soto andarono avanti con alquanta gente, e passarono un fiume grande notando, perchè avevano inteso che in un luogo avanti era molta ricchezza. Arrivati al luogo circa al far della notte, trovammo la maggior parte della gente ascosa, e mandammo a dirlo al governatore. L'altro giorno la mattina passò il fiume il governatore con tutta la gente. E avanti che arrivassimo al luogo pigliammo duoi Indiani, li quali, per saper nuova del cacique Atabalipa, il capitano ordinò che fussero legati a duoi pali, perchè avessero paura, nel domandarli. Uno di quelli disse che non sapeva cosa alcuna d'Atabalipa, ma che l'altro pochi giorni avanti aveva lassato con Atabalipa il cacique di quel luogo. Dall'altro sapemmo che nel cammino che va alla provincia del Cusco erano gran terre e abbondanti, e che in una bellissima valle era una città chiamata Caxamalca, dove stava il gran cacique Atabalipa, figliuolo del gran Cusco vecchio, il quale era il maggior signore che si trovasse fra gli Indiani; e che quella Caxamalca era la maggior terra di quella provincia del Cusco, o vero Perú, e che Atabalipa con molta gente aspettava li cristiani in essa; e che molti Indiani guardavano duoi mali passi ch'erano in su la montagna, e che portavan per bandiera la camicia che il governatore aveva mandato al cacique Atabalipa, e che non sapeva altra cosa piú di quello ch'aveva detto: né con fuoco né con altro tormento disse piú di questo. I capitani dissero al governatore quello che dalli duoi Indiani avevano sentito; duo giorni dapoi partimmo da quel luogo.
Il governator lasciò quel buon cammino fatto con gli argini sopradetti e prese altro cammino, che non era tanto buono, e arrivando a piè della montagna fece la sua retroguarda, e lasciò con quella un capitan chiamato Salcedo, perchè è uomo di buona guardia e ardito nella guerra, e lui si partí con altri capitani e gente piú espedita, raccomandandosi a Dio. E incominciò a montar su per la montagna, ch'era molto alta, e nel montar trovò una forte terra murata, la qual passata, al far della notte arrivò ad un luogo una lega di là da quella fortezza, dove eran case fatte di calcina e pietre per alloggiar il signor di quella terra: e la retroguarda arrivò la sera alla fortezza. Il seguente giorno restava una montagna molto alta ch'era sopra quel luogo, e il cammino era per quella; partimmoci avanti al levar del sole, acciochè gli Indiani non c'impedissero la strada, dove era un passo molto cattivo, al qual fu ordinato che fussero tutti li capitani con le sue genti. Dapoi che avemmo montato, ebbe il signor governator molto piacere, perchè pensava che gl'Indiani l'avessino preso, come l'Indiano che tormentammo col fuoco ci aveva detto: e quivi aspettò il governator la retroguardia, acciochè andassimo tutti uniti, parendoci aver montato il piú alto della montagna fredda, e subito la retroguardia arrivò. In quella notte vennero duoi Indiani con dieci overo dodeci pecore, per comandamento d'Atabalipa, e quelle detteno al governatore, il qual li dette molte cose e li rimandò. In quella montagna dimorammo cinque giorni, dipoi partimmo alla volta del campo d'Atabalipa, e un giorno avanti che arrivassimo al campo, venne da sua parte un messo e portò un presente di molte pecore cotte e pan di maiz e vasi con vino detto chicha. E avendo il governator mandato un Indiano, il qual era cacique de' luoghi dove eravamo alloggiati, grande amico delli cristiani, questo cacique andò fino al campo d'Atabalipa, le guardie del quale non lo lascioron passare, anzi lo domandorono donde veniva il messaggier de' diavoli, ch'erano venuti per tanto cammino e non trovavano chi gli ammazzasse. Il cacique gli pregò che lo lasciassino andar a parlar con Atabalipa, perchè quando alcun nunzio andava alli cristiani gli era fatto molto onore. Loro per questo non lo lasciarono andar avanti, e quella notte tornò a dormir dove il governator era arrivato con la sua gente, e fece avisato il governatore che nissuna cosa da mangiar che Atabalipa mandasse mangiassero: e cosí fu fatto, che tutta la vivanda che Atabalipa mandò fu data agli Indiani che portavano le bagaglie. Avanti l'ora di vespro arrivammo a vista della terra, che è molto grande, e trovammo molti pastori e beccari del campo d'Atabalipa, e vedemmo che sotto la terra circa una lega era una casa circondata d'arbori, intorno della qual da ogni banda era coperta d'alcuni panni bianchi come tende o padiglioni piú che mezza lega. Quivi era il campo dove Atabalipa stava ad aspettare alla pianura, e cosí arrivammo alla terra.


Della città di Caxamalca e del palazzo d'Atabalipa; del vestire ed esercizii delle donne e degli uomini di quel luogo.

Questa terra Caxamalca è la principale di questo luogo, posta a piè d'una montagna, in una valle circundata da colline, ed è di circuito circa quattro miglia. Passangli appresso duoi bellissimi fiumi, sopra ciascuno de' quali è un ponte, per il quale s'entra nella città per due porte; ma da una banda, avanti che s'entri nella terra, è un gran palazzo circundato da muri ad uso di tempio, nella corte del quale, ch'è grande, sono piantati varii arbori, li quali fanno ombra: e questo palazzo dicono esser la casa del sole, quale adorano, nella quale quando entrano si scalzano, e simile a questa se ne trovano quasi avanti a ciascuna terra grande. Ma dentro alla terra sono circa 2000 case distinte in strade diritte a filo, la lunghezza delle quali è circa passi 200, con muri di pietra forti e alte passa tre; dentro sono ben partite, con fonte d'acque, molte belle. In mezzo è una piazza maggior che alcuna di Spagna, tutta serrata intorno, avanti la quale è una fortezza di pietre, con una scala per la quale si va di piazza alla detta fortezza. Da una banda di questa piazza è il palazzo del signore Atabalipa, molto maggiore di tutti gli altri, con giardini e loggie grandissime, dove il signore stava tutto il giorno; le abitazioni tutte eran dipinte di diversi colori, e fra gli altri d'uno colore rosso che pareva cinabro. In una delle abitazioni over loggia erano due grandi fontane ornate di piastre d'oro, in una delle quali per uno cannone entra acqua calda, talmente che non vi si poteva tener la mano, nell'altra entra acqua freddissima. Escono queste acque della montagna vicina, ed entrano nel palazzo per cannoni, de' quali escono e mescolansi insieme e si spargono per tutta la terra, e servono alli servizii necessarii per ciascuno. Gli abitatori sono gente assai netta e le donne molto oneste, le quali portano sopra lor veste certe cinture lavorate sottilmente, con le quali si fascian quasi tutto il corpo; sopra queste portano a modo d'un manto, il quale le cuopre dalla testa insino a mezza gamba; gli uomini vestono certe camiciette senza maniche. Gli esercizii loro sono tingere in casa lane e bambagia, per fare quel tanto di tele che gli fa di bisogno; fanno ancora calze di lana e altre, in tal modo che gli scusano scarpe.
E primieramente entrò il signor Hernando Pizarro con alquanta gente, e faceva tempesta molto grande. Nella terra era molto poca gente, che potevan esser da quattrocento in cinquecento Indiani, che guardavan le porte delle case del cacique Atabalipa, ch'erano piene di donne che facevano chicha, cioè vino, per il campo d'Atabalipa. Subito s'alloggiò il signor governator con le sue genti, con molto timor della quantità grande degl'Indiani che erano nella pianura. Ciascuno delli cristiani dicevano che fariano piú che Orlando, perchè non aspettavano altro soccorso se non quel di Dio.


Come il signor Hernando Pizarro e Hernando di Soto andorono a parlar al cacique Atabalipa, e in che modo trovarono ordinati gli squadroni e tutto il campo, e quello esercito esser da ottantamilla uomini.

Il signor Hernando Pizarro e Hernando di Soto domandarono licenzia al signor governator, che li lasciasse andar con cinque o sei a cavallo e con il turcimano a parlar con il cacique Atabalipa, e vedere come stava alloggiato il suo campo. Il governator li lasciò andare, benchè contra sua voglia, e loro andorono al campo, che era una lega lontano. Tutto il campo dove il cacique stava da una parte e dall'altra era circundato da squadroni di gente, picchieri, alabardieri e arcieri, e un altro squadrone era d'Indiani con frombe, e alcuni con certe mazze di lunghezza d'un braccio e mezzo e grosse come una asta di giannetta, con una palla tonda in cima grossa un pugno, nella quale sono fitte cinque o sei punte di pietra dura grosse un deto: e queste adoprano a due mani. Li principali portano le mazze e alcuni accette d'oro e d'argento, altri portano lancette per tirare a modo di partigianette, quelli della retroguardia portano lancie lunghe circa palmi trenta, e in un delli bracci portano una manica ripiena di bambagia; e alcuni hanno in testa celate che gli cuoprono infino sopra gli occhi, fatte di canne tessute con molta bambagia, tal che di ferro non sarebber tanto forti. Li cristiani che andavano passorono per mezzo di loro, senza che alcuno facesse movimento, e arrivorno dove stava il cacique, e trovaronlo che sedeva alla porta del suo alloggiamento, con molte donne dietro: e niuno Indiano ardiva stargli a torno. E arrivò Hernando di Soto con il cavallo sopra di lui, e lui stette quieto senza far movimento alcuno: e gli arrivò tanto appresso che il cavallo con le nari gli sventolava un fiocco che lui teneva legato in su la fronte, di lana, tanto fino che pareva di seta chermisi, e mai si mosse. Il capitan Hernando di Soto si cavò uno anello di deto e glielo dette, in segno di pace e amore da parte delli cristiani, e lui lo prese con poca estimazione. E subito venne Hernando Pizarro, che era rimasto alquanto adietro, per metter tre over quattro cavalli in un luogo dove era un mal passo; e portava in groppa del cavallo un Indiano, che era il turcimano. E arrivò al cacique, con poca paura di lui e delle sue genti, e gli disse ch'alzasse il capo, qual teneva molto basso, e gli parlasse, poichè era suo amico e lo veniva a vedere, e pregollo che la mattina poi fusse a veder il governator, che desiderava molto di vederlo. Il cacique li disse con la testa bassa che andrebbe la mattina a vederlo. Disse il capitano, perchè venivan stracchi del cammino, ch'ei comandasse che li fusse dato da bere. Il cacique chiamò due Indiane, qual portarono due gran coppe d'oro per dargli da bere: e quelli per contentarlo finsono di bere, ma non beverono, e si espedirono da lui. Hernando di Soto rimesse il cavallo molte fiate alla volta d'uno squadrone de' picchieri, e loro si ritirorno un passo indrieto. Dapoi, partiti li cristiani, loro pagorono bene quelli che s'erano ritirati indrieto, che ad essi e sue mogliere e figliuoli comandò il cacique che fusse tagliata la testa, dicendoli che dovevano andar avanti e non tornar indrieto, e che a tutti quelli che ritornasseno indrieto comanderia fusse fatto il medesimo. Li capitani ritornorno al signor governatore, e li disseno quel che era seguito del cacique, e che li pareva che la gente ch'egli aveva potriano esser da quarantamila uomini da guerra: e questo dissono per dar animo alla gente, perchè erano piú di ottantamila, e dissono ancora quello che gli aveva detto il cacique.


Come Atabalipa mosse il suo campo contra il governatore, e in che modo fusse ordinato l'uno e l'altro campo, e come s'appiccò la battaglia, nella qual furono rotti e posti in fuga gl'Indiani e preso il signore.

Alloggiata quella notte la gente, non fu picciolo né grande, a piedi né a cavallo, che tutta quella notte non andassino con le sue arme facendo le guardie, e similmente il buon vecchio del governatore, qual andava facendo animo alla gente, che in quel giorno tutti fussero valenti. L'altro giorno da mattina non faceva altro che andare e venire messi al campo di Atabalipa, qual una volta diceva di voler venire con le armi, altra volta di venir senza quelle. Il governatore gli mandò a dir che venisse come volesse, che gli uomini parevano buoni con le sue armi. All'ora di mezzogiorno si cominciò a partire con il suo campo, con tanta gente che tutti i campi erano pieni; e tutti questi Indiani portavano una diadema grande di oro e d'argento, come una corona, in testa, e venivano tutti vestiti con gli suoi vestimenti. All'ora di vespro erano arrivati tutti alla città, alla porta della quale era fermo il cacique, e ivi stette aspettando le sue genti acciochè tutti intrassero uniti; il quale, quando tutti furono arrivati, fatta la sua ordinanza, mosse con tutta la sua gente per andar avanti in questo modo. Avanti andavano quattrocento Indiani vestiti tutti ad una livrea, li quali niente altro facevano che nettare la strada, levando via tutte le pietre o paglia che trovavano per il cammino donde doveva passar il signor, portato in lettica; e sotto quelle veste a livrea portavano certe mazocchie secretamente, con giubboni forti, con frombe e pietre fatte a posta per quelle. Dopo questi venivan tre squadre vestiti ad un'altra livrea, li quali andavano cantando e ballando; questi seguitava altra gente armata e con diademe d'oro e d'argento in testa: fra questi era il gran cacique Atabalipa, vestito d'una veste di lana finissima, che pareva di chermisí, con oro tirato over battuto benissimo tessuto. La lettica sopra la quale era portato era molto alta e maravigliosa, perchè era foderata di penne di pappagallo di diversi colori e ornata di pietre preciose tutte legate in oro e argento, portata da Indiani vestiti di penne di pappagallo di diversi colori; dietro alla quale venivan due altre ricchissime, nelle quali eran altri personaggi principali appresso il signore, benchè avesse qualche sospetto lui e tutta la sua gente. Il signor governator li mandò subito un uomo, pregandolo che venisse dove lui stava, dandoli sicurtà che non riceverebbe alcun danno né dispiacere: per tanto che ben poteva venir senza paura, ancor che 'l cacique non mostrasse averne.
Il governator avea alloggiate le sue genti in case molto grandi, che era lunga ciascuna di quelle piú di dugento passi, e uniti in una di queste case stava il signor Hernando Pizarro con quatordeci o quindeci a cavallo, nell'altra stava il signor Hernando di Soto con altri quindeci o sedeci a cavallo, similmente stava Belcazar con altretanti, poco piú o manco; nell'altra stava il signor governator con duoi o tre a cavallo e con venti o venticinque uomini a piedi; e tutta l'altra gente stava alla guardia delle porte d'una fortezza molto forte, che alcun non intrasse dentro, la qual era in mezo la piazza: e in quella Pietro di Candia, capitano per sua Maestà, con otto o nove schiopetti e quattro pezzi piccioli d'artiglieria che guardavan quella fortezza, qual tenevan per comandamento del governatore, il quale avea loro comandato che se fino a dieci indiani intrassero in quella, che gli lasciasse intrare, ma piú no. Quando il cacique arrivò in su la piazza, disse: "Dove sono questi cristiani? Mi pare che siano tutti ascosi, che non ne appar alcuno". In questo mezzo introrono sette o otto Indiani in quella fortezza, e un capitano con una picca molto lunga, con una bandiera, fece un segnal che venissero con le armi, perciochè li picchieri che venivano adietro portavano le picche di quelli che andavano avanti, e cosí parevano senza armi, e pur venivano con quelle. Allora un frate dell'ordine di S. Domenico, con una croce in mano, volendoli dire alcuna cosa di Dio, gli andò a parlare e gli disse che li cristiani erano suoi amici, e che 'l signor governator desiderava che lui venisse nel suo alloggiamento a vederlo. Il cacique gli rispose che 'l non passaria piú avanti, fintanto che li cristiani non gli rendessero tutto quello che gli avean tolto in tutta la terra, e che poi faria tanto quanto gli venisse in volontà. Lasciando il frate tal pratiche, con un libro qual portava in mano gli cominciò a dir le cose di Dio che li parevano a proposito, ma lui non le volse accettare, e domandandogli il libro, il padre glielo dette pensando che lo volesse baciare, e lui presolo lo buttò addosso le sue genti. L'Indiano che era turcimano, sendo presente quando gli diceva quelle cose, subito corse e prese il libro e dettelo al padre, il quale si ritornò subito indrieto gridando: "Saltate fuora, saltate fuora, cristiani, e venite a questi nemici cani, che non voglion accettar le cose di Dio, che m'ha gettato il cacique in terra il libro della nostra santa legge". In questo il governatore fece sonar le trombe e dette segno al bombardiero che scaricasse l'artiglieria, il che fu fatto; e gli Spagnuoli a piedi e a cavallo uscirono con tanta furia addosso agli Indiani che quegli, udito lo spaventevole strepito dell'arteglieria e veduto l'impeto delli cavalli, si misono in fuga, e quelli che erano montati in su la fortezza non discesero donde eran montati, ma ne furon buttati a terra; e similmente uscí il governatore con quella gente a piedi che avea seco, e andò a drittura alla lettica nella quale era il signor Atabalipa. E molti di quelli a piedi che andavano avanti si ritirarono alquanto da lui, vedendo che con il signor governatore erano molti Indiani suoi nemici, per il che il signor governatore s'approssimò con le sue genti alla lettica, ancorchè non lo lasciassero arrivare, perchè molti Indiani, alli quali eran state tagliate le mani, con le spalle tenevano la lettica del signore: ma poco giovò il loro sforzo, perchè tutti furono morti, insieme con altri signori li quali eran portati in lettica, e il signor fu preso per il governator, il quale, fatto cuore, con quelli pochi pedoni che aveva e con la gente a cavallo uscí alla campagna. E molti di loro si misero a seguitare gl'Indiani che andavano fuggendo, li quali eran tanti che per fuggir detteno in un muro di sei piedi di grossezza e piú di quindeci di lunghezza e altezza d'un uomo, e quello rovinorno, sopra le quali ruine caddero molti da cavallo; e in spazio di due ore, che non era piú giorno, tutta quella gente fu posta in rotta, e veramente non fu per le nostre forze, che eravamo pochi, ma solo per la grazia di Dio. Rimasero in quel giorno morti da sei over settemila Indiani, oltra molti che aveano tagliate le braccia e molte altre ferite; e in quella notte andò circuendo la gente a cavallo e a piedi la terra, perchè si vedevan cinque overo seimila Indiani in una montagna che soprastava alla terra, delli quali avevamo qualche sospetto. E acciochè li cristiani si tornassero in campo, comandò il governatore che si tirasse un colpo d'artiglieria, il qual tratto, subito ritornorno quelli che erano sparsi per il campo, dubitando che gl'Indiani non gli assaltassero e similmente gli uomini da piedi.


Come il signor governatore fece gran carezze al cacique Atabalipa, e la grandissima quantità d'oro e d'argento che esso cacique promise per suo riscatto; e come, essendo cosí prigione, intendendo che dalle sue genti era stato preso un suo fratello chiamato Cusco, al quale di già aveva tolto il regno, lo fece ammazzare.

Essendo passate quattro o cinque ore della notte, il governatore stava molto allegro per la vittoria che Dio gli aveva dato, e al contrario il cacique stava molto maninconioso. Al qual domandando il governatore la causa, e dicendogli che non doveva aver affanno di noi altri cristiani, che noi non eravamo nati nelle sue terre, ma molto lontani da quelle, e che per tutte le terre donde eramo venuti erano molto gran signori, li quali tutti ci avevamo fatti amici e vassalli dell'imperatore per pace o per guerra, e che lui non avesse paura per esser stato preso da noi, il cacique rispose mezzo ridendo che non stava pensoso per quello, ma perchè ebbe pensiero di prender il governatore, la qual cosa gli era riuscita al contrario, e per tal causa stava con tanto dolore; ma che di grazia domandava al signor governatore che se ivi era alcun Indiano de' suoi, che lo facesse venire, perchè voleva parlar con lui. Subito comandò il signor governatore che fussero menati duoi Indiani principali di quelli che aveva presi nella battaglia, a' quali il cacique gli domandò che quantità di gente era morta della sua; loro risposono che tutti li campi erano pieni di morti. Allora quello subito mandò a dire a tutta la gente che era rimasta che non fuggissero, anzi che lo venissero a trovare, poichè non era morto, e che era in mano delli cristiani, li quali gli pareva fussero buona gente: per tanto comandava loro che lo venissero a servire. Il governatore dimandò al turcimano quello che aveva detto il cacique, quale gli dichiarò il tutto. Il governatore allora, fatta una croce, la dette al cacique, dicendogli che ordinasse che tutta la sua gente, cosí unita come separata l'un dall'altro, ne portasse una in mano simile a quella, perchè li cristiani a cavallo e a piedi usciriano la mattina seguente al campo e amazzariano tutti quelli che trovassero senza quel segnale.
Quella sera il signor governatore fece sedere alla sua tavola questo gran cacique Atabalipa con gran carezze, e volse che fusse servito dalle sue donne, che erano state prese, e comandò che gli fusse parato un ricco letto in quella camera dove dormiva lui, lasciandolo dislegato, ma con guardie. Era questo signore d'anni trenta in circa, ben disposto della persona, un poco grasso, con labra grosse e con occhi incarnati come di sangue, e parlava con molta gravità. Il padre fu chiamato Cusco, signor di quel paese, il quale era di circuito di circa trecento leghe, del quale cavava gran tributo. La patria e signoria sua non era questa provincia, ma una altra lontana molto di qui, chiamata Guito, della qual partendosi e arrivando in questo paese ci si volse fermare, per averlo trovato bello, abbondante e ricco, e pose nome ad una delle città principali Cusco, dalla quale fu poi cosí chiamata tutta la provincia. Fu temuto e ubbidito, e doppo la morte fu tenuto per iddio, e in molte terre gli furon fatte statue; ebbe cento figliuoli fra maschi e femine, fra' quali fu Atabalipa e un altro chiamato parimente Cusco, lasciato dal padre erede della signoria, con il quale in questo tempo Atabalipa faceva guerra, e avevagli tolto tutto lo stato.
L'altro giorno da mattina uscirono tutti li cristiani al campo con molto ordine, e trovorono molti squadroni d'Indiani: il primo di tutti portava in mano una croce, per gran paura che avevano. E si ragunò assai oro, che era in alcuni padiglioni e sparso per li campi, e similmente molti panni: questo medesimo ragunorno li negri e Indiani da servizio, perchè gli altri stavano in ordinanza guardando le sue persone. E accumulò cinquantamila pesi d'oro, che val ciascun peso un ducato largo e duoi carlini, e settemila marche d'argento, e molti smeraldi; di che il cacique mostrava esser contento, e disse al governatore che questi ori erano della sua credenziera per la sua tavola, che ben sapeva quel che andavano cercando. Il governator rispose che dalla gente di guerra non si cercava altro che oro, per sé e per il suo signor imperadore. Il cacique disse che lui gli daria tanto oro quanto staria in una stanza da parte che ivi era, fino un segno bianco che v'era, tanto alto che un uomo ben grande non v'arrivava ad un palmo appresso: ed era di 25 piè di lunghezza e quindeci di larghezza. Allora gli dimandò il governatore quanto argento gli daria. Il cacique rispose che condurria diecimila Indiani, che fariano un serraglio in mezzo della piazza, e che lo impieria tutto di vasi d'argento, cioè olle, pignatte, secchi e altri vasi: e questo li daria acciochè lo rimettesse in sua libertà. Il governator gli promesse, ma con questo, che non facesse alcun tradimento a' cristiani, e li dimandò in quanti giorni faria portar quell'oro che diceva; al quale rispose che in quaranta dí seguenti si porteria, e perchè la quantità era molta, che manderia ad una provincia chiamata Chinca, e da quella faria portar l'argento che aveva comandato. In questo passò un spacio di venti giorni, che non venne oro, in capo delli quali portorono otto cantari fatti d'oro, che sono come pignatte grandi, con molti altri vasi e altre piastre.
Allora intendemmo come questo cacique aveva preso Cusco, suo fratello di padre, ma non di madre, qual era maggior signor di lui. E il medesimo Cusco, venendo condotto preso, seppe come li cristiani avevano preso suo fratello Atabalipa, e disse a quelli che lo menavano: "Se io vedessi li cristiani io saria signore, per questo ho gran desiderio di vedergli; e io so che mi vengono a cercare, e che Atabalipa ha lor promesso gran quantità d'oro che io avevo per dar loro, ma io gli daria quattro volte tanto e loro non mi ammazzeriano, come penso che costui farà". Subito che Atabalipa intese quel che suo fratello Cusco aveva detto, ebbe gran paura che, sapendo questo, li cristiani non lo facessino subito morire e facessino signor suo fratello. Per questo comandò che subitamente fusse morto, e cosí fu fatto, che non li giovò il molto timor messo ad Atabalipa dal governatore, quando seppe che un suo capitano lo tenea prigione, con dirgli che non lo lasciasse ammazzare, ma che lo facesse venir al loro alloggiamento. Atabalipa si pensava esser signore perchè aveva conquistato quel paese, e pochi giorni avanti, in una provincia che si chiama Gomacuco, aveva fatto morir assai gente e aveva preso un altro suo fratello, qual aveva giurato di bever con la testa del detto Atabalipa: ma, per il contrario, Atabalipa bevea con la sua, il che io viddi, e tutti quelli che si trovorno con il signor Hernando Pizarro. E viddi la testa con la pelle, la carne secca e li suoi capegli, e aveva li denti serrati, e tra quelli aveva una cannella d'argento, e in cima della testa teneva una coppa d'oro appiccata, con un buco che entrava nella testa: quando li veniva in memoria della guerra che suo fratello l'aveva fatta, mettevano gli schiavi la chicha in quella coppa, la qual usciva per la bocca e per la cannella, donde bevea Atabalipa.


Come il signor Hernando Pizarro, andando ad una moschea, qual si diceva esser molto ricca d'oro, trovò in diversi luoghi grandissima quantità d'oro, datogli per alcuni capitani d'Atabalipa per riscattarlo. E come spogliorono il tempio del Sole, coperto di lastre d'oro, e similmente molte case e pavimenti e muri, i quali erano coperti d'oro e d'argento.

In questi giorni fu portato certo oro, e di già il signor governatore aveva inteso come in quella terra era una moschea molto ricca, nella quale era molto piú oro di quello che 'l cacique gli aveva promesso, perchè tutti li caciqui di quelli paesi adoravano in quella, e similmente il detto Cusco, li quali venivano ad intendere quello che avevano a fare, e molti dí dell'anno venivano ad un idolo che avevano fatto, e gli davano da bere in uno smeraldo concavo. Sapendo questa cosa il signor governatore e tutti gli altri cristiani che v'erano presenti, il signor Hernando Pizarro dimandò di grazia al governator suo fratello che li desse licenzia di poter andar a quella moschea, perchè voleva veder quel falso iddio, o per dir meglio quel demonio, poichè aveva tanto oro. Il governator li dette licenzia, e menorono alcuni Spagnuoli con loro, con i quali il demonio poteva aiutarsi molto poco: e questo fu l'anno 1533. Il signor governatore e tutti quelli che restammo ci trovavamo ogni giorno in molto travaglio, perchè il traditor d'Atabalipa faceva continuamente venir gente contra di noi, quali venivano, ma non bastava lor l'animo d'assaltarci.
Arrivò il signor Hernando Pizarro ad un luogo detto Guamacuco, e vi trovò oro che portavano per riscatto del cacique Atabalipa, che poteva esser da 100 mila castigliani d'oro, e scrisse al governatore che mandasse per quello oro, acciochè venisse con buona guardia. Il governatore mandò tre uomini a cavallo che lo accompagnassero, a' quali arrivati consegnò l'oro, e passò avanti al cammino della moschea, e coloro si tornorono al governatore. E nel cammino accadé che li compagni che portavano l'oro vennero insieme alle mani per alcuni pezzi d'oro, e uno tagliò un braccio all'altro: il che non averia voluto il governatore per tutto il detto oro.
Stando nella città di Caxamalca quaranta giorni il governator senza speranza d'aiuto, venne Diego d'Almagro con cento e cinquanta Spagnuoli in nostro soccorso, dal quale intendemmo che voleva far abitare un porto vecchio detto Cancebi, ma, come intese che noi avevamo trovato tanto oro, come fedel servitor dell'imperadore venne in nostro soccorso. Il cacique Atabalipa in questo tempo disse al governatore che l'oro non poteva venir cosí presto, perchè, stando lui prigione, gli Indiani non lo ubbidivano, e che mandasse tre cristiani al paese Cusco, che questi portariano molto oro e disforniriano certe case che di lame d'oro erano coperte, ne portariano ancora molto che si trovava in Xauxa, e che potevano andare sicuri, perchè tutto il paese era suo. Il governatore vi mandò uomini, raccomandandogli a Dio, li quali cristiani menorono assai Indiani che li portavano in hamacas, quale è a modo d'una lettica, ed erano molto ben serviti. E arrivorono al luogo detto Xauxa, dove stava un grande uomo, capitano di Atabalipa, qual era quello che prese il Cusco, e aveva tutto l'oro in suo potere, e dette alli cristiani trenta cariche d'oro, delle quali ciascuna pesava libre cento. E loro ne fecero poco conto e, mostrando che avevano poca paura di lui, gli dissero che era poco, e lui ordinò che li fussino date altre cinque cariche d'oro, il qual oro mandorono dove stava il signor governator, per un suo negro che avevano menato seco. E li detti volsero andar avanti e arrivarono alla città del Cusco, dove trovarono un capitano d'Atabalipa che si chiamava Quizquiz, che vuol dir in quella lingua barbiero. Costui fece poca stima delli cristiani, ancora che si maravigliasse non poco di loro, e per questo fu uno delli nostri che volse approssimarsi a lui e dargli delle ferite, pure non lo fece per la molta gente che teneva. Allora il capitano disse loro che non gli dimandassero molto oro, e che se non volevano restituir il cacique per quel tanto che gli dava, che lui l'andarebbe a tuor di sua mano: e subito gli inviò ad uno tempio del Sole, che loro adorano. Questo tempio era volto a levante, coperto di piastre d'oro. Li cristiani andorono al detto tempio e senza aiuto d'alcuno Indiano, perchè loro non gli volevano aiutare, essendo quello tempio del Sole, dicendo che moririano, li cristiani determinarono con alcuni picchetti di rame disfornir quel tempio, e cosí lo spogliarono, secondo che poi di bocca loro ci dissono. E oltra questo furono ragunate ancora molte olle o pignatte d'oro, con le quali usano cucinare in quel luogo, e portate alli cristiani per riscatto del suo signore Atabalipa.
In tutte le case dove abitorono dicono che vi era tanto oro che era maraviglia. Entrorono in una casa dove fanno li loro sacrificii, dove trovarono una sedia d'oro: questa sedia era tanto grande che pesava 19 mila pesi, nella quale potevano seder duoi uomini. In un'altra casa molto grande, nella quale giaceva morto il Cusco vecchio, il pavimento della quale e li muri eran coperti di piastre d'oro e d'argento, trovarono molti cantari over giarre di terra coperte di lame d'oro che pesavano molto, e non gli volsono rompere per non far dispiacere agli Indiani; nella qual casa erano molte donne, ed eranvi duoi Indiani morti, a modo d'imbalsamati, appresso delli quali stava una donna con una maschera d'oro sul viso, facendogli vento con uno ventaglio per la polvere e per le mosche, e li detti Indiani morti avevano in mano un baston molto ricco d'oro. La donna non volse che intrassero dentro se non si discalzavano, e discalzandosi andarono a veder quelli corpi secchi, e levarono loro datorno molti pezzi d'oro; né del tutto gli spogliorono, perchè il cacique Atabalipa gli aveva pregati che non gli spogliassero del tutto, dicendo che quel era suo padre, il Cusco vecchio: e per questo non ne volsero tuor piú. E cosí caricorono il suo oro, e il capitan che v'era li dette tutte le cose necessarie per condurlo via. Li cristiani trovorono in quel luogo tanto argento che dissono al governatore che v'era una casa grande quasi piena di cantari e tinacci grandi e vasi e molte altre pezze, e che molto piú n'avrian portato, ma temevano di non dimorar troppo, perchè erano soli e piú di dugento e cinquanta leghe lontani dagli altri cristiani; ma dissero che avevano serrato la casa e le porte di quella, e messovi un sigillo per la Maestà dell'imperatore e per il governatore Francesco Pizarro, e ordinatovi guardie d'Indiani. E fatto un signore in quel luogo, come gli era stato comandato, presono il suo cammino con le pezze dell'oro bellissime che portavano, tra le quali era una fontana grande d'oro fatta di molti pezzi, la qual pesava piú di dodecimila pesi. Questa e molte altre cose portarono.


Di certi ponti sopra i fiumi, e come le ferrature, per averne mancamento, furono fatte d'oro e d'argento. Della città di Pachalchami e sua moschea, e le cose in quella ritrovate. Della città di Xauxa e d'un luogo grandissimo. Come Chulicuchima capitano col signor Hernando portarono l'oro del riscatto d'Atabalipa, e con quanta riverenzia vadino gl'Indiani al suo signore.

Lascio di parlare di costoro, che venivano per il suo cammino, e dirò del signor Hernando Pizarro, il quale andava alla volta della moschea. Nel qual viaggio, che fu di molte giornate, trovarono molti fiumi, sopra ciascuno delli quali sempre trovorono duoi ponti fatti vicini l'uno all'altro, in questo modo: avean fatto nel mezzo del fiume una pila, la quale appariva molto sopra l'acqua, per sostegno del mezzo del ponte, perchè da una parte e dall'altra del fiume erano appiccate corde fatte di stroppe di salcio, grosse come un ginocchio, le quali alle rive eran legate a grossi sassi, discosto l'una dall'altra la larghezza d'un carro; a queste per traverso eran legate corde forti e ben tessute di cotone, e, perchè il ponte stesse forte, appiccavano dalla parte di sotto a queste corde sassi molto grandi. Uno di questi ponti serviva alla gente comune e stava sempre aperto, l'altro alli signori e capitani, e questo stava sempre serrato, e fu aperto quando passò il signor Hernando Pizarro. E arrivò con molto travaglio, perchè pensorono non condur mai alcuni cavalli, per mancamento di ferrature per il mal cammino, perchè passorono per molte montagne, la strada delle quali era fatta a mano come una scala; ma il signor Hernando comandò agli Indiani che facessino ferrature d'oro e d'argento, e cosí li chiodi, e in questo modo condussero li suoi cavalli al luogo dove era la moschea, ad una città la quale è maggior di Roma, detta Pachalchami. Nella qual moschea è una camera molto brutta e sporca, dove è un idolo fatto di legno molto brutto, il qual dicono essere lo Dio loro, e che questo fa nascere tutto quello di che vivono, alli piedi del qual tengono offerte alcune gioie, massime smeraldi legati in oro; e hannolo in tanta venerazione che vogliono che sol quelli lo vadino a servire che da quello (come dicono) son chiamati, e dicono che nessuno è degno di toccarlo con mano, né ancora li muri della casa sua. Non è da dubitar che il diavolo non entri in quel idolo e parli con quelli suoi ministri, e dichi loro quel che hanno a dir per il paese. Vengono a questo idolo con grandissima divozione gl'Indiani di lontano trecento leghe, e gli offeriscono oro e argento e gioie, e subito che arrivano presentano il dono al portinaro, e lui entra dentro e parla con l'idolo e porta fuora la risposta. Avanti che alcuno ministro vadi a servirlo, bisogna che 'l sia puro e casto, e che digiuni e non tocchi donna. Tutto il paese di Catamez che è lí intorno è devotissimo di questa moschea, e per questo vi portano ogni anno tributo, e l'idolo fa loro intendere che lui è loro Iddio, e che tutte le cose del mondo sono nelle man sue, e che niente adviene agli uomini che non sia di sua volontà: per il che gli Indiani della moschea e della città di Pachalchami erano in grandissima paura, perchè il capitano Hernando Pizarro con gli Spagnuoli senza alcun rispetto erano entrati a vederlo, e per questo dubitavano gli Indiani che, dapoi usciti gli Spagnoli, l'idolo non gli distruggesse.
Di questa moschea cavorono molto poco oro, perchè l'avevano tutto ascoso, e trovorono una cava molto grande donde avevano tratto l'oro, e li luoghi dove stavano li cantari che gli aveano levati, di sorte che mai poterono trovare dove l'oro fusse. In un'altra casa viddero un poco d'oro ad una Indiana che guardava la casa, che l'aveva gettato in terra; trovorono similmente certi morti che erano in detta moschea; tal che non poterono averne piú di trentamila pesi, e da un cacique di Chicha ne ebbero tanto che arrivorono alla somma di quarantamila pesi. E stando quivi gli mandò Chilicuchima, che era il capitano che prese il Cusco, messi, e fecegli intendere che avea molto oro per portar per riscatto del suo signore Atabalipa, e che si partirebbe da quel luogo di Xauxa, quale è una città molto grande fondata in una bella valle, e ha l'aere molto temperato, e che s'accompagneria con il signor Hernando Pizarro, e che insieme anderiano a veder il governatore. Hernando Pizarro si partí, pensando che fusse la verità quel che gl'Indiani dicevano, ma, essendo andato quattro o cinque giornate, seppe che non veniva il capitano, e deliberò con la gente che aveva andarsene al luogo del capitano, che era con gran gente, e cosí fece, e trovatolo gli disse che venisse a veder il signor governatore e il suo cacique Atabalipa. Lui rispose che non voleva partirsi di quel luogo, essendogli stato cosí comandato dal suo signore. Allora Hernando Pizarro gli disse che, se non voleva venire, lo menerebbe per forza, e mise in ordine quella poca gente che avea, perchè era in una piazza grande e pensava, ancora che fussero molti, di vendicarsi di loro, perchè quelli che erano con lui erano valenti uomini. Il capitan indiano, quando vidde quella gente messa in ordine, deliberò andar con lui. Il quale partito, avanti che arrivasse dove stava il signor governator in Caxamalca con il cacique Atabalipa, sei leghe lontano, trovò un lago d'acqua dolce, che era di circuito circa dieci leghe, con le rive tutte piene d'arbori verdissimi e tutto abitato intorno da casali d'Indiani, quali sono pastori, con pecore di diverse sorti, cioè alcune picciole come le nostre e altre tanto grandi che l'adoperano in portare le cose che gli fa di bisogno, per somieri. In questo lago sono uccelli di diverse sorti e similmente pesci, dal quale nasce un fiume bellissimo, il qual si passa con un ponte fabricato nel modo detto di sopra, dove stanno certi Indiani a torre un certo tributo da tutti quelli che passano. Giunti a Caxamalca, dove era il governatore e Atabalipa, il capitano Chilicuchima, avanti che entrasse nella stanza dove sedeva il cacique Atabalipa suo signore, prese da un Indiano di quelli che lui menava seco una carica mezzana e se la messe sopra le spalle, e il medesimo fecero tutti gli altri principali che lo seguitavano; ed entrati dentro, subito come lo vidde alzò tutte due le mani verso il sole, ringraziandolo che gli avesse fatto veder il signore suo, e subito piangendo si buttò in terra e con molta riverenzia pian piano s'accostò a lui e gli baciò le mani e i piedi, e il simile fecero gli altri Indiani principali. Atabalipa allora mostrò grandissima maestà e, ancora che sapesse che non aveva uomo in tutto il suo paese che lo amasse piú di Chilicuchima, non lo volse però guardare nella faccia, ma stette con una gravità mirabile, né fece alcun atto o dimostrazione, non altrimenti che se gli fusse venuto avanti il piú vil Indiano suo suddito. Questo atto di caricarsi le spalle quando vanno a veder gli suoi signori dimostra una gran riverenzia che gli hanno.


Come Chilicuchima, doppo molte minaccie, confessò dove fusse l'oro del Cusco vecchio. Della provincia chiamata Guito. Come Atabalipa aveva deputato molte case per fondere l'oro e l'argento; come si cavi l'oro delle minere del piano e in alcune montagne.

Questo cacique Atabalipa non ebbe grata la venuta del suo capitano, ma, essendo molto astuto, finse d'averne avuto piacere. Il governatore gli dimandò dell'oro del Cusco, perchè quel capitano era quello che l'aveva preso: quello rispose, sí come Atabalipa l'aveva avisato, che non avevano altro oro, e che quello che avevano tutto l'avevano portato. Tutto quel che diceva era falso, e tirandolo da parte Hernando di Soto lo minacciò che, se non diceva la verità l'abbrucciarebbono; lui gli rispose quel che prima aveva detto, donde subito ficcorono un palo, al qual lo legorono, e portorono molte legne e paglia, dicendo pure che se non dicesse la verità l'abbrucciarebbono. Chilicuchima fece chiamar il suo signore, il qual venne con il governatore, e parlò con lui, e finalmente gli disse che voleva dire la verità alli cristiani, perchè non dicendola l'abbrucciarebbono. Atabalipa gli disse che non dicesse cosa alcuna, perchè essi tutto quello facevano per farli paura, che non avriano ardimento d'abbrucciarlo: e cosí gli dimandorono un'altra volta dell'oro, e lui non lo volse dire. Ma, subito che gli misero un poco di fuoco intorno, disse che menassero via quel cacique suo signore, perchè lui gli faceva cenno che non dicesse la verità: e cosí lo menorono via, e subito disse che per comandamento del cacique Atabalipa lui era venuto tre o quattro volte con molta gente per assaltare li cristiani, il qual dipoi ordinava loro che tornassero indietro, per paura che, conoscendo i cristiani li suoi tradimenti, non l'ammazzassero. Similmente gli dimandorono un'altra volta dove era l'oro del Cusco vecchio. Lui gli disse che nel medesimo luogo del Cusco era un capitano chiamato Quizquiz, e che questo capitano aveva tutto l'oro, perchè niuno ardisce accostarsi a lui, che, ancora che sia morto, fanno il suo comandamento cosí integramente come se 'l fusse vivo, e cosí gli danno da bere e spandono tutto quel vino che gli vogliono dar a bere lí intorno, dove il corpo del Cusco vecchio è posto; e similmente disse quel capitano indiano che in quella terra piú a basso, dove il cacique Atabalipa suo signor aveva alloggiato il suo esercito, era un padiglione molto grande, nel quale il cacique aveva molti cantari over ghiare grandi e altre diverse pezze d'oro di molte sorti. Questo e molte altre cose disse quel capitano indiano alli cristiani che quivi erano, le quali io non sapria dire, per non essermi trovato presente. Poichè costui ebbe cosí detto, subito lo menorono alla casa del signor Hernando Pizarro, e gli facevano una diligente guardia, perchè cosí era necessario, imperochè piú ubbidiva la maggior parte della gente al comandamento di questo capitano che al medesimo Atabalipa suo signore, perchè era molto valent'uomo in guerra e aveva fatto molto male in quella provincia: ed era il detto capitano molto sdegnato contra Atabalipa suo signore, dicendo che per sua causa l'avevano mal trattato. Il cacique non gli mandava da mangiare né altra cosa alcuna, per causa del molto sdegno che contra lui teneva per quel che aveva detto, ma il signor capitano che l'aveva in casa gli dava ben da mangiare, e lo faceva servire e davagli quanto gli faceva di bisogno; e ancor che fusse cosí mezzo abbrucciato, molti di quelli Indiani l'andavano a servire, perchè erano suoi famigliari. E questo capitano era nativo d'una provincia chiamata Guito, della qual il medesimo Atabalipa era signore.
Questo paese è molto piano e ricco, gli uomini sono molto valenti: con queste genti conquistò Atabalipa la terra del Cusco, della qual gente uscí il Cusco vecchio, quando cominciò a signoreggiare tutta quella provincia. In su questo ragionamento il cacique Atabalipa disse che aveva molte case deputate a fonder l'oro e l'argento, e che l'oro delle minere del piano era minuto, perchè le mine del paese del monte erano di quelle bande del Cusco, ed erano piú ricche, perchè cavano di quelle l'oro in maggiori grani, e non bisognava lavarlo, ma lo ricoglievano nel fiume lavato; e come in alcune montagne cavano l'argento con poca fatica, e che un uomo ne cava in un giorno cinque o sei marche. Cavasi mescolato con piombo, stagno e zolfo, e poi si fa ben netto; e per cavarlo gli uomini appiccano fuoco grandissimo nelli monti, e subito che il zolfo è acceso l'argento scorre in pezzi.


La grandissima quantità d'oro portata al signor governatore, e il presente per lui mandato alla cesarea Maestà, e come fu diviso detto oro e quanto toccasse a ciascuno. Del tradimento ch'aveva ordinato Atabalipa e della morte di quello, e come fu fatto signor di quella terra il figliuol maggiore del Cusco vecchio, con gran sodisfazione e giubilo di tutta la città.

Lascio di parlare piú oltre di questo. Dirò delli cristiani che vennero dal Cusco, li quali entrorono in campo del governatore con piú di cento e novanta Indiani carichi d'oro, e ne portorono venti cantari e altre pezze grandi, che v'era tal pezzo che con fatica dodeci Indiani lo portavano, e similmente portorono altri pezzi che cavorono delle case. Dello argento ne portorono poco, perchè cosí comandò loro il signor governatore, che non portassero argento ma oro, perchè il cacique si doleva che non trovava Indiani che portassero l'oro, del quale alli giorni passati era stato portato non poca quantità. Aveva il signor governatore mandato duoi uomini al padiglione che il capitano indiano gli aveva detto, quali tornorono similmente con assai oro, del quale in una casa grande avevano in molti luoghi trovati monti grandi di diversi caratteri e pezzi minuti. Il governatore fece fondere tutto il minuto, tra 'l quale furono alcuni grani grandi come castagne e altri maggiori, e alcuni di peso di libra e altri di maggior peso: e di questo fo fede, perchè io ero guardiano della casa dell'oro e lo viddi fondere; ed eravi piú di 90 tegole come piastre d'oro di minera, che alcune erano di buoni caratti: molte se ne fonderono, e furono fatte verghe, e altre si spartirono tra la gente. In questa casa erano piú di 200 cantari d'argento grandi che aveva fatti portare il cacique, ancor che il governatore non l'avesse ordinato, ma v'erano molte pignatte e cantari piccioli e altri pezzi molto belli: e parmi che l'argento che io viddi pesare fusse cinquantamila marche, poco piú o manco. Era oltra questo in questa casa ottanta cantari d'oro tra grandi e piccoli, e altri pezzi molto grandi; eravi ancora un monte piú alto d'un uomo di quelle piastre, che erano tutte fine, di molto buon oro; ben che, per dire il vero, in questa casa in tutte le stanze erano monti grandi d'oro e d'argento.
Messe insieme il signor governatore tutto quell'oro e fecelo pesare, presenti gli officiali di sua Maestà; il che fatto, furono elette persone che facessino le parti per la compagnia. E mandò il governatore un presente alla Maestà cesarea, che fu di centomila pesi, poco piú o manco, in certe pezze che furono quindeci cantari e quattro pignatte, che tenevano duoi secchi d'acqua per ciascuna, e altre pezze minute che erano molto ricche: ed è la verità che, dapoi partito il signor capitano, fu portato molto piú oro di quello era restato, che fu partito. Il signor governatore fece le parti, e toccò a ciascuno fante a piè quattromila e ottocento pesi d'oro, che sono ducati 7208, e agli uomini a cavallo il doppio, senza altri vantaggi che gli furono fatti. Dette il signore governatore alla gente che venne con Diego d'Almagro dell'oro della compagnia, avanti che fussero fatte le parti, venticinquemila pesi, perchè n'aveva di bisogno; e a quelli cristiani che erano restati in quel luogo dove aveva fondato il ridotto di San Michele dette duamila pesi d'oro, acciochè lo partissero, che ne toccò dugento pesi a ciascuno. E dette a tutti quelli che erano venuti con il capitano molto oro, di sorte che ad alcuni mercatanti dette due o tre coppe grandi d'oro, acciochè ciascuno n'avesse parte, e a molti di quelli che l'avevano guadagnato dette manco di quello che lor meritavano: e questo dico perchè a me cosí fu fatto. Subito ne furono molti, tra li quali fui io, che domandarono licenzia al signor governatore per venirsene in Castiglia, alcuni per dar relazione alla Maestà dell'imperadore del paese, altri per veder suo padre e sua mogliera: e fu dato licenzia a venticinque compagni, quali si partirono.
In questi dí, come seppe il cacique che volevano portar via l'oro del paese, comandò molte genti per molte parti, alcuni che venissero contra li cristiani che andavano ad imbarcarsi, e altri per venir contra il campo del governatore, per veder se poteva esser liberato: e questa era una gran moltitudine di gente, però la maggior parte veniva per forza o per tema che avevano. Come il signor governator fu di tal cosa informato, parlò al cacique adirato, dicendogli che li portamenti suoi erano molto tristi, poichè senza causa faceva venir gente contra di noi. Pochi giorni avanti erano venuti al nostro campo duoi Indiani figliuoli del Cusco vecchio, fratelli di Atabalipa da canto di padre e non di madre: questi vennero molto ascosamente, per timor di suo fratello. Quando il governatore seppe che erano figliuoli del Cusco vecchio, fece loro molto onore, perchè nell'aspetto mostravano esser figliuoli di gran signore. Dormivano costoro appresso il governatore, perchè non avevano ardimento di dormir in altra parte, per timor di Atabalipa. Un di questi era natural signore di quella terra, la quale gli rimaneva doppo la morte di suo fratello. In questi medesimi giorni vennero nuove che la gente di guerra era molto propinqua, e per tal causa noi stavamo molto vigilanti: e una notte vennero alcuni Indiani fuggendo d'un luogo che era lí vicino, dicendo che gli Indiani venivano per far guerra e che avevano rovinati loro li maizali, che sono campi dove nasce il grano del maiz, e che venivano per assaltare il campo de' cristiani, e che per questo loro venivano fuggendo. Come questo seppe, il signor governatore fece consiglio con li suoi capitani e con gli officiali di sua Maestà, e determinorono di far morir subito Atabalipa, il qual lo meritava. Menoronlo adunque al far della notte nella strada e legoronlo ad un palo, e per comandamento del signor governatore lo volsero abbrucciar vivo; ma volse Iddio convertirlo perchè disse che voleva esser cristiano, e per questo lo fecero strangolare in quella notte, la qual con molte altre era passata che le nostre genti non avevan dormito, per timor degli Indiani e di questo cacique. Il governator providde che fusse fatto la guardia al detto cacique morto, e il giorno seguente da mattina il sepelirono in una chiesa che avevano quivi, dove molte femine indiane si volevano sepelir vive con lui.
Venti giorni avanti che morisse Atabalipa, non si sapendo cosa alcuna dell'esercito che aspettavano, ed essendo Atabalipa una sera molto allegro e parlando con alcuni Spagnuoli, apparse in aere verso la città del Cusco a modo d'una cometa di fuoco, la quale stette gran parte della notte, e come Atabalipa l'ebbe veduta disse: "Presto morirà un gran signore di quel paese". E questo fu lui. Della morte di questo cacique s'allegrò tutto quel paese, e non potevan creder che fusse morto; subito che la nuova andò alla gente di guerra, immediate ciascuno tornò a casa sua perchè erano venuti per forza. Il signor governator fece far signor di quella terra il figliuolo maggiore del Cusco vecchio, con condizione che restassino, lui e tutta la sua gente, per vassalli dell'imperadore: e cosí loro promisero di fare. Subito che il figliuol del Cusco vecchio fu fatto signore, le genti del paese alzorno le mani al sole, ringraziandolo che gli avea dato il suo signor naturale; e fu messo in possessione dello stato, e messongli un fiocco molto ricco legato con una cordella intorno alla testa, il quale gli veniva tanto su la fronte che gli copriva quasi gli occhi: e questa è la corona che porta quel che è signor del paese del Cusco, e cosí portava Atabalipa. Il che poichè fu fatto, venne gran moltitudine di gente per servirci, e questo per comandamento di questo signor nuovo. Similmente s'allegrò della morte d'Atabalipa il capitan Chilicuchima, dicendo che per causa sua era stato mezzo abbrucciato, e che daria tutto l'oro di quella terra, che n'avevan gran quantità, e molto piú di quello che Atabalipa aveva dato, perchè quello che avevan fatto signore era natural signore di quella terra: e in quel giorno menorono quattro cariche d'oro e certe coppe grandi.
Alcuni giorni avanti che Atabalipa morisse, aveva ordinato che fussero portati una statua d'un pastor con le pecore d'oro e altri pezzi molto ricchi: e questo tutto veniva per conto della gente nostra di campo; ma il signor governatore fu consigliato che non facesse portar allora quell'oro, acciochè quelli che si partivano e tornavano in Castiglia non n'avessero la lor parte. Il che inteso dal cacique, come io e molti altri udimmo dire, disse al signor governatore che non facesse ritornar quell'oro indietro, perchè n'aspettava ancora molte maggior pezze, le quali dovevan portar piú di dugento Indiani. Alle quali parole d'Atabalipa rispose il governatore che erano per andar in quel paese, e che tutto lo raccoglierebbeno: e tutto questo faceva acciochè non s'avesse a partire con quelli che andavano in Castiglia. Io dico che viddi restar una gran casa piena di vasi d'oro e altri pezzi, dapoi che fu fatta la sopradetta divisione, li quali vasi si doveano partire fra noi che tornavamo in Castiglia, essendoci trovati nella battaglia, con tante fatiche con quante di sopra è stato narrato. E piú dico che io viddi pesare e restar lí del quinto di sua Maestà, senza quello che portò il signor Hernando Pizarro, piú di cento e ottantamila pesi.


Del paese chiamato Collao, dov'è un gran fiume dal qual si cava oro, e come si raccolga, in una isola del qual fiume si dice trovarsi una casa grande fabricata tutta d'oro. E come il signor governatore mandò all'imperadore la parte dell'oro e argento aspettante a sua Maestà, quali furono discaricati in Sibilia con grande admirazione di tutta la città.

Questo non voglio restar di dire, che disse il cacique Atabalipa che era un paese detto Collao, dove è un fiume molto grande, nel quale è una isola dove sono certe case, tra le quali n'era una molto grande tutta coperta d'oro, fatto in modo di paglia, della quale alcuni Indiani venuti da quell'isola ne portarono una brancata; li travi e tutto il resto ch'era in casa, tutta era coperta di piastre d'oro, e che v'era il pavimento fatto con grani d'oro, cosí come lo trovavano nelle minere. E questo udi' dire al cacique e alli suoi Indiani, che erano di quella terra venuti a vederlo, presente il signor governatore. Disse di piú il cacique che l'oro che si cava di quel fiume non lo ricogliono con bateas, che sono a modo d'uno bacil da barbiere con li manichi, dove lavano l'oro nell'acqua; anzi fanno in questo modo, che mettono la terra cavata della minera in un luogo a modo d'una fossa appresso l'acqua, e con una ruota cavano l'acqua del fiume e la fanno andar in quella fossa, e cosí lavano la terra: la qual lavata levano via l'acqua e ricogliono i grani dell'oro, che sono molti e grandi. E questo io l'ho udito dire molte volte, perchè tutti quelli Indiani della terra di Collao, li quali io domandavo, dicevano cosí esser la verità.
Il governator Francesco Pizarro dette a noi che venivamo in Castiglia tutto l'oro e l'argento che era della parte della Maestà dell'imperadore. E dalla provincia del Cusco over del Perú, donde partimmo per andare ad imbarcarci alla marina, camminammo dugento leghe per terra, dove arrivati montammo in nave e navigammo per il mare del Sur fino al porto della città di Panama in quindeci giorni, dove dismontati fummo accettati con grandissima allegrezza e ammirazione di tutti, per la gran quantità dell'oro che viddero. Il signor governatore Pedrarias ci providde di tutte le cose necessarie per portar detto oro e argento quelle ottanta miglia per terra fino alla città del Nome di Dio, che è sopra l'altro mar del Nort, che vien in Spagna, come nel principio di questo libro è detto. Giunti che fummo alla città del Nome di Dio e imbarcati, venimmo all'isola Spagnuola e arrivammo alla città di San Domenico, che è nella parte dell'isola che guarda verso mezzodí: e questo viaggio facemmo in otto giorni. Dove, tolti li rinfrescamenti necessarii per venir alla volta di Spagna, voltammo le prore verso levante, tenendole sempre tra greco e levante, e navigammo da cinquantadui giorni, e facemmo 1350 leghe fino alli liti di Spagna, dove è San Luca di Barameda in sul fiume di Guadachibir, secondo la ragione che facevano li pilotti nostri, ancorchè io penso che fussero molte piú: e avemmo buonissimo tempo, e arrivammo alla città di Sibilia, dove tutte le navi sogliono discaricare le robbe che portano dall'Indie. In questo viaggio dall'isola Spagnuola non toccammo se non l'isole delle Canarie, ancorchè alcuni tocchino l'isole degli Azori, e come fummo allontanati da terra cinquecento in seicento miglia, trovammo il mar basso, né dubitammo piú di fortuna, perchè i venti non fanno fortuna se non appresso terra, cioè appresso l'isola Spagnuola over appresso i liti di Spagna, dove il mar è profondissimo; e navigammo gran parte con l'instrumento del quadrante, con il sole, finchè, appressandoci al nostro abitabile, cominciammo a reggerci con la tramontana. Questa navigazione è molto sicura, per infiniti pilotti che sono pratichi di quella. Arrivammo in Sibilia alli quindeci giorni di gennaio 1534, dove furono discaricati tutti gli ori e argenti, con grandissima ammirazione di tutta la città e d'infiniti mercatanti fiorentini, genovesi e veniziani, li quali tutti corsono a veder tal cosa: e dipoi, avendone scritto per il mondo, io non ne dirò altro, salvo che tutti noi con la parte delli nostri ori partimmo e andammo a casa nostra, dove fummo ricevuti con quella allegrezza che ognun si può pensare.




La conquista del Perù e provincia del Cusco, chiamata la Nuova Castiglia, scritta e drizzata a sua Maestà da Francesco di Xerez, secretario del capitan Francesco Pizarro, che questi luoghi conquistò.


Proemio


Perchè in gloria di Dio e onore e servigio della Maestà cesarea i fideli si rallegrino e gli infedeli si spaventino, poichè la providenza divina e la fortuna dell'imperator nostro e militare disciplina della nazione spagnuola hanno a questi tempi nostri fatto cose che per sempre ne resterà memoria, mi è paruto di non tacerle, ma di scriverle e mandarle a sua Maestà, acciochè a tutti sia noto come col favor divino si sono alla nostra santa fede recate infinite genti, sotto l'obbedienza del re nostro signore. Non si legge che mai, né appresso gli antichi né appresso i moderni, cosí grande e strana impresa si facesse di cosí poca gente contra tante, né che tanti e cosí gran mari si solcassero, né che s'andasse a conquistar terra che non si sapesse né se ne avesse notizia alcuna. Chi adunque s'agguaglierà con le genti di Spagna? Non i Giudei certo, non i Greci, non i Romani, de' quali piú che di tutti gli altri si scrive, perchè, se i Romani soggiogarono tante provincie, lo fecero con uguale o poco meno numero di gente, e in terre cognite e fornite di vettovaglie ordinarie, e con capitani ed eserciti pagati: là dove i nostri Spagnuoli sempre sono stati pochi in numero, che mai furono insieme piú che dugento o trecento, e qualche volta cento e meno anco, e il maggior numero, che non fu qui che una sola volta col capitan Pedrarias venti anni adietro, fu di 1300; e quelli che vi sono in diverse volte andati non sono stati né pagati né forzati, ma vi sono di lor propria volontà andati e alle lor proprie spese. E a questo modo hanno a' tempi nostri conquistata piú terra che non è quella che prima si sapea che tutti i prencipi cristiani e infedeli possedessero, e vi sono mantenuti e vissuti con cibi bestiali, di quelli che non avevano notizia alcuna né di pane né di vino, e con soffrire e mangiare erbe, radice e frutti hanno conquistato quello che già per tutto il mondo si sa. E per questo non scriverò al presente altro che il successo della conquista della Nuova Castiglia, e per non esser prolisso mi forzerò di scriverlo con la maggior brevità che sarà possibile.


Il Pizarro parte della città di Panama e va a discoprire terre nuove. Giunse ad un porto, quale, per avervi molto patito, lo domanda Porto della Fame. Scorrendo poi giunge ad una terra, dove contra gl'Indiani combattendo, doppo aver ricevuto molte ferite e gran danno ne' suoi, fa ritorno nella provincia di Panama.

Essendo stato discoperto il mare del Sur, cioè di mezzogiorno, e conquistati e pacificati gli Indiani di terra ferma, e avendo il governatore Pedrarias d'Avilla fatto abitare la città di Panama e la città di Natai e la terra che chiamano Nome di Dio, viveva nella città di Panama il capitan Francesco Pizarro, figliuolo del capitan Gonzalo Pizarro, cavaliero della città di Trugillo. Ora questo capitan Francesco stava molto bene in casa sua, con le molte sue facultà e col compartimento degl'Indiani, come un de' principali di quella terra, come sempre vi fu, essendosi segnalato nella conquista e nelle altre cose del servigio di sua Maestà. E stando in questa quiete e riposo, perchè sempre avea un pensiero di far segnalati servigi alla corona reale di Spagna, chiese licenzia a Pedrarias di poter andare a discoprire nuove terre per quella costiera del mar del Sur verso levante, e avutala spese gran parte della sua facultà in un gran vassello che fece e in altre cose necessarie per quel viaggio. Egli si partí poi di Panama a' 14 di novembre del 1524, menando seco una compagnia di 112 Spagnuoli, co' quali andavano alcuni Indiani per lor servigi: e in questo viaggio passarono molti travagli, per esser l'inverno e i tempi contrari. Lascio di dire molte cose che succedettero, per non esser lungo, onde solamente quelle cose toccherò che sono piú notabili e che piú fanno al proposito nostro.
In capo di 70 giorni doppo che di Panama uscirono, saltarono in terra in un porto che lo chiamarono poi della Fame, perchè in molti altri porti che avevano ritrovati prima non v'avevano ritrovato popolo né abitazione, e perciò gli avevano lasciati, e in questo porto si fermò il capitano con ottanta uomini, essendo già il resto morti; e avendosi già fornite le vettovaglie, perchè in quella terra non ve n'erano, mandò il capitano il vassello con li marinari e con un capitano all'isola delle Perle, che sta ne' confiní di Panama, acciochè portasse da mangiare per tutti, credendo dover essere di queste vettovaglie soccorso fra 10 o 12 giorni. Ma perchè la fortuna sempre o il piú delle volte è contraria, stette la nave 47 giorni ad andare e tornare, e in questo mezzo il capitan co' suoi si mantennero con certe cose maritime che raccoglievano con gran fatica in quella costiera di mare, e alcuni cosí deboli stavano che col procacciarsi questo vitto morivano, di modo che mentre la nave non ritornò morirono da venti uomini; e quelli che con la nave ritornarono dissero che all'andare, essendo lor mancato la vettovaglia, aveano mangiato un cuoio di vacca fatto a borsa e legato alla tromba da cacciar l'acqua della nave, e che se l'avevano cotto e compartito fra loro. Ora, con la provisione che la nave portò, che fu di maiz e di porci, si ristorò la gente che restava viva, e cosí il capitan, seguendo il suo viaggio, giunse ad una terra situata e posta sopra il mar in un alto e forte luogo, e circondata d'un certo mezzo bastione: qui ritrovarono assai provisione da mangiare, perchè il popolo era fuggito via e avea abbandonata la terra. Il dí seguente venne molta gente di guerra bene armata, e si mostrarono bellicosi, onde facilmente i nostri, che stavano deboli per la fame e travagli passati, furono rotti da loro, e il capitano v'ebbe sette ferite, la minore delle quali era pericolosa a morte: e gl'Indiani che ferito l'aveano, credendo ch'egli fosse morto, lo lasciarono. Furono anco con lui feriti 17 de' suoi, e 5 altri morti. Il capitan, veggendo questa rovina, e quanto poco rimedio avea qui da poter curarsi e da rifar le sue genti, s'imbarcò e ritornossene nella provincia di Panama, e smontò in una terra d'Indiani chiamata Cucama, presso all'isola delle Perle. Da questo luogo ne mandò il vassello in Panama, perchè non si poteva piú sostenere sopra l'acqua, per la molta broma che fatta avea; fece intendere a Pedrarias quanto successo gli era, ed esso si restò in quel luogo curandosi co' suoi compagni.


Diego d'Almagro, combattendo nella terra dove fu rotto il Pizarro, vi perde un occhio. Costeggiando perviene al fiume San Giovanni; unito poi con l'armata del Pizarro, doppo aver errato tre anni in quella costiera, scuoprono la terra di Canzebi, nella quale ritrovano molte terre abitate e ricche di oro.

Pochi dí prima che ritornasse questo vassello in Panama, era partito per seguire e cercare del Pizarro il capitan Diego d'Almagro suo compagno, con un'altra nave e con settanta uomini. Costui navigò fin che giunse alla terra dove era stato il Pizarro rotto, e venuto anch'esso con quegli Indiani alle mani, fu medesimamente disbarattato, ed esso vi perdé un occhio, e vi furono molti cristiani feriti: ma alla fine, pur con tutto questo, i nostri fecero agli avversarii lasciare la terra e v'attaccarono fuoco. Indi imbarcati costeggiarono oltre fin che giunsero ad un gran fiume, che lo chiamarono di San Giovanni, perchè nel dí di questo santo vi giunsero, e qui ritrovarono qualche mostra d'oro; ma perchè non ritrovavano vestigio del capitan Pizarro, se ne ritornarono adietro e lo ritrovarono in Cucama. Qui conclusero che il capitan Almagro se n'andasse in Panama e racconciasse le navi e facesse piú gente, per dover questa impresa seguire e fornire di spendervi quello che loro avanzava, che già si aveano fatto debito piú di 10 mila castigliani. In Panama ebbero molti contrasti, perchè il Pedrarias e altri dicevano che non si dovesse in tal viaggio procedere, dove non era sua Maestà servita; ma il capitan Almagro, con la potestà che del suo compagno portava, si mantenne con molta constanza nel primo proposito, e richiese il governator Pedrarias e li protestò che non disturbasse, perchè essi credevano con lo aiuto di Dio far in quel viaggio gran servigio a sua Maestà: e cosí fu forzato il governatore a consentirgli che facesse gente.
Costui adunque si partí di Panama con 110 uomini, e se n'andò dove il capitan Pizarro l'aspettava con altri cinquanta, che gli erano di quei primi avanzati, cosí degli 110 suoi come degli settanta del capitan Almagro, perchè gli altri 130 eran restati già morti. Ora con questi 160 uomini sopra le due navi si partirono questi due capitani, e costeggiando quella terra, dove pensavano che fossero abitazioni e popoli, smontavano con tre canoe che conducevano, nelle quali sessanta uomini remavano, e a questo modo s'andavano procacciando le vettovaglie. In questa guisa andarono tre anni, passando gran travagli e fame e freddo, e di fame morí la maggior parte delle genti, intanto che non ne restarono cinquanta vivi: e fino in capo delli tre anni non discopersero terra buona, perchè tutti quegli altri luoghi che passarono erano paludosi, pieni di fangacci e inabitabili. E questa buona terra che discopersero fu presso al fiume di S. Giovanni, dove il capitan Pizarro si restò in terra con quelle poche genti che gli avanzava, e mandò un capitano de' suoi col piú picciol vassello a discoprire qualche miglior terra per la costiera avanti, e l'altra nave mandò col capitano Almagro in Panama a condur piú gente, perchè, andando di compagnia li due vasselli e con tutta la gente, non potevano discoprire e la gente si moriva tutta. Il legno che passò avanti a discoprire ritornò in capo di settanta giorni al fiume di S. Giovanni, dove era il Pizarro restato, e diede relazione di quanto successo gli era, e come era giunto fino alla terra di Cancebi, che è in quella costiera, e che prima avevano anco molte altre terre vedute assai ricche d'oro e d'argento, con le genti piú ragionevoli di quante n'avevano prima in quelle Indie vedute: e menarono sei persone di quella contrada, perchè apprendessero la lingua spagnuola, e portarono oro e argento e robba. Il capitano, con gli altri che seco restati erano, sentirono tanto piacere di questa nuova che tutti li travagli passati si dimenticarono, e diedero per bene impiegata la spesa che in quel lungo viaggio fatta avevano. E desiderosi di ritrovarsi in quella cosí buona terra, tosto che il capitano Almagro ritornò di Panama con la nave carica di gente e cavalli, si partirono con amendue le navi dal fiume di S. Giovanni, e perchè era molto travagliata la navigazione di quella costiera, penarono a giungere dove essi andavano piú tempo di quello che erano provisionati: e fu perciò sforzata la gente a saltare in terra, e camminando per quelle contrade a procacciarsi da vivere, dove avere lo potevano. Le due navi navigando giunsero al porto di S. Matteo, e a certe terre alle quali posero gli Spagnuoli nome San Giacomo, e alle terre anco di Tacamez, che tutti vanno discorrendo per la costiera avanti. I nostri, veggendo esser queste terre e abitazioni grande e piene di gente bellicosa, ne furono lieti. E giunti 90 Spagnuoli una lega lungi da una di quelle terre di Tacamez, uscirono loro incontra piú di diecimila Indiani da guerra, i quali, veggendo che i nostri non erano per far lor male alcuno, anzi che con molto amore contrattavano con loro la pace, deposero l'armi e l'animo di guerreggiare. In questa terra erano molte vettovaglie, e le genti con assai buono ordine vivevano; e avevano tutte queste terre le loro strade e piazze, e v'era terra che aveva piú di tremila case, e altre meno.


S'assicurarono nell'isola del Gallo, e mandano per nuova gente, con la quale scuoprono per la costiera piú di cento leghe di paese ricco e abitato. Se ne va il Pizarro in Castiglia, e per tanto servizio ne è molto da sua Maestà rimunerato. Passa di nuovo alla terra scoperta, ed entrato nel porto San Matteo, e di quivi a Coache, vanno all'isola Pugna, detta S. Giacomo, nella quale acquistano molto oro, dopo aver combattuto contro gl'Indiani ribellati e preso il lor cacique.

Parve alli capitani e agli altri Spagnuoli che, essendo cosí pochi, non avrebbono fatto frutto alcuno in quella contrada, perchè non avrebbono potuto con tutti quelli Indiani resistere, e perciò deliberarono di porre su le navi della provisione che quivi ritrovavano e ritornarsi adietro in una isola chiamata del Gallo, perchè ivi potevano stare sicuri mentre che le navi andavano in Panama, a dar notizia al governatore di queste terre nuovamente discoperte e a chiederli piú gente, perchè essi l'intento loro proseguire potessero e pacificare quella terra. E con le navi andò il capitano Almagro, perchè era stato scritto da alcuni al governatore che facesse ritornar quelle genti a Panama, perchè non potevano ormai piú soffrire i travagli che in tre anni sofferti avevano in quel discoprimento, e il governatore a questo modo vi provedette, che quelli che volevano venir a Panama potessero venirvi, e quelli che restar volessero per discoprire piú oltre si restassero: e cosí col Pizarro restarono sedeci uomini, e tutta l'altra gente se ne ritornò con le due navi in Panama. Stette il capitan Pizarro in quella isola cinque mesi, finchè una delle navi ritornò, e con essa andarono cento leghe piú oltre di quello che discoperto aveano, e ritrovarono molti popoli e molte ricchezze, e portarono piú mostra d'oro e d'argento e d'altre cose di quello che avevano prima fatto: e gl'Indiani stessi di lor volontà gliele davano. Ma il capitano si ritornò adietro, perchè s'andava fornendo il termine che gli aveva il governatore imposto, e appunto nell'ultimo dí del termine entrò nel porto di Panama.
Ritrovandosi questi duoi capitani aver speso tanto che non potevano piú sostentarsi, per avere ancora grandissimo debito, dove il capitan Francesco Pizarro, con poco piú di mille castigliani che ritrovò dagli amici in presto, se ne venne in Castiglia, e fece relazione a sua Maestà delli segnalati e gran servizii che a lei fatti aveva. Per il che ella per gratificarselo gli fece grazia del governo e adelantado di quella terra che aveva discoperta, e dell'abito di San Giacomo, e d'essere alcayde e algozil maggior, e altre grazie e rifacimento di spese gli furono fatte, come ad imperatore e re si conviene, e che a tutti quelli che lo servono è solito fare: e per questa causa gli altri si sono disposti sempre a spender le loro facultà in suo real servigio, discoprendo varii luoghi per quel mare Oceano da ogni banda.
Essendo già stato spedito da sua Maestà, il governator e adelantado Francesco Pizarro si partí con una armata dal porto di San Lucar, e con prospero vento senza altro impedimento giunse al porto del Nome di Dio; e indi se n'andò con la gente alla città di Panama, dove ebbe molti contrasti e disturbi perchè non andasse ad abitare quella terra che avea discoperta, secondo che gli aveva sua Maestà ordinato. Ma con la costanza che egli in questo negozio ebbe, e con le piú genti che puoté, che furono 180 uomini e 37 cavalli, con tre navi si partí di Panama, e cosí prospera navigazione ebbe che in tredeci giorni giunse nel porto di San Matteo, dove ne' principii, quando si discoperse, non vi poterono in piú di duoi anni giungere. Ismontate qui le genti e i cavalli, si mossero per la costiera del mare, e in tutte le terre ritrovavano la gente ribellata e in arme. Camminarono a questo modo finchè giunsero ad una gran terra chiamata Coache, alla quale diedero d'un subito sopra, acciochè non si ribellasse e si ponesse in arme come l'altre fatto aveano: e qui guadagnarono in oro la valuta di quindecimila castigliani, e 750 libre d'argento, e molte pietre di smeraldi, che i nostri, non conoscendole allora e non stimandole di valore alcuno, le cambiavano con gl'Indiani, e che loro all'incontro davano veste e altre cose. In questa terra presero il cacique che n'era signore con altre sue genti, e vi ritrovarono robbe di varie sorti, e tante vettovaglie che vi si potevano mantener questi Spagnuoli tre o quattro anni. Da questa terra di Coache mandò il governatore le tre navi alla volta di Panama e di Nicoragua, perchè conducessero piú gente e cavalli, e si potesse effettuare la conquista e pacificazione di quelli luoghi. Esso si restò in quella terra con le genti riposandovi alcun giorno, finchè due delle navi ritornarono da Panama con ventisei da cavallo, trenta da piedi. E tosto poi il governatore con tutte le genti si partí per la costiera avanti, che è tutta molto abitata e popolata, e l'andava ponendo sotto la signoria dell'imperator nostro signor, perchè li signori di questi popoli tutti d'un volere uscivano per le strade a ricever il governatore, senza porsi altramente in difesa: e il governatore senza far lor male alcuno gli riceveva tutti amorevolmente, e faceva loro, per mezzo d'alcuni religiosi che a questo effetto menava, intendere alcuna cosa della fede nostra per tirargli alla salute.
E cosí andò il governatore con la gente spagnuola, finchè giunse ad un'isola che si chiamava la Pugna, e i nostri la chiamarono di San Giacomo, e sta due leghe lungi da terra ferma. Perchè questa isola era assai popolata e ricca e copiosa di vettovaglia, vi passò il governatore con le due navi, e vi fece passar i cavalli con certe scafe di legno che gli Indiani avevano. Fu il governatore ricevuto in questa isola dal cacique che n'era signore con molta allegrezza e carezze, cosí di vettovaglie che per il camino fece portarli, come di musiche di diversi istromenti, che essi per loro ricreazione tengono. Questa isola gira quindeci leghe intorno, ed è fertile e assai bene abitata, perchè vi sono molte terre, delle quali ne sono signori sette caciqui; ma uno ne è poi signor di tutti gli altri, il quale di sua volontà diede al governatore una certa quantità d'oro e d'argento. Qui perchè era già inverno il governator si fermò, perchè caminando in tal tempo, per l'acque che faceano, e averebbero gran disagio i nostri sentito, tanto piú che qui agiatamente si potevano alcuni cristiani infermi curare. Ma, perchè gl'Indiani non sono inclinati a dover obedire né servire ad altra nazione se non per forza, mentre che questo cacique pacificamente viveva co' nostri, essendosi già fatto vassallo di sua Maestà, il governator Pizarro intese da certi interpreti che seco avea come il cacique aveva ragunate tutte le sue genti da guerra, e che da molti giorni adietro non attendeva ad altro che a fare molto piú arme di quelle che i suoi avevano. Il che con gli occhi proprii si vidde, perchè nella terra stessa dove i nostri stavano si ritrovarono in casa del cacique e di molti altri molte genti, tutte in punto per guerreggiare: e non aspettavano altro se non che tutta la gente dell'isola si ragunasse insieme, perchè volevano quella stessa notte dare sopra i cristiani. Il governatore, quando si fu secretamente informato di questa verità, fece tosto prendere il cacique e tre suoi figliuoli e due altri principali, che si poterono prender vivi, e in un subito i nostri assaltarono l'altra gente e n'ammazzarono molti; gli altri fuggirono e lasciarono la terra, onde fu la casa del cacique con molte altre poste a sacco, e vi fu ritrovata qualche quantità d'oro e d'argento e molta robba.
La notte seguente stettero i nostri con buone guardie e tutti vigilanti (che erano settanta da cavallo e cento da piè), e prima che il dí chiaro della mattina venisse s'udirono gridi come di gente di guerra, e poco appresso si vidde venire un gran numero d'Indiani armati, e con tamburi sordi e altri instromenti che nella guerra portare solevano, e venivano compartiti in modo che si ponevano il campo de' cristiani in mezzo. Venuto il dí chiaro, il governatore comandò a' suoi che animosamente dessero sopra i nemici, e cosí fu fatto, ma nel primo assalto vi restarono alcuni cristiani e cavalli feriti. Ma, perchè il nostro Signore favorisce e soccorre nelle necessità quelli che nel suo servigio vanno, gl'Indiani furono rotti e si posero in fuga, e i nostri da cavallo seguirono un pezzo la vittoria; poi se ne ritornarono alli alloggiamenti, perchè i cavalli erano stanchi, avendo dalla mattina fino a mezzogiorno la vittoria seguita. Il giorno seguente il governatore divise in squadre le genti sue e mandò a cercar per l'isola gli nemici e a fare lor guerra, la quale si fece venti giorni continui, e ne restarono gl'Indiani ben castigati. E a dieci principali di loro, che furono col cacique presi, fece il governatore mozzare il capo, perchè costui confessò che essi gli avevano consigliato quel tradimento, e che non aveva potuto loro impedirlo e vietarlo; e alcuni altri fece brucciare.


Pongono in libertà il cacique per pacificare l'isola di San Giacomo; passano nella città di Tumbez, la ritrovarono ribellata, e con poca guerra di nuovo la conquistano.

Per questa ribellione e tradimento ordinato si fece agl'Indiani dell'isola di S. Giacomo la guerra, finchè tanto astretti e oppressi si ritrovarono che abbandonarono l'isola e se ne passarono in terra ferma; ma perchè l'isola era cosí copiosa e ricca, acciochè non si distruggesse del tutto, il governatore pose in libertà il cacique, perchè riunisse e raccogliesse la gente che andava dispersa, e si ritornasse l'isola a popolare. Il cacique, per l'onore che gli era stato fatto nella sua presura, fu molto contento di fare quanto il governatore voleva, e di volere indi avanti servire a sua Maestà. Ma perchè in quella isola non si potea far frutto, si partí il Pizarro con alcuni Spagnuoli e cavalli, che in tre navi che ivi erano poterono andare, per essere alla città di Tumbez, che allora in pace si ritrovava, lasciando nell'isola un capitano con l'altra gente, finchè vi ritornassero le navi a prenderli: e perchè piú presto passassero queste sue genti in terra, fece venire da Tumbez certe barchette, in una delle quali s'imbarcarono tre cristiani con certa robba. In tre dí giunsero le navi alla piaggia di Tumbez, dove, tosto che il governator smontò, ritrovò gl'Indiani in arme e ribellati, e s'intese da alcuni Indiani che presi furono come i tre cristiani, che con la barchetta erano venuti in terra prima, erano stati con tutte le lor robbe presi e menati via. Smontate che furono tutte le genti e cavalli, mandò tosto il governatore di nuovo quelli vasselli all'isola, per condurre l'altre genti che restate v'erano, ed esso, con quelli che seco aveva, andò ad alloggiare nella terra in due case forti, l'una delle quali era a modo di fortezza. E poi comandò a' suoi che corressero la campagna e montassero per un fiume in su, che fra quelle terre discorre, per avere nuove delli tre cristiani e salvarli prima che gl'Indiani gli ammazzassero; ma, ancorchè molta diligenza vi fosse fatta, non se ne puoté aver mai nuova. Il governatore, avendo presi certi Indiani, li mandò per ambasciadori al cacique e ad alcuni altri principali, che s'erano posti in due scafe con quella piú vettovaglia che avere potuto avevano, e li fece richiedere da parte di sua Maestà che venissero alla pace e menassero li tre cristiani vivi, senza fare lor male né danno alcuno, che esso gli avrebbe ricevuti per vassalli di sua Maestà, benchè ribellati si fussero; altramente gli avrebbe fatta la guerra a fuoco e a sangue, finchè distrutti e rovinati gli avesse. Passorono alcuni giorni che non volsero mai venire, anzi s'insuperbivano e facevansi forti dall'altra parte del fiume, che andava grosso e non si poteva guazzare; e dicevano a' nostri che passassero dall'altra parte, dove essi erano, che avrebbon lor fatto come agli altri tre fatto avevano, che gli avevano già morti. Giunta che fu in terra tutta la gente che nell'isola restata era, il governatore fece fare un gran barcone di legni, e per il miglior passo del fiume mandò dall'altra ripa a smontare un capitano con quaranta da cavallo e ottanta da piedi: e durarono a passare tutte queste genti, con quella barca, dalla mattina fino ad ora di vespro. E comandò a quel capitano che facesse a quelli Indiani la guerra, poichè erano ribelli e avevano morti tre cristiani, e che se, poichè castigati gli avesse secondo che il lor fallo meritava, venissero alla pace, gli ricevesse come sua Maestà comandava.
Questo capitano, passato che ebbe il fiume con le sue guide che menava, camminò tutta la notte verso dove li nemici erano, e la mattina diede lor sopra, e vincendoli seguí tutto quel giorno la vittoria, ammazzando e ferendo e facendo prigioni tutti quelli che puoté aver vivi in mano. Ed essendo già presso a notte, si raccolsero i nostri in una terra; la mattina poi, divisi in quadriglie, si mossero a cercare di quelli nemici vinti, che assai bene castigati restarono. Il capitano, che vedeva che doveva bastare il danno che lor fatto aveva, mandò a chiamar il cacique alla pace; ed egli, che si chiamava Chilimassa, mandò col nostro messo un suo principale a rispondere che, per la molta paura che delli Spagnuoli aveva, non aveva ardimento di venire, ma che, essendo certo che non l'ammazzarebbono, sarebbe volentieri venuto alla pace. Il capitan disse allora che non gli si farebbe male né danno alcuno, e che perciò venisse senza paura, che il governatore l'avrebbe benignamente raccolto in pace per vassallo di sua Maestà, e gli avrebbe il suo errore perdonato. Con questa sicurtà, benchè con molto timore, venne il cacique con alcuni principali de' suoi, e fu allegramente dal capitano ricevuto, che li disse che a quelli che venivano di pace non si doveva far danno, ancorchè ribellati prima si fussero, e che, poichè esso venuto era, non li farebbe piú guerra di quella che fatta gli aveva, e che perciò facesse sicuramente ritornare alle terre le genti sue. Fatto levare via dall'altra parte del fiume quella vettovaglia e provisione che vi ritrovò, menandone seco il cacique con gli altri Indiani principali, se ne ritornò con le genti sue dove aveva lasciato il governatore e li raccontò quanto fatto aveva. Ed egli, ringraziando nostro Signore che cosí bella vettoria data gli avesse senza esservi niun cristiano ferito, mandò a riposare quelli che avevano travagliato; poi dimandò il cacique perchè si fusse ribellato e avesse morti li cristiani, essendo da lui stato cosí ben trattato: perchè esso credeva che avendoli restituita gran parte delle sue genti, che il cacique della isola gli aveva preso, e dateli in mano quelli capitani che gli avevano la sua città brucciata, perchè ne facesse giustizia, averlo dovuto ritrovare di tanti beneficii grato e fedele. Il cacique rispose queste parole: "Io seppi da certi miei principali che avevano morti i tre cristiani della barchetta, ma non vi fui io già partecipe, e per questo temette che non m'aveste a dare a me la colpa". Disse allora il governatore: "Fammi venire qua questi principali che questo fecero, e venga tutta la tua gente ad abitare le sue terre". Il cacique mandò a chiamare le sue genti, e disse che non si potevano avere in mano quelli che avevano i cristiani morti, perchè s'erano da quella provincia allontanati.
Stato che fu il governatore alcuni giorni in quel luogo, veggendo che non si potevano quelli omicidiali avere, e che tutta la città di Tumbez stava rovinata e quasi desolata di gente, e che in questa provincia non erano piú Indiani di quelli che stavano a questo cacique soggetti, deliberò di partirsi con alcune genti da piedi e da cavallo, per ritrovare un'altra contrada piú popolata d'Indiani per far ivi una nuova terra. Pare gran cosa che si sia cosí disabitata Tumbez, per alcuni belli edificii che si veggono che aveva, con duoi palazzi cinti attorno con duoi muri di terra, e con li loro cortili e stanze e porte con difese, che fra Indiani erano buone fortezze. Ma dicono gl'Indiani stessi di quel luogo che erano stati cosí distrutti da una gran pestilenza che stata v'era, e dalla guerra che aveva lor fatta il cacique dell'isola. Ora il governatore, lasciando qui un suo luogotenente con alquanti cristiani in guardia delle bagaglie e delle robbe che acquistate fino a quel giorno avevano, si partí col resto delle genti, mentre che il cacique pacifico faceva riabitare le sue terre.


Partono della terra di Tumbez per scoprir altro popolo, e pervengono al fiume Turcicarami, e si fermano in Puechio, dove dal popolo sono con buon animo di servire ricevuti. Muovono guerra ad alcuni disobedienti, e fanno ardere il cacique Almotaxe con alcuni suoi principali, e in Tangarara edificano la terra di San Michele.

Il primo dí che il governator Pizarro si partí di Tumbez, che fu a' sedeci di maggio del 1532, giunse ad una terra picciola; il terzo giorno poi giunse ad una terra posta fra certi monti, il cui cacique fu chiamato Giovanni. Quivi si riposò tre giorni, e in tre altre giornate poi giunse alla riva d'un fiume, che assai popolata stava, e fornita delle vettovaglie ordinarie di quella terra e di greggi di pecore. Il cammino che a questi luoghi conduceva era tutto fatto a mano, largo e ben lavorato, e alcuni passi cattivi erano conci con le lor belle spianate. Giunto a questo fiume, che il chiamano Turicarami, drizzò e fermò gli suoi alloggiamenti in una grossa terra chiamata Puechio, e la maggior parte delli caciqui che erano per lo fiume in giú vennero di pace al governatore, e il popolo di Puechio gli uscí incontra a riceverlo nel cammino: ed esso ricevette tutti con molto amore, e notificò loro quello che sua Maestà comandava, per tirargli nella sua obedienza e nel conoscimento della santa catolica fede. Il che quando essi per mezzo degli interpreti intesero, dissero che volevano volentieri esser suoi vassalli, e il governatore per tali gli ricevette, con quella solennità che si richiedeva, e n'ebbe vettovaglie e servizii.
Un tiro di balestra prima che a questa terra si giunga, è una gran piazza con una fortezza cinta d'intorno e con molte stanze dentro, dove li cristiani alloggiarono, per non dar peso né fastidio agl'Indiani. E il governator fece andar bando fra i suoi, sotto gravi pene, che cosí a questi come a tutti gli altri che come amici venissero si dovesse aver rispetto, senza far lor danno alcuno, cosí nelle persone come nelle robbe, e senza tuor loro cosa alcuna da mangiare di piú di quello che essi da se stessi darebbono per sostentamento de' cristiani; e che avrebbe tosto eseguito il castigo in coloro che il contrario fatto avessero, perchè ogni dí quelli Indiani portavano tutto quello che a' nostri era necessario per la vita, ed erbe per li cavalli, e servivano in tutto quello che loro si comandava. Ora, veggendo il governatore che la riviera di quel fiume era copiosa e ben popolata, ordinò che si vedesse tutta la provincia, e se vi fosse in quel pareggio buon porto: e fu ritrovato che era un buon porto alla costiera del mar presso a questo fiume, e che v'erano cosí dapresso caciqui e signori di molta gente, che potevano venire a servire commodamente a chi avesse presso a questo fiume fatta residenzia. Il governatore andò visitando tutti questi popoli, e, veduti che gli ebbe, disse che questa gli pareva una buona provincia da dovere abitarsi da' Spagnuoli, perchè si compisse quello che sua Maestà comandava, e gli Indiani della contrada si convertissero e venissero al conoscimento della santa fede catolica. E cosí mandò a far venire gli Spagnuoli che eran restati in Tumbez, acciochè col consiglio de' principali si facesse il popolo e la città nel piú conveniente luogo, per servigio di sua Maestà e per il bene de' paesani. E mandato che ebbe questo messo, gli parve che sarebbe tardata soverchio la lor venuta, se non v'avesse mandata persona alla quale il cacique e gli Indiani di Tumbez avessero avuto rispetto e n'avessero tenuto, per aiutare a condurre i nostri, e cosí per questo effetto vi mandò per capitan generale Fernando Pizarro suo fratello.
Appresso a questo il governatore intese che certi caciqui che vivevano nella montagna non volevano pace con cristiani, ancorchè ne fossero stati richiesti da parte di sua Maestà, e perciò vi mandò tosto un capitano con venticinque da cavallo e con altre genti da piedi, per trarli al servigio della Maestà cesarea. Questo capitan che v'andò li ritrovò già usciti e partiti dalle terre loro; mandò a richiederli di pace, e ritrovandoli ostinati alla guerra andò lor sopra, e in breve tempo, ferendoli e ammazzandoli, li pose in rotta e rovina. Il capitan ritornò di nuovo a richiederli e chiamarli alla pace, che altramente avrebbe lor fatto la guerra finchè gli avesse a fatto distrutti: allora vennero alla pace, e furono ben ricevuti e visti dal capitano, il quale, lasciando quella provincia in pace, se ne ritornò con quelli caciqui dove il governatore stava, che anco con molto amore li ricevette, e gli fece poi ritornare alle terre loro, perchè richiamassero i loro Indiani che dispersi andavano. Il capitano diede nuova come nelle terre di questi caciqui delle montagne avevano ritrovato minere d'oro fino, e che gl'Indiani di que' luoghi lo raccoglievano (e ne portò la mostra), e che stavano venti leghe lungi di Puechio.
Il capitano che andò a Tumbez ritornò con la gente in capo di trenta giorni, e alcuni ne ritornarono per mare con le bagaglie sopra una nave e un barcone e altre picciole barche, che erano venute di Panama con mercanzie, e non avevano condotto gente, perchè il capitan Diego d'Almagro era restato a fare una armata per venire a far questo nuovo popolo, e con pensiero di dovere da per sé nuova terra fare. Il governatore, quando intese che questi vasselli erano giunti, perchè piú tosto le bagaglie si scaricassero e si portassero su per il fiume, partí da Puecchio per il fiume in giú con alcune genti; e giunto dove era un cacique chiamato della Chira, ritrovò alcuni cristiani che erano quivi sbarcati, e si lamentavano d'essere stati da quel cacique mal trattati, e che poco avevano la notte avanti dormito per paura, perchè avevano veduti andare a compagnie e alterati quelli Indiani. Il governatore dagli Indiani stessi del paese tolse informazione di questa cosa, e ritrovò che il cacique della Chira, con suoi principali e con un altro cacique chiamato Almotaxe, aveva concertato e disegnato d'ammazzare li cristiani quel dí stesso che il governatore giunse. Onde mandò tosto secretamente a prendere Almotaxe e gli altri Indiani principali, ed esso prese quel della Chira con alcuni de' principali suoi, che confessarono tosto il delitto: e ne fu perciò fatto tosto giustizia, perchè furono posti ad ardere nel fuoco il cacique d'Almotaxe e suoi principali, con tutti li principali anco della Chira. Del cacique della Chira non fu fatta giustizia, perchè pareva che non v'avesse tanta colpa avuto, ma v'era stato dai suoi principali spinto e mezzo forzato. E perchè questi due popoli, restando senza capi, si sarebbono perduti, li restituí al cacique della Chira amendue, ammonendolo che indi avanti dovesse esser buono, perchè alla prima sua malvagità sarebbe stato castigato; e gli ordinò che riunisse tutta la gente sua e quella d'Almotaxe anco, e la reggesse e governasse, finchè un fanciullo che doveva nello stato d'Almotaxe succedere si facesse uomo. Questo castigo pose molto timore e spavento in tutta la provincia, di modo che si disfece una congiura, che si diceva che tutti quelli popoli fatta avevano, per dare un dí sopra il governatore e i suoi Spagnuoli: e d'allora avanti tutti meglio servirono e con piú timore che prima.
Doppo che il governator ebbe fatta questa giustizia e riunite tutte le genti sue con le bagaglie, che di Tumbez venute erano, vidde tutta quella provincia insieme col reverendo padre fra Vincenzo di Valverde, religioso dell'ordine di San Domenico e con gli altri ufficiali di sua Maestà; e perchè quivi erano le qualità che dovevano essere nella terra dove dovevano gli Spagnuoli fare nuovo popolo, e gl'Indiani avrebbono loro potuto servire senza parere soverchia fatica (perciochè questo principale rispetto di conservarli vuole sua Maestà che si tenga), con parere e consiglio di questo padre e degli altri ufficiali regii fondò una terra in nome di sua Maestà presso la riviera di questo fiume, sei leghe lungi dal porto del mare, dove era un cacique signore d'una terra chiamata Tangarara, che i nostri abitandola la chiamarono San Michele. E perchè i vasselli che erano venuti di Panama, col differirsi il ritorno loro, non ricevessero danno, il governatore con consiglio degli ufficiali regii fece fondere certo oro che questi caciqui e quel di Tumbez donato avevano, e cavato il quinto appartenente a sua Maestà, il resto, che era della compagnia, se lo fece il governator dalli compagni imprestare, promettendo di pagarlo del primo oro che s'avesse: e cosí lo pagò a' padroni di quelli vasselli per li lor noli, e i mercatanti, avendo le lor mercanzie spedite con questi stessi legni, se ne ritornarono adietro. Il governatore mandò ad avisare il capitan Almagro, suo compagno, quanto diservigio avesse fatto a Dio e a sua Maestà, in tentar di fare nuovi popoli per disturbarli il disegno suo. Spediti ch'egli ebbe questi vasselli, compartí fra quelli cristiani che nella colonia restar volevano le terre e l'aree e spazii da farvi le case; e perchè non vi si sarebbono potuti mantenere senza l'aiuto e servigio degl'Indiani stessi, i quali, servendo senza star compartiti, sarebbono stati assai danneggiati, con consiglio e parere del padre religioso e degli altri officiali depositò e compartí li caciqui e Indiani per li cittadini di questa nuova terra, perchè aiutassero a mantenergli, e i cristiani ammaestrassero loro nella santa fede, come sua Maestà comandava, mentre che di miglior modo non vi provedesse. Furono in questa nuova terra eletti giustizieri, rettori e altri officiali publici, alli quali furono date le instruzioni e gli ordini co' quali si fussero dovuti reggere.


Per la relazione che hanno la terra di Caxamalca esser tenuta d'Atabalipa, potentissimo cacique, vanno alla terra, e nell'entrar del paese gli sono detti molti costumi, e delle ricchezze d'Atabalipa e fatti degli Indiani. Delle terre di Pabor, Casciatran e Guacamba.

Ebbe il governator notizia che per la strada di Chinca e del Cusco erano molte terre e grandi e copiose e ricche, e che a dodeci giornate da quella terra dove egli stava era una valle ben abitata chiamata Caxamalca, dove risedeva Atabalipa, che era il maggior signore che in quel tempo in quelle parti fosse, al quale tutti gli altri obedivano; e che era molto lontano dalla sua patria venuto, sempre conquistando e soggiogando nuovi popoli, e che, giunto alla provincia di Caxamalca, per averla cosí ricca e deliziosa ritrovata, vi si fermò con la sua residenza, ma da quel luogo andava sempre nuove terre conquistando. Era questo signor cosí temuto da tutti, che i popoli di questo fiume dove s'erano i nostri fermati non stavano cosí ben nel servigio di sua Maestà come bisognava, perchè si favorivano con questo Atabalipa, e dicevano non aver altro signore che lui, e che una picciola parte del suo esercito bastava ad uccider tutti i cristiani, e che con la sua solita crudeltà spaventava il mondo. Il governatore, che tutte queste cose intendeva, deliberò di partirsi e andar a cercar di questo Atabalipa, per tirarlo al servigio di sua Maestà e per pacificare le provincie per mezzo di lui, perciochè, quando avesse costui conquistato, facilmente si sarebbe pacificato e posto quiete al resto. Si partí adunque dalla città di San Michele per dover far questo effetto a' ventiquattro di settembre del 1532.
Nel primo dí di questo suo viaggio, passarono il fiume i suoi con due barche piene, e i cavalli nuotando, e quella prima notte dormirono in una terra dall'altra parte del fiume. Nelli tre giorni seguenti giunse poi alla valle di Piura, in una fortezza d'un cacique, dove ritrovò un suo capitano con certi Spagnuoli che aveva esso mandati a pacificare quel cacique, e perchè non aggravassero molto il cacique di San Michele. Quivi stette il governatore dieci giorni, provedendosi di quanto per quel viaggio bisognava, e, facendo rassegna delli suoi cristiani che conduceva, ritrovò avere sessantasette da cavallo e 110 da piedi delli quali n'erano tre schioppettieri e alcuni balestrieri. E perchè il luogotenente di San Michiele gli scrisse che quivi seco pochi cristiani restavano, fece il governatore andar bando che quelli che volevano andar ad essere cittadini di San Michele che v'andassero liberamente, che farebbe loro consegnar Indiani co' quali si fossero potuti sostentare, come s'era già fatto agli altri che in quella città restati erano, perchè egli, con quelli pochi o molti che gli avanzavano, voleva andare oltre a conquistar nuovi popoli. Per questo bando se ne ritornarono a S. Michele cinque da cavallo e quattro da piedi, di modo che con questi giunse il numero di quelli cittadini a 55, senza altri dieci o dodeci che vi restarono senza cittadinanza, e al governatore restarono 62 da cavallo e 102 da piedi. Il governatore ordinò che si provedessero d'armi quelli che non n'avevano, e pose in ordine di quanto bisognava a' balestrieri, e fece un capitano che avesse il carico di tutte queste genti che conduceva.
Provisto che ebbe a tutto il bisogno, il governatore si partí con le genti che aveva e, avendo caminato fino a mezzodí, giunse in una gran piazza circondata di un muro di terra ben fatto, ed era d'un cacique chiamato Pabor. Quivi con le sue genti si fermò, e seppe che questo cacique era gran signore, ma che allora si ritrovava rovinato, perchè il Cusco vecchio, padre d'Atabalipa, gli avea distrutte venti terre e uccisoli tutte le genti. Pure con tutto questo danno aveva molte genti, e stava con lui unito un suo fratello, cosí gran signore come esso, ed erano ambidue in pace co' nostri, assignati già alla città di San Michele. Questa terra e quella di Piura stanno in certe valli piane assai buone. Il governatore in questo luogo s'informò delle terre e caciqui convicini e del camino di Caxamalca, e intese che due giornate lontane di quivi era una gran terra chiamata Caxas, dove era guarnizione d'Atabalipa, che aspettava i cristiani se di quivi passassero. Il che avendo egli inteso, vi mandò secretamente un suo capitano con gente da piè e da cavallo, con ordine che amorevolmente cercasse, ritrovandovi gente d'Atabalipa, di tirargli al servigio di sua Maestà. Il capitano si partí quel dí stesso subito. Il dí seguente partí il governatore, e giunse ad una terra chiamata Zaran, dove si fermò per aspettare il capitan che a Caxas mandato aveva, e quello nel quinto giorno gli mandò per un messo a far sapere quanto successo gli era. Il governatore gli rimandò tosto la risposta che esso in quella terra l'aspettava, e che perciò, fornito che avesse il negozio perchè era andato, se ne ritornasse ad unirsi con lui, e che per camino visitasse e pacificasse un'altra terra, chiamata Guacamba, che era appresso alla città di Caxas; e gli scrisse anco che il cacique di Zaran era signor di buone terre e d'una fruttifera valle, che stava già assegnata alli cristiani di S. Michele.
Mentre che stette quivi otto giorni il governatore, aspettando il capitano, i suoi s'indrizzorono co' lor cavalli per il viaggio che fare dovevano. E ritornando finalmente il capitano referí quanto veduto avea, dicendo che era stato due giorni e una notte a giungere a Caxas senza riposarsi mai, eccetto che mentre mangiavano, salendo per gran monti, per prendere all'improviso quella terra, e che con tutto questo, ancorchè buone guide avuto avesse, non v'era potuto giungere senza incontrarsi per strada con spie di quel popolo; e che da alcune che n'erano state prese avea inteso come quelle genti stavano: onde, seguendo con ordine il suo camino, avea ritrovato, nell'entrare della terra, un luogo nel quale si conosceva esservi stata accampata gente da guerra; e che il popolo di Caxas stava in una picciola valle fra certi monti, e le genti di quel luogo stavano alquanto alterate e spaventate, ma, avendole assicurate e fatto loro intendere che esso veniva da parte del governatore per riceverli per vassalli dell'imperatore, era uscito a parlarli un capitano, che disse che stava da parte d'Atabalipa a ricevere i tributi di quelle terre; e che da costui aveva inteso e s'era informato del camino di Caxamalca, e della intenzione che Atabalipa teneva per dover ricevere i cristiani, e della città del Cusco, che era quivi trenta giornate lontana; e che girava il suo muro che la cingea una giornata di camino, e che la casa del cacique si stendeva per ogni verso quattro tiri di balestra, e che v'era una sala dove stava morto il Cusco vecchio, il cui solare stava salizato d'argento, e il tetto e le mura d'oro e argento coperte; e che aveva anco inteso che quelle terre un anno avanti erano state del Cusco, figliuolo del Cusco vecchio, e che Atabalipa suo fratello era poi venuto conquistando il tutto e ponendovi gran tributo e usandovi gran crudeltà del continuo; e che di piú del tributo che gli danno de' loro beni ed entrate, anco gli danno tributo de' figliuoli e figliuole proprie. Diceva avere anco inteso che quel luogo d'alloggiamenti che in Caxas vedeva era stato d'Atabalipa, che pochi dí innanzi s'era indi partito con una parte del suo esercito; e che aveva anco in quella terra veduta una gran casa e forte, cinta d'un muro di calce e terra, con le sue porte, e che dentro v'erano molte donne filando e tessendo veste per l'esercito d'Atabalipa, senza avervi altri uomini eccetto che li portieri che le guardavano; e che aveva nell'entrata della città veduti certi Indiani appiccati per li piedi, e avea da quel principale Indiano inteso che Atabalipa gli aveva fatti morire, perchè un di loro era entrato in quella casa a dormire con una di quelle donne, onde egli questo adultero e tutti i portieri che glielo avevano acconsentito aveva fatti morire. Seguendo questo capitano il ragionamento, diceva che, avendo pacificato il popolo di Caxas, se n'era andato a quel di Guacamba, che era una giornata indi lungi, e che era maggior terra che non Caxas e di migliori edificii; e che la fortezza era tutta di pietre ben lavorate, che erano grandi cinque e sei palmi l'una, e cosí ristrette e unite insieme che non parea che fra l'una e l'altra stesse mistura alcuna, e v'erano due scale di pietra nel mezzo di due appartamenti. Disse che per mezzo di questa terra e di quella di Caxas passa un picciol fiume, del quale i popoli si servono, e vi tengono i lor ponti e spianate ben fatte; e che fra queste due terre è una ampia strada fatta a mano, che tutta quella contrada attraversa, e viene dal Cusco fino a Guito, che son piú di trecento leghe: e va piana, e per lo monte è ben assettata, ed è tanto larga che sei da cavallo vi possono andare in pari senza toccare l'un l'altro; e che per questa strada si conducono condotti d'acqua, della quale i viandanti bevono, e in ogni giornata si trova una casa, dove alloggiano quelli che vanno e vengono; e che nel principio di questa strada in Caxas, in capo d'un ponte, vi è una casa dove sta una guardia che riceve il dazio da quelli che vanno e vengono, e lo pagano in quella cosa stessa che portano; e che niuno può cavare carico di robbe da quella terra, se non ve ne porta, e che questo costume anticamente avevano, ma Atabalipa l'avea sospeso per quel che toccava alle robbe che per le genti sue di guarnigione si cavavano; e che niun passaggiero potea entrare né uscir con robbe, se non da quella parte dove la guardia stava, sotto pena della vita. Dicea anco aver ritrovato in queste terre due case piene di scarpe e di pani di sale, e di certi cibi che parevano carne minuzata, con altre cose depositate e serbate per l'esercito d'Atabalipa. E concludendo diceva il capitano mandato dal governator Pizarro che quelle terre vivevano politicamente e con buoni ordini.


Atabalipa cacique manda ambasciatore al Pizarro con un presente, e gli fa a sapere essere suo amico, con desiderio di vederlo in Caxamalca. Si pongono in viaggio e giungono a Lopix, e d'indi a Motuz, dove notano molti costumi di quegli Indiani nel vestire e nel sacrificare alli loro idoli.

Venne col capitano nostro un Indiano principale con alcuni altri, e diceva venire con certo presente al governatore: onde, quando li fu davanti, li disse che Atabalipa suo signore lo mandava fin da Caxamalca con quel presente, che erano come due castella fatte a modo d'una fonte di pietra, e vi si beveva, e due cariche d'anatre secche scorticate, perchè fattone polvere se ne soffumigasse, che cosí fra li signori di quelle contrade s'usava; e li mandava a dire che avea gran volontà d'esser suo amico e di vederlo in Caxamalca, dove pacificamente e amichevolmente l'aspettava. Il governatore ricevette il presente, e cortesemente rispose che aveva gran piacere di questa sua venuta, per esser messo d'Atabalipa, il quale esso desiderava vedere per le nuove che ne udiva; e che, avendo inteso che egli faceva guerra agli nemici suoi, aveva determinato d'andar a vederlo e d'esser suo amico e fratello, e di favorirlo in quelle sue imprese, insieme con li cristiani che seco andavano. Ordinò poi subito che fusse dato da mangiare a lui e a tutti gli altri che erano seco venuti, di tutto quello che fusse stato lor di bisogno, e che fussero bene alloggiati, come ambasciadori di cosí gran signore. Riposati che furono, il governatore se li fece venire davanti, e disse loro che se essi volevano ritornare o restar quivi qualche giorno, che facessero secondo che piú lor piaceva. E perchè il messo disse che se ne voleva ritornare con la risposta al suo signore, il governatore soggiunse: "Adunque li dirai da mia parte quello che t'ho detto, cioè che io non mi fermerò in terra alcuna per camino, per poter giungere presto ad abboccarmi con lui". E li diede una camicia con altre cose di quelle di Castiglia, perchè per amor suo le portasse. E doppo che fu questo messo partito, egli stette anco ivi due giorni, perchè la gente che veniva di Caxas stava stanca del camino; e in questo mezzo scrisse alla sua colonia di San Michiele tutte queste nuove d'Atabalipa, e vi mandò le due torri e certe veste di lana che avevano coloro di Caxas portate, che erano una nuova e vaga cosa vedere, perchè si sarebbono giudicate di seta piú tosto che di lana, e v'eran molti lavori e figure d'oro di martello assai ben poste.
Spediti questi messi, si partí il governator Pizarro, e tre giornate caminò senza ritrovare né abitazione né acqua, altro che d'una picciola fonte, dove con gran fatica se ne puotero le sue genti provedere; ma in capo delli tre dí giunse in una gran piazza cinta intorno, ma non v'era persona alcuna, e s'intese che era d'un cacique signore d'una terra chiamata Copiz, che era in una valle ivi presso, e che questa fortezza si era disabitata per non avervi acqua. Il dí seguente il Pizarro caminò ben per tempo di notte con la luna, perchè la giornata era lunga per potere giungere al luogo abitato, ma a mezzogiorno arrivò ad una gran casa cinta intorno e fortificata, con buoni alloggiamenti dentro, e uscirono da questo luogo a riceverlo alcuni Indiani. Ma perchè qui non era acqua, né che mangiarvi, passò oltre due leghe ad una terra d'un cacique, dove fece stanziare le sue genti unite insieme da una parte: e quivi intese dalli principali Indiani che v'erano che il cacique di questa terra, chiamata Montux, stava in Caxamalca, dove aveva menati trecento uomini da guerra, e che quivi era un capitano posto per Atabalipa. Il governatore si riposò quivi quattro giorni e vidde qualche parte di questa terra, che li parve buona e molto abitata, e posta in una fertile valle.
Tutte le terre che sono da questo luogo fino alla città di San Michiele stanno poste in valli, e tutte quelle altre medesimamente delle quali si ha notizia, finchè si giunga a piè del monte che sta presso a Caxamalca. Per questo camino tutte le genti hanno un medesimo modo di vivere, e le donne vanno con veste cosí lunghe che le strascinano per terra, alla guisa che fanno delle vesti loro le donne in Castiglia; gli uomini portano certe camicie corte; ed è gente sozza, e mangiano la carne e il pesce crudo, e il maiz cotto e abbrucciato. Usano altre bruttezze e sozzure ne' sacrificii e moschee loro, le quali hanno in gran venerazione, e vi offeriscono le lor cose migliori. Sacrificano ogni mese i lor proprii figliuoli, e del sangue di quelli ungono li volti degl'idoli e le porte delle moschee, e ne spargono anco sopra le sepolture degli altri morti: e quelli stessi che sono sacrificati vanno volontariamente a morire, ridendo e ballando e cantando, e allora chiedono questa morte, quando sono ben satolli di bere. Sacrificano medesimamente pecore. Le moschee sono differenziate dall'altre case, perchè sono circondate di muro di pietra e di mattone di terra e calce ben fatto, e situate nella piú alta parte della città. Una medesima portatura e li medesimi sacrificii usano in Tumbez e in tutte quelle altre terre. Seminano presso a' fiumi, e quando par loro danno l'acque alli seminati, e raccolgono molto maiz e altre semenze e radici che essi mangiano. E in queste provincie poco vi piove.


Andando a Caxamalca, sono avisati Atabalipa cacique aspettargli con cinquantamila Indiani da guerra per distruggerli; non si togliono del loro principiato camino, e pervengono ad una montagna di difficil salita.

Il governator Pizarro caminò due dí per certe valli bene popolate, e ogni giornata dormiva in certe stanze forti e ben circondate attorno di mura di calcina e di terra: li signori di queste terre dicevano che il Cusco vecchio albergava in queste stanze, quando andava in camino per questi luoghi. Il Pizarro seguí il suo viaggio per una terra arenosa e secca, fin che giunse ad una altra ben popolata valle, per la quale discorre un furioso e gran fiume; onde, perchè andava il fiume molto alto, dormí da questa parte, ma fece passare a nuoto dall'altra banda un capitano con alcuni altri che sapevano nuotare, acciochè ostassero a chi fosse voluto venire a disturbare il passo: e il capitano che vi passò fu Fernando Pizarro, il quale ritrovò pacifici gl'Indiani che stavano ad una terra dall'altra parte, e alloggiò in una fortezza circondata di muro. Ma perchè vedeva che gl'Indiani delle terre stavano sollevati (perchè, se bene alcuni vi vennero di pace, tutte l'altre terre nondimeno stavano abbandonate e avevano fuggita la robba), dimandò d'Atabalipa, e se sapevano se esso aspettava i cristiani per pace o per guerra: e non ne puoté da niuno intendere la verità, per paura che tutti aveano d'Atabalipa, finchè, essendo tratto un principale da parte e tormentato, disse che Atabalipa aspettava i nostri con esercito grosso per far loro guerra, e che avea in tre parti le sue genti divise, e diceva con molta superbia che egli avea a far morire tutti i cristiani: il che diceva questo principale averglielo esso inteso dire. La mattina seguente il capitano fece tutte queste cose intendere al governatore, il quale fece tosto da amendue le parti del fiume tagliare alberi, perchè potesse la gente con le bagaglie passare, e furono fatti tre ponti, per i quali tutto quel dí non si fece altro che passare l'esercito, e i cavalli passarono a nuoto. Il governator, passate che furono con tutto questo travaglio le genti, le fece alloggiare nella fortezza dove il capitano stava, e, fattosi venire un cacique, intese che Atabalipa stava presso a Caxamalca con molte genti da guerra, che potevano esser da cinquantamila uomini. Quando egli udí tanto numero di gente, credendo che colui nel conto errasse, volse informarsi del modo del contar loro, e ritrovò che numeravano da uno fin a dieci e da dieci fin a cento, e dieci volte cento fanno mille, e cinque volte diecimila erano le genti che Atabalipa avea. Questo cacique che questa informazione diede era il principale signore di quanti in quel fiume sono, e diceva che quando Atabalipa in quella provincia venne esso s'era per paura nascoso, e perchè non l'avea quel crudele nelle sue terre ritrovato, di cinquemila Indiani che questo cacique avea per vassalli gliene fece morire quattromila, e gli avea tolte 600 donne e 600 fanciulli per compartirgli fra la sua gente di guerra. Diceva anco che il cacique di questa terra e fortezza dove i cristiani allora stavano si chiamava Cinto, e si ritrovava presso a Caxamalca con Atabalipa.
Il governatore si riposò in questo luogo con le sue genti quattro giorni, e un giorno prima che volesse partire parlò con uno Indiano principale della provincia di San Michiele, e gli disse se gli dava il cuore d'andare in Caxamalca per spia, per intendere le cose che in quel luogo si facessero. Rispose l'Indiano: "Non mi dà il cuore d'andare per spia, ma andrò per tuo messaggiero a parlare con Atabalipa, e cosí vedrò se nel monte v'è gente di guerra e che animo egli abbia". Il governatore gli disse che andasse come gli piacesse, e se nel monte v'era gente, come inteso aveva, mandasse tosto ad avisarnelo per uno Indiano di quelli che seco menerebbe. E gli ordinò che parlasse con Atabalipa e con le sue genti, e dicesse loro il buon trattamento che esso e i suoi cristiani facevano alli caciqui che volevano con loro la pace, e che essi non facevano guerra se non a quelli che la volevano; e che del tutto dicesse loro la verità, secondo che veduto aveva, e che, se Atabalipa volesse esser buono, esso sarebbe stato suo amico e fratello e l'averebbe favorito e aiutato nelle guerre. Partito con questa imbasciata l'Indiano, il governatore proseguí il suo cammino per quelle valli, ritrovando ogni dí villaggi con le sue case, cinte a torno di muro, come fortezze; e in tre giornate giunse ad un villaggio che stava a piè d'un monte, lasciando a man diritta il camino che fatto aveva, perchè quella strada per quelle valli andava alla Chinca, e questo altro andava a Caxamalca diritto. Quella strada che andava alla Chinca si seppe che era tutta abitata di buone terre, e che veniva dal fiume di San Michiele tutta spianata a mano, con mura di calce e terra d'amendue le sponde, e cosí larga che vi possono andare due carette in pari; e che di Chinca va poi questa medesima strada fino al Cusco, e che in gran parte vi sono dall'una banda e l'altra alberi posti a mano, perchè faccino ombra alla strada. E diceano che questa strada l'avea fatta il Cusco vecchio, per venir a visitar le sue terre, e che quelle case rinchiuse intorno erano dove lui per il viaggio alloggiava. Alcuni cristiani erano di parere che il governatore con i suoi andasse per quella strada a Chinca, perchè l'altro cammino si aveva a passare prima che a Caxamalca si giungesse una cattiva montagna, dove erano genti da guerra d'Atabalipa, e n'averebbe perciò potuto in qualche inconveniente incorrere. Ma egli rispose che già Atabalipa aveva notizia e sapeva che egli l'andava a cercare, da che dal fiume di San Michiele partiti s'erano, e che, se si restasse di far quel cammino, avrebbono gli Indiani detto che i nostri non avevano ardimento d'andarvi, e perciò ne sarebbono in maggior superbia montati di quella che avevano. Sí che, e per questo e per molte altre cagioni, disse volere l'incominciato cammino seguire e andare dovunque Atabalipa si stesse: onde s'animassero tutti a dover far quello che essi di loro sperava, e non dubitassero della molta gente che si diceva che aveva il nemico, perchè, se bene i cristiani erano pochi, bastava nondimeno il favor di nostro Signor a rompere e disbarattare maggior numero di nemici che quello non era, e a fargli anco venir al conoscimento della nostra santa fede catolica, come s'era veduto che ogni dí la clemenza divina aveva in maggior necessità soccorsi e aiutati miracolosamente i suoi; e che cosí sperava che avesse allora dovuto fare, poichè con buona intenzione andavano per tirare quelle genti infideli al conoscimento della vera fede, senza fare danno loro o male alcuno, se essi stessi non gliene avessero data cagione con contradirgli a prendere l'armi.


Passano la montagna, e d'Atabalipa gli sono mandati ambasciadori con dieci pecore, e offerta di mandargli da mangiare per il cammino di Caxamalca, e da loro hanno cognizione di molte cose dello stato e guerre quali Atabalipa tiene con suo fratello. Gli danno risposta, dimostrandogli l'imperador esser signor del tutto e vincer tutti con pace e guerra.

Fatto che ebbe il governator questo ragionamento, tutti dissero che andasse per quella strada che gli pareva che piú conveniente fosse, che tutti con molto animo seguito l'avrebbono, e nel tempo del far l'effetto gli avrebbono mostrato il cuor loro. Giunti a piè del monte, vi si riposarono un giorno per dar ordine alla salita. Il governatore, avuto il consiglio da persone esperte, determinò di lasciare la retroguardia alle bagaglie: e cosí s'aviò con quaranta da cavallo e sessanta da piè, con molto ordine e in cervello, lasciando un capitano col resto delle genti adietro, perchè non si movesse finchè egli l'avisasse di quello che far doveva. Nel montare della montagna, i cavalieri si menavano i lor cavalli per mano, finchè sul mezzogiorno giunsero in una fortezza posta nella cima del monte in un cattivo passo, che con pochi cristiani si sarebbe difeso da un grosso esercito di nemici, perchè era il luogo alpestre, e in qualche parte vi si montava su come per scalini, e non v'era già da poter per altra banda salire. I nostri vi montarono su senza che alcun glielo vietasse. È questa fortezza cinta di sasso, e stava posta e fondata sul monte stesso, i cui scogli scoscesi ed erti le servivano per muro: qui si riposarono i nostri e vi mangiarono, e vi faceva tanto freddo che de' cavalli, che venivano caldi dalla valle, se ne raffreddarono e rapresero alcuni. Indi andò poi il governatore ad alloggiare ad una terra, e mandò per un messo a chiamare gli altri che erano restati adietro, facendo loro intendere che sicuramente passassero, e si forzassero di giungere a dormire a quella fortezza. Quella notte il governatore alloggiò in quella terra in una forte stanza e ben lavorata di marmi, e il muro che la circondava era tanto ampio come di qualsivoglia fortezza di Spagna, con le sue porte: che se in queste provincie fossero i maestri e li ferramenti di Spagna, non avrebbe potuto essere quel luogo meglio lavorato. La gente di questo popolo era fuggita via, fuori che alcune donne e certi pochi Indiani, de' quali ne fece il governatore prendere duoi principali, e li fece separatamente dimandare delle cose di quella provincia, e dove Atabalipa stesse, e se aspettava i cristiani come amico o come inimico: e intese che tre giorni erano che Atabalipa era giunto in Caxamalcha, e che aveva molta gente seco, ma non sapevano quello che volesse farne; e che avevano sempre udito dire che egli voleva pace co' cristiani, e che per Atabalipa stava la gente di quella terra.
Al tramontar del sole, giunse uno Indiano di quelli che aveva menati seco quello Indiano principale di San Michiele che era andato avanti per ambasciadore, e disse che era stato da quel messo rimandato, stando già presso a Caxamalca, perchè avevano incontrati duoi messi d'Atabalipa, che venivano adietro e giungerebbono il seguente giorno; e che Atabalipa si ritrovava in Caxamalca, e che esso non si sarebbe fermato finchè parlato non avesse, e poi ritornarebbe con la risposta; e diceva che per cammino non avevano ritrovata gente alcuna da guerra. Allora il governatore mandò a fare tutte queste cose intendere per una lettera al capitano che era restato adietro con le bagaglie, e gli diceva che il dí seguente avrebbe fatta picciola giornata per aspettarlo, perchè voleva che andassero tutte le genti unite di compagnia. E cosí il dí seguente camminò montando pure tuttavia la montagna, nella cui cima si fermò in un piano presso certi ruscelli d'acqua, per aspettare i compagni che appresso venivano. I suoi Spagnuoli s'accommodarono nelle lor tende e coverte di cottone che portavano, e facevano fuoco per difendersi dal gran freddo che ivi faceva, e che in Castiglia nelle campagne non si sarebbe sentito maggiore. Ed era questo monte raso tutto, e pieno d'una certa erba come corto sparto, con rarissimi alberi; e vi sono cosí fredde l'acque, che non si possono bere senza scaldarsi.
Poco doppo che si furono qui i nostri riposati, giunse la retroguardia, e dall'altra parte vennero i messi di Atabalipa, che per lor mandava a presentare dieci pecore. Costoro, giunti davanti al governatore, doppo l'accoglienze dissero che il signore loro mandava quelle dieci pecore ai cristiani, e che desiderava sapere il giorno che giungerebbono a Caxamalca, per mandare loro da mangiar nel cammino. Il governatore li ricevette cortesemente, e rispose che aveva cara la lor venuta, poichè erano mandati dal suo fratello Atabalipa, e che esso andrebbe il piú tosto che fusse possibile a vederlo. Mangiato che ebbero costoro e riposati che furono, furono dal governator dimandati delle cose del paese, e delle guerre che Atabalipa faceva; e un di loro rispose che erano cinque giorni che Atabalipa stava in Caxamalca per aspettarvi lui, e che non avea seco se non alcune poche genti, perchè aveva l'altre mandate a far guerra al Cusco suo fratello. E dimandato particolarmente dal governator di tutto il processo di quelle guerre, e come aveva il suo signore incominciato a conquistare il paese, soggiunse a questo modo colui: "Atabalipa mio signore fu figliuolo del Cusco vecchio, che è già morto, e il quale signoreggiò tutte queste contrade, e morendo lasciò questo Atabalipa suo figliuolo signor d'una gran provincia chiamata Guito, che sta presso a Tumipunxa, e all'altro suo figliuolo maggiore lasciò la signoria principale con tutte l'altre terre. Onde, perchè questo fu successore in tutto quello stato, si chiamò il Cusco come suo padre, e non contento di questa signoria, se ne venne a guerreggiare contra Atabalipa suo fratello, il quale lo mandò a pregare che lo lasciasse pacificamente vivere con quello che gli aveva suo padre lasciato; ma il Cusco non volle udirne parola, anzi amazzò uno de' due fratelli che gli portorono l'ambasciata. Atabalipa allora gli andò incontra con molta gente da guerra fino alla provincia di Tumipomba, che era di suo fratello, e perchè volsero ostarli e da lui difensarsi, bruciò la città principale di quella provincia e v'ammazzò tutta la gente; ma qui ebbe aviso come suo fratello gli era stato nello stato con esercito, onde egli tosto si mosse e l'andò a trovare. Il Cusco, quando intese la venuta di suo fratello, se ne ritornò fuggendo alle provincie sue, e Atabalipa lo seguí conquistando tutte quelle terre, senza che alcuna da lui si difendesse, perchè ben sapeano il castigo che fatto aveva in Tumipomba: e cosí da tutte le parti toglieva gente e rinforzava il suo esercito. E giunto a Caxamalca, perchè li parve la terra buona e copiosa, vi si fermò, per poter poi da quel luogo muoversi al conquisto del resto dello stato di suo fratello; e cosí poi mandò un capitano con duemila uomini da guerra sopra la città dove suo fratello risedeva, il quale, perchè stava con un grosso esercito, ammazzò questi duemila uomini. Atabalipa vi mandò allora maggior numero di gente con due capitani, che sono forsi sei mesi che andarono: ma pochi giorni sono che ha avuta nuova che questi due suoi capitani hanno conquistata tutta la terra del Cusco, e hanno rotto lui e le sue genti in battaglia, e che lo conducevano prigione con molto oro e argento che tolto gli avevano".
Allora il governatore disse: "Gran piacere ho avuto di quello che raccontato m'avete, per aver intesa la vittoria del signor vostro, poichè suo fratello, non contentandosi del molto che possedeva, voleva anco torre a lui lo stato che il padre suo se gli aveva lasciato: e cosí aviene alli superbi come al Cusco avenne, che non solamente non giungono a quello che malamente desiderano, ma restano anco essi ne' lor beni e persone perdute". E perchè il governatore credeva che tutto questo che aveva l'Indiano detto fusse stata astuzia d'Atabalipa, per spaventar i nostri e dargli ad intender la sua potenza e destrezza nelle guerre, seguí a questo modo verso quel messaggiero: "Ben credo io che quello che hai detto sia cosí come detto hai, perchè Atabalipa è gran signore e ha fama d'essere buon guerriero; ma io ti faccio a sapere che l'imperatore mio signore, che è re delle Spagne e di tutte l'Indie e terra ferma e signor di tutto il mondo, ha molti servitori che sono maggiori signori che non è Atabalipa, e i suoi capitani hanno vinti e fatti prigioni assai maggiori signori che non è Atabalipa, né suo fratello né suo padre. E l'imperator mi mandò in queste terre a tirare le genti che vi sono al conoscimento di Dio e alla sua obedienza, e con questi pochi cristiani che vengono con meco ho io vinti e rotti maggiori signori che non è Atabalipa. Che se egli vorrà la mia amistà e vorrà meco la pace, come hanno gli altri signori fatto, io li sarò buon amico e l'aiuterò nelle sue conquiste, e lo lascierò poi nello stato suo, perchè io vo di lungo per queste terre, finchè l'altro mare discuopro. Che se esso vorrà la guerra, io gliela farò, come la ho anco fatta al cacique dell'isola di S. Giacomo e a quel di Tumbez, e a tutti gli altri che l'hanno voluta con meco: che io a niuno faccio la guerra, se egli stesso non la cerca".


Essendo ingannati da alcuni Indiani ambasciatori d'Atabalipa, l'inganno da uno Indiano gli è scoperto, qual di veduta affermava detto Atabalipa ritrovarsi in campagna con esercito da guerra, aspettando i cristiani per combatter con loro.

Quando quelli messi tutte queste cose udirono, stettero un pezzo come attoniti senza parlare, udendo che cosí pochi Spagnuoli facessero cosí gran fatti; e poco appresso dissero che se ne volevano ritornare con la risposta al signor loro, e dirgli che i cristiani sarebbono presto con lui, e perciò li mandasse rinfrescamento per il camino. E cosí il governatore li licenziò, e la mattina seguente prese pur tuttavia la strada per quel monte, e andò la sera a dormire in una terra che stava in una valle ivi presso; dove, tosto che egli fu giunto, vi arrivò quel principale messo che aveva già prima Atabalipa mandato con quel presente delle castella. Con costui mostrò di fare molta festa il governatore, e lo dimandò come aveva lasciato Atabalipa: rispose che bene, e che lo mandava con dieci pecore che alli cristiani portava; e parlò molto alla libera, e ne' suo ragionamenti si conosceva che egli era uomo vivace e pronto. Quando egli ebbe ben detto assai, il governatore dimandò gli interpreti che cosa egli detto avesse, e coloro dissero che aveva quello stesso detto che l'altro messo il giorno avanti ragionato avea, con altre molte cose, vantando sempre il gran stato di suo signore e il gran sforzo dell'esercito suo, e assicurando il governatore e accertandolo che Atabalipa l'averebbe amichevolmente ricevuto, e che lo voleva tenere per amico e fratello. Il governatore rispose con assai buone parole, come all'altro risposto avea. Questo ambasciatore menava servitori da signore, con cinque o sei vasi d'oro fino ne' quali beveva, e co' quali dava a bere agli Spagnuoli di quella sua bevanda che esso portava; e disse che egli se ne voleva ritornare col governatore nostro fino a Caxamalca, dove il suo signore era.
La mattina seguente ritornò il governatore al suo cammino pur per quelli monti, e giunse ad una terra d'Atabalipa, dove si riposò un giorno. E il dí seguente venne quivi quell'Indiano principale che gli aveva per suo messo mandato in Caxamalca, il quale, quando vidde il messo d'Atabalipa che quivi presente era, gli andò furiosamente sopra, e presolo per l'orecchie gliele tirava forte, e non lo lasciò finchè il governatore li comandò che lo lasciasse, che se non lo lasciava vi voleva esser una bella scaramuzza. Il governatore il dimandò per che causa avesse usato quell'atto al messo del suo fratello Atabalipa, ed egli rispose: "Questo è un gran vigliacco, sollevator d'Atabalipa, e viene quivi a dirvi le bugie, mostrando d'esser persona principale, perciochè Atabalipa sta fuori di Caxamalca con molte genti in campagna per guerreggiare, e io andai nella terra e non vi ritrovai niuno, e passandomene dove egli stava accampato con le sue tende, viddi che vi teneva molta gente e bestiame, e che stavano in punto di guerreggiare. E mi volsero ammazzare, e l'avrebbono fatto se io non dicevo che, se essi ammazzavano me, voi avreste ammazzati i loro ambasciatori che quivi con voi erano, e che, finchè io non ritornavo, voi non gli avreste licenziati né lasciatili ritornare. E cosí mi lasciarono, né mi volsero dar da mangiare, se non lo comperavo barattandolo con altre cose. Dissi loro che mi lasciassero veder Atabalipa e dirgli la mia ambasciata, e non volsero, dicendo che egli stava digiunando e non poteva parlar con niuno. Un suo zio uscí a parlar con meco, e io gli disse che ero vostro messaggio, e tutto quello di piú che voi m'ordinasti che io dicessi. Egli mi dimandò che gente erano i cristiani e che arme portavano; e io gli dissi che sono valenti uomini e molto guerrieri, e che conducono cavalli che corrono come il vento, e che quelli che vi vanno a cavallo portano certe lancie lunghe, con le quali ammazzano quanti ritrovano, e che tosto in due salti aggiungono li nemici, e che i cavalli con li piedi e con la bocca n'ammazzano molti. E li disse anco che li cristiani che vanno a piedi sono molto destri, e portano in un braccio una rotella di legno con la quale si difendano, e i giubboni forti ben ripuntati di cottone, con certe spade aguzze e taglienti che da amendue le parti tagliano d'un colpo un uomo per mezzo e troncano ad una pecora la testa: e con queste spade tagliano tutte l'armi che gl'Indiani hanno; e che alcuni altri portano balestre, con le quali tirano da lontano, e con ogni saetta ammazzano uno uomo, e che tirano con tiri di polvere palle di fuoco, che ammazzano molta gente. A questo mi fu risposto che tutto era nulla, perchè i cristiani sono pochi, e i cavalli, perchè non portano arme, sarebbono subito da lor stati morti con le lor lancie: e io risposi che i cavalli hanno i cuori duri, che non gli avrebbono le loro lancie potuti passare. Dicevano anco che non temevano delli tiri di fuoco, perchè li cristiani non n'avevano piú che due. E nel voler ritornarmene gli pregai che mi lasciassero vedere Atabalipa, poichè i suoi messi veggono e parlano al governatore, che è assai miglior di lui: e non volsero che io per niun conto gli parlasse, e cosí me ne venni. Ora vedete se io ho ragione d'ammazzar questo poltrone, che, essendo un falso e un sollevator d'Atabalipa (come m'hanno detto che egli è), parla cosí liberamente con voi e mangia alla tavola vostra; e a me, che sono persona principale, non hanno voluto concedermi di lasciarmi parlar con Atabalipa, né darmi da mangiare, anzi mi bisognò difender con buone ragioni perchè non m'ammazzassero".
Il messo d'Atabalipa rispose molto spaventato e timido, veggendo che quell'Indiano con tanto ardimento e libertà parlava, e disse che, se in Caxamalca non era gente, era perchè aveano lasciata la terra vacua e libera perchè vi potessero i cristiani alloggiare; e che Atabalipa stava in campagna perchè cosí si costumava di far da che avea cominciata la guerra, e che, se non gli avea potuto parlare, era stato perchè egli digiunava, come suole; e se non l'avea potuto vedere, non era stato per altro se non perchè, quando digiunava, non compariva, né si lasciava in quel tempo vedere né parlar da niuno, e che "s'avessero i suoi avuto ardire di dirgli che tu quivi eri per parlargli da parte del governator, t'avrebbe fatto tosto entrare e darti da mangiare". Molte altre simili cose disse, volendo assicurar e accertar i nostri che Atabalipa come amico e pacifico signore l'aspettava. Ma chi volesse di lungo particolarmente dire li ragionamenti che passarono fra questo Indiano e il governatore, bisognarebbe farne un libro separato; onde, per concluderla in breve, il governator disse che egli credeva che cosí fosse come diceva, perchè non meno confidanza nel suo fratello Atabalipa aveva. E non restò già per questo di fargli cosí buoni trattamenti come gli aveva già fatti prima, e contendeva e gridava con l'Indiano che era stato suo messaggiero, volendo dare ad intendere che li fusse rincresciuto che colui fosse stato in presenza sua cosí mal trattato: benchè nel secreto tenesse per certo che quello che il suo Indiano dicea fosse vero, che già ben conosceva l'arti astute degl'Indiani.


Seguendo il loro viaggio entrano in Caxamalca, dove in una piazza si fanno forti; mandano ad Atabalipa alcuni capitani a far saper il desiderio che hanno di vederlo e mostrarsegli amici: a lui giunti, seco trapassano con molti ragionamenti; promette di venirvi, e si muove col suo esercito verso Caxamalca. Descrizione di molte cose della città, e dell'abito d'Atabalipa.

Il dí seguente il governatore si partí, e andò a dormire la notte seguente in un certo piano con territorii scoperto e senza alberi, per poter la mattina seguente giungere a mezzogiorno a Caxamalca, che dicevano che stava vicina. Quivi vennero messaggieri d'Atabalipa con robbe da mangiare per li cristiani. La mattina per tempo il governator si partí con le sue genti bene in ordinanza, e giunse da una lega presso a Caxamalca, e quivi aspettò che la sua retroguardia arrivasse e si mise seco; poi, per fargli con bell'ordine entrare nella città, fece di tutte le sue genti tre schiere, e cosí poi caminò avanti, mandando messi ad Atabalipa che venisse a Caxamalca, che quivi si vedrebbono. Nell'entrar della città viddero i nostri il campo degl'Indiani, una lega lungi da quel luogo, e presso alla costa d'un monte. Giunse il governatore in questa città ad ora di vespero, a' quindeci di novembre nel 1532.
Nel mezzo di Caxamalca sta una gran piazza, rinchiusa ben intorno d'un muro di calce e terra, e con molte buone stanze d'alloggiarvi dentro; onde perchè non erano nella terra le genti che abitare la dovevano, il governatore in questa piazza si ristrinse con i suoi. Poi mandò un messo ad Atabalipa, facendogli intendere che egli era giunto, e che perciò venisse, che si vedrebbono insieme e gli mostrerebbe dove fusse egli dovuto alloggiare. E in questo mezzo mandò vedendo la terra, acciochè, se altra miglior fortezza vi fosse, quivi si fosse potuto far forte, e comandò che stessero tutti su la piazza e quelli da cavallo non smontassero, finchè si vedeva se Atabalipa veniva. Fu veduta la terra, e non vi fu ritrovato miglior luogo per starvi che quella piazza.
Questa città, che è la principale di tutte l'altre che in questa valle sono, era situata e posta nella costa d'un monte, e ha una lega di spacio di terra piana; e per questa valle corrono due fiumi, ed è questa valle, che va di lungo piana fra due monti, molto abitata. Ora la città di Caxamalca può essere di duemila fuochi, e ha nella sua entrata due ponti, perchè indi li due fiumi scorrono. La piazza ch'ho detto è maggior d'alcuna che ne sia in Spagna, e tutta rinchiusa, e con due porte per le quali si va nella città. Le case di questa piazza si stendono piú di dugento passi in lungo, e sono assai ben fatte, e sono circundate d'un forte muro di terra e calce, alto quanto è tre volte un uomo; e i tetti sono coperti di paglia e di legname posta sopra le mura. Quivi dentro è uno appartamento compartito in otto quartieri, ed è migliore che niuno degli altri: le mura di questo appartamento sono di pietra viva, assai ben lavorate, ed è questo appartamento separatamente circundato d'un muro di sasso vivo con le sue porte; e dentro nelli cortili vi sono le sue pile d'acqua, che dall'altra parte conducevano per acquedotti per lo servigio di questa casa l'acqua. Davanti a questa piazza, dalla banda della campagna, sta con la piazza incorporata una fortezza di sassi, con una scala di marmo per la quale si monta dalla piazza nella fortezza; e dalla parte della campagna v'è un'altra picciola porta falsa, con un'altra stretta scala, senza che s'esca dal muro che circonda la piazza. Sopra questa città nel fianco del monte, onde le case de' cittadini incominciano, sta un'altra fortezza posta sopra il sasso vivo, la maggior parte del quale è tagliato e scosceso: e questa è maggior dell'altra, ed è cinta da tre muri, e vi si sale come a chiocciole. Certo che sono fortezze che non si sono vedute simili fra gl'Indiani. Fra il monte e questa gran piazza vi è un'altra piazza piú picciola, tutta circondata di stanze, nelle quali erano molte donne per il servigio d'Atabalipa. Prima che s'entri in questa città vi è una casa cinta intorno d'un muro di calce e terra, e v'è un bel cortile con molti alberi posti a mano: questa casa dicono che è del Sole, perchè in ogni terra fanno al Sole le loro moschee, benchè in questa città anco molte altre moschee siano, che per tutta la contrada sono in molta venerazione tenute: e quando v'entrano, si cavano le scarpe e le lasciano su la porta. La gente di tutte queste terre che si trovano da che si comincia a salire il monte, dove sta quella fortezza che si è detta di sopra, ha gran vantaggio a tutte l'altre genti che restano adietro, perchè è piú polita gente e di maggior capacità e ragione; e le donne sono molto oneste, e portano sopra la veste certe cinture ben lavorate e infasciate o legate al diritto del ventre, e sopra questa veste portano un manto che le cuopre dalla testa fino a mezza gamba, a punto come un mantello da donne; e gli uomini vestono camiciette senza maniche, e di sopra vi portano certi manti coperti. Tutte le donne quivi nelle case loro tessono lana e cottone, e fanno le veste che bisognano e le scarpe anco per gli uomini, che di lana o di cottone le fanno.
Ora, avendo il governatore aspettato che Atabalipa venisse o mandasse a dargli stanza, perchè vedeva che si faceva tuttavia tardi, mandò un suo capitano con venti da cavallo a parlargli e a dirgli che venisse ad abboccarsi seco, e gli ordinò che pacificamente andasse e venisse, senza venire con quelle genti a contesa, ancorchè loro la cercassero, ma il meglio che potesse andasse a parlar ad Atabalipa, e se ne ritornasse con la risposta. Poteva essere questo capitano giunto a mezzo il camino, quando il governator montò nella cima di quella fortezza, e vidde davanti alle tende un gran numero di gente nella campagna, onde, perchè non incorressero in qualche danno li cristiani che aveva mandati, e perchè potessero meglio a lor salvamento da quelle genti uscire, e difendersi bisognando, mandò tosto lor dietro un altro capitano (e fu suo fratello) con altri venti da cavallo, ordinandogli che non consentisse che i suoi dessero voce alcuna. Indi a poco cominciò a piovere e a grandinare, e perciò il governator fece alloggiar i suoi nelle stanze di quel palagio, e il capitano dell'artiglieria con gli suoi tiri dentro la fortezza.
Mentre che si stava in questo, venne un Indiano d'Atabalipa a dir al governator che alloggiasse dove gli piacesse, pur che non montasse nella fortezza della piazza, perchè il suo signore non poteva per allora venire, perchè digiunava. Il governator rispose che cosí farebbe, e che aveva mandato suo fratello a pregarlo che venisse a vederlo e a parlargli, perchè aveva gran desiderio di conoscerlo, per nuove che avute n'aveva. Il messo se ne ritornò con questa risposta, e il capitan Fernando Pizarro nel farsi notte ritornò co' suoi cristiani adietro, e disse che aveva nel cammino ritrovato un mal passo di fangacci, che pareva che prima fosse stato buono, perchè dalla città fino al campo d'Atabalipa era tutta la strada larga e spianata di pietre e terreno: e si conosceva che in quel mal passo era stata a studio rotta e guasta, onde erano essi passati oltre da un'altra parte. E disse che, prima che giungessero al campo avevano passati duoi fiumi, e che dinanzi proprio nel campo ne passava un altro, che gl'Indiani il passavano sopra un ponte, di modo che da questa banda venivano a stare gl'Indiani cinti dall'acqua. E disse che l'altro capitano cristiano che era andato avanti aveva lasciate le sue genti da questa parte del fiume, per non porre gli avversarii in bisbiglio, e che non aveva voluto passar per lo ponte, dubitando che non vi fosse il suo cavallo pericolato, onde era per mezzo l'acqua passato menando seco un interprete; e ch'era poi passato per dentro uno squadrone di gente che stava in piedi, e che, giunto all'alloggiamento d'Atabalipa, in una piazza aveva ritrovati 400 Indiani che pareva che fossero la guardia sua, ed egli stava su la porta del suo alloggiamento assiso molto in basso, con molti Indiani e Indiane in piedi attorno, e con una benda di lana (che pareva seta chermesí) in fronte, larga due piante di mano e legata in testa, con gli suoi cordoncelli che gli calavano fino agli occhi, e che lo faceva piú grave di quello che era: e teneva gli occhi calati in terra, senza alzargli mai a guardare ad altra parte. Diceva che, quando gli fu il capitan nostro giunto avanti, li disse per il suo interprete che egli era un capitano del governatore, che mandava a vederlo e a dirgli da sua parte il gran desiderio che aveva di vederlo, onde, se andato vi fosse, l'avrebbe fatto molto lieto: e con queste li disse anco altre cose simili, alle quali egli mai non rispose, né alzò la testa a guardarlo, ma che un suo principale rispondeva a quanto il capitano parlava; e che in questo egli era giunto dove le genti di quel capitano erano restate, e inteso che col cacique parlava, lasciando anco egli quivi i suoi, passò il fiume e giunse presso dove Atabalipa stava, onde allora quel primo capitano disse: "Questo che ora viene è un fratello del governatore, parlategli, perchè viene a vedervi". Allora alzò il tiranno gli occhi e disse: "Mayzabilica, che è un capitano che tengo nel fiume di Turcicara, mi mandò a dire che voi trattavate male i caciqui e che li ponevate in catena, e mi mandò una collana di ferro, e dice che esso ammazzò tre cristiani e un cavallo; ma io ho piacere di venire domattina a vedere il governatore e d'essere amico delli cristiani, perchè sono buoni". Fernando Pizarro allora rispose: "Mayzabilica è un vigliacco, e un solo cristiano ammazzarebbe lui e tutti gl'Indiani di quel fiume: come poteva egli adunque ammazzare cristiani né cavallo, essendo essi galline? Né il governatore né li cristiani non trattano male li caciqui che non vogliono guerra con lui, perchè trattano assai bene i buoni e coloro che vogliono essere suoi amici, e a quelli che vogliono la guerra gliela fanno finchè li distruggono a fatto: e quando vedrete quello che i cristiani faranno aiutandovi nella guerra contra li nemici vostri, allora conoscerete come Mayzabilica vi disse le gran bugie". Disse allora Atabalipa: "Un cacique non ha voluto obedirmi, le genti mie verranno con voi altri e li farete la guerra". Rispose Fernando Pizarro: "Contra un cacique, per molta gente che egli abbia, non bisogna che vi vadano i vostri Indiani, ma dieci cristiani a cavallo solamente li distruggeranno". Rise di queste parole Atabalipa e disse che bevessero, ma li capitani, per fuggire di bere di quella loro bevanda, dissero che digiunavano; ma furono tanto importunati dal tiranno che l'accettarono, onde vennero tosto donne con vasi d'oro, nelli quali portavano un liquore fatto di maiz. Quando Atabalipa le vidde, alzò verso loro gli occhi senza dire parola, onde partendo ritornarono tosto con altri vasi d'oro maggiori, co' quali diedero a bere ai duo cristiani; e fatto questo si licenziarono, restando appuntato che la mattina seguente andarebbe Atabalipa a vedere il governatore.
Stava il campo degl'Indiani posto alla falda d'un colle, e le tende, che erano di cottone, occupavano una lega di lungo, e nel mezzo stava quella d'Atabalipa. Tutte le genti stavano in piedi fuori delle tende loro, con l'arme ficcate in terra, ed erano certe lancie lunghe come picche: e parve a' nostri che fussero in questo campo piú di trentamila uomini. Or, quando il governatore intese tutto questo che era passato, ordinò a' suoi che stessero la notte con buona guardia, e al suo capitan generale che visitasse le guardie, e che tutta la notte andassero le sentinelle d'intorno agli alloggiamenti: e cosí si fece.
Venuta la mattina seguente, che era sabbato, giunse al governatore un messo d'Atabalipa, che da sua parte li disse: "Mio signor ti manda a dire che esso vuole venire a vederti, e menare la sua gente armata, poichè tu ieri mandasti armata la tua, e dice che li mandi un cristiano col quale esso possa venire". Il governatore rispose: "Di' al tuo signore che venga in buon'ora come egli vuole, che comunque verrà il riceverò come amico e fratello; ma che non li mando cristiano alcuno, perchè fra noi non si usa di mandarlo da un signore ad un altro". Il messo si partí con questa risposta, e giunto che fu nel campo, le sentinelle e scoverte nostre viddero muovere il campo degl'Indiani. Poco appresso venne un altro messo e disse al governatore: "Atabalipa ti manda a dire che esso non vorrebbe menar la sua gente armata, perchè, ancorchè molti armati vi venissero, vi sarebbono anco molti altri senza arme venuti, i quali esso voleva menare con seco e dar loro in questa città alloggiamento"; e che gli addrizzasse per lui uno alloggiamento in quella piazza stessa, in una casa che la chiamano del serpe, per un serpente di pietra che dentro v'era. Il governatore rispose che cosí farebbe, e che venisse presto, perchè aveva gran desiderio di vederlo. Fra poco tempo si vidde venire tutta la campagna piena di gente, la quale di passo in passo si fermava, aspettando gli altri che dal campo uscivano: e durò fino al tardi il venire della gente, che in squadroni compartita veniva; e passati che ebbero tutti li cattivi passi, si fermarono presso al campo de' nostri, e pur tuttavia si vedeva uscire la gente dal campo degl'Indiani. Allora il governatore ordinò secretamente a tutti gli Spagnuoli che nelle stanze loro s'armassero, e tenessero i cavalli insellati e imbrigliati, e compartiti in tre capitani, senza uscire niuno dalla sua stanza alla piazza; e ordinò al capitan dell'artiglieria che volgesse le bocche dell'artigliaria verso il campo de' nemici, e quando fusse tempo v'attaccasse il fuoco. Nelle strade onde si entrava nella piazza pose gente nascosa in aguato, e tolse con seco venti uomini da piedi nella sua stanza, perchè stava in pensiero di prendere la persona d'Atabalipa, se esso maliziosamente venisse, come pareva che venisse, con tanto numero di gente che conduceva; ma comandò che lo prendessero vivo, e a tutti gli altri ordinò che niuno dalla sua stanza uscisse, ancorchè vedessero nella piazza entrare li nemici, finchè udissero tirare l'artigliaria: perchè esso teneva le sentinelle, e veggendo che l'adversario venisse con astuzia e con malignità, avrebbe avisato quando fussero dovuti uscire, e cosí anco quelli da cavallo, quando avessero inteso dire "San Giacomo".


Atabalipa con l'esercito entra in Caxamalca, dove, mostrando l'animo nemico, dagli Spagnuoli valorosamente è fatto prigione, e il suo esercito posto in fuga e parte ucciso.

Con questo appuntamento e ordine stette il governatore aspettando che Atabalipa venisse, senza comparire cristiano alcuno su la piazza, salvo che la sentinella, che dava aviso di quanto passava nel campo contrario. Il governatore e il capitan generale andavano visitando le stanze degli Spagnuoli, per vedere come provisti e in ordine stessero per uscire quando fusse stato di bisogno, animando tutti e dicendo loro che de' lor cuori stessi si facessero fortezza, poichè altre fortezze non aveano, né altro soccorso che quel di Dio, che nella maggior necessità soccorre a chi va in suo servigio; e che, se ben contra ogni cristiano erano cinquecento Indiani, dovessero essi nondimeno tenere lo sforzo che sogliono in simili tempi i cuori generosi avere, e sperassero che Iddio combatterebbe per loro; e che nel tempo dell'assalto si movessero con molta furia e prudenza, e vedessero di non incontrarsi quelli da cavallo l'uno con l'altro. Queste e altre simili parole dicevano il governatore e il capitan generale alle genti loro per animarle, ma elle stavano con volontà d'uscire nel campo piú tosto che di stare ivi nelle stanze loro, e a ciascuno nell'animo suo pareva di dovere fare per cento, e poca paura avevano, benchè tanta gente vedessero.
Veggendo il governatore che il sole già tuttavia calava per nascondersi nell'Oceano occidentale, e che Atabalipa non si moveva da quel luogo dove fermato s'era, e che tuttavia si vedeva dal suo campo venir gente, li mandò per un suo Spagnuolo a dire che entrasse nella piazza e venisse a vederlo prima che fusse notte. Il messo andò e doppo le riverenze li fece per segni intendere che venisse dove il governatore stava. Allora egli con le sue genti si mosse, e lo Spagnuolo ritornò avanti e disse che Atabalipa veniva, e che le sue genti della avanguardia portavano arme secrete sotto le camicette, che erano forti giubboni di cottone, e sacchette con pietre e frombe, e li pareva che con cattiva intenzione venissero. Poco appresso entrò l'avanguardia nella piazza: e veniva prima un squadrone d'Indiani vestiti con una livrea di colori a modo di scacchi, e questi venivano togliendo le pagliuche di terra e scopando le strade. Venivano appresso tre altre squadre vestite d'un'altra maniera, e tutti cantando e ballando, e tosto appresso seguiva molta gente, con armature, patene e corone d'oro e d'argento: e fra questi veniva Atabalipa, in una lettiera o lettica foderata di piume di pappagalli di molti colori e guarnita di piastre d'oro e d'argento, e lo portavano molti Indiani alto sopra le spalle; e dietro a questa venivano due altre lettiche, nelle quali due altre persone principali venivano, e appresso venivan molte genti in squadroni con corone d'oro e d'argento. Tosto che i primi nella piazza entrarono, si tirarono da parte e diedero luogo agli altri: e giunto Atabalipa nel mezzo della piazza, fece stare saldi e quieti tutti e fermare le lettiche, ma non cessavano già d'entrare nella piazza del continuo genti. Dall'avanguardia degli Indiani si mosse un capitano, e montò su la fortezza della piazza dove stava l'artiglieria, e alzò due volte la lancia a modo di segnale. Il governatore, che questo vidde, disse a fra Vincenzo se voleva andare a parlare ad Atabalipa per un interprete. Il frate disse di sí e si mosse con una croce da una mano e con la Bibia dall'altra, ed entrato fra quelle genti, quando fu dove Atabalipa stava, li disse per mezzo di quello interprete: "Io sono sacerdote di Dio, e insegno a' cristiani le cose divine, e cosí medesimamente vengo ad insegnare a voi altri: quello che io insegno è quello che il grande Iddio ci parlò, che sta in questo libro scritto. E per tanto da parte di Dio e delli cristiani ti prego che vogli essere loro amico, perchè cosí vuole Iddio, e te ne verrà bene; e vieni a parlare al governatore, che ti sta aspettando". Atabalipa gli disse che li desse il libro, che voleva vederlo, ed egli glielo diede chiuso: e non indovinando Atabalipa ad aprirlo, il religioso stese la mano per volerlo aprire, ed egli con gran sdegno li diede un colpo nel braccio non volendo che l'aprisse. E instando egli stesso nell'aprirlo, l'aperse pure, e senza altramente maravigliarsi delle lettere né della carta, come solevano gli altri Indiani fare, lo gettò via cinque o sei passi da sé lontano, e alle parole che il frate per mezzo dell'interprete dette gli aveva con molta superbia rispose: "Ben so io quello che tu hai fatto in questo viaggio, e come tu hai trattati i caciqui miei, a' quali hai tolta la robba". Il religioso rispose: "Li cristiani non hanno mai fatto questo, anzi certi Indiani portarono certe robbe senza saputa del governatore, il quale quando lo seppe le fece ritornare adietro". Allora Atabalipa soggiunse: "Io non partirò di qui finchè me la portino tutta". Il padre se ne ritornò con la risposta al Pizarro, e il tiranno indiano si pose in piè sopra quella lettiga, parlando co' suoi perchè stessero in cervello e in ordine.
Quando il governatore dal frate intese quello che passato era, e come Atabalipa gli aveva gettato la sacra Scrittura in terra, tosto s'armò d'un saio d'arme di cottone e, tolta la sua spada e targa, si mosse con gli Spagnuoli che seco stavano e se n'entrò per mezzo degl'Indiani; e con molto animo, con quattro compagni soli che seguire lo poterono, giunse fino alla lettica dove stava Atabalipa, e senza timore alcuno lo prese per il braccio manco e gridò: "San Giacomo, San Giacomo". Allora tirarono l'artigliarie e sonarono le trombe, e uscirono fuori le genti da piedi e da cavallo. Quando gl'Indiani viddero venire il squadrone de' cavalli, molti di quelli che nella piazza stavano fuggirono: e fu tanta la furia di questa fuga che ruppero una tela del muro della piazza, e molti ne cadettero l'uno sopra l'altro. Quelli da cavallo passarono lor per sopra ferendo e ammazzando, e seguirono la vittoria; quelli da piedi s'oprarono cosí bene con quelli che nella piazza restarono, che in breve tempo li passarono tutti per filo di spada. Il governatore teneva pur tuttavia per il braccio Atabalipa, e, perchè stava in alto, non lo poteva cavare dalla lettica.
Li Spagnuoli fecero tanta strage in quelli che portavano le lettighe che le fecero cadere a terra, e, se il governatore non difendeva e riparava Atabalipa, quivi averebbe questo superbo tutte le sue crudeltà pagate: e il governatore, per volere difenderlo, vi ebbe una picciola ferita alla mano. E in tutto questo tumulto non fu Indiano che alzasse l'armi contra i cristiani, perchè fu tanto lo spavento che ebbero di vedersi a quel modo il governatore fra loro, e di sentire cosí all'improviso quelle artiglierie, con la vista furiosa di quei cavalli, che era fra lor cosa nuova e non mai piú veduta, che con grande alterazione non attendevano ad altro che a fuggire per salvarsi la vita. Tutti quelli che portavano la lettica d'Atabalipa parve che fussero uomini principali, e tutti morirono, con quelli anco che nell'altre lettiere o lettighe andavano: e uno di quelli che sopra una lettica andava era suo paggio e gran signore, e molto da lui stimato; gli altri erano medesimamente signori di molto stato e suoi consiglieri. E con costoro morí anco il cacique signore di Caxamalca. Vi morirono anco molti altri lor capitani, de' quali non si fa caso, per essere grande il numero loro, perchè tutti quelli che venivano in guardia d'Atabalipa erano gran signori.
Ora il governatore se n'andò alla stanza sua col suo prigione Atabalipa, spogliato delle sue vesti, che gli Spagnuoli gliele avevano squarciate in dosso per cavarlo della lettica. Fu certo cosa assai maravigliosa a vedere in cosí breve tempo preso un cosí gran signore, che cosí potente veniva. Il governatore fece venire tosto delle vesti e lo fece vestire, placandolo dello sdegno e alterazione che aveva di vedersi cosí presto dal suo stato caduto, e fra l'altre molte parole che 'l Pizarro li disse furono queste anco: "Non tenere per gran maraviglia d'essere stato cosí preso e rotto, perchè con gli cristiani che io conduco, ancorchè siano pochi in numero, ho con loro soggiogato maggior terra che non è la tua, e disbarattati altri maggiori signori che non sei tu, ponendoli sotto la signoria dell'imperatore di cui son io vassallo, e il qual è signore della Spagna e di tutto il mondo. E per suo ordine siamo noi venuti a conquistare queste terre, perchè veniate tutti nel conoscimento di Dio e della sua santa fede catolica, e per la buona dimanda con che andiamo permette Iddio, creatore del cielo e della terra e di tutte le cose create, che cosí pochi come noi siamo possiamo soggiogare tanta copia di gente, acciochè lo conosciate e usciate da cotesta bestiale e diabolica vita nella quale vivete: che, quando voi avrete veduto l'errore nel quale vivuti siete, conoscerete il beneficio che caverete dall'essere noi venuti a questa terra per ordine di sua Maestà. E dovete a buona sorte attribuire che non siate stati vinti da gente crudele come siete voi altri, che non la perdonate a niuno: perchè noi altri usiamo pietà co' nostri nemici vinti, e non facciamo la guerra se non a quelli che a noi la fanno, e potendo rovinarli nol facciamo, anzi lor perdoniamo: come, tenendo io preso il cacique signore dell'isola di San Giacomo, lo lasciai libero e nel suo stato, perchè fusse d'allora avanti buono; e il medesimo feci con li caciqui signori di Tumbez e di Chilimaxa e con altri anco, che, avendoli in poter mio e meritando essi la morte, io perdonai loro. E se tu sei preso e la tua gente disbarattata e morta, è stato solo perchè venivi con cosí grosso esercito contra di noi, avendoti io mandato a pregar che ci venissi pacificamente, e perchè gettasti in terra il libro dove stavano le parole di Dio: e per questo nostro Signore permise che la tua superbia fusse abbassata, e che niuno Indiano potesse offendere né far male alcuno a' cristiani".


Del buono trattamento che fanno ad Atabalipa prigione. Il numero de' morti nel fatto d'arme, dell'oro e argento ritrovato nelle spoglie de' nemici, e come liberano gl'Indiani fatti prigione.

Dette che ebbe il governatore tutte queste cose, rispose Atabalipa che egli era stato ingannato dai capitani suoi, che gli avevano detto che non facesse conto alcuno degli Spagnuoli, perchè esso voleva venire da amico e pacificamente, e i suoi non volsero; e che tutti quelli che consigliato gliel'avevano erano morti, e che bene aveva egli veduta la bontà e il buono animo de' cristiani, e che Mayzabilica l'aveva ingannato con quelle bugie che gli aveva mandate a dir de' nostri. Or, perchè era già notte, il governator, che vedeva che i suoi che avevano seguita la vittoria non erano ancora ritornati, fece tirare l'artiglieria e sonare le trombe perchè si riunissero: e cosí poco appresso entrarono tutti nella piazza, con gran presa di gente che fatta avevano, che erano piú di tremila persone. Il governatore li dimandò se venivano tutti salvi, e il suo capitan generale, che con loro veniva, rispose che un cavallo solo aveva una picciola ferita avuta. Allora il governatore con molta allegrezza disse: "Io ne ringrazio senza fine nostro Signore, e tutti dovemo ringraziarlo per cosí gran miracolo ch'ha oggi fatto per noi: e veramente che potemo credere che senza suo speciale soccorso non averemmo bastato noi ad entrare, in questa terra, or quanto meno a vincere un cosí grosso esercito? Piaccia a Dio per sua misericordia che, poichè ha per bene di farci tanta mercede, ci dia grazia di poter fare tali opere che acquistiamo il suo santo regno. E perchè voi signori venite affaticati e stanchi, vadisene ciascuno a riposare alla stanza sua. E poichè Iddio ci ha data la vittoria, non la trascuriamo, che, se ben questi Indiani sono sbaragliati e rotti, nondimeno sono astuti e destri nel far la guerra; onde, perchè questo signore, come noi sappiamo, è molto temuto e obedito da loro, essi ogni astuzia e malizia tenteranno per cavarcelo dalle mani: sichè e questa notte e tutte l'altre appresso facciasi buona guardia e stiasi vigilante e con accorte sentinelle, acciochè ben provisti ci trovino". E cosí se n'andarono tutti a cenare, e il governator fece alla sua tavola sedere Atabalipa e lo fece servire come la sua persona propria; poi li fece dar delle sue donne che erano state prese quelle ch'egli volse per suo servigio, e li fece fare un buon letto nella medesima camera dove egli dormiva, e lo teneva sciolto senza prigione fuori che della guardia, che gli avevano sempre gli occhi sopra.
Durò la battaglia poco piú di mezza ora, perchè era già posto il sole quando s'incominciò: e se la notte non vi si fosse posta in mezzo, di piú di trentamila uomini che erano ve ne sarebbono restati pochi; ed è opinione d'alcuni che hanno veduta gente in campagna che questi erano piú di quarantamila. Ne restarono nella piazza morti duomila, senza i feriti. In questa battaglia si vidde una cosa maravigliosa, e fu che i cavalli, che il giorno innanzi non si potevano muovere per stare raffreddati e rappresi, andarono quel dí della battaglia con tanta furia che pareva che non avessero avuto mai male alcuno. Il capitan generale visitò quella notte le guardie e le sentinelle, ponendole in convenienti luoghi. La mattina seguente il governator mandò un capitano con trenta da cavallo a scorrere la campagna, e fece romper l'arme degl'Indiani; e in quel mezzo i cristiani che erano restati nella città fecero dagl'Indiani prigioni cavar via i morti dalle piazze. Il capitano con li suoi da cavallo raccolse quanto ritrovò in campagna con le tende d'Atabalipa, e avanti a mezzodí entrò nella città con una gran cavalcata d'uomini e donne, e con pecore e oro e argento e altre robbe. In queste spoglie vi fu d'oro (in valuta) ottantamila castigliani, e settemila marchi d'argento (ogni marco è otto oncie), e quattordici smeraldi. L'oro e l'argento erano in pezzi monstruosi, che erano piatti grandi e piccioli, e giarroni, e pignatte e brascieri, con altri grossi e varii pezzi. Atabalipa disse che tutti questi erano vasi per suo servigio, e che gl'Indiani suoi che fuggiti erano se ne avevano assai maggior quantità portato via. Il governatore fece lasciare libere tutte le pecore, che erano gran quantità e imbarazzavano il campo, e ordinò che i cristiani ogni giorno n'ammazzassero quante loro ne bisognavano. Poi fece porre su la piazza gl'Indiani che erano stati fatti prigioni la notte avanti, perchè li cristiani ne prendessero per sé quelli che lor bisognavano per lor servigio, e tutti gli altri fece liberare perchè se n'andassero alle case loro, perciochè di diverse provincie erano, e Atabalipa li conduceva per mantener le sue guerre e per servirsene nel suo grosso esercito. Furono alcuni d'opinione che si dovessero ammazzar tutti gl'Indiani che erano atti alla guerra, o che loro si tagliassero le mani; ma il governatore non l'acconsentí, dicendo che non era bene ad usare cosí gran crudeltà, e che, se bene era grande la potenzia d'Atabalipa, e poteva gran numero di gente raccorre, assai senza comparazione era maggiore il potere del grande Iddio, che per la sua infinita bontà sempre aiuta i suoi; e che tenessero di certo che egli, che gli aveva liberati dal pericolo del giorno avanti, li libererebbe anco per l'avvenire, poichè la lor intenzione era buona di tirar quelli infideli al suo servigio e al conoscimento della sua santa fede; e che non si volessero agl'Indiani assomigliare nella crudeltà e sacrificii che quelli fanno di coloro che prendono nelle guerre, e che ben bastavano quelli che erano morti nella battaglia, perchè quelli altri, che erano stati come pecore menati, non dovevano morire né ricever danno alcuno. E cosí furono sciolti e fatti liberi.


Della gran quantità delle vesti che ritrovorono in Caxamalcha, e dell'armi, e del modo del combattere che tengono gl'Indiani. Descrizione della stanza d'Atabalipa.

In questa città di Caxamalcha furono ritrovate certe case piene di veste infardellate, e cosí piene che fino al tetto questi fardelli accumulati giungevano: dicevano che stavano quivi queste robbe depositate e riposte per munizione dell'esercito. I nostri ne presero quelle che volsero, e pur tuttavia ne restarono le case cosí piene che pareva che non ve ne mancasse nulla. Le vesti erano le migliori che vi fossero in quelle Indie vedute, e la maggior parte erano di lana assai sottile e fine, e l'altre erano di cottone, di diversi colori e ben fini. L'arme che si ritrovarono, e con le quali facevano la guerra, e il modo che nel combattere tenevano era di questo modo. Nella avantiguardia andavano frombatori, che tiravano con le lor frombe pietre liscie di fossati e fatte a modo di ova, e portavano in braccio rotelle che essi stessi facevano di tavolette strette e forti, e portavano medesimamente giubboni imbottiti di cottone. Doppo di questi venivano altri con mazze cocche e con azze. Le mazze cocche sono lunghe duo braccia e mezzo e grosse quanto è una lancia ginetta, e il grosso che era nella punta era di metallo, grande quanto un pugno, con cinque o sei punte aguzze, ognuna grossa quanto è il primo deto della mano: e giuocano queste mazze cocche a due mani. L'azze sono della medesima grandezza e maggiori, e il lor taglio di metallo e lungo un palmo, come d'alabarda. Vi sono anco alcune azze e mazze cocche d'oro e d'argento, che i principali le portano. Dietro a questi vengono altri con lancie piccole da trarle come dardi; nella retroguardia vanno picchieri con lancie lunghe di trenta palmi, e nel braccio sinistro portano una manica con molto cottone; e tutti vanno compartiti nelle lor squadre, con le sue bandiere e capitani che gli comandano, e con tanto ordine con quanto guerreggiano i Turchi. Alcuni di loro portano certi celatoni di legno grandi che gli cuoprono fino agli occhi, con molto cottone dentro, e cosí forti che non potrebbono esser piú se fossero di ferro. Queste genti che aveva nel suo esercito Atabalipa erano tutte assai atte ed esercitate nella guerra, perchè sempre guerreggiavano, ed erano giovani e di gran corpo, tal che mille soli di loro avrebbono desolata una di quelle terre, ancorchè vi fossero stati ventimila uomini.
La casa dell'alloggiamento che teneva Atabalipa nel campo era la miglior che fra Indiani veduta si fosse, ancorchè fosse stata picciola, perchè ella era distinta in quattro appartamenti, e nel lor mezzo era un cortile, nel quale era uno stagnetto o piscina dove veniva l'acqua per un aquedotto, cosí calda che non vi si poteva tener la mano. Questa acqua nasceva bollendo in un monte che era quivi presso; altrettanta acqua fresca veniva per un altro aquedotto, e per cammino si congiungevano insieme, e per un solo aquedotto venivano poi amendue mescolate nella piscina: e quando volevano che una sola vi venisse, divertivano l'aquedotto dall'altro. Lo stagno era grandicello e fatto di pietra. Fuora della casa da una parte del cortile stava un altro stagno o piscina, non cosí ben fatto come il primo, e vi sono le sue belle scale di pietra, onde si scende giú da chi vuole bagnarsi. L'alloggiamento dove Atabalipa stava il giorno era un balcone sopra un orto, e presso v'era una camera dove dormiva, con una finestra che rispondeva sopra al cortile e allo stagno; e il balcone medesimamente sopra al cortile rispondeva. Le mura stavano ingessate d'un bitume vermiglio assai meglio che magra, e luceva molto, e i legni del detto erano del medesimo colore tinti. L'altro appartamento di fronte era con quattro volte tonde come capanne, tutte quattro incorporate in una, e stava ingessato di color bianco come neve; gli altri duo appartamenti erano case per suo servizio. E dalla parte dinanzi di questo alloggiamento discorre e passa un fiume.


Narrazione in qual modo Atabalipa si fece signore d'un gran stato dopo la morte del Cusco suo padre. Della grandezza d'oro e d'argento ed edificii quali si ritrovano nella città del Cusco. Della città di Collao; della provincia Guaneso e Chincha, abbondantissime di miniere d'oro e d'argento, e come lo cavano, e della gran quantità che n'offerisce Atabalipa per suo riscatto.

S'è detto della vittoria che i nostri ebbero nella battaglia e prigionia d'Atabalipa, e della maniera del suo campo ed esercito; diciamo ora un poco del padre di lui, e come si fece signore, e d'altre cose della grandezza sua, secondo che Atabalipa stesso al governatore raccontò. Il padre suo adunque, chiamato il Cusco, signoreggiò tutta quella contrada, tal che in piú di trecento leghe di paese l'obedivano e li davano tributo. La propria sua patria fu una provincia piú in là di Guito, e perchè ritrovò quella terra, dove poi stette, assai deliziosa, abondante e ricca, vi si fermò e pose nome ad una città dove stava la città del Cusco. Era tanto obedito e temuto che lo tennero quasi per loro Iddio, e molte terre l'avevano fatto scolpire e ne tenevano le statue. Ebbe cento figliuoli e figliuole, e la maggior parte, a questo tempo della prigionia d'Atabalipa, erano vivi. Sono otto anni che egli morí, e lasciò suo successore un suo figliuolo chiamato medesimamente il Cusco. Questo era figliuolo d'una moglie legitima: chiamano moglie legitima la piú principale e quella che è piú amata dal marito. Lasciò il Cusco vecchio signore della provincia di Guito, separata da quello altro stato principale, Atabalipa, che era minore del Cusco giovane. Il corpo del Cusco vecchio sta nella provincia di Guito, dove morí, ma la testa fu portata nella città del Cusco, dove in gran riverenza la tengono, con gran ricchezze d'oro e d'argento: perchè la casa dove ella sta ha il suolo, le mura e il tetto di piastre d'oro e d'argento, inserito l'un con l'altro. E in quella stessa città sono venti altre case, le cui mura sono e di dentro e di fuori coverte di certe laminette o sfoglie sottili d'oro, e vi sono di piú molti altri ricchi edificii; e ivi teneva il Cusco il suo tesoro, che erano tre case piene di pezzi d'oro e cinque piene d'argento, e centomila piastrelle o tegolette d'oro che avevano cavato dalle minere, e ogni tegola pesava cinquanta castigliani: e questo l'aveva avuto di tributo dalle terre che signoreggiava. E davanti a quella città n'era un'altra chiamata Collao, dove è un fiume che ha molta quantità d'oro. Dieci giornate dalla provincia di Caxamalca è un'altra provincia chiamata Guaneso, nella quale è medesimamente un fiume cosí ricco d'oro come quel di Collao. E in tutte queste provincie sono molte minere d'oro e d'argento, e cavano nelle montagne con poco travaglio l'argento, intanto che un Indiano ne cava in un giorno fino a cinque o sei marchi, e lo cavano ravvolto e misto con piombo e stagno e solfo, e dapoi lo purificano: e per meglio raccorlo attaccano fuoco al monte, perchè, accendendosi il solfo, vien l'argento a cadere giú a pezzi. E le migliori e maggiori minere sono in Guito e in Chincha. Da Caxamalca alla città del Cusco sono quaranta grosse giornate, e si trova sempre la terra tutta abitata, e nel mezzo di questo cammino sta Chincha, che è un gran popolo. E in tutto questo paese sono gran greggi di pecore, delle quali se ne fanno molte selvagge per li boschi, perchè per la gran copia loro non si possono mantenere. Fra gli Spagnuoli che erano col governatore se n'ammazzavano ogni dí centocinquanta, e non pareva che ve ne mancasse alcuna, e il medesimo sarebbe paruto se fussero stati in quella valle un anno: e per tutto quel paese le mangiano gl'Indiani ordinariamente.
Diceva anco Atabalipa che, doppo la morte di suo padre, esso era vivuto in pace con suo fratello sette anni, vivendosi ciascuno di loro nella parte dello stato che gli era stato lasciato dal Cusco vecchio, e che poteva essere poco piú d'uno anno che suo fratello gli aveva mosso guerra, con pensiero di cacciarlo dallo stato suo; e che, avendolo esso fatto pregare che lo lasciasse stare in pace in quella signoria che suo padre lasciata gli aveva, non aveva potuto ottenerlo, onde era stato forzato ad uscire della sua provincia chiamata Guito con quelle piú genti che puoté, e in Tomipomba aveva fatto col fratello battaglia, nella quale era stato vincitore, e morti piú di mille degl'inimici. E perchè il popolo di Tomipomba s'era posto in difesa, l'aveva brucciato e non v'aveva lasciato uomo vivo, e avendo animo di fare il somigliante a tutte l'altre terre di quella provincia, non l'aveva fatto, per volere seguire il Cusco suo fratello, che fuggendo s'era alla terra sua ritirato; onde seguendolo aveva con gran sforzo tutto il paese soggiogato, perchè tutte le terre se gli davano, sapendo la gran rovina che gli aveva in Tomipomba fatto. Ed erano già sei mesi che esso aveva mandati due paggi suoi, assai valenti uomini, l'un chiamato Chischis e l'altro Cialiacin, con quarantamila uomini sopra la città di suo fratello, i quali avevano tutta la provincia acquistata fino a quella città dove il Cusco stava, e gliela avevano finalmente tolta a forza, con ammazzarvi molte genti e con farvi lui prigione e prendervi tutto il tesoro del Cusco vecchio. Il che quando Atabalipa aveva inteso, aveva mandato ad ordinare a quelli suoi che li menassero prigione il fratello, e aveva avuto poi nuova che sarebbono presto venuti con gran tesoro; ma quelli duo suoi capitani s'erano restati in quella città che conquistata avevano, per guardarla insieme col tesoro che v'era, e vi stavano con diecimila uomini di guarnigione, perchè gli altri trentamila se n'erano ritornati a riposarsi alle case loro con la preda che guadagnata avevano. E a questo modo Atabalipa era signore di quanto suo fratello possedeva.
Soleva Atabalipa con quelli suoi capitani generali andare in lettica. E doppo che aveva quella guerra incominciata, aveva molte genti morte e fatto gran crudeltà con gli aversarii, e teneva con seco tutti li caciqui delle terre che aveva conquistate, nelle quali aveva posti nuovi governatori, perchè d'altro modo non avrebbe mai potuto tenere cosí pacifica e soggetta tutta quella provincia; onde per questa via v'è stato molto temuto e obedito, e le sue genti di guerra assai ben servite dai popoli e da lui ben trattate. Egli aveva pensiero, se non gli accadeva d'essere preso, di ritornarsi a riposare alla terra sua, e per viaggio rovinare tutti quelli popoli della provincia di Tomipomba che se gli erano posti in difesa, e mandarvi nuove genti ad abitarla, perchè voleva che i suoi capitani li mandassero, per fare riabitare poi Tomipomba, quattromila uomini accasati della gente del Cusco che conquistata avevano.
Ora Atabalipa disse al governatore Pizarro che li darebbe in mano il Cusco suo fratello, che gli suoi capitani li mandavano prigione, perchè esso ne facesse quello che piú volesse; e perchè temeva che gli Spagnuoli non avessero anco ammazzato lui stesso, disse al governatore che darebbe una gran quantità d'oro e d'argento per gli Spagnuoli che preso l'avevano. E dimandato che quantità ne darebbe e fra che termine, rispose che avrebbe dato d'oro una sala che era ivi, ed era ventiduo piedi lunga e diciassette larga, piena fino ad una certa linea bianca che si vedeva nella metà della sua altezza, che poteva essere questa altezza dal suolo fino a quella linea quanto è una volta e mezza alto un uomo. Ora fino a questa misura disse che avrebbe quella sala piena di diversi pezzi d'oro, come son cocomi grandi, pignatte o vasi grandi da cucinare, e tegole e piastrelle e altri pezzi, e che d'argento ne avrebbe dato due volte piena quella casa, e che questo l'attenderebbe fra il termine di due mesi. Il governatore gli disse che dispaciasse i messi suoi a fare questo effetto, e che, facendolo venire, non avesse timore alcuno. Atabalipa mandò tosto messi alli suoi capitani che nella città del Cusco stavano, che li mandassero duomila Indiani carichi d'oro, con molti altri carichi d'argento: e questo era senza quello che era già in viaggio, e veniva col suo fratello prigione. Dimandato dal governatore quanto avrebbono tardato i suoi messi a giungere alla città del Cusco, rispose che, quando mandava in fretta per volere fare intendere alcuna cosa, v'andavano correndo in poste di terra in terra, e vi giungeva l'aviso in cinque dí; ma che, quando li messi andavano di lungo, ancorchè fussero persone disciolte e preste, vi tardavano quindeci dí ad andare. Dimandato medesimamente perchè avesse fatto ammazzare alcuni Indiani, che avevano nel suo campo ritrovati morti li cristiani che avevano raccolta la preda, rispose che, quel dí che esso aveva mandato Fernando Pizarro suo fratello nel campo a parlarli, un cristiano aveva spinto e rimesso un cavallo, e quelli che morti stavano s'erano ritirati per paura, e che perciò gli aveva esso fatti morire.


Descrizione e statura del corpo d'Atabalipa. D'una moschea nella quale adorano i loro idoli. Della chiesa edificata da' Spagnuoli in Caxamalcha. Della morte del Cusco, fratello d'Atabalipa. Dell'arrivar nel porto di Canzebi il capitan Diego d'Almagro con molti Spagnuoli e cavalli.

Era Atabalipa uomo di trenta anni, di buona persona e disposto, grosso alquanto e col viso grande e bello, ma fiero, e con gli occhi macchiati di sangue. Parlava con molta gravità, come gran signore, e faceva assai vivi ragionamenti, onde gli Spagnuoli che l'intendevano ne cavavano e s'accorgevano che egli era persona savia. Era uomo allegro, ancorchè crudele, ma quando parlava co' suoi non mostrava allegrezza, ma sí ben viso fiero e grave. Fra l'altre cose disse Atabalipa al governatore che, dieci giornate lontano da Caxamalcha per la strada del Cusco, era in una certa terra una moschea che era un tempio generale di tutta quella contrada, e che era molto ricca d'oro e d'argento, che tutti ad offerire v'andavano, e che suo padre in gran venerazione l'ebbe ed egli poi ancora medesimamente; e che, se bene in ogni terra era una moschea, dove hanno i loro particolari idoli che adorano, in quella cosí ricca nondimeno stava un idolo generale di tutti i loro; e che per guardia di questo ricco tempio stava un gran savio, che gl'Indiani credevano che le cose future sapesse, e che l'intendesse da quell'idolo col quale parlava. Quando il governatore intese questo, ancorchè prima di questa moschea notizia avesse, diede ad intendere ad Atabalipa come tutti quegl'idoli erano una vanità, e che il demonio parlava in loro per ingannarli e mandarli a perdere, come v'aveva mandati tutti quelli che erano vivuti e morti in simile credenza. E li diede ad intendere che Iddio è un solo, e che ha creato il cielo e la terra e tutte le cose visibili e invisibili, e al quale li cristiani credono; e che questo solo si debbe tenere da tutti per Iddio e far quello ch'egli comanda, ricevendo l'acqua del santo battesimo, perchè a questo modo facendo n'andrebbono nel suo celeste regno, là dove gli altri andrebbono alle pene eterne dell'inferno ad ardere per sempre, per avere in questo mondo servito al demonio con sacrificargli e offerirgli e drizzargli le moschee. Ma che tutto questo d'allora avanti cesserebbe, perchè a questo effetto l'aveva mandato l'imperatore, che era re e signore de' cristiani e di tutti loro, e che per questo aveva Iddio permesso ch'egli con tanto sforzo di gente fosse stato rotto e preso da cosí pochi cristiani: onde poteva vedere quanto poco aiuto avuto avesse dalli suoi idoli, e come era stato il demonio che ingannato l'avea. Atabalipa rispose che, perchè né egli né i suoi passati non avevano mai veduto cristiani, non avevano saputo questo, e perciò egli era come gli altri vivuto. E stava Atabalipa attonito di quello che gli aveva il governatore detto, e ben s'accorgeva e conosceva che quel che nel suo idolo parlava non era il vero Iddio, poichè cosí poco ne' suoi bisogni l'aveva aiutato.
Quando il governatore si fu con gli suoi Spagnuoli riposato del travaglio del cammino e della battaglia, mandò tosto messi al popolo di San Michiele, facendo a' suoi cristiani intendere quanto avenuto era, e desiderando d'intendere da loro come passavano, e se era vassello alcuno venuto di Panama: di che ordinò che fusse tosto avisato. Poi fece far nella piazza di Caxamalca una chiesa, dove la messa santa si celebrasse, e fece la muraglia della piazza circondata rovinare, perchè era bassa, e la fece rifar di calcina e terra, alta quanto è due volte un uomo, e che girava attorno 550 passi. Fece molte altre cose anco fare per guardia di questi suoi alloggiamenti, e ogni dí s'andava informando se ragunanza alcuna di gente si faceva, e dell'altre cose che per la contrada passavano.
I caciqui di questa provincia, quando intesero la venuta del governatore e la presa d'Atabalipa, vennero molti di loro in Caxamalca come amici e in pace. Ed erano alcuni di loro signori di trentamila Indiani, e tutti erano ad Atabalipa soggetti, onde, giungendoli davanti, gran segni di rispetto e d'umiltà gli usavano, baciandoli i piedi e le mani: ed egli li riceveva senza guardarli. È cosa di maraviglia a dir la gravità che Atabalipa teneva, e la molta obedienzia che tutti gli davano: ogni dí li portavano da tutta la provincia molti presenti, onde egli, cosí prigione come era, stava da signore e si mostrava molto allegro. Ben è il vero che il governator lo trattava bene, benchè gli dicesse alcuna volta che avevano i nostri da alcuni Indiani inteso come egli faceva radunar insieme genti da guerra in Guamacuco e in altri luoghi; ma egli rispondeva che in tutta quella contrada non era chi si movesse senza sua licenzia, e che perciò tenesse per certo, se gente di guerra avesse mai veduta, che per suo ordine ragunata e venuta fosse: che allora avesse fatto di sé quello che piú piacciuto gli fosse, poichè suo prigione era. Molte cose dissero gl'Indiani che furono bugie, e ne fecero spesso alterare i nostri.
Fra molti messi che ad Atabalipa venivano, ne venne uno di quelli che conducevano il suo fratello prigione, e li disse che, quando i suoi capitani avevano inteso che egli era stato preso, avean già il Cusco morto. Il governator, quando l'intese, mostrò di risentirsi forte di questo, e disse che non era vero che l'avessero morto, e che perciò il conducessero presto vivo, se non volevano ch'egli facesse tosto morire Atabalipa. Ma Atabalipa affermava e diceva che li suoi capitani l'avevano morto senza saputa sua, e il governatore informandosene bene dalli messi, fu chiarito che era morto. Doppo di queste cose, alquanti dí appresso venne gente d'Atabalipa con un suo fratello, che venivano dal Cusco e gli menavano certe sue sorelle e mogli, con molti vasi d'oro in cocomi e giarroni grandi e vasi grandi da cucinare e altri pezzi, e con molto argento, e dicevano che assai piú ne veniva appresso per il cammino, perciochè, per essere lungo il viaggio, si stancavano gl'Indiani che 'l portavano e non potevano cosí presto giungere: onde ogni dí sarebbe assai oro e argento venuto. E cosí era, perchè ciascun dí ne venivano quando ventimila e quando trentamila e quando cinquantamila e alcun dí sessantamila castigliani d'oro di valuta, in varii vasi grandi d'oro e d'argento: e tutti gli faceva il governator porre in una casa, dove Atabalipa teneva le guardie sue, finchè con quest'oro e con quello che venir doveva si fornisse quello che egli aveva promesso.
A' venti di dicembre del medesimo anno, giunsero quivi certi messi del popolo di San Michiele con una lettera al governatore, avisandolo come erano in quella costiera giunte in un porto chiamato Cancebi, che è presso a Quaque, sei navi, con 150 Spagnuoli e con 84 cavalli; e che tre di questi vasselli venivano di Panama col capitan Diego d'Almagro, che conduceva 120 uomini, e l'altre tre caravelle venivano con trenta uomini da Nicoragua, e che venivano in questo governo con volontà di servirvi. E che da Cancebi, doppo che furono le genti e i cavalli smontati per venir per terra, era passato un vassello avanti per intendere dove fosse il governatore, ed era giunto fino a Tumbez, dove il cacique di quella provincia non gli aveva voluto dar nuova, né mostrar loro la carta che gli aveva il governator lasciata, perchè la desse alle navi che quivi capitassero; sí che questo vassello se n'era ritornato adietro, senza averne potuto aver nuova alcuna. E che un altro legno, che li s'era mosso dietro, seguendo avanti era giunto al porto di San Michiele, dove era smontato il padrone: e s'era in quella città fatto gran festa per la venuta di queste genti; e che tosto se n'era ritornato questo padrone adietro, con le lettere che aveva il governator mandate a' nostri di San Michiele, facendo loro intender quella vittoria che Iddio aveva lor data e le gran ricchezze di quella terra. Ora il governatore e tutti gli altri che erano seco ebbero gran piacere della venuta di questi vasselli; e tosto il governator scrisse al capitan Diego d'Almagro e ad alcune persone che con lui venivano, mostrando quanto piacer avesse della venuta loro, dicendo che, giunti che fossero al popolo di San Michiele, acciochè non l'aggravassero, se ne passassero agli altri caciqui convicini, che stavano per il cammino di Caxamalcha e che avevano gran copia di vettovaglie; e che egli fra tanto avrebbe provisto a far fonder oro, per pagare il nolo di quelli vasselli, acciochè tosto se ne ritornassero adietro.


Atabalipa fa incatenar un sacerdote d'una moschea, per avergli detto che vincerebbe la guerra contro i cristiani, e la moschea manda a spogliare di gran quantità d'oro e d'argento, che quivi si trovava.

Perchè ogni dí venivano caciqui a vedere e parlare col governatore, ve ne vennero fra gli altri duoi chiamati caciqui delli ladroni, perchè le lor genti assaltano e assassinano quanti passano per quella terra loro: e questi stanno per il cammino che va al Cusco. In capo di sessanta giorni doppo la presa d'Atabalipa, un cacique della terra dove sta quella gran moschea e il guardiano stesso di quella vennero davanti al governator, e dimandato Atabalipa chi questi fossero, glielo disse, e soggiunse che egli aveva piacer del venir loro, perchè voleva al sacerdote far pagar le mentite che gli aveva dette: e dimandò una catena per gettargliela al collo, poichè gli aveva già consigliato che guerreggiasse con cristiani e che gli avrebbe ammazzati tutti, che cosí gli aveva detto l'idolo, e poichè aveva anco al Cusco suo padre detto, stando su la morte, che non morrebbe di quella infermità. Il governatore fece venire la catena ed egli incatenò quel sacerdote, dicendo che non lo sciogliessero finchè facesse venir tutto l'oro della moschea, perchè lo voleva dar a' cristiani, poichè il suo idolo era bugiardo: "E ora vedrò, - soggiunse, - se esso ti torrà questa catena, poichè tu dici che egli è il tuo Dio". Il governatore e il cacique che era con questo sacerdote venuto mandarono i loro messi, perchè l'oro della moschea venisse con quanto il cacique n'aveva: e il ritorno dicevano che sarebbe stato fra cinquanta giorni. Ma, avendo con tutto questo il governatore inteso che nella provincia si facevano gente, e che in Guamachuco (che è lontana tre giornate da Caxamalca) se n'erano raunate molte da guerra, vi mandò Fernando Pizarro con venti da cavallo e alquanti da piedi, per sapere quello che questo fusse, e perchè si facesse condurre l'oro e l'argento che in Guamachuco stava.
Il capitano Fernando Pizarro il dí della Epifania del 1533 partí da Caxamalca, dove quindeci giorni appresso vennero certi cristiani con gran quantità d'oro e d'argento, che lo conducevano con piú di trecento carichi, in varii e gran pezzi di vasi: e il governatore lo fece tutto porre con l'altro che era venuto prima, in una stanza dove Atabalipa teneva le guardie, dicendo che ne voleva avere buona cura, poichè doveva compire quello che si ritrovava promesso, e l'aveva poi a consegnare tutto insieme. E il governatore, perchè a miglior ricapito stesse, vi pose alquanti cristiani a guardarlo di dí e di notte; e quando in quella stanza si poneva, annoveravano tutti i pezzi, perchè non vi fusse fatto fraude. Con questo oro e argento venne un fratello d'Atabalipa, e disse che in Xauxa restava maggior quantità d'oro, e che già tuttavia si conduceva, e con esso veniva un de' suoi capitani, chiamato Chilichuchima. Fernando Pizarro scrisse al governatore che esso s'era informato delle cose della terra, e non aveva nuova alcuna di raunanza di gente né d'altra cosa, se non che l'oro stava in Xauxa e lo conduceva un capitano d'Atabalipa; e che l'avisasse di quello che voleva che facesse, e se li comandava che passasse innanzi, perchè finchè avesse risposta sua non si partirebbe. Il governatore li rispose che passasse innanzi finchè giungesse alla moschea, perchè aveva seco prigione il sacerdote, e Atabalipa aveva mandato a condurre il tesoro che ivi era; e che perciò esso s'affrettasse di mandare presto quanto oro nella moschea fusse, e che d'ogni terra gli scrivesse tutto quello che per il cammino gli succedeva: e il capitano Fernando cosí fece. Ma il governatore, veggendo quanto si differiva il portare dell'oro, mandò tre cristiani perchè sollecitassero e facessero venire quell'oro che era giunto in Xauxa, e che andassero a vedere la città del Cusco; e ad un delli tre diede potestà di potere in suo luogo in nome di sua Maestà prendere la possessione del Cusco e di tutto il convicino, in presenza d'un notaio publico che con loro andava. E con questi mandò un fratello d'Atabalipa, avendo loro espressamente comandato che non facessero male alcuno a niuno di que' popoli, né togliessero ad alcuno nulla contra lor volontà, né facessero piú di quello che a quel principale che con loro andava piacesse, acciochè non vi fussero da quella gente morti, e procurassero di vedere il popolo del Cusco e portassero d'ogni cosa relazione. E cosí costoro partirono di Caxamalca a' quindeci di febraro del sopra detto anno.
Il capitano Diego d'Almagro giunse con alcune genti in Caxamalca il dí di Pasqua nel medesimo anno, che fu a' tredeci d'aprile e vi fu ben ricevuto dal governatore e dagli altri che con lui stavano. Un negro che partí con quelli cristiani che andavano al Cusco ritornò a' ventiotto d'aprile con 107 carichi d'oro e sette d'argento, e si ritornò da Xauxa, dove ritrovarono gl'Indiani che con l'oro venivano; e disse questo negro che il capitan Fernando Pizarro verrebbe assai presto, perchè era andato in Xauxa a vedere Chilichuchima. Il governatore fece porre tutto questo oro con l'altro e fece contare tutti i pezzi. A' venticinque di maggio ritornò in Caxamalca il capitano Pizarro, con tutti li cristiani che seco menati aveva e con Chilichuchima, e fu dal governatore e da tutti gli altri che con lui erano assai bene ricevuto. Egli portò dalla moschea ventisette carichi d'oro e duemila marchi d'argento, e diede al governatore la seguente relazione e annotamento del suo viaggio, che fatto aveva il proveditore Michiele Estete, che andato era con lui.



La relazione del viaggio che fece il capitano Fernando Pizarro per ordine del governatore suo fratello, da che partì dal popolo di Caxamalca per andare a Xauxa finchè ritornò.



Il Pizarro parte di Caxamalca con alquanti Spagnuoli; giungono a Guancasanga e Guamachuco città, dove sono avisati Chilichuchima capitano ritrovarsi con gente da guerra in campagna per assaltar i cristiani. Seguendo il viaggio vanno ad Andamarcha e d'indi a Totopamba, e poscia a Corongo e poi a Pinga, e da Pumapecha cacique hanno cortesie; e d'indi a Guarua, a Sucaracoay, a Pachicoto e a Marcara città.

Il dí della Epifania, a' sei di gennaro del 1533, partí il capitano Fernando Pizarro dalla città di Caxamalca con venti da cavallo e con certi schiopettieri a piedi, e quel dí stesso andò a dormire in un certo luoghetto cinque leghe indi lungi. Il secondo giorno andò a mangiare ad una terra chiamata Ychoca, dove fu ben ricevuto, e v'ebbe tutto quello che e per sé e per le sue genti li faceva di bisogno. Andò poi la sera a dormire ad una terra picciola chiamata Guancasanga, soggetta alla città di Guamachuco, alla quale la mattina seguente giunse: ed è questa città assai grande e situata in una valle posta fra monti; ha buona vista e stanza, e il suo signore si chiama Guamanchoro, dal quale fu il capitano con gli altri suoi ben ricevuto. Qui giunse il fratello d'Atabalipa, che andava a sollecitare che l'oro del Cusco venisse, e da lui intese il capitano che venti giornate di là era il capitan Chilichuchima, che portava tutta la quantità dell'oro che aveva l'Atabalipa ordinato che venisse. Quando il Pizarro intese che l'oro tanto lontano fusse, mandò un messo al governatore, per sapere quello che egli voleva che facesse, che egli non si partirebbe finchè avesse sua risposta. In questa terra s'informò d'alcuni Indiani se era vero che Chilichuchima cosí lontano fusse, e alcuni Indiani principali, astretti forte da lui, li dissero che Chilichuchima si trovava sette leghe indi lungi, nella città d'Andamarca, con ventimila uomini da guerra, e che veniva per ammazzare i cristiani e per liberare il suo signore: e colui che questo confessò disse di piú che esso aveva con lui il giorno avanti mangiato. Interrogato un altro compagno di questo principale, disse il medesimo. Per la qual cosa deliberò il capitano d'andare a vedere e affrontarsi con Chilichuchima, e, poste le sue genti in ordine, prese quella strada, e quel dí andò a dormire ad una terra picciola chiamata Tambo e soggetta a Guamachuco: e quivi si ritornò ad informare di nuovo, e a quanti Indiani dimandava, tutti li dicevano quello stesso che gli avevano i primi detto. In questa terra fece fare buona guardia tutta la notte, e la mattina seguente, seguendo con molto ordine il suo viaggio, avanti a mezzodí giunse alla città d'Andamarca, e non vi ritrovò quel capitano né nuova alcuna di lui, fuori che quello che gli aveva detto il fratello d'Atabalipa, cioè che era in Xauxa con tutto quello oro, e veniva tuttavia alla volta di Caxamalca, dove era il governatore.
Quivi in Andamarca giunse la risposta del governatore, che li diceva che, poichè aveva notizia che Chilicuchima con l'oro cosí lontano fusse, perchè esso aveva in potere suo il sacerdote della moschea di Pachacama, s'informasse del cammino che era per andare là, e parendoli d'andarvi per quell'oro che ivi era v'andasse, mentre quell'altro del Cusco verrebbe. Il capitano allora s'informò del cammino e delle giornate che erano per andare alla moschea, e, benchè la sua gente andasse mal provista di ferri e d'altre cose necessarie per cosí lungo viaggio, vedendo nondimeno che si faceva servigio a sua Maestà in andare per quell'oro, acciochè gli Indiani, in quel mezzo nol trabalzassero, e medesimamente per vedere la contrada, e se era atta a popolarsi e abitarsi da' cristiani, deliberò d'andarvi, se bene aveva inteso che per quel cammino erano molti fiumi e ponti di rete con altri cattivi passi. Egli menò seco alcuni Indiani principali che erano in quella contrada stati, e cosí si partí a' quattordeci di gennaro per quel viaggio; e quel dí stesso passò alcuni cattivi passi e duo fiumi, e andò a dormire ad una terra chiamata Totopamba, dove fu ben ricevuto dagl'Indiani e ne ebbe ben da mangiare, con quanto per quella notte bisognò, e n'ebbe anco Indiani, perchè aiutassero loro a portare le lor bisogne. L'altro giorno cavalcando andò ad alloggiare ad una terra picciola chiamata Corongo. Nel mezzo di questo cammino sta un gran passo di neve, e per tutta la strada gran quantità di bestiame, co' lor pastori che lo guardavano, che tenevano le lor case per li monti al modo di Spagna. In questa terra ebbero i nostri da mangiare con quanto fu lor di bisogno, e Indiani anco, che gli aiutassero a portare le loro robbe; ed è questo popolo soggetto a Guamanchoro. L'altro dí andò ad alloggiare la sera ad un'altra picciola terra chiamata Pinga, e non vi fu ritrovato niuno, perchè se n'erano tutti fuggiti per paura: e fu questa una giornata di cattiva strada, perchè v'era una scesa di scalini fatta nel sasso stesso, assai difficile e pericolosa per li cavalli. L'altro dí ad ora da mangiare giunsero ad una gran città posta in una valle, ma nel mezzo del cammino è un gran fiume che furiosamente corre, e vi sono duoi ponti vicini, fatti di rete a questo modo: dall'una ripa all'altra del fiume tengono ben legate a due muraglie (che su le ripe con buoni fondamenti fanno) e attestate certe corde grosse quanto una coscia l'una e fatte di besciuco, che sono quelli vitaggi lungi, che sono fortissimi; e dall'una corda all'altra, che è dell'ampiezza d'una carretta, il ponte v'attraversano e intessono certe altre cordelle forti, e per di sotto v'attaccano certe pietre grosse per contrapeso del ponte. Per l'uno di questi duoi ponti passano le genti communi, e vi è un guardiano che riscuote il passo, e per l'altro ponte passano i signori e capitani loro, e perciò lo tengono sempre chiuso: ma l'aprirono perchè passasse il capitan nostro con le sue genti, e i cavalli acconciamente vi passarono. In questa terra si riposò il capitano duoi giorni, perchè la gente e i cavalli andavano stanchi della mala strada, e v'ebbero molta cortesia, con quanto lor bisognava; e il signor di questa terra si chiamava Pumapaecha.
Il dí seguente si partí il capitan da questa terra, e andò a mangiare ad un picciol villaggio, e v'ebbe tutto il bisogno: e quivi presso si passò un altro ponte di rete come il primo; e andò la sera a dormire due leghe indi lungi ad una terra, donde uscirono a riceverlo pacificamente, e gli diedero da mangiare e Indiani per condurre le loro robbe. Questa giornata fu giú per una valle, piena di maizali e di picciole ville dall'una parte e dall'altra della strada. La mattina seguente, che era domenica, andò ad un'altra terra, dove la mattina furono assai ben tutti i nostri serviti; e la sera andarono ad alloggiar ad un'altra terra, dove furono assai ben serviti medesimamente, e n'ebbero molte pecore, con tutto quello che fu lor di bisogno. Tutta quella contrada è copiosa di bestiame e di maiz, e i nostri per tutto quel cammino ritrovavano infiniti greggi di pecore. La mattina seguente, cavalcando per quella valle, andò il capitan a desinar ad una gran città chiamata Guarax, e n'era signor un che si chiamava Pumacapiglay, dal quale e dalli suoi Indiani ebbero i nostri da mangiare, e gente che lor servissero nel portarli le robbe in vece di vetture. Questa terra è posta in un piano e vi passa un fiume da presso, e si veggono da questa terra altri popoli con molto bestiame e maiz: e solo per dar a mangiare al capitano con la sua gente, tenevano rinchiuse nel cortile dugento capi di bestie. Di quivi partí il capitano assai tardi, e andò a dormire ad un'altra terra chiamata Sucaracoay, dove fu ben ricevuto; e il signore del luogo si chiama Marcocana. Quivi si riposò il capitano un giorno, perchè la gente e i cavalli andavano molto stanchi del cammino cattivo che fatto avevano; e vi stette con buona guardia, perchè la terra era grande, e Chilichuchima vi era assai presso con cinquantacinquemila uomini. L'altro giorno poi partendo cavalcò per una valle piena di lavorecci e di bestiame, e andò due leghe, per dormire la notte in una terra picciola chiamata Pachicoto. Quivi lasciò il capitano la strada reale che va al Cusco, e tolse quella che va per li piani. La mattina seguente adunque partendo andò a dormire a Marcara, della qual terra era signore uno che si chiamava Corcara, il quale era molto ricco d'armenti, per la bontà della contrada ne' pascoli. Da questa terra corrono l'acque verso il mare e la strada si fa difficile e aspra, perchè tutto il paese adentro è molto freddo e pieno di acqua e di neve, e la costiera del mar molto calda; e vi piove tanto poco che non basta per li seminati loro, onde vi proveggono irrigando la terra con l'acque che scorrono giú dai monti, e cosí la contrada viene ad essere fertile e copiosa di vettovaglie e frutti.


Passano per le terre di Guaracanga, Parpunga, Guamamayo, Guarua, Glachu, detta delle Pernice, Suculacumbi, e a Pacachama, città della moschea ricca, nella quale entrano e distruggono la capella e spezzano l'idolo, facendo sapere agl'Indiani quello essere il diavolo.

Partendo il dí seguente il capitano camminò giú per un fiume pieno di lavorecci e d'alberi fruttiferi, e andò ad alloggiare ad una terra picciola chiamata Guaracangua. L'altro dí andò a dormire ad una terra grossa chiamata Parpunga, che sta presso al mare, e vi è un forte palagio con cinque mura attorno, e dipinto di molti lavori per dentro e per fuori, con le sue porte assai ben lavorate al modo di Spagna, con duoi tigri alla porta principale. Gl'Indiani di questo luogo andarono fuggendo per paura, veggendo una gente non mai da lor prima veduta, e i cavalli, de' quali maggiormente si maravigliavano; ma il capitano fece loro dall'interprete parlare e dire che non dubitassero e non fuggissero, e cosí, essendosi assicurati, servirono bene in quanto avevano i nostri di bisogno. In questa terra riprese il capitano un'altra strada piú larga, ma fatta a mano, che per le terre della marina va, con mura dall'una parte e dall'altra fatte di terra e calce. In Parpunga stette duoi giorni, perchè la gente si riposasse, e per aspettare di potere ferrare i cavalli. Partendo poi con la sua gente, passarono un fiume con certe barchette fatte di travi commessi insieme, e i cavalli a nuoto, e dormirono ad una terra chiamata Guamamayo, che sta quasi sopra al mare posta; e quivi presso si passò anco un fiume a nuoto, con gran difficoltà, perchè andava assai grosso e furioso. In questi fiumi delle marine non sono ponti, perchè vanno grossi e vi calano giú gran ramate. Il signore di questa terra e le genti sue s'oprarono molto in aiutar a passare le robbe de' nostri che portavano, e diedero lor ben da mangiare e gente per condur le bagaglie. Poi si partí e andò il capitano ad alloggiare ad un'altra terra soggetta a Guamamayo, che sono tre leghe di strada, la maggior parte con lavorecci e alberi di varii frutti: ed era il camino tutto polito e inastricato. Poi andò a dormir ad una gran terra posta presso al mare, ed è chiamata Guarua, e ben situata e con grandi edificii e alloggiamenti: li nostri vi furono ben serviti dalli signori della terra e da' loro Indiani, e n'ebbero quanto faceva lor per quel dí di bisogno. Il dí seguente andarono ad alloggiare a Gliachu, alla qual terra i nostri posero nome delle Pernici, perchè in ogni casa vedevano molte pernici poste in gabbie. Gl'Indiani di questo luogo uscirono molto pacifici co' nostri, e fecero gran festa al capitano e lo servirono assai bene, ma il cacique di questa terra non comparse giamai. L'altra mattina si partí il capitano per tempo, perchè gli fu detto che la giornata era lunga, e mangiò la mattina in una gran terra chiamata Suculacumbi, ch'ha cinque leghe di strada. Il signor di questo luogo con gl'Indiani suoi amichevolmente raccolsero i nostri, dando loro a mangiare per quel dí; e sul vespero partí il capitano da questa terra, per poter il dí seguente giungere alla moschea, e passò un gran fiume a guazzo, e andò ad alloggiare la sera in un luogo lungi dalla terra della moschea una lega e mezza. L'altro dí, che era domenica, il capitano cavalcò, e senza uscir da' luoghi abitati e pastinati d'alberi giunse a Pacachama, che è la città dove era quella moschea ricca; a mezzo camino ritrovò un'altra terra, dove mangiò.
Il signor di Pacachama uscí con tutti li principali a ricevere come amici i nostri, mostrando lor molta amorevolezza. Il capitano alloggiò co' suoi in certe stanze grandi, che erano da una banda della città, e fece tosto a coloro intendere che egli per ordine del signore governator veniva per l'oro della moschea, che il cacique aveva comandato che li desse: e che perciò dovessero tosto ragunarlo e darglielo, e portarlo dove il governatore stava. Si strinsero allora insieme i principali della città e i paggi e ministri dell'idolo, e dissero che lo darebbono; ma andarono un pezzo dissimulando e differendo, e all'ultimo assai poco ne portavano, e dissero che non ve n'era piú. Il capitano dissimulò, e disse che voleva andare a vedere l'idolo loro, che glielo mostrassero, e cosí vi fu da loro menato. Stava quest'idolo dentro una buona stanza ben dipinta, in una sala ben oscura e di cattivo odore, e molto ben chiusa, ed era l'idolo fatto d'un legno assai sozzo: e questo dicono che sia il Dio loro, che li creò e mantiene e dà il vitto e il sostentamento della vita; e aveva a' piedi, che gliele avevano offerte, alcune gioie d'oro. E in tanta venerazione lo avevano, che i suoi paggi e ministri solamente, che da lui stesso (come essi dicono) segnalati e chiamati al ministerio vengono, e li servivano, e niun altro aveva ardimento d'entrar dentro, anzi non si tengono né anco degni di toccar con mano le mura di quella casa. E già si vidde assai chiaro che il diavolo era quello che dentro quell'idolo parlava, e diceva quelle tante cose diabolice, perchè per tutta quella terra si spargessero: onde n'era adorato per Dio, e gli facevano molti sacrificii, e vi venivano in pellegrinaggio 300 leghe di lungi ad offerire oro, argento e robbe. E questi che vi venivano andavano al portinaio, e chiedevano la grazia che volevano: il portinaio entrava dentro e parlava con l'idolo, e poi ritornava fuori e dicea che se gli concedeva la grazia che dimandavano. Prima che niun di quelli ministri entrasse a servirlo, bisognava digiunare molti giorni e non accostarsi con donne. Per tutte le strade di questa città e su le porte principali e d'intorno alla moschea erano molti idoli di legno, e gli adoravano ad imitazione dell'idolo principale, che dava le risposte. S'intese da molti signori di questa contrada che dalla città di Catamez, che è al principio di questo governo, tutta la gente di questa costiera serviva a questa moschea con oro e argento, e le davano ogni anno certo tributo: onde quivi v'erano i fattori e le stanze dove questi tributi si ponevano, e vi fu ritrovata certa parte d'oro e segnali anco d'essere stato assai piú tolto via, e s'intese poi di certo da molti Indiani che l'avevano trabalzato via per ordine del diavolo che nell'idolo parlava. Molte cose si potrebbono dire delle idolatrie che a questo idolo si facevano, ma per non esser prolisso si tacciono, fuori che questo solo, che dicono che quell'idolo fa loro intendere che sia lor Dio, e che li può inabissare se lo fanno sdegnare e non bene lo servono, e che tutte le cose del mondo ha esso in poter suo. Stavano quegl'Indiani cosí scandalizzati e timidi, solamente perchè era il capitano entrato a vederlo, che pensavano di doverne essi essere tutti rovinati a fatto, tosto che i cristiani indi si partissero. I nostri diedero ad intendere agl'Indiani l'errore grande nel quale si ritrovavano, perchè quel che dentro a quell'idolo parlava era il diavolo, che a quel modo gli teneva ingannati: onde gli ammonivano che d'allora innanzi non gli avessero dovuto piú credere, né fare quello che lor consigliasse, con altre simili cose, per distorli da quelle loro idolatrie. Il capitano fece disfare la grotticella o cappella dove l'idolo stava, e spezzare anco l'idolo stesso in presenza di tutti, e diede loro ad intendere molte cose della nostra santa fede, e come si dovessere difendere dal demonio col segno della santa croce.


Descrizione della terra di Pachacama, e dell'obedienza quale vennero a dare a sua Maestà li principali caciqui delle provincie, con la quantità dell'oro avuto. Come passano per le terre di Guarua, Guaranga, Aillon, Chincha, Cascumbo, Pombo e piú, per andar a ritrovare il capitan Chilichuchima.

Questa città di Pachacama è grandissima terra; ha presso a questa moschea una gran casa del Sole, posta in certo erto, ben lavorata, con cinque mura intorno che la cingono; vi sono case di due solari come in Spagna, e la terra dimostra esser antica, per gli edificii caduti che vi si veggono, e la maggior parte della muraglia della città si vede caduta giú e rovinata. Il principale signore di questo popolo si chiama Taurichumbi. Quivi vennero li signori delle terre convicine a visitare il capitano, con presenti delle cose che erano nelle contrade loro e con oro e argento, e si maravigliavano molto che egli avesse avuto ardimento d'entrare dove stava l'idolo e di spezzarlo. Il signor di Malache chiamato Lincoto venne a dar obedienza a sua Maestà, e portò presente d'oro e d'argento. Il medesimo fece il signore di Noax chiamato Alinchay, il signor di Gualco chiamato Guarigli, il signor di Chincha, chiamato Tambianuea, con dieci principali, il signor di Goarua chiamato Guaxciapaiche, il signor di Colixa chiamato Aci, il signor di Saglicaimarca chiamato Yspilo, e altri signori e principali delle contrade a torno, tutti con li loro presenti di oro e d'argento, che fu posto insieme con quello che si cavò dalla moschea: e giunse tutto alla valuta di novantamila castigliani. A tutti questi caciqui parlò il capitano assai graziosamente, ringraziandoli della lor venuta, e comandò loro da parte di sua Maestà che sempre dovessero a quel modo fare, e finalmente ne li rimandò molto contenti adietro.
In questa città di Pachacama ebbe il capitan Fernando Pizarro novella che Chilichuchima, capitano d'Atabalipa, stava indi quattro giornate lontano con molta gente e con l'oro, e che non voleva passare avanti, anzi diceva che veniva a far guerra alli cristiani. Il capitan li mandò un messo, assicurandolo e mandandogli a dire che venisse con l'oro, che già doveva sapere che 'l suo signore stava prigione e molti giorni erano che l'aspettava, e che il governatore anco si ritrovava sdegnato del suo tanto tardare. E con questo li mandò molte altre cose a dire, assicurandolo perchè venisse, perciochè esso non poteva andare a veder lui per il mal camino che era per li cavalli, e che chi piú presto arrivasse in una certa terra che per il camino stava, si dovessero ivi aspettare l'un l'altro. Chilichuchima li rimandò a dire che esso senza altro farebbe quanto egli li comandava. Allora il capitano partí da Pachacama per dovere con costui ritrovarsi, e per le medesime giornate se ne venne alla terra di Guarua, che sta posta nel piano presso al mare. Quivi lasciò la riviera maritima e prese il camino dentro terra: e fu a' tre di marzo che da quella città partí, e caminando tutto quel giorno su per un fiume tutto pieno d'alberi, andò ad alloggiare la notte ad una terra su la riva di questo fiume posta, chiamata Guaranga e soggetta a Guarua. Il dí seguente cavalcando andò a dormire ad un'altra picciola terra chiamata Ayglon, e situata presso ad un monte, e soggetta ad un'altra terra piú principale chiamata Aratambo, e piena di molto bestiame e maiz. Il dí seguente, a' cinque di marzo, andò a dormire a Chinca, terra sottoposta a Caxatambo, e nel camino si ritrovò un passo di neve assai cattivo, perchè giungeva la neve alle cigne delli cavalli: e quivi era gran copia di bestiame. Quivi stette due giorni il capitano, e poi partendo andò a dormire a Caxatambo, che è una gran città posta in una profonda valle, dove è molto bestiame, e per tutto il cammino si ritrovano molte mandrie di pecore; e il signore di questa terra, che si chiamava Sachao, fece molti servigi a' nostri. Quivi ritornò il capitano a prender il camino ampio per donde Chilicuchima andare doveva, e v'erano tre giornate d'attraversamento. Quivi il capitano s'informò se Chilicuchima era passato per doversi ritrovare con lui, come promesso gli aveva, e tutti gl'Indiani dicevano che era passato, e con l'oro che portava; ma, come poi si parve, essi stavano tutti avisati di dover dire a quel modo, acciochè il capitano se ne ritornasse senza aspettarlo, perchè il Chilicuchima si restava in Xauxa con pensiero di non passar avanti.
Il capitano, che sapeva bene che poche volte si ritrovava in questi Indiani verità, si deliberò (benchè con gran travaglio e pericolo fusse) d'uscire al camino reale per donde doveva colui passare, per sapere se passato era, e, non essendo passato, d'andare a trovarlo dovunque stesse, cosí per far condur l'oro come per disfare l'esercito che avesse e per trarlo amichevolmente, e, veggendo lui duro, farlo prigione. E cosí con questa deliberazione prese la strada d'una gran terra chiamata Pombo, che nella strada reale si trova. A' nove di marzo andò a dormire ad Oyu, che è una terra posta fra monti, e il cacique venne tutto pacifico a servire a' nostri e a dar loro quanto per quella notte bisognava. La mattina seguente cavalcò e andò a dormire in una terricciuola di pastori, posta presso una lacuna d'acqua dolce, che in una campagna gira tre leghe intorno; e vi sono molte pecore mediocri, come quelle di Spagna, e di fina lana. L'altra mattina seguendo il suo viaggio, giunse la sera a Pombo, donde uscirono a riceverlo tutti i signori della terra e alcuni capitani d'Atabalipa, che ivi con certa gente stavano. Quivi ritrovò il capitano 150 vasselli tutti d'oro che Chilichuchima mandava, ed esso si restava con le sue genti in Xauxa. Tosto che il capitano ebbe avuto l'alloggiamento, dimandò li capitani d'Atabalipa che cosa voleva dire che Chilichuchima mandava quell'oro, ed esso non veniva come promesso aveva. Risposero che non era venuto per la gran paura che de' cristiani aveva, e medesimamente perchè aspettava anco molto oro dal Cusco, e non aveva ardire di passar avanti con quel poco. Allora il capitano li mandò un messo, assicurandolo e facendoli a sapere che, poichè egli non veniva, andarebbe esso a trovarlo, e che non dubitasse né temesse. In questa terra si riposò il capitano con le sue genti un giorno, per condurre i cavalli riposati e freschi, per dovere combattere se fusse stato bisogno.


Per ritrovare Chilicuchima, capitano di Atabalipa, passano per le città di Caxamalca, Carma, Ianimalcha e Xauxa, ove fermati hanno con lui lungo ragionamento circa l'oro e il suo non esser venuto in tempo. Descrizione della città di Xauxa e del popolo che vi si trova.

A' 14 di marzo partí il capitan da Pomba per esser in Xauxa, e alloggiò la prima sera in Caxamalca, dove è una campagna piana di sei leghe incominciando da Pomba, e v'è una lacuna d'acqua dolce che tira otto o dieci leghe intorno; e tutta attorno da molte terre s'abita, e vi sono presso gran copia di pecore, e nella lacuna si veggono uccelli d'acqua di varie sorti e pesci piccioli. In questa lacuna tenne il Cusco vecchio, e Atabalipa poi anco, molte barchette piane condotte di Tumbez per loro ricreazione. Esce da questa lacuna un fiume che va a Pombo, e li passa da una parte assai quieto e profondo: e si può passare per un ponte che sta presso alla terra, e vi si paga il passaggio o nolo come si fa in Spagna. Per tutto questo fiume si veggono molte greggi di pecore, e i nostri li posero nome Guadiana, perchè somiglia molto a quella di Spagna.
A' 15 di marzo partí il capitano da Caxamalca, e andò a mangiare ad una casa tre leghe indi lungi, e v'ebbe molte carezze; e la sera andò a dormire tre altre leghe avanti, in una terra chiamata Carma e posta nel fianco d'un monte. Quivi li fu dato albergo in una casa dipinta con buone stanze dentro, e il signore di questa terra fece dare a' nostri ben da mangiare, e gente per condur le lor robbe che portavano. L'altro dí, perchè la giornata era lunga, si partí il capitan per tempo la mattina con le sue genti in ordine, perchè dubitava che Chilicuchima non stesse col cuore macchiato, poichè non gli aveva mandato risposta. Ad ora di vespero giunse ad una terra chiamata Yanaymalca, dove fu ben ricevuto, e quivi seppe che Chilicuchima stava fuori di Xauxa, onde in maggior sospetto entrò. E perchè non stava piú che una lega lungi da Xauxa, tosto che ebbe desinato montò a cavallo e, giunto a vista di quella città, vidde da un rilevato molti squadroni di gente, ma non sapeva se era gente da guerra o pur della terra. Giunto poi sulla piazza principale della città, ritrovò che quelli squadroni di gente erano della terra, e s'erano ragunati a quel modo per far festa. Tosto che il capitano giunse, prima che smontasse dimandò di Chilicuchima, e gli dissero che era andato a certe altre terre e che il dí seguente verrebbe. Egli s'era appartato sotto colore di certi negocii, finchè avesse saputo dagl'Indiani che col capitano venivano che animo era quello degli Spagnuoli verso di lui, perciochè, conoscendo aver fatto male in non compir quello che promesso aveva, perchè era il capitan venuto ottanta leghe a vederlo, dubitava che non venisse a prenderlo o ad amazzarlo: onde per questa paura che de' cristiani aveva, e di quelli da cavallo specialmente, s'era appartato. Il capitano menava con seco un figliuolo del Cusco vecchio, il quale, quando intese che Chilicuchima s'era appartato, disse che voleva andar a trovarlo dove stava, e cosí v'andò in una lettica. Tutta quella notte tennero i nostri li cavalli insellati e imbrigliati, e il capitano ordinò alli signori della terra che non facessero comparir Indiano alcuno su la piazza, perchè li cavalli stavano corrucciati e se gli avrebbono mangiati.
Il dí seguente ritornò quel figliuol del Cusco e Chilicuchima seco in due lettiche e ben accompagnati, e giungendo su la piazza smontarono in terra, e lasciando l'altre genti adietro, con alcuni pochi solamente andarono alla stanza del capitano, col quale si scusò molto Chilicuchima perchè non fosse andato a trovarlo, come promesso aveva, e non gli fosse poi né anco uscito incontra: e le sue scuse erano che egli non aveva potuto far altro, per le sue molte e grandi occupazioni. Ma, dimandato dal capitano della causa piú particolare perchè non fosse andato a ritrovarlo, come gli aveva già mandato a dir di dover fare, rispose che Atabalipa suo signore gli aveva mandato uno ordine che si stesse saldo senza partirsi. Il capitano disse allora che egli non aveva già per questo con lui niun sdegno, ma che si ponesse in ordine, perchè voleva che andasse seco dove stava il governatore che teneva prigione Atabalipa suo signore, e che non lo liberarebbe mai finchè non gli desse tutto l'oro che promesso gli aveva; e soggiunse che egli ben sapeva che gli aveva molto oro, e che perciò lo facesse venire tutto, perchè di compagnia il condurrebbono, e a lui sarebbe stato ogni buon trattamento fatto. Chilicuchima rispose che aveva ordine dal suo signore che non si partisse, onde, finchè nuovo ordine avesse, non aveva animo di muoversi, perchè, essendo stata quella terra nuovamente conquistata, tosto che egli se ne partisse si ritornerebbe a ribellare. Il capitan Pizarro stette con lui gran pezzo contendendo sopra di questa andata, e finalmente restarono che quella notte vi si penserebbe meglio, e la mattina si risolverebbono. Il capitan cercava di ridurlo con buone ragioni, per non sollevar e porre la terra in tumulto, perchè n'averebbe potuto seguir danno alli tre Spagnuoli che erano andati al Cusco. La mattina seguente Chilicuchima andò a trovarlo e gli disse che, poichè egli voleva che andasse, non poteva altramente fare, e che perciò andrebbe e lascierebbe un altro capitano con quelle genti da guerra che quivi aveva. Quel dí ragunò ben trenta carichi d'oro basso, e apuntò di dover partire fra due giorni: e in questo tempo vennero da trenta o quaranta carichi d'argento, e i nostri sempre stettero con molte guardie e con li cavalli insellati, perchè vedevano quel capitano d'Atabalipa cosí potente di gente che, s'avesse dato di notte lor sopra, gli averebbe fatto molto danno.
Questa città di Xauxa è assai grande ed è posta in una bella valle, ed è contrada molto temperata e fertile, e presso la terra scorre un fiume molto furioso; la città sta fatta al modo di quelle di Spagna, con le strade bene ordinate e acconcie. A vista di Xauxa sono molte altre terre che gli sono suggette, e tanta moltitudine di gente ha questa città con suo contorno che, al parer degli Spagnuoli, ogni giorno si ragunavano insieme nella piazza principale di questo luogo centomila persone: e con tutto questo stavano l'altre piazze e i mercati cosí pieni di gente, che pareva che non vi mancasse persona alcuna. E v'erano uomini che avevano cura di annoverar tutte queste genti, per saper quelli che venivano a servire alla gente di guerra; altri avevano il carico di guardar a quanti nella città entravano. Chilicuchima tenea i suoi maiordomi e fattori, che aveva pensiero di proveder le genti delle provisioni ordinarie, e teneva molti maestri che lavoravano legname, con altre molte grandezze che per suo servigio teneva e per la guardia di sua persona, e teneva in casa tre o quattro portieri. In effetto, e nell'esser servito e in tutte l'altre cose imitava il suo signore, e in tutta quella terra era molto temuto, perchè era valente uomo, e per ordine d'Atabalipa aveva conquistato piú di seicento leghe di contrada: e fece molte battaglie campali e in cattivi passi, e fu sempre vincitore, di modo che non gli restò cosa da conquistar in tutta quella terra.


Fanno ritorno a Caxamalca insieme col capitan Chilicuchima e passano per la città di Tambo, Tomsucanca, Guaneso, Pincosmarca, Guari, Guacango, Piscobamba, Agoa, Concuco, Andamarca e d'indi a Caxamalca. Delle cerimonie usate da Chilicuchima e altri signori principali nell'entrar a far riverenza ad Atabalipa.

A' venti di marzo si partí di Xauxa il capitan Pizarro per ritornarsi alla città di Caxamalca, e con lui andò Chilicuchima; e per le medesime giornate se ne venne fino a Pombo, dove riesce la strada reale del Cusco, e quivi stettero quel giorno e l'altro. Poi partendo andarono per certe campagne piene di pecore, e alloggiarono la sera a certe gran stanze: e quel dí nevicò molto. La mattina seguente partirono e andarono a dormire a Tambo, che è una terra posta fra certi monti, presso alla quale sta un profondo fiume con un ponte; e per calar giú al fiume v'è una scala di pietra assai difficile, talchè chi stesse dalla parte di sopra vieterebbe il passo e farebbe molto danno a quelli che stessero di sotto. Il capitano fu assai ben servito dal signor di quella terra di quanto bisognò, e fecero tutti gran festa, per rispetto del capitan nostro e di Chilicuchima che con lui veniva, e al quale solevano sempre far festa. Il dí seguente andarono ad alloggiare a Tomsucanca, il cui principale cacique si chiamava Tiglima, e vi furono ben alloggiati e ben serviti, perchè, se ben la terra era picciola, vi concorsero i convicini per vedere e far servigio a' cristiani. In questa terra è gran quantità di pecore picciole, con buona lana, che si somiglia a quella di Spagna.
L'altro giorno andarono a dormire a Guaneso, e non fecero piú che cinque leghe, perchè ebbero cattiva strada, petrosa e con fosse per donde l'acqua scorre: dicono che vi furono fatte per cagion delle nevi, che in certo tempo dell'anno calano per quella contrada. Questa terra di Guaneso è grande e sta in una valle circondata d'alpestri monti, e gira intorno questa valle tre leghe; e da una parte, quando si viene in Caxamalca, v'è una gran salita. Quivi fu il capitano co' suoi cristiani assai ben trattato e servito, e furono lor fatte molte feste, due dí che vi stettero. Questa terra ha dell'altre terre convicine soggette, e v'è gran quantità di pecore. L'altro giorno di marzo partendo da questo luogo giunsero ad un profondo fiume, dove era un ponte fatto di grossi legni, e v'era la guardia che vi riscotteva il passaggio, come fra loro costumano. La sera andarono a dormire in una terra, dove Chilicuchima fece proveder quanto per quella notte bisognò. Il primo d'aprile cavalcando giunsero a Pincosmarca, la qual terra sta posta nel fianco d'una montagna alpestre: e il suo cacique si chiamava Parpai. L'ultimo dí andarono a dormire tre leghe indi lungi, ad una buona terra chiamata Guari, dove è un altro grande e profondo fiume con un altro ponte: ed è questo luogo assai forte, perchè ha da due bande profondi e scoscese ripe. Quivi disse Chilicuchima che aveva combattuto con la gente del Cusco, che in questo passo l'aspettarono e si difesero due o tre giorni, e poi fuggendo brucciarono il ponte; e che egli era poi passato con le sue genti nuotando, e ammazzati molti degli nemici.
Il dí seguente andarono cinque leghe, e dormirono ad una terra chiamata Guacango. L'altro dí poi andarono a Piscopamba, la qual terra è grande e sta nel fianco d'un monte posta, e il suo cacique si chiama Tanguame, dal quale e dagli altri suoi Indiani furono i nostri assai ben serviti. Ma nel mezzo di questo camino è un altro profondo fiume con due ponti vicini fatti a rete, nel modo che s'è di quelli due altri detto di sopra, e vi passarono assai ben i cavalli, ancorchè il ponte si dimenasse e movesse alquanto: che in effetto è una cosa di molto spavento e da temerne per chi non v'è mai passato, ma non v'è già pericolo alcuno, perchè egli sta assai forte. Per tutti questi ponti sono gli guardiani, come in Spagna, che riscuotono il passo. Il dí seguente andò il capitano ad alloggiare in certe stanze 5 leghe indi lungi; e il dí seguente dormí in Agoa, terra soggetta a Piscobamba, ed è una buona terra e posta fra monti, ma vi sono molti maizali: e il cacique del luogo diede ai nostri quanto bisognò per quella notte, e gente anco da servizio per la mattina. L'altro giorno andò il capitano a dormire a Concuco, e furono queste quattro leghe di strada assai malagevoli: prima che a questa terra si giunga, si va per un cammino fatto e tagliato a forza nel sasso vivo, e si monta per scalini, onde vi sono cattivi passi e forti, se vi fusse chi li difendesse. Partendo da questo luogo andarono a dormire ad Andamarca, che è quella terra donde si appartò il capitano per andare in Pacacama, perchè quivi si congiungono e uniscono le due strade reali che vanno al Cusco: e da questa terra di Andamarca fino a Pombo sono tre leghe d'assai cattiva strada. E nel calare giú e montare su di quelle balze vi sono gli loro scalini fatti a forza nel sasso stesso, e dalli lati vi sono le sue mura di pietra, perchè non si possa né da questa né da quella parte cadere, per esser lubrico ed erto e stretto il luogo, che già in qualche parte si potrebbe facilmente cadere, e cadendone se ne farebbono mille pezzi: per li cavalli spezialmente è un gran refugio, perchè senza alcun dubio vi caderebbono, se quelle mura e ripari non vi fussero. E nel mezzo di questo camino è un ponte di pietra e di legni fatto fra due balze erte, e dall'una parte del ponte sono certe stanze ben fatte con un cortile lastricato, dove dicono gl'Indiani che, quando li signori di quella contrada per quelle terre andavano, vi solevano fare sontuosi conviti e liete feste.
Da questa terra se ne venne il capitan Fernando Pizarro, per le medesime giornate che aveva nell'andare fatte, alla città di Caxamalca, dove entrò a' 25 dí di maggio del 1533. E quivi si vidde una cosa che non s'è piú vista da che si discoprirono queste Indie, ed è fra Spagnuoli anco cosa notabile: che quando Chilicuchima entrò per le porte dove il suo signore preso stava, tolse di sopra ad uno Indiano di quelli che con lui andavano un mediocre carico che colui portava e se 'l gettò su le spalle, e questo stesso fecero anco molti altri principali di quelli che seco andavano, e a questo modo carichi se ne entrarono dove Atabalipa stava, e nel vederlo alzarono verso il sole le mani, ringraziandolo che glielo avesse lasciato vedere. E poi tosto con molta riverenza piangendo gli s'accostò Chilicuchima, e gli baciò il viso e le mani e i piedi, e il somigliante fecero tosto appresso tutti quegli altri principali che con lui venivano. Atabalipa mostrò tanta maestà che, benchè in tutto il suo regno non avesse uomo che tanto amasse quanto costui, nondimeno non lo guardò in viso, né fece di lui piú caso che fatto avrebbe del piú meschino Indiano che gli fusse venuto dinanzi. Quel caricarsi a quel modo nel voler entrar a vedere Atabalipa è una certa cerimonia che si fa a tutti quelli che hanno in quelle contrade regnato.
Questa relazione di tutte le cose sopradette, come particolarmente avennero, fu fatta da me, Michiele d'Estete proveditore, che in questo viaggio col capitan Fernando Pizarro mi ritrovai.


Seguita il primo autore il suo ordine.


Descrizione della città del Cusco, e come di quella e trenta altre principali città ne prendono il possesso per sua Maestà. Della gran quantità d'oro e d'argento fonduto e tra loro compartito, oltra il quinto dell'imperatore; e diversi prezii di robbe, per le quali si conosce in quanta poca stimazione tra Indiani e Spagnuoli fusse tenuto l'oro e l'argento, per esservene molta gran quantità.

Aveva il governator la relazione di tutte queste cose che avea vedute e fatte suo fratello, e veggendo che sei navi che stavano nel porto di San Michiele non si potevano piú sostenere in mare, e che, differendosi piú la partenza loro, si sarebbono perdute, perchè era richiesto e sollecitato dalli padroni di quelle che gli pagasse e spedisse, fece consiglio con i suoi principali e ufficiali regii per dover pagare e mandarne via costoro, e per mandar a referire a sua Maestà tutto questo che successo era. E fu concluso e determinato di doversi fondere quell'oro che ivi aveano, che aveva fatto venire Atabalipa, e tutto quello anco che fusse venuto appresso, prima che questa fusione si fusse fornita di fare, acciochè, fuso e compartito che fusse, il governatore non si avesse piú ad intertenere, ma andasse a fare la nuova colonia e città che sua Maestà commandava e che voleva che in quelli luoghi si facesse. A' 13 di maggio del 1533 fu bandita e si cominciò a fare la fusione.
In capo di dieci giorni giunse a Caxamalca uno delli tre cristiani che erano andati alla città del Cusco, e questo era colui che vi era andato per scrivano o notaio, e portò la fede scritta, come s'era preso il possesso di quella città del Cusco in nome di sua Maestà, e uno annotamento di tutte le terre che per il cammino si trovano; e disse che si ritrovavano trenta città principali, senza quella del Cusco e senza molte altre picciole. E disse anco che la città del Cusco è grandissima e sta situata a piè d'un monte presso al piano, e le sue strade sono assai ben poste e saleggiate, e che in otto giorni che v'erano stati non l'avevano potuta vedere tutta; e che v'era un palagio con ciappe, piastre d'oro e assai ben fabricato in quadro, e ognun di questi quattro fianchi della casa era trecentocinquanta passi da cantone a cantone, e che, delle piastre d'oro che in questo palagio erano, n'avevano tolte 700 spalanche o lamine, che ognuna delle quali pesava 500 castigliani; e che da un'altra casa ne avevano gl'Indiani un'altra gran quantità tolta, che giungeva il peso a ducentomila castigliani, se l'oro fusse stato perfetto, ma perchè era molto basso non l'avevano voluto ricevere, perchè non era di piú che di sette o otto caratti; e che, fuori che queste due case, non n'avevano veduta niuna altra a quel modo con ciappe d'oro, perchè gl'Indiani non avevano lasciata lor vedere tutta la città, ma che, per quello che mostrava, credevano che gran ricchezza vi fusse. E diceva che ivi avevano ritrovato Chischis, capitano d'Atabalipa, con trentamila uomini per guardia di quella città, perchè confina co' Caribi e con altre genti che le sogliono spesso fare guerra. Disse anco costui molte altre cose di quella città del Cusco e del buono ordine che v'è, e come quel principale Indiano che con loro andò se ne ritornava con gli altri due cristiani, e conducevano 600 piastre d'oro con gran quantità d'argento, che aveva lor dato in Xauxa quel principale che v'aveva lasciato Chilicuchima: di modo che in tutto l'oro che conducevano erano 178 carichi, e sono li carichi tali e cosí fatti che un solo carico ne portavano quattro Indiani in collo; e che non si poteva venire se non pian piano, perchè vi bisognavano molti Indiani per condurlo, e lo venivano anco di terra in terra raccogliendo, e che si credeva che sarebbe giunto in Caxamalca fra un mese. E cosí fu poi, perchè a' tredici di giugno del medesimo anno venne tutto quell'oro del Cusco, e furono 200 carichi d'oro e 25 d'argento: nell'oro, per quel che pareva, erano piú di 130 centinaia di libre. E doppo di questo vennero altri 60 carichi d'oro basso, e la maggior parte di tutto questo erano spalanche, a modo di tavole di casse, di tre e quattro palmi lunghe; e l'avevano tolte dalle mura delle case, onde v'erano li buchi, che si conosceva che erano state inchiodate.
Si forní di fondere e di compartire tutto questo oro e argento che s'è detto il dí di san Giacomo, e ridotto a buono oro giunse alla somma del valore di un milione e 326 mila e 539 castigliani, e, cavatone i diritti del fonditore, ne toccò a sua Maestà per lo suo quinto 262 mila e 259 castigliani d'oro fino; e l'argento fu 51 mila e 610 marchi, e a sua Maestà ne toccò per la sua parte 10 mila e 121 marchi (è un marco 8 oncie). Tutto quello che restò, cavato il quinto già detto e i diritti del fonditore, fu dal governatore compartito fra tutti quelli che l'avevano conquistato e guadagnato: e ne toccò a ciascuno di quelli da cavallo 8880 castigliani di valuta in oro e 362 marchi d'argento, e a quelli da piedi 4440 castigliani d'oro e 181 marchi d'argento; e alcuni piú, alcuni meno, secondo che al governatore parve che ciascuno piú o meno meritasse, secondo la qualità delle persone e l'affanno che passato avevano. Una certa quantità d'oro, che il governatore pose da parte prima che facesse questo compartimento, la diede a quelli cristiani che erano restati a popolare San Michiele, e a tutta quella altra gente che venne col capitano Diego d'Almagro, e a tutti i mercatanti e marinari che vennero doppo che fu fatta la guerra: di modo che quanti de' nostri in quelle contrade si ritrovarono, tutti n'ebbero parte, onde, poichè a tutti fu generale, ben si può chiamare questa fusione generale. Si vidde in questa fusione una cosa molto notabile, che vi fu tal giorno che si fonderono 80 mila castigliani d'oro, e se ne fondevano ordinariamente 50 e 60 mila. Questa fusione fu fatta dagl'Indiani, perchè fra loro sono grandi argentieri e fonditori, e con nuove foggie fondevano.
Non resterò io qui di dire i prezzi che in questa contrada si sono vendute e comprate varie robbe, benchè siano stati cosí alti e molti nol crederanno: e io posso con verità dirlo e affermarlo, poichè l'ho visto e v'ho comprate alcune cose. Fu venduto un cavallo 1500 castigliani d'oro, e altri tre ne furono venduti 1300 l'uno: e il prezzo lor comune e ordinario era 1500, e non si ritrovavano a questo prezzo. Un vaso di vino di fino a sei boccali fu venduto 60 castigliani d'oro, e io comprai quattro bocali di vino 40 castigliani. Un paio di borzachini si vendeva trenta o quaranta castigliani, un paio di calze altretanto, una cappa cento castigliani e dugento anco, una spada quaranta o cinquanta, un capo d'aglio mezzo castigliano, e a questo modo tutte l'altre cose. Un quaderno di carta per scrivere valeva dieci castigliani, e io comprai dodeci castigliani poco piú di mezza oncia di zafferano guasto e tristo. Assai ci sarebbe che dire, volendo riferire li gran prezzi e incredibili a' quali tutte le cose vi si vendevano, e in quanto poco prezzo era tenuto l'oro e l'argento. In effetto la cosa venne a tale che, se uno doveva dar qualche cosa ad un altro, li dava un pezzo d'oro in massa, senza altramente pesarlo, e se ben non li dava il doppio di quello che li doveva, non se ne curava e lo stimava poco; e andavano di casa in casa i debitori con uno Indiano carico d'oro, cercando i lor creditori per pagarli.
S'è già detto come si forní di fare la fusione e compartimento dell'argento e dell'oro, e s'è anco detto della ricchezza di quella contrada, e quanto v'è poco stimato l'oro e l'argento, cosí dagli Spagnuoli come dagl'Indiani stessi. V'è luogo di quelli che stanno soggetti al Cusco, e che poi furono d'Atabalipa, dove dicono che sono due case fatte d'oro, e che sono fatte medesimamente d'oro le paglie con che stanno coperte: e già con l'oro che dal Cusco si portò vi vennero alcune simili paglie fatte d'oro massiccio, con la sua spiga in cima, nel modo apunto che ne' campi nascono. Chi volesse narrare la diversità de' pezzi dell'oro che in questa conquista s'ebbero non ne verrebbe mai a capo. Vi fu pezzo d'oro da sedervi che pesò dugento libre d'oro; vi furono fontane grandi con le sue cannelle, onde scorreva l'acqua in un laghetto o pila fatta nel medemo fonte, e dove erano varii uccelli di molte sorte, e uomini che cavavano l'acqua del fonte: e tutte queste cose erano fatte d'oro. Si sa medesimamente, per detto d'Atabalipa e di Chilicuchima e di molti altri, che Atabalipa aveva in Xauxa certe pecore e pastori che le guardavano tutte d'oro, e cosí le pecore come i pastori erano grandi quanto son quelli che vi si veggono vivi e di carne: e questi pezzi erano di suo padre, e promise di dargli agli Spagnuoli. Sono in effetto gran cose quelle che delle gran ricchezze d'Atabalipa e del Cusco vecchio suo padre si raccontano.


Da un cacique è scoperto agli Spagnuoli un tradimento d'Atabalipa per liberarsi e uccidere i cristiani, facendo venire di Guito grandissimo esercito d'Indiani e Caribbi: fanno perciò uccidere Atabalipa, quale avanti la morte si fece cristiano.

Passiamo ora a dire una cosa che non si debbe tacere, ed è che venne un cacique, signor di Caxamalca, a far intendere per mezzo d'interpreti al governatore come Atabalipa, da che fu preso prigione, aveva mandato in Guito sua terra e per tutte l'altre sue provincie anco a far fare esercito di gente di guerra, perchè venisse sopra li cristiani e gli ammazzasse tutti; e che già questa gente veniva, con un gran capitano chiamato Luminabe, e che era assai presso a Caxamalca, e sarebbe venuto di notte ad attaccar fuoco negli alloggiamenti spagnuoli; e che il primo a morire sarebbe stato il governatore, e avrebbono tosto cavato Atabalipa lor signor di prigione. E diceva costui che del popolo stesso di Guito venivano dugentomila uomini di guerra e trentamila Caribbi, che mangiano la carne umana, e che da un'altra provincia chiamata Pazalta e da altre parti veniva un infinito numero d'altre genti. Il governatore, quando intese questo aviso, ringraziò molto il cacique e li fece molto onore, e comandò ad un scrivano che ponesse tutta quella deposizione in scritto. E cosí poi tosto volse prenderne informazione, e ritrovò esser cosí vero come il cacique detto aveva, perchè un zio stesso d'Atabalipa nol seppe negare; e ne fecero anco fede alcuni signori e principali, con alcune donne indiane. Allora il governator se n'andò a ritrovare Atabalipa e sí li disse: "Che tradimento è questo che tu m'hai ordinato? Adunque a questo modo mi tratti, avendoti io fatto tanto onore e trattatoti come fratello, e confidandomi nelle tue parole?" E seguendo gli spianò quanto inteso aveva. Ma Atabalipa rispose: "Adunque vi fate voi beffe di me e mi volete schernire? Sempre mi dite voi cose da ciancie. E che poter è il mio, e di tutta la gente mia, per poter fare dispiacere a cosí valenti uomini come siate voi altri? Non mi dite queste burle". E tutto questo diceva senza mostrare sembiante d'alterazione alcuna, ma ridendo sempre, per meglio dissimulare la sua malvagità. E mentre stette prigione, usò molte altre vivacità d'uomo acuto e sagace, di che, quando i nostri l'udivano, ne restavano attoniti, veggendo in un uomo barbaro tanta prudenzia. Il governator fece venire una catena e gliela fece attaccare al collo, e mandò tosto duoi Indiani per spie a sapere dove fosse questo esercito, perchè si diceva che non era piú che sette leghe da Caxamalca lontano, e per vedere se fosse stato in parte dove gli avesse potuto mandar sopra cento da cavallo: e cosí seppe che stava in contrada molto alpestre, e che si veniva tuttavia accostando. S'intese anco che, tosto che fu ad Atabalipa gettata quella catena al collo, mandò i suoi messi a far intendere a quel suo gran capitano come il governator l'aveva morto, e che, intesasi questa nuova nel suo esercito, s'erano ritirati adietro; ma che Atabalipa aveva dapoi i primi mandati i secondi messi, comandando a' suoi che tosto senza indugio alcuno venissero, e avisandoli come e donde e a che ora dovessero assaltare i cristiani, perchè egli era vivo, e se tardati fossero l'avrebbono ritrovato morto.
Quando il governatore tutte queste cose intese, fece con molta diligenzia star tutti i suoi in ordine, e da tutti i cavalli far tutta la notte la sentinella: cinquanta cavalli in ogni quarto di sentinella, e 150 nell'ultima guardia. E in tutte queste notti non dormirono mai né il governatore né li suoi capitani, col visitare le sentinelle e guardare a tutto quello che si conveniva; e quando toccava di riposarsi e di dormire le genti da guardia in guardia, non si toglievano però l'armi giamai da dosso, e i cavalli stavano insellati sempre. E con questa vigilanzia stettero i nostri fino ad un sabbato, che a posta di sole vennero duoi Indiani di quelli che agli Spagnuoli servivano, e dissero al governatore che essi erano venuti fuggendo dalla gente dell'esercito, che l'avevano lasciato tre leghe indi lungi; e che quella notte o l'altra sarebbono stati sopra li cristiani, perchè si venivano con gran fretta accostando, per quello che aveva lor Atabalipa mandato a dire. Allora il governator determinò con gli ufficiali di sua Maestà e con li capitani e altre persone esperte di far morire Atabalipa: e cosí lo sentenziò a morte, dicendo che meritava per il tradimento che aveva commesso d'esser brucciato nel fuoco (salvo se si fosse battezzato), per la sicurtà de' cristiani e per il bene di tutto quel paese, e per la conquista e pacificazione di quella parte dell'Indie, perchè, morto lui, tosto si porrebbono le sue genti in rotta, senza aver animo di far quello che impreso avevano per ordine del signor loro. E cosí lo cavorono fuori per farne la giustizia, ed essendo menato alla piazza, disse di voler diventar cristiano, il che fu tosto fatto a saper al governatore, che ordinò che fosse battezzato: e il padre fra Vincenzo di Valverde, che l'andava confortando alla morte, lo battezzò. Allora comandò il governatore che non lo brucciassero, ma l'affogassero legato ad un palo su la piazza: e cosí fu tosto eseguito. E vi stette il tiranno morto a quel modo fino alla mattina seguente, che li religiosi e il governatore con gli altri Spagnuoli lo condussero a sepellire nella chiesa, con molta solennità e col maggiore onore che fu possibile di fargli. E a questo modo forní la vita sua questo crudele, senza mostrare di risentirsi punto di questa morte, dicendo che raccomandava al governatore i suoi figliuoli. Nel tempo che lo portavano a sepellire, si levò un gran pianto di donne e di altri suoi servitori di casa. Morí il sabbato, a quella ora stessa che fu preso e rotto dai nostri: dicevano alcuni che per li suoi peccati era morto in quel dí e in quella ora che era stato fatto prigione. E cosí pagò in un punto tutti quelli gran mali e crudeltà ch'aveva co' suoi stessi vassalli operato, perchè tutti ad una voce dicono che egli fosse il maggior manigoldo e macellaro crudele che si vedesse mai fra gli uomini, perchè per ogni minima causa desolava un popolo, e per un picciolo errore che un solo uomo avesse commesso faceva morire diecimila persone e spianava una terra, e s'aveva tirannicamente soggiogate tutte quelle provincie, onde v'era da tutti temuto e mal visto.


Fanno succedere nello stato d'Atabalipa Atabalipa figliuolo del Cusco vecchio, al quale assegnano il stendardo imperiale. Del prodigio quale hanno gl'Indiani della cometa.

Il governatore prese tosto un altro figliuol del Cusco vecchio, chiamato Atabalipa, il quale mostrava d'essere amico di cristiani, e lo fece signore dello stato di suo fratello, in presenzia delli caciqui e signori delle terre convicine e degli altri Indiani. E comandò a tutti che l'accettassero e tenessero per signore, e gli ubbidissero come solevano prima ad Atabalipa obedire, poichè questo era lor signore naturale, per essere figliuolo legitimo del Cusco vecchio. E tutti dissero che per tale signore lo terrebbono, e cosí gli obbedirebbono come il governatore comandava e voleva
Qui non si debbe tacer una cosa notabile e degna di maraviglia, che venti dí prima che questo accadesse, né si sapesse dell'esercito che faceva Atabalipa venire, stando egli una sera assai allegro con alcuni Spagnuoli e parlando con loro, apparve nel cielo un prodigio e segno grande verso la parte del Cusco, ed era come una cometa di fuoco, che durò gran parte della notte: e quando Atabalipa vidde questo segno, disse che di corto dovrebbe morire in quella contrada un gran signore.
Quando il governatore ebbe posto nello stato e signoria del paese Atabalipa il minore, come s'è già detto, li disse che li voleva notificare quello che sua Maestà comandava e voleva, e quello che esso doveva fare e compire per essere suo vassallo. Rispose Atabalipa che esso aveva da stare prima ritirato in casa quattro giorni senza parlare a niuno, perchè cosí fra loro s'usava quando un signor moriva, perchè fusse temuto e obedito il successore: e allora poi tosto li danno tutti obedienza. E cosí stette li quattro dí ritirato, e poi confermò con lui il governatore la pace, con gran solennità di trombe, e gli consegnò la bandiera reale: ed esso la ricevette e l'alzò di sua mano per l'imperatore nostro signore, dandosi per suo vassallo. Allora tosto tutti gli signori principali e caciqui che presenti v'erano con molta riverenza l'accettarono e ricevettero per signore, e li baciarono la mano e la gota, e volgendo il viso al sole lo ringraziavano con le mani giunte, perchè avesse lor dato signore naturale. Fu adunque ricevuto da tutti questo Atabalipa per signore, e gli fu tosto posta una fascia assai ricca legata d'intorno al capo, che li discendeva giú nella fronte, che quasi li copriva gli occhi: e questa è fra loro la corona che porta chi è signore dello stato del Cusco, e a questo modo la portava anco prima Atabalipa suo fratello.


Partita di molti Spagnuoli per Siviglia, con la quantità dell'oro e argento da loro guadagnato in quella impresa, e delle diverse cose in oro portatevi spettanti all'imperadore.

Doppo tutto questo, alcuni Spagnuoli di quelli che avevano conquistato il paese, massimamente quelli che erano gran tempo stati in quelle Indie, e altri che, stanchi dalle infirmità e dalle ferite, non potevano piú servire né stare in que' luoghi, dimandarono licenza al governatore, supplicandolo che li lasciasse andare alle terre loro, con quello oro e argento e pietre e gioie che erano loro per la lor parte toccate. E fu lor questa licenza concessa, e alcuni di loro se ne ritornarono con Fernando Pizarro, fratello del governatore; e altri ebbero anco poi licenza, veggendosi che ogni giorno vi concorrevano genti di nuovo, alla fama delle tante ricchezze che in questa contrada erano. E il governatore diede alcune pecore e castrati e Indiani agli Spagnuoli a' quali aveva data licenza, perchè potessero piú commodamente portarsi via l'oro e l'argento e l'altre robbe fino alla città di San Michiele; ma per il viaggio alcuni particolari perderono oro e argento in quantità di piú di vinticinquemila castigliani, perchè li castrati e le pecore se ne fuggivano via con l'oro e con l'argento, che gli Spagnuoli avevano lor posto sopra perchè lo conducessero, e se ne fuggivano medesimamente alcuni Indiani. E in questo cammino da Caxamalca sino al porto, che sono presso a dugento leghe, patirono molta fame e sete e gran travaglio, perchè non avevano bestie né persone che conducessero le loro robbe guadagnate che portavano. Giunti finalmente al porto, s'imbarcarono e se ne vennero a Panama, e indi passarono al Nome di Dio, dove imbarcati con l'aiuto di nostro Signore navigando giunsero a salvamento in Siviglia, dove sono ora giunte quattro navi, con la seguente quantità d'oro e d'argento.
A' cinque di decembre del 1533 giunse a questa città di Siviglia la prima di queste quattro navi, nella quale venne il capitan Cristoforo di Meva, che portò suoi ottomila castigliani d'oro e cinquecento marchi d'argento (il marco è otto oncie, come s'è detto di sopra). Vi portò anco con questa nave un clerico di Siviglia chiamato Iovan di Sosa 6 mila castigliani d'oro e ottanta marchi d'argento; vennero medesimamente in questa nave, di piú della quantità già detta, trentaottomila e 946 castigliani d'oro: parlo di oro in massa di quella valuta. A' nove di gennaro del 1534 giunse al fiume di Siviglia la seconda nave, chiamata Santa Maria del Campo, nella quale venne il capitan Fernando Pizarro, fratello di Francesco Pizarro, governatore e capitano generale della Nuova Castiglia. Venne in questa nave per sua Maestà in oro la valuta di 153 mila castigliani e 5048 marchi d'argento, e portò di passaggieri e persone particolari 310 mila castigliani d'oro e 13 mila e 500 marchi d'argento, di piú del già detto di sua Maestà: e venne tutto questo argento e oro in sbarre e spalanche o piastre e pezzi di varie sorti, rinchiusi e posti in gran casse. Di piú della sopradetta quantità e somma, portò anco questa stessa nave per sua Maestà 38 vasi d'oro e 48 di argento, fra li quali v'era un'aquila d'argento, cosí grande che nel suo corpo vi capevano due gran cocomi d'acqua; e due vasi cosí grandi da cucinare, un d'oro e l'altro d'argento, che in un di loro sarebbe caputa una vacca a pezzi per cuocerla; e vi furono due sacchi d'oro, che in ognuno di loro capevano due tomoli di grano; e vi fu un idolo d'oro cosí grande quanto è un fanciullo di quattro anni, e due piccioli tamburi pure d'oro. Gli altri vasi erano d'oro e d'argento, di tanta grandezza che in ognun di loro capevano due sestari di liquore e piú. Vennero anco in questa stessa nave, che erano di passaggieri, 24 cocomi grandi d'argento e quattro d'oro. E fu questo cosí bel tesoro discaricato nel molo del porto di Siviglia e portato nel palagio della contrattazione, i vasi a carichi su le spalle e con le stanghe, e il resto in 27 tavole, che un paio di buoi non ne poteva con una caretta portare piú che due.
A' tre di giugno del medesimo anno giunsero l'altre due navi: nell'una di loro veniva per patrone Francesco Rodrighes, nell'altra Francesco Pavone; e queste portarono di passaggieri e di persone particolari 146 mila e 518 castigliani in oro e 30 mila e 511 marche d'argento. Di piú delli vasi e pezzi d'oro e d'argento già detti di sopra, la quantità dell'oro che venne con queste quattro navi fa la somma di 708 mila e 580 castigliani, e l'argento fa la somma di 49 mila e 8 marchi: ed è ogni marco, come s'è detto, otto oncie. Una delle due ultime navi già dette, nella quale andava per patrone Francesco Rodrighes, è stata ed è di Francesco di Scerez, cittadino di Siviglia, il quale scrisse questa conquista della Nuova Castiglia o del Perú per ordine del governatore Francesco Pizarro, stando nella provincia della Nuova Castiglia, nella città di Caxamalca, per suo secretario.



Relazione per sua Maestà di quel che nel conquisto e pacificazione di queste provincie della Nuova Castiglia è successo, e della qualità del paese, dopo che il capitan Fernando Pizarro si partì e ritornò a sua maestà. Il rapporto del conquistamento di Caxamalca e la prigione del cacique Atabalipa.

di Pedro Sancho de la Haz


Della gran quantità d'oro e d'argento portato dal Cusco, e della parte che per il quinto fu mandata all'imperadore, con la liberazione del cacique Atabalipa prigione della promessa fattagli della casa d'oro per suo riscatto; e del tradimento da detto Atabalipa ordinato contra gli Spagnuoli, per il quale lo fanno uccidere.

Partito che fu il capitan Fernando Pizarro con i centomila pesi d'oro e cinquemila marche d'argento, che si mandaron a sua Maestà del suo real quinto, arrivaron de lí a 10 o 12 dí i due Spagnuoli che portavano l'oro del Cusco, e incontanente si fondé una parte d'esso, perchè erano pezzi minuti e molto fini: e ascese alla somma di 500 e tante verghe di oro, levate da certe muraglie della casa del Cusco, e le piú picciole verghe pesavano 4 o cinque libre l'una, e l'altre piastre dieci o dodeci libbre, con le quali erano coperti tutti i muri di quel tempio. Portarono anco una sedia di finissimo oro, fatta alla foggia d'un scabello, che pesò dieciottomila pesi; portaron similmente una fonte tutta d'oro, lavorata molto sottilmente e cosa degna da vedere, considerato l'artificio, il suo lavoro e la foggia con che era fatta, e di molti altri pezzi di vasi, pignatte e piatti che portarono. Di tutto quest'oro si fece una somma che ascese a due milioni e mezzo, che, fonduto in oro fino, venne ad essere un milione e trecento e venti e tante milia pesi, di che si trasse il quinto per sua Maestà, che furon dugentosessanta e tanti mila pesi. D'argento ivi furon cinquantamila marche, delle quali ne toccò a sua Maestà diecimila. E si consegnarono al tesoriero di sua Maestà i cento e settantamila pesi e cinquemila marche di argento, perchè, come s'è detto, i cinquemila pesi e il restante cinquemila marche d'argento erano stati portati da Fernando Pizarro, per soccorso della Maestà cesarea per le spese che aveva nella guerra contra i Turchi, nemici della fede nostra santa, sí come era il rumor sparso. Tutto il resto fu diviso fra i soldati e compagni dal governatore, che diede a ciascuno quel che secondo la conscienzia sua e per il dovere conosceva di meritare, considerati i travagli che avevano patiti e la qualità delle persone: il che tutto fece egli con somma diligenza e con la maggior prestezza che si potesse, per spedirsi da quel luogo e andarsene ad abitare nella città di Xauxa. E perciochè fra quelli soldati v'eran alcuni uomini d'età, ormai piú atti a riposare che travagliare, e che aveano in quelle guerre faticato e servito molto, diede lor commiato che se ne ritornassero in Spagna: con la quale umanità veniva a far che coloro, ritornando, d'esser miglior testimonianza della grandezza e ricchezza del paese, acciochè vi concorresse gente assai, onde si facesse populoso e s'ampiasse; perchè, per dir il vero, essendo il paese grande e pieno di molta gente nativa, gli Spagnuoli che v'erano allora erano pochissimi per conquistarlo, soggiogarlo e abitarlo; e se ben aveva fatto e operato molto nel conquistamento d'esso, fu piú per l'aiuto di Dio, che in ogni luogo e impresa loro concesse la vittoria, che per lor forze e possibiltà che avessero in farle, col quale aiuto speravano dover essere sovvenuti per l'avvenire.
Fatta quella fusione, il governatore fece un atto innanzi al notaro, nel quale liberava il cacique Atabalipa e l'assolveva della promessa e parola che avea data agli Spagnuoli che lo presero della casa d'oro ch'aveva lor concessa, il quale fece publicare publicamente a suon di trombe nella piazza di quella città di Caxamalca, facendolo anco sapere al medesimo Atabalipa per uno interprete. E dichiarò parimente in quel medesimo bando che, perchè conveniva al servizio di sua Maestà e per sicurtà del paese, voleva tenerlo preso con guardie finchè venissero piú Spagnuoli co' quali si potesse meglio assicurare, perciochè, stando sciolto ed essendo cosí gran signore, e avendo tanta gente di guerra e che tutti lo temevano e ubbidivano, cosí come era preso, ancora che fosse lungi di trecento leghe, non potea egli far di meno per torsi d'ogni sospetto, massimamente che molte volte s'era inteso per cosa certa che aveva ordinato che si facessero gente da guerra per venir ad assaltare gli Spagnuoli: che, come si dirà qui innanzi, n'aveva fatta per mettere in ordine sotto i lor capitani, e solo si restava a far l'effetto per il mancamento della sua persona e del suo capitano generale Chilicuchima, che era similmente prigione.
Passati alcuni giorni, già che erano gli Spagnuoli in esser di partire per imbarcarsi e tornar in Spagna, e ponendosi in punto il governator con l'altra gente per partirsi per Xauxa, Dio nostro Signore, che con la infinita bontà sua guida e incammina al fine chi sia piú in suo servigio, come sarà, essendo in questo paese Spagnuoli che l'abitino, e faccia venire in cognizione a' naturali d'esso paese, perchè nostro Signore fosse sempre lodato e da questi barbari conosciuto e la sua fede inalzata, permise che s'appalesasse e disturbasse il mal proposito che aveva questo superbo tiranno, in sotisfazione delle molte buone opere e buon trattamento che sempre dal governatore e da ciascuno degli Spagnuoli della sua compagnia aveva ricevuto: il pagamento delle quali, secondo il suo disegno, aveva da esser della sorte e maniera che egli soleva dar a' caciqui e signori del paese, facendogli uccidere senza colpa o cagione alcuna. Ora avvenne che, ritornandosene que' nostri licenziati in Spagna, veduto da lui che se ne portavan l'oro cavandolo fuor del suo paese, guardando come era stato dinanzi cosí gran signore che possedeva tutte quelle provincie con le ricchezze che v'erano senza contrasto alcuno, non ponendo mente alle giuste cause per le quali n'era stato privato, aveva dato ordine che certa gente, che per ordine suo era stata fatta nel paese di Guito, venissero assaltare gli Spagnuoli che erano in Caxamalca una notte ad un'ora concertata in cinque parti, assaltandogli negli alloggiamenti loro, mettendo fuoco per tutto dove avessero potuto. Erano in questo tempo fuor di Caxamalca trenta Spagnuoli o piú, che erano andati alla città di San Michiele per imbarcar l'oro di sua Maestà, e credendo che, per esser questi similmente pochi, gli fosse stata gran facilità d'uccidergli, prima che si potessero riunire con quelli di Caxamalca; di che fu fatta informazione lunga di molti caciqui e delli suoi medesimi principali, che tutti senza timore, tormenti o minaccie spontaneamente dissero e confessarono questa congiura, come venivano cinquantamila uomini di Guito e molti Caribbi dentro in terra, e che in tutti i confini di quella provincia era gente in arme in grosso numero, che, per non poter sostentarsi delle vettovaglie cosí insieme, s'erano divisi in tre o quattro parti, e cosí spartiti erano tanti che, non trovando da vivere a bastanza, coglievano il maiz loro verde e lo seccavano, perchè non gli mancasse vettovaglia.
Tutto questo intesosi, essendo già presso ad ognuno cosa cosí chiara e publica che ne' loro eserciti dicevano che venivano per uccidere tutti i cristiani, veduto il governatore in quanto pericolo era tutto il governo e gli spagnuoli, per porvi rimedio, ancora che molto gli dispiacesse di venir a questo atto, nondimeno, veduta la informazione e il processo fatto, avendo congregato gli ufficiali di sua Maestà e i capitani della sua compagnia, e un dottore che in quel tempo si ritrovava in questo esercito, e il padre fra Briante di Valverde, religioso dell'ordine di San Domenico, mandato dall'imperator nostro per la conversione e per la dottrina delle genti di questi regni, doppo l'essersi molto disputato e ragionato del danno e utile che saria potuto avvenire per il vivere o morire di Atabalipa, fu risoluto che si facesse giustizia di lui. Che, cosí domandandosi dagli ufficiali di sua Maestà, e giudicato da quel dottore esser la informazione bastante, perciò fu finalmente tratto della prigione dove dimorava, e con voce di tromba che publicasse il suo tradimento e trattato, fu condotto nel mezzo della piazza della città e ligato ad un legno, mentre il religioso l'andava confortando e facendo intender per uno interprete le cose della nostra fede cristiana, dicendogli che Iddio aveva voluto che per gli eccessi che avea commessi al mondo dovesse esser morto, e però si dovesse pentir d'essi, e che Dio gli avrebbe perdonato se l'avesse fatto e si fosse incontanente battezzato. Egli mosso da queste ragioni domandò il battesimo, e da quel venerando padre, che molto li giovò in questa esortazione, gli fu dato subitamente: onde, quantunche fosse sentenziato a dover esser brucciato, se li diede una storta col mangano al collo e in questo modo fu affogato. Ma, quando se lo vidde appressare per dover esser morto, disse che raccomandava al governatore i suoi piccioli figliuoli, che volesse tenersegli appresso: e con queste ultime parole, e dicendo per l'anima sua gli Spagnuoli che erano all'intorno il Credo, fu subito affogato, Iddio lo conduca alla sua gloria, e con pura penitenzia de' suoi peccati e vera fede di cristiano prese questa morte. Doppo l'esser stato cosí affogato, in esecuzione della sentenzia se gli diede fuoco, in modo che fu brucciato qualche parte delli suoi vestimenti e della carne. Quella notte (perciochè morí al tardi) fu lasciato il suo corpo in piazza, acciochè del morir suo fosse dato a tutti notizia, e il giorno seguente comandò il governatore che tutti gli Spagnuoli dovessero presentarsi all'esequie sue, e con la croce e con quel religioso parato fu condotto alla chiesa, e sepelito con tanta solennità come si fosse stato il primo Spagnuolo del campo nostro. Di che tutti i principali signori e caciqui che lo servivano riceverono gran sodisfazione, considerando il grande onore che se gli faceva, e per saper che per essersi fatto cristiano non fu brucciato vivo, e che fu sepelito nella chiesa come se fosse stato Spagnuolo.


Constituiscono signore dello stato d'Atabalipa Atabalipa suo fratello, nella qual creazione servarono i costumi secondo l'usanze de' caciqui di quelle provincie. Dell'obbedienza e fedeltà promessa da Atabalipa e da molti caciqui all'imperadore.

Ciò fatto, ordinò il governatore che incontanente si dovessero congregare, nella piazza maggiore di quella città, tutti i caciqui e signori principali che quivi risedevano in quel tempo in compagnia del signor morto, che eran molti e di longo paese, per dar loro un altro signor che gli avesse a comandare in nome di sua Maestà, per esser soliti di gran tempo a star sotto l'ubidienza sempre d'un solo signore e tributario: che se non si fosse fatto saria nata gran confusione, perciochè ciascuno si saria ribellato con la sua signoria, e per tirargli all'amicizia degli Spagnuoli e alla obedienza di sua Maestà si sarebbe incorso in gran travaglio: e per molte altre cagioni fece il governatore unirgli insieme. E in questa congregazione ritrovandosi un figliuolo di Gucunacaba chiamato Atabalipa, fratello d'Atabalipa, a cui veniva per ragione il regno, disse a tutti che dovevan aver veduto che Atabalipa era morto per il tradimento che aveva concertato contra di lui, e, poichè tutti eran rimasi senza signore che avesse a comandargli e al quale avevano essi ad obedire, egli voleva constituir loro un signore del quale tutti sarebbono restati sodisfatti, e che questo era Atabalipa che era quivi presente, al quale ragionevolmente s'apparteneva quel regno, come figliuolo di Gucunacaba, quello che essi avevano tanto amato, e che era persona giovane, col quale avrebbono essi conversato con molto amore, ed era prudente da poter governare quel paese: però che vedessero se lo volevano per signor, che glielo avrebbe dato, e quando no, che essi ne nominassero un altro, che pur che fosse abile gli sarebbe stato da lui concesso. Essi risposero tutti che, poichè Atabalipa era morto, avrebbono obedito ad Atabalipa o a qualunque altro ch'egli avesse lor dato, e in questo modo fu dato ordine che il giorno seguente se gli avesse a prestare l'obbedienza secondo il solito. E comparso l'altro dí, si congregarono tutti di nuovo innanzi la porta del governatore, dove si pose il cacique nella sua sedia, e presso lui tutti gli altri signori e principali, ciascun secondo il suo debito ordine; e fatte le debite cerimonie, ciascun si mosse ad offerirgli un pennacchio bianco in segno di vassallaggio e di tributo, che questo è l'antico costume loro, doppo che quel paese si trovò soggietto a questi Cuschi. Ciò fatto cantarono e ballarono facendo una gran festa, nella quale il cacique re nuovo non si vestí di niuna veste di prezzo, né si pose lavoro nel fronte, come soleva portare il signor morto. E domandato dal governatore perchè ciò faceva, disse che era costume de' caciqui passati che, quando pigliavan la signoria, facevano il duolo per il cacique morto, dimorando tre giorni digiuni serrati in una casa, e doppo uscivan fuori in atto solenne e onorato e facevan gran festa: però che egli ancora voleva far il medesimo e star duo dí digiuno. Ed egli gli rispose che, poichè era cosí il costume antico, lo dovesse servare, e che doppo gli avrebbe dette molte cose che l'imperator nostro signor li comandava che dovesse dir a lui e a tutti i signori di quelle provincie. E incontinente si mise il nuovo cacique al suo digiuno, in un luogo appartato dal consorzio degli altri, che era una casa per ciò apparecchiatagli dal dí che gli fu notificato dal governatore, che era vicina al suo alloggiamento: di che rimase esso governatore con tutti gli Spagnuoli maravigliato molto, veduto come in sí breve spazio si fusse fatta una casa cosí grande e sí buona. Quivi se ne stette serrato e ritirato, nel qual luogo niuno lo vidde né entrò dentro, eccetto i paggi che lo servivano e davan da mangiare, e il governatore quando gli voleva comandar qualche cosa.
Finito il suo digiuno, uscí fuori onoratamente vestito, accompagnato da molta gente, caciqui e principali, che lo guardavano, e ornati tutti i luoghi dove egli s'aveva da por a sedere con cussini di gran valore, e sotto i piedi postivi panni onorati. S'assise presso di lui Chalicuchima, quel gran capitano d'Atabalipa che li conquistò quel paese, come si disse nella relazione fatta nelle cose di Caxamalca, e vicino a lui il capitano Tice, uno de' principali, e dall'altra parte certi fratelli del signore; e seguitavano di qua e di là altri caciqui e capitani e governatori di provincie e altri signori di gran terre, né quivi finalmente s'assise persone che non fussero di qualità, e mangiarono tutti di compagnia in terra, che non accostumano altre tavole. E doppo l'aver mangiato, il cacique disse che intendeva di dar l'obbedienza in nome di sua Maestà in quel modo che a lui l'avean data i suoi principali, e il governator gli disse che facesse come li parea: e quivi gli offerse un pennacchio bianco che i suoi caciqui gli avevano dato, dicendo che quel gli presentava in segno d'obbedienza. Il governatore l'abbracciò con molto amore e lo ricevé, dicendogli che, quando avesse voluto, gli avrebbe detto quel che doveva dirgli in nome dello imperadore; e fu tra lor concluso di congregarsi per ciò un'altra volta il giorno seguente, nel quale uscí in quella congregazione il governatore vestito al meglio che poté di vestimenti di seta, con gli officiali di sua Maestà e alcuni nobili della sua compagnia, che vi fusser presenti ben vestiti, per meglio rappresentar questo atto d'amistade e di pace, e appresso di lui fece porre l'alfiere con la bandiera reale. Quivi il governatore dimandò a tutti per ordine a ciascuno come si chiamava e di che terra fusse signore, facendogli notare a un suo secretario e scrivano: ed erano meglio di cinquanta caciqui e signori principali. Doppo, rivoltatosi a tutti loro, disse che l'imperator don Carlo nostro signor, di cui eran creati e vassalli quelli Spagnuoli che erano in sua compagnia, l'aveva mandato in quei paesi per fargli intendere e predicare come un solo Signor e creator dei cieli e della terra, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, tre persone e un solo Iddio vero, gli aveva creati e gli dava la vita e l'essere, e gli faceva nascere i frutti della terra con che si sostenevano, e acciò lor notificasse quel che essi avevan da compire e da guardare per salvarsi; e come, per mano di questo nostro Iddio omnipotente e dei suoi vicarii che ha lasciati in terra, perchè egli salí al cielo dove ora dimora e starà glorificato sempre, furon quelle provincie date all'imperatore perchè ne pigliasse il carico, il quale aveva mandato lui a dottrinargli nella fé cristiana e porgli sotto la sua obbedienza; e che tutto portava per scritto, però che l'ascoltassero e compissero: il che fece egli leggere e dichiarar loro di parola in parola per uno interprete. Poi domandò loro se l'avevan ben inteso, e risposero che sí, però che, poichè egli aveva lor dato per signore Atabalipa, essi averian fatto tutto quel ch'egli avesse comandato loro in nome di sua Maestà, e che essi teneano per supremo signore l'imperatore, e doppo il governatore, e doppo Atabalipa, per far quel che gli avesse comandato in nome suo. Incontanente prese il governatore la bandiera reale nelle mani, la quale alzò in alto tre volte, e a loro disse che, come vassalli della Maestà cesarea, dovesser essi far il medesimo: e tosto la prese il cacique, e poi i capitani e gli altri principali, e ciascuno l'alzò in alto due volte; poi tutti andarono ad abbracciare il governatore, il quale gli ricevé con molta allegrezza, per veder la lor pronta volontà, e con quanto contento avevano ascoltate le cose di Dio e della nostra religione. Il governatore volse aver in scritto tutto questo atto con testimonii, il quale finito, al cacique e principali fece gran feste; co' quali poi ogni dí si pigliava piaceri e passatempi in giuochi e conviti, i quali si facean per la maggior parte alla casa del governatore.


Conducendo una nuova colonia di Spagnuoli ad abitare a Xauxa, hanno nuova della morte di Guaritico, fratello d'Atabalipa. Poichè hanno passato le terre di Guamacuco, Adamalch, Guaiglia, Porto di Neve e capo Tambo, intendono che in Tarma sono aspettati per esser offesi da molti Indiani da guerra: perciò fanno incatenare Chilicuchima, e intrepidi seguendo il lor viaggio vanno a Cacamarca, dove ritruovano molto oro.

In questo tempo egli finí di dividere fra gli Spagnuoli della sua compagnia l'oro e l'argento che s'ebbe in quella casa, e Atabalipa diede l'oro dei quinti reali al tesoriero di sua Maestà, il quale egli fece caricare per portarlo alla città di Xauxa, dove credeva di far colonia di Spagnuoli, per la notizia che aveva delle provincie buone circonvicine e delle molte città che aveva per tutta all'intorno d'essa. Fece parimente metter in ordine gli Spagnuoli e far apparecchiargli d'arme e altre cose per il viaggio, e, venuto il tempo della partita, gli providde d'Indiani del paese che gli portassero il lor oro e bagaglie. E prima che si partisse, avendo inteso la poca gente che era nella città di San Michiele, per poter sostenersi, trasse degli Spagnuoli che aveva da condur seco innanzi dieci soldati a cavallo con un capitano, persone di molto ricapito, a' quali impose che andassero a risedere in quella città e quivi se ne stessero finchè venissero navi con gente che la potesse sostenere, e che doppo se ne fussero ritornati alla città di Xauxa, dove egli andava a fondar popolo spagnuolo e fondere l'oro che portava, promettendo che egli avrebbe dato tutto l'oro che a loro toccava cosí pontalmente come se essi vi fussero presenti, perchè il ritorno suo era necessario molto, essendo quella la prima città che s'avesse a fondare e far colonia dagli Spagnuoli per la Maestà cesarea, e la principale per aver ad alloggiare e ricever le navi che venissero di Spagna in quel paese. In questo modo si partiron, con la instruzione che il governator diede loro di quel che avevano da fare circa la pacificazione della gente de' luoghi circonvicini di quel popolo.
Il governator similmente si partí poi un lunedí da mattina, nel quale camminò tre leghe, e andò a dormire alla riva d'un fiume, dove gli venne nuova che un fratello del cacique Atabalipa, chiamato Guaritico e fratello similmente d'Atabalipa, era stato morto da certi capitani d'Atabalipa per ordine suo. Questo Guaritico era persona molto principale e amico di Spagnuoli, il quale era stato mandato dal governator di Caxamalca a racconciare i ponti e passi cattivi delle strade. Il cacique nostro sentí gran dolore della sua morte, e al governator dispiacque molto perchè l'amava, perciochè egli era util molto per profitto dei cristiani. L'altro dí si partí il governatore di quel luogo, e per sue giornate caminando giunse alla terra di Guamacuco, longi diciotto leghe da Caxamalca. Ed essendosi quivi riposati duoi giorni, si partí per Caxamalca, nove leghe piú oltre, dove arrivò in tre giorni e vi riposò quattro, perchè la gente avesse da mangiare e riposasse, per passar a Guaiglia, venti leghe de lí. Da questa terra partito, arrivò in tre dí al Porto di Neve, il qual passò, e l'altro dí da mattina giunse ad una giornata lontana da Guaiglia; e mandò il governatore un suo capitano, che era il mariscalco don Diego d'Almagro, con gente da cavallo destra a pigliar un ponte lontano due leghe di Guaiglia, il qual ponte era fabricato della sorte che si dirà qui innanzi. Questo capitano prese il ponte insieme con un monte forte che soprastava a quella terra, né tardò il governatore ad arrivar al ponte col resto dei suoi, e passandolo partí l'altro giorno da mattina che fu la domenica, per Guaiglia, dove giunti udiron subito messa, e doppo entrò in certi buoni alloggiamenti. E quivi riposatosi otto giorni, si partí con la gente, e l'altro dí passò un altro ponte di rete che era sopra il medesimo fiume, il quale passa per una valle piacevole. Camminarono trenta leghe, fin dove il capitan Fernando Pizarro apportò per Pacacama, sí come tutto diffusamente si mandò per relazione a sua Maestà di ciò che si fece in quel viaggio fin a Pacacama, e de lí alla città di Xauxa, e nel ritorno a Caxamalca, che condusse il capitan Chilicuchima seco, e d'altre cose che quivi non si parla.
Il governatore si drizzò al suo cammino e per sue giornate marciando arrivò alla terra di Caxatambo, e de lí si partí senza voler avere altro che aver qualche Indiano per fargli portar le some dell'oro di sua Maestà e dei soldati, usando sempre vigilanzia in sapere e avere informazione delle cose che succedevano nel paese, e con buon concerto delle genti, sempre con avantiguardia e retroguardia, come aveva fatto per l'adietro, temendo che il capitano Chilicuchima, che menava con esso lui, non gli tramasse qualche tradimento, per il sospetto che aveva avuto, massimamente che né in Caxatambo né per dieci leghe innanzi non aveva trovata gente alcuna, né meno se ne ritrovò in uno alloggiamento che si fece in una terra cinque leghe piú oltre, la quale, perchè s'era fuggita senza che v'apparisse creatura. Dove giunto, venne uno Indiano creato d'uno Spagnuolo che era di quella terra di Pambo, che era distante di qua dieci leghe e venti dalla città di Xauxa, dal quale s'intese che s'era unita molta gente di guerra in Xauxa per uccidere i cristiani che venivano, condotti da Incorabaliba, Iguaparro e Mortay e un altro capitano, tutti quattro persone delle principali, e che avevano molta gente con esso loro; soggiongendo di piú che in una villa cinque leghe da Xauxa, chiamata Tarma, s'era messa alla custodia d'un mal passo certa parte di quella gente, il quale era in un monte, per tagliarlo e romperlo, acciochè gli Spagnuoli non potessero passare. Di questo informato, il governatore fece metter una catena al capitano Chilicuchima, perchè dicevano per cosa verificata che per suo consiglio e comandamento s'erano mosse quelle genti, con intenzione di fuggirsi da' cristiani e andare a congiungersi con esso loro: del qual trattato non era conscio il cacique Atabalipa, anzi non lasciavano queste genti venire niuno Indiano dalla banda del cacique, acciò non gli potesse dare notizia di questi andamenti. La causa perchè s'erano ribellati e volevano guerra con cristiani era per vedere conquistato quel paese da Spagnuoli, e volevano comandargli. Il governatore, prima che si partisse da quel luogo, mandò un capitano con gente da cavallo perchè pigliasse un Porto di Nieve, che era tre leghe lontano da quel luogo, e se n'andasse ad alloggiar la sera a certe campagne vicine a Pombo: e cosí fece, che passò il porto con una gran neve, ma ne restò senza impedimento veruno; e similmente lo passò il governatore senza contrasto, eccetto del fastidio della neve, che gli sopragiunse molto impetuosa. La notte dormirono tutti in quella campagna senza coperto alcuno, sopra la neve, né pur ebber sovvenimento di legne, né da mangiare. Giunti alla terra di Pombo, providde e ordinò il governatore che i soldati alloggiassero col miglior ordine e sopraviso che fosse possibile, perciochè aveva egli nuova che i nemici crescevano ogni ora piú, e si tenevano per fermo che dovessero venir ad assaltar quivi gli Spagnuoli: e perciò fece accrescer le guardie e le sentinelle, sempre spiando gli andamenti de' nemici.
Doppo l'essersi quivi riposati otto dí, da certi messi che il cacique d'Atabalipa aveva mandati per saper quel che si faceva in Xauxa, venne uno che disse come la gente di guerra era cinque leghe da Xauxa al cammino del Cusco, e veniva per abbrucciare la terra e tutti gli alloggiamenti d'essa, perchè i cristiani non trovassero da poter alloggiare; e che essi volevano andare alla volta del Cusco a congiungersi con un capitano che si chiamava Quizquiz, che quivi era con molta gente da guerreggiare, che era di Guito, postavi per commissione d'Atabalipa per sicurezza del paese. Questo saputo dal governatore, fece apparecchiar sessantacinque cavalli leggieri, con li quali, e con venti pedoni che avean la guardia di Chilicuchima, senza impedimento di bagaglie si partí per Xauxa, lasciando quivi il tesoriero con l'altra gente in guardia della coda del campo, e l'oro di sua Maestà e dei compagni. Il dí che si partí da Pombo, e caminò ben sette leghe, e se n'andò ad alloggiare ad una terra che si dice Cacamarca: e quivi si ritrovarono settantamila pesi d'oro in ricchi pezzi, alla guardia dei quali lasciò il governatore duoi cristiani a cavallo, acciochè, quando la retroguardia arrivasse, lo conducesse sotto buona custodia. Doppo si partí la mattina con la sua gente bene in ordine, avuta nuova che tre leghe lungi erano quattromila uomini, e nel marciare andavano sempre innanzi tre o quattro cavalli leggieri, acciochè incontrandosi in qualche spia de' nemici li pigliassero, perchè non dessero aviso della venuta sua. Sul mezzodí giunsero a quel mal passo di Tarma, dove dicevano che era gente a guardarlo per difenderlo, il quale mostrava d'essere sí difficoltoso perchè pareva cosa impossibile a poter salirlo, perciochè v'era un mal passo di pietra per calar al fiume, picciolo, dove avevano da smontare a piedi tutti quelli che erano a cavallo, e doppo bisognava che salissero all'alto per una costa, e per la maggior parte monte erto e difficile, che durava ben una lega: il quale si passò senza che gl'Indiani, che si diceva essere in arme, comparissero. E al tardi, passata l'ora di vespro, comparse il governator e gente a quella terra di Tarma, che per esser in mal sito e aver nuova che v'aveva da venir Indiani a dar addosso a' cristiani, non volse egli piú tempo quivi fermarsi, se non quanto poté dar da mangiare a' cavalli per ristorargli della fame e fatica passata, per uscir presto di quel luogo, che non aveva altra parte di piano se non la piazza, ed era circondato tutto all'intorno per spacio d'una lega di montagne in una picciola costa. Per esser notte fece quivi alloggiar il suo campo, stando sempre in guardia con i cavalli insellati, e gli uomini senza mangiare e finalmente senza un refrigerio alcuno, perciochè non avevano né legne né acqua, né portavano con esso loro tende da poter coprirsi, che fu cagion di quasi morir tutti di freddo, perchè piovvé molto la prima notte e doppo nevigò, in modo che l'arme e i panni che portavano addosso si bagnarono tutti. Però ciascuno al meglio che poté si rimediò e passossene quella mala e travagliosa notte, finchè venne l'aurora, nella quale ordinò che cavalcassero per giungere a buon'ora a Xauxa, che era quattro leghe lontana de lí; e avendone già cavalcate due, il governator fece dividere li sessantacinque cavalli fra tre capitani, dandone a ciascun di essi quindeci, pigliando con lui gli altri venti, con li venti pedoni che guardavano Chilicuchima. In questo ordine camminarono fino a porsi ad una lega lunge da Xauxa, avendo a ciascun capitano ordinato quel che dovesse fare, e si fermarono tutti in un picciol luogo e villetta che quivi era; poi si mossero con buon concerto tutti e giunsero a vista della città in una costa, lontani un quarto di lega, e si fermarono tutti.


Giungono alla città di Xauxa, e parte di loro restano in essa per guardia e altri contra l'esercito de' nemici co' quali combattendo restano vittoriosi, e fanno ritorno a Xauxa; né quivi molto restano, che di loro parte vanno verso il Cusco per ritrovare il corpo dell'esercito de' nemici, ma il fatto non gli riesce e fanno a Xauxa ritorno.

La gente della terra uscí tutta fuori su la strada per veder i cristiani, ringraziandoli della venuta loro, con la quale tenevan per fermo uscir di servitú e penosa soggezione di quella gente forestiera. In questo luogo volsero aspettare che entrasse piú il giorno, però, veduto che non compariva gente da guerra, cominciarono a camminar per entrar nella terra. E nel calare quella picciola costa viddero venir correndo a gran fretta uno Indiano con una lancia alta, e giunto a loro si vidde esser un creato di cristiani, che disse che il suo patrone l'aveva mandato a far loro intendere che dovessero camminar presto, che li nemici erano dentro la terra, e che duoi cristiani a cavallo innanzi a tutti gli altri avevan spinto i lor cavalli ed erano entrati dentro per veder gli alloggiamenti che ci erano, e andandoli ricercando viddero qualche venti Indiani che uscivano di certe case con le lor lancie e altre arme, chiamando gli altri che fossero usciti a congiungersi con esso loro. I duoi cristiani, vedutigli metter insieme, senza por mente al gridare e chiamar loro, dierono in essi e n'uccisero alcuni e altri fecero fuggire, i quali si vennero tosto ad unir con altri che erano usciti in lor soccorso, e fecero una massa di qualche dugento, ne' quali di nuovo i duoi Spagnuoli assaltarono in una strada stretta e li roppero, facendogli rinculare alla riva d'un fiume grande che corre per quella città; e in quel tempo l'uno d'essi Spagnuoli aveva mandato quello Indiano che ho detto con la lancia inastata, in segno che eran nella città li nemici con l'arme. Gli Spagnuoli, udito questo, dierono di sproni a' cavalli e senza fermarsi giunsero alla terra ed entrarono dentro, e trovati i loro duoi compagni, gli fu da loro narrato quel ch'era loro avvenuto con quelli Indiani. E correndo i capitani verso quella parte dove s'erano ritirati li nemici, giunsero alla riva del fiume, che era in quel tempo molto ingrossato, e da quella riva viddero ad un quarto di lega dall'altra banda gli squadroni de' nemici: onde, passato il fiume con non poca fatica e pericolo, camminorono verso loro. Il governatore restò alla guardia della terra, perchè si diceva che dentro v'erano similmente genti nemiche nascose. Gl'Indiani, veduto che i cristiani avevano passato il fiume, si cominciarono a ritirare, fatti duoi squadroni. E l'uno dei capitani spagnuoli con i suoi quindeci cavalli leggieri spinse per una costa del colle dove essi erano per pigliarlo, acciochè quivi non potessero farsi forti e ritirarvisi: e gli altri duo capitani spinsero per dritto alla volta loro lungo il fiume, e gli aggiunsero in una seminata di maiz, lungi una lega da Xauxa, e rompendo in loro gli posero in rotta, giungendoli quivi tutti, che di seicento che erano non ne scamparon piú di venti o trenta, che presero il monte prima che il capitano con quei quindeci vi giungesse: e in questo modo si salvarono, perchè la maggior parte si riduceva verso l'acqua, pensando salvarsi in essa, però i cavalli leggieri passavano il fiume quasi a nuoto dietro di loro e non ne lasciavano alcun vivo, eccetto qualche uno che se era loro ascoso nel perseguitargli doppo che furon rotti. Corsero piú a basso doppo qualche una lega senza che mai trovassero altri Indiani, onde ritornati si riposorono essi e i cavalli loro, che n'avevano bisogno, perchè le lunghe giornate fatte per innanzi, e con l'aver corso quelle due leghe, erano alquanto stracchi. Saputa la verità di che gente fusse quella, si trovò che i quattro capitani e massa di gente erano alloggiati a sei leghe da Xauxa lungo il fiume, e che quel proprio giorno aveva mandati quei seicento uomini per finir di brucciar la città di Xauxa, avendo già brucciatane l'altra metà già sette o otto giorni, dove avevano abbrucciato un edificio grande che era in piazza e altre cose a vista della gente della città, con molte robbe e maiz, acciochè gli Spagnuoli non se ne potessero prevalere. Stetteno gli abitatori della città cosí male con esso loro che, se alcuno di questi Indiani erano fuggiti dentro e nascosi, andavano essi ad insegnarlo a' cristiani acciochè l'uccidessero, ed essi proprii gli aiutavano ad ammazzare: e da loro stessi gli avrebbono ammazzati, se i cristiani glielo avessero permesso.
Informati adunque i capitani del luogo dove si trovavano questi nemici e della strada, della quale avevano già camminata parte, determinarono di non ridursi a Xauxa, ma riposati alquanto spinger oltre e dar nella massa della gente, che era lontana quattro leghe da loro, prima che fussero avisati dell'andata loro: e con questa intenzione comandarono che si ponessero in punto i soldati, ma non ebbe effetto il disegno loro, perciochè trovarono i cavalli cosí stanchi che presero per partito di ritornarsene adietro, come fecero. Narrarono giunti a Xauxa al governatore il successo della cosa, di che sentí egli gran piacere, e li ricevé con molta allegrezza, ringraziando ciascuno dell'essersi cosí valorosamente portato; e disse loro che in ogni modo intendeva che s'andasse ad assaltar il campo de' nemici, perchè, benchè fussero avisati del successo, era egli certo che gli avrebbono aspettati. Incontanente comandò al mastro di campo che gli alloggiasse, e lor disse che si riposassero quel tempo che lor restava del giorno e la notte finchè uscisse la luna, e che doppo si mettessero in punto per andar a dar nei nemici: nella quale ora furono in ordine cinquanta cavalli leggieri, che, dato nelle trombe, comparsero armati nelli lor cavalli nello alloggiamento del governatore, dal quale tolto combiato seguirono il lor cammino, restando nella città seco quindeci cavalli con i venti pedoni che facevano la guardia ogni notte con i cavalli insellati, finchè tornò il capitano da quella impresa, che fu de lí a cinque giorni. Il quale narrò al governatore tutto quel che gli era avvenuto doppo che si partí da lui, dicendo che la notte che si tolse da Xauxa andò qualche quattro leghe prima che si facesse giorno, con molta pressia, per giungere nel campo de' nemici prima che essi fussero avisati dell'andata loro, e che, essendo già vicini, viddero un gran fiume sul far del giorno da quella parte dove erano alloggiati, che erano due leghe ancora piú oltre; onde egli spinse oltre con i suoi a gran furia, pensandosi che i nemici, avisati della venuta loro, se ne fuggivano e avevano abbrucciati gli alloggiamenti che erano in una villa: e cosí era, perciochè se ne fuggivano avendo dato il fuoco a quella misera terra. Gli Spagnuoli, giunti in quel luogo, seguirono le pedate di quella gente per una valle tutta piana, e secondo che gli venivano aggiungendo trovavano, come piú pigre a camminare, molte donne e fanciulli nella retroguardia, e cosí fra loro, lasciandoseli adietro per giungere gli uomini, corsero ben 4 leghe: e giunsero alcune squadre di loro, de' quali una parte, veduto alquanto di lontano loro, avendo avuto tempo di pigliare un monte, si salvò in esso, e altri, che furono pochi, furono morti, restando in preda di cristiani (i quali per trovarsi i cavalli stanchi non volsero salir al monte) molte bagaglie loro e donne e fanciulli. E già che era comparsa la notte, tornarono a dormire ad una villetta che s'avevano lasciata adietro, e il giorno seguente determinarono questi Spagnuoli seguir il lor cammino alla via del Cusco dietro gl'Indiani, per torgli e preoccupargli certi ponti di rete, per non lasciargli passare; però per mancamento del viver per i cavalli furono forzati di ritornarsene adietro, con gran dispiacere del governatore, perchè non gli avevano seguiti almeno per torgli quei ponti e non lasciargli passare alla via del Cusco, perciochè, essendo gente forestiera, si dubitava che avrebbe fatto un gran danno agli abitatori di quei luoghi.


Ordinano nuovi ufficiali nella città di Xauxa, per farvi una colonia di Spagnuoli; e avendo avuto nuova della morte d'Atabalipa, molto prudente e con arte, per conservarsi in grazia delli Indiani, trattano creazione del nuovo signore.

E per questa cagione, venute che furono le bagaglie e la retroguardia che egli aveva lasciata a Pombo, fece bandire che, perciochè egli determinava di fondar in quella città di Xauxa colonia di Spagnuoli in nome di S.M., coloro che avessero animo di farvi domicilio lo potessero fare; ma niuno Spagnuolo vi fu che volesse accettar di starvi, dicendo che, fintanto che stesse fuori la gente di guerra con l'arme in mano per quel paese, non stariano i naturali di quella provincia al servigio e suggezione de' Spagnuoli e obedienza di S.M. Questo veduto dal governatore, determinò di non spender per allora tempo in quel negocio, ma di volersene andar contra i nemici alla volta del Cusco, per scacciargli da quella provincia e disertargli a fatto. In tanto, per dar ordine alle cose di quella città, fondò il popolo in nome di S.M. e creò ufficiali per la giustizia d'esso, che furono ottanta, i quaranta dei quali furono quaranta cavalli leggieri che quivi lasciò al presidio d'essa, col tesoriero in guardia anco dell'oro di S.M., lasciandolo luogotenente suo, e quello al quale s'avesse da far capo in tutte le cose e avesse il principato e la somma del governo.
In questo mentre venne a morte il cacique Atabalipa di sua infirmità, di che sentí gran discontento il governatore, e insieme con lui tutti gli Spagnuoli, perciochè era veramente molto prudente e portava amor grande agli Spagnuoli. Si publicò palesemente che il capitano Chilicuchima gli diede con che morisse, perchè desiderava che il paese fusse signoreggiato dalla gente di Guito e non da gente nativa del Cusco, né dagli Spagnuoli: e se questo cacique viveva, non avrebbe egli potuto veder quel che desiderava. Incontanente fece il governatore chiamare il capitano Chilicuchima e Tixas e un fratello del cacique, e altri capitani principali e caciqui che eran venuti di Caxamalca, a' quali disse che dovevan ben sapere che gli aveva creato signor Atabalipa, e che, essendo morto, dovessero essi pensare quel che volean per signor, che glielo avrebbe dato. Fu tra loro gran differenza sopra di questo, perchè Chilicuchima voleva che fusse signor il figliuolo d'Atabalipa, Aticoc e fratello del cacique morto e altri signori, che non eran del paese di Guito, volevano che il signore fusse nativo del Cusco, e proponevano un fratello carnale d'Atabalipa. Il governator disse a quei che volevan per signor il fratello d'Atabalipa che lo mandassero a chiamare, e che, comparso, quando l'avesse conosciuto persona di merito, l'avrebbe creato: e con questa resoluzione fu licenziata quella congregazione. E avendo chiamato da parte il governatore il capitano Chilicuchima, gli disse queste parole: "Già sai tu ch'io amavo molto Atabalipa tuo signore, e avrei voluto che poichè morí e lasciò figliuolo, che esso fusse stato signore, e che tu, poichè sei uomo savio, avesse da esser suo capitano fintanto che egli fusse in età d'amministrare la signoria: e per questo quando brami che si faccia lo mandarò a chiamar presto, perchè per amore di suo padre amo lui molto, e te similmente. Però insieme con questo, poichè tutti questi caciqui che son qui sono tuoi amici, e dei soldati della vostra nazione puoi tu dispor molto, ben sarà che tu gli mandi messaggieri che venghino in atto di pace, perchè io non vorrei incrudelirmi contra di loro e uccidergli, come tu vedi che io vado facendo, bramando che le cose di queste provincie sieno quiete e pacifice". Questo capitano aveva gran desiderio, come s'è detto, che il figliuolo d'Atabalipa fusse signore: di che avvedutosi, il governatore con arte gli disse queste parole e gli diede questa speranza, non perchè avesse animo di farlo, ma perchè, intanto che quel figliuolo d'Atabalipa venisse per questo effetto, egli facesse che quei capitani di guerra che avevan già l'arme in mano fussero venuti in atto di pace. Fu similmente finto quel che disse ad Aticoc e agli altri signori della provincia del Cusco, che avrebbe fatto signore colui che essi avessero voluto, perciò che bisognava che cosí si governasse, per l'essere in che si trovavano le cose in quel tempo, per star bene con tutti. A Chilicuchima cercava di dar parole acciochè facesse venir le genti che erano al Cusco con l'arme a lasciarle, perchè non facessero danno nelle genti del paese, e a quelli del Cusco acciochè fossero veri amici de' cristiani, e li desse aviso di quel che i nemici trattavano e di tutto quel che si faceva nel paese: e per queste cagioni e altre diceva questo il governatore con molta prudenza. Chilicuchima ricevé, per quel che dimostrò, tanto piacere di queste parole come se l'avesse fatto signor di tutto il mondo, e rispose che avrebbe egli fatto tutto quel che li comandava, e che avrebbe dato ordine che i capitani e soldati fossero venuti alla pace, e che avrebbe spediti messi a Guito perchè il figliuolo d'Atabalipa fosse venuto, ma che si dubitava che fosse impedito da due gran capitani che erano con esso lui, che non l'avrebbono lasciato venire; però con tutto questo avrebbe mandato tal persona con l'ambasciata, che si pensava che avrebbono condesceso tutti a ciò che egli avesse voluto. E gli soggiunse: "Signor, poichè tu vuoi ch'io faccia venir questi caciqui, toglimi questa catena da dosso, perciochè, vedutomi con essa, non vorran fare il comandamento mio". Il governatore, acciochè egli non sospettasse che fosse finto quel ch'egli aveva detto, gli disse esser contento di farlo, però con una condizione, che gli voleva por le guardie di cristiani, finchè avesse egli fatti venire quelli soldati che erano con l'armi in mano in atto di pace, e avesse veduto il figliuolo di Atabalipa: ed egli restò sodisfatto di questo, e in questo modo fu sciolto e dal governatore postagli buona guardia, per esser quel capitano la chiave di tener quel paese pacifico e soggetto. Fatta questa provisione, e ordinata la gente che aveva d'andare con il governator alla via del Cusco, che erano cento cavalli e trenta pedoni, comandò ad un capitano che con 60 da cavallo e alcuni pedoni andasse innanzi per far rifare i ponti ch'erano abbrucciati; e il governatore in tanto rimase per dar ordine a molte cose convenienti per la città e la republica, che aveva da lasciare quasi coloniata, e per aspettare la risposta di duoi cristiani che aveva mandati alla costa del mare per vedere i porti e poner in essi delle croci, perchè s'alcuno venisse riconoscesse il paese.


Descrizione delli ponti quali costumano gl'Indiani fare sopra i fiumi per passare; e del difficile viaggio fatto dagli Spagnuoli nell'andare al Cusco; e del giungere a Panarai e Tarcos, città degl'Indiani.

Si partí questo capitano il giovedí con quelli che l'avevano da seguire, e il governatore col resto della gente e Chilicuchima e la sua guardia il lunedí da mattina che seguí poi, tutti bene in punto d'arme e di tutte le cose necessarie, per esser il viaggio ch'avevano a fare lungo; e restar tutte le bagaglie in Xauxa, perchè non era espediente di portarsele con esso loro a questa impresa. Camminò il governatore duoi giorni per una valle al basso per la riva del fiume di Xauxa, ch'era molto dilettevole e popolata di molti luoghi, e il terzo giorno arrivò ad un ponte di rete che è sopra il medesimo fiume, il quale avevano brucciato i soldati indiani doppo che essi v'eran passati: ma già il capitano che era andato innanzi l'aveva in quel punto finito di rifare dalle genti del paese. E dalla banda dove fanno questi ponti di rete, dove i fiumi sono grossi, per esser la provincia abitata in dentro dove non è vicino il mare, niuno del paese è quasi che sappia nuotare, e per questa cagione, quantunche siano i fiumi piccioli e che si possano passare a guazzo, gli fanno nondimeno sopra i ponti, in questo modo: che se il fiume ha le rive sassose da una banda e l'altra, armano sopra d'esse un muro grande di pietra alto, e poi mettono quattro stanghe, grosse di duo palmi o poco meno, che traversano il fiume, e nel mezzo in forma di graticci tessono vimini verdi grossi come due deta, ben tessuti, che non sia piú lento l'uno che l'altro, legati in buona forma, e sopra di questi mettono delle rame attraversate, in modo che non si vede l'acqua: e in questo modo è il pavimento del ponte. E nel medesimo modo tessono un muro alle sponde del ponte, con questi medesimi vimini, acciochè niuno possa cadere nell'acqua: di che non ci è poi niun pericolo, benchè a chi non è pratico par cosa pericolosa il passarlo, perchè, essendo il tratto e lo spacio grande, piega il ponte quando l'uomo vi passa, che sempre va abbassando fin al mezzo e doppo va montando finchè l'abbia finito di passare all'altra riva, e quando si passa trema molto forte, in modo che a chi non v'è usato se gli svanisce la testa. Fanno per l'ordinario duoi ponti insieme, perchè dicono che per l'uno passano i signori e per l'altro la gente comune. Vi tengono le lor guardie, le quali il cacique signore di tutto il paese gli fa di continuo riseder quivi, perchè, se i viandanti gli portassero via oro e argento o altra sua robba, o d'altri signori del paese, non lo possano portare di là; e quelli che essi tengono in questi ponti v'hanno le loro stanze vicine, e hanno di continuo presso di loro vimini e graticci e corde per racconciar i ponti quando si vengono guastando, e farne bisognando di nuovo.
Or le guardie ch'erano in questo ponte, quando passarono gl'Indiani che lo brucciarono, nascosono la munizione che avevano da rifarlo, perchè altrimente l'avrebbono essi similmente abbrucciata, e per questa cagione lo rifecero per il passare degli Spagnuoli in sí poco spacio di tempo. I cavalli spagnuoli e il governatore passarono per l'uno di questi ponti, ancora che, per esser fresco e non bene ordinato, stentassero assai, perciochè, per esservi passato su il capitano che andava innanzi con li sessanta cavalli, v'erano fatti molti pertugi ed era quasi mezzo disfatto. Passarono tuttavia i cavalli senza che vi pericolasse niuno, quantunche la maggior parte d'essi vi cadessero, perchè si moveva il ponte e tremava tutto: ma, come s'è detto, era il ponte fatto di sorte che, ancora che cadessero con li piedi dinanzi e quelli di dietro, non potevano cadere a basso nell'acqua. Passati che furono tutti, il governator alloggiò in certi alloggiamenti d'alcuni arboretti che quivi erano, per i quali passavano molti belli rivi d'acque belle e limpide. Doppo si posero in viaggio, cavalcando per la riva di quel fiume due leghe, per una stretta valle che aveva le montagne dall'una parte e l'altra altissime: e in parte ha questa valle per dove passa il fiume cosí poco spacio, che c'è tanta strada alla radice del monte e del fiume quanto un tratto di pietra, e in altri luoghi per la costa del monte poco piú. Passate due leghe di questa valle, si trovò un altro ponte picciolo sopra un altro fiume, per il quale passò tutta la gente da piedi; e i cavalli passarono a guazzo, sí perchè il ponte era malconcio, come anco per esser l'acqua bassa in quel tempo. Passato il fiume, si cominciò a montare una montagna asprissima e lunga, tutta fatta a scaloni di pietra molto spessi: quivi travagliarono tanto i cavalli che, quando finirono di salirla, s'erano per la maggior parte disferrati, con l'unghie guaste dei piedi dinanzi e di dietro. Salita quella montagna, che durò ben mezza lega, andando un altro pezzo per una costa sul tardi, arrivò il governator con questa gente ad una picciola villetta che era stata abbrucciata da' nemici Indiani e saccheggiata, e però non vi si trovò né gente né maiz né altra sorte di vettovaglia, e l'acqua era molto lontana, perciochè gl'Indiani avevano rotti i condotti che venivano alla città: che fu gran male e gran disagio per gli Spagnuoli, perchè, per aver quel giorno trovato il cammino aspro, faticoso e lungo, avevano bisogno di buono alloggiamento.
Si partí di quivi l'altro giorno il governatore e se n'andò a dormire ad un'altra terra, che quantunche fosse molto grande e buona e piena di molti alloggiamenti, si trovò nondimeno in essa cosí poco refrigerio come nell'altra passata: e chiamasi questa terra Panarai. Si maravigliò molto il governatore con gli Spagnuoli di non veder quivi né vettovaglie né cosa alcuna, perciochè, essendo questo luogo d'un signor di quelli che erano stati con Atabalipa e con il signor morto in compagnia di cristiani, era di continuo venuto in lor compagnia fino a Xauxa, che disse voler andar avanti per apparecchiar in questa sua terra vettovaglia e altre cose necessarie per gli Spagnuoli: e non ritrovandosi quivi né egli né sua gente, si teneva per certo che il paese lí vicino era con l'arme in mano; né essendosi avuto lettera veruna dal capitano che andava innanzi con li 60 da cavallo, da una in fuori, nella qual faceva sapere ch'egli andava dietro a' nemici indiani, si temeva che i nemici non avessero lor tolto qualche passo, onde non potesse venir messo alcuno mandato da lui. Gli Spagnuoli fecero tanto che buscarono a torno alla terra del maiz e pecore, con che se ne passarono quella notte; e l'altro giorno si partirono a buon'ora e giunsero ad una terra chiamata Tarcos, dove si ritrovò il cacique che n'era signore con qualche gente, il quale diede aviso del dí che erano passati di quivi i cristiani, e che andavano per andar a combattere co' nemici, che erano alloggiati in una terra lí vicina. Ricevettero tutti gran piacere di questa nuova, e d'aver ritrovato buone accoglienze in quel luogo, perchè il cacique aveva fatto mettere su la piazza buona quantità di maiz e di legne e pecore, e altro di che avevan gran bisogno gli Spagnuoli.


Seguendo il lor viaggio hanno avisi, mandategli dalli quaranta cavalieri spagnuoli, dello stato dell'esercito indiano, col quale vittoriosamente avevano combattuto.

L'altro dí, che fu il sabbato, giorno di tutti i Santi, il frate che era in questa compagnia disse messa la mattina, come è solito dirsi in simil giorno, e poi si partirono tutti e camminarono finchè giunsero ad una gran fiumana tre leghe lontana, sempre discendendo dalla montagna con aspra discesa e lunga. Questo fiume aveva similmente un altro ponte di rete, che per esser rotto si passò a guazzo, e doppo si montò un'altra montagna assai grande, che, guardando dall'alto al basso, pareva quasi impossibile che gli uccelli vi potessero volare, quanto piú salirlo uomini a cavallo per terra: ma se li rese men difficultosa la strada perchè s'andava montando in circuito e non all'erta, benchè fusse per la maggior parte a scaloni grandi di pietra, che faticavan molto i cavalli e si guastavano e indolevano i piedi, ancora che gli conducessero per la briglia. In questo modo s'ascese una gran lega, e un'altra se ne camminò per una costa di piú facil cammino, e al tardi arrivò il governatore con gli Spagnuoli ad una terra picciola, una parte della quale era abbrucciata: e quivi in quel che ci era rimaso di sano alloggiarono gli Spagnuoli. E al tardi giunsero duo Indiani, messi mandati dal capitano che andava inanzi, i quali portaron per lettere nuove al governatore come egli era arrivato a gran fretta alla terra di Parcos, che era restata adietro, perciochè aveva avuto aviso che era quivi i capitani con tutta la gente nemica; né avendovegli trovati, ebbe nuova certa che s'erano ritirati a Bilcas, onde egli aveva spinto le sue genti oltre, finchè s'era condotto a cinque leghe lunge da Bilcas, dove aspettò la notte e si partí secretamente, per non esser sentito da certe spie che eran poste ad una lega lunge da Bilcas; e avuto nuova che i nemici erano dentro una terra senza aver notizia alcuna dell'andata sua, fu il capitano allegro molto, e montata una montagna dove era quel luogo assai difficile, sul far del giorno entrò dentro e vi ritrovò certa gente alloggiata, poco avisata. I cavalli spagnuoli cominciaron a dar in essa per le piazze, fintanto che fra morti e fuggiti non si viddero piú persona alcuna innanzi, perchè pochi soldati indiani v'erano, che s'erano ritirati ad una montagna fuor di strada da quella terra; i quali, tosto che si schiarò il giorno e viddero gli Spagnuoli, si misero insieme tutti in squadroni venendo contra di loro dicendogli "Ingri", il qual nome tengono essi per vituperoso molto, essendo questa una gente da poca, che abita in paesi caldi e alla costa del mare: ed essendo quella provincia e regione frigida, e i cristiani andando vestiti e coperti le carni loro, gli chiamavano quelli Ingri, minacciandogli che gli avrebbon fatti loro schiavi, per essere pochi né arrivar pur al numero di quaranta, e minacciandogli gli dicevano che dovesser discender a basso dove stavano. Il capitano, quantunche conoscesse che si ritrovava in un mal sito da combatter con cavalli, de' quali poco si potevano gli Spagnuoli prevalere, nondimeno, acciochè non potessero i nemici pensare che il non combattere procedesse da viltà d'animo, prese con esso lui trenta cavalli, e lasciati gli altri alla guardia della terra, calò al basso contra di loro per una serrata del monte e una costa molto faticosa. I nemici gli aspettarono animosamente, e nel urtarsi insieme uccisero un cavallo, ferendone altri dui; ma al fine, essendo tutti rotti, fuggiron chi da una banda e chi dall'altra del monte, cammino piú aspro, ove i cavalli non gli avrebbon potuti seguitare e far lor danno. In questo si venne ad unir con esso loro un capitano che era scampato della terra, che, avendo inteso da loro che avevano ammazzato un cavallo e feritone dua, disse: "Voltiamoci adietro e combattiamo con esso loro, in modo che niuno resti in vita, che son pochi". E incontanente si rivoltaron tutti con maggior animo e piú grande empito che prima, e quivi s'appiccò una fiera battaglia, e maggior che la prima; tuttavia fuggirono gl'Indiani, e i cavalli gli seguitarono d'ogni banda del monte finchè poterono. Di questi dui incontri rimasero morti ben seicento uomini, e si crede che vi rimanesse morto Maila, l'uno dei capitani, perchè tutti gl'Indiani lo dissero; e quei della lor parte quando uccisero il cavallo gli tagliarono la coda, e, postala in una lancia, la portavano innanzi per lor gonfalone. Gli fece similmente sapere che intendeva di riposar quivi tre giorni, per amore de' cristiani e cavalli feriti, e doppo si sarian partiti per occuparli innanzi un ponte di rete che era quivi vicino, acciochè i nemici fuggitivi non passassero per congiungersi con Quizquiz nel Cusco e con la guarnigione della gente che aveva, la qual diceva che aspettava gli Spagnuoli in un passo cattivo vicino al Cusco: però, ancora che fusse piú cattivo, avevano speranza in Dio, che secondo il luogo dove avevano avuta quella battaglia, paese cosí aspro e sassoso che da loro in alcuna altra parte, per difficile e faticosa che si fusse, non si sarebbon potuti difender da loro né offendergli in alcun passo cattivo; e che quinci partito, passato il ponte che è tre leghe dal Cusco, quivi avrebbe aspettato il governatore, come gli aveva imposto, e di tutto ciò avesse inteso che gli fusse successo, glielo avrebbe fatto a sapere per messi a posta.


Doppo varii incommodi patiti nel viaggio, avendo passate le città di Bilcas e d'Andabailla, prima che giunghino ad Airamba hanno lettere dagli Spagnuoli, per le quali gli mandano in soccorso trenta cavalieri.

Questa lettera avendo ricevuto il governatore, sentirono insieme con lui tutti gli Spagnuoli infinito piacere per la vittoria che aveva avuta il capitano; e incontanente la mandò insieme con un'altra sua alla città di Xauxa, al tesoriero e Spagnuoli che v'erano restati, acciò con esso loro participassero il piacere delle buone nuove della vittoria del capitano. E similmente mandò messi al capitano e Spagnuoli che eran seco, ringraziandogli assai della vittoria che avevan avuto, pregandogli e avisandogli che in queste cose si governassero sempre piú tosto col consiglio che col por mente alle forze loro, e che in ogni modo gli dovessero aspettare passato l'ultimo ponte, acciochè tutti poi insieme facessero l'entrata nella città del Cusco. Ciò fatto, si partí il governatore il dí seguente, che fu d'un aspro e faticoso cammino di montagne petrose, e ascese e discese di scaloni di sassi, che si pensarono tutti con fatica non poter ritrarne i cavalli, considerato il cammino fatto e quel che anco avevano da fare. Giunsero a dormire quella notte ad una terra che era posta dall'altra parte d'un fiume, che aveva sopra similmente un altro ponte di rete: i cavalli passarono per l'acqua, e la gente pedona e servitori di cristiani andarono per il ponte. Il seguente giorno ebbero buon cammino lungo quel fiume, dove trovarono molte selvaticine, cervi e camozze; e quel dí giunsero ad alloggiar a certi alloggiamenti vicini a Bilcas, dove il capitano che andava innanzi aveva fatto, per camminar la notte e ire ad entrar a Bilcas senza esser sentiti, come entrò. E quivi venne un'altra sua lettera, dove diceva che s'era partito da Bilcas già duo giorni ed era giunto ad un fiume 4 leghe innanzi, il quale aveva guazzato per esser brucciato il ponte, e quivi aveva inteso che il capitano Narabaliba andava fuggendo con qualche venti Indiani; e che s'era incontrato in duomila Indiani che gli aveva mandati in soccorso il capitano del Cusco, i quali, come seppero la rotta di Bilcas, se ne ritornarono fuggendo con esso lui, cercando d'andar a congiungersi con le reliquie sparte di quei che fuggivano, aspettandogli in una terra chiamata Andabailla; e che egli determinava di non fermarsi mai, finchè non si fusse trovato con loro.
Udite queste nuove dal governatore, pensò di volergli mandar soccorso, ma dopo non lo fece, perchè considerò che, se si doveva far la battaglia, già sarebbe fatta e non sarebbe stato piú a tempo; ma ben determinò di non fermarsi pur un sol giorno fintanto che non lo raggiongesse, e in questo modo si partí per Bilcas, dove entrò il seguente dí di buon'ora, e per quel giorno non volse andar piú avanti. È posta questa città di Bilcas in un monte alto, ed è gran luogo e capo di provincia; ha una gentile e bella fortezza, vi sono molte case di pietra molto ben fabricate, ed è nel mezzo del viaggio tra Xauxa e il Cusco. L'altro giorno arrivò il governator a dormire dall'altra banda del fiume a 4 leghe lunge da Bilcas, e quantunche fusse la giornata picciola, fu nondimeno travagliata, che fu sempre il discendere da una montagna al basso, quasi tutta a scaloni di pietra; e la gente passò il fiume a guazzo con molta fatica, perciochè era molto grosso, e piantò il campo dall'altra banda fra certi arboretti. Appena era quivi giunto il governatore, che ebbe una lettera del suo capitano che andava innanzi, per la quale gli faceva intendere che i nemici eran passati 5 leghe innanzi, e aspettava in una falda d'un monte, in una terra chiamata Curamba; e che era molta gente quivi unita, e aveva fatto molti ripari e postovi quantità grande di pietre, acciò non vi potessero salir gli Spagnuoli. Il governatore, inteso questo, quantunche dal capitano non gli fusse stato domandato soccorso, credendo che ora ne arebbe bisogno, fece incontanente metter in punto il maresciallo don Diego d'Almagro con trenta cavalli leggieri, bene in ordine d'arme e di cavalli; né volle che con esso lui conducesse pedoni alcuno, perciochè gli comandò che non dovesse fermarsi giamai, finchè non si congiungesse col capitano che era innanzi con gli altri. Ed essendo partito, si partí similmente il dí seguente il governatore, con dieci da cavallo e venti pedoni che guardavano Chilichuchima, e affrettò tanto il cammino quel giorno che di due giornate ne fece una. Già che era per giunger alla terra dove aveva da dormire, chiamata Andabailla, venne un Indiano fuggendo a dire che in certa costa del monte, che mostrò col deto, s'era scoperta gente di guerra inimica; onde il governatore, cosí armato come stava, a cavallo, con gli Spagnuoli che aveva seco andò a pigliar l'alto di quella costa e la scoperse tutta, senza aver trovata la gente che quello Indiano aveva detto, perchè quella era gente nativa di quel paese, che era fuggita dagl'Indiani di Guito perchè gli faceva grandissimo danno. Giunto il governatore e compagni in quella terra d'Andabailla, cenarono e riposarono quella notte; e il dí vegnente pervennero alla terra d'Airamba, dove aveva scritto il capitano esser la gente unita insieme con l'arme ad aspettargli nel cammino.


Pervenuti ad un villaggio, ritruovano molto argento fatto in tavole lunghe venti piedi. Seguendo il lor viaggio, hanno lettere dagli Spagnuoli del combattere sanguinoso e con lor danno fatto contro l'esercito degl'Indiani.

Quivi furono trovati duoi cavalli morti, onde si prese sospetto che al capitano fosse occorso qualche disgrazia. Però, entrati nella terra, per una lettera che venne prima che alloggiassero si seppe come il capitano aveva trovato quivi gente di guerra, e che per prender la montagna aveva salita una costa, dove aveva trovata gran quantità di pietre adunate, che fu segno voler quivi aspettare, e che andavano in traccia degl'Indiani, ch'avevano notizia non essere da loro molto lontani; e che i duoi cavalli erano morti per riscaldarsi e raffreddarsi. Non scrisse cosa veruna del soccorso che gli aveva mandato il governatore, onde si considerò che ancora non gli fosse arrivato. Si partí quinci l'altro giorno il governatore e pervenne a dormire ad un fiume, il cui ponte era stato abbrucciato da' nemici, in modo che bisognò passarlo a guazzo, con molta fatica, perciochè era l'acqua grossa e il letto del fiume molto sassoso. L'altro dí giunse a dormire ad una villa, negli alloggiamenti della quale si trovò molto argento in tavole grandi, di venti piedi di lunghezza e uno di larghezza e della grossezza d'un deto o due; e referirono gl'Indiani che quivi erano che quelle tavole erano state d'un gran cacique, e che uno dei signori del Cusco l'acquistò e le portò cosí in tavole, delle quali il cacique vinto aveva fatta una casa.
Il giorno seguente si partí il governator per passare il fiume dell'ultimo ponte, che era quasi tre leghe lungi de lí. Prima che a quel fiume giungesse, arrivò un messaggiero con una lettera del capitano, nella qual avisava qualmente gli era giunto a quel fiume ultimo in molta fretta, acciochè i nemici non avessero tempo d'abbrucciar il ponte, ma al tempo ch'egli giunse l'avevano finito d'abbrucciare; e perchè era già tardi, per quella sera non aveva voluto passar il fiume, ma restò a dormire in una villetta al par d'esso, e l'altro giorno passò l'acqua, che arrivava al petto dei cavalli, e seguí il suo cammino dritto al Cusco, ch'era de lí lungi 12 leghe; e come nel cammino fu informato che in una montagna vicina s'erano fermati tutti i nemici, aspettando che il dí seguente dovesse venir Quizquiz con piú sforzo di gente in soccorso, che aveva nel Cusco, per congiungersi con loro: e per questa cagione aveva egli spinto oltre a gran fretta con 50 cavalli, perchè li dieci aveva lasciato in guardia delle bagaglie e di certo oro che si trovò nella rotta di Bilcas. E un sabbato ad ora di mezzogiorno cominciarono a montare una montagna a cavallo, ed essendo grande, che durava ben una lega di cammino, faticati dalla montata aspra e dal caldo del mezzodí, che fece grande, si fermarono alquanto e dieron del maiz a' cavalli, del quale i paesani d'una terra vicina gli n'avevano fatto provisione; e ripreso il cammino, il capitano, che era innanzi qualche un tiro di balestra dagli altri, vidde i nemici all'alto della montagna che la coprivan tutta, e che tre o quattromila di loro discendevano al basso, dove essi erano per passare: onde, chiamati gli Spagnuoli per unirgli in battaglia, non poté aspettar di unirgli perciochè gl'Indiani già erano vicini e venivano contra di loro animosamente, però con quelli che si trovò in essere andò a combattergli, e gli Spagnuoli che venivano arrivando montavano la costa del monte, chi da una banda e chi dall'altra. Entrarono fra' nemici che avevano innanzi senza attender da principio molto a combattere, ma a difendersi dalle pietre che gli tiravano, finchè ascesero all'alto del monte, in che vedevano consistere la vittoria certa. I cavalli erano cosí stanchi che non potevano riaver il fiato per poter dar dentro con furia a tanta moltitudine di nemici, ed essi, non cessando di travagliargli e infestargli di continuo con le lor lance, pietre e frezze che gli tiravano, gli stancarono tutti in modo che a pena potevano i cavalieri fare andar i cavalli di trotto, e alcuni di passo. Gl'Indiani, essendosi avveduti della stanchezza dei cavalli, cominciaron a calcare con maggior furia contra di loro, e a cinque cristiani, quali i lor cavalli non poterono salire all'alto, carcò tanto la moltitudine addosso che ai duo d'essi non fu permesso giamai poter smontare, ma gli uccisero sopra i cavalli. Gli altri combatterono a piedi valentissimamente, ma al fin, non essendo veduti da compagni che gli avessero potuto dar soccorso, vi rimasero, e solo un di loro fu morto senza poter cacciar mano alla spada né difendersi, anzi fu cagione che vi restasse morto con lui un buon soldato, perciochè se gli era attaccato alla coda del cavallo, che non lo lasciò andar innanzi con gli altri. Gli divisero a tutti pel mezzo la testa con le azze e mazze, ferirono diciotto cavalli e sei cristiani: non però di ferite pericolose, che solo un cavallo d'essi morí.
Piacque a Dio Signor nostro che gli Spagnuoli presero un piano che era in quella montagna, e gl'Indiani si ridussero ad un poggio vicino a loro. Il capitano comandò che la metà dei suoi levassero il freno a' cavalli e dessero da bere loro in un picciol rivo che quivi passava, e doppo il medesimo avessero fatto gli altri: il che si fece senza aver in quello instante alcun disturbo da' nemici. Doppo disse il capitano a tutti: "Signori, andiancene passo passo per questa mezza costa, in modo che i nemici giudichino che noi fuggiamo da loro, perchè ci vengono a trovare al basso; che, potendo condurgli in questo piano, daremo loro adosso in un drapello, che spero che niuno ci scampi dalle mani, poichè i nostri cavalli già sono alquanto ristorati: e se gli mettemo in fuga, finiremo di pigliar l'alto del monte". E cosí si fece, che gl'Indiani, pensandosi che gli Spagnuoli si ritrassero, calorono al basso alcuni d'essi tirandogli delle pietre con le lor frombe e lor frezze; i cristiani, veduto esser già tempo, girarono le redine a' lor cavalli e, prima che gli Indiani potessero ripigliar il monte dove stavano prima, n'ammazzarono 20 di loro: il che veduto da essi, e come era il luogo dove si ritrovavano poco sicuro, lasciarono quel monte e se n'andarono ritirando ad un altro piú alto.
Il capitano con gli Spagnuoli finí d'ascendere l'alto del monte, e quivi per esser già notte accampò la sua gente; e gl'Indiani alloggiarono similmente a duo tiri di balestra lungi da loro, in modo che si intendeva il parlare l'uno dell'altro. Fece il capitano medicare i feriti, e providde delle guardie e sentinelle per la notte, e comandò che tutti i cavalli stessero insellati e coi freni in bocca fino al giorno seguente, nel quale avevan da combattere con gl'Indiani; però attese ad inanimare e metter cuore a tutti i suoi, dicendogli che in ogni modo bisognava dar dentro la mattina senza piú tardare punto, perciochè aveva avuto nuova che il capitano Quizquiz ne veniva con gran soccorso a' nemici: onde non si doveva aspettare che si fossero messi tutti insieme. Mostrarono tutti tanto cuore e valore come se avessero avuta la vittoria in pugno; tuttavia furono confortati dal capitano, dicendo loro ch'egli aveva per piú pericolosa quella giornata fatta il dí innanzi che quella che avevan da fare e che il nostro Signor Iddio gli aveva liberati dal pericolo passato, gli darebbe anco la vittoria per l'avvenire; e che considerassero che se il giorno passato, essendo i lor cavalli cosí stanchi, avevano assaltati gli nemici con disavantaggio e levatigli da il lor forte e rottigli, non passando il numero piú di cinquanta, essendo i nemici piú d'ottomila persone, qual speranza si avea da pigliare essendo freschi e riposati? Con queste e simili parole da metter animo se ne passarono quella notte, e gl'Indiani se ne stavano nel lor campo, gridando a gran voce e dicendo: "Aspettate pur, cristiani, che venga il giorno, che tutti avete da morire per le nostre mani, e vi torremo i cavalli con quanto avete", soggiungendo parole ignominiose verso di loro, secondo che sonavano in quella lingua, avendo determinato d'entrar a combattere con i cristiani subito che apparisse il giorno, giudicatogli stanchi con i lor cavalli per la fazione del giorno passato, e per vedergli in sí poco numero, e sapendo che molti de' lor cavalli erano feriti. In questo modo una parte e l'altra concorreva in un medesimo pensiero, però gli Indiani giudicavano al fermo che i cristiani non potessero scampare dalle loro mani.


Hanno nuova della vittoria avuta da' Spagnuoli d'aver posto in fuga l'esercito indiano; fanno gettare una catena al collo a Chilichuchima, avendolo per traditore; passano per la terra di Rimac e si coniungono insieme, ove unitamente vanno alla terra di Sachisagagna e fanno abbrucciar Chilichuchima.

Queste nuove arrivarono al governatore presso l'ultimo fiume, come s'è detto; il quale, senza mostrar alterazione in faccia e nel sembiante, l'appalesò alli 10 da cavallo e 20 pedoni che avea con seco, consolandogli tutti con buone ragioni che gli mostrava, ancora che essi si turbassero molto negli animi loro, pensando che, poichè una poca quantità d'Indiani rispetto al numero accresciuto avea sí mal trattati i cristiani nella prima fazione, maggior travaglio avrebbono lor dato l'altro dí, avendo i cavalli feriti, né essere agli Spagnuoli sopragiunto anco il soccorso delli 30 cavalli mandatigli. Però, mostrando tutti aver speranza in Dio, giunsero al fiume, il qual passarono in battelli di quel paese, facendo andar a nuoto i cavalli, per esser stato abbrucciato il ponte: ed essendo in quel tempo il fiume cresciuto molto, si tardò a passarlo il resto di quel dí e l'altro dí che venne fino all'ora di sesta. E volendosi partire il governatore senza aspettare che quelli Indiani del paese confederati con gli Spagnuoli passassero, si vidde quivi giunger un cristiano, che essendo riconosciuto da lungi, tutti fecero giudicio che il capitano con i cavalli fusse rotto e fracassato, e che egli venisse a portarne novella fuggendo. Ma, giunto al cospetto del governatore, pose negli animi di tutti gran conforto con la nuova che portò, referendo che il Signor nostro Iddio, che mai suole abbandonar i suoi fedeli nelle maggior necessità, fece che, essendo il capitan con gli altri la notte con buona guardia, aspettando il giorno e inanimando i suoi al combattere della mattina, sopragiunse il marescalco col soccorso mandato delli trenta cavalli e con li dieci che eran rimasi in retroguardia, che furon 40 in tutto: e quando si viddono tutti cosí uniti insieme, sentirono i primi tanto piacere come se quel dí fusse loro stata data di nuovo la vita, tenendo per certo la vittoria per loro il dí seguente. Comparso il giorno, che fu la domenica, nell'alba cavalcaron tutti e, postisi in ala per mostrar meglio il volto, se n'andarono alla volta degl'Indiani, che avevan già la sera determinato d'assaltare i cristiani: ma, veduta la mattina tanta gente, si pensarono, come era, che quella notte fusse loro arrivato quel soccorso, onde, non bastando lor l'animo d'affrontargli, e veduto che essi ascendevan la costa per andar a trovar loro, voltarono le spalle ritirandosi di monte in monte. Gli Spagnuoli non li seguirono, perciochè era il paese aspro, oltre che furon coperti d'una nebbia sí folta che l'uno non poteva veder l'altro; tuttavia per la falda d'un colle uccisero molti nemici. In questo tempo venivano mille uomini Indiani in un squadrone che il Quizquiz mandava in soccorso a' suoi, i quali, veduti i cristiani a cavallo e cosí in punto di voler combatter, ebbero tempo di ritirarsi al monte. Incontanente si raccolsero i cristiani nel lor forte, donde avea quel messo mandato il capitan con questa nuova al governator, facendogli sapere che l'avrebbe aspettato quivi finchè giungesse.
Questa nuova intesa dal governator, fu molto allegro della vittoria che Dio nostro Signor gli avea concessa quando non la sperava, e senza indugiar punto diede ordine che si passasse oltre con tutte le bagaglie e gl'Indiani che restavano, perchè aveva similmente con queste medesime nuove avuto aviso che, nella ritirata di questa gente nemica, s'erano appartati dagli altri 4 mila uomini: però che dovesse andar sopra aviso; ed era medesimamente accertato che Chilicuchima facea e comandava tutto, e dava aviso a' nemici di quel che avessero da fare, però che lo dovesse condurre sotto buona custodia. Il governator adunque, dato fine al suo passaggio, fece mettere una catena al collo a Chilichuchima e gli disse: "Tu sai bene il modo con che mi son portato con teco e come t'ho trattato, facendoti capitano che avesse da comandar a tutto il paese, fintanto che il figliuol d'Atabalipa fusse venuto da Guito per farlo signore: e ancora che abbia avuto molte cause da farti morire, io non l'ho voluto far mai, credendo pur che ti avesse d'emendare. Similmente t'ho pregato molte volte che operassi che, per il bene publico, questi nemici indiani co' quali tu hai maneggio e amicizia volessero quietarsi e deponer l'armi, perchè, ancora che abbin fatto gran danno e abbin ucciso Guaritico, che era venuto per ordine mio da Xauxa, io averei perdonato a tutti; ma, con tutte queste mie ammonizioni, hai pur voluto perseverare nel tuo mal animo e mal proposito, pensandoti che gli avisi che tu davi a' capitani nemici fusser potenti per effettuar la malignità tua. Ma puoi vedere come, con l'aiuto del Dio nostro, sempre sono stati rotti e saran sempre per l'avvenire, e tieni e per fermo che non potranno scampar né ritornar a Guito, donde sono usciti, né tu vedrai mai piú il Cusco, perciochè, subito che io fia giunto dove sta il capitano con le mie genti, ti farò abbrucciar vivo, poichè sí mal hai saputo guardare l'amicizia che io in nome del mio Cesare fermai con teco: e questo fia senza alcun dubbio, se non operi che questi capitani tuoi amici lascino l'arme e venghino con la pace, come ti ho detto altre volte". A tutte queste parole stette attento Chilichuchima senza risponder motto, ma, sempre ostinato nella durezza sua, disse che non si faceva quel che egli comandava a que' capitani perchè non lo volevano ubidire, che per lui non era restato di fargli intender che venissero alla pace: e con simili parole si discolpava di quel che gli s'attribuiva. Ma il governatore, che già sapeva per certo gli andamenti suoi, lo lasciò star nel suo mal pensiero senza piú parlargliene.
Or, passato il fiume nell'ora già tarda, spinse oltre con queste genti il governatore, e giunse la sera ad una terra lungi una lega da quel fiume, chiamata Rimac. E quivi arrivò il marescalco con 4 cavalli ad aspettarlo, e con lui abboccatosi, si partirono l'altro giorno per il campo dei cavalli spagnuoli: e vi giunse la sera, essendogli venuto incontro il capitano e molti altri, e si fecero molta festa insieme. Il governatore ringraziò ciascuno secondo i meriti loro del valore che avevan mostrato, e tutti unitamente partirono, e giunsero due leghe piú oltre la sera ad una terra chiamata Sacchisagagna. I capitani raguagliarono il governatore di tutte le cose successe nel modo che s'è narrato. Entrati ad alloggiare in queste terre, il capitano e il marescalco sollecitarono il governator a dover far giustizia di Chilichuchima, perciochè aveva da sapere che tutto quel che facevano i cristiani era fatto saper da Chilichuchima agli avversarii, e che egli era stato quello che gli aveva fatti uscir al monte di Bilca, esortandogli a venire a combatter i cristiani, ch'erano pochi e che non avrebber potuti con i cavalli ascender quelle montagne se non a passo a passo e a piedi, dando lor mille altri avisi, dove avessero avuto ad aspettare e quel che avevan da fare, come uomo che avea ben visti tutti questi luoghi e conosciuto l'andar de' cristiani, co' quali era stato tanto tempo. Di tutte queste cose il governator informato, comandò che fusse abbrucciato in mezzo della piazza: il che fu fatto, che i principali e piú famigliari suoi erano quelli che posero maggior diligenza in mettergli il fuoco. Il religioso l'andava persuadendo a voler farsi cristiano, dicendogli che coloro che erano battezzati e che avevano vera fede nel nostro redentore Giesú Cristo andavano alla gloria del paradiso, e quei che non l'avevano andavano all'inferno e alle pene d'esso, facendogli tutto intender per un interprete; ma egli non volle esser cristiano, dicendo che non sapeva che cosa si fusse questa legge, e cominciò ad invocar il Paccamaca e il capitano Quizquiz, che lo venissero a soccorrere. Questo Paccamaca tengono gl'Indiani per lor Iddio, e gli offeriscono molto oro e argento, ed è cosa verificata che il demonio sta in quell'idolo e parla con coloro che vanno a domandargli cosa alcuna: e di questo si parla diffusamente nella relazione che si mandò a S.M. da Caxamalca. In questo modo pagò questo capitano le crudeltà che fece nella conquista d'Atabalipa, e le sceleraggini e tradimento che trovò in danno degli Spagnuoli e diservigio di sua Maestà. Tutte le genti del paese si rallegrarono infinitamente della sua morte, perciochè era da lor molto disamato, per conoscerlo cosí crudele come egli era.


Sono visitati da un figliuolo del cacique Guaicanaba, col quale contrattano amicizia; e gli fa sapere il maneggio dell'esercito degl'Indiani inimici, co' quali hanno alcune zuffe prima che entrino nel Cusco, dove fanno entrare signore il figliuolo di Guaicanaba.

Quivi si riposarono gli Spagnuoli quella notte, avendo poste buone guardie nel campo, per aver inteso che Quizquiz era vicino a loro con tutta la gente. E la mattina seguente venne a visitar il governatore un figliuolo di Guainacaba, fratello del cacique morto, il maggiore e principal signore che fusse in quel paese a quel tempo, il quale era stato fuggitivo sempre, perchè la gente di Guito non l'uccidesse. Costui disse al governatore che l'avrebbe aiutato in tutto ciò che avesse potuto per cacciar via di quel paese tutte le genti di Guito, per esser suoi nemici, e che l'odiavano e non volevan esser soggetti a gente forastiera. Questo era a chi di ragione veniva quella provincia, e colui che tutti i caciqui d'essa volevano per signore. Quando venne a veder il governatore, venne per le montagne fuor di strada per tema della gente di Guito; ed ebbe egli gran piacere della sua venuta, e gli rispose: "Molto mi piace udir quel che mi di', e di trovar cosí buono apparecchio per cacciar questa gente di quel paese di Guito. E hai da sapere che io non venni per altro effetto da Xauxa, se non per disturbare che costoro non ti facessero danno e torti dalla servitú loro, e lo puoi creder ch'io non venni per util mio, perchè me ne stavo in Xauxa sicuro d'aver guerra con loro, ed ero iscusato di pigliar fatica di far sí lungo e difficil viaggio; però, saputo i torti che ti facevano, volli venire a porvi rimedio ed emendargli, come mi comanda l'imperator mio signore. E cosí sarai certo ch'io farò in tuo servizio tutto quel che conoscerò espediente, e per liberar anco di questa tirannia il popolo di Cusco". Queste gran proferte gli fece e disse il governator per farselo benivolo, e per aver aviso da lui di continovo come le cose passassero; e per le sue parole rimase il cacique sodisfatto mirabilmente, con tutti coloro che con seco eran venuti, e risposegli: "Da qui in poi ti darò pieno ragguaglio di tutto ciò che farà la gente di Guito, acciochè non possino noiarti". E in questo modo partí da lui, e indi a poco ritornò e disse: "Io andavo a pescare, perchè so che domani i cristiani non mangiano carne, e me incontrai con questo messo, che mi dice che Quizquiz con la sua gente di guerra va per abbrucciar il Cusco, e che era già vicino: e l'ho voluto far intender perchè vi possi dar rimedio".
Il governator fece subito metter in punto tutta la gente, e quantunche fusse l'ora del mezzogiorno, nondimeno, conosciuto il bisogno, non volle fermarsi a mangiare, ma cavalcò con tutti gli Spagnuoli dritto alla via del Cusco, che era lungi da quel luogo 4 leghe, con pensiero di fermar il suo campo vicino ad essa città, per entrar l'altro dí di buona ora in essa. E avendo già camminate due leghe, vidde da lungi una gran fumana uscir d'una terra; e avendo domandato della cagione ad alcuni Indiani, dissero che uno squadron delle genti del Quizquiz era disceso dal monte e v'aveva messo fuoco. Duoi capitani spinsero innanzi con qualche 40 cavalli per veder d'aggiunger quel squadrone, il quale con prestezza s'uní con la gente del Quizquiz e degli altri capitani, che dimoravano in una costa, una lega prima che si giungesse al Cusco, aspettando i cristiani ad un passo in mezzo del cammino. I capitani e Spagnuoli, vedutigli, non poteron far di manco che non gli urtassero, quantunche dal governatore gli fosse stato fatto intendere che dovessero aspettare gli altri per unirsi insieme: il che avrebbono essi fatto, se non fosse che gl'Indiani si mossero con molto animo per affrontarsi con loro; e prima che fossero assaltati dierono loro addosso in una falda d'un picciol monte, e gli romperono in breve spacio, facendogli fuggire al monte, avendone uccisi 200. Un'altra squadra di gente da cavallo trascorse per un'altra costa del monte, dove erano da dua o tremila Indiani, i quali, non avendo ardire d'aspettargli, lasciate le lancie che portavano per poter meglio correre, si misero a fuggire. E doppo che i primi romperono e sbarattarono quelli duoi squadroni e fattegli fuggir ad alto, avendo duo cavalli leggieri spagnuoli veduti certi Indiani che di nuovo tornavano a basso, si misero a scaramucciar con esso loro, e si viddero in gran pericolo, se non che furono soccorsi, e ad uno fu morto sotto il cavallo; per il che presero tanto animo gl'Indiani che ferirono 4 o 5 cavalli e un cristiano, e gli fecero ritirare fin al piano. Gl'Indiani, come non avevano mai fin lí veduti fuggir cristiani, si pensarono che lo facessero con arte per tirargli alla pianura e poi assaltargli, nel modo che si fece a Bilca, e fra loro stessi lo dicevano: e per questa cagione stettero sopra di loro e non volsero calare a basso e seguitargli.
In questo tempo era giunto il governatore e gli Spagnuoli, e per esser oggimai tardi assettarono al campo in un piano; e gl'Indiani stettero fermi fin alla mezzanotte sul monte, ad un tiro di schioppetto, dando gridi. E gli Spagnuoli stettero tutta notte con li cavalli insellati e infrenati, e l'altro dí su l'apparir dell'alba il governatore, ordinata la gente da piedi e da cavallo, prese il suo cammino per entrar nel Cusco con buon concerto e sopr'aviso, credendosi che i nemici gli venissero ad assaltare nel cammino: però non comparse niuno. In questo modo entrò il governator con le sue genti in quella gran città del Cusco, senza altro contrasto né battaglia, il venerdí ad ora di messa maggiore, a' 15 del mese di novembre, l'anno della natività del nostro salvatore e redentore Giesú Cristo 1533. Fece il governator alloggiar tutti i cristiani negli alloggiamenti ch'erano all'intorno della piazza della città, e comandò che tutti dovesser uscir a dormire con li lor cavalli in piazza nelle lor tende, finchè si potesse veder a che venivano i nemici: e fu continuato e osservato questo ordine per un mese continuo. Il giorno seguente il governator fece signor quel figliuolo di Guarnacaba, per esser giovane prudente e allegro, e il principale di quanti ve n'erano in quel tempo, e a chi (come s'è detto) veniva di ragione quella signoria: e fecelo cosí presto acciochè i signori e caciqui non se n'andassero alle terre loro, ch'erano di diverse provincie e molto lontani l'uno dall'altro, e acciochè i nativi non s'unissero con quelli di Guito, ma che avessero un signor appartato, il quale avessero da riverire e obbedire, e non fossero parziali. Cosí comandò a tutti i caciqui che lo dovessero obedire per signore e facessero tutto quel che egli gli comandasse.


Il nuovo cacique va con esercito per cacciare Quizquiz dello stato di Guito: hanno con gl'Indiani alcune zuffe, e per l'asprezza del cammino fanno ritorno; e di nuovo vi ritornano con esercito e compagnia di Spagnuoli, e prima che vi vadino il cacique si fa vassallo dell'imperadore.

Incontinente, fatto questo, diede ordine questo cacique nuovo che si ragunasse molta gente per andare a debellare Quizquiz e per cacciar via la gente di Guito da quel paese, dicendo che non era cosa ragionevole che, essendo egli il signore, altri dimorasse nel paese a lui soggetto contra il voler suo, e altre parole che circa questo usò il governator al cospetto di tutti, acciò ognun vedesse il favore che esso gli dava e l'affezione che gli mostrava, e che ciò non per utile o bene che potesse risultar a' Spagnuoli, ma per il suo particolare. Il cacique restò contento di questo ordine, e in termine di 4 giorni ragunò 5 mila Indiani e piú, tutti ben in punto con le lor armi; e il governator mandò con esso loro un capitano suo con 50 da cavallo, e restò egli in guardia della città col resto della gente. Passati dieci giorni, ritornò il capitano e raccontò al governator quel che era avvenuto, dicendo che la sera al tardi era giunto con la gente dove alloggiava il Quizquiz a cinque leghe, perciochè egli era andato aggirando per un'altra strada, per la quale l'aveva guidato il cacique, ma prima che arrivasse al campo nemico incontrò per cammino 200 Indiani, posti per una valletta; e che, per esser il paese aspro, non poté loro torgli il forte e andargli innanzi, acciò non avessero potuto dar aviso dell'andata sua, come dierono; nondimeno, quantunche questa compagnia fosse in forte paese, non ebbe ardire d'aspettarlo, ma passò dall'altra parte d'un ponte ch'era impossibile il passarlo, perciochè da un monte che gli soprastava, dove s'erano ridotti gl'Indiani, gettavano tante pietre che non lasciavano passar niuno. E per esser il paese e sito il piú aspro e inaccessibile che si fosse giamai veduto, se ne tornorono adietro: tuttavia disse aver uccisi 200 Indiani; e il cacique rimase allegro molto di quanto s'era operato, e nel ritornar alla città lo ricondusse per un'altra strada piú corta, per la quale trovò il capitano in molti passi gran quantità di pietre ragunate per difendergli da' cristiani. Ed era un passo fra gli altri sí aspro e difficile ch'egli si vidde con tutti in gran fastidio, e non si poteva passar oltre: onde ben si conobbe che 'l cacique aveva vera e non finta amicizia col governatore e cristiani, perciochè gli disviò da quella strada, che niuno Spagnuolo averebbe potuto scampare. Disse che, doppo che s'era partito dalla città, non andò pur una tirata di balestra per terra piana, che tutto il paese era montuoso, sassoso e difficilissimo a passare, e che, se non fosse stato che fu la prima volta ch'era andato in compagnia del cacique, perchè non li fosse parso ch'egli l'avesse fatto per paura, se ne sarebbe tosto tornato adietro. Il governatore avrebbe voluto che si fossero seguiti i nemici, finchè si fossero scacciati dal luogo dove stavano; nondimeno, udita l'asprezza del sito, rimase sodisfatto di quel che s'era fatto. Il cacique disse che gli aveva mandata la sua gente dietro alli nemici, e che credeva che gli avesse a danneggiare: e cosí, indi a quattro giorni, venne poi nuova che gli avevano morti mille suoi Indiani. Il governatore di nuovo impose al cacique che facesse ragunare piú gente, e che egli voleva mandare con esso dei suoi cavalli, perchè non si restasse mai fintanto che non gli scacciassero del paese.
Ritornato il cacique da quella impresa, se n'andò a digiunare in una casa che era in una montagna, abitazione già fatta da suo padre, dove stette tre giorni; e ritornato, nella piazza della città gli uomini di quella terra gli dierono l'obedienza, secondo il lor costume, riconoscendolo per lor signore, offerendogli il pennacchio bianco, sí come fece in Caxamalcha al cacique Atabalipa. Quivi, fatto questo, egli fece ragunar tutti i caciqui e signori che v'erano, e avendo lor parlato circa il danno che facevano le genti di Guito nel suo paese, e quanto bene risultasse a tutti di porvi rimedio, comandò loro che chiamassero e apparecchiassero gente per andar contra di loro e cacciargli dal luogo dove s'erano messi: i quali fecero tosto i lor capitani, e diedero ordine a far gente in sí brieve spacio che, in termine di 8 giorni, mise in quella città meglio di 10 mila uomini da guerra tutti eletti; e il governatore fece metter in ordine 50 de' suoi cavalli leggieri con un capitano, per partir l'ultimo giorno della pasqua della Natività. Il governatore, prima che si facesse quel viaggio, volendo concludere unione e pace con quel cacique e sua gente, detta la messa il giorno di Natale dal religioso, uscí nella piazza con molta gente della sua compagnia che quivi fece congregare, e in presenza del cacique e signori del paese e gente di guerra che v'era, posto a seder con i suoi Spagnuoli appresso, e il cacique in uno scabello e la sua gente in terra a torno a lui. E il governator fece un parlamento, nel modo che in simili atti si suol fare, e per me, suo secretario e scrivano dell'esercito, fu lor letta la domanda e ricercamento che S.M. aveva ordinato a doversegli fare: il che tutto fu lor dichiarato per un interprete, e da lor bene inteso, avendo a tutto risposto. Furono ricercati a dover essere e chiamarsi vassalli di S.M., e furono ricevuti alla pace dal governator, con la medesima solennità che s'era fatto l'altre volte, nell'alzar la bandiera imperiale due volte: e in segno di ciò furono abbracciati dal governatore con molta allegrezza, a suon di trombe, e facendosi altre solennità che per fuggir prolissità non si scrive. Fatto questo, si levò in piede il cacique, e con un vaso d'oro diede a bere di sua mano al governatore e Spagnuoli, e poi se n'andarono a desinare per esser già l'ora tarda.


Prendono sospizione del cacique, che abbi ad esser ribello; ritruovanla falsa. Vanno con lui molti Spagnuoli con ventimila Indiani contro Quizquiz, e di ciò che gli succede ne danno al governator per lettere aviso.

E dovendosi partir fra duoi giorni il capitano spagnuolo con gl'Indiani e il cacique per andar contra i nemici, non potendo le cose star ferme sempre in un esser, essendo sottoposte alle contrarietà diverse del mondo che ogni dí avvengono, fu il governator informato da alcuni Spagnuoli e Indiani amici e confederati, nativi del paese, che si trattava e parlava fra' principali del cacique d'aver ad unirsi con la gente di Guito, e altre cose di che l'accusavano. Onde, preso qualche sospetto, e per aver massimamente sodisfazione intera che l'amistà del cacique fosse leale e vera con cristiani, da' quali era tanto amato, volendo saper la verità del fatto, l'altro giorno, chiamato il cacique e altri principali nel suo alloggiamento, gli disse quel che di loro si diceva. Di che fatta inquisione, e tormentati alcuni Indiani, apparvero il cacique e principali senza niuna colpa, e si certificò che né in detto né in fatto non s'era trattato cosa veruna in danno dei Spagnuoli, ma sí bene due principali essere stati quelli che avevano detto che, poichè i loro antecessori non erano stati mai soggetti ad altri, non dovevano né essi né il cacique soggiogarsi. Nondimeno, per quel che si poté comprendere allora e doppo, si conobbe e credette che sempre amassero gli Spagnuoli e con loro non avessero finta fede.
Non si posero queste genti in viaggio per l'impresa, imperochè, essendo nel forte dell'inverno e piovendo ogni dí forte, fu risoluto di lasciar passar la furia dell'acqua, massimamente per esser molti ponti guasti e rotti, che avevan necessità d'esser racconci. Venuto il tempo che eran già cessate l'acque, fece il governator metter in punto i 50 cavalli con il cacique e le sue genti che aveva in ordine per l'impresa, le quali, con il capitano che li diede loro, si misero tutti in viaggio verso Xauxa alla città di Bilcas, dove s'era saputo stanziare i nemici. Per esser le strade rotte per le molte acque del verno, e per esser i fiumi grossi, in molti dei quali non era ponte alcuno, gli Spagnuoli passarono con i lor cavalli con molta fatica, e uno ve ne rimase affogato. Giunti per lor giornata al fiume che è lungo quattro leghe da Bilcas, s'intese che i nemici se n'andavano alla volta di Xauxa; e per esser il fiume grosso e furioso, ed esser il ponte abbrucciato, furon forzati a fermarsi per rifarlo, perchè senza esso per niuno modo si poteva passarlo, né con battelli loro, che chiamano balse, né a nuoto, né in altra maniera. Venti giorni dimorò quivi il campo per rifar il ponte, perchè ebbero i maestri che fare, per esser l'acqua grossa, che rovinava le graticcie di vimini che vi si mettevano. E se il cacique non avesse avuto quivi tanto numero di gente per far questo ponte, e passare e tirare le graticcie, non si sarebbe potuto rifare, ma avendo 25 mila uomini da guerra e piú, provando una volta e un'altra, con ingegni di fune e di balse passaron le graticcie; le quali passate, fecero poi in breve spazio il ponte, cosí buono e cosí ben fatto che un simile e sí grande non si vede in quel paese, che è di 360 e tanti piedi di lunghezza, e di larghezza che potevan passarlo due cavalli alla volta senza pericolo alcuno. Or, passato questo ponte e giunti a Bilcas, gli Spagnuoli alloggiaron nella terra, donde fece intender al governator come passavan le cose. Quivi se ne stette il campo alloggiato alcuni giorni a riposarsi, per aver notizia in qual luogo fossero i nemici, che non lo sapevano piú particularmente, se non che se n'andavano verso Xauxa e che disegnavano d'andar ad assaltar gli Spagnuoli che quivi eran restati alla guardia. Onde si partí subito il capitano con gli Spagnuoli in soccorso loro, menandone seco un fratello del cacique con 4 mila uomini di guerra; e il cacique se ne ritornò alla città del Cusco, e il capitano mandò al governatore le lettere che il luogotenente da Xauxa scriveva a gran pressa. E il tenor d'esse era questo che segue:
"Scacciati che furon da voi, i nemici dal Cusco si rifecero e vennero alla volta di Xauxa, e prima che giungessero si seppe da' nostri come venivano con gran possanza, perchè da tutte le parti circonvicine conducevano il maggior numero di gente che potevano, cosí per la guerra come per le vettovaglie e bagaglie. Il che saputo dal tesoriero Alfonso, mandò 4 cavalli leggieri ad un ponte ch'era 12 leghe distante dalla città di Xauxa, dove s'informarono che i nemici stavano dall'altra parte in una provincia principale, in modo che, ritornati a Xauxa, pose il detto tesoriero la maggior diligenza che poté, cosí nelle guardie della città e nel ben trattar i caciqui che eran dentro della città con lui, come nell'informarsi e intender sottilmente tutti gli andamenti de' nemici. E il maggior sospetto che avesse era quel degl'Indiani che eran dentro la terra, che erano in gran quantità, e dei circonvicini, perchè quasi tutti eran d'accordo co' nemici d'aver ad assaltar gli Spagnuoli da 4 bande. Con questa intelligenza gl'Indiani di Guito passarono con disegno che un capitano con 500 di loro venisse dalla banda di un monte e passasse il fiume, che è distante un quarto di lega dalla città, e si ponesse nel piú alto d'esso, per avere ad assaltar la città ad un giorno ordinato fra loro, e il capitan Quizquiz e Incurabaliba, che erano i principali capitani, dovesser venir per il piano con il maggior sforzo di gente: il che fu risaputo tosto per il mezzo d'uno Indiano a che fu dato tormento; in modo che il capitan che aveva da passar il fiume e assaltar la città dal monte camminò molto e giunse un dí prima che l'altra gente, e una mattina sul far del giorno venne nuova alla città come molti nemici avevano passato il ponte, di che nacque grande alterazione negl'Indiani nativi di Xauxa che servivano lealmente i cristiani: onde si presumette che tutto il paese fusse ribellato, come s'è detto. Providde principalmente il tesoriero che tutto l'oro di S.M. e dei compagni che in quel tempo era nella città si mettesse in una gran casa, dove fece porvi guardie de' piú infermi e fiacchi Spagnuoli, ordinando che gli altri stessero sopraviso per combattere; e ordinò che dieci cavalli leggieri andassero a rivedere quanta quantità di nemici era quella che aveva passato il ponte per pigliar la montagna, ed egli restò nella piazza con tutta l'altra gente, aspettando se il maggior numero di nemici fusse venuto per il piano. Gli Spagnuoli corritori dieron negli Indiani che avevan passato il ponte, i quali si ritirorno e passarono il fiume, e agli Spagnuoli convenne di passar il ponte dietro a loro, con alcuni pedoni balestrieri che aveva lor mandati il tesoriere, in modo che gl'Indiani si voltaron fuggendo con molto danno. La massa maggior degli altri che veniva per la pianura non giunsero a tempo che avevan concertato con gli altri per assaltar la città, e per aspettargli s'andavan d'ora in ora trattenendo questa notte e il dí con gran guardia nella città, e stette sempre la gente armata con i cavalli insellati tutti uniti nella piazza, con pensiero che la notte seguente dovessero gl'Indiani assaltar la città e volerla abbrucciare, come si diceva che avevano animo di voler fare. Passato i duoi quarti della notte, veduto che li nemici non comparivano, prese il tesoriere con esso lui un caval leggiero e andò a vedere in qual parte avessero fermato il campo gl'Indiani nemici e quanto si fussero avvicinati alla città, e perchè gl'Indiani che davano di ciò aviso non sapevan dove si fussero, e similmente perchè pigliavano la strada, acciò non dessero aviso; in modo che, schiarito il giorno, si vidde esser lontan 4 leghe dalla città, e viddero dove gl'Indiani s'eran fermati e la qualità del sito. Dopo se ne ritornò alla città, dove giunse dopo il mezzodí.
Veduto dagl'Indiani nemici che gli Spagnuoli gli avevano scoperti, e temendo molto, si levaron da quel luogo e se n'andarono alla volta della città, e si vennero a piantar su la sera lontano un quarto di lega da essa, a riva d'un picciol fiume che entrava nel grande. Questo saputo dagli Spagnuoli, se ne stettero quella notte con gran guardia, e il dí seguente da mattina, udita messa, prese il tesoriere venti cavalli leggieri, venti pedoni con duomila Indiani amici, lasciando nella città altretanti Spagnuoli da cavallo e altretanti fanti a piede, avisandogli che, quando i nemici gli avessero assaltati dall'altra parte, dovesser far un segno, che essi lo potessero vedere per poter venire a soccorrergli. Usciti gli Spagnuoli con il luogotenente dalla città, viddero che gl'Indiani di Guito avevano passato il fiume picciolo con li loro squadroni, ne' quali potevano esser seimila di loro, che, veduti gli Spagnuoli, si ritirarono e tornarono a passare dall'altra banda. Onde, veduto dal tesoriere e Spagnuoli che, se essi non assaltavano gli nemici quel giorno, la notte seguente sarebbono venuti a porre a sacco e a fuoco la città, onde ne sarebbe potuto incorrere in maggior travaglio se avessero aspettato la notte, determinò di passare il fiume e combatter co' nemici: dove si ebbe una gran scaramuccia, cosí di tiri di balestre e archi come di pietre, delle quali ne percosse una il tesoriere che andava innanzi a tutti per il fiume oltre nella cima della testa, che lo gettò da cavallo in mezzo il fiume, e tramortito lo trasportò l'acqua un gran tiro di pietra, in modo che, se non fosse stato soccorso da certi Spagnuoli balestrieri che quivi si ritrovarono, si sarebbe affogato, che lo trassero fuora con gran fatica. Fu similmente il suo cavallo percosso di un'altra pietra in una gamba, che gliela spezzò, e morí incontinente. Di questo ripresero grande animo gli Spagnuoli, e affrettarono di passar il fiume; e veduto dagli Indiani la loro determinazione, si ritiraron fuggendo ad un monte aspro, dove moriron da cento di loro. I cavalli li seguirono ben una lega e mezza per il monte, e perchè s'eran cacciati e fermati nel piú forte del monte, dove i cavalli non potevano ascendere, si ritirarono alla città. E veduto poi che i nemici non si levavano da quel forte del monte, fu determinato di ritornar di nuovo contra di loro, e uscirono alla volta d'essi 20 Spagnuoli con piú di 3 mila Indiani amici, e gli assaltarono in quel monte dove stavano fortificati e n'uccisero parecchi, scacciandoli da quel forte e perseguitandogli ben tre leghe, con la morte di molti caciqui circonvicini che erano in favor loro: con la qual vittoria restarono tanto allegri gl'Indiani amici, come se essi soli l'avessero conseguita. Gl'Indiani di Guito si rimisero di nuovo insieme in un luogo che si chiama Tarma, lungi 5 leghe da Xauxa, donde similmente furon scacciati, perchè facean molto danno in tutte le terre vicine".


Della gran quantità d'oro e d'argento che fanno fondere, e delle figure d'oro che adoravano gl'Indiani. Della fondazione della città del Cusco, fatta colonia da' Spagnuoli, con gli ordini da loro ivi posti.

Sapute queste buone nuove dal governatore, le fece incontanente publicare, di che tutti gli Spagnuoli sentirono sommo contento, e dieron grazie infinite a Dio che gli fusse in tutto e per tutto cosí favorevole in questa impresa. Subito scrisse il governatore e mandò messi alla città di Xauxa, dando a tutti salute e ringraziandoli del valore mostrato, e particolarmente al suo luogotenente, dicendogli che di tutto quel che fusse successo nell'avenire dovesse dargli aviso. In tanto s'affrettò molto il governatore in spedirsi de lí e lasciar le cose di quella città provedute, fondando colonia e facendo abitare copiosamente essa città; e fece fonder tutto l'oro che si trovava, ch'era in diversi pezzi rotti, il che si fece in breve dagl'Indiani fonditori pratichi. E fu pesata la somma di tutto, e fu trovato 500 e ottantamila e 200 e tanti pesi di buon oro; si cavò il quinto di S.M., che furono 116 mila e 460 e tanti pesi di buon oro. E dell'argento fu fatta la medesima fondazione, e pesato insieme si trovò essere 215 mila marchi, poco piú o meno, del quale 170 mila e tanti era d'argento buono in vasi e verghe bianche e nette, e il resto non era cosí, perchè era in verghe e pezzi mischiati con altri metalli, in quel modo che si leverebbe fuor della mina. E di tutto questo si trasse similmente da parte il quinto per S.M. Veramente era cosa degna da vedere questa casa dove si fondeva, piena di tanto oro in verghe di dieci e d'otto libre l'una, e in vasi e pignatte e pezzi di diverse sorti, con che si servivano quelli signori; e fra l'altre cose singolari era veder 4 castrati di fin oro molto grandi, e 10 o 12 statue di donne, della grandezza delle donne di quel paese, tutte d'oro fino, cosí belle e ben fatte come se fossero vive. Queste avevano essi in tanta venerazione come se fossero state signore di tutto il mondo e vive, e le vestivano di finissime e belle vesti, e l'adoravano come loro iddee, a' quali davano da mangiare, e parlavano con esso loro come se fossero state donne carnali. Queste furono date nel quinto che toccava a S.M. Altre poi ve n'erano d'argento della medesima statura; e il veder i gran vasi e pezzi di quell'argento lucido, e di tanta grandezza, era certo una gran contentezza. Tutto questo tesoro fu diviso e compartito dal governatore fra gli Spagnuoli che furono al Cusco e quelli ch'erano restati alla città di Xauxa, dandosi a ciascuno tanto d'argento buono e tanto di cattivo con tanti pesi di buon oro, e a colui che aveva cavallo la rata conforme al merito suo e del cavallo e li fatti che fatto aveva, e al pedone il medesimo rispettivamente, e secondo che si trovava descritto per l'ordine suo nel libro delle partizioni che d'esso si fece. Tutto questo si finí di fare in otto giorni, e doppo in altritanti si spedí il governatore de lí, lasciando abitata quella città nel modo che s'è detto.
Nel mese di marzo del 1534 ordinò il governator che si congregassero in quella città la maggior parte de' Spagnuoli che con seco avea, e fece un atto di fondazione e formazione del popolo, dicendo che lo fermava e fondava nel medesimo esser suo, e d'esso prese la possessione nel mezzo della piazza: e in segno di fondare e cominciare ad edificare il popolo e colonia fece certe cerimonie, come si contiene nell'atto che fu fatto, del quale io scrivano in voce alta lessi al cospetto di tutti, e si pose nome alla città la molto nobile e gran città del Cusco. E continuando l'abitazione, fu ordinata la casa per la chiesa che dovea farsi nella detta città, termini, limiti e giurisdizione, e subito fece far bando che potessero venir ad abitar quivi ed esser ammessi per cittadini coloro che vi voleano abitare, che vi concorsero assai in tre anni. Fu di tutti fatta una scelta delle persone piú abili d'aver carico d'amministrazione delle cose publice, e fece i suoi luogotenenti, castellani e rettori ordinarii e altri ufficiali publici, i quali elesse e nominò in nome di S.M., e diede lor il poter d'esercitar i loro ufficii. Questo fece il governatore con consiglio e ricordo del religioso che aveva con seco e del contatore di S.M. ch'era con esso lui in quel tempo, col parer dei quali vedute ed esaminate le persone degli abitatori, fintanto che S.M. mandava ad ordinar quel che s'aveva da fare nella divisione dei nativi del paese; e intanto fu constituita a tutti una certa quantità e parte, con deputar un tanto agli Spagnuoli che quivi fossero restati per insegnargli e adottrinargli nelle cose della santa fede nostra catolica. E furono deputati e dati in servizio di S.M. dodecimila e tanti Indiani maritati nella provincia di Collao, nel mezzo d'essa, circa le mine, perchè quivi cavassero l'oro per S.M.: di che si stima che caverà un grandissimo utile, considerata la ricchezza delle mine che vi sono. Delle quali cose si fa longa menzione nel libro della fondazione di questa colonia e nel registro del deposito che si fece degl'Indiani circonvicini, lasciando a S.M. l'obedienza di poter approvare, confermare o emendar queste cose, secondo che le parerà piú convenire al suo real servigio.


Parte il governatore col cacique per Xauxa, e hanno nuova dell'esercito di Guito. Di certe navi vedute in quelle marine da alcuni Spagnuoli mandati alla città di San Michiele.

Fatte queste provisioni, si partí il governatore per Xauxa, menandosene con esso lui il cacique, e i cittadini rimasero in guardia della città, con ordinanze che lasciò loro il governator, con che si governassero fintanto che egli facesse intender altro. E camminando per sue giornate venne a far la Pasqua sopra il fiume di Bilcas, dove ebbe lettere e nuove di Xauxa, che la gente di guerra di Guito, doppo che fu rotta e scacciata da quelli luoghi ultimi dal capitan del Cusco, s'era ritirata e fortificata 40 leghe lungi di Xauxa, nel cammino di Caxamalcha, in un mal passo in mezzo della strada, e avevano fatto le lor serrate per impedir il passo a' cavalli, con le porte che v'avevan fatte molte strette e una strada d'ascender ad un sasso alto, dove il capitano con la gente abitava, che non aveva passo niuno se non da questa parte, dove s'era fatta questa parata con queste porte cosí strette; e che si pensava che quivi aspettasse soccorso, perchè avevano nuova che 'l figliuolo d'Atabalipa veniva con molta gente. Questo aviso dichiarò il governator al cacique, il quale spedí incontanente messi per la città del Cusco per far venir gente di guerra, che non fossero piú di duomila, ma i miglior di tutta la provincia, perchè il governator gli disse ch'era meglio che fossero pochi e buoni che molti e disutili, perchè i molti avriano fuor di proposito e senza ritratto affamato il paese per il qual fossero passati. Scrisse similmente il governator al luogotenente e magistrato del Cusco, che favorissero i capitani del cacique e usassero diligenza in far venir presto le genti.
Partito da questo luogo il governator il secondo dí di Pasqua, e giunto per sue giornate a Xauxa, seppe piú interamente quel che quivi era successo in absenza sua, e specialmente di quel che v'avevano fatto le genti di Guito. E segnalatamente gli dissero che, doppo che i nemici furono scacciati da torno di Xauxa, s'eran ritirati 20 o 30 leghe lontani in un monte, e che, come il capitano che fu mandato alla spedizione contra di loro col fratello del cacique e 4000 uomini giunsero alla vista loro, riposati alquanti giorni andarono ad assaltargli, e gli romperono e scacciarono da quel luogo con molta fatica e pericolo grande. Ritornati a Xauxa, il maresciallo don Diego d'Almagro, che, quando il capitano e Spagnuoli eran venuti dal Cusco, egli era venuto con esso loro per ordine del governatore a visitar gl'Indiani circonvicini (per vedere e sapere lo stato in che eran le cose di quella città e degli abitatori d'essa era stata la sua venuta), si partí per visitar i caciqui e signori della campagna di Chincha e Pacacama, e gli altri che hanno le lor terre e vivono alla costa del mare.
In questo stato trovò le cose il governatore quando giunse a Xauxa, e, riposatosi per il longo viaggio, senza far provisione alcuna nei primi giorni in niuna cosa, stava aspettando gl'Indiani per andar a scacciar i nemici dal forte ch'aveva preso e stirpargli a fatto, quando li sopragiunse uno dei duo messaggieri spagnuoli ch'erano andati alla città di San Michiele per vedere in che stato si ritrovavano le cose di là, il quale cosí gli disse: "Signore, partito ch'io fui di qua per ordine del maresciallo, mi misi a caminare a gran fretta per il piano e per la riva del mare, con non poco travaglio, perchè molti de' caciqui ch'erano nel cammino s'erano ribellati; però alcuni che erano amici ci providdero di quel ch'avevamo bisogno, e da lor fui informato che per la costa del mare s'erano vedute andar quattro navi, le quali io viddi un dí. E considerando ch'io ero mandato alla città di San Michiele per saper se vi fossero arrivate navi dell'adelantado Alvarado o d'altri, andai nove dí e nove notti per la costa, alcuna volta a vista d'esse, credendo che dovessero prender porto e cosí intender chi fossero; ma, con tutta questa diligenza e fatica, non fu mai possibile che potesse ottener quel che volevo, onde mi misi a seguitar il mio viaggio verso la città di S. Michiele. E andando dall'altra parte del gran fiume, fui informato dagl'Indiani del paese che venivano cristiani per quella strada, e pensando io che dovessero veramente esser gente dell'adelantado Alvarado, ce n'andavamo il mio compagno e io sopraviso per non incontrarci in lui improvisamente: e giunti presso di Motupe, seppi ch'erano vicini a quella terra, e aspettai che venisse la notte, e allo spontar dell'alba mandai il mio compagno a parlar con esso loro, e vedesse che gente fusse: e gli diedi certi segnali perchè m'avisasse. E finalmente seppi esser gente che veniva al conquistamento di questi regni, onde me n'andai a loro, co' quali parlai a lungo, dicendogli l'ambasciata ch'io portavo, ed essi all'incontro m'informarono, dicendomi esser venuti dalla città di San Michiele in certe navi di Panama: ed erano in numero di 250. Arrivati a San Michiele il capitano ch'era in quella città con i 200 d'essi, 70 a cavallo, s'era partito per le provincie di Guito per farle soggette, ed essi, che potevano esser da 30 persone con loro cavalli, saputo il conquistamento che si faceva nel Cusco e il bisogno che v'era di gente, non volsero andare col capitano in quelle provincie di Guito, e cosí se ne venivano verso Xauxa. E diedi lor nuova di tutto quel ch'era successo qua e della guerra che s'era fatta con gl'Indiani di Guito, e per portar piú presto le nuove di quel ch'era successo là, mi ritornai da quel luogo adietro senza andare alla città di San Michiele, sapendo di certo esser già partito il capitano con la sua gente, ed era già vicino alla città di Cossibamba. Ritornando per il mio cammino la Pasqua passata, incontrai il maresciallo don Diego d'Almagro vicino alla terra di Cena, ch'è dove si divide il cammino di Caxamalca, al quale narrai le cose come passavano, e come il capitano che andava a Guito, per sospetto d'alcuni, non andava alla libera. Il maresciallo, udito questo, si partí subitamente per aggiunger il capitano che conduceva questa gente alla spedizione di Guito, per farlo fermare fintanto che provedesse insieme ai bisogni di questa guerra. Or questo è quel che mi è successo, signore, in questo viaggio, nella volta del quale procurai d'aver notizia di quelle navi, né potette mai intenderne altro. Dell'Alvarado non si sa cosa veruna, se non che si pensa che già sia smontato in terra in questa costa di mare, o sia passato piú innanzi, che ho aviso per lettere".


Fanno edificare nella città del Cusco una chiesa, e mandano tremila Indiani con alcuni Spagnuoli contra gl'Indiani nemici, e hanno novella del giugnere di molti Spagnuoli e cavalli, quali mandano alla provincia del Guito; con la relazione dello stato e gente del paese di Tumbez sino a Chincha, e della provincia Collao e Condisuio.

Il governatore ricevette questo messaggiero e lesse le lettere che portava, e s'informò da lui di molte altre cose; e per voler proveder quel che conosceva espediente in questo negocio, chiamò tutti gli ufficiali di S.M., e con loro ragionato dell'andata di quel capitano a Guito, e come il maresciallo già sarebbe abboccatosi con esso lui, secondo la nuova portata per quel messaggiero, fu determinato ch'egli gli mandasse un suo luogotenente con poter bastante per quella impresa. E scritte le sue lettere alla città di San Michiele e al maresciallo di ciò che avesse da fare, spedí con esse tre cristiani, perchè con maggior prestezza e piú sicuramente fussero portate, ordinando loro che si affrettassino nel viaggio, e di continuo venissero avisando quel che intendessero. Proveduto a questo, ordinò il luogo e sito dove s'avesse da edificar la chiesa in quella città di Xauxa, la quale fece fare ai caciqui circonvicini: e fu edificata con le sue scale e porte di pietra. In questo mentre comparsero qualche 4 mila Indiani di guerra dalla città del Cusco, di quei che il cacique aveva mandati a chiamare, e il governatore fece apparecchiar 50 Spagnuoli a cavallo e 30 pedoni per andar a scacciar i nemici dal passo dove stavano fermi: e si partiron con il cacique e la sua gente, il quale tuttavia piú venivano ponendo amore agli Spagnuoli. Fu comandato dal governatore al capitano di questi Spagnuoli che dovesse seguitar i nemici fino a Guanacco o piú innanzi, secondo che conosceva il bisogno, e di tutto l'avisasse di continuo per sue lettere e messaggieri.
Dopo questo venne nuove al governatore delle navi, la vigilia di Pasqua dello Spirito Santo; e similmente ebbe lettere da San Michiele, che li portaron due Spagnuoli, come le navi per il mal tempo, non eran potute arrivar a Pachacama piú presso che 60 leghe, e che l'adelantado Alvarado era arrivato al porto vecchio già tre mesi passati con 400 uomini e 150 da cavallo, e che con essi se n'entrava dentro in terra verso il Guito, e che si vedeva che vi sarebbe a tempo che il maresciallo don Diego entrava da un'altra banda in quelle provincie. Dubitò per tutto questo aviso il governator della giustizia e reggimento della città di S. Michiele e d'altra parte, e per provederci, con consiglio degli ufficiali, spedí suoi messaggieri in un brigantino per mare, per i quali mandò facultà al maresciallo che in nome di S.M., con la gente che menava e con l'altra che già saria stata in ordine nella città di San Michiele, alla qual comandava che dovesse esser in suo soccorso, che conquistasse, pacificasse e abitasse quelle provincie di Guito. Providde parimente ad altre cose intorno a questo, acciochè l'Alvarado non facesse danno nel paese, essendo cosí la mente di S.M.; e similmente si dispose, alla venuta delle navi, mandar ad informar S.M. di tutto ciò ch'era advenuto sino a quell'ora in quella impresa, perchè sia di tutto informato e possa provedere a tutto quel che paresse espediente al suo real servigio. In questo stato stanno le cose della guerra e cose successe nel paese, la maniera delle quali si dirà brevemente, perchè da Caxamalca si mandò relazion d'esso.
Questo paese dalla città di Tumbez fino a Chinca sono 10 leghe alla costa del mare, per altre parti piú e per altre meno; è terra piana e arenosa, non vi nasce erba, né vi piove se non poco; è paese fertile di maiz e frutti, perchè seminano e irrigano le possessioni con acqua di fiumi che descendon dalle montagne. Le case che abitano i paesani sono di giunchi e di frasche, perchè quando non piove fa gran caldo, e poche case sono con tetti. Sono genti da poco, e molti sono ciechi per la molta arena che v'è; sono poveri d'oro e d'argento, che quel che hanno è di baratti di mercanzie di coloro che vivono alla montagna. Tutto il paese vicino al mare è in questo modo sino a Chinca, e anco piú oltre a 50 leghe. Si vestono di bambaso, e mangiano maiz cotto e duro e la carne mezza cruda. A' piedi dei piani, quei che si chiamano Ingri, è una schiera di montagne altissime, che duran dalla città di S. Michiele fino a Xauxa, che ci possono esser ben 100 e 50 leghe di spazio, ma ha poca larghezza. È paese molto alto e forte di monti e di molti fiumi; non vi sono selve, se non alcuni alberi che nascono alle rive de' fiumi, dove sempre vi si vede gran nebbia. È molto fredda, perchè v'è una montagna di neve che dura quasi da Caxamalca a Xauxa, dove in tutto l'anno sempre v'è la neve. La gente che quivi abita è piú ragionevole dell'altre, perchè è molto netta e guerriera e di buona disposizione; sono molto ricchi costoro d'oro e d'argento, perchè lo cavano in molti luoghi della montagna. Niun signor che abbia signoreggiata questa provincia ha fatto mai caso della gente che è posta sul mare, per esser cosí da poco e povera, perchè non si servivan d'essa se non per il pesce e frutti, che, per esser in paese caldo, subito che se ne vanno in quei luoghi di montagna s'infermano per la maggior parte: e il medesimo avviene a quei che abitan le montagne se descendono al basso in terra calda. Le genti che abitan dall'altra parte verso dentro la terra, dietro le spalle delle montagne, sono come selvaggi, che non han case né maiz, se non poco; hanno grandissime montagne, e si pascon molto de' frutti degli alberi; non hanno domicilio né luogo fermo conosciuto, hanno grandissime fiumane, ed è paese tanto inutile che pagava tutto il tributo a' signori di piume di pappagalli. Per esser questa montagna di qua, la migliore di tutto il paese, sí stretta e angusta, e per esser distrutta dalle guerre che vi sono state, non vi si può far colonie di cristiani, se non l'un popolo appartato dall'altro. Dalla città di Xauxa per la via del Cusco si va allargando il paese, appartandosi dal mare, e i signori che sono stati nel Cusco tenendo la lor stanza e residenza nel Cusco verso Guito chiamavan Cancasuetio, e il paese innanzi che si chiama Collao, Collasuio, e la parte del mare Condisuio, e la terra adietro Candasuio: e in questo modo ponevan questi nomi a queste 4 provincie, fatte a guisa di croci, dove si rinchiudeva tutta la lor signoria. Nel paese di Collao non si ha notizia alcuna del mare, ed è paese piano, per quel che si e conosciuto, e grande e molto freddo, e vi sono molti fiumi, de' quali si cava oro. Dicono gli Indiani esser in esso un lagume grande d'acqua dolce, in mezzo della quale sono due isole. Per saper l'esser di questo paese e al governo suo mandò il governatore due cristiani, acciò gli rapportassero d'esso lunga informazione, che si partiron da lui nel principio di decembre.
La parte di Condisuio verso il mare al diritto del Cusco è poca terra ed è molto dilettevole, benchè sia tutta di montagne e sassi, e la parte dentro la terra è il medesimo. Corrono in esso tutti i fiumi che non corrono al mare di ponente; è paese di molti alberi e montagne, ed è molto poco abitato. Questa montagna continua da Tumbez fino a Xauxa, e da Xauxa alla città del Cusco è sassosa e aspra, che, se la strada non fusse fatta manualmente, non vi si potrebbe andar pur a piedi, quanto meno con cavalli: per il che avea molte case piene di rame per immattonarla, e in questo tutti i signori avean tanto pensiero in farla, che altro non vi mancava che farla immattonare. Tutte le montagne aspre sono fatte a guisa di scaloni di pietra, e dall'altra parte il camino non avea larghezza, per rispetto d'alcune montagne che la stringeva da' due lati, e in una era fatto un sperone di pietra, acciochè un giorno non rovinasse; e vi sono poi altri luoghi che la strada è longa ben 4 o 5 stature d'uomo, fatta e immattonata di pietra. Uno de' maggiori travagli che avessero i conquistatori di questo paese fu in queste strade. Tutti o la maggior parte de' popoli di questa falda di montagne stanno e abitano in colline e monti alti; le case sono di pietra e di terra; sono molti alloggiamenti in ciascuna terra, e per il cammino se ne trova sempre d'una e due leghe e piú vicini, fatti per gli alloggiamenti de' signori quando andavano visitando il paese. E di venti in venti leghe sono città principali, capi di provincie, dove gli altri delle terre picciole portavano i lor tributi che pagano, cose di maiz e vestimenti, come d'altre cose: tutte queste terre grosse hanno case di conserve, piene delle cose che sono nel paese. E per esser molto frigido si raccoglie poco maiz, e questo non si dà se non in parte segnalate, però vi sono in tutte molti legumi e radici d'essi, con che le genti del paese si sostentano, e ancora di buone erbe come quelle di Spagna; vi sono rape acetose e agreste. V'è del bestiame assai di pecore che vanno in gregge con i loro pastori, che lo guardano discosto dalle seminate, e hanno certa parte della provincia dove invernano. La gente, come s'è detto, è molto polita e ragionevole, e vanno vestiti tutti e calzati. Mangiano il maiz cotto e duro, e bevono molta chiccha, che è una bevanda fatta di maiz, a modo di cervosa. È gente molto domestica e molto obediente e bellicosa; hanno molte armi di diverse maniere, come nel rapporto che venne da Caxamalca si mandò dalla prigione d'Atabalipa, detto di sopra.


Descrizione della città del Cusco e della sua mirabil fortezza, e de' costumi de' suoi popoli.

La città del Cusco, per esser la principale di tutte, dove faceano la residenzia i signori, è sí grande e cosí bella e con tanti edificii che saria stata degna da veder in Spagna, e tutta piena di casamenti di signori, perchè in essa non vivono genti povere, e ogni signore vi fabricava la sua casa e tutti i caciqui medesimamente, perchè non risedevano i caciqui in essa continuamente. E la maggior parte di queste case sono di pietra, e l'altre hanno la metà della facciata di pietra; vi sono molte case di terra; e sono fatte con bell'ordine, fatte le strade in croci molto diritte, tutte immattonate, e in mezzo di ciascuna va un condotto d'acqua murato di pietra: il mancamento che hanno è d'essere strette, perchè da una banda del condotto può solo andar uno a cavallo e un altro dall'altra. È posta questa città nell'alto d'una montagna, e molte case sono poste nella costa di essa, e altre al basso nel piano. La piazza è fatta in quadro e sta per il piú piana; è immattonata di pietre minute. Attorno d'essa sono 4 case di signori, che sono le principali della città, dipinte e lavorate e di pietra, e la miglior d'esse è la casa di Guainacaba, cacique vecchio; e la porta d'essa è di marmo bianco e rosso e d'altri colori, e ha altri edificii degni d'esser veduti di terrazzi. Sono in essa città molti altri alloggiamenti e grandezze. Vi passano da' lati d'essa due fiumi, che nascono una lega lungi sopra il Cusco, fino che arrivano alla città e due leghe piú a basso: e tutti due sono con i lor pavimenti, acciochè l'acqua corra netta e chiara, e ancorchè cresca non inonda. Hanno i lor ponti, per i quali s'entra nella città.
Sopra il colle verso la parte della città, che è rotondo e molto aspero, è una fortezza di terra e di pietra molto bella, che ha le sue finestre grandi che guardano verso la città, che la fa parer piú bella. Dentro d'essa sono molti alloggiamenti, e una torre principale nel mezzo fatta a modo di cuba: è di 4 o 5 gironi, uno piú alto dell'altro; gli alloggiamenti e stanze dentro sono picciole; e la pietra di che è fatta è benissimo lavorata, e in modo congiunta l'una con l'altra che non par che ci sia mistura di calce, e le pietre sono cosí liscie che paiono tavole spianate, con la ligatura in ordine all'usanza di Spagna, una congiunta in contrario dell'altra. Ha tante stanze e torre che una persona non le potrebbe veder tutte in un giorno: e molti Spagnuoli che l'hanno veduta, e sono andati in Lombardia e in altri regni strani, dicono non aver veduto un altro edificio come questa fortezza, né castello piú forte. Vi potriano star dentro 5 mila Spagnuoli; non se gli può dar batteria, né si può minare, perciochè è posta sopra un sasso. Dalla parte della città, che è un colle molto aspro, non v'è piú d'un giro; dall'altra parte, che non è tanto aspro, ve ne sono tre, un piú alto dell'altro, e l'ultimo piú adentro è il piú alto di tutti. La piú bella cosa che si possa veder per edificio in quel paese sono questi gironi, perchè sono di pietre cosí grandi che chi le vedrà non dirà che vi sieno state poste per mano d'uomini umani, che sono cosí grandi come pezzi di montagne sassose e scogli, che ve ne sono molte di altezza di 30 palmi e altretanti di lunghezza, e altre di 20 e 25, e altre di 15: ma niuna ce n'è di sí picciola grandezza che la possino portar tre carette. Questa non è pietra liscia, ma assai ben incassata, e tessuta l'una con l'altra. Gli Spagnuoli che la viddono dicono che né il ponte da Secovia, né d'altri edificii che fece Ercole né i Romani non sono cosí degni da vedere come questo: la città di Taragona ha qualche opra nella sua muraglia fatta a questa guisa, però non è cosí forte né di pietre sí grandi. Questi gironi sono voltati che, se se gli dessi batteria, non può darsegli in piano, ma in sguincio de' gironi che escono in fuori. Questi gironi sono di questa pietra medesima, e fra muraglia e muraglia è messa della terra, e tanta che tre carette vi possono caminare sopra insieme: sono fatti a modo di tre gradi, che l'uno comincia nell'altezza dell'altro, e l'altro nell'altezza dell'altro. Tutta questa fortezza era un deposito d'armi, mazze, lancie, archi, frezze, azze, rotelle, giubboni di bombaso imbottiti forti, e altre armi di diverse maniere e vestimenti per soldati, quivi raccolte da tutte le bande del paese che era soggetto a' signori del Cusco. Aveano molti colori, azurri, gialli e berrettini e molti altri, per dipingere panni, e molto stagno e piombo con altri metalli, e molto argento e qualche poco d'oro, e molte coperte e giubboni imbottiti per gli uomini da guerra. La cagione perchè questa fortezza ha tanto artificio è perchè, quando si fondò la città, che fu edificata da un signor Oregione che venne dalle parti di Condisuio verso il mare, grande uomo di guerra, conquistò questo paese fino a Bilcas, e veduto quello esser il miglior sito da far la sua residenza, fondò quella città con quella fortezza; e tutti gli signori che gli sono successi doppo fecero qualche poco di miglioramento in essa fortezza, onde sempre si venne magnificando e accrescendo.
Da questa fortezza si vede attorno alla città molte case ad un quarto di lega e mezza lega e una lega, e nella valle che è in mezzo, circondata da colli attorno, sono meglio di centomila case, e molte d'esse sono da piaceri e ricreazione de' signori passati e altre de' caciqui di tutto il paese, che riseggono continuamente nella città; l'altre sono case o fondachi pieni di robbe, lane, armi, metalli e panni, e di tutte le cose che nascano e si fanno nel paese. Vi sono case dove sono conservati i tributi che portano a' caciqui le genti, e v'è tal casa che vi sono meglio di centomila passari secchi, perchè della penna d'essi, che è di molti colori, si fanno vestimenti: e vi sono perciò molte case; vi sono rotelle e targhe, piastre di rame per copritura delle case, cortelli e ferramenti, scarpe e pettini per provisione della gente di guerra, in tanta quantità che non si può pensare chi abbia potuto mai dar sí gran tributo di tante e varie cose. Ciascun signore passato ha quivi la sua casa di queste robbe di tributi che li furono dati in vita loro, perchè niun signore che succede (cosí è legge fra loro) può doppo la morte del passato arrivar ad esso nella eredità. Ciascuno ha il suo bacile d'oro e d'argento, e la sua robba e vestimento a parte, e colui che succede non glielo toglie; e i caciqui e signori morti hanno ferme le case loro da piaceri, con li debiti servizii di servitori e donne, e se gli seminano i lor campi di maiz, e se gliene mette qualche poco dove sono sepeliti. Adorano il sole e gli hanno fatto molti tempii, e di tutte le cose che hanno, cosí robbe come maiz e d'altre cose, n'offeriscono al sole, di che poi si prevagliono le genti di guerra.


Della provincia di Collao, e della qualità e costumi de' suoi popoli, e delle ricche minere d'oro che quivi si ritruovano.

I duo cristiani che furono mandati a vedere la provincia di Collao tardarono 40 giorni nel lor viaggio; doppo ritornati alla città del Cusco, dove stava il governatore, gli dierono nuova e relazione di tutto quel che avevan inteso e veduto, che è questa che qui di sotto si dichiararà. Il paese di Collao è lontano e appartato molto dal mare, tanto che le genti native che abitano non hanno notizia d'esso; è paese molto alto e mediocremente piano, e con tutto ciò è fuor di modo freddo. Non v'è in esso selva né legna d'abbrucciare, e quella che perciò usa ha in baratto di mercanzia con quelli che abitano vicino al mare, chiamati Ingri, e che abitano anco al basso presso le fiumane, dove è paese caldo, che questi hanno legna; e si baratta con pecore e altro bestiame e legumi, perchè nel resto il paese è sterile, che tutti con radice d'erbe e erbe, maiz e qualche poca carne si sostentano: non perchè in quella provincia di Collao non sia buona quantità di pecore, ma perchè la gente è tanto soggetta al signore a chi deve prestare obedienza che, senza sua licenza, o del principale o governatore che per suo comandamento sta nelle terre, non n'uccide, posto che ancora i signori e caciqui non ardiscano ammazzare né mangiare niuna, se non è con tal licenza. Il paese è ben popolato, perchè non è distrutto dalla guerra come sono l'altre provincie; le sue terre sono di mediocre grandezza, e le case picciole, le mura di pietra e terra insieme, coperte di paglia. L'erba che nasce in questo paese è rara e corta. Vi sono alcuni fiumi, però piccioli. Nel mezzo della provincia è un gran lago, di grandezza di presso cento leghe, e all'intorno di questo lago è il piú popolato paese. In mezzo d'esso sono due isolette picciole, nell'una delle quali è una moschea e casa del sole, la quale è tenuta in gran venerazione: e in essa vanno a fare le loro offerte e sacrificii in una gran pietra che è nell'isola, che la chiamano Thichicasa, dove, o perchè il diavolo vi si nasconde e gli parla, o per costume antico, come gli è, o per altro che non s'è mai chiarito, la tengono tutti quelli della provincia in grande stima, e gli offeriscono oro e argento e altre cose. Vi sono meglio di seicento Indiani al servizio di questo luogo, e piú di mille donne che fanno chicca per gettarla sopra quella pietra Thichicasa.
Le ricche mine di questa provincia di Collao sono piú oltre di questo lago, che si chiama Cuchiabo. Sono le mine nella chiusa del fiume, della mezza altezza d'essa, fatte a guisa di grotte, nella bocca delle quali entrano a cavare la terra: e la cavano con corna di cervi, e la portano fuori con certe pelle cucite in forma di sacchi o di utri di pelle di pecore. Il modo con che la lavano è che tirano dal medesimo fiume una seriola d'acqua picciola, e alla riva d'esso hanno poste certe piastre di pietra molto liscie, sopra le quali gettano la terra; e gettata, cavano per un canaletto l'acqua della seriola, che viene a dargli sopra, e l'acqua se ne porta a poco a poco la terra e resta l'oro nella medesima piastra, e in questo modo lo raccogliono. Le mine entrano profondamente in traverso della terra, altre a dieci braccia sotto e altre a venti; e la mina maggior, che si chiama di Guarnacabo, entra 40 braccia, né ha niuna chiarezza né piú larghezza di quanto entra una persona chinata, e finchè colui non esce niun altro può entrarvi. Le persone che quivi cavano oro possono esser fino a 50 fra uomini e donne, e sono questi di tutto il paese, d'un cacique venti, e d'un altro 50, e d'altro trenta, e d'altri piú o meno secondo che ve ne tengono; e lo cavano per il signor principale, nel quale hanno posto tanto riguardo che in niun modo si può rubbar cosa veruna di quel che cavano, perchè a torno le mine sono poste le guardie, che niuno che cavi l'oro può uscir senza che lo vedano; e la notte, quando ritornano alle lor case nella terra, entrano per una porta dove stanno i maggioridomi che hanno carico dell'oro, e da ciascuna persona ricevono l'oro che hanno cavato. Vi sono altre mine piú innanzi di queste, e altre ve ne sono sparse per tutto il paese, a maniera di pozzi profondi una statura d'uomo, quanto possa l'uno da basso dar la terra all'altro di sopra; e quando vengono tanto cavate che colui di sopra non possa pigliarla, le lasciano stare e fanno altri pozzi. Però le piú ricche e dove si cava maggior quantità d'oro sono le prime, che non hanno carico da lavar la terra; e per rispetto del freddo e delle mine che vi sono, non lo cavano se non quattro mesi dell'anno, dall'ora di sesta finchè è per tramontar il sole. La gente è molto domestica, e cosí accostumata a servire che in tutte le cose che s'hanno da fare nel paese lo fanno essi istessi, cosí strade come case che il signor principale li faccia fare, e s'offeriscono di faticar continuamente e portar le bagaglie delle genti da guerra, quando il signor va in qualche luogo. Gli Spagnuoli trassero da quelle mine una carica di terra e la portarono senza fare altro al Cusco, la quale fu lavata per mano del governatore, pigliato prima giuramento dagli Spagnuoli s'avevano dentro messovi oro, o se s'aveva fatto altro che cavarla della mina come la cavavano gl'Indiani che la lavavano: e lavata si cavò d'essa tre pesi d'oro. Tutti quei che s'intendono di mine e di cavar oro, informati del modo che lo cavano i nativi di questo paese, dicono esser tutta la terra e i campi minere d'oro, che, se gli Spagnuoli dessero ferramenti e industria agl'Indiani del modo con che si ha da cavare, si sarebbe cavato molto oro: e si crede venuto questo tempo, che non sarà anno che non si cavi di qua un milion d'oro. La gente di questa provincia, cosí uomini come donne, è molto sporca, e la provincia è molto grande, e tutti hanno gran mani.


In quanta venerazione fusse tenuto dagl'Indiani Guarnacaba vivendo e lo tenghino ancora in morte; e come, per la disunione degl'Indiani, gli Spagnuoli entrarono nel Cusco; e della fedeltà di Guarnacaba, nuovo cacique, verso i cristiani.

La città del Cusco è il capo e provincia principale di tutte l'altre, e di quivi fin alla spiaggia di S. Matteo e dall'altra parte piú innanzi della provincia di Collao, che è tutto paese di Caribi sagittarii, il quale è signoreggiato e soggetto ad un solo signore, che fu Atabalipa, e innanzi a lui gli altri signori passati, e adesso ne è signore questo figliuolo di Guarnacaba. Questo Guarnacaba, che fu tanto nominato e temuto, ed è ancora oggidí, cosí morto come egli è, fu molto amato da' suoi vassalli, soggiogò gran paese e se lo fece tributario, fu molto obedito e quasi adorato. E il suo corpo è posto nella città del Cusco, molto intero, involto in ricchi vestimenti, e solamente gli manca la punta del naso; e vi sono altre imagini fatte di stucco o creta, dove solamente sono capelli e unghie che si tagliavano, e vestimenti che si vestivano in sua vita, e sono in tanta venerazione presso a quelle genti come se fusser loro iddii. Lo cavano spesso in piazza, con musica e balli attorno, e gli stanno il dí e la notte attorno scacciandogli le mosche. Quando alcuni signori principali vengono a veder il cacique, vanno prima a render grazie a queste imagini e doppo al cacique, e fanno con essi tante cerimonie che saria gran prolissità a scriverlo. S'uniscono tante genti a queste feste che si fanno in quelle piazze che passano centomila anime.
Successe cosí bene il fare questo figliuol di Guarnacaba signore, perchè venivano tutti i caciqui e signori di paesi e provincie lontane a servire e a dar per amor suo l'obbedienza all'imperatore. I conquistatori passaron gran travagli, perchè tutto il paese è montuoso e aspro, che con fatica si può andarvi a cavallo: e si può creder che, se non fusse stata la discordia che era fra la gente di Guito e i nativi e signori del paese del Cusco e sua circonvicinanza, non sariano entrati gli Spagnuoli nel Cusco, né sariano stati bastanti di passar da Xauxa innanzi; e se vi fossero entrati, saria bisognato che fussero stati in numero di piú di 500, e per poter tenerla bisognavano assai piú, perchè il paese è cosí grande e cosí cattivo che vi sono montagne e passi che dieci uomini gli possono difendere da diecimila. E mai il governatore pensò di potere andare con meno di 500 cristiani a conquistarlo e renderlo tributario con pace; però, come intese la disunione cosí grande fra quei del paese e la gente di Guito, propose con quei pochi cristiani che avea andare a levargli di servitú e soggezione, e impedir i torti e molestie che quei di Guito facevano a questo paese: che piacque a Dio di concedergliene grazia. E giamai il governator si sarebbe arrischiato di far cosí lungo e faticoso viaggio in questa sí grande impresa, se non fusse stato per la gran confidanza che aveva in tutti gli Spagnuoli ch'erano in sua compagnia, per aver fatto di lor esperienza e conosciuto esser destri e vecchi in tanti conquistamenti, e assuefatti in quei paesi e a' travagli della guerra: il che ben mostraron in quella impresa in pioggie, in neve e nel nuotar molti fiumi, passar gran montagne e dormir molte notti alla campagna, senza acqua da bere né cosa veruna da mangiare, e sempre di dí e di notte star in guardia armati, e nell'andar a ridurre ad obedienza dopo la guerra molti caciqui e terre che s'erano ribellate, e venir da Xauxa al Cusco, dove tanti travagli passarono unitamente col lor governatore, e dove tante volte posero in pericolo le vite loro in fiumi e montagne, dove si ruppero il collo traboccando molti lor cavalli. Questo figliuolo di Guarnacaba ha molta amistà e conformità co' cristiani, e per esso si posero gli Spagnuoli, per mantenergli la signoria, in infiniti affanni. E finalmente si portaron in tutte queste imprese cosí valorosamente, e sopportaron tanto peso, quanto altri Spagnuoli abbin mai fatto in beneficio dell'imperatore: in modo che i medesimi Spagnuoli che si sono trovati in questa impresa si maraviglian di quel che hanno fatto, quando di nuovo si rimettono a pensarlo, che non sanno come sieno vivi e come abbino potuto sopportar tanti affanni e cosí lunghe necessità; però tutti si danno per ben impiegati, e di nuovo s'offeriscono, se fusse bisogno, entrare in maggior fatiche per la conversione di quelle genti e per inalzare la nostra santa fede catolica.
Della grandezza e sito del paese predetto si lascia di parlare. Solo si resta di render grazie e laudar nostro Signore, perchè cosí apertamente di sua mano ha voluto guidar le cose di sua maestà e di questi regni, e per sua divina providenza essere stati illuminati e indrizzati alla vera via della salute. Cosí piaccia alla sua gran bontà che sien sempre da qui innanzi di bene in meglio, per intercessione della sua benedetta Madre, advocata in tutti i nostri fatti, che gli porti a buon fine.


Si finí questa relazione nella città di Xauxa a' 15 di luglio 1534, la quale Pero Sanco, scrivano generale in questi regni della Nuova Castiglia e secretario del governator Francesco Pizarro, per suo ordine e degli ufficiali di sua Maestà, la scrisse giustamente come passò; la qual finita lesse alla presenza del governatore e gli ufficiali di sua Maestà di parola in parola, e per essere cosí, il detto governatore e gli ufficiali di sua Maestà si sono sottoscritti di sua mano.
Francesco Pizarro,
Alvaro Ricchelme,
Antonio Navarro,
Garzia di Salsedo.

Per commandamento del governatore e ufficiali, Pero Sanco. Questa translazione è cavata dall'originale.


La navigazione del grandissimo fiume Maragnon, posto sopra la terra ferma dell'Indie occidentali; scritta per il magnifico signor Consalvo Fernando d'Oviedo, istorico della Maestà cesarea nelle dette Indie.


Al reverendissimo e illustrissimo signor il cardinal Bembo.

A me pare, reverendissimo e illustrissimo Signore, che d'una cosa nuova alli cristiani e in sé tanto grande e maravigliosa come è la navigazione del grandissimo fiume chiamato il Maragnone, che io incorrerei in colpa di molta trascurraggine se non ne desse notizia a Vostra Signoria reverendissima, che, come dottissima ed esperta nelle cose della istoria, ne pigliarà piú piacere che alcun altro, intendendo un caso che non è di minor maraviglia che si fosse quello della nave Vittoria, la quale girò e andò per quanto si contiene del circuito del mondo, per quel paralello e camino che ella andò: entrando per lo stretto di Magaglianes verso occidente, arrivò al luogo delle spezierie e qui, caricata di garofani e altre specie, voltò per l'Oriente e capo di Buona Speranza e venne a Siviglia. Or in quanto a quella nave V.S. reverendissima ne è già bene informata; intenda al presente questa altra navigazione sommariamente, e poichè l'avrà intesa giudichi se è cosa di maggior stima e da prenderne maggior maraviglia che di quella. Posto che io non sia per raccontarne ora molte particolarità, non avendo tempo di dirne appieno quello che ho scritto in 24 fogli nella continuazione dell'istoria generale di queste Indie: perciò dirò in somma qualche parte di quello che piú importa di questo discoprimento.
Il capitan Gonzalo Pizarro, fratello del marchese don Francesco Pizarro, governator del Perú, partí della provincia di Guito con 200 e 30 Spagnuoli tra da piedi e da cavallo a cercare della cannella: la quale non è come quella che si porta dall'isola de Brunei, che è nelle Moluche, ma, ancorchè nella forma sia differente, pure quanto al sapore è cosí buona e migliore della prima, che conosciamo e che si usa in Europa, e che V.S. reverendissima può veder ogni ora. Quella è simile alle canne; quest'altra è in certi alberi grandi e belli, i frutti de' quali sono alcune pallotte grosse e maggiori che quelle de' roveri, e quella corteccia nella quale sta la pallotta è la cannella, e le foglie tutte dell'albero sono assai buona cannella, ma la pallotta o frutto non è buono. La scorza dell'albero non è di cosí perfetto sapore come quella corteccia o vaso che tiene la pallotta e come le foglie, ma non è del tutto trista, anzi in alcuni luoghi sarebbe di qualche stima. Certe di queste corteccie che sono cannella furono di mano in mano da alcuni Indiani portate a Guito e ad altri luoghi del polo antartico, per donde vanno gli Spagnuoli, ed era molto desiderata. Or a cercare questa cannella e altre cose non conosciute di quel paese andò il capitano e gli Spagnuoli che ho detto, e andando giú per un fiume intesero che passando avanti ci era carestia di vettovaglia, e in certe montagne aspre trovarono alcuni alberi di questa cannella, ma pochi e inculti, secondo che dalla natura erano stati prodotti, e lontani l'uno dall'altro, in guisa che l'effetto non era corrispondente al desiderio delli ritrovatori, perciochè quella cannella che viddero era molto poca e da non farne molto caso. E patendo i nostri assai per la fame, che già era molto grande, determinò quel capitano di mandare il capitan Francesco d'Oregliana con 50 compagni a cercare da mangiare, e perchè vedessero la qualità del paese; ed esso Gonzalo Pizarro restò con tutta l'altra gente che aveva in un certo luogo, fino a tanto che intendesse quello che Francesco d'Oregliana avesse trovato.
Il quale, con gli suoi cinquanta compagni, il secondo dí di Natale di Cristo nostro Signore dell'anno 1542 uscí dell'alloggiamento del detto Gonzalo Pizarro, andando giú per un fiume con una barca e certe canoe, e portavano qualche soma di robba e alcuni infermi e la munizione della polvere; e delli cinquanta compagni detti, alcuni ne erano archibusieri e alcuni balestrieri. Quel fiume nasce in una provincia chiamata Atunquixo, discosto intorno di trenta leghe dal mar Australe, ed è sotto l'altro polo antartico; il qual fiume già l'aveva passato il detto Gonzalo Pizarro con tutta la sua compagnia. Or, andando questo capitano Francesco d'Oregliana a seconda del fiume, sempre lo trovava maggiore e piú veloce, per cagione di molti altri fiumi che da amendue le bande mettevano in esso, in guisa che per la gran corrente andavano ogni giorno venticinque leghe o piú, con poca fatica di quelli che remavano: e cosí caminarono tre dí, senza trovar luogo alcuno abitato, né cosa da mangiare. E quando viddero che s'erano discostati tanto dall'alloggiamento, e che aveano consumata quella poca vettovaglia che portavano, consultarono questo capitano e gli suoi compagni sopra la difficoltà che era di ritornare al loro capitano, il che pareva impossibile; e oltre a ciò dandosi a credere che non potesse essere che non trovassero qualche abitazione d'Indiani, donde prendessero da mangiare, seguitarono uno e un altro dí, né meno trovarono luogo abitato né vestigio umano: e allora si tennero per perduti, perciochè, se si voltavano indietro non avevano che mangiare, né tutte le forze loro erano bastanti ad andare a contrario d'acqua per forza di remi tre leghe in un dí, per la molta correntia del fiume; né meno per terra era possibile, per esser molta boschereccia e serrata di sterpi e altri inconvenienti assai. La fame era già grandissima e il pericolo della morte si toccava con mano, né potevano campare per altra via che per quella che pensarono: la quale fu, confidandosi nella misericordia di Dio, di seguire a tutto lor potere il fiume all'ingiú, infino al mare di questo nostro polo artico, dove pensavano che quell'acqua mettesse, nella qual cosa non s'ingannarono. E in tanto, altro non avendo per carestia di vettovaglia, mangiavano i cuoi delle selle e degli staffili, e di certe pelli selvatiche con le quali i soldati di quel paese australe usano di foderare cestoni dove portano la loro robba, e alcuni cuoi dell'animale detto dantes, e tutte le loro scarpe e suole; e in alcuni luoghi mangiarono molte erbe non conosciute, per sostentare la loro miserabile vita.
Lungo sarebbe a raccontare a Vostra Signoria gli altri stenti che questa gente patí, e però lascierò per ora di dirne piú avanti, perciochè per quello che s'è detto si può comprendere che non potevano essere se non grandissimi. Oltre de' quali trovando molte genti di diverse generazioni, convenne loro per forza di armi guadagnarsi il mangiare il piú delle volte che lo trovarono: e in questo ci è molto che dire e che lodare questa nazione spagnuola; e c'intervennero pericoli molto notabili, de' quali si può credere che sarebbe impossibile l'uscire o scampare ad alcuno di tutti cotesti nostri Spagnuoli, se Dio di sua potenzia assoluta non gli aiutasse. E con l'aiuto divino in certo luogo fecero un buon brigantino, dove trovarono Indiani pacifichi, che diedero loro da mangiare; e senza aver chiodi né altri apparecchi necessarii a farlo, mediante Dio e la buona industria loro, questi Spagnuoli si posero a fare tale opera e a finirla, senza la quale essi si sarebbono finiti molti dí prima che fussero giunti nell'acqua salsa. Altri di loro facevano carboni senza esser carbonari, altri tagliavano legni e altri le portavano su le spalle, e del ferro che portavano e delle staffe e altre cose fecero chiodi, e altri pece per impegolarlo; e alla fine finirono il brigantino, e seguitarono con esso e con la barca il loro viaggio, raccomandandosi a Dio, il quale era il loro pilotto: che altro pilotto non avevano, né bossola né carta né notizia alcuna del viaggio, né sapevano dove andavano, né dove avevano d'arrivare.
In alcuni incontri e battaglie, che molte ne ebbero, furono morti certi Spagnuoli, ed essi n'ammazzarono molti piú Indiani, perchè quanto meno essi conoscevano gli archibusi e le balestre, tanto piú trascuratamente erano morti per quelle armi: e alcuni pensavano che quelli colpi e strepito e puzza dell'archibuso fossero saette dal cielo, e vedendo il guasto in molti luoghi subito fuggivano, in molti altri aspettavano e s'opponevano con molto ardire alla difesa loro e del paese. Fu luogo dove gl'Indiani si presentarono alla battaglia con pavesi molto buoni e targoni di cuoio del pesce detto manati, e tali che le balestre non gli passavano; in alcune provincie i paesani erano arcieri, in altre combattevano con lancie e con pertiche brustolate, e altrove con frombe. In fine per tutto il mondo s'usa la guerra, e tra gl'Indiani poche volte è pace. Si viddono luoghi molto abitati, e molte e grand'isole, e provincie popolose e genti innumerabili. Ebbero notizia per lingua d'Indiani che certo numero di cristiani abitano in una provincia, i quali si persero già tempo fa dell'armata d'un capitano chiamato Diego d'Ordes; con i quali questi non poterono aver commercio, perchè piú tosto si può dire che andavano fuggendo la morte che cercando di ricuperar altri, né erano tanti che fossero bastanti questo fare, finchè il tempo e la provisione venga dalla mano di Dio. In una certa parte ebbero una battaglia molto aspra e contenziosa: i capitani erano donne arciere che stavano quivi per governatrici, le quali i nostri Spagnuoli chiamarono Amazone, ancorchè non fussero, perciochè Vostra Signoria reverendissima meglio sa questo nome, secondo che vuole Giustino, si dava loro perchè erano senza una poppa, la quale quelle che furono dette Amazone si brucciavano. Nel restante sono poco differenti, perciochè queste ancora vivono senza uomini e signoreggiano molte provincie e genti, e in certo tempo dell'anno fanno venire uomini alle lor terre, co' quali si congiungono, e poichè sono gravide gli cacciano via: e se partoriscono maschio l'ammazzano o lo mandano al padre, e se è femine l'allevano per accrescimento della lor republica: e in questo ci è molto che dire. Tutte queste donne danno obedienzia ad una regina ricchissima, ed ella e le sue principali signore usano vasellamenti d'oro al loro servigio, secondo che si sa per udita e relazione d'Indiani. Sí che, per abbreviare, questi Spagnuoli insieme col capitan Francesco d'Oregliana, che viene con queste navi a dar relazione particolare di quanto ha veduto alla Maestà cesarea, dicono che da quella bocca del fiume Maragnone per donde vennero in questo mare fino a Cubagua, la quale chiamiamo l'isola delle Perle, nella costa di terra ferma ci sono quattrocento leghe, e per l'acqua dolce, prima che arrivassero alla salsa, ne navigarono piú di mille e settecento. E ancorchè questo fiume abbia molte bocche, tutte si serrano in piú di quaranta leghe d'acqua dolce, e altrettante e piú dentro il mare si piglia acqua dolce: e per cinquanta leghe il fiume va sopra la marea, e alla detta bocca cresce in alto piú di cinque braccia, e tuttavia dolce.
Quando questi Spagnuoli trovarono il mare fu alli 26 di agosto, sí che stettero nella navigazione di acqua dolce otto mesi, e usciti alla costa vennero a Cubagua, e quindi venne il capitan Francesco d'Oregliana, e con lui fino a 13 o 14 della sua compagnia, a questa nostra città di San Domenico dell'isola Spagnuola: col quale e con gli altri io ho avuto molta conversazione, informandomi di quello che ho detto e di quello che per la lunghezza sua e per mancamento di tempo non dico qui, e perchè, come dico, Vostra Signoria reverendissima lo vedrà in questa istoria piú intieramente: la quale pare che per gli miei peccati si dilunghi di venire a luce, che, per cagione di questa guerra di Francia, io non posso al presente lasciar questa fortezza in servigio dell'imperatore mio signore. Già io avevo ottenuta licenzia per andare in Spagna, e per questo impedimento soprastà la mia partita, finchè Dio ne conceda pace e tempi migliori mediante la santità del papa nostro signore, nel quale io tengo molta speranza che Dio darà la quiete che ragionevolmente dovria esser tra i cristiani, secondo il suo santo zelo e opere di vero vicario di Cristo. Quello che s'è detto in somma è quanto al capitano Francesco d'Oregliana e suoi compagni: donde si comprende che per lo fiume detto, che nasce sotto il polo antartico, con sí grande discorrimento come s'è detto, vennero a cercare e a trovare questo altro artico, attraversando l'equinoziale.
Già ha da sapere V.S. reverendissima un'altra cosa, che, poichè sto qui in questa nostra città di S. Domenico, sono venute lettere dalla provincia della Nuova Castiglia, altrimenti detta del Perú, che portano che, poichè il capitan Gonzalo Pizarro vidde che l'altro capitano Oregliana non tornava né gli mandava da mangiare, costretto dalla fame si tornò in Guito, e con tanta necessità che si mangiarono piú di cento cavalli e molti cani che avevano con loro: e di 230 uomini che menò da Guito, non ne tornarono 100, e molto male trattati e infermi. Sí che questi che camparono con Francesco d'Oregliana si possono contare per vivi, e gli altri per morti, che furono 87: e cosí aviene per questi luoghi a quelli che con soverchio appetito cercano dell'oro, che nel vero in buona parte torna in dolore a molti. Né era tanto la cannella quello che mosse Gonzalo Pizarro a cercarla, quanto per trovare insieme con questa spezie o cannella un gran prencipe, che si chiama il Dorato, del quale si ha molta notizia in quelle parti, e dicono che continuamente va coperto d'oro macinato e tanto minuto come è il sale ben trito, perchè a lui pare che nessuna altra veste o ornamento sia come questo, e che piastre d'oro lavorate sia cosa grossa e commune, e che altri signori si posson vestire e vestonsi d'esse quando lor piace; ma spolverizarsi d'oro è cosa molto singulare e di molta spesa, perchè ogni dí si cuopre di nuovo di quella polvere d'oro e la notte si lava e lasciala, perchè tale abito non gli dà impaccio, né l'offende, né incombra la sua gentile disposizione in parte alcuna: e con certa gomma o liquore odorifero si unge la mattina, e sopra quella unzione getta quell'oro macinato, e resta tutta la persona coperta d'oro dalla pianta del piè sino alla testa, cosí risplendente come una figura d'oro lavorata di mano d'un buonissimo orefice: di modo che si comprende da questo e dalla fama che in quel paese vi sieno miniere d'oro ricchissime. Sí che, reverendissimo Signore, questo re dorato è quello che costoro andavano cercando, e del camino e viaggio loro, e disegni che avevano, è succeduto loro nella maniera che ho detto: con tutto che lascio di dire molte altre cose, che non si possono intendere senza ringraziare Dio e con molto piacere, poichè a' nostri tempi si scuoprono cose tanto grandi per la buona ventura di Cesare, per il quale Dio guardava tanti e cosí grandi tesori, poichè per sua mano cosí bene si dispensano e spendono nella difensione della republica cristiana, la quale senza lui starebbe a mal partito.
A Vostra Signoria reverendissima bacio mille volte le mani, per le grazie che m'ha fatte e sempre mi fa circa l'indulgenzie della mia cappella e di molte altre cose. Piaccia a nostro Signor Dio che, se non in tutto, almeno io possa servirla e rimeritarla in qualche parte di quanto sono tenuto a suo servigio: e il medesimo nostro Signor Dio mantenghi e prosperi Vostra reverendissima e illustrissima Signoria in stato longamente al suo santo servigio.
Di questa casa reale e fortezza della città e porto di San Domenico dell'isola Spagnuola, adí 20 gennaio dell'anno 1543.
Di V.S. reverendissima e illustrissima servidor
Consalvo Ferrando d'Oviedo.


Discorso sopra la terra ferma dell'Indie occidentali dette del Lavorador, de los Bacchalaos e della Nuova Francia.


Nella parte del mondo nuovo che corre verso tramontana e maestro, all'incontro del nostro abitabile dell'Europa, v'hanno navigato molti capitani: e il primo per quel che si sa fu Gasparo Cortereale, portoghese, che del 1500 v'andò con due caravelle, pensando di trovar qualche stretto di mare donde, per viaggio piú breve che non è l'andare attorno l'Africa, potesse passare all'isole delle specierie. Esso navigò tanto avanti che venne in luogo dove erano grandissimi freddi, e in gradi 60 di latitudine trovò un fiume carico di neve, dalla quale gli dette il nome, chiamandolo rio Nevado, né gli bastò l'animo di passar piú avanti. Tutta questa costa che corre dal detto rio Nevado insin al porto di Maluas leghe 200, il qual è in gradi 56, la vidde piena di genti e molto abitata, sopra la qual dismontato prese alcuni per menargli seco; scoperse anco molte isole per mezo la detta costa, tutte popolate, a ciascuna delle quali diede il nome. Gli abitanti sono uomini grandi, ben proporzionati, ma alquanto berrettini, e si dipingono la faccia e tutto il corpo con diversi colori per galanteria; portano manigli d'argento e di rame, e si cuoprono con pelli cucite insieme di martori e d'altri animali diversi: il verno le portano col pelo di dentro e le state di fuori. Il cibo loro per la maggior parte è di pesce piú che d'alcun'altra cosa, massimamente di salmoni, che n'hanno grandissima copia: e ancora che vi siano diverse sorti d'uccelli e di frutti, nondimeno non fanno conto se non del pesce. Le loro abitazioni sono fatte di legname, del quale hanno abbondanzia per esservi grandissimi e infiniti boschi, e in luogo di tegole le cuoprono di pelli di pesci, che ne pigliano grandissimi e gli scorticano. Vidde molti uccelli e altri animali, massimamente orsi tutti bianchi. All'incontro di questa costa verso mezodí vi è un'isola grande detta delli Demonii, e dal capo di Maluas a capo Marzo, che sta in 56 gradi, vi sono 60 leghe, e de lí a capo del Gado, che è in gradi 54, corre la costa leghe 200 al dritto ponente fino ad un gran fiume detto di San Lorenzo, che alcuni lo tengono per un braccio di mare, e l'hanno navigato molte leghe all'insú. E qui si fa un golfo, che lo chiamano quadrato, e volge fino alla punta de los Bacchalaos: e questo golfo quadrato è luogo molto notabile, e la maggior altezza de los Bacchalaos è gradi 48 e mezo, che si chiama capo di Buona vista. E bacchalaos sono alcuni pesci che in quella costa si trovano in tanta quantità ristretti insieme che alle fiate non lasciano passar le caravelle: e li Bertoni e Normandi chiamano li detti pesci molve, dei quali ogn'anno vanno a pigliar per grandissima mercanzia.
Di questa terra ebbe cognizion grande il signor Sebastian Gabotto nostro veneziano, il quale, a spese del re Enrico 7° d'Inghilterra, scorse tutta la detta costa fino a gradi 67, ma per il freddo fu forzato a tornare adietro. Navigò anco lungo la detta terra l'anno 1524 un gran capitano del re cristianissimo Francesco, detto Giovanni da Verrazzano, fiorentino, e scorse tutta la costa fino alla Florida, come per una sua lettera scritta al detto re particolarmente si vedrà: la quale sola abbiamo potuto avere, perciochè l'altre si sono smarrite nelli travagli della povera città di Fiorenza. E nell'ultimo viaggio che esso fece, avendo voluto smontar in terra con alcuni compagni, furono tutti morti da quei popoli, e in presenzia di coloro che erano rimasi nelle navi furono arrostiti e mangiati. Questo infelice fine ebbe questo valente gentiluomo, il quale, se non gl'intraveniva questa disgrazia, col sapere e intelligenzia grande che aveva delle cose del mare e dell'arte del navigare, accompagnata e favorita dall'immensa liberalità del re Francesco, averia scoperta e fatta nota al mondo tutta quella parte di terra fin sotto la tramontana, e non si saria contentato solamente delle marine, ma averia voluto penetrar piú adentro fra terra e fin dove s'avesse potuto andare. E molti, che l'hanno conosciuto e parlatogli, mi hanno detto che esso affermava aver in animo di cercar di persuadere al re cristianissimo a mandare da queste parti buon numero di gente ad abitare in alcuni luoghi della detta costa, che sono d'aria temperata e di terreno fertilissimi, con bellissimi fiumi e porti capaci d'ogni armata; gli abitatori de' quali luoghi sariano cagione di far molti buoni effetti, e fra gli altri di ridurre que' poveri popoli rozzi e ignoranti al culto divino e alla nostra santissima fede, e di mostrar loro il coltivar della terra, conducendo degli animali della nostra Europa in quelle spaziosissime campagne; e finalmente col tempo averiano scoperte le parti fra terra, veduto se, fra tante isole che vi sono, vi è passaggio alcuno al mar del Sur, overo se la terra ferma della Florida dell'Indie occidentali continua fin sotto il polo. Questo è quel tanto che ne è stato riferito di questo cosí valoroso gentiluomo, delle fatiche e sudori del quale, acciochè la memoria di lui non resti sepolta e il suo nome non vada in oblivione, abbiamo voluto dare in luce quel poco che ci è pervenuto alle mani.
È stata appresso aggiunta una scrittura, o vogliamo dir discorso, fatto del 1539 d'un gran capitano francese, il quale abbiamo voluto tradurre dalla sua lingua nella nostra, dove descrive il viaggio che si fa alla terra nuova dell'Indie occidentali, che ora chiamano la Nuova Francia, e anco alla terra del Brasil pur delle dette Indie, Guinea, costa delle Meleghette sopra l'Africa, dove tutto il giorno i Francesi praticano con le lor navi. Il sopradetto capitano poi, con due navi armate in Dieppa di Normandia, volse andar fino all'isola di Taprobana in Levante, ora detta Summatra, dove contrattò con quei popoli, e carico di specie ritornò a casa. Questo discorso ci è parso veramente molto bello e degno d'esser letto da ogniuno: ma ben ci dolemo di non sapere il nome dell'auttore, perciochè, non ponendo il suo nome, ci par di fare ingiuria alla memoria di cosí valente e gentil cavaliero.
E perchè in questo discorso e ne' viaggi seguenti di Iacques Carthier si fa menzione di alcuni pesci, come sono molve, lupi marini e marsuini, ho voluto, avendo ferma opinione di far piacere alli lettori, trascriver quel che di essi ne parlano ne' lor libri duo gran valent'uomini francesi dotti nella lingua greca e nella latina, e appresso per maggior intelligenzia aggiungervi le figure cavate dalli lor libri: uno de' quali è messer Pietro Bellon, che ha composto due libri de' pesci, uno in lingua francese e l'altro in latina, e perchè nel francese tratta per la maggior parte del delfino e marsuino, abbiamo voluto copiar le cose seguenti. Cioè che il delfino appresso i Francesi è riputato re di tutti i pesci, non solamente del mare, ma de' laghi e de' fiumi, e che hanno voluto por la sua figura nel secondo luogo appresso i gigli, che è l'insegna della corona di Francia, e stamparla sopra tutte le monete d'oro, d'argento e di rame, e dipingerla sopra i muri delle città e castelli, e nelli stendardi e bandiere; e appresso hanno voluto che tenga di riputazione il primo luogo di bontà e delicatezza sopra tutti i pesci che sono portati dal mare, conciosiacosachè, giunto che egli è in piazza dove si vendono i pesci in Parigi, subito vien levato per le tavole de' signori, de' prencipi e d'altri grandi e ricchi uomini che possono spendere, perciochè da quelli ch'hanno il gusto e palato sottile vien riputato il piú delicato pesce che l'uom possa aver di mare. E nondimeno i Francesi non lo chiamano delfino col suo vero nome, ma con un altro barbaro alemanno, cioè marsuino, perciochè gli Alemani, vedendolo tagliato in pezzi, l'assomigliano alla carne del porco: però lo chiamano merchevein, cioè porco di mare, e i Francesi marsuin, gl'Inglesi porchpisch. E cosí da tutti i pescatori e abitanti sopra il mare Oceano è nominato per altro nome che per delfino, dove per questo non saria conosciuto da alcuno: e avendo egli il muso longo, alcuni piú propriamente lo chiamano becco d'oca.
Fa poi questo gentiluomo un lungo discorso, narrando tutte le nazioni degli abitatori sopra il mare Mediterraneo e mar Maggiore, sí Italiani come Greci, Turchi e Giudei, dove egli è stato, e dice aver cercato tutta la Soria e le marine di quella, né mai aver trovato alcuno che voglia gustar del delfino: e questo per una innata superstizione che tengono, che 'l delfino sia amico dell'uomo e che se lo vede annegar l'aiuti. Dice poi essere stato in Vinezia lungo tempo per conoscere pesci, e aver parlato con infiniti pescatori, che gli hanno affermato che mai non s'è inteso che alcuno abbia mangiato carne di delfino: e quivi il detto auttore si maraviglia, essendovi delle persone che cercano quel che è buono. Dice poi che tutti gli abitatori sopra il mare Oceano, i quali non sono cosí superstiziosi, ne mangiano, chiamandolo con un altro nome, come è detto di sopra, cioè marsuino o becco d'oca: e avendo veduto l'imagini del delfino dipinte con una gobba in mezzo, hanno pensato che 'l detto marsuino o becco d'oca non sia il delfino, e nondimeno non è vero che i delfini abbino gobba alcuna, ma hanno il corpo disteso e lungo, senza alcuna curvità. Descrive poi la forma del delfino, dicendo che è lungo quanto un uomo può distendere ambedue le braccia, toccando con una mano la testa e con l'altra la coda, e la grossezza è quanto l'uomo può circondar con ambedue le braccia attorno. Ha la pelle sottile e senza scaglie, ed è tutta di colore di piombo che tira al nero, sotto la quale ha due deta di grasso, come hanno i porci: sotto il ventre è bianco, le due ali, la coda e quella che è sopra la schena sono tutte nere. Ha la coda rivolta in su, contra la forma degli altri pesci, con la forza della quale fa quel moto cosí grande. Gli occhi son forte piccioli rispetto alla grandezza del corpo, e può con le palpebre coprire il nero dell'occhio, come fanno tutti gli animali terrestri; e fra gli occhi ha una canna, per la qual respira e getta l'acqua fuori. Il luogo dell'udito è sí piccolo che appena si scorge, se non da chi vi guarda con diligenza. Li denti sono 160, cioè nelle mascelle di sotto 40 per una e in quelle di sopra altri 40 per una; ha la lingua mobile come è quella del porco, e manda fuori qualche strido. La differenza del maschio alla femina è che 'l maschio nel mezzo del ventre ha un buco, nel quale è posto il suo membro genitale, che si può cavar fuori piú di otto deta di lunghezza, e la femina ha molto piú a basso verso la coda un buco dove è la sua natura, la qual partorisce il delfino vivo e lo latta, e le sue poppe sono a modo di due borse piccole, nelle quali ritiene il latte che le succia il delfino.
Questo è quanto abbiamo voluto trascrivere della natura del delfino, del quale non si ha cognizione cosí particolare, ancora che ogni giorno se ne veda. Le medesime cose questi due auttori dicono del marsuino, ancora che sia differente nella testa, ne' denti e nel muso, che è piú corto; ma ha la medesima velocità e respira all'aere, come fa il delfino. E di piú il signor Guilielmo Rondellotto, uomo, come abbiamo detto di sopra, dottissimo ed eccellentissimo, nel suo libro de' pesci narra che in tutta la riviera della Provenza, la quale è sopra il mar Mediterraneo, non è abitante alcuno che voglia gustare della carne de' delfini; ma, per il guadagno grande, li pescatori li portano vivi fino in Avignone e in Lione, gettando ogni giorno un poco di vino giú per quella canna donde respirano, e nelle dette città lontane dal mare ognun ne compra. Narra oltra di ciò molti modi con li quali l'acconciano, cioè che alcuni l'insalano, e salato dopo alcuni giorni lo mangiano lesso, over cuocono in acqua con cipolle, porri, petrosemolo e aceto: e questi modi sono per farlo piú sano e piú facile a digerire. Altri lo mettono in spiedo, e arrostito come si fa la carne di porco, lo mangiano con succo d'aranzi over con un sapore d'aceto, di zucchero e di cinamomo; over, tagliato in fette sottili, lo mettono ad arrostir sopra la gratella coperto d'anici, di finocchi e di coriandoli mezi rotti con un poco di sale. Ma li signori e i gran maestri ne fanno far pastelli, ne' quali entrano garofani, pepe, gengevo e noci moscate. Ma il detto auttore lauda che si mangi piú presto lesso che arrosto e che sia cotto con l'aceto e col vino, e con molto petrosemolo, issopo e origano. Le parti migliori e piú delicate del detto delfino over marsuino sono la lingua e il fegato, che è simile a quello del porco, ma la lingua per la sua tenerezza è anteposta al fegato. Dice ancora il sopradetto messer Pietro Bellon che, vendendosi i detti pesci, cioè marsuino o becco d'oca, che è il delfino, nella pescheria di Parigi tagliato in pezzi, coloro che hanno cognizione della bontà d'essi per carne migliore e piú saporita eleggono quei pezzi che non sono grassi, ma piú tosto magri, quali sono quei del dolfino, perciochè li marsuini sono piú grassi che li delfini, i quali, avendo piú del magro, sono piú dilettevoli e piú preziosi al gusto. E si maraviglia il detto messer Pietro Bellon come gli antichi; i quali erano cosí golosi, e massimamente de' pesci, non ne abbino voluto mangiare, per quel che si legge ne' libri antichi, e che al gusto de' Francesi questi siano li piú delicati pesci che si possino avere, e per la lor bontà si vendino molto cari, perciochè esso ha veduto vendere un delfino 50 scudi d'oro. Sopra li quai pesci narra che vi fanno li piú delicati sapori e salse che si sappino imaginare, mettendovi noci moscate, garofani, macis, cinamomo pesto, butiro, zucchero, aceto e pane arrosto. Dice appresso che già molti anni nella città di Roan coloro che vendevano li detti pesci (che ve ne vengono portati infiniti per essere appresso il mare) solevano gettar via la coda e le due ali, ma che al presente coloro che hanno auttorità, venduto che è il delfino o marsuino, si fanno portare a casa questi tre pezzi che abbiamo detto per regalia, come cosa delicata. Questo è quel che con quanta brevità ci è stato possibile abbiamo trascritto dai libri di questi due eccellenti uomini francesi del delfino e marsovino: e se siamo stati lunghi e tediosi, n'è stata cagione la novità della materia, non conosciuta in queste nostre parti d'Italia.
Il pesce molva si pesca da' Bertoni e Normandi ne' mari della Nuova Francia, come scrive il detto messer Guielmo Rondellotto, e vi mette la sottoscritta figura, e dice che è lungo un cubito e anco piú, e un piede grosso.


Ha la bocca grande e li denti nelle mascelle, e in capo di quella vi pende come un filo grosso di carne, che s'assomiglia ad una barbetta. Ha gli occhi molto grossi e in fuora, e per questo non vede da lontano, onde in Francia, quando uno ha la pupilla degli occhi in fuori e che non discerne se non da presso, usano in proverbio dirgli: "Tu hai gli occhi della molva". La carne di questo pesce è migliore e piú delicata fresca che salata e secca, per esser grassa e alquanto glutinosa. Ha la schiena distinta con alcune macchie cinericie e rosse. Messer Pietro Bellon ne' suoi libri scrive che pensa che queste molve siano li pesci i quali ogni giorno si portano per l'Alemagna dalle parti della Norvega, detti stochfis, che col sale diventano tanto duri che vi bisognano i martelli a batterli per farli teneri, acciò si cuochino.
Delli lupi marini messer Guielmo Rondellotto scrive che se ne trovano due sorti, una nel mar Mediterraneo e l'altra nell'Oceano: e questo del nostro mare gl'Italiani chiamano vecchio marino, e i Francesi vitello di mare, e i Latini foca; nell'Indie occidentali lupo marino. È animal che vive in mare e in terra, nella qual partorisce come fanno gli animali terrestri. Ha la pelle dura e pelosa, con li peli neri e cenericci, con alcune macchie piccole e nel ventre alcuni peli bianchicci: e se egli avesse l'orecchie, saria molto simile al nostro vitello. Ha li denti a modo d'una sega acuti, duri e bianchi, simili a quelli del lupo; gli occhi risplendono e si fanno di mille colori; non ha orecchie, ma nel luogo di quelle alcuni buchi, sí piccoli che appena si veggono. La testa è picciola a proporzione della grandezza del corpo.


Ha due a modo di braccia o piedi nella parte davanti con cinque deta, sí come ha l'orso, che si piegano, con l'unghie acute. È animal che si può domesticare, e dice averne veduti di domestici nelle case, che scendevano e salivano le scale. Dorme molto e profondamente, di sorte che si sente roncheggiar da lungi; appresso il mare sopra il lito se ne veggono molti, che dormono distesi al sole. La carne sua è molle e spugnosa e si liquefà tosto, e per questo ella sazia molto e fa venir nausea, per esser di strano odore; pur è gustata da coloro che abitano lontano dalle marine, ma dalli vicini e sopra il mare non è guardata né tocca. Le sue pelli sono molto stimate, e appresso gli antichi ne portavano le cinture, perciochè avevano opinione di non poter esser percossi dalla saetta avendole intorno. E scrive il sopradetto gentiluomo aver osservato spesse fiate in alcune pelli de' detti vecchi marini, le quali esso avea in casa, che, soffiando il vento da sirocco, il pelo si sollevava e si faceva crespo, e con li venti da tramontana s'abbassava e faceva piano.



Scrive ancora il medesimo messer Guielmo che se ne trovano nelle fattezze del corpo alquanto differenti dal predetto: nientedimanco sono vecchi marini, e nell'Indie occidentali chiamansi lupi marini. Ha il corpo con tutte l'altre parti piú grosso e in sé piú raccolto che non ha il sopradetto.



Al cristianissimo re di Francia Francesco Primo, relazione di Giovanni da Verrazzano fiorentino della terra per lui scoperta in nome di sua Maestà, scritta in Dieppa, adì 8 luglio MDXXIIII.


Non scrisse a Vostra Maestà, cristianissimo Re, dopo la fortuna avuta nelle parti settentrionali, di quanto era delle quattro navi seguito, da Vostra Maestà mandate a discoprire nuove terre per l'oceano, credendo che di tal successo convenientemente la fosse stata informata. Ora per la presente darò a quella notizia come dall'impeto de' venti con le due navi, Normanda e Delfina, fummo constretti, cosí mal condizionate come si ritrovavano, scorrere nella Brettagna, dove poichè furono secondo il bisogno racconciate e ben armeggiate, per i liti di Spagna ce n'andammo in corso: il che Vostra Maestà averà inteso, per il profitto che ne facemmo. Dipoi con la Delfina sola si fece deliberazione scoprir nuovi paesi, per non lasciar imperfetta la già cominciata navigazione: il che intendo ora a V.M. raccontare, acciochè di tutto il successo sia consapevole.
Alli 17 genaro 1524, Dio grazia, partimmo dallo scoglio disabitato propinquo all'isola di Madera, che è del serenissimo re di Portogallo, con uomini cinquanta, di vettovaglia, armi e altre munizioni navali per otto mesi ben proveduti, e per ponente navigando con vento di levante assai piacevole, in giorni venticinque corremmo leghe cinquecento. E alli 20 febraro fummo assaliti da una fortuna tanto aspra e orribile quanto mai alcun altro navigante passasse, dalla quale con il divino aiuto e bontà della nave, accompagnata con la felicità del suo nome, fummo liberi: e, il mare abbonacciato, con prospero vento seguimmo la nostra navigazione verso ponente, pigliando alquanto del settentrione. E in altri giorni 25 scorremmo piú oltra leghe 400, dove scoprimmo una terra nuova, non piú dagli antichi né da' moderni vista, e a prima vista dimostravasi alquanto bassa; ma, approssimandosi poi ad un quarto di lega, conoscemmo quella, per li grandissimi fuochi che al lito del mare facevano, esser abitata, e vedemmo che correva verso mezzodí. Cercando in lei ritrovar porto per poter sorgere, a fine d'aver di lei cognizione, per cinquanta leghe navigammo in vano; e visto che di continuo correva verso mezodí, deliberammo ritornar adietro verso tramontana, dove nella medesima difficoltà ci ritrovammo. Al fine, del trovar il porto disperati, sorgemmo nella costa, e mandando il battello a terra vedemmo molte genti, quali venivano al lito del mare, e vedendoci approssimare fuggivano, e alcune volte fermandosi si voltavano adietro e con grande ammirazione ci riguardavano. Li quali poi essendo con cenni da noi assicurati, alcuni di loro s'accostarono al mare, mostrando nel vederci non poca allegrezza, e maravigliandosi de' nostri abiti, effigie e bianchezza: con varii segni ci dimostravano dove col battello dovessimo piú commodamente arrivare a terra, offerendoci ancora delle lor cose da mangiare. Ora, di quanto della lor vita e costumi potemmo conoscere, ne darò con brevità notizia a Vostra Maestà cristianissima.
Vanno queste genti del tutto nude, e solo le parti vergognose cuoprono con alcune pelli d'animali simili a' martori, attaccate ad una cintura d'erba stretta e ben tessuta, e con varie code d'altri animali adornata, che circondandogli il corpo li pendono fino alle ginocchia. Alcuni di loro portano ghirlande di penne d'uccelli. Sono di color berrettini e non molto dalli Saracini differenti, con capelli neri, folti e non molto lunghi, quali insieme uniti legano drieto la testa, e li portano in forma d'una picciola coda. Sono di membri ben proporzionati, di mediocre statura e piú tosto alquanto maggiori di noi: nel petto larghi, le braccia disposte, le gambe e altre parti del corpo ben composte, e non hanno altro difetto salvo che nel viso tendono alquanto in larghezza: non però tutti, perchè a molti vedemmo il viso profilato; gli occhi neri e grandi, con guardatura fissa e pronta. Di forza debili, d'ingegno acuti, agili e grandissimi corridori (per quanto con esperienza potemmo conoscere), assomigliano per li duoi estremi agli Orientali, e massime a quelli dell'ultime regioni della China. Non potemmo intendere di questa gente della lor vita e costumi in particolare, per la poca dimora che facemmo alla spiaggia, per esser poca gente e la nave sorta in alto mare. Trovammo non lungi da questi altri popoli, de' quali pensiamo il viver sia conforme, come dipoi dirò a Vostra Maestà, narrando al presente il sito e natura di detta terra.
Il lito marittimo è tutto coperto di minuta arena, e va ascendendo circa piedi quindeci, estendendosi in forma di piccioli colli, larghi circa a passi cinquanta; dappoi navigando si trovano alcuni rivi e bracci di mare che entrano per alcuna foce bagnando il lito dell'una e l'altra parte come corre la volta di quello. E piú oltra si mostra la terra larga, tanto eminente che eccede il lito arenoso, con molte belle campagne e pianure piene di grandissime selve, parte rare e parte dense, vestite di varie sorti d'arbori, di tanta vaghezza e dilettevole guardatura quanto esprimer sia possibile. E non creda V.M. che queste siano come la selva Ercina o l'aspre solitudini della Tartaria e spiaggie settentrionali, piene di salvatichi arbori, ma ornate e vestite di palmi, lauri e alti cipressi, e altre varietà d'arbori incogniti nella nostra Europa, i quali da lontano mandano soavissimi odori: la proprietà de' quali non potemmo conoscere per la causa di sopra narrata, non che a noi fosse difficile per le selve discorrere, imperochè non tanto è la densità di quelle che per tutto non siano penetrabili. Né pensiamo che, participando dell'Oriente per la circonferenzia, siano senza qualche drogheria o liquor aromatico e altre ricchezze d'oro, dimostrandone anco la terra il colore; ed è copiosa di molti animali, come cervi, daini, lepri, e similmente di laghi e stagni d'acqua viva, con vario numero d'uccelli, atti e commodi d'ogni dilettevole piacere di caccie. Sta questa terra in gradi 34, con l'aria salubre e pura, temperata di caldo e freddo: venti impetuosi non spirano in quelle regioni, e quelli che piú di continuo regnano sono maestro e ponente al tempo estivo, al principio del quale noi fummo; il ciel chiaro e sereno e con poca pioggia, e se qualche volta da' venti australi l'aria incorre in qualche nebbia e caliggine, in un istante non durando è disfatta, ritornando pura e chiara. Il mare è tranquillo e non fluttuoso, l'onde del quale sono placide; e ancora che 'l lito tutto tenda in bassezza e nudo di porto, non però è fastidioso a' naviganti, essendo tutto netto e senza alcuno scoglio, profondo che per insino a quattro o cinque passi presso alla terra si truovano senza flusso né reflusso piedi venti d'acqua, crescendo a tal proporzione uniforme la profondità. Nell'alto mare v'è molto buon sorgidore, perchè qualsivoglia nave da fortuna combattuta mai in quelle parti, non rompendo le gomene, potrà perire: il che noi con l'esperienza abbiamo provato, imperochè al principio di marzo, come sempre in ogni regione essere suole, essendo stati in alto mare con venti settentrionali d'assai fortuna oppressi, e surti, prima trovammo l'ancora rotta che nel fondo dal terreno preso s'allentasse o facesse movimento alcuno.
Partimmo da questo luogo continuamente scorrendo la costa, qual trovammo che tornava all'oriente, e vedemmo per tutta quella grandissimi fuochi, per la moltitudine di quelli abitatori. Sorgendo a quella piaggia, per non tener anco ella porto alcuno e per necessità d'acque, mandammo il battello a terra con venticinque uomini, dove, per le grandissime e frequente onde che gettava il mare al lito, per esser la spiaggia aperta, non fu possibile che alcuno potesse smontare in terra senza pericolo di perder il battello. Vedemmo quivi molte genti che venivano al lito, facendo varii segni d'amicizia e dimostrando contentezza che andassimo a terra, e per pruova li conoscemmo molto umani e cortesi, come per il successo caso V.M. intenderà. Per mandarli delle cose nostre, e da Indiani comunemente molto desiderate e apprezzate, come sono fogli di carta, specchi, sonagli e altre simil cose, mandammo a terra un giovane de' nostri marinari, quale ponendosi a nuoto, nell'approssimarsi, ritrovandosi in acqua da tre o quattro braccia da terra lontano, di lor non confidandosi gliele gettò nel lito; poi, nel voler ritornar adietro, dall'onde con tanta furia fu traportato alla riva, che vi si trovò di modo stracco e sbattuto che vi restò quasi morto. Il che veduto dagli Indiani, corsero a pigliarlo e, tiratolo fuora, lo portorono alquanto dal mare lontano. Risentito il giovane e vedendosi da loro portato, alla disgrazia prima vi s'aggiunse il spavento, per il quale metteva grandissimi gridi, e il simile facevano gl'Indiani che l'accompagnavano, nel volerlo assicurare, e li davano cuore di non temere. Dipoi, avendolo posto in terra al piè d'un picciolo colle in faccia del sole, con atti d'admirazione lo riguardavano, maravigliandosi della bianchezza della sua carne; e ignudo spogliatolo, lo fecero ad un grandissimo fuoco restaurare, non senza timore di noi altri che eramo nel battello restati che, a quel fuoco arrostendolo, lo volessero divorare. Riavute le forze il giovane, e con loro avendo alquanto dimorato, con segni li dimostrò voler alla nave far ritorno: da' quali con grandissimo amore, tenendolo sempre stretto con varii abbracciamenti, fu accompagnato fino al mare, e per piú assicurarlo, allargandosi, andarono sopra un colle eminente, e quivi fermatisi lo stettero a riguardare sino che nel battello fu entrato. Fu da questo giovane compreso, sí come anco da noi, che queste genti sono di color che tira al nero come gli altri, con le carni molto lustre, di mediocre statura, il viso profilato, con membri delicati e di molta poca forza, e piú presto d'ingegno: e altro non viddi.
Di qui partiti, seguendo il lito che tornava alquanto verso settentrione, in spazio di leghe 50 pervenimmo ad un'altra terra, che si dimostrava molto piú bella e piena di grandissime selve, alla quale surgemmo. E per averne cognizione mandammo 20 uomini fra terra, quali penetrarono dentro circa due leghe, e ritrovarono le genti per paura esser fuggite alle selve: solo viddero una femina molto vecchia, accompagnata con una giovane d'anni 18 in 20, le quali, avendogli veduti, per timore s'erano nascoste fra l'erbe. Teneva la vecchia due fanciullette sopra le spalle, e dietro al collo un fanciullino d'anni 8 in circa; di tanti similmente era caricata la giovane, ma tutte femine. Pervenuti a loro, si diedero a gridare, e dalla vecchia ebbero segno che gli uomini, avendoli veduti, s'erano fuggiti alle selve. Per acchetarle e dimesticarle, le diedero a mangiare delle vivande che seco avevano, quali la vecchia con gran gusto accettava, e dalla giovane era il tutto sprezzato e a terra sdegnosamente gettato. Tolsero il fanciullo alla vecchia per condurlo in Francia, e volendo prender la giovane, qual era di molta bellezza e d'alta statura, non fu mai possibile, per i grandissimi gridi che metteva, che la potessimo condur al mare, e massime avendo a passar per alcune selve ed essendo lungi dalla nave, deliberammo lasciarla, portando solo il fanciullo. Trovammo costoro piú bianchi che i passati, vestiti di certe erbe che stanno pendenti a' rami degli arbori, quali tessono con varie corde di canapa salvatica; il capo avolto nella medesima forma degli altri. Il viver loro in genere è di legumi, de' quali abbondano, differenti nel colore e sapore da' nostri, d'ottimo e dilettevole sapore, in oltre di cacciagioni di pesci e uccelli, quali pigliano con lacci e archi, i quali sono di duro legno, le frezze di calamo, nell'estremità mettendo ossi di pesci e d'altri animali. Sono in quelle parti le fiere assai piú salvatiche che non sono nella nostra Europa, per la continua molestia che hanno da' cacciatori. Vedemmo molte delle lor barchette, d'un solo arbore fabricate, lunghe piedi venti, larghe quattro, quali non con ferro o pietra o altra sorte di metallo son fabricate, imperochè in tutta quella terra, per spazio di leghe dugento che corremmo, una sol pietra di alcuna sorte non fu veduta da noi: aiutansi col fuoco, ardendo tanta parte del legno quanto basti alla concavità della barca, il simile della poppa e prora, tanto che navigando possa sopportare l'onde del mare. La terra è di sito, bontà e bellezza come l'altra; ha selve come l'altre rare e piene di varie sorti d'arbori, ma non di tanto odore, per esser piú settentrionale e fredda. Vedemmo in quella molte viti dalla natura prodotte, le quali inalzandosi s'avoltavano intorno agli arbori, come nella Lombardia costumano, quali, se dagli agricoltori avessero il perfetto ordine di coltura, senza dubbio produrrebbono ottimi vini, perchè, avendo veduto piú volte il frutto di quelle secco, che era suave e dolce e non dal nostro differente, pensiamo che lo tenghino in estimazione, perciochè per tutto dove nascano levano le frasche di detti arbori circonstanti, acciochè meglio il frutto possa maturare. Trovammo anche rose salvatiche, viole, gigli, e molte sorti d'erbe e fiori odoriferi da' nostri differenti. Le abitazioni loro non conoscemmo, per esser molto fra terra, e giudicammo, per molti segni che vedemmo, esser di legno e d'arbori composte. Credemmo ancora, per varie congietture e vestigii, che molti di loro, dormendo alla campagna, altro che il cielo non abbino per copertura. Altro di loro non conoscemmo. Pensiamo che tutti gli altri della passata terra vivino al medesimo modo.
Essendo dimorati in quella terra tre giorni, sorti alla costa per mancamento di porti, deliberammo partirsi scorrendo sempre al lito fra tramontana e levante, navigando solamente il giorno e posandoci su l'ancore la notte. In spazio di leghe 100 trovammo un sito molto ameno, posto infra piccioli colli eminenti, nel mezzo de' quali correva al mare una grandissima fiumara, la qual dentro alla foce era profonda: e dal mare alla entrata di quella col crescimento dell'acque, qual trovammo piedi otto, saria passata ogni gran nave carga; ma, per esser sorti alla costa in luogo ben coperto da' venti, non volemmo senza cognizione della foce aventurarci, e solo entrammo col battello nella detta fiumara, e vedemmo il paese molto popolato. La gente è quasi conforme agli altri, e vestiti di penne d'uccelli di varii colori: venivano verso noi allegramente, mettendo grandissimi gridi d'ammirazione, mostrando dove col battello avessimo piú sicuramente ad arrivare. Entrammo per detta fiumara dentro alla terra circa mezza lega, dove faceva un bellissimo lago di circuito di leghe tre in circa, per il quale andavano discorrendo dall'una parte all'altra al numero di trenta di loro barchette, e con infinite genti che passavano dall'una all'altra riva per venirci a vedere. Ed ecco in un instante, come suole avenire nel navigare, movendosi dal mare un impeto contrario di vento, fummo forzati tornar alla nave, lasciando la detta terra con molto nostro dispiacere, per la commodità e vaghezza di quella, qual pensiamo non sia senza qualche ricchezza, mostrandosi tutti i colli di quella alla vista minerali.
Levata l'ancora navigammo verso levante, che cosí la terra tornava, e cosí leghe cinquanta sempre a vista di quella discoprimmo un'isola in forma triangulare, lontana dal continente leghe dieci, di grandezza simile all'isola di Rodi, piena di colli, coperta d'arbori, molto popolata, perchè si vedevano continui fuochi per tutto intorno al lito. Battezzammola in nome della vostra serenissima madre, non sorgendo a quella per la contrarietà del tempo, e pervenimmo ad un'altra terra, distante dall'isola leghe quindeci, dove trovammo un bellissimo porto. Entrati in quello, vedemmo circa XX barchette di gente, che con varii gridi e maraviglie venivano intorno alla nave: non approssimandosi a piú di cinquanta passi, fermavansi guardando l'artificio, la nostra effigie e gli abiti; dapoi tutti insieme mettevano un alto grido, significando rallegrarsi. Assicuratigli alquanto, imitando li lor gesti, tanto s'approssimarono che gettammo loro alcuni sonagli e specchi e molte fantasie, le quali prese con riso, riguardandole, sicuramente entrarono nella nave. Erano fra queste genti duoi re di tanto bella statura e forma quanto narrar sia possibile, il primo d'anni 40 in circa, l'altro giovane d'anni venti, l'abito de' quali era di questa maniera: il piú vecchio sopra il corpo nudo aveva una pelle di cervo lavorata artificiosamente alla damaschina con varii ricami, la testa nuda con li capelli avolti adrieto con varie legature, al collo una catena larga, ornata di molte pietre di diversi colori; il giovane era quasi nella medesima forma. Questa è la piú bella gente e di piú gentili costumi che abbiamo trovata in questa navigazione: eccedono noi di grandezza, sono di color bronzino, alcuni pendono piú in bianchezza, altri di color giallo; il viso profilato, e capelli lunghi e neri, ne' quali pongono grandissimo studio in adornarli; gli occhi neri e pronti, l'aria dolce e soave, imitando molto l'antico; dell'altre parti del corpo non dico a Vostra Maestà, tenendo tutte le proporzioni che s'appartengono ad ogni uomo ben composto. Le donne loro sono della medesima conformità e bellezza, molto graziose, di piacevole aria e grato aspetto, di costumi e continenzia secondo l'uso feminile, quanto ad ogni persona di buona creanza s'appartiene. Vanno nude, fuor che le parti vergognose, le quali cuoprono con una pelle di cervo ricamata come gli uomini; ve ne sono di quelle ancora che alle braccia portano pelli di lupi cervieri, molto ricche; adornano il capo con varii ornamenti di treccie, composte de' medesimi capelli, che pendono dall'uno e l'altro lato del petto. Alcune hanno altre acconciature, come usano le donne d'Egitto e di Soria, e queste sono quelle ch'eccedono l'altre di età. Ed essendo maritate, all'orecchie tengono pendenti di varie fantasie, come gli Orientali costumano, cosí gli uomini come le donne, a' quali vedemmo molte lame di rame lavorate, da quelli tenute in prezio piú che l'oro, il quale per il colore non stimano, imperochè fra tutti è da loro tenuto il piú vile: l'azzurro e il rosso sopra ogni altro esaltano. Quello che piú tenessero in prezzo delle cose che da noi gli erano donate erano sonagli, cristallini azzurri e altre fantasie da metter all'orecchie o al collo. Non pregiavano drappi di seta o d'oro, e manco d'altra sorte, né si curavano averne di simili a quelli; de' metalli come è acciaio e ferro, che piú volte mostrammo loro delle nostre armi, non ne pigliavano admirazione, e quelle riguardando solo dimandavano l'artificio; degli specchi il simile facevano, che, riguardandoli, subito ridendo ce li restituivano. Sono molto liberali, perchè donano ciò che hanno. Facemmo con loro grande amistà, e un giorno con la nave entrammo nel porto, stando per li tempi contrarii una lega al mar surti. Venivano con gran numero di loro barchette alla nave, tutti dipinti e acconci il viso con varii colori, mostrandoci ch'era segno d'allegrezza: portandoci delle lor vivande, ci facevano segno dove nel porto avessimo a sorgere per salvazione della nave, di continuo accompagnandoci.
Poichè fummo sorti, posammo quindeci giorni, provedendoci di molte cose necessarie; laonde ogni giorno venivano genti a veder la nave, menando le lor donne, delle quali sono molto gelosi, imperochè, entrando essi nella nave e dimorandovi per lungo spacio, facevano aspettar le loro donne nelle barchette: e con quanti preghi facemmo loro, offerendo donarli varie cose, non fu mai possibile che volessero lasciarle entrar in nave. E molte volte, venendo uno delli duoi re con la reina e molti gentiluomini per suo piacere a vederci, tutte si fermavano ad una terra distante da noi dugento passi, mandando una barchetta ad avisarci della sua venuta, dicendo voler venire a vedere la nave: questo facendo in segno di sicurezza; e come da noi ebbero la risposta, subito vennono, e stati alquanto a riguardare si maravigliavano, sentendo li gridi e strepiti delli marinari. Madama la reina con le sue damigelle in una barchetta molto leggiera restò a riposar ad una isoletta distante da noi un quarto di lega, dimorando il re lunghissimo spazio nella nostra nave, con ragionare per cenni e gesti varie fantasie, riguardando con maraviglia tutti gli apparati e fornimenti della nave, dimandando in particolare la proprietà di quelli; prendeva anco piacere di vedere li nostri abiti e gustare li nostri cibi; dipoi, cortesemente presa licenzia da noi, si partí. E alcuna volta, stando le nostre genti due o tre giorni ad una isoletta vicina alla nave per varie necessità, come è costume di marinari, tornò con sette o otto de' suoi gentiluomini per vedere quello che facevamo, e piú volte ci dimandò se volevamo quivi restare per lungo tempo, offerendoci delle sue facultà; dipoi, tirando il re con l'arco e correndo, faceva con li suoi gentiluomini varii giuochi per darne piacere. Fummo piú volte infra terra cinque o sei leghe, la quale trovammo tanto amena quanto dir si possa, atta ad ogni sorte di coltura di frumento, vino, olio, imperochè in quella sono campagne larghe 25 in 30 leghe, aperte e senza alcuno impedimento d'alberi, di tanta fertilità che qualsivoglia semenza in quelle produrrebbe ottimo frutto. Entrammo dipoi nelle selve, le quali trovammo tanto grandi e folte che vi si potrebbe ascondere ogni numeroso esercito: gli alberi di quelle sono quercie, cipressi e altri incogniti nell'Europa; trovammo pomi appii, susine e nocciuole, e molte sorte di frutti dalli nostri differenti. Vi sono animali in grandissimo numero, come cervi, daini, lupi cervieri e altre sorti, quali pigliano con lacci e archi, che sono le loro principali armi. Le freccie che usano sono con grande eccellenzia lavorate, e nell'estremità di quelle pongono per ferro smeriglio, diaspro, duro marmo e altre taglienti pietre, delle quali si servono per ferro in tagliar alberi e fabricar le loro barchette d'un sol fusto di legno, con mirabile artificio concavo, nelle quali commodamente vanno dieci e dodeci uomini: i lor remi sono corti e nell'estremità larghi, e adoperangli in mare senza pericolo alcuno, e solamente con forza di braccia, con tanta velocità quanto a lor piace. Vedemmo le loro abitazioni in forma circulare, di dieci in dodeci passi di circuito, fabricate di semicirculi di legno, separate l'una dall'altra senza ordine d'architettura, coperte con tele tessute di paglia sottilmente lavorate, che da vento e pioggia si difendono. E se avessero l'ordine del fabricare e la perfezione degli artificii come abbiamo noi altri, non è dubbio alcuno che anco loro non conducessero grandi e superbi edificii, imperochè tutto il lito maritimo è pieno di pietre vive trasparenti e alabastri, e per tal causa è copioso di porti e recettacoli di navilii. Mutano le dette case d'uno in altro luogo, secondo la commodità del luogo e tempo che in quelle vogliono dimorare, e, levando solamente le tele, hanno in un istante fabricate altre abitazioni. Dimorano in ciascuna padri e famiglia in grandissimo numero: in alcuna vedemmo 25 e 30 anime. Il viver loro è come degli altri, di legumi che quelle terre producono, con piú ordini di coltura degli altri; osservano nelle semenze il corso della luna e il nascimento d'alcune stelle, e molti modi detti dagli antichi. Oltre di ciò vivono di cacciagioni e pesci. Vivono lungo tempo e rare volte s'amalano, e se pur alle volte sono oppressi da qualche infermità, senza medico, col fuoco, da lor medesimi si sanano; e la lor morte dicono venire da ultima vecchiezza. Sono de' loro prossimi molto pietosi e caritativi, facendo nell'adversità loro gran lamenti, e nella miseria i parenti l'uno con l'altro ricordano tutte le lor felicità. Nel fine della lor vita usano il pianto misto con canto, e dura per lungo tempo. Questo è quanto di loro abbiamo potuto conoscere.
Questa terra è situata nel parallelo di Roma, in gradi 41 e due terzi, ma alquanto piú fredda, per accidente, non per natura, come in altra parte narrerò a Vostra Maestà. Descrivendo al presente il sito di detto paese, qual corre da levante a ponente, dico che la bocca del porto guarda verso mezzodí, stretta mezza lega. Dipoi, entrando in quello, infra levante e tramontana si stende leghe dodeci, dove va allargandosi e fa un golfo di circuito di leghe venti in circa, dove sono cinque isolette di molta fertilità e vaghezza, piene d'alti e spaziosi alberi, fra li quali ogni grossa armata, senza timor di tempesta o altro impedimento di fortuna, può star sicura. Tornando dipoi verso mezzodí, all'entrata del porto, dall'uno e l'altro lato, sono amenissimi colli con molti rivi, che dalla eminenzia di quelli conducono chiarissime acque al mare. Nel mezzo di detta bocca si trova uno scoglio di viva pietra, dalla natura prodotto, atto a fabricarvi qualsivoglia fortezza per custodia di quello.
Il giorno quinto di maggio, essendo d'ogni nostro bisogno provisti, partimmo dal detto porto continuando il lito, non perdendo mai la vista di terra, e navigammo leghe 150, trovandola sempre d'una medesima natura, ma alquanto piú alta, con alcune montagne che tutte si mostravano minerali. Non ci curammo a quella fermarci, per la prosperità del tempo che ne serviva, ma ben pensiamo ch'ella fusse all'altre conforme. Correva il lito a levante per spazio di leghe 50. Tenendo poi verso tramontana, trovammo un'altra terra alta, piena di foltissime selve, gli alberi delle quali erano abeti, cipressi e simili, che si generano in regioni fredde. Le genti tutte sono difformi dall'altre, e quanto i passati erano d'apparenza gentili, tanto questi erano di rozzezza e vizii pieni, e tanto barbari che mai non potemmo, con quanti segnali li facemmo, aver con loro commerzio alcuno. Vestono di pelli di orso e lupi cervieri e marini e d'altri animali. Il vivere loro, per quello potemmo conoscere, andando piú volte dove avevano le loro abitazioni, stimammo essere di cacciagioni e pescagioni, e d'alcuni frutti che sono specie di radici, quali la terra produce per se medesima: non hanno legumi, né vedemmo segno alcuno di coltura, e meno la terra per la sterilità sarebbe atta a produrre frutto o seme alcuno. Se da quelli alcuna volta permutando volevamo delle lor cose, venivano sopra alcune pietre al lito del mare, dove piú rompeva, e, stando noi nel battello, con una corda ci mandavano quello che ci volevano dare, continuamente gridando che alla terra non ci approssimassimo, dimandando subito il cambio all'incontro, non pigliando se non coltelli, ami da pescare e metallo tagliente, né stimavano gentilezza alcuna; e quando non avevamo piú che permutare, da loro partendo, gli uomini ne facevano tutti quegli atti di dispregio e vergogna che può far ogni inumana e discortese creatura. Fumo al loro dispetto dentro infra terra due e tre leghe 25 uomini armati, e quando scendevamo al lito ci tiravano con li loro archi, mettendo grandissimi gridi, dipoi fuggivano nelle selve. Non conoscemmo in questa terra cosa notabile o di momento alcuno, se non grandissime selve con alcuni colli; possono avere qualche metallo, che a molti vedemmo paternostri di rame all'orecchie.
Partimo scorrendo la costa intra levante e tramontana, qual trovammo piú bella, aperta e senza boschi, con alte montagne dentro infra terra. Continuando drieto il lito del mare leghe 50, discoprimo 32 isole, tutte propinque alla terra, picciole e di grato aspetto, alte, che tenevano molte rivolture fra esse, dove si causava bellissimi porti e canali, come fanno nel golfo Adriatico, nella Schiavonia e Dalmazia. Non avemmo conoscenza con le genti: stimiamo che siano de' costumi e natura che sono l'altre. Navigando fra levante e tramontana per spazio di leghe 150, pervenimmo propinqui alla terra che per il passato trovorono i Bretoni, quale sta in gradi 50; e avendo ormai consumati tutti li nostri armeggi e vettovaglie, avendo scoperto leghe 700 e piú di nuova terra, fornitoci d'acque e legne, deliberammo tornare in Francia.
Quanto alla fede che tengono questi popoli che abbiamo trovati, per mancamento di lingua non potemmo conoscere, né per segni né per gesti alcuni, che tenessino fede o legge alcuna, né che conoscessino una prima causa o motore, né avessero in venerazione cielo o stelle, sole o luna o altri pianeti, e manco che tenessero specie d'idolatria; né conoscemmo che faccino sacrificii o altre adorazioni, né in lor villaggi hanno tempii o case d'orazione. Stimiamo che non abbino fede alcuna e che vivino in propria libertà, e che tutto dalla ignoranzia proceda, perchè sono molto facili ad essere persuasi, e tutto quello che vedevano fare a noi cristiani circa il culto divino, facevano ancora essi, con quel stimolo e fervore che noi facevamo.

Discorso d'un gran capitano di mare francese del luogo di Dieppa sopra le navigazioni fatte alla Terra Nuova dell'Indie occidentali, chiamata la Nuova Francia, da gradi 40 fino a gradi 47 sotto il polo artico, e sopra la terra del Brasil, Guinea, isola di San Lorenzo e quella di Summatra, fino alle quali hanno navigato le caravelle e navi francese.


Acciochè con maggior facilità veniamo alla cognizione de' siti delle terre e la distanza dell'una all'altra, è di necessità saper qual cosa sia longitudine e latitudine di regioni. La longitudine secondo li cosmografi comincia dal meridiano dell'isole Canarie, sotto la linea dell'equinoziale, andando verso oriente e facendo il circuito della terra circolarmente per insin che ritorni a detto meridiano, e questo circuito è diviso in 360 gradi, rispondendo a ciascuno de' detti gradi leghe 17 secondo le navigazioni moderne, over 17 e mezo secondo li Portoghesi: e questo s'intende sotto la linea equinoziale, quanto per la longitudine. La latitudine è d'un altro circolo imaginato che attraversi ad angoli retti l'equinoziale per li duoi poli, circondando tutta la terra, e questa latitudine comincia sotto l'equinoziale, distendendosi verso il polo artico fin a nonanta gradi e altretanto verso il polo antartico, senza passar detto numero: e questo circolo si chiama volgarmente il meridiano. Ed è di bisogno saper che tutti li gradi di latitudine, andando dall'uno polo all'altro, sono eguali passando sotto un meridiano; ma li gradi di longitudine sono ineguali in ciascuno parallelo, dipoi che si partono di sotto l'equinoziale andando verso li poli, a causa che li trecentosessanta gradi vanno sminuendosi per insino che essi si rendino in uno punto sotto ciascuno polo: e per questa causa ciascuno grado è di minor numero di leghe che non era sotto l'equinoziale, in modo che una lega può sotto il polo contenere tutti li 360 gradi. E quella longitudine o latitudine si distende sopra la misura della terra, quantunque noi prendiamo la latitudine per la elevazione del polo o per la altitudine del sole, e la longitudine per la luna e per le stelle fisse, over per gli eclissi, e per altri modi sottili a molti incogniti. Ma la longitudine delli pianetti e stelle fisse si conta nella linea ecclittica del zodiaco, e comincia dal primo ponto d'Ariete, per la successione de' segni, fin al fine del segno de' Pesci; la lor latitudine si conta dopo la linea ecclittica fin alli poli del zodiaco per 30 gradi. De lí viene che la parte ch'è verso il polo artico si chiama la latitudine settentrionale, e quella del polo antartico vien detta la meridionale. E la declinazione del sole e degli altri pianetti e delle stelle fisse è simile a quello che noi chiamiamo la latitudine della terra, perciochè la lor declinazione si comincia dall'equinoziale e contasi verso il mezzodí o verso la tramontana: come noi vediamo: quando il sole è nel primo ponto d'Ariete over di Libra, egli è equinozio e non c'è declinazione, ma quando egli è in Cancro over in Capricorno, egli è declinato dall'equinoziale 23 gradi e 30 minuti, e cosí degli altri.
Or, per venire alla nostra materia suggetta e per far la descrizione delle terre navigate secondo la carta marina, tanto in longitudine quanto in latitudine, noi piglieremo il nostro primo ponto di longitudine dalla linea meridiana la qual passa per l'estremità dell'isole di Capo Verde, le quali sono dette del Sale, di Buona Vista e del Maggio, alla banda che guardano verso l'Africa per levante, perciochè ivi è il vero meridiano e stabile del compasso e del quadrante, per esser egli il luogo dove il ferro toccato dalla calamita risguarda drittamente verso li duoi poli, cioè ostro e tramontana e quello che noi chiamiamo longitudine orientale sarà quello che noi troveremo de' gradi dopo di questa linea, andando verso levante fin al 180. E al contrario quello che noi conteremo di gradi partendosi di questa linea e andando verso ponente fin alli 180 gradi, questo è chiamato longitudine occidentale, quantunque tutti li cosmografi numerano la longitudine loro andando verso l'oriente circolarmente fin al ponto donde sono partiti in 360 gradi, e chi vorrà potrà far cosí: levando di 360 quel che vi sarà di longitudine occidentale, il resto che rimarrà sarà di longitudine orientale. E per esempio: io trovo una longitudine occidentale di 27 gradi, io ne levo via detti 27 di 360, mi resta 333, che è la mia longitudine orientale ch'io volevo sapere. E cosí degli altri.


Sommario e breve descrizione della Terra Nuova, e primamente della sua situazione.

La Terra Nuova, della quale il prossimo capo è nominato capo di Ras, è posto nell'occidente della nostra linea diametrale overo meridiana, dove è constituito il primo punto di longitudine, secondo il vero meridiano del compasso: ed è il detto capo di Ras in longitudine occidentale quaranta gradi, e quarantasette di latitudine settentrionale. Or chi vorrà levar i detti quaranta gradi della longitudine occidentale di 360 resterà 320 gradi di longitudine orientale, dove è posto detto capo di Ras. La Terra Nuova si stende verso il polo artico dal 40o grado fin al 60o. Dapoi capo di Ras andando verso il polo la costa quasi sempre corre da ostro in tramontana, e contiene da fino 350 leghe; e dal detto capo di Ras fin al capo de' Brettoni la costa corre levante e ponente per leghe cento, e il capo de' Brettoni è in quarantasette gradi di longitudine occidentale, e ha quarantasei di latitudine settentrionale. Per andar da Dieppa alle terre nuove il pareggio è quasi tutto levante e ponente, e sono da Dieppa a detto capo di Ras leghe 760.
Fra il capo di Ras e capo de' Brettoni abitano popoli austeri e crudeli, con li quali non si può praticare né conversare. Sono grandi di persona, vestiti di pelli di lupi marini e d'altri animali salvatichi ligate insieme, e sono segnati di certe righe fatte di fuoco sopra la faccia, e come vergati di colore tra il nero e berrettino: e in molte cose, quanto alla faccia e al collo, sono come quelli della nostra Barberia; li capelli lunghi come femine, quali ingruppono di sopra la testa, come si fa della coda d'un cavallo. Le loro armi sono archi, delli quali sanno molto destramente tirare, e le loro frezze sono ferrate di pietre nere e d'ossa di pesci. Ivi sono molti cervi e daini, e uccelli come oche e margaux. In questa costa è molto buona pescheria di molue, li quali pesci si pigliano per Francesi e Brettoni solamente, perciochè quelli del paese non li pigliano. Nella costa di tramontana e mezzodí, dopo del capo di Ras fino all'entrar di Castelli, vi sono di gran golfi e gran fiumi, e gran numero d'isole e molto grandi; e questa terra è manco abitata che non è la costa sopradetta, e li popoli vi sono piú piccioli e umani, e piú trattabili degli altri; e vi è gran pescheria di molve, come nell'altra costa. E quivi non è stato veduto né casale né villa né castello, salvo una gran serradura di legno, la qual è stata veduta nel golfo de' Castelli; e abitano i sopradetti popoli in cappannelle e case picciole, coperte di scorze d'arbori, le quali fanno per alloggiarvi nelli tempi delle pescherie, le quali cominciano la primavera e durano tutta la estate.


Della pescheria che fanno li salvatichi.

Il lor pescar è di lupi marini, marsovini e certi uccelli marini detti margaux, i quali pigliano nell'isole e li fanno seccare: e del grasso de' detti pesci fanno olio. E finito il tempo delle pescherie loro, approssimandosi l'inverno, essi si ritirano colli suoi pesci, e lí, nelle barchette fatte di scorze d'arbori detti buil, se ne vanno in altri paesi che son forse piú caldi, ma non sappiamo dove.


Di quelli che hanno discoperta la Terra Nuova.

Detta terra è stata scoperta da 35 anni in qua, cioè quella parte che corre levante e ponente, per li Brettoni e Normandi: per la qual causa è chiamata questa terra il capo delli Brettoni. L'altra parte che corre tramontana e mezzodí, è stata scoperta per li Portoghesi dopo il capo di Ras fino al capo di Buona Vista, il che contiene circa 70 leghe; e il restante è stato scoperto, fin al golfo delli Castelli e piú oltra, per detti Brettoni e Normandi. E sono circa 33 anni che un navilio d'Onfleur, del quale era capitano Giovanni Dionisio, e il pilotto Gamarto di Roano, primamente v'andò; e nell'anno 1508 un navilio di Dieppa detto La Pensee, il quale era già di Giovan Ango, padre del monsignor lo capitano e visconte di Dieppa, v'andò, sendo maestro over patron di detta nave maestro Tomaso Aubert, e fu il primo che condusse qui le genti del detto paese.


Della terra di Norumbega.

Seguendo oltra al capo de' Brettoni, v'è una terra contigua col detto capo, della quale la costa si stende ponente e un quarto garbino fin alla terra della Florida, e dura bene 500 leghe, la qual costa fu scoperta 15 anni fa per messer Giovanni da Verrazzano in nome del re Francesco e di madamma la reggente: e questa terra da molti è detta la Francese, e similmente per li Portoghesi medesimi, e il fine suo verso la Florida è sotto 78 gradi di longitudine occidentale e 30 di latitudine settentrionale. Gli abitatori di questa terra sono genti trattabili, amichevoli e piacevoli. La terra è abbondantissima d'ogni frutto: vi nascono aranci, mandorle, uva salvatica e molte altre sorti d'arbori odoriferi. La terra è detta da' paesani suoi Norumbega, e tra questa terra e quella di Brasil è uno gran golfo, il quale si stende verso ponente fin a 92 gradi di longitudine occidentale, il che è piú d'un quarto del circuito della terra: e in questo golfo sono l'isole e l'Indie occidentali scoperte per gli Spagnuoli. Dalla linea diametrale detta disopra, questo golfo contiene appresso a leghe 1700 in circa in linea diritta.


Della terra del Brasil e suo parizzo per andarvi.

La terra del Brasil è posta oltra l'equinoziale nella parte australe verso occidente, distante dalla linea diametrale gradi dieci di longitudine, e cominciando da tre gradi di latitudine australe corre fino a cinquantadue verso il polo antartico, dove è il capo delle Undecimila Vergini, nell'entrare dello stretto detto di Magallanes, quale fu il primo che trovò il passo per andar all'isole Moluche, qual è similmente in gradi cinquantadue di longitudine occidentale. E questa distanzia si misura in questo modo: dal detto capo fino al rio della Plata, over capo di Santa Maria, qual è in gradi venticinque di longitudine e trentacinque di latitudine australe, sono leghe 500 e 25, e dal detto capo fino a quello di Sant'Agostino, qual è in gradi otto di latitudine australe e dieci di longitudine, vi sono leghe seicentocinquanta, sí che tutta questa terra detta il Brasil correria leghe 1175 in quella parte che la guarda verso levante. Or, voltando questa terra verso maestro, fino al gran rio del Maragnon si misura cosí: dal capo di Santo Agostino fino al capo di San Rocco sono leghe 58 e la costa si stende verso maestro, e da San Rocco fino al golfo di San Luca vi sono leghe settanta e la costa al maestro; da San Luca al capo di Ponente leghe settanta, e la costa va al ponente e maestro, e dapoi il capo di Ponente fino al fiume Maragnon sono leghe centoventi, e va la costa al ponente. Il Maragnon è ventotto gradi di longitudine occidentale, e di latitudine australe due over tre; sí che dal capo di Santo Agostino fin al Maragnon vi sono leghe 388. Passato questo fiume vi sono le terre e isole trovate per gli Spagnuoli nell'Indie occidentali.


Degli abitanti nella detta terra, e abiti e armi loro.

Dal fiume Maragnon fin al capo di Santo Agostino sono in alcuni luoghi gente trattabile, negli altri sono bellicosi; e vi sono ville e castelli di legnami, coperti di foglie di palme e di scorzi d'alberi. I sopradetti, tanto gli uomini quanto le donne, vanno nudi. Le lor arme sono archi e dardi con le punte aconcie di legno durissimo e d'osso. Hanno il viso busato in molti luoghi, dove sono poste pietre bianche e azurre, intagliate a lor modo: e le portano per nobiltà o dignità, con gran collane di paternostri e di squamme di pesci, con gran pennacchi attaccati in dietro della schena. E quando essi fanno qualche convito per mangiar la carne di qualche uno delli lor nemici, per andar piú galanti alla festa, alcuni si dipingono di varii colori, gli altri s'impiumano over cuopronsi di piume corpo, gambe, brazzi, a tal che fanno un bel vedere stando cosí.
A lungo questa costa, cosí verso ponente come mezzodí, non v'è alcuna fortezza né castello per li Portoghesi, salvo un luogo detto Fernambuch, il quale è appresso capo di Sant'Agostino, dove sono certe picciole fortezze di legname con alcune poche genti bandite di Portogallo. Dal capo di Santo Agostino fin al Porto Reale, il qual è in dodeci gradi, quivi è dove i Francesi e Bretoni frequentano piú, e dove si trova piú verzino e migliore; e di lungo la detta costa non v'è fortezza né luogo che si tenga per Portoghesi, Francesi o Spagnuoli, e sono gli uomini di quella costa trattabili e amichevoli molto piú alli Francesi che alli Portoghesi. Ed è il terreno buono e fertile, e se 'l fosse lavorato faria d'ogni sorte di frutti: e vi sono di molti alberi che fanno frutti, delli quali la maggior parte sono buoni da mangiare, ed è il paese sano. Vi sono buoni porti e buone fiumare in qualche luogo, e hanno case e terre serrate di legname; e vanno nudi, sí le donne come gli uomini, senza aver vergogna l'un dell'altro delle sue parti vergognose. L'armi loro sono come degli altri. Non hanno moneta, e non sanno contar piú avanti che 'l numero delle loro deta delle mani e delle deta de' piedi. Barattano il verzin in manarette, cunei, coltelli, e in qualche luogo è necessario che lo vadino a cercar in compagnie fin a trenta leghe dentro del paese, e ciascuna compagnia ha il suo re, e saranno da 400 o 500 per compagnia: e portano ciascuno il suo pezzo di legno a' Francesi fin alla marina, e li barrattano con le dette manare, cunei e coltelli e altri ferramenti, a tal che stimano molto piú caro un chiodo che uno scudo.


Del lor vivere e lor costumi.

Gli abitatori del Brasil vivono de' frutti del paese, come di fave, navoni, miglio, e hanno molte galline, pappagalli, oche, anatre, lepri, conigli e molte altre sorti di salvaticine. Il loro bere è fatto di miglio, a modo di cervosa, donde spesse volte s'imbriacano. Essi lavorano li terreni loro con le vanghe di legno. Mangiano serpenti, lucerte, biscie, testuggini, cavallette e pesci, e ad ogni ora ch'hanno fame, e tanto di notte come di giorno. E sono molto liberali di dar le sue figliuole a' forestieri, ma le sue donne non vogliono che siano toccate, e le donne loro si portano onestamente verso li loro mariti.
Questa terra del Brasil fu primamente scoperta dai Portoghesi in qualche parte, e sono circa trentacinque anni. L'altra parte fu scoperta per uno de Honfleur, chiamato Dionisio d'Honfleur, da venti anni in qua; e dipoi molti altri navilii di Francia vi sono stati, e mai non trovorono Portoghesi in terra alcuna, che la tenessero per il re di Portogallo. E quelli della terra sono liberi e non soggetti né a re né a legge, e amano piú li Francesi che qualunque altra gente che vi pratichi. Detti popoli sono come la tavola bianca, nella quale non vi è ancora stato posto il pennello né disegnato cosa alcuna, over come saria un poledro giovane, il quale non ha mai portato. E se li Portoghesi, i quali dicono la terra esser sua, fossero stati buoni cristiani e avessino avuto avanti gli occhi piú l'onor di Dio che li loro guadagni, la metà de' detti popoli adesso sariano fatti cristiani, imperochè già molti sono fra loro i quali cercano di conoscere che cosa sia Iddio, e sono molto docili. Ma li Portoghesi gli impediscono con tutte le sue forze che le povere genti non venghino nella cognizione della fede nostra, e gli danno ad intendere molte cose che sono lontane dalla salute loro, per ritenerli nella loro ignoranzia.
E perchè mi potria esser dimandato le cause per le quali li Portoghesi impediscono che li Francesi non vadino alle terre del Brasil e agli altri luoghi dove essi hanno navigato, come alla Guinea e alla Taprobana, io non vi saprei dire altra ragione, salvo che la loro insaziabile avarizia gli induce a far questo: e quantunque essi siano il piú picciolo popolo del mondo, non gli par però che quello sia davanzo grande per sodisfare alla loro cupidità. Io penso che essi debbano aver bevuto della polvere del cuore del re Alessandro, che li causa una tal alterazione di tanta sfrenata cupidità, e pare a loro tenere nel pugno serrato quello che essi con ambedue le mani non potriano abbracciare. E credo che si persuadino che Iddio non fece il mare né la terra se non per loro, e che l'altre nazioni non siano degne di navigare: e se fosse nel poter loro di mettere termini e serrar il mare dal capo di Finisterre fin in Irlanda, già molto tempo saria che essi ne averiano serrato il passo. E tanto è di ragione che li Francesi vadino a quelle terre, nelle quali loro non hanno piantata la fede cristiana e dove non sono amati né obediti, come noi averessimo ragione d'impedirli di passare in Scozia, Danismarca e Norvega, quando noi prima di loro vi fossimo stati. E poscia che essi hanno navigato al lungo d'una costa, essi se la fanno tutta sua; ma tal conquista è molto facile a fare e senza gran spesa, perchè non vi sono assalti né resistenzia. Ma hanno una gran ventura, che il re Francesco gli usa tanta umanità e cortesia, imperochè, se volesse dar la briglia alli mercatanti del suo paese, loro conquistariano i traffichi e amicizie delle genti di tutte quelle terre nuove in quattro o cinque anni, e il tutto per amore e senza forza, e sariano penetrati piú adentro che non hanno fatto li Portoghesi in cinquanta anni, e li popoli di dette terre gli discacciarono come suoi nemici mortali. E questa è una delle ragioni principali per le quali non vogliono che li Francesi vi conversino, imperochè, dopo che li Francesi praticano in qualche luogo, non si dimandano piú Portoghesi, ma quelli del paese gli hanno in abiezione e dispreggio.


Descrizione della costa della Guinea.

La Guinea è parte dell'Africa contigua con la Barbaria, e comincia a capo Verde, il quale ha di longitudine orientale quasi gradi cinque e di latitudine settentrionale gradi 14 e mezzo: ed è la Etiopia bassa, dove sono molti re e molte lingue differenti, quali sono obediti dalli suoi popoli come sono qua li nostri re e prencipi, e tutti sono idolatri. Li vestimenti loro sono di bambagio in diverse foggie, imperochè non v'è alcuno che non sia differente dall'altro. E da capo Verde fin alla fiumana di Manicongo, non v'è né castello né fortezza, salvo uno il quale è detto il castello della Mina, dove il re di Portogallo tiene venticinque overo trenta persone per traficare e mercantare con li neri, i quali vengono dalla terra alta e portano solamente dell'oro, qual portano similmente nella costa delle Meleghette alla fiumara o rio di Ceste, dove si fa il maggior traffico della detta meleghetta. Ma sopra detta fiumana, dalla banda de' Portoghesi, non v'è alcun luogo forte o altra abitazione che si tenga per loro piú che per i Francesi. E se essi levano mercanzie di quelli luoghi, come meleghetta, avorio, corami o altre mercanzie, bisogna che le comprino da quelli del paese e che ne paghino dazii alli re e prencipi del paese: e quivi barattano una mercanzia con l'altra, e non hanno moneta. E sono molto contenti li signori di quei luoghi quando li Francesi vi vanno.


Del viaggio che si fa nella costa della Guinea.

Dapoi capo Verde fin al fiume di Gambra vi sono trenta leghe: va la costa al scirocco, di longitudine orientale gradi 8 e mezzo e di latitudine settentrionale tre gradi e mezzo. Dal fiume di Gambra fin a capo Rosso leghe trenta, e la costa va all'ostro: capo Rosso è di longitudine dieci gradi e di latitudine dodeci. Da capo Rosso fino a rio Grande venticinque leghe, la costa al levante: rio Grande è in undeci gradi e mezzo di latitudine. Da rio Grande a Serra Liona vi sono settantacinque leghe: Serra Liona è in otto gradi di latitudine. Da Serra Liona fin al rio di Ceste quarantacinque leghe, e da rio di Ceste fin al capo delle Palme quarantatre leghe: capo delle Palme è in gradi dieciotto di longitudine e tre di latitudine; la costa va levante e ponente. Dal capo delle Palme al capo delle Tre Punte sono cento e tredeci leghe: la costa fin a mezza strada va levante una quarta di greco, e il restante in levante e una quarta di scirocco. Capo delle Tre Punte è in ventitre gradi di longitudine e di latitudine quattro gradi, e da detto capo fin al rio Delgado sono cento e cinquanta leghe, e la costa cammina greco levante. Questa riviera ha 32 gradi di longitudine, e di latitudine ha sette gradi. E da rio Delgado fin a capo Formoso son leghe sessantasette, andando la costa levante e ponente: ed è capo Formoso in trentacinque gradi di longitudine, e di latitudine cinque e mezzo; da capo Formoso a rio Reale venticinque leghe, la costa a levante. Da rio Reale a Fernando Polo trenta leghe, la costa in levante: Fernando Polo è in quaranta gradi di longitudine e in cinque di latitudine. Da Fernando Polo a capo di Lope Gonzales, cento e dodeci leghe: Lope Gonzales è in un grado e mezzo di latitudine australe e in trentacinque gradi di longitudine, la costa all'ostro. Da Lope Gonzales a Manicongo cento e trenta leghe, la costa a scirocco una quarta d'ostro: Manicongo è in gradi quarantauno di longitudine orientale e in sei gradi di latitudine australe. E da Manicongo fin al capo di Buona Speranza sono cinquecento e venticinque leghe, e in tutta quella costa non si fa traffico alcuno di mercanzie, imperochè tutti gli uomini sono poveri, rozzi e bestiali, e il territorio montuoso e sterile: ed è il sopradetto capo di Buona Speranza in trentaquattro gradi e mezzo verso l'antartico. E andando dal capo di Buona Speranza verso greco una quarta di levante e cinquecento leghe si trova l'isola di San Lorenzo, altramente nominata Madagascar, la quale contiene trecentosettanta leghe di longhezza e circa 80 leghe di larghezza: ed è la detta isola sotto il tropico del Capricorno, abitata da gente bellicosa e crudele. Altre fiate i Portoghesi v'hanno navigato, ma essi hanno lasciato tal commercio per causa di tristizia dell'una overo dell'altra parte; e gli abitanti hanno per arme dardi con le punte di ferro, in modo di partesane, delle quali ciascun communemente ne portano duoi.
Dall'isola di San Lorenzo fin alla Taprobana, altramente chiamata Sumatra, sono mille leghe per la piú corta via, ed è la detta isola di Taprobana in cento e quaranta gradi di longitudine orientale sotto la linea equinoziale, la quale passa per il mezzo di quella, e contiene ducento e venticinque leghe di lunghezza e ottanta di larghezza. Scorre la detta isola ostro, scirocco, maestro e tramontana; ha duoi inverni e due estate all'anno, ma nel loro inverno è cosí caldo come nella nostra estate: vi è l'erba verde in ogni tempo sopra la terra, e di continuo frutti e fiori sopra gli arbori. Ha questa isola molti re, de' quali il primo che le due navi di Dieppa ebbero cognoscenza si chiamava sultan Megilica Raga: era signor d'un luogo detto Ticu, del regno di Pedir. Gli abitatori al mio giudicio sono macomettani, e sono assai buone persone e pacifiche, ma astuti e sottili nelli suoi traffichi e modi di mercadantare, e osservano la loro parola nel contrattare. Io non ebbi pratica salvo che di duoi officiali in tutto il detto luogo e sotto questo re, delli quali l'uno era il capitano delle genti d'arme, nominato nacanda raia, che vuol dire il capitano del re; l'altro veniva detto cambendare, il quale metteva il prezzo alle mercatanzie che noi portammo là e le dava alli mercatanti del paese, e ne faceva li pagamenti sicuri e buoni a noi altri. E nessuno ardirà a comprar, sotto pena della testa, avanti che il detto cambendare abbi posto il prezzo: e quando è fatto, ciascuno ne può avere per quello, pur per mano di detto cambendare, cosí li piccioli come li grandi; e detto cambendare riscuote li dazii e tributi del re, il qual è di ciascuna mercanzia che l'uomo vende a ragione di tre per cento. E in questa provincia vi sono molte terre, castelli e casali, e monti alti, delli quali la cima si vede andar sopra li nuvoli. Gli abitatori vestono di tele bambagine o di seta fin alla cintura, come sariano d'una camicia corta, e sopra il busto aperta davanti circa mezzo piede, e serrata a bottoni d'oro: e chiamano questo tal vestimento uno baiu; e dalla cintura in giú fin sotto le ginocchia sono cinti d'un pezzo di tela di bambagio tinta di diversi colori, e li grandi hanno di piú un pezzo di tela stretta, la qual gettano sopra le spalle a modo di mantelli, overo se ne cingono sopra li suoi vestimenti. Alcuni hanno delle berrette picciole aguzze un poco, e non cuoprono salvo che la cima della testa, e tutti hanno la testa rasa e la barba, salvo la parte che è fra il naso e le labra; altri hanno la testa infasciata di tela bambagina alla turchesca, ma la maggior parte non sono vestiti se non dalla cintura in giú e tutto il corpo scoperto, e portano manigli d'oro nelle braccia e le spade al fianco, le quali sono circa due piedi e mezzo lunghe, col manico tutto d'oro e molto sottilmente lavorate, e il fodro di legno tutto d'un pezzo, molto ben fatto: e chiamano detta spada cas.


Dell'armi di quelli della Taprobana.

Non è alcuno, grande né picciolo, prete né maritato, che non porti un cas al fianco; e le loro armi sono come giavarine col ferro piú lungo e piú stretto, e l'asta di quelle è d'un legno molto grave, e hanno targhe e rotelle di cuoio di bufolo grosse un deto, e altre di legno coperte di pelle di pesce o di serpente o di pelle di qualche altro animale. Hanno piccioli archi e picciole frezze, e cerebottane per le quali soffiano dette picciole frezze, ferrate e molto acute.


Delli frutti di quel paese e delli grani.

Vi è un frutto, il qual essi chiamano pissan, che è molto buono e delicato, e cresce in un arbore, ed è della similitudine d'un picciolo cocomero; e un altro frutto grosso e lungo, che tira in tondo, il quale di fuora par un artichiocco overo una pigna ed è verde, e dentro vi è un frutto come una castagna, di simil gusto e foggia, e di sopra di questa castagna è una coperta di tal modo e liquore e colore e di tal gusto come un capo di latte inzuccarato. Vi sono ancora assai altri frutti, ma non ne sappiamo li nomi.
Essi hanno in grandissima estimazione le foglie d'una erba o arbore, le quali essi chiamano betce, e un frutto il quale essi dicono areca, e communemente tutti l'usano. Nasce nel paese miglio e molto riso, e in grande quantità. Ivi nasce piú pevere e migliore che in tutte l'altre isole dell'Oriente; le palme vi fanno il vino. La gente del paese non adopera moneta, se la non vi vien portata da altro paese, e vendono e comprano ogni cosa a peso d'oro, e misurano le tele e panni con una misura ch'è lunga un cubito. Il riso e il pevere lo misurano con la guate, la qual è una canna grossa tagliata, la qual contiene circa due libre di pevere. E quivi caricate le nostre navi di pevere e altre specierie, ce ne ritornammo a Dieppa, doppo sí longa e pericolosa navigazione, a salvamento, ad onor di Dio e della corona di Francia.



Prima relazione di Iacques Carthier della Terra Nuova detta la Nuova Francia, trovata nell'anno 1534.


Come messer Carlo da Mouy cavalier, partito con due navi da San Malò, giunse alla terra nuova detta la Francese ed entrò nel porto di Buona Vista.

Avendo messer Carlo da Mouy cavalier, signor della Meylleraye e vice armiraglio di Francia, fatto giurar li capitani maestri e compagni delle navi di bene e fedelmente portarsi nel servizio del re cristianissimo, sotto il carico di detto Carthier partimmo dal porto San Malò con due navi di portata di circa 60 botte l'una, armate ciascuna di sessantuno uomo, alli venti d'aprile 1534, e con tal buon tempo navigammo che alli 10 di maggio giugnemmo alla Terra Nuova, dove entrammo nel capo di Buona Vista, la qual è di latitudine gradi 28 e mezzo e di longitudine. Ma, per la copia grande di ghiaccio ch'era lungo di detta terra, ne convenne entrar in un porto chiamato Santa Catarina, distante da detto porto verso ostro scirocco da cinque leghe: quivi ci fermammo dieci giorni aspettando buon tempo, e in questo mezzo racconciammo le nostre barche.


Come arrivorono all'isola degli Uccelli, e della gran copia d'uccelli che ivi si trova.

Alli 21 di maggio facemmo vela con vento di ponente e andammo verso tramontana quarta di greco da capo di Buona Vista fino all'isola degli Uccelli, la qual era tutta quanta circondata da un banco di ghiaccio, rotto però tutto e diviso in pezzi. Ma nonostante detto banco, le nostre due barche v'andarono per aver degli uccelli, de' quali ve n'è cosí gran copia ch'è cosa incredibile a chi non la vedesse, perciochè, quantunque detta isola (quale contiene intorno una lega di circuito) ne sia tanto piena che pare che vi siano stati portati a posta e seminati, nondimeno ne sono cento volte piú nel circuito di essa e nell'aria che di dentro. De' quali alcuni sono grandi come graculi, neri e bianchi, e hanno il becco come il corvo: stanno sempre nel mare, né possono volar in alto, perciochè le loro ali sono picciole, non maggiori che la metà della mano, con le quali però tanto velocemente volano a pelo d'acqua quanto gli altri uccelli nell'aria; sono grassi fuor di misura. Noi la chiamammo aporrath de' quali le nostre due barche si caricorono in manco d'una mezza ora, come si sarebbe fatto di sassi, onde ciascheduna delle navi ne insalò da quattro o cinque botte, senza quelli che mangiammo freschi.


Di due specie d'uccelli, l'una chiamata godetz, l'altra margaulx, e come arrivarono a Carpont.

Oltra di questo vi è un'altra specie d'uccelli, che volano per l'aria e sopra il mare, piú piccioli degli altri: e questi chiamano godetz, li quali si ragunano insieme in detta isola e mettonsi sotto l'ali delli piú grandi. Ve n'è anco un altra sorte, ma maggiori e bianchi, quali stanno appartati dagli altri in un canto dell'isola e son molto difficili a pigliare, imperochè morsicano come cani: e li chiamano margaulx. E ancor che detta isola sia discosta dalla terra grande quattordeci leghe, nondimeno gli orsi vi vengono nuotando per mangiare di detti uccelli, e li nostri ve ne trovarono uno grande quanto una vacca, bianco come un cigno, qual saltò in mare in presenzia loro. E il dí seguente di Pasqua di maggio, facendo il nostro viaggio verso terra, lo trovammo intorno a mezzo cammino, qual andava nuotando verso terra con tanta prestezza quanto noi con la vela: ma, avendolo scoperto, gli demmo la caccia con le barche e per forza lo pigliammo, la carne del quale era cosí buona da mangiare quanto se fosse stata carne di vitello di due anni. Il mercordí seguente, che fu alli ventisette del detto mese, arrivammo nell'entrar del golfo de' Castelli, ma per la contrarietà del tempo e la moltitudine de' ghiacci grandi che trovammo ne convenne entrar in un porto ch'era nel contorno di quella entrata, chiamata il Carpont, dove vi stemmo senza potere uscire fino alli nove di giugno, che d'indi ci partimmo per passare con l'aiuto di Dio piú oltre detto Carpont, qual è in gradi cinquantuno di latitudine.


Descrizione della Terra Nuova dopo capo Rasso sino a quello di Degrad.

La terra dopo capo Rasso sino a quello di Degrad, che è la punta dell'entrata del golfo che risguarda da capo a capo verso greco tramontana e ostro garbin, tutta questa parte di terra è fatta ad isole poste l'una appresso l'altra, sí che tra l'una e l'altra non vi sono se non certi piccioli fiumi, per i quali con battelli si può andare e passar per mezzo: e per questo vi sono molti buoni porti, tra' quali vi è quello di Carpont e di Degrad. In una di queste isole, qual è piú alta di tutte, stando sopra d'essa l'uom vede chiaramente le due isole basse che sono presso capo Rasso, di dove contano venticinque leghe fino al detto porto di Carpont: e vi sono due entrate, una da levante, l'altra da ostro dell'isola. Ma bisogna avertire dalla banda e ponta di levante, perciochè non v'è altro che secche per tutto e basse d'acqua, e bisogna andar atorno l'isola da ponente per lunghezza della metà d'una gomena o piú presso, chi vuole, e poi andar verso ostro al detto Carpont, e anco si debbe guardar da tre basse che sono sotto l'acqua e nel canale; e verso l'isola da levante v'è fondo nel canale da tre o quattro braccia, e bel fondo. L'altra entrata guarda greco levante e sopra ponente si può saltar in terra.


Dell'isola di Santa Caterina, ora cosí chiamata.

Partendosi dalla ponta di Degrad, ed entrando in detto golfo alla volta di ponente e quarta di maestro, si dubita di due isole che restano da banda diritta, delle quali una è distante da detta ponta tre leghe e l'altra sette o piú o meno della prima, la qual è terra piana e bassa e pare che sia della terra grande. Io chiamai quell'isola l'isola di Santa Caterina, nella qual verso greco vi è paese secco e cattivo fondo per circa un quarto di lega, per il che bisogna far un poco di circuito. Detta isola è il porto de' Castelli, che guardano verso greco tramontana e ostro garbin, e v'è distanza da un all'altro intorno a quindeci leghe. Da detto porto de' Castelli sino al porto delle Gutte, ch'è la terra di tramontana di detto golfo, che guarda greco levante e ponente garbin, v'è la distanza di leghe dodeci e mezza. E a due leghe dal porto delle Ballanze, cioè nella terza parte del traverso di detto golfo, vi sono trentaotto braccia di fondo a piombo, e da detto porto delle Ballanze fino a Bianco Sabbione vi sono leghe venticinque verso ponente garbin: e bisogna avvertire d'una secca che vien sopra l'acqua, simile ad un battello, dalla banda di garbino di detto Bianco Sabbione per tre leghe in fuoro.


Del luogo detto Bianco Sabbione, dell'isola di Brest e dell'isola d'Uccelli: la sorte e quantità d'uccelli che vi si trovano; e del porto chiamato l'Isolette.

Bianco Sabbione è una staria nella quale non vi è nissun luogo coperto da ostro né da scirocco, ma verso ostro garbin d'essa staria vi sono due isole, una delle quali è chiamata isola di Brest e l'altra isola d'Uccelli, nella quale v'è quantità grande di godetti e di corbi che hanno il becco e piedi rossi e fanno i nidi ne' busi sotto terra come i conigli. Passato un capo di terra distante una lega da Bianco Sabbione, trovasi un porto e passaggio chiamato l'Isolette, qual è miglior luogo di Bianco Sabbione, e ivi fassi pescheria grande. Dal detto luogo di dette Isolette sino ad un porto chiamato Brest questo circuito dura leghe dieci, e quel porto è in 50 un grado e 55 minuti di latitudine, e di longitudine. Doppo l'Isolette fino a detto luogo vi sono di molte isole, e detto porto di Brest anch'esso è tra isole. Oltra di ciò circondano l'isole piú di tre leghe lungi di detto Brest, le quali sono basse, e sopra d'esse veggonsi l'altre terre dette di sopra.


Come entrarono nel porto di Brest con le navi, e andando oltre verso ponente passarono per mezzo l'isolette, le quali ritrovorono esser in cosí gran numero che non era possibile numerarle, e le chiamorno l'Isole.

Alli dieci del detto mese di giugno entrammo dentro detto porto di Brest con le nostre navi per aver acqua e legne e apparecchiarci di passar oltre al detto golfo. Il giorno di san Barnaba, dopo udita la messa, andammo con le barche oltra detto porto verso ponente, per scoprire che porti vi erano. Passammo per mezzo dell'isolette, le quali sono in cosí gran numero che non è possibile di poterle numerare, perchè continuano da dieci leghe oltra il detto porto. Noi ci fermammo in una di quelle per passar quivi la notte, e vi trovammo gran quantità d'ova d'anatre e d'altri uccelli che vi fanno i nidi loro. E chiamammole tutte l'Isole.


Del porto detto Sant'Antonio, porto San Servano, porto Iacques Carthier; del fiume chiamato San Giacomo. De' costumi e vestimenti degli abitanti nell'isola di Bianco Sabbione.

Il dí seguente noi passammo oltre dette isole, e nel fine della moltitudine d'esse trovammo un buon porto e lo chiamammo Santo Antonio; e oltre una o due leghe trovammo un picciol fiume molto profondo verso la terra di garbin, qual è tra due altre terre, ma è un buon porto: ivi piantammo una croce e lo chiamammo il porto San Servano e dalla banda di garbin di detto porto e fiume circa una lega v'è una isoletta rotonda come un forno, circondata da molte altre picciole, le quali danno notizia di detti porti. Piú oltre a due leghe v'è un altro buon fiume piú grande, nel quale vi pescammo di molti salmoni, e lo chiamammo il fiume di San Giacomo. Essendo in questo fiume, vedemmo una nave grande ch'era dalla Rochella, la quale aveva trapassata la notte avanti il porto di Brest, dove pensavano d'andar a pescare: ma li marinari non sapevano dove fossero. Noi ci accostammo a loro con le barche, e la mettemmo in un altro porto, piú verso ponente una lega che detto fiume di San Giacomo, qual credo che sia un de' miglior porti del mondo, e fu chiamato il porto di Iacques Carthier. Se la terra fosse cosí buona come vi sono buoni porti sarebbe un gran bene, ma ella non si debbe chiamar terra nuova, anzi sassi e grebani salvatichi e proprii luoghi da fiere, perciochè in tutta l'isola di tramontana io non viddi tanta terra che se ne potesse caricar un carro, e vi smontai in parecchi luoghi, e all'isola di Bianco Sabbione non v'è altro che musco e piccioli spini dispersi, secchi e morti: e in somma io penso che questa sia la terra che Iddio dette a Caino. Sonvi uomini d'assai bella vita e grandezza, ma indomiti e salvatichi. Portano i capelli in cima legati e stretti a guisa d'un pugno di fieno rivolto, mettendovi in mezzo un legnetto o altra cosa in vece di chiodo, e vi legano insieme certe penne d'uccelli. Vanno vestiti di pelli d'animali, sí gli uomini come le donne, quali pur vanno piú chiuse e piú strette ne' loro abiti e cinte per mezzo la persona che non fanno gli uomini; dipingonsi con certi colori rovani. Hanno le loro barche fatte di scorza d'albero di boul, con le quali pescano gran quantità di lupi marini, e per quanto dapoi che qui venni intesi questa non essere la loro abitazione, ma vengono di paesi piú caldi fra terra per pigliar detti lupi e altre cose per il loro vivere.


D'alcuni capi, cioè capo Doppio, capo Puntito, capo Reale e capo di Latte. Dei monti delle Grange, dell'isole Colombare, e d'una gran pescheria di molue.

Alli 13 noi ritornammo con le nostre barche alle navi per far vela, perciochè 'l tempo era bello, e la domenica facemmo dir la messa. Dipoi il lunedí alli 15 ci partimmo oltra detto Brest, e facemmo la via d'ostro per aver notizia delle terre che v'avevamo vedute, parendoci due isole: ma, quando fummo circa mezzo il golfo, conoscemmo ch'era terra ferma, dove era un capo grosso, doppio un sopra dell'altro, e perciò lo chiamammo capo Doppio. Nel principio del golfo scandagliammo il fondo, e lo trovammo cento braccia per quadro da ogni banda. Da Brest a capo Doppio v'è distanzia di venti leghe in circa, e a cinque o sei leghe cercammo anco il fondo, e trovammo 40 braccia. Detta terra è rivolta verso greco garbino. Il dí seguente, 16 del detto mese, noi navigammo lungo la costa per garbin quarta d'ostro circa 35 leghe dapoi capo Doppio, dove trovammo montagne molto alte e salvatiche, fra le quali vi si vedeano non so che picciole capanne, che noi in villa chiamammo grange: e però gli nominammo li monti delle Grange. Quell'altre terre e montagne sono tagliate, rotte e dirupate, e vi sono tra esse e il mare dell'altre terre, ma basse.
Il dí avanti per la caliggine e oscurità di tempo non potemmo aver notizia di terra alcuna, ma la sera ci apparve una apertura di terra, come entrata di fiume, tra detti monti delle Grange e un capo che vi restava verso garbin, discosto da noi intorno tre leghe: e detto capo è nella sommità tutto spuntato intorno, e da basso verso il mare finisce in punta, per il che fu chiamato capo Puntito; dalla banda di tramontana di detto capo v'è una isola piana. E perciochè volemmo aver cognoscenza di quella entrata, per veder se v'era qualche buon porto, mettemmo la vela bassa per passar la notte. Il dí seguente, che fu alli 17 di detto mese, avemmo fortuna da greco, per il che mettemmo il papifico e la cappa e pigliammo il camino verso garbin, fino al giovedí da mattina, e facemmo circa da 37 leghe che ci trovammo al traverso d'un golfo pieno d'isole rotonde come colombare: e perciò li demmo il nome di Colombare, e dal golfo S. Giuliano, dal quale fino ad un capo che resta verso ostro e un quarto di garbin, che fu chiamato capo Reale, vi sono sette leghe. E verso ponente garbin di detto capo ve n'è un altro, quale di sotto è tutto dirupato e ritondo dalla parte di sopra, alla parte di tramontana, dal qual circa mezza lega v'è un'isola bassa: e detto capo fu chiamato capo di Latte. Tra questi due capi vi sono certe terre basse, sopra le quali ve ne sono anco alcune altre, che dimostran che vi debbano essere fiumi. A due leghe di capo Reale si scandaglia in fondo di venti braccia, e v'è la piú grande pescheria di grosse molue che possibil sia d'essere: delle quali molue, aspettando la compagnia, ne pigliammo piú di cento in manco d'una ora.


Di alcune isole tra capo Reale e capo di Latte.

Il dí seguente, 18 del detto mese, il vento ci venne contrario e con grande impeto, sí che ne convenne ritornar verso capo Reale, pensando di trovarvi porto. E con le nostre barche andammo a scoprir fra detto capo Reale e capo di Latte, e trovammo che sopra le terre basse v'è un golfo grande e molto profondo, dentro del quale vi sono isole, e questo golfo è chiuso dalla banda di verso ostro. Dette terre basse fanno un de' lati dell'entrata, e capo Reale è dall'altro lato; dette terre basse si prolungano dentro del mar piú di mezza lega. È paese piano, con cattivo fondo, e per mezzo l'entrata v'è una isola. Detto golfo è in gradi quarantotto e mezzo di latitudine, e di longitudine. Quel giorno non trovammo porto, e però quella notte ci mettemmo in mare, voltato il capo verso ponente.


Dell'isola chiamata San Giovanni.

Dopo detto giorno fino al 24 del detto mese, ch'è la festa di san Giovanni, avemmo fortuna e vento contrario e oscurità, di sorte che non potemmo aver notizia di terra alcuna, sino in detto giorno di san Giovanni, ch'avemmo notizia d'un capo di terra che ne restava verso garbin da capo Reale intorno trentacinque leghe. Ma quel giorno fu cosí gran nebbia e cattivo tempo che non potemmo accostarci a detta terra: e perciò ch'era il dí di monsignor san Giovanni, la chiamammo capo di San Giovanni.


D'alcune isole chiamate l'isole di Margaulz, e delle sorti d'uccelli e bestie che vi si trovano; e dell'isola di Brion e capo del Delfin.

Il dí seguente 25 fece anche cattivo tempo, oscuro e ventoso, e una parte del giorno navigammo verso ponente e maestro, e la sera ci mettemmo in traverso sino al secondo quarto, che d'indi ci partimmo. E allora conoscemmo per il nostro bussolo ch'eravamo verso maestro e una quarta da ponente, lontani da capo San Giovanni leghe sette e meza. E quando volemmo far vela, il vento cominciò a soffiar da maestro, per il che ce n'andammo verso scirocco 15 leghe, e giugnemo a tre isole, delle quali ve n'erano due picciole dritte quanto un muro, di sorte che non era possibile di montarvi sopra, e tra queste v'è un picciol scoglio. Queste isole erano piú piene d'uccelli che non è un prato d'erba, che facevano ivi i lor nidi, e nella maggiore v'era una infinità di quelli che chiamiamo margaulx, quali sono bianchi e piú grandi che oche, ed eran separati in una parte; nell'altra parte v'eran di godetz isoli, ma nel lito vi erano di detti godetz e grandi apponatz, simili a quelli dell'isola che di sopra abbiamo fatto menzione. Noi descendemmo al piú basso della piú picciola, e ammazzammo de' godetz e apponatz piú di mille, e ne mettemmo nelle barche tanti quanti ne piacque: e ne avressimo potuto empier in un'ora 30 simili barche. E le chiamammo l'isole di Margaulz. A cinque leghe da dette isole era un'altra isola dalla banda di ponente, qual è lunga circa due leghe e altretanto larga: qui ci fermammo la notte per torre acqua e legne. Questa isola è circondata da sabbione, e ha buon sorgidor nel circuito, da sei o sette braccia di fondo. Queste isole hanno la miglior terra che mai v'abbiamo veduto, imperochè un campo di quella vale piú che tutta la terra nuova. Noi la trovammo tutta piena di begli arbori, praterie, campagne di formento salvatico, piselli in fiore, cosí spessi e belli come si sariano potuti veder in Bertagna, che parevano esser stati seminati per lavoratori; v'erano ancora gran quantità d'uve crespine, fragole, rose incarnate, petresemolo, e altre erbe di buono e grande odore. All'intorno di detta isola vi sono molte gran bestie, come gran buoi, che hanno duoi denti in bocca come d'elefante, e vivono anche nel mare. Noi ne vedemmo una che dormiva a riva dell'acqua, e andammo verso d'essa con le nostre barche pensando di pigliarla, ma subito che ci sentí si gettò nel mare. Vi vedemmo similmente orsi e lupi. Questa isola fu chiamata l'isola di Brion; nel contorno d'essa vi sono paludi grandi verso scirocco e maestro. Io penso, per quello che ho potuto comprendere, che vi sia qualche passaggio fra la Terra Nuova e la terra di Brion: se cosí fusse, sarebbe una grande abbreviazione cosí del tempo come eziandio del cammino, se si trovasse perfezione in questo viaggio. A quattro leghe di detta isola v'è la terra ferma verso ponente garbin, la quale pare che sia come una isola, circondata da isolette di sabbioni. Vi è un bel capo, qual chiamammo capo del Delfino, perciochè quivi è il principio delle buone terre. Alli ventisette di giugno noi circondammo dette terre, quale risguardano verso ponente e garbino, e paiono da lungi esser colline o monti di sabbione, perciochè sono terre basse e di poco fondo. Noi non vi potemmo andare e manco descendere, perciochè ci tirava il vento contra: e quel giorno facemmo 15 leghe.


Dell'isola chiamata Alezai e capo San Pietro.

Il dí seguente andammo lungo dette terre circa 10 leghe, sino ad un capo di terra rossa, qual è dirupato, dentro del quale vi si vede una rottura che rivolta verso tramontana: ed è paese molto basso, e v'è anche come una piccola pianura tra 'l mare e uno stagno. E da quel capo di terra e il stagno fino ad un altro capo di terra vi sono da circa 14 leghe, e si fa la terra a modo d'uno semicirculo, tutto quanto circondato di sabbione come una fossa, sopra del quale vi sono come paludi e stagni tanto quanto si può distender l'occhio. E avanti che s'arrivi al primo capo, si trovano due piccole isole assai presso a terra; a cinque leghe del secondo capo v'è un'isola verso garbin molto alta e apuntata, la qual fu chiamata Alezai. Il primo capo fu chiamato capo San Pietro, perciochè il giorno di detto santo v'arrivammo.


Del capo detto d'Orleans, del fiume delle Barche, del capo de' Salvatichi, e della qualità e temperatura di quel paese.

Dopo l'isola di Brion sino in questo luogo v'è buon fondo di sabbione, e avendo scandagliato verso garbin ugualmente sino all'arrivar a terra per cinque leghe, vi trovammo 25 braccia, e ad una lega 12 braccia e appresso la riva da sei, piú tosto piú che manco, e buon fondo. Ma, perciochè volevamo aver maggior conoscenza di questi fondi petrosi pieni di rocche, mettemmo le vele basse e in traverso. E il dí seguente, penultimo del detto mese, il vento venne d'ostro e quarta di garbin. Ce n'andammo verso ponente sino al martedí, ultimo del mese, al levar del sole, senza conoscere e manco veder terra alcuna, eccetto la sera al tramontar del sole, a che scoprimmo una terra che pareva esser due isole, che ci restava drieto di noi verso ponente e garbin intorno a nove o dieci leghe. E il detto giorno andammo verso ponente fino al dí seguente al levar del sole intorno 40 leghe, e facendo questo cammino avemmo notizia che la terra che ci era apparsa come due isole era terra ferma, posta a ostro, scirocco e maestro tramontana, sino ad un molto bel capo di terra chiamato capo d'Orleans. Tutta detta terra è bassa e piana, e la piú bella che possibil sia da veder, piena di begli arbori e praterie: vero è che non vi potemmo trovar porto, perciochè è tutta quanta piena di secche e sabbioni. Noi smontammo in parecchi luoghi con le barche, e tra gli altri entrammo dentro d'un bel fiume di poco fondo, e per questo lo chiamammo il fiume delle Barche, perciochè vi vedemmo delle barche d'uomini salvatichi che traversavano il fiume; né avemmo altra notizia di detti uomini salvatichi, perchè il vento veniva dal mare e caricava la costa, sí che ne convenne ritirar con le barche verso le nostre navi.
Noi andammo verso greco sino al levar del sole del dí seguente, primo di luglio, nel qual tempo levossi nebbia e fortuna: per il che mettemmo le vele basse sino intorno due ore avanti mezzodí, che 'l tempo si fece chiaro, e ch'avemmo notizia di capo d'Orleans e d'un altro che n'era discosto sette leghe verso tramontana un quarto di greco, che fu chiamato capo de' Salvatichi. Alla banda di greco di questo capo circa una meza lega v'è una secca e banco di sasso molto pericoloso. Mentre quivi a questo capo eravamo, vedemmo un uomo qual correva drieto le nostre barche, che andavan lungo la costa, e ne faceva parecchi segni che dovessimo ritornar verso detto capo. Noi, vedendo tai segni, cominciammo andar alla sua volta, ma egli vedendone venire si messe a fuggire. Noi, smontati in terra, mettemmo avanti di lui uno coltello e una cinta di lana sopra una barchetta e poi ce ne ritornammo alle navi il detto giorno e andammo circondando detta terra da nove o dieci leghe, sperando di trovare qualche buon porto: il che non fu possibile, imperochè, come ho già detto, tutta questa terra è bassa e paese circondato da gran secche. Nondimeno descendemmo quel giorno in quattro luoghi per veder gli arbori che v'erano, bellissimi e di grande odore, e trovammo ch'erano cedri, nassi, pini, olmi bianchi, frassini, salici, e molti altri incogniti a noi, tutti però senza frutto. Le terre dove non è bosco son molte belle, e tutte piene di piselli, uva crespina bianca e rossa, fraghe, morette e formento salvatico, come segala, che par esservi stato seminato e coltivato. È questa terra di miglior temperatura ch'alcun'altra si possi vedere, e di molto caldo; si veggono molti tordi, palombi e altri uccelli; in somma, non vi manca altro che buoni porti.


Del golfo chiamato Santo Lunario, e altri golfi notabili e capi di terra; e della qualità e bontà di quei terreni.

Il dí seguente, 2 di luglio, noi scoprimmo e conoscemmo terra dalla banda di tramontana verso di noi, che si giugneva con quella dinanzi detta, tutta circondata, e conoscemmo ch'avea intorno di profondo e tanto di diametro: e lo chiamammo il golfo Santo Lunario. E andammo al capo con le nostre barche verso di tramontana, e trovammo il paese tanto basso che per spazio d'una lega da terra non v'era piú che un braccio d'acqua. Dalla banda verso greco di detto capo circa sette o otto leghe v'era un altro capo di terra, in mezzo de' quali v'è un golfo in forma di triangolo, quale ha grandissimo fondo: e quanto noi potevamo distender la vista di quello, il ci restava verso greco. Detto golfo è circondato di sabbioni e luoghi bassi per dieci leghe da terra non v'è piú di duo braccia di fondo. Dopo il detto capo fino alla riva dell'altro capo di terra vi sono leghe 15. Essendo noi nel traverso di detti capi, scoprimmo un'altra terra e capo che ne restava da tramontana un quarto di greco, per quanto potevamo vedere. Tutta la notte fu cattivo tempo con gran vento, sí che ne convenne metter la cappa della vela sino alla mattina seguente, 3 di luglio, che 'l vento venne da ponente e fummo portati verso tramontana, per aver notizia di detta terra, che ne restava dalla banda di tramontana e greco sopra le terre basse; fra le quali basse e alte terre v'era un gran golfo e apertura di 55 braccia di fondo in alcuni luoghi, e larga circa 15 leghe. Per la gran profondità e larghezza e mutazion di terre, venimmo in speranza di poter trovar il passaggio, com'è il passaggio de' Castelli. Detto golfo risguarda verso greco levante, ponente garbin. Il terreno ch'è dalla banda d'ostro di detto golfo è cosí buono e bello da lavorare, e pieno di belle campagne e pratarie, quanto noi abbiamo veduto, piano tutto come saria un lago; e quello ch'è verso di tramontana è tutto paese alto, con montagne alte, piene di boschi di legni altissimi e grossi di diverse sorti. Tra gli altri vi sono molti belli cedri e abeti, quanto possibil sia da vedere, e bastanti da far arbori di navi di piú di 300 botte; né vi vedemmo luogo alcuno che non fosse tutto pieno di detti boschi, eccetto che in duoi, ch'era paese basso pieno di praterie, con duoi laghi molti belli. Il mezzo di questo golfo è in gradi 47 e mezzo di latitudine.


Del capo di Speranza e della staria di San Martino. E come sette barche d'uomini salvatichi, andati alla nostra barca, non volendo ritirarsi, spaventati dal tirar de' passavolanti e di lancie fuggirono con gran fretta.

Il capo di detta terra d'ostro fu chiamato capo di Speranza, per la speranza ch'avemmo di trovarvi il passaggio. Il quarto giorno di luglio andammo a lungo di detta terra dalla banda di tramontana per trovar porto, ed entrammo in un picciolo porto e staria tutta aperta verso ostro, dove non è alcun riparo di detto vento, e ne parse di chiamarla la staria di S. Martino: e stemmo dalli 4 di luglio sino alli 12. E in questo tempo ch'eravamo in detta staria, andammo il lunedí sesto del detto mese, dopo udita la messa, con una delle nostre barche per scoprire un capo e punta di terra che n'era discosto dalla banda di ponente 7 o 8 leghe, per veder verso dove detta terra si rivoltava. Ed essendo a mezza lega dalla punta, vedemmo due bande di barche d'uomini salvatichi che passavano d'una terra all'altra, ed erano piú di 40 o 50 barche; delli quali una parte arrivarono alla detta punta, e saltò in terra un gran numero di dette genti, facendo un gran rumore e accennandone ch'andassimo a terra, mostrandone delle pelli sopra alcuni legni. Ma, perciochè non avevamo piú d'una sola barca, non vi volemmo andare, e navigammo verso l'altra banda che era nel mare. Essi, vedendone fuggire, misero all'ordine due delle lor barche piú grandi per venirci dietro, con le quali si misero insieme cinque altre di quelle che venivano dalla banda del mare, e tutti s'appressorono alla nostra barca ballando e facendo molti segni d'allegrezza e di voler la nostra amicizia, dicendo nella lor lingua: "Napeu tondamen assurtah", e altre parole che non intendevamo. Ma perciochè, come abbiam detto, non avevamo se non una barca, non ci volemmo fidar ne' segni loro, e li facemmo segno che si ritirassero: il che non volsero fare, anzi venivano con sí gran furia verso di noi che subito ci circondarono la barca con le lor sette. E perciochè per segni che li facevamo non volevano lontanarsi, li tirammo due passavolanti di sopra di loro: per il che spaventati, si misero a ritornare verso la detta ponta, facendo grandissimo rumore. E stati alquanto, di nuovo cominciarono a venir verso di noi come prima, dove, approssimatisi alla barca, li tirammo con due lanze per mezzo loro: la qual cosa li fece cosí gran spavento che cominciarono a fuggire con gran fretta, che piú non volsero seguitarci.


Come li detti salvatichi venendo alla volta delle navi, e i nostri andando alla volta loro, scesero in terra l'una parte e l'altra, e detti salvatichi con grande allegrezza cominciarono a trafficar con li nostri.

Il dí seguente, parte di detti salvatichi vennero con nove lor barche alla punta ed entrata della staria dove noi eravamo surti con le nostre navi, ed essendo avertiti della lor venuta andammo con le nostre barche alla punta dove essi erano; ma subito che ne viddero si misero in fuga, facendoci segni che erano venuti per trafficar con noi, mostrandoci delle pelli di poca valuta con le quali si vestono. Similmente noi li facemmo segni che non volevamo loro punto di male, e in segno di questo smontarono in terra due de' nostri per andar alla volta loro e portarli coltelli e altri ferramenti, con un cappello rosso per dar al lor capitano. Il che vedendo essi, discesero ancor loro in terra portando delle dette pelli, e cominciaron a trafficar con noi, mostrando una grande e maravigliosa allegrezza d'avere delli detti ferramenti e altre cose, ballando tuttavia e facendo molte cerimonie, come sarebbe a dir di gettarsi dell'acqua del mare sopra il lor capo con le mani: sí che ci dettero quanto avevano non ritenendosi cosa alcuna, di sorte che convennero ritornar tutti nudi, e ci fecero segno che 'l dí seguente ritornerebbero e porterebbono dell'altre pelli.


Come, avendo li nostri mandati due uomini in terra con mercanzie, vennero da trecento salvatichi con grande allegrezza. Della qualità di quel paese e quello che produca, e del golfo chiamato il golfo del Calore.

Giovedí otto del detto mese, perchè il vento non era buono da uscir fuora con le navi, mettemmo all'ordine le nostre barche per andar a scoprir detto golfo, e corremmo quel giorno 25 leghe per di dentro. Il seguente giorno avendo buon tempo navigammo fino a mezzogiorno, nel qual tempo avemmo cognoscenza di gran parte del detto golfo, e come sopra le terre basse v'erano dell'altre terre con altre montagne; ma vedendo che non v'era passaggio alcuno, cominciammo a ritornarcene, facendo il nostro camino lungo detta costa, e navigando vedemmo de' salvatichi che stavano sopra la riva d'un lago che è sopra le terre basse, i quali facevano parecchi fuochi e fumi. Noi v'andammo, e trovammo che v'era un canale di mare che entrava in detto lago, e mettemmo le dette nostre barche ad una delle rive di detto canale. Li salvatichi vennero a noi con una delle lor barche, e ci portorono pezzi di lupi marini cotti, li quali misero sopra legni, e poscia si ritirarono, significandoci che ce li donavano. Noi mandammo due uomini in terra con manarette, coltelli, corone e altra mercanzia, della qual cosa molto s'allegrorono, e subito vennero in frotta alla riva dove eravamo con le lor barche, portando pelli e altre cose che avevano per aver delle nostre mercanzie. Ed erano piú di trecento fra uomini e donne e putti, e parte delle donne, che non passarono, vedevamo che stavano fino alle ginocchia nel mare, ballando e cantando; l'altre, ch'avevano passato dove noi eravamo, venivano domesticamente da noi, fregandoci le braccia con le lor proprie mani, e dipoi l'alzavano verso il cielo, ballando e facendo parecchi segni d'allegrezza. E talmente s'assicurorono con noi, che alla fin trafficammo di mano in mano di tutto quello che aveano, di modo che non gli rimase altro che i corpi nudi, perciochè ne dettero tutto quello che aveano, che fu cosa di poca valuta. Noi conoscemmo che queste genti facilmente si convertirebbono alla nostra fede. Vanno d'un luogo all'altro, vivendo col pigliar de' pesci, al tempo che lasciano di pescare per sua munizione. La loro terra è piú calda che non è il paese di Spagna, e la piú bella che possibil sia di vedere, tutta eguale e conforme; né v'è luogo cosí picciolo dove non sia arbori (ancorchè siano sabbioni) e che non sia pieno di formento salvatico, ch'ha la spiga come segala, il grano come vena, e di piselli tanto folti come se vi fussero stati seminati e coltivati, uva crespina bianca e rossa, fraghe morette, rose rosse e bianche e altri fiori di soave e grande odore. Similmente sonvi molte belle praterie e buone erbe, e laghi dove ha copia grande di salmoni. Chiamano un manaretto in lor lingua cochi, e uno coltello bacon. Noi chiamammo quel golfo il golfo del Calore.


Di un'altra nazione di salvatichi, e de' costumi e vivere e vestir loro.

Essendo noi certi che non v'era passaggio per detto golfo, facemmo vela e ci partimmo di detta staria di San Martino, la domenica dodeci di luglio, per andar a cercar e scoprire piú oltra di detto golfo. E andammo verso levante a lungo di detta costa intorno da 18 leghe sino a capo di Prato, dove trovammo il flusso molto grande, con poco fondo e il mare fortunato, per il che ci convenne ritirarci a terra fra detto capo e un'isola verso levante, intorno una lega da detto capo: e quivi buttammo l'ancore per quella notte. La mattina seguente facemmo vela per voler circondar detta costa, qual è posta verso tramontana e greco, ma ci sopravenne il vento tanto contrario e impetuoso che ci bisognò ritornar donde eravamo partiti. Quivi stemmo tutto il detto giorno sino all'altro dí seguente, che facemmo vela e venimmo a mezzo d'un fiume, discosto verso tramontana cinque o sei leghe da detto capo di Prato. E stando noi per traverso il fiume, di nuovo avemmo vento contrario con gran caliggine e oscurità, sí che ci convenne entrare in detto fiume il martedí alli 14 di detto mese, e ci fermammo nell'entrata sino alli 16, aspettando che venisse buon tempo per poter uscire. Ma il detto giorno alli 16, che fu il giovedí, il vento crebbe di tal sorte che una delle nostre navi perse un'ancora, per il che ci convenne andar piú avanti in su detto fiume sette o otto leghe, in un buon porto e fondo ch'eravamo andati a cercar con le dette nostre barche; e per il cattivo tempo, fortuna e oscurità che fece, stemmo in detto porto e fiume sino alli 25 senza poter uscire. Fra questo spazio vedemmo gran moltitudine d'uomini salvatichi, che pescavano sgombri, de' quali ve n'è copia grande. Le barche erano intorno a 40 e le persone, tra uomini, donne e putti, piú di 200: quali, dipoi ch'ebbero un poco praticato a terra con noi, venivano domesticamente all'orlo delle nostre navi con le sue barche. Noi li donammo de' coltelli, corone di vetro, pettini e altre cose di poca valuta, delle quali facevano infiniti segni d'allegrezza, levando le mani al cielo e cantando e ballando dentro le loro barche. Questi possono veramente esser chiamati salvatichi, imperochè piú povera gente non è al mondo, né credo che tutti insieme avessero la valuta di cinque soldi, eccetto che le barche e reti. Vanno del tutto nudi, da una picciola pelle in fuori, con la qual si cuoprono le parti vergognose del corpo, e alcune vecchie pelli che si gettano sopra a traverso. Non sono punto della natura e linguaggio de' primi che trovammo. Portano la testa rasa tutta quanta, eccetto che un fiocco di capelli nel piú alto del capo, che lasciano crescer lungo quanto una coda di cavallo, qual ligano sopra il capo in uno groppo con cordelle di corame. Non hanno altra abitazione che sotto le dette barche, quali roversano, e sotto di quelle si distendono sopra la nuda terra; mangiano la carne quasi cruda, solamente la scaldano un poco sopra le bronze, similmente il pesce.
Noi andammo il giorno della Maddalena con le barche dove essi stavano sopra la riva del fiume, e descendemmo liberamente in mezzo di loro: della qual cosa mostrarono allegrezza grande, e si misero tutti gli uomini a cantar e ballar in due o tre bande, facendo gran segni d'allegrezza per la venuta nostra. Aveano fatto fuggir le donne giovani dentro nel bosco, eccetto che due o tre ch'erano restate con loro, a ciascuna delle quali demmo un pettine e una campanella di stagno, delle quali ebbero grande allegrezza, ringraziando il capitano, fregandoli le braccia e il petto con le proprie mani. Gli uomini, vedendo ch'avevamo donato presenti a quelle ch'erano restate, fecero venir quelle ch'erano fuggite nel bosco, acciochè avessero anco loro quanto l'altre. Erano queste da circa venti donne, le quali tutte in un groppo si misero sopra detto capitano, toccandolo e fregandolo con le mani, secondo la loro usanza d'accarezzare; qual dette a ciascuna una picciola campanella di stagno di poca valuta, e subito si misero insieme a ballare, dicendo molte canzoni. Noi vi trovammo gran quantità di sgombri che essi avevano pigliati a riva presso da terra, con certe reti che fanno a posta per pescare, di filo di canape che nasce in quel paese dove stanno d'ordinario, imperochè non vengono al mare se non in tempo del pescare, secondo ch'io intesi. Similmente nascevi del miglio grosso come piselli, simile a quello che nasce nella terra del Brasil, qual mangiano in vece di pane: n'avevano gran copia, e lo chiamano nella lor lingua kapaige. Hanno similmente delle pruni, cioè susine, che seccano come facciamo noi per l'inverno, e le chiamano honesta; de' fichi anco, noci, pomi e altre frutte, e fave che chiamano sahu, le noci cahehya, li fichi, li pomi. Se veniva loro mostrata qualche cosa, quale non abbino né sappino ciò che si sia, scorlando la testa dicono nohda, che vuol dire che non ne hanno e non sanno che cosa sia; di quelle che hanno ci mostravano il modo d'acconciarle e anco come crescono con segni. Non mangiano cosa alcuna dove sia gusto di sale. Sono grandissimi ladroni, che quanto possono rubbano.


Come li nostri piantarono una gran croce sopra la punta dell'entrata del porto, e venuto il capitano di quei salvatichi, dopo un lungo sermone finalmente acquietato dal nostro capitano, rimase contento che due suoi figliuoli andassero con lui.

Alli 24 del detto mese facemmo far una croce alta trenta piedi, e fu fatta in presenza di molti di loro sopra la punta dell'entrata di detto porto; nel mezzo della quale mettemmo uno scudo rilevato con tre fiori di giglio, e sopra una scrittura intagliata nel legno in lettere maiuscole, dove era scritto "VIVE LE ROY DE FRANCE". Dipoi la piantammo in sua presenzia sopra la detta punta, la qual riguardavano nel farla e piantarla; e avendola poi levata in alto, ci inginocchiammo tutti con le man giunte adorandola avanti di loro, e li facemmo segno, risguardando e mostrandoli il cielo, che da quella pendeva la nostra redenzione: della qual cosa si fecero grandissima admirazione, voltandosi fra loro e poi risguardando la detta croce. Ma, essendo noi ritornati alle nostre navi, venne il capitano lor, vestito d'una pelle vecchia d'orso nero, in una barca con tre suoi figliuoli e un suo fratello, quali non s'accostorono tanto appresso la riva come erano soliti, e ci fece un lungo sermone, mostrandoci detta croce e facendo il segno della croce con due deta; poi ci mostrava la terra tutta intorno di noi, come s'avesse voluto dire che tutta era sua, e che noi non dovevamo piantar detta croce senza sua licenza. Avendo egli finito, li mostrammo una manara, fingendo di volergliela dar in cambio della sua pelle: a che egli attese, e cosí a poco a poco si accostò a riva delle nostre navi. Ma un de' nostri compagni, che era dentro il battello, messe la mano sopra la barca, e subito saltò dentro con 2 o 3 altri, e subito lo costrinsero ad entrare nelle navi. Del che restorno tutti attoniti, ma immediate il capitano gli assicurò che non arebbero male alcuno, mostrando loro gran segno d'amorevolezza, facendogli mangiare e bere con grande accoglienza. Dipoi li fu mostrato con segni che detta croce era stata piantata per far dar segno e cognoscenza come s'avesse da entrar in detto porto, e che noi volevamo ritornar quivi presto, e porteremmo delli ferramenti e dell'altre cose; e che volevamo menare con noi due de' suoi figliuoli, e che dipoi li ritorneremmo in detto porto. E cosí vestimmo due de' detti suoi figliuoli di due camicie e saii di colore e berrette rosse, mettendo a ciascuno una catenella d'ottone al collo: delle quali cose si contentarono molto, e dettero li suoi vecchi panni a quelli che ritornavano indietro. Poi donammo alli tre che rimandammo a ciascuno un manaretto e de' coltelli, del che ebbero allegrezza grande. Essendo costoro ritornati a terra e detto le nuove agli altri, circa a mezzodí ritornarono sei barche a riva della nave con 5 o 6 uomini per una, quali venivano per dir a Dio alli duoi che avevamo ritenuti, e li portorono del pesce, facendoci molte parole che non intendevamo, con dimostrarci che non leverebbono via detta croce.


Come, partiti dal porto sopradetto, facendo il cammino dietro quella costa, andarono a cercar la terra ch'era posta verso scirocco e maestro.

Il dí seguente, 25 di detto mese, si levò buon vento e ci partimmo dal detto porto. Ed essendo noi fuora del detto fiume, andammo verso greco levante, imperochè dopo l'entrata di detto fiume la terra è tutta circondata e fa un golfo in forma d'un mezzo circolo, donde dalle nostre navi vedevamo tutta la costa, dietro la qual facendo il camino venimmo a cercar la terra ch'era posta verso scirocco e maestro, il pareggio della quale era distante dal detto fiume da venti leghe.


Del capo di Santo Alvise e capo di Memoransi, e d'alcune altre terre. E come una delle nostre barche toccò un scoglio e subito passò oltre.

Dopo il lunedí 27, essendo il sole per il tramontare, andammo lungo da terra, come detto abbiamo, posta a scirocco e maestro, sino al mercoledí che vedemmo un altro capo dove la terra incomincia a voltarsi verso levante: e andammo lungo di quella da 15 leghe, e dapoi detta terra comincia a voltarsi verso tramontana, e a tre leghe di detto capo v'è di fondo 24 braccia a piombo. Il forzo di dette terre sono piane, e le piú nette e scoperte da boschi ch'abbiamo trovato né veduto, con belle praterie e campagne verdissime. Detto capo fu chiamato capo di Santo Alvise, perciochè in detto giorno era la sua festa, ed è in gradi 49 e mezzo di latitudine e in longitudine. Il mercoledí da mattina noi eravamo verso levante di detto capo, e andammo verso maestro per accostarsi a detta terra ch'era quasi notte, e trovammo che la risguardava tramontana e ostro; doppo detto capo Santo Alvise sino ad un altro, chiamato capo di Memoransi, circa 15 leghe, la terra comincia a voltarsi verso maestro. Noi volemmo scandagliar il fondo da tre leghe intorno da detto capo, ma non ve lo potemmo trovar con 150 braccia; pur andammo lungo di detta terra circa da 10 leghe, fino alla latitudine di 50 gradi.
Il sabbato seguente primo d'agosto, al levar del sole, avemmo notizia e vista d'altre terre che ne restavano verso tramontana e greco, le quali erano altissime e tagliate, e parevano montagne, fra le quali v'erano dell'altre terre basse con boschi e fiumi. Noi andammo attorno dette terre tanto da una banda quanto dall'altra, tirando verso maestro per vedere s'era golfo overo passaggio, sino alli cinque del detto mese. Dall'una terra all'altra vi sono circa quindeci leghe, e il mezzo è cinquanta e un terzo gradi di latitudine. E avemmo difficultà grande di poter andare avanti piú di leghe cinque per li venti grandi e marea contraria che ivi regnano, e non fummo avanti piú di quelle cinque leghe, di dove si vedeva facilmente la terra dall'un canto all'altro, qual comincia a slargarsi. Ma perchè non facevamo altro che discader e andar sotto vento, però ce n'andammo verso terra, per volerci condur sino ad un altro capo di terra che è verso l'ostro, ch'era il piú da lunge e piú in fuora verso il mare che potessimo vedere, distante intorno quindeci leghe. Ma, essendo giunti quivi, trovammo ch'erano rocche, sassi e fondo di scogli; il che non avevamo trovato in tutti li luoghi nelli quali avanti siamo stati verso ostro, dopo il capo di San Giovanni. E in quell'ora v'era la marea che contra vento ci portava verso ponente, di sorte che navigando lungo la detta costa una delle nostre barche toccò sopra un scoglio, e subito passò oltre, ma ci convenne tutti saltar fuori per metterla a seconda della marea.


Come, consultato quel ch'era piú espediente a fare, deliberorono di ritornarsi. Del destretto nominato San Pietro e del capo di Tiennot.

Avendo noi navigato lungo detta costa due ore in circa, ecco che la marea cominciò a venirci incontro, con tanto impeto che non fu mai possibile con tredici remi andar innanzi la lunghezza d'un tratto di pietra: sí che ci convenne lasciar dette barche e parte della gente per guardia, e andar per terra dieci o dodeci uomini sino a detto capo, dove trovammo che detta terra comincia inchinarsi verso garbin. Il che avendo veduto, ritornati alle nostre barche ce ne venimmo alle navi, quali erano a vela, sperando sempre di poter andar innanzi, ma erano discadute di piú di quattro leghe sotto vento dal luogo dove l'avevamo lasciate; dove essendo noi giunti, congregammo insieme tutti li capitani, marinari, maestri e compagni, per aver l'avviso e opinione di quel ch'era piú espediente di fare. Ma, dipoi che l'un dopo l'altro ebbe detto, considerato che i venti grandi da levante cominciavano a regnar e soffiare, e il flusso era tanto grande che non facevamo altro tutta ora che discadere, e che non era possibile al presente di guadagnar cosa alcuna, e le fortune cominciavano a regnar in quel tempo alla Terra Nuova, ed eravamo molto da lungi né sapevamo li pericoli che restavano nel ritorno, e però ch'era tempo di ritirarsi overo fermarsi quivi per tutto il resto dell'anno; oltre di ciò discorrevamo che, se una mutazione de' venti da tramontana ne pigliasse, non saria possibile di partirsi. Le quali opinioni udite e considerate, deliberammo al tutto metterci in via di ritornare.
E perciochè nel giorno di san Pietro noi entrammo in detto distretto, però chiamammo il destretto San Pietro, dove, avendo scandagliato in molti luoghi, trovammo in alcuni centocinquanta braccia, in altri cento, e appresso terra sessanta col fondo netto. Doppo detto giorno sino al mercoledí avemmo vento prospero e grande, che circondammo la detta terra di tramontana, levante, scirocco, ponente e maestro, che tal è il suo sito, eccetto una longhezza d'un capo di terre basse ch'è piú voltata verso scirocco, discosto intorno a venticinque leghe da detto stretto. In questo luogo vedemmo de' fumi che la gente di detto paese faceva sopra il detto capo, ma, perciochè il vento ne spingeva verso la costa, non ci accostammo. E loro, vedendo che non ci accostavamo, vennero con due barche con dodeci uomini in circa, quali s'accostarono alle nostre navi cosí liberamente come se fossero stati Francesi, e ne dettero ad intendere che venivano dal Golfo Grande e ch'era capitano suo Tiennot, qual era sopra quel capo, facendone segni che si ritiravano nel loro paese, donde noi con le navi eravamo partiti, ed erano carichi di pesci. Noi chiamammo il detto capo capo di Tiennot. Dapoi detto capo tutta la terra è posta verso levante, scirocco, ponente e maestro: e tutte queste terre sono basse, belle, tutte circondate di sabbioni, dove è il mare con paludi e secche per spazio di venti leghe; e poi comincia la terra a voltarsi di ponente a levante e greco, tutta quanta circondata da isole, discosto da terra circa due o tre leghe, nelle quali, per quello che ne parse, vi sono delle secche pericolose, piú di quattro o cinque leghe longi da terra.


Come alli nove d'agosto entrarono dentro Bianco Sabbione, e alli cinque di settembre arrivorono al porto San Malò.

Dopo detto mercoledí sino al sabbato avemmo vento grande da garbin, che ne fece tirar verso greco levante, e arrivammo quel giorno alla terra di levante di Terra Nuova, fra le Grange e capo Doppio. Quivi cominciò il vento da levante con fortuna, con impeto grande: per il che voltammo il capo verso maestro e tramontana per andar a veder la banda di tramontana, che è, come detto abbiamo, tutta circondata d'isole. Ed essendo presso dette isole e terra, si cambiò il vento e venne da ostro, che ne condusse dentro detto golfo, sí che il dí seguente, alli nove d'agosto, entrammo dentro Bianco Sabbione, per la Dio grazia. E questo è quanto abbiamo scoperto.
Dipoi alli quindeci d'agosto, la festa dell'Assunzione della Madonna, ci partimmo di conserva dal porto di Bianco Sabbione dopo ch'avemmo udita la messa, e con felice tempo ce ne venimmo sino a mezzo il mare ch'è tra la terra nuova e Bertagna, nel qual luogo corremmo tre giorni continui con fortuna grande e con venti da levante; la qual però con l'aiuto e laude di Dio sopportammo, e dipoi avemmo tempo buono, di sorte che alli cinque di settembre nel detto anno arrivammo al porto San Malò, donde eravamo partiti.


Linguaggio della terra nuovamente scoperta chiamata
la Nuova Francia.



Iddio

il sole

isnez

idella

suroe

cielo

giorno

camet

notte

aiagla

acqua

ame

sabbione

estogaz

vela

aganie

testa

agonaze

gola

conguedo

naso

hehonguesto

denti

hesangue

unghie

agetascu

piedi

ochedasco

gambe

anoudasco

morto

amocdaza

pelle

aionasca

quello

yca

un manaretto

asogne

molve pesce

gadogoursere

buon da mangiar

quesande

carne

amandole

anougaza

fighi

asconda

oro

henyosco

il membro natural

assegnega

un arco

latone

aignetaze

la fronte

ansce

una piuma

yco

luna

casmogan

terra

conda

vento

canut

pioggia

onnoscon

pane

cacacomy

mare

amet

nave

casaomy

uomo

undo

capelli

hochosco

occhi

ygata

bocca

heche

orecchie

hontasco

braccia

agescu

donna

enrasesco

mallato

alouedeche

scarpe

atta

una pelle da coprire le parti vergognose

ouscozon uondico

panno rosso

caboneta

coltello

agoheda

sgombro

agedoneta

noci

caheya

pomi

honesta

fave

sahe

spada

achesco

una frezza

cacta

arbore verde

haueda

un pittaro di terra

undaco





Breve e succinta narrazione della navigazione fatta per ordine della Maestà cristianissima all'isole di Canada, Hochelaga, Saguenai e altre, al presente dette la Nuova Francia, con particolari costumi e cerimonie degli abitanti.


Nell'anno del Signore 1535, la domenica di Pasqua di Pentecoste, alli sedeci del mese di maggio, di comandamento del capitan Iacques Carthier e di commune consenso ci confessammo tutti devotamente e communicammo insieme nella chiesa episcopale di S. Malò, e dopo ricevuto il santo sacramento, entrati nel coro di detta chiesa per presentarci al conspetto del reverendissimo padre in Cristo monsignor di San Malò, il quale in abito episcopale ci dette la benedizione. Il mercoledí seguente, a' diecinove di maggio, levossi buono e conveniente vento: per il che facemmo vela con tre navi, cioè la Grande Hermina, di portata di cento in centoventi botte, nella quale era il detto capitano generale, e per patrone messer Thomas Frosmont, Claudio di Ponte Briand, figliuol del signore di Montcevel e coppiere di monsignor lo dolfino, Carolo della Pommerayes, Giovan Poullet e altri gentiluomini; nella seconda, chiamata la Picciola Hermina, di portata di sessanta botte, era capitano sotto detto Carthier Mace Salobert, e messer Guiglielmo il Marie; nella terza nave, chiamata Hemerillon, di portata di quaranta botte in circa, era capitano messer Guiglielmo il Bretton e messer Giacomo Maingare.
Navigammo dunque con buon tempo fino alli venti del detto mese di maggio, nel qual voltossi il tempo in fortuna e tempesta, la quale con venti contrarii e oscurità ci durò tanto quanto mai abbino patito navi che passassero il mare, senza mai punto acquietarsi: di sorte che alli 25 di giugno per il detto cattivo tempo e oscurità ci perdemmo tutte le tre navi di vista, né piú sentimmo nuova l'una dell'altra sino alla Terra Nuova, dove avevamo limitato di trovarsi insieme. Dapoi che ci perdemmo, fummo con la nave generale per il mar or qua or là battuti da contrarii venti fino alli sette di luglio, nel qual dí arrivammo alla terra nuova e smontammo nell'isola detta degli Uccelli, la qual è distante dalla terra grande 44 leghe. Questa isola è tanto piena d'uccelli che tutte le navi di Francia facilmente potrebbono caricarsene, e nondimeno non si conoscerebbe esserne stato tolto pur uno: noi ne pigliammo due barche piene per parte delle vettovaglie nostre. Essa isola è nell'elevazione del polo di gradi 49, minuti 40.
Alli otto del detto mese facemmo vela, e con buon tempo venimmo al porto di Bianco Sabbione, qual è nel golfo detto de' Castelli, nel quale avevamo determinato d'aspettarci e trovarci insieme alli 15 del detto mese. Ivi dunque stemmo aspettando i compagni nostri, cioè l'altre navi, sino a' 26, nel qual dí amendue arrivorono insieme. Giunti che furono i compagni, mettemmo ad ordine le navi, pigliando acqua e legne e altre cose necessarie. E dapoi, alli 29 del detto mese, sul ponto dell'alba facemmo vela per passar piú oltra, e navigando lungo di quella costa di tramontana, la qual corre verso greco levante e ponente garbino, fino ad un'ora e mezza di notte intorno: e allora amainammo per traverso di due isole, quali si distendono fuora piú che l'altre isole, che chiamammo di San Guiglielmo, distante intorno venti leghe e piú dal porto di Brest. Tutta questa costa dalli Castelli sin qui è posta verso levante ponente, greco e garbino, avendo per mezzo parecchie isole e terre tutte sterile e sassose, senza alcun terreno né arbore da certe valli in fuori.
Il seguente dí, penultimo del detto mese, andammo verso ponente per avere notizia d'altre isole che ne restavano discosto intorno 12 leghe e mezza, tra le quali è una staria grande verso tramontana. tutta piena d'isole e golfi grandi, dove par che siano parecchi buoni porti: e le chiamammo isole di Santa Marta, fuori delle quali intorno da una lega e mezza in mare v'è una secca molto pericolosa, dove vi sono 4 o 5 scogli, che restano per il traverso de' detti golfi nel camino di levante e ponente delle dette isole di Santa Marta da circa 7 leghe. Alle quali arrivammo il detto giorno un'ora dopo mezzogiorno, e da quell'ora insino a mezzanotte navigammo da quindeci leghe per traverso d'un capo d'isole basse, le quali chiamammo di San Germano, verso scirocco, del quale da circa tre leghe v'è una secca molto pericolosa. Similmente tra il detto capo di San Germano e Santa Marta v'è un banco d'arena, fuora di dette isole intorno da due leghe, sopra del quale non è alta l'acqua piú di quattro braccia: per il che vedendo il pericolo di detta costa calammo le vele, né piú avanti andammo quella notte.
Il seguente giorno, ultimo di luglio, andammo lungo detta costa, qual corre levante e ponente quarta di scirocco, che è tutta circondata d'isole e secche e in somma è molto pericolosa, la qual è lunga dal capo dell'isole di San Germano fino al fin di dette isole intorno a diciasette leghe e mezza; nel fine delle quali v'è una molto bella terra bassa piena di grandi e alti alberi, quantunque il resto di detta costa sia circondato di sabbione, senza alcun segno o apparenza di porto, insino al capo di Thiennot, qual si rivolta verso maestro da circa sette leghe da dette isole: il qual capo di Thiennot noi conoscemmo nel precedente viaggio. E per tanto noi navigammo tutta quella notte verso ponente e maestro fino al giorno, che 'l vento si voltò in contrario, per il che andammo a cercar un porto da metter le navi, e trovammone uno assai buono oltra il capo Thiennot d'intorno sette leghe e mezza, il quale chiamammo il porto di San Nicolò, ed è in mezzo di quattro isole che s'estendono nel mare, sopra la piú propinqua delle quali piantammo una croce di legno per segno. E nota che bisogna voltar la detta croce verso greco, e poi andar alla volta di quella e lasciarla da man manca, e troverai di fondo sei braccia, e per dentro di detto porto quattro braccia, ma bisogna avertire di due secche che restano da due bande in fuora mezza lega: e tutta questa costa è molto pericolosa e piena di secche, e quantunque paia in vista esservi molti buoni porti, non v'è però altro che secche e sabbioni.
Noi ci fermammo nel detto porto per fino alla domenica al settimo d'agosto, nel qual giorno facemmo vela e ce ne venimmo a trovare alla terra della banda di qua verso il capo di Rabast, distante dal detto porto intorno di venti leghe, greco tramontana, ostro garbin. Ma il seguente giorno levosse vento contrario, e perciochè non trovammo niun porto nella terra verso mezzodí, ce n'andammo scorrendo verso tramontana oltra il sopradetto porto da circa dieci leghe, ove trovammo un molto bello e gran golfo, pieno d'isole e buone entrate e passaggi verso qual vento si possi fare. Per notizia di questo golfo v'è una grande isola, che è come un capo di terreno, che esce piú in fuora che l'altre, e sopra la terra intorno da due leghe v'è una montagna fatta a guisa d'un colmo di grano. Noi chiamammo detto golfo San Lorenzo.
Il duodecimo dí del detto mese ci partimmo dal detto golfo San Lorenzo andando verso ponente, e venimmo a trovare un capo di terra verso ostro, che corre verso ponente una quarta di garbin dal detto porto San Lorenzo circa venticinque leghe. E dalli duoi salvatichi che avevamo presi nel precedente viaggio ci fu detto che questa era della terra verso mezzodí, e che v'era un'isola, dalla parte della qual di mezzodí v'era la via d'andare a Honguedo, dove l'anno precedente gli avevamo presi, in Canada, e che a due giornate dal detto capo e isola incominciava il regno di Saguenay, nel paese verso di tramontana tirando verso di Canada. E al traverso dal detto capo intorno tre leghe v'è di fondo piú di cento braccia, né credo che mai siano state vedute tante balene quante noi ne vedemmo questo giorno al traverso del detto capo. Il seguente giorno della Madonna d'agosto, a' quindeci del detto mese, avendo passato il destretto la notte innanzi, avemmo notizia di terre che ci restavano verso mezzodí, che è un paese pieno di grandi e molto alte montagne: sí che 'l capo sopradetto fu chiamato da noi isole dell'Assonzione, e un capo de' detti paesi alti riguarda greco levante e ponente garbin, tra' quali è distanzia di venticinque leghe in circa; e veggonsi li paesi verso tramontana ancora piú alti che non son quelli verso mezzodí per piú di trenta leghe.
Noi andammo all'intorno di dette terre di verso ostro, dopo il detto giorno, sino al martedí a mezzogiorno, che 'l vento venne di ponente: per il che voltammo verso tramontana, per andare a trovare le terre già da noi vedute. Quivi giunti, trovammo dette terre congiunte e basse verso il mare, e le montagne verso tramontana, che sono sopra le dette terre basse, che corrono verso levante e ponente quarta di garbin. Li nostri salvatichi ci dissero che quivi era il principio di Saguenay, e terra abitabile, e che di quivi viene il rame rosso da loro chiamato caignetdaze. V'è tra le terre d'ostro e quelle di tramontana la distanzia di trenta leghe in circa, e piú di dugento braccia di fondo. Ci dissero anco i detti salvatichi e certificorono quivi essere il cammino e principio del gran fiume di Hochelaga e strada di Canada, il qual fiume s'andava sempre restringendo a poco a poco fino a Canada, e che poi si trovava l'acqua dolce, la quale andava tanto in su che mai non avevano udito dire che uomo alcuno vi fosse stato sino al capo, e che non v'è altro passaggio se non con piccioli battelli. Per il che il capitano nostro, vedendo il loro parlare, e che affermavano non esservi altro passaggio, non volse andar piú oltre fin che 'l non aveva veduto il resto delle terre e costa verso tramontana, le quali aveva pretermesso di vedere dapoi il golfo di San Lorenzo, per volersi chiarire se nelle terre verso mezzodí avessino scoperto alcuno passaggio.


Come il nostro capitano fece ritornar le navi indietro per aver notizia se nel golfo di San Lorenzo v'era alcun passaggio verso tramontana.

Il mercoledí seguente, a' diciotto d'agosto, il nostro capitano fece ritornar le sue navi indietro e metter il capo all'altra riva, sí che circondammo la detta costa di tramontana, la quale corre greco garbino facendo uno mezzo arco, che è una terra molto alta non tanto però quanto quella del mezzodí. Il giovedí seguente arrivammo a sette isole molto alte, le quali chiamammo l'isole Rotonde: sono queste isole distanti dalle terre dell'ostro intorno 40 leghe, e si stendono fuora nel mare da tre in quattro leghe, piú e manco. Incontro queste v'è un principio di terre basse, piene di begli arbori, le quali terre noi circondammo il venerdí con le nostre barche. Per traverso di queste terre vi sono parecchi scagni di sabbione piú di due leghe nel mare, molto pericolosi, i quali quando il mare è basso si scoprono. In capo di quelle basse terre, quali durano e contengono dieci leghe, v'è un fiume d'acqua dolce, che con tanto impeto sbocca in mare che piú d'una lega l'acqua è tanto dolce in mare quanto se la fosse di fontana. Noi entrammo in detto fiume con le nostre barche, e trovammo nell'entrar l'acqua piú alta d'un braccio e mezzo. E sono in questo fiume parecchi pesci, quali hanno forma di cavallo, e vengono la notte in terra e il giorno stanno nell'acqua, sí come ci dissero i nostri duoi salvatichi: e di detti pesci ne vedemmo gran numero in detto fiume.
Il seguente giorno, a' ventuno del detto mese, la mattina all'apparir dell'alba facemmo vela, e scorremmo lungo d'essa costa tanto ch'avemmo notizia del restante di detta costa di tramontana, che non avevamo ancora veduto, e dell'isola dell'Assunzione, che eravamo stati a trovar al partir della detta terra. Ma, subito scorsa detta costa e certificati che non v'era passaggio alcuno, ritornammo alle nostre navi, le quali avevamo lasciate a dette sette isole, dov'è assai buono sorgitor a diciotto o venti braccia d'acqua e sabione. In questo luogo siamo stati, senza poterne uscire né far vela per causa de' venti contrarii e caliggine, sino alli ventiquattro del detto mese, che ci partimmo e andammo ad arrivar ad un porto della costa di mezzodí, distante circa ottanta leghe da dette sette isole. Questo porto è per traverso di tre isole piatte, quali sono per mezzo d'un fiume, perciochè a mezza strada di dette isole e porto, verso tramontana, v'è un fiume molto grande, qual è tra l'alte e basse terre, e fa parecchi scagni dentro nel mare piú di tre leghe: ch'è luogo molto pericoloso, perchè sono due braccia a manco d'acqua, e appresso la costa di detti banchi vi sono quindeci e venti braccia da riva a riva. Tutta quella costa di tramontana corre greco tramontana e garbino ostro. Il porto predetto, nel qual ci fermammo alla terra d'ostro, è porto dell'acque del flusso e di poca valuta. Noi le chiamamo l'isolette di San Giovanni, perciochè nel giorno della decollazione del detto santo noi v'entrammo. E avanti che s'arrivi al detto porto v'è un'isola verso levante, da esso distante intorno a cinque leghe, dove non v'è passaggio alcuno fra terra ed essa, eccetto per barchette picciole. Detto porto dell'isolette San Giovanni disecca tutte l'acque del flusso, le quali crescono per il flusso sino a braccia due. Il miglior luogo da metter navi è verso l'ostro d'una picciola isoletta, qual è per mezzo di detto porto, e fa la riva di detta isola.
Noi ci partimmo di detto porto il primo di settembre per andar verso Canada, e intorno quindeci leghe da detto porto verso ponente e garbin sono tre isole per mezzo del detto fiume, per traverso delle quali v'è il fiume molto profondo e corrente, quale è quello per il qual si va nel reame e terra di Saguenai, sí come ne fu detto dai duoi salvatichi del paese di Canada. E questo fiume passa per alte montagne di nuda pietra, dove non è se non pochissima terra, e nondimeno v'è gran quantità d'arbori di molte sorti, i quali crescono sopra detta pietra nuda né piú né manco che sopra buon terreno, di sorte che n'abbiam veduto uno cosí grande che saria bastante di far arbore da nave di trenta botte, e cosí verde quanto sia possibile di vedere, il quale era sopra una roccia di pietra, senza aver alcun nutrimento di terra. Nell'entrar di quel fiume scontrammo quattro barche di salvatichi, quali venivano verso di noi con gran paura e timore, di sorte che una parte d'essi ritornò indietro, e l'altra venne tanto appresso che poteron intendere uno de' nostri salvatichi, qual gli disse il suo nome e fecesi conoscere, e li fece venir sicuramente.
Il dí seguente, a' duoi di settembre, uscimmo fuora di detto fiume per andare alla volta di Canada, e trovammo il flusso del mare molto corrente e pericoloso, perciochè verso l'ostro di detto fiume sono due isole, nel circoito delle quali a piú di tre leghe l'acqua non è alta piú di due braccia, e vi sono infiniti sassi e pietre grandi come tonnelli e botte. E il flusso per dentro dette isole è molto inconstante e inganna, di maniera che fummo in pericolo di perder il nostro galione, se non fosse stato il soccorso delle nostre barche: e alla costa di dette secche è alta l'acqua piú di trenta braccia. Passato detto fiume di Saguenai d'intorno 5 leghe verso garbin, trovasi un'altra isola dalla banda di tramontana, nella quale sono alcune terre molto alte, per traverso delle quali pensammo di metter l'ancore per fermarci contro il reflusso: e non potemmo trovarvi fondo con cento e venti braccia ad un trar d'arco da terra, di sorte che fummo constretti di ritornar verso detta isola, ove trovammo trentacinque braccia e piú di fondo. Il dí seguente da mattina facemmo vela e ci partimmo per passar oltre, e avemmo notizia d'una certa sorte di pesce non piú veduta da alcuno né conosciuta. Sono questi pesci cosí grossi come marsovini, senza però simigliarli punto, e assai ben formati di corpo, e hanno il capo come un can levriero, tutti bianchi come neve, senza macchia alcuna: e ve n'è quantità grande dentro detto fiume, i quali vivono tra il mare e l'acqua dolce. Quelli del paese li chiamano adhothuys, e ne hanno detto che sono molto saporiti e buoni da mangiare; e piú dicono e affermano che altrove che nella bocca di detto fiume non se ne trova.
Il sesto giorno del detto mese, essendo il tempo bello, andammo all'insú del detto fiume da quindeci leghe, e venimmo a sorgere ad un'isola che riguarda alla volta di tramontana e fa un picciolo porto e staria di terra, nella qual sono innumerabili e grande testuggini, che se ne stanno intorno a questa isola. Similmente d'intorno di detta isola fassi gran pescheria di adhothuys dagli abitanti di quel paese, e vi è cosí gran correntia come in Bordeos di flusso e reflusso. Questa isola ha di lunghezza intorno tre leghe e di larghezza due, ed è terra molto buona e grassa, piena di belli e grandi arbori di parecchie sorti: e tra gli altri vi sono molti nosellari domestichi, quali trovammo tutti carichi di noselle piú grosse e saporite che non sono le nostre, ma un poco piú durette; per il che la chiamammo l'isola de' Nosellari.
Il settimo giorno di detto mese, la vigilia della Madonna, dopo udita la messa ci partimmo di detta isola per andar all'insú di detto fiume, e arrivammo a quattordeci isole distanti dall'isole de' Nosellari intorno sette in otto leghe: e quivi è il principio della provincia e terra di Canada; delle quali isole ve n'è una grande di longhezza da dieci leghe e cinque di larghezza, la qual è molto abitata da persone che fanno gran pescheria d'ogni sorte di pesce che si trova per dentro detto fiume, secondo la loro stagione. Avendo noi posta l'ancora tra questa grande isola e la terra di tramontana, dismontammo e menammo li detti duoi nostri salvatichi, e trovammo molti di quel paese, i quali non volevano punto accostarsi a noi, anzi fuggivano, insino che i detti due nostri uomini cominciarono a parlargli e dirli ch'essi erano Taignoagny e Domagaya: e allora, subito riconosciuti, li cominciorono a far allegrezza, ballando e facendo molte cerimonie. E vennero alle nostre barche alcuni de' principali, portandoci pur assai anguille e altre sorti di pesci, con due o tre cariche di miglio grosso, del qual essi fanno il suo pane in detta terra, con molti e grossi melloni. In questo giorno vennero anco molte barche piene di gente di quel paese, sí uomini come donne, per veder e far accoglienza alli detti nostri duoi uomini; quali tutti furono cortesemente ricevuti dal nostro capitano, che li fece carezze quanto li fu possibile, e per farseli amici li donò alcuni piccoli presenti di poca valuta, de' quali però rimasero contentissimi.
Il seguente giorno il signor di Canada, chiamato Donnacona per nome (ma per signore il chiamano agouhanna), venne con dodeci barche, accompagnato da molta gente, appresso le nostre navi: e fattene ritirar dieci indietro, s'accostò con due solamente alla banda delle nostre navi, accompagnato da sedeci uomini. Poi cominciò detto agouhanna all'incontro della piú picciola delle nostre navi a far una predica secondo il modo loro e usanza, movendo tutto il corpo e le membra di strana e maravigliosa sorte, la qual cosa è cerimonia e segno d'allegrezza e sicurtà. Essendo poi giunto appresso la nave generale, nella quale erano Taignoagny e il suo compagno, parlò con loro ed eglino con lui, cominciandoli a narrar quello ch'aveano veduto in Francia, e il buon trattamento fatto loro: delle qual cose detto signor fu molto allegro, e pregò il capitano che li porgesse il suo braccio per baciarlo e metterselo sul collo, che è il modo come fanno carezze in quella terra. Allora il capitano entrò nella barca di detto agouhanna e fece portar pane e vino, per far bere e mangiar detto signor con la sua compagnia, il che fu fatto, e loro rimasero molto contenti e sodisfatti: e per allora non li fu fatto presente alcuno, aspettando tempo e opportunità. Dopo queste cose tolsero licenzia e si partirono l'un dall'altro, e detto signor si partí con le sue barche per ritirarsi al suo luogo, e il capitano fece apparecchiar le sue barche per passar oltre e andar al insú del detto fiume con flusso, per cercar luogo e porto sicuro da metter le navi. E andammo al contrario per detto fiume intorno di dieci leghe, costeggiando detta isola, e in capo di quella trovammo un gorgo d'acqua bello e ameno, nel qual luogo è un picciol fiume e porto, dove per il flusso è alta l'acqua intorno a tre braccia. Ne parve questo luogo commodo per metter le nostre navi, per il che quivi le mettemmo in sicuro, e lo chiamammo Santa Croce, perciochè nel detto giorno v'eramo giunti. Presso di questo luogo è un villaggio del qual è signor detto Donnacona, il qual quivi fa la sua residenzia. Chiamasi questo luogo Stadacona, terra tanto buona quanto sia possibile di vedere, ed è molto fertile, piena di bellissimi arbori della sorte di quelli di Francia, come sarebbeno quercie, olmi, frassini, nogare, nassi, cedri, vigne, spini bianchi, i quali producono il frutto cosí grosso come susini damaschini, e di molte altre specie d'arbori, sotto de' quali vi nasce e cresce cosí bel canapo come quel di Francia: e nondimeno vi nasce senza semenza e senza opera umana né lavoro alcuno. Avendo considerato detto luogo e trovatolo buono, si ritirò il detto capitano con la sua gente per ritornare alle navi. Ma, mentre uscimmo di detto fiume, ecco che trovammo a riscontro di noi uno de' signori di detto villaggio di Stadacona, accompagnato da molta gente, sí uomini come donne e piccioli fanciulli, il quale cominciò a far una predica all'usanza e modo del paese, in segno d'allegrezza e sicurtà. Le donne cantando ballavano tuttavia, e nondimeno erano in acqua sino alle ginocchia. Il nostro capitano, conoscendo il loro buon animo e amorevolezza, fece accostare la barca nella quale essi erano, e gli dette de' coltelli e picciole corone di vetro: delle qual cose ebbero maravigliosa allegrezza, di sorte che, essendo noi partiti da loro e discosto intorno a tre miglia, li vedevamo ballare e udivamo cantare, dimostrandosi lieti per la venuta nostra.


Come il capitano andò a veder la grandezza dell'isola e natura di quella, e ritornò alle navi e le fece menar al fiume Santa Croce

Dipoi che fummo giunti con le barche alle navi, ritornati dal fiume Santa Croce, il capitano comandò che s'apparecchiassero le barche per andar a terra in detta isola e vedere gli arbori, i quali in vista parevano bellissimi, e considerare la natura e qualità del terreno d'essa isola: il che fu fatto, e la trovammo piena di molti begli arbori della sorte de' nostri, similmente vigne pur assai, cosa non piú veduta in tutto quel paese da noi, per il che la chiamammo l'isola di Bacco. Ha questa isola di lunghezza intorno dodeci leghe, ed è molta bella in vista, ma piena di boschi, senza esservi lavorata parte alcuna, eccetto che in alcuni luoghi vi sono certe casuzze dove stanno a pescare, sí come per innanci avemo fatta menzione. Il dí seguente ci partimmo con le navi per menarle in detto luogo di Santa Croce, e v'arrivammo alli quattordici del detto mese, e ne vennero incontro li detti Donnacona, Taignoagny e Domagaya con venticinque barche piene di quelle genti, quali venivano dal luogo d'onde eravamo partiti e se n'andavano a Stadacona, dove è la loro stanza. E tutti quanti vennero alle nostre navi facendo e mostrando parecchi segni di gioia e allegrezza, eccetto li nostri duoi ch'avevamo menati con noi, cioè Taignoagny e Domagaia, i quali parevano mutati di pensiero e animo, né piú volevano in modo alcuno intrar nelle nostre navi, non obstante che fossero molte volte pregati: per il che incominciammo a dubitar di loro né piú fidarsi. Il capitano gli domandò se volevano secondo che gli avevano promesso d'andar con lui ad Hochelaga, ed essi risposero de sí, e che ciò avevano deliberato, cioè d'andarvi, e allora ciascuno si ritirò.
Il dí seguente, che fu alli quindeci, il detto capitano andò a terra per far piantar pali e marche, per piú sicuramente metter le navi a salvamento. Ed ecco che quivi vennero incontra molti di quel paese, tra i quali v'era il detto Donnacona e i nostri duoi uomini con la lor compagnia, i quali si tennero da parte sotto una punta di terra, qual è sopra la riva d'un fiume, senza che alcun di loro venisse a noi, sí come facevano gli altri che non erano dalla lor banda. Ma il capitano, intendendo che v'erano, comandò a parte della sua gente che lo seguitassero, e andossene verso di loro sotto detta punta, dove ritrovò li detti Donnacona, Taignoagny, Domagaia con parecchi altri. E dapoi salutatisi insieme, Taignoagny si fece innanzi per parlar col capitano, dicendo che detto signor Dannacona si ramaricava perciochè esso capitano con li suoi portassero arme da guerra, perciochè dal canto loro nessuno ne portava: al che rispose il capitano che, quantunque dispiacesse loro, non lascierebbe però di portarle, e che quella era l'usanza di Francia, sí come egli sapeva. Ma nondimeno, con tutte queste parole, non restarono detto capitano e Donnacona di parlar insieme l'un con l'altro lietamente e farsi grata accoglienza. Allora ci accorgemmo che quanto aveva detto Taignoagny non procedeva da altri che da lui e dal suo compagno, perciochè, avanti che si partissero di detto luogo, detto capitano e Donnacona fecero una securità e amicizia di maravigliosa sorte: del che tutto il popolo di detto signor Donnacona ad un tratto gettò e fece tre gridi grandi a piena voce, che fu cosa orribile ad udire. E, presa licenzia l'una parte dall'altra, noi ci ritirammo a riva per quel giorno.
Il dí seguente del detto mese noi mettemmo le due piú grandi navi dentro detto fiume e porto, dove, essendo l'acque alte, v'è fondo di tre braccia, e quando sono basse di mezzo braccio; il galione lasciammo fuora del sorgitore per menarlo ad Hochelaga. Subito che dette navi furono dentro il porto e in sicurtà, ecco che vedemmo Donnacona, Taignoagny e Domagaia con piú di cinquecento fra uomini, donne e fanciulli piccolini: ed entrò dentro le navi detto signore con dieci o dodeci de' piú grandi personaggi del paese, i quali furono tutti cortesemente accarezzati dal capitano e da tutti li suoi, e furonli dati certi presenti piccioli. Poscia Taignoagny disse al capitano che detto signore si doleva perciochè egli voleva andar in Hochelaga, e che non voleva punto ch'esso che gli parlava andasse con lui, perciochè il fiume non era d'importanza. Il capitano li rispose che con tutto questo non lascierebbe d'andarvi, se li fusse possibile, imperochè aveva comandamento dal re suo signor d'andar piú inanti che fosse possibile, e che s'egli, cioè Taignoagny, voleva andarvi, sí come aveva promesso, gli sarebbe fatta buonissima compagnia e un presente del quale rimarrebbe contento, e che 'l non arebbe da far altro che andar e venir da Hochelaga. Al che Taignoagny rispose che non voleva andarvi punto. E subito si ritirorono alle loro case.
Il dí seguente, che fummo a' 17 di settembre, Donnacona e gli altri ritornorono come prima, portando seco molte anguille e altre sorti di pesci che si prendono in gran quantità in detto fiume, come diremo di sotto, e subito giunti presso le navi cominciorono a cantar e ballar secondo ch'erano soliti. Fatto questo, Donnacona fece metter tutte le sue genti da una banda, dipoi fece un cerchio sopra del sabbione, dentro del qual fece metter il capitano e tutta la sua gente, e allora incominciò una predica, tenendo in una delle sue mani una fanciulla d'età di dieci o dodeci anni, la quale presentò al nostro capitano: e subito tutto il popolo di detto signore si messe a far tre gridi e urli grandi, in segno d'allegrezza e colliganza. Poscia di nuovo li fece un presente di dua piccioli fanciulli di minor età, un dopo l'altro, per i quali fecero simil gridi e cerimonie, sí come disopra aveano fatto: de' quali presenti il nostro capitano ringraziò molto detto signore. Allora Taignoagny disse al capitano che uno de' detti fanciulli era suo fratello e la fanciulla era figliuola della sorella del detto signore, e che gli erano fatti questi presenti da loro acciò ch'egli non andasse punto ad Hochelaga. A questo rispose il capitano che se gli avevan dati con questa intenzione e fine, che s'egli non voleva, che li ripigliassero, e che per cosa alcuna non voleva restar d'andarvi, perciochè cosí gli era stato comandato. Ma sopra di queste parole Domagaia, compagno del detto Taignoagny, disse al capitano che detto signor gli aveva fatti questi presenti di fanciulli in segno d'amorevolezza e sicurtà, e che esso era contento d'andar con lui ad Hochelaga. Sopra il che vi furon di gran parole fra detti Taignoagny e Domagaia.
Allora ci accorgemmo chiaramente che Taignoagny era un tristo, e che non pensava altro che male e tradimento, sí per questo atto come eziandio per altri, li quali avevamo veduto fare. Dopo questo il capitano fece metter detti fanciulli nelle navi, e fecesi portar due spade e duoi bacini di rame, uno piano e schietto, l'altro lavorato, da lavar le mani, e ne fece un presente al detto signor Donnacona, il quale molto se ne contentò e resene grazie al capitano. E subito comandò detto Donnacona a tutta la sua gente che cantassero e ballassero; poscia pregò il capitano che volesse far tirar un colpo d'artiglieria, perciochè detti Taignoagny e Domagaia ne facevano gran conto e aveangli detto cose grandi, e anco perchè né esso né gli altri mai piú ne avevano sentito né veduto. A questo rispose il capitano che volentieri, e subito comandò alli suoi che tirassero dodeci cannoni con le balle per traverso del bosco qual era presso dette brigate e navi: per la qual cosa rimasero tanto stupefatti e attoniti, e pensarono che 'l cielo gli fosse caduto adosso, per il che si misero in tanta paura e gridare e urlare che pareva quivi esser aperto e votato l'inferno. Ma, avanti che si partissero, Taignoagny fece dir per interposte persone che quelli del galion che era restato nel sorzidor avevano ammazzati duoi della sua gente con un colpo d'artiglieria, per il che si misero a fuggire con tanta furia come se gli avessimo voluti amazzare: il che poi non si trovò esser la verità, perciochè in tutto quel giorno quelli del galione non avevano tirato artiglieria alcuna.


Come li detti Donnacona e Taignoagny e altri s'imaginarono una astuzia, e fecero vestir tre uomini in forma di diavoli, i quali fingevano esser venuti da parte del loro iddio Cudruaigni per impedirne il viaggio d'Hochelaga.

Il seguente giorno, 18 del detto mese di settembre, sforzandosi costoro tuttavia d'impedirne il viaggio d'Hochelaga, s'imaginarono uno inganno, come si dirà. Eglino acconciorono tre uomini in forma di diavoli, con le corna lunghe un braccio e in dosso pelle di cani negri e bianchi, e il viso dipinto di negro com'è il carbone, e li fecero metter dentro in una delle lor barche nascosamente da noi; né con la lor compagnia secondo il solito vennero presso le nostre navi, ma stettero ascosi dentro del bosco senza mostrarsi alcuno da circa 2 ore, aspettando che la marea crescesse acciochè potesse arrivar detta barca. La qual ora venuta, tutti quanti uscirono del bosco e si presentarono dinanzi alle navi, senza però accostarsi punto, sí come prima solevano. Allora Taignoagny cominciò a salutar il capitano, qual li dimandò se voleva il battello; egli rispose di no per allora, ma che de lí ad un pezzo entrerebbe nelle navi. E incontinente arrivò detta barca con li detti tre uomini, che parevano tre diavoli, avendo cosí gran corne sopra la testa, e veniva quello di mezzo facendo un maraviglioso sermone. Passorono al longo delle nostre navi senza voltar punto il viso verso di noi, e andarono a dar in terra con detta barca: e subito detto signore Donnacona e la sua gente la presero insieme con i detti tre uomini, quali s'erano lasciati cascar sopra il fondo di quella come se fossero morti, e il tutto insieme portorono dentro del bosco, che era distante de lí un trar di pietra; né vi restò pur un solo davanti le navi, che tutti non si ritirassero con gli altri nel bosco. Dove stando cominciorono a far una predica e sermone, la qual udimmo dalle navi, che durò intorno di mezza ora; la qual finita, uscirono detti Taignoagny e Domagaia venendo verso le nostre navi, tenendo le mani giunte in alto e il cappello sotto la lor vesta, mostrando grande ammirazione. E Taignoagny cominciò a dire, alzando gli occhi verso il cielo, tre volte: "Iesus, Iesus, Iesus". Poscia Domagaia, anch'egli levando gli occhi verso il cielo come l'altro, disse: "Iesú Maria, Iacques Carthier". Il capitano, vedendoli far simili atti e cerimonie, li domandò quel che aveano, e che cosa vi fosse intravenuta di nuovo; ed eglino risposero che v'era soppragiunta una cattiva nuova, dicendo in francese: "Nenni est il bon", cioè "Non è ella bona". Il capitan dimandò loro un'altra fiata che cosa fosse, e allora risposero che l'iddio loro, chiamato Cudruaigni, aveva parlato in Hochelaga, e che quelli tre uomini erano venuti da parte sua per dir loro la nuova, che v'era tanto ghiaccio e neve che coloro i quali v'andarebbono morrebbono tutti quanti. Le quali parole udendo, noi tutti ce ne ridemmo e femmoci beffe, dicendoli che 'l loro iddio Cudruaigni era un matto e scempio e che non sapeva quello che si dicesse, e che facessero intender a detti messaggieri da parte nostra che Iesú li difenderebbe tutti dal freddo se volessero creder in lui. Allora detto Taignoagny e il suo compagno dimandorono al capitano s'egli avesse parlato a Giesú; rispose di no, ma che i suoi preti gli avevano parlato, e detto che farebbe bel tempo. Delle qual parole ringraziorono il nostro capitan, e se n'andorono nel bosco a dir la nuova agli altri, i quali subito uscirono fuora fingendo d'esser lieti per quelle parole ch'aveva detto il capitano: e per dimostrare che n'avevano avuta allegrezza, subito che furono dinanzi alle navi, fecero tutti insieme tre gran gridi e urli, e si misero a cantare e ballare sí come erano soliti, volendo dimostrarsi lieti. Ma per resoluzione Taignoagny e Domagaia dissero al capitano che 'l detto signore Donnacona non voleva punto che alcuno di loro andasse con lui a Hochelaga, s'egli non dava ostaggio che restasse in terra con detto Donnacona; il capitano li rispose che se non volevano andarli di buona voglia, che restassero in pace, e che per loro non lasciarebbe di sforzarsi d'andarvi.


Come il nostro capitano, con tutti li gentiluomini e cinquanta marinari, si partirono col galione e le due barche della provincia di Canada per andar ad Hochelaga; e narrasi anco quello che fu visto nel cammino sopra il detto fiume.

Il seguente giorno, 19 del detto mese di settembre, facemmo vela e ci partimmo col galione e le due barche per andar su il detto fiume col crescer della marea, dove cominciammo a veder da tutte e due le rive tanto bel paese quanto possibil sia di vedere, e tutto continuato e pieno di piú belli arbori del mondo, con tante vigne cariche di raspi d'uva lungo detto fiume, che paiono piú presto esser state piantate di mano d'uomo che altramente. Vero è che, per non esser coltivate né tagliate, non producono li raspi né tanti grossi né cosí dolci quanto li nostri. Similmente trovammo di molte case sopra il detto fiume, le quali sono abitate dagli uomini che ivi pescano ogni sorte di pesci, i quali venivano alle nostre navi con tanta domestichezza e amorevolezza come se noi fussimo stati del paese, portandone pesci in quantità e altre cose di quelle che avevano, per aver della nostra mercanzia: e levando le mani al cielo facevano molti segni d'allegrezza. Ed essendo noi fermati in un luogo distante di Canada intorno venticinque leghe, chiamato Ochelai, il qual è dove si ristringe con gran correntia il detto fiume, e però è pericoloso sí de' sassi come anco dell'altre cose, vi vennero parecchie barche alla banda, e tra l'altre vi venne un gran signor del paese, il qual veniva facendo una gran predica, e, giontoci appresso, mostrava evidenti segni con le mani e altre cerimonie che poco piú alto il detto fiume era molto pericoloso, avisandone che ci dovessimo guardare. Presentò detto signore duoi de' suoi figliuoli al capitano, de' quali accettò il capitano una fanciulla d'età di circa sette in otto anni, e non volse accettar un puttino di dua o tre anni, perciochè egli era troppo picciolo. Detto capitano accarezzò detto signore e la sua compagnia con quella cortesia che poté, donandoli certi piccioli presenti, e cosí si partirono e n'andorono a terra; e dipoi venne detto signor con la sua moglie sino a Canada a visitar la sua figliuola, portando qualche presente al capitano.
E da li 19 fino alli 28 del detto mese andammo tuttavia navigando all'in suso per detto fiume, senza mai perder pur un'ora di tempo; nel qual spazio trovammo cosí bel paese e terre cosí unite quanto possibil sia desiderare, piene, sí come abbiamo detto, di bellissimi arbori, cioè quercie, olmi, nogare, cedri, abeti, frassini, boies, salici e vigne in quantità grande, nelle quali era tanta abondanza d'uva che i compagni ne venivano tutti quanti carichi a riva. Vi sono similmente molte grue, cigni, oche, anetre, fagiani, pernici, merli, ruzzetti, tortore, gardolini, lugarini, rosignuoli, passare solitarie e altri uccelli, sí come in Francia e in grande abondanza. Nel detto giorno 28 di settembre arrivammo ad un gran lago e pianura di detto fiume, largo intorno cinque o sei leghe e lungo dodeci, e navigammo tutto quel giorno all'insú contra acqua, né trovammo piú di due braccia di fondo egualmente, senza alzarsi né abbassarsi. Ed essendo arrivati all'uno de' capi di detto lago, non vedemmo passaggio alcuno né uscita, anzi pareva che 'l fosse tutto serrato e chiuso senza alcuna uscita d'alcun fiume, né trovammo al capo d'esso piú di braccia uno e mezzo di fondo. Per il che ne fu bisogno di metter l'ancora fuori e fermarsi, e andar con le barche cercando qualche uscita: e trovammo che vi sono quattro o cinque rami, i quali, usciti dal detto gran fiume, entrano in detto lago e vengono da Hochelaga. Ma in essi rami, per l'impeto grande col qual escono, per il corso dell'acque fanno certe sbarre e traverse, e non v'era per allora salvo che un braccio. Passate poi dette sbarre, trovammo quattro o cinque braccia, ed era il tempo delle piú basse acque dell'anno, secondo che conoscemmo per il flusso di dette acque, le quali crescono piú di tre braccia d'altezza. Tutti questi rami circondano cinque o sei belle isole, le quali fanno il capo di detto lago, poscia si riuniscono tutti in uno da 15 leghe di sopra. Questo giorno andammo ad una di quelle, e trovammo cinque uomini che pigliavano delle bestie salvatiche, quali vennero alle nostre barche cosí domesticamente e senza paura alcuna, come se avessero fatta tutta quanta la lor vita con noi: sí che, essendo le nostre barche presso alla riva, uno di loro tolse il nostro capitano nelle braccia e portollo a terra, cosí leggiermente come se stato fosse un puttino di cinque anni, tanto era costui grande e robusto. Noi trovammo che avevano un gran fascio di sorzi salvatichi, che vivono nell'acqua e sono grandi come conigli e buonissimi da mangiare, de' quali fecero un presente al capitano; ed egli dette loro de' coltelli e corone in ricompensa. Noi li domandammo con cenni se quella era la strada d'Hochelaga, ed essi risposero di sí, e che era distante ancora tre giornate ad arrivarli.


Come il capitano fece acconciar le barche per andar ad Hochelaga e lasciar il galion per la difficultà del passaggio, e come noi v'arrivammo, e dell'accoglienza che ne fece il popolo alla venuta nostra.

Il dí seguente, vedendo il capitano che non era possibile che per allora il galion passasse piú oltre, fece acconciar le barche e mettervi dentro tanta munizione e vettovaglie quanta eran capaci di portare, e partissi con quelle accompagnato da gentiluomini, cioè Claudio del Ponte Briant, coppiere di monsignor dolfino, Carolo della Pommeraye, Giovanni Gouion, Giovanni Poullet con ventiotto marinai, e Mace Iallobert e Guiglielmo il Breton, i quali avevano il carico delle due altre navi sotto il capitan, per andar all'insú di detto fiume piú che fosse possibile. E navigammo con buon tempo sino alli 19 ottobre, che arrivammo in detta terra d'Hochelaga, distante dal luogo dove era restato il galione 45 leghe; nel qual luogo d'Hochelaga e nel cammino che facemmo trovammo molta gente di quel paese, che ne portavano de' pesci e altre vettovaglie, ballando e rallegrandosi grandemente della nostra venuta. Il capitano, per innescarli e tenerli in amicizia con noi, li dava per ricompensa coltelli, corone e altre cose minute, delle quali restavano molto sodisfatti. Ed essendo noi giunti presso d'Hochelaga, ne vennero incontro e presentoronsi avanti di noi piú di mille persone, sí uomini come donne e fanciulli, i quali ne fecero quella accoglienza e carezze e con tanta allegrezza che far potrebbe il padre al figliuolo, perciochè gli uomini da una banda ballavano, le donne dall'altra, e similmente i fanciulli da un'altra; e doppo questo ne portorono gran quantità di pesci e del suo pane fatto di miglio grosso, gettandolo nelle barche, di sorte che pareva che cascassero dall'aria. Il che vedendo, il nostro capitano discese a terra con molti della sua compagnia. Subito ch'egli fu disceso in terra, tutti quanti si ragunarono in frotta intorno di lui e di tutti gli altri, facendone carezze grandissime, portando i lor piccioli fanciulli in braccio per farli toccare dal nostro capitano e dagli altri, facendo festa e allegrezza che durò piú di mezza ora. E vedendo il capitano la loro amorevolezza e grata accoglienza, fece seder all'ordine tutte quante le donne, e dette loro delle corone di stagno picciole e altre cose minute, e a parte degli uomini de' coltelli. Poi si ritirò verso le barche per cenare, e passammo quella notte, la qual quanto durò stette quel popolo a riva del detto fiume, quanto piú poté presso delle nostre barche, facendo tuttavia fuochi grandi e balli, e dicendo ognora "Aguyaze", che significa appresso di loro salute e allegrezza.


Come il capitano e cinque gentiluomini con venti uomini armati e ben in ordine andorono alla terra d'Hochelaga, e il sito d'essa.

Il dí seguente da mattina, molto a buon'ora, il capitano adornatosi fece anche metter la sua compagnia ad ordine, per andar a veder la terra e abitazione del detto popolo, e una montagna ch'è posta appresso la detta città; alla qual andorono col capitano li gentiluomini con 20 marinari, lasciando il restante per guardia delle barche, e tolse tre uomini d'Hochelaga per condurne al detto luogo. E camminando noi trovammo la strada cosí battuta e frequentata quanto dir si possa, e il piú bello e miglior paese che possibil sia di vedere, e tutto pieno di cosí belle quercie come siano in qualsivoglia selva di Francia, sotto le quali era la terra tutta coperta di ghiande. E avendo noi camminato intorno quattro miglia e mezzo, trovammo nella strada uno de' principali signori di detta città, accompagnato da molta gente, il quale ne fece segno che bisognava riposarsi in detto luogo, presso d'un fuoco ch'avean fatto sopra detta strada: il che facemmo. Essendo noi quivi fermati, cominciò detto signore a far un sermone e predica, sí come già di sopra s'è detto esser la loro usanza di far per allegrezza e amicizia, dimostrando col viso allegro un buon animo verso detto capitano e la sua compagnia; il qual li dette due manerette, un paro di coltelli, con una croce che li fece baciare, poi gliela messe al collo: de' quali presenti egli rese grazie al detto capitano. Fatto questo, andammo piú oltre, e intorno un miglio e mezzo da lí cominciammo a trovar li campi lavorati, e belle e grandi campagne, piene di formento del lor paese, il qual formento è tale qual è il miglio di Bresil, e cosí grosso e piú di quel che son i piselli; del qual miglio vivono sí come viviamo noi del formento. In mezzo di quelle campagne è posta la terra d'Hochelaga, appresso e congiunta con una montagna, coltivata tutta a torno e molto fertile, sopra la qual si vede molto lontano. Noi la chiamammo il monte Regal.
La terra d'Hochelaga è rotonda e serrata di legnami, con tre man di steccati un appresso l'altro, che son fatti in forma d'una piramide, incrociati di sopra, e il steccato di mezo è fatto diritto a linea perpendicolare; i quali steccati poscia sono orditi di legni distesi in terra per lungo, e congiunti e cuciti bene insieme secondo il modo loro. Ha d'altezza questo serraglio circa due lancie, e non v'è se non una porta ed entrata, la qual si serra con pali e sbarre; sopra della qual porta, e anche in molti luoghi di detto serraglio, vi sono come corridori e scale per potervi montare, tutti forniti e pieni di sassi, pietre e cuogoli, per guardia e difesa di quella. Sono in questa terra circa cinquanta case, lunghe da cinquanta passi e larghe dodeci o quindici, fatte tutte di legno, coperte e guarnite di scorze grandi di detti legni, che son cosí larghi come tavole, benissimo e maestrevolmente cucite. Dentro di queste case vi sono molte stanze e camere, e in mezzo di ciascheduna v'è una corte grande in terra, dove fanno il fuoco. Vivono in commune, poscia si ritirano mariti e moglie e fanciulli ciascuno nelle lor camere. Similmente di sopra delle loro case hanno granari, dove mettono quel loro formento del qual fanno il suo pane, qual chiamano carraconny, il qual pane fanno nel modo seguente. Hanno certe pile di legno come sono quelle da pestar canape, e con pestoni di legno pestano detto grano in polvere, e poi ne fanno pasta, e di quella fogazze over torte, quali mettono sopra una pietra larga calda; dipoi la cuoprono con cuogoli caldi, e in questo modo cuocono il lor pane in vece di forno. Fanno similmente parecchie minestre di detto formento, e anche di piselli e fave, de' quali hanno abbondanza grande; cosí melloni assai e cocomeri grandi, e di molti altri frutti. Hanno similmente nelle loro case vasi grandi come botte, dove mettono il pesce in conserva, il qual l'estate fanno seccar al sole, poscia ne vivono l'inverno: e di questi fanno gran munizione, come abbiamo visto per esperienzia. Tutti i loro cibi sono senza gusto e sapore alcuno di sale. Dormono sopra scorze d'arbori distese sopra la terra, con pelli triste d'animali salvatichi, de' quali anche fanno le lor vesti e coperte. La cosa piú preciosa che abbino in questo mondo la chiamano esurgny, il quale è bianco quanto la neve, e lo pigliano nel detto fiume in cornibotz, nel modo che seguita. Quando qualcuno ha meritato la morte, overo hanno preso alcuno de' lor nemici in guerra, l'ammazzano, poi con gran coltellate li tagliano le culatte, le coscie e le spalle, e calano detto corpo sin al fondo del fiume, dov'è detto esurgny, e ve lo lasciano dieci o dodici ore. Poi lo tirano su, e tra le tagliate e sfesse trovano detti cornibotzi, de' quali fanno a modo de paternostri, e questi usano come facciamo noi dell'oro, dell'argento, e stimano la piú preziosa cosa del mondo: e hanno questi cornibotz proprietà di far stagnare il sangue del naso, che noi abbiamo esperimentato. Tutto questo popolo non si dà ad altro che all'agricoltura e a pescar per vivere, perciochè d'altri beni di questo mondo non fanno stima alcuna, imperochè non n'hanno conoscenza, non partendosi mai del lor paese né essendo vagabondi come quelli di Canada e di Saguenay, benchè detti di Canada sieno loro soggetti, con otto o nove altri villaggi posti sopra detto fiume.


Come noi arrivammo in detta terra d'Hochelaga e dell'accoglienza che ne fu fatta, e come il capitano fece loro presenti, e di piú altre cose.

Essendo noi arrivati appresso la terra, presentossi dinanzi a noi gran numero degli abitanti, i quali secondo il modo loro e usanza ne fecero buona accoglienza; e dalle nostre guide e conduttori fummo menati in mezzo della terra, dove tra le case v'è una piazza grande e spaziosa circa un trar di pietra in quadro, cioè da ciaschedun canto: e fecero segno che ivi ci dovessimo fermare. E in un subito si ragunoron tutte le fanciulle e donne della terra, parte delle quali erano cariche di fanciulli piccioli in braccio, e ci vennero a fregar il viso, le braccia e l'altre parti del corpo che ci potevano toccare, lagrimando di tanta allegrezza ch'aveano di vederci, e facendoci la miglior ciera che gli era possibile, mostrandoci con segni che ci piacesse toccar li loro fanciulletti. Dopo queste cose, gli uomini fecero ritirar le donne, ed eglino sederono attorno di noi in terra, come se avessimo voluto recitar qualche comedia o qualche altro misterio; e subito ritornorono le donne, e ciascuna portava una stuora quadra in forma di tapeto, e distendendole in mezzo detta piazza ci fecero seder sopra di quelle. Fatto questo, fu portato da nove o dieci uomini il loro re e signor del paese, il qual nella lor lingua chiamano agouhanna, qual sedeva sopra una gran pelle di cervo: e lo posero sopra le dette stuore in mezzo la piazza, appresso il nostro capitano, accennandoci che costui era il loro re e signore. Era questo agouhanna d'età d'anni cinquanta intorno, né era punto meglio vestito degli altri, eccetto che aveva intorno il capo a modo di fazzuolo rosso in vece di corona, fatto di pelli d'animali detti ricci, ed era detto signor tutto quanto paralitico e attratto delle sue membra. Dopo ch'egli ebbe con cenni salutato detto capitano e la gente, e fattogli evidenti segni di buonissima accoglienza e che fossero benissimo venuti, mostrò le sue gambe e le braccia a detto capitano, facendoli segno che li piacesse di toccarle: il qual con le proprie mani le fregò, e allora detto agouhanna tolse quella cinta e corona ch'aveva in capo e la dette al capitano. Dipoi furono menati avanti detto capitano molti ammalati, come ciechi, orbi, zoppi e impotenti, e persone tanto vecchie che le palpebre degli occhi pendevano loro sino sopra le gote, mettendoli e distendendoli presso detto nostro capitano, acciò fossero da lui toccati, di sorte che pareva che Iddio fosse quivi disceso dal cielo per guarirli. Il nostro capitano, vedendo la miseria, pietà e fede di questo popolo, recitò l'evangelio di san Giovanni, cioè l'In principio, facendo il segno della croce sopra degli ammalati, pregando Iddio che gli piacesse di dar a costoro conoscenza della nostra santa fede, e grazia di ricever il cristianesimo e battesimo. Poi detto capitano prese l'ufficio e ad alta voce lesse di parola in parola la passione del nostro Signore, sí che tutti li circonstanti lo poterono udire: dove tutto questo povero popolo fece gran silenzio e stette maravigliosamente attento, riguardando il cielo e facendo le medesime cerimonie che ci vedevano fare. Dopo questo fece il capitano metter tutti gli uomini da una banda in ordinanza e le donne da un'altra, e similmente li fanciulli dall'altra, e dette alli principali delle manerette e agli altri de' coltelli, e alle donne delle corone, de' paternostri e altre cose minute; poscia gettò in mezzo la piazza dove erano i fanciulli degli anelli e agnusdei di stagno: delle qual cose fecero una maravigliosa allegrezza. Dipoi fatto questo, comandò il capitano che sonassero le trombe e altri instrumenti di musica, de' quali il detto popolo fu forte rallegrato, e dopo questo, presa licenzia da loro, ci ritirammo. Il che vedendo le donne si misero dinanzi di noi per ritenerci, portando de' loro cibi, quali n'avevano apparecchiati, come pesci, minestre, fave e altre cose, pensando di farci mangiare e desinare in detto luogo; ma perchè le loro vivande, non avendo alcun sapore di sale, non erano al nostro gusto né ci sapevano buone, noi li ringraziammo, facendo segno che punto non avevamo bisogno di mangiare.
Dipoi usciti fuora di detta terra, parecchi uomini e donne ci vennero a condurre e menar sopra la montagna qui dinanzi detta, la qual chiamammo monte Regal, distante da detto luogo poco manco d'un miglio, sopra la quale essendo noi vedemmo e avemmo notizia di piú di trenta leghe attorno di quella: e verso la parte di tramontana si vede una continuazione di montagne, le quali corrono levante e ponente, e altretante verso il mezzogiorno, fra le quali montagne è la terra piú bella che sia possibile a vedere, tutta continuata, piana e atta ad esser coltivata. E in mezzo di queste campagne vedemmo il fiume, molto piú oltre del luogo dove erano restate le nostre barche, nel qual v'era una caduta d'acqua la piú impetuosa che possi esser veduta: ed era tanto grande, larga e spaziosa quanto potevamo distendere la vista, e andava verso garbino, passando presso di tre belle montagne ritonde, le quali noi vedevamo, e facevamo giudicio che fossero discoste da noi intorno da 15 leghe. E ci dissero e mostrorono con segni gli uomini del paese che ci avevan guidati che v'erano tre altre cadute d'acqua simili in detto fiume, come quella appresso la quale erano rimase le nostre barche; ma perchè non intendevamo la loro lingua, non potemmo saper quanta distanzia fosse tra l'una e l'altra caduta. Poscia ci mostrorono con segni che, passate dette tre cadute, si poteva navigar per detto fiume lo spazio di tre lune, e che lungo di dette montagne che sono verso tramontana v'è un fiume grande, il quale descende da ponente come il detto fiume: noi pensammo che quello sia il fiume che passa per il reame di Saguenay. E senza che li facessimo dimanda o segno alcuno, presero la catena del subbiotto del capitano, che era d'argento, e il manico del pugnale de uno de' nostri compagni marinari, qual era d'ottone giallo quanto l'oro e li pendeva dal fianco, e ci mostrorono che quello veniva di sopra di detto fiume, e che vi sono di agouionda, che vuol dire malvage genti, i quali vanno armati fino in cima delle deta, mostrandoci anco la forma dell'arme loro, le quali sono fatte di corde e legno lavorate e tessute insieme, dandoci ad intendere che detti agouionda di continuo fanno guerra tra loro; ma, per difetto di lingua, non potemmo intender da loro quanto spazio v'era sino in detto paese. Il capitan mostrò loro del rame rosso, qual chiamano caignetadze: dimostrandoli con segni, voltandosi verso detto paese, li dimandava se veniva da quelle parti, ed eglino cominciarono a crollar il capo, volendo dir no, ma ben ne significarono che veniva da Saguenay, qual è dalla banda contraria del precedente. E dopo che vedemmo queste cose e intendemmo da loro, ci ritirammo alle nostre barche, accompagnati da una gran moltitudine di detto popolo: e parte di loro, quando vedevano i nostri compagni stracchi, li toglievano sopra le loro spalle come sopra cavalli e li portavano. Ed essendo noi arrivati alle barche, facemmo vela per ritornar al nostro galione, dubitando che non avesse avuto qualche sinistro. La partita nostra molto rincrebbe e dispiacque a tutto detto popolo, perciochè quanto mai ne poteron seguitare descendendo per detto fiume ne seguitorono; e noi tanto navigammo che alli quattro d'ottobre, il lunedí, arrivammo dove era il detto nostro galione.
Il martedí seguente, a' 5 del detto mese, facemmo vela e ci partimmo col galione e barche per ritornar alla provincia di Canada, al porto Santa Croce, nel qual erano restate le nostre navi. E il 7° giorno venimmo a mettere per mezzo d'un fiume, il qual viene di verso tramontana ed entra nel fiume, nell'entrar del quale vi sono quattro picciole isole, piene di belli arbori: il qual fiume noi chiamammo il fiume di Fouez. Ma perchè una di queste isole si stende in detto fiume e vedesi di lontano, fece il capitano piantar una bella croce grande sopra la punta di quella, e comandò che s'apparecchiassero le barche per andar in su col flusso, cioè col crescer dell'acque, e veder la qualità di detto fiume: il che fu fatto, e navigammo quel giorno all'insú di detto fiume. Ma perchè fu trovato di nulla importanza, e anco non v'era fondo, ritornammo e facemmo vela per andar in giú.


Come noi arrivammo in detto porto di Santa Croce e in che essere trovammo le nostre navi, e come il signor del paese venne a visitar il nostro capitano e il capitano lui, e d'alcuni costumi di quelle genti in particolare.

Il lunedí 11 d'ottobre arrivammo a detto porto Santa Croce, nel qual erano le nostre navi, e trovammo che li padroni, con li marinari li quali quivi erano restati, avevano fatto uno steccato dinanzi le dette navi, tutto quanto chiuso di pezzi grandi di legno piantati diritti, legati e giunti tutti insieme; dipoi avevano munito detto steccato tutto quanto attorno d'artiglieria e d'ogni altra cosa necessaria per difendersi contra la possanza di tutto il paese. E subito che 'l signor del paese intese il nostro ritorno, venne il dí seguente, cioè 12 del detto mese, a visitarci, accompagnato da Taignoagny e Domagaia e da parecchi altri, i quali, fingendo d'aver allegrezza grande per la venuta nostra, fecero maravigliose carezze al nostro capitano; ed egli similmente fece loro buona e grata accoglienza, quantunque non l'avessero meritato. Il detto Donnacona pregò il capitano che volesse andar il dí seguente a veder Canada, il che li promesse; onde alli 13 giorni del detto mese il capitano, accompagnato da' suoi gentiluomini e da 50 compagni ben in ordine, andò a veder detto Donnacona e suo popolo, qual era distante di dove erano le navi una lega: e chiamasi detto luogo dove stanziano Stadacona. Ed essendo noi arrivati presso a detto luogo, ne vennero degli abitanti incontro di lontano dalle lor case un tratto di pietra, piú presto piú che manco, e quivi si misero in fila e per ordine come sono usi di fare, gli uomini da una banda e le donne dall'altra, in piè, cantando e ballando tuttavia senza cessare. E dopo che si furon salutati insieme e fatta accoglienza l'un con l'altro, il capitano donò agli uomini de' coltelli e altre cose di poco valore, e si fece passar tutte le donne e fanciulle dinanzi, e dette a ciascuna uno anello di stagno: delle quali cose lo ringraziorono. Fu poi menato detto capitano da Donnacona e Taignoagny a veder le lor case, le quali secondo la lor qualità erano molto ben provedute di vettovaglie della sorte del paese per passar l'invernata; e ci furno poi mostrate le pelli delle teste di cinque uomini, distese sopra legni come le pelli di carta pergamina, il qual Donnacona disse ch'erano pelli di Toudamani, popoli abitanti verso mezzodí, i quali di continuo li fanno la guerra. E ne fu detto che già eran passati due anni che detti Toudamans li vennero a dar l'assalto sino dentro detto fiume, in una isola la quale è a riscontro di Saguenay, dove erano stati a passar la notte detti paesani, volendo andar a far la guerra in Honguedo, con 200 persone fra uomini, donne e fanciulli; li quali dormendo la notte in un forte ch'avevano fatto, furono soprapresi da detti Toudamani, li quali messono fuoco attorno del forte, e come volevano uscire per scampare gli ammazavano, eccetto 5, i quali scapolorono: della qual rotta ancor se ne lamentavano, mostrandone che ne farebbono la vendetta. E dopo queste cose noi ci ritirammo alle nostre navi.


La forma del vivere del popolo di quella terra, e di certe condizioni di fede, costumi e usanze loro.

Questo popolo non crede punto in Dio, anzi crede in uno che chiamano Cudruaigny, e dice che spesso parla loro e li dice il buono o cattivo tempo ch'ha da essere. Piú dicono che, quando egli con loro s'adira, li getta della terra negli occhi. Credono similmente che quando muoiono vadino nelle stelle, e che de lí se ne venghino calando giú fino all'orizonte, come fanno esse stelle, e che poi se ne vadino in belli campi verdi e pieni di belli arbori, fiori e frutti preciosi. Le qual cose avendoci loro detto e fatto intendere, noi li dimostrammo l'error loro, e detto Cudruaigny esser uno demonio e spirto maligno che gl'inganna, affermandoli che non è altro che uno Iddio, il qual è in cielo e ci dà tutte le cose che ci bisognano, essendo lui creatore del tutto, e che in questo debbiamo creder solamente, e che ci bisogna esser battezzati, altrimenti che ci convien esser dannati all'inferno. Queste e molte altre cose della nostra fede li furono dimostrate, le quali facilmente credettero, chiamando il lor Cudruaigny agouiada, di sorte che pregorno molte volte il nostro capitano che li facesse battezzare: e vennero il detto signore e Taignoagny e Domagaia e tutto il popolo della lor terra, sperando d'esser battezzati. Ma perchè non sapevamo la loro intenzione e animo, che per allora non v'era chi li dimostrasse la fede, ci scusammo con loro, dicendo a Taignoagny e Domagaia che li facessero intendere che ritorneremmo un'altra fiata, e condurremmo e preti e della cresima, facendoli intendere per iscusa che senza cresima non si può battezzare alcuno: la qual cosa credettero, perciochè li detti Domagaia e Taignoagny hanno veduto battezzar parecchi fanciulli, in Bertagna; e della promessa fattali del ritorno nostro ebbero grandissima allegrezza.
Questo popolo vive in commune, e son forniti a bastanza de beni, della qualità che hanno gli abitatori della terra del Bresil. Si vestono delle pelli d'animali salvatichi, assai miseramente; l'inverno portano calze e scarpe fatte di pelli, la state vanno a piedi nudi. Osservano la forma di matrimonio, eccetto che tolgono due o tre donne, le qual dopo che 'l marito è morto mai non si rimaritano, anzi portano bruno tutto il tempo della lor vita per detta morte, e imbrattano il viso di carbone pestato con grasso, alto quanto è la schena d'un coltello: e da questo si conosce che sono vedove. Hanno un'altra molto vituperosa usanza circa le loro fanciulle, qual è questa: dapoi che le loro fanciulle sono d'età di congiugnersi con l'uomo, le mettono tutte quante in una casa del luogo publico di meretrici, in libertà d'ogniuno che vuol copia di loro, sino che abbino trovato partito. E di questo parlo avendone veduto per esperienzia le case piene di dette fanciulle, né piú né meno come le scuole che si veggono in Francia, piene di fanciulli d'imparare lettere. Oltre di ciò il sbaraglio, secondo il modo loro che usano in dette case, è molto grande, perchè quivi giuocano quanto hanno sino alla coperta delle parti vergognose. Non sono costoro di fatica grande, e lavorano le loro terre con piccioli legni di grandezza d'una meza spada, nelle quali terre nasce il loro frumento, qual chiamano ofici, il qual è grosso quanto sono i piselli: e di questa medesima sorte n'è gran quantità nel Bresil, perchè quivi cresce assai. Similmente hanno grande abondanza di melloni grossi, cocomeri, zucche, piselli, fave, e d'ogni colore, ma non della sorte delle nostre. Nascevi anco una certa erba, della qual fanno gran munizione tutto il tempo della state per l'inverno, la qual apprezzano e stimano grandemente, e ne usano solamente gli uomini nel modo e forma che seguita. La fanno seccare al sole e la portano al collo rivolta in una picciola pelle d'animale, in modo di sacchetto, con un cornetto di pietra o di legno; poscia a tutte l'ore fanno polvere di detta erba e la mettono in uno de' capi di detto cornetto, e disopra pongono un carbone di fuoco, e dall'altro canto e capo del cornetto succiano tanto che s'empiono di tal maniera il corpo di detto fumo, che poscia ne esce per la bocca e per le nari sí come per una tromba di camino: e dicono che questo effetto li tien caldi e sani, né mai vanno senza detta polvere. Noi avemo esperimentato detto fummo, e avendonelo posto in bocca ne parve aver posta tanta polvere di pepe, di cosí fatta maniera è caldo.
Le donne di questo paese s'affaticano molto piú e senza comparazione che gli uomini, sí nel pescare, del qual fanno gran facende, come nel lavorare la terra e far altre cose. Sono, cosí gli uomini come le donne e fanciulli, piú duri e resistenti al freddo che le bestie, perciochè nel tempo del piú gran freddo ch'abbiam veduto, il qual era stupendo e aspro, venivano ogni giorno da noi alle nostre navi nudi sopra la neve e ghiaccio: cosa che par quasi incredibile a chi non l'ha veduta. Pigliano al tempo che la neve è in terra e il ghiaccio gran quantità d'animali salvatichi, come sono daini, cervi, orsi, lepri, martori e volpi e altre bestie, de' quali mangiano le carni crude, dopo che l'hanno un poco seccate al fummo: e il simile fanno de' pesci. A quello che abbiamo potuto vedere e intendere di questo popolo, parmi che sarebbe cosa facile di ridurlo a dimestichezza, in qual forma e costumi che si voglia. Il Signor Dio per la sua misericordia vi voglia metter la sua mano. Amen.


Della grandezza e fondo di detto fiume, e delle bestie, uccelli, pesci e altre cose vedute, e il sito de' luoghi. Cap XI.

Il detto fiume incomincia passata l'isola dell'Assunzione, a riscontro dell'alte montagne di Honguedo e delle sette isole, e v'è di distanzia per traverso intorno 35 o quaranta leghe. V'è in mezzo piú di dugento braccia di fondo: la parte piú sicura da navigare è dalla banda dell'ostro. E verso tramontana, cioè da dette sette isole, vi sono sette leghe distante da un canto e dall'altro, dove sono duoi fiumi grandi, i quali descendono de' monti di Saguenay, e fanno parecchi banchi nel mare molto pericolosi. Nell'entrar de' detti fiumi, vedemmo molte balene e cavalli di mare. Per traverso di dette sette isole v'è un picciol fiume, qual va intorno tre o quattro leghe, scorrendo sopra quel terreno de paludi, nel qual fiume v'è grandissimo numero d'ogni sorte d'uccelli aquatici. Dal principio di detto fiume sino ad Hochelaga v'è piú di trecento leghe, ed è il suo principio nel fiume che viene da Saguinay, il quale sorge e nasce tra alte montagne, ed entra dentro detto fiume avanti che arrivi nella provincia di Canada, dalla banda di tramontana: ed è quel fiume molto profondo e stretto, e molto pericoloso da navigare. Dopo detto fiume seguita la provincia di Canada, nella qual provincia sono molti popoli e abitanti in borghi e ville non chiusi. Sono anco nel contorno e circuito di detta Canada per dentro detto fiume molte isole, sí grandi come picciole, tra le quali ve n'è una che contiene piú di dieci leghe di lunghezza, piena di belli e alti alberi e anco di molte vigne. Vi si può entrare da tutte due le bande, ma il piú sicuro passaggio è verso la parte dell'ostro. E alla riva e lito di quell'isola verso ponente v'è un gorgo di acque molto bello e dilettevole, e convenientemente da mettere navilii, dove è uno stretto del detto fiume molto corrente e profondo, ma non è lungo piú d'un terzo di lega intorno; per traverso del qual vi è una terra tutta di colline di buona altezza tutta quanta lavorata, coltivata e tanto buona quanto sia possibile di vedere. Quivi è la stanza e la terra di Donnacona e de' nostri duoi uomini che erano stati presi nel primo viaggio, e chiamasi il luogo Stadacone; ma prima che vi si arrivi si trovano quattro popoli e ville, cioè Ayraste, Starnatan, Tailla, qual è sopra una montagna, e Scitadin, poscia detto luogo Stadacone. Sotto la qual alta terra verso tramontana è il fiume e porto di Santa Croce, nel qual luogo e porto siamo stati dalli quindeci di settembre fino alli sedeci di maggio 1536, nel qual luogo le navi rimasero in secco, come innanzi dicemmo. Passato detto luogo trovasi l'abitazione e popolo Tequenondahi, qual è sopra un'alta montagna, e la valle di Hochelay, la quale è in paese piano.
Tutto quel paese da' duoi lati del fiume, sino ad Hochelaga e oltre, è tanto bello e piano quanto mai uomo abbia veduto. Sono alcune montagne discosto assai da detto fiume, che si veggono sopra le dette terre, e delle quali descendono parecchi fiumi, quali entrano in detto fiume grande. Tutto questo paese è coperto e pieno di boschi di varie sorti e di molte vigne, eccetto che intorno i luoghi abitati, avendo essi disboscate quelle parti per lavorarle e farne le loro abitazioni e stanze. Sonvi cervi in gran quantità, daini, orsi e altri simili animali, e molti conigli, lepri, martori, volpi, lontre, castorei, schilati, sorzi, i quali sono fuora di modo grandi, e altre salvaticine. Si vestono delle pelli d'animali, non avendo altro da farsi vestimenti. Sonvi anco molti uccelli, cioè grue, cigni, outardes, oche salvatiche bianche e berettine, anatre, merli, ruzzetti, tortore, colombi salvatichi, ramieri, gardellini, stornelli, lugarini, faganelli, rosignuoli, passare solitarie e altri uccelli, come in Francia. Similmente detto fiume, come dinanzi s'è detto, è il piú abondante di pesci d'ogni sorte che da memoria d'uomo mai s'abbia veduto né udito dire, perciochè dal principio sino al fine trovarete, secondo le stagioni, la piú parte e specie de' pesci d'acqua dolce e di mare. Trovarete anco sino in detta Canada assai balene e marsovini, cavalli di mare, adhothuis, ch'è una specie di pesce qual mai non avevamo veduto né udito parlarne. Sono questi pesci grandi come marsovini, bianchi quanto la neve, e hanno il corpo e capo a guisa d'un levriero: e sogliono stare tra il mare e l'acqua dolce, che incomincia tra il fiume di Saguenay e Canada.


D'alcuni avvertimenti a noi dati per quelli del paese dopo il nostro ritorno di Hochelaga.

Noi, dopo il ritorno nostro di Hochelaga, abbiamo conversato e praticato con li piú vicini popoli delle nostre navi in pace e amorevolezza, eccetto che qualche volta avevamo differenza con certa trista gente, la qual cosa molto dispiaceva agli altri. E intendemmo dal signor Donnacona e dagli altri che 'l detto fiume si chiama il fiume di Saguenay, e va fino a Saguenay, qual è piú lontano dal principio una lega di strada verso ponente maestro, e che, passate otto o nove giornate, non ha fondo se non per piccioli battelli; ma che la diritta e buona strada di detto Saguenay è per il fiume sino ad Hochelaga, in un fiume qual descende di detto Saguenay ed entra in detto fiume, e che d'indi v'è ancora una luna per andarvi. Piú ci hanno detto e fatto intendere che vi sono genti vestite di drappi come noi, e che vi sono molti popoli e terre e gente da bene, e che hanno gran quantità d'oro e rame rosso; e che all'intorno della terra, dipoi il detto primo fiume, sino ad Hochelaga e Saguenay è una isola, qual è circondata da detto fiume e anco da altri fiumi; e che, passato Saguenay, entra detto fiume in duoi o tre laghi grandi, poscia che si trova un mare d'acqua dolce, del qual non si trova uomo che abbia mai visto il capo e fine, per quello che hanno udito dire da quelli di Saguenay, imperochè loro, per quanto ci hanno detto, non vi sono stati. Oltre di ciò ci hanno fatto intendere che, dove avevamo lasciato il nostro galione quando andammo ad Hochelaga, v'è un fiume qual va verso garbino, dove similmente fanno una luna per andare sino ad una terra nella qual non si vede mai neve né ghiaccio, ma di continuo gli abitanti di quella fanno guerra tra loro l'un contra l'altro: nella qual terra sono naranzi, mandorle, noci, pomi e altre sorte di frutti in abondanza; e che gli uomini e donne di quella terra sono vestiti di pelli come loro. Noi li dimandammo se v'è oro e rame rosso; ci risposero di no. Io penso che questo luogo sia verso la Florida, per quanto ho potuto intendere dalli lor segni e indicii.


D'una malattia grande che venne nel popolo di Stadacone, della quale per aver praticato con loro siamo stati presi, di sorte che della nostra compagnia ci sono morti sino a 25.

Nel mese di decembre intendemmo che la peste era venuta nel popolo di Stadacone, di sorte che sino allora che ne fussimo avvertiti n'era morti, secondo la loro confessione, piú di cinquanta: per la qual cosa li proibimmo il nostro forte, e che piú non ci venissero intorno né appresso. Ma, quantunque gli avessimo scacciati, cominciò detta malattia incognita a distendersi fra noi, della piú strana sorte e non mai piú intesa né udita che mai fosse, perciochè alcuni perdevano le forze di sostenersi in piedi, e diventavano le loro gambe grosse e infiate, li nervi attratti e neri come carbone, e ad altri si vedevano le carni macchiate a modo di gocciole di sangue pavonazze; montava poi detta malattia nell'anche, coscie, spalle, alli brazzi, al collo, e a tutti diventava la bocca tanto puzzolente e marcia nelle gingive che tutta la carne vi cascava sino alle radici de' denti, li quali cascavano anche essi quasi tutti. E di cosí fatta maniera si distese detta malattia nelle nostre tre navi che a mezzo febraro, di centodieci uomini che eravamo, non ve n'erano dieci sani, di modo che uno non potea soccorrere l'altro: cosa molto orrenda e compassionevole a vedere, considerando il luogo nel qual ci trovavamo, imperochè ogni giorno le genti di quel paese venivano innanzi il nostro forte, dove vedevano poca gente, che, oltre che già ve n'erano otto morti, ve n'erano piú di cinquanta de' quali non si aveva speranza alcuna di vita. Il capitano, vedendo la nostra miseria, e che questa malattia s'era tanto sparsa e accesa, ordinò che tutti si mettessero in devozione con prieghi e orazioni, e fece metter una imagine, ch'è rimembranza della Vergine Maria, sopra un albero distante dal nostro forte circa un tirare d'arco, per mezzo la neve e ghiaccio, facendo a sapere che la domenica seguente quivi si direbbe la messa, e che ognuno che potesse caminare, o sano o amalato, vi dovesse andare in processione cantando li sette salmi di David con letanie, pregando la detta Vergine che li piacesse pregar il suo carissimo Figliuolo che avesse compassione di noi. Finita la messa e celebrata, dinanzi detta imagine fece voto il detto capitano d'andar alla Madonna di Rocquemado, se Iddio li facesse grazia di ritornare in Francia.
In quel giorno morí Filippo Rougemonte, nativo di Ambosia, d'età d'anni ventidue intorno. E perchè la malattia c'era incognita, fece il capitano aprir il corpo, per vedere se in qualche modo potessimo aver notizia di quella e preservare il resto della compagnia, se possibil fosse: e fu trovato aver il cuor bianco e putrefatto, circondato tutto di piú d'un boccale d'acqua rossa come dattoli. Il fegato era bello, ma il polmone tutto nero e mortificato, e s'era ritirato tutto il sangue sopra del cuore, perciochè, quando fu aperto, uscí grande abbondanza di nero e marcio per disopra il cuore; similmente aveva la milza verso la schiena un poco tocca circa duoi deta, come se la fosse stata fregata sopra una pietra rozza, il che veduto, li fu aperta una coscia, la qual di fuori pareva forte nera, ma dentro la carne fu trovata assai bella. Il che fatto, fu sepolto meglio che ne fu possibile. Iddio per la sua grazia vogli perdonar all'anima sua e a tutti gli altri morti.
E dapoi da un giorno all'altro di tal sorte continuava detta malattia, che tal ora era che fra tutte tre le navi non ve n'erano tre sani, di maniera che non vi si trovava uomo che avesse potuto andar sotto coverta a pigliar del vino per bere, né per sé né per i compagni; e tal ora ve n'erano parecchi di morti, li quali ci convenne per debolezza sepelir sotto la neve, perciochè eravamo tanto deboli che non c'era possibile d'aprir allora la terra agghiacciata. Oltre di ciò avevamo grandissima paura che la gente di quel paese non s'accorgesse della nostra debolezza e miseria. E per coprire detta malattia il capitano, qual sempre Iddio ha preservato in piè, usciva fuori incontro di loro quando venivano presso al nostro forte, con duoi o tre uomini sí sani come ammalati, quali faceva uscire dopo di lui; dipoi, quando li vedeva fuora del forte, gridava loro, fingendo di volerli battere e gettandoli bastoni adosso e mandandoli dentro, mostrando con segni a' detti salvatichi che faceva lavorar tutta la sua gente dentro delle navi, parte in calefattar le navi, altri in far pane e altri lavori, e che non era bisogno che venissero fuori: e loro lo credevano. E poi, per far la cosa verisimile, faceva batter e far romori con bastoni e pietre a' detti ammalati dentro delle navi, fingendo calefattare. E allora eravamo tanto oppressi da detta malattia ch'avevamo quasi persa la speranza di mai piú ritornare in Francia, se Iddio per la sua infinita bontà e misericordia non ci avesse risguardati con l'occhio di pietà, e datone conoscenza d'un remedio singulare e piú eccellente contra ogni malattia che mai fosse visto né trovato sopra la terra, sí come diremo nel seguente capitolo.


Lo spazio di tempo che siamo stati nel porto e luogo di Santa Croce dentro la neve e il ghiaccio, e il numero de' morti dal principio di questa malattia sino a mezzo marzo.

Da mezzo novembre sino a mezzo aprile siamo stati di continuo serrati nel ghiaccio, alto e spesso piú di due braccia, e sopra la terra la neve era alta quattro piedi e piú, di sorte che era piú alta che le bande delle nostre navi; la qual neve e ghiaccio durorono sino al detto tempo, di maniera che le nostre bevande erano tutte quante agghiacciate dentro le botte, e per dentro delle navi era il ghiaccio piú di quattro deta di grossezza, tanto di sopra quanto di sotto, attorno le tavole delle navi: ed era tutto detto fiume, quanto comprende l'acqua dolce, agghiacciato sino a detta Hochelaga. Nel qual spazio di tempo passorono di questa vita venticinque persone, de' principali e migliori compagni che avessimo, e allora ve n'erano piú di cinquanta de' quali non s'aveva speranza che dovessero scampare, e il resto tutti ammalati, eccetto che tre o quattro. Ma Iddio per grazia sua ne risguardò con pietoso occhio, e ne mandò la conoscenza e rimedio della cura nostra e sanità, nel modo e forma che ragionaremo nel seguente capitolo.


Come per la Dio Grazia noi avemmo conoscenza d'una sorte d'albero del qual usando tutti guarimmo, e il modo d'usarlo.

Un giorno il capitano, essendo la detta malattia tanto accesa, cresciuta e irritata, e la sua gente da quella tanto oppressa, uscí fuori del forte, e passeggiando sopra il ghiaccio scoperse una frotta di brigata che veniva da Stadacone, tra li quali era Domagaia, il quale il capitano avea veduto dieci o dodeci giorni avanti ammalato di detta malattia ch'avevano anche i suoi, perciochè egli aveva una delle sue gambe nel ginocchio grossa quanto un fanciullo di duoi anni, e tutti li nervi di quella attratti, li denti guasti e persi, le gingive marze e puzzolenti. Il capitano vedendo detto Domagaia sano e gagliardo fu allegro, sperando intendere da lui in che modo fusse guarito, acciò potesse dar soccorso alla sua gente; per il che subito che furono giunti, gli domandò in che modo fosse liberato da quel suo male, ed egli rispose che aveva cavato il succo e feccia delle foglie d'uno albero, col quale egli s'era guarito, e che era singular rimedio contra questa malattia. Il capitano gli dimandò se quivi appresso ne fosse punto, e che glielo mostrasse, per guarir un suo servitore quale mentre stava in Canada con Donnacona aveva presa detta malattia: non volendo scoprir il numero de' suoi ammalati. Allora Domagaia mandò subito due donne per toglierne, le quali ne portorono nove o dieci rami, e ci mostrarono in che modo bisognava usarne, cioè levar via la scorza e foglie di detto albero e far il tutto bollire insieme, poi bere di quella decozione un dí sí e l'altro no, e la feccia metterla sopra le gambe enfiate e ammalate; e che detto albero aveva virtú di guarir d'ogni malattia. E si chiama detto albero ameda nella lor lingua. Subito poi il capitano fece far del beveraggio per far bere agli ammalati, de' quali non v'era nessuno che ne volesse cercare, eccetto che uno o duoi, i quali si misero in risigo d'esperimentarlo: e si trovò essere vero che questo miracoloso albero aveva tal virtú, imperochè, in due o tre volte che beverono della detta bevanda, furono liberati della loro infirmità. Il che vedendo i compagni ne beverono ancora loro, e recuperorno la sanità e guarirno da qualunque malattia erano presi, di sorte che v'era tale tra questi che già cinque o sei anni avanti questa malattia aveva il mal francioso, e con questa medicina è interamente guarito e risanato. Poi che fu trovata questa cosa esser vera, v'è stato tanto gran concorso sopra la detta medicina ch'erano quasi per ammazzarsi le brigate, volendo ciascuno essere il primo ad averne: di maniera che un albero, tanto grande e grosso quanto qualsivoglia quercia che sia in Francia, è stato adoperato in manco di sei giorni, e ha fatto tal opera che, se tutti li medici di Montepellier e di Lovanio vi fussero stati con tutte le droghe d'Alessandria, non avrebbono fatto tanta opera in un anno quanto detto albero ha fatto in sei giorni, perciochè talmente n'ha giovato che quanti n'hanno voluto usare hanno per Dio grazia recuperata la sanità.


Come il signor Donnacona, accompagnato da Taignoagny e parecchi altri, fingendo d'andar alla caccia di cervi e daini, stette duoi mesi a ritornare, e al suo ritorno menò gran moltitudine di gente che non eravamo soliti a vedere.

Mentre durava e regnava detta malattia nelle nostre navi, si partirono Donnacona, Taignoagny e molti altri, fingendo d'andar a pigliar cervi e daini, li quali essi nella lor lingua chiamano aiounesta e asquenoudo, perciochè la neve e ghiaccio eran già rotti nel corso del fiume, di sorte che potevano navigar per quello. E ci fu detto da Domagaia e altri che non starebbono piú di quindeci giorni, il che credevamo, ma stettero piú di duoi mesi avanti che ritornassero. Per la qual cosa avemmo sospizione che non fossero andati a far gente contra di noi per farci dispiacere, perciochè ci vedevano tanto demessi e debilitati, avenga che avevamo usato tal ordine e diligenza nel nostro forte che, se tutta la possanza del loro paese vi fosse stata attorno, non arebbe potuto farne altro che risguardarci. E fra questo tempo che stettero fuori, venivano ogni dí molte genti alle nostre navi, portando carne, come erano soliti, fresca di cervo, daini, e anco di pesci e molte altre cose: le quali vendevano molto care, portandole piú tosto indrieto che darle a buon mercato, perciochè loro avevano piú bisogno e necessità di vettovaglie, per causa dell'inverno quale era stato lungo.


Come Donnacona ritornò in Stadacone con gran numero di gente, e finse d'esser ammalato per non venir a visitar il capitano, pensando che 'l capitano dovesse andar verso di lui.

Alli ventuno del detto mese d'aprile, Domagaia venne a riva accompagnato da molti altri belli e robusti uomini, i quali non eravamo soliti a vedere, e ne disse che 'l detto signor Donnacona verrebbe il seguente giorno, e porterebbe carne di cervo e altre salvadicine in abondanza. E il dí seguente 22 venne detto Donnacona, il quale menò seco gran numero di gente in Stadacone, né sapevamo per che causa né a qual fine. Ma dice il proverbio: "Chi da tutti si guarda da qualcuno scampa"; il che n'era molto di bisogno, imperochè noi eravamo tanto debilitati, sí per la malattia come per quelli ch'erano morti, che ci convenne lasciar una delle nostre navi in detto luogo di Santa Croce. Il capitano fu avvertito della loro venuta, e anco come avea menato molta gente, perciochè Domagaia li venne a dir, senza voler passar oltra del fiume ch'era tra noi e Stadacone: il che non essendo solito di fare, ne dette sospizione di tradimento. Il capitano, vedendo questo, mandò un suo servitore accompagnato da Giovan Poullet, i quali da detto popolo erano piú amati che gli altri, per veder con chi v'era e che cosa vi si faceva. Finsero adunque detto Poullet e il servitore d'esser andati per visitar detto Donnacona e portarli qualche presente, perciochè erano stati molto tempo con lui nella sua terra: ma, subito che Donnacona intese la loro venuta, si messe in letto fingendo d'esser ammalato. Fatto questo, andorono a casa di Taignoagny per vederlo, dove per tutto trovorono tanto pien di brigate che non vi si potevano volgere né in qua né in là, le quali però non erano soliti a vedere. Né volse Taignoagny permetter che 'l detto servitore andasse nell'altre case, anzi fece loro compagnia verso le navi per fino a mezza strada, e disse loro, se 'l capitano li voleva far questo piacere di pigliar un signor del paese chiamato Agonna, dal qual aveva ricevuto dispiacere, e menarlo in Francia, che gliene restarebbe obligato e farebbe quanto volesse detto capitano, e che detto servitor ritornasse il dí seguente per dirgli la risposta. Essendo il capitano avvertito di tanta gente ch'era in detto luogo, né sapendo a che fine, deliberò di fare una burla, cioè di pigliar il lor signore e Taignoagny, Domagaia e de' principali, considerato anco ch'egli già innanzi aveva deliberato di menar detto signor in Francia per dir al re quello che aveva veduto ne' paesi occidentali e maraviglie del mondo, perciochè egli n'avea detto e certificato esser stato nel paese di Saguenay, nel qual sono infiniti rubini, oro e altre ricchezze, e vi sono uomini bianchi come in Francia e vestonsi di panni di lana. Piú dice aver veduto ed esser stato in altro paese dove le persone non mangiano punto né digeriscono, né hanno quella parte d'andar del corpo, ma solamente rendono acqua per la verga; piú dice esser stato in altro paese di Picquemyans e altri luoghi dove le persone non hanno salvo che una gamba, e simili altre maraviglie e favole lunghe da scrivere. Il detto signor è uomo vecchio, e cominciando da tenera età mai non ha cessato d'andar per paesi, sí per acqua e fiumi come eziandio per terra.
Avendo i detti Poullet e servitor fatta la sua ambasciata e narrato al capitano quanto gli avevan da dire da parte di Taignoagny, il capitano rimandò il dí seguente il suo servitore, per dir al detto Taignoagny che venisse a visitarlo e dirgli quel che voleva, che li farebbe carezze e parte del suo volere. Taignoagny li mandò a dire che verrebbe il dí dopo, e che menerebbe seco il signor Donnacona e colui che gli avea fatto dispiacere: il che non fece, anzi stette duoi giorni, né in questo mezzo venne alcuno di Stadacone alle nostre navi come erano soliti, anzi ne fuggivano né piú né manco come se gli avessimo voluti amazzare, sí che allora ci accorgemmo della loro malvagità. Ma perchè intesero che quelli di Sidatin ci praticavano, e che noi avevamo abbandonato il fondo d'una nave che volevamo lasciar per averne li chiodi vecchi, vennero il terzo dí seguente da Stadacone, e passarono dall'altra riva del fiume con piccioli schifi senza difficultà la maggior parte di loro, ma detto Donnacona non vi volse passare. Taignoagny e Damagaia stettero piú d'un'ora ragionando insieme, avanti che volessero passare: finalmente passorono e vennero a parlar al capitano, e pregollo detto Taignoagny che li piacesse pigliar detto uomo e menarlo in Francia. Il quale ricusò questo carico, dicendo che 'l re suo padrone gli avea proibito di menar né uomo né donna in Francia, ma che solamente potesse menar duoi o tre giovanetti per imparar la lingua, e che volentieri li menerebbe in terra nuova e li metterebbe in una isola. Queste parole diceva il capitano per assicurarli, e perchè menasse detto Donnacona, il qual era rimaso di là dall'acqua; delle qual parole fu molto allegro Taignoagny, sperando di non mai piú tornare in Francia, e promesse al capitano di ritornar il dí seguente, ch'era il dí di santa Croce, e menar seco detto signor Donnacona e tutto il popolo di detto luogo.


Come il dí di santa Croce il capitano fece piantar una croce dentro del nostro forte; e come detti signor Donnacona, Taignoagny e Damagaia vennero con la lor compagnia, e della presa del detto signore.

Il terzo dí di maggio, giorno e festa di santa Croce, per la solennità della festa il capitano fece piantar una bella croce alta da 35 piedi, sotto la croscetta della quale fece poner uno scudo, nel qual era l'arma di Francia, sopra del qual era scritto in lettera antica: "Franciscus Primus Dei gratia Francorum rex regnat". E in questo giorno sul punto di mezzodí venne molta gente di Stadacone, sí uomini come donne e fanciulli, i quali ci dissero che 'l suo signor Donnacona, Taignoagny e Domagaia e altri in sua compagnia venivano: il che molto ci piacque, sperando di ritenerli. Vennero dunque su le due ore dopo mezzogiorno, ed essendo loro giunti presso le navi, il capitano andò a salutar Donnacona, qual similmente li mostrò lieto viso e allegro, quantunque avesse tuttavia l'occhio al bosco con grandissima paura. Poco dipoi giunse Taignoagny, il qual disse a Donnacona che punto non intrasse nel nostro forte, e allora fu portato fuoco da un de' suoi fuora del forte, e acceso da detto signore. Il capitano lo pregò di venir a bere e mangiar dentro le navi come era solito; similmente ne pregò Taignoagny, il qual disse che de lí ad un pezzo entrerebbe: il che fecero. Entrorono adunque dentro, ma prima era stato avvertito il capitano da Domagaia che Taignoagny avea detto mal di lui, e ch'aveva detto al signor Donnacona che non entrasse dentro le navi. Il che vedendo, il capitano uscí fuori del forte nel qual era, e vidde che le donne se ne fuggivano per l'avertimento di Taignoagny, e che non vi restavano se non gli uomini in gran numero: per il che comandò subito alli suoi che pigliassero Donnacona, Taignoagny e Domagaia e duoi degli altri principali, ch'egli accennò e mostrò; poscia comandò che facessero ritirar gli altri. Poco dipoi detto signor entrò dentro il forte col capitano, ma subito venne Taignoagny per farlo uscire, e vedendo il capitano che non v'era altro ordine, si mise a gridar che li pigliassero: alla qual voce e grido uscí la gente del capitano, e prese detto signor e altri ch'aveano deliberato di pigliare. Vedendo li Canadiani la presa del suo signore, cominciarono a fuggire e correre a guisa di pecore avanti del lupo, alcuni per traverso del fiume, altri per mezzo il bosco, procurando ciascuno il suo avantaggio. Fatto questo si ritirorono gli altri, e li prigioni furono posti con buona e sicura guardia.


Come detti Canidiani vennero la notte avanti le navi cercando gli suoi, e tutta quella notte urlavano e cridavano come lupi. Del ragionamento e conclusione che fecero il dí seguente, e de' presenti che fecero al nostro capitano.

Quella seguente notte vennero dinanzi le nostre navi (essendo però il fiume fra noi in mezzo) battendo, gridando e urlando tutta la notte come lupi, gridando tuttavia "Agouhanna", pensando parlar con lui: il che non volse il capitano per allora, né anche il dí seguente sino intorno mezzogiorno, per il che ne facevano segni che noi gli avevamo appiccati e uccisi. E intorno da mezzogiorno ritornorono in un tratto cosí gran numero in una frotta come mai gli vedemmo, andando dentro del bosco a nascondersi, eccetto alcuni di loro, quali cridavano e chiamavano ad alta voce Donnacona che parlasse loro. Il capitano allora comandò che facessero montar detto Donnacona in alto per parlar con loro, e dissegli che stesse di buona voglia, che dopo ch'avrebbe parlato col re di Francia, e narratoli quello ch'aveva veduto in Saguenay e altri paesi, che ritornerebbe fra dieci o dodeci lune, e che 'l re li farebbe un gran presente. Delle qual cose Donnacona fu molto allegro, e parlando con gli altri glielo disse, il quale ne fecero tre maravigliosi cridi in segno d'allegrezza: e allora detto Donnacona e il popolo fecero molti ragionamenti tra loro, i quali non è possibile descrivere per mancamento d'interpreti. Il capitano disse a Donnacona che gli facessi venire sicuramente dall'altra riva, per poter meglio ragionar insieme, e ch'egli gli assicurasse; il che fece Donnacona, e sopra di questo venne una barca piena de' principali alla banda delle navi, i quali cominciorono di nuovo altri ragionamenti e dicerie, dando lode al capitano; e li fecero un presente di 24 collane d'esurgni ch'è la piú grande e piú preziosa ricchezza ch'abbino in questo mondo, imperochè le stimano piú che oro e argento. Dopo ch'ebbero molto ben ragionato insieme, vedendo detto signore che non v'era ordine di schifar l'andata di Francia, comandò che gli portassero il dí dietro delle vettovaglie per mangiare e vivere nel viaggio. Il capitano fece un presente a detto Donnacona di due padelle di rame e otto manerette e altre picciole cose, come coltelli e corone: delle quai cose, secondo che mostrava, fu allegro, e mandolle alle sue donne e figliuoli. Similmente dette il capitano alcuni piccioli presenti a coloro ch'erano venuti a parlar col detto Donnacona, de' quali ringraziorono molto il capitano, e cosí si ritirorono alle loro stanze.


Come il seguente dí, a' cinque di maggio, detto popolo ritornò a parlar col suo signore, e come vennero quattro donne a riva a portargli vettovaglie.

Alli cinque del detto mese, la mattina molto a buon'ora ritornò detto popolo in gran numero per parlar al suo signore, e mandarono una barca, la qual chiamano nella loro lingua casnoni, nella quale erano quattro donne sole senza uomo alcuno, avendo paura gli uomini d'esser ritenuti. Portorono queste donne vettovaglie assai, cioè miglio grosso, ch'è la sua biada di che vivono, carne, pesci e altre provisioni al modo loro. Giunte queste donne, il capitano fece loro molta accoglienza, e Donnacona pregò detto capitano che dicesse alle dette donne che fra dodeci lune egli ritornerebbe, e menerebbe seco detto Donnacona a Canada: e questo diceva per contentarle. Il che fece detto capitano, donde le dette donne mostrorono in vista allegrezza grande, sí con segni come con parole a detto capitano, che ritornando e menando seco detto Donnacona gli farebbero molti presenti: e allora ciascheduna d'esse dette al capitano una collana d'esurgni. Poscia se n'andorono all'altra riva del fiume, dove era il popolo di Stadacone, li qual togliendo licenzia dal suo signore si ritirorno.
E il sabbato a' sei del detto mese, noi ci partimmo del detto porto di Santa Croce, e venimmo ad alloggiare a basso dell'isola d'Orliens, circa dodeci leghe dal detto luogo di Santa Croce. E la domenica venimmo all'isola de' Nosellieri, dove stemmo per fino alli sedeci del detto mese, lasciando passar la furia dell'acque, le quali aveano per allora troppo gran correntia ed erano troppo pericolose per venir a seconda del detto fiume: e quivi aspettammo il buon tempo. Fra questo spazio di tempo vennero molte barche de' popoli sudditi a detto Donnacona, quali venivano dal fiume Saguenay, ma, essendo avvertiti da Domagaia della presa del loro signore e come era condotto in Francia, restorono tutti stupefatti; ma non restorono per questo di venir verso le navi a parlar con Donnacona, il qual disse loro che fra dodeci lune ritornerebbe, e che era ben trattato dal capitano e compagni e marinari: del che ad una voce ringraziarono il capitano. E dettero al detto Donnacona tre fasci di pelle di bivori e lupi marini, con un gran coltello di rame rosso che viene di Saguenay e altre cose, e similmente detteno al detto capitano una collana d'esurgni; per li quali presenti li furon dati da parte del capitano dieci o dodeci manarette, delle quali rimasero contenti e allegri, e ne ringraziorono il capitano.
Il dí seguente, sedeci del detto mese di maggio, facemmo vela da detta isola de' Nosellieri e arrivammo ad un'altra isola distante da quella da quindeci leghe, la qual è di lunghezza da cinque leghe, e ivi ci fermammo quel giorno per riposar la notte, sperando il dí seguente passare e schifar li pericoli del fiume Saguenay, li quali sono grandi. Quella sera descendemmo a terra, dove trovammo gran moltitudine di lepri, e ne pigliammo molti: per il che la chiamammo l'isola de' Lepri. La notte il vento si levò contrario con fortuna grande, di sorte che fummo constretti di voltar verso l'isola de' Nosellieri, donde eravamo partiti, perciochè non v'era altro passaggio tra dette isole. Qui dunque ci fermammo sino alli 21 del detto mese, che venne buon vento, e tanto facemmo navigando che passammo sino ad Honguedo, il qual passaggio per fin ad ora non era stato scoperto, e facemmo scorrer sino al traverso del capo di Prato, che è il cominciamento del porto del Calor: e perchè il vento era buono e convenevole, navigammo tutto il dí e la notte senza fermarci, e il dí seguente arrivammo nel mezzo dell'isola di Bryon, il che non avevamo animo di fare per abbreviar la strada. E sono queste due terre poste a scirocco e maestro, quarta di levante e ponente, e v'è distante dall'una all'altra cinquanta leghe; ed è detta isola a gradi 47 e mezzo di latitudine.
Il giovedí 26 del detto mese, giorno e festa dell'Ascensione di nostro Signore, noi traversammo per andar ad una terra e sabbione di basse arene, quali sono verso garbino da otto leghe di detta isola di Bryon, sopra delle quali vi sono di gran campagne piene d'arbori e terre, e anco un mar chiuso, del qual non vedemmo adito alcuno né apertura per entrarvi. Il venerdí seguente, ventisette del detto mese, perciochè 'l vento si mutava nella costa, ritornammo a detta isola di Bryon, dove stemmo sino al primo di giugno. E vedemmo una terra verso scirocco di detta isola, la quale ci pareva esser una isola, sí che la costeggiammo intorno 2 leghe e mezza; la qual strada facendo, avemmo notizia di tre altre isole alte, che restarono verso l'arene. Conosciute queste cose, ritornammo al capo di detta terra, la qual si divide in due o tre capi mirabilmente alti: e l'acqua v'è molto alta, e il flusso del mare tanto corrente che non è possibile di piú. Noi arrivammo quel dí al capo di Lorena, ch'è a quindeci gradi e mezzo verso l'ostro, nel qual capo v'è una bassa terra e pare che vi sia qualche introito di fiume, nondimeno non v'è porto che vaglia. Per di sopra di queste terre vedemmo un altro capo di terra verso l'ostro, e lo chiamammo il capo San Polo, qual è a 47 gradi e una quarta.
La domenica a' quattro del detto mese di giugno, il giorno e festa della Pentecoste, avemmo notizia della costa di levante e scirocco della Terra Nuova, distante dal detto capo intorno circa 22 leghe; e perchè il vento era contrario andammo ad un porto, qual chiamammo il porto di San Spirito, dove ci fermammo sino al martedí, che d'indi ci partimmo. E navigando lungo detta costa sino all'isole di San Pietro e facendo questa strada, trovammo lungo di detta costa parecchie isole e secche molto pericolose, le quali tutte sono nel camino di levante scirocco e ponente e maestro, 23 leghe dentro del mare. Noi fummo in dette isole di San Pietro, dove trovammo molti navilii sí di Francia come di Bertagna, e stessemo dopo il dí di san Barnaba, undecimo di giugno, sino alli 16 del detto mese, che ci partimmo di dette isole di San Pietro e venimmo al capo di Ras: ed entrammo in un porto chiamato Rognoso, dove pigliammo acqua e legne per traversare il mare, e ivi lasciammo una delle nostre barche. Poi ci partimmo di detto porto il lunedí 19 del detto mese, e con buon tempo siamo andati navigando per il mare, di sorte che alli 6 di luglio 1536 siamo arrivati al porto di San Malò, per la grazia del Creatore, il quale preghiamo, qui facendo fine della nostra navigazione, che ne dia a tutti la sua grazia e il paradiso in fine.

Amen.


Seguita il linguaggio de' paesi e reami di Hochelaga e Canada, da noi chiamati la Nuova Francia, e prima li nomi de'numeri.
1 segada
2 tigneni
3 hasche
4 hannaion
5 ouiscon
6 indahir
7 aiaga
8 addigue
9 madellon
10 assem

Seguita li vocaboli delle parti dell'uomo.

il capo aggonzi
la fronte hergueniascon
gli occhi higata
l'orecchie abontascon
la bocca esahe
li denti esgongai
la lingua osnache
la gola agonhon
la barba hebehm
le coscie hetnegradascon
li ginocchi agochinegodascon
le gambe agouguenehonde
li piedi onchidascon
le mani aignoascon
le deta agenoga
le unghie agedascon
il membro dell'uomo ainoascon
il viso hegouascon
li capelli aganiscon
le braccia aiayascon
le alette, scagli hetnanda
li fianchi aissonne
lo stomaco aggruascon
il ventre eschehenda
la natura della donna castaigne
un uomo aguehum
una donna agruaste
un putto addegesta
una putta agnia questa
un fantolino exiasta
Seguitano altri vocaboli.
una veste cabata
un giubbone caioza
calze hemondoha
scarpe atha
camicia amgoua
una berretta castrua
formento osizi
pane carraconny
acqua ame
carne quahouascon
passi queion
susini honnesta
una manaretta adogne
un arco ahenca
una saetta o freccia quahetan
andiamo alla caccia quasigno donnascat
un cervo aionnesta
pedaini montoni asquenondo
un lepore sourhanda
un cane agayo
oche sadeguenda
la strada adde
fichi absconda
uva ozoba
noce quahoya
una gallina sahomgahoa
lampreda zisto
un salmone ondacon
una balena ainne honne
una anguilla esgneny
un scoiattolo caiognem
una biscia undeguezi
testuggini o gaiandre heu leuxime
legni conda
foglie d'arbori hoga
Iddio cudragny
datemi da bere quazaboa quea
datemi da far colazione quazaboa quascaboa
datemi da cena quazaboa quatfriam
andiamo a dormire casigno agnydahoa
buon dí aignag
andiamo a giuocar casigno caudy
venite a parlarmi assigni quaddadia
risguardatemi quagathoma
tacete aista
seme di cocomeri o melloni casconda
domani achide
il cielo quenhia
la terra damga
il sole ysmay
la luna assomaha
le stelle signehoham
il vento cahoha
il mare agogasy
le onde del mare coda
una isola cahena
una montagna ogacha
il ghiaccio bonnescha
la neve camsa
freddo atahu
caldo odazani
fuoco azista
fumo quea
una casa canoca
fave sahe
una terra canada
mio padre addathy
mia madre adanahoe
mio fratello addagrim
mia sorella adhoasseue
andiamo con la barca casigno casnouy
datemi un coltello buzabca agoheda
cannella adhotathny


Quelli di Canada dicono che si sta una luna a navigar da Hochelaga insino ad una terra dove si coglie il cinamomo e il garofano.



Viaggio di messer Cesare de Fedrici nell'India orientale e oltra l'India per via di Soria.

(di Dionigi da Fano)


L'anno della redenzione umana 1563, ritrovandomi io Cesare de' Fedrici in Venezia, oltra modo desideroso di vedere le parti del Levante, m'imbarcai con diverse merci su la nave Gradeniga, patronigiata da Giacomo Vatica, qual andava in Cipri. Ove giunto, passai in Tripoli di Soria con un vassello minore; né qui fermatomi, presi il camino alla volta d'Aleppo, ove si va con le carovane in sei giornate di gambelo. In Aleppo si fa poi prattica co' mercanti armeni e mori, per andar in lor compagnia in Ormus; e cosí con essi d'Aleppo partitomi, giungessimo in due giornate e mezza al Bir.


Bir.

Il Bir è una picciola cittade, ma molto abbondante di vettovaglia, e appresso le sue mura corre il fiume Eufrate. Fanno in questo luogo i mercanti diverse compagnie, secondo la mercanzia che portano; e ogni compagnia fa fare delle barche, overo ne compra di fatte, per andare con esse in Babilonia, pagando ciascun mercante per ratta della sua mercanzia i patroni e i marinari che le conducono. Sono queste barche in foggia di burchielle col fondo piano, ma forte, né si possono adoperare se non per un solo viaggio all'andare a seconda del fiume, perciochè, essendo il fiume impedito in molti luoghi da' sassi e da discese, non possono esser ricondotte indietro; ma, servitosi d'esse sin ad una villa chiamata la Feluchia, si disfanno, e vendendole se ne cava poco prezzo, perciochè quello che costa al Bir quaranta e cinquanta cecchini si dà per sette e per otto. Quando poi i mercadanti ritornano indietro, se essi hanno mercanzie da dazio fanno il viaggio quaranta giornate in circa per il deserto, passando essi per questa strada con assai manco spesa; ma non avendo roba da dazio vengono per la via del Mosul, per dove si fanno molto spesse le caravane e compagnie. Dal Bir alla Feluchia, luogo ove si sbarca, posto all'incontro di Babilonia, quando il fiume ha buona acqua si va in quindeci o dicidotto giorni; ma occorse nel mio viaggio ch'erano passati molti giorni senza pioggia e l'acqua del fiume era bassissima, talchè vi stessemo quarantaquattro giornate, perciochè, urtando noi spesso in secco, ne conveniva scaricare la barca e passare cosí vuoti, e indi ritornarla a caricare. Non bisogna partirsi dal Bir per questo viaggio con una barca sola, ma se ne conducono due o tre, acciochè, caso ch'una si rompesse, s'abbia ove caricar la mercanzia sino che si racconcia la barca; che, se si mettesse in terra, saria difficile il difenderla la notte dalla gran moltitudine degli Arabi che vanno rubando. E quando la notte si sta ligati alle rive, bisogna farsi buona guardia, per rispetto degli Arabi, che son ladri formicheri: non amazzano, ma rubbano e fuggono; e contra questi sono molto buoni gli archibugi, temendone essi grandemente. Per il fiume Eufrate dal Bir alla Feluchia sono alquanti luoghi ove si paga di dazio tanti maidini (cioè grossetti per soma), qual dazio è del figliuolo d'Aborise, signore degli Arabi e di quel gran deserto; e ha questo deserto alcune città e ville su le rive del fiume.


Feluchia e Babilonia.

La Feluchia, ove sbarcano quelli che vengono dal Bir, è una villa, di dove si va in Babilonia in una giornata e mezza. Ed è Babilonia una città non molto grande, ma ben popolata e di gran negozio di forestieri, per esser un gran passo per la Persia, per la Turchia e per l'Arabia, e spesso v'entrano e n'escano caravane per diverse bande. È assai abbondante di vettovaglia, che vi viene d'Armenia giú per il fiume Tigris, il qual bagna le mura della città. Vengono queste robbe sopra alcune zattare fatte d'utri gonfiati e ligati insieme, sopra i quali distendono delle tavole, e sopra esse caricano la roba, che giunta in Babilonia e scaricata, disgonfiano gli utri e gli portano indietro con i gambeli, per servirsene dell'altre volte in altri viaggi. Giace questa città nel regno di Persia, ma da un tempo in qua è signoreggiata dal Turco. Ha dalla banda che guarda verso l'Arabia, oltra il fiume, all'incontro della città, un borgo con un bello bazarro e assai fonteghi, ove alloggiano la maggior parte de' mercanti forestieri che vi arrivano. Si passa da questo borgo alla città sopra un lungo ponte fatto di barche incatenate insieme con grosse catene; ma quando il fiume per le pioggie s'ingrossa troppo, fa bisogno aprire questo ponte in mezzo, una parte del quale s'accosta alle mura della città e l'altra s'appoggia alle rive del borgo. E in questo tempo si passa il fiume con barche, ma con grandissimo pericolo, perciochè, essendo le barche picciole e caricandole essi troppo, spesso si ribaltano o sono dalla correntia del fiume inghiottite, e vi s'annegano molte persone, come ho veduto occorrere nel tempo che ho dimorato in questa città piú di una volta.


Torre di Babilonia.

La torre di Nembrot è posta di qua dal fiume verso l'Arabia in una gran pianura, lontana dalla città intorno a sette overo otto miglia, qual è da tutte le bande ruinata e con le sue ruine s'ha fatto intorno quasi una montagna, di modo che non ha forma alcuna; pur ve n'è ancora un gran pezzo in piedi, circondato e quasi coperto affatto da quelle ruine. Questa torre è fabricata di quadrelli cotti al sole, a questo modo: hanno posto una man di quadrelli e una di stuore fatte di canne, tanto forti ancora che è una maraviglia, ed è smaltata di fango in vece di calcina. Io ho caminato intorno al piede di questa torre, né gli ho trovato in alcun luogo intrata alcuna: può circondare, al mio giudicio, intorno ad un miglio, e piú tosto manco che piú. Fa questa torre effetto contrario a tutte l'altre cose che da lontano si vedono, perciochè esse da lontano paiono picciole, e quanto piú l'uomo si gli avicina piú grande si dimostrano; ma questa da lontano pare una gran cosa, e avvicinandoseli manca sempre piú l'apparente grandezza. Io stimo che sia cagione di questo l'esser posto essa torre in mezzo ad una larga pianura e non avere all'intorno cosa alcuna rilevata, fuor che le ruine ch'intorno si ha fatte, e per questo rispetto scoprendosi da lontano quel pezzo di torre ch'ancora è in piedi, con la montagna fattasi all'intorno con la materia da essa caduta, fa mostra assai maggiore di quello che poi avvicinatosi si trova.
Di Babilonia mi parti' per Basora, imbarcandomi in barche che vanno per il fiume Tigris da Babilonia a Basora e da Basora a Babilonia, che sono fatte a guisa di fuste con speroni e con la poppa coperta; non hanno sentina perchè non gli bisogna, non facendo né anco una goccia d'acqua, per la molta pegola che li danno, avendone essi grandissima abondanza. Perciochè due giornate di qua da Babilonia, appresso il fiume Eufrate, è una città che si chiama Ait, vicino alla quale giace una pianura tutta piena di pegola che in essa nasce, ed è cosa maravigliosa da vedere una bocca che di continuo getta verso l'aere la pegola con una spessa fumana, la qual si va poi spargendo per quella campagna, di modo che n'è sempre piena. Dicono i Mori che quella è bocca dell'inferno, e in vero è cosa molto notabile. E per questo hanno que' popoli gran commodità d'impegolar bene le lor barche, che da essi sono chiamate danec e safine. Quando il fiume Tigris ha pur assai acqua, in otto o nove giornate si va da Babilonia a Basora; noi vi stessemo la metà piú, perchè l'acque erano basse; e si naviga di giorno e di notte a seconda d'acqua, e vi sono per il viaggio alcuni luoghi ove si paga di dazio tanti maidini per soma. E in 18 giorni in Basora giungessemo.


Basora.

Basora è città dell'Arabia e la signoreggiavano anticamente gli Arabi Zizaeri, ma ora dal Turco è dominata, il quale vi tiene con gran spesa un grosso presidio. Possedono questi Arabi Zizaeri un gran paese, né possono essere dal Turco sottoposti, perciochè sono in esso diversi canali che vengono dal mare, crescendo e calando, di maniera che par tutto diviso in isolette, e però non vi si può condurre esercito né per acqua né per terra; e sono i suoi abitatori gente molto bellicosa. Prima che si giunga a Basora forsi una giornata, si trova una picciola fortezza chiamata Corna, qual è fondata su una ponta di terra che fanno il Tigris e l'Eufrate nel congiungersi insieme; li quali cosí congiunti fanno un grosso e gran fiume, e vanno a scaricare le lor acque nel golfo di Persia, verso mezzogiorno. Basora è distante dal mare intorno a quindeci miglia, ed è città di gran negocio di speziarie e di droghe, che vengono d'Ormus, e vi è gran quantità di frumento, di risi, di legumi e di dattili, che nascono nel territorio. M'imbarcai in Basora per Ormus, e si velleggia per il mar Persico seicento miglia da Basora in Ormus, con certi navilii fatti di tavole cusite insieme con aco e corda sottile, e in vece di caleffattarli cacciano tra una tavola e l'altra una certa sorte di paglia, onde fanno molta acqua e sono molto pericolosi. Partendosi da Basora si passa ducento miglia di colfo col mare a banda destra, sino che si giunge nell'isola di Carichi, di dove fina in Ormus si va sempre vedendo terra della Persia a man sinistra, e alla destra verso l'Arabia si vanno scoprendo infinite isole.


Ormus.

Ormus è un'isola che circonda intorno a venticinque o trenta miglia, ed è la piú secca isola che al mondo si trovi, perciochè in essa non si trova altro che sal, e acqua e legne e altre cose all'uman vitto necessarie vi si conducono di Persia, indi dodeci miglia distante, e dall'altre isole circonvicine, in tanta abbondanzia e quantità che la città n'è copiosamente fornita. Ha una fortezza bellissima, vicina al mare, nella qual risiede un capitano del re di Portogallo con una buona banda di Portoghesi, e inanzi alla fortezza è una bella spianata. Nella città poi abitano i suoi cittadini, uomini maritati, soldati e mercadanti di ogni nazione, tra i quali assai Mori e Gentili. Si fanno in questa facende grossissime d'ogni sorte di speziarie, di drogarie, sete, panni di seta, broccati e di diverse altre mercanzie, che vengono di Persia; e tra l'altre gran trafico è quello de' cavalli, che di qui si portano in India. Ha questa isola un proprio re moro, di generazione persiano, il qual però vien creato capitano della fortezza in nome del re di Portogallo. Io mi trovai alla creazione d'un re di questa isola e viddi le cerimonie che s'usano. Morto il re, il capitano n'elegge un altro di sangue reale, e si fa questa elezione nella fortezza con assai cerimonie; ed eletto che egli è, giura fedeltà al re di Portogallo, e allora il capitano li dà il scetro regale in nome del re di Portogallo suo signore, e indi con gran pompa e festa l'accompagnano al palazzo reale posto nella cittade. Tiene detto re onesta corte e ha sofficiente entrata senza fastidio alcuno, perciochè il capitano li difende e mantiene le sue ragioni; e quando cavalcano insieme l'onora come re, né può detto re cavalcare con la sua corte se prima non lo fa sapere al capitano. Si fa e comporta questo perchè cosí è necessario di fare per il negozio di quella città, la propria lingua della quale è la persiana.
M'imbarcai in Ormus per Goa, città dell'India, in una nave che portava ottanta cavalli. Avertisca il mercante che vuol passar d'Ormus a Goa d'imbarcarse su nave che porti cavalli, che vi passano anco nave e navili che non portano cavalli; perciochè tutte le navi che portano da venti cavalli in su sono privilegiate, che tutta la mercanzia che 'n essa si ritrova, e sia pur di chi esser si voglia, non paga dazio alcuno; ove la mercanzia ch'è caricata sopra legni che non portano cavalli è sottoposta a pagar di dazio otto per cento.


Goa, Diu e Cambaia.

Goa è la principal città ch'abbiano i Portoghesi in India, ove risiede il vice re con la corte e ministri regii. E da Ormus a Goa vi sono novecento e novanta miglia di passaggio, nel quale la prima città che si trova dell'India si chiama Diu, posta in una picciola isola del regno di Cambaia, ove è la miglior fortezza che sia in tutta l'India. Ed è picciola città, ma di gran facende, perchè vi si caricano assai nave grosse di diverse robbe, e per lo stretto della Mecca e per l'isola d'Ormus; e queste sono nave de' Mori e de' Cristiani, ma i Mori non possono navigare per quei mari senza il cartacco, cioè licenzia del vice re di Portogallo, altramente si pigliarebbono per contrabando. Vengono le robbe che si caricano su queste navi da Cambaiette, porto di Cambaia, sopra navilii e legni piccioli, non potendovi andare né navi né navilii grossi per rispetto che le acque vi sono molto basse; ed è questo un pareggio d'intorno a cento e ottanta miglia di golfo e stretto, che in lor lingua chiamano maccareo di Cambaia, perchè corrono qui l'acque fuori d'ogni misura a parangon degli altri luoghi, eccettuando che nel Pegu vi è un altro maccareo ove corrono con empito maggiore. La città reale di Cambaia si chiama Amadavar ed è una giornata e mezza fra terra da Cambaiette; è città grande e ben popolata, e per città de' Gentili è molto bene edificata, con belle case e strade e piazze larghe con assai botteghe, ed è quasi su l'andar del Cairo, ma non è cosí grande. Cambaiette è sul mare ed è assai bella città, nella quale io mi son ritrovato in tempo di calamità di carestia, e ho visto i padri e le madri gentili andar pregando i Portoghesi che comprassero i loro figliuoli e figlie, e gli vendevano per sei, otto e dieci larini l'uno; e un larino, ridotto alla nostra moneta, può valer intorno ad un mocenigo. Con tutto questo, s'io non l'avesse veduto, non avrei creduto le grande e grosse facende di mercanzia che vi si fanno. E ogni luna nuova e ogni luna piena è il tempo ch'entrano ed escono i vasselli, perciochè in quei due punti l'acque gonfiano; d'altro tempo sono l'acque tanto basse che non si può navigare. Entrano nella volta e nel tondo della luna col crescente dell'acque assai navilii piccioli carichi d'ogni sorte di spezie, di seta della China, di sandolo, di dente d'elefante, verzini, veluti, gran quantità di panina, che vien dalla Mecca, zechini, moneta e diverse altre mercanzie. Escono poi di qui navilii carichi d'una quasi infinita quantità di tele di bombaso, bianche, stampate e dipinte, grandissima quantità d'endighi, zenzari secchi e conditi, mirabolani secchi e conditi, boraso in pasta, assai zuccaro, molto cottone, assaissimo anfione, assa fetida, puchio e molte altre sorti di droghe, li turbiti si fanno in Diu, pietre grosse, come corniole, granate, agate, diaspri, calcidonii amatisti e anco qualche sorte di diamanti naturali.
Una usanza è in Cambaiette alla quale niuno è sforzato, ma però da tutti i mercadanti portoghesi è osservata, la qual è questa. Sono in questa città alquanti sensari gentili e di grande autorità, ciascuno de' quali ha quindeci e venti servitori, e' mercadanti che sono usi nel paese hanno il suo sensaro del quale si servono, e quelli che non vi sono piú stati sono dagli amici di questa usanza informati, di qual sensaro si debbano servire. Or ogni quindeci giorni, come di sopra ho detto, che le flotte de' navilii entrano in porto, vengono questi sensari a marina, e li mercadanti, sbarcati che sono, danno le pollize di tutta la lor mercanzia a quel sensaro del qual servir si vogliono, insieme col segnal delle lor balle. E indi fatto sbarcar i fornimenti di casa (perciochè per tutta l'India bisogna che i mercanti portino seco tutti i mobili piú necessarii di casa, poi che in ogni luogo gli conviene far casa nuova), il sensaro ch'ha da loro avuto la poliza fa che i suoi servitori caricano questi fornimenti di casa sopra alcune carette assai deboli e, dicendo al mercante che vadi a riposare, gli manda nella cittade, ove ogni sensaro ha diverse case vuote, nette e polite, per alloggiare i mercanti, fornite solo di lettiere, tavole, carieghe e vasi da acqua. Resta il sensaro con la poliza alla marina, fa sbarcar la mercanzia, la dispaccia dal dazio e la fa portare con carette alla casa ove è alloggiato il mercadante, senza ch'esso sappia cosa alcuna né di dazio né di spesa fatta. Condotta che è la mercanzia a questo modo in casa del mercante, gli dimanda il sensaro s'egli fa pensiero di vendere allora per il prezzo corrente, e volendo vender gliela fa subito dar via, dicendogli: "Voi averete tanto di cadauna sorte di mercanzia, netto d'ogni spesa e in dinari contanti"; e se 'l mercante vuol investire il dinaro in altre mercanzie, gli dice: "La tal e la tal cosa vi costarà tanto posta in barca", senza sentire alcuna sorte di spesa. E il mercante, intesa la proposta, fa i suoi conti e, se li par di vendere e comprare per i prezzi correnti, gli ordina che facci botta, e se ben avesse robba per ventimila ducati, in quindeci giorni tutta si smaltisse senza alcun suo pensiero o fatica. Quando poi non li pare poter dar la sua roba per quelli prezzi, può aspettar quanto li piace, ma la mercanzia non può esser venduta per altre mani che di quel sensaro che l'ha spedita di doana; e alle volte aspettando qualche tempo a vendere si guadagna e alle volte si discaveda, ma per il piú, in alcune sorte di mercanzie che non vengono ogni quindeci giorni, aspettando si fa assai meglio.
I navilii ch'escono di questo porto carichi vanno al Diu a caricar le navi, che de lí vanno poi alla Mecca e in Ormus, e parte vanno a Chiaul e a Goa, con la scorta sempre dell'armata de' Portoghesi, per rispetto de' molti corsari che vanno corseggiando e robando tutta quella costa dell'India, per tema de' quali non è sicuro il navigarvi se non con navi ben armate overo con la scorta dell'armata portoghese. In somma il regno di Cambaia è luogo di gran traffico e di grosse facende, con tutto che da un tempo in qua sia in mano de' tiranni. Perciochè, essendo già sessantacinque anni stato ammazzato il suo vero re gentile, chiamato sultan Badu, all'impresa del Diu, quattro o cinque capitani si partirono il regno fra loro e ciascuno tiranneggiava la sua parte; ma già dodeci anni il gran Magol re moro d'Agra e del Deli, infra terra da Amadavar quaranta giornate, si è impatronito di tutto il regno di Cambaia senza contrasto alcuno, perciochè, essendovi esso con grand'empito e sforzo di gente entrato e trovandolo diviso, non fu chi se gli opponesse, ma fu subito obbedito da tutti; e sono gente molto bestiale e tiranna. Mentre io dimorai in Cambaiette vidi cosa che mi fece molto maravigliare, che fu il quasi infinito numero de' maestri che del continuo fanno manini di denti d'elefanti lavorati a varii colori per le donne gentili, le quali tutte ne portano piene le braccia, e vi si spende ogni anno assai migliara di scudi; e la cagione è che, quando li muore alcun parente, è costume che le donne per segno di dolore si spezzano tutti i manini che hanno intorno alle braccia, e subito poi ne comprano degli altri, perciochè stariano piú presto senza mangiare che senza manini.


Daman, Basain e Tana.

Passato il Diu si trova Daman, seconda città de' Portoghesi, posta nel territorio di Cambaia, lontana dal Diu cento e venti miglia. Non è luogo di mercanzia, fuor che di risi e di frumento; ha molte ville sotto di sé, le quali in tempo di pace sono godute da' Portoghesi, ma in tempo di guerra sono da' nemici con le spesse correrie ruinate, di modo che i Portoghesi niuna o poca utilità ne cavano. Dopo Daman si trova Basain, con molte ville dell'istessa condizione di quelle di Daman; né di questa altro si cava che risi, frumento e molto legname da far navi e galee. Oltra a Basain poco distante è una isola picciola, chiamata Tana, con una terra assai popolata da' Portoghesi, da' Mori e da' Gentili. Qui non fanno altro che risi, e vi sono molti telari da far ormesini e gingani di lana e di bombaso, che sono dell'andar dei mocaiari, neri e colorati.


Chiaul, e l'albore "palmar".

Oltra a questa isola si trova Chiaul in terra ferma, e sono due cittadi, una de' Portoghesi, l'altra de' Mori. Quella de' Portoghesi è posta piú a basso e signoreggia la bocca del porto, ed è murata e posta in fortezza, discosto dalla quale un miglio e mezzo è quella de' Mori, signoreggiata da Zamalucco, re moro; ma in tempo di guerra non possono andar legni grossi alla città de' Mori, perciochè sono battuti e messi a fondo dall'artiglieria della fortezza portoghese, inanzi alla quale convengono passare. L'una e l'altra sono porto di mare e vi si fanno molte facende d'ogni sorte di spezie e di droghe, sete, panni di seta, sandolo, marfin, verzin, porcellane della China, veluti e scarlatti, che vengono di Portogallo e dalla Mecca, e molte altre mercanzie. Vi vengono ogni anno di Cochin e di Canenor dieci e quindeci nave cariche di noci grosse curate e di zuccaro dell'istessa noce, chiamato giagra. L'arbore che produce questa noce si chiama palmar e per tutta l'India, massime da Goa in là, ve ne sono boschi grandissimi; ed è molto simile al dattolaro, né in tutto il mondo si trova arbore della bontà di questo, e che se ne cavi piú utilità; né in esso è cosa alcuna da abbrucciare. Del suo legname solo, senza mescolarvene d'altra sorte, si fanno i navilii, delle foglie si fanno le vele, e del suo frutto si caricano, che sono noci, zuccaro, vino e aceto, che si fa del vino. Qual vino si cava del fiore in mezzo all'arbore, che getta di continuo un liquor bianco come acqua, e, tenendoli un vaso sotto, ogni mattina e ogni sera si leva pieno, e fatto lambicare al fuoco diventa potentissimo liquore; nelle botte del qual postovi una certa quantità di zibibbo, o nero o bianco, in poco tempo è fatto perfettissimo vino, e se ne fa gran quantità. Della noce poi si cava oglio assai; dell'arbore si fanno tavole e travi per gli edificii; della scorza si fanno gomene e corde d'ogni sorte per le navi, migliori che quelle di canevo; degli rami si fanno lettiere per dormire, overo scafacci per la mercanzia; le foglie si tagliano minute e, tessendole, se ne fanno vele per ogni legno, overo finissime stuore; del primo scorzo della noce pestato si fa stoppa perfettissima da calefattar navi e navilii, e della scorza dura se ne fa cucchiari e altri vasi da manestrare; di modo che non si getta né si abbruccia altro di questo arbore se non la sola radice. E quando la noce è fresca è piena d'un'acqua eccellentissima da bevere, e, per gran sete che abbia un uomo, con una di queste noci se la cava; quando poi la noce si matura, quell'acqua diventa tutta noce.
Escono di Chiaul per tutta l'India, per Malacca, per Portogallo, per lo stretto della Mecca, per la costa di Melindi e per Ormus, una quasi infinita quantità di robe, che si cavano del regno di Cambaia, come sono panni di bombaso bianchi, stampati e depinti, assai endego, amfione, gottoni, sete fine e d'ogni sorte, assai boraso in pasta, assa fetida, assai ferro e frumento e molte altre mercanzie. Il re Zamaluco è moro ed è molto potente, come quello che ad ogni sua requisizione mette in campagna ducentomila persone da guerra, e ha molta artiglieria fatta di pezzi, alcune d'esse dico, che per la lor grandezza non si potriano condurre e però sono fatte di pezzi, ma talmente accommodati che s'adoprano benissimo, le cui balle sono di pietra: sono state mandate di queste balle in Portogallo a mostrare al re, come cosa di gran maraviglia. La città ove il re Zamalucco fa la sua residenza è infra terra da Chiaul sette overo otto giornate, e si dimanda Abdeneger. Sessanta miglia da Chiaul verso l'India si trova Dabul, porto del Zamalucco, di dove a Goa sono cento e venti miglia.


Goa.

Goa è la principal città ch'abbian i Portoghesi in India, nella quale stanzia il vice re con la corte regia, ed è in una isola che può circondare da venticinque in trenta miglia. È cittade con i suoi borghi onestamente grande, e per città dell'Indie assai competentemente bella; ma piú bella è l'isola, come quella che è piena di giardini e di boschi de' palmari detti di sopra, su per la quale sono ancora alcune villette. È questa città di grandissimo negozio di tutte le sorte di mercanzie che 'n quelle parti si trafficano; e la flotta che viene ogn'anno di Portogallo, che sono quattro, cinque e sei grosse navi, viene a dirittura a Goa, e giungono ordinariamente dalli sei alli dieci di settembre e si fermano in Goa intorno a cinquanta giorni; indi partono per Cochin, ove caricano per Portogallo, e molte volte caricano una nave in Goa per Portogallo e le altre vanno a caricare a Cochin, distante da Goa trecento miglia. È situata Goa ne' paesi del Dialcan, re moro qual sta infra terra intorno ad otto giornate, la cui città real si chiama Bisapor, ed è re molto potente. Io mi ritrovai in Goa l'anno del 1570, quando venne detto re ad assediarla, essendoseli accampato sotto (ma però di là dal rio) con un esercito qual si diceva passar ducentomila persone; vi tenne l'assedio quattuordeci mesi, in capo al qual tempo fece pace, si dice per il gran danno che ebbe la sua gente per una infermità mortale che l'inverno l'assalse, quale uccise anco molti elefanti.
Del 1566 io mi parti' di Goa per Bezeneger, città reale che fu del regno di Narsinga, otto giornate da Goa infra terra; andai in compagnia di due mercanti, che conducevano al re trecento cavalli arabi. Perciochè i cavalli del paese sono piccioli, pagano bene i cavalli arabi, e bisogna venderli bene, perchè vi va molta spesa a condurli dalla Persia in Ormus e da Ormus in Goa, ove dell'entrare non pagano gabella alcuna; anzi nelle navi che portano da venti cavalli in su passa franca anco tutta l'altra mercanzia, ove quelle che non portano cavalli sono tenute a pagare otto per cento d'ogni sorte di mercanzia. Nello uscir poi i cavalli arabi di Goa si paga di dazio quarantadue pagodi per cavallo, e ogni pagodo val otto lire alla nostra moneta, e sono monete d'oro; di modo che li cavalli arabi sono in gran prezzo in que' paesi, come sarebbe trecento, quattrocento, cinquecento e fina mille ducati l'uno.


Bezeneger.

La città di Bezeneger fu messa a sacco l'anno del 1565 da quattro re mori e potenti, che furono il Dialcan, il Zamaluc, il Cotamaluc e il Veridi; e si dice che il poter di questi quattro re mori non era bastante ad offendere il re di Bezeneger, qual era gentile, se non vi fosse stato tradimento. Aveva questo re tra gli altri suoi capitani due capitani mori, ciascun de' quali commandava a settanta e ottantamila persone. Trattarono questi due capitani, per esser d'una istessa legge, co' re mori di tradire il suo re; e il re gentile, che non stimava le forze de' nemici, volse uscir della città a far fatto d'arme co' nemici alla campagna; qual dicono che non durò piú di quattro ore, perciochè li due capitani traditori nel piú bello del combattere voltarono le sue genti contra al suo signore, e misero in tal disordine il suo campo, che i Gentili confusi e sbigottiti si posero in fuga. Già trenta anni era stato occupato questo regno da tre fratelli tiranni, li quali, tenendo il vero re come prigione, una sol volta all'anno lo mostravano al popolo, ed essi il tutto a lor voglia governavano. Erano stati questi tre fratelli capitani del padre del re da loro tenuto prigione, qual avendo alla sua morte lasciato questo re picciolo fanciullo, essi del regno s'impatronirono. Il maggiore di questi tre fratelli si chiamava Ramaraggio, e questo sedeva nel trono regale e chiamavasi re; il secondo avea nome Timaraggio, qual si aveva preso l'officio di governatore; il terzo, chiamato Bengatatre, era capitano generale della milizia. Si ritrovarono tutti tre questi fratelli in questo fatto d'arme, nel quale il primo e l'ultimo si dispersero, che non si trovarono piú né vivi né morti, e Timoraggio fuggí con un occhio manco. Venuta che fu la nuova di questa rotta nella cittade, le donne e i figliuoli di questi tre tiranni, insieme col legittimo re da essi tenuto prigione, fuggirono cosí spogliati come si trovarono; e i quattro re mori entrarono in Bezeneger trionfando e vi stettero sei mesi, cavando fina sotto le case per ritrovar i dinari e l'altre cose ascose, e indi a' suoi regni tornarono, perciochè non averiano potuto mantenersi tanto paese e tanto da' suoi regni lontano.
Partiti i Mori, Timaraggio tornò in Bezeneger, fece ripopolare la cittade e mandò a dire a Goa alli mercanti che, se gli avessero condotti delli cavalli, esso gli avrebbe pagati bene: e per questo i predetti due mercanti e io con loro in Bezeneger andassemo. Fece eziandio il detto tiranno andare un bando, che chiunque li menasse cavalli del suo bollo, che nella guerra gli erano stati presi, ch'esso glieli pagaria quello che volessero, dando in oltre salvocondotto generale a tutti quelli che gliene conducessero. Vidi che gliene furono menati assai in piú volte, ed esso dette buone parole a tutti fina che vide che non gliene poteano essere condotti piú, e poi licenziò i mercadanti senza dargli cosa alcuna; onde i poveretti andavano per la città piangendo e disperandosi, quasi matti per il dolore.
Mi fermai in Bezeneger sette mesi, quantunque in un mese io mi spedi' da tutte le mie facende, ma mi convenne starvi per esser rotte le strade da' ladri; nel qual tempo vidi cose stranie e bestiali di quella gentilità. Usano primamente abbrucciare i corpi morti, cosí d'uomini come di donne nobili; e se l'uomo che muore è maritato, la moglie è obligata ad abbrucciarsi viva col corpo del marito: e assai domandano tempo uno, due e tre mesi, e gli è concesso. E il giorno che si deve abbrucciare va questa donna la mattina a buon'ora fuor di casa a cavallo, overo sopra un elefante, overo in un solaro, qual è uno stado, sopra i quali vanno gli uomini di conto, portato da otto uomini; e in uno di questi modi, vestita da sposa, si fa portare per tutta la città, con i capegli giú per le spalle, ornata con fiori e assai gioie, secondo la qualità della persona, e con tanta allegrezza come vanno le novizzie in trasto in Venezia. Porta nella sinistra mano uno specchio e nella destra una frezza, e va cantando per la città e dicendo che va a dormire col suo caro marito, da' parenti e amici accompagnata, sino alle diecinove o venti ore; indi esce dalla città e caminando lungo il fiume Negondin, che passa appresso alle sue mura, giunge in una pradaria, ove si sogliono fare questi abbrucciamenti di donne restate vedove. È già apparecchiata in questo luogo una cava grande fatta in quadro, con un poggiolo appresso, nel quale si saglie per quattro o cinque scalini, e detta cava è piena di legne secche. Giunta quivi la donna, accompagnata da gran gente che vanno a vedere, gli apparecchiano bene da mangiare, ed essa mangia con tanta allegrezza come se fosse a nozze, e, come ha mangiato, si mette a ballare e a cantare ad un certo loro suono quanto li pare, e dapoi ella istessa ordina che s'impicci il fuoco nella cava. E quando è in ordine se gli fa intendere ed essa, subito lasciata la festa, dà mano al piú stretto parente del marito e vanno ambidue alla riva del fiume, ove essa nuda si spoglia e dà le gioie e i vestimenti a' suoi parenti, e se gli tira dinanzi un panno, acciochè non sia veduta nuda dalle genti, e si caccia tutta in acqua, dicendo i meschini che si lava i peccati. Uscita dell'acqua, si rivolge in un panno giallo lungo quattuordeci braccia e, dato di nuovo mano al parente del marito, sagliono ambidue cosí per mano tenendosi sopra il poggiolo, ove essa ragiona alquanto col popolo, raccomandandoli i figliuoli, se ne ha, e i suoi parenti. Tra il poggiolo e la fornace tirano una stuora, acciochè essa non veda il fuoco, ma ne sono assai che fanno subito tirar via detta stuora, mostrando animo intrepido, e che di quella vista non si spaventano. Ragionato che ha la donna quanto li pare, un'altra donna li porge un vaso d'oglio ed essa, presolo, se lo sparge sopra la testa e se ne unge tutta la persona, e getta il vaso nella fornace e tutto ad un tempo se gli lancia dietro. E subito la gente che sta intorno alla fornace li gettano con forza grossi legni addosso, talchè tra per il fuoco e per i colpi de' legni essa presto esce di vita; e allora la tanta allegrezza si converte tra quei popoli in sí dirotto pianto, che mi era necessario a correre via, per non sentir tal terremoto di pianto e d'urli. Io n'ho viste abbrucciare assai, perciochè la mia stanzia era appresso a quella porta per la quale esse uscivano ad abbrucciarsi. Quando poi muore qualche grande uomo, oltra la moglie, tutte le schiave con le quali esso ha avuta copula carnale con esso s'abbrucciano. In questo istesso regno tra persone basse è un'altra usanza, perciochè, morto che è l'uomo, lo portano al luogo ove gli vogliono far la sepoltura, e con essi vien la moglie, e il corpo è posto su qualche cosa a sedere e la moglie se gli inginocchia dinanzi e, gettateli le braccia al collo, qui si ferma. E fra tanto i muratori li fanno un muro attorno ad ambidue e, quando il muro è arrivato al collo della donna, viene un uomo di dietro alla donna e li storcie il collo, e, morta ch'essa è, il muro si finisce e restano ambidue ivi sepolti. Oltra queste vi sono altre infinite bestialità, qual io non mi curo di scrivere. Volsi intendere perchè cosí si facessero queste donne morire, e mi fu detto che fu fatta anticamente questa legge per provedere alli molti omicidii che le donne de' lor mariti facevano, perciochè, per ogni poco di dispiacere che esse avessero da' mariti, li attossicavano per pigliarne un altro; onde con questa legge le rendettero a' mariti piú fedele e fecero che le vite dei mariti al par delle sue avessero care, poichè con la lor morte ne seguiva anco la sua.
Del 1567 si dispopolò Bezeneger, avendo per cattivo augurio per essere stato saccheggiato da' Mori, e il re con la corte andò ad abitare in Penigonde, qual è una fortezza fra terra, otto giornate distante da Bezeneger. Sei giornate lontano da Bezeneger si cavano i diamanti; io non fui là, ma dicono esser un luogo grande circondato di muro, e che 'l terreno si vende a misura, un tanto il quadro, con limitazione quanto debbano andare sotto; e i diamanti da una certa caratta in su son del re. Sono molti anni che non si cavano per i gran disturbi del regno, e maggiormente da un tempo in qua, che 'l figliuolo del Timaraggio, re tiranno, ha fatto morire il re legittimo che teneva prigione, e i baroni poderosi del regno non lo vogliono conoscere per re, di modo che 'n detto regno sono assai re e gran divisione. La città di Bezeneger non è distrutta, anzi è con tutte le sue case in piedi, ma è vota, né gli abita anima viva se non tigri e altre fiere. Si dice che circonda ventiquattro miglia e ha dentro alle mura alcune montagne; le case sono tutte a piè piano e murate di fango, fuor che i tre palazzi de' tre tiranni e i pagodi, che sono fatti di calcina e di marmori fini. Ho visto molte corti di re, ma non vidi tal grandezza come tiene il re di Bezeneger, dell'ordine dico del suo palazzo, perciochè aveva nuove porte prima che s'entrasse ove abitava il re, cinque grandi con guardia di capitani e di soldati e quattro con guardia di portieri. Fuori della prima porta era un portico, ove stava alla guardia di giorno e di notte un capitano con venticinque soldati, e dentro alla porta ve ne era un altro con guardia simile; di dove s'entrava in una piazza assai grande, in capo alla quale era l'altra porta, guardata come la prima, e indi un'altra piazza: e in tal modo erano le prime cinque porte, da dieci capitani guardate. Si trovavano poi l'altre quattro porte minori con portieri alla guardia, che stavano la piú parte della notte aperte, perciochè è costume dei Gentili di far le lor feste e negozii piú di notte che di giorno. La città era sicurissima dai ladri, e i mercanti portoghesi dormivano per il caldo su le strade, cioè sotto i portici di quelle, né gli era mai fatto danno alcuno.
In capo ai sette mesi io mi deliberai d'andare a Goa con altri dui compagni portoghesi che erano alquanto indisposti, li quali tolsero dui palanchini, che sono come lettierette, con li quali si va in viaggio molto commodamente, con otto fachini per cadauno palanchino che lo portano, scambiandosi a quattro per volta; e io comprai dui buoi, uno per mio cavalcare e l'altro per la compagnia da portar i drappi e la vettovaglia. Si cavalcano in quei paesi i buoi con buone bastine, staffe e briglia, e hanno un commodo e buon passo. Da Bezeneger a Goa sono d'estate otto giornate di viaggio; ma noi lo facessimo di mezo l'inverno, il mese di luglio, e penassimo quindeci giorni a venire sino in Ancola sul lito del mare. E in capo agli otto giorni persi i dui buoi: quello che portava la vettovaglia s'indebolí di maniera che, non potendo piú caminare, ne bisognò lasciarlo; e quello ch'io cavalcava, nel passare un fiume, noi su un ponticello ed egli a nuoto, trovò egli in mezo al fiume un'isoletta piena d'erba fresca e ivi si fermò, né potendo noi in alcun modo passarvi, per forza convenissimo lasciarlo: ed era in quel punto una grossissima pioggia, onde mi convenne andare a piedi sette giornate con travaglio grandissimo, e avessimo ventura in ritrovar fachini che ne portarono le robbe. Passassemo per questi giorni gran fortune, perciochè, essendo quel regno tutto sottosopra per le gran dissensioni che in esso erano, ogni giorno eravamo fatti prigioni e, volendo la mattina caminare inanzi, bisognava pagare per nostro riscatto quattro o cinque pagodi ogni mattina per testa. Un altro travaglio anche avessimo, che ogni giorno entravamo in terre di nuovi signori, tutti però tributarii del re di Bezeneger, ciascun dei quali fa batter moneta di rame una diversa dall'altra, talchè la moneta d'un giorno l'altro non era buona. Con l'aiuto di Dio giungessimo finalmente in Ancola, terra della regina di Garcopan, tributaria del regno di Bezeneger.
Le mercanzie ch'andavano ogn'anno da Goa a Bezeneger erano molti cavalli arabi, veluti, damaschi, rasi e ormesini di Portogallo, e anche pezze di China, zafaran e scarlatti; di là si cavava per Goa gioie e ducati pagodi d'oro. Il vestir di Bezeneger era cavaie sopra le camise, over zuppe ugnole, overo imbottite, di veluto, raso, damasco, scarlatto, overo panni bianchi di bombaso, secondo la qualità degli uomini, con berette lunghe in testa, da essi chiamate colae, di veluto, di raso, di scarlato o di damasco, cingendosi in vece di poste con alcuni panni di bombaso fini. Portavano braghesse quasi alla turchesca e anche salvari; portavano in piede alcune pianelle alte, dette da loro asparche, e all'orecchie portavano attaccato assai oro.
Ora al mio viaggio ritornando, giunti che fossemo in Ancola, un dei miei compagni, che non aveva cosa alcuna da perdere, tolse una guida e andossene a Goa, ove si va in quattro giornate. L'altro compagno, essendo alquanto indisposto, volea fermarsi per quell'inverno in Ancola (l'inverno di quelle parti dell'India comincia a mezzo maggio e dura sina a parte del mese d'ottobre); ma, stando esso in Ancola, vi giunse un mercante da cavalli da Bezeneger in un palanchino, e vi giunsero anche duoi soldati portoghesi che venivano di Seilan e dui porta lettere cristiani nativi dell'India. Fecero tutti questi compagnia insieme per andare a Goa, ond'io mi deliberai d'andar con essi e, fattomi fare un palanchino assai povero di canne, misi ascosamente in una delle sue canne tutto il mio poco avere, ch'erano gioie, e secondo l'uso presi 8 fachini che mi portassero. E un giorno intorno alle 19 ore si mettessemo in viaggio e alli 22, nel passare una montagna che divide il territorio d'Ancola dal regno di Dialcan, essendo io dietro a tutti gli altri, fui assaltato da 8 ladroni, quattro dei quali avevano spada e rotella e gli altri quattro archi e frezze. Quando i fachini che mi portavano sentirono il rumor degli assassini, lasciando cascare il palanchino si misero subito in fuga, e io restai solo in terra involto nei drappi del palanchino. Mi furono subito i ladri adosso e mi spogliarono con suo commodo tutto nudo, e io per non abbandonare il palanchino mi finse esser amalato; e perchè io avevo fatto sul palanchino un letticello delli miei drappi, li cercarono i ladri sottilmente e, avendovi trovato due borse ben ligate nelle quali aveva io posta la moneta di rame di quattro pagodi ch'in Ancola avevo cambiati, credettero essi che fossero tanti pagodi e non cercarono piú, ma, fatte abbracciate di tutti i drappi, nel bosco si cacciarono. E volse Dio che nel partirsi gli cascò un lenzuolo, ond'io, levatomi del palanchino, tolsi detto lenzuolo e me gli rivoltai dentro. E in questo i miei fachini furono tanto da bene che tornarono a trovarmi, non sperando io in loro tanta bontà, perciochè, essendo essi pagati (che cosí si usa di pagargli inanzi tratto) e avendoli dati in Ancola sette pagodi, non sperava piú di rivederli; ma avevo determinato di cavar la canna delle gioie del palanchino e, mostrando di servirmene per bordone, condurmi a piedi a Goa. Ma la fedeltà di quelli uomini mi cavò di questo travaglio, e mi portarono in quattro giorni a Goa; nel qual tempo la feci molto stretta del mangiare, perchè non m'era restato né dinari, né oro, né argento, né pagodi, né moneta, e mangiava solo qualche cosa che per compassione mi era data dai fachini; ma, giunto in Goa, gli pagai ogni cosa onoratamente. Di Goa mi parti' per Cochin, qual è pareggio di trecento miglia, e tra l'una e l'altra di queste due cittadi sono molte fortezze de' Portoghesi.


Onor, Mangalor, Barzelor e Cananor.

La prima fortezza de' Portoghesi che si trova per andar da Goa a Cochin si chiama Onor, qual è posta nel paese della regina di Batecala, tributaria del re del Bezeneger: qui non si fa trafico alcuno, ma è solo di spesa per il capitano e presidio che vi si tiene. Passata questa s'arriva in Mangalor, picciola fortezza e di poco negozio, di dove si cavano poca quantità di risi; indi si va alla fortezza di Barcelor, picciola, ma se ne cava assai risi per Goa. Indi si giunge a Cananor, città picciola, un tiro d'archibugio distante dalla quale è la città del re di Cananor, re gentile, ed egli e il suo popolo sono mala gente; stanno volentieri in guerra coi Portoghesi, e, quando stanno in pace, stanno per lor interesse, per dar spacio alle loro mercanzie. Esce di Cananor tutto il cardamomo, assai pevere e zenzaro, assai mele, navi cariche di noci grosse, gran quantità d'areca; qual è frutto della grandezza della noce muschiata, e si mangia in tutte quelle parti dell'India e oltra l'India con la foglia d'un'erba che si chiama betle, che s'assomiglia assai la foglia della nostra edera ma è piú sottile, e la mangiano impiastrata con calcina fatta di scorze d'ostreghe. E per tutta l'India ogni giorno si spende gran quantità di denari in tal composizione, e tanti che chi nol vede li par quasi cosa incredibile, e grand'utile cavano i signori dei dazii che di questa erba hanno. Masticandola, fa i denti negri e rende il sputo del color del sangue; dicono che fa buono stomaco e buon fiato, ma io giudico che l'usino piú tosto per poltronaria, perciochè questa erba è calidissima e li rende piú potenti al coito. Da Cananor a Crangenor, ch'è un'altra picciola fortezza de' Portoghesi in le terre del re di Crangenor, re gentile, e luogo di poca importanza, sono cento e cinque miglia; ed è tutta terra di ladri, sottoposta al re di Calicut, re gentile e gran nemico de' Portoghesi, coi quali sta sempre in guerra, ed è nido e refugio di tutti i ladri forestieri, che si chiamano Mori di carapuza, perchè portano in testa una beretta lunga rossa. E questi ladri fanno parte al re di Calicut delle prede che fanno in mare, e lui permette che chi vuol andare in corso vada, di modo che per quella costa sono tanti corsari che non si può navigare, se non con buone navi grosse ben armate, overo con la scorta dell'armata portoghese. Da Grangenor a Cochin sono quindeci miglia.


Cochin.

Tiene Cochin il primo luogo dopo Goa tra le città ch'hanno i Portoghesi in India, e vi si fanno molte facende di spezie, di droghe e d'ogni altra sorte di mercanzia per il regno di Portogallo: e qui infra terra è il regno del pevere, del qual si caricano le navi che vanno in Portogallo a refuso e non posto in sacchi. Il pevere che va in Portogallo non è cosí buono come quello che va nello stretto della Mecca, perciochè i ministri del re di Portogallo già molti anni fecero l'appalto col re di Cochin per nome del re di Portogallo e posero il prezzo al pevere, qual per convenzioni fatte insieme non si può né crescere né callare, ed è prezzo molto basso, di modo che i paesani gli lo danno mal volentieri, e verde e molto sporco; ma i mercadanti mori pagandolo meglio, gli è dato megliore e meglio condizionato. Tutto il pevere però e altre droghe che vien per il stretto della Mecca passa di contrabando. Cochin sono due cittadi: quella de' Portoghesi è vicina al mare e un miglio e mezzo fra terra è la città del re di Cochin, e ambedue sono poste su la riva d'uno istesso fiume grande e di buona acqua, che viene dalle montagne del re del pevere, re gentile e nel cui regno sono molti Cristiani di san Tomaso. Il re di Cochin è re gentile e molto amico e fedele al re di Portogallo e alli cittadini portoghesi, che abitano e sono maritati in Cochin de' Portoghesi, e con questo nome di Portoghesi chiamano in India tutti i Cristiani che vengono di Ponente, siano o Italiani, o Francesi, o Allemani. E tutti quelli che si maritano in Cochin si acquistano un'entrata secondo le facende che fanno, per li gran privilegi ch'hanno i cittadini di quella cittade; perciochè delle due principali mercanzie che si contrattano in quel luogo, che sono le molte sete che vengono della China e i molti zuccari che vengono di Benagala, non pagano i cittadini in quella città maritati dazio alcuno, dell'altre sorti di mercanzie pagano quattro per cento al re di Cochin con ogni lor commodità; quelli che non vi sono maritati e i forestieri pagano in Cochin al re di Portogallo otto per cento d'ogni mercanzia. Mi ritrovai in Cochin in tempo che 'l viceré travagliò assai per rompere i privilegi ai detti cittadini e per farli pagare come pagano gli altri, e proprio in quel tempo si pesavano dí e notte i peveri per caricare le navi portoghese; e il re di Cochin, avisato di questa cosa, fece subito restar di pesare il pevere, onde in un tratto furono licenziate le mercanzie, né piú si parlò di fargli questo torto.
Il re di Cochin non è molto potente rispetto agli altri re delle Indie, né mette in campagna piú di sessantamila uomini da guerra. Ha uno gran numero d'amochi, che sono gli suoi gentiluomini, chiamati anche Nairi, li quali non apprezzano punto la vita, ove va il servizio o l'onore del suo re, anzi l'espongono ad ogni pericolo, quando fossero eziandio certi di morire. Sono uomini che vanno nudi dalla centura in su, con un panno cento e rivoltato infra le gambe; vanno scalci, hanno i capegli lunghi e rivoltati in cima alla testa, e sempre portano la spada nuda e la rotella. Hanno questi Nairi le lor donne commune tra loro, e quando alcuno d'essi entra in casa d'una di queste donne, lasciano la spada e la rotella appresso la porta su la strada, e mentre sta lí quella spada e rotella non è alcuno ch'ardisca entrarvi. I figliuoli dei re non succedono nel regno, perciochè hanno questa opinione, che potriano non esser generati dal re, ma da qualcun altro; accettano per re un figliuolo di sorella del re o d'altra donna della stirpe regia, perciochè dicono esser certi quelli esser veramente di sangue regale. Li Nairi e le lor donne usano per gentilezza farsi grandissimi buchi nelle orecchie, e tali che par impossibile il crederlo, tenendo per piú nobili quelli che hanno i buchi piú grandi: ebbi licenza da un di loro di misurargli la circonferenza di esso buco con un filo, nel qual postovi poi il braccio, vi andò tutto sina alla spalla, e dico il braccio cosí vestito. Sono in effetto mostruosamente grandi, e per farli cosí grandi si forano l'orecchie da piccioli e vi attaccano un peso grande, o d'oro o di piombo, e nel foro mettono una certa sorte di foglia che cosí larghi li fa.
Si caricano in Cochin le navi che vanno in Portogallo e anche in Ormus; vero è che quelle d'Ormus non portano pevere, se non di contrabando. Della canella facilmente hanno licenza di levarne; di tutte l'altre speziarie e droghe possono liberamente levarne, cosí per Ormus come per Cambaia, e cosí di tutte l'altre mercanzie che da diverse bande vi sono portate. Ma del proprio regno di Cochin si cavano assai peveri, che vanno in Portogallo, gran quantità di zenzari secchi e conditi, canella salvatica, molta areca, assai cordovaglia di cairo, fatta del scorzo dell'arbore della noce grossa, ed è meglio che quella di canevo, della qual se ne porta anche assai in Portogallo. Si parteno ogn'anno le navi da Cochin per Portogallo dal fin di decembre sina per tutto genaro. Or seguitando il viaggio dell'India, da Cochin si va a Coilan, distante da Cochin settantadue miglia, qual è fortezza picciola del re di Portogallo, posta nelle terre del re di Coilan, qual è re gentile; è luogo di poco negozio, vi si carca solo mezza nave di pevere, che va poi a Cochin a finir di carcare. Di qui a Cao Comeri si fanno settantadue miglia, e qui finisse la costa dell'India; e per tutta questa costa appresso al mare, e anche da Cao Comeri alle basse di Chilao, che sono intorno a ducento miglia, sono quasi tutti venuti alla cristiana fede e vi sono assai chiese dei padri di San Paulo, i quali fanno in quei luoghi gran profitto in convertire quei popoli e gran fatiche nell'ammaestrarli nella legge di Cristo.


Pescaria delle Perle.

Il mare che giace tra la costa che si distende da Cao Comeri alle basse di Chilao e l'isola di Seilan si chiama la Pescaria delle Perle, qual pescaria si fa ogn'anno cominciando di marzo o d'aprile e dura cinquanta giorni; né ogni anno si pesca in un istesso luogo, ma un anno in un luogo e l'altro in un altro di detto mare. Quando s'avicina il tempo di pescare, mandano buoni nuotatori sott'acqua a scoprire ove è maggior quantità d'ostreghe, e su la costa all'incontro piantano una villa di case e bazarri di paglia, che tanto dura quanto dura il tempo del pescare, e la forniscono di quanto è necessario: e ora si fa vicino ai luoghi abitati, ora lontano, secondo il luogo ove vogliono pescare. I pescatori sono tutti Cristiani del paese, e va chi vuole a pescare, pagando però un certo censo al re di Portogallo e alle chiese dei padri di San Paulo che sono per quella costa. Mentre dura il tempo di pescare, stanno in quel mare tre o quattro fuste armate, per diffendere i pescatori dai corsari. Io mi ritrovai qui una volta di passaggio e vidi l'ordine che tengono a pescare. Fanno compagnia due, tre e piú barche insieme, che sono dell'andare delle nostre peotte e piú picciole; vanno sette overo otto uomini per barca; e holle viste la mattina a partire in grandissimo numero e andare a sorgere in quindeci sina dicidotto passa d'acqua, che tale è il fondo di tutto quel contorno. Sorti che sono, gettano una corda in mare, nel capo della quale è ligato un buon sasso, e un uomo, avendosi ben stretto il naso con una moleta e ontosi con oglio il naso e l'orecchie, con un carniero al collo overo un cesto al braccio sinistro, giú per quella corda si calla. E quanto piú presto può empie il carniero o il cesto d'ostreghe che trova in fondo del mare, e indi scorla la corda, e i compagni che stanno attenti in barca tirano su detta corda in pressa, e con essa anche l'uomo. E cosí vanno d'uno in uno a vicenda, sinchè la barca è carica d'ostreghe, e poi la sera vengono alla villa. E cadauna compagnia fa il suo monte d'ostreghe in terra, distinti uno dall'altro, di modo che si vede una fila molto lunga di monti d'ostreghe, né si toccano sin che la pescaria non è compita; e allora s'acconciano ogni compagnia attorno il suo monte ad aprirle, che facilmente s'aprono, perciochè sono già morte e fragide: e s'ogni ostrega avesse perle, saria una gran bella preda, ma ne sono assai senza perle.
Finita la pescaria, e visto se è buona ricolta o cattiva, vi sono certi uomini periti, che si chiamano chitini, li quali metteno il prezzo alle perle secondo la lor carrata, facendone quattro cernide con alcuni crivelli di rame. Le prime sono le tonde e si chiamano l'aia de' Portoghesi, perchè i Portoghesi le comprano; le seconde, che non sono tonde, si chiamano l'aia di Bengala; la terza sorte, che sono manco buone, chiamano l'aia di Canara, cioè del regno di Bezeneger; la quarta e ultima sorte, che sono piú triste e piú minute, si chiama l'aia di Cambaia. Messo il prezzo, vi sono tanti mercadanti di diverse parti che con dinari stanno aspettando, che in pochi giorni ogni cosa si compra a prezzo aperto, secondo la carrata di dette perle.
In questo mare della pescaria delle perle è una isoletta chiamata Manar, abitata da' Cristiani del paese, che prima erano gentili, con una picciola fortezza de' Portoghesi, situata all'incontro dell'isola di Seilan; tra le quali passa un canale non troppo largo e con poco fondo, per il qual non si può navigare, se non con vascelli picciolli, e col crescente dell'acqua nel voltar della luna overo nel tondo. E con tutto ciò bisogna anche scaricar detti vascelli in barchette, e passare alcune secche voti e poi tornare a caricare: e questo fanno li navilii che vanno in India; ma quelli che vanno d'India verso levante per la costa di Chiaramandel passano dall'altra banda per le basse di Chilao, che sono tra l'isola di Manar e terra ferma. E andando d'India per la costa di Chiaramandel, si perdeno alcuni navilii, ma voti, perciochè si scarcano ad una isola detta Peripatan e mettonsi le mercanzie in barchette picciole, chiamate tane, che sono piane di fondo e pescano poco, e però possono passare sopra ogni secca senza pericolo di perdersi. Aspettano in Peripatan il buon tempo da partirsi per passar le dette secche, e si partono i navilii e le tane di compagnia, e, navigato ch'hanno trentasei miglia, arrivano alle secche; e perchè tal volta il tempo carca assai con vento fresco e bisogna per forza passare, non essendo ove salvarsi, le tane passano sicure, ma i navilii, se fallano il canale, urtano nelle secche e si perdono. Al venire in qua non si fa questa strada, ma si passa per il canal di Manar detto di sopra, il cui fondo non essendo altro che fango, ancorchè i navilii restino in secco, gran sorte è che ne pericoli alcuno. La cagione perchè non si fa questa strada piú sicura all'andare in là è perchè a quel tempo, per i venti ch'allora regnano tra Manar e Seilan, è tanta secca d'acqua che non si può a modo alcuno passare. Da Cao Comeri all'isola di Seilan sono cento e venti miglia di traverso.


Seilan.

Seilan è un'isola grande, e al mio giudicio assai maggiore di Cipro; su la banda che guarda verso l'India per ponente è la città di Colombo, fortezza de' Portoghesi, ma fuora delle mura è de' nemici, ha solo verso il mar il porto libero. Il re legitimo di questa isola sta in Colombo, fatto cristiano e privo del regno, sostentato dal re di Portogallo. Il re gentile a chi si apparteneva il regno, chiamato il Madoni, avendo dui figliuoli, il principe nomato Barbinas e il secondo nomato Ragiu, è stato con astuzia dal figliuolo minore privo del regno, perciochè, avendosi esso fatta benevole tutta la milizia, a dispetto del padre e del prencipe suo fratello si ha usurpato il regno, ed è gran guerriero. Aveva prima questa isola tre re: il Ragiu, col padre e Barbinas suo fratello, re della Cotta con li suoi conquisti; il re di Candia in una parte dell'isola che si chiama regno di Candia, qual aveva onesta possanza ed era grande amico de' Portoghesi, e dicevasi che secretamente viveva da cristiano; aveva il re di Gianifanpatan. Da tredeci anni in qua, il Ragiu s'è impatronito di tutta l'isola e si è fatto un gran tiranno.
Nasce in questa isola la canella fina, assai pevere e zenzero, gran quantità di noce e arecca; vi si fa assai cairo da far cordovaglia, produce assai cristallo e occhi di gatta, e dicono che vi si trovano anche rubini, ma io ve n'ho venduti assai bene di quelli ch'un viaggio vi portai dal Pegu. Io ero desideroso di veder come la canella si cavava dall'arbore che la produce, e tanto piú che quando mi ritrovai su l'isola era la stagione che si cavava, del mese d'aprile, onde, quantunque i Portoghesi fossero in guerra col re dell'isola, e che però io correva un gran pericolo ad uscir della cittade, tuttavia volsi pur questa mia voglia contentare e, uscito fuori con una guida, andai in un bosco lontano dalla città tre miglia, nel quale erano assai arbori di canella, mescolati però per il bosco con altri arbori salvatichi. È questo arbore sottile e non troppo alto, e ha la foglia simile a quella del lauro. Del mese di marzo o d'aprile, quando gli arbori vanno in amore, si cava la canella da questi arboscelli a questo modo: tagliano la scorza di sotto e di sopra da un nodo all'altro intorno all'arbore, indi gli danno un taglio per il lungo, e con la mano pigliando la scorza facilmente la levano d'intorno all'arbore, e la mettono nel sole a seccare e per questo si torce nella maniera che noi la vediamo. Non si secca per questo l'arbore, anzi torna a fare un'altra scorza per l'anno seguente, e la canella buona è quella che ogn'anno si scorza, perciochè quella di due o di tre anni è grossa e manco buona. Nasce in questi istessi boschi anche molto pevere.


Negapatan.

Da Seilan per dentro dell'isola si va a Negapatan in terra ferma, con navilii piccioli, e vi è settantadui miglia di strada. È città assai grande e ben popolata, parte da' Portoghesi e da' Cristiani del paese e parte da' Gentili; è terra di non troppo negozio, né vi si cava altro che buona quantità di risi e alcune sorti di panni di bombaso, ch'in diverse parti si portano. Fu già terra abondantissima di vettovaglia, ora è assai manco; e la sua grande abondanza mosse assai Portoghesi ad andare ad abitarvi, e a fabricar case in paese alieno per vivervi con poca spesa. La città è d'un gran signore gentile del regno di Bezeneger, nondimeno e i Portoghesi e gli altri Cristiani vi stanno assai bene, con chiese e un monasterio di S. Francesco di gran divozione, e ben accommodati di casamenti. Pur alla fine sono in terra de tiranni, ch'a ogni lor voglia gli possono far qualche dispiacere, come occorse l'anno 1565, se mi ricordo bene, che il Naic, cioè il signor della città, li mandò a domandare certi cavalli arabi, e avendoglieli essi denegati, di là a pochi giorni venne voglia al signore di vedere il mare; onde i poveri cittadini, per esser questa cosa insolita, dubitarono che per sdegno venisse a saccheggiar la lor cittade e imbarcarono tutto il meglio ch'avessero, i mobili, mercanzie, dinari e gioie, e fecero slargar i navilii dalla terra. Volse la lor sorte cattiva che la notte seguente fece una gran burasca in mare, che cacciò tutti i navilii a rompersi in terra, e tutto quello che si puoté ricuperare fu dipredato dall'esercito che col signore era venuto e che sul lito del mare era attendato, senza ch'essi avessero pensiero alcuno di fare un tal buttino.


San Tomé.

Da Negapatan seguitando il viaggio verso levante cento e cinquanta miglia, si trova la casa del ben avventurato San Tomé, qual è una chiesa di grandissima divozione ed è molto rispettata eziandio dai Gentili, per la notizia ch'essi hanno dei molti miracoli fatti da quel benedetto apostolo. Appresso a questa chiesa hanno fabricato i Portoghesi una cittade, in le terre del regno di Bezeneger, la quale, quantunque non sia molto grande, è al parer mio la piú bella di quante ne sono in quelle parti dell'India. Ha bellissime case accommodate di vaghi giardini, ha strade larghe e dritte, con molte belle e divote chiese; sono le case serrate una all'altra, con le porte picciole, e ogni porta ha il suo bastione, di modo ch'è sufficiente fortezza per il paese. Non possedono i Portoghesi altri stabili che le case e i giardini che sono dentro alla città. I dazii sono del re di Bezeneger, i quali sono molto buoni, perciochè è terra d'assai ricchezza e di molte facende: n'escon e vi entran ogni anno due navi grosse, molto ricche, oltra i molti altri navilii piccioli. Delle due navi una va a Pegu e l'altra a Malacca, carche di panni fini e d'ogni sorte di bombaso dipenti; la quale è veramente cosa molto vaga, perciochè pareno smaltati di diversi colori, e quanto piú si lavano, tanto piú restano vivi i colori; e altri panni pur di bombaso tessudi a diversi colori, di gran valuta. Di piú si fanno in San Tomé assai filati cremesini, tenti con una certa radice che chiamano saia, e anche questi per lavare mai perdono il colore, anzi piú se gli aviva il cremesino; si portano questi filati per la maggior parte a Pegu, perciochè là si adoperano nel tessere i loro panni a loro usanza ed è di manco spesa. Spaventosa cosa è chi non ha piú visto l'imbarcare e sbarcar le mercanzie e le persone a San Tomé, perciochè è costa brava, né si può servire d'alcun navilio né delle barche delle navi a far questo servizio, perchè tutte andarebbono in pezzi; ma adoperano certe barchette fatte aposta molto alte e larghe, ch'essi chiamano masudi, e sono fatte con tavole sottili, e con corde sottili cusite insieme una tavola con l'altra. Quando s'imbarca, s'imbarcano le persone e le robe su queste barchette in terra, e poi li barcaruoli le gettano cosí cariche in mare, e con prestezza si mettono a vogare contra le grossissime onde del mare, sin che alle navi sorte, si conducono. E cosí medesimamente venendo dalle navi o dai navilii in terra con queste barchette carche d'uomini e di mercanzia, li barcaruoli, quando sono vicini a terra, saltano in acqua per tenere il masudi dritto, che non si ribalti, e l'onde del mare gettano il masudi in terra, talchè li passagieri e la roba si discarca a piè sutto; e alle volte se ne ribalta qualcuno, ma con poco danno, perchè poco si carcano; e tutta la mercanzia che va per fuora si imboglia benissimo con buone pelle di manzo, perciochè se si bagnasse patirebbe gran danno.
Al mio viaggio ritornando, del 1566 mi parti' di Goa per Malacca, in un galione del re di Portogallo ch'andava a Banda a carcare noci muschiate e macis, e da Goa a Malacca si fanno mille e ottocento miglia: si passa di fuora dell'isola di Seilan, e si passa per il canale di Nicubar overo per quello del Sombrero, li quali sono per mezzo l'isola Sumatra, detta Taprobana. E da Nicubar sina a Pegu è una catena d'isole infinite, delle quali molte sono abitate da gente selvaggia, e chiamansi l'isole d'Andeman. Chiamo i suoi abitanti gente selvaggia perciochè mangiano carne umana: guerreggiano un'isola con l'altra con alcune lor barche, e pigliandosi si mangiano una con l'altra; e se per disgrazia si perde in queste isole qualche nave, come già se n'ha perso, non ne scampa alcuno, che tutti gli amazzano e mangiano. Non ha questa gente commercio con alcuno, ma vivono con quello che l'isole producono; pur si avvicinano alle volte alle navi che di là passano, come occorse in un viaggio ch'io da Malacca veniva per il canal del Sombrero: se ne avvicinarono alle navi due lor barchette carche di frutti, cioè muse e noci di quelle fresche, e molti ignami cotti alesso, qual è frutto che assimiglia il nostro navone, ma molto dolce e buono da mangiare. Non vogliono ad alcun modo entrare in nave, né vogliono dei lor frutti danari, ma li barattano con qualche straccia di camisa o di braghesse: se li callano i stracci con una corda in barca, ed essi danno all'incontro quei frutti ch'a lor par che meriti; e si dice ch'alle volte per uno straccio di camisa si ha avuto a baratto buoni pezzi di ambra.


Sumatra.

L'isola di Sumatra è una grande isola, ed è da molti re signoreggiata, ed è divisa da molti canali che per essa passano. Sul capo verso ponente è il regno del re d'Assi, re moro e molto potente, come quello ch'oltra il suo gran regno possede anche molte fuste e galee; nasce nel suo regno assai pevere e zenzaro e molto belzuin. È nemicissimo de' Portoghesi, ed è stato alcune volte a combatterli in Malacca e gli ha fatto gran danni nelli borghi; ma la città si è sempre valorosamente difesa, e fattoli anche con l'artigliarie molto danno nell'armata. Io giunsi finalmente alla città di Malacca.


Malacca.

Malacca è una grandissima scala d'infinite mercanzie, che vengono da diverse parti, perciochè tutte le navi e navilii che per quei mari navigano sono obligati di fare scala a Malacca e pagar il dazio, ancorchè non vogliano discarcar cosa alcuna; e se per fuggir di pagar detto dazio passassero oltra di notte senza far scala, cascano in pena di pagar poi in India doppio dazio. Io non son passato piú inanzi di Malacca verso levante, ma quello ch'io ne parlarò sarà per buona informazione che n'ho avuto da quelli che vi sono stati. La navigazione da Malacca in là non è commune a tutti (dal viaggio della China e del Giapan in fuora, al quale può andar ciascuno), ma è sol del re di Portogallo overo de' suoi gentiluomini per grazia a lor concessa, overo di giuridizione del capitano di Malacca, al qual eziandio s'aspetta di sapere i viaggi che di là da Malacca si fanno. I viaggi del re sono questi, ch'ogni anno si partono due galioni, uno per le Malucche a carcare di garofoli e l'altro per Banda a carcare di macis e di noci muschiate. Si carcano questi dui galioni per lo re, né levano roba d'alcun particolare, dalle portade de' marinari e de' soldati in fuora; e per questo non sono viaggi per mercadanti, perchè andando là non avriano su che carcar la lor roba di ritorno, oltra che né anche il capitan del galione levaria alcun mercadante per niuno di questi luochi. Vi vanno bene delli navilii de' Mori della costa della Giava, che vengono a smaltir la roba nel regno d'Assi, e questi sono il garofoli, macis e noci, che vengono per lo stretto della Mecca. Li viaggi di grazie che fa il re ai suoi gentiluomini sono quello della China e dalla China al Giapan, e dal Giapan di ritorno alla China e dalla China in India, e il viaggio di Bengala a Sonda con carico di panni fini e d'ogni sorte di bombaso: ed è Sonda un'isola de' Mori appresso la costa della Giava, e ivi caricano poi peveri per la China. La nave che va ogni anno dall'India alla China si dimanda la nave delle droghe, perchè porta là diverse droghe di Cambaia, ma il piú si è argento.
Da Malacca alla China sono mille e ottocento miglia, e dalla China a Giapan va ogni anno una nave grossa d'importanza, carca di sete, ch'al ritorno porta argento in verghe, il qual si smaltisce in la China. Sono dalla China a Giapan duimila e quattrocento miglia; sono diverse isole non troppo grande, nelle quali i padri di San Paulo per grazia d'Iddio fanno molti cristiani e buoni. Da queste in là sin ora non è stato scoperto, per le gran secche che si trovano. Hanno i Portoghesi fatta una picciola cittade in una isola vicina ai liti della China, chiamata Macao, le cui chiese e case sono di legno, e ha vescovato; ma i dazii sono del re della China e vanno a pagarli a Canton, bellissima cittade e di grande importanza, distante da Macao due giornate e meza; li cui Gentili sono tanto gelosi e timidi che non vogliono che forestiero alcuno passi niente adentro per il paese, e, quando vanno i Portoghesi a pagarli i suoi dretti e a comprar delle mercanzie, non consentono che dormino nella città, ma li mandano fuora nei borghi. Il paese della China è la gran Tartaria, ed è paese di Gentili grandissimo e di grande importanza, per quanto si può giudicare dalle molte e preziose mercanzie che di quello escono, delle quali non credo sian in tutto il mondo le migliori e la maggior quantità; che sono prima assai oro che viene portato in India in pani a guisa di navicelle, di bontà di ventitre caratti, grandissima quantità di seta fina, di panni damaschini e di taffetà, gran quantità di muschio, molto rame in pani grandi, molto ottone in verghe, gran quantità d'argento vivo e di cenaprio, assai canfora, una infinità di porcellane in diverse sorti di vasi, gran quantità di panni dipinti e di quadri, una infinità di radici di China. Ogni anno vengono della China in India due o tre navi grosse cariche di ricchezze e preziose mercanzie; il reubarbaro vien per terra per via della Persia, perciochè ogn'anno va di Persia alla China una grossa caravana, che camina sei mesi prima ch'arrivi alla città di Lanchin, città nella quale risiede il re con la sua corte. Ho parlato con un Persiano, qual mi ha detto esser stato tre anni in detta città di Lanchin, e ch'essa è una gran città e di grand'importanza.
I viaggi di Malacca che sono di giuridizione del capitano della fortezza sono ch'egli manda ogn'anno un naviglio a Timor a caricare di sandolo bianco, e il buono vien tutto da questa isola; ne viene anche da Celor, ma non è cosí buono; e manda eziandio ogn'anno un navilio a Cochinchina a caricare di legno d'aloe. E il legno aloe vien tutto di questo luogo, che è terra ferma contigua al regno della China; né si può saper come ch'ei nasca, perciochè non permettono quei popoli che i Portoghesi smontino in terra se non a far acqua e legne e qualche altro servizio per il navilio bisognando: tutto il resto, cosí la provisione del vivere come la mercanzia, gli è portato con barchette al navilio, di modo ch'ogni giorno si fa la fiera del navilio, sina ch'è finito di caricare. Va eziandio ogn'anno per l'istesso capitano un navilio in Asion, a caricare di verzino. Tutti questi sono i viaggi del capitano della fortezza di Malacca, e quando non li vuol fare, vende la sua giurisdizione a qualcun altro.


Sion.

Fu già Sion una grandissima città e sedia d'imperio, ma l'anno MDLXVII fu presa dal re del Pegu, qual caminando per terra quattro mesi di viaggio, con un esercito d'un million e quattrocentomila uomini da guerra, la venne ad assediare; e prima che la pigliasse vi tenne ventiun mese l'assedio, con gran perdita delle sue genti. E lo so io perciochè mi ritrovai in Pegu sei mesi dopo la sua partita, e vidi che li mandarono cinquecentomila uomini per supplimento di quelli che gli erano mancati; e con tutto questo, se non vi fosse stato tradimento, non l'avrebbe presa. Una notte li fu aperta una porta della città, per la quale con grande empito entrato, se ne fece patrone, e l'imperator di Sion, quando si vide essere stato tradito e che 'l nemico era nella città, col veneno si uccise; i cui figliuoli e le donne e altri signori, che non furono in quel primo empito uccisi, furono menati schiavi nel Pegu; ove io mi ritrovai quando il re vincitore con trionfo fece l'entrata, e tra l'altre gran pompe bella cosa da vedere furono la gran squadra degli elefanti, carichi d'oro, d'argento, di gioie, e di signori prigioni.
Ritornando al mio viaggio, io mi parti' da Malacca sopra una nave grossa ch'andava a San Tomé, città posta su la costa di Chiaramandel; e perchè il capitano della fortezza di Malacca per aviso avuto stava in aspettazione di guerra, e che li venisse sopra il re d'Assi con grossa armata, non voleva dar licenza che questa nave partisse; onde si partissemo di notte senza far acquata, e vi erano su detta nave quattrocento e piú persone, con intenzione d'andare ad una certa isola a far acqua. Ma il vento non ne lassò pigliar detta isola, di modo ch'andassemo settantaquattro giorni persi per mare, e fossemo a scoprir terra oltra San Tomé piú di cinquecento miglia, ch'erano le montagne del Zergelin, appresso il regno d'Orisa. E cosí fossemo a Orisa con assai morti di sete e molti amalati, che fra pochi giorni morirono, e io per un anno ebbi sempre la gola tanto arsa che non mi poteva saziar di bevere acqua: io credo che ne fossero cagione le suppe fatte in oglio e aceto, con le quale molti giorni mi sostentai. Biscotto non ne mancava, né anche vino, ma sono vini tanto gagliardi che senza acqua uccidono la gente, né si può continuare il beverli. Quando si cominciò a patir d'acqua, vidi alcuni officiali mori che ne venderono ad un ducato la scudella ben picciola; dipoi ho visto che uno volse dar un bar di pevere, che sono dui quintali e mezzo, per una mezaruola d'acqua, e non gliela volse dare. Credo certo che ancor io sarei morto, insieme con un mio schiavo solo ch'avevo in quel tempo, qual mi era molto caro; ma quando previddi il pericolo che si era per scorrere, vendei il schiavo per la mettà meno di quello che valeva, per avanzar per me quello ch'egli bevuto avrebbe.


Orisa, e fiume Gange.

Orisa fu già un regno molto bello e sicuro, per il quale caminare si poteva con l'oro in mano senza pericolo alcuno, sina che regnò il suo re legitimo, qual era gentile, e stava sei giornate infra terra nella città di Catheca. Amava questo re grandemente i forestieri e i mercadanti, che entravano e uscivano del suo regno con le lor mercanzie senza pagar né dazii, né alcuna altra sorte di gravezze: solo le navi secondo la lor portata pagavano una certa poca cosa; e ogni anno nel porto d'Orisa si carcavano venticinque e trenta navi tra grosse e picciole, di risi, di diversi panni bianchi di bombaso, fini d'ogni sorte, oglio di zerzelin, qual si fa d'una semenza ed è assai buono cotto e da frigere, assai butiro, lacca, pevere longo, zenzari, mirabolani secchi e in conserva, assai panni di erba, qual è una seta che nasce ne' boschi senza fatica alcuna degli uomini: solo quando le boccole sono fatte, e sono grosse come ogni grossa naranza, hanno pensiero d'andare a raccoglierle. Sono intorno a sedeci anni che questo regno fu preso e distrutto dal re di Patane, che fu anche re di gran parte di Bengala, e subito vi pose il dazio di venti per cento, come nel suo regno si pagava; ma poco lo godette questo tiranno, perchè di là a pochi anni fu soggiogato da un altro tiranno, dal grande Magol re d'Agra, del Deli e di tutta Cambaia, senza quasi metter mai mano alla spada.
Io mi parti' d'Orisa per Bengala al porto Picheno, qual è distante de qui cento e settanta miglia verso levante; si va cioè scorrendo la costa cinquantaquattro miglia, indi s'entra nel fiume Ganze, dalla bocca del qual fiume sino a Satagan, città ove si fanno i negozii e ove i mercadanti si riducono, sono cento e venti miglia, che si fanno in dicidotto ore a remi, cioè in tre crescenti d'acqua, che sono di sei ore l'uno. Quando poi l'acqua le sei ore calla, non si può far viaggio, perchè l'acque corrono troppo di furia e, ancora che le barche siano leggiere e ben fornite di remi e in foggia di fuste, non si può andar inanzi, ma bisogna legarsi per non esser portati adietro dal reflusso. Si chiamano queste barche bazaras e patuas, e si vogano alla galeotta cosí bene come abbia mai visto. Una buona marea prima che si arrivi a Satagan, si trova un luogo che si chiama Bettor, e da lí in su non vanno le navi grosse, perchè il fiume ha poca acqua. Qui in Bettor ogni anno si fa e disfa una buona villa con case e boteghe di paglia, fornite di tutte le cose necessarie a usanza loro; e dura questa villa sina che le navi parteno per India, e, partite che sono, tutti vanno alle sue terre e danno fuoco alla villa. Mi fece questa cosa molto maravigliare, perchè nell'andare a Satagan vidi questa villa con grandissimo popolo e infiniti bazarri e botteghe, e al ritorno, essendo restato degli ultimi, e con l'ultima nave, la qual di qui era partita e aviatasi inanzi, venivo giú in una barca col capitano della nave, e restai stupido quando vidi quel luogo campagna rasa e con solo i segnali dell'abbrucciate case. Li navilii piccioli vanno a Satagan e ivi carcano.


Satagan

Nel porto di Satagan si carcano ogn'anno trenta e trentacinque vascelli, tra nave e navilii, di risi, di panni di varie sorti di bombaso, lacca, grandissima quantità di zuccari, zenzari e mirabolani secchi e conditi, pevere longo, buttiro assai e oglio di zerzelin e molte altre mercanzie. La città di Satagan è onestamente bella per città di Mori, ed è molto abondante. Fu signoreggiata dal re Patane, ubbidisce ora al re Magol. Io stetti in questo regno quattro mesi, ove assai mercadanti per loro utile comprano una barca, over la pigliano a nolo, e con essa vanno per il fiume alle fiere, comprando con assai maggiore avantaggio, perciochè tutti li giorni della settimana hanno fiere, ora in un luogo ora nell'altro; e però ancor io tolsi una barca, e andando su e giú per il fiume di notte, ho veduto molte stranie cose. Il paese di Bengala da un tempo in qua è quasi tutto in poter de' Mori, tuttavia vi è ancora grandissimo numero de' Gentili (per tutto ove dico Gentili intendasi idolatri, e ove dico Mori s'intenda macomettani), massime quelli infra terra. Hanno tutti in grandissima venerazione l'acqua del Gange, e quando sono infermi si fanno portare di lontani paesi su la riva di detto fiume e, fabricatavi una casetta di paglia, ogni giorno con quell'acqua si bagnano; onde assai ne muoreno, e morti che sono pongono i corpi su un monte di frasche, e dattoli il fuoco lasciano che siano mezzi arrostiti; indi, attaccatogli un vaso grande al collo, nel fiume gli precipitano. Questa cosa ogni notte l'ho vista per due mesi, ch'andai su e giú per il fiume a trovare i mercati e fiere; e questa è la cagione che i Portoghesi non vogliono bevere di quell'acqua, con tutto che sia eccellentissima e perfetta al paro di quella del Nilo.
Dal porto Picheno detto di sopra andai a Cochin e da Cochin a Malacca, di dove mi parti' per il Peru, ottocento miglia distante, qual viaggio si suol far ordinariamente in venti o venticinque giorni, e noi stessemo su questa strada quattro mesi. E in capo di tre mesi, essendo ormai il navilio con poca vettovaglia, disse il peotta che per il suo sol eravamo a fronte della città di Tenasari, città del regno del Peru; e il suo detto era vero, ma eravamo in mezzo a molte isole picciole o scogli disabitati. E alcuni Portoghesi dicevano che conoscevano la terra e che sapevano ove era detta città di Tenasari, la qual è città delle ragioni del regno di Sion, posta infra terra due o tre maree, sopra un gran fiume che viene d'infra terra del regno del Sion. E ove il fiume entra in mare è una villa chiamata Mergi, nel porto della quale ogn'anno si caricano alcune navi di verzino, di nipa, di belzuin e qualche poco di garofoli, macis, noci, che vengono dalla banda di Sion; ma il sforzo della mercanzia è verzino e nipa, qual è un vino eccellentissimo che nasce nel fior d'un arbore chiamato niper, il cui liquor si distilla e se ne fa una bevanda eccellentissima, chiara come un cristallo, buona alla bocca e migliore allo stomaco: e ha una gentilissima virtú, che s'uno fosse marcio da mal francese, bevendone assai, in poco tempo si risana. E io n'ho veduto l'effetto, perciochè, stando io in Cochin, era un mio amico al qual cascava il naso da mal francese e fu consigliato da medici ch'andasse a Tenasari a' vini nuovi e che ne bevesse giorno e notte quanto piú poteva, inanzi però che si destillasse, che 'n quel stato è delicatissimo, ma destillato è gagliardo e bevendone assai va alla testa: andò questo uomo e ne bevve, e io l'ho visto dapoi con buonissimo colore e sano. Questo vino è molto apprezzato in India, ma per venir di lontano è assai caro; nel Peru ordinariamente è buon mercato, per esser vicino al luogo ove si fa e facendosene ogni anno quantità grande.
Ora al proposito ritornando dico che, ritrovandosi noi lontani da terra fra quei scogli all'incontro di Tenasari con molta carestia di vettovaglia, e per detto del peotta e de' due Portoghesi tenendoci al fermo esser all'incontro di detto porto, fu determinato d'andar con la barca a proveder di vettovaglia, e ch'il navilio n'aspettasse in un luogo designato. Si partissemo ventiotto persone con la barca su l'ora del mezogiorno, credendoci al fermo di giunger inanzi sera nel porto detto di sopra, ma vogassemo tutto quel giorno, gran parte della notte e tutto il giorno seguente, senza trovar porto né segnale alcun di buona terra: e questo avvenne per il cattivo commando de' dui Portughesi, che errarono, e si lasciò il porto indietro, di modo che perdessemo la terra popolata e anche il navilio con ventiotto persone, senza aver in barca sorte alcuna di vettovaglia. Volse il Signor Iddio ch'un marinaro aveva portato un poco di risi, da barattare in qualche cosa, quali non erano tanti che tre o quattro persone non gli avessero mangiati in un pasto. Io con licenza di tutti presi il dominio de' risi, promettendogli che, con l'aiuto di Dio, quei risi ne sariano un intertenimento sina che la sua bontà n'averia fatto grazia di ritrovar qualche luogo abitato, e la notte io dormivo con essi in seno, acciochè non mi fossero rubati. Andassemo nove giorni cosí persi scorrendo la costa senza trovar altro che paese disabitato e isole diserte, che se avessemo trovato erba ne saria parsa un zuccaro, ma non trovammo se non alcune foglie d'arbori grosse e tanto dure che non si potevano masticare. Avevamo abbondanza d'acqua sola e di legne, né potevamo far viaggio se non col crescente dell'acqua, e quando l'acqua callava si fermavamo al lito di qualcuna di quelle isole. Trovassemo solo in questi nove giorni una covata d'ova di tartaruga, che furono cento e quarantaquattro, li quali ne furono di grande aiuto: sono grandi come ova di gallina, né hanno altro scorzo che una tenera pelle; e ogni giorno facevamo un caldarone di brodo con un pugno di risi. Piacque a Dio ch'in capo al giorno nono scoprissemo su le ventidue ore alcune peschiere, e indi a poco alcune barchette, che per esse andavano. Non credo che fosse mai piú stata altratanta allegrezza in alcun di noi, perciochè eravamo ormai tanto afflitti che appena si potevamo regger in piedi, e alla regola sina allora osservata avevamo ancora risi per quattro giorni. La prima villa che trovassemo era nel colfo di Tavai, sottoposto al re del Pegu, ove trovassemo vettovaglia in abondanza, ma per dui o tre giorni non si lasciò mangiare a cadauno se non molto poco, e con tutto questo ne stettero assai in ponto di morte.
Da Tavai al porto di Martavan del regno del Pegu sono settantadui miglia. Carcassemo la barca di vettovaglia, che per sei mesi abondantemente averebbe bastata, e si partimmo per il porto e città di Martavan, ove in poco tempo giungessimo; ma non vi trovassemo il nostro navilio, secondo che pensavamo di trovare, onde spedissemo subito diverse barche a cercarlo. E fu trovato in gran calamità e bisogno d'acqua, sorto con tempo cattivo e vento contrario, ed era a cattivo termine, perciochè era un mese ch'era privo della barca, che d'acqua e di legne lo provedeva; qual, con la scorta della barca che trovato l'aveva, giunse anch'esso per grazia di Dio a salvamento in detto porto.


Martavan.

Trovassimo nella città di Martavan intorno a novanta Portoghesi, tra mercadanti e uomini vagabondi, li quali stavano in gran differenza co' rettori della città, per aver certi Portoghesi vagabondi uccisi cinque fachini del re. Era forsi un mese che 'l re di Pegu era andato con un millione e quattrocentomila persone all'acquisto dell'imperio del Sion, e perchè è costume in quel regno, che sia il re ove si voglia fuora del regno, ch'ogni quindeci giorni li va dal Pegu una caravana di fachini con cesti in testa pieni di diversi rinfrescamenti e panni netti, occorse che, passando essi per Martavan e riposandosi quivi una notte, vennero alquanti di loro a parole con alcuni Portoghesi e indi ai pugni; e perchè parve che i Portoghesi n'avessero il peggio, la notte seguente dormendo i fachini alla campagna, andarono i Portoghesi e tagliarono la testa a cinque di loro. È una legge nel Pegu che, se uno ammazza un altro, si compra il sangue sparto con tanti dinari, secondo la qualità dell'ucciso; ma, per esser questi fachini ne' servizii del re, non ardirono i rettori d'accommodare questa cosa senza saputa del re, e però li fu necessario farglielo sapere. Venne ordine dal re che i malfattori fossero ritenuti sino alla sua venuta, perchè egli allora, inteso che avesse come il fatto era passato, averebbe integramente amministrata giustizia; ma il capitano de' Portoghesi non gli volse presentare, anzi, messisi tutti i Portoghesi in arme, andavano ogni giorno per la città col tamburro e l'insegna spiegata, perciochè la città stava assai vuota d'uomini da guerra, essendo quasi tutti andati nell'esercito del re.
Tra questi rumori noi quivi giungessimo, e a me parve molto stranio di veder che i Portoghesi facessero queste insolenze nell'altrui città; e dubitando di quello che poteva intervenire, non volsi metter le mie robbe in terra, per esser piú sicure nella nave, la maggior parte del carco della quale era del parzenevole che stava in Malacca; vi erano bene diversi mercadanti, ma con roba di poca importanza. Tutti questi mercadanti a me si riportavano, né volevano sbarcar la roba s'io non cominciava; ma dapoi lasciato il mio consiglio misero la roba in terra e tutta la persero. Mi fecero un giorno chiamare il rettore e i daziari, e mi adomandarono perchè io non metteva la roba in terra e non pagava il suo dretto alla doana. Gli risposi che io era mercadante venuto qui di nuovo e che, vedendo la terra andar in tal rivolta co' Portoghesi, dubitava perder la mia roba, che mi costava tanti sudori; e che però avea deliberato di non metterla in terra, se prima sua signoria non m'assicurava in nome del re che se qualche cosa intervenisse co' Portoghesi, che né la mia persona né la mia mercanzia fosse a modo alcuno offesa, poichè io non avevo parte né interveniva in questi rumori e differenze. Parve buona la mia ragione al rettore e mandò subito a chiamare il bargite della città, che sono gli uomini di consiglio, e mi promisero sopra la testa del re che per cosa che fosse potuta succeder coi Portoghesi, che la mia persona e la mia roba saria sicura e salva; della qual promessa ne fu fatto nota negli atti pubblici. E io andai e feci subito portar le mie robe in terra, e pagai il dazio, qual in quel regno si paga dell'istessa roba che si porta a dieci per cento, e per piú mia maggior sicurezza presi casa all'incontro della casa del rettore. Il capitan maggiore de' Portoghesi e quasi tutti li mercadanti stanziavano di fuora ne' borghi; solo io e da ventidui altri Cristiani portoghesi, povere persone e officiali de' navilii portoghesi, avevamo la nostra abitazione nella città.
Avevano già i Gentili ordinata la vendetta contra i Portoghesi, ma non l'esequivano, aspettando che prima il nostro navilio si discarcasse, e però, subito che fu la roba in terra, giunsero la notte seguente dal Pegu quattromila soldati con alcuni elefanti da guerra; e prima che si levasse il rumore, mandò il rettore a far intendere a casa per casa a tutti i Portoghesi ch'erano nella città che, sentendo rumore, non dovessero per cosa alcuna e per suo bene uscir de' loro alloggiamenti. Alle quattro ore di notte si sentí lo strepito e rumor grande di gente e d'elefanti, che gettavano per terra le porte delle case e de' magazeni de' Portoghesi e le case di legne e di paglia; nel qual rumore furono feriti alcuni Portoghesi e uno ucciso, e gli altri, senza far prova alcuna degna dell'orgoglio i passati giorni mostrato, vergognosamente si posero in fuga e si salvarono sui navilii che in porto erano surti. Tutta quella notte si careggiò la mercanzia de' Portoghesi nella città, di modo che tutti quelli che stavano nel borgo persero tutta la roba loro e molti di loro, trovandosi a quel punto in letto, con la sola camisa fuggirono. Un altro errore fecero poi i Portoghesi, che dopo imbarcati, avendo ripreso animo, vennero con un buon vento a metter fuoco nelle case del borgo, che essendo di tavole e di paglia, e il vento gagliardo, in poco tempo abbrusciò il borgo e quasi mezza la città; con la qual fazione persero in tutto ogni speranza di ricuperar la roba loro, la quale poteva montar intorno a sessantamila ducati, perciochè, se non avessero fatto questo danno, si teneva per certo che sariano stati reintegrati del tutto, perchè si seppe che questa fazione non era stata ordinata dal re, ma dal suo luogotenente e dal rettor della città, che n'erano poi malcontenti, parendogli d'aver fatto un grande errore. La mattina seguente cominciarono i Portoghesi a battere la città con l'artigliaria delle navi, e la batterono quattro giorni continui, ma indarno, perciochè i colpi non ferivano nella città, ma nell'alto della montagna a lei vicina. Quando il rettore vide che principiarono a far la batteria, fece subito prender ventiun Portoghesi ch'erano nella città e mandolli 4 miglia fuori d'essa, ove stettero fina che i Portoghesi se n'andarono, e poi senza offenderli li lasciò in libertà. Io stetti sempre nella mia casa con una buona guardia postavi da' rettori, acciochè non mi fosse fatto oltraggio alcuno, osservandomi quanto promesso m'avevano; ma non volsero ch'io di qui mi partisse sina alla venuta del re, il che mi fu di gran danno, perciochè io stetti ventiun mese sequestrato, senza poter vendere la mia mercanzia, la quale era pevere, sandolo e porcellane della China. Giunto che fu pur finalmente il re, gli appresentai una supplica e subito fui licenziato.


Pegu.

Da Martavan mi parti' per andare alla città reale del Pegu, chiamata anco essa col nome del regno; qual viaggio si fa per mare in tre over quattro giornate. Si puol andare anco per terra, ma a chi porta mercanzia è piú commodo e manco spesa l'andar per mare; e in questo viaggio si passa il maccareo, qual è una delle maravigliose cose che faccia la natura e che 'n questo mondo si possa vedere; e a chi non ha visto parerà dura cosa il credere il gran crescimento e callo che in un attimo fa l'acqua, e l'orribil terremoto e strepito col quale essa si muove. Si parte da Martavan col crescente in alcune barche che sono come peotte, le quali vanno come una frezza vogando a seconda d'acqua fina che dura tutta la marea, e quando conoscono che la marea sia in colmo, si tirano fuori del canale in un luogo alto e quivi sorgeno, e quando l'acqua è callata restano in secco e tanto alto dal vaso del canale quanto è alta ogni gran casa. Si fa questo perchè, se una nave grossa restasse nel canale a basso, è tal l'empito col quale l'acqua comincia a crescere, che la ribaltaria; e con tutto che la barca sia tanto alta fuora del vaso, e che prima che l'acqua aggiungi là abbia perso gran parte della sua furia, tuttavia rende gran spavento e bisogna tenerli la prova contra, altramente si perderia con tutte le persone. Quando l'acqua è per cominciare a crescere, si sente strepito cosí grande che pare un terremoto, e indi in un subito fa tre onde; la prima, con tutto che la barca sia tanto distante, la bagna da poppe a prova, la seconda è manco terribile, e alla terza si leva in pressa l'ancora, e per sei ore che l'acqua cresce si voga con tal velocità che par che si voli; né bisogna perder punto di tempo, perchè è necessario aggiunger all'altra posta ove si sorge prima che l'acqua daga volta, altramente bisognerebbe tornare di dove si fosse partiti; e queste poste sono piú pericolose una dell'altra, secondo che sono piú e manco alte. Quando poi si ritorna dal Pegu a Martavan, non si camina se non mezza marea alla volta, per restar in alto, per la ragione detta di sopra. Non ho mai potuto intendere la cagione di questo strepito, crescere e callare dell'acque. Un altro maccareo è anco in Cambaia, ma si può riputar niente rispetto a questo.
Con l'aiuto del Signore io giunsi a salvamento al Pegu, che sono due città, la vecchia e la nuova. Nella vecchia stanno i mercadanti forestieri e anco gran parte dei terrieri, e quivi si fa il sforzo delle facende; la città non è troppo grande, ma ha borghi grandissimi, e le sue case sono fatte di canna e coperte di foglie e di paglia; e le case de' mercadanti hanno tutte un magazeno, che si chiama godon, fatto di pietre cotte, nel qual ripongono le lor mercanzie e tutta la roba di valuta, per salvarle da' spessi incendii che occorrono in case di tal materia fatte. Nella città nuova sta il re e tutti i suoi baroni e altre persone signorili e gentiluomini, e al mio tempo fu questa città finita di fabricare; è città molto grande, piana e fatta in quadro perfetto, murata d'intorno e con fosse che la circondano, piene di molta acqua, nella qual sono molti cocodrilli; non ha ponti levatori, ha venti porte, cinque per ogni quadro, con assai luoghi da sentinelle di legno indorate. Le sue strade sono piú belle di quante io abbia mai visto, perchè tutte sono dritte a linea da una porta all'altra, e stando su una porta in una occhiata si scuopre sina all'altra, e per esse si possono cavalcare dieci e dodeci uomini al paro; e anco quelle che sono per traverso sono cosí belle e dritte ma non sono salicate; da una banda e dall'altra delle strade sono piantate all'incontro delle porte delle case noci d'India, che fanno un'ombra molto bella e commoda. Le case sono fabricate di legno e coperte di coppi, fatte in un solaro, assai buone a lor usanza. Il palazzo del re è in mezzo alla città, fatto in fortezza murata, con le sue fosse intorno piene di acqua; e l'abitazioni dentro sono di legno indorate, con alcune grottesche, overo piramidi con gran fatture coperte d'oro di foglia: sono veramente case da re. Dentro alla prima porta è una larga piazza, da una banda e dall'altra della qual sono le stanze degli elefanti piú poderosi e piú belli, destinati al servizio della persona del re; e tra gli altri n'ha 4 bianchi, cosa talmente rara che non si trova altro re che ne abbia, e trovandosene qualcuno in qual parte si sia, gli è subito mandato a donare. E al mio tempo in due volte gliene furono menati due di lontani e diversi paesi, e mi son costo eziandio a me qualche cosa, perciochè obligano tutti li mercadanti ad andarli a vedere e donare una cortesia a quello che li conduce; e gli officiali de' mercadanti metteno a questo effetto una tansa, che può importar mezzo ducato per testa, che viene ad esser gran summa, per i molti mercadanti che 'n quella città si trovano; e pagata che si ha la tansa, si può anco lasciar star d'andarli a veder per quella volta, perchè quando sono poi nelle stalle regie si posson veder quanto si vuole, ma si va quella volta perchè si sa che 'l re ha caro che se li vada. Questo re tra gli altri suoi titoli si chiama re degli elefanti bianchi, e si dice che, s'egli sapesse ch'altri re n'avesse, metteria tutto il suo stato in pericolo piú tosto che non lo conquistare. Fa egli tenere questi elefanti bianchi con servitú e politezza grandissima, cadaun dei quali sta in una casa indorata, e se gli da da mangiare in vasi d'argento e d'oro; ve n'è uno negro che, per essere il piú grande che mai sia stato visto, è tenuto con commodità simile, e veramente è tanto grande e tanto grosso ch'è una meraviglia, e la sua altezza è di nove cubiti. Si dice che questo re ha quattromila elefanti da guerra, cioè armati de' denti, in cima a dui delli quali li mettono dui spontoni di ferro, imbroccati e con annelli che li tengono fermi, perciochè con i denti questi animali fanno la guerra; ne ha poi assai di gioveni, che non hanno ancora fatti i denti.
Ha questo re la piú bella caccia da pigliar gli elefanti salvatichi che al mondo sia. Dui miglia lontano dalla città nuova ha fabricato un palazzo bellissimo tutto indorato, con una bella corte dentro e intorno ad essa molti corritori, nei quali può star infinita gente a veder la caccia. Quivi appresso sono grandi e foltissimi boschi, per i quali vanno di continuo i cacciatori del re a cavallo d'elefante femine ammaestrate in questo negozio, e ogni cacciatore ne mena cinque o sei, e si dice che gli ongono la natura con certa composizione, ch'annasata che l'hanno gli elefanti salvatichi la seguitano, né posson piú lassarla. Quando i cacciatori hanno a questo modo adescato qualche elefante, s'aviano verso il detto palazzo, qual chiamano il Tambel e ha una porta che con ingeno s'apre e si serra, dinanzi alla quale è una strada lunga e dritta con arbori da una banda e dall'altra, che coprono la strada a guisa di pergola in volto scura, affine che l'elefante salvatico entrando in questa strada si creda esser nel bosco; in capo a questa strada è un campo grande. Quando i cacciatori hanno la preda, prima ch'arrivino a questo campo mandano a darne aviso alla città, e subito n'escono cinquanta o sessanta uomini a cavallo e circondano quel campo, e le femine già amaestrate vanno alla volta d'imboccar la strada; e come gli elefanti salvatichi sono dentro, gli uomini a cavallo si metteno a cridare quanto che possono e a far strepito, per farli entrar dentro alla porta del palazzo, qual in quel tempo sta aperta, e subito che sono entrati la porta senza veder come si serra, e si trovano i cacciatori con l'elefante femine e il salvatico nella corte detta di sopra. E a poco a poco l'elefante femine una dopo l'altra escono della corte, lasciando solo l'elefante salvatico, che, quando s'accorge esser restato solo, fa tante pazzie che non è il maggior solazzo al mondo: per due o tre ore piange, urla, corre e giostra per tutta quella corte, e urta nel corritore di sotto per amazzar quella gente che quivi sta a vedere; ma i legni sono tanto spessi e grossi che non possono offendere alcuno, ma ben alle volte si rompeno in essi i denti. Finalmente si straccano tanto che restano tutti bagnati di sudore, e allora si pongono la tromba in bocca e si cavano del corpo tanta acqua, che ne spruzzano i riguardanti sino all'ultimo corridore, con tutto che molto alto sia. Quando poi vedeno ch'egli è stracco ben bene, escono alcuni officiali nella corte con canne lunghe e aguzze, e pungendolo lo fanno con gran travaglio entrare in una delle molte casette che sono fatte a posta intorno alla corte, lunghe e di modo strette che, come l'elefante è dentro, non può voltarsi per ritornar fuora; e bisogna che questi uomini stiano bene avvertiti ed esser veloci, perciochè, quantunque le canne siano lunghe, l'elefante gli ammazzarebbe se non fossero presti a salvarsi. Quando poi pur finalmente l'hanno in una di esse fatto entrare, stando in alto li congegnano alcune corde sotto la pancia, al collo e alle gambe, e lo fanno star cosí ligato quattro o cinque giorni senza dargli da mangiare né da bevere; in capo al qual tempo lo disligano e lo mettono appresso ad una femina, e gli danno da mangiare e da bevere, e in otto giorni diventa domestico affatto.
Non credo sia al mondo animale di piú intendimento di questo, che fa tutto quello che gli dice l'uomo che lo governa, né altro par che li manchi che 'l parlare umano. Si dice che le forze in che piú si fida il re del Pegu sono questi elefanti, e quando vanno in battaglia li mettono addosso un castello di tavole, legato con buone cente sotto la pancia, nel qual vi stanno commodamente quattro uomini, che combattono con archibugi, frezze, dardi e altre arme da lanciare; e si dice anco che la sua pelle è sí dura che resiste ad un colpo d'archibugio, eccetto se non lo giungesse in un occhio, in una tempia o in altri luoghi teneri. E oltra questa gran forza degli elefanti, hanno anco bellissima ordinanza in battaglia. Ho veduto io in alcune feste che si fanno fra l'anno, nelle quali il re trionfa, cosa rara e degna d'ammirazione in quei barbari, la bella ordinanza del suo esercito, distinto in squadre d'elefanti, di cavalleria, d'archibugieri e di picche. Sono in vero grandissimo numero, ma debole e triste sono l'armi loro, cosí quelle di dosso come l'armi offensive, che sono triste picche e spade come cortelli, lunghe e senza punta; perfettissimi sono gli archibugi, e dir si può migliori dei nostri: tra buoni e cattivi ascendono gli archibugieri al numero di ottantamila, e da un tempo in qua del continuo crescono, perciochè ogni giorno vuole il re che si tiri al pallio, col qual continuo esercitarsi si fanno eccellenti archibugieri; e si trova l'istesso re eziandio artegliaria di metallo. Concludo che non è in terra re di possanza maggiore del re del Pegu, perciochè ha sotto di sé venti re di corona e ad ogni suo volere può mettere in campagna un milion e mezo d'uomini da guerra, tutti del suo stato; cosa che parerà dura da credere, rispetto a considerare la vettovaglia che faria bisogno a mantenere cosí gran numero di gente, ma chi sa la natura di quelle nazioni facilmente la crederà. Ho veduto coi proprii occhi ch'essi mangiano di quante sorti d'animali è sopra la terra, sia pur sporco e vile se sa essere tutto fa per la lor bocca, sina i scorpioni e le serpi, e di piú d'ogni erba si pascono, onde ogni grosso esercito, pur che non li manchi acqua e sale, in un bosco si mantenerebbe lungo tempo di radici, di fiori e di foglie degli arbori; portano del riso per viaggio come per confetto.
Non ha il re del Pegu potere alcuno in mare, ma in terra di gente, di paese, d'oro e d'argento avanza di gran lunga la possanza del Turco; tiene alcuni magazeni pieni d'oro e d'argento, e ogni giorno ve n'entra e mai non se ne cava, ed è signore delle minere de' rubini, de' safili e delle spinelle. Appresso il palazzo regio è un tesoro inestimabile, del qual par che non se ne facci conto, rispetto che sta in luogo dove puol andare ciascuno a vederlo ad ogni sua voglia. È questo luogo una gran piazza, d'ogni intorno serrata di muro, con due porte, le quali di giorno sempre stanno aperte; in questa piazza sono quattro case indorate e coperte di piombo, in ciascuna delle quali sono alcuni pagodi, cioè idoli, grandi e di gran valuta. Nella prima è una statua di un uomo grande d'oro, con una corona in testa d'oro, piena di rarissimi rubini e safili, intorno alla quale sono quattro statue di quattro fanciulli d'oro. Nella casa seconda è una statua d'un uomo d'argento di moneta a sedere, qual supera con la testa, tanto è grande, cosí a sedere l'altezza d'una casa d'un solaro (io misurai i suoi piedi e li trovai cosí lunghi come io tutto sono), con una corona in testa simile alla prima. È nella terza una statua di rame dell'istessa grandezza e con simile corona di gioie in capo. Nella quarta e ultima casa è un'altra statua cosí grande fatta di ganza, che è un mettallo di che fanno le lor monete, fatte di rame e di piombo mescolato insieme; qual ancor essa ha in capo una corona simile alla prima. Sta questo tesoro cosí grande in luogo aperto, come si disse, e ogni uomo a sua voglia può andar a vederlo, che coloro che gli fanno la guardia non proibiscono l'entrarvi ad alcuno.
Dissi disopra che questo re ogni anno in certe feste trionfa, che per esser cosa bellissima da vedere, mi par di doverla scrivere. Va il re sopra un carro trionfante tutto indorato, qual tirano sedeci belli cavalli, ed è alto, con una bella cuba; dietro gli caminano venti signori con una corda in mano per ciascuno al carro ligata, per tenerlo dritto e che ribaltar non si possi. Sta il re in mezzo al carro, e su l'istesso carro li stanno intorno quattro signore da lui piú favorite; inanzi e dietro camina il suo esercito in ordinanza come di sopra si disse, e in mezzo a questo intorno al carro tutta la nobiltà della sua corte e de' suoi regni: cosa maravigliosa certo a vedere tanta gente, tanta richezza e tanto bell'ordine. Ha il re di Pegu una moglie principale, e in un serraglio ha intorno a trecento concubine, delle quali dicono che sin ora ha novanta figliuoli. Dà ogni giorno audienza in persona, ma non se li parla se non con suppliche a questo modo. Siede il re in una gran sala sopra un alto tribunale, e i suoi baroni intorno a lui, ma piú bassi; quelli che dimandono audienza entrano in una piazza inanzi al re, e si pongono a sedere in terra quaranta passi lontani dalla persona del re, né in questo si fa differenza a persona alcuna, con le sue suppliche in mano, che sono foglie d'un arbore lunghe piú d'un braccio e larghe intorno a due deta, scritte con la punta d'un ferro fatto a posta; e insieme con la supplica tengono anco in mano un presente, secondo l'importanza della lor dimanda. Vengono gli scrivani e pigliano queste suppliche e le leggono, e poi vanno a leggerle dinanzi al re: se pare al re di farli quella grazia o giustizia che essi adimandano, manda a pigliar il presente; ma quando li pare che la domanda sia ingiusta, gli fa mandar via senza pigliare il presente.
In India non è mercanzia alcuna che buona sia da portare al Pegu, se non si ha alcuna volta sorte a portarvi amfion di Cambaia; portando dinari se gli perderia assai. Solo da S. Tomé è buono andarvi, perciochè quivi si fa gran quantità di panni che s'usano nel Pegu, che sono tele di bombaso dipinte e tessute, cosa rara, che quanto piú si lavano rendono i colori piú vivi, e se ne fanno di molta importanza, che una balla molto picciola valerà mille e duemila ducati; vi si portano anco da San Tomé filati di bombaso cremesini, tenti con una certa radice che chiamano saia, qual fa un colore che mai si smarisse; delle qual robbe ne va ogni anno da San Tomé al Pegu una nave carica, ch'importa gran valuta. Si parte alli dieci overo undeci di settembre, e, se ne sta sino alli dodeci, porta pericolo di bisognar ritornare senza far il viaggio. Solito era di partirsi agli otto ed era viaggio sicuro, ma perchè gli è gran travaglio in quelle tele, di ridurle a perfezione e che siano ben sutte, e anco per l'ingordigia de' capitani, che vogliono straguadagnare e aspettano assai per aver piú noli, con credenza che 'l vento gli abbia da servire, si tarda alle volte tanto che la cola de' venti si volta (perciochè là sono cole de' venti ad un certo tempo prefisso, con le quali si va al Pegu sempre col vento in poppa, e non essendo giunti prima che il vento si volti alla costa del Pegu e preso fondo, bisogna per forza ritornare adietro), perciochè la cola che poi contra si volta suol durare tre o quattro mesi; ma se, prima che 'l vento volti, s'avicina tanto alla costa che si pigli fondo, quantunque poi si volti, avendo terra, si travaglia tanto che non si perde il viaggio. Va un'altra nave da Bengala al Pegu, pur carca di tele di bombaso bianche, fine e d'ogni sorte, ch'entra in porto al tempo che quella di S. Tomé si parte, come anco quella di San Tomé entra quando quella di Bengala si parte. Il porto nel quale entrano queste due navi è una città chiamata Cosmin. Di Malacca a Martavan, porto del Pegu, vengono assai navilii carichi di pevere, di sandolo, di porcellana di China, di canfora di Bruneo e d'altre mercanzie. Nel porto del Cirion entrano le navi che dalla Mecca vengono, con panni di lana, scarlatti, veluti, anfione e cecchini, ne' quali si perde, e li portano per non aver altro che portare che sia buono per il Pegu, ma non gl'importa niente, perchè si rifanno col grosso guadagno che fanno nelle robe che di quel regno cavano; e in questo istesso porto vengono anco vasselli del re d'Asia, carichi di pevere.
Dalla banda di San Tomé e di Bengala del mar della Bara al Pegu sono trecento miglia, e si va tre e quattro giorni su per il fiume col crescente dell'acqua sino alla città di Cosmin, e qui si discaricano le navi; ove vengono i daziari del Pegu a pigliar tutta la roba in nota e sopra di sé, co' segnali e bolli di ciaschedun mercante, ed essi hanno pensiero di farla condurre a Pegu, nelle case del re, nelle quali si fa doana di dette mercanzie. Quando i daziari hanno ricevuto tutta la roba e postala nelle barche, licenzia il rettore della città i mercadanti che possino pigliar barca e andarsene a Pegu con le lor massarizie, e s'accordano tre e quattro mercanti per compagnia e, tolta insieme una barca, al Pegu se ne vanno. Guardi Dio ognuno da far contrabandi, perchè per picciolo che 'l fosse saria affatto ruinato, perciochè il re l'ha per grandissimo affronto, e tre volte si vien diligentemente cercati: quando si sbarcano della nave, quando si vogliono partir di Cosmin con la barca e quando sono giunti a Pegu. Questo cercar quando si esce di nave lo fanno per i diamanti, perle e panni fini, che pigliano poco luogo, perciochè tutte le gioie ch'entrano nel Pegu e che non vi nascono pagano dazio; ma li rubini, li safili e le spinelle, che vi nascono, non pagano né all'entrare né all'uscire. Ho tocco altre volte che i mercadanti che vanno attorno per l'India convengono portare seco tutte le massarizie che sono piú necessarie per servizio d'una casa, perciochè in quelle parti non sono ostarie né camere locande, ma, come s'arriva in una città, la prima cosa si piglia una casa a fitto, o per mesi o per anno, secondo che si disegna di starvi: e nel Pegu è costume di pigliarla per moson, cioè per sei mesi. Or da Cosmin si va alla città di Pegu col crescente di sei ore in sei ore, e le sei ore che l'acqua calla bisogna ligarsi alla riva e ivi aspettare l'altro crescente. È bellissimo e commodissimo viaggio, trovandosi da una banda e dall'altra del fiume spessissime ville, cosí grosse che le chiamano città, nelle quali per buon mercato si comprano galline, oche, anatre, colombini, ova, latte e risi. Sono tutte pianure e bel paese, e in otto giorni si fa commodamente il viaggio sina a Maccao, distante da Pegu dodeci miglia, e qui si sbarca, e si mandano le robe a Pegu sopra a carette tirate da' buoi; e i mercadanti sono portati in delingi, qual è un panno attaccato ad una stanga, nel qual sta l'uomo disteso con cosini sotto la testa, ed è coperto per difesa dal sole e dalla pioggia, e l'uomo può dormir se n'ha voglia: lo portano quattro fachini correndo, cambiandosi due per volta.
Il dazio del Pegu col nolo della nave può montare venti, ventiuno, ventidua e sina ventitre per cento, secondo che si è piú e manco rubati, e il giorno che si fa doana bisogna avere l'occhio a penello e star all'erta e aver molti amici, perciochè, facendosi doana in una sala grande del re, vi vengono molti signori a vedere, accompagnati da gran numero de' suoi schiavi; né si tengono questi signori a vergogna che i lor schiavi rubano o panno o altro nel mostrar la roba, anzi se ne ridono, e con tutto che i mercadanti si serveno uno con l'altro a far la guardia alle cose loro, non si può tanto guardare che a ciascuno non sia qualche cosa rubato, a chi piú e a chi manco, secondo che ne hanno piú commodità. Ed è nell'istesso giorno un'altra gran pena, perciochè, mettiamo che si abbia tanti occhi che si passi senza esser rubati da' schiavi, non si può l'uomo difendere di non esser rubato dagli officiali di doana, perciochè, pagandosi il dazio dell'istessa roba, pigliano essi spesse volte tutto della meglio che si abbia, e non per ratta d'ogni sorte come doverebbono, con che si viene a pagar piú del dovere. Spedita finalmente a questo modo la roba di doana, il mercadante se la fa portare a casa e ne può disporre a sua voglia. Sono in Pegu otto sensari del re, che si chiamano tareghe, li quali sono obligati di far vendere tutte le mercanzie che vanno a Pegu per il prezzo corrente, volendo però i mercadanti a quel prezzo allora vendere, e hanno per lor provisione dui per cento d'ogni mercanzia, ma sono obligati far buone le ditte, perchè il mercadante vende per sua mano e sotto la sua fede, e molte volte non sa a chi si dia la roba, ma perder non può, perchè il sensaro è obligato in ogni caso a pagar lui. E se il mercadante vende senza adoperar questi sensari, bisogna nondimeno che li paghi li dui per cento, e corre qualche pericolo del pagamento, ma questo rare volte occorre, perciochè la moglie, i figliuoli e i schiavi sono al creditor obligati; e come passa il termine del pagamento può il creditor pigliare il debitor per mano e menarlo a casa sua e serrarlo in un magazeno, onde subito pagano; e non si trovando da pagare, può il creditore pigliarsi la moglie, i figliuoli e i schiavi del debitore, che tale è la legge di quel regno.
Corre in questa città e per tutto il regno del Pegu una moneta che chiamano ganza, fatta di rame e di piombo; non è moneta del re, ma ogn'uomo ne può far battere, pur che abbia la sua giusta partison, perchè se ne fa anco di falsa, con assai piombo, e questa non si può spendere. Con questa ganza si compra l'oro, l'argento, i rubini, il muschio e ogn'altra cosa, né altro dinar corre tra loro, e l'oro e l'argento e mercanzia, e vale ora piú ora manco, come l'altre merci. Va questa ganza a peso di bize, e questo nome di biza corre per il conto e per il peso; e communemente una biza di ganza vale a conto nostro intorno a mezo ducato, e piú e manco secondo che l'oro e l'argento è piú o manco in prezzo, ma la biza non muta mai: ogni biza fa cento ticaii di peso, e cosí il numero degli denari sono bize. Quelli che vanno a Pegu per comprar gioie, volendo far bene il fatto suo, conviene che vi stiano almanco un anno per negociar bene, perciochè, volendo tornar con quella nave con la qual si va, per la brevità del tempo da negoziare non si può far cosa buona; perciochè prima che in Pegu si faccia doana della nave di San Tomé è quasi il Natale, e fatta la doana si vendono le robe in credenza un mese e un mese e mezzo e al principio di marzo la nave si parte. Li mercadanti di San Tomé pigliano per pagamento oro e argento, qual mai non manca, e otto e dieci giorni prima che sia il tempo di partirsi sono tutti sodisfatti; si troveriano anco rubini in pagamento, ma non mette cosí conto. E quelli che vogliono invernar là per un altro anno bisogna che siano avertiti, quando vendono la roba loro, di specificar nel patto il termine di due o tre mesi del pagamento, e che vogliono che gli sia fatto in tanta ganza e non altro, né oro né argento, perchè con la ganza si compra ogni cosa con molto piú avantaggio; come gli bisogna anco avertir, quando è il tempo di riscuoter il pagamento, a che modo piglia la ganza, perchè chi non sta avertito potria far grande errore, cosí nel peso, come che ve ne potria esser di falsa. Nel peso potria esser ingannato perchè da un luogo all'altro cresce e calla assai, e però, quando si ha da fare un pagamento, bisogna pigliar un pesador publico qualche dí avanti, al qual si dà di salario due bise al mese; il qual è tenuto a far buono il denaro e per buono mantenerlo, perciochè esso lo riscuote e bolla i sachetti del suo bollo, e lo porta o fa portare, quando è assai, nel magazen del principale. Quella moneta pesa assai, e quaranta bize sono una gran carga da facchino. E medesimamente, quando il mercante ha da far qualche pagamento di robe da lui compre, il pesador lo fa, talchè con la spesa di due bize al mese il mercadante riscuote e spende il suo denaro senza fastidio alcuno.
Le mercanzie che escono di Pegu sono oro, argento, rubini, safili, spinelle, muschio, belzuin, pevere lungo, piombo, lacca, risi, vin di risi, qualche poco di zuccaro, perciochè, quantunque se ne faccia assai, assai anco nel regno se ne consuma in canna che si fa mangiare agli elefanti, ed eziandio i popoli ne mangiano. Gran quantità se ne consuma ancora in quel regno nelle lor varelle, che sono gli suo pagodi, de' quali ve n'è gran quantità di grande e di picciole: e sono alcune montagnuole fatte a mano, a guisa d'un pan di zuccaro, e alcune d'esse alte quanto il campanil di S. Marco di Venezia, e al piede sono larghissime, talchè ve ne sono alcune di quasi mezzo miglio di circonferenza. Dentro sono piene di terra, d'intorno murate con quadrelli e fango in vece di calcina, ma li fanno poi sopra della cima sino al piede una coperta di calcina nuova e di zuccaro, in che se ne consuma gran quantità, perchè altramente sariano dalla pioggia distrutte. Si consuma in queste istesse varelle anco gran quantità di oro di foglia, perchè gli indorano a tutte la cima, e vi sono alcune che sono indorate dalla cima sino al fondo; in che vi va gran quantità d'oro, perciochè ogni dieci anni bisogna indorarle di nuovo, per rispetto che le pioggie lo consumano, e se tanto in questa vanità non se ne consumasse, saria l'oro nel Pegu in assai miglior mercato.
Maraviglia parerà a sentire che nel comprare le gioie nel Pegu cosí spende bene i suoi dinari uno che non ha cognizione alcuna di gioie, come qualunque esercitato e prattico in questo negocio, e pur è cosí, per il modo che hanno trovato i venditori di venderle con piú reputazione e piú care; perciochè, se non comprassero gioie nel Pegu se non quelli che se n'intendono, saria poco il numero de' compratori e nel Pegu non saperiano che fare de' tanti rubini che in quel regno si cavano, e gli bisogneria darli per prezzo vilissimo; il qual modo è questo. Sono nella città di Pegu quattro botteghe di sensari gioielieri, uomini di gran credito, che si chiamano tareghe; per le man di questi quattro passano quasi tutti i rubini che si comprano e si vendono, e nelle lor botteghe si riducono sempre i compratori e i venditori; e quelli mercadanti che non s'intendono di gioie trovano uno di questi tareghe e li dicono che hanno tanti danari da investire in rubini, e che se esso li farà far buona spesa, che compraranno, quando che no, che lasciaranno star di comprare. È costume in questa città generalmente che, quando si ha comprato una quantità di rubini, il compratore fatto l'accordo se gli porta a casa, e sia di che valuta esser si voglia, e li vede e rivede due o tre giorni, e non se n'intendono, sono sempre nella città molti mercanti che se n'intendono, co' quali si può consigliare e mostrarglieli; e trovando di non aver fatto buona spesa, li può ritornare al tarega che glieli ha fatto torre senza perdita alcuna, la qual cosa è di tanta vergogna al tarega che ha fatto quel mercato, che vorrebbe che li fusse piú tosto dato uno schiaffo. E però s'affaticano sempre questi tarega di far fare buona spesa, massime a quelli che non se n'intendono, né lo fanno tanto per bontà, quanto per non perdere il credito. Quando poi compra alcuno che facci professione d'averne cognizione, essi non hanno colpa alcuna se comprano caro, anzi nel trattare il mercato favoriscono quanto piú possono i suoi che vendono; ma però è buona cosa l'intendersene. Bello eziandio è il modo che si tiene in far mercato delle gioie, perciochè saranno assai mercadanti a veder far un mercato di centenara e migliara di bizze, né alcun d'essi può saper il prezzo che si promette e domanda e che al fin si conclude se non quello che vende, quello che compra e il tarega, perciochè si fanno i mercati con toccarsi i deta delle mani ascose sotto un panno, avendo ogni deto e ogni groppo di ogni deto il significato di qualche numero; perciochè, se i mercati si facessero a parole che tutti intendessero, nasceriano assai contrasti e disturbi.
Or ritrovandomi io in Pegu il mese d'agosto del 1569 e trovandomi aver fatto un buon guadagno, mi venne un desiderio grande di ritornare alla patria, e volendo far la strada di San Tomé, bisognava ch'io aspettasse sina al marzo seguente; onde fui consigliato e mi risolsi di far la strada di Bengala, con la nave che presto era per andare a quel viaggio, la qual parte da Pegu per Bengala a Chitigan, il gran porto di dove vanno poi i navilii piccioli a Cochin prima che la flotta si parta per Portogallo, per la qual strada avevo fatto deliberazione di venire a Venezia. Fatta questa determinazione, m'imbarcai su detta nave di Bengala, e volse la sorte che quello fu l'anno del tufon; e per dire che cosa sia questo tufon, si ha da sapere che ne' mari dell'India ordinariamente non fanno le fortune cosí spesse come in questi nostri mari, ma ogni dieci, undeci o dodeci anni fa una fortuna oltra ogni creder terribile, né si sa fermamente qual anno sia per venire: e tristi quelli che a quel tempo si ritrovano in mare, perciochè pochi ne scampano. Ne toccò a noi esser in mare con simil fortuna, e fu ventura che la nave era stata foderata da nuovo, ed era vota, che non aveva altro che la savorna e oro e argento, che dal Pegu per Bengala non si porta altra mercanzia. Durò questa orribil fortuna tre giorni e tre notte, che ne portò via l'antenne con tutte le vele e anco perdessimo il timone, e perchè la nave travagliava assai, tagliassimo l'arbore grande, che fu assai peggio, perchè la nave senza arbore cadeva ora da una banda ora dall'altra, e s'empiva d'acqua di modo che tre dí e tre notte non fecero altro sessanta uomini che seccare l'acqua che di sopra vi entrava, perchè il fondo era buono, né per esso ve n'entrava pur una goccia: venti d'essi attendevano a vodar la sentina, venti nel converso e venti da basso, e tutti con secchie e zare non facevano altro che di continuo gettar il mar nel mare. Finalmente andando ove dal vento e dal mare eravamo portati, si ritrovassimo una notte su le quatro ore con una scurità grandissima in cima di una secca, senza che il giorno avessimo scoperto terra da banda alcuna, né che sapessimo dove che fussimo. Volse la divina bontà che venne un'onda grandissima che ne portò oltra la secca, senza alcun danno della nave, e quando fussimo dall'altra banda della secca tutti resuscitassimo, perciochè v'era pochissimo mare, onde, buttato il piombo, trovassimo dodeci passa d'acqua, e fra poco ne trovassimo se non sei; onde dessimo subito fondo con un'ancora picciola che n'era avanzata, che l'altre si erano perse nella fortuna. Non venne giorno che restassimo in secco, e subito che la nave toccò terra fu pontellata da una banda e dall'altra, acciochè non si ribaltasse. Venuto il giorno eravamo in secca, e vedessimo che 'l mare era un buon miglio lontano da noi e molto basso, essendo cessato il tufon e che avevamo per proda molto vicina una grande isola.
Andassemo per terra a veder che isola era questa, e trovassimo ch'era luogo abitato, e al parer mio il piú abondante che in tutto il mondo si possa trovare; la qual isola è in due parti divisa da un canale d'acqua salsa, che passa da una banda all'altra dell'isola. Avessimo molto che fare a condurre a poco a poco col crescente dell'acqua la nave in questo canale, e su questa isola si fermassimo quaranta giorni a ristorarci; e subito che fussimo su l'isola, ne fu fatto da quelle genti un bazarro con molte botteghe di cose da mangiare all'incontro della nave, che in tanta copia ve ne condussero e tanto buon mercato ne fecero che restavamo stupiti. Io comprai assai vacche da salare per monizione della nave, per mezzo larin l'una, che sono dodeci soldi e mezzo, per grassa che fosse; quattro porci salvatici grandi e fatti netti per un larin, le galine grandi e buone per un bezzo l'una (e ne fu detto che nelle galine eravamo stati ingannati della metà), un sacco di risi fini per una miseria, e cosí di tutte l'altre cose da mangiare era un'abondanza incredibile. Si chiama questa isola Sondiva, di ragione del regno di Bengala, lontana dal porto di Chitigan, ove era il nostro viaggio, cento e venti miglia. I Mori sono i suoi popoli, e vi era un governatore molto da bene per Moro, perchè, s'egli fosse stato tiranno, n'averebbe potuto rubar tutti, perciochè il capitano maggiore e i Portoghesi che erano in Chitigan stavano in guerra con i rettori di quella città, e ogni giorno s'ammazzavano; onde stavamo ancor noi con non poco spavento su quella isola, facendo la notte le guardie e sentinelle secondo che s'usa, e il governatore ne fece intendere che non temessemo di cosa alcuna e che sicuramente si riposassimo tutti perciochè, se bene i Portoghesi che stavano in Chitigan avesseno anco ammazzato il governatore di quella città, noi non ne avevamo colpa alcuna. E veramente ne fece egli sempre far cosí buona compagnia quanto far si puote, che il contrario era da giudicare, poi ch'egli e quelli di Chitigan erano tutti vassalli d'uno istesso re.
Partissemo di Sondiva e giungessemo in Chitigan, il gran porto di Bengala, in tempo che già i Portoghesi avevano fatto pace o triegua con i rettori della città, con questa condizione, che il capitano maggiore si partisse con la sua nave, che essi allora dariano il carco a tutti gli altri vasselli de' Portoghesi, che erano dicidotto navi grosse e altri navilii minori. E il capitano, qual era gentiluomo generoso e d'anima, si contentò di partirsi con la sua nave vota, acciochè tante navi e mercadanti non perdessero la ventura di carcare, e tanto piú che era vicino il tempo di tornare in India; onde, avendo tutte quelle navi qualche poco di carco, per ricompensare questa sua generosità, gli dettero la notte tutto il carco che avevano. E mentre egli stava per partirsi, gli venne un messo del re di Rachan, che li disse da parte del suo re che, avendo inteso della sua valorosità, lo pregava che volesse andare nel suo porto, che gli saria usata ogni cortesia: vi andò, e restò di quel re molto sodisfatto. Questo re di Rachan ha il suo stato in mezzo la costa tra il regno di Bengala e quello del Pegu, ed è il maggiore nemico che abbia il re del Pegu, che giorno e notte si va imaginando come soggiogarlo; ma non è possibile, perciochè per mare il re del Pegu non ha potere, e questo di Rachan puol armare sin a ducento fuste, e per terra ha certe prese d'acqua con le quali ad ogni sua voglia può allagare un gran paese, con che taglia la strada al re del Pegu di poter venire col suo gran potere ad offenderlo. Dal gran porto di Chitigan esce per l'India gran quantità di risi, molti panni di bombaso d'ogni sorte, zuccaro, frumento e molte altre mercanzie.
Per esser stato quell'anno la guerra in Chitigan, tardarono tanto i navilii piccioli a partirsi che non giunsero, secondo ch'eran soliti gli altri anni di fare, a Cochin prima che la flotta per Portogallo si partisse; anzi, essendo io sopra un navilio ch'era dinanzi a tutti gli altri, nel discoprire Cochin, scopersi anco l'ultima nave di Portogallo che, partita di Cochin, andava a velo. Di che restai io molto sconsolato, poichè per quello anno non era piú rimedio di venir in Ponente per la via di Portogallo; onde, giunto che fui a Cochin, mi deliberai di ritornare a Venezia per la strada d'Ormus. E in quel tempo la città di Goa era assediata per terra dal Dialcan, ma si aveva per opinione che questo assedio fosse per durar poco; m'imbarcai per tanto in Cochin sopra una galea per Goa, per imbarcarmi poi quivi per Ormus, ma, quando fui giunto in Goa, trovai che il vice re non lasciava partire niuno Portoghese per rispetto della guerra. Né stetti troppo in Goa, che cascai in una infermità che mi durò quattro mesi, la quale mi costò intorno ad ottocento ducati, perchè mi convenne vendere una partita di rubini, che se bene valeva mille ducati, fui dal bisogno sforzato a darla per cinquecento, e di questi quando mi cominciai a risanare me n'erano molto pochi restati per rispetto della gran carestia ch'era d'ogni cosa, e una polastra ben trista si pagava sette e otto lire, oltra le gran spese de' medici e delle medicine. Passati li sei mesi si levò l'assedio e si cominciò a negociare, e le gioie erano saltate di prezzo, onde io, vedendomi un poco disbarratato, mi risolsi di vender il resto delle gioie ch'io mi trovavo e di ritornare a fare un altro viaggio al Pegu. E perchè quando io mi parti' da Pegu l'anfion era in gran prezzo, andai in Cambaia per fare qui una buona investita in anfion, e vi comprai sessanta man d'anfion, che mi costò duemila e cento ducati serafini, che a nostro conto possono valere cinque lire l'uno; e di piú spesi ottocento serafini in tre balle di tele di bombaso, che sono buone per il Pegu. E perchè il vice re avea fatto gran pena che il dazio dell'anfion andassero tutti a pagarlo in Goa, qual pagato si poteva poi portarlo ove si voleva, pur che si portasse in paese di pace, io imbarcai le tre balle di tela in Chiaul sopra una nave che andava a Cochin, e io andai a Goa a pagare detto dazio; e da Goa mi parti' per Cochin con la nave del viaggio del Pegu, qual va ad invernare a San Tomé, e in Cochin seppi che la nave su la quale erano le mie tre balle di tela si era persa, talchè persi in questo gli ottocento serafini.
Si partissimo di Cochin per San Tomé, ma nel pigliar la volta intorno all'isola di Seilan il peotta s'ingannò, perciochè il capo di Galli dell'isola di Seilan butta assai in mare, e il peotta una notte si pensò d'aver passato detto capo e tenne il viaggio a poggia, talchè la mattina si trovassimo dentro a detto capo, senza rimedio per cagione de' venti di poterlo piú montare, né di far il viaggio con detta nave. E però fu necessario tornar indietro a Manar, e che la nave quivi restasse sorta tutto quello inverno senza arbori, e con poca speranza che si potesse salvare; pur si salvò, ma con gran danno del capitano maggior d'essa nave, perchè li fu necessario nolizare un'altra nave in San Tomé per Pegu con interesse grande. Io m'accordai con alcuni miei amici a Manar e pigliassimo quivi una barca che ne conducesse a San Tomé, e cosí fecero tutti gli altri mercadanti. Giunto che io fui a San Tomé, vi trovai una nuova venuta dal Pegu quivi per terra per via di Bengala, che in quel regno l'anfione era in grandissimo prezzo, e in San Tomé non era quell'anno altro anfione da passare al Pegu che 'l mio, di modo che 'n San Tomé ero tenuto da tutti quei mercadanti per richissimo: ed era la verità, se la fortuna non mi fosse stata tanto contraria. Si era partita di quei giorni una nave di Cambaia con grandissima quantità d'anfione per andare al re d'Assi, e ivi caricar di pevere, alla qual dette per viaggio una fortuna che la fece poggiare ottocento miglia e venire al Pegu, ove giunse un giorno prima che arrivasse io, di modo che subito l'anfion venne a vil prezzo, e quello che si vendeva 50 bizze venne a valer solo due bizze e mezza, per la quantità grande che n'aveva portato quella nave. Onde io per non discavedar convenni star due anni in Pegu, in capo a' quali di duemila e 900 ducati che avevo investito in Cambaia mi ritrovai esser venuto in solo mille ducati. Mi parti' di nuovo dal Pegu per l'India e per Ormus con molta lacca; da Ormus tornai in India a Chiaul, e da Chiaul a Cochin, e da Cochin a San Tomé, e da San Tomé a Pegu. Persi in Chiaul un'altra volta l'occasione di farmi ricco, perchè potevo comprar molto anfion e ne comprai poco, spaurito dalla mala ventura dell'altra volta; e in questa poca quantità feci un buon guadagno, e allora di nuovo mi deliberai di venire alla patria, e partitomi da Pegu venni ad invernare a Cochin, e indi, lasciata l'India, me ne venni in Ormus.
Mi pare, prima che finisca di narrare il mio viaggio, di ragionare alquanto sopra le cose che produce l'India e l'altre parti del Levante, e di dir la lor istoria e nascimento. Il pevere e il zenzaro sono spezie che nascono per tutta l'India, e anco in alcuni luoghi di là dall'Indie. La gran quantità del pevere nasce per i boschi salvatici, senza farli intorno sorte alcuna di fatica, se non andare al suo tempo a raccoglierlo; e l'arbore che produce il pevere è un'erba in tutte le sue parti simile alla nostra edera, la quale si rampega ad alto sopra gli arbori, e se agli arbori non s'attaccasse, sia di qual sorte esser si voglia, cascaria in terra e si marciria. Fa questa erba i corimbi o i graspi come fa l'edera, e quelli sono i grani del pevere, il qual quando si raccoglie è di color verde, ma mettendolo al sole a seccare diventa nero. Il zenzaro si coltiva, e la sua erba è giusto come il nostro panizzo, la cui radice è il zenzaro; e queste due spezie, come dissi di sopra, nascono in diversi luoghi. I garofoli tutti vengono dalle Malucche, le quali sono sette isole non molto grande, e l'arbore che li produce è simile al nostro lauro. Le noci muschiate e il macis, ch'è della medesima noce, vengono portate tutte dall'isola di Banda, il cui arbore tien gran somiglianza con l'arbore delle nostre noci, ma non troppo grande. Tutto il sandalo bianco buon si porta dall'isola di Timor. La canfora composta vien tutta dalla China, e quella che nasce in canna viene tutta da Bruneo; non pare a me che di questa canfora ne venga in queste parti, perciochè se ne consuma in India e vale assai. Il buon legno aloe viene di Cochinchina; il belzuin vien dal regno di Sion e dal regno d'Assi; il pevere lungo nasce in Bengala, nel Pegu e nella Giava. Il muschio tutto vien di Tartaria, quale a questo modo si fa, per la buona informazione che n'ho avuta dai mercadanti ch'al Pegu lo portano. Dicono ch'in Tartaria sono gran copia di certi animali della grandezza d'una volpe, li quali animali pigliano vivi con i lacci e gli ammazzano con le bastonate, acciochè il sangue se li sparga per tutta la persona, poi gli scorticano e, tiratali fuora l'osse, pestano la lor carne mescolata col sangue minutissimamente; della pelle fanno le borse e l'empieno di questo pestume, e questo è il muschio. L'ambra non si sa veramente di che si faccia, e sono d'essa diverse opinioni; questo solo si sa di certo, che dal mar è gettata in terra e in sui liti di quello si trova. Li rubini, i safili e le spinelle si trovano nel regno del Pegu. I diamanti vengono da diversi luoghi, e io so di tre soli; le schiappe vengono di Bezeneger; le ponte naturali d'infra terra del Deli e dalla Giava, ma quelli della Giava sono di maggior peso. Non ho mai potuto intendere da che parti vengano i balassi. Le perle in diversi luoghi si pescano. Di Cambaia escono diverse droghe. Il spodio si congela d'acqua in alcune canne, e io n'ho trovato assai nel Pegu, quando facevo fabricar la mia casa, perciochè, come altra volta ho detto, quivi tutte le case si fanno di canna sfessa e tessuda.
Di Chiaul si negozia anco per la costa de Melindi in Etiopia, infra terra della quale è la Caferaria, e sul mare sono assai porti de' Mori. Vi portano i Portughesi alcune sorti di panni di bombaso di poca spesa e quantità grande de' paternostri di vetro tristi, a sua usanza, che si fanno in Chiaul; e di là cavano per India denti d'elefanti, schiavi caferi e qualche poco d'ambra e d'oro. Su questa costa è Mozenbich, fortezza del re di Portugallo, la quale è dell'importanti fortezze che sia in India nei luoghi a questo re sottoposti; e il capitano di detta fortezza ha alcuni viaggi alla Caferaria, nei quali non possono andare altri mercadanti che gli agenti di esso capitano, quali vanno in certi porti fra terra con navilii piccioli e contrattano coi Caferi senza parlare a questo modo. Portano a poco a poco sul lito la lor roba e si ritirano, e il mercadante cafero viene a veder la roba, e li mette tanto oro appresso quanto li par di volerla pagare e si ritira: va allora il Portughese a veder l'oro e, se gli par di vender bene, piglia l'oro e lo porta in barca; e il Cafero tornando e non trovando l'oro da lui posto, si piglia la mercanzia e la porta via. Ma, se vi trova l'oro, questo è segnale che il Portoghese non si contenta, e s'al Cafero pare d'avergli dato poco, vi aggiunge tanto oro quanto disegna di voler finalmente spendere; né bisogna ch'i Portughesi stiano duri, perchè i Caferi, quando li par di pagar il dovere e che i Portoghesi non se ne contentano, si sdegnano, si ripigliano l'oro, né vogliono piú contrattare, perciochè ancor essi sono inviziati, essendo molti anni che a questo modo negoziano. E con questo trafico permutano in quel luogo i Portoghesi tutta la lor mercanzia in oro, e ritornano con esso a Mozembich, qual è un'isola poco distante da terra ferma della Caferaria, su la costa d'Etiopia, tra Portogallo e l'India: è distante dall'India duamila e ottocento miglia.
Ora seguendo di raccontare il mio viaggio, trovai in Ormus messer Francesco Beretin da Venezia e nolizassemo di compagnia un navilietto per Basora per settanta ducati, sul qual levassemo alcuni mercadanti che n'aiutarono a pagar il nolo; e molto commodamente a Basora arrivassemo, dove si fermassemo quaranta giorni aspettando che si facesse caravana di barche per Babilonia, perciochè non vanno due o tre barche su per il fiume, ma bisogna che siano venti, venticinque e trenta; perciochè, non si potendo di notte andare inanzi, bisogna legarsi alle rive e ivi farsi buona e grossa guardia ed esser ben provisti d'arme, per rispetto dei ladri che vengono per spogliare i mercadanti. Partendosi da Basora si va in su qualche poco a velo, ma per il piú bisogna tirar l'alzana, sul qual viaggio sino a Babilonia stessemo cinquanta giorni; ove bisognò fermarsi quattro mesi, sino che si fece caravana da passar il deserto per Aleppo. E in questa città s'accompagnassemo sei mercadanti insieme, cinque Veneziani e un Portoghese, che furono messer Fiorin Nasi con un suo cugino, messer Andrea di Polo, il Portoghese, messer Francesco Beretin e io; e si fornissemo di vettovaglia per noi e di biava per le cavalcature per quaranta giorni. Comprassemo cavalli e mule, e se n'ha buonissimo mercato: io comprai un cavallo per undeci zechini, che vendei poi in Aleppo 30 ducati; comprassemo anche un pavion da campo, che vi stessemo sotto molto commodi. Avevamo fra tutti trentadue some di gambelo, delle quali pagassemo di porto sette ducati per gambelo; e d'ogni dieci gambeli ne danno uno di bando, che tollendone dieci se n'ha undeci, che tale è l'usanza, credo io per portare con quello da poter governar gli altri. Pigliassemo tre bastasi, che sono usi andare in quel viaggio, a cinque ducati per ciascun di loro, e sono obligati a servirci sino in Aleppo, di modo ch'eravamo benissimo serviti senza aver fastidio alcuno: come la caravana metteva giú, il nostro pavione era dei primi drizzati. Fa la caravana poco viaggio al giorno, come saria intorno a venti miglia; si lieva due ore inanzi giorno e mette giú intorno alle diecinove. Avessemo ventura che nel nostro viaggio piove alcune volte, onde non ne mancò mai acqua, e quasi ogni giorno trovassemo buona acqua, benchè non potevamo patire perchè ne portavamo sempre un gambelo carco per ogni rispetto; ma in tutto quel deserto non avessemo bisogno né d'acqua né d'altro che in quelle parti si trovi, perciochè venivamo ben forniti d'ogni cosa. E ogni giorno mangiavamo carne fresca, perciochè venivano con noi molti castrati coi pastori che li governavano, e i castrati avevamo comprati in Babilonia e ogni mercadante aveva bollato i suoi col suo bollo, e ai pastori per la lor fatica si dà un maidino per ogni castrato ch'essi amazzano, perciochè essi erano obligati d'amazzarli e governarli, e oltra il maidino per castrato avevano anco le teste, le pelli e l'interiora d'essi castrati da loro amazzati, li quali erano tenuti di amazzarli quando gli era dai mercadanti ordinato. Per la nostra compagnia dei sei detti di sopra comprassemo venti castrati, e quando giungessimo in Aleppo n'erano ancora sette vivi: son questi castrati molto grandi e grassi e però, con tutto che fossemo tanta gente, un castrato ne faceva due giorni; ed è una usanza nelle caravane, che le compagnie s'imprestano la carne una con l'altra, per non portarsi dietro la carne cruda per viaggio, e s'accommodano tra loro che chi amazza un giorno un castrato l'impresta mezzo, e il giorno seguente gli è restituito.
Da Babilonia in Aleppo sono quaranta giornate di strada, delle quali se ne fa trentasei per il deserto, che non si vede se non pianura aperta e disabitata e senza segnale alcuno di strada: caminano inanzi i peotti e la caravana gli seguita, ed essi sanno le poste dove s'ha da fermarsi, nelle quali sono pozzi; e quando essi si fermano, tutta la caravana mette giú. Dico che sono trentasei giornate per il deserto perchè, da Babilonia partendosi, si camina due giorni per luoghi abitati, sino che si passa il fiume Eufrate; e similmente due giornate vicino ad Aleppo si trovano villaggi e luoghi abitati dagli uomini. Va sempre con la caravana un capitano che fa giustizia, e la notte si fanno guardie intorno alla caravana. Giunti in Aleppo, andassemo a Tripoli, ove messer Fiorin e messer Andrea di Polo e io, con un frate di San Francesco, noleggiassemo una barca per andare in Ierusalem. Partiti di Tripoli per il Zaffo, fossemo dai venti contrarii trasportati in Cipro al capo delle Gatte, di dove traversassemo il golfo e andassemo al Zaffo, dal qual luogo a Ierusalem è una giornata e mezza per terra. Ordinassemo che la barca qui n'aspettasse sino alla nostra tornata e andassemo in Ierusalem, ove stessemo quattordeci giorni, per veder quei luoghi santi commodamente. Indi tornati al Zaffo, andassemo a Tripoli, e qui s'imbarcassemo su la nave Ragazzona, e giungessimo con l'aiuto divino dopo tanti travagli finalmente a Venezia adí cinque di novembre del millecinquecentoottantauno.
Se fosse alcuno ch'avesse animo d'andare in quelle parti dell'India, non si sbigotisca nel leggere gli travagli grandi e piccioli che io vi ho passati, perciochè io mi posi a sbaraglio in molte cose, per esservi andato molto povero, perciochè io mi parti' di Venezia con mille e ducento ducati investiti in mercanzie. E quando fui in Tripoli mi ammalai in casa di messer Regulo degli Orazii, e il detto messer Regulo di mio ordine mandò la mia roba con una caravana picciola che andava in Aleppo: la caravana fu robata e tutta la mia roba si perse, da quattro cassoni di diversi vetri in fuora, che mi erano costati settanta ducati, li quali fur poi da me trovati rotti e anche in essi molti dei vetri rotti, perciochè, pensandosi i ladri che fosse altra mercanzia, gli avevano rotti per cavarla, ma trovando esser vetri la lasciarono stare. E con questo solo capitale di questi pochi vetri mi posi a far il viaggio dell'Indie, e con cambii e recambii e fatiche e viaggi Dio mi aiutò che mi ridussi in buon capitale. Non voglio restare di ricordare a quelli che sono per far questo viaggio il modo di conservar la lor facoltà in caso di morte, che sicuramente sarà data ai loro eredi, secondo ch'essi averanno ordinato. In tutte le città ch'hanno i Portoghesi in India è una scuola che chiamano la scuola della Santa Misericordia, le quali tutte si rispondono una con l'altra e hanno gran privilegi, né il viceré può far contra gli ordini loro. Bisogna per tanto che, quando la persona è giunta in India in una di queste città, facci in sanità il suo testamento e lasci la scuola della Santa Misericordia sua commissaria, con lasciargli qualche elemosina per le fatiche loro, e, fattasi far una copia del testamento, bisogna che sempre la porti con sé, e massimamente passando i mercadanti di là dall'India in paesi de' Mori e de' Gentili, nei quai viaggi sempre è sui vascelli un capitano maggior portoghese per amministrare giustizia e ragione tra i Cristiani: e ha anco questo capitano autorità di ricuperare le facoltà dei mercadanti che muoreno in quelli viaggi, che non hanno fatta questa provisione, se bene in tal caso per i piú questi capitani sogliono mangiare o giuocare queste facoltà, che poco o niente ne tocca agli eredi. Va in questi istessi viaggi sempre qualche mercadante commissario di questa scuola della Santa Misericordia, con ordine che se muore qualche mercadante ch'abbi il suo testamento e che la scuola sia commissaria, di ricuperare la sua facoltà e mandarla in India alla Santa Misericordia, e ivi la scuola vende dette robe e manda i dinari per lettera di cambio alla scuola della Santa Misericordia di Lisbona, insieme con la copia del testamento; e di Lisbona fanno quelli intendere in qual parte se sia della cristianità agli eredi del tale che, portando le lor fede d'esser quelli, vadino a pigliare la valuta dei suoi beni. Di modo che non si perde cosa alcuna, se non quelli che moreno nel Pegu, che perdono il terzo della sua facoltà, per antico costume di quel regno che, qualunque forestiero vi muore, il re con gli suoi ministri restino eredi d'un terzo dei suoi beni; né mai si ha trovato che sopra questo sia stata usata fraude o fatto ingiuria ad alcuno. Ho veduto io molti ricchi che, doppo l'essere stati molti anni nel Pegu, nella loro decrepità hanno voluto andare a morire nelle patrie loro, e si sono con tutte le loro facoltà partiti, senza esser punto molestati overo impediti.
Vestono nel regno del Pegu tutti ad una guisa, cosí i signori come il popolo minuto: vi è solo differenza nella finezza de' panni, che sono tele di bombaso piú fine una dell'altra e di piú prezzo. Portano prima una cavaia di tela di bombaso bianca, che serve per camisa, e si cingono poi un'altra tela di bombaso depinta di quattordeci braccia, la quale tra le gambe si ravoltano; portano anco in testa una tocca, picciola di tre braccia di tela, rivolta a guisa d'una mitria; alcuni anco vanno senza tocca, ma portano una zazzaretta la quale non gli passa sotto la ponta dell'orecchia, facendosela da quello in giú tosare. Vanno tutti scalzi; vero è che i signori mai non vanno a piedi, ma o si fanno portare in un solaro da otto uomini, con gran riputazione, con un sombrero tessuto di foglie che gli difende dal sole e dalla pioggia, o vanno a cavallo coi piedi nudi nelle staffe. Le donne tutte, siano di che condizione esser si vogliano, portano una camisetta sino alla centura, di dove sino al collo del piede si cingono un panno di tre brazza e mezzo aperto dinanzi e tanto stretto, che non possono far il passo che non mostrino le coscie quasi fino in cima, quantunque caminando fingono di voler con le mani tenersi coperte, ma non è possibile per la strettezza del panno. Dicono che fu questa invenzione d'una regina, per rimuovere gli uomini dal vizio contra natura, che molto vi s'usava, e incitarli con questa vista ad attendere alle donne; le quali anch'esse vanno scalze, con le braccia piene di cerchii d'oro carichi di gioie e le deta di preziosi annelli, con i capegli rivolti intorno alla testa, e molte di loro portano su le spalle un panno, che serve come per ferraruolo. E per compimento di quanto ho sin qui scritto, dico che quelle parti dell'India sono paesi molto buoni, perciochè e facil cosa di mente fare assai; solo bisogna essere e farsi conoscere per uomini da bene, perchè a tali non mancano maneggi da fare assai bene, ma chi è vizioso non vi vada altramente, perchè sarà sempre povero e mendico.


Io, don Bartolomeo Dionigi da Fano, da un memoriale del soprascritto messer Cesare ho cavato il presente viaggio e fedelmente in questa forma disteso, che, letto piú volte dall'istesso autore, come vero e fedele, ha voluto a commune delettazione e utile al mondo publicarlo.



Tre navigazioni fatte dagli Olandesi e Zelandesi al settentrione, Nella Norvegia, Moscovia e Tartaria verso il Catai e regno de' Sini, dove scopersero il mare di Veygatz, la Nuova Zembla e un paese nel 80° grado creduto la Groenlandia.



Con una descrizione di tutti gli accidenti occorsi di giorno in giorno ai naviganti.
Cap. I.

Sí come a pena si può trovare o pensar cosa che piú sia di accrescimento al beneficio publico, specialmente in queste regioni, dell'arte del navigare, perciochè quelli che hanno poter in mare non solamente possono a sé tirare i frutti della terra per sostentare la vita, ma ancora tutte le cose necessarie all'uso umano; imperochè con questo mezzo possono condurre dall'estremo del mondo tutte le cose che loro mancano, e all'incontro mandar colà quelle di che essi abondano, il che per questa commodità del navigare si può fare senza difficultà alcuna; e sí come anco la fabrica e apparecchio di esse navi va a poco a poco di giorno in giorno accrescendo, con maraviglia non solamente di coloro che hanno vedute le navigazioni e fornimenti di navi de' nostri avi, ma di quegli ancora che fanno paragone di quelle che sono fatte a sua memoria con quelle che si fanno al dí d'oggi; cosí ancora ogni giorno si va ritrovando di nuove navigazioni, le quali però non la prima né la seconda volta, ma dopo la terza solamente si conducono al desiderato fine, e allora finalmente se ne tragge il frutto. Però non dovrebbe dolersi alcuno delle fatiche e difficultà che si incorrono, benchè non cosí tosto, né, come ho detto, la prima né la seconda solamente, ma solamente la terza e forse piú tardi consegua il suo desiderato intento. Perciochè qual piú utile e lodevole fatica si può chiamare di quella che si sopporta per beneficio universale, benchè ad ignoranti invidi e maligni al principio appaia vana, quando sortisce buon fine? Che se quegli illustri e generosi nocchieri, Colombo, Cortese e Magaglianes e altri molti, che hanno scoperto tanti e sí lontani regni e regioni, nel primo, secondo o terzo viaggio che non successe loro felice e prospero avessero ancor essi abbandonata l'impresa, non avrebbero poi mai piú colto il frutto delle loro fatiche.
Il grande Alessandro, dopo ch'ebbe occupata l'Asia minore e la maggiore, essendo caduto nell'estrema India in molte difficultà e angustie in un certo luogo disse: "Se non ci fussimo posti a tentare quello che ad altri pareva impossibile, ci troveremmo ancora ne' confini della Cicilia, onde ora abbiamo acquistato tutte queste sí ampie regioni"; perciochè non fu mai in uno istesso tempo ritrovata una cosa e ridotta a perfezione, né meno cominciata e finita. A questo proposito dice saggiamente Cicerone: "Iddio non concesse ad un solo secolo ogni cosa, acciochè anco a' posteri rimanesse in che si potessero esercitare". Però non è da fermarsi a mezzo il corso per fino che vi resta cosa che sia secondo il desiderio e che si possa sperare, perciochè i maggior tesori sono piú difficili da ritrovare. Ma per non mi scostar molto dalla proposta materia, quanto al procurare che tutto dí si fa della navigazione utile, la quale non senza grandissime spese, difficultà e fatiche è stata fornita, fatto il conto dopo quante lunghe e difficili fatiche e col continuar i viaggi sia finalmente stata fermata la navigazione nell'India orientale e occidentale, nell'America, Brasilia e in molte altre provincie e regioni e isole non mai piú udite, per lo stretto di Magaglianes e per lo mare Australe passando una e due volte oltre l'equatore, consideriamo un poco il mar Bianco, nel qual oggidí è cosí frequentata la navigazione alla parte settentrionale della Moscovia, con quanto travaglio e pericolo è stato dal principio aperto. E che cosa ha fatto ora quella navigazione cosí facile e commune? Non è ella la istessa e cosí lunga come anco avanti che fosse cosí bene conosciuta e terminata? È certo, ma quel dritto passaggio o corso, che prima si doveva cercare in quelle lunghe e torte navigazioni da una provincia all'altra, e che ora si è trovato e che si può tener dritto, ha fatta questa navigazione di difficile facile.
Queste poche parole mi è paruto di dover dire per una breve introduzione e disposizione del lettore, avendo deliberato di scrivere queste tre navigazioni settentrionali, che in questi tre anni continui sono state prese a fare oltra la Norvegia e la Moscovia, verso i regni del Cataio e della China (nelle due ultime delle quali vi sono stato in persona), benchè non abbiano avuto quel fine che speravamo: primieramente per dimostrar la nostra assidua e diligente fatica in ricercare il dritto viaggio, quantunque non lo abbiamo potuto trovare, sí come speravamo e desideravamo, ma forse anco l'avremmo ritrovato se, come abbiamo tenuto torto, cosí avessimo tenuto dritto il camino, e se l'angustia del tempo, i gran ghiacci e le gravissime fortune non ce lo avessero impedito; e poi anco per chiuder la bocca a quelli che vanno dicendo che questa nostra impresa era inutile e vana: ma forse che per l'avenire apporterà qualche beneficio, perciochè non è da farsi beffe di chi tenta una cosa tenuta per impossibile, ma ben di chi per dapocagine non si mette ad impresa alcuna perchè gli paia difficile. Invero abbiamo conosciuto che ci ha dato grande impedimento e contrasto alla nostra navigazione la quantità grande di ghiaccio che trovammo intorno alla Nuova Zembla, sotto l'elevazione di gradi settantatre, settantaquatro, settantacinque, settantasei, che però non era sí grande nel mare istesso tra l'una terra e l'altra; onde si comprenderanno che non la vicinità del polo artico, ma del gran ghiaccio che va fluttuando e rifluttando nel mar di Tartaria inverso la Nuova Zembla ci apportò quel gran freddo che patimmo. Non ci avendo adunque la vicinità del polo quello apportato, se avessimo potuto seguire il nostro viaggio, che dal ghiaccio non fussimo stati impediti, forse avremmo verso l'aquilone ritrovato qualche passo. Ma qual costituzione di cielo fusse intorno questa Nuova Zembla non lo potemmo sapere fin che non lo provammo, e quando con l'esperienza lo conoscemmo, non ci fu poi piú rimedio di cangiar camino; nientedimeno non si può sapere che cosa ci poteva incontrare se volgevamo il corso verso greco, poi che niuno ancora ha tentata questa navigazione.
È cosa certa che in quella regione che ha il polo elevato ottanta gradi, che noi giudichiamo che sia la Groenlandia, vi regnano e crescono erbe e frondi, delle quali si pascono diversi animali selvaggi, come rangiferi, cervi e altri simili; e per il contrario nella Nuova Zembla non nascono né erbe né frondi, ove anco non si trovano animali di sorte alcuna fuori che fiere che vivono di carne, come sono orsi e volpi, benchè essa Nuova Zembla si scosti dal polo verso l'ostro piú della già detta regione quattro, cinque e sei gradi. È oltre di ciò noto che dal lato australe e bovale dell'equatore il sole, tanto da una parte quanto dall'altra, tra tutti due i tropici nell'elevazione di gradi vintitre e mezo è tanto caldo quanto sotto l'equatore: qual maraviglia dunque sarebbe che intorno al polo artico, tanto dall'una parte quanto dall'altra, nella stessa quantità di gradi non fusse minor rigor di freddo che sotto l'istesso polo? Io non propongo ciò per certo, perchè non abbiamo fatto prova del freddo che si trova sotto l'un lato e l'altro del polo artico, come l'abbiamo fatta del calore nell'una e l'altra parte dell'equatore; ma voglio solo inferire che, se noi non abbiamo seguito il dritto e determinato corso verso greco, non si deve però far giudicio che 'l freddo debba impedire per costa la navigazione, perciochè non il mare né la vicinanza del polo, ma il ghiaccio che trovammo intorno il continente, come s'è detto, ci ha apportato tutto l'impedimento: perciochè, tantosto che ci allargammo dal continente in mare, benchè fossimo piú vicini al polo, subito tornammo di nuovo a sentir caldo. Onde per cotesta sí subita mutazione morí il nostro patron di nave Guglielmo di Bernardo, il quale, non ostante il crudelissimo e insupportabil freddo che aveva patito, e non s'era però perduto d'animo, ma piú volte con molti de' nostri volle far alle scommesse che, quando avesse drizzato il camino dal promontorio Bovale, avrebbe con l'aiuto di Dio condotto a fine il suo cominciato corso.
Ma, lasciando ciò da parte, venimo omai alla descrizione delle tre già dette navigazioni; le quali per l'autorità e promozione dei potenti ordini generali di queste tre provincie confederate e dell'illustrissimo prencipe Maurizio, del prencipe d'Aurnico, come general del mare, e della famosissima piazza di Amsterdamo furono prese e condotte fino a quei luoghi che si dirà, e alla quale potrà il lettore trarne a suo beneficio quanto stimerà che si debba abbracciare o fuggire.
Primieramente adunque l'anno MDXCIIII quattro navi fornite di tutto, due in Amsterdam, una in Zelandia e una in Encusa, per gir ad aprire piú commoda navigazione ai regni del Camio, e della China dietro la boreal Norvegia, Moscovia e Tartaria; delle quali delle due di Amsterdamo era patrone Guglielmo di Bernardo, marinaro eccellente, famoso e molto prattico, e il giorno delle Pentecoste fece vela da Amsterdam verso Tesselia.
A' 5 di giugno da Tesselia fecero vela e con prospero corso giunsero a' 23 dell'istesso mese a Kildwin in Moscovia, ma, per esser questa navigazione assai nota, non ne diremo altro.
A' 29 di detto mese, quattro ore dopo mezzogiorno fecero vela da Kildwin, e nel principio si drizzarono verso greco per tredeci o quattordeci miglia, con vento da maestro tramontana e tempo scuro.
Poi voltarono le vele verso greco levante a' 30 di giugno, fin che 'l sole si trovò nella bocca di siroco, per 7 miglia con vento da greco, spiegate le due vele maggiori senza le mezane. Qui, gettato lo scandaglio per cento braccia, non poterono trovar fondo. L'istesso giorno navigarono mezodí per 4° levante greco, per cinque miglia con vento da tramontana, con le due vele maggiori, e gettato lo scandaglio ivi non trovarono fondo per cento braccia. E continuata la navigazione l'istesso giorno da mezodí a vespero per 4° di levante e greco e per levante, fin che 'l sole fu nel punto di maestro, per 13 miglia, gettato lo scandaglio trovarono 120 braccia d'altezza d'acqua e fondo paludoso e fangoso.

Luglio 1594.

Il primo di luglio, fatto viaggio di quattro miglia verso la quarta di levante greco e per levante, gettato lo scandaglio la mattina per tempo, trovarono fondo di sessanta braccia, di sabbia minuta e paludosa. L'ora seguente, gettato lo scandaglio, si trovò fondo di 52 braccia, di sabbia bianca mista poca nera paludosa. Caminati poi per due miglia verso levante, trovarono fondo di 38 braccia, d'arena rossa mista con nera, sendo il sole in 4° levante siroco e spirando greco tramontana.
Poscia volta la navigazione verso quarto di siroco levante e siroco per tre miglia, fino a mezzogiorno, quando il sole era d'altezza di gradi settanta e un sesto, e gettato lo scandaglio, fu trovato il fondo di trentanove braccia, di renelle di color di cenere, distinte di punti neri e di fragmenti di conchiglie. Continuato poi il corso per siroco per due miglia, lo volsero poi verso settentrione, spirando greco levante; e fecero vela da ore 3 dopo mezogiorno fin che 'l sole fu in maestro tramontana verso greco, per sei miglia, spirando siroco, con grandissimo freddo. E gettato lo scandaglio, trovossi il fondo di 60 braccia, di renelle di color di cenere paludose alquanto negreggianti, con gran gusci di conchiglie.
L'istessa sera si navigò ancora fino al primo quarto di greco levante, per cinque miglia, e tenendo l'istesso corso fino alli 2 di luglio la mattina per cinque miglia, fu trovato il fondo intorno 65 braccia, di fango nero paludoso. Fu navigato poi dall'alba fino a mezogiorno, tenendo verso greco levante, per tre o quattro miglia, soffiando un gagliardissimo siroco, sí che si convenne levar via il trinchetto e con una sola vela lasciarsi andar a seconda; con tempo nubiloso fino a vespero per tre o quattro miglia, tenendo il corso verso levante e 4° di greco levante, poi voltando il vento da garbino. Intorno le cinque ore dopo mezogiorno fu gettato lo scandaglio fino a 120 braccia, né si poté trovar fondo.
Presso vespero fece sereno e si navigò con vento prospero da greco levante per quasi tre ore cinque miglia, e di nuovo tornò ad innuvolarsi l'aria, sí che non ebbero ardir di andar piú avanti e, voltatisi al vento, gettato lo scandaglio, fu trovato fondo di 125 braccia, di fango nero: e ciò fu la domenica a' 3 di luglio, essendo il sole in greco. Di là navigarono verso greco levante per otto miglia, fin che 'l sole fu in siroco, e, gettato lo scandaglio per cento e quaranta braccia, si trovò fondo nero fangoso. Allora, presa l'altezza del sole, fu trovata esser gradi settantatre e minuti 6, e subito gettato lo scandaglio per cento e trenta braccia, fu trovato fango nero.
Poi navigando ancora verso greco levante per sei miglia o sette fino che 'l sol fusse in maestro, in giorno di domenica, che fu alli 3 di luglio, sendo un giorno molto sereno e spirando maestro tramontana, Guglielmo di Bernardo trovò il meridiano in questa guisa.

Nota.

Tolse col raggio astronomico l'altezza del sole, essendo in siroco, dove lo trovò alzato gradi 28 e mezo, ed era passato oltre la 4ª di ponente maestro che ancora teneva l'istessa altezza di 28 gradi e mezo sopra l'orizonte, tal che vi era differenza solo di cinque rombi e mezzo, i quali divisi, rimangono ancora due rombi e tre quarti d'un rombo; sí che la bussola da navigare era mutata due rombi con tre quadranti d'un rombo, come si vide manifestamente l'istesso giorno, ritrovandosi il sole nella sua maggior altezza nel mezo tra ostro garbino e 4° ostro garbino, perciochè il sole avanti che tramontasse era giunto alla 4ª d'ostro garbino e aveva trovato l'altezza di gradi 73 e minuti 6.
Di nuovo fu navigato verso la 4ª levante greco per quattro miglia, fino al quarto giorno di luglio di mattina, e allora, gettato lo scandaglio per 125 braccia, fu trovato fondo fangoso. La seguente notte fu nubilosa e nell'aurora tirò vento da levante; dipoi navigarono verso 4° d'ostro siroco fin che 'l sole fusse in oriente, e, gettato lo scandaglio per 108 braccia, trovossi fango nero. Allora voltandosi alla tramontana navigarono verso greco e 4° greco tramontana per sei miglia, fin che 'l sole arrivò a garbino; allora, veduta la Nuova Zembla discosta da loro verso 4° levante siroco sei o sette miglia, fu quivi trovato fondo nero fangoso di 105 braccia.
Dipoi voltato il corso verso ostro, navigarono verso 4° garbin ostro per 6 miglia, fin che 'l sole fu in maestro, ove trovossi fondo di 68 braccia e rena fangosa, come la precedente, e vento da siroco. Poscia volgendo il corso al levante, navigarono per sei miglia verso siroco. Allora Guglielmo di Bernardo misurò col suo raggio astronomico il sole alli 4 di luglio presso al vespero, essendo allora la sua maggior declinazione, cioè tra greco tramontana e quarto levante greco, la cui elevazione sopra l'orizonte era di gradi sei e un quarto, e la sua declinazione era di gradi 22 e minuti 55; dai quali sottratta l'elevazione, rimangono gradi 16 e minuti o scrupuli 35, i quali sottratti da 95, rimangono gradi 73, minuti 25. Ciò fu fatto circa cinque o sei miglia lontano dalla Nuova Zembla.
Di nuovo volto il corso al levante e navigando verso la tramontana d'ostro siroco e siroco levante per cinque miglia, pervennero ad una longa punta, come conio, alla quale diedero nome di Langene; e in quel conio o punta verso levante era un gran seno, nel qual entrati con il copano andarono in terra, ma non vi trovarono vestigio alcuno umano.
Tre miglia o quattro lontano da Langeres verso greco levante era un picciol cantone o conio, e per un miglio lontano da quel cantone verso levante un gran seno, e da levante di quel seno uno scoglio poco sopra acqua eminente; da ponente pur di esso seno un colle acuto per una commoda veduta. Davanti a questo seno era un fondo di venti braccia, e solo di piccioli e neri sassolini di grandezza d'un pisello. Da Langenes fino al promontorio umile, detto capo Basso, verso greco levante sono miglia quattro.
Da capo Basso fino al canton occidentale del seno detto Lombsbay verso 4° greco levante sono cinque miglia, tra' quali sono due grand'archi. Lombsbay è un seno grande dal cui lago occidentale è un nobil porto profondo sei, sette e otto braccia, e sotto arena nera: quivi s'accostarono con la fregata, e vi posero per segno un arbore vecchio che quivi trovarono. Questo seno di Lombsbay cosí chiamarono da una certa sorte di uccelli, chiamati lombs, de' quali quivi trovaro copia grande.


Della navigazione fatta da Kildwin fino all'isola d'Urangia da Guglielmo di Bernardo prima che tornasse dal primo viaggio, nella quale vi è il porto di Lombsbay, cosí detto da certi uccelli quivi in gran copia ritrovati, di corpo grande, ma con picciolissime ale, che a pena si può credere che li sostengano, quali s'annidano in certe rotture di monti per assicurarsi dalle fiere e fanno un solo ovo, né hanno alcun timore d'uomini.
Cap. II.

Il corno orientale del seno Lombsbay è basso e sconosciuto, al quale è vicina una picciola isola distesa in mare; era oltre ciò dalla parte di levante di questo picciol corno un largo e ampio giro. E questo seno di Lombsbay è in altezza di gradi 74 e un quarto.

Da Lombsbay al corno dell'isola alla quale diedero nome d'Admiralità fecero vela verso quarto greco tramontana per sei o sette miglia; ma l'isola dell'Admiralità è dal lato d'oriente brutta ma di lontano piana, e per longo spazio da fuggirsi. Oltre di ciò è molto ineguale, perciochè in un tiro di mano si trovava una profondità di dieci braccia e di là un altro solamente 6 e subito dicono di 10, 11 e 12, e il flusso del mare faceva grandissimo strepito negli scagni.
Dal lato orientale dell'isola della Admiralità al promontorio Nero navigarono verso greco levante intorno cinque o sei miglia. Per un miglio oltre il promontorio Nero era il fondo fangoso come in Panfio, alto 70 braccia; al dirimpeto del promontorio Nero verso levante sono due aguzzi monti in quel seno, facili da conoscere.
A' 6 di luglio, essendo il sole in tramontana, arrivarono al promontorio Nero con tempo chiaro e sereno: è situato questo in gradi 75 d'altezza e 20 minuti. Dal promontorio Nero fino all'isola di Guglielmo navigarono per sette o otto miglia verso greco levante, dove ritrovarono una picciola isola, distanti l'una dall'altra circa mezo miglio.
A' 7 di luglio partirono dall'isola di Guglielmo, e Guglielmo di Bernardo cercò col suo astrolabio grande l'altezza del sole, la qual trovò essere sopra l'orizonte in quarto ostro garbino di gradi 55 e minuti 5, e la sua declinazione di gradi 22 e minuti 49; la qual aggiunta a gradi 55 e minuti 5, fanno in tutto gradi 75, minuti 54. Questa era la vera altezza del polo di quella isola. Nell'istessa isola ritrovarono gran quantità di legni, che andavano a seconda, e molti rosmari, da' marinari chiamati walruschen, animali o mostri marini che hanno grandissimi denti, quali si adoprano in vece d'avorio. Quivi anco è una buona stanza o porto per le navi, di dodeci o tredeci braccia di fondo, guardato da ogni vento, eccetto che da garbino e ponente. Quivi trovarono anco certi fragmenti d'una nave di Russia.
A' 8 di luglio ebbero vento da greco levante e tempo nubiloso.
A' 9 di detto mese navigarono alla Battaglia detta dell'Orso, sotto l'isola di Guglielmo nel porto o stazione delle navi, dove ritrovarono un orso bianco, qual veduto i marinari subito si ritirarono nel suo copano e con uno archibugio lo passarono; nientedimeno l'orso mostrò forze maravigliose, che quasi superano quelle di qualsivoglia animale, e tali che non furono udite giamai né d'un leone né di qualsivoglia altra ferocissima fiera. Perciochè, quantunque fusse passato dallo schioppo, levossi in piedi e smontando nell'acqua si mise a nuotare, e i marinari nel battello vogando lo perseguitarono, e, gettatoli un laccio al collo, tirandolo verso la nave si posero a vogar indietro, perchè, non avendo mai piú veduto un orso simile, si pensavano di poterlo tirar vivo in nave, e quello poi condotto in Ollanda far alle genti per un mostro vedere. Ma quegli in maniera tale esercitò le sue forze, che riputarono sua gran ventura essersi da lui liberati, contentandosi della sua pelle, perciochè mandò fuori tai gridi e fece tanti sforzi che a pena si potrebbero riferire; onde lasciandolo riposar alquanto e allentando la corda con la quale era legato, lo tirarono cosí pian piano per stancarlo, e Guglielmo di Bernardo talora con un bastone lo percoteva, ma l'orso nuotando verso il coppano mise in quello una zampa. Allora disse Guglielmo: "O vuol riposare un poco"; ma altro disegnava l'orso, perciochè con tal impeto si gettò sopra il batello che già era col corpo mezo dentro, onde cosí si sbigottirono che si misero a fuggir verso la prora, e quasi che si gettarono nell'acqua, disperando della loro salute. Ma furono da un maraviglioso caso liberati, imperochè la corda o laccio che gli avevano gettato al collo si intricò nelli gangheri del timone, sí che non poté passar piú avanti e cosí fu ritenuto. Or quello cosí intricato, uno de' marinari, riprendendo animo e ritornando dalla prora verso lui, con una mezza asta gli diede una spinta e fecelo ricadere nell'acqua, e cosí vogando verso la nave se lo rimurchiavano o strascinavano dietro, fin che a fatto perdette le forze: allora poi ammazzandolo lo scorticarono, e ne portarono la pelle in Amsterdam.


Dichiarazione dell'isola di Guglielmo, dell'isola della Croce, della rocca dell'Orso, ove un orso bianco mostrò maravigliose forze e ardire, poi che, quantunque passato da banda a banda con l'arcobugio, mandò quasi in ruina il copano della nave, insieme con li marinari, se da un maraviglioso accidente non fusse stato ritenuto ed essi liberati, i quali poi lo uccisero e gli cavarono la pelle.
Cap. III.

A' 10 di luglio dalla Battaglia dell'Orso, isola di Guglielmo, fecero vela e l'istesso giorno di mattina arrivarono all'isola della Croce, alla quale con la fregata s'accostarono, ma trovarono quella molto sterile e sassosa. Quivi trovato un picciolo porto, con essa fregata vi entrarono. È quest'isola longa circa un miglio, da levante a ponente distesa, e ha dalla parte dell'occidente una certa linguella di sasso lunga quasi la terza parte d'un miglio, e cosí dal levante ancora un'altra linguella di sasso similmente. Nella medesima isola vi sono due gran croci, ed è distante da terra quasi due gran miglia; e sotto il cantone orientale vi è un commodo porto per le navi di 26 braccia di fondo fermo, e piú vicino al lito di 9 di fondo sabbioniccio.
Dall'isola della Croce fino alla punta di Nassovia navigarono verso levante e 4° levante greco per 8 miglia in circa. È questa punta bassa e piana, qual si deve schifare, però che quivi sono delle secche per 7 braccia lontano dal continente, ed è situata sotto a 76 gradi e mezo in circa.
Dal confin occidental dell'isola di Guglielmo fino all'isola della Croce vi sono tre miglia, e bisogna drizzar il corso verso greco.
Dalla punta di Nassovia fecero vela verso quarto siroco levante e siroco levante per cinque miglia, e allora parendo loro di vedere terra verso 4° greco levante, navigarono verso là per cinque miglia, drizzando il corso verso greco, per iscoprirla, perciochè pensavano che fusse altra terra dalla parte settentrionale della Nuova Zembla situata. Ma, levatosi un vento cosí terribile da ponente che era loro necessario calare il trinchetto, e rinforzando sempre maggiore, bisognò subito serrar tutte le tele, e talmente era il mar conturbato che, per lo spazio di sedeci ore continue, furono sforzati lasciarsi portare per nove o dieci miglia verso greco levante.
Alli 11 di luglio la loro nave da carico dalla gran fortuna del mare fu separata e perduta, ed e' portati senza vele drizzando il corso verso 4° siroco levante per cinque miglia, essendo a pena il sole in siroco si voltò il vento da maestro e cominciò la fortuna alquanto a cessare, ma però era l'aere molto oscuro. Allor di nuovo inalzate le vele tornarono a navigare, sin che 'l sole presso notte entrò in 4° tramontana greco, per quattro miglia, dove era fondo di 60 braccia fangoso, e cominciarono a scoprire pezzi di ghiaccio.
A' 12 di luglio si voltarono verso ponente, drizzato il camino verso maestro, e navigarono per un miglio, spirando maestro; dipoi navigarono verso garbino per gir a ricercar la nave da carico, per tre o quattro miglia, spesso rivolgendo il corso. Poi si voltarono di nuovo alla via del vento e navigarono per quattro miglia verso siroco, fin che 'l sole si trovò in garbino: allora giunsero appresso al continente della Nuova Zembla, la qual si estende da 4° levante greco in garbino ponente; indi di nuovo si voltarono fino alla terza ora dopo mezogiorno, per tre miglia, verso 4° tramontana maestro. Navigarono poi dalla detta ora terza dopo mezogiorno fin che 'l sole fu in maestro, per tre miglia, tenendo dritto verso 4° maestro tramontana; poi voltaronsi verso levante e veleggiarono per quattro o cinque miglia verso 4° greco levante.
13 luglio di notte diedero in una gran quantità di ghiaccio, la qual poterono veder dalla gabbia di lontano, che pareva che tutto il mare fusse di ghiaccio coperto. Onde, voltandosi dal ghiaccio all'occidente, caminarono circa quattro miglia tenendo il camino verso garbino, fin che 'l sole pervenne in 4° levante greco, e si videro il continente della Nuova Zembla allo incontro verso ostro siroco; dipoi, voltandosi di nuovo verso tramontana, navigarono fino che 'l sol arrivò a siroco levante per due miglia, e di nuovo diedero in molti ghiacci; poi veleggiando tennero il corso verso 4° garbino ponente per tre miglia.
14 di luglio di nuovo si volsero a tramontana, e, veleggiando con due vele sole verso 4° tramontana greco e greco tramontana per cinque o sei miglia, fino all'altezza e gradi 77 e un terzo, di nuovo diedero nel ghiaccio, il qual occupava cosí largo spazio quanto con l'occhio si poteva mirare. Gettato lo scandaglio per 100 braccia, non si trovò fondo alcuno, e spirava un maestro gagliardo. Indi voltandosi verso ostro, fecero vela verso ostro garbino per 7 o 8 miglia, e di nuovo ritornarono presso il continente, il quale si poté conoscere da 4 o 5 molto alti monti; allora, voltandosi di nuovo al settentrione, fecero vela fino al vespro verso tramontana per sei miglia, ove tornarono un'altra volta a dar nel ghiaccio. Indi tornando a voltarsi all'ostro fecero vela verso 4° garbin ostro, tenendo il corso per sei miglia, e ancora diedero nel ghiaccio.
15 luglio, voltatisi ancora verso ostro e tenendo l'istesso corso di prima per sei miglia ancora, tornarono al continente della Nuova Zembla, essendo la mattina il sole in greco. Poi tornando a voltarsi a tramontana, veleggiarono verso 4° tramontana greco, drizzando il corso per sette miglia, e pur diedero nel ghiaccio.
Poi alli 16 del detto tornando verso ostro, sendo il sole presso ponente, drizzando il corso verso garbino e ostro garbino, caminarono per otto o nove miglia.
17 detto, volti a tramontana, fecero vela verso 4° tramontana greco per miglia 4, dipoi tenendo il viaggio al ponente verso 4° garbino ponente per miglia 4 e verso maestro tramontana. Di nuovo poi voltossi il vento in tramontana, portando un grandissimo freddo; allora, voltisi al levante, fecero vela fino a mezodí verso levante per tre miglia, e poi verso 4° siroco levante altri tre miglia.
Indi voltandosi di nuovo a greco tramontana, presso la notte feron vela verso 4° greco tramontana per miglia 5, sino a' 18 di luglio la mattina, e navigando verso 4° tramontana maestro per 4 miglia diedero in grandissima quantità di pezzi di ghiaccio, che ci fu bisogno voltarsi all'ostro. E gettato lo scandaglio, sendo vicini al ghiaccio, per 150 braccia, non si trovò fondo. Navigando poi circa due ore verso siroco e siroco levante con tempo nubiloso, pervennero ad un mar di ghiaccio, che con la vista degli occhi non si poté oltrepassare, non spirando vento alcuno, ma stringendoli il freddo; e navigando poi lungo il ghiaccio quasi per due ore, gli coperse una cosí folta nebbia che non poteano vedere ciò che avevano d'intorno, e furon portati per due miglia verso garbino. Il giorno medesimo Guglielmo di Bernardo tolse l'altezza del sole col suo astrolabio, e trovò esser il polo elevato 77 gradi e un quarto; e navigando verso ostro per sei miglia, si videro all'incontro il continente verso ostro.
Poi fecero vela fino alli 19 di mattina verso garbino per sei o sette miglia, spirando maestro, con tempo nubiloso. Indi tirando il camino verso garbino e 4° ponente garbino per sette miglia, sendo l'altezza del sole gradi 77 meno 5 scrupuli, dipoi navigando ancora per due miglia verso garbino, giunsero per mezzo il continente della Nuova Zembla, intorno al promontorio di Nassovia.
Indi volgendosi di nuovo a tramontana e verso là il corso tenendo per otto miglia, spirando vento da maestro e con aere nubiloso, e alli 20 ancora di luglio di mattina tenendo il viaggio verso greco tramontana, per tre o quattro miglia, e ritrovandosi il sole circa l'oriente, di nuovo volgendosi al ponente, fecero vela fino a notte, tenendo il viaggio verso garbino per 5 o 6 miglia con tempo nubiloso, e dipoi verso 4° ostro garbino per sette miglia, fino alli 21 di mattina.
Dipoi volto il corso di nuovo a tramontana, fecero vela dalla mattina fino a sera verso maestro ponente per nove miglia, con tempo nubiloso, e verso 4° maestro tramontana per tre miglia; e tornato ancora il corso all'ostro, fecero vela fino alli 22 di luglio di mattina verso ostro garbino per tre miglia a cielo nubiloso, e dipoi fino a notte verso 4° garbin ostro per 9 miglia sempre con aere nubiloso.
Allora voltato ancora il corso a tramontana, navigarono verso 4° maestro tramontana per tre miglia, e per due verso 4° tramontana maestro. Allora voltossi il vento da maestro, la mattina 23 di luglio, e calarono lo scandaglio per 48 braccia, e trovarono fondo fangoso. Poi fecero vela per due miglia verso tramontana e 4° tramontana greco, e altri due miglia verso greco, avendo fondo di 46 braccia; e voltandosi a ponente fecero vela verso 4° ponente maestro, per sei miglia, con fondo fangoso di 46 braccia.
Dipoi voltato il corso a levante, fu fatto vela verso 4° levante greco per tre miglia, e 9 o 10 verso levante e 4° sciroco levante, e di nuovo 5 o 6 miglia verso l'istesse parti del cielo, e 5 o 6 verso 4° siroco levante, fino a notte, 24 luglio; dipoi per quattro miglia verso 4° levante siroco, spirando greco levante.
Poi volto di nuovo il corso verso tramontana, facendo vela fino alla mattina 25 di luglio verso tramontana e 4° tramontana maestro, per quattro miglia, trovarono 130 braccia di fondo fangoso; e piú oltre andando verso tramontana trovarono fondo di 100 braccia, e videro il ghiaccio verso greco. E passati ancora per due miglia verso 4° tramontana maestro, si volsero di nuovo verso ostro e verso il ghiaccio, e facendo vela per un miglio verso siroco e poi al settentrione verso tramontana per sei miglia, diedero in pezzi di ghiaccio tanto spessi che rimanevano da quelli circondati, né dalla gabbia potevano veder il fine d'esso ghiaccio, e, facendo pur sforzo contra quello, non lo poterono mai superare. Perciò verso la sera rivolsero di nuovo il corso verso ostro, e dietro il ghiaccio fecero vela verso 4° garbin ostro per cinque miglia, e altri tre verso d'ostro siroco.

25 di luglio verso la notte, sendo il sole vicino all'occaso tra greco tramontana e 4° greco tramontana, fu tolta la sua altezza sopra l'orizonte e fu di sei gradi e un sesto. La sua declinazione era di gradi 19 e minuti 50, da' quali sottratti sei e un sesto, rimangono gradi 12 e minuti 5, li quali detratti di 90, restano 77 meno 5 minuti.
26 detto fecero vela la mattina, fin che 'l sole fu in garbino, per sei miglia verso siroco, e per altri sei miglia tenendosi verso ponente garbino, arrivarono presso la Nuova Zembla intorno un miglio; e poi, volto il corso dal continente, fecer vela per cinque miglia verso 4° tramontana maestro con vento da levante. Ma presso la notte voltato di nuovo il camino all'ostro, navigando verso 4° di ostro siroco per sette miglia, furon condotti presso al continente; allora voltandosi a tramontana veleggiarono per due o tre miglia verso greco, e indi all'ostro volgendosi verso ostro siroco per due o tre miglia, ritornarono al continente presso il promontorio di Consolazione. Allora voltandosi dal continente verso greco circa un miglio, furono portati nelli scagni in fondo di quattro braccia tra gli scogli e 'l continente, dove è altezza di 10 braccia, il fondo è di sassolini neri; e facendo vela per un pezzo verso maestro, trovarono di nuovo fondo di quarantatre braccia fermo e saldo.
27 detto facendo vela di là verso greco, spirando siroco, per quattro miglia si voltarono all'ostro, dove trovarono fondo di 70 braccia cretoso, e navigando per quattro levante siroco per quattro miglia, pervennero ad un grand'arco. Un miglio e mezzo di là, era uno scanno di 18 braccia, con fondo cretoso e sabbioniccio. Tra lo scanno e 'l continente era fondo di 50 e 60 braccia, e la riviera si estendeva da oriente ad occidente secondo la bussola.
Verso notte voltandosi alla tramontana, fecero vela verso greco per tre miglia, con cielo or chiaro or nuvoloso, intorno alla notte sereno. Di modo che Guglielmo di Bernardo misurando l'altezza del sole col suo astrolabio lo ritrovò alto sopra l'orizonte gradi 5 e minuti 40, e la sua declinazione era gradi 19, minuti 25, da' quali sottrato la elevazione di gradi 5, minuti 40, restavano gradi 13, minuti 25; qual numero detratto da 90, fu trovata l'altezza del polo gradi 76, minuti 31. E caminando verso greco tramontana per tre miglia, fino a' 28 di luglio, e voltando verso ostro per sei miglia verso ostro siroco, si trovarono ancora esser lontani dal continente tre o quattro miglia.
28 luglio, ricercata l'altezza del sole con l'astrolabio, fu trovata di gradi 57, minuti 6 sopra l'orizonte, la sua declinazione gradi 19, minuti 18, quali sumando fanno gradi 76, minuti 24. Ciò occorse intorno 4 miglia lontano dalla Nuova Zembla, la qual si vedeva tutta coperta di neve, al cielo sereno e soffiando levante. Poi, quando il sole era in garbino, voltandosi a tramontana e verso greco, veleggiando circa un miglio, e voltatisi per un altro miglio verso siroco, ritornarono verso tramontana per quattro miglia, caminando verso greco e 4° greco levante. Presso vespero, l'istesso giorno fu trovata l'altezza del sole gradi 76, minuti 24. E caminati ancora per tre miglia verso greco, e poi verso quarto greco levante per quattro miglia, di nuovo urtarono nel ghiaccio a' 29 di luglio
Nel qual giorno di 29 luglio, ricercata l'altezza del sole con l'astrolabio e quadrante, fu trovata esser sopra l'oriente gradi 32, la sua declinazione di gradi 19, li quali sottratti dall'altezza, rimangono gradi tredici dall'equatore; sottratti quei 13 da 90, restano 77. Allora era loro dirimpetto verso oriente l'estrema punta settentrional della Nuova Zembla, chiamata punta o capo del Ghiaccio. Quivi trovarono certi sassolini lucidi come l'oro, che per ciò li nominarono d'oro; quivi anco è un bel seno con fondo arenoso.
L'istesso giorno voltandosi all'ostro e caminando per due miglia verso 4° siroco ostro fra il continente e il ghiaccio, dipoi della parte di levante della punta del Ghiaccio fatto camino per sei miglia fino all'isole d'Orangia, torcendo il corso tra 'l continente e il ghiaccio, sendo l'aere tranquillo e piacevole, vi arrivarono alli 31 del detto. Ad una delle quali accostati, trovarono circa dugento mostri marini, ch'essi chiamano walruschen e Olao Magno rosmari, che si volteggiavano al sole per l'arena. Sono questi mostri o belve marine assai maggiori de' buoi, le quali vivono anco in mare, e armate d'un cuoio, come le foche o balene, o con corto pelo, con faccia leonina: per il piú abitano sopra il ghiaccio. Hanno quattro piedi, ma non hanno orecchi, e con difficultà si ammazzano, se non si pestano e frangono loro le tempie. Partoriscono uno o due figliuoli alla volta. Se per caso sono scoperte da pescatori sopra il ghiaccio con li suoi figliuoli, gettano prima quelli nell'acqua e poi, saltandovi anch'esse dentro, gli ripigliano in braccio, e cosí, or attuffandosi, or fuori dell'acqua ergendosi, se ne fuggono. Che se vogliono far resistenza, deposti giú i figliuoli, con grand'impeto e forza nuotano e assaltano le barche, come una volta, con non picciolo pericolo e spavento, provarono i nostri.


De' rosmari, mostri marini molto gagliardi efieri, che voltano talora sossopra le barche de' pescatori, e d'un combattimento fatto da' marinari con forse dugento di cotale bestie ridotte sopra l'arena al sole; intorno alle quali guastarono e spezzarono tutte l'armi, né ve ne poterono uccidere pur una, onde risolvendosi di gir a prender l'arteglieria per conquistarle, fu loro dalla fortuna di mare vietato.
Cap. IIII.

Perciochè uno di questi rosmari aveva quasi posti i denti nella puppa della barca per tirarla a sé, ma, inalzato da' nostri un grido, si partí impaurito, tornando a pigliar in braccio i suoi figliuoli. Hanno due denti che gli avanzano dall'uno e l'altra parte della bocca, longhi circa un braccio, apprezzati non meno dell'avorio, spezialmente in Moscovia e Tartaria e in quei luoghi circonvicini dove sono conosciutti: e sono né piú né meno bianchi, duri e lisci come l'avorio. Or giudicando i marinari che questo branco di bestie cosí volteggiantisi per l'arena non potessero cosí bene in terra diffendersi, gli assaltarono per far acquisto de' lor denti; ma cominciando a ferirli ruppero tutte le spade, lance e accette o menare e ogni sorte di arme, né pur uno ne poterono uccidere: ad uno solo gli gettarono un dente di bocca, qual si portarono via. Non avendo adunque da questo combattimento potuto conseguir cosa alcuna, si deliberarono di tornar in nave per tor fuori gli archibugi e artiglieria e con quella combatter questi animali, ma levossi un vento cosí grande che cominciò a rompere il ghiaccio in pezzi grandissimi, sí che furono sforzati abbandonar quella impresa.
Quel giorno istesso trovorono un grand'orso bianco che dormiva, il quale con un arcobugio passarono da un canto all'altro; nientedimeno fuggendo si gettò nell'acqua, ma i marinari perseguitandolo con la barca lo ammazzarono, e tiratolo sopra il ghiaccio, ficcata in esso ghiaccio forte una mezz'asta, a quella saldo l'alligarono, con intenzione di portarlo via di là quando fussero tornati con l'artiglieria ad espugnar i rosmari. Ma rinforzando sempre maggiore il vento, e cominciandosi a spezzar il ghiaccio, non fu fatto altro.
Ma alla fine essendo Guglielmo di Bernardo (il quale, come s'è detto, a' 5 di giugno 1594 aveva fatto vela da Tessella e a' 23 del medesimo mese era giunto a Kildwin in Moscovia, e indi drizzando il camino alla parte settentrionale della Nuova Zembla col successo che abbiamo raccontato) arrivato il primo d'agosto all'isola di Orangia; nientedimeno vedendo che con le fatiche prese difficilmente poteva condur a fine la incominciata navigazione, tanto piú che ai marinari cominciava ad increscere la lunghezza del tempo, né desideravano andar piú oltre, parvegli ispediente di tornar adietro e tornar alle altre navi, che avevano dirizzato il camino verso Weygats, overo golfo di Nassovia, per intender che sorte di passaggio avessero per di là ritrovato.

Augustus 1594.

E perciò il primo d'agosto, partendosi dall'isola d'Orangia, voltarono il corso e navigarono per sei miglia verso ponente e 4° garbin ponente fino alla punta o canton del Ghiaccio; dalla detta punta al promontorio di Consolazione, verso ponente e alquanto di ostro, per 30 miglia. Tra questi luoghi è molto alta la terra, ma il promontorio di Consolazione è basso, e nel suo fianco occidentale sono quattro o cinque neri colli a guisa di tugurii da villani.
Il 3 d'agosto, volti dal promontorio detto a tramontana, navigarono per 8 miglia verso maestro tramontana; sul mezzogiorno poi voltandosi all'ostro, veleggiarono fino a notte verso 4° garbin ostro e ostro garbin, e giunsero all'umil angolo del promontorio di Nassovia. Verso notte di nuovo volti al settentrione, fecero vela verso 4° tramontana greco per due miglia, e voltandosi il vento da tramontana, perciò voltati verso ponente caminarono verso maestro tramontana per un miglio.
Ma cambiato il vento in levante, fecero vela il 4 d'agosto da mattina fino a mezogiorno verso 4° ponente maestro per cinque o sei miglia, e per cinque miglia ancora fino a notte verso garbino; poi di nuovo due miglia verso l'istesso garbino, e giunsero ad un luogo basso, nel cui lago orientale v'era un segno bianco.
5 del detto si fe' vela verso ponente garbino per 12 miglia, e verso garbino per 14, e altri tre ancora verso ponente, fino al 6 d'agosto.
6 d'agosto si volse verso ponente garbino per due o tre miglia, e verso garbino e 4° ostro garbino per 4 o cinque miglia, e verso il medesimo per tre miglia e ancora tre altri verso l'istesso, e di nuovo verso ponente garbino e 4° ostro garbino per tre miglia, fino al settimo del detto.
7 detto fin mezzodí si navigò verso ponente garbino per tre miglia e tre verso ponente; dipoi voltati verso ostro, fino a notte, verso siroco e 4° levante siroco per tre miglia, e verso garbin per due, e tre miglia ancora verso ostro, sino a otto del detto di mattina, con vento da ostro garbino.
8 detto fecero vela verso 4° ostro siroco per dieci miglia; il qual corso seguendo, fino a sera, per cinque miglia, giunsero ad una terra bassa distesa verso ostro garbino e 4° greco tramontana. Il qual corso seguirono ancora per cinque miglia, e per due miglia sopra quel continente era fondo di 30 braccia e d'arena nera; e caminando verso il continente, con fondo di 12 braccia, mezo miglio discosto dal continente era il fondo sassoso. Di là verso ostro per tre miglia si estende il continente, fino ad un altro basso cantone od angolo, presso al quale era un scoglio nero; e di là ancora si stende verso ostro siroco, per altri tre miglia, fino ad un altro angolo, presso al quale era una picciola isola, e circa mezzo miglio lungi dal continente era piana e il fondo 8, 9 e 10 braccia: alla qual isola demmo il nome di Nero, perchè tale era la superficie della terra. Allora levossi una molto folta nuvola, onde seguitando il vento navigarono per tre miglia verso ponente maestro, ma fatto sereno voltaronsi di nuovo verso il continente: essendo il sole in ostro, ritornarono presso alla istessa isola Nera, veleggiando per siroco. Quivi misurò Guglielmo l'altezza del sole e la trovò 71 grado e un terzo. Ove trovarono uno grand'arco, il qual Guglielmo giudicò che fusse quello dove prima fu Olivier Brunello, chiamato Constinsarch.
9 d'agosto caminarono dalla isola Nera per tre miglia verso ostro e 4° siroco ostro, fino ad un altro arco, al quale per una croce in lui trovata diedero nome di punta o canton della Croce. Qui ancora trovarono un seno molto piano, il cui guado era di 5, 6, 7 braccia, il fondo di rena soda e ferma. Dalla punta della Croce, caminando lungo il lito verso ostro siroco per miglia 4, pervennero ad un altro angolo ignobile, dietro del quale verso levante steso era un largo giro: a questo diedero nome del Quinto promontorio, overo di San Lorenzo. Dal Quinto angolo veleggiando alla punta del Propugnacolo, verso ostro siroco per tre miglia, trovarono un lungo scoglio nero vicino al continente, sopra il quale era posta una croce, e di nuovo diedero nel ghiaccio, per il qual schivare si allargarono in mare.
Avevano disegnato di veleggiare lungo il lito della Nuova Zembla verso Weygats, ma, avendo dato nel ghiaccio, voltandosi all'ostro a' 9 d'agosto verso sera fecero vela, fino alli 10 di mattina, verso 4° ponente maestro per undeci miglia, e altri quattro ancora verso ponente maestro e verso 4° maestro ponente, con vento da tramontana. A mezzogiorno di nuovo volti a levante, fecero vela verso levante e 4° siroco levante fino a notte per dieci miglia, e altri quattro pur per l'istesso vento; ove viddero il continente, ed entrando nel seno col battello s'accostarono al continente, e trovarono un bel porto di 5 braccia di fondo arenoso. Questo seno ha nel lato settentrionale tre angoli neri; nel terzo è un ricetto di navi, il qual però si deve fuggire per esser pieno di scogli, e tra il secondo e terzo angolo v'è un altro bel seno, difeso da' venti di maestro, di tramontana e di greco; il suo fondo è nero e arenoso. A questo seno diedero nome di San Lorenzo, dove fu trovata l'altezza del sole 70 gradi e un sesto.
Dal seno di San Lorenzo alla punta del Propugnacolo fatto vela verso siroco per due miglia, fu trovato un picciolo basso e nero scoglio vicino al continente, nel quale era piantata una croce, e condotti col copano al continente, vi trovarono piú indizii d'uomini, li quali vedutili si erano fuggiti; perciochè qui trovarono sei sacchi pieni di farina in terra ascosi e un grumo di pietre presso la croce, e di là ad un tiro d'arcobugio un'altra croce, con tre case di legno fatte all'uso de' Settentrionali, nelle quali case anco trovarono molte doghe di barili, onde fecero congiettura che qui si facesse la pescagione de' pesci salmoni. Quivi anco furono trovate cinque casse o sepolture piene d'ossa di morti, che erano distese là sopra terra coperte di sassi; quivi anco trovossi rotta una nave di Russia, la sentina della quale era longa piedi 44, ma non poterono veder uomo alcuno. A questo bel porto, difeso da ogni vento, diedero nome di porto della Farina, per la farina quivi ritrovata.
Dallo scoglio nero, nel quale era la croce, lontana due miglia verso ostro siroco era una picciola isola distesa alquanto in mare, dalla qual fecero vela verso ostro siroco per nove o dieci miglia, essendo il sole in ostro garbino, la cui altezza a' 12 d'agosto fu trovata di gradi 70, minuti 50. Da quest'isola, radendo il suo lido, navigarono per 4 miglia verso 4° levante siroco e giunsero a due altre picciole isole, delle quali la piú in fuori era lontana dal continente un miglio: questa chiamarono l'isola di Santa Chiara.
Poi di nuovo ancora dando nel ghiaccio ritornarono in mare, accommodandosi al vento; e facendo vela fino a notte, drizzando il camino verso garbino per quattro miglia, facendo vento da maestro, verso la notte il cielo s'annubilò del tutto, e trovarono fondo per ottanta braccia. E tornando a far vela verso 4° ponente garbino e garbino per tre miglia, trovarono fondo di 70 braccia, e continuarono il corso fino alla mattina 13 d'agosto verso 4° ponente garbino per 4 miglia, avendo trovato due ore avanti fondo di 56 braccia, e la mattina 45 e fondo fangoso.
Dipoi pigliando il corso fino a mezzogiorno verso garbino per sei miglia, trovarono fondo nero arenoso di 24 braccia, e un'ora dopo d'arena nera, braccia per 22; e passati ancora sei miglia verso l'istesso vento, d'arena rossa per 15, e per altri due miglia di 15 ancora e d'arena rossa. Allora si vide il continente, e servando l'istesso corso fino a notte, quando furono un miglio discosti da terra, fu trovato il fondo arenoso di 7. Era quel continente ignobile, e avea un argine basso tirato da oriente ad occidente. Poi, volto il corso da terra, fecero vela per quattro miglia verso tramontana e 4° tramontana greco, indi volto il corso verso il continente e caminando fino a' 14 d'agosto per 5 o 6 miglia verso garbin presso il continente, qual conobero esser l'isola Colgoien; indi fecero vela lungo la terra verso il levante per 4 miglia, dipoi verso levante e 4° siroco levante per 3 miglia. Levossi una nebbia cosí folta che gli tolse la vista di terra, e l'acqua era di altezza solo 7 e 8 braccia, onde, serrata la vela della gabbia, si lasciarono a discrezion del vento, fino che la nebbia si dissolvesse; né sendo ancora il sole in ostro garbino, volendo vedere il continente, trovarono l'altezza dell'acqua 100 braccia e fondo arenoso.
Indi fatta vela verso levante per sette miglia, poi verso siroco e 4° levante siroco per due miglia, e fino a' 15 d'agosto di mattina per 9 miglia verso siroco, e tenendo l'istesso corso dall'aurora fino a mezzogiorno per 4 miglia, vennero sopra un scanno 9 o 10 braccia alto di fondo arenoso, né poteron vedere il continente. Intorno la 2a ora avanti il mezzogiorno, cominciarono ad aver maggior fondo, cioè di 12 o 13 braccia, e fu fatto vela verso siroco per tre miglia fino che il sole fu visto in garbino. Sendo adunque il sole in garbino, l'istesso giorno misurò Guglielmo di Bernardo la sua altezza e trovollo elevato sopra l'orizonte 35 gradi; la sua declinazione era 14 gradi e un quarto; vi mancavano 55 gradi a fornir li 90, i quali uniti fanno gradi 69, minuti 15. Questa fu l'altezza del polo, e il vento era da maestro, col quale caminati altri due miglia verso levante, vennero all'isola Matfle e Delgoy. Poi la mattina diedero nelle altre navi compagne, cioè la zelandica e l'enchusana, le quali l'istesso giorno erano venute d'Weygats, e narrarono ognuno fin dove erano arrivati.
Gli Enchusani avevano passato Weygats e dicevano aver trovato, oltre lo stretto d'Weygats, uno spazioso mare e aver in quello navigato verso levante 50 overo 60 miglia, talchè giudicavano esser arrivati fino intorno alla lunghezza del fiume Obi, che esce di Tartaria, e che 'l continente della Tartaria di nuovo si stendeva verso greco; onde facevano congiettura d'essere stati poco lontani dal promontorio Tabin, il quale è l'estremo della Tartaria, voltandosi indi verso il regno del Cataio verso siroco e poi all'ostro. E parendo loro d'aver scoperto assai ed esser tempo omai di ritornare, sendo stato dato loro commissione solamente di cercar commodità di passare e che tornassero a casa avanti il verno, perciò erano tornati verso lo stretto di Weygats, ed esser capitati in una isola larga intorno cinque miglia verso siroco d'Weygats e al lato di Tartaria, a cui diedero nome isola degli Ordini, nella quale avevano ritrovato molte pietre di cristallo nativo, che somigliavano una spezie di diamanti.
Essendosi adunque ritrovati insieme, come s'è detto, per segno d'allegrezza scaricarono l'arteglieria; ma giudicavano che Guglielmo di Bernardo, avendo circondata la Nuova Zembla, fusse per lo stretto d'Weygats ritornato. Communicato adunque fra di loro ciò che avessero osservato, e dati segni della commune allegrezza, si accordarono e s'apparecchiarono al ritorno.


Della riunione delle navi presso Weygats, cioè di quella di Guglielmo di Bernardo con la sua fregata, che veniva da tramontana dalla Nuova Zembla, con la zelandica ed enchusana da Weygats; e come rivolgono il corso verso casa, non essendo stato per altro ispedite che per scoprire il sito, la lunghezza e lidi del mare di Tartaria.
Cap. V.

Alli 16 d'agosto giunsero alla stazione delle navi sotto l'isole Matfle e Delgoy, perchè spirava vento da maestro, e qui si fermarono fino alli 18.
Alli 18 fecero vela verso maestro, drizzando però il corso verso 4° ponente maestro per 12 miglia, poi verso 4° garbin ponente per sei miglia, e da maestro furono spinti in uno scanno a pena d'altezza di cinque braccia; poi verso la notte voltandosi verso tramontana, fecero vela verso greco levante per sette od otto miglia. Ma tirando vento da tramontana, volgendosi di nuovo a ponente, fecero vela fino a' 19 del detto di mattina verso ponente per due miglia, e ancora per due miglia verso garbino, e un'altra volta ancora per due miglia verso siroco.
Indi di nuovo volti a ponente navigarono fino a notte con bonaccia, ma, levatosi un vento da levante, drizzarono al principio il corso verso maestro e 4° maestro ponente per sei o sette miglia, avendo altezza d'acqua per braccia 12, e poi fino a' 20 d'agosto di mattina seguendo l'istesso corso per 7 miglia, spirando levante, e altri sette ancora, e verso maestro per 4 miglia, e dipoi con bonaccia condotti fino a notte. E dipoi fatta vela verso maestro e 4° maestro ponente per sette miglia, urtarono la notte in secche di 3 braccia di fondo presso il continente, e costeggiando il lito per un miglio, nel principio verso tramontana, poi per tre miglia verso maestro, s'inalzava il continente in monti arenosi e in scoscese punte.
Nientedimeno seguitarono il loro corso lungo il lito, con fondo di 9 o 10 braccia, fino a mezogiorno 21 agosto, verso maestro per cinque miglia: allora la punta occidentale del continente, detta Candinaes, era loro in faccia verso maestro, per distanzia di 4 miglia. Indi fecero vela per 4 miglia verso maestro e per altri 4 verso 4° tramontana maestro, e poi per tre altri miglia verso maestro e quarto tramontana maestro, e ancora per quattro miglia verso maestro, fino a' 22 d'agosto.
22 d'agosto di mattina fu fatto vela verso maestro per sette miglia, e continuato il corso verso maestro e 4° maestro ponente fino a notte per 15 miglia, spirando tramontana; dipoi per altri 8 miglia verso maestro, e poi, servato il medesimo corso, fino alli 23 d'agosto per undeci miglia.
L'istesso giorno a mezzodí era l'elevazion del sole sopra l'orizonte gradi 31 e un terzo, mancavano 58 gradi con due terzi di 90; aggiungendo adunque la declinazion di 11 gradi e due terzi a 58 gradi e due terzi, fu l'elevazion del polo a punto gradi 70 e un terzo.
Dipoi fatto vela verso maestro e 4° maestro ponente fino a notte per otto miglia, e verso quarto maestro ponente e maestro per cinque miglia, e ancora fino alli 24 d'agosto di mattina verso quarto maestro tramontana per sei miglia, e dipoi verso ponente e garbino per tre miglia, giunsero presso l'isola chiamata Wachruysen alla stazione delle navi.
La navigazione fatta da Wachruysen verso qua, sendo assai nota, non abbiamo giudicata necessaria da scrivere, se non che partirono di là insieme per tornar a casa; per tanto navigarono in conserva fino a Tessela, di donde la nave ollandica passò piú oltre, ma Guglielmo di Bernardo con una fregata ai 6 di settembre, l'istesso giorno delle feste, arrivò inanzi ad Amsterdam, e l'enchusana ad Enchusa, di donde erano state ispedite. I marinari di Guglielmo di Bernardo portarono fino nella città di Amsterdam lo rosmaro, mostro marino di maravigliosa forma, il quale sopra un pezzo di ghiaccio avevano preso e ucciso.

Il fine della prima navigazione.



Brevissima narrazione della seconda navigazione, che fu fatta l'anno 1595.



Oltra la Norvegia, Moscovia e Tartaria, verso i regni del Cataio e della China.
Cap. I.

Dopo che furono ritornate le preddette quattro navi l'anno 1594 nel mese di settembre, si prese grandissima speranza di poter condur a fine la cominciata navigazione per lo stretto d'Weygats, spezialmente per la relazione di quelli che andarono sopra la nave zelandica ed enchusana, della quale era capitano Giovanni Hugone di Linsohoten, il quale narrava tutto il successo piú diffusamente; di modo che i potenti ordini delle provincie confederate, insieme con l'illustrissimo prencipe d'Orangia, deliberarono al far della primavera di mettere all'ordine alquante navi, non solamente come nella prima navigazione per investigare e aprire la strada al levante, ma per condurvi anco delle mercanzie che i mercanti, secondo che loro fusse paruto commodo, avessero sopra quelle caricate, aggiungendoli soprastanti che avessero a distribuire in quei luoghi dove arrivassero quelle merci libere ed esenti da nolo e ogni sorte di gabella. Pietro Planco, cosmografo famoso, fu uno de' principali che promosse questa navigazione, e che diede loro in scritto e limitò l'ordine preciso del camino che aveano a tenere, insieme col disegno delle riviere, delle regioni di Tartaria, del Cataio e della China; ma quel che si debba intorno a ciò giudicare ancora non si può bene sapere, perchè le tre navigazioni già fatte non sono state condotte a quel fine che si desiderava, perciochè le strade da lui designate non si poterono del tutto osservare, per certi impedimenti che per la scarsezza del tempo non si poterono levare. Che mo' certi vogliano inferire che la impresa sia difficile, anzi impossibile, allegando con autorità di certi autori antiqui che dall'una parte e dall'altra del polo per piú di 305 miglia, il mare non sia navigabile, ciò si dimostra chiaramente esser falso, perciochè il mar Bianco e anco piú appresso il polo si naviga e vi si esercita la pescagione contra l'opinione di tutti gli antichi scrittori: anzi, dove non si naviga ora che a quelli non fusse incognito? Cosí ancora non sarebbe maraviglia, sí come anco nel principio della prima navigazione abbiamo detto, se dall'una e l'altra parte del polo artico per 23 gradi fusse l'istesso freddo che è sotto il polo stesso, benchè ancora non sia stato ben conosciuto. Chi crederebbe che ne' monti Pirenei e nelle Alpi, che si stendono per la Spagna, per la Francia, per l'Italia e per la Magna, fosse cosí eccessivo freddo che quivi la neve mai si disfacesse, essendo molto piú vicine al sole che queste provincie belgiche, situate presso il mare Artico? Onde nasce quel rigor cosí grande ne' monti? Non altronde certo che dalla profondità delle valli, nelle quali la neve è tanto alta, che 'l sole non può penetrar cosí basso per l'altezza de' monti, che tengono i raggi del sole da quelle lontani. Cosí ancora, per mia opinione, aviene del ghiaccio che si trova nel mare di Tartaria, chiamato anco il mar del Ghiaccio, intorno la Nuova Zembla, nel quale il ghiaccio che da' fiumi di Tartaria e del Cataio in quello scorre non può per la quantità grande dileguarsi, e perchè il sole sopra quei luoghi non s'inalza molto, non può dar tanto calore che si possa cosí facilmente disfare. E questa è la cagione per la quale quivi duri sempre il ghiaccio, sí come la neve ne' predetti monti di Spagna, e cosí rende maggior freddo che nel mare aperto piú vicino al polo. Ma ciò sia detto per modo di discorso, perchè, non essendo ancor stato scoperto, non può esser cosí certo come se fusse stato conosciuto. Ma vegniamo oggimai alla narrazione della seconda navigazione verso il polo artico.
L'anno 1595 dagli ordini generali di queste provincie confederate e dall'illustrissimo prencipe Maurizio, come general di mare, furono messe in punto sette navi per far vela per il mare o stretto d'Weygats o di Nassovia al regno del Cataio e della China: due in Amsterdam, due in Zelandia, due in Enchusa e una a Roterodam; sei delle quali furono caricate d'ogni sorte di merce e di denari, aggiungendo loro agenti ad esercitar la mercanzia. Alla settima, che fu una fregata, fu dato commissione che, quando le altre navi avessero passato il promontorio Tabin, che tiene l'ultima punta della Tartaria, overo gli fussero tanto vicine che potessero voltar il camino verso l'ostro, e che avessero superato tutti i ghiacci, se ne ritornasse adietro e ne riportasse la nuova di tal viaggio. Ond'ora io, come quello che fui in persona sopra la nave di Guglielmo di Bernardo, che era il patron maggiore, e Giacopo Heinscherch, principal legato o commissario, descriverò puntualmente la navigazione che facemmo e 'l corso che tenimmo, come ho fatto anco dell'altra navigazione.
Primieramente adunque, fatta la rassegna davanti Amsterdam e dato da noi debito giuramento, facemmo vela a' dieciotto di luglio verso Tessela, per congiungerci con le altre navi, che dovevano in tal determinato giorno quivi trovarsi, e col nome del Signore cominciar la nostra navigazione.

Luglio 1595.

A' 2 di luglio intorno al levar del sole partimmo da Tessela, tenendo il corso per 4° tramontana per sei miglia in circa; dipoi fatto vela verso 40 maestro fino a' 3 del detto all'altezza (secondo la congiettura) di gradi 55 per miglia 18, e poi con ponente maestro e 4° maestro per lo piú tranquillo verso ponente e 4° di garbino ponente fino a' 4 del detto di mattina circa quattro miglia. Dipoi spirando 4° maestro a tramontana, inclinando verso ponente e 4° ponente maestro, navigarono fino a' 5 di luglio la mattina circa miglia quindeci, e ancora otto fino che 'l sole fusse in ponente.
Poi voltando il corso verso greco levante fino a' 6 di luglio di mattina a nostro giudicio per 10 miglia, tenendo l'istesso fino a' 7 di luglio, sendo il sole in ostro, per miglia ventiquattro in circa, e continuato l'istesso corso fino a mezanotte per circa otto miglia; dipoi voltisi a caminar verso ponente garbino fino a' 9 di luglio di mattina per miglia quattordeci in circa, e voltati verso greco tramontana fino a sera per miglia dieci in circa. Dipoi fatto vela fino a' dieci di luglio di sera verso greco circa 18 miglia, poi volto il camino a ponente garbino fino a' 11 di luglio, fin che 'l sole fu in siroco, per circa otto miglia; e poi voltammoci verso tramontana e greco tramontana fino a' 12 di luglio, sendo il sole circa il mezzogiorno, per sedeci miglia, e dipoi verso maestro tramontana per 10 miglia.
A' 13 di luglio di nuovo voltammo verso ponente garbino e garbino, fin alla terza ora avanti sera, per dieci miglia; e poi voltammo verso greco levante fino a' 14 di luglio, sendo il sole in ostro siroco, per 10 miglia in circa, e verso 4° tramontana greco e tramontana greco fino alli 15 di mattina, per circa miglia 18; dipoi verso 4° tramontana greco fino a sera per dodeci miglia in circa: allora fu da noi veduta la Norvegia. E navigammo verso 4° tramontana greco fino a sera delli 16, essendo il sole in maestro, per 18 miglia in circa, e dipoi alli 17 voltando il corso verso greco e greco tramontana, fin che 'l sole fu in occidente, per 24 miglia in circa, poi ancora verso greco fin alli 18, sendo il sole in maestro, per circa 20 miglia, e poi verso 4° maestro tramontana fino alli 19, essendo il sole all'occidente, per 18 miglia in circa.
Indi voltammo il corso verso 4° di greco tramontana e greco fino alli 20 di luglio, fino a tre ore del primo quarto, e aspettammo la nostra fregata, che non ci poteva tenir dietro per l'impeto de' venti. Passato il quarto, vedemmo i nostri compagni che fermavano il corso per aspettarci, e fatti loro piú vicini seguimmo il nostro camino fino a vespro per 30 miglia in circa.
Allor facemmo vela per 4° di levante siroco fino alli 21, messe le sentinelle, per circa 26 miglia. E continuato il camino fino alli 22, essendo il sole in ostro siroco, per 10 miglia in circa, dopo il mezogiorno, essendo il sole in ponente garbino, vedemmo al dritto dinanzi la prora una grandissima balena addormentata, la quale dallo strepito della nave che andava a vela e dal grido de' marinari desta nuotò via, altrimenti era forza che la nostra nave passasse per il mezzo del suo corpo. E cosí si continuò il corso per miglia 8 fino che 'l sole fu in maestro tramontana.
A' 23 di luglio navigossi verso 4° di levante siroco fin che 'l sole fu in garbino, per miglia 15 in circa, e vedemmo terra da noi lontana circa 4 miglia; poi voltandosi da terra, sendo il sole in garbino, facemmo vela fino alli 24 che 'l sole era in maestro, per miglia 24 in circa.
Indi voltandosi a tramontana facemmo vela fino a' venticinque del detto a mezzogiorno per 10 miglia, e poi fino a mezzanotte verso maestro tramontana per otto miglia; poi di nuovo voltosi il corso verso siroco levante e ostro siroco fino a' 26 di luglio, sendo alzato il sole al meridiano, gradi 711 e un 4°. Sendo poi il sole in ponente garbino, si voltammo verso greco tramontana, fino a' 27 di luglio, e al mezzogiorno fu trovata l'altezza del sole gradi 72 e un terzo. Dipoi fu dirizzato il corso verso un 4° di tramontana greco fino a' 28 di luglio, sendo il sole in oriente, per sedeci miglia, secondo la nostra congiettura; e poi voltammo verso quarto di levante greco per otto miglia in circa, e verso quarto d'ostro siroco fino alli 29 a mezzanotte per circa 18 miglia. Poi volto il camino verso quarto di levante greco fino a' 30 di luglio, sendo il sole in tramontana, si caminò per otto miglia in circa; e indi volti verso ostro garbino, avemmo per la maggior parte tranquillità fino a' 31 di luglio, sendo il sole in quarto di maestro tramontana, e ci trovammo avanti miglia 6 in circa.

Augustus 1595.

Indi fatto vela verso levante fino al primo d'agosto a mezzanotte per otto miglia, e con tranquillità e ciel sereno, vedemmo l'isola di Trompsont, sendo il sole circa il settentrione, opposta a noi verso siroco dieci miglia lontano dal continente; e facemmo vela fin che 'l sole fu in oriente, tirando un leggier vento da greco levante, e poi da siroco, fino che 'l sole arrivò a maestro, per miglia nove e mezzo.
Dipoi, sendo distanti da terra mezzo miglio, voltammo il cammino verso quarto di levante greco fino a' 3 d'agosto, sendo il sole in garbino, per circa miglia 3, e lungo la riviera maritima circa miglia 5; e dipoi volgemmo il corso di nuovo per cagione che una linguella estesa circa un miglio e mezzo fuori del continente, sopra la quale Isbrando, vicecapitano o viceammiraglio, fece vela e vi si piantò grandemente, ma per la commodità del vento si sbrigò. Egli allora ci andava un poco avanti, ma sentito il suo grido e veduta la sua nave, che era in gran pericolo, subito voltammo il corso, però che spirava vento da greco levante e da siroco, e spezialmente greco levante e ostro, fino che 'l sole andò in ostro a' 4 d'agosto: e fu fatto vela circa cinque miglia lontano da terra, e secondo la congiettura per sei miglia.
Allora fu tolta l'altezza del sole a gradi 71 e un quarto, e fu una grandissima tranquillità fino a mezzanotte. Poi facendo vento dall'ostro, andammo verso 4° di levante greco fino a' 5 d'agosto, sendo il sole in siroco e 'l promontorio Settentrionale per due miglia opposto a noi da levante; e sendo il sole in maestro, ci erano opposti verso ostro per quattro miglia gli scogli chiamati communemente "la madre con le figliuole", e fu fatto vela allora per 14 miglia. Sendo poi andati piú oltre verso greco levante fino alli 6 d'agosto, fino che il sole fu in 4° di maestro tramontana, si ricongionse con noi la nave d'Isbrando viceammiraglio e per molto tempo insieme impedendosi facemmo vela per circa dieci miglia, poi calammo le vele fin che 'l sole fu in maestro. Poi di nuovo le spiegammo, spirando levante e greco levante, inviandosi verso 4° di garbin ostro fino a' 7 d'agosto, finchè 'l sole fu in siroco, e allora ci si fe' incontro la nave enchusana che veniva dal mar Bianco, e secondo la congiettura avevamo fatto 8 miglia circa allora che 'l sole era nell'ostro. Ci era opposto il promontorio Settentrionale intorno ad un miglio e mezo verso la 4ª ostro garbino, e gli scogli chiamati la madre con le figliuole circa tre miglia verso garbino.
Poi facendo vento da greco levante veleggiammo verso 4° di tramontana greco fino alli 8 d'agosto, finchè il sole fu in garbino, per 14 miglia; poi volto il corso verso 4° siroco ostro fino a' 9 d'agosto, sendo il sole in ostro, vedemmo la punta alta del continente opposta a noi da siroco, e l'altro capo altissimo del medesimo continente a noi in faccia verso garbino per 4 miglia lontano, secondo la congiettura, e seguimmo questo corso per 14 miglia in circa. Poi di nuovo volti a 4° greco tramontana, fino alli 10 d'agosto, sendo il sole in oriente, caminammo per otto miglia in circa; e di nuovo volti all'ostro, finchè il sole fusse in maestro, si fece viaggio per 10 miglia in circa.
Poi di nuovo si volse il corso quando il promontorio Settentrionale ci fu discosto verso 4° garbin ponente per 9 miglia in circa, e l'isola di Nordtchien a 4° garbin ostro per tre miglia in circa: caminammo verso greco tramontana fino alli 11 d'agosto, per una folta nebbia, fin che 'l sole fu in ostro, per circa dieci miglia. Indi volto il corso a 4° ostro siroco, facendo vento da greco levante, veleggiammo fino a' 12 d'agosto, sendo il sole in garbino, per 8 miglia in circa. Dipoi sendo lontani dall'isola di Nordtchien da 4° ostro garbino per circa otto miglia, si conducemmo con tranquillità fino a' 13 d'agosto, sendo il sole in garbino, per 4 miglia in circa.
Poi fu fatto vela verso 4° levante siroco per circa due ore, e la nave chiamata Porto di ferro co' suoi marinari e mercatori drizzò il corso all'ostro, e noi facemmo vela fino a' quattordeci di agosto, finchè il sole fu in ostro, per 18 miglia in circa, seguitando per il piú l'istesso viaggio fino a' 15 di agosto, sendo il sole in levante; poi calammo lo scandaglio per 70 braccia, e seguimmo il camino, finchè 'l sole fu in ostro, per miglia 38.
Sendo poi il sole al mezzogiorno, fu trovata la sua altezza gradi 70 e minuti 47. Poi la notte, gettato lo scandaglio, si trovò fondo d'altezza di 40 braccia, e fondo arenoso; e sendo il sole in maestro, di nuovo gettato lo scandaglio, non si trovò fondo per 60 braccia. E scorremo verso siroco levante fino a' 16, sendo il sole in greco, e qui, gettato lo scandaglio per 80 braccia, per non aver piú lunga corda, non si trovò fondo. E dipoi volto il corso verso levante e siroco levante, e gettando spesso lo scandaglio per 60 e 70 braccia, piú o meno si fe' vela, finchè il sole fu in ostro, per circa 36 miglia.
Dipoi facemmo vela verso levante fino a' 17 d'agosto, sendo il sole in oriente, e gettossi lo scandaglio per 60 braccia, in fondo cretoso; e poi fu tolta l'altezza del sole, sendo in 4° d'ostro garbino, di gradi 69, minuti 54. E vedemmo una gran quantità di ghiaccio lungo il lido della Nuova Zembla, e, gettato lo scandaglio per 75 braccia, si trovò fondo fermo e sodo; e si fece viaggio circa 24 miglia.
Poi prendemmo diversi camini per rispetto del ghiaccio, or verso 4° levante siroco, or verso siroco levante, fino a' 18 agosto, sendo il sole in oriente, per 18 miglia in circa. E mandato giú lo scandaglio 30 braccia, si trovò fondo saldo, e due ore dopo in 25 sabbia rossa distinta di spesse macchiette nere; un'ora e mezza dopo, in 20, l'istessa arena. Poi ci apparvero due isole, alle quali gli Enchusani diedero nome d'Orangia dal prencipe Maurizio e suo fratello, le quali erano opposte a noi da siroco lungi circa 3 miglia ed erano basse di terra; e si veleggiò fin che il sole fu in ostro per 8 miglia in circa. Dipoi caminati verso levante, e calato diverse volte lo scandaglio, trovossi fondo di 20, 19, 18, 17 braccia, per la maggior parte sodo, distinto di nere macchie; e sendo il sole in occidente, si vidde lo stretto d'Weygats dirimpetto a noi verso greco levante, distante circa cinque miglia, e avevamo fatto intorno miglia otto.
Poi fu fatto vela da gradi 70 fino ad Weygats, la maggior parte per il ghiaccio spezzato; ove pervenuti, gettato lo scandaglio, per un gran pezzo di tempo trovammo altezza di 13 e 14 braccia e fondo saldo, sparso di macchie nere. Poco dopo, gettato lo scandaglio, fu trovata altezza di 10 braccia, tirando vento da tramontana, e continuamente stavamo tra 'l ghiaccio, ed eravamo portati dalla quantità grande di esso ghiaccio fino alla mezzanotte in circa. Poi ci bisognò voltare a tramontana per rispetto di certe linguelle a noi opposte dal lato australe di Weygats, lontane un miglio e mezzo, alte 10 braccia, e mutato camino per due ore navigammo verso maestro tramontana. Dipoi di nuovo mutammo corso verso levante e verso 4° siroco levante, e giungemmo ad Weygats: e gettato lo scandaglio, si trovava ogni tratto fondo di 7, 8 braccia, poco piú o meno, fino alli 19 agosto; poi, sendo il sole in siroco, entrammo in Weygats nella stazion delle navi, facendo vento da tramontana.
Quello stretto tra la punta delle Imagini e la region de' Samuiti era pieno di ghiaccio, sí che a pena si poteva tentare il passaggio, e a questo modo navigammo per la stazion delle navi, la quale chiamammo il seno del Grasso, perciochè quivi trovammo molto grasso. Questo seno è molto commodo contra il corso del ghiaccio e sicuro quasi da tutti i venti, nel quale si può navigare a suo piacere in altezza di 5, 4, 3 braccia di fondo saldo e fermo; dal lito orientale è piú alta l'acqua.
A' 20 agosto si cercò con l'astrolabio l'altezza del sole, qual trovossi sopra l'orizonte esser di gradi 69, minuti 21, essendo egli in ostro garbino, nella sua maggior altezza, overo avanti che cominciasse a declinare.
21 agosto alquanti de' nostri smontati nel continente d'Weygats per gir a investigar quel sito, caminati circa due miglia adentro in essa regione, trovammo diverse carrette cariche di pelle, di grassi e simil mercanzie, e anco vestigie d'uomini e di rangiferi; dalle quali cose potemmo far congiettura che ivi vicino dovessero abitar degli uomini, overo quivi venire per negoziare. La qual congiettura maggiormente ci si confermava dalla gran quantità delli pellami che nella punta o capo delle Imagini, cosí da noi chiamato, ritrovammo. Il che dieci giorni dopo da' Samiuti e Russiani piú pienamente intendemmo, quando con essi avemmo ragionamento, come nelle narrazioni seguenti dimostreranno.
Come poi fummo entrati nel continente d'Weygats, cominciammo a cercar con ogni mezo e via come potessimo trovar qualche abitazione, o qualche sorte di genti, da' quali intendessimo la via piú commoda di navigare ai luoghi vicini, e dipoi fummo avisati da' Samiuti che e in Weygats e nella Nuova Zembla vi abitavano degli uomini; nientedimeno non trovammo quivi alcuno, né edificii, né alcuna altra cosa. Onde, per trovarne qualche indicio e averne qualche informazione, andammo con alcuni de' nostri un poco piú lungi verso siroco e verso il lito del mare. Colà andando trovammo un sentiero nel palude profondo fino a mezza gamba, che tanto cacciamo giú un piede; si trovammo poi fondo saldo, ma dove era minor profondità passava poco sopra la scarpa. Come arrivammo poi al lido, s'allegramo tutti, però che ci parve di vedere certa apertura per la quale potessimo passare, perciò che quivi vedevamo poco ghiaccio, e tornando verso vespero alli nostri, riportammo ciò loro per una lieta novella. I nostri marinari anch'essi avevano mandato fuori il copanetto che si spinge a remi, per investigar se 'l mare di Tartaria era aperto, ma non poterono per il ghiaccio penetrare nel mare; e arrivati alla punta della Croce, lasciato quivi il copano, se n'andarono per terra alla punta del Contrasto, di donde videro che 'l ghiaccio, che veniva dal mar di Tartaria alla costa della Russia, nella punta d'Weygats era del tutto ammassato e stivato.


Del sito e della grandezza d'Weygats, detto altrimenti lo stretto di Nassovia; l'isole degli Ordini, il golfo del Grasso, il promontorio delle Imagini, il promontorio della Croce, e quello del Contrasto o Separazione; l'altezza delle linguelle e de' loro luoghi vicini, che sono in Weygats e piú oltre verso il levante nel mar di Tartaria.
Cap. II.

Alli 23 d'agosto trovammo una navetta di Pitozre, da loro chiamata lodgie, collegata insieme con cordicelle, la quale era navigata verso tramontana per portar di là denti di rosmari, grassi e ocche da caricare le navi ch'avevano da venire di Russia per Weygats, sí come con noi parlando dissero; le quali navi avevano da far vela nel mar di Tartaria, oltra il fiume Obi, fino ad un luogo detto Ugolita in Tartaria, per starvi poi tutta la vernata, secondo il suo uso di ogn'anno. Riferivano appresso che quello stretto fra 9 o dieci settimane s'aveva tutto a congelare, e che, come si comincia a indurare, tutto si unisce e cresce, e allora si può scorrere fino in Tartaria su per il ghiaccio oltre il mare che essi chiamano Mermare.
A' 24 del detto, la mattina a buon'ora s'accostammo alla loro nave per intender piú a pieno di quel mare, che è dal lato orientale di Weygats, e restammo a pieno sodisfatti d'ogni nostra dimanda.
25 agosto tornammo di nuovo alla nave de' Russi e con essi amichevolmente ragionammo, e vicendevolmente anco dal canto loro trovammo amorevolezza grande, perciochè essi primieramente ci donarono otto oche molto grasse, delle quali nella loro nave, in luogo scoperto, ne avevano copia grande; e facendo noi prova se uno di loro volesse venir nella nostra nave, ce ne vennero con noi sette con grande allegrezza. Entrati nella nave, si fecero maraviglia grande della sua grandezza e del nobilissimo fornimento; e dopo che ebbero veduto bene e la puppa e la prora e ogni cosa, ponemmo loro inanzi della carne, del butirro e del cascio, ma tutto rifiutarono, dicendo che quel giorno digiunavano; ma avendo veduto un pesce salato se lo mangiarono tutto, divorando anco la testa e la coda di quello. Poi che ebbero mangiato, donammo loro un bariletto pieno di pesci salati, per lo quale ci renderono molte grazie, andandosi imaginando fra loro in che cosa ci potessero contracambiare sí grato presente; e toltili di nuovo nel nostro copano, nel seno del Grasso li riconducemmo.
A mezogiorno facendo vento da tramontana si partimmo, standosi Weygats verso levante fino al capo della Croce, poi di là verso greco fino al capo del Separamento, che piega un poco al levante, e poi a greco tramontana e tramontana greco, poi a tramontana un poco verso ponente. Facemmo vela verso greco piegando un poco verso levante per due miglia, oltre il capo dello Spartimento, ma per la quantità grande del ghiaccio bisognò tornar adietro e drizzar il corso alla detta nostra stanza delle navi. Nel ritorno trovamo presso la punta della Croce un luogo assai commodo da gettar quella notte le ancore.


Dei Samiuti col loro re, il sito, il vestire; delle loro carrette co' rangiferi, che velocissimamente le tirano.
Cap. III.

26 d'agosto la mattina, levate le ancore, facemmo vela, serrando il trinchetto, alla nostra stazione da navi vecchia, per aspettar quivi miglior tempo.
28, 29, 30 d'agosto, fino a' 31, per la maggior parte fece vento da garbino, e Guglielmo di Bernardo nostro patrone fece vela verso il continente del lato australe d'Weygats, ove trovammo alcuni uomini come selvatichi, chiamati Samiuti, circa un miglio adentro della regione (ma però non molto selvatichi, perciochè venti di loro vennero a ragionamento con nove de' nostri). Onde non pensavamo trovar alcuno, essendo che avanti nel continente d'Weygats non avevamo trovato alcuno, e ne trovammo due compagnie, sendo un'aria nubilosa, ed erano cinque per compagnia insieme, e andammo loro molto vicini prima che se n'accorgessimo. Allora il nostro interprete fecesi un poco avanti per chiamarli, il che vedendo anch'essi ne mandarono uno de' suoi incontra, il quale avvicinatosi al nostro cavò fuori del turcasso una freccia, minacciando di tirargli. Il nostro, essendo disarmato e avendo paura, gridò in lingua russiana: "Non tirar, che siamo amici". Ciò udito, egli gettò in terra l'arco e la freccia, volendo con tal segno dar ad intendere che volontieri avrebbe ragionato col nostro interprete; il che vedendo il nostro gridò di nuovo: "Siamo amici"; a cui rispose quell'altro: "Siate dunque li ben venuti". E cosí iscambievolmente all'usanza russiana si salutarono, inchinando l'uno e l'altro il capo a terra. Con questa occasione lo dimandò il nostro del sito della regione e del mare verso oriente per Weygats; al che rispose egli graziosamente dicendo che, passato un promontorio, che è lontano di qua circa cinque giornate, stendendo la mano verso greco, si trovava poi un gran mare, stendendo poi la mano verso siroco, aggiungendo che egli aveva buonissima cognizione di esso mare, perchè fu mandato colà dal suo re uno con una compagnia d'uomini, della quale egli era stato capo.
La foggia delle vesti che usano questi Samiuti è simile a quella che i nostri pittori danno e fingono agli uomini selvatichi, ma non sono punto selvatichi, ma hanno un buonissimo intelletto. Circondansi adunque di pelle di rangiferi da capo a piedi, eccetto i primari e maggiori, i quali, benchè si coprano come i predetti, tanto gli uomini quanto le donne, portano però il capo coperto di panno tinto di qualche colore, fodrato di pelle. Gli altri portano un capello od oreglino fatto di pelle de' rangiferi, col pelo di fuori, e stringendosi bene il capo si lasciano crescere una lunga capigliata, qual senza pettinare lasciano cadere sopra le vesti cosí intricata e lunga. Per la maggior parte sono di picciola statura, di faccia larga e piana, con occhi piccioli, gambe corte e torte, e sono agili al correre e al saltare. Si fidano poco di stranieri, perciochè, quantunque mostrassimo loro ogni sorte di amorevolezza, nondimeno poco ci credevano, come se ne accorgemmo il primo di settembre, la seconda volta che andammo al continente, che dimandando uno de' nostri ad essi un arco per vederlo, gli fu negato, facendo segno che non lo volevano dare. Quello che essi chiamavano re aveva intorno le guardie dispensate ad osservare e spiar quello che da noi si faceva, ciò che si comprava o si vendeva. Alla fine uno de' nostri, accostandosegli per far con lui amicizia, lo salutò cortesemente secondo il loro usato costume, e insieme gli porse un pezzo di biscotto. Egli con riverenzia grande l'accettò e subito si pose a mangiarlo, nientedimeno, mentre che lo mangiava e inanzi e dopo, dava d'occhio a quello che si faceva. Le loro carrette o slite senza rote erano sempre all'ordine, con uno o due rangiferi giunti sotto, li quali, per uno e due uomini in esse montati e assisi, li tirano con tanta velocità di corso che non si può loro comparare alcuno de' nostri cavalli. Uno de' nostri scaricò un arcobugio da posta verso il mare, dal quale cosí furono impauriti che correvano e saltavano come pazzi; nondimeno da se stessi si acquietarono e pacificarono, avendo veduto che non era stato scaricato con cattivo animo. E ciò gli facemmo anco sapere per l'interprete, e che in vece d'arco usavamo cotal istrumento; per il che molto si maravigliavano per il gran strepito e tuono che faceva. E appresso, perchè vedessero quanto fusse il colpo di quest'arma, uno de' nostri prese una pietra piana di mezo palmo di larghezza e la pose sopra un collicello assai da sé lontano. Essi, accorgendosi che con quella noi volevamo far qualche cosa, 50 o 60 di loro scostandosi alquanto si accommodarono in cerchio o corona: allora quello che aveva lo schioppo scaricollo verso la pietra e coltala col colpo la mandò in pezzi, onde rimasero maravigliati piú che prima. Poi si partimmo, fatta dall'una parte e dall'altra molte riverenze, ed entrati nel battello di nuovo tutti, cavandosi li capelli, piegandoci facemmo loro riverenza, e facemmo dar un tocco alla trombetta; ed essi vicendevolmente secondo il costume loro resa la riverenza, se ne andarono alle loro carrette.
Quelli cosí licenziati e alquanto scostati, uno d'essi cavalcando venne al lito a torre una roza statua, che i nostri avevano tolta dal lido e posta nel copano. Quegli, entrato nel battello, vide la statua e con segni ci diede ad intendere che avevano fatto male a portarla via; noi, ciò considerando, gliela restituimmo; quegli come l'ebbe la pose sopra un tumulo vicino alla riva del mare, né la portò altrimenti seco, ma mandò una carretta a torla, che la portasse. Da tutte queste cose che potemmo osservare facemmo giudicio che quelle statue overo imagini di legno fossero da loro adorate per dei, perciochè allo incontro di Weygats, in quel luogo che chiamammo capo delle Imagini, ne trovammo alquante centinaia di simili imagini di legno grossamente lavorate, cioè dalla parte di sopra rotonde con un poco di rilievo nel mezo in segno del naso, di sopra del quale dall'una parte e dall'altra avevano due tagli, separati uno dall'altro, in vece degli occhi, e sotto il naso un'altra fissura in luogo della bocca; e trovammo anco dinanzi ad esse molte ceneri e ossa di rangiferi, dalle quali cose si può far congiettura che quivi facessero i loro sacrificii.
Essendo partiti dalli Samiuti, mentre il sole poteva esser in ostro, Guglielmo figliuol di Bernardo, nostro patrone, parlò di nuovo al governatore intorno il far vela per passar piú oltre, non però con sí lungo ragionamento come aveva fatto il giorno precedente. Udito il suo parlare dal governatore e dal suo vicario, rispondendo l'ammiraglio e quasi ridendo disse: "Guglielmo di Bernardo, che cosa ti pare che s'abbia a fare?" Rispose Guglielmo: "Mi pare che sia bene a far vela, a me, e seguir la nostra navigazione". Alle quali parole soggiunse l'ammiraglio: "O Guglielmo, guarda bene quello che tu dici". Ciò occorse intorno all'entrar del sole in maestro.
A' 2 di settembre, poco inanzi al levar del sole salpamo le ancore per uscire, perciochè spirava garbino, vento prospero alla nostra navigazione e contrario allo star quivi, perchè la costa della terra era bassa. Ciò vedendo, l'ammiraglio e 'l suo vicario cominciarono anch'essi a salpare le sue e far vela. Il sole era in 4° siroco levante quando stringemmo sotto il nostro trinchetto e facemmo vela fino al capo della Croce: quivi si gettò il ferro per aspettar la fregata dell'ammiraglio, il qual poi con gran fatica e longo tempo si poté levare fuori del ghiaccio; al fine pur levossi.
Essendo la sera arrivata a noi, la mattina circa due ore inanzi il levar del sole facemmo vela, e col levar del sole giungemmo circa un miglio verso oriente lontani dalla punta del Contrasto, tenendo il camino verso tramontana fino che 'l sole fu in ostro, per sei miglia. Poi per rispetto della gran quantità del ghiaccio e per le nebbie e per il vento che non era stabile ci fu di bisogno voltar camino, ma non perciò lo potemmo tenir dritto e fermo, ma ogni tratto ci conveniva cambiarlo, or per cagione del ghiaccio, or per l'istabilità del vento, e perchè anco l'aere era tutto oscuro; in modo che il nostro viaggio era del tutto incerto, e quando credevamo esser caminati verso mezogiorno alla region de' Samiuti, tenendo il corso verso garbino fin che l'Orsa minore (la quale i marinari chiamano Vigili) fusse in maestro, pervenimmo alla costa orientale dell'isola degli Ordini, intorno a un tiro di moschettone lontano da terra, in fondo di 13 braccia.
A' quattro di settembre la mattina, levate le ancore, per rispetto del ghiaccio fu fatto vela tra l'isola degli Ordini e 'l continente, e accostandoci all'isola in quattro o cinque braccia di fondo gettammo un capo di corda in terra per assicurarsi dal ghiaccio, smontando spesso in terra per gir a tirare alle lepri, delle quali quivi n'è copia grandissima.


Della crudele e miserabil strage che un fiero e orribil orso bianco fece di due de' nostri dilacerandoli e devorandoli, contra il quale due volte con tutte le nostre forze combattemmo, prima che lo potessimo uccidere.
Cap. IIII.

A' sei di settembre la mattina andarono nel continente alcuni marinari a cercar pietre di spezie di diamanti, de' quali anco nell'isola degli Ordini se ne trova in gran quantità. Mentre sono intenti a la cerca di quelle, occorse che, essendo due di loro insieme, un orso bianco macilente quatto quatto loro addosso venne, e uno ne prese per la collottola. Costui, non sapendo che ciò fosse, cominciò a gridare: "Chi mi prende per la collottola?" Il compagno di costui, che gito era in una spelonca a cercar di quelle pietre, levò la testa fuori per veder chi fusse, e vedendo che era un orrendo orso, inalzando il grido: "O fratello, - disse, - egli è un orso", e tuttavia cosí dicendo si mise a fuggire quanto piú veloce poté. L'orso subito co' denti franse a quel misero il capo e gli succiò il sangue. Gli altri marinari che erano andati nell'istesso continente corsero subito colà al numero di 20 per liberar il compagno, o almeno per tor il cadavero all'orso. Quando questi con archibugi e arme d'aste apparecchiate s'accostarono all'orso occupato in divorar quel corpo, l'orso fiero e intrepido, fatto impeto contra di loro e separandone uno dagli altri, lo squarciò in pezzi in maniera orribile e miserabile, il che vedendo gli altri fuggirono di subito. Noi di su le navi e dalla fregata vedendo fuggire li nostri al lido, temendo di qualche male, subito saltammo nel copano e con ogni prestezza co' remi l'accostamo al continente per salvarli, dove arrivando vedemmo quel miserando spettacolo de' nostri, come crudelmente erano dall'orso lacerati. Onde l'un l'altro inanimandosi d'andar insieme uniti ad assaltar l'orso con spade, schioppi e arme d'aste, né alcuno dovesse ritirarsi, non fummo tutti d'accordo, perciochè dicevano alcuni: "I nostri compagni sono di già morti, né potressimo far altro che prender o uccider l'orso, benchè ci mettiamo in cosí manifesto pericolo. Se potessimo liberarli dalla morte, allora dovremmo far ogni sforzo e affrettarci, ma ora che occorre che piú si affatichiamo od affrettiamo? Pure bisogna prenderlo, bisogna dunque andar circospetti e guardinghi, perciochè abbiamo da fare con una bestia feroce e vorace". Allora tre de' marinari andarono un poco piú inanzi, continuando nondimeno l'orso a devorar quel cadavero, non facendo stima alcuna della nostra moltitudine, perchè eravamo in numero trenta. Quei tre che si fecero inanzi furono Cornelio figliuol di Giacomo, patron della nave di Guglielmo di Bernardo, Guglielmo di Ghisa governator della fregata, e Giovanni da Nuffelem scrivano di Guglielmo di Bernardo. Avendo questi scaricato tre volte i loro archibugi senza far botta né frutto alcuno, lo scrivano fattosi ancora piú appresso, tanto che gli fusse vicino d'un tiro, passò con la palla il capo all'orso intorno agli occhi; nientedimeno l'orso levò la testa, tenendo però il cadavero per la collottola, pur cominciò a poco a poco a vacillare. Allora lo scrivano e un certo Scotto con le coltelle tanto lo pestarono che le ruppero, né però l'orso voleva ancora lasciar la preda; finalmente occorsevi Guglielmo di Ghisa e col calcio dello schioppo con quanta forza poté menando spezzò all'orso il naso. Allora solamente si lasciò l'orso in terra cadere con grandissimi urli, e Guglielmo di Ghisa, saltandoli sopra il petto, gli segò le canne della gola. Dipoi, sepelliti i corpi de' compagni nell'isola degli Ordini a' sette di settembre, trassero la pelle all'orso, la quale portarono in Amsterdam.
Alli 9 di settembre facemmo vela dall'isola degli Ordini costeggiando l'orlo della terra, ma trovammo tanto ghiaccio e con tanto impeto corrente che non ne potevamo riuscire, talchè fu forza verso la notte di nuovo ritornar all'isola degli Ordini. Spirando ponente, la fregata dell'ammiraglio di Roterodamo s'intricò in certe secche, pur senza danno si sbrigò.
A' 10 del detto di nuovo facendo vela dall'isola degli Ordini verso Weygats, mandammo inanzi due copani al mare, ad osservar il ghiaccio, e presso vespro insieme andammo ad Weygats, ove gettammo l'ancore presso il promontorio del Separamento.
11 settembre a mattina un'altra volta facemmo vela nel mar di Tartaria, ma un'altra volta ancora dammo in moltissimo ghiaccio, sí che ci fu forza tornar ad Weygats e gettar l'ancore presso il promontorio della Croce. Circa la mezanotte vedemmo una nave di Russia, che faceva vela dall'angolo delle Imagini verso la region de' Samiuti.
A' 13 di settembre levossi una fortuna, intorno al sole in ostro, da ponente garbino scuro e umido con un gran carico di neve; la qual fortuna giva tanto crescendo che da quella eravamo spinti e portati.
A' 14 detto cominciò la fortuna a bonazzare e 'l vento voltarsi da maestro, scorrendo pur il flusso dal mare di Tartaria con grand'impeto, e fessi il cielo sereno fino a vespro, spirando allora greco. L'istesso giorno andarono li nostri all'altra banda d'Weygats al continente ad investigar la profondità dell'alveo, e penetrarono del tutto nell'arco dietro la linguella dell'isola, dove trovarono una casetta di legname e un gran torrente d'acque. L'istesso giorno di mattina salpamo il ferro, e inarborando facevamo pensier di nuovo dover seguitar la nostra navigazione; ma sendo l'ammiraglio d'altro parere, ci fermammo quivi fino alli 15. L'istesso giorno di mattina cominciò di nuovo a scorrer il ghiaccio verso il lido orientale d'Weygats, di modo che fummo sforzati levar le ancore di subito e l'istesso giorno partirsi dal lato occidentale d'Weygats e con tutta l'armata voltar verso casa; sí che quel giorno stesso passammo l'isole Manfle e Delgoi, e tutta la notte navigammo verso maestro ponente per 12 miglia, fino al sabbato di mattina. La notte si voltò il vento da siroco e navigò.
17 settembre, dall'aurora fino a notte si fe' vela verso maestro tramontana per 18 miglia, in 42 braccia di fondo. Cadeva la neve folta, il vento tirava gagliardissimo da greco. Nel primo 4° fu trovato fondo da 40 braccia. La mattina non vedemmo di tutta l'armata nave alcuna.
Dipoi fu fatto vela tutta la notte, fino a' 17 settembre di mattina, con le due vele maggiori verso maestro ponente e maestro tramontana, per dieci miglia. L'istesso giorno nel secondo quarto, trovammo fondo di 50 braccia, e la mattina di 30, di fondo arenoso distinto di macchie nere.

La domenica mattina voltossi il vento da tramontana e maestro tramontana molto gagliardo. Allora venne a noi la fregata dell'ammiraglio, la qual fece vela con noi dall'aurora fino vespro, con una sola vela spiegata, verso ostro garbino e 4° ostro garbino per sei miglia; poi fu da noi visto il capo di Candynas a noi in faccia dalla parte di siroco. Il fondo era di 27 braccia, di sabbia rossa di neri punti distinta. La domenica di sera fu aperto da nuovo il trinchetto, e volto a tramontana, e fatto vela tutta la notte fino al lunedí mattina verso greco e greco levante, per 7 overo 8 miglia.
18 settembre la mattina non vedemmo piú la nostra fregata che ci seguitava, la qual cercando fino a mezzogiorno non potemmo ritrovare, e andavamo verso levante per tre miglia da mezzogiorno sino a notte; poi continuammo ancora il nostro viaggio verso 4° tramontana greco, per quattro miglia.
Poi da lunedí sera fino al martedí mattina verso 4° greco tramontana per 7 miglia, e dall'aurora fino a mezzogiorno continuammo l'istesso corso per 4 miglia; dal mezzodí poi sino a notte verso 4° tramontana greco, per cinque o sei miglia, con profondità di 55 braccia. L'istessa sera si voltarono le vele verso ostro e si navigò fino all'aurora.
20 settembre drizzossi il corso verso 4° garbin ostro e ostro garbino per sette od otto miglia, con fondo di 80 braccia di fango nero. Poi si caminò dall'aurora fino a mezzodí, spiegati anco li due trinchetti, cioè le due vele delle cime degli arbori, verso 4° garbin ostro, per cinque miglia, e da mezzogiorno fino a vespro 4° garbin ponente, per cinque altri miglia.
21 settembre da vespero fino al giovedí mattina per 4° ponente, dipoi fino alla luce verso ponente, per 7 miglia, in altezza di 64 braccia di fondo caliginoso; dal far del giorno fino a mezodí verso garbino per cinque miglia, con fondo di 65 braccia di fondo caliginoso. Sul mezodí si volse il corso a tramontana e si fe' vela per tre ore verso greco, per due miglia, e poi di nuovo si voltò il camino verso ponente e si fe' vela fino alla seconda 4ª di notte con le due maggiori verso garbino e 4° ostro garbino per sei miglia. Dipoi nella seconda quarta di nuovo voltato corso a tramontana, si fe' vela fino al venerdí mattina, 22 settembre, verso 4° tramontana greco e greco tramontana per quattro miglia, dipoi dall'aurora fino a mezogiorno verso greco per 4 miglia.
Poi voltato il camino verso ponente, si fe' vela verso maestro ponente e maestro per tre miglia, dipoi per il primo quarto verso maestro ponente per tre miglia, e il secondo quarto verso 4° ponente maestro per 4 miglia; dipoi fino al sabbato all'aurora, 25 settembre, verso ponente garbino e 4° ponente garbino per miglia 4; dal sabbato mattina fino a vespero con le due vele maggiori verso garbino e 4° ponente garbino, per sette overo otto miglia, con vento da maestro tramontana.
Verso la notte voltati a tramontana, facemmo vela fino alla domenica mattina, 24 settembre, con le due vele maggiori verso levante, soffiando gagliardamente maestro tramontana, per otto miglia, e dallo spuntar del dí fino a mezogiorno verso 4° siroco levante per tre miglia, soffiando tramontana. Poi voltandosi a ponente facemmo vela fino a vespero verso ponente garbino per tre miglia, e tutta la notte fino al lunedí mattina, 25 settembre, verso 4° ostro garbino per sei miglia, spirando tramontana. La mattina nell'aurora voltato il vento da greco, facemmo vela fino la notte verso ponente e 4° ponente maestro per dieci miglia, e, gettato lo scandaglio per sessanta braccia, fu trovato fondo arenoso.

Da quella sera fino al martedí all'alba, 26 settembre, caminammo verso ponente per 10 miglia: allora si trovammo vicini al continente circa tre miglia dalla parte orientale di Kildwin. La mattina, voltandosi da terra, si ritirammo indietro per lo spazio quasi di tre ore; poi di nuovo si voltamo verso il continente, stimando d'entrare in Kildwin, ma fummo portati di sotto; onde di nuovo dopo mezogiorno si ritirammo dal continente e facemmo vela fino a vespero verso greco levante, per cinque miglia.
Di poi ancora da vespero fino a due ore avanti l'alba del martedí 27 settembre verso levante per 6 miglia; poi voltati a ponente facemmo vela per otto miglia fino a vespero verso 4° ponente maestro, e circa la notte arrivammo di nuovo appresso Kildwin. Allora voltati da terra per due quarti facemmo vela verso 4° greco levante e greco levante, per sei miglia.
Poi, intorno al far del giorno di venere 28 settembre, voltandosi facemmo vela con vento molto vario ora da una parte e ora dall'altra fino a vespero, facendo congiettura che Kildwin ci fusse discosto verso ponente quatro miglia, e, soffiando greco levante, facemmo vela verso maestro tramontana e verso 4° maestro tramontana fino all'alba del giorno di sabbato per dodeci o tredici miglia.
29 settembre, la mattina navigammo verso maestro ponente per 4 miglia. Tutto quel giorno fino a notte fu l'aere chiaro e bonazza e il sole risplendentissimo. A vespero facemmo vela verso ponente garbino e arrivammo circa sei miglia lontani dal continente, e continuammo il corso fino alla domenica 30 del detto mese verso maestro tramontana, per 8 miglia; poi voltato il camino verso il continente, giungemmo quel giorno in Waerhuys, e quivi si fermammo fino alli 10 d'ottobre.
10 d'ottobre partendosi da Waerhuys, arrivammo in Mosa 18 novembre, né abbiamo voluto qui descriver il camino né le miglia da Waerhuys fino in Ollanda, come non necessarie, perciochè quella navigazione si fa ogni giorno.

Il fine della seconda navigazione.



Narrazione della terza navigazione, la quale fu instituita l'anno 1596.



Verso il Settentrione ai regni del Cataio e della China.
Cap. I.

Dapoichè, come è stato riferito, quelle sette navi ritornarono dalla navigazione settentrionale, ben che non con quel frutto che si sperava, i potenti ordini, considerato bene quanto era da considerare, misero in consulta se si doveva a nome delle provincie la terza volta far alcuna sorte di apparecchio per condur la cominciata navigazione al desiderato fine. E dopo dispute diverse e diversi pareri si venne finalmente dagli ordini a questa deliberazione, che se v'era alcuno, o cittadino o mercante, che volesse di nuovo a sue spese esperimentar tal navigazione potesse a suo beneplacito ciò fare, e finita la navigazione, per la quale apparesse chiaramente che si ritrovasse passo aperto per naviganti, gli avesse ad esser fatto a nome delle provincie un ricco e onorato donativo, constituendo anco per tal effetto una certa summa di denari. Con cotali condizioni furono dall'onorando senato d'Amsterdam al principio dell'anno apparecchiate e fornite due navi e condotti li marinari, alli quali furono proposte questi due partiti, cioè che cosa erano per avere se ritornavano senza aver fatto nulla e che cosa anco avessero a conseguire se avessero potuto passare, fattali di ciò solenne promissione, che quando avessero commoda e utilmente fornita la navigazione sarebbe stato fatto loro un presente non volgare, per incitar gli animi de' marinari, ricordando loro che si sforzassero piú che fusse possibile di trovar uomini che non fussero maritati, perchè dall'amore e desiderio delle mogli e de' figliuoli fussero meno travagliati e distolti dal fornire la navigazione.
Con queste condizioni adunque furono al principio di maggio apparecchiate e in punto a far vela; in una delle quali fu patrone Giacopo Heemscherch figlio di Enrico, al quale anco fu dato il carico delle mercanzie e del negocio, e Guglielmo di Bernardo governatore maggiore; nell'altra poi Giovanni Rijp figliuolo di Cornelio per nochiero o patrone, al quale anco fu data la cura delle merci che i mercanti avessero posto nella nave. Onde alli cinque di maggio 1596 fu fatta la rassegna o mostra delli marinari dell'una e dell'altra nave, e alli 10 facendo vela da Amsterdam, giungemmo alli 13 in Ulie.
Alli 16 di maggio facemmo vela da Ulie, ma, cessando il crescer del mare e spirando vento da greco, fummo sforzati a ritornar dentro; e la nave di Giovanni di Cornelio diede in secco, ma si liberò, e di nuovo gettammo le ancore al lito orientale d'Ulie.
A' 18 di maggio di nuovo facemmo vela da Ulie con vento da greco, tenendo il corso verso maestro levante.
A' 22 del detto vedemmo l'isole d'Hitland e Feyeril, spirando greco.
A' 24 avendo trovato vento prospero facemmo vela verso greco, fino a' 29; poi avemmo il vento contrario da greco, che ci gettò giú il trinchetto.
A' 30 del detto spirando di nuovo vento prospero si fece vela verso greco, e si tolse l'altezza del sole, qual era sopra l'orizonte gradi 47 e minuti 42, la declinazione gradi 21, minuti 42. Cosí adunque era l'altezza del polo gradi 69, minuti 24.
Primo di giugno non avemmo niente di notte, e alli 2 di nuovo trovammo vento contrario, ma alli 4 avemmo maestro tramontana favorevole andando verso greco.
Essendo il sole circa ostro siroco, vedemmo un maraviglioso segno nel cielo, perciochè dall'una parte e dall'altra del sole appareva un altro sole, e due iridi tramezzavano quei tre soli; poi apparevano due altre iridi, una che circondava a largo il sole e un'altra che partiva quella per mezo, e la parte inferior di quella maggiore, che circondava il sole, era alta sopra l'orizonte 28 gradi. Al mezogiorno, sendo il sole nella sua maggior altezza, fu trovato con l'astrolabio alto sopra l'orizonte gradi 48, minuti 43, sí che avevamo il polo alto gradi 71.
La nave di Giovanni di Cornelio ci toglieva il vento, che a noi non veniva, ma gli andammo incontro per un rombo tirando verso greco, perchè ci pareva di piegar troppo verso ponente, come dipoi si vide, altrimenti avremmo drizzato il corso verso greco; e presso vespero arrivandoci, gli dicemmo che dovressimo tener piú verso levante, perchè andavamo troppo verso ponente, ma il governator della sua nave ci rispose che non voleva entrar nel golfo di Weygats. Il camin loro era verso 4° greco levante, e noi eravamo quasi 60 miglia in mare lontani dal continente, quando dovevamo tirare verso greco, poi che vedevamo il promontorio Settentrionale: e perciò sarebbe allora stato meglio caminar verso greco levante che verso greco tramontana, perciochè avevamo tanto piegato verso occidente, acciochè di nuovo ritornassimo nel dritto corso la navigazione. Perciò riprendendoli dicevamo che noi dovemo piú tosto drizzar il camino all'oriente almeno per alquanti miglia, finchè di nuovo fussimo ridotti nel dritto corso, il che per lo spirar de' venti contrarii era perduto, e perchè anco spirava vento da greco; ma che loro dicessimo o consigliassimo, non volsero tener altro viaggio che verso greco tramontana, perchè, come dicevano, se verso oriente andavamo, noi saremo arrivati in Weygats. Ma non potendoli con tali e piú aspre parole persuadere, noi facemmo vela alla destra loro per un rombo lontano.


D'un maraviglioso segno veduto in cielo alli 4 di giugno 1596, d'un sole che aveva un altro sole per banda e due archi baleni che partivano quei tre soli e due altri, uno che circondava al largo il sole e l'altro che traversava quel gran cerchio, del quale la parte inferiore era alta ventiotto gradi sopra l'orizonte.
Cap. II.

Alli 5 di giugno si scoperse a noi il primo ghiaccio, del che molto si maravigliammo, stimando al principio che fussero cigni bianchi, perciochè uno de' nostri, caminando sopra i tavolati, cominciò cosí improviso a gridare che quivi nuotavano cigni bianchi; il che udendo, quelli che erano di sotto subito saltarono fuori, e scorgerono che erano pezzi di ghiaccio rotti dai pezzi grandi che andavano ondeggiando, che niente differenti da' cigni ci parevano, perchè già cominciava a far sera. A mezanotte facemmo vela per il ghiaccio, e 'l sole era alto sopra l'orizonte quasi un grado.
Alli 6 presso vespero, intorno alla 4ª ora, di nuovo dammo nel ghiaccio, in tanta quantità che non lo potemmo penetrare, ma convenimmo voltar il camino verso 4° garbin ostro per lo spazio di 4 ore. Dipoi seguimo il preso corso verso greco tramontana, navigando lungo il ghiaccio.
A' 7 detto misurammo l'altezza del sole, la qual fu sopra l'orizonte gradi 51, minuti 22; la sua declinazione era gradi 22, minuti 38, i quali aggiunti all'altezza trovata fanno gradi 74, e tanto era elevato il polo. Quivi trovando ghiaccio tanto grosso che a pena si potrebbe con parole esprimere, prendemo il camino dietro quello come se veleggiassimo tra due continenti, e l'acqua era non men verde dell'erba, in modo che giudicavamo esser presso Gruenlandia, e quanto piú lunge andavamo, trovammo sempre il ghiaccio piú grosso.
Alli 8 arrivamo ad un cumulo di ghiaccio cosí grande che per la estrema grossezza non lo potemmo passare, perciò volgemmo il corso verso 4° ponente garbino per lo spazio d'un'ora, e per mez'ora verso garbino, e poi ancora per altra mez'ora verso ostro, sí per arrivar ad una isola che vedevamo, come per schifar il ghiaccio.
9 giugno trovamo un'isola posta sotto il 74o grado e minuti 30, larga, come giudicavamo, 5 miglia.
10 detto, tratto fuori il copano, s'inviamo otto verso l'isola, ma, passando presso la nave di Giovanni di Cornelio, entrarono altri otto uomini di quella insieme col loro governator nel nostro copano. Allora ci dimandò Guglielmo di Bernardo, nostro governator maggiore, se eravamo caminati troppo verso occidente, ma quegli non lo volse liberamente confessare, onde furono fatte molte parole dall'una parte e dall'altra, perchè Guglielmo voleva mostrar il contrario di quello che era in fatto.
Il detto, giunti in terra, trovammo molte ova di gavie. Quivi incorremmo in un gran pericolo della vita, perciochè, essendo ascesi sopra un alto e scosceso monte coperto di neve, nel discendere credevamo dover venir giú a rompicollo o precipitarsi, cosí era il monte scosceso ed erto; ma ponendo giú le natiche ci lasciammo a poco a poco sdrucciolar giú per lo liscio del ghiaccio, in modo tale che anco a chi ci stava a mirare mettevamo terrore e spavento, perciochè, sendo alle radici di quel monte moltissimi scogli, poco vi mancò che non venissimo in quelli a precipitare e a fiaccarsi il collo o farsi in pezzi. Ma con l'aiuto di Dio discendemmo senza farsi alcun male: tra tanto Guglielmo di Bernardo, che dal copano, dove ci aspettava, ci vedeva in quel modo giú rovinare, si trovava in maggior spavento di noi. Indi spingendo co' remi il battello andammo alla nave di Giovanni di Cornelio, e qui mangiammo le ova.
12 giugno di mattina vedemmo un grand'orso bianco, onde, entrati nel copano e co' remi spingendolo, si ponemmo a seguitarlo, stimando, gettatoli un laccio al collo, di poterlo prendere. Ma, fatti a quello vicini, lo vedemmo tanto robusto e terribile che non ci bastò l'animo d'assaltarlo; onde tornammo alla nave a tor degli altri uomini e dell'armi, e poi tornammo di nuovo a perseguitarlo con archibugi, scurre romane (che volgarmente dicono allabarde) e altre scurre communi, e ci accompagnarono anco i marinari della nave di Giovanni di Cornellio per darci aiuto. Cosí dunque ben forniti d'uomini e d'arme spingemmo i due copani co' remi verso l'orso, col quale quasi per due ore combattemo, che a pena lo potemmo con le nostre arme toccare. Finalmente con una menara grande gli fu dato una ferita cosí grande e con tanta forza ch'ella gli restò dentro attaccata, nientedimeno con la scurre nuotava; ma seguitandolo noi sempre, pur al fine gli fu con una scurre franto il capo, sí che convenne morire. E poi, portatolo nella nave di Giovanni, gli fu cavata la pelle, la quale fu longa 12 piedi; volemmo anco gustar della sua carne, ma ci fece male.


D'una maravigliosa battaglia fatta con un ferocissimo orso da due barche piene di uomini, nella quale ruppero tutte le armi prima che lo potessero uccidere, dal quale fu dato il nome all'isola.
Cap. III.

13 giugno partimmo dall'isola, e andavamo verso settentrione piegando alquanto all'oriente, facendo vento da ponente e garbino, con prospero viaggio, sí che, sendo il sole in settentrione, avevamo fatto a nostro giudicio dall'isola verso settentrione 16 miglia.
14 detto, intorno al sole in tramontana fu calato lo scandaglio per 113 braccia, né fu trovato fondo, e fu fatto vela piú inanzi fino alli 15 sendo il sole in ostro, con aere nubiloso e brina, verso tramontana e 4° tramontana greco. Intorno alla sera fatto l'aere alquanto piú chiaro, vedemmo non so che di grande che andava ondeggiando per mare: a principio giudicavamo che fusse una nave, ma fatti piú presso s'accorgemmo che era una gran balena, sopra la quale vi erano delle foliche in gran numero, e d'odor molto fetente. Allora avevamo fatto altri venti miglia.
16 detto, facendo vela con tal progresso verso 4° tramontana greco, con aere nubiloso, sentivamo il ghiaccio prima che lo vedessimo. Finalmente rischiarandosi l'aere lo vedemo e da quello si scostammo, avendo, secondo il nostro giudicio, navigato per 30 miglia.
17 e 18 di giugno di nuovo vedemmo una gran quantità di ghiaccio, lungo 'l quale fu fatto vela fino ad una punta di esso ghiaccio, la quale non potemmo passare, perchè il vento da siroco ci era all'incontro e la punta del ghiaccio ci era opposta verso ostro. Navigammo un pezzo volteggiando, ma indarno.
19 detto di nuovo vedemmo terra. Allora, tolta l'altezza del sole, la trovammo sopra l'orizonte gradi 56 e minuti 45; la declinazione era di gradi 23 e minuti 26, li quali aggiunti alla altezza trovata fanno l'altezza del polo gradi 80, minuti 11. Questa terra era molto ampia, lungo la quale facemmo vela fino a gradi 79 e mezo, ove trovammo un commodo ricetto da navi; né potevamo accostarsi a terra, perciochè spirava dritto da terra greco. Il seno era steso al dritto in mare verso ostro.
21 detto gettamo l'ancora dinanzi al continente, e noi andammo co' marinari di Giovanni di Cornelio al lato orientale di quella terra per trovar savorna. E tornando con la savorna alle navi di nuovo vedemmo un altro orso bianco, che nuotava verso la nostra nave, il che fu cagione che lasciando il nostro servizio smontassimo nella scaffa, e cosí parimente i marinari di Giovanni di Cornelio, e spingendo co' remi la barca seguitassimo l'orso, il quale, toltali la strada dal continente, spingevamo in fuori e perseguitavamo mentre nuotava verso l'altro mare. E perchè la nostra barca andava troppo lenta, tiramo fuori anco il battello per seguitar piú presto il corso, ma quello era già nuotato quasi un miglio in mare; nientedimeno con la maggior parte de' marinari e con tre barche lo seguitammo, e ci affaticamo assai in bastonarlo e ferirlo, sí che avevamo rotto la maggior parte delle arme. Quegli una sola volta pose l'unghe nel nostro battello, sí che vi lasciò anco il segno, e ciò nella prora, che se cosí avesse posto il piede nella banda forse l'avrebbe travolto, cosí robuste e forzate aveva l'unghie. Finalmente, avendolo buona pezza stancato, tra tutte tre le barche lo vincemmo e l'uccidemmo, e tirato nella nave lo scorticammo: e fu la sua pelle lunga 13 piedi.
Dipoi col nostro copano o battello navigammo quasi un miglio verso il continente, ove trovammo un commodo porto e buon fondo e saldo, ma dalla parte orientale era il fondo arenoso. Calato lo scandaglio, si trovò altezza di 16 braccia, e poi di 12 e 10. E continuando la navigazione trovammo dal lato orientale due isole, che scorrevano in mare verso oriente; dal lato occidentale anco vi era un gran seno, che quasi aguagliava l'isola. Allora navigando all'isola di mezo trovammo molte ova di barnicole o ocche (le quali gli Olandesi chiamano rotgansen), e le ocche stesse che le covavano, le quali fugate gridavano rot rot rot (onde hanno avuto il nome); e tirato un sasso ne ammazzammo una, la qual cotta mangiammo, con circa 60 ova che portammo in nave.
Queste barnicole o ocche erano le vere ocche dette rotgansen, delle quali ne vengono e se ne pigliano ogn'anno intorno Wieringen quantità grande, che fin ora non si era ancora saputo dove ponessero l'ova o allevassero i polli loro: e quindi è avenuto che molti autori non si siano vergognati a scrivere che nascano in Scozia d'alberi, de' cui rami stessi sopra l'acqua i frutti che cadono nell'acqua si generano i polcini di queste ocche, che subito nuotano via, ma quelli che cadono in terra si corrompono, né fanno frutto alcuno: il che ora si conosce esser falso. Né deve esser maraviglia che fin ora non s'abbia saputo dove questi uccelli mettono l'ova, poi che niuno, che si sappia, è mai piú arrivato alli 80 grado, né mai piú è stata conosciuta quella regione in quel luogo, e molto meno quelle ocche trovate a covar l'ova.
Questo anco è degno di considerazione, che quantunque questa regione, la qual noi facciamo giudicio che sia la Groenlandia, sia situata sotto 80 gradi e anco piú, abonda nondimeno di alberi e d'erba, e nutre animali che vivono d'erba, come sono rangiferi e altri che qui vivono; e nella Nuova Zembla, la quale è sotto il 76o grado, non vi si trova né fronda né erba, né meno animali che di ciò vivono, ma solo di quelli che mangiano carne, come orsi, volpi e simili, essendo nondimeno 4 gradi piú lontana dal polo della Groenlandia.
23 giugno, levate le ancore, facemmo vela in mare verso maestro, ma però non potemmo navigar molto lontano, perchè ci convenne fuggir il ghiaccio: e ritornammo nell'istesso luogo di donde eravamo partiti, e ficcammo le ancore in altezza di 18 braccia d'acqua. Dipoi levate di nuovo le ancore, navigammo lungo l'orlo occidentale della terra, e li nostri marinari uscirono in terra per osservar la variazione della lanzetta del bussolo da navigare. In tanto un orso bianco nuotava verso la nave, e sarebbe in essa montato se non avessimo gridato e tiratoli d'arcobugio; per il che partitosi dalla nave nuotava verso l'isola, dove erano li nostri. Il che vedendo noi facemmo vela verso terra e fortemente gridammo, in maniera che i nostri giudicavano che avessimo dato in qualche scoglio ed erano molto impauriti, e l'orso anch'egli spaventossi in modo che di nuovo tornò a nuotare lungi dal continente e abbandonò i nostri: di che ne sentimo non picciola allegrezza, per esser li nostri senz'arme. Quanto al variar della bussola, perchè erano smontati in terra per meglio misurar il sito, trovarono gradi 16 di differenza.

L'istesso giorno arrivammo in un'altra isola, nella quale trovammo la variazione della bussola del tutto diversa, di modo che ne potemmo indi trar poca congiettura. Quindi, tolte alquante ova, tornammo a remi alla nave.
24 giugno, facendo vento da garbino, non potemmo passar quell'isola, e per ciò tornando indietro, trovammo un altro porto quattro miglia distante dal primo dalla parte occidentale del porto maggiore, e quivi mandamo giú l'ancore in dodeci braccia d'altezza. Co' remi andammo per un gran spazio in dentro, e smontati in terra trovammo due denti di rosmari, li quali insieme pesavano sei libre; ne trovammo anco molti altri piú piccioli, e con essi tornammo alle navi.
25 detto, levate di nuovo le ancore, facemmo vela lungo la terra verso ostro e verso garbino, con vento da greco tramontana, fino al grado 79. Ove trovato un gran seno, navigammo in quello intorno 10 miglia verso ostro, ma osservammo non esser navigabile, mandando talor lo scandaglio fino a 10 braccia; ma ci fu forza con corso obliquo uscire, perciochè spirava vento da tramontana e noi a tramontana avevamo da andare. E s'accorgemmo che s'estendeva al continente, il che di lontano, perchè era la terra bassa, non ce ne potemmo accorgere: perciò facemmo vela quanto piú presto potemmo, fin che s'accorgemmo che con obliqua navigazione avevamo ad uscire di nuovo alli 27.
Alli 28 del detto passammo la punta verso occidente, ove era tanta frequenza d'uccelli che volando da stupidità davano nelle nostre vele, e navigammo verso mezzogiorno per circa dieci miglia, e poi verso occidente per schifar il ghiaccio.
29 detto fu fatto vela longo la terra verso siroco, piegando alquanto verso levante, fino a gradi 76, minuti 50, perchè bisognò allargarsi da terra per rispetto del ghiaccio.
30 giugno navigammo verso ostro, piegando alquanto verso levante. Poi fu tolta l'altezza del sole, la quale fu di gradi 51, minuti 40 sopra l'orizonte; e la declinazione era gradi 23, minuti 20, li quali aggiunti alla altezza trovata ci mostrano che eravamo stati sotto 75 gradi.

Luglio 1596.

Il primo di luglio di nuovo ci apparve l'isola degli Orsi. Allora Giovanni di Cornelio, con quei che nella sua nave avevano qualche carico, venne alla nostra e ci parlò di mutar camino, e sí come eravamo d'altro parere che lui, cosí fu determinato che noi dovessimo seguire il nostro camino ed egli il suo, cioè ch'egli sí come desiderava di nuovo navigasse verso 80 grado, perciò che gli dava l'animo di poter facilmente penetrare al lato d'oriente di quella terra situata sotto l'80o grado. E a questo modo ci separammo l'uno dall'altro, perciochè essi navigarono verso il settentrione e noi verso l'ostro, per rispetto del ghiaccio, facendo vento da siroco.
Alli 2 del detto navigammo verso oriente, avendo la elevazione di gradi 74, con vento da maestro tramontana, e si voltammo all'altra punta, soffiando greco levante, e navigammo verso il settentrione. Verso sera, sendo il sole in 4° maestro tramontana, di nuovo volgemmo il corso per cagion del ghiaccio, tirando vento da levante, e facemmo vela verso ostro siroco. E circa il sole in siroco levante di nuovo si mutò camino per rispetto del ghiaccio, ma sendo poi il sole in ponente garbino si voltammo di nuovo verso greco.
3 di luglio avemmo l'altezza di gradi 74, con vento da 4° levante siroco, e facemmo vela verso 4° di greco tramontana; dipoi spirando ostro voltandosi navigammo verso siroco, fin che 'l sole fu circa maestro; poi cominciò a rinforzar il vento.
4 dell'istesso demmo le vele verso 4° levante greco, né trovammo ghiaccio, di che ci maravigliammo, navigando noi in tanta altezza; ma circa il sole in ostro ci fu bisogno di voltare per cagione del ghiaccio, e ci drizzammo verso ponente, spirando tramontana. Dipoi, sendo il sole in tramontana, spirando maestro navigammo verso siroco.
5 del detto facemmo vela verso greco tramontana fin che 'l sole fu in ostro, dipoi voltammo il camino a siroco, spirando greco. Poi fu cercata l'altezza del sole, la qual fu sopra l'orizonte gradi 50, minuti 27; la declinazione era di gradi 22, minuti 53; giunti questi all'altezza trovata, si trovò ch'avevano il polo elevato gradi 73, minuti 20.
7 luglio calammo lo scandaglio con tutta la corda ove era attaccato, né si trovò fondo; ed eravamo portate da quarto greco levante verso quarto siroco levante, ed eravamo sotto l'elevazione di gradi 72, minuti 30.
8 luglio, spirando favorevole quarto tramontana maestro, navigammo verso quarto levante greco, con un'ora alquanto piú fresca, e pervenimmo alla elevazione del polo di 72 gradi e minuti quindeci.
9 detto, spirando ponente, facemmo vela verso quarto levante greco. Alli dieci poi, circa il sole in ostro garbino calato lo scandaglio per 160 braccia d'altezza, spirando quarto greco tramontana navigammo verso 4° siroco levante, all'elevazione di gradi 72.
11 dell'istesso avemmo fondo di 70 braccia, né trovammo ghiaccio: allora facemmo congiettura che eravamo diritto tra ostro e tramontana all'incontro di Candinas, che è il promontorio orientale del mar Bianco, il qual ci era opposto dall'ostro, e avevamo un fondo arenoso. Era poi una lingua di arena stesa in mare, sí che non avemmo dubio alcuno che fussimo sopra la lingua del mar Bianco, perciochè in tutta quella riviera non avevamo mai trovato fondo arenoso, eccetto quel sopra detta lingua. Spirava vento da 4° siroco levante, e navigavamo verso ostro e 4° siroco ostro, sotto l'elevazione di gradi 72; trovato poi di nuovo ostro siroco, drizammo il camino verso maestro, acciochè potessimo passare essa lingua. La mattina se n'andavamo con tranquillità grande, e trovammo esser sotto l'elevazione del polo di gradi 72; e di nuovo trovato siroco, circa il sole in garbino, facemmo vela verso greco. E calato lo scandaglio si trovò 150 braccia d'altezza di fondo cretoso, e avevamo passato la lingua, la quale era angusta, sí che nello spazio di ore sette, sendo il sole in greco tramontana, la passammo.

12 di luglio, spirando levante, navigammo verso 4° tramontana greco. La notte, sendo il sole circa greco tramontana, voltato il corso, perchè faceva greco tramontana, si fe' vela verso 4° siroco levante fin che scorse il primo 4°.
13 del detto, spirando greco tramontana, navigammo verso levante, e, tolta l'altezza del sole, la trovammo gradi 51, minuti 6 sopra l'orizonte; la declinazione era gradi 21, minuti 54, li quali aggiunti alla trovata altezza, si vide che l'altezza del polo era gradi 73. E di nuovo dammo nel ghiaccio, ma non molto, e giudicammo esser vicini alla terra di Willebuys.
14 del medesimo, soffiando maestro tramontana, facemmo vela verso greco e, mentre che durò il desinare, per il ghiaccio; e calato lo scandaglio fra mezzo il ghiaccio, trovammo profondità di 90 braccia. All'altro quarto, tornato giú lo scandaglio, si trovò altezza di 100 braccia, e andammo tanto lontano per il ghiaccio che piú non potevamo, perchè non si vedeva apertura alcuna, ma con gran fatica ci convenimmo districare fuori del ghiaccio, voltando or qua or là il corso, spirando ponente. Poi avemmo l'altezza di gradi 74, minuti 10.
15 di luglio andavamo con tranquillità fra mezzo il ghiaccio, e calato lo scandaglio si trovò fondo di 110 braccia, e spirando levante navigammo verso garbino.
16 luglio, usciti del ghiaccio, vedemmo un grand'orso che sedeva sopra quello, il quale vedutoci saltò nell'acqua: e noi fatta vela seguitandolo, di nuovo ritornò sopra il ghiaccio, pure li tirammo una archibugiata. Navigando poi verso siroco levante non trovammo ghiaccio alcuno, e facevamo giudicio che non eravamo molto discosti dalla Nuova Zembla, per aver veduto l'orso assiso sopra il ghiaccio, e gettato lo scandaglio trovammo profondità di 100 braccia.
17 del detto osservammo il sole esser elevato sopra l'orizonte gradi 37, minuti 55; la declinazione era gradi 21, minuti 15, i quali detratti dall'elevazione, rimangono gradi 16, minuti 40; quali detratti di 90, dimostrarono l'elevazione del polo esser gradi 74, minuti 40. Sendo il sole circa l'ostro vedemmo il continente della Nuova Zembla intorno a Lomsbay, ma io prima d'ogni altro; allora, mutato il cammino, navigammo verso quarto greco levante, e stringemmo tutte le vele, eccetto il trinchetto davanti e la mezana.
18 di luglio ci apparve di nuovo terra, avendo altezza di gradi 75 e facendo vela per 4° greco tramontana, soffiando maestro; passammo la punta dell'isola detta della Admiralità, spirando ponente e navigando verso greco levante, ma la terra è stesa verso greco levante.
19 detto, arrivando all'isola della Croce, cosí chiamata da due croci in quella piantate, non potemmo andar piú oltre per rispetto del ghiaccio, il quale ancora giaceva presso la riviera: e il vento da ponente spirava diritto in quella riviera. L'altezza del polo era 76 gradi e minuti 20.
20 dell'istesso di sotto dall'isola gettammo l'ancore, perciochè per rispetto del ghiaccio non potemmo gir piú oltre. Perciò, tratto fuori il copano, si vogammo otto di noi a terra e andammo verso una di quelle croci, appresso la quale si riposammo alquanto; e mentre poi andavamo all'altra, nel viaggio scoprimmo due orsi appresso l'altra croce, ed eravamo del tutto disarmati. Gli orsi s'inalzarono appoggiandosi alla croce per poterci meglio vedere, perciochè hanno migliore odorato che vista, e perciò come ci ebbero sentiti a naso si levarono, e poi vennero alla nostra volta. Laonde fummo presi da non leggier spavento, e di nuovo ritornammo al nostro battello, voltandoci spesso indietro a vedere se ci seguitavano, e ci apparecchiavamo a fuggire se 'l patrone non ci avesse ritenuti gridando: "Il primo che si mette a fuggire, io con questo langhiero (il qual aveva in mano) lo passo, perchè è meglio star insieme uniti e far prova se col nostro grido potiamo far loro paura". Per tanto se ne tornammo pian piano al copano e in quello ci salvammo, con somma allegrezza d'aver fuggito cosí gran pericolo e poterlo altrui narrare.
21 di luglio, misurata l'altezza del sole, fu trovata sopra l'orizonte gradi 35, minuti 15; la declinazione era gradi 21. Questi detratti dall'altezza trovata, rimangono gradi 14, li quali detratti da 90 fanno l'altezza del polo gradi 76, minuti quindeci: e trovossi che l'ago della bussola errava di gradi ventisei intieri. L'istesso giorno due de' nostri marinari andarono di nuovo verso la croce, né trovarono impedimento alcuno d'orsi. Noi li seguimmo con armi, temendo per l'infortonio passato, e sendo giunti alla seconda croce trovammo ancora due pedate d'orso, dalle quali comprendemmo quanto lungi ci seguitassero, e vedemmo che erano arrivati cento piedi lontano dal loco dove ci eravamo fermati.
22 luglio, che fu in lunedí, piantammo quivi un'altra croce, nella quale vi scolpimo le nostre insegne; e ci fermammo intorno ad essa croce fino alli 4 d'agosto, e in terra lavammo le nostre camicie e l'asciugammo.
30 detto, essendo il sole intorno al settentrione, venne un orso presso la nave per un trar di mano, quello a punto a cui con lo schioppo avevamo ferito un piede, sí che se ne fuggí zoppicando.
31 luglio, sendo il sole intorno greco levante, noi sette in numero ammazzammo l'orso, il cui cadavero, levateli la pelle, gettammo in mare. Sul mezzogiorno col nostro astrolabio trovammo che la lancetta della bussola errava di gradi 17.

Agosto 1596.

Il primo d'agosto di nuovo vedemmo un orso bianco, il qual fuggí subito.
Il 4 del detto, districandoci del ghiaccio, arrivammo all'altro lato dell'isola, ove fermandoci portammo nella nave il copano pieno di sassi, non senza gran fatica e difficultà.
5 d'agosto, di nuovo facendo vela verso il capo del Ghiaccio, spirando levante, andavamo verso ostro siroco e greco tramontana, né trovando ghiaccio intorno terra, tenimmo lungamente il corso a longo quella. E alli 6 passammo il promontorio Nassovico, e navigammo verso levante e 4° siroco levante lungo l'orlo della terra.
Alli 7 d'agosto, spirando ostro, facemmo vela dietro la riviera della terra verso siroco e 4° levante siroco, e trovando poco ghiaccio giungemmo al promontorio di Consolazione, al quale già un pezzo avevamo aspirato. Verso sera, spirando vento da levante e levatasi una nebbia, fu forza fermar la nave ad un pezzo di ghiaccio, il quale andava sott'acqua quasi 36 braccia e avanzava di sopra quasi 16, cioè ch'era grosso 52 braccia, perciochè toccava il fondo dove era l'acqua d'altezza di 36 braccia.
8 del detto la mattina spirava ancora levante e la nebbia stava ferma.
9 del medesimo, stando noi accosto a quel gran pezzo di ghiaccio, cominciò a nevigar una neve foltissima, ed era il cielo nuvoloso, sendo il sole circa l'ostro. E passeggiavamo sopra la coperta o tavolati, sí come eravamo soliti a far le sentinelle, e 'l nocchiero ancor egli caminando sentí uno animale a rispirare, e guardando fuori vide un grand'orso che giaceva appresso la nave: e gridando ad alta voce "l'orso, l'orso", tutti montamo di sopra la coperta o tavolato e vedemmo l'orso presso 'l nostro battello, che s'affaticava co' piedi dinanzi di montar in quello. Ma levato da noi un gran grido, impaurito nuotò lontano, ma subito ritornato s'ascose dietro quel gran pezzo di ghiaccio al qual eravamo attaccati, e montato sopra quello senza timore se ne veniva alla nostra volta per passar nella nave. Ma noi avevamo tesa la vela della barca sopra il zocco dell'ancora, dietro la quale stavamo nascosi con quattro archibugi, dalli quali ferito se ne fuggí via; ma per la folta neve che fioccava non potemmo osservare dove andasse, ma sospettavamo che si fusse posto a sedere sopra un certo tumulo, che molti n'erano sparsi su per quei pezzi di ghiaccio.
A' 10 d'agosto, che fu il dí di sabbato, cominciò il ghiaccio in copia ad andar fluttuando, e allora solamente ci accorgemmo che quel pezzo di ghiaccio al quale eravamo fermati s'appoggiava sul fondo, perchè gli altri pezzi di ghiaccio scorrevano oltra, per la qual cosa non poco tememmo che quel ghiaccio non ci fracassasse e affogasse. Perciò usammo gran diligenzia e fatica per uscir di là, e perchè si trovavamo in gran pericolo, ed essendosi già tutti posti in opera intorno al far vela, fu portata la nave con tanto impeto nel ghiaccio che fece rimbombar tutti i luoghi d'intorno, e pervenimmo ad un altro gran pezzo di ghiaccio, al quale gettata l'ancora ci fermammo fino a sera. E la sera, avendo già cenato, nel primo quarto cominciò quel gran pezzo di ghiaccio impensatamente a spezzarsi, con cosí orrendo strepito che a pena si può dire, perciochè con quella gran spezzatura andò in piú di 400 pezzi: e sendoci a quello accostati con la prora, lentando la corda ci liberammo. Sott'acqua quel pezzo dove toccava fondo era grosso 10 braccia e sopra acqua avanzava due, il qual creppando fece uno strepito orrendo tanto sott'acqua quanto sopr'acqua, e quei fragmenti si sparsero qua e là. Liberati da quel gran pericolo, di nuovo fummo portati ad un altro pezzo di ghiaccio grande, che andava sott'acqua 6 braccia, dall'uno e dall'altro lato del quale fermammo le corde. Dipoi ne vedemmo un altro gran pezzo alquanto da noi discosto in mare, che stava erto in alto a guisa d'una piramide o d'una torre, al quale accostati, mandato giú lo scandaglio, trovammo che andava giú fino al fondo per venti braccia, e sopra acqua avanzava quasi dodeci.
11 d'agosto, giorno di domenica, andammo co' remi ad un altro pezzo di ghiaccio, il qual trovammo, mandato giú lo scandaglio, che andava sotto acqua fino al fondo diciotto braccia e sopra acqua avanzava dodeci.
12 detto facemmo vela piú presso terra per sollevarci dal ghiaccio, perchè, nuotando pezzi di ghiaccio cosí grossi e cosí profondi, vicino a terra in fondo di 4 o 5 braccia eravamo da quelli piú sicuri: e quivi era una gran discesa di acque dai monti. E un'altra volta fermammo la nave ad un pezzo di ghiaccio, e quella punta del ghiaccio la chiamammo la punta minore.
13 dell'istesso di mattina dalla punta oriental della terra venne un orso presso la nave, al quale uno de' nostri marinari tirò una archibugiata, e gli scavezzò un piede; nientedimeno con tre piedi saltando ascese sopra un monte, ma noi seguitandolo poi l'ammazzammo, e cavatali la pelle la portarono nella nave. Indi spirando leggier vento facemmo vela, ma sempre torcendo il corso. Finalmente cominciò a spirar maggior vento dall'ostro e da ostro siroco.
Alli 15 detto giungendo all'isola d'Orangia, presso ad un gran pezzo di ghiaccio, fummo cinti dal ghiaccio, sí che andammo a pericolo grande di perder la nave, nondimeno con gran fatica arrivammo ad essa isola. E spirando vento da levante eravamo sforzati di condur la nave altrove, intorno al che occupati, gridando ad alta voce, si destò un orso che quivi dormiva e venne a noi verso la nave, sí che ci convenne lasciar l'opera e difendersi da quello: ma ferito d'un'archibugiata fuggí verso l'altro lato dell'isola, e nuotando montò sopra un pezzo di ghiaccio e quivi fermossi. Ma vedutici che con la barca a remi lo perseguitavamo, saltò di nuovo in acqua e cominciò a nuotar verso terra, ma serrandogli la strada con una scurre gli ferimmo il capo; ma egli ogni volta che alzavamo noi la scurre per ferirlo sempre si tuffava sott'acqua, sí che con gran difficoltà lo potemmo uccidere, poi tiratolo in terra gli levammo la pelle, qual portammo in nave. Dipoi conducendo la nave ad un gran pezzo di ghiaccio, a quello la fermammo.
17 d'agosto, dieci di noi con la fregata passammo a remi nel continente della Nuova Zembla e tirammo la barca sopra il ghiaccio, dipoi montando sopra un alto monte osservammo il sito del continente a noi opposto, qual trovammo che molto si stendeva a siroco e ostro siroco, e dipoi voltar molto verso ostro, onde prendemmo diffidenza grande che quella terra fusse tanto stesa all'ostro. Ma veduta l'acqua aperta a siroco e siroco levante, di nuovo sentimmo allegrezza grande, stimando esser già fornita la navigazione, né sapevano trovar mezo o via di tornar alla nave assai presto per poter ciò riferire a Guglielmo di Bernardo.


Come presso l'isola d'Orangia fummo serrati dal ghiaccio con pericolo grande, e come un terribil orso che dormiva presso la nave, svegliato dai nostri gridi, ci diede da fare, sí che, lasciata l'opra, bisognò combatter con quello e con difficultà si vinse e uccise.
Cap. IIII.

18 del detto apparecchiamo il tutto per far vela, ma con vano disegno e inutil fatica, che quasi perdemmo l'ancora e due corde grosse nuove, e dopo molti stenti indarno sofferti ci fu necessario ricorrer in quel luogo istesso onde eravamo partiti, perciochè un gran crescente del mare rifluttuava e il ghiaccio correva velocissimamente fin sopra le corde lungo la nave, in modo che pensavamo di perder quanto avevamo di fuori della nave, e n'erano piú di dugento braccia di fuori della nave. Ma Iddio tutto rivolgé in bene, sí che tornammo onde ci partimmo.
19 del detto, sendo aere assai queto e spirando garbino e correndo ancora il ghiaccio, facemmo vela con vento assai favorevole e venimmo presso il capo del Desiderio, onde di nuovo non picciola speranza prendemmo. Passata la punta, caminammo verso siroco in mare e drizzammo il corso verso maestro, fin che di nuovo giungemmo alla terra che si stende dal capo o punta del Desiderio fino alla punta del Capo verso 4° garbin ostro per sei miglia. Dall'angolo del promontorio fino al promontorio Ulissingese si stende la terra verso 4° garbin ostro per tre miglia, e dal promontorio Ulissingese si stende in mare verso siroco levante; e di nuovo dal promontorio Ulissingese fino al canton dell'Isola si stende verso 4° ostro garbin e garbin per tre miglia, e dal canton dell'Isola fino al canton del Porto del Ghiaccio verso ponente garbino per quattro miglia; dall'angolo poi del porto del Ghiaccio fino al seno del Flusso e l'umil terra verso 4° garbin ponente 4° greco tramontana per 7 miglia, poi la terra è stesa verso levante e ponente.
21 detto navigammo longamente nel Porto del Ghiaccio e quivi s'annottammo. La mattina poi, correndo la crescenzia del mare grandemente verso levante, di nuovo uscimmo e un'altra volta navigammo verso la punta dell'isola, ma, sendo l'aere nubiloso, fummo portati ad un pezzo di ghiaccio, al quale fermammo la nostra nave, perciochè garbino e ostro garbino cominciavano a soffiare grandemente. Montando sopra il ghiaccio, non potevamo mirarlo a bastanza, tanto bella e graziosa cosa ci pareva, la superficie del quale era coperta di terra, e in quella trovammo quasi 40 ovi. Era dissimile dall'altro ghiaccio, e di color azurro come il puro cielo, in modo che tra i nostri erano diverse opinioni, altri affermando che fusse vero ghiaccio, altri terra congelata dal freddo: perciochè molto avanzava sopra acqua, e arrivava al fondo di quasi 18 braccia e dieci sopra acqua avanzava. Quivi ci fermammo mentre durò la fortuna e spirò 4° ponente garbin.
23 agosto partimmo dal ghiaccio verso siroco caminando in mare, ma di nuovo subito dammo nel ghiaccio, e ritornammo al Porto del Ghiaccio. Il giorno dietro, spirando impetuosamente maestro tramontana e scorrendo grandemente il ghiaccio, stammo con gran travaglio, e levandosi il vento maggiore il ghiaccio maggiormente caminava, sí che la bertoella del timone e parte del timone ci fu portato via, e il copano tra 'l ghiaccio e la nave fu fracassato e fatto in pezzi, né aspettavamo altro se non che anco la nave si spezzasse.
25 agosto cominciò a bonazzarsi l'aere, e facemmo di gran fatica in spinger via il ghiaccio che ci stringeva, ma ogni fatica fu vana. Sendo poi il sole in garbino, cominciò il ghiaccio col flusso del mare a scorrere, e facevamo pensiero d'andare verso ostro per far vela verso Weygats, circondando la Nuova Zembla; ma avendo passata la Nuova Zembla, né trovando apertura alcuna, ci togliemmo di fantasia di poter piú passare ed eravamo d'opinione di tornar a casa. Ma venendo al seno del flusso bisognò per rispetto del ghiaccio ritornare, il qual era quivi fermato saldo, e quella stessa notte si gelò talmente che non potemmo a pena passare, cosí denso spirava il vento da tramontana.


Come, cinti un'altra volta dal ghiaccio, avendo mandato gli uomini fuori a spinger via esso ghiaccio, ne perdemmo quasi tre dopo mosso il ghiaccio da sua posta a scorrere, che se non s'appigliavano alle corde della nave erano portati giú del ghiaccio.
Cap. V.

26 d'agosto cominciò il vento a soffiar ad ogni verso, perciò disegnavamo di ritornare verso la punta del Desiderio e indi a casa, poichè per Weygats non potevamo passare; ma sendo pervenuti appresso il porto del Ghiaccio, cominciò il ghiaccio cosí ad ondeggiare che rimanemmo da quello cinti, benchè gagliardamente ci affaticassimo per penetrare, ma ogni fatica fu gettata. E se il ghiaccio avesse tenuto il suo corso, avremmo quasi perduto tre uomini che stavano sul ghiaccio per farci strada, ma sendo noi portati adietro e tornando similmente adietro il ghiaccio sopra il quale erano li tre uomini ed essendo essi agili e presti di mano, passando presso la nave il ghiaccio, s'appigliarono uno alle corde ove sta attaccata la vela maggiore, l'altro alle corde dell'arbore, e il terzo ad una corda che pendeva della poppa: e cosí fortunatamente con tal destrezza e agilità con un salto poi vennero nella nave, onde resero molte grazie a Dio, perciochè ognuno credeva piú tosto che dovessero esser portati dal ghiaccio, ma con l'aiuto di Dio e per la loro agilità uscirono di quel pericolo, il qual spettacolo a chi 'l vide parve formidabile.
L'istesso giorno verso sera giungemmo al lato occidentale del porto del Ghiaccio, ove ci bisognò stare tutta la vernata fredissima in gran miseria, penuria e rincrescimento, e spirava allora vento da greco levante.
27 d'agosto il ghiaccio ondeggiando e fluttuando cinse del tutto la nave, ed essendo piacevol aura andammo nel continente, e sendo andati un pezzo inanzi, cominciò a spirar un siroco assai veemente, il qual con tanto impeto spinse il ghiaccio nella prora della nave che la levò quasi 4 piedi in alto, e la poppa stava come nel fondo, in modo tale che tenevamo per certo che ella fusse ispedita. Per il che quelli che erano nella nave, subito messa fuori la scala per salvar la vita, spiegando una bandiera al vento ci diedero segno che tornassimo alla nave. Noi, vedendo la bandiera volteggiar al vento e la nave cosí inalzata e torta, con quanta fretta potemmo maggiore a quella andammo, giudicando che ella fosse rotta; ma, giunti là, trovammo il tutto in miglior stato di quello che credevamo.
28 del detto, cedendo alquanto il ghiaccio, cominciò la nave a drizzarsi; ma avanti che si drizzasse Guglielmo di Bernardo e il vicario del governatore erano andati sotto la prora a vedere come stava la nave e quanto fusse alzata, ed essendo intorno a ciò occupati, appoggiandosi e co' ginochi e con li gomiti a misurare, levossi la nave con tanto strepito che si stimarono morti, non sapendo dove ritirarsi.
29 dell'istesso, ridotta la nave in stato commodo, facemmo un apparecchio grande di mazze e pali di ferro e altri stromenti per spezzar quei pezzi di ghiaccio ch'erano spinti un sopra l'altro, ma con fatica vana e senza speranza alcuna, sí che raccomandammo il tutto a Dio a da lui solo aspettavamo aiuto.


Come la nave fu alzata con la prora in alto dalli gran pezzi di ghiaccio, che venendo giú si cacciavano l'un sotto l'altro sotto essa nave, sí che la puppa stava quasi per fondo; e come Guglielmo e 'l suo vicario, che erano andati a misurare quanto era levata, nel tornar giú furono in gran pericolo, e come ancora in tal pericolo libarono alquanti vasselli di biscotto, tirandoli in terra col battello.
Cap. VI.

30 d'agosto cominciaron di nuovo i pezzi di ghiaccio a spingersi un sopra l'altro verso la nave, spirando terribilmente garbin ostro e cadendo una foltissima neve; per il che la nave del tutto si fermò e si caricò, onde tutto d'intorno a quella cominciò a crepare e la nave stessa a spezzarsi in cento parti, il che e a vedere e ad udire era spaventevole, in modo che ci si arricciavano li capelli. In tal pericolo fu la nave. Poi, sendo mandati sotto acqua quei fragmenti di ghiaccio che cosí di ogni intorno la stringevano, fu spinta in alto, sí che parve che fusse levata con qualche ordegno di ferro.
31 d'agosto, di nuovo scorrendo giú il ghiaccio con tanto impedito, fu levata la prora della nave in alto quattro o cinque piedi, e la poppa era cacciata in una fessura del ghiaccio, onde giudicavamo che cosí il timone dovesse esser salvo dall'impeto del ghiaccio che correva; ma correa con tanta furia che si spezzò e 'l timone e le bartovelle dove era attaccato, e se cosí la poppa come la prora fusse stata volta al corso del ghiaccio, sarebbe stata tutta la prora coperta o forsi sommersa, di che molto temevamo. E prima ponemmo la scaffa col battello nel ghiaccio per potersi in caso di pericolo salvare, ma intorno 4 ore dopo il ghiaccio da sua posta tornò adietro, per il che sentimmo non poca allegrezza, non altrimenti che se fussimo liberati dalla morte, perciochè la nave di nuovo scorreva liberamente. Dipoi, accommodato di nuovo il timone e la sua bartovella, lo appiccammo di fuori dell'uncino, perchè se occorresse di nuovo che fossimo cosí levati fusse libero.

Settembre 1596.

Il primo di settembre, che fu sacro al Signore, sendo occupati a far orazione, cominciò di nuovo il ghiaccio a spingerci talmente che la nave tutta si levò quasi due piedi in alto, stando però ancor ferma. Al mezogiorno, venendo giú ancora il ghiaccio e montando l'un pezzo sopra l'altro, si preparammo a tirar la scaffa e il battello sopra il ghiaccio in terra, spirando siroco.
2 settembre, spargendo la tramontana una spessa neve, cominciò di nuovo il ghiaccio a stringer la nave, onde scoppiava grandemente, talchè si consigliamo in tal fortuna di tirar il copano e battello in terra con tredeci vascelli pieni di biscotto e due di vino, per sostentarci nel bisogno.
3 del detto, il vento spirava al solito gagliardo da greco tramontana, ma non menava cosí folta neve, e ritirandoci di nuovo dal ghiaccio, che ci stringeva talmente che spingeva il legno della prora fuori, ma le tavole con le quali era fortificata la nave lo tennero, sí che pendeva giú da quelli. E fu rotto anco un pezzo dell'arbore, insieme con un capo di corda nuovo col quale eravamo legati al ghiaccio, per il gran carico, nientedimeno stete ancora saldo congelato in esso ghiaccio: perchè la nave stava ferma, il che era da maravigliare, perchè il ghiaccio veniva giú con tal impeto che venivano giú monti di ghiaccio non minori de' monti di sale che si veggono in Spagna, e un tiro solo d'arcobugio lontano dalla nave, onde stavamo con gran spavento
4 dell'istesso, addolcendosi il vento e di nuovo risplendendo il sole, sendo però l'aere freddo e spirando tramontana, pur ci bisognò star quivi.
5 detto, sendo un sole come ammalato e tranquillità, dopo cena di nuovo il ghiaccio ci venne ad assediare, sí che molto ci stringeva, e la nave cominciava tutta a levarsi e patir grandemente: pur per grazia di Dio stette ancor salda. Perchè in somma temevamo che la nave ci mancasse, in cosí gran pericolo ci trovavamo, in tal difficultà giudicamo esser bene portar in terra il nostro trinchetto vecchio, la polve d'artiglieria, il piombo, gli schioppi e falconetti e tutte l'altre arme, per drizzar un padiglione intorno alla nostra barca, che avevamo tirata in terra; prendemmo appresso pane e vino e instrumenti fabrili per riparar la nostra scafa, acciochè nelli bisogni ci potesse servire.
6 di settembre fu assai buon aere e tranquillo, e col sol chiaro spirava vento da ponente, sí che alquanto rispirammo, sperando che 'l ghiaccio si dovesse consumare sí che potessimo indi partire.
7 del detto, benchè fusse assai buon aere, non vedemmo però apertura alcuna dell'acqua, ma stavamo fermi stretti nel ghiaccio, in modo che non si poteva trar goccia d'acqua d'intorno la nave. L'istesso giorno cinque de' nostri andarono in terra, ma due tornarono e altri tre andarono inanzi circa due miglia, i quali trovarono un fiume d'acqua dolce, e appresso a quello copia di legni condotti là dal fiume; e osservarono anco pedate di rangiferi e alci, come essi giudicavano, perciochè erano pedate fesse in due parti e l'une maggiori dell'altre, onde fecero tal congietura.
8 del detto spirava greco levante gagliardo, a noi del tutto contrario e discommodo per batter in pezzi il ghiaccio, onde ognora piú eravamo stretti: il che ci era di gran travaglio.
9 dell'istesso fece vento da greco spargendo una neve minuta, il che cagionò che la nostra nave fusse del tutto stretta dal ghiaccio, perciochè il vento spingeva con grand'impeto il ghiaccio nella nave, sí che per tre o quattro piedi eravamo calcati e il legno da poppa qualche volta creppava, e di piú la nave dalla parte dinanzi cominciava un poco ad aprirsi, ma non però con gran pericolo. La notte vennero presso la nave due orsi, ma dal suonar delle trombe e dallo strepito degli archibugi che si scaricarono, benchè non li toccassero per esser scuro, impauriti fuggirono.
10 di settembre, benchè facesse l'istesso vento, non fu però cosí grande e fu un poco piú piacevol ora.
11 dell'istesso fu bonazza, e noi andati otto in terra ben forniti d'arme, a vedere se era vero quello che ci avevano riferito quei tre, cioè che vi fossero legna appresso un fiume, perciò che, poi che tante volte e tanto tempo eravamo andati vagando, ora intricandosi nel ghiaccio e ora districandosi e tante volte mutando camino, e adesso poi vedendo non potersi cavar fuori del ghiaccio, ma convenir star fissi in quello, e già soprastarci l'autunno e la invernata, la necessità istessa ci sforzava a procurare con la opportunità del tempo di provedersi per passar quivi il verno, aspettando quella riuscita che piacesse a Dio di concederci. Deliberammo adunque, per piú facilmente difendersi e assicurarsi contra il freddo e contra le fiere, di fabricar una casa, per abitare e trattenersi al meglio che potessimo e il resto rimetter nella mano di Dio; al che fare andammo ad osservar il sito della terra, per trovar luogo commodo per fabricar tal abitazione, non avendo noi materia alcuna, perciochè in quella terra non si trovavano arbori di sorte alcuna, né altra cosa di che si potesse fare una fabrica. Ma, come che l'estrema necessità non lascia cosa senza tentare, sendo andati alcuni de' nostri piú adentro nella regione per cercar luogo a proposito per fabricar e veder che ventura loro incontrasse, ci si offerse una inspirata commodità, che alla riva del mare trovammo alquanti arbori con le loro radici, sí come ci avevano riferito quei tre uomini, che potevano esser stati qui condotti a qualche tempo o di Tartaria o di Moscovia o d'altra regione, perchè dove eravamo non vi nasce arbore alcuno. Di questa commodità, come a noi da Dio mandata, prendemmo allegrezza grande, sperando anco che per l'avenire piú oltra ci avrebbe concesso della sua grazia, perciò che questi legni non solamente ci furono commodi per il fabricare, ma anco a far fuoco, de' quali si servimmo tutta la vernata: altrimenti per il gran freddo senza dubbio alcuno eravamo tutti per morire.
12 di settembre, sendo ancor l'aere tranquillo, i nostri andarono in un'altra parte a cercar legna in qualche luogo piú vicino, ma ne trovarono molto poche.
13 del detto fu anco l'aere tranquillo, ma molto scuro di nubi, sí che non potemmo far nulla, perciochè per quelle nebbie sarebbe stato molto pericoloso il passar nella regione piú adentro, per rispetto de' crudeli orsi che non potremmo vedere, ed essi noi sentirebbono a naso, avendo come ho ancor detto miglior odorato che vista.
14 dell'istesso fu giorno sereno, ma un freddo molto acuto; però andati nella regione accumulammo quantità di legna, perchè non fussero coperte dalla neve, per poterle trovare da portar al luogo dove avevamo disegnato di fabricare.


Di tre orsi che vennero ad assaltar la nave, e come uno fu ammazzato mentre voleva tor un pezzo di carne fuori d'un mastello, che avevamo messa all'aere; ove cadendo morto, l'altro lo stava ad odorare e mirare, e poi se n'andò, e ritornato, ergendosi in due piedi per far impeto ne' nostri, fu ucciso.
Cap. VII.

15 di settembre, giorno di domenica, nell'aurora, facendo uno la guardia, furono veduti venir tre orsi, un de' quali si gettò giú dietro un pezzo di ghiaccio, gli altri due venivano alla nave: però si apparecchiamo a tirar loro d'archibugio. Era a caso sopra il ghiaccio un mastello o catino con carne esposto all'aere, perchè presso la nave non era acqua, e uno di quegli orsi pose il capo nel catino per tor un pezzo di carne; ma, scaricato un schioppo, gli fu passato il capo, sí che subito cadé morto, senza piú muoversi niente. Qui ci occorse uno spettacolo maraviglioso, perciochè l'altro orso si fermò a sedere tacito, quasi maravigliandosi, e ogni tratto nasava quel ucciso, ma vedendolo giacer morto alla fine si partí; ma noi, prese l'armi, come allabarde e schioppi, stavamo aspettando se tornava. Finalmente venne verso di noi, e levandosi sopra i piedi di dietro per far impeto contra di noi, uno de' nostri lo passò con lo schioppo per mezzo il ventre, sí che cadé sopra i piedi dinanzi e si mise con grand'urli a fuggire. Quello che era morto, l'aprimmo e gli cavammo gli interiori, dipoi acconcio sopra tutti quattro i piedi lo lasciammo congelare, disegnando di portarlo in Ollanda, se potevamo liberar la nave. Acconciato in tal modo l'orso in piedi, cominciammo a fabricare un carro matto per condur li legni al luogo dove volevano fabricare. In quell'istesso tempo l'acqua salsa del mare si congelò quasi alla grossezza di due deta, perciochè era freddo grande e spirava vento da greco.
16 di settembre era sole, ma verso sera si fece nubiloso tempo, spirando greco. Allora ci mettemmo all'ordine per far il primo viaggio di condur i legni, e quel giorno conducemmo col carro matto per il ghiaccio e per la neve 4 travi quasi per un miglio. E congelossi l'acqua quella notte all'altezza di due deta.
17 detto, andammo 13 di noi con dui carri matti a condur legni, cinque per carro deputati a tirare e tre a tenir i legni sopra i carri, per condurli piú facilmente, facendo per il piú dui viaggi al giorno, accumulando i legni in quel luogo dove s'aveva a fabricare.
18 dell'istesso, spirando ponente e cadendo una folta neve, di nuovo andammo all'usato ufficio di condur legni. Al mezzogiorno fu bel tempo con aere tranquillo.
19 detto fu anco buon tempo, e conducemmo dui carri di legni per sei miglia e due volte al giorno.
20 detto facemmo ancora due volte, benchè fusse nuvolo, ma era bonazza.
21 fu aere nubiloso, ma dopo mezogiorno sereno, e ancora in mare il ghiaccio andava ondeggiando, non però cosí spesso né con tant'impeto come prima; ma era l'ora molto fredda, sí che ci convenne portar il nostro armaio a basso nel mezo della nave, perciochè di sopra ogni cosa si gelava.
22 settembre splendeva il sole ed era sereno, ma molto freddo, spirando ponente.
23 detto conducemmo due carri di legni per la fabrica, con tempo nuvoloso, ma queto, spirando levante e greco levante. In quel giorno morí il nostro marangone, la sera che tornavamo alla nave, il quale era da Purmerent.
24 dell'istesso lo sepellimmo sotto arena e sparto marino, in una fissura d'un monte, presso il corrente d'un'acqua, perciochè non potevamo cavar la terra per il gran ghiaccio e freddo. E quel giorno conducemmo due carri di legni co' nostri carri matti.
25 detto si fe' nuvolo e soffiarono ponente, ponente garbino e garbino, e il mare anco si cominciò ad aprire e correr oltra il ghiaccio, ma non longo tempo, perciochè, essendo corso per un tiro d'artiglieria, si fermò di nuovo nel fondo, attaccandosi in altezza di 3 braccia. Ma dove era fermata la nostra nave il ghiaccio non scorreva, perciò che era stretta a mezo il ghiaccio: che se fussimo stati in mare aperto avremmo fatto vela, benchè il tempo fusse troppo tardo per navigare. In quel giorno accommodammo e squadrammo i travi per la nostra fabrica, la quale andava avanti; ma se la nostra nave fusse stata libera dal ghiaccio, lasciata la fabrica, avremmo riparata la parte di dietro della nave, acciò fussimo all'ordine per far vela se si avesse potuto per via alcuna, perciò che ci era troppo dura cosa il convenir passar quivi cosí la vernata, che ben sapevamo che sarebbe stata aspra sopra modo. Ma sendoci tolta ogni speranza ci bisognò fare, come si dice per volgar proverbio, di necessità virtú, e con pazienzia esporci ad aspettar quella riuscita che fusse stata in piacer di Dio di darci.
26 settembre spirando ponente si aprí il mare, nientedimeno la nostra nave stava chiusa dal ghiaccio, onde sentivamo piú dispiacere che allegrezza; ma, piacendo cosí a Dio, bisognò acquietarsi alla sua volontà, e cominciammo fra tanto a serrar il nostro edificio. Parte de' nostri era occupata a condur legna per abbrucciare e parte intorno alla fabrica, de' quali ancora ne erano di vivi 16, perciochè il nostro marangone era morto, e de' vivi ogni tratto qualcheduno s'ammalava.
27 detto, di nuovo il vento da greco fu molto gagliardo e fu un freddo crudelissimo, talmente che, tenendo un chiodo in bocca, sí come de' marangoni è usanza, volendolo poi cavare, sendo attaccato alle labra ne faceva spicciare il sangue. L'istesso giorno anco venne un orso vecchio col suo orsacchio, e andando insieme tutti all'edificio, perciochè separati non osavamo andare, si ponemmo ad andar a combatter con lui e tirarli delle archibugiate, ma fuggí via. Il ghiaccio di nuovo cominciò a correr molto forte, e 'l giorno era molto sereno, ma in somma freddo, sí che con gran difficultà potevamo far opera alcuna: ma pur la gran necessità ci sforzava a farlo.
29 dell'istesso fu giorno sereno, commodo e tranquillo, spirando ponente, e il mare pareva aperto, ma pur la nostra nave stava serrata tra 'l ghiaccio. Quel giorno venne un orso alla nave, ma vedutici fuggí, e noi andammo alla fabrica.


Come ci fu necessario fabricare una casa per ripararsi dal freddo e dalle fiere, e come Dio ci provide di legnami in luogo dove non si trova né arbore né erba, quali ci convenne condur per due miglia lontano sopra un carro matto, per quindeci giorni due volte al giorno.
Cap. VIII.

29 settembre la mattina spirava vento da ponente, e a mezzogiorno poi levante. Allora apparvero tre orsi tra la nave e l'edificio, cioè un vecchio con dui gioveni; nientedimeno non restammo di tirare quel che ci faceva bisogno alla fabrica, desiderando di farli voltare, ma ci venivano allo incontro, né volevamo loro cedere, ma mandato un grido ci sforzavamo di farli fuggire; ma vedendo che non mutavano passo, anzi che ci venivano al dritto, allora inalzato da noi e da quelli che erano su la fabrica un grido, cominciarono gli orsi a fuggire, di che niente si pentimmo.
30 del detto spirarono levante e siroco, e tutta quella notte sparsero una folta neve e tutto quel giorno ancora, sí che i nostri non poterono condur legni, talmente era ella folta. Accendemmo dinanzi all'edificio un gran fuoco per liberar la terra dal ghiaccio e per assettarla intorno all'edificio, acciochè il freddo passasse dentro meno; ma fu vana la nostra fatica, perciochè la terra era talmente rigida e tanto in giú congelata che non fu mai possibile disghiacciarla, e avrebbe bisognato consumar troppa legna: perciò si rimanemmo da tal impresa.

Ottobre 1596.

Il primo d'ottobre spirava vento da greco molto terribile la mattina, e a mezzogiorno tramontana con fortuna e neve grandissima, sí che con difficultà grande si poteva andar contra il vento, anzi a pena si poteva spirare, cosí ci era spinta la neve nella faccia, né si poteva vedere lontano quanto sono lunghe tre navi.
2 d'ottobre avanti mezzogiorno fu sole, ma dopo mezzogiorno di nuovo fu tempo tenebroso con neve, ma però con aere quieto, spirando prima tramontana e poi ostro. Eretto l'edificio, gli ponemmo per l'insegna neve congelata in vece di frondi.
3 del detto fu aere tranquillo e sereno, ma talmente freddo che a pena si poteva sopportare. Al mezzogiorno tirò vento da ponente portando tal rigore che, se fusse durato, sarebbe stato forza abbandonare il lavoro.
4 dell'istesso fece vento da ponente e sul mezzogiorno tramontana gagliarda, spargendo una molto folta neve, la quale di nuovo impedí l'opera nostra. Allora portammo la nostra ancora con la corda sopra il ghiaccio, per star piú saldi, perciochè eravamo distanti solamente un tiro d'arco dall'acqua libera dal ghiaccio, cosí era andato giú il ghiaccio.
5 ottobre, spirando gagliardamente maestro fu scacciato del mare il ghiaccio, quanto si poté vedere, ma però la nostra nave non era meno stretta che prima e serrata anco sopra il ghiaccio per due e tre piedi; né potevamo veder altro, se non che ella era fino al fondo circondata e stretta dal ghiaccio per quattro braccia. L'istesso giorno rompemmo la parte dinanzi, nella quale sta l'arbore della nave, e con quelle tavole tessemmo l'edificio, in mezzo un poco piú alto, per dar la discesa all'acqua: e per la maggior parte l'avevamo chiuso e stivato, pur il freddo non si rimetteva.
6 d'ottobre spirò ancora vento da ponente gagliardo e garbino, ma intorno sera maestro tramontana, spingendo una folta neve, che a pena niuno poteva metter fuori il capo della porta, per il gran freddo.
Alli 7 fu aere assai piacevole, ma molto freddo, e diligentemente andammo turando e calcando il nostro edificio, e rompemmo la parte di dietro della nave dove è l'arbore, per serrar meglio l'edificio dalla parte di fuori. Il vento quel giorno circondò tutto il mondo.
8 detto, la notte precedente e tutto quel giorno fu cosí terribil vento, con un nembo di neve, che se alcuno usciva gli pareva soffocarsi; anzi niuno avrebbe potuto, ancor che vi fusse stato pericolo della vita, allontanarsi la longhezza della nave, perciochè era impossibile di star fuori della casa o della nave per un momento.
9 d'ottobre spirava ancora tramontana, e portava anco neve spessissima, come anco il giorno precedente: e quando soffiava vento da terra, bisognava star tutto il giorno serrati in casa per il gran freddo.
Alli 10 la mattina fu un poco piú piacevol aura e tranquilla, spirando garbino, e l'acqua era gonfiata quasi due piedi piú alta del solito, il che giudicammo che fusse per il troppo soffiar di tramontana. L'istesso giorno ancora cominciò ad indolcirsi l'aere, sí che ardivamo uscir di nave. E occorse che ad un certo della nostra nave uscito venne incontro un orso, ch'egli non se n'era accorto, e quasi diede in lui prima che lo vedesse, onde subito corse verso la nave, e l'orso lo seguitò. Ma, come giunse al luogo dove avevamo drizzato in piè l'orso ammazzato per lasciarlo indurare, che poi era nella neve sepolto, ma però gli avanzava fuori un piede, subito si fermò, col qual indugio il nostro uomo pervenne alla nave impaurito, e gridando ad alta voce "l'orso, l'orso", eccitati dal suo gridare venimmo sopra il tavolato per tirarli delle archibugiate; ma avevamo gli occhi serrati dal fumo continuo il quale, chiusi nella nave per l'asprezza dell'aere, avevamo patito, che non si avrebbe sofferto per qualsivoglia premio, se non fusse stato il gran freddo e la neve che ci sforzava, se volevamo salvar la vita: altrimenti, stando sopra il tavolato o coperta della nave, senza dubbio saremmo morti di freddo. Ma l'orso non si fermò quivi troppo, ma subito partí. Spirava poi greco, e usciti l'istesso giorno di nave verso sera, sendo assai buona aura, andammo all'edificio portando nosco gran parte del pane.
11 ottobre, sendo l'aere quieto e spirando leggiermente ponente, ma poco piú caldo, mettemmo in terra il vino e il resto della mesa. Ma, mentre eravamo occupati in levar fuori il vino della nave, un orso che stava ascoso dietro un pezzo di ghiaccio, desto forse dal nostro gridare dal sonno, venne alla nave: l'avevamo noi veduto steso, ma lo stimavamo un pezzo di ghiaccio. Or questo a noi venendo, con una archibugiata lo ferimmo, ma, fuggendo egli, noi seguimmo il nostro lavoro.
12 detto, spirando tramontana e qualche volta saltando da ponente, mezi de' nostri andarono nell'edificio e quivi passarono la prima notte, ma patirono un gran freddo, perciochè non erano ancor fatte le lettiere né avevano molta copia di schiavine, e poi anco perchè non potevano accender il fuoco per non esser fatto ancora il camino, per rispetto del gran fumo.
13 dell'istesso, spirando di nuovo fieramente tramontana e maestro, andammo tre alla nave e caricammo il carro matto d'una botte di cervosa, la qual mentre desideravamo di tirare alla casa, si levò improviso cosí orribil vento con tempesta e ghiaccio che, non potendo star fuori, ci fu forza di nuovo ritornar in nave e lasciar la cervosa di fuori sopra il carro: e nella nave patimmo gran freddo per penuria di coperte.
14 detto, usciti di nave, trovammo il vascello della cervosa (la qual era dantiscana) lasciata fuori sul carro esser creppato nel fondo per il rigor del freddo, e la cervosa che era uscita congelata e talmente attaccata al fondo del vascello, come se fusse attaccata con visco. Tirammo adunque quel vaso di cervosa all'edificio e lo voltammo dritto in piedi, ma, volendo bevere la cervosa, bisognò prima disghiacciarla, perciochè a pena nel vascello era rimasa senza congelarsi, e in quell'umore consisteva tutta la forza di essa cervosa, in modo che per la sua forza non si poteva bevere; quella poi che era congelata era tanto insipida come se fusse acqua, pur disciolta e mescolata con l'altra non gelata la bevevamo, ma era molto debile e insipida.
15 ottobre spirò tramontana, levante e siroco levante, ed era l'aere tranquillo. In quel giorno, levati tutti gli impedimenti, spingemmo via con i pali la neve per metter le porte all'edificio.
16 ottobre, spirando siroco e ostro e sendo il ciel tranquillo, la notte precedente un orso entrato nella nave verso il giorno si partí, avendo sentito la gente. Allora disfacemmo il conclave del patron della nave per tor quelle tavole per far la porta e l'entrata.


Come cominciammo a fabricare alla usanza de' Settentrionali, ponendo li travi l'un sopra l'altro per traverso e stivando bene e serrando gli spazii fra mezzo per difendersi dalla neve e dal freddo, con la parte di sopra quadrata per il piú e coperta di tavole, col suo camino e portico dinanzi le porte.
Cap. IX.

17 e 18 fummo occupati in fornir la casa e portar dentro massericcie.
19 detto, soffiando tramontana, sendo due soli uomini in nave, venendo un orso voleva entrar per forza in nave: se bene con legni apparecchiati per abbrucciare lo percuotevano, nientedimeno si faceva loro incontro ferocemente, onde impauriti si misero a fuggire quei due nel fondo della nave, e il putto montò in cima l'albero, non lasciando cosa alcuna per salvar la vita. Tra tanto andando alcuni de' nostri alla nave, l'orso audacemente si fe' lor incontro, ma ferito da loro con un moschettone si fuggí.
20-21 attendemmo a portar vino, vettovaglia e altro nella casa. 22 fece neve grande. 23 e 24 menamo un amalato di nave alla casa e la scafa della nave ponendola riversa per serbarla a tempo nuovo da potersi valere; e il sole a noi utilissimo e desideratissimo si cominciò a lasciare.
25 ottobre andammo a torre tutte le arme e instrumenti necessarii per la barca e copano, ed essendo occupati in quell'ultimo viaggio intorno alle corde a tirare, il nocchiero voltandosi vide tre orsi dietro la nave che a noi venivano, e subito spaventato cominciò a gridare per far loro paura, e noi subito sbrigandosi dalle corde ci preparammo a far resistenza: e per sorte sopra il carro erano due scurre romane, una delle quali prese il nocchiero e io l'altra per difendersi a tutto potere. Ma gli altri si misero a fuggire quanto potevano, e fuggendo uno d'essi cadé in una fessura di ghiaccio il che ci fu orribile a vedere, perciochè pensavamo che un orso facendo impeto in lui lo divorasse; ma Iddio provide egli che gli orsi si voltassero verso di quelli che fuggivano nella nave, e tra tanto noi, presa l'occasione, con quello ch'era caduto nel ghiaccio andassimo verso la nave e ci salvassimo. Gli orsi, vedendo che eravamo cosí campati, s'accostarono ferocemente alla nave, ma noi non avevamo altre arme che le due dette scurre, e perchè non ci fidavamo molto d'esse, andavamo trattenendo gli orsi con tirargli delli bastoni e altro, che essi andavano seguitando non altrimenti che i cani un sasso tirato loro. Tra tanto mandammo uno de' nostri da basso ad accender il fuoco e un altro a pigliar delle arme d'asta, ma non si poté mai accender fuoco che potessimo scaricar gli schioppi, ma come gli orsi arditamente ci assaltavano, tirando loro delle allabarde ne ferimmo uno nella bocca: quello sentendosi ferito pian piano si partí da noi, il che vedendo gli altri, che erano minori, si partirono insieme. Noi poi, rese grazie a Dio che ci avesse in tal modo da quelli liberati, tirato il carro all'abitazione senza impedimento alcuno, riferimmo agli altri quanto ci era occorso.
26 vedemmo il mare aperto, ma la nostra nave ancora serrata.


Come, mentre eravamo occupati a tirar robbe della nave alla casa, sendo assaltati da tre orsi, parte fuggí alla nave, parte restò al carro, difendendosi con le allabarde; e come uno caduto in una fessura del ghiaccio fuggendo fu in gran pericolo, ma, sendo voltati gli orsi verso gli altri che fuggivano, si salvò con gli altri nella nave, ove cercando d'entrar gli orsi con bastoni e con allabarde furono scacciati.
Cap. X.

27 ottobre fu un nembo di neve, e i nostri con lo schioppo ammazzarono una volpe bianca, le carni della quale scorticate e rozze mangiarono, e le trovarono simili d'odore alli conigli. Acconciammo anco quel dí il nostro orologio, che sonasse con la campana, e accommodammo anco una lucerna per far luce la notte, per la quale accender ci servimmo del grasso dell'orso liquefatto.
28 detto, spirando tramontana, i nostri uscirono a portar legna, ma si levò tanta tempesta e tanta neve che furon sforzati ritornare. Circa il vespero mitigandosi l'aura, tre de' nostri andarono per cavar li denti all'orso che avevano messo a congelare, ma lo trovarono tutto coperto di neve; e subito si levò tanta tempesta e nembo di neve che furono sforzati a ritornar correndo in casa, alla quale con difficoltà pervennero, perciochè cosí densa cadeva la neve che a pena poteano vedere, onde poco vi mancò che non fallassero la strada e andassero tutta la notte errando per quel orrendo freddo.
29 detto andammo a ricercar dello sparto marino misto nell'arena nel lito, per spargerne la vela che avevamo stesa sopra l'edificio per serrar e stringer piú il tetto e render la casa tanto piú calda, perciochè le tavole non erano troppo ben congiunte, per esser stati impediti a ciò fare dal gran freddo.
30 d'ottobre il sole faceva il suo corso vicino a terra poco sopra l'orizonte.
31 detto, neve grande, che non si poteva por il capo fuor della porta.

Novembre 1596.

Primo novembre vedemmo la luna levare in levante, cominciando già a venir le tenebre e sendo il sole ancora sopra l'orizonte, sí che si vedeva, benchè quel giorno non lo vedessimo per lo aere nuvoloso e per la neve; né si poté far cosa alcuna per il gran freddo.
2 novembre spirava ponente verso ostro piegando, la sera poi tramontana, e con l'aere tranquillo vedemmo il sole a levar in ostro siroco e tramontar in garbino: la sua rotondità non si vedeva tutta sopra terra, ma si vedeva come andarla lambendo sopra l'orizonte. Quell'istesso giorno fu ammazzata una volpe con un colpo di manara e mangiata. Avanti non fu vista da noi volpe alcuna, se non ora partendo da noi il sole, e allora gli orsi si partirono.
3 detto, spirando maestro con aere tranquillo, si vide il sole in 4° levante siroco verso ostro a levare, e tramontare in 4° garbin ostro piegando all'ostro: e solamente la parte di sopra del sole appareva sopra l'orizonte, benchè la terra dove eravamo, quando misuravamo l'altezza sua, fosse alta quanto l'albore della nostra nave. E allora era il sole in gradi 11 e minuti 48 dello Scorpione; la sua declinazione era gradi 15, minuti 4 dal lato australe della linea equinoziale.
4 detto, sendo l'aere chiaro, il sol piú non ci apparve perchè non montava piú sopra l'orizonte. Allor il nostro chirurgo fece apparecchiar un mastello, d'un vascello da vino, per far un bagno per ristorar le membra, facendoci entrar dentro un dietro l'altro, il qual bagno trovammo che molto ci giovava per fortificare le membra e conservare la sanità. L'istesso giorno pigliammo una volpe bianca, perciochè raro apparevano, pure allora piú spesso che prima, perciò che, sí come gli orsi si partivano col sole né ritornavano se non con lui, cosí al contrario le volpi venivano quando gli orsi si partivano.
5 novembre, spirando tramontana, vedemmo molta acqua nel mare, ma la nostra nave stava pur stretta dal ghiaccio; e avendoci il sole abbandonati, in sua vece vedevamo la luna, che né giorno né notte tramontava, essendo nella sua maggior elevazione.
6 di novembre i nostri condussero un carro di legna da abbrucciare, ma era gran scuro, avendoci lasciato il sole.
7 novembre era buon aere, ma tanto oscuro che a pena si discerneva il dí dalla notte, e spezialmente perchè il nostro orologio allora s'era fermato. Onde li nostri quel giorno non si levarono di letto se non per orinare, non conoscendo che fusse giorno, se ben era giorno, e per tal cagione non sapevano se la luce che vedevano era del giorno o della luna: onde si levò una gran disputa di diversi pareri, chi diceva che era giorno e chi la luna, ma considerato bene si trovò che era quasi mezogiorno.
8 detto condussero delle legna, e si prese un'altra volpe, e vedemmo acqua nel mare. Quel giorno fu diviso il pane tra noi, 4 libre e oncie 10 per uno alla settimana, sí che ogni cassa di pane o vascello ci facea 8 giorni, onde prima non durava piú di 5 o 6. La carne e il pesce non fu ancora bisogno di partire. La bevanda poi non bastava, onde era necessario di metterla insieme e partirla, perciochè la nostra cervosa per la maggior parte per il freddo era guasta, isvanita e insipida, e buona parte era uscita.
9 detto, furono grandissime tenebre, sí che a pena appareva luce.
10 novembre, sendo aere tranquillo, li nostri andarono alla nave a vedere in che stato si trovava, e trovarono molta acqua dentro, che era congelata fino di sopra la savorna, onde non potero tirar fuori la secchia.
11 detto, spirando maestro, fu assai buon'aura. Quel giorno di spaghi di corde tessemmo un instrumento a guisa di rete per pigliar le volpi, accommodato in modo che, come erano sotto, si tirava stando in casa e si pigliavano: e quel giorno ne prendemmo una.
12 novembre fu aere torbido; e quel giorno cominciammo a partire e limitare il vino, sí che ogniuno ne bevesse due volte al giorno, e poi del restante bevessero dell'acqua di neve liquefatta.
13 detto, fu molto travagliato tempo e neve.
14 fu chiaro e sereno, sí che si potevano veder tutte le stelle.
15 fu nubiloso e oscuro.
16 fu buona e tranquill'aura.
17 di nuovo nuvoloso e oscuro.
18 fu molto tristo tempo, e il patrone tagliò in pezzi un rotolo di panno grosso, dandone ad ognuno quanto li faceva bisogno per difendersi meglio dal freddo.
19, similmente cattivo tempo, e fu aperta la cassa delle tele e distribuite fra i marinari per farsi delle camicie, perciochè il tempo ricercava che si attendesse per ogni via a conservar li corpi.
20 detto, sendo buon aere, lavammo le nostre camicie, ed era tanto il freddo che torcendole per spremer fuori l'acqua si congelavano, talmente che, accostandole ad un gran fuoco, si disghiacciavano ben da quella parte, ma dall'altra si congelavano, sí che piú tosto si squarciavano che si potessero spiegare: e perciò era necessario ritornarle nell'acqua calda per scioglierle dal ghiaccio, cosí grande era il freddo.
21 fu similmente buon tempo. Allora fu deliberato che ognuno, un pezzo per uno, dovesse fender delle legna al cuoco per sollevarlo da quella fatica, il quale aveva pur troppo che fare a cucinar due volte il giorno e a liquefar della neve per bevere: dalla qual fatica però furono esenti il nocchiero e il governatore.
22 sereno. Quel dí, avendo ancora 17 pezze di cascio di vacca, ne mangiamo una alla tavola in commune, poi le altre furono distribuite uno per uno per sua porzione, che se lo compartissero a lor modo.
23 detto, essendo buon aere, offerendosi la occasione che si vedevano assai piú volpi che prima, si valemmo di quella, perciò facemmo di certe tavole grosse alcune trappolle, sopra le quali vi ponemmo delle pietre, e intorno le circondammo di pali cacciati ben a fondo, perchè non potessero di sotto far de' cuniculi: e a questo modo ne prendemmo alquante.


Delle trappolle fatte per pigliar le volpi.
Cap. XI.

24 detto, sendo un aere crudo, di nuovo ci apparecchiamo il bagno, perciochè alcuni erano risentiti: perciò noi quattro entrammo nel bagno, e usciti il chirurgo ci diede una purgazione, la qual ci fece assai beneficio. E quel giorno prendemmo quattro volpi.
25 sereno, e prendemmo due volpi con le trappolle.
26 fu crudel aere e vento con fortuna e neve grandissima; sí che di nuovo ci convenne serrare in casa, dove fumo dalla neve sepolti, sí che non potevano uscire pur ad orinare né far altri bisogni, che ci convenne far in casa.
27 novembre fu sereno, perciò facemmo piú trappolle per pigliar delle volpi, perchè bisognava valersi dell'oportunità, perchè ci era utile per il mangiare: e non avendo vettovaglia a bastanza, pareva che Dio ce le mandasse.
28 di nuovo fu aere crudo con gran fortuna e neve, sí che di nuovo fummo serrati in casa, né potevamo uscire, perchè tutte le porte erano assediate dalla neve.
29 fu dí sereno e 'l ciel chiaro, perciò spingemmo via la neve co' pali e facemmosi strada da uscire. Usciti trovammo tutte le trappolle e lacci sepolti nella neve, quali fatti mondi di nuovo li tendemmo a pigliar delle volpi, e quel giorno ne prendemmo una, la quale non solo fu a proposito per mangiare, ma della sua pelle e delle altre cose ci facemmo de' capelli e ci stringemmo bene il capo per preservarsi dall'aspro freddo.
30 novembre spirando ponente fu sereno; ed essendo le stelle dell'Orsa minore intorno garbino, che fu secondo la nostra congiettura intorno mezodí, andammo sei alla nave ben forniti d'arme, a vedere in che stato erano le cose. Venendo sotto il tavolato, prendemmo una volpe viva.

Decembre 1596.

1° decembre fu una aspra giornata, cadendo gran quantità di neve, dalla quale di nuovo fummo del tutto confinati in casa, per il che si levò tanto fumo che con difficultà potevamo accender il fuoco; per il che per il piú se ne stemmo ne' nostri letti, ma il cuoco era necessitato a far fuoco per cuocer il mangiare.
2 detto, perseverando l'asprezza del tempo ci tenne ancora in casa, e a pena per il gran fumo potevamo stare appresso il fuoco, e perciò la maggior parte ancora stava nel letto, scaldando delle pietre, le quali davamo agli altri che stavano ne' suoi luoghi per scaldarsi i piedi, perciò che né il freddo né il fumo si poteva tolerare.
3 decembre, continuando pur l'istesso freddo, stando nelli nostri letti sentimmo un orrendo strepito di ghiaccio in mare, il quale ci era discosto quasi mezzo miglio, sí che giudicavamo che quei gran mucchi di ghiaccio che la state avevamo veduti, grossi tante braccia, si spingessero l'un sopra l'altro. E per non poter quei due o tre giorni accender il fuoco come prima, per il crudel fumo, penetrò nella casa cosí orrendo freddo che alle tavole e a' pareti era attaccato il ghiaccio due deta grosso, anzi nelle stesse lettiere dove giacevamo quasi altrotanto. Per quei tre giorni che fummo serrati in casa mettemmo in piè un orologio da sabbia di dodeci ore, il quale come era uscito subito lo voltavamo, osservandolo con grandissima diligenza, per non errar nell'osservar del tempo, perciochè tanto grande era il rigore che anco l'orologio si agghiacciava, né poteva caminare, benchè gli aggiungessemo doppio peso.
4 detto fu sereno, e cominciammo per ordine e scambievolmente a parar via la neve che impediva la porta, perchè, vedendo che ci bisognava tornar tante volte a ciò fare, non era dovere che parte soli ciò facessero; ma furono esenti anco da ciò il nocchiero e il governatore.
5 dell'istesso fu similmente sereno, onde attendemmo a nettar le trappolle.
6 decembre di nuovo fu aere crudo e un freddo che quasi non si poteva tollerare, sí che si guardavamo con pietà l'un l'altro, temendo che se continuava cosí il freddo crescendo avessimo di quello a morire, perchè, se bene facevamo un gran fuoco, non si potevamo però scaldare. Anzi il vino di Spagna piú grande che sia, che è tanto caldo, fu del tutto gelato, sí che bisognava dileguarlo al fuoco dopo mezzogiorno per darne ad ognuno la sua porzione, la quale si distribuiva ogni due giorni d'una picciola misura circa un quarto, della quale convenivamo sostentarci tanto tempo e poi d'acqua, la quale in cosí acuto freddo non era troppo a proposito: né bisognava rifrescarla con neve o ghiaccio, ma con la neve liquefarla.
7 dell'istesso, perseverando quell'aere crudele, e levatosi un nembo da greco che portò un orribilissimo freddo, non sapevamo che ingegnarsi di fare per conservarci da quello; e consigliandoci insieme che cosa in somma si dovesse fare, uno de' nostri disse che in questa estrema necessità prendessimo quei carboni che di nave avevamo portati in casa, e di quelli facessimo fuoco, perchè danno calor grandissimo e durabile. La sera dunque facemmo un buon fuoco di quelli carboni, il qual certo fece un gran calore, ma non ci avevamo rimediato ad una gran disgrazia, perchè, sentendo noi che quel calore cosí ci ristorava, ci andammo imaginando come lo potevamo ritener lungo tempo, onde trovammo di chiuder tutte le porte e il camino per conservarlo: e se n'andamo tutti ne' nostri letti, allegri per aver ricuperato il calore, e ragionammo lungamente insieme. Alla fine ci venne una gran vertigine, ma piú all'uno che all'altro, la qual prima scoprimo in uno ch'era ammalato e perciò sentiva maggior offesa, e poi in noi sentivamo una grande ansietà, sí che quelli che erano piú gagliardi saltando giú del letto aprirono prima il camino, dipoi la porta; ma quello che aprí la porta, sendo isvenuto, cadé con gran strepito sopra la neve, il che udendo io, che aveva il letto piú vicino alla porta, corsi là e, trovatolo che gli era venuto fastidio, subito gli portai dell'aceto e gli sparsi la faccia, sí che rivenne. Aperte le porte, tutti da quel freddo fummo risuscitati, e quello che era stato cosí crudel nemico avanti, allora ci apportò la salute, perchè senza dubbio morivamo tutti d'agonia. Dipoi il nochiero, come fummo rivenuti, ci diede ad ognuno un poco di vino per confortar il cuore.
8 decembre, durando quel rigido aere, benchè spirasse una crudel tramontana e fredda, nondimeno non osavamo accender piú carboni, perciochè la disgrazia occorsa ci aveva resi accorti, per fuggir un male in uno peggiore.
9 detto fu un lieto e sereno giorno, lucendo molto le stelle; onde aprimmo a fatto la porta, che era molto calcata di neve, e di nuovo apparecchiammo le trappolle per le volpi.
10 dell'istesso fu anco ameno e sereno, con splendor delle stelle. Pigliammo due volpi, a noi molto utili perchè la vettovaglia s'andava forte scemando, e le pelli furono buone pel freddo che andava sempre crescendo.
11 fu sereno, ma estremo freddo, che chi non l'ha provato nol può credere, sí che le scarpe si induravano in piedi come corni; per il che non le potemmo usar troppo, ma bisognò adoprar zoccoli e pantofole larghissime, la coperta delle quali era di pelle di pecora, e bisognava portarne tre e quattro paia alla volta caminando per fomentar i piedi.
12 sereno e lucido, ma estremamente freddo, sí che i pareti e le lettiere erano coperte di ghiaccio grosso un deto, anzi le stesse vesti che avevamo indosso biancheggiavano di brina e ghiaccio. E benchè alcuni persuadessero che di nuovo accendessimo de' carboni per scaldarci, e lasciar aperto il camino, nientedimeno non osavamo, spaventati dall'accidente passato.
13 sereno similmente, e prendemmo una volpe, facendo di gran fatica in acconciar le trappolle, perciochè, se stavamo un tantino fuori, ci venivano sopra la faccia e sopra gli orecchi dal gran freddo le broggie.
14 giorno ameno, e il cielo pieno di lucenti stelle. Allora tolta l'altezza dell'omero destro di Orione, sendo in ponente garbino, piegando a ponente, che allora era la sua maggior altezza, secondo il nostro quadrante, ed era alto sopra l'orizonte gradi 20 e minuti 28. La sua declinazione era gradi 6 e minuti 18 dal lato boreale dell'equatore; qual declinazione tratta dall'altezza trovata, restano gradi 14, i quali detratti di 90 fanno l'altezza del polo gradi 76.
15 detto sereno ancora, e allora non avevamo piú legna in casa, ma fuori intorno la casa ne erano delli cumuli, ma a fatto dalla neve coperti, onde con gran fatica bisognò gettar co' pali via la neve e cavarne fuori: il che a due alla volta facevamo e presto, perchè non bisognava star troppo fuori per l'indicibile e insopportabil freddo, benchè avessimo la testa coperta di pelli di volpi e due vesti indosso.
17 fu anco sereno, ma talmente eccessivo freddo che tra noi dicevamo: "Se una botte di Gant piena d'acqua stesse una sol notte di fuori, si agghiacciarebbe del tutto".
18 decembre, perseverando il freddo, sendo il ciel sereno, andammo sette alla nave a vedere come stava, ed entrati sotto la coperta turammo tutti i fori, stimando di trovar delle volpi, ma non ne vedemmo niuna. E andati nel largo a basso, battuto fuoco per veder se era cresciuta l'acqua, trovammo quivi una volpe, la qual portata a casa la mangiammo; ma vedemmo che in quei 18 giorni che non eravamo piú stati alla nave l'acqua era cresciuta un deto grosso (benchè non era acqua, ma ghiaccio, che cosí come cresceva s'indurava) e i vascelli ancora ne' quali si conservava l'acqua portata d'Ollanda erano agghiacciati fino al fondo.
19 detto, spirando ostro, fu sereno cielo; perciò si rallegravamo che il sole aveva già passato la metà del suo corso, sí che a noi faceva ritorno, il quale molto desideravamo, perciochè ci era molto increscevole l'assenza di cosí illustre e grata creatura di Dio, che tutto il mondo nutrisce e allegra.
20 avanti mezodí fu il ciel sereno, e pigliammo anco una volpe, ma verso sera cominciò a levarsi cosí gran fortuna di tempesta mista con grandissima neve, che tutta la casa intorno fu assediata di neve.
21 fu sereno, e aprimmo l'uscita e rendemmo le insidie alle volpi, che se ne prendevamo alcuna ci sapeva da caccia.
22 di nuovo rigido aere con gran neve, serrandoci a fatto la porta, sí che bisognò di nuovo spingerla via, il che ci conveniva fare quasi ogni giorno.
23, perseverando l'istessa rigidezza d'aere e neve, ci consolavamo nondimeno che 'l sole di nuovo a noi tornava, perciochè secondo il nostro conto quel giorno doveva esser nel tropico di Capricorno, il quale è l'ultima linea alla quale si stende il sole dal lato australe dell'equatore, di donde di nuovo ritorna verso il settentrione. Giace questo tropico di Capricorno 23 gradi e 28 minuti dal lato australe dell'equatore.
24 decembre, che fu il giorno avanti Natale del nostro Signore, fu aere ameno, e di nuovo cavammo l'entrata della casa; e volti gl'occhi al mare, vedevamo molta acqua aperta e sentivamo lo stridor del ghiaccio che correva giú, e benchè non fusse luce alcuna di giorno, nondimeno potevamo vedere tanto lontano. Verso sera si levò gran vento con nembo di neve, sí che quel che avevamo cavato si tornò ad empire.
25 fu aere crudo, spirando maestro, e benchè fusse tal aria, nientedimeno udimmo le volpi correr su per la casa. Il che dicendo alcuni che era cattivo augurio, nacque una questione perchè fusse cattivo augurio, e fu risposto perchè non erano nella pignatta o nello schidone, che cosí sarebbe stato buono.
26 detto, perseverando l'aer freddo e l'istesso vento, fu cosí gran freddo che non ci potevamo scaldare, benchè cercassimo ogni mezzo, e accendendo il fuoco, e coprendosi con molte schiavine, e mettendo pietre e palle di ferro calde ai piedi e ai lati delli nostri letti; nientedimeno la mattina dietro tutte le coperte biancheggiavano come se fussero state sparse di brina, in modo che di nuovo si guardavamo l'un l'altro compassionevolmente, pur consolandoci piú che potevamo che già eravamo nello smontare del monte, cioè che 'l sole di nuovo a noi si voltava, affermando per prova che quel volgar proverbio era vero, che i giorni quanto piú sono longhi sono tanto piú freddi, ma che la speranza allegerisce il dolore.
27 decembre perseverava pur l'istesso aere, sí che stammo tutti quei tre giorni chiusi in casa, né osavamo porger pur il capo fuori della porta. In casa poi era tanto freddo che, quantunque stessimo sedendo dinanzi ad un gran fuoco e quasi abbrucciandosi gli stinchi, di dietro poi ci aggiacciavamo e parevamo sparsi di brina, a guisa de' villani d'Ollanda, quando la mattina entrano nella città avendo tutta la notte caminato.
28 detto, perseverando l'istesso tempo, verso sera si cominciò a mitigare, sí che uno de' nostri marinari, fatto un foro nella porta se n'uscí a veder in che stato fossero le cose; ma stanto poco, tornando dentro ci riferí che la neve era di gran lunga piú alta della nostra casa, e che se stava piú fuori senza dubbio perdeva l'orecchie per il freddo.
29 si levarono nebbie e scuro; nel qual giorno a chi toccava per sorte apriva la porta, e cavando la neve fece un'apertura per la quale si potesse uscire 7 o 8 passi fuor di casa, a guisa che nelle cantine si fanno i gradi alti un piè l'uno, apparecchiando di nuovo i lacci e le trappole per pigliare le volpi, delle quali per alquanti giorni non ne avevamo avuto. E uno de' marinari, quelle apparecchiando, né trovò una morta in una trappolla, dura come un sasso; la qual portata in casa, l'appendemmo al fuoco a disghiacciare e li cavamo la pelle, e alcuni ne mangiarono.
30 detto, di nuovo ci fu molesto il tempo con tempesta e neve, in modo che fu gettata la fatica del giorno avanti a far i gradi da uscire e l'acconciar delle trappolle, poichè ogni cosa di nuovo fu nella neve sepolta, e piú alta di prima.
Ultimo del detto, perseverando l'istesso tempo fummo chiusi in casa come in prigione, e fu cosí gran freddo che a pena il fuoco dava calore, perciochè ponendo i piedi al fuoco ci abbrucciavano le calze prima che scaldarsi, sí che perpetuamente bisognava star sul tappezzarle; anzi, se non avessimo sentito prima col naso l'odore, le avremo prima arse tutte che veduto né sentito il calore.

L'anno 1597.

Passato cosí l'anno con grandissimo freddo, gran pericoli e grandissime incommodità, entrammo l'anno 1597 della Natività del nostro Signore, il quale ebbe lo stesso principio e simile al fine del 96, perciochè durò l'istesso aere, con la neve, sí che il primo di gennaro ci convenne star chiusi in casa. Allora fu cominciato a distribuire il vino con una picciola misura per uno e ogni due giorni una volta, e perchè dubitavamo di star quivi molto tempo prima che avessimo potuto partire, il che molto ci affannava, molti conservavano la loro parte di vino piú che potevano, perchè, se durava molto quel tempo, avessero in occasione di bisogno qualche cosa in pronto.
2 gennaro spirò similmente ponente cosí rigido, menando gran tempesta e neve e freddo, sí che per quattro o cinque giorni non potemmo por fuori il capo. E avevamo quasi consumato tutte le legna che erano in casa, nientedimeno temevamo ad uscir di casa per portarne, perciochè era cosí grande e cosí acerbo il freddo, che niuno poteva durar fuori. Pur cercando diligentemente trovammo alquante tavolette, le quali spezzamo, e appresso fendemmo un zocco nel quale solevamo pestare il pesce indurato, aiutandoci con quello che potevamo.
3 detto, durando pur la neve e il freddo intensissimo, stammo ancora in casa serrati, avendo a pena legna da far fuoco.
4 detto, continuando l'istesso tempo, convenimo star chiusi, ma per saper che vento faceva cacciammo fuori del camino una mezza asta con un poco di ala di tela legata per banderola; ma fu necessario di veder subito onde veniva il vento, che tanto tosto che fu messa fuori la banderola subito s'indurò al paro dell'asta, né si poteva volgere, perciò l'uno all'altro diceva: "Che crudel freddo deve esser di fuori".
5 genaro, addolcitosi alquanto l'aere, di nuovo aprimo la porta per poter uscire, e portammo fuori ogni immondizia e sporchezzo che s'era raccolto per quel tempo che stammo chiusi, e apparecchiato il tutto portammo dentro delle legna e le fendemmo, spendendo in ciò tutto quel giorno, per aver in pronto poi quanto facesse di bisogno, temendo esser di nuovo rinchiusi. E perchè nel nostro portico vi eran tre porte e la casa era tutta sepolta nella neve, levammo via la porta di mezzo, e fuori della casa cavammo una gran fossa nella neve a guisa d'una volta o d'una cella, nella quale andavamo ad orinare e far altri nostri bisogni, e gettavamo tutte le immondizie. Essendo adunque tutto il giorno occupati a ciò preparare, ci venne in memoria che era vigilia de' tre Magi, perciò richiedemmo il nostro nocchiero che quel giorno tra tante miserie ci fusse concesso di star allegri, e per ciò ci volesse conceder quella parte di vino che si soleva dar in due giorni, che anco noi avremmo posto in commune quello che si sparmiavamo: cosí quella notte ci ricreammo alquanto e celebrammo la notte della Pifania. Aggiungemmo due libre di farina, la quale era destinata ad incollar le carte, della quale facemmo delle lasagne con l'oglio, e le cocemmo nella fressora e ogniuno mangiò del biscotto bianco in suppa in vino, parendoci di esser a casa nostra e tra parenti e amici, né stammo meno allegri che se a casa fussimo stati invitati ad uno buon banchetto, cosí ci parve saporita. Partimmo anco e distribuimmo le nostre carte o polize dove erano scritti li nomi de' carichi e ufficii, e al nostro contestabile toccò quella per la quale era dichiarato re della Nuova Zembla, la quale si stende in lunghezza tra l'un mare e l'altro dugento miglia.
6 detto, sendo sereno, usciti di casa riparammo le trappolle per le volpi, le quali ci erano come per selvaticine; e cavammo una gran fossa nella neve, sotto la qual erano sepolte le legna da fuoco, la qual cavammo in modo di arco o di volta, dalla quale potevamo cavar legna quando ci faceva bisogno.
7 fu aere crudo, con neve e freddo grande, onde non picciol tema ci assalse di dover di nuovo rimaner chiusi in casa.
8 fu di nuovo sereno, perciò di nuovo si apparecchiarono le trapolle per la nostra caccia, della quale eravamo molto desiderosi. Poi dalla luce piú chiara cominciavamo ad accorgersi che 'l sole a noi ritornava, il qual pensiero ci apportava non poca allegrezza.
9 di nuovo l'aere crudo ci fu molesto, però non fu cosí intenso il freddo come i giorni precedenti, ma potevamo star qualche poco fuori, ad accommodar le trappolle; nientedimeno non ci fu bisogno di ricordo al tornar dentro, perciochè il freddo ci avisava a bastanza.
10 genaro, la tramontana di nuovo ci apportò buon tempo, e sette di noi andammo ben forniti di arme alla nostra nave, alla qual giunti la ritrovammo nello stesso stato che la lasciammo l'ultima volta che là fummo. Osservammo anco molte vestigie d'orso grandi e picciole, onde appareva che ne fussero stati piú d'uno o due; e andando da basso nella nave, e battuto fuoco e accesa la candela, trovammo l'acqua accresciuta un piede d'altezza.
11 detto, sendo sereno e spirando greco, fu un poco piú rimesso il rigor del freddo, sí che talora piú liberamente ardivamo uscire di casa e scorrere circa un quarto di miglio fino al monte, a pigliar delle pietre per scaldarle e porle ne' letti per tenirci caldi.
12 detto, perseverando il buon tempo e spirando ponente, la sera fu molto sereno e 'l cielo di lucidissime stelle adorno; perciò prendemo l'altezza dell'occhio del Tauro, risplendente e molto ben nota stella, la quale fu alta sopra l'orizonte gradi 20, minuti 54. La sua declinazione era gradi 15, minuti 54 dal lato boreale dell'equatore, e detratta la declinazione dell'altezza trovata, rimangono gradi 14, i quali cavati di 90 rimangono gradi 76: che la misura di quella stella e di certe altre si confrontano con quella del sole, e ci mostravano che noi quivi eravamo sotto altezza di gradi 76 o poco piú.
13 detto fu sereno e tranquillo aere, spirando ponente, e potemmo vedere che la luce del giorno si accresceva alquanto, sí che uscendo potevamo giocare alla palla, della quale avanti non potevamo vedere né 'l corso né il voltarsi.
14 dell'istesso fu aere quieto, ma torbido; nel qual giorno prendemmo due volpi.
15 detto fu sereno, e sei di noi andamo alla nave, ove trovammo che quella veste da marinari fatta a guisa di sacco con due fori per cacciar fuori le braccia, la qual l'ultima volta che eravamo stati là avevamo posta in un buco per tirarlo per prender delle volpi, era stata di là cavata e portata lontana e squarciata dagli orsi, sí come dalle vestigia comprendemmo.
16, spirando tramontana, di nuovo avemmo sereno, sí che qualche volta uscimo e caminammo alquanto per far un poco di esercizio col camino, col corso e col tirar di pietre, per non ci addormentar le membra. E sul mezogiorno osservammo un certo rossore nell'aere, come precursore del vegnente sole.
17 genaro, spirando tramontana, essendo il ciel sereno piú e piú scoprivamo che 'l sole a noi si avicinava, e tra 'l giorno sentivamo qualche poco piú di caldo che quando stavamo presso al fuoco, sí che qualche volta cadevano pezzi grandi di ghiaccio giú da' pareti e da' nostri tetti stillava giú l'umore, il che avanti non era occorso per gran fuoco che facessimo; ma la notte di nuovo ogni cosa si gelava.
18 detto fu anco sereno, e le legna cominciavano a scemare, sí che tornammo ad accender del carbone e aprir il camino, perchè non fusse pericolo di soffocarsi; nientedimeno stimammo esser meglio conservare il carbone ed isparmiar anco un poco piú le legna, perciochè i carboni per l'avenire, quando nella nave tornassimo a casa al discoperto ci sarebbono bisognati e stati migliori.
19 tramontana ci apportò serenità, ma il pane cominciava a sminuirsi, perchè i vascelli non erano di giusto peso, perciò il misurato bisognava che scemasse non poco; onde quelli che avevano sparagnato del misurare allora lo usavano, e alcuni de' nostri col sereno andando alla nave ne toglievano di nascosto uno o due biscotti del vascello scemato, il quale disegnavano di serbare in caso di necessità.
20 fu nuvolo, ma aere tranquillo; pur stammo in casa, e fendemmo delle legna per far fuoco, e rompemmo anco alquanti vascelli vuoti, gettando sopra il tetto i cerchi di ferro.
21 fu sereno. La presura delle volpi si cominciò a scemare, il che ci fu come un pronostico che presto avremmo veduto degli orsi, come poi vedemmo con esperienza, perciò che tanto che gli orsi stettero ascosi comparvero, e poi cominciarono a venir piú rare, quando cominciarono a venir gli orsi.
22 fu anco serenità; perciò di nuovo uscimmo di casa a trar le palle, e vedendo accrescer la luce del giorno dissero alcuni che presto si vederebbe il sole, a' quali disse Guglielmo di Bernardo che a pena fra due settimane sarebbe apparso.
23, sendo anco sereno, andammo quattro alla nave, confortandoci l'un l'altro e rendendo grazie a Dio che fusse già passata la parte piú fredda del verno, sperando che ci avrebbe concesso vita acciò che, ritornando alla patria, potessimo tutte queste cose riferire. Entrati nella nave osservammo che l'acqua cresceva, e togliendo ognuno uno o due biscotti tornammo a casa.
24 di genaro, sendo sereno il cielo, io e il nostro patrone di nave, Giacomo Henscherch, e un terzo andammo verso il lito del mare dal lato australe della Nuova Zembla, ove contra la nostra opinione io prima di tutti vidi i raggi del sole: perciò subito tornammo a casa per riferir ciò a Guglielmo di Bernardo e agli altri compagni per lieta novella. Guglielmo di Bernardo, strenuo ed esercitato governatore, non ci voleva dar fede alcuna, per esser giorni 14 piú tosto di quello che 'l sole potesse esser quivi e in quella altezza potesse apparire; noi all'incontro affermavamo d'aver veduto il sole, sí che di ciò erano diverse dispute.
25 e 26 fu aere nubiloso e oscuro, sí che non apparve, perciò quelli che erano di contraria opinione stimavano d'aver vinto; ma alli 27, sendo sereno, tutti il vedemmo pieno di tutto tondo sopra l'orizonte, da che apparve chiaro che alli 24 noi l'avessimo veduto. E a questo modo furono sentiti diversi pareri, cioè che ciò ripugnava all'opinione di tutti gli antichi e nuovi scrittori, anzi all'ordine della natura e alla rotondità della terra e del cielo, e quindi alcuni presero occasione di dire, perchè eravamo stati molto tempo senza luce di giorno, che avevamo dormito, sendo nondimeno certissimi che ciò non ci è avenuto; ma quanto s'aspetta al caso, sí come Iddio in tutte l'opere sue è maraviglioso, cosí lo riferimo alla sua omnipotenza e agli altri lo lasciamo a disporre. Ma perchè alcuno non stimasse e noi di ciò dubitassimo se la lasciassimo sotto silenzio, abbiamo qui voluto dir liberamente la ragione perchè non abbiamo errato nel nostro calcolo.
È dunque da sapere che il sole, quando prima ci cominciò ad apparire, era in gradi 5, minuti 25 di Acquario in quella elevazione di 76 gradi che eravamo e secondo la nostra prima opinione non doveria esser apparso se non in gradi 16 e minuti 27. Sopra questi contrarii non potevamo maravigliarci a bastanza, e dicevamo a vicenda se per caso avessimo fallato nell'osservazione del tempo, il che ci pareva impossibile, essendo che ogni giorno senza lasciarne uno avevamo notato quanto fusse stato fatto, e sempre avevamo usato il nostro orologio e, quando quello si fermava per il freddo, la nostra clepidra di 12 ore; oltre di ciò ci siamo valuti di diversi altri mezi, con li quali potessimo ritrovar questa distinzione e vera certezza del tempo. Considerate tutte queste cose che erano da considerare, ci consigliammo di veder l'Efemeridi di Giosefo Scala stampate a Venezia dell'anno 1589 fino al 1600, nelle quali trovammo a 24 di genaro, nel qual giorno ci apparve il sole, in Venezia all'ora prima di notte esser la congiunzione della luna e di Giove. Perciò usammo diligente osservazione, quando in quella casa che eravamo si facesse tal congiunzione, e fatta molto diligente osservazione trovammo che quel dí 24 genaro era l'istesso nel quale a Venezia fu fatta l'istessa congiunzione, all'ora prima di notte, e appresso di noi la mattina intorno il sole in levante; perciò che continuamente gettati gli occhi a questi due pianeti li vedemmo a poco a poco farsi piú vicini, fino che la luna e Giove si stavano dritto un sopra l'altro, ambidue nel segno del Toro: e ciò la mattina a ora sesta. A quel tempo furono e la luna e Giove sopra il quadrante presso la nostra casa congiunti in 4° tramontana greco, e l'ostro del quadrante era in garbino: quivi avemmo l'ostro dritto nel giorno già 8° della luna, dalle quali cose tutte appare che la luna e 'l sole sono separati l'uno dall'altro otto rombi. Ciò occorse circa l'ora 6a matutina, ed è differente da Venezia in longhezza ore cinque, dal che si può far il conto quanto piú piegavamo verso l'oriente che Venezia, cioè cinque ore: contando per ciaschedun'ora gradi 15, eravamo adunque 75 gradi piú vicini all'oriente che Venezia. Dalle quali tutte cose si può chiaramente comprendere che noi nel nostro conto non abbiamo preso errore, e che anco avemmo trovato la nostra vera longhezza dalli predetti due pianeti, perciochè la città di Venezia è in gradi 37, minuti 25 di lunghezza, e la declinazione gradi 46, minuti cinque; onde segue che 'l luogo nel quale nella Nuova Zembla eravamo era in gradi 112, minuti 25 di longhezza, nel 76° grado dell'altezza del polo: quella è la dritta longhezza e larghezza. Dipoi dall'estremo angolo orientale della Nuova Zembla fino al promontorio Tabin, estrema punta di Tartaria, il quale si volta all'ostro, è differenza di longhezza gradi 60, intendendosi ciò, che i gradi non sono cosí grandi come sotto l'equatore, perciochè sotto l'equatore un grado comprende giusto 15 miglia, ma ritirandosi o verso il settentrione o verso l'ostro si sminuiscono i gradi nella longhezza: sí che quanto piú presso si va o all'artico o all'antartico polo, tanto piú corti sono i gradi, in modo che sotto l'altezza di gradi 76 verso il settentrione, ove passammo il verno, i gradi non sono maggiori di tre miglia e un sesto. Dal che si può facilmente far il conto che avevamo da fare solamente vela per 60 gradi fino al detto promontorio Tabin, che fa insieme 220 miglia, se quel promontorio è in longhezza di 172 gradi, sí come stimamo; il qual passato, è da giudicare che saressimo stati nello stretto d'Anian, di donde avressimo poi potuto far vela liberamente verso all'ostro, secondo la lunghezza della terra. Ma quanto a quello che s'è detto, cioè che 'l sole, sotto la detta altezza di gradi 76, alli quattro di novembre sparve da noi e alli 24 di genaro di nuovo sia stato da noi veduto, lasciamo da disputare a quelli che di ciò fanno professione: a noi basti aver dimostrato che nella supputazione del tempo non abbiamo preso errore.
25 genaro, spirando ponente, fu coperto il cielo di nubi. Si tornò in dubbio se 'l giorno inanti avevamo veduto il sole, e si fecero diversi contrasti, osservando spesso se 'l sole era per mostrarsi. Quel giorno stesso un orso di nuovo fu veduto venir da garbino verso noi, non ne essendo mentre sté ascoso il sole apparso alcuno; ma, levato da noi il grido, non venendo piú inanti si partí.
26 detto fu sereno il cielo, ma nell'orizonte si levò un nuvolo oscuro, il quale ci tolse il vedere il sole, sí che gli altri marinari credevano che ci fussimo ingannati e che non avessimo altrimenti veduto il sole, e ci beffavano; ma noi affirmavamo sicuramente d'averlo veduto benchè non pieno il suo tondo. Verso sera il nostro ammalato era fatto molto debile, e sentiva un gran dolore per esser stato longamente discommodo; noi però quanto potevamo lo confortavamo ed esortavamo a sperare, ma poco dopo la mezanotte passò di questa vita.
27 fu sereno. Noi presso la casa cavammo una fossa nella neve, ma era cosí intenso il freddo che non potevamo star fuori longamente, in modo che ognuno vicendevolmente cavava un poco e subito poi andava al fuoco, succedendo un altro in suo luogo, fin che fu 7 piedi profonda per sepellir il morto; dipoi fatta come una predica funebre, leggendo e cantando Salmi gli facemmo il funerale e lo sepelimmo, e poi tornati in casa desinammo. Tra tanto ragionando della folta neve che ogni giorno cadeva, e che, se di nuovo la casa si serrava dalla neve, in un bisogno non potremmo uscir per il camino, il nostro nocchiero volse provare se di là poteva passare: perciò corré subito uno de' nostri marinari fuori della casa, a veder se il nocchiero usciva dal camino. Quegli arrivando sopra la neve vide il sole e ci chiamò tutti: noi, subito usciti, vedemmo tutti il sole col suo pieno tondo poco sopra l'orizonte. Allora fu levato ogni dubbio se ci fusse apparso alli 24, perciò tutti pieni di allegrezza rendemmo molte grazie a Dio per la sua misericordia, che quel sí illustre pianetta di nuovo a noi fusse levato.
28 genaro, spirando ponente con sereno cielo, uscimmo qualche volta e si cominciammo a esercitar caminando, correndo e tirando di schioppo, però quanto potevamo vedere, per ricuperar le forze e farci piú agili, per esser stati sí longo tempo indarno: e perciò molti erano divenuti gialli.
29 di nuovo ci fu noioso l'aer crudo, spirando maestro un gran nembo di neve, sí che di nuovo la casa fu serrata.
30 fu aere oscuro, spirando levante; e di nuovo per la porta facemmo un foro nella neve, gettando però la neve solamente nel portico, perciochè, subito che vedevamo che aere era di fuori, non ci veniva volontà alcuna di uscire.
31 fu aere tranquillo e sereno, spirando levante; perciò liberammo il portico dalla neve, la qual gettamo sopra la casa, e usciti vedemmo il sol chiaro e risplendente, di che si colmammo di allegrezza. Tra tanto vedemmo un orso venir verso la casa, ma noi ritirandoci tacitamente dentro e aspettandolo, come ci fu appresso gli tirammo una archibugiata e lo cogliemmo; pur ancora fuggí.

Febraio 1597.

1° febraio, il giorno avanti la Purificazione della B. Vergine, spirando maestro, fu un grave aere con gran tempesta e neve, sí che di nuovo fu cinta la casa e si serrò dentro.
2 detto perseverò l'istesso rigore, onde, vedendo che 'l sole non aveva ancora levato via quel freddo, in un certo modo talvolta ci disperavamo, perchè con speranza di miglior tempo non avevamo portato in casa quella quantità di legna che facevamo prima.
3 detto, spirando levante, di nuovo fu il ciel sereno, ma dipoi molto nubiloso, sí che non potevamo vedere il sole, né ci allegravamo troppo, facendosi maggior nuvolo che la vernata non avevamo veduto; ma, cavata per la porta la neve, portammo dentro le legna che erano appresso la porta, che con gran difficultà ci convenne cavare di sotto la neve.
4 di nuovo aere crudo, con un gran refluo di neve dalla quale fummo di nuovo chiusi; ma però non spendemmo tanta fatica in aprir la porta ogni tratto, ma quando la necessità ci astringeva ad uscire, per il camino uscendo, fatto quello che ci bisognava, per quello ritornammo dentro.
5, spirando levante e spingendo un gran carico di neve, fu aere crudele, che ci serrò in casa e ci serrò ogni uscita fuori che per il camino. Quelli che non potevano uscire facevano dentro li loro negocii come potevano.
6, durando l'istesso rigore con tempesta e neve, sendo già assuefatti ad uscir per il camino, il che ad alcuni de' nostri era facile, non prendevano piú quella fatica di cavar ogni giorno la neve via dalla porta.
7, continuando l'istesso tempo con neve, ci bisognò ancora star in casa, il che ci era piú noioso che inanzi, quando ci era tolto il sole; ma ora, avendolo veduto e gustato il suo dolce aspetto, ci rincresceva grandemente il dover restar di lui privi.
8 detto, spirando maestro, cominciò a mitigarsi l'aere e farsi sereno, e allora vedemmo il sole levar in ostro siroco e tramontar in garbino, secondo però il quadrante che avevamo fatto in casa di piombo e avevamo quivi drizzato al giusto meridiano; altrimenti secondo il nostro quadrante commune vi era differenza di due intieri.
9 fu sereno e ameno giorno, nientedimeno non potemmo vedere il sole, perciochè era una nebbia verso ostro, dove il sole doveva levare.
10 fu similmente sereno e tranquillità grande, sí che non potevamo vedere onde spirasse il vento, e cominciavamo talora sentire il calor del sole; ma verso sera cominciò a spirar non poco ponente.
11 detto, spirando ostro, fu sereno e tranquillo; e circa il mezogiorno venne un orso verso la casa, il quale aspettavamo con gli archibugi, ma non venne tanto vicino che gli potessimo tirare. La stessa notte di nuovo sentivamo il gamito delle volpi, le quali dopo che gli orsi erano comparsi si vedevano di rado.
12 febraio fu sereno e tranquillo, per il che di nuovo nettammo le trappolle delle volpi. Tra tanto venne verso la casa un grand'orso, il qual veduto tosto si ritirammo in casa, e stavamo su la porta a quello intenti armati di schioppi semplici e doppi, che volgar chiamano moschettoni; e venendo al dritto verso la porta, ferito nel petto e passatosi, che la palla gli uscí fuori presso la coda, cosí schiacciata e piana come una moneta battuta col maglio. L'orso sentendosi ferito con gran sforzo saltò indietro, e fuggendo circa venti o trenta piedi lontano cadé. Allora uscendo tutti fuori andavammo alla volta di quello, e lo trovammo ancor vivo, sí che levando il capo verso noi lo volgeva quasi volesse vedere chi l'aveva ferito; ma non si fidando noi di lui, di cui avevamo veduta la forza, lo passammo con due moschettoni, dalli quali fu morto. Aperto il corpo, gli cavamo gli interiori, e lo tirammo presso la casa e lo scorticammo, e gli cavammo quasi cento libre di songia, la quale liquefacemmo per uso delle lucerne, il che ci venne molto a tempo; onde piú largamente damo nutrimento alle lucerne, sí che ardessero tutta la notte, il che avanti non potevamo fare per penuria di oglio, anzi ogniuno a suo piacere tenne al suo letto una lampada ardente. La sua pelle fu longa piedi nove e larga sette.


Della uccisione d'un ferocissimo orso, del quale cavammo quasi cento libre di songia, che ci serví per le lucerne, che tutta la notte da indi in poi tenimmo accese.
Cap. XII.

13 febraio fu sereno, ma soffiava un gagliardissimo ponente; onde, avendo maggior lume in casa per le lucerne accese, si ritirammo a leggere e fare alcune cose, e passavamo cosí piú commodamente il tempo che quando per l'oscurità non potevamo conoscer il giorno dalla notte, né avevamo perpetuo lume.
14 febraio, avanti mezogiorno spirando gagliardamente ponente, fu sereno, ma dopo mezogiorno tranquillo aere; perciò andammo cinque di noi alla nave a veder in che stato si trovava, la qual con poco piú del solito piena d'acqua.
15, sendo crudel aere con tempesta e neve, fu di nuovo tutta la casa assediata. La notte vennero le volpi al cadavero dell'orso che era dinanzi la casa, onde temevamo che tutti gli orsi vicini fossero per venir a noi; perciò deliberammo quanto prima si poteva uscir di casa, e di sepelire quel cadavero sotto la neve ben profondo.
16 detto, seguendo l'istesso vento, seguitò anco la neve e il freddo. Ed essendo quel giorno il dí di carnevale, ci reficiammo in tanta mestizia alquanto, mettendo ogniuno un poco del suo vino datoli a misura in commune, in memoria che veniva il fine dell'inverno e che la gioconda primavera era in viaggio.
17 fu aere quieto, ma scuro, spirando vento dall'ostro. Noi aprendo la porta gettammo via la neve, e sepellimo l'orso nella fossa dove avevamo cavato le legna e lo coprimo bene, per levar l'occasione d'inescar verso noi gli orsi, e riparammo di nuovo le trappolle per le volpi. L'istesso giorno andammo cinque alla nave e la trovammo nello stesso stato, vedendo in quella molte pedate d'orsi, quasi che per la nostra assenza se n'avessero di quella preso il possesso.
18 spirando maestro fu crudel aere, con molta neve e gran freddo. La notte ardendo le lampade e alcuni de' nostri sendo stati piú tardi a gire a letto, sentirono sopra il tetto il caminar di animali, che pareva loro maggiore che di volpi, cosí creppava la neve e faceva strepito; onde pensavamo che fussero orsi, ma, come fu giorno, non trovammo altre pedate che di volpi. Ma la notte, per se stessa oscura e orrida, le cose che sono orribili rende ancora maggiormente orribili.
19 fu l'aere sereno e tranquillo. Quel giorno prendemmo l'altezza del sole, che per tanto tempo non avevamo potuto, perchè l'orizonte non era chiaro, e perchè anco non era tanto alto né faceva tanta ombra quanta era necessaria al nostro astrolabio. Noi avevamo fabricato uno stromento a guisa d'una meza sfera, avendo notati in una meza parte 90 gradi, al quale appendemmo un filo con un pezzetto di piombo a punto come si fa nella livella, e con quello misurammo l'altezza del sole, essendo nella sua maggiore altezza, e lo trovammo sopra l'orizonte tre gradi. La sua declinazione era 11 gradi e 16 minuti, i quali giunti all'altezza fanno gradi 14 e minuti 16; i quali battuti di 90, rimane l'altezza del polo gradi 75 e minuti 44. E perchè la detta altezza di 3 gradi era stata tolta dall'infimo angolo del sole, bisogna aggiunger minuti 16 all'altezza del polo, e cosí resteranno precisamente 76 gradi, sí come avevamo trovato in tutte l'altre dimensioni.
20 cattivo tempo, con gran nembo di neve spinta da ponente dalla quale fummo serrati in casa.
21 cattivo tempo, gran venti e folta neve, della quale piú s'attristavamo che prima, perchè eravamo a fatto senza legna, e ci bisognò romper e abbrucciare quelli che calcavamo co' piedi e sprezzavamo quando ne avevamo abondanza: sí che quel giorno e la notte la passammo come potemmo.
22 febraro fu sereno e quieto, e ci preparammo a cercar una caretta di legna, che la necessità ci spingeva a quel negocio, perciò che si dice volgarmente che la fame caccia il lupo fuori del bosco. 11 adunque di noi ben forniti d'arme andammo ad un luogo dove speravamo trovare delle legna, ma non ne potemmo cavar niente per esser troppo sotto la neve, però bisognò andar piú lontano, ove con gran fatica ne cavammo qualche poco; e il ritorno ci fu cosí amaro che quasi l'anima ci lasciamo, perchè per il gran freddo e longo e per le incommodità patite eravamo rimasi cosí debili e stanchi che ci mancavano le forze, né speravamo piú poterle ricuperare, né poter piú condur legna: il che se occorreva morivamo di freddo. Ma la necessità presente e la speranza di star meglio ci somministrava forza, sí che facevamo piú di quello che potevamo. Venendo presso casa vedemmo molt'acqua in mare, che per gran tempo non avevamo veduto, il che anco ci ritornò l'animo e ci aggiunse speranza di miglior successo.
23 fu tranquillo aere, ma oscuro; e prendemmo due volpi, che ci furono in vece di selvaticine.
24 fu l'istesso tempo, e avevamo preparate le nostre tese per le volpi, ma non ne prendemmo alcuna.
25 di nuovo pessimo tempo con neve, e fummo serrati in casa.
26 fu oscuro, ma tranquillo; e aperta la porta esercitammo il corpo col camino e col corso, per addestrar le membra che dall'ozio erano quasi addormentate.
27 fu aere tranquillo, ma freddo crudele, e le legna si scemavano molto, onde eravamo molto affannati rivolgendo nella mente quanto acerba era stata questa ultima vettura, e che di nuovo bisognava tornare, se non volevamo morir di freddo.
28 continuò l'aere tranquillo, e andato io quel giorno, conducemmo una volta di legna, con non minor fatica e travaglio dell'altra, perciochè uno de' nostri non ci poteva aiutare per esserli guasto dal freddo l'ultimo articolo del deto grosso d'un piede.

Marzo 1597.

Primo di marzo fu sereno e quieto aere, ma grande e crudel freddo, e ci bisognava isparmiare le legna, perciochè era cosí dura fatica l'andarle a cercare. Il giorno adunque per quanto ci concedevano le forze ci esercitavamo per scaldar il corpo col correre, saltare e passeggiare, e a quelli che erano nel letto porgevamo delle pietre calde da scaldarsi, e verso la sera accendevamo un buon fuoco, di che eravamo contenti.
2 marzo fu sereno e freddo. Quel giorno, tolta l'altezza del sole, sendo nella sua maggior esaltazione, lo trovammo alzato sopra l'orizonte gradi sei, minuti 48. La sua declinazione era gradi sette, minuti 12, i quali insieme fanno 14; il qual numero detratto di 90, riman l'altezza del polo gradi 76.
3 detto fu sereno e tranquillo, sí che i nostri ammalati si ricuperarono alquanto, e cominciarono a sedere sopra i loro letti a far qualche cosa per passar il tempo; il che poi non tornò loro bene, per esser levati prima che dovessero.
4 fu aere tranquillo; nel qual giorno ancora venne l'orso verso la nostra casa, e noi con gli archibugi aspettandolo come prima lo ferimmo, nientedimeno fuggí. E noi ancora andammo cinque alla nave, e trovammo che gli orsi avevano gettato sossopra ogni cosa e avevano rotta la porta della cucina, benchè fusse sepolta sotto altissima neve, pensando sotto quella fusse ascoso qualche cosa, e portato un pezzo di quella un gran pezzo lontano dalla nave, ove poi lo ritrovammo.
5 fu crudo aere, e verso la sera mitigato alquanto, uscendo di casa vedemmo maggior quantità d'acqua in mare che prima, onde si allegrammo sperando con tempo averci a partire.
6 perseverò l'istesso crudo aere, con gran tempesta e nembi di neve; e quel giorno alcuni de' nostri, montando sopra il camino, videro in mare e presso il continente gran quantità d'acqua.
7 perseverò l'istesso aere e vento, sí che del tutto fummo confinati in casa, e chi voleva uscire gli conveniva uscire per il camino, il che ci era molto famigliare. E vedevamo sempre piú acqua aperta in mare e presso il continente, e stimavamo in queste fortune e corso di ghiaccio che la nave si potesse spinger fuori del ghiaccio, mentre eravamo in casa, che poi fuori non potevamo.
8 continuò l'istesso aere con tempesta e neve, sí che non vedevamo piú ghiaccio in mare verso greco, onde facevamo congiettura che da quella parte dovesse esser il mar libero.
9 fu ancora crudo aere, ma meno de' due giorni passati e con manco neve, sí che vedevamo assai piú lontano l'acqua aperta in mare verso greco; ma verso Tartaria appareva ancora il ghiaccio nel mare di Tartaria, overo congelato, facendo congiettura non esser molto di là lontani, perciò che sendo il ciel sereno ci pareva di vedere il continente e spesso l'uno all'altro ci lo mostravamo verso ostro e ostro siroco, opposto alla nostra casa, come una regione montana, come communemente appaiono le regioni quando si possono veder egualmente.
10 spirando tramontana fu aere sereno, e perciò facemmo netta la casa, e cavata la neve e usciti vedemmo il mare al largo aperto, sí che uno diceva all'altro: "Se la nave fusse libera, potremmo provar di far vela"; ma con la scafa o col copano sarebbe stato incommodo, per il gran freddo che quivi durava. Presso sera nove di noi andammo alla nave, menando il carro per condur delle legna da quella, avendo consumato quelle che avevamo in casa, e trovammo la nave ancora ferma nel ghiaccio.
11 marzo, spirando greco, fu freddo e sereno con sole chiaro; perciò togliemmo la sua altezza con l'astrolabio, e lo ritrovammo 10 gradi e minuti 19 sopra l'orizonte, e la sua declinazione gradi 3, minuti 41, i quali giunti con l'elevazione fanno gradi 14 come avanti: questi cavati di 90, riman l'altezza del polo gradi 76. Dipoi noi 12 menando la caretta andammo a tuor delle legna al luogo usato, ma sempre con maggior fatica, perciochè ogni giorno si facevamo piú debili. Ritornati a casa e grandemente stanchi, dimandammo al nocchiero la nostra parte di vino, il qual ottenimmo, e con quello reficiati e corroborati fummo per l'avenire piú pronti alle fatiche, le quali erano quasi intolerabili se la necessità non ci avesse fatto animo e forze; anzi spesso diceva l'uno all'altro, se le legne si trovassero da comprar con danari, le avremmo volentieri compre con li nostri salarii di mese in mese.
12 marzo spirando greco fu un aere crudo, e di nuovo cominciò a tornar il ghiaccio che garbino aveva scacciato, e si levò tanto freddo che in tutto il verno non sentimmo il maggiore.
13 detto, durando l'istesso vento, durò anco l'istesso aere con neve, e il ghiaccio correndo giú si andava urtando un pezzo con l'altro con gran strepito, sí che metteva terrore anco a chi l'udiva.
14, spirando impetuosamente greco levante e durando l'istesso crudo aere, il mar di nuovo fu a fatto congelato e levossi un gran freddo; sí che i nostri ammalati, i quali col tempo indolcito troppo tosto s'erano esposti all'aere, di nuovo s'affliggevano.
15 tramontana fece sereno; nel qual giorno di nuovo aprimo la casa, sí che si potesse uscire, nientedimeno il freddo ogni giorno cresceva e si faceva piú aspro.
16 fu sereno molto, ma molto freddo, e a noi piú molesto, perchè quando credevamo da quello esser liberati ci assaltava di nuovo cosí fieramente.
17 l'istesso sereno, spirando l'istesso vento, e insieme l'istessa asprezza di freddo, sí che da questa perseveranzia eravamo molto afflitti, non sapendo ancora che cosa ci aveva a succedere, sendo il freddo intolerabile.
18, continuando pur l'istesso vento, aere e freddo, il ghiaccio sempre piú si ingrossava e stringeva con gran fragore, il quale potevamo anco udire stando in casa, ma mal volontieri.
19 non solamente perseverò l'istessa asprezza di freddo, ma di piú un gran nembo di neve sopragiunse, che del tutto serrò la casa, sí che non si poteva né uscire né vedere.
20, stando pur il vento e l'aere nello stesso stato, e cominciando le legna a mancare, non sapevamo piú che fare, perciochè senza legna ci bisognava morir di freddo, ma ci erano tanto mancate le forze che non ci bastava piú l'animo di andarne a condurre.
21 detto, essendosi tranquillato il vento, non era però cessato il freddo; ma sendo quel giorno entrato il sole nell'Ariete, sul mezogiorno prendemmo la sua altezza, la quale trovammo 14 gradi sopra l'orizonte, e sendo nella linea di mezzo distante egualmente dall'uno e l'altro tropico, non vi era declinazione alcuna verso l'ostro o verso tramontana. Tratta questa altezza di 90, riman l'altezza del polo gradi 76. Quel giorno stesso de' nostri cappelli, ci facemmo de' stivali o scoffoni, quali tirammo sopra le calze, perciochè non potevamo star longamente nelle calze e scarpe per il gran freddo, perchè erano indurate come corno, e con gran difficultà conducemmo un viaggio di legna, perseguitandoci un asprissimo freddo come se marzo volesse tor congiedo. Pur questa speranza ci consolava, che 'l freddo, benchè fusse asprissimo, non era per durar sempre.
22 fu sereno e tranquillo, ma con l'istesso freddo, onde alcuni, sendo molesto e difficile il condur legna, ricordarono di far una volta il giorno fuoco di carboni.
23 fu un crudelissimo aere e asprissimo freddo, sí che fu forza far un fuoco assai maggiore che prima, perciochè il freddo era assai piú aspro del solito, e s'attaccò il ghiaccio grosso alle tavole e pareti della casa di dentro.
24 tramontana menò l'istesso aere e ghiaccio con grandissima neve, sí che a fatto fummo ristretti in casa, e i carboni che prima ci diedero tanto incommodo ora ci furono molto utili.
25, benchè spirasse ponente, non però si sminuí il rigore né dell'aria né del freddo, ma stette nel suo stato, onde in certo modo eravamo disperati.
26 marzo fu aere sereno e tranquillo; perciò aprimmo la porta e uscimmo, e conducemmo una caretta di legna, perchè avevamo in cosí gran freddo consumate quelle che avevamo.
27, durando l'istesso tempo, di nuovo cominciò il ghiaccio a scorrere, sí che apparve dell'acqua; pur la nave rimaneva stretta nel ghiaccio.
28, continuando l'istessa serenità, il ghiaccio cominciò a spingersi gagliardamente e aprirsi piú il mare; e andati sei alla nave la trovamo come prima, ma gli orsi avevano rivoltato molte cose.
29, benchè durasse l'istesso sereno, tornò però a scorrer il ghiaccio. Quel giorno conducemmo un'altra caretta di legna, se bene ogni giorno ci pareva piú duro per la nostra debolezza.
30 detto, durando il tempo medesimo e spirando levante, il ghiaccio scorreva grandemente. A mezogiorno due orsi, passando presso la casa, lasciando noi andarono alla nave.
31 fu l'istesso tempo sereno, spirando greco, il qual ogni giorno menava gran quantità di ghiaccio, sí che i pezzi rottisi l'un l'altro e cavalcandosi si levarono a guisa di monti.

Aprile 1597.

1° aprile, spirando gagliardamente levante, durò l'istesso sereno e freddo; per il che facemmo fuoco di carboni, perchè il condur delle legna ci era troppo faticoso.
2 detto, sendo sereno e chiaro, tolta l'altezza del sole, qual fu gradi 18 e minuti 40, e detratto quanto di sopra, si trovò l'altezza del polo gradi 76 come di sopra.
3 detto, sendo l'istesso tempo, facemmo una mazza da giocar alla palla per far le membra piú agili con l'esercizio, per il quale esperimentavamo ogni cosa.
4 fu sereno, ma vento incerto; nel qual giorno andati tutti alla nave cavammo la corda dell'ancora e l'allentamo, acciochè, se per sorte la nave si sciogliesse dal ghiaccio o cominciasse ad ondeggiare, potesse levarsi.
5 detto, un gagliardo vento dal greco di nuovo menò un tristo tempo e spinse grandemente il ghiaccio, sí che, montato l'un pezzo sopra l'altro, grandemente stringerono la nave.
6 detto durò l'istesso tempo. La notte venendo un orso verso alla casa, ci preparavamo di tirarli di schioppo, ma sendo la polve umida non volse prender fuoco; ma l'orso descendendo per li gradi si sforzava d'entrar ardito in casa, e serrando il nocchiero la porta, per fretta e timore non poteva metterle il catorcio, ma l'orso vedendo che la casa era serrata si partí. Poi due ore dopo tornò e, circondando la casa e al fine montando sul colmo, mandò cosí fiero grido che metteva orrore a udirlo; finalmente, accostandosi al camino, cominciò con tanta forza a cavarlo che temevamo che lo aprisse, e squarciò la vela con la quale era cinto il camino, ma per esser notte non gli facemmo resistenza. Per la oscurità finalmente lasciandoci si partí.
7 era ancora crudo aere, e, poste all'ordine le nostre arme e due schioppi, stavamo aspettando l'orso, ma non venne; poi, montati sopra la casa, vedemmo con quanta forza aveva squarciato le vele cosí saldamente attaccate.
8 detto, perseverando l'istesso tempo, di nuovo scorse giú il ghiaccio e s'aprí il mare, onde di nuovo, come tante altre volte, prendemmo speranza d'uscir un giorno di cosí molesto luogo.
9 fu sereno, ma presso sera fu molto turbato; ma durando l'istesso vento il mare sempre piú si apriva, e noi prendevamo allegrezza, rendendo grazie a Dio che ci aveva liberati dal freddo passato e da quel orribile e intolerabil verno, sperando che in breve ci avrebbe concesso una benigna uscita.
10 aprile fu aere crudele, suscitando greco una gran tempesta e un gran carico di neve, onde il ghiaccio che era scorso giú di nuovo tornando in su coperse tutto il mare.
11 detto fu sereno, crescendo il vento, per il che i pezzi di ghiaccio montando l'un sopra l'altro s'inalzavano grandemente.
12 detto l'istesso e li due precedenti giorni.
13 fu sereno e tranquillo, onde, calzati gli scoffoni fatti de' cappelli di che sentimmo utilità grande, conducemmo delle legna in casa.
14, perseverando il sereno, benchè spirasse ponente, cosí alti monti di ghiaccio avevano cinto d'intorno la nave che era una cosa orribile a vedere, e meraviglia grande che non andasse in minuti pezzi.
15, spirando tramontana, fu sereno e tranquillo, nel qual giorno andammo sette alla nave per veder in che stato fusse, e la trovammo nello stato di prima. Ritornando, ci venne incontro un grand'orso, al quale ci apparecchiamo far resistenza, ma ciò vedendo cesse. Andando poi al luogo di donde era venuto, osservammo se vi fusse qualche spelonca, e trovammo una gran grotta nel ghiaccio profonda l'altezza d'un uomo, angusta nell'entrata, ma dentro ampia molto, nella quale avendo cacciate le nostre aste volemmo far prova se vi era dentro altra bestia; ma non vedendovi niente uno de' nostri entrò nella grotta, ma non discese troppo a basso, perciochè era troppo orribile a vederla. Indi caminando lungo la costa del mare vedemmo il ghiaccio aggrumato tant'alto l'un pezzo sopra l'altro, verso la fin di marzo e il principio d'aprile, che parevano città intiere con le sue torri e bastioni.
16 aprile, spirando maestro, l'aere freddo cominciò alquanto a sminuire il ghiaccio.
17 aprile, ponente fece sereno; perciò sette di noi andammo alla nave, alla qual pervenendo vedemmo l'acqua aperta nel mare, onde per argini di ghiaccio e monti quanto piú commodamente potemmo caminando giungemmo all'acqua, la quale per 6 mesi o 7 non avevamo veduto. Osservammo nell'acqua un picciolo uccello che notava, il quale vedutici si tuffò sott'acqua. Ciò a noi fu augurio che 'l mare era piú aperto che innanzi, e già s'approssimava il tempo che si avesse a dileguar il ghiaccio.

18 detto, durando l'istesso aere e vento, misurammo l'altezza del sole, la qual trovammo gradi 25 e minuti 10. La sua declinazione fu gradi 11, minuti 12, i quali detratti della altezza ritrovata, restano gradi 13, minuti 58; quali detratti di 90, l'altezza del polo si trova di gradi 76, minuti due. Dipoi noi 11 conducemmo una carretta di legna a casa. La notte l'orso montò su la nostra casa, ma, sendo usciti tutti con arme di diverse sorti, udito lo strepito fuggí.
19 tramontana fece sereno. Quel giorno cinque di noi entrammo nel bagno, dal quale grandemente fummo ricreati e restituite le forze.
20 detto, continuando l'istessa serenità, benchè spirasse ponente, cinque di noi, andati al luogo dove toglievamo le legna, portammo sopra la carretta una caldaia con altre cose necessarie per lavar le camicie, perciochè quivi avevamo le legna in pronto, e vi era bisogno d'abondanzia per disfar il ghiaccio e scaldar l'acqua e poi di nuovo ad asciugar le camicie, perciochè manco faticoso o difficile ci pareva ciò fare che condur le legna a casa.
21 detto, spirando levante fu ancor sereno, e similmente il giorno dietro; cosí il 23 e 24 e 25, nel qual giorno venne un orso alla casa, il quale sendolo tirato d'un schioppo fuggí, e lo seguitò un altro che era quivi vicino.
26 e 27 fu anco sereno, ma il vento da greco suscitò una gran tempesta.
28 detto, sendo sereno e quieto, fu tolta l'altezza del sole, la qual fu gradi 28 e minuti 8.
29, perseverando l'istesso tempo, ci esercitammo col trar la palla e l'asta, dalla casa fino alla nave e indi a casa, per render le membra piú robuste e agili.
30 fu sereno, bello e tranquillo giorno, spirando garbino; e la notte verso tramontana sendo il sole nella sua maggior altezza, lo potemmo ancora vedere sopra l'orizonte, sí che allora primieramente cominciò a risplenderci il sole e 'l giorno e la notte.

Maggio.

Il primo di maggio fu sereno, spirando ponente. Quel giorno fu cotto tutto il resto di carne che avevamo, dalla quale s'avevamo astenuto longo tempo, ed essendo ancora sana non ci fu meno saporita che al principio: vi era solamente un difetto, che non ne avessimo piú.
Il 2 fu cattivo tempo, sendo levata da maestro una fortuna, sí che 'l mare per la maggior parte fu liberato dal ghiaccio; per il che ci cominciava ad entrar desiderio di quinci partire, sendovi pur troppo fermati.
3 del detto, spirando l'istesso vento, rimase l'aere freddo, sí che del tutto era il ghiaccio cacciato, ma pur ancora cingeva fortemente la nave. Ma perchè ci mancavano i cibi piú nutritivi, come sono le carni e la vena mondata e gli altri che ci facevano forza, e ci bisognava esser robusti e gagliardi per sopportar le fatiche che ci avevano a venir adosso, dovendo partire, il nocchiero tutto quel poco di carne di porco salata che era rimasa in un picciolo vascello tra noi divise, sí che ognuno ne prendesse due oncie al giorno per tre settimane continue avanti che fussero consumate.
4 detto, benchè spirasse l'istesso vento, fu buon tempo. Quel giorno cinque di noi andati alla nave la trovammo serrata da maggior quantità di ghiaccio che inanzi, perciochè a mezo marzo era lontana dall'acqua aperta solamente passa 75, e adesso era circondata da piú di 500 passa di ghiaccio in grumi alti a guisa di monti, sí che non picciol timore si comprese, come potessimo tirar la scaffa e il battello fino all'acqua quando fussimo per partire. La notte di nuovo un orso venne alla casa, ma, udito il nostro moto, uno de' nostri che guardava dal camino lo vide subito mettersi in fuga, sí che pareva che loro fusse stato messo paura, che non osavano piú cosí arditamente venir alla nostra casa, sí come facevano inanzi d'adesso.
5 detto, benchè fusse bonazza, il vento da levante nondimeno apportò neve; ma la sera e la notte vedemmo il sole alquanto sopra l'orizonte, essendo nella sua maggior altezza.
6 di maggio fu sereno, ma spirò garbino molto gagliardo, sí che vedevamo il mare tanto verso levante quanto verso ponente aperto; sí che tutti s'allegrammo, desiderando grandemente di tornar a casa.
7 fu aere crudo, menando tramontana una folta neve, sí che di nuovo si chiudemmo in casa; per il che i marinari infastiditi dicevano: "Questa inequalità d'aere non ci abbandonerà mai, però sarà bene quanto prima sarà aperto il mare levarsi di qua".
8 detto, ponente menò un crudo aere con densissima neve; perciò alcuni marinari si consigliarono di dir al nocchiero che era piú che tempo di quindi partire, ma a niuno bastava l'animo di ciò dirli, perciochè l'avevano udito dire che voleva differire fino alla fine di giugno, cioè fino a meza la state, se per sorte allora fusse libera dal ghiaccio.
9 fu sereno e assai buon aere, perciò maggior desiderio s'accresceva ne' marinari di partire, e deliberarono di pregar Guglielmo di Bernardo che persuadesse al nocchiero che fusse tempo di partirsi di costà; ma quegli con dolcezza lo frenò e rimosse dal loro pensiero con ragioni che i marinari accettarono.
10 fu similmente sereno; e la notte, sendo il sole in greco tramontana nella sua maggior bassezza secondo il quadrante commune, togliemmo la sua altezza, la qual trovammo gradi 3, minuti 45, la sua declinazione gradi 17, minuti 45: detratta l'altezza restano gradi 14, quali detratti di 90, fu l'altezza del polo gradi 76.
11 fu aere crudo con tempesta da maestro, sí che l'apertura del mare andava crescendo, e insieme la nostra speranza.
12 garbino menò sereno, e 'l mare fu del tutto aperto; perciò i marinari di nuovo avisarono Guglielmo che facesse sapere al nocchiero la loro intenzione, il che promise di fare con la prima occasione.
13, benchè fusse aere quieto, nientedimeno venne di gran neve da maestro.
14, sendo sereno, conducemmo l'ultima carrettata di legna in casa, tenendo pur in piè gli scoffoni di pelli, sentendo che ci facevano servizio; nel qual giorno i nostri marinari ricordarono a Guglielmo che avisasse il nocchiero che bisognava cercar mezo di tornar a casa, il che promise di fare il giorno seguente.
15, sendo sereno, furono mandati fuori tutti li marinari a far esercizio con correr, saltar e altro per corroborar le membra. Tra tanto Guglielmo fece sapere al nocchiero la intenzione de' marinari, il quale rispose che non avrebbe differito il partire piú che alla fine di quel mese, e che allora, quando non si avesse potuto liberar la nave, s'avrebbe fatta ogni provisione per partir con lo schiffo e copano.
16 fu molto sereno tempo, e si allegrarono i marinari della risposta del patrone, benchè paresse loro che gli aveva differito troppo. Ma vi bisognava molto tempo ad accommodar lo schiffo e battello, sí che fusse buono da navigar in mare, perciò parve ad alcuni che fusse bene a segarlo per mezo per allongarlo: il che, se bene pareva commodo, nondimeno avrebbe apportato incommodità, perchè, quanto fusse stato piú commodo al far vela, sarebbe stato piú faticoso a portarlo sopra il ghiaccio, come ci convenne poi fare.
17 e 18 fu ancor sereno, e cominciammo ad annoverar i giorni fin che apparecchiassimo di partire.
19 fu sereno e tranquillo, e 4 de' nostri andarono alla nave e alla riva del mare, a vedere per dove fusse miglior strada per condur le barche nell'acqua.
20 maggio fu aere crudo, spirando greco, il quale di nuovo fece tornar in su il ghiaccio. Sul mezogiorno chiamammo il nocchiere e gli dicemmo che omai era tempo che apparecchiassimo ogni cosa, acciò, se ci fusse data commodità di partire, qualche cosa non ci avesse trattenuto. Rispose egli che gli era cosí cara la sua come a noi la nostra salute, ma che apparecchiassimo fra tanto le vesti e altre massericie e che le rappezzassimo, che ciò poi non ci trattenesse, e che cosí aspettassimo il fine di maggio, e poi che metteressimo all'ordine e lo schiffo e il copano.
21 fu sereno, ma greco faceva pur tornar su il ghiaccio; nientedimeno ci andavamo ponendo ad ordine delle cose necessarie intorno alli nostri corpi, perchè non ci mancasse o trattenesse cosa alcuna.
22 fu sereno, e mancando le legna rompemmo un muro di legno dell'entrata della casa per far fuoco.
23 sereno, perciò alcuni de' nostri andarono a lavar le loro camicie al luogo delle legna.
24 similmente sereno e tranquillo, ma poca acqua aperta.
25, sendo sereno, togliemmo l'altezza del sole, il quale era alto gradi 35, e il polo 76.
26 sereno e bello, ma gran tempesta da greco; poi levata aggrumò di nuovo foltissimo ghiaccio.
27 spirando gagliardamente greco menò un crudo aere, e il ghiaccio veniva in su in gran furia; perciò a richiesta de' marinari concesse il nocchiero che col primo tempo s'apparecchiasse il partire.
28 di maggio la mattina fu aere crudo da greco, ma sul mezogiorno piú rimesso; e sette di noi andammo alla nave a pigliar quanto era necessario per apparecchiar la scaffa e copano, cioè un trinchetto vecchio a proposito per far vela nelle barche, di piú levate via le tavole dalli pareti, corde e piú cose altre.
29 di mattina fu buon tempo, e dieci de' nostri andarono per tirare il copano presso la casa per accommodarlo; ma lo trovammo sepolto molto in giú sotto la neve, e con gran fatica lo cavammo, e volendolo poi tirar alla casa non potevamo, per la magrezza e debolezza, per il che molto s'attristavamo, temendo di aver a morire nelle fatiche. Ma il nocchiero ci esortava e inanimava a far qualche cosa di piú delle forze nostre, perciochè da quello dipendeva la salute nostra e la vita, perciochè, se non tiravamo quel copano e lo riparavamo, ci bisognava star quivi e diventar cittadini della Nuova Zembla, e quivi averci a sepellire. Non ci mancava certo l'animo, ma le forze, onde bisognò allora abbandonar quell'impresa, ma con grandissimo dolore d'animo, quando pensavamo che cosa avevamo a fare.


Come ci preparammo a racconciar il battello per tornar con quello a casa, non potendo liberar la nave dal ghiaccio, ma, essendo tanto distrutti dal freddo e dalla fame che non avevamo piú forza da tirarlo a casa, ci convenne abbandonar l'opera, quasi disperati di dover ivi morire da disagio.
Cap. XIII.

Poi che cosí stanchi e quasi disperati dopo mezogiorno tornammo a casa, un poco dopo riprendendo animo ci esortammo l'un l'altro a rivoltar lo schiffo che era presso la casa riverso, il qual cominciammo a riparare perchè ci fusse piú commodo a navigar per mare, perciochè ci dava l'animo che avevamo a far un longo e increscevole viaggio, nel quale ci sarebbono incontrate di gran difficultà: perciò, benchè facessimo il meglio che sapevamo, non però ci compiacevamo in ogni cosa. Essendo poi intorno questa fattura, venne a noi un ferocissimo orso, ma noi, andando alla casa, quivi l'aspettavamo sopra tutte tre le porte armati di schioppi, e un altro sopra il camino con un moschettone; ma quel pur a noi se ne veniva senza alcuna paura, e meno che nessun altro mai, perciochè venne fino al limitar d'una porta, e quel ch'era su quella porta non lo vedeva, perchè aveva volta la faccia all'altra porta. Ma quei che erano in casa, vedendogli l'orso quasi adosso, molto impauriti gridarono, e quegli, a sé rivolto, vedutolo, impaurito gli tirò dello schioppo e lo passò per mezo, onde voltosi fuggí: e vi mancò poco certo che non morisse, perciochè l'orso gli era già sopra che non lo aveva veduto, e se anco lo schioppo lo fallava, come talora avviene, senza dubbio periva e forse anco l'orso sarebbe entrato in casa. L'orso ferito fuggendo cadé poco lontano dalla casa: subito tutti con schioppi e altre arme gli fummo dietro e l'ammazzammo, e aprendoli la pancia gli trovammo i pezzi con la pelle e i peli ancora d'una foca, che già non molto tempo aveva divorata.


Come di nuovo inanimati, per non morir ivi sepolti dal ghiaccio vivi, ci ponemmo ad accommodar il battello con alzarlo e allungarlo, per poter con esso passar piú di trecento miglia di mare, prima che aggiungessimo dove si trovasse gente e altri navilii.
Cap. XIIII.

30 maggio fu assai buon aere, non troppo freddo, ma scuro, e tutti quelli che erano buoni da fabricare erano intorno ad acconciar lo schiffo; gli altri dentro accommodavano le vele e le altre cose necessarie al viaggio. Tra tanto quei che erano di fuori intorno allo schiffo, venendo a loro un orso, lasciarono il lavoro e l'uccisero. Dipoi levate le tavole dalla casa alzammo alquanto piú lo schiffo, e cosí sollicitavamo l'opera, perciò che tutti erano gagliardi alla fatica desiderata tanto tempo, e anco piú che le forze non comportavano
31 fu sereno, ma l'aere alquanto piú freddo del solito, spirando maestro, il qual spingeva il ghiaccio. E stando poi noi continuamente nel lavoro, venne un altr'orso, quasi che s'accorgessero a naso ch'avevamo a partire, volendoci prima gustare, perchè per tre giorni continui ferocemente ci assaltavano: e lasciando il lavoro e ritirandoci in casa ci seguitò, e noi aspettandolo con tre schioppi separati in uno stesso tempo l'uccidemmo. Ma la sua morte ci fu piú dannosa che la vita, perciochè apertolo mangiammo il suo fegato cotto, il quale fu buono di sapore, ma tutti che ne mangiammo cademmo in una infirmità, spezialmente tre che pensavamo avessero a morire, perciochè dal capo ai piedi cadeva loro da dosso la pelle. Pur furono risanati, del che rendemmo grazie a Dio, perchè, se per questo male quei tre uomini ci mancavano, forse non potevamo quindi partire, perciochè per il poco numero non saremmo stati atti a tollerar le fatiche.

Giugno 1597.

Primo di giugno, benchè fusse bel tempo, perchè però la maggior parte de' nostri marinari era ammalata per il mangiar del fegato dell'orso, come si è detto, quel giorno non poterono far nulla intorno al riparar dello schiffo; ed essendo ancora la pignatta al fuogo dove era il fegato, il nocchiero la gettò fuor della casa. Dipoi quattro de' nostri piú gagliardi andarono alla nave a vedere se vi era piú cosa alcuna che ci facesse bisogno al viaggio, e trovarono un vascello pieno di pesci chiamati geep, simili quasi alle anguille, i quali furono distribuiti fra li marinari, sí che ne ebbe ogniuno due, e ci seppero molto buoni.
2 giugno, la mattina fu sereno spirando maestro, e sei di noi andammo verso il mare a vedere per qual strada potessimo trasportar all'acqua le barche, perciochè il ghiaccio era per tutto tanto alto e cacciato l'un sopra l'altro, che ci pareva impossibile di poter menar per esso la barca; nientedimeno giudicammo che fusse piú breve e piú commoda strada al dritto dalla nave all'acqua aperta, benchè fusse tutta inequale e montuosa e che con gran fatica bisognava appianarla: ma per la brevità ci parve piú commoda.
3 del detto, spirando ponente fu sol chiaro; ed eravamo alquanto ricuperati dal male e fatti piú gagliardi, sí che diligentemente attendevamo a riparar lo schiffo, onde il sesto giorno dopo fu fornito. Verso sera spirando gagliardamente ponente l'acqua fu del tutto aperta, onde prendemmo gran speranza che in breve avesse a succeder la nostra liberazione, che una volta pur partissimo da quel noioso angolo.
4 detto fu sereno e sol chiaro, né molto freddo. E sendo il sole in siroco, andamo undeci al nostro copano, il qual era nel lido in luogo coperto d'arena e sparto marino, e lo tirammo alla nave con minor fatica e difficoltà che quando lo convenimmo lasciare: e la cagione giudicammo che fusse la neve che allora era piú ferma, e forse anco perchè con maggior animo eravamo tornati a quello, vedendo anco l'acqua aperta, onde speravamo aversi a partire. Per tanto tre ne furono lasciati al battello, che lo acconciassino, e perchè l'avevamo usato a portar pesce salato e aveva la puppa agguzza, gliela acconciarono alquanto e gliela fecero piana, perchè fusse piú commoda alla navigazione in mare, e l'alzarono anco alquanto e ridussero in quella piú commoda forma che poterono. Gli altri marinari in tanto nella casa attendevano a preparar tutte le cose necessarie al viaggio, e tirarono due carette di vettovaglia e altre bagaglie alla nave, la quale era quasi a meza strada tra la casa e l'acqua, per poterle tirar poi piú tosto all'acqua quando fussimo per partire. E ogni fatica ci pareva tanto piú lieve, quanto che speravamo di partire da quella deserta, orrida e noiosa regione.
5 detto fu aere crudo con spessa tempesta e neve, spirando ponente, il quale apriva il mare; perciò non potemmo far niente di fuori, ma in casa apparecchiamo tutto, vele, remi, arbori, antenne, timoni e quanto ci faceva di bisogno.
6 detto, la mattina fu buon aere, spirando greco; perciò con i legnaiuoli andammo alla barca a finirla, e insieme tirammo due carrette di vettovaglia e d'altro alla nave. Poi si levò una gran fortuna mista con neve, tempesta e pioggia, che per molto tempo non avevamo sentito, sí che i fabri convennero lasciar l'opra e tirarsi con noi a casa, dove non avevamo né anco luogo asciutto per stare, perchè avevamo tolte le tavole per acconciar le barche ed era sola la vela tesa; e la neve appresso aveva cominciato a disfarsi ed empiva la strada, sí che bisognò lasciar gli scoffoni fatti di pelle e porsi le scarpe.
7 giugno, facendo vento gagliardo da greco, vedemmo di nuovo il ghiaccio tornar in su, ma sendo il sole in siroco fu chiaro; e di nuovo i fabri tornarono alla nave a fornir la barca, e noi mettemmo insieme le merci de' negociatori, quelle che ci pareva di voler levare, cioè le migliori e di maggior prezzo, e le involgemmo e coprimo per difenderle dall'acqua del mare, poichè avevamo a condurle nella barca scoperta.
8 detto, sendo sereno, tirammo alla nave quelle merci che avevamo apparecchiate, e i fabri avevano fabricato la barca, che la sera fu quasi compita. L'istesso giorno noi tutti tirammo lo schiffo alla nave, e l'allegrezza ci dava maggior forza e potere.
9 di giugno fu anco buon tempo. Quel giorno lavammo le nostre camicie e gli altri panni di lino, acciochè tutto fusse apparecchiato quando fusse a partire, e i fabri fornirono le barche.
10 detto tirammo quattro carrette di merci alla nave. In casa eravamo occupati in apparecchiar il tutto, e gettammo anco il vino che ci era rimaso in piccioli vascelli per dividerlo in tutte due le barche, e perchè anco potremmo esser serrati dal ghiaccio, il che sapevamo che ci doveva occorrere, e per poterlo espor sul ghiaccio col resto e tornarlo, come ci poteva occorrere.
11 detto fu rigido aere, sí che tutto 'l giorno non potemmo far nulla; e molto dubitavamo che dalla fortuna fusse portato via il ghiaccio che cingeva la nave insieme con essa nave (il che poteva avvenire), con nostra grandissima miseria, perciochè tutte le nostre robbe e drappi e la vettovaglia erano in nave, ma per providenza di Dio niente di ciò occorse.


Della strada da noi con grandissima fatica fatta per condur le barche accommodate per navigare al mare, convenendo appianar le montagne di ghiaccio con manarre, zapponi, badili, mazzi e pali di ferro e altri stromenti, tagliando, spezzando e spingendo via le lastre e tocchi di ghiaccio; e come un orso ci venne anco a disturbare tal opera, sí che quasi ci tolse un uomo, se con una archibugiata non fusse fatto allargare e al fin ucciso.
Cap. XV.

12 giugno fu assai buon tempo; perciò uscimmo tutti con manarre e zappe e altri stromenti necessarii ad appianar la strada per dove avevamo a tirar la barca all'acqua dietro i monti di ghiaccio, nella qual opera facemmo di molta fatica, tagliando, spezzando, cavando e gettando via co' pali. E quando piú eravamo sul colmo dell'opera, venne verso noi un grande e macilento orso dal mare uscito, qual giudicavamo fusse venuto di Tartaria, imperochè l'avevamo osservato vinti e trenta miglia in mare; e sendo senza schioppi doppi, eccetto quello che aveva il nostro cirugico, io subito andai alla nave per pigliarne uno o due. L'orso, vedendomi correre, velocemente mi seguitò, e forse m'avrebbe giunto se i marinari, ciò avvertendo, lasciando il lavoro non si fussero posti a seguitarlo; il che vedendo l'orso, me lasciando, voltossi verso loro, e mentre va verso loro dal cirugico ferito con lo schioppo si fuggí. Ma, sendo il ghiaccio ineguale e alto, non poté cosí fuggire che i nostri non lo arrivassero e con lo schioppo passassero, e sendo ancor vivo gli gettarono i denti fuori di bocca.
13 fu bel tempo, e il nocchiero accompagnato dai fabri andato alla nave, apparecchiarono del tutto la barca e lo schiffo, sí che non mancava altro che tirarle all'acqua; ma vedendo il mare aperto e spirar ponente prospero, egli tornò a casa e disse a Guglielmo di Bernardo, che già un pezzo era ammalato, che gli pareva che sarebbe bene e che ora si offeriva l'occasione di partirsi, e fu statuito allor communemente tra i marinari di tirar l'una e l'altra barca all'acqua e apparecchiarsi nel nome di Dio a partire dalla Nuova Zembla. Guglielmo di Bernardo per avanti aveva scritto una memoria e l'aveva appiccata al camino in una misura di carica da schioppo, nella quale narrava come eravamo là venuti d'Ollanda per far vela verso il regno della China, e ciò che ivi ci era occorso e le nostre avversità, acciò, se per caso alcuno dopo noi là capitasse, intendesse tutto quello che ci era occorso, e come sforzati dalla necessità avevamo fabricata quella casa, nella quale eravamo stati dieci mesi, e come poi con due barchette scoperte ci bisognò esporsi in mare e mettersi in una navigazione maravigliosa e pericolosa molto. Il nocchiero anco scrisse due lettere, alle quali la maggior parte di noi sottoscrisse, sí come noi quivi nel continente per molto tempo e somma miseria e travaglio eravamo stati, sperando che la nave si liberasse dal ghiaccio e con quella di nuovo doversi indi partire; ma perchè ciò non avveniva, restando la nave fermamente fissa nel ghiaccio, e che 'l tempo scorreva e la vettovaglia mancava, sforzati dalla necessità per conservar la nostra vita ci era bisogno abbandonar la nave e far vela con dui battelli, mettendosi alla speranza di Dio. Gli esempi di queste due lettere furono posti in tutte due le barche, acciò, se per qualche fortuna fussero disgiunte o per qualche altro infortunio fussero perite, almeno in una sola salva si trovasse qual fusse stato il nostro viaggio e partita. Passate tutte queste cose, tirando lo schiffo in acqua vi lasciammo dentro un uomo, e poi l'altra barca, di piú undeci carrette cariche di vettovaglia e vino che ci era rimaso e le merci, mettendovi ogni diligenza per condurle salve quanto potessimo: cioè sei fasci di panno fino di lana, una cesta piena di tele, dui fasci di panni di seta, dui scrignetti con denari, due botte piene d'arme e massericie da marinari, camicie e altro, una botte piena di cascio, mezo porco, due botte d'oglio, sei di vino, due d'aceto, e a rifuso vestimenti di marinari e robbe d'ogni sorte; le quali messe a grumo niuno avrebbe giudicato né s'avrebbe potuto persuadere che potessero entrare nelle barche. Tutte queste cose portate nelle barche, andati a casa conducemmo sopra la entrata Guglielmo di Bernardo all'acqua, dove erano le barche, dipoi Nicolò d'Andrea, l'uno e l'altro ammalato: e a questo modo entrammo nelli battelli, pigliando uno ammalato per barca. Allora il nocchiero commandò che si dovesse congiunger ambe le barche, e ci diede a sottoscriver l'una e l'altra lettera che aveva scritto, come è detto di sopra, l'esempio delle quali è questo.

Lettera de' marinari.

Sí come noi fino al dí d'oggi abbiamo aspettato, sperando che la nave si dovesse liberar dal ghiaccio, ma oggi vi è poca o niuna speranza che ciò possa essere, perciochè ella è da quello saldamente cinta, poichè verso il fine di marzo o 'l cominciar d'aprile il ghiaccio crescendo s'è spinto un sopra l'altro, per trovar mezo e via come possiamo tirar lo schiffo e il battello all'acqua e dove trovaremo luogo commodo, e sí come quasi par impossibile che la nave sia liberata dal ghiaccio, perciò io con Guglielmo di Bernardo, governator maggior della nave, e altri che hanno qualche carico e con gli altri proponemmo la cosa in consulta per conservar noi con alquante merci di mercanti; né potemmo trovar miglior mezo che riparar il nostro schiffo e battello e trovar tutte le cose necessarie, quanto fusse possibile, acciochè preparate non perdiamo niun tempo commodo che Dio ci potrebbe concedere, perchè bisogna tor il tempo piú commodo, altrimenti saremmo morti da freddo e da necessità: il che s'ha da temere che ancora accada, poichè ne sono tre o quattro de' nostri e de' maggiori dalli quali non potemo aspettar aiuto alcuno, talmente sono esausti dal freddo e dalla incommodità che non hanno forza per mezo uomo. Ed è da dubitare che le cose non siano per andar meglio, sí per il lungo viaggio che abbiamo da fare o sí perchè il pane non è per passar il mese d'agosto, e facilmente potrebbe accadere, se nella navigazione ci interviene qualche sinistro, che avanti quel tempo non possiamo arrivare a region alcuna dove possiamo comprar cosa alcuna, benchè da quest'ora tentiamo ogni cosa: perciò saria il nostro consiglio di non aspettar piú tardo, perchè la natura c'insegna che dobbiamo procurar di conservarsi. Questa in questo modo conchiusa e da tutti noi sottoscritta il primo di giugno 1597, sendo adunque il dí d'oggi preparati e avendo trovato vento da ponente favorevole e il mare aperto, noi nel nome del Signore si mettemmo all'ordine da partire, e perchè la nostra nave sta ancora fermamente serrata, stretta dal ghiaccio, e benchè nel nostro apparecchio abbiamo avuti molti gagliardi venti da ponente, da tramontana e da maestro, nientedimeno non vedendo niuna mutazione in meglior stato, quella finalmente abbandonammo.
Data alli 13 di giugno 1597.

E la sottoscrissero


Giacopo Heemscherch
Pietro figliuol di Cornelio
Leonardo figliuol d'Enrico
Pietro figliuol di Primo Vos
Giacopo figliuol di Giano Sterronburch
Giacopo figluol di Iano Schiedain
Maestro Giovanni Vos
Guglielmo figliuol di Bernardo
Gimo figliuol di Rinieri
Lorenzo figliuol di Guglielmo
Ghirardo di Veer.


Del modo del tirar delle barche all'acqua, e i carri di merci carichi e di vettovaglia, e di due ammalati, uno per carretta.
Cap. XVI.

Dipoi, raccomandandosi alla misericordia di Dio, con vento da maestro tramontana e mare assai aperto, si ponemmo a far vela.
14 giugno, la mattina, sendo il sole in levante, in nome di Dio con la scaffa e battello si partimmo dalla Nuova Zembla e da quell'altro ghiaccio. Spirando ponente e drizzando il corso verso greco levante, quel giorno navigammo fino alla punta dell'isole per miglia cinque; ma il principio della nostra navigazione non andò troppo bene, perchè di nuovo dammo in foltissimo ghiaccio che era ancora quivi attaccato e fermato, onde ci assalí una gran paura. Quivi fermatisi, quattro de' nostri andammo nel continente ad investigar quel sito, e riportammo quattro uccelli gettati da noi giú degli scogli con li sassi.
15 era alquanto allargato il ghiaccio, perciò spirando ostro facemmo vela, e passammo la punta del promontorio e il promontorio Ulissingese, steso per la maggior parte verso greco e poi verso tramontana, fino al promontorio del Desiderio per tredeci miglia in circa, ove si fermammo fino alli sedeci.
16 di nuovo facemmo vela, e arrivammo all'isole d'Orangia spirando ostro, lontane dal promontorio del Desiderio otto miglia. Quivi andammo nel continente con due barilette e una caldaia per liquefar della neve e porla nelle barilette, e a cercar degli uccelli e dell'ova per gli ammalati. Là giunti, accendemmo il fuoco con legna ivi trovate e liquefacemmo la neve, ma non trovammo uccelli. Tre altri marinari andati in un'altra isola per il ghiaccio presero tre uccelli, e nel ritornare il nocchiero, che era uno delli tre, cadé nel ghiaccio con gran pericolo della vita, perciochè quivi era un gran fondo; ma per l'aiuto di Dio fu liberato e venne a noi, dove asciugò le vesti al fuoco che avevamo fatto, al quale anco cuocemo gli uccelli, i quali portati in barca diemmo a li nostri ammalati. Tornati adunque alle barche, facemmo di nuovo vela con vento da siroco e con torbido e umido aere, sí che al tutto si bagnamo, perchè le nostre barche non erano coperte, e drizzammo il corso verso ponente e garbin ponente fin che giungemmo alla punta del Ghiaccio. Presso quella punta congiunte le barche, il nocchiero chiamando Guglielmo di Bernardo gli dimandò come stava. "Bene, - rispose egli, - spero che finirò il mio corso prima che giungamo ad Wacrhuys". E volto a me: "Gherardo, - disse, - siamo ancora appresso la punta del Ghiaccio? Levami un poco, ch'io voglio veder ancora una volta questa punta". Allora dall'isole d'Orangia fino alla punta del Ghiaccio avevamo fatto circa miglia 5, e, volto il vento da ponente, fermammo le barche ad un pezzo di ghiaccio e prendemmo un poco di cibo; ma l'aere si faceva sempre piú torbido e umido, sí che di nuovo fummo cinti dal ghiaccio e bisognò quivi fermarsi.
17 giugno la mattina preso alquanto di cibo, il ghiaccio di tal maniera ci era spinto adosso che ci faceva spavento, sí che non potevamo regger né l'una né l'altra barca e pensavamo che quella fusse l'ultima nostra navigazione, perciochè cosí terribilmente eravamo portati insieme col ghiaccio scorrente, e cosí eravamo stretti e calcati dal ghiaccio, che pareva che le barche andassero in mille pezzi: per il che noi guardandoci l'un l'altro con pietà non speravamo piú salvarsi, perchè ad ogni momento avevamo la morte dinanzi agli occhi. Finalmente in tanto intrico e pericolo fu proposto che, se avessimo potuto gettar una corda e saldarla nel ghiaccio fermo, con l'aiuto di quella avremmo potuto tirar le barche a quello, e per questa via saremmo liberi dai pezzi di ghiaccio che ondeggiavano. Il consiglio fu veramente buono, ma con gran pericolo della vita congiunto: e se ciò non si faceva si vedeva chiaramente che la nostra vita era spedita, niun però aveva ardimento di ciò tentare, temendo di non esser absorto, benchè la necessità ci astringesse a farlo e dovesse il minor pericolo ceder al maggiore. Stando adunque noi in tal pericolo, io come il piú leggiero di tutti presi sopra di me il carico di portar la corda al ghiaccio fermo, per tanto appigliandomi a un pezzo di quel ghiaccio ondeggiante all'altra con l'aiuto di Dio arrivai al ghiaccio fermo, e alligai la corda ad un mucchio grande e alto: allora con l'aiuto di quello quelli che erano nelle barche le trassero al ghiaccio fermo, e a quel modo poté piú un solo uomo che inanzi tutti congiunti insieme. Approssimati che fumo al ghiaccio con le barche, presto trasportammo sopra quello gli ammalati, messovi prima sotto gli strammazzi e altre cose dove potessero giacere; dipoi metemmo fuori tutta la robba, e tirammo anco le barche sopra il ghiaccio. Con questo mezo allora liberati dal ghiaccio e da quel gran pericolo, ci riputammo cavati di mano alla morte.


Del modo del tirar delle barche in sul ghiaccio fermo, perchè dall'urtar e stringer delli pezzi di ghiaccio che andavano ondeggiando per mare erano quasi rotti, e insieme tutte le robbe con gli ammalati esposti sul ghiaccio, ove il giorno dietro in una stessa ora spirarono.
Cap. XVII.

18 detto riparammo di nuovo le nostre barche, perciochè erano molto conquassate dalle percosse del ghiaccio: e bisognò calcar tutte le fissure e giunture delle tavole e fortificarle con diversi pezzetti di tavole impecciate, al qual bisogno Dio provide di legna, acciò che potessimo liquefar la pece e preparar quanto faceva bisogno. Dipoi alquanti de' nostri andarono nel continente a cercar delle ova, per i nostri ammalati molto bramate, ma non ne potero trovare alcuno; nondimeno portarono quattro uccelli presi con pericolo della vita tra 'l ghiaccio e 'l continente, rompendosi ogni tratto il ghiaccio sotto ai piedi.
19 fu assai buon'aria, spirando maestro e sul mezogiorno ostro, nientedimeno stavamo stretti dal ghiaccio, né vedevamo apertura alcuna in mare, giudicando sempre non potersi mai quindi liberare; nientedimeno ci consolavamo di nuovo ricordandoci che Dio molte volte fuori della nostra speranza ci aveva aiutati e liberati, con la qual speranza ci facevamo animo l'uno all'altro.
20, spirando ponente, fu assai buon tempo. Ed essendo il sole circa in siroco, cominciò Nicolò d'Andrea a peggiorare, sí che conoscevamo che non aveva a viver molto, perciochè il vicario del governatore, venuto alla nostra barca, ci narrò in che stato s'attrovava esso Nicolò, e che si vedeva che non aveva a viver troppo. Allora Guglielmo di Bernardo disse: "Anco a me pare ch'io non abbia a viver molto"; ma noi non pensavamo che 'l suo male fusse cosí grande, perchè ragionava con noi e leggeva sul giornale ch'io aveva fatto della nostra navigazione, e avevamo discorso di piú cose. Finalmente posto da parte il giornale, a me rivolto disse: "Gherardo, dammi da bere"; e come ebbe bevuto gli venne uno accidente cosí grande che subito volti gli occhi spirò, né vi fu tanto tempo di mezo che io potessi chiamar il nocchiero dall'altra barca prima che morire, sí che morí prima che Nicolò d'Andrea, il quale poco dopo lo seguí. Questa morte di Guglielmo di Bernardo ci apportò non poca malinconia, perciochè egli era il governator maggiore, nel quale noi si confidavamo; ma non si può né dee resistere alla volontà di Dio, alla quale anzi è nostro dovere d'acquietarsi.
21 giugno, il ghiaccio cominciò di nuovo a scorrere e Dio ci mandò una certa apertura di mare, spirando garbino, ma sendo il sole intorno a maestro, cominciò a far vento da siroco assai gagliardo, e perciò si apparecchiamo a partir di qua.
22 detto la mattina, spirando un gagliardo siroco, il mare fu aperto tutto; ma ci bisognò tirar le barche su per il ghiaccio con grandissima fatica e difficultà, perciochè bisognò tirarle prima, con tutte le cose che vi erano dentro, su per un pezzo di ghiaccio lungo quasi 50 passi e pararle nell'acqua, e poi tirarle sopra un altro ghiaccio e di nuovo per altri 300 passi su per quello tirarle, prima che fussero nell'acqua dove potessimo far vela. Alla quale sendo giunti, confidati nella misericordia di Dio demmo le vele al vento, sendo il sole con greco levante, spirando mediocremente ostro e ostro siroco, tenendo il corso verso ponente e garbin ponente fin che 'l sole fu in ostro. Allora di nuovo fummo assediati dal ghiaccio, il quale non potemmo passare, ma bisognò in quel fermarsi; nientedimeno poco dopo il ghiaccio da per sé si separò, per lo quale passammo navigando dietro la rena. Ma di nuovo subito fummo chiusi dal ghiaccio, e sperando pur qualche apertura, prendemmo in questo mentre un poco di cibo, perciochè il ghiaccio non scorreva come prima. Dipoi si ponemmo con tutte le forze a spinger il ghiaccio, ma indarno; nondimeno alquanto tempo dopo da per sé si fece una certa apertura, per la qual passammo, e facemmo vela longo l'orlo della terra verso garbin ponente.
23 detto seguimmo la nostra navigazione verso garbin ponente fin che 'l sole fu in siroco, e giungemmo al promontorio di Consolazione, distante dalla punta del Ghiaccio miglia 25; né potemmo andar piú inanzi, perciochè quivi era il ghiaccio cosí grosso spinto l'un sopra l'altro, ben che fusse sereno. Quel giorno stesso prendemmo l'altezza del sole con l'astrolabio e con l'anello astronomico, la qual trovammo gradi 37, e la sua declinazione gradi 23, minuti 30; la qual detratta dall'altezza, restano gradi 13, minuti 30; questi detratti di 90, riman l'altezza del polo gradi 76, minuti 30. E benchè il sole molto splendesse, il suo calore però non fu tanto che potesse dileguar la neve, sí che avessimo dell'acqua per bere: per tal causa adunque e il baccino di stagno e altri vasi di rame che avevamo empimmo di neve e li ponemmo al sole, perchè ai suoi raggi si disfacesse la neve per far dell'acqua, perciochè, quantunque prendessimo della neve in bocca per cacciar la sete, non ci faceva servizio alcuno, anzi avevamo piú sete che prima.


Descrizione del viaggio che tenimmo della casa nella quale passammo il verno, lungo il lato settentrionale della Nuova Zembla, fino allo stretto d'Weygats, il qual passammo verso la riviera della Russia, e appresso de' porti overo seni del mar Bianco fino alla città di Cola, sí come si dimostra nella tavola precedente.
Cap. XVIII.

Dal luogo del domicilio fino al seno del Mare è viaggio verso levante e ponente per 4 migl.
Dal seno del Mare fino al porto del Ghiaccio è camino verso 4° levante greco per 3 m.
Dal porto del Ghiaccio fino alla punta dell'Isola è viaggio verso greco levante per 5 m.
Dalla punta dell'Isola fino al promontorio Vlissingese è camino verso 4° greco levante per 3 m.
Dal promontorio VIissingese fino all'angolo del Promontorio verso siroco è camino per 4 m.
Dall'angolo del Promontorio fino all'angolo del Desiderio verso ostro e tramontana è corso per 6 m.
Dall'angolo del Desiderio fino all'isole d'Orangia verso maestro per 8 m.
Dall'isole d'Orangía fino all'angolo del Ghiaccio verso ponente e 4° garbin ponente per 5 m.
Dall'angolo del Ghiaccio fino al promontorio di Consolazione verso ponente e 4° garbin ponente per 5 m.
Dal promontorio di Consolazione fino al promontorio Nassoviese verso 4° ponente maestro per 10 m.
Dal promontorio Nassoviese al conio orientale dell'isola della Croce verso 4° ponente maestro per 8 m.
Dal conio dell'isola della Croce fino all'isola di Guglielmo verso 4° garbin ponente per 5 m.
Dall'isola di Guglielmo fino all'angolo Negro verso ponente garbino per 6 m.
Dall'angolo Negro fino al conio orientale dell'isola de l'Admiralità verso ponente garbino per 7 m.
Dal conio orientale dell'isola dell'Admiralità fino al suo conio occidentale verso ponente garbino per 5 m.
Dall'angolo occidentale dell'isola dell'Admiralità fino al promontorio di Plancio verso 4° garbin ostro. per 10 m.
Dal promontorio di Plancio fino al seno di Lombsbay verso ponente garbino per 8 m.
Dal seno di Lombsbay fino all'angolo degli Ordini verso ponente garbino per 10 m.
Dall'angolo degli Ordini fino al promontorio del Priore overo Langenes verso 4° ostro garbino per 14 m.
Dal promontorio Langenes fino al promontorio di Cani verso 4° ostro garbino per 6 m.
Dal promontorio di Cant fino all'angolo dello Scoglio negro verso 4° garbin ostro per 4 m.
Dall'angolo dello Scoglio negro fino all'isola Negra verso ostro siroco per 3 m.
Dall'isola Negra fino a Costintsarch verso oriente e occidente per 2 m.
Da Costintsarch fino all'angolo della Croce verso ostro siroco per 5 m.
Dall'angolo della Croce fino al seno di S. Lorenzo verso siroco per 8 m.
Dal seno di S. Lorenzo fino al porto della Farina verso ostro siroco per 6 m.
Dal porto della Farina fino alle due isole verso ostro siroco per 16 m.
Dalle due isole onde noi facemmo vela verso Russia fino a Matfloo e Delgoy verso garbino per 30 m.
Da Matfloo e Delgoy fino al seno nel qual navigando circondammo un cerchio di quadrante e finalmente fummo condotti nell'istesso luogo per 22 m.
Da quel seno fino a Colgoy verso maestro tramontana per 18 m.
Da Colgov fino all'angolo orientale di Candenas verso maest~o tramontana per 20 m.
Da Candenas fino al lato occidentale del mar Bianco verso maestro tramontana per 40 m.
Dal lato occidentale del mar Bianco fino alle 7 isole verso maestro per 14 m.
Dalle 7 isole fino all'angolo occidentale di Childvin verso maestro per 20 m.
Da Childvin fino a quel luogo nel quale Giovanni figliuolo di Cornelio ci trovò verso 4° maestro ponente per 7 m.
Dal luogo dove Giovanni di Cornelio ci trovò fino a Cola verso ostro per il piú per 18 m.
Noi dunque col battello e scaffa scoperti facemmo viaggio parte tra 'l ghiaccio e parte sopra il ghiaccio tirando e in alto mar facendo vela per 383 m.


24 giugno, circa il levar del sole andammo a remi di qua e di là per il ghiaccio a cercare per dove potessimo passare, ma non trovammo niuna apertura; ma intorno al mezogiorno prorompemmo in mare, per il che rendemmo gran grazie a Dio che fuori della nostra speranza ci avesse concesso l'uscita, e spirando levante facemmo vela con gran progresso, sí che facemmo congiettura di dover passar il promontorio Nessoviese. Nondimeno fummo impediti dal ghiaccio, nel qual dammo, sí che ci bisognò restare al lato orientale del promontorio Nassoviese alla riva del continente, sí che facilmente potevamo vedere esso promontorio, il quale giudicavamo che ci fusse discosto intorno tre miglia. Quivi sei de' nostri usciti nel continente trovarono certe legna e le portarono nelle barche, ognuno quanto si poté caricare, ma però non si trovò uccello né ovo alcuno; ma facendo fuoco delle legna cossero una polenta in acqua, che noi chiamammo matsammore, per metter nello stomaco qualche cosa di caldo. E spirava un vento molto gagliardo dall'ostro.
25 giugno ancora grandemente soffiava, e per non esser molto fermo il ghiaccio al qua, e erravamo accostati, dubitavamo grandemente che rompendosi quello fussimo portati in mare: e per il vero circa il tramontar del sole, rotto quel pezzo di ghiaccio, ci bisognò mutar luogo e fermarsi ad un altro pezzo di ghiaccio.
26 detto si levò ancora una gran fortuna dall'ostro, la quale ruppe in molti pezzi quel ghiaccio al quale eravamo accostati, sí che eravamo spinti in mare né potevamo piú attaccarsi al ghiaccio fermo, ed eravamo in pericolo grandissimo di perire. E fluttuando in mare, con tutte le forze adoprammo i remi, ma non potevamo arrivar al continente, perciò bisognò spiegar il nostro trinchetto e far vela; ma l'arbore a cui era appeso esso trinchetto due volte si ruppe, perciò stavamo peggio che prima. E benchè il vento spirasse prospero e gagliardo, fummo nondimeno sforzati a calar il trinchetto, ma il vento soffiava cosí gagliardo in quello che, quando non si avesse tirato giú con estrema prestezza, senza dubbio saremmo stati dall'onde inghiottiti, overo empir la barca d'acqua andare a fondo, perciochè l'acqua cominciava ad entrar nella barca ed eravamo lontani in mare, il quale era poi sopra modo turbato, né avevamo altro dinanzi agli occhi che la morte presente. Ma Iddio, che tante volte di tanti e cosí gran pericoli ci aveva liberato, di nuovo ci fu in aiuto, e improvisamente ci destò vento da maestro, il quale, benchè con gran pericolo, di nuovo ci portò ad un fermo ghiaccio. Liberati adunque da tal pericolo, non sapendo dove i nostri compagni si fussero ritirati, facemmo vela per un miglio lungo il ghiaccio, ma non li trovando ci pensavamo qualche male di loro, temendo che fussero sommersi. Tra tanto si levarono folte nuvole, cosí facendo vela longo la terra, né trovando li compagni, scarcammo uno moschettone: essi uditici risposero con un'altra sparata, nientedimeno non ci potevamo vedere. Tra tanto fatti piú vicini e sparita alquanto la nebbia, noi ed essi di nuovo sparati gli schioppi vedemmo il fumo che esalava, e finalmente gli andammo a ritrovare, e li vedemmo tra il ghiaccio corrente e il fermo fermati. Fattici a loro vicini, andammo ad essi per il ghiaccio, e gli aiutammo a portar sopra il ghiaccio quello che avevano nel battello e a tirar esso battello sul ghiaccio, e con gran fatica e difficultà li ritornammo nell'acqua aperta del mare. Mentre erano cosí trattenuti nel ghiaccio, ricercammo sul lito del continente delle legna, con le quali acceso il fuoco, sendo congiunti insieme facemo una panata di pane e acqua per metter qualche cosa nello stomaco, e ci fu molto saporita.
27 soffiando prospero levante facemmo vela, e passammo il promontorio Nassoviese circa un miglio al lato occidentale di esso promontorio, ove di nuovo trovammo vento contrario, sí che di nuovo bisognò serrar le vele e andar a remi. Tra tanto, mentre navigamo lungo il ghiaccio fermo e il continente, trovammo tanta copia di rosmari a giacere sopra il ghiaccio che non ne vedemmo mai tanta, né si poté contar il numero, con gran numero appresso d'uccelli, nelle quali scaricando insieme dui schioppi, con quel colpo ne cogliemmo 12, li quali li portammo nelle barche. Navigando noi in questo modo, levossi uno nuvoloso aere, onde di nuovo incorremo nel ghiaccio che scorreva, sí che ci fu forza tornar al ghiaccio fermo e ivi fermarsi fino che fussero sgombrate le nebbie. Il vento poi che ci era contrario soffiava da maestro tramontana.
28 detto, circa il levar del sole sponemmo sopra il ghiaccio tutto quello che avevamo nelle barche, nel quale poi tirammo anco esse barche, perciochè eravamo cosí stretti da ogni parte dal ghiaccio e il vento veniva dal mare, temendo di esser cosí stivati intorno che non trovassimo piú uscita. Delle vele tendemmo sopra il ghiaccio un padiglione, sotto il quale ci dammo un poco al riposare, lasciando la cura ad uno di far la guarda. Sendo il sole intorno alla tramontana, vennero tre orsi al dritto alle nostre barche, i quali visti dalla guarda, subito gridò: "Tre orsi, tre orsi!" Il che udito, saltammo fuori de' padiglioni con li nostri moschettoni, caricati di ballini per pigliar uccelli, li quali non avendo tempo di caricarli altrimenti gli scaricammo; e benchè non li potessimo gravemente ferire, nientedimeno si ritirarono lontani, e ci diedero assai buon spazio di tempo per caricarli, sí che di tre ne uccidemmo uno. Gli altri ciò veduto fuggirono, ma intorno due ore dopo ritornarono, ma fatti vicini e udito il nostro strepito fuggirono. Spirava ponente e 4° ponente maestro, sí che grandemente il ghiaccio scorreva verso oriente.
29 giugno, circa il sole in ponente garbino, i due orsi che erano fuggiti ritornarono al luogo dove giaceva l'orso ucciso, e uno di essi, presolo con la bocca, lo tirò per quel ghiaccio ineguale assai lontano e lo cominciò a divorare. Noi ciò vedendo sparammo in essi un moschettone, ma quelli, udito il tuono, lasciato il cadavero fuggirono. E noi quattro andati colà trovammo l'orso in cosí poco tempo mangiato mezo, e quel restante tirammo sopra un monte di ghiaccio per poter veder dalle nostre barche se tornavano e tirargli: e si maravigliammo della gran forza di quell'orso, che solo quel cadavero intiero cosí grande cosí facilmente aveva tirato tanto lontano, perciochè noi quattro quella metà con gran difficultà avevamo potuto strascinare. Ma spirando ponente gagliardo, spingeva ancora il ghiaccio verso oriente.


Come, di nuovo cinti e stretti dal ghiaccio corrente, fummo sforzati ad espor sopra il ghiaccio fermo tutte le robbe e tirar anco le barche, coprendole con le vele per riposare alquanto, mettendo uno a far la guarda; e come vennero la notte tre orsi, e avendone ammazzato uno gli altri fuggirono, ma il giorno dietro tornando strascinarono l'orso morto un pezzo lontano, e cominciandolo a divorare furono da noi con gli archibugi fugati.
Cap. XIX.

30 detto, la mattina, sendo il sole circa 4° levante greco, era similmente spinto da ponente verso levante. E due orsi sopra un pezzo di ghiaccio corrente verso noi venivano, i quali corseggiando qua e là pareva che si mettessero ad ordine per assaltarci, saltando nell'acqua, il che non fecero; per il che noi giudicammo che fussero quegli stessi che prima erano stati qua, perciochè, circa il sole in ostro siroco, un altro orso ancora per il ghiaccio fermo dove eravamo veniva al dritto a noi, ma fatto piú vicino e udendo lo strepito fuggí. Spirava ponente garbino e disfaceva alquanto il ghiaccio, ma perchè era tempo nubiloso e vento gagliardissimo non osammo fidarsi all'acqua, ma deliberammo d'aspettar miglior tempo.

Luglio 1597.

Il primo di luglio, sendo assai buon aere, spirando maestro tramontana, la mattina intorno il levar del sole un orso venendo dal ghiaccio corrente nuotava al fermo nel quale eravamo; ma, uditici, non si accostando fuggí. Ma sendo il sole in siroco, fu con tant'impeto spento dall'onde un pezzo di ghiaccio nel fermo dove eravamo con le barche e quello che avevamo messo fuori che lo spezzò in molte parti, le quali si cacciavano l'una sopra l'altra, onde non poco ci attristammo, perciochè la maggior parte delle robbe cadé in acqua. Nondimeno usammo ogni diligenzia per tirar la scaffa sopra il ghiaccio piú verso il continente, dove si stimavamo piú sicuri dalla calca del ghiaccio scorrente; ma ritornando a quelle cose che avevamo lasciate da portare, cademmo quasi nella maggior difficultà che provassimo giamai, perciochè, quando volevamo levar un fasce, l'altro subito cadeva nel ghiaccio, anzi spesse volte sotto i nostri piedi si rompeva il ghiaccio, sí che non sapevamo piú che fare ed eravamo quasi disperati non ci vedendo fine alcuno. Questa fatica adunque superava la malinconia, perciochè, sforzandoci di tirare lo schiffo, il ghiaccio si spezzava sotto i piedi, e con la barca e il resto eravamo portati dal ghiaccio scorrente, e volendo salvar la robba, il ghiaccio si frangeva sotto i piedi. Poi la barca si ruppe, spezialmente da quella parte dove era stata acconcia; l'arbore ancora e lo scagno dell'arbore stava male, e una cestella con denari, la qual con gran pericolo della vita anco levammo, perciochè il ghiaccio dove eravamo in piè si cacciò sotto l'altro ghiaccio, onde poco vi mancò che non si spezzassimo e le gambe e le braccia. Perciò, stimando che 'l battello fusse tratto del tutto, ci guardavamo l'un l'altro di mala voglia, non sapendo che fare, perciochè da quello pendeva la nostra vita. Pur con l'aiuto di Dio cominciò il ghiaccio a separarsi, onde senza indugiare andammo alla barca, e qual si fusse la tirammo sopra il ghiaccio presso la scafa, ove meglio si poteva conservare. Durò questa difficile e noiosa fatica dal sole mentre era in ostro fin che giunse in ponente garbino, senza mai riposarsi, per il che molto restammo afflitti; ma si trattava del caso nostro, e ci era piú orrendo che quando morí Guglielmo di Bernardo, e quasi ci sommergemmo. Perdemmo quel giorno due botte di biscotto, una cesta piena di panni di lino, la botte piena d'arme e tutto il meglio de' marinari con l'annello astronomico, un fascio di panno di grana, un vascello d'oglio e uno di vino e alquante pezze di cascio.
2 luglio, intorno al levar del sole di nuovo venne a noi un orso, il quale udito il nostro strepito fuggí. Sendo poi il sole circa ponente garbino, si levò un bel tempo, onde subito cominciamo a riparar il battello con le tavole con le quali avevamo fatto il tavolato del corpo. Essendo adunque tre di noi occupati intorno al riparar il battello, gli altri sei andarono piú verso il continente, sí per trovar legna come per portar qualche pietra da por sopra il ghiaccio per accender il fuoco, per liquefar la pece per impeciar il battello, e sí ancora per veder se trovassero qualche legno che fusse buono per far un arbore per esso battello: il qual trovarono, con alcuni sassi, e tutto portarono dove si lavorava. Ritornando poi ci riferirono aver trovato qui alcuni legni tagliati, e portarono anco li conii co' quali si fendono le legna, onde appareva che quivi fussero stati uomini. S'affrettavamo poi quanto potevamo ad accender il fuoco, e disfar la pece, e far il resto che era necessario intorno al riparar di quel copano, sí che l'avemmo accommodato circa il sole in 4° tramontana greco. Cuocemmo anco gli uccelli che con gli schioppi uccidemmo e li mangiammo.


Come talmente fummo dal ghiaccio stretti che 'l battello andò in pezzi, onde fummo in gran pericolo della vita e perdemmo molte robbe, e se volevamo prender una cosa ci cadeva l'altra e andava sotto il ghiaccio, che si spezzava sotto ai piedi, e quasi ci scavezzò le gambe e ci affogò sotto.
Cap. XX.

3 di luglio, la mattina intorno il levar del sole due de' nostri marinari andarono verso l'acqua, ove di nuovo trovarono due de' nostri remi, con il braccio del timone, la balla di panno di grana, la cesta di panni di lino e del vascello delle arme, da che comprendemmo il vascello esser rotto. Essi, pigliando quello che potevano portare, ritornarono a noi e ci avisarono che quivi erano ancora molte robbe; allora il nocchiero con cinque de' nostri, colà andati, riportarono ogni cosa sopra il ghiaccio fermo, per metterli al nostro partire nella barca. La cesta veramente e la balla di panno per la gravezza, perciochè erano pieni d'acqua, non poterono portare, ma furono sforzati lasciar costí fino che fussimo per partire, acciò in questo mezzo stillasse fuori l'acqua. Sendo il sole in garbino di nuovo venne a noi un orso, e quello che faceva la guarda, non lo avendo veduto, sarebbe quasi stato preso se uno de' marinari, vedendo dalla barca l'orso, non avesse gridato alla guarda che si guardasse dall'orso, il quale udito il grido fuggí. Tra tanto all'orso tiratogli di schioppo fuggí.
4 di luglio fu sereno e bel giorno, sí che in tutto il tempo che stemmo nella Nuova Zembla non avemmo il piú giocondo, spirando vento da ponente e ponente garbino; perciò i panni di seta che erano bagnati d'acqua salsa lavammo in acqua di neve liquefatta, e poi asciugati tornammo a involgerli.
5 fu ancora bel tempo, spirando ponente garbino; nel qual giorno morí Giano figliuol di Francesco Harlamese, zio di Nicolò d'Andrea (che morí l'istesso giorno con Guglielmo di Bernardo), e morí circa all'ora che il sole era in maestro tramontana. Il ghiaccio poi di nuovo veniva verso noi in gran furia, e sei marinari andarono nel continente e portarono delle legna per far fuoco, per cuocer il mangiare.
6 luglio fu aere nubiloso, ma intorno sera soffiando siroco cominciò a farsi sereno; per il che si reficiammo alquanto, nientedimeno stammo fermi sul ghiaccio.
7 luglio fu bel giorno misto però con leggier pioggia, spirando ponente garbino, ma verso sera 4° ponente maestro. Andati verso l'acqua aperta, uccidemmo 13 uccelli che stavano sul ghiaccio scorrente, li quali portammo sopra il ghiaccio fermo.
8 detto fu nubiloso e umido aere; poi degli uccelli uccisi e cotti aveamo fatto un buon banchetto. Verso sera cominciò a far vento da greco, che ci diede speranza di partir di qua.
9 di luglio di mattina cominciò il ghiaccio a scorrer giú, sí che intorno l'orlo della terra avevamo l'acqua aperta, e similmente il ghiaccio fermo dove eravamo fermati cominciò a muoversi. Perciò il nocchiero andò a pigliar la cestella e il fascio di panno lasciato nel ghiaccio e portarli nella barca, e tirammo essa barca nell'acqua per distanza di passa 340, il che ci fu molto difficile, per l'estrema fatica e imbecillità nostra. Facemmo poi vela circa all'ora che 'l sole era in ostro siroco, spirando levante; ma intorno al tramontar del sole di nuovo ci bisognò voltar il corso verso il continente e il ghiaccio fermo, perciochè quivi ancora non era andata via, spirando ostro da terra, il qual ci diede buona speranza che sarebbe scacciato il ghiaccio e noi avremmo potuto seguir il nostro camino incominciato.
10 luglio, molto ci affaticammo dall'ora che 'l sole era in greco levante fino che arrivò in levante a penetrar per il ghiaccio, il qual rotto demmo a' remi fin che di nuovo ritornammo tra due gran pianure di ghiaccio, le quali tra sé congiunte ci serrarono la strada, sí che bisognò tirar lo schiffo e il battello sul ghiaccio, cavato prima quello che vi era dentro, e poi mandarlo giú nell'altra acqua dall'altro lato aperta per distanzia di cento passi, e poi portar là le robbe: il che ci fu molto difficile, ma era necessario, e ci bisognava persuadere da per noi di non esser stanchi. Come fummo in acqua, con grandissima forza spingemmo le barche co' remi, e non molto dopo di nuovo arrivando tra due gran pianure di ghiaccio corrente, che presto presto dovevano congiungersi, con l'aiuto di Dio e per la nostra diligente vogata ne uscimmo prima che si unissero. Passato quel ghiaccio, trovammo un gagliardo ponente quasi a noi del tutto contrario, sí che ci fu forza con ogni nostro potere di spinger con i remi le barche verso il ghiaccio fermo, che era contiguo al continente, al quale con gran pericolo arrivammo. Là arrivati, pensammo di andare ancora piú oltra, vogando lungo il ghiaccio verso un'isola che vedevamo, ma per il vento a noi contrario non si poté. Perciò di nuovo ci bisognò tirar le barche con quello che vi era dentro sopra il ghiaccio, e aspettar quella riuscita che fusse piaciuto a Dio di concederci; nientedimeno ci cadeva l'animo, dando tante volte nel ghiaccio temendo per sí frequenti e lunghe fatiche che convenivamo sopportare di dover del tutto perder le forze, e cosí restar inutili a seguire il viaggio.
11 di luglio la mattina, sendo fermati sul ghiaccio, circa all'ora che il sole era in greco, un grande e grasso orso uscito dell'acqua a noi correva, e noi con tre moschettoni ver lui drizzati l'aspettammo; e come ci fu lontano 30 passi, sparati li schioppi insieme, cadé morto, colandogli il suo grasso fuori per le ferite e nuotando sopra l'acqua come oglio. L'orso adunque cosí ondeggiante, montati sopra un pezzo di ghiaccio scorrente, seguitando gli gettammo un laccio al collo e lo tirammo sul ghiaccio, e trattili fuori i denti misurammo la sua grossezza, la qual fu piedi 8. Spirava poi ponente ed era aere oscuro, e circa mezogiorno cominciò a rischiararsi, e tre de' nostri marinari andarono all'isola a noi opposta; alla quale pervenuti viddero l'isola della Croce verso ponente a loro opposta, e, fatto tra loro consiglio, andarono a vedere se alcuno di Russia quella state era stato là lungo il ghiaccio fermo che era tra l'una e l'altra. Là giunti non poterono accorgersi che fusse stato alcuno dopo noi, ma trovarono in essa circa 70 ova di barnicle, quali non sapevano come portarle. Finalmente uno di loro tratte fuori le bracche e legatele insieme da basso, vi posero dentro l'ova, e quelle poi due portarono a mezza una asta pendenti e il terzo uno schioppo, e cosí tornarono, poi che furono stati 12 ore fuori, sí che non potevamo imaginarsi che cosa fusse lor occorso. Ci raccontavano poi che erano caminati per acqua fino al ginocchio e per il ghiaccio tra l'una isola e l'altra, e che tra l'andare e ritornare avevano fatto quasi sei miglia, onde ci maravigliavamo che avessero avuto ardire di far tanto, sendo tutti debili. Delle ova portate avemmo un buon banchetto, sí che tra i nostri affanni e dolori facevamo talora qualche allegrezza. In quel tempo dividemmo tra noi quel poco di vino che ci era rimaso, sí che ad ogniuno ne toccò intorno un conzo e mezo.
12 luglio, la mattina circa il levar del sole, cominciò levante e poi greco levante a soffiare e a farsi l'aere nubiloso. Verso sera poi li nostri andarono a cercare delle gioie, e ne trovarono alquante, ma non troppo fine, e nel ritorno ognuno portò un fascio di legna.
13, sendo sereno, 7 di noi andammo verso il continente di nuovo a cercar gioie, delle quali ne trovammo alquante.
14 detto fu similmente sereno, spirando soavemente ostro, sí che il ghiaccio cominciava a partirsi dal ciglio della terra, onde speravamo che 'l mare s'avesse ad aprire; ma perchè il vento di nuovo si volse da ponente, il ghiaccio si fermò. Circa all'ora che il sole era in garbino, tre de' nostri andarono nella isola vicina dirimpetto a noi, nella quale ammazzarono un'anitra salvatica con lo schioppo: e tornati la dietro in comune, perciochè tutte le nostre cose erano communi.
15 detto, sendo aere nubiloso e spirando la mattina siroco, verso il tramontar del sole cominciò a piovere, mutato il vento in ponente e ponente in garbin.
16 venne a noi un orso dal continente, il quale lasciando venir vicino perchè, sendo bianco come la neve, al principio non potevamo comprendere se fusse orso, ma dal moto lo conoscemmo, vicino fatto, scaricato lo schioppo lo toccammo, ma subito fuggí. La mattina spirò ponente e poi greco levante e turbò l'aere.
17, circa all'ora che 'l sole era in ostro siroco, cinque de' nostri andarono di nuovo nell'isola vicina a veder se vi era alcuna apertura d'acqua; quali videro molta acqua aperta, ma tanto lontana da terra e dal ghiaccio fermo che quasi cadevano in agonia, pensando che ci sarebbe stato impossibile tirar per tanta distanzia le barche con la robba che v'era dentro, perciochè le nostre forze di giorno in giorno si scemavano e li travagli delle fatiche crescevano. Ritornando alle barche ciò ci narrarono, ma noi dalla necessità prendemmo animo, ci esortammo l'un l'altro a tirar le barche e le robbe all'acqua, e dipoi a remi andar a quel ghiaccio che bisognava passare per pervenire al mare aperto. Andati al ghiaccio scaricammo le barche, dipoi le tirammo sopra il ghiaccio separatamente fino all'acqua, e poi le robbe, quasi per mille passi, la qual cosa ci fu cosí grave e molesta che quasi dubitavamo di mancar nel mezo all'opra; pur, avendo superato tante difficoltà, prendevamo speranza di poter superare anco questa, desiderando che quella fusse l'ultima. Pervenimmo adunque con gran difficultà e travaglio all'acqua aperta, circa all'ora che 'l sole era in garbino: allora facemmo vela fin che 'l sole fu in 4° garbin ponente, e di nuovo demmo in un altro ghiaccio, sopra del quale ci bisognò tirare le barche. In quella stando potemmo vedere l'isola della Croce, la qual per congiettura stimavamo lontana da noi un miglio. Spirò quel giorno levante e greco levante.
19 luglio, stando noi cosí sul ghiaccio fermati, sette de' nostri circa il levar del sole andarono all'isola della Croce, di donde vederono verso ponente molta acqua aperta; onde molto allegri tornammo alle barche, cogliendo circa 100 ova che trovarono. Ritornati narrarono aver veduta tanto a largo aperta l'acqua quanto potessero con gli occhi, sperando che questa fusse l'ultima volta che portassero le barche sopra il ghiaccio, né poi doverne trovare, e però che dovessimo far buon animo. Cuocemmo l'ova trovate e tra noi le dividemmo, e subito ci apparecchiamo, circa all'ora che 'l sole era in garbino, per tirar le barche in acqua, benchè le avessimo a spingere per circa 270 passi: il che facemmo con grand'animo, sperando che avesse ad esser l'ultima fatica. Poi con l'aiuto del benigno Iddio facemmo vela, spirando levante e greco levante molto prosperi, sí che circa il tramontar del sole passammo l'isola della Croce, distante dal promontorio Nassoviense 10 miglia; e poco dopo ci lasciò il ghiaccio, che non ne vedevamo piú niente, se non certo poco in mare, il quale non ci diede impedimento alcuno, ma seguitammo il nostro corso verso ostro garbino con perpetuo vento da levante e greco levante, sí che facemmo congiettura che ogni 12 ore facevamo 18 miglia. Onde non picciol'allegrezza sentivamo, rendendo grazie a Dio che di tante difficultà e fatiche, alle quali dubitavamo soggiacere, ci avesse liberato, confidandoci appresso che anco per l'avenire ci fusse per prestare il suo benigno aiuto.


Come di nuovo ci convenne tirar le barche giú del ghiaccio fermo in acqua, al lato orientale dell'isola della Croce, e poi facemmo vela per 60 miglia, sí che non credevamo piú trovar ghiaccio.
Cap. XXI.

20 luglio, continuato il prospero corso, circa il sole in siroco pervenimmo inanzi all'angolo Negro, lontano dall'isola della Croce miglia 12 andando verso ponente garbino, e circa il tramontar del sole fu da noi veduta l'isola dell'Admiralità, la qual passammo sendo il sole circa tramontana, distante dal Negro angolo 8 miglia. E facendo vela longo essa, vedemmo circa 200 rosmari sopra un pezzo di ghiaccio a giacere li quali navigando loro all'incontro gli scacciamo, ma quasi con nostro danno perciochè, sí come i mostri marini sono molto gagliardi, nuotarono verso di noi con grand'impeto, quasi che volessero far vendetta del riposo da noi turbatoli, e circondarono la barca con gran fremito, quasi che ci volessero divorare. Nondimeno scappolammo avendo vento secondo, pur non fu prudenza la nostra a svegliar, come si dice, i cani che dormivano.
21 passammo il promontorio di Plantio, sendo il sole circa greco levante, lontano dall'isola dell'Admiralità verso ponente garbino 8 miglia; e sendoci greco molto favorevole navigammo, sendo il sole circa garbino, dinanti Langenes, distante dal detto promontorio di Plantio nove miglia, ove 'l continente per la maggior parte si stende verso garbino.
22 luglio, continuato il prospero corso, arrivando intorno al promontorio di Cant, uscimo nel continente per cercar degli uccelli e delle ova, ma non trovando niente seguitammo il nostro corso. Dipoi circa al mezogiorno vedemmo uno scoglio coperto d'augelli, al quale drizzate le barche andammo, e tirate delle pietre ne prendemmo 22, e 15 ova da uno de' nostri trovate nello scoglio: e se ci volevamo fermar un poco piú avressimo pigliato 100 e 200 uccelli, ma perchè il nocchiero ci era lontano nel mar adentro e ci aspettava, per non perder quel prospero vento, seguimmo la nostra navigazione lungo il continente. E sendo il sole con garbino di nuovo venimmo ad una certa punta, nella quale pigliamo quasi 125 uccelli che covavano nelli lor nidi, e con le mani e con le pietre, sí che cadessero nell'acqua. È necessario che questi uccelli non avessero mai veduto uomini, né alcuno si fusse provato di prenderli, altrimenti sarebbero volati via, e che non si schifassero se non dalle volpi e altri selvaggi animali che non potevano montar in quegli altissimi e precipitosi scogli, e perciò avevano fatto quivi i lor nidi e stavano sicuri che qui non sarebbe asceso alcuno: e certo non fummo in picciol pericolo di spezzarsi le gambe e le braccia, spezialmente nello smontare per il precipizio dello scoglio. Avevano poi questi uccelli un ovo solo per ciascuno, posto sopra il nudo scoglio senza strame o cosa altra alcuna aggrumata: il che è da ammirare, che in cosí orribil freddo avessero potuto far ova, ma pur è verisimile che facciano un ovo solo, acciochè il calor che covando mandano sia piú potente ed efficace in un solo ovo, nel quale penetra tutto, che se fusse diviso in molti. Trovamo anco qui molte ova, ma la maggior parte guaste. Quindi partendosi, trovammo vento a fatto contrario e tempestoso da maestro, e anco molto ghiaccio, qual ci sforzammo di superare, ma indarno. Finalmente torcendo il corso or in qua e ora in là dammo nel ghiaccio, nel qual stando vedemmo verso il continente molt'acqua aperta, alla quale volgemmo il corso. Il nocchiero, che col suo battello era penetrato piú in mare, vedendo noi in mezo al ghiaccio stimò che stessimo male, perciò dricciava il corso qua e là fuor del ghiaccio; ma vedendo al fine che noi facevamo vela, si diè a credere che noi vedessimo qualche apertura alla quale drizzassimo il corso, come era il vero, e cosí voltato a noi al continente appresso noi venne, ove trovammo un commodo porto quasi da tutti i venti sicuro, ma prese il continente dopo noi quasi due ore. Poi smontammo insieme in terra, ove trovammo alquante ova e cogliemmo delle legna per far fuoco, col quale cuocemmo gli uccelli da noi presi; ma spirava maestro e turbava l'aere.
23 fu nebuloso e oscuro, spirando tramontana, sí che ci convenne fermar in quel porto. Tra tanto alcuni de' nostri marinari andarono nel continente a cercar uova di uccelli e gioie, ma poche uova trovarono, ma pietre buone alquante.
24 fu sereno, spirando ancora tramontana; perciò ci bisognò star ancora quivi. Sul mezogiorno misurando l'altezza del sole trovammo che era sopra l'orizonte gradi trentasette, minuti vinti, la declinazione vinti e minuti dieci; quali sottratti dell'altezza trovata, restano gradi 17, scrupuli dieci; quali se detraggi di 90, aveva l'altezza del polo gradi 73, minuti dieci. E perchè ci bisognava star qui, alquanti de' nostri spesso andarono a cercar gioie, delle quali ne trovarono di cosí buona sorte come avessero trovato mai.
25 luglio fu nuvolo e scuro, soffiando tanto gagliardo tramontana che bisognò star nel lido.
26 cominciò l'aere a purgarsi e farsi sereno, qual non avevamo avuto già molti giorni, continuando tramontana. Si slegamo di là circa il mezogiorno, ma, sendo il seno ampio, ci bisognò far vela quasi per quattro miglia verso il mare avanti che potessimo passare il corno del seno, perciochè per la maggior parte avevamo vento contrario, sí che era mezzanotte inanzi che l'avessimo passato. E quello a vela e a remi passato, tirammo giú le vele e andammo a remi lungo la riva della terra.
27, con sereno e tranquillo tempo andammo a remi un giorno intiero tra pezzi di ghiaccio lungo il continente, spirando maestro, e verso la notte circa il tramontar del sole arrivamo ad un luogo dove era una gran crescenza di mare, per il che noi stimavamo esser circa Costinsarch, perciochè vedevamo anco un gran seno: per tanto facevamo congiettura di finir nel mare di Tartaria, ma il nostro corso era per il piú verso garbino. Circa il sole in tramontana passammo l'angolo della Croce e facemmo vela tra 'l continente e una certa isola, e drizzammo il corso verso ostro siroco, spirando maestro, sí che andavamo a seconda di vento. Ma il nocchiero col battello ci andava molto avanti, ma arrivato alla punta dell'isola ci aspettò: ivi arrivando, si fermammo per alquanto tempo presso uno scoglio, sperando di pigliar qualche uccello, ma non ne prendemmo alcuno. E avevamo allora fatto camino dal promontorio di Cant, sopra Costinsarch, fino all'angolo della Croce per 20 miglia verso ostro siroco, spirando maestro.


Come dopo un longo e difficil giro arrivammo a due navi russiane, ove fummo conosciuti da uomini che l'anno precedente erano stati nella nostra nave allo stretto d'Weygats, e come molto caramente ci riceverono e ci compassionavano: e furono i primi uomini che nello spazio di tredici mesi vedemmo.
Cap. XXII.

28 luglio, con sereno cielo e vento da greco facendo vela presso il lito, sendo il sole in garbino pervenimmo inanti al seno di S. Lorenzo overo angolo del Propugnacolo, e tenimmo il corso verso ostro siroco per sei miglia, dove arrivando trovammo dietro la punta due navi russiane: per il che molto ci allegrammo di esser finalmente giunti in luogo dove si trovavano degli uomini, e per il contrario anco dubitavamo, perchè erano in tanto numero, perciochè ne vedevamo ben 30, né sapevamo se fussero selvatichi o fieri. Ma con gran fatica venimmo al continente, ed essi, lasciato il suo lavoro, vennero a noi senz'arme: noi andammo loro incontra quanti potemmo per la infirmità, perciochè molti stavano molto male per mal di bocca. Fatti vicini ci salutammo scambievolmente, essi secondo la loro usanza e noi secondo la nostra; dipoi, guardandoci molto compassionevolmente, alquanti di essi ci conoscerono e noi loro, ed erano quelli che l'anno precedente, quando passammo lo stretto d'Weygats, erano stati nella nostra nave; onde a ragione li potevamo vedere attoniti e ammirativi di noi, poi che allora ci trovarono che avevamo una cosí grande, magnifica e d'ogni cosa ben fornita nave, e ora ci vedevano in cosí misero stato venire in barchette scoperte. Due di loro amichevolmente ci diedero della mano sopra le spalle al nocchiero e a me, come ancora conoscendoci dall'altra volta che ci incontrarono, perciochè niun altro allora eccetto egli e me era stato in Weygats, e ci dimandarono della nostra crable, cioè nave, che cosa ne fusse. Noi al meglio che potemmo, non avendo interprete, davamo loro ad intendere che avevamo lasciata la nostra nave nel ghiaccio. Allora dissero quelli: "Crable propal?", il che interpretammo: "Avere perduta la nave?"; e noi rispondemmo: "Crable propal sí", cioè: "Avemo perduta la nave sí". Ma non potemo ragionar insieme molto, perciochè non ci intendevamo, ma con ogni gesto e segno mostravano che si dolevano e ci avevano compassione, che fussimo stati colà per inanti con tal apparato di nave e che ora fussimo in cosí misero stato, e mostravano che allora avevano bevuto nella nostra nave del vino, dimandandoci che bevanda fusse ora la nostra. Onde uno de' marinari, correndo alla barca, cavò fuori dell'acqua e la porse loro a gustare; quelli crollando il capo dissero: "No dobbre", cioè: "Non è buono". Allora il nostro nocchiero, fattosi piú presso, mostrava loro la bocca aperta, volendo significare che pativamo di mal di bocca e se conoscevano qualche rimedio. Essi stimando che fussimo oppressi dalla fame, e uno di loro correndo alla nave, portò un pan di segala tondo che poteva pesar circa 8 libre, con alquanti uccelli secchi, li quali noi accettammo con grato animo, e dammo loro incontro sei biscotti. Il nostro nocchiero menò due di loro de' primarii al suo battello, e fece loro un brindisi del vino che gli era rimaso. Intanto mentre stammo con loro conversammo con essi domesticamente, andammo alla loro abitazione, e al loro fuoco cuocemo alquanti biscotti nell'acqua per metter qualche cosa di caldo nello stomaco: e molto ci rallegravamo della loro conversazione, perciochè per lo spazio di 13 mesi dopo che eravamo separati da Giovanni di Cornelio, non avevamo mai veduto uomo alcuno, ma solamente feroci e voraci orsi. Sí che eravamo allegri che eravamo vissuti tanto che fossimo ritornati negli uomini, dicendo l'un l'altro: "Ora sarà salva ogni cosa, poi che siamo giunti negli uomini", rendendo grazia a Dio della sua gran misericordia, che ci avesse serbati in vita fino a quell'ora.
29 luglio fu assai buon aere, e la mattina cominciarono i Russiani ad apparecchiarsi a far vela, cavando fuora dello sparto del lito misto con arena alquanti vascelli di grasso di pesce, li quali avevano ascoso: e li portammo nelle loro navi. Noi, non sapendo verso dove facessero vela, vedemmo che facevano vela verso Weygats, onde ancor noi fatto vela li seguimo; ma, mentre che essi ci andavano inanti e noi li seguitavamo lungo il lito, si levò una nebbia che ci tolse la vista loro, né sapemmo dove andassero, o verso il continente in qualche seno ritirandosi, overo fussero andati piú oltre. Nientedimeno noi seguitammo il corso verso ostro siroco, con vento da maestro, e anco verso siroco tra due isole, fin che di nuovo fummo assediati dal ghiaccio, né vi vedemmo esito alcuno, per il che giudicavamo esser circa Weygats e che il vento da maestro avesse cacciato in quel seno il ghiaccio. In questo modo assediati dal ghiaccio, né apparendo alcun passo, con gran difficultà e fatica ritornammo fino alle dette due isole; alle quali giunti circa il sole in greco, fermamo le nostre barche ad una isola, perciochè il vento ognora piú si faceva maggiore.
30 luglio, sendo noi a quell'isola cosí fermati e spirando similmente maestro gagliardo, e cadendo una gran pioggia e sendo tutto l'aere perturbato, avendo tese le vele sopra le barche, né anco sotto quelle potevamo esser sicuri di non bagnarsi: il che a noi era insolito, perciochè per molto tempo non avevamo avuto pioggia, nientedimeno ci bisognò stare tutto quel giorno.
31 detto la mattina, sendo il sole circa greco, andammo a remi da quell'isola all'altra, nella quale erano due croci, per la qual cosa giudicammo che qui fussero stati degli uomini per cagione di mercanzia, come gli altri Russiani di sopra, ma non vi trovammo nessuno. Soffiava ancora greco, per il che il ghiaccio né piú né meno era spinto con furia verso Weygats. Quivi smontammo nel continente, Iddio là senza alcun dubbio menandoci, perciochè quivi trovammo l'erba detta volgarmente delle lumache, la quale ci fu molto giovevole, essendo molti de' nostri ammalati, anzi quasi tutti, dal fongacio e mal di bocca, sí che a pena potevano piú durare e con l'uso di quest'erba cosí evidentemente e presto furono aiutati che noi stessi ci maravigliammo, per il che rendemmo gran grazie a Dio che, come anco spesse volte per avanti, improvisamente ci aveva aiutato. Noi di quella ne mangiammo abondantemente solo perciochè presso noi avevamo sentito lodar molto le sue virtú, ma molto maggiori le trovammo, e piú efficaci di quello che pensavamo, con la sperienza istessa.

Agosto 1597.

Il primo d'agosto, spirando gagliardamente maestro, il ghiaccio che già per molti giorni era spinto nel seno d'Weygats si fermava, ma cosí grande erano l'onde della fortuna che fummo sforzati a trasportar le nostre barche dall'altro lato dell'isola, per esser piú securi dall'onde marine. Qui di nuovo andammo nel continente a pigliar delle foglie della coclearia, della quale avevamo sentito tanto beneficio, e la nostra sanità si confermava maggiormente, e cosí tosto che si maravigliamo, perciochè alcuni cominciarono subito a mangiar del biscotto, il che prima non potevamo fare
2 d'agosto, circa all'ora che 'l sole era in tramontana, fu nubiloso e oscuro aere, spirando ancora gagliardamente maestro. E la nostra mesa si sminuiva molto, perciochè non avevamo altro che un poco di pane e acqua e alcune poche formette di cascio, sí che molto ci rincresceva il longo dimorar quivi, ove avevamo sempre l'animo alla partita per paura della fame, per la quale le nostre forze ancora s'indebolivano, e nientedimeno avevamo a sopportar di gran fatiche, le quali due cose erano molto ripugnanti, e ci era bisogno piú tosto di piú cibo per ristorarle che di sobrietà.
3 d'agosto circa il sole in tramontana, essendo alquanto miglior tempo, prendemmo consiglio di passar dalla Nuova Zembla nella Russia, e con l'aiuto di Dio faccemmo vela con vento da maestro verso garbino, fin che 'l sole fu in levante: e di nuovo dammo nel ghiaccio, il qual molto ci attristò, perciochè pensavamo già averlo passato e gli avevamo detto a Dio, non istimando che cosí tosto ci avesse a impedire. Cosí tra 'l ghiaccio andando con tranquillità, sí che poco giovavanci le vele, le calamo giú e comminciamo a dar di mano a' remi con grande e noiosa fatica per quel ghiaccio, e sendo il sole circa a garbino lo passammo, pervenendo in un largo mare nel quale non vedemmo piú ghiaccio, avendo fatto tra a vela e a remi 20 miglia. Facendo noi a quel modo vela, pensavamo d'esser presso alla Russia, ma essendo il sole in maestro di nuovo dammo nel ghiaccio, sendo l'aere molto freddo; onde eravamo molto confusi, dubitando non aver mai ad uscire di queste fatiche. E perchè la nostra barca andava alquanto piú lenta, non potevamo passar quell'ultimo capo del ghiaccio: fummo sforzati dar in quello, parendoci di veder certa apertura come fummo in esso entrati, ma la difficultà era come lo potessimo rompere, perciochè era molto indurato. Alla fine trovammo commodità di passarlo, il che fatto ci ritrovammo in poco miglior stato, e con gran fatica arrivammo nell'acqua aperta. Il nostro nocchiero, che era nella barca e aveva miglior vela, passò l'estremo capo del ghiaccio, e aveva gran pensiero di noi, che fussimo cosí serrati dal ghiaccio; ma per l'aiuto di Dio lo passammo tanto tosto quanto egli lo circondò, e a questo modo di nuovo ci unimmo.
4 d'agosto, sendo il sole circa siroco, liberati dal ghiaccio facemmo vela insieme con vento da maestro la maggior parte verso ostro, e circa il mezzogiorno vedemmo il lito della Russia, di che molto ci allegrammo. Fatti piú vicini, abbassate le vele, co' remi andammo al lito, qual vedemmo molto piano, a guisa di quei luoghi che talora sono bagnati dal mare. Quivi ci fermammo fin che il sole andò a monte, ma vedendo che non era commodo porto, sí come dall'angolo della Nuova Zembla onde eravamo partiti fino a quel luogo avevamo fatto vela per 30 miglia, quindi, sendo il sole intorno a garbino, seguitammo il nostro corso lungo il continente della Russia con assai prospero vento. E sendo il sole circa tramontana, di nuovo vedemmo una nave russiana, alla quale andammo per parlar con quelli che vi erano dentro: essi, vedutici andare a loro, vennero tutti di sopra, e gridando noi "Candinas, Candinas", volendo dire se eravamo presso Candinas, ci risposero "Pitzora, Pitzora", quasi volessero dire che noi si trovavamo presso Pitzora. E sí come poco fa navigavamo lungo un lido molto arido, pensando di navigare verso quarto ponente maestro per passar la punta di Candinas, per un quadrante che avevamo errammo quasi per lo spazio di due rombi, avendo drizato il corso piú verso ostro di quello che pensavamo, anzi verso levante, perciochè pensavamo esser vicini a Candinas e nondimeno eravamo distanti piú di tre giornate, come poi trovammo. Ma vedendo noi aver in questo modo errato, ci trattenemmo quivi aspettando il giorno.
5 d'agosto, stando qui, uno de' nostri marinari andò nel continente e, vedendo che quivi v'era dell'erba con alcuni arbuscelli, ci chiamò fuori invitandoci a venir co' schioppi, perciochè quivi si ritrovavano delle selvaticine. Per il che molto ci rallegrammo, perciochè la nostra mesa era quasi consumata, né ci era rimasto altro che un poco di pane muffo; onde eravamo tutti disperati, sí che alcuni dicevano che bisognava abbandonar le barche e andar nel continente piú adentro, altrimenti semo morti di fame, perciochè ogni giorno piú cresceva il bisogno, e la fame era cosí grave che con difficultà l'avremmo potuta tolerare troppo a lungo.
6 del detto fu l'aere piú benigno, perciò ci esortammo l'un l'altro (ad ogni modo avevamo il vento contrario) di andar a remi per uscir di quel seno verso siroco, onde veniva il vento. E andati per tre miglia, non potemmo gir piú oltre, sí perchè il vento ci era contrario, come perchè eravamo molto stanchi e debili, e il continente si stendeva piú verso greco di quello che giudicavammo; laonde ci guardavamo pure di mala voglia l'un l'altro, perciochè la cosa era già quasi disperata, poi che la mesa era quasi del tutto consumata.
7 d'agosto, il vento da maestro tramontana ci fu favorevole ad uscir fuori di quel seno, e facemmo vela verso 4° levante greco, fin che uscissimo del seno e arrivassimo all'angolo del continente, nel quale eravamo stati prima. Qui di nuovo ci fermammo, perciochè maestro ci era del tutto contrario, per la qual cosa i marinari si perdevano d'animo, non vedendo mezzo onde di là potessero partirsi. L'infermità, la fame e 'l non veder strada alcuna di poter uscire ci affliggeva e consumava del tutto: se la compassione avesse potuto apportar rimedio alcuno alle cose nostre, senza dubbio sarebbono state in miglior stato.
8 detto non era ancor fatto niente miglior tempo, ma il vento era ancora contrario, ed eravamo assai l'uno dall'altro discosti, cercando ognuno miglior luogo che potesse; ma spezialmente nella nostra barca era maggior miseria, perciochè alquanti n'erano molto affamati, che non potevano sopportar piú avanti e quasi disperati bramavano la morte.
9 detto, stando il tempo nell'istesso essere e il vento del tutto contrario, fummo sforzati quivi fermarsi, perciochè non si vedeva esito alcuno, e l'increscimento si faceva sempre maggiore. Finalmente due andarono dalla barca al luogo dov'era il nocchiero, il che vedendo gli altri, ne andarono due ancora nel continente, quasi per un miglio lontano, e viddero un rivo fuori del quale usciva l'acqua, onde stimarono che fusse quel fiume nel quale i Russiani erano entrati tra Candinas e il continente di Russia. Ritornando trovarono una foca di mare morta e fetente, e la tirarono fino alla barca, pensando d'aver trovato una buona selvaticina per mangiare, per la gran fame che li premeva; ma noi gli dissuademmo, dicendo loro che mangiandone senza dubbio sarebbero incorsi in pericolo di morte, e che piú tosto si astenessero, perciochè era ancor vivo quel Dio che tante volte fuori d'ogni speranza ci aveva soccorso, e perciò sperassero che non ci avrebbe in tutto scordati, ma oltre ogni nostro pensiero aiutati.
10 d'agosto, continuando l'istesso vento con nebbia e oscurità, ci bisognò quivi ancora stare, ma con qual animo lo può considerare ognuno.
11 detto la mattina fu buon aere e quieto, e, sendo il sole circa greco, il nocchiero ci mandò ad avvertire che ci dovessimo metter ad ordine per navigare, ma però eravamo preparati e già navigammo verso lui; e io, essendo debile grandemente, non potendo vogar troppo a longo la barca, che era molto piú grave del battello, fui tolto nel battello e posto a governar il timone, succedendo in mio luogo un altro piú gagliardo. Sí che poi navigavamo insieme, e cosí si andò a remi fino a mezzogiorno, e avendo allora trovato buon vento, posti i remi da parte, si fece vela con assai felice corso; ma verso sera, soffiando troppo gagliardo il vento, fu forza calar le vele e co' remi andar verso il continente e approssimar la barca al lido, ove andati a cercar acque corrente, non ne fu trovata alcuna. E non potendo gir piú oltre, accommodammo le vele a guisa di padiglione per ricoverarsi sotto, perciochè faceva una gran pioggia, e su la mezanotte grandissimi tuoni e lampi con pioggia assai maggiore: il che molto attristava i nostri marinari, vedendo che non giungeva mai il fine, anzi andavamo sempre di male in peggio.


Come arrivammo ad una nave russiana e come ci diede della vettovaglia, come farina, lardo, butiro e mele, e ci insegnarono il viaggio verso Candinas, credendo noi averlo passato, e anco il mar Bianco.
Cap. XXIII.

12 agosto, sendo l'aere chiaro, vedemmo verso l'oriente una nave russiana andar a piene vele, onde grandemente ci rallegrammo ed esortammo il nocchiero a navigar verso quella, per parlar con quelli che v'erano sopra e comprar qualche poco di vettovaglia. Perciò quanto piú potemmo gettammo il battello in mare e facemmo vela verso la nave, alla qual giunti, il nostro nocchiero montò in essa e dimandò quanto eravamo lontani da Candinas; ma, non intendendo la loro lingua, non potemmo sapere ciò che ci rispondessero, benchè porgessero fuori cinque deta della mano, ma dipoi ci immaginammo che ci volessero mostrare che in quella vi erano cinque croci fisse. Tolsero fuori anco la loro bussola da navigare, con la quale ci mostrarono che ella era lontana da noi verso maestro, il che ci mostrava anco la nostra, e anco noi avevamo fatto quel conto. Ma non potendo intender altro dal loro parlare, il nocchiero, additando loro un barile di pesci salati che avevano nella nave e mostrando una moneta d'argento che valeva otto reali, con cenni li ricercò se l'avrebbero venduto; il che intendendo, essi ci diedero cento e due pesci con alquante picciole fette di polenta, mentre cuocevano li pesci. Tolti questi pesci, intorno a mezogiorno ci partimmo da loro allegri d'aver trovato un poco di vettovaglia, perciochè già molto tempo non avevamo avuto altro che quattro sole oncie di biscotto al giorno e un poco di acqua per il nostro vivere. Quei pesci furono divisi egualmente tra tutti, sí che tanto n'ebbe il minore quanto il maggiore. Partendosi dalla nave con vento dall'ostro e da quarto siroco ostro, seguitammo il corso verso quarto ponente maestro, e circa il sole in ponente garbino si levò di nuovo un gran tuono con pioggia, ma durò molto poco, sí che poco dopo tornò buon tempo. A questo modo seguitando il viaggio, vedemmo il sole, secondo la nostra bussoletta commune, tramontar in quarto tramontana maestro.
13 d'agosto, di nuovo trovammo vento contrario da maestro, avendo noi a gire verso 4° ponente maestro, perciò bisognò di nuovo andar verso il continente. Quivi fermatici, due de' nostri marinari andarono nel continente ad esaminar il suo sito, se la punta di Candinas quivi per sorte si stendesse in mare, perciochè ci stimavamo a quella vicini. Quelli ritornando ci riferirono di aver veduta nel continente una casa, ma vuota, né aver potuto comprender altro, se non che quella era la punta di Candinas che noi avevamo veduta. Onde ripreso animo, ritornati nelli battelli, andammo cosí lungo il lito a remi, e la speranza ci faceva ancora maggior animo, sí che facevamo assai piú che non avremmo fatto, perciochè indi pendeva la conservazione della nostra vita. Navigando adunque cosí lungo il continente, vedemmo di nuovo una nave russiana che era là sul lido rotta, passata la quale poco dopo vedemmo una casa nel lito, alla quale sendo andati alquanti de' nostri non trovarono alcuno, ma solo una tegghie, e ritornando alli battelli portarono dell'erba delle lumache. Navigando poi dietro la punta trovammo ancora buon vento da levante, sí che facendo vela andammo piú oltre. Dopo mezzogiorno, sendo il sole circa maestro, osservammo che quella punta che avevamo veduta si voltava all'ostro, perciò tenivamo per certo che quello era l'angolo o punta di Candinas, dal qual facendo vela pensavamo di passar la porta del mar Bianco. Con questa opinione coniungemmo le barche e facemmo parte insieme delle candele e di quanto altro potemmo iscambievolmente che ci avesse ad esser necessario, e allargandoci dal continente verso la Russia caminammo per passar, come speravamo, il mar Bianco. Facendo vela cosí con vento prospero, si levò da tramontana circa la mezanotte una gran fortuna, la quale ci sforzò a stringer le vele, legando a mezo la vela due cordicelle; ma i nostri compagni, che avevano miglior vela, non sapendo che noi avessimo serrata la nostra seguitarono il lor viaggio, sí che ci separammo l'un dall'altro, perchè anco era tempo oscuro.
14 detto, la mattina, sendo assai buon aere, drizzammo il corso con vento da garbino verso maestro tramontana, e cominciò di nuovo a farsi sereno, sí che potessimo ancora vedere li nostri compagni e facessimo ogni sforzo per arrivarli, ma per una nebbia che si levò non potemmo altrimente; ma dicevamo tra noi: "Seguimo pure il nostro viaggio, che gli arrivaremo bene al lato settentrionale del mar Bianco". E andavamo a maestro tramontana con vento da 4° ponente garbino, e sendo il sole circa garbino non potemmo passar piú oltre per il vento contrario, sí che bisognò abbassar le vele e dar di mano a' remi. E cosí vogando fino al tramontar del sole, di nuovo si levò vento favorevole, sí che tornammo a caminar con le vele aperte, vogando pur tuttavia con due remi, fin che 'l sole fu in maestro tramontana; al qual tempo soffiando levante e siroco levante assai piú gagliardi, deposti i remi facemmo poi vela verso maestro tramontana.
15 detto, vedemmo levar il sole in greco levante, sí che pareva che la nostra bussoletta declinasse alquanto, e sendo il sole circa levante si fece quieto l'aere, perciò bisognò tirar a basso le vele e dar di mano a' remi; ma non durò molto la tranquillità, che, levato vento da siroco, facendo di nuovo vela drizzammo il corso verso 4° garbin ponente. Portati cosí adunque da vento prospero, circa il mezzogiorno ci apparve il continente, giudicando già esser giunti al lato occidentale del mar Bianco, passato Candinas; e venendo incontro il lito vedemmo sei navi di Russia, alle quali appressandoci gli chiamammo, dimandando loro quanto fussimo lontani da Childvin. E ben che non ci intendemmo troppo bene, pur ci mostrarono cosí che noi eravamo ancora lontani, come quelli che eravamo al lito orientale di Candinas: allargando una mano dall'altra, ci volevano dar ad intendere che bisognava prima che passassimo il mar Bianco, e che 'l nostro battello era troppo picciolo, che ci mettevamo a gran pericolo se volevamo con tali barchette per quello navigare, e che Candinas era ancora da noi lontano verso maestro. Tra tanto dimandammo loro del pane e ce ne diedero uno, il quale mangiandolo cosí asciutto vogando lo consumammo; ma non potevamo credere di esser ancora in quel luogo che essi giudicavano, perchè tenevamo per certo d'aver passato il mar Bianco. Ma partiti da loro andammo co' remi lungo l'orlo della terra, spirando tramontana; ma sendo il sole circa maestro, avendo trovato un siroco prospero, facemmo vela cosí lungo la riviera del continente, e vedemmo alla man destra una gran nave russiana, la qual giudicammo che fusse venuta dal mar Bianco.
16 agosto, la mattina, caminando verso maestro, ci trovammo esser entrati in un certo seno, e drizzando il corso alla nave russiana che avevamo veduta a mano destra, a quella con gran difficultà e fatica pervenimmo. Giunti a quella, sendo il sole circa siroco con gagliardo vento, interrogammo quei Russiani se eravamo vicini alla Nuova Zembla di Col overo Kildwin, ma quelli crollando la testa ci mostravano che eravamo a Zembla di Candinas; nientedimeno non davamo loro fede, ma dimandammo ad essi qualche cosa da mangiare, e ci diedero alquanti passeri secchi al vento, per li quali il nocchiero contò loro la moneta. Noi partendo da quelli facemmo vela per passar quel luogo dove erano, sí come scorreva in mare, onde vedendo essi che noi erravamo, sendo per la maggior parte passato il crescente del mare, mandarono due de' loro a noi in una barchetta picciola con un pane grande qual ci diedero, e ci fecero segno che tornassimo alla lor nave, perchè volevano con noi ragionar di piú cose e informarci di quel mare. Noi, volendo render loro la cortesia, gli dammo una moneta d'argento in un panno di lino, ma stando quelli appresso noi fermati, quei che erano nella nave alzavano in alto del lardo e del butiro per invitarci a tornar a loro. Andammo adunque, e ci dimostrarono che eravamo ancora al lato orientale di Candinas, ma tratta fuori la nostra carta da navigare la mostrammo loro, e con essa ci fecero vedere che eravamo al lato orientale del mar Bianco e a Candinas; il che intendendo restammo molto di mala voglia, vedendo che ancora avevamo da fare cosí lungo viaggio e passare il mar Bianco, e sentivamo molto travaglio delli nostri compagni che erano nello schiffo, e di piú che noi, benchè avessimo già navigato per 22 miglia in mare, non fussimo passati piú inanzi, e che adesso solamente avessimo a passare il porto del mar Bianco, con cosí poca mesa o vettovaglia. Perciò il nocchiero, prima che si partisse, comprò da' Russiani tre sacchi di farina, cinque quarti di carne di porco, un vaso di terra pieno di butiro di Russia e un bariletto di mele, per vettovaglia per noi. E sendo cessata la crescenza del mare, facendo vela col calar dell'acqua, uscimmo per l'istesso esito per il quale venne a noi la loro picciola barchetta, ed entrati in mare con vento prospero da siroco navigamo verso maestro tramontana, e osservammo quella punta che si stendeva in fuori, che pensavamo che fusse Candinas; ma, seguitando il camino, vedemmo che il continente si voltava verso maestro. Verso sera, sendo il sole in maestro, vedendo che co' remi facevamo poco viaggio e che 'l flusso del mare era alquanto cessato, ci fermammo quivi, e cuocemmo una polenta di farina in acqua, alla quale aggiunto un poco di lardo e di mele, ci parve molto saporita; ma eravamo molto sopra pensiero de' nostri compagni, non sapendo dove fussero.
17, stando in ancora, nel far dell'aurora vedemmo una nave russiana che usciva del mar Bianco, la qual veduta, andammo a remi verso quella per pigliar qualche informazione. E vedendoci quei che erano in quella andar verso loro, subito da loro stessi ci offersero del pane, e ci diedero ad intendere come potevano d'aver parlato co' nostri compagni, e che erano sette uomini in uno schiffo: e perchè noi con difficultà potevamo ciò intendere o credere, ce lo fecero sapere con piú chiari indicii, cioè inalzando sette deta e mostrando il nostro battello, volendo dire che era una barca di quella sorte cosí scoperta, e che avevano loro venduto del pane, della carne, del pesce e altro. Ed essendo presso la loro nave, vedemmo una bussoletta da marinari e la conoscemmo, che fu già del regolator della nostra navigazione, e ce la mostraranno anco. Inteso benissimo tutte quelle cose, dimandammo loro quanto aveva che ciò era occorso e dove gli avevano trovati: ci mostrarono che era stato il giorno avanti. In somma ci mostrarono grand'amorevolezza, onde ringraziandoli molto ci partimmo allegri che i nostri compagni avessero avuto da loro vettovaglia, perciochè di ciò eravamo molto addolorati, sapendo quanto poca ne avevano quando da noi si separarono. Dammo adunque gagliardamente ne' remi per arrivarli, perciochè temevamo che avessero presa poca vettovaglia da' Russiani e desideravamo di partir con essi la nostra, e avendo con gran fatica tutto quel giorno caminato a remi lungo l'orlo della terra, circa la mezanotte trovammo un rivo d'acqua dolce, e perciò usciti bevemmo dell'acqua fresca, e cogliemmo anco delle foglie della lumacaria. Ma quando ci preparavamo per partire bisognò quivi fermarci, perciochè il crescente dell'acqua era passato, e guardavamo pure con diligenza se vedevamo Candinas e le 5 croci che ci avevano detto li Russiani, ma non vedemmo niente.
18 d'agosto, la mattina, sendo il sole circa il levante, per mettersi a caminare levammo il sasso che usavamo in vece d'ancora, e caminammo a remi longo il continente fino a mezzogiorno. Poi vedemmo una punta stesa in mare con l'ombra di alcune croci, alle quali appressandoci perfettamente le conoscemmo, e, sendo il sole circa il ponente, comprendemmo manifestamente che 'l continente si voltava verso ponente e maestro: e da quei segni conoscemmo chiaramente che quello era il promontorio di Candinas allo ingresso del mar Bianco, il quale avevamo da passare e che tanto avevamo desiderato. Questo promontorio o punta di Candinas si può facilmente conoscere sí per le cinque croci sopra esso piantate, come per i suoi due fianchi: sono volti l'uno a siroco e l'altro a maestro. E volendo ormai navigare di là verso il lato occidentale del detto mar Bianco verso la Norvegia, trovammo che un vaso d'acqua era uscito, onde facevamo pensiero di tornar nel continente e pigliar dell'acqua fresca; ma, perchè l'onde cominciavano d'ogn'intorno a crescere, non ci bastò l'animo, e avendo trovato vento prospero da siroco, che non era da perdere, nel nome di Dio ci partimmo, sendo il sole circa maestro. E facemmo vela tutta quella notte e il giorno seguente con felice camino, sí che in tutto quel tempo prendemmo i remi solamente per un'ora e meza, e la seguente notte ancora fu prospera la nostra navigazione, sí che il giorno seguente circa il sole in greco levante vedemmo il continente dal lato sinistro del mar Bianco, il quale però comprendemmo dal fremito del mare rotto nel lido, prima che lo vedessimo; e vedendo appresso che la terra era piena di scogli e diversa da quella del lato orientale del detto mare, la quale era piana e arenosa e con pochi monti, tenimmo per certo d'esser giunti al lato occidentale del mar Bianco, ai confini della Lappia, rendendo grazie a Dio che nello spazio di circa 30 ore ci avesse condotti oltre il mar Bianco, largo intorno 40 miglia. Il nostro viaggio veramente fu verso ponente con vento da greco.


Come dopo molti errori arrivammo al lato occidentale del mar Bianco, ove trovammo una nave russiana con 13 uomini, dalli quali fummo ricevuti nelle loro case e dato da mangiare, e due Lapponi con le mogli e figliuoli mendicanti, e il loro abito e costumi, e come quivi anco improvisamente arrivarono i nostri compagni che s'erano da noi discostati.
Cap. XXIIII.

20 d'agosto, giunti dinanti al continente, il vento da greco ci abbandonò e cominciò a soffiare gagliardamente maestro, onde, vedendo che eravamo per far poco viaggio, ci risolvemmo intanto di tirarci dietro certe rupi. Fatti vicini al continente vedemmo alquante croci e segni a quelle attaccati, da' quali intendemmo che quivi era un commodo ricetto per le navi, onde entrammo dentro, ed entrati un poccolino vedemmo una gran nave russiana quivi fermata, alla quale con ogni potere ci appressammo, e di piú alcune case abitate. Fermammo la nostra barca presso la nave e, perchè già cadeva la pioggia, tiramo la vela sparta di sopra via; poi usciti nel continente andammo a quelle case, dove fummo molto benignamente ricevuti, perciochè ci menarono nella loro stuffa e ci asciugarono le vesti bagnate, e mettendoci inanzi un pesce cotto a lesso ci invitarono amichevolmente a mangiare. In queste casette vi erano al numero di tredeci persone, e ogni giorno la mattina andavano con due barchette a pescare, delle quali due di loro erano patroni: viveano molto parcamente, mangiando pesce con pesce. Verso la notte apparecchiandoci noi a tornar nella barca, invitarono il nocchiero e me a restar nelle lor case: il nocchiero ringraziandoli ritornò alla barca, e io quella notte stetti con esso loro. Oltre quelle tredeci persone, vi furono quivi anco due Lapponi con tre donne e un fanciullo, i quali vivevano miserissimamente delle reliquie che i Russiani davano loro, come un boccone di pesce e qualche testa di pesce gettata in terra da' Russiani, le quali cose essi prendevano con gran ringraziamenti; sí che molto si maravigliammo e compassionammo la povertà e miseria loro, benchè il nostro stato fusse allora forse piú misero: ma, a quel che si poteva comprendere, quella era la vita loro cotidiana. Or quivi bisognò fermarsi, perciochè spirava allora maestro, a noi contrario.
21 detto, quasi tutto il giorno piové, ma piú leggiermente verso mezogiorno. E il nostro nocchiero comprò del pesce fresco, il qual poi cotto, ne mangiammo fin che fummo sazii, il che già gran tempo non avevamo potuto fare; facemmo anco una polenta di farina e acqua, la quale mangiavamo in luogo di pane, sí che eravamo alquanto allegri. Dopo mezogiorno cessando un poco la pioggia, entravamo nel continente un poco piú adentro a cercar delle foglie di erba delle lumache, e in quel mentre vedemo due uomini sopra il monte, onde dicevamo tra noi: "In questi contorni vi deve esser assai gente"; e questi ci venivano incontro, ma non avendo posto loro fantasia ritornavamo alla nostra barca e a quelle case. E quei due uomini che erano sul monte (che erano de' nostri compagni) vedendo la nave russiana discesero del monte per comprar qualche cosa da mangiare, ma sendo là venuti a caso e sendo senza denari s'avevano deliberato di cavar un paio di brache, perciochè se n'avevano calzato due e tre paia, e cambiarle per tanta robba da mangiare; ma come furono discesi del monte e fatti piú vicini videro la nostra barca presso la nave, e noi vedendoli venire gli riconoscemmo, onde ed essi e noi molto ci rallegrammo e ci raccontammo iscambievolmente le nostre disgrazie, noi che eravamo stati in gran pericolo e miseri ed essi che avevano patito assai maggior sciagure di noi, ringraziando però Iddio che non ci avesse abbandonati, ma ci avesse conservati in vita e di nuovo ricongiunti. E prendemmo insieme un poco di cibo, e bevendo di quel che corre nel Reno presso Colonia, deliberammo che venissero a noi, e cosí insieme ci partissimo.
22 agosto, vennero i nostri compagni da noi sendo il sole circa siroco, per la qual venuta molto ci rallegrammo, e chiamammo allora il cuoco de' Russiani e lo ricercammo che ci volesse far un poco di pane di un poco di farina che avevano in un sacco e cuocerlo, che l'avremmo pagato: il che ci promise di fare. Intanto ritornati i pescatori dal mare, il nostro nocchiero comprò da loro quattro asinelli de' maggiori, li quali cotti mangiammo, e mangiando noi venne il capo de' Russiani, e, vedendo che avevamo carestia di pane, andò a prenderne e ce ne diede. E benchè gli invitassimo a mangiar con noi non vollero accettare, perciochè era un lor giorno di digiuno, e noi avevamo sparso sopra il pesce cotto alquanto di grasso e butiro; anzi non li potemmo a modo alcuno indurre a bever pur con noi, perciochè al nostro bicchiero era attaccato qualche poco di ontume, cosí sono superstiziosi osservatori della loro religione e digiuni; né meno ci volsero prestare uno delli loro bicchieri, perchè non lo imbrattassimo di grasso.
23 detto, il cuoco fece il pane e lo cosse; e quietandosi alquanto l'aere ci preparammo alla partita, e il nostro nocchiero diede al capitano de' Russiani ritornato da pescare per le cortesie usateci un presente da non sprezzare, e al cuoco la sua mercede, ed essi molto ci ringraziarono. Il capitano poi de' Russiani dimandò al nostro nocchiero alquanta polve d'artiglieria, qual gli fu data, e ci ringraziò assai. Or, preparati a partirsi, trasportammo fuori del battello un sacco di farina e lo ponemmo nello schiffo, acciò, se per caso ci separassimo piú l'un dall'altro, avessero anco quelli dello schiffo che mangiare. Verso notte, sendo il sole circa ponente, facemmo vela sendo il colmo del crescente, con vento da greco, lungo l'orlo della terra verso maestro.
24, durando ancora il vento da greco, giungemmo sendo il sole in levante alle 7 isole, dove trovammo molti pescatori, i quali dimandati di Cool e Kildwin ci dimostravano verso ponente, per quanto intender potevamo; e mostrandoci amorevolezza ci gettarono nella barca un asinello, il prezio del quale, perciochè andavamo con buon vento, non potemmo loro contare, ma ringraziandoli ci maravigliammo della loro gentilezza. Caminando adunque in questo modo con buon vento prospero, sendo il sole circa maestro passammo quelle isole, e trovammo lungo la riviera alquanti pescatori, i quali, fattisi presso noi co' remi, ci dimandarono dove era la nostra crable, cioè nave; e noi al meglio che potemmo alla russiana rispondemmo loro: "Crable propal", che avevamo lasciata la nave. Essi ciò intendendo gridarono: "Cool brabanse crable", dal che intendemmo che in Cool erano alquante navi di Fiandra; ma noi però non davamo orecchia molto a tai parole, perciochè avevamo disegnato di far vela alla volta di Waerhuysen, per tema che i Russiani o il loro principe ne' loro confini non ci dessero travaglio.
25, soffiando vento da greco, veleggiando lungo il lido intorno al mezzogiorno avemmo dirimpeto Kildwin, andando verso maestro tramontana. Facendo adunque vela tra Kildwin e il continente, sendo il sole circa garbino, giungemmo alla punta occidentale di Kildwin. Quivi guardavamo diligentemente intorno se vedessimo uomini o casa alcuna, né vedemmo altro che alcune navi tirate sul lito, presso le quali trovammo luogo commodo da fermar la nostra barca, per intender se quivi stavano uomini: e perciò il nostro nocchiero discese nel continente, e trovò cinque o sei tugurii abitati da Lapponi, li quali interrogati se quello era Kildwin risposero che sí, e che in Cola si ritrovavano delle crable, cioè navi, di Brabanzia, due delle quali erano quel giorno per far vela. Noi, avendo disegnato di far vela verso Waerhuysen, di là ci partimmo sendo il sole in ponente garbino, spirando greco; ma facendo vela, rinforzò cosí gagliardamente e terribilmente che non ci bastò l'animo di star la notte in mare, perciochè erano talmente concitate l'onde che ogni momento dubitavamo che le barche si dovessero affondare, onde ci ritirammo verso il continente dietro dui scogli. Là giunti trovammo una capannuccia con tre uomini, con un can grande, dalli quali fummo ricevuti amichevolmente, dimandandoci dello stato nostro e come eravamo là capitati; rispondemmo loro che avevamo perduta la nave, e che eravamo andati là per trovar qualche nave sopra la quale potessimo condurci in Ollanda. Quelli ci dissero l'istesso che ci avevano detto prima i Russiani, cioè che quivi erano tre navi, due delle quali erano quel giorno per partirsi. Allora dimandando loro se volessero venire con uno de' nostri per il continente a Cool, a veder se quelle navi ci volessero condur in Ollanda, che gli avremmo pagati, si scusarono che non potevano di là partirsi, ma che ci avrebbero menati oltre il monte, ove poi avressimo trovato alcuni Lapponi, che essi credevano che sarebbero venuti nosco. Il che fu vero, perciochè il nocchiero, tolto uno de' nostri, ascese con quelli il monte, e trovarono alcuni Lapponi, de' quali ne tolsero uno acciochè andasse con uno de' nostri, avendo proferto loro per mercede due monete d'argento che valevano otto reali. Il Lappone, preso lo schioppo, andò col nostro, che aveva un langhiere, l'istesso giorno ancora verso sera spirando levante e greco levante.


Dichiarazione di Kildwin e di Cola, ove fu condotto uno de' nostri da un Lappone per pagamento, e come quivi trovò Giano figliuol di Cornelio, che l'anno passato si separò da noi con la tramontana, il qual ci diede quanto ci faceva di bisogno, pane, vino, cervosa, butiro, zucchero e altro, e con esso andammo in Cola, ove nelle case de' mercanti lasciammo per memoria i nostri battelli. E come i Russiani, volendo passar da un fiume all'altro, portano le loro barche in spalla.
Cap, XXV.

26 d'agosto, sendo sereno e bel tempo e spirando vento da greco, strascinammo le nostre barche sopra il continente e tirammo fuora tutto quello che v'era dentro, stendendolo all'aere. Noi poi andammo da' Russiani a scaldarsi e a cuocer quei cibi ch'avevamo, e di nuovo tornammo a mangiare due volte il giorno, perciochè vedevamo che da qui inanzi avremmo trovato piú spesso degli uomini. Bevemmo della loro bevanda, la quale essi chiamano quas, fatta di tocchi di pane muffito, la quale ci parve che avesse buon sapore, perciochè già gran tempo non avevamo bevuto altro che acqua. Alcuni di noi, sendo andati piú adentro nel continente, trovarono certe pomelle col frutto del rubo o spino d'Ida, le quali cogliendo mangiammo, e non le trovammo inutili o nocive, perciochè manifestamente ci sentimmo liberar dal fongaccio o mal di bocca. E continuava a soffiare il vento da siroco.
27 fu tempo torbido e gran fortuna da tramontana e maestro tramontana, talchè eravamo fermati in luogo troppo basso e fummo costretti a strassinare, massimamente nel colmo del crescente del mare, le barche piú in alto sopra la terra; le quali poste in sicuro in luogo piú alto, andammo piú lontani da' Russiani a scaldarci al loro fuoco e cuocer le cose a noi necessarie. In tanto mandò il nocchiero uno de' marinari al lido e alle barche, che accendesse il fuoco nella focaia che quivi era, acciochè quando ivi andassimo trovassimo fuoco senza fumo; ma, mentre il marinaio venne qui e un altro gli venne dietro, crebbe talmente l'acqua e si gonfiò sí che portava via ambedue le barche con gran pericolo che perissero, perciochè nel battello vi erano solamente due uomini e tre nello schiffo, i quali con gran pericolo e difficultà tenivano allargate dalla ripa le barche, perchè non si rompessero. Noi ciò vedendo eravamo molto affannati, né loro potevamo giovare; nientedimeno ringraziavamo Dio che ci aveva condotto in luogo tale che, quando avessimo anco perduto i battelli, avressimo potuto andar piú inanzi, per quanto si vedeva. Quel giorno e la seguente notte fu una gran pioggia, che ci dava un gran travaglio, poi che si bagnavamo tutti, né ci potevamo difendere o coprire; ma quelli che erano nei battelli erano ancora in maggior pericolo, poichè con tal tempo erano sforzati a star sul nudo lido.
28 d'agosto, con buon tempo tirammo i battelli in terra, per cavar fuori quello che in essi era rimaso e schifar il pericolo in che erano stati, perciochè soffiava gagliardissimo il vento da tramontana e da maestro tramontana. Tirati i battelli in terra, spiegammo i padiglioni per ricoverarci sotto, perciochè ancora erano nebbie e pioggia, aspettando con gran desiderio il ritorno del nostro, che era andato insieme col Lappone per intender se in Cola vi erano navi con le quali potessimo ritornar in Ollanda. Intanto, mentre quivi ci fermammo, andavamo ogni giorno nel continente a coglier di quelle bacche o pomelle turchine e del rosso d'Ida, l'uso delle quali ci trovammo molto giovevole.
29, sendo l'aere ancora quieto, aspettavamo con pazienzia qualche buona novella di Cola: e ogni giorno alzavamo gli occhi verso il monte d'ogn'intorno, guardando pure se vedevamo spuntare il Lappone col nostro. E occorse che quel giorno tornammo un'altra volta dalli Russiani per cuocer il nostro mangiare al fuoco loro, e poi ritornammo alli battelli per star ivi la notte. Intanto vedemmo scender dal monte il Lappone senza il compagno, di che molto si maravigliammo e ci prese gran pensiero; ma avicinato a noi ci mostrò una lettera scritta al nostro nocchiero, la quale, aperta alla presenza nostra, conteniva che quello che l'aveva scritta s'era grandemente maravigliato della nostra venuta costà, poichè egli non pensava piú altro de' casi nostri, se non che già gran tempo fussimo morti, e che molto si allegrava del nostro arrivo, e che subito sarebbe venuto a noi e ci avrebbe portato quanto ci fusse stato di bisogno per ristorarci. Ma non potevamo a bastanza maravigliarsi chi fusse costui che ci mostrava tanta amicizia e benevolenza, né ci potevamo ridur a memoria chi fusse, e nientedimeno dalla lettera si vedeva che era noto: e benchè fusse la sottoscrizione di Giano figliuol di Cornelio Ryp, non ci potevamo però indur nell'animo a credere che fusse quel Giano figliuol di Cornelio che l'anno precedente, con l'altra nave, aveva preso a far con noi questa navigazione e presso l'isola degli Orsi s'era da noi separato. Avuta questa buona novella, dammo al Lappone la sua mercede e appresso alcuni vestimenti, come calzoni e altro, sí che del tutto era vestito alla ollandese, perciochè ci pareva già d'esser in porto. Dipoi avendo cenato allegramente, se n'andammo a dormire. Non è da tralasciar quivi ancora il presto ritorno del Lappone, perciochè nell'andare, come ci riferí il nostro compagno, caminando anco di buon passo stettero due giorni e due notte avanti che arrivassero in Cola, e nel ritorno non stette piú d'un giorno, il che ci fu di maraviglia, perciochè vi era differenza d'un giorno, sí che tra noi dicevamo che doveva aver qualche arte; e ci portò anco una pernice che con lo schioppo aveva uccisa.
30 d'agosto, sendo assai buon aere, stavamo ancora dubitando chi fusse questo Giano figliuolo di Cornelio che aveva scritta questa lettera, e, tra diversi ragionamenti e discorsi fatti dell'uno e dell'altro, fu detto che poteva esser quello che l'anno passato s'era messo con noi a far questa navigazione; ma questa opinione non durò molto, perciochè non meno disperavamo della sua vita di quello che egli facesse della nostra, e stimavamo che gli fusse occorso assai peggio che a noi, e in somma che già gran tempo fusse morto. Finalmente disse il nocchiero: "Voglio un poco vedere le lettere che mi sono state scritte, tra le quali ve n'è una scritta di sua mano, la quale se si confronterà di carattere ci leverà ogni dubbio". Trovata e spiegata la lettera e confrontata, trovossi che era quell'istesso Giano figliuol di Cornelio, laonde non meno ci rallegrammo della sua salute che egli facesse della nostra. Intanto, mentre stammo in questo ragionamento, e alcuni ancora non si potevano dare ad intendere che questo fusse il nostro figliuol di Cornelio, ecco venir a remi un battello russiano, nel quale era Giano figliuol di Cornelio insieme col nostro compagno che fu mandato col Lappone: e smontati nel continente, ed essi e noi fummo colmati d'infinita allegrezza, come se ci avessimo veduto l'una parte e l'altra liberate da morte, perchè ed egli noi e noi lui ci tenemmo che già gran tempo morti. Portocci un vaso di cervosa, vino, aceto, pane, carne, lardo di porco, pesce salmon, zucchero e molte altre cose che molto ci giovarono e restaurarono, e godemmo estremamente di cosí insperata e scambievole salute e ricongiunzione, rendendo a Dio infinite grazie della sua gran misericordia.
31, durando l'istesso tempo spirava vento da levante, ma verso sera cominciò a far vento da terra, e perciò ci preparammo a partirci verso Cola, ringraziando prima infinitamente i Russiani che ci avevano cosí benignamente ricevuto, e con un presente rimunerandoli. La notte, sendo il sole circa tramontana, con colmo d'acqua di là si partimmo.

Settembre 1597.

Il primo di settembre, la mattina, sendo il sole circa levante, arrivammo al lato sinistro di quel fiume che bagna Cola, dipoi facemmo in esso vela e adoprammo anco i remi fino che cessasse il crescente; poi, gettato il sasso che ci serviva in vece d'ancora, ci fermammo presso una certa punta finchè tornava il flusso del mare. Dipoi circa il mezzogiorno col crescente dell'acqua facemmo vela e co' remi spingemmo il battello, quasi fino a mezanotte; poi, di nuovo calata la nostra ancora di pietre, ci fermammo fino all'alba del seguente giorno.
2 settembre, la mattina dammo di mano a' remi andando a contrario del fiume, e vedendo certi arbori verdi nella ripa del fiume ci sentimo empir d'allegrezza, come se fussimo entrati in qualche nuovo mondo, perciochè per tutto quel tempo che eravamo stati lontani non avevamo mai veduto arbore alcuno. Ma arrivando intorno un certo luogo dove si fa il sale, circa tre miglia di sotto di Cola, fermandoci quivi alquanto ripigliammo animo e poi caminammo oltre; e sendo il sole circa maestro tramontana, arrivammo alla nave di Giano figliuol di Cornelio, sopra la qual montando bevemmo un tratto. Quivi di nuovo fu pigliato un poco di ricreazione da quelli che erano venuti col battello e da quelli che avevano navigato con Giano di Cornelio, dopoi caminando inanzi giungemmo la sera a Cola: alcuni andarono nella città, e alcuni si fermarono nelli battelli a far la guarda a quello che vi era dentro, a' quali fu mandato da mangiare alcune cose fatte di latte e altro. E grandemente si rallegravano e ringraziavano Dio, che per sua bontà e misericordia gli avesse liberati di tanti pericoli e difficultà e quivi condotti, perciochè allora ci pareva d'esser in luogo assai sicuro, benchè una volta appresso noi fusse cosí sconosciuto che quasi si stimava che fusse fuori del mondo: ma allora ci pareva veramente d'esser a casa.
3 del detto portammo ogni cosa in terra, e quivi respirammo al fine da tante fatiche e difficultà passate nel viaggio, dalla fame e miserie sofferte, per ricuperare la sanità e le forze perdute.
11 detto, con permissione del presidente del granduca tirammo il nostro battello e la scaffa nelle case de' mercanti, e quivi gli lasciammo quasi come trofei in memoria di cosí lunga né mai piú navigata via, che con sí picciole e scoperte barchette avevamo avuto ardir di fare quasi per quattrocento miglia in mare e lungo i suoi liti fino a Cola: il che gli abitanti di quella non potevano a bastanza maravigliarsi.
15 settembre noi tutti, con le robbe che avevamo, con una nave russiana si conducemmo a seconda del fiume alla nave di Giano di Cornelio, la quale era lontana di là circa un miglio; sul mezogiorno poi facemmo vela con essa nave fino quasi a meza strada, fin che passassimo tutte le difficultà, ove aspettammo Giano di Cornelio insieme col nostro nocchiero, il quale ci avesse detto di seguirci il giorno dietro.
17 detto, presso sera, vennero Giano di Cornelio e il nostro nocchiero, e il giorno seguente, sendo il sole circa il levante, facemmo vela con l'aiuto di Dio nel fiume di Cola verso casa. Usciti del fiume, veleggiammo lungo la riviera con vento da garbino verso 4° di maestro tramontana.
19 circa il mezzogiorno arrivammo all'incontro di Waerhuysen, ove gettamo l'ancora, e descendemmo nel continente, perciochè Giano di Cornelio voleva levar nella nave diverse merce: e quivi si fermamo fino alli 6 d'ottobre, nel qual tempo fecero di grandissimi venti da tramontana e da maestro. Intanto, mentre quivi stammo, ci ricuperammo assai piú, e con maggior cura e governo ci liberammo dalle nostre infirmità e ci facemmo piú gagliardi, perciochè in vero avevamo bisogno di tempo e di riposo, perciochè eravamo troppo anichilati ed esausti.
6 d'ottobre intorno al vespro, sendo il sole in garbino, partendoci col nome di Dio da Waerhuysen facemo vela verso casa, e perchè quella navigazione è già assai conosciuta, non m'è paruto di doverne fare altra descrizione, se non che a' 29 d'ottobre arrivammo in Mosa con vento da greco levante. E la mattina seguente usciti in Masland, ci conducemmo per i Delfi in Aga e Arlem, e il primo di novembre circa il mezzogiorno in Amsterdam, vestiti degli stessi vestimenti che usavamo nella Nuova Zembla, co' nostri cappelli foderati di pelle di volpe bianche, ed entrammo nella casa di Pietro Hasselaer, il quale era allora uno de' governatori della città, deputato al fornire queste due navi, cioè di Giano di Cornelio e del nostro nocchiero: ove molti si maravigliarono vedendoci ritornati, avendoci già gran tempo tenuti per morti. Questa voce sparsa per la città pervenne anco nella corte del prencipe, ove allora i magnifici signori il cancelliere e l'ambasciatore del serenissimo re di Dania, di Norvegia, de' Gotti e Vandali erano assisi ad un sontuoso banchetto. Perciò fummo dal podestà e da duo altri del magistrato mandati a chiamare, e quivi alla presenza del detto ambasciatore e de' consoli raccontamo la nostra navigazione, i pericoli scorsi, e le fatiche e miserie sopportate. E dipoi quei che erano della città si ridussero a casa, e gli altri furono condotti ad un alloggiamento a loro destinato, ove fermati per alquanti giorni, avuta la loro mercede, se n'andarono ai luoghi loro.

I nomi veramente di quelli che sono ritornati da questa navigazione sono questi:

Giacopo Heemscherch, nocchiero e governatore;

Pietro figliuolo di Pietro Volpe;

Gherardo di Vera; M. Iano Volpe cirugico;

Giacopo figliuolo di Iano Steremburgh;

Leonardo figliuolo d'Enrico;

Giacopo figliuolo d'Everardo;

Lorenzo figliuolo di Guglielmo;

Iano figliuol d'Ildebrando;

Giacopo figliuolo di Iano alto Pier;

Pietro figliuolo di Cornelio;

Iano da Buysen.

Il fine


Punti cardinali, rosa dei venti e orologio astrale


PUNTI
CARDINALI
ROSA
DEI VENTI
OROLOGIO
ASTRALE
N Tramontana 22.30
NNE Greco tramontana 24
NE Greco 1.30
ENE Levante greco 3
E Levante 4.30
ESE Levante scirocco 6
SE Scirocco 7.30
SSE Scirocco ostro 9
S Ostro 10.30
SSW Ostro garbino 12
SW Garbino 13.30
WSW Garbino ponente 15
W Ponente 16.30
WNW Ponente maestro 18
NW Maestro 19.30
NNW Tramontana maestro 21