Giuseppe Rovani
CENTO ANNI
PRELUDIO
Maggior
follia non v'è
Che,
per godere un dì,
Questa
soffrir così
Legge
tiranna.
Alle
cadenze di questa cabaletta il teatro parve dividersi in due per lo
scoppio d'applausi.
Vengano ora i musici gridava un giovinotto ora che
finalmente questo Amorevoli canta come un uomo e non come una donna.
Il
tenore Amorevoli diffatto fu il primo che, per l'ineffabile dolcezza
d'una voce naturale e pel gusto squisitissimo del suo canto, fece
sperare che col tempo si potesse far senza de' musici. Ma così
non la pensavano i vecchi, uno de' quali diceva indispettito:
Tutto va bene, ma bisognava sentire Carestini a cantar quest'aria.
Egli aveva gli estremi dei bassi e degli acuti, tanto che il Ciardini
tenore disse, che voleva farsi evirare per poter cantare il basso
come lui.
E dove lasciate Cafariello? diceva un altro che portava ancora
la parrucca a riccioni; giammai uomo mortale spinse così
lungi l'audacia del canto.
E Bernacchi il patetico?
E dove lasciate Egiziello, il grande, l'unico Egiziello, il re
dell'espressione? fu egli che nell'opera Artaserse fece
piangere tutta Roma per questo solo accento:
E
pur son innocente.
E
dopo lui Guadagni e Salimbeni e Monticelli e Reginelli e Garducci e
l'Elisi; se il men valoroso di costoro fosse qui, codesto Amorevoli
non piacerebbe nè poco nè assai...
Intanto si compiaccia a sentirlo.
Per forza, non c'è altri...
E
l'opera continuò... e Amorevoli dalla voce piena di fascino e
dall'aspetto bellissimo, fu chiamato sei volte al proscenio, dopo
che, con un'espressione e un ardore indicibile, ebbe cantato
quell'aria con cui finisce l'atto primo:
Empio
fato se m'opprime,
Seguirà
le mie ruine
Chi
superbo mi contende
La
beltà che mi piagò.
Le
ultime due volte che Amorevoli uscì, tenne fisso lo sguardo ad
un palchetto... Nessuno però nè s'accorse, nè
prese informazione di quell'atto...
Solo
il gentiluomo veneziano che teneva dietro alle beltà lombarde,
guidato macchinalmente da quello sguardo ad osservare egli pure il
palchetto, chiese all'amico che gli serviva d'interprete:
Chi è quella bellissima dama là, al numero quattro del
second'ordine?
Bellissima, se avesse imparato a sorridere, e se ricevesse la grazia
dalla bontà... Quella è la contessa Clelia V..., odiata
dalle donne ed anche dagli uomini.
Odiata?
Sì, odiata... Sa il latino, il greco e la matematica... e
dall'alto del suo tripode ci guarda tutti come una divinità
sdegnata. Mentre il cavalier servente è dovunque un
mobile di casa, ed è adottato da chi lo considera come
un'imposizione della moda e nulla più, ella non ha mai patito
d'averne uno. La natura le ha messo il cuore in ghiaccio per
preservarlo dalle infiammazioni.
Ha marito?
Altro che marito! Vedetelo là nel palco dirimpetto... È
un ex colonnello di cavalleria, fatto con sangue di Spagna e con
sangue lombardo. Nobilissimo, del resto, e ricchissimo; ma serio come
un cavaliere del tempo del Cid. Sposò la sapienza,
perchè s'accorse che la grazia lo avrebbe fatto diventar
geloso come il Moro di Venezia...
III
Il
fischio dell'avvisatore, partito dal palcoscenico, fece cessare tutti
i discorsi che si tenevano nella platea e ne' palchetti, e si alzò
il sipario. Il ballo di quella sera rappresentava La Morte
d'Ercole, del coreografo Pitraut, colui che aveva destato
tanto chiasso a Parigi per aver messo in ballo il Telemaco
dell'arcivescovo di Cambray, nel quale ballo la dea Calipso, in
conseguenza di un passo falso, avea corso pericolo di perdere
l'immortalità. L'azione dell'Ercole si apriva
con un grande strepito guerriero; una folla di popolo annunciava il
ritorno d'Ercole che entrava in cocchio tirato da alcuni schiavi di
nazioni diverse da lui soggiogate. Jole era strascinata dai
lottatori; Filoteta ed Ilo stavan seduti sul cocchio ai piedi
d'Ercole. Compariva finalmente Dejanira, la bellissima
Gaudenzi. Questa ballerina destava allora il massimo fanatismo in
Europa, non tanto perchè fosse d'una bellezza abbagliante, ma
perchè nell'arte sua era un'eccezione alla regola, ovverossia
poteva servire di regola tra gli abusi. La critica sapiente,
che allora usciva a protestare in opuscoletti, si lamentava forte che
i compositori de' balli andassero lontanissimi dalla natura; ma più
ancora si lagnava degli esecutori. Tutta l'arte de' ballerini in
generale si riduceva alla capriuola. Non si trattava più di
ballare, ma di andare in alto, e quegli che più s'approssimava
al cielo del teatro passava per il più bravo. Il ballerino
Sauter, per far vedere al pubblico la forza delle sue gambe, si
propose in un gran ballo eroico, dopo aver fatto duecento capriuole
ed altrettanti tours de jambes, di cadere in à
plomb sul piede dritto, e di starvi per otto minuti in
equilibrio, affine di dar tutto il tempo alla platea di battere le
mani. Questi salti eran tanto pericolosi, che bene spesso in teatro
succedevano grandi inconvenienti, e in quella medesima stagione a cui
ci troviamo, nello stesso ballo della Morte d'Ercole, una
divinità, facendo uno sforzo pantomimo, prese così male
la sua misura, che si precipitò nell'orchestra, dove ruppe sei
istromenti, disordinò quindici parrucche, gettò a terra
il violino di spalla, cui poco mancò che uccidesse invece di
fracassare sè stessa; avvenimento, che per quello che poi
saprà il lettore, fece cadere in deliquio la bella Gaudenzi.
Ma continuando a parlar dell'arte della danza a quel tempo, non parea
vero che i compositori de' balli, che volevano far effetto
affrontando qualunque assurdità e mettendo in pericolo la vita
dei loro esecutori, trovassero ballerini e ballerine, e ricche e
sospirate dal bel mondo, che si adattassero a sfigurarsi e a diventar
furie sulla scena. La celeberrima Campioni e la milionaria Curz, a
forza di contorsioni e movimenti irregolari, finito il ballo,
diventavano deformi a segno da far paura; i loro occhi si facevan
torti e biechi, si tramutavano le loro fattezze e lor fuggiva il
colore. Non così la Gaudenzi. Il nostro amico, parlandoci un
giorno di sua madre, ci fece vedere un libro, che teneva carissimo,
nel quale davasi di lei il seguente giudizio: «Anche nel bel
mondo ballante si trovano le rare fenici. La Gaudenzi è una di
quelle; ella balla con agilità inarrivabile, con elegante
portamento e con brio vivacissimo; il corpo suo è sì
ben formato che sembra fatto per ballare. È grande attrice
pantomima; con un volto oltre ogni dire bellissimo esprime al vivo le
diverse passioni dell'animo, la tenerezza, il dolore, lo spavento,
l'allegria, il furore». Noi siamo inclinati a credere che
l'autore dell'opuscolo, stampato a Milano dal Motta, dove stanno
queste parole, fosse uno spasimante della Gaudenzi, e che però
caricasse le dosi; tuttavia viene una gran voglia di credergli,
quando si pensa che tutta Europa andava perduta dietro a codesta
Gaudenzi, mentre pure aveva uno stile di danza contrario a quello
allora in voga. Ma se ella poteva danzare con ragionevolezza d'arte,
non poteva far scomparire le assurdità della composizione
coreografica; però nel nuovo ballo del Pitraut, dopo essersi
gettata nelle braccia dello sposo Ercole, doveva adattarsi a ballare
un pas de trois con lui e con Jole, e solo poteva mettere in
atto tutte le riforme ch'ella avea introdotte nella danza quando
eseguiva l'a solo. Ella avea compreso che la danza non
è altro che un'arte plastica viva e vera, in cui la figura
umana, dotata di forme bellissime, s'atteggia a consigliar pose e
movenze e contorni eleganti alla pittura e alla scultura.
I
pittori Galliari, che non s'interessavano gran fatto alla musica,
nell'ora che danzava la Gaudenzi, erano assidui ad osservarla, stando
fra le quinte; e noi abbiam veduto un disegno a penna d'uno di loro,
dove è ritratta la celebre danzatrice in costume di Dejanira,
adagiata su d'un letto di cespugli, in preda al dolore. Quantunque
però, nel massimo imperversare dell'arte barocca, ella avesse
tanta purezza di atteggiamenti, non aveva il coraggio di omettere
l'entrechat propriamente detto, perchè voleva far
tacere le ballerine rivali, le quali, se ometteva la capriuola,
l'accusavano di poca agilità nelle gambe. Sapeva dunque
soddisfare in un punto e alle esigenze legittime della bellezza
assoluta, rivelando forme d'indescrivibile perfezione, e ai capricci
della moda, e alle pretese dei compositori. Del resto, se ella
era abilissima come danzatrice, riusciva inarrivabile come attrice, e
sapeva provocare il vero orror tragico, quando, nell'ultima scena del
ballo, mentre Ercole ardeva nella camicia funesta, ella entrava come
forsennata, e, non potendo reggere allo spettacolo straziante, si
uccideva. Se non che tutte le sere doveva risuscitar tosto per uscire
al proscenio (non si potevano contar le volte), a ricevere le
dimostrazioni di un pubblico che andava in delirio; e, dopo calato il
sipario, il palco scenico abusivamente era invaso dai giovani
zerbinotti, che recavansi a farle tributo dei loro omaggi e a
lasciarle un tappeto di rose e viole sul pavimento del camerino,
dov'ella gentile e spiritosa e vivacissima dava belle parole a tutti,
e occhiate che parevano significare quel che non volevano dire.
Veduta da presso, la Gaudenzi non scapitava d'un punto dell'effetto
che produceva a chi la guardava dalla platea; chè veramente
era dessa di una perfetta beltà. Aveva la capigliatura
biondo cupa increspata e prolissa, la quale nella sua schietta
natura non potea vedersi che nel momento in cui, attendendo a dar
parole, scioglieva i capegli per poi foggiarli anch'essa nel puff di
convenzione. Aveva occhi azzurri, bocca e mento e contorni
della purezza più completa; soltanto il naso, come quello
della greca Aspasia, sopravanzava d'alquanto il confine stabilito
dalle scuole accademiche. Ma quegli occhi azzurri e quel naso
erano un argomento di censura per le altre beltà invidiose,
segnatamente del ceto patrizio. La contessa Marliani
affermava, sdegnosissima nella sua convinzione, che non può
essere una beltà perfetta chi non ha gli occhi neri; la quale
asserzione diede luogo ad una disputa de' begli spiriti che recavansi
alla sua conversazione. Fu persino convocata una consulta di
pittori per decidere in proposito; e avendo essi sentenziato in
favore degli occhi azzurri, quasi corsero il pericolo di perdere il
loro posto alla tavola di casa Marliani. Ma anche noi che
scriviamo, avremmo perduta l'amicizia della contessa perchè le
avremmo detto che, se gli occhi neri lampeggiano in virtù
della legge dei contrasti, gli occhi azzurri risplendono per virtù
propria; le avremmo detto che la pupilla azzurra sdegna la
mediocrità, vuol bellezza perfettissima di linee nel
sopracciglio e nella cassa dell'occhio, mentre la pupilla nera
s'appaga invece anche di linee irregolari; che l'occhio nero non
avendo un colore, non ha sempre nè varietà nè
nobiltà nè iridescenza nè riflessi, sia dalla
luce esterna che dall'intima luce dell'anima; ora tutte queste
qualità avevan gli occhi della Gaudenzi, occhi esercitanti un
fascino, che poteva persino sembrar colpevole a chi non conosceva
l'indole di quella donna.
Ma
intanto che i cavalierini incipriati stavano indugiandosi alle soglie
del camerino della Gaudenzi, in aspettazione dell'ultima occhiata, e
tutti nella speranza che quell'occhiata significasse una scelta,
senza, del resto, arrivar a comprendere che la Gaudenzi era
sudatissima e sentiva il bisogno di spogliarsi e rivestirsi, e nel
suo segreto, pur conservando l'amabilità dell'azzurra pupilla,
li mandava tutti al diavolo, s'intesero voci d'alterco sul palco
scenico. Ad un illuminatore, che passava in quel punto, tutti
que' gentiluomini si volsero per domandarli di che si trattasse:
È il signor Amorevoli che non vuol più cantare...
Come, come?
Per questa sera, no.
Ma perchè?
Dice di star malissimo, e i medici, richiesti dai cavalieri
ispettori, dichiarano invece che non è mai stato così
bene; ed egli ha minacciato di bastonar tutti quanti, cavalieri,
ispettori e medici... e senza dir altro e sghignazzando di
gran voglia, l'illuminatore passava oltre. Allora gli
spasimanti della Gaudenzi s'allontanarono dalla loro vittima e
mossero a spingere un occhio e un orecchio curioso al camerino del
tenore. Ma tutto era tornato nella più perfetta calma. In
conclusione, convenne fare la volontà del tenore, il quale
dichiarava che, quand'anche non avesse la febbre richiesta dai
regolamenti del teatro, pure non poteva spingere la voce al di là
del sol, aveva compromesso il la, e sarebbe stata una
imprudenza solamente a parlare del si e dei falsetti. Così,
dopo alcuni momenti, uscì l'avvisatore a gridare dal
proscenio, in mezzo ad un silenzio di tomba:
Per improvviso abbassamento di voce del tenore signor Amorevoli, si
ommetteranno nel secondo e nel terz'atto tutti i pezzi d'Ircano. -
Non
è a dire come rimanesse percosso da questa notizia tutto
quanto l'uditorio, il quale, per non saper come sfogare il dispetto,
fischiò disperatamente l'avvisatore, il quale si ritrasse con
un volto pieno d'indifferenza, di calma e d'ironia; con un volto che
pareva quello di Socrate quando si alzò a sfidare le risate
della folla d'Atene. Tanto in qualche cosa giova essere gli
ultimi per assomigliare ai primi.
Ma
tornando all'Amorevoli, noi, al pari dei medici del teatro e dei
cavalieri ispettori, siamo inclinati a credere che in quella sera
egli avesse una salute di ferro e una voce a tutta prova.
Seduto
di fatto nel suo camerino innanzi ad uno specchio, stava
disbellettandosi; e ridendo tra sè, pareva che godesse di un
trionfo ottenuto. Entrava in quella il servo universale del
palco:
Si va dunque a casa?
Prepara il mantello e gli stivali, Zampino.
Gli stivali?
Gli stivali ed il mantello... Sì.
Ecco il mantello.
Tu vuoi assaggiare la mia canna, eh?
Non sono il medico del palco scenico.
Porta via dunque questo drappo rosso, che fa uscire il sole anche di
notte... e prepara il mantello nero, bestione.
Vuol l'amo o le reti, signor Angelo?
Bada a te, Zampino. E Amorevoli si alzava aspergendosi il
volto e le mani d'acqua odorosa, e mettendo in mostra una camicia
tutta gaja di preziosissime trine, e un pajo di calzoni di raso
turchino con punte d'argento. Si adattò il gilè, che
pareva un mazzo d'ortensie, mise gli stivali di rnarocchino nero con
rovesci azzurri come i calzoni, infilò la marsina variopinta
come una squama di serpente, si calcò il cappellino a tre
punte sulla parrucca alla circostanza, e si gettò il
mantello sulle spalle. Dopo aver detto a Zampino: Preparati ad
accompagnarmi col lampione uscì dal camerino, e
recatosi sul palco scenico, nel momento che era calato il sipario,
dopo i frammenti del second'atto, mise l'occhio ad un buco del
telone, e guardò al numero quattro in second'ordine. Il palco
era vuoto... egli soffregossi le mani e ripartì queto, uscendo
per la falsa porta del teatro. Zampino lo seguiva senza far parola,
col lampione che già aveva acceso.
Lasciato
il teatro, Amorevoli volse il passo verso la contrada Larga... alla
quale rispondeva una porta del teatro per dove uscivano i proprietarj
de' palchetti. Molti carrozzoni erano là in fila, e i
cocchieri aspettavano di esser chiamati dal lacchè della
propria casa.
Casa Borromeo, casa Litta, casa Marliani, casa Gambarana, casa
Annoni, casa Belgiojoso, casa Sanazzaro, casa Bossi, casa Taverna...
gridavano essi di mano in mano che i carrozzoni si facevano
innanzi.
Amorevoli
si fermò sull'angolo della contrada delle Ore, porgendo
orecchio alle voci rauche di quei poveri lacchè che facevan
venire innanzi le carrozze in processione.
Casa Verri, casa Beccaria, casa V...
Amorevoli
stette un istante senza far motto, gettò il mantello alla
veneziana intorno alle spalle, ascoltò il cupo e pesante romor
delle ruote di quell'ultimo carrozzone che s'allontanava.
Quante sono le ore? chiese poi a Zampino.
Manca poco a mezzanotte.
Vieni che faremo una passeggiata per la città.
A quest'ora?
A quest'ora e partirono.
Camminarono
una mezz'ora buonamente... Zampino di tant'in tanto diceva ad
Amorevoli:
Ma che si fa?...
Bada a te... e attendi a servirmi bene e vennero a
Poslaghetto. Colà era un'antica osteria, donde partivano
grandi schiamazzi e canti e villotte...
Che diavolo c'è laggiù, Zampino?
Siamo agli ultimi di carnevale, signore; saranno i compagnoni della
Badia de' facchini.
Benissimo. Ora va' a mangiare il tuo boccone in quell'osteria, e
attendimi là...
Non devo accompagnarla?
No.
Ma e se?...
Va' a mangiare il tuo boccone... e Amorevoli partì
solo.
Pareva
praticissimo di quel gruppo di contrade, e difilò dritto ad
una cinta di un gran giardino. Era il giardino del palazzo V..., nome
che dobbiamo tacere, avvertendo solo, a scansare equivoci, che aveva
desinenza spagnuola, e che una volta aveva probabilmente dato
l'appellativo ad una contrada.
Faceva
una notte di febbrajo limpida e stellata... e dal dietro della cinta
si vedeva la sontuosa facciata di un gran palazzo antico, Da
due finestre, poste tra loro a molta distanza, ai lati estremi di
quel palazzo, trapelavano due lumi. Un altro lume trapelava
più in lontananza da una casetta modesta, che rispondeva ad un
giardino confinante a quello della casa V..., il qual giardino
apparteneva al palazzo del marchese F... che era morto la mattina di
quel giorno; due lumi luccicavano a due balconi di quello stesso
palazzo. Il lume della prima finestra del palazzo V... rischiarava la
stanza della contessa Clelia che vegliava...; quello della seconda
finestra rischiarava la camera dell'ex colonnello conte V... che
già dormiva; il terzo lume, che traspariva dalla finestra
della casa modesta, rischiarava l'alloggio della ballerina Gaudenzi,
che s'era acconciata là per esser vicina al Teatrino Ducale e
che in quel momento stava mutandosi la camicia.
Delle
ultime due fiamme, l'una illuminava un lenzuolo in cui era avvolta la
salma patrizia del marchese defunto; e l'altra una mano di gente
venale, pagata la notte a far compagnia al morto.
In
quello spazio misurato dall'occhio del tenore Amorevoli non
scintillavano che quelle cinque fiamme... Esso le contò
macchinalmente, e scavalcò il muricciuolo di cinta,
E
con un'ansia incognita
Ebbe
la debil orma accelerato
E
in alto..................................
Scintillava
il beffardo occhio del fato.
IV
La
contessa Clelia era sola nella sua stanza da letto, di cui gli
addobbi e gli ornamenti, sovraccarichi di sfoggiata ricchezza, fuor
delle leggi del buon gusto, è più facile che un uomo
d'immaginazione se li dipinga, di quello che li descriva un
galantuomo di null'altro temente che di riuscir nojoso a' lettori.
Tuttavia in quelle linee contorte e peccaminose del barocco, e in
quell'oro condensato senza risparmio in forme d'ornamenti, c'era
qualcosa che poteva parlare alla fantasia, e tanto più in
quanto in mezzo ad essi spiccava una donna così severa e così
bella, bella di quella bellezza di rigida perfezione che lascia
placidissimo il cuore, ma che provoca lo spirito d'osservazione in
menti avvezze ad esaminare le opere dell'arte. Pure non si potea dar
figura che fosse meno adatta a quella stanza; chè l'una e
l'altra rappresentavano due stili di due periodi opposti e nemici tra
loro. Il volto della contessa apparteneva a quello stile greco romano
che non sopporta transizioni di scuola; e siccome in quell'ora in cui
vegliava, ella si era lasciata cadere l'alta acconciatura de'
capegli, dai quali, ravviati un momento prima dalla cameriera, era
scomparsa anche la cipria, così a quelle volute contorte del
Borromini e del Fumagalli faceano più cruda antitesi quella
fronte quadra, quei piani delle guancie modellati a rigore, come
quelli d'un cammeo antico, quel mento romano che richiamava il mento
appunto della Clelia, quando passa il Tevere, disegnata
dall'improvvisatore Pinelli, quel naso rigorosamente giusto e ad
angolo retto, il quale insieme cogli occhi grandi e neri e di lento
giro, e colle palpebre prolisse e co' sopraccigli arcuati e folti,
più forse che nol comportasse la delicatezza muliebre,
generava quel tutto che sarebbe necessario a dipingere una Minerva
convenzionale. Occhi tuttavia e sopraccigli e palpebre, che pur di
sotto al rispetto quasi disgustoso che imponevano, e alla fuga in cui
mettevano ogni pensiero giocondo e gaio, potevano, in certi momenti e
a seconda di certe nature, provocare strani pensieri e sommovere il
senso voluttuoso.
La
fronte però, quasi sempre corrugata, di quella gentildonna e
certe protuberanze che, preziose sotto alla mano del frenologo,
recano sempre offesa alla completa bellezza per l'occhio
dell'artista, potevano venir in soccorso onde spegnere la seduzione.
Ma da quella fronte, senza saperlo, i rigidi parenti (di cui,
per esser fidi ad un sistema di prudenza, sopprimeremo al solito il
nome del casato), avean preso consiglio per dare alla fanciulla
Clelia una educazione che fosse distinta oltre il consueto, a ciò
poi singolarmente sollecitati da un dottissimo abate, un tal
Carlantonio Tanzi, stato precettore al fratello della contessina, il
quale, non trovando più nessuno a cui comunicare la sua
dottrina, pensò fare di lei un oggetto di esercitazione
scientifica pe' suoi vecchi anni, e una meraviglia del gentil sesso.
Ad ogni modo, l'abitudine di introdurre le fanciulle a
discipline non fatte pel sesso grazioso, nel secolo passato, secolo
delle esagerazioni e delle cose a rovescio, fu comune più che
non si creda. Era il barocco applicato all'educazione, per cui
alle fanciulle si gonfiavano le teste a spese del cuore, e si
riduceva la scienza a ricovrarsi per forza all'ombra de'
guardinfanti. Molte donne, nel secolo passato, studiarono filosofia,
giurisprudenza, matematica; talvolta, qualche stragrande ingegno,
fece parer sapienza cotale pazzia, e valga per tutte quel prodigio
della Gaetana Agnese; ma più spesso furono anomalie di
sterilissima dottrina, rigonfiata da orgoglio infelice. La contessina
Clelia pertanto, dal dotto abate che non aveva cavato nessun
costrutto dal fratello di lei, fu incaricata di far le sue veci e di
rappresentarlo al consesso dei dotti. A dieci anni la
contessina, oltre alla lingua francese, che si parlava abitualmente
dal conte padre, il quale tante volte s'era trovato a Parigi confuso
nella folla dei cortigiani del gran Luigi, conosceva la lingua
latina; e il prof. Branda, quello col quale ebbe accanite dispute il
giovane Parini, fu invitato dal prete Tanzi a sentir la contessina
Clelia tradurre l'orazione di Cicerone Pro Archia e il Sogno
di Scipione, e recitar a memoria uno squarcio di Lucrezio
De rerum natura. Non istupisca il lettore: chè Voltaire
mandava già il figurino da Parigi; e il professor Branda,
lodata al conte padre la contessina miracolosa, consigliò
l'abate Tanzi ad insegnarle anche la lingua greca... e la lingua
greca fu imparata; poi quand'ella ebbe sedici anni, apprese
matematica insieme col giovane Paolo Frisi, quello che fu in seguito
autore del trattato De gravitate universali corporum, e
in questa scienza, ajutata da un naturale ingegno e sollecitata da
quelle prove di distinzione onde si vedeva circondata ogni qual volta
trovavasi colle altre fanciulle patrizie sue coetanee, fece tali
progressi, che fu introdotta persino all'intima confidenza di Urania;
di modo che nella notte a cui ci troviamo, quantunque la contessa
pensasse assai più di quello che leggesse, pure si teneva sul
tavoliere di lapislazzulo, insieme coll'opera di Boscovich De
maculis solaribus, e all'altra d'Eulero Novæ tabulæ
astronomicæ, il famoso trattato sulla processione degli
equinozj, che d'Alembert aveva pubblicato due anni prima; del qual
d'Alembert ella sapeva tener dietro, senza scontorcersi, alle
dimostrazioni; tantochè avrebbe potuto ripetere ad un consesso
di dotti, come gli assi dell'ellisse descritta dal polo dell'equatore
sieno fra loro come i coseni dell'obliquità dell'eclittica ed
i coseni del doppio di questa obliquità. Ma i coseni
dell'obliquità dell'eclittica non bastavano a render felice
una bella donna di venticinque anni. Sette intanto ne eran corsi da
che era stata fatta sposa all'ex colonnello conte V..., senza
mai averlo veduto prima, senza avere dell'amore e delle questioni
aderenti, altre idee che quelle che sono depositate ne' classici
latini; idee che non poterono avere uno sviluppo intero, compresse
come vennero dall'algebra e dalla geometria, due scienze più
infeste della brina ai primi germogli dell'affetto. Sposò
dunque l'ex colonnello che aveva quattordici anni più di
lei. Egli vantava un gran casato, una grande ricchezza, e brillavagli
inoltre sull'uniforme di parata un segno che attestava il suo valor
militare. Era serio, era dignitoso, parlava poco, ma dalle poche
parole trapelava la stima profonda che aveva della giovinetta
prodigiosa. Ond'ella, quando i rigidi parenti proposero il
matrimonio, consentì e provò anche qualche sussulto che
non veniva nè dalla geometria nè dall'algebra, ma fu un
sussulto di brevissima durata, e la scienza dovette colmare i vuoti
lasciati dall'affetto vero. D'altra parte è a tener
conto d'una cosa. Non tutte le creature umane raggiungono la
maturanza un punto medesimo. L'abitudine agli studi severi, quel non
riposarsi mai su pensieri e desiderj erotici, aveva ritardato il
completo sviluppo della contessa. Fu necessario il tempo, più
che il sole di un'anima appassionata, a togliere l'acerbità a
quel frutto. La giovane contessa era alta, era ben fatta, era bella
parliamo d'allora che andò a maritarsi ma le mancava
quell'arcana virtù della donna, che non si sa da chi e da che,
e come e quando venga provocata.
Noi
non possiamo dire precisamente in qual periodo della vita della
contessa Clelia abbia incominciato codesta misteriosa virtù,
ma pare che sia stato tra l'anno ventiquattresimo e il
ventesimoquinto della sua età; nessuno però s'accorse
di questo, perchè nessuno poteva sospettare che fosse una
virtù l'eccessiva acerbità ond'ella esprimevasi
parlando sia cogli uomini sia colle donne. Un fatto solo notarono
tutti, e uomini e donne: ch'ella era cresciuta in beltà. S'era
fatta più maestosa nel volto, s'era arrotondata ne' contorni
del corpo, soltanto negli occhi era diventata più seria. Del
resto, chi mai non potesse capacitarsi del come una donna possa
essere più bella a venticinque anni che a diciotto, sappia che
la contessa Clelia non aveva mai avuto figli; e che i parti e il
latte guastano un bel corpo di donna più che i classici latini
e i trattati d'astronomia. Quantunque però crescesse di
maestosa bellezza e di attraenti rotondità, non per questo
nessuno presumeva che la gioventù galante le si facesse
dappresso. Ella non era che ammirata quando non era temuta, ed era
temuta quando non era odiata; chè vi sono tali beltà a
questo mondo, sia maschili sia femminili, che raccolgono tanto meno
quanto più hanno di perfezione nel loro aspetto. Sono
conquiste considerate al di sopra di ogni forza volgare, epperò
lasciate in disparte come imprese disperate; donne condannate tutta
la vita a desiderare e ad essere desiderate, a tormentare e ad essere
tormentate per finire i vecchi anni tra le reminiscenze di una gloria
vanitosa senza felicità. Nessuno adunque dei bei giovani di
Milano osava avvicinarsi alla contessa, quantunque taluno de' più
audaci sì fosse azzardato persino a dire all'amico: Che bella
donna!! Nè è da credere che facesse paura il grave e
superbissimo suo marito ex colonnello, tutt'altro: la paura non
veniva che dalla maestà soverchia della bellezza di lei, e da
quelle parole piene di sapienza riposta ond'ella faceva ammutolire
tutti quelli che le si avvicinavano, e dal sospetto ch'ella fosse più
sapiente ancora di quello ch'ell'era. Ma come potè adunque un
tenore?... Noi stavamo in aspettazione di questa domanda, però
la soluzione del problema eccola qui.
Nel
famoso 18 brumajo, Bonaparte, che pure era passato imperterrito
attraverso alla flottiglia inglese, fidente nel proprio destino, per
giungere in tempo a Parigi onde recarsi in mano le redini di tutta la
cosa pubblica; quando si trattò di abbattere il Consiglio de'
cinquecento, si smarrì e parve minor di sè stesso, e
nessuno de' suoi coraggiosi fautori, nemmeno il fratello Luciano,
avrebbe osato disperdere quel formidabile Consiglio. Chi seppe
far tanto? Colui che aveva men testa di tutti, colui che ripeteva il
suo coraggio dalla spavalderia militaresca, e affrontava il pericolo
per non saperne misurar le conseguenze. Fu Murat, che, alla testa de'
suoi granatieri, a bajonetta in canna, entrò nel Consiglio, e
i membri dovettero discendere dalle finestre... con che le sorti di
Napoleone furon fermate. I grandi fatti giovano a spiegare i piccoli,
e viceversa, però la contessa Clelia che riusciva a' cavalieri
milanesi più formidabile del Consiglio dei cinquecento, non
fece nessuna paura al tenore Amorevoli, il quale anzi s'incalorì
delle difficoltà, e fatto baldanzoso dalla lunga lista de'
proprj amori fortunati e reso intraprendente dalle sopracciglia folte
della contessa che gli richiamavano le sue belle compatriotte di
Trastevere (perchè il tenore Amorevoli era nato a Roma), fece
quello che fece poi Murat, mezzo secolo dopo, col Consiglio dei
cinquecento.
Nelle
serate musicali che si tenevano o nell'una o nell'altra delle case
patrizie di Milano, Amorevoli era pregato, supplicato a intervenire,
ad imbalsamar tutti quanti col suo dolcissimo canto. La contessa
Clelia, come di prammatica, era sempre intervenuta a quelle serate, e
ad onta dell'algebra che le faceva usbergo al cuore, si sentì
penetrare da quella voce, nè fu la sola a subire quel fascino.
Tutte le gentildonne leggiadre che si trovavan là a bever
l'onda soave, avrebber battuto moneta falsa per quel fatal Romano, il
quale le saltò via tutte e s'accostò alla sola contessa
Clelia. Amorevoli non era uomo di sterminato ingegno
nessuno durerà fatica a crederlo; non era troppo forte
in letteratura nemmen questo è improbabile; anzi
bisognava si facesse ajutare per afferrar bene il concetto dei
paragrafi de' contratti teatrali, e più ancora per comprendere
alcune strofe dei libretti di Metastasio; ma l'arte di far all'amore
è appunto un'arte, e non una scienza; è in essa che
l'istinto va innanzi a qualunque studio, e l'istinto conosce le vie
segrete e le percorre da padrone; d'altra parte Amorevoli non mancava
d'una certa drittura naturale, e quando parlava, parlava bene e con
quell'accento là dei romaneschi...; lingua toscana in bocca
romana... il proverbio è antico, e i proverbj sono
la sapienza del genere umano... e la verità di quel proverbio
riuscì fatale alla contessa... Infelice!!
Perfino
il gobbo Tacchinardi, gobbo e vecchio, fece impazzir qualche donna
col veleno imbalsamato della sua voce: pensi or dunque ognuno che
brecce doveva aprire Amorevoli, giovine di ventisei anni, bello,
elegante, con certi occhi in cui la penetrazione pareva nuotare nella
voluttà, con una voce che, anche allora solo che parlava, era
già musica, e con quegli accorgimenti del serpe flessuoso che
avvolge e stringe pur continuando a dispiegare la pompa della sua
variopinta veste. Così la scienza fu investita dall'ignoranza,
e la matematica fu messa a giacere dalla melodia. Il lettore
non può immaginarsi il dolore che noi ne proviamo.
V
Ma
tornando ai fatti, in quella notte in cui la contessa vegliava, non
per amore della scienza, siccome pare, ma per amore di qualche altro
oggetto, e in cui Amorevoli stava seduto su d'un sasso cui faceano
spalliera foltissimi carpini, che a lui servivano e di paravento e di
paraluna nel tempo stesso, doveva succedere uno di quei contrattempi
che e si direbbero espressamente concertati dalla perfida
malizia della fortuna, uno di que' contrattempi pe' quali si è
convenuto di dire che talvolta il vero non è
verosimile. Non era la prima volta che Amorevoli, saltando pel
muro di cinta, recavasi nel giardino di casa V... dopo mezzanotte,
ovvero sia dopo finito il teatro; e non era la prima volta che la
contessa, quando batteva un'ora all'orologio dell'Ospedale Maggiore,
discendeva nella biblioteca situata al piano terreno del palazzo, la
quale, per un grande finestrone arcuato, rispondeva al giardino;
finestrone difeso da un'inferriata a modo di cancello, tutta messa ad
oro e foggiata a ricchissimi rabeschi. La contessa, stando di
dentro, sentiva le proteste d'amore dell'infuocato Amorevoli, il
quale protestava inoltre contro quel cancello che non aveva mai
voluto essere aperto, e che serviva alla contessa e di parlatorio e
di fortino. Come, del resto, e quando donna Clelia e il tenore
della stagione di carnevale siensi dati l'intesa per trovarsi a que'
notturni abboccamenti è quello che non si sa. Allorchè
il destino iniquo ha stabilito che succeda quello che non dovrebbe
mai succedere, offre egli stesso le opportunità, consiglia i
mezzi, tende le reti, suggerisce le parole, è il Figaro più
scaltro e più disinvolto e più briccone di tutti, tra
due individui che cogli occhi si son detti quello a cui non
basterebbero cento sonetti del Petrarca. Quale adunque sia
stato il momento e quale il modo con cui que' due concertarono la
maniera per trovarsi insieme, non è ciò che più
importa di sapere. Ma il fatto sta che allorchè in
quella notte di febbrajo suonò quella tal ora, la contessa
discese, e Amorevoli si alzò dal sedile di sasso e si tolse
d'intorno al volto il ferrajuolo, e nell'esaltazione affrontò
anche il chiaro di luna quando sentì aprir la vetriera; e così
in meno d'un lampo fu là, e nella sua, sebbene con renitenza
ineffabile, stette la morbida mano di donna Clelia; di donna Clelia,
che, ignara, di tutto, fuorchè di quello che è men
necessario alla donna, e versando allora come attonita in un mondo di
sensazioni non mai esplorato prima da lei, riusciva ingenua e quasi
stolidamente inesperta, come una fanciulla quattordicenne, la quale,
sebben difesa dal senso arcano del pudore, se non è vegliata
da esperti custodi, concede improvvida le sue fragranze al primo
vento protervo che le soffi intorno. Quella stima eccessiva di
sè stessa che aveale generato lo studio e la scienza,
quell'orgoglio in cui era venuta, forse perchè la sua
intelligenza, sviluppata da infinite cure, non era però per
natura forte abbastanza da sostenere il peso della dottrina, quella
acerbezza dei modi e del linguaggio, che era l'espressione e dell'uno
e dell'altra, erano scomparse. Ma ciò non solo con Amorevoli
(sarebbe troppo facile a comprendersi), ma con tutti, ma colle donne
di sua conoscenza, ma co' gentiluomini, ma con quelli che avea sempre
trattati con dispregio e a cui per contraccambio ella era riuscita
così disgustosa.
Chi
volesse dar la spiegazione dell'acredine ond'era involuta l'indole di
quella gentildonna nel tempo in cui non si pasceva che d'orgoglio
scientifico, potrebbe forse assegnarne la cagione a questo, ch'ella,
sebbene in confuso e senza nemmeno averne la coscienza, sentiva
fieramente la mancanza di uno di quegli affetti che bastano a colmare
un'esistenza; noi per esempio portiamo l'opinione che se essa, in
quei sette anni di matrimonio, avesse avuti una mezza dozzina di
figlioli, il corpo sarebbesi tanto quanto sciupato, ma l'animo
sarebbesi nudrito dei più cari conforti dell'esistenza.
Fu perciò una vera disgrazia, ch'ella per sentire com'è
dolce la vita quando è dolce, abbia dovuto porre il labbro
sugli orli imbalsamati di un vaso che doveva poi esser pieno
d'assenzio. La contessa e Amorevoli stavano da qualche tempo
infervorati in un dialogo, che noi non riporteremo per quella ragione
che i dialoghi di due amanti, come le poesie improvvisate, per
conservare il loro prestigio, hanno bisogno di non essere trascritti.
Possiamo però assicurare che, chi fosse stato presente a
quella notturna confabulazione senza conoscere gl'interlocutori,
avrebbe detto che l'ingegno e l'acutezza e l'amabile scaltrezza e
l'eloquenza appartenevan in proprio a colui che si lasciava allegare
i denti persin dalle strofe di Metastasio: e che invece la povertà
delle idee, la mancanza di slancio, la parola impacciata, la
timidezza puerile erano di colei che pure aveva tanta confidenza con
Eulero e con d'Alembert. E purtroppo l'eloquenza del tenore Amorevoli
era come un ferro tagliente che mira a squagliare una corazza, mentre
la timidezza e il turbamento di donna Clelia rendevano quel
combattimento oltre ogni dire ineguale. Il cancello dorato
della biblioteca stava fra loro due come una guardia di confine, ma
siccome la contessa ne aveva la chiave e dipendeva dalla sua volontà
l'aprirlo, così non potremmo giurare quel che avrebbe fatto la
sua timidezza se dal desiderio fosse stata convertita in coraggio.
In una parola, è probabile che sia stata necessaria una
disgrazia per soccorrere la virtù. Amorevoli, colla sua
voce soave e colla sua facondia insidiatrice, tentava di metterla
all'ultime strette, con una argomentazione serrata, in cui i sofismi
comparivano e scomparivano trasportati dalla velocità delle
parole, l'opposizione sempre più lenta e fiacca
dell'avversario... quando di repente... s'udirono a non molta
distanza più voci che gridavano all'accorr'uomo, al
dàgli dàgli. Davvero che se quello che
stiamo per dire non avesse altro documento che la relazione orale e
solitaria del nonagenario da cui raccogliemmo tanto cumulo di fatti,
noi non avremmo il coraggio di esporre un avvenimento, che, siccome
abbiam detto, non parrebbe verosimile. Ma una difesa scritta nel
secolo passato, che reca la firma: I. C. C. Benedictus Comes
Aresius carceratorum protector... e una sentenza del Senato con
motivazioni profonde, ci fa vedere che quanto è realmente
avvenuto, non può essere rivocato in dubbio. Però
andiamo avanti coraggiosamente, anche perchè, d'altra parte,
se il fatto è strano, riuscì poi fecondo di conseguenze
gravissime.
VI
Amorevoli,
per un movimento troppo spontaneo, balzò indietro tre passi a
quel dàgli dàgli, risuonato
improvvisamente nel silenzio della notte, e s'inferrajuolò
sino al viso per un altro movimento spontaneo; nè egli aveva
finito di coprirsi la faccia movendo, senza proposito determinato, in
ritirata, che la contessa era già uscita, anzi fuggita dalla
biblioteca, per fermarsi affannata sui gradini della scala che
metteva alla sua stanza da letto, comprimendosi colla sinistra il
cuore che parea volesse scoppiarle. Chiunque attende a far cosa che,
se potesse, vorrebbe tener nascosta anche a sè medesimo, trema
dello stormire non aspettato d'una foglia; figuriamoci poi d'una
voce, anzi di più voci che squarcino l'aria intera in un
momento che tutto per consueto dev'essere silenzioso, e che accusino
la piena veglia di molte persone che avrebbero l'obbligo di dormire
profondamente. Amorevoli, sgomentato, s'accostava al muro di
cinta e già stava per tentare il varco; chè le voci,
anzichè cessare, facevansi più vicine, e con esse
udivasi un rumore diffuso, come di molte pedate che battessero
l'ortaglia. Ma un uomo, a pochi passi da lui, in quel punto stesso,
colla velocità non avvertibile di un lepre, coll'elasticità
di un saltatore di corda, balzò oltre il muricciuolo; e
Amorevoli, trattenuto da quell'improvvisa comparsa, non ebbe tempo di
raccapezzar le idee, che si trovò d'improvviso fra molti
uomini che gli furono sopra afferrandolo pel mantello e gridando
Ah... ci sei... è qui l'abbiam côlto
non ci scappa più; e in quella sorvenivano
altri con lumi e con lampioni, stringendosi tutti d'intorno a lui,
che, rischiarato da quelle fiamme messegli al viso per riconoscerlo,
apparve in tutto lo splendore del suo ricchissimo vestito, con gran
meraviglia di coloro che gli si serravano a' fianchi, i quali tosto
per la magica virtù di quella serica marsina e di quelle trine
sfoggiate e delle catenelle e degli anelli, mutarono il ci
sei... nel chi siete e nel chi è
lei? Ci fu un istante in cui nelle teste di quanti eran
là corse un pensier solo, il pensiero che doveva essere un
altro l'oggetto delle loro ricerche; e questo pensiero apparve così
chiaro all'esterno, che un di loro, il più vecchio di tutti,
uscì con asprissima voce a ricacciarlo indietro:
Ma cosa mai vi fa stupire, balordi, che state lì a
contemplarlo come se fosse un'eccellenza? Che cosa vi credete?... È
appunto questa catena e questa seta e questo bel gilè che ci
voleva per conoscere il selvatico... È l'uomo senz'altro
costui; vi sono i ladri cenciosi ed i ladri scialosi. Tutto dipende
dalla qualità del furto.
In
questa comparivano lumi a molte finestre del palazzo V... e lo stesso
conte ex colonnello s'affacciò, degnandosi di parlare a
quella gente, mentre i domestici erano già chiamati dal
rumore.
Che cosa è successo?
Eccellenza, ci perdoni, fu côlto questo signore, vogliamo dire
quest'uomo, nella stanza dell'illustrissimo signor marchese F...
morto stamattina, come V. S. illustrissima sa bene...
No, che non fu côlto nella stanza..., usciva un altro ad
interrompere...
Fuggiva quando noi ci siamo accorti del rumore.
Bisogna dir le cose giuste.
Perdoni, illustrissimo signor conte... ma noi siamo accorsi quando
l'uomo fuggiva....
Ma no, non è così...
Illustrissimo signor conte, dee sapere...
Ma
al signor conte illustrissimo scappò la pazienza, e disse al
cameriere, già disceso in giardino:
Vieni su in camera, e conduci con te uno di questi uomini.
Mentre
il cameriere obbediva, gridava uno dalla siepe che divideva il
giardino di casa V.... dal giardino del marchese defunto:
Qua tutti, presto.... che è venuto il signor tenente del
Pretorio.
Amorevoli
non aveva mai parlato; nella sua testa era un tal cozzo di pensieri,
che gli pareva di sognare, e solo volse lo sguardo alla finestra
della stanza della contessa, quando vide uscir molti lumi dalle
finestre del palazzo; poi ripiegò il capo come sdegnoso di
vedere e di esser veduto. Bensì, quando sentì nominare
l'ufficiale del Pretorio, provò qualche cosa entro di sè
che assomigliava ad un sollievo. Ma fu di breve durata; chè un
pensiero crudo come la fitta di un coltello gli attraversò la
mente.... il pensiero che l'unica giustificazione che gli rimaneva
per togliersi da quel tristo impiccio non era adoperabile per nessun
modo. Egli aveva veduto fuggire un uomo; comprendeva che trattavasi
d'un qualche delitto, sebbene non sapesse immaginarsi quale; ma nel
tempo stesso pensava che si poteva fracassargli le ossa colla corda e
il cavalletto, ma non strappargli di bocca il nome della contessa. Vi
sono uomini, tutt'altro che esemplari, più donne che uomini se
si bada alla mollezza del costume, alle abitudini da cui son tratti
da condizioni speciali; ma che, in certe contingenze della vita, si
son fatta una legge morale, la quale nemmen sanno dove l'abbiano
attinta, ma che per loro è incontrovertibile. Una di queste
leggi morali, a cui Amorevoli obbediva con religione di scrupolo, con
quella religione onde taluni sono schiavi dei pregiudizj, i quali
sono i padroni più despoti dell'uomo, era quella di non
compromettere mai la donna colla quale aveva avuto od aveva tresche
d'amore. Potea essere debole in tutto; in questo era un eroe; non lo
sgomentava per nulla l'idea della colpa; ma lo facea fremere soltanto
l'idea che altri potesse mettere in piazza il nome di una donna
amoreggiata. Quando dunque gli si affacciò alla mente il
pensiero, che a palesare il motivo della sua venuta in quel giardino,
tutto si potea sventare, lo respinse come una abbominevole
tentazione.
Avete sentito? fu detto allora ad Amorevoli, venite con
noi; suvvia presto, che cosa state pensando?
Badate ai fatti vostri, e statemi un tantino discosti... so far la
strada da me, senza essere sorretto. Spicciamoci.
Amorevoli
pronunciò queste parole in modo, che a quella gente passò
la voglia di dir altro, e si avviarono.
Per
una callaja che era aperta nella siepe di divisione entrarono nel
giardino del marchese F... Sotto l'atrio del palazzo li attendeva il
tenente del Pretorio con un barigello, un guardiano e un fante, come
allora venivano appellati.
Il
tenente del Pretorio aveva sentita la storia particolareggiata
dell'avvenuto da chi era stato a chiamarlo. Però, quando vide
Amorevoli: È costui? disse.
Sì, signore.
No soggiunse Amorevoli imperterrito. L'uomo che cercate l'ho
visto io a fuggire e a saltare il muro di cinta. Tant'è vero
che questi uomini mi vennero addosso quand'io stavo di piè
fermo.
Senz'essere
avvezzo agli interrogatorj come l'uom del Pretorio, a chicchessia
poteva riuscir ovvia la dimanda che gli fece infatti il tenente:
Ma voi che cosa stavate facendo là?
Quest'è un altr'affare, e il signor tenente ha ragione di
chieder questo; ma io risponderò in Pretorio, se vossignoria
me lo permette. Intanto è bene che vossignoria sappia ch'io
sono il tenore Amorevoli, al servizio di S. M. il Re di Spagna, e che
oggi ho l'onore di cantare al Regio Ducal teatro di Corte.
A'
tempi di Tramesani, di Crivelli, di Rubini, in qualunque, trambusto
costoro si fossero trovati, bastava che si nominassero per essere
tosto riconosciuti; e lo stesso accadde al tenore Amorevoli, che vide
spuntare sulla faccia dell'ufficiale un sorriso di rispetto e di
bonomia.
Mi rincresce, signore, questo contrattempo, ma...
Comanda il signor tenente interruppe allora il barigello
che si salga nella camera che fu aperta, o da questo signore o da chi
è fuggito, e là, alla presenza di tutta questa gente,
si stenda tosto la deposizione del fatto?
Benissimo rispose l'ufficiale che s'avviò, pregando il
tenore Amorevoli a seguirlo. Tutti in silenzio salirono lo scalone,
sfilarono per due o tre anticamere, entrarono in un salotto dove era
una gran tavola, sulla quale stavan fiaschi e bottiglie, tazze e
bicchieri, che attestavano come quella gente, che avea vegliato a
custodia della salma patrizia, avesse passato la notte a tracannare
il vino della cantina del quondam marchese. Da questo salotto
passarono nella camera in cui giaceva sul letto, avvolto in un
lenzuolo, il corpo del defunto. Tutti dovettero entrar là,
compreso Amorevoli che volea ritirarsi.
No, signore; si compiaccia di rimanere, disse il barigello, più
risoluto e fiero e men musicale assai del tenente del Pretorio.
Quello è dunque l'uscio che fu scassinato?
Quello, sì signore risposero tutti ad una voce; e il
tenente e il barigello s'affacciarono all'uscio, e videro tra molta
suppellettile, un rolò aperto.
È questa la camera?
Questa.
E
il tenente del Pretorio cogli altri retrocesse nel salotto, e là,
fatte da un lato le bottiglie e le tazze, stese la seguente succinta
relazione del fatto, che è quella che noi abbiam trovato
allegata agli atti del processo, il quale diede a far tanto, in prima
al tribunale criminale, di poi per tanti anni, e iteratamente e a
lunghi intervalli, al foro civile.
«Oggi,
giorno 11 febbrajo dell'anno 1750, alle ore otto italiane, chiamati
dagli uomini che vegliavano in casa F.... per custodire il cadavere
del marchese A. F., morto la mattina del 10 corrente, abbiamo trovato
aperto l'uscio della camera attigua a quella dove giaceva il
cadavere, e di cui la chiave dal sullodato marchese F., per quanto
asserisce un domestico della casa, qui presente, e per quanto è
da verificare, venne consegnata un'ora prima della sua morte al molto
reverendo preposto di S. Nazaro. Al qual preposto, per
asserzione dello stesso domestico, e sempre come sarà a
verificare, il marchese F... disse aver messe carte importanti nel
rolò della sua camera da studio, il qual rolò
fu parimenti da noi trovato aperto. Raccolte in seguito le
deposizioni concordi delle otto persone qui presenti, tre domestici
della casa, e cinque uomini di fuori, riferiamo come costoro, colpiti
da un rumore in un momento che cessavano di parlare, e spaventati
perchè veniva dalla stanza del morto, accorsero
cionulladimeno, e videro in quella un uomo che usciva per l'uscio che
stava a dritta del capezzale del letto. Riferiamo inoltre come
tutti si rimanessero prima spaventati, temendo non fosse il morto
risorto, ma che poi fattisi animo, inseguirono l'uomo che era uscito,
il quale pareva assai pratico della casa; perchè passando per
gl'interni corridoj, giunse a un mezzanino, e di là saltò
nel giardino... Che due lo inseguirono saltando pure di là....
ma che, smarritolo al salto della siepe... trovarono poi nel giardino
di casa V... e presso il muro di cinta, una persona col mantello, che
ora, alla nostra presenza, dice di essere il signor Angelo Amorevoli,
cantante di camera di S. M. il Re di Spagna, e primo tenore
nell'attuale stagione al Regio Ducale teatro di Corte; il quale però
protesta di non essere lui altrimenti l'uomo fuggito, ed aggiunge di
aver visto invece egli stesso a fuggire uno.
«F. Baldini, tenente del Pretorio. F. Rò,
barigello.
G. Cialdella, guardiano».
Stesa
questa relazione, il tenente si alzò e disse agli uomini di
casa F...: Voi tutti domani sarete chiamati al Pretorio, e
nessuno esca dalla città sotto pena d'arresto. In quanto a
voi, signor Amorevoli, quando pure sia vero quanto asserite, bisogna
che veniate a passare una notte al Pretorio... Domani... si farà
quel che si farà...
Amorevoli
non disse una parola.
Quando
tutti furono al portone del palazzo, trovarono una frotta di gente
che, sebbene ad ora tarda, dalle osterie vicine, era accorsa al
rumore e alla vista delle guardie. Tra quella frotta c'era
Zampino, il servo del palco scenico, che riconobbe Amorevoli, ed ebbe
il coraggio di gridare:
Che cos'è? che cos'è stato? che diavolo è
successo? Ma signor Amorevoli.... Ma loro signori non sanno che è
il primo tenore del teatro Ducale? È uno sbaglio, non può
essere che uno sbaglio.
Taci, Zampino, e va' a casa gli disse Amorevoli.
Ma
il tenente gli si rivolse, e sentito chi era desso:
Giacchè sei qui, soggiunse, la tua presenza può essere
opportuna... e vieni con noi anche tu.
Dove?
Al Pretorio.
In prigione?
Sta' queto, Zampino.
Ma che diamine ha fatto, signor Amorevoli, in quel poco tempo ch'io
stava mangiando il mio boccone all'osteria!... e quasi piangendo lo
seguì.
Ed
in breve furon tutti al palazzo del Pretorio.
VII
Il
giorno dopo, a quell'ora in cui si può giurare che tutto il
mondo è svegliato, ad eccezione degli ammalati che hanno preso
la decozione di morfina, dei giuocatori che nella notte hanno voluto
ad ogni costo inseguir la fortuna che li fuggiva, e di altre cento
eccezioni; in quell'ora, che a buoni conti noi la poniamo due o tre
quarti d'ora dopo mezzodì, chi si fosse preso il diletto di
percorrere la città di Milano in cabriolet, facendo sosta alle
botteghe di cioccolatteria e di bottiglieria, e a
quelle per la vendita del tabacco; in piazza del Duomo, in pescheria,
in piazza dei Mercanti; o fermandosi presso i libraj Agnelli e Motta
e Bianchi e Galeazzi, in Santa Margherita, dove facean cerchio
maestri, accademici, letterati, preti, giureconsulti; o presso gli
speziali Rapazzini nei Tre Re, e Archinti in piazza del Duomo, e
Omodei a porta Romana, dove s'adunavano i medici e i chirurghi più
riputati della città; o nelle sale degli Accademici
Trasformati in casa Imbonati, sulla piazza di San Fedele, o nello
studio di pittura del Londonio, giovane allora di 22 anni, che già
raccoglieva d'intorno a sè i capi più strani e pazzi e
avventati della città; o sotto il Coperchio de' Figini nelle
botteghe di mode, frequentate dalle più eleganti dame; o nel
salon di qualche maravigliosa, per esempio, della
contessa Marliani, la regina dello spirito e della maldicenza; o in
quello della contessa Clelia Borromeo del Grillo, calamita dei
numerati patrizj dediti agli studj, e degli abati poetanti e dei
maestri di spinetta; ovvero nella bottega del parrucchiere Blanchy,
nato Giuseppe Bianchi in Cordusio, ma che avea cangiato nome dopo il
suo viaggio a Parigi, donde avea importato nella nostra bella patria,
per la prima volta quel tal puff a capitello che era lo spasimo delle
nostre dame; nella qual bottega non sdegnavano di soffermarsi i più
sfoggiati cicisbei o per farsi raccomodare un riccio, o rimettere un
neo caduto, o rimpastare un po' di biacca e belletto...; se qualcuno
adunque si fosse preso il diletto di scorrazzare in lungo e in largo
per la città a far raccolta dei discorsi che si tenevano in
quei tanti centri di buontempo, non avrebbe sentito che un discorso
solo, come se fosse una parola d'ordine passata dal quartier generale
ai soldati del campo; non avrebbe sentito che un nome solo, quello
del tenore Amorevoli; e del suo arresto e del sospetto delle carte
trafugate, e del prevosto di S. Nazaro. Codesto tema poi,
generale e costante, si sparpagliava in mille ramificazioni; chi
narrava la vita del tenore; chi quella del defunto marchese; chi si
fermava al giardino di casa V..., chi voleva perder la testa a
indovinare il motivo per cui il tenore avea potuto trovarsi là;
chi passava in rivista tutte le cameriere e le fantesche di casa
V..., perchè i tenori, diceva un tale, hanno pur troppo de'
gusti plebei; chi tutte le donne del vicinato che per caso avessero
qualche poggiolo o finestra o mezzano a cui si potesse ascendere dal
giardino; giacchè nessuno, letteralmente nessuno, nemmeno per
un istante fuggitivo, potè credere che Amorevoli fosse l'uomo
fuggito dalla casa F... e avesse dovuto aver interesse a entrar nello
studio del defunto marchese, chè in ciò non v'era
probabilità di sorta, e conveniva esser pazzi a supporlo.
Nella
cioccolatteria e caffetteria del Greco, in piazza del Duomo, il quale
cento anni fa era il caffè arcavolo degli odierni,
dell'Europa, del Cova, del Martini, dove
traeva tutta la gioventù più galante e più pazza
e più sfaccendata di Milano, verso le ore due dopo mezzodì,
sembrava quasi che vi si tenesse un'adunanza solenne. Mezza dozzina
di giovani sedevano là intorno ad un gran braciere; uno teneva
la paletta, e pareva colui che, per diritto di eloquenza,
desse l'avviamento a' discorsi; intorno a quella mezza dozzina, che
potea passare per il direttorio, stavan raccolte da trenta o quaranta
persone, le quali or crescevano ed or scemavano, a seconda di chi
andava e veniva; l'attenzione però era profonda.
Voi dite così parlava quel della paletta, che è
improbabile che il tenore Amorevoli siasi introdotto nella stanza del
morto per rubar carte importanti; e chi non lo dice e non lo crede?
bisognerebbe essere un gran mellone solo a sospettarlo. Ma, cari
miei, mi rincresce a dirvelo, altro è che una cosa sia
inverosimile, altro è che non possa essere possibile.
Chi sa tener dietro alla possibilità... essa è un mare
senza fine e senza fondo... e la legge non può pescare in quel
mare, e i giudici del Pretorio e quelli del tribunale e il collegio
dei giureconsulti potranno tenersi le loro convinzioni in petto, e
basta lì; ma se non vien fuori l'uomo che davvero ha fatto il
colpo, chi si trovò al suo posto, suo danno.
Ma che interesse volete voi che potesse avere il tenore?
Ma chi parla ora dell'interesse? cosa c'entra l'interesse? Se
qualcuno avesse tirato una schioppettata al tenore, perchè il
tenore per combinazione venne a trovarsi al posto del birbone
fuggito, che cosa valeva il dire egli era innocente? Lo
so anch'io. Ma fu ucciso perchè il maledetto accidente ha
voluto così... Or fate conto che tal sia della legge: essa
tira su chi si trova in mal punto, e a chi è toccata è
toccata.
Basterebbe poi, a mio rimesso parere, che il tenore dicesse il motivo
per cui trovavasi là...
Ora parlate bene; a tal patto la cosa cambia di aspetto...
Un motivo qualunque...
Un motivo qualunque no... la giustizia è inesorabile; essa è
un ragioniere che tien conto anche dell'ultimo quattrino, e se la
somma non riesce, il bilancio non si può fare. Ci
vuole, caro mio, un motivo che possa essere provato come due e due
quattro; e, a quel che ho sentito da uno scrivano del Pretorio...
sapete cos'ha risposto il tenore al primo interrogatorio del giudice?
Che cosa ha risposto?
Una assurdissima bestialità. Ma già si sa quel che può
uscire dalla bocca di un tenore...; ha risposto, se lo scrivano non
ha detto una sciocchezza, perchè anche questi scrivani.... ha
risposto che nessuno poteva nè può impedirgli delle
bizzarrie innocenti; che però gli era venuta voglia,
passeggiando in quelle parti là dopo il teatro, e vedendo quel
bel giardino e quel gran palazzo, e giacchè faceva anche il
più bel chiaro di luna che mai, gli era venuta, come dicevo,
la voglia di saltar dentro a far una passeggiata...
E che cos'ha risposto il giudice?
Questo non si sa. Ma se il giudice è quell'uomo acuto che
tutti conosciamo, gli dee aver detto: Siete stato disgraziato
a passeggiare in giardino, in un momento che si andava in cerca di un
ladro... Ora il ladro siete voi, se non avete qualcosa di meglio da
dire al giudice.
Ebbene, sarà come voi dite... osservava un altro, e ad uscire
d'impiccio dovrà pensarci il tenore; ma ora vorrei sciogliere
l'altro gruppo del nodo. Che diamine ci poteva essere di così
importante tra le carte del marchese?... se ognuno sa, almeno lo si
diceva da gran tempo, che l'erede universale di tutte le sue sostanze
era suo fratello, il conte Lodovico?...
Io non so nulla nè del marchese nè del conte, eccetto
che il primo fu un gran libertino a' suoi giovani anni, e il secondo
è croce, se il primo fu lettera. Il conte non è
niente di più che un uomo posato, misurato, tirato, che sta
con quattro cavalli mentre potrebbe averne dodici, perchè s'è
fitto in capo che suo figlio, il contino Alberico, che ha tutta
l'aria di voler assomigliare allo zio, possa mettere col tempo la
prima casa in Milano, e metter sotto casa Litta e casa Borromea; che
bel matto!...
Jeri è partito per la campagna.
Tanto per nascondere nella solitudine campestre la gioja che gli deve
esser derivata dal dolore provato in città sentendo i tocchi
dell'agonia suonati per il caro fratello, che Dio l'abbia in
gloria...
E
costui avrebbe continuato per un pezzo a tagliare i panni e al vivo e
al morto; chè era di quelli alla cui parlantina velocissima
conviene di tanto in tanto metter la scarpa, se può passar
l'espressione, per dar qualche riposo agli orecchi degli ascoltatori
e lena ai volonterosi di contraddire; ma per fortuna s'aprì
l'invetriata della bottega, e comparve un compagnone della brigata,
il quale a quei trenta o quaranta che voltarono le faccie a lui, fece
un paio d'occhi pieni di significazione, e gridò:
Amici, una grande scoperta!!
Che? Cos'è stato?
Chi di voi sa dove alloggia la Gaudenzi?
Nella contrada dei Moroni, chi non lo sa? l'abbiamo accompagnata a
casa tante volte dopo il teatro fra i battimani e gli evviva...
Questo va bene. Ma se nessuno sa che la finestra della sua cameretta,
dove riposa il suo bel corpo, guarda nel giardino vicino al giardino
dove fu colto Amorevoli, lo so io e l'ho scoperto io... e lo dico a
voi tutti.
Quando
a Newton nel pomo caduto balenò l'idea della gravitazione
universale, quando Galileo nel Duomo di Pisa fu colpito
dall'oscillazione della lampada, quando Volta nelle piastrelle di
zinco alternate al cartone inzuppato d'acqua salata afferrò il
prodigio delle perpetue correnti elettriche, quando... tutti coloro,
in una parola, che fecero qualche gran scoperta, non provarono
soddisfazione maggiore di quella a cui si esaltarono que' trenta o
quaranta al fiat lux del nome della Gaudenzi e della finestra
e del giardino...
Or ecco sciolto il maledetto enigma.
La è chiara come il sole.
Non ci può esser dubbio.
Ma tu, come hai fatto a sapere?
Vi basti che l'ho saputo... e se non mi credete, andate a verificare
voi stessi.
Però bisogna confessare che il tenore è un bravo
giovane...
Ma certo che è un bravo giovane.
Mi rincresce per la Gaudenzi che ho sempre tenuta per la fenice del
suo ceto... Ma vada; allorchè da una scappata si sviluppa una
bell'azione... è sempre una cosa che fa piacere... Bravo
Amorevoli! così va fatto. Già, quando nel canto uno sa
trasfondere tutta quella dolcezza e quell'affetto e quella
passione... bisogna bene che nel cuore ci sia del buono... non si
sbaglia... Oh quanti di questi cavalieri, che portano spada,
avrebbero gridato là sfacciatamente in Pretorio il nome della
cara beltà, pel crepacuore di non poter dormire a proprio
letto... Oh sepolcri... Oh apparenze!!
Ma
chi parlava, a queste parole si fermò, perchè la sua
attenzione, come quella degli altri, si volse al carrozzone del
giudice, che in quel punto attraversava la piazza del Duomo.
Lasciando
ora dunque i giovinotti del caffè del Greco, e tenendo dietro
al giudice del Pretorio, dobbiam dire che, sottoposto
all'interrogatorio di pratica, il tenore Amorevoli, il quale davvero
aveva risposto quanto fu già riferito nel caffè del
Greco; sottoposti pure all'interrogatorio gli uomini di casa F...,
dietro quanto risultava dalla deposizione del tenente Baldini; il
signor don Antonio De Capitani di Arzago, chè tale era il
nome del giudice, giovane d'anni, ma di matura e soda intelligenza,
pensò bene di recarsi egli stesso a visitare il preposto di S.
Nazaro, anzichè citarlo a comparire in Pretorio, per rispetto
alle qualità venerabili di quel degno sacerdote. Smontato alla
canonica, si fece annunciare, e il pio e umile prete discese egli
stesso a riceverlo.
So già per qual ragione ella s'incomoda a venir da me...
disse il preposto. Era anzi mia intenzione di venire da lei
fra poco.
E
così, precedendo il signor giudice, lo fece entrare in un
salotto, dove sedettero ambidue.
Ella dunque, signor preposto, sa perchè son qui... La cosa è
seria più che non si creda...
Lo so.
Ora abbia la bontà di dirmi, fin dove però glielo
permette il suo ministero, in che rapporti ella si trovò col
marchese defunto...
Non le tacerò cosa nessuna; ella sa quale fu il tenore di vita
di quel benedetto uomo...
Lo so.
Or bene, sette anni sono, da una povera giovine, che ebbe la
disgrazia di capitare nelle sue mani, ebbe un figliuolo...
Qualcosa ne sapeva...
Dopo le prime smanie, ogni affetto, come sempre, venne a sbollire in
quell'uomo volubilissimo; e dato un pugno d'oro a quella poveretta,
si dimenticò presto e di lei e del fanciullo...
Siam sempre a queste...
Quella sciagurata veniva spesso a piangere da me... e a pregarmi
perchè pregassi il marchese... Non le so dire quanto mi
pesasse il recarmi da colui... Spesso... troppo spesso... la dignità
dell'uomo, non che quella del sacerdote, veniva offesa. Ma appunto
codesti insulti, che per gli altri è una virtù il
respingere, per noi è un merito il sopportare. Insieme colle
brusche parole veniva però sempre qualche pezzo d'oro, ond'io
tornavo all'assalto ogni qualvolta la poveretta veniva da me per
bisogno. Se non che l'uomo venne a star male un anno fa... una
malattia di generale disfacimento... Allora una fiera tristezza gli
entrò nell'animo, e con quella una arrendevolezza insolita.
Dietro le mie preghiere, volle vedere quella sciagurata e il
fanciullo; e un giorno più dell'altro lavorando su quell'animo
ammollito, ottenni quel che era nelle vie della giustizia; almeno io
vissi nella speranza d'averlo ottenuto. Lo consigliai a nominare
erede universale il figlio suo, chiamandolo all'onore del mondo, e a
distruggere il testamento fatto prima, pel quale l'erede universale
doveva essere il suo fratello conte Lodovico, una degna e brava
persona, per verità, ma ricca a sufficienza; del rimanente non
aveva dimenticato nemmeno lui... Mi pregò gli facessi venire
un notajo... gli ho mandato il giovane dottor Macchi, il quale vegliò
alla stesa del testamento olografo... perchè quell'uomo non
sapea nulla di nulla. Io seppi dal dottore che quel testamento
infatti era stato scritto dal proprio pugno del marchese, e firmato,
e così messo tra altre carte. La cosa rimase segreta tra me,
il dottore ed il marchese, il quale però soltanto due ore
prima di morire: «Do a voi, mi disse, la chiave del mio studio.
Là dentro nello scrigno c'è quello che voi avete voluto
che si facesse.» Ecco tutto. Del resto io non ho veduto nulla.
Qui c'è una mano esperta che trafugò il testamento,
soggiunse il giudice, dopo un momento di pausa. Ma il mare delle
congetture è troppo vasto per scoprirvi il filo, se non vien
fuori l'uomo. D'altra parte il conte Lodovico...
Partì due ore prima della morte del fratello... egli e suo
figlio.
Per questa parte adunque non c'è a far nulla.
E poi, torno a ripetere, il conte è un uomo irreprensibile...
Dopo
queste parole vi furono alcuni istanti di silenzio, trascorsi i
quali, il parroco:
Sarebbe bene uscì a dire che V. S. illustrissima
parlasse col notajo Macchi... Egli ha letto la scritta del marchese
dopo averla dettata... chi sa che il notajo non sappia qualcosa di
più?
Il
giudice si alzò e: Non voglio perder tempo
soggiunse: sull'istante vado dal dottor Macchi...
Egli sta in borgo delle Grazie.
Lo so.
Così
dicendo, il giudice si partì dalla casa del preposto di S.
Nazaro, e quando lo salutò:
Mi scuserà, reverendo signor preposto, soggiunse, se per le
volute formalità sarò costretto a sentirla anche in
Pretorio. Risalì poi in carrozza per recarsi difilato
alla casa del dottor Macchi.
Ma
quando fu nella via, pensò che era più conveniente
mandarlo a chiamare, che andarlo a visitare, perchè questa
poteva essere una deviazione dalle leggi d'ufficio, soltanto
compatibile, in via straordinaria, con un reverendo preposto. Giunto
così al Pretorio, mandò infatti a prendere in carrozza
il notajo, il quale non si fece aspettare, e ripetè press'a
poco le parole del preposto di S. Nazaro, senz'altra aggiunta che
questa:
Del resto, illustrissimo signor giudice, se io ho dettato il
testamento, e se il marchese lo ha tutto trascritto di suo pugno, ciò
non vuol dire che dopo non l'abbia anche lacerato... perchè
già ella sa che il suo costume fu sempre di disfare oggi
quello che aveva fatto jeri... onde il trafugamento può forse
essere stato un delitto inutile.
Ma a che proposito, osservò allora il giudice al notajo, ella
mi dice questo?
A nessun proposito. Bensì è mia opinione che se mai i
protettori del fanciullo volessero muover lite al fratello del
marchese, di che ho sentito a toccare un tasto, se il secondo
testamento non salta fuori, ognuno potrà pensare quel che
vuole; ma l'erede è il signor conte di pieno diritto.
Il
giudice non replicò nulla, e licenziò il notajo.
Alcuni
momenti dopo entrò un usciere ad annunciare all'illustrissimo
signor giudice una visita dei cavalieri ispettori del palco scenico
del teatro Ducale.
So di che si tratta, disse fra sè il giudice, e li fece
venire avanti.
I
cavalieri ispettori del teatro Ducale erano venuti a domandare
formalmente al giudice il permesso che il tenore Amorevoli potesse
cantar la sera al teatro, dimostrando che col pubblico s'era
contratto l'impegno e col pubblico non si scherzava; e che, del
resto, come il signor giudice avrebbe ingiunto, si sarebbe seguita la
pratica di riconsegnarlo alla giustizia, tutte le sere, dopo finita
la recita.
Il
giudice rispose, che, non solo non aveva nessuna difficoltà a
conceder questo, ma che anzi era suo debito di fare in modo che il
pubblico si dovesse soddisfare pienamente; che però tutto
dipendeva dallo stato di salute del tenore, cui mandò infatti
a riferire la visita e il desiderio degli ispettori cavalieri. Dopo
alcuni momenti, con loro maraviglia e soddisfazione, Amorevoli mandò
a dire che era assai ben disposto a cantar la sera.
Ma
lasciando ora il Pretorio e il giudice, vorremmo sapere che cosa fa e
che cosa aveva fatto donna Clelia, dalle due ore dopo mezzanotte a
quell'ora in cui gli ispettori del palco scenico partirono per dar
gli ordini opportuni, onde il pubblico fosse avvisato che la sera il
tenore Amorevoli avrebbe cantato.
L'infelice,
in quella giornata, pur troppo, aveva dovuto recarsi a far visita ad
una dama sua conoscente; e ognuno può immaginarsi quel ch'ella
abbia provato udendo i tanti discorsi che si fecero intorno
all'avvenimento della notte. E dovette trattenersi colà tanto
tempo, quanto potè bastare per sentire anche la scoperta
relativa alla finestra della stanza della Gaudenzi; poichè dal
caffè del Greco quella notizia si diffuse repentinamente per
tutta la città, anche senza il telegrafo elettrico. Al qual
proposito è ad osservare che mentre ella, donna Clelia e non
la Gaudenzi, avrebbe voluto giacer mille braccia sotterra, piuttosto
che trovarsi in punto che venisse conosciuta la parte che ella aveva
avuto in quel fatto misterioso; pure, in fondo al suo cuore era
deposto un cruccio inavvertito anche a lei; il cruccio, il dispetto
perchè nessuno avesse mai sospettato che il tenore Amorevoli
fosse venuto nel giardino per amor suo. L'essere amati da persona
amatissima aggiunge un tale orgoglio al cuore in sussulto, che, ad
onta di qualunque pericolo, esso vorrebbe, all'ultimo, far noto a
tutto il mondo il trionfo del suo amor proprio. Ma, lo ripetiamo,
questo sentimento giaceva recondito e dissimulato da altre pressure
nel fondo del cuore di quella donna, e ad ogni sguardo che
innocentemente veniva a fermarsi su di essa, mentre il discorso
percuoteva quel tasto, ella gelava e ardeva di confusione e di
spavento; e solo, solo allora che sentì nominare la Gaudenzi,
quasi fu per tradirsi; così forte tentazione la prese di
gridare: No, non è lei! Ma le fitte più
crude le ebbe a subir la sera, quando coll'orgoglioso conte
ex colonnello, suo marito, dovette recarsi in teatro ad
assistere all'opera.
Il
fatto della notte, l'arresto dellAmorevoli, le mille dicerie,
il silenzio generoso ond'esso avea reso sempre più difficile
la propria posizione, la credenza ormai fatta generale degli amori di
lui colla bellissima Gaudenzi, misero in tutta la popolazione una tal
voglia di andare in teatro, che, la sera, i soldati del corpo di
guardia dovettero accorrere per stornare gravissimi disordini.
Nessuno poi saprebbe immaginarsi gli applausi prodigati in quella
notte dal pubblico a colui ch'egli chiamava il re del canto;
indescrivibili furono le pazzie che si fecero per testimoniargli la
universale simpatia, e per significare la disapprovazione universale
alla lettera cruda della legge e al codice delle manette; e
quanto fu strepitoso il trionfo del tenore arcangelico (perchè
l'aggettivo arcangelico fu trovato la prima volta pel tenore
Amorevoli, e non per Moriani, come crede il volgo), altrettanto fu
quello della danzatrice olimpica. Amorevoli e Gaudenzi,
furono i due nomi echeggiati tutta la sera, senza riposo, con tutta
l'aria che può mettere nelle sue canne la gran gola del
pubblico; tanto parea ammirabile il connubio di quelle due belle e
giovani persone! tanto sembrò perfetta quell'armonia della
danza e del canto!
Ma
se l'infelice donna Clelia dall'alto del suo palchetto facea sangue
nel suo segreto, altri, al cui orecchio eran pur giunte tutte le
dicerie del pubblico, fremeva in più basso scanno, ed era il
primo violino di spalla, il quale, nella sua potenza, a tutti
nascosta, dall'umiltà del suo posto, era destinato a gettar
fuoco e fiamme nella polveriera di questo dramma. Ma non è
tempo ancora ch'ei si faccia innanzi.
VIII
L'amore
è il sole dell'anima, ha detto e stampato Vittore
Hugo, quando non contava che vent'anni, ossia quando nemmeno gli
uomini di genio hanno potuto ottenere dall'esperienza il permesso e
il diritto di parlar dell'amore, nè di nessuno degli altri
enti morali che costituiscono l'infesta e crudele famiglia dell'umane
passioni; Vittore Hugo s'attenne poi al metodo più sicuro per
definire una cosa a rovescio, quella di non guardarla che da un lato.
S'egli in quel punto si fosse limitato a descrivere la
felicità, certo vi sarebbe riuscito; chè egli amava
allora, riamato, quella virtuosa e leggiadra fanciulla, che poi sposò
coll'assenso de' superiori, colla benedizione dei parenti, con tutti
i più felici augurj degli amici, colla contentezza della
Francia, che preconizzò altissime sorti al suo giovine poeta,
il quale si assestava nella vita con tutto il suo agio, stornando per
sempre, coll'applicazione di un matrimonio precoce, quelle feroci
ambascie del cuore che troppo spesso hanno la compiacenza persin di
sfiancare i più robusti intelletti. Così il primo poeta
della Francia fece coll'amore la cura dell'amore, e, avendolo in
isbaglio preso per il sole, lo curava intanto al pari di una
malattia, innestandoselo come il vajuolo. L'amore è una
malattia; una delle più terribili malattie del genere umano,
in quanto i nove decimi degli uomini ne devono essere flagellati
almeno una volta nella vita. Se non è oggi, sarà
domani, ma verrà il tuo giorno anche per te, o gaudente
bevitore di wermuth. Felici noi, soltanto, che,
grazie al cielo non siam più di primo pelo, e
che, avendolo subìto a' nostri giovinetti anni colla sequela
di non so quante ricadute, ora, al pari di Renzo, possiam diguazzarci
in mezzo al flagello, sicurissimi d'andarne illesi. Ma chi fosse
innamorato della definizione di Hugo e sospettasse il paradosso nelle
nostre parole, a persuadersi rifletta questo fatto, che di tante
centinaja di migliaja di suicidj onde l'umanità fu contristata
da Adamo in poi, di due terzi buonamente ne fu cagione l'amore; a
compire l'altro terzo, pare abbia contribuito la confraternita dei
debitori.
Allorchè
la favola inventò la camicia avvelenata di Nesso che arse le
immani membra del semidio Ercole, côlto all'impensata, seppe
ben ella cosa faceva; ma in Fedra, in Medea, in Didone, nella Saffo,
e a voler saltare più di due mila anni, in Gaspara Stampa e in
Properzia de' Rossi, che consolazione e qual sole sia l'amore,
ognuno lo può vedere, perchè l'amore, se non trova
contrasti, si spegne o si trasmuta in un'infiammazione benigna che
non intacca l'appetito e non infesta le digestioni e allora non è
amore; e quando sia tale veramente, si crea i contrasti da per sè,
quantunque non ci provveda la perfida fortuna; inventa fantasmi e
larve e sospetti e affanni, e si confedera alla gelosia; ed è
allora che esso entra nel suo pieno stadio, nel suo più
completo sviluppo, che assume le sue virtù più
micidiali, che fa scomparire il color vivo delle fronti, che emunge
le guancie, che turba il numero delle battute del polso, che toglie
il sonno, che sfila e sfianca anche le vite meglio costrutte dalla
rigogliosa natura. O giovinetti, o giovinette, o donne, o uomini, che
versate in qualche periglio amoroso, o voi tutti adunque che mi
ascoltate, se mai il quadretto che v'ho delineato fosse atto a
produrre alcun effetto, fate buon pro dell'avviso, e ringraziatemi; e
chiudete i vostri cuori in fretta, come quando si chiudono le
persiane al comparir dell'uragano.
Così
fossimo vissuti al tempo di donna Clelia e fossimo stati suoi amici,
e avesse ella potuto bere il contravveleno di queste poche righe! ma,
pur troppo, non siamo nati in tempo, e l'uragano scoppiò, e il
suo cuore, rimasto aperto, ne fu messo sossopra, e terribile uscì
il malanno; perchè potrebbe darsi benissimo che qualche
testolina leggiera ne avesse a ridere, ma noi non ridiamo: tanto
quella donna era diventata infelice, chè l'amore esaltato
dalle furie della gelosia, era penetrato nel cuor suo per siffatto
modo, che ben poteva esser definito un tétano
morale.
In
quella notte del trionfo d'Amorevoli e della Gaudenzi, preveduto, ne
siamo quasi certi, dal primo, e per nulla aspettato dalla seconda;
tanto che, non sapendo darsene una spiegazione a sè stessa, ne
richiese, piena di meraviglia, lo stesso tenore che non le seppe dir
nulla (poichè se arrivava a comprendere il motivo per cui egli
era stato così festosamente accolto dal pubblico, non riusciva
a capacitarsi perchè anche la Gaudenzi dovesse avere una
porzione di quegli applausi prodigati in via straordinaria); in
quella notte adunque la falsa diceria degli amori della ballerina col
tenore, aperse a tutta prima una profonda ferita nel cuore di donna
Clelia; chè la gelosia, stranamente immaginosa nell'inventar
sospetti, anche allora che nessun fatto vi dà argomento, aveva
trovato in quelle voci il naturale suo pascolo; pur tuttavia, per la
relazione spontanea della stessa passione ajutata dal desiderio, a
poco a poco si lasciò persuadere dagli interni ragionamenti a
creder false tutte quelle voci, e si veniva così rassicurando
e quasi consolando; chè l'idea del gravissimo pericolo in cui
ella si trovava in faccia al marito, e in cui si trovava la sua fama
in faccia al mondo, se il vero si fosse scoperto, dopo il primo
spavento, erasi quasi del tutto dileguata; tanto l'amore è
imperterrito. Ma la sventura volle che un cavaliere, di quelli che in
teatro esercitano l'officio di gazzettino orale e, raccolta una
notizietta alla porta, la sparpagliano di palchetto in palchetto col
cinguettio d'una cutrettola, volle dunque la sventura che colui
entrasse da lei, presente il conte ex colonnello, a raccontarle
che il Pretorio in quella sera stessa aveva mandato d'ufficio un
invito cortese alla Gaudenzi, affinchè per il giorno
susseguente dopo mezzodì volesse aver la compiacenza di
recarsi nelle sale della giudicatura per essere sentita intorno ad un
fatto in cui essa poteva avere qualche parte. Tale notizia era la
pura verità, poichè il giudice, al cui orecchio dopo
molti giri e rigiri capitò pure la fama di quei pretesi amori
della Gaudenzi con Amorevoli, sospettando nella delicatezza generosa
del secondo il motivo del suo silenzio, pensò che sarebbe
stato forse più facile cavar la confessione sincera dalla
bocca della Gaudenzi, e così poter mandar libero e assolto da
una imputazione gravissima un uomo, che in faccia al mondo era fuori
d'ogni dubbio innocente, ma non lo poteva essere in faccia alla
legge.
Ma
quella notizia tornò a suscitar la tempesta nel cuore di donna
Clelia, che già erasi venuta tranquillando; e le si fisse in
petto, relativamente agli amori di Amorevoli colla Gaudenzi, con
tutti i caratteri della certezza, di quel genere di certezza che
produce la desolazione. Il conte marito e il cavaliere s'accorsero di
un certo trasmutamento nel volto di lei, onde ad una voce le
domandarono s'ella si sentiva male, senza però insistere di
troppo, tanto erano lungi dal vero. Ma il ballo e l'opera finirono,
il sipario calò, il lacchè entrò nel palchetto,
il conte e la contessa scesero nell'atrio, salirono nel carrozzone, e
in breve, ridottisi a casa, il conte spagnolescamente accompagnò
la contessa alle soglie del suo appartamento, ed egli, come consueto,
ritirossi nel proprio. Or che notte fu quella per la contessa
Clelia! che irrequietudine, che affanno! Coloro che in questo punto
stanno comprimendosi le mascelle per uno spasmodico dolor di denti;
quelli che all'inattesa notizia di un grosso fallimento guardano
spaventati al totale rovescio dei proprj affari; quelli che si
sentono annunciare dal medico che bisogna risolversi all'amputazione
di una gamba, han tutto il diritto di dire che la contessa avea buon
tempo, e che bisognava aver smarrita la ragione onde pigliarsi tanto
affanno per l'infedeltà di un tenore. E il medesimo
quasi diciam anche noi, che non abbiamo nè dolori, nè
gambe in pericolo, nè fallimenti... Ma non per nulla abbiam
detto che l'amore è una malattia, e che la mente cessa di
essere sana quand'è investita dai suoi roventi pensieri.
D'altra parte quell'affanno veniva accresciuto alla contessa dal non
avere a chi confidarlo. Un male, soltanto a raccontarlo altrui, scema
della sua intensità. Ma la contessa non aveva amiche, non ne
ebbe mai: e ciò non tanto per la sua indole naturalmente
altera, quanto perchè, cresciuta tra l'invidia astiosa delle
sue pari, che non poteano sopportare la superiorità del suo
ingegno e il prodigio della sua dottrina, si era venuta, a così
dire, guastando il sangue in quella necessità continua di
render disprezzo per invidia. Ma qualcosa conveniva pur fare, pensava
la contessa nella veglia angosciosa di quella notte; ma se Amorevoli
era stato arrestato, qualunque fossero le sue relazioni colla
Gaudenzi, era pur stato côlto in un momento (e tal pensiero la
beatificava) in cui stava intrattenendosi seco in affettuosi e caldi
parlari; ma se Amorevoli si mostrò così generoso a
tacere il suo nome, ella non doveva permettere, serbando un vile
silenzio, che quell'uomo avesse a subire tutte le conseguenze d'una
imputazione infame. Nella stretta di tali pensieri, e nel bisogno che
più e più sentiva di confidarsi a qualcuno, si ricordò
d'una donna; di una matrona milanese, colla quale erasi trovata due
sole volte a parlare in tutta la sua vita maritale; d'una donna che a
Milano era l'oggetto dell'amore, dell'ammirazione, della venerazione
universale, e dal cui colloquio anch'ella aveva raccolto un grande
conforto; così grande che aveva potuto comprendere per la
prima volta com'è soave l'amicizia d'una donna, quando questa
abbia tutte le virtù che le son proprie, senza le sue
debolezze. Sapeva inoltre che colei, quasi per una professione
della vita, era stata ed era pur sempre mediatrice pietosa,
eccitatrice imperterrita di buone opere, benefattrice instancabile,
in molte gravissime contingenze in cui altri erasi trovato. Risolse
pertanto di recarsi da quella signora. Questa si chiamava
donna Paola Pietra; severa come la vetusta Cornelia, in
continuo lutto vedovile, andava essa educando severamente due suoi
figliuoli.
Le
avventure di costei, fuori affatto di ogni ordine comune, la
costanza, la virtù, i sacrifizj, il coraggio che ebbe a
mostrare in una condizione di vita specialissima... tutto ciò
aveva diffuso la sua fama per tutta l'Italia ed anche per l'Europa;
chè, già claustrale professa nel convento di Santa
Radegonda, ne era fuggita per adempiere il voto fatto in segreto a
Dio, di far cancellare da più alta autorità gli effetti
d'una violenza che si era voluto farle, spingendola renitente ai voti
monastici.
Intorno
a questa donna Paola Pietra, sta manoscritta una relazione in una
serie di motti volumi miscellanei raccolti da un padre Benvenuto di
Sant'Ambrogio ad Nemus di Milano, ed esistenti nella biblioteca di
Brera.
Il
monaco suddetto comincia dal premettere al suo, come egli stesso lo
chiama «Succinto rapporto degli avvenimenti della
signora donna Paola Pietra, uscita dal monastero di Santa Radegonda
di Milano nell'anno 1730» scritto di sua propria mano,
pare, nel 1766; comincia, diciamo, dal premettere «un'efficace
invettiva contro il non mai abbastanza detestato (sono sue parole), e
dall'Italia principalmente non mai cacciato abuso di sagrificare, o
cogli artifizj o colle violenze, le povere fanciulle allo stato
religioso, a cui nè da Dio nè dalla loro inclinazione,
sono chiamate». Assicurando indi il lettore «che nella
relazione (son pure sue parole) non si dirà cosa veruna di cui
non se ne abbiano autentiche prove,» viene a raccontar il
fatto, dichiarando però di dover passar sotto silenzio, per un
certo riguardo, gli avvenimenti che precedettero la professione
religiosa fatta da donna Paola nel 1718.
Tali
riguardi sembra che fossero comandati al monaco di S. Ambrogio
dall'esistere in Milano, nel momento in cui egli scriveva, e
dall'avervi grande autorità coloro, per colpa de' quali la
fanciulla Paola ebbe a sopportare tanta violenza. Ma quegli
avvenimenti in prima da noi sospettati, poi inseguiti e sorpresi, a
dir così, in alcuni cenni sfuggiti quasi per inavvertenza ad
altri paurosi autori di memorie intorno a quel tempo, noi li verremo
esponendo, giacchè non siamo condannati dai riguardi che
facevano ostacolo ai contemporanei di donna Paola. Narrando la
storia della quale, se dobbiamo uscire per poco di via, dall'altra
parte avremo facile il mezzo di rilevare certi atteggiamenti
particolari del pubblico costume, in un periodo anteriore al tempo
che ci siam proposti d'illustrare, ma di cui è necessario
conoscere quanto basta per valutare con più sicuro criterio il
tempo successivo. Vedrà inoltre il lettore, nel rovescio della
medaglia che offre la monaca di Santa Radegonda di Milano a suor
Virginia di Santa Margherita di Monza, che mai possa la forte volontà
assistita dalla pura coscienza, e come il solenne spettacolo d'una
sincera virtù sia talora potente a placare anche il decreto di
consuetudini di ferro.
IX
Quando
si pensa che Carlo VI, subentrato ai Re spagnuoli nel dominio di
Lombardia, era innamorato della Spagna e del suo sistema, è
facile a comprendere come doveva camminare la cosa pubblica in
Lombardia, durante il regno di lui, sebbene ei fosse d'indole
mitissimo. L'arbitrio dell'autorità costituita tenne allora le
veci della giustizia; il diritto storico fu così onnipotente,
che il diritto razionale e naturale parve davvero un'utopia di
filosofi sentimentali e innamorati, per adoperar la frase di un
moderno statista dalla pelle di cuojo; come pare anche oggidì
a qualche sincretico legista, che dalla memoria sterminata e
prevalente su tutte le altre facoltà dello spirito, ebbe
guasto l'intelletto e contaminato il cuore. Quel periodo adunque di
Carlo VI contrassegnò la massima prevalenza del ceto patrizio.
Chi non era nobile era una bestia, non tollerabile se non in quanto
serviva come un cavallo o come un bue; e se appena appena si
rivoltava per l'istinto inalienabile della difesa, o sbizzarriva per
insipiente indocilità, tosto veniva tolto dal corpo sociale
come pericoloso e infesto. Il Senato poi che, sotto il dominio
spagnuolo (non sono parole nostre), corredato nella sua istituzione
di somma autorità, si reputava maggiore del Governo stesso;
per cui la vita, la libertà, la fortuna d'ogni cittadino,
erano abbandonate al potere illimitato di lui, che si credeva sciolto
dai rigidi principj di ragione, e solea dire che giudicava tamquam
Deus; sotto Carlo VI vide più ancora accresciuta
l'autorità propria, e perchè le istituzioni mantenute
in vigore da chi è innamorato di esse, non ponno a meno
d'invadere un campo maggiore di quello che primamente era loro stato
conferito; e perchè inoltre, negli anni di Carlo VI, non si
presentarono governatori così prepotenti come quei di Spagna,
a respingere l'arbitrio coll'arbitrio, ed a farsi beffe del tamquam
Deus.
Quando
un popolo è condannato a portare simultaneamente il peso di
due poteri arbitrarj e iniqui, ma che pure si faccian mutua
controlleria, può avere intervalli di sollievo e può
accidentalmente trovar anche la giustizia; mentre invece, se di que'
poteri uno solo rimane sul campo, allora ai soggetti non resta a far
altro che mordersi le mani, perchè loro è impedito
anche di esprimere i gemiti del dolore. Ad onta di ciò,
qualche uomo di Stato e qualche istoriografo potè lodarsi di
quel periodo transitorio; ma la logica rivede i conti alla cronaca,
le cui cifre, se non rispondono alla riprova della prima, è
indizio che sono fallaci. Però il fatto che siamo per
raccontare viene a smentire l'asserzione: che sotto il governo di
Carlo VI siasi respirato quanto lo comportava la condizione dei
tempi. Degli arbitrj inumani del Senato, rimasto solo sul
campo, fu dunque conseguenza un funesto avvenimento che non si è
potuto scancellare dalla tradizione inorridita, sebbene siasi fatto
scomparire dagli archivj il relativo processo criminale. Però,
furono uomini devoti alla giustizia ed alla santa ragione quelli che
pensarono di conservare il dettato della tradizione da essi raccolta
dalla stessa bocca di chi era stato testimonio di quel fatto, che ben
potè chiamarsi la strage degli innocenti; e la conservarono,
perchè lo spettacolo dei traviamenti a cui può andar
soggetta un'autorità costituita in arbitrio illimitato,
rimanesse ad ammonizione ed a sgomento delle future generazioni.
Chi
quindici o vent'anni fa era studente al ginnasio, al liceo,
all'università, avrà sentito parlare di un tempo non
molto lontano, in cui i giovinetti battaglieri e maneschi solevano
ordinarsi in truppa, e assumevano tra loro un'ostilità di
convenzione per aver un pretesto di menar le mani. Gli scolari
del ginnasio e del liceo di Sant'Alessandro eran nemici giurati di
quelli, per esempio, del ginnasio di Santa Marta, o di quelli di
Brera; e questi, non volendo patire insulti, respingevano i nemici
armata mano, vale a dire colle munizioni scolastiche, quali i
pennajuoli, le righe, le cinghie di pelle, i temperini che
convertivano l'ostilità di convenzione in ostilità
vera, e le antipatie in furore, e le ragazzate in fatti gravi e in
occasioni di affanni alle famiglie. Spesso gli assaliti diventavano
assalitori, e l'esercito del ginnasio di Brera, che aveva la riserva
formidabilissima degli studenti di disegno, armati di squadra e
compasso, trasportavan la guerra fuori del proprio nido, e
inseguivano i nemici fin nelle loro sedi come gli antichi Romani. La
contrada del Fieno e la piazza dell'Albergo Imperiale parlano ancora
di queste guerre, a chi sa interrogarle, come i campi di Zama e di
Cartagine. Noi stessi poi ci ricordiamo come alcuni scolari di
retorica, che avevano appartenuto a quei tempi gloriosi, guardassero
a noi, scolari novizj di prima classe, con quell'aria di pietà
e di dileggio con cui un veterano di Waterloo guardava ai molli
giovani cresciuti dopo la restaurazione.
Codesta
pericolosa consuetudine, di che a' nostri tempi fanciulleschi non era
rimasto che la ricordanza, ricordanza che qualche rara volta
provocava lo spirito d'imitazione, ora, per fortuna, è
scomparsa affatto; ma invece trovavasi nel suo massimo vigore nel
secolo passato. Quanto più era rigoroso e quasi tirannico il
regime casalingo de' nostri padri, tanto più i giovanetti
reagivano a quel rigore, allorchè eran fuori della vista
paterna e materna. Non potendo respirare in casa ragionevolmente,
perchè il terribile papà, colla parrucca di Filicaja o
col topè di Scannabue, li fulminava con lo sguardo, si
sfogavano irragionevolmente fuori di casa, e con tanto più
intensa, quasi diremmo, rabbia fanciullesca, quanto minore era il
tempo di libertà a loro concesso. Cattivo il sistema
d'educazione, pessime le conseguenze. Però avveniva
talvolta che le nature giovanili più vivaci e generose
prorompessero peggio delle altre in atti d'insubordinazione e di
disordine. Nè limitavansi a quelle battaglie tra loro; ma
talvolta quando durava la tregua, siccome avevano degli spiriti
esuberanti da versar fuori, tanto più esuberanti quanto più,
siccome dicemmo, venivan compressi in casa dal folto sopracciglio
paterno e in iscuola dall'arcigna canizie del frate professore
gesuita o barnabita, così si sfogavano sui passeggieri, su
qualche figura barbogia e ridicola, su qualche vecchia che vendesse i
libretti della cabala e avesse odore di sortilega, press'a poco, come
non è gran tempo, potemmo vedere qualche sucida vecchiarda
inseguita a dileggi e a fischiate dall'irrompente folla della
fanciullesca marmaglia.
Qualche
volta però, uniti in formidabile truppa, segnatamente gli
scolari già adulti della rettorica, si dilettavano anche a far
qualche atto di giustizia sommaria, a fare scherzi e dileggi a coloro
che per verità li avevano provocati, scherzi e dileggi che non
mancavano di spirito, e mettevano di buon umore tutta la città.
Ora avvenne il seguente fatto. Alcuni allievi del ginnasio di Brera,
delle classi superiori, giovinetti dai quindici ai sedici anni,
finite le scuole, uscirono un dì in truppa dalla porta
maggiore del palazzo, e di là traendo per le contrade, si
dilettarono a metterle a rumore, trattenendosi di tanto in tanto a
far celie e dispetti ai passanti, ai bottegaj, alle vecchie
portinaje, alle livree passamantate di qualche casa, ai cocchieri, ai
lacchè, ecc., ecc.; quando, un di loro, proponendosi qualche
soperchieria più saporita, rivolto ai colleghi di scuola, così
disse: Andiamo a vedere il nuovo guardaportone del senator
Goldoni. Invece di quel bell'uomo che aveva prima, il Marchese ha
voluto seguir la moda, e s'è provveduto di un nano, ma
il più brutto e laido nano che m'abbia mai visto; non patisce
che nessuno si fermi a guardarlo, e sfido a vincere la tentazione. A
chi gli ride in faccia, ringhia come un cane, e scaglia invettive a
tutti, e qualche volta mena anche a tondo la lunga canna d'India, che
a chi gli tocca il pomo nelle gambe non è un servizio. Il
senator Goldoni sa tutte queste cose, e va superbo di questo bel
mobile; e quando sa che il suo nano ha fatto cadere il pomo del
bastone su qualche testa o qualche schiena, gli dà doppia
giornata e doppio pranzo. Ora, fatto tesoro di queste parole,
i compagni mossero tutti e di gran lena, senza nemmeno far precedere
una consulta, alla volta del palazzo Goldoni. Giunti di faccia al
quale, e visto che il nano guardaportone era là tronfio e
pettoruto, e con un faccione protervo e provocatore e ghignoso, tosto
si schierarono in semicerchio innanzi a lui, e si misero a cantare in
coro una villotta allora in voga, dove c'erano delle celie che
parevan pensate e messe in musica apposta per esso. Non è a
dire la furia a cui montò il nano, e come tosto facesse
succeder le brutte parole e le minaccie e i fatti; e come,
all'ultimo, secondo il suo costume, si desse a far girare su quella
schiera il suo lungo e pesante bastone senza modo nè misura.
Ma il nano era solo, e la schiera era giovane e fitta e forte e
baldanzosa, onde fattiglisi intorno, lo disarmarono, lo avvoltolarono
come un palèo, e così raggirandolo a spintoni, a calci,
a schiaffi, gli fecero fare il giro di tutta la città, fra le
risate universali, ottenendo, quel che oggi si direbbe, un vero
successo d'entusiasmo.
Il
tumulto crebbe al punto, e i guaiti del nano, infuriato e percosso da
tanti pugni, furono tali, che, come avviene di consueto in queste
faccende, accorse la sbirraglia. Allora gli studenti abbandonarono il
nano e tentarono la fuga; ma la folla stipatissima essendo stata
d'inciampo ai loro passi, gli sbirri s'impadronirono de' più
adulti, lasciando andare la ragazzaglia minuta, mentre il nano mezzo
pesto fu ricondotto al suo portone. I quattro giovinetti, che tale
riuscì il numero dei disgraziati, vennero tratti al capitano
di giustizia ammanettati come ladri. Se quel nano fosse stato
un povero del volgo, esercitante qualche professione, forse gli
sbirri avrebber dato una mano agli scolari di Brera; ma avendolo
conosciuto pel nano del senator Goldoni, si fecero un paléo,
di difenderlo con devozione di vassalli, e di accompagnarlo a casa
con tutti i riguardi dovuti a un alto personaggio. E se gli sbirri si
comportarono di questa maniera, non stettero indietro i giudici, gli
auditori, i notaj, gli scrivani del Capitano di Giustizia, allorchè,
maravigliando e quasi inorridendo del gravissimo insulto, guardarono
a quei quattro giovinetti scellerati, che ebbero tanta audacia di
percuotere il Guardaportone del senator Goldoni. Ma la cosa non
doveva fermarsi qui. All'annuncio di quanto era avvenuto, quel
senatore, pallido d'ira e giurando di trarre una terribile vendetta,
la quale fosse a lezione ed a sgomento della plebe, si recò,
abbandonando il pranzo e lasciando i convitati in gran trambusto e
cordoglio, al palazzo dell'eccellentissimo presidente del Senato, il
quale non meno stupito e convulso d'ira del marchese Goldoni, quasi
che si trattasse della patria in pericolo, convocò
extraordinariamente il Senato, ingiungendo che facesse parte
dell'adunanza il Capitano di Giustizia e il suo Vicario, come
praticavasi nelle bisogne d'urgenza. A chi considera oggi tali fatti,
la storia pare bugiarda, chè la ragione si rifiuta ad
ammettere tanta demenza, più quasi che ferocia, in uomini
gravi, costituiti in autorità. Ora il Capitano, avendo già
esaminati i giovinetti, lesse in Senato il costituto, esponendo il
fatto come un atto manifesto di pubblica sedizione, ed anche,
subordinatamente, pronunciando il voto per la massima pena da
infliggersi ad essi. Sebbene la maggior parte de' senatori, per la
vertigine provocata dall'orgoglio di corporazione, giudicassero
quella colpa gravissima, e, smarrito ogni lume di ragione, non
sapessero tener conto menomamente dell'inesperienza inconscia e non
responsabile di quegli adolescenti, e però non credessero di
derogare alla proposta del Capitano di Giustizia, pure non mancò
in quel consesso di giudici iracondi qualche voce pietosa; e forse
quella voce avrebbe potuto stornare la carneficina; poichè,
essendosi letti a quel consesso i nomi de' giovinetti, fece senso a
tutti quello di don Giovanni Pietra, figlio del conte Francesco
Brunon-Pietra, e fece senso non per altro che perchè era il
nome di un nobile. Questo incidente bastò a fare aggiornar la
sentenza; ma tutto, purtroppo, fu inutile. Una soperchieria infantile
doveva esser causa di un'ingiustizia, e questa doveva provocar poi un
atto inumano e veramente inaudito, atto inumano che, a primo aspetto,
avrebbe potuto aver sembianze di una virtù somigliante
all'inesorabile giustizia della patria potestà di Roma antica;
chè il dì dopo, il segretario del Senato, lesse in
pieno consesso uno scritto sottosegnato dal conte Francesco
Brunon-Pietra, col quale ei supplicava che non si avesse riguardo
nessuno alla nobiltà del suo casato, quando fosse stato
d'impaccio al corso della giustizia; perchè, riferiamo le sue
stesse parole, «l'obbedienza alle leggi e il rispetto
all'autorità e segnatamente il culto dell'alta maestà
del Senato doveva andar innanzi a tutto.» Le voci pietose che
s'eran fatte sentire il giorno prima, si fecero riudire ancora, ma in
segno di dolorosa meraviglia, inculcando che si dovesse considerare
come non ricevuto uno scritto in cui la devozione all'autorità
faceva tacere l'umanità, e offendeva le leggi più
antiche e più irrepugnabili di natura, ma tutto fu indarno.
I giovinetti vennero condannati a morte.
Or
che indole d'uomo era quel conte Francesco Brunon-Pietra, e come e
perchè aveva potuto inviare al Senato quel terribile scritto?
Noi abbiamo fatte molte e lunghe e non facili ricerche per scoprirne
le cagioni, e alla fine, tenuto scrupolosamente conto di tutto, ci
riuscì di cavarne quanto segue.
Quel
conte Brunon-Pietra era stato assai famigerato in Milano per le sue
galanterie donnesche, per la sua vita disordinata e facinorosa; e
soprattutto per aver consumato nella prima gioventù l'intero
patrimonio, che era di qualche milione di lire milanesi, e ingoiate
poi, l'una dopo l'altra, quattro eredità laterali. Fu allora
che, ridotto quasi al verde, seppe così ben fare e comportarsi
nella casa dei marchesi Incisa, che una graziosa e virtuosissima
giovinetta di quel casato, ricchissima di un'eredità legatale
da un suo padrino, tirata ad arte nelle insidie, finì ad
invaghirsi perdutamente di lui, ed a concedergli la mano di sposa.
Da questo matrimonio nacquero, ne' primi due anni, un figlio maschio
e una fanciulla che non conobbero la madre, perchè, vittima
delle furibonde ingiurie maritali, morì tre mesi dopo il
secondo parto. Pare che le cagioni di quelle ingiurie e di quella
morte immatura sieno state delle tresche scandalosissime con una
contessa Ferri, nata Alfieri; poichè, non ancora compiuto il
lutto vedovile, il conte Brunon, senza riguardo alcuno, la sposò,
e n'ebbe poscia un figliuolo. Intanto che il primogenito e la
fanciulla del primo letto, eredi della ricchezza materna, erano
tuttora in cura delle nutrici, il figliuolo del secondo letto
cresceva in casa, e la nuova moglie del conte, che aveva preso sul
marito quell'impero ch'egli in addietro aveva sempre esercitato sulle
donne, gli comunicò un tale amore per quel fanciullo, ch'esso,
al pari della matrigna, sentì avversione pei primi due, e
tutto l'incomodo e il peso della loro esistenza. Questo non
apparì manifestamente in principio, ma quando i fanciulli
avanzarono in età, trapelarono al di fuori le intenzioni del
conte, tanto che i parenti della defunta marchesa Incisa, fecero
reclami per avocarne a sè la tutela; ma invano, perchè
il conte, astutissimo e versipelle, seppe condursi così bene,
che furono respinti i reclami e a lui data piena soddisfazione.
Se non che d'allora in poi il conte, affinchè i figliuoli non
si lamentassero, finse di trattarli bene. La fanciulla, che era donna
Paola, fu messa educanda, com'era di consuetudine, in un monastero
che fu quello di Santa Radegonda, il fanciullo fu tenuto in casa; e
siccome egli era naturalmente acuto e vivacissimo, e si sentiva come
il padrone in casa, e non poteva soffrir la matrigna, nè vedea
molto di buon occhio il fratellastro, il conte Brunon, per non averlo
contrario, e perchè non gli uscisse di mano l'amministrazione
delle sue sostanze, si diede ad accarezzarlo, ad assecondare ogni suo
capriccio. Quali disegni poi si volgesse in testa non si
sa..., ma forse, senza che lo sapesse spiegare a sè medesimo,
meditava di addensar pericoli al giovinetto, perchè avesse o
tosto o tardi a rimanerne travolto. Ed or la mente vorrebbe
respingere l'idea di un tanto accordo tra il destino e i desiderj di
quel padre scellerato.
Prima
che si eseguisse la pena capitale contro que' sventurati giovani, si
commosse tutta la città, impietosita e di loro e dei parenti
desolati; e nei giorni d'intervallo molte pratiche si tentarono per
smuovere l'autorità del Senato da tanta efferatezza. Or
non è a dire la dolorosa meraviglia di tutti, nel sentire quel
che era stato scritto al Senato dal conte Francesco, il quale solo,
per la sua nobiltà e per quella del figliuolo, avrebbe potuto,
se avesse voluto fermamente, impedire quella carneficina e salvare
col proprio figliuolo altri giovinetti complici.
Ma
la costernazione generale, se fu sincera e profonda, non fu
coraggiosa, perchè non par vero che lo spettacolo di così
scellerata, ripetiamo demenza, non abbia fatto insorgere tutta la
città, per strappare quelle giovani vite dalla mano del
carnefice, con tali dimostrazioni solenni dell'ira pubblica, che
valessero ad inspirare al Senato stesso quello sgomento che insegna
la pietà.
Il
conte Francesco potè dunque veder lieta l'infernal moglie per
quel primogenito spento, e spento, gli parea quasi tanto sono
assurdi i sofismi dell'iniquità per un ordine
provvidenziale; ma restava la fanciulla, educanda in Santa Radegonda,
la giovinetta donna Paola Teresa, che già toccava i sedici
anni, e doveva fra poco tempo uscire di là per accasarsi
convenevolmente, essendo ricca di buona parte della ricchezza
materna. Ora quella figliuola, superstite al fratello, turbò
la gioia del connubio infernale. Il conte Francesco ereditava dal
figlio i due terzi della sostanza che aveagli lasciata la marchesa
Incisa; ma questo non bastava alla sua seconda moglie, la
quale, eccitata da un affetto smodato pel proprio figlio, le parea
che fosse rubato a lui quello che potea pure diventar suo, se donna
Paola Teresa, o scomparisse come il fratello infelice, o giacchè
era in convento, vi rimanesse professa per sempre. Ma la
fanciulla non avea mai dato segno di vocazione alla vita claustrale.
Ricca e bella e, per soprappiù, avendo sortito dalla natura
una grande virtù per la musica e pel canto virtù
fatta poi mirabile dagli insegnamenti della celebre suor professa
Rosalba Guenzani, cantatrice e suonatrice d'organo nel monastero
appunto di Santa Radegonda aveva già potuto presentire
le attrattive del mondo; chè ogni qualvolta usciva di
convento, a stare un giorno col padre, nella qual occasione recavasi
anche a far visita a' parenti, veniva accolta da tutti come in
trionfo; e già le era stato toccato di qualche cospicuo
matrimonio; di modo che, per modesta e virtuosa che fosse ed
era virtuosissima, tanto da esser l'idolo, non solo della sua maestra
suor Rosalba Guenzani, ma delle altre suore e delle amiche colleghe
ogni qualvolta ritornava in convento, sebbene le fossero care e la
maestra e le amiche, pure non desiderava altro che di lasciare quelle
meste mura del chiostro e di uscire all'aperto. Or venne il tempo in
cui, finita la sua educazione, doveva infatti uscire. Ma fu
allora che il conte Francesco, messo innanzi il pretesto d'un
viaggio, cominciò ad insinuare alla fanciulla di rimanervi
fino al suo ritorno; ed ella vi rimase. Di poi, quando non
valse più quel pretesto, ne cavò fuori altri molti per
poterla dimenticare colà; ed ella pazientò senza
lamentarsi, ma con grande suo affanno. Infine il padre un dì
le fece motto della convenienza ch'ell'avrebbe avuto di abbracciar la
vita monastica. La fanciulla stupì a quella proposta, e
rispose con sdegno, e risolutissimamente negò. Allora il padre
finse di non adirarsi e di trovar giusta quella fermezza di
risoluzione; onde levatala dal convento, la condusse in casa. Se non
che, dopo alcuni giorni, il portone del palazzo Pietra stette chiuso,
perchè tutta la famiglia erasi recata in campagna in un luogo
tra i monti valtellinesi. Passarono così due mesi, finchè
corse la voce che tutta la famiglia era tornata, ed anche la
fanciulla donna Paola. Ma con grande meraviglia di tutti, essa
venne ricondotta dal padre nel convento di santa Radegonda, dove la
madre abbadessa sentì dalla bocca stessa di lei che voleva
farsi monaca. La poveretta in que' due mesi erasi per tal modo
disfigurata, che pareva una larva di fanciulla strappata per miracolo
alla morte dall'arte medica. Che cosa del resto sia avvenuto in quel
luogo del valtellinese, con che atti di crudeltà siasi
trattata la giovinetta in quel tempo, non si sa; onde è libero
il campo alle congetture. Quello che pur troppo avvenne si fu, che,
dopo un anno, donna Paola Pietra si professò monaca in Santa
Radegonda. Ma, dice il frate di S. Ambrogio ad Nemus, in
quella sua succinta relazione:
«In
quello stesso momento in cui la fanciulla non da un solo timore
riverenziale, ma da una manifesta violenza, fu costretta fare nel
suddetto monastero la solenne professione de' voti, protestò
nell'interno del suo animo a Dio di non concorrere colla volontà
ad un atto, a cui era trascinata dall'altrui volere.» Paga
d'aver di ciò chiamato Dio stesso in testimonio, si persuase
di poter conservare intera quella libertà che Dio stesso le
avea data. Tuttavia, fosse prudenza o un resto del timore onde ella
erasi lasciata obbligare all'atto solenne, non confidò che
assai tempo dopo, a fide e virtuose persone, gl'interni suoi
sentimenti; e come se fosse presaga di quanto doveva poi veramente
succedere, nella dolorosa solitudine del chiostro si consolava colla
speranza di dover un giorno romper quei lacci che la violenza degli
uomini le avevan posto. A tale effetto conservò per molti anni
un suo abito secolare, di cui credea fermamente di doversi servire.
Pure in qual modo ella avesse ad uscirne non poteva nemmeno
immaginarselo, ben conoscendo che era impresa impossibile il tentarlo
per le solite vie giuridiche. Ma la straordinaria virtù del
suo canto, come l'aveva già esposta, quand'era ancora
educanda, all'ammirazione generale, doveva additarla, monaca,
all'altrui pietà. Già abbiam detto che tutta la
città di Milano accorreva nella chiesa di santa Radegonda a
sentirvi le migliori produzioni della musica per canto ecclesiastico.
Il maestro Prediani, bolognese, che allora era in Milano,
soleva, per così dire, stare in giornata su tutto quello che
producevasi in Italia in questo genere, e appena venisse in luce
qualche composizione squisita, era sollecito di mandarla alla celebre
suor Rosalba, affinchè ella la facesse conoscere ed apprezzare
con quel magistero ch'ella aveva nel toccar l'organo e nel cantare, e
perchè specialmente, se trattavasi di pezzi a due voci, veniva
squisitamente assecondata da suor Teresa Paola Pietra. L'Ave
maris stella di Leo era uscito di fresco in que' giorni.
Il
ceto distinto della città, che allora tenea dietro a tutte le
novità musicali, e s'interessava anche della musica di chiesa,
veniva informato dal maestro Prediani, che dava lezioni nelle
principali case, del quando si doveva eseguire qualche gran pezzo
istrumentale in Duomo, o qualche canto in Santa Radegonda, onde
accorse per sentire quella nuova composizione. La folla, come suol
dirsi, si portava a que' trattenimenti, tanto che l'arte faceva
dimenticare la devozione; e però, in proposito, erano uscite
alquante pastorali contro l'uso e l'abuso della musica sacra.
Ora, tra quella folla stipatissima, si trovò un Inglese, che
si chiamava lord Crall, uomo straordinario e cavalleresco, e portato
naturalmente all'entusiasmo. Egli sentì quella musica e sentì
la voce commossa della monaca giovinetta, la quale, ripetendo quel
canto divino, vi trasfondeva tutta l'intensità dei proprj
affanni, e con tal fascino, che tutti, mentre atteggiavano il volto
al sorriso per la soavità della melodia, pur si sentivano
irresistibilmente inondati di lagrime.
Quel
gentiluomo dunque, più commosso ed esaltato di tutti, chiese
di quella monaca, e udita la storia del fratello di lei e del tristo
padre, e com'ella fosse venuta renitente ai voti; tanto si interessò
di essa che, d'una in altra ricerca, venne a conoscere i segreti suoi
pensieri, ed eccitato dalla pietà e dall'entusiasmo per tanta
virtù e sventura, si offrì di liberarla e di farla sua
sposa. La forza di codesta tentazione fu sì gagliarda sulla
monaca giovinetta, che il pericolo della fuga, i disastri d'un lungo
viaggio, l'abbandono della patria, la diversa religione del
gentiluomo, e i mille sentimenti di pietà e d'onore che
doveano sostener la sua ragione, se la tennero per qualche tempo in
grande sospensione d'animo, pur non valsero a soggiogarla; poichè,
all'ultimo, ella si faceva imperterrita nell'idea d'esser libera
innanzi a Dio, e di potere col matrimonio serbare inviolato il
proprio onore. Rispetto ora al gentiluomo che aveva promesso
di liberarla, giova sapere com'egli nascesse da una famiglia illustre
inglese passata in Francia, e come il padre suo, pel celebre editto
fulminato da Luigi XIV contro gli Ugonotti, nel 1685, siasi trovato
costretto a tornare in Inghilterra; dove morì lasciando due
figlie ed un maschio, che fu poi questo lord Crall.
Custodivansi
le chiavi del monastero nella stanza dell'archivio, a cui si entrava
per una bussola chiusa da una piccola serratura; fatta per ciò
la prova di diverse chiavi, ne fu trovata una che l'apriva. Dopo di
che, fissato il giorno e l'ora per l'uscita, licenziatosi
pubblicamente il cavaliere dagli amici, partì da Milano; ma
trattenutosi segretamente in un casino poco distante dalla città,
vi fe' ritorno pochi giorni appresso, nella stessa notte stabilita
per la fuga. Giunta l'ora in cui la si dovea eseguire,
accaddero nel monastero alcuni piccoli e curiosi accidenti che non
mette conto di riferire, i quali parea avessero ad impedirla, ma
invece l'agevolarono.
Il
cavaliere si trovò, con altri, ben armato alla porta del
monastero, ed una carrozza stava preparata in vicinanza alla chiesa
di S. Paolo; prima d'uscire depose la fanciulla la veste religiosa, e
comparve in sott'abito da uomo. Alla presenza di testimonj si
rinnovarono allora ambidue la fede ed il giuramento di sposi, di cui
il cavaliere avea prima fatto dichiarazione in iscritto; e,
senz'altro contrattempo, lasciarono la città.
La
notizia di codesta fuga fece un tal rumore e provocò tanti
parlari, che per molto tempo circolarono scritture in proposito e
poesie di vario tenore; nelle quali, o lo sdegno dell'ascetismo
esaltato condannava altamente quella risoluzione della giovane
monaca, o la pietà spontanea di una ragione più libera
protestava in sua difesa; ma più di tutti levò grido e
si diffuse rapidamente ed ebbe migliaja di copie manoscritte un
sonetto ch'ella medesima scrisse in propria difesa: ed è
questo, che, sebbene scorretto e tutt'altro che prezioso in faccia
all'arte, è preziosissimo in faccia a più gravi
ragioni:
Donde
n'entrai, m'involo alla ventura,
Porto
meco l'onor, la fè nel core.
Benchè
questo rassembri un grande errore,
Pianger
dovrà chi lo mio mal procura.
So
che al mondo non v'è legge sì dura,
Ch'obblighi
un cuore ad un sforzato amore.
Amo
il decoro e son dama d'onore,
Onde
vincer saprò la mia sventura.
Qual
combattuta nave in mezzo all'onde,
Oggi
imploro dal ciel soccorso, aìta
Per
arrivar le sospirate sponde.
Se
fortuna o periglio a me s'impetra,
Sia
noto al mondo come fui tradita,
Se
ben ebbi nel seno un cor di Pietra.
Ma
da Milano i due fuggiaschi viaggiarono sollecitamente a Venezia, dove
si trattennero parecchi giorni in una casa vicina a quella d'altri
Inglesi, nonostante lo strepito che presso la Repubblica faceano il
ministro cesareo e il nunzio del papa. Se non che, essendo stati
avvisati che non avrebbero potuto fermarsì colà più
lungamente senza pericolo, la donna, vestita, come sempre era stata,
da uomo, fu condotta di notte sopra un vascello inglese che stava
alla rada; mentre il cavaliere, dopo averla consegnata al capitano,
per una maggior cautela, passò in altro bastimento olandese. E
bene erano stati avvisati in tempo, perchè il giorno dopo, per
ordine del Magistrato, si fece la ricerca della fuggitiva in quella
medesima casa donde poche ore prima era uscita. Dalla rada di Venezia
passato il vascello inglese a Zante per farvi provvigione di vino per
l'equipaggio, non potè fermarsi colà quanto bisognava,
perchè recatosi di notte al suo bordo il nipote del Console
inglese in quell'isola, avvisò il capitano che suo zio aveva
accordata al governatore la permissione di far la visita al vascello,
per toglierne una religiosa trafugata. Il capitano, levate allora le
ancore, si allontanò dall'isola, apprestandosi alla difesa,
nel caso che lo si fosse attaccato. La mattina seguente si mostrò
infatti una marciliana con altra nave. Ma quella, avendo
scorto che l'equipaggio era sotto l'armi, ed essendo il vento poco
favorevole per tentare l'abbordaggio del vascello, dopo averlo per
qualche tempo inseguito, dovette abbandonarlo. Donna Paola intanto
era stata, per maggior sicurezza, nascosta dal capitano nel fondo del
vascello, dove ebbe a trattenersi parecchie ore. Cessato il pericolo,
all'uscire di quella sepoltura, fu salutata con grandi evviva da
tutto l'equipaggio, già informato delle avventure della
medesima. Il vino che dovea provvedersi a Zante, fu provveduto in
altro porto; e dopo un viaggio non molto lungo, il vascello approdò
felicemente a Londra. Qui donna Paola venne accolta dalle due sorelle
del cavaliere e ritrovò preparata l'abitazione. Il cavaliere
intanto, che per maggior cautela s'era trattenuto alle spiaggie di
Venezia, venne poi con abito mentito ad Ancona, donde, attraversata
per terra l'Italia, giunse a Livorno, dal cui porto con altro
vascello passò in Inghilterra, dove sbarcò poco dopo
l'arrivo di donna Paola.
Sparsasi
per tutta Londra la novella di codesto fatto straordinario, tosto
l'arcivescovo di Canterbury, con proposte onorevoli, tentò
l'animo della donna ad abbracciare la religione anglicana; ma la
donzella fermissimamente dichiarò che, non essendo passata in
Inghilterra per motivo di religione, ella non era in istato nè
in volontà di cangiarla; dichiarazione che ripetè
poscia alla regina medesima, quando, con maggiore grandezza di
offerte, essa le mandò lo stesso invito dell'arcivescovo. La
sola cosa che bramava donna Paola era di convalidare il suo
matrimonio colla presenza d'alcuni parroci cattolici di Londra; ma
questi avendo ricusato di assisterla finchè Roma non avesse
decretata invalida la sua professione religiosa, ella inviò
una supplica al pontefice allora regnante. Ma o non fosse stata la
supplica debitamente concepita, o fosse stata mal diretta, non ne
ottenne risposta veruna; per cui deliberò di condursi in
Francia insieme col cavaliere, e di là, bisognando, anche a
Roma, per implorare personalmente ciò che non s'era potuto
ottenere per lettere.
Giunti
in una città di quel regno, il vescovo, a cui era noto il
fatto già pubblico in tutta Europa, penetrando il loro arrivo,
fece qualche passo per assicurarsi della religiosa. Ma essi, avutone
sentore, sollecitamente si ritiraron in Ginevra, dove dall'istesso
magistrato furono, poco tempo dopo, segretamente avvisati perchè
si guardassero dall'uscirne, essendo attesi ai confini; e qui uno
stratagemma servì loro di scorta, e preso altro cammino,
dubitando di nuovi incontri, se ne tornarono in Inghilterra. Colà,
senza nessun avvenimento notevole, visse donna Paola fino all'anno
1732, con quella tranquillità che le potea permettere la sua
specialissima condizione, e il rimordimento che di tanto in tanto la
infestava d'essersi fatta giustizia da sè stessa, quantunque
pur sempre si confortasse della protesta fatta in suo segreto a Dio,
e della insistenza e diligenza assidua ond'ella erasi adoperata e
s'adoperava per riconciliarsi colla Chiesa. Quando finalmente la sua
fortuna volle che ritrovasse un mercante cattolico di Londra, il
quale prese l'impegno di scrivere ad un suo corrispondente in Roma,
uomo che si assunse l'incarico con religioso calore; e a servir
meglio e l'amico e la coppia virtuosa, recossi a ragguagliarne il
cardinal di Sant'Agnese, di cui aveva la protezione, il qual
cardinale era un Giorgio Spinola di Genova. Questi, riflettendo alla
gravezza dell'affare, ne parlò tosto al Santo Padre, ed al
cardinale Vincenzo Petra penitenziere, dal quale, coll'assenso
pontificio, fu per mezzo dello stesso mercante spedito sollecitamente
a Londra il solito breve assolutorio col salvacondotto, affinchè
la donna nel termine di sei mesi si portasse a Roma. A tale uopo
furon dati gli ordini a banchieri di varie città pel
somministramento del denaro e di tutto quello che nel viaggio potea
bisognare alla medesima.
All'arrivo
di questi ricapiti, benchè fosse il cuor dell'inverno, partì
donna Paola da Londra con un cameriere cattolico; ed attraversata la
Francia sotto altro nome, giunse a Marsiglia, non senza gravi
patimenti cagionati dalla stagione, e il giorno 8 febbraio 1733 entrò
in Roma. Il cardinal di Sant'Agnese, avvisato preventivamente
dell'arrivo, fe' che le movesse incontro una matrona di esemplare
saviezza, in casa della quale donna Paola si trattenne segretamente
alquanti dì, trascorsi i quali, per ordine del pontefice,
passò al convento del Bambino Gesù, sotto apparenza di
dama fiamminga, per ivi addurre le sue ragioni contro la profession
de' voti.
La
prima determinazione del papa fu di deputare un congresso di
cardinali, dal quale si esaminasse se una tal causa dovea agitarsi
nella Congregazione del concilio o nel tribunale della sacra
Penitenzieria. Le gravi e particolari circostanze che, a primo
aspetto, si videro in quest'affare, fecero abbracciare il secondo
partito. Per operar tuttavia con più cautela, a' giudici della
Penitenzieria furono aggiunti cinque cardinali, fra' quali lo stesso
prefetto della Congregazione del concilio.
Da
lungo tempo non eravi stata in Roma una causa più intralciata
di simil materia. Tre volte, in tempi diversi, radunossi la
Congregazione, e si tennero altresì molti Congressi. Non potè
sapersi quel che in essi s'andasse di volta in volta determinando: ma
quello che si può dire è, che le prove delle violenze
da principio accennate, furono, dopo quasi tre anni, poste in sì
chiaro lume che, non potendosene dubitare neppur da' giudici più
austeri, finalmente, nel mese di settembre dell'anno 1735, a pieni
voti venne fatto dalla Congregazione il decreto: Constare de
nullitate professionis. Il papa confermò il decreto, e,
dopo risolute altre dipendenze, fu data a donna Paola la libertà
d'uscire dal chiostro, in cui aveva dimorato per tutto quel tempo con
universale edificazione.
Donna
Paola Pietra, toccato così il supremo suo intento, a cui
incessantemente era stata fida, più, quasi diremmo, per
un'ostinazione della mente che si esaltava nell'idea di aver per sè
il diritto e la giustizia, che per la probabilità della
riuscita, lasciò Roma, sicurissima di sè medesima,
poichè s'era come veduta espressamente protetta dalla
provvidenza; e ritornò in Inghilterra a ricongiungersi con
colui che l'aveva tratta in salvo, e che sempre le si era mantenuto
religiosamente fedele. Abbandonata poi l'Inghilterra, venne con esso
a Roma dove solennemente ei la sposò. Ma la fortuna non volle
permettere che tanta felicità fosse duratura, e, dopo tre anni
di convivenza maritale, il virtuosissimo gentiluomo venne a morte,
lasciandola madre di due figli. Donna Paola per qualche tempo se ne
stette nelle vicinanze di Roma, poi, nel 1743, dopo tredici
anni di assenza, ritornò a Milano a fermarvi stabile dimora.
Un tale ritorno gettò lo sgomento in coloro che l'avevan
voluta sagrificare, sapendola così efficacemente protetta dal
santo padre; ma provocò un tripudio universale, tanto che le
diverse maestranze della città la vollero festeggiare con
notturna luminaria. Ed ella, se magnanima disprezzò tutte le
vili paure di chi l'aveva voluta opprimere, non mostrando nemmeno di
ricordarsi di loro; volle corrispondere efficacemente a quella
pubblica estimazione con atti di carità viva, col farsi
consolatrice degli altrui dolori, col metter pace nelle trambasciate
famiglie; più spesso, col difendere contro l'attentato de'
tristi l'innocenza che non si guarda; tra i molti suoi atti meritorj
aveva destato gran rumore un viaggio che fece appositamente per
ottenere da Maria Teresa la grazia della vita per un giovane,
colpevole d'aver ucciso un cavaliere che avea fatto contumelia alla
sua fidanzata. Naturalmente dotata di acuto intelletto, fortificata
dall'esperienza, virtuosa senza rigidezza, benefica senza
ostentazione, era essa richiesta di consiglio anche da persone di
gran riguardo.
Quand'ella
recavasi a passeggiare lungo le pubbliche vie, era segno agli sguardi
di tutti quel suo grave aspetto, in cui serbavansi tuttavia i resti
di una maestosa bellezza; aspetto grave di quella placida mestizia
che viene dalle angoscie passate, dalla memoria di una perdita
irreparabile, dalla severa considerazione della vita; ed ella, che
nell'animo avea tanta pietà per altrui, ne destava poi
altrettanta in tutti coloro che la guardavano, conoscendo il suo
passato; poichè facea senso quel perpetuo suo lutto vedovile,
il quale attestava un dolore che non poteva aver riposo nella vita; e
faceva senso quel suo comparire in pubblico assiduamente accompagnata
dai due suoi figliuoli già quasi adulti, e come lei vestiti a
lutto, e severi e mesti al par di lei. E davvero che il gruppo
di quelle tre figure, che si staccava come un simbolo di dolore sul
fondo vivace e variopinto e giocondissimo di quel tempo, giungeva a
compungere di gravi pensieri quella società così
spensierata e vana, la quale, ignara delle fiere lotte che
l'aspettavano, non attendeva che a darsi buon tempo, come chi spende
e getta e scialacqua le ultime ricchezze, e tuffa nell'ebrietà
il pensiero del domani.
Era
dunque stato un felice pensiero della contessa Clelia, quello di
voler recarsi da questa donna Paola Pietra, e per richiederla di
consiglio in un affare dilicatissimo e serio, e che poteva aver
conseguenze luttuose, quantunque vestisse le apparenze di un amore
galante; e per versare nel cuore di colei le ambascie, che ormai non
potevano più esser contenute nel suo.
X
LIBRO
SECONDO
La
ballerina Gaudenzi e Lorenzo Bruni. I pensatori celebri e
oscuri e i nembi precursori della procella sociale. Lo studio
del pittore Londonio. Artisti milanesi nel 1750. Il
pittore Clavelli e le maschere-ritratti. Gli Zanni. La
maschera del Tasca. Meneghino. La villotta di Cesare
Larghi. La lanterna magica del pittor Londonio. Il
minuetto. La prima domenica di quaresima. Il Capitano
di Giustizia. Sistema di giurisprudenza. Il processo
criminale. Venezia. Il lacchè Andrea Suardi
detto il Galantino.
I
Se
il lettore desiderasse di tener dietro alla povera contessa Clelia,
per conoscer tosto le sue risoluzioni e le conseguenze di esse, noi
ci troviamo nella necessità di non poterlo accompagnare,
perchè siamo invitati da altre persone, per esempio dalla
ballerina Gaudenzi, la quale in quella sera in cui il pubblico
delirio toccò la sua massima espressione al di lei riguardo,
si trovò in camerino l'usciere del Pretorio che le presentò
una citazione a comparire; e subito dopo vide il signor Lorenzo
Bruni, violino di spalla per l'opera, e primo violino direttore
d'orchestra pel ballo; il signor Lorenzo Bruni venutogli innanzi
agitato, convulso, iracondo e cogli occhi stralunati; il quale, se in
quella sera non proruppe in parole violenti e non fece una scena
dietro le scene, è perchè i veglianti regolamenti
proibivano a quelli dell'orchestra di andare in camerino, ed egli
comprendeva che, se i cavalieri ispettori chiudevano per lui, a loro
dispetto, un occhio su quella contravvenzione, perchè così
voleva la da tutti quanti idolatrata Gaudenzi, avrebbero còlto
però assai volontieri la prima occasione in cui egli avesse
commesso qualche stranezza, per far ritornare nel più crudo
rigore i regolamenti del palco scenico. Però erasi limitato a
dir sottovoce alla Gaudenzi, ma con un fremito mal compreso:
Che cosa dunque è successo, Margherita?
Ma non siete contento? Non vedete, che pazzie fa il pubblico per me?
Pazzie, eh?
O forse vi dà noia che il pubblico divida le sue grazie in due
esatte porzioni tra me e il tenore?
Il tenore, eh?... il tenore... Ma sapete che cosa si dice in pubblico
di voi?... Ma sapete perchè il pubblico v'applaudisce?
Gran novità da domandare e da sapere.... perchè il
pubblico m'applaudisce? Oh curiosa!.... perchè siamo belle,
perchè siamo divine, come dicono gli allocchi che vengono da
me; perchè Tersicore potrebb'essere la nostra fantesca, come
dice il poeta di teatro; perchè, in conclusione... Ma guardate
che paio d'occhi mi fate ... Ma sapete che siete bello stasera, ma
bello assai... Oh che matto!
Matto? Or sentirete se son matto, or sentirete che cosa dice il
pubblico di voi... Dice... dovreste per dio sentirvi a scottar la
faccia pel rossore della vergogna... Dice che il tenore stanotte era
disceso dalla finestra della vostra stanza, in quel punto che fu
preso dal bargello...
Ora ho capito, oh bella!... e una sonora e lunga e giocondissima
risata, di quelle che in buona lingua si chiamano cachinni, fu il
comento che la Gaudenzi fece a quella notizia inaspettata. Poi
soggiunse: Guardate, Lorenzo, cosa c'è lì su
quel tavolino.
Che? una citazione?
Una citazione, sì... ma ora comprendo tutto, oh bella, bella
davvero!
E
per quella sera non ci fu altro, perchè il fischio acuto e
importuno dell'avvisatore costrinse Lorenzo ad affrettarsi in
orchestra; e la Gaudenzi, quando il ballo fu finito e rivide Lorenzo
più torbido di prima:
Addio, Lorenzo, gli disse; avete bisogno di dormire... e di far buona
cera; a rivederci domattina, caro; e vispa e vivace e saltellante e
sghignazzante l'aveva lasciato là senz'altro.
Ma
la mattina venne presto, e quando fu un'ora ragionevole, Lorenzo
Bruni non si fece aspettare, ed entrato nell'angusto ma elegantissimo
appartamento della Gaudenzi:
È alzata la Margherita? domandò ad una zia di
lei; una zia rachitica e gibbosa, ma piena di acutezza, e che stava
presso a quella giovane beltà come il cane che ringhia sul
tesoro messo sotto la sua custodia.
Lorenzo
Bruni non aveva finito di nominar la Margherita, che questa, coi
capegli mal raccolti dalla notturna rete e fuggenti sulle spalle, e
in veste breve e discinta, dalla stanza da letto balzò con un
salto nella camera dov'egli trovavasi colla zia; e appoggiando
ambedue le mani sulle spalle di lui, fece due o tre battements
rapidissimi, dicendogli intanto con aria motteggiatrice e
carezzosa:
Siete guarito, Lorenzo? e accompagnò queste parole con
quella giocondissima e suonante risata a lei abituale; suonante e
leggera, e nel tempo stesso plebea insieme e gentile, che
assomigliava ad una scala musicale o ad un vocalizzo, in cui le note
spiccansi nette e granite; o che, se il confronto non è troppo
da naturalista, pareva il lieve e oscillante nitrito di una cavallina
che si stacchi allora dalla materna poppa. Lorenzo, venuto là
torbido e arrovesciato, com'ella ebbe finito di saltare e di ridere,
non potè a meno di spianare la sua fronte corrugata; tanto era
completo e ricreante lo spettacolo che, avvolta così a
bardosso nelle bianche vesti mattinali, offeriva quella regina della
beltà, della gioventù, della salute e dell'allegrezza.
E tale davvero era la Gaudenzi, che, veduta a quell'ora, avrebbe
fatto girar la testa anche al rettore magnifico dell'università
di Bologna. E tanto più riusciva pericolosa, quanto più
era inconscia degli effetti che produceva; effetti che potevan
suscitare incendj funesti, perchè nella vivacità
romorosa e irrequieta e, quasi diremmo, infantile, del suo carattere,
ella celava una calma profonda e inalterabilmente serena, cui nulla
avrebbe potuto offuscare.
E
a vedere com'ella moveva e girava quei suoi grandi occhi azzurri, e
come li fermava negli occhi altrui era imposibile credere che quegli
sguardi non avessero una significazione profonda; ed era impossibile
a non sospettare com'ella non fosse innamorata morta di
chiunque, segnatamente se fosse un bel giovane, che stesse parlando
seco; e che il più delle volte, infatti, beveva avidamente la
luce di quelle pupille, esclamando fra sè con gran tripudio:
Son io dunque il fortunato! Ma ella non ne sapeva
nulla, tanto era tranquilla e ingenua!! Ingenua, sì signori,
quantunque da nove anni, (chè allora toccava i diciotto)
respirasse l'aria torbida e la polvere corrosiva del palco scenico.
Ma oltre ad essere perfettamente calma, era anche perfettamente
buona; e la calma e la bontà, moltiplicate per una salute non
mai stata turbata dal giorno che, bambina, aveva finito di metter
l'ultimo dente, sino a quell'ora, davano per prodotto il buon umore
appunto, e l'allegria costante; al che, se si aggiunga un'esistenza
vissuta nell'agiatezza senza il fasto, tra gli applausi senza
l'invidia, nell'amore dell'arte che la preoccupava assiduamente senza
le amarezze di chi non è al primo posto, e tutto ciò
col condimento di un'ignoranza felice, ignoranza d'ogni altr'arte e
d'ogni altra cosa; il lettore potrà valutare completamente il
fenomeno di questa figliuola ingenua della natura, della natura che
aveva voluto appunto sfoggiare tutti i proprj tesori nel formarla e
nel crescerla.
Ma
in che rapporti viveva questa giovinetta di diciott'anni con Lorenzo
Bruni, e in che tempo si erano conosciuti e in che modo? e da qual
luogo erano usciti e l'una e l'altro?
Lorenzo
Bruni aveva avuto per patria Treviso, dove nacque da un padre notajo,
trentacinque anni addietro. Anch'esso aveva atteso alla
giurisprudenza nello studio di Padova; ma essendosi applicato, così
per passatempo, a suonare il violino, e riuscitovi più che
mediocremente, e fatto con questo i primi guadagni a Venezia, e non
colla giurisprudenza, la quale invece lo aveva condannato alla
soggezione di un padre insopportabile, tempra curiosa d'uomo che
forse suggerì l'idea di sior Todero a Goldoni; risolse
di non farne altro, e un bel giorno, senza domandare il permesso
paterno e senza nemmeno salutare i consanguinei, fece la scritta con
un impresario, e passò da Venezia a Bologna; e così,
d'orchestra in orchestra, percorse le principali città
d'Italia. A Livorno s'impegnò in seguito con un impresario di
Marsiglia, e da questa città erasi condotto a Parigi, dove
rimase un pajo d'anni. Libero come l'aria e insofferente d'ogni
benchè minimo legame, aveva scelto la professione di suonatore
appunto perchè, indipendente da qualunque padrone, da
qualunque paese, da qualunque autorità, cittadino di tutto il
mondo, trovava dovunque il fatto suo. E oltre a ciò, dotato di
mente svegliatissima e istrutto più che mediocremente,
travasandosi di luogo in luogo, si godeva a notare le varietà
dei costumi, della natura dei paesi, dell'indole dei ceti, delle
leggi, delle corti, de' cortigiani, delle arti, ecc., e a far la
conoscenza degli uomini più distinti d'ogni città che
visitasse; a Parigi, tra gli altri, aveva avvicinato Voltaire e
Rousseau e Diderot e d'Alembert. Quella sua natura inquieta e libera,
per la quale non aveva potuto sopportare il giogo paterno, nè
indursi a chiudersi in una città sola per tutta la vita,
dimostra com'egli fosse più adatto che mai ad esaltarsi alle
idee di quei quattro atleti dell'intelligenza, che erano destinati a
far da leva al mondo invecchiato.
Fin
da giovinetto, quantunque i precetti paterni avessero fatto di tutto
per chiudere il suo spirito in una scatola, egli aveva però
compreso, in confuso, che troppe cose non andavano bene intorno a
lui; a Venezia, per esempio, si era invelenito pensando alla
consuetudine delle denunzie segrete, e siccome aveva visto che colà
al reggimento della cosa pubblica non saliva che il patriziato, ad
esso dava colpa di tutto e l'aveva preso in odio con tutta
l'esagerazione di un giovane più caldo che riflessivo, il
quale non guarda che un lato unico dei prospetti umani. Nè,
quando stette fuori di Venezia, potè mai nelle altre città
trovar cosa che placasse l'ideale delle sue aspirazioni; e allorchè,
venuto a Parigi e lette le prime opere di Voltaire, e sentitosi preso
d'amirazione per esso, udì poi raccontare il fatto,
incominciato a tavola del duca di Sully, tra Voltaire e l'arrogante
marchese Rohan Chabot, e finito in istrada con quella bastonatura che
il nobile borioso avea fatto applicare, per vendetta, a Voltaire;
tanto più sentì crescere l'avversione verso quel ceto,
il quale allora almeno, se non cercava di aggiungere i proprj ai
meriti aviti, si ajutava d'orgoglio e di prepotenza per essere
rispettato. E, in tale avversione, Lorenzo non aveva nè modo
nè misura; e quantunque ricevesse le sue impressioni dalla
realtà che lo circondava, pure, trascinato dall'imaginazione,
o infervorato dallo sdegno, della società di allora faceva
piuttosto la caricatura che il ritratto.
Avveniva
pertanto che se, per esempio, raccontavasi qualche bell'atto generoso
di un qualche nobiluomo, egli se ne rodeva come di una causa perduta,
e cercava cento modi per offuscarlo; e invece, se taluno della bassa
plebe si fosse distinto per un qualunque nonnulla, ei ne menava sì
lungo scalpore, da provocare lo spirito di contraddizione anche in
coloro che pur la pensavano al pari di lui. Era insomma un uomo
irrequieto, e che malissimo s'adagiava nel suo tempo. Ma, di
tali uomini, in quel momento critico della metà del secolo
passato, ne eran nati parecchi, non si sapeva come, in molte parti
dell'Europa. Eran come quelle nuvolette bigie che si mostrano a
grandi lontananze e a vari punti dell'orizzonte su di un cielo tutto
sereno di un giorno d'estate e d'affannosa caldura; nuvolette che
sembran comparse a caso e per dileguarsi tosto; ma che, invece,
s'avvicinano grado a grado e, nell'avvicinarsi, s'ingrandiscono
finché, a un tratto, tutto il cielo non è che una
nuvolaglia sola, e intanto il sordo brontolìo del tuono si fa
sentire in lontananza.
II
Codesti
curiosi mortali che, dotati d'intelligenza eccedente la sfera comune,
non poteano trovarsi bene nel loro tempo e ne sentivano la
pesantezza, non sapeano ancora, al punto in cui siamo con questa
storia, quel che si volessero. Assomigliavano a chi, fornito di fibra
delicata e straordinariamente eccitabile, si sente dominato da un mal
essere che non sa spiegare, e volendone assegnare la causa all'aria,
alla stagione, a qualche cosa insomma, si vede invece contraddetto
dal limpido sole e dalla serenità del cielo e dall'allegria di
quanti lo circondano, i quali si lodano e del tempo e del sole e
dell'aria. Tale era la condizione in cui versava la maggior parte
delle intelligenze squisitamente acute che vivevano alla metà
del secolo passato. Del resto, nemmeno Voltaire sapea precisamente
quel che si volesse, quantunque fosse il più maturo di tutti;
nemmeno Diderot, che si agitava in un'assidua contraddizione e, se
parlava chiaro negli intimi sfoghi cogli amici, smarriva il coraggio
quando trattavasi di stampare quel che pensava; nemmeno Rousseau, il
quale non faceva che accusare un gran dolore senza saper indicarne il
luogo. Al pari di costoro, che, per l'ardimento sin colpevole delle
loro opere, dovevan poi salire al più alto fastigio della
rinomanza, un numero non piccolo d'uomini ignoti e dalle circostanze
condannati all'oscurità perpetua discutevano e si disfogavano
ne' parlari privati; anzi era codesta massa di uomini ignoti che
somministravano la materia, e venivano a determinare i propositi di
quelli chiamati a capitanarli. Ed uno di tali uomini, che nel sentire
e nel considerar le cose, non era inferiore a quegli ingegni
predestinati all'immortalità, era Lorenzo Bruni, che forse
avrebbe potuto spiccare sul fondo del suo tempo fra i pensatori più
audacemente liberi, se invece di suonare il violino in tutte le
orchestre delle principali città di Europa, avesse atteso agli
studj con volontà costante, e avesse avuto pazienza di
sopportare il burbero padre.
Lasciata
Parigi, quando finirono i suoi obblighi contratti coll'impresario, e
ritornando in Italia, Lorenzo conobbe a Venezia la Margherita
Gaudenzi ancor fanciulla, rimasta due anni addietro orfana del padre,
stato ballerino grottesco e morto d'una contusione per un salto
mortale mal calcolato; e poi anche della madre, perita nell'incendio
del teatro di Sinigallia, la quale, esercitando la professione di
figurante ed essendo stata una bella donna, avea sempre fatto
le parti d'una qualche dea, quando non si trattava nè di agire
nè di danzare; e nelle pantomime che finivano coll'Olimpo
illuminato, costantemente era stata incaricata di sedere in qualità
di Giunone accanto a Giove Tonante. La fanciulletta,
quando rimase orfana, era già tanto innanzi nell'arte, da
eccitare la meraviglia di quelli della professione. Allorchè
Lorenzo Bruni la vide per la prima volta a ballare sulle scene del
teatro di San Moisè, ne fu anch'esso maravigliato, insieme col
pubblico che accorreva da tutte le parti della città per
ammirare quel piccolo portento; tuttavia, rincrescendogli che
anch'ella, come voleva il pessimo gusto di allora, si lasciasse
andare alla danza grottesca, e ricordevole delle lunghe discussioni
tenute a Parigi con Rousseau stesso, sull'origine e sullo scopo del
ballo, nell'occasione che al teatro del Re aveva ballato la celebre
Guzzani; e abborrendo al pari del Ginevrino, quella danza che non può
al bisogno, suggerire movenze e pose e contorni e linee al pittore ed
allo statuario, e non sapendosi contenere nei limiti di una casta
eleganza, si abbandona frenetica e lasciva, a inconditi movimenti, in
cui non si cerca che di superare strane difficoltà;
dispiacendogli dunque tutto ciò, volle conoscere quella
fanciulla, colla quale tanto disse e tanto fece, che senz'esser
ballerino e solamente guidato dal buon gusto e dal bisogno che
sentiva di riformar tutto, la ridusse ad un sistema di danza allora
insolito, ma che pure destò ovunque un insolito entusiasmo;
tanto è vero che v'è un bello assoluto, il quale
trionfa anche ne' più corrotti periodi dell'arte! Basta solo
avere il coraggio di promulgarlo.
Era
dunque stato in gran parte per merito di Lorenzo Bruni, se la
Gaudenzi aveva potuto riuscire un'eccezione gloriosa tra le
danzatrici più celebri del suo tempo. Ma siccome la
fanciulla aveva obbedito, fosse per naturale pieghevolezza, fosse per
un felice istinto, alla volontà di Lorenzo, e questi
compiacevasi del frutto dei proprj consigli; così venne
stringendosi tra di essi una spontanea dimestichezza, che stava però
ne' rapporti di un maestro colla scolara, d'un tutore colla pupilla;
il qual tutore, guidato da una grande onestà naturale, e
sollecitato da quel suo spirito irrequieto e originalissimo che lo
metteva sempre in contraddizione colle opinioni più generali;
volle, aiutando la custodia vigile della zia della fanciulla, far
vedere al mondo come la virtù potesse conservarsi intera anche
in seno a quella professione che, comunemente, era creduta il varco
della perdizione. Suonatore di violino, aveva seguìto così
la fanciulla, da quell'ora in poi, di teatro in teatro, facendole
sempre da padre e da tutore e da maestro. Se non che il padre e il
tutore, man mano che la fanciulla cresceva, e l'adolescenza diventava
giovinezza, sentì in petto qualche cosa che non era più
nè calma di affetto paterno, nè severità di
precettore. Gradatamente insomma e inconsapevolmente s'era innamorato
della fanciulla; ma se non aveva mai voluto confessar ciò
nemmeno a sè stesso, non è possibile che volesse
manifestarlo alla giovinetta Margherita, la quale di qualunque benchè
minimo sospetto non aveva neppur gli elementi in sè stessa,
onde continuò con ingenuità e con obbedienza a non
riguardarlo che come padre e tutore. Se taluno de' nostri lettori è
così mal andato di salute da rifiutarsi a credere ciò
che diciamo, non getteremo nè il tempo nè il fiato per
cercare argomenti a persuaderlo. Non si crede veramente se non ciò
che si sarebbe capaci di fare.
Di
teatro in teatro, eran venuti ambidue la prima volta al Ducale di
Milano, nel 1748, dove erano stati confermati per il carnevale
dell'anno 1750. Godeva il Bruni dei trionfi della sua, diremo dunque,
pupilla; godeva a sentirla lodata dappertutto dell'onesta virtù
onde conservavasi ornata; perchè, anche ne' tempi del più
indulgente galateo morale, e del più rilasciato costume, la
virtù è sempre applaudita e rispettata, al pari del
vero bello artistico che trionfa ognora, pur nel mezzo delle
deviazioni del gusto. Pensi ora adunque il lettore che pugnalata al
cuore di Lorenzo dovette essere la prima voce che gli giunse
all'orecchio del sospettato amore di Margherita con Amorevoli e, più
che dell'amore, della notturna tresca. Per verità che non
prestò fede neppur un istante a quella bugiarda voce, e tanto
più che, quando entrò nel camerino della Margherita a
dirle di che trattavasi, le vide l'innocenza in volto e s'accorse
d'un'ingenuità fin quasi stolta in quel suo ridere
spensierato. Ma che fa l'esistenza delle virtù se nessuno ci
crede?
Lorenzo,
pur mettendo da canto ogni altro affetto, sentiva l'entusiasmo della
vittoria nel poter dire: Cosa mi diventano tante dame superbe
che tutti i giorni cambiano il cicisbeo come la camicia? cosa mi
diventano al confronto di questa povera figliuola di un grottesco e
di una figurante? E una voce sinistra, che in un baleno era
corsa per tutta la città, aveva bastato a distruggere tutto, e
a far succedere parole turpi e scherni inonesti al rispetto di prima!
Perchè ben è vero che gli applausi della sera trascorsa
eran saliti fin al velario per festeggiar la Gaudenzi; ma eran gli
applausi di quella parte di pubblico che avea goduto nello scoprire
che la intemerata colomba, cui bisognava rispettare per forza, era
pur essa iniziata ai misteri d'amore tanto allora in voga.
Cara mia, disse dunque Lorenzo alla Margherita, quando questa,
ridendo, gli domandò se stava bene di salute; voi ridete, ma
vogliatemi credere che non c'è da ridere.
La
Margherita si fece allora un po' seria, e soggiunse :
Caro Lorenzo, non vi comprendo; in fin de' conti la verità è
una sola... e quando avrà parlato, perché so parlar
alto anch'io, vedete, quand'è necessario, ogni sospetto sarà
dileguato.
Cioè volete dire che non avrete più citazioni in
Pretorio, e nessuno potrà insultarvi impunemente, se non vorrà
essere passato da una parte all'altra, perchè di scherma io so
giocar tanto bene, quanto suonare un a-solo di violino. Ma
tutto ciò non vuol dir nulla... e fino a tanto che non esca il
nome di colei per la quale il tenore dev'essere venuto in queste
vicinanze, a nessuno potrà esser tolto dalla testa che voi
eravate l'oggetto delle sue visite notturne.
Ma perchè io e non altre! Domandate a Zampino, il quale
stamattina è venuto per le solite cose del teatro, quante
donne furono chiamate a comparire... N'è vero, zia?
È vero, disse questa, ma la compagnia non vi fa molto onore...
Una è la moglie d'un gabelliere che sta lì
dirimpetto... L'altra sta lassù al quarto piano e si diletta
di far la cucitrice. Belle e giovani tanto l'una che l'altra, ma
della loro onestà non mi parlate. Chiedetene qualcosa alla
Gilda che ci serve, e sentirete... Ben v'è la moglie d'un
pittore che gode buonissimo nome, e la bella figliuola d'un
mercante... della quale non c'è chi dica male... Ma in
conclusione, voi vedete, signor Lorenzo...!
Ma! esclamò egli strabuzzando gli occhi; e stette un
momento silenzioso, poi soggiunse: In Pretorio v'accompagnerò
io stesso, Margherita, e chiederò io stesso di parlare al
signor giudice. Fate adunque di esser pronta fra un'ora, ch'io sarò
a pigliarvi in carrozza.
L'ora
passò, Lorenzo venne colla carrozza, e la Margherita
accompagnata dalla zia, vi salì tosto. Giunsero tutti e
tre verso mezzodì al Pretorio, dove s'accorsero che una folla
di curiosi stava aspettando nel cortile. Quando la Gaudenzi ascese lo
scalone e corse la voce della sua venuta per tutti gli ufficj del
Pretorio, molti calamaj macchiarono d'inchiostro atti e processi e
libelli, tanta fu la fretta e la furia degli impiegati per giungere
in tempo a vederla. Notaj, auditori, uscieri, scrivani, colla penna
nell'orecchio e i paramanica di bambagina verde, facean capolino
dagli usci e dalle finestre; altri uscivan sul corridoio per dove la
Gaudenzi aveva a passare, fingendo un'incumbenza di premura. Altri le
s'attraversavano al passo per guardarla in faccia ben bene, con gran
dispetto di Lorenzo. Ma questi potè confortarsi quando,
all'annuncio della Gaudenzi, il giudice, ch'era giovane e di maniere
squisite, le mosse incontro, dicendole alquante cose cortesi, e
concedendo sì alla zia di lei come a Lorenzo di assistere
all'esame, e di essere interpellati in proposito.
Le
domande del giudice, le risposte della fanciulla Gaudenzi, le
osservazioni di Lorenzo, le appendici della zia rachitica
costituiscono un dialogo da empire quattro facce di processo verbale,
dialogo che noi abbiam qui, e che per molti rispetti non è
indegno d'una lettura, ma che potrebbe anche provocar gli zitti di
quella parte di pubblico che preferisce la musica veloce di Verdi a
tante altre musiche; onde, senza riportarlo, ci limiteremo a dire che
le sue risultanze furono tali, quali ciascun lettore poteva
aspettarsele. Il tenore Amorevoli, interrogato prima dal giudice sul
fatto della Gaudenzi, aveva parlato e protestato in modo da
impedirgli una soverchia insistenza nell'ordine delle domande da
farsi alla Gaudenzi stessa. E il giudice, quando ebbe praticate tutte
le indagini iniziatrici, come voleva il suo ufficio, accorgendosi che
le cose prendevano una piega ostinata, risolse di non farne altro, e
di passare al criminale il processo così incoato. Ma Lorenzo
non fu pago per nulla di quell'esame, perchè, si apponesse o
no, gli parve che il giudice, il quale aveva lasciato andar qui e là
qualche epigramma e qualche scherzo gentile, non fosse del tutto
persuaso dell'innocenza della Gaudenzi; e ciò ch'è
peggio, allorchè, dopo ricondotta al suo alloggio la
Margherita, egli si gettò ne' pubblici ritrovi della città,
a sentire come generalmente la si discorresse, dovette fremere più
d'una volta alle parole che udì, e più d'una volta fu
per venire a qualche atto violento, onde, se si contenne, fu un
miracolo.
Almanaccando
così mille cose, e pensando al modo di far saltar fuori la
complice, se ne tornò in quel giorno verso il quartiere dove
era la casetta della Gaudenzi, il palazzo del marchese F... e quello
della contessa V... Entrò dai portinaj e nelle botteghe là
presso, interrogò serve e servitori e lacchè e
barbieri, esplorò porte, cancelli e finestre; chiese conto dei
signori padroni del giardino dov'era stato còlto Amorevoli, e
quando sentì a nominare la contessa Clelia, e dire ch'era
giovane e bella, egli che non sapeva nulla nè del suo
carattere austero, nè della sua dottrina astronomica, disse
tosto fra sè: Ma perchè, la si lasciò da
parte costei?... Ma perchè? Nessuno de' cittadini
milanesi, i quali erano compresi della fama di quella donna
intemerata, nemmen per ombra avean potuto fare un sospetto su di
lei... ma Lorenzo, il quale era di fuori, e non era stato a Milano
che due stagioni, e, se conosceva pittori e poeti e accademici, non
conosceva tutta quanta la nobiltà, nel suo sospetto non fu
arrestato neppur da un dubbio; e sdegnato di que' privilegj manifesti
e segreti che si accordavano ai grandi signori, quasi fu per recarsi
dal giudice; ma, pentitosi di quel partito, che poteva aver aspetto
di denuncia, giurò di venirne a capo in altro modo, e quello
che si avvisò di fare e che fece, nessuno se lo potrebbe
imaginare in mille anni...
Ma
e la contessa Clelia?... Ah pur troppo che non ebbe il coraggio di
metter tosto in atto il consiglio di donna Paola Pietra, come
sentiremo poi; e volendo lasciar passare gli ultimi tre giorni di
carnevale, per istornare uno scandalo che, secondo lei, sarebbe
riuscito rumoroso in mezzo alla folla dei teatri, delle feste, delle
mascherate, aveva pensato di aspettare il primo giorno di quaresima
per adempire al dovere... Ma precisamente quegli ultimi giorni di
carnevale le dovevano esser fatali.
III
Lasciando
per ora da un lato l'infelice contessa, che in ventiquattr'ore è
già dimagrata; e dovendo infingere col conte marito, colla
cameriera, col parrucchiere seccatore e venditor di frottole
instancabile, colla sarta, che in quel dì le portò fin
quattro vestiti, l'uno più bello dell'altro, per farne sfoggio
in teatro e alle feste, infingersi con tutti quanti l'avvicinavano, i
quali erano invasi dall'allegria del secolo e dalla pazzia della
stagione; quasi era per morire dello sforzo violento che faceva onde
chiudersi in petto la passione. Ci conviene inoltre lasciare
nella solitudine del suo camerino in Pretorio il tenore Amorevoli,
pentito e strapentito d'essersi impigliato in quel terribile vischio;
e che, a dar sfogo al dispetto che lo rodeva e a passare il tempo
della giornata lunghissima, solfeggiava a voce distesa, onde tener la
gola preparata per la sera, e talora cantava alcuna cabaletta o
dell'Artaserse, o della Semiramide riconosciuta, o
dell'Olimpiade, e si concitava nell'esprimere:
Se
cerca, se dice
L'amico
dov'è ......
L'amico
........
E
come se fosse in teatro, quando era alla cadenza, dove azzardava, per
non esser al cospetto del pubblico, i passi e le volate più
audaci, sentiva le voci e gli applausi di un altro pubblico, lo
scarso pubblico inquilino insieme con lui de' locali del Pretorio,
voci maschie e anche voci femminine; ladri di mezzo carattere, e
tagliaborse novizj, e debitori insolventi e donne di Pafo che
s'attaccavano all'inferriata a strillare il loro bravo,
appannato dalla raucedine e dall'accento del vernacolo di Cittadella;
e a cantare anche, come per corrispondergli un complimento, una di
quelle canzoni da orbo, che in que' dì scriveva Pietro Cesare
Larghi:
Imparate,
o peccator,
Con
la stanga del dolor
A
sarà la porta granda
Che
a l'inferno la ve manda.
Amorevoli
taceva, si guardava i calzoni di raso azzurro colle stelle d'argento
e diventava malinconico, indignandosi d'essere stato messo là
con quella gente; chè, pur troppo, se non ci si è
provveduto oggidì, tanto meno a quel tempo s'era pensato ad
un'opportuna segregazione tra le diverse qualità d'imputati, e
tra gl'imputati e i rei. Ci convien dunque lasciare alle sue
pene il tenore Amorevoli. E dobbiam privarci della compagnia
edificante di donna Paola Pietra, e tutto ciò per seguire il
signor Lorenzo Bruni in san Vicenzino, nella casa che, movendo dalla
contrada de' Meravigli, è anche oggi la quarta a dritta.
In
quella casa, a piano terreno, verso il giardino, teneva il suo studio
il giovane Francesco Londonio, e più forse che studio di
pittura, vi teneva accademia sempre aperta di allegria, e fabbrica
operosissima di scherzi e matterìe; e ritrovo, a una cert'ora,
di tutti i pittori e scultori ottimi, buoni e grami che allora
possedeva Milano; e in que' giorni di carnevale, quartier generale
della compagnia dei Foghetti, di cui esso era il
capitano.
Lorenzo,
che già altre volte erasi recato a quello studio, vi si
diresse difilato; e indugiatosi un momento all'ingresso, prima di
bussare, sentiva il suono d'una voce che parlava, la quale veniva
susseguita, di tratto in tratto, da una risata unissona di più
persone. E codesta risata pareva come un intercalare obbligato alle
pause che faceva il parlatore. Quando tra una mano di persone v'è
una grande allegria e una gran vena di motteggio, riesce penoso, non
si sa bene perchè, il farsi tra di loro non chiamato: e
Lorenzo, che pur conosceva que' compagnoni, stette un momento in
forse per tornare indietro, ma si fece poi animo e bussò
forte. Avanti, avanti, avanti, gridarono più
voci ad una; ed egli entrò...
Oh!! benvenuto, signor Lorenzo...
Benvenuto.
Benvenuto... signor capitano degli archetti; le presento qui, nel
nostro pittore Gazzetta, un buon suonatore di violino, il quale
giacchè le fabbricerie lo lasciano senza lavoro, vorrebbe
ritrovarsi in orchestra.
Chi
parlava era il giovane Londonio, la cui figura dovendo comparire a
più riprese, in mezzo alle tante che popoleranno il nostro
quadro centenario, è bene si sappia quello che ancora non è
stampato in nessun libro, come cioè, nato in Milano nel 1723
(e fin qui ci arriva anche il Ticozzi nel suo Dizionario de'
pittori), fosse discendente di una famiglia originaria spagnuola, che
si chiamava Londognos, feudataria di Ormilìa, un ramo
della quale s'era stabilito in Lombardia al tempo della dominazione
spagnuola, quando per la prima volta vi capitò un cadetto, in
qualità di generale delle truppe spagnuole. Questo Francesco
Londonio, quantunque non avesse che 22 anni quando ricevette la
visita del signor Lorenzo Bruni, era già noto come pittore di
soggetti campestri; ma ciò che allora ne costituiva davvero la
rinomanza nelle società alte e basse, era la sua amenissima
giovialità, per la quale avrebbe sparsa l'allegria anche tra
le file di un mortorio; pensatore di bellissimi trovati, a chi ne
faceva, a chi ne prometteva, onde se egli era un amico carissimo,
qualche volta riusciva pure un amico molesto; ma quanto era temuto,
altrettanto era cercato, e si moriva di noja senza di lui, in tutti
quei convegni dov'era solito praticare.
In
quel momento stava adunata nel suo studio quasi tutta la
confraternita dei pittori milanesi.
V'era
il maestro di lui, Ferdinando Porta, figlio di Andrea, scolaro del
Cerano e del Legnanino; v'era il giovane pittor De Giorgi, allievo
del pittor Del Cairo; v'erano gli esordienti Bergami e Pagani,
scolari del pittor Frasa e del Lucini; v'era Angelo Mariani e Zucchi
Carl'Antonio già provetti, scolari l'uno del Fiori, l'altro
del Sant'Agostino, scrittore di cose d'arte, e che s'era dimezzato
tra il Procaccini e il Crespi Daniele. V'erano Lucini e Fabbrica e
Clavelli e Zaccaria Rossi e il Crivellone, pittore di trote e di
aragoste. V'era il fanciullo Biondi, che attendeva allora a macinar
colori: nomi la maggior parte di pittori ignoti a tutti, sin anco ai
Milanesi, e che non sono registrati in nessuna storia dell'arte; e
de' quali taluno sarebbe forse celebre se fosse nato a Bologna, a
Venezia, a Firenze; tanto questa nostra città in talune cose è
trascuratissima, fino alla barbarie; così che quei che volesse
far la storia delle arti milanesi, potrebbe bene invecchiar nelle
ricerche, pur colla pazienza straordinaria di Muratori, ma non
venirne a capo mai di farla completa.
Ma,
che noja! Ci par di sentir a dire; ma che strana idea di regalarci
qui una pagina lacera dell'elenco della confraternita de' pittori del
1750? Ma perchè farci camminare fino a san Vicenzino,
in traccia di persone nuove, mentre vorremmo stare colle conosciute?
In quanto alla noja, rispondiamo dunque, che, dal momento che la si
prova, è inutile dire che c'è a torto; pure dobbiamo
far notare che bisognava passare per di qui, poichè se al
lettore noi dicessimo che, dall'umile studiolo d'uno dei pittori che
si trovavano là presso il Londonio, e da un disegno grazioso e
da pochi colori stemperati su di una tavolozza, dovrà uscire
un risolvente drammatico più possente di quanti ne uscirono
dal laboratorio chimico di Dumas, il lettore non crederebbe.
Ma dal momento che il signor Lorenzo, che non era uno sciocco nè
un buontempone, pur in quell'affanno in cui versava, erasi recato a
far visita al Londonio, dove sapeva che di solito si riuniva una
congrega di pittori, bisogna bene che ne abbia avuto la sua ragione.
Stiamo dunque attenti a tutte le sue parole, e non perdiamo la
traccia de' suoi passi.
IV
Lorenzo
dunque era tutto preoccupato del suo gran pensiero, il quale aveva
due intenti: quello di far sfolgorare all'aperto l'intatta onestà
della sua Gaudenzi, e quello di tirare in campo una gran dama, di
mettere in pubblico quel che era successo in segreto, di tal maniera
che, nè per protezioni, nè per deferenze, nè per
privilegi nè per sotterfugi, non riuscisse più
possibile di salvare da uno scandalo solenne i due blasoni del casato
lombardo della contessa, e del casato ispano del conte colonnello.
Costretto pertanto a fermarsi là, tra quegli allegri
compagnoni del pittor Londonio, e ridere insieme cogli altri dei
piacevolissimi racconti di lui, si tormentava del tempo che passava
inutilmente, e che era preziosissimo per la natura del suo disegno.
Egli aveva bisogno di trovarsi un momento a solo col Londonio, e, non
volendo dar nell'occhio, gli conveniva aspettare che quella compagnia
si sciogliesse. Buon per lui che il Londonio entrò a dire:
Orsù, amici, a momenti sarà qui a pigliarci il
carrozzone per andare al corso di porta Romana; non v'è tempo
a perdere e bisogna vestire la divisa dei Foghetti, perchè
mi preme la riputazione. Dopo il corso pranzeremo, se vorrete,
tutt'insieme; dopo si andrà all'opera, dopo alla festa in
maschera. Quante faccende in un sol giorno!... domani poi, se non
volete andare alle vostre case per dormire un pajo d'ore... potete
dormir qui tutti da me... perchè domani è un altro
giorno pieno zeppo di faccende... e ci converrà non perderci
di vista...
A dormir qui, va bene, entrò a dir uno, ma non si vorrebbe che
ci trattassi come hai fatto col podestà di Chioggia: perchè
siamo ancora in febbraio.
Che cosa ha fatto al podestà? domandarono allora tutti ad una
voce.
Ma come? non la sapete?
Io no.
Nemmeno io.
Racconta.
Raccontate.
È un fatto molto semplice; fu l'anno scorso, quando ho passato
quegli otto giorni, al carnevale di Venezia... che gli alberghi erano
zeppi al punto, che a trovar un letto era come trovar un tesoro. Io
però ne avevo trovato uno allo Scudo di Francia, sebben mi
costasse un occhio. Ora sentite questa. Voi sapete il dispetto che
provo a trovarmi a tu per tu con una persona non conosciuta;
figuratevi poi quando si viaggia, e si è in una camera da
letto. Ebbene, a una cert'ora, quando l'albergo era
tutt'occupato dal primo all'ultimo piano, dalla prima all'ultima
stanza, viene da me l'oste. Forse perchè io era il più
giovane di quanti eran là e gli avevo ciera da buon figliuolo,
e mi dice: Signore, è arrivato il podestà di
Chioggia, e vuole alloggio.
Buon pro gli faccia, gli dico, doveva arrivar prima il podestà.
Cerchi una gondola e dorma la sua notte sotto il felze.
Va bene, ma io gli ho promesso... insisteva l'oste, e in quella entra
il signor podestà in persona, e tanto fa e tanto insiste, che
io non posso dire di no. Voi sapete che, per quanta ira uno possa
avere in petto, in certi momenti non si trova il modo di scacciare un
seccatore. Ma quando fummo soli, non potendo resistere all'idea di
dover dormir con un altro, con un podestà... e tondo e grasso
qual era colui di Chioggia... non so se voi lo conosciate (diceva
rivolto al Bruni), pensava al modo di disfarmene, perchè aveva
anche un gran sonno, per aver ballato tutta la notte al ridotto di
san Moisé, e così nel pensare, guardando il soffietto
che pendeva da lato del camino, mi viene un'idea, e tosto,
rivolgendomi all'amico, sì gli dico: Signor podestà?
Cosa mi comanda?
Ho a farle mille scuse anticipate.
Di che?
Di questo, che vado soggetto a un grave incomodo.
Ed è?
Una febbre acuta, la quale mi ha messo in fin di morte sin da
fanciullo, mi lasciò un vizio, un gran vizio.
Ebbene?
Vo soggetto a quelli che si chiamano i venti freddi.
Una malattia nuova.
Nuovissima, e chi ha la disgrazia di dormire con me ci soffre, ma
assai. Ora che cosa avreste fatto voi se foste stati il
podestà?
Darvi la buona notte, e andar via.
Così pare almeno; ma il podestà fu di un altro parere,
e metà credulo e metà no, entrò per il primo in
letto. Allora io non feci altro che seguirlo, e, così mezzo
vestito, mi cacciai sotto coltre, armato di soffietto, e spensi il
lume. Lasciai che il podestà dormisse della grossa, e poi misi
in movimento il mantice... Tirava un vento, cari miei, che il letto
pareva il Cenisio, onde il podestà si risvegliò
spaventato, e non potè trattenersi dal dire dopo qualche
momento:
Ah! è veramente orribile la vostra malattia, signor mio, per
carità, accendete il lume, ch'io vo a gettarmi in laguna,
piuttosto che dormire con voi.
Io
obbedii, accesi il lume. Egli si alzò, non parlò più;
soltanto borbottò tra' denti, ed uscì chiamando l'oste
a tutta voce. Il resto della notte la dormii così assai
placidamente. Or non temete che io voglia oggi estendere a maggiori
proporzioni l'esperimento di Venezia. Voi non siete nè
sconosciuti, nè podestà, nè ostinati, e v'invito
io. Su lesti, dunque, e vestiamoci. La carrozza è qui...
sentite. Poi, voltosi al Bruni: Dovreste venire anche
voi, gli disse. Qui c'è riserva di vesti e maschere per tutti
gli amici che capitano... purchè sien tutti artisti, non
importa se di pennello o di scalpello o di arco o di fiato o di gola
o di rima. Stupisco anzi che non sia venuto oggi il segretario
Larghi, il più caro scrittor di villotte che si conosca; e
bisogna sentir lui stesso a cantarle! ma lo sentiremo alla festa del
teatrino. Risolvetevi dunque. Volete esser Pantalone o Brighella?
Caro mio, nè l'uno nè l'altro, rispose Lorenzo: e còlto
il momento che gli altri attendevano a vestirsi, così gli
disse: Son venuto da voi per un affar di premura.
Cattivo giorno, ma non importa.
Ho bisogno dell'opera di un pittore... ma di tale che sia e valente e
improvvisatore, e conosca l'arte di colorir le maschere ad uso di
Parigi. Ne ho già chiesto altrove, e so che a Milano ve n'è
uno bravissimo.
Siete fortunato... eccolo là... È il pittor Clavelli...
Ma...
E
dicendo questo, il Londonio crollò la testa.
Ma... che cosa?
Ma non sapete che, se l'anno passato tali maschere eran tollerate,
quest'anno sono proibite, dopo il lagrimevole fatto della vedova del
Duca di Choiseul?...
Ma qui non si tratta di far piangere, ma di far ridere, soggiunse il
Bruni.
Fate voi... non so che dire; quel giovine lì vi servirà
bene; d'altra parte, è in così povere acque, che certo
deve aver più paura della bolletta, che delle ordinanze di sua
eccellenza. Or lo chiamo e mettetevi d'accordo. Badate però
ch'io non so nulla.
Fate conto ch'io non v'abbia mai interpellato su di ciò. Per
altro non è e non sarà che uno scherzo.
Il
giovine pittore Clavelli fu chiamato, il Bruni gli parla, il pittore
mise innanzi quella difficoltà che sappiamo; ma sentendo che
si trattava di guadagnar bene, acconsentì, e promise al signor
Bruni che si sarebbe lasciato trovare al caffè del Greco,
mezz'ora prima che incominciasse il teatro.
Così
stretto il contratto col signor Lorenzo, finì il pittore di
adattarsi i due gobbi di Pulcinella, chè tale era la sua
maschera, e si mise in ischiera cogli altri, i quali vestivano
ciascuno il costume d'uno dei Zanni, allora tanto in voga, i quali
eran come i deputati rappresentanti delle principali città
d'Italia. Il pittore Londonio, nella sua qualità pur di
confratello onorario della badia de' facchini e nella sua
qualità di pittore campestre, vestiva la maschera di Beltrame
di Gaggiano, maschera che di quel tempo sussisteva ancora, quantunque
avesse dovuto cedere il primo posto a quella del Meneghino, inventata
già dal Maggi, lo splendor di Milano, come lo
aveva chiamato il Redi, e che fu l'Allighieri del dialetto milanese.
Così tutti discesero e salirono, meno il Bruni, nel carrozzone
carico di munizione per la battaglia del giovedì grasso:
fiori, confetti, coriandoli, melaranci, pomi, ova; e di buon trotto
si gettarono nel fitto del combattimento, sul corso di porta Romana,
a percuotere e a rimaner percossi dalla pioggia de' pomi, a
imbrattare e a rimaner imbrattati dalle ova, che si rompevan sulle
parrucche incipriate a farvi strani empiastri e lorde miscele di
tuorli e di cipria.
Ora,
senza perdere il tempo a descrivere il corso del giovedì
grasso dell'anno 1750, perchè noi siamo nemicissimi delle
descrizioni, segnatamente se siano state fatte da cento altri
scrittori; ci limiteremo a dire, a coloro che volessero pur farsene
un'idea, che a gettare tutti i colori dell'iride, con tutte le loro
infinite gradazioni, su quelle ottanta o centomila figure allora
stivate lungo il corso di porta Romana, e a raddoppiare il frastuono,
come se quelle centomila persone avessero due gole enfiate per
ciascuna; e a lasciare alle carrozze, ai padovanelli, ai calessi, ai
birbini, ai carri convertiti in forma di barche e di vascelli il
permesso di muoversi a loro beneplacito e di produrre per conseguenza
un disordine molto simile a quello di un corpo di truppe che sia
piuttosto in fuga che in ritirata; e a portare a un tre quarti
buonamente della popolazione colà affollata il numero delle
maschere d'ogni forma, d'ogni foggia, di ogni paese e d'ogni colore;
a far insomma colla mente tutte queste operazioni, ne può
uscire, chiudendo gli occhi e lavorando d'imaginazione, lo spettacolo
d'un corso carnevalesco di quel tempo. Ma noi, che non abbiam voglia
di attendere a ciò, lasceremo passar l'ora del corso, per
recarci invece in piazza del Duomo al caffè del Greco, dove il
pittor Clavelli a un'ora di notte stava aspettando il sig. Lorenzo
Bruni, che venne di fatto a pigliarlo puntualmente, e a condurlo al
teatro Ducale.
Vi basterà osservar dalla platea, disse il Bruni al pittore,
nel far la via, o sarà necessario salire sul palco scenico?
Farà bisogno della platea e del palco scenico, perchè,
a condurre la cosa in modo che l'arte si confonda colla realtà,
conviene pigliar tutte le misure.
Andrete dunque in platea e sul palco scenico. Conoscete i fratelli
Galliari, quelli che dipingon le scene?
Li conosco benissimo; ma se non mi vedranno, vi sarò
obbligatissimo.
Perchè?
Perchè è bene che la cosa stia fra voi e me; so quel
che dico... l'ordinanza parla chiaro; e fu gran tracollo per me,
vedete, quella benedetta ordinanza! fate conto che ne' carnevali
passati io arrivassi a guadagnar sino a cento zecchini veneti, tanto
che avevo lasciato da una parte la pittura di chiesa, che è la
gran pittura, per dir la verità; ma col pane non si scherza...
e questi curati di campagna credono di sciupare il pane dei poveri a
dar da mangiare a' pittori, segnatamente se son giovani e non han
nome.
Abbiate coraggio, amico, e se mi servirete bene, farete poi il
ritratto intero della ballerina Gaudenzi.
Oh che fortuna sarebbe! sento che è una gran bellezza! una
bellezza famosa! Se il ritratto mi riuscisse, tutte le dame di Milano
verrebbero da me... sono le occasioni che fanno l'uomo. Cosa credete
voi... che tanti pittori famosi sarebbero riusciti tali, se non
avessero avuto le occasioni? Che, per esempio, il cavaliere Del
Cairo, che fu il maestro del mio maestro, fosse davvero un gran
pittore? Non lo credete; ha avuto il vento in poppa; opere di qui,
ritratti di là, zecchini a staja, e poi l'ordine di san
Maurizio. Ma, per colpa sua e di qualch'altro, s'imbastardò la
maniera lombarda cogli innesti della scuola di Bologna; e poi col
pigliare qualcosa da Roma, qualcosa da Firenze, qualche cosa da
Venezia, ne uscì una mescolanza tale, che non siam più
nè di qui nè di là... Ma quando un paese ha
avuto la fortuna di possedere un Leonardo, e poi un Luino, e poi
quello spavento del Crespi... il Crespi del San Brunone... Non so se
voi abbiate visto quel lavoro a fresco? Quello è un a
fresco!... Domando io dunque, se c'era bisogno di andar altrove a far
gli accattoni? Ma la moda fa tutto; ed io che parlo, son guasto più
degli altri, e col far quello per cui voi m'avete chiamato, mi son
guasto la mano, e poi mi son messo al punto di guastarmi anche la
saccoccia. Se, per esempio, domani taluno mi desse a dipingere una
Deposizione, farei le tre Marie col guardinfante. Così vanno
le cose.
In
questa entrarono nel teatro già affollato, e nel punto che già
cominciavan le dame a sedere ai loro posti nei palchetti.
Vedo che in platea non c'è luogo, disse il Bruni, troveremo
dunque un posto comodo in orchestra, dove senza dar nell'occhio,
potrete gittar giù sulla carta qualche segno. Quando poi vi
bisognerà d'andar tra le quinte, me lo direte.
Lorenzo
Bruni si recò allora col pittor Clavelli in orchestra; messo a
sedere l'amico, si mise anch'esso al posto, che i suonatori erano già
tutti sulle loro sedie, e già attendevano ad accordar
gl'istrumenti. Il teatro era zeppo, già faceva quel mezzo
silenzio che precede l'alzata del sipario; tutti i palchetti erano
occupati; Lorenzo girò gli occhi lungo le file, e il caso
volle che fosse, nel momento che il conte V... e la contessa si
ponevano a sedere l'uno rimpetto all'altra. Allora sul volto di
questa, egli, dal suo basso scranno, tenne fisso uno sguardo lungo e
indagatore.
Alla
bellezza abituale della contessa Clelia, di cui nessuno erasi prima
infervorato, per l'eccesso della sua medesima perfezione, si era
sovrapposta una velatura leggiera nel colore, e talune indescrivibili
impressioni nella superficie, le quali, togliendole quella, quasi
diremo, pompa orgogliosa della beltà nudrita dalla salute e
dalla calma, vi aveva soffuse le traccie del patimento e di un certo
languore di stanchezza, languore prezioso (per la poesia,
intendiamoci bene, non per la realtà), il quale essendo
appunto la prima volta che compariva su quella faccia, vi produceva
un contrasto ineffabile e la rendeva oltre ogni dire attraente a
tutti gli sguardi. Tanto è ciò vero che, quasi a un
punto stesso, da tutti coloro che la osservarono quand'ella girò
gli occhi intorno, si fecero queste medesime osservazioni a di lei
riguardo.
Ma come s'è acconciata stasera la contessa V...?
Davvero che mi pare un'altra. Se si sapesse ch'ella ha una sorella,
si direbbe ch'è la sorella a punto. È però
sempre bella. Per me, dirò anzi, che è più
bella del solito. Ah, è un gran peccato che l'abbiano
inzuppata nella scienza, e fatta così indurire come quel legno
che diventa marmo stando nell'acqua!
Ma
se molti in quel punto la guardavano fuggitivamente, Lorenzo teneva
gli occhi sempre fissi in lei; e da quel palchetto non li abbassò
che per volgersi e girarli torvamente sulla platea, così
parlando fra sè: Balordi che siete!... si trova un bel
giovane in un giardino, di quelli che s'innamorano per professione,
lo sorprendono al piè del palazzo e della stanza dove sta una
donna che ha quella faccia lì... e si va a turbar la pace di
cinque o sei case per trovar la donna de' suoi sospiri... Balordi voi
e balordo il giudice, quando non vi sia di peggio... perchè
pare impossibile... una bellezza di quella sorte... che... in
conclusione ... qual è la più bella di tutte queste
duchesse e contesse e marchese e marchesine che stan qui?... E
nessuno è arrivato a pensare che ai tenori, segnatamente
quando toccan di quelle grosse paghe che ognun sa, piacciono i buoni
bocconi, e, se furono cullati sul letto di paglia, aspirano ai
moschetti di drappo. Ma pazienza fossero tutte Vestali le donne di
Milano, tutte Lucrezie, tutte Cornelie... Ma no... perchè,
anche senza far torto a questa città... si sa ch'è la
malattia del secolo, che più si sale e più si pecca...
che si è sempre fatto così... Ah sciocchi e balordi...
c'è da scavar vicino... ed essi, no... voglion correr mezzo
miglio per le ortaglie, e far fatica a trovar l'accesso alla casetta
di quella povera ragazza... che è pura come l'acqua... E tutti
a intestarsi che debba davvero essere la Gaudenzi... come se non ci
fosse stato tutto il tempo e tutto il comodo, supposta una simpatia,
d'intendersela sul palco scenico!... Ma non piace al signor pubblico
ciò che è naturale e semplice... siam sempre alla
storia del teatro... bisognava che il tenore Amorevoli, per essere un
caldo amante, saltasse muri, saltasse siepi, si lacerasse tra i pruni
la seta dei gheroni, corresse pericolo di rompersi l'osso del collo
salendo per qualche scala di seta... allora va bene... allora il
signor pubblico è contento...
E
così avrebbe seguito il corso de' suoi pensieri chi sa sin
dove, se un gran colpo d'archetto del primo violino non gli avesse
tagliati i pensieri in due. Gettò allora gli occhi sulla
musica, mise il violino alla ganascia, e stette pronto.
Il
sipario si alzò, e avvenne tutto quello che era avvenuto la
notte addietro. Uscì il tenore Amorevoli tra un subisso
d'applausi, i quali poco ormai lo confortavano, perchè, se lo
si lasciava andar in teatro, v'era accompagnato in cocchio dal
tenente e dal guardiano del Pretorio, che stavan con lui in camerino
perchè non parlasse con nessuno; uscivan con lui, e lo
accompagnavano all'orlo del palco scenico e lo aspettavan tra le
quinte. Queste cose si sapevano dal pubblico, che le disapprovava,
quantunque a torto. E venne l'ora del ballo, e il momento in cui
usciva la Gaudenzi divina.
Ma
che è questo? che novità? che segreto? Cos'è
successo?... Ah! noi non sappiam cosa dire, ma il fatto è così
precisamente, lettori miei. La Gaudenzi venne accolta da un bisbiglio
ostile, intercalato da una dozzina di fischi portentosi, indarno
respinti da pochi battimani, che si ritirano tosto, quasi vergognosi
d'essersi compromessi.
Da
che dunque poteva dipendere questo inaspettato cambiamento delle
teste del pubblico? Da un fatto assai semplice: da ciò che,
essendosi egli ostinato nel credere agli amori della Gaudenzi con
Amorevoli, e avendo sperato, quando sentì ch'essa era stata
citata a comparire in Pretorio, volesse confessare ciò che
generosamente e cavallerescamente il tenore aveva taciuto; gli venne
un fiero dispetto di quell'aspettazione delusa, e più ancora
della supposta ipocrisia della fanciulla, che si pensò non
avesse voluto corrispondere alla delicatezza dell'amante, per
continuare a godere in faccia al mondo di quella gran fama d'onestà,
usurpata a troppo buon mercato; la quale onestà, in quella
universale rilassatezza del costume, era così eccezionale e
strana, segnatamente se la si applicava al teatro, che se molti avean
prima potuto apprezzarla, altri l'avean sopportata di mal animo, come
un'ostentazione; e questi altri, i quali s'eran compiaciuti della
scoperta che la Gaudenzi fosse pur essa infine una donna da teatro
come tutte le altre, si rivoltarono senza ritegno contro al preteso
sforzo che, secondo essi, ella avea fatto per proseguire ad ingannare
il mondo. Talvolta un'idea, un'opinione, una credenza s'impadronisce
di un'intera massa di gente in un modo irresistibile. E gli uomini di
buon senso e di spirito equo, che volendo esaminare prima di
condannare, azzardano qualche difesa e qualche osservazione, sono
quelli precisamente che danno le mosse al temporale.
Cane d'un pubblico, scrisse il conte Rostopchin nel
proprio epitafio, in attestato del suo profondo disprezzo
all'opinione pubblica; e Cane d'un pubblico, disse Lorenzo fra
sè e sè fremendo, quando da un collega d'orchestra
sentì la spiegazione di quell'improvviso malumore della
platea; ma ciò che più di tutto gli fece salire il
sangue alla testa, e lo raffermò nel suo proposito di
vendetta, fu l'aver visto lo stesso signor conte V... a degnarsi di
uscire dalla sua orgogliosa gravità per zittire anch'esso.
Anche tu, pensò tra sè, anche tu, bufalo bardato di
Catalogna! ma non sai quel che ti attende? E quando calò il
sipario, tutto convulso si avvicinò al Clavelli, per
chiedergli se gli occorreva d'andar sulla scena.
Ho visto bene, e già ho qui il profilo che non ne scatta un
pelo, tanto che in un bisogno potrebbe bastare. Ma un'occhiata
attenta e ben dappresso e tra le quinte gli farà nascere il
gemello...
E si arriverà in tempo?
Altro che in tempo! abbiamo due giorni.
Quando fosse pronto per sabbato a mezzanotte, è anche troppo.
Io vi avrò servito per mezzodì, e Lorenzo
accompagnò il pittore Clavelli sul palco scenico, collocandolo
presso una quinta; e, prima di discendere in orchestra, andò
nel camerino della Gaudenzi, la quale piangeva dirottamente.
Il pubblico di Milano, esclamò allora Lorenzo, scoppiando
dall'ira e dalla commozione, potrà versare a' tuoi
piedi tutto l'oro che costa il suo Duomo... ma faccia conto d'averti
veduta per l'ultima volta. Del rimanente aspetto sabbato...
V
Ad
un savio, non ci rammenta più nè quando nè dove,
fu domandato: quale può essere la cosa più fatta per
addensare la tristezza nel cuore di un uomo sentimentalmente
intellettuale? Forse la vista di un campo santo, ha egli
risposto, nelle ore notturne, con cielo profondo, e luna pallida e
stelle tremule e fuochi lambenti e strigi volanti? No. Forse
la cima inaccessa delle Alpi, dove il cacciatore rimane percosso dal
mortale solengo? O in una campagna abbandonata e brulla durante il
bigio novembre, la vista di uno stagno, sull'opache acque del quale
incumba immobile, da un ramo che vi peschi, un decrepito airone? O la
solitudine infinita del mare ghiacciato, dove Alfieri, poeta e
viaggiatore, potè scoprire com'è tremendo il silenzio
quando sta nel suo regno desolato? No. Forse una camera
anatomica, dove il coltello dell'investigatore chirurgo sprigioni i
gas più letali e più putridi da un cadavere umano? No.
Che luogo dunque? Una festa da ballo.
Così rispose quel savio, con incredulo stupore di tutti; ma
per quanto potesse essere uno strano pensatore, noi dividiamo
perfettamente la sua opinione. Se fosse possibile scrivere un
compendio della storia dei dolori, dei disastri, delle tragedie,
degli odj, delle vendette, dei delitti di cui il primo filo, più
o meno avvertitamente, fu gettato nel rigurgito abbagliante della
luce notturna, nel vortice fracassoso delle danze, nella polvere
sollevata, nella gioja, nell'orgia, negli scherzi vellicanti, nel
motteggio malizioso, nell'epigramma ambidestro, nella schiuma dello
sciampagna, nell'allegria saltante, nelle grida incondite,
nell'ebbrezza, nella stanchezza, nella dormiveglia di una festa da
ballo in maschera; quel compendio sarebbe più voluminoso delle
più voluminose enciclopedie condensatrici dell'umana sapienza.
Chi non vuol credere, non s'incomodi; ma la nostra opinione è
questa.
Quante
volte dalla bocca vermiglia di una faccia di cera uscì la
folgore muta di una parola sola, ma che, sola, bastò a
scomporre per sempre la felicità di due vite; che potè
esaltare in un marito il cieco furore d'una gelosia omicida; e
persuadere un troppo credulo fidanzato a respingere quella che
indarno fu insidiata da qualche turpe amatore. Quante volte
dell'effervescenza del senso, protetto dalla maschera e liberato per
lei dal vigile pudore, Mefistofele approfittò per gettar la
trama d'un futuro infanticidio! Quante volte una mendace accusa fu
portata in alto dalla maschera, a cui nulla è inaccesso, per
far percuotere un innocente odiato! e l'iniquità, resa
inoffensiva dalla viltà nativa, diventò di colpo e
audace e micidiale, celandosi dietro un volto di cera! Quante volte
l'effimera virtù si disciolse tutta in sudore al contatto di
quel volto stesso... e la ferma virtù vacillò... e
cadde a un tratto chi avea potuto resistere a lungo. Per dio la
maschera ci fa spavento! sicchè riputiamo che sarebbe un
bel passo della civiltà se scomparisse per sempre dalla faccia
degli uomini; e tanto più che è già una maschera
la faccia naturale. E dopo di ciò una festa da ballo è
luogo di mestizia anche senza i volti finti! Quante infelici
passioni vi s'infiammano, quante felici illusioni scompajono; quanta
gara funesta di perfide vanità; quanti gentili tessuti
affranti dalla danza frenetica! Chi ha assistito coll'occhio
investigatore e colla riflessione a quel punto in cui la prima luce
del sole entra a mescolarsi in una gran sala colla fiamma decrepita
dei doppieri consunti, e un raggio vivo di quella luce va a
percuotere le faccie di un gruppo di giovinette che, vaghe, poche ore
prima, delle più fresche rose della salute e della gioja,
nell'abbattimento sorgiunto, nella stanchezza, nel repentino
avvizzire, nella pupilla fuggita, nel livido pallore, lasciano già
indovinare il processo con cui la dissoluzione s'impadronirà
col tempo dei loro corpi, e dietro a quella che è quasi larva
di gioventù e di bellezza, lasciano travedere con raccapriccio
la futura vecchia e il cadavere futuro: ci saprà dire in
confidenza, se si può raccogliere allegria da una festa da
ballo! Ma abbandoniamo le inutili digressioni, e facciamoci con chi
deve recarsi alla festa da ballo in maschera del sabbato grasso.
Pochi
minuti prima della mezzanotte di quel sabbato, ossia circa
quarant'otto ore dopo che la dea Gaudenzi venne fischiata dal
pubblico, lasciatosi trascinare da quella infesta precipitazione di
giudizj che ha sul collo tante vittime; Lorenzo Bruni, un po' colle
dolci parole, un po' colla finta collera, un po' colla vera, stava
distogliendo da un ostinato proposito la Gaudenzi, che, abbigliata
con tutto lo sfarzo di una regina, nel punto che stava per salire in
carrozza alla festa del teatro Ducale, d'improvviso, come una puledra
che adombri, erasi fermata, e, risalendo la scala, avea cercata la
sua stanza, giurando che sarebbe morta, piuttosto che mostrar la
propria faccia a coloro che aveano potuto insultarla senza ragione.
Avvezza
fin dalla prima infanzia alle carezze de' genitori, alle gentilezze
di tutti; e, fatta adulta, alle lodi, all'ammirazione, agli applausi,
alle adulazioni, ai trionfi; quel primo insulto la trapassò di
una profonda ferita, e in modo che la vescichetta del veleno, ci si
permetta questa espressione, del veleno onde la natura non manca mai
di provvedere anche la più soave e mite creatura, s'era
dischiusa con uno squarcio repentino, tanto che lo avea schizzato con
veemenza d'intorno a sè, al punto da mettere nella più
seria costernazione la vigile zia e Lorenzo. All'invito ch'egli le
avea fatto il giorno prima di recarsi all'ultima festa da ballo in
maschera, ella aveagli risposto con isdegnosa ironia; alle dolci
persuasioni opponendo una fierezza fin quasi selvaggia, di cui ella
sino a quel punto non avea sospettato neppure la possibilità,
e che aveva dato da pensare all'esperimentato Bruni. Bene, a poco a
poco, s'era venuta placando, e piangendo e chiedendo perdono con
carezzevoli blandizie, avea promesso di far il suo desiderio e s'era
lasciata ornare dalla sollecita zia di fiori, di perle, di brillanti;
ma la vescica del veleno le si riaprì, come abbiam veduto, nel
punto di salire in carrozza.
Senti, Margherita, hai tu fiducia in me? le diceva Lorenzo.
Non mi fido più di nessuno; gli uomini son come i gatti; oggi
leccano, domani graffiano...
Ma puoi tu dire ch'io t'abbia mai fatto un torto...
Chi v'ha detto questo? rispose acremente la Gaudenzi. Voglio dire
che... ma qui diede in uno scoppio di pianto. Il pensiero
dell'insulto ricevuto, riassalendola, non le concedeva pace.
Dammi retta, Margherita; se ciò che è avvenuto ti
affanna tanto, e n'hai troppe ragioni, l'unico tuo desiderio deve
esser quello di confonder tutti quanti, dando modo alla verità
di mostrarsi intera; ed è ciò appunto a cui ho
pensato.... Tu sai che non t'ho mai consigliato cosa che non dovesse
portare il tuo bene... Potrei dunque eccitarti a venire stanotte in
teatro, se non fossi certo che all'alba del domani, ne uscirai
vendicata da quegli stessi che ti hanno offesa?...
Ma se è vero quel che mi dite... perchè dunque mi fate
mistero del modo?...
Il perchè lo saprai... ed io pretendo d'aver diritto alla tua
fiducia... Suvvia, alzati, e andiamo.
Suvvia, soggiungeva la zia, torna buona come prima, e obbedisci chi
vuole il tuo bene...
La
Gaudenzi non rispose, si alzò, mosse lentamente verso l'uscio,
e Lorenzo la seguì.
Andiamo, disse il Bruni, a pigliare il padre della prima donna, che
s'è incaricato di farti il bracciere alla festa; e
partirono.
Ma
intanto che Lorenzo Bruni e la Gaudenzi salivano in carrozza, dopo
un'ora di contrasto, in casa V..., quasi che da un medesimo filo
dipendessero i successivi movimenti di due congegni, continuava
ancora un contrasto incominciato dopo. La contessa Clelia, la
quale mille volte s'era pentita di non aver tosto messo in atto il
consiglio di donna Paola Pietra, e alle fischiate onde si volle
punire la Gaudenzi aveva provato un cruccio, un affanno,
un'inquietudine particolare; e però non desiderava altro,
fuorchè spuntasse la prima domenica di quaresima per recarsi
in Pretorio, o per iscrivere al giudice, contenta di affrontare
affanni peggiori ma di tagliare quel nodo una volta per sempre e
finirla; sazia della festa del giovedì grasso e d'un pranzo
incomodo di sessanta coperti e d'un'accademia del venerdì e
del trovarsi sempre in mezzo a tanti uomini e donne, in ciascuno de'
quali e delle quali ella vedeva i suoi denigratori spietati, quando
la gran notizia fosse scoppiata in piazza; e affranta per di più
da un tedio convulso che la faceva stare di malissima voglia,
aveva risoluto di non intervenire altrimenti in quella notte alla
festa da ballo in maschera del teatro Ducale. Ma non avesse mai fatto
una simile proposta al conte marito! La contessa, nelle più
comuni circostanze della vita, poteva in casa far tutto quello che
voleva, lo abbiamo già detto; ma in certe occasioni speciali,
guai ad omettere una pratica, una consuetudine, un cerimoniale.
Allora il conte, rispettosamente ammiratore della contessa, diventava
il suo despota e il suo tiranno; e per dare, a modo d'esempio, il
permesso alla moglie di non intervenire all'ultima festa del
carnevale, dove tra le dame più cospicue si compiva l'ultima e
più fiera battaglia di eleganza e di ricchezza, bisognava che
la moglie fosse stata assalita, per lo meno, da una encefalite
fulminante. Il conte era della famiglia di quel tale che, piuttosto
che infrangere un cerimoniale, volle morire asfissiato da un
braciere.
Fatto
adunque il viso più severo che per lui fosse possibile
alla moglie, e pronunciate quelle parole più irrevocabilmente
di ferro che per lui si potevano, passò nella sala dov'era la
madre della contessa, una sorella e un fratello; e tutto aspro:
Donna Gertrude (disse alla madre), la si compiaccia di recarsi un
istante da sua figlia, la quale pare che abbia volontà
d'inquietarmi.
Che cosa?... Che è avvenuto? rispose donna Gertrude,
maravigliata di veder così a rovescio il conte, il quale per
consueto, sebbene un po' duramente, le si era sempre dimostrato
cortese; ma in quella entrava la contessa.
Preghi il conte, mamma, a permettermi di non uscire; perchè
sto male, male assai.
Il
colonnello non seppe allora più contenersi, e strepitò,
senza però mancare alla sua gravità.
Ma
in quel punto il fratello di donna Clelia si alzò, e di queto
le disse non so che parole all'orecchio.
A
quelle parole piegaronsi i ginocchi alla contessa, e si gettò
a sedere.
La
madre e la sorella si guardavano... Il conte passeggiava... Il
fratello taceva.
Trascorsi
alcuni momenti, la contessa Clelia si levò e:
Andiamo, disse, non voglio che per sì poco il conte si
affanni.
Una
mezz'ora dopo, preceduta dal conte marito e dalla sorella, la
contessa discendeva lo scalone, rallentando il passo per essere
raggiunta dal fratello. Quando questi le fu vicino:
Chi ti ha detto...? gli disse la contessa.
È un bisbiglio che corre per la città... La tua assenza
avrebbe potuto accrescere i sospetti.... Or pensa a te...
A
piedi dello scalone, tra le torcie di due lacchè, la contessa,
attonita, salì in carrozza; il conte lieto e sorridente
sedette vicino a lei; la portiera si chiuse, e via di trotto. Il
conte fratello e la contessina tennero lor dietro in altra carrozza.
VI
Un'ora
dopo, la festa da ballo al teatrino era già all'apogeo dello
splendore, della folla, della vivacità, del frastuono. Così
in quel tempo, come oggidì, il palco scenico si congiungeva
alla platea per mezzo di una gradinata divisa in tre scompartimenti.
Gl'intervenuti salivano al palco per quello di mezzo, e discendevano
in platea pei due laterali. Essendo il teatro più
piccolo, l'orchestra veniva collocata in una galleria espressamente
eretta sul palco. Del resto, noi uomini della civiltà e
del progresso, che abbiamo fatto le meraviglie quando il Fetonte
degli impresarj introdusse per la prima volta il tappeto verde in
teatro, dobbiamo sapere che, nel 1750, i più ricchi tappeti di
Gand a rosoni variopinti coprivano tutt'intero il pavimento in
occasione delle feste, e tutto era di conformità con quella
ricchezza; dimodochè, se la sala tenevasi, come dicemmo,
alquanto oscura durante lo spettacolo, pel migliore effetto ottico
della scena e delle vedute architettoniche e campestri dei fratelli
Galliari, le fiamme inondavano il teatro di luce quando si convertiva
in festa da ballo. Ciascuna fila de' palchetti era rigirata da trenta
lumiere di cristallo, portanti cadauna sei torcie di cera; dalla
vòlta pendevano otto grandi lumiere pur di cristallo, e
dall'interno de' palchetti usciva un'altra luce ausiliaria. Siccome
poi da ciascun davanzale cadevano sui parapetti ricchissimi arazzi e
ricami d'oro e d'argento, o di broccato tutto d'oro tempestato di
pietre d'ogni colore e di luccicanti berilli, così l'effetto
che allora produceva lo spettacolo interno del teatro Ducale era di
gran lunga superiore a quello d'ogni più sfarzosa festa da
ballo in maschera d'oggidì. E se il lusso e lo splendore era
tanto in platea e sul palco, le sale del ridotto costituivano davvero
un Olimpo di ricchezza e di luce in mezzo a cui sfolgoravano le deità
terrene; chè le dame più cospicue s'addensavano tutte
colà, o adagiate in apposita sala, su scranne dorate, a beare
di loro presenza chi le adocchiava; o in altra sala, aggirantisi in
quelle danze passeggiate che si chiamavano minuetto e
perigordino. Nè è da credere che le sale del
ridotto fossero accessibili soltanto alle dame; tutt'altro. La
divisione che tra ceto e ceto era ancora ben determinata, nel secolo
passato, in tutte le relazioni della vita, e la distanza che tra
patriziato e borghesia e plebe era mantenuta inesorabilmente da cento
prammatiche e distinzioni e cerimonie, scomparivano affatto in quelle
feste del carnevale. Era una continuazione modificata del medio evo,
quando il feudalismo dei padroni e dei servi potè costituire
quasi due nature diverse; quando per una legge di compenso, a Milano,
nelle notti fescennine del famoso san Giovannino alla Paglia, tutti
quanti si mescolavano in istrane dimestichezze. Ma quei giorni di
eguaglianza eccezionale erano in ragione della disuguaglianza legale
e consuetudinaria; tanto che, mitigandosi e trasmutandosi la seconda,
grado grado la prima si limitò, e di svolgimento in
isvolgimento si pervenne al punto che ambedue scomparvero e si
confusero, come vediamo oggidì, in una cosa sola, e tolti gli
argini, le acque si riunirono. Ma non preveniamo i tempi, e non
esponiamo al pubblico intempestivamente il dietro le scene del
nostro libro.
In
mezzo a quell'Olimpo lucente delle più belle dame milanesi
comparve, a una cert'ora, la Gaudenzi accompagnata dal signor
Casserini, il marito della prima donna, quella che faceva la parte di
Semiramide riconosciuta. Ma appena fu vista dalla folla de' cicisbei
curvati in vari atteggiamenti sulle dame sedute, come statue, che
facessero gruppo convenzionale con altre statue, si alzò un
bisbiglio ostile. Lorenzo Bruni, che, tutto coperto dal domino nero e
dalla nera maschera, stava dietro alla pupilla, quando la vide
indietreggiare perplessa, la spinse ad adagiarsi su d'una sedia. La
Gaudenzi obbedì, ed egli si indugiò là un
momento. Seduta tra la contessa Marliani e la contessa Borromeo del
Grillo stava la contessa Clelia. Ferveva un incessante cicalìo
tra la folla incessante. Maschere d'ogni generazione passavano
davanti alle dame per avventar loro motti e scherzi e complimenti.
Il villottista cantava il nome e cognome a ciascuna, e le loro
qualità fisiche e morali in accozzamenti strani di idee e di
rime; di tratto in tratto fermavasi loro dinanzi un arlecchino, un
brighella, un pulcinella, un dottorazzo bolognese, a dir lunghe
filastrocche nel dialetto della città rappresentata dalla loro
maschera. Intanto sentivasi la musica del minuetto, la quale,
con poche variazioni, era quella che introdusse poi Mozart nella
festa da ballo del suo Don Giovanni, e oggidì, con
altre poche variazioni, rifece Verdi nell'introduzione del suo
Rigoletto. Tra quella musica e lo strisciar lento dei
piedi e il ronzìo continuo, s'udiva strillato, con
accompagnamento di chitarra, qualche strambotto d'una maschera
curiosa, che s'intitolava il Tasca e parlava un dialetto
composto, mescuglio di veneziano, milanese e bolognese:
Nol
xè, nol xè pi mondo
De
viver all'antiga,
Chi
no truffa e no intriga
Resta
in fondo.
Tanto
la zente xè destomegae,
Che
pi no l'ha favor la veritae.
Chi
negozia col vero
El
xè fallio de botto;
Se
domanda Zinzero
El
xè merlotto,
Vedo
la lealtae scalza e confusa
Perchè
tutti la loda, e pochi l'usa.
E
altrove gridava Meneghino una filastrocca del Maggi in quel dialetto
che, dopo cent'anni, ha potuto alterarsi tanto:
.
. . . . . . . . . . .
.
. . . . . . . . . . .
.
. . . . . . . . . . .
Ferr
e strasc, cardeghee,
Rivendiru,
postee,
Conch,
e tajee e messò,
Garzonscii
de sartô,
Canaja
che vivii
De
menuder guadagn,
E
criee per i strad cont i cavagn,
Cioviru
de san Sater,
Tucc
compagnon de better,
El
vost car Meneghin
El
va in lontan paes;
Se
pu no s'vedaremm, a revedes.
.
. . . . . . . . . . .
Mortadell
di tri Scagn,
Busecca
de la Gubba,
Passerit
di trii Merla,
Moscatel
di trii Re,
Montarobbi
del Gall,
Malvasia
d'offelee,
Tutt
cose de tesoree,
El
vost car Meneghin
El
va in lontan paes;
Se
pu no s'vedaremm, a revedes.
E
ad un certo punto entrò nella sala una frazione della
compagnia de' Foghetti. Il pittor Londonio, in
costume di Beltrame di Caggiano, mostrava nella lanterna magica
alcune sue bizzarre composizioni, le quale facevano sghignazzar tutti
quanti e abbassar gli occhi ad alcune dame che s'indispettivano di
non poter comprimere il riso. E subito dopo Cesare Larghi,
ch'era segretario soprannumerario di governo, in costume di contadino
brianzolo, accennando di voler cantare una delle sue villotte con
accompagnamento di ribeba, imponeva silenzio a quanti eran là,
i quali gridavano ai suonatori e ai ballerini, basta, zitto,
silenzio; e Cesare Larghi, vista la Gaudenzi, e
indispettito col pubblico del modo ond'erasi comportato secolei, si
pose precisamente innanzi ad essa, a cantare quella veramente poetica
villotta dettata in dialetto contadinesco... e che fu stampata nella
collezione de' poeti vernacoli milanesi:
I
to oggitt me paren dò bei stelli
Che
hin pu lusurient de la lusnava,
E
quij to ganassitt ch'hin de sgioncava,
E
hin inscì svernighenti e tanto belli.
Famm
vedè, cara ti, quii to bocchini
Tanto
streccit che paren facc col fuso,
Che
fan ol pover Togn deslenguà in giuso
E
van disend a tucc: femm di basini.
La
cantilena soavemente campestre onde si esprimevano quelle poetiche
parole, la bella voce e l'accento e il garbo onde il Larghi la
cantava, in prima avean messo un silenzio così profondo in
quelle sale, che si sarebbe sentito a volare una mosca; e provocarono
poi un tale scoppio d'applausi, che di più non avrebbe potuto
ottenere lo stesso Amorevoli.
Come
il Larghi ebbe finito, quella dozzina di socj della compagnia de'
Foghetti si presentarono alle dame, e le invitarono a
ballare un minuetto. Poche vi si rifiutarono, ma tra queste vi fu la
contessa Clelia, che accusò di star male. Cesare Larghi invitò
la Gaudenzi, la quale, ringraziandolo della cortesia, non si fece
pregare. Si rimise allora lo schiamazzo nelle sale, si
rinnovarono le grida, l'orchestra tornò a suonare; e dodici
coppie strisciarono la danza con mille scontorcimenti leziosi della
testa e delle braccia che sporgevano rose nel punto che fingevano
involarle, e sulla punta delle dita deponevan baci incaricati di
volar sul volto delle dame danzanti. Lorenzo Bruni che aveva seguito
per poco la Gaudenzi nella sala da ballo, ritornò dove s'era
trattenuta la contessa Clelia, e girandole dietro le spalle, le
accostò la bocca della maschera nera all'orecchio, e,
parlandole con voce sottomessa e alterata, l'invitò a danzare.
Signore, ho già rifiutato un altro gentile invito, perchè
sto male.
Signora, devo parlarvi. Si tratta di un affar grave...
Favorite ad accettare un ballo; avremo agio a stare insieme senza
sospetto altrui.
La
contessa sentì scorrersi un brivido per l'ossa, e non trovò
parola per rispondere; chè quanto aveale detto il fratello
l'aveva messa in gravissima apprensione; onde si alzò allora
e, detto alla sorella che le sedeva presso:
Aspetta qui; e, pregata la contessa del Grillo a tenerle compagnia:
Vengo, soggiunse poi alla maschera, la quale offrendole il braccio,
la accompagnò nella sala da ballo.
Si
posero così tra le figure danzanti, e fecero un giro; indi,
quando le dodici coppie si ritirarono per dar luogo alle altre, la
maschera trasse la contessa a sedere nel vano di un finestrone.
Signora, sapete voi chi sono?
No.
In mille anni mai più vi apporreste.
Spiegatevi. Che volete dire?
Che vi avrei creduta generosa come siete bella...
Ma chi siete voi?
La
maschera aspettò che molte persone si fermassero lì
presso, e colse il punto che uno degli ispettori del palco scenico,
il conte Pertusati, gli passasse dinanzi. Allora parlò e gestì
in modo da attirar l'attenzione altrui; poi di tratto, balzando in
piedi, disse ad alta voce:
Non meritate, no, ch'altri vi abbia riguardo... Vedete ora dunque chi
sono; e togliendosi la maschera nera, scoprì la maschera
bianca. Balzò fuori allora, come per arte d'incanto, la
figura del tenore Amorevoli. Sua la faccia, sua la statura,
suo tutto. Quanti erano là il riconobbero, e la contessa non
potè comprimere un grido, e cadde.
La
maschera si ricoprì tosto.
Ora, voi tutti che siete qui, esclamò, potete attestare qual
fu la donna per cui Amorevoli fu arrestato; e, detto questo, s'involò
tra la folla, e scomparve.
Noi
crediamo che il lettore avrà, presso a poco, compreso da un
pezzo in che doveva consistere la trama onde Lorenzo Bruni aveva
pensato, con un mezzo per verità illecito, di far uscire la
verità allo scoperto.
Era
da circa mezzo secolo che in Francia, dove si davano in pubblico
persino otto balli alla settimana, si era introdotta la perversa
invenzione delle maschere-ritratti, le quali, eseguite da
pittori esperti e da plasticatori, rendevano al vivo la sembianza di
chiunque si voleva. Questa maschera-ritratto di solito la si
copriva con un'altra maschera qualunque, la quale, levata con
destrezza, lasciava intravedere il volto imprestato che stava sotto,
e che ricoprivasi tosto, onde impedire si potesse conoscere
l'inganno. Questa moda dalla Francia si diffuse tosto in Italia, e
segnatamente a Milano e a Venezia. Ma i disordini che ne conseguirono
furono tali e tanti, che la pubblica morale se ne risentì
altamente. Giovani scaltri assumevano il volto di fortunati amanti a
ingannar donne e donzelle inesperte. Donne gelose e gelosi amatori e
mariti, traevano in insidia donne e amanti creduli, dal che
derivarono vendette e delitti.
E
due anni prima del tempo a cui ci troviamo, alla duchessa di
Choiseul, che, rimasta vedova, s'era invaghita d'un giovane
cavaliere, con atroce giuoco fu fatto comparire ad una festa il
marito defunto, ond'ella ne prese tale raccapriccio e sgomento, che,
caduta ammalata, morì poi di consunzione. Perciò nella
Francia stessa s'eran pubblicati editti e pene gravi contro questa
invenzione turpe. Poco dopo la proibì anche la Repubblica di
Venezia, e nel marzo dell'anno 1749 era uscita pure a Milano, in
conseguenza di gravi inconvenienti avvenuti in quel carnevale, la
seguente ordinanza:
«L'eccellentissimo
governatore, avendo, con sua gravissima indignazione sentito il
pessimo e colpevole uso che si è fatto da taluni male
intenzionati e osceni giovinastri delle così dette maschere
ritratti, ha ordinato che ne sia assolutamente vietata ed interdetta
la fabbrica e l'introduzione, sotto pena di sei mesi fino a due anni
di carcere, da infliggersi tanto a chi ne pagasse o sollecitasse con
male suggestioni l'esecuzione, come a chi vi prestasse l'opera
dell'arte e della mano per danaro o per qualunque altro compenso.
Tanto sia partecipato al senato, ai tribunali, al pretorio e ai
giusdicenti.
Milano,
12 marzo 1749.»
Al
grido, alla caduta, allo svenimento della contessa si fermarono le
danze, fu fatta tacere l'orchestra, accorsero ad onde uomini e donne
da tutte le parti, accorsero le dame dalla sala vicina e la sorella
della contessa e la del Grillo; e tosto il fratello, i parenti, gli
amici, ultimo il conte V..., la comparsa del quale compresse a tutti
la parola in bocca, sicchè fu il solo che, per il momento, non
seppe nulla, e potè così ajutare la contessa, quando si
riebbe, a recarsi in palchetto. Scoppiarono allora le dicerie
come una eruzione vulcanica. Da quel punto del ridotto all'ultimo
angolo del teatro si propagò, colla rapidità della
luce, la notizia che il tenore Amorevoli era in teatro; si propagò
la notizia ch'era venuto per vendicarsi della contessa V...; che le
tresche del tenore erano impegnate con lei e non con la Gaudenzi; e
insieme colla notizia corsero e serpeggiarono e s'intersecarono gli
stupori; le incredulità, le osservanze, le testimonianze, le
persuasioni, le ire, le ingiurie contro quella donna che, dicevasi,
alla superbia insopportabile aveva potuto congiungere anche una
detestabile ipocrisia; e colle nuove ire e le nuove ingiurie versate
contro la nuova vittima, cominciarono i pentimenti d'aver a torto
fischiata la ballerina, la vittima di due sere prima, e i propositi
di rimettere in piedi quell'idolo stato rovesciato, e d'andare a
cercarla e di portarla a casa in trionfo.
E
intanto quella notizia era giunta all'orecchio del signor giudice del
Pretorio, che si trovava precisamente nel palchetto del signor
segretario del Senato. Còlto come da un colpo di
fulmine, e balzato in piedi al sentire che il tenore Amorevoli era
venuto in teatro, chiamò un de' tenenti che sopravvegliavano
al pubblico, e lo mandò ad assumere informazioni, mentre il
segretario del Senato, indarno trattenuto dal signor giudice, che
voleva prima verificar la cosa e aveva paura d'una solenne sgridata,
si recò, pago di farsi apportatore d'una straordinaria
novella, nel palchetto dell'eccellentissimo governatore, dove
trovavasi il presidente del Senato. Essi erano già informati
di tutto, e facevan chiose e commenti, e già avean mandato a
domandare il giudice stesso del Pretorio, che diffatto venne, pochi
momenti dopo, tutto confuso a protestare com'egli aveva lasciato il
tenore Amorevoli sotto buona custodia. Tutti stettero
perplessi ad aspettare il tenente ch'era corso al Pretorio, il quale,
sollecito e ansioso, era salito dal custode delle prigioni, e con
esso era entrato nel camerino dove Amorevoli giaceva sdrajato sul
letto tra un mezzo sogno e una mezza veglia. E il tenente ebbe
l'ingenuità di interrogarlo se mai fosse uscito per recarsi al
teatro, per il che il tenore sospettò avesse quel zelantissimo
ufficiale dato di volta al cervello.
Allora
il tenente, felice che non si fosse verificato lo scandalo d'un
prigioniero fuggito, si trovò d'aver gambe velocissime al pari
d'un lacchè, e giunto tutto trafelato al teatro, fu introdotto
al palco delle loro eccellenze ad annunciare, con gran contento del
giudice, ma con nuovo stupore di tutti, che il tenore Amorevoli non
era mai uscito dalla sua cella e che quei del ridotto dovevano aver
preso uno strano abbaglio. Fu chiamato pertanto il conte Pertusati,
uno de' cavalieri ispettori del palco, il quale si maravigliò
che il governatore dubitasse della sua asserzione; e furono fatti
venire testimonj più di parecchi: tutti si misero la mano al
petto, protestando di aver la vista perfetta e la testa sulle spalle.
Governatore, presidente, giudice almanaccarono a lungo. Che è?
Che non è? Cosa può essere stato? Pensa, ripensa e
torna a pensare... Ma, quasi contemporaneamente, nella testa del
presidente del Senato e del giudice del Pretorio sorse quel sospetto,
che poteva spuntare anche più presto, perchè l'uso
delle maschere-ritratti non era che del carnevale passato, e
l'ordinanza non gli era posteriore che di nove mesi. Appena messo
fuori quel sospetto, fece tosto presa nella testa del governatore
conte Pallavicini, il quale fattolo diventar certezza, sentì
il diritto di salire in furore, e d'ordinare al signor giudice che
praticasse tosto e in tutti i modi possibili le più rigorose
indagini per scoprire i contravventori dell'ordinanza.
Quando
il giudice uscì dal teatro, la primissima luce bigia dell'alba
si confondeva già colle torcie dei lacchè che
attendevano, presso le carrozze, i loro padroni. In una parte era uno
schiamazzo assordante di evviva; in un'altra, vicino a una carrozza,
ferveva un alterco vivacissimo tra due gentiluomini su cui si
projettava la luce delle torcie dei lacchè.
Il
giudice domandò che significasse quel rumore da un lato e quel
contrasto dall'altro, e gli fu risposto come alcuni giovinotti
accompagnavano a casa, colle torcie a vento, la Gaudenzi in trionfo;
e che l'alterco era tra il conte V... e suo cognato, perchè
non s'era più trovata in nessun luogo del teatro, nè in
palchetto nè altrove, la contessa sua moglie, e, mandato il
lacchè a vedere al palazzo, nessuno l'aveva vista ritornare.
Il giudice che aveva il pensiero ai contravventori, non badò a
tal fatto più che tanto, e s'affrettò al Pretorio, dove
spiccò tosto gli ordini, perchè si mandassero a
chiamare tutti i pittori della città di Milano senza perder
tempo. E anche noi senza perder tempo diremo, che non batteva il
mezzodì, che già il pittore Clavelli, semplice e
schietto, invitato a comparire e interrogato, confessò la
cosa, e nominò il violino per il ballo del teatro Ducale.
Questi, non trovato in casa, come si seppe che praticava presso la
ballerina Gaudenzi, colà appunto fu cercato e trovato ed
arrestato, con nuovo dolore e spavento e lagrime della Gaudenzi, la
quale, pur troppo, cominciava ad essere visitata dalla sventura.
Così
nell'ora trista del tramonto di quella tristissima prima domenica di
quaresima, il destino di cui abbiam veduto a scintillare in alto
l'occhio beffardo, potè contemplare a un punto solo quattro
scene dolorose: una sala del palazzo V... in cui il conte passeggiava
innanzi e indietro, rapidissimo, mentre il furore che lo divorava per
la scoperta dell'infedeltà di quella che aveva riputata
irreprensibile, gli si svolgeva in cuore e gli si tramutava in un
sentimento spasmodico di pietà e di costernazione, all'idea
che la contessa era scomparsa e non si sapeva nè dove nè
come, onde mille orridi timori gli straziavano l'animo; e nella sala
stessa, la contessa madre sedeva immobile, coll'occhio impietrito e
spaventato, intanto che la contessina piangeva dirottamente, e il
conte fratello stava ritto in gran pensiero, guardando macchinalmente
da un finestrone nella via sottoposta. Altrove poi, la povera
Gaudenzi teneva appoggiato il bel volto sulle spalle della zia che,
costernata, osservava la nipote costernata, mentre più
lontano, in una povera casupola di legno, una vecchia, la madre del
pittor Clavelli, pareva fatta stupida, all'annunzio che l'unico
figliuolo era stato trattenuto prigioniero; e nella casa in contrada
Borromeo, donna Paola Pietra, tenendo una lettera spiegazzata sulle
ginocchia, volgeva gli occhi al cielo, esclamando con un sospiro
profondo: Ahi sventurata!
E
tutto ciò per un muricciolo saltato... e colui che era stata
la cagione prima e sola di tanto disordine, attendeva placido in quel
punto, ne' suoi vasti latifondi, ad esaminare un prospetto di conti
presentatogli dal maggiordomo, di cui la somma totale veniva a dire
che l'entrata dell'illustrissimo signor conte era di lire milanesi
duecent'ottanta mila, a non contare due diritti d'acqua, che potevano
fruttare altre lire venti mila annue.
VII
Dobbiamo
saltare alcuni giorni dal tempo in cui avvennero le cose che noi
raccontiamo; per ora non son che giorni, ma in seguito ci accadrà
di saltar mesi ed anni e olimpiadi e lustri, e non è del tutto
improbabile che si debbano saltar via anche decenni. Egli è a
questo modo che il lettore potrà farsi capace della
possibilità di passar in rivista gli avvenimenti di cento anni
in un sol anno; perchè, se dovessimo continuare a tener dietro
ai giorni colla fedeltà di un calendario, converrebbe venire a
patti colla morte, tanto a chi scrive come a chi legge; la qual cosa,
quand'anche fosse possibile, non sarebbe certo un buon affare...
parliamo per noi; de' lettori non sappiamo. Tornato ora a' nostri
personaggi, a quelli segnatamente che vennero arrestati, il tenore
Amorevoli, Lorenzo Bruni, il pittore Clavelli, erano stati trasferiti
al capitano di giustizia; di modo che il primo, dopo cinque giorni, e
gli altri dopo ventiquattro ore, avean lasciato il Pretorio in santa
Margherita. Diciamo in santa Margherita, non già
nell'odierno locale della Direzione di Polizia, perchè a quel
tempo qui sussisteva ancora il convento delle monache Benedettine.
Del rimanente codesto fatto del trovarsi il Pretorio nella contrada
di santa Margherita, in quell'anno o in quel torno, noi lo abbiamo
ricavato da alcune ordinanze e avvisi a stampa che abbiamo
sott'occhio, ordinanze di quella classe, che, applicabili al momento
fuggitivo, non v'è per consueto chi ne tenga conto, onde si
perdono senza venir raccolte a fermare ne' libri una notizia stabile
di un accidente passeggiero. E da tali ordinanze e avvisi abbiam
potuto congetturare appunto, come nel locale assegnato pel Pretorio
vi fossero pure delle celle suppletorie pei detenuti. Ognuno sa poi,
che l'antico Pretorio non era che l'attuale palazzo dell'Archivio
nella piazza dei Mercanti, e che là erano i sedili per il
Podestà, pei due giudici, così detti del cavallo e
del gallo, i quali rendevan ragione nelle cause civili e
criminali; infine pel giudice dei dazj e pel vicario, ecc. Ma tali
ordini di cariche e di località, modificate, sebben
lentamente, col tempo hanno fatto trasportare il Pretorio altrove, e,
forse, per un provvedimento provvisorio, nella contrada di santa
Margherita. E pare inoltre, che, alla metà del secolo passato,
il Pretorio non serbasse tutte le sue antiche attribuzioni, ma ne
avesse invece in gran parte di simili a quelle dell'odierna pretura
urbana, con una sezione per le cause criminali.
Colà
si instituivano i primi esami e si assumevano le prime informazioni,
per passarle poi al capitano di giustizia; sebbene ci siano documenti
pe' quali è provato che, anche solo dietro relazione
definitiva del giudice pretore, o dei giudici del cavallo o del
gallo, si passasse alla condanna degli accusati.
Ora,
lasciando da parte cotali questioni che non hanno che qualche lieve
rapporto colla natura de' fatti che noi raccontiamo, e desiderando
solo voglia taluno stendere una descrizione della città
nostra, che completi e continui quella del Lattuada, che si ferma al
1735; diremo che, se Lorenzo Bruni aveva tanto fatto per mettere a
nudo la verità, e ben potea dire d'esserci riuscito nel modo
il più trionfante, sebbene illecito, come que' capitani che
vincono una battaglia per avere saputo ridersi del diritto delle
genti; la verità, appena comparsa, fu trattenuta indietro a
viva forza, e persino si tentò di farla scomparire, tanto che
Lorenzo non aveva altra certezza se non questa, d'aver saputo trovar
la maniera d'andar in prigione e di trarsi dietro il povero Clavelli,
senza aver trovato poi quella di farne uscire Amorevoli.
Avendo esso, al primo interrogatorio, per le sue buone ragioni,
confessato il fatto senza titubanza, e in conseguenza di ciò,
essendo stato inviato, benchè in carrozza, perchè
pagata da lui, al palazzo del capitano di giustizia, quando colà
ebbe a subire il secondo interrogatorio, la sua condizione si venne
terribilmente peggiorando. Fin dalle prime parole che gli rivolse
l'attuaro, Lorenzo potè accorgersi, acuto com'era naturalmente
e penetrativo e scaltrito dall'esperienza, che chi lo esaminava gli
aveva una singolare avversione; perchè non era quella consueta
severità del giudice verso il reo, ma una severità
speciale, trovata e adoperata espressamente per lui, rinfocata dalla
natura speciale di quella da lui commessa contravvenzione alla legge,
e più che mai dall'intento di quella contravvenzione stessa.
La
madre della contessa Clelia aveva un fratello senatore, la sorella
del senatore era la moglie del marchese Recalcati, in quell'anno
regio capitano di giustizia, uomo integerrimo e giurisperito
profondo. Il marito della contessa aveva un fratello, il quale,
avendo provato che la sua illustre casa erasi stabilita a Milano da
più di un secolo, aveva potuto entrare nel collegio dei nobili
dottori. Ora questo dottor collegiale era intrinseco del vicario di
giustizia, carica corrispondente a quella che, se non oggi, alquanti
anni or sono, chiamavasi di vicepresidente del tribunale criminale.
Ognuno può imaginarsi quanto alla contessa madre e al conte
marito e a tutto il parentorio premesse, se non l'innocenza di donna
Clelia (ormai improbabile, perchè la di lei fuga aveva chiuse
le porte a tutte le speranze), almeno l'apparenza di quella. Nei
primi giorni adunque dopo la sua scomparsa, se calde e
affannose e insistenti e continue furono le ricerche praticate
dappertutto per poter scoprire dove ella si fosse ridotta; ricerche
che, sino a quel punto, non avevano fatto altro che accrescere il
dolore e la desolazione; furono calde e affannose del pari le
pratiche, le preghiere, le insinuazioni che la sorella adoperò
col fratello, che il cognato senatore fece pesare gravemente sulle
spalle del cognato capitano, che il dottor collegiale, mediatrice
l'amicizia, fece penetrare nelle ossa del vicario; e siccome eran
tutta gente di legge, ossia gente avvezza, in mancanza d'un codice
preciso e determinato, a giuocar di testa e d'acume e di sofismi e di
cavilli nel labirinto inestricabile delle leggi statutarie, così
non affaticarono a conchiudere, che, dopo tutto quello che era
successo, non era ancora provato che donna Clelia fosse quel che si
voleva che fosse; perchè dal suo labbro non era uscita
confessione nessuna, essendo caduta in deliquio; che Lorenzo Bruni
poteva, anzi doveva essere un briccone matricolato, e Dio sa quale
scopo abbominevole aveva potuto proporsi, e forse della stessa
scomparsa di lei poteva essere l'autore egli medesimo. È a
notare però, che nè il senatore, nè il capitano,
nè il vicario non avean fatto che ascoltare, e con aspetto di
sapienza e di prudenza respingere le insinuazioni de' parenti e degli
amici, terminando sempre i discorsi coll'intercalare obbligato: non
si farà che la pura giustizia, e cogli intercalari
accidentali: bisognerà vedere, bisognerà
sentire; non si può aver riguardo a nessuno fosse il
padre, fosse la madre. Ma in conclusione s'eran lasciati
penetrare; perchè gli uomini bisogna che paghino il tributo
degli uomini, e nelle questioni di sangue e di parentado e di ceto e
d'onore, quando le instituzioni non sono imposte da una giustizia che
sia veduta da tutti i lati e in pubblico, il sentimento provoca il
sofisma, e il sofisma l'arbitrio, e tutto a nome del giusto e del
retto, e tutto senza che l'onestà dell'uomo prevarichi, perchè
non è sempre questione di cuor guasto, ma di testa conturbata.
Crediamo
sia inutile di dire come, nel secolo passato, nel sistema della
giurisprudenza pratica, e segnatamente del così detto processo
criminale, non si fosse fatto alcun passo oltre il secolo XVII. (Ci
riferiamo a questo secolo, perchè i lettori, nella
disquisizione legale di Manzoni intorno alla colonna infame, avran
potuto farsi una idea della condizione della giurisprudenza a quel
tempo). Non v'era un codice scritto ben discusso, ben formulato e ben
determinato in nessun paese. Le leggi statutarie e il diritto romano
e le varie interpretazioni dei legisti costituivano tutto il capitale
giuridico tanto di un dottor collegiale, come di un senatore. Ed era
da quattro secoli che ciò continuava, senza che nessuno si
accorgesse che quel sistema fosse irrazionale; irrazionale del pari e
assai meno popolare di quello che avea a lungo durato nel feudale
medio evo. Diciamo assai men popolare, perchè prima del secolo
XIII le cause criminali si trattavano in pubblico, onde, come dice
Sclopis, manifesta era l'accusa, pubblico l'esame de' testimoni,
aperta e libera così l'interrogazione come la difesa del reo.
Ma nel secolo XIII l'eresia suggerì nuove forme
d'inquisizione, e, all'uso de' tormenti preparatori, che fu il
crudele sistema di prove introdotto dallo studio delle leggi romane
(il quale, del resto, per tutte le altre parti era stato così
benefico), s'accoppiò il segreto nell'orditura del processo.
Che se in prima il processo segreto era invalso soltanto nelle
questioni ereticali e in via di eccezione, col tempo si diffuse e si
allargò a tutte le cause civili e criminali, e come regola
costante. In Mario Pagano, in Meyer, in Sclopis ognuno può
vedere tutte le forme originate da questo principio, e come,
essendosi voluto corroborare la coscienza morale del giudice colla
così detta coscienza giuridica sottoposta al calcolo della
probabilità, si fosse edificato un corpo di dottrina falso
e pieghevole ad ogni maniera di assurdi e di arbitrj. Per queste
cose, tanto nelle cause criminali, come anche nella trattazione delle
cause civili, se il giudice o l'avvocato o il patrocinatore che
sosteneva un assunto o lo contrastava, era dotto, acuto e dialettico,
e se per avventura tra la dottrina, l'acume e l'eloquenza lavoravano
la passione, l'ostinazione o l'errore implacabile del giudizio,
allora la legge statutaria, il diritto romano, e l'interpretazione
dei giuristi facevan la figura e subivan la sorte delle tre palle
sotto al bossolo del giocoliere. Per il che ognuno può
considerar com'eran degni di pietà coloro dalla cui parte era
la ragione. Se poi una tale pratica di giurisprudenza era comune a
tutt'Italia e a tutt'Europa, ciascuno Stato vi recava alcune sue
forme proprie addizionali, e alcune sue proprie modificazioni di vita
e di costumi, le quali rendevano ancor più inestricabile il
labirinto degli arbitrj. Per fermarsi a Milano, nel secolo XVIII,
oltre al sistema del processo segreto invalso dappertutto, e al
diritto romano, e ai commenti dei legisti, la città si
regolava ancora cogli statuti e colle costituzioni criminali di Carlo
V; ma v'era un fatto che, quand'anche il sistema generale fosse stato
ottimo e gli statuti di Carlo V i migliori possibili, era tale da
mettere ogni cosa in disordine; ed era che il campo della
giurisprudenza giudiziaria era tenuto e padroneggiato con mano
tenacissima, meno qualche rara eccezione, dal solo ceto patrizio.
Il
collegio dei dottori era costituito per la maggior parte di nobili.
Da questo collegio, che era, quasi diremmo, un vivaio perpetuo di
capacità giuridiche più o meno profonde, uscivano quasi
sempre i giudici del cavallo e del gallo, il giudice
del Pretorio, il vicario, il capitano di giustizia, i senatori, il
presidente del Senato. Abbiamo un elenco manoscritto dei
capitani di giustizia dal 1750 al 1783, da cui risulta, che tutti
appartenevano alle principali case della città. Si poteva
pertanto quasi dire, che la giurisprudenza fosse a Milano una
proprietà di famiglia. Ora, se a questo fatto si aggiunga
quello de' privilegj ancora sussistenti, ognun vede come poteva
camminare il vero diritto, concesso pure che quei patrizj
avessero teste di bronzo e cuori pietosissimi; e potessero, per un
prodigio della natura e della fortuna, aver tutti la testa, per
esempio, di Farinaccio, e la carità squisita, per esempio, di
san Francesco d'Assisi. Ma oltre ai legami, abbastanza forti del
ceto, v'eran quelli della parentela. Bensì qualche volta
s'intromettevano le rivalità e i puntigli e gli odj antichi
tra casato e casato: ma questo non era già un mezzo di
equilibrio, sibbene un'occasione nuova di poter offendere la
giustizia in un altro modo.
Ma
torniamo a' nostri personaggi.
Nella
prima metà del mese di marzo, Lorenzo venne condotto dal
barigello al banco dell'auditore, per essere sentito in un secondo
esame. Messo a sedere innanzi al banco, il Bruni stette attendendo
con impazienza che l'auditore, il quale era intento a sfogliar carte,
gli rivolgesse la parola. Era ansioso di sapere se gli avevano
destinato un protettore. I protettori de' carcerati (Protectores
carceratorum) erano giovani causidici, che esordivano la carriera
assumendo la difesa degli accusati. Eran nobili per la maggior parte
anch'essi e bisognava che passassero attraverso a questa pratica per
poter avere il diritto di essere ascritti col tempo al collegio dei
dottori. Le difese si scrivevano in lingua latina o in lingua
italiana, e così venivano presentate al capitano di giustizia
per passar poi anche in Senato.
Quando
l'auditore alzò la testa, volse a Lorenzo uno sguardo tale da
fargli temere il peggio; poi disse:
Persistete voi dunque nell'asserire che la causa per cui avete
ricorso ad una abbominevole astuzia, al fine di trarre in insidie la
nobilissima signora contessa Clelia V..., sia stato il desiderio di
stornare il disonore dalla vostra protetta?
Non posso che persistere, perchè è la pura verità.
Vogliate però considerare che la cosa è inverosimile, e
che una tale inverosimiglianza ci consiglierà gravi misure.
La verità è una sola, rispose Lorenzo con un certo
sdegno, e mi pare d'avere già esposto suffizienti argomenti
per togliere ogni altro sospetto dalla testa del signor giudice.
Torno a ripetere che, dal momento che la giustizia trovò
d'escluder dagli esami, non so per che sue ragioni, precisamente la
donna che sola era stata la cagione di trarre a mal partito il signor
Amorevoli, io mi trovai in dovere di illuminarla; prima di tutto
perchè trovavo ingiusto e insopportabile che una virtuosa
ragazza avesse taccia di disonestà per colpa altrui; in
secondo luogo perchè dal momento ch'io potei intravedere che
la nobilissima signora contessa avea potuto aver la debolezza...
Vi intimo di adoperar parole più rispettose.
Lorenzo
tacque un momento, come per respingere un leggiero soprassalto
d'indignazione, poi soggiunse:
Io ho l'obbligo di difendere me stesso. È un obbligo santo
come un altro, poichè ciò che mi s'ingiunse qui è
di dire la verità. Però se, quand'anche con un mezzo
riprovevole ma il solo tuttavia che m'era possibile, ho potuto
mostrare a tutto il pubblico da che parte stesse la colpa, io non so
in che modo debba nominare la signora contessa, quando per necessità
devo parlare di lei.
L'auditore
lo guatò bieco, senza far motto.
Siam tutti di carne umana, soggiunse poi Lorenzo sempre più
indispettito, e non è detto che una nobil dama non possa avere
una qualche debolezza... il signor auditore mi perdoni la parola.
Non è più questa la cosa di cui si tratta. Già
nel primo esame avete scagliato abbastanza vituperj contro il
rispettabile ceto patrizio.
Io non ho offeso nessuno. Ho detto solo che una povera fanciulla non
doveva portar la pena delle colpe altrui, e che, mi perdoni il signor
auditore l'amore della verità, la giustizia non doveva avere
nessun riguardo alla nobiltà della signora contessa; e dal
momento che non aveva dubitato d'interrogare tutte le donne che
possibilmente avean avuto parte nel fatto, non c'era nessuna ragione
per cui dovesse omettersi precisamente quella, sotto alle cui
finestre era succeduto l'arresto del signor Amorevoli. Se gli uomini
che tengono il sacrosanto mandato di rappresentare la giustizia
avessero fatto il loro dovere, io non mi sarei trovato al punto di
offendere la legge. Questo solo ho detto e dovevo dire, per mostrare,
d'altra parte, che se ho dovuto ricorrere a un mezzo proibito, fu per
un fine retto.
Un fine retto?... esclamò allora l'auditore rompendo le parole
all'accusato; rispondete, ora a questa domanda: Chi ha fatto
scomparire dalla sala, dal teatro e dal palchetto la nobile signora
contessa, di cui non si è ancora potuto scoprir traccia?
Questa
domanda riuscì così improvvisa e inaspettata al povero
Bruni, ch'ei ne rimase colpito, e tanto più in quanto d'un
colpo d'occhio ne misurò tutta l'estensione pericolosa. Ma
soggiunse poi subito:
Cosa poss'io sapere di quel che sia avvenuto della contessa?... Dio
faccia che non sia successa una disgrazia... Ma se ella è
scomparsa e fuggita, il motivo ne è così chiaro, che
non se ne può cercare un altro.
Il motivo n'è tanto chiaro, che la giustizia v'intima adesso
di addurre le prove onde convincerla che non siete stato voi a far
scomparir dal teatro la contessa.
Lorenzo
Bruni stette un momento silenzioso poi ripigliò:
Tocca a chi mi accusa di questo fatto, per me impossibile e assurdo,
a produrre le prove, non a me. Io non posso dir altro, se non che
dopo lo svenimento della contessa, avvenuto per l'effetto delle mie
parole e della creduta presenza del tenore Amorevoli, io non l'ho
veduta più, e non seppi che alla mattina com'ella era
scomparsa dal teatro e dalla casa, e non la si ritrovava in nessun
luogo.
La giustizia potrà rendervi ragione in seguito, ma per ora,
essendo voi il solo interessato ai danni della nobile contessa, la
giustizia è in obbligo di metter voi in istato di accusa per
un tal fatto.
Lorenzo,
a questo dire, si turbò forte e non trovò parole,
sospettando come nell'impegno, forse assunto, di stornare il disonore
della contessa e dal suo casato e da quello del marito, si era
determinato di prender lui di mira in ogni modo, gettando nel
pubblico false voci e false accuse.
Cosa dunque potete aggiungere al già detto?
Nulla... Io non posso che ripetere sempre le stesse parole. Io non
vidi mai più la contessa dal momento che cadde svenuta.
Quand'è così, voi sapete quali mezzi tiene in serbo la
giustizia per fare in modo che una bocca pronunzii la verità.
E
l'auditore, suonato il campanello, ingiunse al custode di ricondurre
il Bruni nella sua prigione.
Partito
Lorenzo, l'auditore si alzò, e prendendo il processo verbale
dalle mani d'un assessore:
Nessuno, disse, mi leverà dalla testa che costui sia un iniquo
matricolato E con tali parole sulle labbra, e coi relativi
pensieri nella testa, si mosse per recarsi nell'aula
dell'eccellentissimo signor capitano di giustizia. Quando fu
nell'anticamera e già stava per farsi annunziare, gli mosse
incontro una livrea dell'illustrissimo signor capitano marchese
Recalcati, e:
Per ora non si può entrare, gli disse.
Perchè non si può... ?
Perchè...
Ma
in quella si fecero intorno all'auditore molti notaj e assessori e
scrivani che si trovavano là, e:
Sapete, gli dissero, chi fu ammesso or ora all'udienza
dell'illustrissimo signor capitano?...
Che cosa posso saper io?... chi dunque?...
Non lo indovinereste in mill'anni. Quella venerabile matrona che
tutti conoscono, donna Paola Pietra.
Ma che relazioni può avere una tal donna colla giustizia?
Chi lo sa?
Gli è molto che sta col capitano?
Se non è di più, non è di meno di un'ora... Chi
sa mai cos'è avvenuto di strepitoso?
Ma
in questo punto s'udì una lunga scampanellata dalla camera del
capitano, e accorse le livree ad aprir l'uscio, comparve sulla soglia
donna Paola, la quale uscì, attraversando l'anticamera tra
gl'inchini riverenti di quanti eran là.
L'auditore
allora si fece annunziare, ed entrò dal capitano con una
faccia tutta giuliva.
Ecco il processo verbale del nuovo esame a cui oggi fu assunto
Lorenzo Bruni. Ho tali indizj, che mi danno la convinzione possa
costui essere il colpevole del trafugamento della contessa.
A
queste parole il signor capitano non fece motto, e preso il foglio
dalle mani dell'auditore, contro l'aspettazione di quel giudice
zelante, non disse nulla, e lo licenziò severissimo.
Ora
ci rimane a sapere per qual fine donna Paola Pietra abbia domandato
un'udienza al capitano di giustizia, e che cosa sia avvenuto della
bella e sventurata donna Clelia.
VIII
Talora
dà il caso che, nella massima esaltazione di un sentimento o
di più sentimenti, quando tutte le facoltà dello
spirito, quasi ubbriacate, hanno cessato di agire regolarmente,
essendo messe in rivoluzione da una sventura, da un pericolo, da un
dolore, da un colpo imprevisto, occorra necessariamente di prendere
un partito; e in tal contingenza si abbracci precisamente quello che
è il più opportuno, e che forse non sarebbe giunto a
trovare nè a proporre nemmeno la mente più calma e più
provvida. Bisogna adunque che quella esaltazione procellosa
de' sentimenti assomigli all'acquavite campale, che spinge fin le
reclute contro le bajonette d'un battaglione quadrato; e, per valerci
d'una similitudine un po' più gentile, conviene che
quell'esaltazione produca quasi un sonnambulismo benefico, il quale,
togliendo per poco all'uomo la ragione, la quale può turbarsi
in conseguenza della sua potenza medesima e della sua virtù
illimitata, gli dà invece l'istinto che va diritto per la sua
via, men nobile, se vogliamo, ma più determinata e precisa.
La disperazione, per esempio, non accetta mai le sue leggi dalla
ragione, ma si sottomette, sebbene inconscia, alla spinta cieca
dell'istinto, ed egli è per questo che qualche volta i suoi
consigli sono un sublimato di prudenza.
Una
salus victis: nullam sperare salutem.
Applicando
ora queste nostre riflessioni alla condizione speciale della contessa
Clelia, se, dopo avvenuta la catastrofe del finto Amorevoli e del
deliquio, tre uomini di consiglio, come soglionsi chiamare, si
fossero uniti per risolvere in fretta e in furia quel che la
sventurata avrebbe dovuto fare, è assai probabile che non
avrebbero dato il più sano parere.
E,
in quanto a noi, siamo specialmente convinti che si sarebbero ben
guardati dal dirle: Fuggite, e senza perder tempo, e sola e in
qualunque modo ciò vi riesca. Eppure, a pensarci bene, era
questo il partito più conveniente che rimaneva alla contessa.
Anche noi, dobbiam confessarlo, quando sentimmo per la prima volta
che donna Clelia era scomparsa dal teatro, abbiamo fortemente
sospettato non le avesse dato di volta il cervello; ma poi, a nostro
dispetto, dovemmo convenire che un consiglio di tal fatta non le
poteva esser venuto che da Salomone; tanto la disperazione avea
tenuto luogo di sapienza! A rimanere a Milano e nella sua casa, come
poteva sopportare la presenza del marito? e poi, chi sa cos'avrebbe
potuto fare quello spagnuolo inferocito? Come sostenere lo sguardo
della madre? come rispondere, cosa dire? Con che fronte uscire in
pubblico ad incontrare gli sguardi di tutta la città? Come
resistere all'insultante pietà delle rivali trionfanti? Ma
ella non avea nemmen pensato a tutto ciò. Riavutasi del
deliquio e uscita dal palchetto, col domino tra le mani e come per
pigliar aria, guizzò tra la folla delle maschere che facevano
ingombro al palchetto e assiepavano il corridojo, e senza titubanze e
rispetti, chè la disperazione è imperterrita e non
conosce ostacoli, uscì dal teatro; e là, allontanatasi
dalla porta dell'ingresso, avvolta nel domino a bardosso, ed esposta
così al freddo e al vento, che pareva un Sibilla vaticinante,
vista la carrozza di casa Cusani che conosceva (per essere la moglie
del marchese Cusani in grande intrinsichezza col Conte V...), chiamò
il cocchiere per nome. Quegli si volse, e, col lume del fanale e del
primo crepuscolo, riconosciuta, sebbene a stento, la contessa:
Cosa mi comanda? disse.
Sta queto, che già siam d'accordo colla marchesa; ho bisogno
della sua carrozza; e di buon trotto accompagnami alla mia villa a
Gorla...; tu ci sei stato altre volte. Vogliam fare una burla a
qualcuno.
Il
cocchiere non rispondeva, e stava perplesso; ma la contessa, aperta
la porticina :
Suvvia dunque, t'affretta; chè non c'è tempo a perdere,
e se non si corre, ogni cosa può andare a vuoto.
Il
cocchiere si strinse nelle spalle, ma obbedì; e sferzati i
cavalli, in mezz'ora fu a Gorla sul naviglio. Spuntava il primo sole
quando fece una magistrale voltata entro al portone già
dischiuso della sontuosa villa V... Colà giunta, la
contessa chiamò il castaldo, che accorse con di lui grande
stupore; fece pagar lautamente il cocchiere, al quale impose di
ritornar subito a Milano; poi rivolta al castaldo:
Ti farà meraviglia ch'io mi trovi qui? Ma oggi verrà il
conte... e sentirai da lui... or non è tempo a perdere... e fa
attaccare i migliori e più veloci cavalli che hai nelle
stalle... e dammi un uomo. Il castaldo obbedì anch'esso
prontissimo, per quante congetture facesse. La carrozza fu
tirata fuori, i cavalli attaccati, l'uomo fidato fu tosto in serpe
colla sua frusta disposta alle battiture. Donna Clelia intanto
aveva scritta una lettera, che, fatto chiamare un contadino, della
cui incapacità a leggere e a scrivere volle prima assicurarsi,
gli consegnò, perchè la ricapitasse al curato di Santa
Maria Podone. E il contadino era partito sotto gli occhi
stessi della contessa, e senza che il castaldo potesse veder la
lettera, dopo ciò la contessa erasi levate le gioje, che mise
in un fazzoletto; poi si sciolse i capegli, li abbassò, li
rese meno appariscenti, e li nascose in un velo nero che si fece dare
dalla moglie dell'agente; raccolse infine al possibile la coda del
vestito azzurro ricamato in argento e si avvolse tutta come potè
meglio nel domino, adattandoselo alla vita come un vestito comune; e
così stranamente acconciata, chè il tumulto de'
pensieri gl'impediva d'avere il capo a tali cose, salì
finalmente in carrozza, dicendo forte al cocchiere: Ponte san
Marco. La casa V... aveva un vasto tenimento tra questo luogo
appunto e il lago di Desenzano, e se la contessa si diresse a quella
volta non fu per altro motivo che perchè era quella la terra
più lontana dei possessi di casa V... Il viaggio durò
tutto quel giorno e il successivo. A notte inoltrata donna
Clelia giunse alla villa, tra le solite meraviglie degli agenti e
delle fattoresse. All'alba del terzo giorno, avuto il modo di cangiar
vesti, scomparve improvvisa anche dalla villa, all'insaputa di tutti.
Se
la contessa non avesse pensato a partire inosservata dalla villa di
Ponte san Marco, la sua prima fuga non le avrebbe giovato a nulla;
perchè, di fatto, da Milano fu spedito sulle sue traccie un
uomo fidato sin là, e ciò dovea naturalmente succedere,
poichè il cocchiere di casa Cusani, tornato a Milano, quando
la marchesa padrona era già a letto, dopo essersi sentito
minacciare lo sfratto dalla casa del padrone montato in sulle furie,
raccontò il fatto della contessa V... Allora il marchese
Cusani, che già sapeva della sparizione di lei, mandò
il cocchiere stesso ad avvisarne il conte marito, che tosto inviò
un servo a Gorla, ove ebbe la notizia che la contessa era partita per
Ponte san Marco; tanto che, quando esso, la madre, il fratello e la
sorella di donna Clelia, verso l'ora bassa della prima domenica di
quaresima, versavano in quell'angoscia che il lettore sa, un uomo
della casa era già in viaggio per quella volta; chè il
conte non avea voluto per nessun modo che partissero nè il
fratello nè la madre; se a ragione o a torto non sappiamo, ma
chi s'attenta di discutere sulla ragione e sul torto in momenti di
tanto affanno e scompiglio?
Qui
poi occorre di notare per la completa intelligenza delle cose, che il
fratello della contessa, quando sentì dal carrozziere di casa
Cusani quel ch'era avvenuto, si recò insieme con esso dal
marchese medesimo, il quale, dopo un lungo discorso tenuto col conte,
ingiunse al carrozziere di non lasciarsi sfuggir di bocca quel ch'era
seguito, nemmeno colla marchesa, alla quale si sarebbe concertato
quel che dovevasi dire. E la casa V... incaricò della
medesima incumbenza verso i gastaldi della villa a Gorla, l'uomo
spedito colà e altrove a cercar notizie della contessa. È
a notare inoltre come, in sull'ora tarda della stessa prima domenica
di quaresima, il curato di Santa Maria Podone avea portato in persona
una lettera a donna Paola Pietra, ed era quella appunto che la
contessa aveva scritto prima di partire per Ponte san Marco. In
quella lettera, con un disordine d'idee e di modi che è facile
immaginare, donna Clelia narrava in prima il fatto accaduto in
teatro, poi veniva prorompendo in questi sentimenti:
«Così tutto è finito per me, nè potrò
mai più mostrare la mia fronte a chi m'ha conosciuta, chè
piuttosto vorrei trovarmi mille braccia sotto terra. Oh se tosto
avessi adempito il suo consiglio, donna venerata, almeno il mondo mi
avrebbe dato il merito di una franca confessione, e forse non sarei
stata disprezzata da colui, nè tanto punita; quantunque, per
verità, non mi sembri poi di aver meritato così fiero e
spietato trattamento. Oh potessi far noto al mondo qual era la mia
intenzione, e come il pensier mio non fosse altro che di scansar pel
momento gli scandali del carnevale... Almeno colui potesse conoscere
che la mia intenzione era di salvarlo in ogni modo! Ma faccia ella
per me, venerabile signora, il bene che io non ho potuto. La sua
carità proveda e accorra e ripari. Se mai credesse di parlare
a mia madre, di parlare al conte, lor faccia intendere ch'io non ho
veruna macchia grave a rimproverarmi, e che fui assai più
disgraziata che colpevole, disgraziata quanto mai si può
pensare... Ma ora vedo di darle un incarico impossibile... perchè
non è bene, e non desidero ch'ella veda nè mia madre,
nè il conte. Chè lo giuro formalmente a lei, venerabile
signora, nè ella stessa potrebbe distogliermi da questo
proposito... Non sarà mai ch'io ritorni mai più a
vivere col conte; io non voglio vederlo mai più. Io non l'ho
mai amato, nè lo amo, quantunque lo rispetti e lo compianga.
Ma se egli è or fatto infelice per me, son sette anni ch'io
son fatta infelice per lui; e d'altra parte vivo certissima che
nemmeno esso non mi ha amata mai. Dunque si rompa una volta e per
sempre questo nodo, il cui solo pensiero mi ha desolata, perchè...
ma io sento il rossore di quello che stavo per dire, ma io sento il
bisogno ch'ella mi protegga e mi consigli, e mandi il balsamo della
sua parola soave sulla piaga insopportabilmente dolorosa del mio
cuore. Or dove io vada non so. Nè so quello che io sia per
tentare, nè quello che la disperazione vorrà fare di
me. Ma qualunque cosa fosse per succedere; ma dovessi anche morire,
chè oramai non vedo miglior mezzo d'uscita alla passione che
mi divora e al tormento inesprimibile di non poter vivere senza
alimentarla, e di dover incontrare il disprezzo di tutti e il
mio stesso; dovessi, dico, anche morirne, io desidero che la sua
parola, pietosissima signora, venga a confortarmi nella mia ora
suprema. Or io parto... Ed ella mi scriva e tosto... e mandi la sua
lettera a Brescia, dove io manderà a levarla, e sulla
soprascritta metta il nome del mio casato a rovescio.»
Come
rimanesse donna Paola al ricevere questa lettera, è facile
imaginarlo. Il primo pensiero fu di recarsi tosto a spargere
qualche conforto fra coloro che dovevano vivere in angustie per la
partenza della contessa. Ma poi riflettè che ne potevano
scaturire guai più serj, e che prima di parlare alla madre e
al marito della contessa erano indispensabili altri provvedimenti.
Intanto credette bene di rispondere subito a donna Clelia, e di
trovare il modo perch'ella si ricoverasse in luogo sicuro, dove
potesse guardarsi e dalla passione propria e dall'ira gelosa del
conte. Le scrisse dunque di volo una lettera il cui tenore era
questo:
«Donna
tanto infelice quanto a me cara!
«Se
la sventura vi ha visitata, voi dovete essere più forte della
sventura. Se abbiate ben operato ad abbandonare la vostra
casa, nella pericolosa e speciale condizione in cui versate, non mi
attenterò di recarne giudizio. Ma quand'anche aveste fatto il
peggio, la Provvidenza metterà un riparo a tutto. Vi
ringrazio, cara donna, che il vostro primo pensiero sia stato quello
di scrivere a me, ed io vi mostrerò la mia gratitudine col
fare tutto quello ch'io potrò per voi. Di questo potete vivere
sicurissima, e se per ora non vi è dato altro conforto, questo
vi sia almeno intero. Da più parole della vostra lettera, io
scorgo che il vostro cuore, più assai che dalla medesima
sventura e dall'onta, è penetrato da un pensiero troppo
costante verso chi è vostro obbligo assoluto di dimenticare.
Cara la mia donna, il tempo guarisce di grandi piaghe, e vogliate
aver fiducia nel tempo: ma credetemi, che per tornare a rialzarvi in
dignità di donna onorata, e costringere il mondo, che si
appaga di maldicenza e di disprezzo, a tacere e a rispettare, ve l'ho
già detto, conviene che la vostra vita da quest'ora in poi
proceda inalterabile e senza un rimprovero. Allora voi troverete che
il mondo è qualche volta tanto giusto ne' suoi giudizj, quanto
più spesso è precipitoso e spietato. Allora verranno i
giorni in cui amerete la stessa sventura, perchè per suo mezzo
sarà scaturita la vostra felicità.
«Ma
pace per ora, la mia cara donna, pace e coraggio...; e giacchè
non avete ancor ben determinata la meta a' vostri passi, e fuggite
così a caso, cacciata dalla sola disperazione; e la solitudine
potrebbe trarvi a malissimo partito, Dio vi guardi dalle funeste
tentazioni della solitudine! Io scrivo in sull'istante ad una
famiglia virtuosissima di Venezia, quella dove fui accolta io stessa
con carità d'affetto, quando ci capitai da Milano, fuggita da
chi mi teneva in ingiusta prigionia; che rividi, come tornai da Roma,
e che l'anno scorso fu a visitarmi a Milano, con sempre costante
amorevolezza. Voi dunque avete a recarvi colà, e, a tale
oggetto, v'accludo un foglio perchè siate riconosciuta e
accolta e abbracciata e consolata, e forse guarita coll'insistenza
delle cure amorose. Ricevuta questa, rispondetemi di volo, e Dio vi
benedica.
«Paola
Pietra»
Questa
lettera giunse a suo luogo a Brescia, e presto arrivò nelle
mani della contessa Clelia, la quale tosto rispose alla donna pietosa
con effusione d'affetto, e coll'accettare il partito proposto. Così
ella recossi a Venezia, dove infatti fu accolta con ogni maniera di
affettuose dimostrazioni in quella casa a cui donna Paola aveala
raccomandata.
Ma
chi avrebbe detto che il destino, così spesso strano e
capriccioso, come talvolta provvido, della dimora di donna Clelia a
Venezia doveva valersene per iscoprire i capi del filo a cui
s'attiene il fatto principalissimo del nostro racconto, e quello per
cui sino ad ora avvenne tutto quello che avvenne? chè il
lettore, dato che, per un caso de' più strani, abbia preso
interesse a quest'istoria, non deve obbliare che, nella stanza vicina
a quella dove giaceva il defunto marchese F... erano state trafugate
delle carte; che probabilmente tra quelle ci doveva essere un
testamento; che se era stato commesso un delitto di tanta gravezza,
qualcuno necessariamente doveva averlo commesso e, se non di certo a
Milano, in qualche parte del mondo colui doveva bene esistere e
starsene cheto.
IX
Or
lasciamo per poco Milano, la Babylo minima di Ugo Foscolo, e
rechiamoci a Venezia, la città adottiva del chiaro di luna,
del romanticismo convenzionale e degli amori pseudo-platonici. O
Venezia! Oppure Vinegia, come noi preferiamo di chiamarti per
appagare un nostro gusto da antiquario, quante fantasie di poeti hai
tu stancate; quanti romanzieri hai raggirati lontano dal vero,
attraverso all'inestricabile labirinto delle tue calli; a quanti
esageratori di professione hai fatto prestito grazioso della tragica
tinta de' tuoi palagi secolari e dell'onda stigia de' tuoi rii,
saturi di gas fosforici e di quel jodio che è tanto lodato per
la cura della scrofola! Quante bugie, senza tua colpa, hai fatte
pronunciare agli storici, che pure, con un coraggio da leone,
s'incaricano di dire la verità! Quanti femori e coscie e
stinchi hai tu infranto colla pietra bianca de' tuoi ponti traditori!
A quanti giovinotti hai fatto perdere l'appetito e la salute
ricoverandoli insidiosamente sotto al felze delle tue gondole! Quanti
odorati squisiti e permalosi hai offeso coll'odore infesto del tuo
baccalà! Quante spregiate crete Versâr fonti
indiscrete dalle tue altane e dalle tue finestre plebee sul capo
dell'ansioso visitatore delle vetuste tue glorie! O Venezia, o, come
ci piace meglio, Vinegia, tanto straordinariamente bella e fantastica
e divina, quanto, in certe parti, difettosa e incomoda e talora
fetente! O regina dell'Adriatico, o donna di duplice aspetto, che
rendi veraci tutte le descrizioni perchè, al pari della fata
Alcina, ti mostri in apparenza di vegliarda a mettere in fuga chi
pure è venuto a visitarti colle migliori intenzioni; ma per
chi ben ti contempla, sei bella e giovane ed attraente e divina così,
da ammaliare Ruggero. Ma la colpa è di chi ha sempre voluto
descriverti da un lato solo; e dei pittori di prospettiva che non
sanno altro che far ripetizioni eterne della tua piazza e del tuo
palazzo Ducale. Così il visitatore, tratto in inganno e venuto
a te coll'ansietà come di chi vede una terra di consolazione
nella fata Morgana, s'indispettisce, se, dopo l'incantevol piazza e
Rialto grande e le colonne del molo e l'ampia laguna, non vede che
calli e callette, e negri rii, e casupole miserabili, e ballatoj con
luridi cenci, e zucche baruche, addentate ovunque dagli
squallidi figli de' tuoi pescatori. Il viaggiatore poetico che, pieno
la testa delle narrazioni convenzionali di Venezia, vi capita la
prima volta, e per una bizzarria dell'accidente, in un giorno di
pioggia; e prima di vedere le tue ricchezze gloriose s'incontra nelle
miserie deplorabili, e affacciandosi alla finestra dell'albergo, non
ha altra sensazione che di chi abitasse nell'interno d'un pozzo, tra
l'acqua in fondo e una pezzetta di cielo bigio su in alto..., che
indignazione egli sente contro le guide d'Italia menzognere; che
assalti repentini di nostalgia, quand'anche venisse dalle febbrifere
risaje! e l'aspetto di codesta prima impressione è così
micidiale, che gli dimezza e gli turba l'ammirazione e l'entusiasmo
anche pei giorni del sole e per le scene che non hanno riscontro in
nessun altro luogo del mondo.
Perchè,
ad essere sinceri, chi mai può dire che sia facile trovare un
riscontro, pur ne' sogni fantastici delle Mille ed una notti,
alla scena che si svolge innanzi all'occhio di chi s'affaccia, per
esempio, al finestrone della sala degli Scrutinj del palazzo Ducale,
in un mattino del mese d'aprile o di maggio, od anche di settembre,
quando un leggier vapore azzurro avvolge tutta la prospettiva lineare
degli edificj cospicui che decorano la grande e la piccola piazza, e
che rende più vaga e indefinita la prospettiva aerea? E ad
arte accenniamo al finestrone della sala degli Scrutinj, perchè
il giuoco prospettico riesce tale da quel punto che all'imaginazione
è permesso di sospettare interminabili le fughe delle
Procuratie nuove e delle vecchie, e più fantastico il
bisantino San Marco e quasi ampia come il Bosforo la laguna, e più
gigantesche le cupole del tempio della Salute, e quasi alberi annosi
d'un'aerea selva i campanili, i comignoli, i pinnacoli che spuntano
da ogni parte di dietro al sontuoso, diremo sipario,
costituito di quelle tante meraviglie architettoniche che l'arte
occidentale innalzò, e staccano su d'un cielo che nei giorni
della massima vampa solare e del voluttuoso vento africano, parrebbe
essere stato trasportato dall'Oriente! Ma cosa diventa il tuo sole, o
Venezia bella, in confronto della tua luna? Qual è regione
della terra dov'ella si mostri con tutti i suoi prestigj come in casa
tua? in quali altre onde si specchia più volontieri che nelle
tue? Da che torri d'altre città si mostra con più
attraente vezzo che da' tuoi edificj, o regina dell'Adriatico? Se non
che, siccome Byron ha detto che i malefizj della luna sono diabolici
in ragione della sua fama usurpata di castità e di modestia,
così noi dobbiamo credere che gl'influssi della luna di
Venezia sui deboli mortali e sui cuori giovanili siano assai più
funesti e irresistibili di tutti gli altri influssi ch'ella esercita
altrove, per esempio sul lago di Lucerna e di Costanza. O gondole
brune e romite che movete lente, troppo lente per credere che
voghiate con innocenza, o nel canale della Giudecca, o in quello più
storico dei Marrani, il canal Orfano dei drammaturghi sepolcrali, o
nella più espansa laguna delle Fondamenta Nuove, in cospetto
di San Cristoforo della Pace! come vi giova il pretesto di dover
usufruttare l'influsso della luce lunare! Quanti giovani,
anche inclinati al puritanismo, furono tratti in insidia dalla bianca
luna confederata ad una gondola nera, dal cui felze, ove penetrava un
suo raggio malizioso, uscì il suono di una qualche voce
vellutata o flautata, come vi par meglio, perchè le voci
femminili a Venezia, quando si sentono nel canale o nel rio,
subiscono, non sappiamo perché, una specie di trasformazione,
e infondono un suono che non ha riscontro in nessun'altra delle città
a noi note.
Ma
lasciando le gondole e le voci flautate, chi vuole a Venezia godere
la luna senza pericoli, non la contempli che quando ella s'interessa
all'incremento delle belle arti; allora egli si rechi a metà
Piazzetta, e la osservi quando il suo raggio attraversa le vetriate
dei due finestroni che coincidono all'angolo del palazzo Ducale; e si
fermi sotto al campanile quando il disco di essa, rompendo, quasi
diremmo, sul massimo suo vertice, sembra sciogliersi in raggi
infiniti, che piovono da quel punto come una cascata di luce; e
ascenda al ponte della Paglia a vedere come il contrasto del suo
bianco raggio che taglia sui marmi anneriti, accresca l'incomparabile
bellezza dal lato del palazzo del Doge, che risponde al ponte de'
Sospiri; e passi al ponte dell'Arsenale a guardare al suo lume i
leoni portati a Venezia dal Peloponnesiaco, i quali vegliano alla
custodia di quell'edificio da cui uscirono tante navi coraggiose e
fortunate; e trasvolando più lungi in gondola, entri nel rio
de' Zecchini a vedere i ruderi di palazzi abbandonati; o passi
davanti a S. Giovanni e Paolo, od agli avanzi del convento de'
Serviti, dove meditava il prodigioso Fra Paolo; e se gli cresce il
tempo, non ommetta il tempietto di Santa Maria de' Miracoli, che
direbbesi trasportato a Venezia da uno svolazzo di cherubini fatti
architetti; e osservi da vicino il giuoco dei tre ponti, dove la luna
si sbizzarrisce in mille modi con quelle arcate e collo specchio di
quell'acqua; e di qui ritraendosi e vogando altrove, si prolunghi
fino al rio San Polo, a vedere il contrasto che produce la luna colle
onde d'acciajo e coi palazzi gotici che sembran di pietra di
lavagna, e, colle fiamme che trapelano dalle finestre sparsamente,
mentre il fondo stacca sul cielo azzurro e stellato il vetusto
campanile di Santa Maria de' Frari.
Ma
a codesta scena appunto che si svolgeva lungo il rio San Polo
stava intendendo lo sguardo la contessa Clelia dal balcone gotico
di una casa di ragione del patrizio Salomon, intanto che l'ultima
notte del mese di febbraio sfoggiava tutto il suo sereno, tutte le
sue stelle e tutta quanta la sua luna! Al di sopra della sua testa
scintillava Giove; ma la contessa era ben lontana dal
considerarlo astronomicamente, come un tempo avrebbe fatto; nè
gli dava nessun pensiero che quel pianeta, sebbene non apparisse che
un semplice punto brillante, fosse circa mille volte più
grande della terra; ed era ben lontana dal notare, quantunque in
altra parte le apparisse la costellazione di Cassiope a lei ben nota,
come il lume di questa costellazione, natante nell'albore della via
lattea, fosse meno brillante della costellazione d'Andromeda! O tempi
per lei felici, e forse non redituri che alla più tarda età,
tempi felici, quando potea attendere a tali oggetti della scienza più
eccelsa, sgombra da ogni altro pensiero! O triangoli obliquangoli, o
parabole, o ellissi, o iperboli, o diametri e triametri, o assintoti
rettilinei, o punti multipli, o curve algebraiche, o radici di
polinomj irrazionali! chi mai, potendo in quel punto esplorare i
pensieri di donna Clelia, avrebbe sospettato che in quella
testa, ora così ardente e fantastica, avessero potuto
penetrare e per tanto tempo avere stabile dimora quelle austere forme
della scienza più austera? Perchè, ci rincresce a
dirlo, se avessimo saputo che si doveva riuscire a tal punto, quasi
ci saremmo astenuti dal trarre in iscena una donna che per tanti
rispetti ci è cara; ma purtroppo ella non pensava in quel
punto nè all'astronomia nè alla matematica, e molto
meno a suo marito; pensava bensì al tenore Amorevoli, e tanto
più che il giorno antecedente aveva saputo come non era stato
esso a trarla in insidia nel ridotto del teatro, e come invece colui
stava ancora in prigione; e, giacché non è a far
mistero di nulla, se ella a quell'ora si affacciava al
balcone, sebbene spirasse una brezzolina crudetta, era perchè
da un palazzo vicino, dove tutte le sere tenevasi accademia di
musica, tra le molte voci cantanti ve n'era una che, quantunque in
minor suono, parea la voce gemella della voce d'Amorevoli. Ad onore
del vero però e della giustizia, dobbiamo dire che se la
contessa stava tutta sola di notte a quel balcone, era inoltre per
fare un atto di carità squisita, che andasse a sconto dei suoi
peccati veniali, un atto di carità a vantaggio di una
giovinetta tanto bella quanto inesperta, la quale stava per far la
figura del rossignuolo quando il serpente a sonagli lo incanta per
farselo volare sulla lingua trisulca.
X
Ma
per spiegare al lettore più cose che forse non ha compreso al
primo, giova sapere come la contessa Clelia fosse stata bene accolta
dalla famiglia Salomon per virtù della lettera di donna Paola
Pietra: giova sapere, che se la persona e il nome della contessa
stettero nascosti per alquanti giorni in Venezia, a poco a poco ne
trapelò qualche notizia tra persona e persona che,
frequentando la piazza di San Marco, portarono in piazza la notizia
medesima; la quale venendo ad intrecciarsi al fatto che si
attendevano al teatro di San Moisè in Venezia, per la stagione
di primavera, la celebre ballerina Gaudenzi, e, per la stagione
futura di carnevale, il non men celebre tenore Amorevoli, presto,
insieme alla notizia ch'era già corsa dell'arresto di lui
avvenuto a Milano pel contrattempo d'una tresca amorosa, e pel
sospetto d'un delitto di più grave importanza, tali e tanti
parlari si sparsero e racconti e congetture e sospetti e domande e
lettere scritte espressamente a Milano, e risposte avute con gran
sollecitudine, che si diffuse per tutta Venezia la novella che la
contessa Clelia V..., la fatale Elena di quella seconda Iliade, erasi
rifuggita in Venezia appunto e dimorava in casa Salamon. Però
non si può dire quanto fosse generale il desiderio di vederla,
di avvicinarla, persin di ammirarla; di esaminare dappresso se era
poi tanto bella come si diceva, se il tenore era stato di buon gusto,
se non aveva avuto torto a sfidare tanti guai, a farsi arrestare, a
serbare un pericoloso silenzio, a rinnovare insomma quasi la tragedia
di Antonio Foscarini per amore e rispetto e venerazione di lei. E la
curiosità fu tanta, che il ponte che attraversava il rio San
Polo, di repente si vide frequentato a tutte l'ore del giorno da gran
numero di persone, per osservare se mai da qualche finestra si
mostrasse la testa della donna che era l'oggetto del discorso
universale. La contessa Clelia, a cui la buona famiglia che
l'alloggiava riferiva quel che dicevasi nella città, stavasene
celata dietro le finestre per vedere tutti senza essere veduta; ma
tra i moltissimi notò una figura che assai le diede da
almanaccare. Quella figura era d'un giovane gentiluomo, gentiluomo,
almeno, per quanto appariva al di fuori, e per la ricchezza
dell'abito e pel veladone di broccato e per la spada col fodero di
velluto bianco; giovane tanto che forse non arrivava ai vent'anni, ed
oltracciò di tant'avvenenza di corpo e di una bellezza così
baldanzosa di volto, che quand'anche ella avesse il pensiero altrove,
lo avrebbe distinto fra gli altri, anche se non le fosse sembrato
d'averlo visto tante e tante volte, e più facilmente a Milano
che in altro luogo. Quel giovane passò un giorno, passò
due, passò tre giorni per di là e più volte
quotidianamente; se non che ella potè accorgersi che non
veniva coll'intenzione della moltitudine, la quale attraversava il
ponte e gettava un'occhiata al palazzo Salomon; ma sibbene ci veniva
per fermarsi a volgere lo sguardo ad una finestra del palazzo
dirimpetto che stava presso al ponte, alla qual finestra compariva
anche una fanciulla. Chiesto di chi era il palazzo, a donna Clelia fu
risposto che apparteneva al patrizio Zen; ma non serviva che
d'alloggio alle figlie di lui, le quali per educazione vivevan
separate dal resto della famiglia; chiesto chi era la fanciulla, le
fu detto essere la maggiore delle figliuole di quel gentiluomo; la
qual giovinetta, che forse non aveva quindici anni e rappresentava il
tipo più vetusto e più legittimo e più completo
della beltà veneziana, era la sorella maggiore di quella
Cecilia, che doveva col tempo, sposata al patrizio Tron, diventar
celebre ed ispirare al grande Parini la famosa ode intitolata: Il
Pericolo.
Donna
Clelia, per accertarsi se quel giovane era colui veramente ch'ella
sospettava, o almeno per raccogliere un indizio di più onde
avvicinarsi alla verità, lo additò un giorno ad uno
della famiglia nel cui seno ell'abitava; affinchè senza farsi
scorgere lo codiasse e lo sentisse a parlare con qualcuno. L'incarico
venne accettato, e senza molta difficoltà, come ognuno può
imaginarsi, in quel dì stesso venne riferito alla contessa che
colui parlava il dialetto milanese. Questo bastò perchè
donna Clelia potesse ritenere d'essersi apposta infallibilmente. In
conclusione ella aveva creduto di ravvisare in quel giovane un tale
Andrea Suardi detto il Galantino, che a diciasette anni era
stato lacchè nella casa del marchese F... ed erasi reso famoso
per la straordinaria velocità delle sue gambe, e per avere
riportato tre volte il primo premio e la bandiera bianca nelle corse,
che, secondo voleva allora il costume, le case più ricche di
Milano, in certi determinati giorni dell'anno, facevan fare ai loro
più riputati lacchè, onde vedere chi lo aveva più
abile e più veloce. Quel giovinetto era dunque diventato una
specie di celebrità del suo ceto, e siccome era di
un'avvenenza non comune, ch'egli accresceva vestendo la livrea di
lacchè con un'eleganza insolita, così veniva da tutti i
grandi signori e accarezzato e regalato abbondantemente, ma il
giovinetto, di mente svegliata ma di trista indole, era stato guasto
da tante carezze e da tanta fortuna. Essendo manesco e rissoso, ad
ogni momento il padrone, che gli voleva bene, bisognava pagasse le
busse, le bastonate e, una volta, persino una coltellata che,
ubbriaco, aveva appoggiato ad un collega nell'acciecamento di una
rissa. Essendo discolo, e ch'era peggio, essendo bello, aveva messo a
mal partito più ragazze del popolo; e il padrone, il quale
aveva della debolezza per quel fanciullo, cresciutogli in casa da un
vecchio carrozziere, s'era trovato costretto più d'una volta a
pagare indennizzi e a far sospender reclami. A tutto ciò
aggiungevasi, che diventato anche giuocatore e non bastandogli più
nè il salario nè le mancie ordinarie e straordinarie, e
avendo debiti di giuoco da pagare, un giorno rubò alcune
monete d'oro al padrone; fatto che, per non essere stato scoperto,
rinnovò più volte; ma alla fine, essendo caduti i
sospetti su di lui ed essendo stato perciò tenuto d'occhio, fu
visto una mattina da due servitori entrare bel bello nella stanza del
signor marchese mentre dormiva, prendere una borsa da un tavoliere e,
vuotatala per una buona metà, mettersi il danaro in tasca. Fu
allora che, riferito e provato il furto, il giovane lacchè
venne scacciato sui due piedi dalla casa F...
Il
marchese vietò ai due servitori di raccontare il fatto in
pubblico, e per qualche tempo continuò il salario al giovane
Suardi, il quale, trovandosi ozioso e fuggito da tutti, ognuno può
pensare come potesse avviarsi al ravvedimento. Se non che,
nell'occasione di una corsa straordinaria avvenuta a Milano tra i
lacchè delle varie città di Lombardia, essendo quei di
Milano, per esser mancato l'intervento di lui, rimasti gli ultimi,
con grave offesa della gloria municipale, il giovane Galantino si
offerse allora di battersi coi tre lacchè vincitori, i quale
eran di Brescia, di Cremona e di Lodi; e la sfida andò di
maniera, che la gloria di Milano riuscì per virtù sua a
rimettersi al primo posto, tanto che egli ricevette doni da tutte le
parti, e si rifece in gala. Inoltre, per quella vittoria, un
gran signore di Napoli, che era venuto allora a stare a Milano, prese
il Suardi al proprio servigio, benchè dopo pochi mesi lo
avesse licenziato, onde il giovane ritornò presto alla vita
scioperata di prima. Ora la contessa Clelia aveva veduto molte
volte quel giovinetto lacchè, e anch'essa, pur nella sua
severità scientifica, aveva applaudito e di cuore a' trionfi
di lui, come avean fatto tutte le dame alle quali, com'è
naturale, doveva essere simpatico quel giovane così bello e
così alacre. È dunque facile a comprendere come,
ad onta del veladone di broccato e dei due orologi e delle ricche
trine e della parrucca ad ala di piccione e del cappellino a tre
punte listato d'oro, e di tutta quella trasformazione, dell'abitino
succinto di lacchè all'abitone prolisso di gentiluomo, a lei
facesse colpo quella figura e quella faccia veduta tante volte;
faccia caratteristica quant'altra mai, perchè ad un profilo
finissimo, ad una bocca quasi da fanciulla, ad un incarnato bianco e
rosato, che parea quello di una educanda non ancora trilustre, facean
contrasto due occhi neri, vivacissimi e pieni di fuoco, ma d'un
taglio così traditore e d'una luce tanto sinistra, che a lungo
lasciava disgustato chi lo guardava.
Che
il giovane Suardi, ossia il Galantino, come veniva comunemente
chiamato a Milano, da questa città fosse passato a Venezia,
non ci era nulla di straordinario, sebbene non fosse questo il luogo
più adatto alla sua professione di lacchè; ma quel che
ragionevolmente doveva promuovere di grandi sospetti era quello
sfoggio repentino del suo abbigliamento e quell'aria di
profumatissimo gentiluomo ch'egli si dava. La contessa, quando lo
vide la prima volta sul ponte, pensò ch'egli avesse fatto una
gran vincita al giuoco, e bizzarro qual era e amante della eleganza e
del lusso, come ne aveva dato un saggio anche a Milano pur nell'umile
sua livrea di lacchè, attendesse allora a gettare i guadagni
in fretta e in furia nel recitare per poco tempo la parte del gran
signore; ma a questa prima congettura ne tennero dietro delle altre,
essendole nota la cagione per cui era stato cacciato dalla casa F...,
e fece così altri sospetti di più grave natura.
Quando poi s'accorse del motivo pel quale più volte al giorno
capitava su quel ponte, e vide la giovane Marina Zen aspettarlo
ansiosa al balcone, e una notte, gettargli anche un letterino;
fremette d'indignazione, e sentì una pietà profonda per
quella giovinetta, che, cedendo alle prime effervescenze del sangue
ed agli arcani desiderj del cuore, si era lasciata cogliere da quel
vago aspetto di giovane, onde impaziente lo attendeva, e mestissima
lo vedeva discendere dal ponte e dileguarsi. Donna Clelia,
nella sventura congenere in cui versava, aveva trovata quella nuova
sollecitudine per i pericoli altrui, e un timore sinceramente
affannoso che una fanciulla sbocciante allora allora dall'infanzia,
cresciuta in tanta distinzione di natali, bella e fragrante come una
rosa, ingenua al punto di abbandonarsi all'insidia per non
sospettarla, fosse per cadere negli avvolgimenti di quel furfante
mascherato.
Lo
spirito, la bontà e il senno di donna Paola erano in quel
punto, trapassati nella contessa; tanto riuscì efficace il
contatto della virtù, che per lei fu una consolazione
l'imitarla.
Da
due notti il giovane Suardi, quando tutto dormiva, entrava nel rio in
gondola; la fanciulla veniva ad una finestra del pepiano, come
la chiamano i Veneziani; ed egli salendo al di sopra del felze,
alzandosi in sulla punta de' piedi, e protendendo la mano, poteva
toccar quella della fanciulla che, volendo e disvolendo, pur gliela
concedeva. La contessa Clelia stava in sull'ali, e se non s'intromise
prima in verun modo fu perchè, dopo pochi minuti, in quelle
due notti, la fanciulla erasi ritirata, il giovane era disceso, e la
gondola, movendo muto il remo, erasi dileguata. Pur quelle visite
notturne, continuando, potevano esser causa d'irreparabili sventure,
onde la contessa pensò che fosse debito suo il vegliare
assidua e attenta. E in fatti, in quella notte in cui abbiam visto la
contessa Clelia al balcone mentre le scintillava il pianeta di Giove
in sulla testa, quel Giove tanto abile a trasformarsi per tendere
insidie alle giovani beltà più celebrate della
mitologia; nel punto che si smezzava in seno la passione propria e la
pietà per la passione altrui, s'accorse della gondola consueta
che procedeva nel rio; e di lì a poco, ferma che fu la
gondola, vide affacciarsi la Marina, e tosto impegnarsi un dialogo
sommesso e una corrente elettrica di sospiri affidati all'aria. Il
Suardi stava, come di solito, sul felze; ma, ad un certo punto, come
un leopardo che spicchi un salto traditore, gettò una corda al
balcone, e di slancio fu al contatto del viso della fanciulla. Se non
che, quasi contemporaneamente, si spalancarono a battere
rumorosamente sui marmi le imposte della finestra del palazzo
dirimpetto; e il Suardi sentì una voce squillante di donna a
gridargli: Galantino! La fanciulla si ritrasse e chiuse i
vetri; egli si volse a saettare la pupilla ardente, come un serpe
inferocito percosso nella coda. Il raggio della luna, per una
divisione che era tra palazzo e palazzo, penetrato allora nel rio,
illuminava la finestra dove stava ferma donna Clelia in tutta la
maestà della sua faccia di Minerva. Ci fu un istante di
profondissimo silenzio e quasi terribile. Il Galantino ravvisò
la contessa.
XI
Tanto
la contessa che il Galantino stettero per qualche tempo immobili e
perplessi, la prima al balcone, il secondo sul felze della gondola;
donna Clelia fu molte volte in procinto di parlare, molte volte il
Galantino fu tentato di avventare ingiurie a quella che in così
mal punto lo aveva sorpreso. Il pensiero però di essere stato
riconosciuto, lo aveva colpito in modo che gli tolse il coraggio e la
sfrontatezza; onde senza dir nulla, saltò dal felze alla poppa
e mosse la gondola. Allora la contessa si ritrasse assai turbata,
perchè dopo la prima compiacenza d'aver salvata una fanciulla
inesperta, gli sorvennero i timori per sè stessa; poiché,
ben conoscendo l'indole tristissima di quel giovinetto, rifletteva
che, nella condizione in cui ella trovavasi, da quell'incontro
disgraziato potevano derivarle altri guaj. Donna Clelia non sapeva
che in parte come stessero e camminassero le cose a Milano, e ciò
pel carteggio che teneva con donna Paola Pietra, la quale da un lato
prudentemente le taceva alcune cose, e dall'altro non poteva conoscer
tutto nemmeno essa. La contessa aveva dunque raccolto dalla terza
lettera l'arresto di Lorenzo Bruni, tutore della Gaudenzi; aveva
maravigliato al racconto della maschera di cui era stata la vittima;
si era consolata al pensiero che Amorevoli era ancora in prigione;
che sorta di consolazione! ma il cuore umano è fatto così.
Aveva saputo le pratiche che in sui primi giorni i parenti di lei, la
madre, il marito avean fatto per tentare di venire sulle sue traccie,
ma come s'eran poi racquetati. Se non che donna Paola aveale scritto
che a Milano correva qualche voce, non sapeva poi in che maniera,
della sua dimora nella città di Venezia, e che però
attendesse a stare nascosta e ritirata; che in ogni modo le avrebbe
fatto noto prestissimo se potesse trattenersi a Venezia con fiducia,
o le fosse necessario rifuggirsi ad altro luogo, con maggiori cautele
di quelle che si erano usate prima. Non è dunque a dire
quanto, dopo avere appagato lo slancio generoso della sua pietà,
si pentisse del non essersi saputa misurare e tener nascosta pur nel
momento ch'era accorsa all'altrui soccorso. Se avesse saputo che,
nell'intenzione di tutto il patriziato amico de' suoi parenti, si
desiderava invece che ella stesse lontana da Milano, e si fingeva di
non conoscere dov'ella si fosse ricoverata, perchè alle loro
mire giovava il supposto che Lorenzo Bruni, più che della
contravvenzione alle leggi sulle maschere, fosse colpevole d'un
rapimento eseguito da altri per conto suo, non si sarebbe dato tanto
affanno dell'essersi fatalmente incontrata coll'ex-lacchè di
casa F... Del rimanente, se donna Clelia poteva aver qualche timore
della presenza del Galantino in Venezia, non è a dire quanto
costui, dopo il sobbollimento della prima sorpresa, e dopo la prima
furia, maledicesse cento volte la coincidenza del trovarsi la
bellissima giovinetta Zen nel palazzo dirimpetto al quale doveva
venire a dimorare la contessa Clelia V... Ma ciò che lo coceva
e gli metteva in cuore di strane paure, chè ben egli sapeva
come stava, era quell'essere stato sì tosto riconosciuto,
trasvestito qual era e pur fra l'oscurità; onde mille altri
sospetti gli entrarono nell'animo.
Per
quanto il Galantino della pravità avesse tutta la naturale
vocazione e la sfrontatezza, e fosse di quelle complessioni fisiche
così perfettamente costituite, che non sono accessibili
nemmeno ai turbamenti morali; talchè ai disappunti, agli
sfregi, al disonore, alla cattiva fama aveva fatto il callo, pure non
dormì troppo tranquillo in quella notte. Alla mattina però
si rinfrancò tutto quanto, chè coll'aria fresca che
veniva dalla terraferma gli sorvennero anche i secondi pensieri. E si
maravigliò di non aver considerato a tutta prima le
circostanze speciali in cui versava la contessa Clelia V...; poichè
anch'egli conosceva la storiella di Milano, e la fuga di lei, e
com'ella se ne stesse in Venezia di contrabbando. Perciò,
d'uomo assalito qual egli era, pensò di farsi assalitore,
cangiando in sull'istante, sul campo di battaglia, e tattica e
strategia; e d'una in altra cosa fermò il partito di recarsi a
fare una visita alla contessa. Nessuno può imaginarsi la
straordinaria svegliatezza della mente di quel tristo giovine, e il
colpo d'occhio onde sapeva scansare i pericoli nel punto di
affrontarli, e come, ad onta di così poca età e di una
educazione sì rozza, avesse il senso di quelle cose che non
s'imparano che cogli anni, colla squisita coltura e con una gran
pratica di mondo. Aveva poi una memoria prodigiosa e una facilità
strana d'apprendere, tantochè, per venire ad un esempio, in
quel mese da che stette in Venezia, si era impadronito d'una buona
metà del dialetto veneziano e già ne faceva qualche
sfoggio pe' suoi fini. Non è poi a dire come della propria
bellezza, di cui non s'invaniva, ma che valutava, quasi a prezzi di
stima, aveva stabilito di cavare quel partito che altri trarrebbe
dalla ricchezza e dalle altre facoltà che hanno peso e misura;
sicchè, contando sulla forza qualche volta onnipotente d'un
bell'esteriore, aveva pensato che a lui sarebbero state lecite tante
cose, che agli altri potevan venire ascritte a colpa. Perciò
aveva gran cura della propria bellezza, e dell'incarnato delle
proprie guancie; e dei denti bianchissimi, che puliva e curava colla
sollecitudine del soldato il quale sfrega col pomice la bajonetta,
non per amore della bajonetta, ma perchè gli deve servire in
fazione. La natura insomma aveva largito a lui tutti i suoi
doni, ma egli aveva condotto le cose in modo da convertirli tutti in
altrettante armi d'offesa, e ciò senza nemmeno averne avuto un
proposito deliberato; sibbene, torniamo a ripeterlo, per quella
pravità irresistibilmente attiva della sua natura, che solo
sarebbesi mitigata, o fors'anco si sarebbe tramutata in qualche altra
cosa, se avesse avuto un'altra nascita e un'altra educazione. Allora
non sarebbe stato il Galantino piè-veloce, ladro e truffatore,
come lo vediamo indicato nelle carte che abbiamo sott'occhio, ma
sarebbe riuscito un gemello, per esempio, di Fouché o di
Talleyrand. A quell'ex-lacchè travestito occorrevano molte ore
di toaletta; e in quel mattino adoperò la pomata di riserva,
per poter far visita con un certo successo, secondo lui, alla signora
contessa.
Vestì
pertanto l'abito più sfarzoso che aveva; un veladone ampio
di velluto nero, tutto tempestato di puntine d'oro, col panciotto
d'una stoffa a duplice trama di fil d'argento e di fil di seta
azzurra, che dava molteplici combinazioni di luce, d'ombra e di
colori ad ogni screzio di piega; coi calzoni corti di spinone, aventi
legacci di velluto a punte d'oro come il veladone, e fibbie di
brillantini; tutto il resto faceva corredo e complemento rigoroso al
vestito principale.
Non
solo adunque aveva adottato lo sfarzo e la ricchezza, chè a
ciò poteva arrivare in ventiquattr'ore qualunque villico
arricchito; ma nelle stoffe, nei colori, nel disegno de' ricami,
nell'eleganza totale dell'acconciatura, metteva l'intelligenza
dell'uomo squisito, e persino il colpo d'occhio dell'artista, talchè
pareva un cavalierino che tenesse il privilegio del buon gusto dal
lungo uso della ricchezza, dalle continue consulte col sarto, dai
viaggi a Parigi, che allora era il quartier generale della moda, e lo
era diventato fin dal tempo di Luigi XIV, che gli storici si
sentirono obbligati a chiamar grande, forse per non aver
pronta in quel momento un'altra parola. Ma venendo ora al fatto,
quando il Suardi fu bene in assetto, dalla casa ove dimorava, presso
al palazzo Pisani in campo san Stefano, discese al rio, ove
l'attendeva la gondola con un gondoliere in livrea, al quale,
nell'entrar sotto il felze, gridò: Casa Salomon.
Allorchè la gondola si fermò davanti allo scaglione di
quella casa, Galantino diede al gondoliere un breve portafoglio di
seta legato con nastri, fuor del quale spuntava una cartolina.
Allora, come ognun sa, non c'eran biglietti di visita propriamente
detti e propriamente fatti, ma c'eran i loro precursori; e giacchè
era il secolo delle eleganze più profumate e delle caricature,
chi voleva farsi annunziare a qualcuno per una visita, faceva
presentare al guarda portone, perchè lo facesse avere al
padrone della casa, un bigliettino su cui scriveva il proprio nome,
il qual bigliettino veniva sempre collocato in un portafoglio, in un
astuccio, in un vezzo qualunque; e tali vezzi qualche volta avevano
un gran valore, essendo d'argento, d'oro e persino ornati di pietre
preziose; a seconda della ricchezza del visitatore, e del bisogno che
aveva di rendersi gradito e d'imprimersi bene nella memoria di chi
voleva visitare; perchè era di prammatica che il padrone o la
padrona di casa, tolto il foglietto, e letto il nome, si tenesse il
vezzo per sè, come pegno e come dono. Il Suardi, che conosceva
tutte queste bizzarie della moda, aveva creduto bene di farne uso in
quell'occasione. Il gondoliere, chiesto pertanto della signora
contessa V..., presentò al servo il portafoglio di seta (la
prammatica non voleva che in una prima visita si sfoggiassero i
metalli fini e le gemme). Il servo, il quale era stato indettato
dalla padrona di casa fin da quando la contessa le era stata
raccomandata, rispose non saper nulla di quel nome, ma che avrebbe
fatta l'ambasciata alla padrona stessa. Questa era in casa, e disse:
Va dalla contessa, e domanda a lei quel che si ha a fare. Dal
nome che è lì dentro ella piglierà norma. Così,
entrato il servo nell'appartamento della contessa e fattosele
annunziare, le presentò il portafoglio di seta; la contessa
levò il foglietto, e lesse Galantino, per due
parole. Rimase stupita e sconcertata. Il servo, ch'era a
parte degli arcani, le chiese se avesse a licenziare il gondoliere.
La contessa non sapeva che risolvere; fremeva e arrossiva al pensiero
di dover ricevere una tal visita. Dall'altra parte temeva a
rimandarlo; però, dopo molte titubanze:
Fallo entrare, rispose.
Galantino,
ad onta della sua baldanza, stava pure in gran paura non gli venisse
un rifiuto dalla contessa: perciò quando il suo gondoliere e
la livrea di casa Salomon gli dissero di restar pure servito, balzò
fuori dalla gondola tutto pago e colla sua baldanza raddoppiata, e
s'avviò, preceduto dal servo, all'appartamento della contessa,
annunciato lungo i corridoj e le vaste anticamere dallo scricchiolio
delle sue scarpe di sommacco. Quando il servo spalancò i
battenti dell'uscio della sala ove stava la contessa, egli si
trattenne in gran rispetto, sulla soglia, curvando il tergo e
chinando la testa fin quasi alle regioni dell'ombilico, di modo che
l'elegantissimo fodero della sua spada, alzandosi in quel movimento,
veniva colla punta a trovarsi a livello della testa. La contessa
Clelia, stando in piedi, colla mano dritta appoggiata ad un
tavoliere, come una regina Elisabetta in atto di dare udienza, chinò
leggerissimamente il capo, in maniera però come s'ella
tentasse d'ingannare sè stessa sulla realtà di
quell'atto. Ma Galantino alzatosi tosto, varcò la
soglia, e fu nel mezzo della sala, faccia a faccia con donna Clelia.
Il servo si ritrasse, nè la contessa gli osò dir di
fermarsi. quantunque ne avrebbe avuta tutta la volontà. Passò
qualche momento in cui Galantino stette aspettando che donna Clelia
si ponesse a sedere; ma quando vide ch'ella non movevasi, senza
mostrare il benchè minimo disdegno a quell'attitudine di
regina in trono, con una disinvoltura piena di garbo e con un sorriso
dolce, sebbene un po' affettato, le offerse egli stesso una sedia,
rompendo in questi termini il silenzio:
Signora contessa, io non sono più il Galantino di Milano, sono
il signor Andrea Suardi, venuto a fermar la mia dimora a Venezia,
perchè qui, secondo il mio gusto, si spendono meglio i danari
e si gode meglio la vita. La fortuna mi è stata favorevole, e
le carte e i tavolini verdi hanno fatto venire nelle mie mani il
danaro altrui. Oggi sono benestante e ricco...; col tempo poi non è
affatto improbabile ch'io diventi anche nobile. Conosco due o tre qui
di Venezia, che cent'anni fa attendevano al miglioramento delle carni
suine, ma che per aver fatto in processo di tempo un prestito alla
serenissima repubblica, oggi son nobili, dell'ultima qualità
questo s'intende, ma nobili in ogni modo. In quanto a me poi,
l'assicuro, signora contessa, che del mio passato appena mi ricordo.
Così
dicendo, e porgendo la sedia, col gesto pregava donna Clelia a voler
sedere. Per quanto la contessa sentisse dentro di sè sdegno e
disprezzo e persino paura di quel vezzoso serpente che le stava
davanti, pure si lasciò per il momento quasi deviare e placare
da quell'aspetto così vago e sorridente, da quell'eleganza
così profumata; credeva, ma senza che nemmeno sapesse formular
la cosa a sè medesima, che quel volto geniale, que' modi
eleganti e quel ricco vestito costituissero come un muro di divisione
tra lei e l'abbiettezza e la tristizia di quel giovane. L'uomo
è così fatto: anche il più sapiente, anche il
più astuto ama lasciarsi ingannare dall'apparenza, anche
allorquando sa benissimo che di sotto sta il marcio. La
contessa dunque accettò la sedia, e dirimpetto a lei si pose a
sedere il Galantino.
Mi rincresce, disse allora questi, ch'io debba incominciare il mio
discorso con un rimprovero... e sorrideva maliziosamente, mentre la
contessa, abbassando gli occhi, non rispondeva. Che malefizio
egli è poi, seguiva il Galantino, perchè lo si debba
rompere in due da chi veglia a notte tarda, che malefizio può
essere egli mai che un giovinotto, il quale non è ammogliato,
faccia la sua corte ad una ragazza che non è maritata?
E
fece un'appoggiatura su questa parola, e nel pronunciarla, tutto il
dolce che prima avea tentato di accumulare nella sua vivace pupilla,
scomparve, per lasciar intravedere un guizzo di luce sinistra e
serpentina.
La
contessa, tutta rimescolata a quelle parole, alzò di repente
gli occhi che aveva tenuti abbassati, e li fermò con tanta
serietà negli occhi mobilissimi del Galantino, che questi
pensò di ammorbidire la lama, e di darle una piega.
Io non aveva cattive intenzioni (continuava), e non ne ho; ma che
colpa è la mia se quella ragazza è la figlia del conte
Zen? poichè, venga il diavolo a portarmi via, ma posso giurare
che aveva tanto la testa ai tavolini verdi in questi giorni, ch'io
non pensavo a ragazze; ma colei mi parlò tante volte e così
chiaro con que' suoi occhi da penna di pavone, che a non tenerle
dietro e a non accompagnarla per vedere dove fosse il suo palazzo,
sarei stato una gran bestia.
Il
lettore si avvedrà come lo stile di queste ultime parole di
Galantino faccia un po' di sconcordanza coi modi eleganti del suo
primo presentarsi; ma un giovane che era nato da un carrozziere, ed
era cresciuto tra le gambe de' cavalli, e dai dieci ai vent'anni non
aveva fatto altro che correre, facendo a gara con essi, bisognava
bene che di tanto in tanto, a sua insaputa, e ad onta della sua
straordinaria attitudine a saper uscire da sè stesso,
lasciasse tuttavia trapelare fra poro e poro l'acre odor di cipolla.
Se
non che la contessa non lo lasciò continuare, e soggiunse:
In conclusione, per qual fine voi oggi siete venuto da me?
Per due oggetti.
Quali sono?
Uno è dedicato all'ottima signora contessa, e s'inchinò;
l'altro deve fruttare interamente per me; e del resto, una mano
lava l'altra.
Non vi comprendo affatto.
Mi lasci parlare, e vedrà la signora contessa, che forse le
verrà fatto di capirmi.
XII
A
queste parole donna Clelia si alzò, fece alcuni passi, e si
recò in sull'uscio, con aria sbadata in apparenza, ma per
vedere se qualche servitore fosse lì presso; poi ritornò
all'obliqua scherma di quel dialogo, disposta a parlar chiaro e a non
lasciarsi intimorire.
Sentiamo dunque, ella disse, qual'è la cosa che pretendete
usufruttare per voi.
Una cosa semplicissima, signora contessa, ed è questa, che,
dal momento che in Venezia ella è la sola che sappia quel che
io sono stato una volta, voglia così aver la compiacenza di
non guastare con delle importune rivelazioni la mia condizione
d'adesso. La qual cosa spero che la signora contessa non mi vorrà
negare, anche per riguardo a ciò, che, se io, per esempio,
andassi a Milano, e qualcuno mi chiedesse dove sta al presente donna
Clelia V... io non avrei certamente l'obbligo di tacere; e allora, a
che scopo mettersi in carrozza; e correre a rompicollo per togliere
la lena a chi poteva venir dietro, se il signor conte non dovesse far
altro che attaccare i cavalli di posta, noleggiar la gondola di
Mestre, e venire a Venezia, a ripigliarsi la sua moglie?
Parliamo di voi, disse allora con piglio assoluto la contessa; di voi
e de' vostri bisogni, e lasciamo agli altri la cura dell'altre cose.
Il Galantino fu punto dall'accento altero più che dalle
parole di lei; onde si alzò anch'esso, e volendo come
insegnarle ad essere un po' più umile, assunse un fare
triviale e sguajato.
Ma sapete però ch'è bella, signora contessa?... di
tante donne e gentil donne, di tanti guarnelli e guardinfanti che
stanno a Milano, chi avrebbe detto che la più fredda doveva
essere la più calda, e che le balzane meglio impiombate
dovevano poi essere le più leggiere? Però, bisogna
confessarlo, la signora contessa è stata di buon gusto, e
vivano gli artisti da teatro; anch'io, per esempio, se trovassi una
donnetta di quelle che s'imbellettano in camerino, potrei mettere da
un canto la contessina bionda, e appagare così i rigori della
sua protettrice.
Senti, Galantino, vuoi tu ch'io suoni il campanello, e dica al
servitore di condurti alla gondola? Bada che in questa casa capitano
patrizj del Gran Consiglio, procuratori e avogadori, e se io dicessi
loro chi sei tu e chi eri tu e cosa tu hai fatto, e come tu vesta da
gentiluomo essendo stato un lacchè, per tentar le figliuole
dei nobiluomini veneziani, presto ti metterebbero al bujo; a Venezia
si fa presto, e sarebbe per loro un tratto d'indulgenza a scrivere al
Senato di Milano; e siccome chi si traveste e si vende per quello che
non è mette di grandi sospetti, non so quel che il Senato di
Milano farebbe di te quando il Senato di Venezia pensasse a
consegnarti al Pretorio del confine del ducato, perchè
t'inviasse dritto al Capitano di Giustizia! Sappi, che il tuo nome
passò per più bocche la notte che i servitori di casa
F... vider l'ombra d'un uomo a fuggire dalla stanza del marchese...
Queste
ultime parole furono di tanta forza, che il volto del Galantino
corrugato allo scherno, si spianò a un tratto, come se gli si
rilasciassero tutti i muscoli; e il colore incarnato e vivace, per la
prima volta forse, fuggì da quella faccia tanto bella quanto
sfrontata.
Ora
convien sapere, che tra i molti sospetti venuti alla contessa sul
conto del Galantino, quando lo vide per la prima volta a Venezia in
quello sfarzo, fece presa nell'animo suo anche questo, che la
ricchezza di lui fosse la conseguenza di quel delitto, e ciò
per la ragione, che la mattina del giorno successivo all'arresto
dell'Amorevoli, quando a tutti quanti in casa V... pareva
inverosimile e assurdo che il tenore potesse aver avuto interesse a
quel trafugamento, un servitore tra gli altri, entrò a dire:
Scommetterei che è stato il Galantino. Quel sospetto
gettato là da un servitore parve una gran sciocchezza, perchè
fu subito fatto osservare che il Galantino non avrebbe mai fatto lo
sbaglio di aprire uno scrigno dove non v'era che della carta scritta,
essendo noto il suo attaccamento sviscerato all'oro e all'argento
sonante... e una risata generale mandò per allora quel
sospetto agli atti di casa V..., donde non era mai uscito o, almeno,
non ne era uscito in modo da poter viaggiare sino al Pretorio.
Ora, che la contessa, in quelle strette di cuore e in quella febbre
d'amore, avesse dovuto occuparsi di quell'indizio criminale, il
lettore sarà abbastanza ragionevole per non pretenderlo.
Ma quelle parole del servitore, Scommetterei che è
stato il Galantino parole che erano scomparse affatto
dalla memoria della contessa, le si riprodussero tali e quali, alla
vista di lui in Venezia, come quando torna a dar fuori una macchia
untuosa non ben lavata dalla saponaria. Non gliene avrebbe però
mai fatto motto in quel dialogo, se il Galantino non l'avesse
stuzzicata con quella baldanza (e qui fece un errore indegno di lui),
baldanza che una dama di condizione non poteva sopportare. Dopo
tutto, convien confessare che la contessa si comportò con più
fermezza e colpo d'occhio di quello che si sarebbe potuto aspettare;
onde ci pare non sia sempre vero che lo studio della scienza dei
corpi celesti tolga agli intelletti la facoltà di saper
distrigarsi bene anche delle cose terrestri.
Intanto
però il Suardi aveva avuto tempo di ricomporsi, e insieme col
colore che gli era tornato sulle guancie, gli ritornò anche in
petto la fidanza; per la quale riprese di nuovo il fare squisito del
gentiluomo che aveva dimenticato per un momento con tanto suo danno.
Pur
troppo un piè messo in fallo può balzare dall'amenità
di un luogo montano in un precipizio.
Signora contessa, disse poi, ella mi fa torto, o, per dir meglio,
ella fa torto a sè stessa, dando luogo a sospetti di simile
natura. Che ho a far io col defunto marchese F...? che interessi mi
legano a lui? poichè, se non mi fu riferito il falso, credo
che si tratti di un testamento...; ella dunque vede bene, signora
contessa, che egli è vero ch'io fui il suo lacchè, e
che, se quel signore ebbe qualche vanto al mondo, fu per aver avuto
il primo lacchè di Lombardia a' suoi servizj, ma ciò
non fa ch'io sia un suo parente.
Donna
Clelia taceva, ma nella sua testa era penetrata la convinzione che
quel che aveva sospettato era vero.
Nella
bilancia della giustizia legale, il rossore, il pallore e lo
smarrimento sono imponderabili morali; ma nella bilancia dell'uomo
valgono più della stessa colpa confessata.
Bene,
qualche volta dà il caso che, nelle nature eccessivamente
sensitive, il rossore ed il pallore compajono per quelle arcane
movenze dello spirito, che si conturba pur al semplice annunzio delle
colpe altrui, ma ciò non poteva succedere in quella natura di
cuoio del lacchè Galantino: il quale, se potè
sgomentarsi alle parole della contessa, fu perchè era
tutt'altro che preparato a sentirle, e la sorpresa lo rovinò;
chè, sotto il lavoro immediato della sorpresa, l'uomo di
solito smarrisce il suo carattere abituale.
Ma
alle parole del Galantino così rispose la contessa:
Io ti dico quel che si pensa di te a Milano, non già quello
che ho pensato io, nè che penso adesso. Io non sono la
giustizia, e basta che io pensi e provveda a me. Ti dico soltanto che
può bastare un sospetto a perdere un uomo, e che perciò
ti giova arar dritto e prudente, e non immischiarti colle famiglie
patrizie di Venezia e non toccar le loro figlie, perchè
l'orgoglio dei Veneziani è tale, che guai se scoprissero
quello che tu sei... chè d'uno in altro fatto... si
potrebbe... tu mi comprendi...
Obbligarmi a non far la corte a nessuna delle belle patrizie
veneziane, rispose il Galantino, è un pretender troppo,
signora contessa, nè io so se in questo, quando mai si
presentasse una bell'occasione, potrò accontentarla. Pur d'una
cosa trovo che è mio dovere l'esaudire i suoi desiderj;
perchè, se la signora contessa conosce la famiglia Zen e ne ha
preso a proteggere la bella figliuola, io mi asterrò da questa
pratica, sicuro per altro di far un gran dispiacere alla ragazza, del
qual dispiacere voglia ella, signora contessa, pigliarsi tutta la
responsabilità.
Donna
Clelia non rispose, e il Galantino si licenziò, grazioso,
sorridente e gajo, in apparenza, come un damerino a cui la dama
adorata gli avesse detto di sperare.
Quando
la contessa rimase sola, chiamò il servitore cui raccomandò
di non lasciar mai più entrare quel signore, poi si mise a
fare tra sè e sè una consulta su ciò che gli
restava ad operare in quella circostanza.
Pensò
a quello strano e quasi inverosimile concordo di accidenti, pel
quale, in un modo lontanissimo da tutte le previsioni imaginabili,
venne a scoprire, o credeva almeno, l'uomo che era fuggito in quella
notte fatale dalla casa F... e da cui era nato tutto il parapiglia.
Per quanto però ella ne tenesse la convinzione, e a sè
stessa avesse potuto giurare che il Galantino e non altri era
l'autore del trafugamento; pure rifletteva che la convinzione morale
è una cosa troppo lontana dalla certezza fisica, per poter
così di leggieri mettere nelle mani della legge inesorabile un
giovane che, per quanto fosse tristo e avesse tutta la capacità
a quel delitto, pure non si poteva assolutamente escludere dalla
possibilità la sua innocenza in quel caso speciale.
Considerava poi che non era facile a trovare la cagione verosimile
del trafugamento consumato da quell'ex lacchè di casa F...;
perchè e documenti scritti e testamenti non avevano nelle sue
mani nessun valore utile per lui. Ella sentiva inoltre un'avversione
invincibile a farsi denunziatrice di un fatto a danno altrui, anche
data la piena certezza della colpa, anche data la certezza che, a
tacerla, si potesse recar mali gravissimi ad altri. Son le solite
lotte dell'intelletto e della logica col dominio del sentimento o di
quei sentimenti che, generati da controversi principj e da
pregiudizj, si piantano nel cuore dell'uomo a trattenere i consigli
della ragione e della coscienza. Siccome poi la comparsa in giudizio
del lacchè Galantino, come reo imputato del trafugamento,
poteva aprir la porta alla prigione del tenore Amorevoli, così
l'eccesso di questo desiderio era d'impaccio a donna Clelia, la quale
avrebbe voluto che il vero balzasse netto e schietto sul banco del
giudice, senza che ella vi dovesse aver parte. In ogni modo, dopo
aver messo a contatto e in disputa nel suo cervello tutti i pro e
tutti i contro, pensò di scriverne alla sua consolatrice e
consigliera donna Paola Pietra, sotto condizione del più
profondo segreto.
LIBRO
TERZO
Il
capitano di giustizia marchese Recalcati. I protettori dei
carcerati. Benedetto Arese e Pietro Verri. Il conte
Gabriele Verri. Sistema rigido d'educazione nel secolo
passato. Problema storico. Pietro Verri e la campana
della piazza de' Mercanti. Le difese del Verri e dell'Arese.
Lo zio di Cesare Beccaria. I giuochi d'azzardo e il ridotto di
San Moisè in Venezia. Una curiosa notizia intorno al
Senato di Milano.
I
Prima
di partire per Venezia abbiam lasciato donna Paola Pietra che usciva
dalle stanze del marchese Recalcati. E quella visita potè
recare un gran bene, in quel punto segnatamente che il Bruni e
l'Amorevoli, nella casa della giustizia, per un perfido giuoco della
sorte, erano alle prese coll'ingiustizia. La lettera scrittale dalla
contessa nel tumulto della passione le aveva data piena facoltà
di riparare i danni che essa non avea potuto stornare in tempo. Però
donna Paola assunse quel mandato a rigore di scrupolo e nell'intento
di soddisfare a ciò che era giusto ed onesto in tutti i modi
possibili. Si tenne dunque informatissima e delle voci che correvano
in pubblico, e di ciò che facevasi in privato, e, fin dove era
possibile, dell'azione interna delle pubbliche magistrature. Visitata
com'era di frequente dalle persone più distinte della città,
giunse a subodorare le intenzioni celate dietro alle formalità
apparenti; chè per quanto, come dicemmo, i processi criminali
camminassero segreti, pure dov'eran tanti assessori e attuari e
scrivani, uscivano un po' per volta a circolare tra pubblico e
pubblico le cose che più volevano tenersi nascoste. Donna
Paola seppe dunque che il parentado della contessa aveva gettato i
dadi opportuni per far credere ch'ella fosse vittima innocente di
qualche terribile intrigo; seppe inoltre che sulla contravvenzione
alla legge commessa dal Bruni si volevan edificare altri supposti ed
altre cose, perchè colui dovesse pagare i debiti di tutti. Del
resto donna Paola era quella precisamente che doveva conoscere più
d'ognuno (e il cuore le faceva sangue rammentando il passato) come lo
spirito di corporazione talvolta, a quel tempo, facesse tacere la
voce dell'assoluta giustizia. A prevenire così, in quanto
dipendeva da lei, le conseguenze possibili di quelle oblique
insinuazioni, aveva risolto di far visita ella stessa
all'illustrissimo marchese Recalcati, che aveva fama d'uom dotto e di
rettissime intenzioni, ma per modestia e per bontà era
d'indole pieghevolissima, e cedeva facilmente a chi stava o più
in su di lui, od era pari a lui per grado di magistratura, e lo
soverchiava poi per ostinazione di principj e d'opinioni, e per
superiorità di ingegno e d'eloquenza. Donna Paola
sapeva poi che i membri del nobile collegio dei giureconsulti, e i
giudici e i senatori (eccettuato qualche uomo specialmente rigido, e
quel senator Goldoni, pensando al quale essa fremeva ancora), presi
ad uno ad uno, quando la loro testa e la loro coscienza moveva libera
e nell'atmosfera sgombra della giustizia legale, temperata dalla
giustizia morale, sentivano e vedevano e desideravano e comandavano
il vero bene, ma poi, quando si fondevano in quella formidabile unità
del collegio e del Senato, sovente venivano a comprovare quanto fosse
vera la sentenza ciceroniana de' Senatores boni viri, con quel
che segue. Armata dunque di tutti questi dubbj e di tutti
questi sospetti, per tacere del senno e dell'esperienza, donna Paola
si recò negli uffici del Capitano di giustizia. Quando al
marchese Recalcati fu annunziata la sua visita, insieme colla
meraviglia, provò qualche sensazione che non era tutta di
piacere, chè ben conosceva anch'esso quella celebre e
venerabil matrona, e la di lei carità operosa e vigile; e
sapeva inoltre come colei non facesse mai passo che non fosse per
cosa della più grande importanza, e che, allorquando ella si
proponeva un fine, animata qual era dalla convinzione e dall'amore
del bene, non si rimanesse mai a mezza via, per qualunque ostacolo
incontrasse. È poi ad aggiungere, che, in quel giorno della
visita di donna Paola, la coscienza di quell'ottimo magistrato non
era tranquillissima, onde in tutto ciò che gli si presentava
di straordinario, gli parea come d'affacciarsi in un rimprovero
Nulladimeno
l'illustrissimo signor marchese, quando donna Paola Pietra entrò,
le mosse incontro con atto di profondissimo rispetto, e avanzato di
propria mano un seggiolone, la pregò a sedere.
Qual grave affare, soggiunse poi, ha determinato la signoria vostra
venerandissima a venire in questa casa della colpa e della sventura?
Il desiderio appunto, illustrissimo signor marchese, d'impedire
qualche possibile sventura, e di stornar qualche colpa. Ma di una
cosa io le debbo innanzi tutto far domanda.
Parli.
Vorrei sapere se il signor marchese può ascoltarmi, non nella
sua qualità di capitano di giustizia, ma come semplice e
privatissimo gentiluomo, e al bisogno farsi depositario di un
segreto?...
È un segreto relativo alle cose della mia carica e alla sorte
di coloro che dipendono da me?
Esso è tale appunto.
Allora debbo dire, che se dal fatto che mi venisse rivelato, potesse
cangiarsi ed anche semplicemente modificarsi lo stato di qualche
processo, io non potrei più in coscienza conservare il
segreto.
Donna
Paola stette per qualche momento silenziosa, poi disse:
Parlerò in ogni modo.
Io sto ad ascoltarla.
In queste prigioni son detenuti da qualche tempo un tale Amorevoli
cantante, e un tal Bruni Lorenzo suonatore di violino?...
Il
Recalcati si scontorse, e affermò col cenno.
Ora, siccome è facile congetturare (seguiva donna Paola), che
la condizione di costoro può migliorare o peggiorare a seconda
delle rivelazioni che qui dentro potessero penetrar dal di fuori,
così venni precisamente a farle una rivelazione, che può
di subito mandarli ambidue assoluti o quasi... ma il nome ch'io debbo
pronunziare ha bisogno del massimo riguardo, e converrebbe che non
uscisse da quest'aula.
Vossignoria parli pure con fiducia.
Il nome è quello dell'illustrissima contessa Clelia V... Se
una strana fatalità non sopravveniva, sarebbesi recata ella
stessa qui a confessare a V. S. illustrissima com'ella sola fosse
stata l'oggetto di quella visita dell'accusato Amorevoli. Or io vengo
per sua commissione e in nome suo a far questa deposizione appunto.
Siccome poi ho sentito a correr tra il popolo la voce, anzi la
credenza, che quel suonatore, sotto la falsa maschera, celasse il
fine di tenderle un'insidia gravissima, ed anzi di trafugarla o di
farla trafugare; così vengo ad aggiungere che la contessa è
fuggita di sua piena volontà, senza aver piegato ad
insinuazione d'altri, col fermo proposito di abbandonare una casa
dove, secondo lei, non poteva più vivere. Delle quali cose
potrò a suo tempo ed a richiesta della signoria vostra
illustrissima esibire le prove.
Ma dove s'è rifuggita?
V. S. illustrissima non ha mai sentito a parlare di questo?
A me finora non consta nessun fatto preciso. Molte voci ne corsero.
Ma sa ella, rispettabile signora, dove di presente si trovi la
contessa?
Siccome una tale notizia non giova nè nuoce a nessuno, e
soltanto potrebbe far danno alla signora contessa, così V. S.
illustrissima non troverà essere un contrattempo che anch'io
possa ignorarla.
Il
marchese stette muto per qualche istante; poi disse:
Io ringrazio di cuore, venerabile donna, l'alta e operosa sua carità
per la quale ha voluto venir ad illuminare la giustizia. Soltanto
debbo dirle che codesta sua carità la esporrà al grave
incomodo d'esser sentita più e più volte in giudizio.
Ed io sarò sollecita, ella conchiuse, di far in modo che tutto
corra a vantaggio del vero e del giusto; e ciò detto partì.
Ora,
quella visita e quella rivelazione cangiò il piano della
procedura, perchè donna Paola era temuta di quel timore il
quale non è altro che un modo del rispetto. Il capitano di
giustizia parlò col vicario, questo col fratello del conte
V...; collegiali e senatori furon sentiti privatissimamente, e si
risolse di lasciar che il processo camminasse per la china, senza
preoccupazioni, senza esacerbazioni, senza cavilli. Però, fu
determinato che, dietro esplorazione degli atti, i signori
patrocinatori dei carcerati, da eleggersi all'uopo, stendessero la
difesa dell'Amorevoli e di Lorenzo Bruni. Del primo fu eletto
patrocinatore il conte Benedetto Arese, giovane di non ancora
venticinque anni, e a Lorenzo Bruni toccò in sorte il conte
Pietro Verri, che appena avea varcati gli anni ventidue.
Fra
i personaggi, che sono già molti e saranno numerosissimi di
questa nostra storia, e che non tengono da noi altro incarico, pur
nella loro importanza drammatica, che di costituire la moltitudine ed
il fondo ai veri grandi uomini storici dei cento anni decorsi,
facciamo ora, per la prima, avanzare la figura giovanile di Pietro
Verri, come antiste a quella schiera gloriosa di uomini grandi
appunto e d'uomini utili, i quali e a gruppi e sparsamente e ad uno
ad uno vedremo sorgere, come alberi di alto fusto tra la fitta selva
delle piante volgari. Essendoci proposti di mostrare in azione
il più di questi benemeriti, per cui Milano e la Lombardia, e,
rispetto a certi elementi speciali della vita pubblica, l'Italia
tutta e persino l'Europa si atteggiò a vita più
razionale, vedrem frattanto il giovane Verri a contrassegnare il suo
primo ingresso tra gli uomini, con uno spirito già vigile a
combatter le male consuetudini, per cui il secolo non poteva più
reggersi, e col coraggio ad affrontar tutti gli ostacoli che i
pregiudizi della sua casa, del suo ceto, del suo tempo dovevano
opporgli onde farlo stramazzare a' primi passi.
II
Il
conte Benedetto Arese, il giorno dopo che si vide eletto a
patrocinatore del tenore Amorevoli, trovandosi nelle sale
dell'Accademia de' Trasformati, prese pel braccio l'amicissimo suo
Pietro Verri, e lo trasse nella libreria, dov'era un po' di silenzio.
Caro Pietro, mi trovo in un grave imbarazzo.
Capisco già cosa mi vuoi dire... Non sai da che parte
incominciare a scrivere la difesa di cui sei stato incaricato?
Se tu non mi aiuti mi trovo al punto di rinunciare all'incarico.
Tutti
gli amici coetanei di Verri e quelli che erano stati suoi compagni
agli studi, lo avevan sempre riguardato e lo riguardavano come colui
che aveva su tutti un'incontestabile superiorità; acuto,
arguto, epigrammatico, vivace, parlatore facilissimo, per poco che
s'agitasse una questione, di qualunque più lieve cosa si
trattasse, tirava gli altri facilmente dalla sua, o, almeno,
costringeva tacere gli oppositori; il che se potè stornargli
qualche amico che fosse un po' men caldo degli altri, se potè
generare qualche antipatia, qualche odio, chi ha pratica di mondo se
lo può facilmente imaginare. In ogni modo per una tale
superiorità, tutti lo richiedevano di consiglio.
Caro Benedetto, disse il Verri all'Arese, non far la sciocchezza di
rinunziare ad altri il patrocinio a te affidato; perchè se tu
ti credi in un grand'imbarazzo, è questo invece il caso di
cavarsela con grand'onore e con poca fatica.
Una
delle qualità caratteristiche del Verri era di non patir quasi
d'invidia (diciamo quasi, perchè è una parola
questa a cui non vogliamo rinunziare, tanto è comoda); provava
esso dunque una gran soddisfazione nel procurare di far figurare bene
i suoi amici.
Non so comprendere dove tu trovi sì grande facilità?
Passano anni, caro mio, e corrono centinaja di processi prima che si
presenti il caso in cui abbia più desiderio il giudice d'aprir
le porte al prigioniero che quasi al prigioniero di uscire; e quel
ch'è più raro ancora, che il giudice sia tanto convinto
dell'innocenza del costituito, al punto d'indispettirsi che questi
mantenga un silenzio che è a suo danno.
Questo lo so anch'io, ma che mi fa a me?
È assai facile, caro mio, dare a credere al giudice quello che
il giudice stesso pagherebbe qualche cosa per dar ad intendere agli
altri.
E che ho io da fargli credere?
Che sia probabile, e, sopratutto, che sia verisimile quel che a tutta
prima pare stranissimo e appena possibile. Fin adesso il tenore si è
sempre ostinato ad un sol punto di difesa, non è vero? onde
avrebbe sempre ripetuto, che passeggiando dopo il teatro e vedendo
quel bel giardino di casa V..., non volendo perdere l'occasione di
godersi tra quelle alte piante un chiaro di luna de' più
limpidi, gli venne il ghiribizzo di fare un salto e di passeggiare in
giardino.
Ma chi può prestar fede a una tale bizzarria?
Non è detto che una cosa bizzarra non sia una cosa vera. Qui
sta il punto... Quante volte è capitato a me, quante volte
sarà capitato a te, in villa, di saltare un fosso per entrare
in un parco altrui, onde guardare cosa c'era di bello e di nuovo.
Chi non lo sa che un tal ghiribizzo può capitare a
chicchessia? ma in villa, ma di giorno; non in una città, non
di notte, non nel mese di febbrajo.
Sia qual tu vuoi, ma tu devi piantarti qui e addurre l'esempio di
fatti consimili; poi c'è a tener conto della professione di
cantante, la quale dà il diritto ad esser più matti
degli altri. E poi c'è la vita passata del tenore, tutta senza
rimproveri, per il caso ond'è imputato, almeno; poi c'è
la sua agiatezza e i pingui quartali che vorremmo aver noi giovinotti
di famiglia, che abbiamo i berilli sul borsellino, ma di dentro c'è
poco o nulla, perchè i nostri buoni padri ci voglion troppo
bene... non è egli vero, Benedetto mio caro? E poi c'è
la sua condizione di forastiero, e d'uomo che non è mai stato
in Milano, e che per conseguenza non deve conoscer la pianta delle
case, al punto da passeggiarci dentro e passar per le fessure come un
topo domestico; e qui non sarà male il mettere un po' di
ridicolo che faccia rilasciare i muscoli troppo tesi dei magnifici
signori senatori. Alle volte val più un epigramma ben
scagliato e a tempo, che tutte e tre le parti d'un'orazione
ciceroniana... E poi già, non mi pare che si vorrà star
tanto sodi sulle formalità; quante volte elle si dimenticano
per peggiorare la condizione d'un galantuomo... A fortiori le
si dovranno dunque dimenticare anche per lasciar respirare libero un
galantuomo... Ma, per di più, c'è il fatto che il
tenore è aspettato a Venezia; e i patrizj veneziani, che amano
tanto la musica, faranno uno scalpore del diavolo perchè al
tenore sia data facoltà di cantare a San Moisè... e c'è
di meglio che il tenore è al servizio di sua maestà il
re di Spagna, e io so che si è già scritto al re con
tutte le circostanze mitiganti... e il re scriverà... e
l'imperatrice ne parlerà al ministro di Vienna... il quale
scriverà al plenipotenziario di qui... e... e poi bisognerebbe
aver coraggio, nominar la contessa e tagliar corto e aprir la
breccia; e giacchè si è già usciti dalla
giustizia per riguardo di lei, ed essi lo sanno, quantunque non
vorrebbero farlo sapere all'aria, così fulminarli con un
quousque tandem che non manca mai di fare il suo effetto, un
quousque tandem però, intendiamoci bene, condito con
attestazioni di gran rispetto, e fiancheggiato di magnificentissimi e
di eccellentissimi, tu mi comprendi.
Io ti capisco benissimo; ma in quanto alla contessa; nemmen per
ischerzo è a consigliarmi di gettar là qualche cosa sul
conto suo. Tu sai che mio padre...
Ah questi padri, questi padri benedetti, che pretendono di pigliar
sempre per l'orecchio i figliuoli, anche quando i figliuoli ci vedon
più di loro.
E
il giovane Verri si fece serio e tacque, per un momento, poi
aggiunse:
Basta, io son certo che la tua riuscirà una bellissima difesa
e che la spunterai, perchè ti proteggono il re di Spagna, i
patrizj musicanti di Venezia, e il desiderio de' giudici, i quali
imiteranno quelle dame, che nel loro interno sono felicissime di aver
avuto la sventura d'essere state sorprese da un zerbinotto
intraprendente e sfacciato. Ma io sì che tengo i piedi
in un pantano, da cui sarà difficile uscir netti, perchè
se rispetto la verità e la giustizia e la coscienza, son
sassate che vanno a cadere sull'invetriate dell'aula dei
magnificentissimi senatori; e se mi propongo di lavorar di scherma
soltanto per far sentire il suono del fioretto, ma senza ferire, io
avrei vergogna di me stesso, e allora sarebbe meglio lasciar la
difesa a un altro.
Ed io ne' tuoi panni farei questo precisamente.
Bel consiglio!
È il migliore...
E lasciar in balia di qualche scimunito la ragione di quel povero
diavolo di Lorenzo Bruni, che ti so dire essere un uomo di proposito
e di pensamenti generosi tutt'altro che vulgari! Eppure non è
che un povero suonatore di violino; ma quando questo è sano (e
picchiava colla punta del dito sulla fronte), e la ragion naturale
può andar dritta per la sua strada senz'essere trattenuta,
contrastata, deviata dai pregiudizj, oh che sapienza è
l'ignoranza!...
Ma e che dunque ti proporresti di fare?
Nient'altro che mettere la mia coscienza nel vuoto pneumatico, e
liberarla da tutta quella pesantezza che le potrebbe derivare dai
rispetti umani, e allora...
E allora?
Sarà quel che sarà. Ma non dir nulla di questi nostri
discorsi nè con tuo padre, nè con altri, nè col
marchese Beccaria, lo zio di Cesarino... A proposito del qual
Cesarino, sai tu che egli è un ragazzo adorabile, e che tremo
di lui soltanto perchè quello zio testardo potrebbe far tanto
da riuscire a guastarlo?...
Oh... sinchè Cesarino sta in collegio a Parma, non è
possibile che lo zio possa far male co' suoi consigli stemperati
nelle lettere.
Mentre
i due interlocutori stavano così parlando nella sala della
libreria, udirono un furioso batter di mani che veniva dalla aula
maggiore dell'accademia de' Trasformati. Si recarono dunque
anch'essi colà, e stettero a udirvi dalla viva voce del buon
Passeroni, un canto del poema il Cicerone, che di quel tempo
egli stava componendo. Quando il Passeroni ebbe finito di
leggere l'ultima ottava del canto, l'accademia si sciolse, e i due
amici partirono insieme cogli altri.
Il
Verri passò il resto della giornata meditando il suo
subbietto, e la sera, quando uscì per fare una passeggiata,
affatto solo, come soleva, verso il borghetto di porta Orientale, gli
venne in pensiero che a riscaldare l'eloquenza e a far raccolta
d'argomenti, per persuadere e, all'uopo, per intenerire i giudici,
gli sarebbe stato necessario, giacchè aveva sentito replicate
volte il Bruni nella sua prigione, di sentire anche la Gaudenzi, che
trovavasi ancora in Milano, quantunque fosse già in sulle
mosse onde trasferirsi a Venezia per la stagione di primavera. Pietro
Verri, quantunque avesse ventidue anni, pure non era stato in teatro
che poche volte, e anche quelle poche volte, sempre in compagnia di
suo padre, il signor conte Gabriele; il quale non aveva mai permesso
che il figlio si staccasse un momento da lui per uscire dal
palchetto. Quel rigidissimo uomo non voleva assolutamente che il suo
figliuol maggiore si trovasse neppure un istante in compagnia degli
eleganti zerbini che passavan la notte in teatro a corteggiar dame, a
giuocare nel ridotto, a dar mezz'oncie alle giovani corifee sul palco
scenico. Perchè è un fenomeno curioso e che può
dar molto a fare alla riflessione d'un filosofo, quello che, mentre
il costume generalmente era allora così rilasciato, e le
tresche amorose costituivan l'affare più importante e più
continuo della vita, e le dame giovani sfoggiavano tal nudità
che oggi farebbe senso, e le leggi del matrimonio avevano assunto
un'elasticità senza pari (e diciam questo perchè lo
troviam detto e ripetuto in storie, in libri di costumi, in poesie,
ed anche ce ne assicurò, oltre al nostro amico Giocondo Bruni,
qualche altro vecchio vivente, che giunse in tempo per mettere il
labbro sull'orlo di quei vasi di voluttà); pure dall'altra
parte è incontrastabile che l'educazione, nell'intimo della
maggior parte delle famiglie patrizie e non patrizie, si manteneva
rigidissima; che i padri e le madri attendevan più a farsi
rispettare e temere che amare dai figliuoli; che il tu di Roma antica
e il tu alla quacchera d'oggidì era ignoto tra genitori e
figliuoli, e sarebbe allor sembrata una profanazione l'assumerlo e
l'accordarlo. Guai se alla mattina, prima dell'ora d'asciolvere, le
ragazze non si recavano, con una prolissa riverenza appresa a scuola
da suor'Agata e da suor Martina, a baciar l'anellone d'amatista del
signor papà e l'anellino di brillanti della signora mamma;
guai se i ragazzi non imitavan le ragazze; e se ciò non si
ripeteva e prima e dopo il pranzo, e prima e dopo la merenda, e prima
e dopo la cena; perchè è un altro fenomeno storico che
i nostri avi mangiavano più di noi. Come dunque, ad onta di
tanti rigori e di tanta etichetta casalinga, e di tanto risparmio di
sorrisi confidenziali, dalla casa uscissero nel mondo tante zucche
vuote e tanti scapestrati e gaudenti e voluttuosi, è un
problema che mal si riesce a sciogliere; nel modo istesso che non
possiamo spiegare come ne' libri e nelle satire e nelle opere
dell'arte, ad ogni quattro parole, ad ogni pennellata si accenna
all'ignoranza classica dei nostri avi patrizj, mentre poi il più
de' giovani studiavan legge e si mettevano in lista per entrar al
nobile collegio de' giureconsulti, alle magistrature, al Senato?
La spiegazione noi crederemmo di trovarla in ciò, che nei
libri anche i meglio riputati, il più delle volte le cose e
gli uomini e i tempi si considerano da un lato solo, nel che sta il
gran segreto di far scaturire il falso perfino dall'istessa verità.
Ma
tornando al giovane Pietro Verri, sebben trattenuto in palchetto dai
rigori di suo padre, aveva però vista e contemplata e quasi
divorata la bellissima Gaudenzi... Era giovinotto, era vivacissimo. E
la simpatia verso la beltà, se non è una prova, è
sempre un indizio di squisitezza di sentimento e d'animo gentile.
La
ballerina Gaudenzi aveva dunque fatto, se non nel cuore, perchè
non sempre si arriva fin là, certamente nell'imaginazione di
Verri una fortissima impressione; ond'esso invidiò spesso i
cavalierini che si recavano a visitarla sul palco scenico fin
qui non c'è nulla di male. Nè quella figura gli era
uscita di mente, anche dopo il tempo trascorso dall'ultima notte
ch'ei l'aveva veduta in teatro; ed è anzi probabile che, una o
due volte al giorno, ella facesse una visita, sebbene di pochi
minuti, alla memoria di lui; chè le cose straordinariamente
belle si piantano con ostinazione nella mente di chi è nato a
comprenderle, pur nella sfera, intendiamoci bene, ingenua e pura e
sgombra dell'estetica.
Per
tutte queste cose, quando si sentì eletto a difendere il
Bruni, e da costui ascoltò ripetute le lodi ch'eran già
corse in pubblico della virtù di quella giovinetta, virtù
tanto più preziosa quanto ora men facile in quella
professione; gli venne il desiderio di conoscerla da vicino e di
parlarle. Il desiderio derivava da una fonte un po' sospetta, ma il
giovine Pietro s'ingegnò a dargli l'ammanto della necessità
impostagli dal suo delicato ufficio di patrocinare colui che le
teneva luogo di padre. Si recò dunque in porta Romana,
e, d'una in altra contrada, fu alla casa dove dimorava la Gaudenzi.
Ma tutto il coraggio gli mancò quando fu in veduta della
porta, indizio che non era proprio convinto della necessità
di quella visita. Il timore che suo padre potesse mai giungere a
sapere ch'egli era andato nella casa della ballerina Gaudenzi, lo
annientò, e al segno, che fu per retrocedere. Una
batteria di pensieri avversi gli rintronò nel capo per qualche
minuto; ma poi si fece animo, e gettata un'occhiata di sopra, di
dietro, a dritta, a sinistra, per assicurarsi se nessun suo
conoscente lo vedeva in quel punto, entrò nella porta.
Com'è ingenua e pudica la giovinezza degli uomini
straordinarj!
III
Chiesto
se per avventura trovavasi in casa madamigella Gaudenzi, e sentito
ch'ella non era mai uscita in tutta la giornata, il giovane Pietro
Verri si fece annunciare senza dare il proprio nome, ma semplicemente
come chi aveva cose importanti da comunicare ad essa. Dopo
alcuni momenti, insieme colla fantesca ch'era corsa a riferire quella
visita, uscì la Gaudenzi senza nessuna delle affettazioni
tanto comuni alle donne di teatro di gran cartello, le quali, in
tutti i tempi, e forse una volta più ancora d'adesso,
arrivavano a far parer umili fin le dame che serbavan gelose le
tradizioni dei tre Filippi di Spagna. Ma la Gaudenzi era la figliuola
schietta della natura, e l'animo suo versava allora in tal condizione
che, all'annuncio, d'una persona che avea a significarle cose di
rilievo, non poteva aver sì gelida calma da stare immobile
nella camera di ricevimento, posando accademicamente il corpo sul
seggiolone e mettendo in vista, impressa nel cuscino dello sgabello,
la punta delle scarpine di raso.
Signore, disse la Gaudenzi al conte Verri con una semplicità
piena di vezzo, si degni di restar servito; e precedendolo e
schiudendo ella stessa le porte, lo pregò ad entrar nella
sala, e gli presentò la sedia con quella disinvoltura onde un
uomo avrebbe potuto comportarsi con una donna. L'ingenuità
era pari tanto nel giovine Verri quanto nella Gaudenzi; ma il primo
era timidissimo, mentre la seconda, dall'abitudine ad affrontar le
mille pupille del pubblico, aveva contratta quella scioltezza, quasi
diremmo virile, che forse, a chi era avvezzo al profumato galateo
delle aule dorate, potea parer soverchia; ma che in quella giovinetta
così bella, e in quell'eleganza spontanea e quasi non voluta
d'ogni suo movimento, si vestiva di un incanto specialissimo. Pietro
Verri la contemplava muto, e andava pensando come non fosse sempre
vero quel che comunemente avea sentito dire, che cioè le beltà
da palco scenico non debbano mai esser vedute in camera.
Signora... disse poi, e stentava a trovar le parole, tanto era
impacciato dalla sua timidezza. Dovete dunque sapere, madamigella,
riprese tosto, che dall'eccellentissimo signor capitano di giustizia
fui prescelto all'onore...
Quell'onore
non era certamente la parola che più facesse al caso; ma
sovente chi ha l'abbondanza delle idee nella mente, affatica in certe
particolarissime circostanze a trovar la parola adatta, quella parola
che pur verrebbe sulle labbra di qualunque più meschino
sfrontato.
Io fui dunque prescelto a protettore del sig. Lorenzo Bruni, vostro
tutore...
Mio padre e benefattor mio, assai più che tutore, potete dire,
o signore... Ma in grazia, chi siete voi?...
Sono il conte Pietro Verri.
Per
quanto egli fosse sgombro da qualunque pregiudizio e da qualunque
benchè minimo orgoglio di sangue, pure provò un'interna
soddisfazione nel poter pronunciare quella parola conte; e
tutto ciò perchè sentiva come, mettendo innanzi quella
parola, egli veniva a liberarsi dall'importunità della propria
timidezza; mentre forse la ballerina che lo atterriva col suo fare
disimpacciato, a quel titolo sonoro si sarebbe potuta mettere in gran
riguardo, e avrebbe subita quella soggezione di cui egli s'accorgeva
d'aver gran bisogno. Quanti inesplicabili accidenti in questa nostra
povera natura umana!
Illustrissimo signor conte, io la ringrazio della degnazione per la
quale ha voluto venire da me; e ora, giacchè ella è il
protettore giuridico del signor Lorenzo, mi voglia dire la verità,
la verità schietta, la verità intera. Oh s'ella sapesse
da quante persone io mi recai in questi giorni, quante preghiere ho
fatte per vedere di poter conoscere come veramente stesse la
condizione del signor Lorenzo! ma non ho trovato che faccie arcigne e
parole fredde, e giri e rigiri di frasi, dalle quali appariva chiaro
che si voleva piuttosto ingannarmi che dirmi la verità.
I magistrati, cara mia, hanno il debito del segreto, e bisogna aver
loro un certo riguardo
D'altra parte il signor Lorenzo Bruni è
in una condizione speciale per aver insultato in pubblico il decoro
di una delle più cospicue case di Milano...
Ma guardi, signor conte, che tentazione fatalissima è venuta a
quel benedetto uomo di mettere, per amor mio, in così grave
pericolo sè stesso, e di far tanto male a quella povera
contessa... ch'io non conosco... e per la quale darei la metà
del mio sangue perchè non fosse avvenuto quel ch'è
avvenuto. Ma Lorenzo fu tratto di cervello dall'ingiustizia del
pubblico, e dal desiderio che lo tormentava di poter trovare il modo
di convincer tutti del quanto fosse assurda la diceria che il sig.
Amorevoli... E qui la Gaudenzi abbassò il capo, tutta
soffusa di rossore, e soggiunse tosto: Ma non è egli
vero, signor conte, che quando un uomo, quando una donna, quando una
fanciulla, trovandosi sola con se stessa, può giurare di non
aver cosa alcuna a rimproverarsi, non dovrebbe temer di sfidare tutte
le calunnie di questo mondo, anche in silenzio, perchè quel
che non si sa oggi si sa domani, e la verità esce in fine
all'aperto per sua propria virtù?... Devo però
confessarle, signor conte, che quando il pubblico mi ricevette,
schiamazzando e insultandomi, anch'io non so quel che avrei fatto
allora per vendicarmi... e la mia disperazione in quel momento
nessuno se la può imaginare, e forse fu per avermi veduta in
quella condizione, che Lorenzo non badò più ai mezzi, e
giurò di far balzar fuori la verità ad ogni modo, e il
modo fu de' peggiori, perchè, ecco a che s'è ridotto,
pover'uomo!...
E
due lagrime lente le rigaron la guancie.
Ma io, continuava, non so farmi capace, signor conte, che vi possa
essere così grave delitto nell'aver messo una maschera ad una
festa da ballo... In fin de' conti, che intenzione era la sua? Quella
di far vedere che il pubblico aveva torto e che io era innocente...
Ben è vero che offese gravissimamente una nobil donna, ma, per
quanto sento a dire, pare che questa nobil donna... fosse davvero
la... e allora... di chi è la colpa?...
Pietro
Verri sorrideva e compiacevasi di sentir quel discorso vivo e
animato, e reso più attraente dall'accento veneto, chè,
se non lo abbiam mai detto, lo diciamo adesso, la Gaudenzi parlava il
dialetto veneziano, quantunque, pel tramutarsi ch'ella faceva
continuamente di luogo in luogo, lo avesse tant'o quanto alterato.
Cara mia, sapete voi che cos'è la legge?
Cosa so io? ma la legge dovrebb'essere tutto ciò che è
giusto.
Ed ella infatti si propone la giustizia... ma non sempre la
raggiunge, nè lo può; perchè la legge
bisognerebbe che potesse trasformarsi all'infinito come tutti gli
accidenti umani, e tener dietro a tutte le bizzarrie della fortuna.
E così qualche volta chi ha ragione paga i debiti di chi ha
torto... È questo l'intercalare del signor Lorenzo. Ma mi
vorrebb'ella dire di grazia, signor conte, per qual motivo il metter
maschere ad una festa da ballo fu posto nel numero dei delitti?
Per i cattivi usi che se ne fecero troppo spesso dagli uomini
cattivi.
Ma allora si dovrebbe punire il cattivo uso e non l'uso delle cose:
sarebbe bella che fosse proibito a parlare, perchè parlando si
possono dire delle calunnie!
Oh che sapienza è l'ignoranza! pensava tra sè Pietro
Verri, mentre sorrideva alla Gaudenzi. Attendete dunque,
soggiunse poi, a mettere il vostro bel cuore in pace; poichè
se la legge fu fatta per un fine ragionevole, non è poi detto
che non si debba tener conto della buona intenzione di chi l'ha
trasgredita, trasportato da un nobile riguardo e da una nobile
passione...
E di chi l'ha trasgredita, continuò vivacissimamente la
Gaudenzi, perchè in quel momento non c'era altro mezzo di far
cessare una perfida calunnia.
E per questo io mi confido di poter riuscire ad alleggerire al
possibile la condizione del vostro signor Lorenzo.
Come ad alleggerirla? domandò piena di dolorosa meraviglia la
Gaudenzi... Ma non è a sperare che lo possan mandare assolto
in su due piedi?...
Tranquillatevi, cara mia, ma per bene che vadan le cose, converrà
pure che voi siate disposta a un lieve sacrificio...
Qual sacrificio?... dite, dica, io son parata a tutto.
È un sacrificio che non dipende dalla vostra volontà,
ma solo dalla vostra pazienza; perché mi rincresce a dirvelo,
cara mia, ma per un sei mesi almanco converrà che vi adattiate
a restar priva della vista del signor Lorenzo
Oh
questo non sarà mai, signor conte; io mi scioglierò
in lagrime ai piedi del signor governatore, e otterrò la
grazia. E se il governatore starà inflessibile, metterò
sossopra mezzo mondo.
Tranquillatevi, e prima di far passi, lasciate che io faccia i miei;
che se fosse necessaria la vostra cooperazione immediata, ho io la
persona che, se è possibile far miracoli, ella li sa fare
davvero...
Ma
la Gaudenzi più non badava a quelle parole, e, alzatasi,
misurava in lungo e in largo e concitata la camera, cogli occhi pieni
di lagrime e col labbro inetto a proferir parola, perchè un
tremito convulso stava per farla dare in uno scoppio dirotto di
pianto... Il Verri le teneva dietro coll'occhio, pieno di commozione
anch'esso e d'ammirazione, e assalito da un sospetto, come da un
lampo che baleni improvviso.
Le
anime squisite, anche senza lo scaltrimento di una lunga esperienza,
tengono il filo d'Arianna per misurare, senza smarrirsi, il labirinto
del cuore umano. Diciamo questo, perchè di fatto, quel ch'egli
sospettò, era vero. Un mese prima, chi avesse detto a
quella cara e semplice ragazza: scommettiamo che voi siete innamorata
del signor Bruni, ella non avrebbe data altra risposta che una delle
sue consuete risate baccanti e sonore... Ma il giorno in cui Lorenzo
venne arrestato, e i giorni in cui ella provò, per quel
distacco, una costernazione che mai non aveva provato in vita sua,
non si potrebbe dir bene in che modo, ma le si depose inavvertito
nell'animo un lieve germe di amore, che fruttificò di dì
in dì, a seconda della natura appunto dei germi. Ben è
vero che ella non sapeva ancor nulla, e a chi di nuovo le avesse
chiesto, se era innamorata, di nuovo ella avrebbe risposto, se non
con una risata, certamente con un sorriso accompagnato da un lieve
agitar della testa; ma, in conclusione, l'amore lavorava e limava
nell'animo suo con tutta la forza di un amore a cui non manca più
nessuna delle sue attribuzioni.
Sentite...
Interruppe
il Verri con questa parola il passo concitato della Gaudenzi. Ella si
fermò in faccia a lui, attirata da quel sentite, e come
chi spera sempre qualche consolazione da tutti gli accidenti del
discorso.
Da quanti anni, egli continuò, il sig. Lorenzo Bruni veglia
alla tutela della vostra giovinezza?
Oh da moltissimi anni! Io era una ragazzina senza padre e senza
madre, e ballavo a Venezia al teatro di San Moisè... Chi mi
curava non era allora che questa buona e paziente mia zia... Ma si
viveva a discrezione degli impresarj che guadagnavano, non tocca a me
il dirlo, alle nostre spalle, eppur non ci facevano che soprusi e
angherie, n'è vero, zia? Il signor Lorenzo Bruni volle
difenderci una volta da un appaltatore usurajo e ottenne di farlo
stare al dovere... onde ci fece tener tanti danari, quanti certamente
non potevo dire d'aver meritati. Ma questo è poco, perch'egli
si prese cura della mia educazione; e siccome ei veniva da Parigi, ed
avea vedute tutte le più celebri ballerine e conosceva la
danza più di chi ne fa professione, tanto fece e consigliò,
che riuscì a tirarmi indietro dall'arte viziata... Onde quel
poco che sono, lo voglia credere, illustrissimo signor conte, non lo
debbo che a lui.
E tutto, entrò a dire la zia, senza neppure un'ombra
d'interesse, perché i mettimale che vedevan con dispetto quel
suo tanto adoperarsi in pro della ragazza, mi andavan susurrando
all'orecchio che lo avrebbe fatto per arricchirsi... Ma invece, se
non ci ha perduto, non ci ha guadagnato, perchè la bilancia
non è più giusta di lui: e i quartali ei non volle
nemmen toccarli, e collo scrupolo va tanto in là, ch'ei vuole
che dalle mani dellimpresario passino nelle mie; e se provvede
a collocarli a buon frutto, desidera ch'io medesima vada a
consegnarli
Oh
ci creda, signor conte, che per noi è
una gran disgrazia a rimanere senza quelluomo d'oro.
Ho caro d'aver sentito tante lodi di quel bravo uomo; così mi
lusingo di farle comparire opportunamente nella difesa...
E può aggiungere, signor conte, i discorsi pieni di consigli,
di sapienza e di virtù onde il signor Lorenzo era instancabile
a vantaggio di questa ragazza... perchè lo creda, signor
conte, ma quel signor Lorenzo, se è un uomo probo, è
anche un uomo di gran talento.
E
la bella Gaudenzi stava per venire in ajuto della zia; ma in quel
punto ch'ella stava per parlare, giunsero all'orecchio del conte
Pietro Verri, il quale era là quasi in attitudine di
magistrato, i primi tocchi della campana della piazza de' Mercanti.
Il giovane patrizio si alzò, come scosso disgustosamente da
quel suono, e, tagliando di colpo tutte le fila sospese del discorso,
si licenziò, e fu molto se ebbe l'animo di rinnovare alcune
parole di consolazione alla fanciulla. Ma che mai c'era di tragico in
quella campana della piazza de' Mercanti, dirà il lettore, da
mettere i brividi al giovine Verri? Cari miei, saranno inezie,
ma l'eccellentissimo senatore conte Gabriele era un uomo di ferro, e
guai se avesse saputo che suo figlio non era già rincasato
prima della campana; che una sera in cui il giovane Pietro,
trattenuto in certe calde discussioni al caffè Demetrio,
giunse a casa un'ora dopo... Filippo II non guatò così
bieco il grand'ammiraglio, quando gli tornò innanzi
coll'annunzio d'una battaglia navale perduta e della flotta
distrutta, come fece allora il conte Gabriele con suo figlio Pietro,
il quale per rientrare nelle grazie del signor padre dovette metter
sossopra tutto il parentado. S'affrettò egli dunque a
saltelloni giù per le scale, divorò la strada, e tutto
trafelato giunse a casa quando la campana non aveva ancor finito di
dare i suoi tocchi; si recò a far riverenza e a dar la
felicissima notte al signor papà, poi si chiuse in camera per
stendere la difesa di Lorenzo Bruni.
IV
Là
chiuso, si diede a passeggiare tutto pieno e invasato del suo
argomento, lodandosi seco stesso dell'aver fatto visita alla
ballerina Gaudenzi, perché dall'osservazione attenta di quella
beltà, di quella virtù, di quella schiettezza, di quel
dolore, e dai particolari che in sì caldo accento erano usciti
dalla bocca stessa di lei, e costituivano il più completo e
appariscente ritratto di Lorenzo Bruni, s'accorgeva che gli eran
venute nuove idee e nuovi fervori; però gli pareva di poter
alla fine scrivere una difesa tale da conquidere trionfalmente
l'animo dei giudici, pur senza omettere nessuna verità nuova e
coraggiosa. L'animo e lingegno del Verri era di quella tempra
saldissima, che dal momento che una cosa vera o creduta vera gli
facea forza, non gli era più possibile, per nessun conto, nè
dissimularla nè tacerla, non che falsarla. Poteva adattarsi
alla più sommessa obbedienza in casa, a non star fuori oltre i
tocchi della campana della piazza de' Mercanti, a non andare in
teatro solo, a non frequentare certe conversazioni; ma non poteva
piegarsi a far proprie le idee e le convinzioni di suo padre, dal
momento ch'egli ne aveva di assolutamente contrarie.
Si
mise dunque a tavolino, e con velocità animata dalla
concitazione empì tre o quattro fogli di carta. Noi abbiam
veduto un ritratto giovanile di Pietro Verri, che press'a poco
potrebbe dar l'idea della sua faccia quand'egli era preoccupato di
qualche forte pensiero: occhio vivace, arguto e tanto quanto espanso,
che sembra inseguire un'idea balenata d'improvviso; guancia calma e
fiorente, naso breve e bocca soavissima, la quale quasi sempre si
osserva in coloro che hanno squisitezza e di mente e di cuore.
Quand'ebbe
finita quella non breve scrittura, se la lesse tutta ad alta voce, e
si stropicciò le mani come pago d'aver detto tutto quello che
voleva dire; se la rilesse poscia... e cominciò e
pentirsi di alcune espressioni troppo ardite, e di quelle
segnatamente dove metteva quasi in istato di accusa l'autorità
giudiziale. Volle rimediarvi, e cancellò tutto quel brano; ma
poi s'accorse che ad ometterlo si distruggeva tutto l'edificio, e si
taceva la sola verità insolita e coraggiosa che poteva dare
alcun merito a quella difesa; onde rifece il periodo, ammorbidendo
soltanto le frasi, decorandole di vocativi pieni di sommessione, e
conservando intatto il concetto. Infine pensò che il miglior
partito era di far la versione di quella difesa in lingua latina; e
ciò per due ragioni: la prima, che l'idioma del Lazio,
costringendo l'intelletto degli ascoltatori a fare un breve lavoro,
prima di averlo tutto quanto tradotto in parole schiette e lampanti,
la verità si ammorbidiva nel trapasso dal latino all'italiano,
e le toglieva di far l'effetto di un sasso scagliato altrui senza
pietà; la seconda ragione consisteva in ciò, che suo
padre era innamorato della lingua latina, e le poche volte che lo
aveva veduto sorridere con insolita compiacenza fu sempre nelle
occasioni che egli stesso aveagli dato a leggere qualche proprio
scritto latino. Così dunque pensò, e così fece.
Ma ci voleva ben altro. Lavorò buona parte della notte e il
giorno successivo a far la traduzione; poi al terzo dì la
presentò al Capitano di giustizia. Non ci pare qui il luogo
opportuno di riportare per intero quella lunga difesa, nè
tampoco di darla tradotta, nel nostro italiano; chè troppe
cose sono in essa riassunte, le quali già furon dette e
ripetute da noi in più luoghi; soltanto diremo come l'esordio
toccasse alcune idee generalissime intorno alla genesi ed allo scopo
della legge, nel quale intese a far campeggiare il concetto, che
tutti debbono essere eguali in faccia ad essa; poi venne a parlare
delle leggi statutarie, poi delle gride e ordinanze suggerite da casi
speciali; poi si fermò all'ordinanza del ministro
plenipotenziario governatore di Milano, conte Palavicino, relativa
alle maschere-ritratti, lodandone assai l'opportunità e la
saviezza.
Ma
qui parlò dell'intento che aveva quell'ordinanza, la quale
proibiva le maschere non per sè stesse, ma per i gravi e
deplorabili danni che, adoperate da uomini iniqui, avevano prodotto;
faceva allora acutamente intendere come la prava intenzione e il
delitto consumato per mezzo di essa erano i soli elementi che
costituivano il caso della penalità e della sua misura. E poi,
piegando la parola al fatto speciale del Bruni, mostrava che non
avendo egli avuto nessuna prava intenzione, anzi l'intenzione essendo
stata lodevole come di chi protegge e difende chi sopporta
ingiustamente una calunnia; e, per risultato, non esibendo la
consumazione di nessun delitto, ma sibbene lo scoprimento di una
verità che ridondava a vantaggio dell'innocente e a danno di
chi veramente era in colpa; venivasi con ciò a costituire un
caso specialissimo, pel quale quell'ordinanza doveva cessare dalla
sua forza attiva, e, in ogni modo, doveva consigliar d'interpellare
il voto dell'eccellentissimo governatore per una grazia
straordinaria. Ai quali argomenti che mettevano in chiaro l'assenza
d'ogni colpa per parte del Bruni, di cui tesse l'elogio riferendo le
attestazioni della stessa Gaudenzi, della quale pure lodò la
vita senza rimprovero, come portava la pubblica opinione; fece
osservare che non sarebbe avvenuta nemmeno la materiale
contravvenzione alla legge, se la magistratura non si fosse imposta
un obbligo che veniva a ferire il diritto comune, l'obbligo cioè
di considerare come intangibile dalla legge e persino dai sospetti la
nobiltà di una persona, dalla quale precisamente si dovevano
incominciare le indagini. E qui riferiamo un passo, che ci pare assai
squisito: «Nè io credo nemmeno che potesse andar offeso
il carattere della nobile contessa se fosse stata interpellata in
giudizio; chè forse quelle voci vituperose che or circolano in
pubblico contro di lei, sarebbero state trattenute da una parola
detta in tempo al giudice; così invece, tanto più
l'opinione si compiace a denudare e ad esagerare le colpe di
una persona, quanto più s'accorge che la magistratura discende
dal suo nobile seggio, al punto di tentar di scambiarle le carte in
mano e d'ingannarla.»
Questa
difesa, quando fu letta, fece l'effetto che naturalmente doveva fare,
quello cioè di tirar addosso al giovane Verri tutta
l'iracondia della magistratura.
Quasi
contemporaneamente a questo scritto, fu presentata al Capitano di
giustizia la difesa di Benedetto Arese, una cosettina magra e che per
se stessa non poteva certamente essere il tocca e sana per le
disgrazie del cantante di camera di S. M. il re di Spagna. Ma
quanto lo scritto del giovane Verri aveva provocata la collera e lo
spirito di contraddizione e negli attuari e negli assessori e nel
vicario e nell'eccellentissimo capitano marchese Recalcati; e,
allorchè fece il suo passaggio d'ufficio al Senato, anche in
tutti i senatori e nel loro presidente; altrettanto trovò lode
e fautori quella dell'Arese. In simile maniera noi vediamo
nelle accademie e letterarie e scientifiche e artistiche, le quali,
per consueto, portano inalberato sul frontone il vessillo del Così
faceva mio padre, accordarsi la medaglia d'onore a colui
che nell'opera prodotta lusinga l'amor proprio de' giudici e sta
ligio ai sistemi invalsi, e non avendo la forza di camminar colle
proprie gambe, s'appoggia al braccio altrui.
Quella
difesa dell'Arese fu dunque tale, che dispose gli animi a far
maturare una sentenza d'assoluzione a favore del signor Amorevoli. Se
non che un bel giorno fu presentato d'urgenza un libello
dell'avvocato Carl'Antonio Agudio, patrocinatore del figliuolo della
signora Celestina Baroggi, nel qual libello si esponeva il fatto del
testamento olografo stato scritto dal marchese F
dietro
dettatura del dottor Macchi notaio, a favore del figlio suddetto
della Baroggi; riferiva che tra le carte del detto marchese non s'era
più trovato il testamento in discorso; si conchiudeva, che
essendo noto il trafugamento delle carte che stavano nello scrittoio
di esso, l'avvocato patrocinatore e il reverendo proposto di S.
Nazaro, tutore del figliuolo della Baroggi, facevano istanza perchè
si rinnovassero le indagini più severe, allo scopo di
rinvenire il trafugatore; e nel tempo istesso facevan rispettosamente
intendere che, sebbene le presunzioni a danno del costituito signor
Amorevoli paressero prive di fondamento, l'eccellentissimo capitano
di giustizia, quando mai nell'alta sua saviezza credesse di mandarlo
assolto, adoperasse tuttavia in modo che non potesse evadere dalle
ulteriori possibili inquisizioni dell'autorità criminale.
Aveva
in pubblico fatto gran senso che, in quel non breve tempo trascorso
dalla cattura dell'Amorevoli, non si fosse proceduto con tutti i
mezzi reclamati dall'importanza del caso, segnatamente per
l'interesse del figlio della Baroggi, che dicevasi essere stato
istituito erede universale dal marchese F...; e però il
reverendo proposto di san Nazaro aveva ricorso all'avvocato Agudio,
il quale godeva fama di gran legista, e quel che più importa,
di gran galantuomo, e ciò che meglio preme ancora, di grande
ostinato; e il solerte proposto avea fatto capo a lui come a quello
che potea aver la forza di conservare nella sua dritta strada la
trattazione d'un affare che per mille circostanze poteva essere
deviato.
Tornando
ora all'Amorevoli, s'egli non avea motivo di lodarsi troppo della
fortuna, venne però chi dovea trarlo d'imbarazzo. Allorchè
donna Paola Pietra ricevette l'ultima lettera dalla contessa Clelia,
dove, colla raccomandazione del segreto, le era fatta la rivelazione
intorno al lacchè Suardi; ella nella sua saviezza pensò
che non era a tener conto nessuno di quella raccomandazione di
segretezza; invece, senza por tempo in mezzo, fece una seconda visita
al marchese Recalcati, al quale raccontò il fatto del
Galantino, e della vita sfoggiata che colui conduceva a Venezia, e
come eranvi tutte le ragionevoli presunzioni che il trafugatore fosse
stato colui medesimo.
Quel
nome del lacchè Galantino fu per il marchese Recalcati come
uno di quei lampi, che, solcando di tratto il fitto bujo, lasciano
vedere la posizione degli oggetti circostanti; tanto che uno che
abbia smarrita la via, si raccapezza, ed esclama: Ora
comprendo per qual parte si dee camminare. Laonde non sono
a dire le feste e le accoglienze ch'egli fece e i ringraziamenti che
espresse a donna Paola per quella improvvisa e non aspettata
rivelazione. Lasciandolo ora nel pieno godimento di quella
scoperta, saltiam via due giorni, che in faccia a cento anni sono
un bicchier d'acqua in faccia al mare, e rechiamoci in casa
Verri, in un giorno che l'illustrissimo signor conte Gabriele dava un
pranzo quasi diplomatico.
La
sfera dell'orologio percorreva l'arco di quella mezz'ora o di quel
quarto d'ora che precede il momento solenne, in cui il cameriere in
gran livrea diventa un personaggio importante, vogliamo dire, in cui
grida dalla soglia: In tavola. In una sala d'aspetto,
ferveva, o diremo meglio, languiva la conversazione tra molte persone
divise in varj gruppi, ciascun de' quali constava di elementi tra
loro affini. Gravi personaggi di toga e di spada, conti e
marchesi e cavalieri che non avevano altro peso da portare che il
diploma d'accademico Trasformato, dame e matrone e giovani donne e
spose non una fanciulla. Il conte Gabriele Verri stava
parlando in un angolo della sala col marchese Beccaria, lo zio di
Cesare.
Vedo pur troppo, caro marchese, diceva il conte Gabriele, che questo
mio figliuolo, pel quale non ho risparmiato nè cure nè
dispendj, vorrà essere la mia croce.
Ve l'ho detto più volte; bisognava lasciarlo a Roma maggior
tempo, o a Parma; la sua vivacità fu sempre eccessiva e
bisognava metter acqua e cenere sul fuoco. Vi sono certi
temperamenti, che, a lasciarli svampare prima del tempo, diventan
acidi come il vino mal turato.
Ma... volevate che a ventidue anni lo tenessi ancora in collegio?...
In collegio no... ma mettergli accanto un uomo di proposito, un
sacerdote di vaglia...
Se la mia severità non è valsa a nulla, che cosa
volevate che facesse un prete?
Voi vedrete quel che ne farò io di Cesarino, perchè
bisogna che ne prenda io stesso la cura. Suo padre è troppo
dolce. Se si vuole, il fanciullo è pieno d'ingegno, e in
collegio lo chiamano il piccolo Newton; ma quanto è maggiore
l'ingegno, tanto son maggiori i pericoli; ond'io veglierò...
così avessi vegliato ne' giorni che da Parma venne a Milano
questo carnevale; perchè si trovò spesse volte col
vostro Pietro... il quale non so che malefizj abbia fatti a quel
ragazzo, che mi venne fuori un giorno con certi propositi, i quali
non mi piacquero niente affatto.
Davvero?
Per l'appunto.
È dunque bisogno di qualche provvedimento serio a riguardo di
mio figlio... Son dieci giorni che mi venne in mano quella difesa, e
quando l'ebbi letta non ho più permesso ch'ei mi comparisse
dinanzi. Ma quel che più mi fa dispiacere si è, che non
manca d'ingegno... e quello scritto... mi dà a divedere che,
se fosse meglio diretto, potrebbe...
Ma dove è andato a pescare tutte quelle idee, diciamolo pure,
rivoluzionarie contro i nobili e contro le autorità? Ma sapete
che c'è voluto un bel coraggio?
È questo appunto ciò che m'affligge, e tanto più
che... son cose che si pena a dirle... ma pur troppo s'è fatto
male a non far caso della contessa, in quel malaugurato processo... A
mio dispetto devo dirlo, e Pietro non sbagliò nell'affermare
che, conosciuta in tempo la verità, si poteva sopir tutto
senza che ne trapelasse nulla al di fuori. E così... un dì
un fatto, un dì un altro... ci ridurremo alla fine... ve lo
dico con crepacuore, a perdere la fiducia del popolo, e allora...
E
qui si fermò come colpito da una dolorosissima idea, indi
soggiunse dopo alcuni momenti:
E adesso c'è quest'affare del testamento del marchese F... e
del lacchè..., che è una spina acuta e pericolosa, la
quale può aprir piaghe profonde, e trarsi dietro cento
malanni. Ah, marchese, qui sotto c'è qualcosa di seriissimo, e
guai se... Il marchese Recalcati me ne fece or ora un motto... che
tosto gli ho troncato in bocca... perchè se una parola è
pronunciata fuor di tempo e a sproposito... ne scaturisce un'iliade
di sciagure...
Il
marchese Beccaria guardava fisso il conte come a sorprendergli
nell'occhio il segreto del pensiero; poi soggiunse:
Se un sospetto lo fa uno, lo può fare un altro, e lo ponno
fare cento; e tanto più quelli che patrocinano il
figliuolo della Baroggi... poichè, a dir la verità,
questo contrattempo del lacchè... qualcuno già deve
averlo pagato il lacchè a fare il colpo... e chi mai poteva
avere interesse a ciò, se non...
Zitto... la marchesa D*... è là, e ha intenzione di dar
la figliuola al figlio del conte e ci potrebbe sentire...
Ma in conclusione, che si pensa di fare?
Non ci possono essere due partiti in affare di tanta delicatezza...
La giustizia dee fare il suo debito senza essere impacciata da nessun
riguardo. Anzi si è già scritto al Senato della
serenissima Repubblica di Venezia perchè, se siamo in tempo,
passi tosto alla cattura del lacchè; soltanto è
mestieri che di tal fatto si mantenga un segreto profondissimo, e non
si facciano scandali; perchè guai se il popolo s'accorge che
il contagio viene da quel ceto a cui la provvidenza ha ordinato di
essere d'esempio e di edificazione a tutti gli altri. Ma c'è
un'altra cosa, marchese caro, che mi ha passato l'anima, ed è
che, ieri l'altro, Pietro, mentre stava supplicando sua madre a farsi
mediatrice di pace tra lui e me... d'uno in altro discorso vennero a
toccare, non so come, un tal tasto; e a Pietro scappò detta...
questa frase ribalda: Se il conte F... fosse un sensale di
piazza, a quest'ora il capitano di giustizia gli avrebbe già
fatto mettere le manette. Convien dunque che oggi teniamo con lui un
discorso serio e dolce nel tempo stesso. Oggi ho dato, posso dire,
questo pranzo d'invito per lui, perchè, necessariamente, non
ne potendo venir escluso per decoro, io avrò l'occasione di
volgermi a lui senza cedere; ed egli d'accorgersi che io non sono poi
un uomo inesorabile. Così dopo il pranzo, noi lo faremo
chiamare in un'altra camera, e gli terremo un discorso che valga ad
insegnargli la prudenza, ed a provargli che è sempre in via di
bene tutto quello che noi facciamo; e che finchè uno è
giovane, l'esperienza la deve apprendere dai vecchi. Ah pur troppo,
caro marchese, la gioventù ha preso aria in questi tempi, e
bisogna ricorrere all'astuzia perchè non sian crollate le basi
di una salda autorità paterna.
Ed
or lasciando che questi rigidi vecchi se la intendano col giovinetto
Pietro, ritorneremo a Venezia, e volgeremo i passi verso il calle del
Ridotto.
V
Rousseau,
il quale asserì che l'uomo lasciato in balia della sua vergine
natura, è una perla immacolata, e che dai bisogni fittizj
inventati dalla società fu tratto ad inventare egli stesso
quei delitti contingenti e convenzionali che, variando di tempo e di
luogo, possono persino esser chiamati virtù, come il furto in
Atene; non pare abbia voluto esaminare tutti i casi in cui l'uomo,
anche nel fitto della società, si trova in pieno arbitrio
della sua natura liberissima; tra le altre cose, non ha saputo
applicare la sua potente riflessione ai fenomeni d'una bisca.
Una
casa da giuoco è un microcosmo; in essa l'uomo appare in tutta
la nudità de' suoi istinti. Nella Francia contemporanea di
Rousseau, lo spettacolo di un gran re, intento a passar le notti, non
animato che dalla speranza di spogliare i ciambellani e i confidenti,
doveva bastare a far vedere al sublime lipemaniaco di Ginevra che non
sono sempre i bisogni quelli che fanno sviluppare sulla testa umana
il bernoccolo della rapacità.
Ma
ciò, anche prima della storia di Francia, era provato dalla
storia di Roma e dall'esempio d'Augusto che, padrone di tutto il
mondo, pure si compiaceva se l'oro di Mecenate passava nelle sue
mani; e dall'imperatore Claudio, che affidava ai dadi il destino
perfin di quattrocentomila sesterzj, e dai patrizj romani, che, ad
onta che il giuoco fosse multato d'infamia, giocavan persin nei
comizj, persino in Senato; tanto è vero che l'uomo, per
saziare il suo naturale istinto, combatte contro la medesima civiltà,
e fa il ladro per diporto; chè non a torto ha detto un acuto
scrittore inglese: Essere il giuoco un furto mascherato.
Queste
riflessioni le facciamo pensando al ridotto di San Moisè in
Venezia, dove, meno i giuochi d'azzardo che ad ogni momento venivan
proibiti dagli illustrissimi Correttori, indizio manifesto che
non eran sempre obbediti, tutto camminava di maniera da far credere
che gli uomini non avessero altra destinazione a questo mondo che
quella di passar la vita giuocando. Quel ridotto, che doveva diventar
celebre in conseguenza de' suoi peccati, e meritare di venir
soppresso, come vedremo, aveva una libreria al pari di un istituto di
scienze e lettere; una libreria, intendiamoci bene, tutta di opere
relative al giuoco; tra queste primeggiavano il Ludus chartarum
seu foliorum, di Lodovico Vives, stampata a Parigi nel 1545; Le
carte da giuoco, del P. Menestrier; La giurisprudenza del
giuoco, di Lucio Marineo Siculo; Il tarocco, di
Gebelin; L'invettiva contro il tarocco, di Lollio Ferrarese; i
numeri del Giornale di Trévoux, dov'erano le
ricerche storiche sulle carte da giuoco; il capitolo del Berni,
intitolato Il giuoco di primiera; Le carte parlanti,
di Pietro Aretino; Il trionfo del tresette; la Piazza
universale di tutte le professioni ed altre opere molte,
che venivano consultate nei gravissimi casi dubbj.
Quel
ridotto era zeppo d'illustrissimi della seconda e della terza
qualità, e in mezzo ad essi, da qualche giorno, aveva fermato
l'attenzione il giovane gentiluomo milanese, signor Andrea Suardi,
pel coraggio onde giuocava le più grosse somme e per la sua
meravigliosa virtù a vincere dieci volte su dodici. Ma come
potevano quegli illustrissimi patrizj di Venezia gettar le loro
notti, ed esser tuttavia parati alle gravi cure del governo, della
pace e della guerra? Non confondiamo le idee: a Venezia vi avevano
più qualità di patrizj, ovvero sia due qualità
ben distinte quella dei tutto facenti, e quella dei nulla
facenti. Dal dì che Gradenigo aveva decretato come statuto
fondamentale che niuno fosse mai più eletto nè
eleggibile a sedere nel gran consiglio, da quelli in fuori che allora
vi si trovavano; che il loro privilegio sarebbe eredità
ai loro discendenti in perpetuo; che eleggerebbe dal suo corpo
tutte le magistrature di Stato; dal dì che codesta
aristocrazia s'andò sempre più concentrando in
oligarchia, che persino ai figli del doge fu tolto di poter coprire
ogni magistratura: lasciato alle poche famiglie vetustissime il
monopolio del potere trasmissibile di padre in figlio in perpetuo,
tutta la rimanente nobiltà che era numerosa, e
alla quale in Venezia non rimaneva altro scopo alla vita che l'uso e
l'abuso di essa, e l'uso e l'abuso della ricchezza dov'era
gentilezza d'ingegno, ell'erasi data all'esercizio delle arti; dove
no, proruppe ai godimenti, e con tanta sfrenatezza spensierata con
quanta riflessiva e longanime rigidezza gli oligarchi si tenevan
saldi al potere; rigidezza riflessiva, e che fomentava quel viver
leggiero e svagato dei discendenti di coloro ch'erano stati chiamati
uomini nuovi al tempo della prepotenza di Pierazzo Gradenigo, pel
motivo che non erano più temibili quelli che per costume
s'indebolivano nell'inerzia. E tanto più si erano a questa
ragione di vita abituati i nulla facenti, sia che fossero discendenti
degli esclusi dal gran consiglio, o figliuoli dei vetusti pantaloni,
o piantaleoni nelle terre conquistate, o figli del doge esclusi dalla
magistratura, quanto più, comportandosi in tal guisa, vivevano
tranquilli della sospettosa vigilanza del tribunale segreto, che più
del capo di Buona Speranza e del Mediterraneo abbandonato e della
politica spostata, fu causa che si spegnesse la potenza espansiva di
Venezia; spenta la qual potenza si troncarono di colpo gli elementi
generatori della sua perpetuità. Fin da quando, dopo la
forzata abdicazione di Foscari, il tribunal segreto rese amarissimo e
pericoloso l'alto onore di recar servigj alla patria, da quel punto
cominciò davvero la sua decadenza. Temettero i sospettosi
oligarchi il possibile soverchiare del vero merito, temettero
l'eccessiva potenza del doge, e l'uno e l'altro circuirono di arcane
paure; ma non intravvidero la conseguenza finale di tutto ciò;
non intravvidero che se i patrizj e i non patrizj, divagati agli ozj
e alla voluttà, non potevano più far paura al Consiglio
segreto, per la medesima ragione avrebbero cessato di far paura anche
a tutta Europa, la quale non amò giammai Venezia, e la guardò
sempre gelosamente; e che se ciò le poteva stornare i pericoli
presenti, accumulava sovra di essa i pericoli futuri, rendendo bensì
più lenta la sua caduta, ma facendola inevitabile.
Era
dunque da quasi tre secoli che la vita interna di Venezia era una
vita continua di godimento, che l'allegria de' suoi carnevali era
divenuta proverbiale in tutt'Europa, che ai tavolini verdi delle case
patrizie e dei pubblici ridotti l'oro aveva imparato a trapassare di
mano in mano, con più velocità che altrove, pel decreto
di una carta e della cieca fortuna. Che il giuoco poi abbia trovato
accoglienza più forse a Venezia che in altri luoghi, sarebbe
dimostrato da ciò, che taluno dei così detti giuochi
d'azzardo fu invenzione di Veneziani; che un Giustiniani,
ambasciatore della Repubblica a Parigi, vi portò per la prima
volta la cognizione del giuoco della bassetta, il quale fu poi
accolto trionfalmente a quella Corte, e onorato colà dagli
uomini della scienza, che pubblicarono considerazioni e calcoli e
intrapresero ricerche pazientissime su quel giuoco, sulle probabilità
del guadagno e delle perdite.
Il
Galantino aveva dunque fatto suo pro di quelle abitudini veneziane; e
ricevuto al ridotto qual gentiluomo milanese da quell'ospitalità
cortese che sempre distinse i Veneziani tanto d'allora che d'adesso,
passava colà le sue notti. Ma siccome i giuochi che vi si
tenevano non eran d'azzardo, essendo recentissima un'ammonizione dei
signori Correttori; così a una cert'ora, in compagnia di molti
gentiluomini, lasciava il tavoliere del tresette e il ridotto per
trasferirsi al di là di Rialto, nelle stanze di un umile caffè
detto di Costantinopoli; e là, fuori d'ogni sospetto, aperta
la voragine del faraone e della bassetta, ei passava il resto della
notte. Munito, quando recossi a Venezia, di molto danaro contante, il
Galantino, giocatore tanto esperto che pareva aver gli occhi nelle
dita, governavasi però prudentemente al ridotto, e in modo da
lusingare con mille attrattive i suoi compagni di giuoco, perchè,
rilasciato il freno all'avidità, non potessero andare a letto
senza prima tuffarsi a piene voglie nel flusso e riflusso
dell'azzardo.
Fornito
d'oro, egli conduceva le cose in modo da tenere il banco di
sovente; ed era un tagliatore di tanta destrezza che in pochi
giorni erasi messo insieme una bella sommetta. La notte a cui
ci troviamo con questa narrazione, era la terza d'aprile, ed egli più
del consueto era stato favorito dall'audacia e dalla fortuna: onde,
in sull'alba, quando uscì da quell'umile caffè, dopo
aver bevuto una tazza d'appio, volle assaporare il piacere d'una
passeggiata solitaria, spingendo uno sguardo allegro in seno
all'avvenire, e scorgendovi già, di mezzo alla nebbia rosata,
prospettive di palazzi con macchiette di parassiti intorno a sè,
e cocchi e cavalli e tutte le grandezze della vita. Se ne veniva così
per ponti e per calli, guardando sbadatamente case ed altane, e
sogguardando alla sfuggita le portatrici d'acqua pienotte, già
in volta a quell'ora; fin che riuscito al campo Santo Stefano, volse
il passo alla casa ove dimorava; ma in quel punto scorse due uomini
appoggiati al muro, due uomini che non avrebbe voluto vedere, perchè
eran due cappe nere del palazzo Ducale. Diede una rapida occhiata
all'intorno, e vide non molto lungi due guardie che passeggiavano,
facendo d'occhio di tanto in tanto alle due cappe. Così
queste come le guardie potevano trovarsi là per tutt'altro, ma
il Galantino sentì la certezza che aspettavano lui; gli era
come quando uno si sente colto da un malore anche lieve durante un
morbo contagioso; che in quel malore, provato spesso senza turbarsi,
sente con isgomento il sintomo fatale. Galantino si fermò un
istante su due piedi, come per fare una rapidissima consulta fra sè
e sè; poi, considerato che non c'era a far nulla, mosse
difilato, sebbene con placida lentezza, verso la porta della sua
casa. Fu allora che le cappe, venutegli incontro:
È ella, domandarono, il signor Suardi Andrea di Milano?
Sono io per l'appunto; in che posso ubbidirle?
Voglia venir con noi un momento a palazzo.
Subito?
Senza perder tempo. Questo è l'ordine.
Il
Galantino, con viso calmo, con occhio blando, guardò alle due
cappe, e:
Io sono pronto, disse, quantunque non abbia dormito la notte... Ma
vogliano permettere ch'io mi serva della mia gondola...
La gondola è già pronta.
Allora eccomi qui.
Vennero
al rio; la gondola e i gondolieri avevano lo stemma di palazzo. Il
Galantino fu pregato di mettersi a sedere sotto il felze; le cappe
nere stettero fuori. I remi toccarono l'acqua, e via.
VI
Disceso
al palazzo Ducale, il Suardi fu condotto negli ufficj del Consiglio
dei Dieci, dove da un segretario gli venne fatta lettura d'una nota
del Senato milanese che lo riguardava; dopo di che gli fu soggiunto
essere stato deliberato dai signori Dieci di esaudire l'inchiesta del
Senato di Milano, facendo scortare il Suardi fino al confine, dove lo
si sarebbe consegnato alle autorità competenti del ducato di
Milano. Galantino a quell'intimazione, senza smarrirsi in apparenza,
quantunque fosse oltremodo percosso nell'intimo suo, rispose:
Riuscirgli inesplicabile una tale inchiesta; non aver esso fatto atto
veruno pel quale potesse aver timore di chicchessia; che però
si sottometteva obbediente al decreto e della Repubblica e del Senato
di Milano, certissimo che in poco tempo ai signori Dieci sarebbesi
fatta conoscere la causa dell'errore di cui egli in quel punto era
vittima. Il segretario non rispose nulla, e soltanto chiesto al
Suardi se voleva mandare a prendere le sue robe, se aveva affari
lasciati in tronco in Venezia che volesse adempire; e sentito il suo
desiderio, provvide a che fosse esaudito. Così in quello
stesso giorno venne sotto buona scorta mandato a Milano.
Il
Galantino, lo abbiamo già detto, aveva una tal tempra
adamantina di corpo, che per il rapporto necessario che è tra
materia e spirito, gli rendeva l'animo saldissimo e imperterrito,
anche nel più fiero conflitto di quelle circostanze che
avrebbero bastato ad abbattere qualunque altro. Avea pure, abbiam
detto anche questo, una tal prontezza di veduta, da fargli pigliare
di volo la misura esatta delle cose; ne sia prova il non esser
fuggito innanzi alle cappe della Repubblica.
Sebbene
dunque quell'arresto impreveduto lo avesse a tutta prima sconcertato,
come avviene di un uomo robusto colto all'impensata da un colpo
violento, tuttavia si riebbe dopo la prima scossa, e si bilanciò
per non perdere l'abituale saldezza.
Chi ne fa una ne fa due, pensava intanto fra sè nel fare il
viaggio. E chi non ci mise nè pepe nè sale a tradire il
marito, doveva ben tradire un lacchè. Ma va pur là,
contessa... Se il diavolo mi toglie da questa trappola... voglio bene
che ci rivediamo, e... allora tu sentirai cosa fa il Galantino quando
pensa a vendicarsi. Prima però bisognerà scappar dalla
trappola... questo lo capisco anch'io. In quanto a me, mi aiuterò...
ma sarà sempre bene che gli altri non faccian l'asino...
perchè di ragione, se io taccio, essi dovrebbero strapparsi la
lingua piuttosto che parlare. Ah signor conte... io penso che la mia
salute gli debba star a cuore più che a me... perchè se
io cado, anch'esso ha a cadere... e da che altezza! Ben è vero
che il conte non mi ha mai nè veduto nè parlato, e
potrebbe, in un bisogno, lasciarmi solo nell'intrigo... Ma allora,
quand'io sappia stare ben sodo nel dir di no... il malanno svanirà
da sè. E qui a codesti pensieri abbastanza gai in mezzo
al disastro, succedevano altri pensieri, tutt'altro che lieti; e si
presentavano alla fantasia conturbata del Galantino le parti
squallide della sua condizione, malediva il giorno e l'ora che si era
lasciato pigliare allamo da chi non conosceva, per tentare una
impresa delle più pericolose; perchè alle cose che già
sa il lettore, aggiunga ora avere il Galantino aderito a trafugar le
carte, tra le quali era il testamento del marchese F..., per
insinuazione di un uomo che a lui volle tenersi ignoto. Che se egli
aveva tosto pensato al conte F..., in quella circostanza, e per
alcune parole scappate di bocca allo sconosciuto e per altri indizj,
ciò non era stato che in conseguenza della sua straordinaria
acutezza. Pensando così lungo il viaggio ad un tale
sconosciuto, si turbò alquanto nel sospetto che colui, nel
frattempo, avesse mai potuto commettere qualche imprudenza; o, per un
giuoco non previdibile della maledetta fortuna, anche senza sua
colpa, fosse caduto in qualche agguato. Più dunque l'ex-lacchè
e l'ex-gentiluomo avvicinavasi a Milano, più smarriva la
baldanza e non per il timore di dover passare troppo tempo in
prigione, chè a questo, in suo pensiero, si lusingava di anche
abituarsi; ma ciò che lo cruciava veramente si era che aveva
con sè molt'oro e ricapiti di danaro; oro e ricapiti che
avrebbe consegnato al diavolo piuttosto che alla giustizia. Ma a
questo punto, per la solita legge del flusso e riflusso, gli vennero
i terzi pensieri, che lo rimisero in calma nel punto che fu in veduta
di Milano. Il tarocco l'ho io, riflettè, e bene io fui
destro nè a cederlo nè ad abbruciarlo, ed è
riposto in tal luogo, che sfido il diavolo a scovarlo fuori; e prima
converrà parlare con me. Ma per quanto codesta
riflessione lo avesse alquanto consolato, quando venne in piazza
Fontana e guardando per la contrada Nuova vide la facciata negra e
burbera del palazzo di Giustizia, uno dei pochi edificj
architettonici di Milano che abbiano il di fuori come il di dentro,
la sua faccia rosea diventò color di piombo.
Il
Senato di Milano, poche ore prima, aveva ricevuto una nota da quello
di Venezia, nella quale gli si annunziava la cattura fatta
dell'Andrea Suardi e la sua partenza per Milano; però quando
il Galantino entrò nel palazzo del capitano di giustizia, la
sua venuta era attesa da qualche ora, e già gli era stato
preparato l'alloggio. Il più generoso degli avventori non
poteva venir trattato con maggior sollecitudine da nessun
albergatore. La notizia intanto che le presunzioni pel fatto di casa
F... erano cadute sul Suardi, lacchè notissimo a tutta Milano,
era già corsa per la città, come avveniva sempre ad
onta di tutte le precauzioni di segretezza; parimenti eran note a
tutti le misure prese contro di lui, e questa volta pare che il
Senato non abbia desiderato un soverchio segreto, e meno ancora
quando il reo convenuto fu catturato; perchè un tal
avvenimento accresceva presso il pubblico la riputazione
dell'autorità criminale. Tutta la città di Milano fu
dunque piena di un tal fatto, e l'aspettazione delle sue conseguenze
erasi convertita in un'ansia impazientissima, perchè da un
lato in tutti gli animi era spontaneamente penetrata la
persuasione che il reo doveva precisamente essere il lacchè; e
dall'altro era universale l'opinione che quel giovane furfante doveva
aver lavorato per mandato altrui. Ma d'un nuovo fatto era in attesa
la città, ed era la liberazione del tenore Amorevoli; a cui
sapevasi già dover essere favorevole la sentenza del Senato.
Questo, infatti, appena seppe che il lacchè era nelle mani del
barigello, si raccolse a consulta e, ad una gran maggioranza,
sentenziò per la liberazione del costituito Amorevoli; con
ingiunzione però che non dovesse uscire dalla città di
Milano fino a tanto che non si fosse iniziato il processo del Suardi,
onde poterlo, all'uopo, sentire in giudizio a constatare la
somiglianza o meno tra il costituito Suardi e l'uomo che il tenore
Amorevoli aveva sempre asserito di aver veduto a fuggire.
Ma
se per il cantante di camera del re di Spagna, dopo aver fatto per la
prima volta in sua vita una quaresima di tutto rigore in carcere, a
un tratto era comparso il sereno; per Lorenzo Bruni le cose
camminavano diversamente, e tale e tanta era la mala prevenzione
della magistratura contro di lui, che non solo venne chiamata assurda
la difesa del Verri, la quale aveva proposto di mandarlo assolto
d'ogni pena; ma contro la verità palmare, contro la
deposizione di donna Paola, contro la irrecusabile prova esibita
dalla lettera stessa della contessa Clelia, prodotta in giudizio, si
volle capziosamente persistere nell'accusa di tentato trafugamento a
danno della contessa medesima, o pel manco, trarre le cose in lungo,
quasi in attesa di nuovi indizj contro il costituito Bruni. Pietro
Verri, a cui la cosa fieramente cuoceva, e voleva pure, benchè
solo e giovane e avversato dal padre, riuscire a far trionfare la
giustizia assoluta contro la giustizia convenzionale, pensò di
recarsi ad impetrare per quel fatto la valida cooperazione di donna
Paola Pietra di cui era ammiratore sviscerato. Nemico per istinto e
per ragionamento d'ogni pregiudizio e d'ogni schiavitù alle
consuetudini tiranniche, aveva ammirato in colei quella potenza di
ragione e di volontà, per cui, convinta del vero, era stata
fortissima contro l'arbitrio; e per cui, avendo fatto ciò che,
tra gli spiriti pinzocheri e il vulgo impregnato di idee false,
doveva pure generare scandali e persecuzioni, non per tanto s'era
comportata di maniera, da produrre gli effetti contrarj; onde
fuggendo dal convento, ed essendo passata dalla vita claustrale a
quella del secolo, aveva tuttavia fatto forza all'opinione vulgare ed
era salita in tanta venerazione, che la maggiore non avrebbe potuto
conseguirsi in verun altro modo. Il qual caso singolarissimo della
vita di donna Paola aveva fatto più volte considerare al
giovane Verri come non fosse poi, siccome altri opinava, impossibile
il distruggere i pregiudizj e le male abitudini inveterate del
pubblico costume; e come se tutti gli uomini che vedono il giusto
avessero vero coraggio e costanza vera, gli errori non avrebbero mai
avuto nel mondo una vita eccessivamente lunga. Fanciullo e
giovinetto, essendo stato più volte insieme colla contessa
madre a far visita a quella venerabile donna, pensò dunque che
gli tornasse bene parlarle adesso che aveva una cosa importante ad
affidarle. Per verità che la casa di donna Paola Pietra era
frequentata giornalmente da un numero così strabocchevole di
persone, e le cose a cui ella era supplicata di provvedere erano
tante e così continue e intricate, che non basterebbe il
portafoglio di due ministri per darne un'idea. Però il lettore
potrà credere che una tal ragione di vita dovesse riuscire
molto incomoda e penosa a quell'egregia donna, e che a' dar spaccio a
tutto non le potessero bastare le ventiquattr'ore del giorno. Una tal
cosa infatti l'abbiamo pensata anche noi, e al punto da sentirci
mancare il respiro, quel respiro che qualche volta avrà dovuto
mancare alla stessa donna Paola. Ma a tutto si risponde col dire che
ella vi aveva il suo genio, e che recava l'entusiasmo nel pensiero di
poter essere utile altrui. Certo che una donna di tal tempra è
una eccezione fuor d'ogni ordine comune; ma è perciò
appunto che l'abbiam messa innanzi ai lettori; che gli uomini e le
donne di tutti i giorni non meritano sempre di essere oggetto alle
elaborazioni dell'arte. Fra Cristoforo, ideale sublime, si
rifuggì al chiostro, perchè il mondo lo sgomentò,
e non vide che fuori del mondo il da ubi consistam per far
fruttare la sua calda virtù a pro de' fratelli. Donna
Paola Pietra fuggì invece dal monastero, perchè non
sentiva come nel claustro ella potesse esercitare un'azione benefica
a pro dell'umanità, e volle ritornare nel tumulto della vita e
nel fitto della battaglia, felicissima di affrontar pericoli e di
medicare ferite.
Pietro
Verri si volse dunque alla casa di lei, e fattosi annunziare, senza
tanti preamboli così le disse:
Molte volte, in compagnia di mia madre, io venni qui, senz'altro fine
che di vedere dappresso chi, anche fanciullo, io ammiravo tanto; ora
vengo per una delle solite cagioni per cui vengon tutti: voglio dire,
per interessarla ad ajutare delle buone persone, maltrattate dagli
uomini. A me è riuscito di sapere come V. S. siasi già
interessata a pro del costituito Lorenzo Bruni, del quale io fui
eletto protettore per sua disgrazia.
Per sua disgrazia? in che modo?
È presto detto: per avere espressa la verità intera, e
senza le solite astuzie della prudenza. Perciò sarebbe
necessario che V. S. parlasse di ciò al signor
ministro-plenipotenziario, il conte Pallavicini, il quale è
l'autore appunto dell'ordinanza sulle maschere-ritratti, contro la
quale il Bruni non ha altra colpa che della materiale
contravvenzione. Ma siccome V. S. sa bene che si vuol persistere nel
ritenerlo, se non colpevole, per lo meno sospetto d'aver fatto rapire
la contessa... così...
Donna
Paola Pietra si alzò a queste parole indignata, e:
Ciò non è possibile, esclamò; io stessa
produssi la lettera della contessa, che toglieva ogni dubbio.
La luce non c'è, tanto per chi non ci vede, come per chi non
ci vuol vedere...
Parlerò al ministro...
Prima però sarà bene preparare il Senato, che di
ragione verrà interpellato: e i cavilli non mancano, e i
sofismi e i soliti giuochi delle carte tramutate e dei bussolotti.
C'è poi di più, che la contessa, a rigore di processo,
dovrebb'essere sentita personalmente in giudizio... perchè una
lettera... la S. V. capisce bene... può essere stata dettata e
imposta dalla violenza, e la legge, quando vuole, tiene
calcolo di tutto... onde a queste rimostranze il governatore
potrebbe... Ella, che ha tanto senno ed esperienza, vede bene come
vanno il più delle volte a finir queste cose, allorchè
c'entra di mezzo il puntiglio.
Voi dite benissimo... ma allora che si fa?
V. S. mi perdoni, ma mi lasci parlare con libertà.
Io sono qui ad ascoltarvi.
È necessario che la S. V. senta la ballerina Gaudenzi alla
quale io ho già parlato... Questa ragazza è la pupilla
del Bruni, ed è la fanciulla più semplice e più
virtuosa che dar si possa in seno a qualunque onesta famiglia, non
che in mezzo alla polvere d'un palco scenico... ed è tanto
sconcertata per la prigionia di quel bravo uomo di Bruni, che darebbe
la vita onde vederlo rimesso in libertà. A costei ho dunque
detto di venire a raccomandarsi alla S. V.
Non c'era nessun bisogno, io sono disposta a far tutto quello che c'è
da fare... anche senza che questa fanciulla s'incomodi a venire da
me...
Questo lo so anch'io, ma è un'altra la ragione per cui è
necessario che questa buona ragazza venga consolata dalle parole e
dai consigli della S. V.
Ma di che dunque si tratta?
È un affare assai delicato.
Sentiamo.
V. S. sa che il Senato... voglio dire i Senatori, almeno alcuni di
loro, non sono quelli che precisamente dovrebbero essere... e che
taluno, son cose che fa pena a dirle, ha, per esempio, l'abitudine di
fare, benchè di nascosto... bottega dell'alto suo ministero...
Oh!!...
Io non credo d'aver detto cosa che le possa riuscire assolutamente
nuova; ella ha provato di peggio.
Pur troppo. Continuate.
Il caso poi ha voluto che quelli precisamente che trattan la
giustizia colle ganascie più che colla mente e col cuore, sono
i più aperti d'ingegno.... e quel che più fa, sono i
più ostinati e violenti, e hanno l'arte di tirar la maggior
parte a votare con loro... V. S. vede dunque che...
Vedo tutto e non vedo nulla.
Converrebbe che la ballerina Gaudenzi in compagnia d'una sua zia
facesse una visita a questi tali... e dopo le suppliche e i sospiri e
i pianti... trovasse il modo di lanciar gentilmente deposto sul
tavolino verde, tra la penna e il calamajo, qualche rotoletto
onnipotente di zecchini. I nomi dei signori senatori a cui l'oro fa
dir Toma per Roma son questi e questi (e pronunciò nomi che
noi non possiamo ripetere). Ma, continuava il Verri, come si fa a dir
tutto questo alla fanciulla, dal momento che a me, per mille
rispetti, è impedito di toccar un tal tasto?... Nè lo
avrei fatto oggi, se non fosse qui ad ascoltarmi la vostra saviezza.
In conclusione, a che volete riuscire con queste parole?...
La vostra sapienza m'illumini; ma se, a mettere in salvo gli
innocenti, non ci fosse proprio nessun altro mezzo che il sacrificio
di cinque o sei rotoletti... che sono una bazzecola per chi saltando
in teatro guadagna più di un ministro, converrebbe forse, per
soverchio rispetto alla giustizia, lasciar offendere la giustizia?
Donna
Paola Pietra si alzò, e:
Mandate da me codesta fanciulla. Sentirò e vedrò... ma,
caro mio, la cosa è così estremamente delicata ch'io
non so quel che sarò per fare. Son propositi che solo a
toccarli contaminano la ragione e l'onestà... Un tempo erano
crudeli e feroci. Ora han mitigate le apparenze, e son diventati...
Oh tempi infelici! Mandatemi dunque la fanciulla.
Pietro
Verri partì.
Il
dialogo surriferito del conte avrà fatto senso al lettore, e
anche noi fummo per gran tempo in dubbio di mettere a nudo cotali
piaghe. Ma pensando poi che tutto serve a lezione, e che il fatto
solo della possibile pubblicità che tosto o tardi viene a
svelare le colpe state commesse nella creduta sicurezza del segreto,
può utilmente fare il suo effetto in tutti i tempi e in tutti
i luoghi; abbiamo creduto opportuno di affidare per la prima volta
alla stampa la notizia di alcuni accidenti della vita pubblica e
privata del secolo passato, che finora non ottennero che di passar di
bocca in bocca dall'una altra generazione, e di non deviare e
perdersi nel trapasso. Ma dove sono i documenti orali di quanto fu
riferito? Essi sono scarsi e succinti, ma fedeli; essi sono sfoghi
repentini della satira plateale, ma che ottennero di perpetuarsi
quasi come l'epigrafe della storia in tavola di bronzo. Chè il
popolo avea l'abitudine di nominare alcuni senatori intinti nella
pece della venalità con motti proverbiali; e per citarne uno,
aveva condannato a subire il disonore della strofa seguente due che
in ciò avevan passato il segno:
Divora
il C
erro
L'oro,
l'argento e il ferro;
Il
senator M
tone
Divora
anche l'ottone.
Che
più? In un vivacissimo diverbio avvenuto nelle aule stesse del
Senato, un Morosini, il quale era svizzero (in Senato confluiva la
nobiltà non solo del ducato di Milano, ma anche d'altri Stati,
della Toscana, per esempio, della Romagna, ecc.), ebbe a dire ad un
senatore che avea gran voce in capitolo, ma che facilmente si
lasciava pigliare all'amo, Ch'egli non aveva i suoi possedimenti a
Biassonno, ossia che non biasciava o non mangiava alle
spalle altrui. Se non che quello stesso Morosini che avea la virtù
d'essere incorruttibile, assaporava poi con truce diletto i tormenti
fatti subire agl'imputati, e assisteva alla tortura sorseggiando la
cioccolata.
Ed
ora andiamo a trovare il tenore Amorevoli.
VII
La
letteratura sarebbe assai più feconda se avesse il comodissimo
privilegio della musica, nella quale, allorchè un maestro si
trova a contatto di una bella situazione drammatica, e si ricorda
d'aver letto in qualche vecchio spartito un bel motivo che gli paja
ben adatto alla situazione stessa, se lo appropria senza molti
scrupoli e senza timore che gli si possan fare i conti addosso. Il
sommo, l'unico, l'immortale Rossini, allorchè un amico gli
fece osservare, a proposito d'un suo celeberrimo quartetto, che
quella musica trovavasi già in un vecchio spartito di Meyer,
il maestrone non fece altro che crollare il capo, ed esprimere la sua
compassione per la mellonaggine dell'amico scrupoloso, soggiungendo,
per un di più, queste parole: Dal momento che a quella
situazione non c'era e non ci poteva essere musica più
acconcia di quella già fatta da Meyer, perchè correr
pericolo di guastare una situazione per la smania puerile di fare una
musica nuova? Oh così potessimo godere anche noi di un
tal privilegio, e tanto più che vi avremmo un diritto maggiore
per la nostra condizione di non immortali! In virtù di questo
privilegio noi oggi non avremmo fatto altro che riportare come cosa
nostra quella bella variazione che Goethe mise in bocca al suo Fausto
sul tèma eterno della primavera: «I ruscelli e i
torrenti si disvolgono sotto il soave, vitale sguardo della
primavera; il vecchio e debole inverno si va ritraendo sull'ispide
cime dei monti. Di lassù ci manda ancora, nella sua fuga,
qualche spruzzaglie di gelo, ecc., ecc.,» e così, senza
molta fatica e colla sicurezza d'un gran successo, avremmo fatto
l'istrumentale d'introduzione all'aria di sortita del tenore
Amorevoli, che uscì di fatto di prigione in primavera, mentre
faceva una splendida mattina del mese d'aprile, un aprile che avrebbe
ben potuto chiamarsi fiorile anche prima della nuova nomenclatura
della repubblica francese. Oh dev'essere bene esuberante la gioja che
prova un galantuomo il primo istante che, preso commiato dall'amico
secondino, esce all'aperto, libero, tra gente libera...
vogliamo dire senza manette. E una tal gioja non possiamo gustarla
che per intuito, dal momento che non abbiam mai avuto, non sappiamo
se la disgrazia o la fortuna, d'andare in prigione; diciamo la
fortuna, perchè da quel Giuseppe che disprezzò la
moglie di Putifarre, al violinista Tartini, pare che la prigionia
talvolta faccia l'effetto d'un di que' sogni per la cui virtù
discendono infallibili ai mortali i numeri del lotto. Ma, per tornare
a fatti nostri, Amorevoli uscì tutto attillato, dalla
prigione; chè i secondini pagati lautamente da lui, gli
avean sempre fatto i punti d'oro. Uscì, e venendo per contrada
Nuova e piazza Fontana, s'avvide di esser presso alla contrada Larga,
e, per conseguenza, vicinissimo al teatro Ducale; però non
ebbe allora altro pensiero che di recarsi là, e presto si
trovò alla porta del teatro. Zampino, il servo del palco
scenico, fu il primo a raffigurarlo, quand'egli si mostrò
all'ingresso, e fu per cadere in deliquio per la gioja; non c'è
nè cane barbone, nè cane maltese, nè cane pinch,
che sappia fare smorfie e salti di consolazione alla vista d'un
padrone ritrovato, quanti ne fece quel caro nanerottolo di Zampino a
vedere la faccia del suo tenore, del signor Angelo Amorevoli, il
quale era stato la sua risorsa durante la stagione di carnevale.
Nè Zampino si fermò lì, ma sempre, come un buon
cane amoroso che corre abbajando in casa per annunciare alla famiglia
la venuta del padrone aspettato, corse in teatro, dove si facean le
prove per la stagione di primavera, e ad onta che la nuova prima
donna signora Amarillide Bagnoli stesse sfoggiando una cadenza di
parata, gridò con quanta voce aveva in corpo: Signori, è
qui il signor Amorevoli! è qui finalmente il signor Amorevoli!
Tutti
i professori d'orchestra, i cantanti, i coristi, le comparse non
ebber più l'animo alle prove, e furon tutti intorno
all'Amorevoli a tempestarlo di domande e di congratulazioni; tanto
che egli si vide obbligato ad invitarli tutti a pranzo all'albergo
dei Tre Re, dov'egli era alloggiato e dove, pochi momenti dopo, si
recò in compagnia di Zampino, de' cui servigj in quella
giornata aveva grande bisogno. E là non è a dire
la festa che gli fecero loste, i camerieri, il cuoco, il quale
andava superbo della confidenza che gli aveva accordato il primo
tenore del teatrino, quel tenore tanto affabile che più volte
erasi recato in cucina, con insolita degnazione, per ordinargli dopo
il teatro il solito brodo a gelatina. Ma il nostro Amorevoli
entrò finalmente nel suo alloggio, rimasto vuoto da tanto
tempo, e che l'oste aveva voluto a buoni conti chiudere a
chiave nel tempo della cattura, pensando che qualcuno
avrebbe pagato, e quando non si fosse presentato nessuno, si sarebbe
pagato egli stesso col baule e coi tre cassoni, zeppi di roba e di
vestiarj. A proposito dei quali, Zampino fu tosto in faccende per far
loro pigliar aria, chè questa era sempre stata la sua
incombenza; e intanto che il tenore attendeva a dare udienza alle
visite, delle quali, dopo alcun'ora, cominciò la processione,
era bello vederlo a togliere da un cassone un elmo che aveva servito
nella parte d'Alessandro nelle Indie, e pulirlo colla seppia;
toglier da un altro una daga con lama di damasco, che aveva brillato
nell'Artaserse, e strofinarla con panno lano; sprigionare e
spiegazzare un manto rosso tutto ricamato in oro, dicevasi, da una
principessa incapricciatasi del signor Amorevoli (manto prezioso, che
molto aveva contribuito al successo del Ciro in Babilonia),
e metterlo a pigliar aria sulla ringhiera; e
tirar fuori stili e stiletti d'ogni sorta con foderi di velluto di
tutti i colori e prepararli per dar loro la polvere di pomice, e
disporre tutte in giro a cavalcione della stessa ringhiera quelle
dieci o dodici paja di maglie, color carne, bianche, rosse, azzurre.
Oh com'era felice Zampino di aver ripigliato quell'operazione
importante!
Quando
le visite, fra le quali, oltre ai nobili ispettori del palco scenico,
vi furono molti giovani cavalieri delle primarie famiglie,
singolarmente innamorati della musica, concessero un po' di respiro
al nostro tenore, divenuto in quel dì il personaggio più
considerevole della città, al punto che se avesse fatto pagare
il biglietto d'ingresso per farsi vedere, avrebbe guadagnato una
bella somma; allorchè dunque tutti coloro lo lasciarono
respirare, ed ei si trovò solo un istante, colse il momento
opportuno, ed uscì per recarsi egli stesso a fare un atto di
dovere con sua eccellenza il governatore conte Pallavicini, alle cui
feste aveva cantato più d'una volta, e che, per quanto gli era
stato riferito, aveva messa una valida parola a di lui vantaggio.
Quando dall'usciere fu introdotto nell'anticamera magna, dove da
qualche ora stavano in aspettazione i molti che si erano dati in nota
per parlare a sua eccellenza, vide uscire dalla stanza del
governatore la Gaudenzi appunto, insieme con la quale trovavasi donna
Paola Pietra, ch'egli non conosceva. Si riconobbero tosto e
l'una e l'altra, e pari essendo stata la meraviglia in ambidue, si
corsero incontro interrogandosi a vicenda:
Voi qui?
Qui voi?...
E
tosto la Gaudenzi volgendosi a donna Paola:
È il signor Amorevoli, disse.
Che oggi per la prima volta respira un po' d'aria libera, soggiunse
tosto egli stesso.
Donna
Paola, sentendo quel nome, non potè a meno di guardare il
tenore con grande curiosità, ma non disse nulla.
Continuava
intanto la Gaudenzi:
Sono qui, come vedete, perchè la nobile signora (e additava
donna Paola) che si è degnata di accordarmi la sua protezione,
ha avuta la compiacenza di presentarmi ella medesima a S. E., per
impetrare la grazia del signor Lorenzo Bruni.
Scusate, disse Amorevoli, io vengo dal bujo, e veggo ancor bujo;
qualcosa ho sentito dire, ma di preciso non so nulla; intanto che
aspetto, vogliatemi dunque raccontare ogni cosa; e con atto di
cortesia presentava una sedia a donna Paola.
Non vi pigliate incomodo, ella disse, mi attende la carrozza che mi
dee condurre dove sono aspettata. Voi intanto, cara mia, soggiunse
volta alla Gaudenzi, indugiatevi qui fin che il segretario vi porga
il biglietto confidenziale di S. E. per il presidente del Senato... E
in quanto al resto, vivete di buon animo, chè presto, mi
lusingo, sarete uscita da ogni fastidio; che Iddio vi benedica!
E partì.
Oh che santa donna, oh che donna amorevole è quella che ora ci
ha lasciati! disse la Gaudenzi. Senza di lei sa Iddio che mai sarebbe
avvenuto di Lorenzo! E si fece a raccontare all'Amorevoli
tutto l'imbroglio storico che noi sappiamo. Amorevoli, che in
prigione non aveva raccolto che qualche frammento di notizia dai
secondini, il quale gli avea cresciuto la confusione delle idee,
mentre poi coloro che lo avean visitato all'albergo non
l'avevano intrattenuto che di complimenti, credette di sognare quando
sentì la storia della maschera, del deliquio, della fuga,
dell'arresto.
Dunque la contessa è fuggita?
Fuggita, sicuro.
Ma dove?
Si dice a Venezia.
Oh!!!...
Amorevoli
tacque...; la Gaudenzi non parlò. Un eloquentissimo silenzio
durò per qualche momento.
Ma voi dovete ballare al san Moisè questa primavera, soggiunse
poi Amorevoli.
Sì... e devo partire a giorni, e faccia la fortuna che Lorenzo
ci abbia ad accompagnare. Ma ho sentito che anche voi...
Io sono scritturato, a stagione, pel carnevale venturo...; in quanto
alla primavera, non sono obbligato che per sei recite, e non ho
potuto dir di no, perchè quei signori patrizj mi hanno mandato
una cambiale colla cifra in bianco; perciò vedete bene che ho
dovuto lasciarmi vincere.
La
Gaudenzi sorrise, e non rispose nulla. In quella entrò un
segretario di S. E., e le consegnò una carta, ricevuta la
quale partì di là, insieme colla zia che l'attendeva in
un angolo dell'anticamera.
Amorevoli
stette aspettando che venisse la sua volta di essere introdotto al
governatore; per il che dovette lasciar passar quasi un'ora avendo
cangiata la noja dellaspettare nell'altra noja non meno pesante
di dover subire mille interrogazioni da quanti erano là ad
aspettare con lui.
Entrò
finalmente dal governatore, trovò affabile accoglienza, parlò,
ebbe lusinghiera risposta, prese commiato, e, partito di palazzo, e
adempiute alcune altre faccende, ritornò finalmente
all'albergo dei Tre Re, dov'era già preparata una gran tavola
per più di quaranta posate, la quale era la tassa che
Amorevoli doveva pagare per essere stato liberato dalla prigione.
Il
numero dei convitati l'avea dato Zampino, che in quel giorno fu
cameriere soprannumerario e sovrintendente. Poco prima delle due
tutti i commensali eran raccolti all'albergo. Alle due fu dato in
tavola. Vi sedevano la nuova prima donna, il nuovo primo tenore, il
nuovo primo basso. Il primo violino direttore d'orchestra, il maestro
Giambattista Lampugnani, compositore e concertatore; i rappresentanti
di tutti gli ordini della gerarchia teatrale. Il pranzo principiò
in silenzio, si animò a mezzo, si riscaldò poscia;
prima cominciarono a parlare alcuni, poi ad uno ad uno entrarono
tutti gli altri col sistema precisamente degli stromenti d'orchestra;
e col sistema del crescendo rossiniano, allora nemmen sospettato dai
maestri, quantunque fosse un modo spontaneo della combinazione dei
suoni, tutti si confusero finalmente in quel poderoso e strepitoso
unisono che compromette il timpano degli orecchi delicati. Quando poi
corse il moscadello e il monterobbio, e le idee nei cervelli
riscaldati cominciarono a far la ruota, non vi fu più ritegno
nè di parole nè d'allegria.
Viva il tenore Amorevoli!
Viva il re dei tenori!
La simpatia delle platee.
Dite piuttosto dei palchetti.
Ah mio caro Amorevoli amoroso, saltò su un tal Frontino,
secondo tenore, un po' esaltato, tu porti il nome con te e dovunque
tu vada, quando non fai da Giasone, fai da Paride e fai da Enea... Ah
diavolo che tu sei, ti ho seguito un pezzo per tutti i primi teatri e
d'Italia e di fuori... e dappertutto hai sempre fatto l'effetto d'un
tizzone gettato in una polveriera... Ti ricordi a Roma... ti ricordi
a Napoli... Oh, a Napoli... quello fu un contrattempo!... E a
Madrid... a proposito, sei guarito da quella puntura nel collo?...
Ah... ecco qui...
Chi
si guarda dal guarnello,
Più
si guarda dal coltello....
Ah!
ah! ah!
Poveri mariti, dove tu bazzichi... È però
anche vero che non sei de' più fortunati... Là il collo
fasciato, qui le mani legate. Ah! ah! ah!, e rideva un po' perchè
aveva ragione, un po' perchè il vino rideva per lui.
Taci, taci, Frontino, disse Amorevoli, e lasciami in pace, e se sei
allegro più del solito, sta in carattere almeno e parla di
cose allegre.
Ho detto così per dire, e anche per darti un consiglio, il mio
Amorevoli, perchè so che tu vai a Venezia... e quella è
la città dei pericoli e dei trabocchetti amorosi. Però
sta in guardia.
Ma
gli altri compagnoni, sebbene allegri come il secondo tenore signor
Frontino, diedero di svolta a quel discorso malsano, e trovati altri
propositi, prolungarono sin quasi a sera lo sturamento del
monterobbio; e se ne uscirono tutt'altro che responsabili della
conservazione del loro centro di gravità. E fu davvero un
mezzo prodigio se, verso mezzanotte, i suonatori del teatro
raccapezzarono tanto di lena e di fiato da mettersi a sedere ad una
orchestra posticcia innanzi alla porta dell'albergo dei Tre Re, per
fare una serenata di congratulazione e d'addio al celebre tenore che
il giorno dopo doveva partir per Venezia; perchè, se il
lettore non lo sa, lo sappia adesso, che prima di abbandonare il
Capitano di giustizia, condotto a guardar la faccia di Galantino,
protestò di non ravvisarlo affatto; onde ebbe licenza, se
voleva, di partire anche dalla città di Milano.
La
parte giovane e vivace e tanto quanto musicale della popolazione di
Milano, che aveva subodorata quell'accademia a ciel sereno, affollò
la contrada dei Tre Re, e, secondo il costume imperscrivibile dei
giovinotti di tutti i tempi e di tutti i luoghi, fecero un baccano
del diavolo, e chiamarono a gran voce il tenore, che dovette più
volte mostrarsi sul poggiolo dell'albergo a ringraziare, come se
fosse una testa coronata, il buon popolo delle attestazioni di
benevolenza onde gli era cortese; e finalmente potè andar a
dormire quando i violini cominciarono a sentir l'aria umida della
notte, e gli strumenti da fiato cessarono di ricever fiato dai loro
proprietarj, che sonnecchiavano coi corni e i clarinetti in bocca.
Ma
v'è chi dorme di notte, e v'è chi veglia; e
precisamente quando il tenore Amorevoli potè pigliar sonno,
vegliava ancora... chi? un uomo di cui il lettore si è forse
dimenticato: il conte ex colonnello V..., il marito della contessa
Clelia.
Noi
lo abbiamo lasciato in un tristo momento, in cui l'ira gli era stata
dimezzata in petto dalla pietà... Dopo, dovette cedere alle
circostanze... ai pianti della madre di donna Clelia, a quelli della
sorella, ai consigli del fratello... D'altra parte, fuggita la
contessa, imprigionato il reo tenore, quand'anche avesse voluto far
mulinelli collo spadone che aveva portato al reggimento, non avrebbe
potuto che farli all'aria: si contenne dunque fremendo, al punto che
potè aderire al suggerimento di suo fratello, uno del nobile
collegio dei giureconsulti, e presentar la petizione formale per
ottenere contro la moglie la divisione giuridica di letto e di mensa.
Essendo poi noto sì a lui come al parentado che la
contessa erasi rifuggita a Venezia, dopo il falso gioco tentato per
far credere ch'ell'era stata rapita, più volte ei fu in
procinto di recarsi colà, e solo si trattenne al pensiero che
poteva nascere uno scandalo nuovo, superiore al disonore. Oltre a
ciò, il fatto che l'Amorevoli era in prigione, e trovavasi chi
sa per quanto tempo fuor d'ogni libertà d'azione, gli ammorzò
il furore per quella parte che bastava onde non lasciarlo partir da
Milano.
Ma
durante quella giornata seppe che il tenore era stato messo in
libertà; seppe inoltre (e a una tal notizia poco bastò
non uscisse di cervello affatto), che il tenore era stato scritturato
dai messeri ispettori del teatro di Venezia per sei recite. Un
uomo placido e di buon senso e di spirito, che fosse nato, per
esempio, a Parigi e fosse un seguace del sistema onde colà
trattavansi le infedeltà conjugali, non avrebbe fatto altro
che recarsi a domandar consigli di prudenza a una mezza dozzina di
ballerine voluttuose del teatro del Re... Ma egli era
ispano-italico. E questo fu il contrattempo.
Perciò, dopo il primo subbollimento del sangue, si contenne in
apparenza, e si finse tranquillissimo coi parenti, col fratello,
cogli amici; e tutto questo per potere annunciar loro, senza generare
sospetti, che voleva lasciar per qualche tempo la città, e
uscire a diporto... Partì dunque due giorni dopo, quasi
contemporaneamente all'Amorevoli... e, pur troppo, alla volta di
Venezia. Abbiamo pertanto, lettori amici e nemici, tutte le ragioni
di credere che la guerra sia tutt'altro che finita, e che soltanto
siasi trasportato altrove il quartier generale.
LIBRO
QUARTO
Il
giovane Parini. Una lezione intorno ad Orazio. I due
figli di donna Paola Pietra. Venezia ed il suo maggio.
La contessa Clelia, ed il gondolierepoeta Antonio Bianchi.
Il conte V... Preliminari del processo del lacchè
Galantino. Gli statuti criminali di Milano. Il diritto
romano e comune. I giurisperiti interpreti. Il giovane
Angelo Emo. Il palazzo Pisani e l'architettura a Venezia.
Il conte Algarotti. Letterati, pittori e architetti veneziani.
Il padre Vallotti e il violinista Tartini. La contessa
Clelia V..., e il recitativo del maestro Vinci. La suonata del
diavolo. Il duello e i suoi commentatori del secolo XV.
Il conte V... Il tenore Amorevoli e il gondolierepoeta.
I
..............Si
et vivo carus amicis,
Causa
fuit pater his; qui macro pauper agello
Noluit
in Flavi ludum me mittere, magni
Quo
pueri, magnis e centuribus orti,
Lævo
suspensi loculos tabulamque lacerto,
Ibant
octonis referentes idibus aera;
Sed
puerum est ausus Romam portare docendum
Artes,
quas doceat quivis eques atque Senator
Semet
prognatos..............
Così
è, cari miei; espressamente vi ho fatto tradurre questo passo
d'Orazio della satira VI del libro primo, perchè impariate a
conoscere questo poeta, osservato in tutte le sue facce... Il vostro
professore di rettorica, il quale fu anche mio professore può
aver ragione... ma non mi par giusto che si debba chiamar vizioso chi
del suo padre serba così onorata memoria; e ad ogni momento
non cessa di esprimergli la sua gratitudine, e vivendo tra cavalieri
e accanto a Mecenate, esalta il padre liberto, e dice:
.......at
hoc nunc...
Leggete
qui:
Laus
illi debetur et a me gratia maior.
Nil
me pniteat sanum patris hujus.
Costui
non poteva dunque essere nè cortigiano mai nè vile.
Ci
vuol altro che richiamar sempre l'epistola Cum tot sustineas,
ecc., dove Flacco per la prima ed unica volta esagerò le
lodi d'Augusto, e della quale fu cagione una lettera minacciosa
scritta dallo stesso principe a lui; ci vuol altro che dimenticare a
bello studio il coraggio onde Orazio non dubitò di ricordare i
suoi legami con Bruto, e di lodare gli ultimi eroi della repubblica
agonizzante, e di rifiutare il posto di segretario presso Augusto
medesimo. Così è, i miei ragazzi; tuttavia io non
voglio già dire che Orazio fosse senza peccato; chi lo è
in questo mondo? chi lo poteva essere in que' tempi? ma dico e
sostengo, e ad ogni occasione vi mostrerò, che egli fu uno
degli uomini più virtuosi e più schivi e modesti e più
liberi di quel tempo e di tutti i tempi. Nè se non fossi
convinto di ciò, mi sarebbe sì cara la sua poesia, nè
io sprecherei il mio tempo a spiegarla a voi con tanto amore e
costanza, se credessi quello che il padre Branda dice di lui. Io non
posso scompagnare quel che si pensa da quel che si fa, nè
posso dividere la ragione della vita dalla ragione dell'arte, perchè
chi conduce torbidi i giorni non può aver limpido il pensiero;
onde, se io pensassi d'Orazio quel che ne pensa il padre Branda,
getterei le sue odi e le sue satire da questa finestra; nè
voi, cari ragazzi, mi avreste vostro ripetitore, se fossi condannato
a magnificarvi la potenza dell'ingegno di un uomo di cui disprezzassi
la vita. Intanto da questo passo vi è mestieri apprendere come
dobbiate onorare la memoria paterna, come dobbiate venerare la vostra
madre santa.
Che cosa ha il nostro signor abate, disse in quella donna Paola
Pietra che entrava, nella stanza di studio dei suoi figliuoli....
Cos'avete, mio caro, che tuonate come un predicatore dal pulpito? e
sorridendo amabilmente, strinse la mano al giovane abate, che tutti i
giorni veniva a far la ripetizione ai suoi ragazzi, i quali
frequentavano le scuole Arcimboldi.
Nulla, o signora, ma in talune cose non posso andar d'accordo col
reverendo padre Branda, che onoro moltissimo, e al quale mi lega
gratitudine di scolaro. E non lo potendo, ho l'obbligo di parlar
chiaro e di dir tutto il mio pensiero anche a questi cari giovinetti.
La questione riguardava Orazio, di cui, contro il padre Branda,
sostengo che non solo era un grande poeta, ma era anche un poeta
galantuomo, perchè se non fosse così e se intorno a ciò
non avessi tranquillissima la mia coscienza, non sarei mai a
permettere che dei ragazzi avessero a correre pericolo di
contaminarsi a leggere le opere di tale, di cui non si potesse
vantare una vita complessivamente onesta; perchè è una
mia opinione che, pur di sotto alle avvenenze della forma,
serpeggerebbe il veleno funestissimo ai giovani.
L'abate
che parlava in tal modo, alto, scarno, che nell'esprimersi mandava
lampi dai grandi occhi neri, e spirava un'aura solenne dall'arco
maestoso del ciglio e dalle forme del volto già austero, per
quanto fosse giovane, tanto giovane che gli mancavano 25 giorni a
compire gli anni ventuno, era Giuseppe Parini. Donna Paola si
compiaceva ad assistere ella stessa alle ripetizioni che il Parini
dava a' suoi figli, e perchè si dilettava di quelle
animosissime digressioni, e perchè alquanto ne serbava in
mente per venire, all'uopo, in ajuto dei figliuoli, quando soli
attendevano ad eseguire il còmpito che dava loro il
professore. In quanto al Parini, ei s'infervorava per tal modo nella
spiegazione de' classici latini, e segnatamente del suo prediletto
Orazio, che il più delle volte bisognava che donna Paola lo
pregasse a desistere, ed aversi qualche riguardo; e gli facesse
presente dover esso dare altre ripetizioni in altre case prima che
terminasse la giornata.
Ciò
che può fare grandissimo un uomo in quelle arti dove la forma
e il gusto sono indispensabili a rendere efficace ed evidente ed
amabile il concetto, e segnatamente poi s'egli è nato per
esser genio di perfezione più che d'originalità, è,
diremo, la fortuna di trovare fra i grandi autori colui che abbia
quasi identiche alle sue, oltre alle qualità primitive
dell'intelletto, anche talune circostanze della vita. Il Parini, nel
suo presago orgoglio giovanile, si compiaceva forse di quel concorso
fortuito di accidenti pel quale, siccome Orazio dalla natia Venosa
era stato condotto a Roma dal padre liberto; così a lui era
toccato un padre tanto amoroso, che non dubitò di vendere
l'umile poderetto presso l'Eupili, pel desiderio ch'ei potesse
attendere agli studj nella capitale del Ducato di Milano.
Applicatosi
a questi e passato alle lettere umane, quando il Parini conobbe
Orazio, forse credette conoscer di più sè stesso, e
poter misurare con maggior sicurezza le naturali e caratteristiche
qualità del proprio ingegno. Fu quello adunque il suo
autore; lo studiò, lo tradusse, lo sottopose alla più
minuta analisi, disfacendolo, a dir così, per rifarlo; come
chi nato, per esempio, alla meccanica, si prova a scompaginare e
sciogliere ad uno ad uno tutti i congegni d'un movimento d'orologio,
per provarsi a ricostruirlo poi da capo. Egli è a questo modo
che lo studioso diventa padrone di una disciplina o di una parte di
essa, al punto ch'ella si faccia obbediente e docile alla sua
volontà, e possa così ampliarsi e fruttificare in nuovi
aspetti. Egli è di tal modo che nella scienza succedono le
scoperte, e nelle arti le innovazioni e le riforme del gusto. Ma
codesta indagine insistente intorno agli autori latini e ad Orazio,
era appunto giovata al Parini dal bisogno inesorabile per cui doveva
salir tante scale al giorno a dar lezioni e ripetizioni a dieci soldi
l'una, onde soccorrere alla madre poverissima non che a sè
stesso. Dovendo spiegare ad altri un oggetto, nel
bisogno di far passare nell'altrui mente le idee e le cognizioni che
stanno nella nostra, sotto l'assiduo martello dell'analisi, si
svelano interi e ad uno ad uno tutti gli elementi costitutivi di
quell'oggetto stesso. È così che il sapere si trasmuta
in sangue, come un cibo sano assimilato da uno stomaco perfetto.
In
quelle lezioni e ripetizioni che il Parini dava a non pochi
suoi allievi, senza ch'egli se ne fosse fatto un sistema
premeditato e discusso, bensì per la spontanea felicità
del suo ingegno, era riposto il metodo più sicuro e più
amabile d'istruzione. La bellezza fatta gustare dalla
vivacità dell'espositore attraeva i giovani ingegni, i quali,
una volta fermati nella contemplazione di quella bellezza medesima,
s'infervoravano negli studj, dei quali s'appigliavano poi a taluna
delle molteplici diramazioni a cui si volgeva col tempo la speciale
loro vocazione. Parini spiegando un'ode d'Orazio, per l'associazione
spontanea delle idee e per la sua naturale facondia, divagava a più
cose; e gli scolari in quelle divagazioni imparavano ad interrogare
sè stessi per determinarsi poi ad una disciplina speciale.
Però anche nel maggior progresso de' tempi sarebbe sempre
stato avverso il Parini a quella infesta enciclopedia onde si
condannano a stanchezza anticipata le menti giovanili nel punto
medesimo che si profumano d'orgoglio; chè, per codesta
enciclopedia, si trascura, quasi come accessoria, l'arte prima di
dare ordine logico e forma decorosa al pensiero, la quale, appresa
nei classici prosatori e poeti, cosparge di gentilezza perpetua tutta
la vita, e da essa scaturisce poi il desiderio di riparare a scienze
più sode, ma in quella età che è robustissima a
comprenderle, a trattarle e a dominarle. Da fanciulli imbrattati di
polvere enciclopedica, che hanno ridotto l'intelletto come una pietra
lavagna continuamente scritta e continuamente cancellata dallo
sfregatojo, e ammaestrati a disprezzare la forma del pensiero, quasi
che la forma non fosse un modo del pensiero stesso, non potranno
uscire uomini capaci a far progredire nè un'arte nè una
scienza mai.
Ma,
più che codesta nostra incompleta e nel tempo stesso troppo
lunga digressione, a mostrare come dovrebb'essere governata
l'istruzione letteraria, basterebbe che si potesse riprodurre qui al
vero e al vivo una di quelle lezioni che il Parini faceva a'
giovinetti a lui affidati. Donna Paola, assistendovi quotidianamente,
aveva imparato a stimare di giorno in giorno sempre più il
giovine maestro, e tanto più che di mezzo all'esercitazioni
letterarie, quando il tema lo eccitava, egli usciva in certi
schianti, diremo così, di bile generosa e di caldissima
eloquenza, a cui era fomento la nativa severità del suo
costume.
Donna
Paola lo ammirava, e sentiva pietà del suo povero stato, e
avrebbe voluto in qualche modo poterlo soccorrere, se non vi si fosse
opposta la dignitosa fierezza del giovine.
Questi
intanto continuava la sua lezione, ed ella ascoltava in silenzio. Se
non che pareva preoccupata da qualche altro pensiero e quasi le
tardasse che non si desse fine alla lezione; perciò quando il
Parini fece una lunga pausa al discorso:
Badate che si fa tardi, ella disse, e voi, come di solito, trascinato
dall'amore degli studj e dallo zelo per l'educazione de' giovani,
trascurate il vostro interesse. Per oggi dunque può bastare...
e voi, disse poi rivolta ai figli, potete fare una passeggiata col
domestico.
I
due giovinetti si alzarono, fecero un saluto gentile al Parini,
baciarono la mamma, e uscirono.
E così, che vi pare di questi miei figliuoli?
Io ne spero assai bene. Carlo ha più rapida perspicacia;
Arrigo è più tardo. Ma non dubiterei che il secondo non
fosse per lasciarsi indietro il maggiore nell'età del più
completo sviluppo... Ma cos'ha ella oggi, che mi sembra turbata?...
perdoni l'osservazione.
Lo sono di fatto... anzi... ho bisogno di voi...
Mi comandi.
Siete già stato oggi a far lezione al figliuolo della contessa
Marliani?
Ci fui.
Avete parlato colla contessa, col conte, con qualcheduno di là?...
Io sì... ma....
Ascoltate. Io so che la casa Marliani è in gran dimestichezza
colla casa V... Mi bisognerebbe dunque di sapere se il conte è
realmente partito da Milano, come ho sentito dire ...
È partito... ed anzi vi dirò che la cosa non è
liscia
; la madre della contessa Clelia venne stamattina in
casa Marliani... ed era tutta sconcertata... in conclusione si teme
che il conte sia andato a Venezia...
Donna
Paola balzò in piedi a queste parole, esclamando:
Ah il mio sospetto! Ma, cosa pensano di fare coloro... Madre,
sorella, fratello... i quali non so se abbian sangue in corpo o
stoppa?... Io non ci capisco nulla. Aspettar tanto per accorgersi di
ciò; e lasciarlo partire senza pensare, senza temere, senza
prevedere... Ah gente stolida e senza cuore!
Il
Parini facevasi attento.
Sentite, continuava donna Paola, vorreste voi assumervi un
incarico?... È d'uopo che qualcuno apra loro gli occhi... che
uno della famiglia.... Se non può la madre, c'è il
fratello... cosa fa qui il fratello?
chè non vola a
Venezia a difender la sorella? Stolido!!
Cosa dunque avrei a far io?
Parlar alla contessa Marliani, senza nominar me in verun modo,
mostrarle la gravezza del caso, interessarla a voler determinare il
fratello della contessa Clelia perchè si rechi a Venezia senza
perder tempo. Io ho già scritto alla contessa, ma che può
mai fare una lettera? Ah, caro mio, voi non potete imaginarvi in che
tormentoso affanno io mi trovi... io che, nell'intento di stornare
de' mali gravi, ne ho forse accumulati di gravissimi... Ma che potevo
far di più?...
Ella non doveva e non poteva essere responsabile delle azioni
altrui...
Fui io stessa a consigliarla di riparare a Venezia, perchè là
conoscevo una famiglia d'oro a cui affidarla.
Dunque?
Chi poteva sospettare e prevedere che l'uomo per cui ella si trovò
in così grave intrigo, per cui lasciò marito, parenti,
patria, doveva precisamente trasferirsi a Venezia anch'esso?... Ora
dunque potete comprendere di che si tratta... e come sia possibile e
probabile e, Dio non lo voglia, forse vicina una tragedia
domestica... Fate dunque presente tutto ciò alla Marliani,
giacchè la contessa ama qualche volta intrattenersi con voi;
sopratutto mi premerebbe che la raccomandazione fosse fatta in modo
che paresse una vostra inspirazione.
Io farò in maniera che possiate esser contenta...
Un momento fa vi raccomandava di attender meglio al vostro interesse,
e di non abusare lo zelo a danno vostro e di vostra madre... Ma ora
debbo dirvi tutto il contrario... che bisogna mettiate per oggi da
parte tutte le cose vostre... Del rimanente, chi perde il tempo, dee
esser compensato... e...
Che! gridò il Parini, vorrebb'ella togliermi la mia parte di
merito, quando, sotto a' suoi ordini, avessi potuto cooperare a
vantaggio altrui?
Non mi guardate così, anima fiera, disse donna Paola
sorridendo lievemente; e giacchè so che avete tanto entusiasmo
nel fare il bene... andate e siate sollecito, e Iddio vi benedica.
Il
Parini partì; donna Paola si gettò a sedere in gran
pensiero. E noi mettiamoci sui passi di coloro per cui la pietosa
donna tanto si affannava.
II
Se
Amorevoli avesse dovuto partire da Milano, lasciandovi quella per
cui, avendo sopportato un malanno non indifferente, gli era cresciuto
in cuore l'affetto; certo che il contento di trovarsi finalmente
libero e in piena balia di sè stesso, gli sarebbe stato
amareggiato dal pensiero che forse non avrebbe veduta mai più
colei che abbandonava; ma invece, alla gioja della libertà, a
quella che gli veniva dalle attestazioni di stima di un pubblico
intero, da una salute perfetta, dalla gloria presente e dalla futura
(tutte le professioni dall'astronomo al ciabattino hanno la loro
gloria), e dalla ricchezza già in parte accumulata e che
prometteva di crescere, e per sè stessa e pel frutto
de' capitali, si aggiungevano le speranze agilissime e l'esaltazione
cerebrale di chi move, per un felice concorso di circostanze, là
precisamente dove si trova la persona che in quel momento è,
fra tutte, la più desiderata; e per la quale, tanto si è
prodighi quando l'affetto è in tumulto, si darebbero in
compenso alcuni anni della vita onde toglier gli ostacoli che si
frappongono al completo suo possesso. Ma per questa gioja, per queste
speranze appunto, il viaggio di cent'ottanta miglia gli riuscì
nojosissimo, e s'impazientò più volte col lento
postiglione e colle ardue e tortuose e fangose e ciottolose strade
che facevan bestemmiare alla sua volta anche il postiglione, e che
invocavano quel sistema a cui, siccome vedremo, fu provveduto
finalmente molti anni dopo, per opera di que' nostri concittadini
sapienti, che misero coraggiosamente la mano ad estirpare tutti gli
avanzi della vetusta barbarie. Ma egli giunse finalmente al Dolo e
toccò Mestre, e là, coll'ansia che gli cresceva in
petto in ragione che si avvicinava all'isola incantata, noleggiò
una gondola non avendo voluto entrare nel barcone del procaccio; e
sentì finalmente sotto di sè il gorgoglìo
dell'onde di quella tanto decantata e tanto da lui vagheggiata
laguna; chè delle molte città d'Europa che avevano un
teatro celebre, soltanto Venezia gli rimaneva a conoscere, la città
musicale per eccellenza, quella i cui giudizj in fatto di musica e di
canto, avevano meritamente allora la preferenza su tutti quelli delle
altre città. Però, egli era sollecitato da un'altra
ansia, che gli derivava dall'amore dell'arte e dal desiderio che
anche Venezia suggellasse la di lui celebrità col suo voto
autorevole e co' suoi applausi. Chi professa un'arte qualunque per
vocazione e con entusiasmo, non può mai scompagnare il
pensiero di essa da qualunque altro pensiero. Del rimanente, il
gondoliere, giacchè trattavasi di un viaggiatore, e d'un ricco
viaggiatore, per quel che gli pareva, non prese nessuna scorciatoia
quando fu presso Venezia, e volle fargli gustare lo spettacolo
innanzi al quale avea veduti tutti quanti i foresti, com'essi
dicono, ad inarcare le ciglia. È commovente e poetico
quell'amore veramente figliale che hanno per la loro bella patria
anche gli uomini più incolti e più rozzi di Venezia. Il
gondoliere gode e si compiace della meraviglia che vede dipinta sul
volto del forastiero che per la prima volta, entrando nel Canal
grande, non sa farsi capace di una così interminabile schiera
di palazzi insigni, tre o quattro de' quali basterebbero a far onore
a qualunque città; del forastiero che s'imagina di trovarsi al
cospetto di una scena incantata quando la gondola si ferma al molo,
ed egli uscendone si trova in faccia la piazzetta.
Ghe piasela sior? disse il gondoliere quando vide il nostro Amorevoli
fermarsi estatico sulla scalea. No la xe mai stada a Venezia, ela?
No, caro mio.
E ben, la fazza conto che no i xe qua tuti i so tesori, come se
vorave da qualche foresto invidioso... Me credela, sior?
Perchè non ho da crederti?
Se vostra zelenza me permetese, gh'avarave vogia de compagnarla mi a
veder le maravege de la zittà.
E vieni, alla buon'ora... ma prima accompagnami all'albergo... al
migliore... capisci tu?...
Il
gondoliere invitò il suo viaggiatore a rientrare in gondola, e
lo condusse allo Scudo di Francia.
Vieni a pigliarmi colla gondola fra un pajo d'ore, che intanto debbo
dar sesto alle mie robe. Tu mi hai faccia da galantuomo, e avrò
bisogno dei tuoi buoni servigj... e così dicendo diede al
gondoliere una mancia oltre al convenuto.
Il
gondoliere vi gettò un occhio di traverso; fu contentissimo e
partì.
E
tosto Amorevoli, da un cameriere che non era di Venezia, ma parlava
l'italiano coll'accento di chi è nato in Francia, fu condotto
in una bella camera al primo piano che rispondea sul rio...
Le piace quest'alloggio?
Va bene sì... ma...
Che?
C'è qualcosa qui presso che non manda buon odore... Io ho le
nari, caro mio, assai delicate e permalose... e vorrei...
Signore, mi permetta di dirle una cosa... A Venezia c'è tutto
di grande, di bello, di buono, ma bisogna avvezzarsi all'odore della
laguna. Tutte le città hanno il loro difetto... vorrebb'ella
che Venezia ne fosse senza?... A Roma vien la terzana a chi va fuori
sulle ventiquattro... A Milano c'è l'aria grossa... A Parigi
c'è il fango che imbratta le vesti... A Cadice, di notte, vola
nell'aria un verme assassino che intacca il polmone. Io ho servito in
più città di Europa... e non v'è luogo che non
abbia il suo malanno. Però mi permetta, signore, ch'io le dia
un consiglio.
Che consiglio?
Non tocchi un tal tasto ai Veneziani, perchè c'è
pericolo di perdere la loro amicizia. Ella può lasciarsi
andare a criticare il loro teatro, la piazza, il ponte di Rialto, il
corno del Doge... tutto... ma non tocchi il cattivo odore de' suoi
rii... Per questo lato è convenuto che debbano esalare essenza
di rose.
Noi
non sappiamo se quel cameriere, che non era di Venezia, dicesse la
verità, ma in ogni modo si vede che le città son come
gli uomini. Canova s'indispettiva se altri non dava alcuna importanza
alle sue povere tele; e non teneva gran conto dell'ammirazione che
tutta Italia prodigava alle sue grandi opere statuarie.
In
quanto ad Amorevoli, egli non trovò da replicar nulla col
cameriere, e dato sesto alle sue robe e rimbionditosi con ogni cura,
discese a mangiare; dopo di che aspettò che venisse l'uomo
della gondola, il quale venne in fatto sull'imbrunire.
Ormai si fa tardi, caro mio, e ci resta ben poco a vedere...
Ma no sala, zelenza, che Venezia la xe megio de notte che de zorno...
La se contenta de lassarse guidar da mi, e la vederà che cosse
grandi, sior!
Dopo
pochi minuti erano al largo verso la Zueca. Il felze era stato
levato, e Amorevoli appiccò conversazione col gondoliere, da
cui sperava di raccogliere tutto quello che gli abbisognava.
Lasciamoli
dunque andare. E noi vediam d'abbandonarci a qualche digressioncina,
secondo il solito.
Noi
siamo dunque ammiratori entusiasti della città di Venezia.
Basta il dire che la nostra fortuna è che Venezia non sia una
donna; diversamente chi sa che tremende pazzie avremmo commesso per
amor suo. A dare una prova di codesto amore sviscerato, chi, per
esempio, a voce e in scritto ha lodato più di noi il suo mese
di maggio? Dappertutto questo mese è tenuto in grande
riputazione, e i devoti lo chiamano perfino il mese di Maria, tanto è
soave e benefico. Con tutto ciò a Milano il mese di maggio,
nel suo carattere verace e completo, non lo si conosce che per
relazione e in teoria, e per quelle nozioni che si attingono dai
poeti classici greci e latini, i quali, imbalsamati come erano dal
vento che soffiava dal mare Argolico o dal porto di Ostia, poteron
gustare il maggio in tutto il suo splendore; ma in pratica, almeno
per quanto ci consta, Milano non sa che cosa sia un tal mese, e non
trova in esso che la più completa contraddizione alle
descrizioni dei poeti. Invece a Venezia è tutt'altro. Venezia
è la madre adottiva non solo del chiaro di luna, ma sì
anche del maggio; e noi possiam dire d'aver fatto la conoscenza di
lui soltanto sotto il suo cielo! Almeno, nei due anni che vi
passammo, quel mese fu d'una eleganza così greca, d'una
mollezza così orientale, che non potremo dimenticarlo così
facilmente. Se non che, mescendosi all'eleganza, come dicemmo, la
mollezza, il maggio di Venezia è un mese pericoloso. Lord
Byron, che faceva i suoi computi a seconda del meridiano di Londra,
trovò essere il giugno il men puritano dei mesi; ma noi,
cresciuti in plaga più mite, siamo stati obbligati a fare il
trasporto di trenta giorni. È a Venezia, pur troppo, almeno
secondo la nostra esperienza, è nel mese di maggio che l'uomo,
riscaldato dal sole di una primavera orientale, e circonfuso dalle
molli aspergini marine, prende somiglianza del baco, il quale
pasciuto e sazio di foglia, s'irretisce lieve lieve nel serico filo,
aspettando di eromperne farfalla. In quanto poi all'anno 1750, il
mese di maggio veneziano cominciò appunto co' più lieti
pronostici del suo limpido sole, del suo cielo trasparente e
dell'aure sue mitissime, attraversate di quando in quando
dall'afrodisiaco scirocco.
Però
anche alla contessa Clelia, non avvezza al clima veneziano, più
che mai parve balsamica in quell'anno la stagione primaverile; e
confrontandola alla consueta di Milano, le sembrò tutt'altra
cosa; di modo che parlandone ai signori che la ospitavano:
A Milano, ella diceva, la primavera è la stagione in cui
s'accumulano tutti i disastri delle altre, e sebbene anche laggiù
la si debba chiamare la gioventù dell'anno, è una
gioventù infelice, travagliata e disperata. Quasi quasi, se
non fosse per le buone speranze che dà, sarebbe da posporsi
alla vecchiaja.
Da
queste parole si vede che, anche prima del taglio delle foreste, le
primavere milanesi non eran le più accreditate neppure nel
secolo passato; tale almeno era l'opinione e l'esperienza della
contessa Clelia. Ma ella, siccome spirava il vento più molle,
più carezzoso e più tepido sull'espansa laguna, sentiva
così a circolare in sè più rapido il sangue e
più caldo, il che le comunicava all'intelletto, e più
alla fantasia, che è una sezione di quello, una indefinibile
esaltazione e un tumulto di desiderj vaghi, che le impedivano persino
di dar tutto il peso all'infelice situazione in cui versava. Per
molti e molti giorni. avea saputo essere costante a non uscir mai dal
proprio appartamento, e ad imporsi tutti gli obblighi di una
volontaria prigione; ma un dì cominciò a creder
ragionevole di poter far parte della serale conversazione che
tenevasi in casa Salomon; e siccome eravi stata accolta con que'
segni di stima e di amorevolezza che troppo rare volte avea trovato a
Milano, così non fu per nulla restìa a passare da
quella conversazione ristretta, tranquilla e casalinga, alle altre di
case più cospicue ed affollate del bel mondo. E là, fra
tanti giovani che le fecero cerchio intorno, trovò persino
entusiasmo. I romanzi dell'abate Chiari eran letti avidamente allora,
e avean messo in tutti gli animi giovanili il desiderio del
maraviglioso e dello strano; onde la contessa V... di Milano,
giovane, bella, dotta, avvezza a trattare con dimestichezza i corpi
celesti (chè di ciò era corsa la voce anche là...),
infedele al marito, la qual cosa, in un secolo corrotto, facea
stupendo giuoco più ancora dell'astronomia; per di più,
innamorata del più bravo e del più bel tenore del
secolo, personaggio che in una città musicale dovea produrre
l'effetto di un giovane e prode capitano dei dragoni, in tempo
desaltazione guerriera; e, per il non plus ultra del
romanzesco, autrice di una fuga disperata (le fughe hanno sempre
trovato entusiasti in tutti i tempi, ad eccezione di quelle in
musica); tutte queste cose avean dunque fatto sorgere intorno a lei
un'atmosfera di splendori così abbaglianti, che l'ammirazione
per lei, in un periodo in cui le pesanti parrucche ajutavano a
riscaldare i cervelli, diventò, come dicemmo, entusiasmo,
diventò delirio. Se poi la contessa Clelia si compiacesse di
ciò, non tocca a noi a dirlo. Era la prima volta che provava
quel genere nuovo di soddisfazioni; laonde del non aver essa voluto o
saputo ritrarsi da quel vortice, noi non ci sentiamo il coraggio di
condannarla. Per giunta aveva trovata accoglienza e cortesia
straordinaria persin nelle donne, fatto piuttosto unico che raro; ma
bisogna considerare che, in virtù di tanto intreccio di cose,
ell'era salita a quel fastigio che toglie perfino il sentimento
dell'invidia. Ell'era insomma una specie di lord Byron vestito da
donna e in guardinfante. Però se le altre patrizie bellissime
e argutissime, chè di tali Venezia ebbe a tutte l'epoche forse
la più eletta schiera, esercitavano tra di loro, e come a dire
in famiglia, le loro gare, le loro invidie, le loro guerre più
o meno astute, più o meno perfide, tutte si trovavan poi
d'accordo nel festeggiare l'ammirabile lombarda.
Ma,
come sappiamo, il sole era entrato in gemelli, e verso notte le
gondole avevan cominciato a vogare a diporto. Però anche donna
Clelia, ch'era stata chiusa tanto tempo, ebbe volontà di
uscire all'aperto; e per non incomodare la famiglia dov'era ospitata,
e anche perchè amava di figurare sola (non c'è nè
donna nè uomo, compromessi da qualche po' di fama, i quali
sappiano resister sempre all'assalto della vanità), si fece
noleggiare per qualche tempo gondola e gondoliere. I signori della
casa credettero farle una grata sorpresa mettendo a' suoi servigj il
più celebre allora dei gondolieri di Venezia. Ed era quel
Bianchi Antonio ammirato pel suo raro talento poetico, di cui lasciò
prova in due poemi, nei quali tra molti errori di scienza e di
lingua, v'è imaginazione straordinaria ed estro vivacissimo.
Il
titolo di essi, nelle edizioni da noi vedute, è: Davide re
d'Israele, poema eroico sagro di Antonio Bianchi, servitor di
gondola, veneziano (Canti XII, Venezia 1751 in fol.); Il
tempio, ovvero Salomone (Canti X, Venezia 1753 in 4.°). Vi
sono poi altri poemetti comici, quali La cuccagna distrutta,
La formica contro il leone, oltre l'oratorio drammatico Elia
sul Carmelo. Quando al Bianchi che ad onta della sua condizione
di poeta, non cessò mai in tutta la sua vita di far il
gondoliere, fu proposto quel servigio e gli fu nominata la gentil
donna lombarda, non istette in sulle pretese, e fu tosto a comandi
della contessa Clelia. Così, quando Amorevoli capitò in
Venezia, era già da tre giorni che la contessa usciva a
diporto in gondola tutta sola col suo gondoliere-poeta; e nella sera,
quasi nel punto stesso che Amorevoli lasciò lo Scudo di
Francia, essa discendeva la scalea di casa Salomon ed entrava in
gondola. Antonio Bianchi era un giovane di trent'anni appena,
veneziano di sangue puro, tra' più valenti al remo, e onorato
di più bandiere nelle celebri regate veneziane; natura
schietta di poeta, esso era entusiasta e fantastico, di modo che,
avendo saputo anch'esso le avventure della contessa, ed essendogli
stato detto come fosse una gran dotta, si compiaceva che gli fosse
toccato in sorte di poterle presentare i proprj servigj. Siccome poi
in quel periodo di tempo egli stava dando l'ultima mano al poema
Davide, così aveva pensato di pregarla a legger que'
canti, e di consultarla in quelle parti del poema in cui egli sentiva
che l'ignoranza faceva impaccio all'ardua fantasia.
Appena
lasciata la casa, donna Clelia amava recarsi a diporto in sul Canal
grande, scorrendo sola tra l'altre gondole patrizie che le si
avvicinavano a gara, e dalle quali cadevano su di lei sguardi curiosi
e ammiratori: e per dir la verità, ella era tale che per
forza doveva fermar l'attenzione. Abbiamo più volte
espressa la nostra predilezione per la bellezza delle donne
veneziane, ma nel tempo stesso dobbiamo far luogo ad una nostra
opinione che parrà strana, ma forse traduce il vero, ed è:
che il fondo della città stessa di Venezia, così
pittoresco e così colorito, è il più opportuno a
far spiccare una beltà. Non per nulla i pittori vanno
in cerca di quella tal luce, di quel tal raggio azzurro, persino di
quella tal cornice per dare il miglior risalto all'opera del loro
pennello; può darsi pertanto che la specialità della
parte materiale di Venezia giovi alle figure che staccano su di essa.
Molte
donne che altrove non ci avevan fatto nè freddo nè
caldo, vedute a Venezia ci parvero ammirabili. Quale ne possa essere
la vera cagione non è provato a rigore, ma certo che una
ragione ci dev'essere. Intanto anche la contessa Clelia è un
altro argomento in nostro favore. Oh qual mirabile effetto faceva
quel suo corpo maestoso, gettato a sdraio sui cuscini della gondola,
e avvolto in una veste di broccato di stoffa turchina a liste
d'argento, che, pel lavoro interno del guardinfante, usciva e
galleggiava quasi sugli orli della gondola stessa! come incorniciava
bene quella sua testa di Minerva l'indispensabile puff di
sentimento, foggiato a cimiero, ch'era una delle cento
forme allora in voga!... come, di sotto alla polvere bianca onde quel
puff era cosparso e quasi inargentato, spiccava il nerissimo arco del
sopracciglio e i grandi occhi lucenti! Già il
vero non si può nascondere, noi abbiamo qualche debolezza per
donna Clelia; e se in teoria e coi trattati d'estetica alla mano
combattiamo e combatteremo sempre per gli occhi azzurri, in pratica
abbiam sempre usato i dovuti riguardi agli occhi neri, e quelli di
donna Clelia poi sono la nostra morte... Ma in prova che non siamo di
cattivo gusto, si è che piacevano fieramente a tutti i
giovinotti veneziani; che piacevano persino al nostro
gondoliere-poeta, pieno di fantasia qual era, e di fervori
sentimentali, e di passione caldissima per la bellezza, che è
la febbre terzana dei poeti.
Spinto
dal naturale desiderio di parlare di sè stesso e delle proprie
opere, difetto che rende qualche volta importuni gli uomini
dell'arte, il nostro Bianchi gondoliere, dopo aver lentamente
condotta come in trionfo lungo il canal Grande la contessa padrona,
venuto a santa Chiara, svoltato nell'aperta laguna, e là
fermando talora il remo, compiacevasi a intrattenere de' propositi
proprj la contessa, che affabilmente l'ascoltava e rispondeva alle
sue interrogazioni; al punto che, in que' tre giorni, poteva dire
d'aver dato tre lunghe lezioni d'astronomia elementare all'autore del
Re Davide. Se non che la contessa lasciava poi cadere il
dialogo, per riconcentrarsi ne' proprj pensieri. Ella sapeva che il
tenore Amorevoli doveva venire a cantare a Venezia. Il residente
veneto di Milano aveva scritto che il processo di lui era compiuto,
ch'ei sarebbe uscito presto per venire a tenere il patto ai signori
ispettori dell'opera. L'effetto che fece la prima volta una tale
notizia sull'animo di donna Clelia, che non aveva saputo mai nulla di
quelle sei sere di recite straordinarie, ognuno se lo può
imaginare. I fervori erotici le salirono al viso, e mentre la ragione
le facea vedere tutti i pericoli che poteano conseguire da quel
fatto, sentiva certi soprassalti di gioja insolita, di gioja non
voluta; e mentre vedeva che il destino stava forse per tenderle una
mala insidia, si fermava con delizia nell'idea che la fortuna avesse
voluto espressamente avvolgerle intorno le inestricabili sue reti. Se
non che ricordavasi di donna Paola e delle sue ammonizioni; e al
vedere coll'occhio della mente quasi impaurita quella santa figura,
si vergognava di que' pensieri, di que' desiderj, di quella gioja...
Amorevoli era atteso di giorno in giorno... ella ne aveva sentito a
parlare di volo ad una conversazione serale, da un gruppo di
giovinotti spensierati che, speranzosi di far breccia nel cuore della
mirabile lombarda, aveano dimenticato quel ch'era passato tra essa e
il tenore.
Intanto
la notte stava per calare affatto... smoriva sempre più
all'orizzonte la luce crepuscolare... i colli Euganei, ch'ella
vedeva, si erano scolorati e come confusi col cielo.
Erano
uscite le stelle rare e sparse... era uscito un quarto di luna...
suonava l'avemmaria a tutte le chiese; il campanone grave e profondo
di san Marco parea facesse sentir la voce storica e veneranda della
vetusta Vinegia. Taceva il gondoliere-poeta, intento a poter ritrarre
quel poetico vero. Tacea donna Clelia, assorta e mesta, e coll'animo
sollevato da una commozione ineffabile. Il gondoliere, avvisato
dell'ora tarda, girò la gondola per tornare in canale. Poco
prima era passata per di là anche la gondola ove, e fu un
punto se non vi si scontrò, trovavasi Amorevoli... di modo che
donna Clelia potè vederla materialmente, ma senza provare
veruno dei soliti sospetti presaghi e dei soliti palpiti arcani; nel
punto medesimo poi ella vide alla sfuggita il lume di un fanaletto
che probabilmente doveva essere di una gondola che s'era spiccata
allora allora da Mestre, e soltanto il notò pel giuoco che
faceva col suo luccicore tremulo e intermittente; ned ella da nessun
genio dell'aria, segretario delle belle donne, venne avvisata che se
innanzi le correva in gondola la vita, di dietro potea forse venire
in gondola la morte.
III
Abbiamo
accennato che, quasi contemporaneamente al tenore Amorevoli, era
partito da Milano il conte colonnello V... Esso infatti lasciò
la città all'alba del giorno successivo a quello nella cui
sera Amorevoli erasi messo in viaggio. Il conte V... avea detto di
voler fare una gita nelle sue terre; i servi però poterono
accorgersi, pei preparativi che loro vennero ingiunti, che trattavasi
invece d'un viaggio di qualche importanza e non breve; così
quel che allora pensarono nel far le valigie lo avesser subito
detto!... ma, come avviene di consueto, parlarono quando non c'era
più l'opportunità. E il conte si mise davvero in
viaggio per Venezia, ed essendo partito dodici ore dopo il tenore,
tanto martellò e pagò i postiglioni, ch'ei potè
guadagnare su chi lo precedeva più di mezza giornata. Ma che
intenzioni aveva il conte? che voleva? che pretendeva? In verità
esso non ne sapea più di quello che ne sanno in questo punto i
nostri lettori.
Noi
non abbiamo avuto mai il tempo di fare uno studio fisiologico di
questo personaggio, perchè ogni qualvolta ci capitò
innanzi, si aveva tanta carne a bollire, che appena appena lo abbiam
guardato di traverso; ma oggi convien pure che ne tiriamo il profilo,
almen col carbone, se non colla matita o col pennello. Quell'uomo,
pigliato in natura, non era un cattiv'uomo; e prima dell'invenzione
degli stemmi e dei quarti di nobiltà e de' pregiudizj,
probabilmente non sarebbe stato nemmeno il più orgoglioso tra
i membri dell'umana razza; sebbene la sua testa fosse molto grossa,
il che, stando coi cranioscopi, è indizio di gran mente, pure
convien che lo spessore della crosta ossea avesse occupato una buona
metà dello spazio che bisogna concedere al cervello perchè
adempia passabilmente alle sue funzioni. Non vogliamo dire con ciò
che esso mancasse al tutto d'intelligenza, no. La sua testa avea più
d'uno spiraglio per cui poteva penetrare, sebbene a stento, qualche
raggio dal di fuori. Ma le poche idee che erano entrate là
dentro vi si fermarono con tenacità pari allo stento onde vi
si erano introdotte, generandovi una durezza ed una ostinazione
indomabile. Se fosse lecito imitare i caricaturisti parigini, che
cercano nella struttura delle bestie le forme più adatte a dar
idea di alcune varietà di tipi umani, a quel conte noi
troveremmo il riscontro piuttosto in un bisonte, in un ariete, in un
merinos che in altro animale. Apparteneva insomma alla razza delle
bestie cozzanti, la meno intelligente e la men domabile di tutte.
Però, a lasciarlo tranquillo, era un buon diavolone d'uomo; e
soltanto ad aizzarlo, ad inquietarlo, lo si riduceva nella condizione
d'un toro, che punzecchiato, arrota gli occhi sanguigni, alza la
coda, curva il collo, abbassa la testa, e vibra cornate a tutti
quelli che gli si fanno incontro. Cresciuto in seno ad una famiglia
il cui sangue, per parte di padre, era un fiume reale che aveva avuto
le sue prime scaturigini da un ramo del gran ceppo dei re di
Spagna; e per parte di madre, da colui che portò dalla terra
santa lo scudo colla biscia; l'idea del suo alto lignaggio fu
introdotta e ribadita per tal modo nella sua testa colle sue idee
concomitanti e conseguenti, che non per sè, ma per quello, si
sarebbe fatto mettere in pezzi. A codesta idea convenzionale
dell'onor del sangue, veniva poi a confederarsi l'altra idea pur
convenzionale e parimente indomabile, e per la sua natura, più
pericolosa, dell'onore del soldato. Esso era stato, come sappiamo,
colonnello di cavalleria, e le sue fazioni di guerra le avea fatte
con coraggio e con fede; e perciò all'assisa, agli stivali,
allo squadrone, in certi momenti, dava assai più importanza
che alle nove stelle della corona sormontante il suo stemma. Però
al suo cospetto e quando si parlava con lui, siccome era pieno di
sospetti e non sempre intendeva le cose nel loro vero senso,
bisognava comportarsi con mille riguardi e precauzioni, perchè
non pigliasse le parole in mala parte, e adombrasse al punto di
chiamarsi offeso colle formole dell'etichetta militare; chè
allora non c'era più rimedio, bisognava battersi con lui. Ben
è vero che in molti di tali duelli provocati da lui, egli
aveva quasi sempre risparmiato l'avversario, pago che fosse salvo il
decoro cavalleresco. Ma intanto era un incomodo a trattarlo; onde
molti lo scansavano volontieri, e quando si trovavano seco per
necessità, discorrendo, giravan largo per istornare querele;
poichè, torniamo a ripeterlo, nel frantendere le questioni e
nel prendere un violino per un trave, quell'ex colonnello era un
portento. Se dunque, conservando però sempre nell'aspetto una
compostezza ed una severità castigliana, esso pigliavasi tanto
caldo per una mezza offesa, figuriamoci se l'offesa era evidente ed
era grave; peggio ancora se l'offesa era di quelle che stanno in
prima lista fra i casi contemplati anche dagli indifferenti e dai
filosofi della pace; fra i casi per cui anche l'uomo timido diventa
feroce, com'era il suo caso precisamente! O fortuna tutt'altro che
cieca ma perfida, o fortuna con occhi di lince e piena di sagacia
omicida, che attendi a pigliar fuori della folla gli uomini fatti
apposta e lasci cader la scintilla dov'è la polveriera!
Proprio tra le gambe del conte V... doveva capitare quel fatal
romano, fatale così per le prime donne del libretto d'opera,
come per tutte le belle donne che gli piacevano! Tuttavia nemmeno il
tenore, nato espressamente nel secolo più comodo per gli
uomini della sua professione e della sua tempra, poteva chiamarsi il
beniamino della fortuna per essersi incontrato in chi facea terrore a
tutti, il quale non è a dire che furore sentisse contro il
tenore; un miscuglio di furore e insieme di disprezzo che gli facean
desiderare di avere dinanzi il rivale, non per battersi con lui, chi
mai poteva imaginarsi una simile ignominia! ma per pagarlo, a misura,
come suol dirsi, di carbone, a colpi di scudiscio, di frusta, di
bastone e di peggio, se di peggio ci fosse stato perchè
più che contro la propria moglie infedele, l'ira sua soffiava
tutta come una fornace animata da un mantice contro il tenore; e se
l'adagio vulgare che in tali frangenti assegna maggior colpa alla
donna che all'uomo, era sulla bocca di tutti anche allora, egli
tuttavia non voleva saper nulla di quel diritto per cui l'uomo può
fare impunemente il cacciatore; non ne voleva sapere e
strepitava. Del rimanente un'altra ragione per cui era sì poco
inclinato alla pietà verso di Amorevoli stava in ciò,
ch'ei non era filarmonico punto, e aveva un orecchio così mal
costrutto e anti-musicale, che per lui non c'era differenza tra una
cadenza di Caffariello e lo zufolo d'un merlo. A dir tutto, non è
certissimo che, pur andando pazzo per la musica, avesse potuto aprir
le braccia al tenore protervo; ma in ogni modo, quella sarebbe
sempre stata una ragione mitigante la collera. Infiammato
continuamente da questa, egli erasi messo in viaggio per
Venezia, senza veramente un progetto deliberato; ma con più
propositi in mente, il più umano de' quali, aveva per
intercalare scudisciate e bastonate.
Ma
lasciando il conte, dieci ore dopo la partenza di lui, partì
da Milano per Venezia la lettera di donna Paola Pietra, quella
appunto ch'essa accennò al Parini. La contessa Clelia
la ricevette la mattina del giorno successivo a quello dell'arrivo
d'Amorevoli, e fu spaventata quando lesse quelle parole: Credo che
il conte V... abbia intenzione di venire a Venezia; e fu
maravigliata, e nel tempo stesso consolata, quando pure vi lesse: A
quest'ora il signor Amorevoli dev'essere a Venezia. La
sera prima ella non aveva sentito a parlare di lui in nessun
modo, talchè in quel momento ignorava tuttora il suo arrivo.
Ed
ora dobbiamo tornare a Milano, e dar conto di più cose. La
visita e le parole di Parini alla contessa Marliani aveano ottenuto
il loro effetto, quello cioè di determinare il fratello di
donna Clelia a recarsi a Venezia. Il partito, il lettore se ne
avvedrà facilmente, era stato preso un po' tardi, se mai il
destino avea fermato di far succedere qualche sventura, ma la
presenza di lui potea però tornar sempre di vantaggio. In ogni
modo, per l'onore della famiglia, quel viaggio del giovine conte A...
era un atto di dovere, e ciò bastava per far tacere il mondo e
perchè egli fosse creduto un uomo di cuore.
Ma
intanto che il giovine conte A... si affretta verso Venezia abbiam
l'obbligo di recarci a prendere informazioni sullo stato delle cose
relative al fatto di Lorenzo Bruni.
Il
governatore conte Palavicino, messo in cognizione dell'indole genuina
del fatto, mandò a chiamare il presidente del Senato; questi
espose al ministro che essendo messo ad arbitrio del Senato stesso la
misura della pena per la contravvenzione all'ordinanza sulle
maschere-ritratti, e una tale misura essendo tassativamente
determinata nell'ordinanza stessa dai sei mesi agli anni due, a
seconda del caso; per quanto, disse il presidente, tutte le
circostanze depongano a favore del costituito, pure non si poteva
mandarlo assolto perchè la contravvenzione era stata compiuta;
e solo era il caso di applicare al costituito la minor pena di sei
mesi, che, giusta la più ragionevole interpretazione, era
precisamente la misura voluta per la semplice contravvenzione
materiale della legge senza intenzione criminosa. Il conte
governatore parve soddisfatto di ciò, ma non già la
Gaudenzi; la quale, allorchè le fu annunciata una tale
determinazione, diede in lagrime disperate e si recò
nuovamente da donna Paola, onde si degnasse accompagnarla di nuovo
dal governatore. Era il caso di domandare non già la
scrupolosa giustizia, ma una sentenza in via di grazia. Donna Paola
parlò con eloquenza, la Gaudenzi sparse lagrime abbondanti; il
conte Palavicino si sentì commosso, e quantunque veramente
uscisse dalle sue attribuzioni, perchè l'autorità del
Senato nelle vertenze civili e criminali era superiore a tutti, pure,
trattandosi che l'ordinanza era sua, che forse aveva abbondato nella
pena, mandò per un di più a chiamar di nuovo il
Presidente del Senato e lo interrogò, ma affermativamente, se
si potevano ridurre i sei mesi a due soli, e senza aspettar risposta,
gli mise tra mano il rescritto, e lo pregò a dargli corso
incontanente. Il presidente mostrò il rescritto in Senato,
alcuni senatori strepitarono; altri, e forse n'avevano la loro
ragione, applaudirono; il conte Gabriele Verri, che secondo l'indole
sua avrebbe dovuto strepitare più di tutti, perchè guai
a toccargli l'onnipotenza dell'autorità senatoria, non disse
nè sì nè no, e finse d'aver tutt'altro per la
testa; onde trionfò il partito dell'indulgenza e, invece di
protestare contro quel rescritto com'era stato il pensiero di alcuni
senatori, ne fu tosto spedito al Criminale la determinazione in
estratto, perchè il capitano provvedesse a darle esecuzione.
E
giacchè abbiamo toccato del Capitano di giustizia, non
possiamo tralasciare di tener dietro ai preliminari del processo
contro il lacchè Andrea Suardi, detto il Galantino, e ciò
innanzi di gettarci fra i personaggi che da Milano passarono a
Venezia; perchè abbiam bisogno di dar prima qualche cenno
intorno alla pratica criminale nel ducato di Milano e di conoscere
qualche accidente dell'interrogatorio fatto subire al lacchè,
per essere poi in grado di dare giusto valore a ciò che
accadrà in seguito.
IV
Alessandro
Manzoni, nella Colonna infame, lavoro di breve mole, ma
d'importanza grandissima, illustrò per tal modo la condizione
della teoria e della pratica criminale nel ducato di Milano, che dopo
di lui non è più possibile dir cosa nuova su tale
argomento; e soltanto ci rimane a far le meraviglie, quando in taluni
fatti avvenuti e prima e dopo l'epoca sulla quale ei scrisse il
profondo suo commento, si scoprono le riprove di quanto per la prima
volta egli annunciò agli studiosi della giurisprudenza e della
storia, al fine di distruggere una credenza invalsa per l'autorità
di uomini riputatissimi; la credenza, vogliamo dire, che le atrocità
assunte per antica e troppo lunga consuetudine nella procedura
criminale fossero suggerimenti de' così detti interpreti del
diritto romano. Questa verità dimostrata dal grande scrittore,
costituisce quel che si dice una scoperta; chè, è come
una necessità naturale a quel sommo intelletto di far dono di
nuove forme a tutte le sfere dell'arte a cui si è applicato, e
di verità non sospettate prima, e di notizie peregrine o, per
lo meno, di questioni nuove a quelle parti della scienza a cui ha
voluto dare opera. Cento e più anni dopo l'iniquissima
condanna degli untori, ovvero sia nel 1750 e per altri molti anni
ancora, vigevano gli Statuta criminalia Mediolani;
ed erano consultati ancora e studiati quei medesimi
interpreti del diritto romano e del diritto comune che erano celebri
al tempo della peste di Milano del 1630. Non v'era dunque nulla di
mutato nè nella scienza, nè nella pratica; la prima non
aveva avuto nessun uomo di genio e di coraggio che avesse potuto
scoprire la verità tutta intera e prefinire colla sapienza
della filosofia e collo scrupolo della morale i confini della
giustizia; nella seconda non era penetrata nessuna ordinanza speciale
a frenare la mano pesante del giudice; tuttavia, guardando i processi
posteriori a quel troppo famoso della Colonna infame, se gli arbitrj
sono sempre eccessivi e il poter discrezionale appar troppo corrivo
in molte parti della procedura, non ricompajono più, per
quanto almeno ne sappiamo noi, negli atti preparatorj della
tortura... Vogliamo dire che non ricompajono più in quella
maniera che si riscontra nel processo degli untori; chè, dopo,
le formalità vennero seguite; e bene spesso appare essere
stati consultati ed obbediti gl'interpreti, consultando ed obbedendo
i quali, il Senato del 1630 avrebbe dovuto mandare assolti i presunti
untori. Chi volesse dunque conoscere quali norme doveva tenere nel
secolo scorso un giudice prima di sottomettere un imputato alla
tortura, e tutte le condizioni che, non volendo varcare i limiti del
dovere, si avevano a seguire per obbedire gl'interpreti della legge,
assunti, per consuetudine diuturna ma pur sempre provvisoria, in
autorità quasi di legislatori, non deve far altro che leggere
il capo II dell'Appendice sulla Colonna infame. Là è
dimostrato come la folla degli scrittori criminalisti non abbiano
avuto altra intenzione che di restringere l'arbitrio del giudice, e
di guidarlo secondo la ragione e verso la giustizia; là son
riportate le generose invettive de' più celebri giureconsulti
contro i giudici crudeli che si arrogavano il diritto dinventar
nuovi tormenti; là, per conseguenza, è provato come non
solo debbasi togliere dalla testa dei giureconsulti interpreti
l'odiosità che per tanto tempo le fu lasciata pesar sopra; ma
si debbano anzi riguardare come i primi che iniziarono la via
lunghissima delle riforme; i primi che, costretti a render ragione
delle loro decisioni, richiamaron la materia a principj generali,
raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi nelle leggi romane, e
cercandone altri nell'idea universale del diritto; i primi che
prepararono il concetto, indicarono la possibilità e, in
parte, l'ordine d'una legislazione criminale intera ed una.
Le
cose nuove, e le cose vere, e quelle che costringono la ragione a dir
di sì, dopo averla collocata nel più giusto punto di
veduta, sono tali e tante in quell'opuscolo, che lo si legge con
sempre crescente meraviglia; alla quale vien compagna un'altra
meraviglia, quando si considera che un tale opuscolo, perchè
non conta molte centinaja di pagine, fu poco letto e peggio
sentenziato; mentre altre opere d'altri autori, le quali assomigliano
a' magazzini di Lambro pirata, pieni zeppi di roba rubata, sono
spacciate per tutta Italia, anzi per tutta Europa, a togliere lo
spazio che, pur troppo, manca ai libri ottimi! Ma questa digressione
ha tanto a che fare col nostro libro, quanto col regno della luna,
onde rientrando in casa, diremo ai nostri lettori, per dilucidare
quel passo della stessa Colonna infame, dove,
richiamando gli Statuti di Milano, è detto che essi non
prescrivevano altre norme alla facoltà di mettere un uomo alla
tortura, se non che l'accusa fosse confermata dalla fama, e il
delitto portasse pena di sangue; diremo dunque che da queste
ultime parole non bisogna lasciarsi trarre a credere che la tortura
non si potesse infliggere che agli imputati di omicidio o d'alto
tradimento: no, le categorie dei delitti portanti pena di sangue
erano molte, anzi erano troppe, prova ne siano gli statuti criminali,
dove alla rubrica De forma citationis, ecc., e al capo
De tormentis, espressamente si dichiara che la tortura può
essere ministrata «in Casibus infrascriptis videlicet:
in crimine haeresis, sodomiae, turbationis pacifici Status domini
nostri... crimine homicidii, assassinamenti, adulterii, veneficii,
privati carceris falsitatis; schachi, seu robariae,
furti, ecc.». Il che basta per dimostrare che il delitto
ond'era imputato il lacchè Suardi era di quelli per cui gli
statuti avevan decretato, all'uopo, l'uso della tortura.
Dalla
materia giuridica venendo ora agli uomini che la professavano:
dottissimo fra i giureconsulti milanesi era il conte Gabriele Verri,
il padre del nostro Pietro. Il diritto romano, gli statuti, le
opere dei più autorevoli interpreti eran talmente famigliari a
lui, che, nei casi dubbj, nelle controversie, egli citava a memoria e
si diffondeva con facondia e con tutti i saliscendi della dialettica.
Però gli ammiratori lo chiamavano la biblioteca ambulante del
Senato; gli avversi lo chiamavano il sofista. Una testimonianza della
di lui dottrina sono le Constitutiones decretis et
senatusconsultis illustrata curante Comite Gabriele Verro; quibus
accessit Prodromus de origine et progressu Juris Mediol., eodem Verro
auctore, stampate a Milano dal Malatesta nel 1747. Ma è
cosa strana a pensarsi che quell'uomo così dotto, e che aveva
sotto mano, a dir così, il processo lungo e lento del tempo e
i lavori interminabili dei legisti per cui la verità e
l'assoluta giustizia si sforzavano a tentar il varco per uscire
all'aperto, pur si mantenne sempre stazionario ostinato e quasi
feroce nelle consuetudini vecchie; mentre il figlio suo, che
applicatosi ad altri rami della scienza e dell'amministrazione
pubblica, era di tanto men profondo di lui nella materia
giuridica, ebbe tuttavia lo spontaneo intuito del vero e del giusto;
tanto nelle cose che interessano il bene dell'umanità,
basta il sentimento a far trovare i rimedj! tanto, spesse volte, la
dottrina soverchia e frammentaria, non rischiarita nè da un
vasto concetto, nè dall'amore degli uomini, è impaccio
alla scoperta del vero!
Per
la sua qualità adunque di biblioteca legale ambulante, il
senatore Verri, ogni qualvolta trattavasi di qualche fatto fuor
dell'ordinario, complicato, inestricabile, veniva sempre consultato
confidenzialmente, e come suol dirsi, in camera charitatis.
Però se già era stato interrogato in prevenzione dal
pretore e dal capitano di giustizia relativamente ai costituiti
Amorevoli e Bruni, tanto più lo si volle sentire quando il
lacchè venne catturato, e prima che lo si sottomettesse
all'interrogatorio. Il nome del conte F... era già corso, il
lettore lo sa, sulle labbra e del capitano e del conte Gabriele. Ma
questi s'affannò a dimostrare che del conte non era punto a
far parola, come se nemmeno fosse esistito, e ciò fino a
tanto, ei soggiungeva, che ei non fosse stato messo innanzi
espressamente dal costituito Suardi. Prima di aprire la procedura
contro il quale, credette bene di sfoderare tutte le sentenze dei
trattatisti, e specialmente quelle relative alla qualità ed
alla quantità degli indizj necessarj per poter mettere un
imputato alla tortura, ed ai limiti onde si doveva intendere
ristretto l'arbitrio del giudice dall'osservanza scrupolosa del
diritto comune; insistendo segnatamente sull'autorità del
Farinaccio, dove questo legista raccomandava che il giudice deve
inclinare alla parte più mite, e regolare l'arbitrio colla
disposizione generale della legge e con la dottrina dei dotti
approvati; e riferendo molti passi di quei giurisperiti che
avevano stabilita la regola contraria a quella più comunemente
ammessa sull'arbitrarietà dei giudizj. Il Claro, il
Bartolo, il Pozzo, il Bossi, il Marsiglio, il Casoni, oltre al
Farinaccio, autore prediletto del conte Gabriele, furono fatti
passare tutti innanzi alla memoria del marchese Recalcati, in via di
conversazione amichevole e affatto casalinga, ma col fine di
predisporlo all'indulgenza, all'indulgenza, s'intende, compatibile
colla giustizia, e ciò con tanto più d'insistenza
quanto più forte era la sua convinzione che il Galantino fosse
il vero e materiale autore del delitto, e che un altro, interessato
all'eredità del marchese defunto, fosse stato necessariamente
la volontà occulta che aveva guidato i movimenti del lacchè.
Se
il conte Gabriele Verri avesse vissuto cento venti anni prima, e
fosse stato senatore, e fosse stato interpellato in prevenzione sul
fatto degli untori; avrebbe sfoggiata quella medesima dottrina?
avrebbe inculcata la scrupolosa osservanza del diritto comune?
l'obbedienza alle norme raccomandate da' giurisperiti interpreti?
avrebbe insinuata l'indulgenza? Non è facile a rispondere, se
non aderendo a quanto fa osservare il Manzoni, che cioè nel
1630 l'universalità del pubblico credeva e voleva le unzioni,
e pretendeva che l'autorità scoprisse il delitto; che per ciò
era comune e prepotente l'interesse e del pubblico e della
magistratura di trovare i rei laddove nel caso nostro
l'interesse non è più comune; anzi da parte del Senato
e della classe patrizia è quello di non trovare il colpevole;
è una preoccupazione gelosa di far scomparire, se fosse
possibile, tutte le pedate, a dir così, impresse nel terreno,
seguendo le quali, si può giungere al punto donde il vero
colpevole s'è mosso; è dunque il caso in cui
l'osservanza scrupolosa di tutte le formalità degli statuti
criminali, dei principj del diritto comune, della mitezza
raccomandata dai giuristi; l'indulgenza, in una parola, può
soltanto far sperare di raggiungere quell'intento... E in
tal caso, c'è l'uomo di buona memoria e di gran dottrina che
fa conoscere tutto ciò che la teoria legale raccomanda alla
pratica, e che converte, dove precisamente meno occorre, in un
sistema di prudenza guardinga e mite, un sistema di procedura che
generalmente, pel modo onde il più delle volte veniva
adottato, faceva spavento a tutti. Tanto è necessario che la
lettera della legge sia precisa, inesorabile, geometrica, e
che i codici scansino al possibile il bisogno dell'interpretazione,
se si vuole che la giustizia non sia il balocco della dialettica
ambidestra. Ma veniamo al Galantino.
V
Abbiamo
accennato che prima di lasciare in libertà il tenore Amorevoli
si volle ch'ei vedesse il lacchè Galantino, dato il caso che
ravvisasse l'uomo che egli aveva asserito di aver veduto fuggire e
saltare il muricciuolo di cinta del giardino di casa V... Come ognuno
può pensare, codesta non era che una misura di formalità,
perchè non era probabile che Amorevoli potesse ricordarsi
della figura d'un uomo che di notte gli era passato innanzi a gran
fuga; nè, quando avesse dichiarato di riconoscerlo, la sua
deposizione poteva essere attendibile. Del rimanente poi, Amorevoli,
che aveva una gran smania in corpo di uscire all'aperto, non avrebbe
mai dichiarato di ravvisarlo, anche se ne avesse avute in memoria le
sembianze al pari di quelle di donna Clelia, come fece in fatti.
Compiuto dunque quell'atto, s'incominciarono gl'interrogatorj, de'
quali non sappiamo se di proprio senno, o per consiglio d'altri, il
capitano di giustizia incaricò un nobile Paolo Tradati,
auditore di mezzana capacità e notoriamente sprovveduto di
quella acutezza legale e segnatamente criminale, onde una domanda
gettata opportunamente al costituito, è come un randello
scagliato a tempo tra le gambe di chi vorrebbe fuggire.
Quell'auditore, onesto, corto, senza fiele, docile, era uno di quel
felici mortali, che di quel tempo ed anche in altri tempi, e forse,
chi sa mai, anche nel tempo nostro, sono destinati a far carriera, e
d'uno in altro posto salgono, non si sa come nè perchè,
provocando continuamente le dicerie del pubblico, il quale non sa che
l'incapacità costituisce una preziosa capacità sui
generis e un arme a più tagli, eccellente nelle mani di
chi la sa adoperare. Tuttavia, in quanto all'auditore incaricato
d'esaminare il lacchè, non creda il lettore che fosse privo
d'ogni sapere e di qualche pratica forense; tutt'altro; vogliamo dire
soltanto che tutti gli altri assessori ed auditori del capitano di
giustizia ne sapevano più di lui ed erano acuti più di
lui.
Chiamato
adunque il costituito Galantino innanzi all'auditore criminale nobile
Paolo Tradati, presente l'illustr. signor capitano di giustizia, gli
fu domandato se sapeva la cagione per la quale era stato arrestato a
Venezia per ordine dei Dieci.
Il
Galantino rispose di no..., perchè il signor segretario del
Consiglio non gli avea fatto motto nessuno, fuorchè
dell'inchiesta dell'eccelso Senato di Milano.
Gli
fu replicato, se almeno egli congetturava alcuna cagione.
No, ripetè di nuovo il Galantino... perchè se avessi
potuto aver motivo di temere per me... non sarei andato incontro ai
fanti del Consiglio dei Dieci, quando gli ho veduti star fermi sulla
porta della mia casa. Tuttavia, facendo il viaggio, m'è
passato per la mente che m'abbian voluto arrestare a motivo dei
giuochi d'azzardo, a cui mi recavo tutte le notti in un caffè
remoto di Venezia.
Come v'è potuto passare in mente un simile sospetto, se il
segretario v'aveva detto che l'inchiesta veniva da Milano?
Il come non lo so... ma il fatto è che mi passò per la
mente... Del resto oggi capisco benissimo che ero pazzo a pensarlo...
ma, quando non s'è fatto nulla per cui si abbia a temere la
giustizia, nell'andare a tentone per cercare un motivo qualunque, si
dà dentro spesso in una pazzia...
Voi dunque potete ripetere che non sapete nulla affatto del motivo
del vostro arresto?
Lo ripeto, disse asseverantemente il lacchè.
Qui
succedette un momento di pausa. L'auditore guardò il capitano
di giustizia, il quale, disse solamente:
Continuate.
In che giorno voi vi siete recato a Venezia per la prima volta?
continuò l'auditore.
Questa
domanda era un colpo maestro... Il capitano stupì... come uno
che vede un fiacco giuocatore di bigliardo a tentare un colpo
riservato, e coglier bene la palla, e pensò fra sè
stesso: Sta a vedere che costui oggi mi sfalsa per la prima volta...
Rispondete, quando siete partito da Milano per Venezia?
Il dì preciso non me lo ricordo bene... ma so che del
carnevale di Venezia ho passato nove giorni, e là finisce al
martedì, quattro giorni prima di Milano.
La
risposta era più ancora da maestro. L'auditore guardò
il capitano di giustizia.
Come potete provare che voi eravate a Venezia prima del mercoledì
grasso?
Che cosa so io?... Da Milano sono partito solo, perchè avendo
guadagnato assai al giuoco, m'è venuta la tentazione di
recarmi in una città dove il giuoco si fa più
largamente che qui... Sono partito senza dir niente a nessuno... e
sono arrivato dove non conoscevo nessuno... Però io non saprei
come trovare i testimonj...
Che somma vi trovavate in saccoccia quando partiste da Milano?
Cento zecchini veneti...
In che luogo avete giuocato... con chi li avete vinti?
In che luogo? in più luoghi... ai Tre Re, al caffè
Demetrio, al Gallo... in Ridotto. In quanto alle persone... posso
nominare il figlio dell'oste dei Tre Re, al quale ho guadagnato dieci
zecchini; posso nominare il lacchè di Casa Isimbardi, al quale
vinsi sei mesate, ossia l'importo di cent'ottanta lire milanesi;
posso nominare il mastro di scuderia di casa Litta, al quale ho vinto
quindici partite al tresette l'una dopo l'altra, ossia quindici
zecchini... Ma la somma più grossa l'ho presa al Ridotto del
teatrino... Non mi domandi però nè il nome nè il
cognome di chi ha giuocato con me... perchè non lo so.... e
chi mai domanda il nome a un forestiero che in teatro c'invita a
giuocare?... Pure se costui fosse ancora a Milano, non c'è
dubbio che lo riconoscerei, e sarebbe una fortuna per me, che così
potrei far persuasa la signoria vostra illustrissima.
Perchè vi preme tanto di persuadermi? Chi vi ha detto ch'io
voglia farvi colpa dei denari che avevate indosso?... Queste
parole mi fanno nascere dei sospetti.
Vostra signoria illustrissima mi ha chiesto quanti denari avevo
quando sono partito... Io ho risposto il vero, punto per punto... e
siccome chi dice il vero, vuol essere creduto... così vorrei
che alla S. V. ripetesse tale verità quello stesso che ha
giuocato con me e che mi lasciò sul tavoliere sessantasei
zecchini, ecco tutto.
Voi, a Venezia, i rapporti parlan chiaro, vi eravate dato a far il
ricco gentiluomo, con gondola e livrea e il resto. Come si poteva far
tutto ciò con mille cinquecento lire di Milano?
Molti dei nostri più ricchi patrizj non hanno più di
duecento, più di trecento lire al giorno. Vostra signoria
illustrissima vede bene che per dieci o dodici giorni chicchessia che
voglia assaggiare la vita del gran signore ci può riuscire con
mille cinquecento lire... Tutto sta a continuare... Questo è
il difficile.
E
l'auditore proseguiva:
Voi asserite di non aver avuto che cento zecchini in tasca quando
partiste per Venezia... ma da questi ricapiti e chirografi che il
barigello si fece consegnare da voi, appare che sui banchi di Venezia
voi avete messo a frutto più di trenta mila lire.
Queste le ho guadagnate a Venezia, dove mi sono recato espressamente
per moltiplicare al giuoco la somma che già teneva presso di
me. Vostra signoria sa che il conte Barbò in una sera guadagnò
quaranta mila talleri di Carlo VI. Al giuoco si fa presto...
Ma perchè dunque mi dicevate che avete voluto provarvi a far
il gentiluomo con cento zecchini; mentre potevate dirmi addirittura
che non si trattava più di cento zecchini ma di trenta mila
lire?
Ho detto così per dire... Del resto vostra signoria non può
credere ch'io volessi nascondere il fatto dei recapiti che tenevo
presso di me, dal momento che ho dovuto consegnarli al barigello, e
che sapevo ch'erano stati consegnati nelle mani dell'eccellentissimo
signor capitano di giustizia... Ma ora domanderei licenza a vostra
signoria illustrissima di fare una domanda?
L'auditore
guardò in viso al signor capitano, il quale accennò di
lasciar fare e dire.
Parlate liberamente.
Vostra signoria mi domandava un momento fa se io conoscevo la cagione
per cui venni arrestato ed ho risposto che non ne sapevo niente, come
non ne so niente; ora si contenti, signore, di lasciarmi domandare il
motivo per cui oggi sono qui.
L'auditore
finse di non intendere, fece pausa... e frugò in un fascio di
carte da cui trasse un foglio che pareva una lettera spiegazzata, e
la rilesse tutta attentamente senza dir verbo, poi continuò:
Con quali persone del ducato o della città di Milano vi siete
voi trovato nel tempo della vostra dimora in Venezia?...
Con una sola.
Con chi?
Colla signora contessa V...
Per quali ragioni vi siete recato a farle visita?
Dirò tutto; per supplicarla ad avere la bontà di non
interrompere una mia tresca che avevo con una giovinetta che le
abitava dirimpetto.
Come avete saputo che la contessa V... trovavasi , in Venezia?
Era più difficile a non saperlo che a saperlo; tutti ne
parlavano.
Ma perchè avete voluto mascherare la vostra condizione in
Venezia, e supplicare per ciò la contessa a non palesarvi?
La mia condizione di lacchè non era favorevole per farmi aprir
le porte delle prime case di Venezia, e nemmeno per entrar nelle sale
del ridotto di san Moisè. Se la contessa mi avesse palesato,
io avrei dovuto sottostare ad un avvilimento vergognoso; perciò
la pregai di tacere, e di non mettermi in piazza e di lasciar vivere,
se anch'essa voleva vivere.
Perchè dite: se anch'essa voleva vivere?
Ma chi non sa la storia della contessa, dal momento che tutta Venezia
n'era piena? e appunto per questo le ho fatto intendere,
rispettosamente, che badasse piuttosto a' fatti proprj, che non a
guastare i fatti altrui. Anzi, sul proposito della signora contessa,
giacchè essa ha tentato di rovinarmi...
Qui
il Galantino si fermò di punto in bianco, spaventato dalla
propria imprudenza, e diventò pallido come un panno lavato.
Il
capitano di giustizia fece un atto di sorpresa; l'auditore guardò
il capitano contento, come un pilota che dopo una lunga bonaccia,
odora finalmente un fil di vento, e s'accorge che si può
spiegar la vela.
Come sapete voi che la contessa abbia tentato di rovinarvi, scrivendo
sul conto vostro ad una persona fidata di Milano, e mettendo innanzi
i sospetti che voi gli avete ispirati?
Io non so nulla.
Come non sapete nulla? Cosa vi disse la contessa quando vi siete
trovato seco? badate a non dir la bugia, perchè qui c'è
tutto... e mostrò una lettera.
Cosa mi disse? molte cose mi disse.
Dite tutto, alla buon'ora, continuò l'auditore che in quel
giorno era più coraggioso del solito.
Io non ho difficoltà nessuna a ripetere tutto il discorso...
Le cose inutili mettetele da parte e rispondete a me. La contessa vi
parlò del trafugamento di carte commesso nella casa del
marchese F... nella notte del mercoledì grasso?...
Il
lettore si accorgerà che l'auditore, se fosse stato più
acuto e sagace, avrebbe potuto scansar tante lungaggini, e cominciare
l'interrogatorio da questo punto principale... Buon per lui che il
Galantino, per quanto astuto e destro, si lasciò accecare
dall'ira momentanea e perdette la scherma: tanto è difficile a
navigar sicuri nell'arduo mare delle bricconate.
Sì, avete detto? continuava l'auditore... Come dunque avete
potuto affermare, e, interrogato di nuovo, avete avuto la franchezza
di ripetere che eravi ignota la causa per cui siete stato arrestato a
Venezia e tradotto a Milano?
Il
Galantino aspettò un momento a rispondere, poi disse:
Torno a ripetere che quando V. S. mi domandò se conosceva la
causa del mio arresto, in quel punto era lontano le miglia
dall'immaginarla, e soltanto adesso comincio a capire qualche cosa
...
Ciò è affatto inverosimile... e nelle vostre parole mal
si cela una bugia.
Una bugia? perchè? V. S. illustrissima mi perdoni.
Se la contessa vi manifestò com'era caduto su di voi il
sospetto del furto tentato e consumato in casa F
in che modo
non avete pensato a questa circostanza allorchè foste
arrestato?
In che modo non lo so... Ma il fatto è che non ci ho pensato;
perchè le parole e i sospetti della signora contessa non mi
fecero nè freddo nè caldo. Chi è mai a questo
mondo che può temere le conseguenze di quel che non ha mai
fatto? E, a proposito della signora contessa, io mi sento in dovere
di annunciare un fatto. Un fatto che potrebbe dare un filo, a chi ci
ha l'interesse, di scoprire l'autore del delitto commesso in casa
F...
Che?
V. S. mi permetta di parlare liberamente.
Ve lo impongo.
Sappia dunque la S. V. che la contessa V... era l'amante occulta del
marchese defunto.
Qui
ci fu un momento di pausa; il capitano e lauditore si
guardarono maravigliati.
Come potete asserir questo? La contessa ebbe sempre fama di donna
onesta, austera...
Della fama io non so niente; guardo ai fatti, io; però chi ha
potuto avere una tresca con un tenore... non c'è da restare
balordi se potè intendersela prima con un marchese.
Il
capitano e l'auditore si guardarono di nuovo e raddoppiarono
d'attenzione.
Io era lacchè in casa F... e queste cose posso saperle... Ma
non è ciò che importa... Una sera, prima ch'io partissi
da Milano, voglio dire molti giorni prima della settimana grassa...
io passeggiavo a notte tarda, in Rugabella... due uomini camminavano
innanzi a me
intenti a discorrere, e credendosi affatto soli...
non abbastanza a voce bassa; diceva dunque l'un di essi: Io so che il
marchese F... (il marchese F... allora era gravemente ammalato) ha
lasciato nel testamento alla contessa V... la sontuosa villa che ha
in Brianza. L'altro che ascoltava si fermò su due piedi, e
disse: A questo modo è un mettere in piazza la contessa...
Quasi quasi ci sarebbe da sospettare che ciò possa esser mai
una vendetta del marchese contro il conte V... dal quale, per un
alterco, venne insultato e ferito in duello. Ma qui non ho sentito
altro, perchè que' due, accortisi d'una pedata, si tacquero
tosto.
Ma e che fa tutto questo?
V. S. mi perdoni... ma se alla contessa potè mai trapelar
qualcosa del testamento... è naturale ch'ella dovette
desiderare che il testamento sfumasse per aria. La contessa non aveva
bisogno delle ville del marchese... ma bensì che a tutti
rimanesse celata la sua tresca vergognosa... Se dunque le signorie
loro vogliono venire a capo di qualcosa... giacchè hanno
voluto mandare ad arrestar me, sino a Venezia... me che non poteva
avere, come non ho interesse nessuno nelle cose del marchese
defunto... sicchè un tale sospetto mi fa venir voglia di
ridere; mandino ad arrestare la signora contessa, e salterà
fuori, lo scommetto, quel che si vorrà. La mia condizione è
tale anzi, V. S. mi perdoni, che mi dà il diritto di
pretendere che la contessa venga chiamata a Milano... Io che ho
sopportato e sopporto la pena delle colpe altrui, il che non è
giusto... V. S. perdoni questo sfogo alla mia infelice posizione...
L'auditore
non disse nulla, e si volse al capitano, il quale dopo alcuni momenti
di silenzio:
Potete rimandarlo in carcere, disse. Per oggi basta.
Il
Galantino fu ricondotto in prigione; il capitano e l'auditore, quando
furono soli:
A me par di sognare, disse l'uno. Io casco dalle nuvole, disse
l'altro...
Ma
intanto che l'uno e l'altro attendono a riaversi dallo stupore, noi
siamo sollecitati dall'amore che portiamo a donna Clelia, a
dichiarare al lettore che tutto ciò che disse il Galantino era
una sua perfida invenzione per vendicarsi della contessa...
Invenzione però che fe' presa in giudizio, e fu occasione di
una stranissima combinazione di cose, nella quale il costituito
Suardi, tanto esperto giuocatore, non giuocò, di certo, la sua
carta più fortunata.
VI
La
condizione degli avvenimenti che abbiamo a raccontare è tale,
che ci conviene viaggiare innanzi e indietro da Venezia a Milano e da
Milano a Venezia, come un conduttore di diligenza. Intanto adunque
che a Milano il Galantino sottoponevasi al primo interrogatorio, a
Venezia il tenore Amorevoli aveva raccolte dal suo gondoliere quante
notizie gli bastavano sul conto della contessa Clelia. Siccome il
Bianchi, gondoliere, quando non era al servizio di lei, stava di
consueto al traghetto del molo alla punta dell'isola della Zueca,
così i suoi compagni del traghetto medesimo sapevan benissimo
chi egli serviva di gondola in quegli ultimi giorni. Amorevoli
adunque, per quanto avesse fatto interrogazioni prudenti e velate,
venne pure a conoscere ogni cosa, e della casa ove essa alloggiava, e
della famiglia che la ospitava ed anche delle corse che da qualche
giorno ella solea fare a diporto lungo il Canal grande; perchè
il Bianchi, spiccandosi ad ora tarda dal suo posto, ove stava il più
della giornata facendo versi sotto il felze negli intervalli di
riposo, aveva detto più volte:
Ora andiamo a prendere la nostra bella lombarda.
Però
volle anch'egli il tenore recarsi tra l'altre gondole in canale per
vedere se mai gli venisse fatto d'incontrarsi in quella della
contessa. Lo scontro potea benissimo succedere, senza che fossero
turbate le leggi del possibile o del probabile, ma il caso volle che
per quel giorno non se ne facesse nulla, e giuocassero quasi a chi si
fuggiva; e anche allora che furono a pochi tratti di distanza, là
verso santa Chiara, l'uno non avesse sentore dell'altra, e buona
notte. Tornò dunque all'albergo e là, messosi in tutta
gala, si portò poi, sempre intendesi in gondola, a far
visita al corregidore Pisani, che aveva la sorveglianza de' teatri di
musica, e dal quale eragli stato fermato il patto di sei sere di
recita a quello di san Moisè, perchè solea tenersi
chiuso in primavera ed estate l'inallora maggior teatro di san
Cassiano. Recatosi da quel ricco patrizio, fu accolto come si poteva
accogliere un celeberrimo artista di canto in un tempo in cui la
musica era tenuta necessaria come l'aria e lacqua. Il tenore si
scusò del ritardo, dandone cagione a' fatti imperiosi, che il
patrizio veneziano, sorridendo, accennò di sapere benissimo, e
si dichiarò pronto ad incominciare i suoi impegni.
Il
corregidore gli disse che il teatro sarebbesi aperto fra poco perchè
dovevasi attendere anche la ballerina Gaudenzi, la quale avea fatto
scrivere, le si concedessero alcuni giorni prima di partire da
Milano.
Ed ora, caro mio, ho a supplicarvi di un favore, soggiunse il conte.
Vostra eccellenza mi comandi.
Domani sera, a festeggiar l'arrivo del conte Algarotti, do
un'accademia di musica a cui interverrà tutto il bello e il
buono che abbiamo in Venezia, e molte preziosità che ci son
capitate di fuori. Voi avete ad essere tra queste, e dovreste, se non
pretendo troppo, cantare una scena, un'aria, che so io, un
madrigaletto, qualche cosa insomma; v'è qui Luchino Fabris,
l'imitatore di Egiziello, che vuol sentirvi; e nientemeno che la
moglie di Hasse, la celebre Faustina, venuta per certe sue faccende
di famiglia dalla Germania; la Faustina, ora matura fin troppo, ma
che, cantando di agilità, è ancora capace di passar
sedici crome in una battuta. V'è qui poi la Turcotti, che voi
dovete conoscere perchè mi parlò di voi con entusiasmo
tale che parrebbe oltrepassare persino i confini delle crome; e il
conte sorrideva. E poi c'è il mago, il gran mago
dell'archetto, quel diavolo di Tartini, che v'ha sentito e
vuol risentirvi. Dunque, se mai vi bastasse l'animo di dir no, dovrei
credervi un uomo ben inflessibile...
Il vostro desiderio, eccellenza, basta perch'io m'induca a far ciò
che di solito non faccio di buona voglia; perchè, prima di
farmi sentire in camera, amo che mi si conosca in teatro...
Vi comprendo benissimo, e tanto più vi ringrazio; ma io so, e
me lo disse più d'uno, che voi siete padrone dell'arte in
modo, che la governate a vostro arbitrio e in camera e in teatro.
Dunque v'attendo domani, così verso le quattro di notte...
Io vi sarò senz'altro... e Amorevoli si licenziava, il quale
non avrebbe certo accettato di far la sua prima comparsa in Venezia a
quel modo, se non lo avesse sollecitato la brama di vedervi la
contessa. In questo pensiero, giacchè erasi fatto tardi e per
quella notte ei non sapeva in che luogo ridursi di Venezia, ritornò
al suo alloggio allo Scudo di Francia. Là, giacchè
l'albergatore gli aveva fatto portare in camera, siccome ne avea
avuto l'ordine, una spinetta da nolo; trasse dal baule la sua
biblioteca musicale portatile, e si mise a sfogliazzarla, onde
cercarvi qualche cosa che potesse fare all'uopo per l'accademia del
giorno successivo. Un'aria della Merope di Jomelli, per
la quale il celebre napoletano tre anni prima aveva fatto impazzire
tutta Venezia e gli era stato offerto un posto di direttore nel
Conservatorio delle fanciulle povere; un'altr'aria dell'Achille
in Sciro dello stesso maestro; l'aria celeberrima
dell'Olimpiade di Pergolese, che già l'udimmo cantare
nelle carceri del Pretorio a Milano. Un grande recitativo
dell'Artaserse del Vinci, il maestro perfezionatore dei
recitativi obbligati. Alcuni madrigali dell'abate Steffani, passato
da Venezia in Germania ad educarvi Haendel, il quale si assimilò
le più care imagini melodiche del maestro, e infuse per tal
modo la psiche italica nell'astrusa compagine germanica; alcuni altri
celeberrimi madrigaletti dell'abate Clari, sposati per lo più
a giuocherelli di poesia erotica, ma squisitissimi di stile melodico.
D'una in altra cosa, Amorevoli cominciò a provare qualche
frase sottovoce, accompagnandosi alla spinetta; ma quando dalle arie
passò al recitativo di Vinci, la musica declamata eccitandolo
ad entusiasmo, gli fece mandar fuori tutta la sua voce piena, come se
fosse alla ribalta d'un grande teatro.
Era
la terza volta che Amorevoli riprovava una nota tenuta, un
sibemolle prodigioso, alla risoluzione del sublime
recitativo di Vinci, quando sentì batter crudamente alla porta
della camera. Interrompere chicchessia, foss'anco l'uomo il più
placido, nel fitto d'un'occupazione a cui mette tutto l'interesse e
tutta l'anima, è il vero segreto di farlo prorompere in atti
d'ira, di quell'ira che è deposta in petto a tutti i mortali
anche i più linfatici, non essendovi differenza che nella
dose. Amorevoli aveva avuto dalla natura una dose d'ira, come suol
dirsi, normale, ma gli era stata accresciuta dalle
suscettività teatrali e dalle diverse liti cogli impresarj, e
dalle controversie coi vestiaristi, sempre incapaci ad accontentare
un cantante; per di più essendo romano, da Transtevere,
dov'era nato, aveva portato seco ne' suoi viaggi tutti que' modi
risoluti e troppo espressivi onde quella frazione di popolo sa
imprecare più di tutti i popoli del mondo. Quando adunque si
sentì rotto in due il suo preziosissimo sibemolle da
quell'importuna picchiata, mandò fuori una di quelle tali
frasi, e in quel tono acuto e vibrato che gli era rimasto in gola...
e nel tempo stesso andò ad aprire. Era un servo in livrea, con
baffi, distintivo rarissimo in quel tempo, e che per lo più
soleano portar coloro che, dopo aver servito a lungo nella milizia,
si riducevano a mestieri ed a servigj comuni della vita, press'a poco
come al tempo nostro, in cui quanti hanno portato sciabola o fucile
al reggimento, o hanno inforcato un arcione, serbano nell'aspetto
qualche marchio indelebile, pel quale si può quasi indovinare
se furon soldati di cavalleria o di fanteria. Quel servo pertanto,
con un accentaccio lombardo e con parole nelle quali, per
indefinibili combinazioni, si sentiva un'incondita fusione di Milano,
di Spagna e di Veneto:
Il mio padrone, disse, è stracco, e vorrebbe dormire, e gli
danno gran noia i vostri gridi. Però uomo avvisato, mezzo
salvato.
A
quell'intemerata così improvvisa e così villana,
Amorevoli s'accontentò in prima di guardare quel servitore con
tutto il veleno che gli potea schizzare dagli occhi, poi soggiunse:
E chi è codesto capo di popone che ti dà simili
incarichi? Esci tosto, o non avrai tempo di contare i gradini di
questa scala, tanto di fretta io te li farò fare.
E senza più, richiuse i battenti dell'uscio sulla faccia del
servitore, e rimessosi alla spinetta, tornò al suo recitativo,
azzardando un do sopracuto di petto, che parea voler
trapassare il soffitto della camera...
Ma
chi era quel servo, e a nome di chi veniva? Già noi non
intendiamo di fare una sorpresa; son cose presto indovinate. Lo Scudo
di Francia era allora tra' più sontuosi alberghi di Venezia.
Il conte V... ch'era entrato la sera in città, in quella barca
precisamente della quale la contessa Clelia, non presaga di nulla,
aveva veduto alla lontana luccicare il fanale, era disceso a prendere
alloggio a quell'albergo appunto, e in compagnia del suo più
fido servo, il quale era già stato suo caporale al reggimento.
Preso uno degli appartamenti più ricchi dellalbergo,
abitava il piano superiore a quello ove Amorevoli s'era acconciato.
La combinazione può parere strana per coloro a cui tutto
riesce improbabile. Ma il tenore non era poi obbligato a prendere
alloggio in una bettola, e il conte, per quanto fosse conte e
colonnello, non aveva diritto nessuno di alloggiare nelle camere del
Doge. Onde se si trovarono ambedue in quell'albergo, la cosa è
tanto verosimile, che quasi sarebbe inverosimile la sua contraria. Ma
di ciò non è questione. Il conte V... era dunque venuto
a Venezia con intenzioni terribili... in questo almeno era logico: o
non muoversi affatto da Milano e bever l'onda di Lete, ciò che
invero sarebbe stato atto prudentissimo, chè il suo decoro,
non ne andava di mezzo per nulla; o, giacchè erasi
mosso, doveva averlo fatto per qualche cosa. Lungo il viaggio aveva
meditati, come sappiamo, o almeno come si può
congetturare, cento progetti, che tutti gli pareano eseguibili e
tosto: ma appena furon tolte le distanze, che a lui erano sembrate il
solo ostacolo all'ira sua ed alla sua vendetta, se gli rimase l'ira,
si trovò impacciato sul modo di scaricarla agli altrui danni.
Bastonare, frustare, sfregiare in qualche modo l'effeminato e
petulante e plebeo cantore, com'esso lo chiamava, era il voto supremo
della sua mente in ebollizione, ma bisognava pure che si presentasse
un'occasione. Bene si ricordava dello sfregio fatto a Voltaire da
quel tal duca irritato dalle sue punture; ma cogliere un uomo
all'impensata e farlo bastonare da mani prezzolate gli pareva
un'azione vilissima, e indegna di cavaliere e di soldato. Dovevasi
pertanto cogliere un'occasione plausibile; ma per coglierla era
necessario che l'occasione venisse e spontanea e tale, che il mondo
potesse dire: È giusto che colui sia stato bastonato.
E in quanto alla contessa?... Ahimè, che pensando a lei il
colonnello si smarriva in un abisso di dubbj.
Ei
non era nè determinato, nè focoso, nè
innamorato, nè geloso come Otello. Non era assassino come
Pietro de' Medici; non efferato come il duca di Guisa; non era cupo e
taciturno come Nello della Pietra; non longanime come il Lopez dalla
vendetta segreta; bensì in quel suo testone di ceppo e in
quel suo cuoraccio da galantuomo era una miscela di tutti questi
ingredienti. Ma val più una goccia di acido prussico a
produrre i subiti effetti, che dodici elementi che si faccian guerra
a vicenda; onde egli si affannava senza costrutto e senza mai sapersi
determinare a cosa nessuna; al pari del tenore Amorevoli aveva
anch'esso, in quella sera, pagato lautamente, se non un gondoliere,
un servitore di piazza, per sapere tutto quello che gli occorreva di
sapere; nè per questo i denari erano stati mal spesi; col
verboso cicerone era stato in gondola a visitare i luoghi, il rio san
Polo, il palazzo Salomon, la scalea, la finestra, la porta del lato
della calle, tutto. Ma più raccoglieva notizie e mezzi,
insomma più innoltrava nella via chegli aveva cercato, e
più crescevano le sue irresoluzioni. Se non che, nel fitto
appunto di quelle sue accalorate consulte, sente un suono di spinetta
di sotto a sè, poi un cantare sommesso, poi una voce che si
snoda e si alza, e si diffonde in vibrazioni acute.
Gli
pare e non gli pare; chiede a sè stesso: chi è mai
costui? e, chiamato il servitore, fa domandare il cameriere.
Chi è costui che a quest'ora grida come se fosse in teatro?...
Il
cameriere mal comprende, non tanto le parole del conte, quanto il
piglio sdegnoso onde le pronuncia.
Eccellenza... è uno dei più celebri cantanti del
giorno... Tutti i forestieri che alloggiano qui... son discesi tutti
nel salone che è presso le sue camere, per sentirlo più
dappresso, e tutti fanno le meraviglie e vanno in solluchero, e si
chiamano fortunati d'essere venuti ad alloggiare qui, e poterlo udire
prima che canti in teatro, chè egli è la prima volta
ch'ei ci capita a Venezia.
Ma chi è dunque?
È il tenore Amorevoli, per servirla.
E
il conte che già ne avea un sentore, non fece atto di
meraviglia nessuna; e rivolto al servo-caporale ch'era lì
presente:
Va tosto abbasso, gli disse, e di' a costui che a quest'ora altri
dorme qui, e non vuol essere messo in soprassalto da' suoi strilli.
Il
cameriere s'intrometteva per impedire un tale atto, ma il
conte-colonnello:
Va dunque, ruggì al servo-caporale, e bada di non far
complimenti. Parla chiaro e risoluto... e se non obbedisce la
vedremo.
Il
servo, come sappiamo, fece quel che fece, ma quando venne respinto
dal tenore, non sapendo che risolvere, perchè di fuori erano
molti camerieri che adocchiavano, risalì agli appartamenti del
padrone a riferirgli la risposta... Il conte stava in ascolto...
quando gli giunse all'orecchio quel do di petto sopracuto che
lo fece spiritare, onde, senza rispondere, discese precipitoso e
formidabile, come un orso che affamato si rotola dal monte se mai gli
venga veduto un giovenco sbandato alla campagna. Discese e bussò
sì forte, che Amorevoli dovette aprire... e si vide innanzi,
non certamente aspettato... il conte grande e grosso e fiero, il
conte che molte volte dalla ribalta aveva veduto in palchetto.
VII
Che
la vista improvvisa del conte V... facesse un'ingratissima sorpresa
ad Amorevoli, ognuno lo può credere senza fatica. Si scolorò
nel viso, fece un passo indietro perplesso, e, in una parola, mostrò
di fuori tutti i segni di chi si lascia cogliere dal timore; ma tutto
dipendeva dalla sorpresa.
Or che si fa? gli disse il conte.
È
così vero che l'effetto della musica deriva tutto dal
colorito, che quella domanda del conte, per sè stessa così
semplice, fece avvicinare di qualche passo all'uscio della camera
d'Amorevoli i camerieri che si trovavano là presso e i
forestieri ch'eran discesi, chè l'inflessione della voce e
l'accento fece parer terribili quelle pur così insignificanti
parole.
Un
momento di riflessione però era bastato perchè
Amorevoli si rimettesse, come suol dirsi, in sella, onde a quella
domanda del conte:
Si canta e si suona, rispose.
Fango salito in scanno, al cospetto di chi credi tu di trovarti?
Al cospetto di chi meriterebbe discendere dallo scanno nel fango.
Il
conte fece un passo innanzi, e la mossa fu tale, che i camerieri
accorsero e lo trattennero.
Ma, disse allora Amorevoli, che pretendete da me, signor conte? Con
che diritto vi siete fatto lecito di mandare ad insultare un uomo
dabbene? Io sto nella mia camera, io attendo a' fatti miei e all'arte
mia, e se momenti fa colla voce potevo ferire l'orecchio altrui,
pregovi a pensare che non è mezzanotte e siamo in Venezia, e
di quest'ora gli è come si fosse di mezzodì, in
un'altra città. Le costumanze, i convenevoli, i riguardi li
conosco al pari di chicchessia. Se mi aveste mandato a pregare coi
modi del gentiluomo, meno male, vi avrei esaudito; ma invece quel
vostro domestico si comportò di maniera, che fu assai se non
l'ho spinto rotolone giù per la scala. Del rimanente, se in
poco o in nulla vi credete offeso, io son qui pronto a darvi
qualunque soddisfazione.
E quali soddisfazioni mi puoi dare tu?
Quelle dell'uomo onesto in faccia a chi vuol dar spettacolo di
coraggio.
Ma giacchè ti vanti di conoscere i convenevoli e le
prammatiche, non sai tu, istrione vilissimo, ch'altri offende se
stesso misurandosi co' pari tuoi?
Pari o no pari, questa la xe ona prepotenza da sior Lelio...
Chi
diceva queste parole era un giovane di vent'anni, poco su poco giù,
il quale vestiva l'assisa di soldato di marina. S'era trovato là
ad udire insieme cogli altri forestieri; ed avendo preso notizia del
fatto, e parendogli quella del conte un'insopportabile soperchieria,
non potè più contenersi, e strillò quelle sue
parole con fremebonda concitazione. Il conte si volse, e:
Chi m'interrompe? disse.
Angelo Emo, nobile di nave, disse il giovine uscendo dal crocchio, e
saettando la sua giovane pupilla nella pupilla torva del conte.
Era
esso davvero quell'Angelo Emo, il futuro assediatore di Tunisi, colui
che gloriosamente doveva chiudere la serie degli ammiragli della
serenissima repubblica. Di quel tempo, uscito appena dalla
istituzione del Bilesimo consultore della Repubblica, del padre
Lodoli, altro consultore, e del celebre Stellini, era entrato da
pochi giorni nella carriera marittima, nella qualità appunto
di nobile di nave, tirocinio che si faceva durare quattr'anni, col
saggio intendimento che i giovani alunni unissero la pratica alla
teoria. Di que' giorni egli stava coll'equipaggio lungo le coste
dell'Adriatico, e avendo sentito com'era aspettato a Venezia il conte
Algarotti, che fanciullo egli aveva conosciuto nella casa paterna,
impetrò dal capitano di nave il permesso di venire a Venezia;
e siccome il padre, per essere riformatore degli studi, stavasi a
Padova colla famiglia, egli avea preso alloggio all'albergo
dello Scudo di Francia.
Or come c'entrate ne' fatti altrui? disse il conte al giovine
soldato.
Quand'uno offende un altro senza ragione e con violenza, tutti hanno
diritto d'immischiarsi ne' fatti dell'uno e dell'altro. In
conclusione, che v'ha fatto quel signore? Chi mai poteva imaginarsi
che la musica vi dovesse far abbaiare alla luna come un cane da
presa? O quel signore v'ha offeso, o voi avete offeso lui... Fin qui
non c'è nulla di straordinario. Ciò che v'ha di strano
si è ch'egli si dichiari disposto a darvi ogni
soddisfazione... e voi la rifiutate. E che vorreste dunque?...
ch'egli si ammazzasse per rispetto alla vostra corona di conte?
Ragazzo, bada, ch'io non torca su di te l'ira che mi venne da lui!
Ed ora son io che vi chiedo soddisfazione, signor conte!... Or non vi
può soccorrere la scusa della mancanza di parità fra
noi... Voi siete conte ... lo credo perchè lo sento a dire, e
poco me ne importa ... In quanto a me... i miei avi furon reggitori
di quest'isole quando primamente si congiunsero a città. Piero
Emo fece prodigi di valore nella battaglia di Chiozza. Altri si
onorarono in ambasciate e in magistrature. Molti di quelli che sono
qui presenti sanno chi sono, e ponno fare testimonianza di ciò...
però raccogliete questo guanto.
E
il giovinetto generoso, levatosi il guanto di daino, lo gettò
al piede del conte V... che lo raccolse e soggiunse:
Sta bene. Or pensate al resto, perch'io non son di Venezia, e non
posso scegliermi i padrini in una città che non conosco.
Il
lettore si ricorderà d'aver veduto qualche volta addensarsi un
terribile temporale al di sopra di un tratto di territorio, e d'aver
detto in cuor suo: non vorrei aver io il mio grano e le mie vigne
colà; ma d'improvviso il vento cangiar direzione alla procella
stessa, e portar lo schianto della gragnuola in quelle parti invece
su cui alcuni momenti prima il cielo si distendeva sgombro e
tranquillo.
Quando
il conte V... feroce e bestiale discese precipitoso a percuotere
con violenza la porta della camera d'Amorevoli, scommettiamo che
la metà almeno dei nostri lettori avranno ripreso fiato per
assistere alla truculenta scena del tenore fracassato e morto. E di
fatto, una parola, un gesto di più, qualche cameriere di meno,
più radi forestieri e più placidi e prudenti, una sola
insomma di tali cause potea bastare a far iscattare la molla d'una
catastrofe tragica...
Ma
invece un fil di vento e poche parole in dialetto veneziano valsero a
cambiar la direzione delle cose. Omnia sunt hominum tenui
pendentia filo; e se Amorevoli potè scampare dal pericolo,
per verità che quasi aveva l'obbligo di far cantare un Te
Deum in San Marco.
Del
resto, in una relazione storica, scritta nel secolo passato da un
Cadorin padovano, dove è parlato di Angelo Emo, è
riferito codesto fatto del duello ch'egli ebbe nella sua prima
giovinezza con un nobile lombardo.
Ed
ora tornando a noi, quando il conte V... ebbe raccolto il guanto, il
giovine Emo, con quella delicata cortesia che accusava in lui e mente
e cuore fuor dell'ordine comune, disse, rivolto ad Amorevoli:
Mi perdonerete, signore, se io ho voluto per ora togliervi di mano il
fioretto. Ma al tempo non manca mai il tempo.
Per me sono sempre disposto a ripigliare il vostro, quando l'abbiate
adoperato. La mia nobiltà sta nell'arte mia e nella mia vita
senza rimproveri. Quando il conte accetti, io sono sempre qui ad
attenderlo.
Il
conte non fece motto. Angelo Emo soggiunse qualche altra gentilezza
ad Amorevoli, poi scambiate alcune parole con alcuni amici che gli
stavano intorno, due di questi si mossero ed accostatisi al conte
V...
Adesso, gli dissero, giacchè noi per parte del nobile Emo lo
assisteremo sul terreno come padrini, voi sceglierete i vostri fra
que' quattro gentiluomini là, che sono parati ai vostri
comandi, e intanto ci ritireremo a trattare del come e del dove.
Così
tutti si ritrassero, mentre Amorevoli si rinchiuse nel suo camerino.
E
intanto noi balzeremo da questa notte alla notte successiva
per assistere, nel palazzo Pisani, alla lanterna magica, dove si
vedranno a passare l'un dopo l'altro i letterati, poeti, i pittori, i
musici,
Le
donne, i cavalier, l'armi, gli amori
onde
in quel tempo Venezia brillava fra le città d'Italia. Nè
ciò sarà fatto a caso, perchè colà si
offriranno forse le occasioni per isciogliere nodi a cui il lettore
probabilmente tien l'occhio.
VIII
Due
palazzi egualmente celebri, che portano il nome dei Pisani, vi sono
in Venezia; quello a San Paolo, che ha la facciata rispondente sul
Canal grande; e quello in Campo San Stefano. Il primo, appartenente a
quello stile archi-acuto veneziano che ha per distintivo
caratteristico il foro quadrilobato interposto agli archi, ma che nei
pilastri bugnati e nel basamento accenna alle prime transazioni tra
l'arte del medio evo e il ritorno dello stile romano, è lodato
per leleganza nativa dell'ordinamento generale del primo stile
e la felice libertà degli innesti del secondo. Ma il palazzo
Pisani di San Stefano è bestemmiato dalla critica più
recente, che lo chiamò un'insignificante montagna di pietre
sagomate. Ognuno ha i suoi gusti, e noi, sebbene troviamo pessima di
stile la facciata di questo palazzo, giudichiam d'altra parte
degnissima di meraviglia la gigantesca grandiosità di tutto
l'edificio; i cortili a molti piani di poderosa struttura, le scale,
gli appartamenti, le sale che ancora oggi, pur nel tristo abbandono
in cui giaciono, fanno rimpiangere allo spettatore quell'avito
splendore ove al tempo nostro è infranta affatto la
tradizione. Nelle opere dell'arte, segnatamente dell'architettura, la
grandiosità dell'impianto e l'audacia del concetto sono
elementi che non ponno essere disprezzati, bastando soli a dare
importanza agli edifizj. La miscela di più forme, i giuochi di
parole, i bisticci, le freddure onde pur sono offese le composizioni
drammatiche di Shakespeare, non tolgono ch'egli giganteggi su
tutti coloro che non straripano perchè non hanno fantasia che
rigurgita. D'altra parte quella miscela ha un valore, se non per
l'arte almeno per la storia di essa, almeno per le significanze
ch'ella serba in molte parti della storia generale. I drammi di
Shakespeare sono l'enciclopedia storica della grammatica inglese, chè
cento autori portarono le diverse loro acque a quell'oceano; e il
medesimo può dirsi di alcune opere dell'edilizia, fatte
innalzare da più volontà e da ingegni diversi, che
serbano le varie impronte dei tempi in cui hanno operato; onde se il
gusto squisito, contemplando il tutto, si offende, non essendo
preoccupato che delle linee e delle forme; l'intelletto abbracciando
invece più elementi, non resta offeso dalle forme imperfette,
perchè si lascia preoccupare dai varj significati che offre
l'edificio. Nel vetusto San Marco, la meraviglia massima delle
meraviglie veneziane, è una mescolanza di tutti gli stili e di
tutte le idee che quegli stili, secondo alcuni, dovrebbero
rappresentare l'arte cristiana vi transige colla pagana, le
incondite stranezze dell'impero basso contaminano spesso i simboli
cristiani, la cupola orientale gira sugli archi latini, la colonna
greca posa sulle costruzioni bizantine. La critica inesorabile
che è fida al bello assoluto e lo trova nella sola unità
poderosa, s'indispettisce di tali mescolanze; ma v'è
quell'altra critica più grande, più intellettuale, più
liberale, che trova quell'edificio d'un valore inestimabile, per le
sue varietà appunto, e perchè l'architettura essendo un
libro di granito, come disse il poeta, tanto più quel libro è
prezioso, quanto più fatti ricorda della storia di un popolo.
Tutte queste nostre chiacchiere vorrebbero dire che anche il
grandioso palazzo Pisani, imperfetto, difettoso, senza carattere
deciso, ha un merito, se non in faccia alla critica dell'arte, in
faccia a quella della storia, e che per ciò i Pisani che lo
hanno fatto innalzare e continuare, non hanno mal speso i denari,
come taluno ha detto. Cominciato alla metà del 1500 dal
Sansovino, fu compiuto quasi due secoli dopo dal vicentino
Frigimelica, onde codesto edificio, esaminato in tutte le sue parti,
presenta tutte le vicende della grandezza veneziana negli ultimi suoi
secoli, e dei trapassi del gusto, rappresentati da vari
architetti. Che se anche oggi, pur nell'abbandono in cui è
lasciato, serba ancora qualche significato, si figura il lettore quel
che nel secolo passato dovesse parere al visitatore intelligente, in
uno di quei giorni in cui la ricchezza del proprietario Alvise Pisani
lo apriva alla folla dei patrizj e delle altre classi distinte; quel
che dovesse parer nella notte in cui lo dischiuse per festeggiare
l'arrivo del conte Algarotti, il quale in quel tempo, per
straordinario beneficio di fortuna, sedeva re di tutti i regni delle
scienze e delle arti. Erano le tre ore di notte; risplendevano tutte
le finestre della facciata che guarda il Campo San Stefano. Le due
statue oziose, che stanno a' fianchi della maggior porta, avevano
avuto anch'esse in quella sera lincarico di portare un gran
fanale sulla testa; risplendeva tutto il lato del palazzo che guarda
il rio; e più servi con torcie a vento stavano sulle due
scalee per cui si ha accesso al palazzo da quella parte appunto; era
tutta illuminata la lunga calletta per la quale il palazzo ha una
comunicazione col Canal grande, sulla scalea della quale stavano pure
altri servi con torcie a vento per ajutare lo sbarco dalle gondole
accorrenti. Dalla parte del campo venivano a frotte di due, di tre,
di quattro gentiluomini e gentildonne, preceduti dai servi col
lampione. Il Canal grande, per quanto spazio misura la linea di due o
tre palazzi, era tutto pieno di gondole con gondolieri schiamazzanti
ad aprirsi la via, chi verso l'approdo della calletta, chi verso il
rio interno. Gl'invitati che veniano dal campo, s'incontravano
nell'atrio con quelli che arrivavano dal rio; e quand'erano
forestieri o veneti di terra ferma, si soffermavano a guardare il
leone rampante scolpito, che era lo stemma di casa Pisani, colla
spada da un lato, la mazza e l'elmo dall'altro; e i fanò delle
galeazze che già avevano rischiarate le vittorie del glorioso
Vittor Pisani. Tutti costoro poi si incontravano nell'ultimo cortile
con quanti vi approdavano dal canale, e insieme salivano lo scalone
e, d'una in altra anticamera, entravano nella maggior sala, la cui
vôlta, dipinta dal Guarana, è sorretta da molte colonne
corinzie, oggi mostranti il gretto legno, allora tutte splendide
doro nel capitello, nelle scanalature, nella base.
In
quella sala v'era uno scompartimento apposito per lorchestra e
pei clavicembali.
Laccademia,
dovendosi incominciare ad ora più tarda, la folla dei
visitatori traeva di sala in sala ad ammirare gli sfoggi straordinarj
di quel palazzo e di quegli appartamenti: i dipinti di Tiepolo, del
Tiepoletto, del Canal, del Rizzi, del Cignaroli; i damaschi, i
sopraricci, gli arazzi della fabbrica privilegiata, allora
celebratissima, delle sorelle Dini, le quali ritraevano un assegno
annuo dalla stessa Repubblica. E segnatamente si trattenevano ad
esaminare a parte a parte le ricchezze d'ogni guisa che risplendevano
nella così detta sala d'Apollo dipinta a chiaroscuro
dall'Amigoni bergamasco. Se non ci tormentasse la noja delle
descrizioni, onde amiamo dipingere a sguazzo con pennello
scenografico e in istile piazzoso, piuttosto che col pennello minuto
dei Fiamminghi, vorremmo riprodurre così al vivo il palazzo
Pisani di dentro e di fuori in quella serata musicale, che il lettore
dovrebbe confessare che oggidì per questo lato la ricchezza
par miseria; e quando pure dà il caso che taluno voglia
sfidare il passato per superarlo, non riesce che ad essere la scimia
che imita il padrone, e provoca il riso invece della meraviglia;
perchè c'è una cosa, che distingueva i nostri buoni
vecchi, ed è l'armonia che univa la loro persona e i loro
vestiti colle proprie abitazioni, le suppellettili, gli addobbi, le
tappezzerie, gli ornati, le pitture onde si circondavano. Oggi invece
il cilindro del secolo decimonono copre una testa colla barba di
Carlo V, o i mustacchi a coda di topo di Tamerlano. Oggi il monotono
e gretto frack di panno nero, e i calzoni attillati del marito, si
smarriscono nelle volute e nelle sinuosità del guardinfante
risuscitato dalla moglie ingrossata. Oggi il signore sotto i soli
d'Italia porta il soprabito di guttaperca, che ci fa sentire il
ribrezzo delle nebbie inglesi impregnate di filigine; mentre poi sul
serpe della carrozza parigina il cocchiere reca l'impronta di una
vecchiezza anticipata sotto la parrucca a tre giri del senator
Tredenti; e nelle case la stessa sconcordanza perpetua, e negli
addobbi e negli ornati sempre una ricchezza senza logica e che
rinnova l'immagine oraziana del mostro equino.
Rifacendoci
coi nostri personaggi, a tre ore di notte Amorevoli portossi al
palazzo Pisani, dove s'incontrò in Luchino Fabris, musico di
gran merito, imitatore fortunato del celebre Egiziello. Essi eransi
trovati insieme viaggiando più volte, e avevano stretta
amicizia; ma, per combinazione, non eran mai stati scritturati a
cantare insieme nè in un medesimo teatro nè in una
città medesima, onde si conoscevano per fama, e avevano il
desiderio di sentirsi a vicenda.
Ho caro assai di vederti qui, disse il Fabris ad Amorevoli, e
finalmente udrò la tua voce.
Ed io avrò il dispiacere di fartela sentire in un cattivo
momento, disse Amorevoli. Non sto niente di lena, e cento cose mi dan
noja.
So tutto, amico mio, ma sono ingredienti quelli che non scemano punto
il colorito al canto. Tu vedrai la contessa, e...
Amorevoli
finse di aver preoccupata l'attenzione a qualche oggetto, e non
rispose.
Credo bene che la bella lombarda verrà stanotte qui,
come s'è mostrata altrove in questi giorni addietro... Ma tu
guardi Apollo in quadriga, e non ci senti da quest'orecchio. Pure, se
tu taci, tutti parlano. Dammi dunque retta. Sento che c'è qui
il marito della contessa...
Anche questo si sa?
E che mai? pretenderesti forse che del duello col giovine Emo non
fosse trapelato nulla, quando cameriere e cuoco e guattero sono stati
testimonj della scena?
E come si racconta la cosa?
Sta tranquillo; tu ci fai buonissima figura. Ma ora si vuol sapere
come riuscì il duello... è il discorso di tutti... Non
sai nulla tu?
Nulla affatto. Sono andati in Terra Ferma, fuori un tratto del
territorio della Serenissima per scansare certa legge che li avrebbe
colpiti. Però non se ne sa nulla ancora. Lasciamo dunque che
tutto vada a beneficio o maleficio di fortuna; e dimmi chi è
quel cosino là smilzo e pallido, colla collana e il medaglione
e la croce in petto... Tu hai cantato per due stagioni l'una dopo
l'altra a Venezia... e questa che s'innoltra sarà la terza...
Devi dunque avere la città tutta quanta in sul palmo, e saper
vita e miracoli di ciascuno come un barbiere.
Davvero che di questa città ormai conosco il dritto e il
rovescio come se fosse la mia giubba. Ma non domandarmi chi sia
colui, perchè non l'ho mai veduto nè qui, nè
altrove, nè in piazza.
Dicendo
questo il Fabris si volse a chi gli passava presso, e chiese il nome
di quel gentiluomo.
Chi è colui? rispose l'interrogato con un sorriso secco e
amaro. Ma gli è forse permesso ignorarlo? Esso è
nientemeno che il re della festa.
Chi? il conte Algarotti?
L'Algarotti... sì signori... plebeo di Venezia, conte
di Prussia, ciambellano di S. M. il Re Federico, cavaliere del
Merito, consigliere intimo del Re di Polonia, consultore del duca di
Savoja, di quello di Parma, del Papa; membro di tutte le università,
socio di tutte le accademie che furono, che sono e che saranno:
astronomo, poeta, pittore, architetto, suonatore di violino... Di
molti si suol dire che cosa è... di costui bisogna dire che
cosa non è... Tuttavia quel ch'ei valga davvero, lo si
conoscerà da qui a cinquanta e meglio ancora da qui a cento
anni. Intanto ha la tosse, e un polmone che si rifiuta a fare il suo
solito servizio. Padroni riveriti.
Così
dicendo, quel gentiluomo si mescolava tra folla e folla.
Che costui sia un qualche letterato o poeta, razza invidiosa e
malefica? disse il musico Fabris, il quale scontrandosi in quel punto
faccia faccia con un uomo tutto vestito di nero, alto e magro, ch'ei
ben conosceva:
Signor abate, disse, vorrei sapere il nome di quel giovinotto lì
alto e stecchito, con cui testè ho parlato e che or sorride a
quella dama.
Se non amate ch'altri vi tagli i panni addosso, fate di scansarlo...
Egli è il conte Carlo Gozzi, il quale ha il cervello fatto di
fegato, onde se schizza fiele e bile ad ogni parola, la cosa è
naturale.
Addio Luchino, e via.
Chi è questo prete? domandò Amorevoli al Fabris.
È il celebre abate Chiari.
Ma perchè non presentarmi a lui, che lo avrei ringraziato?
Di che?
Del favore che da qualche anno mi fa tutte le notti. Sullo stipo
accanto al letto io tengo sempre una tazza d'acqua di gomma e un
romanzo dell'abate. Prima di dormire bevo due goccie di gomma, e
leggo due pagine di romanzo. La gomma mi fa morbida la gola, le
pagine mi fan morbido il sonno. Se mi sveglio, bevo altre due goccie
di gomma e leggo due altre pagine di romanzo; così conservo la
voce e la salute, rintuzzando la veglia. Se c'incontriamo ancora in
lui, ti prego di presentarmi. È un mio benefattore.
Se tu metti i suoi romanzi insieme coll'acqua di gomma, buon padrone.
Ma non si fa così a Venezia; parlo delle donne e del pubblico
che legge avidamente i suoi libri; che corre in folla alle sue
commedie, e schiamazza d'entusiasmo; e lo supplica a dar sempre
qualcosa di nuovo; e sì che l'abate sembra una fontana
intermittente, che cala per crescer sempre, e annaffia tutti
quanti; eppure tutti si senton arsi.
A
questo punto un maggiordomo della casa s'accostò al Fabris,
significandogli che il signor conte padrone chiedeva di lui e
dell'amico suo. Questi lo seguirono nella massima sala, dove il conte
Alvise Pisani sedeva accanto al conte Algarotti, intorno al quale
facevano ampia corona molte persone.
V'era
il Canaletto, a lui particolarmente devoto per la protezione che ne
aveva avuto. Esso tornava allora dall'Inghilterra, dove aveva
raccolto molto danaro; e dalla Sassonia, dov'erasi recato a portarvi
due suoi quadri per interposizione appunto dell'Algarotti, il quale
aveva avuto incumbenza dall'Elettore di acquistar opere ad
arricchire la galleria di Dresda. Con lui stava discorrendo l'amico
suo Tiepolo, quegli che di stupende macchiette gli ornava le
prospettive animandole di vita e rendendole più importanti per
lo studio dei costumi e delle foggie. Il Tiepolo era tornato di
fresco da Milano, dove avea dipinta la vôlta della maggior sala
in casa Clerici. De' letterati, v'era il Gozzi Gaspare, e il senatore
Seghezzi, il quale stava in quel punto presentando all'Algarotti un
fanciullo di undici anni, autore in quella così giovane età
di due o tre poesie in dialetto veneziano, che aveano fatto il giro
della città. Ed era quel Gritti che doveva poi riuscire nel
vernacolo veneziano ciò che il Maggi era stato nel milanese.
Ma di tutti mancava il primo, mancava il Goldoni, il quale era andato
a Torino a mettere in iscena il Molière. L'Algarotti
dava belle e graziose parole a tutti, ma con quel fare di affabilità
convenzionale che, se indispettiva fieramente Carlo Gozzi, non
piaceva troppo nemmeno al più mite Gaspare, che giuocava di
scherma coi complimenti onde il conte gli era cortese riguardo alla
fondazione di quell'accademia de' Granelleschi che, fin dal 1740
iniziata per celia e portando sempre la maschera della matta
giovialità, nel fatto era però diventata il
conservatorio della buona lingua italiana.
Ella, signor conte, mi dà lodi che son dovute ad altri, così
diceva Gaspare Gozzi. Ecco il vero fondatore dell'accademia, il suo
massimo sostegno, il suo principe perpetuo; e dalla schiera
circostante, pigliando pel braccio un pretino rachitico, lo presentò
al conte dicendogli:
Questi è il celebre abate Sachellari, l'arcigranellone; si
provi, signor conte, a interrogarlo, e sentirà parole di
sapienza.
Quel
Sachellari era un originale curiosissimo, pieno di goffaggine e di
orgoglio. Quando parlava faceva smascellar tutti dalle risa, e più
quando recitava gli stolidissimi suoi scritti. Tuttavia quello
scimunito aveva data l'occasione perchè si adunassero le
migliori intelligenze di Venezia. In prima era stata una gara a chi
lodavalo di più con componimenti berneschi; poi da quella gara
nacque la celebre accademia in cui risplendette più che mai
l'ingegno, la vena poetica, il brio, lo spirito satirico di Gaspare
Gozzi.
La testa di costui, caro Algarotti, è come quella de' miei
detrattori.
Chi
diceva tali parole era il padre Carlo Lodoli, che nel convento di san
Francesco della Vigna teneva aperta scuola privata a molti giovani
patrizj e facoltosi, ed era stato maestro anche all'Algarotti.
Istrutto in molte scienze e lingue e nell'arte architettonica, egli
aveva ottenuta grande rinomanza per avere tentato di distruggere
tutti i principj fin allora invalsi nell'architettura, negando
obbedienza all'autorità, detronizzando Vitruvio, e
introducendo quella filosofia architettonica, che turbò di
sottigliezze e astruserie le menti, onde per libidine di opposizione
fece poi più tenaci dell'imitazione gli architetti pratici.
Del resto, quelle parole ch'esso aveva pronunciate erano dirette a
due architetti là presenti: il Poleni che avrebbe battuto
moneta falsa per Vitruvio, e il Temanza che aveva scritto un opuscolo
contro di lui e di quelle, secondo il parer suo, dementi dottrine.
Il Temanza non rispondeva, e ammiccava allo zio Scalfurotto,
l'architettore di san Simone Maggiore, mentre ridevan tra loro il
Massari, che stava in quel tempo edificando i Gesuati, ed il
Lucchesi che eresse san Giovanni in Oleo e l'Ospedaletto di san
Giovanni e Paolo. Per altro se il Temanza s'accontentava d'ammiccare
e tacere e lasciar che svampasse l'iracondo e dotto frate, dipendeva
da ciò, ch'ei sapea assai bene come nessuno desse ragione al
suo avversario, mentr'egli era lodato ed ammirato dai più
celebri architetti ed archeologhi d'Italia, ed invitato dai più
facoltosi patrizj di Venezia, delle cui mense ei teneva gran conto,
perchè s'egli era celebre come architetto civile e idraulico,
lo era pure come insaziabile mangiatore. Ma il conte Pisani, visti il
Fabris ed Amorevoli, li presentò in prima all'Algarotti, poi
al P. Vallotti, il celebre maestro suonator d'organo del Santo di
Padova, ed a Tartini, e disse loro:
Or tocca a voi. A momenti sarà qui il doge e il procuratore
Foscarini e i signori Dieci, e converrà incominciare.
Il
maestro Galuppi, che in que' giorni era passato a Venezia a
concertarvi l'opera in musica, si alzò, e volgendosi con
grande rispetto al P. Vallotti, il quale allora era stimato nell'arte
dei suoni quel che oggi il professor Bordoni è stimato nella
scienza dei numeri, lo supplicò a volere esaminare i pezzi di
musica da eseguirsi in quella sera.
Vallotti
si volse a Tartini, e:
Avete visto, voi? gli disse.
Io conosco la musica che devo eseguir io, dell'altra non so. Ma chi
ha a cantare dee far quello che più gli piace.
Però sarebbe ottimo, soggiunse il P. Vallotti, che alla musica
di camera non si mescolasse mai la musica di teatro.
Io ho alcuni madrigali dell'abate Clari e dell'abate Stefani, disse
Amorevoli.
Ecco un artista di buon senso.
Per metà, maestro. Perchè ho anche un recitativo di
Vinci, e due arie del Pergolese e di Jomelli; il pubblico vuol essere
accontentato anch'esso, e se dieci gustano Clari e Stefani, mille
comprendono la musica teatrale, anche perchè l'hanno sentita
ad eseguire più volte, e vi recano un giudizio più
ammaestrato dall'esperienza.
È questa un'ottima ragione, disse l'Algarotti.
Pessima, entrò a rispondere il P. Vallotti che aveva la stizza
del frate, del vecchio e del profondo scienziato, disprezzatore degli
uomini superficiali e che, in quanto all'Algarotti, non avea potuto
sopportar la lettura di quel suo trattatello sulla musica.
Ma
l'Algarotti non si scontorse punto a quella cruda opposizione, ma
sorridendo blandamente:
Ognuno porta l'opinione sua, disse. Bensì mi rincresce di
averne una che sia opposta a quella di un sì grand'uomo qual
siete voi.
L'Algarotti
era stato, già ognun lo sa, alla Corte del Re filosofo, la cui
filosofia consisteva nel volere all'ultimo essere adulato. Era stato
col Re di Polonia, il quale non amava certo di essere strapazzato dai
letterati. S'era trovato in Francia con Voltaire, con Diderot, con
tutte le altre colonne della Francia nuova, e seppe sì ben
fare che quei grandi uomini avevano lui in conto d'uomo grandissimo.
La società di mutuo incensamento non è una invenzione
di questi ultimi anni. Essa fioriva anche nel secolo passato, e
l'Algarotti ne poteva a buon diritto essere il presidente.
Ma
intanto che i signori virtuosi maschi e femmine, e i signori maestri
di musica e i signori professori di violino, di viola, di
violoncello, di contrabasso, di clarino, di clarone, di fluta,
d'oboè, ecc., recavansi nello scompartimento a loro assegnato
nella gran sala delle colonne; il maggiordomo e i camerieri facevano
un giro per gli appartamenti dov'erano disperse le dame co' loro
cavalieri, onde invitarle a sedere nella gran sala.
E
in poco tempo s'eran tutte infatti messe a seder là in più
file disposte a semicerchio intorno al seggiolone del doge e della
dogaressa, press'a poco come le deità dell'Olimpo intorno al
Giove nel quadro d'Appiani. E per verità ch'era quello un
nuovo olimpo, olimpo terrestre e palpabile, migliore assai del
mitologico. Olimpo di ricchezza, di splendore, di gioventù e
di bellezza.
Amorevoli,
che stava più in alto sulla gradinata dell'orchestra, innanzi
al clavicembalo, volse lo sguardo in quella via lattea di pupille
tremule; ma nella patria dei grandi occhi lucenti non vide gli occhi
che cercava. La contessa Clelia non c'era. L'estro, che un momento
prima lo aveva eccitato, leggendo col P. Vallotti un madrigale
erotico del Clari, gli svampò in quell'infelice ricerca e
chinò la testa avvilito. In quel punto entrava il doge che,
girata intorno la testa e messosi a sedere vicino al conte Alvise,
tosto gli domandò con grande sollecitudine:
Non avete ancora veduta la contessa Clelia V... di Milano?
Or
che relazioni potesse avere il doge Grimani colla contessa e qual
cosa lo sollecitasse a di lei riguardo vedremo fra poco.
IX
Se
il labirinto dedaleo in cui, senza sua colpa, si trovò
impigliata la contessa Clelia, non fosse un fatto incontrastabile,
che fece parlar tanto i nostri buoni vecchi cento anni fa, e che una
secca mano registrò in carta grossa; perchè il tempo e
l'umido de' muri solitari non bastasse a distruggerla, e così
potesse pervenire alle mani di un postero incapace di custodire i
segreti; se tal fatto adunque non fosse una verità
irrefragabile, noi gli avremmo negata ogni fede quando lo avessimo
udito da uno di quegli uomini avvezzi a inventar frottole. Perchè,
passi pure tutto quello che fin qui è avvenuto a Milano, passi
la maledetta fortuna per cui un semplice dialogo tagliato in mezzo da
un cancello e, fino ad un certo punto, anche innocente, mise in
piazza i pudibondi arcani di una gentildonna; mentre più
spesso quella stessa iniqua fortuna sa conservare intangibile
l'aureola penelopea a chi s'intrattiene a lungo in dialoghi senza
cancello; passi dunque tutto ciò, e passi la fuga, e passi il
ricovero di Venezia: ma ciò che veramente ci fa intolleranti e
fremebondi per quella sventurata contessa, è l'infesta
combinazione della scrittura teatrale del tenore che cambiò la
sede della malattia senza distruggerla, anzi aumentandola a più
doppj.
Povera
Clelia, seduta presso la finestra della sua camera, colla faccia
mestissima e gli sguardi profondi rivolti macchinalmente al cielo,
anzi alla luna, alla luna fredda e incapace d'intenerirsi per
nessuno, mentre pure da tempo immemorabile si gode la fama di
pietosa.
Povera
infelice Clelia, gettata e trattenuta dalla fortuna tra un amante
fatale e un marito funesto, in una terribile vicinanza e dell'uno e
dell'altro; dell'uno e dell'altro, che pure coraggiosamente e
fortemente avea fuggiti.
Almeno
coloro che si picchiano il costato per ogni nonnulla, e sono
inesorabili accusatori delle debolezze altrui, le vogliano
tener conto, per tutto quello che potrebbe succedere in
avvenire, di questa prima violenza usata contro sè stessa!
Chè
anzi, nel punto ch'ella guardava la luna, stava precisamente
compiendo contro sè medesima una seconda violenza. Se donna
Clelia fosse cotta e stracotta dal desiderio di rivedere Amorevoli,
lo pensino i giovinotti che non hanno ancora venticinque anni e che,
per un occhiata, sì, per un'occhiata (anche noi abbiamo avuto
i nostri verd'anni!) farebbero due volte di notte, non che una, il
traverso dell'Ellesponto; lo pensino le fanciulle che non hanno
innanzi agli occhi che un unico oggetto; lo pensino anche le donne
che hanno più di venticinque anni e son compromesse in qualche
pericoloso contrabbando, mentre la guardia di finanza batte la
campagna. Donna Clelia dunque, ci rincresce dirlo, ma la verità
è una sola, desiderava di vedere Amorevoli con un ardore, con
tale ardore, che noi amanti della buona bottiglia e della coppa di
manzo, non possiamo nemmeno concepire. Tuttavia, con sì
smisurato ardore nell'animo, non si mosse dalla sua camera, e
resistette agli inviti della moglie dell'illustrissimo conte Alvise
Pisani. Non si mosse per non incontrarsi in colui, negli occhi suoi,
per non sentir la sua voce, per non provocare nuovi parlari, per non
essere cagione di nuovi scandali; nè si creda che la paura del
marito abbia potuto influire sulle sue deliberazioni. No, al marito
non pensava, nè poco nè assai; lo fuggiva colla mente,
come allorquando si torcono gli occhi da una imagine disgustosa, e
passava ad altro; onde il timore non potè mai padroneggiarla.
Solo pertanto il fermo proposito di non voler vedere Amorevoli la
trattenne in casa. Però se questa non è virtù,
noi non sapremmo invero dove andarla a pescare. Seduta a canto a
quella finestra, ella sentì suonar due, tre, quattr'ore al
campanile di S. Polo, quando un cameriere venne ad annunciarle che il
conte Alvise Pisani domandava d'essere introdotto.
Introdotto
ch'esso fu:
Mi rincresce, contessa, egli disse, d'essere stato costretto a
rompere il silenzio della vostra camera. Ma
voi non avete voluto appagare il desiderio vivissimo che avevamo
della vostra presenza nella mia casa in questa sera; vi supplico a
voler essere cortese all'invito che per mia bocca vi manda il doge.
Il doge?... e che... non ho io nessuna volontà, caro conte, di
occuparmi stasera in discorsi d'astronomia.
Perchè
il lettore possa comprendere queste parole, dee sapere che il doge
Grimani, uomo dottissimo, era particolarmente versato
nell'astronomia, e però la prima volta che gli venne
presentata, in un'altra serata musicale, la contessa Clelia, sapendo
quant'ella fosse istrutta in codesta scienza, s'era compiaciuto di
intrattenersi con lei in argomenti affini; e per quel discorso, che
s'era prolungato più di quello che parea comportare una
conversazione di diporto, esso avea fatto una così alta stima
della contessa, che parlandone poi a molti, avea contribuito ad
accrescere più che mai la voga in che era venuta la bella
lombarda.
Mi pare che non si tratti d'astronomia, rispose il conte Pisani. Il
doge ha bisogno di parlarvi per cosa d'importanza.
Il doge? ma perchè il doge? domandò allora la contessa
alquanto turbata, e alzandosi da sedere.
Vogliate essere tranquilla, contessa. Il doge non mi disse veramente
di che si trattasse, ma il suo aspetto era calmo. Onde non è a
temere di nulla. Forse, chi sa, sarebbe occorso che vi presentaste ai
Dieci. Ma i Dieci e il doge hanno forse voluto cogliere l'occasione
di un ritrovo quasi pubblico e di una spontanea intervista per
potervi parlare. Del rimanente un tale desiderio del doge è
noto a me solo. A voi pertanto non resta che di accettare l'invito
della contessa mia moglie, e onorare l'accademia della vostra
presenza, come naturalmente avreste dovuto fare se foste stata un po'
più amica di noi.
La
contessa stette un istante in silenzio, poi disse:
Ebbene, verrò...
E
un impeto di gioja occultamente le innondò l'animo; la gioja
del trovarsi costretta a far quello che assolutamente non avrebbe mai
fatto per sè stessa, ma che aveva desiderato con ansia
affannosa.
Il
conte Alvise partì. Ella chiamò le cameriere, e:
Mi è forza andare in casa Pisani; ajutatemi come si può
meglio e di gran fretta a vestirmi.
Ella
tremava in tutta la persona, e il fuoco dalle membra convulse le era
salito sul volto. La pupilla erasele fatta ardente più del
consueto, e un raggio insolito le lampeggiava tra ciglio e ciglio.
A
recarsi in casa Pisani per volontà propria erale in prima
sembrato una colpa gravissima, onde s'era trattenuta in casa; ma le
parole del conte Pisani le avean fatto parer quella visita un atto
indispensabile; sicchè il desiderio le fece afferrare con
cieca fidanza quel pretesto per illudersi da sè medesima. Non
rifletteva, no, che, fermamente volendo, non aveva nessun obbligo di
piegare nemmeno all'invito del doge. Ma provava un'esaltazione piena
d'ebbrezza e quasi voluttuosa nel pensare d'aver quell'obbligo, e
d'essere costretta a rivedere colui; d'altra parte, per le consuete
arcane fantasie della mente, le pareva quello un decreto espresso del
destino, e si consolava come di un presagio felice.
Non
bastandole il tempo e mancandole la voglia, si scelse vesti e
acconciatura semplicissima. Avvolse i capelli, che aveva in gran
disordine e non potevansi così presto disporre a parata, in
molti giri di una ciarpa di pizzo bianco di Gand, foggia allora
parimenti usata; puntandola davanti in sul confine della fronte, con
un grosso diamante che solo bastava a dar splendore ed aura d'Olimpo
a tutta la figura, e senza più se ne uscì.
Venuta
in Canal grande, erano affollate tante gondole nello spazio che
correva presso al luogo dell'approdo dalla parte del canale, che il
suo gondoliere piegò verso il rio e si fermò alla prima
scalea.
La
contessa discese, preceduta dal servo, e sindugiò
perplessa sotto l'atrio che mette allo scalone...
E
soffrirò che sia
Sì
barbara mercede
Premio
della tua fede, anima mia?
Tanto
amor, tanti doni!
Ah!
pria ch'io t'abbandoni
Pera
l'Italia, il mondo.
La
prima sillaba della parola mondo del celebre recitativo della
Didone di Vinci, usciva dalle finestre del piano superiore,
portata a volo da quel medesimo do sopracuto onde Amorevoli la
sera prima aveva fatto salire in furore il conte V... La contessa
subì la sorte di chi s'affaccia per veder la battaglia, e
senza più è colto nel petto da una palla che fischia.
Fu per cadere, sì le forze le mancarono, a quella vibrazione
sonora, e dovette appoggiarsi al servo.
Applausi
frenetici seguirono quel do privilegiato, che aveva il dono
della forza insieme e della soavità. E il recitativo continuò,
e venne la cadenza alle parole Numi, consiglio, in cui
la nota tenuta di un si bemolle di prodigiosa limpidezza e,
come dicono i maestri, di argentina sonorità, attraversò
gli spazi dell'aria, e non pareva voce da uomo, no, ma quella bensì
di un essere soprannaturale, incaricato di dar qualche buona notizia
ai mortali.
Insistiamo
su codeste qualità della voce d'Amorevoli, in prima perchè
i suoi contemporanei ne parlano come d'un fenomeno non mai più
udito; poi per far comprendere ai lettori che non v'è nulla al
mondo di più penetrante negli umani petti di una voce in
quella chiave; intendasi sempre quando è bella, perchè
non bastano i soli suoni a renderla pregevole. Molti uomini storici
denno ascrivere la loro fortuna all'avere avuto in dono una voce in
chiave di tenore. Il re Davide sarebbe stato trapassato dalla lancia
di Saulle impazzito, s'egli non lo avesse placato col sol, col
la e col si d'una soavità arcangelica. Eginardo
lo storico fu per la stessa ragione se invaghì Emma, la figlia
di Carlo Magno. Rizio e Monaldeschi erano tenori di mezzo carattere,
e innamorarono due regine. Sarebbe però stato meglio per loro
l'aver avuto tutt'altra voce, chè probabilmente sarebber morti
in pace al loro letto. Ma ciò non significa nulla contro il
nostro assunto. La voce di soprano sfogato ferisce le orecchie, ma
non lascia nulla nel cuore; la voce di basso provoca il rispetto ma
non l'affetto; ci sarebbe la voce di contralto, ma nei sùbiti
trabalzi dai suoni gravi agli acuti compromette troppo sovente i
buoni successi. Soltanto la voce di tenore impera sugli animi. Il
gobbo Tacchinardi, gobbo e nano, ed arieggiante più il
mandrillo che l'uomo, potè ai suoi bei tempi dispiegare la
lista di Don Giovanni, tanti capi femminili ei fece girare! chè
l'orecchio, lusingato dal suono maliardo della sua voce, lavorava
insidiosamente sugli occhi, innanzi a' quali, come a' tempi del mago
Merlino, usciva il silfo dal nano, il genio alato dal diavolo colle
corna. Dopo tutto, vogliam dire con ciò, che se una donna
s'innamora d'un tenore, non pretenda di poter bere l'oblio nemmeno in
Acheronte; e se qualche giovinotto ha per rivale un tenore, faccia
conto d'esser tisico in quarto grado, e di dovergli senza più
far la regolare cessione del suo tesoro.
Non
creda però il lettore che codesta sia una malizia di chi
scrive, per far le lodi della propria voce; tutt'altro; chi scrive
ebbe in sorte la voce di basso; soltanto gli toccò in dono,
quasi a titolo di compenso, un fa diesis squillante, di cui si
giova per aver ragione nelle dispute fracassose cogli amici.
Ma
tornando a donna Clelia, conquisa dalla voce d'Amorevoli, ella si
trattenne sotto l'atrio premendosi il cuore, finchè il
recitativo si svolse nell'aria:
Se
resto sul lido,
Se
sciolgo le vele,
Infido,
crudele
Mi
sento chiamar.
E
intanto, confuso
Nel
dubbio funesto,
Non
parto, non resto
Ma
provo il martire
Che
avrei nel partire,
Che
avrei nel restar.
Dove
appar chiaro come i fervori della passione congelassero nell'anima
fredda di Metastasio in tante formole precise e quasi aritmetiche,
avverse al genio della poesia e del dramma.
Ma
la musica di Vinci aveva l'abbandono e lo slancio e il sentimento che
mancava a quelle strofe; e Amorevoli vi mise nel renderla la duplice
virtù dell'arte più squisita e dell'animo il più
ardente.
Donna
Clelia, come i battimani rintuonarono nei cortili:
Or si può ascendere, pensò, e fatto lo scalone, entrò
nelle sale.
I
servi di casa Pisani, che la stavano aspettando, mossero a dimandare
il conte padrone, che accorse tosto a riceverla.
Preceduta
da lui fece l'ingresso nella maggior sala. Il fremito dell'applauso e
dell'entusiasmo recente che ancor durava là entro, cessò
di colpo alla sua comparsa, e vi successe un profondissimo silenzio.
Tutti gli occhi furono fissi in lei. Il conte Pisani, per toglierla
dall'imbarazzo in cui la vedeva impigliata, si volse tosto al conte
Algarotti dicendogli:
Ecco la contessa Clelia V..., de' cui talenti avete sentito a
parlare. E l'Algarotti si alzò e venne a sedersi vicino a lei.
Anche il doge la guardò da lunge, con atto di affabilissima
cortesia, e parve dirle:
Ci parleremo dopo con maggior comodo.
La
contessa intanto, rispondendo macchinalmente alle gentilezze del
conte Algarotti, guardava di furto allo scompartimento
dell'orchestra, dove Amorevoli era investito dalle congratulazioni
de' suoi colleghi: da Luchino Fabris, dall'Aschieri, dalla Turcotti,
dal P. Vallotti, che nella sua severità gli batteva una spalla
in atto di protezione; dal violinista Tartini, uomo di febbrile
vivacità, che ad attestargli la sua soddisfazione gli andava
squassando un braccio. Nè Amorevoli erasi ancora accorto della
comparsa di donna Clelia. Bensì il musico Fabris gli parlò
allorecchio, e l'avvisò dell'arrivo di lei.
Amorevoli
si volse lentamente, quasi che non fosse fatto suo...
Medesimamente
la contessa Clelia non fece atto nessuno, e stette immobile come
un simulacro marmoreo. Solo incontraronsi i raggi delle loro pupille,
e benchè gli astanti, che da quell'incontro s'erano atteso una
catastrofe, dicessero fra loro: Bada ch'ei pare, non si
conoscano nemmeno, pure l'effetto dell'incontro di que' raggi non
può esser reso che in parte da quella strofa fremebonda della
Parisina,
Un
sospiro, un senso arcano
D'un
amor maggior d'amore
Trapassò
da cuore a cuore
E
di gioja l'inondò.
Intanto
il conte Algarotti andava circuendo di domande scientifiche la
contessa, e d'una in altra notizia, rispondendogli ella pure alcun
che macchinalmente, la intrattenne dell'astronomo Lieberkam
conosciuto da lui a Dresda, quegli che nel 1743 aveva
inventato il microscopio solare; e le parlò del celebre
Clairut, colui che avea fatta la dimostrazione dello schiacciamento
della terra, mediante l'attrazione e la forza centrifuga. E la
contessa, alla sua volta, si trovò costretta a chiedergli
conto di Bouger, l'inventore dell'astrometro, e ad informarlo d'un
lavoro che in que' giorni il P. Frisi di Milano stava meditando sul
moto diurno della terra, facendo uso dell'analisi geometrica di
Newton, per mostrare che un tal moto non poteva essere impedito dalle
maree. Ma se il microscopio e l'astrometro e la forza centrifuga e
l'analisi geometrica di Newton fossero compatibili collo stato
dell'animo di donna Clelia, ognuno lo può pensare.
X
Intanto
che il conte Algarotti e la contessa attendevano a parlar di scienze
esatte, passava quel quarto d'ora o quella mezz'ora di riposo, in cui
i vecchi pigliano il tabacco, i giovani susurrano qualche parola
all'orecchio delle giovani, e queste pigliano il sorbetto o l'acqua
cedrata.
Tartini,
cessato di scrollare il braccio ad Amorevoli in segno d'entusiasmo:
Senti, disse, qui il nostro Luchino Fabris, questa seconda edizione
di Egiziello, m'ha raccontato le tue storie e i tuoi amori, e sono
contentissimo di te. Così va fatto. Anch'io a vent'anni misi
gli occhi addosso ad una fanciulla dell'alto cielo. Hanno tanto
orgoglio questi signori che si chiaman lustrissimi, e
son così persuasi d'esser fatti di tutt'altra pasta della
nostra, che di tanto in tanto conviene che qualcuno metta loro il
cervello a partito, e li faccia persuasi che è più
nobile di tutti chi è più giovane, più bello e
più bravo. Ecco i tre quarti della nobiltà vera; quello
che manca a fare i quattro quarti sta nella ricchezza che col merito
uno s'acquista. Dunque tu sei un nobile degno del tosone; e giacchè
a Milano non avevi amori, hai fatto benissimo a sceglierti qualche
stella del cielo superno, e a dar dentro in un marito borioso. Qui
Luchino mi ha detto che jeri tu eri prontissimo a batterti con lui,
ed egli ha rifiutato per orgoglio, ond'altri ha preso le tue veci. Ma
ciò non va bene; voglio conoscerlo io questo signor conte
lombardo. Già tu sai che la mia prima professione fu quella
dello schermidore, e fu un tempo in cui volevo metter sala d'armi, e
anche oggi non so chi abbia occhio più acuto e braccio più
fermo del mio. Dunque lascia fare a me a trarre in ballo questo
signor conte; che se ricuserà, lo assalirò di tratto,
senza dirgli nè asino, nè bestia; onde, se gli è
cara la vita, dovrà pur mettersi in sulla parata. Chi sa mai,
caro Amorevoli, ch'io debba farti il piatto a dovere, e che il conte
sia venuto a Venezia per trovarvi una tomba fatta d'acqua salsa e
d'alghe marine? Ma a proposito, dov'è questa signora contessa?
Io sto scrivendo qualcosa intorno ai principj dell'armonia musicale
contenuta nel genere diatonico, e in questo lavoro non posso
disimpacciarmi da certe formole numeriche. A lei dunque, ch'è
gran matematichessa, come sento dire, vo' dare a leggere il
manoscritto. Così farò la sua conoscenza. Io già
ho cinquantott' anni, e tu non devi aver gelosia di me.
Ma
il maestro Galuppi, a fermare codesta velocissima parlantina del
celebre violinista:
Ora è venuto il momento, signor mago, gli disse scherzando, di
evocare il vostro diavolo, e di mettere lo spavento in tutte queste
leggiadre gentildonne.
Per
comprendere queste parole del maestro Galuppi, dee sapere il lettore
che in quella sera Tartini doveva eseguito appunto quella sua
celeberrima sonata, così detta del Diavolo da uno
strano sogno ch'esso avea fatto, e che gli aveva messo il pensiero di
trarne una composizione musicale.
Avendo
il Tartini, a queste parole di Galuppi, preso il proprio violino,
l'Algarotti dalle matematiche balzò di tratto a parlar di
musica; che era una sua speciale ambizione, quando trovavasi con
qualche persona nuova, di percorrere tutto quanto l'ambito delle
scienze e delle arti, per far maravigliare chi l'ascoltava, della sua
straordinaria versatilità.
Non avete mai, contessa, sentito questo prodigioso violinista?
Non ancora; bensì ho sentito il Veracini, dal quale dicesi che
costui abbia molto appreso.
E il Giardini torinese? Il Giardini cantava col violino; ma costui lo
fa palpitare e fremere e piangere. Si direbbe che il suo strumento
sia un essere animato e dal quale, più che suoni, si debbano
attender parole e discorsi. Quando venne a Praga, dove io mi trovava
col principe di Prussia, ch'ora è il re Federico II, per
l'incoronazione di Carlo VI, nessuno sapeva spiegare il modo con
cui traeva dal violino tanta pienezza e rotondità di
suono. Chi pensava fossero qualità speciali della costruzione
e del legno del suo violino, chi dell'animale che avea date le corde.
E nessuno s'accorgeva che il gran segreto era nell'arco, nel modo di
governarlo, nella sua pressione sulle corde. Mi diceva il medesimo
Tartini, che il suo lungo esercizio in gioventù nel tirare di
scherma gli ha comunicata una tal vigoria nel braccio e nel polso, la
quale gli tornò poi utilissima a tenere l'archetto. Ma or ora
l'udrete e lo giudicherete nella suonata del Diavolo;
perchè tutto dev'essere strano e straordinario in costui.
La sua vita, le sue vicende, tutto, persino i titoli delle sue
composizioni. Doveva essere un frate, e rubò una fanciulla
patrizia. Studiava a Padova per fare il giureconsulto, e dì e
notte tirava di scherma e ingiuriava or l'uno or l'altro, e li
sfidava e li ammazzava a titolo d'esercizio. Va a sentir Veracini a
Firenze, e ne ha tanto avvilimento che si nasconde in Ancona per
sette anni a crearsi uno stile nuovo d'esecuzione, e fare la famosa
scoperta del fenomeno del terzo suono, a scrivervi suonate a
centinaja, e un trattato sulle amenità del canto. Infine,
venuto maestro di cappella al Santo di Padova, vi fa un sogno che lo
esalta sino alla pazzia e gli fa scrivere questa suonata che or ora
udrete, e che si chiama del Diavolo.
Ma come fu?
Sognò d'aver fatto un patto, e che il diavolo era al suo
servizio. Però gli diede a suonare il proprio violino,
per vedere quel che il diavolo ne avrebbe saputo fare, e ne udì
tal cosa che lo fece trasalire. Risvegliato per così violenta
sensazione, dà di piglio al violino per ripetere quel che
aveva udito, ma non seppe riprodurre, com'egli asserisce, che il
trillo del diavolo a piè del letto. Il resto non è che
una composizione di sua fantasia, e una variazione su quel tema, ma è
certo la più bella di quante ne ha scritte sin qui.
A
questo punto il maestro Galuppi si mise al pianoforte, e facendo
scorrere due o tre volte le dita sulla tastiera, richiamò
l'attenzione dell'uditorio, il quale fece un silenzio profondo,
quando Tartini col violino e coll'arco comparve al parapetto
dell'orchestra.
Nel
tempo che Tartini faceva correr l'arco sulle corde e regolava i
bischeri, l'Algarotti ebbe campo di sfoggiare la sua dottrina
archeologica sulla genesi del violino, confutando Aristofane e Ateneo
che fecero il violino coevo ad Orfeo, e confutando quelli che lo
vollero inventato dagli Indiani e donato all'Italia dalle crociate; e
piantandosi nell'opinione che vuole il violino figliuolo
dell'occidente, e probabilmente del principato di Galles, e
trascorrendo sui varj tramutamenti della sua forma, dalla viola
primitiva, alla viola da braccio, a quella da gamba; i quali a lungo
andare generarono poi in Francia il piccolo violino.
Oh che noja, caro signor conte Algarotti. Per fortuna che
Tartini cominciò l'adagio d'introduzione, e il conte dovette
permettere che la contessa, trasportata dalla seduzione di quello
stile incantato, s'immergesse con tutta l'anima nell'onda voluttuosa
della sua passione. Dall'adagio d'introduzione passò il
Tartini al secondo pezzo che è a due tempi e da questo alla
terza parte, la quale consiste appunto nel trillo del diavolo.
La
forza, la soavità, il fremito, la grazia, l'estensione
incalcolabile della voce che usciva dal suo violino, erano cose che
non si erano mai udite anteriormente a lui, e infatti egli era stato
il primo a trovare come la forza che deve spingere l'arco debba
radunarsi tutta nelle falangi delle dita; e a far in modo che la
mano, all'attaccatura, sia così pieghevole che sembri slogata.
Da questi segreti venne senza limite accresciuta la potenza del
violino, il quale, allorchè viene sotto la pressione di una
mano così ammaestrata, ma che riceva l'impulso da un gran
talento musicale, da una fibra nervosa e da un cuore agitato dalla
tempesta delle passioni, come avveniva appunto in Tartini, e come lo
fu poi in Viotti alcuni anni dopo, e al grado massimo, e fuori quasi
dei limiti naturali, in Paganini mezzo secolo dopo, è lo
strumento che più fruga ne' precordj a mettere in esaltazione
lo spirito. Non era dunque codesto il farmaco migliore pei nervi in
parossismo della contessa!
Dopo
il pezzo di Tartini, Luchino Fabris, l'imitatore di Egiziello, ebbe
la disgrazia di cantare l'arione dell'Euridice, che
per verità era il suo cavallo di battaglia, ma dopo, non
diremo l'entusiasmo, ma le convulsioni provocate dalla suonata del
Diavolo non fece nè freddo nè caldo. Tant'è
vero che a questo mondo le cose bisogna saperle fare a tempo. Se la
sua voce di musico fosse stata sentita in quella sera prima delle
oscillazioni tremende delle minugie incantate del violino di Tartini,
avrebbe fatto l'effetto che di solito produceva in teatro; ma pur
troppo dovette restarsene avvilito e pieno di dispetto.
E
qui un altro riposo succedette all'esecuzione di que' due pezzi,
durante il quale il doge Grimani si alzò, e recossi vicino
alla contessa Clelia.
Io attendeva, serenissimo principe, che l'accademia terminasse, e
questi egregi signori si dilungassero in altre sale, per potervi
parlare, e sentir dal vostro labbro per che grave cagione mi avete
mandata a chiamare.
Io spero che mi vorrete perdonare, contessa, se vi ho fatta venir qui
forse contro vostro genio. Ma d'altra parte, anche per adesione dei
signori Dieci, ho creduto di non dover farvi chiamare a Palazzo, come
pure avrebbe portato il debito. L'eccellentissimo Senato di Milano
scrisse al Senato di qui, e supplicandoci ad usar con voi tutti i
riguardi a che la vostra alta condizione e i vostri meriti speciali
hanno diritto, ci diede incumbenza di provvedere, come ci sarebbe
parso meglio, a mandarvi tosto a Milano.
Io non comprendo, altezza. Chi mi può impedire di vivere in
Venezia?
Noi no; ma il Senato di Milano dev'essere stato costretto a questa
determinazione da qualche circostanza straordinaria che noi
ignoriamo, e che non potete forse congetturare nemmeno voi. Il Senato
di Milano, serbando il silenzio anche colla nostra Repubblica,
quantunque per verità avrebbe dovuto parlar più chiaro,
ci ha fatto intendere, essere insorta così grave circostanza,
per cui è necessario che voi siate sentita in giudizio.
In giudizio io?
Dalla lettera dell'eccellentissimo Senato appare che la necessità
di sentirvi in giudizio sia una conseguenza della cattura fatta di
quel lacchè che voi ben sapete aver dimorato per troppo lungo
tempo a Venezia. Non crederei che si tratti di cagione più
grave. In ogni modo è bene che non se ne sappia nulla qui...
Se noi vi avessimo fatta chiamare a Palazzo, la città tutta
quanta sarebbesi tosto gettata in un mare di congetture e di dicerie,
e non crediamo che questo v'avrebbe potuto far piacere. Però
abbiateci per iscusati se abbiamo colta l'occasione di questa
accademia musicale, per mettervi a parte del fatto, e per
significarvi che domani occorre che vi mettiate subito in viaggio per
Milano. Per verità che, ad adempiere al mandato in modo che
non vengano frustrate le intenzioni del Senato di Milano, sarebbe
obbligo nostro, dovete perdonarci l'amara parola, di assicurarci
della vostra persona. Ma giacchè il Senato milanese ci prega
di avervi ogni riguardo, così interpretiamo la cosa più
ampiamente che sia possibile, e mettiamo la nostra fede in voi. Il
Senato veneto è così persuaso, contessa,
dell'incomparabile vostra lealtà che vi lascia in piena balìa
di voi stessa.
La
contessa Clelia stette per qualche tempo in silenzio, percossa da
quelle parole del doge, poi rispose:
Non mi sarebbe difficile, serenità, indovinare la cagione di
tutto ciò, se il Senato di Milano mi avesse scritto
direttamente. La cattura del lacchè dev'essere successa per
una lettera ch'io scrissi a Milano; onde parrebbe probabile che il
Senato volesse sentirmi per raccogliere indizj in una questione
gravissima, che adesso non occorre menzionare; ma l'avere incaricato
di ciò il Senato di Venezia, senza far scrivere nulla a me
stessa, distrugge al tutto una tale congettura. Però, altezza,
mi pare come di essere caduta in un abisso, senza sapere chi m'abbia
dato la spinta. Abbiate però la mia fede che io sarò a
Milano religiosamente nel più breve tempo possibile, per
quanto dipende da me.
Può
parere strano come in questo breve dialogo nè la contessa
abbia mai parlato del conte marito, adducendo al doge il fatto ch'ei
trovavasi in Venezia; nè il doge, che pur sapeva tutto, non le
abbia mai toccato un tal tasto. Ma la contessa naturalmente scansò
di nominare chi poteva farla arrossire. E il doge a cui era stato
riferito il fatto del duello, tacque perchè e l'autorità
suprema di Venezia e tutte le altre autorità subalterne avevan
l'obbligo di ignorare una cosa che, nota, doveva provocare una pena a
danno degli infrattori di una legge della Repubblica contro il
duello. Chè tanto allora, come prima, e come dopo, e come ora,
non possiam dire come sempre, il duello costituiva un fenomeno sui
generis del codice criminale, pel quale era esso proibito e
punito; e nel tempo stesso era punito e svergognato chi non lo
accettava, e non adempiva agli obblighi assurdi che traeva seco. Onde
l'autorità, come una mamma innamorata dei figli, chiudeva un
occhio, quando sapeva che un Veneziano dava od accettava un duello, e
si compiaceva del suo coraggio; mentre poi esagerava nelle ordinanze
pubbliche la severità delle frasi contro i trasgressori delle
leggi.
Un'altra
cosa poi dobbiamo far osservare ai lettori che della Repubblica di
Venezia e dei Dieci si son fatti un'idea convenzionale, tutta nera e
tutta cupa. Essi avran fatto le maraviglie a vedere il doge parlare
in tanta dimestichezza, e quasi da privato, alla contessa. Ma delle
terribili apparenze dell'autorità la Repubblica facea conto
nelle gravi bisogne della patria, e non in tutte le circostanze della
vita pubblica e privata. D'altra parte la serenissima, è forza
confessarlo, non era più quella de' secoli antecedenti. La
lettera degli statuti era intangibile, ma le costumanze s'erano
venute attiepidendo. In una parola, s'era messa anch'ella in cipria e
parrucca ad onta del canal Orfano e del Ponte de' Sospiri, che sono
gli spauracchi perpetui de' drammaturghi stranieri e de' nostrali che
scrivono per gli anfiteatri.
Tornando
ora al doge e alla contessa, essendosi mostrato il P. Vallotti a
batter la solfa, perchè doveva aver luogo, a chiuder
l'accademia, un suo coro fugato, si disgiunsero con atto di reciproco
rispetto.
E
il coro fugato venne eseguito tra gli sbadigli dell'adunanza, chè
esso stava alla musica come il Pape Satan Aleppe alla poesia,
sebbene Tartini lo ammirasse e ne fosse compunto.
A
notte alta le sale a poco a poco si vuotarono. Quando Tartini si
volse per cercare Amorevoli, questi era già scomparso;
scomparso prima che la contessa uscisse dalla sala.
XI
Abbiamo
lasciato il conte V... e il giovane Angelo Emo intenti ad adempire
alle prammatiche preliminari di un duello: di questo mezzo assurdo di
riparare le ingiurie, il quale, nato in seno alla barbarie, si è
prolungato insino a noi, e vi s'è piantato in guisa che
moralisti e filosofi e legisti non arriveranno forse mai a sradicarlo
del tutto. Almeno i Barbari erano più logici di noi.
Dipartivano bensì da una falsa premessa nell'assegnare i
motivi a tale costumanza, ma, dopo la premessa, cessava l'assurdo e
le deduzioni camminavano regolarmente. Nel duello, che per loro non
era altro che un modo dei giudizj di Dio, essi ponevano per principio
che la divinità avrebbe data la vittoria a chi aveva la
ragione. Codesta credenza spiega la causa primitiva del duello, il
quale poteva sussistere fin che le menti rimanevano acciecate dal
pregiudizio; ma non si sa più conciliarlo con verun fine
logico dal giorno che tutti furono persuasi che la vittoria dipende
dalla fortuna e dalla vigoria, non mai nè dalla giustizia, nè
dall'intervento divino. Anzi il fatto diventa ancora più
inesplicabile quando si pensa che, precisamente allora che il mondo
fu persuaso che Dio non interveniva in codeste prove a fiaccare il
braccio di chi aveva torto, e a dar forza al debole che aveva
ragione; precisamente allora, ossia nel secolo decimoquinto, quando
la civiltà sembrò avviata verso la sua massima altezza,
sorsero scrittori a decine per comporre quella che chiamarono scienza
dell'onore e del duello.
I
legisti di quel secolo, volendo giustificare il duello, si piantarono
sull'idea dell'onore convenzionale, senza riguardo nessuno alle leggi
invariabili della morale; onde i celebri giureconsulti Passevino,
Paride del Pozzo, Baldi, Grimaldi e gli altri seguaci, offrono il
miserando spettacolo della scienza intenta ad accrescere occasione
alle aberrazioni dello spirito umano. Così il duello, nato
spontaneamente in seno a popoli barbari, come un mal frutto d'una
mala pianta, fu innalzato all'onore di sistema scientifico dalla
civiltà, per cui l'errore insegnato dalle cattedre
accrebbe i modi e i mezzi delle offese. Bensì quarant'anni
prima del tempo in cui il nostro conte colonnello dovette accettare
il guanto dal giovane Angelo Emo, quell'autorità dei vecchi
legisti era stata messa in brani da un grande e coraggiosissimo
ingegno, dal marchese Scipione Maffei, col suo libro della scienza
cavalleresca, a cui appose il bel motto nos nostra corrigimus;
e quel libro fece senso in Italia e fece senso in Francia, e trovò
sostenitore del nuovo assunto Rousseau; e forse Luigi XIV, forte
della sapienza dell'uno e dell'altro, multò il duello colla
pena di morte, e instituì il tribunale de' marescialli; e il
suo successore accrebbe nell'applicazione la severità alla
lettera stessa dell'editto. Ma per quanto in quegli otto lustri si
fosse fulminato e scritto e parlato contro il duello, il duello era
tuttavia all'ordine del giorno; chè il prestigio del coraggio
e dello spregio della morte consigliava indulgenza agli stessi
esecutori della legge; e più spesso, non potendosi infrangerne
il dettato, se un duello avveniva a dritta, lautorità,
come vedemmo, guardava a sinistra.
Nè
pur in codesto fatto, nei cento anni che sono decorsi, non si può
dire che siasi fatto un progresso. Sussiste ancora il prestigio del
coraggio, sussiste ancora la falsa idea dell'onore. Ed anzi crebbero
i sofismi e le sottigliezze e i sotterfugi della mente nel cercare i
modi di salvare lonore senza nemmeno fare appello al coraggio.
Son noti i molti duelli a' dì nostri, dovuti indire ed
accettare, per far pago il rispettabile pubblico che chiama vile chi
non discende sul terreno, foss'anco per un nonnulla; duelli così
ben preparati dai pietosi padrini, che la vita de' duellanti fu tanto
al sicuro sul terreno della battaglia, quanto sull'origliere dei
placidi riposi; onde contemporaneamente alla misura delle pistole e
all'assaggio della polvere, e al giuoco de' bussolotti onde si facean
scomparire le palle micidiali, il più celebre ristoratore
della città stava ammannendo il più lauto asciolvere, e
apprestando sulla mensa lieta lo spumante sciampagna. E ciò
tuttavia fu decretato potesse bastare per l'onore. Però,
stando così le cose, ed essendovi nell'umanità malattie
del cervello croniche e incurabili, si può ben profetare un
completo fallimento alle società che in Francia, in Germania,
in Inghilterra s'instituirono contro il duello; a meno che non vi si
consocii l'autorità costituita fondando i tribunali
d'onore, onde provvedano a riparare coi loro placiti a quelle
ingiurie speciali che fin qui non si credettero vendicabili che dal
duello.
Ma
comunque fosse e comunque sia di codesta faccenda, Angelo Emo lo
propose e il conte V... lo accettò, senza darsi un pensiero al
mondo di quel che se ne giudicava e diceva e scriveva dai loro dotti
e onesti contemporanei. Anzi, se non il giovane Emo, che era
istruttissimo, è probabile che il conte V... non sapesse nulla
nè di Scipione Maffei, nè di Rousseau, nè di
tutta la parte teorica relativa all'abolizione del duello e solo
avesse contezza così in digrosso degli editti dei due ultimi
Luigi di Francia.
Si
recarono dunque in compagnia dei loro padrini al confine
dell'estuario veneto, e là da veri gentiluomini che dovevan
ferirsi senza aver nemmeno nè il bene nè il male di
conoscersi, si apprestarono a incrociar le spade, fermo dagli arbitri
che la sfida dovesse essere, secondo la più generale
consuetudine, a primo sangue; il quale, secondo Rousseau, è
il modo più assurdo di duello, più assurdo del medesimo
duello all'ultimo sangue. Perchè, diceva esso in uno di
que' suoi impeti di generosa facondia, al primo sangue?...
gran Dio! e che vuoi dunque tu fare di questo sangue?
beverlo forse, o bestia feroce? Ma questo primo sangue eruppe
con un lieve zampillo dalla clavicola sinistra del conte V... a
fargli rossa la bianca lattuga che gli usciva dal panciotto; zampillo
lieve di più lieve ferita e che fu giudicata un nonnulla dal
chirurgo ch'era presente.
Ma
non può immaginarsi il lettore come riuscisse profondissima la
ferita che ricevette l'orgoglio del conte, e l'ira che provò
contro la fortuna, la quale diede la vittoria al suo giovane
avversario, di gran lunga inferiore a lui nel maneggio della
spada. Quell'ira però dovette chiudersela in petto, perchè
le leggi della cavalleria non permettevano che, compiuta la prova
dell'armi, si facesse il viso dell'armi all'avversario, al quale
doveva anzi cordialmente stringersi la mano.
Adempiuto
pertanto alle prammatiche posteriori al combattimento, il conte V...
e il giovane Emo e i padrini e il chirurgo ritornarono tutti a
Venezia.
Il
conte entrava nella laguna che facevano le tre ore di notte. Torbido
com'era, e pur non avendo nessun proposito bene deliberato in testa,
discese all'albergo, e, ripartito, andò alla casa Salomon dove
aveva in animo di recarsi fin dalla prima sera, ed erasi indugiato,
assalito, come il lettore sa, da cento pensieri in battaglia. Nè
cosa volesse fare, ei lo sapeva nemmeno, dopo ventiquattr'ore; bensì,
per determinarsi, quando fu là, percosse due o tre volte col
martello la porta che rispondeva alla parte di terra.
Le
imposte si spalancarono, e si mostrò il guardaportone.
Non è in casa nessuno, diss'egli, senz'attendere che il
nuovo venuto parlasse.
Nessuno?
L'ho già detto.
Allora aspetterò fin che venga qualcuno.
Quando non c'è nessuno in casa, ho l'ordine di non lasciar
entrar anima viva, signore.
Non c'è nemmeno l'illustrissima contessa V... di Milano?
Nemmeno. Ma anche allora ch'ella è in palazzo, gli è
come se non ci fosse; e non riceve nessuno, nessuno affatto.
Ciò va bene. Ma io sono il conte suo marito, venuto
espressamente da Milano, e devo e voglio e ho il diritto d'entrare.
V. S. illustrissima mi perdoni, ma debbo tenere gli ordini. Io poi
non so che V. S. illustrissima sia davvero...
E credi tu ch'io voglia vendermi per quello che non sono? Va là
in malora e lasciami entrare, ch'io stesso parlerà a' tuoi
padroni e alla contessa. E così dicendo sforzò, a così
dire, l'ingresso; ed entrò in quel lungo androne che, nelle
case di Venezia, mette in comunicazione la parte di terra con quella
del rio.
Signore, questa è una violenza di cui il padrone, che è
senatore...
Taci, e bada a te, che nemmeno il diavolo basterebbe a farmi uscire
di qui, non che un senatore; e ho nelle valigie il tuo padrone e la
tua Repubblica e il Senato e il doge e il corno.
Così
dicendo, calcato in testa il cappello a tre punte filettato in oro,
abbottonatosi il soprabito turchino da viaggio, ch'era lungo fino
agli orli degli stivali e aveva il bavaro pur filettato in oro che
copriva le spalle, misurava a gran passi quell'androne colla grande e
grossa figura; spingendosi di tanto in tanto fin sul primo gradino
della scalea verso il rio a guardare a dritta, a sinistra, a porger
l'orecchio, a stare in ascolto se mai venisse qualcuno; poi tornava a
passeggiare innanzi e indietro, facendo risuonare sotto la vôlta
lo sgarbato scricchiolio de' suoi stivali forti.
Ed
or lasciamolo passeggiare a sua posta, chè noi dobbiamo
ritornare al palazzo Pisani fra i gondolieri schiamazzanti, a piedi
delle scalee, nei cortili interni, ad assistere al passaggio delle
belle veneziane, e a dare il braccio alla contessa Clelia per
ajutarla ad entrare in gondola e ad adagiarsi sotto il felze.
Scendevano
dunque tutte a quell'ora dallo scalone di casa Pisani le ultime e più
cospicue beltà patrizie convenute all'accademia. E
precisamente s'eran trattenute le ultime per un tacito accordo della
loro ambizione e della loro civetteria ad accrescer l'ansia de'
giovani cavalieri, aspettanti in due schiere sotto l'atrio che
esse facessero loro la carità di qualche occhiata. Discendeva
la contessa A..., quella che possedeva gli occhi più grandi e
più glauchi in tutto l'estuario veneto. Beltà
calcolatrice e perfida, che si compiaceva della interminabil schiera
delle sue vittime, e che bisognava ostentar di sprezzarla, per farle
spuntare in cuore, se non l'amore, almeno qualche velleità di
simpatia. Discendeva la M..., bruna beltà capricciosa, dalla
pelle di raso, e dall'occhio andaluso, lucente e tremulo come l'astro
di Venere, e che precisamente, pari alla dea che imprestò
questo nome a Lucifero, trattava lo sposo come Vulcano, quantunque
non fosse zoppo, e lo sagrificava a Marte, anzi a un drappello di
semidei più o meno guerrieri che si movevano in evoluzione in
faccia a lei, e ch'ella cangiava e sprecava come i guanti e le
pantofole. Discendeva la B
, bellezza epigrammatica e mordace,
che già navigava cogli anni verso l'equatore della vita
femminile, e copriva di nèi le incipienti rughe, che un suo
amante corbellato e tradito chiamava i solchi del peccato. Discendeva
la S
, beltà perfetta, ma più carnale che
spirituale, dall'occhio di capra, dal collo della Diana efesia, dalle
membra in cui trionfava la linea curva; sparpagliante a tutti sorrisi
ed occhiate, e che era la delizia dei giovinotti in pensione, che,
varcati i trentacinque, galoppavano verso i quarant'anni.
Discesero
altre più o meno desiderate, più o meno belle, più
o meno alte, più o meno grasse; sebbene il guardinfante dal
cinto in giù le facesse tutte d'una circonferenza... e tra
l'ultime discese la contessa Clelia, che Alvise Pisani e il
procurator Foscarini accompagnarono alla scalea, presso alla quale,
sotto l'atrio, successe come un ingorgo d'uomini e donne, mentre al
di fuori era una confusione inestricabile di gondole e di gondolieri,
i quali rispondevano, Vengo, Son qua, al servo colla
torcia che gridava i nomi dei signori che si presentavano per andar
via: Casa Mocenigo, conte Erizzo, senator Barbaro, Polcastro,
Caotorta, Zen, contessa Rezzonico, contessa V..., e questa, dopo un
quarto d'ora d'aspettazione, sentì la voce del
gondoliere Bianchi, ch'era scivolato tra gondola e gondola fin lì.
Il conte Pisani diede il braccio alla contessa, che discese
finalmente i gradini, e si adagiò sotto il felze.
Intanto
da più di mezz'ora Amorevoli stava nella sua gondola ferma in
Canal grande, importunando di continuo il gondoliere:
Ma bada che non ti sfugga.
La se fida de mi...
Ma sai tu ch'è già passata un'ora...
Gnanca mezz'ora, sior.
In tante gondole, come vuoi tu conoscere?...
La lassa far a mi. Nu altri semo come bracchi
se ghe ze el
salvadego... nol scapa... La se meta intanto a dormir.
Ho già visto a passare più di trenta e di quaranta
gondole.
De zento che ghe ne ze... la fazza conto, patron, che semo indrio...
Ma la guarda che la ze là... ch'el se consola, sior. E
spingendo la gondola codiò dalla lunga quella della contessa
per qualche tempo, poi, quando gli parve seconda l'occasione, le si
portò ai fianchi.
Buon dì... compare, disse il gondoliere al Bianchi.
La
finestra del felze d'Amorevoli era a due dita dalla finestra del
felze della contessa.
Donna Clelia, egli disse...
Ella
trasalì a quella voce, e non rispose; Amorevoli seguì a
dire altre parole, ma la contessa non parlò.
Allora
il gondoliere Bianchi che, stando in poppa, s'accorse del silenzio
della contessa, sospettando ch'ella fosse in un malo impaccio...
diede due o tre colpi di remi
e si portò innanzi di
tutto lo spazio che misura appunto una gondola, e disse anche qualche
mala parola al gondoliere di Amorevoli; e siccome era di tanto più
robusto di colui... lo sopravanzò di sì lungo tratto
che l'altro indarno s'attentava di raggiungerlo; mentre come un fuoco
d'artifizio Amorevoli sagrava al lento gondoliere. Infine, la gondola
della contessa svoltò nel rio San Polo. Amorevoli dice al
gondoliere: Va là e t'affretta che la raggiungeremo. Ma
il Bianchi era già pervenuto alla casa della contessa, che
Amorevoli procedeva ancora discosto. Se non che, in quel punto, ode
la voce della contessa, anzi un grido, poi una voce d'uomo, e un
rumore di parapiglia. È vicino alla scalea della casa. È
presso alla gondola della contessa; vede il gondoliere Bianchi che
appoggia un colpo di remo sul cappello a tre punte di un uomo d'alta
statura, ch'ei ravvisa pel conte marito. Il cappello a tre punte,
inconscio di tutto, fa tre giri grotteschi come un paléo, e
cade in laguna. Il conte sfodera la spada e si fa addosso al
gondoliere, e l'uno e l'altro cadono a fascio nella gondola, intanto
che la contessa piega come in deliquio sulla prora... Tutto questo
avvenne in men tempo che noi abbiamo impiegato a dirlo... e
Amorevoli, inspirato non si sa da che, ma pronto come una molla che
scatti, prende la contessa e, ajutato dal gondoliere, la porta di
peso nella propria gondola
mentre dice: Or t'affretta e
non farmi il poltrone.
Nè
il conte, nè il gondoliere Bianchi che stavano a fascio nella
gondola, non feriti per fortuna, ma bensì martellandosi senza
distinzione di rango, poterono veder quel ch'era avvenuto; nè
il guardaportone accorso, intento al parapiglia; onde il gondoliere
d'Amorevoli si partì senz'impicci... e dopo cinque minuti era
già in Canal grande.
Quando
furono colà, Amorevoli respirò; ma non era ancora
tranquillo, sicchè fece intendere al gondoliere che vogasse
più al largo... e il gondoliere si spinse infatti verso
il canal de' Marani. Intanto la contessa fu scossa dagli aliti
freschissimi della notte e tanto quanto si riebbe; e vedendosi faccia
a faccia con Amorevoli, raccolse gli sparsi pensieri e, fatto alla
meglio il riepilogo di tutto, gli strinse la mano. Certo che non
avrebbe fatto nemmeno quest'atto, per sè al tutto innocente,
se fosse stata pienamente in sè stessa; ma dal recente
turbinìo dei sensi, la ragione non essendosi ancora tutta
quanta sviluppata, l'istinto teneva il suo posto; e l'istinto, il men
che potè fare, fu di permettere che la sua mano stringesse
quella d'Amorevoli, in segno di gratitudine.
E
dopo quella stretta di mano, che lasciò un'impressione
indefinibile sulla mano di Amorevoli, vennero le parole tronche,
breviloquenti, infuocate, che non ripetiamo perchè per noi non
avrebbero senso, tanto ne avevano per quei due! parole che,
nell'enfasi erotica, per quelli che le profferiscono hanno un
significato che non è inteso da chi le ascolta nella calma di
un cuore senza passione. Bensì nella pienezza luminosa di
quella gioja istantanea, sapean pur penetrare colla loro acutissima
fitta i pensieri del passato e del futuro, e i laceranti rimorsi.
Ma
vi sono momenti della vita in cui, al cospetto di un bene presente
insperato e supremo, non possono prevalere tutti gli altri pensieri e
tutti gli altri dolori. Momenti in cui persino il colmo della
sciagura, che pur troppo si presagisce dover essere duratura,
comunica al piacere fuggitivo un'esaltazione senza pari.
E
qui ci vorrebbero le essenze di rosa, di mirra e belgioino distillate
già nella fabbrica di Tomaso Moore di Londra, e passate poi in
Italia nella casa figliale di Prati; qui ci vorrebbero le flebili
eleganze di Aleardi, di Maffei, di Gazzoletti, per cantare il
cantante Amorevoli che muto e pensoso, stava contemplando l'inclita
donna pensosa e muta; qui ci vorrebbe qualche svolazzo degli altri
poeti minori, che appartengono alla famiglia dei pettirossi, dei
canarj e dei capineri, perchè aliassero e gorgheggiassero e
pipilassero in segno di festa intorno a costoro, che usufruttano un
quarto d'ora di gioja ineffabile, a dispetto della loro falsa
posizione.
Notte,
cielo stellato, chiaro di luna, Venezia, canal Orfano, canti lontani
smorenti nell'aria, gondolieri colle sventure d'Erminia in bocca. Due
esseri nell'infelicità felici, un marito terribile lasciato
sotto il pugno e il remo d'un gondoliere poeta, eccitabile e
fantastico; un passato con de' rimorsi, un avvenire tenebroso: ecco,
o signori, consommé di poesia e di romanticismo.
Or
qui venite, o giovani fantasiosi e teneri, e voi tutti, che se foste
fiori, non potreste esser altro che l'erba sensitiva, venite e
volteggiate a vostra posta e in tutti i modi in codesta azzurra sfera
che vi appartiene in diritto. Quanto a noi, non abbiamo a far altro;
chè il nostro cuore è ruvido oggimai come la
pelle di un postiglione.
Ma
dove eran diretti que' due felici infelici?... Ma in che ora il
gondoliere rivolse il ferro dentato verso la città?
La
risposta a queste domande il lettore potrà averla assistendo
in seguito a strane cose che avverranno nella città di Milano
nell'anno 1766. Per ora,
Galeotto
fu il libro e chi lo scrisse,
nè
più vi possiam leggere innanzi.
LIBRO
QUINTO
Il
conte F... e il suo bisavolo. I medici Moscati, Patrini e
Gallaroli. L'agente Rotigno e don Alberico F... Donna
Paola e la contessa Clelia V... L'avvocato Agudio. Un
rotolo di cento zecchini e l'avviso a stampa di casa Morosini.
Il Capitano di Giustizia e la contessa Clelia. Il Viatico
Il confessore e l'erede. Storia del Senato di Milano.
La tortura, il Galantino e il senatore Morosini.
I
Il
giorno ventitrè o ventiquattro maggio salv'errore, un lungo
strato di paglia copriva quasi tutto il selciato della via*...
Peccato che gl'importuni riguardi ci proibiscano d'indicarla.
Le
carrozze, i carri, le carrette cessavano di far rumore appena
impigliavano le ruote in quello strame. La qual cosa, tanto allora
come adesso, voleva dire che giaceva là presso gravemente
ammalato un beneficiato della fortuna. La ricchezza, lo sfarzo, la
vita gaudente, persino l'orgoglio e la prepotenza fanno men crudo
senso sulla moltitudine di tale insegna di ricchezza, la quale in
fine non è che un'insegna di paglia; e la povera plebe
che ha consumata per sè stessa tutta la sua pietà, si
ricatta spesso, e nel passare, lanciando all'illustrissimo infermo
crudeli epigrammi. Però, se noi fossimo ricchi, faremmo
collocare verso corte o verso i giardini il nostro letto, e
lasceremmo la paglia a suo luogo, a placare così la pubblica
maldicenza, e ad aspettare in segreto che la dea salute tornasse a
confortarci, senza fare oggetto di spettacolo pomposo persin la
febbre e il vomito e il secesso.
Ma
chi giaceva allora a letto obbligato da questi tre incomodi era il
conte F..., fratello del defunto marchese.
Come sta il signor conte? diceva un tale al guardaportone, il quale
stava dondolandosi sulla soglia del palazzo.
Male, sempre male, anzi peggio: oggi a mezzodì si terrà
consulto tra gl'illustrissimi signori dottori Bernardino Moscati,
Guglielmo Patrini e il dottor Bartolomeo Gallaroli, che è il
medico della casa.
Che Dio vi scampi dai consulti... ma già questo di solito è
il malanno di chi ha il diritto di levar colla paglia il rumore delle
ruote... Più crescon le cure e le premure, più crescono
i pericoli.
E
a queste parole s'attraversava la domanda d'un altro, che passava:
Come sta il signor conte?
Trattasi di un consulto...
Più che la medicina sarebbe meglio consultare la carità,
la medicina dell'anima, la quale non tarderebbe a dirgli che, per
guarire, bisognerebbe fare qualche atto di beneficenza, e non lasciar
nella miseria la madre del figlio di suo fratello...
Queste cose andate a dirle a chi vi piace, non a me che mangio il suo
pane...
Voi parlate bene... ma il vostro padrone opera male. Però
state di buon animo, che se mai venisse a morire, come pare che
voglia succedere a tutti gli indizj, non saranno pochi quelli che in
Milano berranno alla salute dei medici che lo hanno accoppato.
Come
dunque ora ha sentito il lettore, il conte F... non avea nessuna
buona fama presso i suoi concittadini. Di lui e delle sue qualità
caratteristiche non si conoscevano che l'avarizia fastosa e
l'orgoglio. Era tradizionale il cattivo credito in cui era tenuto il
suo casato, fin dal bisavolo che aveva tormentati i figli cadetti per
concentrare nel primogenito tutte le ricchezze. Codesta, come sanno i
nostri lettori a sazietà, costituiva allora un modo
impreteribile nell'economia della ricchezza patrizia; ma v'erano
tuttavia diversi mezzi di farla valere, e i mezzi adottati da quel
bisavolo furono de' più disumani. Bensì un ricchissimo
parente, il quale non aveva avuto buon sangue con quel tristo
antenato, per fargli dispetto, lasciò erede di tutto il
proprio un suo figlio secondogenito; (chè troppo spesso nei
testamenti, i quali, essendo fatti in fin di morte, dovrebbero pure
essere atti di purificazione di tutta la vita, si condensa invece
tutta l'acredine morbosa d'una mala esistenza). E colui vincolò
la cosa in maniera che, rimanendo senza figli il suo erede, la
sostanza dovesse passar sempre al secondogenito. In virtù di
questa disposizione, il conte F..., dopo avere, nella sua qualità
di secondogenito, odiato per cinque anni il primogenito marchese, e
vissuto in continuo timore che lo zio non morisse abbastanza in
tempo, e potesse mai congiungersi ad una moglie feconda, ebbe
finalmente la consolazione di sentirsi annunciata la morte dello zio,
e di andare al possesso di quelle sostanze che gli si competevano per
diritto.
Questo
fatto, togliendo di mezzo le funeste disuguaglianze, avrebbe dovuto
scemargli l'avversione ch'egli avea pel fratello marchese; ma fosse
che, duratagli in petto tanti anni, quella fosse passata in istato
cronico, o il pingue cibo gli avesse cresciuta la fame; dal giorno
precisamente in cui diventò ricchissimo, cominciò a
pensare, struggendosi di desiderio, come il casato F... sarebbe stato
il più ricco di Lombardia... se le sostanze del marchese e le
proprie si fossero unite in una facoltà sola. E a questa
considerazione tormentosa dava ansa il fatto che il marchese viveva
una vita scostumata e discola, e non aveva un pensiero al mondo
d'accasarsi con nessuna patrizia nè di Milano nè di
fuori. I luoghi comuni e le tirate sulla virtuale ferocia
dell'ambizione si trovano in tanta copia presso tutti gli autori di
commedie e di tragedie e di racconti morali, che torna affatto
inutile una nuova dimostrazione delle sue attitudini spaventose,
segnatamente dopo la famosa parlata del convenzionale Aristodemo;
però, il lettore può farsi capace dello stato
dell'animo del conte F..., e come avesse tremato ad ogni annuncio che
il marchese prolungasse di troppo i suoi amori colla tale e colla
tal'altra; e come si fosse consolato alla novella ch'erasi finalmente
risoluto di mandar al diavolo colei che avea tenuto il segreto di
dominarlo più di tutte; e come avesse provato gli effetti di
un colpo apopletico quando sentì che una amante di colui
aveagli partorito un figliuolo, ed egli erasi acconciato a conviver
con essa e con esso; e come un contraccolpo apopletico gli fosse
minacciato dal giubilo che lo fece trasalire alla notizia che il suo
fratello, come Abramo, avea finalmente ripudiata quell'Agar in uno
col suo Ismaele; e come poi gl'imperversasse nell'animo una vicenda
tormentosa di timori e di speranze, quando, percosso il fratello
marchese da lunga e penosa malattia, il conte sentì a
vociferarsi d'intorno che il prevosto di San Nazaro, cogliendo al
varco la di lui natura, fatta più mite dal malore, lo avesse
consigliato a non lasciare in balìa della fortuna l'innocente
fanciullo ch'esso ebbe dalla infelice Baroggi, e come anzi per
dettatura del notajo Macchi avesse scritto di proprio pugno un
testamento a favore di quel fanciullo medesimo.
Tutto
il resto è già noto al lettore. Gli rimane però
a sapere che l'agente di casa F... il quale fu l'uomo adoperato dal
conte per tentare il lacchè Suardi, era un tal Giorgio
Rotigno, che conosceremo meglio a suo tempo. Ora, se il marchese F...
erasi messo a letto molti mesi prima, per lasciarsi consumar
lentamente dalla ricomparsa di un antico morbo ribelle ad ogni cura,
il conte s'era messo giù invece alquanti giorni prima della
partenza per Venezia del conte V... e del fratello della contessa
Clelia, per malattia violenta sopraggiuntagli in giorno di venerdì,
dopo aver fatto un lauto pranzo di magro.
Ma
il mezzogiorno stabilito pel consulto non era lontano, e alquanti
servitori di casa F... stavano sulla porta attendendo che venissero i
due medici consultori e il medico della cura. Ed ecco che non
si tardò a sentire il lontano rumore di una carrozza, la quale
dal lastrico e dall'acciottolato svoltando nella via sullo strato di
paglia, smorì in un fruscìo lento e maestoso, e si
fermò davanti al palazzo. Era la carrozza del dottor
Gallaroli, che dopo pochi minuti venne raggiunta da quella del dottor
Bernardino Moscati, e infine da quella del medico chirurgo
Patrini. I passeggieri si erano fermati a veder discendere quelle tre
celebrità mediche. Il dottor Moscati, padre di Pietro, era un
vecchio alto, secco, arcigno, angoloso. La moltitudine lo guardava
con venerazione insieme e con spavento.
Esso
era professore d'anatomia nell'ospedale maggiore, e veniva chiesto a
consulto in molte città anche fuori del Ducato nei casi
gravissimi di malattie. Patrini era professore di chirurgia pratica,
temuto anch'esso per l'imperterrita asprezza, ond'era fama che
sgomentasse gli amputandi per averli docili e immobili sotto al ferro
operatore. Dalla scuola di lui e del Moscati doveva poi uscire il
celebre Paletta. Il dottor Gallaroli era un ometto rubicondo e
allegro, ricercatissimo in tutte le case cospicue e un po' agiate
della città, perchè dicevasi che guariva spesso gli
ammalati colla sola sua presenza e col buon umore onde purgava l'aria
mefitica delle stanze da letto. Smontati i dottori dalle carrozze, e
scomparsi dalla vista del pubblico, la ragazzaglia, com'è
consueto, si fermò a vedere le rispettive carrozze e i
cavalli.
È
difficile a spiegare il fenomeno, ma le bestie domestiche ritraggono
assai del carattere dei loro padroni, o diremo più giusto,
della professione dei loro padroni; segnatamente i cavalli da tiro
che stanno lungo tempo al loro servizio. Il cavallo di un medico,
inquartato e ben pasciuto, ha qualcosa di solido, di posato, di
severo, che impone alle moltitudini press'a poco come il cavallo d'un
arciprete. Un occhio avvezzo, senza conoscere il padrone, può
distinguere al corso e tra la furia delle carrozze il cavallo del
medico dal cavallo del sensale, da quello del patrizio titolato, e
perfino può distinguere le gradazioni d'indole e d'età
di coloro che stanno in carrozza. E i tre cavalli dei tre dottori, a
cui la ragazzaglia facea circolo, confermavano più che mai
codesta nostra opinione. Tutti e tre dell'altezza di più che
trent'once, tutti e tre gravi e vecchiotti e un po' meditabondi,
parevano dire, in loro tenore, al vulgo profano: rispettateci che
siamo al servizio della scienza. Oggidì chi volesse fare tali
studj sui cavalli dei medici non troverebbe quasi più gli
animali da studiare. Non sappiamo perchè, ma oggi la medicina
va tutta a piedi. Non vi sono che i cavalli dei medici condotti,
ma essi partecipando della condizione de' loro padroni, non sono
più riconoscibili, tanto sono maltrattati; e i cavalli di quei
medici che, essendo nati ricchi, sarebbero andati in carrozza anche
senza la medicina, sfuggono all'analisi ed alla fisiologia. Sarebbe
dunque un problema nuovo e curioso: «Valutare la condizione
attuale della medicina, non come scienza, ma come professione, dal
semplice punto di vista dei cavalli da tiro, ed esibire
considerazioni e suggerimenti in proposito.»
Ma
lasciamo i cavalli a scalpitare dignitosamente sulla paglia
accumulata, e vediamo di poter assistere, per nostra istruzione, al
consulto medico.
II
Entrati
nella stanza da letto del conte F..., la regola generale vorrebbe che
ne facessimo la descrizione esatta, minuta, circostanziata, come si
usava una volta dai romanzieri che facevano l'esercizio comandati dal
generale Walter Scott, o meglio, come si pratica negli inventarj e
negli atti di consegna. Noi però lasceremo una tale
descrizione a chi vuol fare uno studio di stile, e collocare a loro
posto le parole registrate nel dizionario domestico del chiaro
professor Carena; e d'altra parte lasceremo ai pittori la libertà
di volteggiare con tutta la loro fantasia per rinvenire una degna
cornice al signor conte F..., per sua disgrazia gravemente ammalato,
tanto gravemente che il dottor Gallaroli ebbe e scrollare più
volte la testa, e in fine a trovare la necessità di domandare
un consulto per togliersi dalle spalle l'intera responsabilità
della troppo possibil morte dell'illustrissimo suo cliente. Venuto al
letto del quale, il dottor Moscati, che ci vedeva poco e allora non
ci vedeva punto perchè la stanza era fatta quasi buja dalle
persiane semichiuse e dalle tendine di seta verde, ordinò
sgarbatamente alla vecchia cameriera, che stava al capezzale, di
aprire e di lasciar entrar nella stanza tutta la luce che era
disponibile.
I
tre dottori gettarono allora un'occhiata acuta e profonda sulla
faccia dell'ammalato, che la teneva sprofondata nel cuscino
sovrapposto ad altri quattro, tutti messi a merletti e a trine; ma i
merletti e le trine facean parere più cruda l'antitesi di
quella faccia ossuta, gialla, solcata, distrutta.
I
tre medici, a questa prima esplorazione, si guardarono senza far
motto, ma si compresero; tanto che il Gallaroli, il dottor della
cura:
Eppure, disse, non è decombente che da otto giorni.
Il
Moscati, vecchio cinico, bisbetico e senza prudenza, crollò la
testa e passò a toccare il polso dell'ammalato; atto che fu
susseguito da un'altra scrollata di testa.
Che un tale stato, soggiunse poi, possa essere la conseguenza di una
replezione, lo credo, perchè lo dite voi; se foste un medico
novizio vi direi che quello di toccar polsi non è il vostro
mestiere. Cosa m'avete detto ch'egli abbia mangiato?...
Anguilla di Comacchio, professore; un suo cibo prediletto. Ma egli è
solito di mangiarne a dismisura, per quanto io ne lo abbia tante e
tante volte sconsigliato. Tutti i venerdì, per sua degnazione,
io pranzo qui... e tutti i venerdì mi è toccato dirgli:
badi che è troppo, e le farà male; e quel che previdi è
avvenuto. Onde, che questo sia un caso gravissimo di replezione, non
è possibile negarlo, professore. Prima di pranzo il conte
stava bene, non è vero, conte?
Il
conte accennò di sì, e, facendo cenno al dottore che
gli si accostasse, soggiunse a voce bassa:
Tant'è vero che ho mangiato troppo, perchè credevo di
poter mangiare.
Stia zitto, signor conte... Ma tornando a noi, egli stava bene
prima di pranzo, e continuò a star bene anche dopo; anzi vi
dirò che, quando il cameriere che portava lo sciampagna, entrò
a dar la notizia che ci fece strabiliar tutti, che il lacchè
Galantino, catturato a Venezia e fatto viaggiare sotto buona scorta,
era stato consegnato un momento prima al Capitano di giustizia, il
conte stava tanto bene che, a questa notizia, balzò in piedi e
disse: Sono assai contento di questo; da quella canaglia Dio sa che
sarà per saltar fuori adesso che è nelle mani della
giustizia... Io poi ho uno speciale interesse perchè parli e
sia fatto parlare... e qui bevve due o tre bicchieri di
sciampagna l'uno dopo l'altro, e si cacciò poscia a
motteggiare e a ridere in modo tale che non è del suo
temperamento... Figuratevi, professore, quanto il conte stesse
bene... Se non che egli uscì, e alcuni momenti dopo... qui,
questa donna entrò in sala tutta scalmanata a dirmi: Venga un
po' là, dottore, che il signor conte sta male, male assai, e
par che gli manchi il respiro e voglia morire. Io accorsi. Era
gettato a stramazzone sulla poltrona, fuggita la pupilla, fuggito il
polso. Come vedono, signori professori, non era il caso di una
cacciata di sangue. Gli feci dunque servire una limonata acidissima e
tepida, dopo la quale, quando si riebbe, lo feci porre a letto, e
sebbene la giornata fosse calda per sè, provvidi a farlo
ristorare con panni caldi; e così attesi il beneficio del
sonno e delle dodici ore della notte.
Ben pensato, ben provveduto. Non c'era a far altro...
Così
diceva il professore Patrini.
Tutto va bene, soggiungeva il Moscati, ma il giorno dopo, come lo
avete trovato il giorno dopo?
Peggio che mai. Era bensì tornato in sè stesso, ma
accusava dolore profondo alla testa, dolore insopportabile allo
stomaco. Il polso era duro e inerte... Passammo a' purganti... non se
ne ottenne nulla. Ed ora sono scorsi otto giorni, e quasi son venuto
in sospetto che l'impedimento sia meccanico. In tanti anni di cura
non mi è mai capitato un caso tanto ribelle alla scienza...
chè tutto quello che essa può consigliare fu
amministrato. Cosa ne pensa il professore Moscati?
Penso che bisognerebbe conoscere la causa per cui l'anguilla di
Comacchio gli ostruì il ventricolo.
La causa è il cibo medesimo mangiato, anzi divorato in
eccesso.
Va bene... ma questa causa essendo conosciuta, non dovrebb'essere poi
tanto intrattabile alla mano risoluta della scienza. Secondo il mio
parere, quando gli effetti sono permanenti, e non si modificano nè
in più nè in meno sotto al lavoro medico, è
indizio che la causa è ignota; ora il nostro studio
dovrebb'essere di rintracciar questa causa, per conoscere s'ella sia
di tal natura da esser poi governata colla medicina.
Il
dottor Gallaroli e il chirurgo Patrini si guardarono in faccia come
se non avessero ben afferrato il concetto del professore Moscati.
Ma
a questo punto l'ammalato, con voce fonda e intercalata da riposi
asmatici, e tuttavia piena di fremito e d'ira:
Che cosa dunque si conchiude? disse, posso guarire o no? Di che
natura è questa malattia?
Il dottor Gallaroli non ha sbagliato, rispose Moscati. La cura a cui
ha sottoposta la signoria vostra illustrissima era l'unica e
ragionevole. Ma se il corpo del signor conte non risponde ai
trattamenti medici, i medici non possono fare miracoli. Tuttavia
speri; e qui tornò a tastargli il polso.
La febbre è feroce, soggiunse. Il dottor Gallaroli non può
che continuare nell'intrapresa cura. D'impedimenti meccanici non
credo che sia nemmeno a parlare. Che ne dice il professor Patrini?
Non c'è sintomo di sorta che accusi un tale impedimento; onde
in questo caso non c'è altro che attenersi ad una cura
d'aspettativa.
Qui
il dottor Gallaroli scrisse una ricetta, toccò anch'esso
un'altra volta il polso dell'ammalato, lo tasteggiò alle
regioni dello stomaco, poi conchiuse:
Tornerò sul finire della giornata. E partì insieme coi
due medici consulenti.
Quando
aprirono l'uscio della stanza, urtarono in un gruppo di persone che
stavan tutte origliando, servitori e cameriere, e confuso con loro
l'agente della casa, signor Rotigno. Il figlio del signor
conte, giovinetto di vent'anni, che in casa era chiamato don
Alberico, passeggiava innanzi e indietro per quell'antisala, tristo
in volto, ma vestito con attillatura soverchia, e che certo
contrastava e colla gravezza della circostanza e col suo volto
medesimo. Ma più di quella medesima attillatura, ciò
che facea meraviglia era la preoccupazione ch'esso aveva del proprio
aspetto, fermandosi di tanto in tanto a contemplare sè stesso
nei due specchioni che dall'alto al basso ornavano due pareti della
sala.
Quando
i tre medici uscirono, il signor Rotigno tenne loro dietro.
E così? come si mette, dottore? chiese al Gallaroli.
Male, male assai.
Tanto male, soggiunse il dottor Moscati, che, per ogni buon conto,
sarebbe opportuno mandare pel prete.
Don
Alberico, che, intento a guardar l'effetto d'un neo applicato per la
prima volta in quella mattina dal parrucchiere all'angolo del suo
occhio destro, non s'era accorto dei tre consulenti ch'erano usciti
in quel punto, fu scosso a quella parola prete, e si volse e domandò:
Come dunque hanno trovato il conte mio padre?..
Fatevi coraggio, don Alberico, ma non a caso ha detto il dottor
Moscati... che c'è bisogno del prete.
Quando
i medici si trovaron soli sotto all'atrio del Palazzo:
Ora ci spiegherete, dottore, disse Patrini a Moscati, quel che avete
voluto intendere quando avete parlato della causa della malattia...
Il
dottor Moscati crollò allora la testa, e rispose:
Mi accorgo che nel libro della vita si legge meglio quanti più
anni si hanno; e siccome io sono ancora più vecchio di voi
altri due, così mi sono accorto di ciò che voi non
avete intraveduto. Tuttavia, caro dottor Gallaroli, voi che
siete della famiglia, avevate l'obbligo di accorgervi di qualche
cosa. Quando mi avete detto, che il malore scoppiò subito dopo
l'annuncio della cattura del lacchè, ho tosto compreso da che
tutto deriva.
Il
dottor Gallaroli e Patrini tornarono a guardare in faccia al
dottor Moscati con quell'atto di chi non comprende nulla.
E
il Moscati:
Va benissimo che i preparati anatomici e le lezioni di chirurgia
pratica e quelle di medicina non ci devan lasciare il tempo di
pensare alle cose di questo mondo. Ma il sole e la luna si vedono,
come il freddo e il caldo si sentono anche senza volerlo, perchè
sono essi medesimi che si fan vedere e sentire. E così è
del fatto presente. Non sapete dunque quel che si dice in tutta
Milano, che cioè il lacchè Suardi deve aver trafugato
un testamento per insinuazione del... sì, signori, del conte?
Che? cosa dite?
Oibò!!...
Oibò? perchè oibò? vediamo. L'accusa per cui il
lacchè Suardi è ora al Capitano di giustizia, è
precisamente ch'esso abbia rubate delle carte preziose al marchese
defunto, tra le quali un testamento, e un testamento a favore d'un
suo figlio naturale. Questo testamento a danno di chi era? Del conte.
La scomparsa di questo testamento a vantaggio di chi era? Del conte.
Il lacchè a trafugare delle carte cosa poteva guadagnare per
sè? Niente. Qualcuno dunque lo dee avere istigato. Chi dunque?
Colui solo che ci ha interesse. E chi può essere questo colui?
Il conte. Vi parrebbe ancora di sbagliare a credere che non può
essere che il conte?... Suvvia dunque... già io non vado
dall'illustrissimo signor capitano a ripetere queste parole, che del
resto sono in bocca a tutta Milano. Nè io voglio dire in
giudizio che la causa per cui l'anguilla di Comacchio si fermò
sullo stomaco del signor conte, fu l'annuncio improvviso della
cattura del lacchè, nel punto precisamente che i fluidi
gastrici lavoravano a manipolare il suo chilo. Fate che domani il
lacchè possa escire innocente o dichiarato tale dal Senato...
e allora vi accorgerete che siamo ancora in tempo a salvare la vita
del signor conte; perchè tolta la causa permanente che non gli
lascia aver tregua, è salvo. Son morti degli uomini sul colpo
per un eccesso di paura, di collera, d'affanno. È dunque già
molto che il conte sia ancor vivo... perchè, colleghi miei
carissimi, il caso è serio; e se il lacchè dà
fuori il nome del conte, vedete che scandalo, che onta, che
vitupero!! Ma torniamo all'Ospedale il quale in certi casi è
più allegro del Capitano di giustizia e del Senato, e spesso
un forcipe fa meno paura d'un articolo delle istituzioni criminali.
Dicendo
questo, aprì lo sportello della sua carrozza, traendoselo
dietro a richiudersi romorosamente. Gli altri fecero lo stesso, e i
cavalli si mossero con trotto dignitoso e scientifico.
III
Ed
ora tornando nella camera del conte, ci accorgiamo che è
necessario di spiegar nettamente molte cose che lo risguardano, in
continuazione a quel po' di schizzo che, qualche pagina addietro,
abbiam dato della sua vita e dell'indole sua. Non sappiamo perchè
ogni qualvolta ci occorse di parlare del conte F... e della parte che
ebbe nel trafugamento delle carte di suo fratello, lo abbiamo sempre
fatto con una circospezione che non potremmo nemmen spiegare a noi
stessi. Parrebbe quasi che il desiderio onde il senatore Gabriele
Verri e gli altri, i quali erano più o meno in parentela, più
o meno in dimestichezza col conte, e che, meglio ancora che per
l'onore di lui, spasimavano per il decoro e la buona fama della
casta, sia passato nel nostro sangue come un male attaccaticcio;
tanto che, se il lettore si ricorda, abbiam sempre parlato a mezza
bocca, e gettatigli innanzi in cumulo i fatti senza divisarli bene,
quasi timorosi che il conte potesse risuscitare a farci pagar cara la
nostra imprudenza. Ci vergogniamo dunque di questo nostro modo di
procedere, e vogliamo parlar chiaro, e senza l'ajuto de' personaggi,
ma per la nostra bocca medesima. Il conte F... avendo dunque saputo
qualche giorno prima che morisse il marchese, che il prevosto di San
Nazaro era riuscito a fargli stendere un testamento a favore del
figlio della Baroggi; avendo saputo inoltre che il testamento non era
stato consegnato a nessuno, e che anzi il marchese aveva dichiarato
al prevosto stesso: trovarsi nello scrittojo del suo studio, in mezzo
a molti documenti di famiglia, anche le disposizioni dell'ultima sua
volontà; il dì medesimo che esso morì e che i
notai del Pretorio apposero i suggelli allo scrigno, parlò col
suo agente signor Rotigno (che per lui aveva il merito d'avergli
ridotto, con un'amministrazione inesorabile, a un terzo di più
il valore de' suoi possedimenti), parlò un lungo discorso che
condusse il Rotigno a fargli la proposta di tentare il lacchè
Suardi, stato tanti anni al servizio del marchese, e che, per essere
respinto da tutti e non aver più nè dove dormire nè
di che mangiare, dalla disperazione facilmente sarebbe stato persuaso
ad accettare buoni patti. La sostanza, in palazzi, case, ville,
terreni, capitali, diritti d'acqua, ecc. del marchese F... era
valutata a circa dieci milioni di lire milanesi. Il conte promise al
Rotigno lire 200 mila di regalo, quando l'impresa fosse riuscita
bene; in quanto al lacchè, avrebbe dovuto ricevere sessanta
mila lire di compenso, compiuta ogni vertenza; quando cioè
fosse tolto di mezzo ogni pericolo d'investigazione criminale, e dopo
un lasso di sei mesi; delle quali sessanta mila lire se gliene
dovevano anticipare due mila prima di tentare il fatto; altre
vent'otto mila subito dopo consumato il trafugamento; il resto, come
dicemmo, maturati i sei mesi.
Queste
cose, secondo le regole della drammatica e de' suoi sospensorj, il
lettore avrebbe dovuto saperle in altro luogo e tempo, quando cioè,
dopo un lungo ordine di anni e di vicende, ogni segreto dovrà
saltar fuori all'aperto per uno di quegli accidenti che non sanno
uscire che dalla bisaccia agitata dalla cieca fortuna. Ma siccome
queste cose noi le sappiamo già, avendo sott'occhio tre
quinterni di carta gialla e tarlata, tutta nera d'inchiostro svanito,
dove la storia del processo c'è tutt'intera, così ne
facciamo una graziosa anticipazione ai nostri lettori, anche perchè
possano così valutar meglio la portata di questi due
personaggi: il conte F... e l'agente Rotigno.
Compiuto
il fatto, seppellito il marchese, pagato il lacchè, il conte e
l'agente respirarono. Del qui pro quo provocato dagli amori di donna
Clelia col tenore gioirono in segreto di una gioja profonda, di una
di quelle gioje onde nelle vecchie leggende della nubilosa Germania
vediamo esaltato il maligno spirito quando riesce a trarre a
perdizione qualche innocente; gioirono in segreto, vogliamo dire che
non si comunicarono le loro gioje; perchè e l'uno e l'altro
evitarono sempre di parlare di quant'era avvenuto, e per qualche
giorno parve anzi che si scansassero. Un'avversione misteriosa grado
grado era nata tra di essi; e tanto più implacabile quanto
l'uno era più avvinto all'altro, e quanto più dovevano
dissimularla con degnazione cortese per un lato, e con profondo
rispetto per l'altro. Sul resto erano tranquilli, meno però
sul fatto del lacchè, il quale, dopo aver mostrato il
testamento originale al signor Rotigno, ostinatamente volle tenerlo
per sè, limitandosi a trarne di proprio pugno la copia. Tanto
il conte che il Rotigno avevano conosciuto il Galantino per una
faccia sola, per quella della ribalderia, dell'audacia e della
miseria; ma non sospettarono affatto quella dell'ingegno, dell'acume
e dell'astuzia naturale. Davvero che non s'era adempiuto per parte
del lacchè alla più grave delle condizioni. Ma dieci
milioni erano guadagnati, il fatto era corso tanto bene, che pareva
espressamente comandato dalla fortuna. Il capriccio del lacchè
poteva essere un capriccio senza pericolo di conseguenze gravi, e del
resto anch'esso era interessato a tacere. Non si pensò dunque
ad altro che a dar corso alle faccende domestiche, e giacchè
solo il conte era chiamato all'eredità, a procacciare gli
opportuni provvedimenti per andare al possesso di essa.
Per
tutte queste circostanze adunque, ci pare sia facile a capacitarsi
del terribile effetto che dee aver fatto sull'animo del conte F... la
notizia inaspettata della cattura; ella veniva a dire in conclusione,
secondo le consuete risultanze de' processi, che fra pochi giorni
tutto sarebbe stato palese, e, insieme coll'edificio che veniva a
crollare dalle fondamenta, il decoro del casato, il decoro apparente,
già s'intende, veniva ad essere oscurato per sempre. La
vivacità lieta che il conte mostrò a' commensali quando
la notizia venne annunciata, e le parole che pronunciò non
erano state che un effetto dell'esaltazione della paura e
dell'astuzia istintiva e quasi meccanica che ha chiunque per trarre
in inganno gli astanti intorno a cosa che vuolsi tenere nascosta e si
trema possa venir palesata pur dal menomo turbamento esterno, dal
colore mutato, dalla voce indebolita. L'uomo allora finge ed esagera
sentimenti in tutto opposti a quelli che gli si agitano in petto, di
modo che talvolta ei si rivela per l'eccesso appunto della finzione
medesima; e il conte si rivelò in fatti a molti de' commensali
che notarono ogni cosa e tacquero; si rivelò persino, chi mai
lo crederebbe, allo stesso dottor Gallaroli, uomo naturalmente acuto
e scaltrito da una lunga esperienza, tanto acuto e tanto scaltro, che
finse di esser caduto dalle nuvole quando il sincero e sciolto e
burbero dottor Moscati non dubitò di dire quel che pensava. Ma
se quella notizia fu tanto micidiale al conte, da fargli l'effetto
dell'acqua dei Borgia e dell'arsenico, non lasciò intatto
nemmeno l'agente Rotigno, come è facile a credere. Benchè
fornito com'era dalla natura di un corpo robusto e inquartato come
quello d'un cavallo da stanga, e avendo colorito il volto da quel
colore permanente che par vernice metallica e che non permette di
distinguere un uomo in deliquio da uno che ha ben bevuto, non ne
lasciava trapelar nulla all'esterno. Nessuno però dei nostri
lettori più infelici e malcontenti della vita avrebbe potuto
invidiarlo; chè in otto giorni e otto notti, se riuscì
a sfiorare tre o quattr'ore di dormiveglia, s'arrischia a dir troppo.
Ben
è vero ch'egli aveva prese tutte le precauzioni, onde, anche
nel caso che il Galantino fosse stato posto alle strette, non potesse
nominare l'uomo da cui aveva tenuto il mandato, perchè egli
non gli s'era dato a conoscere; ma nel tempo stesso avea potuto
accertarsi che il lacchè avea, come suol dirsi, mangiata la
foglia, e nel caso di un buon tratto di corda che gli avesse fatte
veder le stelle anche di giorno, avrebbe presto dato fuori i nomi per
cercar sollievo o trarre altrui nel laccio. Il fatto però
d'una malattia grave e pericolosa del conte gli aveva messo in cuore
qualche speranza. Se mai fosse per morire, pensava, prima che
il lacchè ci tiri in ballo, a me non riuscirebbe difficile
trarmi d'impaccio. Il lacchè nominerà il conte... ma il
conte morto non potendo comparire in giudizio... il tutto finirà
colla restituzione del testamento... e chi deve esser ricco sarà
ricco, e buona notte, e don Alberico s'accontenti di quello che ha.
Per tali considerazioni, il signor Rotigno si consolava ogni
qualvolta il dottor Gallaroli gli dava pessime informazioni
dell'ammalato; e arrivò perfino a stropicciarsi le mani per un
soprassalto repentino di giubilo quando sentì annunciato il
consulto, tanto avea buona opinione dei consulti medici!!! Se non che
questo fresco venticello che gli soffiò sull'animo agitato
venne respinto da una frase sola del dottor Moscati: È
mestieri del prete. Egli non avea pensato che alla morte del
conte, e non all'agonia nè a' suoi preliminari, talchè
non avea mai considerata la necessità della confessione e
dell'olio santo. Però quella parola prete gli penetrò
nel cuore coll'effetto di un cuneo che squaglia un ceppo, chè,
pensava egli: La vita eterna farà parere al conte un nonnulla
i dieci milioni del marchese... e per alleggerir l'anima verserà
tutto nelle orecchie del prete... Insomma lo spavento che
gl'indusse quella parola fu tale che se in quel punto avesse mangiato
anch'esso due o tre rocchj d'anguilla, l'indigestione lo avrebbe
soffocato. Tant'è vero che fare il galantuomo è la
migliore speculazione di questo mondo.
IV
Lasciando
adesso le nostre digressioni, e venendo a' fatti; quando il signor
agente Rotigno e don Alberico tornarono nell'antisala:
Bisognerà dunque, disse il secondo, mandare a chiamar don
Giacinto.
Don
Giacinto era il vicario di Santa Maria Podone, dipendente dal curato
di Santa Maria Porta; era il prete di casa, ossia quello che più
frequentemente aveva a che fare col signor conte padrone; non tanto,
a dir la verità, per le faccende dell'anima, ma per le
vertenze di un beneficio di jus patronale, pel quale il conte F...
aveva diritto di nomina.
Don Giacinto è stato qui sin dall'altro jeri, rispose il
signor Rotigno, ma ho creduto bene di rinviarlo. Queste sottane nere,
caro don Alberico, fanno un tristo effetto sugli ammalati. Dopo i
purganti e gli altri argomenti, ciò che procura la guarigione
di un ammalato è la faccia gioviale del medico e la speranza.
Ma a che amministrar purganti e conforti, quando un prete dee venire
a mettere spavento? Che effetto farebbe a lei, don Alberico, se dopo
il quarto o quinto giorno di malattia, il prete venisse a farle
visita subito dopo il medico?
Che effetto? si sa... Ma quando il medico lo consiglia...
Il dottor Gallaroli è un furbo che vuol darsi importanza e ama
far correr la voce per Milano ch'egli è l'uomo dei miracoli...
e sa, anche dopo l'olio santo, rinnovare la vita; gli altri due, è
naturale... son della professione, e una mano lava l'altra, e il
mestiere non vuol essere rovinato però son venuti, come
succede sempre, per dar ragione al medico della cura, il quale, a dir
la verità, mi par il prete che canta messa, mentre gli altri
due fan da diacono e gli tengono il piviale. È sempre la
stessa storia, però bisogna saperli interpretare, e non
seguirli testualmente questi signori.
Basta, fate voi. Badate però che stasera il dottor Gallaroli
non faccia strepito del non essere stato obbedito.
Vedrà che il dottore non dirà nulla... E poi io vivo
certo che il conte debba migliorare...
Fate pure, fate pure... Ora sentite ...
Che cosa?
Fatemi contar dal cassiere un cento talleri di Carlo Sesto.
Siam sempre a queste, don Alberico.
Sono otto giorni che ne ho di bisogno.
Il signor conte mi proibì di darle altro danaro prima che
incominci il mese di giugno.
Il giugno è qui presto... è un'anticipazione di pochi
giorni...
Eppoi?
Eppoi, fate presto. Non mancano usuraj a Milano, e se batto di piede
saltan fuori talleri da tutte le parti. Non è la prima volta.
Ma che maledetto gusto è questo di costringermi a pigliar
dieci per restituir venti! Non c'è al mondo uomo più
avaro e più sucido di mio padre; e voi gli tenete la staffa. È
tempo di finirla. Ho ventun'anni, e colla nuova eredità sono
il figlio unico più ricco di Lombardia. Venti milioni... una
piccola bagattella... e sempre aver bisogno di denari come se fossi
un pezzente, e domandar la carità a voi. Ma chi siete voi?
L'agente
sorrise, e:
Sono il suo umile servitore, che ama lo splendore della casa, e
desidera che l'unico erede di tanta facoltà non trovi d'aver
decimato nulla quando sarà egli il capo della casa e il
padrone assoluto di tutto. Però, giacché veramente le
occorrono, vado a farle contare i cento talleri.
Sentite, se fossero centocinquanta non mi lamenterò; anzi, ora
che ci penso, mi lamenterei se fossero appena cento.
Il
signor Rotigno discese nello studio dov'erano molti impiegati
subalterni, cassiere, ragioniere e scrivani, perché
l'amministrazione della casa era vasta e complicata. Si fece contare
dal cassiere i centocinquanta talleri, li fece notare alla partita di
don Alberico, incaricando uno scrivano di stendere una ricevuta che
il figlio del padrone avrebbe firmata per la necessaria regolarità,
e perchè voleva così il signor conte padrone.
Mentre
il signor Rotigno s'indugiava là per tale occorrenza, entrò
un commesso di studio seguito da un facchino portante un sacco di
denaro; entrò e disse:
Gran novità.
Che cosa?
È tornata, pochi momenti sono, la signora contessa Clelia V...
Tornata?... ma perchè?
S'ella voleva tornar così presto, tanto aveva a non fuggire.
Oh bella! il conte marito volle andare dov'ella si trovava, ed ella
ritornò dove non si trova più suo marito. Fin qui non
ci vedo nulla di strano, ed è facile a capire.
Che cosa è facile a capire?
Quello che voi non sapete, soggiunse il commesso. La contessa è
tornata perchè fu fatta ritornare.
Da chi?
Da chi ha l'autorità, s'intende; voglio dire, dal Senato. Ma
sapete il motivo? è il motivo che vi farà strabiliare
tutti.
Sentiamo, parla, di' presto.
Il motivo è che il Galantino ha dato fuori il suo nome; e in
conclusione, è dessa che lo ha pagato a rubare il testamento.
E si sa anche com'era il testamento. Erede, già s'intende, il
nostro illustrissimo signor padrone, e diversi legati, tra' quali
uno, e il più vistoso, all'egregia contessa... in compenso
di... mi capite... Altro che Urania e Minerva e che so io, come la
chiamava il vicario don Giacinto: ah! ah! ah!... a dire che mi
divertono tali intrighi, è dir poco.
Ed ella deve aver fatto trafugare un testamento, perchè il
testatore ha voluto regalarla? Ma c'è sale in zucca a creder
queste fandonie?
Altro che sale! Il testatore assegnò il premio... ma assegnò
anche i servigi... vedete che scandalo. Ah ah ah... Ma già è
sempre stato un po' matto il signor marchese. Non somiglia per niente
al nostro illustrissimo signor padrone.
Il
signor Rotigno intanto ascoltava e taceva; e siccome era informato in
parte del processo del Galantino, e già avea sentito toccare
un tasto di una simile deposizione, credette a mezzo, e quasi quasi
si sarebbe confortato, se non gli fossero tosto sorgiunti i secondi
pensieri a fargli capire che l'inganno poteva durare per poco e non
per sempre. Tuttavia pensò di farne parola al conte. Prese
allora i centocinquanta scudi, salì, entrò nella sala
dove ancora stava passeggiando don Alberico, gli consegnò i
denari colla ricevuta che don Alberico sottoscrisse; e quando questi
partì, pensò di entrare nella camera da letto del
conte... Se non che, allorquando fu per aprire, si fermò e
disse tra sè, anzi pensò... perchè certe cose,
nemmeno i bricconi di cartello le osano dire neppure in soliloquio:
Questa notizia potrebbe consolarlo un po' troppo, e aprire il varco
alla salute... un'inezia accoppa, un'inezia fa rinascere. È
dunque meglio tacere. E così ridiscese nello studio,
prese il cappellino a tre punte e la sua canna d'India, e uscì
ad appurare le notizie della giornata.
Intanto
che il Rotigno se ne va pe' fatti suoi, facciamoci colla contessa
Clelia. Il commesso di studio, raccontando che era tornata a Milano,
avea detto il vero. Al serenissimo doge Grimani, nelle sale del
nobile Alvise Pisani, ella avea promesso che il giorno successivo
impreteribilmente sarebbe partita da Venezia; e il doge aveale detto:
confidare interamente nella sua parola e non volere per verun conto
commetterla a scorta nessuna. Queste furono le parole: ma i fatti non
vi corrisposero esattamente. Chè alla contessa Clelia il dì
dopo fu reso al tutto impossibile di lasciar Venezia, per varj
accidenti sorvenuti all'impensata, e che, scorsi che saranno sedici
anni dal tempo in cui versa il nostro racconto, il lettore
probabilmente saprà indovinare. In quanto al doge incaricò
l'ufficio de' corregidori di far tener dietro ai passi della
contessa; e allorchè seppe, con sua grande meraviglia, ch'ella
trovavasi ancora in Venezia, alla promessa che donna Clelia rinnovò
di partire fra breve tempo, non fu tanto credulo; e sotto specie
d'onorarla, la fece accompagnare sino al confine del ducato di Milano
da messer Zuane Pizzamano, camerlengo di Comune, e dalla nobile sua
moglie. Onore che, giunto al confine, le fu rinnovato dal signor
luogotenente di Pretorio, dottor Rocco Orlandi, il quale,
espressamente a ciò incaricato da lettera senatoria, le
domandò con rispettosa deferenza, ma con quel modo
d'interrogare che significa essere il provvedimento già stato
ventilato e ingiunto dall'autorità, le domandò adunque
se ella desiderava, giungendo a Milano, d'essere alloggiata nella
casa dell'egregia donna Paola Pietra sua conoscente.
Ma
in che modo l'autorità provvide a far alloggiare la contessa
presso donna Paola Pietra? Il fatto è chiaro. Dopo che il
Senato fu istrutto della strana deposizione del lacchè Suardi,
e riputò indispensabile di sentire di presenza in giudizio la
contessa V..., l'illustrissimo capitano di giustizia, dopo una
conferenza col presidente del Senato e col senatore Gabriele Verri,
mandò a chiamare donna Paola, a cui fece palese la deposizione
del Galantino, e insieme la risoluzione in che era venuto
l'eccellentissimo Senato d'interessare il Consiglio Veneto a mandare
a Milano la contessa.
Che
terribile colpo facesse una tale notizia sull'animo di donna Paola è
facile immaginare.
Dopo
il primo turbamento e dopo quella tremenda confusione in cui le
persone educate da una lunghissima esperienza son gettate al sentire
imputato di una colpa detestabile chi si ama e si protegge, appunto
perchè alla predilezione ed alla stima si mesce sempre il
dubbio dell'umana perversità e delle apparenze ingannatrici;
donna Paola, nel fondo dell'animo suo, rifiutossi a prestar
fede all'oscena accusa. Disse poi tali cose al signor capitano, e le
espose con tanta eloquenza e fervore, che lo stesso marchese
Recalcati, ch'era un eccellente galantuomo, fu presto dell'avviso,
essere infondata l'accusa del Galantino, e dovere anzi l'accusa
medesima servir col tempo alla riprova della di lui ribalderia.
Perciò, alla profferta che donna Paola gli fece di ricevere in
casa la sventurata contessa sotto la sua protezione e sorveglianza
non potè che accondiscendere, onde al luogotenente di Pretorio
al confine del Ducato furono inviate istruzioni in proposito. Nè
qui si fermò la caritatevole donna, ma affannata di avere col
proprio consiglio peggiorata la condizione della contessa, pensò
di non omettere cosa nessuna, la quale potesse giovare alla causa di
quella sventurata e, in ogni modo, dovesse giovare al trionfo della
verità. A tale oggetto si recò dall'avvocato
patrocinatore del figlio della Baroggi, perchè vedesse di
poter raccogliere una o più testimonianze ad indicare e
provare, non essere altrimenti vero che il lacchè Galantino si
trovasse già a Venezia prima degli ultimi otto giorni del
carnevale di Milano. E l'avvocato si prese l'assunto, e in pochi dì
fu sulla via di far qualche preziosa scoperta.
Se
dunque queste ultime pagine furono noiose anzi che no, ci lusinghiamo
che il ritorno della contessa, e la sua chiamata in giudizio, e le
sue confidenze a donna Paola e le sue ansie: come pure la scoperta
dell'avvocato patrocinatore, e i nuovi interrogatorj imposti al
Galantino, e le lotte in Senato sul proposito della tortura, e i
risultamenti provvisorj di codesta matassa, saranno
Vasta
materia di sermon futuro.
V
Il
giorno stesso in cui si tenne il consulto medico in casa F..., donna
Paola Pietra, con lettera confidenziale, venne avvisata
dall'illustrissimo signor marchese Recalcati, che il giorno dopo,
accompagnata dal luogotenente del Pretorio di confine, sarebbe giunta
a Milano la contessa Clelia V... Per ciò ella si trattenne in
casa onde adempire all'ufficio cui si era spontaneamente offerta.
Le
persone che, sollecitate da una stragrande bontà di cuore e
dall'amore degli uomini, s'interessano con operosità alle cose
altrui, quando le loro premure non hanno riuscita, si sentono
travagliate da insopportabili inquietudini, e talora, per quanto
invase dallo spirito di carità, provano il pentimento
d'essersi volute adoperare a vantaggio degli altri. In una tale
condizione d'animo trovavasi appunto donna Paola nelle ore che stava
aspettando la sua protetta, e tanto più si affannava, quanto
più, ripensando le cose avvenute (e non conosceva il peggio),
vedeva che i buoni consigli non assicurano sempre la felice riuscita
delle cose, e talvolta, pur troppo, come nel caso suo, partoriscono
effetti al tutto opposti ai desiderati. A taluno de' nostri lettori
parrà strano che siasi voluta mettere innanzi donna Paola
siccome l'ideale della carità, un surrogato in terra alla
Provvidenza, quando poi, in sulle prime operazioni, doveva fallire
agli intenti desiderati. Ma innanzi tutto, quando un fatto è
realmente avvenuto con quelle circostanze speciali, impreteribili al
raccontatore, un personaggio non può sempre appagare i
desiderj di chi legge. D'altra parte una storia come la nostra non è
che uno specchio più o meno terso, più o meno ondulato,
in cui si riflette la prospettiva della vita. Ci può essere
qualche deviazione di linea, qualche raggio che s'interseca o prima o
dopo, ma l'immagine riflessa in poco può variare dal vero. C'è
di più, che un personaggio, tanto nei lavori dell'arte come
nella vita reale, il quale si distingua per carattere segnalato di
virtù, si fa manifesto per l'intenzione ed il fervore della
volontà di operare il bene, non già per l'ultima
riuscita, la quale non è mai la vera misura onde valutare il
grado della virtù stessa. Coloro che pretendessero dovere la
comparsa di donna Paola Pietra stornare sciagure e peccati e cadute,
mostrerebbero di non conoscere la differenza che passa tra i
personaggi della vita vera e gli dei d'Omero. A questi era permesso
far scomparire Paride in una nube e involarlo all'ira di Menelao per
stornar l'asta del Telamonio dallo scudo di Ettore; ma ai nostri
personaggi, vogliam dire ai buoni, non sono obbligatorj che il
desiderio del bene e la facoltà di sudare per correre sulla
sua traccia; non già la sicurezza di conseguirlo.
Ma
ciò non toglie che donna Paola fosse afflittissima e si
riputasse quasi colpevole di quanto era avvenuto. Tuttavia, quel che
più le cuoceva, era il dubbio che di tanto in tanto veniva a
galla delle sue medesime persuasioni e de' suoi raziocinj; il dubbio,
vogliam dire, che donna Clelia fosse ben altra da quella ch'essa
aveva creduto; e che quanto potè sembrare un trascorso
accidentale, fosse invece un'abitudine perversa dell'intera vita.
Inoltre la passione violenta ond'era stata assalita al cospetto di un
cantante, circondato dal fascino della gioventù, della
bellezza, dell'eccellenza dell'arte, lasciava trovar scusa e perdono
pur nell'animo del più inesorabile censore; ma le relazioni
col defunto marchese, perduto di costumi, nè giovane, nè
attraente, rendeva turpe e non perdonabile la colpa. Se non che, nel
punto che donna Paola stava dibattendosi fra cotali pensieri, il
servo entrò a dire che la contessa V... era discesa dalla
carrozza.
Donna
Paola alzossi quando quella entrò.
Il
lettore si ricorderà delle caldissime espansioni di affetto,
dell'abbraccio tenero e commosso onde queste due donne si lasciarono
dopo il primo loro dialogo. Chi ora dunque crederebbe che,
rivedendosi, dovessero tanto l'una che l'altra mostrare una freddezza
riguardosa, e proferir parole e saluti a cui non corrispondeva la
gelida espressione del volto e degli occhi! Ma nell'una era un
sospetto, nell'altra era una recente memoria che la faceva timorosa
della presenza di quella venerabile donna. E codesta peritosa
freddezza della contessa, accrebbe in quel punto i dubbj di donna
Paola, di maniera che, per un movimento istantaneo, il suo volto
assunse l'espressione della più severa austerità.
Partito
il servo, rimaste sole, aspettando la contessa, altre parole, e
vedendo perdurare donna Paola in quella gravità ch'ella non
sapeva spiegare:
E che cosa è avvenuto, esclamò, perchè io non
veda più il sorriso benevolo su quella vostra santa faccia?
Dir
queste parole, gettar le braccia al collo di donna Paola e prorompere
in pianto fu un punto solo. La mestizia acerbissima del viaggio
solitario, i timori, le rimembranze che da molte ore le avean fatto
nodo insopportabile al cuore, si sciolsero in quello scoppio di
lagrime.
Donna
Paola sentì sottentrar tosto la commozione alla severità,
e riabbracciando la sventurata:
Oh, fate animo, disse, io sono sempre la stessa per voi. Sedete e
tranquillatevi... e faccia Iddio che...
E
qui s'interruppe, perchè non le parve il momento opportuno di
uscire con disgustose interrogazioni.
Ma
se donna Paola per allora aveva creduto bene di tacere, la contessa
dopo qualche momento:
Or io vorrei sapere, disse, la cagione per cui, con gravissimo
scandalo, il Senato sollecitò il doge di Venezia a farmi
partire da quella città e, sebbene con apparenze onorifiche, a
mandarmi qui custodita e guardata, in conclusione, come si pratica
coi malfattori.
Ma non sapete nulla, contessa? disse donna Paola, veramente nulla? e
la mirava fissa, quasi a passarla fuor fuori, come dicono i
Fiorentini.
Nulla io so, bensì mi perdo inutilmente in un mare di
congetture. Il doge Grimani non sapeva nemmeno esso la causa di tale
misura, ed anzi ebbe a lamentarsene. Il camerlengo di Comune che
insieme colla nobile sua moglie mi accompagnò sino al confine
del Ducato, com'è naturale, ne sapeva meno del doge. In quanto
al signor luogotenente di Pretorio, che dal confine mi accompagnò
sino alla porta di questa stanza, mi sembrò bene che fosse al
fatto della cagione vera, ma scansò sempre le mie domande, e
quando gli manifestai il mio sospetto di una qualche falsa
deposizione di quello scellerato lacchè: Potrebbe darsi
benissimo, disse; che il Galantino non sia straniero a questa
faccenda, ma io non so nulla; e dicendo questo si capiva troppo bene
ch'ei sapeva tutto, ma gli era stato ingiunto di tacere. Intanto,
appena m'ebbe lasciata alla porta di questa stanza, si recò
dal capitano per annunziare il mio arrivo, e presto sarà di
ritorno. Ora ditemi voi in che consiste questo mistero.
Donna
Paola tornò a guardar fissamente la contessa; poscia,
prendendola per mano, le disse affettuosamente :
Sedete e ascoltate;... e, prima ch'io parli, fatemi una promessa.
Che promessa?
Di non tacere il vero, di non mentire (perdonatemi questa parola), di
confessar tutto, quando pure si trattasse di cosa, che, a
pronunciarla, vi dovesse abbruciare la lingua.
Ma parlate, in nome del cielo; voi mi spaventate. Di che dunque si
tratta?... Io non conosco fatto nessuno che possa recar tali effetti.
E
qui donna Paola, con voce bassa, manifestò alla contessa la
deposizione del Galantino.
Donna
Paola, proferita ch'ebbe la trista parola, avvezza a leggere nei
repentini guizzi del volto quel che passava nell'animo altrui,
allorchè la contessa balzò in piedi saettando lei d'uno
sguardo che dell'orgoglio offeso avea persino la ferocia; d'uno
sguardo che, incredibile a dirsi, esprimeva quasi un iracondo
disprezzo per lei medesima; d'uno sguardo che sembrava persino
minacciare un atto violento; si alzò di colpo, tanto si tenne
sicura dell'innocenza della contessa, le buttò le braccia al
collo, la baciò e la ribaciò in volto, poi disse:
Che voi siate mille volte benedetta, cara la mia donna, ho avuto
torto di credere a una tale accusa, or vogliate perdonarmi. Ma, pur
troppo, dovevo parlar chiaro e così.
La
contessa si buttò allora a sedere, come spossata. Successe un
lungo silenzio... Cadevano intanto le lagrime a dirotta sulle pallide
guancie della contessa, che il suo labbro convulso beveva, quasi a
tentar di nasconderle. E donna Paola s'era volta altrove per non
turbare quel profondissimo dolore... e quando macchinalmente prese e
aprì un libro, ne bagnò le pagine di due grosse lagrime
repentinamente sgorgate anche a lei.
In
questa fu bussato alla porta, e, senz'attender altro, entrò un
vecchietto colla zazzera del tempo del senator Filicaja e con una
giubba stata già rossa color fuoco, ma pel lavoro degli anni
diventata color zenzuino. Egli, senza cavarsi il cappellino a tre
punte e appoggiato alla canna d'India, come stesse in casa propria o
sulla pubblica via:
Buone nuove, donna Paola, disse, buone nuove!
Era
l'avvocato Agudio, il patrocinatore officioso del figlio della
Baroggi. Uomo burbero, bisbetico, cinico, ma galantuomo, una specie
di Paletta applicato al ceto legale. Rigido di una rettitudine
insolita, che traeva all'ideale e si spingeva fino al cavillo;
affettava trascuratezza di tutte le convenienze sociali, andando in
ciò fino alla caricatura ed alle aperte lesioni del più
dozzinale galateo. Vestiva male e all'antica, quasi ad attestar
disprezzo al tempo che correva; magro, sano, forte, come se fosse
d'acciajo, era di una operosità prodigiosa; tenace del suo
proposito fino ad esser caparbio, inasprito inoltre da quel demonio
interno che si chiama spirito di contraddizione, faceva paura al
Collegio dei dottori, al Pretorio, al Capitano di giustizia, al
Senato medesimo, che aveva in esso un controllore indomabile; e
siccome a tali qualità congiungeva una gran dottrina
giuridica, così era il più riputato e temuto del fòro
milanese.
Alla
sua improvvisa comparsa, la contessa Clelia balzò in piedi, e
vergognosa delle proprie lagrime, si ritrasse in un'altra camera.
Donna
Paola Pietra si volse e vide lui che ripeteva:
Buone nuove!!...
Buone nuove davvero? chiese donna Paola.
Buone vi dico.
Or raccontate e sedete...
Non ho tempo da perdere, e vo via subito; uno de' miei giovani di
studio, che ha trovato il modo di essere astuto insieme e onesto, s'è
messo al punto di far saltar fuori la verità, perchè
dice d'averlo veduto egli stesso, il Galantino all'albergo dei Tre
Re, precisamente un giorno della settimana grassa, quantunque non
sappia giurarlo. Però l'altro jeri andò a mangiare un
boccone a quell'albergo e là, d'una in altra parola ebbe il
piacere di sentire confermato il suo sospetto da un cameriere.
Questo cameriere venne da me stamattina e ripetè quanto avea
detto al giovane di studio... Ben è vero che, allorquando gli
domandai s'ei sarebbe disposto a ridire le stesse cose al signor
capitano di giustizia, parve tentennare e voler ritirarsi... Ma la
fortuna ha voluto ch'egli nominasse un altro cameriere, il quale per
combinazione cangiò in questi giorni osteria e città,
ed è andato a Cremona; lo nominò dicendo che colui
aveva giuocato in una di quelle notti col Galantino, e siccome era
amicissimo del lacchè così avrebbe facilmente saputo
ogni affar suo... Intanto il cameriere di qui sarà sentito
oggi stesso dal capitano... Spero che non saprà ritrattarsi,
perch'io gli ho fatto paura, mettendogli innanzi tutte le conseguenze
del non dire la verità... Egli è bensì a
considerare che la sola sua testimonianza non basta all'intento... Ma
ho mandato or ora a Cremona il giovane di studio, e ritornerà,
spero, col cameriere che passò in quel luogo... Se i due vanno
d'accordo... la volpe è presa... e il Senato dovrà
decretare la tortura... Sino a questo punto, per verità, non
si verificarono gli estremi, ed il senator Verri, che conosce il
diritto, ha messo a tacere, com'io seppi, il senator Morosini che
vorrebbe cominciar sempre dalla tortura, tanto ci si guazza dentro...
e il Verri ha tirato dalla sua tutti gli altri, perchè la sua
chiacchiera quando ha preso il vento è una tempesta che dove
tocca lascia il segno. Bensì il Morosini tentò rifarsi
producendo casi criminali a dozzine in cui la tortura venne inflitta
anche senza quegli estremi dai quali il Verri non decampa, e il Verri
a ripetere che gli errori passati non devono essere esempio a nuovi
errori, e qui ha ragione, ma sibbene un salutar avviso per scansarli.
E intanto c'è un altro fatto, di cui la città è
piena. Sentite, che questa è nuova, e giudicate voi... È
un avviso a stampa su tutti gli angoli della città, col quale
il maggiordomo di casa Morosini invita il proprietario di un rotolo
di cento zecchini veneti stati mandati all'indirizzo del senatore, a
voler rimandarli a pigliare. La folla è stipata a tutti i
canti e chi ne dice una e chi un'altra... Il Morosini, se non è
un gran giureconsulto, è un furbo matricolato... e... odia
tutti i suoi colleghi, segnatamente il Verri, e... voi già
capite dove va a parar la cosa. Or io vo, e voi state di buon animo e
dite lì alla... (e qui fece un lezio curioso accennando la
porta della camera per cui la contessa era dileguata) che dopo il
temporale viene il sereno... È ben la contessa V.... non è
vero? soggiunse poi subito.
Sì, la contessa, arrivata or ora da Venezia.
Povera donna, è la vittima di un assurdo arbitrio... Ma lo
studio fu di gettar la polvere negli occhi, e di rivolgere
l'attenzione altrove... Però non ci riusciranno. No, non ci
riusciranno... Far venir con violenza una persona che sta altrove di
pien diritto, perchè un ladro briccone inventa una frottola a
suo danno... e pazienza avesse detto, il ladro bugiardo, d'aver visto
egli stesso, d'essere stato testimonio, mezzano, che so io... Ma no,
tutt'altro... Ora basta... la verità dee balzar fuori...
Intanto buon dì e buon anno e l'avvocato Agudio uscì.
Quando
l'avvocato attraversò il cortile, incontrossi nel luogotenente
del Pretorio che tornava dal palazzo del Capitano di giustizia.
Questi
lo inchinò con atto di profonda devozione, esclamando:
Signor avvocato, i miei rispetti...
Oh addio... non ti conoscevo... Or dove sei tu?
Luogotenente di Pretorio al confine.
Bravo, ma cosa fai qui?
Ho accompagnato a Milano l'illustrissima signora contessa V..., ed
ora, per commissione dell'egregio signor capitano di giustizia, vengo
a portarle l'ordine scritto di recarsi domani per essere sentita in
giudizio... E stasera torno donde sono venuto... Presto poi spero di
venir traslocato a Milano... Mi conservi la sua protezione...
Addio... E l'avvocato uscì sulla via, e attraversata la piazza
Borromeo e santa Maria Podone, se ne venne al Broletto, al Cordusio e
alla piazza de' Mercanti, salutato per via rispettosamente da
molte persone di cappa e di spada, come suol dirsi, ai quali egli non
corrispondeva che il più confidenziale saluto, e tirava via
parlando fra sè e borbottando tra' denti.
Quando
fu in piazza de' Mercanti, la folla non era scemata innanzi ad uno
de' pilastroni del palazzo, in oggi dell'Archivio, sul quale era
impastato l'avviso firmato dal maggiordomo di casa Morosini,
che diceva così:
«Il
sottoscritto, d'ordine dell'illustrissimo senatore Morosini, suo
padrone, invita il proprietario di un rotolo di cento zecchini veneti
mandati, certo in isbaglio, all'indirizzo del sullodato suo padrone,
a voler recarsi dalle ore 12 alle ore 3 nello studio della casa per
ritirare il detto rotolo.
«Milano,
di casa Morosini, 28 maggio 1750.»
L'avvocato
si fermò perchè si dilettava dei discorsi del pubblico.
Credi, tu che sia stato per isbaglio? diceva un giovinotto ad un
altro.
Se è stato uno sbaglio, certo che non è stato l'unico,
e usciranno altri avvisi.
Può bastare anche un solo, diceva un terzo. Ma invece del
maggiordomo di casa Morosini dovrà sottoscriversi il custode
del palazzo del Senato.
Non ti capisco...
Oh bella... Vuoi tu che chi ha fatto il dono sia così dolce da
credere che possa bastare l'aver pensato a un senatore solo?...
Poteva anche bastare... giacchè si trattava di rompere il
sasso più duro...
Io per me credo che non usciranno altri avvisi. Intanto l'affar si fa
serio... e comincio a dire che il conte F... ha perduto la
prudenza...
Che prudenza! è moribondo... eppoi non si può dire...
Che?... bisognerebbe esser orbi... od esser qualcuno di coloro che
hanno l'obbligo di veder più degli altri... Altro che
fandonie, amico caro!
L'avvocato
si partì ghignando e proferendo tra sè e sè:
Sciocchi, i quali credete di menar il mondo per il naso... costui
v'ha già letto in fondo all'anima... però a
rivederci al sabato; ed entrò sono i portici del nobile
Collegio dei giureconsulti.
VI
Com'è
facile a credere, il pubblico, che, nel caso nostro, era
l'aggregato di tutti coloro i quali non aveano parte veruna nella
magistratura e molto meno nella giudiziaria, e che senza nessuno
studio preparatorio, nè teorie discusse, procedeva avanti
coraggioso nel giudizio delle cose colla sola guida del senso comune,
erasi fatto un concetto a modo suo dei fatti che abbiamo raccontati e
delle conseguenti tesi criminali; e, cosa strana, il concetto del
pubblico riuscì precisamente la camicia del vero. Vogliamo
dire che esso opinava per la reità del Galantino, come opinava
per la reità del conte F...; anzi, quando mai avesse dovuto
essere indulgente con uno dei due, propendeva piuttosto a favore del
primo che del secondo; in quanto poi all'accusa che il lacchè
avea gettata contro la contessa, mentre e capitano e vicario e
attuario e auditori e assessori e senatori, a primo colpo ne furono
influenzati al punto da ammetterla, e in conseguenza da trovar
necessario il sentir di presenza la contessa in giudizio; il
pubblico, vogliamo dire la maggioranza, non credette nulla affatto;
chè il senso comune rifiutavasi a vedere tresche amorose là
dove correva un divario di più che trent'anni d'età,
tresche venali dove la ricchezza era pareggiata, tresche turpissime
dove, cessa anche la fragilità umana, era però
innegabile l'ottima fama della contessa, l'ottima fama del casato
cospicuo a cui apparteneva, l'educazione avuta, la specialità
sublime degli studj fatti. Però quelle ragioni medesime per
cui il pubblico non avea sospettato mai che Amorevoli si fosse
trovato nel giardino per lei, tornarono a ricomparire, quasi
indignate della prima sconfitta, a ricomparire per difendere
fervorosamente la sventurata contessa, e per isparlare con iracondia
del procedere della giustizia.
E
c'è di più, che al pubblico si confederò per la
prima volta, nel desiderio di difendere la contessa, indovinate chi?
tutte le donne più o meno cattive, più o meno giovani,
più o meno belle del ceto patrizio e anche del ceto solamente
ricco, che un tempo erano sempre state le naturali nemiche della
superba contessa. Fu una specie di diserzione inattesa, un cambiar
repentino di propositi e d'opinioni, un mettersi tutti da un lato a
protestare in favor suo, e in modo di far salire in orgoglio coloro
che hanno buon concetto dell'indole femminina.
Donna
Paola che, nel tempo dell'assenza della contessa, mediatore il
giovane Parini, era andata a visitare la madre di lei, partiti che
furono per Venezia il conte V... e il conte fratello, credette bene,
qualche ora dopo l'arrivo di donna Clelia, di rinnovar la visita alla
contessa madre, e d'invitarla a venire ad abbracciar la figlia per
confortarla. Molte dame trovavansi per caso colà... e tutte
furono intorno alla contessa madre, la quale, nei dì della
fuga e dell'assenza di donna Clelia, avea protestato di non voler mai
più riconoscerla per sua figlia; tutte adunque le furono
intorno per supplicarla a cedere alle preghiere di donna Paola. Che
più!.... talune espressero persino un desiderio vivissimo
d'andare a far visita alla fuggitiva ripatriata.
In
quel giorno adunque madre e figlia si riabbracciarono; in quel giorno
la contessa del Grillo andò a far visita a donna Clelia, e le
rasciugò il pianto e la consolò riferendole quel che si
diceva di lei per la città, e come avesse mille difensori, ed
esortandola a star lieta. E donna Clelia infatti, se non lieta,
almeno placida, dormì la notte; e soltanto quando si risvegliò
fu percossa acerbissimamente dal pensiero che in quel giorno doveva
comparire innanzi al Capitano di giustizia.
È
un pregiudizio e un errore della mente, ma i luoghi dove si
amministra la giustizia criminale incutono un vago sgomento anche
nelle persone più intemerate, se per caso son esse chiamate a
presentarsi ai giudici, sia pure per una semplice testimonianza, per
un'informazione di poco conto, fin anco pel proprio vantaggio. Se
dunque la contessa Clelia non potea sopportare il pensiero di doversi
presentare al Capitano di giustizia per un'accusa e una presunzione
gravissima, quantunque ella si sentisse innocente, la cosa è
ragionevole. Confortata però dal reintegrato amore della
contessa madre, sostenuta da donna Paola, si ricompose, e pensò
ad assumere quel contegno che dovesse comandare alla sua volta un
gran rispetto ai giudici medesimi.
Verso
mezzodì la contessa madre le mandò un carrozzone di
casa. Di concerto coll'illustrissimo marchese Recalcati, erasi
stabilito che donna Paola avrebbe accompagnata la contessa, e
l'avrebbe assistita di presenza anche nella sala degli interrogatorj.
Partirono dunque di casa e l'una e l'altra poco dopo il mezzogiorno,
e presto il carrozzone entrò nel cortile del Palazzo di
Giustizia. La livrea pavonazza coi galloni gialli del cocchiere e dei
due servitori, fece tosto conoscere a quanti trovavansi colà
ch'era la carrozza di casa A..., chè la stessa donna Paola
avea consigliata quella specie di pubblicità fastosa, perchè
in simile circostanza doveva riuscire assai significante.
Il
capitano marchese Recalcati, che stava in aspettazione di esse,
quando sentì il loro arrivo, credette bene di uscire insieme
col vicario e cogli assessori a riceverle in capo allo scalone. Era
una degnazione insolita, ma che all'ottimo Recalcati era stata
suggerita dalla specialità del caso, e, dopo i discorsi tenuti
con donna Paola e le pubbliche dicerie pervenutegli all'orecchio,
dalla persuasione che la contessa meritava il suo rispetto più
che la sua severità. Dopo que' primi atti di ricevimento, ai
quali però non fu straniero un certo sussiego di cerimoniale
tutt'altro che adatto a mettere altri di buon umore, le signore
furono fatte entrare in una sala, nella quale comparvero poco dopo il
capitano, il vicario, un attuario, due auditori e due assessori,
ponendosi a sedere presso una gran tavola coperta dal tappeto verde e
su cui stava una croce d'ebano col Cristo d'avorio. I due assessori,
pregando la contessa ad accostarsi, essi medesimi le portarono il
seggiolone a bracciuoli.
Donna
Clelia era vestita con austera semplicità, per quanto poteva
esser permesso dalle foggie del tempo. Quand'ella si mosse tenendo
dietro agli assessori che le portavano il seggiolone, la severissima
regolarità del suo volto, fatta allora più grave dalla
condizione dell'animo, la fronte che, per l'azione dell'orgoglio
offeso, le si aggrondava in quel punto, raccostandole i neri
sopraccigli al vertice del suo naso romano, i labbri e il mento che,
modificati dai muscoli in soprassalto, parvero assumere
fuggitivamente il disegno della bocca e del mento del giovane
Bonaparte cogitabondo e cupo; tutto ciò, anzi che farla
credere una donna chiamata a rispondere in tribunale, le avea
comunicato l'aspetto della istessa dea Temide convenzionale,
persuadente col severo simulacro l'inesorabile giustizia.
Quando
la contessa fu seduta, l'attuario, dopo avere scorse alcune carte e
guardato con significazione in faccia all'illustrissimo signor
capitano, quasi a dire, siamo a tempo? incominciò
l'interrogatorio dal consueto punto di partenza, domandando cioè
alla contessa se ella sapeva la cagione per cui era stata citata in
giudizio.
La cagione, rispose donna Clelia, l'ho saputa ieri dalla venerabil
donna Paola qui presente, ed è tale che mai non avrebbe potuto
esser materia di una congettura a chiunque non sia offeso nella
mente.
(Dal
costituto che abbiam sott'occhio crediamo bene trascrivere le precise
parole pronunciate dalla contessa, le quali, per una nota apposta in
calce dall'attuaro signor Bignami, siamo avvertiti essersi voluto
trasportarle e conservarle per intero nel processo verbale.)
Dopo
quell'esordio, rivoltasi la contessa al signor capitano:
Or io domando a vostra signoria illustrissima, soggiunse, se mi dà
licenza di parlare con libertà.
Il
capitano con atto benevolo accennò che dicesse. Allora la
contessa incominciò; e un auditore, intinta la penna nel
calamajo, si mise a scrivere come sotto dettatura.
Più vo pensando al fatto per cui sono qui, disse la contessa,
meno so farmi capace delle cagioni che possono avere spinto questo
tribunale a credere, anche per un momento, alle deposizioni infondate
di un costituito notoriamente malvagio, già più volte
venuto nelle mani della giustizia e più volte, credo, punito.
L'illustrissimo
signor capitano interruppe a tal punto la contessa. dimostrando come
la deposizione a cui essa alludeva non aveva già ottenuta
fede, ma bensì aveva costretta la giustizia a non trascurare
nemmeno quel filo, per quanto potesse parere assurdo, trattandosi di
una causa della più grande e delicata importanza.
Di nuovo mi trovo costretta, replicò allora la contessa, a
domandare se mi si dà licenza di continuare a parlar con
libertà.
E
di nuovo accennatole dal capitano affermativamente:
Io non mi lagno, continuò la contessa, che la giustizia abbia
fatto quel che doveva fare; mi lamento bensì che nell'intento
di rintracciare il capo di quel filo assurdo che venne messo fuori
dal costituito Suardi, siasi incominciato di là dove, al
peggio, avrebbesi dovuto finire. Comprendo assai bene quanto possano
parere e siano ardite e, ciò che più monta,
intempestive e dannose le parole di chi, invitato a difendersi in
giudizio, vuol farsi censore dell'autorità; ma ci sono tali
ingiurie, che, da qualunque parte vengano, non è permesso non
respingerle con coraggio. La colpa di che obliquamente mi si vuole
imputare, e che in uomini gravissimi e sapienti come voi potè
pure prendere stanza, è di tale natura che ogni prudenza si
ribella; e l'onestà, crudamente offesa, si rivolta iraconda
non solo contro l'accusatore, ma anche contro chi ha potuto credere
all'accusa, e così procedere di conformità... Questa è
forse la prima volta che da chi sta al mio posto è tenuto un
linguaggio di tal natura a chi sta al vostro, ma io confido che
l'illustrissimo capitano vorrà tener conto della specialissima
condizione in cui mi trovo.
Vi ho lasciato parlare, contessa, prese a dire allora il capitano,
perchè ve ne avevo dato licenza, e perchè è a
tener conto della condizion vostra appunto. Ma la giustizia non può
avere de' speciali riguardi per nessuno, nemmeno per l'innocenza,
fosse pur veduta con certezza, quando da circostanze
eccezionali è tratta a comparire come rea convenuta innanzi
alla legge. Però la signoria vostra or si compiaccia di
rispondere alle domande che le farà l'attuaro, per rispondere
alle quali era necessario, illustrissima contessa, la vostra
presenza; onde l'autorità non poteva operare diversamente da
quel che ha fatto. Del resto, sia un attestato codesto della buona
stima che si ha di voi, illustrissima contessa, se l'autorità
medesima si degna di venire alla giustificazione de' proprj atti.
La
contessa si rimise in calma, e:
Vi ringrazio, disse, eccellentissimo signor capitano, di questa
degnazione.
Qui
ci fu un po' di pausa.... indi l'attuaro continuò:
L'illustrissima signora contessa ha conosciuto il defunto marchese
F...?
L'ho conosciuto ... ma, quasi potrei dire, soltanto di nome e di
vista... dico quasi, perchè a una festa in casa Borromeo, tre
anni fa, esso mi rivolse la parola, ed io di conformità gli
risposi... e d'allora in poi, se l'ho visto spesse volte e spesse
volte ho risposto al suo saluto stando in carrozza al corso della
strada Marina, non gli ho parlato mai più, nè mi sono
trovata mai con lui nè tanto nè poco nè punto.
L'auditore
allora chiese alla contessa: quale a suo giudizio, doveva essere la
cagione per la quale il costituito Suardi fu tentato di scaricare su
di essa la colpa ond'egli era imputato.
Nella lettera che scrissi alla venerabile donna Paola qui presente, e
che so essere stata deposta nelle mani delle signorie vostre, mi pare
risulti evidente la cagione per cui il costituito Suardi ha messo
innanzi il mio nome. È questa una cagione di vendetta e di
rappresaglia, come suol dirsi. La sua cattura essendo avvenuta subito
dopo la visita ch'egli venne a farmi, per indurmi con impudenza
inaudita quasi a rendermi complice dell'insidia in cui egli stava per
trarre una inesperta fanciulla veneziana di casato patrizio, ch'io
per avventura potei giungere in tempo a salvare dalle scellerate sue
mani; dovette necessariamente fargli credere che l'accusa potesse
essere venuta da me, essendosi egli smarrito contro la natura sua, e
avendo perduto la sfrontatezza e l'audacia quand'io, con sua
sorpresa, gli toccai del sospetto che si aveva di lui pel fatto del
defunto marchese. Chiunque avesse osservata la faccia di quel
ribaldo, quando io lo colpii all'impensata, non potrebbe oggi
dubitare nemmen per ombra della sua reità... Per tutte le
quali cose persuaso il costituito Suardi che da me gli sia venuto il
colpo, ha voluto vendicarsi e, ingegnosissimo qual è e
astutissimo, ha saputo sì ben fare e sì ben dire, ch'è
riuscito a trarre in inganno anche voi. Del rimanente, quand'io
scrissi quella lettera alla venerabile donna Paola, la pregai di non
farne motto con veruno, perch'io non intendevo di farmi accusatrice
di nessuno al mondo, nemmen de' ribaldi; ma ella, che ha più
sapienza di me, ha pensato che, quando l'indulgenza verso i tristi
torna a danno, e a gravissimo danno di sventurati innocenti, tosto si
converte in colpa; e però di quella mia lettera fece un atto
d'accusa.... accusa che oggi maturatamente io rinnovo, supplicando
l'alta giustizia di questo tribunale a non intralasciare indagine
nessuna, a non fermarsi alle ingannevoli apparenze, a inseguire il
vero con insistenza, perchè trattasi di un povero fanciullo
derelitto, trattasi di una sventuratissima donna lasciata nella
miseria a macerarsi della colpa altrui. Il testamento fu dettato dal
notajo Macchi, e scritto dal defunto, e deposto fra le sue carte più
preziose; jeri la contessa del Grillo mi assicurava di ciò,
avendone parlato collo stesso notajo. De' riguardi troppo giusti alla
fama di famiglie cospicue possono far peritosa la giustizia nel
frugare colà dove precisamente dev'essersi appiattata la
colpa... Ma testè, con sapienza, l'illustrissimo signor
capitano dicevami che nemmen l'innocenza può lasciarsi in
riposo quando da fatti eccezionali è chiamata siccome rea
convenuta innanzi alla legge: tant'è vero ch'io sono qui...
Per tutte le quali cose codesto tribunale voglia provvedere,
nell'alta sua saviezza, perchè la giustizia abbia l'intero suo
corso. Al qual fine io sono qui sempre disposta a dar ragione d'ogni
mio fatto... Dirò di più, tanto sono persuasa di poter
essere utile a degli sventurati, che io sono disposta, giacchè
ho superato il primo ribrezzo di venire a questi scanni, a sopportare
la vista del costituito lacchè... Io porto opinione che la mia
presenza e le mie parole e la ricordanza de' fatti avvenuti gli
faranno smarrire l'audacia, e la verità balzerà fuori.
E
la contessa tacque in mezzo al silenzio de' giudici.
VII
Ella,
vedendo che l'auditore scrivente aveva deposta la penna, aspettava di
essere di nuovo interrogata dall'attuaro. Ma questo invece si fece
dare il processo verbale, e lo passò all'illustrissimo signor
capitano, il quale, dopo averlo letto attentamente, si alzò e
così disse alla contessa :
Il tribunale ha compiuto l'ufficio; dolente per un lato di avervi
sottoposta a gravi disturbi, felice per l'altro di aver consolato
queste aule dove risuona di continuo la voce della colpa, d'averle
consolate, dico, colla vostra presenza, colla vostra coraggiosa
franchezza, coi vostri savj ragionamenti, colle vostre calde
preghiere. Spero che vi sarete fatta capace della necessità
che si aveva di sentirvi in giudizio di presenza. Se il vostro senno
e le vostre fervide sollecitazioni potranno far sì che la
giustizia, per quanto spontaneamente solerte, pure accresca il suo
zelo, e, messa in guardia dai vostri consigli, scopra il lato giusto
e sorprenda il varco che mette alla scoperta della verità, voi
stessa dovrete ringraziare l'eccellentissimo nostro Senato se da
Venezia vi ha obbligata a venire tra noi.
Così
dicendo, si mosse dalla seggiola, si accostò a quella dove
stava donna Clelia, le porse il braccio a sorgere, e insieme con lei
venne a donna Paola, la quale strinse affettuosamente la mano alla
contessa.
Così
e l'una e l'altra furono accompagnate fino al capo dello scalone,
dove il signor capitano marchese Recalcati, con un profondo inchino,
le lasciò. E donna Clelia, che nel punto in cui la carrozza
entrò nel palazzo s'era sentita a coprire il cuore per
ribrezzo, provò in quel momento una soddisfazione insolita,
una compiacenza, di cui da molto tempo non aveva provata l'eguale.
Così avviene spesso nelle cose di questo mondo; e in quel modo
che dagli indizj di felicità scaturisce talvolta l'affanno, le
paurose aspettazioni si convertono sovente in occasioni di contento.
Intanto uno de' servi, già salito con esse, discese a far
venire la carrozza ai pie' dello scalone e a tener aperto lo
sportello. Le donne salirono, adocchiate da cento curiosi che s'erano
affollati lì presso; e tosto lo scalino fu ripiegato con
rumore, lo sportello si richiuse con solennità, il servitore
salì a far compagnia al collega. Il cocchiere sollecitò
i cavalli, e di rumor di ruote e di scalpiti risuonò tutto il
palazzo all'uscire del carrozzone patrizio.
Ma
quello non era giunto in piazza Fontana, che tosto svoltò nel
cortile un altro carrozzone non patrizio, ma che era un
rappresentante legittimo del popolo; un carrozzone da nolo, dalla
cassetta del quale, dove s'era assiso baldanzosamente insieme al
cocchiere, discese un domestico colle gambe arcuate, portante una
livrea azzurra passamantata di rosso fuoco, la quale gli scendeva
fino ai piedi, ad attestare come essa, senza fargli carico della
statura, apparteneva, nè più nè meno del
carrozzone, a tutto il rispettabile pubblico pagante.
E
il domestico disceso ad aprir la portiera era nientemeno che l'amico
Zampino del teatrino Ducale, e la signora che ne uscì era la
ballerina Gaudenzi, a cui tenne dietro l'indispensabile zia.
Alla
celebre danzatrice trattenutasi a Milano con permesso scritto e
sottoscritto dagl'ispettori del teatro di san Moisè di
Venezia, scadeva in quel dì appunto il termine estremo, onde
il giorno dopo doveva partire per Venezia. Ella veniva a trovare il
signor Lorenzo Bruni, che stava adempiendo alla sua quarantena là
dentro, e raccomandato dal ministro governatore, vi era anche
ben trattato, avuto riguardo alla qualità della locanda.
Quelle visite della Gaudenzi si rinnovavano spesso, e siccome essa
largheggiava di mancie a dritta e a sinistra, così accorse il
custode del palazzo appena ella discese; accorsero gli uscieri appena
ella salì; accorsero i secondini appena ella si mostrò
all'anticamera del signor carceriere in capo. Ed or lasciamola andare
al suo destino, chè la raggiungeremo tra poco.
Nel
cortile trovavasi contemporaneamente una mano di giovinotti
buontemponi, con cui ci siam già affiatati altra volta al
caffè del Greco, ci pare al mercoledì grasso; e che, se
non è assolutamente necessario, non è nemmeno tempo
gettato a sentirli anch'essi, e tanto più che ci troviamo
avere a' nostri comodi un quarticello di ricreazione.
Era
dunque la solita compagnia del caffè del Greco, trascinata
dall'ozio e dalla curiosità fino al Capitano di Giustizia per
appurare le notizie del giorno indietro e per raccogliere quelle
della giornata, un po' tempestando il custode, un po' qualche usciere
che per caso discendesse; un po' qualche assessore, o auditore, o
notajo, o scrivano amico. Tra quella schiera di buontemponi felici,
si trovava, già s'intende, anzi stava a capo di tutti, quel
chiacchierone indomabile che già vedemmo seduto colla paletta
in mano al braciere d'inverno del caffè.
Ma sapete che è una giornata curiosa questa! (era esso che
parlava). Il palazzo del Capitano di giustizia ha cambiato faccia...
e se la va innanzi di tal passo, il teatrino si trasloca qui.
Carrozzoni con tre livree, contesse in gran gala, conti e contini e
baroncini e marchesini che passeggiano su e giù per gli atri e
per le scale. (Erano infatti i nobili praticanti e i patrocinatori
dei carcerati). Per ultimo ballerine col carrozzone del teatro... è
qui Zampino in persona, Zampino in livrea... Sta a vedere che fra
poco questo cortile sarà la platea, e le celle dei detenuti
saranno i palchetti. Ma va benissimo così. È assai
meglio che il palazzo di Giustizia metta il parrucchino e il belletto
e diventi allegro come il palco scenico di quello che presentano le
tragedie asmatiche di Corneille; men male quelle di Racine, il quale
par che faccia il disperato o pianga per diporto, tanto è
calcolato in tutto, onde si direbbe che paga il fiaschetto delle
lagrime un tanto all'oncia.
Ma cosa fai qui, Zampino, e come puoi abbandonare il teatro?
Meglio servitore di carrozza, che servitore di palco scenico, quando
non è stagione di carnevale. Allora gli artisti son tutti di
cartello, e pagano senza contare... Adesso sono straccioni che non
han di proprio nemmen le maglie; perciò di giorno servo il
carrozzone del comune e conduco in giro i forestieri... Men male però
stavolta che s'è fermata a Milano... questa cara bionda, la
quale non guarda pel sottile... e insieme coi denari vien anche roba
e cibo e vino... Ah... questa ragazza e il signor Amorevoli, per far
star bene chi li serve, non c'è chi li somigli.
A proposito, che è avvenuto del tenore?...
È a Venezia... ed or sa Dio quando tornerà, perchè
quando un tenore di quella vaglia, piglia il volo, chi può
sapere dove andrà a finire? Inviti di qua, inviti di là,
se poi vanno alla Corte di Francia, o alla Corte di Spagna, o alla
Corte di Vienna... a rivederci all'altro mondo... E dire che m'aveva
promesso di condurmi con lui... perchè gli piaceva il mio
servizio... ma... È stato un tal diavolo a quattro questo
carnovale passato, con tante disgrazie... che... basta!... Ora son
qui.
Povero Zampino, e cosa viene a fare in questi luoghi la tua bionda?
Bella domanda! a trovar il signor Bruni, il violino di spalla... e lo
sposerà, appena uscirà all'aperto. Sì, signori.
Così rimarranno con tanto di naso quei cari cicisbei
spasimanti che credevano abbagliarla collo specchietto degli anelli
di brillante e coi titoloni; e va benissimo, e mi fanno ridere questi
ruba occhiate... Ma il signor Bruni è un altro galantuomo che
paga bene.... e che è quel che si direbbe una mosca bianca fra
i suonatori... bollettoni eterni che portano in deposito al
pignoratario persino il contrabasso e il corno quando non c'è
teatro, e non sono chiamati a far baldoria a qualche festa di chiesa
di campagna.
Tutta
la brigata volle smascellarsi dal ridere a codesta espansione
furibonda del nano Zampino contro gli stracci teatrali; ma vedendo
che scendeva dallo scalone un auditore, il quale era uno degli amici,
furon tutti colà a tempestarlo di domande:
E così? non si sa nulla della contessa che fu lasciata partire
com'è entrata?
E che diavolo! volevate che le si mettessero le manette come a un
borsaiuolo?
Chi ha mai pensato e detto questo? entrava lesto il chiacchierone; io
anzi ho sempre detto che a mandar a prender la contessa per forza, la
giustizia avrebbe fatto un buco nell'acqua.
E se non la si fosse mandata a pigliare, avreste detto che erano i
soliti riguardi paurosi che l'autorità ha verso i titolati.
E voi altri dottoroni della legge, per far vedere che siete uomini
integerrimi, avete cominciato a dar prova d'imparzialità
precisamente dove non occorreva... Così siete caduti dalla
padella nella brace!
Che brace e che padella?
Brace e padella, sì... Prima si poteva dire che eravate
maligni ma acuti, oggi si può dire che siete galantuomini ma
balordi... Ma già è un destino che non abbiate a
imbroccarne mai una.
Taci, taci, buontempone... che se il mondo dovesse regolarsi a
chiacchiere.... tu saresti il Giove in cipria; fortuna che ti si
lascia dire e dire... e chi deve fare fa, senza il tuo parere...
E per questo le cose camminano come camminano; piuttosto è che
ad un bisogno sapete essere e bricconi e balordi così
si pigliano più piccioni a un favo... bravissimi! e mentre
s'importuna la Repubblica di Venezia per importunare la contessa che
stava benissimo là col suo bel tenore... qui non si pensa che
il conte F... è il fratello del marchese; e che, data pure per
assurda e impossibile la presunzione, sentirlo in giudizio, bisognava
ben sentirlo... Ma invece... se il conte F... fosse morto da cento
anni non si potrebbe dimenticarlo meglio...
E puoi tu dire di sapere quel che si farà?
Che cosa so io?... Quand'anche si finisse coll'impiccarlo, la
giustizia avrebbe sempre il torto di avere aspettato troppo tardi...
E poi che bel merito... Di qui soffia uno e discopre gli altarini, di
là l'avvocato Agudio spicca un libello e mette sossopra la
città, e cerca e trova testimonj. Capisco anch'io che a questo
modo, a calci nel sedere, dee camminar la giustizia anche a Milano...
Oh ci vuol proprio un gran merito...
Ma intanto il cameriere dei Tre Re....
Che cameriere?
Diavolo, tu che sai tutto... non sai che il testimonio ingaggiato
dall'avvocato Agudio è il cameriere dei Tre Re? e domani sarà
messo agli interrogatorj un altro cameriere che si mandò a
pigliare fino a Cremona?
Oh ora va bene... e questo primo cameriere?...
Fu messo alle strette... e disse che il lacchè Suardi
trovavasi in Milano e bazzicò più volte all'albergo
nella settimana grassa. Questo basta perchè il Galantino sia
trovato in mendacio... basta, cioè, sino ad un certo segno...
perchè poi c'è un altro guajo...
Che guajo?
Che nel punto in cui il cameriere doveva confermar tutto con
giuramento, ei fece di tratto un gran passo indietro e protestò
che la memoria poteva forse ingannarlo... e in ogni modo non sapea
risolversi a giurare a danno altrui... e qui non c'è nè
che dire nè che fare... Ma domani si sentirà l'altro...
e se mai parlasse come questo... e per soprappiù giurasse...
e, messo in confronto col Galantino... Basta, vedremo... Ora tu
continua a dire che noi vogliamo chiuder la porta al vero, e tener
mano a' birbanti. Il contrattempo sai tu piuttosto in che consiste?
consiste in ciò che il conte F... è a malissimo
partito. Ma voi... mi fate perder tempo, mentre sono aspettato in
Pretorio. Addio, buone lane.
E
l'auditore partì, e la brigata, salutato il Zampino, se ne
andò, indovinate dove?... verso le parti di Santa Maria
Podone, per raccogliere notizie intorno alla salute del conte F... Ma
non avevan voltato il canto di Santa Maria Fulcorina, che sentirono a
qualche distanza i suoni intermittenti di un campanello scosso a
mano, una voce acuta che spiccava nel silenzio, per esser tosto
seguita dal rumore di cento voci. Sancta Maria, acclamava la
voce bianca; ora pro eo, rispondeano le altre in sordo
brontolìo. E il campanello intercalavasi a quelle voci: Salus
infirmorum, ora pro eo Refugium peccatorum, ora pro eo
Consolatrix afflictorum, ora pro eo... e così
finchè i nostri compagni giunsero in veduta del santissimo
Viatico, il quale entrò nel portone di casa F...
Si vede che il conte non sta benissimo di salute, disse ridendo il
più assiduo interlocutore. Ora guardate, che, allorquando un
uomo è nato sotto la protezione della ruffiana fortuna, muore
nel punto preciso che la morte è un colpo orbo alla bassetta.
Ma
per vedere in qual condizione si trovi precisamente il moribondo
conte, entriamo anche noi in casa F... insieme col Viatico.
VIII
Quello
che don Alberico avea pronosticato al maggiordomo di casa, che cioè
il dottor Gallaroli avrebbe fatto, tornando alla visita della sera,
un grande scalpore al sentire che non s'era ancor mandato a chiamare
il prete, avvenne per l'appunto.
Il
conte F..., in quelle sei o sette ore che erano passate dal consulto
al suono della campana serale, aveva peggiorato a furia; onde il
bisogno del prete erasi fatto più necessario che mai. Come
dunque montasse in collera il medico della cura, sebbene per
abitudine gioviale e cortese ed anche un po' adulatore, è
facile imaginarsi. Si trattava di spargere di sè e delle sue
osservanze religiose un'opinione favorevole, la quale lo avrebbe
ingraziato al clero in cura d'anime, certo che un medico dee
necessariamente tenersi confederato; e il dottor Gallaroli tanto più
salì sulle furie, quanto più era straordinaria e
cospicua l'occasione. Data pertanto una buona sgridata al
maggiordomo, perchè in quel momento la collera serviva al suo
intento, come altre volte la giovialità e la condiscendenza,
partì facendosi promettere obbedienza intera, e
raccomandandosi in ispecial modo, e qui cangiando tono e frasi e
faccia, a don Alberico. Non però cessarono le dispute tra
questo e il maggiordomo, dopo che il medico si fu partito. E il
Rotigno non faceva che ripetere i paralogismi sfoderati fin dal
mattino col figlio del signor conte, difendendo il suo proposito con
tanto maggiore insistenza e caparbietà, quanto più
disperava della possibilità di potervisi mantenere; anzi
l'insistenza e la caparbietà crebbe al punto che diventò
iraconda petulanza; tanto la considerazione del pericolo vicino lo
avea fatto uscire da quelle misure di rispettosa convenienza che pur
gli erano comandate dalla sua condizione e da quella di don Alberico.
Ma ciò gli partorì appunto l'effetto contrario a quello
per cui si crucciava; che don Alberico, inasprito da quella così
audace contraddizione, ordinò a' domestici che tosto andassero
a chiamare don Giacinto di Santa Maria Podone.
I
domestici di casa F... non erano mai stati i più pronti
esecutori degli ordini di don Alberico, perchè il conte padre
e il maggiordomo erano sempre stati i soli a far paura alla servitù;
ma in quel momento successe una repentina diversione. Il conte
padrone potea morire; e allora il maggiordomo, cessando a un tratto
di essere dopo di lui la persona più autorevole della casa,
doveva diventare invece il servitore devoto di don Alberico, non
rimanendo, in quanto al resto, che l'uomo il più abborrito dai
dipendenti; perchè questi, se lo avean sempre obbedito con
prontezza, lo avevano anche sempre odiato con effusione, per quelle
relazioni di sudditanza oppressa e di tirannia che intercedono quasi
sempre tra un maggiordomo e le livree d'una casa. Don Giacinto fu
dunque mandato a chiamare. Il vicario di Santa Maria Podone,
indignato di essere stato messo alla porta dal maggiordomo quando
erasi presentato a visitare il conte, non s'era più mosso, ma
sentendo peggiorar sempre le notizie della salute del conte,
aspettava di venir invitato. Quando pertanto il servo di casa fu a
dirgli, che venisse subito perchè il conte padrone stava a
malissimi termini, tosto accorse.
Il
maggiordomo, allorchè vide il prete entrar nella stanza da
letto del conte F..., provò quell'oppressione di cuore e
quello sgomento onde è assalita una moglie infedele che,
sorpresa dal marito, lo veda entrar nella stanza dove avea creduto di
poter nascondere il furtivo amante.
Don
Giacinto il quale, per una lunga abitudine al letto degli ammalati,
aveva fatto, come suol dirsi, l'occhio medico, avvistosi tosto del
massimo pericolo in cui versava il conte, senza por tempo in mezzo
gli propose la confessione, che dall'ammalato incadaverito fu
accettata.
Quando
la vecchia cameriera uscì per lasciare il padrone da solo a
solo col prete, trovò il maggiordomo che s'indugiava nella
sala vicina.
Or come sta il padrone? quegli le chiese.
Sta con don Giacinto e si confessa. Usciamo tutti di qui, e non si
lasci entrar nessuno.
Io mi fermerò, e non entrerà alcuno; disse il
maggiordomo preoccupato; e, uscita la vecchia, in prima egli si diede
a passeggiare per la camera, rallentando di tratto in tratto il
passo, per finire a fermarsi poi del tutto in un angolo della sala,
raggruppato in un atteggiamento che significava la più
profonda concentrazione in un pensiero unico. Ma a riscuoterlo entrò
improvviso don Alberico che gli disse con accento di meraviglia:
Or che fate lì rincantucciato? E la sua voce risuonò in
quel profondo silenzio: chè tutti i servi si erano
allontanati.
Alla
voce di don Alberico, la quale distintamente arrivò fin
all'orecchio dell'ammalato, rispose un sospiro grave, anzi un gemito
rantoloso dell'ammalato stesso. I due, scossi da quel gemito,
stettero un momento immobili e senza quasi tirare il fiato.
Or su, coraggio, dica pur tutto.
Era
il prete che parlava; ma il prete quasi nel punto medesimo usciva, e
vedendo i due:
Presto, si chiami qualcuno, che al padrone è sorvenuto un
deliquio. E diede egli stesso una strappata al campanello, e
s'udì lungo le sale silenziose l'oscillazione prolungata del
filo metallico.
Accorse
incontanente la vecchia cameriera, ed entrò col
prete nella stanza del conte.
Or vedete, disse allora il Rotigno a don Alberico, i buoni effetti da
me pronosticati di queste negre sottane.
E che si doveva fare? rispose il giovane.
Dopo
una mezz'ora il conte erasi tanto quanto riavuto, onde don Giacinto,
fatta di nuovo uscir la vecchia, ripigliò la confessione.
Ma
ora non creda il lettore di potere, introdotto da noi in quella
stanza di morte, mettere la testa tra le orecchie del prete e la
bocca del conte. No; di quella confessione noi non sappiamo nè
principio, nè mezzo, nè fine. Chè il sacramento
della penitenza non è costituto criminale, e non si traduce in
processo verbale a saziare la curiosità dei posteri curiosi.
Soltanto possiamo dire che, allorquando il prete uscì, il
maggiordomo che lo attendeva alla porta per leggergli in volto e
penetrargli l'anima, non vi potè legger nulla; o, diremo più
giusto, non vi notò altro che quell'abituale tranquillità
del sacerdote che ha fatto il suo dovere; ed anzi quella tranquillità
era tale che se la sentì trasfusa in se medesimo. In quanto a
noi, volendo avventurare qualche congettura, regolandoci con quello
che avvenne dopo, ci pare di poter sospettare, che il conte fosse al
punto di fare al sacerdote la rivelazione intera d'ogni cosa; ma la
combinazione fatale avendo voluto che in quel punto la voce
dell'unico erede gli suonasse all'orecchio, quella bastò per
impietrargli il segreto in gola. L'indomita ambizione e il pensiero
della grandezza del casato perpetuata nel figliuolo, fu più
forte d'ogni altra angustia, e tacque; vogliamo dire, è assai
probabile che sia avvenuto così, perchè, del rimanente,
ripetiamo, non sappiam nulla di preciso.
La
mattina successiva, sacerdote e dottore furono al letto del conte; e
il malore, durante la giornata, progredì al punto che, nel
dopo pranzo, fu indispensabile accorrere col Viatico, in vista del
quale, coi cappelli devotamente levati, ci staccammo da quella
schiera di giovinotti avventori del caffè del Greco. Ma come
essi per raccoglier novelle della salute del conte F... lasciarono il
palazzo del Capitano di Giustizia; a noi conviene invece ritornare di
necessità in quel luogo, nell'aula degli interrogatorj. E
dobbiamo ricordarci anche della Gaudenzi, venuta colà a
visitare Lorenzo Bruni. Se non che il dialogo che s'impegnò
tra questo e la bellissima danzatrice, e il terzetto a cui si allargò
il duetto, al sorgiungere di Pietro Verri, interessa un ordine di
fatti che qui potrebbero far sbadigliare il lettore, tutt'altro che
disposto a tener dietro al corso generale delle cose di quel secolo
in un punto che più ci attirano le particolarità del
processo; per la qual cosa omettiamo un tal dialogo, reclamando il
diritto ai ringraziamenti.
Dall'auditore
che parlò nel cortile del palazzo di Giustizia cogli amici del
caffè del Greco, abbiamo sentito come il primo cameriere
dell'albergo dei Tre Re messo agli interrogatorj abbia, in prima,
deposto contro il lacchè Suardi, dicendo di aver giuocato con
lui in una delle sere della settimana grassa; poscia, interpellato se
fosse disposto a raffermare la deposizione col giuramento, siasi
ritratto di un passo, accusando la possibilità che la memoria
avesse mai potuto tradirlo. In tal guisa veniva a riuscire secondo
l'espressione dell'attuaro, irrita affatto la sua prima
dichiarazione, e però a risolversi in un indizio, più
che insufficiente, nullo. Se non che il causidico praticante nello
studio dell'avvocato Agudio, che era un tal Gerolamo Benaglia,
recatosi a Cremona, aveva trovato all'albergo del Sole il secondo
cameriere, e interrogatolo, lo aveva sentito confermare l'asserzione
del primo, dichiarandosi inoltre pronto e a giurare e a sostenere il
confronto col medesimo Galantino; perciò, senza por tempo in
mezzo, avealo condotto seco a Milano; del che avendo dato avviso al
signor capitano di giustizia, questi avea ordinato che il dì
dopo dovesse comparire per essere sentito in giudizio.
Il
marchese Recalcati, se per le molte circostanze sorvenute era
disposto a lasciar corso liberissimo alla giustizia senza riguardi
obliqui per nessuno, e nel bisogno a parlare anche in Senato, dove il
capitano spesso era chiamato e sentito; non però aveva mai
avuto gran voglia di comunicare una velocità straordinaria
all'andamento del processo. La sua natura onestissima era pur sempre
alle prese con quella sommessa deferenza ch'egli sentiva per chi
voleva virare il naviglio in modo, che finisse per perdersi in alto
mare, lontano dalla vista del pubblico.
Ma
l'esame fatto alla contessa Clelia V..., le franchissime parole di
lei, le calde sue sollecitazioni raddoppiarono la sua onestà e
scemaron la deferenza ch'egli avea per altri. Però venne in
pensiero di dar corso più rapido al processo, e a tal fine
volle, che il secondo cameriere venuto a Milano col causidico
praticante Benaglia dovesse comparire in giudizio quel dì
medesimo, senza attendere il giorno successivo; e siccome l'ora erasi
fatta tarda, così dispose che l'esame si avesse a fare dopo i
vespri a chiaro di lucerna, e gli esaminatori dovessero, al bisogno,
vegliar la notte perchè «col sorgere del sole
(togliamo queste parole dal processo) qualche lume di
verità dovesse rischiarare la casa della giustizia».
IX
Per
l'ora prima di notte fu dunque invitato a comparire innanzi al signor
capitano di giustizia, come testimonio contro il costituito Suardi,
detto il Galantino, il già cameriere nell'albergo dei Tre Re,
Cipriano Barisone.
Questi
comparve di fatto in un col causidico praticante Benaglia. Aperto il
costituto, l'attuaro domandò al Barisone se conosceva il
Suardi.
Lo conosco fin da due anni, fin da quando esso era al servizio del
marchese F...
In quali relazioni vi siete trovato con lui?...
Io ero cameriere all'albergo... e, quando lo conobbi per la prima
volta, esso era un avventore che scialava e mangiava i migliori
bocconi, e beveva il vin migliore... Di poi, allorchè venne
scacciato da quella casa, si astenne per qualche tempo di venire
all'osteria; e quando ci tornò, se prima faceva il signore e
non giuocava che cogli avventori, dopo ha dovuto, di necessità,
se voleva trovare un compagno, mettersi a far comunella con noi gente
di servizio... e a notte tarda, quando i più degli avventori
eran partiti, giuocava con noi alle carte; e siccome a quell'ora si
cenava, egli non aveva schifo di mangiare nei nostri piatti, perchè
si capiva benissimo che capitava all'Osteria senza che nè una
crosta di pane gli avesse toccato un dente. Si rifece però un
poco, e lo vedemmo con de' zecchini d'oro assai in quell'occasione
che vinse la corsa co' lacchè di Brescia e di Cremona. Ma fu
un'allegria corta, perchè presto tornò ad aver bisogno
degli avanzi della nostra cucina.
Qui
l'auditore l'interruppe.
Di qualche cosa però avrà dovuto vivere; con che dunque
esso mantenevasi?...
A dormir sul fenile dell'osteria, a mangiare nell'altrui piatto, ad
avere i piedi fuor delle scarpe, mi pare a me, che non debba
occorrere gran cosa per vivere. Tuttavia, se mai capitava ch'egli
avesse qualche lira tra le mani, le guadagnava al giuoco delle carte
nel quale aveva sempre ragione, e quando non era la fortuna, egli
stesso faceva le parti di lei.
Spiegatevi meglio.
È presto spiegato: s'egli faceva il mazzo, le buone carte eran
sempre le sue, e in ciò nemmen chi giuoca ai bussolotti in
piazza poteva essere più svelto di lui.
Ma conoscendo questo, perchè avete continuato a giuocare con
esso?
Che cosa vuole? ci sono a questo mondo de' buoni semplicioni coi
quali non si vuol aver a che fare per la ragione dell'antipatia.
Parimenti vi sono de' mariuoli che più te ne fanno, più
ti innamorano di loro. E il lacchè era uno di questi... Ci
rubava i punti, faceva scomparir le carte, ci mangiava il boccon
migliore, talvolta ci portava via qualche camicia, qualche calza...
che so io.... e tuttavia, quando non lo si vedeva a comparir
all'osteria, si pareva senza una mano... Era pieno di piacevolezze,
di pazzie, di invenzioni... e perfino il padrone dell'albergo che è
un uomo col viso sempre aggrondato e che non ride mai, arrivava a
domandar conto di quel briccone se passava una giornata senza
vederlo. In quanto a me però, ultimamente, ne avrei fatto
anche senza.
Or dunque, venendo al fatto, quando fu l'ultima volta che voi avete
giuocato seco all'albergo dei Tre Re?
L'ultima volta fu la domenica grassa.
Come potete provarlo?
Provarlo? colla buona memoria... io non ho altro... perchè mi
ricordo benissimo come se fosse adesso, che la domenica grassa ho
giuocato con lui, ed era quasi la mattina del lunedì... E il
far tanto tardi non succede che in tali giornate di gran faccende...
E poi c'è un altro fatto... Giuocavano con noi due camerieri
soprannumerarj, i quali non sono venuti che in settimana grassa, e
precisamente alla domenica. Ma chi li va a prendere adesso questi
camerieri i quali ora sono qua, ora sono là... e spesso se
fanno il cameriere in settimana grassa, fanno il facchino a san
Michele... e non si riconoscon più nè al viso né
al vestito?...
Ma voi sapreste sostenere tutto quello che avete detto fin qui anche
in confronto del lacchè?
Perchè no?... s'io parlo... è perchè trattasi di
dir la verità... e se dico la verità... è perchè
il signor causidico, che venne a pigliarmi a Cremona, mi ha
assicurato che a dir la verità tutta quanta si reca vantaggio
a delle persone oneste e povere..., e a tacerla, si tiene invece il
piatto a' birbanti.
L'attuaro,
che avendo proposto il giuramento al primo cameriere, lo aveva
sentito a ritirar la parola per ispavento della solennità
dell'atto; credette di non farne motto al secondo testimonio, e di
provocar prima il confronto di lui col Galantino. Di fatto avrebbe
dovuto incominciare anche coll'altro da questo atto, preterendo il
giuramento; ma sbaglia anche il prete a dir la messa.
Il
cameriere Barisone fu dunque fatto uscire, pel momento, dalla sala
degli interrogatorj, e fu mandato a prendere il costituito Suardi.
Questi comparve nella sala un quarto d'ora dopo, in mezzo a due
secondini, o come chiamavansi allora più comunemente, sbirri.
La
faccia del Galantino, quando si mostrò, era sorridente; lo
sguardo di lui lampeggiava a dritta e a sinistra con vivacità
gioviale. Un occhio esperto però avrebbe dovuto comprendere
ch'ei sorrideva vivacemente, perchè la sua forte volontà
moveva i muscoli del viso e degli occhi. Era, se ci si passa la
similitudine, come un caratterista brillante di una compagnia comica,
il quale ha i creditori alle calcagna e gli arresti personali
intimati per debiti, e tuttavia, sul palco scenico, ride e fa ridere,
e par l'uomo più allegro del mondo. Del rimanente, quel roseo
incarnato che avea sempre colorito il volto bellissimo del Galantino,
era scomparso per dar luogo a un lieve pallore, insolito su quella
faccia trionfante di sfrontatezza e di salute.
L'attuaro,
fatta una lunga pausa, durante la quale guardò il Galantino
con una significazione severissima, rilesse ad alta voce il primo
costituto stato già sottoscritto dal Suardi, poi soggiunse:
Avete ancora il coraggio di sostenere tutto quello che avete detto e
deposto qui in processo verbale sottoscritto?
La verità è una sola, e io non posso già dire
che non è avvenuto quello che realmente è avvenuto.
Voi sapete che chi spontaneamente confessa la propria colpa alla
giustizia, ha meritato che la giustizia alla sua volta gli si mostri
indulgente. Vi esorto adunque di nuovo a dire la verità, se
volete che la giustizia non faccia uso contro di voi di tutto il suo
rigore.
La giustizia può fare quello che vuole; ma io non posso
cambiare quello che è stato.
Ebbene, sappiate che abbiamo assunte testimonianze, dalle quali
risulta che voi avete mentito. La domenica grassa, a notte tarda,
avete giuocato alle carte all'albergo dei Tre Re... Vedete dunque che
non è verosimile che voi foste allora a Venezia già da
otto giorni.
Il
Galantino, benchè fosse di bronzo, non potè a meno di
commuoversi a quelle parole, e fu una sua fortuna s'egli era
illuminato dalla fiamma della lucerna piuttosto che dai raggi del
sole; si ricompose però sull'istante, come un cavaliero, fatto
piegare indietro da una lancia, che tosto si rimette in sella; e
rispose con asprezza:
Non sarà mai vero che alcuno possa dire, ch'io mi trovassi a
Milano la domenica grassa. Torno a ripetere ch'io andai a Venezia
otto giorni prima. E quegli che a loro signori avesse detto il
contrario è un bugiardo infame.
L'attuaro
tacque un momento, poi disse ad un usciere:
Fate entrare il testimonio.
L'usciere
entrò col Cipriano Barisone cameriere.
Il
Galantino, che nel frattempo aveva almanaccato per indovinare chi mai
poteva essere venuto a deporre in giudizio contro di lui, e quasi
erasi accostato al vero, si trovò parato a sostenere la prima
vista del cameriere Cipriano, e tanto che, dalle difese, con una
sfrontatezza senza uguale, passò alle offese.
Ah è costui, disse, quegli che viene a inventar fandonie per
farmi danno. Ma non mi fa meraviglia. No... È naturale... però
bisognava essere un birbone come lui. Sappiano dunque loro signori
che costui ha parlato per vendetta... perchè più volte
ha detto che volea vendicarsi di me... Or di' un po' tu se questo non
è vero, o ribaldo.
L'attuaro,
assalito anch'esso e sorpreso da quell'inattesa franchezza del
costituto:
È vero, chiese al Barisone, che voi avete potuto dire altre
volte di voler vendicarvi di lui?
Sì, signori, è vero, e ne ho le ragioni, e gravi. Prima
di tutto costui... che regala del proprio agli altri... e non è
mai stato innocente nemmen quando poppava, perchè vi son dei
serpenti che avvelenano appena usciti al sole... costui dunque non mi
restituì mai cinquanta lire che gli ho prestate, e una sera
che gliele richiesi, in faccia agli avventori, mi appoggiò un
pugno qui... che, ecco, mi spezzò questo dente. Poi... ma...
Taci lì, che continuerò io, aggiunse il Galantino
cacciandosi a ridere nel profferir quelle parole.
Il
Barisone fremeva...
Sappiano dunque, signori... e innanzi tutto già si sa che si è
di carne, e dove c'è carne c'è sangue. Ebbene, questo
bel pappione s'è fitto in testa di sposare la figlia della
lavandaja dell'albergo. Un fior di ragazzotta, giovane e fresca...
una gioncata colle fragole. Il marito dunque era costui... ma...
Taci...
Dopo qualche mese la bella sposa... si guardò dunque intorno e
vide che, in conclusione, ci voleva qualche cosa dolce per far
passare l'amaro dell'aloè. Il caso ha voluto che io gli
capitassi innanzi nel momento appunto che era presa dalla nausea di
questo gabbiano... Ora chi non lo sa? l'uomo è cacciatore... e
quando l'allodola è novella... va presto nel carniere... Del
resto la colpa... (e qui si diede a sghignazzare come se fosse in
piazza) è di costui che una notte, invece di stare
all'osteria, è venuto a casa due ore prima del consueto... e
si cacciò a strepitare come uno spiritato ed io a dar giù
botte da orbi... perchè questi mariti gelosi van tenuti in
soggezione. Così la bella lavandaja tornò a picchiar
sulla pietra, e costui giurò di vendicarsi di me. Ecco tutto.
A
queste parole del Galantino, e il viso tra il goffo e l'iracondo che
faceva il Barisone, sulla faccia dell'attuaro guizzò un
sorriso fuggitivo, ch'esso respinse a forza aggrondando il
sopracciglio; l'illustrissimo signor capitano guardò con
severità l'attuaro, quasi ad ammonirlo perchè desse
sulla voce al Galantino e lo richiamasse al dovere ed al rispetto; ma
due giovani scrivani, che, per fatalità, s'erano adocchiati,
si comunicarono a vicenda quella volontà contagiosa di ridere,
che cresce in ragione diretta della sconvenienza, della gravità
della circostanza e della severità dei superiori. Ben la
nascosero in prima con tali conati da meritare ogni maggior elogio da
chi tien conto dell'intenzione; ma i conati e gl'impedimenti non
fecero altro che accrescere gl'impeti convulsi, di modo che, dopo
essersi soffocati per qualche tempo, come si fa colla tosse quando
potrebbe tradire un segreto pericoloso, alla fine scoppiarono in uno
schianto così scandaloso e indecente, che la terribilità
del luogo, la gravità del signor capitano, l'aggrondatura
artificiale dell'attuaro, l'inerte serietà dei due sbirri non
valsero a salvare la solennità della dea Temide.
Accorse
però al riparo l'attuaro, gridando bieco al Galantino:
Basta così, e attendete a rispondere ai giudici voi quando
sarete interrogato; indi voltossi al testimonio:
È vero quanto ora fu detto?
È vero.
Perchè dunque non lo avete esposto prima?
Vostra signoria mi perdoni, ma quando io era per continuare e dir
tutto, ho dovuto rispondere ad altre domande.
È egli vero altresì che siete stato eccitato contro il
costituito qui presente da spirito di vendetta?...
Ho detto più volte di voler vendicarmi di lui, questo è
vero, ma non furono che parole, e sarebbero sempre state tali. Ciò
però non ha nulla a che fare con tutto quello che ho deposto
circa il fatto di aver giuocato con esso la domenica grassa, perchè
questa è la pura verità, e quando io stavo a Cremona e
fui chiamato e interpellato dal signor causidico Benaglia, era
lontano mille miglia dal credere ch'io dovessi venire a Milano,
ond'essere sentito in giudizio per cosa che risguardava costui.
Ma come avete potuto, col malanimo che avete seco, giuocare ancora
con lui?
Chi si poteva salvare dalla sua importunità, e anche dalle sue
prepotenze? d'altra parte i compagni ridevano di me quando facevo il
dispettoso con esso... onde, pel quieto vivere... bisognava adattarsi
a giuocare e a lasciarsi incantare anche le carte... Ma se V. S. non
crede alle mie semplici parole, io sono disposto a giurare tutto
quello che ho detto, perchè non sarà mai che per
malanimo io voglia inventar storie a danno di chicchessia.
Ora parlate voi, disse l'attuaro al lacché.
Quel che ho detto, lo ripeto. La domenica grassa io stava a
Venezia... e costui è un bugiardo... e s'egli è
disposto a confermare le sue fandonie col giuramento, non è la
prima volta che a questo mondo si sente a giurare il falso con
indifferenza.
L'attuaro,
a queste parole, guardò al signor capitano di giustizia, che a
quella tacita interpellazione:
Or si rimandi in prigione, disse.
E
gli sbirri condussero fuori il Galantino.
Che vi rimane adesso da aggiungere? disse l'attuaro al cameriere.
Io non ho niente da aggiungere; son uomini questi che farebbero
perdere la testa a chicchessia. Del resto io vivevo tranquillo in
Cremona, all'albergo del Sole, e non avrei mai voluto recar danno nè
a lui nè ad altri nè a nessuno, se non fossero venuti
espressamente a cavarmi di là e a tirarmi a Milano per forza.
Questo io dico perchè V. S. si persuada della verità
delle mie parole, e che non ho mai ingannato nessuno al mondo, e
vorrei che il Signore Iddio mi castigasse qui se mai ho detto il
falso.
A
queste parole venne rimandato anche il testimonio Barisone, fattagli
intimazione di non uscire da Milano fin che non ne avesse avuto il
permesso dall'autorità; per la qual cosa venne chiamato nella
sala anche il giovane causidico Benaglia, a cui fu parimente intimato
che, sotto la sua responsabilità, il cameriere dovesse restare
a Milano sino a nuove disposizioni.
E
il capitano di giustizia, che si attendeva di venire al chiaro d'ogni
mistero in quella notte, trovò invece d'aver raggruppato di
più il nodo nel tentare di scioglierlo, avendo bensì la
convinzione morale invincibile della reità del Galantino, ma
non avendo le prove legali per condannarlo; anzi non avendo raccolto,
a rigore, nemmeno gl'indizj legittimi per metterlo alla tortura, come
egli avrebbe creduto opportuno, e come e l'attuaro e gli assessori e
gli auditori consigliavano ad una voce.
Però
ad onta che gl'indizj non fossero a rigore di scrupolo i più
legittimi, perchè dei due testimoni necessarj, uno erasi
ritirato, e il secondo aveva infirmata la sua deposizione col
sospetto di malanimo contro il costituito; e prescindendo anche da
ciò, non potea bastare come testimonio solo, non verificandosi
in lui gli estremi voluti dagli statuti e confermati dagli
interpreti, perchè la sua condizione non era tale che si
potesse dichiararlo superiore ad ogni eccezione; tuttavia, avuto
riguardo che i due camerieri in massima erano andati d'accordo, che
il secondo era disposto a giurare, avuto riguardo inoltre alle
deposizioni della contessa Clelia V... e all'abito criminoso del
Suardi, l'illustrissimo signor capitano marchese Recalcati pensò
di portar la cosa in Senato, affinchè quella suprema
magistratura provvedesse in proposito; e il referato che fu
steso e spedito il giorno dopo, venne chiuso col voto espresso che
appoggiava l'applicazione della tortura al costituito di cui si
trattava.
X
Quando
codesta relazione, col voto dell'illustrissimo capitano
di giustizia e colla nota d'urgenza fu
portata in Senato, correva il primo di giugno. Essendo giorno di
mercoledì, che, al pari del lunedì e del venerdì,
era riservato alle cause civili, i segretarj del Senato la misero fra
le cause da trattarsi in consiglio il giorno dopo (chè nei
giorni di martedì, giovedì e sabato si discutevano
esclusivamente le cause criminali). Ed ora giacchè si ha ad
assistere allo spettacolo di questo Senato in sessione, di questo
Senato che sta vivendo gli ultimi anni della sua vita (e dovremo
assistere fra non troppo lungo tempo al suo totale scioglimento); per
coloro che non hanno letto la sua storia scritta da Orazio Landi, nè
il commentario del Garoni, nè le memorie di don Martino de
Colla, nè il Lattuada; o che, anche avendoli letti, non li
serbano tutti in memoria, è bene che riassumiamo qui con
breviloquenza da telegrafo: che l'origine del Senato di Milano risale
al primo duca Giovanni Galeazzo Visconti, quando, nel 1390, ottenne
titolo e dignità ducale dall'imperatore Venceslao, non avendo
allora che l'appellazione di Consiglio; che, nel 1499, questo
Consiglio ebbe titolo di Senato da Lodovico XII di Francia ed era un
Consiglio di diciasette Senatori presieduti dal Gran Cancelliere;
che, nel 1522, ritornato Francesco II Sforza in Milano, un nuovo
regolamento portò a 27 il numero dei padri coscritti;
che, nel 1527, venuto a pigliar possesso del Ducato di Milano il
Borbone in nome di Carlo V, venne sconvolto il regolamento sforzesco,
e fu costituito il Senato da un presidente, quattro cavalieri, dodici
giureconsulti con sette segretarj, per tramutarsi poscia e stabilirsi
nel presidente con quattordici giureconsulti; di modo che al tempo in
cui ci troviamo colla nostra storia, il Senato constava del
presidente e di quattordici senatori, uno de' quali aveva titolo di
senatore reggente o vicepresidente, come decano. Di quattordici però
non risiedevano che dodici, perchè due venivano sempre
impiegati nelle preture della città di Pavia e di Cremona. A
questo illustre corpo si univano sei segretarj e nove portieri,
vestiti di divisa color violetto cupo e portanti collane d'oro al
collo nelle pubbliche comparse. Giova inoltre sapere, per coloro
almeno che pel momento non hanno cosa di maggior importanza da
imparare, che i senatori cambiarono due volte il vestito, perchè
sotto i duchi e i re di Francia portavano berretta o giubbone colle
divise bianco rosse; e al tempo del dominio spagnuolo assunsero
le toghe foderate, in tempo d'inverno, colle pelli di zibellino
(ponticus mus), come lo chiama il Garoni, il qual
zibellino distingueva i senatori dagli altri magistrati togati, onde
è probabile che i più vanitosi dovessero nutrire una
certa avversione per l'estate.
E
come l'eccellentissimo Senato cambiò titolo, numero,
ingredienti, vestito, più d'una volta, medesimamente dovette
cangiare spesso il luogo delle sue adunanze; onde sotto il primo duca
probabilmente, e, di certo, sotto l'ultimo, si radunava in porta
Vercellina presso la parrocchia di san Protaso al Foro; poi, sotto i
re di Francia, nella casa pure in porta Vercellina assegnata al gran
cancelliere: infine si traslocò in una parte del medesimo
reale palazzo.
Ed
è in questo luogo che noi adesso dobbiamo recarci. Un'ora dopo
mezzogiorno del primo giovedì del mese di giugno, il
presidente e i senatori intervenuti, che in quel giorno erano in
numero di otto (non era necessario che tutti quanti intervenissero),
dopo avere ascoltato la santa messa nella cappella del palazzo
medesimo, come voleva la consuetudine, entrarono nella gran sala, che
nel 1750 si denominava ancora delle udienze, perchè sotto i
duchi e i re di Francia vi si tenevano infatti le udienze pubbliche;
entrarono e si posero a sedere intorno ad una gran tavola con tappeto
verde; i senatori si assisero quattro per parte, nelle cattedre che
si chiamavano ancora de' padri coscritti; il presidente nella più
rilevata cattedra posta in capo alla tavola. Dietro di lui, ad una
tavola più piccola sedette uno de' sei segretarj. Tutto era
augusto e solenne in quell'aula. Al disotto dei dipinti a fresco
della metà superiore delle pareti si vedevano cinque grandi
quadri, dov'erano dipinte ad olio le proprietà della
giustizia, portanti al disotto dell'ampia cornice i titoli latini a
caratteri cubitali, cioè Æquitas, Legislatrix,
Distributiva, Commutativa, Vindicativa, del che ha lasciato
memoria il Lattuada. Intercalati a queste tele si vedevano i ritratti
di Giovanni Galeazzo Visconti, di Francesco II Sforza, di Carlo V,
Filippo II, Filippo III, Filippo IV, Carlo II di Spagna, e
dell'imperatore Carlo VI, che stava in faccia alla cattedra del
presidente. Più basso, a coprire in parte i magnifici arazzi,
rigiravan l'aula alcuni quadri con cornici ad intaglio messo ad oro,
rappresentanti i principali misteri della passione di Gesù
Cristo, tra' quali spiccava per eccellenza d'arte quello di Gesù
portante la Croce sul Calvario, dipinto dal Daniel Crespi, e regalato
al Senato dall'arcivescovo di Milano, cardinale Monti successore di
Federico Borromeo. Vedevasi pure un altro gran quadro rappresentante
il trionfo di san Michele sopra Lucifero, quasi a simboleggiare la
trionfante giustizia.
Aperta
dall'eccellentissimo signor presidente la seduta, il segretario mise
in prima sul tappeto due o tre cause criminali estranee affatto al
nostro argomento, di quelle cause che non provocano discussione, e in
cui le opinioni e tutti i sistemi si mettono d'accordo; indi pose
innanzi all'eccellentissimo signor presidente le carte relative al
processo del lacchè Suardi, dichiarando ad una ad una le
pezze, a dir così, di tutto il costituto, e domandando se
doveva far lettura del rapporto presentato dal signor capitano. Il
presidente, com'era di pratica, accennò che facesse; e il
segretario lesse adagio adagio il rapporto, facendo, quel che in
musica si direbbe, delle appoggiature sui punti che costituivano le
saglienze della tesi; ed esponendo il voto del capitano con una
chiarezza particolare, che potea significare la deferenza
dell'egregio signor segretario per quel voto medesimo.
Finita
che fu una tale lettura, prese la parola il senator M ...tone che era
decano.
Dopo
il senator Morosini, svizzero ticinese (perchè i senatori,
come già notammo, si eleggevano da tutte le città e
capiluoghi del Ducato ed anche da altre città fuori del Ducato
stesso), il M...tone era il più caldo partigiano della
giustizia armata di cavalletto e di scure, onde propendeva al rigore,
non per l'indole perversa, ma per quell'impulso che viene da ciò
che oggi si chiamerebbe l'arte per l'arte. Per di più
non essendo di Milano, non era in gran dimestichezza col patriziato
milanese e però non era nè intrinsico nè
conoscente del conte F... Questi elementi dovevan dunque farlo
presumere più propenso che mai al voto del capitano di
giustizia. Ma forse perchè non avea avuto torto il popolo
milanese, quando col suo senso comune vendicatore lo aveva ferito,
avventandogli l'aculeo di quella strofa che già abbiamo
accennato in addietro; v'era probabilmente una ragione per cui la
spinta naturale in lui si trovava in lizza con una controspinta
avventizia. Del resto, comunque fosse la cosa, egli cominciò a
parlare cercando di giustificare i motivi che dovevano aver provocato
il voto del capitano, ma conchiuse, dichiarando che non trovava gli
estremi per decretar la tortura al costituito Suardi.
Se
non che, non aveva esso finito di parlare, che il senatore Morosini,
di temperamento impetuoso e bilioso, pronunciò, affoltandole,
molte parole che parevano schiuma, quand'esce a dirotta da una
bottiglia dove ha dovuto per troppo tempo fremere chiusa. Nè
in prima quelle parole parevano aver senso, ma a poco a poco,
rallentandosi, si disposero in ordine e il discorso procedette
perfettamente intonato colla solennità del luogo.
I sommi capi, così egli proseguì, pei quali non si
troverebbe di sottomettere alla tortura il costituito Suardi, si
ridurrebbero dunque al non aver avuto il Suardi per proprio vantaggio
un eccitamento al furto; all'avere nel primo interrogatorio risposto
con tale aggiustatezza e conseguenza alle domande del giudice, da far
presumere in uomo indotto quella tranquillità d'esposizione
che deriva dal non aver altro a fare che ripetere la pura verità;
alla ritrattazione del primo testimonio, alla proposta del
giuramento; al non poter bastare le sole deposizioni del secondo, per
non verificarsi in lui la qualità dell'essere superiore a
qualunque eccezione; e, quand'anche vi si verificassero, all'essere
state infirmate dalle cagioni di vendetta che dovevano
presuntivamente aver eccitato il secondo testimonio a danno del
costituito. Ora dunque, in quanto al primo punto mi meraviglio come
ancora possa mettersi in campo la mancanza d'una causa che,
direttamente e spontaneamente sorta in lui stesso, doveva eccitare il
lacchè al furto; quasi che non fosser noti a migliaja i casi
di sicarj prezzolati, i quali assassinaron persone da essi nemmen
conosciute. Il vantaggio che doveva raccogliere il costituito Suardi
dal furto, non deve cercarsi nel furto in sè stesso e per sè
stesso, ma nel premio che presuntivamente deve essergli stato dato o
promesso da chi poteva avere interesse a far scomparire le carte più
preziose del defunto marchese. In quanto al secondo punto, se nel
primo interrogatorio appare l'astuzia del costituito, faccio
osservare che non ci appar sempre la coerenza là dove,
eccitato dall'ira, esce a dire che la contessa lo ha tradito...
(prego l'egregio segretario di leggere quel passo, ch'io notai,
appena le carte furono portate in Senato e di cui non ricordo bene le
parole).
Il
segretario cercò, trovò e lesse il passo.
Or mi pare che sia difficile il dimostrare esserci coerenza qui,
quantunque subito dopo il costituito, con arte diabolica, torca le
parole a diverso significato. Ora la mancanza di coerenza in un uomo
di sì manifesta astuzia, fa presunzione che vi sia colpa.
Venendo ora ai testimonj: se il primo si è ritrattato
accusando una memoria infida, per la paura che nelle persone
ignoranti desta l'idea di dover giurare; pure le sue deposizioni
fatte prima vanno d'accordo colle deposizioni del secondo testimonio,
il quale, per soprappiù, spontaneamente dichiara di volere
confermare gli asserti con giuramento. Bene io sento a dire che il
secondo, essendo solo a testimoniare, non basta a formare un indizio,
perchè non si verifica in lui la qualità di essere
superiore a qualunque eccezione. Ma perchè, domando io, non si
verifica? Ma quand'è che un uomo è superiore a
qualunque eccezione in faccia a un tribunal criminale? Io credo,
allorquando la sua vita è senza macchie criminali di sorta. È
la vita senza rimproveri che costituisce la qualità
dell'essere superiore a qualunque eccezione; non la condizione alta,
nè la ricchezza, nè i titoli. Il marchese Alfieri, che
l'anno scorso ebbe il bando dalla Repubblica di Venezia per attentato
di veleno contro il marito della sua amante, non è più
oggi superiore a qualunque eccezione, sebbene sia titolato e
ricchissimo. Due anni or sono, il sagrestano di San Satiro, solo
testimonio contro il Faldella che rubò la lampada dell'altare
maggiore, bastò a formare legale indizio, perchè fu
dichiarato superiore ad ogni eccezione. Perchè dunque non lo
potrà essere anche questo Barisone Cipriano? In ogni modo, non
merita si dica neppure una parola a dimostrare l'assurdità
dell'essere egli stato mosso da spirito di vendetta; sopratutto è
a considerare, eccellentissimi colleghi, che egli trovavasi a
Cremona, dove tanto era lontano dal pensare a vendicarsi, che
si dovette andarlo a chiamare e pregarlo per farlo venire a Milano. È
a considerare, finalmente, se mentre questo Cipriano Barisone non ha
note criminali di sorta, il costituito ha contro di sè la
pessima sua fama, e il fatto d'aver già commesso un furto
nella casa stessa del suo padrone che, notoriamente, pur lo amava e
lo proteggeva.
Il
senatore Morosini avendo a tal punto fatto pausa:
Se bastasse, gli subentrò tosto il senatore conte Gabriele
Verri, la morale convinzione di un giudice a determinare la
legittimità degli indizj per mettere un uomo alla tortura, io
per il primo non esiterei a farla applicare al costituito Suardi. Ma
questa convinzione non basta, perchè può procedere da
errore di giudizio, da false parvenze, dall'impossibilità di
vedere tutti i lati delle cose. È dunque necessità
l'aderire in tali casi quasi passivamente alla legge.
E sia fatto, osservò il Morosini, giacchè la legge
rimette gl'indizj all'arbitrio del giudice.
Ma il nostro predecessore senator conte Bossi, ribatteva il Verri,
nel suo aureo trattato, al titolo De indiciis ante torturam
assegna all'arbitrio del giudice l'obbligo di esaminare con coscienza
la verisimiglianza e la probabilità (indicium verosimile et
probabile sit). Ora la coscienza ci ammonisce di non prestar fede
soverchia alle convinzioni morali, e, torno a ripetere, di aderir
positivamente alla legge. Ma giacchè la legge nuda e nel
diritto romano e negli statuti criminali di Milano lascia questi
indizj all'arbitrio del giudice, bisogna chieder consiglio a coloro
che hanno continuata la legge stessa, interpretandola.
Ma la parola degli interpreti, interruppe il Morosini, non è
Vangelo, e tanto si può esser tratti in errore dalle loro
convinzioni come dalle nostre.
C'è un divario notabile. Essi, interpretando la legge, non
erano circoscritti da un fatto speciale; bensì erano
rischiarati da un complesso di fatti molteplici che hanno la virtù
di costituire una norma assoluta. Noi invece, al cospetto di un fatto
solitario, siamo tratti, non volendolo, a decisioni condizionate e
relative. Gl'interpreti hanno questo vantaggio su di noi, di aver
meditato e scritto in circostanze lontane dall'influenza
pervertitrice della passione fuggitiva del momento, dalle opinioni
correnti e dai pericoli che presenta all'intelletto un fatto unico;
epperò essi hanno il diritto di essere ascoltati, noi
l'obbligo di ubbidire; di modo che assumono virtù di legge in
mancanza d'una legge scritta, determinata, sanzionata, comandata; e
come avviene delle gride, che le ultime possono derogar le prime e
sostituirle, e però, come tali, sono le sole che devono essere
seguite; così avvien degli interpreti, de' quali gli ultimi
più acclamati dal consenso universale dei giurisperiti e dei
magistrati, devono essere di preferenza consultati e seguiti. Ora il
consenso più generale è pei due celebri giureconsulti,
il Casoni e il Farinaccio; e costoro, spaventati dagli eccessi a cui
nell'amministrar la tortura furon tratti giudici o troppo crudeli o
troppo confidenti nelle loro convinzioni, o troppo ciechi, sono
giunti a conchiudere, il primo: che la tortura non è
arbitraria; il secondo, che non sono arbitrarj nemmeno gli indizj.
Communis error judicum putantium torturam esse arbitralem
dice il primo, e non sbaglia; Non immerito
audivi plures jurisperitos dicentes posse melius formari regulam,
inditia ad torquendum, non esse judici arbitraria, dice il
Farinaccio chiarissimamente. Però dal processo verbale
relativo al costituito Suardi non risulta provata la bugia
dell'accusato, che sarebbe uno degli indizj legittimi; perchè
mancano i due testimoni, quali son voluti dal Farinaccio che qui fa
testo di legge. Può esser vero che il primo testimonio non
abbia giurato per sgomento. Ma può essere, non vuol dire è.
Può esser vero che il secondo testimonio abbia abito di
onestà, ma intanto sussistono presunzioni contro di lui
provocate da gravi disgusti passati prima del preteso furto tra
accusato e testimonio. E, anche qui, il può essere non
vuol dire è poichè la giustizia è
come l'aritmetica, nella quale, se manca la verificazione, non può
asserirsi che il calcolo sia giusto.
Dette
queste parole, il conte Verri si tacque; e quasi nel momento istesso,
entrato nell'aula uno de' segretarj, s'accostò al segretario
in seduta, che, alzatosi, parlò all'orecchio
dell'eccellentissimo signor presidente, il quale, rivoltosi ai
signori senatori :
Un'ora fa, disse, ha cessato di vivere l'illustrissimo conte F...
Come l'egregio segretario Carlo fu sollecito di portarne l'avviso,
così io lo ripeto ai senatori qui congregati; faccio presente
che la morte del conte F... nella causa che ora qui si sta
discutendo... può essere forse un fatto significante.
Questo
annuncio fece l'effetto di quei congegni dell'arte nautica, che di
punto in bianco fanno galleggiar ritto e baldanzoso un naviglio che,
appena uscito dal cantiere dell'arsenale, procedeva impacciato e
piegato sull'un dei fianchi.
I
diversi pareri degli otto senatori tacitamente si armonizzarono in un
consiglio unico, quantunque due o tre altri senatori prendessero la
parola, parlando con varia sentenza. Se non che, mentre il Morosini,
in quel giorno, tornò impetuoso a ribattere gli argomenti
degli avversari, il conte Gabriele Verri parve minor di sè
stesso, e lasciò dir gli altri; nè più parlò
il senator M...tone. Per le quali circostanze, venuta la votazione,
la determinazione del Senato fu che il costituito Suardi,
soprannominato il Galantino, si dovesse sottoporre alla tortura lieve
e semplice. La voce pubblica che cominciava a parlar alto contro la
lentezza onde si procedeva verso il Galantino, e dicea chiaro che si
voleva salvare il lacchè, per non compromettere la riputazione
del conte F..., fu per il momento placata dal decreto del Senato, di
che tosto gli eccellentissimi membri, al cui orecchio eran giunte le
pubbliche querele, fecero divulgar la notizia. E per quel giorno e
pel successivo tutta la città di Milano non s'interessò
che a quell'unico tema della tortura del Galantino e della morte del
conte F...
Il
giorno 3 giugno la piazza Borromeo era tutta gremita di popolo, chè
si celebrarono le solenni esequie del defunto nella chiesa di Santa
Maria Podone, sulla cui facciata, tutta coperta a nero e ad oro, si
leggeva il seguente cartellone sormontato dalla corona e incorniciato
dagli stemmi:
comiti
a
f
eq.
hierosol
pio
munifico
charitate
in egenos ex corde
domesticam
gerenti felicitatem
excesso
anno lv
ætatis
suæ
filius
comes albericus moerens
fidelium
preces poscit
Due
giorni dopo, al costituito Andrea Suardi, chiamato a nuovo esame,
venne intimato si risolvesse a dire la verità, altrimenti
verrebbe messo alla corda, così portando la determinazione
dell'eccellentissimo Senato, pel concorso di molte circostanze atte a
formare indizio; segnatamente per le deposizioni del Barisone
Cipriano, confermate con giuramento. Nel rescritto del Senato era
stato ingiunto al capitano di giustizia di far adempire al secondo
testimonio l'atto formale del giuramento prima d'esaminar di nuovo il
costituito.
Questi,
che nel confronto col Barisone avea creduto di essere riuscito a
togliere ogni forza alle di lui deposizioni; che, per soprappiù,
stando in prigione e tastando gli sbirri e mettendo insieme le sparse
parole che loro eran cadute di bocca, come chi si affanna di riunire
i minuti pezzetti di un foglio lacerato, era riuscito a sapere che il
conte F... era morto, e però erasi lasciato andare alle più
allegre speranze; rimase come sbalordito a quegli inattesi propositi
del giudice; e lo sbalordimento fu di tal natura, da preparar la via
ad una susseguente indignazione, anzi ad una esasperazione così
aperta e dichiarata, che potea benissimo parer quella di un innocente
calunniato. Le parole pertanto che rispose al giudice furono quelle
della collera che non ha nè ritegno nè riguardi; e
questa volta non già pel calcolo consueto del suo ingegno
lungoveggente e scaltro, ma per l'accensione spontanea del sentimento
offeso. Erasi messo al posto dell'innocente, s'era lusingato d'aver
fatto per potersi fermare a quel posto usurpato; di più
attendeva a raccogliere il frutto dei suoi calcoli e della sua
fortuna, allorchè di punto in bianco e crudissimamente si vide
frustrato nella sua aspettazione; l'ira sua doveva dunque essere
naturale e spontanea.
Se
un ladro giunge a involare con fortuna una somma di denaro, e
avendola nascosta in luogo da lui creduto sicuro, allorchè va
per riprenderla non la trova più, il dolore ch'ei ne prova, è
simile in tutto a quello del legittimo proprietario stato derubato. E
così nè più nè meno avvenne del Galantino
al cospetto dell'accusa e del giudice; egli sentì ed espresse
tutti i fenomeni dell'innocenza oltraggiata; li sentì anzi e
li espresse in modo che il capitano di giustizia ne fu colpito.
Il
marchese Recalcati, d'indole mite, aveva avversione a quella barbara
eredità del diritto romano, la tortura; tanto è ciò
vero che al Suardi la volle decretata dal Senato, mentre egli stesso
avrebbe potuto infliggerla; e qui, di passaggio, dobbiamo notare, che
la maggior parte dei giudici del suo tempo che avevan viscere,
avevano cominciato a detestarla. Viveva essa gli ultimi anni, a dir
così, della sua vita feroce, e lo spirito pubblico, senza
dichiararlo manifestamente, le s'era rivoltato contro, a preparare e
ad accelerare quella morte che le doveva poi venire dal colpo
meditato e risoluto di un grand'uomo.
I
medesimi sostenitori d'essa, a forza di commentarla e confortarla e
mostrarne la validità, facendo passare e ripassare innanzi
alla mente degli ascoltatori non propensi, nei momenti più
caldi della disputa, la lettera del diritto romano e quella dello
statutario e quella dei criminalisti, avean fatte balenare molte
verità che dimostrarono la fallacia; verità inchiuse in
quegli articoli medesimi stati scritti per darle vigore.
Molte
volte il senator Gabriele Verri, che era un partigiano della tortura,
aveva detto e ripetuto in Senato quel titolo cospicuo del Digesto,
dove è parlato della fragilità e del pericolo della
tortura; esso lo aveva ripetuto perchè, avendo fede in quel
mezzo, pretendeva che si adempissero tutti i suoi preliminari con
rigore di scrupolo; persuaso com'egli era, che, adempiendo con
esattezza a tutti i dettami della legge, prima di decretar la
tortura, questa non poteva infliggersi che al veramente reo, la cui
ostinazione poi era presumibile potesse domarsi solo coi tormenti.
L'uomo dialettico e preoccupato, correndo con precipitazione alle
conseguenze ultime, non aveva mai saputo fermarsi un momento di più
su quel titolo, ch'ei non adduceva che per provare la necessità
dell'esattezza aritmetica nel raccogliere indizj; ma che, in realtà,
inchiudeva già tutta quanta la condanna della tortura nel
punto stesso che le dava sanzione; bensì vi s'erano fermati
gli uomini meno preoccupati e meno oppressi dal cumulo della dottrina
e più illuminati dal raggio del sentimento, e ne eran rimasti
colpiti, e tra questi il marchese Recalcati appunto, il quale, per
consueto, andava sempre a rilento e come di malavoglia quando
trattavasi di ministrare la tortura.
Se
dunque stette perplesso e quasi pauroso di quanto egli stesso aveva
fatto allorchè sentì prorompere il Galantino con tanta
sincerità di sdegno, è facile a comprendersi. Se non
che, a confortarlo ne' suoi dubbj e nelle sue ansie, entrò
qualche momento dopo nella sala stessa degli interrogatorj il senator
Morosini; colui che propugnava la tortura, non per una convinzione
scientifica al pari di Gabriele Verri, nè per considerarla una
fatale necessità della procedura criminale, ma per una di
quelle arcane voluttà della mente, anzi del senso viziato, che
pur talvolta si riscontrano in individui non affatto pervertiti e
talvolta, come nel caso nostro, persino onesti; una di quelle arcane
voluttà onde si spiega il fenomeno di qualche fanciullo che si
gode a denudar la farfalla delle sue ali, o a spennare il pulcino
vivo, o a percuotere fieramente in sull'aja il pollo in fuga. Tale
era il senator Morosini. Egli veniva in carrozza al palazzo del
Capitano di giustizia ogni qualvolta trattavasi di qualche bel
caso di tortura. Compiacevasi a far egli stesso le parti
d'auditore e d'attuaro, abilissimo come era a gettar scaltre insidie
negli interrogatorj; più abile a farle riuscire, accennando
agli stessi aguzzini i modi dell'atroce arte loro; press'a poco al
pari di un maestro di musica (ci fa ribrezzo l'apatica e spietata
similitudine, ma un carattere dev'essere messo a nudo tutto quanto),
al pari dunque di un maestro compositore che all'orchestra imponga e
faccia sentire gli accelerati e i rallentati. E tanto
dilettavasi quel senatore di sì feroce passatempo, che si
faceva portar la cioccolata, già lo abbiam detto, nelle aule
medesime del capitano, e l'assorbiva lentamente dove s'interrogava,
dove davasi la corda.
Quando
il senator Morosini entrò, tutti, compreso l'illustrissimo
signor capitano, si alzarono; ed egli, nella seggiola che gli fu
messa innanzi, si calò, a dir così, con quella
pesantezza convenzionale che quasi sempre affettano gli uomini
costituiti in una gran carica, anche allorquando non hanno a portare
nè il peso degli anni nè quello dell'adipe. Si assise
dunque, e nel punto che dal panciotto cavò la scatola d'oro,
tutta a figure ed ornamenti in rilievo e a smalto, e porse il tabacco
all'illustrissimo signor capitano:
È il lacchè? domandò; e al cenno del marchese
Recalcati non rispose che caricando a più riprese di rapato
vecchio le ampie narici di un naso abbastanza senatoriale.
Il
Galantino intanto s'era fatto tranquillo, squadrando solo il nuovo
venuto (che non era in toga, ma in giubba rosso fuoco gallonata,
e panciotto di teletta d'oro) con certe occhiate fra l'iracondo e il
beffardo, che parea dicesse:
Oh se fossimo noi due a quattr'occhi, non so come l'andrebbe, caro
nasone, con quella carta d'oro che hai sulla trippa, eccellente per
avvolgere il mandolato di Cremona!
Ma
l'attuaro, come tutto tacque e il senatore ebbe rimessa la scatola
nell'ampia saccoccia del panciotto:
Ancora dunque, così parlò al Galantino, vi esorto a
dire la verità; e a risparmiarci il dolore di dovervi far
mettere alla corda.
Quello che ho detto ripeterò sempre, rispose il costituito,
perchè è la pura verità, e sfido qualunque
prepotenza a farmi dire quello che non è.
Prepotenza di chi? domandò blandamente il senatore, sebbene
fosse per indole focoso.
Di chi ha la forza, e l'adopera per tormentare chi non l'ha.
Ma che ostinazione è la vostra, soggiunse allora con lentezza
quasi soave il senatore, di non voler confessare quel che
manifestamente risulta dai fatti e dalle deposizioni di testimoni
giurati?
Che cosa risulta? vostra signoria illustrissima mi illumini, perchè
da quello che io so e ho l'obbligo di sapere non risulta nulla, nulla
affatto contro di me, e sino ad ora non sono che la vittima di una
maledetta calunnia. Io sono accusato d'aver rubate delle carte al
marchese F... ma chi può asserirlo? chi m'ha visto a
rubarle?... Dove sono questi pretesi testimonj?
Se qualcuno v'avesse veduto, caro mio, non farebbe bisogno di
mettervi alla tortura. Sareste condannato addirittura come convinto.
Ma voi avete detto una bugia... asserendo di trovarvi altrove nella
notte del furto mentre eravate a Milano. Però se avete negato
questa verità secondaria, vuol dire che avevate interesse a
negarla
Dunque se si procede oltre, è perchè
colla vostra ostinazione voi stesso comandate la severità alla
giustizia.
Io ero a Venezia otto giorni prima della settimana grassa, e ripeto
che chi dice di no è un bugiardo infame.
E questo è quel che si vedrà, soggiunse l'attuaro.
Allora
il senator Morosini parlò sottovoce al capitano. Questi si
alzò. L'attuaro fece un cenno ai due sbirri che stavano dietro
le spalle del Galantino; ed essi, presolo per le braccia, lo trassero
fuori di quella sala per condurlo nella vicina, dove soleva darsi la
corda. Il senator Morosini, il capitano, gli altri entrarono
anch'essi in quel tristo camerone, e si posero a sedere, rinnovando
in prima l'attuaro al Galantino l'esortazione di dire la verità,
poscia accennando agli sbirri di fare il loro dovere.
Questi,
avendolo pigliato di sorpresa, gli levarono il vestito e il
panciotto, e l'afferrarono per le braccia, traendolo presso la corda
che pendeva dalla carrucola.
Il
volto del Galantino che, siccome dicemmo, s'era da qualche tempo
fatto pallido, si caricò allora improvvisamente di un rosso
cupo che gl'invase la fronte e gli orecchi; e l'occhio, naturalmente
bieco e serpentino, vibrò sugli sbirri uno sguardo così
infuocato di furore, che fece un'impressione strana sugli astanti;
poscia, flessuoso e forte come un leopardo, diede uno squasso
irresistibile ai manigoldi, avventando loro bestemmie a furia. Per un
istante fuggevolissimo ei si tenne disciolto, ma i manigoldi lo
ripresero e, ad un cenno dell'attuaro, altri due sorvennero ad
ajutare i primi. Ned egli perciò si ristava dal dare squassi
formidabili. La camicia, slacciata e laceratasi in que' forti
sbattimenti, metteva a nudo collo, petto, braccia. La chioma,
sollevata e scomposta e gettata or da un lato or dall'altro della
testa in movimento assiduo, or copriva or lasciavagli scoperto il
viso. L'animale uomo non comparve mai così bello, così
sfolgorante, così formidabile nella sua giovinezza come in
quel punto. Nella pelle e nella tinta v'era la delicatezza di una
fanciulla; nelle forme, ne' muscoli, nelle proporzioni perfettissime
l'aitanza di un gladiatore giovinetto. Il medesimo senator Morosini,
rivoltosi al capitano, non si potè trattener dall'esclamare:
Che bel ragazzo!
Ma
il bel ragazzo fu incontanente tratto in alto come un fascio di
fieno; e un gemito ferino che sordamente gli muggì in gola,
perchè una volontà di ferro avea tentato di
trattenerlo, accusò il dolor fisico derivatogli dalle braccia
squassate.
Così
sospeso per aria, all'attuaro che gli ripeteva se risolvevasi a dire
la verità:
La verità l'ho detta, rispose, anzi urlò.
Il
senator Morosini suggerì allora ai quattro manigoldi di alzare
la vittima più presso la carrucola, e accompagnò le
parole caricando di nuovo le nari di rapato, e scuotendo colla punta
del pollice e dell'indice la cadente polvere dalle ampie lattughe di
pizzo di Fiandra della camicia, asperse di oscura goccia.
Rialzato
così il Galantino, potè sentirsi lo stridere della
carrucola e il fruscìo della corda; non però un lamento
di lui, che, alla sempre uguale domanda rinnovatagli, rispose sempre
le stesse parole.
A
tal punto, per ingiunzione del capitano, venne calato giù.
Sotto al labbro inferiore del Galantino i giudici videro una striscia
rossa. A respingere il dolore col dolore s'era ficcati i denti
superiori nel labbro inferiore, al punto di farne sprizzar vivo
sangue.
Allora
venne di nuovo ammonito con mitissimo linguaggio dal marchese
Recalcati, il quale gli mise innanzi il pericolo che, per la sua
ostinazione, si sarebbe dovuto passare alla tortura grave col canape;
ma di nuovo rispose il Galantino che, giacchè essi volevano
sapere la verità, questa l'aveva già detta; e nemmeno
abbruciandolo a fuoco lento, sarebbero riusciti a fargli dir la
bugia. Nè il capitano avrebbe insistito più oltre; ma
il senatore Morosini lo interrogò di nuovo, e di nuovo lo fece
mettere alla corda, sempre però infruttuosamente; laonde
quando il Galantino fu rimandato in prigione, il capitano e l'attuaro
e gli auditori espressero il dubbio che il costituito potesse per
avventura essere innocente.
È giovane e forte, forte di corpo e d'animo, disse il senator
Morosini. La tortura semplice non basta. Vedrete che confesserà
tutto alla tortura grave.
E
al Senato fu spedita relazione del fatto, con interpellanza se si
dovesse passare alla tortura grave appunto.
Ma
il senatore Gabriele Verri parlò e parlò forte e mostrò
come tutti gli interpreti andassero d'accordo nel proibire di passare
alla tortura grave, se non fossero sopravvenuti altri indizj; onde,
per mancanza di essi, la giustizia dovette accontentarsi del
risultato della prima tortura.
E
qui ci conviene tagliar crudelmente il filo del racconto, e dare un
addio all'anno 1750; perchè un altro periodo, secondo noi,
abbastanza curioso della storia della città nostra, c'intima
di affrettarci, essendo ben lungo il còmpito che ci
siamo assunto.
LIBRO
SESTO
Gli
attori del secondo atto. I due mondi. Il Galantino.
Gli appalti delle Regalìe. Ferma generale. I
fermieri Greppi, Pezzolio, Rotigno, Mellerio. Strana
risoluzione del popolo milanese. La contrada delle Quattro
ganasce. Editto del 7 aprile 1766. Il tabacco di
contrabbando e la beltà adolescente. Il monastero di S.
Filippo.
I
Sono
trascorsi sedici anni. Saltano fanciulli e parlano adolescenti di cui
i genitori nel 1750 o non si conoscevan tra loro affatto, o non
sapevano di dover diventare marito e moglie, o i loro nomi non erano
stati ancor gridati da nessuna balaustra di altar maggiore; son
giovinotti maturi quelli che alla metà del secolo, non avendo
che venti anni, eran chiamati fanciulli dai giovinotti maturi del
loro tempo. Le belle donne che, allora nella canicola dei venticinque
anni, facevano girar la testa a chi le avvicinava, ora hanno varcato
il quarantesimo anno, e qualche ruga incipiente ha
fatto cadere, a loro dispetto, il termometro fin quasi a zero; e non
osano più sfidare le lucide e bianche mattine, e molto meno il
perfido sole di mezzogiorno, ma amano di preferenza le luci
artificiali, modificate dalle seriche cortine piuttosto color rosso o
rosa o violaceo, che gialle e verdi; e, se escono a passeggi
sollazzevoli, benedicono gli smorenti crepuscoli, incaricati di
gettare una benefica confusione tra i confini che dividono la
gioventù dalla maturanza! E chi era maturo ora è
vecchio e chi vecchio è decrepito: l'avvocato Agudio, per
esempio, non può più recarsi nemmeno in carrozza nè
in lettiga al collegio dei giureconsulti, e, obbligato al letto dal
femore cronicamente offeso, serba però ancora lucidissima la
mente e inesauribile la dottrina legale, e dà consulti a chi
ne vuole. Il dottor Bernardino Moscati si fa ajutare dal figlio
Pietro e il giovinetto Giambattista Paletta lascia la giurisprudenza
per la chirurgia superiore. Il pittor Londonio ha sparpagliato per
tutta Lombardia una popolazione di vacche e buoi e asini e capre con
tanta verità e in tale quantità, da essere chiamato in
questo genere il primo pittore del suo tempo. Pietro Verri non è
più il destituito patrocinatore dei carcerati, ma un
ex-ufficiale ripatriato, e, da cinque mesi, consigliere del consiglio
supremo d'economia; e Beccaria non è più fanciullo, ma
un giovane di trent'anni, già rinomato in tutt'Italia e in
tutt'Europa per un libro che fu alla scienza del diritto quello che
molti anni dopo fu la pila di Volta alle scienze fisiche. E giacchè
l'accennare a questo libro, insieme col libro ci fa uscire da Milano
e dall'Italia, voglia ricordarsi il lettore che poco oltre la metà
dei tre lustri decorsi erasi pubblicata a Parigi l'Enciclopedia,
a gettare in tutto il mondo un filo di congiunzione e di
fratellanza tra tutti gli uomini del pensiero, quel pensiero che
irretì e dominò e generò poi l'azione. Federico
II aveva fatto le sue grandi prove di valore nella guerra de' sette
anni; ma la preponderanza del pensiero cominciava ad essere così
invadente, che il re soldato pareva spesse volte un suddito al
cospetto dell'ironia dissolvente di Voltaire, il Mefistofele in carne
ed ossa, al cui confronto impallidisce e si dilegua il postumo ideale
del poeta di Weimar. E il genio del sentimento, intinto di pazzia e
armato di sofisma, aveva già dettato a Rousseau tutti i suoi
capolavori e il Contratto sociale, in cui stava il
germe di Robespierre e la profezia della rivoluzione francese; ed era
morto papa Lambertini, l'epigrammatica sapienza, ed eragli successo
colui che doveva essere perpetuato dal genio di Canova; e giacchè
la chiesa ci allarga a tutto il mondo, voglia ricordarsi il lettore,
per farsi un'idea del colore e della densità dell'atmosfera
ond'è tutt'all'intorno vastamente circondata la nostra piccola
sfera drammatica, voglia ricordarsi che, nel frattempo da noi
saltato, l'Inghilterra aveva già fondata la sua compagnia
nelle Indie, e cercato di sottrarre le mogli indiane al rogo
volontario, e i fanatici al carro di Jaggernath; mentre Spagna aveva
ordinato il battesimo ai Cinesi delle Manille, quasi nel tempo stesso
che scopriva il nuovo Messico ed ordinava il censimento delle
Filippine; e voglia ricordarsi che Caterina II era successa a Pietro
III sul trono di Russia, ed erasi fatta la pace tra la Svezia, la
Prussia e la Russia; e un'altra ne facevano Austria, Prussia e
Sassonia, e un'altra ancora Inghilterra, Francia e Spagna; e a
proposito di Spagna e Francia, i gesuiti della seconda avean deposto
l'abito regolare, mentre quelli della prima erano stati mandati per
mare nelle terre del papa; che nell'anno anteriore a quello a cui ci
troviamo oggi colla nostra storia, cominciò l'insurrezione
delle Colonie Inglesi nell'America settentrionale quando appunto era
uscita l'opera Dei Delitti e delle Pene. Due fatti che non
hanno in apparenza parentela nessuna, ma che pure, in così
diverso modo, vengono a mostrare la scienza dell'uomo solitario e
l'istinto delle moltitudini, anelanti alla riconquista del diritto
razionale e naturale. Ma se il nome di Beccaria ci fece uscir da
Milano, ora con lui dalle lontane regioni dei due mondi, colla
velocità quasi della luce, rivoliamo in casa nostra, a tener
dietro ai personaggi a noi già famigliari, che cangiarono età,
aspetto, condizione, fortuna; e a far la conoscenza dei nuovi, per
dominare così gli atteggiamenti di due generazioni.
Ed
ora si ripigli il filo del quale abbiam reciso un capo.
È
probabile che taluno dei più fantasiosi tra i nostri lettori
qualche volta abbia pensato, come sarebbe vario e bizzarro e
proficuo, se fosse possibile, lo spettacolo che si presenterebbe a
chi avesse facoltà in un dato punto di simultaneamente girar
l'occhio e penetrare nell'interno di più luoghi e di più
dimore, ad assistere dall'alto alla varietà delle scene e
delle azioni di molti uomini intenti a disparate cose in uno stesso
momento. Tale spettacolo, che è e fu sempre un assurdo
impossibile se non nelle ballate nordiche o nelle leggende del medio
evo, noi vogliamo presentarlo a' nostri lettori oggi, senza essere
maghi e senz'avere nessuna scopa ai nostri comandi; e questo ne
giova, perchè sorprendendo alcuni de' nostri personaggi di
antica conoscenza e alcuni de' personaggi nuovi in quell'attitudine
onde ci si mostreranno, vedremo, senza perder tempo, che intenzioni
hanno e da che punto prendon le mosse, e a che accennino.
Collochiamoci
dunque in alto, e volgiamo l'occhio ad osservare le molteplici
macchiette delle figure che stanno e s'agitano e formicolano al
basso.
Gettiamo
lo sguardo nella camera di ricevimento di donna Paola, e la vedremo
impegnata in un dialogo seriissimo con una dama, dell'età
press'a poco come la sua, e che è la contessa Arese,
conservatrice del monastero di san Filippo Neri.
E
se dopo gli occhi, vogliamo far lavorare gli orecchi, ecco quel che
al lettore potrà giovare per conoscere di che si tratta. Così
dunque sta parlando la contessa Arese:
Io ho creduto bene, donna Paola, di renderla avvisata di questa grave
circostanza. La fanciulla è troppo bella, vivace e troppo
ardente, perchè la si possa trattenere più oltre in
mezzo alle altre educande, e tanto più con quell'inconveniente
che le ho detto. D'altra parte, proibirle di passeggiare in giardino
insieme colle sue compagne, prendere per lei misure particolari,
sarebbe un gettare lo scandalo nel convento, sarebbe mettere in
allarme tutti i parenti delle fanciulle... Giacchè dunque la
ragazza è già per varcare i quindici anni, io sarei di
parere che vostra signoria, nella sua saviezza, la levasse di là,
e la tenesse qui sotto ai suoi occhi.
La ringrazio, contessa, dell'avviso e del consiglio, risponde donna
Paola; ma non è cosa che si possa fare con precipitazione. Se
colui, ch'ella dice, ha fatto acquisto della casa e del giardino
contiguo al convento con manifesta intenzione di gettare insidie alla
ragazza, mi pare che all'amministrazione del convento, pel pericolo a
cui potrebbero essere esposte tutte le monache e le educande in
conseguenza di questa comunicazione immediata coll'altrui dimora,
potrebbe far murare una cinta ed isolare il monastero affatto. Io
stessa ne farà parola... Intanto, domani che è giovedì,
parlerò alla ragazza; sentirò, e vedrò poi, di
pieno accordo colla signoria vostra, quello che si dovrà fare.
Ma
in questo punto, in cui la nobile conservatrice del monastero di san
Filippo sta parlando con donna Paola, noi, girando l'occhio e
facendolo penetrare entro al monastero stesso, possiamo vedere una
fanciulla trattenersi nel dormitorio, mentre le sue compagne educande
ne escono a coppie; indugiarsi un momento davanti uno specchio,
accarezzarsi le chiome quasi a migliorare la gretta acconciatura del
convento, levarsi il grembialetto di levantina nera, assottigliarsi
la vita stringendo la cintura oltre il punto voluto dalla governante
del dormitorio; e, fatto questo, accostarsi al proprio letto, tirar
la stringa della fodera del guanciale, levarne un gelsomino
appassito, odorarlo, con una inspirazione lenta, estatica,
voluttuosa, che finisce in un lungo sospiro; poi rimetterlo di furto,
guardandosi in torno, sotto la copertina del guanciale, e con passo
lieve lieve e quasi trasvolante uscir dal dormitorio, discender le
scale e farsi colle compagne, baciando sulla guancia la prima che le
si fa incontro, ma con un trasporto e con un atto così
particolare e curioso, che sembra quasi che, baciando materialmente
quella faccia, coll'intelletto del senso ne baci un'altra.
Tentare
di tradurre al vivo il profumo incantevole, la vaghezza, diremo,
trasparente, ma che parrebbe voler dissimulare i tratti più
risentiti di quell'adolescente beltà; rendere quella grazia
lieve e quasi fuggitiva e che lascia indovinare come, scorrendo
qualche lustro, ella potrebbe forse ritrarsi per lasciar luogo a
forme più compiute, più sode, più solenni;
tentare adunque di tradurre ciò in sembianza di verità
viva, è impossibile. Anche ai pittori è malagevole più
che mai il far ritratto della beltà femminile adolescente;
forse perchè presenta il fenomeno d'un'assidua ineguaglianza.
Ma
nel punto che questo lavoro ineffabile della natura artefice bacia il
volto della fanciulla compagna, lungi da Milano, a Bologna, in una
delle aule assegnate alla facoltà matematica, la laureata
contessa Clelia V..., seduta nella cattedra, sta leggendo ad un
uditorio di trentacinque giovani studenti le seguenti parole:
«Galilæus
ad Magni Verulamii votum deterso scholarum situ veterum geometrarum
severitate ratiocinari homines edocuit, et quadam veluti expeditione
in lunam, venerem, solem, jovem, et fixas usque feliciter absoluta,
ad reformandam physicam et mechanicam delapsus genuina principia
aperuit, quibus problemata motus omnia expedirentur, ecc.»
E
intanto che la laureata contessa sta recitando la sua prolusione, a
Monaco, nella casa vicina al teatro, il tenore Amorevoli, in
variopinta veste da camera, sta scorrendo questo brano di lettera del
signor Bruni, marito della signora Gaudenzi, il quale brano dice
così:
«Lasciando
per ora il discorso della mia Gaudenzi, che ha fatto furore a Napoli,
quantunque, per verità, non sia più giovane, vi dirò
che essendo io venuto a Milano per trattare con questi signori
interessati all'appalto del regio Ducale Teatro la scrittura di mia
moglie pel prossimo carnevale 1766 67, ho raccolte le notizie
che m'avete raccomandato. La fanciulla è tra le educande del
monastero di san Filippo Neri, e porta il nome del conte V..., e come
tale anzi fu collocata colà; il conte che vive ancora qui, ha
fatto causa per declinare la legittimità di detta sua
figliuola... La causa dura da quindici anni, avendo il conte
rinnovata la lite più volte per essergli sorvenuti sempre
nuovi documenti e testimonianze da persone di Milano e di Venezia. Ma
il Senato ha rigettato le sue domande ed ha pronunciato sentenza
contraria, dichiarando sua figlia legittima quella che voi sapete, e
avente per conseguenza pieno diritto al nome del casato del conte,
all'eredità, alla successione.»
Scorsa
la qual lettera, il tenore non fa altro che sorridere e dalla
poltrona passare alla spinetta a ripetere de' vocalizzi per tenere in
esercizio la sua trachea oramai di quarantadue anni.
E
dalla casa attigua al teatro di Monaco, piegando ancora l'ala
dell'occhio verso Milano, e fermandola al disopra di una casa in
contrada di Pantano, dopo aver percorsa una fuga di stanze a
pianterreno, in ciascuna delle quali stanno seduti giovani scrivani
col capo chino su grossi libri maestri, vediamo in un salotto un
bellissimo giovane di trentacinque anni, vestito riccamente,
ovverosia vediamo il signor Andrea Suardi, detto il Galantino, ora
banchiere, successore al signor Rocco Rotigno, quale altro degli
impresari della Ferma generale del sale, del tabacco e delle
mercanzie del ducato di Milano, intento a dir queste parole ad un suo
commesso:
In forza dell'articolo ottavo della grida del 7 aprile di quest'anno,
farete oggi, anche per ordine del presidente camerale, come appare da
questo foglio che terrete con voi, una rigorosa perquisizione nel
monastero di san Filippo Neri, dove sappiamo essersi nascosta una
gran quantità di tabacco di Spagna. Nel fare tale
perquisizione, trattandosi d'un luogo privilegiato e godente del
sacro asilo, per vostra norma vi farete leggere prima dal capo dello
studio il disposto nell'ultimo concordato colla santa sede.
Licenziato
il qual commesso, il nostro ex lacchè tira il campanello,
e al servo gallonato che gli compare innanzi:
Fa mettere la sella al cavallo, dice, che voglio uscire a fare una
galoppata.
E
una galoppata in questo medesimo istante la sta facendo un giovane di
ventisette anni, il quale chi ha veduto il ritratto di Shelley, il
fantastico amico di Byron, è costretto a dire che gli somiglia
in tutto e per tutto.
E
di fatto il giovane è figlio di padre inglese, ossia è
lord Guglielmo Crall, ossia è il figlio maggiore di donna
Paola Pietra. E il giovine caccia il cavallo a furia, avendo
probabilmente per isprone e per iscudiscio un pensiero che lo esalta,
e dopo aver fatto il giro di tutte le mura della città, se ne
vien giù per porta Romana, e d'una in altra via, fa sentire lo
scalpito suonante del suo cavallo nella contrada Nuova, dov'era
situato il monastero di san Filippo, e nella quale, venendo dal
naviglio di porta Tosa, entra, pur galoppando, il signor Andrea
Suardi, incontrandosi in lord Crall appunto, e voltando subito dopo
nella porta d'una casa.
Ed
ora che abbiam fatto sfilare la maggior parte degli attori del
secondo atto, imitando i direttori delle compagnie equestri che,
allorchè danno spettacoli nell'arena, prima d'incominciare
fanno caracollare in giro i così detti artisti che devono
prodursi sulla corda, sui cavalli e sulle bighe; ora dunque, previe
alcune spiegazioni troppo necessarie al lettore, per comprendere
talune inaspettate trasformazioni, stiamo attendendo quel che sarà
per succedere, giacchè pare che il celebre sestetto della
Cenerentola O che nodo avviluppato sia stato
scritto espressamente dal maestrone per essere poi applicato come
epigrafe al nostro libro.
II
E
intanto ci rimetteremo in compagnia del sig. Andrea Suardi che fu
l'ultimo rimasto sul palco scenico. Il lettore, dopo aver lasciato
costui nelle stanze del Capitano di Giustizia, in una condizione
tanto prossima alla berlina, avrà fatto le maraviglie nel
vederlo, sedici anni dopo, libero e sano e più bello di prima,
e colle apparenze della ricchezza, e avente un servitore coi galloni
al proprio servizio, e un cavallo da sella per le passeggiate di
diporto. Ma la fortuna e il diavolo, in tutti i tempi, han sempre
dato il braccio a' furfanti.
Ed
ora è probabile che il lettore si lamenti dell'aver noi
troncato il processo del nostro eroe. Però, a confortarlo, lo
consigliamo a pensare alla noja che avrebbe dovuto subire se avessimo
riprodotto qui tutto quello che fu scritto dagli attuari e dagli
auditori del criminale dopo l'ultimo tratto di corda dato al
costituito lacchè; lo preghiamo a considerare che, da tanta
carta e tanto inchiostro il solo fatto importante che ne risulta, è
che, non essendo sorvenuti nuovi indizj, si dovette desistere dalla
tortura grave; e che dopo sei mesi di indagini, requisizioni,
interpellanze, di esami fatti a gentiluomini, servi, camerieri, ecc.,
non essendo saltato fuori neppure un appiglio importante a danno del
costituito, esposta in ultimo ogni cosa al Senato, questo sentenziò
che il reo convenuto Andrea Suardi, detto il Galantino, dovesse
rimandarsi in libertà, mancando le prove reali del delitto
ond'era stato imputato.
Il
Suardi, appena uscito dalle carceri del Capitano, dal quale gli furon
consegnati i chirografi del denaro che esso aveva depositato sul
banco di San Marco a Venezia, non pensò che ad abboccarsi col
signor Rotigno, agente della casa F...
Dopo
la morte del conte, che nel testamento gli ebbe assegnato un legato
di milanesi lire 200 mila, l'ex-agente avea abbandonato la casa F...,
e si era congiunto al suo fratello Rocco per intraprese commerciali.
Ora
si venne maturando un fatto pubblico che diede poi un avviamento
speciale e curioso ai fatti privati. In quell'anno medesimo 1750,
anno fatale a quelle persone di cui abbiamo fatto la conoscenza, il
generale Pallavicini, ministro plenipotenziario a Milano, come sa il
lettore, abolì i separati appalti delle regalie del sale, del
tabacco, della polvere, ecc., e formò la così detta
Ferma generale, riunendo tutte le suddette regalie in un sol corpo,
ed affidandole ad una società costituita in prima da tre
Bergamaschi, quali erano Antonio Greppi, Giuseppe Pezzolio e il detto
Rocco Rotigno, a' quali in seguito si aggiunsero Giacomo Mellerio di
val Vegezzo, Francesco Antonio Bettinelli, cremonese, ed altri, fra
cui il fratello di Rocco Rotigno.
Premessa
questa notizia, e tornando ai nostri personaggi, se il Galantino,
appena uscito di prigione, pensò all'agente di casa F...;
questi non era mai stato un giorno solo senza pensare al detenuto,
chiara ragione che dalle risultanze del processo dipendevano quasi
immediatamente le condizioni della sua vita. Ben è vero che,
appena venne in possesso della somma legatagli dal conte F...,
domandò licenza all'erede di ritirarsi dall'amministrazione
della casa, accusando il desiderio di voler ridursi a vivere a
Bergamo, presso il fratello Rocco, che vi teneva commercio di seta;
ma in realtà per trovarsi lontano dal ducato di Milano, di cui
fin che gli pendeva sul capo la spada di Damocle, gli bruciava sotto
il terreno.
Ma
un dì gli giunse la notizia che il lacchè Suardi era
stato rimesso in libertà per mancanza di prove legali, e per
avere, anche sotto la duplice prova della tortura semplice,
costantemente respinta ogni accusa. Il Rotigno respirò, com'è
ben naturale, e per tal fatto gli si mise una tale bonarietà
nel sangue e s'atteggiò a tanta condiscendenza, che quando il
fratello Rocco, che spendeva più di quello che guadagnava e
che trovavasi in qualche disordine commerciale, gli propose d'entrare
secolui in una impresa, che doveva essere lucrosissima, purchè
egli fosse disposto ad esporre alla fortuna la metà almeno de'
suoi capitali, egli vi annuì senz'altro.
Codesta
impresa così vantaggiosa era appunto l'accessione che egli, il
Rotigno, come altro de' socj, doveva fare alla Ferma generale del
tabacco, sale e merci, ecc., istituita dal conte Pallavicini. L'anno
1750 era in sullo scorcio quando i tre fermieri generali Greppi,
Pezzolio e Rotigno vennero a trattare i patti col ministro
plenipotenziario. Entrava l'anno 1751 quando i loro nomi furono
pubblicati quali assuntori dell'impresa. E in quel torno appunto il
Suardi s'era, dopo sette mesi di detenzione, trovato sotto il libero
cielo.
Questi
fermieri, intanto che scadeva il termine imposto dall'abolizione
delle regalie, e prima d'entrare, a così dire, in carica, si
trovarono aver bisogno d'un gran numero d'impiegati, di commessi, di
esattori, ed anche di socj ausiliarj, i quali, congiungendosi ad essi
con qualche piccolo capitale, ricevessero da' fermieri principali un
salario congruo e una data quota sugli utili annui.
Quando
si pensa ai miracoli che sa far la fortuna, allorchè ha
fermamente deliberato di prendere alcuno a proteggere, si rimane
percossi di maraviglia vedendo come quegli accidenti stessi che per
la maggior parte degli uomini sono colpi mortali e ostacoli
insormontabili, diventino per i suoi beniamini occasioni di
felicissimi avviamenti. E così avvenne del Galantino. Cercato
del signor Rotigno, come sentì ch'esso erasi ritirato a
Bergamo, andò colà, trovollo senza difficoltà,
ebbe lunghi abboccamenti seco; e il fine di questi abboccamenti
essendo, per parte del Galantino, quello di riscuotere da lui il
residuo della somma di compenso che gli era stata promessa, il
Rotigno di necessità lo soddisfece, e per soprappiù,
importandogli, come se si trattasse di salvar gli occhi e la vita, di
mettere a tacere per sempre quel serpe velenoso da cui, volere o non
volere, egli dipendeva; gli propose appunto di entrare come esattore
a servizio della Ferma generale, investendo in quella una parte del
suo danaro, ond'essere accettato come uno de' soci secondarj.
Il
Suardi, alla cui intelligenza balenò tutta l'importanza di
quella vasta azienda, accolse il partito, siccome suol dirsi, a bocca
baciata, e impiegate nella Ferma lire quindici mila milanesi, entrò
in carica quale altro degli esattori. Essendo uscito innocente persin
dalla prova della tortura, egli non provò rossore nessuno a
tornare a fermar stanza a Milano. D'altra parte, comunque fossero le
cose, il pudore era un elemento del tutto straniero alla natura sua.
Venne dunque a Milano, si diede al suo ufficio con alacrità
insolita e con un'attività, quasi diremmo, febbrile. La spinta
prepotente d'ogni suo atto, fin da quando era fanciullo, era sempre
stato l'amore del denaro. Venuto pertanto al posto di esattore, fu
tanta la sua abilità e scaltrezza nel trovar modo di cavar
sangue anche dalle rape, che, mentre riuscì il più
pronto e il più efficace degli esattori della Ferma, tanto da
recare a questa vantaggio grandissimo; indirettamente, con astuzie
speculative che a nessun altro sarebbero venute in pensiero,
intascava lautissimamente anche per sè. Col tempo impiegò
nella Ferma altre lire ventimila, dalle quali e dalle altre
quindicimila ritraeva il cinquanta, il cento per cento. Pietro Verri,
in una memoria inedita di cui è riferito un brano dal barone
Custodi, parlando dei fermieri, dice che «costoro avevano poco
o nulla al mondo, ma affrontarono arditamente la fortuna. Essi
pagavano alla Camera cinque milioni all'anno e ne ritraevano di netto
prodotto sei milioni e mezzo. Indirettamente poi essi avevano poste
tali angarie alla filanda delle sete, che buona parte della raccolta
dei bozzoli del paese cadeva nelle loro filande, le quali erano
sparse nello Stato, e comparivano col nome di supposti proprietarj.»
Avvenne pertanto che, non volendo figurare il Rotigno Rocco quale
acquirente di una vastissima filanda di seta, sul confine del
Bergamasco, per le ragioni addotte sopra dal Verri, il Suardi ne
fosse investito apparentemente; ed anche da ciò, alla sua
maniera, ritrasse vantaggi quanti ne volle. Avvenne inoltre che il
fratello del Rotigno Rocco venne a morire nel gennajo dell'anno 1752,
la qual cosa produsse altre conseguenze vantaggiosissime al Suardi:
ed eccone la ragione. L'impresario Rocco, che già era venuto,
allorchè attendeva al semplice commercio delle sete, a tristi
termini, per la sua abitudine allo spendere più delle entrate;
fatto fermiere e, in poco tempo, trovando di poter raccogliere
guadagni al di là d'ogni preventivo, erasi dato alla larga
vita, al banchettare, al signoreggiare, senza darsi più un
pensiero al mondo del governo della casa, perchè di ciò
era specialmente incaricato il fratello ex agente, prudente
amministratore. Di modo che pare che un giornale di quel tempo,
intitolato il Corriere Zoppo, alluda a lui in quel numero del
mese di dicembre dell'anno 1753, dove è stampato che i
fermieri, oltre i gran profitti che traono, pascono la propria
ambizione nel signoreggiare e nel farsi servire alla sovrana da una
truppa di commessi.
Mortogli
pertanto il fratello, e datosi a sfoggi, a bagordi, a giuochi, a
scialacqui, e non avendo più mente per governare il fatto
proprio, fece, come suol dirsi, carta bianca al Suardi, di cui quanto
le mani fossero fedeli, il lettore lo sa al pari di noi.
Dal
1752 pertanto al 1754, per parte del signor Rocco Rotigno, non fu
altro che un guadagno continuo e senza misura e uno spendere in
proporzione; e da parte del Suardi, occhio dritto e mano dritta del
signor Rocco, non fu altro che un usufruttare il capogiro del suo
principale, tanto da far entrare in casa propria, senza che nessuno
se ne accorgesse, o almeno senza che se ne accorgesse chi poteva
impedire tal fatto, buona parte dei redditi annuali di colui, a non
tener conto de' guadagni legittimi, e non legittimi, ch'egli, quale
esattore e cointeressato, faceva per se stesso. Questa cuccagna
continuò senza interruzione e senza importuni timori sino al
mese di agosto del 1754. Ma in questo tempo, il popolo milanese,
indignato dalle espilazioni sistematiche della Ferma generale, fece
tale risoluzione e la attuò con tale fermezza e concordia di
volontà, che le casse dei signori fermieri per qualche tempo
ne dovettero sopportare gran danno.
La
relazione manoscritta di questo fatto sussiste nella biblioteca di
Brera, e fa parte della raccolta di quel monaco Benvenuti di
sant'Ambrogio ad Nemus, da cui abbiamo tolta la storia di donna Paola
Pietra; e su questa relazione sarebbe stato nostro pensiero di
condurre un quadro disegnato e colorito in modo, che il lettore
fosse, come a dire, trasportato in mezzo a que' fatti. Ma un
istancabile scrittore, molti anni sono, avendo pubblicato gran parte
di quella cronaca, non ha lasciato che noi potessimo far cosa nuova.
Però ci limiteremo a riassumere i fatti principali di quella
relazione stessa con quegli intendimenti che non sono in essa e che
non si propose chi la diede in luce; riporteremo poi, sempre
riassumendo, quelle parti della cronaca stessa che il suo editore ha
creduto bene di omettere, ma che al fatto nostro riescono preziose e
caratteristiche. Nell'azione così di un astuto furfante (il
Suardi) infaticabile a frodare il danaro pubblico per la protezione
d'improvvide leggi, e nella reazione oculata, sapiente, ed ugualmente
infaticabile di un generoso e vigoroso intelletto (il Verri) che si
propose di difendere la pubblica ricchezza dalla mano rapace di
pochi, vedremo un atteggiamento curioso di quel tempo, e la crisi
benefica operarsi, come in quasi tutti i membri della società
d'allora, così anche in codesta parte della pubblica
amministrazione.
III
Più
dunque era il guadagno de' fermieri e degli interessati della Ferma,
più cresceva in essi, meglio che il desiderio, la libidine del
guadagno e la gelosia sospettosa che il pubblico frodasse loro
qualche cosa. In quell'anno 1754 erano diventate frequentissime e
vessatorie le perquisizioni nelle botteghe, ne' magazzini, nelle case
private, persino in quelle delle più cospicue famiglie,
persino ne' conventi e nei monasteri, i privilegi de' quali, in
faccia alle inesorabili esigenze della Ferma, venivano
transitoriamente sospesi dalla sacra Congregazione. L'avarizia e
l'auri sacra fames de' fermieri aveva loro consigliato un
sistema di prodigalità nella corruzione, vogliamo dire che
essi facevano regali così lauti e pesanti ai pochi nelle cui
mani stavan le redini principali della cosa pubblica, che questi,
interessati indirettamente negli utili, aprivano le mani per star
pronti a chiudere gli occhi, e a proteggere gli abusi, le prepotenze
e le esorbitanze colla legge e colla forza. A Ferragosto, a Natale,
ogni qualvolta era opportuno, si mandavano a coloro che potevano quel
che volevano, casse di cioccolata sopraffina di Caracca, i cui pani
dovevano far l'ufficio di coprire un sedimento di talleri, o di
zecchini, o di oggetti preziosi in oro, in argento, in gemme, a
seconda del grado e dell'indole dell'uomo. Una volta tra l'altre
e crediamo sia stata la sola perchè l'occasione e il bisogno
fu della massima importanza un servizio da tavola tutto d'oro,
del valore di circa ottantamila ducati, venne avvolto nella bambagia,
dissimulato appunto dalla fragranza del cacao, del thè e del
caffè; e così spedito al ministro Kaunitz. Nel torbido
adunque si pescava chiaro; e il sinedrio dei divoratori sedeva a
tavola con formidabili ganascie, mentre i loro commessi entravano
dappertutto insolentemente a metter sossopra merci, masserizie,
mobiglie, per cercare quel che talvolta non c'era, e spesso per avere
l'occasione di metter l'indulgenza a caro prezzo.
Una
tale tempesta imperversò, come dicemmo, in quell'anno 1754 più
ancora degli anni addietro, al punto da costringere i cittadini a
perdere la pazienza.
In
poco spazio di tempo, dice il cronista di sant'Ambrogio ad Nemus,
la città in ogni ordine di persone si vide tutta contro i
fermieri. Non potendo privarsi degli oggetti utili e
indispensabili per privare i fermieri del guadagno che ne ritraevano,
risolsero di smettere l'uso del tabacco, dal quale appunto ricavava
la Ferma il principale provento. Sembra incredibile ma fu vero,
continua il cronista, ed in poco più di quattro giorni, tanto
nella città capitale che in altre città del Ducato,
l'impresa del tabacco rimase quasi del tutto abbandonata. Si
bruciarono in piazza mucchi di tabacchiere di legno; quelle d'argento
furono mandate in offerta al sepolcro di san Carlo; si stamparono
patenti scherzevoli sopra il tabacco, e motti derisorj da mettersi
nelle scatole vuote e da inviarsi a chi si fosse pensato di non
obbedire al voler generale; si scrissero componimenti poetici,
sonetti, scherzi d'ogni sorta che rapidissimamente facevano il giro
di tutto il Ducato. All'ingresso dell'Impresa generale del tabacco,
situata in Pescheria Vecchia, fu appeso un cartello colle parole
cubitali: Bottega d'affittare fuori di tempo; fu gettato un
arcolajo tra gli assistenti della Ferma che sedevano in essa bottega,
per indicar loro che attendessero a far giù filo, non avendo
più occasione di vender tabacco; s'indirizzò da essi
una frotta di contadine, venute a Milano per vender filo; di notte
s'affiggevano in molte parti della città iscrizioni d'ogni
foggia, relative tutte al medesimo oggetto; fu fatta circolare una
leggenda erudita contro il tabacco, estratta dalla scuola del Buon
Cristiano, stampata nel 1733 dal Marelli; fu diretto un sonetto a sua
eccellenza il signor conte don Beltrame Cristiani, capo della Giunta
governativa, sostenitore de' fermieri, e mangiatore anch'esso alla
buona tavola comune, sebbene, del resto, fosse un egregio ed abile e
dotto uomo; le quartine del qual sonetto erano le seguenti:
Il
volere arricchir troppo le Imprese
È
un vero impoverir tutti i mercanti,
È
un voler che Milan fra stenti e pianti
Vada
il vitto a cercar fuor del paese.
Manca
il danaro e non si guarda a spese
Per
arruolare battidori e fanti;
Giuro,
se va così, per tutti i santi,
Che
Milan diverrà come Varese.
Sulla
nuova fabbrica del palazzo dello stesso conte Cristiani in Monforte
fu appesa l'iscrizione: Sumptibus Firmaræ generalis; la
qual contrada di Monforte, appunto per esservi il palazzo del conte
Cristiani, da qualche anno veniva chiamata dal buon popolo milanese:
Contrada delle Quattro ganasce, adoperando esso al solito
quella satira gioviale che è una qualità caratteristica
della sua indole e di cui è tutto quanto condizionato il suo
dialetto.
Per
sei mesi continuò così la popolazione ad astenersi dal
tabacco. Se non che i lamenti essendo stati rivolti anche alla
cattiva qualità di quello che si vendeva prima dell'anno 1754,
i fermieri cominciarono a introdursi con destrezza tra persona e
persona, a donare alcune prove di tabacco veramente perfetto a varie
delle più cospicue e nobili case, le quali a poco a poco si
arresero. E Andrea Suardi, con insolita scaltrezza, per ricattar
l'impresa e ricattar sè stesso del danno passeggiero, propose
ai capi della Ferma, al fine di rimuovere il popolo milanese dalla
risoluzione di non prender tabacco, di farlo venire da altrove, per
qualche tempo, come se fosse di contrabbando.
Ed
egli s'impegnò di governare il nuovo stratagemma, e di vincere
la universale fermezza coll'inganno. Di tal modo l'astuto ottenne di
gabbare e la popolazione e la stessa Ferma; chè l'una e
l'altra, prese come furono all'amo, lavorarono a tutto suo vantaggio.
Ed ecco in qual modo.
Da
molto tempo egli erasi accorto del quanto avrebbe guadagnato chi si
fosse posto a capo di un vasto contrabbando, mettendo in lizza l'odio
che la popolazione avea contro la Ferma; ma un tale assunto, oltre
che era pericolosissimo per chicchessia, a lui riusciva impossibile,
impegnato com'era colla ferma stessa; perchè necessariamente
avrebber dovuto dar nell'occhio le sue pratiche coi capi dei
contrabbandieri di confine, detti volgarmente spalloni. Quando
pertanto gli parve che il contrabbando poteva servire a far credere
al popolo che a prender tabacco frodato si perdurava nella
dimostrazione contro i fermieri, e che ciò intanto veniva
opportunissimo a far ripigliare un'usanza, che, per puntiglio, potea
facilmente andare in dissuetudine, egli lo propose ai capi, a cui il
nuovo trovato parve una scoperta mirabile. Il Suardi in tal modo,
sotto gli occhi e per volontà degli stessi fermieri, si mise
in relazione coi così detti spalloni di confine,
relazione che non abbandonò più, anche allorquando,
dopo un anno, ogni cosa tornò alla condizione primiera; per il
che e da una parte e dall'altra i guadagni fioccarono nella sua
cassa.
Mandava
inesorabilmente i suoi fanti a sequestrare nei magazzini e nelle
botteghe il tabacco e le altre mercanzie di contrabbando; ed era
spesso quel tabacco ed eran quelle mercanzie stesse de' cui
contrabbandi egli era il manutengolo supremo. Così era pagato
lautamente dai capi della Ferma, e nel tempo stesso era ringraziato
dagli spalloni che guadagnavano per lui e con lui. Faceva da Giasone
e facea da Medea, facea da Paride e Menelao. Tanto il diavolo poteva
parere un semplicione al suo confronto.
IV
Rimessasi
la popolazione milanese in tranquillità, sbolliti gli odj,
almeno in apparenza, ricomprate le tabacchiere, riscossi i nasi dal
semestrale riposo, i signori fermieri e compagnia tornarono ad
assidersi a tavola coll'appetito accresciuto e coi pilori
instancabili, e più il tempo fuggiva dal temuto agosto del 54,
più si facevano imperterriti alle espilazioni ed alle
vessazioni. La miniera dell'oro e dell'argento a loro medesimi pareva
così esorbitantemente ricca, che pel timore che da un giorno
all'altro loro potesse mai venir tolta, facevano in fretta e in
furia, a così dire, le scorte per ovviare ai pericoli
contingenti. Un tal timore crebbe nel 1758, in conseguenza
dell'abolizione de' fermieri, decretata negli Stati Pontificj il 12
dicembre 1757, e delle lodi che da tutte le gazzette e dai fogli
pubblici vennero al capo della chiesa, Benedetto XIV. Segnatamente
nel Corriere Zoppo o Mercurio storico di Lugano fu
stampato un lungo ed assennato articolo, che fece gran senso; e nel
quale, tra l'altre cose, dopo dimostrati i vantaggi che dovevano
conseguire negli Stati romani alla risoluzione pontificia, leggevansi
queste considerazioni:
«Chiunque
si fa a vedere que' paesi, ne' quali è libero tal genere
(ossia il commercio del tabacco dalla Ferma), a prova conosce che le
lusinghevoli esibizioni de' fermieri non finiscono poi che a
spopolare e ad inquietare le città, i cittadini e i
forestieri, a tutto loro profitto e con iscapito del principe a cui
servono.»
E
soggiunge (alludendo senza dubbio al ducato di Milano): «Si è
sperato in un luogo fioritissimo d'Europa poch'anni fa, che si
dovesse abbracciare l'opportuno partito preso ora dal Pontefice. Le
compensazioni proposte al Re per reintegrare le sue finanze del
prodotto di tale appalto e i beni che ne sarebbero avvenuti nello
Stato, erano posti in tal chiarezza da un gran personaggio, che i
popoli credevano da un giorno all'altro di sentirne l'abolimento.
«Ora
però, conchiude, che il capo della Chiesa ha dato un così
bell'esempio, è credibile che sarà da altri principi
imitato, e che essi approfitteranno dei vantaggi che può
produrre il dilatato commercio d'un genere reso tanto comune. Se il
tutto si riducesse ad appalti, le città più fiorite
diverrebbero solitudini, restringendosi a poche case quel che è
il sostegno di tante famiglie.»
Il
fatto adunque del decreto pontificio, la voce pubblica, le gazzette
misero in tale apprensione i signori fermieri, che questi presero il
partito di Wallenstein, il quale saccheggiava i paesi quando vedeva
di non poter fermarvisi a lungo coll'esercito.
Fra
tutti i fermieri e gli addetti alla Ferma, quel che viveva in minor
timore era pur sempre il Suardi, per le ragioni sopraccennate, ed
anche perchè in quell'anno medesimo il signor Rocco Rotigno,
in conseguenza di una prodigalità forsennata, dei colpi
maestri che egli il signor Suardi aveva dato al di lui naviglio
pericolante, carico di debiti enormi, sparì improvvisamente da
Milano nel mese di ottobre. La favola del cavalier Beltrame e di
Roberto il Diavolo s'era verificata nell'intimità del Suardi
col Rotigno; e questi dovette perder tutto, sollecitato dalle maligne
insinuazioni del suo amministratore, che comparve in prima lista fra'
creditori quando il fallimento venne pubblicato.
Riguardo
al detto Rotigno è curioso il Monitorio pubblicato
nelle parrocchie della città di Milano, segnato dal canonico
Bazetta, cancelliere arcivescovile, e stampato in Milano per
Beniamino Sirtori, tipografo arcivescovile. È diretto a tutti
i reverendi abati, priori, prevosti, arcipreti, rettori, curati e
vice curati delle chiese tanto regolari, quanto secolari, e
comincia così: «Ci è stato esposto per parte di
certi signori di questa città, che alcune persone, li nomi
delle quali non si sanno, in perdizione delle anime loro ed in gran
danno dei creditori del signor Rocco Rotigno, indebitamente
occultano, detengono, occupano o sanno chi indebitamente ha, detiene,
occupa ed usurpa oro ed argento, denari, ferro, legno, bronzo,
stagno, rame, lino, seta, suppellettili di casa, istromenti,
scritture, libri de' conti, ragioni, crediti ed altri beni spettanti
al detto signor Rocco Rotigno, non curandosi di restituire,
soddisfare e rivelare come devono...»; e continua, comandando
ai sopraddetti, «che in virtù di santa obbedienza e
sotto pena di sospensione a divinis nelle loro chiese in
presenza del popolo, avvisino pubblicamente le persone di
qualsivoglia stato, grado e condizione le quali occultano, usurpano,
ecc., che in termine di nove giorni debbano, sotto pena di scomunica,
aver interamente restituito a' detti creditori ciò che
detengono», ecc.; e conchiude invitando anche i soli aventi
notizie di qualche mal atto, a far le debite rivelazioni in mano del
cancelliere arcivescovile o del vicario foraneo, colla dichiarazione
che delle rivelazioni non si potesse agire che civilmente e per solo
interesse civile.
Per
verità non consta, ma ci pare che, tenuto conto dei fatti
precedenti, e avuto riguardo agli istinti rapaci del nostro ex lacchè
Galantino, egli avrà dovuto essere uno di quei tali detentori
minacciati di scomunica. Ma nessuno si occupò di far
rivelazioni a danno suo, nè egli si prese premura alcuna di
consegnare o al cancelliere arcivescovile o al vicario foraneo
oggetto di sorta; nè la scomunica lo colpì mai nè
allora nè dopo. Bensì fu notato com'esso, da una certa
magrezza accidentale, ma che non fu troppo fuggitiva, la quale aveva
alterato di qualche poco la sua bellezza giovanile, cominciò a
riaversi alquanto dopo la morte del primo Rotigno; se ne rifece quasi
del tutto dopo la scomparsa del Rotigno secondo, e trascorso un anno,
gli si soffusero di novello incarnato le belle guance, che
ritornarono tumidette e rigogliose di beata salute: press'a poco
siccome avvenne di alcuni famosi eroi delle antiche e delle moderne
storie, i quali dalla squallida magrezza onde furono investiti sotto
all'azione violenta dell'insaziato genio della conquista, si riebbero
quando poterono appagare la loro ambizione, e raggiunger l'ultimo
intento.
E
otto anni passarono così al Suardi tra la giovinezza che
baldanzosa gli maturava, e la salute che continuava, e l'allegria che
cresceva, e la ricchezza che s'accumulava. Ma a un tratto la
popolazione milanese sbuffò come nel 1754, e fu nell'occasione
in cui venne pubblicato l'editto del 7 aprile 1766, provocato
certamente dai fermieri, coi soliti mezzi onde sapevano ottenere
tutto quel che volevano, e forse da essi medesimi imaginato e
scritto, perchè l'assurda violenza che v'è comandata
non può spiegarsi se non facendone autrice la loro insaziabile
ingordigia. L'editto consta di ventotto articoli, ne' quali è
tenuto conto, con minutezza cavillosa, di tutti i casi, non soltanto
probabili, ma semplicemente possibili in cui la Ferma, rispetto alla
regalia del tabacco, potesse menomamente venir danneggiata. Le pene,
per la detenzione clandestina di tabacco frodato, varcano, senza
nessuna apparenza della benchè menoma giustizia legale, ogni
misura di proporzione colla colpa; poichè si estendono dalla
multa di scudi cento per ogni libbra di tabacco, a due tratti di
corda, a tre anni di galera, persino alla confisca dei beni; e, quel
che è incredibile a dirsi, questa pena veniva minacciata a'
padroni per la possibile colpa dei servi, ai padri per la colpa dei
figli, come dichiarava la lettera del capitolo primo. E la sola
detenzione di tabacco estero, pur in quella piccola quantità
che non potea passare il privato consumo, veniva punita colla frusta,
colla corda, col bando, e quando si trattasse di nobili, colla
relegazione in fortezza, a tenore dell'articolo terzo. E davasi
facoltà agli ufficiali e deputati della Ferma di entrare,
d'ogni ora e tempo, a loro beneplacito in casa di qualunque persona,
di qualsivoglia stato, grado e condizione... come in qualunque luogo
esente di rispetto e privilegiato, a sensi dell'articolo
ottavo; e persino di far perquisire nei castelli e nei quartieri
militari, infliggendo la pena dell'indennizzo del quadruplo del danno
e del sequestro del soldo ai castellani, capitani, tenenti ed
ufficiali, come ingiungeva l'articolo undecimo.
V
Or
piegando dai fatti pubblici ai privati, alcune pagine addietro
abbiamo udito il Suardi a dar gli ordini ad un suo commesso per una
perquisizione da farsi nel monastero di san Filippo Neri. Pare
adunque che il tabacco di contrabbando sia per aver qualche relazione
coll'adolescente beltà che già abbiamo delineato con
matita color di rosa, e che forse avrebbe avuto tutt'altro avviamento
nella vita se non ci fosse stata la Ferma generale del tabacco, e se
non fossero stati pubblicati i ventotto capitoli dell'editto del 66.
Gli amanti delle salsette piccanti, che odiano il tabacco ed
hanno in orrore i capitolati, vogliano compiacersi a credere
qualche volta che alle cose più scabre si connettono le più
vaghe e gentili, e che se un libro dovesse tutto quanto essere,
cosparso di amori e sospiri e baci, provocherebbe una sazietà,
da far desiderare l'abolizione dei baci, dei sospiri e degli amori.
Dopo
di ciò, il nome di quella beltà adolescente era Ada,
nome che, per quanto ci consta, non fu portato che da due donne
celebri, vale a dire dalla moglie giovinetta di Caino e da una
figliuola di lord Byron. Come poi le sia stato imposto quel nome,
pochissimo usato adesso e allora forse ignoto, non essendo ancora
uscito il mistero di Byron a renderlo popolare, bisogna
domandarlo a sua madre, che un dì, leggendo la Bibbia per
consigliarsi coi proverbj di Salomone, nello sfogliare il libro, le
corse all'occhio la parola Ada che è nella Genesi e fu così
colpita da quella parola soave pel duplice a e per la
consonante di greca mollezza, che ricercando da qualche tempo un bel
nome da imporre a chi ella doveva mettere in luce fra pochi dì:
Ecco quel che cercava, disse fra sè, pel caso che chi
nascesse avesse la fortuna sì poco benigna da essere piuttosto
femmina che maschio. E così avvenne di fatto, e la
fanciulla fu chiamata Ada. Portata al sacro fonte, la neonata, quando
l'inconscia sua testolina sentì il freddo battesimale, mandò
guaiti sì acuti, che pareano persino presaghi di futuri
affanni. Dopo, per tutto il tempo ch'ella pendette dalle poppe
materne, fragranti come quelle d'Andromaca, obbedì
saporitamente alle leggi fisiologiche di quel periodo di sedici mesi.
Indi subì le malattie inevitabili dell'infanzia; subì
un croup assalitore che mise in disperazione l'amor materno e
in moto tutta la facoltà medica di Milano; ebbe le ferse
che minacciarono di rientrare per un colpo d'aria infesto. Poi fu
divisa da sua madre che andò a Bologna, perchè sua
madre era donna Clelia, come il lettore sa sebbene non glielo abbiamo
ancor detto. Quando la contessa passò in quella città
(perchè, in conseguenza di talune bizzarrie del
conte colonnello, che non basterebbe chiamar tali, essendo state
piuttosto atti pericolosi di feroce escandescenza, ella dovette
abbandonare Milano), la fanciulla aveva cinque anni; quattro ne
scorsero prima che donna Clelia vi ritornasse, per rivederla di
passaggio e di gran premura, cogliendo la propizia occasione che il
conte V... era andato per diporto a Parigi. E allorchè la
vide, ammirò beata quel suo capolavoro di bellezza infantile;
tanto più beata quanto più le pareva di veder nel lume
di quegli occhi giovinetti balenare un raggio d'altri occhi, benchè
nell'insieme la fanciulla fosse tanto somigliante a sua madre come la
parte più piccola somiglierebbe alla parte maggiore di una
gemma preziosa che si potesse dividere in due. E la passione che, pel
lavoro del tempo, s'era in lei tanto quanto attiepidita rispetto a
colui che sa il lettore, riproruppe nell'intimo suo un dì che
la fanciulla, dandosi a ridere, riprodusse una lieve e fugace
alterazione delle linee del viso, che era caratteristica in suo
padre; diciamo in suo padre, non nel conte V...
È
cosa dolorosissima a pensarsi, ma, troppo spesso, ella è vera.
Le passioni nate e cresciute e alimentate in onta al grido
dell'opinione pubblica, e al decreto dell'assoluto dovere, e al
soliloquio assiduo della coscienza, sono le più ardue a
sradicarsi da un cuore, e spesso non si sradicano che colla vita. Un
amore invece che sia stato protetto anche dalle sospettose madri, e
benveduto dai padri perplessi, e che abbia meritato le
congratulazioni di tutto il parentorio, per quanto ei sia fervido
agli esordj, è destinato a svampare, ad addormirsi, a morire,
appena abbia percorso il suo periodo fisiologico; a morire in pace
bensì e a suo letto, come suol dirsi, ma pur sempre a morire;
press'a poco forse come i conforti incessanti di una vita agiata
afflosciano l'esistenza, e i leni tepori del caminetto ponno
addormentare dopo il pranzo anche uomini attivi e impazienti come
Giulio Cesare e Napoleone. Davvero che c'è da gettar via la
testa meditando su codesti arcani del cuore umano, ma la colpa non è
nostra se gli amori benedetti muojono in pace, mentre le maledette
passioni vivono in guerra. Ora quella indefinita alterazione nelle
vaghe linee della fanciulletta Ada, che riprodusse al vivo il sorriso
di Amorevoli, fece nel cuore della contessa l'effetto di un metallo
rovente che, immerso nell'acqua alquanto sbollita, ritorni a farla
stridere. O cara e sventurata Clelia, indarno protetta dai logaritmi
e dalle ipotenuse! Divisa da colui da otto anni, troncato ogni
carteggio seco per uno sforzo violento della sua volontà,
ossia per un atto di virtù vera..., che brividi ella sentì
corrersi pel sangue nel sorprendere il fuggitivo baleno di
quell'antico sorriso! Fu allora che l'affetto antico, risorto
tutt'intero, non trovò altra via di sfogo salutare che
nell'abbracciare e baciare e stringere a sè quella soave sua
Ada, per la quale in quel momento, sentì cresciuta la
tenerezza al punto, che l'amor materno sembrò quasi assumere,
per un istante, i fervori di una violenta passione! Ma ora dovevan
dividersi.
La
contessa tornò a Bologna; Ada fu ricondotta in monastero. Or
che lume d'intelletto risplendeva entro al leggiadro velo di quella
fanciulletta? che spontanea virtù di natura avea sortito? che
cuore, che sentimenti, che istinti? Ahi, nata di passione, pur
troppo, il germe di essa le si depose inavvertito nel sangue, quasi
come avviene de' malori gentilizj! germe destinato a dar subite
espansioni e precoci, a guisa di un fiore che, affidando all'aria
ancor fredda le sue prepostere fragranze, precorra, annunciandola, la
primavera; e all'occulto germe doveva dar forza e riceverne a
gara, per le consuete rispondenze arcane, una non comune svegliatezza
di mente, recando essa nell'ingegno un abito spontaneo a manifestarsi
col linguaggio dell'arte! Tutte queste cose, quando la fanciulla non
avea che otto anni, non furono intravedute che dalla penetrazione
profonda di donna Paola; ma a dieci anni vennero considerate, e con
inquietudine sospettosa, anche dalla madre superiora del monastero di
san Filippo. L'ingegno straripava in insolita vivacità, e
certe baldanzose interrogazioni della fanciulletta turbarono spesso
l'insipienza bigotta delle monache maestre. Per di più, come
voleva l'uso del tempo e la consuetudine dei monasteri, alla
fanciulla fu insegnata la musica; domandando ella stessa un tale
studio, perchè un naturale istinto ve la portava, e
desiderandolo anche donna Paola Pietra, per essere ella medesima,
come sa il lettore, tanto insigne in quest'arte.
Un
bello e acuto ingegno, ma piuttosto amico del paradosso, s'è
messo in testa di voler provare che la musica, fra tutte, sia l'arte
religiosa per eccellenza. Il valent'uomo ha sfoggiata a ciò
molta dialettica e maggior dottrina, ma non è riuscito a
persuaderci, quantunque abbia santa Cecilia per sua naturale
protettrice. La musica, onde giungere all'intelletto, deve
attraversare necessariamente i sensi; e non rendendo essa nessun
concetto preciso e determinato che attragga l'intelletto con
velocità, spesso avviene che, indugiandosi troppo a lungo coi
sensi stessi, smarrisca poi la via di pervenire allo spirito. Però
non a caso ha detto un savio dell'antichità, che la musica
feconda il senso prima del tempo; onde, stando così le cose,
non vediamo come la teologia possa giovarsi troppo del suo ajuto. Ma,
comunque sieno per sentenziare i saggi su di ciò, e limitando
la questione ad un solo esempio, a quello esibitoci dalla giovinetta
Ada, ella mostrò in sè stessa che quel savio
dell'antichità aveva pronunciato il vero. Anzi, or che ci
rammenta, ella non vien nè sola nè prima a dar ragione
a colui; ma vien seconda a una certa duchessa Elena, di nostra
intrinseca conoscenza. Al pari di questa adunque, come la fanciulla
Ada toccò i tredici anni, ossia come le si dischiuse il
periglioso crepuscolo dell'adolescenza, allorchè per istudio e
per diporto facea scorrere la mano sui tasti dell'organo, più
non istette paga ai suoni tesi ed agli accompagnamenti solenni del
Tantum ergo; ma con estro inventivo traendone suoni della più
fantastica inspirazione, questi le rivelarono la confusa iride di una
vita di cui non aveva ancora notizia. Siamo sempre ai soliti misteri
della vita.
In
seguito a tali idee, la fanciulla, uscendo al giovedì dal
monastero per recarsi alla casa di donna Paola, cominciò a
guardare il mondo circostante con un occhio che non era più
quello dell'infanzia; così l'anno tredicesimo sfumò, e
spuntò il quattordicesimo; e trascorse anch'esso, e la
bellezza intanto cresceva e il lago del cuore non era più
calmo, e vennero gli anni quindici. Ahi! che un giorno il Suardi, il
quale già l'aveva adocchiata altre volte, e aveva notizia di
lei e dell'origine sua, si fermò a contemplarla con perfida
intenzione, guardandolo pur essa con innocenza mal presaga; chè
il volto e gli occhi del Suardi erano di quella fatale qualità
che dove cadono lasciano il segno, quantunque non fosse più
giovinetto; ma anche Adalgisa cantava:
E
tutta assorta in quel leggiadro aspetto
Un
altro ciel mirar credetti in lui.
pensando
a Pollione, il quale aveva trentacinque anni, giusta un computo
esattissimo. Del rimanente, guai se una giovinetta trova di riposar
l'occhio in un giovane che tramonta. Ella è perduta, se altri
non la strappano. Un giovane che quasi ha finito d'esser giovane, e
annuncia già la calva e bigia virilità, aduna tutte le
sue forze e i suoi prestigj in sull'estremo, e combatte come un
soldato il quale sa che il ponte gli fu tagliato alle spalle. Però
guardatevi, o giovinette care, dalle tentazioni di un giovane che a
momenti non sarà più tale. Il diavolo stesso vi potrà
essere men funesto. Fuggite, o fanciulle, i giovani vecchi. È
questo un parere da vero amico, che vi scongiuro di ascoltare.
VI
Molte
erano le ragioni per cui il Galantino, descritta che ebbe quella
strana parabola, per la quale, dopo essere nato da un cocchiere nelle
stalle del marchese F..., ed essersi dilettato a frugar nelle
saccocce del suo padrone protettore, e aver mostrato la gamba più
veloce tra quelle dei lacchè di tutto il Ducato, ed aver fatto
il ladro commissionario per compensi non vulgari, e avere indossata a
Venezia la serica velada di lustrissimo per frodare l'altrui
al giuoco, e aver subìto la tortura col coraggio onde
quell'antico Romano mise la mano ad ardere nel braciere, e averla
subìta e vinta per uscir dalle mani della legge netto e
purgato come un lebbroso da un bagno di zolfo, era pervenuto ad
essere uno degli addetti alla Ferma, a possedere tre case in Milano,
due grandi magazzini di varie merci nei Corpi Santi, due filande di
seta tra Palazzolo e Bergamo, una villa ridente e voluttuosa tra
Gorla e Crescenzago, un'altra villetta in Brianza; a nuotare in somma
nell'oro, a dormire sotto il moschetto di damasco violetto, a portare
uno splendido anellone di lapislazzuli sull'indice ed un altro di
diamante dalla più pura e bianca goccia sul medio, e due
orologi d'oro a ripetizione nel taschino, perchè, come allora
voleva il costume, l'uno facesse la controlleria dell'altro; a
calzare gli stivaletti di sommaco filettati d'oro, col fiocco d'oro e
gli speroni d'argento, per caracollare su d'un bellissimo puledro
normanno color isabella, a lunga criniera nera e coda lunghissima che
sommoveva la polvere del corso di via Marina; lungo il quale, tra le
file dei carrozzoni patrizj, faceva leggiadra mostra di sè,
mentre le giovani dame gli lanciavan guardi furtivi, e i mariti
bestemmie e dileggi che non trovavan eco nelle mogli (e qui ci sia
permesso tirar il fiato, perchè abbiam fatto un periodo alla
Guicciardini); molte dunque erano le ragioni per cui aveva messo
l'occhio sulla fanciulla Ada, educanda nel monastero di san Filippo.
Egli ricordavasi troppo del dialogo avuto colla contessa Clelia a
Venezia, e s'era fitto in capo che le rivelazioni di essa fossero
state la causa della sua cattura. Aveva pertanto fermato di trarne
vendetta, e se questa non gli riuscì la prima volta che l'ebbe
tentata, non vuol dire ch'ei dovesse deporne il pensiero. Ben è
vero ch'egli non era uomo da trascurare i propri affari per un tal
fine, e nemmeno di cercarne affannosamente le occasioni; ma tuttavia
avea sempre pensato che, se un'occasione qualunque gli si fosse
presentata spontanea e nei momenti d'ozio, egli sarebbe sempre stato
disposto a coltivarla. Oltre a ciò, e indipendentemente dai
rancori colla contessa Clelia, egli, sebbene avesse avuto un
protettore nel marchese F... e un compenso in danari non dispregevole
dal conte fratello di esso, portava un'avversione profonda alla casta
patrizia, pel semplice motivo, ma significantissimo, che dai crocchj
dei gentiluomini al teatro, al ridotto, alle case di giuoco, ai
pubblici convegni era sempre stato e veniva sfuggito con disprezzo
manifesto, in ispecial modo dal conte-colonnello. Poco curandosi del
resto del conte colonnello, gli era nato un desiderio vivissimo,
uno di quei desiderj che diventano irrequieti perchè nascono
di puntigli, di regolarsi in modo che, o una qualche dama vedova,
delle primissime famiglie, la quale per combinazione fosse straricca
e fosse ancora giovane e ancora bella, cadesse per avventura nelle
sue insidie amorose; oppure, e per lui era il disegno più
conveniente, invece della vedova, venisse a trovarsi nel laccio una
qualche contessina o marchesina giovinetta e inesperta, e le cose si
riducessero al punto che il matrimonio fosse reso indispensabile.
A
tutto questo pensò per lungo tempo, senza tuttavia darvi una
grande importanza, e solo in quei momenti, in cui beveva il caffè
dopo il pranzo, o cavalcava solitario, o stava così
sottocoltre alla mattina, aspettando che il servo gli recasse l'acqua
fresca inzuccherata. Se non che il destin volle che un giorno,
sedendo a pranzo in casa d'uno dei capi della Ferma, tra i varj
parlari, il discorso cadesse sulla contessa V... e da uno dei
commensali venissero dette queste precise parole: «a proposito,
ho visto jeri la figliuola di lei, quella che fu messa in San
Filippo; oh che bella e graziosa tosina!... È tutta sua madre,
se forse non ha una certa grazietta inesprimibile, che sua madre non
aveva!»
Non
ci ricorda in qual battaglia, ma in una delle più celebri,
Napoleone, il quale non vedeva ancora ben chiaro sull'esito di essa,
a un tratto, sentite le relazioni d'un suo ajutante che accorreva
sbuffante, balzò in piedi e gridò: La vittoria è
nostra. Ora il Suardi non balzò in piedi e non gridò,
ma pensò tra sè: Adesso vedo quel che si ha a fare,
e fermò un mezzo partito. Così, otto giorni dopo, ossia
quando ricorse l'altro giovedì, giacchè dal commensale
amico aveva sentito anche i particolari della giornata, si trovò
in luogo ed in ora opportuna, e vide, anzi guardò la
fanciulla. Gironzando poi là in vicinanza del monastero di San
Filippo, osservata un'ortaglia con casamento, entrò così
a caso a dimandare di chi fosse, e giacchè da qualche tempo
andava cercando un vasto luogo in Milano, non molto distante dal suo
studio in Pantano, per deposito di mercanzie, chiese se il
proprietario sarebbe disposto a vender quel luogo. Il proprietario
non era spontaneamente disposto, ma il Suardi esibì di pagarlo
qualcosa più del valore, e alcuni giorni dopo egli ne era
diventato il padrone. Quando lo comperò, non aveva per verità
altro fine che di farne un deposito di merci; dell'averlo poi scelto
invece d'un altro non aveva una ragione precisa, quantunque ne avesse
molte d'indeterminate. Ma nell'ora e nel luogo acconcio ei si mostrò
alla fanciulla un altro giovedì; e la fanciulla lo guardò
ancora più attenta, ed egli la ferì d'una di quelle
occhiate che, ogni qualvolta in simili contingenze le ebbe dirette
con ferma intenzione, al pari delle frecce di Guglielmo Tell, non gli
erano mai fallite; e sorse un quarto giovedì, e il Suardi si
comportò di maniera che la fanciulla s'accorgesse com'egli
uscisse da una casa accosto al monastero.
Entrava
l'estate dell'anno 1766, e quotidianamente cominciò a recarsi
colà, verso le ore in cui le monache e le educande
discendevano a passeggiar per diporto in giardino. Se si dovesse dire
che il Galantino, nella vaga confusione de' suoi disegni, non avesse
altro scopo che di soddisfare a' suoi rancori colla contessa, si
direbbe il falso. In realtà, quando vide la fanciulla, e
quando la fanciulla guardò lui, segnatamente alla seconda ed
alla terza volta, egli sentì nel sangue, se non precisamente
l'amore, qualcosa certo di molto affine ad esso, e l'avrebbe sentito
e coltivato quando pure non si trattasse della figlia della contessa.
Al
Suardi, il lettore già lo sa, era sempre piaciuta la bellezza
femminile, e, avvenente qual era, nella sua progressiva
trasformazione di lacchè in vagabondo, in fermiere, in
negoziante, in ricco possidente, ebbe tante avventure amorose quante
ne volle. S'era poi sempre mostrato, fin dall'età adolescente,
assai propenso a innamorarsi di chi era di qualche grado superiore
alla sua condizione. Ora, siccome le facce del poliedro umano sono
tante, e fu già dimostrato dalle prove e riprove de savj che
un uomo non è mai tutt'affatto cattivo nè tutt'affatto
buono, e che anche nel sangue più guasto, sapendo adoperare,
nell'analisi di esso, la virtù degli agenti e reagenti
chimici, si rinviene sempre qualche dose più o meno abbondante
di buon sangue, così il Suardi, nelle contingenze amorose,
recava spesso una gentilezza che, quasi, potea dirsi quella di un
gentiluomo squisito.
Amando
le donne, anzi idolatrandole, allorchè s'aveniva in quel
genere di beltà che aveva potenza di su di lui, lasciavasi
vincere da essa, dominare e, quasi diremmo, tramutare. Era forse
quella medesima cagione recondita per cui, fin dalla fanciullezza,
avendo sempre ambito il vestire elegante, avea frugato nelle saccocce
del padrone, vinto dalle tentazioni di parere in faccia alle donne
più di quello che era. Qualunque poi fosse la cagione,
serbando esso un abito di gentilezza nel fare all'amore, trovandosi
là solo, all'ora dei miti crepuscoli estivi, su d'un balcone
che rispondeva sul muro di cinta dell'ortaglia del monastero, la
quale non frequentata che dall'ortolano, serviva come d'antemurale al
giardino stesso dove passeggiavano le monache e le educande, ei si
deliziava nel sentire le voci fresche, che l'aria gli portava, delle
giovinette convenute là a sollazzarsi; e si compiaceva nel
tentar d'indovinare e distinguere, fra tutte le altre, la voce della
fanciulla che da qualche tempo gli si era piantata immobile in
fantasia. Del resto, per astuto che fosse e ricchissimo di trovati,
egli veniva là tutti i giorni, senza saper ancora perchè,
e quasi per aspettar dalla fortuna il premio dell'insistenza; press'a
poco come un astronomo che tutte le notti appunti il telescopio in
qualche plaga sospettata del cielo, nella fiducia che un astro
novello ci cada dentro a dargli il vanto di scopritore. Ma che
volete, o lettori? È tanto vero che la fortuna è
l'alleata più fida del genio del male, che un dì
l'astro aspettato brillò veramente agli occhi del Suardi.
Ed
ecco in qual modo. Se il Suardi, scaltrito da lunghissima esperienza,
preoccupato da tanti affari, sacerdote anziano del tempio di Gnido,
col cuore fatto a squama di coccodrillo, per quanto, come dicemmo, lo
spettacolo della bellezza avesse scoperto il suo lato molle e
penetrabile, erasi tuttavia lasciato dominar tanto dal pensiero di
quella fanciulla; è troppo facile imaginare come stesse il
cuore e come tumultuasse la fantasia della quindicenne Ada, appena
l'occhio maliardo del bellissimo Suardi la ebbe penetrata.
Nova
in quella nova regione dell'amore, sebbene da lei presentita in
confuso per la misteriosa intuizione del senso precocemente
riscaldato dall'ingegno e dallo studio di un'arte che recava in sè
stessa la seduzione, ella provò tosto quell'intima gioja,
mista di compiacenza e persino d'orgoglio, che non si confonde con
nessun'altra gioja al mondo, e quell'irrequietudine particolare e
senza riposo la quale spesso converte l'amore in ciò che può
chiamarsi, già lo dicemmo, il tetano morale. Sapeva che
colui abitava, o, almeno, veniva spesso in un sito contiguo al
monastero, chè in questo il Suardi aveva ottenuto il suo
intento. Passeggiando ella dunque nel giardino, cominciò a
dilungarsi dalla giovinetta schiera delle compagne alunne, e ad
esplorare d'ogni intorno per iscoprire se mai le potesse pervenire
qualche sentore di colui. Quando facevasi sommesso o taceva del tutto
il cicaleccio delle amiche, stava, come suol dirsi, in sull'ale,
quasi sperasse che quell'insolito silenzio venisse mai rotto da
qualche voce che non fosse quella delle amiche o delle maestre;
allorchè un giorno, pervenuta all'ultimo lembo del giardino,
dov'era come una baracca, la quale serviva di legnaja e di
ripostiglio per gli strumenti rurali dell'ortolano, penetrò in
essa come un viaggiatore sempre in cerca di una terra inesplorata, e
s'affacciò così a caso ad una rozza finestretta con
inferriata. S'affacciò e fuggì e cadde a sedere su dei
covoni di paglia, quasi svenuta. Il Suardi era al balcone, e vide
quel raggio balenare di tratto, e svanire come una stella di
sant'Elmo.
LIBRO
SETTIMO
Ada.
Il Galantino e l'ortolano del monastero di San Filippo Neri.
Guglielmo lord Crall. La casa Ottoboni Serbelloni.
Pietro Verri e il bilancio dello stato del commercio nel ducato di
Milano. I commissarj della Ferma. Una loggia di Liberi
Muratori nella contrada di san Vittorello. Il Galantino e il
figlio della Baroggi. La madre priora di San Filippo. I
commessi della Ferma e i Liberi Muratori.
I
Il
giorno dopo (e correva la prima metà del mese di giugno, del
che non a caso facciamo avvertito il lettore) il Galantino ritornò,
com'è naturale, a quella sua vedetta.
Ritornò,
ma non uscì sul balcone, bensì stette nascosto dietro
le griglie. Per quanto ei fosse fiducioso di sè e della
propria avvenenza, e fosse reso baldo dalle molte e continue e facili
sue vittorie, pure non avrebbe saputo giurare a se stesso d'aver
fatto nella fanciulla quella profonda impressione, da cui dovesse poi
prorompere la necessità d'una corrispondenza. Era ingegnoso e
acuto, lo abbiam detto cento volte, e conoceva le anomalie dei cuori
femminili; ma d'altra parte, nella interminabil lista delle sue
avventure, non ancora era comparsa una figura sì giovane, sì
olezzante di fragranza virginea.
Era
quella la prima volta ch'ei trovavasi al cospetto d'una innocenza
tanto pura, mentre egli era di tanto più provetto di lei, che
avrebbe potuto essere suo padre. E congetturava che l'innocenza può
parere audace, può sembrar perfino d'esprimere desideri non
puri, e ciò per l'eccesso appunto della illibatezza, la quale
procede spensierata e confidente; e pensava che poteva essersi
ingannato, e l'apparizione repentina della fanciulla e la repentina
sua scomparsa riuscirne una prova fedele. Però disse tra sè,
quando si pose ad aspettare in silenzio dietro le griglie: Se
ella oggi ritorna, allora non c'è dubbio, sarà quel che
sarà, e nessuno m'incolpi se farò quel che sarò
per fare. Se poi non ritorna...
E
la fanciulla Ada ritornò e s'affacciò: s'affacciò
e si ritrasse, per affacciarsi e ritrarsi ancora, come fa la
capriuola che, irresoluta, sporge la testa dalla rupe, quasi odorando
il vento se gli porta rumor di cacciatori, e fugge precipitosa, per
ritornar tosto a rigirar l'occhio sospettoso finchè,
rassicurata, spicca il salto e procede. E anche Ada ritornò
là, e girato l'occhio intorno e non vedendo nessuno, si fermò
e alzò lentamente lo sguardo al balcone poco discosto
lasciandovelo riposare a lungo, e quasi dimenticandolo su di esso,
assorta in una immobile contemplazione! Oh divino spettacolo della
giovinezza, della beltà e della innocenza! Oh spettacolo
doloroso della tentazione, che sorge lenta lenta, e inavvertita si
associa a così dolci compagne!
O
voi che avete i cuori fatti d'agata, e dal gelo del sangue vi fu reso
arcigno e spietato il giudizio, non vogliate abborrire in
anticipazione, quasi fosse una figliuola del diavolo, questa
leggiadra figura che, senza sua colpa, portò dalla natura
strani fervori nel sangue. Costei, credo bene di dirvelo anche a
costo di prevenire gli eventi, perchè se avete degli odj a
usufruttare, ne scagliate altrove il veleno; costei, pur attraverso a
un doloroso tramite di pericoli, è predestinata alla sincera
virtù, se la virtù sta nel far violenza a se stessi, e
non nel portarne la maschera senza volere il vero bene, anzi senza
nemmeno comprenderlo. Questo sia detto senza andare in collera,
perchè non veniate a turbarci coi vostri obliqui affanni, o
lividi farisei, e coi sospetti di chi non vede che colpa e
maledizione in ogni spontanea effervescenza dell'affetto.
Or
continuando, il Suardi uscì sul balcone, e contemporaneamente
alla sua comparsa gettò una carta entro alla finestra, dove
Ada stava in contemplazione; ed ella, arrossendo, ancora si ritirò,
raccogliendo però la carta, nella quale era quel fiore, quel
fiore che noi l'abbiam già vista a levare di sotto alla tela
del guanciale del suo lettuccio collegiale, ed a fiutarlo,
coll'olfatto, diremo, dell'anima. Allora il Suardi si tenne certo di
essere rimasto nel cuore della fanciulla, e su tale certezza ordì
un disegno che mai non gli era venuto in mente sino a quel punto. E,
uscito di là, e recatosi alla sua casa civile in Pantano,
mandò, senza perder tempo, un suo uomo di studio a cercare
dell'ortolano del monastero di San Filippo, con ordine che gli desse
qualche danaro a persuadergli d'andare a lui, quando per caso si
fosse mostrato restìo. Ma l'uomo di studio si portò
bene, e l'ortolano, senza farsi troppo pregare, si accompagnò
con esso, e venne alla presenza del Suardi, nel suo gabinetto
segreto.
Oh bravo! così disse il Suardi seduto all'ortolano che stava
in piedi, quando l'uomo di studio uscì dal gabinetto; ti
ringrazio dell'essere stato così sollecito. Ma prima di
tutto... ti piace il vin di Cipro?
Per dire che mi piace penso che bisogna aver buona memoria. Me ne ha
dato un bicchiere tre anni fa il cameriere della marchesa Ottoboni,
quando portai in quella casa un mazzo di fiori, nell'occasione che si
faceva sposa la marchesina ch'era stata educata in convento.
Rinfresca dunque la memoria e riscalda lo stomaco con questo.
Obbligato alle sue grazie... buono! Ma ora posso sapere per cosa
vossignoria mi ha fatto chiamare?
Dimmi un po', il mio uomo, sei tu ammogliato?
Mancherebbe anche questa, caro signore, con quella miseria di salario
che si ha in convento. È già molto se posso provvedere
a me e alla mia vecchia madre. Per la moglie e per i figliuoli non
c'è posto davvero.
Guarda mo, il mio uomo, io credevo che tu stessi benissimo colà...
perchè conosco molti altri ortolani e giardinieri che hanno il
tuo e poi ancora il tuo. Ma come va dunque la cosa?
Come vada ora lo so io... come è andata una volta non lo so...
Ma pare che non si sia pensato all'ortolano, quando si fondò
il monastero... Tanto che la dama conservatrice mi dà qualche
cosa del suo... e del resto vivo d'incerti che capitano quando
capitano; e se mai dà il caso d'un'annata in cui le educande
non escano in molte dal convento, per ritornare, fatte grandi e brave
nelle loro famiglie, non c'è nemmeno il pretesto di far loro
qualche bel regalo coi fiori del giardino che è il solo mio
vantaggio, dal momento che, non per superbia, ma son più
giardiniere che ortolano, ed è questa ancora una fortuna;
perchè fagiuoli, cavoli, carote e cipolle van tutte a finire
nella cucina del convento, dove il cuoco par che mangi anche la parte
delle reverende e delle educande.
Quand'è così, va benone. La mia paura era che colà
tu stessi troppo bene.
Paura? ma perchè paura?
Perchè, per una villa che ho in Brianza, ho bisogno di un
giardiniere, ma di un bravo giardiniere. Io lo pagherei bene. Oltre a
ciò avrebbe i proventi dell'ortaglia per lui, e le mance de'
mazzi di fiori che di tanto in tanto si mandano a regalare alle belle
che escono a villeggiare. Io t'ho visto, e mi sei parso il mio uomo.
Non vecchio, non giovane, buone spalle, cera lustra, occhio furbo ma
galantuomo. E allora potresti prendere anche moglie. Scommetto che
più di una volta t'è venuto il ghiribizzo di prender
moglie...
Il signore scherza.
Io non ischerzo, il mio uomo. Ma se ti piacciono i patti, domani o
dopo esci in campagna con me... ed oggi, anzi adesso, prima che tu
esca di qui, ti do, a titolo di caparra, una mezza dozzina di
zecchini. Ti piacciono i zecchini?
Più ancora del vin di Cipro.
Dunque ci stai?
Ci sto.
Ecco i zecchini. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. Va bene?
E
licenziò l'ortolano; nè per quel dì gli disse
altro; ch'ella è astuzia antica e greca il non parlar mai in
sulle prime della cosa che più importa.
Intanto
il giorno successivo, all'ora consueta, il Suardi fu al balcone
consueto, o, per dir meglio, stette ancora nascosto, per vedere se la
fanciulla ricompariva, e per non darle soggezione, quando mai
ricomparisse. E Ada ricomparve, e si fermò, e il Galantino le
rivolse una parola, una parola vaga e insignificante, tanto per
provar la voce; e Ada rispose una parola anche essa, ma non
intera; e soltanto per far sentir la voce; una voce di
mezzo contralto vellutata, la quale compì l'opera,
mettendo alla massima bollitura il sangue di Galantino.
E
in quel dì stesso egli fece chiamare di nuovo l'ortolano del
convento, e:
Senti, gli disse, prima che ce n'andiamo in campagna, ho bisogno che
tu mi faccia un piacere.
Vossignoria non ha che a comandarmi.
Prima di tutto, hai tu accesso libero in convento?
Fino ad un certo punto, sì.
Già s'intende, sino ad un certo punto. Ma fin dove, per
esempio?
In cucina, in legnaja, in cantina... e qualche volta, quando le
monache sono in refettorio o in giardino, si va a far pulizia ne'
dormitoj; e quando le ragazze sono a letto, si va a farla in
refettorio.
Sei tu solo a far questo?
Io e il facchino del convento.
Ma va benone. Or vedi che si ha a fare. Vieni intanto con me.
E
l'ortolano seguì il Suardi in un camerone terreno.
Vedi tu tutta questa roba?
Vedo e sento. È un tale odor di tabacco che si starnuta anche
senza annasare.
Ebbene, ho bisogno che tutta questa roba, già non è poi
gran cosa, tu la distribuisca, un po' per giorno, in molte parti del
convento, in quelle parti che sono fuori della vista giornaliera.
Oh... questo è impossibile.
Per chi ha buona volontà non c'è niente di impossibile.
Anche questo può esser vero... ma...
Che ma?
Vossignoria sa cosa c'è di nuovo.
Vuoi tu che non lo sappia? Sono uno di quelli che hanno fatta la
legge.
Capisco.
Non c'è dunque per me nessun pericolo a contravvenirvi.
Per vossignoria, no; ma per quelle del convento...
Ma sei forse innamorato delle monache?
Io? oh!...
Lascia dunque andare, e piglia questi due zecchini che cogli altri
faranno otto... Finita la cosa, te ne darò altri quattro, e
così faranno dodici. Trovami fuori or tu un ortolano in tutto
il Ducato che in ventiquattro ore guadagni dodici zecchini.
A far l'ortolano, no; ma nemmeno io ci riesco, perchè mi pare
ch'oggi non si tratti nè di cipolle nè di lattughe.
Dunque...
Eh... basta... quando si tratta di cambiar stato, si può fare
un tiro anche alle monache.
Sicchè?
Sicchè... se vossignoria ha altri affari a cui pensare, ci
pensi pure... che in quanto a questo è bell'e spicciato.
L'ho detto io. Cera lustra, occhio furbo e galantuomo.
Furbo sì... galantuomo non si può sempre viver sicuri
di esserlo...
Va là, va là... e non farmi lo scrupoloso, chè
son tutte inezie, e già non si ha a far male a nessuno. Del
resto, fatta la cosa, tu viaggi in collina, e un altro verrà
al tuo posto. Anzi, dovresti pensare fin d'ora al sostituto.
Oh non occorre pensarci. Ci sono aspiranti a trentine, chè
tutti credono che il convento ingrassi e l'orto delle monache sia un
bel zapparlo...
Ah furbo che tu sei... dunque siamo intesi.
E
l'ortolano partì.
Ora
per non trarre il lettore per le lunghe, gli basti sapere che,
siccome il Suardi volle, così venne fatto; chè
l'ortolano distribuì il tabacco tanto equabilmente in tutte le
parti del convento, che non ne andarono senza nè il refettorio
nè i dormitoj.
E
il lettore durerebbe fatica a prestar fede a questo, se non lo
avessimo informato appuntino degli abusi e delle enormezze ribalde
che si commettevano in Milano per mettere i cittadini in
contravvenzione rispetto al nuovo editto sulla Ferma. Nè
soltanto si faceva entrar di soppiatto il tabacco nelle case de' gran
signori e dovunque si presentava una facile occasione, o un servo
venale o un portinajo più venale ancora che facesse il
manutengolo; ma ne' giardini si buttavan da' muricciuoli di cinta
anche sacchetti di sale, onde poter così gettar la colpa sul
padrone di casa, sul prevosto della parrocchia, sul priore del
convento: perchè la voracità de' fermieri s'era diffusa
a tutta la folla de' loro satelliti, i quali, anche senza averne il
comando, commettevano inaudite nefandità per intascare le
quote che loro eran dovute sulla esazione delle multe; e, sovente
ancora, per altri fini indiretti che sapevano iniquamente dissimulare
sotto colore di dover fare inesorabili perquisizioni nelle interne
dimore; delle quali esorbitanze or appunto ci porse un saggio il
Galantino. Ma che intenzioni aveva egli? ma perchè, sotto
pretesto di frugare onde cercare il tabacco di contrabbando, aveva
pensato di mandar volpi e faine nell'ovile intemerato?
Questo
è ciò che vedremo in seguito. Intanto ci convien
recarci in casa di donna Paola, negli appartamenti del suo figlio
maggiore, di quel Guglielmo lord Crall che noi abbiamo già
visto a venir di gran trotto per via Nuova, verso le parti appunto
del monastero di San Filippo. E ci convien far la sua conoscenza
intima, perchè non dobbiamo attenderci cose indifferenti da
questo bel giovane biondo, costituito dalla duplice natura d'italiano
e d'inglese, nato da genitori di tempra fuor dell'ordine comune,
caldo di mente, caldo di cuore, scolaro di Parini, lettore di
Rousseau, entusiasta, misantropo, che dovea presentire quella
melanconia destinata dal secolo a certi spiriti eccezionali, donde
poi scaturì il concetto del Werther di Goethe, e quella
che si potrebbe chiamare la moda del suicidio.
II
Questo
Guglielmo lord Crall lo abbiam già veduto adolescente di dieci
in undici anni a tradurre, in compagnia del suo minor fratello, una
satira d'Orazio, essendone istitutore ripetitore il giovane
abate Parini.
Ora
devesi sapere che il marito di donna Paola lasciò morendo una
ricca facoltà ai due figli; che mancato a Londra nel 1762 un
fratello di esso, accrebbe di tanto gli averi dei due suoi nipoti,
che questi potevano stare a fare coi più ricchi di Milano; che
il minore di loro, due anni prima del tempo a cui ci troviamo, si
recò a Londra per compiacere alla tendenza che sentiva in sè
irresistibile per i viaggi e la vita avventurosa; e che il maggiore
prescelse di starsi invece con sua madre a Milano, tutto infervorato
com'era di lettere e poesia e speculazioni filosofiche. Di questo
Guglielmo lord Crall abbiamo anzi sott'occhio un volumetto, stampato
del Galeazzi, di poesie latine (Carmina Latina Domini
Gulielmi Cralii E Londino oriundi Mediolani, typ.
Jos. Galeatii 1765), poesie tibulliane assai più che oraziane,
sebbene di mestissima vena, e qua e là soffuse di una mistica
nebbia che non poteva appartenere al genio di nessun poeta pagano e
latino. Ma de' suoi versi tibulliani modificati dallo spleen
inglese, il quale dal sangue del padre era passato nel suo,
parleremo in altra circostanza. Per ora ne basti sapere che, mentre
egli attendeva alla stampa de' proprj versi, s'innamorò, come
può innamorarsi un italiano moltiplicato per un inglese, di
una fanciulla, la quale, e chi non l'ha indovinata prima? era appunto
la crescente Ada.
Vi
sono persone, per lo più femminili, qualche volta maschili, le
quali, trovandosi giovani in presenza di giovani dell'altro sesso,
non possono nè muoversi nè respirare nè guardare
senza nuocere all'altrui buon umore, ossia senza destare qualche
furente passione, la quale poi, allorquando non è corrisposta,
finisce per essere incomodissima e molesta, e qualche volta persino
pericolosa a chi l'ha innocentemente provocata. Egli è perciò
che sono talora degni d'invidia quelli che dalla natura fisica non
ricevettero tutt'intero nè perfetto il loro appannaggio, ed
ebbero qualche occhio di meno, o qualche protuberanza di più,
e dalla rachitide e dalla scrofola furono preparati in modo da
servire di controstimolo a chi è nato per amare. Costoro
almeno, se hanno il diritto di lagnarsi di molte cose, non hanno a
subire la sorte di esser vittima dell'altrui simpatia!
Tornando
ora al giovane Guglielmo e alla fanciulla Ada, la disgrazia fu che
egli stette assente da Milano, per essere stato alle più
celebri università d'Italia, una mezza dozzina di anni; e che
non potè assistere al graduato sviluppo della fanciulla;
bensì, lasciatala ragazzetta, la rivide adolescente, anzi con
tutti i prestigi d'un'adulta. Noi non pretendiamo che sia un rimedio
sicuro per non innamorarsi di una fanciulla, l'averla vista a
nascere, a crescere, a piangere colle lagrime dell'infanzia. Gli
uomini non vedono all'ultimo che il frutto maturo, e non rinunciano a
mangiarlo per averlo visto acerbo. Tuttavia, qualche volta, giovò
questa circostanza a serbare illesi de' giovani maturi dai tormentosi
affetti per fanciulle adolescenti, e forse avrebbe giovato anche al
giovane Guglielmo. Ma per fatalità quando ei ritornò, a
ventisei anni, vide Ada che ne aveva quattordici, con tutti gli
attributi esterni dei quindici e quasi anche dei sedici anni.
Allorchè la vide, e fu appunto un giovedì di vacanza,
la prima di lui sensazione fu di rimanere abbagliato e scosso; la
seconda, di non credere che fosse quella stessa Ada che l'avea spesso
frastornato co' suoi trastulli infantili. Se non che, passando il
tempo, e vedendola altre volte, e sentendola parlare con garbo assai,
e ascoltandola cantare e suonare, con quella voce di mezzo contralto
velata di voluttà, con quelle mani bianche, lunghe, sottili,
intellettuali, se può passar la parola, l'incanto cessò
di esser passeggiero. Per di più, movendo ella gli occhi con
una espressione di guardatura tenerissima, egli si confidò
d'interpretare quell'espressione a proprio vantaggio ogni qualvolta i
lenti e grandi occhi di Ada riposavano inconscj su di lui. Ma non
bisogna fidarsi dei begli occhi delle belle, chè il loro
linguaggio somiglia molto a quello della musica, la quale possiede un
linguaggio universale che può dir tutto e può dir
nulla, e guai se le parole del libretto non vengono in soccorso delle
note. Però, cari i miei giovinotti, che cantate vittoria
perchè un'occhiata v'ha lusingato, vogliate credere a chi ha
più esperienza di voi: Non vi fidate. E a buoni conti, per la
vostra tranquillità, fate venire in soccorso degli occhi una
esplicita dichiarazione, la quale, se sarà scritta e in carta
bollata, meglio.
Ma
se oggi possiamo venire in aiuto de' nostri giovani amici, ci stringe
il cuore di non aver potuto aiutare il cogitabondo Guglielmo lord
Crall, il quale prestò una fede così illimitata agli
occhi di Ada, che ne rimase ferito incurabilmente; gli occhi di Ada,
i quali erano ben lontani dal credere di doversi compromettere
adempiendo alla necessità del loro ufficio. Ned egli confidò
a nessuno il suo segreto; onde la passione tanto più fremeva
quanto più era compressa di dentro. Nè mai pensò
di farne motto alla fanciulla. Le pareva di troppo acerba. E quando
pure avess'egli saputo passar sopra a tal fatto, lo faceva ritroso la
condizione di educanda in cui Ada trovavasi ancora. Ma il suo
silenzio se valse con tutti non valse con donna Paola. Gli occhi
delle madri, quando trattasi di figli amatissimi, comprendono cose
che nessun occhio acuto non potrebbe mai decifrare. Ma ella pure, dal
canto suo, non solo non ne fece motto al figlio, ma dissimulò
profondamente d'essersene accorta. Ella non poteva veder di buon
occhio quest'affetto, e si crucciò amarissimamente appena ne
ebbe sentore. Le parea come di farsi rea di lesa delicatezza,
soltanto a pensare alla possibilità che, ritornando a Milano
la contessa Clelia, la quale con sì fiducioso abbandono le
avea lasciata la cura della figlia, trovasse poi nella casa medesima
di donna Paola già adulto un amore tra la propria figliuola e
il figlio di lei. Perciò taceva e sperava, e quando la nobil
donna conservatrice del monastero di San Filippo, le parlò
dell'indole troppo vivace e risentita dell'educanda Ada, e le propose
di ritirarla dal collegio, ella amò di lasciar cadere quel
discorso, perchè tutto avrebbe voluto anzichè tenersi
in casa quell'occasione di contrattempi e di sciagure possibili.
A
tal punto eran dunque le cose, quando Ada alle tentatrici parole del
Suardi ebbe risposto più col suono della voce che con altre
parole. Ma il dramma sollecitava il suo gran colpo di scena.
Tutti
i giorni, essendo entrata l'estate, il giovane Crall soleva recarsi
in sul tramontare della giornata in casa della marchesa
Serbelloni Ottoboni, dov'era il convegno di tutti i begli
spiriti della città di Milano. Il dì stesso in cui il
Suardi, per ingiunzione dei capi della Ferma, e per decreto della
magistratura, e con permesso della sacra congregazione, trattandosi
di luogo eccezionale, aveva stabilito di mandare la solita
sgherraglia a perquisire il monastero di San Filippo Neri; quel dì
stesso lord Crall non credette di rompere le sue abitudini e si recò
in casa Ottoboni. Era l'ora in cui cominciava, a dir così, la
processione delle carrozze patrizie dirette al corso di via Marina; e
dal terrazzo di casa Ottoboni vedendosi le carrozze che di tanto in
tanto si soffermavano, e i cavalcatori eleganti che facevano pompa di
sè e dei preziosi puledri, e i passeggieri pedestri, si traeva
partito da questa congiuntura per passare quelle ore che precedevan
la cena, dimezzando così il tempo tra la conversazione in sala
e lo spettacolo del pubblico che moveva a diporto.
In
quel giorno, tra gli altri, v'era là l'abate Parini, v'era
Pietro Verri, v'era il suo intrinsicissimo Padre Paolo Frisi, v'era
Cesare Beccaria, il segretario Cesare Larghi, v'era la sorella di
Gaetana Agnese, la non meno rinomata, almeno allora, Maria Agnese, la
sola compositrice di musica drammatica ricca di fantasia e di
dottrina che vanti ancora la storia dell'arte; v'era quel maestro
Galmini destinato a fare il quarto con Adamo, Matusalem e Noè;
chè di quel tempo aveva settantanove anni, e tenne dalla
natura un piloro di bronzo così poderosamente costrutto, che
per morire dovette aspettare altri cinquantanove anni ancora, essendo
morto nel 1825 di centotrentotto anni, e avendo così potuto
abbracciare in un amplesso quasi tutta la scala ascendente delle
vicende progressive dell'arte sua, dal rivoluzionario Monteverde al
rivoluzionario Rossini. V'era il pittor Londonio, il tormento dei
preti, dei frati, dei vecchi, di tutti, e che, per farlo stare
alquanto in riga a quella conversazione quotidiana, non ci voleva che
la graziosa dignità della marchesa padrona, e l'occhio
fulminante dell'austero Parini. Era quella insomma una bella e buona
compagnia, e non sapremmo se oggi se ne potrebbe mettere insieme una
migliore.
Il
Parini aveva allora trentasette anni, e quantunque, per mangiare,
dovesse ancora arrabbattarsi a dar lezione, chè assai poco gli
fruttava l'avere avuto dal conte Firmian l'incumbenza di stendere la
Gazzetta Ufficiale di Milano, pure era già la figura
più gloriosa della città. Erano usciti il Mattino e
il Mezzogiorno; e risuonava delle sue lodi tutta
Italia, ed avea già ottenuto di frenare il mal gusto che aveva
straripato a furia per un secolo e mezzo; di ricondurre l'arte alle
sue limpide e severe sorgenti, e di farsi odiare da una mezza dozzina
di nobilissimi milanesi, che ebbero l'orgoglio di voler vedere sè
stessi nell'ideale dipinto dell'immortale poemetto; tra' quali
spiccava quel conte Alberico F..., con cui ci troveremo; il qual
conte Alberico volle disputare al principe B... il vanto di aver
tentato di consacrare ad una vindice bastonatura le povere spalle
dell'abate scellerato.
Ma
l'abate impaziente, irrequieto e versatile, passava così
zoppicando da un crocchio all'altro, parlando di musica colla bella
Agnese, e digredendo, a proposito della mano di lei che scorreva sui
tasti di un gravicembalo, sulle qualità indispensabili,
costitutive d'una bella mano; e contraddicendo Londonio che voleva
sfoggiare la sua dottrina in ciò, e contraddicendolo con
apparenza di violentissima enfasi, per finir tutto in celia e lasciar
scornato l'avversario comico, il quale, quell'unica volta, avea
parlato sul serio; chè era codesto un modo caratteristico del
conversare di Parini, come ci vien riferito anche dal suo scolaro e
biografo Reina. E dalla musica e dall'estetica delle mani egli
passava a parlare col Larghi, schizzando spirito e bile in qualche
fuggitiva questione di letteratura e poesia; anche qui alzando la
sonora sua voce a far tacere quanti parlavano nella sala, i quali,
sebbene conoscessero quella sua abitudine bizzarra, si mettevano in
grave apprensione, non fosse mai per impegnarsi qualche lotta
violenta e scandalosa. Soltanto tra Parini e Pietro Verri i ragionari
correvano in un modo speciale. Quel venerabile vecchio Bruni, che
abbiam conosciuto a Pusiano, e che fu per noi il libro parlante che
più ci istruì intorno a buona parte delle cose già
descritte, ci disse più volte, parlando di Parini e Verri coi
quali e tra' quali si trovò sovente, ch'eglino si stimavano
assai vicendevolmente, ma si temevano forse più di quello che
si amassero, e che però ei sarebbe stato disposto a credere,
frugando in fondo a' penetrali della coscienza di ambidue, che
qualche spruzzo di celata antipatia avesse leggermente inacidito il
loro sangue. Parini primeggiava, e, avea il diritto di primeggiare.
Verri voleva primeggiare, e ne avea il diritto. Era dunque invidia,
era gelosia?... chi lo sa?... Ma anche gli uomini più
intemerati e santi sono uomini; e non ponno frugar ne' cuori de'
benemeriti mortali se non gli acuti contemporanei che hanno potuto
leggere attentamente ne' loro occhi. Or mentre Parini tuonava, il
conte Verri era impegnato in un discorso colla marchesa Ottoboni,
alla quale proponeva, essendo essa letteratissima, di tradurre il
teatro francese applaudito, e segnatamente le ottime commedie di
Molière, per tentare in tal guisa di purgare anche il teatro
comico a Milano dalle scipite laidezze ond'era contaminato, chiamando
così il Verri in ajuto delle sue idee innovatrici l'opera
altrui; applicando la sua immensa attività a infondere vita
nuova a tutto quello che invocava una riforma nella sua patria, e
amando che fosse applicato a sè quel passo di Sofocle:
Per
me, per voi, per tutta
La
città mi travaglio ......
In
altra parte poi, Cesare Beccaria, seduto solo, anzi sdrajato su d'un
canapè, già annojato del peso della sua precoce
corpulenza e della gloria che non aveva cercato, dissimulava, sotto
l'aspetto d'una indolenza invincibile, l'attività prodigiosa
ma intermittente di uno spirito che conflagrava a sbalzi, e
prorompeva poi come la lava; e, inerte, pareva non avesse nè
pensieri nè volontà di pensare, e non badasse a nessuno
dei discorsi che si facevano intorno a lui; chè girava
vagamente la semichiusa pupilla di cosa in cosa, come uno che abbia
piuttosto volontà di dormire che d'operare; ma in realtà
ascoltando tutto, e avvicinando le idee estreme che tumultuavano in
quella sala nel cicaleccio di tante persone, e di ciascuna idea che
gli paresse non rigettabile facendo base alla feconda generazione di
tutte le idee conseguenti, colla prontezza d'una facoltà
induttiva prodigiosa.
Ora
nel punto che codesto quadro animato si moveva in sala, sul
terrazzone agitavasi un altro quadro animato, più attraente di
quello che stava in sala, essendo costituito di belle e giovani
gentildonne.
I
discorsi che volavano all'aria dalle lor bocche leggiadre non
assomigliavano a quelli che facevansi al di dentro. Non un tèma
industriale, non un tèma scientifico, non uno di belle arti,
nemmeno di musica; se pure alle arti non si volessero ascrivere i bei
giovinotti attillatissimi che passavano a cavallo per di là.
Tenendo dunque dietro quelle care donne ai cari giovani, d'improvviso
chi stava in sala sentì esclamare da mezza dozzina di bocche:
Guarda, guarda guardate il Galantino. E tutti,
meno il Beccaria, che non avrebbe lasciato il molle canapè per
tutto l'oro del mondo, si fecero al terrazzo, ai balconi, alle
finestre, tanto quel Galantino era diventato un oggetto di moda, un
capo d'arbitrio, come suol dirsi; tanto era esso
presente alla memoria di tutti, poichè l'eccesso della sua
famigerata ribalderia, quasi redenta da una smodata fortuna, la quale
pareva si dilettasse a camminar sfacciatamente sul collo alla virtù;
e l'origine abbiettissima di lui, come veniva giudicata dalla casta
patrizia preponderante e trionfante in quel secolo, dissimulata dalla
più bella faccia di giovine che mai abbia adornato corpo di
duca o di marchese, e dalle più belle gambe che mai abbiano
fatto risaltar forme greche e guizzar muscoli gladiatorj sotto a
maglie di seta bianca, producevano un tale imbroglio e generavano una
confusione nelle teste di quelle giovani dame, le quali cavavano pure
il fazzoletto canforato se mai bottegajo o bracciante lor passasse
d'accosto, che a vantaggio del Galantino avrebbero rinnovate le
sommosse cruente di Roma antica per mettere la plebe sulla testa dei
patrizi.
Il
nostro vecchio amico Bruni, che conobbe il Galantino e lo vide più
volte in Milano tanto a cavallo che a piedi, un dì, mentre
stava raccontandoci i suoi fasti più celebri, ci fece il suo
fisico ritratto senza trascurare la ricchezza degli accessorj. «Io
non mi ricordo riportiamo le precise parole del Bruni
d'aver mai veduto più bell'uomo vestito più
sfarzosamente; e quando esso cavalcava per la città, preceduto
da un servo gallonato, il suo nobile aspetto, lo sfarzo de' suoi
abiti, la ragazzaglia che spesso gli traeva dietro, tutto questo, ad
un forastiero che lo avesse visto la prima volta senza conoscerlo,
potea facilmente darlo a credere pel governatore della città o
per qualche altro distinto personaggio. Eppure era quello che era, e
mio padre, col quale mi trovavo a Milano nel '66, mi disse d'averlo
veduto più volte aiutare il mozzo di stalla dell'albergo dei
Tre Re ad attaccare i cavalli alle vetture».
Venendo
ora al fatto nostro, la comparsa del Galantino sotto i balconi di
casa Ottoboni Serbelloni diede una repentina diversione a tutti
i discorsi che si facevano dalle persone là convenute,
associandole tutte in una discussione sola. Pochi momenti prima era
entrato in sala lord Crall. Il fasto del Suardi fece mettere sul
tappeto l'editto del '66. Parlò il Verri, parlò il
Parini, parlò Beccaria, parlò il giovane Guglielmo. E
il dibattimento fu tale, che merita la pena che noi lo riproduciamo,
tanto più che la conseguenza di esso fu una pericolosa
risoluzione presa dal figlio di donna Paola, risoluzione che
aggruppò, facendolo più serio, il dramma.
III
Bello eh?... disse ironicamente il segretario Cesare Larghi, il
celebre villottista, alla figlia maggiore della contessa Marliani che
somigliava alla madre.
Altro che bello, bellissimo... rispondeva la contessina; guardate là
il marchese Sannazzaro e don Glicerino Brebbìa che figura
fanno, cavalcando poco discosti da lui.
Io scommetto, entrava a dire una assai matura dama, la quale era però
stata molto giovane e molto bella, e s'era giovata troppo bene e
della gioventù e della bellezza; io scommetto che venne fatto
uno sbaglio o dalle comari o dalle balie, e che colui fu tramutato in
cuna con qualchedun altro... perchè il sangue sopraffino si
conosce alla sua pelle. Guardate là il conte V... che gli
passa accosto galoppando... Chi venisse oggi a Milano per la prima
volta, e non sapesse niente di niente, come mai potrebbe dire che
colui è un grande di Spagna, a dispetto di tutto quell'oro...
e che il Galantino è quello che è?
Sapete cosa c'è di nuovo, cara contessa?
Sentiamo.
C'è di nuovo che tanto il conte V... quanto il Sannazzaro e
don Glicerino e il conte Alberico che vedo laggiù e gli altri,
farebbero assai bene a studiare un certo epigramma che so io, e a
metterlo in pratica, già s'intende colle opportune varianti...
Sentiamo l'epigramma...
Scusate se vi richiamo un nome che puzza di scandalo... ma chi non ha
conosciuto la Valaperta?...
La
dama torse il viso con un lezio della bocca che significava schifo e
ribrezzo...
Eh, non occorre che mi facciate quel viso, amabile contessa. Ma
volere o non volere, se la Valaperta girò da una mano
all'altra per vent'anni e su tutte le piazze come una cambiale
tempestata di accetto e di firme; ciò non vuol
dire che non fosse molto bella e in ultimo molto ricca, e che
scarrozzasse su e giù per di qui e per il corso di via Marina
con gran treno e livree rosse...; ma un bel giorno si videro scritte
su tutte le cantonate della città queste parole chiare e
tonde:
La
Valaperta infame
Oggi
trionfa in cocchio.....
Andate
a piedi, o dame.
E
l'epigramma fu così efficace, che una grida, con minaccia di
multa e prigionia e corda, non poteva essere eseguita più
puntualmente; tanto che per una quindicina di giorni non si videro
più carrozze al corso, nè dame in volta... e la
Valaperta, vedutasi sola e saputa la congiura, lasciò Milano e
sparì... Ecco dunque quel che dovrebbero fare questi
cavalierini sciocchi...
Scusate, ma se le dame avevano ragione, i cavalieri avrebbero torto;
credereste forse voi che, scomparendo i cavalieri, il Galantino
volesse scomparire per puntiglio?...
Per puntiglio, no certo... non è un uomo tanto sottile di
pelle. Tuttavia la ribalderia scornata in pubblico farebbe sempre il
suo buon effetto...
Caro il mio Larghi, entrava a dire il Londonio pittore, non è
troppo facile a scornare la ribalderia quando mette gli speroni e va
a cavallo; e cavalca meglio della virtù....
Vi prego di andare adagio colla virtù, faceva osservare il
Parini, perchè non mi pare che nel conte V..., per esempio, e
nel conte Alberico F... e nel principe B... ella abbia dei
rappresentanti troppo legittimi. Quando si nasce sul materasso
trapuntato di zecchini, a non commettere ladrerie e trufferie non
occorre di essere nè sant'Ambrogio, nè san Carlo...
Sono anch'io del vostro parere... ma giacchè si parlava di
scornare i ribaldi... io li ho ben tratti nell'agguato l'altro
jeri... e senza pigliar le cose sul serio... anzi...
Il
vecchio Galmini, amicissimo di Londonio, proruppe in una risata a
queste parole, soggiungendo poi:
Questo l'ha proprio trovata fuori di conio; e dimostrò
l'inutilità delle dimostrazioni in pubblico
e la
sciocchezza dell'astenersi dal piacere di tirar tabacco per farla ai
fermieri.
Ma cos'ha fatto? dissero molti ad una voce, cos'ha fatto?... qualcuna
delle sue, già m'immagino... Orsù, raccontate...
Ma non san nulla... lor signori?...
Davvero che è stata bella, diceva il Larghi, ma non tutti
hanno il coraggio e la vena e il buon tempo di questo bel matto
qui...
Raccontate dunque...
Ma io stupisco, diceva il Londonio, che non se ne sappia ancora
niente... Però m'accorgo che quelli stessi che furono presi in
trappola sono andati d'accordo nel non lamentarsi in pubblico... Ah
ah ah!!
Sentiamo dunque...
Care damine gentili... abbiano pazienza, ma non son cose da dire a
loro... I loro nasi ne soffrirebbero più che i loro cuori; e
altro che canfora ci vorrebbe...
Ma
continuando il Galmini a sganasciarsi dal ridere, cresceva nelle dame
la volontà di ascoltare, mentre il Londonio si faceva serio,
di quella serietà comica che mette il buon umore negli
astanti, e accennava di non rompere il silenzio.
Suvvia, dunque, parlate...
Ma e poi, se mi fan mettere alla porta?
Non lo faremo.
E poi, se venendo per far loro una visita, ordineranno ai servi di
dirmi che non sono in casa?
Non lo faremo.
E poi, se non permetteranno mai più ch'io parli alla loro
presenza?...
Lo permetteremo sempre.
Sempre?
Sì.
Lo promettono?
Lo promettiamo.
Ebbene... si tratta di...
E
tutte le dame, a sentir la parola che noi non vogliamo trascrivere,
ma che uscì dalla bocca di Londonio, fuggirono chi in un lato,
chi in un altro della sala, gridando ad una voce: Uh!...
Or basta così, disse allora seriissima la marchesa Ottoboni,
ma nascondendo i guizzi del riso sotto a muscoli protesi a gravità.
Basta così...
Adesso poi, mi permetta, marchesa, ma voglio andare innanzi io...
Sappiano dunque che lunedì, la direzione dell'ufficio della
Ferma generale ricevette una lettera anonima, che io naturalmente
avevo letto prima che fosse ricapitata. Nella qual lettera era fatta
la denuncia «Qualmente che in casa del pittore Londonio fosse
nascosta una quantità considerevole di tabacco da naso,
tabacco di Spagna di prima qualità... e che era nascosta nei
tali e tali luoghi...» Ora la lettera anonima fece presa... e
tanto, che nell'ora in cui si stava a tavola, tre commissarj della
Ferma, due tenenti della giunta, due bargelli del capitano di
giustizia si presentano al portinajo di casa, il quale tutto
scalmanato entra e dice: È qui la forza... coll'ordine
di fare una perquisizione in tutti i locali della casa... Or
viene il buono. Dietro la scorta di una carta che avevano tra mano,
si dirigono a luogo sicuro... e in un sottoscala vicino al mio studio
trovano una dozzina di boette, o almeno d'involti che a loro
pareano boette forestiere; e insieme con quelle tre grandi
vasi coperti; e dal sottoscala passando in giardino trovano altre
boette e altri vasi in un ripostiglio del corridojo... e così
altrove. Scoperto il corpo del delitto, fatta portar penna, carta e
calamajo, due de' commissarj della Ferma e un tenente della giunta si
accingono a stendere il processo verbale... ma prima, a constatare la
qualità del tabacco, que' tre personaggi gravi, arcigni,
terribili, fatto scoperchiare un vaso, immergono le loro sei dita
contemporaneamente come se facessero l'esercizio, portando poi
ciascuno le due dita al loro naso magistrale; se non che, pur
contemporaneamente, si guardarono in faccia con un tale
scontorcimento del viso e tali smorfie strane, che per quanto io
fossi preparato, non potei trattenere gli scoppj del ridere...
Allora... quei tre minossi, compromessi nel decoro, proruppero in
basse villanie contro di me... ma io intimai loro il rispetto alla
casa altrui, mentre li invitava a spiegarmi il motivo della loro
venuta... E così, dopo molto tempestare, dovettero partire
scornati; chè in conclusione non era tabacco, ma fimo
polverizzato di stambecco e di bue e di cavallo, ecc., ecc., e quei
signori credo che avranno dovuto consumar molto ranno e sapone per
lavarsi le mani, e purgare le narici autorevoli. Del resto, la cosa
mi pare che abbia fatto un cert'effetto... perchè è da
tre giorni che non si sente a parlare di perquisizioni domiciliari.
Così
parlò il Londonio, tra il riso mal celato delle dame permalose
e curiose; e noi lo abbiamo lasciato dire perchè il lettore
sapesse un fatto che, propalato allora dal Londonio stesso, menò
rumore per tutto il Ducato. Del rimanente, quando mai avessimo offesa
la delicatezza squisita de' nostri lettori, la colpa non è
nostra, se dovendo porre in iscena la vena epigrammatica del pittor
Londonio, il quale fece tanto ridere il suo secolo, non abbiam potuto
far peccare quest'uomo per abuso di acque nanfe, mentre fu una sua
abitudine costante il non lasciar mancare mai l'odor d'ammoniaca
negli intingoli delle sue incessanti celie, che mettevano di buon
umore anche le dame più accigliate.
IV
Bravo il nostro pittore, disse lord Crall; il vostro spirito, per
maturare, ha bisogno, come i cavoli dell'agro lombardo, di essere
ingrassato dal concime. Voi avete trattato da pari vostro questa
faccenda, ma io la tratterei da par mio, ossia con tutta la serietà
di cui può essere capace un uomo che ride due o tre volte in
un anno; e vorrei che i signori commissarj della Ferma venissero una
qualche volta in casa mia; una volta sola, e vi assicuro che, senza
tener conto delle conseguenze, io farei tal cosa da insegnar la
giustizia col mezzo della violenza. Giacchè pur troppo mi
accorgo che contro a certi mali ci vogliono rimedj speciali. Ma
intanto mi scusi l'abate Parini, se questa volta me la piglio anche
con lei.
Con me?
Precisamente con lei per quanto io le sia obbligato da tanta
gratitudine. Prima di tutto, a che essere ammesso, pe' suoi meriti
straordinarj alla confidenza del conte Firmian, che mi dicono avere
l'istinto del bene, senza parlargli chiaro, e senza dimostrargli lo
scandalo dell'ultimo editto? In secondo luogo, a che avere tra le
mani l'arme onnipotente di una gazzetta, lasciata in suo arbitrio,
senza adoperarla quando più freme il bisogno? A Roma la Ferma
venne abolita in virtù delle gazzette; è una gazzetta
che fuori di qui scarica assiduamente le sue armi per ferire la
Ferma. Ma le armi degli ignoti valgono poco. Vuolsi che la verità
sia fatta risuonare da un uomo venerato dal pubblico e rispettato
dagli stessi uomini del potere, perchè sia riconosciuta
siccome tale da tutti; ed io sono certo che se nel gazzettino di
Milano uscisse una catilinaria dell'autore del Giorno contro
agli arbitrj de' fermieri, questi si conterrebbero alquanto, o
l'autorità penserebbe a contenerli.
Mi piace la vostra franchezza, giovane generoso, rispose il Parini,
ma quel che torna inutile non va fatto. L'autorità che un uomo
d'ingegno e di cuore s'è legittimamente acquistata, finisce a
spuntarsi quando il pubblico s'accorge che, per quanto ella sia
generosa, non viene ascoltata. Avete veduto che risultamenti ebbe la
notizia che ho spacciato sull'abolizione de' castroni. Lodi da
Voltaire, lodi da Federico di Prussia, lodi da tutte le teste quadre
d'Europa. Fin qui va benissimo. Ma gli elefanti canori continuano a
contaminare le scene; e tutti gli anni genitori spietati offrono sul
bacile, in sacrificio all'arte musicale, la parte migliore de' loro
figliuoli... ed io... io son posto nella schiera di coloro che
tengono, da quelli che in apparenza lodano l'ingegno, sprezzandolo in
fatto, il permesso di garrire a deserto. Del rimanente ho parlato al
conte Firmian di quello che tanto vi cuoce, e per consolarvi, vi dirò
che qualche cosa si farà, e l'editto verrà in gran
parte riformato; e poi c'è qui il consigliere Verri che...
Io spero, prese la parola il Verri, di poter venir in aiuto dello
scherzo serio del nostro pittor Londonio e della vostra giusta
indignazione, lord Crall. L'abate Parini, protestando sul gazzettino
e contro l'autorità di chi ha fatto l'editto e contro i
fermieri che lo usufruttano colla più schifosa
interpretazione, sapete che avrebbe raccolto gran lode dai buoni, e
basta lì... ma si sarebbe inimicato il governatore, e sarebbe
stato perseguitato, Dio sa in che modo, dagli interessati alla Ferma;
e il pubblico non ne avrebbe avuto nessun vantaggio. Queste cose,
caro mio, bisogna pigliarle blandamente; e poi quando si vuole
inoculare ai grandi e ai piccoli, a chi comanda e a chi obbedisce il
senso della giustizia e della moralità, sapete che cosa
bisogna fare? bisogna far sì che la giustizia e la moralità
trovi un posto sul libro mastro del dare e dell'avere, e farle
comparire non più austeramente vestite e colle mani vuote, ma
addobbate sfarzosamente, e col cornucopia versante dobloni nelle
casse dell'erario. Non è che la finanza, la
quale in certi casi, confederandosi colla giustizia, può,
facendo i proprj, far anche gl'interessi della povera compagna, quasi
sempre derelitta. È un pezzo che lavoro a queste cose, e già
ho aperto gli occhi a chi li aveva chiusi naturalmente e a chi li
teneva chiusi per convenienza. Persuaso di questo, ho cominciato a
fare indagini insistenti per redigere un bilancio dello stato del
commercio nel ducato milanese, che feci pubblicare senza perder
tempo. Io sapevo benissimo che, a discoprire gli altari e a togliere
il velo ai misteri, più di uno avrebbe guaito, e qualcheduno
anche di quelli che stanno più in su. Il che di fatto avvenne,
ed ebbi accusa d'avventato e d'imprudente; perchè non si
voleva che io mettessi il pubblico a parte delle mie rivelazioni; e
si amava piuttosto che dalla mia testa le versassi nella testa
altrui, senza che nemmen l'aria se ne accorgesse. Ma io sapevo quel
che mi facevo, prima di tutto perchè fatto palese il falso
movimento di un congegno della gran macchina civile, chi la governa è
costretto ad operare a suo dispetto, e a suo dispetto spesse volte
s'incammina a raccogliere gli applausi della moltitudine; poi, perchè
di questi applausi, giacchè avevo fatto la fatica, desideravo
averne anch'io la mia quota; e ciò mi pare che sia
ragionevole. Intanto sono riuscito a far comprendere che l'innocente
diletto di far strillare il pubblico sotto alle battiture dei
fermieri costava allo Stato due milioni all'anno, e che però
l'abolizione d'infinite vessazioni ne faceva entrar due nelle casse
erariali. Quando gli atti magnanimi fruttano danari è facile a
farli diventare contagiosi. Ecco perchè senza perdere gran
tempo, sono riuscito a insinuare l'idea della Ferma mista. Questo
è il primo passo, ed era il più difficile; il resto
verrà da sè.
Ma come avvenne, domandava il Parini, che i ventotto capitoli
dell'editto del mese d'aprile, i quali hanno messo la costernazione
in tutto il popolo, sono posteriori alla vostra nomina di consigliere
del Consiglio d'economia, e alla vostra elezione a rappresentare il
Governo nella Ferma mista?
L'editto era già steso, e per quanto io abbia strepitato, lo
si volle far impastare sulle cantonate della città, perchè
i fermieri furono più forti d'ogni più forte ragione.
E perchè, per il momento, soggiunse il Beccaria colla solita
sua aria sbadata, due mila ducati nelle saccocce di chi porta
l'armellino sotto la toga, pesano di più che due milioni nelle
casse forti della finanza. In ogni modo puoi chiamarti fortunato, il
mio Pietro, perchè appunto hai trattato una questione, in cui
l'amore per il pubblico bene si trasmuta in oro sonante. Così
potessi anch'io provare che la riforma del diritto penale è un
buon affare di commercio da convertirsi in danaro; che in
quarantott'ore scomparirebbero dai crocicchj gli squallidi apparati
della tortura... Così qui il nostro abate Parini avesse potuto
dimostrare che l'abolizione de' castroni è un lauto affare di
finanza; chè allora avremmo veduto un decreto del Ganganelli a
precedere gli encomi di Voltaire. Così il suo Giorno
e le sue Poesie... Ma che cos'è successo che lord Crall
grida come uno spiritato?
Codesta
repentina diversione del discorso di Beccaria era infatti provocata
dalla voce di lord Crall, che tuonò improvvisa, come allorchè
sorviene qualche disastro, o corre qualche ingiuria tra
gl'interlocutori.
Che
è, che non è, tutti si misero ad ascoltare. Un
giovinotto, entrato allora in casa Ottoboni, avea raccontato che,
cavalcando lungo il corso di porta Romana, e piegando, per la strada
del naviglio, verso san Barnaba e le vie lì presso, avea
veduta accorrere gran folla di gente per quei luoghi quasi sempre
abbandonati; ed egli per curiosità tenne dietro alla
moltitudine, e venuto al monastero di San Filippo, avea sentito come
i commissarj della Ferma colla sbirraglia erano entrati a perquisire
in convento; e siccome ad onta delle mille esorbitanze de' fermieri,
pur era quella la prima volta che si attentavano di introdursi in un
monastero, così la voce corsa v'avea chiamato e vi chiamava
gran gente.
Lord
Crall a quel racconto, in prima era rimasto immobile, poi non avea
potuto trattenersi dal rompere in parole della più violenta
esasperazione: e Spada e pistola ci sono, gridò... e
qualcuno oggi la pagherà per tutti, e così dicendo,
calcandosi il cappello a tre punte in testa, uscì come un
invasato dalla casa Ottoboni.
V
Il
giovane Crall, uscito dal Palazzo Ottoboni Serbelloni, fece la
via con quell'affannosa sollecitudine di chi non ha altro timore che
d'arrivar tardi. Passando a volo tra gente e gente, venuto alla
corsia de' Servi, svoltò a sinistra nella contrada de'
Pattari, passò per piazza Fontana, venne in contrada Larga,
attraversò la contrada Velasca e, riuscito a Porta Romana,
piegò a destra, e svoltò infilando la viottola di san
Vittorello, giunto alla metà della quale entrò in una
porta larga e tozza, quella porta medesima su cui oggi si legge
Vettura per città e per campagna. Attraversato il
cortile, si fermò davanti ad un ingresso chiuso da due
imposte, nella destra delle quali era infisso un pendulo martello a
serpente. Diede due gran colpi, l'uno vicinissimo all'altro, poi
attese alquanti secondi, e diede un terzo colpo più deciso e
più sonoro dei due primi. Allora le imposte si spalancarono,
come se un nascosto congegno le avesse fatte girare, e com'egli fu
entrato, quelle si chiusero dietro lui. Il luogo dove lord Crall avea
inoltrato il piede, era un'aula vasta; tre lampade pendevano dalla
vôlta. Questa e le pareti eran tutte tappezzate di drappo nero;
scheletri interi e frammenti di scheletri umani, costati, braccia,
stinchi, teschi erano appesi intorno intorno come trofei. Una gran
tavola coperta di panno nero era ad un'estremità dell'aula.
Assiso innanzi ad essa stava un vecchio, d'aspetto grave, con due
altri seduti alla destra ed alla sinistra di lui. Sulla tavola,
davanti all'uomo seduto nel mezzo, era un teschio, uno squadro, una
cazzuola ed altri ordigni. Dietro a lui, molto in alto, pendeva dalla
parete un quadro che rappresentava i ruderi di un gran tempio, sulle
due colonne anteriori del quale si leggevano queste parole:
Iachin e Booz. Sotto ad esso era un tripode, e sul
tripode una lampada funeraria, da cui guizzava una gran fiamma
verde azzurra che rischiarava misteriosamente quel quadro e
tutta l'aula e le faccie dei tre che stavano innanzi alla tavola, e
le trenta o quaranta faccie degli altri, seduti in ampio cerchio
rimpetto ai tre. Quando il giovane Crall fu entrato, pronunciò
le stesse parole che si leggevano sul quadro Iachin e Booz,
e tutti si alzarono, ed egli prese posto tra gli altri. Ma
ora, perchè il lettore non sospetti che lo si voglia divertire
colle fantasmagorie della lanterna magica, sappia che era quella
un'adunanza di uomini appartenenti a quella società segreta, i
cui fasti, giusta la credenza di alcuni dei suoi più fanatici
seguaci, si sprofondavano nella più remota antichità,
società che si vantava discendente persin dai vetusti Bramini,
dai Ginnosofisti, dai Druidi remoti; che credeva procedere dai
misteri eleusini; che venerava qual suo gran maestro capostipite
l'architetto Hiram, il costruttore del tempio di Salomone; ed ecco
perchè sulle due colonne superstiti del portico del tempio
distrutto, cui figurava il quadro che abbiam descritto, vedevansi le
parole Iachin e Booz, le quali vennero fatte scolpire
da Hiram sul tempio di Gerusalemme, per accennare alle idee della
edificazione e della forza. Mentre però quella
società gloriavasi d'una nobiltà tanto antica, che
all'uopo non bastandole di fermarsi ad Hiram, risaliva a trovar le
sue origini fin nella torre di Babele, compiacevasi pure di procedere
da più umile ma più prossimo e più sicuro
stipite; chè dopo il secolo VIII e nei secoli XII e XIII,
nell'occasione segnatamente che fu innalzato il tempio di Strasburgo,
fu dessa rappresentata e diffusa vastissimamente da quella
confraternita di capimastri e muratori che lavorarono ai più
cospicui edificj di tutte le parti d'Europa, e impressero dappertutto
con opera continua ed uniforme, quello stile d'architettura che,
falsamente detto lombardo in Italia e falsamente gotico in
Francia, non fu altro che il neogreco, il quale, abbandonato il
Partenone, si era appreso al tempio cristiano. Se non che il fatto
dell'architettura murale s'era convertito in simbolo dell'idea di
civiltà e di progresso; epperò tutt'Europa avea
brulicato di tante figliazioni di quella società, quanti erano
uomini invaniti della persuasione di poter essere illuminatori del
loro secolo.
Una
tale società che, senza essersi mai spenta del tutto, ebbe
però de' periodi del più inerte languore, si ridestò
tutt'a un tratto verso la metà del secolo passato in
Inghilterra prima, poi in Francia, e colla più rapida
moltiplicazione poi in Italia. Nel 1732 avea stabilita una loggia a
Roma. Nel 1747 ne piantò una a Milano (si chiamavano logge i
luoghi delle sue adunanze). Nel 1766 ella viveva ancora ed avea
residenza appunto nella contrada di san Vittorello. L'autorità
conosceva l'esistenza sua, ma non ne pigliava gran fastidio perchè
da essa non era mai derivato danno di sorta; d'altra parte sapeva che
la moltitudine, alla quale era pur nota l'esistenza di lei, la
derideva manifestamente, e perchè non avea mai veduto
procedere da essa atto veruno che, in poco o in tanto, influisse sul
bene pubblico; e perchè sapeva come quelle serali e notturne
conventicole si sciogliessero spesso in pranzi lauti e cene
prolungate. Comunque del resto fosse di ciò, nel tempo a cui
ci troviamo colla nostra storia, quella società, ingrossata di
fresca schiera e sollecitata da qualche spirito fervoroso, avea preso
un avviamento un po' più determinato e serio. A noi non consta
che il Verri v'appartenesse. Il suo ingegno acuto e pratico e
consistente gli avrà fatto riconoscere e deridere l'inutilità
di tali riunioni. Ma vi appartenevano molti suoi amici, e di quelli
ch'egli stimava e che stimavano lui, tra' quali il giovane Crall,
ch'era il più caldo di tutti.
Questi,
domandata ed ottenuta la parola dal gran maestro presidente, così
parlò a quell'adunanza:
Venerabile maestro del grand'Oriente, maestri fratelli, compagni ed
iniziati, la causa che qui m'ha oggi mandato è della più
alta importanza, ed ha bisogno della vostra forte e pronta
cooperazione. Nelle ultime adunanze, a voti unanimi, fu determinato
che la nostra loggia sarebbe d'ora innanzi intervenuta immediatamente
a soccorrere il prossimo in pericolo, non soltanto coll'opera
del pensiero, ma anche con quella della mano, esponendo al bisogno
anche la vita, quando l'occasione fosse stata grande ed urgente.
Venerabili fratelli, quest'occasione è venuta! Tutte le case,
tutti i ceti, tutte le confraternite, tutti i corpi sacri e morali
della città di Milano sono da più giorni esposti alle
violenti soperchierie, ed alla rabida fame de' fermieri. Sono esposti
eziandio agli arbitrj, ai capricci, alle voglie talvolta oscene degli
sgherri della Ferma. Finora vennero risparmiati gli asili delle sacre
vergini, dove si raccolgono per educazione le fanciulle delle più
distinte famiglie della città. Ma oggi per la prima volta si
penetrò in essi. Il monastero di San Filippo Neri fu, momenti
sono, invaso dalla sbirraglia de' fermieri, sotto pretesto che vi sia
nascosta mercanzia di contrabbando. Propongo adunque che quanti siamo
qui tra i più giovani e i più avvezzi all'arme, usciam
tosto per recarci colà a respingere la violenza colla forza. È
necessario un esempio, è necessario che qualche vita si
sacrifichi alla giustizia, è necessario che qualche fatto
enorme scuota dal colpevole letargo coloro che pur tengono il mandato
del pubblico bene, ma che, impinguati dalle volpi, chiudono gli occhi
e lasciano fare. Quelli che sono del mio avviso, permettendolo il
maestro venerabile, si alzino dunque e mi seguano.
A
queste parole così determinate, proferite con voce sonora e
con accento caldissimo, successe un bisbiglio fra quanti erano là
radunati nell'aula. Il maestro venerabile, con placido discorso,
tentò dissuadere il fratello Crall da quell'impresa
arrischiata; il maestro oratore venne in soccorso del venerabile,
così pure il maestro tesoriere e il segretario, tutte persone
che probabilmente non volevano compromettere i pranzi e le cene
future con qualche passo arrischiato.
Ma a che, gridò allora il giovane Crall, abbiamo pronunciato
con tanta solennità il giuramento dell'ordine? Dimmi tu, e qui
si rivolse ad un giovane vicino, dimmi tu che l'altro giorno non eri
che un lupicino venuto a cercar qui la luce (si chiamavan
lupicini i candidati prima di essere ricevuti in quella società),
dimmi ora dunque: che cosa hai giurato quando fosti trovato degno di
essere ammesso fra gli adepti? Parla, che cosa hai giurato su questa
spada?
D'amare i miei fratelli, e soccorrerli a norma delle mie facoltà.
E a che hai acconsentito quando mai tu non sapessi mantenere il
giuramento?
Che mi sia troncato il capo, strappato il cuore, abbruciato il corpo
e gettate le ceneri al vento.
E perchè dunque una così atroce sentenza?
soltanto forse per togliere la possibilità che qualcuno di noi
manchi al convegno, quando si tratta di sedere a mensa per divorare
con formidabili ganasce le più saporite imbandigioni? È
forse ai cuochi soltanto o ai vinattieri che abbiam giurato di esser
utili? e per così poco mettere a repentaglio e testa e cuori e
ceneri? Suvvia, dunque, che si fa?
Al
venerabile mancò la parola, tacquero l'oratore e il tesoriere.
Una dozzina di giovinotti si alzarono, sfoderando le spade e
gridando: Noi siam tutti pronti, se lo permette il venerabile. Questi
crollò il capo, e disse: Andate, che la fortuna vi salvi, ma
ricordatevi del segreto. L'adunanza si sciolse, e ne uscirono una
decina di giovani armati di spada e di proposito deliberato.
Or
lasciamo che costoro s'avviino verso il monastero di San Filippo,
prontissimi a cavar dal fodero di pelle bianca inverniciata la spada
non ancor molto cruenta, e in procinto di produrre un tal disordine,
da far strillare di spavento la madre badessa, le monache e le
educande e da costringere le leggi tapine a dar la testa nelle
muraglie per la novità del caso. In questo frattempo noi
dobbiamo recarci altrove ad assistere a un dialogo tra il Galantino
ed un personaggio che comparirà per la prima volta in iscena,
ma che fu da noi tante volte nominato, e che, a tutto rigore,
potrebbe reputarsi il primo personaggio del dramma, o per lo meno il
personaggio indispensabile; perchè se costui non fosse nato,
non sarebbe avvenuto nulla affatto di tutto quanto abbiamo raccontato
e racconteremo. Egli è il figlio della Baroggi, il pupillo
patrocinato indarno dal galantuomo Agudio. Noi l'abbiamo nominato più
volte quand'esso non aveva che cinque anni, ed ora che dobbiamo
conoscerlo di presenza ha compiuti gli anni ventuno, ed è
sotto-tenente nelle guardie di confine della Ferma generale; carica
che press'a poco ora corrisponderebbe a quella di sergente nelle
guardie di finanza. Ma in che modo questo disgraziatissimo giovane,
che pure fu a due dita di essere uno tra i pochissimi benedetti dalla
fortuna e dalla ricchezza, passò i sedici anni dal 1750 al
1766? in che modo il Galantino, per le sue buone ragioni, andò
a soccorrere la povertà infelicissima della madre di lui e ad
offrire al figliuolo un posto tra le guardie della Ferma? a che cosa
or lo vuole adoperare, per usufruttuare il beneficio, nel colpo che
sta per tentare? che effetto sarà per fare in convento la
comparsa d'una dozzina di giovani guardie della Ferma, protette dalla
legge, prepotenti e viziate? che sarà per nascere dal
parapiglia guerresco tra i compagni della loggia di san Vittorello
capitanati da lord Crall, e che stranissimo qui pro quo potrà
generarsi da tutta questa arruffatissima matassa?
VI
Intanto,
prima di assistere al dialogo tra il Galantino e il figlio della
Baroggi, e a sapere in che modo incominci la relazione tra l'uno e
l'altro ed inoltre com'erano riuscite infruttuose le cure del
prevosto di san Nazaro e dell'avvocato Agudio per far constare la
paternità del defunto marchese F... a favore del fanciullo
stato battezzato nella parrocchia di san Nazaro sotto il nome della
madre; così avendo voluto il marchese stesso, previa una
dichiarazione orale fatta dal medesimo al prevosto, colla quale avea
promesso di volere a tempo migliore dargli il proprio nome. È
a sapere altresì come la testimonianza solitaria del prete non
avea avuto nessun peso in giudizio, perchè la consuetudine
voleva che insieme col parroco testimoniasse anche il padrino il
quale mancò; e nemmeno ebbe valore la testimonianza del notajo
Macchi, quello ch'era stato chiamato a stendere il testamento nel
quale veniva istituito erede il figlio della Baroggi, pur nominato
qual figlio dal marchese testatore, ed assunto al diritto e
all'obbligo di portarne la parentela; e tutto questo ad onta del
patrocinio dell'avvocato Agudio, che invano aveva adoperato tutta la
sua sapienza e sagacia legale per far che quelle due testimonianze
avessero valore a provare la paternità che si negava dagli
avversarj. Ma gli avversarj erano riusciti a convincere i giudici, o
almeno i giudici avevano avuto il loro interesse a lasciarsi
convincere, come quelle testimonianze dovessero valutarsi
separatamente e al cospetto di due circostanze diverse e che però,
prese isolatamente, non dovevano e non potevano avere nessuna forza
di prova; e tanto meno, in quanto il registro battesimale era il solo
atto scritto legittimo e pubblico a cui doveva aversi riguardo nella
trattazione di quella causa. Bene l'Agudio aveva insistito nella
dimostrazione che, sebbene fosse vero, per essere la testimonianza
del notajo Macchi relativa alla scritturazione d'un testamento, e
quella del parroco relativa ad una dichiarazione orale fatta dal
marchese in tutt'altra circostanza e per tutt'altro intento, che
dovessero prendersi isolatamente; non di meno venivano esse come a
confederarsi ed a costituire la validità della duplice
testimonianza quando si guardava al solo ed esclusivo fatto della
paternità.
Perduta
adunque la lite dalla Baroggi, sentenziate insussistenti le sue
pretese a favore del di lei figlio, ella si venne a trovare nella più
deplorabile condizione.
Il
prevosto che l'avea presa a proteggere, erale sempre stato liberale
di qualche soccorso, anche dopo svanita ogni speranza; ed avea
provveduto eziandio a far educare convenientemente il fanciullo. Ma,
per disgrazia, venuto a morte anch'esso, nel 1761, la Baroggi si
trovò derelitta del tutto, con un figlio che avea sedici anni,
non in posizione di continuare nell'educazione incominciata, non atto
a guadagnarsi tosto il vitto per sè e per la madre,
dimostrando bensì le più belle attitudini, ma
nell'incapacità di poterle far maturare e condurre a
perfezione.
Allora
la sventurata Baroggi erasi rivolta allo stesso conte Alberico, il
quale, per levarsi l'importuna d'attorno, ordinò che il
maggiordomo le contasse qualche danaro. Ma il maggiordomo, sborsato
per quella volta la somma di che aveva avuto l'ordine, provvide da
quell'ora in poi a sbarrar la porta alla sventurata, e a spuntare
gl'improvvisi affetti di quella pietà superficiale e sbadata
che pur sorgeva in petto al giovine conte ogni qualvolta gli
perveniva qualche supplica straziante di quella povera donna.
Questo
fatto provocò un certo rumore nella città, tanto che
giunse all'orecchio anche del Galantino, il quale di quella faccenda
ne sapeva qualche cosa più di tutti. Ora la notizia della
condizione deplorabile in cui versavano la Baroggi e il figlio di lei
(e difficile a dire se per un senso di pietà spontanea, o per
qualche altra causa meno generosa benchè più forte),
gli fece una profonda impressione, tanto profonda che pensò di
mandare un suo commesso dalla madre a proporle se voleva impiegare in
qualche modo il figlio presso gli ufficj della Ferma, che gli sarebbe
dato un salario sufficiente onde provvedere a sè ed alla
madre. In tal guisa il giovinetto Giulio Baroggi fu impiegato in
prima siccome scrivano; poi avendo mostrata assai svegliatezza e
solerzia, venne promosso a commesso delle esattorie, infine a
sotto-tenente nelle guardie della Ferma; carica che gli fruttava un
non dispregevole salario, una bella divisa, e molti di que' guadagni
che soglionsi chiamare incerti, sia per le quote che gli eran contate
sulle perquisizioni e contrabbandi, sia pel soprassoldo che toccava
quando aveva il mandato di percorrere alla testa di un numeroso
drappello di guardie tutta la linea del confine.
Se
non che la necessità di vegliare le notti, di vivere tra la
più rozza gentaglia, e più di tutto, i tristi pensieri
che gli derivavano dal confronto tra quello che era e quello che
avrebbe potuto essere, gli fecero contrarre la mala abitudine della
gozzoviglia, del bere, dell'uso e dell'abuso dell'acquavite, per dar
tono alla vita, per mettersi all'unisono e acquistar baldanza tra
quelli a cui comandava, e più ancora per scacciare i molesti
pensieri, che si facevano sempre più intensi quando la
reazione che succedeva all'esaltazione provocata dalle bevande
spiritose, gli lasciava infiacchita la fibra e più disposta a
subir l'influenza della tristezza. Codeste sue abitudini non
gl'impedivano però di essere zelantissimo alle sue incumbenze,
perchè la natura gli aveva pur concesso saldezza di mente e
saldezza di carattere. Bensì lo avevano condotto al punto
d'impegolarsi nei debiti e tanto, che non sempre i suoi guadagni
poteano bastare a conservare alla madre quella vita modestamente
provveduta che pure fervorosamente egli desiderava nella quiete
dell'animo suo, ma di cui si dimenticava tra i bicchieri e tra i
compagni. Da ciò dovettero originare disgusti e malumori e
alterchi tra lui e la madre, la quale finiva in pianto le sue
querele, lasciando il figlio desolato e pentito e pieno di
proponimenti di cangiar vita. Però la tristezza gli si era
confitta nell'anima al punto, che la giocondità anche
passeggiera non era più una condizione naturale del suo
spirito, ma un effetto artificiale delle bevande spiritose, delle
quali ormai non poteva più far senza, perchè erano il
solo mezzo che gli era rimasto a dar qualche istante di requie
all'anima travagliata, press'a a poco come chi fa tacere lo stridore
dei denti col versarvi sopra l'alcool addormentatore.
Insistendo
sul qual fatto, egli è a considerare come dall'infanzia alla
fanciullezza, alla giovinezza, avendo egli sempre avuta dinanzi la
figura turbata e piagnolosa della povera sua madre,
necessariamente gli si venne invelenando l'esistenza; sentendo a
parlar sempre di miserie, e vedendo sempre la disgrazia in casa, il
suo spirito avea, per questo lato, contratta quasi l'abitudine del
timore, come que' fanciulli che, percossi continuamente da madri
spietate, si rannicchiano tremanti ad ogni alzar di braccio che pur
si mova per tutt'altro. Così anche allora che non v'erano
occasioni che potessero presagire infortunj, egli viveva col sangue
agitato, e paventava miserie che non solo non eran probabili, ma
impossibili. Su questa condizione, diremo fondamentale, della sua
esistenza, si vennero poi radicando altri sentimenti profondi. Un
odio implacabile contro ai ricchi e ai nobili, che usciva affatto
dalla ragionevolezza e dalla giustizia, ma che pur troppo era
spiegabile in chi era stato ed era ancora la vittima d'uno di loro, e
pareva dovesse portarne le conseguenze in perpetuo. Il marchese F...
aveva ingannato sua madre, e sebbene il Baroggi credesse che colui
avesse testato a favor suo, temeva tuttavia non fosse stato anche
quello un giuoco ingannatore per togliersi d'attorno gl'importuni, i
quali volevano impedirgli di lasciar tutte le sue ricchezze al
fratello, e di appagar la boria coll'accrescer sempre più
l'importanza del casato. In quanto al conte Alberico, è
inutile a dire com'egli lo abborrisse con tutta l'esaltazione di un
sentimento implacabile. Se non che d'accosto a tant'odio contro di un
ceto in genere e di que' due uomini in ispecie, quasi per concedere
un po' di riposo al suo spirito, il quale sarebbe stato consumato da
quell'assidua acredine, venne spuntando, lo abbiamo già detto,
il sentimento della gratitudine per colui che solo fra tutti
egli poi ne ignorava la vera cagione aveva pur provveduto a
sostenerlo, ad ajutarlo, a beneficarlo. E questa potrebbe parere una
fortuna, se la disgrazia non avesse fatto che un tal protettore fosse
di quelli appunto che si chiamano piaghe e vituperi dell'umanità.
Questi
poi alla sua volta tenevasi caro il Baroggi, perchè si valeva
di lui in quelle circostanze dove era necessaria una stoffa d'uomo
più sopraffina del consueto, una cera più gentile e
modi più delicati di quelli che mostravano comunemente i bassi
impiegati e le guardie della Ferma. Dopo tutto alfine è a
confessare che il Suardi si compiaceva dei beneficj che faceva al suo
giovane protetto, e che in cuor suo lo compiangeva, e non pensava e
non guardava a quel giovine senza sentirsi tanto quanto commosso. La
natura del Galantino era tristissima, il lettore ne ha delle prove
per fin soverchie; ma avendo il dono di una mente svegliata, questa
di tanto in tanto mandava sul cuore di lui un raggio benefico, che lo
rendeva migliore. Si addomestica il leone e l'orso nero, perchè
un certo loro istinto d'intelligenza permette all'uomo di ammansarne
la ferocia. Ma l'orso bianco è implacabile, perchè è
il più torbido di tutte le fiere. Il Galantino tristissimo
aveva pur pensato a cercare e della Baroggi e del figlio suo. Il
conte Alberico invece, dopo un pugno d'oro concesso per forza, li
aveva lasciati alla loro miseria.
Ben
è vero che il Galantino più di tutti doveva misurare
l'infortunio di quella madre e di quel figlio. Ma il conte Alberico
sapeva pure che il defunto marchese ne era il padre, sapeva pure che
un testamento era stato scritto a suo favore, sapeva pure che quel
testamento era stato trafugato, e che credeva che fosse distrutto;
sapeva pure che la fortuna, il solo giuoco della fortuna aveva messe
a sua disposizione le ricchezze che avrebbero dovuto appartenere al
figlio Baroggi. Ma una volta che si sentì protetto e salvo e
assolto dalla legge, e che la legge avea alzato un muro di divisione
tra lui conte e il Baroggi finanziere, non pensò mai che dalle
sterminate sue rendite che ascendevano a lire milanesi
seicentotrentamila, poteva levarne, senz'accorgersi, una lievissima
annata, che pure avrebbe bastato a sostentar due vite e a stornare la
maledizione dal capo dello zio defunto, e da quello del padre e dal
proprio. Or chi dunque può dirsi più tristo, tra
l'ex-lacchè Galantino e il conte Alberico F...?
VII
Tornando
ora al racconto, quando il Galantino, passando a cavallo sotto al
balcone di casa Ottoboni, attrasse gli sguardi e provocò i
parlari delle donne allegre e voluttuose che vi stavano radunate; in
quel punto, agitando molti disegni in capo, pensava di volgere la
corsa verso la casa propria, dove avea fatto dire al sotto-tenente
della Ferma, Giulio Baroggi, che si trovasse in sul tramontare della
giornata, che egli avea gran bisogno di parlargli. E il Baroggi fu
pronto alla chiamata, tanto che, quando il Suardi scavalcò nel
cortile della propria casa, quello lo stava aspettando da quasi
mezz'ora. Il Suardi salì appena il portinajo gli nominò
il sotto-tenente, ed entrato nell'anticamera, e vistolo a passeggiare
innanzi e indietro:
Attendi un istante che vengo subito, gli disse.
Faccia i suoi comodi, rispose quegli, levandosi il cappellino, e
calcandoselo di nuovo in testa quando il Suardi si ritirò.
Vestito
della sua verde assisa, coi rivolti bianchi al petto, alle maniche ed
alle falde, colle uose di panno nero che gli giungevano a mezza
coscia, colla sciabola cinta non senza una certa trascuratezza che
aveva il suo vezzo, col cappellino a tre punte tanto piegato in sulla
banda destra, che il sopracciglio veniva quasi tagliato a metà;
nel passeggiare innanzi e indietro per l'anticamera presentava
quell'aspetto eteroclito che, assunto per una consuetudine
indeclinabile, sembra farsi quasi una seconda natura in tutti quelli
che, senza appartenere alla milizia regolare, portano divisa ed armi
in servizio degli ordini civili, e nelle frequenti scaramuccie coi
contrabbandieri, sono esposti ai pericoli della guerra, essendo
ascritti al men glorioso esercito della pace. Tuttavia le mosse ch'ei
faceva nel passeggiare, più che quelle di una guardia di
finanza vera e reale, parevano quelle di un attore che ne caricasse
le apparenze per rappresentare un personaggio. Chè di tanto in
tanto, e per atti fuggevolissimi, la trivialità, quasi assunta
per proposito, tradiva una certa eleganza nativa, avendo esso la
taglia spigliata e leggiadramente costituita, e la fisonomia e i
contorni e i tratti del volto belli e gentili. Bensì sul fondo
bianco e pallido della faccia, nella regione dei zigomatici
segnatamente, si vedea soffusa una tinta come di rosso di mattone, la
quale non pareva naturale, sibbene artificiosamente sovrapposta, ed
era infatti l'insegna dell'acquavite e del rack di cui faceva tanto
abuso. Esso non contava che ventun anni, ma ne dimostrava buonamente
una mezza dozzina di più, perch'era torbida la tinta
dell'occhio, il quale però, sotto all'ampio e puro arco del
sopracciglio, girava con guardatura intelligente ed espressiva e
soave, quando era in calma.
Dopo
brevissimi istanti rientrò il signor Suardi, e disse lesto e
sommesso al Baroggi:
Andiamo di là che t'ho a parlare di un affare urgentissimo...
Quante ore abbiamo? aspetta, e già tardi... e così
dicendo condusse il Baroggi in un gabinetto vicino.
Sai, continuava il Suardi, che in sull'imbrunire i commessi della
Ferma devono fare una minuta perquisizione nel convento di San
Filippo Neri, perchè, per sicurissime informazioni, sappiamo
che v'è nascosto in gran quantità del tabacco
forastiero.
Il
Baroggi guardò il Galantino con un lezio del volto
significantissimo.
Chi ve l'abbia gettato non si sa... perchè non par vero
nemmeno che la madre badessa, per il suo privato consumo e per quello
delle suore coadjutrici... basta... qualcuno sarà stato... e a
noi non importa nè di chi nè del come nè del
quando; quel che preme si è che la perquisizione non torni
inutile... E voglio che anche tu sii presente... essendo necessario
che quella gentaglia di commessi e guardie e sbirri sia tenuta in
freno... tu mi capisci.
Capisco benissimo. Ma capisco anche che si può fare un buco
nell'acqua.. e che questa volta era meglio chiudere un occhio e
lasciar che il tabacco marcisse in convento, anzichè liberare
il volo ai falchetti e gettarli tra quelle povere rondini. Il
malumore della città è al punto, che un minimo fatto di
più basta a convertirlo in una tempesta da ammaccar il capo di
chi si lascerà cogliere. Figuratevi poi questa bagattella. Fin
ad ora non fu mai fatta perquisizione in nessun monastero... Torno a
ripetere, mi pare che questo voglia essere un colpo falso, di quelli
che feriscono e fanno saltar le dita a chi tiene l'archibugio.
Il
Galantino tacque un momento, con un certo atto di preoccupazione, poi
soggiunse:
Ma, caro mio, la legge c'è, e se ci fu pel convento dei
Cappuccini, e per quello dei Barnabiti... e per casa Visconti e per
casa Arconati... ci può e ci dev'essere anche per la casa
delle monache. Chi sono infine quelle pettegole? i signori che hanno
fatta la legge dovevano pensarci loro...
Ma sapete, signor Galantino... già qui si può parlar
chiaro, che nessuno ci sente... sapete che quell'editto fu una grande
iniquità... e dacchè Milano è Milano non s'è
mai vista la magistratura a tenere il sacco ai... che cosa si ha da
dire?... ai birboni e ai ladri... come in quest'occasione?...
Come? ai birboni e ai ladri?
So quello che dico... e quand'esce una legge di quella conformità,
chi ha l'incarico di farla eseguire ha naturalmente il mandato di
fare il ladro e il birbone... Ed io dichiaro di aver dovuto essere e
l'uno e l'altro, quantunque a mio dispetto. E, giacchè si ha a
dire la verità tutta quanta, ho avuto caro che voi m'abbiate
fatto chiamare, dal momento che avevo un ardente desiderio di
parlarvi...
Parlarmi? e di che?
Di questo, che se fosse possibile farmi passare dal corpo delle
guardie negli ufficj d'amministrazione, a me parrebbe di toccare il
cielo col dito.
Io t'ho fatto nominar sotto-tenente perché sapevo che un tal
posto impingua le saccocce.
E ve ne ringrazio e tanto, chè, dopo mia madre, siete voi il
solo uomo a cui mi professi obbligato in tutta questa mia vita
maledetta...
Maledetta... perchè tu l'hai voluto... tu bevi, tu giuochi, tu
gozzovigli, tu spendi e spandi, e poi tua madre piange... ed io...
Voi mi avete sempre soccorso, e torno a ripetere che a voi solo io
sento l'obbligo della più profonda gratitudine... ma...
Che?
Quando un uomo è nato per correre ad un fine e riesce ad uno
opposto; quando un uomo si sente la mente e il cuore fatti per
riuscir bene in una certa vita, e dal bisogno è invece
costretto a far quello che gli ripugna... allora è necessitato
a violentar la natura propria, ubbriacandola, affinchè non si
risenta del peso insopportabile che gli è imposto. Quando ho
bevuto e la testa mi si esalta, posso vivere tra quella masnada di
briganti che ho d'attorno. Quando ho bevuto, e il mio cuore è
addormentato e i miei sentimenti sono soffocati, posso anch'io dar
mano alle nequizie che si compiono per obbedire la legge. Del
rimanente, sarebbe ora minor male se ci fosse il pericolo di
affrontarla: ci sarebbe almeno il merito del coraggio. Ma così
è una vigliaccheria senza esempio. Io so che il boja è
più abborrito dell'assassino... il mondo almeno la pensa così,
e c'è il suo perchè... Ora noi siamo ancor peggiori di
lui, chè, se non altro, egli uccide i colpevoli, mentre noi ci
facciamo il più tristo giuoco de' galantuomini.
Non so che dire, e può darsi benissimo che tu abbia ragione,
ma se domani vuoi lasciar giù questa giubba color pistacchio e
questa sciabola, bisogna che tu stasera, anzi fra pochi momenti, lor
faccia guadagnare il ben servito.
Vale a dire?... Non afferro bene.
Vale a dire che tu devi far parte della spedizione del monastero.
Io?
Tu.
Ma perchè?
Il
Galantino stette un momento perplesso, poi soggiunse:
Perchè voglio che il conte Alberico F... vada al diavolo e
crepi di bile.
Il
Baroggi si fece attento.
Caro Giulio, tu sei il primo al quale faccio una tale confidenza; ma
in conclusione ho stabilito di prender moglie...
Niente di più naturale e di più facile.
Naturale sì, facile no... Non per la moglie, ma per quella che
voglio io; e quella che voglio io è nientemeno che la promessa
sposa del conte Alberico (il lettore comprenderà come questa
fosse un'invenzione del Suardi), e tutto è pronto, e si dice
che il bello e leggiadro e profumato e viziato conte, messi da parte
i suoi cento amori, e lasciatine gli avanzi alla servitù come
si fa cogli stivali e colle calze smesse, siasi innamorato
perdutamente di quella che piace a me. Ma il conte non l'avrà
e non la sposerà... e tu mi devi ajutare.
Io?... Ma che cosa posso far io?
Sai tu dove sta di casa quella che piace al conte e piace a me?...
non lo sai? ebbene te lo dirò io: sta di casa nel monastero di
San Filippo, ed è piaciuta anche a te...
A me?
Tu l'hai veduta e guardata e lodata un giorno in cui, mentre
passeggiavi con me, ella mi passò vicino, accompagnata dalla
livrea di casa Pietra Incisa.
Chi?... quell'angelo?...
Quello appunto... ma oggi ha da volar via, e sei tu quello che gli
dee fare spiegar l'ali e farlo uscire, non dalle finestre... guai! ma
da un uscio che t'indicherò.
Ma che vi pensate? Io non sarò mai per far questo.
Tu lo farai.
E quand'anche avessi tutta la miglior volontà di obbedirvi,
non vedo nessuna via da poterne uscir fuori ... Prima non la conosco,
colei... ed ella non conosce me ... e poi una fanciulla non è
una puledra da farsela venir dietro passo passo soltanto col darle a
veder lo zuccaro.
Senti, Giulio; la cosa non è facile e, se vuoi, nemmen troppo
probabile; possibile però mi pare che sia. Forse, da che ci
sono al mondo conventi di monache, è la prima volta che un
decreto della magistratura ingiunge ad una truppa di giovinetti
armati e caldi d'acquavite, di entrare tra la santità e
l'innocenza, come se fosse in caserma; non s'è mai sentito che
il pastore il quale ha in custodia le pecore si confidi alle volpi ed
ai lupi per guardarle dai cani. Non c'è che dire. L'autorità
ha perduta la testa... ma conviene approfittare di questo capogiro,
di questa ubbriachezza non mai udita, perchè scommetto che ciò
non sarà mai per avvenire una seconda volta. Ora tornando a
noi, la novità del caso metterà una tal confusione
nella testa di quella povera badessa, e di quelle semplici e buone
suore maestre e coadjutrici e sorveglianti, che le monache e le
monachelle giovani e le educande si spanderanno per i corridoj e per
i cortili con un gusto matto. Tu un momento fa hai parlato di
puledre: ebbene... metti che il fuoco s'appigli ad un fenile, e da
quello ad una scuderia. È già molto che i palafrenieri
pensino a salvar la pelle, senza tener dietro ai cavalli che, rotta
la catena e la cavezza, si spanderanno per la città con trotto
vivace e allegro, e coi nitriti della libertà. Ho tenuto conto
di tutto, e il mio piano non è una pazzia.
Quasi.
La possibilità della riuscita c'è, e ciò mi
basta. Dunque cosa intendi di fare? Bada intanto che è un
affare d'urgenza e non c'è tempo da perdere.
Non so che dire... io non mi prendo questo impegno.
Che?
Dite quel che volete, chiamatemi ingrato... sconoscente. Dirò
che avete ragione, ma per quest'impresa io non mi movo. Mi son dato
alla crapula per stordire la testa e far il callo alle bricconate
legali....figuratevi se nel giorno stesso che voglio cangiar
professione e vita... posso commettere una vilissima scelleraggine...
posso ingannare... trafugare una povera ragazza... per metterla nelle
mani di chi... domando mille perdoni, ma di chi non è
certamente un santo.
Il
Suardi, a queste parole, guatò in prima torvamente il Baroggi,
poi fece due o tre passi per la camera concitato e convulso; poi si
piantò in faccia al sotto-tenente, pigliandolo per mano colla
sinistra, e mettendogli la destra sulla spalla.
Tu credi, Giulio, che di questa fanciulla io voglia farmi un giuoco
osceno e crudele. T'inganni. Pure mi piaci, e ti voglio bene ancor
più di prima, e ammiro il coraggio onde rifiutasti di dar mano
a un'azione, perchè temevi fosse per essere scellerata. Ma
t'inganni, Giulio. Io ho trentacinque anni... e in parte puoi
immaginarti e in parte lo sai, quante e quante donne mi corsero
dietro... semidee e semidonne; la lista di Don Giovanni potrebbe
parer la polizza del tuo pranzo in confronto. Ebbene... questa è
la prima volta ch'io mi sento innamorato, innamorato alla follia,
innamorato al punto da compromettere tutta la mia esistenza, e tutta
la mia ricchezza accumulata con tanti pericoli e con tanta fatica,
per il desiderio che mi tormenta di poter avere in moglie questo
angelo del paradiso, che è venuto quaggiù per fare il
miracolo di convertire al bene i demonj dell'inferno. Io non vanto
nessuna nobiltà, ma, siamo sinceri, il mio blasone potrebbe
sempre essere la coda del diavolo in campo rosso. Eppure, da qualche
tempo, io mi sento tutt'altr'uomo... e se questa fanciulla potesse
mai diventar mia moglie... certo che il mio avvenire sarebbe la più
luminosa ammenda del mio passato. Dunque?...
Posso ammirarvi, posso anche compiangervi, ma non posso ubbidirvi...
ve l'ho già detto. Sono stanco di fare il servitore
d'anticamera nel palazzo dell'iniquità. Io non nego che voi
abbiate delle buone intenzioni... ma ingannare, insidiare una
fanciulla... perchè, in fin dei conti, voi siete padrone di
essere innamorato di lei, ma ella non è poi obbligata a
diventar vostra moglie.
Quella fanciulla è innamorata di me, come non lo fu mai
nessuna delle tante donne e fanciulle che ho conosciute....
Quand'è così, andate voi stesso; la vostra presenza
farà certo più effetto della mia. Tutto quel che si può
fare... è che... indossiate la mia montura, e facciate suonar
questa sciabola sul lastrico del convento; giacchè mi sembra
che vi prema di non essere riconosciuto... e ciò è
troppo naturale.
Caro mio, tu hai studiato più di me, ma sei più giovane
di me... e sarai sempre men dritto, meno esperto e men ragionevole di
me. Sei contento a prestarmi sciabola e montura, e non vuoi prestarmi
la mano. Ma giacchè abborri il male, e non vuoi commetterlo
credendolo tale, se ritiri la mano devi ritirare anche la sciabola.
In conclusione hai paura di esporti per me.
Paura? lo sanno i contrabbandieri di confine... lo sanno gli spalloni
che sono armati di tutto punto, quasi come i soldati del reggimento
Clerici.
Se dunque non hai paura... prestami mano, chè a far riuscir
bene l'impresa non basto io solo; ma guarda come sei caparbio e a
torto. Tu facendo il mio piacere fai quello della fanciulla, fai
crepare di rabbia il conte Alberico; tu che l'hai tanto colla casta
dei nobili, fai sì che un ramo d'un loro antichissimo albero
s'innesti su d'un albero plebeo, benchè carico di frutti e di
fiori: tutto ciò tu fai ajutandomi.
E
qui si fermò come colpito da un forte pensiero, poi continuò:
Infine... sai tu quel ch'io posso fare per te?... sai che da un atto,
da un atto solo e rapido della mia volontà, dipende che tu
dall'oggi al domani diventi a un tratto uno de' più gran
ricchi del ducato di Milano...!
Il
Baroggi si scosse a tali parole, e lo guardò fisso, e colla
pupilla penetrativa parve addentrarsi in quella del Suardi, che si
fermò ad un tratto impallidendo, poi:
Vieni con me, soggiunse; e lo trasse in una camera attigua.
Il
Suardi si tolse allora una piccola chiave che aveva in uno dei due
taschini dei due orologi; salì su di un seggiolone di cuojo,
accostò la mano per alzare un lembo della tappezzeria di
damasco verde, foggiata a tenda; poi si rivolse ancora più
pallido di prima, e ridiscese... e accostò la bocca
all'orecchio del Baroggi. Questi era muto, e il cuore gli batteva per
l'affanno della curiosità e dell'aspettazione.
VIII
Quando
il Suardi ebbe messo il labbro all'orecchio dei Baroggi, si trattenne
di colpo, come se un secondo pensiero avesse istantaneamente
distrutto il primo; si trattenne, e a colui che stava in sull'ale:
Quel che ti volevo dire te lo dirò domani. Il tempo passa, e
se si giunge tardi non si fa nulla. Per ora, affinchè tu metta
il cuore in pace riguardo alla purezza di quella fanciulla, ti
propongo questo partito: se mai si riesce, come spero (chè
allorquando una cosa la si vuole la si ottiene, purchè la
volontà sia quella tale), se mai si riesce dunque a trarla dal
monastero, ella rimanga, finchè sarà bisogno, presso
tua madre. Tua madre che colle ginocchia logora i gradini degli
altari, e si macera, poveretta, nelle preghiere e nei digiuni,
pentita e strapentita e troppo pentita di avere... ma non richiamiamo
il tristo passato, che, del resto, s'ella fu ingannata, non ha
ragione di credersi colpevole, mentre non fu che una vittima. Tua
madre sia dunque la sua custodia. Così tu non potrai avere più
scrupoli... e mi presterai quell'ajuto, senza del quale non si può
far nulla. Suvvia, coraggio... e pensa al tuo avvenire.
Capitò
a molti, anche tra uomini i più tenaci del loro proposito, di
avere a lungo respinte le insidiose insinuazioni degli scaltri con
franchissimo coraggio, e che poi, o per qualche accidente inaspettato
o per la stanchezza della lotta, si sentiron costretti a lasciarsi
trarre nel laccio senza dir di sì e senza dir di no, e di
seguire, sebbene contro genio, la volontà altrui. È
sempre la storia del diavolo e delle sue tentazioni. Un tal fenomeno
lo dovette subire anche il Baroggi. Quella uscita inaspettata del
Suardi sulla facoltà che aveva detto d'avere, di poter
cambiare dall'oggi al domani la fortuna di lui; le parole e i modi
misteriosi onde egli avea toccato quel tasto, la tappezzeria rimossa
dalla sua mano, quasi fosse per discoprire cosa della più alta
importanza, e fino a quel punto gelosamente celata; tutto ciò
gli mise una tale agitazione nel sangue, una tal commozione nel
cuore, una tal confusione nella mente, che, in una parola, non si
trovava nella condizione di prima. Egli sapeva la storia del
Galantino, e la sua prigionia e la tortura subita e sopportata, e le
carte importanti trafugate al defunto marchese, sicchè a
queste cose egli corse di slancio col sospetto, appena il Galantino
gli parlò con quel piglio misterioso. Allorchè poi
quegli troncò il discorso, e, svoltandolo in un altro, propose
al Baroggi di affidar la fanciulla a sua madre; non ebbe in quel
momento il coraggio di costringerlo a palesar tutto, e d'altra parte
non seppe persistere nel rifiutargli il proprio ajuto, perchè
non voleva lasciarsi fuggir di mano l'occasione e il merito di poter
penetrare in quel segreto, che era stato ed era, e, sino a quel
punto, gli pareva che avesse dovuto continuare ad essere, il segreto
di tutta la sua vita. Non rispose dunque nulla all'ultimo eccitamento
del Suardi, bensì, come questi si mosse, gli tenne dietro
sbalordito e pensoso e disposto a far tutto quello che colui avrebbe
voluto in quel giorno. Così usciti dalla stanza, discesi in
cortile, salirono nella carrozza che li aspettava, dicendo il Suardi:
Strada facendo ti spiegherò il mio piano.
Mentre
il signor Suardi, al pari di un comandante in capo, insieme col suo
ajutante di campo, guardando di tratto in tratto l'orologio, si
recava al quartier generale, lontano dalla mischia, e nel tempo
stesso in situazione di accorrere al riparo, e d'improvvisare sul
medesimo campo di battaglia un nuovo colpo strategico, quando mai un
rovescio inaspettato fosse per mandare in dileguo il primo piano già
da lungo meditato; i commessi incaricati della perquisizione, le
guardie, gli sbirri, quelle col loro archibugio ad armacollo, questi
colla sola sciabola girata dietro le reni, erano usciti dal palazzo
della Ferma generale, e si avviavano difilati alla volta del
monastero di San Filippo Neri. Le ventiquattro erano passate, e già
stava per compirsi l'ora che ad esse succedeva. Il sole primaverile
illuminava per carità qualche camerotto al quinto piano, dove
degli estremi raggi stava approfittando con ansiosa sollecitudine
qualche povera cucitrice, la quale voleva compir l'orlo di qualche
camicia per risparmiare i tre soldi della popolana candela di sego.
In quell'ora, nella chiesuola del monastero di San Filippo, nella
parte ch'era segregata dal pubblico, erano discese la madre badessa,
le suore maestre, le monache semplici, le converse, le incipienti, e
il drappello delle educande. Il mantice dell'organo veniva caricato
d'aria da due grosse e ottuse converse; intanto che, quasi a provare
la quantità d'aria che era entrata nelle canne, e la propria
valentia nell'arte, una mano percorrendo agilissimamente i tasti, ai
profondi suoni della canna maggiore, con netta e rapidissima
decrescenza, faceva succedere il sibilo acuto e flautato della canna
ottavino. L'organo, come al solito, dava in sulla parte della
chiesa aperta al pubblico, e i pochi che a quell'ora erano
intervenuti, guardando attraverso la griglia di legno che dal
parapetto dell'organo si alzava fino a due terzi della canna
maggiore, vedevano per la luce di due ceri, i quali erano accesi al
disopra della tastiera, muoversi tre teste. Ed eran le teste della
suora maestra di canto fermo e d'organo, e di due fra le allieve più
distinte in quell'arte. Di queste due, quella che, seduta alla
tastiera, sbizzarriva colla mano velocissima, era la giovinetta Ada.
Poco dopo, dall'altare, collocato dietro al muro che divideva la
chiesa in due parti (e faceva riscontro all'altro posto oltre il
muro, ed al quale si ufficiava per il pubblico), una suora intuonava
le litanie della Beata Vergine; ad essa, le altre monache, le
educande, il pubblico rispondevano, mentre l'organo colle sue
echeggianti variazioni interpolava ogni tema di que' predicati, coi
quali la più sublime poesia sgorgata dall'entusiasmo della
fede e dell'amore decorò il nome di Maria.
Di
qui passando altrove, il lettore può accompagnare di nuovo i
commessi della Ferma, usciti dal palazzo dell'amministrazione
generale per recarsi al convento, quando le litanie potevano essere
al loro termine. Allorchè dunque il primo dei commessi,
lasciati i compagni nella via di san Barnaba, entrava nell'ortaglia
dov'era il nuovo casino del signor Suardi, per abboccarsi con lui,
come aveva avuto ordine; la suora inginocchiata all'altare cantava
già il concede nos famulos tuos, ecc., e quando,
dopo avergli parlato, il commesso usciva frettoloso, in compagnia del
sotto tenente Giulio Baroggi, aveva già rintronato sotto
alle vôlte della chiesa il sub tuum e l'a periculis
cunctis libera nos semper.
Una
mezz'ora dopo, il commesso e il Baroggi e gli altri erano già
entrati in monastero, e fu allora che quel gentiluomo amico di casa
Ottoboni, galoppando per diporto in quei luoghi, e saputa la cosa,
s'era affrettato a raccontarla agli amici, e innocentemente a mettere
la tempesta nell'anima del giovane Crall, che divorando e tempo e
strada, corse alla loggia dei compagni Frammassoni di San
Vittorello.
Il
sole era scomparso, da qualche tempo, e anche i luminosi crepuscoli
di quella serena giornata s'erano spenti affatto, e qua e là
lasciavasi veder nel cielo qualcuna delle stelle più
premurose, allorchè sboccò dalla contrada di San
Vittorello quella scelta schiera di Frammassoni giovani e
frementi, armati tutti di spade e qualcuno anche di pistola;
dispostissimi tutti a far nascere un tale scompiglio e un tal
disordine, che fosse poi atto a provocare un ordine. Ed ora dobbiamo
dire quello che, sebbene non sia indifferente, pur ci fuggì di
memoria allorchè parlammo di quella loggia di Muratori; ed è
che fra coloro i quali si trovavano presenti alla tornata, v'era un
uomo che abbiamo conosciuto fin dall'anno 1750, e che, se non fu il
primo, non fu nemmeno l'ultimo ad aver parte attiva negli avvenimenti
d'allora; vogliamo dire il signor Lorenzo Bruni, violino di spalla
per l'opera, e primo violino del ballo al teatro Ducale. Il lettore
deve ricordarsi e della lettera che lo stesso Bruni scrisse da Milano
al signor Amorevoli, tenore al teatro di Dresda, per dargli
informazioni intorno alla figliuola della contessa Clelia V...; e
com'egli fosse venuto a Milano onde conchiudere di presenza, co'
signori ispettori del teatro Ducale, la scrittura di sua moglie,
madama Gaudenzi-Bruni, per la prossima stagione di carnevale.
Or
dunque si aggiunga al resto che il Bruni, venuto a Milano solo, era
stato poi raggiunto dalla moglie e da un suo figlio giovinetto, il
quale non aveva ancora tre anni (Chi avrebbe detto a noi che questo
fanciullo, figlio di un tal uomo, dovevamo poi conoscerlo vecchio
novantenne in riva al lago di Pusiano, perchè ci fosse anello
di comunicazione tra il passato e il presente!) Aggiunga inoltre il
lettore, che il Bruni, per esser diventato marito e padre, non aveva
cangiato carattere, idee, aspirazioni, abitudini. Che anzi in quegli
anni, avendo percorso mezz'Europa, più e più s'era
infervorato nelle sue opinioni; che, siccome voleva la nuova onda
delle cose, s'era ascritto alla loggia dei Frammassoni di
Parigi, che s'era messo in comunicazione colle logge erette nelle
principali città d'Europa, e che arrivato a Milano, e saputo
della loggia milanese, avea sollecitato di mettersi in comunicazione
con essa; ch'era stato de' più caldi ad esortarla perchè
dall'inerte discussione passasse all'azione pratica. Infine che,
sebbene non avesse più trentacinque anni, ma cinquant'uno,
pure alla proposta di lord Crall, s'era messo in compagnia de'
giovani più deliberati, sfoderando anch'esso la spada, e
giurando su quella, come voleva il formulare.
Ed
or presto vedrà il lettore fino a che punto sappiano giungere
i maledetti ghiribizzi della fortuna e gli strani giuochi della
combinazione; e come il signor Bruni ogni qualvolta inciampava nei
ciottoli delle contrade di Milano, avesse a dar della testa anche
nelle corna del diavolo, occasionando trambusti serj, e dovendo alla
sua volta rimanerne vittima.
IX
Il
generale in capo, ossia il Galantino, che, al pari del duca di
Wallenstein, combatteva per proprio conto, aveva dato ordine al suo
ajutante di cogliere, senza sgarrare d'un minuto, quell'istante in
cui le monache e le educande, uscite appena dalla chiesuola, si
sbandavano per diporto, a sparsi gruppi, lungo i corridoj ed i
portichetti del monastero, aspettando che la campana le chiamasse in
refettorio per la cena. E un tal ordine venne di fatto eseguito
puntualmente; chè il giovine Baroggi era di quella tempra
d'uomini che ponno dubitare a lungo prima di accettare un incarico;
ponno anche averlo accettato contro la propria convinzione: ma una
volta che hanno promesso di mandarlo ad effetto, non disputano più
se sia buono o cattivo, onesto o turpe, utile o dannoso; si
dimenticano delle proprie persuasioni e di se stessi, non da altro
sollecitati che dal desiderio di farsi riconoscer degni dell'altrui
fiducia. Avea insomma le qualità d'un perfetto soldato, il
quale può disapprovare una battaglia, una mossa strategica, ma
si lascia tagliare a pezzi piuttosto che mancar menomamente ad un
comando ricevuto; con tali norme erasi comportato infatti nella sua
condizione di sotto tenente della Ferma; disapprovava
quell'istituzione, e vituperava le malversazioni legali; ma quando al
confine comandava un picchetto di guardie, i contrabbandieri avevano
con lui un malissimo giuoco. Allorchè dunque il piccolo
esercito che era sotto la sua direzione fu alla soglia della porta
del convento, la prima cosa fu di posare due guardie rappresentate
dal loro fucile, ai due lati di essa; poi il primo commesso, seguito
da tutti gli altri, entrò nel camerotto della vecchia custode
del convento, che trasalì nel veder quell'uomo seguito da
tanti altri armati. Ma il commesso, alla vecchia che, per un
movimento istintivo, si alzò da sedere e fece alcuni passi per
piantarsi in luogo da sbarrar loro l'entrata:
Siamo i commissarj della Ferma, precedeteci, chè vogliamo
parlare alla madre priora del convento. Fate presto e non temete, chè
non si vuol mangiarvi, nè voi nè la madre priora nè
le monache; e senza dir altro, sforzò, a così dire, il
passo e varcò la soglia, ed entrò procedendo fino al
secondo cortiletto del monastero, seguìto dal secondo
commesso, da un sergente, dalle guardie, dagli sbirri e dal
sotto tenente Baroggi che veniva ultimo e colla testa bassa.
Chi
avrebbe detto alla pia fondatrice di quelle sacre mura che doveva
venir giorno in cui, senza un rispetto al mondo, avevano ad essere
violate da uomini profani, anzi dalla più ribalda feccia degli
uomini profani? Ma la vecchia custode, volendo essere la prima a
comparire innanzi alla reverenda madre priora, stupita e barcollante
s'affannava a precedere que' giovinotti, di cui sentiva gli
sghignazzi protervi.
Le
monache e le fanciulle educande sfilavano in quel punto lungo un
portichetto, per dove avevasi a passare. La vecchia, con quello
spavento di chi ha in cura una nidiata di pulcini e osserva un gatto
che li guarda e li fiuta:
Aspettate! esclamò con un certo accento, nel quale si sentiva
che il tremito della paura materiale era confuso all'indignazione.
Aspettate! chè la reverenda madre priora viene in coda a
queste.
V'è
una certa specie di rispetto e di riguardo che è provato anche
da' più ribaldi, persino allora che sono ubbriachi. Tutti
adunque si fermarono, mentre il Baroggi, che stava dietro a tutti, si
portò anch'esso in linea per guardar le fanciulle che
passavano: e guardò infatti, e vide quella che cercava.
Intanto,
allo spettacolo nuovo e inaspettato di quelle faccie, di quelle armi,
di quelle canne lucenti d'archibugi, s'era messo uno strano bisbiglio
e scompiglio tra quella lunga fila di monache e ragazze; e s'udirono
anche esclamazioni di sgomento; e si videro anche alcune uscir dalla
fila, e affrettare il passo, e svoltare chi per una parte, chi per
l'altra.
Sostati
i commessi e il sotto tenente Baroggi alla testa delle guardie,
la vecchia portinaja volgendosi alla madre priora, che già
aveva intraveduto quegli uomini armati, con quel senso di stupore che
non era e non poteva essere sgomento, ma somigliava piuttosto al
turbamento confuso di un cattivo sogno:
Reverenda madre, le disse con voce gutturale e pecorina, questi
uomini sono entrati, perchè hanno voluto entrare e perchè
tengono un ordine da quelli che comandano.
La
madre priora, fattasi presso ai commessi della Ferma, che alla lor
volta si avanzarono verso di lei:
Che cosa vogliono, loro signori? disse.
Le
parole non erano che queste, ma le pronunciò con quel piglio
grave, severo, burbero, di chi, preposta da trent'anni al governo del
monastero, teneva l'abitudine del comando più assoluto e
inesorabile, ed era avvezza ad essere impreteribilmente ubbidita.
Se
la madre priora avesse avuto maggior pratica di mondo, è certo
che non avrebbe parlato con quell'accento a quei rozzi uomini, i
quali erano usi anch'essi a non sentirsi contraddetti.
Noi siamo i commissarj della Ferma, rispose con piglio più
rozzamente burbero il primo dei commessi; e se siamo qui, vuol dire
che ci possiamo stare; del resto, per un di più, veda vostra
maternità l'ordine che teniamo dai nostri padroni.
La
reverenda madre lesse l'ordine scritto, poi soggiunse: Questo non
sarà mai.
Il
primo commesso guardò in faccia al collega a quell'uscita
inaspettata della priora; il secondo commesso guardò al
sotto-tenente Baroggi, il quale, levatosi già da qualche tempo
il cappellino a tre punte, si avanzò facendo un profondo
inchino alla reverenda.
La
gioventù, il bell'aspetto e gli atti di cortesia costituiscono
sempre una buona raccomandazione in quasi tutti i casi della vita: e
tanto ciò fu vero in quell'occasione, che alla reverenda,
senza ch'ella il volesse, anzi senza che nemmeno pensasse a volerlo,
si spianarono di tratto gli aggrottamenti del ciglio, e si sciolsero
due profonde rughe che le si eran fatte ai lati della bocca contorta.
A vostra maternità, continuava il Baroggi, raddolcendo più
che poteva la voce, dev'essere noto l'editto pel quale è data
facoltà alla Ferma generale del tabacco di mandare i suoi
commessi anche nell'interno de' monasteri a fare perquisizioni,
quando vi sia presunzione che in qualcuno di essi siasi nascosto del
tabacco proibito.
Che... che cosa... cosa mi tocca di sentire?
Vostra maternità si degni ascoltarmi; la colpa non è nè
della Ferma nè di noi, e molto meno della vostra maternità
reverenda se fu riferito trovarsi appunto nascosta in questo convento
una grande quantità di tabacco proibito. Io sono persuaso che
questa possa essere stata una denuncia infondata... fors'anche la
calunnia di qualche malevolo: ma siccome la legge parla chiaro, e
parla chiaro e forte anche contro di noi se ci rifiutiamo a fare il
nostro dovere; così vostra maternità deve permettere
che la legge venga in tutto e per tutto eseguita.
Quantunque
il Baroggi parlasse a voce alta, veniva essa però soverchiata
dal bisbiglio e dalla pispilloria di tutte le monache e fanciulle che
si erano affollate sotto al portico, tanto che le arcate echeggiavano
di quell'insolito frastuono raccolto in un sol punto. Le monachelle
più paurose, in prima fuggite, eran tornate, attratte dalla
curiosità irresistibile; le più audaci s'erano stipate
in densa schiera presso ai nuovi venuti; le più adulte fra le
semplici educande facevano luccicare, mentre parlavano, i loro vivaci
e non più timidi occhi sul bello e giovane soldato che
parlava. E non si può nemmeno sgridarle, poverette, giacchè
dal momento che non erano destinate alla vita claustrale, la figura
del giovane colla sua assisa brillante e la sciabola lucente, che
staccava sovra di un fondo cupo occupato dalle figure severe della
priora e delle suore maestre e dalle nere loro vesti, quasi
somigliava all'effetto che un cielo azzurro, riflesso da un lago,
produrrebbe su chi uscisse da un luogo tenebroso, dove sia stato a
lungo per altrui volontà.
Ma
la reverenda, dopo aver girato un severissimo sguardo su quella
truppa di giovinette che facevano tanto rumore, e intimato loro il
silenzio:
Non nego la legge, disse, nè l'ordine che tenete da chi l'ha
fatta; ma prima che io vi permetta di passar oltre, dovrò
parlare alla nobil donna conservatrice di questo sacro asilo.
L'autorità sarà informata di tutto... e allora...
quando essa persista nel suo comando... voi potrete adempire al
debito vostro.
Il
primo commesso a queste parole si permise di ridere villanamente; e
per ispirito d'imitazione fecero lo stesso e il secondo commesso e le
guardie e gli sbirri. Per verità che la reverenda madre
l'aveva detta grossa; ma ella non era poi obbligata ad intendersi
molto dei diritti della finanza.
Madre reverenda, soggiunse allora il Baroggi, mentre saettava
un'occhiata come di rimprovero a quei profani irrisori, noi non siamo
obbligati ad aspettare altri ordini dell'autorità; anzi il
nostro obbligo preciso è di non aspettarne alcuno. Bensì
vostra maternità potrà sempre raccontar l'accaduto alla
nobile conservatrice del monastero, perchè essa provveda a far
mettere questo convento sotto la protezione di un privilegio
straordinario.
Il
sotto tenente non avea quasi finito di pronunciare queste
parole, che il commesso, perduta la pazienza:
Orsù, andiamo! disse al collega ed alle guardie. Noi sappiamo,
madre reverenda, dove fu nascosto il tabacco; non abbiamo nemmeno
bisogno di scorta; e così dicendo varcò l'arcata del
portico, seguito dai soldati.
Il
Baroggi lasciò fare, e si ritrasse in coda. La madre badessa,
coraggiosa della propria autorità e di quello zelo
ardentissimo di religione che mette agli ultimi gradi tutti gli altri
rispetti, fece, quantunque vecchia, due passi rapidi e si piantò
innanzi al commissario, e:
Nè voi nè i vostri passerete per di qui, disse. Ma in
quella le suore maestre e coadjutrici le si fecero intorno come per
trattenerla onde il commissario e le guardie passarono oltre,
fulminati dai solenni anatemi di lei, fino a che, nell'eccesso
dell'affannosa sua indignazione, ella cadde come spossata e svenuta
nelle braccia di quelle che la circondavano. Allora crebbe più
che mai il susurro delle suore atterrite e indignate; allora
s'udirono voci alte e querule; e persino qualche scoppio di pianto di
qualche fanciulla commossa; allora, chi si fosse trovato là,
avrebbe potuto assistere al vario modificarsi delle varie indoli
delle fanciulle ivi raccolte: chè alcune eran passivamente
atteggiate; altre, non trattenute da nessun riguardo, si sentivano
tratte a seguir quelle guardie per ispiare i loro passi; altre
osavano perfino di far sentire qualche mal compresso cachinno di
riso; ed eran forse le più riottose tra le educande, quelle
che più spesso avevan subita la severità della madre
superiora, ed erano incoercibili dai castighi, e sospiravano di
uscire a respirar l'aria libera del mondo.
Quando
i perquisitori si trovaron soli in un androne, il Baroggi li
trattenne, e disse:
Or che volete fare senza la presenza di tre o quattro di codeste
suore maestre, giacchè alla reverenda superiora è
venuto un deliquio? Sapete bene che, affinchè la perquisizione
sia legittima e non dia luogo a recriminazioni ed a gravami per parte
de' perquisiti, bisogna che il processo verbale venga sottosegnato da
qualcuno di loro. Perciò è necessario che faccian
testimonianza del nostro operato tre o quattro di codeste suore, le
quali, se sono ragionevoli, non devono ritenersi in pericolo per
trovarsi in mezzo a noi, protette come sono naturalmente dalla loro
vecchiaja e dalle grinze impresse nella loro faccia dalla devozione e
dalla penitenza. Or lasciate che io vada a supplicarle perchè
vogliano seguirci, intanto che la reverenda superiora attende a
ricuperare i sensi smarriti.
E
coloro, a tali parole, si fermarono, ed il Baroggi retrocesse per far
quanto aveva detto, ma più ancora per ripassare tra la schiera
delle giovinette educande, in mezzo alle quali il suo occhio acuto
aveva già scorto quella per cui era stata ordita una trama
tanta complicata e pericolosa. Ritornato così nell'atrio,
diede un'occhiata ai varj gruppi che s'eran sparpagliati qua e là
sotto ai portici; s'accostò a quello dove rivide l'Ada;
rispettosamente e col miglior garbo s'accostò, e:
Dove si son ritratte le reverende suore maestre? domandò.
Più
d'una rispose a quella domanda; e il Baroggi sentì anche la
voce della fanciulla Ada; e più d'una si mosse per andar a
cercare di quelle venerande che, nella confusione e nella
preoccupazione del deliquio della madre superiora, non avean pensato
a non lasciar sole le loro giovinette allieve; e si mosse anche Ada.
Se non che il Baroggi, colto il punto, lesto e sommesso: «Ella
aspetti... le disse; nell'ortaglia v'è chi dee parlarle. Si
volga per di là, la supplico...», e via ratto come se
nulla fosse, camminando sui passi delle giovinette che s'eran mosse
in cerca delle maestre.
Ada,
a quelle parole del Baroggi, trasalì e stette immobile alcuni
istanti, e pareva un leggiadro simulacro marmoreo che rappresentasse
l'incertezza. Se non che, allorchè vide ritornar il
Baroggi seguito da tre fra le venerande madri, ella uscì dalla
immobilità, senza però uscire dalla perplessità
affannosa.
In
quel punto la confusione nel convento era giunta a quel grado che non
pareva potersi dar la maggiore. Chi andava da una parte, chi
dall'altra; chi stava origliando presso l'androne dov'erano entrati i
perquisitori; chi, salito che fu il Baroggi coi compagni e colle tre
suore nella parte superiore del monastero, tenne lor dietro per non
saper vincere la curiosità; chi si recava a domandar della
salute della madre superiora; chi, tra le giovinette più
ottuse, più apatiche e più sensuali, giacchè era
l'ora della cena, aveva messo il piede in refettorio, sollecitata dal
giovanile appetito che non lasciava scorgere al mondo cosa veruna, la
quale avesse maggior importanza d'una buona minestra; chi tra le più
maliziose e ribaldelle s'ingegnava a far chiose astute ed
epigrammatiche sull'avvenuto. Solo Ada non faceva parte nè
dell'una nè dell'altra schiera.
Da
molti e molti giorni ella avea cessato di mettere in comune i proprj
coi pensieri, colle cure e colle abitudini infantili delle compagne.
Ella avea smarrita l'allegria delle amiche spensierate, avea perduto
l'appetito delle amiche prosperose e placide; non sentiva la
tentazione d'imitare le più astute e le più riottose;
in una parola, non trovavasi più in monastero che colla
presenza materiale, perchè col pensiero e col cuore trovavasi
assiduamente altrove.
Da
alquanti giorni non aveva potuto vedere il giovane Suardi, perchè,
siccome sa il lettore per le parole che la nobil conservatrice del
monastero disse già a donna Paola, era trapelato qualche vago
sospetto alle monache maestre, e queste, tenutala d'occhio, non
l'avean mai lasciata sola; però la fanciulla si crucciava, e
continuamente andava almanaccando sul modo di poter eludere
quell'assidua vigilanza. Nè mai si era attentata di affidare
il suo pericoloso segreto a nessuna delle compagne, nemmeno ad una
che, pari a lei d'età e sua vicina nella camerata, avea preso
ad amarla svisceratamennte, sebbene coll'amore più d'una madre
o d'una sorella maggiore che d'una compagna. Codesta sua amica,
figliuola d'un marchese Crivello, era piuttosto cagionevole di
salute, graziosa nel volto, ma tanto quanto deformata dalla
rachitide, fornita d'ingegno fuor dell'ordine comune, e infervorata
di così religioso zelo, che quasi parea tramutarsi in quello
che suol chiamarsi abito bigotto e scrupoloso. Essa erasi accorta del
segreto di Ada, ma avea taciuto. Amorosa, previdente e prudente,
pensava di vegliarla dappresso e di fare, per quanto era in lei, la
cura di quel male senza avvisarnela. Interrogata dalla superiora e
dalle maestre sul conto di Ada, quando s'eran messe in qualche
apprensione, e interrogata appunto perchè la conoscevano come
la miglior sua confidente, ella tacque, ed anzi cercò stornare
i sospetti, per stornare i castighi dall'amica. Bensì coi modi
più gentili nel discorso abituale, avea tentato distogliere i
pensieri di Ada da quella direzione che loro avea comunicata la
passione. Sempre adunque trovandosi seco, perché anche Ada la
ricambiava d'affetto sincero, e in que' giorni le stava più
del solito accosto, accadde che, nel momento in cui il Baroggi s'era
avvicinato al gruppo delle educande dove di volo avea veduto la
fanciulla Ada, questa parlasse precisamente colla Crivello. Bene
l'inchiesta del Baroggi aveva diviso quel gruppo di fanciulle, ed Ada
era rimasta sola un istante fuggevolissimo con lui, ma la Crivello
s'avvide che era corsa qualche parola. S'avvide e tacque, e si
dilungò facendo mille pensieri, e fermandosi non veduta a
guardare Ada rimasta immobile e concentrata.
A
questo punto eran le cose nel monastero, quando un sordo muggito di
voci confuse di popolo affollato e battimani e fischiate,
contemporaneamente rintronarono nel monastero; poi fu sentito un
colpo secco d'archibugio squarciar l'aria, ripercosso in degradate
oscillazioni.
X
Quelle
grida, quello scoppio di fucile giunsero fino al dormitorio delle
maggiori educande, dove i commessi della Ferma avevano già
trovato, lungo il cornicione che lo rigirava, buon numero di boette
di tabacco, con gran meraviglia delle tre suore vegliarde che
assistevano, dichiarando ad ogni minuto la loro assoluta ignoranza di
quella contravvenzione; e le grida e la detonazione inaspettata
colpirono di vario stupore i commissarj, le monache e il Baroggi,
che, senza dir parola, uscì e discese precipitoso nel cortile.
Accorreva in quel punto la vecchia portinaja, accorreva una delle due
guardie state collocate ai lati della porta del monastero. Sotto
l'androne della porta si sentiva un crescente frastuono, in mezzo al
quale spiccavano voci d'ira veementissime; e quasi contemporaneamente
fu invaso il cortile dalla folla. Il Baroggi stupefatto si guardò
intorno e cercò la via dell'ortaglia che gli era nota, e,
quando fu in quella, vide una fanciulla che fuggiva seguita da
un'altra che cercava trattenerla. Egli credeva che Ada si fosse già
recata nell'ortaglia, ma la ravvisò in quella che affannata
correva precipitosa, quasi si schermisse dall'altra, e la raggiunse.
Siete la signora Ada, disse quando le fu presso. Suvvia,
affrettatevi. Un gran precipizio vi sta sopra. Ma chi è
costei?
L'Ada
e la Crivello non parlavano. Allora il Baroggi prese la prima per
mano e la trasse con sè.
Che tentate di fare? disse allora la Crivello.
Zitto... voglio salvarla.
Allora
la Crivello afferrò con quanta forza aveva la veste
dell'amica. Questa tentò sciogliersi, esclamando sommessa:
Deh lasciami, per carita! Ma la Crivello si avvinghiò ad Ada
con invincibile tenacità, e:
Bada a te, diceva, la mia povera Ada. Ma, intanto, l'una fuggendo,
l'altra trattenendo, il terzo inseguendo, eran tutti pervenuti
nell'ortaglia. Una voce maschile fu udita in quel punto. Il Baroggi
la riconobbe; Ada ne trasalì.
Sei tu? ripeteva quella voce: era il Suardi.
Son io, rispondeva il Baroggi.
Or che avvenne di Ada?
Zitto. Ella è qui; e il Baroggi, non sapendo che fare, giacchè
la fanciulla a lui ignota teneva strettamente abbracciata Ada, le
prese ambedue in un fascio, e di peso le portò fino a quella
parte del muro di cinta dove era un uscio. Là stava in piedi
il Galantino, tra il muro e un'imposta semichiusa.
Siete voi? esclamò allora il Baroggi, ecco qui. Ma sono due
invece d'una sola. E dal peso mi pare che sieno svenute e
l'una e l'altra.
E che vuol dir ciò?
Che quando si vuol strappare una rosa di furto e in fretta, due o tre
se ne strappano in una volta, e si rovina l'arbusto. Ecco qui, ed or
prendete, chiudete, mettetele in carrozza e via come il fulmine; se
no va a succedere un gran precipizio.
Ma che vuol dire che ho sentito un colpo di fucile?
Vuol dire che la faccenda è seria più di quel che pare,
e v'è un mistero che non comprendo... m a sostenete queste
ragazze, e salite in carrozza, e sopratutto badate a non passare
innanzi alla porta del convento. Il popolo par che sia uscito dai
gangheri affatto, ed è penetrato in convento.
Il
Galantino non rispose, prese in braccio quel fascio di due fanciulle,
e quando fu per richiuder l'uscio di cui gli aveva data la chiave il
ribaldo ortolano:
Vieni anche tu, disse al Baroggi.
Non sarà mai, rispose questi; il Baroggi non è mai
fuggito innanzi al pericolo, e or vedo che si ha a menar le mani.
Addio dunque, e se nella mischia si dovesse lasciarci la pelle... chi
sa mai? fate che quella fanciulla non mi maledica... rispettatela e
fatela felice... Poveretta!... Addio dunque.
Il
Galantino non aggiunse verbo, e chiuse l'uscio del muro di cinta. Il
Baroggi stette fermo un istante ancora a quel posto. Tese
l'orecchio... e raccapricciò nell'udire una confusione di
strilli femminili; e gli parevano ululati di naufraghe che si
mescolassero al muggito di un mare tempestoso. Tese l'orecchio, e
sentì il precipitoso trotto di due cavalli e il rumore di una
carrozza. Allora volse gli occhi al cielo tutto stellato: Oh
Dio, esclamò, che mai feci? Oh povere ragazze! e ripetè
la via dell'ortaglia desolato e cupo.
Allorchè
poi dall'ortaglia ei mise piede entro il recinto del monastero, que'
dieci o dodici campioni della frammassoneria che, seguiti da una
densa onda di popolo, avevano forzata la porta del monastero e
atterrata, anzi uccisa quella guardia che aveva lasciato partire il
colpo d'archibugio, si trovarono dirimpetto alle guardie della Ferma,
le quali, partito il Baroggi e sentito crescere il tumulto, erano
discese a furia sotto il portico. Impegnatasi una fiera mischia, come
se il cortile del monastero fosse un campo di battaglia, le monache e
le fanciulle atterrite affacciandosi agli ingressi, fuggendo su e giù
per le scale, attraversando i corridoj continuavano ad assordar
l'aria di grida di spavento. Il Baroggi, vista quella scena e
osservando i proprj compagni impigliati in quella lotta disuguale,
chè il popolo ajutava gli assalitori, onde le guardie della
Ferma erano percosse da tutte le parti, sentì il sangue salire
alla testa, e cieco di furore, sfoderando la sciabola si fece largo
tra il popolo, dando giù a dritta e sinistra; ma qual fu la
sua meraviglia, quando si vide dirimpetto que' gentiluomini, dei
quali conosceva alcuni che erano delle prime famiglie di Milano! I
colpi erano corsi senza pietà, onde il sangue non mancava;
vide cadere due dei proprj, vide atterrati tre degli avversarj. Ed
egli, parando colla sciabola un colpo di spada che gli veniva calato
dal giovine lord Crall, ch'ei conosceva benissimo:
Ma che demonio v'ha inspirato? gridò. Che c'entrano le guardie
della Ferma se adempiscono gli ordini della superiorità?
Dovevate andare al palazzo dell'ammistrazione, se avevate senno e
coraggio e...
E
in quella si sentì gridare: «lasciate il passo, il
passo, il passo.» Poi una voce sgangherata che tuonava: «Fermi
tutti, o vi faccio abbruciare in questo cortile a schioppettate.»
Il
popolo naturalmente fece ala. Due padri cappuccini entravano insieme
con un grosso picchetto di soldati del reggimento Clerici, comandati
da un tenente, che era quello che gridava stentoreamente.
Quella
quarantina di soldati di milizia regolare, che i cappuccini, saputo
lo scompiglio, erano andati a prendere alla vicina caserma di San
Barnaba, circondarono le guardie assalite e i gentiluomini
assalitori, e i colpi cessarono, se non cessò il sangue di
scorrere. La folla che, allorquando i soldati fecero largo, ebbe
teste e stomachi e ventri percossi e scompigliati spietatamente dai
colpi di calcio, di necessità si fece più rada. Un po'
di calma sottentrò al tafferuglio inaudito di prima, un po' di
silenzio successe al frastuono che parve aver voluto far crollare le
mura del monastero. Cinque uomini erano stesi sul selciato del
cortile; nè in quel primo istante si ebbe tempo di vedere se
erano morti o feriti.
Che cosa dunque è stato tutto questo fracasso? domandò
il tenente a quelli ch'eran là accerchiati.
Noi non possiamo saper nulla, rispose il Baroggi. Noi siamo qui per
ordine della superiorità. E s'è scoperto molto tabacco
proibito in convento. Ecco tutto. Cosa poi sien venuti a fare questi
signori non si sa.
Siamo venuti a far giustizia noi, gridò lord Crall, giacchè
nessuno non sa più farla qui. Siamo venuti a dare un esempio,
e a lasciare un segno che faccia risensare gli stolidi che hanno
voluto sguinzagliar questa canaglia nell'asilo delle sante vergini.
Ecco cos'è stato.
Il
tenente del reggimento Clerici non rispose nulla nè al
Baroggi, che nella sua qualità di soldato urbano al servizio
della Ferma era tenuto in dispregio dagli ufficiali della milizia
regolare; nè a lord Crall, che conosceva e stimava, ma al
quale non poteva dar ragione, per la gran ragione che in faccia alla
legge colui aveva torto. Soltanto si limitò a dire:
Io non sono un auditore, nè un attuaro del Capitano di
Giustizia, e non c'entro a metter parole in questa faccenda. Bensì
è mio dovere di farli scortar tutti, illustrissimi signori, e
di farli consegnare al Capitano di Giustizia per l'appunto. Mi
rincresce che sia toccato a me un così odioso incarico. Ma lor
signori farebbero lo stesso se fossero ne' miei panni.
È giusto, disse lord Crall; e noi promettiamo di consegnarci
al Capitano, e diamo perciò la nostra parola d'onore. Soltanto
vi prego di prestare soccorso a questi carissimi miei amici che sono
lì distesi per terra. L'uno è don Giorgio Porro,
l'altro è un conte Rusca, quello là, che mi par morto,
è uno Stefano Pecchio.
I
Frammassoni superstiti partirono poco dopo, seguiti alla lontana da
una mano di soldati. Le guardie della Ferma, i commessi, il Baroggi
uscirono anch'essi, con promessa di esser pronti alla chiamata del
capitano.
I
cinque stesi per terra, assistiti dai due cappuccini, vennero fatti
porre su altrettante barelle, e trasportati nel loro convento.
Quella
medesima notte nel palazzo del Capitano di Giustizia furono esaminati
coloro che si consegnarono e fu steso il processo verbale, presente
il signor tenente del reggimento Clerici, che nel processo, veduto da
noi, è firmato tenente Angelo Birago di Casal Monferrato. Il
processo reca anche i nomi degli accusati, e sono i seguenti: don
Giorgio Brentani, Guglielmo lord Crall Pietra Incisa, Gaspare
Antolini avvocato, Carlambrogio Negri negoziante, Lorenzo Bruni
professore di violino, Amilcare de Brème, Vincenzo
Ghisalberti.
Nella
medesima notte, uno dei due cappuccini accorsi al trambusto, per
ordine della reverenda superiora del monastero di San Filippo Neri,
riferì al Capitano, con nota scritta e firmata dalla madre
priora e da tre suore maestre, come non s'eran più trovate in
convento due tra le maggiori educande del monastero. Donna Giacoma
Crivello dei marchesi Crivello, e donna Ada V..., figlia della
contessa Clelia V..., tutelata, per esser assente la madre, da donna
Paola Pietra Incisa.
Il
giomo dopo, tutta Milano, anzi tutto il Ducato, fu pieno di codesto
avvenimento, e, com'è naturale, fu portato a cielo il coraggio
di quelli che avevano affrontata la guardia della Ferma per dare un
esempio solenne. Ma insieme colle grandi lodi e coi lamenti pel loro
arresto, corse anche la voce che coloro erano frammassoni; perchè,
ad onta che il cardine fondamentale della frammassoneria fosse il
segreto, pure, nei tre periodi dell'esistenza di quella società
in Milano, anche per testimonianza di molti vecchi che vivono oggi,
il pubblico conosceva molti degli ascritti ad essa, ond'erano
additati comunemente siccome oggetti di speciale osservanza, a
dispetto del tanto raccomandato segreto. Se non che una tale notizia
fu un lampo che suggerì al Suardi il modo di gettar la
confusione nelle teste del pubblico e dell'autorità.
In
quel dì stesso trovatosi insieme col Baroggi, dopo aver
parlato molto di molte cose con esso lui, il Suardi, cacciandosi di
tratto a ridere:
Ma sai tu, disse, che quegli originali pare che siano stati pagati
espressamente da noi?
E in che modo?
È presto capito. All'autorità ora è noto che
coloro sono Frammassoni. Tu sai che se molti dicevano che la loro
esistenza avea per iscopo la propagazione dei lumi e il vantaggio del
popolo, altri assicuravano che celavano, sotto questa bella
apparenza, fini turpi e disonesti. Or è facile far pendere
tutti i sospetti da questa parte. A che sono venuti ad assalirci? per
cogliere l'occasione di gettar lo scompiglio in tutti e trafugar due
fanciulle. Va benissimo; ciò almeno par assai chiaro. Ma c'è
di più; e un sospetto ne genera sempre degli altri. Sappi
dunque, che quel lord Crall lo vedevo a galoppar di frequente nelle
vicinanze del monastero. Ora ho pensato che potesse essere innamorato
di Ada... e ciò è naturalissimo, essendosi egli trovato
seco spesse volte nella casa della propria madre. Del resto, che ciò
sia o non sia, non importa; basta che sembri, e che l'accusa lanciata
contro lui d'aver tese le insidie per farla trafugare, abbia tutte le
apparenze della verità... Una nota di tal genere, senza firma
di nessuno, sta da qualche ora nelle mani del signor Capitano... Ah!
ah! va benissimo... E a te, che ne pare? È bella sì o
no? Ma davvero che la fortuna è la mia schiava più
devota... e t'assicuro che darei del capo nel muro, quasi incredulo
di così strana combinazione! Or che fai tu che stai così
serio?
La rete è lunga e larga, rispose il Baroggi, e ci siam dentro
anche noi... e quella povera mia madre. Ah no, per Dio, che non c'è
tanto da ridere.
Sta tranquillo, Giulio, te l'ho già detto jeri: il mio blasone
è la coda del diavolo in campo rosso.
LIBRO
OTTAVO
I
discorsi di casa Ottoboni. Parole di donna Paola Pietra
intorno all'impresa dei Liberi Muratori contro i commessi della
Ferma. La contessa Arese e le dame del biscottino.
Dialogo tra l'Arese e donna Paola. La calunnia. Il
caffè Demetrio e il maggiordomo Carlantonio Baserga.
L'abate Parini. Il pubblico e il Galantino. Donna Ada
V... e donna Giacoma Crivello. Il conte V... e il decreto del
Senato. Un sermone morale. Il lago di Como. La
contessa Clelia V... L'abate Frugoni e Condillac. Da
Casal Pusterlengo a Lodi. Il figlio di Lorenzo Bruni. Suo
racconto. Donna Paola, la contessa Clelia e la Gaudenzi.
L'avvocato Strigelli. Cattura de' Liberi-Muratori. Il
Galantino e il Baroggi.
I
Nella
notte in cui avvennero i gravissimi disordini raccontati, la
conversazione di casa Ottoboni, che sul tramonto era sparpagliata in
varie sale e sui terrazzi, si raccolse tutta in due salotti, in uno
dei quali continuarono i discorsi; nell'altro gli abitudinarj si
unirono per giuocare all'ombretta spagnuola, all'arduo tarocco, allo
scientifico scacco.
A
quei convegni serali interveniva anche donna Paola Pietra, e nella
sua tarda età, per consueto, sedeva al tavoliere e giuocava a
tarocco col padre Frisi, col questore conte Pertusati, che allora era
il prefetto della nobilissima scuola di san Giovanni alle Case Rotte,
col maestro Galmini, ed altri; e qualche rarissima volta si faceva al
pianoforte colla contessa Agnese, la maestra di musica già da
noi nominata, sorella della celebre Gaetana, quando quella supplicava
d'eseguire qualche pezzo celebre o dell'abate Stefani, o di
Scarlatti, o dell'abate Clari, o di Hasse, o d'altri. Ci pare di aver
detto più d'una volta come tutta la città di Milano,
tanti anni addietro chiamata dalla valentia straordinaria di donna
Paola, aveva avuta l'abitudine di accorrere in folla alla chiesuola
del monastero di santa Radegonda, quand'ella monaca professa o
cantava mottetti e responsorj, o suonava l'organo. Però ella
non aveva dismessa affatto la pratica di quell'arte, e anche nella
sua vecchia età, nei ritrovi più intimi, si lasciava
indurre a dar saggio della sua ancor abile mano, quando ne veniva
pregata o importunata.
Quasi
dunque ogni sera ella interveniva in casa Ottoboni; vi si fermava
fino al tocco della campana, alla qual ora o veniva a prenderla la
carrozza, o se il tempo era bello e l'aria mite, veniva a pigliarla
il suo figlio Guglielmo, il quale viveva con essa nel più
ammirabile accordo; e così pedestri, seguiti dal servitore col
lampione, si rincasavano, per ritirarsi, ella a riposare, lord
Guglielmo a studiare fino a notte tardissima.
Anche
in quella sera donna Paola Pietra, sul tardi, come soleva, recossi in
casa Ottoboni. Essendo stata bellissima la giornata, lord Guglielmo
aveva detto al carrozziere di non attaccare per quella sera,
ch'egli stesso avrebbe accompagnato a casa sua madre. Spesse volte
poi il padre Frisi e il Parini e l'avvocato Fogliazzi si facevan con
loro, e così lentissimamente passeggiando e qualche volta
scegliendo apposta la strada più lunga, continuavano la
conversazione e qualche volta anche salivano tutti in casa
Pietra Incisa a bere l'acqua cedrata. La partenza precipitosa di
lord Crall, all'annuncio che il monastero di San Filippo era stato
invaso dalle guardie della Ferma aveva provocato i parlari e messo in
movimento le congetture fra quanti erano là radunati in casa
Ottoboni. Però, quando venne donna Paola, fu un accordo tacito
di tutti di non farle motto alcuno di quel ch'era successo.
Soltanto
quand'ella si fu adagiata nel salotto da giuoco a farvi una partita
al tarocco coi soliti suoi competitori, la ciarla continuò più
abbondante e più investigatrice e più fiscale di prima
nella sala della conversazione. In tal modo era trascorsa qualche ora
di notte, allorquando entrò l'avvocato Rejna, il padre,
crediamo, del noto bibliofilo, che di quando in quando aveva
l'abitudine di frequentare quella casa. Entrò circospetto e,
con un'aria di mistero che svegliò la curiosità in
tutti quanti, chiamò in disparte l'abate Parini, e:
Guai, caro abate, guai serj. Un disordine, un parapiglia da non
imaginarsi il secondo in mille anni.
Che cosa è successo? domandò il Parini.
Prima di tutto... è qui donna Paola?
È qui.
Male. Avrei voluto che fosse a casa sua.
Ma di che si tratta?
Una compagnia di cavalieri e d'uomini civili con spade e pistole sono
entrati nel monastero di San Filippo.
C'era lord Crall?
Sì... e sono entrati coll'intento di dare alle guardie della
Ferma una lezione che loro lasciasse il segno, e da far nascere un
tale scompiglio da costringere l'autorità ad abrogare l'editto
del mese di aprile; e lo scompiglio è nato in fatti, ma di tal
sorta che sono rimasti in terra cinque tra morti e feriti, e
dovettero accorrere i soldati del reggimento Clerici... e lord
Crall...
Che? È forse morto?
No, ma fu condotto, anzi scortato al Capitano di giustizia insieme
con altri sei o sette... tra cui vi sono due che furono vostri
scolari, e v'è il figlio del banchiere Negri...
quell'accattabrighe...
Oh che caso!
Or cosa credete di fare? Dobbiamo dire il fatto a donna Paola?...
Domando a voi come si fa a serbare il segreto con quella donna; con
quella donna che avanza gli uomini in consiglio e prudenza e
fermezza. E poi già... quello che non saprebbe stasera,
saprebbe domattina, e avrebbe ragione di lamentarsi con noi; e poi,
non vedendo a comparire suo figlio, passerebbe una notte di spasimo.
Un male che si conosce è sempre meglio di un disastro che si
teme e si ingrandisce coll'imaginazione.
La
faccia espressiva del Parini, e il suo grand'occhio, in quel punto
insolitamente espanso, e la fronte spaziosa e pura su cui appariva,
quasi a dir, la fuga dei veloci suoi pensieri; e ciò, dopo
quell'aria di mistero onde lo aveva chiamato in disparte l'avvocato
Rejna, provocò l'attenzione di quanti stavano parlando nella
sala; di modo che la marchesa Ottoboni s'accostò ai due
interlocutori, chiedendo che cosa era avvenuto; e quasi
contemporaneamente quanti eran seduti si alzarono, e alle loro
domande l'avvocato dovette ripetere quello che aveva detto al Parini.
Ah me l'era imaginato, diceva uno.
In quanto a me avrei sospettato qualunque cosa fuorchè
questa...
Ma che interesse... che desiderio... che smania... Non ci capisco
niente affatto io...
Quello che non avete capito voi aveva capito io da un pezzo... (e chi
parlava era una dama).
Che cosa avete capito?
Lord Guglielmo ha ventisei anni ed è letterato... ed è
fantastico... e in monastero c'è qualche ragazza che ha più
di quindici anni.
E che?... Volevate che fosse geloso delle guardie della Ferma?...
Altro che gelosia... paura e spavento... e fin qui non ha torto... Da
soldati in convento non c'è da attender nulla di buono.
Donna Gioconda egregia, disse il Parini con ironia severa alla bella
e giovane e maliziosa dama che parlava sommesso, ma non abbastanza
perchè non fosse intesa da quelli che le stavano vicino; donna
Gioconda egregia, abbiate la bontà di credere che qualche rara
volta gli uomini, e specialmente i giovani, affrontano il pericolo
per impulso spontaneo ad operare il bene e ad operarlo a vantaggio
altrui, anche senza il secondo fine di qualche interesse proprio che
toglie merito a qualunque bella e coraggiosa azione; e mi pare che
questo sia precisamente il caso. Vogliate dunque essere cortese con
lord Guglielmo, concedendogli la virtù del disinteresse.
Chi affronta il pericolo, foss'anco per il solo intento di proteggere
dall'altrui violenza qualche cara persona, mi pare sia degno
d'ammirazione anche senza andare a cercar altro, rispose donna
Gioconda punta, ed arrossendo di dispetto sotto il minio e i due nèi
posticci che, appiccicati all'angolo dell'occhio sinistro e sulla
pozzetta della sinistra guancia, le alteravano l'armonia del bel
volto, rendendolo però più piccante.
Donna Gioconda è tanto spiritosa, che mi obbliga a concedere
questa gentile interpretazione a' suoi arguti sospetti.
E
a questo punto successe nella sala un generale silenzio che lasciò
sentir le voci di quelli che giocavano nell'altra.
Abbiamo tempo di far la pace, diceva il padre Frisi. Lord Guglielmo
non è ancora venuto.
Come volete... ma non capisco perchè stasera tardi tanto.
Il
Parini sentì e, senza dir nulla, dignitosamente zoppicando,
attraversò la sala e si recò nell'altra dov'era donna
Paola Pietra.
La
marchesa Ottoboni gli tenne dietro.
Fattosi
presso al tavoliere, dove stava seduta donna Paola:
Lord Guglielmo, le disse il Parini, non può venire stasera per
essere trattenuto altrove da un affare urgentissimo, che le dirò
dopo.
Che novità? ha mandato qualche servitore?
No... ma finisca la partita e dopo le dirò di che si tratta.
Spicciatevi, il mio caro padre Paolo, che quand'anche foste per
commettere uno sbaglio, gettando giù una cattiva carta, non si
tratta di un calcolo matematico.
Un poeta non ci perde nulla se confonde il re di spade col re d'oro,
rispose il padre Frisi, colla sua consueta facezia; ma un professore
di matematica... ci va dell'onor suo... Ah!.... Donna Paola... non
avrei mai pensato ch'ella avesse il ventuno... Caro abate, mi sono
comportato da poeta questa volta...
La
partita finì, il padre Paolo Frisi si alzò, si alzarono
gli altri e donna Paola con essi, la quale voltasi impaziente al
Parini:
E che cos'è quest'affare di tanta urgenza?
Lord Guglielmo ha voluto impegnarsi, d'accordo con alcuni altri
gentiluomini, e metter mano in quella brutta pasta dei fermieri, per
l'utilissimo intento di convincere l'autorità, con qualche
atto clamoroso, dei pessimi provvedimenti da lei presi. Però,
trattandosi stasera di una perquisizione in luogo dove la Ferma non
aveva mai osato penetrare...
Ah... me l'aspettavo... Ho compreso tutto, si è dunque voluto
assolutamente far resistenza alla forza pubblica, e Guglielmo...
Guglielmo si trovò impegnato cogli amici e... già è
facile imaginarsi che queste cose non vanno via lisce... insomma...
hanno dovuto tutti quanti presentarsi al Capitano di giustizia.
Il
Parini che, in prima, aveva proceduto con lentezza guardinga nel dar
quel tristo annuncio alla madre di Guglielmo, continuò più
spedito e più franco quando si accorse che ella non ne era
gran che percossa. Tutti poi rimasero assai meravigliati allorchè
donna Paola, sentito il fatto, sul volto, conservatosi calmo e
sereno, mostrò gl'indizj di qualche cosa che somigliava alla
compiacenza.
Cari amici, soggiunse ella poi, giacchè le soperchierie eran
procedute al punto che, a sopportarle, potevano col tempo generar
malanni ancora più terribili, ed era necessario che qualche
uomo coraggioso e fermo protestasse forte e senza quelle benedette
mezze misure che finiscon quasi sempre a lasciar le cose peggio di
prima; così vi confesso la verità, sebbene qui questa
cara ed ottima marchesa mi guardi stupita, che ho gran piacere ci sia
entrato mio figlio. Prevedo, pur troppo, che ci saranno travagli
seriissimi da incontrare; ma... penso che il mondo sarebbe cento mila
volte peggio di quello che è, se di tant'in tanto non ci
fossero quelle felici e generose tempre d'uomini che danno da pensare
alla prepotenza e spaventano i pregiudizj. Così è...
sono contenta di Guglielmo... Pur troppo l'audacia gli costerà
cara... ma verrà il buon mercato... e gli altri godranno...
Così
esprimevasi quella donna forte e singolarissima, e tra ciglio e
ciglio le brillava quel raggio antico dell'intelligenza coraggiosa
che si conforta nella convinzione del giusto
quell'intelligenza coraggiosa onde aveva saputo vincere e far piegare
innanzi a sè consuetudini e pregiudizi inveterati, siccome sa
il lettore.
Ed ora, continuava donna Paola, è necessario ch'io mi riduca a
casa, perchè è probabile che là vi sia qualche
lettera del signor capitano di giustizia, o qualche avviso di
Guglielmo... Vedremo. Chi dunque mi accompagna?
Tutti
si offersero. Ma il Parini, il padre Frisi e il conte Pertusati,
prefetto della confraternita di san Giovanni alle Case Rotte, si
disposero a farle seguito di fatto, dandole braccio l'avvocato
Fogliazzi. Quando poi tutti furono per uscire, la marchesa Ottoboni,
la padrona di casa, che aveva coltissimo l'ingegno come ottimo il
cuore:
Donna Paola, permettete che v'accompagni anch'io. Verrà più
tardi a prendermi la carrozza a casa vostra.
E
così se ne partirono tutti, facendo la via lentissimamente:
donna Paola tra la marchesa Ottoboni e l'avvocato Fogliazzi, e il
Parini che incedeva lor presso, appoggiato al braccio del Padre
Frisi.
Quando,
venuti a santa Maria Podone, attraversarono la piazza, videro fermato
un carrozzone innanzi al portone di casa Pietra. Il lacchè,
col piede sullo scalino del cocchio, tenendo nella sinistra la torcia
accesa che rischiarava di una luce rossastra gran tratto di quella
buia contrada Borromeo, attendeva a far chiacchiere col cocchiere. I
servitori, che precedevano coi lampioni i nostri personaggi, furono i
primi a dire, ravvisandola a quel chiarore: È la livrea di
casa Arese.
Ahi, disse donna Paola, questo mi è di cattivo augurio. È
la contessa.
E
in fatti, quando furono al punto da svoltar nel portone, mettendosi
in fila, per passare tra la carrozza e il muro di casa Pietra, il
lacchè, ritraendo il piede dallo scalino, e cavandosi il
cappello a tre punte:
La signora contessa mia padrona è entrata, ed aspetta da quasi
mezz'ora...
Ahimè... replicò donna Paola... davvero che prevedo
disgrazie...
Se
il lettore si ricorda, la contessa Arese, dama della croce stellata,
priora di molte congregazioni, era la protettrice e conservatrice del
collegio di san Filippo Neri.
II
Questa
nobil dama, supplicata per lettera, qualche ora prima, dalla
reverenda badessa a recarsi al monastero, senza perdere un minuto di
tempo, aveva sentito con grande indignazione il gravissimo disordine
avvenuto, e con stupore la scomparsa delle due fanciulle educande.
E l'avea pur avvisata io quella signora donna Paola, esclamò
al racconto; l'avea pure avvisata a ritirare la fanciulla dal
convento. Ma colei vuol sempre fare a modo suo, e non m'ha dato
ascolto, ed ora ecco che cos'è avvenuto.
Questo può andare per donna Ada, nobilissima contessa, avea
risposto la madre badessa, ma chi può spiegare la scomparsa
della Crivello, la perla delle educande? Ah, che disonore, che smacco
per il convento, nobile contessa, per questo convento che godeva di
una così grande e meritata riputazione!
Pur troppo, madre reverenda, pur troppo! Ed or che si fa?... Quella
signora donna Paola, che entra dappertutto, che dà consigli a
tutti, che dispensa grazie e favori e soccorsi a tutti, vedremo,
vedremo ora quel che saprà fare. Senza perder tempo io mi
recherò da lei. Voi intanto, madre reverenda, spedite tosto
qualcuno del convento de' cappuccini ad avvisare i signori
Crivello... Oh che diranno mai quegli egregi signori, quell'ottima
marchesa! ah, è questo un grande scompiglio, madre reverenda!
E così dicendo, aveva lasciata la superiora e le altre suore
in lagrime; e messasi in carrozza, se ne venne alla casa Pietra.
Donna
Paola era veduta con segreto rancore dalla contessa Arese, e da tutte
quelle altre dame segnalate per titoli, e investite di qualche
importante incarico relativo alla carità od alla beneficenza
pubblica, priore di sacre congregazioni, protettrici d'orfanotrofj,
raccoglitrici di largizioni della carità privata, e che, in
virtù di tali incarichi, erano ossequiate, supplicate, temute.
La cagione di quel segreto rancore era che quella donna singolare non
aveva mai voluto appartenere a nessuno di quei corpi morali, avendo
sempre preferito di esercitare la beneficenza in un modo eccezionale
e ne' casi eccezionali, perchè soleva dir sempre: «ai
bisogni e alle disgrazie comuni e di tutti i giorni v'è chi ci
pensa; e perciò è necessario che qualcuno provveda a
quei casi a cui, per essere insoliti o per trovarsi in contrasto con
qualcuno dei pregiudizi più radicati nel mondo, nessuno vuol
pensare». Sin qui però quelle donne esimie si sarebbero
anche tranquillate, ma il loro dispetto più forte nasceva da
ciò, che sebbene donna Paola non avesse veste nessuna di
pubblico incarico, nè titolo sonoro che la distinguesse fra le
dame, nè croci stellate, nè altro, pure ogni qualvolta
si mostrava in pubblico o appariva tra la minuta gente, a preferenza
di tutte loro, raccoglieva le più segnalate dimostrazioni
d'affetto; e spesse volte i poveri e gl'infelici che ricorrevano ad
esse, se mai insorgeva qualche difficoltà di soccorso,
mettevano innanzi il nome di donna Paola, quasi lor domandando
consiglio, se era il caso di ricorrere a quella come a suprema
autorità. Codesto fatto era il colpo più crudo per
quelle esimie dame; e spesso i poveretti che, per inesperienza
ingenua, avevano proferito quel nome venerato, si sentivano
licenziati con solenni rabbuffi e peggio. Tanto s'infiltra ovunque il
perfido amor proprio, e, quand'è offeso, mette il turbamento
persino negli atti di carità!
Ma
tornando ai fatti, donna Paola, affannata ed ansiosa, salì le
scale preceduta da tutti gli altri. Il servo gallonato della contessa
Arese era in anticamera, e con esso un servo di donna Paola, alla
quale e l'uno e l'altro contemporaneamente dissero:
La signora contessa Arese è nella sala di ricevimento.
Il
rumore dei passi e delle voci fecero alzare la contessa dal
seggiolone, ove erasi messa per meditare la formola migliore da dare
al tristo annuncio, di modo che, quando donna Paola entrò,
quella gli moveva incontro:
Qual grave motivo vi ha costretta a venire da me in ora così
tarda?
La
voce di donna Paola, la qual non s'era per nulla turbata quando il
Parini le aveva narrato il fatto di suo figlio, tremava
nell'esprimere quella domanda.
Un
vago presentimento l'affannava e, per di più, vedevasi innanzi
una donna colla quale non s'era mai trovata d'accordo un momento
solo. V'hanno persone che, relativamente o assolutamente, nella
faccia, nei modi, nelle parole, serbano un'impronta indefinibile che
arrovescia l'anima di chi, senza volerlo, è costretto a
trovarsi con esse. E donna Paola era precisamente in questa
condizione al cospetto della contessa, e per quell'impulso naturale
ed invincibile dell'antipatia, la quale spesso è
un'ingiustizia, ma qualche volta è pur salutare come
l'istinto; ed anche perchè sapeva come l'Arese, di cheto e
sott'acqua, fosse la sua perpetua avversaria, e si adoperasse a
mantenere contro di lei i rancori delle dame vegliarde sue degne
consocie, e soffiasse astutamente nelle ire, velate di pretesti
devoti.
Quando
una persona versa in tali relazioni affettive con quella a cui deve
annunciare una disgrazia, non è possibile che trovi in quel
punto il modo da farsi ben volere.
Donna Paola si ricorderà dell'ultima mia visita, rispose dopo
qualche pausa la contessa.
Me ne ricordo, sì, soggiunse con impazienza donna Paola.
Si ricorderà anche del consiglio che rimessamente mi son
permessa di darle... Ahi!... perchè mai, nella sua saviezza,
donna Paola, non ha creduto bene di ascoltarmi! e mandò un
grave e lungo sospiro.
Davvero
che si potrebbe forse scommettere che in fondo all'animo della
contessa c'era un sentimento di compiacenza, che le faceva trovare
una, quasi diremo, vendetta nel dar quell'annunzio a donna Paola; un
sentimento irresistibile e che, per mancanza di espressioni più
proprie e precise, si potrebbe chiamar fisico. Infatti, se non fosse
così, perchè incominciare il suo discorso a quel modo?
Ma in nome di Dio, parlate, continuava donna Paola; che cosa c'entra
il vostro consiglio di tanti giorni fa, colla vostra visita di
quest'oggi?
Se quella fanciulla da voi protetta fosse stata ritirata dal
monastero in tempo...
Che?...
Quest'oggi non sarebbe scomparsa...
Scomparsa!... Ma chi scomparsa? ma da dove? ma parlate più
chiaro e più spiccio.
Donna Paola si tranquillizzi... Vi deve essere nota la visita de'
fermieri in convento e il parapiglia con alcuni... non dirò
cattivi, ma certo turbolenti e avventati giovinotti... Lord
Guglielmo, vostro figlio, ha voluto onorarli della propria
complicità... e ciò mi rincresce, mi rincresce
davvero... un così distinto giovane! Ma per non lasciarvi in
pene, vi dirò che, mentre avveniva il più strano e
terribile caso che mai abbia sconvolta e funestata la santa
tranquillità di un convento, scomparvero due educande; donna
Ada, figlia della contessa Clelia, e una Crivello... della quale poi
non mi so far capace in nessun modo... perchè era chiamata la
perla delle educande.
Scomparsa!!!... esclamò donna Paola, lasciandosi cadere sul
seggiolone, e girando lo sguardo attonito su tutti gli astanti che,
percossi e muti e immobili, guardavano lei.
Allora
il più profondo silenzio si prolungò sino al punto che
donna Paola, alzandosi da sedere e stringendo le mani della marchesa
Ottoboni colle proprie convulse e tremanti:
Povera infelice contessa proruppe... or che le diremo?... Ah! è
una disgrazia maggiore di tutte le disgrazie!
E
il silenzio continuò ancora, finchè fu rotto dalle
parole della contessa Arese:
Donna Paola, non v'è chi misuri e trovi giusto il vostro
dolore più di me... ma se è permessa una riflessione in
così tristo punto, lasciate ch'io ridica quello che ho sempre
pensato e detto. Non era conveniente, per nessun conto, che una donna
vostra pari si desse tanto pensiero della contessa, che Dio però
le perdoni; nè che vi pigliaste tanta cura di quella
fanciulla... molto meno poi fu conveniente il metterla ad educare nel
monastero... La nobil donna che m'antecedette come protettrice e
conservatrice di quel santo luogo... ha voluto fare a modo suo... ha
trovato giusto che voi... che la contessa... ma in conclusione fu uno
scandalo, uno scandalo inaudito che... e molti infatti dei nobili ed
ottimi genitori che misero ad educare le loro fanciulle là
dentro... se ne lamentarono e se ne lamentano.
Donna
Paola, sprofondata nel doloroso suo pensiero, a tutta prima non aveva
prestato orecchio alla contessa Arese; ma arrestata da quella parola
scandalo, si scosse e comprese e si mise a guardar fissa la
contessa, aspettando attonita la conclusione delle sue parole; se non
che non le bastò la pazienza di lasciarla finire, e:
Che mi tocca di sentire? proruppe; di che scandalo mi parlate, di che
lamenti? Vorrei che parlassero a me questi signori padri e queste
signore madri che voi mi nominate! Ma dov'è la legge del
perdono? ma che nuova dottrina è la vostra, ma chi ve
l'insegna? La contessa Clelia è oggi un esemplare di virtù
e di scienza. Ella ha provato al mondo che, se si può fallire,
ben si può rompere una mala pratica, ed oggi, esponendo altrui
il tesoro faticoso de' suoi studi severi, è più utile
al mondo che voi tutte colla vostra carità falsa, per la quale
vorreste messa alla gogna anche in fasce una creatura innocente
perchè... ma che perchè? La fanciulla Ada è la
figlia del conte V..., chi può negarlo? voi sole, egregie dame
della carità, siete state a far sorgere gli scandali, gettando
nel mondo le avventate congetture che la coscienza, l'onestà,
la bontà dovrebbero sempre respingere. Ma sta a vedere,
contessa, che voi sareste capace di pensare, e anche di volerlo far
credere a me, che questa sventura possa essere un indizio
dell'ammonizione, della punizione del cielo; perchè tra le
altre vostre abitudini avete anche quella di dar ad intendere di
essere confederata al cielo in tutto quello che dite e fate, e siete
per dire e per fare; così il cielo, al cospetto del povero
vulgo ingenuo, ingannato dalle false apparenze, quasi parrebbe
complice della cecità, per non dire del pervertimento del
vostro giudizio. Ed ora vi debbo dire, che, dacchè il
monastero di san Filippo Neri fu eretto dalla sua pia fondatrice, la
vigilanza fu sempre così esemplare che non è mai
avvenuto che scomparissero o vi si trafugassero fanciulle. L'esimia
signora che vi ha preceduto nell'incarico di proteggere quel sacro
asilo, lo mise in tanta floridezza, che da tutte le parti del Ducato
fu una gara il mandarvi ad educar fanciulle. Ora è sotto la
vostra tutela, ed è per la prima volta che avviene una
sventura di tal fatta, una sventura la quale non può
ascriversi che a disordine di regolamento, a incompleta sorveglianza,
a incapacità tollerata nelle superiore, alla insufficiente
custodia del luogo, cose tutte di cui voi, voi sola dovete render
ragione... Ed ora che diremo, che dirò io a quella povera
contessa Clelia, la cui vita travagliata e, adesso, di tutto
sacrificio, non aveva altro conforto che l'esistenza di quella sua
unica ed angelica figliuola?... che le dirò io? con che parole
le scriverò? Ah!... avrei voluto morir prima, piuttosto che
sentire una simile disgrazia...
E
così dicendo, cadde spossata sulla seggiola.
Condono al dolore, disse la contessa rivolta agli astanti,
dignitosamente burbanzosa, l'amarezza delle sue espressioni; e
additava donna Paola; ma nè la conservatrice del monastero nè
la priora, nè le suore maestre potevano rispondere dell'ordine
consueto del monastero in una notte di tanto trambusto. Chi poteva
prevedere una perquisizione in convento?... chi, e fu il peggio, la
venuta di que' giovani armati che tramutarono il monastero in un
campo di battaglia? E non posso tacere la voce che ormai circola per
Milano... che quei giovani siano entrati in quel sacro asilo per
coprire un colpevole intento con un atto coraggioso... Non posso
dissimulare essere generale la persuasione che quei giovani fossero
appartenenti alla pericolosa e iniqua società dei
Liberi Muratori... Vi fu perfino chi... ma io non voglio
credere... vi fu dunque chi mise innanzi a tutti il nome di lord
Crall...
Donna
Paola si volse a quelle parole, e un lampo le balenò nel
pensiero e un sospetto. Ella, avendo letto in cuore al figlio
Guglielmo l'amore per Ada, era la sola che di necessità doveva
essere più vicina ad ammettere quell'accusa, ripensando la
quale e misurandola in tutta la sua gravezza si trasmutò in
viso, ed essendosi sforzata a parlare, non potè.
Allora
corsero diverse parole tra la marchesa Ottoboni, la contessa Arese,
il Parini, il Frisi e gli altri. In fine la contessa, avvicinandosi a
donna Paola, con accento dignitoso, ma in cui fremeva l'aria del
trionfo:
Io ho fatto il mio dovere, le disse, se fui sollecita nel venirvi ad
avvisare di tutto. Credo che non avrete rancore con me, se ho
manifestato le mie opinioni, come io non ho nulla con voi se avete
manifestate le vostre. Io vi lascio intanto, pregando il cielo perchè
vi dia buoni pensieri e la calma di sostenere un tal colpo.
Abbiate i miei ringraziamenti, rispose donna Paola, alzandosi e
stringendo sbadata la mano che quella le porse. E la contessa uscì
accompagnata dalla marchesa Ottoboni sin sulla soglia della sala.
Quando la marchesa tornò indietro, donna Paola stava
interrogando il Parini se fosse conveniente o no avvisare la contessa
Clelia di quella sventura.
Bisogna scriverle senza perder tempo, rispose il Parini, anzi
supplicarla di venir tosto a Milano. Io non m'arrogo, donna Paola, di
dar consigli a voi; ma per quanto segnalata sia la vostra prudenza e
feconda di consigli la vostra esperienza e operoso il vostro amore,
pure è necessario che in tal caso la madre sia qui. L'amor
materno serba delle virtù arcane, che talvolta arrivano ad
ottenere quel che parrebbe impossibile ad ogni altra volontà
intelligente e infervorata. Io ho un presentimento, torno a
ripeterlo, che soltanto la madre troverà sua figlia.
Scrivetele dunque subito, disse donna Paola, ma non spaventatela. Un
pretesto... una malattia... che so io?... ma badate di non
spaventarla... Povera Clelia!! ed abbassando la voce e facendosi
all'orecchio di Parini: Ed ora, soggiunse, io sono più
povera di lei!
Poco
tempo dopo, la carrozza venne a prendere la marchesa Ottoboni, a cui
donna Paola diede un bacio; anche gli altri partirono; e noi pure
usciremo all'aperto.
III
La
calunnia è un tema inesauribile, press'a poco come quello
dell'amore. Si credeva che essa, dopo essere stata svergognata
nell'ideale di don Basilio, e messa in musica da Rossini, avrebbe
cessato di somministrar nuovi concetti al filosofo ed all'artista. Ma
siccome gli uomini, se appena appena si elevano di tanto, quanto
basta a destare invidia, ne hanno sentito nelle reni il coltello
traditore, così, anche dopo il fa diesis che Rossini
applicò al colpo di cannone, vi si fecero intorno degli
studj, i quali se non valgono ad esprimere con novità il
concetto generale della calunnia, ne mostrano però sempre
qualche nuovo carattere speciale e peregrino degno sempre di un
paragrafo in un trattato di patologia sulla natura intellettuale e
morale degli uomini.
Il
figlio di Lorenzo Bruni che fanciullo conobbe donna Paola di persona,
ci raccontò come anch'essa, a sessantasei anni, dovette
sentirsi avvolta dalla bufera della calunnia. Un nuovo modo della
quale, e si manifestò la prima volta allora per ferire quella
donna singolare, consistette in ciò che, ad assalirla, colse
il punto in cui la virtù di lei aveva mandato il suo raggio
più vivo e più caratteristico. Noi abbiamo veduto che,
allorquando l'abate Parini le annunciò guardingo la cattura di
lord Guglielmo, ella, invece di provare quella costernazione che
tutte le madri nella sua condizione avrebbero provata a quella
notizia, mostrò invece un vivo soddisfacimento, e disse tali
parole, per cui fu manifesto che posponeva la tranquillità del
suo carissimo figlio all'idea generosa di vederlo in pericolo per
essersi adoperato a vantaggio altrui. In quel secolo, o per dir
meglio, in quel periodo di secolo poltrone, la madre romana che
uccise il proprio figlio in punizione d'aver gettato lo scudo in
battaglia non potea avere dall'opinione codarda dei più che un
grado distinto tra le pazzie celebri; e però doveano fare uno
strano senso le parole di donna Paola. Gli intelletti e i cuori
squisiti, che, come sempre e dovunque, costituivano una desolata
minoranza anche nella società di casa Ottoboni, rimasero
ammirati e commossi a tanto slancio d'insolita magnanimità; ma
gli altri, ovvero sia i nove decimi di quella società stessa,
subirono una meraviglia ottusa e cretina, per la quale non poteano
capacitarsi che una madre, e una madre di quel senno tanto decantato,
dovesse esprimere così avventati sentimenti.
Guai
se un atto qualunque, sia pur originato dal più generoso
impulso e venga dall'uomo più incorrotto, si eleva oltre la
sfera delle abitudini vulgari, in modo da non poter essere più
seguito dall'ala del senso comune! quell'atto, di repente, girando di
bocca in bocca, è soggetto a mille esami fiscali; i più
vili, che non possono nemmeno concepire le buone azioni comuni, si
rivoltano come serpenti alla buona azione eccezionale, la quale è
gettata innanzi al tribunale della pubblica opinione come una colpa
vituperosa.
Ma
per vedere come la calunnia abbia lavorato ai danni di quella donna
insigne, entreremo nel caffè Demetrio per assistere al
processo con cui l'ozio, onde canzonare il tempo, si spassa a far
rotolare innocentemente le accuse a cui diedero la prima spinta i
vili.
Dopo
quella tal giornata memorabile del mese di marzo del 1750, noi non
siamo mai più entrati nel caffè del Greco o Demetrio.
Bensì, in sedici anni, non mancarono di intervenirvi
quotidianamente quasi tutti coloro che abbiamo udito a far commenti
intorno al tenore Amorevoli, stato colto dal barigello nel giardino
di casa V... Continuava ad intervenirvi anche quel tal che, fin
d'allora, abbiam veduto sedere, quasi al banco presidenziale, in
quell'assemblea di sfaccendati, a tener la paletta e a ventilare il
braciere delle novità e della maldicenza. Colui, se nelle
rughe agli angoli esterni degli occhi, spiegatesi in forma di
ventaglio, mostrava che i tre lustri non avevano mancato di fare il
loro dovere, nel rimanente, per salute, abitudini, spirito e
parlantina, si conservava perfettamente lo stesso. Ai vecchi
avventori se ne erano poi aggiunti di nuovi, tra gli altri un tal
Carlantonio Baserga, stato già ragioniere maggiordomo in
casa Origo, poi venuto agli stipendj del monsignor G..., ricchissimo
prelato, primicerio della Metropolitana. Quel signor Baserga veniva
dopo mezzodì a sorbire la cioccolata al caffè Demetrio,
e per essere un collo torto, e per aver fama d'essersi arricchito
nell'amministrare le altrui sostanze, ingannando i buoni padroni
coll'ostentazione delle più devote pratiche, coll'abbandonare,
per esempio, un pranzo in venerdì o in sabato, se mai avesse
veduto qualche cappone mostrare i suoi pingui gheroni sulla tavola di
un ricco gaudente; per essere, insomma, tenuto in conto d'astuto
ipocrita e d'indefesso procacciatore d'acqua pel suo mulino, era
malissimo veduto da quella società di gente allegra e un po'
libertina.
Con
tutto ciò, guardate caso strano, la prima volta che colui,
sentendo a commentare in caffè l'avvenimento del monastero e a
parlare di lord Crall e degli altri, pronunciò blandamente una
parola, che cangiando di punto in bianco tutta la direzione delle
congetture, schizzò uno spruzzo di veleno risolvente sulla
riputazione del figlio di donna Paola e su quella di lei medesima, in
quell'occasione tutti, o quasi tutti, aguzzarono l'orecchio e lo
ascoltarono ansiosi e, osiamo dire, con piacere; con tanto piacere
che tacque pel momento l'invidiabile antipatia che avevano per esso.
Donna
Paola dovette allo slancio più luminoso della sua generosa
indole, se nella maggior parte che l'ascoltarono nacque un primo
senso di maraviglia diffidente e di ripulsione. Il collarone
Baserga, esoso a tutti, nel punto che con più ardimento
spiegava la sua mala natura, precisamente in quel punto i credenzoni
gli si volsero più benigni. A seguire colla riflessione
codeste bizzarre contraddizioni della società che si piega ad
ogni vento, chi vive d'entrata può divertirsi tanto, quanto
basta per purgarsi delle amarezze che vi si raccolgono ad ogni
minuto!
Un'ora
dopo mezzodì, i nostri vecchi avventori erano dunque tutti
seduti in caffè; il nostro amico presidente passeggiava
innanzi e indietro, colle braccia conserte al petto, come se il mondo
posasse tutto quanto sovra i suoi larghi omeri. Solo in un angolo
l'amico collarone, il signor ragioniere Baserga, sorseggiava la
cioccolata.
A
quell'ora, com'è naturale, tutta la città era piena dei
fatti avvenuti la notte antecedente, figuriamoci poi se non ne doveva
essere completamente informata quella società di compagnoni,
cacciatori instancabili di notizie e di pettegolezzi.
Avete ragione, diceva il presidente; il fatto, anzi l'intreccio de'
fatti, è strano, è curioso, è avviluppato fino a
parere inverosimile, ma è ancora un niente per sè
stesso. Quel che fa strabiliare si è che, per questi fatti,
tornino oggi in ballo precisamente coloro che tanti anni fa
provocarono tali e tante ciarle da andarne sottosopra tutto il
Ducato. Che la signora contessa Clelia abbia dato al mondo una bella
figliuola... niente di più naturale. Ma quel che fa senso è,
che da un monastero dove non è mai avvenuto scandalo di sorta,
debba scomparire una fanciulla, e che questa fanciulla sia
precisamente la figlia della contessa! Se ciò fosse successo
nel monastero di Santa Radegonda... non poteva andar meglio... Donna
Paola lo rese celebre per esserne fuggita, e per aver avuta tanta
drittura di cervello e forza e coraggio da farsi dar ragione anche
dal papa... onde la fuga della figliuola di donna Clelia avrebbe
fatto di quel monastero un istituto sui generis, da essere di
preferenza visitato dai forastieri.
Se mi permetti di contraddirti, soggiungeva un altro, sarebbe stato
ben più strano e inconcepibile che donna Paola avesse mandato
ad educare la sua, dirò, pupilla in quel convento stesso, dove
ella aveva passata una gioventù tanto infelice, e che la
pupilla fosse poi fuggita di là appunto per imitare chi
l'aveva in tutela.
Come vuoi tu...? Ma tornando alla scomparsa o alla fuga della
ragazza, non poteva al certo avvenire in un modo
più clamoroso; perchè gli ingredienti e della Ferma e
delle guardie e delle schioppettate nel recinto, e dell'intervento
dei Frammassoni, se sarà vero, e del giovane lord Crall,
precisamente di un figlio di donna Paola, fanno un tal garbuglio e un
tal nodo, che sfido la fantasia del prete Passeroni a inventarmene
uno più intricato... e scommetto che, coll'andar del tempo,
qualche bizzarro ingegno, se mai verrà a conoscere tutta
questa matassa, e sia di quelli che o bene o male sanno tenere una
penna in mano, ne stenderà la storia in modo, che i
nipoti dei. nostri nipoti sentiranno il desiderio di essere nati
tanti anni prima.
Ah, è una gran donna quella donna Paola...
Cosa c'entra adesso la gran donna?
C'entra tanto che, senti un po', caro mio, giacchè ti dispiace
che una notizia venga da una bocca che non sia la tua, ma l'ho
sentita stamattina nello studio dell'avvocato Fogliardi....
Sentiamo; che cosa?
Che invece di lamentarsi della disgrazia toccata al figliuolo, donna
Paola, jeri sera, in casa Ottoboni, se ne gloriava. e diceva che esso
aveva fatto benissimo a comportarsi a quel modo...
Colui
che parlava non incontrava di solito l'approvazione dei compagnoni
affaccendati. Può darsi che forse rappresentasse il solitario
buon senso in perpetua lotta col senso comune; però fu
contraddetto anche in questa occasione.
Oh... tu la dici grossa... bada che donna Paola non avrà detto
così... non è possibile....
Se lo dico, è perchè lo so....
Allora si vede che anche donna Paola può dir delle
sciempiaggini... e che, per distinguersi dalle altre dame, ha voluto
far la parte di Spartana. Io abborro tutto ciò che sa di
ostentazione...
Ma che ostentazione?...
Rallegrarsi perchè il figliuolo va in galera... ma sai tu che
è nuova di conio?
Cosa c'entra la galera?... È motivo che la si deve guardare.
Che motivo?... Già io non sarò mai per approvare che
coloro siano andati con violenza a portar il campo di battaglia in un
monastero, per fare il bulo coi finanzieri. Non si potevano
aspettar in istrada... od assalirli nel loro nido?
Bravo! per rimanere schiacciati dal numero. Saresti un generale assai
astuto... Bravo!
Ma che bravo! Credi tu ch'io solo sia di questo parere?... tutti lo
dividono con me... E sfido io a pensar altro, chi ha la testa sulle
spalle....
Grida pure a tua posta; ma intanto ti prego a considerare che non
basta aver la testa sulle spalle... quel che importa è di
avere una buona testa.
Signor buona testa... mi perdoni, dunque.... ma quando tu mi proverai
che la prepotenza di quei giovinotti...
Ma ho da sentir a parlar di prepotenza, quando si trattava di sbarrar
le bocche a quei cani de' fermieri...
La questione non è sui fermieri... la questione è se
sia stato bene entrar in un monastero a fare il gradasso... e a far
strillar le monache... bel gusto!... bell'onore!...
Sono andati a cercarli dove si trovavano, e per coglierli nel punto
che, per la prima volta, ebbero la sfrontatezza di entrar in un luogo
consacrato alle sante vergini.
Ma che sante vergini!...
Sta a vedere che adesso l'hai colle sante vergini!... mentre prima
disapprovavi chi aveva loro turbato il sonno. Ma dov'è la
connessione delle idee?
Il
presidente, messo alle strette, faceva gli occhiacci all'avversario,
quando l'amico collarone entrò a parlare:
Con buona pace di loro signori... se mi permettono, dirò
anch'io il mio parere.
Tutti
si volsero.
Trovo che il signore ha ragione nell'asserire che donna Paola non
aveva poi tanto a gloriarsi che suo figlio siasi cacciato in
monastero per calar la spada sulla testa de' fermieri.
Diavolo!... si può pensar diversamente?... e il presidente
chiacchierone guardò con amabilità insolita l'ipocrita
collarone, a cui aveva pur sempre e fatto e detto delle scortesie.
Ma, per un'altra delle tante debolezze umane, quando uno è a
capegli con un avversario in una disputa qualunque, e, volendo aver
ragione ad ogni costo, si sente a dar torto con virulenza, non tarda
un minuto a farsi amico del primo che venga in suo soccorso, fosse
pure colui il peggiore suo nemico.
E trovo inoltre di dire, continuava il signor Baserga, che lord Crall
nell'entrare armata mano in monastero ha commesso una solenne
prepotenza.
Diavolo, non si può avere un'altra opinione.
E i fermieri, che Dio però li tenga lontani dalla mia casa,
dovevano essere attratti in altro modo, e sfidati, se pur si volevano
sfidare, in altro luogo.
Così è certissimamente; allora avrebbe potuto dire di
aver saputo respingere la violenza stando sul terreno della legge. È
chiara come il sole.
Sicuro, certo, non c'è che dire, soggiunsero allora tutti in
coro.
Non c'è che dire? Adagio, soggiungeva l'uomo del buon senso;
c'è da dir qualche cosa, perchè quando sento a parlar
di legge, ho l'onore di dire che a bastonare le guardie della Ferma
anche in un'osteria, il terreno della legge sarebbe stato invaso
tanto, quanto ad averli percossi in convento... e che dall'istante
che si doveva dar di cozzo e nella legge e nell'autorità viva
e recente e calda di un editto che non parla a mezzabocca, tanto
valeva un'osteria quanto un monastero; anzi il monastero spiega la
ragione e della difesa e della protezione dei deboli; e l'osteria
invece avrebbe presentato il sospetto di una rissa plebea e villana,
e tutt'altro che degna di gentiluomini...
Se il signore mi ascolta... sentirà che non si trattava di
difesa... bensì era una trappola tesa da lontano...
Che? come?
Ma innanzi tutto devo dire che, se loro signori sono tra i caldi
ammiratori di donna Paola, io ho l'obbligo di tacere.
Ma parli, ma parli, gridava il presidente. Oh, sarebbe bella che...
Vi rammentate quel che ho detto un giorno in cui abbiam veduto donna
Paola nel carrozzone scoperto, seduta insieme colla figlia della
contessa Clelia che le stava presso, e col giovane lord sdraiato
dirimpetto?... Io le vedo da lontano le cose... Ma se sta il
sospetto, la contentezza mostrata da donna Paola deve aver bene la
sua ragione.
In fatti non è senza ragione. Ascoltino.
IV
«Non
so se loro signori conoscano il fatto della lite intentata dal signor
conte V... alla contessa sua moglie, riguardo alla figliuola che fu
messa ad educare nel monastero di San Filippo.»
Altro che conoscerlo, rispose il facente funzione di presidente degli
avventori del caffè; per non esserne al fatto bisognerebbe
aver viaggiato tutti questi anni lontano da Milano.
Tanto meglio... ma forse non conosceranno la parte attiva, continua,
calda, instancabile che donna Paola ha avuto in questa faccenda;
tanto che, sebbene il conte fosse dalla parte della ragione, e per
quanto la contessa fosse convinta... del suo, non si può a
meno di dire, vergognoso trascorso... pure... l'illustrissimo signor
conte, per sentenza del Senato, venne, or non sono molti giorni,
costituito nei diritti e negli obblighi della paternità verso
la figlia della contessa... Questo forse loro signori non lo
sapevano.
Lo si sapeva assai bene, e quasi avevam stabilito di fare una
serenata di congratulazione al signor colonnello...
Ella ride, signore; e fa bene, perchè non si trova ne' panni
del colonnello; ma lasciando lo scherzo, che ne pensa ella della
sentenza del Senato?
Che può far numero colle tante e tante altre ingiuste e
assurde che ha pronunciate in trecento anni.
Bravo!
Chi bravo? il Senato? disse l'uomo dalle opinioni solitarie,
sorridendo ironicamente.
Cosa vorresti dire tu?
Che non divido il tuo parere, nè il parere del signore, e che
il Senato...
Or sta a vedere che costui è capace di farci il panegirico
anche del Senato...
Va adagio, caro mio, e se hai buona memoria, devi ricordarti che ad
odiare il Senato t'ho insegnato io... Dunque non c'è pericolo
ch'io voglia lodarlo adesso... Ma altro è avergli avversione,
altro è dire che siano ingiusti tutti quanti i suoi atti.
Diavolo! non volete voi che qualche volta, per isbaglio, non possa
anche il Senato servire alla giustizia? Questo, per esempio, è
un caso.
Giustizia l'aver dichiarato che il padre della figlia... sì,
insomma, ci comprendiamo, deve essere il signor colonnello?...
Giustizia, sì... e chi non lo crede si diverta; ma se tutti
hanno gli occhi nella testa, non tutti li hanno nella mente... e se
voi altri...
E che fa a noi il vederci, se tu ci vedi per tutti?
Non andare in collera, e ascolta: già la giornata è
lunga, e al terzo pasto ci mancano molte ore; ascolta dunque, e si
compiaccia d'ascoltare anche quel signore, e prima di tutto vorrei
pregarlo a provarmi che la sentenza del Senato è ingiusta.
È una cosa così chiara e lampante, che è più
facile vederla che dimostrarla. Come farò io a dimostrare e a
provare a lei che oggi è una giornata calda, se ella mi dice
d'aver freddo?...
Il signore conosce l'arte delle anguille... me ne congratulo tanto...
ma qui non si tratta nè di caldo nè di freddo... si
tratta di torto e di ragione, e di un fatto in cui ci son gli indizj
e le prove palmari e dell'uno e dell'altra... Ho dunque l'onore di
dirle che nelle consuetudini, e negli statuti, e negli interpreti, i
figli di un matrimonio appartengono tutti a quel padre che non s'è
mai diviso dalla moglie in faccia alla legge, e che dalla legge non
fu dichiarato prosciolto dai vincoli di marito... Ora, durante
l'intero anno 1750, il signor colonnello non fu mai legalmente diviso
dalla signora contessa.
Questo è vero... ma...
Che ma? in aggiunta poi ho il piacere di dirle che il signor
colonnello, tanto è più grande e grosso quanto meno
acuto, per paura forse che la pratica del foro milanese non bastasse
a salvar la riputazione della moglie, andò espressamente a
visitarla in Venezia... e più d'una volta fu alla casa
dov'ella alloggiava; il che venne constatato dalle testimonianze e di
quei padroni di casa, e dei servi, e del guardaportone... È
contento ora?....
Tutt'altro; bensì le dirò che il signor conte, difeso
dall'avvocato Rapazzini, che è l'avvocato di monsignore mio
padrone, ha opposto al fatto dell'essersi presentato due volte alla
casa della contessa in Venezia, quello del non essersi mai trovato
davvero con lei.
Davvero?... cosa significa davvero?... Ha prodotte testimonianze il
conte?
No.
Dunque?
I testimonj furono interrogati capziosamente...
Cioè?
Cioè... cioè... S'ha proprio a dir tutto?
Se ci dobbiamo intendere!
Dunque le dirò, che la formola dell'interrogatorio fu regolata
in modo da voler manifestamente giovare alla contessa...
Chi lo ha detto a lei?
Dal processo verbale appare che i testimonj non dovettero rispondere
che a questa semplice domanda: È vero che il conte si
presentò in Venezia alla casa della contessa? e i
testimoni, naturalmente, anche senza pericolo di dire il falso, hanno
risposto di sì... e su questo «sì» venne
innalzato tutto l'edificio della ragione della contessa e del torto
del conte. Ed ecco come si fa a dar di gambetto alla giustizia... E
fu donna Paola a subornare i giudici; ella che li invitava a pranzo e
li regalava, e...
E perchè doveva far tutto questo, se anche senza le visite del
conte alla casa della contessa in Venezia la pratica del foro lo
dichiarava padre della nata... e per conseguenza...
Che conseguenza?...
Una bellissima conseguenza, ed è questa, che la figlia della
contessa sarà un giorno una delle più ricche dame della
città.
Ah... qui ci siamo e qui lo volevo! gridò allora il
maggiordomo Baserga con un impeto che tradiva la sua natura chiusa,
subdola e circospetta.
Ecco perchè donna Paola s'interessò tanto in questa
faccenda... La cosa che più di tutto premeva a quella donna
era, che la figliuola della contessa potesse recare una pinguissima
dote al futuro marito. Comprendono ora loro signori?
Guarda un po' se io mi sono apposto bene? soggiungeva il facente
funzione di presidente. Or ecco com'è la cosa...
È vero...
Non può essere diversamente...
Però, o in un modo o nell'altro, quella donna è sempre
una donna di gran testa.
Questo è un altro pajo di maniche; altro è
l'essere una gran testa, altro è l'essere una santa,
un'eroina... una, che so io?... perchè qualche volta il mondo
impazzisce... e c'è da stupire pensando che doveva meritarsi
il nome di venerabile, di santa, di miracolosa, chi avea saputo
fuggir da un convento, di notte e coll'amante!
Mi stupisco molto di lei, rispettabilissimo signor maggiordomo,
diceva il solito contraddittore, mi stupisco molto di lei che, mentre
con tanta edificazione del pubblico suda a tenere uno degli otto
bastoni del baldacchino del Duomo nell'ottava del Corpusdomini, parli
in tal modo di una dama che meritò sì distinti riguardi
dal santo padre e dal suo concistoro...
L'astuzia può arrivare ad ingannare chicchessia, mio signore.
Non il pontefice però... badi che, a contraddirmi, ella
incorre in eresia...
Ma lasciagli continuare il discorso, seccatore eterno che sei!
Continui pure... Son curioso anch'io di sentire a che conseguenze ei
ci vorrà tirare.
E non ha già compreso ogni cosa la tua buona testa?
Questa volta non ci arrivo proprio; ho bisogno che il signore si
spieghi in lungo e in largo.
Il signor maggiordomo vuol dire, che alla esimia donna Paola premeva
che la figlia della contessa fosse dichiarata legittima figliuola del
signor conte colonnello, perchè così sarebbe stata
ricchissima; e ciò, com'è ovvio a credere, per aver in
tutela la futura moglie del proprio figliuolo. Hai capito adesso?
Precisamente, così..., soggiunse il maggiordomo, ed io, per
poter dir questo, ho dei riscontri che non sbagliano.
Ma volendo pur concedere che la cosa sia come ella dice... io non
trovo poi che nel desiderio di accasar bene il figliuolo ci sia colpa
di sorta; nobile e ricco l'uno, nobile e ricca l'altra, giovani e
belli ambedue. Che ci trova ella a dire in contrario?
Quando il signore sia capace di provarmi che è un atto di
virtù e generosità il lavorare assiduamente e in una
materia così delicata per arricchire la propria casa a spese
altrui, per me non ho nessuna difficoltà a lasciarmi
convincere. Prima però faccio osservare che la contessina
aveva avversione al giovine milord, e non mancò di
manifestarla, poverina! ed io so che, in proposito, ci furono dei
disgusti, dei gravi disgusti in casa. Donna Paola vagheggiava la
ricchezza futura e la splendida posizione del figlio... troppo
giusto! il figlio vagheggiava la bellezza della ragazza, della quale
s'innamorò pazzamente... è da compatire. Il cocchiere
di casa Pietra è fratello del cocchiere di monsignore... e,
come loro sanno, i segreti dei padroni son sempre messi in piazza dai
servitori. Così dunque, per continuare, madre e figlio si
strinsero in lega per tirar nella rete la giovinetta inesperta...
Questa, sgomentata, l'ultimo giovedì, giorno in cui era solita
uscire per andare in casa Pietra, volle di forza rimanere in
convento, e resistette alle sgridate della madre superiora, ignara
dei lacci; e respinse le preghiere della governante di donna Paola
che era andata a pigliarla in carrozza. Loro signori mi guardano
attenti e maravigliati, ma non aggiungo nè un punto nè
una virgola alla verità. Ma i sepulcra dealbata sono
antichi come la lettera del vangelo; e finchè una persona non
è morta, non la si può giudicare, e spesso la fortuna è
tanto benigna con certuni, che aspetta il punto in cui vien loro dato
l'olio santo per alzare il bianco lenzuolo che da anni ed anni
nascondeva le nere magagne. Che se donna Paola non ha potuto aspettar
l'olio, vuol dire che la fortuna, la quale è capricciosa, s'è
disgustata seco tutt'in un tratto. Così è, signori; del
rimanente, che la fanciulla sia scomparsa dal monastero è un
fatto che tutti conoscono fin da jeri; che poi sia stato lord Crall a
farla scomparire è il fatto che io ho l'onore di raccontare
oggi per la prima volta, e se non credono a me, vadano al criminale e
interroghino qualche attuaro, e sentiranno; sentiranno chi è
stato a ordir la cabala, a riscaldare quegli otto o dieci giovinotti
contro le guardie e i commissarj perquisitori, a far nascere tanto
disordine e tanto scandalo in convento; sentiranno e confesseranno
per la seconda volta che donna Paola Pietra, come ha detto questo
signore, è proprio una gran donna! Ma con quello spirito
turbolento, audace, irrequieto, e con quell'astuzia in corpo sarebbe
riuscita assai meglio nei panni di un uomo; e se, per un modo di
dire, avesse abbracciato il mestiere delle armi, chi sa mai?...
Federico di Prussia avrebbe forse avuto un competitore.
Queste
parole del maggiordomo, calme, continue, stringenti, penetrarono
nelle menti degli ascoltatori ad imbeverle tutte quante, come quelle
pioggerelle minute e fitte dell'aprile che infiltrano la terra;
aggiungeremo anzi che, per un istante, ne rimase penetrato anche
colui che pur s'era preparato a far testa al maggiordomo con tutti
gli sforzi d'una incredulità sistematica; di modo che, mentre
gli altri si ricambiavano a vicenda delle esclamazioni di meraviglia,
piombando tutti in colonna serrata sulla riputazione di donna Paola,
colui passeggiava silenzioso, non sapendo a tutta prima come
ribattere le velenose insinuazioni del collarone del Duomo. Ma
infine, caldo di sdegno, si piantò nel mezzo del caffè,
e:
Caro signore, esclamò, permettetemi di dirvi che io non credo
nulla di tutto quanto avete raccontato. Ci vuol altro che qualche
chiacchiera sciocca della servitù ignorante per martellare
così su due piedi una riputazione di cinquant'anni. Eppoi,
come farete a spiegare il modo con cui lord Crall in quel serra serra
avrà potuto trafugare o far trafugar la fanciulla tutt'altro
che disposta, come voi stesso avete detto ad uscir dal monastero? E
concesso pure che tutto fosse stato concertato per fare il colpo con
sicurezza, come c'entrarono i commissarj e le guardie della Ferma?
Pretendereste forse che, per fare un favore a donna Paola e al figlio
di lei, abbian voluto aver la compiacenza di farsi pestare e ferire
ed uccidere dagli assalitori amici di lord Crall?... Abbiate dunque
la bontà di ponderare un po' meglio la storiella... e vedrete
che tosto si risolverà in una favoletta alquanto scipita, se
volete, ma molto maligna.
Io ho raccontato quello che so.... quello che non so... non posso nè
dire nè spiegare.
Ma io spiego benissimo quel che a voi sembra intricato e oscuro,
soggiunse allora il facente funzione di presidente. Dal momento che
lord Crall e donna Paola avevano stabilito di fare il colpo, a
spingere le guardie in convento bastava, com'è chiarissimo,
una denuncia segreta all'amministrazione del tabacco, a carico delle
signore monache... Dunque..
Va adagio coi dunque
e piuttosto pensa alle conseguenze... e
pensa alla consumata esperienza di donna Paola; la quale, quando mai,
ciò che non si deve ammettere nemmen per celia, fosse così
astuta ed iniqua, non avrebbe mai voluto compromettersi in un modo
tanto vituperevole e scandaloso; perchè la fanciulla dovrà
pure saltar fuori, e alla fanciulla non si può mettere il
bavaglio alla bocca; e se lord Crall gli era odioso prima, tanto più
gli diverrebbe odioso dopo. Insomma l'assunto di questo signore e la
vostra credulità mi riescono tanto assurdi, che, anche solo a
gettare il fiato per confutarlo, mi par di dividere la vostra
balordaggine.
Costui
non avea finito di parlare, che da uno stanzino contiguo alla sala
del caffè, dove i riguardosi sedevano a bever la cioccolata,
uscì piantandosi sulla soglia l'alta e magra e dignitosa
figura dell'abate Parini, il quale, dopo un po' di pausa,
maestosamente zoppicando si fece presso a quello appunto che aveva
parlato ultimo e:
Amico, disse, stando di là... v'ho sentito e lodato: ma, se
avete senno e rettitudine, continuando a star con costoro, finirete
per perdere e l'uno e l'altra.
E
senza più, volgendo in giro sugli astanti il suo grand'occhio
pieno d'espressione severa, attraversò la sala ed uscì
dal caffè Demetrio; e un lettore d'Omero, guardandolo, ben
poteva ripetere,
Indi
coll'ira
Di
chi vibra dall'alto armi celesti,
Taciturno
con lente orme si tolse.
V
Quando
il Parini fu uscito, aveva lasciato dietro a sè, quasi
diremmo, il profumo della sua nobile natura. Quanti erano raccolti in
caffè stettero alcuni istanti senza parlare, assorti in quella
nuova atmosfera; così se una elegante gentildonna, passando in
mezzo ad una frotta di rozze contadine che alterchino, avvien che le
avvolga nella fragranza lasciata dalle sue vesti, coloro si tacciono,
irresistibilmente comprese di quell'aura odorosa. Quel silenzio
rispettoso però non durò molto, chè al pari
delle rozze contadine, le quali, svanito il profumo, deridono la
squisitezza di chi lo ha lasciato indietro, anche quei compagnoni si
rivoltarono contro l'autorità dell'alto poeta, e:
Bella anche questa, cominciò a dire il ventilatore del
braciere; curiosa davvero, che uno si creda in diritto d'insultare
una società di galantuomini perchè ha stampato de'
versi che, se i suoi amici dicono il vero, saranno immortali.
Ma è assai più strano, soggiunse il Baserga, che chi si
arroga d'insegnare i buoni costumi a' ricchi, si trattenga poi in una
bottega ad origliare i discorsi altrui. Del rimanente loro signori
sapranno che l'abate Parini è stato il precettore de' figli di
donna Paola, e che anche adesso frequenta assiduamente quella casa.
Proferendo
queste parole il signor Baserga si alzò ed uscì. Colui
che il Parini avea onorato del nome di amico uscì pure, per
non intrattenersi in nuovi ed inutili alterchi. Gli altri poi si
fermarono, e, liberati dalla controlleria d'un contraddittore
perpetuo, ridussero a più chiara e speciosa lezione, e
rimpolparono colle loro congetture il racconto del maggiordomo,
perchè potesse circolare con miglior successo fra il popolo,
ed essi medesimi s'incaricarono di farne gli spacciatori; press'a
poco come gli editori francesi, quando hanno ridotto in forma
di libro accessibile a tutti qualche nuovo trovato della scienza.
Ed
ora dirà il lettore: come mai in tanto cicaleccio del pubblico
attento ai fatti che abbiam narrati e ai personaggi che li
generarono, non saltò fuori un sospetto che venisse a
percuotere e a trarre innanzi al tribunale dell'opinione pubblica
anche la persona del Galantino, che necessariamente, per
l'associazione delle cose, per la memoria del passato, per la sua
condizione che lo faceva quasi vivere una vita pubblica al cospetto
continuamente del pubblico, doveva essere ricordato in
quell'occasione?... Come mai dunque ha potuto passarsela netta, senza
che nessuno pensasse a lui, pur dal momento che si voleva andare in
cerca di un rapitore qualunque della fanciulla? che si conoscevano le
sue abitudini libertine, e l'audacia sfrontata onde solea valersi
anche in quelle tresche che per lui non erano che un divertimento
dagli affari; che, ed è il più, a tutti era noto aver
esso abitazione, giardino e deposito di mercanzie in luogo attiguo al
monastero di San Filippo Neri? Dare a questa domanda una risposta che
sia l'espressione del vero non è possibile; ma volendo pur
arrischiare un'opinione, ci parrebbe di poter dire che il pubblico
d'allora, il quale, come quello di tutti i tempi, talvolta è
capriccioso al pari di un ragazzo, di quel personaggio eteroclito del
Galantino aveva tanto parlato e straparlato; lo aveva accusato,
manomesso, vituperato, maledetto in tanti modi e a tutte l'ore, che
oramai era quasi sazio di occuparsi di lui. Così vediamo
qualche fanciullo dimenticare in un angolo della camera da giuoco il
fantoccio col quale s'era scapricciato a strappargli testa, braccia e
gambe sotto gli occhi stessi dell'ajo; ma di soppiatto poi farsi a
rompere un prezioso oriuolo per vedere com'è fatto di dentro.
Che che ne sia, il pubblico vuol variare le vittime; talvolta, stanco
di percuotere i tristi passa a maltrattare i buoni. La storia
d'Aristide rimane sempre là ad ammonirci di questo fenomeno
perpetuo.
Or
tornando al Galantino, se il pubblico non pensava a lui, pensava ben
egli a se stesso, e più seriamente che non avesse mai fatto in
tutta la vita. La passione, che è come l'ubbriachezza, lo
aveva portato fuori alquanto della sua natura. Sebbene astuto e
antiveggente per una straordinaria saldezza d'intelletto, pure, prima
di compire il fatto del trafugamento, aveva creduto che nella sola
riuscita di quello vi fosse l'adempimento de' suoi desiderj, e si
dovessero trovare tutti gli elementi necessarj per mandare ad effetto
ogni suo disegno. Ma, dopo qualche tempo, dopo che ebbe messo al
sicuro d'ogni ricerca le due fanciulle, dopo che ebbe finito di
pensare alla prima parte, diremo così, della sua impresa, la
quale per verità era la più arrischiata e la più
disperata; forse anche dopo che il Baroggi, invece di confortarlo lo
sbaldanzì, ebbe campo di considerare più freddamente
tutte le conseguenze possibili di quel primo audacissimo passo, e si
turbò. Il fatto segnatamente che dominava, e quasi atterriva
la sua audacia, era il contrattempo della fanciulla dei marchesi
Crivello, che non s'era potuta svincolare dall'altra. Pensava che la
propria ricchezza avrebbe reso meno odiosa la proposta d'un
matrimonio agli occhi della nobiltà, che l'amore appassionato
della fanciulla per lui avrebbe intenerito i cuori, onde facilmente
si sarebbe messa una pietra sui fatti avvenuti; ma a guastargli
questa speranza e queste belle idee ridenti entrava il pensiero che i
parenti della Crivello avrebbero reclamato dall'autorità la
più severa punizione del trafugamento. Bene, dopo l'assalto
impetuoso di questi timori, la sua mente feconda almanaccava,
improvvisando progetti di difesa e di nuovi inganni e d'insidie
nuove; ma colla stessa facilità con cui li aveva improvvisati,
li rifiutava poi uno dopo l'altro, con dispetto iracondo, al pari di
un poeta che, nell'ansia della composizione, non trovi un'idea che
gli attalenti.
In
conclusione, se i nostri lettori hanno potuto maravigliarsi e
dolersi, che un così astuto ribaldo sia stato sempre fin qui
portato, come suol dirsi, in braccio dalla fortuna; possono ora
consolarsi nel vederlo finalmente esso alle prese con un pericolo che
non sembra voler offrire un varco probabile di salvezza.
Quando,
la mattina del giorno successivo al tafferuglio del monastero,
l'abbiamo udito a parlare col Baroggi, ei ci dovette sembrar ancor
pieno di sicurezza e baldanza; ma ciò dipendeva che non s'era
ancor trovato al cospetto delle due fanciulle dopo riavute dallo
stupore e dallo spavento che nella notte le aveva oppresse, al punto
da non poter parlare fino a tanto che videro un volto di donna. Ma
allorchè si recò nella casa del Baroggi, e parlò
alle ragazze, queste si comportarono di maniera, che sentì la
necessità di allontanarle da Milano; e quando egli stesso in
persona e con cautela le ebbe accompagnate in un luogo in riva al
lago di Como insieme colla madre del Baroggi, potè accorgersi
che la presenza della Crivello rendeva pericolosissima la custodia
delle fanciulle; e tanto più avuto riguardo allo spirito
religioso e bigotto della donna a cui le aveva affidate, la quale,
eccitata dagli scrupoli, avrebbe potuto parlare e metter fuori il suo
nome.
E
perciò avea pensato di non condurle in nessuna delle terre che
aveva in proprietà, ma sì in un luogo d'affitto presso
Torno, borgo ch'egli conosceva assai bene, per avere avuti affari
negli anni addietro col proprietario d'una fabbrica di lana, l'ultima
rimasta delle tante di cui, prima delle guerre de' Comaschi, Torno
era pieno. Il luogo poi dove aveva loro trovato stanza era
Montepiatto, situato sopra Torno, e noto per esservi stato un
convento di monache. Queste circostanze del sito preciso dove donna
Ada della contessa V... e donna Giacoma dei marchesi Crivello vennero
collocate sotto la custodia della Baroggi, sono esattamente riferite
dal monaco Benvenuto di sant'Ambrogio ad Nemus; e diciam questo
perchè non si creda che da noi siasi scelto quel luogo
soltanto per aver l'opportunità di fare una nuova descrizione
del lago di Como. Il classico Lario stancò la penna di tanti
scrittori di prosa e di verso, e i pennelli di tanti paesisti, che
non è possibile che chi non aspira ad assere nojoso creda di
ringiovanire tra congetture della causa del fonte intermittente della
Pliniana e l'etimologia della parola Tivano. Bensì
quando ci fosse capitato una landa uggiosa della bassa Lombardia,
forse ci saremmo fatto un grande onore a descriverla, per la ragione
che ci piacciono i temi dimenticati dagli altri; ma il monaco
Benvenuto ci ha condannati a non poter scegliere un paesaggio di
nostra fantasia.
Senz'obbligo
dunque di far descrizioni, rechiamoci a Torno, ovvero sia a
Montepiatto, a toccare il polso febbrile della giovinetta Ada...
Se
non che questo nome ci ammonisce d'una dimenticanza, per la quale
dobbiamo indugiarci ancora un istante a Milano, e dir qualche parola
dell'illustrissimo signor conte colonnello V... per tanto tempo
trascurato da noi, con un dispregio che parrebbe superar quello della
contessa.
Questa
fermatina ci torna inoltre necessaria a far conoscere una nuova e
micidiale bocca da fuoco, apertasi all'impensata per rendere ancora
più difficile la posizione del Galantino. Dal ragioniere
Baserga abbiamo saputo che, per decreto dell'eccellentissimo Senato
di Milano, era stata dichiarata la paternità del conte V...
rispetto alla fanciulla Ada. Dio sa, penserà il lettore, di
che scoppio di furore avrà dato spettacolo il conte alla
notizia di quel decreto! ma in vero che avvenne il contrario, ed ecco
come. La natura del conte ci è nota. Forza muscolare
assorbente l'intellettuale, cuore schietto, nascosto ed avviluppato
in mille modi dall'orgoglio di casta, dall'intolleranza, dalla
spavalderia soldatesca; e nel tempo stesso un corredo di pregiudizj
così inveterati, che lo facevano devoto al principio
dell'autorità. I senatori, ad uno ad uno, ei li avrebbe, in un
bisogno, fatti correre a squadronate, ma il Senato tutt'insieme
raccolto, ma il presidente di esso, circondato dalle più
pompose apparenze del pubblico ossequio, che veniva chiamato Quasi
rex e pareva un semidio, imponeva alla sua imaginazione; il
decreto pertanto che emanò da quel formidabile consesso,
firmato da colui, che solo col suo carrozzone lentamente tirato da
quattro cavalli aveva il privilegio di poter interrompere l'ordine
regolare delle carrozze sul corso di via Marina, gli fece un tal
senso, che credette più a quel decreto che a sè stesso.
A questo però conviene anche aggiungere che il furore di
vendetta aveva avuto, in quindici anni, il tempo di svaporare; che
l'avvocato il quale difendeva il suo diritto e gli altri causidici
consulenti non gli aveano mai data per sicura la vittoria sulla parte
avversaria; che (e forse questa fu la causa prevalente),
avendo avuto più volte occasione di veder la fanciulla Ada,
quell'aspetto leggiadro, attraversando soavemente gli orgogli, i
disdegni, i pregiudizj, gli penetrò fino al cuore, e vi
si fermò. Spesse volte nella solitudine della sua casa
vedovile, pensando a quel vago angelo, si sentiva commosso
rimeditando le sventure, le quali non vollero che la sua casa fosse
benedetta. Un giorno perfino si pentì d'aver gettato lo
scandalo nel mondo con quella lite giuridica, e si corrucciò
d'aver voluto respingere per sempre da sè quella creatura
innocente.
O
arcani dell'umana natura, per cui, talvolta, colui che sembra il più
immite, al contatto di contingenze speciali diventa il più
accessibile alla tenerezza! E questo appunto era avvenuto del conte,
di modo che, allorchè uscì il decreto del Senato, quasi
ne provò gioja. Però fu il colpo più spietato
della fortuna quello per cui, dopo tre giorni, la fanciulla che per
forza gli era stata imposta dalla legge ed egli l'aveva accettata in
pace, improvvisamente scomparve! Quando gli amici stolidi, credendo
di fargli piacere, gli recaron l'annunzio di quel fatto, il suo
furore non proruppe, ma scoppiò con tal impeto, che quasi
parve presentare i sintomi della forsennatezza, e gli astanti ne
stupirono come quelli che non potevano comprender tutto. Così
un nuovo formidabile avversario sorse, non sospettato, a far più
impacciata la condizione del Suardi, che contro di tutti si sarebbe
messo in guardia, fuorchè contro di lui.
Ed
or che sappiam questo, possiamo recarci in riva al Lario a
fare una visita alla povera Ada.
VI
O
giovinette leggiadre, fiorenti, appetitose, che avete tanta virtù
da fermar l'attenzione persin di coloro che, sotto il cumulo degli
affanni, del tedio, delle disillusioni, metterebbero volentieri la
vita all'asta! o giovinette care e troppo care che, per le vostre
qualità attraenti, vi trovate nella condizione precaria delle
allodole, delle quaglie, delle gallinelle, dei tordi e delle
tordelle, quando i cacciatori battono la campagna, e son tese nelle
ampie tenute le brescianelle e le ragnaje! O giovinette, ascoltate il
parere di un galantuomo. Non vi fidate mai della bella faccia e del
bel vestito di un giovane ignoto che vi segua al corso, che vi aleggi
intorno quando sedete a rinfrescarvi col sorbetto, che rinnovi le
pazzie del conte d'Almaviva sotto al vostro balcone. Non vi fidate e,
prudentemente, prima di lasciar cadere su di lui una di quelle
occhiate eloquenti e compromettenti, che quasi hanno la forza di una
cambiale, pigliatevi l'incomodo di domandar conto di esso, di farne
assumere le più minute informazioni coll'esattezza di un
impiegato di circondario. Io so quello che dico. Il viso ingenuo
potrebbe essere la maschera di un perfido mascalzone. Il frac di
panno sopraffino potrebbe coprire un debitore cronico, un avventore
assiduo della Pretura Urbana. La faccia giovanile potrebbe
appartenere al padre di una mezza dozzina di figli mantenuti, più
che da lui, dalla moglie venutagli a noja. Però vogliate aver
la bontà di confidarvi colle vostre madri e colle vostre
sorelle maggiori, se non amate comprarvi affanni e spasimi, e correr
pericolo di smarrir la freschezza e la beltà!...
Coloro
che furono sì ciechi da credere immorale il nostro libro, si
affrettino ad ammirare il sermone or ora fatto e non perdano questa
bella occasione di cambiar di parere. Povera Ada! è dessa che
ci mise sul labbro le caritatevoli parole.
Se,
le prime volte che ella vide la figura del Galantino, e sopratutto
quando cominciò a sentire sommosso il sangue da quel leggiadro
aspetto, avesse domandato conto di colui alla governante, che,
insieme colla livrea di casa Pietra Incisa, andava a levarla dal
convento; certo che la storia dell'ex-lacchè le avrebbe fatto
torcere il viso inorridita, tutte le altre volte che si fosse
incontrata in esso; perchè la forma esteriore non basta ad
acciecare anche la più inesperta delle fanciulle; tanto più
poi quando l'amore è ancora nel primo stadio della simpatia, e
non è penetrato nel più profondo del cuore. Ma invece
di parlare si tacque, per quell'astuzia istintiva che si mescola
anche all'innocenza più ingenua, e pel pudore di nominare un
bel giovane alla governante. Se per colui non avesse provato che una
curiosità indifferente, il pudore non l'avrebbe trattenuta e
l'astuzia non l'avrebbe costretta a tacere per tema che la
governante, messa in sospetto, non fosse per cambiar strada in
avvenire.
Ma
in ogni modo, ella è degna di pietà, più che di
biasimo, se inciampò nell'agguato, al pari di un'augelletta
che, immatura sporgendo il capolino dal cavo dell'albero, è
tosto ghermita dal cercatore di nidi.
Bensì,
d'ora innanzi saranno più degne di biasimo che di pietà
quelle fanciulle che, dopo aver fatto conoscenza colla giovinetta
Ada, non vorranno ascoltare i nostri consigli, ed apprendere dalle
sventure di lei l'utile lezione.
Intanto
noi dobbiamo far silenzio, se, ascendendo verso Montepiatto, vogliamo
vedere un quadro mobile e quasi immobile di tre figure femminili. Una
donna di quarantacinque anni circa, seduta sotto il pergolato di
un'umile casetta; a qualche distanza da lei, all'ombra di un
castagno, adagiata sull'erba, una giovinetta piccola e rattratta, con
un visino in cui brilla una vivace sebben mesta intelligenza, visino
che sarebbe bello se non fosse troppo acuto; più in giù
verso il lago, assisa, medesimamente sotto un castagno, unaltra
fanciulla, la nostra Ada, assorta, muta, che volge lo sguardo
sull'onda sottoposta, e lo gira lento lento, ma con moto macchinale,
a seguire qualche vela che si dilunga.
È
giorno di domenica: è quell'ora, dopo i divini ufficj, in cui
la gente del contado è raccolta nelle casupole intorno al
povero desco, e in cui il silenzio è profondo e diffuso in
tutta la solitudine del lago; e per renderlo, a così dire, più
presente al senso e penetrante più addentro nell'animo, dal
giardino di qualche villa signorile par che apposta s'innalzi di
quando in quando lo strido acuto di un pavoncello, ingrato come una
trombetta fessa.
Chi
è fresco d'un'eredità o ha vinto una lotteria, quegli a
cui per una special benedizione del cielo la vita scorre normale,
regolare, infallibile, come la sfera di un orologio a cronometro,
tanto che, se c'è un pericolo, è forse che la soverchia
pace gli può rallentare la circolazione del sangue, al punto
da metterlo all'impensata sotto la protezione di Sant'Andrea
Avellino, e felice notte! coloro che sono circondati da una prole
sana e da una densa moglie fedele e a cui sono fedeli; coloro che
benedetti dal papà, dalla mammina, dai parenti, dallo zio
facoltoso stanno beatamente sfiorando il primo quarto della luna di
miele, si capisce benissimo come possano lodare i romitaggi al monte
e al lago; ma in quanto a noi comprendiamo assai meglio come fosse
più che mai accresciuta la tristezza e l'infelicità di
Ada dal momento che fu tratta a vivere in quella solitudine di
Montepiatto.
Tornando
al lago, fu sempre per noi un oggetto di maraviglia e un fenomeno
degnissimo di studio lo spettacolo di quegli uomini dell'Inghilterra,
che un bel giorno, dalla loro capitale di due milioni d'abitanti,
fuggono per ritirarsi sul lago di Como, e colà, eccettuate le
ore consacrate al sonno, vivono continuamente nel loro canotto, soli
tra il cielo e l'acqua, veri nautili umani, e pensano e pensano senza
riposo, quando però non pescano, sinchè arriva il
giorno che un temporale spietato porta via e sommerge Inglese e
canotto!
Povera
Ada, te felice se la sorte ti avesse fatto dono delle qualità
minerali di un Inglese in ritiro sul lago di Como!... Ma
quanto eri diversa! e quanto la tua triste condizione doveva farti
parere insopportabile quella sempre uguale solitudine, quelle scene
ognora le stesse, quel cielo sempre riflesso da quel lago, quel
guizzasole ognor ripetuto dall'increspare dell'onde, quelle barche e
quelle vele andanti e ritornanti alla lontana, quella silenziosa
natura, quelle voci di uomini così rare, remote e sonanti a
lunghi intervalli! Allora l'incessante cicaleccio delle sue
colleghe, persino le gutturali sgridate delle suore maestre le
ritornavano in memoria, gradite e desiderate in confronto! e nella
solitudine, d'accosto al trasporto che le cresceva in petto per
quegli che l'aveva ridotta in quel luogo, sorgeva un desolante
sospetto... La Baroggi aveva nominato il Suardi; quel nome non era
giunto nuovo alla Crivello, che nella casa paterna aveva sentito a
parlare di esso, e però nelle sue assidue esortazioni per
distogliere Ada dall'affetto colpevole, si valse di quanto sapeva
onde salutarmente sgomentarla.
VII
L'amore
talora è più funesto dell'antipatia e dell'odio; ci
pare di averlo detto un'altra volta, sebbene in diverso modo. Egli è
per questo che, in quella medesima occasione, da bravi conseguenzarj,
abbiam tosto soggiunto che l'imperfezione del corpo reca spesso assai
più vantaggio che la più completa bellezza. Una gemma
preziosa che brilli in dito a un galantuomo, una catena d'oro che
sfolgoreggi tra il nero di un gilet di velluto e il bianco di una
camicia di batista rendono pericolosissimo il passeggiare ne' vicoli
dopo la mezzanotte. La cosa è chiara, per la sicurezza del
passeggio notturno, benedetta la giacchetta di fustagno e il cappello
a larghe falde. Non ci ricorda in qual libro, ma certo abbiam letto
in un libro, che un uomo di spirito, tediato delle querele di un
bellissimo giovine, vittima della gelosia delle donne, Fa che
t'assalga il vaiuolo, gli disse, e t'imprima nel viso a centinaja i
segni del suo passaggio, e sarai felice! Quantunque un tal
rimedio possa parere troppo eroico, e troppo paradossale il nostro
esordio, il fatto è intanto che quelle due fanciulle, donna
Giacoma e donna Ada, nacquero per appoggiare la nostra opinione.
Donna
Giacoma, fin dalla prima infanzia meno accarezzata delle fanciulle
che recavan nell'aspetto una bellezza regolare e i vezzi a lei negati
dalla natura, e però meno viziata da' parenti, quando passò
in convento per esservi educata, non sentì come le altre e
come Ada in ispecie il crudo passaggio dalle amorevolezze casalinghe
alla severità del contegno delle maestre del monastero; anzi
tenendosi più tranquilla per non sentire il bisogno di
rivoltarsi impaziente contro una vita nuova, le parve di trovare in
convento una cortesia, una mitezza, una dolcezza che prima non aveva
mai provato. Fornita di molto ingegno, lo aveva adoperato per
mostrarsi grata a quelle premure, approfittando più che le
compagne dell'insegnamento che le veniva dato; fornita di grande
bontà e di una gentilezza squisita di spirito, sapeva all'uopo
placare colle sue preghiere la madre superiora e le suore inclementi
verso le più riottose alunne. Per questa ragione, anzichè
esser segno all'invidia e, per conseguenza, al motteggio altrui pel
difetto del corpo, era amata da tutti e rispettata. Ed ella, certo
senza volerlo, si avvezzò per tempo ad esercitare in convento
una specie di superiorità premurosa, e dolce bensì, ma
pur sempre una superiorità, che da tutte le veniva accordata e
di cui ella sentiva una interna compiacenza, che però non era
orgoglio.
Ada,
la più vivace e tempestosa di tutte e la più
frequentemente sgridata e punita dalle superiore, era perciò
appunto stata presa sotto la sua particolare protezione; e siccome le
preghiere della Crivello avevano sempre avuto il loro effetto, e
d'altra parte essa era riuscita, più che le superiore non
avrebbero mai saputo, a rendere Ada più docile, più
obbediente, più pacata; così tra le due fanciulle,
sebben coetanee, si era impegnata quella corrispondenza affettuosa
che non intercede già tra due eguali, ma sì tra una
protettrice e una protetta. La Crivello poi, come avviene delle madri
che spasimano dietro a que' figliuoli che più le han fatte
vegliare e più loro costarono di fatiche e d'affanni, pose
davvero in Ada un affetto che ben si potea dire materno.
Adolescenti
e quasi adulte, ambedue crebbero in questo affetto. Donna Giacoma
dalla modestia, dall'intelletto acuto, dalla religiosità,
convinta che per lei nella vita non vi sarebbero stati altri
conforti se non in occupazioni congeneri a quelle che esercitava in
convento; per di più, avvisata dal senso e dalla
misteriosa intuizione di esso di quel che era serbato alle altre nel
mondo, si pose intorno ad Ada (è strano ma è edificante
e commovente a dirsi), precisamente con quella preoccupazione di una
madre che è sollecitata dal pensiero per la felicità
della figlia. Queste cose noi avremmo dovute dirle prima che
avvenissero i disastrosi fatti del monastero, perchè il
lettore si sarebbe fatto capace allora di ciò per cui
forse gli è rimasto qualche dubbio; ma quelli erano momenti di
gran trambusto e premura; in ogni modo, può provvedere la
spiegazione d'oggi al silenzio d'allora, e può provvedere a
spiegare la tenacità onde la Crivello si strinse ad Ada per
non abbandonarla più, il motivo per cui, in carrozza, avendo
dirimpetto il Suardi, mentre il cocchiere sferzava i cavalli a
fiaccacollo, si tenne abbracciata ad Ada come chi vuol salvar la vita
a una figliuola minacciata di morte da un assassino.
Tuttavia,
quando si trovò nella casa della Baroggi, avendo sentito il
tenore onesto delle parole del Suardi, ed esplorato il contegno della
donna, mite, riguardoso ed educato; e poscia avendo notate le
abitudini devote di essa, si tranquillò e tacque; quando poi,
avendo insinuato ad Ada l'idea di supplicare quella donna perchè
volesse condurle alle loro case, l'innamorata fanciulla protestò
con pianti di non voler per nessun conto fuggir prima che il Suardi
non fosse tornato; ella si trattenne, ed aspettò prudente e
lasciò fare, guardinga però e sospettosa; ed avendo
sentito a parlare il Suardi, quasi anch'essa si lasciò andare
a credere alle maliarde parole di lui, e non si rifiutò
d'andare a Montepiatto per non abbandonare la sua cara Ada. Ma qui,
ne' discorsi fatti colla Baroggi, sentendo il nome del rapitore, si
risovvenne di quanto sul conto di quel nome avea udito più
volte in casa; e col coraggio di una madre che è spietata
colla figlia in ragione dell'amore che le porta, le manifestò
tutti i suoi sospetti, e le raccontò le storie che conosceva
in parte; e le dimostrò che non poteva essere se non un tristo
colui che aveva potuto osare una così scellerata impresa di
rapire a tradimento una fanciulla da un monastero.
Un
momento prima che noi vedessimo quel quadro di tre figure, la
Crivello avea fatto appunto un lungo discorso di tal genere all'Ada,
e questa, iraconda del sentirsi penetrare dal sospetto contro il
giovane di cui le sembianze non le partivano mai dalla calda
fantasia, indispettita si era disgiunta dalla Crivello, e sola erasi
adagiata a pensare e a ripensare, scorata e confusa. E la Crivello,
stata pietosamente a contemplarla per qualche tempo, al fine si alzò,
e lentamente fattasi presso ad Ada, e cingendola del suo braccio:
E così come stai, le disse, cara la mia Ada? Sei ancora
adirata meco?
Ada
si volse e:
Come ho da stare, rispose, e perchè ho ad essere adirata con
te?... Ma le labbra le tremarono per la commozione e, non potendo
continuare, guardò la Crivello colle lagrime negli occhi; poi
tutt'a un tratto, abbassando il capo e nascondendolo in seno
all'amica, diede in uno scoppio di pianto.
E
noi, dopo questo pianto, dolenti di non poterlo asciugare, nè
di poter fermarci a Montepiatto per sentire i lunghi dialoghi tra la
Crivello ed Ada, nè di recitar insieme con esse e colla devota
Baroggi la terza parte del rosario, dobbiamo recarci di premura a
Bologna.
La
contessa Clelia tornava una sera dalla casa Bentivoglio dove
convenivano il fiore de' gentiluomini e delle gentildonne bolognesi,
i più distinti professori dell'università, gli artisti
più noti, i pittori incaricati di sostenere con uno sforzo
estremo il tramontante splendore della scuola caraccesca; tornava
dunque alla sua dimora, lieta e paga oramai della propria condizione.
Gli uomini della scienza le davan prove quotidiane della loro stima,
le gentildonne giovani e belle l'ammiravano senza invidiarla, perchè
più non temevano in lei chi potesse loro disputare il primato,
o rubar qualche amante sul terreno sdrucciolevole della galanteria.
Ben è vero che quella sua poderosa beltà romana, col
crescere degli anni, non avea punto scemato, se forse non era
diventata più solenne; ma la toga scientifica e la cattedra
dove saliva a dettar matematica, la facea considerar loro come una
donna sui generis, più atta a destare il senso
dell'invidia nei colleghi professori che in esse.
I
giovani galanti poi la circondavano con un'ammirazione piena di
premura, ammirazione in cui, se non per tutti, per alcuni almeno, si
nascondeva pure qualche altro sentimento; ma quelli che lo nutrivano
in secreto rimanevano paghi d'un discorso che loro ella rivolgesse,
d'una approvazione che accordasse, persino anche dell'opposizione che
lor facesse in una disputa qualunque. Magnifica e severa precisamente
come una Minerva (perchè, se come tale l'abbiamo dipinta ne'
suoi anni giovanili, nell'età matura non v'era chi potesse
contrastarle un tal predicato), ella serbava un contegno, che al
giovane più fervido ed audace, perfino alla stessa ebrietà
tracotante avrebbe fatto gelar la parola in bocca.
Ella
però (le donne sono sempre donne, ed anche gli uomini non
canzonano) si compiaceva tra sè e sè, indovinando quel
che si celava sotto quell'ossequio. Per tutto ciò adunque,
ritornando quella sera a casa, si lodava della propria sorte, e
pensava che quasi poteva chiamarsi felice se avesse avuto seco la sua
Ada, e d'uno in altro desiderio, affrettava il giorno di farla uscir
di convento per tenersela ognora a fianco e deliziarsi tutta in essa.
Piena
di questi pensieri, che erano gli abituali della sua vita, salì
nel suo appartamento, dove trovò una lettera con un Preme a
grandi caratteri sulla soprascritta. Quella parola bastò per
agitarle il sangue e per far ch'ella aprisse la lettera con mano
tremante. Non sappiamo se il fatto sia comune a tutti o a molti, ma
la presenza di una lettera che non si aspetta, anche allora che non
reca quel terribile Preme, il Mane, Thechel, Phares delle
soprascritte, produce una sensazione disgustosa e angustiosa; forse
ciò avviene in coloro che non hanno avuto nella vita che
maledette battiture dalla fortuna, di modo che ad ogni indizio di un
fatto che ancora non si conosce, si paventa una nuova sciagura. Dopo
questo, non sappiamo quel che la contessa Clelia pensasse in
proposito, nè se a lei la vista di una lettera facesse
costantemente quel senso disgustoso che produce in altri e in noi
segnatamente; il fatto sta che quando vide quella lettera deposta sul
tavoliere, per la ragione forse che non l'attendeva, volontieri ne
avrebbe fatto senza. Ma qual fu il suo parossismo, quando, lettala e
rilettala, non seppe afferrar bene la cagione per la quale veniva
pregata a recarsi senza perder tempo a Milano. Non sappiamo se il
foglio fosse stato scritto di proprio pugno, o soltanto dettato, o
semplicemente consigliato dal Parini, che ne era stato incaricato da
donna Paola; ma con accorto ingegno era parlato in esso di una
malattia della fanciulla Ada, per la quale, mentre si raccomandava la
sollecitudine della contessa a mettersi in viaggio, le si faceva
riflettere tuttavia che non v'era nulla di grave e di pericoloso;
tutto questo poi era espresso con tale arte, che la contessa non
dovesse rimanere percossa con violenza da un troppo crudo annunzio,
ma nel tempo medesimo giungesse a comprendere che oltre la malattia,
trattavasi di qualche altro fatto che richiedeva la sua presenza.
Comunque pertanto sia la cosa e comunque fosse savio il consiglio che
aveva dettato quel foglio, si mise una tale impazienza, un'ansia,
un'irrequietudine sì forte nella povera contessa che, di punto
in bianco, scrisse un letterino al marchese Bentivoglio, dalla cui
casa era uscita un momento prima, con cui lo pregava a passare un
momento da lei; il marchese non si fece troppo attendere, e sentito
dalla contessa come, per un affare urgentissimo, le occorresse di
recarsi a Milano, le ottenne in quella notte medesima dal cardinale
Legato un foglio di via per Milano.
Alla
prim'alba, coi cavalli di posta, a tutta carriera, dando e
promettendo mancie a' postiglioni, che allora avevano a lottar di
continuo colle scabre strade, viaggiò per Milano. Da Bologna
venne a Modena, da qui a Parma, dove passò la notte e dove
volle il caso che si sapesse della sua venuta. Il nome della
contessa, non ci ricorda se lo abbiamo già detto, e per il suo
casato e per quello del marito, e per la sua bellezza, e per
le azioni che se n'eran fatte, e per le sue avventure eccezionali e
degne di storia, e per la sua qualità di scienziata, e per
essere successa in Bologna nella cattedra di matematica alla grande
Agnesi, era divenuto celeberrimo in tutta Italia ed anche fuori,
tanto che molti uomini di Bologna e d'altre città avevano
ambito di far la sua conoscenza o per lo meno di vederla,
aspettandola quando usciva di casa, quando si recava all'università,
mescolandosi fra gli studenti per sentirla a parlare. Per queste cose
adunque, allorchè corse la voce ch'ella era in Parma e che
alloggiava all'albergo ducale, tosto fu una folla di persone intorno
alla porta dell'albergo stesso per poterla vedere, e, tra le altre
persone cospicue, furono a visitarla l'abate Frugoni in compagnia del
celebre Condillac, stato precettore del figliuolo del duca di Parma,
morto alcuni giorni prima.
Il
Frugoni, che già s'era trovato colla contessa in Bologna, e ne
aveva tenuta parola spesse volte con Condillac quando con esso
s'intratteneva alla corte del duca, fu sollecito di fargliela
conoscere, perchè, torniamo a ripetere, la contessa Clelia
V... era divenuta, come si direbbe con frase moderna, una
maravigliosa tanto in voga, che molti andavan superbi soltanto
a poter dire: Ci ho parlato anch'io.
Il
Condillac, sebbene fosse amico della vita ritirata e fosse grave ed
austero al punto che nella medesima Corte ducale, per insolito
privilegio, era stato esentato da tutti quegli obblighi consentanei
ad un precettore di un principe Infante, pure molte volte avea
espresso all'amico poeta il desiderio di conoscere quella donna
singolare, nella quale per lui era inconcepibile il contrasto tra la
scienza grave che professava ed insegnava, e la storia delle sue
avventurose vicende. Andò dunque assai volontieri a farle
visita. Ma questa circostanza accrebbe più che mai l'imbarazzo
della contessa che aveva tutt'altra volontà che di ricever
visite d'uomini illustri, chè il suo pensiero assiduamente
assorto dalla sollecitudine che la spingeva verso Milano, si trovò
insopportabilmente angariato, costretta com'era a stare in guardia
per non perdere la scherma e conservarsi nella sua riputazione,
parlando con un uomo che tutt'Europa esaltava. Il Frugoni, quantunque
toccasse i settantaquattro anni, vivace, epigrammatico,
motteggiatore, parlatore instancabile, com'era stato instancabile e
inesauribile produttore di versi, giovò ad empir le lacune che
troppo spesso intercedettero tra le parole del Condillac e le
risposte lente della contessa distratta altrove; ma non fu così
abile che il filosofo francese non si lamentasse poi dopo coll'abate
poeta di aver trovato una donna più bella e superba, che
simpatica ed eloquente.
In
ogni modo la contessa respirò più libera quando si
trovò sola, e quando, alla prim'alba, potè finalmente
riprendere il viaggio. Venuta a Piacenza, passato il ponte di barche
sul Po, rimessi i cavalli al trotto, lungo la strada da Casal
Pusterlengo a Lodi, al rumore di altra carrozza che le veniva
incontro, mise fuori la testa dallo sportello per quel movimento
irresistibile onde chi viaggia è spinto a guardare i
passaggeri che battono la stessa strada, e s'incontrò quasi
faccia faccia col passeggiero che stava nell'altra carrozza e che
medesimamente sporgeva la testa a guardare dallo sportello. Le due
carrozze, che erano tratte velocemente dai cavalli, non lasciarono a
quello scontro la durata di un minuto secondo. Ma questo bastò
perchè e l'una e l'altro si ravvisassero. Il viaggiatore era
il Galantino. Or non è a dire che turbamento mise in cuor alla
contessa, senza che n'avesse una ragione precisa, quella vista
inaspettata; ma ciò che veramente la colpì fu che nel
retroguardare, sporgendo di nuovo la testa dallo sportello per una
curiosità che non seppe vincere, vide che il postiglione
faceva dar di volta ai cavalli, e la carrozza del Galantino alla
lontana teneva dietro alla sua.
VIII
Or
come avvenne che il Galantino si trovasse sulla strada che da Lodi va
a Casalpusterlengo? Ecco il fatto. A Milano, dopo che il conte V...
seppe del trafugamento della fanciulla Ada; furibondo e nel tempo
stesso sospettoso che chi ci aveva interesse avesse voluto offendere
lui stesso, col togliergli i diritti della paternità, mentre
si era voluto imporgliene gli obblighi; esaltato inoltre dalla
perversa voce che rapidamente era corsa per tutta Milano, a dispetto
delle objezioni degli increduli, che donna Paola di concerto col
figlio Guglielmo avesse tentato il mal colpo; aveva fatto tanto
scalpore presso il Senato, che il capitano di giustizia, il quale,
messo già sulla falsa via dalla lettera anonima del Galantino,
aveva sottoposto ai più severi interrogatorj lord Crall e i
complici suoi, non tanto pel reato dell'aver assalito a mano armata
la forza pubblica, quanto per l'accusa dell'aver ricorso a quella
violenza per rapir due ragazze dal convento; dovette invitare a
comparire indilatamente anche donna Paola Pietra Incisa
per essere sentita in giudizio. Come è naturale, e per la
cattura del figlio e per la fuga di Ada, il giorno dopo ella stessa
avea pensato di rivolgersi al capitano, e perchè s'incaricasse
tosto di pubblicare un bando a rintracciar le fanciulle, e per
informarsi della condizione in cui trovavasi suo figlio; se non che,
con sua sorpresa, quando già stava per uscire e per recarsi
dall'eccellentissimo capitano, ricevette un foglio sottoscritto da
esso, nel quale, omesse le formole dell'etichetta epistolare, la si
citava d'ufficio a comparir tosto innanzi a quel tribunale.
Donna
Paola, stupita del modo onde le veniva fatta l'intimazione, si recò
al Palazzo di Giustizia senza farsi aspettare; e colà venne a
trovarsi al cospetto del signor capitano, il quale, dismesse le
rispettose parole, la sottopose ad un interrogatorio che sarebbe
prezzo dell'opera il riportare qui, perchè la paziente
assennatezza di donna Paola, l'eloquenza efficace, il disdegno
sublime, ma calmo e soffocato dalla preoccupazione dell'ultimo
intento, il rimprovero temperato di umiltà, ma forte
abbastanza per compungere altrui, vi risplendono in tal modo che è
un'edificazione a leggerlo. Il capitano, com'è facile a
supporsi, ne rimase penetrato; allora, fatto venire innanzi anche il
conte V... che era là ad attendere donna Paola, questa giunse
a persuadere colui stesso dell'ingiuria inaudita che le si era voluto
fare col crederla rea di un sì turpe ed empio attentato. Il
conte V... non fece altro che unire le proprie sollecitazioni a
quelle di donna Paola affinchè il capitano volesse tosto far
uso di tutti i mezzi che aveva a disposizione perchè, mentre
si pubblicava il bando, s'incaricassero il pretorio della capitale e
tutti i pretori delle altre città del Ducato, e i pretorj
suppletorj di confine a spedire per ogni dove uomini esperti e
guardie a rintracciar le fanciulle. In quel dì stesso anche il
marchese Crivello, avendo presentata una furibonda querela al Senato,
questo tanto più si trovò obbligato a intimare allo
stesso capitano di giustizia che col più formidabile apparato
che non si fosse mai praticato in altre circostanze simili, si
facesse dalle guardie frugare in tutti i luoghi della città e
dei corpisanti, e batter la campagna in lungo e in largo, e
percorrere tutto il Ducato e i luoghi confinanti, se fosse stato
necessario.
Di
questo bando, per decreto del Senato, furono alcuni giorni dopo messi
gli affissi a tutti gli angoli della città e delle borgate
vicine; per lo che il Galantino si trovò in una terribile
apprensione. Pensando che a Torno, e per la vicinanza di alcune ville
signorili, e per la prossimità della città di Como, le
fanciulle potevano troppo presto venire scoperte dagli agenti e dai
fanti del capitano e dei pretorj, senza perder tempo le levò
di là e le trasferì in un luogo remoto della
Vallassina, con promessa che sarebbe tornato subito; e che recavasi
intanto a Bologna per parlare alla contessa madre, onde ella medesima
venisse in persona a toglier la figlia da quelle solitudini, per
ricondurla poi fidanzata in città, e benedire a' prossimi
sponsali. Difatto, venuto a Milano, visto che sino a nuove
circostanze non vi era più aria sana per lui, pensò di
trasferirsi senza perder tempo a Bologna, di presentarsi alla
contessa, e quando mai, ciò che secondo lui non era
improbabile, ella avesse ricevuto l'avviso della scomparsa di sua
figlia, consolarla col darle notizia che per suo mezzo era stata
rinvenuta, e cogliere l'occasione per domandargliela in isposa. Con
ciò, innanzi tutto, egli pensava ad attuare il proprio
desiderio ardentissimo; in secondo luogo provvedeva anche a
vendicarsi della vecchia ingiuria. Di tal modo ei si lusingava
inoltre che, una volta che la contessa avesse annuito al matrimonio,
spinta dall'amor materno, messa in altalena tra la paura di perder
per sempre la figlia e la consolazione di riabbracciarla tosto; con
lei si poteva anche concertare il mezzo di dare un altro colore al
fatto del trafugamento e far tacere l'autorità. Con questi
pensieri pertanto, non essendo ancora stato colpito da sospetto di
sorte, fece disporre una carrozza da viaggio degna del conte di
Firmian, per poter abbagliare altrui colle apparenze, più che
era possibile, signorili; e si mise in viaggio per Bologna,
sicurissimo di trovarvi la contessa. Or ecco in che modo, viaggiando
difilato a quella volta, s'incontrò nella carrozza di lei che
riconobbe con sua gran sorpresa, onde fece rivoltare i cavalli per
tener dietro a lei, e raggiungerla e parlarle alla prima fermata.
La
contessa Clelia, traguardando di tanto in tanto dal finestrino della
carrozza, vedeva che quella del Galantino seguiva la sua
placidamente, con tutti gl'indizj di non voler cambiar strada.
Allora, tra i molti pensieri, congetturando che colui avesse
viaggiato per venir sulle sue traccie, Dio sa per quale intento,
ingiunse al postiglione di mettere i cavalli alla più veloce
carriera che fosse possibile: comando che fu tosto adempiuto, perchè
non c'è al mondo uomo più docile e più
condiscendente d'un postiglione quand'ha ricevuta una buona mancia e
quando sa di doverne ricevere di più grosse. Se non che la
contessa, guardando indietro, vide che il postiglione del Galantino
aveva fatto il medesimo co' suoi cavalli. Allora non dubitò
più di essere inseguita, e ne fece motto alla cameriera.
A
Lodi, il suo postiglione svoltò nel portone dell'albergo del
Gambero per cambiare i cavalli; e dopo pochi minuti fece lo stesso
anche il postiglione del Suardi; e come la contessa Clelia salì
in una camera perchè si doveva fare una fermata di un'ora,
anch'esso salì in un'altra.
Dopo
pochi minuti, un cameriere si presentò alla contessa,
dicendole che un signore arrivato in quel punto all'albergo e che
stava in una stanza lì presso desiderava di parlare con lei, e
domandava perciò licenza di poter entrare.
La
contessa, a tutta prima, quasi fu per acconsentirvi; ma poscia,
nauseata di quel che le era occorso a Venezia, e nel tempo stesso
temendo da quell'uomo ogni peggior cosa, gli mandò a dire che
non riceveva nessuno lungo il viaggio; ch'ella si recava a Milano, e
che là egli avrebbe potuto parlarle. Il Galantino insistette
ancora, e a tal segno, che la contessa dovette interporre
l'albergatore medesimo, per non essere importunata d'avvantaggio.
Il
Suardi, all'imbasciata dell'albergatore, con ostentato sussiego:
Dite alla signora contessa, rispose, che l'oggetto per cui aveva a
parlarle interessava lei e non me. Non si trattava che d'un atto di
riguardo che m'ero imposto. Pur faccia come vuole. A Milano si
accorgerà di aver fatto male a non ascoltarmi. Riportatele
queste mie parole, e fate attaccar subito i cavalli.
L'albergatore
riferì tutto alla contessa, ma ella, sebbene le si fosse
accresciuta l'affannosa curiosità a quelle parole, non si
smosse e rispose:
Va bene.
Il
Suardi, sconcertato nel suo disegno, dovette ritornare a Milano, in
bocca al lupo, come si suol dire, ma non gli rimaneva a far altro.
Lungo il viaggio pensò come quel primo tentativo fallitogli
poteva, arrivata che fosse la contessa a Milano, offerire un indizio
per mettere gli occhi su lui. «Mi son trovato in impacci ben
più gravi di questo (rifletteva egli tra sè) e non mi
son lasciato mai intimorire da nessun ostacolo. Anzi gli ostacoli
quanto più eran serj mi servivano quasi di mezzo ad ottenere
tutto quello che volevo. Cos'è dunque questa paura che mi
assale tutt'a un tratto? Non sono io più il Suardi di una
volta? Non sono or forse in possesso di quella ricchezza colla quale
si rimedia a tutto e si fanno tacer tutti? Coraggio dunque, e avanti.
Mi fa ridere questa contessa orgogliosa... perchè se vuol bene
alla sua figliuola, bisognerà pure che per forza o per amore
ella venga a patti con me. Mi fa ridere quel signor capitano di
Giustizia col suo bando! Un po' d'unto alle mani di qualche senatore,
un po' di unto alle mani di qualche barigello... Senatori e
barigelli!.. va benissimo! quand'io mi sono assicurato di chi dà
gli ordini e di chi li eseguisce, mi pare che non mi rimanga
null'altro a fare. La mia cassa rigurgita di ducati e di talleri di
Carlo VI. Coraggio dunque, e non ci si pensi più.»
E
il Galantino, sebbene tanto perspicace, non arrivava a comprendere
che quella ricchezza medesima, che gli pareva un'arma onnipotente,
era la vera cagione de' suoi insoliti timori. Egli nuotava nell'oro,
e perciò, data l'ipotesi di un passo falso e di una caduta,
aveva da perder troppo. Il coraggio intero e sfrontato lo ebbe quando
nel mondo nulla aveva da perdere e tutto da guadagnare. Allora
procedeva sicuro e colla forza invincibile dell'istinto che lo
sollecitava a ghermir la fortuna in qualunque modo.
Mezz'ora
dopo del Suardi si rimise in viaggio anche la contessa, che entrò
in Milano per Porta Romana un paio d'ore innanzi sera, discendendo
poco dopo alla casa Pietra.
Nella
sala di ricevimento, impegnata in gravi discorsi con donna Paola,
stava da qualche ora la Gaudenzi la quale aveva condotto seco l'unico
suo figliuolo. La Gaudenzi, ignara di tutto quanto era avvenuto ed
avveniva in Milano che non le appartenesse, e d'altra parte, memore
del cortese ajuto ricevuto fin dal 1750 da donna Paola, aveva pensato
di rivolgersi ancora a lei, dopo che le erano riusciti infruttuosi
tutti i passi mossi presso il capitano di Giustizia onde aver nuove
del marito e saper in che condizione ci si trovasse. Sentito a
nominare lord Crall fin dal giorno che dall'attuaro erale stato
comunicato l'arresto del Bruni, quel cognome di suono straniero non
le avrebbe mai potuto far sospettare chi veramente colui si fosse.
Però alle prime parole che ella tenne con donna Paola fu
reciproca la meraviglia in entrambe.
Donna
Paola stupì che il marito della Gaudenzi fosse impigliato nel
processo di Guglielmo; e la Gaudenzi si meravigliò più
ancora nel sentire che lord Crall era figlio di donna Paola. Per
questa circostanza singolare crebbe più che mai l'interesse
dell'una per l'altra a vicenda; però era da un pezzo ch'elleno
stavan parlando del doloroso accidente e del modo di ripararvi,
allorchè il servitore entrò e disse:
È arrivata la signora contessa Clelia V... in questo momento;
eccola.
Donna
Paola si alzò turbata a quel nome, al punto che parve le
fuggissero le forze. La buona Gaudenzi, informata d'ogni cosa un
momento prima, fu invasa da tanta pietà per la contessa,
quando la vide entrare, che dimenticò quasi sè stessa.
E
il suo figlio, che poteva avere dodici anni, abbastanza svegliato per
comprendere tutto, si mise anch'esso in aspettazione e in apprensione
a quella venuta.
Ed
oggi, quando noi pensiamo che abbiam conosciuto quel fanciullo
stesso, fatto vecchio decrepito, siamo esaltati da un tal senso di
meraviglia che quasi diventiamo increduli verso noi stessi. Però,
senza alterarle d'un punto, vogliamo riferire le parole stesse del
figlio di Lorenzo, quando ricordandosi di quel fatto, e di quella
scena, e di quelle donne, ce le dipinse con tale schiettezza e
semplicità che quasi in ascoltarlo ci pareva di vivere con
esso in quell'anno 1766; e tanto più che abbiamo stretto più
volte la mano e baciato il venerando volto di quell'uomo che,
fanciullo, era stato baciato da donna Paola e dalla contessa.
IX
«Settantasette
anni fa, precisamente in questo stesso mese di giugno, non mi ricordo
bene il giorno, ma press'a poco intorno a quest'ora, verso il
tramonto, io mi trovavo in casa di donna Paola Pietra con mia madre,
quand'entrò in quella sala terrena, dove mi par di trovarmici
ancora, la contessa Clelia V..., ed era la prima volta che la vedevo.
Io non avevo che dodici anni, poco su poco giù, ed ora che
siamo nel 1842, potete immaginarvi, in tanto numero d'anni,
attraverso a tanti avvenimenti, essendomi trovato in tanti luoghi
d'Europa, che sterminata folla di gente m'è passata innanzi
agli occhi; pure la figura di quella donna, come l'ho veduta nel
punto che metteva il piede in quella sala, non mi è mai
uscita, e non m'uscirà mai più dalla memoria.»
Di
queste precise parole del signor Giocondo Bruni, anche noi ci
rammentiamo tanto bene che ne par di sentirle ancora; e ancora, dopo
sedici anni, ne sembra di veder vivo quel vecchio quasi novantenne,
nel punto che, fatto pausa alle ultime parole, socchiuse un momento
gli occhi, disturbati dalle persone che ci passavan davanti
(trovandoci noi adagiati sur uno dei sedili delle mura di porta
Orientale che guardano il Resegone); socchiuse dunque gli occhi e
stette così un momento, quasi contemplasse coll'imaginazione
riproduttrice quel quadro ch'ei voleva dipingere a noi, che, nella
curiosità giovanile, lo andavamo importunando di mille
interrogazioni per addentrarci nei minimi particolari di que' fatti.
«Io
stavo seduto, così continuava il signor Giocondo Bruni, su
d'una gran seggiola coi cuscini di marocchino entro ai quali mi
perdevo, e di dove mia madre m'aveva ingiunto di non muovermi, perchè
in quella mia età, curioso qual era, andavo guardando e
toccando gli oggetti ch'eran deposti su' tavolieri, e, visto una
spinetta aperta, m'ero provato a far correre la mano sulla tastiera.
Ma quando entrò la contessa, il suo aspetto era tale, ch'io
per la meraviglia non potei trattenermi dal sorgere in piedi. La sua
bellezza era di quel genere che io chiamerei terribile, e forse me ne
son fatta questa idea perchè entrò così
corrucciata e stravolta da mettere in apprensione chi la guardava.
Ella non vide, almeno mi parve, nè mia madre nè me; e a
donna Paola che le mosse incontro:.
«
Come sta dunque mia figlia, chiese tosto, e si lasciò andare
sul canapè.
«
Stavamo appunto parlando di ciò qui con madama Gaudenzi,
rispose donna Paola che non sembrava aver più la voce di
prima, tanto le si era affievolita.
«
È dunque gravemente ammalata?
«Donna
Paola, a queste parole, passò la propria mano sulla fronte
della contessa, e con un fare dolce dolce:
«
Ho bisogno che vi mettiate in calma, la mia cara Clelia. No, non si
tratta di malattie...
«
Ben m'accorsi dalla lettera che ci covava sotto qualche mistero. Or
dunque?
«
Or dunque vi supplico a star forte contro quello che sono per dirvi.
«A
queste parole la contessa balzò in piedi, e:
«
Ditemi adunque tutto ad un tratto, e ammazzatemi con un colpo solo...
io sarò forte.
«E
dopo di ciò torse la testa, e guardava precisamente me, nel
punto che, mandando un gran sospiro, oh Dio!! esclamò. E donna
Paola, con una calma che certo doveva costarle sudori:
«
Tutto è però disposto, disse. Io, il conte vostro
marito, il signor capitano di Giustizia... il Senato... abbiamo
fatto, si è fatto tutto quello che dovevasi in questa
circostanza, e da un momento all'altro aspetto una buona notizia;
perchè non è possibile che tanta gente spedita in tutte
le parti sulle loro tracce non giunga a trovare la figliuola del
marchese Crivello che è scomparsa dal monastero insieme colla
vostra...
«Donna
Paola non ebbe finito di parlare che la contessa, mandando, non già
un grido, ma un singhiozzo rantoloso, si rovesciò indietro...
io credetti... morta. Mia madre e donna Paola le furono tosto
intorno; mia madre sostenendola, donna Paola chiamandola per nome e
baciandola. Io era tutto spaventato; e a riscuotermi, la medesima
donna Paola, la quale a un tratto pareva diventata un'altra, essendo
scomparsa ogni traccia della sua soavità:
«
Dà una strappata a quel campanello, mi gridò, quasi
fosse in collera con me. Io obbedii... e comparve una livrea che,
vista la scena, ritornò tosto con due donne.
«Queste,
essendosi fatte presso alla contessa con acque odorose ed altro, ed
accingendosi a spogliarla, io fui mandato fuori; e mi ricordo
benissimo, come se fosse adesso, che, passando vicino alla contessa,
non potei a meno di soffermarmi a guardarla. Il vestito di drappo
azzurro, illuminato da un ultimo raggio di sole che entrava per la
finestra del giardino, dava a quel volto una tinta di cielo e
avvolgeva quel gruppo di donne come in un'atmosfera di luce
particolarissima.
«Uscito
e messomi a sedere in anticamera, sur una di quelle cassapanche
vecchie cogli stemmi che si vedon nelle case de' gran signori,
confuso e sbalordito, assistetti alla scena della servitù che
andava e veniva, riceveva ordini, li trasmetteva d'uno in altro. Dopo
qualche tempo, una di quelle cameriere ch'erano state chiamate a
soccorrere la contessa, uscì, e, nominato un servitore:
Fate attaccar subito, disse, e andate allo studio dell'avvocato
Agudio dove troverete il giovane avvocato Strigelli. Gli direte che
la signora padrona lo prega di venir tosto qui. Dopo andrete dal
signor abate Parini, e pregatelo pure a voler lasciarsi vedere entro
la giornata. Rientrata la cameriera, partito il domestico, passò
una mezz'ora buona, ed io fui lasciato là solo con un altro
servitore; nè mia madre usciva, nè io sapeva quel che
succedesse di dentro, ed ero pieno di inquietudine e d'impazienza.
Quando volle Iddio, uscì mia madre finalmente, e, chiamatomi,
mi disse d'entrare a fare il mio dovere colle signore prima di
partire; Allorchè rientrai, la contessa era seduta sul canapè,
alquanto ricomposta, se volete, ma abbattuta così da far
compassione. Donna Paola le sedeva presso e le teneva stretta la
mano. Nel punto che mia madre mi sospingeva leggermente verso la
contessa, questa mi guardò e mi sorrise in prima sbadatamente;
poscia tornò a guardarmi con più attenzione, e mi dette
un bacio; finalmente, continuando a guardarmi, voi non sarete per
credere, diede in uno scoppio di pianto, nascondendosi la faccia nel
fazzoletto. Ed io, che cosa volete? mi diedi a piangere anch'io
dirottamente. Forse vedendo me fanciullo presso mia madre, più
insopportabile erale ricorsa l'idea della sua figliuola smarrita;
forse pensando che io era il figlio di quel Bruni che era stato la
cagione d'ogni suo disastro, e fors'anco associandosi il pensiero di
mio padre coi fatti di tanti anni prima e col pensiero di Amorevoli;
di nuovo, per tutto questo cumulo di memorie e di dolori e d'affetti,
sentitasi a lacerare il cuore, la disperazione s'impadronì di
lei e le lagrime le sgorgarono a furia. Questo ho pensato molti anni
dopo, perchè allora io non ho saputo che piangere. Mia madre
non avrebbe mai dovuto ricondurmi innanzi a quella infelicissima
donna. Ma pochi sono così esperti del cuore umano e degli
umani dolori da conoscere quelle squisite delicatezze onde si rompe
la via a nuovi affanni. Così dunque passò quel giorno,
e venne l'ora che mia madre ed io uscimmo di là; fu nel punto
in cui v'entrava l'avvocato Strigelli che ho sentito a nominare;
quello appunto mandato a chiamare molto tempo prima.»
Staccandoci
intanto dal nostro buon Giocondo Bruni, il racconto del quale, per
quanta cura gli abbiam messo intorno a conservarlo nella sua evidente
ed affettuosa semplicità, ci accorgiamo di aver non poco
guastato, torniamo a ripigliar la parola noi medesimi.
L'avvocato
Strigelli, giovine di venticinque anni, era l'occhio diritto del
decrepito avvocato Agudio. Quando entrò, sapendo naturalmente
ogni cosa ed avvisato inoltre dal servo che la contessa era arrivata
e che aveva voluto morir di dolore alla terribile notizia, si
contenne come voleva la circostanza.
In
quel momento la contessa Clelia, appoggiato il braccio al dossale del
canapè, nascondeva ancora la faccia nel fazzoletto, e
continuava a singhiozzare. Donna Paola allora si alzò, e stesa
la mano al giovine Strigelli: Non potete immaginarvi, disse,
che strazio mi dà questa infelicissima donna; poi parlandogli
sommessa all'orecchio e volgendo gli occhi al cielo, con atto
anch'ella di sconsolata: Se questa benedetta fanciulla, soggiunse,
non si rinviene tosto, costei non può certo resistere a sì
fiero colpo. Ah è stata una gran disgrazia, caro mio, una gran
disgrazia! e quasi mi pento d'averla fatta venire a Milano prima che
non si fossero esaurite tutte le indagini... e a queste parole si
volse, guardando a lungo la contessa che continuava a singhiozzare.
Il giovane Strigelli la guardava esso pure tutto compunto.
È però sempre meglio che si trovi qui, egli osservò
poi.
Voi mi consolate, togliendomi il rimorso di tante lagrime. V'ho
inoltre mandato a chiamare per un consiglio. Ah confesso che dopo
tante sventure non mi fido quasi più di me stessa. Ora sentite
lei.
E
si avvicinò a donna Clelia, e dopo averla riabbracciata e
baciata e fattale come una soave violenza:
Fatevi coraggio, cara, le disse, è qui l'avvocato che v'ha
patrocinata e difesa. Parlategli dunque.
Allora
donna Clelia, asciugatasi gli occhi e lasciando cader la mano in
abbandono, alzò un viso tutto scombujato e guardò lo
Strigelli.
Perdonatemi, disse, se vi ricevo così. Vi ringrazio che siate
stato così sollecito.
Ma che mai dice, contessa? Sarei volato ad una sua parola, e sono qui
tutto per lei. Or si degni di comandarmi.
Ricompostasi
alla meglio, donna Clelia ripetè all'avvocato Strigelli quel
che prima aveva detto a donna Paola dell'inaspettato incontro col
Galantino, dell'insistenza importuna onde colui aveva tentato di
avere un abboccamento con lei a Lodi, e come tutto la induceva a
credere ch'esso era partito per recarsi espressamente a Bologna per
cercare di lei.
Lo
Strigelli ascoltò attentamente e con grande stupore, poi
soggiunse:
Altro che accordargli un abboccamento, signora contessa, quando il
Suardi si presentasse! anzi il mio parere sarebbe quasi di mandarlo a
cercare quando non venisse subito... Si sa mai, contessa! Tutto può
servire in questa circostanza e bisogna metter da parte ogni
riguardo. Ma perchè non sentirlo a Lodi, senza perder tempo
quand'egli chiese di parlarvi?
E chi si poteva fidare di quel ribaldo?
Comprendo benissimo... tuttavia... ma qui si fermò con
quell'atto di chi improvvisamente è assalito da un pensiero
curioso e strano, non mai avuto nè sospettato prima, e, dopo
aver fatti due o tre passi per la camera:
Ma sa cosa devo dirle?... esclamò tutt'a un tratto.
Che?...
Un filo è trovato, contessa. Or tutto è chiaro. Vuol
ella sapere chi ha fatto scomparire le fanciulle dal monastero? Ma
già lo ha indovinato...
Il Galantino?... esclamarono ad una voce la contessa e donna Paola.
Il Galantino, sì signore. Sono tanto sicuro di ciò come
di nessun'altra cosa al mondo... e non averlo mai pensato prima, nè
io, nè loro, nè altri, ciò pare impossibile,
eppure il fatto mi par così chiaro!...
Donna
Paola e la contessa si guardavano stupefatte.
Non si ricorda forse donna Paola d'avermi detto un dì che
costui fece intendere più volte di voler pure vendicarsi della
contessa?...
Sì...
Non è noto a tutti che questo ribaldo fortunato fa aperta
professione di sedurre donne e fanciulle, e con tanto più di
voglia quanto più sono al disopra di lui? E non è di
sua proprietà un'ortaglia e un casamento per deposito di
mercanzia, contiguo affatto al monastero di San Filippo?... e la
visita de' fermieri non può forse essere stata fatta
espressamente per provocare un disordine che desse luogo e
agevolezza?... loro mi comprendono. Ma ora è caduto egli
stesso nelle sue medesime insidie... Oh, si consoli, contessa.
L'idea
d'aver trovato il filo che potea guidare a scoprir tutto, in sulle
prime, come avea messo in bocca al giovane Strigelli quel si
consoli, mise pure un soprassalto di gioia repentina e nella
contessa e in donna Paola. Ma fu un sentimento fuggitivo, chè
quasi contemporaneamente:
Ahimè! uscì con accento di disperazione ad esclamar la
contessa mettendosi le mani ai lati della fronte.
E
senza che aggiungesse altro, tosto la compresero e divisero il suo
ribrezzo il giovane Strigelli e donna Paola.
Eppure, che volete? soggiunse l'avvocato dopo un lungo silenzio. Io
ho de' felici presagi. Io so, e lo sanno tutti, che il Suardi, dacchè
s'è fatto così ricco, desidera ardentemente di far
dimenticare il passato col presente, con beneficj, con carità,
con atti generosi; che volete? ho sentito a benedire il suo nome da
quelli che lautamente furono soccorsi da lui nell'occasione che in
borgo San Gottardo avvenne, nello scorso mese di marzo, quel
terribile incendio di cui rimangono ancora i guasti. Io ho de' felici
presentimenti, e prego la contessa a sperar bene.
Ma che presentimenti?
Codesti ribaldi saliti in fortuna son capricciosi... chi sa che non
abbia voluto vendicarsi per aver poi l'orgoglio di confortarla,
contessa?... Le faccio osservare che insieme colla sua figliuola è
scomparsa una figlia de' Crivelli che, per la forma infelicissima del
corpo, è tutt'altro che atta ad ispirare amore in chicchessia.
E dunque?....
E dunque conviene aspettare ch'ei si presenti, mandarlo a chiamare;
se non che, pensandoci meglio, è più conveniente che
esso venga di sua voglia.
Ma io non posso resistere a questo tormento dell'aspettare.
Non tarderà a lasciarsi vedere, lo creda a me. Si figuri,
contessa, se chi per veder lei s'era messo espressamente in viaggio
per Bologna, voglia lasciarsi attendere adesso ch'ella e in Milano.
Lo
Strigelli parlava in tal modo, com'è facile a credere, non già
perchè fosse certissimo di quello che pensava, nè delle
congetture che aveva fatto e nemmeno di ciò che aveva detto
parergli cosa tanto chiara; ma vedeva la necessità di
confortare la contessa in qualunque maniera, anche con pietosi
inganni. Non per nulla però donna Paola avealo mandato a
chiamare, conoscendo la straordinaria acutezza e la prontezza di
veduta prodigiosa di quel giovane giureconsulto, che abbiam
conosciuto un po' tardi, ma che vedremo in seguito aver molta parte
in questa azione. Avealo poi anche mandato a chiamare perchè a
suo tempo informasse la contessa del come era corsa ed erasi chiusa
la lite giuridica col conte V... Inoltre avea bisogno di lui per
l'intralciata condizione in cui versava lord Guglielmo; ed affinchè
volesse prendersi egli l'assunto di farsene difensore innanzi al
criminale, chè lo Strigelli, non avendo peranco varcato i
venticinque anni, trovavasi ancora nel tirocinio di protettore dei
carcerati al Capitano di Giustizia.
La
sera, quando venne l'abate Parini e Paolo Frisi e l'avvocato
Fogliazzi, e gli altri intrinseci di casa, si tenne, quasi a dire,
consulta su tutta quella matassa di cose. È a sapere che, dopo
gl'interrogatorj fatti subire e a lord Guglielmo e a Lorenzo Bruni e
agli altri detenuti, erasi constatato appartenere essi veramente alla
società segreta dei Franchi Muratori. Anzi in quel dì
stesso da un notajo, da un attuaro e da una mano di fanti del
bargello era stata improvvisamente invasa la loggia di San
Vittorello, e quanti si eran trovati in quel convegno, tutte persone
e giovani delle prime famiglie di Milano, tra gli altri un figlio
dello stesso capitano di Giustizia, furono tutti quanti tradotti
nelle carceri suppletorie del Pretorio. Non mai s'era veduta tanta
severità contro una conventicola che per tanti anni era stata,
se non permessa, tollerata; onde pareva che tutto in que' giorni
volesse piegar terribilmente al peggio.
E
adesso uscendo da casa Pietra e recandoci in Pantano, in casa Suardi,
noi vi udremo il padrone di casa, tutt'altro che di buon umore, in
serio colloquio col sotto tenente Baroggi.
Già io v'ho fatto riflettere che non c'era poi tanto da
ridere, diceva il Baroggi, e che la cosa era e doveva diventare ben
più grave di quel che pareva.
Se non hai altro a dire, puoi anche tacere.
A questo mondo è meglio temere assai, che sperar troppo. Non
si sa mai quello che può succedere.
Io so prevedere i pericoli da uomo ragionevole. Ma ho però
anche una gran fiducia in me. Guai chi si perde d'animo.
Questo lo so.
Ma dimmi un po' tu... Sei di parere che ella mi riceverà
quando sarò alla sua anticamera?
Mi parrebbe di sì.
Aspetta. Giacchè m'hai dato mano una volta, non ti rifiuterai
ad ajutarmi anche adesso. In conclusione sei un po' compromesso anche
tu in questa faccenda. Se io cado... tu mi comprendi... giù
tutti e due.
Non vedo questa necessità...
Giù tutti e due... e addio per sempre alla tua fortuna... Tu
sai quello che voglio dire.
So quello che volete dire; ma non credo niente, perchè è
da troppo tempo che mi andate conducendo di camera in sala; e qual
possa essere codesto gran segreto che deve fare la mia fortuna, non
comprendo.
Comprenderai, ma ora pensiamo ad altro. Domani mattina tu metterai
giù questa tracolla e questa sciabola, e vestirai una delle
mie più sfarzose marsine con panciotto di teletta
d'argento: lascia fare a me. Voglio che tu veda in anticipazione la
figura che farai a Milano fra una decina d'anni, così in via
d'esperimento. In tal modo trasfigurato ti rechi in casa Pietra, e ti
fai annunciare per parlare alla contessa.
Ma perchè tutto questo?
La ragione è semplicissima. Non voglio più affrontare
un altro rifiuto. Mi scapperebbe la pazienza, e... guai se mi scappa
la pazienza! Tu dunque ti presenti, ella ti riceverà, tu le
dirai le mie intenzioni, cioè che debbo parlarle, ma per cosa
che deve premere più a lei che a me. Una volta ch'ella
m'accolga, sta pur tranquillo, niente mi può resistere e la
vittoria è mia, anzi nostra.
Ebbene, io anderò.
Domani mattina.
Non si può tardare di più.
La mia guardaroba è tutta a tua disposizione.
Un vestito semplice sarà meglio d'uno sfarzoso.
Ognuno ha i suoi gusti. Fa dunque quello che più t'aggrada. E
si lasciarono.
X
La
mattina seguente, il Baroggi in abito civile e semplice, per quanto
lo comportava il costume, si recò alla casa Pietra, e domandò
se si poteva parlare alla signora contessa V...
Il
portinajo che aveva ordine di lasciar passar tutti, lasciò
passare anche il Baroggi, il quale, venuto in anticamera e detto il
proprio nome a un servitore, di là venne introdotto in sala,
dove trovò la contessa insieme con donna Paola.
Questa,
allorchè vide il Baroggi:
Oh... voi? disse.
Se
il lettore si ricorda, donna Paola s'era adoperata in pro suo e della
madre.
Non vengo per me, soggiunse il Baroggi, nè per darle nessun
disturbo. Vengo a nome del signor Andrea Suardi per dire una parola
alla signora contessa V.... che, se non isbaglio, è quella
innanzi a cui ho l'onore di trovarmi.
Dite, dite, rispose la contessa pallida e tremante, chè il
nome del Suardi le avea fatto rifluire il sangue al cuore.
Veramente il signor Suardi m'avea raccomandato di non parlare che a
lei sola... ma io credo che in quel momento non pensasse a donna
Paola; e per questo io credo d'interpretare il desiderio di lui,
anche parlando in sua presenza. Il signor Suardi domanda pertanto
alla signora contessa il favore di poterle dire una parola in tutta
segretezza, per cose della più grave importanza.
Gli avevo già detto a Lodi che a Milano avrebbe potuto
parlarmi liberamente. Però venga e tosto.
Sapete la disgrazia da cui è afflitta la contessa, soggiunse
donna Paola; cento cose abbiam da fare nella giornata. Dunque sarebbe
necessario che venisse qui subito.
Il
Baroggi, a quelle parole, sapete la disgrazia da cui è
afflitta la contessa, divenne rosso come una bragia; cosa che
diede nell'occhio a donna Paola ed anche alla contessa, la quale
sommessamente disse alcune parole a donna Paola.
Sì... è il figlio della povera Baroggi, rispose quella
ad alta voce. Ma, a proposito, da che dipende che vi vedo in abito
civile?
Fu per rispetto a questa casa che ho messa giù la casacca da
finanziere. Anche questo è stato un desiderio del signor
Suardi.
Ma siete a' suoi servizj?
No: bensì la mia professione porta che molte volte debba
trovarmi con lui; egli ha della bontà per me e per la povera
mia madre. Se dunque mi dà qualche incombenza, non mi faccio
pregare ad eseguirla.
Donna
Paola si alzò a queste parole, quasi che una molla le avesse
dato la spinta; ed era infatti un movimento comunicatole da un
pensiero improvviso che era già per tradursi in una domanda al
Baroggi; ma si trattenne, e dandole tosto di svolta:
Affrettatevi dunque; dite al signor Andrea Suardi che la signora
contessa lo sta aspettando. Affrettatevi.
Il
Baroggi s'inchinò e partì.
Quando
fu uscito:
Costui sa tutto di certo, osservò donna Paola, e forse ha
prestato mano al trafugamento. Egli è un sotto tenente
delle guardie di finanza al servizio della Ferma. Povero Baroggi!...
ed era un fanciullo di buonissima indole; ma il bisogno lo ha spinto
a quel pericoloso mestiere, e s'è dato alla crapula... e poi
vennero i debiti... e poi... Ecco gli effetti. Ah! è meglio
morire quando mancano i mezzi di soccorrere a tutte le miserie!
La
contessa non rispose, e quasi non sentì tali parole, perchè
era tutta sossopra per l'ansia dell'aspettare; e nel frattempo non
fece altro che sedere, alzarsi, passeggiare senza mai potere aver
requie.
Finalmente,
dopo una mezz'ora, il servitore annunciò:
Il signor Suardi.
Le
due donne si alzarono. La contessa incrocicchiando le dita d'ambo le
mani, le strinse le une contro le altre con forza, distendendo
simultaneamente le braccia, come fa chi tenta sciogliersi da
un'oppressione convulsa; poi disse:
Ah! non vi allontanate, donna Paola.
Lasciate fare, starò nella camera vicina, essa le rispose;
abbiate coraggio e sperate bene.
Donna
Paola uscì. La contessa Clelia si appoggiò al canapè
e stette ritta in piedi. La porta s'aprì, ed entrò il
Suardi.
Se
la contessa tremava, il Suardi non era tranquillo. Bensì la
prima mostrava nel volto e nella persona tutta quanta la condizione
dell'animo proprio; mentre il Suardi, sotto al calmo sorriso delle
sue labbra lievemente arcuate, celava compiutamente l'intima
battaglia de' pensieri. Le parole però non gli vollero venir
tosto, onde la contessa fu la prima a rompere il silenzio:
Or dunque, cosa avete a dirmi, signore?
La supplico di sedere, contessa. Il discorso non può esser
breve... Intanto la ringrazio dell'avermi accordato questo
abboccamento. La ringrazio non per me... ma per lei.
Dovevate parlarmi per cosa di gravissima importanza? Sappiate dunque
che una sola è tale per me.
Ed è la sua figlia, lo so; ecco perchè son qui e perchè
l'ho pregata a volere ascoltarmi a Lodi. Ma ora... per rasserenarla,
le dirò, contessa, che ho la speranza di poter forse presto
meritarmi i suoi ringraziamenti.
E dov'è dunque mia figlia? chiese allora impetuosamente la
contessa, con un accento iracondo, non mitigato che da un tremito di
singhiozzo.
Si rimetta in calma, signora contessa, e speri bene; perchè se
la sua figliuola le comparirà presto innanzi, io confido che
questo avverrà per mio merito.
Ma dov'ella è? torno a domandarvi.
S'io lo sapessi, vossignoria avrebbe avuto a domandarmelo? Essa
troverebbesi già nelle sue braccia.
A
queste parole la contessa guardò il Galantino con un volto tra
l'attonito e lo spaventato; poi soggiunse disperatamente:
Ma e che dunque siete venuto a far qui, se non sapete dove sia? ma e
dove mai può essere adesso? O mia Ada!! e cadde sul
canapè.
Quella
disperazione fece colpo al Suardi, e si sentì sinceramente
commosso; onde alzandosi da sedere ed avvicinandosi alla contessa:
Ma non stia a travagliarsi così, torno a ripeterle; perchè
forse e presto e per opera mia ella potrà rivedere sua figlia.
All'annuncio della disgrazia avvenuta, io che ho gente sparsa in
tutte le parti del Ducato, e mezzi di comunicazioni a centinaja, ed
esploratori pei contrabbandi, tosto ho detto fra me: Ben io la
rintraccerò questa ragazza, e così vedrà la
contessa Clelia come fa a vendicarsi un mio pari... Ed ho già
de' contrassegni, contessa, e mi par bene che oggi o domani si verrà
a capo di tutto e si verrà a saper tutto. Si consoli dunque e
risparmi le lagrime. Vuol ella, contessa, ch'io debba essere venuto
qui per nulla? Per consolarla sono venuto qui. Onde capacitarla poi
ch'io sono un galantuomo, e non un tristo nè un ribaldo, le
dirò che di noi due non so chi più desidera di venir a
capo d'ogni cosa. Si consoli dunque, contessa, e rasciughi le lagrime
e m'ascolti.
Ma per darmi una così lieve notizia vi siete messo
espressamente in viaggio per Bologna? rispose la contessa
rimettendosi in qualche calma. È ciò verosimile? Posso
io prestar fede alle vostre parole?
Chi v'ha detto, contessa, ch'io andassi a Bologna? Io trovavami in
giro per affari miei particolari. Dato fine ai quali, recavami a
Piacenza così per diporto. Di modo che, allorquando vi ho
veduta, sospettando o che foste già al fatto della disgrazia,
o foste per saperla, ho creduto dover mio il mitigarne il colpo,
cercando di dirvi quel che io aveva fatto per voi e le speranze che
ne concepivo; ecco tutto.
Quando
il Suardi ebbe ciò detto, donna Clelia fatta certa dalle
parole dell'avvocato Strigelli che il rapitore non poteva essere
ch'egli solo, fu per investirlo con impeto e parlar chiaro, e
pigliarlo di fronte; ma si trattenne, paurosa di irritarlo e di
peggiorare la condizione delle cose, onde si tacque perplessa. Nè
dal canto suo il Suardi sapeva tirare innanzi il discorso. Egli era
piantato male, ed aveva fatto un passo falso, e una passione gli
lavorava terribilmente di dentro; una passione di cui non aveva mai
subìto il dominio in tutta la sua vita. Egli era venuto lì
per manifestare l'animo proprio alla contessa, per dirle quel ch'era
passato tra lui e la fanciulla Ada, per ottenere da lei pacificamente
una parola che togliesse ogni ostacolo a' suoi desiderj. Ma quando fu
al punto di parlare, non si sentì la sfrontatezza di farlo.
D'altra parte non volea confessare d'essere stato l'autore del
rapimento, perchè pensava alle conseguenze, e volea pur
serbarsi un varco alla ritirata; e nel tempo stesso rifletteva che,
per costringere la contessa ad una risoluzione, bisognava pure che le
facesse toccar con mano come la fanciulla fosse in suo pieno
arbitrio, e che un matrimonio era pure il solo mezzo per finir tutto
senza scandalo e in pace.
Qualche
nostro lettore potrà dire che, in uomini della natura del
Galantino, è impossibile una passione amorosa di quella forza,
di quella intensità, di quella durata; e che l'abito della
sfrontatezza così vecchio in lui doveva soccorrerlo anche in
quella circostanza. Il lettore può aver ragione, ma il
vero è che il Galantino, al contatto di quella passione
affatto nuova per lui, e in conseguenza di quella sua condizione
mutata, subì veramente in parte quella trasformazione. Al
fatto della ricchezza, alle apparenze del gentiluomo, erano
susseguiti in lui anche i sintomi di una natura quasi nuova. Le facce
dell'uomo sono molteplici, e sbaglia chi lo considera da un lato
solo. Non v'è mortale, per quanto tristo, che non abbia in sè
un germoglio di qualche virtù. Ciò, per fortuna, lo
hanno detto cento altri, onde ne sarà più facile
l'essere creduti. Però non è detto che un tal
germoglio non possa fruttificare col tempo, e al contatto di
circostanze speciali; sebbene l'uomo antico di quando in quando torni
pur sempre a far capolino attraverso alle cangiate abitudini
dell'uomo nuovo.
Ecco
perchè tra questo colloquio del Galantino colla contessa, e
l'altro ch'ei tenne con lei medesima a Venezia, l'intonazione è
così diversa, che ci par quasi di trovarci al cospetto di
un'altra figura. Ma non si tratta di un dramma in cui l'azione si
svolga in ventiquattr'ore; in un giorno un uomo non può
menomamente modificare il suo carattere: ma nel corso di una vita
intera ben si può dire che, dall'adolescenza alla gioventù,
alla virilità, alla vecchiaia, egli presenta nell'animo tante
alterazioni quante appaiono nella sua faccia. Non è che l'arte
di convenzione quella che considera un uomo come se fosse fatto
d'agata, e come l'agata impenetrabile dal tempo.
Chi
applicò alla vita l'osservazione continua, ci saprà
dire se abbiam ragione.
Continuando
adunque il silenzio più che la circostanza lo avrebbe dovuto
permettere, la contessa ebbe campo di volgere in mente più
pensieri, e infine:
Sentite, signore, gli disse.
L'iracondia
era scomparsa, l'accento mutato, e ad infletterlo non era rimasto che
un fremito lieve lieve e quasi non avvertibile di singhiozzo; e
coll'accento mutato erasi mutata anche l'espressione del volto della
contessa. Esso appariva sconvolto ma tranquillo, ma soffuso di un
languore soave, e il labbro per la prima volta schiuse al Galantino
un mesto sorriso. Il Galantino non aveva mai vista che la severità
la più arcigna nella bellezza solenne della contessa; onde
quel sorriso gli fece un senso nuovo e gradito.
Jeri, continuò la contessa, un uomo stimabile mi parlò
di voi lodandovi.
Di me?
Di voi... e mi disse che molti sventurati hanno benedetta la vostra
carità.
Io non so...
Lo sapete e ne dovete sentire una gran compiacenza. Ah... io vi prego
dunque di continuare in questa vostra bella disposizione
d'animo. Pensate che è una madre che ha perduta la sua unica
figliuola quella che vi prega. Ditemi dunque tutto sinceramente; io
non proferirò parola per lamentarmi. Quel ch'è stato è
stato. Foste voi dunque a levarla dal convento? Ditemi tutto, tutto.
Dopo
una pausa significantissima:
Io no, rispose il Suardi, quantunque l'avrei voluto.
Voluto, ma come voluto? Io vi comprendo meno ancora di prima.
Voluto?...
Sì... perchè...
Perchè? dite.
Quando io ci penso, contessa, quasi non posso crederlo a me medesimo;
ed ora ascoltatemi, ma senza andare in collera.
Che?...
Io sono perdutamente innamorato della vostra figliuola.
Ah!! e la contessa mandò un respiro affannoso, e torse lo
sguardo dal Galantino.
Con ciò vi sia spiegato l'interesse che mi son preso per la
disgrazia avvenuta alla vostra figliuola, e l'essermi potuto
dimenticare dell'ingiuria che mi avete fatto, e della posizione
orribile in che mi avete posto. Con ciò potete credere alle
mie parole, e vivere sicura che tutto quello che ho fatto per venir
sulle tracce della vostra figliuola, non l'ha fatto nè il
Senato, nè il Capitano, nè altri, ad onta dei loro
bandi e di tante guardie mandate dovunque. Io ho scoperto tutto, io
so tutto. Ed ora credetemi e consolatevi; la vostra figliuola è
in salvo, e consolatevi di più, pensando ch'ella è oggi
quel giglio puro e immacolato ch'ella era quando uscì di
monastero. Consolatevi e credete alle mie parole, chè, per
Dio, non sono un bugiardo.
La
contessa si alzò, e per un istante fuggitivo brillò un
raggio di contento su quel suo viso augusto; ma poi si rabbujò
di nuovo, e:
Finchè, disse, voi non mi diate la spiegazione del fatto da
parte a parte, giacchè asserite di saper tutto; e la
spiegazione non sia tale che mi si snebbii la mente e mi si dilegui
ogni mistero, e non vi sia nulla più per me d'inverosimile,
perdonate, io non vi credo.
Questo è giusto, ma prima è necessario che io apra
tutt'intero l'animo mio, e vi esponga la vera e prima cagione,
l'unica ragione per cui son venuto qui, e ho tanto insistito per
potervi parlar prima a Lodi.
Parlate, in nome di Dio, ch'io sto ad ascoltarvi.
Il
Galantino fece due o tre passi per la camera, poi disse:
L'amore che mi ha inspirato quell'angelo della vostra figliuola è
tale, quale non ho mai provato in tutta la mia vita: esso è di
quella forza che non può esser vinto senza che... ma voi vi
corrucciate. Io taccio. E si diede a passeggiare innanzi e indietro
rannuvolandosi anch'esso.
Continuate, continuate, disse poi la contessa, riassumendo nel viso
la più completa espressione della severità e
dell'orgoglio; chè essa voleva sentir tutto, e nel tempo
medesimo voleva quasi porre un freno alle parole del Galantino.
Ma
questi si piantò in faccia a lei, e come tediato della propria
perplessità e di quella delicatezza riguardosa di cui egli
stesso era maravigliato, tentò quasi a dire un colpo
arrischiato e risoluto.
È inutile ch'io vada in cerca di parole e di modi nuovi per
far dei lunghissimi giri intorno al mio solo desiderio senza
esprimerlo. Parlerò dunque schietto e breve. Il mio desiderio
è di unirmi in matrimonio colla vostra figliuola. Ecco tutto.
Donna
Clelia che stava ritta in piedi appoggiata al canapè col
braccio sinistro, avendo al lato destro il Galantino, al quale non
guardava, osservando in sua vece un quadro che aveva dirimpetto,
piegò un momento la testa a quelle parole, e con quei suoi
grandi occhi neri saettò il Galantino d'uno sguardo così,
diremo, gonfio di sprezzo e d'orgoglio, che valse per mille parole
d'insulto; e il Galantino si sentì ferito al punto da smarrire
ogni pazienza, ogni riguardo.
E ben questo m'attendevo! così proruppe egli di fatto. Voi
altre signore dame potete morire per la perdita delle vostre
figliuole, potete gettarvi dalla finestra per la disperazione, ma nel
tempo stesso il vostro orgoglio farebbe morir le figliuole di
consunzione e di crepacuore, e le metterebbe al punto di darsi la
morte piuttosto che appagare un'affezione innocente del loro cuore,
quando di questa affezione ne sia oggetto un giovane, un uomo che non
appartenga al vostro ceto. Crepi la figliuola, va benissimo, ma guai
s'ella non si marita a un conte, a un marchese, a un duca; crepi la
figliuola, non c'è nulla in contrario; la tenera madre ha
sempre tempo di piangere dopo con comodo. Siete tutte fatte così
voi altre signore dame. Orgoglio e niente di più, e affezioni
finte e dolori affettati e lagrime da commedia. Tutte così;
sciocche, ignoranti e dotte, nella boria andate tutte d'accordo. Del
rimanente mi fate ridere, contessa. Se si presentasse a domandar la
mano di vostra figlia il conte M... per esempio (e pronunciò
intero quel nome), o il barone C... (e nominò anche costui per
esteso), od altri di tal fatta, i cui padri, cinquanta, sessant'anni,
cento anni fa, voglio essere abbondante, appartenevano alla più
marcia plebe; e comprarono poi i titoli coi danari o con servigi
equivalenti, servigi non gloriosi, intendiamoci bene... perchè
so distinguere anch'io cosa da cosa... e allora si vedrebbe che
edificazione, che complimenti, che festa, che allegria in casa per la
grande fortuna della sposina!! Ma se tutto l'ostacolo sta qui,
tranquillatevi contessa, provvederò io al resto... ho larghe
tenute anch'io, e ville e case e oro e carrozze e cavalli... e tempra
di salute invidiabile... e freschezza di gioventù ancor salda,
e avvenenza, per Dio. Sappiatemi dire di grazia se quell'ometto
ridicolo del conte M... può valere l'unghia d'un mio dito;
sappiatemi dire se il barone C... con quel suo naso pavonazzo, ch'è
lo stemma al naturale della sua casa arricchita nel vender vino, può
vantare questa mia fronte... ampia e nobile, per Dio... Anche la
bella apparenza è qualche cosa, signora contessa; che se a lei
preme davvero che il marito della sua figliuola sia nobile, ci
penseremo anche a questo; e se non io precisamente... mio figlio, o
il figlio di mio figlio saranno conti... e questa condizione la
metteremo nel patto nuziale.
Codeste
parole in bocca del Galantino è indubitabile che denno far
senso. Ma coloro a cui per avventura potessero riuscire ingrate, si
consolino pensando che le ha pronunciate un ribaldo in collera;
quelli poi che ci vedessero balenar dentro pur qualche barlume di
verità, riflettano che la verità non ha paura di farsi
annunciare nemmeno dalla bocca dei tristi, tanto ella è
invulnerabile.
Ma
la voce del Galantino, in ragione che parlava, s'era venuta alzando
gradatamente, tanto che, alle ultime sue parole, donna Paola comparve
all'ingresso della sala. Ah! esclamò allora la contessa
nel vederla, sentite anche voi... sentite, ajutatemi, consigliatemi;
e fece tre o quattro passi rapidi dal canapè alla soglia della
porta su cui donna Paola stava ritta e severa, e le prese
strettamente la mano, traendola nell'altra camera e dicendo al
Galantino, mentre gli si rivolgeva: Aspettate.
Passarono
alcuni minuti. Il Galantino, alterato nel viso e parlando tra sè
e se, misurava nel frattempo a gran passi la camera. Ricomparve poco
di poi donna Paola sola. Ricomparve, e mettendosi a sedere e facendo
sedere il Galantino:
Scusate, signore, disse, se mi prendo la libertà di dirvi che
dovevate avere maggior riguardo al dolore profondo di quella povera
donna. E pronunciò queste parole in modo che al Galantino
sbollì ogni sdegno, e si sentì umiliato.
Vostra signoria mi perdoni, ma io venni qui con tutte le migliori
intenzioni, e se ho potuto far dispiacere all'egregia signora
contessa, ne sono sinceramente pentito. E di che sorta fossero le mie
intenzioni, donna Paola può averlo appreso dalla contessa,
s'ella ha detto a vostra signoria come la fanciulla sia ora in salvo,
e tutto per opera mia.
Questo me lo ha detto... e se ciò è il vero, che non ne
dubito, abbiate la bontà di riflettere, perdonate se parlo
sincerissima, che le buone opere e i beneficj non hanno più
nessun merito quando se ne chiede, anzi se ne pretende un compenso, e
un compenso che soverchia il potere e le forze di chi dee darlo;
poichè dovete sapere che non è nella contessa la
facoltà di accordare o negare la sua figliuola in isposa a
chicchessia; ma nel conte V... suo marito. Il decreto del Senato vi
dovrebbe esser noto.
Il
Galantino non aveva in quel punto la mente al decreto senatorio, ed
era lontano le mille miglia dal pensare al conte colonnello V...;
onde, essendo rimasto fieramente colpito e sconcertato a quel nome,
non seppe a tutta prima che cosa rispondere.
Vedete ora dunque, continuava donna Paola, che a voi non rimane che a
compire l'opera meritoria e ricondurre la figliuola nelle braccia di
sua madre.
Il
Galantino guardò per qualche tempo donna Paola; ma poi, dando
a un tratto in uno scoppio d'ira:
Ebbene, proruppe, giacchè non si vogliono le vie tranquille...
venga l'inferno ad aiutarmi. Giacchè non si vuole che quella
fanciulla sia mia per sacramento, non sia più di nessuno; nè
di me, nè di sua madre, né di suo padre, nè
d'altri. So io quel che farò. Lascio tutta la mia ricchezza
all'ospedale perchè i poveri sguazzino un momento; e fuori io
e lei da questa vita maledetta, dove senza ricchezza non si fa nulla
e quando c'è non vale a nulla, e la gioventù è
un martirio, e la bellezza un'occasione di tormenti, e l'orgoglio il
carnefice universale. Fuori di questa vita io e la fanciulla, e il
conte e la contessa rimangano a consolarsi coi loro quarti. Così
è e così sarà, lo giuro..., e vogliate
perdonarmi questa visita inutile.
Ciò
dicendo si volse per partire, e già era alla porta, quando la
contessa, uscendo con violenza dall'altra camera:
No, gridò, con accento disperato. No, fermate. Aspettate.
Il
Suardi si fermò.
Continuava
la contessa:
Voi vedete la condizione mia infelicissima; parlate voi al conte.
Io non parlo più a nessuno. So quel che debbo fare.
Fermo
sulla porta il Suardi; muta a guardarlo la contessa, con uno sguardo
della più intensa preghiera; pensierosa donna Paola col mento
abbassato sul petto... Codesta scena si prolungò per qualche
tempo. Infine donna Paola disse:
Io stessa parlerò dunque al conte. Siete contento di ciò?
Fate pure, signora.
Domani tornate qui?
Ci tornerò...
E mia figlia quando potrò rivederla? esclamò la
contessa, giungendo le mani.
Quando lo vorrete voi, quando lo vorrà il conte; ma badi quel
signore di non far motto di tutto ciò all'autorità.
Tutto sarebbe perduto irremissibilmente, quando ei fosse per credere
di aver tutto salvato.
XI
Qualche
ora dopo il colloquio or ora riferito, l'avvocato Strigelli, tornato
a far visita a donna Paola e alla contessa, sentì da loro ciò
che era avvenuto; sentì e ponderò il tutto, si fece
ripetere da donna Paola qualche brano dei discorsi del Suardi, la
interrogò parte a parte sul modo onde questo s'era comportato,
sulla qualità del calore che aveva messo nelle sue parole,
sulla qualità del colore che aveva mostrato sul viso; tenne
conto delle angosce che invece di cessare erano accresciute nella
contessa; ma fece precisamente come un medico esperto e risoluto, che
assicuratosi della condizione d'una malattia gravissima, e dovendo
procedere a mezzi eroici e di dubbio evento, ma i soli tuttavia da
lui adottabili, interroga quei della casa sul grado di fiducia che
hanno in lui, e se sono disposti a lasciargli fare tutto quello ch'ei
vuole. Disse dunque lo Strigelli.
Da quanto mi avete raccontato mi pare che questo scellerato beniamino
della fortuna abbia stancato anche sua madre, e tanto che pare
voglia abbandonarlo. La passione gli ha penetrato il cervello in
maniera, ch'ei non ha più il colpo sicuro d'una volta. Già
a quest'ora ha commesso tante imprudenze che davvero non so farmi
capace del come ei si pensi di far tutto quello che vuole, quasi che
non vi sia più un'autorità al mondo, nè un buon
capitano di Giustizia con barigelli e fanti, che se possono mettere
le manette a qualche facoltoso, si comportano senza nemmeno pensare
all'interesse, ma pel solo e semplice amore dell'arte. Pare adunque
che questo sia il momento di coglierlo questo signor Suardi. Quando i
serpenti stanno facendo la loro digestione, quello è il punto
che i cacciatori se ne impadroniscono. Donna Paola egregia, qui non
bisogna avere scrupoli. Signora contessa, qui bisogna aver coraggio,
nè credere che il signor Suardi possa far quello che ha
minacciato. Voglio bene che la passione gli abbia fatto girare il
cervello, ma se può commettere delle imprudenze, non vorrà
commettere dei fatti gravi. D'altra parte ha promesso di venir
domani, non è vero?... Queste ventiquattro ore d'aspettazione
sono un tesoro... per chi le sa valutare. Ma bisogna lasciar fare a
me e fidarsi di me.
La
contessa, a queste parole del giovane Strigelli, opponeva
naturalmente l'invincibile sgomento in cui versava per la vita e
l'innocenza della sua Ada, sgomento che nel suo massimo accesso
arrivava perfino a far tacere il ribrezzo che del pari irresistibile
provava per il Galantino. Donna Paola poi, tanta era l'emancipazione
della sua mente e de' suoi generosi principj, emancipazione che
raggiungeva un ideale quasi non valutabile nemmeno dagli intelletti
più indipendenti del tempo, un ideale che talvolta pareva
persino trascendere all'intemperanza, opponeva alle parole
dell'avvocato e al ribrezzo della contessa queste ed altre
considerazioni:
Voi dite, avvocato, essere così manifesti nel Suardi gli
effetti della vertigine della passione, che tutto induce a
persuadervi essere venuto il momento di coglierlo, per la ragione che
non sembra più in possesso de' suoi naturali mezzi di
difesa...
Certamente, donna Paola, Sansone fu potuto mettere in ceppi
dall'astuzia, quando gli cadde la chioma.
Ma ciò mi ripugna, e tanto più che il Suardi si è
come confidato in noi. Le ultime sue parole erano d'uomo che è
così penetrato dall'amore, che a questo sembra posporre ogni
altra cosa; che per questo parrebbe quasi essersi operata in lui una
completa trasformazione morale. Egli è ricco, le ultime sue
largizioni ai danneggiati per l'incendio del borgo san Gottardo
accusano esservi in lui qualche sentimento generoso. Se un amore
sincero, legittimamente appagato, potesse mai tradurre a benefizio
degli uomini quelle sue qualità particolari per cui una volta
potè loro riuscire dannosissimo; non provate voi, avvocato,
una certa titubanza nell'assalirlo in questo momento appunto?
Troncare e distruggere un frutto che può essere buono non per
altro motivo che perchè nasce da un albero che in addietro ne
diede di cattivi, non mi parrebbe, scusate, nè sapienza nè
giustizia.
Io ammiro, donna Paola, queste vostre considerazioni. Le anime
nobilissime sono condotte dal desiderio del bene ad illudersi sulle
apparenze delle virtù in altri; ed a credere nella durata di
quelle, che non sono altro poi che un'accensione subitanea, avvenuta
per circostanze tanto speciali quanto passeggiere. Se ci potesse
essere una certezza assoluta di codesta completa trasformazione della
perversità nell'onestà; io direi, si faccia quanto
dite. Ma c'è questa certezza? Possiamo noi dire che di una
ardente passione possono essere perpetui i beneficj effetti? o non
piuttosto che, dileguandosi essa nell'atto stesso del suo
soddisfacimento, abbiano a sparire simultaneamente anche quelle larve
di virtù che s'erano mostrate alla sua comparsa?
Donna
Paola a queste parole si alzò, e:
Avete ragione, avete ragione, disse; io mi lascio sovente trasportare
di troppo. Ah se il mondo fosse come io vorrei; se fosse vero che,
siccome talora fantastico, la virtù potesse essere un prodotto
della volontà costante di chi la sente e la vede; e fosse
errore il credere, darsi nature così terribilmente guaste da
tornare impossibile il placarle pur sotto i più beneficj
influssi... che consolazione sarebbe!... Ma io fantastico talvolta...
lo so bene; dunque fate voi... se qui la contessa lo permette.
Libertà di operazione bisogna concedermi, ed io confido che
tutto debba piegar in bene.
La
contessa tornava ad opporsi.
Ma a respingere ogni obbiezione, ritenete voi, disse lo Strigelli,
che il conte voglia permettere quel che il Suardi domanda? È
una pazzia il crederlo. Dunque lasciate fare.
La
contessa, rassegnata, si affidò alle promesse incoraggianti
del giovane avvocato, a cui, mentr'esso si accomiatava, strinse la
mano, quasi facendo con quell'atto una nuova preghiera. E donna Paola
lo seguì fin nell'anticamera, per dirgli cosa che non voleva
fosse sentita dalla contessa:
Oggi medesimo ho risoluto di recarmi dal conte V...
E che? pensereste mai d'indurlo...
No, no. State tranquillo. È un altro il mio fine. Io voglio
indurlo a venir qui domani. All'idea di umiliare il Suardi, certo
ch'ei ci verrà. In ogni modo, voi mi comprendete... quale
consolazione sarebbe se la contessa avesse mai a rappattumarsi col
marito... e dopo tanti anni si ricongiungessero! che consolazione per
me, pei parenti, per gli amici! Quale edificazione per tutta la
città! che insegnamento solenne ai calunniatori farisei! Al
conte ho dovuto parlare in più di un'occasione... e, a dir il
vero, l'ho trovato migliore di quello che me l'avean dipinto...
Oh certo, sotto a quella scaglia tutta irta di petulanza feudale, in
fondo, chi sa pigliarlo pel suo verso, finisce a trovare un buon
bestione, disse lo Strigelli sorridendo; e per certe sue espressioni
a cui si lasciò andare parlando con me, quasi non sarei
lontano dal credere... ma temo della contessa, temo assai...
La contessa farà quello di cui la supplicherò... e i
venticinque anni sono passati, ed anche i trenta...
Tutto va bene, ma la disuguaglianza non sta negli anni ma nella
testa.
Eppure è un tentativo che sento l'obbligo di non tralasciare.
Troppo giusto, troppo giusto.
E
il giovane Strigelli, inchinando profondamente donna Paola, si partì.
Ed
ora dovremmo parlare della visita fatta in quel giorno dallo
Strigelli all'eccellentissimo capitano di Giustizia e il lungo
colloquio avuto seco, ma troppe pagine si consumerebbero, e non c'è
tempo a perdere. Poi dovremmo riferire un altro lungo discorso
investigatore tenuto dal medesimo Strigelli nel dì stesso al
sottotenente Baroggi, cui espressamente andò a trovare in
caserma. Poi la visita di donna Paola al colonnello V.... e
l'escandescenza di lui alla notizia della sfrontata pretesa del
Suardi; ma anche per ciò ci vorrebbe troppo tempo e spazio.
Pensiamo inoltre che tutto questo, meno il piacere ch'altri potrebbe
avere a legger dialoghi, sarebbe al tutto superfluo, perchè in
seguito dovendo veder le conseguenze di queste visite e di questi
colloquj, di necessità potremo indovinarne il tenore, come se
fossero stati riferiti. Bensì ne giova assistere a una mezza
dozzina di soliloquj successi nella notte di questo giorno pieno di
affannose faccende.
XII
In
questa notte adunque alcuni de' nostri personaggi passarono le ore in
uno stato di continua dormiveglia; vogliamo dire: l'avvocato
Strigelli, il Galantino, il conte V..., donna Paola Pietra, la
contessa Clelia V...; nè potè dormir benissimo nemmeno
il sotto tenente Baroggi. Vi fu un'ora in cui, quasi
contemporaneamente, non potendo chiudere occhio, anche perchè
il caldo era salito ai ventisette gradi di quel termometro che
Réaumur aveva inventato nel 1731, e di cui l'uso s'era diffuso
in Italia da pochi anni, i più di loro si alzarono sui gomiti
a seder sul letto, e acceso il lume, si misero a conversare con quei
pensieri, che ronzando intorno siccome insetti importuni, lor avevano
rotto il sonno; così tutti fecero, quel che si suol dire, il
loro soliloquio.
Il
letto del giovane avvocato praticante, che già prometteva di
voler diventare un luminare della giurisprudenza, era posto
vicinissimo ad un tavolone sul quale, tra il Corpus juris e le
Illustrationes ad Constitutiones Mediolanenses di Gabriele
Verri, e il volume della Praxis et Theoricæ criminalis
di Prospero Farinaccio aperto alla Quæstio XVII De delictis
et pnis, trovavasi un cumulo di libelli e processi. Lo
Strigelli, non potendo dunque dormire, lesse attentamente due fitte
colonne di quell'irto latino; eppoi:
Tutte queste cose vanno bene, disse tra sè, ma un avvocato,
allorchè trattasi di vertenze criminali, e gli premono i suoi
patrocinati, deve recarsi egli stesso, come un buon generale, sui
luoghi minacciati, per veder tutto dappresso; e deve far egli i piani
e metter egli medesimo i giudici inquirenti, quasi senza che se
n'accorgano, faccia a faccia cogli indizj della verità; di
maniera che siano costretti a vederli e a non poterli respingere.
Ecco qui: il signor capitano di Giustizia non avrebbe mai pensato al
Suardi, e anche dopo avervi pensato, non volea saperne di fargli una
sorpresa. Or io ho tanto tempestato che l'ho indotto a fare il mio
volere... Domani mattina la vorrà esser bella! Sta volta son
certo che il Suardi cadrà nella rete... Così potessi
governar io gli interrogatorj!... chè d'una in altra cosa...
senza che se n'avveda, lo ricondurrei al primo processo... In
conclusione quel processo fu sospeso, non fu chiuso. Sarebbe un
grande avvenimento se, col pretesto di far la difesa di lord Crall e
dei Frammassoni, riuscissi a far fuori tutto il vero intrigo, e far
stupire tutta la città dell'insperata scoperta. Che
bell'ingresso nella carriera d'avvocato! La lega tra il Suardi e il
Baroggi non è a caso. Peccato che questo giovane sia onesto!!
Ma guarda a che conduce l'amore della professione! Mi fa dispetto la
sua onestà perchè gli vieta di dir tutto quello che sa
a danno del Galantino. Egli ha ricevuto de' beneficj e teme di
nuocere al protettore. Or ecco combinazione... fra una così
fitta e ognor crescente schiera di scellerati che contaminano il
mondo ha a capitarmi innanzi un giovine onesto, che è cosa sì
rara, precisamente allora che m'è d'impaccio. Oh un indizio,
un indizio solo, ma grave e intero... e un buon interrogatorio, e una
risposta del Galantino che implicasse contraddizione... e allora...
mi ripugna ad essere costretto a trovare, sia pure per questo solo
caso, la necessità della tortura... ma il caso eccezionale di
questo astuto lacchè arricchito giunge a far rimanere
perplessa anche la sapienza. Il Galantino, or più avanzato
d'età, più ammorbidito, più infiacchito dalla
ricchezza e dal lusso, non potrebbe più resistere alla tortura
e parlerebbe.
La
disgrazia è che il Baroggi gli diede mano attiva nel rapto
virginum, che è fra i crimini più gravi... ed io
pur non vorrei mettere in ballo quel povero diavolo, il quale non è
che la vittima della prepotenza altrui... Del resto, Dio sa come è
corso il fatto precisamente, e però converrebbe sentir le
fanciulle. Ah! trovar le fanciulle, questo è il problema. E a
questo dev'esser tutto posposto. Domani, dopo il colpo, se riuscirà,
parlerò ancora al Baroggi, e giacchè ha voluto ajutare
il Galantino, farà la penitenza ad ajutare anche me.
E
così proponendo e rifiutando e ponderando, a poco a poco i
suoi pensieri s'intersecarono fra di loro e si confusero in una vaga
e disordinata mescolanza; mentre gli occhi, avendo di troppo, durante
il lavoro della mente, fissata la fiamma della fiorentina, ne
rimasero sopraffatti e stanchi, e si chiusero e stettero chiusi fino
all'alba.
Ma
un momento prima, nella propria stanza, nella caserma della contrada
degli Stampi, li aveva aperti il Baroggi, perchè essendo
andato a letto inquietissimo, i tristi pensieri lo molestarono nel
sonno sotto tante forme, che al fine si svegliò nell'ora che
di solito cominciava il bello del dormire. E aperti gli occhi, dopo
un momento di torpore, i pensieri a un tratto gli si levarono come
uno stormo di passere sgomentate, ed: Oh maledetta la visita
d'jeri! esclamò. Io mi sono lasciato indurre a parlar troppo
dalle sue domande insidiose... e non accorgermi a bella prima ed
aspettare adesso a pentirmene! Eppure non posso credere ch'egli mi
vorrà tradire. Educato da quel buon vecchio dell'avvocato
Agudio, non vorrà fare un tristo giuoco a me e a mia madre,
che il vecchio ha sempre protetto con tanta carità, e felice
il mondo se l'avesser sempre anche i preti... Se il vecchio è
tale, non dovrebbe essere diverso da lui il suo giovane allievo... e
i giovani... Ah che vorrei crederlo! ma qualche volta i giovani sono
peggiori dei vecchi. In conclusione però... che cosa ho
detto?... La verità intera non l'ho confessata... e dalla mia
bocca, per quanto l'avvocato abbia fatto, non è riuscito a
cavare quel ch'egli voleva... e quasi quasi io era lì per
farlo... chè mi pareva di trovare una consolazione ad
abbandonarmi tutto in lui... tanto mi pareva sincero! Ma egli pur sa
che sono entrato in convento nella mia qualità di guardia
della Ferma! e questo, prima di venire da me, l'ha saputo dal
tenente... Ecco il sospetto... si sarebbe comportato di tal modo
l'avvocato, se avesse avuto delle buone intenzioni a mio riguardo?
Qui sta il punto... Ah... maledetto il giorno e l'ora che il
Galantino è venuto a cercare di mia madre e di me... Cosa mi
hanno fatto i suoi beneficj? eppoi che beneficj? Quando un birbone
matricolato fa qualche cosa che sembra una buon'azione, è
proprio allora il momento di stare in guardia. Or ecco come andò
a finire... aveva bisogno d'uno strumento nelle sue mani... bestione
che sono stato a lasciarmi indurre!... Pazienza fossi io solo... ma
c'è quella povera donna di mia madre... tirata anch'essa nella
rete... Ah che imbroglio! che imbroglio!... Ma anche tu ci sei dentro
però, birbone scellerato; ed or quasi son contento d'aver
pensato anch'io a rovinarti... Oh come mi guardò fisso il
giovane Strigelli, quando gli ho parlato del giorno in cui il signor
Suardi pareva in procinto di svelarmi una gran cosa! Come si
compiaceva il signor avvocato a farmi ripetere le parole con cui il
signor Suardi, in tuono di profezia, mi parla sempre della mia
ricchezza! Ah! se questo giovane, astuto e svegliato com'è,
facesse balzar fuori... e il signor conte Alberico dovesse vomitar
tutto quello che ha mangiato... oh che caso!... Ma io però
doveva tacere... Ah doveva tacere... Ho fatto un'azione infame a
gettar quel sospetto... perché poi i beneficj son sempre
beneficj, e chi ci cavò di miseria fu lui... Guarda un po' se
quella maledetta faccia del conte Alberico, impiastrata di belletto
come se fosse quella d'una ballerina, ha sentito un'oncia di
compassione per noi? Or che sarebbe stato se il Suardi non fosse
venuto?... eppoi non sono io quello a cui egli ha dato e da danari e
soccorsi... È però anche vero che io ho parlato a mezza
bocca, e chi parla a mezza bocca può sempre dar del matto a
chi pretende d'aver capito troppo. Pure doveva tacere. Ho fatto una
cattiva azione; ma come resistere alla tentazione di scoprir terreno
su di ciò che più di tutto deve interessare la mia
esistenza? Perchè un mistero c'è, e il testamento del
marchese qualcuno lo ha di certo; ed io dovrei essere uno dei più
ricchi del ducato, con carrozze e cavalli... se...
E
l'occhio del giovane Baroggi, mentre pensava queste ed altrettali
cose, si fermò sulla sciabola appesa al muro per la tracolla
di pelle gialla; e dalla sciabola a contemplare un ritratto appeso là
presso, ed era quello di sua madre quand'era giovane; e il raggio
della candelaccia di sego che diradava di poco l'oscurità
della stanza, ammorbandola di odor grasso, si rifranse nelle grosse e
poche lagrime che lentamente calarono in quel punto sul volto al
Baroggi; e così stando in sui gomiti e colla testa appoggiata
al muro che faceva di spalliera al letto, tra una borsa di pelle
donde spuntava il calcio di due pistole, e una borsa di tabacco,
grado grado si riassopì in un sonno affannoso.
E
verso le tre dopo mezzanotte, ora che probabilmente poteva
corrispondere a quella in cui il povero Baroggi s'era svegliato per
l'inquietudine, e si era di nuovo addormentato nel dolore, la
carrozza del Suardi svoltava, sterzando pomposamente nel portone
della sua casa in Pantano, mentre spalancavasi con rumore la
pusterla, spinta dalla mano del portinajo accorso, cogli occhi ancor
sonnolenti, all'iterato fischio del cocchiere.
Il
Galantino aveva passato la notte gozzovigliando e giuocando e bevendo
più del consueto nell'allegro convegno dei ricchi amici e di
alcuni regj impiegati della Giunta d'Economia e di Governo che
frequentavano la casa del milionario Mellerio. E vi avea giuocato e
tracannato ad ampj sorsi per affogare il dispetto e la rabbia del
giorno e i mille presentimenti vaghi che gli davan noja; e che,
quanto più egli si sforzava d'irridere e rintuzzare, tanto più
ritornavano poderosi e sempre in maggior numero all'assalto. Muto
discese dalla carrozza, muto salì lo scalone, muto entrò
nella sua stanza da letto, non rispondendo nulla al servitore che,
precedutolo ad accendergli i lumi della caminiera, lo aveva lasciato
solo, pronunciando il consueto saluto: Buona notte, signor
padrone. L'allegro sciampagna non aveva lasciato nessun deposito
d'allegria in lui, chè il vino eccellente, quando lo spirito è
in affanno, fa l'effetto dei bei giorni sereni e dei limpidi soli, i
quali arrovesciano un animo già mal disposto, peggio che i
giorni tetri e piovosi, i quali, mettendosi all'unisono con l'anima,
non la turbano almeno coll'importuna antitesi. Meditabondo e col capo
grave si spogliò, e si gettò nel letto, spenti che ebbe
i lumi; ma sporse alcuni momenti dopo il braccio dalle cortine di
damasco per dare una strappata al campanello, e per dire al servo
riaccorso tutto sollecito: Accendi ancora quelle candele.
Stato
adunque così un po' colla testa, sprofondata ne' guanciali,
s'accorse che per quella notte avrebbe potuto fare qualunque cosa
fuorchè dormire, onde si mise a seder sul letto, puntando il
gomito sinistro ne' cuscini e reggendosi la testa colla sinistra mano
come portava quella posizione, e lasciando il destro braccio
abbandonato sulla copertina di seta:
Domani a quest'ora tutto sarà deciso, pensava; o uno di quegli
scandali da mettere sottosopra tutta la città, o allegria
generale. Spero poco però, poco assai; in conclusione mi par
di essere nella condizione di un giuocatore impazzito, che abbia
messo su d'una carta tutto quello che possiede. E fosse davvero una
carta!... io le ho educate a servirmi... Ma che cosa si può
sperare da quella bestia feroce del conte?... E doveva il Senato
mettere in sua balìa la ragazza?... dichiararlo suo padre? Che
razza di dichiarazioni e di decreti! Decretare che il sole non è
più il sole ma è la luna!... Perchè?... volta
pure e rivolta e rimescola la cosa... la conclusione è questa.
Ma c'era un grande ricchezza da conservare, e Dio sa come avranno
lavorato sott'acqua i parenti della contessa!... Ecco qui; se il
Senato avesse dato causa vinta al conte, m'accorgo che colla
contessa, ad onta della nobiltà del suo casato, jeri si poteva
finir tutto... e mi pare che donna Paola Pietra non avrebbe messo
male. E in fatti, se si considera la cosa da tutti i lati possibili e
con tutta la tranquillità imaginabile, ed anche concedendo
tutta la tara ai fumi del sangue patrizio... la mia pretesa è
onesta... nè solo onesta, ma necessaria... Se io avessi fatto
portar via la fanciulla per un mio gusto scellerato... via... non ci
sarebbe scusa... Ma quel caro angelo divino... quel fiore così
bello, così puro e fragrante si è piegato verso di me,
per un movimento spontaneo, e comunicatogli, non è possibile
dir di no, da una forza che, se non è precisamente il destino,
dev'essere certo qualche cosa che gli somiglia... Io suo marito... ed
ella mia moglie... O guarda come questa idea mi fa arrossire del mio
passato, e mi mette addosso una smania di poter diventare il re dei
galantuomini! Ma no, questo maledetto bue catalano colla corona a
nove punte deve aver il diritto di mandar tutto al diavolo! Questa
idea mi mette addosso l'inferno, e arrivo ora a comprendere come per
un'idea si può diventar matti!
E
parve che un diavolo azzurro, sentite le ultime parole del Galantino,
e volando da Pantano alla contrada non discosta dov'era il palazzo
V..., recasse quelle stesse parole nella stanza del conte in quel
punto, per gettargliele sgarbatamente in faccia. Onde il conte, come
riscosso da un sogno perverso, balzò ritto sul letto a mezza
vita, e:
Stupido sfrontato! quasi gridò. Domani la vedremo, e sentirai
come pesa il bastone di un mio pari. Perchè sei diventato
ricco, facendo il birbone, neppur di nascosto, ma in piazza e di pien
meriggio, osi chiedere la mano di quella che dee portare il mio nome!
il mio nome, per Dio... Scommetto che dacchè al mondo ci son
padroni e servi, patrizj e plebei, non s'è mai data
un'impudenza com'è questa. Un giovinastro nato in una stalla,
processato per ladro... Ahi l'ira che ne provo è tale che se
non arrivo a farlo in pezzi questo scellerato inaudito, e a dare un
esempio solenne, io scoppio; per verità, ch'io scoppio! e la
fanciulla ha a trovarsi in suo potere?... e di necessità si ha
ad aver la pazienza di tacere e di dissimulare per timore... Ah!
questo è troppo. Ma io ammazzerò la fanciulla,
piuttosto che vederla contaminata da un matrimonio simile... Che
maledetto destino è il mio!... e mi dev'esser venuta in petto
da non so dove tanta predilezione per quella figliuola! e per amor
suo ho potuto lasciarmi strappar la promessa d'andar domani là
dov'è la contessa... Oh che caso, che scandalo!... e come ne
parlerà e ne sparlerà il mondo... Ma tanto peggio per
quell'abbominevole lacchè ch'io stritolerò sotto ai
piedi, come si fa coi rospi, quando si va a caccia in palude, e ci
striscian sugli stivali. Voglio dare un esempio io, un esempio voglio
dare.
E
pensando e dicendo questo, e tra per l'ira e tra pel caldo non
potendo star sotto coltre, ne uscì, non possiam dire ne balzò
fuori, perchè la sua grande e forte corporatura non gli
concedeva troppa agilità di movimenti; e messasi la veste da
camera, si diede a passeggiare, e per pigliar fresco, preso il lume,
passò in altre camere. In una v'erano i ritratti nuziali di
lui e della contessa. Ma quello della contessa, a pompa di cordoglio
e forse a segno di condanna, fino da quindici anni addietro era stato
coperto da una tela nera. Fermatosi a guardar sè stesso nel
ritratto dipintogli dal Porta, gli venne la tentazione, certo in
conseguenza del pensiero che il dì dopo doveva recarsi dov'era
la moglie, di alzar quella tela, e l'alzò infatti; e si mise a
contemplar la contessa effigiata al vivo, e bella della trascorsa
bellezza di diciotto anni. Strane idee gli passarono in mente a
quella vista, e fisso in quella contemplazione si mise a sedere su
d'un'ampia poltrona che strascinò rimpetto al ritratto.
La
mattina, quando il servo entrò nella stanza da letto per
isvegliarlo, secondo l'ordine avuto, non avendolo trovato, passò,
così a caso, d'una in altra camera, intimorito e pieno di
meraviglia quando vide il padrone addormentato in faccia al ritratto
della padrona, su cui la candela di cera, quasi tutta sgocciolata,
mandava la luce di una fiamma intermittente, larga e rossastra.
Pure
il conte V... e il Galantino e il Baroggi e l'avvocato Strigelli, se
furono turbati nel sonno, poteron pure sfiorarlo qualche poco, o la
stanchezza chiudesse loro per forza gli occhi, o l'inquietudine fosse
placata da qualche pensiero confortevole, vero o falso che fosse; ma
la contessa Clelia era da quasi cento ore che non poteva dormire;
aveva viaggiato senza riposo; appena giunta a Milano non ebbe che
oppressioni assidue di corpo e di spirito; la stanchezza fisica non
le concedeva quasi più di reggersi in piedi; tanto che
nell'ultimo giorno di quando in quando le cadevano le palpebre
oppresse da una pesantezza invincibile, ma tuttavia non fu mai
possibile che il sonno la involasse un momento al suo affanno. Ella
aveva nello spirito quel dolore spasmodico che è in alcuni
malori acuti, onde la vita è sempre desta per tormentare la
vita. Chi non s'è mai trovato in questa condizione amara di
cader sfilato dalla stanchezza e dalla veglia diuturna, e non poter
tuttavia dormire, per sua fortuna, non può dire di aver
misurata in tutta la sua crudele intensità la potenza del
dolor morale. E donna Clelia non s'era nemmeno coricata in quella
notte, ma così discinta se ne stava un po' seduta, un po' in
piedi, un po' in ginocchio. E pel caldo affacciatasi alla finestra,
volgendo gli occhi al cielo sereno e sgombro e tutto stellato,
nell'esaltazione dello spirito provocata dalla medesima stanchezza
fisica, stette assorta nella contemplazione di quel cielo e le parve
come di trovarsi faccia a faccia con Dio; onde gettatasi in
ginocchio, si mise a pregare con un fervore intenso come il suo
affanno.
Io non chiedo altro se non che mi sia ridata la mia figliuola viva e
pura. Se per la gioja di poterla rivedere io dovessi morir subito
dopo... benedetta la morte con cui avrei pagata tanta consolazione di
vita... Venga la mia figliuola, e purchè sia felice... deh si
faccia il miracolo che mio marito rompa una volta l'ostinata crudeltà
del suo orgoglio... Io non so come vorrei scontare quell'istante di
superbia onde mi parve che avrei anch'io voluto qualunque cosa
piuttosto che la felicità di mia figlia nel modo onde mi venne
imposta. Ma ella viva e ritorni a me, e sia felice... Questo solo io
desidero e supplico.
E
così pregando e gemendo, non potendo più reggere in
ginocchio a quel modo, cadde accosciata su sè stessa, e depose
la testa sul cuscino del davanzale della finestra, lasciando pendere
in abbandono le braccia in posizione simmetrica.
Allorchè
donna Paola, alla prim'alba, le entrò in stanza, accorse a
sollevarla, vedendola colà immobile; la sollevò e la
baciò in fronte, e la portò di peso sul letto, senzachè
quella sventurata si svegliasse.
Infelice, pensava donna Paola, guardandola in silenzio. La stanchezza
finalmente fu più forte del tuo dolore; e la Provvidenza forse
ti ha concesso questo momento per farti più valida a sostenere
le terribili scosse che ti si apprestano in questa dubbiosa giornata
che sorge. Pensando a' tuoi travagli è da più notti che
anch'io non chiudo occhi... ma sono io forse più fortunata di
te?... Di due figliuoli carissimi, uno è ramingo pel mondo,
spinto dalla sua irrequieta natura, in cerca di pericoli e di
venture; l'altro... Ahi, pensando al cuor suo e al dolore che avrà
provato e in cui sarà immerso tuttora al pensiero che la sua
Ada fu rapita... la sua Ada per cui... Oh inestricabile intreccio
d'affanni... Oh avvenire incertissimo, che la mia vecchiaja paventa
di non giungere in tempo per vedere snebbiato!
LIBRO
NONO
Il
vecchio Agudio e il Baroggi. Dopo quindici anni. Marito
e moglie. La gran voce del pubblico. Origine dei
banchetti generali notturni. La città di Milano e un
verso d'Alfieri. Il Collegio dei giureconsulti. Le
università degli orefici, dei mercanti d'oro, ecc., ecc.
L'accademia dei Trasformati e il conte Imbonati. La scuola
degli scultori in Camposanto. La piazza del Duomo. Un
progetto architettonico. Le badie dei bergamini, dei caseri
e dei facchini. L'accademia dei Fenicj e l'abate
Oltolina. Una colonia dell'Arcadia nel palazzo Pertusati.
Don Alberico marchese e conte F... Triplice eredità.
La casa del diavolo. La cantante Agujari e il cavallo arabo.
Ada, don Alberico e il Galantino.
I
La
mattina l'avvocato Strigelli si alzò per tempissimo, e si recò
con gran sollecitudine dal suo vecchio maestro Agudio, come solea
chiamarlo. Aveva cangiato parere su molte parti del suo piano, ed
urgendo il tempo, voleva essere rassicurato anche dal senno di
quell'espertissimo giureconsulto. Avuto il piacere di sentire
approvato il proprio disegno, si trasferì difilato al Capitano
di Giustizia per parlare all'attuaro, di concerto col quale e
coll'eccellentissimo signor capitano si era provveduto ad aprire un
nuovo varco al processo di lord Crall e di Lorenzo Bruni, e degli
altri Frammassoni, che, confessando quel che non potevano negare, e
manifestandosi anzi con coraggio e con fermezza contro le
soverchierie de' fermieri, furon tutti saldi e d'accordo nel negare
d'aver avuta parte veruna nel fatto della scomparsa delle due
fanciulle dal convento di san Filippo Neri. E l'attuaro, in
conseguenza delle parole dell'avvocato Strigelli, mandò a
chiamare il tenente dei fanti di giustizia per trasmettergli nuovi
ordini.
Dopo
di ciò l'avvocato recossi alla casa di donna Paola Pietra, per
prendere lingua su alcune cose che non avea potuto sapere il giorno
prima.
Al conte ho parlato, gli disse donna Paola, e l'ho indotto a venir
qui, e l'aspetto anzi a momenti. Davvero che mi pare d'aver fatto un
miracolo. Non vorrei però che fosse per nascere qualche scena
scandalosa e terribile, messi il conte e il Galantino al cospetto
l'uno dell'altro.
State tranquilla, donna Paola, chè abbiamo pensato ad ovviare
anche a questo inconveniente.
Ma in che modo?
Vedrete... e spero che forse avrete a lodarvi di me... Confortate
intanto la contessa, e fatele coraggio.
Caro avvocato, che pena mi ha fatto la contessa un momento fa, quando
ho dovuto pur dirle che il conte oggi veniva qui!
Già v'ho detto che tutte le difficoltà per questo
vostro nuovo e giustissimo intento sarebbero insorte dal lato della
contessa. Ciò era ben naturale.
No, no, caro mio, non si tratta di questo. Ella, sentendo che il
conte s'era lasciato indurre a venir qui, tosto s'è fissata
nella persuasione che il conte fosse disposto ad accogliere le
proposte del signor Suardi. Figuratevi com'io mi sentissi di dentro
rimeditando la furia onde ieri proruppe il conte nel sentire le
pretese del Suardi! Ma la contessa non sospira che la figliuola, e
per rivederla, non so quel che farebbe. Davvero che fa pietà.
Torno a ripetere, supplicatela ad aver coraggio; so io quello che
dico. Ieri ho parlato al Baroggi...
E così?
Sa tutto, quantunque non voglia dirlo; ma quel che non ha voluto dire
ieri, lo dirà oggi, so ben io il perchè. Sa tutto,
ripeto... e ho potuto comprendere che le fanciulle sono davvero in
salvo, e che non è che la pura verità quello che il
Suardi ha esposto. Ma non sentite? è una carrozza che
entra dal portone.
È il conte senz'altro. E donna Paola diede una
strappata al campanello.
Ma che ora può essere adesso? chiese lo Strigelli.
Sentite che batte la campana dell'orologio.
È tardi... io devo essere altrove; perdonate, io vado. Dio
faccia che fra un'ora possa essere portatore d'una buona novella.
E
l'avvocato Strigelli, nell'uscire, s'incontrava nel conte V...
Quest'ultimo,
nell'entrare, diede, per un moto che gli era abituale, un'occhiata
d'alto in basso all'avvocato, e:
Chi è colui? chiese, mentre salutava donna Paola.
L'avvocato Strigelli.
Ah, ah... il giovane praticante dell'avvocato Agudio, colui che
scrisse tanti atti contro di me; lo conosco assai bene. Scusate,
donna Paola, ma venendo in casa vostra, posso dire d'esser venuto nel
campo nemico.
Nel campo di un alleato, dite meglio, dove i parlamentari si son
radunati per venire a patti e per cedere volontieri le armi. Quel
giovane vi stima assai, e fu egli a consigliarmi di venire da voi,
egli e la contessa... L'uno e l'altra si trovaron d'accordo nel
pensare che voi solo potevate incutere timore al Suardi.
Ribaldo sfrontato!... esclamò il conte, e si mise a sedere.
La
vasta poltrona di marocchino entro la quale s'era come perduto il
piccol corpo del nostro Giocondo Bruni ancor fanciullo, appena bastò
per contenere la colossale persona del conte. Era esso vestito da
mattina, ossia portava un soprabito color turchino con baverina
filettata d'argento che gli scendeva oltre la spalla; aveva stivali
corti di pelle di cordovano pur filettati d'argento, con sproni
corti; all'occhiello del soprabito portava il nastro dell'ordine di
San Jago, e teneva nelle mani un grosso scudiscio da maneggio.
Non gli mancava che le spallette e la sciabola per essere creduto un
militare in servizio, e tanto più quando si guardava a quella
faccia burbera, atteggiata ad una fierezza di convenzione sulla
quale, tra il bianco della parrucca ad ala di piccione e il rosso
color mattone equabilmente soffuso senza gradazione sulla fronte,
sulle guance, sul naso, spiccava il nero di due baffi corti,
piuttosto che ai quali avrebbe rinunziato alla corona di conte o per
lo meno all'ordine di San Jago. Come poi fossero neri non lo
sappiamo, perchè il loro obbligo sarebbe stato di essere
almanco grigi, chè nell'anno di grazia 1766 i cinquant'anni
doveva averli passati da molto tempo. Ad ogni modo, fosse il
privilegio ordinario di natura, o fosse la virtù parigina di
qualche pomata che potrebbe forse venire a gara colle miracolose
d'oggidì, i baffi erano neri, e basta di ciò.
Dopo
aver girato, senza parlare, lo sguardo intorno alle pareti per
osservare i ritratti di famiglia della casa Pietra Incisa:
Quanto potrà tardare a venire questo mascalzone? domandò
egli.
All'ora di ieri...; però mi pare che potrebbe mancar
pochissimo.
Il
colonnello si alzò, e fatto come un giro intorno a sè
stesso:
Le pare, soggiunse, che dobbiamo riceverlo qui in anticamera?
Le convenienze ci vogliono anche con costoro. La contessa jeri gli
parlò qui... la contessa ed io...
Il
colonnello stette muto qualche momento.
Ma c'è da impazzire, donna Paola, disse poi, pensando che
nelle mani di costui, precisamente nelle mani di costui doveva cadere
quella... quella ragazza...
Ah, fu davvero una gran disgrazia, conte, perchè temo che
anche quando avremo riconquistata la ragazza, pur troppo, ci sarà
pericolo di perdere la contessa.
Il
conte, a quelle parole di donna Paola, non afferrandone bene il
significato, e tuttavia rimanendone turbato, fu in procinto di
domandarle una spiegazione; ma si trattenne... e volse altrove la
faccia... e fece alcuni passi per la camera; e come per dare sfogo
all'ira che provava nel sentirsi, suo malgrado, commosso, ed anche
per quell'indole sua militarmente brusca, lasciò cadere un
colpo di scudiscio sulla spinetta, che risuonò come un
ghitarrone sfregato nelle corde.
Scusate, disse poi, ma costui si fa aspettare un po' troppo.
Abbiate pazienza, conte... e vogliate perdonarmi se vi lascio un
momento solo. Vado a vedere come sta la contessa, perchè poco
fa era a mal partito assai. Sono tre giorni e tre notti che non
mangia e non dorme, e non fa altro che disperarsi, sospirare e
piangere. Stamattina soltanto si lasciò andare ad un sonno
invincibile, riposando la testa sul davanzale della finestra ad aria
aperta. Il che le ha fatto malissimo; onde, pochi minuti sono, fu
colta da un deliquio e da un sudore mortale, che ce ne volle a
ritornarla in sè stessa. Scusate, vado e torno.
Il
piglio burbero e fiero che appariva ognora sul volto del conte, era
il più delle volte, lo abbiamo già detto, un piglio di
convenzione. Quasi tutti coloro che passarono la loro gioventù
fra le armi, nei bivacchi, e sui campi di battaglia hanno
l'abitudine di sfoggiare un tale frontispizio e di caricarlo talora,
fin quasi comicamente, per far colpo; press'a poco come i bassi
profondi che, quando parlano in pubblico, alterano la voce in modo
che sembrano uomini soprannaturali. Ma in quel modo che i bassi
profondi, quando sono in veste da camera e si trovano al cospetto di
persone che non hanno a far nulla col teatro, lasciano uscir la voce
senza pretesa e a beneplacito della natura; così anche i
militari in quiescenza, quando son soli, permettono che i muscoli del
viso si rilascino alquanto come comanda la natura. E così
avvenne della faccia del conte colonnello. Quella specie di velo
artificiale ed avventizio lasciò allo scoperto la nuda
e schietta tinta della bonarietà che la natura gli aveva pur
data, di maniera che quel suo faccione parve per un istante quello di
un sempliciotto contrito e commosso, tanto commosso che gli occhi gli
si inumidirono.
Donna
Paola, che conosceva l'uomo, non a caso avea detto quel che avea
detto. Fin dal giorno prima ella erasi accorta come in lui fosse
sbollito ogni sdegno contro la contessa. Non si trattava or dunque
più d'altro che di penetrare più addentro che fosse
possibile, mettendo in movimento la compassione, in quel terreno già
tutto quanto smosso e rammollito.
E
non a caso lo avea lasciato solo, perchè avvedutasi che il
racconto del misero stato della contessa lo aveva messo sottosopra,
pensò di non avviare altri discorsi, che, interrompendo quel
pensiero, lasciassero tempo al cuore di rimettersi in calma e di
riassumere la consueta padronanza; e intanto erasi recata infatti
nella camera della contessa che, per verità, stava malissimo,
trovavasi in una prostrazione di corpo e di spirito da far
compassione a chicchessia.
Come va, donna Clelia?
Quella
rispose crollando il capo.
Sapete chi è venuto?
Chi?
Il conte!
Oh Dio!! Ma non è necessario ch'io sia presente al colloquio.
Non è necessario, ma sarebbe utile, e, più che utile,
conveniente e generoso.
Generoso?... ma credete che il conte... no, no, donna Paola. Voi non
lo conoscete. Dio sa che scena orribile sarebbe per fare.
Io non sono della vostra opinione; e quando debbo dirvi la verità
intera, s'io fossi ne' vostri panni, alla notizia ch'egli si lasciò
indurre a venir qui... io sarei volata nella sala dov'egli si trova.
In conclusione, bisogna esser giusti, donna Clelia. Chi si deve
umiliare per il primo? Chi? E l'interesse vivissimo che ha preso e
prende per la vostra figliuola, ci dev'essere per nulla? So quel che
volete dire, lo so. Ma in quanto a lui, dimenticate il passato e
rammentate il presente. E in quanto a voi, per quest'oggetto, non
abbiate in mente che il passato. Perdonate, la mia cara Clelia, se vi
parlo così in questi momenti. Ma io prevedo che immensa
consolazione sarà per riempire il vostro cuore quando vi
sarete risoluta a rivedere vostro marito.
Io sono pronta a fare tutto quello che volete, ma per oggi no. Per
oggi non mi sento disposta. Lasciate prima che io possa riabbracciare
la mia Ada.
L'avvocato Strigelli m'ha ingiunto di rassicurarvi su di ciò;
perchè da jeri ad oggi ha trovato, egli stesso me lo ha detto,
la via giusta per venire a capo di tutto. Ma zitto, che sento parlare
nella sala di ricevimento; fosse mai venuto il Suardi? Mi rincresce
di non essermi trovata là prima ch'egli entrasse.
E
così dicendo lasciò sola la contessa, e tornò
dov'era il conte.
Attraversate
rapidamente le camere interposte, quando entrò nella sala di
ricevimento, si maravigliò di trovarvi l'avvocato Strigelli
invece del Suardi. Onde gli chiese:
In che modo voi siete qui, e perchè colui si fa aspettar
tanto?
Chi... colui?
Il Suardi.
Lo aspetterà per un pezzo, donna Paola. Ma sieda qui, di
grazia, e sentirà.
Sentite, sentite, donna Paola, soggiunse il conte con una schiettezza
di gioja insolita. Sentite.
Ma
il lettore, invece di ascoltar l'avvocato Strigelli, si compiacerà,
se è di comodo, di ascoltar le nostre parole.
II
Noi
siamo avversi a quella che noi chiameremo morale di convenzione, la
quale non è già quella che Mirabeau chiamava la
piccola, e che secondo lui non faceva gli interessi della morale
grande; quasi che vi possano essere più categorie di morali
nel mondo assoluto delle idee; ma è bensì quella che fu
stabilito di adottare nelle opere dell'arte, e per la quale i
personaggi più o meno scellerati dovrebbero ricevere la loro
conveniente punizione prima che cali il sipario o si chiuda il libro,
affinchè la lezione balzi di tratto dall'opera alla testa del
lettore anche il più volgare e ottuso. Questa morale, o,
diremo più giusto, questo modo di far uso della morale, è
spesso erroneo, perchè se l'arte dee riflettere i fenomeni del
mondo e della vita, sarebbe costretta ad alterare la verità
ogni qualvolta non trovasse che nella vita e nel mondo i galantuomini
siano premiati e i perversi puniti. La moralità sta
nell'ordine delle idee e non nel campo dei fatti; perciò
all'assoluta moralità, per esempio, del don Giovanni Tenorio,
non era per nulla necessario che il convito si trasmutasse in una
scena infernale coi diavoli tormentatori; nè era necessario
alla moralità dell'Otello che Jago venisse ferito dalla
scimitarra vendicatrice del geloso Africano.
Quanti
uomini noi abbiamo veduto, noi e i nostri amici, ad attraversare la
vita gloriosi e trionfanti delle loro medesime cattive azioni, senza
che la legge abbia potuto ghermirli, senza che nemmeno l'opinione
pubblica abbia potuto sfogarsi rumorosamente contro di loro, senza
che nè in iscritto nè in istampa rimanga pur una nota
d'esecrazione contro di essi, anzi rimanendo invece qualche elogio
scolpito nel marmo, per abuso di postuma pietà! E per questo
la morale ha forse cessato di essere la morale? è ella così
impotente e miserabile, così relativa e precaria, che, per dar
segno di vita, debba essere in obbligo di aggiustar le partite a
tutti gli uomini, prima che escano da questo mondo? E in quanto alle
opere dell'arte, perchè possano scansar la taccia d'immorali,
dovranno essere impreteribilmente costrette a mandare, nel punto
della catastrofe, tutti i galantuomini all'osteria, e tutti i birboni
all'inferno? Noi crediamo fermamente di no, e per questo di mala
voglia oggi prendiamo la penna in mano, perchè dobbiam
raccontar cosa che parrebbe introdotta appositamente, non per altro
che per fare un po' di corte alla così detta morale di
convenzione. Ma quel benedetto frate di sant'Ambrogio ad Nemus,
tenendo conto con molta precisione di tutto quello che avvenne del
Suardi e che giunse a di lui notizia, registrò, sebbene
meravigliandosi anch'esso (il che proverebbe che al pari di noi non
avesse molta opinione della giustizia relativa), registrò tal
fatto che non possiamo assolutamente levare da questa storia, a
dispetto de' nostri principj d'arte: e perchè il vero non è
una cosa che a capriccio si possa pigliare quando ci torna utile, e
respingere quando è incomodo, e perchè da questo fatto
tanti altri ne dipendono per conseguenza necessaria, che, ad
alterarlo o a distruggerlo, bisognerebbe poi far tutto il resto di
sola fantasia, il che è assolutamente contrario al nostro
intento.
Abbiamo
dunque lasciato il Galantino sotto al baldacchino di drappo, in
seriissima consulta co' suoi pensieri, i quali, sotto diverse forme,
gli ricomparvero poi nei sogni dell'alba, quando finalmente potè
chiudere gli occhi a dormire. Ma ad onta della veglia durata si destò
presto, e si alzò, e discese nello studio. L'aria elastica del
mattino, una tazza d'acqua freschissima bevuta in un fiato,
un'occhiata ai libri mastri, due parole fatte col giovane di studio
che teneva la corrispondenza, lo misero in tôno, tanto che uscì
persino in qualche celia.
Esaminati
così i mastri e rallegratosi, perchè l'idea di una gran
ricchezza che va sempre crescendo ravviva lo spirito anche più
dell'aria sana e dell'acqua fresca, ritornò all'appartamento
superiore, e si dispose alla toilette, la quale non ostante la
gioventù ancor viva e la bellezza che non avea bisogno
d'ajuto, pure gl'involava tutti i giorni un'ora buona, per quella sua
innata predilezione allo sfoggio e alle delicatezze profumate del
vivere. Guardandosi dunque nello specchio intanto che lo andava
impolverando il parrucchiere Castini (il quale era tra i più
rinomati del rione di porta Romana, e di cui noi abbiam conosciuto il
figlio, celebratissimo anch'esso a' suoi bei giorni, finchè
rimase oscurato dalla fama irrompente degli Scandelari, dei
Migliavacca e dei Brambilla); guardandosi dunque nello specchio,
moltiplicando l'idea di gioventù e di beltà che si
vedeva innanzi agli occhi in tutta la sua seducente apparenza, per
l'idea di ricchezza di cui un momento prima aveva veduto le cifre
espressive sui mastri, ne cavò un prodotto che mise in fuga
tutti i timori e le incertezze provate durante la notte; e per
soprappiù, dalla finestra vedendo nel cortile il carrozzino di
gala verde, rigirato intorno intorno da una ghirlandella dipinta ad
oro, colore e ghirlanda che erano all'ultima moda, non gli sembrò
vero che, investito dall'eloquenza di tutta quella pomposa apparenza
e di quella innegabile sostanza, il conte V... potesse rimanere
ostinato nel negargli quello che in fin de' conti, secondo lui,
bisognava concedere. Con queste allegre idee pertanto, acconciato che
fu, e mandato a dire al cocchiere che attaccasse, discese ancora un
momento in istudio per dare alcuni ordini, poi salì nel
carrozzino, e di buon trotto, passando il crocicchio del Bottonuto e
infilando i Tre Re, e giù per la contrada degli Speronari e
Spadari, e svoltando sulla piazza della Rosa, e quasi radendo
l'edificio della Biblioteca Ambrosiana, riuscì sulla piazza di
San Sepolcro. Ma qui avvenne quel che Galantino non avrebbe mai nè
creduto nè voluto che avvenisse. Un'ora prima che egli uscisse
dalla sua casa, agli sbocchi della contrada di Pantano, stavan fermi,
a quello verso l'Ospedale, due uomini adagiati in sediolo,
specie di curriculo che allora era molto adoperato dai viaggiatori
commercianti, e in generale dagli uomini d'affari; allo sbocco poi
che metteva alla contrada Larga stava un uomo a cavallo in abito
civile. Quest'ultimo, quando vide uscir la carrozza dalla casa
Suardi, diede di sprone al cavallo, facendogli fare due o tre
caracollate, e tosto si mise in coda al carrozzino, mentre quasi
contemporaneamente veniva raggiunto dai due uomini del sediolo.
Or che si fa? disse uno di questi ultimi.
Aspettate che si sia usciti di queste contrade di gente, rispose
l'uomo a cavallo; s'egli sa ove deve andare, passerà di San
Sepolcro. Quello è il luogo, e attenti.
Quando
appunto la carrozza del Suardi attraversava la piazza di San Sepolcro
e stava per svoltare nella contrada del Bollo, l'uomo a cavallo si
spinse al galoppo, e si accostò allo sportello abbassando la
testa e dicendo:
Signor Suardi, si compiaccia d'ascoltarmi, e nel tempo stesso intimò
al cocchiere di fermare i cavalli.
In
quel punto il sediolo si fermò presso i cancelli
dell'Ambrosiana, e mentre un uomo teneva il cavallo, l'altro si alzò
da sedere, stando così piegato in sul dorso, e coll'occhio
intento alla carrozza del Suardi, nella posizione di chi, ad un
cenno, è disposto a balzar giù per accorrere.
Il
Suardi si volse, il cocchiere tirò le redini, l'uomo a cavallo
continuò:
Mi perdoni, signore, se sono costretto a tenerla qui impacciata; ma
l'eccellentissimo signor Capitano di Giustizia la invita a recarsi da
lui un momento per un affare di urgenza; perciò, se non le
rincresce, la pregherei di far subito voltar indietro la carrozza, e
di andare al palazzo. Io la seguirò da lontano.
Quando
un uomo è colto da un colpo inaspettato, in quel minuto
secondo in cui balza da un ordine di pensieri ad un altro affatto
opposto, le facoltà dello spirito assumono una velocità
inconcepibile. La memoria, l'associazione, la riflessione, il
giudizio, fanno in quel minuto secondo quello che tante volte non
arrivano a fare in un giorno. La luce non è così rapida
a correre di cosa in cosa, e a rischiararle tutte in un baleno. E
così avvenne in quel punto del Galantino; si ricordò,
s'interrogò, si rispose. Vide che quello era un agguato, pensò
che qualcuno poteva e doveva aver dato un consiglio alla contessa;
per la prima volta riconobbe con rabbia furibonda tutte le imprudenze
da lui commesse; misurò il pericolo, calcolò quel che
era da fare e non da fare; e pensato e riflesso tutto ciò
colla velocità del lampo, si contenne, e calmo e gentile e
sorridente, quantunque fosse pallido come la morte, tremante come un
paralitico, rispose all'uomo a cavallo:
Non occorre altro; e disse al cocchiere: torna indietro, e va in
piazza Fontana.
Il
Benvenuti nel conciso suo ragguaglio intorno a questo fatto dice, che
«Alcune persone che erano in piazza, furono presenti a quella
fermata, e, avendo riconosciuto che la carrozza era del Suardi
appaltatore, hanno potuto credere che quell'uomo a cavallo e quelli
nel sediolo fossero suoi addetti al servizio della Ferma
generale, e fossero accorsi per dargli qualche grossa notizia che non
patisse ritardo. Solamente qualche ora dopo si è saputo che il
detto signor Suardi era stato condotto al Capitano di Giustizia nel
suo stesso carrozzino di gala. La qual cosa arrecò gran
stupore a tutti, e per il modo irregolare con il quale era stata
fatta la captura, e per essere stato così trattato un uomo che
con li danari e la prepotenza faceva stare tutti in gran rispetto».
Non
siamo arrivati a capire che cosa il frate di sant'Ambrogio ad Nemus
intendesse di dire colle parole: il modo irregolare con il
quale era stata fatta la captura, salvo che non abbia voluto
alludere all'uomo travestito a cavallo, e ai due altri travestiti in
sediolo, i quali probabilmente saranno stati il
barigello, o qualche tenente, con due fanti di Giustizia; e forse
nella cattura avranno pensato di valersi di questo modo insolito,
avendo un ragionevole sospetto che il Galantino potesse mai opporsi
alla forza o deluderla, quando fosse stato colto in casa, e da uomini
portanti insegne dell'autorità criminale. E recano pur
meraviglia quelle altre parole del frate raccoglitore, con cui sembra
quasi lamentarsi che la Giustizia non abbia portato rispetto a un
uomo che aveva molti denari ed era prepotente. Sono esse però
un segno fedele di quel tempo, di quegli uomini e di quei costumi;
giacchè, o siano un'espressione sincera del frate o
un'espressione ironica, quel che risulta si è, che il più
delle volte la Giustizia chiudeva un occhio, o lasciava fare, o si
comportava con gran riguardo ogni qual volta trovavasi al cospetto
dei ricchi e dei prepotenti. Ed ora ritorniamo di volo in casa
Pietra, per dare ascolto a quel che dice l'avvocato Strigelli.
Di
tutto quello che abbiamo raccontato, recando in mezzo la
testimonianza d'un contemporaneo, egli stava intertenendo il conte
V... e donna Paola; lo Strigelli aveva mandato il proprio portinajo,
che gli faceva anche da servitore, e uno scrivano del vegliardo
Agudio, l'uno in contrada di Pantano, l'altro nel cortile del palazzo
di Giustizia ad osservare e a tener nota di tutto, perchè ne
portassero poi la notizia allo studio dell'Agudio medesimo. Ed ecco
come spiega il brevissimo tempo in cui lo Strigelli stette lontano da
casa Pietra, perchè, recatosi allo studio del suo maestro in
contrada di Zecca Vecchia, colà trovò e il portinajo
che gli raccontò come avea visto ad uscire la carrozza del
Suardi dalla di lui casa, e a mettersi in coda ad essa l'uomo a
cavallo e i due uomini in sediolo; e lo scrivano che
gli disse di aver assistito all'ingresso della carrozza del Suardi
nel cortile del palazzo di Giustizia, e al discendere del Suardi
dalla carrozza per salir tosto lo scalone.
Ora, soggiunse lo Strigelli a conclusione della sua relazione, siamo
al sicuro da ogni colpo del Galantino, il quale poteva, egli è
vero, fermarsi alle sole minaccie; ma poteva anche,
nell'esasperamento della passione, mandare ad effetto quel che aveva
minacciato. Ecco perchè s'è creduto bene di coglierlo
così di sorpresa, perchè guai se fosse sfuggito alla
Giustizia! Sarebbe stato pericoloso come un toro ferito, che chi gli
si trova dirimpetto può far subito l'atto di contrizione, e
non pensare ad altro. Ed ora non ci rimane che mandar sulle traccie
della fanciulla, e già confido di averne il mezzo, e che,
dentr'oggi o, tutt'al più, domani, ella debba essere qui in
questa casa sana e salva, e, speriamo, anche contenta. Dico anche
contenta perchè, per più riscontri, mi pare che la
fanciulla si fosse davvero invaghita di quel ribaldo seduttore, ma
voglio sperare che, quando avrà saputo chi esso è
veramente, ogni illusione scomparirà, e il cuore sarà
guarito.
E qual è questo mezzo col quale credete di potere dentr'oggi
trovar traccia della fanciulla? chiedeva il conte.
Permettetemi di non aggiunger altro per ora, perchè non posso
arrischiarmi a dare una promessa formale; però un tal mezzo è
quello per cui domando licenza di partir subito di qui; perchè
l'uomo che deve servire al mio intento, credo che, a quest'ora, si
troverà ad aspettarmi nello studio Agudio.
E
lo Strigelli partì.
L'uomo
su cui faceva conto lo Strigelli e che, per le sue eccellenti
ragioni, non aveva voluto nominare al conte V..., era il Baroggi, al
quale, in quel colloquio con cui gli guastò il sonno, aveva
raccomandato di recarsi il giorno dopo nello studio dell'avvocato
Agudio in quell'ora che le sue incumbenze di finanziere gli avrebbero
permesso, ma, se fosse stato possibile, non molto dopo il mezzodì.
Se il lettore si ricorda, l'Agudio aveva tentato di beneficare il
Baroggi in tutti i modi possibili, e per sostenere le sue ragioni
contro il conte Alberico F... aveva messo sottosopra il diritto
romano, lo statutario, il diritto razionale, tutti gli interpreti;
aveva dato un'occhiata alle leggi dei re longobardi, messo a
contribuzione persino le opere di etica allora più riputate,
domandato persino un soccorso alla teologia; insomma tentati tutti i
varchi per riuscire ad assediare la mente dei giudici colle forze
combinate del diritto puro, del diritto positivo, della buona morale,
del timore della vita eterna. Tutto indarno. Queste cose il Baroggi
le sapeva, e però nutriva una gratitudine profonda per quel
vegliardo così burbero e brusco in apparenza, così
retto e pietoso in realtà. Per questa circostanza dunque, e
per lo sgomento che aveva in petto, fu assai sollecito di mettersi in
libertà per recarsi da lui.
Il
vecchio Agudio, più che ottuagenario, non poteva più
moversi dal letto. Non gli era rimasta che la lucidezza della mente e
la dottrina. Teneva seco due giureconsulti praticanti che sotto il
suo consiglio facevano, come suol dirsi, andare lo studio, tra' quali
lo Strigelli era il suo prediletto.
Quando
lo scrivano gli annunziò che era venuto il Baroggi, egli se lo
fece venire innanzi e seder vicino al letto.
Lascia che ti guardi in faccia, gli disse appena gli fu presso. La
faccia è un frontispizio più sincero di quello de'
libri. Però, senza tanti preamboli, ti dico che solo a
guardarti si capisce che tu in questi giorni hai commesso qualche
cosa che ti morde la coscienza.
Il
Baroggi taceva, onde l'avvocato continuava:
Non hai nulla di nuovo da raccontarmi?
In caserma non si sanno le notizie del Capitano di Giustizia.
Ah! dunque sai qualche cosa... Perchè dunque non mi dici
nulla?
Ho saputo adesso, prima di uscire dalla caserma, qualche cosa così
in confuso; del resto vedo che il signor avvocato sa tutto.
Sicuro che so tutto, e so anche che i birboni, se non è oggi
sarà domani, sarà l'altro, ma viene il giorno che
convien pure che paghino i debiti. Chi lo avrebbe detto che colui
fosse per aprirsi una buca da se stesso, e lasciarsi cader dentro,
come un semplicione, essendo pure più astuto del diavolo! Ma
quasi sempre ai birboni avviene così. Il mondo non arriva a
ghermirli, e si feriscono poi da sè medesimi, che è poi
tutt'uno. E per un capriccio, per un amoretto, per una fanciulla. A
forza di far birbonate impunemente e di credersi invulnerabili,
finiscono a rimanere ubbriacati dalla medesima fortuna; perchè
come mai si può credere che quel dirittone non sapesse che le
ragazze non si possono rubare così per passatempo? Ma la
fortuna gli ha dato alla testa; e così oggi è ritornato
donde per miracolo ha potuto uscire quindici anni sono. Tu allora
avevi cinque anni. Che bella cosa se in questa circostanza tu avessi
avuto ancora quell'età! È così, caro mio, è
così; e non farmi l'attonito, perchè so tutto; ed ora
bisogna rimediarci, perchè quella povera donna di tua madre mi
fa compassione; capisci?... mi fa compassione.
Il
Baroggi si alzò da sedere inquietissimo, poi disse:
Giacchè quel ch'è stato è stato, ho caro che il
signor avvocato sappia tutto. Ma vorrei anche che ella si persuadesse
ch'io non ci ho colpa; colpa propriamente no.
Ma dimmi un po', balordo. Se un tale ti dice: Dammi un momento la tua
sciabola, perchè mi occorre di ammazzare uno che mi dà
noja; e tu non ti fai pregare e gli presti l'arma, crederesti di
potertela cavar così per le belle?...
Capisco bene; e pareva che il cuore, me lo dicesse.
Ma infine c'è questa fanciulla?
Oh, per questo c'è.
Ma ci son molte maniere di essere.
Che ho da dire? Si figuri che fu affidata alle cure di mia madre, la
quale ora è una santa... e fin troppo.
L'avvocato
a queste parole si alzò ritto in sulla vita come una vipera
percossa, e:
Anche tua madre mi dovevi tirare in ballo. Anche tua madre!
insensato! Questo è un precipizio, soggiunse poi; ma
raccontami or dunque tutto l'avvenimento, senza ometter sillaba;
tutto, capisci?
E
il Baroggi raccontò al vecchio Agudio tutto quanto noi
sappiamo.
In
questa il giovane Strigelli, che non soleva nè farsi
annunciare nè fare anticamera, entrò in stanza, e
veduto lì il Baroggi:
E così? domandò.
L'affare è più serio di quel che avrei creduto, rispose
l'Agudio.
Lo
Strigelli si spaventò a tali parole.
Parlo per questo ragazzo senza testa, soggiunse poi subito il
vecchio. Tuttavia la figliuola c'è, e costui sa dove si trova;
ma ora stupirai a sentire che sta in compagnia della madre di costui.
Tu rimani di stucco... sfido io!... Imbrattarsi peggio di così
non era proprio possibile; non ci voleva che questo balordo. Questo
balordo che dovrebbe arar dritto più di tutti; e dire
un'avemaria prima di fare il benchè minimo passo, prima di
mangiare, prima di bere, prima d'andare a letto; perchè è
di quei tali che son nati colla disgrazia in cuna; anzi colla
disgrazia bell'e preparata nel ventre della madre; e a non camminare
con tutte le precauzioni dell'equilibrio, o da una parte o dall'altra
bisogna pure che caschino, perchè il maledetto destino non li
abbandona mai un momento, e al primo scappuccio li agguanta. Or che
si fa, caro mio?
Intanto mandar tosto a pigliar le ragazze.
Io stesso ci andrò, disse il Baroggi: basta che il signor
avvocato Strigelli s'incarichi d'ottenermi il permesso dal mio capo.
Tu starai qui, disse l'Agudio. Poi soggiunse, volgendosi allo
Strigelli: Se le ragazze lo riconoscono, non c'e altro. Basta che
costui dia l'indicazione precisa del luogo, e il signor conte manderà
la sua carrozza a pigliarle; e tu stesso mi capisci, si tratta di
prepararle, tanto la madre di costui che le ragazze, prepararle, si
intende, a regolar le parole; ci andrai dunque tu stesso, e qui il
Baroggi se ne starà a Milano ad aspettar che Dio gliela mandi
buona. Va, dunque, e pel rimanente ascolta ciò che' ti dirà
quella perla di donna Paola; va, e fa che, per questo lato, la fine
rimedii al resto. In quanto a te, conchiuse poi rivolgendosi al
Baroggi, puoi tornare in caserma, e se mai in questi giorni ci fosse
da perlustrare il confine e da far le schioppettate coi
contrabbandieri, va alla buon'ora, che non sarà mal fatto; e
una volta che ti trovi al confine, così a cavallo dei due
Stati, pensa che quella è aria sana... e tira colà le
cose in lungo più che puoi, finchè qualche amico non ti
faccia sapere che l'aria sana tira anche a Milano; ma sarà
difficile. Or va, chè per te ho fatto fare anticamera a tre o
quattro signori che aspettano da un pezzo.
III
L'avvocato
Strigelli uscì dallo studio Agudio colla contentezza di un
poeta che ha finito in quel punto un componimento al quale sia stata
d'impaccio una strofa, che, per essere la conclusionale, aveva
l'obbligo di riuscire la più felice di tutte. Uscì
colla nota e l'indicazione del luogo in cui il Baroggi avea detto
trovarsi le fanciulle insieme con sua madre, e tornò in casa
Pietra. Il conte non era ancora partito; e l'avvocato, entrando nella
sala colla gioviale baldanza di chi si sente quasi più padrone
dei padroni di casa, interruppe un discorso che colui aveva avviato
con donna Paola, esclamando:
Or tutto è fatto, ed ogni nodo è sciolto, e ormai non
rimane al signor conte che di far attaccare i cavalli; a donna Paola
di mettere in mia compagnia quella buona vecchia che fu già la
governante della fanciulla, e a me di pormi tosto in viaggio. Da qui
a Como, trottando con focosi cavalli, ci voglion sei ore; da Como ad
Asso... Ah, vedo che per oggi non si arriva in tempo, e non si fa
nulla, e bisognerà che la signora contessa abbia la pazienza
di aspettar fino a domani ad abbracciare la sua figliuola... Ma noi
stiamo qui, e non pensiamo a dar questa notizia alla contessa... Ma
dov'è la contessa?... Voglio sperare che risorgerà da
morte a vita, quando sentirà di che si tratta. Mi conduca
dunque, donna Paola, dalla contessa... Signor conte... andiamo a
trovar la contessa.
E
l'avvocato, senz'altro, tant'era trasportato dalla compiacenza d'aver
fatto quello che forse nessun altro avrebbe saputo fare, già
s'avviava all'appartamento dove sapea trovarsi la madre di Ada. Donna
Paola si mosse ella pure, volgendo al conte un'occhiata più
eloquente di qualunque discorso; e il conte la comprese e guardò
a lungo donna Paola, e questa volta anche l'occhio di lui, per
consueto insignificantissimo, espresse mille cose; e seguì
donna Paola, a passo lento e colla testa piegata sul petto, e
attraversò insieme le stanze intermedie. Ma quando ella entrò
in camera della contessa, precedendo l'avvocato e il conte per
annunziarli; nel punto che, dopo quindici anni, egli sentì,
stando di fuori, la voce di donna Clelia, si trattenne un momento, e
lasciò che entrasse lo Strigelli. E stette così un poco
perplesso; poi, come se a un tratto fosse respinto indietro da
più uomini vigorosi sbucati d'improvviso per scacciarlo di là,
retrocesse, e con passo concitato ritornò nella sala di
ricevimento, e si gettò a sedere nella poltrona, percuotendo
gli stivali con forti colpi di scudiscio; si alzò di nuovo e
si mosse per ritornare dond'era fuggito, e di nuovo retrocesse, e
tornò a sedere nella poltrona. Lo Strigelli e donna Paola
intanto, fattisi intorno alla contessa con quell'impaziente
sollecitudine dei buoni che non vogliono ritardare altrui una
consolazione, non si accorsero al primo che il conte fosse rimasto
fuori, e:
Or dunque si rallegri, signora contessa, disse lo Strigelli.
Coraggio, la mia cara Clelia, disse donna Paola. Qui il nostro
avvocato parte a momenti colla carrozza del conte per andar a
prendere la vostra figliuola.
La
contessa, alzandosi a quelle parole dalla seggiola, respinse con
violenza la cameriera che in quel punto stava ravviandole alla meglio
lo scompigliato tupè, e:
Voi andate a pigliar mia figlia, domandò all'avvocato; ma
sapete dove si trova?
Ecco qui... rispose l'avvocato. Da Como bisogna andare in Vallassina,
a una villetta in riva al Lambro tra Scarenna e Caslino. Là
vivono in solitudine e in devozione la vostra figliuola e la figlia
del Crivello, essendo state affidate, cosa di cui stupirete, alla
custodia della madre del Baroggi; la quale, come ognun sa, è
tra quelle che oggidì a Milano logorano di più le
panche delle chiese.
La
contessa non ebbe tempo di maravigliarsi di questa, che pur doveva
essere per lei, stranissima notizia. Ma rivoltasi alla cameriera:
Spàcciati dunque, che non c'è tempo a perdere. Credo
bene che si partirà subito subito? soggiunse poi rivolgendosi
allo Strigelli.
Quel che si dee fare si dee far tosto. Ma la signora contessa,
giacchè ha avuto tanta pazienza fino ad oggi, la prolunghi
fino a domani, e voglia persuadersi che è molto meglio che io
parta solo colla cameriera qui di casa, che fu già governante
della ragazza. Anche il signor conte voleva venire in persona ad
accompagnarmi, ed io l'ho persuaso... Ma dov'è il signor
conte, domandò a donna Paola, non è egli entrato qui
con noi?
S'è fermato di là, ella rispose, perchè non si
permise d'entrare prima che...
E
donna Paola, interrompendosi ad arte, guardò la contessa,
pigliandola per mano e stringendogliela con gran significazione,
senza dir altro, perché non voleva che lo Strigelli fosse
testimonio di quella soverchia ostinazione della contessa.
Ma
questa, senza dar peso nè alle occhiate nè alle parole
nè alla stretta di mano:
Non sarà mai, avvocato, soggiunse, che io debba fermarmi a
Milano ad aspettare. Non sarà mai.
Quand'è così, faceva osservare donna Paola, stiamo a
quanto vorrà il conte... Lasciate fare, avvocato... Se ella sa
pregare il conte in modo che esso le permetta d'andare a prendere la
figliuola, lasciate fare. Suvvia dunque, andiamo di là, cara
Clelia, e giacchè avete questa smania, troppo giusta del
resto, d'andare voi stessa in compagnia dell'avvocato, saprete trovar
le parole da persuadere il conte. Non è vero, avvocato? e a
costui ammiccò, volendo significargli che venisse in suo
soccorso. Io vado di là e vi precedo... e la mia cara Clelia
avrà la bontà di venir subito a parlare al conte...
Così si parte... sull'istante... e riabbraccerete la vostra
Ada stasera invece di domani.
E,
senza attendere risposta, donna Paola uscì, recandosi nella
sala di ricevimento.
Il
conte era ancora seduto in poltrona, colla testa appoggiata al
braccio sinistro puntato sulla sinistra coscia, mentre, per un
movimento macchinale, andava percuotendo collo scudiscio che aveva
nella dritta il soppedaneo della sala.
Signor conte, disse donna Paola, parlandogli stando di dietro del
dosso della poltrona, quella povera contessa vorrebbe pregarvi...
anzi sta per venir qui...
Che!?
esclamò il conte alzandosi di subito e volgendo in giro gli
occhi torvi.
Gli
uomini della natura del conte V... sono sempre perplessi intorno a
quello che debbono fare; inoltre avendo una debole intelligenza,
finchè il cuore può andar liberissimo ne' suoi slanci,
tutto va bene, e qualche volta da uomini di tal fatta, a pigliarli
con garbo, se ne cavano grandi cose; ma guai se d'improvviso tra gli
slanci del cuore si inframmette qualche bisbetica riflessione della
mente! Di tratto s'impennano e retrocedono da quella via su cui il
sentimento spontaneo gli avea fatti correre fin con troppa velocità.
S'impennano e non sono poi capaci di dissimulare pur un pensiero
fuggitivo da cui sieno molestati. Un altro uomo, nella condizione del
conte, dal momento che si fosse indotto a recarsi in casa Pietra,
fatto quel primo passo, non avrebbe esitato a far tutti quelli altri
che erano comandati come una conseguenza necessaria. Ammesso il
principio di voler essere indulgente, e mostrarsi, quel che suol
dirsi, un uomo di mondo, e di concedere tutto il suo pieno sviluppo a
quella pietà, a quell'affetto che spontaneamente eragli pur
nato in cuore, toccava a lui a pigliar l'iniziativa in tutto, toccava
a lui a preparare, se va l'espressione, il piano inclinato per cui la
contessa, senza il pericolo di troppo gravi scosse, potesse, dopo
quindici anni d'assenza e dopo quanto era successo, non sentirsi
umiliata a venire in apparenza di penitente contrita al cospetto del
marito oltraggiato.
Ma
il conte si comportò tutt'all'opposto. Aveva lasciato in prima
che il cuore facesse quel che volesse; poi, al contatto di alcune
circostanze che trattennero il libero slancio del cuore, sottentrò
la riflessione; e questa riflessione, non essendo quella di un
intelletto forte fece sì ch'egli, al fatto del non aver mai
veduto a comparir la contessa in tutto quel tempo che stette in casa
Pietra, non desse nè la più ragionevole nè la
più benigna interpretazione.
Quando
fu per entrare nella camera di lei e ne ebbe sentita la voce,
retrocesse, percosso improvvisamente dall'idea che fosse per
accoglierlo male; e questo argomentava da ciò appunto ch'essa
la contessa, mentre sapeva ch'egli era lì da tanto tempo, non
s'era mai degnata di uscire dalla sua camera e di venire a lui, che
pure s'era mosso per amore e di lei e della sua figliuola. Retrocesse
dunque con dispetto a questa idea, e si pentì d'esser venuto
lì; e un pensiero portandone seco altri della stessa natura,
di quel complesso di cose che alla mattina lo aveva intenerito, gli
si mostrò in quel momento il rovescio che gli rinfocava invece
gli sdegni. Ma in quel punto comparve sulla soglia della sala la
contessa Clelia, preceduta d'un passo dal giovine avvocato Strigelli.
Era
da quindici anni che il conte e la contessa non si vedevano. Però,
quand'anche e l'uno e l'altra si fossero trovati in una diversa
condizione d'animo e di cose, sarebbe sempre stato pieno di
turbamento e di solennità quell'istante del rivedersi dopo che
de' fatti gravissimi li avevan tenuti divisi per tanto tempo. Or
pensi il lettore come si accrescesse quel perturbamento, e come fosse
fatta angosciosa e terribile quella solennità, nella
stanchezza di spirito onde era sopraffatta la contessa, nel fremito
iracondo onde era colto in quel momento il conte.
La
faccia di lui, il suo corpo stettero immobili alla vista della
contessa, come se una virtù arcana vi avesse comunicata la
rigidezza inalterabile di una figura marmorea. In quanto alla
contessa, che, e per le parole di donna Paola e per quelle dello
Strigelli, si attendeva dal conte il più benigno accoglimento,
si rattenne più attonita che spaventata, vedendo quell'occhio
torvo e quel viso arcigno, e non osò fare un passo di più,
e si volse allo Strigelli come se gli dicesse:
Or che v'ho detto io?...
Donna
Paola, che non s'era atteso quel repentino mutamento nei modi del
conte; lo Strigelli, che aveva incoraggiata la contessa a venire al
cospetto del marito, coll'assicurarla ch'esso la stava attendendo
colla più benigna disposizione d'animo, non seppero trovar
parole per togliere la contessa dal suo imbarazzo, per ispianare la
fronte accigliata del conte.
Ma
questi che era impacciato al pari degli altri, vedendo la pallidezza
sepolcrale della contessa e gli occhi di lei notabilmente alterati
dalle traccie del pianto, sentiva in sè il ritorno d'una
irresistibile compassione, e il dispetto di non poterla tener
lontana, onde quasi per deviarla:
Or perchè, proruppe con iracondia che varcava ogni
convenienza, non mandate tosto, signor avvocato, a far attaccar i
cavalli... invece di star qui a far... a gettare il tempo
inutilmente?
A
codesta esclamazione del conte, la contessa, consigliata Dio sa da
che, e probabilmente dalle continue esortazioni di donna Paola, uscì
dalla propria immobilità e si avvicinò al marito, e:
Giacchè vi pigliate tanta premura per la mia figliuola...
lasciate che vi ringrazii...
Queste
semplici parole proferite in suono di pianto dal labbro della
contessa cangiarono a un tratto l'espressione alla faccia del conte.
E
donna Paola, la quale stava come attendendo quella risoluzione:
La contessa, entrò sollecita a dire, vi prega di volerle
concedere d'andare ella stessa in compagnia dell'avvocato a prender
la figliuola.
Ma, e tocca a me, rispose il conte, a dare un tal permesso? e non è
ella sua madre? E ciò disse con voce alterata ed alta, ma con
quell'accento particolare degli uomini burberi, i quali non hanno
altra paura che di parer buoni; accento in cui, di sotto al suono
dell'ira che soverchia per l'atto della volontà, si sente come
a fremere il suono della pietà che il cuore, a dispetto del
dissenso mentale, non può a meno di lasciar trapelare. E il
conte non potè proseguire, perchè la contessa,
abbracciando donna Paola, diede in un violento scoppio di pianto, che
fu l'ultimo di quei procellosi giorni e di quel giorno; chè,
senza più oltre protrarre una tal scena, trattandosi che anche
noi, che abbiamo i nostri fastidj, sentiamo il bisogno di confortare
lo spirito con qualche spettacolo un po' più lieto, diremo che
fu mandato un servitore a far attaccare i cavalli alla carrozza da
viaggio del conte; che la carrozza entrò dopo qualche tempo
nel cortile di casa Pietra; che la contessa vi salì, dandole
il braccio lo stesso signor conte, il che è un gran buon
indizio; che l'avvocato sedette alla sinistra di lei, e così
partirono ambidue di trotto serrato, rimanendo il conte per tutto
quel giorno ed anche a pranzo insieme con donna Paola, a parlare di
tante e tante cose, per le quali possiamo sperare di poter assistere
finalmente ad una giornata del tutto sgombra e serena, dopo tanti
giorni di pioggia inclemente.
IV
L'arresto
di Andrea Suardi, del quale il pubblico, per uno di quegli sbagli che
non si sanno come spiegare, si era dimenticato in que' giorni, fece
l'effetto d'un congegno che s'intrometta fra i raggi della ruota
centrale d'un mulino, la quale ferma di punto in bianco tutte le
ruote minori che in essa imboccano. Vogliamo dire che la calunnia
colossale che avea investita la riputazione persino di donna Paola,
fermandosi di colpo, arrestò tutte le mille congetture che
figliarono da quella, con gran dispiacere di coloro che le avevano
messe in corso, e vedevano crollare come per incanto un edificio a
cui tanto volentieri avevano portato la loro pietra. E
contemporaneamente alla fermata di quella ruota che aveva girato
velocissimamente e aveva fatto girar tante teste e muovere tante
lingue, quel nome del Galantino balzato fuori all'impensata fu causa
che una quantità innumerevole di persone si dessero del
balordo a vicenda, perchè a tutte quante non sembrò
vero di non aver tosto messi gli occhi su colui che, solo fra tutti,
presentava i veri requisiti indispensabili per essere il primo a
cadere sotto al pubblico sospetto. E nel tempo stesso vi fu un
rinnovamento di tutte le dispute calorose che si eran fatte pochi
giorni prima tra coloro che stavano contro donna Paola e quelli che
la difendevano; i secondi, riscaldati dal trionfo, si ricattavano
delle offese ricevute; i primi, umiliati dalla sconfitta, si
ritraevano affannandosi di dare speciose interpretazioni a quanto
avevano detto. Però i rabbuffi cessaron presto, perchè
il ritorno del Galantino alle camere dell'albergo del Capitano di
Giustizia, come lo chiamavano i buontemponi gioviali, fu un
avvenimento così saporito per tutto il rispettabile pubblico
milanese, che tutti furono ben contenti, per un così lauto
cambio, di dover rinnovare e rinfrescare la loro stima e venerazione
che avevano per donna Paola Pietra. Il pubblico è talvolta
come i fanciulli: ha bisogno d'aver qualcosa in bocca da
rosicchiare, e qualche oggetto tra mano da stritolare, sempre
disposto ad abbandonare quello che ha in proprio potere, quando se
gliene getti un altro su cui sfogarsi come gli par meglio. Questo
caso poi del Galantino, per il pubblico, torniamo a ripeterlo, era
davvero un piatto appetitoso. La ricchezza del Suardi, e le altre sue
qualità abbaglianti compreso il magnifico suo cavallo normanno
colore isabella, col collo ad arco e la prolissa criniera bruna,
aveva come imposto alla pubblica opinione; e se tutti strillavano
contro i fermieri ladri, come di consueto que' signori venivano
chiamati dalla ciurmaglia che non misura le parole, l'ira era
piuttosto rivolta contro i tre capi principali che contro del
Galantino, il quale veniva come scusato dalla sua condizione di
appaltatore in secondo. Qualche volta è una compiacenza
curiosa che ha la moltitudine di far la corte all'uomo che
manifestamente è protetto dalla fortuna; ma guai se ella
s'accorge che la fortuna abbandona il suo protetto! Allora fa in un
istante quella diversione per cui la fortuna ha impiegato molto
tempo, e si rivolta infuriata contro quello stesso che in prima aveva
blandito, talchè se le parole del pubblico fossero sassate, il
derelitto cadrebbe morto in piazza, prima che la giustizia arrivasse
in tempo a giudicarlo.
Birbone lo si conosceva, ma scellerato fino a questo punto no,
dicevan gli uni. E all'ombra delle foglie di tabacco doveva giungere
fino a questo di diventar sacrilego, dicevan gli altri. Questo è
il caso di dar un esempio, gridavan tutti, e giacchè in piazza
c'è la ruota, farlo andare come al girarrosto: lui e i suoi
tre colleghi. Questo s'intende. Ma lui al primo posto. Oh, questa
volta non gli sarà così facile di canzonar la giustizia
e l'aspettazione pubblica, come ha fatto tanti anni fa. Se il Senato
lo rimanda assolto, è il caso di rivoltarsi contro al Senato.
Chi si fa pecora la mangia il lupo. Chi vuole può. La
trambussata nel convento di San Filippo, i cinque morti e il coraggio
dei frammassoni hanno fatto l'effetto, e l'editto del 6 aprile fu
levato jeri da tutti gli angoli della città. L'editto è
del 6 aprile... e il birbone acquistò la casa presso al
convento pochi giorni dopo. La trama era dunque già bell'e
ideata da questo scellerato.
Questi
dunque, o di tal genere, erano i parlari del pubblico; e in ragione
che l'odio cresceva e si versava tutto sulla persona del Galantino,
nasceva l'entusiasmo per gli altri; nasceva per i Frammassoni di cui
s'era chiusa la loggia di San Vittorello; prorompeva per il giovane
lord Crall, di cui si esaltavano a cielo le virtù; cresceva la
venerazione per donna Paola Pietra a un punto che non è
imaginabile. Quando poi corse per tutta la città la notizia,
che l'avvocato Strigelli aveva scoperto il luogo dove le fanciulle
erano state nascoste, e che, in compagnia della contessa Clelia V...
nella carrozza del medesimo signor conte colonnello, era partito per
ricondurle a Milano; fu un delirio universale, e più ancora
quando si vociferò dell'acutezza sapiente e mirabile di donna
Paola che aveva ella sola provocato tutto questo, e aveva colto
l'occasione d'una sventura gravissima per far venire a Milano la
contessa V.... e perciò aveva ottenuto quel che nessuno
avrebbe potuto aspettarsi; che cioè il conte colonnello V...
dopo quindici anni si trovasse insieme colla moglie, e dessero così
il buon esempio della riconciliazione e del pentimento e del perdono.
Perchè i servi di casa Pietra avevano palesato ogni cosa; i
servi che, se non sanno tacere gli scandali segreti dei padroni,
hanno poi anche la smania, bisogna dir il vero, di propalare le loro
virtù, se ve ne sono, e i loro bei fatti, e persino
d'esagerarli. Però gli elogi che corsero quella sera della
contessa Clelia V... varcarono la misura iperbolica di un panegirico
convenzionale. Essa era più grande quasi dell'Agnesi, al
cospetto della scienza; più degna di compassione che la Maria
Stuarda, al cospetto della sventura e della persecuzione; più
rassegnata e più costante di tutte, al cospetto
dell'espiazione; se niente niente continuava di quel passo, poteva
aspirare ad un posto nel martirologio. Quanto poi a bellezza, le più
fresche e leggiadre giovinette potevano nascondersi tutte, eclissate
dagli splendidi avanzi della sua: ad eccezione però della sua
figliuola, di quel caro angelo di Ada, la quale, insieme colla madre,
poteva bastare a provar che la città di Milano era la prima
nel vanto della beltà femminile; che Venezia non poteva aver
nulla da contrapporre di meglio, che Genova e Bologna e Ferrara, le
quali menavano tanto scalpore per le loro donne, avrebbero dovuto dar
le mani, vinte nel veder queste due. Con tutta quella buona
disposizione del pubblico all'entusiasmo verso le persone che abbiamo
nominate, fra cui è pur da includere il conte colonnello V...,
che è tutto dire, giacchè aveva un segreto affatto suo
di saper venir in uggia ai conoscenti, ai parenti, agli amici, a
tutti; si figuri dunque il lettore l'effetto, diremo, invadente che
fece quando si sparse per la città la notizia che la signora
contessa V... e l'avvocato Strigelli erano tornati in compagnia delle
fanciulle. E tanto più fu grande l'effetto, in quanto era pur
stato generale il dubbio sulla difficoltà di rinvenirle;
generale il timore, che, nel punto stesso di ritrovarle, fossero per
dar fuori nuovi disastri e nuovi affanni. Appena dunque si sparse
quella felice nuova, fu un accorrere di tutti i parenti della
contessa, della madre, della sorella, del fratello, per congratularsi
con essa; fu un affaccendarsi di tutti gli amici del conte per
lodarsi di lui e della sua generosità. E la cosa andò
tant'oltre, che l'intensa gioja di pochi si comunicò a tutta
la popolazione, e quella gioja fu così viva, che, siccome
voleva un costume curioso venuto dalla Francia, si credette perfino
di dover palesarla con atti di pubblica esultanza.
Nel
1735, quando Luigi XV, il prediletto, fu assalito da una
pericolosa malattia che aveva fatto temere della sua vita, nel punto
che stava per toccare l'età maggiore, la costernazione di
tutto il popolo parigino fu tale, che si manifestò
rivoltandosi contro il reggente duca d'Orléans, sul quale
aveva pesato la più atroce calunnia, per essere avvenuta quasi
simultaneamente la morte della madre, del padre, del fratello
maggiore di Luigi. Gli odj del pubblico contro il Reggente erano
anche rinfocati dai disordini che in Francia aveva prodotto il
sistema di Law, che il duca aveva protetto. Tutti adunque, credendo
nella scellerata ambizione del Reggente, tenevano per certa la morte
del giovinetto re. Ma la fortuna volle che un salasso opportunamente
e coraggiosamente ordinato dal medico Helvetius, contro il parere dei
colleghi, salvasse invece i giorni di Luigi. È indicibile il
trasporto che ebbe il popolo per tale notizia. Il Reggente, a
confondere la calunnia, presentò il giovane re al popolo
radunato. Fu in quell'occasione che la fantasia parigina trovò
di manifestare l'insolita allegrezza in un modo insolito,
introducendo per la prima volta i così detti banchetti di
famiglia fatti alla porta delle case col favore delle belle notti
d'estate.
I
pubblici d'Europa, quando seppero le novelle di Parigi e la
guarigione del giovine monarca e il modo nuovo e bizzarro di
festeggiarla, non sappiamo fino a che grado dividessero la
consolazione del popolo parigino, ma sentirono un sincero entusiasmo
per coloro che avevano inventato quel nuovo metodo di stare allegri,
e una smania che, si presentasse presto un'occasione appena appena
ragionevole e plausibile per introdurre in patria quel così
splendido trovato, e per applicarlo in modo da non rimanere addietro
degli inventori.
La
città di Milano fu probabilmente la prima in Italia che
tentasse in ciò di emulare la maggior Parigi. Se le invenzioni
veramente utili all'umanità fossero sempre tanto fortunate e
rapide nella loro diffusione quanto questa dei banchetti di famiglia
alle porte delle case, come si tormenterebbero meno i veri amanti del
ben pubblico! Quanto risparmio di parole, di discussioni, di guerre,
di odj, di contumelie. Quante ossa di meno sarebbero state slogate;
quanti dolori e ingiustizie risparmiate a molti innocenti sventurati
se il libro dei delitti e delle pene, per esempio, avesse avuta una
così sollecita applicazione come codesta invenzione parigina!
La
città nostra attese dunque impaziente la prima occasione per
poter farsi onore a banchettare in istrada col favore delle belle
notti e delle stelle e della luna. In mancanza di un re adolescente
che scampasse da morte, si accontentò, tanto per far presto,
della nascita del primogenito di qualcuna fra le più ricche e
cospicue famiglie; di qualche splendido matrimonio che avesse fatto
sbattere le ali e spiegare il canto di tutti quanti i cigni del
Ducato; in un bisogno (e allora i banchetti si limitavano, al giro
del rione o della parrocchia) si accontentarono anche dell'ingresso
solenne di qualche nuovo curato o prevosto alla sua chiesa. Col
tempo, se mai nell'anno non si fosse presentato uno di que' tali
matrimonj che fanno epoca, o la nascita di qualche primogenito più
aspettato del solito, celebrarono invece la vigilia di qualche
solennità festiva. A quella di san Pietro, per esempio, che
cadeva in estate, era diventato di pratica il banchettare alla serena
per tutta la città. Di tali banchetti generali v'erano quelli
che riuscivano più o meno splendidamente, e questo dipendeva
dalle maggiori o minori elargizioni dei festeggiati, i quali, in
certe contingenze, avrebbero forse preferito di essere in odio al
pubblico, perchè le casse forti se ne risentivano di quel
tripudio universale. Celebre tra gli altri era stato il banchetto
generale dato a Milano nel 1760 per la nascita del primogenito delle
loro eccellenze don Alberico conte di Cunio, Barbiano; Lugo,
Belgiojoso, marchese di Grumello, ecc., e donna Anna Ricciarda,
principessa d'Este e del sacro romano Impero, al quale fu padrino S.
E. il signor conte Carlo di Firmian, e che fu cantato da molti cigni,
i quali deposero le loro uova in una raccolta poetica, in cui, fra
tanti nomi oscurissimi, compare ultimo il Parini, forse perchè
allora non era che semplice abate e non era ancora uscito il
suo Mattino. Guai dunque che si trascurasse l'occasione di
convertire in allegria pubblica una gioja domestica!
La
smania del divertirsi era molto maggiore nel secolo passato che nel
nostro, e nel popolo v'era una corrente assidua di buon umore e di
bonarietà che oggidì venne languendo per mille
circostanze; per di più il popolo, nelle sue relazioni col più
ricco e cospicuo patriziato, si trovava quasi nella condizione degli
antichi clienti di Roma: provava davvero una gran gioja alle
gioje dei principali casati, si gloriava delle loro glorie, pareva
quasi che le loro ricchezze fossero sue, onde si affannava a
decantarle, a magnificarle, ad esagerarle a' forestieri. Le nuove
idee, di cui il lievito andava gonfiandosi a Parigi, s'erano trasfuse
allora soltanto in alcune teste che avevano imparato a girare lo
sguardo in una sfera di che il vulgo non sospettava nemmeno
l'esistenza. Con questa bonarietà nativa, non turbata da
nessun grave avvenimento, con questa prosperità
materiale della vita, con questa tranquillità dello spirito,
mantenuta nei più bassi ordini dall'ignoranza che li faceva
contenti di quello che avevano e della protezione de' gran signori,
con questa smania per l'allegria che dai padroni era passata ne'
servi, e da un ordine all'altro; per quell'agiatezza conservata dalle
compatte e numerose confraternite e maestranze di tutte le arti e
mestieri, onde ciascuna aveva sempre in pronto grosse somme di
denaro, raccolte dal contributo di tanti, e che talvolta volentieri
si erogavano per star allegri, sotto pretesto di qualcosa di più
importante; è facile a comprendere come il pubblico prendesse
amore ai pubblici festeggiamenti, e andasse perciò
continuamente a caccia di buone occasioni.
Nel
giugno di quell'anno 1766 era da qualche tempo che non si offriva un
motivo plausibile per far qualche cosa. Ora mancavano due giorni
alla festa di san Pietro quando venne a Milano la contessa Clelia
V... in compagnia della sua figliuola Ada e di donna Giacoma dei
marchesi Crivello, e si sparse la notizia del come, del dove, del
quando erano state ritrovate; e alla moltitudine parve quasi di veder
un miracolo in ciò, non sapendo spiegare come quello
scellerato di Suardi avesse potuto affidarle alla custodia di una
Santa: indizio manifesto che un angelo custode si era espressamente
incaricato di esse.
Tutti
pensarono di conseguenza essere quella una occasione mirabile per
dare un banchetto generale che superasse in isplendore tutti i già
fatti. Il conte colonnello V... per aggiunta si chiamava Pedro.
Potevansi così celebrar più fatti in una volta: il
ritorno della contessa V... a Milano, la sua riconciliazione col
marito, la salvezza miracolosa di quell'angelo della fanciulla Ada,
la salvezza della figliuola del Crivello, il giorno onomastico di don
Pedro conte V..., la solennità della festa di san Pietro. Gli
ingredienti erano piuttosto troppi che pochi.
La
notte era già alta, quando una fitta moltitudine di persone,
di quelle che, o per mandato altrui o per volontà propria,
sono sempre alla testa delle pubbliche manifestazioni, si portarono
sotto le finestre del Palazzo Pietra Incisa a gridare con tutta
quella voce che loro era disponibile: Viva donna Ada V...,
viva donna Paola, viva la contessa Clelia, viva il conte, viva tutti,
in una parola; e l'entusiasmo, il quale si condensa per virtù
propria, andò al punto che alla contessa Clelia e a donna Ada
fu necessità il mostrarsi dal balcone alla moltitudine
schiamazzante.
Quando
le due figure della contessa e della sua figliuola comparvero tra due
livree che portavano i lumi, non è a dire a che diapason
salissero le acclamazioni della moltitudine, trasportata da quello
spettacolo commovente e leggiadro. La faccia di donna Clelia,
colorata in quel punto da tante emozioni e lumeggiata per soprappiù
dalla tinta calda della fiamma, anzichè la madre, sembrava la
sorella maggiore di Ada. E questa osservata colà presso la
contessa, potea sembrare una copia più in minuto di
quell'augusta figura, copia eseguita da un artista più morbido
e più squisito. Il suo volto giovinetto raggiava di una gioja
alquanto soffusa di mestizia, e con ambedue le sue leggiadre manine
tenendo la mano della mamma, pareva quasi che si ricoverasse presso
di lei, come sopraffatta da tanta moltitudine che la chiamava a gran
voce. Ma per dipingere degnamente codesta scena ci vorrebbe il
pennello di Gherardo delle Notti; in quel modo che ci converrà
domandar consigli alla tavolozza del Canaletto e del Guardi, quando,
tra poco, faremo il giro della città, passando in carrozza in
mezzo ai banchetti notturni in compagnia della contessa e della sua
figliuola: noi intenti a certi nostri studj speciali, esse
tutte occupate a rispondere ai saluti e agli applausi del pubblico
mangiatore e bevitore.
V
Vi
sono città la cui storia è tutta una disgrazia, come la
biografia di qualche infelice nato sotto la cattiva stella; città
che nemmeno coi sacrificj possono placare la maldicenza; di cui i
meriti e le virtù reali e le apparenti sono disconosciute e
passate in silenzio; di cui i benefizj sono retribuiti
d'ingratitudine; città che, al pari di qualche padre, di
qualche madre, son disprezzate e bistrattate persin dai medesimi
figli. Ci vorrebbe, per esempio, un bel talento a sostenere che la
città di Milano sia stata il beniamino della sorte. Ella ha
avuto le sue grandi pagine storiche al pari di chicchessia. Ella ha
avuto qualche momento in cui fu piuttosto la prima che l'ultima; e
questo momento, sebben sien corsi molti secoli, è stato, salvo
errore, forse il più glorioso di tutta la storia d'Italia.
Ella ha dovuto ed ha voluto patire e dissanguarsi per sè e per
gli altri. Ella ha dato il suo contingente d'uomini grandi a tutte le
discipline che fanno la civiltà; ella ha murato i suoi
giganteschi edifizj, ella ha dato la sua schiera eletta di artisti
per decorarli; ella fu così gentile e così amante del
grande, del bello e del buono, che qualche nobile intelletto, mal
compreso e infelicissimo altrove, raccolse qui le sue tende, e qui
diventò famoso. Dopo tutto ciò è una gara
universale di ripetere quel che Alfieri già disse in quel
celebre sonetto, dove, lacerando le genti d'Italia come pagine di un
libro che si disprezza, sentenziò che i Milanesi non sanno far
altro che mangiare:
I
buoni Milanesi a banchettare;
sentenza
che Foscolo, forse a gratificarsi la grande ombra del suo modello,
peggiorò e trasmutò e condensò in quel tal
predicato disprezzativo che non amiamo ripetere. È dunque
destino l'essere maltrattata in verso e in prosa, l'essere ingiuriata
anche dagli uomini sommi e santi. Persino i suoi figli fanno a gara
nel percuoterle ad ogni ora il seno abbondantissimo di latte
nutriente; e noi stessi che diciam questo e parrebbe quasi volessimo
prenderci l'impegno di difenderla, noi stessi ci assumiam l'incarico,
per usare una frase d'ingegnere di campagna, di ricevere la consegna
di tutti i suoi elementi materiali e morali che la compongono, in un
momento che tutta quanta ella sta abbandonandosi ai piaceri del
banchettare. Tuttavia noi non crediamo di offenderla, perchè,
avesse ella pure avuta in addietro questa geniale tendenza, e che
vuol dire perciò? Non sempre si deve creder nell'allegria di
coloro che sembrano allegri; spesso l'uomo da cui più
scoppietta la facezia, è il più melanconico di tutti:
talvolta è un modo tutto suo di salvarsi dalla pressura
dell'affanno. Chi più si tuffa nell'onda di Lieo, creperebbe
d'amarezza se non esilarasse con esso il percosso ingegno. Ci fu un
savio che quando vedeva taluno ebbro più del solito, e per gli
effetti dell'ebbrezza intento a tenere in giocondità la
brigata: Dio sa quanto costui ha sofferto! pensava tra sè, e
convertiva in pietà quel primo senso di gajezza che in lui
destava la presenza dell'uomo eccitato dai vapori del vino.
La
città nostra sotto il martello di Uraja, nell'eccidio del
Barbarossa, in mezzo ai cani di Bernabò, nei tradimenti onde
abortì il triennio decorso dall'ultimo Visconti al primo
Sforza, fra i pidocchi dei lanzichenecchi e le atroci guasconate dei
gendarmi dei re di Francia, quasi a dare uscita all'affanno che
minacciava di scoppiarle di dentro, ebbe sempre pronto l'aculeo della
sua strofa vernacola che celò il pianto sotto alle risate
gioviali e sonore; e lo celò al punto che quasi parve
indifferente alle vecchie ingiurie, ai dolori nuovi, alle minaccie
del peggiore avvenire; e forse fu allora che cominciarono a tenerla
in basso conto quelli che, non sapendo che piangere come fanciulli
battuti, non riuscivano a comprendere come si possa bere la cicuta
ironicamente ridendo come Socrate. Da queste riflessioni il celebre
verso d'Alfieri potrebbe dunque ricever l'ultimo e il più vero
suo commento, e l'insulto di Foscolo verrebbe a ribadire il frons
prima decepit multos di Fedro. A ogni modo, nel secolo passato
l'allegria della nostra città era sulla sua superficie com'era
nelle sue viscere. Ella si era dimenticata delle sue antiche miserie,
e non viveva in timore d'un peggiore avvenire. S'era adagiata sul
triclinio in pace, e non attendeva che a darsi buon tempo. Ma tutta
l'Italia e tutt'Europa facevan lo stesso. Venezia bella pareva non
voler più ricordarsi di Venezia forte. Parigi tripudiava come
una baccante ubbriaca, eppure se ancor non le muggiva il vulcano
dappresso, già ne usciva il fumo dal cratere. Ma è
codesta una condizione inevitabile così dei popoli come degli
individui, di non pensar più alle cose serie, nel punto stesso
che lor si stanno maturando i gravi avvenimenti. Ed ora ritornando
donde siamo partiti, alcuni fra quelli che più avevano
schiamazzato sotto al balcone a cui dovettero affacciarsi donna
Clelia e donna Ada, entrarono nella casa e domandarono di poter
parlare alla padrona. Erano alcuni priori di maestranze che chiesero,
affermativamente, ben s'intende, di festeggiare nell'occasione della
prossima vigilia di san Pietro il ritorno della contessa, e il felice
ritrovamento della sua figliuola. Noi crediamo che la contessa
avrebbe volontieri fatto senza di quella pubblica dimostrazione, e
probabilmente anche il conte; ma non essendo di prammatica il
rifiutarsi, perchè il rifiuto non significava che il desiderio
di risparmiare quel migliajo di zecchini, di cui tante quote
entravano in quante erano casse di maestranze; espressero a quei
bravi maestri operaj, colla consueta fraseologia della modestia di
convenzione, la loro gratitudine; e si chiamarono assai felici,
quantunque non meritevoli, di essere tanto onorati. Onde quei priori,
usciti di casa Pietra, si recarono tosto alla casa Crivello a farvi
anche colà un'abbondante messe di gratitudine.
Adempiuto
a questi preliminari, su tutti gli angoli della città si
affissero gli avvisi che la vigilia della festa di san Pietro vi
sarebbe stato banchetto generale notturno alle porte delle case, e
questo a glorificazione del Santo, e ad esultanza
pubblica pel miracolo avvenuto nelle persone delle nobilissime
zitelle donna Ada del conte V... e donna Giacoma dei marchesi
Crivello.
In
sabato dunque era stata fatta la dimostrazione sotto al balcone di
casa Pietra. Alla domenica furono pubblicati gli avvisi. Al lunedì
tutta la città non fece altro che pregustare l'allegria della
prossima notte, e darne le disposizioni, perchè la festa di
san Pietro cadeva in martedì.
Chi
vuol farsi un'idea del trambusto giocondo che era in tutta la città
in quel giorno, non deve far altro che esagerare l'idea della gioja
che penetra in tutte le famiglie alla vigilia e all'alba del dì
di Natale, gioja temperata soltanto da qualche velo di melanconia nei
capi di famiglia i quali devono dar le mancie e son fuori affatto dal
tiro di poter ricevere regali. E dalle intime consolazioni passando
al movimento materiale della città, per farsene una imagine
non si deve che esagerare il quadro del giorno del Corpus Domini
in quelle contrade e in quelle case dove e innanzi a cui passa la
processione; e, se occorre, risalire colla memoria a qualche anno
addietro, quando in codeste faccende delle pubbliche processioni la
città, e segnatamente il popolo minuto, pigliava un interesse
che più non suole avere oggidì: giorno solenne in cui
quelle case che guardano nelle contrade privilegiate si riversano,
per così dire, tutte al di fuori, e segnatamente le popolane.
La coperta gialla di filugello assume nuovo incarico, e va a servir
di tappeto alla finestra e al poggiuolo; le secchie di rame e le
secchioline di latta emigrano dalla cucina e vanno ad appendersi
all'archetto della porta, fatte più lucenti del solito dalla
cenere e dal pomice, per esser pari all'onore di tenere in fresco
qualche mazzo d'ortensie appariscenti, circondate d'arundini listate.
Il
canarino, il fringuello, il capinero, il merlo, soliti a far
compagnia alle vecchie casalinghe, lasciano anch'essi la cucina e il
terrazzo, e vanno a pigolare al pubblico, sulla porta della casa, o
nelle gabbie messe a nuovo e guernite di foglie di lattuga e
d'indivia, ornamento e cibo al tempo stesso. Giorno solenne, in cui
chi possiede qualche vecchio arazzo è sollecito di decorarne
le pareti esterne della casa; e la solerte fanciulla espone al
pubblico il tuo tappeto a scacchiera d'arlecchino, fatto coi ritagli
di panno a vario colore, sfuggiti già in più anni alla
forbice paterna.
Se
dunque per una festa che deve durare mezz'ora è tanta la
giocondità che percorre le case, ed esalta segnatamente le
persone giovani e i ragazzi, è facile imaginarsi che
commozione febbrile ci doveva essere nei preparativi di una festa
pubblica che aveva a distendersi da un capo all'altro della città,
e in cui la devozione pel santo festeggiato e le congratulazioni per
alcune persone a cui si credeva che in quei giorni la fortuna avesse
voluto dare una beneficiata, dovevan ricever la loro sanzione ed
essere documentate da tante cene quante eran case in Milano; e in cui
tutti gli stomachi, come avviene nel dì di Natale, avevano il
permesso di affrontare tutti i pericoli di una replezione, e gli
aridi esofaghi d'inaffiarsi al punto che cessasse il buon accordo tra
le teste e le gambe. E le case si riversavan davvero tutte al di
fuori, e tutte si affannavano di parere sempre qualche cosa di più
di quello che erano. Chi era avvezzo a mangiare in piedi e sulla nuda
tavola di peccia plebea, sfoggiava la tovaglia e i tovagliuoli; chi
mangiava per consueto ne' cucchiali di legno sfoggiava i cucchiali
d'ottone luccicanti e tersi. Tra le case signorili poi era una gara a
chi metteva in mostra più ricchezza e più varietà
di vasellame d'oro e d'argento. Tutto il giorno di lunedì fu
passato in apparecchi; i cuochi patrizj si apprestarono a dar saggio
di tutte le risorse dell'arte loro; i maggiordomi discesero nelle
vietate cantine a farvi una meditata scelta delle bottiglie più
decrepite, consultando ed esplorando in cento modi il turacciolo se
mai desse indizio che la soverchia vecchiaja del vino non lo avesse
mai convertito in aceto. E nelle case medie e nelle povere e nelle
poverissime era un affaccendarsi in altro modo. Le oche e le anitre
plebee erano state fin dall'alba prese d'assalto dalle solerti madri
e dai padri ghiottoni, che dalla bottega giravano l'occhio anche in
cucina. Gli splendidi tacchini di otto in dieci libbre, distintivo
della classe mercantile che aspira a regioni più eccelse,
erano scomparsi tutti fin dal giorno antecedente dal Verzajo, dal
Cascinotto, da san Clemente, contrada riputatissima fin d'allora
nell'industria dei polli ben purgati e nell'arte di condurre al punto
supremo la putrefazione della beccaccia; e le beccaccie e le
beccaccine e i fagiani e i francolini e le folaghe, ecc., e tutta
quella specie e sottospecie d'uccelli, che costituiscono, quasi a
dire, l'alta nobiltà del regno ornitologico e che perciò
hanno il diritto e l'obbligo di puzzar più degli altri, eran
già tutte passate dalle panche della piazza alla prelibata
moscajola della cucina patrizia.
Se
non che ad intorbidare tutto questo allegro movimento della città
avvenne quello che avviene quasi sempre allorquando il bel tempo e la
più perfetta serenità del cielo è un elemento
indispensabile al buon andamento di una festa pubblica. La statistica
delle illuminazioni, sebbene non si possa garantire della sua
esattezza, porta che una buona metà vennero offuscate dalle
nebbie e dalle nevi, e spente sgarbatamente dal vento e dagli
acquazzoni. Nei giorni della canicola e negli eterni del giugno e
luglio, in cui il sole par che faccia di tutto per provocare
l'ingratitudine de' mortali; chè dalle quattro del mattino ha
l'indiscrezione di risplendere fin quasi alle nove della sera: in
questi giorni in cui la pioggia è invocata come un beneficio
salutare, essa è inflessibile, e non cade mai e sembra quasi
compiacersi del tormento dei postiglioni che affogano tra i vortici
della polvere delle strade postali, e dell'ira dei poeti che non
trovano la rima, impediti dall'afa e dalle cattive digestioni. Ma
solo allora che per un pubblico spettacolo si voglia approfittare di
questa troppo cortese disposizione del cielo, state bene attenti che
di punto in bianco si lascerà scorgere sull'orizzonte qualche
nuvoletta bigia a sgomentar gli appaltatori che sospirano il
guadagno, e il pubblico che sospira il divertimento.
Ma
lasciando questa oziosa digressione, capitò dunque che in quel
dì della vigilia di san Pietro, dopo che il sole per
venticinque giorni aveva infuocata la città, dardeggiando
senza interruzione per sedici ore al giorno; precisamente verso il
mezzodì, per la prima volta e senza avvisi erasi ritirato
dietro a un gruppo di nuvole di cattiva qualità, le quali
misero l'incertezza in tutti quanti e fecero nascere molti alterchi
nelle famiglie, perchè gli spiriti eran diventati acri pel
dispetto, dacchè i banchetti non avrebbero avuto la metà
del loro prestigio senza luna e senza stelle, e la pioggia li avrebbe
resi affatto impossibili.
La
fortuna però volle che, dopo essere stata la città
continuamente in forse fin oltre al tramonto sulle mutazioni del
cielo, al segno che alcuni pensavano per fino di trasportare al dì
dopo, e di pieno giorno, e nell'interno della casa la loro quota di
giubilo da consumarsi a pranzo; verso un'ora di notte un venticello
inaspettato rendesse affatto sgombro il cielo; e la luna fosse pronta
al suo posto, e le stelle popolassero il firmamento. Onde tornò
la lena ne' petti, e giacchè le cene dovevano incominciare al
tocco della mezzanotte, quelle ore intermedie si impiegarono
nell'apparecchiar la tavola fuori delle porte di ciascuna casa, ed a
metter la facciata delle case in quella maggior gala che era
consentita dalla condizione dei padroni e degli inquilini. E venne
anche la mezzanotte. E allo scampanamento che si fece sentire,
com'era di pratica, agli orologi pubblici, tutta la città si
mise a tavola, senza che fosse più incomodata da cavalli, da
carri, da carrozze, perchè era severamente proibito a
chicchessia d'uscire a quel modo nè per diporto nè per
bisogno; rimanendone il privilegio a coloro soltanto per cui si
faceva la festa; i quali anzi, qualche tempo dopo lo scocco della
mezzanotte, dovevano per consuetudine fare il giro di quasi tutta la
città in carrozza. Così dunque le carrozze di casa V...
e quelle di casa Crivello si misero in movimento, allorchè
qualche bottiglia era già stata vuotata tanto alla tavola dei
ricchi che a quella dei poveri.
Ed
ora, se il nostro racconto fosse un poema, l'invocazione della Musa
sarebbe indicatissima. Ma invece, quando il lettore ce lo permetta,
essendo assolutamente necessario di animare gli estri per riprodurre
al vivo e al vero quella scena notturna, beveremo anche noi in
anticipazione una buona bottiglia d'un vino che oramai più che
all'enologia, può appartenere all'archeologia, quasi come il
falerno d'Orazio; un vino che fu spremuto dai grappoli nel
vendemmiale del primo anno di questo secolo. Per quello che dobbiamo
far noi, che teniamo al guinzaglio cento anni, cinquanta del secolo
passato e cinquanta del secolo corrente, l'ispirazione non può
venire da Musa più propizia di questa bottiglia contenente il
Napoleone dei vini, maturato anch'esso tra due secoli e capace di
spumeggiare arbitro tra l'uno e l'altro.
VI
Verso
le sette ore, ovvero sia un'ora dopo mezzanotte, il carrozzone di
gala scoperto che il conte V... mandò in casa Pietra Incisa,
uscì trionfalmente dal portone di questa. La contessa Clelia e
donna Ada vi stavano adagiate sole senz'accompagnamento di cavalieri.
Donna Paola se ne stette nelle sue stanze perchè, sebbene
fosse paga della buona riuscita di ciò che le avea dato tanto
affanno, pure aveva troppi dolori proprj per poter essere
perfettamente all'unisono colla gioja universale. Anzi dopo che le
ultime tormentose sollecitudini furono cessate, il pensiero rimasto
solo della condizione di suo figlio parve che fosse più forte
di tutti gli altri dolori che in cumulo aveva prima provati. Ella
dunque se ne stette in casa; nè il conte V... uscì del
proprio palazzo, o fosse determinazione sua, o fosse consiglio anche
questo di donna Paola, perchè, dopo tutto, se riusciva un
fatto edificante la riconciliazione tra lui e la moglie, non era poi
la cosa più conveniente che in quella notte il conte figurasse
in carrozza colla contessa. Il mondo nella contemplazione di alcuni
spettacoli trova il modo di ammirare insieme e di deridere; trova
degno del più grande elogio che una cosa sia stata fatta, e
non sa nel tempo stesso capacitarsi che vi possano essere stati
uomini di pasta così molle da lasciarsi indurre a farle.
La
contessa e la giovinetta uscirono dunque sole; la prima in tutto
quello sfarzo imposto dalla solennità; la seconda in quella
semplicità, ben s'intende riccamente decorosa, voluta dalla
sua condizione non ancor cessata di educanda, e fors'anche, chi lo
sa? dal desiderio materno che la semplicità facesse parere
ancora più giovane d'anni quella beltà adolescente. Il
topè necessariamente ci doveva essere, e la polvere di cipro
aveva dovuto imbiancare quelle chiome di seta bruna, la cui bellezza
era un geloso segreto di cui non era a parte che la governante e la
mamma; ma il grembialetto di levantina nera colle spalline non venne
dimenticato; tanto era piaciuto a donna Clelia che l'aura infantile
circondasse quella sua figliuola più di quello che l'età
comportasse. Una rosa purpurea, intrecciata nei capelli, era il solo
ornamento accessorio che alterava di qualche poco la sobrietà
di tutto il resto.
Vicina
alla contessa, a cui lo sfarzo sovrabbondante aveva come scemata
quella perfetta somiglianza che due sere prima mostrò d'avere
colla figlia, questa poteva rendere l'imagine dell'arte pura del
quattrocento posta a raffronto coll'arte sfoggiata di poi a Venezia
da Tiziano e Paolo; pareva già le similitudini non
costano niente la giovinetta e primitiva Etruria messa a paro
colla Roma imperiale, decadente sotto il manto di porpora e d'oro. Nè
il cocchiere tutto passamantato in argento, e che, come un oggetto
prezioso, poteva far gola ai ladri e venir rapito, seduto in alto
sulla cassetta a drappi e a frangie del carrozzone, e i tre servitori
ritti in piedi di dietro, gallonati senza risparmio, anch'essi, collo
scialacquo della prodigalità che ha smarrito il senso del
gusto, le facevano il fondo più adatto.
La
corsa della carrozza ne' luoghi principali della città doveva
assomigliare ad un lungo viaggio, perchè i cavalli avevano a
camminare di passo, come avviene negli ingressi trionfali, e perchè
ad ogni momento era d'obbligo una fermata per rispondere agli evviva
ed alle cortesie di chi stava banchettando; e precisamente in piazza
Borromeo, appena uscite dal portone di casa Pietra, le due donne
dovettero sostarsi innanzi al palazzo Borromeo, onde ricevere le
congratulazioni del conte padrone. Nel mezzo della piazza era stato
eretto un obelisco di legno posticcio tutto coperto dal vertice alla
base da cento fiammelle in vetri di vario colore che rischiaravano
all'intorno la piazza, e davano migliore aspetto alla facciata onde
Fabio Mangone decorò quella chiesa, fondata tanti secoli prima
da quel figliuolo di un soldato di Carlo Magno, che si chiamava
Podone. Di qui svoltando a sinistra e procedendo lentamente tra i
consueti evviva che passavano di mensa in mensa, la carrozza non fece
altra fermata se non quando arrivò nella piazza dei Mercanti.
La
scena che in quella notte offriva questa piazza era in vero delle più
pittoresche. Qui non v'erano banchetti di famiglia, ma quelli delle
rappresentanze del nobil Collegio de' giureconsulti, e delle
Università dei libraj, degli orefici, dei mercanti d'oro, dei
bindellaj. Attraverso alle colonne dello splendido edificio che Pio
IV fece murare con disegno del Seregno per le adunanze de'
giureconsulti, stando in piazza si vedeva al vivo quella scena che ci
si offre nelle cene di Paolo Veronese; chè le mense erano
state disposte sotto ai portici stessi, per quanto erano lunghi. Il
lusso dell'architettura, le colonne doriche binate che tagliavan la
scena ad intervalli; la luce delle lumiere che pendevan dalla vôlta,
la fiamma dei doppieri che stavan sulla mensa; quei cinquanta o
sessanta parrucconi bianchi, que' colori delle giubbe d'ogni
generazione, il fumo delle vivande che involgeva quelle teste, tutte
in agitato movimento, la luce in tremolìo che sbizzarriva per
mille accidenti fuggitivi e tramescolava tutte quelle tinte vivaci e
forti, tra cui dominava segnatamente il rosso fiamma, il verde pomo e
pistacchio, il fiordaliso, il croco, ecc. chè la
giovialità del secolo pareva quasi cercare la sua espressione
anche nel colore de' panni tutto questo miscuglio di cose
produceva in vero un effetto de' più bizzarri e pittoreschi.
Al
basso poi, intorno ai portici del Pretorio, oggi Archivio generale,
erano apprestate quattro lunghe mense; verso il lato che guardava il
Collegio dei giureconsulti stava seduta a tavola in gran numero
l'Università dei Libraj e Stampatori; al lato che prospetta
l'ingresso all'Archivio v'era la mensa dell'Università dei
mercanti d'oro e chincaglie, ecc.; al lato verso la loggia
degli Osii, la numerosa Università degli orefici; a
quello guardante lo sbocco nella contrada dei Profumieri,
l'Università dei mercanti di cordaria e canevazzi, ecc.
Il
palazzo dell'Archivio aveva smarrita l'unità della primitiva
architettura che fu convenuto di chiamar longobarda; il tempo e,
peggio del tempo, gli uomini lo avevano già reso informe per
cattivi riattamenti, per aggiunte importune, per la preoccupazione di
servire al comodo passeggiero senza rispetto di sorta alla forma
decorosa; pure, con tutto questo, nella sua apparenza di un edificio
che aspetta di essere compiutamente ristaurato, presentava ancora
alcune parti solenni della vetusta architettura, e segnatamente i
finestroni sopra i portici. Per questa stessa mescolanza poi di più
elementi, il talento pittorico ne avrebbe al certo potuto cavar
qualche bizzarro partito per una scena prospettica, quando si fosse
saputo fare una bella scelta del punto di vista.
Quei
sei finestroni aperti in alto nei lati più ampi dell'edificio
bastavano a ricordare e il tempo in cui esso era stato innalzato, e
tutte le idee concomitanti che quello svegliava: finestroni aperti a
grand'arco tondo, circoscrivente tre bassi e piccoli archetti
addentrati e sostenuti da due leggiere colonne. Tanto i pittori però,
che gli architetti di quel tempo, erano così lontani dal
vedere con buon occhio la conservazione di quelle, secondo loro,
barbariche finestre, quanto noi dal congratularci cogli architetti
vandalici che fecero poi scomparire quelle aperture, richiamanti
l'età splendida dei liberi Comuni ed apersero nel piano
aggiunto i giganteschi occhi di bue i quali comunicarono a tutto
l'edificio quella pesantezza goffa, onde tutta la piazza e i decorosi
e squisiti edificj di essa par come che ne rimangano oppressi. Nè
gli architetti nè i pittori di allora sapevano veder di buon
occhio nemmeno la loggia degli Osii, la quale per miracolo rimase
salva dal compasso devastatore degli architetti posteriori, i quali
portarono la confusione delle lingue in tutti i luoghi che ebbero a
ristaurare. E la loggia degli Osii era allora in tutta la sua
primitiva schiettezza, nè erano anco restate incastrate nel
muro aggiunto le colonne su cui posano gli archi acuti. Ma
dell'essere rimasto incolume questo squisitissimo pezzo
d'architettura nessuno si congratulava in quel tempo, perchè i
Bibienisti, che erano sul tramonto della loro gloria, erano ben
lontani dall'amare quello stile; e la nuova, diremo, setta dei
Pacisti, che spuntava allora a Roma ed in breve ebbe eco per
tutta Italia, prese una tale avversione a tutto ciò che non
era greco e romano, che guai se invece di pacifici architetti fossero
stati conquistatori armati: dell'Italia non sarebbe rimasta salva che
una metà. Ma nè la contessa Clelia nè la sua
figliuola Ada ebbero tempo di far queste considerazioni
architettoniche, e dopo aver risposto agli evviva dei Giureconsulti
che sorsero tutti in piedi a far libazioni gratulatorie al passaggio
della carrozza, e dopo che la fanciulla Ada colla sua gentile manina
mise il rotolo di prammatica nell'urna che stava sotto alla bandiera
portante il nome delle Università, e in quella che
stava ai piedi di un Sant'Eligio di legno dorato, il santo protettore
degli orefici; la carrozza svoltò in santa Margherita, e passò
innanzi alla chiesa di santa Maria alla Scala, e traendo per le Case
Rotte nella piazza san Fedele, venne a fermarsi davanti al palazzo
Imbonati che allora era tra i più splendidi della città,
e oggidì mal si ravvisa in quella casa che sta rimpetto a san
Fedele.
Innanzi
dunque alla porta di casa Imbonati, dove era distesa una lunga mensa
che occupava tutta la sua fronte, dovette necessariamente arrestarsi
la carrozza delle festeggiate. Su quella mensa v'eran tutti gli
sfoggi della ricchezza che converte in eleganza, diremo
intellettuale, anche le imbandigioni. Intorno ad essa erano seduti i
più segnalati fra gl'ingegni di Lombardia. L'antica accademia
dei Trasformati, sorta per la prima volta a Milano nel 1546, per
opera di dodici letterati insigni, fra cui il Majoragio e il
Gallerano, e in breve tempo venuta in gran fama in tutta Italia,
aveva dovuto per l'avversa condizione dei tempi ammutire e spegnersi,
nè per un secolo e mezzo non vi fu chi più tentasse a
rinnovellarla. Soltanto nel 1743 il conte Giuseppe Maria Imbonati, in
cui la squisitezza dell'ingegno era pari alla squisitezza dell'animo,
avendo pensato di farla sorgere a nuova vita, per raggiungere questo
intento si associò alcuni fra i più alti ingegni
milanesi, ed aprì nella propria casa le aule per i convegni
de' socj. Gli statuti dell'accademia antica avean dato ai
trattenimenti più ampio cerchio di quello che comunemente
allora era adottato; onde non solo s'era occupata di letteratura
amena, ma aveva dato opera anche alla filosofia morale ed alle altre
scienze.
La
nuova società inaugurata da Giuseppe Imbonati si propose
dunque i medesimi scopi, ed anzi ne allargò la sfera, e tosto
divenne celebre per gli uomini eminenti che furono ascritti ad essa.
A quella mensa sedevano Pietro Verri, Gian Rinaldo Carli, il Tanzi,
Cesare Beccaria, il professore Teodoro Villa, Paolo Frisi, Giuseppe
Parini, il conte Giorgio Giulini, il Quadrio, il Baretti, e vi
sarebbe seduto anche colui che dalla bontà prodigiosa del
cuore sembrò aver attinto l'ingegno, vogliam dire Gian Carlo
Passeroni, ma in quel tempo viveva a Colonia qual segretario di
monsignor Lucini, nunzio apostolico presso gli elettori e principi
pel circolo del Basso Reno; vi sedeva il poeta Balestrieri, il
successore del più grande Maggi: il Fogliazzi, il Guttierez,
ed altri molti. Nell'aula di questa società si può
dunque dire che furono primamente ventilate quelle questioni
organiche che si proposero il più razionale ristauro della
vita civile. Qui il Parini si consigliò spesse volte col
Passeroni sull'orditura del suo Giorno. Qui il Passeroni fece
lettura del suo poema il Cicerone, dove, dissimulato dalla
forma semplicissima fino a parer disordinata, e dall'ingenua
giocondità, e da quella bonomia di chi è e non vuol
parere, è sì prezioso tesoro di sapienza, di sana
morale e di coraggio. Nell'attrito della discussione qui si mostrò
l'acuta penetrazione di Pietro Verri, qui il più giovane
Beccaria, sollecitato dall'amico, imparò a liberare il
potentissimo ingegno dall'indolenza. Però ripensando a queste
cose, e al tanto bene che iniziarono alcune accademie in Italia, e,
segnatamente questa dei Trasformati a Milano, non par vero come siasi
potuto avvolgerle tutte quante in un fascio, e multarle di ridicolo
tutte; ma la storia delle pecore, e quel che fa la prima e l'altre
fanno si presenta sempre a ripetere qualche sbagliata
opinione pronunciata per la prima volta, e messa in corso non si sa
da chi e perchè.
Nel
mezzo dell'ampia mensa, fra vasi d'argento, di cristallo, di
porcellana, sorgeva un ramo di platano portante scritto su di un
largo nastro il motto virgiliano: Et steriles Platani malos
gessere valentes, che era l'impresa dell'accademia. Al fermarsi
della carrozza s'alzaron tutti, e il conte Giuseppe Imbonati insieme
coll'unico figlio, e col genero don Francesco Carcano e colla moglie
contessa Bicetti, anch'essa valorosa poetessa, si tolsero dalla
tavola e si recarono allo sportello della carrozza: i primi a fare i
loro speciali complimenti a donna Clelia, l'ultima a deporre un bacio
sulla fronte della fanciulla Ada. Nel tempo che succedeva questa
amorevole intervista, stettero in silenzio tutti i commensali
dell'Imbonati, intenti a guardare le festeggiate, commosse a tanta
benevola accoglienza. E mentre si faceva silenzio, in quel punto si
sentiva il vasto e vario rumore che l'aria vi portava da tutti i
punti della città. La scena era grandiosa e interessante tanto
per l'udito che per la vista. La maestosa mole del palazzo Marino era
illuminata dalla luna. In quel tempo non era ancora stata edificata,
a toglier la prospettiva del tempio di san Fedele, quella casa che
nel 1814 doveva poi essere l'orrida scena di un gran delitto
pubblico; però la piazza, se si eccettui il palazzo della
Bella Venezia, stato costrutto in seguito dall'architetto Zanoja,
offriva press'a poco l'aspetto d'oggidì: l'aspetto di una gran
sala a cielo scoperto, solenne ed elegante pei due cospicui edifici,
senza contare la facciata di casa Imbonati che presentava linee
grandiose e ricchezza di ornato, linee e ornato che scomparvero nel
ristauro che se ne fece molto tempo dopo.
Ma
la carrozza passò oltre, e giù per san Raffaello se ne
venne al Duomo, e giacchè il cocchiere aveva come a dire
l'itinerario e quasi la nota dei luoghi dove aveva a far le fermate,
deviò verso Camposanto dov'era un altro banchetto che meritava
una distinzione, quello della scuola degli scultori, la quale aveva
sede precisamente in quel luogo. A quella mensa insieme cogli
scultori si trovaron alcuni architetti. Tra i primi v'era il Franchi
e il Bussi, e con essi un fanciullo di nove in dieci anni, Angelo
Pizzi, che lavorava in qualità di garzone scarpellino per la
fabbrica del Duomo, e che avendo poi mostrato uno straordinario
ingegno per l'arte figurativa, invece di fermarsi a far gli spigoli
alla pietra di Viggiù e al granito, era destinato a competere
con Canova, e forse a superarlo nel ritrarre in apoteosi e in
dimensioni gigantesche la figura di Napoleone ottimo massimo. Tra gli
architetti poi sedevano il prospettico Bibiena sessagenario, e il
giovane Simone Cantoni, i quali rappresentavano in sè stessi
il tramonto dell'arte che sbizzarrisce e si perde per eccesso di
fantasia e di audacia, e il sorgere della scuola severa inaugurata a
Roma, a cui sono impacciati i voli per l'esclusiva adorazione delle
tradizioni italo greche. Vicino a questi sedeva un fanciullo,
anzi un abatino di dodici anni, che il Bibiena sessagenario aveva
carissimo per l'acutezza d'ingegno che mostrava, e per la non comune
attitudine che aveva alle arti del disegno. Quel fanciullo era
Giuseppe Zanoja d'Omegna.
Il
Bibiena, che aveva condotto alcune opere nel palazzo del conte V...,
si alzò e si mosse e s'appressò allo sportello per
inchinarsi alla contessa, la quale nel girar lo sguardo su tutti
quegli artisti là riuniti, non potè a meno di
chiedergli, maravigliando, per qual motivo fosse tra loro quel
piccolo abatino; e l'abatino, chiamato dal suo maestro, dovette
lasciar la tavola e farsi innanzi e rispondere alle domande della
contessa, senza saper togliere gli occhi dal volto della fanciulla.
Ed ora se il lettore sente le minacce della noja, costretto com'è
a passare in rivista tante cose, di cui probabilmente gli importa
poco o punto, lo consoleremo con un po' di pausa, e colla promessa di
un avvenire migliore.
VII
Se
alcuni dei nostri lettori, quando non sien tutti, il che non è
lontano dall'improbabile, si annojano a tener dietro alla
carrozza delle nostre due eroine, vuol dire che per questa volta si
trovano in una condizione peggiore dei due lacchè che la
precedevano colle torcie a vento, e che obbligati in quella notte a
camminare di passo, respiravano invece a tutto loro agio, vuotavano i
bicchieri di vino che loro venivano sporti dai banchettanti e si
divertivano, senza fatica, ritardando con quell'impreveduto riposo
l'inevitabile ernia dei vecchi anni. I quali due lacchè,
quando il cocchiere applicò leggermente alle loro gambe lo
scoppiettante spago della frusta (perchè era un vezzo dei
cocchieri, quando erano di buon umore e andavan d'accordo coi lacchè,
di far loro quel complimento, credendo così d'innalzarli fino
al grado dei cavalli), lasciarono quelle catapecchie del Camposanto,
dove a stento la carrozza si era internata, ed ajutando a mano i
cavalli ad uscirne, precedettero il carrozzone lungo i fianchi del
Duomo, ed entrarono trionfalmente su quella che anche allora, come
adesso, con un coraggio degno di miglior causa, si chiamava la piazza
del Duomo; ma foss'ella o non fosse una piazza, alla vista del
carrozzone di casa V..., sorse tutta come un sol uomo, mandando tali
evviva da intronarne l'aria e da minacciare, se non i pilastroni del
Duomo, almeno le impalcature che stavano a molte parti di esso, e
segnatamente alla guglia massima che era ancora in costruzione. Il
Coperchio de' Figini, illuminato a giorno, dentro e fuori, presentava
un ordine lungo di banchetti, ed eran quelli dei proprietarj delle
botteghe colle loro mogli, coi loro figliuoli, colle loro fantesche.
Il rumore delle voci e le liete strida infantili e le trombette
acutissime onde i papà eran stati indulgenti ai figliuoli,
soverchiavano tutti gli altri suoni, e rendendo inutili le orecchie,
la libertà di scelta non rimaneva che agli occhi, i quali, dai
banchetti, situati sotto il coperchio, giravano a veder una lunga
fila di tavole che dalla porta maggiore del tempio andava a finire
alla porta della casa che le sta dirimpetto, alle quali tavole,
divise in più scompartimenti, sedevano altre università
d'arti e mestieri: l'università dei ricamatori, dei tessitori,
dei mercanti di lana, dei sellari. Tutta sola poi, e quasi sdegnosa
di star colle altre, sedeva in quell'appendice della piazza, che era
incorniciata dal palazzo Ducale, colle proprie insegne e i proprj
titoli fatti con lumini in vetri colorati estesi nella lingua del
Lazio, l'Abbatia et Universitas Salsamentariorum et Postariorum
pinguedinis civitatis, ecc.
La
contessa Clelia che, tenuto conto di tutto, era piuttosto seria in
quella notte e meditabonda, sebbene avesse vicino a sè e
tenesse per mano quel caro angelo della sua Ada, sentì gli
assalti del buon umore a leggere quelle parole, e si diede a ridere
di cuore, riso che i rispettabili membri dell'abbazia interpretarono
come un segno della gratitudine e dell'affabilità di quella
egregia dama, e strepitarono per acclamarla e batterono palma a
palma; e misero poi coi loro baci riconoscenti in gravissimo pericolo
la bianca manina di donna Ada, quand'ella depose un rotolo di
zecchini sovra il bacile d'argento, presso cui posava l'enorme testa
di un cignale incoronato di salsiccia.
Liberata
la bianca mano di donna Ada dai baci micidiali dei Salsamentariorum,
la carrozza tirò innanzi; ma fu trattenuta dalle acclamazioni
speciali che s'innalzarono da una gran tavola numerosa di convivi, e
disposta in modo che girava come un semicerchio irregolare intorno
alla testa, diremo, dell'informe corpaccio dell'isola del Rebecchino,
nella parte che guarda la facciata del Duomo. Quei convivi erano gli
avventori del caffè del Greco, giovinotti liberi per la
maggior parte e senza famiglia, e che anch'essi, quantunque senza
statuti nè scritti nè stampati, e senza privilegj
d'abbazia e d'università, costituivano di fatto, in una
parola, se non di diritto, la più felice università dei
benestanti, dei nullafacenti e dei maledicenti, tra' quali abbiamo
alcuni nostri conoscenti vecchi. Avevano tutti una gran voglia di
veder dappresso tanto la contessa che la sua figliuola, perchè
la curiosità è il carattere dominante di coloro per cui
il problema più arduo della vita sta nel come si possono
passar senza noja le ventiquattr'ore del giorno astronomico.
Il
chiacchierone di nostra conoscenza, che ben potea essere il priore di
que' socj più o meno felici, s'incaricò, senz'essere
pregato, di parlare per tutti; e a nome di tutti espresse alla
contessa la gioja ond'erano compresi al vedere ridonata a Milano una
così celebre dama, da cui la città riceveva sì
gran lustro e decoro; e soggiunse che tanto più si
congratulava, in quanto la vedeva felice appresso alla sua giovinetta
e bellissima figliuola, la quale, non ancora uscente dalla
fanciullezza, aveva già patito la sventura; ma qui faceva
considerare che per ciò appunto ella aveva ragione d'esaltarsi
avendo vedute le prove manifeste del come la Provvidenza volle
pigliarsi di lei una cura speciale; il che rendeva poi ragionevole la
presunzione che fosse per essere chiamata a grandi destini chi aveva
avuto così solenni principj.
La
contessa, un po' annojata, un po' imbarazzata, un po' eccitata
all'ilarità da quell'orazione gratulatoria pro forma,
rispose quattro parole complimentose, e due ne aggiunse come seppe la
più confusa Ada, e il cocchiere frustò cavalli e
lacchè, e tirò innanzi. E appena la carrozza fu a una
distanza conveniente, tutti quanti liberarono una risata compressa a
stento, e:
Bravo, il nostro oratore, esclamarono; bene il nostro cicerone. Altro
che monsignor Bovio quando predica in Duomo!
Vi pare!...
E come!
E se non c'era io, faceva una bella figura la società del
caffè Demetrio tanto rinomata per il suo spirito, che, per dar
spaccio al suo giornale, Verri stesso ha stimato bene di dar ad
intendere che venga pensato e scritto qui.
Tu però che assordi gli amici e chiacchieri di tutto e fai lo
scalmanato su tutto, anche di mattina, quando nello stomaco non hai
che cioccolata... si può dire che eri in soggezione, se dopo
tanto Monterobbio hai pronunciato quel così goffo e mal unito
discorso. Oh come deve aver riso la contessa!
Riso? tu parli per invidia.
Sarà per invidia, ma son contento del mio umile posto, di non
aver fatto altro che ridere insieme colla contessa. Ma a proposito
della contessa, dove diavolo è andato a finire il tenore
Amorevoli. di cui non si sente a dir più parola? Questo
sarebbe per lui il momento di tornare a Milano.
Sì, per cogliere la buon'occasione, e andare in prigione
un'altra volta.
Perchè?
Perchè?... vedo che tutti quelli che andarono in prigione nel
1750 tornano in prigione nel 1766. Guardate: Lorenzo Bruni, il
violino del teatro Ducale, è ancora sotto custodia. Al
Galantino non bastò la ricchezza per tenere in rispetto il
barigello. Quasi quasi mi parrebbe che invece di sedici anni non
sieno passate che ventiquattr'ore. È tutto precisamente al
posto di prima; onde torno a ripetere che se il tenore capitasse a
Milano... non sarebbero staccati i cavalli dalla sua vettura, che i
fanti dell'eccellentissimo capitano andrebbero a fargli visita. Oh se
ci fosse l'arte di tirarlo qui... che bella cosa! tutto quello che
par finito scommetto che rincomincerebbe da capo. E per noi che non
abbiam nulla a fare sarebbe una risorsa. Tornare al prologo quando si
crede che manchi poco a calare il sipario!
E
chi parlava avrebbe continuato, ma le sue parole non essendo state
raccolte da alcuno, caddero naturalmente in terra, e i compagnoni,
rimessisi a sedere, passarono ad altro; onde noi non avremmo altro
obbligo di lasciarli in compagnia delle loro bottiglie e della loro
allegria, e dopo aver girato un altro sguardo alla piazza al Duomo in
costruzione, alla sua facciata di cui non sorgevano che le porte del
Pellegrini, stupende in sè stesse, ma che, per aver voluto
contraddire ad Orazio, riuscirono ad essere la Prima e sola
cagion d'ogni sventura; ai due piloni del Buzzi, quelli
del secondo progetto; alle traccie, diremo così, sbozzate
degli errori futuri; dopo aver data un'occhiata all'architettura
gotica e poderosa del palazzo ducale, un'occhiata tenera perchè
non la vedremo più, chè il Piermarini sarà
incaricato di scopare via la facciata, il nostro obbligo or sarebbe
di tener dietro alla contessa e alla contessina, ma un discorso
curioso ci trattiene ancora in piazza.
Che bella cosa (saltò su a dir uno, che non s'era mai mosso da
sedere, e tutto assorto nella contemplazione della scena che gli si
spiegava dinanzi, non s'era nemmen lasciato tentare dalla curiosità
di veder dappresso la contessa e la sua figliuola); che bella cosa,
disse, se invece di questa miseria di piazza, chi ha pensato a far
sorgere questa montagna lavorata, avesse anche provveduto a
distenderle intorno uno spazio conveniente, decorato di edifizi,
degni della città!... in una notte come questa imaginatevi che
magnifico effetto farebbe.
Quando il Duomo sarà finito, sta tranquillo, che chi verrà
dopo di noi penserà a far quello che non si poteva e non si
doveva fare tre secoli fa.
Perchè non si poteva?
Ma vuoi tu che si pensasse a fare la cornice prima di veder l'effetto
totale del quadro?
Può darsi che tu abbia ragione, ma una piazza non è una
cornice; e il popolo passeggia e si ferma e si trattiene in piazza
prima ancora di entrare in chiesa, sicchè l'opportunità
della piazza è contemporanea al tempio che vi deve
campeggiare. Dirò di più, che se si fosse pensato fin
d'allora a distendere la piazza per tutto lo spazio necessario a sì
gran mole, anche il Duomo vi avrebbe guadagnato, e non sarebbe venuto
in mente agli ingegneri del secolo passato, quando vennero a cessar
gli scalpori sui tre progetti del Castelli, del Richini e del Buzzi,
di impiccolire e immiserire il progetto dell'ultimo, respingendo
l'idea dei due giganteschi campanili ai fianchi della facciata. La
piazza regolare avrebbe mostrato che i due piloni laterali che
vediamo adesso, non adempiono alle leggi della proporzione con tutto
il resto del tempio. Che volete? la mia sarà un'idea stramba,
ma due anni fa, quando Paolo Frisi si oppose alla determinazione
degli ingegneri ed architetti del Duomo di innalzare la massima
guglia sul lucernario prima di compire le altre parti del tempio, io
ho detto: il padre Frisi, da quel grande uomo che è, ha
ragione, ma avrebbe più ragione ancora se dicesse: signor
capitolo del Duomo, signora fabbriceria, signori architetti e
ingegneri, non abbiate tanta fretta; aspettate a far la guglia;
aspettate a far la facciata; e, innanzi tutto sollecitate il pensiero
di distenderle innanzi una piazza. La prima operazione dev'esser
questa.
E dove si troverebbero i danari?
Dove? nelle saccocce dei cittadini, s'intende; son dieci, son dodici,
son quindici milioni? Ebbene; i decurioni aprono un prestito, e
giacchè sento che tanti e tanti temono sempre di non poter
impiegare il danaro con sufficiente sicurezza, qual ci può
essere garanzia più valida della città stessa? Ma di
ciò non mi voglio impacciare io. Molti sono i mezzi per erogar
danaro; e purchè ci sia la buona volontà e il buon
accordo e la fermezza, la questione del danaro... a voi parrà
ch'io dica una sciocchezza... ma la questione del danaro è
ancora l'ultima. Ed ecco là che sorge gigante la prova
perpetua di quel che dico. Mancavano i danari due anni fa, quando
tutti gli architetti strepitarono a favore della guglia e ottennero
il loro intento, e il padre Frisi alla testa di pochi altri voleva la
facciata? No, ma mancava il buon accordo. Mancavano i danari nel
1656, quando sorsero tante dispute sui tre disegni presentati? anche
allora era il buon accordo che mancava, e segnatamente nella schiera
degli uomini dell'arte; perchè, come può darsi che i
migliori architetti, almeno i più famosi, e tra gli altri
anche Lorenzo Bernini, lodassero quella ridicola bomboniera
dell'architetto Castelli; e tutti poi si gettassero addosso
inviperiti al progetto del Buzzi? Or che n'è derivato? Gli
uomini della scienza e dell'arte protestarono. Ma l'occhio che vuol
la sua parte fece sì che i fabbricieri e il capitolo e i
decurioni stessero per il Buzzi, e adottassero il suo progetto. Ma
tanto per venire a patti coi pregiudizj, lo corressero in varie
parti, e più e peggio dove c'era il pensiero più bello
e più splendido. Ed ora ecco lì... due piloni meschini
che fanno sperar pochissimo dell'avvenire di questa facciata, la
quale allora fu continuata di mala voglia perchè la
fabbriceria non era soddisfatta, e rallentò le operazioni
colla speranza forse che il tempo correggesse gli spropositi. Ma ci
vuol altro...
Tu dici benissimo, osservava un altro, e giacchè si parlava di
piazza, se io fossi quello che comanda e che paga... il mio primo
pensiero sarebbe rivolto alla piazza appunto, e farei sospendere
tutti gli altri lavori. Un gran portico tutt'all'ingiro, e che
girasse la più grande area possibile.
Allora, mio caro, comincerebbe subito l'opposizione, perchè se
anch'io fossi quello che comanda e che paga, farei di tutto perchè
non andasse il tuo progetto.
Quegli
che, dopo aver appoggiate le parole del commensale, che, a quanto
pare, rubava all'ozio quotidiano qualche ora a pigliarsela calda pei
progetti architettonici della città di Milano, si sentì,
a titolo di ringraziamento, da lui così crudamente
contraddetto:
Ma perchè, disse, tu saresti un mio oppositore?
Perchè piuttosto che vedere un grande spazio tutto circondato
da portici uniformi con edifizj tutti d'uno stile e tutti d'una
medesima altezza, mi accontento della piazza che vedo adesso.
Sarà bene che tu abbia ragione... ma se non io, c'è la
piazza di San Marco di Venezia che ti dà torto da quasi tre
secoli, e c'è la piazza di San Pietro a Roma che te lo dà
da cento anni.
Domando mille perdoni, ma la piazza di San Marco è sempre là
invece e a darmi ragione; in quanto poi a quella di S. Pietro, son
ben contento ch'essa mi dia torto. Essa è l'opera più
assurda del Bernini; basti il dire che, passeggiando sotto i portici,
ad ogni momento fugge di vista il tempio per cui la piazza fu fatta.
Lascia da parte la forma ellittica, ed è subito tolta
l'assurdità.
Sì... in quanto alla vista del tempio; ma resterebbe però
sempre, invece d'una piazza, un gran cortile quadrato, che può
parere anche un cimitero.
Torno a rammentarti la piazza di San Marco.
Bisogna distinguere, caro mio.
Distinguiamo pure. Non ho niente in contrario.
Dunque è da considerare che, quando si dice piazza di San
Marco, l'imaginazione corre subito al suo quadro totale; vale a dire
all'unione della piazza colla piazzetta, la quale, siamo sinceri, è
quella poi che fa le spese di tutto.
Come fa le spese di tutto?
Sì, perchè se non ci fosse la piazzetta, ti regalo la
piazza, che per me è davvero un cortile, grandioso, vasto,
splendido, ornatissimo, ma sempre un cortile, e guai, dico, se non ci
fosse la piazzetta a darci vita.
Ma che cosa ci vuole per te, affinchè una piazza debba essere
una piazza?
Prima di tutto che non sia chiusa, vale a dire, che manifestamente
presenti gli sfogatoj e gli sbocchi alle altre parti della città;
in secondo luogo che offra la maggior varietà possibile tanto
negli stili, quanto nelle elevazioni, quanto nell'indole degli
edifizj ond'è determinata.
La confusione di Babele, in una parola; va benissimo.
Mi pare, caro mio, che tu prenda la piega di spropositare.
Bada che ho viaggiato, e ho buona memoria, e ho tutte le piazze
d'Italia in testa e ho sempre avuto una certa inclinazione per
l'architettura.
E nemmeno io posso dire d'esser sempre rimasto a Milano, e se ti cito
San Pietro e San Marco, vuol dire che li ho visti; in quanto poi al
resto, se tu sei amico dell'architettura, me ne congratulo tanto; ma
anch'io schicchero, così per passare questi giorni lunghi,
qualche quadruccio di prospettiva sotto la direzione del Bibiena, che
ha ingegno da vendere e fantasia da regalare al tuo Cantoni. Tutta la
sua disgrazia sta che la moda or pare che abbia preso di mira il suo
genere; e la peggior disdetta è che la moda non si fermi alle
parrucche, ai topè, ai puff, ma pretenda di sedere in cattedra
a dar le leggi dell'arte.
Ma a che cosa vuoi riuscire con tutte queste?...
A ciò, che non basta nè l'aver viaggiato nè
l'aver studiato, ma bisogna avere quel che si chiama buon occhio,
buon gusto e criterio.
E tu sei così riccamente provveduto di queste tre cose, che
per gli altri non è rimasto indietro nulla. Anche questo vuoi
dire?
Non pretendo tanto; ma mi viene bensì qualche assalto di
superbia quando mi trovo in faccia ad uno il quale mi dice che la
varietà ha per conseguenza la confusione; e che ignora quel
gran principio dell'arte vera, e quel segreto con cui il genio, e
senza incomodare il genio, anche l'ingegno riesce a colpire di
meraviglia gli osservatori; ed è quello appunto di saper far
sì che l'unità trionfi nella varietà,
questo è il problema da sciogliere.
Ma spiegati meglio.
Mi spiego subito... e mi spiego pigliando per punto di appoggio
precisamente la piazzetta di San Marco. Perchè tutti i
forestieri d'ogni paese, d'ogni generazione, d'ogni levatura, sono
costretti a confessare che in quell'aggregato d'edifizj è il
trionfo dell'architettura, e che forse in nessuna parte del mondo può
trovarsi una scena più maravigliosa di quella che si presenta
a chi approda sulla scalea del molo della piazzetta di san Marco?
perchè appunto trova l'unità nella varietà. A
destra il palazzo Ducale del Calendario; vicino ad esso le prigioni
del Da Ponte, dirimpetto l'edificio della libreria del Sansovino;
vicino a questo il palazzo degli ufficj. E se dal primo, dirò
così, sipario, si spinge l'occhio oltre le colonne di Todero e
del Leone, ecco la basilica di San Marco a dritta colle sue cupole
bisantine, ecco la torre dell'orologio di fronte e un brano delle
Procuratie nuove de' Lombardi. Nientemeno che sette edifizj, sette
stili, sette varie altezze, e una schiera d'architetti di tempi
diversi e di diverse scuole che vi portarono il vario contributo
della loro ricca fantasia. Ora, se invece di tutte queste cose non si
vedesse che un portico lungo ed ampio a tiro d'occhio, lo spettatore
sarebbe già addormentato prima di avere il tempo d'andar in
entusiasmo.
Lo credi tu?
Lo credo perchè ciò mi accadde precisamente a Roma,
stando sulla piazza di San Pietro.
Ora sentiamo che cosa faresti tu se la cassa pubblica avesse il
ghiribizzo di vuotarsi tutta per il piacere di nominarti architetto
della gran piazza del Duomo; perchè bada che questa piazza,
per esser degna del tempio, bisogna che giri un'area immensa, e che
però dovrebbe andar giù tutto il Coperchio de' Figini,
tutta quest'isola del Rebecchino; e si dovrebbe lavorar di martello
fino alla Dogana, demolire il corpo delle case che dividono la piazza
de' Mercanti da quella del Duomo.
Se questo fosse, tanto andrebbe per la piazza a portici uniformi,
come per la piazza a varietà d'edifici. Ma non è così,
caro mio, ed è precisamente coll'idea del variare stili e
altezze e indole d'edifici, e col gran segreto dei giuochi
prospettici che non è necessaria tant'area; perchè
coll'artistica illusione della varietà, l'occhio crede sempre
di girare uno spazio infinitamente maggiore del vero. Che se fosse
indispensabile quello che tu dici, il miglior architetto della piazza
del Duomo sarebbe il parco d'artiglieria del re di Prussia. Ma stando
a quel che io dico e che diceva appunto il Bibiena, fa in modo di
rendere regolare la piazza, fa che la facciata del Duomo si metta
d'accordo col suo asse, e passeggiando sotto agli archi dei vari
edificj si vedano i fianchi del tempio. Fa scomparire quest'isolotto
e innalza da questa parte due corpi di diversa architettura: uno
greco romano puro, per esempio, sormontato da due statue che fanno
sempre effetto con poco; l'altro più basso, più gentile
con dei portici leggieri bramanteschi; lega i due edificj con un
terrazzo, perchè così di sopra e di sotto appaja la
fuga delle altre contrade, con che si ottiene d'ingrandir la piazza
all'occhio; innalza dirimpetto al Duomo qualche edificio con quello
stile che più ti garba, ma il di cui organismo sia tale che
sembri come a traforo con fughe d'archi e di colonne nella base, con
opportuni interrompimenti nelle elevazioni onde appajano così
dalla lontana, e quantunque per isghembo, i fastigj dell'archivio e
della torre dell'orologio della piazza de' Mercanti; allora la piazza
de' Mercanti, senza accorgersi, verrà in ajuto di questa;
demolito poi il Coperchio de' Figini, fa in modo che in quel lato
sorga qualche palazzo a servizio di Pubblici uffizj, la di cui
architettura, per esempio, somigli..., sei stato a Mantova?
Sì.
Bene, al palazzo Ducale di Mantova. Per introdurre poi de'
cambiamenti, fa che il palazzo sia come diviso in due ale, e che la
parte di mezzo sia una galleria ad ampi ed alti finestroni, i quali
rendano come trasparente l'edificio, chè in tal maniera a suo
tempo, anche la luna potrà venire in soccorso
dell'architettura. I fianchi del Duomo finalmente sieno illustrati
qui dal palazzo Ducale come sta, sebbene invochi un compiuto
ristauro; là, da qualche altro palazzo che abbia una fronte
molto ornata. A questo modo abbiam anche il vantaggio, di poter fare
tutto a poco a poco, e senza che si stanchi il pubblico
nell'aspettazione di veder compiuto un sistema unico di costruzione,
che per la sua natura può stancar la pazienza di più
generazioni.
A dire la verità, non afferro bene quest'ultimo tuo pensiero.
Voglio dire che, se venisse adottato un progetto sontuoso di una
piazza, per esempio, come tu hai detto, tutta a portici uniformi e ad
elevazioni eguali, subordinate ad un'idea sola architettonica, finchè
l'opera tutta quanta non è condotta a compimento, le
generazioni che ne vedono il principio e la lenta continuazione
avranno sempre innanzi agli occhi qualche cosa che li disgusta. Col
mio pensiero invece dei molteplici ordini d'edificj, quello con cui
si dà avvio alla piazza può essere finito in breve
tempo; e presentando un tutto armonico e compiuto in sè
stesso, soddisfa appieno quelli che hanno avuto il merito
d'innalzarlo, ed è come un compenso dell'opera loro. Ma questo
è nulla; c'è un altro vantaggio ben maggiore: c'è
che sulla piazza, potendosi innalzare più opere di varia
architettura e di varia sontuosità, qualche ricco privato
potrà sentir la tentazione di sfoggiarvi la sua ricchezza e il
suo buon gusto; e l'esempio provocar l'imitazione; e la cassa
cittadina venir così in gran parte risparmiata per la
spontanea concorrenza dell'oro privato; con che si otterrebber nel
tempo stesso due intenti: l'uno di render la piazza più
magnifica mettendo in lizza le gare; l'altro di ridurla a compimento
nel più breve tempo possibile. Or che te ne pare?
Che bisogna aver la fantasia molto riscaldata per poter fare di
questi conti.
Ma
lasciando che questi due s'arrabattino tra di loro, noi raggiungeremo
il carrozzone di casa V..., senza entrar arbitri in codesta
questione, solo dicendo a coloro i quali fossero nemici delle piazze
aperte ed a varietà d'edifizj, che possono consolarsi pensando
che il prolisso interlocutore in quella notte dei banchetti era
esaltato dai vapori della cena; quelli poi che fossero del suo parere
si rallegrino pensando che le lucide cene sono eccitatrici mirabili
di fantasia, senza della quale non si fa mai nulla di grande nelle
opere dell'architettura.
VIII
Spaventati
dallo spavento onde possono essere compresi i nostri lettori, i
benevoli, intendiamoci bene, pel dubbio che questa nostra corsa
notturna attraverso alle contrade dì Milano abbia a
prolungarsi oltre i limiti della discrezione, abbiamo supplicato il
cocchiere di casa V... a sollecitare al trotto i cavalli e a
costringere al corso anche i due lacchè, sebbene dondolanti
pel troppo vino bevuto. Non occorre dunque che ci arrestiamo in
piazza Fontana dove banchettano l'illustre badia dei Bergamini e
dei Caseri, e la più celebre dei Facchini, tre
caste poderose, che costituivano l'aristocrazia della forza
muscolare, e che, guardate anche di fuga, pur bastavano per
distruggere tutte le opinioni di un filosofo persuaso della graduale
decadenza della razza umana. Nè occorre che la carrozza si
trattenga nel classico Verzajo, dove in quella notte imperversarono
più dell'usato tutte le ricchezze del vocabolario milanese;
ma, dopo aver fatto una visita in Chiaravalle, alla tavola dove
sedevano i soci dell'accademia dei Fenicj, di cui il segretario
perpetuo era l'abate Andrea Oltolina, erudito, bibliografo, poeta
vernacolo e pedagogo, proceda oltre verso porta Romana, perchè
là bisognerà pur troppo che si trattenga innanzi a
qualche banchetto patrizio. E casa Annoni ecco che si mostra per la
prima volta alle due donne che si sentono acclamate avanti quasi di
essere vedute, e a qualche distanza dirimpetto a quella, ecco la casa
dei Mellerio, il fermiere milionario che manda fuoco e fiamme a
soverchiar lo splendore di casa Annoni. Nell'umile prospetto della
qual casa (chè il Cantoni non era ancora stato chiamato a
rifabbricarla), contrastante colla pompa sibaritica che sfolgorava
alla porta, appariva come in evidente compendio la storia perpetua
della ruota della fortuna. E innanzi ad essa, chiamate ad alta voce
dal ricco e pomposo padrone, circondato da numerosa folla di
dipendenti, dai tosatori di seconda mano e dalle ausiliarie
sanguisughe del pubblico, dovettero pur fermarsi le due donne, dopo
essere state un momento prima baciate e ribaciate dalla contessa
Annoni, vecchia dama, tutta compresa della propria posizione, e quasi
fatta più rispettosa verso se stessa per la considerazione
della grande nobiltà del casato in cui la Provvidenza l'aveva
fatta nascere. Adempiuto a questi convenevoli, la carrozza procedette
con trotto normale fin oltre il ponte, non arrestandosi che innanzi
al palazzo Pertusati, ovvero sia all'albergo delle Muse, come esso
veniva chiamato per antonomasia. Coloro che sedevano a quel banchetto
erano tutti pastori e pastorelle d'Arcadia, della così detta
colonia milanese, introdotta fra noi dal padre Giannantonio
Mezzabarba fin dal 1704. A questa colonia il conte Carlo Pertusati,
stato presidente del Senato e gran cancelliere, aveva dato per sede
delle adunanze il proprio palazzo. Ad imitazione degli orti Rucellaj
vi aveva poi fatto disporre un giardino, il più squisito nel
Ducato per piante rare ed esotiche, dove gli Arcadi si raccoglievano
in estate a recitarvi i loro componimenti, e dove don Luca Pertusati,
ad alternare la scienza colla poesia, aveva radunati i più
valenti cultori di botanica per mettere in comune i loro studj. Ma
ciò che costituiva la rinomanza di quel palazzo era la copiosa
biblioteca che il conte Carlo, nel tempo ch'era stato reggente del
consiglio d'Italia, aveva arricchito di opere onnigene e delle più
riputate edizioni. Chi avesse detto al conte che quella biblioteca
era destinata a diventar la base di quella che fu in seguito la
biblioteca di Brera, per lasciar poi che si sperdesse nell'obblio il
nome del suo primo padre!
Ricevute
le più calde congratulazioni dal conte Pertusati, conservatore
di quella colonia, e che, nelle solenni adunanze, dimentico quasi
della sua qualità di questore del Senato e di prefetto della
compagnia di San Giovanni alle Case Rotte, non si gloriava che di
essere un pastore; accolti i complimenti degli altri arcadi, e
sopportata con aspetto ridente la tempesta dei baci di quella dozzina
di pastorelle che sedevano al banchetto; la contessa e la contessina
colle guancie fatte frolle dalle impronte di tanta cordialità,
si partirono, ingiungendo la contessa al cocchiere di tirar via
dritto pel corso senza tornare indietro, di pigliar la via de'
bastioni di porta Romana, e per di là passare a porta
Orientale; chè sentiva, tanto essa che la figliuola, un gran
bisogno di respirare, salvandosi per un momento dal pubblico
entusiasmo. Come furono sulle mura, i loro occhi riposarono da tanta
luce, e gli orecchi da sì prolungato frastuono. Bene dal
bastione, girando lo sguardo sulla città sottoposta, si
vedevano gli sparsi splendori di tante e tante cene, ma resi
sopportabili agli occhi stanchi dalla vaporosità interposta; e
medesimamente il vario e vasto concento in cui si confondevano tante
migliaja di voci e di grida saliva fin là, ma fatto più
fioco dalle distanze.
I
cavalli intanto, annojatissimi anch'essi dell'aver dovuto andare a
passo per tanto tempo, o tutt'al più ad un mezzo trottino, si
slanciarono a carriera appena il cocchiere ebbe loro liberato i
freni; e i due lacchè agitando le torcie a vento si spinsero
anch'essi al corso, con una velocità a cui erano obbligati
rare volte ma che pur bastava per assicurare e l'asma e l'ernia al
loro deplorabile avvenire.
Per
un raccoglitore d'impressioni, quel carrozzone sfarzoso che con
fragor cupo rotolava sul terreno nudo e brullo e ineguale e gibboso
de' bastioni, allora incolti e senza fronda d'albero; e quei due
lacchè, che, colla zazzera a riccioni svolazzanti (perchè
i lacchè così come i cocchieri portavan quasi sempre
una foggia di pettinatura già respinta dalla moda, per un
capriccio della moda stessa), correnti a rompicollo e colle torcie a
larghe fiamme lascianti indietro odor di resina e faville, parevano,
veduti a qualche distanza, quasi due furie anguicrinite dell'inferno
pagano, mal dissimulate dalla livrea del secolo XVIII; e il fondo
bizzarro su cui staccavano queste figure volanti, fondo luminoso e
romoroso da una parte, smorto e silente verso la vasta campagna; e su
nel cielo e luna e stelle e pace infinita, e ai lembi estremi
dell'orizzonte i primi annuncj della luce crepuscolare, che
aggiungeva una tinta nuova ai lumi artificiali che apparivano da
tutti i punti della città, come onde chiazzate di un lago;
tutta questa scena dunque, diciamo, doveva necessariamente fare
effetto in un poetico raccoglitore d'impressioni. Ma la carrozza, ad
onta del terreno che si affondava spesso, percorse in breve tutto il
bastione di porta Romana, e giunse a quello di porta Tosa, e trasvolò
innanzi alla cupola della Passione, e in breve fu alla porta
Orientale. Arrivata dove il bastione inclina alla città, uno
splendore straordinario che usciva dalle piante di un giardino e una
confusa armonia di voci e canti e suoni colpirono l'attenzione della
contessa, che domandò al cocchiere:
Or che è questo?
È il signor marchese Alberico F... insieme colla solita
brigata, rispose il cocchiere.
Allora fermati qui, gli disse la contessa nell'udire quel nome.
I
cavalli si fermarono, trattenuti da una forte imbrigliata. I lacchè
sostarono anch'essi, ansando come due mantici di maniscalco quando
soffiano nella massima furia del lavoro notturno, ed asciugandosi il
sudore che pioveva di sotto alla prolissa cesarie.
Non si può entrare in città, scansando di passare per
di qui? chiese poi la contessa.
E
il cocchiere che aveva compreso dove andavano a finir quelle parole:
Non pensi a nulla, signora contessa, chè io, anche passando in
mezzo a costoro, tirerò via di buon trotto, e la carrozza non
sarà trattenuta da nessuno.
Bene, ma aspetta un momento.
E
intanto s'udiva la musica d'un minuetto; ed era quella precisamente
che Mozart trasportò molti anni dopo nel suo Don Giovanni
nella scena della festa; perchè, come abbiamo già fatto
osservare, il grande Mozart prendeva spesso in piazza i motivi già
fatti popolari, affinchè trionfasse la verità in tutta
la schiettezza ne' suoi drammi sublimi.
Ma
lasciando Mozart e il minuetto, già diffuso dappertutto prima
ch'egli lo rendesse celebre e lo perpetuasse nel Don Giovanni,
per qual motivo la contessa s'era come sgomentata al nome del
marchese Alberico F...? Cari lettori, non fu per un motivo solo, ma
per due; il primo era ovvio, vale a dire che il marchese Alberico era
in voce del più sfrenato libertino della città, e
sapevasi che i suoi pranzi, le sue cene, le sue feste somigliavano
troppo ai lupercali di Roma, e spesso vi danzavano a tondo le alunne
di Tersicore involate alle scene dei principali teatri d'Italia.
Donna Clelia non voleva dunque che la sua Ada neppur dalla lontana
avesse a intravedere quelle baraonde; la seconda cagione poi non
avrebbe saputo spiegarla a sè medesima nemmeno la contessa; ma
all'annuncio ed al cospetto di cose e di persone che neppure si può
dir di conoscere, coloro che hanno sentimento squisito provano
talvolta delle ripugnanze invincibili, alle quali, secondo il nostro
debole parere, si deve dar sempre ascolto anche alla cieca. Sono
esse, quasi potrebbe dirsi, le arcane ammonizioni che il destino, nei
suoi momenti pietosi, dà come di sfuggita a coloro che, contro
suo genio, è incaricato d'insidiare e d'affliggere.
Ma
intanto che la contessa, tenendosi stretta la sua Ada, tende
l'orecchio a quei suoni, perplessa di far retrocedere o di mandar
innanzi la carrozza, noi la precederemo, per soddisfare anche alla
curiosità del lettore, se mai ne avesse alcuna, e
Col
favor della Musa o del demonio
Che
il crin ne acciuffa e là ne scaraventa,
Ci
cacceremo in mezzo al pandemonio.
IX
Don
Alberico F..., il quale è pur quegli che, a perfetta
vicenda col finanziere Baroggi, dee dividere il seggio di
protagonista in questo lungo dramma; fino a questo punto lasciò
che tutti gli altri personaggi facessero liberamente e con tutto agio
le loro evoluzioni sul davanti del proscenio, senza ch'egli, nella
sua indolenza, siasi mai mostrato un istante in prima fila. Soltanto
ha permesso che lo nominassimo spesso e senza lode; e una volta sola,
quando non aveva ancora vent'anni, è comparso in iscena per
pochi minuti, a contemplare nello specchio la sua bella faccia con
gran compiacenza, tutto preoccupato ad aggiustarsi un neo,
crediamo alla destra pozzetta; e tutto ciò nel punto solenne
che all'illustrissimo suo padre il conte F... stavano per suonare i
tocchi dell'agonia a Santa Maria Podone.
E
riepilogando il già detto ed aggiungendo quello che non fu
ancor detto; quando don Alberico marchese e conte F... rimase erede,
a vent'anni, delle grandi ricchezze del padre e delle maggiori dello
zio marchese, liberato dalle stringhe paterne e dalle più
tenaci dei maggiordomi che s'eran proposti di gratificarsi il conte
padrone, fin che fu vivo, coll'imitarlo; fu repentina e compiuta
l'eruzione di tutti suoi istinti, e di tutte le sue, non le
chiameremo nè facoltà nè doti, ma semplicemente
tendenze; i quali istinti e le quali tendenze, un po' native un po'
acquisite, parve che si fossero accumulate in lui precisamente
com'era avvenuto della eredità del padre e dello zio. Il padre
era stato il più indomabile egoista del suo tempo; riservato,
pacato, avaro, non erasi occupato che ad ammontare ricchezze; al
quale intento, con tutte le arti e con astuzia squisita, ogni
qualvolta si presentò il pericolo, s'era adoperato affinchè
il fratello non riuscisse a sperdere altrove i suoi grandi averi con
qualche matrimonio. Questo egoismo orgoglioso, inteso soltanto alla
prosperità del casato, aveva fatto le spese di tutti gli altri
suoi vizj. I preti non avevano mai potuto rimproverargli un peccato:
le Lidie astute e le crescenti Cloe non arrivarono mai ad
involargli uno zecchino. Il più ricco fratello, all'opposto,
in bagordi, in cene, in giuoco, in donne, aveva profuso largamente il
suo; e se, sparnazzando a dritta e a sinistra le copiose entrate, non
era mai riuscito ad intaccare il capitale, era perchè il
fratello potè sempre accorrere a prevenire i disastri, con una
prontezza e una importunità da provocar la collera e gli
strapazzi e le ingiurie violenti del marchese, ingiurie ch'ei
sopportava senza turbarsi, non fedele che all'ultimo intento. Di
questi due fratelli ognuno dunque può vedere che la pasta del
maggiore era stata di gran lunga meno trista di quella del cadetto.
La prodigalità talvolta avrebbe condotto il marchese a qualche
beneficio; e la sensualità talora lo avrebbe messo al tu per
tu di provare qualche meno impuro sentimento, qualche affetto; e
quantunque fosse assiduamente passato di amori in amori, come fossero
larve d'una lanterna magica, con una incostanza sempre sazia di tutto
e sempre sitibonda, pure era stato spesso al punto di fermarsi in una
affezione durevole, e più specialmente dopo che era caduta
nelle sue insidie l'infelice che fu poi la madre del Baroggi. Se il
conte cadetto non fosse sempre accorso a recitar le parti di Creonte
quando vedeva il vizio disposto a capitolare, c'è da
scommettere cento contro uno che la povera Baroggi sarebbe riuscita a
diventar la moglie del marchese. Ma abbandoniamo i due fratelli
morti; è dell'erede vivo che dobbiamo occuparci. Le qualità
del padre e dello zio confluirono dunque tutte in lui, cospirando a
farne un originale stranissimo; poichè egli era avaro e
fastoso, prodigo e taccagno, continuamente raggirabile dalle proterve
beltà, ma pur sempre presente a sè stesso quando alcuna
minacciava di voler durar troppo in carica; splendido mecenate di
cantanti e di ballerine ed anche di artisti, e sovventore spontaneo
delle loro povere famiglie; e pur nel tempo stesso egoista e
spietato, chè il beneficio era apparente, e non si risolveva
all'ultima che in una paga anticipata alle insidie future. Avaro e
prodigo, come dicemmo, ad onta della contraddizione per soddisfare ad
un capriccio fuggitivo avrebbe gettato un tesoro colla spensieratezza
di un fanciullo; ma era poi capace di condurre i creditori di camera
in sala per mesi e mesi onde usufruttare la loro bisognosa
impazienza, e angariarli in mille modi coll'avidità
insaziabile di un usurajo.
Dopo
tutto ciò, egli aveva qualche non vulgare qualità;
qualità, state bene attenti, non virtù; conosciamo
benissimo, il valore delle parole, e le misuriamo, non volendo che i
farisei fiscalizzino, per trovarci lodatori di quella che
vituperiamo; e codesta qualità era un'abitudine di eleganza
che aveva recata nella sua vita orientalmente voluttuosa. In Milano
possedeva due palazzi, quello del padre e quello dello zio. La casa
paterna era stata da lui abbandonata. Invece aveva arricchito il
palazzo dello zio di statue e quadri e vi dimorava nell'inverno. Per
la stagione estiva s'era poi fatto fabbricare appositamente un
palazzino sibaritico tra platani e tigli, in una parte di quell'area
che fu poi tutta occupata appresso dai pubblici giardini. I
fratelli Galliari e il Bibiena vi dipinsero prospettive; del Tiepolo
juniore di Venezia vi erano raccolti quadretti di genere,
rappresentanti scene di una giocondità tutt'altro che
irreprensibile. Aveva fatto acquisto d'una Galatea del Maratta, della
toilette di Venere del Lazzarini, di una bellissima Leda col cigno
dello Zuccari, e di altre tele molte d'antichi e contemporanei. Aveva
commesso al giovinetto Biondi, scolare del vecchio Porta, una copia
del ritratto della Fornarina di Raffaello, un'altra della Gioconda di
Leonardo. Amava dunque l'arte e se ne circondava, quantunque la
pagasse scarso e lento. E come amava l'arte, così prediligeva
la beltà femminile, nella stima della quale poteva sostenere
la discussione con un intero corpo d'artisti accademici; e la
giudicava anche di sotto alle dubbie apparenze col colpo d'occhio
d'un trafficante di schiave, commissionario d'harem; o come un
mercante di puledre, estimatore infallibile d'incollature e terga e
fianchi e popliti e garetti. Frequentatore assiduo del palco scenico,
quantunque fosse intendentissimo di musica e della grande arte delle
capriole, pure non era già nè il trillo più
agile, nè la scala più granita, nè la nota
tenuta più limpida, nè il salto più imperterrito
che lo esaltavano; bensì era capace di attaccarsi con
sembianza d'amore (aprendo però sempre la borsa, per la gran
pratica che aveva nel mondo) anche alla stonatrice più
perversa, purchè avesse il collo di Diana; di scegliere anche
l'ultima danzatrice in linea d'arte, purchè fosse la prima
nella linea del corpo.
In
codesta sfera di erudizione nessuno lo vinceva; qui era tutta la
forza del suo genio.
Circondato
da' suoi colleghi di stravizzo, il signore del luogo, tra le alunne
di Citerea e le bottiglie di Sciampagna e le carte micidiali, vi
passava in trista giocondità, non i giorni ma le notti quando
trovavasi a Milano. Diciamo le notti perchè di giorno tutto
taceva colà, e nelle ore in cui tutta la città era
operosa, quel luogo poteva meritar l'appellativo di Casa del
sonno, quantunque il popolo per antonomasia continuasse a
chiamarla argutamente La casa del diavolo.
Abbiamo
detto che vi passava le notti quand'egli trovavasi a Milano, perchè
spesso trovavasi in fazione, aggiunto al presidio militare di qualche
città del Ducato, nella sua qualità di capitano del
reggimento Clerici. Chè egli aveva a danaro comperato quel
grado nella milizia, essendo vaghissimo di sfoggiar le insegne
militari come quelle che più che mai lo rendevano accetto alle
donne. E non sempre eran le venali alunne di Tersicore e di Pafo
quelle di cui si compiaceva; ma faceva la corte anche alle dame, e
spesso accompagnava al teatro la pudica d'altrui sposa a lui cara,
che capricciosamente cangiava quasi ad ogni cangiar di luna: e
l'assisa e le spallette e gli speroni facevano l'effetto del
guizzasole negli occhi ingenui anche di qualche fanciulla inesperta,
e qualche fratello, rovinato da lui al giuoco e da lui soccorso con
diabolica intenzione, diventava spesso il funesto intermediario
d'amore.
Ad
onta di tutte queste scellerate qualità, il più delle
volte protette dall'oscurità e dal silenzio, perchè il
danaro faceva miracoli, ed era interesse della vergogna di non
lasciarsi vedere in pubblico; esso non era, pur troppo, come si
sarebbe meritato, in odio alla moltitudine. I suonatori d'orchestra,
per esempio, parlavano benissimo di lui, perchè quando taceva
il teatro, era per lui se scansavano il pericolo di andar ad impegnar
il contrabbasso o il violino; i portinai del teatro lo portavano a
cielo, perchè non c'era nessuno che lo superasse
nell'abbondanza e nella frequenza delle mancie. Gli impresarj, i
mediatori teatrali che da lui avevano tante incombenze d'ingaggio ed
erano ben pagati, tra le altre cose ebbero persino a lamentarsi
perchè non fosse nominato direttore perpetuo del regio ducale
teatro. Ed anche fuori di Milano, anche nelle altre città del
Ducato non si parlava male dì lui, perchè se alla testa
dei suoi soldati non vi recava la scuola dei buoni costumi, vi
metteva bensì in movimento molto denaro; chè s'era
proposto d'imitare il celebre general Clerici, il quale, quando si
moveva, trasportava seco un'intera compagnia teatrale d'opera e ballo
pur nelle stesse fazioni di guerra, avendo fatto erigere più
volte a proprie spese dei teatrini posticci per rallegrare i bivacchi
notturni. Fido infatti a questa imitazione, il marchese Alberico
aveva lasciato buonissimo nome di sè anche fuori d'Italia,
quando nel 1759, giovane di ventott'anni, aveva militato ad
Hohenkirchen sotto al generale Lascy, il Vauban della Germania.
Dopo
tutto ciò, questo Sardanapalo cogli spallini e in calzettina
di seta; questo Baldassare non minacciato da nessun motto arcano e
non intercedente spiegazioni da verun profeta di sventure, in quella
notte dei banchetti generali, per mantenersi nel suo primato di
sibarita scialoso, aveva aperto intorno a sè una specie di
corte bandita. Alla mensa apparecchiata per lunghissimo tratto
innanzi al suo casino, mezzo nascosto dalle alte piante, i convivi
sedettero in gran numero. Se vi fu profusione d'imbandigioni, vi fu
buon gusto straordinario nella disposizione, diremo, ornamentale del
banchetto; vi fu originalità nel modo onde venne servito; chè
in luogo di camerieri incipriati e livreati e passamantati, dodici
donzelle, præstanti corpore, alla più matura
delle quali la Parca, appena appena Il decimo ed ottavo
anno filava dodici donzelle foggiate in vario costume e
discinte anzichè no facevano il servizio della tavola, e ad un
cenno degli invitati, da espertissime Ebi a cinquanta soldi al
giorno, versavano spumante lieo nei calici lucenti. Allorquando poi i
convitati furono saturi, e la mensa presentò come la scena di
un campo di battaglia, e rovine di pasticci, e ruderi di bomboniere,
e una selva inestricabile di bottiglie e di vasi e di calici,
allora cominciarono le danze, e più decine di cavalieri colle
loro ballerine intrecciarono quadriglie ed eseguirono il lento minuè,
tanto propizio alle digestioni.
Innanzi
a questo banchetto, con pochi amici e col bicchiere alla mano,
continuò a star seduto il marchese, intanto che fervevano le
danze, e negli intervalli la bella e capricciosa Agujari cantava
nell'aperto salone del palazzino mettendo il delirio in tutti gli
ascoltanti; la bella Agujari che costava tesori a chi la voleva
corteggiare, e che da poco tempo s'era degnata di accordare la sua
benevolenza allo splendido marchese, perchè un giorno, dopo il
pranzo, le aveva concesso di fracassare un ricchissimo servizio di
porcellana del Giappone; e un altro giorno che don Alberico era
smontato da un bellissimo cavallo arabo, ottenne da lui, se non
voleva ch'ella il piantasse sui due piedi, di poter tirare un colpo
di pistola nell'orecchio di quel nobile animale.
Mentre
adunque l'orchestra suonava e i ballerini ballavano, oppure quella
viziata virtuosa sfoggiava sghiribizzando le note più acute
della voce più estesa che, al dire degli esperti, allora vi
fosse al mondo; egli s'indugiava a tavola, e precisamente per
aspettare l'arrivo della carrozza della contessa Clelia e della sua
figliuola. Don Alberico quasi poteva dire di non conoscere la
prima e non aveva mai veduta la seconda; onde per le avventure strane
dell'una e dell'altra, e per la gran fama della loro bellezza aveva
una grande curiosità di vederle e di complimentarle; e tanto
più che s'era banchettato per loro e bevuto alla loro salute.
Aspettava
dunque da qualche tempo, e si maravigliava che, essendo già
tardi, non si vedessero ancora a comparire; quando, all'improvviso,
fortissimi evviva e battimani che venivano da coloro i quali avevano
estese le danze fin quasi alla porta della città, lo
avvisarono che ciò doveva essere pel loro passaggio.
Infatti,
allorquando la contessa diede ordine al cocchiere di procedere per
porta Orientale col trotto il più serrato, il cocchiere spinse
i cavalli, sicuro della felice riuscita; ma appena dal bastione ebbe
svoltato verso il borghetto, che le loro signorie, la contessa e la
contessina, furono salutate con urla di gioja matta da quelli che
ballavano sub luna; e le danzatrici ebriose, alcune fermarono
i lacchè con violenza, lor togliendo le torcie, e agitandole
come tirsi con faunina protervia; altre si fecero imperterrite al
muso de' cavalli, quasi offrendo quella scena che si presenta al
viaggiatore nauseato, quando nella città di Napoli si
avventura a passar per via Capuana. Pure, ad onta di tutto questo, la
carrozza potè andare innanzi, sebbene con lentezza, e quando
fu per passar presso la mensa abbandonata, il marchese Alberico,
circondato da' suoi, quasi diremmo, camarlinghi, si presentò
allo sportello.
Or
guardate caso stranissimo! Ada, nel vederlo, tirò la
mano intrecciata a quella di sua madre, e mandò
un'esclamazione di maraviglia paurosa che a tutti sfuggì,
com'è naturale, ma non a sua madre, la quale si volse a quel
sommesso grido, interrogandola cogli occhi indagatori più che
colle parole.
Che
dunque significa ciò? Significava.... ma non mettiamoci in
apprensione, significava un fatto naturalissimo. La giovinetta Ada,
quando vide il conte Alberico, credette, a tutta prima, di vedersi
innanzi il Galantino in divisa militare, e ciò per la ragione
che, infatti, tra il Galantino e il marchese Alberico era una gran
somiglianza, di quel genere però che forse poteva passare
inavvertita agli indifferenti, ma non a chi aveva imparato a
palpitare per la prima volta sotto il fascino di quelle tali forme,
di quelle tali linee caratteristiche e distinte.
Or
che cos'è, dirà il lettore, codesta storia della
somiglianza? È anche questa una conseguenza d'un altro fatto
naturale, poichè bisogna ricordarsi che l'Andrea Suardi era
nato in casa F... da un Giovanni Suardi stalliere, salito poi al
grado di cocchiere. E ora è da aggiungere che il cocchiere
Giovanni, quando da una bellissima moglie del contado di Cremona gli
nacque il fanciullo che fu il primo e l'ultimo, non potè più
salvarsi dalle celie de' suoi compagni di scuderia e di rimessa e di
tutta la servitù di casa F...; e le celie crebbero col
crescere del fanciullo, il quale, se il marchese avesse avuto moglie,
tutti avrebbero detto che era suo figlio. Al conte Alberico che,
siccome avviene sovente tra consanguinei, per le misteriose bizzarrie
della natura, rendeva più le sembianze dello zio che del
padre, toccò dunque in sorte di somigliare al figliuolo d'un
cocchiere; somiglianza che andò dileguando col tempo, e che, a
dir così, non guizzava che di sfuggita dai muscoli dei loro
volti e da certi movimenti caratteristici dei loro corpi; perchè
il lacchè, anche per quelle ragioni fisiologiche sviluppate
dal bastardo Filippo Faulconbridge nel Re Giovanni di
Shakespeare, aveva sortito due gambe poderose dove l'altro aveva
avuto de' fuseragnoli; due braccia atletiche dove l'altro avea dovuto
ricorrere alla correttrice ovatta; un viso della più bella
tinta incarnata e porporina dove l'altro non aveva potuto rinunciare
ai beneficj del minio. Ecco dunque come nacque lo scambio che
mise sottosopra il sangue della povera Ada, e la rituffò ne'
suoi tristi pensieri, onde sollecitò la mamma di partire di
là, gettando però alla sfuggita un'occhiata al protervo
marchese; come chi non può staccarsi dalla contemplazione di
un ritratto che ricorda un originale il quale, a proprio dispetto,
non si può dimenticare.
LIBRO
DECIMO
L'anno
1797. Il ballo del papa. La predica dell'arciprete
Besozzo in San Lorenzo. Il teatro della Scala nella sera della
domenica di quinquagesima. Il programma del cittadino Salfi.
Il coreografo Lefèvre. Giuseppe Peruccone, detto
Pasqualino. Le cittadine: signora R...; contessa A...;
avvocatessa F...; Il figlio del finanziere Baroggi. Una
figlia della contessina Ada. La Libertà, l'Eguaglianza,
la Dionisa. Rappresentazione del ballo. Scioglimento
con perigordino. - Andrea Suardi e Marchese F...
I
Saltando
coraggiosamente sei lustri, dobbiamo entrar e piantarci nel fitto
dell'anno 1797, nel carnevale di tale anno, pigliandolo precisamente
alla sua domenica di quinquagesima, per stare più in regola
col calendario ecclesiastico e col nostro fedele Pescatore di
Chiaravalle. Trent'anni sono trascorsi dal giorno che la contessa
Ada fu perduta e trovata; quarantasette da quella notte memoranda,
quando il tenore Amorevoli saltò il muro di cinta del giardino
di casa V... Quante vicende, quanti affanni, quanti mutamenti
pubblici, che procelle, che trasformazioni! Ben si può dire
che, in questo intervallo, l'umanità ha cambiata tutta quanta
la sua pelle come il serpente. Eppure dei nostri personaggi non è
ancor morto nessuno. Nessuno, tranne la venerabile donna Paola
Pietra, perchè era già vecchia quando ne abbiam fatta
la conoscenza; tranne l'avvocato Agudio, perchè era decrepito
quando lo scontrammo sull'uscio di casa Pietra; tranne il giovane
lord Crall, perchè ebbe la malinconia di voler fare il
precursore di Werter e di Ortis: gli altri sono tutti ancora vivi, il
che vuol dire che la natura umana è ben tenace, e i suoi
dolori pajono piuttosto dolori teatrali che veri; se si eccettuino
quei della renella e quei della gotta, e gli spasimi dei denti
molari!!
Ora,
essendo quasi tutti vivi i personaggi di nostra vecchia conoscenza, è
naturale che da loro e per loro sien nati altri personaggi, che nel
tempo a cui siamo saltati, sono giovani e adolescenti e fanciulli, e
i quali, l'uno dopo l'altro, dovranno pur passare, per forza o per
amore, sotto la nostra mano. Noi ci troviamo nella condizione del
cavallerizzo che attende nel circo ai giuochi romani. Ei comincia con
due cavalli, poi sottentra un terzo, poi un quarto, poi due
d'aggiunta, e un altro, e due altri ed altri ancora, finchè si
trova aver tra le mani un grosso manipolo di redini refrattarie e
quasi insensibili alla mano, con dodici o quattordici cavalli da far
correre nell'arringo, col pericolo di stramazzare ogni momento, e di
vedere qualche indocile corridore uscir dal sistema e trascinare i
lunghi freni per la polvere olimpica ad impacciare la corsa, e ad
assicurargli le fischiate del caro Pubblico che guarda all'esito e
non alle difficoltà superate, e ne ha tutte le ragioni.
Ma,
tirando innanzi, se la società cangiò faccia, e il
pensiero umano fu tutto messo sottosopra, il resto ha seguito le sue
sorti. Le vesti, le foggie non sono più quelle d'una volta; le
mura stesse della città non sono più quelle. -
Molti edifizj scomparvero, altri ne sorsero di nuovi. - Un
galantuomo, defunto nel 1750 o nel 1766, risuscitato per incanto, non
avrebbe più trovato modo di raccapezzarsi passando in quella
mattina di marzo per la via della Scala. - L'antica chiesa era
scomparsa; trent'anni prima avrebbe letto, passando per di lì,
sulla facciata di essa, o un Pax vobis, o una Indulgenza
plenaria, o un Pregate per l'anima, ecc., ecc. In
quel dì invece, alzando la testa, avrebbe dovuto far le
meraviglie vedendosi innanzi un gran teatro, con un gran portico, con
un gran terrazzo, con un frontone greco romano chiudente in
bassorilievo un Febo auriga che sferza i cavalli. Altro che idee e
cose di chiesa! E sotto, invece del cartellone della confraternita
del Santissimo Sacramento, un cartellone pendente dall'arco di mezzo,
sul quale il Pubblico affollato nella mattina di quinquagesima del 97
leggeva queste parole:
il
ballo del papa
ossia
il
general colli in roma
pantomimo
eseguito
dal
cittadino lefèvre
Più
basso, impastati sui due estremi pilastri del portico alla portata
della vista di un uomo d'ordinaria statura, si vedevano due piccoli
affissi, senz'eleganza nè di carta nè di carattere. Il
gesso non aveva ancor invaso la manipolazione degli stracci. Bodoni
non era ancor comparso. Su quei due affissi, dopo il titolo generale
del nuovo ballo, e il nome dei personaggi e degli attori, spiccava
l'epigrafe dantesca:
Ahi
Costantin di quanto mal fu matre
con
quel che segue; poi si leggevano queste parole del cittadino Salfi al
popolo di Milano:
«Questo
pantomimo, che annunzia il regno della ragione, non è
un'invenzione semplicemente ingegnosa, ma il risultato di quei fatti
e di quei caratteri che formano la storia più interessante
degli ultimi tempi di Roma. Si potrebbero verificare le più
minute circostanze con quei monumenti che debbono oramai essere
notissimi al pubblico, e che si conservano sparsi nel giornale
intitolato Termometro politico della Lombardia. Possa questo
primo lampo della verità incenerir l'impostura ed il
fanatismo, e far trionfar la religione e la pace.
Salute
e fratellanza.»
Correndo
il marzo, come abbiamo detto, faceva una bella giornata limpida e
trasparente, e per soprappiù soffiava un vento marino tepido e
consolante. Esso era annunziatore della primavera, e poteva anche
annunziare un ultimo saluto di neve. Gli uomini che non vantavano il
piè veloce di Achille, o andavano soggetti a flussioni dentali
periodiche, erano anzi di questo parere. In ogni modo, essendoci il
sereno e l'almo sole, e soffiando i tepidi favonj, gli avventori
della bottiglieria Cambiasi, che era celebre di quel tempo per
i suoi rosolj, segnatamente per il latte di vecchia e
il perfetto amore, stavano fuori della bottega divisi in
gruppi, parlando precisamente del ballo andato in iscena il dì
prima. - Il che medesimamente succedeva innanzi al vecchio
caffè così detto dei Virtuosi. La Cecchina
non era ancor nata, e forse nemmeno sua madre, a proporre
una variante di quell'appellazione. - Ora le insubre puledre
calpestano l'area dove sorgevano quegli incliti ritrovi. Davvero che
pensiamo a ciò con crepacuore, quantunque la colpa sia tutta
nostra. La descrizione di Persepoli riesce più difficile al
poeta senza le venticinque superstiti colonne; ma giacchè il
progetto di demolizione è venuto da noi, tal sia di noi
dunque, e andiamo avanti.
I
vecchioni, ancora tenaci del cappello a tre punte, e del topè
ad ala di piccione, e della faccia sgombra, e del mento raso,
passando per di là rimanevano scandolezzati a vedere le nuove
e strane foggie de' giovanotti. I cappelli espansi a caldaia, alti e
larghi con nastroni di velluto, fuor de' quali faceva capolino il
coccardone repubblicano, celavano fino all'occhio quelle faccie
atteggiate ad un cipiglio di convenzione; fedine larghe e folte
coprivan le guancie, rendendo la figura di due pere crinite che,
scendendo dal cappello, andassero a nascondersi in un enorme
cravattone bianco, entro il quale stavano fasciati e collo e mento,
fino ad invadere i diritti del lobo auricolare. Gli occhi soltanto e
il naso erano lasciati in libertà; ma di sotto all'ombra fitta
del cappello, che radeva il sopraciglio, avevano un'apparenza truce e
sospetta.
I
rivenduglioli di carte e stampe e bullettini gridavano intanto sulla
piazza: «Signori! Il credo del Papa per due soldi; Il
discorso dell'Ussaro, signori! - Il sogno dell'arciduca
Ferdinando. - La bolla di Pio VI. - Avanti,
signori, chi compera, signori?» Poi tutt'a un tratto, tra le
diverse voci di quei pubblici schiamazzatori se ne sentì una
più forte e più invadente di tutte, e veniva da un nano
tutto coperto, dalle spalle alle piante, per nascondere il perfido
sistema delle sue gambe, di un soprabito rosso color fuoco,
sormontato al petto da un gran medaglione inargentato, avente nel
mezzo un occhio del Padre Eterno: A S. Lorenzo, signori!
gridava quel nano: - Il cittadino arciprete farà a
momenti la predica del papa. - A S. Lorenzo, a S.
Lorenzo!
Il
signor Giocondo Bruni, quel nostro vecchio amico, che non avrebbe mai
dovuto morire; quella storia animata ed ambulante che il lettore ben
conosce, e che ci raccontò tante e tante cose che non stanno
nei libri, perchè i libri troppo spesso sdegnano di
raccogliere gli sparsi minuzzoli del vero, senza dei quali il vero
non è però mai completo: il nostro signor Giocondo,
dunque, si trovava anch'esso quella mattina, insieme cogli altri,
sulla piazza della Scala, anch'esso, già si sa, col suo
cappellone e il suo coccardone e il suo cravattone e anch'esso
atteggiato al burbero, perchè un legittimo repubblicano non
poteva aver sorrisi e grazie senza correr pericolo di parer un
tepido, e, quando l'altrui malumore l'avesse voluto, anche un
pericoloso cittadino. Egli ci raccontò che si sapeva fin dalla
sera prima, che l'arciprete di San Lorenzo aveva promesso di fare al
pubblico una predica relativa al papa e alla sua temporalità e
alla sua infallibilità, per animare i cittadini timidi,
scrupolosi e bigotti, a recarsi a vedere il nuovo gran ballo della
Scala, e che però, quando il nano della bussola di San Lorenzo
comparve a gridare in piazza, la piazza rimase subito vuota, e tutti,
compresi gli avventori del caffè dei Virtuosi, tra i quali
trovavasi anche il cittadino Lefèvre, il coreografo, che
faceva la parte di Pio VI, e il signor Raimondo Fidanza, che
rappresentava il personaggio del general Colli, si avviarono a San
Lorenzo tra gran folla di persone che, strada facendo, si faceva
sempre più stipata; tanto che ci volle gran fatica e ajuto di
gomiti e d'urtoni a farsi largo tra le colonne di San Lorenzo; e fu
un'impresa veramente erculea il tentar di penetrare sotto gli archi
della rotonda, nella quale echeggiava già sonora e concitata
la voce dell'arciprete Besozzo, caro ai professori di rettorica per
la sua eloquenza, rispettato anche dai bigotti per la sua dottrina in
divinità e la profondità in patrologia; temuto dagli
aristocratici, esaltato dai patrioti.
II
Quando
il Bruni si trovò, dopo lungi stenti, sotto ad uno degli archi
della rotonda, fu adocchiato alla lunga da suo padre; sì,
signori, da suo padre ancora vivo, ossia dal signor Lorenzo, il
decrepito marito della ballerina Gaudenzi; colui che, se il lettore
se ne ricorda, era un giacobino nato fatto, prima che dei giacobini
nessuno sospettasse per ombra nè l'esistenza nè
l'appellazione; il signor Lorenzo Bruni, che contava i suoi
ottantadue anni come se fossero ottantadue zecchini l'uno sopra
l'altro, e che, avendo visto di presenza a nascere la rivoluzione in
Francia, s'era consolato nel vedere l'attuazione di quelle cose
ch'egli in confuso aveva pensato e desiderato quarant'anni prima.
Vicino a lui era il prevosto Lattuada di Varese, prete fenomeno, e
che poteva parere esaltato tra gli esaltati. V'era il frate somasco
Carrera, che, educato ai rigori della vita claustrale, di tanto
lasciò prorompere alla libertà la sua indole, di quanto
era stata violentemente compressa.
Adocchiato
dunque dal padre e dagli amici, il nostro Giocondo, che sta fra noi
non vecchi e i nostri vecchissimi avi, come Enoc stette fra Adamo e
Noè, venne invitato e fu soccorso anche da un sagrestano a
trascinarsi fino a quella cappella privilegiata, collocata nei
rapporti col pulpito in modo, che della voce del predicatore non si
perdesse alcun suono.
Ma
il predicatore continuava la sua predica da qualche tempo, onde i
nostri ascoltanti lo seguirono coll'attenzione, appena seppero
togliere il bandolo del discorso:
«Reca
dolore, così parlava il famoso arciprete di San Lorenzo, reca
dolore il mettere in vista cose di sì poca edificazione, e
temo che chi mi ascolta, più fornito di pietà che di
lumi, prenda occasione di scandalo, e pensi che convenisse
dissimularle; ma chi parla al popolo credente deve dire la verità
tutt'intera. Un tale esempio ce lo danno gli storici sacri. Mosè
non dissimula i delitti del popolo, nè le proprie sue colpe;
Davide volle che il suo peccato fosse reso palese; gli evangelisti,
nel Nuovo Testamento, rappresentarono concordi l'infedele caduta di
San Pietro.
«Io
so che alcuni uomini ammalati di pregiudizj e d'ignoranza incurabile,
perchè non amo credere ad altre cagioni meno oneste, andarono
insinuando, e dal pulpito quando avevano coraggio, e dal
confessionale quando avevano paura, che non bisognava dare ascolto
alle mie parole, che io non possiedo nè sapienza nè
dottrina, che abuso di quella autorità di che sono stato
rivestito. Ebbene, io voglio dar ragione anche a costoro; io voglio
che non crediate alle mie parole; io stesso, dirò di più,
non mi attento di star sicuro della mia sola opinione: ma che direte
quando i più grandi luminari della storia ecclesiastica mi
daranno ragione? che direte quando parleranno gli evangelisti, dai
quali io non ho fatto che attingere quello che già vi ho
detto? che direte quando verranno gli stessi santi padri ad accusare
la condotta della curia pontificia? che direte quando gli stessi
pontefici confesseranno il vero in danno proprio, e non avranno paura
di annunciarlo?
«Perchè
chi vi ha detto che il papa sia infallibile, ha detto menzogna.
L'infallibilità da G. C. non fu data che alla Chiesa.
Quotiescumque congregati eritis in nomine meo, in medium vestrum
ero.
«I
santi Padri hanno osservato un profondo silenzio sulla pretesa
infallibilità del papa.
«S.
Basileo accusò vivamente Damaso papa, perchè andava in
collera contro chi diceva la verità. Se San Basileo avesse
creduto il papa infallibile, avrebbe egli accusato il pontefice
Damaso?
«Rustico
e Sebastiano sostennero che il papa Virgilio aveva combattuta la
definizione del concilio di Calcedonia, cosa che fece dire ad Eumaro
arcivescovo, che questo papa era veramente eretico.
«Io
sono sommamente scandalezzato da voi, scrisse San Colombano a
Bonifacio IV, imperciocchè la vostra condotta è
grandemente sospetta d'eresia. Se volete essere giudicato successore
di Pietro, dovete essere custode della di lui fede: Doleo de
infamia cathedræ Petri: ut ergo honore apostolico non
careas, conserva fidem apostolicam.
«Può
esservi espressione che più radicalmente distrugga
l'infallibilità pontificia? «Agostino Trionfa, tuttochè
gran partigiano del papa, nella sua opera Clavis Scientiæ,
ha detto chiarissimamente, che il papa è fallibile: Papa
potest errare.
«Lo
stesso Innocenzo III ha affermato che il papa può errare come
qualunque altro: facile crediderim, ut Deus permitteret,
romanum pontificem contra fidem posse errare.
«Ma
tant'è vero che i papi sono fallibili, che la storia registra
i loro errori e i loro disordini. E anche intorno a ciò, se
non volete credere a me, se avete in sospetto i libri profani, se
credete ch'io parli per bocca dei nemici della chiesa, udite i suoi
adoratori.
«Alcuino,
scrivendo a Carlo Magno sulla corruzione della corte di Roma, gli fa
intendere, che in essa non vi regna nè pietà, nè
giustizia, nè carità; che egli non ha altro rifugio che
ricorrere alla di lui saviezza, e pregarlo, giacchè Roma non
vuole porre argine a siffatti disordini, di trovar mezzo con cui
rimediarvi. Ecce in te solo tota salus ecclesiarum Christi
inclinata recumbit.
«Chi
non sa quel che scrisse S. Bernardo a Innocenzo III? Fideliter
loquor quia fideliter amo.
«Parlava
sincero perchè amava sincero, e diceva che la cagione del
decadimento della Chiesa universale doveva trovarsi nella corruzione
della curia romana: In vos, pontifices, curiamque romanam. E
nella lettera ad Eugenio IV egli dice ancora di più.
«Nel
consilio Remense, convocato nell'anno 992, è detto con tutta
quanta la libertà, che Roma era divenuta venale e che tutto
dicevasi e facevasi colà secondo la quantità dell'oro e
dell'argento: Roma venalis exposita; ad nummorum quantitatem
judicia trutinat.
«Adriano
IV ha detto che la corte di Roma era macchiata di morali disordini:
Scimus in hac sancta sede, aliquot jam annis multa abominanda
fuisse, et omnia in perversum mutata.
«Non
sono io dunque che parlo; non è a me che voi avete obbligo di
prestar fede. Ma se venerate San Bernardo, se avete fede nei papi
Innocenzo e Adriano, se avete rispetto alla parola inappellabile dei
concilj, dovete dire che io non ho fatto che ripetere contro la curia
romana e il potere pontificale quelle accuse che furono già
scagliate da quei grandi e santi uomini. - Ascoltate dunque
coloro, se non volete ascoltar me.
«La
veneranda Chiesa cattolica, egli è G. C. che la istituì;
le diede precetti fondamentali di umiltà, di giustizia, di
carità; la premunì pien d'amore per essa, di tantissimi
sacramenti; la fecondò coi suoi divini esempj, colla
predicazione, cogli stenti, colle fatiche; la consolidò col
sangue e colla morte. Ma guardatevi, disse a' suoi discepoli, che tra
voi non escan fuori uomini scellerati e perversi; tenteranno costoro
di perturbarla, di disordinarla, di distruggerla: Nascentur ex
vobis viri peversi ut abducant post te discipulos suos. -
Il testo è di S. Paolo.
«Ma
che cosa dunque si deve fare per ovviare a tanti disordini?
Richiamare il pontificato alla santa semplicità delle sue
origini;. fargli restituite i doni funesti che ebbe dai re della
terra. Costringerlo, per dir così, ad esser santo,
obbligandolo alla sola giurisdizione spirituale. Uomini e sacerdoti
ignoranti e pregiudicati vi hanno detto che, tentar di smuovere la
temporalità del potere papale, è atto sacrilego, e tale
da meritarsi la pronta punizione di Dio. Ma costoro come faranno a
chiamar sacrilego G. C.? come faranno a invocar su lui l'ira divina?
Dabo tibi claves regni clorum, ha detto G. C. a S.
Pietro; e quando il popolo, stupito de' tanti miracoli che
operava, voleva farlo re, che cosa fece G. C.? Fugit ne eum
facerent regem; e che disse quando fra' suoi discepoli si agitò
quistione di maggioranza? Qui major est inter vos, fiat sicut
minor; e di che parole fece uso quando parlò dei re della
terra? Reges gentium dominantur eorum, vos autem non sic.
Com'è dunque che, se i comandi e gli esempj dati personalmente
dal Redentore sono precisi, comandi ed esempj da doversi fedelmente
seguire, com'è che, mentre e G. C. e San Pietro hanno avuto in
orrore ogni sorta di dominio sopra gli altri, il papa potrà
pretendere monarchia terrena?
«Alla
podestà temporale si oppone dunque il carattere
dell'ecclesiastica società, la dottrina e l'esempio di G. C.,
gl'insegnamenti degli scrittori e dei Padri, la pratica fedelmente
seguita nei primi secoli della Chiesa.
«La
società ecclesiastica non si propone altra cosa, che disporre
il cuore de' popoli a vivere secondo le massime del Vangelo, e
condurli alla vita eterna.
«Gesù
Cristo non dà a' suoi discepoli altra autorità che
d'istruire, predicare e battezzar le nazioni: docete omnes gentes,
baptizate eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.
«Gesù
Cristo non concede a' suoi discepoli altra podestà che di
legare e sciogliere dai peccati gli uomini: Amen dico vobis,
quæcumque ligaveritis super terram, erunt ligata; et
quæcumque solveritis, erunt soluta. Dal che ognuno ben vede
che una simile podestà riguarda unicamente la salvezza eterna
degli uomini, ed ha soltanto di mira il dominio spirituale.
«Quando
gli apostoli dissero a Gesù Cristo, allorchè i
Samaritani non l'hanno voluto ricevere: - Fate scendere il
fuoco dal cielo e inceneriteli, - «Che dite mai, rispose
loro G. C., e di che spirito siete? il figliuol dell'uomo non è
già venuto a perdere uomini, ma a salvarli, filius hominis
non venit animas perdere, sed salvare». E quando Pietro
troncò l'orecchio a Malco, che gli disse il Cristo? Mitte
gladium tuum in vagina, omnes enim qui acceperint gladium, gladio
peribunt.
«E
i santi Padri? Udite i santi Padri; ascoltate Sant'Ambrogio: -
Tutte le ricchezze della santa Sede non consistono in altro se non
nella fede. Ecclesia nihil sibi, nisi fidem possidet.
«E
S. Fulgenzio che cosa dice? Udite S. Fulgenzio: - Tutta quanta
l'autorità del pontefice riguarda lo spirituale e nulla più.
In sæculo nemo rege celsior» E Innocenzo III dice
che l'autorità temporale compete al solo re: Rex in
temporalibus neminem superiorem habet.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«E
dopo tutto ciò, sino a quando si vorrà far servire il
supremo sacerdozio all'errore, alla passione, ai disordini? Sino a
quando chi è supremo pastore delle anime, si avrà a
vederlo disposto a servirsi della religione come d'appoggio per
estendere i suoi temporali interessi a taccia propria, a scandalo
universale, a distruzione della cattolica Chiesa?
«Ma
sinora abbiamo udito Gesù Cristo, i santi Padri, i pontefici
più sapienti, gli apostoli, i concilj. Udiamo adesso coloro
che pretendono di saperne più di loro.
«Se
si tolgano al papa, dicono essi, le ricchezze e il temporale dominio,
Roma, il papa, la Chiesa cadranno in disprezzo, quando invece
conviene che sian sempre presso i popoli cristiani in somma
venerazione.» Ma non sentite voi tutti come sia questa una
manifesta follia? la disistima e il disprezzo non dipende tanto
dall'influenza delle umane ricchezze, quanto dalla mancanza delle
evangeliche virtù; la stima e la venerazione che si porta a
chi abbonda di ricchezze, è una venerazione e una stima
apparente, effimera e falsa; quando, all'opposto, quella che procede
da una vita ricolma di virtù, è reale, è
sincera, è soda; questa riflessione ci somministra una pratica
verità, la quale, senza che l'accenniamo, ognuno può
facilmente congetturarla.
«Tolgansi
pertanto da Roma codeste terrene ricchezze, tolgasi al papa
l'affluenza dei beni che gode, ed ecco rinascere ne' sommi pontefici
il primitivo amore, ed eccolo riacceso anche nel cuor dei fedeli.
«Ma
per conchiudere su questo punto delle ricchezze e del temporale
dominio del papa, voglio che sentiate quello che, al suo segretario
Eginardo, ha detto in punto di morte Carlo Magno, colui che esercitò
la sua liberalità facendo grandi donazioni al papa:
-
Rispetto alle mie militari imprese ed alle imprese politiche -
ripeto le precise sue parole, - niuna cosa è per cui
tanto tema di avermi tirato l'ira di Dio, quanto le cose che ho fatto
in Italia. In quella occasione la mia ambizione mi precipitò
in mille iniquità. Ho ajutato i papi; ho rotto, a persuasione
di essi, il matrimonio colla figlia di Desiderio; l'ho rimandata
disonorata al padre.
-
Per colmar lo stajo delle mie reità, mi sono lasciato indurre
a far signori i pontefici romani di una gran contrada d'Italia, con
che veggo d'aver gettato i fondamenti della di lei totale rovina. Per
la qual cagione mi debbo aspettar da Dio un castigo severissimo, e la
memoria mia sarà avuta in abbominazione dalla italiana
posterità. Il dominio di tante città e provincie, in
mano di un ecclesiastico, non può produrre che mali
gravissimi. Come mi giustificherò io dunque, o Dio, di tanti
guai, delle tante guerre, e delle tante calamità, che, per la
donazione che feci alla Chiesa di S. Pietro, sovrastano all'Italia? -
«Queste
parole di Carlo Magno sul letto di morte fanno piangere a ripensarle
oggi. Però non è fanatismo nè errore il dire,
che la soppressione del dominio temporale, ossia la distruzione di
tutto ciò che portò seco la fatale donazione di Carlo
Magno, è l'unico rimedio per far cessare gli orrendi abusi
della corte di Roma e per salvare l'Italia.
«Sono
secoli e secoli che la Chiesa mortalmente geme sotto i disordini
della corte di Roma, prodotti dal temporale dominio del papa; tempo è
dunque oramai che si dia contro di essi un colpo vigoroso, risoluto e
decisivo. I disordini allora cesseranno; la Chiesa, depurata da'
pregiudizj, trionferà; gli Stati saranno tranquilli; la pace
sarà nel mondo; l'umanità potrà finalmente
provare tutti i beni dell'esistenza, e Dio sarà glorificato.»
A
questo punto l'arciprete predicatore, il quale, esaltato dal suo
tema, aveva percorso tutto il diapason della sua voce sonora, cangiò
tono e modi a un tratto, come se l'oratore ecclesiastico cessasse
dalle sue funzioni e sottentrasse il cittadino consigliere ed amico
del popolo; cangiò tono e modi, e così prese a dire:
«A
coloro i quali, siccome ho già fatto osservare, hanno più
pietà che lumi e buon senno, farà meraviglia che io vi
abbia chiamati qui per invitarvi ad assistere ad una rappresentazione
in teatro, dove il pontefice è messo in scena. Ma siccome è
corsa voce, che alla persona del pontefice fosse fatta ingiuria, e
che una satira indecente lo esponesse al dileggio del popolo, così
vi esorto a credere, che questa non è che una menzogna dei
religiosi fanatici, e una vana paura degli spiriti deboli. Il papa vi
è rispettato. Bensì la rappresentazione è
condotta in modo che serva di ammaestramento al popolo, e proponga
utili consigli a coloro che hanno promesso di voler chiudere
finalmente le vecchie piaghe d'Italia.»
E
il predicatore, dopo queste parole, scomparve dalla vista
dell'uditorio affollato, il quale cangiò l'attenzione
silenziosa in un bisbiglio, che man mano si fece sempre più
rumoroso; chè le varie opinioni vennero manifestandosi in tali
discussioni, da far credere che la rotonda di San Lorenzo fosse
piuttosto un'aula parlamentaria che una chiesa. Questa nullameno si
andò vuotando a poco a poco, senza disordine di sorta. Bensì
avvennero disordini gravi sulla piazza della Scala e nelle contrade
laterali al teatro, per la gran folla che vi si accalcò verso
le ore tre dopo mezzodì. Lo spettacolo davasi gratis e
a porte aperte, e tutti volevano giungere in tempo per trovar posto.
Vi furono risse e percosse. La guardia nazionale accorsa vi lasciò
qualche fucile e qualche lume e qualche falda del marsinone
bianco verde. Molti veli e drappi e sottane furono messe a
lembi; molte donne furono portate semivive fuori della folla.
I
fortunati siamo noi soli, che, senza fare anticamera, potremo recarci
in teatro un momento prima che si alzerà il sipario; e
probabilmente avremo l'accesso a qualche palchetto, o troveremo un
posto in orchestra, o sul palcoscenico addirittura. Da questi punti,
oltre lo spettacolo teatrale, godremo lo spettacolo del pubblico, e
percorrendo col cannocchiale le cinque file dei palchi, faremo di
riconoscere i vecchi amici dai loro discendenti, e qualche cara
beltà; e spingendo l'occhio indagatore nell'indistinto
brulicame della platea, vi scorgeremo qualche elmo a criniera, che
coprirà la testa giovanile di chi, sebbene uscito di plebe,
Forse
è chiamato a non oscuro imene.
III
La
predica fatta in San Lorenzo aveva dunque raggiunto l'intento voluto
dal predicatore, il quale era di mandare in teatro, ad assistere al
ballo del papa, quel maggior numerò di persone che fosse stato
possibile. La verità dimostrata a parole non penetra intera
che negli intelletti robusti e liberi da pregiudizj; ma la verità
rappresentata dall'azione palpitante del dramma e affidata a
personaggi vivi, ottiene più facilmente il libero ingresso
nell'intelligenza di tutti. D'altra parte, l'idea trapassa al popolo,
quando è sazia di soffiare inutilmente nelle alte regioni. A
tre ore dopo mezzodì, come dicemmo, la piazza della Scala era
talmente stipata di pubblico, da presentare tutti i pericoli di un
fiume straripato e irruente, che non trova il suo sfogo, e che, fino
a tanto che non gli è dischiusa una via, non manca di lasciare
qualche traccia e qualche vittima dell'impeto suo.
Tuttavia,
dopo molto tempestare e urtare, dopo che la folla, rappresentata
atleticamente dagli uomini che erano riusciti a collocarsi colla
schiena alla porta tanto della platea che del loggione,
dandovi di tanto in tanto degli urtoni e delle scosse formidabili,
ebbe esaurite tutte le intimazioni minacciose di aprire, le porte
finalmente si dischiusero, ma non là precisamente dove la
folla s'era di più accalcata, ma bensì agli aditi
laterali di quell'angusto e basso e prolungato androne, che
l'architetto Piermarini sembra avere ideato e disegnato in un momento
di collera contro il pubblico milanese e coll'intento di vendicarsene
tutte le volte che si recasse alla Scala per divertirsi.
Codeste
irruzioni di pubblico nel teatro, le quali presentano i pericoli di
una battaglia, dopo la decadenza dell'arte, non si verificarono più
affatto; e i giovani ventenni che, a spettacolo incominciato, oggi
possono, anche in una prima sera, avere accesso in platea, crederanno
esagerata la nostra relazione. Ma noi avemmo più volte
compresse le costole agli spigoli dell'andito, là dove svolta
a mostrarci la faccia burbera del portinajo, quando adolescenti ci
recammo ad assistere agli ultimi splendori dell'arte vera. Non del
resto, in quella sera di quinquagesima, trattavasi d'arte. La musica
e la danza, le trachee e le tibie, che per un secolo intero avevano
tenuto il mondo nel loro dominio, avevano dovuto cedere il campo alle
grandi cose e ai grandi fatti, tanto che la musica serviva più
d'occasione che di scopo, e se voleva attrarre la gente e scuoterla,
bisognava che si facesse ausiliaria della politica e dei fasti
militari. La scienza e l'arte della parola avevano preceduto, anzi
avevano generato i fatti, ma le altre arti sorelle dovettero
aspettare, per trasformarsi, la piena maturità di essi. Ma di
ciò parleremo in momenti di minor premura, e quando la folla
non ci assorderà col suo vasto mormorìo, da farla
parere un mar tempestoso.
Appena
infatti la folla, dopo l'ultima lotta e le ultime violenze incontrate
nel prender d'assalto le sedie della platea, potè espandersi
in lungo e in largo e respirare; e quelli che avevano sofferto di
più, poterono tastare le membra indolenzite per valutare il
grado di importanza delle contusioni ricevute, e dare una occhiata di
riassunto ai vestiti, per verificare se le falde strappate erano
ancora capaci di un ristauro, se gli orologi non si erano dileguati
strada facendo, se le ciarpe e i veli erano stati irremissibilmente
involati dalla bufera; cominciarono i discorsi, le discussioni, i
diverbi, gli alterchi, segnatamente fra i crocchi e i gruppi di
quella parte di pubblico, che, ad onta di essersi trovata sulla
piazza col boccone in bocca e sotto il sole ancora brillante delle
ore tre, non era stata molto esperta nel regolare le mosse durante la
crisi dell'ingresso, e aveva dovuto accontentarsi di stare in piedi,
esposta alla perpetua ondata di cui era vittima e cagione nel tempo
stesso.
Come
il lettore sa benissimo, il teatro prima dell'ora della
rappresentazione non era illuminato che da due povere fiamme ad olio,
le quali spargevano un pallido albore per tutta la vastità del
vaso; albore ajutato in gran parte dai cerini, che i seduti in platea
avevano accesi, per potere intanto passar la noja dell'aspettare col
leggere il programma del nuovo ballo di monsieur Lefèvre. -
Veduta quella scena dall'altezza del loggione, intorno intorno
al quale era stipata la moltitudine due volte repubblicana, pareva
come di vedere un'acqua stagnante e cupa, in cui si riflettessero le
stelle senza l'aerino del cielo; o meglio un pavimento a traforo, da
cui trapelassero qui e qua delle fiammelle. - Ma anche il
loggione, nella sua dignità repubblicana e nella sua
avversione d'istinto al terzo stato che sedeva in platea, ad onta
dell'albero della libertà e della cambiale non girabile
dell'eguaglianza, volle fare a gara con lui e accese i suoi cerini
sugli orli del parapetto.
Senonchè
l'illuminazione suppletoria fatta dalla platea e dal loggione si
consumò colla lettura del programma, e vi fu un momento in cui
tutto ritornò nel bujo crepuscolare di prima, il quale durò
più di un'ora. Il signor Giocondo Bruni che, per essere amico
dell'impresario e del coreografo Lefèvre, e del primo violino
per i balli, signor Giuseppe Peruccone, detto Pasqualino, aveva
libero accesso in teatro, vi si recò a tutto suo agio, verso
quell'ora appunto in cui dovevano tardar pochissimo ad entrare i
suonatori in orchestra e a popolarsi i palchetti, e a scattar fuori
le fiamme della ribalta. Mosse innanzi tutto al palcoscenico a
salutare i suoi amici e a dare una stretta di mano a monsieur
Lefévre, già vestito in abito pontificale; poi spinse,
attraverso al pertugio del telone, un'occhiata su quel cupo maremagno
della platea muggente; poi, quando vide che i professori d'orchestra
erano tutti ai loro stalli, e che l'esimio signor Luigi De Baillou,
primo violino per l'opera, ultimo era entrato a metter piede
sull'alto suo seggio, e stava dando la pece greca all'archetto, in
dignitosa posa e con burbero ciglio, ombreggiato dal cappellone con
coccarda e con fibbia d'acciaio lucente, in cui faceva il guizzasole
la luce della ribalta; discese anch'egli in orchestra, e si mise a
sedere fra due contrabbassi suoi amici, sotto alla cui protezione
aveva l'abitudine di godersi lo spettacolo degli spettatori, più
che quello del palco scenico.
Stando
così fra que' due amici, porgendo l'orecchio attento al vasto
frastuono che faceva il pubblico, sentiva da molti punti spiccarsi
netto il suono di varie parole, che servivano quasi ad indicar
l'argomento dei molteplici discorsi che si facevano. Bonaparte -
Alvinzi - Caldiero - Arcole - Tedeschi -
Pio VI - Mantova - Tolentino - Arciprete Besozzo
- Repubblica Romana - Francesco - Arciduca Carlo
- Aristocratici - Morte - Inferno - Papa
- Capitale del mondo - le quali parole, prese così
al volo da un uomo di garbo, e cucite insieme con della frangia,
potevano bastare a fare il riassunto dello stato delle cose in Italia
in quel momento.
Difatti
Bonaparte, nell'anno antecedente, dal maggio in poi, come sanno anche
i fanciulli, aveva del tutto ricacciati i Tedeschi dall'Italia colle
battaglie di Caldiero, d'Arcole e di Rivoli. Dopo s'era dato a far la
guerra al pontefice, aveva vinto il generale Colli alla battaglia del
Sevio, aveva provocato la pace di Tolentino, nel febbrajo del 97,
togliendo le Legazioni agli Stati della Chiesa. Ma l'Austria, dopo
tutto ciò, e precisamente in quei giorni di marzo, mandava
nuove genti in Italia sotto la condotta dell'Arciduca Carlo. Però
da una parte speranze illimitate; dall'altra timori non
irragionevoli; e gli odj quasi, più che contro l'Austria,
erano contro il pontefice, nemico di repubblica, nemico del nome
francese, nemico di civiltà e di progresso.
Ma
intanto che la gran caldaja del teatro bolliva e gorgogliava
repubblicanamente, a dare una piega più morbida a quei
pensieri, a quei discorsi, a quei progetti, le belle milanesi si
affacciarono a brevissimi intervalli l'una dall'altra, ai palchetti,
sfoggiando quasi tutte il berretto frigio, specialmente quelle che si
ritrovavano in prima fila, tra le quali ve n'erano alcune che s'erano
messe alla testa dei rivolgimenti, in gran parte per convinzione,
come vogliamo credere, ma anche per moda, ma anche per ingraziarsi la
parte più giovane dell'esercito vittorioso, e per far pompa
della loro giovanile beltà. Comparve prima in un palchetto in
prima fila una donna straordinariamente bella e straordinariamente
seminuda, della quale non solo taciamo il nome, ma non metteremmo
nemmeno l'iniziale, se la consonante R non ci facesse forza; diremo
poi che essa capitò tra noi dalle beate sponde del Verbano a
recarci la spettacolo della più splendida vegetazione
femminile; che di essa noi conosciamo i figli de' figli de' figli;
che noi stessi ne abbiam visto il ritratto dipinto dall'Appiani, di
grandezza al naturale, in costume di una Diana che entra nel bagno,
senza sospetti d'Atteoni che la stiano mirando; che... ma è
meglio finirla coi soverchi indizj.
Tante
cose fece e disse quella donna, tanti peccati, sebbene gentili, ella
commise, tante teste fece girare; tanti affanni diede ai figli ed
alle figlie di alcuna di que' personaggi che già abbiam
conosciuti, che, in quanto al nome, è meglio lasciarlo nel
mistero.
E
medesimamente nella prima fila, quando si mostrò al palchetto,
fece voltare a sè tutte le teste un'altra giovane donna, di
tanta bellezza che, per il momento, fece dimenticar la rivale; ma più
che la bellezza, la cagione di tanta attenzione era il suo
abbigliamento, che, continuando essa a stare in piedi, appariva in
faccia al pubblico in tutta la licenziosa esattezza del costume
d'allora. - Portava il berretto rosso; le spalle e le braccia,
di greca perfezione, aveva nudissime; una veste di lana bianca,
fermata al sommo delle spalle con chiovi romani, discendeva in
quattro ampie liste senza cintura; quelle liste, al moversi di lei,
si scomponevano e si aprivano, lasciando travedere come di furto e
col passaggio repentino del baleno le linee e l'incarnato
della sottoposta nudità, la quale, per chi non sapeva nulla,
potea parere, più che altro, un sospetto da verificarsi; ma
per chi aveva intimità colle mode e col figurino, non era
illusione, ma realtà, quantunque le maglie incarnatine
coprissero la pelle; ma ciò non certo a custodia di pudore,
sibbene ad obliqua lusinga di desiderio, e a tentazione del sangue.
Anche di costei dobbiamo tacere con gran riguardo, avendo solo il
permesso di dire che l'iniziale della parentela di suo marito era la
prima lettera dell'alfabeto.
E
una terza comparve pure a fermar l'attenzione generale. Meno bella
delle altre, anzi, per certi guizzi fuggitivi delle linee del volto,
tale da parere irregolare, di quella irregolarità che lascia
sospetto di deformità morale; era però maestosa e
plastica delle forme del corpo. Ella si assise girando intorno sugli
spettatori il suo occhio d'aquila. Veniva colei dai bassi fondi della
società, ma dotata di scaltrissimo ingegno: seguì e
s'accompagnò alle sorti di un avvocato, furbo, acuto, avaro,
ladro; fu una delle dee infernali dell'eccidio del Prina. Ma
basti anche di questa donna, e tiriamo innanzi.
I
cinque ordini dei palchi, in un quarto d'ora di tempo, apparvero
dunque tutti splendidi di beltà più o meno giovani,
sormontate tutte quante dal rosso berretto, ad espressione non
problematica di colore politico, e sovente a tutela della sicurezza
personale. E in ragione che salivano gli ordini dei palchetti,
scemava il valore nominale delle donne repubblicane; le modeste, le
prudenti, le timorose temevano più che mai la berlina della
prima fila; medesimamente le foggie si facevano tanto meno obbedienti
al figurino, e il pudore, tanto più ci guadagnava quanto più
si ascendeva; ma il pubblico, quantunque non in tutto approvasse
quella trionfante protervia e delle tre dee e delle altre che facevan
cerchio in prima fila, pur le festeggiava, come succede sempre
dell'arte falsa messa in concorso coll'arte vera.
Alle
ore sette, il direttore De Baillou diede dell'archetto in sulla
latta, e tra il costante mormorio della platea l'opera incominciò,
e i cantanti si sfiatarono senza che il pubblico si desse nemmeno per
inteso, perché era venuto in teatro per
tutt'altro, e i consolidati dei soprani e dei tenori
avevano in quel biennio sofferto un ribasso formidabile. Soltanto
attrasse l'attenzione la fine del primo atto dell'opera, ma non già
per il merito del dramma e della musica dell'Ademira, ma
sibbene perchè e dramma e musica e maestro pensarono bene, a
stornare le fischiate, di trasformarsi in una strofa d'occasione.
L'atto normale si chiudeva cogli affanni e le lagrime della prima
donna, e colle parole:
Quest'acuta
gelosia
Nella
tomba mi trarrà
ma,
tutti i cantanti, compresa la prima donna in lagrime, e i coristi,
proruppero invece di punto in bianco nei seguenti versi:
A
suon di violini,
Di
corni e clarinetti,
Con
giubili perfetti
Andiamo
a festeggiar;
E
per render la gioja palese
D'un
bel canto patrioto francese
L'aria
intorno facciam risuonar.
E
il canto patriota finiva con questa stanza:
D'âge
en âge, de race en race.
Que
le plus brillant souvenir
Porte
jusqu'au sombre avenir
Les
prodiges de notre audace!
Que
nos neveux, leurs enfans,
Par
nous à jamais triomphans,
Nous
doivent leur indépendance!
Que
le monde brise ses fers!
Et
que ce jour cher à la France
Soit
la fête de l'univers.
Siccome
e strofe e musica erano conosciutissime, perchè state composte
e cantate fin dall'autunno dell'anno prima, ed appiccicate, senza
badare al senso, con violenza demagogica all'ultima scena dell'Astuta
in amore, di Fioravanti; così gli applausi da tutte le
parti del teatro scoppiarono contemporaneamente alle prime battute
del canto patriotico, e lo accompagnarono, con quel crescendo
naturale che poi diventò arte con Generali e con Rossini, fino
alle ultime note. Le grida di Viva la Francia, Viva
1'Italia succedettero a quel canto con tempestosa irruenza, e
insieme i Viva la libertà e l'eguaglianza; alle quali
voci fuse in una sola onda sonora, come quella del mugghiante oceano,
si sovrappose, partendo dalle alte vette, non dell'Olimpo, ma del
loggione, una voce stentorea di trachea taurina, che gridò
Viva la Dionisa. La tremenda satira popolana, con
breviloquenza inimitabile, in quel detto avea saputo condensare la
critica delle esorbitanze generali onde i perpetui guastamestieri,
che s'introducono nel santuario del progresso, aveano cercato di
contaminare il nuovo ordine di cose. La Dionisa era il nome di
una donna paffica del Bottonuto. Applicando questo nome alla figura
che rappresentava la libertà sullo stemma dei venditori di
tabacco e sale, il popolo, col prepotente intuito del giusto,
stigmatizzava quella libertà fescennina, tanto deplorata dal
Parini e tanto contraria alla libertà vera.
Ma
poco a poco si rimise la tranquillità nel pubblico,
segnatamente quando il primo violino, signor Peruccone, comparve al
suo seggio, e dalla boccascena l'avvisatore battè palma a
palma, per significare che l'orchestra poteva cominciare il preludio
del nuovo ballo.
In
questo intermezzo il signor Giocondo Bruni puntò il suo
cannocchiale monocolo verso un giovane dragone dall'elmo lucente;
indi lo drizzò a un palchetto in terza fila, poi a quella fra
le tre dee della prima che, siccome dicemmo, fu dipinta dall'Appiani,
in costume di Diana. - Il dragone guardava al terz'ordine. Di
là una giovinetta guardava lui; il Bruni si accorse che la dea
del frigio berretto fremeva nel sorprendere lo scontro di quei due
sguardi furtivi.
Il
dramma domestico ha i suoi ritorni storici come la vita delle
nazioni. Nell'esordio del nostro racconto abbiamo visto il tenore
Amorevoli a guardare la contessa Clelia V
- ora il tempo
dei tenori è passato, la musica ha dato luogo all'arte
bellica: chi è senz'elmo e senza speroni disperi di piacere al
bel sesso. Ma dopo tutto ciò, i cuori e le passioni sono
sempre le medesime, e quello sguardo del dragone, il quale è
nientemeno che un figlio del povero Baroggi, incontratosi con una
figliuola nientemeno che della contessina Ada... intersecato dagli
sguardi iracondi della Diana della prima fila, produrrà,
mutatis mutandis, un affastellamento di casi tali, che la
pronipote ne gemerà come la nonna. - In quella sera
v'era anche la contessa Ada in teatro; e v'era anche il banchiere
Andrea Suardi, più che sessantenne; e v'era il marchese F....
sessantenne esso pure; e tutti si guardavano per mille cagioni,
ricordando il passato e congetturando il futuro; e in alto ancora,
come in quella tal notte di cui dee rammentarsi il lettore,
Scintillava
il beffardo occhio del fato.
IV
Intanto
che quell'occhio beffardo scintillava, il primo violino, signor
Peruccone, fatto d'occhio al buttafuori, mise lo strumento alla
ganascia, e accennò che si desse principio al preludio del
nuovo ballo, la musica del quale era stata scritta dal signor
Pontelibero Ferdinando.
La
Cerrito e la Taglioni crediamo sieno giunte in tempo per essere
accompagnate dal suo violino; chè egli fu il successore
appunto del professore Peruccone. Lo spirito repubblicano e le idee
democratiche che fin dal 1750 bollivano, non si sa come e per un
arcano presagio de' tempi nuovi, nel signor Lorenzo Bruni, passarono,
comunicate forse allo sgabello teatrale, fino al signor Pontelibero,
che, leggendo Rousseau al pari del signor Lorenzo, fu de' primi a
tendere l'orecchio avido alle cose di Francia; de' primi a desiderare
che l'ondata rivoluzionaria venisse a gettarsi con impeto sulle coste
d'Italia; de' primi a far festa all'ingresso delle truppe francesi, e
a portarsi fin sotto allo scalpito del cavallo bianco di Bonaparte,
per vedere dappresso il giovane imberbe che, colla severa maestà
del sopraciglio e colla preponderanza, quasi parea, di un Dio, teneva
in timorosa obbedienza i più anziani eroi sanculotti, irti di
chiome e di basette.
Del
rimanente, se mai il lettore ci domandasse, per qual ragione
spendiamo tante parole pel signor Pontelibero; diremo che,
trattandosi dell'autore della musica coreografica, che fu certo un
avvenimento di quel periodo di storia italiana, bisognava bene che si
sapesse con che idee, con che convinzioni il suo autore abbia
infiammata la propria inspirazione nello scriverla. Così
potessimo dire altrettanto del signor Lefèvre; ma se molti lo
hanno conosciuto, nessuno trovò una variante alla notizia nuda
e cruda, ch'esso era un galantuomo, convertito, di semplice mimo che
era stato, in coreografo, quando s'accorse che per vivere ci voleva
il concorso di due mestieri. Il pensiero del Ballo del Papa, e
quello di portare sulla scena, concentrata in dramma visibile, una
delle questioni più gravi suscitate dagli avvenimenti
d'allora, era venuta dal cittadino Salfi, che aveva steso e
sceneggiato il programma; e questo, per un'idea balenata nella testa
fervida del prevosto Lattuada di Varese, la quale idea, chi sa, era
forse stata suggerita dalla perfetta somiglianza che la figura del
ballerino Lefèvre aveva con quella del Pontefice Pio VI.
Ma,
a proposito del libretto del ballo, immaginato e scritto dal
cittadino Salfi dietro suggerimento del prevosto Lattuada: come
avvenne che di seimila e più copie che ne furono stampate
allora, tutte siano scomparse oggi? nelle numerose collezioni de'
magazzini librarj e delle case private che noi abbiamo esplorate, in
quelle, vogliamo dire, dove era presumibile la possibilità di
rinvenire un tal documento curioso; nelle stesse collezioni delle
pubbliche biblioteche, abbiamo trovato un salto e una lacuna
precisamente alla sede del famoso libretto.
Se
fosse stato ritirato o fatto abbruciare in piazza per comando della
pubblica autorità, la cosa sarebbe ben chiara; ma non avvenne
mai nulla di simile: che cosa adunque è a conchiudere da un
tal fatto? che le coscienze, appresso, devono aver subìta la
legge della paura; che i proprietarj de' libretti devono aver fatto
in segreto il loro auto da fè, per timore che
il papa, il quale aveva, come per tanti anni pretese il pubblico
pregiudizio, mandate a male le sorti del primo Napoleone,
compromettesse, per vendicarsi di quel libretto conservato, anche i
loro affari privati. Così i libretti sparirono tutti, e se noi
ne abbiamo trovato uno, è perchè il libraio Silvestri
gli risparmiò il rogo, e gentilmente ce ne fece tener la
copia.
Ma
or tornando in teatro, le cadenze del preludio finirono tra gli
applausi del pubblico; e il sipario si alzò.
Comparve
la sala del concistoro in Vaticano; il papa era assiso sul trono; i
cardinali, i vescovi, i prelati, i teologi, secondo l'ordine loro,
gli sedevano intorno; il nipote del papa e il principe romano stavano
ai due lati del trono.
La
platea applaudì alla stupenda scena, imaginata e dipinta dal
fantasioso Landriani; ma di mezzo agli applausi si fè sentire
la nota tenuta di un fischio acuto, la quale andò smorendo a
poco a poco nel vasto recinto. Nè quel fischio era uscito per
far opposizione al pubblico. Chi lo aveva emesso non s'intendeva gran
fatto di scenografia, e non era nemico del Landriani; ma, veduto il
pontefice, non volle tardare a manifestargli le sue simpatie.
Quest'incidente lo sappiamo dalla bocca dell'amico Bruni, che
dall'orchestra vide l'uomo che fischiava, ed era il gobbo Rigozzi,
noto allora e dopo per la sua procellosa maldicenza, pel suo spirito
irrequieto, e per la foga onde s'era dato a diffondere le idee
parigine del tempo del terrore, idolatra qual era di Robespierre e di
tutti coloro che avevano inteso di disfare a colpi di scure e di
rifare il mondo incancrenito.
Ma
qui ci conviene seguir passo passo il programma, perchè il
lettore d'oggi veda se meritava poi che ne fossero distrutte le sei
mila copie.
L'azione
adunque s'apriva nel momento in cui il papa stava consultando una
congregazione straordinaria di cardinali, prelati e teologi, sugli
articoli della pace, proposti dalla repubblica francese. Questi
articoli si leggevano e si rigettavano con indignazione generale come
contrarj all'autorità della corte pontificia. Ma in questo
mezzo un frate domenicano, generale dell'ordine, acceso di zelo, si
gettava a' piedi del papa per dimostrargli che in quella decisione
c'era più il voto degl'Inglesi e degli Austriaci che degli
Apostoli e dei Cristiani; onde il papa, maravigliato di trovare ne'
suoi teologhi lo zelo di S. Paolo, domandava ancora il voto degli
altri, che di bel nuovo proclamavano la guerra. E tosto il cardinale
segretario Busca stendeva il decreto della S. Congregazione dopo di
che il papa brandiva la spada fra gli applausi dei cardinali.
A
questo punto, per produrre l'effetto voluto, e per mettere nel
pubblico la massima esaltazione ed esacerbazione, il coreografo, a
ciò sollecitato dal prete Lattuada, aveva raccomandato alle
comparse, incaricate di far le parti di cardinali, di applaudire con
impeto e con insistenza, per rendere il vero con quell'interezza da
trarre in illusione la platea; ma tra la platea e tra il palco
scenico s'impegnò, pur troppo, una lotta di fischi e
d'applausi tali, da minacciare di uscire dalla sfera coreografica,
perchè il pubblico pretendeva che i cardinali cessassero di
applaudire mentre questi non se ne davano per intesi, sapendo di fare
il loro dovere; e la cosa andò tant'oltre, che le più
basse ingiurie, accompagnate, per parte del loggione, da
alquanti pezzi di munizione di bocca convertiti in proiettili, furono
scagliate contro quella trentina di poveri diavoli, obbligati per
trenta soldi a far il cardinale e il teologo, e a farsi odiare senza
colpa e maltrattare dal pubblico. Gli uomini sensati però
s'intromisero a gettar acqua sul fuoco; e, per quella legge inversa
onde talvolta i meno tirano i più, riuscirono a ricondurre la
tranquillità e a far proseguire il ballo.
E
il ballo, dopo molto tempestare, continuava colla spedizione del
messo incaricato di partecipare la mente infallibile del S. Padre
agli agenti della repubblica francese. E qui si scioglieva la
congregazione; dopo di che si cambiava la scena in un interno della
corte pontificia, dove, per far luogo alle inevitabili donne, si
rappresentava un intrigo tra la principessa Braschi, nipote del papa,
la quale aveva una speciale predilezione per la guerra, e la
principessa Santa Croce, la quale invece si dilettava della pace. Se
non che il papa, adulato e dall'una e dall'altra, spediva il senator
Rezzonico e il brigadiere Gandini per le opportune disposizioni di
guerra. Ma, a questo punto, di bel nuovo il generale dei Domenicani,
eccitato a parlar chiaro dalla principessa Braschi, prorompeva ad
accusare francamente l'inganno e l'impostura dei cortigiani che
aggiravano il papa; e coi gesti si affannava di esprimere quello che
per fortuna diceva chiarissimamente il libretto: Il ministro di
una religione di pace non deve che abjurare ogni pensiero di guerra.
- Il successore di S. Pietro deve maneggiare le chiavi
e non la spada. - Bisogna seguire le massime degli
apostoli, e non quelle dei cardinali. - L'eredità
del papa è la Chiesa, e non già l'impero temporale
altrui usurpato.
Ma,
a tutte queste sentenze belle e buone, il papa rispondeva che, avendo
parlato, ex-cattedra, la vittoria era assicurata: e così
finiva l'atto primo, nel momento che Pio VI partiva da una parte,
seguito dalla principessa Santa Croce, e il generale dei Domenicani
partiva dall'altra, seguito dalla principessa Braschi.
Fin
qui può dunque vedere il lettore, che l'azione coreografica,
più che le intenzioni di una satira scandalosa, racchiudeva
quella di una ragionevole dimostrazione del vero e del giusto.
E
cominciò anche il secondo atto, il quale, se si conservò
fedele alle buone intenzioni, si ribellò al buon senso
drammatico; e, tanto per tirare innanzi fino all'inevitabile quinto
atto, presentava un miscuglio triviale di qui pro quo, facendo che la
principessa Braschi ad arte svenisse nelle braccia del generale dei
Domenicani, onde determinare il convenzionale colpo di scena, per
mezzo del cardinal segretario che, furtivamente sorprendendo e
principessa e frate, andava ad avvisarne il papa, il quale compariva
in iscena a risolvere la situazione, e a minacciare il generale dei
Domenicani di punirlo colla soppressione dell'ordine; e qui, dopo un
altro parapiglia indispensabile per mettere insieme un be1 gruppo, e
che non merita la pena di riferire, si sentiva in lontananza una
cornetta da postiglione e, pochi istanti dopo, entrava in iscena il
brigadiere Gandini, ad annunciare l'arrivo del general Colli, mandato
dall'Austria per essere il campione del papa. A questo punto cadeva
il sipario, per dar tempo di preparare il grandioso atto terzo.
V
Nell'intermezzo
furono fatti circolare nei palchetti e nella platea molti foglietti
stampati, i quali contenevano il famoso proclama del cardinal Busca,
segretario di Pio VI, che, nel febbraio, prima della battaglia del
Sevio, era stato affisso su tutti gli angoli della città di
Roma. Ci fu un momento di silenzio, in cui non s'udì che il
fruscio de' foglietti, che passavano di mano in mano; poi seguì
il mormorio di tanto pubblico leggente; poi parole alte, e commenti e
risate sonore.
E
in un lato della platea, a un tratto si sentì a declamare ad
alta voce alcuni brani di quel proclama; onde tutti volsero le teste
a quel punto, e si misero in ascolto:
«L'Europa,
da un estremo all'altro, tien fisso in voi lo sguardo (nei soldati
del papa); non dubita del vostro coraggio e d'un esito felice che gli
corrisponda.
«L'ottimo
imperatore d'Austria», e qui ci fu una salva di fischiate....
«L'ottimo imperatore d'Austria Francesco II, il difensore
magnanimo, l'avvocato della Chiesa romana, nel tempo stesso che manda
in nostro aiuto gl'intrepidi volonterosi ungari, transilvani, croati
e alemanni, vi ha spedito, alla prima richiesta del santissimo nostro
affettuoso padre Pio VI, uno de' migliori, più pregiati, più
sperimentati di lui generali... (e qui un uh!... sonoro e
prolungato di quanti ascoltavano), che solo vi mancava, che
bramavate. Ei venne sollecito; è fra voi. Il nome solo di
Colli non vi commove, non v'infonde spirito, non ravviva gli animi di
tutti i popoli?... (A queste parole s'innalzarono da varj punti delle
risate sonore).
«L'onor
comune vuole da voi che lo stimiate un nuovo Cesare, onde per mezzo
vostro venga, veda, vinca. Fortunati voi che potete sperarlo
con tanto fondamento...»
E
le risate continuarono, e intercalate ad esse de' sibili e dei
basta!!! I quali basta cominciarono a prendere il
sopravvento.
Pur
la voce continuava: «Voi, sotto l'immagine di quella Vergine
medesima, che vi ha eccitati a questa impresa, potrete dubitare
dell'amoroso efficace di lei patrocinio? Voi, generosi cavalieri, che
nelle vostre insegne portate lo sfolgorante segno della croce, non
vorrete augurarvi a credere fermato ne' divini decreti che, siccome
Costantino il Grande vinse il tiranno Massenzio in virtù di
quel segno comparsogli al ponte Milvio, e per tal vittoria egli
stabilì nella capitale del mondo...»
A
queste parole il declamatore fu interrotto da un nocciolo che,
scagliato da uno di coloro che stavano in piedi nella destra corsia
della platea, venne a colpirlo netto secco nella fronte,
contemporaneamente al grido: Abbasso Costantino!
Il
declamatore naturalmente s'interruppe; nella corsia, vicino e intorno
a colui che avea lanciato il projetto, nacque un alterco e un
parapiglia terribile; ai basta di prima successe un'esplosione
di avanti, avanti, avanti!
«E
voi del pari (continuò dopo alcuni istanti il declamatore
imperterrito, ad onta della sorba che si andava sviluppando sulla
fronte), voi del pari, da questo segno salutare protetti, trionferete
di più empj e brutali nemici...»
Ma,
a queste parole, di nuovo tornò a dominare il campo una
esplosione simultanea di basta, silenzio, zitto; e la voce del
declamatore ne fu soffocata, in quel momento stesso che il buttafuori
fece capolino dal proscenio, e diede, battendo le mani, il solito
segnale al primo violino, il quale percosse con forza la latta del
lettorino.
Allora
dal loggione, quella medesima voce taurina che già
aveva gridato viva la Dionisa, gridò silenzio!
squarciando l'aria teatrale con tale risolutezza, da non
ammettere la possibilità che si potesse disobbedire; e
silenzio fu fatto; e si udì netto il fischio che annunziava
l'alzata del sipario, il quale si alzò infatti, e comparve la
piazza di S. Pietro in Roma. Il pubblico mandò quella concorde
esclamazione di maraviglia onde anche oggi suol salutare la discesa
della lumiera; esclamazione che fu susseguita da applausi prolungati
al bravo Landriani, il quale stupendamente aveva dipinta quella
scena; e il Landriani dovette mostrarsi a ringraziare il pubblico.
La
piazza di S. Pietro era ingombrata da immenso popolo, impaziente,
come diceva il libretto, di godere del general Colli. Dopo alcuni
momenti d'aspettazione, conceduti al pubblico appunto per ammirare la
grandiosa prospettiva della città eterna, comparve il papa
sulla sedia gestatoria, e venne portato nel mezzo della piazza: la
sua corte, in tutto lo sfoggio delle vesti ecclesiastiche, lo
circondava; le guardie d'onore e le guardie svizzere, sfolgoranti
d'oro ed argento con esagerazione, introdotti a beneplacito del
vestiarista, che volle farsi merito e contendere la palma al pittor
scenico, gli sfilarono ai lati in duplice ala. - Tutte le
altre truppe in armi si schierarono sul fondo del palco. Anche qui,
per conceder tempo al pubblico di ammirare ed applaudire, furono
lasciati trascorrere alcuni minuti; e il pubblico ammirò
infatti ed applaudì vivamente; e il pontefice Pio VI, ossia
monsieur Lefèvre, il quale si dimenticò del suo
carattere, si alzò dalla sedia gestatoria e fece tre riverenze
alla platea, che lo avea preso a ben volere; ma la platea tacque di
tratto, perchè non desiderava che s'imbrogliassero le idee.
Monsieur Lefèvre ne fu alquanto mortificato; ma di chi
era la colpa?...
In
quel punto, al suono di una marcia militare, spuntò
dall'ultima delle quinte a destra la testa piumata di un cavallo
bianco; ed era il cavallo del general Colli, il quale finalmente si
mostrò fra due soldati che gli tenevano le staffe,
coll'incarico di regolare il passo della bestia, in modo da non
compromettere i vetri della ribalta. Alla sinistra del general Colli,
ossia del signor Raimondo Fidanza, procedeva, pure a cavallo, il
senator Rezzonico, comandante delle truppe pontificie, ossia il
signor Luigi Corticelli.
E
il general Colli discendeva da cavallo, e con incesso il più
convenzionalmente teatrale, si portò innanzi alla sedia
gestatoria del pontefice, e, piegossi a baciargli la santissima
pantofola. Il pubblico non applaudì, non fischiò, e si
contenne in un silenzio dignitoso, intanto che il pontefice
presentava ai cortigiani il general Colli, siccome la speranza del
Vaticano. Il pubblico, che s'era già sfogato contro l'arringa
famosa del cardinal Busca, dalla quale appariva come lo spirito
profetico non fosse più il lato forte dell'ordine jeratico,
assistette a questa scena con indifferenza, non sapendo determinarsi
con risolutezza piuttosto a ridere che ad andare in collera. Ma forse
l'allegria e la collera si sarebbero confederate a provocare una
procella popolare, se non ci fosse stata la valvola di sicurezza
degli indispensabili amori della prima mima col primo mimo, ossia
della signora principessa Braschi col general Colli; ai quali bastò
lo scambio fuggitivo di un'occhiata per intendersela tosto. Ben è
vero che la principessa lavorava per progetto, perchè le
premeva di ammaliare il cuore del novello campione e volea prevenire
la Santa Croce, sempre disposta a tagliarle la strada sul campo
sdrucciolevole dell'amore e della politica; e per assicurare il buon
esito di quella guerra, dalla quale sperava tanto. Stando dunque così
le cose, la sedia gestatoria del papa veniva alzata da robuste
braccia; e però accennando il sovrano di partire, i cortigiani
e i sudditi e i militi non poterono star fermi, e lo seguirono, e
innanzi a tutti il general Colli, servendo la principessa Braschi più
da Cupido che da Marte, e provocando un terribile dispetto tanto nel
nipote del papa quanto in un certo conte Antonio, i quali non erano
indifferenti ai vezzi della bella principessa.
Così
amorosamente finito il terz'atto in piazza San Pietro, ragion voleva
che la scena posteriore fosse un magnifico interno; e il quart'atto
infatti si aprì con una gran sala del Vaticano splendidamente
adornata, con una mensa in fondo lautamente imbandita. -
Intorno a questa si elevava una gradinata, occupata da musici e,
siccome garantiva il libretto, da eunuchi. Diversi trionfi di
lumi, per usare una frase allora in voga nel linguaggio dei pittori
teatrali e degli attrezzisti, rischiaravano a giorno tutta la
galleria.
Dopo
l'aspettativa di prammatica, entrava in iscena il papa, in compagnia
del general Colli, il quale riceveva molti segni di stima e di
riconoscenza. - Se non che il quart'atto, essendo destinato
alle indispensabili danze, e la prammatica dovendo per forza
escludere il buon senso e il verosimile; il pontefice si metteva a
sedere in trono, circondato da tutta la sua corte; e il corpo di
ballo e le bis septem præstanti corpore nymphæ
d'allora, e le tre emerite di magazzino, e la coppia danzante di
cartello, attesero a far pompa innanzi al papa di tutte le loro
grazie palesi ed anche segrete, di tutta la loro abilità,
compreso il ballerino, in costume d'eunuco, il quale saltando a
furia, accennava di voler appartenere, a dispetto dell'arte sincera,
all'atletica confraternita dei grotteschi. - Il programma del
cittadino Salfi ci assicura, che il papa spiegava in questo mentre
tutta la passione che aveva per le gambe più gentili e meglio
tornite, applaudendo chi più si distingueva; e non omette di
fare una particolare menzione di monsignor Busca, il cardinale
segretario, il quale non si risparmiava, nè risparmiava
altrui. - Ma intanto che ferveva la baraonda ballante, il
general Colli, da buon stratego, non perdeva nessun momento che gli
offrisse occasione di sacrificare i suoi piani di guerra a quelli
d'amore; e ovunque continuava a perseguitare la Braschi, la quale ben
volentieri si lasciava perseguitare, alla barba del principe marito e
del vicemarito conte Antonio. Se non che la festa e l'amore venivano
interrotti da un'altra marcia militare, e a tutti conveniva partire;
e primo il generale Colli, colla duplice felicità del dio
Marte che, cercando Bellona, volentieri s'intrecciava nelle reti di
Vulcano.
E
finalmente siam giunti al quint'atto; all'atto risolutivo, alla
catastrofe, a quello che deve spiegare tutto il concetto e l'intento
della rappresentazione coreografica. - Siamo ancora nella gran
piazza di S. Pietro, ancor più folta di popolo, ancor più
fitta d'armi e d'armati. Il papa, dal general Colli e dal senator
Rezzonico, è accompagnato a cavallo sulla sua sedia
gestatoria. Colli fa la rivista delle truppe, e ne preconizza le
glorie; tutti, inginocchiati, presentano le armi a terra, e il papa
dà la benedizione alle bandiere; indi, smontato, fa un dono
della sua spada al general Colli, che, in riconoscenza, giura di
combattere per la causa del fanatismo della schiavitù. -
Se non che quando si dà il segnale della marcia, un corriere
importunamente reca al santo padre alcuni dispacci, la cui vista
produce lo svenimento di lui e la costernazione di tutti gli astanti,
chè i dispacci annunziavano la resa di Mantova e le altre
vittorie francesi.
Ma
in questo frangente torna in iscena il generale dei Domenicani, il
quale dal poeta compositore e dal coreografo tiene la duplice
missione, e di rappresentare l'alta ragione del dramma, e di produrre
a luogo e tempo i colpi di scena invocati dal colto pubblico. Esso
dunque, avendo la virtù di sacrificare i sentimenti
particolari all'amore del prossimo, e amando sinceramente i veri
interessi pontificj, all'improvvisa novella pensa di recarsi
anch'esso dal papa. Qui nasce un terribile contrasto d'idee,
d'opinioni, di passioni. Il general Colli vorrebbe, dopo il primo
colpo della sorpresa, far credere ch'ei solo può bastare a
cambiare l'aspetto delle cose; ma il papa, rinvenuto dal suo
deliquio, ondeggia fra il timore e la speranza, e mostra in tutti gli
atti della sua costernazione ch'egli è soggetto a tutte le
passioni di un mortale fallibile. Però, dopo lungo esitare, si
abbandona fra le braccia del generale dei Domenicani; il quale lo
conforta cristianamente a provvedere una volta, qual degno successore
di san Pietro, alla gloria della Chiesa ed alla salvezza del popolo.
«Rinunciate, esclama altamente il Domenicano, rinunciate al
fasto ed al regno di questo mondo che non è quello del cielo;
deponete la tiara, e mettetevi invece il berretto della libertà,
ch'era certamente quello degli apostoli pescatori (e qui gli offriva
quell'insegna); riconoscete insomma i diritti inalienabili del
popolo, che è la vera Chiesa di cui dovete esser padre e non
già despota.»
A
queste parole il general Colli si slanciava contro il berretto della
libertà; ma il popolo, compreso della verità più
che dell'impostura, rivoltava le armi contro di lui. A questo
prodigio il papa riconosceva la libertà, di cui cingevasi il
berretto, deponendo il simbolico triregno.
E
qui avvenne quello che non avrebbe dovuto avvenire. Al gruppo analogo
che tutti i personaggi e le comparse fecero intorno al papa,
abbracciato col generale dei Domenicani, e col general Colli, che
aveva transatto anch'esso, il pubblico non potè a meno
d'applaudire freneticamente; e la frenesia passò il segno.
Veramente la mozione venne da un ufficiale francese, che gridò:
Vive le pape; vive le général - mais
nous voulons un périgordin entre le pape et le général.
Allons, vite - un périgordin. E quella parte
di popolo che ama sempre di straripare, si mise ad assecondare la
mozione del bizzarro ufficiale; e allons, vite, un périgordin,
fu il grido frenetico che invase platea e palcoscenico; grido che,
non essendo tosto adempiuto dai signori attori, minacciò di
convertirsi in atti violenti. Se il papa fosse stato il papa, certo
che avrebbe resistito alla pubblica violenza, e avrebbe piuttosto
voluto morir martire; ma monsieur Lefèvre non aveva nè
questa smania, nè una eccessiva devozione per la dignità
pontificale; così, per stornare i projettili dell'ira
pubblica, si mise a danzare col signor Raimondo Fidanza un
perigordino che andò alle stelle. La strana danza
inaspettata provocò una sconcia ilarità generale, al
punto che scoppiavano dalle convulsioni del riso anche quelli che ne
avevano dispetto e quasi paura.
Ma
a far cessare lo scandalo provvidero i direttori del palco scenico,
ordinando che si calasse il sipario. Il pubblico mandò degli
urli a quella calata, strepitò per lungo tempo ancora;
minacciò e fu in procinto di tradurre le minaccie violenti, se
di nuovo i pompieri metafisici, gettando acqua su quel fuoco, non
fossero riusciti a spegnerlo del tutto.
Tale,
nelle sue generalità, fu l'andamento del così detto
Ballo del papa, rappresentato al nostro massimo teatro della
Scala, col titolo di General Colli a Roma; ballo più
famoso che conosciuto, perchè appena qualche storia stampata
ne toccò di volo; e qualche cronaca tuttora manoscritta, e tra
le altre quella del canonico Mantovani, ne ha somministrate alcune
strane circostanze. Del resto, di questo ballo si parlò a
lungo nel mondo, e allora e dopo, come di una enormità
inaudita. Ma ciò avvenne per quella indecente applicazione a
cui lo trasse violentemente in quella sera una parte di pubblico. -
Tant'è vero che lo stesso prevosto Lattuada di Varese, e
l'arciprete Besozzo e il cittadino Salfi, i quali ebbero tanta opera
in quel lavoro, nella persuasione che, parlando visibilmente
all'imaginazione popolare, giovasse a raddrizzar le idee in gran
parte ancora pregiudicate, instarono con sollecitudine presso
l'autorità perchè lo proibisse - come in fatti
venne proibito. Temettero e il Besozzo e il Lattuada che di quella
scandalosa piega che avea preso, loro malgrado, quella
rappresentazione coreografica, se ne giovasse pe' suoi obliqui fini
una conventicola di aristocratici frementi e di frati aboliti, che si
radunava di soppiatto in una casa situata in Santa Maria Fulcorina,
della qual conventicola era il raggiratore supremo (chi mai lo
avrebbe immaginato nel 1766?) quell'istesso marchese F
, quel
sacerdote perduto dietro ai riti paffici, alle cui orgie abbiamo
assistito nell'ultimo capo del libro nono; quel marchese che vedemmo
a trattener la carrozza in cui si trovava la contessa Clelia V
colla sua figliuola Ada. Per che piano inclinato sdrucciolevole, da
quei riti colui sia passato ai tenebrosi misteri dell'aristocrazia
clericale, lo vedremo in appresso. Anzi farem di assistere ad una di
quelle conventicole, le quali s'eran proposto di mandar a fascio il
nuovo ordine di cose. Oggi son passati più di sessant'anni da
quell'epoca; ma sembra che in mezzo non sia corsa che una notte
affannosa. Anche oggi ci troviamo in cospetto dei medesimi fatti; ci
troviamo di contro e di dietro gli stessi nemici; siamo sollecitati
dai medesimi problemi.
LIBRO
UNDECIMO
Il
banchiere Andrea Suardi e il marchese F... - La reazione
aristocratico-clericale. - Un vescovo e un monsignore. -
Frati aboliti. - La contessa A... - La congregazione
bonapartista. - Il colonnello Landrieux. - Il capitano
Geremia Baroggi. - Gli anni 1750 1766 1797. -
La contessa Clelia V... - La contessa Ada S... - Donna
Paolina. - Il Dragone benefico, commedia di
Mirocleto Ghedini.
I
Allorchè
la folla fu quasi tutta uscita dalla platea e si riversava nella
piazzetta, il banchiere Andrea Suardi era disceso dal suo palchetto
in quarta fila a sinistra, ed usciva dal corridoio della prima,
mettendo piede nell'atrio quasi nel punto stesso che il marchese F...
faceva altrettanto, spuntando fuori dal corridoio della prima fila a
destra. L'uno e l'altro erano vestiti come voleva la legge rigorosa
del costume repubblicano: gran marsinone a larghe falde, ampia
cravatta bianca con cappellone e coccardone. L'uno e l'altro avevano
sessantott'anni per ciascuno; la perfetta loro somiglianza era data
fuori coll'età, perchè il marchese F... avendo messo
trippa, presentava anch'esso quel beato embonpoint che aveva
sempre distinto il florido Andrea Suardi dall'asciutto marchese.
Discesero,
si fermarono ambidue all'ultimo gradino, come se fossero i due
guardaportoni di quelle soglie; si guardarono scambievolmente e,
sembrò, con qualche significato; poi volsero altrove la testa,
tenendo dietro alle code estreme della folla che usciva, e osservando
le voluttuose e seminude marchese e contesse democratizzate, che
attendevano la venuta del non ancora abolito e non mai abolituro
cocchiere. Chi si ricorda la faccia dell'attore Bon, quando
rappresentava il personaggio di Ludro nella sua gran giornata, può
farsi una qualche idea di quei due gemelli sessagenarj; colla
differenza però, che l'ex stalliere e lacchè e ladro
processato, e contrabbandiere, e fermiere, e finalmente banchiere
milionario, cittadino Andrea Suardi, adocchiava le dame seminude con
isfacciata protervia; e l'ex amante non mai amato di quante ballerine
peccatrici e peccatrici cantanti calcarono il palco scenico,
convertito poi in fabbriciere di S. Maria alla Porta e condirettore
dell'Orfanotrofio della Stella, le sbirciava con quel ghigno onde il
Tartufo di Molière guardava la bella moglie d'Orgone. Ma i due
Ludri a perfetta vicenda, sebbene usciti da due alvi diversi e non
congiunti in parentela di sangue che da un duplice atto paterno,
l'uno legittimo, l'altro di contrabbando, e di cui non era
consapevole che la misteriosa natura, uscirono dal teatro senza
aspettare che le loro carrozze si presentassero in regolare
processione sotto al portico, ma andandole a cercare pedestri nella
contrada di San Giuseppe, dove avevano l'ordine di star ferme ad
attenderli. Coloro sapevano benissimo di non essere molto amati dal
popolo, e però non desideravano di lasciarsi cogliere a salire
in carrozza in mezzo alle ondate della folla che, in nome della
libertà e dell'eguaglianza, avrebbe potuto prevenire
appositamente per essi l'invenzione della tassa sui cavalli. Come
furono usciti, si avvicinarono a pochi passi dal servo, che, senza
livrea ma colla sua brava coccarda tricolore anch'esso, li stava
aspettando da più d'un'ora. Il marchese F... disse sommesso al
signor Andrea:
-
Domani vi aspetto all'ora solita.
-
All'ora solita io sarò là.
-
Che ne dite del ballo?
-
Mi sono divertito assai.
-
Ma che cosa ne pensate?
-
È quello che ci voleva... I curati di campagna potranno così
spaventare i villani coi terrori della religione; e tirarli dove noi
vorremo.
-
E intanto, per fortuna, l'arciduca Carlo vien giù con un
esercito fresco e numeroso. Questo lo sapete?
-
Credo d'avervela data io questa notizia.
-
Oh se queste maledette acque che han rotto gli argini, potessero
ritornar presto nel loro letto!! Che respiro!!!... Che ne dite, voi?
-
Dopo la piena vien la magra; ho sempre visto così. Ma salite
in carrozza, che io farò altrettanto; e a rivederci domani.
A
questo punto il lettore, che si ricorda della condizione speciale in
cui lasciammo questi due personaggi, e della distanza non facilmente
avvicinabile che intercerdeva tra l'uno e l'altro, spontaneamente
domanderà, in che modo accadde codesto loro avvicinamento e
per quali processi psicologici e fisiologici si venne cangiando
l'indole del marchese F... Dietro alla qual domanda ne dovrebbero
venire altre molte. Che cosa, per esempio, sia avvenuto della
contessa Clelia V... e della contessina Ada? e, stando alle ultime
parole con cui abbiamo commentato il fortuito incontro del marchese
F... colla giovinetta Ada, quali rapporti passarono in appresso tra
loro due? e giacchè il banchiere Andrea Suardi era stato messo
una seconda volta nelle carceri del Capitano di giustizia per accusa
di rapimento, pro rapto virginum, mossagli contro
dall'avvocato Strigelli, con quali mezzi lo stesso banchiere abbia
potuto uscirne? e giacchè costui, fin da quando era lacchè,
aveva involato il testamento olografo dello zio del marchese F...,
fatto che costituisce il perno capitale intorno a cui s'aggira tutta
la matassa arruffata degli avvenimenti che abbiamo preso a
raccontare; che cosa avvenne, in trent'anni, di un tale testamento
appunto, e della madre del Baroggi, e di questo sventurato giovane,
tirato nel trabocchello dal Suardi? E se il marchese F... ha preso
moglie? e se l'ha presa il banchiere Suardi? e come si chiamano, di
grazia, codeste loro consorti, concesso che essi abbiano incontrato
matrimonio? E se la contessina Ada siasi congiunta a qualcuno, ed a
chi? E, giacchè abbiam sentito nominare un Geremia Baroggi, e
sappiamo che è il figlio del sottotenente di finanza, in che
modo nel 1797 si trovasse già capitano dei dragoni, stando a
quello che fu già accennato, ecc., ecc.?
Siccome,
a voler rispondere a tutte queste domande col mezzo dell'azione
drammatica, ci vorrebbe un ben grosso volume, così, giacchè
il tempo incalza, quando verrà il momento opportuno, non
faremo che ripetere ai lettori, concentrato e condensato, il racconto
che, in diverse riprese, fece a noi stessi il signor Giocondo Bruni.
Per ora, sgruppiamo la nuova matassa.
II
Fin
dai tempi più remoti dei Bramini, il tirannico proposito di
spaventare le moltitudini coi terrori della divinità,
avvolgendole in una catena inestricabile di riti arcani, che avessero
la forza della legge, corroborata dalla minaccia di orribili pene,
passò di generazione in generazione, quasi per fedecommesso,
agli ordini sacerdotali di tutte le religioni. Il cristianesimo solo,
nella sua prima istituzione e nei primi anni della sua vita, recò
e mantenne nel mondo una luce serena, a consolazione dell'umanità.
Ma fu per poco. I sacerdoti snaturarono l'istituzione; - la
lettera mite del Vangelo fu torta a diverso significato. - La
scienza della teologia turbò di commenti tortuosi la
semplicità del testo. Allorchè il successore di S.
Pietro si dimenticò della povertà primitiva, e della
prima rete e della prima navicella, e vestì la pompa mondana
dei re e dei sacerdoti di Babilonia e di Ninive, il limpido zampillo
della parola di Cristo scomparve nell'onda impura dell'interesse
umano. Il potere temporale del papa fu la più grande sventura
del cristianesimo. Quei pontefici, che gli diedero la massima
espansione, intentarono alla religione una guerra funesta. Gregorio
VII, che venne canonizzato santo, non fu che un genio d'ambizione e
d'astuzia; egli offese non solo la religione vera, ma offese
l'umanità, condannando i sacerdoti all'assurdo obbligo di un
celibato impossibile, che gli avvezzò ai raggiri
dell'ipocrisia, all'odio dei fratelli più privilegiati. Pur
troppo, dal giorno che il monaco Ildebrando cinse la corona, la
storia della corte romana è uno spettacolo che contrista la
ragione.
Senza
rammentare le pagine più cupe di codesta storia; senza
ripensare ai più tortuosi avvolgimenti della politica dei
pontefici; senza rinnovarci il fremito dei patiboli e dei roghi da
essi accesi; senza ponderare i due memorandum delle Marche e
delle Legazioni, dove sono consegnate tutte le accuse e le prove
irrefragabili dei delitti ufficiali dell'ultimo periodo del potere
pontificio; per rimanere percossi di stupore, basta scorrere soltanto
un libro, che pur si limita a prudenziali intenti: questo libro è
l'Indice dei libri proibiti.
Non
ricorriamo ad altri documenti, non sommoviamo la storia, lasciamo gli
apostoli e i santi padri in pace. Questo libro, nella sua semplicità
numerica, nella sua laconica grettezza, è il riassunto di
tutti i capi d'accusa, di tutto il corpo delle citazioni erudite, di
tutte le argomentazioni della sapienza, di tutte le strettoje della
logica inesorabile. Il potere pontificale è giudicato in
ultima istanza dal suo Indice dei libri proibiti. L'uomo colto
si faccia passare innanzi alla memoria tutte le opere del pensiero
che più hanno beneficato l'umanità, quelle che hanno
determinato un nuovo atteggiamento della civiltà, che apersero
nuovi mondi alla scienza, che vivificarono coll'incanto del
linguaggio poetico i pericolosi ozj della vita; eppoi consideri, che
quasi tutte codeste opere furono messe all'indice pontificio dei
libri proibiti: le più splendide emanazioni delle menti
privilegiate, tutte son segnate a condanna in quell'Indice,
che si riduce ad essere il rifiuto documentato dei doni più
insigni del genio che, in terra, è l'ombra più sublime
della divinità.
I
Paria erano maledetti dai sacerdoti del Dio Brama: gli uomini più
benemeriti della società lo sono dal potere pontificale. Per
negare questo fatto spaventoso, bisogna mettere sul rogo il libro
dell'Indice. La più sofistica dialettica del più
astuto figlio di Lojola non può che ammutolire al cospetto di
questa verità.
Quando
Gioberti consolandosi, per un violento artificio del suo forte
intelletto e delle sue generose aspirazioni, col primo jeratico
posseduto in proprio dall'Italia, cosperse di lodi convenzionali il
pontefice e la sua corte, coll'intento di placarlo e di renderlo
propizio all'Italia e al mondo, mise per condizione, che fosse tutta
quanta ristaurata l'educazione dell'ordine sacerdotale, ma senza
pensare che era impossibile la florida vegetazione degli sparsi rami,
senza provveder prima al tronco dell'arbore vetusto. Ben se ne
accorse dieci anni dopo, e con ritrattazione coraggiosa scompose
tutto quanto il suo edifizio, e propugnò la necessità
inevitabile della distruzione del poter temporale del papa, e venne a
conchiudere, che l'ordine sacerdotale non avrà mai educazione
propizia al sincero progresso dell'umanità, se non si
procederà innanzi tutto alla riforma radicale della corte
romana.
Da
quella fonte corrotta derivano tutte le torbide gare che infestano il
libero progresso.
Nei
seminarj, la scienza che si amministra ai giovani adepti è una
scienza intralciata e caotica, quando non è mendace e
sovversiva. Se gl'intelletti che vi si abbeverano, hanno, per una
particolare benedizione del cielo, il privilegio della serenità
e della forza, col dono del sentimento e dell'istinto del bene, i
sacerdoti ne escono intatti, non conservando che la veste
sacerdotale, ma senza appartenere in realtà all'ordine
clericale; soltanto allora che vi si raccolgono menti volgari e
fiacche, oppure ingegni forniti di quella prontezza meccanica delle
facoltà con cui s'imparano e si esercitano molte discipline,
ma senza il benefizio del buon senso e del sentimento, -
soltanto allora dai seminarj escono i sacerdoti nel mondo, secondo
l'intenzione di Roma, ciechi al progresso, testardi di falsa scienza,
propugnatori crudeli di oscurantismo, nemici degli uomini,
contristatori assidui delle povere anime ingenue, alleati naturali di
tutti i tristi.
Di
quest'ultima classe, erano alcuni sacerdoti, che, nel lunedì
della settimana grassa del 1797, si trovarono, verso il mezzodì,
in quella tal casa in Santa Maria Fulcorina; casa che noi non
dobbiamo designare esplicitamente, per un riguardo ad uomini morti di
recente, consanguinei di persone tuttora vive, e, ci confidiamo, ben
pensanti e ben volenti.
In
un ampio salotto, a pian terreno verso corte, stavano, alcuni seduti,
alcuni in piedi, da dieci a dodici tra preti e frati, uniti in quel
punto in domestichezza, quantunque vi fosse tra loro la discrepanza
portata dai diversi gradi della gerarchia ecclesiastica a cui
appartenevano. Quei dieci o dodici preti e frati erano tutti in abito
secolare completamente nero, col cappello tondo, protetto
dall'inevitabile coccarda, incaricata di stornare dalle loro schiene
le probabili bastonature della folla capricciosa. Quello di loro che
stava seduto nel mezzo, era nientemeno che il vescovo di... di una
città non molto distante da Milano, e non era di quelli che la
natura, ne' suoi momenti di probità, compone apposta, perchè
il mondo esperimentato non rimanga ingannato dalle apparenze; testa
grossa, fronte ampia e fatta a cofano, naso corto e quadro, bocca
larga, con labbra sottili e in tutto rendente la somiglianza di una
sferla fatta con un coltello in una zucca; gli occhi si
vedevano, e basta. L'uomo, come vescovo, era giovane, vale a dire non
varcava i quarantatre anni; era di corporatura breve, ma densa e
pettoruta, con un lieve sintomo di quella rachitide, che distingue i
nani tarchiati e petulanti dai gobbi mingherlini e gentili. -
Colui era stato uno dei migliori allievi usciti dal Seminario di
Milano. Avendo predicato nella chiesa di S. Gottardo a Corte, ebbe la
protezione dell'arciduca Ferdinando, e quindi dell'arcivescovo, del
vecchio Kaunitz, e di Leopoldo II; e in breve, di curato fatto
prevosto e arciprete, balzò alle insegne vescovili. Alle
scuole ginnasiali era stato l'antipatia de' suoi condiscepoli
giovinetti, che l'avevano odiato perchè aveva avuto
l'abitudine di far la spia presso al maestro; ed anche perchè,
fornito di gran memoria ed essendo un gran sgobbone, era salito al
grado d'imperatore, come voleva il costume a que' tempi.
Venuto
alla scuola di belle lettere in Brera, il Parini, lettore sagacissimo
di fisionomie, e acre e bisbetico, lo ebbe talmente in sulle corna,
che lo espose spesso alle risate della scolaresca. Dalla giovine
società che lo aveva circondato, non ebbe mai dunque che segni
d'antipatia e di disprezzo in tutto il tempo de' suoi primi studj.
Però il seminario riuscì per lui un luogo di sicurezza
e di tranquillità, dove fu ben felice di sentir l'odore de'
sornioni suoi pari, che l'odorarono a gara, e gli si accostarono e si
strinsero in lega seco. In simile maniera s'accovacciano insieme
nelle cantine, e accanto ai focolari delle vecchie pinzochere, i
gatti soriani, in odio al mondo e all'allegra brigata dei cani
barboni.
Vicino
a quel vescovo v'era un monsignore del Duomo, stato professore in
seminario di lingua ebraica, poi di casistica; dottissimo interprete
di scritture antiche, e forte in numismatica, specialmente nella
romana. Costui era dotato di quell'ingegno specialissimo, a cui
riescono agevoli tutte quelle discipline che non hanno viscere, e che
al più degli studiosi presentano insuperabili difficoltà.
Era un uomo non cattivo; viveva e lasciava vivere; era modesto,
pacato, non pretendeva nulla, non offendeva nessuno. Ma sebbene
paresse fatto di ghiaccio, e nella maggior parte delle quistioni
fosse inclinato alla mitezza la più indulgente cogli
avversarj, toccato nelle cose di religione, mandava di repente fuoco
e fiamme, e, contrariato, muggiva come un tigre ferito. In
conclusione, pare che fosse un po' tocco nel cervello, e che le
facoltà dello spirito che più aveva ricevute perfette
dalla natura, e più aveva esercitate, avessero provocato uno
strano squilibrio nelle altre. Barnaba Oriani, che aveva studiato
seco, lo qualificava per quel furioso cretino pieno di sapere.
Gli altri astanti erano stati frati di varj ordini regolari, di
quelli che Giuseppe II, il quale aveva fatto male anche il bene,
dall'oggi al domani aveva gettati senza ricovero e senza pane sulle
pubbliche vie, provocando per essi nelle moltitudini una pietà,
che quei frati aboliti non avevano meritato per sè stessi, ma
che meritavano come uomini aventi il diritto di vivere, e di non
sentire la necessità di confederarsi alla colpa per vendicarsi
dei concittadini secolari, e di quel monarca esaltato e presuntuoso,
che fece parere atti di tirannia crudele e insopportabile, anche le
più benefiche riforme volute dalla filosofia. Quei frati, dopo
aver passato un pajo d'anni in una vita che non fu certo una
meraviglia nè d'agiatezza nè di buone azioni, avevano
finalmente trovata la protezione di quel monsignor vescovo e
dell'altro monsignore del Duomo, e furono messi curati e vicarj in
alcuni villaggi della diocesi milanese, coll'incarico di guastar le
teste della povera gente. Di coloro uno era anche buon predicatore,
per quella parte, già s'intende, che non sta nel raziocinio,
ma nell'aria del polmone.
A
sospendere i discorsi di costoro, entrò nel salotto con
burbero cipiglio il marchese F..., accompagnato da un conte T..., dal
milionario Mellerio, da un tal Vincenti, provveditore della
repubblica di Venezia, e dal banchiere Suardi.
III
Tutti
quelli che hanno imparato a leggere ed hanno un po' di memoria, ed
ebbero appena un mediocre desiderio di conoscere le vicende della
patria durante il periodo napoleonico, devono conoscere i fatti più
importanti e più rumorosi, e che furono ripetuti da tutti gli
storici di quel tempo, e però devono essere informati delle
sommosse avvenute a Bergamo, a Crema, a Brescia, nel marzo del 1797;
medesimamente devono sapere, e sarebbe cosa vergognosa se non lo
sapessero, che quelle città facevan parte del dominio di terra
ferma della repubblica di Venezia. In conseguenza di tutto ciò,
deve aver fatto senso che la conventicola di Santa Maria Fulcorina,
iraconda delle cose nuove, impiombata con malvagia caparbietà
al passato, meditasse il disegno di far nascere una rivoluzione in
quelle città appunto che abbiamo nominate; dovechè
nelle storie è scritto, ed è verissimo, che le sommosse
in quelle città vi furono eccitate per latente favilla dei
Francesi stessi, e di quegli Italiani che più erano
infervorati di libertà, e più idolatravano Francia e
Bonaparte e tutto ciò che di nuovo e di strano aveva qui
recato l'impetuosa onda repubblicana.
Ma
il fatto della società segreta, che noi chiameremo dei
retrivi, con vocabolo nuovo di zecca, surta a Milano
contemporaneamente ad una congregazione segreta dei Bonapartisti e
mediante una rivoluzione ben contraria agli intenti di quella, è
appunto ciò che di nuovo e di non ancora stampato viene a dire
al lettore la nostra musa storica in sottana di bigello; la nostra
musa, che si propose l'intento speciale di raccogliere tutti i
minuzzoli di carta che la storia aulica lacerò e gettò
via con improvvido disprezzo.
E
prima ne giova di ripetere, riassumendo, quel che è narrato
dal Botta e da altri, come la città di Bergamo fosse stata
occupata in que' giorni appunto da Bonaparte, quale strumento a
volgere a sua devozione i popoli della terra ferma veneta; come
Baraguay d'Hilliers avesse guidato i repubblicani in quella città,
con cannoni e miccie accese, intimando al podestà Ottolini di
far sgombrare dalla terra tutte le truppe venete; come appunto in
quei giorni si fosse creata a Milano, per opera stessa di Bonaparte,
una congregazione segreta, nella quale entravano in gran numero i
repubblicani italiani, il cui fine era di portare la rivoluzione nel
paese veneziano. Di quella congregazione, composta del conte Caleppio
bergamasco, dei Lechi e dei Gambara di Brescia, del Porro di Milano,
ecc., ecc., facevan parte anche molti Francesi, tra cui il colonnello
di cavalleria Landrieux, che era stato eletto dalla congregazione
quale operatore principale. Il capitano Geremia Baroggi, che era
sotto gli ordini di questo colonnello, era entrato anch'egli in
quella società. Andrea Suardi, il quale, come spiegheremo a
suo luogo, aveva fatto educare quel giovane, e lo teneva seco
sovente, e gli aveva dato alloggio in una delle sue case, per suo
mezzo seppe di essa, e v'entrò; or vedremo perchè
entrasse poi a far parte anche di quell'altra consorteria.
Ma
prima è necessario di sapere, come Andrea Suardi, quantunque
non avesse più nè venti nè trentacinque anni, ma
si trovasse sotto al grave pondo dei sessant'otto, e, uscito, in
virtù della sua astuzia e della sua buona fortuna, dalle
unghie tenaci della legge, si adagiasse beato nella sua ricchissima
condizione di banchiere, pure la sua antica natura ricomparisse
sempre alla prova, e, dotato di una penetrazione d'ingegno
incomparabile, continuasse imperterrito, un po' per una tendenza
irresistibile del carattere, un po' perchè della ricchezza non
era mai sazio, a convergere ai proprj intenti le vicende succedentisi
nel paese, usufruttando quelle piaghe che negli svolgimenti graduali
della cosa pubblica pur rimanevano e nelle leggi e nelle
consuetudini, ad onta di riforme e di progresso, e si aprivano
improvvise per la comparsa di qualche fatto nuovo. In quella guisa
che nel 1766 si era attaccato a quella profonda piaga del sistema
delle Ferme, per arricchir sè a danno del paese, così
nel 1796, appena il terreno d'Italia brulicò d'armi e
d'armati, accostatosi ai commissarj di guerra e ai fornitori di
truppe, tosto odorò come in quella nuova sfera di cose si
potesse divorare a quattro ganasce; onde, fattosi innanzi, assunse
appalti che parevano arrischiatissimi, ma che, in sostanza, gli
fruttavano il quaranta, il cinquanta, il sessanta per cento. Le
pubbliche vicende, la rivoluzione francese il general Bonaparte,
l'albero della libertà, la democrazia, l'aristocrazia, il
progresso, il regresso, le vittorie e le sconfitte non entravano gran
fatto a determinare per se stessi le sue affezioni e le sue simpatie;
bensì stavano nella sua testa come oroscopi da consultare, per
vedere sino a che punto e in che modo poteva regolare le manovre de'
suoi furti. Era sempre colui che aveva fatto il suo ingresso in
società, vuotando la borsa dimenticata nel panciotto del
marchese F..., suo antico padrone. L'ingegno era il medesimo; la
diversità non stava che nelle proporzioni.
Se
non che quell'acutissima vista che gli faceva trovare speculazioni
nemmen sospettate dagli altri, e quella confidenza in sè
stesso che gli comunicava un'audacia di cui nessuno sarebbe stato
capace, lo spingevano nel fitto dei pericoli, dove altre menti più
limitate, ma più prudenti, non si sarebbero mai avventurate.
Se fosse nato più cauto non sarebbe stato in prigione due
volte, non si sarebbe mai trovato al limitare dell'ergastolo e al
piedestallo della berlina; nemmeno però avrebbe accumulato
tanta ricchezza. Queste parole ci conducono a dire che il signor
Andrea Suardi, nell'appalto dei foraggi, aveva tentato a que' dì
una impresa arrischiatissima. Amico, anzi ammesso alla confidenza dei
capi dell'esercito austriaco; nel tempo stesso, amico e conoscente
dei capi dell'esercito francese, aveva maneggiato un appalto in modo
che, data la sconfitta di Bonaparte e governando egli le spedizioni
dei carriaggi, si potessero far passare alla parte austriaca, dopo
essere stati pagati, già s'intende, dalle casse francesi,
usufruttando a tal uopo qualche istante di crisi, o l'impeto
passaggiero di una sommossa popolare possibile sul teatro stesso
della guerra; o la connivenza della repubblica di Venezia; qualche
fatto insomma che potesse onestare la scomparsa dei trasporti di
vittovaglie, per prendere così dalle casse austriache la
seconda volta il prezzo già ricevuto dalle casse francesi. Se
il lettore si ricorda, è ancora lo stratagemma medesimo per il
quale, trent'anni prima, esso era stato a parte degli utili della
Ferma del tabacco, ed esercitava per proprio conto il contrabbando
del tabacco stesso, contro il quale i fermieri avevan pur fatto
promulgare leggi tanto severe.
Ci
si dirà ch'egli è un fenomeno troppo strano e quasi
inverosimile, che un'intelligenza così perspicace giocasse la
propria condizione per accrescere una ricchezza che era già
esuberante. E siamo anche noi di questo parere; ma nel medesimo tempo
facciamo osservare, che l'amore del denaro è insaziabile, e
l'ambizione che per esso si lusinga di toccare le massime
soddisfazioni, ogni qualvolta raggiunge un'altezza desiderata a
lungo, e nella quale gli sarebbe sembrato di riposare, al di sopra di
quell'altezza ne vede un'altra, e un'altra ancora: e se non
sopravvenisse la morte, o la vendetta della società ad
aggiustar le partite e a metter senno negli uomini, qualunque più
feconda fantasia non arriverebbe a congetturare, nemmeno nei limiti
della possibilità metafisica, quello che l'ambizione trova di
desiderare, ed anche di acquistare nel campo della possibilità
reale.
Bisogna
poi sapere che il nostro Andrea Suardi si era avvezzato ai fumi
persino dell'aristocrazia nelle lunghe sue conversazioni
coll'arciduca Ferdinando, il quale, come ognuno sa, essendosi dato
intemperantemente al commercio dei grani, ebbe a trovarsi spesso in
compagnia di negozianti e di sensali, tra' quali, per la sua
bell'apparenza e pe' suoi modi insinuanti, e più ancora per
gli eccellenti affari che gli aveva procurato, il nostro Galantino
sedette per molti anni ai primi posti. E fu anzi in quell'occasione
che egli si trovò spesse volte a contatto col parroco della
chiesa di S. Gottardo, nel palazzo di corte, quel parroco fatto
vescovo, di cui abbiamo or ora fotografato il ritratto; e il quale,
giacchè l'ex lacchè e ladro era piaciuto all'arciduca,
non mancò di farselo piacere anch'esso, e gli piacque difatto;
perchè quando un uomo non è sincero, e si propone
d'ingannar tutti, ed è dotato di seduzione diabolica, riesce a
farsi amare anche da coloro che, per istituto, odiano tutto il genere
umano.
E
in quell'occasione ebbe a trovarsi spessissimo col marchese F..., e a
stringersi con lui in qualche familiarità. - Ma qui,
non potendo dir tutto quello che al lettore sarebbe necessario onde
farsi capace di tante cose, per quella ragione che il carciofo non
può essere mangiato che foglia per foglia, lo introdurremo
intanto nel mezzo di quel conciliabolo.
IV
-
E che si fa, marchese?
-
Monsignore, che si fa?
-
Meno chiacchiere, e più fatti.
Così,
colla franchezza petulante dell'uomo avvezzo a padroneggiare gli
altri uomini, il vecchio Galantino ruppe in mezzo le mutue
interrogazioni di quei due titolati della gerarchia civile ed
ecclesiastica.
E
i due titolati lo guardarono, senza poter dissimulare il dispetto che
provarono all'urto di quelle risolute parole.
-
Suggerite voi dunque i fatti; e suggerite il modo di prepararli senza
chiacchiere, disse poi il monsignore, aprendo leggermente, con un
lezio crudo delle linee, quella sferla ad uso bocca, che aveva
nella zucca ad uso testa.
-
I fatti, per parte mia, li avrei preparati; ma ho bisogno che i
vostri preti inventino delle spaventose fandonie pei villani della
vostra diocesi; e che esercitiate la vostra ben nota influenza sulle
terre veneziane. In quanto a me, ho una fabbrica di carta sul Brembo;
ho un filatoio di seta presso Bergamo, che mantiene qualche migliaio
d'uomini avvezzi ad obbedirmi. Tengo pure a' miei comandi qualche
centinajo di spalloni, soliti a far le schioppettate coi
finanzieri. Costoro, in un bisogno, possono spingere avanti a calci
nel sedere quelle carogne di contadini, che, se hanno paura del
diavolo, hanno paura anche delle armi francesi.
Naturalmente
se insorge tutto il paese veneto colle marre, colle zappe, coi
badili; se di ciò è avvisato l'arciduca Carlo; se si
lasciano senza vettovaglie, foss'anche per sole ventiquattr'ore, le
truppe del generale Bonaparte, vedete che, in un momento, le partite
si mutano. Fate che il generale Bonaparte tocchi una buona rotta, e
addio simpatie e adorazioni e campane a festa e Tedeum e falò
di consolazione. Conosco il mondo.... e chi più ha gridato, è
il primo a metter le armi a terra... Questi chiacchieroni di patrioti
li conosco benissimo.
Ma
anche voi, signor provveditore (e qui si rivolgeva al Vincenti),
dovete adoperarvi con energia, se volete che la vostra repubblica non
vada all'aria o non sprofondi in mare. Scrivete al podestà
Ottolini di Bergamo, che è un uomo forte ed è fedele al
leone; scrivete al Battaglia di Brescia che, a dirla così
tra noi, mi sembra un gran tentennone; e tenetelo in riga, e ad un
bisogno, fate sapere al vostro senato che farebbe bene a internare
colui in laguna, e a nominarlo ispettore dei fanghi del canale.
Credetelo a me: questo Battaglia si è lasciato cogliere come
un luccio nelle reti di Bonaparte, e lì a Brescia, quantunque
sia un mellone, può produrre l'effetto di un alleato di
Francia. - Animo dunque; bisogna far presto; bisogna dire a
que' vostri senatori, che è tempo di tirar su la sottana lunga
della toga, che consiglia i comodi della vita e impedisce di
spacciarsi. Bisogna esser lesti a questi dì, se non si vuole
sprofondar nel pantano; perchè, anche a correr veloci, è
un affar serio a tener dietro a questo maledetto levriere di
Bonaparte, che salta siepi e fossati e vigne, e divora campi e
brughiere, e non s'arresta se non ha preso la lepre per l'orecchio.
Ha bisogno di scuotersi un po' quella vostra vecchia repubblica dai
suoi lunghi sonni senili.
Quando
il Suardi troncò il suo discorso, uno di quei frati aboliti
che si trovavano là, e che era in quel tempo vicario d'una
pieve sul confine del vecchio ducato:
-
Ma, disse, rivolgendosi prima a monsignor vescovo, come per
chiedergli il permesso di parlare, avrei anch'io il mio debole parere
da dare.
-
Ma dica pure, molto reverendo, esclamò colla solita vivacità
il Galantino.
-
Non è egli vero, continuava l'ex frate di S. Damiano, che
sarebbe una gran bella cosa se si potesse ottenere il nostro intento
e glorificare la nostra santissima religione, e tagliar la strada
alle opere del diavolo, senza dare incomodo a tanta gente, e senza
mettere in pericolo tante vite?
Monsignor
vescovo lo guardò e tacque. Il marchese lo guardò, poi
guardò il Galantino; questi pure lo guardò, e
soggiunse:
-
Il convento in cui siete stato educato mi fa sperar molto dai vostri
consigli. Parlate dunque, e sbrighiamoci.
-
Non è egli vero, monsignore, che Giuditta fu venerata dai
seniori di Betulia, e che tra le eroine della sacra Bibbia è
riconosciuta santissima per aver troncata la testa d'Oloferne?
-
Ma terreste voi mai a vostra disposizione una qualche Giuditta nella
vostra pieve? domandò il Suardi facendo d'occhio al marchese;
se è così, sarebbe bene che, prima di mandarla al suo
destino, la faceste conoscere a me e al marchese. Le daremo dei
pareri.
Monsignor
vescovo tacque; tutti tacquero; ma prese la parola il monsignore del
Duomo, il professore emerito di lingua ebraica e di casuistica.
-
Io mi meraviglio molto col signor marchese, e non so come spiegare la
presenza in questo luogo di monsignor vescovo illustrissimo, quando
sento a parlare in questo modo, e con parole cosparse di maledetta
miscredenza, al cospetto di sacerdoti, al cospetto di dignità
ecclesiastiche reverende. Ma a che scopo ci siamo uniti qui? per
tentare di mettere un riparo ai pericoli che da ogni parte,
circondano la nostra santissima religione, o per sentirla a
vituperare e a metterla in canzone?
-
Reverendo monsignore, disse il vescovo, mettete in calma il vostro
spirito, riposate tranquillo su di me: perchè in verità
vi dico, che non permetterei che questo secolare fosse qui, se i suoi
pensieri, se i suoi disegni non fossero precisamente i nostri.
Il
monsignore del Duomo, che già abbiamo dato in nota per quel
bigotto furioso, forte di quella dottrina che viene dalla sola
memoria, chinò il capo sul petto a tali parole, e senza
aggiungere altro, incrociò le mani e si mise a sedere,
recitando sommesso delle orazioni.
Il
Galantino fu in prima tentato di levarlo di peso con una violenta
rimbeccata, ma, limitandosi a guardarlo fisso per un pezzo, si volse
poi al marchese, dicendo sommesso:
-
Che bestia!?
-
Abbiate pazienza, gli accennò il marchese; ma bisogna
compatirlo, perchè è un sant'uomo; e poi è anche
un gran sapiente.
-
Alla larga, caro mio; ma se avessi saputo di compromettermi con
questi stolidi, avrei fatto i miei affari altrove. Gli altri almeno
sono impostori; ma costui ci crede davvero.
Tutti
si rimisero in silenzio: poco dopo monsignor vescovo invitò
l'ex frate di S. Damiano a continuare il suo discorso, e a metter
fuori le sue proposte.
-
Quand'io ho nominato Giuditta, riprese l'ex frate, non l'ho fatto per
indicare che ve ne fosse una rediviva; così l'avesse concesso
la Provvidenza; così, nel tempo medesimo, la Provvidenza
avesse decretato che questo giovane Côrso fosse arso anch'esso
dalla salacità orientale di Oloferne! Il peccato avrebbe fatto
la vendetta del delitto. Ma egli è temperante, è
sobrio, è freddo, è casto. Egli non ha altra voglia che
di distruggere gli uomini e di far guerra a Dio. Però ben
meriterebbe degli uomini e di Dio chi trovasse il modo di togliere di
mezzo questa fatale esistenza. Giuditta fu acclamata dai seniori
quando mostrò al popolo di Betulia il teschio d'Oloferne. Chi
uccidesse il generale sarebbe benedetto da tutti gli uomini, dagli
uomini d'Italia ed anche dagli uomini di Francia.
Qui
il Galantino interruppe l'ex frate:
-
Ma, in conclusione, vi proporreste voi stesso di far le parti di
Giuditta?
-
Io?
-
Voi, molto reverendo.
-
Io no.
-
Allora sarà difficile di trovar l'assassino.
-
L'assassino!?... balzò in piedi, gridando come un energumeno
il monsignore ex professore di casuistica. - Ma chi è
costui che parla di tal modo qui? ma che parte è la sua? È
un nemico di Satana costui? o è un nemico nostro? Ma è
assassina la legge quando fa morire un nemico della società?
Ma perchè da tanti secoli tutta l'umanità ha convenuto
di venerare come eroine fortissime, inspirate dal divino volere, e
Giuditta appunto e Giaele?
-
Io ho poca intimità, monsignore, con queste due donne, rispose
il Galantino: e non ho la vostra sapienza; ma se sono disposto a
batter le mani alla legge quando fa morire un assassino, trovo poi
che è sempre tale chi ammazza altrui a tradimento, per quanto
ottimo ne possa essere il fine... Io sono piuttosto ignorante, e non
sono molto addentro negli affari di questa signora Giuditta e di
quell'altra che si chiama Giaele. Ma siccome ho sentito la Betulia
liberata del maestro Guglielmi, dove cantava l'Agujari... che
voce eh... marchese? che vocalizzi! che trilli! quelli eran tempi!...
ma tornando a noi, so benissimo chi era anche Giaele, perchè
ho visto il ballo grande di monsù Pitraux, intitolato
Debora e Sisara, e so i meriti di colei; e più
ancora quelli della mima che la rappresentava, la Giuliana Bidò,
famosissima e cara e tonda tutto quel mai che si può dire;
qui il marchese lo sa meglio di me...
Avendo
dunque visto assai bene quel che han fatto e l'una e l'altra, dico e
sostengo, e mi pare che l'ignoranza giovi a qualche cosa, che oggi
tutte le Giuditte e tutte le Giaeli, colte sul fatto, e anche col
solo appoggio d'un pajo di testimonj, diventerebbero proprietà
del tribunale criminale... Perchè bisogna tener conto anche
della distanza dei tempi e degli usi... che so io? di tante cose
bisogna tener conto. Io non so niente; ma ne so abbastanza, per dire
al molto reverendo ex padre, che su questo progetto non c'intendiamo;
e che per ora basterebbe che tornasse alla sua Pieve a metter
l'inferno nella coscienza delle sue pecore, per farle diventar lupi e
orsi contro i Bonapartisti; e così e altrettanto facessero
questi reverendi sacerdoti. All'illustrissimo monsignor vescovo, io
non m'attento di dar pareri, ma poco su poco giù quel che si
ha a fare si sa. Quanto finalmente a monsignore, mentre la prego a
perdonarmi, la supplicherei anche a tornare in Duomo, e a pregare per
i suoi devoti e, se gli cresce il tempo, a pregare anche per me, che
per ora basterebbe.
Dunque
veniamo a noi, perchè sino adesso mi pare che si perda il
tempo, torno a ripetere, in chiacchiere, mentre occorrono fatti
pronti e naturali e spontanei. A tutte le apparenze, pare che
Bonaparte si voglia ingoiar la repubblica di Venezia: bisogna dunque
far insorgere tutto quel paese contro di lui. La repubblica soffierà
di là, noi soffieremo di qui. Il marchese, che ha venti
milioni in terre, può disporre de' suoi terrieri. Io farò
la mia parte. Ma sopratutto sono i preti che ci debbono ajutare. Lo
scandalo del ballo grande, rappresentato in questi giorni sulle scene
del teatro della Scala, è tale che, esagerato dal pulpito,
come sanno fare loro signori, alle popolazioni, può metter la
febbre nei credenzoni, mi perdoni monsignore; sopratutto bisogna
spaventare la coscienza delle buoni madri, le quali, volere o non
volere, hanno una grande influenza sui figli coscritti. Alla prima
rotta che può capitare, questi la danno a gambe, e... un
disastro tira l'altro.
-
Se mi permette, monsignor vescovo, tornò a parlare l'ex frate,
io insisto ancora sulla mia proposta, e vi insisto perchè
sembra che la Provvidenza abbia voluto espressamente darmene
l'occasione.
Il
Suardi si scontorceva.
Monsignor
vescovo soggiunse:
-
Sentiamo.
-
Uno di questi giorni, continuava il vicario, mi si presentò al
confessionale un mio devoto, un giovane di vent'anni, che fin
dall'ottobre milita nell'esercito repubblicano. Suo padre, nel paese
ov'è nato, è priore della confraternita del SS.
Sacramento; sua madre è una santa, che si confessa e si
comunica ogni otto giorni. I figliuoli e le figliuole somigliano al
padre e alla madre. Famiglia più religiosa di questa credo non
se ne trovi nè qui nè altrove. Ora il giovane
coscritto, presentatosi, come ho detto, al confessionale, mi dice: -
Reverendo signor vicario, sono qui da lei per consiglio. Ho fatto un
sogno, uno di quei sogni che Dio espressamente manda agli uomini, e
son qui a raccontarlo, ed ecco precisamente quel che ho visto e
sentito: - Il generale Bonaparte era nell'acqua sotto al ponte
d'Arcole, dove ho combattuto anch'io, ma l'acqua non era acqua, era
sangue. Il generale vi nuotava a fatica, allorchè io vidi
vicino a lui quel granatiere, che ho visto infatti sulla riva del
fiume, quando salvò il generale. Nel tempo stesso sentii una
voce, una voce che, secondo l'idea che mi son fatta leggendo i libri
devoti, deve esser quella degli angeli che stanno a' piedi del trono
di Dio, colle ali spiegate e pronte per volare ad eseguire i suoi
decreti. Quella voce esclamò: «Colui che, nato di madre
italiana, ha tratto il figliuolo di Satana dalle onde di sangue, sarà
perduto in eterno. Ma starà invece tra i beati del paradiso
chi, uccidendolo, salverà l'Italia e il mondo.» Io
dunque sono qui per consiglio, io mi sento da tanto da mandare ad
effetto i divini voleri.
-
E voi, che cosa avete risposto? domandò monsignor vescovo.
-
Nulla ho risposto, bensì gli ho detto: Tornate da me fra tre
giorni.
Monsignor
vescovo non parlava. Non voleva dar consigli.
Egli
era profondo in divinità, ma la scienza non gli aveva
stravolto il cervello! Se il disegno progettato si fosse già
compiuto, avrebbe trovato i sofismi per giustificarlo; ma trattandosi
di consigliarlo, non osava. Era stato educato in seminario, non a S.
Fedele, nè a S. Damiano.
Ma
intanto che tutti tacevano, l'ex professore di casuistica esclamò:
-
La scienza approva un tal disegno. I libri santi ne offrono
l'esempio. Abramo non istette in dubbio di uccidere Isacco.
A
questo punto il Suardi, perduta la pazienza, esclamò con
forza:
-
Ma io, che non sono Abramo, non dubito di non voler fare una
minchioneria. - Il coscritto è certamente un povero
pazzo. - Quando ritorna al vostro confessionale insegnategli
la via di porta Tosa. È tutto quello che si può fare
per quel povero demente, vittima certo e del padre priore, e della
madre santa, e delle santocchie sorelle, e dei preti, e dei frati
gabbamondi.
L'ex
professore di casuistica si alzò inferocito; fulminò
d'uno sguardo terribile il Suardi; guardò altiero il vescovo;
poi, a un tratto, piegò il capo sul petto, congiunse le due
mani, e:
Io parto di qui, disse.
Nessuno
lo trattenne.
Or
parrà strano che il vecchio Galantino irritasse colle sue
parole i preti ch'erano là a congiurare con lui; ma egli,
quantunque fosse quello che fosse, sentiva per i cattivi sacerdoti e
per i bigotti una decisa avversione. - D'altra parte, è
un fenomeno da non lasciar senza studio, che un frate, un prete, un
torcicollo, quando sono tristi, superano la tristizia di qualunque
altr'uomo. Nel caso attuale, per esempio, al Galantino faceva
ribrezzo l'assassinio; all'ex frate di S. Damiano pareva invece un
atto meritorio; al professore di casuistica pareva un corollario
della scienza. - Il vescovo poi, senza compromettersi a dar
consigli, avrebbe veduto assai di buon occhio che il disegno si fosse
compiuto. In quanto al resto poi, è da aggiungere che il
Suardi non solo non odiava il giovane Bonaparte, ma ne aveva una
certa ammirazione. E si può giurare che, se non ci fosse stato
di mezzo l'appalto dei foraggi, avrebbe figurato fra i suoi
partigiani.
Quando
il monsignore del Duomo fu partito, il vescovo di... prese con
sussiego la parola per assicurare il marchese F... che tutti i ben
pensanti e i veri amatori del paese, dei buoni costumi e della
religione avrebbero trovato in lui un efficacissimo appoggio.
-
Quand'è così, soggiunse il Marchese F..., sarà
bene che voi, monsignore illustrissimo, vi troviate alla vostra sede,
perchè la guerra corre velocissima, e in un giorno, in poche
ore le cose possono mutare. Anch'io mi recherò dove tengo i
miei più vasti possedimenti, attento a cogliere l'occasione.
-
Allora, continuò il vescovo, rivolto ai sacerdoti che si
trovavano là, ritornerete alle vostre arcipreture, ai vostri
vicariati, alle vostre cappellanie; quando il momento sarà
giunto, riceverete da me le opportune istruzioni. - E il
signor Suardi? disse poi voltandosi a lui con dignità
ostentata.
-
In quanto a me lasciate che mi regoli da me, che regolerò
anche loro signori. - Il generale Bonaparte percorre come un
fulmine tutti i punti della base della guerra; ma ha anche 27 anni.
Ma anch'io mi troverò dappertutto, e non lascerò tempo
nemmeno al tempo, sebbene abbia i miei sessant'ott'anni passati. A
rivederci dunque.
Il
marchese rimase. - Il vescovo e gli altri uscirono. -
Dopo pochi minuti, quand'era uscito anche il Suardi, s'udì
sotto l'androne del cortile lo scalpitio de' cavalli e il rumore
delle carrozze che dovevano condurre al loro destino quei reverendi
congiurati.
Quando
il marchese fu solo, avendo sentita nell'anticamera una voce
femminile, si alzò, facendo un gesto di malcontento, e disse
tra sè:
-
Cosa diavolo viene adesso a far qui mia figlia?
Or
chi era questa figlia?
Era
la contessa A
, che noi abbiamo già conosciuta e
descritta la sera del ballo del papa; la bellissima delle tre dee,
quella che lasciò vedere, stando in palco, la massima parte
possibile della sua nudità.
La
quale contessa A..., incontratasi nel Suardi:
-
Come siete qui, cittadino? gli disse con una disinvoltura gaja e
baccante, perchè i suoi vent'anni, e la folla dei
corteggiatori, e la schiera scelta e squisita degli amanti, e l'amor
proprio femminile perpetuamente lusingato, la tenevano in una
continua condizione come di vanitosa ebbrezza. - Come voi
siete qui? e che cosa vogliono dire quegli uomini neri, che un dopo
l'altro sgusciarono dall'appartamento del marchese mio padre?
-
Contessa, io non li conosco; ma saranno preti venuti a prendere la
loro quota dei benefizj ecclesiastici, che l'illustre casa F...
distribuisce di jus patronato...
-
Ah, ah... va bene. Ma sapete cos'è che va meglio, caro signor
Andrea Cittadino?
-
Che cosa?
-
Che voi avete un bellissimo e interessantissimo nipote.
-
Io non ho nipoti.
-
Ma chi è quel bel dragone che vedo spesso con voi in carrozza?
-
Chi è?.. è un mio protetto.
-
Vorrei che si facesse proteggere anche da me.
Il
Suardi stette un momento sopra di sè... un baleno gli aveva
attraversato i pensieri; e in un baleno, fatto un calcolo e un
disegno:
-
Ebbene, le rispose, divideremo la protezione in due metà.
Accettate, contessa?
-
Sì che accetto!
-
Ho un mazzo profumato di viole, colte nel mio giardino d'Inzago.
Manderò il mio bel capitano a farvene un presente.
-
Bene, caro signor Andrea; e la contessa gli strinse le mani in segno
della più grande soddisfazione.
Il
Suardi partì, recandosi difilato dove si raccoglieva l'altra
congregazione segreta.
Ed
ora, cari lettori, se non state attenti, perderete il filo del più
bello imbroglio che mai sia capitato e capiterà da
disimbrogliare.
V
Poche
pagine addietro abbiamo parlato d'un colonnello Landrieux, capo dello
stato maggiore della cavalleria, stato eletto dalla congregazione
segreta stabilita in Milano per volere di Bonaparte, quale operatore
principale onde promuovere rivoluzioni nello Stato di Venezia.
.Questo
colonnello Landrieux abitava in casa Annoni, e là
quotidianamente si radunava la congregazione bonapartista. Qui si
rivolse dunque il cittadino Suardi.
Entrato
nel palazzo, quando mise il piede sul primo gradino dello scalone,
sentito che alcuno parlava al disopra della propria testa, si fermò
per un atto macchinale, e ascoltò il seguente dialogo:
-
Tutto va bene, tutto procede colla sicurezza di un esito felice. Ma,
prima di venire agli atti definitivi, c'è un passo da fare.
-
Che passo?
-
È necessario lasciar da parte il banchiere Suardi. Io non so
ancora come costui abbia potuto introdursi nella nostra società.
Il
Suardi naturalmente aguzzò le orecchie, anche per sentire se
gl'interlocutori discendevano.
-
Tu hai ragione, continuava uno di quegli interlocutori; ma come si fa
adesso?
-
Come si fa? Non gli si dice più nulla, e si fa tutto senza di
lui. Se le cose andassero bene, come pare, il Suardi ne menerebbe
gran vanto, perchè costui non fa nulla senza il suo perchè;
e il general Bonaparte non mancherà di rimproverarci d'aver
messo a parte di un'impresa così solenne un uomo che... già
non è possibile che il generale non venga a sapere all'ultimo
la vita e i miracoli di questo furfante milionario.
Il
Suardi si ritrasse, perchè sentiva che gli interlocutori
discendevano. Si nascose in un androne, e stette là sin che
vide a partire i due maldicenti, che eran Porro e Caleppio.
Quando
il Suardi entrò nel palazzo Annoni, non aveva nessun disegno
nuovo in testa; era venuto là per assistere alle dispute della
congregazione, a cui era stato ammesso dal colonnello Landrieux, e
nulla più. Ma le parole udite e il dispetto che ne provò,
gli fecero spuntare in testa improvviso e adulto un pensiero.
Avendo
potuto stringersi in amicizia col colonnello Landrieux per mezzo del
capitano Baroggi, volontieri aveva fatto parte della congregazione,
perchè, col conoscere per disteso i piani degli avversarj,
egli avrebbe potuto governare più sicuramente i proprj. Ma
dopo ciò per lui sarebbe stato meglio che la congregazione
bonapartista non potesse dare effetto ai suoi maneggi; per la qual
cosa sarebbe stato necessario che chi ne aveva la direzione
principale, all'insaputa dei colleghi, virasse di bordo e cangiasse
strada. Il colonnello Landrieux era stato introduttore al Suardi per
gli appalti dell'esercito, e però aveva avuto dal Suardi
stesso il suo lauto boccone da mangiare.
Quel
colonnello non era più dunque nè trasparente nè
liscio come uno specchio, bensì presentava delle scabrosità,
alle quali un uomo abile poteva attaccarsi.
Un'altra
qualità distingueva quel colonnello, qualità che poteva
riuscire eccellente nelle mani del Galantino. Esso era un giuocatore
disperato. Bensì, per essere piuttosto valente e fortunato,
non esibiva sempre quegli angosciosi alti e bassi che offrono il
cuore insanguinato agli avoltoj di professione. Il Galantino si
ricordò pertanto del passato, e rammentatasi la propria
abilità, risolse di tenerla in pronto per il bisogno.
Improvvisato
così a mezzo un progetto, il Suardi ascese lentamente lo
scalone, e quando fu alla porta dell'appartamento del colonnello,
s'incontrò negli altri soci della congregazione segreta, che
uscivano in quel punto.
-
Troppo tardi, cittadino Suardi.
-
Non è mai troppo tardi. Quel che avrei dovuto dire a voi tutti
lo dirò al colonnello, che poi ve ne farà
comunicazione. Ma dov'è il capitano Baroggi?
-
S'è fermato col colonnello, per cose che riguardano il
reggimento.
-
A rivederci dunque stasera in teatro, dove ci sarà un chiasso
del diavolo, perchè so che è stato proibito il nuovo
ballo di Lefèvre.
-
A rivederci, tutti risposero; - e il Suardi, fattosi
annunziare, entrò dal colonnello.
Quando
fu in camera, salutato in prima il colonnello, si rivolse poscia al
Baroggi, e:
Ho un'incumbenza da darti, gli disse.
Il
capitano Baroggi si alzò da sedere, spiegando, senza volerlo e
senza pensarci, tutta l'aitanza disinvolta e leggiadra della sua
giovanile figura, nata fatta per l'assisa e gli spallini e i calzoni
di pelle e gli stivali alti. Aveva nel corpo quella eleganza poderosa
e accentata del discobulo greco; con una di quelle faccie, care le
mie donne, che non si sanno definire; perchè c'era in quelle
vaghe linee la sprezzatura del soldato, la severità e persino
l'asprezza, se, a un guizzo repentino dei muscoli, tutte quelle
impronte non fossero scomparse per dar luogo ai loro opposti; perchè
la fronte, se si spianava, era serena come quella d'una fanciulla; e
se l'occhio perdea il lampo virile e crudo di chi, a cavallo, eccita
alla carica e alla strage lo squadrone, assumeva una soavità
quasi infantile, nella quale tuttavia parevano nuotare l'arguzia e la
seduzione. Il ritratto in miniatura che noi possediamo di questo bel
capitano, eseguito in allora dal distinto pittore ed incisore
Evangelisti, ci fa trovare qualche somiglianza tra la sua faccia e
quella del Tancredi, che il pittore Riva dipinse nel
suo quadro di concorso, premiato dall'Accademia di belle arti tanti
anni sono.
Ma
com'è, dirà taluno, codesta strana combinazione per la
quale tutti i giovani personaggi che entrano successivamente in
iscena in questo libro, hanno tutti ricevuto dall'autore l'obbligo di
essere bellissimi e carissimi e interessantissimi?
Il
tenore Amorevoli faceva diventar matti soltanto a vederlo; il
Galantino, quando fu spogliato, per esser messo alla corda, mostrò
un tal collo e un tal petto e braccia tali, che persino il senator
Morosini ne mandò un'esclamazione di maraviglia. La contessa
Clelia pareva una Minerva perfezionata. La contessina Ada era sua
madre ingentilita. La ballerina Gaudenzi aveva i capelli, gli occhi e
il naso della Diana Efesia. Recentemente, ovvero sia nella sera del
ballo del papa, il tumulto della folla fu placato dalla comparsa di
tre donne in costume di libertà, delle quali se l'una
era bella, l'altra era più bella ancora.
Ed
ora compare in iscena questo capitano dei dragoni, il cui volto e la
cui persona son fatti cogli ingredienti degli dei e degli eroi più
riputati; e precisamente col sistema onde fu messa insieme la Venere
greca, che ebbe in prestito le cosce appetitose di Taide, la schiena
provocatrice di Frine e le diverse bellezze di sette fanciulle.
Com'è
dunque questa faccenda? La faccenda è naturalissima; e se il
lettore ne stupisce, vuol dire che l'ultima fase dell'arte, che ha
messo in trono il brutto, dal Triboletto e del Quasimodo di
Victor Hugo al gobbo Esopo di Bartolini, lo ha preparato a credere
impossibile la bellezza perfetta. Ma questa bellezza c'è e,
per trovarla, basta cercarla.
Nel
caso nostro poi, oltre la testimonianza del Bruni, che sta garante
per noi, di alcuni dei nostri personaggi esistono ancora i ritratti,
eseguiti per mano di pittori più o meno distinti, compreso
appunto questo del capitano Baroggi.
Or,
tornando ai fatti, il Galantino, col permesso del colonnello, disse
al Baroggi:
-
Ho un'incumbenza da darti, la quale chi sa quanti te la invidieranno.
-
Di che genere ella è?
-
Del miglior genere. Si tratta di portare un mazzo di viole ad una
signora.
-
È proprio necessario per questo la persona di un capitano di
cavalleria?
-
Non è necessario, ma è utile; seppure è utile
far la conoscenza della più bella donna di Milano.
-
Ma chi è questa donna?
-
È la contessa A..., che desidera proteggerti. Ella stessa me
lo disse ora colla sua bocca di rose. Va e ringraziami; trent'anni fa
avrei finto di non capire, e ci sarei andato io stesso.
Il
colonnello Landrieux, messosi a ridere, ed entrato a far parte di
quel discorso:
-
Ah, ah, disse, se a voi dispiace l'incumbenza, il mio caro capitano,
passate il mazzo di viole a monsieur Chapier, l'intendente di guerra,
che è innamorato pazzo di questa vostra bella contessa, la
quale, mentre sciala con tutti, s'è messa in testa di far
l'avara e la pinzochera con lui. Tanto che tutti ridono alle sue
spalle, ed egli si dà per disperato, e dice di voler uccidere
tutti gli amanti di lei.
Il
Galantino era benissimo informato di tutto questo, e allorchè
s'incontrò colla contessa, se fu sollecito a prometterle che
le avrebbe mandato il bel capitano, fu perchè aveva bisogno e
della contessa e del capitano per tirare in ballo l'intendente
Chapier, il solo che gli fosse d'impaccio nel fatto degli appalti.
Però, seguendo le parole del colonnello:
-
Se la cosa è così, disse, allora bisogna essere
pietosi, il mio bel capitano, e tentar di placare la bella contessa,
e introdurre da lei monsieur Chapier.
-
Perchè no? disse il giovine Geremia; e così
sbadatamente rispondendo, si calcò l'elmo in testa, e mosse
per uscire.
-
Va dunque entr'oggi da colei, gli replicò il Suardi, e fa in
modo che lo Chapier sia introdotto in quella casa. Certo che ci
divertiremo.
Intanto
che il capitano partiva, il colonnello Landrieux disse al Suardi:
-
Voi volete che quell'istrice d'intendente, oltre alla ferita della
contessa, riceva qualche colpo anche dallo squadrone del capitano.
-
Oh! soggiunse ghignando il Suardi, non ne avrei nessun dispiacere. Ed
ora parliamo dei nostri affari, colonnello.
Ma
intanto che que' due parlano, pensiamo che or ora entrò in
scena un personaggio nuovo, anzi più d'un personaggio; e coi
nuovi personaggi, nuovi annunzj di curiose combinazioni. -
Prima una congiura; poi una contro congiura; poi un amore non
platonico subodorato; poi la minaccia di qualche duello che faccia
chiasso; poi il Galantino che va tentando successivamente varj
uomini, per ottenere, almeno pare, di farli lavorare tutti in una
evoluzione grandiosa. - Davvero che, mettendoci nei panni dei
lettori, ci par di camminare colla benda agli occhi, tenuti a mano da
gente maliziosa; ma possiamo anche assicurare, che è
vicinissimo il momento che lor si toglierà il fazzoletto, e
vedranno chiarissimamente dove si trovano.
VI
Non
è poco il dire, che, per ottanta pagine circa, un libro che i
bibliotecarj metteranno sempre nel dipartimento della Phantasia,
siasi occupato esclusivamente, e quasi ex cathedra, di
storia vera e di politica vera, tirando in ballo il papa ed il suo
potere temporale, e congiungendo non a caso il passato col presente;
e citando, come un dottor della Sorbona, e Apostoli ed Evangelisti e
santi Padri e pontefici galantuomini; e parlando del vecchio
Napoleone Bonaparte, e delle sue insidie politiche e dei colpi e
contraccolpi rivoluzionarj, ecc. ecc. Di queste ottanta pagine
crediamo che i lettori gravi, e che tirano il rapè, ci
vorranno essere grati, e tanto da credere che il nostro lavoro possa
esser letto anche da quelli che hanno in odio le produzioni della
fantasia. - Ma la storia, la quale rifà la vita, per
esser completa, deve rifarla di dentro e di fuori; e se quasi sempre,
come un ciambellano, segue devota i re dell'azione e del
pensiero, che vissero e furono proclamati in pubblico, e dei quali
con atto pubblico si fece il trapasso alla posterità: come un
benefattore deve poi entrare nelle dimore private a cercarvi quelle
figure che vissero non abbastanza note o ignote all'universale, per
indagare come la vita intima della società segua l'impulso
della vita pubblica, e come persino le virtù, i vizj, gli
affetti e le passioni ripetano da essa il modo di manifestarsi; chè
non tutte le virtù nè tutti i vizj sono possibili in
tutti i tempi, e il dramma domestico si atteggia senza volerlo
all'epopea storica. - Lasciamo dunque per ora le piazze e i
teatri e i luoghi pubblici e gli uomini che operarono cose già
divulgate dalla storia, e penetriamo nel silenzio di una privata
dimora a vedere la progressione di un dramma domestico, che si
modifica lungo il cammino, e piega a seconda dei pubblici
avvenimenti.
Nel
palazzo situato nella contrada della Spiga, appartenente al marito
della contessina Ada, in una sala a terreno, verso il giardino
rispondente al naviglio, in sul tramonto d'un giorno di marzo del 97,
stavano tre donne. - Quelle donne rappresentavano tre età
e tre periodi diversi; ed erano precisamente la contessa Clelia V
,
la contessina Ada... e donna Paolina S...
La
prima aveva settantadue anni; la seconda quarantasei; la terza
diciasette.
È
pieno di tristezza quel momento in cui si vede nell'estrema
decrepitezza una creatura umana, di cui siasi fatta conoscenza
quand'era nello splendore della beltà.
Noi
non abbiamo ancora potuto fare sul vero un tale esperimento, perchè
bisognerebbe che avessimo almeno i nostri settant'anni; mentre
invece, per sciagura nostra, ne siamo distanti al punto, da misurare
con ispavento la vita lunga che ancora ci rimane a percorrere, se una
saetta benigna non ci viene a cogliere strada facendo. - Ma
oltrechè un tale esperimento lo fecero altri, i quali ci hanno
assicurato non esservi niente di allegro, noi lo abbiamo tentato
confrontando di una medesima persona i ritratti eseguiti a periodi
distanti, dove si vedeva riprodotta l'immagine fresca e ridente della
cara giovinezza, e le alterazioni estreme della triste vecchiaja.
È
doloroso a vedere, e nel tempo stesso non è senza un certo
interesse l'osservare come il tempo, pur non toccando l'ossatura e il
disegno di una faccia, la vada totalmente contraffacendo,
imperversando sulla liscezza, sul colore, sugli accessorj: -
il lento processo della dissoluzione, esaminato su di una medesima
faccia, è certo, caro il mio gaudente lettore, che turberebbe
anche la tua allegria.
Or,
venendo a donna Clelia, un tale esame potevasi fare guardando il suo
ritratto ad olio, opera del pittore Porta, che pendea da una parete
della sala, ed era lo stesso innanzi al quale abbiam visto
addormentarsi in torbido sogno il conte colonnello V
. Ella non
contava che ventidue anni quando avea posato innanzi al pittore.
Erano dunque trascorsi cinquant'anni; mezzo secolo! una piccola
bagatella. Nè tuttavia potea dirsi che il tempo distruttore
avesse cavato tutto il partito possibile della sua forza crudele. No,
la dissoluzione non aveva fatto miracoli; perchè i capelli
bianchi anche nella giovinezza per la polvere di cipro, erano rimasti
foltissimi, e le loro onde argentine scaturivano da una cuffia
tagliata a foggia di camauro; i sopraccigli si erano conservati neri;
bensì, come avviene nella tarda età, cresciuti in
foltezza e diventati ispidi, adombravano cupamente l'occhio
infossato, e imprimevano a tutta la faccia una terribilità
indescrivibile; così quella cara trasparenza del colorito,
che, nella prima gioventù, comunica una tal quale bellezza
perfino alle tinte più aborrite, si era cangiata nella rigida
opacità della cartapecora; il mento e la bocca, siccome
dicemmo altre volte, di linee severe e ricordanti il profilo
napoleonico, ma che nell'età prima avevano esercitato un
fascino strano per il contrasto colle altre parti floridissime di
quella bella donna, avevano raggiunta la massima angolosità.
Tutto quel complesso poi di disegno, di colore, d'espressione,
d'atteggiamento, era tale, che imponeva altrui un rispetto, il quale
sarebbe stato disgustoso e pesante, se dopo il primo urto non vi
fosse letto il riassunto di un'intera vita di pensieri, di sventure e
d'affanni.
Questa
vegliarda severa stava seduta a lato di un tavolino sul quale era
dischiuso un libro; portava gli occhiali d'ebano inforcati sul naso
e, tenendo alzati gli occhi al disopra delle lenti, guardava fissa da
qualche tempo la figlia della propria figlia, della contessina Ada,
ai freschi e leggiadri quindici anni della quale, che appena contava
allorchè la vedemmo l'ultima volta, se ne erano aggiunti
trentuno; il che vuol dire che, nel 97, aveva quarantasei anni:
età incomoda e nojosa tanto per gli uomini che per le donne;
chè i primi hanno cessato di amare, le seconde di essere
amate, messe in discredito dai reumatismi, dalla gotta incipiente, e
dall'età critica. Tuttavia, se questa è la regola
generale, le eccezioni non mancano; e in quanto alla contessa Ada, se
non avesse avuto tutt'altro per la testa, ben avrebbe potuto
suscitare ancora qualche simpatia in coloro, almeno, che per
bizzarria, sono capaci di anteporre le bigie giornate d'autunno e la
cascata delle foglie ai soli sfacciati del giugno e del luglio. Essa,
nella persona, serbava intatta la leggiadria d'un tempo, e nel volto
mobilissimo aveva qualcosa che in parte nascondeva quell'età.
Anzi,
a spiegarci meglio, quel volto, per la mobilità accennata, era
così ineguale, che pareva cangiare età ad ogni lieve
guizzo di muscoli. Certo che non avremmo consigliato mai la
contessina Ada ad esporsi al perfido sole di mezzodì, e molto
meno ai fatali riverberi di un muro tinto in giallo, chè
allora il lavoro che il tempo aveva fatto su quella faccia, saltava
fuori da tutte le parti, e tradiva cento macchiette cutanee, e
qualche ruga ribelle ai lati e sotto gli occhi, e qualcosa come di
pesto e di frollo e di sciupato nelle guancie, serbanti però
sempre la giovanile pozzetta; ma tutti questi guasti scomparivano,
appena un raggio propizio di luce pittorica avesse investito quel
volto, o un riflesso benefico di qualche tenda serica, azzurra o
rossa; o, meglio di tutto, quell'albore annacquato che è in
una camera illuminata di notte da una lampada. Allora pareva quasi
che, per incanto, si togliesse il melanconico sipario degli anni
quarantasei, per iscoprire il sotto tessuto di una faccia di
trent'anni al più. Nel momento in cui l'abbiamo sorpresa per
farne la descrizione, siccome era verso sera, e, se non c'era il sole
vivo, non c'era nemmeno nè la luna nè la fiamma di
candela, mostravasi così mezz'a mezzo, tra gli estremi che
abbiamo delineato, e piuttosto più vicina ai trenta che ai
quaranta; perchè in quel punto era concitata dall'arte, e da
qualche cosa di più forte ancora. Seduta innanzi al
pianoforte, stava provando la musica della Marsigliese che
teneva aperta sul leggio, e si esaltava nell'interpretazione di essa.
Ma
intanto, che la nonna guardava come perscrutando non sappiamo che
cosa, e la mamma passava al cembalo la Marsigliese, donna
Paolina, che tale era il nome della figliuola di donna Ada (non si
meravigli il lettore di sentire ancora i titoli sonanti di marchese,
di conte e contessa e don e donna in un tempo che i titoli di nobiltà
erano stati messi inesorabilmente al bando dalla Libertà e
dalla così detta Eguaglianza; perchè nell'intimo della
vita domestica, dal periodo della loro invenzione fino ad oggi, non
furono mai sospesi nemmeno un minuto; e i servitori e le cameriere e
i cocchieri hanno sempre continuato a dare del don e della donna e
del conte e della contessa ai loro padroni, perchè era una
questione di pane come un'altra. Anche fuori delle pareti casalinghe,
e anche fuori della schiera infelice delle fantesche e dei servitori
propriamente detti, i servi dilettanti e devotissimi di tutto il
mondo, e i pagnottisti perpetui hanno sempre continuato
anch'essi a dare i titoli a chi toccavano per diritto di blasone,
anche in piazza, anche in teatro; ad una condizione però, già
s'intende, che nessuno dei democratici sfogati li sentissero, perchè
le bastonature erano in voga, e la prudenza e il parlare sommesso
erano consigliati dalla pubblica intimidazione; e qui mettiamo il
claudite alla parentesi, che ci portò fuori affatto di
traccia), dunque donna Paolina (che così venne chiamata al
fonte battesimale, perchè la nonna e la madre vollero
perpetuare in essa la cara memoria di donna Paola Pietra; ed ecco un
altro claudite), donna Paolina dunque, essendo aperto un
finestrone che dava nel giardino, perchè il marzo non era
freddo e si voleva usufruttare l'ultima luce, stava appoggiata ad una
spalla di esso, in una posa tutta sua particolare e, diremo, affatto
maschile, perchè aveva il tergo appoggiato a un punto del muro
che non era sufficiente per concederle di star ritta in piedi; onde,
colle gambe tese e i piedi puntati al basso del muro opposto, segnava
una diagonale. -
Or
venendo alla descrizione di quella fanciulla, vorremmo che il lettore
l'avesse veduta cogli occhi proprj, per capacitarsi che non è
già per amore di convenzionalismo che noi regaliamo a tutti i
nostri giovani personaggi una bellezza incomparabile; ma sibbene
perchè se quella fanciulla era bella veramente, non è
in nostro diritto di contraffarla e peggiorarla per intento di
varietà; la varietà è infinita in natura, anche
senza incomodare la scrofola e la rachitide.
A
misurarla dunque, così a calcolo d'occhio, quella fanciulla
poteva essere alta come un uomo di statura regolare; ma siccome aveva
la testa leggera ed il collo non corto, e le mani ed i piedi piccoli,
ed una vita che si poteva stringere in due mani, e la vesta lunga,
così potea sembrar alta fino all'eccedenza; alta e sottile e
lunga come una frusta; se non che le maniche di seta strette, come
allora voleva il costume, rivelavano un braccio sviluppato e denso; e
le sottane di levantina che, per quella strana positura di lei,
cascando mollemente, profilavano le sue gambe tese, lasciavano
trapelare forme così aitanti, da parere unesagerazione
per una ragazza di anni diciasette. Quando ci si permettesse il
confronto, suggeritoci dal più gretto naturalismo, noi
diremmo, che se colei, invece di una fanciulla, fosse stata una
puledra, ben poteva valere i duecento mila franchi della Katinka
di Abdul Megid. Ma donna Paolina, che da un pezzo stava immobile
in quella strana positura, concentratissima com'era in un pensiero,
di slancio si rizzò in piedi, e fece due o tre passi,
aggirandosi intorno a sè, sciolta ed elastica e come snodata.
La
contessa Ada, in quel punto, continuando a provare sul cembalo la
Marsigliese, s'era concitata nell'esecuzione, e facendo intera
l'emissione della voce, espresse con accento verace tutta la
concitazione selvaggia di quel grido di guerra.
La
fanciulla si fermò di colpo; diede manifestamente un guizzo.
Quella musica, quelle parole, quel grido le avean messo addosso
l'inferno.
Caduta
la notte, si recarono i lumi. Dopo qualche tempo venne gente in
quella casa, e si vegliò fino oltre le undici. Tutto quanto
avvenne in quelle ore per noi è affatto indifferente, bensì
terremo dietro a donna Paolina quando, dato il bacio della notte
felice alla nonna e alla mamma, prese un lume, e, accompagnata dalla
cameriera, si recò nella sua camera da letto.
Muta
si lasciò ravviare e intrecciare e mettere nella rete i
capelli; muta lasciò che partisse insalutata la cameriera.
Dopo
si spogliò adagio adagio, sempre fantasticando e osservando
macchinalmente il ritratto di suo padre, che pendeva dalla parete di
contro al letto; il qual padre, lo diremo così di fuga e
rimettendo le indispensabili spiegazioni e dilucidazioni ad altro
tempo, era il conte Achille S..., ricchissimo patrizio milanese, il
quale, dopo essersi mangiato un lauto patrimonio, fatta l'eredità
di un secondo, sposò impaziente e furente di passione la
contessa Ada, per amareggiare poi tosto di cento infedeltà il
talamo nuziale e la pace di quella povera donna, innamorata fino
all'infelicità. Sciupato il secondo patrimonio, strano e
bisbetico qual era, aveva abbandonato e casa e moglie e figliuola, ed
era corso a prestare i suoi servizi militari fin dal 92 nell'esercito
di Francia. - Fatta una terza eredità, aveva lasciato
l'esercito; ma i parenti avendolo interdetto per prodigalità,
indispettito tornò a riprendere il suo grado nell'esercito del
Reno, dove trovavasi ancora. Più giovane della contessa Ada,
l'avea sposata, vedovo già da due volte e dopo aver fatta
l'infelicità di molte e molte donne; chè, ad onta della
sua torbida fama, aveva sempre esercitato sul sesso debole un fascino
irresistibile.
Questo
era il padre di donna Paolina, osservando il cui ritratto, ella s'era
venuta a grado a grado spogliando. E qui i giovani lettori non
isperino una descrizione, chè ci preme troppo la calma del
loro sangue.
Soltanto
diremo che, quando mise il ginocchio, oh che ginocchio!!! sul letto,
a un tratto balzò giù, e tratto un cassettone di un
guardaroba, ne levò.... che cosa? Un elmo con criniera;
un'assisa verde coi risvolti bianchi; un pajo di calzoni di daino
bianco; un pajo di stivali; una sciabola.
Ma
a chi appartenevano? a lei. Ma in che modo? ecco.
Nel
carnevale, al collegio dond'ella era uscita pochi mesi prima, s'eran
date alquante rappresentazioni comiche; di quelle che un certo
professor Ghedini Mirocleto allora scriveva apposta pei collegi,
press'a poco come sarebbero oggi quelle del Genuino.
Fra
quelle commedie, che noi abbiamo letto, e che sono d'una miseria
incomparabile, esso ne aveva scritto in quel tempo una d'occasione,
che s'intitolava Il dragone benefico; una bestialità in
punto e virgola, ma che era piaciuta alla direttrice del collegio, la
quale pregò donna Paolina, allieva emerita, ad assumere la
parte del protagonista. La fanciulla accettò, col permesso
della nonna e della mamma, e ottenne che le si facesse fare un
vestito completo da dragone. Quando comparve sul palco scenico
abbigliata a quel modo, gli spettatori, che non eran tutti donne,
andarono in visibilio. Però donna Paolina prese maggior stima
di se stessa, e s'innamorò di quell'abbigliamento militare; e
se ne innamorò per una ragione più pericolosa di quello
che pare. Allorchè dunque trovavasi sola, ed era sicura di non
essere scorta, si dilettava a rivestire quelle armi, e se ne
compiaceva orgogliosamente, guardandosi nella specchiera che teneva
nella camera da letto; ma pazienza fosse qui tutto! il peggio è
che quel vestito le suggerì...
A
pensare che una simile inezia doveva essere la cagione di conseguenze
tristissime, davvero che c'è da rimanere increduli; ma nel
carnevale istesso avea visto più d'una volta il capitano
Baroggi. Oh non l'avesse mai veduto! Noi che sappiamo quel che
avvenne dopo, non possiamo vincere la commozione. E ora, o lettore,
fermando lo sguardo a contemplare il leggiadro spettacolo di questo
dragone che sta specchiandosi, preparati a stupire; e se hai il dono
delle lagrime, anche a piangere.
VII
In
una tragedia, celebre e mediocre nel tempo stesso, perchè fu
il lavoro di un giovane ignaro della mappa del cuore umano, fu
scritto che chi sostenne d'aver amato due volte, non ha mai amato.
Queste cose si possono dire a sedici anni, anche a venti, anche dopo,
se la faccia di un galantuomo sia così eteroclita da stornare
l'ago calamitato delle femminili beltà; ma in circostanze
ordinarie, e allorchè e uomini e donne abbiano qualità
sufficienti da provocare e mantenere la corrente elettrica, quante
volte, in una vita di trent'anni ed anche di quaranta, la specie
umana può amare, senza compromettere il vivo interesse di
ciascun amore! anzi noi pregheremmo gli uomini e le donne di molta
esperienza, e che dalla indulgente natura sortirono delle doti
appetitose, a saperci dire, in tutta segretezza già s'intende,
se non è possibile manovrare due, tre, anche una mezza dozzina
di amori simultaneamente, conservando il nativo galantomismo, e un
cuore ben fatto e, ad un bisogno, anche poetico.
C'è
una condizione però da osservare (di questo almeno ci
assicurano gli esperti), ed è che bisogna guardar bene di
perdere l'equilibrio nel governo di codesti amori. Se un giorno solo,
di quei tre o quattro affetti che si hanno nella propria
giurisdizione, uno sorge più alto degli altri e,
senz'avvedercene, ci lasciamo andare a star con lui in troppo lunga
domestichezza, allora, correndo esso il pericolo di diventar
solitario, può tramutarsi in quell'amore acuto al quale è
più conveniente un posto in un trattato di patologia. Ciò
premesso veniamo ai fatti. Il capitano Geremia Baroggi avendo
ventitrè anni, ed essendo, come fu notato, bellissimo, e per
di più esercitando una professione che allora era di ultima
moda, e appartenendo alla cavalleria, e perciò avendo il
diritto di portar gli speroni, era appunto nella opportunità
di poter manovrare la sua mezza dozzina d'amori senza turbarsi, come
una volta l'incomparabile Cocchi della compagnia Guerra guidava
imperterrito la sua mezza dozzina di cavalli bianchi a dorso nudo.
Non so per che cosa, ma, a parte anche la giovinezza e la beltà
e gli altri fascini, gli speroni hanno un potere irresistibile sui
nervi delle donne, tanto maritate che zitelle. È un fatto
provatissimo che, a parità di circostanze, un ufficiale di
fanteria passerà ai secondi posti e andrà soggetto a
delle mortificazioni inaspettate, se appena balzerà fuori a
mettersi in suo confronto un ufficiale di cavalleria. Il suono
dell'arpa era indicatissimo una volta perchè i giovinetti si
trovassero bell'e innamorati, senza vedere nè la faccia nè
le mani della bella incognita; ma anche il suono semplice e puro
degli speroni bastò più d'una volta a far risolvere dei
cuori femminili a battere a favore di un ignoto che a caso passasse
sotto le finestre cogli stivali tintinnanti. È un fenomeno
strano e d'origine arcana; ma non per questo cessa di esser vero.
Lasciando
ora gli speroni, è a sapere che il capitano Baroggi, senza che
fosse vagheggino, nè vanitoso, nell'ultima volta che venne a
Milano di presidio, e fu per tre mesi, si trovò, senza
accorgersi, ingaggiato in tre amori che gli serrarono addosso in
pochi dì l'uno dopo l'altro. Non eran molti, a dir vero, per
la pace del cuore, ma siccome le donne che lo avevano inspirato erano
tutte belle a perfetta vicenda, ed egli aveva saputo dividere
equabilmente le sue ore d'ozio con ciascuna di esse, così avea
vissuto felicissimo i suoi novanta giorni. Nell'ultimo mese però
s'era incontrato nella signora R..., che gli penetrò, non dirò
nel cuore, ma nella simpatia un po' più delle altre, ed egli
stesso se ne accorse, ciò che fu un eccellente indizio. Però
quando il signor Andrea Suardi gli propose di fare una visita alla
contessa A
, che per turno divideva colla R... il seggio della
regina del torneo milanese, fu contentissimo, presentendo che a quel
modo ei si sarebbe rimesso in equilibrio. Ma non si perde mai
l'equilibrio quando si sente e si vede il pericolo. L'affare bensì
diventa seriissimo allorchè, frugando così a caso
intorno a qualche rosaio, ti si ficca inavvertita una spina nel dito.
Un bel giorno, non si sa da che cosa dipende, ma la mano è
gonfia e il braccio è al collo. Ora il nostro bel capitano,
mentre era contento di potere colla bellissima e voluttuosissima
contessa A..., fintanto almeno che sarebbe rimasto a Milano, farsi
scudo e riparo contro alle invasioni ognora più minacciose
della bella R..., non sapeva che appunto una spina gli era penetrata
tra pelle e pelle pochi giorni prima.
Nel
carnevale dello stesso anno 97 si diede, come fu detto, un corso di
rappresentazioni drammatiche in un collegio femminile, fondato
nell'anno antecedente in Milano da una dama francese, per nome,
Blanchard, venuta da Parigi con fama di gran letterata, di grande
sventurata, perchè suo padre era stato ghigliottinato e le di
lui ricchezze, almeno così ella asseriva, si erano dileguate
in mezzo ai furori popolari. - Quella donna, capitata in
momenti opportuni, venditrice insigne di vento e di fumo, e
nominatasi direttrice del nuovo collegio, ottenne di vederlo in breve
popolato dalle figliuole appartenenti alle più ricche famiglie
di Milano. Parve alla maggior parte che colà potessero
ricevere un'educazione più liberale, più sciolta, più
svariata, più conveniente insomma ai tempi nuovi. I parenti
stessi, messisi d'accordo per giovare a quello stabilimento con laute
contribuzioni, in breve gli diedero un impianto così ricco e
fastoso, che quando trattavasi di esami, di accademie, di musica, di
ballo, pareva di trovarsi piuttosto nelle sale di un ricco pomposo,
che tra le pareti di una sala di educazione. Le giovani mammine vi
accorrevano in gara di bellezza e di ricchezza; e col pretesto
dell'educazione e dell'amor materno, velate di devota incontinenza,
non tutte già s'intende, ma alcune e non poche, s'ingegnavano
a piantare qualche mirto tra le innocenti ajuole di quel giardino. -
Siccome poi un passo ne chiama un altro, così la vivace
ufficialità dell'esercito repubblicano, che aveva alloggio e
tavola presso le più facoltose case di Milano, accompagnando
qualche volta le mammine a quei domenicali e serali ritrovi,
trovavano il loro conto a fermarsi colà; tanto eran fatti
premurosi del buon'andamento della pubblica istruzione!
Allorchè
poi s'intavolò la storia di un corso di rappresentazioni
drammatiche per la stagione di carnevale, nelle sere del giovedì
e della domenica, riusciva un'impresa molto affannosa quella di
ottenere un biglietto di ingresso a quel collegio; perchè vi
erano poi anche rinfreschi, e pei brillanti ufficiali s'introdusse
così un po' per volta anche il fervido sciampagna, il quale
verso mezzanotte metteva in giro un'allegria bacchica tutt'altro che
irreprensibile.
In
quel collegio v'erano, come accade, giovinette di quattordici, di
quindici, di sedici anni.
A
queste erano affidate le parti più difficili e importanti
delle commedie scelte a rappresentarsi.
Le
mamme di quelle giovinette, non potendo vincere nella gara muliebre,
le mamme delle bambine di quattro o cinque anni, quantunque amassero
le loro figliuole, pure erano le meno assidue a quei trattenimenti
serali. Ora, quando le fanciulle quindicenni si trovano lontane
dall'occhio della mamma e subiscono l'influsso diabolico di altri
occhi, sono, parliamoci schietti, molto vicine all'orlo del
precipizio. Quelle ragazze, negli intermezzi, escivano come puledre
sbrigliate, a precipitarsi qualche volta perfino nel giardino, perchè
v'era anche il giardino.
Certo
che venivano seguite e vegliate dalle governanti. Ma le governanti
erano o troppo vecchie o troppo giovani. Nel primo caso riuscivano
lente alla corsa e un po' balorde; nel secondo caso pensavano tanto a
sè, che dimenticavan le alunne. Queste poi, per legge di
galateo, dovevano spesso fermarsi ad ascoltar gli elogi di quelli fra
i più gentili intervenuti che si godevano a intrattenerle. Non
a caso ci arrestiamo a lungo su queste cose, e le assennate madri ci
comprenderanno. Ad ogni modo, anche disprezzando ciò che in
queste righe si adombra a combattere certe consuetudini, dovevamo dir
tutto per far vedere in che collegio donna Paolina aveva passato gli
ultimi diciotto mesi della sua educazione, e su che palco scenico,
nella sua qualità d'allieva emerita, era venuta a rappresentar
la parte di protagonista nel Dragone benefico del prof.
Ghedini.
Richiameremo
ora al lettore come la prima sera che essa andò in iscena, in
quel costume, suscitò, plasticamente considerata, un tale
capogiro, che, nelle successive rappresentazioni, il teatro della
Scala e della Canobbiana e di Sant'Anna e di San Martino rimasero
abbandonati dalla parte più scelta della cittadinanza, e dalla
parte più giovane e più brillante dell'ufficialità,
di modo che le mammine leggiadre si trovarono spostate e punte, e si
lamentarono di avere edificato a vantaggio altrui.
Donna
Clelia, allorchè nel segreto delle pareti domestiche vide, a
titolo di prova, quel diabolico angelo di diciasette anni in quel
costume provocatore, il quale faceva risaltare voluttuosamente delle
forme, il cui obbligo era quello di rimaner celate; protestò
altamente, e disse che non ne voleva altro, e che la signora
direttrice provvedesse a cambiare il protagonista. Ma la fanciulla,
che era già stata lodata alle prove, perchè possedeva
un talento drammatico assai distinto; e guardandosi nello specchio,
quando le fu recato l'abito, scoperse di esser molto più
avvenente di quello ch'ella stessa credeva, diede in tali
escandescenze a sentire quel veto inatteso della nonna, che la
mamma, la nostra cara Ada, la quale era meno rigida di donna Clelia,
e aveva il suo amor proprio, e sentiva la compiacenza d'aver ella
stessa messo insieme quella leggiadra figura, compiacenza che era un
misto d'amor di madre e d'amor d'artista; si sentì commossa
alle lagrime iraconde e agli strepiti della sua Paolina; e tanto
disse e fece, che la contessa Clelia, crollando la testa, lasciò
che la cosa andasse.
E
così non fosse andata! I consigli dei vecchi, più che
non si crede, vogliono essere ascoltati. Come dicemmo adunque, e per
il suo talento drammatico, e per le sue qualità plastiche,
donna Paolina fece un tal furore (non possiamo sostituire
altre parole a questo motto convenzionale), che diventò
l'idolo della platea. Allorchè poi, negli intermezzi, ella
discendeva nell'anticamera del palco scenico a ricevere i complimenti
delle mammine, i cavalieri serventi, tanto militari che borghesi, si
affollavano intorno ad essa per poter vederla da vicino.
Non
occorre che qui ci diffondiamo in minuti particolari per mostrare
come donna Paolina, allieva emerita, e le altre fanciulle
adolescenti, ancora convitte e prigioniere, potessero discendere
nelle anticamere della sala che serviva di platea e ne' corridoj dove
la folla si stipava, e scivolassero così di contrabbando anche
nel giardino. Chi ha avuto pratica di collegi e conservatorj dove il
pubblico può penetrare, e dove l'adolescenza, tenuta in
soggezione con ferule più o meno indulgenti, aspira
impaziente, e talvolta rivoluzionaria, alla libertà, sa
benissimo in che modo avviene quel che non dee avvenire, e come
spesso anche l'oculatezza la più insistente è
sopraffatta dalla malizia giovanile che, come un fluido
imponderabile, sguiscia e fugge e va dappertutto. Nei principj del
marzo di quell'anno 1797, soffiando i venti che una volta
annunziavano la primavera, e che oggi, non sappiamo perchè, si
son come involati dalle nostre spiagge, quelle fanciulle che
sentivano la primavera anche di gennajo, per mille ragioni, si
godevano a recarsi di soppiatto nel giardino. Nè, perchè
fosse la maggiore delle altre, donna Paolina si stava nascosta. La
contessa Clelia, quando interveniva a que' trattenimenti, fermavasi
in platea; e la nostra soave Ada si teneva dietro le scene, intenta a
sorvegliare la toilette delle giovinette artiste. Colla
lestezza adunque del contrabbandiere, che misura il tempo e fiuta
l'aria, donna Paolina, quando le pareva il momento acconcio, recavasi
lontana dagli occhi della mamma e della direttrice.
Non
è a dire quanto, sebbene innocentissimamente, si
ringalluzzasse, allorchè una schiera di giovani le si aggirava
intorno in corona a colmarla di elogi e di motti leggiadri e di
ambidestre espressioni, che ella non comprendeva interamente, ma
comprendeva abbastanza! Di quello sciampagna che, nella sala, correva
in giro per gli spettatori mascolini, le sue compagne, trionfanti di
qualche furto tentato in cucina, facevano parte a lei come a
maggiore, come a protagonista, e sopratutto come a dragone. Ora
quella spuma gasosa le metteva nel sangue una vivacità così
balda, così imperterrita, che le concedeva di lasciarsi andare
ad atti briosi e alquanto scomposti, e di movere in giro, su quelle
faccie marziali, delle occhiate affascinanti, e che parevano
significar quello di cui ella, possiamo giurarlo, non aveva nemmeno
la coscienza.
Quando
abbiamo detto che nel collegio si recavano alquanti ufficiali, non
abbiamo detto che vi andasse tutta la guarnigione. La fortuna dunque
e il destino che spesso si mettono d'accordo per tender le reti ai
mortali, concertarono fra loro di far che il Baroggi fosse, tra
gl'intervenuti, il solo che appartenesse all'arma dei dragoni. Spesso
un'inezia basta per avvincere due persone dell'uno e dell'altro
sesso. Una sera, che il giovane capitano potè uscire un
momento di fazione, a cui era obbligato, colla bella signora R... si
recò dove si recaron gli altri; e naturalmente si trovò
anch'esso in giardino a far corona intorno al suo commilitone
femminile. Lo sguardo della fanciulla corse di preferenza all'elmo
del giovine capitano, e spiritosa com'era e un po' eccitata,
le venne detto:
-
Ecco finalmente un camerata.
-
Così fosse, rispose il Baroggi. Sul campo di battaglia, con un
tal camerata, sarei invulnerabile, chè mi proteggerebbe un
angelo custode cogli stivali e cogli speroni.
La
fanciulla non rispose, ma guardò il bel capitano con una
occhiata lenta e piena d'espressione.
Gli
astanti, uomini e donne, a quelle parole, a quell'occhiata, provarono
unanimi un senso di simpatia, e, cosa strana, le donne a favore della
fanciulla, gli uomini a favore del giovane soldato. Ogni sentimento
d'invidia era scomparso e negli uni e nelle altre, chè
l'invidia non sorge se non quando spunta l'idea della gara. Bensì
corse in tutti simultaneo e concorde il giudizio: non potersi dar
coppia più adatta e più attraente di quella.
E
tutto finì per quella sera; donna Paolina venne chiamata dalla
voce stridula della governante. Rapida s'involò da quel
crocchio, guadagnando la gradinata che metteva nelle scale, con un
salto a piedi giunti, che fece risuonar gli speroni sulla pietra
percossa.
È
singolare che, nel tempo in cui il Baroggi si staccava dalle sue
quattro Aspasie, delle quali era pur tenerissimo, per tornare alle
sue occupazioni militari, o alla manovra in piazza Castello, o alla
cancelleria del colonnello Landrieux, o alla scuola di maneggio, egli
dimenticavasi compiutamente e della prima, e della seconda, e delle
altre donne che usufruttavano in quote proporzionali il suo cuore di
convenzione; e questo avveniva anche perchè, oltre alla
simpatia esplicita e dichiarata e documentata di quelle quattro
signore, strada facendo, e al passeggio, e ne' pubblici ritrovi, e
nei teatri quotidianamente, avea occasione di compiacersi di cento
altre dichiarazioni, fatte cogli occhi se non col labbro. Di quelle
care e bellissime signore si occupava dunque con fervidissima
espansione finchè trovavasi con loro; ma, dopo, il suo
pensiero rimaneva sgombro e netto come una tavola rasa. Questo
salutare fenomeno era quello che, ad onta delle molte fatiche di
campo e di camera, gli conservava quella vivacità e freschezza
di colorito, il quale, forse un quarto di secolo dopo, gli sarebbe
stato ascritto a difetto e quasi a colpa dalle donne sentimentali,
che nell'Ildegonda di Grossi e nel Tu vedrai la sventurata
di Bellini, appresero a mettere in voga i colori sepolcrali e la
tisi tubercolare. Ma, pur troppo, il sereno non può essere
perpetuo. Nella sera stessa dello spettacolo, quando accompagnò
a casa la signora R... nella stessa carrozza di lei, non ebbe tempo
di ricordarsi dell'allieva emerita. Dormì anche, com'è
naturale, tranquillissimo tutta la notte; si alzò dal suo
letto di caserma, lieto, florido, raggiante e con quell'appetito
modello che può avere un giovane di ventitrè anni, il
quale nel trotto e nel galoppo trova il tocca e sana, indarno
promesso dalle acque ferruginose. Ma, che volete, lettori carissimi?
allorchè egli discese nel Maneggio ad assistere il sergente
istruttore di cavallerizza, e prese egli stesso il frustone per
comandare una ballottata, nel guardare a' giovani coscritti
che duri e inerti stavano sul cavallo come fantocci inchiodati; al
pari di un'apparizione diafana e vaporosa gli si presentò alla
memoria la figurina leggiadra del dragone del collegio di madama
Blanchard, gli si presentò alla memoria insieme col desiderio
di vederla seduta in sella caracollare sotto alla di lui istruzione.
Quella comparsa improvvisa assimigliò molto (volendo trattar
l'amore come una malattia, convien ricorrere a similitudini
ippocratiche), assimigliò molto a quegli esantemi fatali che
compajono inaspettati per significare a un povero infelice che non ha
potuto involarsi all'invasione di una epidemia o di un contagio.
Per
colpa adunque della sua memoria e della sua fantasia, sentì il
desiderio di tornare un'altra sera al collegio di madama Blanchard, e
con certi sotterfugi riuscì d'andarci solo. Ma si preparò
troppo bene a quella comparsa, perchè la fortuna gli
arridesse. Si postò ne' corridoj, si recò nelle
anticamere, s'introdusse fino alla soglia del palco scenico sotto
alla protezione di due mammine alle quali ei non dispiaceva
nient'affatto; andò in giardino: ma tutto fu invano; per
quella sera donna Paolina non gli si mostrò che sul palco
scenico; ond'egli si partì di là rovesciato e lento,
traendosi dietro il lungo squadrone, come Fingallo, l'eroe di Ossian.
Uno dei segreti perchè una ragazza si fissi in pianta stabile
nella testa di un giovinotto, è il non averla veduta dopo aver
desiderato ed essersi tenuta in tasca la certezza di poterla
rivedere. Il capitano stette dunque di malumore tutta notte, stette
di perfido umore il giorno dopo... e non mancò di chiedere
informazioni e di colei e della famiglia, e che so io. Ma ciò
che seppe non valse a rasserenarlo; perchè la quasi clausura
onde la contessa Clelia aveva circondato e sè e la figlia e la
fanciulla non era molto opportuna a mettere di buon umore un
giovinotto intraprendente. Ma, tanto era destinato l'intreccio e la
catastrofe di un dramma serio, che si apprestò in que' giorni
appunto la prima delle due sontuose feste da ballo che si dovevano
dare nel palazzo Busca Serbelloni.
Il
nostro capitano vi andò in calzoni di spinone e in
calzettine di seta; perchè il giovane Bonaparte, in fondo in
fondo alla sua ambizione fiutando già l'impero, in quel breve
anno di vittorie favolose, dall'irta Sparta erasi già converso
alla geniale Atene, e gli scapigliati e squallidi sanculotti aveva
cangiati in damerini ad allettamento delle moltitudini. Ora noi non
sappiamo come sien corse le cose tra donna Clelia rigidissima e donna
Ada; ma il fatto sta che, in mezzo alle belle dame e alle fanciulle
che sedevano intorno intorno alla sala da ballo sui bianchi sedili,
trovavansi donna Ada appunto e donna Paolina. Questa anzi,
nell'istante che il capitano Baroggi mise piede nella sala, stava
sorgendo perchè un gentile ufficiale le porgeva la mano
invitandola ad un perigordino. Il Baroggi non la conobbe al primo,
perchè le vesti femminili la facevano parer diversa da quella
che a lui era comparsa nella verde giubba e nei calzoni di pelle di
daino; ma la ravvisò poi, e si ravvisarono e danzarono insieme
e contradanze e perigordini e monferrine, e si parlarono a lungo e
concertarono...
Madri
amorose e sollecite, le quali vivete in timore d'ogni nonnulla che
mai possa avvenire alle vostre figliuole, ascoltate un nostro parere:
tenetele ben lungi dalle feste da ballo. Nell'ebbrezza della danza
vorticosa, in quel tepore che, al pari di una corrente elettrica, è
mandato e rimandato da corpo a corpo stretti in artistico abbraccio,
v'è un veleno assassino che basta per intorbidare le pure
sorgenti dell'innocenza inconsapevole!...
VIII
Di
molte guerre e catastrofi di popoli la storia più volte
registra che la prima causa impellente è stato un bacio fatto
scoccare in un cattivo momento, un'infedeltà, una gelosia,
ecc. Se l'incendio di Troja e l'Elena divina e il dandy Alessandro
non fossero stati citati in tanti e tanti libri fino alla noja, noi
saremmo capaci di citarli ancora. Però, tanto per contrapporre
qualche cosa di più nuovo alla guerra di Troja, sappiano gli
investigatori delle cause prime, che l'eccidio del ministro Prina,
che fu uno de' fatti più dolorosi e più terribili della
città nostra, è avvenuto non per altro che perchè
una moglie non plebea ebbe un bacio fuggitivo da un amante regio. Per
oggi non possiamo dire di più. Il tempo di svelare i misteri,
finora rispettati, di quell'orribile tragedia non è ancor
giunto; ma verrà, e il lettore saprà da noi cose che
nemmeno sospetta. Intanto torniamo a donna Paolina ed al Baroggi,
dalla simpatia de' quali divenuta per gradi un amore incandescente,
scaturiranno tali conseguenze, che non saranno certo una bagatella
nemmeno per coloro che hanno passata la loro vita a contar le epoche
delle rocce granitiche, o ad accrescere l'elenco delle stelle, o a
indagar gli effetti dell'acido prussico, o a cercar un rimedio
all'idrofobia.
Cara
donna Paolina!!! più bella e più formidabile, nel
nostro concetto almeno, delle stesse eroine guerriere dei nostri due
epici sovrani, anche noi cominciamo a sentire per te una certa
affezione; ed è invero una fortuna l'innamorarsi delle persone
morte, che risorgono come creazioni della nostra fantasia, perchè
ciò almeno non danneggia nè la nostra salute, nè
la nostra borsa.
Alquante
pagine addietro abbiamo di gran fretta abbozzato il ritratto fisico e
morale del conte Achille S..., il padre di donna Paolina, colla
promessa che a tempo debito ne avremmo fatto il ritrattone ad olio.
Fu quella un'informazione un po' allarmante, e che in coloro i quali
credono al sistema dei trapassi morali deve aver generato qualche
apprensione anche a riguardo della figliuola: Talis pater, con
quel che segue. Ora non possono immaginarsi quei signori con che
piacere noi vorremmo dir loro che si sono ingannati; ma, pur troppo,
ciò che è non si può negare. Quell'avventatezza
onde il padre aveva fatto saltare in aria due o tre patrimoni,
quell'impeto di sangue onde, senza badare alle conseguenze, avea
fatto tutto ciò che il capriccio istantaneo gli aveva
suggerito; quella spensieratezza imperterrita onde aveva abbandonato
patria, casa, moglie, figliuoli, tutti, pur troppo, si trasfusero,
sebbene, con modificazioni benigne, nella fanciulla Paolina. La
contessa Ada, con quel suo cuore nato fatto per le profonde e ardenti
affezioni, innamoratasi al delirio di quello scavezzacollo pieno
di fascino, ne avea riprodotte le stigmati, come si riproduce una
voglia, nel corpo, nell'intelletto, nel cuore della figliuola.
Solo in cuore, per lasciarle un impronto anche di se stessa, le
depose una forte sentimentalità affettiva. Della bontà
non parliamo, perchè (e come potrà ora crederlo il
lettore? ma lo vedrà a suo tempo) essa esisteva, sebbene in
fondo in fondo e sotto mille pieghe, anche nell'inestricabile
guazzabuglio del cuore di suo padre. Ora fu con queste disposizioni
elementari che la fanciulla, rinnovando le danze fatali col capitano
Baroggi alla festa in casa Serbelloni, sentì per la prima
volta da colui il linguaggio esplicito, ardente, entusiastico
dell'amore, con dichiarazioni da far girar la testa anche a una
marmotta; con promesse, con proposte, con insinuazioni che potevano
parer armi ed artificj e insidie perfino di un'anima corrotta e
ribalda, se il giovane Baroggi non fosse stato in piena buona fede, e
se, riscaldando la fanciulla, non se ne sentisse riscaldato a gara,
al punto da smarrire la prudenza e il senno.
Noi
vorremmo riprodurre per intero il dialogo di fuoco che avvenne tra
loro; quel dialogo vertiginoso che li trasportò in un mondo
fuori del mondo, se non avessimo fiducia nella sagace interpretazione
de' nostri più giovani lettori. In conclusione, per non
perdere il tempo in eccessive chiacchiere preparatorie, il Baroggi, a
quella festa in casa Busca, disse alla fanciulla ch'egli tra pochi
giorni, ed era vero, avrebbe probabilmente dovuto partire per seguire
le truppe; che non poteva o non voleva lasciarla a Milano; che s'ella
si rifiutava, egli, al primo scontro in campo aperto, non avrebbe
fatto altro che gettarsi sulle baionette nemiche, per esalar l'anima
a un tratto; che un'altra giovine milanese, e alludeva forse alla ben
nota signora Scanagatta, erasi fatta soldato; ed altre avean
seguiti gli sposi, senza mettere in pericolo il decoro; che il
destino e la Provvidenza (che spalle grosse ha costei!) avevano
mostrato a più segni di volere ciò ch'ei proponeva; che
il fatto stesso dell'avere essa un completo abito militare e della
medesima arma in cui egli serviva, era un indizio manifesto, che la
fortuna voleva in tutti i modi agevolar la via della fuga. La
fanciulla non avea risposto a tali parole; ma nel cuor suo prese
fermissima risoluzione di seguirlo in ogni modo, per quanto serie ne
potessero essere le conseguenze. Anzi, nei giorni consecutivi, se il
capitano Baroggi fu assalito più e più volte da mille
dubbj e paure, ella non ebbe mai in mente altro pensiero che quello
di mettere quandochesia in esecuzione quel partito disperato.
Verso
la metà di marzo eran venuti di Francia nuovi battaglioni e
molta cavalleria, la quale, dovendo partire da un giorno all'altro,
fu messa a serenare nei giardini pubblici, come praticarono e prima e
dopo e sempre quasi tutte le truppe venute qui in momenti burrascosi,
per passare altrove. Il capitano Baroggi, per le incombenze portate
dalla sua condizione d'ajutante del colonnello Landrieux dello stato
maggiore di cavalleria, due o tre volte al giorno recavasi ai
giardini, nel breve periodo che il nuovo reggimento dragoni stanziò
a Milano. Passando lungo il naviglio, vedeva due o tre volte al
giorno la fanciulla che stando continuamente alla vedetta e quasi
indovinando l'ora e il punto, usciva in giardino quando occorreva,
spingendosi sino ad una ringhieretta mascherata di carpini, la quale
si protendeva molto sul naviglio, e però non era a molta
distanza dalla sponda opposta. Il Baroggi guardando il naviglio che
era asciutto, per gli spurghi che, siccome è d'antica pratica,
vi si cominciano nel mese di marzo; e osservando che, in molti punti,
gettandovi mattoni o ceppi grossi, potevasi attraversare, senza la
necessità d'immergere nell'acqua quasi nemmen la punta dei
piedi; pensò che la fuga della fanciulla tentata per quella
via non presentava nè difficoltà nè pericolo di
sorta. L'irresoluzione in cui da più giorni ei versava
dipendeva in gran parte dall'idea delle difficoltà che
naturalmente si opponevano al suo disegno. Ora quella specie di
scoperta lo sollevò al punto, che stabilì
risolutissimamente di mandarlo ad effetto. Scrisse dunque alla
fanciulla una lettera, la quale come sia stata ricapitata non lo
sappiamo, perchè non si può saper tutto. Ella rispose,
e la risposta avea qualcosa di determinato, di fiero, di romano, per
così dire, che egli stesso ne dovette maravigliare, ma d'una
maraviglia che gli accese più che mai il cuore e la testa.
A
questo punto eran le cose quando noi vedemmo per la prima volta donna
Paolina appoggiata alla spalla del finestrone della sala terrena
verso il giardino, in una posa affatto maschile. Allora ci pare
d'aver notato come ella fosse concentrata in gravissimi pensieri; ci
pare d'aver notato come si scuotesse tutta a sentir la Marsigliese,
eseguita sul cembalo e cantata da sua madre. Ora dobbiamo aggiungere
che, dopo avere scritta quella lettera di risposta al capitano
Baroggi, avea pensato di proporgli che, prima di partire, provvedesse
a sposarla. Codesta idea sorse in lei, e per quel senso profondo di
decoro e di pudore che è in tutte le fanciulle, anche
allorquando sono esaltate e traviate dalla passione; e per
esperimentare se le proteste ardentissime del Baroggi non fossero
proteste oblique e malfide. Il dubbio o il sospetto è
inseparabile da qualunque passione, nel soddisfacimento della quale
si ripone ogni maggior bene. Ella, del rimanente, aveva sentito a
dire che i matrimonj, senza il consenso dei genitori, erano nulli per
legge; ma avendo pur letto, non sappiamo in qual libro, che in alcuni
casi non è necessario il loro consenso, intelligente e
acutissima qual'era, andò a squadernar il catalogo dei libri
della biblioteca ricca e scelta, raccolta dalla dottissima contessa
Clelia, l'ex lettrice di matematica nell'archiginnasio bolognese, per
vedere se mai vi fossero delle opere che trattassero del matrimonio.
Squadernò dunque, e ne trovò più d'una, e di
recenti: tra l'altre, le Considerazioni attribuite a don Giovanni
Bovara sopra l'imperial regia costituzione del giorno 16 di
gennaio 1783, risguardante i matrimonj, stampate a Milano dal Motta
nel 1794; i due opuscoli dell'abate segretario Giudici, Sulla
civile potestà del matrimonio, stampati pure a Milano in
quel medesimo anno 1797; e un altro sul medesimo soggetto, d'ignoto
autore, stampato a Brescia nell'anno stesso.
Lesse
avidamente quei libri, ma per quanto ella fosse colta e intelligente,
quella materia mista di giurisprudenza e di teologia era alquanto
superiore alle sue forze: e tanto più che così il
Bovara, come l'abate Giudici e l'anonimo di Brescia non ebbero certo
in mente di scriver per le ragazze. Lesse dunque molto e capì
assai poco, ma per quel poco comprese che l'affare era disperato e si
sentì venir freddo.
Ma
tutt'a un tratto balzò in piedi, come se avesse fatto una
scoperta, mandando un lungo respiro di soddisfazione. Aprendo
l'opuscolo di Brescia, s'imbattè nella pagina 23, dove lesse
quel passo che per lei era davvero un passo d'oro: - Ognuno
sa che il concilio di Trento volle stabilire che valido sia il
matrimonio dei figli anche senza il consenso de' genitori. -
Ciò le bastò; chiuse il libro; ripose tutti gli altri
nella libreria, e non ne volle saper altro; e su quel passo solitario
e sgranato, come praticano molti dotti che vogliono fondare un
sistema nuovo a qualunque costo, e storpiano i fatti per farli stare
sul loro letto di Procuste, fondò la sicurezza del suo
matrimonio col bel capitano.
Scrisse
allora al Baroggi una seconda lettera, nella quale metteva il
matrimonio come indispensabile condizione, anzi come condizione
preventiva alla partenza e alla fuga. Il capitano, che ignorava il
decreto del concilio di Trento, ma senza saperlo, sapeva benissimo
che la sostanza di quel decreto non era mai stata ricevuta da nessun
governo; e recentissimamente il general Bonaparte avea promulgato la
legge del matrimonio civile, per il quale, essendosi fissato il
principio del contratto, le difficoltà erano accresciute pei
contraenti; volle darsi per disperato, e tanto più che le
parole della fanciulla, mentre pure esprimevano il turbine della
passione, erano parole di ferro in quanto al matrimonio.
Codesto
ostacolo improvviso gli accrebbe la smania di riuscir nell'intento; e
la tempesta fu tale in lui, che, sapendo come il vecchio Suardi
poteva dar punti al diavolo, risolse di aprirsi a lui per ajuto.
Si
recò pertanto a trovarlo sull'istante; ma volle la
combinazione che entrasse nelle sue camere in malissimo punto. Contro
il consueto e con suo gran stupore, trovò il signor Andrea
Suardi in un terribile abbattimento. Che cosa era successo? Dal
signor Andrea, com'è naturale, non potè saper nulla; si
ritirò dunque, e, ne chiese qualcosa ai servitori, ma anche
questi non sapevan nulla. Discese nello studio, parlò a uno
scrivano. Il Baroggi, da quanto colui gli disse, potè
argomentare che una cattiva notizia aveva cagionata la costernazione
del Suardi; ma non potè nè sapere, nè indovinare
qual fosse codesta notizia. Noi però non abbiamo bisogno di
andare a tentone; ed ecco che cosa c'era di nuovo. Da un messo
velocissimo e clandestino gli venne riferito alla mattina di quel
giorno, esser caduto prigione, nelle mani dei francesi, il generale
austriaco Scultz, morto poi per le ferite; il quale era il suo
manutengolo nelle manovre degli appalti; che, nel tempo stesso, dopo
un'amputazione, era morto anche un ufficiale del treno francese, il
quale, prima di morire, avea scritto una lettera all'intendente di
guerra francese, residente ancora in Milano, nella quale pareva si
facessero importanti rivelazioni sul fatto degli appalti e dei
foraggi. Or vedrà il lettore che tempestoso viluppo sta per
ammassarsi da tutto ciò; e come il Baroggi finisse a giovare
al Suardi, e questi al Baroggi.
IX
Il
capitano Baroggi, quando non stava in castello, alloggiava, lo
abbiamo già detto, in una delle case che il Suardi possedeva
in Milano, e spesse volte andava a pranzo da lui. Il giorno stesso in
cui era andato a visitare il suo protettore, e contro il solito, lo
aveva trovato così mal disposto, ricevette poco prima di
pranzo un biglietto d'invito del Suardi, con preghiera di non
mancare. La preghiera era superflua. Il capitano non desiderava
altro.
In
quel dì non ci furono commensali. Il Suardi e il Baroggi
pranzarono soli, l'uno in faccia dell'altro. Il signor Andrea era
tornato calmo e lieto come d'ordinario; questa almeno era
l'apparenza.
-
Caro capitano, come vanno le faccende colla bella contessa?
-
Nè bene, nè male; anzi piuttosto male che bene; nè
colla R... vanno meglio, chè dice di esser gelosa, e minaccia
scandali. In conclusione, signor Andrea, sono abbastanza annojato del
mio quadruplice impiego, e vorrei domandare la giubilazione. D'ora
innanzi non voglio più saperne di tali donne. Ambizioni,
capricci, dispetti, finzioni, ecco ciò che ho raccolto in
questi novanta giorni di guarnigione.
-
Col tuo metodo di tenerle tutte a bada in un tempo solo, non si
possono che raccoglier dispetti e malumori. Credi tu che l'una non
viva in sospetto delle altre, e che ignori?... È un miracolo
che t'abbiano sopportato fino adesso.
-
Ma io non mi sono ingaggiato con nessuna... non ho nessun patto di
scrittura che mi obblighi piuttosto all'una che all'altra. Io vado
nelle loro case come ci va un amico comune. Quanti altri ci vanno!
Sarebbe bella che...
-
Non voglio entrar in dispute...nè insegnarti che, oltre ai
patti scritti, vi sono i taciti, nè convincerti che gli amanti
sono come gli avvocati, i quali non possono simultaneamente prender
la difesa di due parti avversarie tra loro. Sarebbe uno scandalo.
Oggi però, giacchè dici che vuoi domandare la tua
giubilazione, desidero che ti meriti un ben servito. Lo avrai dunque
da me, ma a un patto... che tu conduca questa sera stessa alla
Canobbiana la cittadina contessa... (guai se i repubblicani
arrabbiati ci sentissero a mettere insieme queste due parole!); tu
devi dunque recarti in sua compagnia alla Canobbiana, e farle tutta
la tua corte... e spingerla fino all'esagerazione quando ti troverai
vicino al tavoliere dove di solito il colonnello Landrieux giuoca
alle carte con monsieur Chapier.
-
Ma perchè tutto questo?
-
Il perchè lo so io... In quanto agli scandali della signora
R..., se hanno a succedere, lascia che succedano... Saranno essi uno
spediente per romperla con tutte e quattro, e finirla, giacchè
ne hai tanto desiderio.
-
Il parere non è cattivo; ma tutto sta che la signora contessa
abbia volontà di venire. Perchè siam sempre lì...:
se si chiede, non si ottiene.
-
Chi vuole può. È un proverbio che non falla. Con questo
proverbio alla mano mi sono governato tutta la mia vita. Colle donne
poi è un vero tocca e sana.
-
Quando sono semplici e buone, può andare benissimo. Ma voi non
conoscete nè la A... nè la R... Non c'è nè
semplicità, nè bontà vera in loro. Superbia,
ira, invidia, sono i peccati capitali che la loro gioventù e
la loro bellezza e il loro ingegno e il loro spirito fanno lavorare
continuamente a danno del prossimo e dei poveri bietoloni che hanno
la debolezza d'innamorarsi davvero. La R... la conosco da un pezzo...
La A... la conosco da poco tempo, e voi ne avete tutto il merito; ma
la seconda non fa che spiegare la prima e completarla. Se io so star
bene in staffa con loro, e se le loro signorie non mi hanno ancora
mandato al diavolo, è perchè non sono innamorato, ed
esse ben se ne accorgono, ad onta delle mie parolone, e sperano
tuttora di poter ridurmi allo stato di vittima, per abbandonarmi poi
di punto in bianco, e farmi cader dall'alto, tra le risate degli
astanti e il sorriso trionfante del mio successore, il quale, dopo
esser rimasto in carica più o men tempo, farebbe la mia fine
medesima, e così di successore in successore, fino alla
dispersione della loro carne fresca e color di rosa.
-
Bravo il mio capitano, vedo che sei matricolato la tua parte. Ma che
cos'è che poco tempo fa non parlavi così?
sarebbe
mai...?
-
Che cosa?
-
Che cosa, che cosa... Non si comincia a prendere avversione alle
amanti vecchie se non quando sottentra qualche amante nuova. In
questo genere ho cominciato i miei esercizj a sedici anni; e me
n'intendo. Ma che cos'è successo? Il mio bel dragone si fa
serio... Or bene, si può sapere o no di che si tratta?
Il
Suardi insistette perchè il Baroggi si svelasse. Questi stette
sodo e serio un pezzo, poi si sciolse alla fine, e si svelò e
dichiarò di avere finalmente provato che cosa sia un
innamoramento. Sviluppò di poi delle teorie, e volle
dimostrare che un giovane non può innamorarsi davvero che
delle ragazze.
Disse
in appresso il nome di battesimo della fanciulla. e come l'avea
conosciuta vestita militarmente; infine mise fuori anche il casato.
Il
Suardi, a quella rivelazione, stette muto qualche tempo per la grande
sorpresa, poi, battendosi la fronte, e gettandosi a sdraio sul
dossale della sedia, rimase un pezzo cogli occhi rivolti alla
soffitta della sala; poi si alzò e passeggiò,
esclamando di tanto in tanto:
-
Oh che caso! Oh che combinazione!
Il
Baroggi lo guardava con meraviglia.
-
Ma in fine che c'è egli di così strano? gli chiese poi.
-
Ah, se tu sapessi! Tu non conosci niente di tutto quello che... Ah,
questa è la più curiosa di tutte le combinazioni... Va
poi tu a fischiare in teatro quando la compagnia Fabbrichesi ti
recita una commedia inverosimile... Ma l'ora è tarda; e non
c'è tempo da perdere, e per condurre la contessa in teatro
alle otto, bisogna cominciare a corteggiarla due ore prima. Va
dunque, capitano, va e sbrigati, e fa di non mancare perchè...
Proferendo
queste parole il Suardi si era fatto serio, chè davvero
l'impaccio in cui si trovava non era tale da passarci sopra ridendo.
Il
Baroggi, che avrebbe voluto continuare a manifestare al signor Andrea
i proprj piani, e, in proposito, domandargli dei consigli e degli
ajuti, dovette tacere per forza, rimettere ad altro giorno il seguito
del discorso, cingersi tosto lo squadrone, e prendere il caffè
stando in piedi, perchè il Suardi era diventato persino
stucchevole nel raccomandargli di far presto e d'andare.
Suonavano
le ore sei quando il capitano uscì per recarsi difilato in
casa A...
Il
costume d'andare a tavola alle ore quattro, per quella classe di
cittadini che non mangia più di tre piatti; alle cinque per
quella classe di negozianti e di pubblici funzionarj che hanno
quattro piatti oltre la frutta e formaggio e la bottiglia di
contrafforto; alle sei per gli uomini altolocati e i milionarj
patrizj che hanno piatti senza numero fisso, e che studiano la
geografia coi vini, è un portato del nostro secolo. Negli
ultimi anni del secolo passato v'era tuttora nelle case popolane la
consuetudine del pranzo a mezzodì, e della merenda, e della
cena.
Soltanto
nelle classi distinte, la rivoluzione - che non era penetrata
nel resto - penetrò invece nell'orario del pranzo.
Questo però non avea oltrepassato ancora le ore quattro.
Vogliamo dire con ciò, che quando il capitano fu annunziato in
casa A..., la dea del loco co' semidei e le semidee commensali erano
già tutti assisi nel salone del chilo a sorseggiare il caffè.
Allorchè
il capitano fu annunciato nella sala, le sedie degli adoratori
estatici, degli incensatori muti, e degli adulatori ciarlieri, che in
semicerchio concentrico stavano intorno al seggiolone aurato della
bellissima e voluttuosissima dea, si ritirarono tutte come se
dipendessero dall'impulso di un unico congegno. Allorchè una
bella donna, venuta in gran voga ed a cui si convergono tutte le
bussole dei navigatori avventurosi, ha scelto un prediletto, costui è
riguardato comunemente come il padrone di casa; è più
rispettato o più abborrito del marito medesimo, a seconda
degli umori, delle condizioni, degli affetti, delle aspirazioni
diverse. Che il Baroggi fosse divenuto tale da pochi giorni, era la
certezza di quegli astanti, e fu il motivo onde tutti, per un moto
macchinale, si ritrassero non senza bestemmiarlo in segreto.
Spessissime volte capita che, in circostanze consimili, quando il
favorito vien scelto da una bella signora, tutti gli adoratori che
hanno inoltrato il loro ricorso e che hanno vissuto in isperanza per
qualche tempo, dileguano in massa, come le rondini in autunno. Ora
questo fatto non si verificò nel caso del nostro Baroggi,
perchè tutti sapevano che fra pochi giorni esso, volere o non
volere, avrebbe dovuto andarsene al campo, e che probabilmente poteva
essere portato via da una cannonata. Per quanto quegli adoratori
fossero in fondo giovani non perversi, tuttavia, siccome erano
giovani e pretendenti, non potevano veder di buon occhio chi avea
tali qualità da costringerli, sul loro terreno, a una perpetua
ritirata. Paganini era l'idolo del pubblico, ma non dei suonatori di
violino. La Malibran, quando morì, fece piangere in palese, ma
ridere in segreto tutte le prime donne assolute che viaggiavano colla
carrozza propria. La speranza adunque che quel Ganimede stivalato
potesse essere involato al mondo da una palla micidiale, senza
ricorrere nè all'aquila, nè a Giove, fece sì che
i signori, i quali allargarono il cerchio de' sedili allorchè
comparve il Baroggi, non solo non avessero abbandonata la casa, ma
accogliessero anche con sorrisi e complimenti il bel capitano. In
quanto alla contessa A
, non ostante che, per la qualità
speciale del suo sangue, si trovasse benissimo tra tanti bei
giovinotti traspiranti desiderio e ardore, non potè a meno di
scuotersi tutta nel sentire la voce e nel veder quella per lei tanto
attraente figura del Baroggi. Il nostro amico Bruni, che fu sempre un
gran fisionomista e che per gli occhi vedeva i cuori, ci ebbe a dire
tante volte, a proposito di quella contessa, la quale fece parlar
tanto di sè che egli non la vide nè prima, nè
dopo a comportarsi verso altri amanti (di cui la lista, pur troppo,
riuscì innumerevole) con quella speciale e delicata deferenza
onde, pel breve tempo ch'egli potè esserne spettatore, si
comportò col Baroggi. - «Si vedeva, riportiamo le
precise sue parole, che quella era stata una simpatia invincibile e
ingenua, tanto che se il capitano non le fosse stato tolto dalle
circostanze, la cronaca scandalosa non avrebbe avuto a empir tante
pagine.» Però da quello che il Baroggi ebbe a dire sul
conto di essa al Suardi, si vede che egli, o non la seppe conoscere,
o fu ingiusto seco; l'ardente passione per donna Paolina, non solo
gli rese uggiose le pratiche vecchie, ma superficiali e insipide le
relazioni nuove.
Diciamo
questo perchè vorremmo che nel giudicare gli uomini e le
donne, segnatamente quando si tratta di trascorsi, e debolezze, e
peccati, che non intaccano nè la vita, nè la borsa del
prossimo, si facesse sempre uso di una certa indulgenza. - Ma
è assai probabile che la bella e spiritosa e ardente figliuola
del marchese F..., se invece dello sposo, che il padre fatto bigotto
le mise innanzi come un medicinale, avesse trovato un giovane che
nell'insieme avesse arieggiato il Baroggi, con quel corredo
agro dolce di qualità intellettuali che valgono a tenere
in freno una signorina facile ai capogiri ed a renderla invulnerabile
alle tentazioni, ella non avrebbe forse cercato altro, e sarebbe
stata una donna esemplare.
Ma,
per lasciare la moralità in pace, il bel dragone si mise in
prima a sedere, poi, dovendo rispondere a cento domande che le
rivolse la contessa, fu costretto a piegare la testa verso di lei;
poi, piegando la contessa la propria per dirgli qualche cosa in
segreto, contro le prime regole fondamentali del galateo, le due
persone, che si trovavano fra lei e il Baroggi, dovettero alzarsi per
forza, e avviare la conversazione in un altro crocchio; esempio che,
l'uno dopo l'altro, tutti imitarono, maledicendo l'importuno e anche
odiando un po' quella capricciosa donna, che non temeva di farsi
scorgere da tutti. Il Baroggi, finchè stava con lei, tanto era
affascinante quell'atmosfera ond'ella avvolgeva chi le stava presso,
sebbene pensasse a troncare ogni relazione con la contessa, pure non
poteva a meno di cercare quelle espressioni e quelle parole che
piaciono tanto alle donne innamorate, e alle quali esse danno qualche
volta l'importanza di un contratto firmato. Or avendo parlato in modo
che la contessa se ne sentisse tutta quanta inzuccherata, ella non
pensò un momento solo a stare in sulle ripulse quand'ei la
pregò a voler permettere che per quella sera l'accompagnasse
in teatro.
-
Che cosa dirà la cittadina R...? gli chiese però
la contessa, sorridendo.
-
Pensi pure e dica quello che vuole.
-
Il cittadino R... e il general Lechi sono tornati a Milano.
-
Da quando?
-
Come? non lo sapete?
-
Davvero che non so nulla.
-
Non è una bugia questa?
-
Da soldato d'onore torno a ripetere che non so nulla.
-
Quand'è così... - e qui lasciando in sospeso il
discorso, girò l'occhio nella sala sui varj gruppi di persone
che lontani da loro due attendevano a ciarlare; e visto che nessuno
guardava, colse il punto, e di volo gli dette un bacio.
La
grazia, l'incanto, l'abbandono pieno di ingenuità insieme e di
malizia, onde la contessa mise la sua bocca di rose sui baffi del
dragone, avrebbero messo il disordine nella sistole e nella diastole
di qualunque cuore, fosse stato anche quello di un protocollista; chè
quel bacio, messo all'asta, avrebbe potuto salire a un prezzo
favoloso. Pure il Baroggi ne arrossì senza contento.
Quel
bacio, del rimanente, nell'intenzione della bella contessa, doveva
essere un premio. - Ella aveva creduto in principio che il
Baroggi le si fosse profferto ad accompagnarla in teatro per
vendicarsi della cittadina R
, che la pubblica maldicenza
pretendeva avere avuto qualche tresca col general Lechi, ed essere
per rinnovarla ora che il generale da Brescia era venuto a Milano. -
Conosciuto pertanto che il Baroggi non ne sapeva nulla, e non aveva
secondi fini, gli volle attestare la propria gratitudine.
Queste
coserelle ci rivelano che la contessa faceva proprio da senno.
Peccato, torniamo a ripeterlo, che il bel dragone fosse tirato
altrove!
Ma
l'ora d'andare al teatro venne presto; la carrozza fu in un momento
in contrada Larga. Al palchetto della prima fila la contessa e il
dragone s'affacciarono nel punto che il telone s'alzava. -
Tutte le teste che erano in platea e nei palchetti, col movimento
simultaneo di un battaglione che faccia l'esercizio si voltarono
issofatto per vederla. - Ma appena comparve il dragone, come
quando ne' campi si levan gl'incastri, che tosto si sente il fremito
e il mormorio delle acque irrigatrici, proruppero in chiacchiere, le
spiritose invenzioni, le congetture, i sospetti, le calunnie, le
quali s'intrecciarono poi in mille combinazioni e varianti quando fu
notato che il signor Andrea Suardi era entrato in palchetto
anch'esso: il signor Andrea, che in quella sera, come il Beltrame del
Roberto il Diavolo, lavorava colle occulte sue armi per
spingere tutti a perdizione, se ci fosse stato il bisogno, onde
salvare se stesso.
Allorchè,
dopo l'intermezzo, il pubblico si rimise a sedere per vedere il
ballo, che non era più quello del Papa; la contessa
A... e il capitano Baroggi erano usciti dal loro palchetto,
circostanza comunissima, che non fece nè freddo, nè
caldo. - E il ballo andò fin quasi alla fine; quando,
nel momento che la coppia danzante stava facendo le sue pose di
grazia, la platea fu tutta in scompiglio. Quelli che stavano in piedi
furon visti uscire repentinamente; i seduti si alzarono per domandare
di che si trattasse; corsero voci diverse; si parlò di un
alterco avvenuto in ridotto. La coppia danzante cessò i suoi
vaghi giri; tacque l'orchestra.
X
Gli
scellerati per vocazione e per arte, i quali di ogni cosa si fanno
un'arme per raggiungere i proprj intenti, spesse volte nella raccolta
dei mezzi somigliano a quella classe speciale d'avari che sono avidi
dell'oro e lo accumulano affannosamente, non perchè amino
l'oro in se stesso, ma perchè temono sempre di essere sorpresi
da improvvisi bisogni, e però non vogliono lasciarsi cogliere
sprovvisti. Il vecchio Suardi, nella sua speciale condizione,
assimigliava a questi avari. Nel dubbio che i suoi disegni
incontrassero ostacoli, nel sospetto anche lontanissimo che un uomo
potesse diventare un suo oppositore, subito pensava agli schermi,
alle ritirate, alle armi di difesa e d'offesa, come se il suo
sospetto si fosse già avverato, e se il suo possibile nemico
lo avesse già colpito. Al pari di un feudatario del medio evo,
asserragliava il proprio castello anche allorquando non gli era posto
l'assedio da nessuno, ma soltanto nel timore che ciò potesse
succedere. Allorchè, nelle faccende degli appalti per l'armata
repubblicana, si trovò la prima volta a contatto con
monsieur Chapier, comprese che con quell'uomo non avrebbe mai potuto
trovarsi d'accordo, e pensò tosto ai mezzi di potere,
all'occorrenza, disfarsi di quel francese. Ne studiò l'indole
e le debolezze; studiò le relazioni in cui trovavasi con altri
uomini; in che grado fosse rispettato, amato, odiato; su queste
osservazioni abbozzò i proprj disegni, che modificò,
perfezionò o cangiò addirittura a seconda delle
circostanze sorvenienti.
In
principio, appena ebbe fatta la conoscenza del colonnello Landrieux,
pensò se mai fosse stato possibile di far le parti di Creonte
tra il colonnello e l'intendente, per suscitare tra di loro una tale
avversione, che l'uno dei due, o l'uno e l'altro insieme, potessero
andar colle gambe in aria; s'accorse però presto che del
Landrieux, per quell'affare speciale, non c'era da cavare nessun
partito; onde se lo tenne buono per qualche altra cosa, e lasciò
andare. In appresso s'avvide che monsieur Chapier, con cui la natura,
per ciò che riguarda l'avvenenza, non era stata cortese,
guardava di pessimo occhio i bei giovinotti, e all'uopo anche ne
sparlava e li metteva in dileggio. A questa scoperta presto ne tenne
dietro un'altra; e fu che monsieur Chapier andava perduto dietro al
bel sesso, e, per quanto pareva, con tanto maggior fervore quanto più
era implacabile il loro gelo a suo riguardo; e che durante il
carnevale avea tentato ogni sforzo per rendersi amabile, vale a dire
avea tentato l'impossibile; e che si era in sul serio riscaldata la
testa quando vide quel portento di bellezza che era la contessa A...
Indi, da certe contrazioni di muscoli e da certi sguardi obliqui che
l'intendente gittò sul capitano Baroggi, una sera che nella
platea della Scala gli era passato innanzi, potè indovinare
ch'ei lo avrebbe voluto piuttosto morto che vivo. Gli uomini
disgraziati colle donne portano un'avversione singolarissima a quelli
che ne sono la calamita. Su questi dati adunque il signor Andrea
Suardi fece i suoi calcoli, in conseguenza dei quali approfittò
dell'amabile invito della bella contessa per mandarle tosto il
capitano, avviare tra loro un amore qualunque, e farlo luccicare poi
sugli occhi dello Chapier, con quell'insistenza onde il monello
persecutore spinge al suicidio l'improvvido merlo, tormentandolo
senza posa coi raggi del sole raccolti nello specchietto. Il Baroggi
fu per ciò messo da lui al posto dove il Landrieux non avrebbe
saputo far nulla; fu da lui messo a quel posto coll'intento onde un
piantatore americano mette il generoso cane di Terra Nuova sul
sentiero dov'è la traccia del leopardo o del giaguaro, per
aver tempo di porre sè stesso in salvo, dato un repentino
assalto, e senza pigliarsi gran pensiero del pericolo del cane
fedele.
Il
Suardi aveva preso a proteggere il povero figliuolo del disgraziato
Baroggi; lo aveva fatto educare senza risparmi; aveva sentito e
sentiva per lui qualche affezione, che in certi momenti diventava
anche caldissima. Ma egli era avvezzo a sagrificare tutto ai proprj
fini; avrebbe sagrificato anche i figli, se ne avesse avuti; onde non
vi poteva essere un'eccezione nemmeno pel Baroggi. Se non c'era la
necessità di adoprarlo, lo risparmiava ed era contento; ma se
la necessità facevasi imperiosa, sentivasi disposto ad
immolarlo freddamente, e addio affezioni. Nella categoria degli
uomini belve il Suardi poteva essere qualificato come il leone messo
a raffronto col tigre: il primo divora per fame; il secondo per
rabbia e voluttà di strage.
Ora,
tornando al teatro della Canobbiana, la contessa A... assaporò
a lungo il piacere di sedere in palco dirimpetto al bel capitano; chè
tutte le donne che fanno all'amore per passione e per diporto
esultano nel mostrare al mondo, quasi in atto di trionfo, l'ultima
loro conquista: in ciò non molto dissimili dai fanciulli che
con giubilo fanno vedere a tutti l'ultimo loro giocattolo. Ragion
volle però che, uscendo dal palchetto, dove erano entrati
altri aspiranti, lasciasse lo strenuo dragone per farsi accompagnare
da loro in Ridotto dove, di quel tempo, si raccoglieva il fiore della
cittadinanza, e dove, anche dopo finito lo spettacolo teatrale, si
prolungavano sino ad ora tardissima la conversazione e il giuoco.
Il
Suardi, colto il momento che il Baroggi fu solo, lo prese sotto il
braccio, e così gli disse:
-
Caro Geremia, c'è un originale di francese al quale è
necessario che tu dia una lezione piuttosto grave.
-
È borghese o soldato?
-
È un anfibio.
-
Come un anfibio?
-
Voglio dire che veste la montura, ma quando gli altri si fanno
ammazzare, egli conta i denari e prepara i pacchi per le truppe. È
un intendente.
-
Ah, ah, monsieur Chapier. Lo conosco benissimo. Al teatro di S.
Martino c'è uno scimiotto vestito da generale che sulla corda
va dal palco scenico alla soffitta, il quale sembra suo fratello
gemello. Ha la debolezza di voler piacere alle donne. Oh... lo
conosco benissimo.
-
Che tu lo conosca va bene; ma va male che egli sparli di te.
-
Come fa a sparlare di me, se io non gli ho mai tôrto un
capello?...
-
Ha sparlato di te e ha sparlato di lei...
-
Di lei? di chi?
-
Della contessa, s'intende. Ha detto che la contessa paga gli amanti,
e che ti...
Qui
il Baroggi mandò un'esclamazione che si sarebbe sviluppata in
un fremito ferino, se il Suardi non lo avesse frenato.
-
Che cosa gridi, matto? Lascia gridar chi è sporco. Piuttosto
va a pigliar quel furfante pel collo e
Il
Baroggi, senza rispondere, aveva già saltato tre gradini. Il
Suardi lo trattenne ancora.
-
Ma dove corri, se non sai nemmeno dov'egli si trova?
-
Sarà in Ridotto, come al solito. Eppoi, dovunque ei si fosse
cacciato, lo troverò io in ogni modo.
-
Chi ha fretta va adagio, chi vuol vendicarsi manda giù l'ira e
si arma di sorrisi. Non occorre che a un soldato tuo pari io dia dei
suggerimenti; ma colui non deve sentire dalla tua bocca la cagione
del tuo sdegno. Sopratutto che il nome della contessa sia rispettato
col silenzio. Sorridendo gli si va vicino e lo si guarda, come a
dirgli: Mi fai ridere e mi fai compassione nel tempo stesso; se non
s'accorge, si torna da capo; se non basta, passando vicino alla
sedia, gli s'urta dentro; se non basta ancora, gli si pesta un piede,
in guisa da fargli comprendere che non è stato uno sbaglio.
Già quando un cane guarda un gatto, non occorrono
raccomandazioni per farli venire alle prese. Il resto vien da sè.
Quel
che il Suardi aveva detto, era il vero. Monsieur Chapier aveva
infatti, momenti prima, sparlato del Baroggi a quel modo che fu
riferito. Il Suardi, che stette in sull'ale tutta la sera per non
lasciar sfuggir nulla, sapute quelle ingiurie, corse a farle
fruttare, e fruttarono infatti più di quello che si sarebbe
pensato. Il Baroggi quando salì in Ridotto, traspirando ira da
tutti i pori, non disse nulla; ma, passando vicino alla sedia dov'era
monsieur Chapier, la urtò di tanto, che spostandola un buon
tratto, il Francese sarebbe caduto, se un ufficiale non l'avesse
preso tra le braccia. È inutile il dire che gl'insulti
scoppiarono senza farsi aspettare. Tutto il Ridotto fu sottosopra, e
la prova delle armi sarebbesi fatta là issofatto, se non si
fossero intromessi ufficiali e cittadini a metter pace pel momento, e
a trasportar la questione sul terreno del così detto onore.
Le
cose erano a tal punto quando la platea sorse tutta quanta.
XI
Non
occorre l'aggiungere, che il pubblico, addensatosi nell'atrio del
teatro, perchè la notizia del fiero alterco dalle sale del
Ridotto in un baleno avea disceso le scale, come seppe le cagioni e
sentì che gli effetti si erano risolti in un duello da
definirsi all'alba del dì prossimo, a poco a poco si diradò,
perchè, non passando quasi giorno senza qualche duello tra
borghesi e soldati, tra Italiani e Francesi, vi aveva fatto l'abito e
non ci annetteva moltissima importanza. Ma se non ci annetteva
importanza il pubblico indifferente, nell'eccesso medesimo della sua
perpetua curiosità, ben v'era chi doveva sentire tutta la
gravezza di quel doloroso incidente.
Il
signor Giocondo Bruni abitava in una casa nella contrada della Spiga,
alla distanza di tre porte dalla casa S... Ora, siccome egli era
amicissimo di donna Clelia e donna Ada, per quello che sa il lettore;
anzi tutti i venerdì, quand'era a Milano, andava a pranzo da
loro; così per appagare un desiderio di quelle due donne,
quando si rincasava un po' per tempo, entrava prima a visitarle, per
dar loro le ultime notizie della giornata, quelle segnatamente che
venivano dal campo, e che egli raccoglieva dalla fonte meno incerta
dei capi militari coi quali trovavasi in teatro. Quella sera adunque
dell'alterco avvenuto tra il Baroggi e l'intendente di guerra, il
signor Bruni verso le undici ore entrò un momento in casa
S..., e passato nella sala a terreno, senza nemmeno sedersi, perchè
era un po' tardi per le consuetudini di quella casa, raccontò
alla contessa che il generale Massena aveva ottenuto una vittoria a
Raibel, facendo prigioni 4000 soldati con quattro generali, e
togliendo al nemico 25 cannoni; che Bonaparte, congiuntosi con
Joubert, era entrato vittorioso a Klagenfurt; che a Brescia era
scoppiata la rivoluzione, e che il conte Lechi, venuto a Milano di
volo, era partito a precipizio. In ultimo poi, quando era già
in sulle mosse per partire, raccontò l'affare dell'alterco tra
il capitano Baroggi e monsieur Chapier, aggiungendo come essi
all'alba sarebbero venuti alla prova delle armi fuori del Portello di
piazza Castello, luogo da più mesi diventato famoso pei non
pochi uomini lasciati colà sul terreno morti di punta e di
taglio.
-
Ma si sa almeno la causa di quest'alterco? chiese donna Ada.
-
La causa? è presto domandata la causa; ma chi ne dice una, chi
un'altra. I più però pretendono che sia stato, già
è sempre lì che si casca, per cose d'amore e di
gelosia.
Donna
Paolina, che da molti giorni e da molte notti, non avendo in mente
che un oggetto solo, e non ruminando che un disegno unico, era
diventata indifferente a tutto, si sentì spezzare il cuore a
quell'ultima notizia; e certamente donna Clelia si sarebbe accorta di
qualche cosa, se la fanciulla, alzatasi un momento prima, non fosse
stata per uscir di camera, quando il signor Bruni nominò il
capitano Baroggi. Si scosse dunque tutta e si fermò a quel
nome e stette ad ascoltare il resto.
-
Non si sa bene, continuava il signor Giocondo, ma egli è da un
mese che il Baroggi sta sempre in palco al parapetto colla signora
R...; ma questa sera cambiò bandiera e passò sotto agli
ordini della contessa A
, seppure è vero, perchè
il pubblico fa presto a parlare. Monsieur Chapier, che s'è
messo in testa di poter piacere alla contessa, si lasciò
andare a dir non so che ingiurie contro il Baroggi; e questi, saputa
la cosa, non si fece aspettare in Ridotto, e per non farsi scorgere,
diede un calcio nella sedia dov'era monsieur Chapier, il quale
sarebbe caduto stramazzone, se altri non lo teneva sollevato. Il
fatto è tutto qui... Ma domani uno dei due o sarà
morto, o penserà a guarire.
Donna
Paolina uscì di là precipitosa, si chiuse nella propria
camera, si lasciò cadere sul letto colla testa volta in giù
sulle coltri, versò lagrime d'iraconda angoscia.
La
mamma entrò a vederla un'ora dopo.
-
Che cosa fai qui?... le disse, e perchè ci hai lasciate senza
una parola?
Donna
Paolina finse di svegliarsi allora, e:
-
Avevo sonno, rispose; poi si alzò e gettò le braccia al
collo di sua madre, e la baciò forte.
Ada
fece altrettanto, inconsapevole di quel che la figliuola aveva
determinato, e lasciolla colla buona notte.
Ma
che divisamento aveva fatto donna Paolina in quell'ora di
disperazione e di lagrime?... Nientemeno che d'uscire di casa in
quella notte medesima, travestita da dragone, per cercare del
capitano Baroggi e parlargli. La notizia del duello le aveva in prima
messo nell'animo un dolore pieno di paura e di pietà; poi i
nomi della R... e della contessa A... le sollevarono nel sangue una
procella nuova, una procella di sospetti e di gelosie. Quelle donne
le conosceva da tempo; ma allora per la prima volta le suonarono
all'orecchio come due nemiche; che, per esse, potè credere che
il capitano Baroggi fosse un traditore scellerato, non intento che a
sorprendere al varco l'inesperienza che non si guarda. L'idea che
forse il giorno dopo esso poteva rimanere ucciso, o ferito
gravemente, in modo che ella avrebbe dovuto aspettare a vederlo Dio
sa fin quando; l'idea che essendo egli, com'ella pur non volendo
sospettava, un traditore di donne per indole e per abitudine, potesse
mai approfittare di quella circostanza del duello per partir subito,
e addio promesse e impegni e giuramenti; tutti questi pensieri
lavoravano siffattamente sulla di lei fibra eccitabilissima e
fremebonda che, se in quella notte non avesse potuto vedere il
capitano e sentire da lui ogni cosa, forse poteva correr pericolo di
smarrir la ragione. Per lei dunque non esistevano più nè
ostacoli, nè riguardi, nè paure di conseguenze funeste.
Inoltre è da aggiungere che, a cagione della torbida e
procellosa vita che suo padre, il conte S..., avea sempre condotto
sin tanto che stette a Milano in casa propria, e a cagione delle
inqualificabili di lui stranezze, che soltanto quell'angelo soave di
donna Ada aveva potuto sopportare; si pensò fin quasi dalle
fasce di far educare altrove la fanciulla. Avendo ella dunque vissuto
più di quindici anni lontana dalle pareti domestiche e dalle
cure materne, e l'educazione cominciata fuori di casa essendosi
dovuta compire fuori di casa, donna Paolina stava da troppo poco
tempo presso la mamma e la nonna. Certo che il germe dell'amor
figliale c'era tutto, ma non aveva potuto diventare adulto e forte e
tenace a segno che fosse superiore ad ogni altra passione. La colpa
non era di nessuno, non era che della maledetta fatalità, di
cui la vittima prima aveva ad essere donna Paolina appunto.
Or
tornando al momento in cui ci troviamo, ella aspettò che la
casa fosse tutta nella più profonda quiete del sonno; poi uscì
ad esplorar la notte all'esterno; discese nella consueta sala terrena
e leggerissimamente aprì le imposte del finestrone che metteva
nel giardino.
Entrò
in quello; andò a guardare se il fondo del naviglio era
tuttora asciutto: lo era in fatti. Diede un'occhiata all'ingiro, nei
giardini attigui, alle' finestre ed ai terrazzi delle case vicine,
per accertarsi se tutto fosse perfettamente in riposo, e se nessuno,
vegliando a quell'ora, potesse vedere e notare e riferire. Allora
prese una breve scala a mano, di cui in que' dì aveva fatto
uso il giardiniere per potar le piante, la calò fuori del
parapetto, fino a toccar il fondo del naviglio stesso; poi risalì
prestissima nella propria stanza.
Là,
in tutta fretta, chè l'impazienza e la fibra tutta convulsa ed
esaltata non le concedevan riposo, vestì i calzoni di pelle,
mise gli stivali, infilò l'assisa, si cinse lo squadrone, si
calcò l'elmo in testa, prese poi dodici zecchini di Venezia,
che erano il suo peculio d'avanzo, e ridiscese. Quando fu al
parapetto del giardino, si fermò perplessa; era il primo
dubbio che l'assaliva; ma fu anche l'ultimo. Lestissima venne al
basso esplorò il fondo del naviglio dov'era più
asciutto; lo attraversò, traendo seco la scala a mano;
appoggiò la scala alla riva opposta; fu tosto sulla strada,
che percorse di fuga, finchè giunse agli archi di porta Nuova;
di là in un attimo fu in piazza Castello. Sapeva che da
qualche giorno il Baroggi, per le incumbenze derivategli dalle nuove
truppe venute, alloggiava appunto in Castello. Questo nel 1797 non
era ridotto in istato di caserma, quale si vede oggidì; ma,
come ognuno può osservare nelle vecchie piante di Milano, era
tutt'all'intorno circondato da costruzioni fortilizie, in modo da
presentare cogli ultimi rivellini la consueta forma stellare. Con
quelle fortificazioni estreme arrivava, dalla parte della città,
fin quasi alle case che gli stanno di fianco e dirimpetto. -
Ai cittadini era conteso l'ingresso, salvo che non avessero una
licenza del comandante, o entrassero accompagnati dagli ufficiali che
vi avevano stanza. Ad onta degli ordini, non v'erano rigori di sorta,
perchè ai molti ufficiali che alloggiavano colà, e si
ritiravano ad ora assai tarda, premeva che così fosse. Però
quando donna Paolina, protetta dalla divisa di dragone, rispose al
chi va là delle sentinelle, queste la lasciarono andar avanti.
- Altri soldati stavano di custodia alla porta d'ingresso,
compreso, già s'intende, il sergente d'ispezione, che aveva la
consegna del posto e i diritti e gli obblighi inerenti. I forti
dolori e le passioni forti, come tutte le escandescenze nervose,
comunicano agli uomini una specie di coraggio spensierato e cieco, in
faccia al quale non v'è nulla d'impossibile. Donna Paolina
trovavasi in questa condizione; onde, come aveva risposto alla
sentinella, si presentò anche al sergente. Si presentò,
e gli chiese in francese del capitano Baroggi. Il sergente si alzò,
la squadrò così in di grosso al lume del fanale che
rischiarava fiocamente l'androne; poi la osservò più al
minuto, irradiandola colla fiamma della lanterna cieca ch'ei prese
dalla panca ov'era posata, e che gli serviva per le ispezioni
speciali. Tra i soldati adolescenti ve n'era più duno
che, non avendo ancor messo barba, avrebbe potuto arieggiare la
gentilezza femminile; ma la bellezza di donna Paolina era di un
genere troppo elevato per mentire la figura di un giovane. -
Quel sergente poi sembra che avesse fatto l'occhio pratico, poichè
disse tra sè (egli era italiano): «Se c'è un capo
fino, è di legge che vada a cascar nelle mani di colui.»
Forse egli aveva saputo qualche cosa della contessa A... e della
R..., e a questi pensieri avrebbe fatto seguire altre parole e altre
domande; ma il rispetto pel capitano lo teneva in soggezione, onde
con tutto il garbo di cui era capace, e che in tale circostanza era
accresciuto da quella naturale raccomandazione che di sè
medesima suol fare la beltà e la giovinezza, detto al
caporale: Bada e sta attento, - si profferse ad accompagnare
il bel dragone, protendendogli innanzi con più che soldatesca
cortesia la lanterna per illuminargli il bujo cammino che doveva
fare.
Quando
colui fu nel secondo cortile, fermatosi sotto alla terrazza, domandò
ad alta voce il capitano. Venne un'ordinanza in sua vece, a vedere
chi fosse; poi uscì il Baroggi stesso, ancora compiutamente
vestito.
-
Chi è lì? domandò.
-
Sono il cittadino S..., rispose donna Paolina. Scendete subito.
Il
Baroggi trasalì, ma tacque e discese. Quantunque fosse lungi
le mille miglia dall'aspettarsi una tal visita, pure conobbe la voce
e si appose; e tutto tramescolato venne abbasso, e si avvicinò
alla fanciulla travestita.
Quel
giovane e prode soldato, sebbene indurito dalla milizia e derisore
d'ogni pericolo, pur tremava come una foglia e la voce gli uscì
fioca quando ingiunse all'ordinanza ed al sergente di andar pei fatti
loro: tanto era commosso!
Il
dialogo che seguì fu breve e rotto e, alle prime inchieste,
pieno di fremente orgoglio per parte della fanciulla. Ma i modi del
giovane, ma le sue parole, ma le promesse da esso a lei rinnovate,
sciolsero quell'orgoglio in un pianto dirotto. Ella, abbracciata dal
giovane soldato, di cui l'impeto della tenerezza comunicava qualcosa
di santo pur a quell'atto di eccessiva confidenza, gli appoggiò
sugli spallini le sue mani bianche e minute, inchinando sul di lui
petto affannato il caro capo coperto dall'elmo.
La
prospettiva del vetusto Castello faceva pittorico fondo a quel
gruppo, che parea riprodurre le fantasiose avventure del cavalleresco
medio evo.
Il
silenzio della notte era profondo. Nè i due giovani lo
interrompevano, assorti come erano in un entusiasmo particolare, che
riceveva la sua esaltazione dalle paure stesse dell'avvenire.
Alla
fine il capitano si scosse, e guardando al cielo e passando la mano
sulla fronte:
-
Ora che si fa? disse. All'alba io devo battermi e tu?
-
Io aspetterò lì presso, rispose la fanciulla; se tu
muori, io morirò; se tu rimani ferito, ti assisterò. Il
mio destino è questo e deve esser questo.
Il
Baroggi, commosso a tali parole, ed abbracciando onestamente la
fanciulla:
-
Non morirò, disse, non è possibile; tu sei il mio
angelo tutelare, ed io tengo sicuri i miei colpi. Ma ora dimmi: v'è
qualche persona, qualche donna pietosa, qualche uomo d'autorità
e di senno, che entri qualche volta nei consigli della tua famiglia;
che sia richiesto ed ascoltato, e in cui la madre tua riponga intera
la sua confidenza?
La
fanciulla sentì un colpo inaspettato a quel nome di madre,
della quale, pur troppo, da qualche ora viveva smemorata. Ma quanto
fu lunga la dimenticanza, altrettanto fu cruda la fitta del
risovvenirsene, e:
-
Povera madre mia! esclamò.
E
stette muta, e in quell'atto di chi cerca e non trova un rimedio a
una gran sciagura.
E
di lì a poco:
-
Che cosa dicevi tu? soggiunse. Io conosco molte persone amicissime di
casa; ma perchè domandi questo?
-
Perché qualcuna di esse potrebbe metter riparo a tutto.
-
E in che modo?
-
Il modo lo so io.
Allora
donna Paolina nominò molte persone; nominò, fra
l'altre, donna Gaetana Agnese; la contessa del Grillo; la duchessa
del Sesto; l'avvocato Strigelli, ecc., ecc.; in ultimo nominò
anche il nostro amico Giocondo Bruni. A questo anzi si fermò,
notando che esso abitava nella medesima contrada della Spiga, a due
porte dalla propria casa, e soggiungendo altri particolari.
Naturalmente
il capitano Baroggi mise gli occhi sull'ultimo nominato, e disse:
-
Senti, cara, hai tu coraggio?
-
Tu l'hai veduto.
-
Ti basterebbe l'animo di fermarti qui fin ch'io ritorno?
Donna
Paolina lo guardò dubitosa...
-
Non ci vuole che il tempo di far la strada... Ora sono le quattro...
Io volo da questo amico di casa tua... Giacchè dici che è
uomo da gettarsegli in braccio interamente... gli dico tutto... ed
egli s'incaricherà del resto. Speriamo; forse il partito
disperato che hai preso fu un'ispirazione del Cielo.
Ciò
detto, invitò la fanciulla a salire nella propria camera.
Donna
Paolina gli fece osservare che non avrebbe patito, mentre aspettava,
di star chiusa in una camera; bensì avrebbe aspettato
passeggiando nel cortile.
Allora
il capitano chiamò l'ordinanza, che venne tosto.
-
Senti, camerata, gli disse, io esco un momento e torno subito.
Intanto non scostarti da questo mio amico. Se qualche ufficiale
entrasse, domandasse, che so io... tu mi capisci.... di' che il
capitano Baroggi risponde per lui, e basterà.
E
il capitano salì in fretta, ridiscese con elmo e squadrone,
strinse con mano forte la mano alla fanciulla; diede di nuovo
un'occhiata d'intelligenza all'ordinanza, e partì di volo.
Donna
Paolina non si mosse, e tenne l'orecchio in ascolto finchè
sentì a morire in lontananza il suono dello squadrone e degli
speroni.
XII
A
questo punto, per non perder tempo, ci conviene riprodurre la
relazione che lo stesso signor Giocondo Bruni ci fece dei fatti di
quella notte.
«Io
dormivo profondamente (son sue parole) uno di quei sonni del mese di
aprile che rifanno il sangue anche a noi vecchi; quando fui scosso
violentemente da replicati colpi di martello dati alla porta. -
M'alzo e vado a vedere che cosa significasse tanta furia; e
nell'affacciarmi alla finestra vedo un dragone alla porta, e sento
impegnato un dialogo tra lui e il portinaio, e nel dialogo ripetuto
spesse volte il mio nome. - Io grido dall'alto: «Chi è
lì? chi mi chiama? chi ha bisogno di me?» Il dragone,
che non mi conosceva, comincia a far mille scuse; poi mi prega di
volergli accordare un abboccamento, e mi prega con tali modi, ch'io
senz'altro gridai al portinaio: «Apri tosto, e fallo salire.»
Mi butto sulle spalle la veste da camera e vado ad aprire. -
Al lume della candela chè, essendo le quattro e mezzo di
notte, faceva ancora assai bujo, vedo un bel soldato, il quale tutto
alterato mi dice:
«-
Ho bisogno di parlarvi di gran premura e in tutta segretezza.
«Io
lo faccio venire nella mia camera da letto, e gli domando in che cosa
posso servirlo. Egli, senza sedere, mi racconta la storia di donna
Paolina S... e di lui.
«Rimasi
di sasso. - Voi, caro capitano, gli dissi poi, chiedete il mio
appoggio, e il mio consiglio? - Ma io non ne ho che uno da
darvene. - Andiamo a pigliar la ragazza, e riconduciamola
subito a casa.
«-
Ciò non è possibile, mi risponde. La fanciulla è
di quelle indoli estreme, che, a contrariarla, potrebbe balzarmi giù
da una finestra.
«-
Ma sapete voi a che pericolo?...
«-
So tutto. Ma io non ci ho colpa. Giuro al Cielo che, per quanto io
ami quella fanciulla, non l'avrei mai consigliata a venire da me in
tal modo. Ma ora non c'è più rimedio. Il ponte è
rotto dietro le spalle.
«-
E dunque?
«-
Dunque tocca a voi a proporre... Voi che siete amico della
famiglia... La mia condizione di soldato, la mia povertà
io non possiedo altro al mondo che la paga; la mia bassa origine....
mio padre non era che un finanziere; tutto ciò mi fa temere di
commettere quasi un atto di pazzia a chiedere di poter issofatto
unirmi in matrimonio colla fanciulla.
«Io
alzai le spalle.
«-
Credete voi dunque, mi chiese egli allora, che quel ch'io domando sia
assolutamente, impreteribilmente, impossibile?
«-
Bisognerebbe cambiar la società e le teste degli uomini, io
risposi secco.
«Egli
stette muto qualche tempo, in atto di profonda costernazione. A dir
il vero mi faceva pietà, perchè mi accorsi di trovarmi
in presenza di un giovane onesto e sincerissimo. Allora, come a
temperare la mia asprezza. gli chiesi il nome suo. Si può
imaginare la mia meraviglia quando udii ch'era il figlio del povero
Baroggi. Quel nome, per la catena di tutti gli antecedenti, mi piegò
a nuovi consigli. - Io intanto stavo pensando, e si taceva
l'uno e l'altro. Suonavano le cinque ore. Egli si dà un colpo
di mano sull'elmo e dice: Non c'è tempo a perdere, non manca
che un'ora; sono aspettato per un duello. Io mi ricordai d'averne
infatti data la notizia in casa S....
«-
Che si fa dunque? esso continuava, io non mi posso fermar qui più
a lungo.
«Non
aveva finito di dir queste parole, che quel buon vecchio di mio
padre, che avea allora precisamente quell'età che io ho
adesso, vale a dire i suoi ottantatrè anni colla buona misura,
chiamato dal rumore insolito, entra improvviso in camera.
«Il
capitano Baroggi lo guarda impacciato; io gli dico. State tranquillo,
che è mio padre... Anzi, dopo alcuni momenti soggiunsi: -
È meglio per voi s'egli è venuto qui. Egli solo può
ottener quello che nessun altro potrebbe. E senza più, mi
faccio a raccontar l'accaduto a quel sapiente e acutissimo vecchione
di mio padre.
«Questi
ascoltò non senza un grande stupore; poi, dopo essere stato un
pezzo in consulta con se medesimo:
«-
Già, prese a dire, è ormai tempo di finirla, che quando
le ragazze sono contesse, i mariti debbano a tutti i costi esser
conti o marchesi. Per che cosa avremmo fatto tutto questo fracasso di
rivoluzione, se si fosse ancora al punto di partenza? - Sono o
non sono aboliti i titoli di nobiltà? Gli editti parlano
chiaro. - Un giovinotto che a 24 anni è alla testa di
uno squadrone di dragoni, mi pare a me che non debba andare in cerca
di blasoni. - Se si trovano dei denari, meglio; ma le corone
oramai sono mercanzia da rigattiere. Caro capitano, io ho conosciuto
vostro padre, e per verità che non ho mai conosciuto uomo più
disgraziato di lui. Chi sa dunque che la parte di fortuna che a lui
mancò non debba toccare al figliuolo? Speriamo. Io parlerò.
E a questo punto, rivoltosi a me: - Senti, Giocondo, disse, tu
accompagnerai questo signor capitano dov'è la ragazza; e
starai con lei finchè non sarà finita questa storia del
duello. Dopo penseremo al resto.
«-
Ma intanto, io feci osservare, sarebbe una santa cosa l'andar subito
qui presso in casa S... per disporre la nonna e la madre.... e per
avvisarle che la fanciulla è trovata prima d'averla perduta. A
quest'ora tutta la casa è in sonno, e nessuno non si sarà
accorto ancora della fuga della fanciulla.
«Mio
padre stette pensoso alcuni momenti, poi:
«-
No, disse, no. - Conosco la contessa Clelia, conosco la
contessina Ada. Care, angeliche donne.... ma... sono nate in seno a
quella benedetta nobiltà, e il peccato d'origine tanto quanto
vuol sempre farsi sentire. È meglio dunque tirarle per la via
del dolore ai consigli della sapienza. Dopo che avranno cercato la
fanciulla e non l'avranno trovata; dopo che l'amor materno avrà
fatto tacere ogni altro sentimento, qualunque proposta potrà
parere un consiglio del cielo; facendo diversamente, si arrischia di
trovar de' rimbrotti, invece di ringraziamenti. Vi sono tali
pregiudizii e tali fumi di boria, che, al pari di certi fenomeni
dell'alienazione mentale e di certe malattie curiose, non si
guariscono che con un colpo inaspettato e forte. - Lasciate
fare a me; non inutilmente ho ottantatrè anni.»
Dopo
altre parole e altre proposte e osservazioni di tal genere, il
capitano Baroggi e Giocondo Bruni partirono.
È
inutile che riferiamo tutto quello che il nostro vecchio amico ci
raccontò minutissimamente intorno alla sua andata in castello;
all'incontro di lui con donna Paolina; alle smanie della fanciulla
quando il capitano, in compagnia dei padrini, uscì per andare
a battersi. È inutile che ci facciamo a descrivere gli
accidenti di quel duello, il quale non fu che uno dei tanti che,
siccome dicemmo, avvenivano giornalmente a que' dì in Milano.
L'Ariosto e il Tasso, in fatto di duelli, hanno esaurita la materia
al punto, che non c'è il prezzo dell'opera a contraffarli. È
inutile parimenti che noi ci indugiamo a studiare psicologicamente la
gioja della ragazza, quando il Baroggi, dopo una mezz'ora, ritornò
sano e salvo e colla notizia d'avere, sebbene a malincuore, ferito
gravemente il commissario di guerra. E se non è inutile, è
intempestivo il parlar qui delle conseguenze che quel duello recò
per le faccende del Suardi.
Bensì
ora ci converrà accompagnare in casa S... il vecchio Lorenzo
Bruni, l'uomo del popolo per eccellenza, il quale, rappresentandone i
liberi germi per intuito spontaneo di fortissima e acuta
intelligenza, desiderò, presentì, vide la rivoluzione
delle idee e dei fatti; e ne gioverà accompagnarlo per
assistere all'interloquio avvenuto tra lui, la vecchia contessa
Clelia, e la non più giovane contessina Ada.
XIII
Quando
Lorenzo Bruni entrò in casa S.... usciva un servo tutto
scalmanato a cercare del figlio di lui appunto; il servo gli disse
quel che egli sapeva, e il vecchione salì, e vide le due donne
in preda a quel dolore disperato e violento che il lettore può
immaginare, e che noi non osiamo e non vogliamo descrivere. Tante
volte ci trovammo al cospetto di dolori consimili, e tante volte li
abbiamo anatomizzati con mano convulsa, che or ci pesa di rifarne il
processo.
-
So tutto, disse il vecchio, appena vide quelle due donne affannate; e
so più di quello che voi sapete (e brevissimamente espose loro
di che si trattava); ma il rimedio, soggiunse poi, è ovvio e
naturale. - Mio figlio Giocondo è già sulle
traccie della vostra figliuola; ella dentr'oggi può
essere fatta sposa.
Lorenzo
erasi accorto che il dolore aveva abbastanza lavorato sul cuore di
quelle due donne, e non amò di prolungarlo, quantunque egli
volesse, colla pietosa inflessibilità del medico, usufruttarlo
tutto, per preparare poi con esso le vie della salute. Egli conosceva
nell'intimo quelle due donne, e le amava e le stimava in preferenza
di tante altre, perchè una vita lungamente travagliata le
aveva fatte accessibili a molte di quelle verità che i
pregiudizj, accumulati per tante generazioni in seno alla più
alta società, avevano, o celate del tutto, o, quel ch'è
peggio, fatte passar per errori.
-
Sperate, ripetè il buon vecchio; la vostra figliuola a momenti
potrete vederla.
-
Ma, e chi mai ha osato?
-
Nessuno le ha fatto violenza; fu ella a lasciare la propria stanza e
la propria casa. Pur vi consiglio a non rimproverarla quando la
rivedrete. Io non so se a voi sia trapelato mai nulla di quello che
da qualche tempo succedeva nel suo cuore; ma, anche a non saperlo,
bisognava sospettarlo; all'età della vostra figliuola, non può
essere che per un'eccezione viziata della natura umana, se le
fanciulle hanno il cuore muto e il senso inerte; per lo più
sono perverse, quando sono di ghiaccio, Dio salvi l'umanità da
una giovinezza che sembra la vecchiaia. Tutte quelle madri badesse,
onde ora si vanno svelando le storie arcane, e sotto il cui governo
claustrale si murarono fanciulle delle quali ne' conventi smantellati
si scoprono gli scheletri; tutte quelle spietate badesse, io dico,
devono avere avuto una giovinezza senza cuore e senza palpito. Io
spero bene della vostra figliuola. Ella amò con sincerità,
e non interrogò che il cuore, e il turpe tornaconto non ebbe
posto ne' consigli della sua intelligenza adolescente.
Quando
alla scoperta improvvisa di una sventura, di cui è arcana
l'origine e sono ignoti i particolari, succede la notizia certa e
precisa del fatto, per quanto esso appaia grave, l'animo tuttavia si
ricompone, e all'angoscia disperata tien dietro un dolore tranquillo
e riflessivo.
Ciò
avvenne precisamente nel cuore di donna Clelia e della contessina
Ada.
Quest'ultima
domandò al Bruni come si chiamava il giovane che aveva
provocato un sì doloroso accidente.
-
È il figlio di un uomo sventuratissimo, che morì prima
che la giustizia abbia trovato il tempo di far le di lui vendette. -
Cara contessina Ada, ricomponete i vostri spiriti; e preparatevi a
sentire nel cognome che vi pronuncierò qualche cosa che pare
annunciare una volontà espressa della Provvidenza.
-
Ma chi è dunque?
-
È il figlio del Baroggi.
-
Del Baroggi? e donna Ada fece un viso e un gesto in cui appariva
disgusto e ribrezzo.
Lorenzo
Bruni disse tra sè: Cominciamo male.
-
Quel Baroggi, soggiunse poi, non era che una guardia di finanza, lo
so; e visse povero come Giobbe. Ma in tutto questo non v'è
nulla per cui debba arrossire nè il morto nè il vivo. -
In quanto al suo figlio, è un nobile e valoroso soldato. -
A soli 24 anni è già capitano dei dragoni. Tra pochi
anni può essere colonnello, può essere generale. Nei
tempi avventurosi e grandi in cui viviamo, e in cui pur contento io
trascino la mia vecchia età, codesta professione di chi cerca
e trova la gloria sui campi di battaglia, è la più
generosa, è la più nobile di tutte. Il vostro marito
chi è? Il giorno meno sciagurato della sua vita, e che forse
gli varrà qualche indulgenza, fu quel solo in cui sotto il
titolo di capitano andò a nascondere quello di conte.
Donna
Ada si riscosse tutta a queste parole, e non disse nulla.
Parlò
per lei la contessa Clelia:
-
Voi, caro Lorenzo, avete nominato il conte mio genero; ma avete
precisamente nominato l'unico ostacolo a quanto avete proposto... Voi
sapete al par di me, al pari di questa povera disgraziata, l'indole
violenta di quell'uomo. - Se mai venisse a sapere d'un simile
matrimonio... da Parigi o dal Reno dove ora si trova, piomberebbe qui
come una saetta a metterci tutti sossopra... Questa povera
disgraziata ha troppo sofferto... Voi già sapete tutto...
La
contessa Clelia finiva appena di dire queste parole, che s'udì
una carrozza fermarsi alla porta. Tutti e tre furono in piedi. e
corsero alla finestra.
Or
torniamo indietro un momento.
Donna
Paolina, dopo il primo orgasmo che l'aveva spinta a un passo
disperato; dopo che ne furono scomparse le più forti cagioni,
quali il sospetto d'essere tradita, e il terrore che forse all'alba
il suo Baroggi sarebbe rimasto sul terreno; in una parola, dopo che
fu cessato quella specie di deliquio intellettuale che le aveva
coperto ogni lume di ragione, si trovò, per così dire,
faccia a faccia con sè stessa; allora quegli affetti che erano
come cessati sotto al colpo d'altre passioni più impetuose, le
rifluirono a furia nel cuore; e con quelli il pentimento
affannosissimo d'aver potuto abbandonare così crudamente
quell'angelo di sua madre, da cui tanto era amata. Per ciò,
avendole il Bruni consigliato, per togliere ogni occasione di
scandalo, di ritornare fra' suoi, ella, con quella smania medesima
onde a notte era fuggita di casa, pregò e volle che, senza
perder tempo, la si riconducesse presso la sua cara mamma. Qui però,
a dir tutta la verità, bisogna soggiungere che non la potevano
far ritrosa a tal passo le parole del Bruni, il quale aveale promesso
di adoperarsi col più vivo interesse a sollecitare quelle
nozze che il giovane Baroggi ed ella chiedevano; e di più
l'aveva assicurata che il proprio padre Lorenzo a quell'ora stava
certamente parlando di ciò colla nonna e colla contessa Ada.
Egli è un fatto che anche negli slanci più spontanei e
impetuosi del cuore umano, l'interesse e il calcolo trovano sempre il
modo di farsi sentire e di dar pareri.
Una
mezz'ora dopo che il capitano Baroggi fu tornato in Castello, esso e
il Bruni fecero venire una carrozza, e partirono colla fanciulla
senza por tempo in mezzo. - Giunto il Bruni alla casa propria,
fece fermare i cavalli, chiese di suo padre e, sentito ch'era andato
in casa S..., consigliò il capitano Baroggi a salire, e
trattenersi nelle di lui stanze finchè fosse stato chiamato. -
Così fu fatto, e la carrozza toccò via e si fermò
innanzi al portone di casa S...
Donna
Paolina, preceduta dal Bruni, balzò a terra, passò a
volo, non amando farsi vedere, dinanzi al portinajo; fece a salti lo
scalone, quasi a stento seguita dal Bruni, il quale non sapendo come
eran corse le cose, non voleva discostarsi da lei; e non se ne staccò
infatti se non allorchè seppe che il suo padre stava presso le
donne da qualche ora.
Donna
Paolina, quando vide il vecchio Lorenzo a moverle incontro, affannata
gli chiese di que' di casa, e contemporaneamente si precipitò
nella sala, e, come se stramazzasse, andò a cadere nelle
braccia della mamma, che, non sostenendo l'urto, ricadde sulla
seggiola; così che la fanciulla, senza volerlo, venne a
piegare i ginocchi e il corpo, e a nascondere la faccia lagrimosa
nelle vesti materne.
Non
ci furono parole per parte di nessuno. La fanciulla singhiozzava; la
madre, abbracciando e baciando quel caro capo, nè
singhiozzava, nè faceva motto, ma inondava di lagrime
sgorganti a furia la propria faccia ancora bella, quasi ancora
giovanile. Donna Clelia non piangeva, nè quasi guardava; ma
volgendo in alto gli occhi e il volto severissimo e venerando, teneva
intrecciate le vecchie mani tremanti, come chi prega o ringrazia
Iddio, o recita cose devote.
Il
vecchio Lorenzo chiese allora sottovoce al proprio figlio dov'era il
capitano; e, sentito che s'era ritratto nella stessa casa Bruni: Va
tosto a chiamarlo, senza perder tempo. Se non si coglie al volo
l'affetto e la pietà, non si fa più nulla.
Giocondo
Bruni uscì, e tornò tosto col giovane Baroggi.
Allora
Lorenzo, sentito dall'anticamera il tintinnio degli speroni, disse
alla contessa Clelia: C'è qui il capitano Baroggi. Io stesso
l'ho fatto venire. Accoglietelo come vi consiglia la vostra sapiente
bontà. - Così dicendo uscì, e condusse
con sè a mano il giovane soldato. - Donna Paolina alzò
il capo e guardò, e rattenne il singhiozzo, e sorrise
guardando il caro giovane.
Codesta
scena intima di famiglia, tradotta e fermata dall'arte figurativa,
ben potrebbe sembrare un'allegoria storica per chi si rifiuta a
credere che dal semplice caso sieno generati uomini e cose.
Nella
contessa Clelia pareva rappresentata la vetusta aristocrazia che, ad
onta della dottrina delle sventure, delle lezioni dell'esperienza,
degli stessi affetti più nobili e più disinteressati,
pure si ostina a star separata ancora dall'elemento popolare.
Lorenzo
Bruni raffigurava codesto elemento appunto, più antico di
tutte le aristocrazie; e il cui lavoro incessante in tutti i tempi,
sebbene più o meno celato e più o meno efficace, era
prossimo a dominare gli altri, in virtù di una legge naturale
più legittima di tutte le leggi storiche sorvenute.
La
contessina Ada adombrava un'epoca di transizione emersa dal connubio
del patriziato e della plebe. Il capitano Baroggi, la forza delle
armi e l'incanto della gioventù, che esercita un potere
irresistibile su tutto quello che avvicina. La fanciulla,
inginocchiata e sorridente sulle lagrime, gli effetti ultimi della
legge d'amore che toglie gli ostacoli posti tra stato e stato dalla
prepotenza o dall'ambizione.
Ora,
lasciando l'allegoria, allorquando quella specie di gruppo plastico
di figure variamente atteggiate si sciolse e si scompose, Lorenzo
Bruni avviò un discorso per ravvicinare il capitano Baroggi
alla contessa Clelia e a donna Ada; la bellezza del giovane e quella
tinta d'ingenua onestà che gli colorava il volto, resero
efficacissime le parole del vecchio; e donna Ada, intenerita dalle
lagrime e dalle preghiere della figliuola, proruppe finalmente in
queste parole che sciolsero ogni viluppo:
-
Ebbene, se il destino vuole che ciò sia fatto, si faccia.
Alle
quali parole la contessa Clelia lanciò alla figlia un'occhiata
severa, ma non osò parlare.
-
Allora, conchiuse il vecchio Lorenzo, lasciate a me e a mio figlio la
cura di tutto il resto... per una vera provvidenza del Cielo, al
conte vostro marito non fu levata l'interdizione; così non ha
nè il diritto, nè l'obbligo di dare o di togliere il
suo assenso; per un'altra provvidenza, in virtù della nuova
legge che decreta essere il matrimonio un contratto civile, quello
che si dee fare lo si può fare prestissimo, e senza tante
lungaggini e cerimonie, e prima che il capitano parta pel campo.
Nessuno
contraddisse alle parole del vecchio, e così si sciolse quella
giornata, che sorse tanto sinistra e sembrò minacciare casi
funesti e inestricabili viluppi. - Ma la vita non consiste in
un giorno.
Quando
il capitano fu partito, e la vecchia contessa Clelia pur nella sua
cupa severità, che pareva quasi un affanno profetico, si
lasciò intenerire fino a deporre un bacio sulla fronte della
figliuola che consolata l'abbracciava; donna Ada, accompagnato il
padre e il figlio Bruni fino alla porta dell'appartamento, disse
queste parole:
Io faccio il desiderio della mia figliuola, perchè ho fiducia
di fare il suo bene. Ma temo guai; guai terribili per me. Per quanto
ne sappiate e ne abbiate sentito dire, voi non conoscete il carattere
del padre della mia figliuola. Pensando a ciò che avverrà
quand'egli verrà a sapere di questo matrimonio, vi confesso,
miei cari, che mi vengono i brividi. Nè, del resto, se per un
atto di estrema delicatezza si fosse mandato a chiedergli il suo
assenso, mai non lo avrebbe dato. Basta, la sola cosa che mi
conforta, è che il dovere delle madri è di sacrificarsi
interamente pe' figliuoli; e in quanto a me, qualunque danno sia per
capitarmi, è dover mio di affrontarlo, per il bene della mia
figliuola, e per preservarla da pericoli che potrebbero trarla in
rovina, se ora non la si compiacesse in un desiderio che è
legittimo.
E,
dette queste parole con pacata rassegnazione, così conchiuse
dopo un momento di pausa:
-
In quanto a me non so quando finirà codesto strazio continuo a
cui fu posta la mia vita, nella quale non appena è finito un
malanno, che un altro sopraggiunge più spaventoso del primo.
Voi altri, amici fedeli, che conoscete tutti i casi della mia vita,
potete dire se vi è stata donna più tribolata di me al
mondo...
E
quasi singhiozzando, strinse la mano al vecchio Bruni e li salutò
ambidue, lasciandoli addolorati e pieni di tristi presentimenti.
XIV
Le
ultime parole della contessa Ada S... relative alle vicende della sua
vita passata, ci consigliano a cogliere questo momento per raccontare
quanto avvenne nel tempo decorso dalla notte del 1766 in cui si tenne
l'ultimo banchetto pubblico alle porte delle case di Milano al giorno
12 marzo del 1797.
La
narrazione di un tale intermezzo, se a tutta prima può
sembrare un inciampo per que' lettori che hanno volontà
d'andar sempre avanti, è qui necessaria, perchè, senza
di essa, mancherebbe lume ai fatti che descriveremo in appresso e ai
personaggi che compariranno in iscena per la prima volta. E questa
narrazione la faremo riproducendo una specie di promemoria che il
signor Giocondo Bruni stese per noi, quando gli abbiamo manifestato
il pensiero di pubblicare un libro relativo a ciò che a mano a
mano ei c'era venuto raccontando.
E
credemmo bene di riprodurlo tale e quale fu steso da quell'ometto di
garbo, ma non in tutto fornito di quella che chiamasi perizia
letteraria; non arrogandoci altro diritto che di far scomparire gli
errori più solenni di sintassi e quelli d'ortografia, e di
aggiustare alla meglio il contesto della narrazione, là dove
ci parve che alla memoria o al periodo fosse scappata qualche maglia.
Adoperando
di questa maniera, se dubitiamo di non poter piacere a quelli che
amano la più completa armonia nei costrutti architettonici;
siamo però certi di riuscire accetti a quanti, nel timore di
venire ingannati dai libri stampati e dalle storie, vanno negli
archivi a cercar la riprova del vero nei documenti originali.
Ecco
dunque la narrazione del signor Bruni, trascritta qui letteralmente:
«La
festa di S. Pietro dell'anno 1766, che fu il giorno successivo alla
festa cittadina dei banchetti notturni, io fui insieme con mia madre
a far visita alla contessa Clelia e a donna Paola. Là per la
prima volta vidi la contessina Ada, che io guardai con avidità
più di giovane che di fanciullo, innanzi tutto perchè,
fino a quel giorno, io non avevo mai visto niente di più
bello; in secondo luogo, perchè me la rendevano attraente in
sommo grado le strane avventure e il pericolo che aveva corso. In
quel giorno stesso e in quel luogo stesso conobbi anche il marchese
F...., che io scambiai pel Suardi. A proposito di che mi ricordo
d'aver domandato sottovoce a mia madre che cosa mai era successo al
signor Suardi per essere diventato così pallido e così
magro, ma secondo il costume delle mamme, ella per tutta risposta mi
guardò severissima, e mi mise a tacere; tanto che non seppi se
non tornato a casa chi era davvero quel giovane tutto tempestato di
berilli e colle dita piene d'anelli.
«Per
lo scrittore o per il pittore che di costui volesse di fantasia fare
un ritratto in punto e virgola, credo bene di darne qui la
descrizione:
«Era
un giovane di statura piuttosto alta; aveva la faccia regolare, naso
aquilino, bocca ben disegnata, ma lievemente piegata verso gli
orecchi come quella di un fauno; aveva occhi neri e piccoli e lucenti
come quelli di un topo di chiesa; quando sogghignava d'improvviso gli
si spiegavano, ai lati della bocca, due rughe che non si vedevano
allorchè stava serio. Quando, a casa, seppi chi era colui,
pensai tra me, da qual cosa dipendesse che, essendovi pure tanta
somiglianza tra il Suardi, avanzo di galera, e lui cavaliere
nobilissimo, pure si guardava il primo con una certa soddisfazione
dell'occhio, dove il secondo riusciva diabolicamente antipatico.
Metto qui codesta considerazione, perchè, fatta allora da un
fanciullo senza esperienza e senza l'abito di riflettere, viene ad
acquistare un certo significato.
«Per
quell'anno io non vidi più nè quella casa, nè
quelle persone, nè la giovinetta Ada, la quale, quantunque io
non contassi che dodici anni, avrei visitata assai volontieri. Dopo,
per tre anni successivi. vissi con mia madre e mio padre, un po' a
Parigi, un po' a Berlino, un po' a Napoli, e non ritornai a Milano
che nel 1770. Io avevo allora sedici anni.
«A
questa età chi è stato a Parigi e ha viaggiato
mezz'Europa e non è nato scimunito e ha sfregate le quinte di
tanti palchi scenici, non è più un ragazzo, ma un
giovane fatto. Noto questo perchè, quando seppi che mia madre
era andata sola a far visita in casa della contessa, io mi lamentai
dell'essere stato dimenticato, e, senza chiedergli nè un
permesso, nè un parere, pensai di recarmi là io solo.
«Prima
d'andare, m'informai di ciò ch'era avvenuto di tutte le
persone che componevano quella casa. Rimasi assai maravigliato quanto
seppi che la contessina Ada la chiamavano già la sposina; chè,
dopo molti dispetti e lagrime della fanciulla, finalmente erano
riusciti a farle dire che era contenta di concedere la mano al
marchese F... Tutti però mi assicuravano ch'ella avrebbe
voluto andar piuttosto alla morte, che a quelle nozze. A tale notizia
io rimasi ancora più stupito, perchè non mi pareva vero
che donna Paola Pietra, e la contessa Clelia, che avrebbe dato il
sangue per la sua figliuola, fossero e l'una e l'altra congiurate ai
danni della medesima. A tutta prima dunque pensai che non era quello
il momento opportuno per andare in quella casa; chè
certissimamente sarei stato accolto malissimo come una persona di più
in quel parapiglia domestico. Tuttavia, dopo alcuni dì,
sfacciatello com'era, mi risolsi, e un bel mezzogiorno entro in casa
Pietra.
«Annunciato
e introdotto dal servo, mi trovo innanzi a donna Paola; fresco di
Parigi e colla fumana degli adolescenti che vogliono far l'uomo,
dissi in sull'istante mille cose a quella donna veneranda, e senza
più avventuro una congratulazione sul matrimonio della
contessina. Donna Paola non rispose al primo, poi soggiunse: -
È vero - ma non si fermò su quel tasto, e passò
ad altro, e mi chiese dei viaggi fatti da me col papà e la
mamma, e del come erami venuto educando, e che cosa avrei voluto fare
in avvenire, ecc., ecc. - Io risposi di conformità, e
partii, ma col fermo proposito di ritornare ancora, perchè era
pur sempre quella cara Ada ch'io volevo vedere.
«Qui,
sebbene mi sia proposto di essere brevissimo, perchè toccherà
poi allo scrittore a distendere in lungo e in largo e a far diventare
arte questo cencio di carta, pure non posso far a meno di dir qualche
cosa di me stesso. Sono le consolazioni della vecchiaja che si volta
indietro a dare un'occhiata al passato. Devo dunque dire che, senza
ch'io stesso lo sapessi, io era un po' innamorato di quella ragazza.
- Vedutala quand'io non avea che dodici anni ed ella quindici,
m'avea lasciato di sè una tale impressione, che la sua cara
figurina mi rimase sempre innanzi agli occhi per tutto il tempo che
stetti fuori di Milano co' miei parenti; venuto poi coll'età
il primo rigoglio del sangue, quel rigoglio che ti fa desiderare per
fin ciò che non si conosce; non avendo mai avuto occasione di
fermare a lungo la mia attenzione su fanciulla nessuna, perchè
oggi si era qua, domani là, invece di crearmi un ideale, come
fanno i giovinetti quando il sentimento si sviluppa e non si conosce
nessuno con cui alimentarlo, io nella mia memoria mi ero messo a fare
conversazione perpetua coll'imagine di colei; cagione codesta perchè
tanto desiderai di rivederla, quando ritornai a Milano. Fatto così
il primo tentativo e non vedutala, tornai altre volte in casa Pietra,
tornai solo e tornai spesso con mia madre, e mi consolai vedendo che
noi eravamo benissimo accetti, e mi consolai tanto più quando
mi accorsi che la contessa Clelia fece delle confidenze non
indifferenti a mia madre. Questa però non mi disse mai nulla,
perchè voleva tenermi all'oscuro di tutto. - Fortuna
che mio padre Lorenzo non la pensava come lei, e voleva che un
giovane sapesse tutto quello che si può sapere. Egli dunque,
filosofando, com'era il suo costume, mi disse tutto quanto era
avvenuto e avveniva in quella famiglia; mi disse che donna Paola non
dovevasi incolpare se non si era opposta a quel matrimonio. Guglielmo
Crall suo figlio amava donna Ada con tanta maggior passione quanto
più la giovinetta, sebbene egli potesse vantare tutte le doti
della gioventù, della bellezza, dell'ingegno, aveva dimostrato
di sentire un'invincibile ripugnanza per lui. Perciò donna
Paola desiderava che, giacchè erasi presentato un partito più
che conveniente, lo si affrettasse al più presto, nella
fiducia che, troncando al figliuolo ogni speranza e togliendogli
l'occasione di veder la fanciulla ogni dì, egli alla fine
avrebbe fatta la cura del cuore col rimedio del tempo. In secondo
luogo, non potevasi ascrivere nè a crudeltà, nè
a pregiudizio l'aver cercato di costringere la fanciulla ad accettare
la mano del marchese F..., ricchissimo, nobilissimo, ancor giovane,
ancora avvenente; e tanto più che bisognava pure cercar di
toglier di mezzo quel fatale amore del Suardi; amore che, essendo
stato il primo, ed avendo incontrato tanti contrasti, s'era
sprofondato tanto, che pareva divenuto incurabile. Su questo fatto
poi, per dare una novella prova del cuor generoso di donna Paola e
della sua mente spregiudicata e indipendente, mio padre mi raccontò
che, parlando con essa di quest'affare intralciato, l'udì una
volta ad uscire in queste precise parole:
«-
Vi assicuro, che se questa Ada fosse mia figlia, o se credessi lecito
di consigliare altrui in una cosa così delicata e pericolosa,
io lascerei strillare tutto il mondo, ma accontenterei la fanciulla,
anche perchè ho la convinzione che il Suardi, a diventare un
perfetto onest'uomo, non ha bisogno che di questo matrimonio. Finchè
il mondo continuerà a contrariarlo, a sprezzarlo, ad
abborrirlo, egli, di necessità, sapendo di essere in guerra
con tutti, deve trattar tutti come nemici; essendo poi naturalmente
scaltro e facoltoso, a lungo andare è lui che si vendicherà
degli altri. Se l'opinione pubblica non fosse così
implacabile, quanti iniqui di meno ci sarebbero a questo mondo! Però
io temerò sempre dal Suardi qualche colpo terribile, o a danno
della fanciulla o a danno della contessa Clelia; però la
fanciulla non potrà mai essere felice con questo marchese che,
per dirvelo a quattr'occhi, e purchè non lo ripetiate a
nessuno, mi sembra ben più tristo di quell'altro. Ma il bel
mondo applaude a queste nozze, perchè ci son venti milioni,
perchè il casato è cospicuo, perchè è
disposto a perdonare al marchese tutta la sua vita scapestrata,
essendo come attratto simpaticamente verso un certo genere di colpe;
e credendo di conciliar l'indulgenza colla morale, coprendo tante
vergogne con un matrimonio degno di festa pubblica e di pubblica
illuminazione. -
«Così
pensava donna Paola; ma ora bisognerà dir qualche cosa del
Suardi, e di quel che avvenne di lui dal maggio del 1766, quando fu
carcerato pro rapto virginum, come portava la denuncia
dell'avvocato Strigelli.
«Il
Suardi, a malgrado della sua posizione, delle sue ricchezze, delle
sue conoscenze, stette otto mesi interi nelle prigioni del Capitano
di Giustizia. Fu generale il desiderio così del pubblico come
dell'intera magistratura, che quella vecchia volpe lasciasse
finalmente la coda nella trappola. Ma la vecchia volpe fu superiore
perfino alla propria fama; ma la fortuna e le speciali circostanze
giovarono alla volpe più di quello che si sarebbe creduto. Il
Baroggi, sottotenente di Finanza, era innocentemente complice di
quanto il Suardi aveva ordito e consumato; ora l'innocenza innegabile
per l'avvocato lontano dal tribunale e per l'uomo che giudica le cose
fuori delle aule della giustizia costituita, non era una moneta in
corso nelle mani del Capitano di Giustizia. La complicità
c'era, e per provar tutto a danno del Suardi bisognava provar il
resto a danno del Baroggi. L'avvocato Strigelli, volendo risparmiare
costui per cento buone ragioni, si trovò dunque impacciato
nella procedura. Accadde poi, tanto quel Suardi era protetto dalla
fortuna, che la madre del Baroggi, la quale, per l'eccesso della sua
semplice natura avrebbe potuto, una volta chiamata in giudizio, far
delle rivelazioni dannose al Suardi, ma più dannose al
figliuolo; accadde adunque ch'ella venne a morire sette mesi dopo la
carcerazione del Suardi; e cosí mancando le prove effettive
incontrovertibili, l'accusato diventò quasi innocente il mese
dopo, e venne rimesso in libertà.
«Qui
però giova tener conto di una cosa, anzi di un sistema di cose
in forza del quale la giustizia a Milano non rimase che in
istato d'emblema là dove sedeva l'autorità, ma cessò
affatto di essere un ente reale, pratico, efficace. Mi spiego in due
parole.
«Gli
storici, l'uno dopo l'altro, allorchè pervengono a quel
periodo della dominazione austriaca, quando Kautniz aveva in mano le
redini di tutto l'impero, e il conte di Firmian quelle del ducato di
Milano, non hanno che parole di lodi enfatiche per questi due
ministri. Non è qui il luogo di parlare di Kautniz, ma, per
dirla così di passaggio, questo troppo a torto venerato
personaggio era di tal natura, che per denaro si lasciava tentare a
chiudere un occhio sulle piaghe più profonde dello Stato.
«Io
ho letto delle sue lettere di ringraziamento dirette al conte Greppi,
il quale ogni anno, d'accordo coi colleghi della Ferma, gli mandava
dei regali del valore di più migliaja di lire, dove erano
consegnate le prove e della colpa e della complicità. Su una
di esse ho notato questa frase, che è degna invero di don
Basilio: Voi avete degli argomenti ai quali non si risponde.
Tali lettere furon viste dai giovani di studio del conte Greppi
nell'atto di deporre quei documenti negli archivj di casa. Lo
scrittore faccia di una tale notizia quell'uso che vorrà, ma
se non vuol essere un copista pecorone e adulatore come tutti gli
altri, approfitti di quanto gli dico. Or veniamo al conte di Firmian.
Molte volte, a proposito di codesto Tirolese, così
concordemente lodato dagli storiografi, mi vennero in mente quei
versi dell'Ariosto stupendissimi:
Non
fu sì santo nè benigno Augusto
Come
la tuba di Virgilio suona:
L'avere
avuto in poesia buon gusto,
La
proscrizione iniqua gli perdona.
«L'aver
dunque avuto o mostrato di avere qualche interesse per la poesia, e
non essendo stato scortese con Parini, fu la causa per cui quel
ministro trovò tanta indulgenza negli scrittori. Ma egli era
ignorante, sospettoso, vendicativo, prodigo e ladro - mi pare
che basti. Per di più, e questo fu il colmo del disastro,
aveva a' proprj stipendj un ex barbiere di Trento, che innalzò
al grado di suo segretario privato, un tristo arnese della stampa del
barbiere di Luigi XI. Esso per molti anni fu il mestatore
principalissimo delle cose di Lombardia, e segnatamente della città
di Milano.
«Se
lo scrittore, in vista dell'enormità di queste accuse, fosse
tentato a non prestarmi fede, per buona fortuna può leggere un
libretto postumo di Pietro Verri, dove si dice precisamente quello
che dico io. Non già che Pietro Verri sia più
galantuomo di me, ma avendo più autorità, toglierà
di mezzo qualunque dubbio. A proposito di codesto signor Diletti, io
ho saputo dalla bocca del signor Giovanni Ambrogio Rosnati,
ragioniere in capo della Banca Suardi, come, avuto il permesso di
abboccarsi col proprio principale, quando questi trovavasi ancora
nelle carceri del Capitano di Giustizia, ei gli fece comprendere, in
un momento che i secondini si erano allontanati, fatti più
morbidi dal consueto unguento, di tentare il Diletti con promessa di
danaro; il quale, dopo essersi dimostrato inespugnabile in principio,
diventò arrendevolissimo dopo; tanto che in più riprese
ricevette da lui fino a quattromila zecchini di Venezia. Queste cose
io le seppi dal detto ragioniere quando il Firmian era già
morto, legando un debito di un milione di lire milanesi, e lasciando
nella miseria più d'una famiglia perfidamente ingannata dal
segretario Diletti, che per il prodigo e fastoso padrone aveva fatto
il sensale onde ottenergli molte somme in prestito. Della quale
notizia lo scrittore approfitti per cavarne qualche situazione
interessante, collocandola in quella sede del suo racconto che più
gli parrà adatta.
«Tornando
al fatto, se io ho aspettato molti anni per sapere dalla bocca del
Rosnati la riprova delle pubbliche dicerie; già sin dal giorno
che il Suardi, improvvisamente, per decreto del Senato, venne rimesso
in libertà, tutto il mondo sapeva che ciò era avvenuto
per ordine espresso del conte di Firmian, il quale voleva quel che
voleva; e tutto il mondo vociferava che il cameriere Diletti era
stato impinguato dal Suardi.
«Ora,
giacchè mi trovo sotto la penna questo nome, dirò che
mio padre, allorchè venne per certi nostri affari a Milano e
andò a visitare donna Paola, seppe da quella veneranda signora
come il Suardi, due mesi dopo essere stato rimesso in libertà
e dopo aver trovato il modo di diventare accetto al popolo con
abbondanti largizioni di denaro, di grano e miglio, nell'occasione
che il calmiere del pane diventò insopportabile per la
carestia, credendo di esser diventato nobile, ebbe l'animo di recarsi
da donna Paola per chiederle di bel nuovo la mano della contessina
Ada. In quella casa dove assiduamente frequentava il marchese F...,
per necessità il Suardi non poteva essere accolto. La servitù
propalò poi per la città come fosse avvenuto un alterco
scandalosissimo tra que' due, e come il tutto finisse collo sfratto
del Suardi. Dico che fu la servitù a propalare la notizia di
quest'alterco, perchè donna Paola, quantunque si sprigionasse
affatto con mio padre, che era uomo da comprenderla, non gli disse
mai nulla di tutto ciò.
«Ora
è tempo di raccontare quanto avvenne in quella famiglia, quasi
direi, sotto alla mia testimonianza.
«Come
dissi, essendo io fortemente preso di simpatia per quella fanciulla,
dico simpatia perchè non oserei dire se fosse precisamente
amore, mi recava in casa Pietra soventi volte, e più forse che
nol comportasse la convenienza e la mia speciale condizione. Ma mi
dava coraggio quella santa donna di donna Paola, e trovava
indulgentissima e cortese anche la contessa Clelia. Bensì
quella carogna odiosissima (sic) del marchese poteva bastare
per farmi star lontano mille miglia, tanto ei mi guardava d'alto in
basso al punto da toccar la manifesta villania; ma questa medesima
invincibile antipatia mi comandava di non abbandonar quella
fanciulla, e di tentar di consigliarla a star forte e a rifiutare la
mano di quello stupido spavaldo. Un dì, che per caso mi trovai
da solo a sola con lei, mi feci animo a interrogarla per tastarle, a
così dire, il cuore. La risposta fu quella che mi attendevo;
ella si adattava a sposare il marchese perchè sua madre lo
desiderava, ed ella non aveva cuore di contrariar sua madre. Io le
dissi che si trattava della condizione di tutta la vita, e che
nessuno ha diritto d'imporci la nostra infelicità, nè i
padri, nè le madri, e che però stesse salda e si
consigliasse con donna Paola. - Ah, mi rispose, se quella
donna fosse sola qui, sola, mi capite, certo che mi ajuterebbe;
ma.... - e qui troncò le parole con un sospiro. Entrò
in quel momento la contessa Clelia, che addatasi del colloquio, colse
il pretesto di far uscire la figlia, poi mi domandò di che
cosa stavamo parlando. Io risposi franco e netto, e con impeto e con
ira le dissi che era un'indegnità il voler sagrificare a quel
modo la sua unica figliuola. La contessa alle mie parole rimase come
percossa dal fulmine, e non replicò; ma tutto fu inutile, e
venne stabilito per le nozze il giorno 7 di luglio del 1770.
«Bisogna
sapere che mio padre, il quale era molto accetto a donna Paola, e
anche alla contessa Clelia, non ostante tutto quello che era
avvenuto, fu pregato e dall'una e dall'altra a lasciarsi vedere
spesso, perchè essendo uomo disinvolto e scaltrissimo, e nel
tempo stesso di una rettitudine specchiata, amavano adoperarlo nel
disbrigo di molte cose necessarie a farsi in quella circostanza del
matrimonio. È inutile il dire che mio padre avea sempre
tempestato perchè si mandasse al diavolo il marchese; ma come
s'accorse che non c'era verso, e che v'erano circostanze tali, in
faccia a cui non era più possibile scansare il male, si
adoperò col più sincero interesse perchè almeno
potesse rendersi più sopportabile. L'avvocato Strigelli, che
per celia chiamava mio padre il suo consultatore, lo richiese da
senno del suo parere, quando si trattò di stendere il
contratto nuziale. Il marchese F... vedeva ciò di malissima
voglia, perchè tra mio padre e lui c'era un'avversione
cordiale; ma siccome, non dirò l'affetto, ma la sua passione
per la contessina, apparteneva alla categoria dei furori, onde era
impaziente e convulso d'ogni benchè minimo indugio, così
taceva e lasciava andare, e non aveva objezioni da fare, comunque
fossero i patti. Per tutto ciò e per le mille gentilezze di
cui colmava la contessina e pei regali veramente principeschi che
aveva messo a' piedi di lei; inoltre, per una giocondissima amabilità
che gli era data fuori e gli andava crescendo in ragione che si
avvicinava il giorno del matrimonio; per tutto questo adunque era
riuscito a metter la pace e l'allegria in tutti; e m'accorgevo che
s'era fatta abbastanza lieta anche la fanciulla, e quasi era
diventato sopportabile anche a me. Torno a ripetere, io sentivo molta
simpatia per quella ragazza; ma era una simpatia molto somigliante a
quella che un uomo ragionevole e povero ha pei cavalli e le carrozze,
che cioè ne ha il desiderio, senza per questo dar la testa
nelle muraglie se deve andare a piedi. Perciò, giacchè
tutti erano contenti, io assistevo in pace all'allegria generale.
Così dunque camminavan le cose, e non mancavano che tre dì
a quello stabilito. La sera del terz'ultimo io vado in casa Pietra.
Mio padre era con me. Mi ricordo di quella sera come se fosse adesso.
Entro in sala, e, dopo aver data un'occhiata in giro, mi faccio tosto
all'orecchio di mio padre, e gli dico: Che cosa diavolo è
successo? Mio padre non rispose, ma aveva capito anch'esso che c'era
qualche novità. Quando entrammo, c'era il marchese F..., la
contessina, donna Paola, donna Clelia, l'avvocato Strigelli, tutti
quelli, in conclusione, che ci dovevano essere. E tutti parlavano, e
tutti erano tranquilli, e non mancavano nemmeno i sorrisi. Chi
insomma non era pratico della casa e dell'indole delle persone, non
avrebbe avuto a fare osservazioni di sorta. Ma noi che avevamo
assistito alla giovialità eccessiva sviluppatasi nel marchese
alcuni giorni prima; noi ci accorgemmo precisamente che il marchese
parlava per parlare e sorrideva per obbligo di galateo, ma era
manifestamente impacciato e preoccupato; del che accortisi gli altri,
per consenso necessario erano preoccupati e impacciati del pari.
Quando una conversazione procede per la sola virtù legale dei
reciproci riguardi, si prova un gran desiderio di trovarsi altrove.
Pare che l'avvocato Strigelli fosse di questo parere, perchè
di repente si alzò, accusando di essere chiamato altrove per
oggetti della sua professione, e nel tempo stesso guardò mio
padre, come a dirgli: Usciamo insieme. Mio padre non si fece pregare,
e, sebbene donna Paola lo invitasse a rimanere, egli, promettendo di
tornar tosto, si alzò, e fatto segno a me di seguirlo, uscì
coll'avvocato.
«Quando
si fu nella pubblica via, parlò prima l'avvocato:
«-
Vi siete accorto che ci deve essere qualche novità?
«-
Qualche cosa sì; mi pare ci sian dei nuvoli. Ma che mai è
successo?
«-
Che cosa possa essere successo non lo so, ma si direbbe che il
marchese abbia veduto il diavolo.
«-
In conclusione, che ha detto?
«-
Nulla affatto, ma è appunto perchè non ha detto nulla,
che non si sa cosa pensare.
«-
Dunque?
«-
Il dunque lo lascio a voi da spiegare. Però un sospetto l'ho
anch'io.
«-
E quale?
«-
Che il Suardi lo abbia minacciato di fargli qualche mal gioco se
sposa la ragazza.
«-
Il Suardi non è tale da compromettersi con una minaccia che lo
ritornerebbe diritto al Capitano di Giustizia.
«-
Il Suardi, tra l'amore che lo cuoce sempre più e il puntiglio
che lo agita e la rabbia di essere stato scacciato dai servitori del
marchese, può essere in tale condizione da non saper più
quel che si faccia.
«-
Non sono del vostro parere
«E
dopo aver ciò detto, mio padre tacque e almanaccò un
pezzo prima di parlare... Io stava attento. Alfine così prese
a dire (mi ricordo delle sue parole come se mi suonassero ancora
nell'orecchio. Povero uomo, non era possibile trovare chi fosse più
onesto e nel tempo stesso più furbo e acuto di lui!):
«-
Caro avvocato, disse dunque, a questo mondo bisogna aver buona
memoria. È il passato che fa lume al presente, e se siamo nel
1770 è una minchioneria dimenticarsi del '50. Però sono
tanto certo che il mio sospetto è la verità, che
scommetterei centomila talleri di Maria Teresa per sostenere il mio
punto.
«-
Non vi capisco.
«-
Se nel '50 invece di aver sette anni aveste avuta la mia età,
certo che capireste. Ora ascoltate. Io ho sempre creduto che lo zio
dell'attuale marchese abbia realmente istituito erede il figlio della
Baroggi. Io ho sempre creduto, che alla morte di colui il testamento
fosse chiuso nello scrigno del suo studio. Io ho sempre creduto che
il Suardi l'abbia trafugato, e ho sempre creduto e credo che il
testamento sussista ancora.
«A
questo punto mio padre mi guardò, come se si fosse pentito
d'aver parlato in mia presenza, e però, scostatosi due o tre
passi, continuò a parlar sottovoce allo Strigelli, il quale,
facendo le meraviglie e fermandosi ad ogni quattro passi, ripeteva
come per intercalare:
«-
Ma sta a vedere che la indovini, volpone!
«Io,
com'è giusto, non capii più nulla; onde m'entrò
addosso tanta curiosità, che quando mio padre ebbe lasciato
l'avvocato sulla porta della sua casa, io lo tormentai perchè
dicesse qualche cosa anche a me. Ma mio padre, dopo aver tentato di
tirarmi più volte giù di strada, conchiuse bruscamente
col dirmi: La cosa di cui si tratta è un'inezia. Ma tu per ora
non la devi sapere.
«Per
quel giorno dunque non si parlò oltre di quell'affare. -
Il giorno dopo l'avvocato venne da mio padre, e stettero insieme un
pezzo: ma io non potei penetrar nulla. - Mi recai in casa
Pietra per vedere se mai le nubi del giorno prima si fossero
condensate in temporale. - Ma con mia grande sorpresa era
tornato il sereno. - In ogni modo passò quel dì
e un altro e il terzo, e spuntò quel delle nozze. - Era
ricomparsa l'allegria. Le visite di tutto il parentado affollavano la
casa. - La matrina della sposa, che fu donna Valcalzel De
Cordova marchesa dello Balbases e duchessa del Sesto, veniva da
qualche giorno a star colla sposina e accompagnarla. I testimonj
erano stati scelti, e furono don Giacomo Sanazzari e il marchese
Paolo Recalcati Cernuschi. - Era un andare e venire continuo
di carrozzoni e carrozzini di tutta la nobiltà di Milano. -
Nè mancavano i preti, e segnatamente i due parroci, perchè
allora v'erano due parroci, così detti porzionarj, della
parrocchia di Santa Maria alla Porta, che si chiamavano don
Giambattista Redaelli e don Felice Temperati. - Alla vigilia
delle nozze ho visto anche l'abate Parini, ma era accigliato, e, dopo
poche parole con donna Paola, colla contessa e i saluti di
convenienza al marchese e alla sposina, se ne andò con quel
suo zoppicare caratteristico, che pareva piuttosto un movimento
dell'orgoglio che un difetto del corpo. Venne la sera; le nozze
dovevano essere benedette alle due di notte all'altar maggiore di
Santa Maria alla Porta dal parroco Redaelli. - Gl'inviti erano
stati numerati per ordine severissimo del marchese F... Mio padre
naturalmente fu messo nel numero degli invitati; ed io, dubitando di
essere escluso perchè, per uno di quei pregiudizj sciocchi che
erano tanto in voga nel secolo passato, non si voleva che gli
adolescenti assistessero a simili cerimonie, io dunque supplicai
donna Paola perchè mettesse una buona parola per me. -
Non era possibile che quella cara donna mi dicesse di no.
«Ma
veniamo a quella sera memoranda di cui mi ricorderò per tutta
la vita. - Il matrimonio del marchese F... colla contessa Ada
S... era da molti giorni il discorso di tutta la città, di
tutti gli ordini, di tutti i luoghi. - La grande ricchezza del
marito e la sua vita passata; la gran bellezza della sposina e le sue
peripezie sofferte, accrescevano quell'interesse volgare che
s'attacca pur sempre a un matrimonio d'alta sfera. - In
sull'imbrunire v'era la folla alla porta di casa Pietra per tentare
di poter vedere la sposina; v'era la folla alla porta maggiore della
chiesa; la folla alla porta sussidiaria che risponde sulla contrada
dei Meravigli e a quella del vicolo del Teatro. - Come quando
si attende la lepre, che s'appostano i cacciatori dov'è
probabile di sorprenderla al varco, il pubblico adocchiava impaziente
ed avido tutti i pertugi per dove credeva che la sposina potesse
passare.
«Quando
si fu presso alle due di notte, l'onda del popolo che da Santa Maria
Podone veniva impetuosa verso la parrocchia e il rumore delle
carrozze fecero muovere il sagrestano e i chierici che stavano alla
porta maggiore, i quali entrarono tosto per andare a chiamare il
parroco. - Io era già entrato in chiesa, e mi ero messo
tra quei chierici. - Vennero dunque presto le carrozze, ed
eran sei. - Tre svoltarono ne' Meravigli. La sposina era in
una di quelle. - Le altre si fermarono innanzi alla facciata,
e ne discesero tutti quelli che erano ammessi alla cerimonia. Le
guardie urbane nella strada tenevano indietro la folla che faceva
impeto e, in un batter d'occhio, appena gl'invitati furono in chiesa,
si chiusero tutte le porte, e solo fu lasciata dischiusa quella che
mette al vicoletto, standovi a guardia il servitore del parroco, che,
in quella solenne occasione, aveva messa vesta e cotta. - Quel
servitore non lasciava passar persona che non presentasse un
viglietto di casa F
Io era tutto intento a guardar la
contessina nel punto che colla duchessa del Sesto e i testimonj e il
marchese F... entravano in sagrestia per adempire alle cerimonie
d'uso, quando, a un tratto, vedo un parapiglia sull'ingresso della
porta segreta tra il servo in cotta ed uno che voleva entrare. -
Sull'istante abbandono una scena per l'altra; e, avvicinatomi, vedo
il signor Suardi in persona, il quale lascia andare sulla faccia del
servo in cotta uno schiaffo così sonoro e potente che me lo
sbatte dietro la bussola; e buon per lui che strisciò lungo la
pattona, la quale gli tolse il colpo nella caduta. Tutto
questo avvenne in un batter d'occhio, e il Suardi fu subito in
chiesa, e si collocò presso la predella dell'altar maggiore
(scoperto allora di fresco, ed era lavoro di Agostino Agrati), tra lo
stupore dei signori invitati. - Passò un quarto d'ora.
- I chierici si schierarono intorno all'altar maggiore colle
torcie accese. - Il parroco Redaelli salì l'altare. -
Dalla sagrestia uscirono nel tempo stesso gli sposi col seguito.
«La
contessina Ada, tenuta a mano dalla matrina, fu messa a
inginocchiarsi sul cuscino preparatole. Contemporaneamente l'altro
parroco don Felice Temperati invitava il marchese a inginocchiarsi
sul suo. Com'è naturale, io m'ero collocato ben presso alla
balaustra, e dal momento che il signor Suardi era entrato in chiesa,
io non l'aveva mai perduto d'occhio. Ora nel momento che il marchese
stava per inginocchiarsi, m'accorsi ch'ei vide per la prima volta il
Suardi, il quale gli teneva gli occhi fissi in volto. Il modo di
guardare del Suardi e la sua curiosa immobilità mi fecero,
dico il vero, un senso di paura, quantunque io non sapessi nulla; ma
era la scena dello schiaffo che m'aveva fatta impressione. -
Com'io guardava intanto, guardavano tutti e guardava il parroco
Redaelli.
«Il
fatto sta che tutt'a un tratto il marchese si alza e dice non so che
cosa all'orecchio d'un chierico. - Questi parla al parroco,
che lascia l'altare, si fa presso al marchese, e dopo un momento
rientra in sagrestia con esso.
«Poco
appresso furono chiamati in sagrestia i due testimonj, don Giacomo
Sanazzari e il marchese Recalcati, uno de' quali uscì per
accostarsi alla duchessa del Sesto, che non s'era mai staccata dal
fianco della sposina; - la sposina e la duchessa uscirono
sull'istante. Di lì a poco il parroco don Giovanni Redaelli,
fattosi alla balaustra: - Per oggi, gridò, è
sospeso il matrimonio. Loro signori possono andare.
«Per
quanto la stranezza del caso mi facesse attonito, pure non ho mai
tolto l'occhio dalla figura del Suardi, che non si era mai mosso dal
posto dove si collocò in principio. Tranquillo e grave lo vidi
dunque a muoversi per la prima volta, e levarsi di là, quando
il parroco disse quelle parole agli intervenuti.
«Ora
è facile imaginarsi la meraviglia di tutti costoro, e il
bisbiglio e il malcontento che ne seguì, quasi che il
matrimonio lo dovessero far loro; è facile imaginarsi come
quel bisbiglio e quel malcontento passasse dalla chiesa al piazzale,
alle vie, al vicolo dove tanta folla aspettante e curiosa era
stipata. Ma più di tutti gl'intervenuti e della folla, quelli
che rimasero veramente colpiti dallo stupore furono mio padre e
l'avvocato. Quand'io m'accostai ad essi, per domandar qualche
schiarimento, essi stavano guardandosi muti con quell'espressione che
hanno le statue. Uscendo dalla chiesa insieme con essi, udii mio
padre, che fu il primo a rompere il silenzio, a dire queste precise
parole: - Non c'è Cristi che mi possa far cambiar di
parere. Non può essere stata che la virtù magica di
dieci milioni quella che ha spezzato in un istante i legami di un
matrimonio, a preparare il quale ci son voluti quattro anni. Il
marchese, coi suoi stravizj degni d'un imperatore della decadenza, ha
scantonata la propria ricchezza, come fanno gli ebrei, quando tosano
gli zecchini. Se veniva a questo nuovo scappellotto, certo che lo
avremmo veduto all'ospizio di S. Vincenzo. Lo Strigelli crollava il
capo ripetendo:
«-
Non è possibile.
«E
mio padre:
«-
Per che cosa volete dunque che il Suardi abbia avuto quel lungo
colloquio col marchese?
«-
Ma ne siete poi sicuro?
«-
Il guardaportone di casa F... l'ho fatto cantar io. - Il
carrozziere del Suardi cantò lui.
«Com'è
naturale, io ascoltai questo dialogo, senza comprenderlo. -
Quanti anni dovettero passare prima che mi si porgesse la chiave per
aprire quella serratura congegnata a segreto!
«E
qui finisco, perchè di tutto quello che avvenne dopo, in quel
periodo, non mi riuscì d'esser testimonio oculare. - Il
matrimonio non fu solamente sospeso, ma troncato. Il marchese si
astenne affatto dalla casa Pietra. La contessina Ada rimase ancora
una fanciulla da marito.»
Questa
relazione del Bruni sarebbe rimasta in tronco, se noi non lo avessimo
pregato a stenderne un'altra per que' fatti posteriori, troppo
necessarj al complemento della nostra storia; e che avvennero vivente
lui, e che sentì egli stesso a raccontare o dalle parti o dai
testimonj o dalla pubblica voce. Eccola, conservatissima nel
contesto, sebbene alquanto raccomodata nella forma:
«Nell'anno
1776 cominciò a fermare l'attenzione del pubblico milanese un
giovane patrizio, il conte Achille S... Questo giovane allora poteva
contare ventitrè anni, ed era già tornato dall'America,
dove, avendo sentito che Lafayette, non ancora diciottenne, aveva già
fatto abbastanza per la gloria, si mise in testa di emulare il
francese sul campo dell'onore. - Ma la differenza stava in
ciò, che Lafayette, oltre il coraggio e il desiderio della
vita avventurosa, possedeva una grande uguaglianza di carattere e una
costanza inalterabile; dovechè il nostro giovane patrizio era
uno di quei caratteri inestricabili, in faccia ai quali anche il
giudice più sapiente e più tranquillo non sa che
sentenza pronunciare, perchè se da un lato gli sembra scorgere
le qualità di un eroe, dall'altro gli pare d'intravedere i
tristi istinti di uno scellerato. - Infatti, rimasto, a
diciasette anni, senza padre e senza madre, ed erede di una sostanza
ingente, non tollerando i consigli e l'autorità del tutore,
che fu il conte Sanazzaro, con questi venne a tali escandescenze, da
percuoterlo violentemente e da lasciargli le impronte del proprio
furore. - Fu dopo codesto fatto che, pentito dell'avvenuto e
iracondo di non poter spendere e sciupare, come voleva, i proprj
averi, lasciò Milano, passò in Francia, in Inghilterra
e di là in America. - I giornali dell'una e dell'altra
nazione in più circostanze ebbero a fare onorevole menzione di
lui pel coraggio dimostrato in molte battaglie; ma dopo due anni,
comparve sulla Gazzetta di Sciaffusa la relazione di un
tremendo alterco avvenuto tra esso e un colonnello americano, pel
quale, venuti alle mani, pur in mezzo alla festività di un
banchetto, il sottotenente milanese uccise il suo capo, onde
senz'altro se ne dovette fuggire e ritornare in patria, lasciando
colà una giovane moglie che morì di lì a poco
tempo.
«Reduce
a ventidue anni compiuti, trovò che il conte Sanazzaro era
morto; il pretore ducale invitò allora altri tra i parenti del
conte S... perchè ne volessero assumere la tutela; ma nessuno
amando togliersi quel carico per cui erano in pericolo anche le
spalle, e il giovane tempestando di non voler tutela in nessun modo;
esso in via d'eccezione e per decreto del presidente del Senato fu
dichiarato maggiore prima dell'età legale.
«Ricco,
come ho detto, di una sostanza ingente, cominciò una vita di
pazzie, di scialacquo, di giuochi, d'amori, di scandali a tal punto,
da destare un gran rumore non solo in Milano, ma anche fuori del
ducato. - Ed io mi ricordo che nella settimana grassa, al
carnevalone, quando da tutte le città della provincia e da
quelle del Veneto affluiva la folla a Milano e nel teatro Ducale,
tutti gli sguardi erano appuntati al palco dove questa bestia feroce
sedeva insieme co' suoi degni colleghi. - Mi sono dimenticato
di notare che questo giovane aveva qualità straordinarie
d'avvenenza, d'ingegno e di spirito. - Pareva insomma che la
natura, in un momento d'esaltazione, avesse vuotato il sacco per
metterlo insieme; e che dall'altra parte il diavolo o qualche suo
agente si fosse messo in testa di assassinare l'opera geniale della
natura stessa. - Ma, per queste qualità appunto, anzi
per la loro contraddizione violenta, non è a dire quanto
costui riuscisse caro alle donne. - Posso assicurare che molte
marchese e contesse, in fama d'invincibile castità, smarrirono
la tramontana per questo scavezzacollo; posso assicurare che molti
matrimonj avviati da lunghi e casti amori si turbarono di punto in
bianco al comparire di questo Lucifero vivo e vero, il quale aveva
l'incarico di portare il disordine e il peccato ovunque si
presentasse.
«Se
non che una vita così turbolenta e pazza doveva portare le sue
inevitabili conseguenze. Infatti non passarono tre anni che,
indebitato fin sopra la testa, ipotecati tutti i fondi, si trovò
nella condizione di chieder soccorso a un suo vecchio zio, col quale
era già venuto a terribili alterchi. - Lo zio, com'è
naturale, fu sordo a tutte le preghiere dei parenti e degli amici,
tanto che il giovane dovette un giorno seguire le guardie urbane e
recarsi nelle carceri del pretorio alla Malastalla. - I
debiti, l'avvilimento, la prigione non mancarono di fare un certo
effetto sull'animo di quel giovane, il quale, cosa strana, si
acconciò a scrivere una lettera allo zio. Siccome era
d'ingegno e d'animo versatile, e dall'oggi al domani si trasformava
come un camaleonte, così trovò il modo, secondo
dicevasi per la città, di scrivere una lettera allo zio così
affettuosa, toccante ed eloquente, che lo zio si lasciò
smuovere, e, chiamati i creditori, venne con loro a convenzione, e,
aggiustato alla meglio il disastro economico del nipote, gli assegnò
una pensione ragionevole perchè potesse vivere con decoro e
con tranquillità, promettendo che a seconda dei diporti la
pensione avrebbe anche potuto crescere. Infatti, ritiratosi in
campagna, il giovane visse per quasi un anno una vita esemplare;
tanto che, quando veniva a Milano, o lo si vedeva in teatro, ciascuno
lo compiangeva, e malediva l'avarissimo zio perchè lo
condannava a vivere così allo stecco; e allora lo zio, a cui
vennero all'orecchio codeste dicerie, lo mandò a chiamare per
fargli una proposta.
«La
proposta fu che, giacchè per molti indizj avea mostrato di
poter essere anch'egli come tanti altri, un giovane savio e
assestato, così si preparasse a prender moglie; in tal caso il
signor zio gli avrebbe fissata una rendita degna della sua condizione
e della sposa, e per di più lo avrebbe nominato suo erede. Il
nipote accettò; la sposa era già preparata, giovane,
bella, ricca. Il matrimonio si fece; ma colla ricchezza
ricominciarono i capogiri del giovinotto; e gli sciali, e i giuochi,
e le donne e il diavolo a quattro; e non finì un anno, che la
consorte, la quale fu donna Giulia Rodriguez de Arevolo, figliuola
unica, morì, il mondo disse, per un calcio dato dal marito
furioso a lei che era incinta. - Rimasto vedovo con un
ragazzino, perdette di lì a poco anche questo, ond'egli
ereditò tutti gli averi della moglie; ma li ereditò per
buttarli all'aria come avea fatto con tutto il resto. Allora,
tornando i dissesti economici, e le angustie, e l'assedio dei
creditori, lo zio dovette ricomparire ancora a sanar le piaghe.
Siccome poi quello zio era ciambellano, e avrebbe fatta moneta falsa
per l'arciduca Ferdinando, così, quella volta, in pagamento
del beneficio, pretese che il signor conte nipote entrasse tra le
guardie d'onore di Sua Altezza serenissima. Quelle guardie, per
l'eccesso del lusso, e perchè nelle solennità, quando
in chiesa sfilavano a lato dell'arciduca, dagli spallini, dalla
spada, dai ricami d'argento riverberavan le fiamme delle torcie,
venivano chiamati i candellieri d'argento; appellativo che rimase poi
alle guardie d'onore fin sotto al Regno italico. Ora fu nella sua
qualità di candelliere d'argento che, a una festa da ballo,
data dall'arciduca, danzò per la prima volta colla giovane
contessa Ada. Vederla e andarne preso, e con quel suo sistema di
portar tutto all'esagerazione e al delirio, dichiarare che si sarebbe
ammazzato se ella non corrispondeva all'amor suo; e recarsi dallo
zio, e far mille proteste, e supplicarlo perchè si
interessasse a rendere possibile quel matrimonio, fu una cosa sola.
Lo zio non desiderava altro. La prima volta avea durato fatica a
indurre il nipote ad accasarsi; ora veniva lo stesso nipote a
chiedere e pregare. Era un fatto superiore ad ogni speranza, era una
vera conversione. La contessina Ada, si sa, non aveva più nè
16, nè 18, nè 20, e nemmeno 25 anni; ma, correndo il
1780, era prossima a' suoi 28. Ben è vero ch'ell'era ancora
bellissima, e le giovinette sedicenni potevano ancora invidiarla; ma
a quell'età le donne ancor nubili, cominciando a capire che
dopo il mezzodì viene il tramonto, sentono nelle ossa la
minaccia d'una diminuzione di prezzo, e diventano impazienti tanto,
che se hanno passato la miglior parte della vita a dir di no,
sospirano qualunque occasione per poter dire di sì. La
contessina Ada, poi, di sopraggiunta, si era veramente invaghita del
conte Achille S.... nè più dovea temersi la competenza
del Suardi, il quale aveva toccato i suoi quarantanove anni. Ben egli
continuava ad essere un bellissimo uomo, prosperoso, vegeto, vivace.
- Ma il colore del volto aveva perduta la trasparenza; ma
l'occhio aveva smarrito il fosforo; ma la pancia aveva varcata la
linea accademica. È sempre la pancia quella che chiude il
protocollo degli amori. Dunque la contessina Ada era guarita di
quell'affezione infelice.
«Nel
tempo che avvenivano queste cose, io non mi trovavo a Milano. Da un
anno e più stavo a Venezia per assistere la povera mia madre,
che morì poi in ancor fresca età, compianta e
desiderata da quanti la conobbero. Stavo dunque a Venezia, quando mi
giunse come un colpo di fulmine la notizia che lord Crall, il quale
da qualche tempo erasi ritirato in una sua villetta presso Milano, fu
trovato morto in camera, immerso nel proprio sangue. Colla notizia
corsero anche manoscritte le copie di alcune lettere ch'esso avea
scritto per donna Ada: lettere che si faceva a gara a rubarsele di
mano, perchè a Venezia destavano un grande interesse, non
tanto per sè stesse, quanto perchè n'era eroina la
figliuola di quella contessa Clelia che molti anni addietro aveva
lasciata tanta impressione in quella città. Fu allora che,
intanto che mio padre recavasi a Genova per certe somme lasciate da
mia madre su quel Banco, io tornai a Milano coll'intento di conoscere
appieno e dappresso i particolari di tanta sventura; e fu allora
ch'io sentii per la prima volta la storia dei nuovi amori del conte
Achille S... e delle prossime nozze di lui colla contessina, e
appurai essere stata questa la vera cagione del suicidio di lord
Crall. - Le ultime lettere di questo infelice, pubblicate
oggi, farebbero ancor senso, ad onta delle famosissime di Werther e
Ortis; ma io, dopo averne con religiosità conservata copia per
molti anni, non so come, le ho smarrite; nè mi venne mai fatto
di rinvenirle altrove, per quanta cura ci abbia posto; specialmente
allorchè, discorrendo un dì con Ugo Foscolo di quel
fatto e di quelle lettere, egli mi mostrò un gran desiderio di
vederle.
«Saputo
tutto quello che si poteva sapere, io, sebbene sentissi l'obbligo
d'andare a trovare e a confortare in qualche modo la madre infelice
del povero estinto, pure stetti lontano dalla casa Pietra; perchè,
se mi aveva annojato in addietro il trovarmi a contatto col marchese
F..., ben più m'avrebbe pesato il trovarmi allora insieme con
quel petulantissimo conte S...; nè troppo a me importava ch'ei
fosse un candelliere d'argento dell'arciduca, e molto meno che fosse
bello come un dio, e meno ancora che avesse in sulla coscienza una
mezza dozzina di cavalieri ammazzati da lui in duello; circostanza
che, invece di far ribrezzo, accresceva, tanto il mondo è
curioso, il prestigio che lo circondava; bensì lo abborrivo di
tutto cuore, perchè, pieno com'ero io delle idee di mio padre,
non potevo soffrire che colui, dopo essere stato in America a
battersi per la libertà, fosse poscia tornato più
gonfio che mai di vento aristocratico, e si comportasse con tutti di
maniera, come se il mondo fosse suo vassallo. - Tornando ai
fatti, per essere colui impastato di contraddizioni e delle cose non
amando che gli estremi, io seppi da chi lo avvicinava in quel tempo,
che il suo amore per donna Ada portò tutti i caratteri di una
procella, procella che continuò nel medesimo orgasmo per molto
tempo; anche perchè, quando tutto era disposto per il
matrimonio, e lo zio gli aveva assegnato una rendita degna di lui e
della sposa, la morte di donna Paola Pietra che tenne dietro, dopo un
anno di languore e d'abbattimento, alla misera fine di suo figlio,
venne a sospendere ogni cosa, perchè donna Clelia volle che il
lutto per quella santa donna fosse intero e solenne. - Nei
giorni estremi di quella vita preziosa e veramente eccezionale, io
ritornai finalmente in quella casa e fui testimonio di scene sublimi
d'amore e di dolore. - Allorchè la veneranda donna
mandò l'ultimo respiro, sembrò davvero che alla
contessa Clelia fosse strappata l'anima. In mia vita non ho mai
assistito a più profondo cordoglio; e la prova ne fu, come già
ho detto, che, per quanto ella conoscesse e compassionasse la
condizione d'animo della propria figliuola, e per quanto potesse
temere le violenze del conte S..., pure volle che per un anno intero
non si parlasse di nozze, e si onorasse la defunta anche co'
sagrificj del cuore.
«Quel
matrimonio non ebbe dunque luogo che nel giugno dell'anno 1780, con
tutta la solennità e le pompe d'uso. Ma trascorsa la luna
d'obbligo, la procellosa passione del conte, nel soddisfarsi, si
spense; e la tetra noja, assediando ancora quell'incontentabile
natura d'uomo, lo spinse a cercare nuovi stordimenti nel giuoco,
nelle donne; a portare la desolazione nel proprio talamo maritale, a
funestar la pace dei talami altrui, provocando ire, vendette,
tafferugli, duelli, e giungendo a mettere sossopra persino la Corte
dell'arciduca.
«A
tante pazzie presto tennero dietro i dissesti domestici e i dissapori
col vecchio zio, il quale riuscì a fargli decretare
l'interdizione. Dopo questo fatto esso diventò così
acre e turbolento, che tutti facevano a gara per iscansarlo. Fu
allora che nacque un accidente per cui dovette abbandonar Milano, e
lasciar la casa e la famiglia. Quell'accidente però, bisogna
dirlo ad onor del vero, gli recò molto onore, e fu tale che
gli acquistò la simpatia anche di quelli che l'odiavano e lo
scansavano. - Ecco di che si tratta. È un fatto di non
poca importanza, e che si connette coi grandi interessi del paese.
«Giuseppe
II, quando salì al trono, vi recò l'orgoglio del
sovrano assoluto e la presunzione di saperne più di tutti. -
Una tempesta doppia. - La seconda fu assai peggiore della
prima giacchè per essa egli applicò le riforme con tale
violenza e impazienza, da mandar disperso il bene a cui mirarono
coloro che le avevano inventate. Per fermarci al ducato di Milano,
Giuseppe II fu il primo sovrano austriaco che abbia manomesso
dispoticamente questo inesauribile salvadenaro dell'Impero. Fu per
lui che la Lombardia ha cessato, allora per la prima volta, di vivere
della vita propria. Per lasciar da parte tutto il resto, e per venire
al caso nostro, l'abolizione del Senato di Milano, che stava in piedi
da tre secoli, fu un avvenimento che mise il malumore in tutta la
popolazione. - Ben è vero che, di quel Senato, noi
stessi da moltissimo tempo avevamo vedute le piaghe; ma, come
avviene, il nostro legittimo orgoglio nazionale fu punto e si risentì
quando venne offesa da altri quella nostra unica rappresentanza. Non
si abolisce, ma si riforma, se c'è da riformare; ma si
rispettano le più antiche e le più care tradizioni di
una città, di una patria. In famiglia si può
rimproverar la sorella, la madre, ma non si sopporta che altri le
schiaffeggino. È codesta una legge di natura. È dunque
una mia opinione che l'odio dei Lombardi, voglio dire dei Lombardi
italiani, per il dominio austriaco, se non cominciò affatto
con Giuseppe II, s'inviperì allora per la prima volta, e si
manifestò per mille indizi. Il mezzo più sicuro con cui
un governo può inimicarsi i governati è quello di
attestar per essi in pubblico il proprio disprezzo, col rifiutare e
respingere tutto ciò che fu il portato delle loro consuetudini
e della loro sapienza tradizionale. I sudditi ragionevoli possono
acconciarsi a pagar tasse esorbitanti; possono chiamarsi gloriosi di
mettere ai piedi del trono i loro averi, perchè un tal
sagrificio è giustificato dalla necessità o dalle sue
apparenze, e perchè la dignità di una nazione o di una
parte di essa non ne rimane offesa. Ma guai se si pretende di
sconquassare ciò che costituisce la fisionomia caratteristica
d'un paese.
«I
veri sapienti onde allora era cospicua la città di Milano ben
potevano essere incaricati non della distruzione, ma della riforma
ragionevole del Senato, ed essi medesimi dovevano poi venir chiamati
a farne parte e ad esserne il decoro e la gloria. - Ma
Giuseppe II si credeva al disopra di tutti, anche per l'intelligenza;
e quanto alla Lombardia, senza conoscerla mostrò di
disprezzarla in più d'un'occasione. Mi ricordo che,
allorquando venne a Milano per la prima volta e s'incontrò,
nell'aula massima del Senato, nel presidente Motone, guardando
all'altissimo topè che colui portava, ebbe, non dubito di così
chiamarla, la vile sfrontatezza di rivolgergli queste precise parole:
Davvero che voi mi sembrate un buffone. - Questa frase
di quel presuntuoso monarca, riferita dai testimonj, e messa in giro
per tutta la città, non è a dire quanta indignazione e
rancore e dispetto abbia recato in tutti gli animi dei buoni
Milanesi; quei Milanesi che pure in molte circostanze avean giudicato
con molta severità quel presidente. - Ma, torno a
ripeterlo, i Milanesi non potevano biasimare quel loro magistrato; ma
dovevano indignarsi, come fecero, quando lo sentirono insultato così
vituperosamente da un sovrano straniero.
«Or
tornando al Senato, o meglio tornando al conte S..., candelliere
dell'arciduca, in uno di que' giorni in cui tutta Milano parlava
della soppressione del Senato, a una festa di Corte, accostatosi a un
crocchio di ciambellani che lodavano a cielo quell'atto
dell'imperatore, egli investì tutti quanti con parole così
acerbe e veementi, da far credere ch'ei non avesse altro desiderio
che di esser tradotto in carcere; e tanto più quando prese pel
collare inargentato il conte Mellerio, e lo scrollò
allegramente allorchè quel ladro in carta bollata ebbe
il coraggio di rispondergli con altrettanta veemenza. Tutti dissero
allora che il conte S... era alterato dal vino, che era fuor de'
gangheri per aver perduto al giuoco, che cercava mille modi di far
nascere degli scandali, quasi a vendicarsi di essere stato interdetto
dal nuovo Tribunale succeduto al Senato; ma, sia pure come vuol
essere, io provo sempre una grande soddisfazione quando penso a
quella scena violenta, e mi lodo della fortuna quando considero che,
per parlar alto a quel modo, non ci voleva che un uomo di quella
tempra. Le prime sassate nei vetri, anche allora che si vuol fare una
dimostrazione legittima, son pur sempre gettate dalla canaglia
inferocita. E il conte, ad onta di tutte le sue pessime qualità,
pur serbava in fondo in fondo all'animo qualche cosa di generoso;
soltanto ce ne voleva a farlo balzar fuori. - E qui metto
codesta osservazione, a mitigare in parte il giudizio severissimo che
ho dato più addietro di quest'uomo; ma dico il vero, che
quella furiosa scrollata data da lui al bavero inargentato del conte
Mellerio m'ha disposto all'indulgenza.
«Il
giorno dopo, il barigello della Pretura con una mano di guardie
urbane fu alla casa S... per condurre seco il padrone. - Ma
questo, in fretta e in furia, messo in sull'avviso non si sa da chi,
era partito la notte; nè d'allora in poi non fu mai più
veduto a Milano; nè, dopo una sola lettera che da Parigi
scrisse alla contessa sua moglie, nella quale, com'ella più e
più volte mi raccontò piangendo dirottamente, le
raccomandava di dare un bacio alla piccola Paolina, non scrisse mai
più alla famiglia; nè mai più per sua parte
giunsero notizie di lui in patria.»
Qui
finisce la seconda parte della relazione lasciataci dal signor
Giocondo Bruni.
Ed
ora dovremmo tornare indietro, ovverosia andare avanti, e risalire in
casa S..., e collocarci, come il vecchio Simeone, tra il capitano
Baroggi e donna Paolina per metter l'anello in dito alla sposina e
congiungere le due mani. Ma il genio della storia e della rivoluzione
ci sollecita e c'invita ad un teatro più grande che non è
Milano; in mezzo a scene più solenni; e tanto più che
su quel teatro e tra quelle scene ritroveremo ancora i nostri
personaggi, e per la prima volta finalmente ci si presenterà
la strana figura del conte Achille.
LIBRO
DUODECIMO
Roma.
- Il Colosseo e S. Pietro. - Il Camillone di
Trastevere. - Pio VI. - Pio VII. - Napoleone I.
- La Chiesa e l'Italia. - Le idee rivoluzionarie a Roma
e a Milano. - Il popolo romano. - I Trasteverini. -
Gli artisti. - L'avvocato Corona. - L'albero della
libertà. - Il Campidoglio. - Il generale
Cervoni. - La Repubblica Romana. - L'anfiteatro Flavio.
- La Morte di Cesare di Voltaire e la statua di Pompeo.
- Il colonnello Achille S... - Donna Paolina S... -
Il capitano Baroggi.
I
Di
tutte le città cospicue del vecchio e del nuovo mondo, due
sole tengono i caratteri e le virtù e il diritto di essere,
come in un'orbita ellittica, i due fochi dell'umanità, Roma e
Parigi. Queste città esercitano sugli uomini che vengono da
altre patrie un'attrazione così prepotente e irresistibile,
che quasi li seduce a non tornar più a casa loro.
Tutti
quelli che sono affetti di municipalismo cronico, non è che a
Roma o a Parigi dove possono sperar di guarire. Tutto sta a non
errare nella scelta.
I
gaudenti che antepongono il Bordeaux al vino d'Orvieto, e che paurosi
dell'avvenire e smemorati del passato vogliono, per tutto quel che
può succedere, godersi tutti i beni che loro può dare
il presente, vadano a Parigi; coloro che sono ascritti all'ordine
della cambiale e interrogano, quotidiano oroscopo, il listino della
Borsa, vadano a Parigi; coloro che, per fermarci alla città di
Milano, odiano l'autore di questo libro, perchè difese la
conservazione dei portoni di Porta Nuova, vadano a Parigi; a Roma
potrebbero morir d'indigestione archeologica. Ma coloro che, volendo
far la cura del municipalismo, non vogliono, essendo italiani,
mettere a repentaglio il nazionalismo, vadano a Roma.
Vadano
a Roma coloro i quali credono che si possa assicurare il futuro
coll'amore tenace delle grandi tradizioni, e hanno fede nei
ritornelli storici. Vadano a Roma i prosciugatori di paludi, i
bonificatori di terreni, i cercatori d'una città capitale per
l'Italia quando sarà rifatta.
È
pur sempre dal monte Pincio e dall'umile quarto piano dove abitava
l'indefesso Winkelmann che si può ancora appuntare il
telescopio, per scoprire quella stella che sgombrerà del tutto
le nubi d'Italia.
Ma
giacchè il nome di Winkelmann ci venne sulla penna, esso che,
passato a Roma, non seppe più dipartirsene se non per morire;
che cosa significa codesta irresistibile attrazione che l'eterna
città, dal centro d'Italia, precisamente come al tempo che era
l'Urbe dell'Orbe, esercita ancora sugli animi più
nobili e sugli intelletti più privilegiati di tutte le
nazioni?...
Gibbon,
trovandosi a Roma, seduto sulle rovine del Campidoglio, mentre i
frati cantano vespro nel tempio di Giove, quella strana antitesi lo
percuote, e per vent'anni non vive che sprofondato nelle memorie
della città eterna.
Byron,
indarno trattenuto da colei che per la prima volta riuscì a
far parer legittima l'infedeltà conjugale, viaggia
appositamente a Roma per dedicare alla regina delle città
l'ultimo canto del suo Childe Harold immortale, e al cospetto
delle sue rovine, la saluta Niobe delle Nazioni, e sente per
essa quell'entusiasmo di amante che non ebbe mai per la fredda sua
patria. Perfino i figliuoli di Venezia, per consueto innamorati della
cara madre al punto da far piegar in passione il naturale affetto del
luogo nativo, a Roma dimenticano e San Marco e Canalazzo e Giudecca,
e vi conducono in gloriosa e feconda prosperità la parte
migliore della loro vita.
Il
veneziano Piranesi è così pieno dell'aria, del cielo,
del suolo di Roma, da ritrarla con prodigiosa fedeltà, e da
farla comparire come per incanto innanzi agli occhi di chi non l'ha
per anco visitata.
Canova
vive di Roma e per Roma, e qui vince nella gara l'invidioso danese,
che in essa dimorò tutta la vita per tentare di rapire la
palma al veneziano.
Ma
giacchè il rivale di Canova ci fa pensare agli artisti del
settentrione, Bruloff e Bruni dalla gelida Neva venuti a Roma,
crescono pittori grandissimi nel fecondo tepore del suo cielo, tanto
che se l'artista è cittadino di quella patria da cui tiene
l'inspirazione e l'esempio, non sono essi che legittimi romani; e
Bruloff lo confessava e lo voleva, e il corpo atletico, affranto dal
soverchio peso del suo ingegno sterminato, sperò di ritornarlo
a salute ricoverandosi, dopo lunga assenza, a Roma, nella fiducia che
là soltanto gli soffiasse quell'aere nativo, estremo rifugio
delle vite per cui l'arte medica non ha più consigli.
Tutto
Cornelius, che alcuni esteti nostrali proclamarono antistite
dell'arte contemporanea, quand'era di moda non vedere e non sognar
che l'arte e la scienza germanica, e sotto la maschera della scuola e
del gusto cercavano onestare la colpevole adulazione e le maledette
schiene curvate, tutto Cornelius non è all'ultimo che un
rivenditore eclettico dei tesori raccolti a Roma.
Il
sommo Delaroche, il più originale forse e il più
perfetto dei pittori contemporanei, giunse a vestire della più
decorosa forma i nuovi concetti per aver ripensato tutta la vita e
Raffaello e Roma.
Che
più? Una popolazione di giovani artisti di ogni lingua, d'ogni
nazione, sotto l'egida dell'arte, stornatrice dei sospetti clericali,
qui rappresentano la parte più eletta dell'umanità, o
come espressione sincera delle loro patrie progressive e liberali, o
come eccezione gloriosa delle loro patrie corrotte.
E
in quella scienza della storia e dell'indagatrice filologia, uomini
d'ogni nazione dimenticano le origini e la storia delle loro patrie,
per cercare e rifar quella di Roma, e comparire in faccia al mondo
gloriosi di una dottrina che qui soltanto hanno trovato. Niebuhr
s'innamora di Roma e si sprofonda a perdita d'occhio nelle sue più
remote origini, sotto la scorta del romano Vulpio, tanto letto nel
mondo quanto derubato, e men celebre de' suoi saccheggiatori astuti.
Se
non che tutti costoro stettero al cospetto di Roma, senza speranza e
senza fede, come al cospetto di un cadavere imbalsamato, ancor bello
e ancora coperto di porpora e di gemme. Alcuni anche vi stettero
senza dolore, e solo coll'intento d'involarne i tesori sotto specie
d'ammirazione. E i più generosi e sentimentali, come Byron e
Chateaubriand, non manifestarono che un dolore sterile e senza
conforto.
Byron,
chiamando Roma la Niobe delle nazioni, volle conchiudere che
non v'era speranza ragionevole di veder risorgere i suoi figli
saettati da un Dio nemico.
Chateaubriand,
pur nello sfoggio del suo entusiasmo e di poeta e di cristiano, al
cospetto di Roma non fa che ripetere l'Inania regna d'Isaia, e
conchiudere declamando il Rem plenam miseriæ, spem
beatitudinis inanem, di S. Agostino.
Ma,
dopo tutto, chi resta ultimo, a perder la speranza vicino al letto
del moribondo parente non è che il devoto consanguineo. Però
ad aver fede nella risurrezione di Roma è necessità
essere uomini d'Italia. È già molto che lo straniero
rammenti con ammirazione il suo passato, e s'assida con poetica
commozione presso le sue rovine.
La
teoria storica dell'impossibile risurrezione delle nazioni tramontate
può essere ammessa da chi trionfa nella massima piena della
fortuna; ma la respinge con sapiente orgoglio chi, caduto da alto,
geme in non meritata sventura.
Pure,
tanti anni sono, gli stessi Italiani che deploravano la patria
infelice e divisa, allorchè visitavano Roma, se il pensiero
della giustizia e la forza del dolore generavano un qualche barlume
di speranza, la ragione calcolatrice degli ostacoli faceva sbollire
ogni entusiasmo destato dagli avanzi del passato e dall'idea che non
indarno fosse pur rimasto ancor tanto di tanta grandezza.
Quando
i congressi scientifici non avevano ancor maturato il frutto
politico; quando, dopo la fatale dispersione dell'esercito del regno
d'Italia, la coccarda italiana stava ancora celata nel confidente
scrigno di qualche superstite veterano del Raab, e il tricolore
italico non veniva ancora trapuntato dalle generose lettrici dei
canti patriottici del milanese Berchet; e le cinque proverbiali
giornate che lo dovevano per la prima volta far sventolare in Italia,
erano ancora in mente Dei; un giovane milanese, e a chi
scrive era ben noto, trovavasi precisamente a Trinità di
Monti per godere lo spettacolo di un tramonto romano; e mentre un
artista andava additando l'antico foro e il Campidoglio, e coi ruderi
infranti ricostruiva a mano a mano la Roma reale, la Roma
repubblicana, la Roma imperiale, il giovane milanese, guardando ora
al cupolone di S. Pietro, che pareva nuotare in un oceano d'oro, ora
al Colosseo, che sorgeva gigante ma tristo e infranto e nella
condizione di un'architettonica cava di marmo: - Ecco, disse,
le due costruzioni più gigantesche di mole e più
sontuose d'ornato che mai siano sorte al mondo. In nessuna parte
della terra non v'è nulla che possa paragonarsi a questi due
edifizj, che sembrano rappresentare l'evo antico e l'evo moderno.
Peccato che il Colosseo rimanga smantellato a mezzo. La grandezza
romana, se ciò non fosse, rivivrebbe tutta in lui.
-
Così fosse affatto scomparso, esclamò allora con
veemenza un abate in mantelletta che per caso era là presente,
che almeno non rimarrebbe più traccia della feroce èra
pagana e dei tanti martiri qui immolati agli dèi bugiardi.
-
Ma perchè allora non v'è chi smantella il Vaticano?
esclamò il giovane milanese.
L'abate
guardò stupito quel che così parlava; poi soggiunse
quasi gridando: - Chi bestemmia così?
-
Nessuno bestemmia. Ma se volete distrutto il Colosseo, io vi domando
perchè si lasciano sussistere tante testimonianze dei delitti
dei pontefici? L'altro giorno mi fu mostrato un luogo dove Paolo II
stava ascoltando i gemiti delle migliaja di prigionieri stipati in
castel Sant'Angelo, onde il popolo atterrito dal notturno ululato
ebbe a chiamar questa mole per antonomasia il toro di Falaride
ingigantito.
Queste
parole provocarono una discussione tra quel giovane e l'abate.
-
Da quanto avete detto, continuava il primo, mi accorgo che hanno
ragione que' dotti scrittori che della colpa d'aver smantellata Roma
assolvono e le invasioni, e i saccheggi, e i Barbari, perfino i
cataclismi naturali, i terremoti, e gl'incendj spontanei.
-
Chi dunque può aver fatto questo?
-
Il cristianesimo corrotto, la malvagità pretina, l'ignoranza
del popolo credenzone.
-
Mi piacerebbe sentire come si può far ora ad assolvere i
Barbari.
-
Col dirvi che i Barbari nel furore dell'avidità ben ponno
essersi attaccati all'oro, all'argento, alle gemme, al ferro, al
rame, al piombo, alle belle donne, a tutto ciò che volete, ma
non alle colonne di granito, non ai massi di travertino, non ai
frontoni, agli attici, ai capitelli. Già, tutta la storia
delle rovine romane non a caso fu riassunta nel Quod non fecerunt
Barbari, fecerunt Barberini. Ma lasciando i Barbari, l'ultimo
sacco, che fu il più terribile di tutti e che durò
tanto tempo e dischiuse una tal voragine di miseria che ci vollero
anni ed anni a porvi riparo, chi lo ha voluto, chi lo tirò in
casa? Rispondete a me adesso.
-
Vi rispondo col farvi una domanda. Di chi fu la colpa se in
quell'altro sacco?...
-
Qual è quest'altro sacco?
-
Quello del 1798. Quello che, sotto specie di protezione, di
beneficio, operarono i rivoluzionari di Francia e d'Italia. Di chi
dunque fu la colpa se le più stupende opere degli ultimi
secoli adunate in Roma per la magnificenza pontificia; se le più
famose statue dell'antichità raccolte ne' musei furono
depredate e trasportate in Francia?
Il
giovane milanese, che in tutte le storie contemporanee aveva trovato
intorno a quel fatto e relazioni e giudizj sempre concordi, ed egli
stesso non sapeva dar ragione a quanti storici e a quanti uomini
vituperarono le estorsioni, le rapine, le concussioni, i disordini
d'ogni maniera che avvennero di quel tempo in Roma, prima sotto
Berthier, poi sotto Massena, si trovò sconcertato a quella
domanda improvvisa dell'abate; e andava, tanto per non parer vinto,
biascicando una risposta che però si rifiutava ad uscir dalla
bocca. Ma allora venne in suo soccorso l'artista che in quel crocchio
faceva da Cicerone per tutti.
-
Troppo spesso, prese dunque a dire colui, nelle storie molto lodate e
molto divulgate la verità si cerca e non si trova. Certo che
quei disordini sono avvenuti, certo che le concussioni furono fatte,
certo che i capolavori furono rubati; ma bisogna portarsi a quei
tempi, ma bisogna conoscere le nefandità che prepararono
quelle vendette. Oggi non v'è, per esempio, chi non chiami Pio
VI e santo e martire. Ma dove si legge quel ch'egli fece prima di
toccare gli ottant'anni? Caro signor abate, ella è ancora
giovane, e poi non è alla segreteria, nè alla curia
dove si legge la vita ai papi. Non è alla curia dove si
conoscono gl'insidiosi intrighi dei cardinali e dei vescovi e degli
altri prelati di tutti i colori... Ma cangiamo discorso, che se
alcuno riportasse le mie parole, anche nella mia condizione di
cittadino francese, potrebbero assassinarmi colla mordacchia;
chè i sacerdoti di Cristo hanno trovato il modo di
superare la feroce antichità nel tormentare i galantuomini
quando manifestano opinioni contrarie a quel ch'essi vogliono.
Discendiamo dunque, che è disceso anche il sole, ed è
scomparso dietro la palla di rame.
L'abate
tacque. Discesero tutti. Strada facendo, l'artista, che si diede a
conoscere per un tal Baldani, emigrato lombardo fin dal 1814,
diventato suddito francese, e allora dimorante a Roma per collaborare
a un'opera sulle antichità romane che doveva uscire a Parigi,
rivoltosi al giovine milanese, gli disse che se voleva conoscere i
segreti del tempo in cui si piantò a Roma l'albero della
libertà gli avrebbe fatto conoscere un popolano, figliuolo di
un tal Camillone di Trastevere, per mezzo del quale avrebbe saputo
quello che non c'è in tutte le storie.
E
così fu fatto. L'architetto Baldani condusse il Milanese in
Trastevere e lo presentò al figlio già maturo dell'una
volta famoso Camillone; diciamo una volta famoso, perchè ora
non v'è più chi lo nomini nè si ricordi di lui;
sebbene negli ultimi dieci anni del secolo passato abbia
rappresentato a Roma quella parte che Ciceruacchio rappresentò
nei primordj del fatale pontificato di Pio IX; ed abbia dettato in
dialetto romano un curioso diario dell'ingresso dei Francesi in Roma
nel 1798, e di tutto quello che avvenne colà in quel periodo
famoso. Del qual diario il giovine milanese ottenne di poter
trascrivere gran parte.
Se
non che di questo Camillone noi abbiamo cercato il nome con
insistenza in tutte le storie più o meno celebri che parlano
delle cose generali d'Italia a quel tempo e delle speciali di Roma,
compresa la postuma di Alessandro Verri, il quale, per aver dimorato
tanti anni in quella città e per essersi, per ciò che
aspetta ai Francesi ed alla repubblica colà improvvisata,
diffuso in insoliti particolari, avrebbe potuto parlarne con più
ragioni e con più mezzi degli altri. Ma non ne abbiam trovato
neppur un cenno fuggitivo, il che ci sembrò tanto strano, che
siamo venuti perfin nel sospetto che fosse un'invenzione e l'uomo di
Trastevere, almeno per l'importanza che gli si volle dare, e il
manoscritto, almeno per la sua autenticità; chè a Roma
è frequente la professione di vendere vesciche ai forastieri
che vanno a caccia di notizie e di scoperte. Ma, un mese fa,
rovistando in Biblioteca, abbiamo trovato un opuscolo stampato a
Bologna nel 1800, relativo ai fatti di Roma, dove il Camillone di
Trastevere è nominato in lungo e in largo, e vi è
rappresentato come l'uomo a cui l'autorità stessa doveva
ricorrere quando si voleva metter pace nella moltitudine, la quale in
lui solo avea fiducia. Questa scoperta distrusse tutti i nostri
dubbj, e ci animò a ricostruir questa parte dell'edificio, che
quasi lasciavamo andar in ruina. Ed ora il racconto quasi assume
importanza di epopea; feconda epopea, perchè fu nel 98 e in
Roma, dove per la prima volta deliberatamente venne vibrato il colpo
che avrebbe potuto ferire a morte il nemico più formidabile
dell'Italia, che da tanti secoli si tormenta per ritrovare sè
stessa e per riavere quel posto che le si compete fra le nazioni; e
perchè l'Italia presente dee guardare quell'anno memorabile,
non per ripeterlo, ma per emendarlo e compirlo; ma per convincerci,
che, finchè rimarrà il poter temporale al pontefice, la
questione italiana non sarà mai risoluta davvero; e anche nel
caso che l'aspetto della nostra nazione potesse presentare i segni
della salute, in quel potere starà chiuso il germe del morbo
antico, pronto sempre a pigliar forza dalle possibili occasioni, per
prorompere più minaccioso e funesto.
II
Pio
VI e Pio VII, avendo usurpata una fama mille volte superiore al
merito, e comparendo al cospetto della storia in sembiante di
oppressi, di martiri, di eroi del cattolicesimo, riuscirono
funestissimi all'Italia, e furon cagione che si prolungassero nel
mondo i falsi concetti sulla natura e sui diritti del papato. Ma più
ancora di Pio VI e Pio VII, Napoleone fu quegli che imbrogliò
il pubblico giudizio relativamente alle quistioni della Chiesa, e
consacrò nella maggior parte del mondo cristiano una specie di
mistica paura, che rese formidabile il re pontefice; e nella
moltitudine, la quale si lascia sopraffare dalle catastrofi, depose
la persuasione che le basi del poter temporale fossero inconcusse. La
luce della ragione indipendente che, in sul finire del secolo
passato, dai pensatori solitarj era passata alle assemblee nazionali,
da queste agli eserciti, dagli eserciti alle popolazioni, si spense
tutt'a un tratto, per concentrarsi ancora nella chiusa lanterna
d'alti pensatori aspettanti con fiducia i tempi migliori. Bonaparte
fu il gran colpevole. La risoluzione ch'ei prese contro a Pio VI,
ossia contro al poter temporale del papa, quando nel 98 da Roma lo
fece portare a Siena, invece di sembrare al mondo, siccome era, il
colpo deliberato della sapienza che, confederata alla forza, voleva
richiamare una istituzione degenerata alle sue origini primitive,
parve un'ingiustissima violenza, allorchè col concordato
conchiuso nel primo anno del secolo corrente egli mostrò, o di
non aver saputo quel che si facesse, o di pentirsi di quanto aveva
fatto. Il mondo in quella fatale transazione imparò a
rispettare il poter temporale, al quale s'inchinò sempre più
quando vide Napoleone inchinarsi egli stesso al Chiaramonte, per poi
ritornare agli atti della prima violenza. Questa ineguaglianza di
condotta fu quella, lo ripetiamo, che imbrogliò il pubblico
giudizio; perchè i disastri sorvenuti e il grande eroe
fulminato, nell'opinione del vulgo, parvero vendette del cielo; e
come ai tempi di Samuele e di Saulle, si riputò che Iddio
avesse colpito il re della terra che avea osato offendere il suo
luogotenente.
Ma
qual fu la causa di quella strana condotta di Bonaparte? Quella causa
stava intera nel pubblico europeo, che non tutto si era lasciato
persuadere dalla parola dei savj, perchè dieci anni non
bastarono a mettere in fuga i pregiudizj di dieci secoli, e perchè
la rivoluzione delle idee non si era attuata che alla superficie,
senza penetrare nella carne, nelle ossa e midollo delle moltitudini.
Bonaparte ebbe dunque paura della gran massa del pubblico, per
conseguenza di quella sagacia che non gli permetteva d'illudersi
sulle apparenze. Ma la sagacia del tornaconto non è il genio
magnanimo del sacrificio; però i calcoli dell'ambizione gli
consigliarono le transazioni, sebbene gli sdegni naturali dell'uomo
salito al massimo potere gli consigliassero poi le violenze. Se non
fosse stato ambizioso, non avrebbe avuto paura della moltitudine, la
quale, alla sua volta, nella imperterrita continuità degli
atti di lui, avrebbe trovata la riprova dei principj annunziati dai
pensatori, e avrebbe finito a liberarsi dai pregiudizj. Così
il pubblico corruppe l'uomo di genio, e questi, di rimando, rituffò
il pubblico negli errori secolari; così rimase interrotta la
più radicale riforma che, quando sarà adempiuta, sarà
la più gran pagina della storia moderna.
Ma
ritorniamo a Pio VI. Questo pontefice, essendo morto ottantenne e in
esiglio e inflessibile, trovò gli storici indulgenti fino ad
essere dissimulatori, fino ad essere bugiardi; trovò il
pubblico europeo disposto a non vedere in lui che un'altra vittima
della prepotenza, un altro martire glorioso del cattolicismo. E anche
in ciò gli storici imitarono Napoleone I; vogliam dire che
anch'essi ebbero paura del pubblico e tacquero la verità, la
quale, se avessero adempito all'obbligo dell'indagine scrupolosa,
certissimamente lor si sarebbe data a conoscere. Or chi era Pio VI?
ovvero sia: chi era l'uomo che, sotto tal nome, doveva rappresentare
una delle parti più vistose del suo tempo? È subito
risposto: - Colui, se non fosse salito al potere, sarebbe
stato gettato alla rinfusa nel carnajo degli uomini più
spregevoli.
La
natura che fu avara seco delle doti della mente e del cuore, volle
invece essergli liberalissima di doni fisici. L'avvenenza fu la sola
qualità che in lui poteva valere, se fosse stato e rimasto un
uomo privato, a distinguerlo dagli altri. Ma di essa egli s'invaghì
al punto, che mal non si appose chi nel tempo ch'egli era semplice
vescovo, lo chiamò il Narciso mitrato. Adunque, persin la
forma decorosa, che è sempre un pregio, come è un
beneficio della cortese natura, trovò il modo di tramutarsi in
lui, se non in un vizio, certo in una debolezza vituperosa, e per
l'eccessiva importanza ch'ei le diede, e più di tutto perchè,
accarezzata a quel modo, faceva uno scandaloso contrasto col
carattere ch'egli vestiva. Ma se questa tuttavia rimaneva una
debolezza facilmente condonabile, ben v'erano nello spirito di
quell'uomo altre abitudini assolutamente perverse. Egli era vano,
invidioso, orgoglioso; e fin da quando salì al vescovado,
ossia fin da quando potè esercitare qualche autorità
sui soggetti, si mostrò bisbetico, oppressore, ingiusto. Per
mancanze leggerissime maltrattava coloro che avevano la dura sorte di
servirlo o come prelati di camera o come semplici domestici. Ma se un
uomo collerico è facile a dar corso agli impeti primi, egli
non aveva poi quella qualità che per consueto è il
compenso degli uomini irascibili, la generosità prontissima a
riparar le ingiurie; bensì una volta che avesse punito
qualcuno, quand'anche se la verità fosse venuta a galla a
mostrare l'innocenza del povero malcapitato, egli faceva il sordo
alla voce della giustizia, e lasciava che i suoi atti di violenza
avessero intero corso. Avvenne un giorno (ed egli era già
salito alla sedia pontificia) che uno de' suoi camerieri venisse
accusato di grave colpa. Pio VI precipitosamente, senza esame, senza
processo, non solo lo discacciò da sè, ma lo fece
sottoporre ad una gravissima pena corporale. Ora l'accusatore fu
trovato bugiardo; che risultò evidentissima l'innocenza del
povero sventurato, e che, per necessità legale, lo si dovette
rimetter libero. Tuttavia Pio VI non pensò mai a ritornarlo
alla sua prima condizione, e per quanto colui avesse pregato e fatto
pregare la Santità Sua, e messo Roma sottosopra per ottenere
una grazia, che infine non era che nuda giustizia, Pio VI non ne
volle sapere, ed avendogli detto taluno che quell'uomo per
l'insopportabile angoscia avrebbe potuto tentare qualche partito
disperato, il padre santissimo non si mosse punto a pietà; e
quando gli venne riferito che colui si era affogato nel Tevere,
ascoltò quella notizia senza riscuotersi nè poco, nè
assai, e tosto si volse ad altro.
Di
questi atti di vilissima crudeltà, il santissimo Pio VI ne
commise più d'uno.
Se
non che, dopo quanto abbiam detto, sentiamo la necessità di
convalidare le accuse con delle testimonianze; le quali accuse sono
di tale enormità che, se, non avessimo avuto per testo che il
Diario del citato Camillone, gli avremmo quasi negato fede; o,
per dir meglio, non l'avremmo spinta al punto da farne un uso
pubblico.
Ma
la testimonianza del Camillone si trasmuta in valida autorità,
e perchè è appoggiata dalla testimonianza d'un altro, e
perchè è aiutata dalle qualità insigni di
quest'altro appunto.
Esso
è Alessandro Verri; la sede dove depose quella testimonianza è
la sua Storia delle vicende memorabili dal 1789 al 1801.
Nessuno
speri però di trovarla nei due volumi usciti in luce due anni
sono; chè coloro i quali tennero il manoscritto dall'egregio
nipote di Alessandro, stettero intorno ad esso colla preoccupazione
gelosa di chi compilava i libri ad usum Delphini, e però
non ebber cura che di amputare crudelmente dal corpo del libro quella
dozzina di pagine le quali si riferivano appunto alla vita privata di
Pio VI, pagine che per la novità inaspettata delle notizie e
per l'amore coraggiosissimo del vero onde venivan pôrte,
risolvevansi in quella che si chiama una rivelazione. Per caso
però, anzi per cortesia dell'editore tipografo, noi
abbiamo veduto quel manoscritto e lette quelle pagine, e ne abbiam
tenuto conto pel nostro libro. Ad ogni modo, preghiamo coloro che
operarono la barbara amputazione, a porvi riparo, col pubblicare in
seguito la parte espunta o nelle copie rimaste, o in una nuova
edizione di quella storia.
E
questo nostro desiderio è tanto più caldo in quanto,
non avendo potuto serbare a memoria quelle pagine preziose, oggi
siamo stati costretti a limitarci all'unico fatto dianzi citato, il
quale sta nel Diario di Camillone; e ad omettere, per timore
di alterarli in qualche parte, altri fatti simili e peggiori che il
Verri racconta distesamente.
Ora
non v'è considerazione di sorta che valga a scemar fede alle
parole del Verri, chè anzi tutto concorre a comunicar loro una
autorità incontrovertibile, e perchè Alessandro Verri
dimorò costantemente a Roma durante il pontificato di Pio VI,
e ha potuto conoscere di presenza tutti quei fatti intimi che,
sebbene importantissimi e di gran peso nelle valutazioni storiche,
pure sono di tal natura che non varcano sempre il recinto della
città, nè talora quello del palazzo; e sono poi
gelosamente mantenuti all'ombra da uomini interessati; e perchè
il Verri era uomo tutt'altro che avverso al potere pontificale; e del
nuovo ordine di cose, che procellosamente si annunziarono alla fine
del secolo passato, era estimatore severo e sospettoso e timoroso, e
spesso anche denigratore; non per difetto della sua mente, nè
per mal animo, ma per il punto di vista a cui si trovò o si
pose per osservare la prospettiva che gli si svolgeva d'intorno;
punto di vista disadatto a comprenderla tutta e a giudicarla
spassionatamente.
Però
tanto più fa senso che un tal uomo, il quale si atterriva ai
pericoli di Roma e della santa Sede, abbia riferite tante cose
pregiudicievoli alla fama di Pio VI; ma tanto più anche
bisogna convincersi della verità di esse, quando si
considerano le parole onde conchiuse la sua relazione; parole
che noi non possiamo ripetere testualmente, ma delle quali il senso è
precisamente questo: «Tale è la virtù della
grazia divina, che di un uomo (Pio VI) per sè stesso tanto
spregievole ha saputo farne un eroe e un martire del cattolicismo.»
Ora,
lasciando da un lato la grazia divina, alcuni potrebbero dire che non
sempre le debolezze, le tristi abitudini, le colpe della vita privata
possono impedire che un uomo si faccia glorioso nel mondo; e a prova
di ciò si potrebbero addurre esempj cospicui della storia. Ma
concedendo pure che questo sia possibile in cento condizioni speciali
della vita pubblica, come nella milizia, nella politica, nelle
scienze, nelle arti; non può assolutamente esser fattibile
nella vita di chi assume il nome di padre santo. In tutti i modi però
siamo d'avviso che in nessuna condizione chi è tristo nella
vita privata, possa farsi veramente grande in pubblico ed essere
benemerito dell'umanità; chè ad onta degli esempj della
storia, mal citati perchè male interpretati, esplorando con
profonda sagacia nella vita degli uomini grandi, eziandio di coloro
che, o per prepotente invito delle circostanze, o per momentaneo
errore di giudizio, o per impeto di natura, poterono commettere
qualche atto colpevole; nella vita furono esperimentati continuamente
buoni e miti e generosi; per la ragione, che è ben più
facile che le intime virtù si corrompano nell'attrito esterno
degli uomini e degli eventi, di quello che un'indole viziata si
trasformi in virtù quand'ella esce all'aperto.
E
la vita pubblica di Pio VI viene appunto a prova di questo; e negli
anni in cui il pontificato stette sotto alla sua amministrazione, il
cristianesimo fu in Roma sempre ingiuriato, al cattolicismo non si
ebbe riguardo nè punto, nè poco; e soltanto si
sollecitarono i bassi interessi terreni, al segno che indirettamente
la santa Sede tentò di portar soccorso anche ai Turchi
allorchè minacciarono di rovina gli uomini che volevano le
riforme invocate dalla civiltà.
Queste
notizie e le altre che daremo ci serviranno di norma quando si dovrà
entrare in Roma cogli uomini della Francia e dell'Italia
rivoluzionaria. In quell'occasione, se avremo reso sempre più
evidente il fatto che Pio VI, ad onta de' suoi ottant'anni, non fu
degno di quella pietà onde si fece tanto scialacquo nelle
storie; rispetteremo rigorosamente il vero, pur narrando le enormità
e di quei generali e di quei soldati, per vedere come una perversa
esecuzione di un disegno sapientissimo rovinò le cose talmente
che, spostandosi i termini e scambiandosi le sorti, chi doveva essere
condannato dal pubblico giudizio, fu al contrario chiamato martire ed
eroe.
Sul
qual fondo procelloso e grande nel tempo stesso compariranno alla lor
volta i personaggi che per poco abbiamo abbandonati, a proseguirvi
un'azione, che loro malgrado dovrà respirare ed inspirarsi di
quella pubblica tempesta, e pigliare senza volerlo delle proporzioni
non indegne di quel suolo romano e delle sue memorie.
III
Chi
dovesse definire il cattolicismo, non tenendo conto che del valore
pratico che gli comunicarono gli ultimi pontefici, potrebbe farlo
consistere nell'intento di perseguitare la civiltà, ovunque
ella si manifesta o in sostanza o in apparenza; ossia di
perseguitarla universalmente, vivendo in sospetto di tutti i
popoli e col proposito costante di staccarsi da quelli che, in virtù
della parola dei savj, più si lasciano riscaldare dal calore
della ragione, e più son fatti capaci di usufruttare i tesori
che la divinità donò agli uomini; e che una scienza
gelosa, tiranna, tentò involare e disperdere.
Pio
VI in ciò, più forse che i suoi predecessori, ha
passato il segno; esso ha mostrato evidentissimamente a che
deplorabili esiti doveva ridursi il poter temporale, dacchè lo
si lasciò infettare la purezza del cristianesimo.
Pio
VI è il nemico di tutti, fuorchè dei nemici della
civiltà, fuorchè dei nemici della religione di Cristo.
Il suo cuore non ha simpatie per nessuno; oggi è nemico
dell'Austria, domani lo è della Francia; e se nell'odio è
volubile con tutte le nazioni straniere, solo è costante
coll'Italia. La prima volta poi che si risolve a stendere il braccio
a qualcuno, egli si volge alla Turchia e patteggia con Maometto.
Quando
Giuseppe II, con un'attività ed un'irrequietudine febbrile,
stava tentando e operando riforme, sebbene tedescamente; e inoculava
all'Austria Voltaire e Rousseau, per salvarla da un'esplosione
violenta, e, comunque si comportasse, mostrava, se non altro, di aver
compreso che l'umanità, corrosa da tabe senile, aveva bisogno
di essere tutta quanta rifatta, Pio VI protestò contro le
tante innovazioni di quel sovrano in materia di disciplina e di
culto, dispettoso di veder prossimo il fine del traffico delle sue
carte e delle pergamene della Dateria. Fu allora che si mise in
viaggio per Vienna, col proposito di riuscire a spaventare Giuseppe
II, e farlo desistere dalle prescritte formole di giuramento pei
vescovi, dall'abolizione dei monasteri e dei conventi. Se non che
andò per ispaventare, ma ritornò spaventato; e due anni
dopo, quando lo stesso Giuseppe II recossi a Roma, piuttosto che
mettere in pericolo i proprj interessi terreni minacciati da quel
sovrano, rinunciò alla nomina dei vescovadi della Chiesa
milanese e mantovana. Si vide allora a che veramente si riducesse il
poter temporale. Si vide allora come codesta assurda larva non avesse
efficacia che nel contaminare, non diciamo la dignità della
Chiesa, ma quella dell'uomo; perchè se la ipocrisia, se le
menzogne, se le false accuse, se le insidie oblique rendono
detestabile qualunque uomo, quando anche costituito in privata e non
autorevole condizione; che cosa si dovrà dire di chi le
adopera essendo costituito in qualche dignità; che parole
basteranno a qualificare l'uomo che, salito al grado più
eccelso della gerarchia, offende sè e la dignità
propria col ricorrere costantemente a tali armi? Pio VI incaricò
dunque i suoi cardinali, i suoi vescovi; incaricò preti e
frati d'ogni risma; incaricò i suoi cortigiani, i maestri di
camera, i curiali d'inventare calunnie e satire d'ogni genere, e
spargerle pel mondo ad ingannare i credenti intorno alla verità
dei fatti. Egli intanto sottomano cercava stringersi sempre più
coi due rami borbonici di Francia e Spagna; soffiava sul fuoco della
domestica discordia acceso tra le due regine di Napoli e di Madrid. E
allorquando l'imperatore intraprese la guerra contro i Turchi a
favore di Caterina di Russia, permise che in Roma per la prima volta
s'invocassero Cristo e Maometto, uniti in istrana mescolanza, e si
invocassero ai danni di chi aveva voluto sottrarre una parte
dell'umanità alle funeste consuetudini della barbarie.
Monsignore
Saluzzo, che era nunzio a Varsavia, e che era un agente di cambio
politico e un mestatore de' più scaltri e de' più
subdoli, fu incaricato di tentare ogni mezzo per indurre i Prussiani
e i Polacchi ad attraversare le imprese dei nemici della Turchia. Gli
ex gesuiti, capitanati dall'energumeno Spedalieri,
magnificavano per le stampe le imprese dei Musulmani; esageravano
l'importanza dell'irruzione che operarono nel banato di Temeswar; nel
tempo stesso che il papa spediva un breve iniquo e sovversivo al
primate di Malines perchè incoraggiasse la sollevazione dei
Paesi Bassi; e l'Arteaga, prezzolato da lui, faceva affiggere su
tutti i canti delle vie di Roma la notizia della provvidenziale
malattia di Giuseppe II, colla consueta epigrafe sempre abusata dagli
impostori - Ecco la mano dell'Altissimo. -
Se non che un nuovo e più terribile sgomento venne a
sconsigliare tanto odio; e la corte pontificia, colla sua abituale
ipocrisia, tentò a un tratto di riavvicinarsi alla casa
d'Austria; e fu quando giunse a Roma la notizia della rivoluzione di
Francia. Pio VI dissimulò allora i suoi rancori verso un
nemico, per garantirsi colla forza del medesimo contro le idee dei
filosofi che, trasmutatesi in fatti, minacciavano l'esterminio degli
affigliati alla confraternita della vecchia menzogna. Quel che allora
fece Pio VI, cooperato dal satellizio dei cardinali, dei frati e dei
curiali, non è che un complesso di violenze e di morali
deformità. Si perseguitarono, s'imprigionarono, si
assassinarono tutti coloro che venivano accusati di esser seguaci
delle nuove idee. Il Sant'Uffizio ebbe un lavoro incessante e
crudele. Promiscuamente col famigerato Cagliostro fu arrestato il
Balio dell'ordine de' cavalieri di Malta, per l'accusa d'aver tentato
di rimettere in piedi le così dette Logge egiziane; e sarebbe
stato arrestato anche il marchese Vivaldi, se non fosse giunto in
tempo a fuggire e a porsi in salvo a Trieste. Quasi tutti gli
scultori, pittori ed architetti francesi (riportiamo le parole di una
relazione storica allora stampata, la quale non è che
una replica di ciò che è detto nel citato Diario),
spogliati di tutto, vennero arrestati ed accompagnati ai confini
della Toscana.
Intanto
quei medesimi predicatori e missionarj, che già avevano
tentato di esaltare i popoli a favore del trionfo della Mezzaluna
contro i Fedeli, d'improvviso, mutato proposito, si misero a girar
per le vie e per le piazze, esortando il popolo stesso a star saldo
nella fede cattolica, dipingendo alle menti coi più vivi
tocchi gli errori dell'anarchia e della disobbedienza. Mattina,
giorno e sera rimbombavano per ogni angolo le stesse voci, le stesse
tetre descrizioni, ingrandite dalle più artificiose ipotiposi.
Si vedevano stampe e quadri ove i membri dell'assemblea nazionale
stavan dipinti colle ale di pipistrello e gli altri segni dati dal
vulgo al demonio; ed al contrario si osservavano i più famosi
borbonici effigiati colle ali e colle attribuzioni beate degli
angeli. E se qui non occorre di richiamare l'assassinio famosissimo
di Bassville, inspirato dall'atroce cardinale Zelada, il braccio
destro allora di Pio VI, ben giova riferire le cose che pochissimi
oggi e forse nessuno conosce, vogliam dire le vessazioni a cui fu
segno il medico Bussan, per la colpa di avere assistito il ferito,
sino al punto di morte; e l'imprigionamento e le esasperazioni
crudeli inflitte allo speziale Meli e al chirurgo Liborio Angelucci
per la medesima ragione.
Come
locuste assassine si moltiplicarono allora le spie del Sant'Uffizio e
del governo, che si trovavano dappertutto, s'introducevano
dappertutto; onde riuscì innumerevole la quantità delle
vittime o innocenti o incaute; incredibile la diffidenza e la paura
penetrata in tutte le classi della società romana, di modo che
l'amico più non si fidava dell'amico, il fratello del
fratello, il marito della moglie, il devoto del confessore, il figlio
degli stessi genitori.
E
allora quella simpatia che il Santo Padre avea mostrato per i Turchi
e per Maometto, fu tutta quanta concessa alla Casa d'Austria e a
Francesco II: al quale, essendo Pio VI venuto nella determinazione di
valersi delle armi temporali, chiese ufficiali per addestrare le
avvilite sue truppe e un comandante per guidarle in campo; e li
ottenne col profondere a quel giovane sovrano, destinato a far pesare
sull'Austria l'antonomasia di spavento della civiltà,
tanti elogi quanti vituperj avea scagliati a suo padre e a suo zio.
Se
non che la pessima amministrazione interna dello Stato non concedendo
di erogare sufficiente denaro, nemmeno coi balzelli duplicati, per
mantenere un esercito proporzionato e allo Stato e al bisogno, si
dovette ordinar tosto un disarmamento generale, lasciando come per
l'addietro allo scellerato Barbèri, che era il Nardoni di quel
tempo, l'esecuzione dei decreti dei tribunali di giustizia.
Magnificavano
intanto le solite penne venali, come già s'era fatto coi
Turchi, i vantaggi riportati dagli Austriaci sul Reno. Ma i fatti
erano più eloquenti delle parole, e le vittorie di Bonaparte
fecero ammutolire il pontefice, e consigliarono la fuga al cardinale
Hertzan, ministro plenipotenziario cesareo. Ora se ognuno sa (chè
tutte le storie ne parlano) come Bonaparte, per mediazione
dell'Azara, accordasse allora al papa l'armistizio di Bologna, dietro
la pattuita provvisione di cinque milioni di scudi, delle due
provincie di Bologna e Ferrara, ecc.; non fu molto divulgata la
notizia che, dopo il pagamento della prima rata, nel punto medesimo
che il ministro francese Miot entrava in Roma, per adempiere e far
adempiere ai patti del trattato; Pio VI con fede peggiore della greca
incaricò il numeroso suo satellizio di sollevare il basso
popolo per spingerlo all'eccidio e del ministro e dei commissarj
francesi. E per ottener ciò si ricorse alle solite armi della
barbara superstizione. Versò allora lagrime vive la Maria
Vergine di Ancona, della realtà delle quali il vescovo
Calcagnini rilasciò un attestato, di cui vennero diffuse per
le vie di Roma migliaja di copie a stampa. Fu allora che tutte le
Madonne di Roma, messe in puntiglio da quella d'Ancona e gelose e
invidiose, quasi fossero prime donne di teatro (a queste turpissime,
derisioni l'ipocrisia del santissimo Pio VI martire ed eroe esponeva
la madre del Cristo!), piansero lagrime bianche e lagrime rosse. E
affinchè il popolo in quelle lagrime vedesse la virtù
del miracolo, si fece circolare una falsa lettera di monsignore
Albani, auditore di Rota, dimorante a Venezia, che raccontava la
compiuta disfatta delle truppe francesi e Massena ucciso e Bonaparte
fatto prigioniero; e perchè l'ipocrisia pontificale fosse
ancora più squisita, mentre quelle sconce e bugiarde scene si
macchinavano in segreto, in pubblico si fece comparire un editto col
quale, sotto comminatoria delle più gravi pene, s'intimava
alla popolazione di rispettare ogni persona che fosse addetta alla
Francia.
IV
Abbiamo
detto che nell'atto stesso di sborsare la prima rata dei cinquemila
scudi imposti dall'armistizio di Bologna, il governo di Pio VI tentò
di far assassinare dal popolaccio il ministro francese e i commissarj
incaricati di ritirarla. Pure, se questa volta il tentativo andò
a vuoto e i primi denari dovettero esser sborsati, ben si pensò
di non adempiere alle condizioni rimanenti, e di trarre in lungo il
tempo per non pagare la seconda rata; e invece si fece circolare un
manifesto, il quale invitava tutti i cittadini atti alle armi ad
accorrere al suono delle campane nel caso che le truppe repubblicane
avessero invaso il territorio romano.
Noi
non siam disposti a concedere troppa sincerità agli atti del
primo Bonaparte; ma egli è un fatto che, confrontata la sua
colla condotta del Santo Padre, fanno pietà e schifo gli
ingiusti giudizj dell'epatico Botta. E Bonaparte infatti scrisse al
papa per sapere se quel manifesto era stato promulgato d'ordine suo;
ma il santissimo padre non ebbe nemmeno il coraggio nè di
affermare, nè di negare, e si chiuse in un pauroso e traditore
silenzio, riponendo la sua fiducia nell'ajuto del Borbone Ferdinando
IV; e attendendo prodezze e dalle reclute che andava mettendo insieme
d'ogni conio e di ogni risma, e dalla sapienza di un consiglio di
guerra fatto di cardinali e vescovi e frati e preti; e
dall'esperienza strategica di un nipote di papa Rezzonico, e dal
valore di un brigadiere Gandini, sotto del quale i soldati del papa,
per assicurazione non sappiamo se di Marforio o di Pasquino, ebbero
fama di portare quella famosa patta di rame, custode di coglie
e di ernie, che diventò proverbiale.
Ma
il papa che, se era fedifrago, era anche incauto e per nulla
conoscitore degli uomini e delle cose, ben presto dovette accorgersi
che conto potesse far egli dell'ajuto del Borbone, quando pervenne
nelle sue mani un proclama, che pubblicamente leggevasi per Napoli e
nel quale, tra l'altre cose, dicevasi: «che importa a noi che i
Francesi entrino in Roma e che in quella città penetri la
rivoluzione? Si pianti pure l'albero della libertà in
Campidoglio, in piazza Navona, in piazza San Pietro, e venga intanto
il papa a rifugiarsi tra noi, e faccia circolare nel nostro regno le
trafugate ricchezze. Un paese privo di derrate, di coltivazione, di
commercio, spopolato e mancante di braccia, dee presto o tardi
riuscire a carico della repubblica conquistatrice, e spogliato che
sia, non potendo mantenersi senza il papa, dee cadere nelle nostre
mani, come ai tempi di Roberto, di Ladislao, di Giovanna.»
E
fin qui abbiam creduto bene di diffonderci sulle cose romane e sulle
vertenze tra la Santa Sede e le armi repubblicane; per essere fedeli
all'intento principalissimo di questo lavoro, che costituisce la sua
ragione di essere, ed è quello di pubblicare ciò che si
tenne celato o nei manoscritti o in quegli opuscoli coraggiosi, che,
avendo circolato liberamente allorchè il tempo lo concedeva,
furono poi violentemente messi sotto chiave, o, senza più,
vennero abbruciati dalle gelosie, dalle ire e le vendette posteriori;
e ciò facciamo per rimediare, in parte almeno, alle bugie,
alle simulazioni, alle dissimulazioni di alcune tra le storie più
riputate e più lette, e che, protette dalla bandiera della
verità, portarono in giro molta merce di contrabbando. -
Non parleremo, dunque dei fatti che conseguirono alla subdola
condotta del pontefice; nè della rotta vergognosissima che al
Senio toccò alle armi romane; nella qual circostanza fu
manifesto che il potere temporale, affidato al sacerdozio, mentre
snatura e deturpa il sacerdozio stesso, degrada, corrompe tutto ciò
che viene nelle sue mani; e ha il funesto privilegio di avvilire
eziandio quelle nobili e generose schiatte, che sono, a dir così,
la gloria della natura; e tra le quali, per testimonianza di tanti
secoli, la romana conquistò appunto il primato. Di quella
rotta vergognosa, noi dunque non parleremo, perchè è
registrata in tutte le storie; come non parleremo del famoso trattato
di Tolentino, e perchè si legge dovunque, e perchè noi
stessi già ne abbiam fatto cenno, quando assistemmo al ballo
del Papa rappresentatosi al teatro della Scala; il qual ballo
fu suggerito appunto e da quel trattato e dell'avvilimento in cui
venne la Santa Sede, e dall'onta che toccò al generale Colli,
da cui tante cose attendevasi il papa e i suoi cortigiani e i suoi
fautori, e che in allora rappresentò nel dramma italiano
quella parte che oggi vi rappresentò l'avventuriere
Lamoricière.
Ma,
a proposito di codesto trattato di Tolentino, che cominciò a
scassinare di fatto il poter temporale, ossia a dimostrare che ciò
che per donazioni o per forza si acquista o si conquista nel tempo,
si può perdere col tempo; alcuni scrittori, a provare che
Bonaparte non ebbe mai di mira quella riforma radicale, citano una
lettera di lui al pontefice scritta durante le negoziazioni del
trattato, e una risposta di Pio VI a lui. E veramente quelle due
lettere, considerate oggi nel silenzio del gabinetto, col proposito
di non tener conto che del valor delle parole, parrebbero quelle di
due innamorati, e per la dolcezza dello stile e per la qualità
delle espressioni e per l'espansione delle proteste. Ma quando si
pensa da che uomini erano scritte, e in che circostanze, davvero che
ci fanno ridere coloro che da esse vorrebbero indurre una reciproca
simpatia esistente tra Pio VI e Bonaparte. Se vi fu uomo simulatore,
e pronto a fare tutt'all'opposto di quel che diceva e scriveva e
prometteva e giurava, fu Pio VI appunto, e ne è prova la
prontezza con cui fu sottoscritto l'armistizio di Bologna, e la
maggior prontezza onde fu messo sotto i piedi; in quanto a Bonaparte,
non ci par vero che, per dare un valor letterale alle parole, si
possa dimenticare la preoccupazione ognora vigile di lui a celarsi in
perpetuo mistero, per riuscire ne' suoi intenti tanto sicuro quanto
inaspettato. Ma, dopo tutto, per dare il giusto valore alla lettera
bonapartiana, e per non ingannarsi e non ingannare altrui sulla
pretesa propensione di Bonaparte a conservare alla Santa Sede il
poter temporale, oltre al fatto delle molte provincie tolte da esso
al Papa, il quale basta a toglier di mezzo ogni dubbio; v'è un
altro fatto, che rimase tra i segreti passati di bocca in bocca, ed
omessi dagli storici o per proposito deliberato o per ignoranza: ed è
che egli incoraggiò a perdurare nelle sue sedute il sinodo di
Pistoja, aperto molti anni prima dal vescovo de' Ricci; il qual
sinodo si proponeva di discutere tutte le questioni relative alla
Chiesa romana, tra le quali primeggia quella del potere temporale; e
oltre a ciò fu sollecito nell'incoraggiare la pubblicazione di
un voluminoso manoscritto, che nel marzo del '96 era stato presentato
a Pio VI, intitolato: Disordini morali e politici della corte di
Roma, esposti dai difensori della purità della prima Chiesa
cattolica; e che infatti venne poi stampato a Siena nel principio
dell'anno 1798; nel qual libro, con dottrina non facilmente
superabile, e con tranquilla dignità pari a quella dottrina, e
con tutti gli attributi di uno zelo intrinsecamente religioso, ad una
ad una si passavano in rivista tutte le piaghe della Chiesa, e a
ciascuna si suggerivano rimedj salutari, dandosi la parte massima
alla questione del poter temporale, che trionfalmente vi era
dimostrato illegittimo, assurdo e funesto, con una potenza di
argomentazione avvalorata da citazioni infinite, tolte da Gesù
Cristo, dagli Apostoli, dagli Evangelisti, dai santi Padri, dai
pontefici stessi più benemeriti dell'umanità e
dell'Italia e della religione.
Richiamando
ora alla mente del lettore quel che abbiamo detto di Bonaparte alcune
pagine addietro, esso, per acutissima sagacia, si accorse che di
tutti gli elementi della vita sociale ristacciati dall'indagine
coraggiosa dei pensatori, l'elemento religioso era il solo che, nella
persuasione della maggior parte, era rimasto ai vecchi pregiudizj;
però sentì la necessità di preparare il popolo a
comprendere interamente quelle quistioni con libri popolari,
compilati da penne d'uomini di Chiesa; chè manifestamente
vedeva che, in tal materia, la volontà e le leggi
dell'autorità civile non potevan nulla sulla convinzione dei
vulghi; nè sopra di sè volendo prendersi così
pericoloso carico, desiderava che il terreno si preparasse in palese
da altri, quantunque in segreto i consigli venissero da lui.
Infatti
col trattato di Tolentino dischiuse per la prima volta il varco agli
elementi necessarj a compire la riforma della Chiesa romana; quando
poi si ritrasse dall'Italia, chiamato da gravissimi eventi in
Francia, condusse le cose in modo, che il fratello Giuseppe, il quale
era docile a' suoi voleri, fosse spedito a Roma; poi, quando il
Direttorio formò di mandare un esercito contro il papa a
vendicare le vecchie e le nuove ingiurie, troviamo scritto in un
opuscolo di quel tempo, che fu Bonaparte stesso ad eccitare a ciò
il Direttorio; fu Bonaparte a proporre che il generale della
spedizione fosse Berthier, per la ragione che, essendo questi
obbediente ad ogni suo consiglio, al pari di Giuseppe Bonaparte, non
si sarebbe dipartito per nulla dalle sue vedute; in ultimo fu egli
che mise accanto a Berthier il côrso Cervoni, conoscendo gli
spiriti risolutissimi di quel suo compatriota, il quale era di tal
natura da far nascere o presto o tardi di quegli scompigli che il
senno e la giustizia debbono biasimare e proibire; ma che quando sono
avvenuti, si comprende che erano indispensabili per risolvere certe
quistioni.
Però,
se va il paragone, Bonaparte fece come chi, credendo necessaria
un'inondazione, togliesse gl'incastri di propria mano, per recarsi
poi altrove nel punto che le acque irrompono dappertutto, onde non
essere costretto a rimediare ai disordini istantanei, persuaso che da
questi, lasciando andar le cose a beneficio di natura, sia per
generarsi quell'ordine che nessuna antiveggenza e fermezza di volontà
vorrebbe mai produrre. Ma per che cosa, domanderanno alcuni, al
giovane Bonaparte doveva premer tanto di toglier di mezzo la
temporalità del papa, se questa fu ed è una piaga non
fatale che all'Italia, e perciò stesso opportuna agli
stranieri che vogliono tenerla in soggezione? Una tale questione non
potendo essere sciolta risolutamente, è permessa una
congettura. Nel primo fervore della gioventù, e nell'impeto
primo e spontaneo del genio, e nella sua natura italianamente e
romanamente costrutta, Bonaparte deve avere provato per la sua patria
vera una simpatia irresistibile, la quale, guidata dal fortissimo
giudizio, gli deve aver mostrato la massima piaga di lei, e fattogli
sentire il desiderio di sradicarla. Testimonj di vista e di udita,
dei quali citiamo un Porro, che fu prefetto del Lario, ci assicurano
che a Mombello, nel '97, discorrendo Bonaparte dell'Italia, in un
momento di quegli impeti generosi, che, come un lampo, rischiarano un
immenso buio e svelano cose nemmen sospettate, egli uscì in
queste memorabili parole: - In Italia non devono stare ni
Franciosi ni Todischi. - parole che, pronunciate risolutamente
dalla profonda e rauca sua voce, e in un pessimo e quasi selvaggio
italiano, colpirono gli astanti in modo da lasciar loro
un'impressione per tutta la vita, tanto in que' detti e nel modo onde
furono pronunciati sembrò fremere l'affetto e il dolore al
cospetto di una gran patria avvilita. Come è amaro il pensiero
che una smisurata ambizione abbia poi soffocato questo naturale
affetto!!
V
Berthier
ebbe dunque dal Direttorio l'incarico della spedizione romana, perchè
così avea consigliato Bonaparte; e l'italiano di Corsica,
Cervoni, fu l'alter ego di Berthier, perchè Bonaparte
avea voluto che Berthier lo volesse.
Il
vincitore di tante battaglie deve aver previsto che quella non doveva
essere una spedizione nè disastrosa nè difficile, ma
soltanto un viaggio militare.
Ciò
per altro non aveva pensato Berthier, che si mise alla testa delle
truppe affidategli come se andasse ad una assai ardua impresa, e
passato Ancona, dove non accolse i messi del papa, e inoltratosi in
mezzo alle gole degli Appennini, trasse innanzi con grande
circospezione, temendo ad ogni piè sospinto ostacoli ed
agguati. Ma, con grande sua meraviglia, giunse fin sotto a Roma senza
trovare un drappello di soldati papalini, tanto che vide non rimanere
a lui per allora altra cura che di provvedere all'ingresso trionfale.
Nel
Diario del Camillone leggiamo, che primi ad entrare in città
per la porta del Popolo furono due squadroni di usseri. Ei si
diffonde a parlare del colonnello che li comandava, «il quale,
soggiunge, era un milanese di Milano, il più bel
soldato che mai si vedesse al mondo». E poco appresso gli fa il
nome; così che non abbiamo nessun dubbio di asserire, ch'esso
era nientemeno che il conte S..., il marito di donna Ada e il a padre
di donna Paolina.
Qui
comincia per noi l'opportunità di far camminare di pari passo
e senza fatica i pubblici avvenimenti coi fatti privati.
Chi
volesse sapere in che modo esso venne a trovarsi a Roma in quel
tempo, noi siamo in grado di poter dare delle notizie anche su
questo. Il lettore sa come, negli ultimi mesi dell'anno 1797,
improvvisamente, e per cagione ancora misteriosa, sia venuto a morire
appena ventottenne il generale Hoche, che comandava l'esercito del
Reno. Il capitano S..., per la sua indole procellosa e pe' suoi
disordini d'ogni maniera, non aveva mai potuto andar d'accordo con
nessuno dei suoi capi; tanto che, sebbene essi non potessero
disconoscere la sua straordinaria prodezza, pure tutti, l'uno dopo
l'altro, pensarono a disfarsi di lui, cercando pretesti per farlo
girare di luogo in luogo, e passare d'uno in altro corpo d'armata. Il
solo Hoche aveva saputo ammansarlo; tanto che egli stette ben
volontieri sotto quel giovine eroe, il quale lo promosse al grado di
capo squadrone. Allorché dunque Hoche morì e
Augereau venne in suo luogo, il capo squadrone S..., che già
avea avuto mille alterchi con quel generale, d'indole difficilissima
e irrequieta al pari e più della sua, se fosse stato
possibile, sollecitò di uscire dal corpo dov'era; e ottenuto
il permesso d'andare a Parigi, si trattenne colà qualche
tempo, finchè, saputo che Berthier era stato preposto
all'impresa romana, e che lo seguiva il generale Cervoni, col quale
se l'era sempre intesa assai bene, forse per una certa eguaglianza
d'indole; tanto si adoperò, che ottenne non solo di seguirlo
nel suo grado di capo squadrone, ma di essere innalzato a
colonnello, e posto al comando di due squadroni di un corpo di usseri
di recente formazione.
E
si può asserire che Bonaparte favorì questa
destinazione, desiderando per quelle ragioni che son facili a
comprendere che non mancassero italiani a far parte della spedizione
di Roma.
Il
lettore vedrà in appresso come un tal fatto, il quale nel
cumulo de' pubblici avvenimenti non era tale da lasciar gran traccia
di sè, fosse destinato ad essere occasione di tremende
sventure domestiche.
Or,
ritornando al governo di Roma, giova che il lettore si rammenti come,
ancorchè Berthier non avesse ammessi a colloquio i messaggieri
da quel governo mandatigli incontro, e ad Ancona avesse promulgato un
bando, in cui aveva minacciate cose terribili, pure il pontefice
erasi lusingato che il generale francese, pago di ottenere una
compensazione pei tragici fatti di Bassville e Duphot, non sarebbe
entrato in Roma altrimenti; e come per ciò sia stato tanto più
grande lo stupore, lo sgomento e l'ira di lui, quando seppe che,
contemporaneamente all'intimazione data al presidio romano di
abbandonare Castel Sant'Angelo e all'occupazione fatta dalle armi
repubblicane dei bastioni di quel forte, il resto delle truppe era
entrato in città.
A
questo punto dell'occupazione di Roma cominciano le declamazioni
furibonde di quasi tutti gli storici che narrarono quel periodo
caratteristico e famoso con intenzioni partigiane.
Il
Botta, pur tanto avverso al governo pontificale, e che nella sua
continuazione della storia di Guicciardini, quando parla delle
nequizie di qualche papa, ha la cura assidua di far campeggiare il
predicato di Padre Santo, a titolo di scherno e a
significazione efficace di idee, perchè alla mente del lettore
risalti crudamente la scandalosa antitesi tra la parola e la cosa; a
questo punto par cangiare a un tratto opinioni e convinzioni; par
diventare a un tratto e papista e bigotto, e cieco, e smemorato; e si
compiace a sfoggiare indignazione pietosa, e si ferma con insistenza
d'autore tragico e d'artista che vuol fare effetto, sulla tarda età,
sul venerabile aspetto, sulla inferma salute di Pio VI; e prorompe
furiosamente perchè alcuni dei cardinali, i quali avean sempre
sostenuto dei loro obliqui consigli l'obliqua ragione di quel papa, e
all'uopo eransi fatti provocatori di popolari ferocie e di eccidj,
sieno stati messi sotto vigile custodia dalle armi repubblicane.
Ma
il repentino mutamento di quello storico tanto celebrato, si spiega
con ciò, ch'egli era così pregiudicato estimatore di
quei tempi rivoluzionarj e odiatore tanto astioso di Bonaparte e de'
suoi seguaci, che tutti gli altri suoi odj dovevano tacere in faccia
a questo; e al suo occhio, in confronto d'ogni impresa e d'ogni atto
di Bonaparte e delle armi rivoluzionarie, anche le colpe altrui
parevano trasmutarsi in virtù.
E
Alessandro Verri non si dilunga da lui. Ben è vero che egli si
mostrò veneratore sempre costante dell'autorità
temporale della Chiesa, ed è per questo appunto che le accuse
scagliate da lui contro la vita privata di Pio VI fanno testo
autorevolissimo; ma le sue idee fisse e i suoi sistemi e i suoi amori
e i suoi odj sono così tenaci e implacabili, che la memoria
del passato pare che gli annebbii nella valutazione dei fatti
posteriori, e il lavoro della logica gli proceda a rovescio; talmente
che non par vero che chi ha detto tanto male di Pio VI, dopo si
affanni, al pari di Botta, a metterlo nella miglior luce possibile;
ed esprima un'ira spasmodica contro tutte le idee rigeneratrici che,
tradotte in fatti, vennero ad assalire l'errore nella sua sede più
antica e più formidabile. Perchè bisogna bene che i
galantuomini tentennanti si persuadano di questo, che, siccome abbiam
fatto vedere, il germe rivoluzionario portato a Roma colle armi, era
e doveva riuscire un'impresa salutare all'Italia e all'umanità
e al medesimo sacerdozio, se non si fosse trasmodato nell'esecuzione,
la quale, siccome avviene spesso anche nelle opere dell'arte, guasta
e snatura le più squisite invenzioni della mente. Facendo uso
adunque con somma precauzione di questi autori, d'altra parte
meritamente reputatissimi, e continuando a far loro la più
oculata controlleria colla scorta di coloro che parlarono e scrissero
e stamparono senza speranze, senza timori, senza pregiudizj, senza
aver riguardo a chi sta in alto, senza le funeste paure dei giudizj
del pubblico, senza i pericolosi intenti della gloria, entriamo anche
noi in Roma a vedere e a sentire quel che vi succede.
E
innanzi tutto, non bisogna credere che le idee rivoluzionarie fossero
penetrate in Roma, e avessero attecchito con quel rigoglio legittimo
di sviluppo che si verificò a Milano. A Milano i nostri
pensatori avevano tentate e sciolte le questioni più connesse
alla vita pratica, e però avevan saputo illuminare le masse; a
Roma per contrario la scienza, limitandosi all'archeologia, alla
filologia e all'erudizione in genere, era rimasta perfettamente
oligarchica, ed aveva lasciato il popolo qual era. Bensì
avvenne colà un fenomeno singolare.
Gli
artisti di Francia, pensionati e dimoranti in Roma, furono i primi a
mettere in circolazione le idee francesi; ma queste non passando per
lo staccio dei pensatori, invece di migliorare, temperandosi nel
trapasso, peggiorarono esagerandosi. Eran giovani bollenti ed
esaltati dalla natura stessa de' loro studj, che si trovarono aver
nelle mani delle armi, le quali, adoperate senza riflessione,
potevano diventare pericolosamente micidiali. Quanto ai popolani di
Roma, senza che fosse stata necessaria l'Enciclopedia e Voltaire e
Robespierre ad aizzarli contro il clericalismo, odiavano i preti, non
per l'effetto delle idee importate e trovate nei libri; ma perchè
erano scaltriti dallo spettacolo quotidiano, e da mille fatti di cui
erano testimonj e vittime; era un odio cresciuto per virtù
spontanea, e però più potente d'ogni altro.
Che
effetto dovesse dunque produrre la domestichezza che, siccome se chi
è stato a Roma, è di vecchia consuetudine tra gli
studenti di belle arti e la plebe di Trastevere, ognuno lo può
pensare. Diciamo questo perchè di molte enormità che
avvennero nel tempo in cui le truppe repubblicane stettero in Roma,
bene spesso complice e guida fu quella plebe appunto; l'inettezza
colpevole del governo temporale del papa aveva fomentata in
anticipazione l'ira dei popolani, i quali, anche allora quando nella
vendetta passarono il segno, non fecero che continuare ad esser
vittima di un'autorità assurda e corruttrice.
Al
disopra di questa classe v'era poi quella schiera numerosa d'uomini,
che non manca mai in tutti i paesi di questo mondo, perchè è
la natura che li mette insieme. Uomini che hanno il privilegio di
veder giusto nelle cose, ed hanno in sè l'antidoto sicuro
contro i pregiudizj e le cattive istruzioni; ma che nel paese ove
stanno, arrischiano qualche volta di essere odiati dai partiti
estremi non per altra ragione che perchè tengono la media
proporzionale. Costoro sono sempre disposti a festeggiare tutte le
novità, per l'istinto che hanno del progresso, e tanto più,
quanto più si accorgono di vivere in mezzo ad uomini e cose
sopraffatti da una decrepitezza incurabile. Costoro dunque, seguiti
da quella parte di popolo che nella prima allegrezza è sempre
buono, ma che può imperversare nell'ubbriachezza, fecero festa
all'esercito repubblicano quando entrò in città; fecero
festa a Berthier, a Cervoni, al colonnello S..., e a tutti
quegl'Italiani militanti che, parlando la lingua comune, dicevano di
essere venuti a infondere sangue nuovo nella vecchia Roma.
VI
Il
terzo giorno dopo l'ingresso delle truppe francesi, nel quale
ricorreva l'anniversario dell'incoronazione di Pio VI, fu, a
significazione d'antitesi, dedicato invece alla solenne instaurazione
della repubblica romana.
I
grandi ritorni della storia, esaltando l'immaginazione, commuovono
gli uomini ad insolito entusiasmo, anche allora che non arrecano
vantaggio. Se poi la grandezza si marita all'utile o alla speranza di
raggiungerlo, l'entusiasmo non ha più limiti. Un sublime
delirio investe le moltitudini, senza che occorra a ciò nè
potenza di fantasia, nè straordinaria squisitezza di
sentimento. Quelli che insieme con noi nell'anno 1848 a Venezia hanno
visto balzar fuori di repente l'alato leone di sotto alle aquile
austriache, e l'antico stendardone risventolare davanti a San Marco,
e i gondolieri e i pescatori e i vecchioni di Canareggio e di San
Pier di Castello comparire in piazza colle vecchie stampe, tenute in
serbo, effigiate di dogi, possono far testimonianza più sicura
di codesto fenomeno.
Per
analogia dunque ognuno potrebbe immaginarsi, anche senza che ci fosse
attestato da testimonj di veduta, quale sia stata l'esaltazione dei
Romani il giorno in cui risalendo il corso di mille ottocento anni,
si trovarono a faccia a faccia col loro grande passato.
Quando
diciamo i Ronani, ognuno lo pensa già, non vogliamo dire tutti
i Romani. Anzi bisogna fare l'esclusione quasi totale dei due estremi
della scala sociale; ossia della più alta gerarchia
ecclesiastica e civile, e dell'ultima feccia del popolaccio al di qua
del Tevere, a cui quella gerarchia medesima avea spesso ricorso per
tentar di stornare con opere scellerate i nuovi giorni.
A
coloro poi bisogna aggiungere un'altra classe di Romani: ed era
quella costituita, in prima, da alcuni letterati ed eruditi di
professione, quali il Guattani, l'Orlandi, il Cicognini, ecc., ecc.,
uomini innamorati del quieto vivere, del silenzio e del pranzo
settimanale in casa Braschi, in casa Albani, in casa Massimi: tutta
gente che idolatrava Roma antica nei libri, nelle lapidi, nelle
monete, in tutto ciò che era morto; ma non avrebbe mai fatto
sacrificio di un solo pranzo per rivederla viva e risorta; in secondo
luogo, da altri letterati, chiari d'ingegno, e galantuomini, e anche
indipendenti da cardinali e da principi e da duchi, ma non
indipendenti da sè stessi e dai caparbj pregiudizj; tra
costoro certamente primeggiava il nostro Verri Alessandro, in molte
cose tanto simile al fratello Pietro, e in troppe altre così
diverso; il quale Alessandro, ad onta delle sue Notti Romane,
avrebbe voluto veder ruinare tutta Roma, piuttosto che essere
spettatore dell'invasione ognora crescente delle idee rivoluzionarie.
Finalmente venivano alcuni artisti, architetti, scultori, pittori già
saliti in gran fama, e già adagiati nella ricchezza, e che
dell'una e dell'altra eran debitori alla protezione e del papa e dei
cardinali e dei ricchi patrizj, tra' quali si distingueva il celebre
Mariano Rossi e il Tofanelli e il Nocchi scolare del Battoni, e il
Pacetti Vincenzo che, quantunque fosse un ottimo uomo, avea sempre
crollato la testa alle notizie di Francia, e avea consigliato Canova,
che non si fece molto pregare, a cavarsela da Roma prima che
arrivassero i tempi bruschi. Queste categorie d'uomini non sentivano
dunque l'esaltazione generale. Gli uni, o stavan celati, o
passeggiavano nelle vie remote, o tutt'al più, se erano
sollecitati dalla curiosità, traevano, sempre però a
una rispettosa distanza, dove traeva il pubblico schiamazzante, e
guardavano e notavano ogni cosa senza aprir bocca; o se l'aprivano a
qualche evviva forzato, era perchè s'accorgevano che qualcuno
li guardava in cagnesco.
Pur,
a dispetto di tutti costoro, rimanevano quanti bastavano per affollar
piazze e contrade, e per empir l'aria romana di acclamazioni, di
evviva, di grida. V'erano intanto tutti gli uomini di Trastevere, nei
quali il vecchio sangue latino è trapassato senza alterazioni
d'innesti spurj; uomini ignorantissimi di tutto quello che sta oltre
la cerchia romana, e che credon che il Tevere vada in Francia e in
Inghilterra e in America e in tutto il mondo conosciuto; ma perciò
appunto orgogliosissimi di esser romani. La storia della loro patria
è per essi passata di bocca in bocca attraverso a venti
secoli, per raccogliersi e far sosta nel loro rione; onde parlano
ancora di Giulio Cesare, e Cicerone, e Catilina, e Bruto, e Catone, e
Pompeo come se fossero loro fratelli e li avessero visti a crescere,
e avessero bevuto con loro il falerno nell'anfora stessa; uomini che,
per questa parentela, sentono il privilegio di un'aristocrazia
speciale e guardano d'alto in basso quanti stranieri, comunque grandi
e illustri, vanno per curiosità a visitarli; e lor parlano col
tu di Roma antica, e ad un bisogno, senza tanti rispetti, anzi in
atto di protezione, mettono loro sulle spalle le mani poderose. -
«Come stai, re Michele?» diceva ai nostri giorni un
beccajo di Trastevere a don Miguel; e mentre con una mano gli batteva
una spalla, coll'altra gli porgeva l'ampia caraffa rasa d'orvieto; e
accompagnava quest'atto con tale posa e tale espressione di volto,
che pareva dicesse: Io mi degno di abbassarmi fino a te.
Quest'ignoranza e questo costume non impedisce però che essi
abbiano acutissimo l'intelletto; e giova poi a conservar loro un
carattere intero, il quale, nella sua medesima fierezza, è
spesso custode di nobili affetti, della santità dell'amicizia,
dello scrupolo della fede. I giovani artisti, che anche allora, come
adesso e come sempre, mescolandosi a quella gente per gl'intenti
dell'arte, erano i loro più intimi amici, e però li
avevan messi a parte di tutte le belle e grandi cose che l'onda
rivoluzionaria avrebbe portate in Roma, li trassero adunque
entusiasti e plaudenti sulle piazze. Quegli artisti, ad onta dei
tempi burrascosi, soverchiavano sempre le due e le tre migliaja, e
quantunque di tutte le città d'Italia: di Napoli, di Bologna,
di Firenze, di Venezia, di Milano, di Genova; e di tutte le nazioni
d'Europa: di Russia, di Spagna, d'Inghilterra, di Germania; pur
dall'arte e dalla gioventù bollente e dalle aspirazioni messe
in comune eran ridotti come se fossero figli di una patria sola, e
seguaci di una sola bandiera. Essi bastavano a mettere sottosopra
tutta Roma, e con tanto più di esaltazione e quasi di furore,
in quanto che i pensionati delle accademie di Francia e tutti gli
artisti di colà, poco tempo prima, erano stati violentemente
espulsi dal governo pontificio, siccome fu già riferito. Duce
degli uomini di Trastevere era il Camillone, il Ciceruacchio
d'allora; quello di cui teniamo parte del Diario, ch'egli
dettò per non saper scrivere; uomo tanto amato da quelli del
suo rione, e perciò di tanta autorità, che il governo
stesso dovette più volte far capo a lui per riuscire a sedare
dei tumulti.
Fra
gli artisti v'era il famoso Pinelli, giovanissimo allora, ma già
di fantasia così potente, così feconda e veloce
nell'improvvisazione di disegni istoriati, che quando voleva,
lavorando in piazza Navona sotto gli occhi del pubblico e dei tanti
forastieri che accorrevano a quello spettacolo per loro insolito,
raccoglieva tante monete d'oro e d'argento da empire il proprio
cappello; oro e argento ch'egli convertiva poi tosto in tante misure
di vino; perchè la sua compiacenza e la sua gloria era di
poter dar da bere a tutto il popolo romano con luculliana
munificenza. Amico del Pinelli e amico del Camillone, i quali erano
come i re confederati di due schiatte diverse, era quel Corona
giureconsulto, al quale spontaneamente si trovarono uniti tutti i
giovani avvocati e tutti gli studenti, e tutti coloro che eran nati
per andare avanti e per affrettarsi a qualunque costo, anche con
pericolo di stramazzare e fiaccarsi il collo.
Tutti
costoro uniti insieme costituivano buonamente una truppa di cinque o
seimila persone, sufficienti, in qualunque città anche
popolatissima, a rappresentarla, a comunicarle la propria volontà
e il proprio impeto; e a condannare all'inazione e al silenzio tutti
quelli che per combinazione non dividessero cogli agitatori le
opinioni correnti.
Fin
dall'alba dunque del terzo giorno quella folla capitanata dal
Camillone, dal Pinelli e dal Corona, mosse festosa a piantare
l'albero della libertà nelle piazze principali di Roma.
Era
da quasi due anni che sentivano a parlare con invidia della nuova
condizione delle città dell'alta Italia, e di Milano
segnatamente; della libera vita che vi si godeva, dell'utile delle
nuove istituzioni, della pubblica felicità, dei clubs,
dei teatri, della libera stampa, dei discorsi in piazza, dei nuovi
costumi introdotti; e la fama, magnificando ed esagerando il bene
senza toccar punto del suo contrario, e dissimulando gli abusi, gli
eccessi, i disordini, aveva talmente esaltati i desiderj e le
speranze di que' cittadini, che quando finalmente le videro appagate,
la loro gioja non ebbe più ritegno e proruppe con un impeto
che la stessa Milano non avea mai sorpassato.
Ma
seguiamo l'onda del popolo, e fermiamoci con essa nel foro romano per
sentirvi il discorso che l'avvocato Corona improvvisò
nell'istante che si piantò colà, per la prima volta, la
simbolica pianta coi motti: libertà, eguaglianza, virtù,
patria.
Colui,
salito sopra un capitello corinzio rovesciato che giaceva da tempo
immemorabile tra la colonna di Foca e le tre della Curia, così
prese a dire:
«Romani,
siete liberi. L'albero della libertà è piantato.
Libertà, eguaglianza, virtù, patria; - ecco le
quattro pietre su cui s'appoggia a perpetua durata il sacro vessillo
della comune nostra rigenerazione.
«Libertà
è questa, la quale non iscuote il ferreo giogo della tirannia
con altro fine che con quello di garantire a ciascun uomo i suoi
diritti naturali inalienabili.
«Eguaglianza
è questa, la quale, santamente sprezzando e privilegi e
titoli, colla bilancia del diritto e della legge, eguaglia l'uomo
all'uomo; e non sa, non può, non vuole conoscere altra
distinzione che quella che passa tra il vizio e la virtù.
«Virtù
è questa, la quale, divinizzando l'uomo, fa che egli non trovi
la felicità se non se nel far felice altrui; ond'è che
l'uomo veramente virtuoso si crede fatto più per la patria e
pe' suoi simili che per sè stesso.
«Patria
è questa risorta a nuova vita.
«Virtù
premiata, vizio disonorato, merito riconosciuto, vanità
cadente, verità svelata, ipocrisia vilipesa, innocenza sicura,
oppressione bandita, emblemi tirannici distrutti, umanità
vendicata, giustizia imparziale, santuario restituito all'antica
purezza, genio marziale ridestato. Ecco i frutti che oggi ne promette
questa patria risorta.
«Falsi
sacerdoti, superbi patrizj, tirannucci iniqui, ipocriti maliziosi,
impostori ignoranti, intendete qual libertà, quale
eguaglianza, quale virtù, qual patria servano di base al
grande edificio della nostra rigenerazione? E voi, anime timide e
deboli, sentite quali sono le radici che prodigiosamente
alimenteranno la simbolica pianta?»
Queste
parole, dette con enfasi e con quell'accento speciale che significa
la sincerità e la convinzione profonda di chi le pronuncia,
furono coperte da una salva di applausi e di viva la libertà,
viva l'eguaglianza, viva la repubblica, viva Roma.
«E
viva Roma,» continuò allora l'avvocato Corona,
approfittando di quel grido per dare una piega al discorso, e dalle
generalità, che parevan quasi divenute di convenzione, veniva
a cose particolari e di utilità più pratica ed
evidente. «Viva Roma. Se, infatti, v'è città nel
mondo alla quale la rivoluzione attuale torna vantaggiosa di
preferenza, è questa appunto; è questa Roma, a cui
davvero oggi comprendo perchè si competa il predicato di
eterna. Dopo l'avvilimento in cui la gettarono gli ultimi
pontefici; dopo la fuga ignominiosa di Annibale Albani, che fece
parere i Romani vilissime pecore; dopo l'ultima rotta del Senio, dove
si raddoppiò quella prima ignominia, qual posto potea vedere
per sè nell'avvenire quest'infelice città?
«O
dirò meglio: che cosa sarebbe stato di lei, se gli avvenimenti
si fossero troncati di colpo; e se la fortuna, obbedendo alla
Provvidenza, non avesse fatto in modo che l'errore e il disordine e
l'ingiustizia nel proprio eccesso medesimo trovassero la morte? Pio
VI ricorrendo alle ambagi, alle subdole scaltrezze, al tradimento,
nella speranza di poter riuscire ad arrestare il corso fatale degli
avvenimenti, e non potendo ottener ciò colla forza del proprio
potere, ossia colle proprie armi, ha messo in evidenza che codesta
larva di potere a cui i papi, dal giorno che tennero il dono funesto
dai re della terra e non dal cielo, stanno attaccati coll'avida e
gelosa cura onde gli avari guardano l'illegittimo tesoro, non è
che un'occasione perpetua di disordini, di ingiustizie, di viltà,
di delitti, non è che un potere che svela l'impotenza, e
intacca la pura santità del Vangelo e della Chiesa primitiva e
dei primi pastori, i quali tengono il santissimo mandato di guardare
e provvedere alle anime e alle coscienze; ma non già ai corpi,
non agli interessi terreni, non all'uso della forza per respingere la
forza. Se fosse vero che la divinità avesse decretato che il
suo rappresentante in terra avesse a farsi temere coll'uso della
forza materiale, avrebbe permesso che i più degli altri
monarchi fossero materialmente più forti di lui? Avrebbe
permesso che la maestà e la santità del re pontefice
potesse rimaner vinta e avvilita dall' altrui preponderanza?
«Ma
lasciamo una tal questione a chi non parla in piazza, ma scrive pei
libri. Piuttosto dirò, che il vantaggio maggiore che produsse
la pessima condotta di Pio VI, fu di aver stancata la pazienza di chi
appunto era materialmente più forte di lui; e nel tempo stesso
che era più forte, era anche più pietoso dell'umanità
conculcata, più vergognoso della vergogna d'Italia, più
innamorato della grandezza e della gloria di questa Roma; e Italiano
di avi e di nascita e d'intelletto e d'anima, ha sentito la necessità
di ajutare la sua vera patria sollevando il cuore di essa dall'incubo
assiduo, che, alterando la completa e libera e normale circolazione
del sangue, viziava e rendeva inette tutte le altre sue membra;
perchè Roma, questa Roma che fu l'urbe dell'orbe; questa Roma
che, per antonomasia, fu chiamata la città eterna; questa Roma
che, ad onta della sua degradazione, è ancora la prima città
del mondo, o per dir più giusto, serba ancora intero il germe
e le condizioni del suo primato; questa Roma è veramente il
cuore dell'Italia; onde per far la cura dell'Italia non si dee far
altro che ristorarne il cuore.
«O
Romani, e voi uomini di Trastevere, nelle cui faccie e nelle cui
membra vedo rivivere l'antica saldezza, guardate ai miseri avanzi di
questo fòro romano; e se siete capaci, ricostruitevi in
pensiero la solenne maestà dei tanti edifizj che, sulle varie
e graduate eminenze nei colli, d'ogn'intorno un tempo gli facean
corona; edifizj di marmo e d'oro, ciascuno dei quali era la dimora di
un nume, di un semidio, di un eroe.
«Là
in alto stavan gli edifizj dell'Arce Capitolina: più sotto, in
gradazioni succedevoli, il tempio di Giove Tonante e quel di Saturno;
qui nel mezzo era il cavallo gigantesco di Domiziano, e dietro, gli
antichi rostri; più in alto era il portico del Tabulario,
sotto del quale stavano i due templi di Vespasiano e della Concordia;
e dietro all'arco di Settimio, nella parte più eminente, il
tempio di Giove Capitolino, che soprastava alla basilica Emilia; e
v'eran gli edifizj del Palatino e la Curia Giulia e la basilica
Giulia e il Miliario Aureo e la basilica di Costantino; e statue
equestri, e colonne commemoratrici, e bighe e quadrighe e sestighe
trionfali... Ma se, guardando le presenti rovine di questo fòro,
dieci anni fa, due anni fa, un anno fa, ripensavate con rammarico
alla folla dei vostri gloriosi avi irruenti a quei rostri
famosi che ora non sono più; oggi è cessata la cagione
del rimpianto; un anno fa pareva impossibile in perpetuo il ritorno
dell'antica gloria di Roma; ma ora possiamo vedere in un futuro non
remoto la prospettiva rinnovata e accresciuta e migliorata della
grandezza antica. Tutte le città d'Italia, soli minori giranti
in astronomica armonia intorno a questo massimo sole di Roma, qui
manderanno i loro figli più preclari di virtù, di
operosità, d'intelletto, di genio; qui si faranno le leggi;
qui si tratterà della guerra e della pace; qui si decreteranno
le leve; qui si distribuiranno gli onori ai generosi che saranno
stati prodighi del loro sangue per l'indipendenza della gloriosa
nazione; e il pontefice intanto, ritirato a pregare nel suo Vaticano,
colle porte aperte, senza satelliti e senz'armati, benedirà e
ringrazierà quel Dio di cui ora è rappresentante
indegno; lo benedirà e lo ringrazierà di aver decretati
gli avvenimenti che gli tolsero il potere e la forza materiale, per
fargli il dono più prezioso della venerazione dei popoli, i
quali non sentiranno più le coscienze contristate da colui che
tiene il mandato di consolarle.».
VII
L'albero
della libertà, per il quale l'avvocato Corona improvvisò
il suo discorso, fu il primo che sia stato piantato in Roma; e lo si
pose appunto là dove si riputava trovarsi il sito
dell'antico fòro romano, giusta le conclusioni
archeologiche allora pronunciate dagli eruditi più stimati,
segnatamente dal Piranesi e dal Visconti; conclusioni che vennero poi
modificate in qualche parte dagli eruditi posteriori, tra cui il
Venuti, il Nibby e il Canina, che portarono le congetture fino alla
condizione della certezza. Quel sito, con cerimonie quasi rituali,
venne allora determinato e segnato con una barriera che ne girava la
periferia; e la quale venne coperta con drappi a tre colori, bianco,
rosso, nero, i colori emblematici della Repubblica. Adempiuto a ciò,
tutta la folla lasciò l'antico fòro, per recarsi nelle
altre principali piazze di Roma, dov'eran già scavate le buche
per ricevere le radici degli altri alberi di libertà che, al
pari dell'antico, ben potevano simboleggiare la scienza del bene e
del male. Salita finalmente al Quirinale, dopo un'altra breve
allocuzione all'albero e una specie di ballo rituale saltato dai più
enfatici intorno ad esso, stette aspettando il generale Berthier, che
alloggiava nel palazzo apostolico, col suo stato maggiore. Esso, alla
testa delle truppe, doveva in quel dì salire in Campidoglio ad
instaurarvi solennemente la repubblica romana.
La
notizia di quella solennità chiamò tanta gente dalle
città vicine e lontane che a memoria d'uomini nessuno si
ricordava d'aver veduto sì numeroso popolo in Roma; e gli
osservatori sagaci, i quali guardando al presente miravano al futuro,
pensarono all'attrazione irresistibile che quella città
avrebbe esercitata su tutti gli Italiani d'Italia, quando fosse
divenuto il teatro principale de' fasti nazionali; diremo che coloro
i quali, per aver molto viaggiato, hanno pronte e sicure le occasioni
d'instituire confronti, si accòrsero del quanto Roma vincesse
tutte le altre più celebri città nella maestà
solenne del suo aspetto, quando assistettero allo spettacolo che
presentò il Campidoglio allorché Berthier salì
sul poggio del palazzo del Senatore, e tutta la truppa si schierò
nella piazza sottoposta, e l'onda del popolo si agitò in tutte
le direzioni, e su tutte le salite che mettevano a quel luogo
eminente; e sull'alta ed ampia scalinata che dalle falde del
Campidoglio ascende fino alla chiesa d'Ara Cli, offrì
l'aspetto di una cascata che ribollisse in sè stessa, per
precipitarsi sulle onde sottoposte; e quando un così
formidabile movimento e fremito di vita, e frastuono di voci e di
grida si arrestò di colpo nell'immobilità e nel
silenzio, appena che la parola sonora del generale Cervoni tuonò
dall'albero della libertà eretto nell'aja capitolina, tra i
colossi di Lucio e Cajo e i trofei di Augusto e la statua equestre di
Marco Aurelio.
Del
resto, il profondo silenzio, fatto da tanto popolo accorso non giovò
che a coloro che si trovavano sull'aja propriamente detta; agli altri
fu molto se l'onda sonora portò qualche perduto monosillabo; e
in questa condizione ci troviamo anche noi, posteri non lontani; chè
quel discorso non fu messo a stampa, nè serbato manoscritto,
onde non possiamo farlo riecheggiare agli orecchi dei nostri lettori.
Nè il Camillone di Trastevere che lo sentì a suo agio,
perchè stette ben vicino al generale, si occupò di
riferirlo; bensì conchiude con queste segnalate parole: «Chi
poi si lamentasse del tacere nostro, pensi a credere che dopo le
parole del nostro buon Corona, quelle del generale ti paiono più
che altro fuochi di festa e di luminaria che rintronano nell'aria
senza lasciare traccia nè di lume nè di colpo.»
Stando infatti anche al giudizio d'altri testimonj, il generale
Cervoni deve aver dette tante e tante cose in quell'occasione, e con
tale esagerazione e di pensiero e di parole, che nel troppo andò
perduto anche il poco, e nelle pompose generalità rimase
celato il concetto chiaro delle cose. Ma ciò è
naturale: Cervoni, quantunque fosse italiano e, al pari di Bonaparte,
sentisse tutta l'importanza della questione romana, pure parlando
sotto l'orecchio di quell'oca di Berthier (è Napoleone
che così lo chiama), non voleva parlar dell'Italia in modo che
il Francese si adombrasse.
Compiuta
la solennità dell'instaurazione della repubblica romana, alla
quale assistettero cinque pubblici notaj che rogarono l'atto, in quel
medesimo giorno il generale Cervoni si presentò a Pio VI per
intimargli a nome della repubblica francese, che si preparasse a
lasciar Roma e a partire per Siena, facendogli sentire come il papato
avesse a entrare in una nuova fase e l'Italia fosse chiamata a nuovi
e grandi destini. Tutti coloro che hanno letto le storie conoscono la
risposta del pontefice, e il suo contegno in quel momento; tutti
dalle storie stesse furono tratti come a sentir l'obbligazione di
venerare il pontefice per la sua fermezza di non voler cedere quel
che gli era stato tramandato da' suoi antecessori; e, per l'opposto,
a biasimare la condotta di Cervoni per ciò che ha fatto in
quella gravissima quistione, e per il modo con cui lo ha fatto.
Ma
ci troviamo sempre allo stesso nodo; chè la venerazione e il
biasimo non sono altro che le conseguenze del diverso modo di
valutare i fatti. Certo che, se la condotta del pontefice fosse stata
sempre irreprensibile, se tutta la sua vita privata e pubblica fosse
stata l'attuazione continua di quanto costituiva il carattere e il
dovere della sua dignità; se fossero stati palesi e innegabili
i beneficj e i sacrificj da lui resi e da lui fatti alla religione di
cui era capo, alla nazione di cui doveva essere il figlio più
devoto per essere il padre più amoroso, all'umanità
intera alla quale, come rappresentante del Dio in terra, doveva
rivolgere tutte le sue cure, la pietosa commozione che si proverebbe
per lui, dovrebbe essere pari all'indignazione provocata dalla
condotta del generale Cervoni, o da chi gli aveva dato quel mandato:
ma le parti si tramutano compiutamente alla vista di chi considera i
fatti coll'inesorabile sindacato del vero e del giusto; tanto che,
mettendoci a contatto con quei fatti stessi, senza attraversare il
prisma fallace delle interpretazioni degli storici, ben si è
tratti a conchiudere che il generale Cervoni non fece nè più
nè meno di quello che aveva dovuto fare; e che nè l'età
ottantenne del papa, nè il suo venerabile aspetto, nè
le sue infermità stesse sono motivi sufficienti per placarsi
al cospetto di una non interrotta serie di debolezze e di colpe. Che
se, messe le cose a un punto ancor più alto e più
solenne di veduta, la tarda età del pontefice e le sue
infermità corporali si dovessero mettere in cumulo colle
debolezze e colle colpe medesime, per farle tutte insieme oggetto di
una suprema pietà filosofica; anche in tal caso la pietà
non escluderebbe la giustizia; anche in tal caso la condotta di
Cervoni sarebbe giustificata dal dovere e dalla necessità.
Dovere e necessità che si verificherebbero pur nel supposto
che Pio VI fosse stato lo splendore del pontificato, la gloria della
nazione, l'onore dell'umanità, perchè non era più
la persona del pontefice che entrava in questione, ma sì le
condizioni alterate del pontificato che invocavano una riforma; non
era già Pio VI a cui si faceva ingiuria, ma era il potere
temporale che, sentenziato assurdo e infesto dal voto concorde dei
savj, doveva essere abolito per sempre, a beneficio dell'umanità
ed a vendetta della stessa religione.
Se
non che, per le ragioni medesime che ci comandano di giustificare il
generale Cervoni nel suo colloquio con Pio VI, non troviamo
sufficienti parole di biasimo e di condanna per la condotta del
commissario Haller che ebbe l'incarico di provvedere all'arresto del
pontefice; per verità che quell'uomo non fu pari alla
delicatezza del suo mandato; e Pio VI, nel modo onde si comportò
con colui, diede prova di una dignità che sembrò
persino una deviazione dall'indole sua; ma sempre avviene che chi non
sa usufruttare della buona causa, costituisce in un'apparenza di
ragione anche chi è dalla parte del torto. Così, fu per
colpa di quel volgarissimo commissario francese se un fremito
irresistibile d'indignazione corso nel sangue degli uomini intemerati
pel modo onde fu eseguito un disegno necessario, modificò i
giudizj anche sul disegno stesso, e non lasciò veder più
chiare le cagioni prime, e diede pretesti e capi d'accusa ed armi ai
nemici del sincero progresso, e preparò le vie delle storiche
menzogne.
Ma,
lasciando il papa, ripercorriamo la città di Roma nei giorni
più agitati della sua vita repubblicana, per far tesoro
d'esperienza, e per vedere come l'ottimo può diventar pessimo,
se una cauta prudenza non governa le cose, e se gli uomini non si
preparano con sapienza a godere dei frutti della libertà.
VIII
La
confutazione più trionfante che si possa fare all'asserzione
di Botta, il quale, prestando volontieri la più cieca fede non
sappiamo a che falsi testimonj, non ebbe vergogna di stampare, che in
tutta Roma non v'era chi amasse veramente il nuovo ordine di cose, e
che in essa non si trovò che un solo democrata, il quale
propose a Berthier di mettere in libertà duemila condannati
dell'ergastolo, per trovar gente che sapesse e, ben pagata, volesse
far festa all'ingresso delle armi repubblicane; la confutazione,
diciam dunque, più trionfante che si possa dare a codeste
stolide menzogne sta nella insolita esultanza che, instaurata la
repubblica e partito il papa, s'impadronì di tutta la
popolazione di Roma, salvo le eccezioni che abbiamo già fatto;
salvo quei ricchi patrizj venuti in uggia al popolo, nelle cui case i
soldati si adagiarono come in caserma; salvo i pingui agenti dei
prelati fuggiti, nelle cui cantine la plebe di Trastevere penetrò
a conquista e a strage di botti.
Che
la popolazione stesse queta fin tanto che il presidio pontificio
trovavasi sugli spaldi di castel Sant'Angelo e gli sgherri assassini
gironzavano per la città e le spie lavoravano d'olfatto come
cani codianti la lepre, è cosa naturalissima. Pretendeva forse
il Botta che la popolazione di Roma offrisse pronta il collo ai
carnefici, per esibirgli i documenti del suo odio al governo pretino,
e delle sue ispirazioni all'aere libero che da più mesi le
ventava dal di fuori?
La
prova che quell'esultanza, una volta che cessarono i sospetti e le
paure, diede fuori con tutti gli attributi della natura che non può
più nascondere un sentimento antico e tenuto per troppo tempo
compresso, si è che toccò tutti i suoi eccessi. Se non
fosse stata sincera sarebbe stata guardinga. Tutti i cittadini
trovandosi dunque in piena balìa di dare sfogo alla propria
contentezza, questa nelle proprie manifestazioni si atteggiava e si
alterava e si modificava a seconda del carattere, del sentimento,
dell'ingegno, dell'immaginazione di ciascuno. Trattandosi
d'instauramento di repubblica, e di repubblica romana, i moltissimi a
cui non è concessa un'intelligenza privilegiata, attesero di
preferenza a mettere in trionfo piuttosto le forme repubblicane che
la sostanza; attesero più ad evocare un passato impossibile
che a preparare con sapienza le nuove vie dell'avvenire. Si
trascurarono le grandi idee del sincero progresso, per rimettere in
voga teatralmente i nomi degli uomini e delle cose passate, e i
costumi e le foggie e i vestiti e le armi e le abitudini, senza
accorgersi dell'improvvido e assurdo anacronismo. Il primo a dare lo
strano esempio fu l'architetto Barbera, che comparve togato in
pubblico, accompagnato dalle sue tre figlie avvolte nel peplo,
dichiarando di rinunciare da quell'ora alla propria parentela, e di
voler essere chiamato Ctesifonte.
Bastò
quell'esempio perchè, con una rapidità impossibile a
qualunque impresario o coreografo o vestiarista di teatro, si
producesse per le vie e per le piazze la storia romana antica. Coloro
che credevano di assimigliare piuttosto a questo che a quel
personaggio dell'antichità, si mostravano in piazza ad
arieggiarne il gesto, l'incesso, la dignità. Chi aveva i
capelli neri e crespi e la barba spessa, invadente le guancie fin
sotto gli occhi e vantava l'ampia persona, era Muzio Scevola, senza
tante titubanze; chi aveva la chioma fulva e foltissima oltre il
consueto, e la barba intera e inanellata, si nominava Lucio Vero,
senza farsi pregare; si videro Collatini e Lucrezie in buon dato; e
Gracchi non pochi e Cornelie di convenzione, e Clelie e Tullie e
Tulliole con pepli indulgenti e coscie e popliti in voluttuosa
trasparenza, e braccia nude fin sopra la spalla. Di Bruti poi, così
della prima che della seconda qualità, ovverosia così
di Giunii che di Marchi, l'assortimento era così vario e
numeroso, da poterne fare un emporio per tutti i casi futuri. Ma,
nemmeno a pagarli a peso d'oro, si sarebbe potuto trovare nè
un Giulio Cesare, nè un Augusto; erano merce proibita, e guai
a cui si fosse attentato di passeggiare in piazza tramutato in que'
personaggi. Che più? Allo stesso fondatore di Roma, che è
tutto dire, non fu fatto buon viso; e il primo Romolo che si lasciò
vedere in piazza Navona, per la gran ragione di essere stato il primo
dei re, fu colto a fischi e preso a torsi di cavolo, peggio di un
tenore stonato; tanto che di tutta fretta rifugiatosi in una
bottega, e per di là passato a casa sua, ricomparve il giorno
dopo in costume di Mario. Nè codesta fantasmagoria
rappresentata in piazza con intento serio e colla ferma fiducia di
onorare e puntellare e difendere la patria, deve parere una cosa
inverosimile ai lettori che vivessero nel 48, e furono a Milano e a
Venezia; e videro giustacuori e batticuli e maglie del Quattrocento;
e tôcchi e robe del Cinquecento; e gorgiere e mantellette e
brache e stivali del Settecento; e spadoni e manopole ed elmi tolti a
polverose armerie.
Che
se a Roma Marforio e Pasquino eccitavano la pubblica ilarità,
rivelando che il tale passeggiava in piazza portando l'elmo involato
alla guardaroba del teatro Valle o Tordinona, e che già avea
posato sulla testa del castrato Crescentini negli Orazj e Curiazj
di Cimarosa, o nell'Attilio Regolo di Jomelli; che il tal
altro cingeva la spada cinta già dalla mima Pitrot nelle
Amazzoni del coreografo Ferlotti, ecc., ecc.: questi scandali
si rinnovarono precisamente ai giorni nostri, con qualche cosa di più
saporito ancora; perchè lo scrivente si ricorda benissimo di
aver veduto un impresario, nominatosi da sè stesso colonnello,
passeggiare in piazza San Marco con spallini dorati e galloni doppj e
tripli, facendo battere sul lastrico la sciabola stessa che pochi
giorni prima al San Samuele aveva adoperato il conte d'Almaviva per
spaventare don Bartolo; e abbiamo visto un duce improvvisato di
trenta improvvisati eroi sedere al caffè coll'elmo crestato di
un Nabuccodonosor che già avea tuonato in teatro col Treman
gl'insani di Verdi; ma purtroppo codesti scandali che offendono
la maestà dei grandi avvenimenti sono malattie inevitabili dei
popoli che, tenuti in lunghissima schiavitù, vengono assaliti
da una specie di capogiro nel respirare le prime aure della libertà;
come chi rimasto a lungo nell'oscurità della prigione, ha
offesa la vista dalla repentina luce, o avendo lo stomaco estenuato
dall'imposto digiuno, sente sconvolgersi dal primo vino a morbosa
ubbriachezza. Ma il tempo e l'esperienza e i ripetuti disinganni
insegnano sapienza ai popoli, e gli errori del 96 e del 98 e del 48
saran forse per essere lezioni salutari, se il destino vorrà
concederlo. Ma tornando a Roma, e rifacendo settant'anni indietro il
volo della mente, pur troppo quella grande pagina, che la Provvidenza
sembrò voler preparare alla storia, fu deturpata ben da
peggiori cose che da quelle teatrali stranezze.
Abbiamo
detto di voler dire intera la verità, e mettere in palese le
colpe di tutti, senza intenzioni partigiane. Perciò, se da noi
fu alzato il panno misterioso onde si vollero tener celate ai profani
le vere sembianze di Pio VI; se riputammo giusta e necessaria la
condotta di Cervoni; se trovammo indispensabile l'avere allontanato
il papa da Roma; se riputiamo essere stato una misura di giustizia,
la quale se è assoluta dev'essere anche inesorabile, l'avere
arrestati tutti i cardinali, arcivescovi, vescovi e prelati che
componevano la romana corte, perchè complici tutti e
cospiratori a danno della nazione e dell'umanità; perchè
interessati tutti a mantenere nell'ignoranza e nella schiavitù
le moltitudini, e a volerle piuttosto colpevoli e scellerate che
istrutte e felici; non è poi possibile comprimer
l'indignazione pensando che da questi atti giustissimi, quantunque
severi, non si seppe cavar l'utile che si doveva; nel tempo stesso
però che la massima parte di questa indignazione deve ancora
andar a cadere sul papa e la sua corte e sull'assurda istituzione del
governo clericale. In fatti, da quel governo pauroso d'ogni libero
pensiero e della scienza multilatere e feconda, essendosi interdetto
in Roma ogni altro studio che non fosse la sterile erudizione, o
alcuna di quelle discipline che non hanno irradiazione sulla vita
pratica nel momento di assestare il nuovo ordine di cose, i migliori,
chiamati al potere legislativo e consultivo, tra' quali primeggiava
l'archeologo Visconti, conoscendo poco il presente e non curandosi
affatto dell'avvenire, per disperazione si rifuggirono nel passato,
che era il solo loro dominio, e nel riprodurlo non seppero
atteggiarlo e piegarlo ai nuovi bisogni dell'umanità; ned
ebbero riguardo alla sostanza, la quale avea fatto la grandezza e la
potenza degli antichi; ma soltanto ai nomi, alle forme, alle
apparenze; perciò nei quattordici titoli della costituzione
ricomparvero, come se fossero scavi archeologici e colonne e statue
infrante, il senato e il tribunato, e pretori consolari e questori e
edili: nomi che si guastarono con certe strane definizioni che
derivavano da una scienza impregnata di rettorica e d'Arcadia; onde
il tribunato fu chiamato l'immaginazione della Repubblica,
e il senato la ragione della Repubblica. Il primo
dovea farsi un onore e un dovere di mandare le sue proposizioni al
secondo, acciò maturamente le ponderasse; onde tutti i giorni
vedeansi i messaggi che conducevano l'immaginazione a umiliare
i suoi complimenti alla ragione.
Ma
ci voleva ben altro che forme e pompe e cerimonie arcadiche; il mal
governo papale aveva lasciato vuoto l'erario, e un abisso di povertà
e di miseria pubblica. Però i consoli che sapevano il greco e
il latino e tutte le vesciche della scolastica, non essendo mai stati
assunti in addietro ai pubblici impieghi, perchè questi
stettero sempre nelle mani dei preti, non seppero o, meglio, non
poterono provvedere alla mancanza delle derrate, del pane, delle cose
più invocate dalla plebe affamata; nè potendo far
scaturire la moneta tanto necessaria alle pubbliche contrattazioni,
in prima pensarono di far fondere il vasellame d'oro e d'argento che
si trovava nei palazzi pontificj e in quelli dei cardinali, poscia
tutti gli utensili domestici di rame e le campane delle chiese degli
otto dipartimenti del nuovo Stato.
Questa
deplorabile misura, che però era ingiunta da una terribile
necessità, e di cui, percorrendo la catena delle cause, si
trova pur sempre la prima cagione effettiva nel mal governo
pontificale, sedusse al furto i popolani chiamati ad operare quelle
fusioni; sedusse al furto e al saccheggio i soldati chiamati a far
loro la guardia; sedusse e persuase i capi stessi dell'esercito a
prevenire quei furti con furti più colossali e vistosi per
conto proprio; e siccome quei capi seppero che di ciò si
mandavano querele al Direttorio, furono solleciti di spedire a Parigi
i tesori dell'arte italica, perchè lo splendore di quella
sterminata preda abbagliasse gli occhi e respingesse i rimproveri e
trattenesse le punizioni.
Si
tolsero a Roma, come ognuno sa, più di cinquanta fra le più
celebri statue dell'antichità;. tutti i busti famosi degli dèi
e degli eroi greci e romani; i più riputati capolavori di
Raffaello e di Domenichino. La qual preda rappresentava un valore
medio valutato dagli esperti in cento milioni di franchi; ma di cui
il prezzo d'affezione era incalcolabile dalla stessa immaginazione.
Se
tanti disordini e malversazioni e depredazioni furono in gran parte
conseguenze inevitabili di cause antiche e funestissime, certo che
vennero accresciute dalla presenza di due uomini, di cui l'istinto
rapace pareva aver raggiunto i gradi della ferocia e della demenza.
Codesti uomini furono il commissario Haller, che essendo stato il
primo a rubare sfacciatamente, incoraggiò all'imitazione tutto
l'esercito; poi il generale Massena, che non aveva bisogno di essere
incoraggiato, e che quando, partito Berthier, rimase solo al comando
e fu padrone delle casse pubbliche, da quella piena balìa di
sè stesso fu sedotto a scaricarle tutte in casa propria senza
tanti rispetti, tanto quella sua furibonda passione dell'oro non gli
lasciava pensare alle conseguenze. Queste infatti scoppiarono
terribili; perchè i soldati non ritraendo denaro, e gli
ufficiali, avidi al par di Massena, non sopportando di dover rimanere
colle tasche vuote, condotti dal colonnello S... (il conte Achille,
che finalmente potremo conoscere di presenza, il quale, rotto al
giuoco e a cento altri disordini, era diventato furioso per la
mancanza di denaro), si radunarono nella rotonda del Panteon, e là,
riscaldati ed arringati da esso, invasero le stanze di Massena, che
opponendo a quella furia una furia ancor più tremenda e una
ostinazione incrollabile e un coraggio incredibile, corse pericolo
che la sua piccola figura venisse tagliata in due dalla sciabola del
nostro S..., se non fosse stato strappato di là per forza dal
generale Marat.
Ma,
dopo tutto, non creda il lettore che l'aspetto di Roma fosse
diventato squallido per queste cose; certo che furono frequenti i
tumulti del popolo; frequenti le vendette e le uccisioni; che la
miseria c'era; e la fame c'era. Ma la veste che copriva queste piaghe
e queste ferite e questi cenci continuava pur sempre ad essere di
porpora e d'oro. E per chiamar gente in Roma e mettere in
circolazione qualche denaro, e abbagliar quei di dentro e quei di
fuori, si davano spettacoli d'ogni sorta, spettacoli pomposi che
rammentavano la grandezza antica. Per citar quello che fece più
senso, la notizia che, per la prima volta dopo tanti secoli, si
sarebbe aperto al pubblico l'Anfiteatro Flavio, per
rappresentarvi la morte di Giulio Cesare a piedi di quella
medesima statua di Pompeo, che aveva veduto estinto il vero Cesare,
fece affluire gran gente in Roma da luoghi anche lontani. Di codesto
fatto noi non abbiamo trovato parole nè in Botta, nè in
Verri, nè in altri; ma il Camillone nel suo Diario si
diffonde a parlarne per molte pagine; e tra i celebri scrittori lord
Byron è il solo che, in una delle note eruditissime intorno a
Roma, apposte al canto quarto del Child Harold, parla
di questo spettacolo, e della statua di Pompeo stata in
quell'occasione trasportata dal palazzo Spada nel Colosseo.
Anche
noi dunque ce ne occuperemo, ma non tanto per l'interesse che può
destare in sè, quanto perchè, invitati da quella
circostanza straordinaria, il capitano Baroggi e donna Paolina S...,
che trovavansi a Bologna, si recarono a Roma, e furono, senza
volerlo, gli sventurati attori di una scena reale, la quale staccò
l'attenzione di trentamila spettatori dalla tragedia di Voltaire, per
rivolgerla tutta su loro e sul colonnello S...
Il
fatal Dio pur degli Dei sgomento.
LIBRO
DECIMOTERZO
Roma
e Chateaubriand. - Voltaire e Shakespeare. - Massena e
donna Paolina. - Padre e figlia. - L'attore Rosier. -
La statua di Pompeo. - L'antico Cesare e il repubblicano
Bonaparte. - I colonnelli Paoli e Ballabio. - Il
sepolcro di Cecilia Metella.
I
Siamo
ancora in Roma, la città eterna; che consolazione! il solo
dolore è che non ci siamo che colla fantasia. O Roma, al pari
e più di Venezia, com'è naturale, tu fosti descritta e
illustrata, e ben trattata e maltrattata, e contraffatta e svisata da
migliaja di scrittori. Degli eruditi non parliamo; dal più al
meno s'attennero al positivo e ai documenti; ma gli scrittori poeti!
che scempio ne han fatto... ovvero sia, come si mostrarono amanti
infidi e bugiardi, forse per eccesso d'entusiasmo! L'ultimo dei
celeberrimi e dei più immaginosi fu Chateaubriand, il quale,
di certo, col suo largo pennello e co' suoi colori smaglianti ne
ritrasse la prospettiva, lasciandone sulla tela la macchia generale
forse con più verità di tutti; ma nei particolari, ma
nelle considerazioni poetico istoriche, quante falsità,
quante alterazioni, quante allucinazioni, crediamo, involontarie!
Allo
scopo di esagerare, per l'amore delle antitesi, che sono il delirio
dei poeti, la decadenza materiale di Roma, incaricò persino il
Tevere di essere afflitto e di aver voluto ritirarsi, per la gran
vergogna, in un angolo della città, non d'altro occupato che
di somministrare le sue acque, che, sole, rimasero bionde come in
antico, a lavare i lini sudici dei neonati Quiriti. Ma noi ci siam
recati a bella posta sul luogo, come un ingegnere di campagna, per
verificare co' nostri occhi se davvero il Tevere avesse assunto le
passioni e i dolori di un poeta sentimentale; ma possiamo assicurare
che il Tevere, nei diciotto secoli che sono decorsi, non ha fatto
altro che rimanere un fiume, e non sentì nessuna vergogna,
forse presago del possibile risorgimento della sua città; e
non si ritirò in nessun angolo e non diventò più
piccolo. Visto dal ponte Elio e dal ponte Senatorio, è ancora
il più maestoso fiume d'Italia che attraversi una città.
A ripa Grande, la selva delle antenne e il biancheggiar delle vele e
i fumi densi delle vaporiere lo fanno parer davvero un porto di mare;
il che è ben altra cosa dall'esser ridotto un rigagnolo
avvilito, non visitato che dalle lavandaje!
Diciam
questo perchè quei che si impennarono alla idea di dover
portare la capitale a Roma, e la chiamarono un'idea stracca di
rettorica ammuffita, e una specie di regresso al paganesimo e al
classicismo spento; e credettero opporsi e vincer l'onda impetuosa di
tutta Italia concorde nel tendere le braccia affannate alla sua
capitale, potrebbero inorgoglire e fidarsi d'aver un confederato
onnipotente in Chateaubriand, che vedeva anche il Tevere
impicciolito.
Ma
Roma dissanguata dal malgoverno, nella sua terza parte abitata ha
ancora più di 200.000 persone; e in pochi anni, sotto il nuovo
sole della libertà e dell'indipendenza, espandendosi a
riconquistare, per dir così, le parti desolate, potrebbe
toccare facilmente la popolazione di 600.000 anime. Ci pare che per
una capitale possa ben bastare. La popolazione di Londra, eguale a
quella di tutta Lombardia, è un'esagerazione inutile, e
provocatrice di disordini non possibili che in quella incondita
vastità. Ma lasciando la popolazione, e trascurando anche le
maestose antichità che pur fecondano intelletto e cuore,
quantunque a molti, segnatamente a qualche ingegnere della città
di Milano, sembrino incomodi ingombri di utili spazj; in quante e
quante cose Roma è superiore a tutte le altre città
d'Italia! Equidistante dai punti estremi d'Italia, essa, per
Civitavecchia, è in comunicazione diretta col Mediterraneo,
che ritornerà, per l'istmo di Suez, il gran lago storico
romano, datore di ricchezze infinite. È dunque vicina allo
scalo marino per tutti i vantaggi che le possono derivare; e ne è
abbastanza lontana perchè, in una guerra o in un assalto
fortuito, i primi colpi non debbano toccare a lei.
Tutte
queste cose, se possono andar bene anche adesso; se andavano tanto
bene ai tempi degli antichi Romani, che piantarono in quel sito
fatale le loro tende, perchè l'istinto felice e la sapienza
spontanea loro fecero comprendere che non v'era punto migliore per
dominare da tutte le parti la penisola della media e della bassa
Italia; come ai Galli fece comprendere che non v'era punto migliore
del sito di Milano, benchè dalla natura paresse in ispecial
modo maledetto; perchè, diciamo, non dovranno andar meglio in
un prossimo avvenire, quando, per le ferrovie, dal Po al Tevere si
volerà in un giorno? Ma la questione è così
chiara, è così nettamente veduta da tutti, è
così risoluta, che non sappiamo perchè noi l'abbiamo
ritentata ancora; se non fosse che, trovandoci in Roma, il discorso
doveva cadere spontaneamente su Roma, prima di recarsi al Colosseo
dove uno spettacolo insolito, dopo quasi sei secoli che non se ne
davan più in quell'anfiteatro, chiamò da tutte le
vicinanze dell'eterna città, e da altre città d'Italia,
una folla infinita di popolo italiano, invitata, anzi attratta per
quell'occasione, anche allora, come adesso, a respirare in quella
luce, in illa luce, per ripetere il motto di Cicerone, un'aura
più libera, più forte e più feconda.
Il
lettore conosce per qual ragione entriamo nel Colosseo e ci occupiamo
di descrivere l'ultimo spettacolo che là siasi dato.
Il
giorno 17 ottobre dell'anno 1798, intorno alle ore ventuna, tutta la
città pareva che si fosse versata nelle adjacenze del
Colosseo. Una compagnia drammatica francese, diretta dal capocomico
Rosier, di quelle compagnie che fiutano da tutte le parti la pubblica
passione, per atteggiarsi a quella, e saziarla, e cavar denari e
applausi anche senza il prestigio di una grande abilità, aveva
ottenuto dal generale Massena il permesso di rappresentare nel
recinto dell'anfiteatro Flavio La morte di Cesare, di
Voltaire. Tutto fremeva di repubblica allora; chi avesse osato
manifestare delle simpatie monarchiche, sarebbe stato pugnalato in
piazza. Lo stesso Bonaparte, che, fremente, chiudeva in sè
l'esagerazione del dispotismo, pur s'inchinava al simbolico berretto,
e gridava repubblica anch'esso; che, chi vuol dominare la
moltitudine, comincia dall'accarezzarla e accontentarla in tutto, col
sistema onde i seduttori blandiscono le amanti, per ottenerle, e
disprezzarle dopo, se mai dà il caso. Se dunque fra le
tragedie di Voltaire, allora tanto in voga, fu scelta La morte di
Cesare, la cosa è naturale. - Non ci poteva essere
argomento più di quello adatto all'onda dei tempi e alla
pubblica aspirazione.
Peccato
che Voltaire, dopo aver usufruttato Shakespeare e spogliatolo di
tutto, abbia avuta tanta malizia di gettare a piene mani il disprezzo
su quel barbaro che non mancava d'ingegno, onde la tragedia
originale, mal nota al pubblico, fu riposta negli scaffali, e
l'imitazione scaltra ma servile, ma guasta dal convenzionalismo, non
permise che il pubblico assistesse alla rappresentazione del
capolavoro del sommo Inglese. Che spettacolo grande e compiuto
sarebbe stato! Come Roma antica, per quel miracolo di poetica
divinazione, sarebbe riapparsa viva e vera e moventesi, agli occhi
degli spettatori!
Nell'anno
1798 il Colosseo era nella più deplorabile condizione di un
monumento rovinato nella massima parte, e che minaccia di rovinare
anche nelle parti superstiti. La prima scarpa che fermò la
grande muraglia rimasta intatta, non fu eseguita che nel 1805 per
volontà di Pio VII; l'altra venne ordinata da Leone nel 1813.
Tutta la parte esterna adunque, che anche oggi permette di misurare
l'altezza di quell'edificio unico al mondo, abbandonata a sè
stessa, faceva paura a' riguardanti, perchè visto da lontano e
dal basso in profilo, non parea vero che quell'enorme paravento di
trentatrè archi a tre piani, a non contare l'attico
gigantesco, non dovesse crollare da un momento all'altro. La
descrizione del Colosseo, così in istato di rovina, come negli
studj architettonici che ne porgono il ristauro completo, venne fatta
da tanti scrittori, tante volte e in tanti modi, che ci par tempo
gettato il rifarla oggi per quei pochi lettori che in proposito non
sapessero nulla. Soltanto ripeteremo quello che fu detto da coloro
che si recarono a visitare quel prodigio architettonico
dell'antichità; che cioè, per quanto uno ne abbia
un'aspettazione immensa, essa è sempre di gran lunga superata
dallo stupore che colpisce anche l'uomo il più freddo e più
preparato.
Per
darne un'idea a chi non l'avesse mai veduto, basti il dire, che
osservando la parte superstite, dall'esterno e dal basso, l'occhio
difficilmente arriva al fastigio; che ciascuno dei grandi archi (e
degli ottantasette non ne son rimasti che trentatrè) è
d'un terzo più alto della porta maggiore dell'Arena milanese;
che con questi archi s'innalzano tre piani a diversi ordini, dorico,
jonico, corinzio; e che l'attico coi clipei è alto quanto
ciascuno degli altri piani; tanto che si può asserire, che
l'Arena milanese ripetuta in altezza sei volte, appena darebbe
l'altezza del Colosseo.
Quando,
in fantasia, si arriva a immaginare il ristauro completo di questa
mole, e si ricostruiscon in mente gli ottantasette archi completi, e
le colonne dorate del secondo e del terzo piano, e le statue d'oro
che posavano in mezzo a ciascuna di quelle arcate; e nell'interno la
fuga delle gradinate dal basso in alto delle tre precinzioni; colle
pareti del podio tutte rivestite di marmo, e i baltei, che dividevano
le precinzioni stesse, tutti coperti di smalto e d'oro e di gemme,
Balteus
en gemmis, en illita porticus auro, etc.
e
al sommo della cavea un portico tutto a colonne, e statue di marmo
bianco, e di porfido, e di verde antico, e di bronzo dorato, disposte
sparsamente lungo i baltei; e vasi e tripodi diffondenti odori di
essenze bruciate;... davvero che la mente calma si rifiuterebbe a dar
fede al volo della fantasia, se i poderosi avanzi non fossero un
documento fedele per le indagini dell'arte e della scienza.
Ma
lasciando la fantasia e gli splendori antichi per venire agli avanzi
presenti, è certo che torna assai più difficile
descriver questi che quelli; perchè l'arte completa ha misure
e contorni e linee e forme determinate; mentre i disastri del tempo,
e della barbarie, e degli smantellamenti, e dei cataclismi lasciano
un tal disordine caotico, che s'invola ad ogni descrizione precisa.
Al
tempo in cui nel Colosseo si rappresentò La morte di Cesare
di Voltaire, il disordine era ancora maggiore. In molti spazj
interni, dove le cavee e le gradinate eran cadute nella massima
rovina, i monaci, custodi dell'edificio, avevano coltivato e broli e
giardini, e innalzate capannuccie e pagliaj. Se non che tutti questi
ingombri, che parevan voler nascondere l'origine e la destinazione
dell'anfiteatro, vennero fatti scomparire dall'appaltatore dello
spettacolo. Così furon poste gradinate di legno dove quelle di
sasso non eran più servibili in verun modo; così con
drappi e sostegni e pulvinari si resero ancora praticabili le
gradinate più basse del lato dell'edificio men rovinato.
Allorchè
il pubblico penetrò nell'anfiteatro, e venne quel momento
vicinissimo alla rappresentazione, in cui tutte le parti occupabili
si videro gremite di gente; certo che, se la architettura non aveva a
lodarsi di quelle rovine, la pittura non poteva trovare spettacolo
più fantastico, più grandioso, più vario, più
strano di quello. Nelle prime gradinate più vicine al circo,
dove Bruto doveva congiurare contro Giulio Cesare, v'erano le
gerarchie militari del presidio comandato da Massena. -
Generali, colonnelli, capi squadroni; - dragoni, usseri,
artiglieri, granatieri; già s'intende la sola ufficialità;
perchè la repubblica democratica, è aristocratica al
par di chicchessia. Presso gli ufficiali, e insieme con essi, le
matrone e le donne romane della classe più elevata; ma di
quelle che, o per amore di sè stesse, o per inclinazione agli
alunni di Marte, che, guerrescamente gentili, avevano invaso tutte le
case, o per una tendenza spontanea alla libertà pubblica e
privata, avevano applaudito all'ingresso delle armi repubblicane in
Roma; e tutte in costume press'a poco come le tre dive che abbiam
ammirato nei palchetti del Teatro alla Scala, in occasione del ballo
del papa. - Mescolati ai soldati ed insieme colle donne, i
buoni mariti borghesi, coi capelli alla Brutus sulla fronte e
sul ciglio; coi cravattoni nascondenti mento e orecchio, e colla gran
coccarda sul cappellone tondo. In altra parte, per far contrasto,
uomini e donne di Frascati e d'Albano e di Tivoli, coi loro costumi
invariabili; e altrove le Trasteverine coi loro uomini in giacchetta
di velluto e le faccie in cagnesco; una folla poi di ragazzi
seminudi, a dispetto dei custodi, in quel parapiglia, s'erano
introdotti ed erano iti ad arrampicarsi sulle parti più alte
dell'edifizio. In mezzo a tutta questa moltitudine variopinta, un
venti o trenta di que' cari originali, che comprendendo meno di
tutti, sembrano i più caldi e fanatici di tutti, vestivano,
come dicemmo, in costume di antichi Romani, e facendo da Collatino e
da Muzio Scevola e da Curzio, parevano aver la speciale incombenza di
ravvicinare in quel recinto le distanze di venti secoli.
II
Il
palco scenico, dove gli attori della compagnia Rosier dovevano
declamare stentoreamente i versi di Voltaire, per farsi sentire da
chi stava sulle più alte gradinate, non era che un impalcato
di forma ellittica, inscritto nella proporzione di due terzi
nell'ellissi dell'anfiteatro. Era dunque un palco che si vedeva da
tutti i lati, senza siparj, senza scenarj, senza nulla di tutto ciò
che, comunemente, costituisce un palco scenico. Bensì
quell'impalcato, dovendo rappresentare il Campidoglio, aveva delle
gradinate di legno, e dei portici rivestiti di tela imitante il
marmo, e sotto agli archi, delle statue con pallj di canovaccio
spalmati di gesso e di creta. Gli attori dovevano aggirarsi tra quei
portici, intorno a quelle statue, discendere da quelle gradinate. Per
verità che c'era qualche cosa di nuovo, e, se vogliamo, anche
di più naturale del solito. La cosa poi che più di
tutto giovava a crescere quel che si chiama l'illusione teatrale, e a
ravvicinare più che mai il finto al vero, era la statua
colossale di Pompeo, quella veramente, ai piedi della quale, come
voleva e vuol la fama, venne ucciso Giulio Cesare, e che è la
stessa che oggi ammirasi ancora in una delle sale del palazzo Spada.
Essa era stata collocata presso al portico costrutto appositamente; e
l'importanza che le si volle dare, e le lettere cubitali con cui
nell'avviso al pubblico venne accennata, quasi ci trarrebbe a credere
che siasi voluto rappresentar la tragedia per usufruttare la statua.
Ma,
domanderà taluno, i signori comici che dovevano per un pajo
d'ore trasmutarsi in Giulio Cesare e Marcantonio e Bruto e Cassio e
Dolabella, da qual parte, in mancanza di quinte, dovevano uscire per
fare i colpi di scena con qualche illusione degli spettatori? A
questo bisogno si adempì con più naturalezza e
spontaneità che non si crederebbe; sotto all'impalcatura delle
gradinate e dei portici avevano il loro dietro le scene, e là
aspettavano il momento opportuno di uscire sul palco e far la loro
parte.
Lo
spettacolo finalmente incominciò in mezzo al silenzio
generale, che durò pochissimo; perchè dei trentamila
spettatori accorsi, ventimila, ad essere cortesi, non comprendevan
nulla; altri perchè non capivano il francese, altri per
l'inevitabile rumore che vi si faceva. I ragazzi del popolo, che
s'eran arrampicati fin sulle ultime gradinate, dopo essere stati
attenti un momento, per l'istinto della novità, al comparire
di Antonio, che aveva il manto turchino filettato in bianco, e di
Giulio Cesare che lo aveva color porpora, si diedero a schiamazzare
senza tanti rispetti, e a correr innanzi e indietro, a sfoggio di
agilità e di coraggio, sui cornicioni praticabili. Ad ogni
modo. Antonio potè declamare la prima parlata:
César,
tu vas regner...
sino
al verso:
Qui
peut à ta grande âme inspirer la terreur?
e
Cesare potè rispondere quasi d'un fiato:
L'Amitié,
cher Antoine:
e
attraverso a sessanta e più versi conchiudere, abbracciando
Antonio:
Ta
promesse suffit, et je la crois plus pure
Que
les autels des dieux entourés du parjure.
Quelli
tra gli spettatori che avevano un posto, abbastanza vicino per
sentire le voci, e intelligenza sufficiente per afferrare il concetto
delle parole, e, quel che più importa, la conoscenza della
lingua francese, ascoltarono tutta la prima scena senza annojarsi e
senza divertirsi, e senza dar segni nè dell'una cosa nè
dell'altra. Necessariamente, quand'anche Giulio Cesare fosse stato
rappresentato da Garrik, da Kean, da Talma, da Modena, un buon
repubblicano non poteva applaudirlo in coscienza, e meno ancora
quello scellerato adulatore di Marcantonio. L'indifferenza continuò
fino alla scena terza, quando Cassio, Cimbro, Cinna, Casca e Bruto
entrarono in iscena, e schieraronsi innanzi a Giulio Cesare assiso
sotto ad uno degli archi.
Bruto
avrebbe dovuto uscire insieme cogli altri colleghi ed amici, chè
non v'era nessuna necessità drammatica di far diversamente; ma
Bruto era il primo attore della compagnia; doveva produrre un grande
effetto soltanto col farsi vedere; uscì dunque ultimo, dopo
qualche momento d'aspettazione ad arte prolungata. I battimani
scoppiarono strepitosi, lunghi, susseguiti da migliaja di grida: Vive
la république, vive la liberté, vive l'égalité.
Perfino i seminudi birichini correnti e ricorrenti sulle cornici
dell'anfiteatro, si arrestarono anch'essi schiamazzando, evviva! E
Bruto, che non s'inchinò mai nemmeno a Giulio Cesare, fece
un inchino a tutti costoro, e li ringraziò.
Cessato
lo strepito e gli evviva, ricominciò la recita. Anche il
Camillone, che pur non sapeva il francese, ma che aveva per
interprete uno scultore di Parigi che da più anni dimorava a
Roma, ci racconta che si sentì trasportato a tutto ciò
che Bruto nella scena terza disse a Giulio. Aggiunge poi che
l'entusiasmo di tutto il pubblico, anzi la frenesia, andò al
colmo a quei versi onde si chiude, la scena:
Tout
mon sang est à toi, si tu tiens ta promesse;
Si
tu n'es qu'un tyran, j'abhorre ta tendresse:
Et
je ne peux rester avec Antoine et toi.
Puisqu'il
n'est plus Romain, et qu'il demande un roi.
Dopo
una tal scena, non ci fu più interesse di sorta; e il primo
atto si chiuse tra una specie di bisbiglio sedizioso, soverchiato
dalla voce sonora di un uomo del Trastevere il quale, allorchè
Cesare e Antonio uscirono dalla scena:
-
E che ve pigli un accidente, - gridò tra le
risate universali e le interrogazioni dei soldati francesi, che
domandavano che cosa significasse quel motto.
Tra
il primo e il secondo atto ci fu un intermezzo abbastanza lungo, il
quale, pur troppo, per la nostra storia, ha un interesse assai più
grave che la recita del Giulio Cesare e l'esposizione della
statua di Pompeo Magno.
In
mezzo all'ufficialità, presso a Massena e al generale Cervoni,
sedeva colui che il lettore forse desidera di conoscere da un pezzo:
il colonnello Achille S...
Vestiva
la divisa d'ussaro, tutta coperta di argento; stava seduto
militarmente, senza tanti rispetti forse per essere seduto a mal
agio, teneva con un braccio il ginocchio della gamba destra, che era
piegata sin quasi a toccargli il mento; la gamba sinistra, stretta
nei calzoni rossi e negli stivali succinti, si stendeva quant'era
lunga a toccare il gradino sottoposto. Un raggio importuno di sole,
attraverso una tenda stata innalzata per far ombra, annaspandogli la
vista, lo aveva costretto a piegare innanzi il caschetto piumato e a
tirar l'ala fin quasi sul naso. Della faccia si scorgevano perciò
soltanto i baffi enormi congiunti a delle enormi fedine, che finivano
precisamente alla regione della bocca, lasciando rasa la parte
inferiore delle mascelle e il mento. Chi lo guardava dal basso in
alto vedeva a girare di sotto all'ala del caschetto un pajo di
pupille piene di lampo provocatore e protervo, al quale aggiungevano
una tinta sinistra tutte le parti alterate della cassa dell'occhio,
come di chi, non ostante una tempra robustissima, deve adattarsi a
portare in qualche parte le impronte degli stravizj, delle veglie
abusate, degli abusati liquori. Quell'uomo aveva allora quarantotto
anni, ma non ne dimostrava quaranta, perchè la barba
foltissima e perfettamente nera faceva le spese delle parti alterate
del viso, e la corporatura lunga, elegante, forte, asciutta, come
quella di un tigre reale maschio, con delle coscie atletiche di cui i
muscoli si pronunciavano di sotto alla pelle di daino tinta in rosso,
faceva le spese di tutto il resto. Egli, durante l'intermezzo dal
primo al secondo atto, senza cambiare posizione, teneva fisso lo
sguardo, dove lo tenevano fisso quasi tutti gli spettatori che si
trovavano presso a lui o in quel raggio di veduta. Ciò che
attirava quegli sguardi e provocava le domande, i discorsi e i
commenti di tante persone, erano due persone. È quasi inutile
il dire chi fossero. Il Baroggi, in completa divisa di capitano dei
dragoni, a non molta distanza del colonnello S..., stava seduto
vicino ad un milite, che a tutta prima sembrava un giovinetto, ma che
ciascuno, dopo un'occhiata, riconosceva benissimo per una fanciulla;
ed era infatti donna Paolina in assisa di dragone. Il veder fanciulle
travestite militarmente, seguaci di mariti ed amanti, era un fatto
così comune allora, che per sè solo non avrebbe fermato
l'attenzione di nessuno. Ma se un vestito portato da una persona non
fa nè freddo nè caldo, portato da unaltra può
mettere l'entusiasmo, le vertigini e il capogiro anche negli uomini
più calmi. Un effetto di questo genere produceva appunto su
tutti la giovinetta compagna del capitano Baroggi. Donna Paolina, noi
l'abbiamo già delineata in addietro; ma il ritratto si risolse
piuttosto in quattro segni generali, tirati giù colla matita
tanto per fermar la macchia e il contorno, che in un quadro disegnato
e colorito coll'intenzione che debba essere messo in una cornice. Chi
ci fece a voce la descrizione della figura di donna Paolina S..., ci
mostrò anche la copia a lapis rosso di un ritratto che il
giovine Pinelli fece di lei dal vero in Roma stessa. Quello che
dunque noi stiamo per delineare colla penna, non è altrimenti
una creazione di fantasia; ma una riproduzione esatta del vero,
sebbene sia una copia di un'altra copia.
Il
lettore si ricorderà, che, essendo essa della statura di un
uomo comune, paresse eccessivamente alta come donna, anche per la
piccolezza della testa, la quale, a misurar la figura intera, sarebbe
stata un'eccezione a quella regola che decretò dover essere la
settima parte del corpo umano. Ma tutta la persona s'illeggiadriva
dominata da quella testina elegante, aerea; sebbene le forme del
corpo, al primo, sembrassero sottili e quasi gracili, osservata poi
parte a parte apparivano consistenti e ampie più di quello che
comunemente suol presentare una fanciulla di diciott'anni. Vestita da
dragone coi calzoni di daino stretti alle coscie, e gli stivaloni pei
quali riusciva ancor più attraente il contrasto del piccolo
piede muliebre, vi assicuro, i miei cari amici, i quali ponete ancora
qualche interesse in questo genere di studj, che c'era da perdere la
testa. Seduta sugli scaglioni del Colosseo, teneva così a
bardosso su d'una spalla il mantello verde; aveva l'elmo in testa
piantato assai indietro colla criniera che le cadeva sullo spallino
sinistro. Colla gamba destra sormontata dall'altra stava movendo
macchinamente il piccol piede. Quello però che più di
tutto fermava gli sguardi altrui, era il volto dilicato e fino
incorniciato dall'elmo; volto pallido con linee squisite, sebbene
accentatissime, segnatamente alla linea del mento; con un giro di
bocca di eleganza ineffabile e con un naso (il naso ha un gran posto
nelle quistioni della simpatia), con un naso che, sebbene piccolo ed
elegante, aveva però una forma speciale, perchè le nari
si disegnavano più alte del setto divisore, il quale
mostravasi troppo più di quello che avrebbe voluto la regola
perfetta.
Ma
che mestizia meditabonda e accorata era su quel volto; ma quante e
quante cose pareva volesse dir l'occhio eloquentissimo ogni qual
volta lo girava a guardare il suo Baroggi!
O
perchè tanta mestizia? e non eran forse marito e moglie?
Oh
no... non lo erano; non si volle che lo fossero... Avevan dovuto
fuggire, e viaggiavano incalzati da timori e da sinistri presagi. Da
Bologna eran giunti a Roma in quel dì che il Baroggi aveva
ottenuto dal suo colonnello alquanti giorni di permesso.
E
qui è necessario che col racconto noi ritorniamo indietro...
Oh come la commozione ci assale pensando a quanto era avvenuto, a
quello che avverrà di loro! Davvero che la fortuna scellerata
par che provi una compiacenza crudele nel perseguitare quelle
esistenze squisitamente infelici, che la natura, la sola natura, non
la legge umana inesorabile, ha mostrato per mille indizj d'avere
voluto espressamente avvicinare e legare in nodo non dissolubile.
III
La
condizione in cui, nell'ultimo libro, lasciammo il Baroggi e donna
Paolina rispettivamente all'ava e alla madre, erasi presentata come
una delle più felici risoluzioni di una crisi pericolosa.
Pareva che l'intromissione del vecchio Lorenzo e di Giocondo Bruni
avesse in realtà fatto un miracolo. L'orgoglio di donna
Clelia, che in lei era andato crescendo colla vecchiaia al pari delle
sue folte sopracciglia; la paura che Ada avea de' suoi rimbrotti, e
peggio del lontano marito, aveano ceduto innanzi allo spettacolo
presente della figliuola, che avrebbe potuto soccombere all'affetto e
al dolore e, più ancora, al fatto del grave pericolo in cui
ella s'era messa, fuggendo così imprudentemente dalla casa.
Sotto all'azione di una gioja inaspettata, e nel primo istante che
cessa la causa di un grande dolore, tutti gli uomini, anche i più
ostinati, sono disposti a concedere quello che mai non vorrebbero in
nessun altro momento della vita; un avaro può fare un atto di
carità; un uomo aspro e intrattabile può diventar
pietoso; a un padre snaturato può essere strappata una parola
indulgente. Tuttavia, se questo è vero, è anche
verissimo che quegli atti, imposti dalla violenza, diremo così,
del fatto eccezionale, portano con sè il carattere della
violenza stessa, che è quello di non poter durare. Cessate le
cagioni che agli uomini fecero come cangiar natura, la natura ritorna
tosto alla prova, e spesso con più fierezza di prima; quasi a
vendicarsi di chi avea saputo sopraffarla e domarla.
La
contessa Clelia, dopo aver concesso che il capitano Baroggi sposasse
donna Paolina, tentò ogni cosa per trarre in lungo l'atto
indiscutibile del matrimonio. Sperava che il tempo e la fortuna
potessero improvvisare e mettere innanzi qualche ostacolo ugualmente
indistruttibile. L'orgoglio del sangue, pur troppo, era in lei
tenacissimo. Diremo di più: la rivoluzione di Francia e le
nuove idee e le leggi nuove che decretarono l'abolizione della
nobiltà, le avevano inasprito quell'orgoglio stesso; come
avviene sempre di un sentimento antico e profondo che vien
contraddetto e vietato dal comando della forza pubblica.
Donna
di forte ingegno, convalidava l'opposizione al nuovo ordine di cose
con tutto l'apparato del sofisma scientifico. Però sosteneva
le idee vecchie delle caste privilegiate col duplice elemento, e del
sentimento naturale che non può distruggere sè stesso,
e dell'amore del sistema, che, nelle persone di scienza, si pone
innanzi a tutto il resto, con ostinazione e persino con ira. Non si
ricordava, la vecchia contessa, diventata crudele, che nei giovani
anni non aveva consultato il blasone allorchè la voce di un
tenore, figliuolo di un sarto, le sussurrò all'orecchio parole
d'amore. Quando pensiamo alla tenerezza speciale che noi sentivamo
per questa donna allorchè aveva venticinque anni; quando
pensiamo che avremmo fatta moneta falsa per lei onde aiutarla in
quell'amore di contrabbando, non ci par vero che dovesse venir il
tempo d'odiarla; di odiarla, sì, perchè noi odiamo con
tutta l'enfasi di un odio implacabile tutti coloro che vogliono
distruggere, colla violenza di una falsa legge, l'unica legge
legittima della natura, che suscita gli affetti, e li riscalda e
s'affanna perchè trovino il loro adempimento. Ah! vecchia
contessa scellerata, e come, riandando nella memoria tutti gli
spasimi atroci della tua violenta passione, non imparasti ad avere
pietà delle passioni altrui! come anzi imparasti a farti
torturatrice longanime di due cuori predestinati ad intendersi! E
doveva egli esser questo il modo di compensarci della cura assidua
che ponemmo nel tentare di renderti in addietro così cara e
attraente ai lettori?
Ma
ella, che comandava in casa e dominava la figliuola, e quando parlava
metteva a tacere tutti quelli che non volevano quel ch'ella voleva,
trovò dunque il modo di trarre in lungo il matrimonio, senza
quasi accorgersi, perchè la crudeltà pregiudicata è
cieca, che la povera Paolina languiva e consumava in quella comandata
aspettazione di ciò che era la condizione della sua vita. Del
rimanente, le considerazioni della contessa non in tutto derivavano
da male intenzioni; bensì da quella consueta falsissima
credenza, che il tempo, se mai si riusciva a dividere quelle due
creature, avrebbe fatta la cura radicale d'ogni piaga, e impedito chi
sa quanti guai possibili nell'avvenire. Modo assurdo di ragionare,
che è invalso nei padri, nelle madri, negli zii e nei tutori,
onde s'affannano a provocare nel presente un dolore fortissimo e
inevitabile, per stornare dei dolori futuri ipotetici, che forse non
nasceranno mai, e che non vivono se non nell'immaginazione di quanti
abusano dell'autorità che la legge umana loro ha accordato. Ma
il fatto è tale, e per ora non c'è rimedio.
E
la contessa si appose nelle sue speranze, chè l'accidente
preparò infatti l'occasione di prolungare di più quel
matrimonio.
Siccome
eran tempi di guerra, venne al capitano Baroggi l'ordine improvviso
di partire col reggimento entro ventiquattr'ore per Piacenza. Oh Dio!
che colpo orrendo fu quello per la fanciulla, che colpo per il
Baroggi, quantunque se l'aspettasse.
Quel
distacco sembrò loro non una sospensione più o meno
lunga dei loro desiderj, ma un colpo di scure, una condanna di morte;
e si tennero perduti, perduti irremissibilmente. Chi considera
codesti affanni nella calma di un'anima indifferente, può
riderne e crollare il capo di pietà sprezzante, ma chi soffre
e si tormenta, non per questo cessa di soffrire e di tormentarsi. Il
mondo ha pattuito di sentir compassione e di attestarla perfino in
pubblico, anche fingendo, se uno è assalito da una fiera
malattia corporale; ma le malattie dell'animo, il mondo ha stabilito
di pigliarle in canzone; a meno che la portantina dell'infermiere non
venga a trasportare al desolato manicomio chi ha smarrita la ragione
spaventata dal peso insopportabile della sventura.
Un
ordine di guerra non potendosi trasgredire per nessun conto, il
capitano Baroggi dovette partire, e partì. Al pari
dell'accusato innocente, che sente chiudersi dietro l'uscio del
carcere, dove ha da rimanere Dio sa per quanto tempo, così
rimase donna Paolina nella casa materna, disperata, trasognata,
quando all'ora consueta della visita quotidiana non vide entrar più
il suo giovane amico dalla solita porta, alla quale il suo sguardo
irrequieto volgevasi più e più volte, se la sfera
dell'orologio mai avesse segnato un minuto di più!
Prima
di partire, com'è naturale, ella e il Baroggi fermarono di
scriversi, per trovarsi in quella comunicazione spirituale e
d'immaginazione, che è l'unico sollievo nel dolore della
lontananza. Ma anche qui nacque un incaglio, che la nonna pretese di
legger prima le lettere così del capitano, come della nipote.
Pretesa assurda e tirannica, e tale da rendere illusoria ai fidanzati
la consolazione dello scrivere. Le lettere ove due innamorati si
versano interi nell'effervescenza dell'affetto e dell'affanno,
possono elle subire prima la censura dei vecchi rugiadosi e dei
giudici indifferenti e spietati? Di quelle lettere adunque non ne
furono scritte che un pajo, e anche queste per obbedienza; poi donna
Paolina, nella più fiera desolazione dell'animo, si concentrò
in sè stessa e si tacque. Piuttosto che scrivere quello che
non pensava e non sentiva, piuttosto che distruggere la parte più
viva di ciò che le dettava il sentimento in tumulto, si
accontentò del silenzio. Ma che nacque da ciò? Nacque
che il Baroggi, per molti e molti giorni aspettando lettere indarno,
colla immaginazione inesausta dell'amore che, non pago de' suoi
naturali affanni, inventa sciagure e miserie che non ci sono e
fantastica sospetti d'ogni sorta, si mise in testa che donna Paolina,
in quel breve lasso di tempo, si fosse cangiata a suo riguardo. Già
qualcuno che praticava in casa V..., ed altri che conoscevan lui e la
famiglia, avevangli sussurrato all'orecchio qualche amoretto che la
fanciulla aveva avuto fin da quando trovavasi in collegio; gli avevan
nominato qualche giovane patrizio, che, nelle vacanze autunnali,
trovandosi a villeggiare sul Lario, s'era inteso con lei molto bene,
onde eran corse lettere, e si erano ricambiati saluti e sospiri e
addii.
Qualcuno
pretese persino d'essere stato testimonio accidentale di colloquj
furtivi, e d'aver visto la fanciulla a notte alta uscire
clandestinamente sull'aereo terrazzo ad aspettar l'amante. Avevano
esagerato l'indole troppo espansiva e tumultuosa della fanciulla, e i
bollori del suo sangue adolescente, più forti di quello che
comportasse l'età e l'educazione casalinga. Avean gettato
sospetti di una eccessiva volubilità, per cui la fanciulla
potè avere molti amanti in poco tempo. Il bel mondo, insomma,
com'è suo costume, non avendo a far altro, si dilettò
anche allora, come sempre, a passare il tempo lacerando, senza
darsene per inteso, quella giovinetta riputazione; come una mano
villana, quasi senza saperlo, va sfogliando una rosa appena
sbocciata.
Il
Baroggi, finchè s'era trovato in compagnia della fanciulla,
bevendo la voluttà dell'affetto corrisposto non aveva mai dato
importanza a quelle dicerie, solo accagionando di mal animo e
d'invidia quelli che gli avevan parlato in quel modo. Ma tutte quelle
accuse, che non gli avevan lasciato che una traccia lieve nella
memoria, quando vennero a mancar le lettere, levarono il volo
repentino, come augelli di sinistro augurio, ad oscurargli la vista e
a circondarlo di sospetti orrendi. Un sospetto basta che appena
spunti, che tosto è gigante e veloce, e trascina la
immaginazione spaventata a inventar fatti, che non stanno nemmeno al
possibile.
La
cosa si prolungò per qualche tempo. Il capitano non scrisse
più lettere nemmeno lui. Il silenzio del Baroggi provocò
in donna Paolina i medesimi sospetti ch'egli provava per lei. Ella
ricordavasi degli amori galanti che aveva avuto colla contessa A
,
colla R
, con altre di Milano. - «Quel che ha fatto
qui, potrà farlo altrove», pensava; e si tormentava
pensandolo, e non aveva requie e non mangiava e non dormiva, e
dimagrava un giorno più dell'altro... ma continuava in lei
l'ostinazione di tacere e di non scriver più lettere...
Codesta ostinazione era generata dall'idea che il suo Baroggi (e ciò
avveniva nei momenti meno infelici, che non dubitava di lui), stanco
di quella lontananza senza corrispondenza, avrebbe preso qualche
partito disperato e risolutivo.
In
casa, intanto, la contessa Clelia, vedendo quella sosta delle
lettere, quel silenzio della fanciulla, che non parlava mai, che non
si lamentava mai, perchè il dolore, quand'è
profondissimo, è muto, si argomentò di poter finalmente
tentare una parola per dissuaderla da quel matrimonio.
Ma
lo sguardo onde la disgraziata fanciulla saettò la nonna,
appena si accorse dove andava a finire il suo discorso, fu tale, che
la contessa non ebbe più il coraggio d'andare avanti, e non ne
fece altro per allora, senza però dimettere la speranza che un
giorno o l'altro si sarebbe piegata al suo volere.
Quanto
al Baroggi, dopo aver continuato per tanti giorni a sopportare un
dolore morale superiore a qualunque spasimo fisico, risolse di
mandare a Milano un giovane, col quale erasi stretto in amicizia a
Piacenza e al quale aveva confidato la condizione deplorabile in cui
trovavasi. L'amico accettò l'incarico, e venne a Milano.
Recossi in casa V
, perchè non c'era nessuna ragione che
la visita fosse clandestina. Trovò le tre donne insieme.
Naturalmente il discorso cadde sul Baroggi, e sul quando sarebbero
finite le pratiche per conchiudere il matrimonio. La contessa Clelia
colse un pretesto per far uscir di camera la fanciulla, la quale
obbediente in apparenza, come una pecora avvilita, uscì senza
far motto. Ma quanta disperazione l'amico del Baroggi lesse in
quell'obbedienza muta!
Questa
volta però la contessa, volendo troppo, ruppe l'incantesimo
della sua inesorabile autorità. Se donna Paolina non fosse
uscita in quel punto, non sarebbe nato quello che nacque.
IV
Quando
donna Paolina fu uscita, si ritirò nella propria stanza, e
prese subito il partito di scrivere questo letterino al Baroggi:
«Se
Dio mi ajuta, spero che potrò consegnare all'amico che qui hai
mandato queste righe, che finalmente scrivo perchè non saranno
lette che da te, il solo che abbia diritto di leggerle, ed il cuore
per comprenderle. Non valgo a dirti quello che ho sofferto in questi
orribili giorni; credo che le pene dell'inferno possano essere un
sollievo in confronto. Ho perfino dubitato anche di te. Chi molto
ama, molto dubita. Tra mia nonna che non sa vietare, ma che non vuole
il nostro matrimonio, e la povera mia madre che vorrebbe, ma non ha
il coraggio di opporsi alla nonna, io ho vissuto in continuo
silenzio, nel quale il mio cuore lacerato non trovò mai riposo
un istante.
«È
questo il primo minuto che un raggio improvviso illumina il mio cuore
e la mia mente. Ho risoluto. Lascerò questa casa; il come e il
quando non lo so. Ma ho risoluto, e nessuno potrebbe distruggere gli
effetti del mio proponimento se non coll'ammazzarmi. Per Dio, vorrò
ben vedere sino a che punto saprà giungere la crudeltà
di una vecchia testa piena di pregiudizj. Che nobiltà, che
ricchezze, che leggi, che autorità! Soltanto il mio cuore ha
la autorità legittima di comandarmi di amarti e di seguirti e
di distruggersi per te. Degli altri tutti respingo ogni comando.
Sfiderei Dio stesso, se mi ingiungesse di dimenticarti e di fuggirti.
Ma Dio è buono; così lo fossero i padri e le madri,
che, pur troppo, credono di fare il nostro bene col farci morire, per
piangerci poi quando non si può più risuscitare. Sento,
rumore. - Oh Dio! - Non posso continuare. Ripeto dunque
il giuramento di fuggire di qui e venire da te, e nasca quel che vuol
nascere.»
Intanto
che donna Paolina scriveva, il discorso tra l'amico del Baroggi e la
vecchia contessa Clelia era tenace, forte ed eloquente dall'una parte
e dall'altra. La contessa colla sua dialettica fredda ed inesorabile
come l'algebra e la geometria, che rimasero le consolatrici estreme
della sua tarda età, si provò a dimostrare coll'amico
del Baroggi, che se si fosse riuscito a togliere di mezzo quel
malaugurato matrimonio, si sarebbero scansati infiniti guai; chè,
essendo tempi di guerra, e il Baroggi essendo un soldato, ed un
valorosissimo soldato (qui la lode fu abbondante perchè
giovava al suo intento), le probabilità della morte erano
tante e così vicine, che la povera fanciulla, dato che
avvenisse quel che tutti i giorni avveniva, certo ne avrebbe dovuto
soffrire assai più che col cercar di dimenticare quel giovane.
Parlò inoltre della mancanza dell'assenso del padre della
fanciulla, il conte colonnello S..., del carattere suo, onde non si
sarebbe mai piegato a concedere quel permesso; degli affanni
interminabili che sarebbero sorti per la fanciulla, pel Baroggi, per
la famiglia, quand'anche la fortuna avesse conservata la vita al
giovane capitano.
L'amico
del Baroggi rispose di conformità, con abbastanza eloquenza
anche lui, anzi con un'eloquenza più liscia, più
spontanea e più naturale, perchè la ragione era dalla
sua parte; ma la contessa Clelia non si lasciò smuovere per
questo, e:
-
Lasciate fare a me e al tempo, disse, e tra pochi anni la fanciulla
mi benedirà, e il capitano, o sarà morto, o ne avrà
sposata un'altra, e della figlia di mia figlia appena si ricorderà.
-
Che cosa dunque devo dire al capitano? conchiuse il di lui amico.
-
Tutto quello che avete udito.
-
Ma la fanciulla, signora contessa, non deve essere sentita per nessun
conto in una cosa che tanto la riguarda?
-
Le ragazze devono obbedire e lasciar fare a chi ha la sapienza e
l'esperienza. In ogni modo, è giusto che mia nipote
v'incarichi de' suoi saluti al giovane capitano...; e così
dicendo, diede ordine alla cameriera che andasse a chiamar la
fanciulla.
La
fanciulla entrò lenta e pallida, col letterino già
piegato fra le mani.
-
Il signore parte per Piacenza; se hai qualche cosa da dire al
capitano, egli s'incarica di esserne il relatore.
Donna
Paolina tacque un momento, irresoluta e tremante; poi, come animata
da un coraggio insolito:
-
Quello che dovrei dirgli, l'ho scritto qui; e così dicendo
diede la lettera all'amico del suo Baroggi; indi soggiunse con
significanza che aveva del terribile: Nessun altro che lui deve e può
leggere queste parole.
Quegli
prese la lettera, e senz'altro la ripose. Aveva capito tutto.
La
contessa Clelia fulminò la fanciulla d'uno sguardo minaccioso.
Ma non osò dir nulla. Sentiva d'aver torto a domandar di voler
leggere prima lei quella lettera.
L'amico
partì, promettendo di ritornare il giorno dopo; partì,
e il primo suo atto fu d'impostare tosto quella lettera per Piacenza
alla direzione del capitano Baroggi.
Se
donna Paolina, sempre silenziosa ma risoluta, dovette sostenere una
tempesta di rimbrotti, ottenne però il suo fine. La lettera
giunse a Piacenza; annunciata da quella dell'amico, il capitano
l'aperse tremando; perchè chi ha l'animo agitato teme sempre
sventure! Ma qual fu la sua gioja nel leggerla, quanta allorchè
l'ebbe letta! Un primo raggio di sole che compaja, dopo molti giorni
di una pioggia inclemente, a rischiarare la terra, è un
paragone ben misero per dare una minima idea del trasmutamento che
avvenne nel cuore accasciato del giovine capitano. Baciò e
ribaciò quella lettera, chiamò mille volte cara cara
cara la sua Paolina, con una espansione delira che non può
descriversi a parole, e che è troppo sublime perchè il
mondo indifferente meriti di conoscerla appieno; si rimproverò
dei tanti sospetti avuti e ingranditi ed esasperati con quell'affanno
onde il sofferente sfrega la piaga che lo tormenta. Giurò di
volare in soccorso della sua Paolina, di mettere sossopra cielo e
terra per riuscire nell'intento. E vi riuscì. Allorchè
due si amano intensamente, ed hanno fermo di scuotere il giogo che li
tiene in schiavitù, su cento tentativi, in novanta trovano la
fortuna propizia. E donna Paolina e il Baroggi furono tra i suoi
protetti.
V
L'amico
del Baroggi, che era partito per Piacenza, ritornò presto a
Milano; una vecchia portinaja, la quale era stata sgridata da donna
Clelia, non sappiamo per quali mancanze e minacciata di espulsione,
fu proposta da donna Paolina, tutt'altro che tarda ne' suoi
concepimenti, come assai adatta a far da manutengola. L'amico del
Baroggi pagò la portinaja in modo da lasciarla sbalordita. Una
mattina, mentre suonavano le prime ave marie a San Pietro Celestino,
donna Paolina discese, trovò la porta chiusa, ma lo sportello
spalancato per dimenticanza pensata; e di là, più lesta
di una capriola, corse ad una vettura che la stava attendendo a pochi
passi dalla casa. Quando la fanciulla si presentò, la portiera
si aperse per chiudersi tosto, e via di furioso trotto.
Ed
ora ritorniamo a Roma, e rientriamo nel Colosseo.
Coloro
i quali sono d'opinione che tra figli e genitori corra quel senso
arcano, che volgarmente passa sotto il nome di moto del sangue,
in virtù del quale essi si presentono e s'indovinano
mutuamente, anche allorquando non si conoscono; coloro, a nostro
debole parere, possono essere messi in compagnia di quanti credono
nella bollitura del sangue di S. Gennaro. Il colonnello S...,
intanto, per parte sua, sentiva così poco i moti del sangue
paterno, che adocchiava la giovinetta militarmente vestita, con un
senso di desiderio, ci rincresce a dirlo, di desiderio sensuale, il
quale in ogni modo ben poteva essere perdonato dal momento ch'egli
avrebbe creduto, non sappiamo qual'altra cosa piuttosto che quella
potesse essere sua figlia. Dalla curiosità che per qualche
tempo si limitò al guardare, passò a quella di voler
sapere chi fosse quella bella ragazza, e come si chiamasse il giovane
capitano che stava con essa. Interrogò alcuni ufficiali che
stavangli intorno, ma nessuno aveva il piacere di saperne di più.
Quel desiderio si comunicò allo stesso generale Massena, il
quale, sebbene amasse le doppie di Genova più delle fanciulle,
pure non potè essere indifferente all'aspetto di donna
Paolina.
La
domanda fece in breve il giro di tutto l'anfiteatro, ma rimase senza
risposta, perchè non v'era spettatore che conoscesse il
capitano Baroggi, arrivato in Roma la sera prima. Allora il general
Massena, che, in tutto, anche nelle inezie, voleva quel che voleva ed
era irrequieto e impaziente, ordinò a un ufficiale di prender
notizia di quel capitano non appartenente a nessuno dei reggimenti di
presidio in Roma; e gli ingiunse, ad un bisogno, d'interrogare il
capitano medesimo sull'esser suo.
L'ufficiale,
nell'intermezzo tra il secondo e il terzo atto, senza aspettar altro,
si recò presso il Baroggi, e fattogli il saluto militare:
-
Scusate, ma il generale desidera sapere chi siete, e sono qui per
ordine suo.
-
Io sono il capitano Geremia Baroggi di Milano, del 7.° dragoni,
che ora sta di presidio a Bologna; sono qui in permesso, e ho già
presentato i miei recapiti al comando militare di Roma.
-
Non è per questo, capitano; già si sa che un bravo
soldato fa il suo dovere; ma è perchè il generale
vorrebbe conoscervi.
-
Io mi presenterò al generale domani... Credo che i suoi
alloggiamenti siano in piazza Cavallo.
-
Al Quirinale, capitano.
E
l'ufficiale s'indugiava, adocchiando avidamente la giovinetta, che
affettava, per togliersi d'impaccio, di stare attentissima ai
cambiamenti che si stavano facendo sul palcoscenico.
-
È per voi, proseguì l'ufficiale, una combinazione
fortunata, che il colonnello del mio reggimento sia un vostro
compatriota.
Il
Baroggi guardò l'ufficiale, senza riuscire del tutto a
nascondere l'espressione di un sospetto, che a quelle parole gli
balenò d'improvviso.
Donna
Paolina, senza volgere la testa, anzi continuando a fingere di essere
attentissima a tutt'altro, fu scossa anch'essa a quelle parole di
colonnello e di compatriota.
È
strano che lungo il viaggio, tra le tante agitazioni e paure a cui
furon sempre in preda, non avevano pensato mai alla possibilità
di avere a trovarsi un dì o l'altro col colonnello S..., che
essi credevano in Francia o al Reno.
Ma
il Baroggi, ricomponendosi, interrogava alla sua volta l'ufficiale:
-
Io non posso conoscere tutti i miei compatrioti che entrarono a far
parte dell'esercito repubblicano; ma come si chiama questo
colonnello?
-
È il colonnello S..., ed è quello là
precisamente che sta seduto alla sinistra del generale comandante.
Esso avrà gran piacere di conoscervi, e però non
tardate domani a presentarvi... Ma il generale m'aspetta, ed io vi
lascio.
E
così dicendo, salutò militarmente il capitano e la sua
giovinetta compagna, intorno alla quale non gli era bastato l'animo
di chieder nulla.
Ora
il lettore s'immaginerà facilmente lo scompiglio che si mise
nell'animo e del Baroggi, e più ancora di donna Paolina, a
quella improvvisa rivelazione; scompiglio stranissimo e che era fatto
di spavento, di curiosità, ed anche di qualche gioja. Ella non
aveva mai visto suo padre, almeno non se ne ricordava; e il ritratto
di lui, dipinto ad olio, fatto venti anni addietro, e che era stato
appeso alla parete della sua camera da letto, se il lettore se ne
rammenta, non aveva quella perfetta somiglianza, da far tosto
ravvisar l'originale, se altri non ci mette in sull'avviso. Ella,
intanto che l'ufficiale s'accomiatava dal Baroggi, guardò con
curiosità intensa il conte, e, per quanto lo permetteva la
distanza e la posa in cui esso era adagiato, andava come spiando nel
volto di lui, se ad onta di tutto il male che ne aveva sentito dire,
vi era ancora qualche traccia di quella bontà che la povera
sua madre Ada più e più volte le avea assicurato
trovarsi in lui. E, senza ch'ella medesima quasi il sapesse, pensava
già a tener conto di quella bontà, a tentare di
rivolgerla tutta a proprio vantaggio; ma, pur troppo, in quello
sguardo fiero e saettante del colonnello, in quell'attitudine troppo
militarmente spavalda e come provocatrice, non gli parve ravvisare un
segno solo che la incuorasse.
-
Ed ora che si fa? disse rivolgendosi al Baroggi quando l'ufficiale fu
partito. Io mi sento opprimere... Oh Dio, che cosa abbiamo mai
fatto?...
Il
Baroggi, più che per lo sgomento, rabbrividì a quelle
parole, che rivelarono per la prima volta un sintomo di pentimento
nella sua Paolina.
-
Che si ha a fare? soggiunse poi con calma ostentata; partire senza
perder tempo. Io non ho nessun obbligo di presentarmi al generale.
Donna
Paolina tacque, e piegò la faccia sul petto.
E
il suo volto erasi coperto di quel pallore madido, che accusa un
vicino abbandono dei sensi.
L'ufficiale
intanto aveva fatto il giro dello scaglione, e stava già
parlando al generale Massena. Il Baroggi guardava attento, e vide
dopo brevi istanti alzarsi il colonnello.
Questi
infatti, sentito dall'ufficiale che quel capitano dei dragoni era un
Baroggi di Milano:
-
Oh è gran tempo, troppo tempo che non vedo la faccia di un
Milanese; son curioso di sapere da lui molte notizie di laggiù:
vorrei sapere anche qualche cosa della mia famiglia; così mi
si risparmierà la noja dello scrivere, e la peggiore di
ricevere delle risposte.
-
Ha paura di annojarsi, prese allora a dire ghignando un colonnello di
fanteria che gli stava presso, e sono più di tre anni che non
scrive una riga a sua moglie; e l'unica sua cura, quando cambia di
guarnigione, è di non far mai sapere a casa dove è
stato traslocato il suo reggimento.
-
Ed oggi invece mi viene una strana tentazione di saper qualche cosa.
-
Va la, va là, colonnello, che ho già capito tutto: a te
non dispiace niente affatto quel caro dragoncino là... Però
ti avviso, caro il mio colonnello, che hai passato da un pezzo la
linea equinoziale, e quella ragazza là, se ha diciott'anni è
molto; e per quanto io giri gli occhi sugli ufficiali che ci stanno
qua intorno, non vedo giovane più bello di quel capitano.
-
Chi giuoca di gioventù, chi giuoca di astuzia... e in questo
genere di cose chi ultimo arriva meglio alloggia. Ma e poi, chi ha
detto a te ch'io abbia di queste intenzioni?... oibò... quel
che mi preme è di saper nuove di Milano e di casa mia... Ma
guarda che colei si alza... Davvero, che ragazza più bella non
ho mai veduta al mondo.
-
Si direbbe però che è ammalata...
-
Ammalata o sana, non so cosa dirti; ma la vista di costei mi dà
quel tal genere di noja che... Ah, capisco che io non ho mai da
diventar vecchio.
Così
dicendo il conte si alzò, rifece il giro dello scaglione
percorso prima dall'ufficiale di ordinanza, e si fermò presso
al capitano Baroggi. Messi in rispetto dalla sua divisa tutta a
ricami d'argento, gli spettatori ch'erano là affollati,
provarono la felicità di potergli dar luogo.
Donna
Paolina erasi riavuta dal suo malore istantaneo, e però
raccolse tutte le sue forze quando, avvisata dal Baroggi, vide il
conte lasciare il suo posto e farsi alla loro volta.
-
Caro capitano (il primo a parlare fu il conte), ho piacere di
stringere la mano di un compatriota.
Il
Baroggi, stando in piedi, in quell'atto militare che vuol dire che un
inferiore sta davanti al suo superiore:
-
Io ringrazio, disse, la degnazione e la bontà del signor
colonnello.
-
Sedete, sedete, mio caro, e parliamo un po' tra noi, finchè
cada morto questo Giulio Cesare, che io odio non tanto per quello che
ha fatto, quanto perchè oggi mi ha condannato a tante ore di
noja.
E
così dicendo, si gettò trascuratamente a sedere sui
cuscini dello scaglione...
-
È di Milano anche la signorina che sta con voi? Credo bene di
non sbagliarmi a crederla una signorina... Ah! andate poi a dire che
le donne non stanno bene che colle sottane... Davvero che v'invidio,
il mio caro capitano, v'invidio la fortuna d'avere con voi una così
leggiadra recluta... Ne tenevo una anch'io, vedete, due anni fa, una
fanciulla di Bordeaux, che ho vestito all'ussara come me... una
ragazzotta stupenda, che fermò l'attenzione perfino del
general Bonaparte... Peccato che una bella mattina non siasi lasciata
trovar più, essendo fuggita con un giovane caporale del 17.°
- Ah! cara la mia ragazza, credo però bene ch'ella
vorrà mantenersi un po' più fedele. Ma è di
Milano anche lei?
-
Di Milano, veramente, no, fu presto a rispondere il Baroggi, ma dei
dintorni.
-
Ah, ah, è poi lo stesso... ma ditemi dunque qualche cosa di
Milano... Vive ancora quel bestione del conte Mellerio? Che cosa ha
detto, eh?... quando il suo caro arciduchino ha dovuto pigliare il
dazio... Gran brava gente c'è a Milano... gran bravi
giovinotti... Ma, siamo sinceri, ci sono anche delle gran carogne...
Tuttavia desidero di vedere gli amici vecchi... Ma sapete voi da
quanti anni manco da Milano?... ecco qua.... uno, due, tre
sicuro, quattordici anni
una piccola bagatella
; e sì
che vi ho moglie e figlia e suocera. Ma che cosa volete? vivendo alla
lontana, i matrimonj vanno meglio... Non c'è il tempo
d'odiarsi. Mi dicono infatti che mia moglie mi voglia ancora bene...
povera donna... è una bella donna, vedete, la mia moglie... Ma
voi, caro capitano, avete un certo cognome che... Di qual ceppo di
Baroggi uscite voi? ci sono i Baroggi banchieri... quelli li conosco;
c'è un altro Baroggi... un uomo della mia età, che fu
con me guardia d'onore dell'arciduca. C'è... quel Baroggi per
cui è nato tanto scompiglio per l'eredità del marchese
F... A proposito, come va quella faccenda?... è una faccenda
curiosa, vedete... Ma, e quel birbone del Suardi, vive ancora?...
dev'esser vecchio, perdio!
gran bel birbone però... vi
assicuro che un uomo di quella fatta può far l'onore di
qualunque capitale.
Il
Baroggi taceva, donna Paolina non parlava e tremava; guardando però
sempre in faccia al conte con un sorriso artificiale, che le costava
tutti i sforzi dell'animo.
Cessata
quella tempesta di parole del conte S..., la quale significava una
gran baldanza:
Io, rispose il Baroggi, sono appunto il figlio di colui pel quale
nacque lo scompiglio dell'eredità F...
-
Ah, ah!... ho capito; disse il conte.
Il
modo onde il conte proferì queste parole, dinotava
manifestamente un senso di disprezzo.
-
È morto vostro padre? continuò poi.
-
È morto in Milano dieci anni or sono, poverissimo; e mia nonna
morì l'anno passato... e il marchese F... intanto sciupa
milioni a mantenere preti e frati e spie.
-
Ma e come siete entrato soldato, e in così giovane età
siete già capitano?
-
Io fui più fortunato di mia nonna e di mio padre. E se la
verità non dev'essere nascosta, guai per me, se tutti a Milano
fossero stati galantuomini!
-
Vale a dire?...
-
Vale a dire che, senza gli ajuti del banchiere Suardi, io avrei
dovuto passare qualche anno a San Pietro in Gessate.
A
questo punto, le trombe della banda militare avendo annunziato che
incominciava il terzo atto, e tosto essendo usciti sulla scena
Cassio, Cimbro, Decimo e gli altri congiurati, il dialogo
necessariamente fu sospeso. Così lo fosse stato per sempre!
VI
Il
colonnello, al ricominciare dell'azione, si alzò, e detto al
capitano che lo consigliava a recarsi la sera a veglia negli
appartamenti del generale, dove per consueto si raccoglieva il fiore
de' cittadini e dei forestieri, si allontanò lentamente, e
ritornato al suo posto presso al general Massena, gli parlò in
modo, che questi impose all'ufficiale d'ordinanza di recarsi, prima
che finisse lo spettacolo, a invitare formalmente il capitano Baroggi
e la sua donna.
Proseguiva
intanto l'azione. Già, Cassio aveva declamato tra gli applausi
generali que' versi:
Enfin
donc l'heure approche où Rome va renaître:
La
maîtresse du monde est aujourd'hui sans maître.
Già
Bruto, nel dialogo con Giulio Cesare, aveva destato entusiasmo, e
strappato le lagrime ai veraci repubblicani, segnatamente a quel
passo dove, gettandosi ai piedi di Cesare, esce in quelle parole per
verità sublimi:
César,
au nom des dieux, dans ton coeur oublies;
Au
nom de tes vertus, de Rome et de toi-même,
Dirai je,
au nom d'un fils qui frémi et qui t'aime,
Qui
te prefère au monde, et Rome seule à toi,
Ne
me rebute pas!...
Il
terz'atto adunque, fino a questo punto, piacque assai più
degli altri due, e lo spirito repubblicano si era talmente
impadronito di tutti gli spettatori, che anche alcuni patrizj delle
più illustri case di Roma, e che non era usciti senza fede in
nessun Dio, ma per non sapere a che appigliarsi; anche qualche dotto
memore ancora della protezione pontificia e cardinalizia; anche
qualche pagnottista, di quelli che hanno l'intelletto e il
cuore nel ventre, pur si sentirono scossi a quelle parole; e colti
all'improvviso in quel momento, e costretti a votare, certo avrebbero
messa la palla bianca nell'urna repubblicana. Se non che, tutto
questo entusiasmo finì per produrre un uragano, non molto
piacevole al capocomico Rosier e all'appaltatore.
Come
fu già detto, dal palazzo Spada era stata trasportata sulla
scena, che rappresentava il Campidoglio, la statua di Pompeo.
La
parte men colta del popolo, la quale costituiva, com'è
naturale, i quattro quinti del pubblico, non avendo letto prima la
tragedia di Voltaire, credeva, e per verità ne aveva tutte le
ragioni (chè per una semplice esposizione poteva bastare il
palazzo Spada), che la statua di Pompeo non a caso fosse stata
trasportata sul palco; e però, nell'estrema accensione della
sua ira repubblicana, aveva rivolta tutta l'aspettazione al momento
in cui i congiurati avrebbero trafitto il tiranno, ed esso,
dignitosamente avvolto nella toga, sarebbe caduto a' piedi del
simulacro del rivale.
Ma
Voltaire aveva troppo studiato Orazio, ed essi non conoscevano quel
passo:
Non
tamen intus
Digna
geri promes in scenam......
Nec
pueros coram populo Medea trucidet. -
Come
dunque sanno tutti coloro che hanno letto la tragedia di Voltaire,
questi, colto il punto in cui Dolabella intrattiene i Romani colle
lodi di Cesare, fa scoppiare di dietro alle scene le grida dei
congiurati:
Meurs,
expire, tyran; courage, Cassius;
e
fa uscire, momenti dopo, questo Cassio appunto col pugnale in mano a
gridare come un invasato:
C'en
est fait, il n'est plus;
e
impegnasi tra Cassio e Dolabella una gara a chi più riesce a
tirare a sè il popolo:
-
Peuples, secondez moi, frappons, perçons ce traître.
-
Peuples, imitez moi: vous n'avez plue de maître.
Ma
il popolo vivo e presente, ch'era assai più repubblicano del
popolo romano della storia e dell'archeologia, dando ragione a Cassio
e a tutti i suoi amici, non voleva però che dell'uccisione di
Giulio Cesare se ne facesse un segreto di consorteria; onde da un
punto all'altro dell'anfiteatro cominciò una tempesta di
grida:
-
E muoja dunque Giulio! muoja, muoja!
-
È morto! gridò allora stentoreamente uno del popolo.
E risorga, per Cristo... vogliamo vederlo noi a morire... vogliamo.
Gli
attori si arrestarono a quel tumulto inaspettato, senza conoscere di
che si trattasse. Qualcuno s'interessò a far loro sapere la
cagione dell'ira pubblica. E qui si avviò un dialogo tra
pubblico e attori. Gli attori eran forti dell'autorità di
Voltaire; il pubblico accennava la statua di Pompeo, e voleva che
Cesare fosse trascinato là, e là fosse trafitto...
E
in quella un uomo di Trastevere, tarchiato e terribile e con una
testa da Caracalla:
-
E son qua io, gridò, per Cristaccio! dov'è sto Giulio?
dov'è? ch'io lo spaccerò io, lo spaccerò.
Quel
popolano di Trastevere fu in breve seguito da gran moltitudine di
compagnoni, che tutti si misero a gridare ad una voce: morte a
Cesare! vogliam vedere Cesare morto!
Il
tumulto andò tant'oltre, che l'appaltatore si recò dal
generale Massena, supplicandolo perchè provvedesse a
metter fine colla forza a tanto disordine.
-
E che ci ho a far io? Tocca a voi a tirarvi di impaccio, rispose il
generale. Dopo tutto, che difficoltà avete a improvvisare in
vista del pubblico e ai piedi della statua di Pompeo la scena che
avete gridato di dentro?
-
Nessuna difficoltà, ma Giulio Cesare è fuggito.
-
Come fuggito?
-
Per paura che il popolo lo pigliasse davvero per il Cesare di
diciotto secoli fa, lasciò andar giù in fretta e toga e
manto, rivestì i proprj panni e se ne andò.
-
Ma in che modo se ne andò, se il palco è nel mezzo
dell'anfiteatro?
-
Tanto fa, non c'è più. Bisogna che il popolo non
l'abbia riconosciuto.
Il
fatto strano fece ridere anche il generale, che rideva poco e aveva
tutt'altro per la testa; poi soggiunse:
-
Se l'antico e vero Cesare avesse fatto come costui, forse il mondo
avrebbe pigliata un'altra strada.
-
Ma or che si fa, generale? Sentite come il popolo urla laggiù.
Guardate che già piglia d'assalto il palco scenico.
Il
generale non si moveva, e guardava, e non dava ordini. Pareva che
prendesse gusto a quella scena.
Difatto
il popolo penetrò a furia nell'edificio capitolino, innalzato
con trabacche per far scena; ne snidò tutti i congiurati in
toga: Cassio, Casca, Cimbro, il medesimo Bruto, che è tutto
dire; investendoli e lor domandando fieramente che cosa avevano fatto
di Giulio Cesare.
Se
non che a un altro uomo del popolo scappò detto:
-
Ebbene, se è fuggito il tiranno, pigliamoci questo
Marc'Antonio che sta qui e ammazziamo lui.
Non
l'avesse mai detto! Tutta la furia del popolo si rivolse di colpo
contro il povero comico incaricato di quella parte odiosa; il quale
cadde svenuto per la gran paura.
Fu
allora che il general Massena mandò tosto colà un
picchetto di granatieri a far finire l'atroce burla.
Per
chi dall'alto del Colosseo avesse guardato con intento filosofico
quella scena, quel miscuglio d'antico e di moderno; quella statua di
Pompeo che parea davvero far retrocedere tutti gli spettatori a
diciotto secoli addietro; quelle toghe e quei manti misti alle
giacchette de' Trasteverini; in ultimo i granatieri della repubblica
nuova che vennero a spianar le bajonette contro un popolo che
mostrava d'amar tanto la repubblica vecchia, e che voleva saziar la
vista nello spettacolo della morte di Cesare, ben poteva trovare.
argomento di peregrine considerazioni.
Or
chi avrebbe mai pensato, tra quanti erano congregati in quel famoso
ricinto, che, nonostante la memoria di Giulio Cesare fosse tanto
odiata da destare un commovimento per tutta Italia, e un rigurgito di
tutti gli Italiani repubblicani in Roma, per assistere ad uno
spettacolo, che, dato nel Colosseo, pareva dovesse riuscire solenne e
pieno di grande significanza; chi allora avrebbe pensato, ripetiamo,
che fra poco stava per scaturire dal repubblicano Bonaparte la
seconda edizione del Cesare antico?
Ma
lasciando le inutili considerazioni, e tornando ai nostri personaggi,
l'ufficiale d'ordinanza, nel momento che i granatieri del general
Massena comparvero sul palco scenico a respingere i popolani
inferociti, si recò di nuovo presso il capitano Baroggi, al
quale richiamò in prima le parole del colonnello; poi si
rivolse a donna Paolina, per significarle che il generale Massena
invitava anche lei a volere onorare la consueta veglia, ch'esso
offriva ne' suoi appartamenti ai repubblicani di Roma, d'Italia e di
Francia.
Ora
quando il Baroggi e donna Paola lasciarono il Colosseo e si trovarono
districati dalla folla, che a vortici li aveva circondati e oppressi
finchè si trovarono in quelle vicinanze, ricominciarono più
seriamente che mai la loro consulta.
-
Il mio partito, diceva il Baroggi, è che si debba partire, e
senza perder tempo, e meglio stasera che domattina.
-
Così si fugge il pericolo presente, questo è
vero; ma nemmeno si provvede all'avvenire.
-
Ma com'è che non dividi, mia cara, il mio pensiero, se pure
alla sola vista di tuo padre minacciavi di cadere in isvenimento?
-
E che vuoi? Questo mio padre, ho un presentimento che pure debba
esser lui quello che ci debba far uscire da questa condizione di pena
e di paure continue. Egli mi pare uomo più bizzarro che
cattivo. È un soldato valoroso, questo lo dicon tutti; di più
è un repubblicano caldissimo, e fu dei primi a far guerra alla
nobiltà. Ora, qual fu la nostra più gran nemica?
codesta nobiltà appunto che alla contessa Clelia sembra
Vangelo.
-
Tu parli benissimo: ma io ne ho conosciuti assai di questi
repubblicani stati ricchi e stati nobili... Ho provato anche a
stuzzicarli. Or piglia la più superba e pinzochera damazza
del biscottino, e credi, che in confronto può parere un
sanculotto. Non hai veduto come egli si scontorse, quando gli dissi
ch'io non era altrimenti nè il Baroggi figlio del banchiere,
nè un parente del Baroggi guardia d'onore? Anche a te è
riuscito di veder questo?
Il
Baroggi in quel breve colloquio col conte aveva perfettamente
indovinato il vero; ma donna Paolina, per sua disgrazia, non fu dello
stesso parere, e tanto disse e ridisse, che la sera e l'uno e l'altra
furono nelle sale del general Massena.
Il
lettore non si metta in isgomento, chè noi non descriveremo
quelle gioconde veglie. Già quasi tutte le grandi celebrità
artistiche, come letterarie, e patrizie, e muliebri, erano uscite di
Roma. Il Canova era andato a pigliar aria nel Veneto: Pompeo Battoni
stava godendo il fresco alla Riccia: il Piranesi erasi riparato a
Ercolano: Vincenzo Monti, mutati i panni, già assisteva a
Milano al rogo cui venne condannata la sua Basvilliana:
Winkelmann moriva asfissiato per non poter più bere l'acqua di
Trevi. Solo era rimasto in Roma a far il triumviro l'archeologo
Visconti. In quanto ai cardinali (parliamo dei dotti e dei celebri, e
di quelli che si ha la curiosità a vederli e a sentirli a
parlare), innanzi tutto non sarebbero mai andati a far la loro corte
quotidiana a un soldato; ma quel che meglio si dee sapere, è
che in Roma non ce n'era più nemmeno uno, anche a metter fuori
la mancia d'un milione di scudi romani. Delle donne, celeberrime per
casato e per beltà, le Braschi, le Borghesi, le Massimi, le
Buoncompagni, le Santa Croce, le Rezzonico, ecc., ecc., avevan tutte
preso il volo ben lungi, in coda ai loro zii e cognati e fratelli
principi; non rimaneva dunque che la nobiltà dei gradi più
bassi; poi le bellezze borghesi nate in seno alla ricca mercatura, e
che vedute dall'occhio dell'artista e da un amante sincero delle
belle donne, facevan lo stesso effetto delle assenti. Diciam tutto
questo perchè il lettore comprenda il motivo della descrizione
mancata. Se presentassimo l'elenco di tutti gli intervenuti, egli non
conoscendo nessuno di costoro, non potrebbe prendervi interesse di
sorta.
In
ogni modo, colle belle donne patrizie e mezze patrizie, e colle
altre, gli ufficiali dell'esercito repubblicano passavano le loro
notti lietissimamente, prolungando i giuochi e le danze ad ora
tardissima. Nè il colonnello S..., sebbene avesse toccato i
suoi quarant'otto anni, si era ancora ritirato dal campo
sdrucciolevole della danza e della tresca amorosa. La cosa è
precisamente così; nè serve, o lettori, crollar la
testa in aria d'increduli. Ma egli era ancor bello ed elegante della
persona; ma egli era snello e nerboruto; ma, a lume di sera, due
lustri buonamente scomparivano dalla sua faccia; ma innanzi tutto, si
credeva giovane; e a questo mondo ognuno è quello che crede di
essere. Intanto già qualche beltà di prima fila,
sebbene non più celibe, guardate che errore! gli si era
sfregata presso lusinghiera e carezzosa; intanto già qualche
ufficialetto, che contava venti o venticinque anni meno, aveva
ricevuto da lui qualche colpo invincibile, ed era stato messo fuori
di partita. Intanto... ma intanto fece senso a tutti, che donna
Paolina, l'angelico dragone che aveva fermato l'attenzione di tutti
gli spettatori del Colosseo, la prima sera stessa che venne a quella
veglia, bella di quella bellezza fatale che fa classe da sè e
non appartiene a nessuna scuola, come il genio, avesse mostrato già
tanta propensione per quel colonnello, che poteva essere chiamato la
Ninon del suo sesso e della sua classe; tanta inclinazione da
ballare con esso lui quattro contraddanze in due ore; e da lasciare
in un canto il bellissimo capitano Baroggi.
VII
Uno
dei più grandi spropositi, o, per dir meglio, uno dei tiri più
assassini che la natura ha fatto all'umanità, è quello
di non aver voluto, attraverso alla vita, tener sempre in accordo le
facoltà della mente e del sentimento colle qualità
appariscenti del corpo. Il corpo invecchia e perde d'anno in anno
tutte le sue seduzioni; e perchè la crudeltà riesca
ancora più squisita, il volto, che è sempre in vista,
le perde ancor più presto. Nel tempo istesso che l'intelletto
può sfolgorare in tutta la sua forza giovanile, e il
sentimento può ancora esaltarsi colla foga di un'esistenza che
s'affaccia per la prima volta al tumulto della vita, il corpo mostra
i segni della dissoluzione, che stornano ogni simpatia. Allorchè
un uomo viene a trovarsi in codesto funesto sbilancio tra le
attrattive corporee e i desiderj dello spirito, può ben dire
d'esser tisico in quarto grado. Una tale condizione si rende sempre
più grave, quando negli anni della giovinezza abbia avuto il
dono o il malefizio della beltà, che è il biglietto
d'ingresso al teatro delle seduzioni, degli incanti, della voluttà
dell'esistenza; e diventa ancora peggiore, pericolosa e inquietante,
quando un uomo, pur in quell'età in cui non sono permessi che
gli affetti per i beefsteak e il vino di dieci anni, conserva
tuttavia qualche raggio della gioventù. Quei raggi, se pur
vibrano splendidi e ardenti quando vibrano, serbano però la
pessima qualità dei soli di temporale, che vengono, ma vanno
tosto, e lasciano lo spettacolo della natura più desolante di
prima. Nell'istante che quei raggi brillano, la giovinezza inesperta
e ardente può mostrare per essi delle tendenze affettuose; e
allora chi ha avuto la disgrazia di non saper stare sul proprio, se
pure riesce a sentir rinnovate per un momento le gioje degli anni
giovanili, può anche, quando non sia uno stordito, contare
sulla certezza di essere in brevissimo tempo abbandonato e
soppiantato. Il conte Achille S... si trovava nel colmo di tutte le
condizioni suaccennate; e per disgrazia aveva anche l'ultima, di non
essere uno stordito, e di essere espertissimo della vita. Sapeva di
aver passata la gioventù; sapeva che, tutt'al più,
poteva far l'effetto di un fuoco d'artifizio; ma conoscendo di
possedere ancora dei bei momenti, per usare una frase da teatro,
cercava le tentazioni, e si adagiava in quelle, e amava illudersi.
D'indole
irritabilissima e bisbetica fin dalla prima giovinezza, ossia fin da
quel tempo che tutto gli andava a gonfie vele, quei caratteri gli si
inviperirono durante la sua più matura virilità, e tra
le cause di ciò vi fu appunto quella particolare condizione in
cui venne a trovarsi ad onta della sua vita distratta in molte
occupazioni e specialmente nelle cure della milizia e della guerra,
la quale era in lui una vera passione. Lusingato ancora dalle donne
perchè gli rimanevano delle qualità attraenti e
brillanti, egli sentendosi del sangue e della foga giovanile, si
lasciava attirare nel loro vortice; ma poi, pensando ai proprj anni e
alla distanza che intercedeva tra l'età e l'impeto del
sentimento, non si fidava della sorte che gli era pur sempre cortese
di lusinghiere avventure, e viveva continuamente in timore del domani
e sempre iracondo e geloso. Il fatto dell'abbandono della bella
vivandiera di Bordeaux, che lo aveva posposto ad una recluta del 17°,
finì a renderlo sempre più diffidente. Ma il decrepito
e volgarissimo adagio, che il lupo lascia il pelo e non il vizio,
basti a spiegare, come, nonostante l'età e la recente
sconfitta, e la sfiducia di sè e d'altrui, non sapesse
resistere alla tentazione di avvicinarsi alla fanciulla Paolina, e
non potesse poi raffrenare l'esaltazione della gioja e della vanità
soddisfatta, quando nel contegno di colei gli parve di scorger tutti
i segni di una vera simpatia.
Chiunque
in fatti si fosse trovato ne' panni del conte S... poteva avere
ragionevolmente tutto il diritto di creder che donna Paolina gli si
fosse repentinamente incapricciata dietro.
Tanto
è ciò vero, che tutti gli astanti credevano lo stesso,
sebbene alla maggior parte non paresse nè naturale nè
giusto.
Alla
stessa fanciulla, una notte, per una sola parola che le disse il
conte, il quale del resto, in ogni cosa, sempre erasi comportato seco
coi più squisiti riguardi, balzò repentinamente un
sospetto, che le fece gelare il sangue, e che la persuase senza più
a mettere in esecuzione il proprio disegno.
Quando
la fortuna ci è nemica, di quanti elementi si ajuta, e come sa
convergerli tutti a danno nostro!
Donna
Paolina, staccatasi dal conte S... un momento dopo sentita quella
parola che la mise in iscompiglio, s'avvicinò al capitano
Baroggi, e gli disse in tronco:
-
Stanotte quando partiremo di qui, voglio finir tutto e palesarmi a
mio padre.
-
Bada a te, che ciò non sia per il peggio.
-
Continuar questa vita non è sopportabile in nessun modo.
Meglio star peggio che star così.
Detto
questo, si distolse da lui e si gettò a sedere, pensando
seriamente quello che doveva fare.
Ella,
quantunque fosse assai giovine, pure aveva già quel che si
dice un carattere, e quell'altra dote ancor più rara
nell'adolescenza, la sicurezza determinata delle azioni.
Fermò
dunque risolutamente il partito di palesarsi in quella notte stessa
al padre; pensò al modo più conveniente di prepararlo;
s'immaginò il dialogo che ne sarebbe derivato; le conclusioni
che si sarebbero sviluppate. - «Egli ha per me una
deferenza speciale, pensava; di questo posso esser certa; d'indole
bisbetica, iraconda, insofferente, come lo vuole il giudizio comune;
con me, con me sola è gentile, amabile, quasi direi cedevole,
obbediente. Quando sentirà, quando saprà ch'io sono la
sua figliuola, naturalmente dovrà crescere in lui, in forza di
questa rivelazione, quell'affetto che senti spontaneamente senza
conoscermi. Non si protragga dunque più oltre un tempo così
prezioso, e forse domani sarò felice.»
Ma
qui si fermò, e ripensando l'ultima parola che il conte le
aveva rivolta, si andava conturbando, e diceva fra sè stessa:
- Io ho tardato forse un po' troppo. - Dovevo parlargli
jeri - l'altr'jeri. - Ma forse a quella parola io ho
dato un significato di cui egli non aveva l'intenzione. Ma, in ogni
modo, quand'anche fosse vero quello che penso, non è possibile
che si converta a mio danno. - Non è possibile. -
Non
sapeva la fanciulla, perchè la naturale acutezza non poteva
tener luogo d'esperienza, che l'amore è l'ideale
dell'egoismo e dell'avidità; che vuol tutto per sè e a
modo suo; che esso, fintantochè gli affari vanno a seconda, è
lieto, è caro, è soave, è condiscendente, è
tutto quello che si vuole che sia. Ma se la fortuna gli volta
l'occhio e gli succede un rovescio, le medesime furie sono lente
ministre ai suoi comandi, e diventa un tiranno crudele, vendicativo,
implacabile.
Or
continuando, donna Paolina, mentre stava meditabonda e grave in quel
modo, era, senza che se ne accorgesse, l'oggetto degli sguardi di
tutti.
-
Oh beato colui, diceva uno, che la rende cotanto pensierosa!
-
Oh come è cara, seduta così in quell'abbandono!
-
Oh guarda com'ella sembra la meditazione travestita da soldato!
E
il conte che la vide in quella posa e la contemplò a lungo,
lentamente poi le si accostò, e: - A che pensate? -
le disse.
-
Pensavo a una cosa, rispose donna Paolina, per cui mi è
necessario parlare con voi a lungo.
-
Io sono sempre disposto all'obbedienza. Partendo di qui con vostro
marito e col resto della compagnia, faremo la via più lunga
del solito, e avremo tempo di parlarci.
Il
conte S
, dando all'aria estremamente pensosa e preoccupata
della giovinetta un'interpretazione troppo lontana dal vero, credette
che le parole di lei non fossero altro che un piano inclinato ad una
dichiarazione esplicita. L'amore è poeta lirico, e i suoi voli
sono spesso temerarj.
Or
venne l'ora che gl'intervenuti alla veglia lasciarono gli
appartamenti del general Massena. Come avviene in tali ritrovi, nel
partire si univano in varie compagnie, a seconda che portava il
bisogno di far la medesima via per la vicinanza delle dimore. Il
capitano Baroggi diede il braccio ad una Aldobrandini, bellissima
donna, la quale credendo che donna Paolina si fosse incapricciata del
colonnello, e ciò al capitano non desse molt'ombra, aveva
messo l'occhio a quel posto, quando mai fosse rimasto vacante; anzi
aveva già inoltrato la sua petizione ambidestra, con quel
garbo astuto e insidioso di cui le donne sono maestre inarrivabili.
Altri s'erano uniti ad altre. E donna Paolina s'era appoggiata al
braccio del conte S..., il quale, rallentando il passo, lo misurò
in modo da rimanere l'ultimo della processione.
-
Dunque, o cara, che cosa avete a dirmi? Così il conte pel
primo cominciò un dialogo, dal quale si attendeva di esser
fatto retrocedere al mondo primiero della sua fortunata gioventù.
-
Oh! io sono infelice, rispose donna Paolina.
Tanto
le donne esperte quanto le fanciulle inesperte vanno sempre d'accordo
nel mettere innanzi quest'antifona, allorchè vogliono
stringere qualcuno nella loro rete. E però il conte S
,
che in tanti amori passati ricevette sempre quelle petizioni
muliebri, segnate appunto col perpetuo bollo dell'infelicità,
non ebbe torto se a quell'esordio del dragone angelico: - Or
ci siamo, pensò; ma non poteva andare altrimenti! -
Tanto si teneva certo!
-
Io sono infelice, continuava la fanciulla, e voi solo, una vostra
parola può farmi la più felice delle donne.
A
queste parole fece succedere alcuni istanti di pausa, perchè
un grande spavento l'assalì nel punto di avviare un discorso
con cui giocava, a dir così, tutta la sua fortuna. Alla sua
volta, il conte S... stava in sull'ale, nell'aspettazione ansiosa di
quella sentenza risolutiva che, secondo lui, doveva cangiare in
certezza il suo desiderio e la sua speranza.
-
Perdonatemi, colonnello, riprese poi donna Paolina, se oso farvi una
domanda: Che cosa avete pensato di me la prima volta che mi vedeste?
-
Che cosa ho pensato... non saprei dirvelo: cento cose e nessuna. Ma
spiegatevi meglio.
-
Voglio dire, che giudizio avete fatto di me, vedendomi in compagnia
di un giovane capitano?
-
Ma non siete voi sua moglie?...
Donna
Paolina taceva.
-
Il mio giudizio dunque fu, proseguiva il conte, che il capitano fu il
più fortunato degli uomini nel trovare una così
avvenente e cara sposa.
Donna
Paolina tacque a lungo; poi, tutto a un tratto, fermandosi e
stringendo fortemente la mano al conte:
-
Ah, non è vero che noi siamo marito e moglie! Non lo si volle
da chi aveva l'autorità di volerlo. Noi siamo fuggiti insieme,
per non morire d'affanno.
Il
conte cominciò a non capire, e a turbarsi senza sapere perchè.
-
Questa nostra condizione, seguiva la fanciulla, è tale che non
può continuare. Io mi figuro un giorno o l'altro di venir
staccata per forza da lui; Dio! che sarebbe mai di me, se ciò
avvenisse. Certo che non potrei più vivere.
Il
conte pensava intanto fra sè: - Dunque mi sono
ingannato!
Il
pensiero formulato non fu che questo, ma l'animo del conte era
rimasto stranamente percosso; tanto il colpo era stato inatteso; nè
sapeva trovare una parola per risospingere il discorso della
fanciulla, che ancora s'era messa a tacere.
Alfine,
per non sembrar dappoco e anche per tirare indietro, se fosse stato
possibile, quel po' di sospetto che già aveva gettato
nell'animo della fanciulla con quella tal parola che il lettore sa,
riassunse il consueto suo fare disinvolto e bizzarro, spingendolo fin
quasi alla caricatura:
-
Cara la mia ragazza, disse poi, vi siete messa in un brutto impiccio;
brutto assai, cara. E in un impiccio ancor peggiore si trova il
capitano - perchè, in conclusione, voi siete minorenne,
e il capitano, volere o non volere, vi ha portato via colla forza
della seduzione. Capisco che sarà stato colla migliore
intenzione. Diavolo! sono incapace di dubitarne. Capisco che il
capitano non avrà dovuto pregar troppo; non è vero,
cara mia? Siamo sinceri qualche volta. Voglio anche ammettere che i
parenti avranno tutti i torti, e che l'autorità farebbe meglio
a non impicciarsi in queste cose; ma i parenti ci sono, e l'autorità
dà sempre ragione ai parenti. Povero capitano! Mi rincresce,
mi rincresce davvero. Mi rincresce per voi, mi rincresce per lui,
tanto mi è simpatico. Ma ora, alla mia volta, devo domandarvi
per che ragione avete detto tutto questo a me?
-
Per che ragione? perchè so che voi conoscete quei di casa mia,
e che...
-
Che cosa?
-
E che siete conoscentissimo di mio padre.
-
Io conosco vostro padre?... Ma chi è vostro padre?... Ma
perchè non mi avete mai detto niente?...
-
Perchè avevo paura, come ho paura...
-
Paura di che?
Qui
la fanciulla fermò il passo. Erano ai piedi della scalea di
Trinità de' Monti. Gli altri della compagnia erano già
saliti.
Ella
tirò a sè d'improvviso il braccio che il conte teneva
sotto il proprio; con ambe le mani prese e strinse la mano del conte;
poi, gettandosi in ginocchio, la baciò bagnandola di lagrime.
-
Ma che è questo? ma che fate? diceva il conte. Ma badate che
potete esser vista...
-
Ah! prima ch'io continui a parlarvi, datemi una promessa.
-
Ditemi di che si tratta, e vedrò...
-
Promettetemi di aiutarmi, e di far tutto dal canto vostro, perchè
io e il capitano possiamo diventar marito e moglie.
-
Ma come posso dare una promessa senza conoscere alcuna delle
circostanze che...
-
Vi assicuro che voi potete tutto; vi assicuro che una parola vostra
può bastare a renderci felici..
E
continuava a stare in ginocchio, ad onta degli sforzi del conte per
rialzarla. Ma il conte, a un tratto, ritirò a sè le
mani che la fanciulla stringeva, lasciandosela cadere ai piedi come
una Maddalena penitente.
Un
lampo, come quello che viene dal fulmine, aveva di repente solcato il
bujo del suo pensiero.
Spesse
volte, nelle vicende umane, un fatto istantaneo, un motto, un gesto,
rischiara a un tratto una successione di accidenti, sui quali per
gran tempo il pensiero era trascorso inavvertitamente. Quando il
conte sentì dalla bocca del capitano Baroggi ch'esso era
nativo di Milano, e che era di Milano anche la fanciulla che avea
seco, dovendo pure risovvenirsi d'avere una figliuola di quella età,
non par vero, come un tal pensiero non lo dovesse grado grado guidare
a scorgere nel volto della fanciulla le traccie evidenti della
somiglianza propria e della materna; non par vero, come non abbia
sentito la tentazione di domandare qual era il cognome della famiglia
di lei; non par vero, come lo stesso attaccamento eccezionale e
straordinario ch'essa avea mostrato per lui, non dovesse, insieme
colle altre circostanze, condurlo sulla via giusta per la quale si
poteva arrivare a scoprire la verità.
E
certo, se non ci fossero stati gli estremi avanzi della gioventù
che lo portarono issofatto su di un altro terreno, egli avrebbe
saputo ogni cosa prima che altri avesse parlato. Ora gli ultimi atti
di donna Paolina, rimovendo appunto ogni idea d'amore, gli fecero di
colpo balenare dinanzi quella verità che non aveva mai
cercata; di modo che, quando donna Paolina tremante singhiozzante gli
confessò di essere sua figlia, la rivelazione fu inutile,
perchè egli aveva già tutto indovinato. Se non che
quella parola pronunciata tolse il conte dall'affannoso stupore in
cui trovavasi, e, senza alcun riguardo, mandando un grido, che era
tra l'esclamazione dell'uomo e il fremito della fiera, respinse di
forza la figlia, che cadde stramazzoni sul terreno, ed egli fuggì.
VIII
Non
essendoci noi mai trovati nella condizione del conte S..., la sua ci
si presenta come una malattia affatto nuova del cuore umano, sulla
quale non abbiamo mai avuta l'occasione di esercitare nessun studio
anatomico. Bisogna adunque che tiriamo ad indovinare e a congetturare
e a slanciare ipotesi; e poi, colla sfacciataggine di un filosofo che
si diverte ad andare a caccia del vero primo, vendere per cose
provate le persuasioni del nostro pensiero.
Quando
il conte S..., lasciata cadere la propria figliuola, si diede a
fuggire come un uomo uscito di senno, bisogna confessare che le
cagioni di quella repentina esaltazione erano state così
forti, così eccezionali, da rimanere in dubbio chi fosse in
quel momento più degno di pietà, se lui o la figliuola.
E tra le cagioni mettiamo anche quelle che procedevano dalle cattive
e inveterate abitudini della sua vita, dal carattere speciale della
sua mente e del suo cuore, dai pregiudizi naturali e avventizj della
sua educazione, dalle medesime sue colpe. Al cospetto di un morbo
fisico, grave e doloroso, il paziente desta sempre compassione in
chiunque non appartenga al tribunale della Santa Inquisizione. Pel
filosofo che osserva i dolori umani coll'intendimento della cura e
non della vendetta, il primo suo sentimento è la pietà
e il desiderio di alleviar le pene. Egli assomiglia al medico
razionale e galantuomo, che non abbandona l'ammalato, nè lo
maltratta, quand'anche sia stato la cagione del proprio male.
Un
padre anche il più mite di carattere, che trovi una propria
figliuola nella posizione di donna Paolina, certo che non potrà
mai reprimere, a tutta prima, il dolore e l'indignazione. Ora il
conte S... era tutt'altro che mite. In aggiunta, quantunque egli
ostentasse il più radicale repubblicanismo, pur s'indispettiva
quando alcuno affettava di non sapere ch'egli era nobile. Era un
fatto interno, ch'egli medesimo quasi ignorava, ma non per questo era
men forte. Amava la nobiltà, e con dispiacere vedeva abbattuti
i suoi privilegi; e se in una gara, in un duello tra un nobile ed un
uomo senza titoli, vinceva o perdeva il primo, senza sapere il
perchè, ei gioiva o s'indispettiva per lui. Era quella una
malattia del sangue insieme e dell'educazione.
Ora
la sua figliuola, secondo lui e secondo tutti, s'era disonorata
fuggendo, e si sarebbe disonorata anche fuggendo col più
illustre personaggio; ma ciò non bastando, per rendere ancor
più grave la colpa, essa era fuggita con un giovane di tanto
inferiore alla sua condizione; con un figlio di una guardia di
finanza.
Nè
qui finivano le esacerbazioni; ma al dolore paterno, che ha una
maniera affatto propria di manifestarsi, veniva, nell'istante
fuggitivo almeno, a mescolarsi un altro dolore, affatto nuovo, acuto
e spasmodico più ancora del primo; e, ciò che è
peggio, un dolore che si vergognava di sè stesso, per trovarsi
al cospetto e in compagnia di quell'altro dolore, il quale almeno, se
era acuto, era anche legittimo. Oh! mettiamoci un momento ne' panni
del conte, e se non siamo farisei, confessiamo che era ben degno di
compassione, e che nessuno più di lui poteva rendere
verosimile l'iperbolica similitudine del poeta, che, per
rinfrescarsi, si sarebbe gettato in un vetro bollente.
Lasciando
ora da parte le cagioni, e concentrando tutta la riflessione sugli
effetti che provò il conte S... quando da Trinità de'
Monti volse il passo accelerato alla caserma dove aveva l'alloggio,
possiamo assicurare che la conflagrazione del suo cervello fu tale,
che un minimo grado al di là di quella misura sarebbe bastato
per farne un caso interessante per lo studio di un alienista
psicologo. La caserma era presso San Pietro in Vincoli; quel lungo
tratto di strada lo fece senza accorgersi, portato macchinalmente
dalle gambe. La sentinella che gli gridò il chi va là,
lo fece fermare dinanzi alla porta. Qui stette un momento sopra di
sè, poi rifece quasi di corsa tutta la strada già
fatta. Nel silenzio della notte produceva uno strano effetto in chi
vegliava il tintinnio de' suoi grossi sproni, che fioco si annunziava
da lungi, facevasi forte e aspro da vicino, e tosto decresceva e
moriva nell'aere lontano.
Nel
primo tumulto e nel primo scoppio dell'ira, senza quasi la coscienza
di quanto operava, era fuggito lasciando la figliuola svenuta; ma,
lungo il cammino, quel nodo orrendo di tanti affetti si venne come
sciogliendo ne' suoi diversi elementi, tanto che presentandoglisi ad
uno ad uno alla riflessione che ritornava, egli potè
raccogliere qualche idea, e pensare e prendere alcun partito.
Abbiamo
detto in altra occasione, che sotto al cumulo di tante male tendenze
ond'era viziato il carattere del conte S
, in fondo in fondo, si
poteva rinvenire anche qualche bontà e qualche affetto
generoso; egli è per questo che, dopo il primo schianto
dell'ira, gli entrò nel cuore un impeto di pietà.
Allora, come a rifascio, dietro al pensiero della figliuola
conosciuta in così strana guisa, gli si schierarono nella
memoria e l'immagine dell'angelica sua Ada, e i tanti affanni che
quella poveretta ebbe a provare per lui, e l'idea della disperazione
in cui essa doveva trovarsi in quel punto per la fuga della
figliuola; e per questa medesima figliuola, attraverso al dolore e
all'ira, metteva in lui una affannosa mescolanza di compiacenza
paterna e di compassione, la quale grado grado crebbe al punto che fu
tutto in affanno pel timore ch'ella avesse dovuto soffrire troppo e
per la caduta e pel deliquio, e che, abbandonata e respinta da lui in
quel modo spietato, dovesse poi morirne d'angoscia.
Ritornò
dunque fino al piede della scala della Trinità de' Monti, ma
non vi trovò più, come avrebbe dovuto aspettarsi, se
fosse stato più in calma, nè la figlia, nè
altri. Pensò allora di recarsi alla casa di lei; ma fu il
pensiero d'un istante, perchè, subentrata l'ira, lo risospinse
alla caserma, dove entrò a notte altissima, aspettato
dall'ordinanza che da tante ore sonnecchiava, svegliandosi spesso di
soprassalto, per tema dei rimbrotti di lui.
Egli
entrò, e:
-
Va, e chiamami qui subito, disse all'ordinanza. il colonnello Paoli e
il Ballabio.
-
Essi sono già a letto da più ore.
-
Va e svegliali, ti dico! - Ma, aspetta che ci andrò io.
Detto
questo, uscì seguito dall'ordinanza che gli faceva lume. Bussò
alla porta dell'alloggio del colonnello Paoli. Non essendogli
risposto, picchiò forte, tanta era l'impazienza ond'era
agitato. Alfine s'aprì l'uscio, e comparve l'ordinanza del
Paoli; e si sentì la voce iraconda di lui che gridava:
-
Che cos'è? chi batte a quest'ora?
-
Abbi pazienza! gridò allora colla sua voce sonora il
colonnello S...; abbi pazienza; ho bisogno di te.
Le
parole contrastavano col tono alto, aspro, iracondo.
Nondimeno
il colonnello Paoli:
-
Evvia, entra, rispose.
Il
conte entrò.
-
Scusami, ripetè poi. Domani avrò un duello. - Lo
voglio io; faccio conto su di te e sul Ballabio. Sarete, come tante
altre volte, i miei padrini.
-
Va bene; ma che diavolo è successo? Due ore fa eri l'uomo più
gajo e più lieto del mondo.
-
Gajo, sì gajo - sentirai. Ma il duello sarà a
morte; a morte, capisci tu? Voglio che Roma ne abbia a inorridire.
Ora, disse all'ordinanza, va a chiamare il colonnello Ballabio. Digli
che venga qui subito.
L'ordinanza
partiva, e un quarto d'ora dopo entrava il Ballabio in mutande, cogli
stivali alla dragona e il mantello sulle spalle. Intanto il
colonnello Paoli, seduto sul letto, seguiva coll'occhio il conte
S..., che passeggiava fremebondo.
-
Che cosa è successo? chiedeva il giovane Ballabio alla sua
volta, messo in apprensione da quella scena muta.
Il
conte si fermò - guardò fisso il colonnello
macchinalmente, tanto era sprofondato ne' propri pensieri:
-
Siedi, gli disse poi, siedi. Domani il capitano Baroggi morirà
- o morirò io. - Tu, come al solito, farai da
secondo insieme col Paoli.
-
Sempre disposto. - Ma che cosa è avvenuto?
-
È quel che voglio sapere anch'io, prese allora a dire il
Paoli. - È mezz'ora che il colonnello è qui, e
non m'ha ancor detto di che si tratta. - Nè vorrei che
fosse poi un nonnulla, un affare da ragazze; perchè allora,
caro colonnello, scusami, ma è tempo di finirla.
-
Tempo di finirla?
-
Sì, colonnello, se mai quella fanciulla cogli stivali e gli
sproni t'avesse riscaldato il cervello...
Il
conte si piantò allora nel mezzo della stanza, e:
-
Sapete voi altri chi è quella ragazza? Voi altri non lo
sapete.
-
No.
-
Essa è mia figlia.
-
Oh!!...
-
Essa è mia figlia - e il capitano l'ha sedotta a
fuggire. Ma il capitano morirà, morirà, morirà...
E
nel ripetere quella parola, la voce gli si andò innalzando
fino all'urlo... dopo di che, spossato dall'angoscia, cadde a sedere
sul letto dell'amico.
I
colonnelli Paoli e Ballabio, passate alquante ore della notte in
compagnia del conte Achille, e tentato indarno di ridurlo a più
miti e ragionevoli consigli, alla mattina del dì successivo,
nella loro qualità di padrini, si recarono dal capitano
Baroggi, che alloggiava in piazza del Popolo.
Il
capitano e donna Paolina, in quella desolata condizione che è
facile imaginare, stavano risolvendo di lasciar Roma in quel dì
stesso, quando i due colonnelli si fecero annunciare. - Non
era il caso di rimandarli, per quanto i due giovani desiderassero di
star soli, e così furon fatti entrare. - Donna Paolina
era in veste femminile, e sul viso portava i segni del pianto
recente. - Il giovane capitano era tutto scombujato e
stravolto; però, infilata in fretta l'assisa di dragone,
accolse i due venuti con tutta quella cortesia che gli fu possibile,
e li fece sedere.
-
Signor capitano, disse il Ballabio, credo che indovinerete il motivo
della nostra visita.
-
Potrei sospettare qualche cosa; ma cogliere nel punto giusto non
saprei veramente. Sareste forse colleghi ed amici del conte S...?
-
Per l'appunto, capitano, e ci rincresce di esser qui con un'altra
veste, di cui volontieri avremmo fatto senza.
-
Parlate, signori.
-
Il conte colonnello S... si crede e si chiama offeso e disonorato da
voi; disonorato nei rapporti della famiglia e nella fama dell'unica
sua figliuola. Perdoni, signora, disse poi il Ballabio rivolgendosi a
donna Paolina, s'io mi faccio lecito di parlare così. Ma pur
troppo abbiamo dovuto accettare da vostro padre il delicatissimo
mandato. La fortuna potrebbe però fare in modo che ciò
sia per il meglio.
-
Comprendo tutto, rispose accigliato il Baroggi. Ma il conte avrebbe
almeno dovuto sentir noi due prima. Io non ho disonorato nessuno, e
fu appunto per conciliare ogni cosa col decoro del casato, che in
faccia a Dio e alla santità delle intenzioni ed alla sapienza
degli uomini non guasti dagli infesti pregiudizj di casta, io
solennemente dichiaro costei mia moglie; è appunto, ripeto,
per conciliar tutto col dovere, col decoro della pubblica opinione,
che noi intercediamo il perdono e l'ajuto del conte colonnello.
-
Il nostro mandato non ci permette di entrar giudici in materia.
Soltanto devo dirvi, e potete immaginarvi se ciò mi addolora,
che il conte colonnello S... vuole da voi una riparazione d'onore, e
col solito mezzo delle armi.
Donna
Paolina, a queste parole, si alzò di slancio, fece due passi
verso il colonnello Ballabio, tentò di parlare, ma si mise di
nuovo a sedere, mandando un lungo sospiro e premendo la fronte sul
palmo della mano destra.
Il
Ballabio, dopo aver sogguardato a lungo quell'infelice, fece segno al
Baroggi che desiderava continuar a parlare fuori della presenza di
lei. Ma, il giovine capitano, sempre ad alta voce:
-
Vi comprendo, vi ringrazio, esclamò. Ma ella può e deve
sentir tutto. Non a caso veste l'assisa e cinge lo squadrone; ha
l'intelletto e l'anima affatto virili, e può sentir tutto. Che
c'è altro adunque di così grave, ch'ella, s'ella non
fosse, dovrebbe lasciarci soli?
-
Giacchè lo volete, devo dirvi che il duello porta una
condizione.
Donna
Paolina alzò la testa e stette attenta.
-
E quale?
-
Che il duello dev'essere...
-
All'ultimo sangue?
-
A morte!
-
Nè ciò basta, soggiunse l'altro, padrino.
-
Proseguite.
-
Dobbiam dirvi che il duello, quando non avesse un esito definitivo la
prima volta, dovrà ripetersi finchè uno dei due
combattenti rimanga morto sul terreno.
-
E così sia, proruppe eccitata donna Paolina; ma dite a colui,
il quale non solo non è padre, ma non è uomo, che a
questa condizione se ne contrappone un'altra (e qui donna Paolina si
alzò terribile nell'atteggiamento e nella guardatura), e
questa è, che se il capitano rimanesse ucciso, la figlia, sul
medesimo terreno, debba combattere col padre. Così faremo
inorridire anche Roma, che fu la patria d'ogni più mostruosa
virtù.
Il
Baroggi guardò a lungo la sua Paolina con un atteggiamento,
che non si può rendere a parole; la prese per mano, la baciò
sulla fronte; poi si rivolse ai due padrini, come per volger loro la
parola, ma stato un momento sopra pensiero, si cavò l'assisa,
aperse la camicia sul petto, e:
-
Guardate qui, signori, disse... Tolga il cielo, e spero che voi mi
crederete, ch'io voglia adesso vantarmi di ciò che non è
altro che la conseguenza del mio pretto dovere; ma soltanto mi preme
farvi sicuri che io non fui mai un vile, e che non temetti e non
temerò mai i pericoli. Tre volte io caddi ferito...
-
Non abbisogna che lo diciate. Basta, guardarvi in viso...
-
Vi ringrazio... ma ora, in questo momento, al cospetto di codesta
circostanza affatto nuova e inattesa e inaudita, non si tratta già
di affrontar pericoli vantaggiosi all'umanità, pericoli che
possono essere una virtù e una gloria...; si tratta bensì
di acconciarsi a diventar un assassino... un parricida... qualche
cosa di ben abbominevole...
-
Che dite... capitano? interruppe il Paoli; vi prego a non ripetere
quanto avete detto, perchè...
-
Vi comprendo, colonnello, e vi domando perdono!... Ma vi supplico nel
tempo stesso a ponderare seriamente il caso in cui ci troviamo.
-
Ho pensato, abbiamo pensato a tutto; potete ben crederlo; ma vi sono
circostanze e consuetudini e leggi speciali alle quali bisogna
piegarsi e obbedire.
-
Consuetudini e leggi dell'arbitrio e del pregiudizio, che sono
un'offesa dell'ingenua natura e della ragione assoluta... Dite
adunque al colonnello S... che mi domandi un'altra riparazione, e
sarò sempre disposto a fare il suo desiderio.
A
queste parole, il Ballabio guardò in faccia all'altro padrino,
quasi a dire: - Pur troppo, costui ha ragione. E quegli si
alzò, e dopo aver misurato la camera innanzi e indietro, si
accostò al Baroggi e dolcemente lo prese per mano.
-
Molte campagne ho fatte, gli disse poi; ho quarant'anni, attraversai
la vita di affanno in affanno, ed ebbi nove duelli, sempre provocato
dagli altri, e colla persuasione di essere sempre io dalla parte
della ragione; una volta poi mi son trovato in una circostanza
pressochè uguale alla vostra. Ci ho pensato, chiesi consigli,
volli e disvolli... ma alla fine... mi sono battuto. Io abborro il
duello e i duellanti, e il mondo che chiama vile chi rifiuta di
battersi... ma non importa che un uomo sia o non sia un vile; importa
che sia creduto tale. Ascoltate dunque me, capitano; non rifiutate;
battetevi, e mettete ogni cosa nelle mani della fortuna.
-
Se si hanno ad osservare i patti come furono posti dal conte, alla
fortuna non rimane a far nulla. Uno dei due ha da morire, e le
condizioni non sono uguali tra noi. S'io vengo ucciso, che sarà
mai di questa mia donna? S'io uccido il conte, come potrà
patire costei di vivere coll'uccisore di suo padre? Egli è per
questo, o signori, ch'io non potrò mai battermi a giusta gara
con lui. Non è questo il momento delle vanterie; ma costei lo
sa, nelle sale di scherma io fui chiamato l'invincibile. Non credo
che ciò costituisca nessun merito, ci vuol ben altro; è
un'abilità affatto materiale, e di cui non tenni e non tengo
nessun conto; ma è però una circostanza per la quale,
secondo tutte le probabilità, io posso dire di portar sicuri i
miei colpi. Ora, accettando di misurarmi col padre di costei, io
sentirei obbligo di lasciarmi ammazzare, e di condurre l'orribil
gioco in modo, come se io non sapessi tener ferro in mano. Ecco
perchè mi rifiuto. Vi prego adunque di riferire tutto ciò
al conte; vi prego di protestargli, ch'io non ho mai creduto di
portar offesa nè all'onor suo, nè a quello della sua
casa. Credevo inoltre che un prode soldato della repubblica francese
non dovesse avere gl'illiberali pregiudizj di quella casta, per
distruggere la quale una falange gloriosa di pensatori e di eroi
riputò azione santa il versar torrenti di sangue sull'altare
della patria. Vi ripeto di ripetere ciò al conte; e mi lusingo
che vorrà cambiar propositi.
IX
Il
Ballabio e il Paoli, ammirati dalle parole del capitano Baroggi,
riferirono tutto al conte S
, e si giovarono dell'influenza che
sapevano di potere esercitare sull'animo di lui per placarlo e
distoglierlo da quel partito disperato ed inumano; e ci fu un momento
in cui il conte parve piegarsi a tante rimostranze; e davvero che se
i padrini avessero in quel punto troncato ogni discorso, forse ogni
cosa sarebbe finita; ma il Ballabio, e fu una mancanza di tatto, che
non è possibile perdonargli, venne a toccare al conte
dell'incomparabile bravura che il Baroggi aveva nell'uso della spada
e dello squadrone, e che per ciò appunto esso aveva protestato
di voler piuttosto lasciarsi ammazzare che opporre colpo ai colpi del
conte. Un razzo scagliato in una polveriera non può eccitare
incendio e rovina più di quello che le parole del Ballabio
provocarono nell'animo eccitabile del conte.
Esso
balzò da sedere, come se un colpo di scudiscio gli avesse
tagliata la faccia; quasi fu per avventarsi e pigliar per il collo il
colonnello collega; poi si scaricò con una tempesta tale di
ingiurie, di villanie, di bestemmie plebee, di grida, di strepiti
bestiali, che chiunque avrebbe potuto credere fosse impazzito di
tratto; non però i colleghi suoi, che lo conoscevano troppo
bene e, continuando a fumar le loro pipe, aspettarono in silenzio che
desse giù la bufera.
E
il conte infatti alla fine si calmò, e incrociando le braccia,
e accostandosi a lento passo al colonnello Ballabio, che stava
seduto:
-
Giacchè dunque, gli disse con sarcasmo, colui è un
Achille senza il tendine; e un Orlando prima di esser diventato
furioso, ho piacere di toccar io stesso con mano se ciò è
vero. Però il duello deve andare, ed ora più di prima;
e perchè non si vada in cerca di altri pretesti, sia desso al
primo sangue. Così la vita e la morte, come allo scacco, come
al bigliardo, come al tiro a segno, starà nelle mani
dell'abilità e della fortuna. Va bene così? Siete
contenti ora?
-
Siccome è a tutti noto che tu sei la prima sciabola della
divisione, così non si è creduto d'offenderti a dirti
ogni cosa. Se colui fu chiamato l'invincibile, nessuno può
ancora vantarsi d'averti vinto. Ed ora quasi attendo con impazienza
un tale duello; e giacchè è al primo sangue, mi confido
che colui accetterà.
-
Quand'è così, giacchè aveste una volta la
compiacenza di recarvi al suo alloggio, non vogliate ora perder
tempo, e tutto sia concluso dentr'oggi.
-
Dentr'oggi tutto sarà concluso. In quanto alla scelta
dell'arma...
-
Il capitano scelga: è il suo diritto; per me, spada, sciabola
e squadrone son tutt'uno.
Sul
finire di questa giornata, un'ordinanza entrò nell'alloggio
del colonnello S... a comunicargli di recarsi subito al Quirinale,
dove il generale Massena lo chiamava. Il conte non mise tempo in
mezzo, salì a cavallo, e fu dal generale. Questi, allorchè
il colonnello entrò, stava seduto su di un'ampia poltrona
tutta a oro e a velluto rosso, sormontata dallo stemma pontificio;
era in manica di camicia, coi calzoni di daino e gli stivaloni alla
dragona. Il generale era sì piccolo e mingherlino, che poteva
smarrirsi tra gli stivali e la poltrona; ma aveva una faccia
sanguigna, accentata, gelosa, con due occhi neri e lampeggianti, che
ben si faceva scorgere nonostante la sua piccolezza.
-
Vi ho mandato a chiamare perchè ho da parlarvi, e non è
il generale Massena che dà degli ordini al colonnello S..., ma
un borghese nato a Nizza, che, da uomo di mondo e d'esperienza, e che
ha riconosciuto tutto quanto fu promulgato dal giudizio universale
dell'ottantanove, parla, parla a un conte nato a Milano; il quale,
credendo forse che i suoi avi sieno più antichi del padre
Adamo, pare che non voglia capire sin dove giunga la portata della
parola repubblica.
-
Generale...
-
Vi ho detto che in questo momento non sono generale... ma un semplice
repubblicano... Voi domani dovete battervi.
-
Battermi?
-
Sì, battervi col marito di vostra figlia. Voi vi stupirete
ch'io sappia tutto, malgrado il gran segreto in cui vi siete celati
tutti quanti. Ma sapete come vanno queste cose... Parlano anche i
muri, e allora non serve più che gli uomini tacciano. Ma di
ciò poco importa... il consiglio dunque che vi dò, è
di non battervi... di riconoscere per marito di vostra figlia il
giovane capitano, che mi si dice essere un valoroso soldato e un
perfetto cavaliere... e di finir tutto senza scandalo.
Il
generale, detto questo, s'appressò al colonnello, ed era sì
basso che non gli arrivava agli spallini:
-
Questo che vi dò non è che un consiglio: io non comando
che nelle cose della guerra e sul campo di battaglia; non crediate
nemmeno ch'io pensi a punirvi, quando mai foste per far
tutt'all'opposto di quel che v'ho detto; fate quel che volete; tutto
quello che mi riserbo è di continuare a stimarvi o di cessare
di farlo. Ora andate. Nè sappia alcuno per che oggetto siete
venuto qui.
Le
parole del generale erano uscite decise, secche, a intervalli, come
palle da fucile.
Il
conte, il quale sapeva che il generale non amava nè
chiacchiere, nè repliche, e una parola detta in fallo lo
poteva far salir tosto in furore, non osò rispondere, fece il
saluto del soldato e partì.
Or
non occorre il dire, che in quel giorno la stessa donna Paolina in
persona erasi recata dal generale Massena, ed aveva saputo sì
ben fare e sì ben dire, che il terribile generale si lasciò
penetrare, sebbene fosse fatto a scaglia di coccodrillo, e, pur
essendo alienissimo dall'impacciarsi negli affari altrui, credette
opportuno di far quel che fece.
Uscito
dal palazzo del Quirinale, il conte pensava tra via chi mai avesse
potuto parlare del duello al generale; ma presto si appose al vero,
onde sentì crescersi l'ira contro la figlia, la quale avealo
esposto ad essere trattato dal generale come una recluta. Punto da
quell'accoglimento da caserma che lo feriva nell'orgoglio, e
ripensando alle lodi che il Ballabio incautamente aveva fatto della
valentia del capitano Baroggi, fermo di mettere sotto i piedi i
consigli di Massena, al quale, bestemmiando tra sè e sè,
scagliò tali ingiurie, che guai se fossero state sentite da
quel tremendo repubblicano nizzardo; e ridottosi al proprio alloggio,
si recò nelle camere dei due padrini, per sentire se tutto era
stabilito. Essi gli risposero, che il Baroggi accettava le nuove
condizioni, ch'esso aveva scelto i proprj padrini; che l'ora erasi
fissata al primo sorgere del dì successivo, e il luogo a due
miglia fuori di porta S. Sebastiano, dietro il sepolcro di Cecilia
Metella.
Le
due parti non avevano che a far altro che aspettar l'alba. Ma non era
così di donna Paolina. Essa tenevasi certa che l'autorità
del general Massena sarebbe stata più che sufficiente a mandar
a vuoto il duello, e forse ad ottener dal conte che di nemico si
facesse amico e protettore, e, più che gli orgogli di casta,
sentisse i doveri di padre. Ella dunque provò fino allo
spasimo il martirio dell'aspettare; ad ogni scalpito di cavallo, ad
ogni rumor di ruote, ad ogni aprirsi di porte, stava in sull'ale
tremante, convulsa, nella credenza che fosse un messo benefico,
apportatore di una felice notizia. Ma passò tutto il giorno,
passò la sera, la notte si fe' alta, e nessuno venne, e il suo
tormento era accresciuto dal non poterlo manifestare altrui,
essendosi ella recata dal general Massena all'insaputa del capitano.
In quanto a quest'ultimo, ei non s'inquietava che dell'irrequietudine
di donna Paolina, la quale, per quanto si sforzasse, non sapeva
vincersi e non aveva posa un momento; per sè era tranquillo,
avendo una ragionevole coscienza della straordinaria sua perizia nel
maneggio dello squadrone, che era l'arma scelta; e pensando che il
conte S...., più abituato alla sciabola, doveva, secondo la
probabilità, aver la peggio, per la differenza, benchè
minima, che passa tra l'uso dell'una e dell'altra arma. Oltrecciò
poi lo rassicurava l'idea di potere, appunto per la propria bravura,
misurare i colpi in modo da portare la più lieve ferita al suo
avversario.
X
Venne
l'alba; il capitano e donna Paolina si alzarono. Di lì a pochi
minuti due carrozze entrarono nell'albergo dov'essi alloggiavano. I
due padrini salirono. Donna Paolina, indossata l'assisa di dragone,
passò nel salotto dove il Baroggi erasi già recato a
salutare e ringraziare e stringer la mano ai due ufficiali. Donna
Paolina ebbe moti e accenti tranquilli e solenni. Perduta ogni
speranza di riconciliazione, in lei era cessato l'orgasmo
dell'aspettazione e dell'incertezza; d'altra parte, anche l'affanno
avendo la sua stanchezza, aveva dato luogo a un sentimento tutto
interno e senza espansione, a un sentimento molto simile a quello di
un ammalato che, essendosi illuso di poter riacquistare la salute,
sente invece che per lui non ci sono che pochi giorni di vita; e in
questo pensiero, per le arcane leggi della natura compensatrice,
s'adagia in silenzio, e aspetta l'ora del proprio fine. Essa dunque
era muta e immobile. I due ufficiali la guardavano con ammirazione e
con pietà; nulla v'ha di più bello e affascinante della
bellezza femminile e della gioventù, quando, ad onta della
calma, rivela nel proprio aspetto le impronte di un immenso dolore.
-
Vedrete che tutto finirà bene, le disse uno degli ufficiali.
-
Non spero nulla. Soltanto vi supplico a ottenermi qui dal capitano il
permesso di venir anch'io presso al luogo del duello. Vi prometto che
starò immobile al mio posto, come uno de' sepolcri che stanno
lungo la via Appia. Qui sola non potrei resistere allo spasimo. Là,
a due passi dal sito fatale, la notizia dell'esito potrà
essermi recata da voi in pochi minuti. Non credo che ci sia nessuna
sconvenienza in ciò.
-
Capitano, soggiunse allora, uno de' due padrini, noi portiamo la
persuasione ch'ella possa ben venire a pochi passi di distanza da
noi. Costei è una donna uomo. Vi supplichiamo a
concederle quanto ella chiede.
-
Essa faccia quel che più desidera, rispose il Baroggi,
prendendo per mano e baciando la sua Paolina. Costei non sarà
mai per far cosa che possa compromettere d'un punto la fama dell'uomo
di cui ebbe la generosa bontà di voler dividere i destini.
Proferendo
queste parole, preceduto dagli altri, uscì e discese; poi,
quando fu al piede dello scalone, riabbracciando e ribaciando e
salutando la sua donna, la mise a star sola in una carrozza, ponendo
a' suoi ordini un uomo che serviva nell'albergo, ed egli salì
nell'altra, insieme coi due ufficiali padrini.
Da
porta Pinciana dovendo attraversar tutta Roma per andare a porta S.
Sebastiano, e poi percorrere quasi due miglia e mezzo della via Appia
per recarsi al sepolcro di Cecilia Metella, il viaggio durò
qualche tempo. Il capitano Baroggi, ad ostentare indifferenza, la
quale nelle ore che precedono un duello è comandata dalla
consuetudine e dalla prammatica, per quanto le più legittime
apprensioni debbano travagliare un animo giusto e non spensierato,
s'intrattenne con gran disinvoltura, lungo il cammino, delle rovine
di Roma; del come, in poco tempo, dovendo essa diventare la capitale
d'Italia, la popolazione avrebbe potuto ascendere facilmente a
cinquecento, a seicento mila anime, e tutta la parte desolata
dell'eterna città, che dal suo centro per più di due
miglia si prolunga fino alla porta Appia, avrebbe potuto empirsi di
grandiose abitazioni. Fuori di porta, poi, considerò
poeticamente e storicamente, come sullo stesso acciottolato su cui
rumoreggiava la carrozza in cui esso trovavasi, avevano già
rotolato i carri degli antichi Romani, e le bighe e le quadrighe
trionfali di Cesare e di Pompeo; e, dimenticandosi per poco della
propria condizione, fece voti che la grandezza futura di Roma e
dell'Italia potesse divenir tale, che a poco a poco dovesse poi
scemare il culto idolatra che si aveva per ogni minima pietra
infranta del suo passato. Di tal modo esso giunse a distrarre e a
dissimulare l'intima preoccupazione. Ma non potè fare
altrettanto donna Paolina; sola nella propria carrozza, dalla
campagna solitaria che le si stendeva dintorno, e dai ruderi e dai
cippi e dagli avelli infranti, che ad ineguali intervalli profilano
la vetusta via, non le derivavano che tetre sensazioni che sempre più
l'accasciavano; oltredichè l'abbattimento fisico per la notte
vegliata nell'irrequietudine del pensiero l'avevan ridotta sin quasi
alla condizione febbrile; e presto sul cielo essa vide staccarsi
l'antico sepolcro di Cecilia in sembianza di un torrione merlato, e
pochi momenti dopo vide due carrozze ferme nella campagna a sinistra
del mausoleo. Mandò un lungo sospiro, volse gli occhi al
cielo, si contorse le mani, colle quali poscia si cinse le tempia, e
si rannicchiò, come per spavento, in un angolo della carrozza.
Il
Baroggi e i due ufficiali discesero, e fecero fermare la carrozza
presso all'altra dove stava donna Paolina, alla quale il capitano
strinse fortemente la mano incoraggiandola collo sguardo senza
aggiunger parola. S'avviarono nel campo dove eran già gli
altri. I padrini delle due parti si salutarono, stettero insieme a
consulta qualche momento; uno dei padrini del conte S..., presi due
squadroni di identica forma e lunghezza, li porse ad uno dei padrini
del capitano Baroggi dalla parte dell'elsa, perchè a caso
scegliesse il suo. I due avversarj, svestita l'assisa, levato il
fazzoletto dal collo, rimboccate le maniche della camicia, si
piantarono rimpetto l'uno dell'altro nei due punti della zona
determinata dai padrini. Un medico, un chirurgo, due soldati
d'ordinanza delle due armi dei dragoni e degli usseri stavano a
qualche distanza.
Se
lo spettacolo di un duello, per minima che sia la cagione che l'ha
provocato, per indifferenti che sieno i combattenti, per poca o
nessuna che sia la valentia ch'essi abbiano nell'uso dell'arma, desta
sempre un vivo interesse, e tiene sempre gli astanti in affannosa
apprensione, è facile immaginare che interesse, che ansia,
quali emozioni debba suscitare quando le cagioni onde nacque sieno
gravissime, quando sia noto che gli avversari devono essere agitati
da fortissimi sentimenti; quando per di più la fama ch'essi
hanno di valentissimi, comunichi all'interesse consueto l'interesse e
l'aspettazione, quasi diremmo, di uno spettacolo d'arte! Di questo
genere era il duello che sotto il cielo di Roma, presso ad uno dei
più famosi e vetusti monumenti di quella classica terra che
delle proprie memorie investe e fa grandeggiare anche il presente,
stava per incominciare.
Un
amante, anzi un marito, marito in faccia alle eterne leggi della
natura, se non in cospetto delle transitorie consuetudini sociali,
stava a fronte al padre della propria sposa; la gioventù nel
primo suo vigore, la bellezza nel massimo suo splendore, di contro
alla virilità che, presso alla sua decadenza, sembrava
riassumere in un estremo sforzo i varj momenti dell'età
trascorsa, e celare i guasti del tempo sotto un aspetto affatto
eccezionale di jattanza poderosa. Da un lato un raggio calmo di
onesta bontà, che rendeva più interessante la gioventù,
la bellezza, la sventura; dall'altro un'apparenza fiera e
provocatrice, che stornava da sè ogni simpatia ed ogni
indulgenza.
Dato
e ricambiato il saluto di costume, gli squadroni si toccarono. Il
tintinnio risuonò nella profondità del silenzio
generale. Quel sonito passò il cuore della sciagurata Paolina,
che si gettò in ginocchio, fermandosi in questa posa come
un'estatica.
Ma
noi non riferiremo tutti gli accidenti del duello, tutti i colpi, le
mosse, le gare tra la forza e la destrezza. Soltanto diremo che,
senza ferir colpo, i combattenti dovettero riposarsi fino a cinque
volte, riuscendo manifesto agli astanti ed allo stesso conte S...,
che il capitano avrebbe potuto percuoterlo gravemente una volta alla
testa, un'altra al petto. Gli squadroni al sesto assalto si toccaron
di nuovo.
Il
Baroggi, in tanti assalti rinnovati, aveva studiato i tiri abituali
del conte, e scoperto le vie d'entrata per aggiustargli quel colpo
che lo ferisse, senza fargli gran danno; ed in ciò consisteva
quella suprema e quasi già prodigiosa valentia nell'arte, di
cui nessuno può esser sicuro
e l'ingresso fu lasciato
aperto, ed egli fu lesto ad approfittarne; ma, nel misurargli il
fendente con tal arte da scemargli la gravezza del colpo, perdette
quel prezioso minuto secondo che può dar la vittoria; e il
conte in quel punto gli calò sulla spalla un forte colpo, pur
riparato in tempo, ma non così che non gli ferisse la spalla
destra.
-
Sangue! gridarono ad una voce i padrini; fermi, basta.
Il
conte abbassò lo squadrone, il capitano fe' altrettanto, e si
volse verso il padrino che gli denudava la spalla. Macchinalmente
alzò poi gli occhi al cielo con quell'atto che dinota ira e
disprezzo, e lasciò cadere a terra lo squadrone. Accorsero il
chirurgo e il medico, e il conte, appoggiato sull'elsa del proprio
squadrone, guardava e non si moveva, e quasi non respirava. Vi fu un
momento solenne di silenzio generale... ma a romperlo con violenza,
dal ciglio della via balzò nel campo donna Paolina... fu tosto
presso al capitano, guardò la ferita, guardò nella
faccia del chirurgo, e lettavi la espressione di chi teme più
che di chi spera, balzò in piedi come una demente, e,
sguainato lo squadrone, fu sì prestamente addosso al padre,
che questo appena ebbe il tempo di parare il colpo, e certo avrebbe
dovuto pararne altri, se la figliuola nel gridare: - Morite
ora voi, scellerato, - non fosse caduta sul terreno
istantaneamente e priva di sensi; caduta come piombo, come una statua
marmorea che d'improvviso si rovesci; e colà stette.
Ad
eccezione del medico e del chirurgo, che non si staccarono dal
capitano ferito, tutti furono allora intorno a quella sventurata.
Solo il conte... puntato lo squadrone a terra, si appoggiò di
nuovo sull'elsa, e stette immobile così. Se non che, venuto a
lui, dopo alcuni secondi, il colonnello Ballabio, questi con pietosa
meraviglia vide che dagli occhi fissi e attoniti cadevangli a dirotta
le lagrime sulla corrugata faccia, ancora atteggiata alla fierezza.
Il cuore, impietrito, gli si era come smosso e squagliato sotto a
quel colpo estremo. Le emozioni provate da tante ore continue,
perfino il suo orgoglio lusingato dall'apparente vittoria, avendogli
ammorbidita la fibra, aprirono di repente un varco a que' sentimenti
che la natura pareva avergli negati. In un baleno il suo pensiero
percorse infinite cose; si rifece indietro tanti e tanti anni;
comprese tutti i proprj torti; avrebbe voluto aver lì presente
la dolce e pur sempre a lui cara Ada; avrebbe dato tutto il suo
sangue perchè non fosse avvenuto tanto disastro; si tormentava
di non aver consolata la propria figliuola nel punto ch'ella,
supplicante, erasi gettata a' suoi ginocchi; di non averle detto: Sii
la moglie felice del tuo felice marito. Pensò a tutte queste
cose, che in folla gli si addensavano in petto tremendamente
affannose. Pensò e pianse, e dopo aver fissato per qualche
istante il Ballabio:
-
È viva? esclamò. Oh, faccia Dio ch'ella sia viva!
Ogni
cura possibile in que' momenti fu amministrata. La fanciulla, dopo
assai tempo, diè segni di vita. Era stata una sincope
pericolosa e quasi mortale... Ma il padre non osò avvicinarsi
a lei... Soltanto, con parole che non parevano compatibili con quella
sua natura di ferro e di fuoco, pregò il Ballabio di chiedere
al ferito capitano se gli permetteva di stringergli la mano. Il
Baroggi, alla domanda del Ballabio, il quale prima aveagli detto che
la donna sua stava riavendosi, nè presentava pericolo alcuno,
chinò la testa in segno di adesione. Il conte S... si
avvicinò, s'inchinò a lui, gli prese la mano... Il
Baroggi se la lasciò stringere, ma non disse nulla.
Il
conte interrogò poscia il chirurgo sulla condizione della
ferita.
-
La ferita è grave... forse sarà indispensabile la
disarticolazione, che è una delle più difficili
operazioni.
Il
conte tacque e si fe' cupo.
Donna
Paolina fu messa in carrozza; in una lettiga fatta venire dalla città
fu posto a giacere il Baroggi.
Così
finì quella triste giornata.
Ed
ora dovrà passare assai tempo prima di trovarci ancora con
questi personaggi.
LIBRO
DECIMOQUARTO
Una
festa a palazzo di Corte a Milano nell'anno 1810. - Il vicerè
Beauharnais. - La principessa Amalia. - Ministri,
soldati. - Letterati. - Poeti. - Il pittor
Bossi. - Il conte e la contessa Aquila. - L'avvocato
Falchi e l'infernal Dea.
Nel
punto di affidare a un libro stampato tutte le notizie arcane che si
riferiscono all'estremo periodo del regno italico che tramontò
cupamente coll'eccidio del ministro Prina, ci tenne sospesi il timore
che la rivelazione di alcuni fatti straordinarj potesse suscitare
qualche scandalo e turbare la quiete di alcuni uomini ancor vivi che
non ebbero una parte troppo netta in quella orrenda tragedia. Un
altro motivo per cui fummo in forse, stava nella qualità di
alcuni documenti che abbiamo tra mano; documenti scritti, ma di
natura al tutto privata e, per dir così, non ufficiali;
documenti, per conseguenza, non bastevoli a convertire le congetture
storiche in legale certezza. Se non che abbiamo pensato che anche le
semplici congetture, anche le sole opinioni e le credenze degli
uomini che furono testimonj di grandi fatti, sono materia legittima
alla storia, perchè rappresentano tutto intero il pensiero, il
giudizio dei contemporanei; e perchè d'altra parte si danno
certe verità che non si consegnano ai pubblici ed officiali
documenti, e delle quali tuttavia la posterità non dev'essere
defraudata. Se la storia non può giurare sulla verità
di alcuni fatti e sulle loro cagioni, ha però l'obbligo di
pubblicare e mettere in ordine tutti gli indizj, i quali, se sono
moltiplicati, possono talvolta, nella sfera morale almeno, quasi far
vece di prova. È il caso di un tribunale che non può
condannare un colpevole perchè gli manca la suprema prova
irrefragabile; ma tuttavia dal cumulo e dalla qualità degli
indizj gli è imposta la convinzione che l'accusato è
reo del delitto imputatogli.
Persuasi
di questo, ci siam determinati a pubblicare questa parte del nostro
libro, sopprimendo i nomi, e talvolta anche le iniziali che possono
condurre a indovinarli. Se i lettori, tenendo dietro a quanto
pubblicheremo, daranno il vero nome ai personaggi che noi
nasconderemo sotto artistici pseudonimi, ciò vorrà dire
che anche a loro di padre in figlio son pervenute quelle verità
che nessuno ebbe sin qui il coraggio di manifestare, se altri poi non
comprendesse nulla, e fosse per rimanere spaventato da certi
caratteri troppo infernali e da alcune perfidie che, anche essendo
vere, sembrano inverosimili, si dia pace e si consoli col credere e
col dire che tutta la nostra storia non è che un romanzo.
I
Siamo
nel carnevale dell'anno 1810. Anche la storia, in carnevale, assume
qualche cosa di giocondo e di rumoroso, per cui, smesso l'eccessivo
suo rigore e le sue cautele che non si tranquillizzano se non sugli
atti notarili e sui documenti degli archivj aspersi di molta goccia,
si fa più sincera, più alla mano, più ciarliera.
È un momento prezioso questo di starle ben presso,
d'interrogarla e di farla cantare.
Son
corsi dodici anni dagli ultimi avvenimenti a cui abbiamo assistito.
Grandi cose sono avvenute in questo intervallo. Prima la repubblica
cisalpina si trasmutò attraverso al diaframma degli
Austro Russi e della battaglia di Marengo, in repubblica
italiana; poi il 18 brumajo portò di punto in bianco Bonaparte
ad essere il padrone del mondo; ed è strano come la fortuna,
quasi a vendicarsi della prepotenza onde il genio di lui la ebbe
costretta ad impegnarsi al suo servizio, si dilettò di farlo
parer minore di sè stesso in quel giorno appunto, quasi
volesse mostrare che senza l'ajuto di lei sarebbe forse caduto per
sempre; e infatti, allor fu chiaro come il sole che quando essa si fa
l'alleata del destino, il male partorisce il bene; gli errori
sembrano ardimenti di intelletto; l'ignoranza e l'imprevidenza
risolvono problemi non possibili alla ragione calcolatrice. Quell'oca
di Berthier scongiurò Bonaparte a tacere, per non provocare
l'ilarità ed il disprezzo dei Cinquecento. Quel gallo borioso
di Murat, non comprendendo nulla e però facendo entrare i
granatieri a bajonetta in canna a far saltar giù dalle
finestre i membri rappresentanti la maestà della repubblica,
tagliò il nodo inestricabile, e liberò il volo
all'aquila di Bonaparte.
Al
18 brumajo avea tenuto dietro il consolato, e l'imperatore di fatto
erasi già rivelato nella unità di Bonaparte collocato
fra gli zeri di Cambacerès e Lebrun; e in seguito venne
l'impero e il regno, e l'annuncio di una monarchia universale, e il
Giove Ottimo Massimo, cogli stivali alla dragona, e la non olimpica
ventraja, ed il capolavoro della battaglia d'Austerlitz, che, al par
di tutti i capolavori dell'arte, infranse le regole della grammatica
campale, fin quella che ingiunse agli eserciti di non prendere le
mosse che in primavera. Al capolavoro d'Austerlitz e alle altre
battaglie prodigiose avea seguito quella pace di Tilsit, che segnò
il punto più eccelso dell'ascensione di Napoleone; e là,
se egli si fosse fermato, ben altri avvenimenti la storia avrebbe
avuto da raccontare ai posteri, ed il cammino dell'umanità
avrebbe forse dovuto piegare per sentieri non sospettati da noi. Ma
l'eccessiva altezza mise il massimo degli uomini troppo presso alla
fonte della luce, ed ei ne rimase così abbagliato da non
vedere più le proporzioni degli uomini e delle cose.
Siamo
in Milano, la capitale del regno italico, la regina di settantanove
città, la sede del governo, la gran fiera dei pubblici
impieghi, il convegno di tutti gli ambiziosi d'Insubria, il palco
scenico di tutti quelli che devono o vogliono rappresentare qualche
parte nella grande epopea drammatica di quel tempo; la Babylo Minima,
in una parola, di Ugo Foscolo, la quale faceva da succursale alla
Babylo Maxima di Parigi. Ci troviamo confusi nella folla davanti al
palazzo di corte, in una notte di febbrajo. I dragoni reali rasentano
la punta dei piedi dei curiosi, che si accalcano per vedere gli dèi
e gli eroi, le dee e le semidee a discendere dai cocchi. L'aere
nebbioso risuona dei boati plebei di cocchieri impacciati a stare in
fila, periglianti nelle voltate, attraversati dai gendarmi a cavallo,
urlanti e minaccianti come Argivi e Trojani nel fitto della mischia.
Ed
or s'è fatto un po' di largo; procedono le carrozze. Ecco
quella del duca Melzi, il guardasigilli della Corona. Le due livree
gallonate e passamantate balzano a terra. Si spalanca la portiera, la
gradinata si snoda, e si riversa sino a terra. Sua Eccellenza
lentissimamente discende a mostrare una testa veneranda, che nasconde
la santa calvizie sotto una crosta fatta di cipria a ricordare i
tempi lieti del topé; S.E. è coperta da una
assisa ampia, larga, lunga, tesa, non suscettibile di piegatura, come
se fosse foderata di legno; tutta quanta aspra di ricami d'oro a
rilievo, a somiglianza d'un piviale del Corpus Domini. Egli
ascende lo scalone; parte la sua carrozza; altre subentrano. I
generali Pino e Solaroli smontano e ascendono a lievi salti. Arriva
Fontanelli, il ministro della guerra; arriva il marchese Cagnola
nella duplice sua qualità di signore e di artista. Arrivano in
un fiacre di gala il medico Monteggia e lo speziale Porati.
Arriva il gran giudice Luosi, tutto sprofondato nel suo immenso
cravattone bianco. Vaccari e Bovara e Birago e Marescalchi sono già
saliti da mezz'ora, dicono gli spettatori irremovibili, indarno
ammaccati dal calcio del fucile del granatiere.
Arriva
la carrozza del conte Aquila con sua moglie (diciamo Aquila
per non dire il vero nome di questo conte), il quale dell'aquila
aveva l'occhio, il naso e la tendenza a volare in altissimo. Sua
moglie (che chiameremo la contessa Amalia) è una
leggiadra giovinetta di vent'anni. Essa porta un berrettoncino alla
greca, di seta ponsò, con una stella nel mezzo, di raso
bianco, dove un grosso diamante rifrange la luce in iridi fuggitive.
Ha un soprabito di velluto ponsò ricamato in argento, da cui
trapela un sottabito bianco di stoffa alla greca, tutto con righe a
lama, pure d'argento. Il conte Aquila ha l'abito nero di seta, con
ricamo color verde a foglie di quercia, con bottoni e spada in
acciajo; cappello con piume bianche, bottone e cappio in acciajo e
fibbie d'argento.
Questa
coppia giovane, che ben potea rappresentare la forza e la grazia, la
violenza e la sommessione, è trattenuta in sull'ingresso dello
scalone da un'altra coppia discesa allora allora. Era l'avvocato
Falchi con sua moglie detta: l'Avvocatessa. Codesto
Falchi è un pseudonimo; se il lettore ci sa pescare, ci
peschi, e si diverta. Del rimanente questa donna noi l'abbiamo già
vista al teatro della Scala la sera del ballo del papa, ed era una
delle tre dive seminude. Essa in poco tempo, insieme col suo marito,
era ascesa
Dal
nulla avito al milionario onore.
L'avvocatessa
Falchi, dette alcune parole alla contessina Aquila, e chiesto a una
guardia se S.E. il ministro Prina era già venuto, ed avutane
la risposta affermativa, ascese con ostentata lentezza le scale,
guardando con invidia la giovane contessina. La Falchi aveva passati
quei trentacinque anni, che per l'uomo sono il mezzo della vita,
secondo il computo dantesco, ma per la donna ne son quasi i due
terzi. Bella veramente non era mai stata; ma le forme del corpo ebbe
maestose e dense e appetitose; e nel volto, dal naso adunco e dagli
occhi grifagni, scorreva una certa protervia salace, che non
dispiaceva agli uomini poco esteti e frolli, i quali antepongono lo
strutto all'olio di Nizza! E altre dame dell'antica e della recente
aristocrazia vennero in seguito; e per più di mezz'ora la
processione delle carrozze sostava ogniqualvolta c'era da deporre o
qualche principe, o qualche marchese, o conte, o generale, o
colonnello, o capo squadrone, o tenente, o sottotenente che appena
avesse avuto da pagare il fiacre.
Ma
è tempo di uscir dalla folla esclusa dalle aule regali; e
d'involarci alle morbose influenze dell'aere nebbioso e rigido, e di
approfittare del nostro invito e del nostro frack per salire al piano
superiore, a diguazzarci nel mare luminoso, dove la storia può
fare i suoi riassunti ballando la contraddanza o bevendo un bicchiere
del napoleonico Chambertin.
Entrando
nelle sale del palazzo reale di Milano nel 1810, la recente
magnificenza era tale, che per alcuni momenti lo sguardo si fermava
alle vôlte, alle pareti, agli arazzi, agli specchi, alle
statue, ai dipinti prima di guardare alle persone che l'affollavano.
Fra tutte poi, la sala del trono era quella per entrar nella quale
bisognava attender qualche ora, perchè da non molto tempo
erano stati scoperti i dipinti a fresco dell'Appiani, rappresentanti
l'Apoteosi di Napoleone colle figure simboliche che le fanno
corredo. Il cav. Lamberti ne aveva stesa l'illustrazione, che,
stampata in una splendida edizione italo francese e filettata in
oro e rilegata in raso e velluto, passava a migliaja di esemplari per
le mani degli intervenuti. Allora quell'illustrazione del letterato,
professore, bibliotecario, cavaliere e cortigiano parve degna
dell'opera pittorica; oggi fa compassione a leggerla, tanto dal
linguaggio convenzionale e dalle frasi adulatorie e dalle generalità
estetiche trapela l'ignoranza di chi parla d'arte senza averne la
cognizione. Ugo Foscolo in abito nero civile, col cappello piumato
sotto il braccio, e spada coll'elsa d'acciajo, confuso tra i
moltissimi, guardava i dipinti e leggeva l'illustrazione e parlava
sommesso al cavaliere Brunetti e all'avvocato Marliani. Ma la sua
voce era di quella tempra leonina, sonora e profonda, che le sue
parole non si fermavano all'orecchio degli amici a cui le volgeva in
confidenza; tanto che i Creonti ne approfittarono per riferirne il
sunto al medesimo cavaliere Lamberti, che insieme col cavaliere
Vincenzo Monti stava in un angolo di quella sala stessa.
-
Lascia gracchiare Nicoletto, disse allora Monti a Lamberti, il quale
si scontorceva per le parole sprezzanti di Foscolo che gli erano
state riportate. Ben io scuoterò la polvere de' suoi Sepolcri
a suo tempo, e vedrete che quella fama ch'egli s'ebbe per me, per me
dileguerà.
-
Anche senza che voi scuotiate quella polvere, il vento la porterà
seco. Or finalmente venite tutti nel mio parere, non essere costui
che un gran ciarlatano, e non essere poeta chi ha potuto
dettare quell'intralciato e indigesto e fumoso carme dei
Sepolcri. Lascia dunque, Lamberti, ch'egli disapprovi la tua
prosa. Egli non avrà mai nè la tua lingua, nè la
tua correzione, nè la proporzione del tuo disegno.
Così
parlava l'arcigno e livido ed esagerato Giordani, che nella critica
non aveva nè misura, nè giustizia rigorosa, ma si
lasciava prendere dai consigli che gli venivano dal fegato morboso. E
questo fegato stillava un fiele tutto speciale ai danni di Foscolo,
perchè questi nella sua prolusione sull'ufficio della
letteratura, professando il proprio disprezzo ai panegirici,
implicitamente aveva condannato anche quello con cui Giordani, il
libero Giordani, prosternandosi innanzi a Napoleone, aveva
sfoggiato un'adulazione che avrebbe fatto ribrezzo anche ai tempi di
Roma imperiale.
Al
crocchio di Monti e di Lamberti e di Giordani si unirono il
frate prete spretato Lampredi, e Mario Pieri, il quale era
indignato con Foscolo perchè non gli aveva mai accordato
l'ingegno ch'ei pretendeva di avere; e vi si aggiunse Brunacci ancora
sbuffante degli schiaffi che Ugo, sotto gli atrj dell'Università
pavese, gli aveva promessi; e fecero circolo don Marzio Anelli e una
mezza dozzina di membri dell'Istituto nazionale.
Ugo
Foscolo in quell'anno aveva perduta la cattedra, era in ira al
vicerè, era lautamente indebitato, disperatamente innamorato:
avverso era al mondo e avversi a lui gli eventi. Irritato
dalle recenti offese, sparlava del governo; onde tutti coloro che
speravano e temevano tutto dall'alto, ed erano protetti e
ricompensati ed onorati, lo scansavano come pericolosissimo. E ad
accrescergli tanta indignazione s'aggiunse precisamente a quei dì
la sua rottura con Vincenzo Monti. La causa era stata Omero. Chi mai
lo avrebbe detto al cieco d'Ascra? I più allora accusarono
Foscolo d'invidia. Ma oggi possiamo noi dir questo? oggi che,
confrontando i sei canti dell'Iliade da lui tradotti con
quelli del Monti, si vede quanta differenza interceda tra i due
lavori, e come sia stato un vero danno che la eccessiva facilità
di Monti abbia scoraggiato il suo rivale di perdurare lunghi anni in
quell'impresa, che davvero pareva fatta per lui solo; per lui che era
poeta per lo meno quanto Monti, ed aveva più passione e più
viscere, e possedeva il privilegio di essere davvero italo greco.
Ma
lasciamo la sala del trono e dell'apoteosi, e rechiamoci a vedere
altre sale ed altre faccie.
II
Nella
sala delle Cariatidi, non al tutto allora compiuta, ma così
ornata di velluti e veli e frange auree e festoni e fiori, che a
nessuno appariva qual parte di essa avessero lasciato in sospeso
l'architettura e le arti sorelle, fervevano le danze, ma fervevano
più nei cuori caldissimi degli ufficiali e delle dame
sospiranti in segreto agli spallini ed ai petti onorati di aquile
ferree, che nel muover dei passi misurati a convenzionale lentezza.
La musica era diretta da Alessandro Rolla e dal Pontelibero.
I
vecchi, che erano vivissimi nel 1810, e vivono ancora oggi, e tennero
dalla natura una tempra così robusta, e il tubere della
giovialità così pronunciato, e pilori a macina di
costruzione così prodigiosa che ancora s'arrischiano a
vegliare ad ora tardissima; e se c'è una festa che esca dalla
sfera comune, son là pronti in cravatta bianca prima dei
giovani ad assaporarla, ci assicurano colle mani sul petto, che se le
beltà femminili, per qualità e quantità, sono
oggi in una condizione ancor molto prospera, mezzo secolo fa
fiorivano con insuperabile rigoglio; ma sopratutto ci assicurano che
oggidì la razza grande è quasi spenta affatto -
la razza delle donne, vogliamo dire, dai colli e dalle braccia di
Giunone; o che, volendo lasciare in pace le olimpiche deità,
potrebbero servire allo statuario per modellare qualcuna delle virtù
teologali.
Di
quel tempo splendeva una Falchignoni, che poi fece da Semiramide in
teatro per usufruttare i grandi occhi e il naso d'antica perfezione e
le ineffabili spalle; splendeva una Doria alta trentasei oncie, come
una cavalla normanna; splendeva o, per dir meglio, nereggiava una
R..., che al pari di Cleopatra avea fermata l'attenzione di Cesare.
Splendeva una donna che vive ancora, e serba nella faccia
settantenne, più che l'arco di Tito e di Costantino, le prove
irrefragabili d'una sontuosità senza esempio. Ella partorì
a tutto vantaggio delle arti belle un'inclita figlia, che proseguì
poi alla sua volta il lavoro e le benemerenze materne.
Splendevano
due contesse, il cognome delle quali cominciava dalla lettera A...,
sacerdotesse assidue alle are di Cipro, e velate di devota
incontinenza nei riti notturni della pallida Diana.
In
quella parte della sala delle Cariatidi, che veramente poteva
chiamarsi il dipartimento olimpico della reggia, circondata dalle
dame di palazzo, che erano la marchesa Parravicini, la contessa
Carcano, la contessa Montecuccoli, la contessa Gallo d'Otimo, la
contessa Aquila, sedeva la viceregina principessa Amalia, leggiadra e
soavissima d'aspetto:
Novella
speme
Di
nostra patria, e di tre nuove Grazie
Madre
e del popol suo; bella fra tutte
Figlie
di regi e agli immortali amica;
come
allora, ad onta dei rancori col vicerè e dell'opposizione che
esercitava contro il governo imperiale, aveva dettato Foscolo
inspirato e placato dalla bellezza e dalla virtù.
Affollatissimi
intorno a quel gruppo di stelle si vedevano i senatori, i conti, i
baroni, i commendatori di fresca data. Dei senatori si distinguevano
Veneri, Boara, Prina, Borioli arcivescovo d'Urbino, giovane di
bell'aspetto, trasmutato nelle vesti in modo che di vescovile non
mostrava più nulla se non forse il bianco della camicia
trinata; Boara e Brême portavano il gran cordone della corona
di ferro. Cavalieri recentissimi erano il marchese Trivulzi, il
cugino del ministro Prina, che era provveditore del liceo di Novara,
il ciambellano Martinengo, i professori Borda e Tamburini brevettati
tutti nella grande sfornata dell'ottobre 1809, insieme con tanti
altri che avevano avuto il merito di essere arrivati in tempo. A
costoro e dalla sala e dalle tribune guardava la curiosità
maschile; ma la femminile pareva concentrasse il fuoco collettivo
delle sue pupille sull'alta maestosa figura del pittore Giuseppe
Bossi, che in assisa di panno color caffè a bottoni d'acciajo
volgeva la parola ad un ometto piccolo, tutto vestito di nero con
eletta semplicità.
Il
pittor Bossi poteva contare trentadue anni, e quantunque fosse tanto
trasandato nel vestito, che comunemente lo chiamavano il foldone,
era caro alle dame; caro tanto, che i mariti ringhiavano
sordamente alla sua comparsa come cani sospettosi. Ma egli era bello
di una bellezza all'antica, in istile greco romano. Portava i
capelli alla brutus, fitti, lunghi, ricci, fulvo cupi,
cadenti a ciocche pittoresche sulla fronte fino a toccare la regione
dei sopraccigli, che aveva folti e piegati in così elegante
arco, come se Fidia ci avesse messo lo stecco. E come augusto era
l'arco del sopracciglio, insigni erano la linea del naso e i contorni
della bocca e del mento; dalla qual cosa ognuno può farsi
capace guardando uno studio fatto sul vero dal pittore Appiani. Ad
una bellezza così eccezionale dava risalto, e fors'egli lo
sapeva, la negligenza medesima che metteva nell'acconciatura;
negligenza portata a tal segno, che molti sospettavano costasse molto
pensiero precisamente a lui che ostentava di non pensarci; ma anche
noi, ai nostri giorni, abbiamo conosciuto un elegante giovane, che
poi uscì dalla folla, il quale faceva tali studj sulla
negligenza del vestito, che tutti i giorni rinnovava sempre lo stesso
sbaglio nell'abbottonarsi il bianco panciotto alla Robespierre.
Con
tutto ciò le fisiche qualità del pittor Bossi non
avrebbero bastato a mettere il capogiro nel bel sesso, se non ci
fosse stata in lui quella prodigiosa versatilità di intelletto
e di attitudini, che ne costituivano un'individualità
veramente distinta. Dopo Leonardo, sebbene in una sfera meno eccelsa,
egli fu il primo fra gl'illustri italiani, che abbia rappresentato in
sè solo i caratteri di cinque o sei uomini. Pittore, poeta,
scrittore, oratore, musico. Come pittore ci diede il disegno del
Parnaso; come scrittore i suoi studj d'alta critica intorno a
Leonardo; come oratore i suoi discorsi accademici; come poeta,
segnatamente nel vernacolo, fu emulo di Porta, e tale emulo che Porta
medesimo ne ingelosì; della musica sapeva quanto potea bastare
per innestare sul piano delle variazioni leggiadre a quelle poesie
che, nel crocchio amico e per puro passatempo, improvvisava
declamando.
A
ciò si aggiunga una vena inesauribile di epigrammi arguti e di
buon genere, una grande scorrevolezza di spirito, un fare penetrante
e lusinghiero, un'amabilità continua. Ma rare volte è
inamabile chi fu il prediletto della natura e della fortuna. Ci
vorrebbe un'indole da cannibale per essere arcigni e rozzi sotto alla
pioggia dei dolci sguardi e dei cari sorrisi e delle lodi e
dell'ammirazione universale. Diciam questo perchè non si creda
che noi facciamo il panegirico al pittor Bossi, il quale aveva poi un
gran difetto, quello di lasciarsi troppo facilmente vincere dalle
continue tentazioni; anzi se ne gloriava e vantava, e ci annetteva
tanta importanza, da tener nota delle sue più minute avventure
e speranze amorose, in un diario ch'egli giorno per giorno scriveva,
e che noi abbiam potuto vedere. Eccone un saggio: Questa sera, al
teatro della Scala, nel corridoio dei palchi, ho baciato la marchesa
P..., ed ella mi strinse fortemente la mano: All'erta
adunque e avanti. - La moglie del comandante
Baraguais d'Hillier è tanto bella e cara quanto è
odioso il marito. Ieri sera mi ha pregato e ripregato di
lasciarmi rivedere. Io dunque la rivedrò, ma non per
niente. - La principessa D.... di Roma fu
ieri la regina della festa. Che maestà, che
orgoglio! Mi si dice che sia invincibile; ma altre fortezze
capitolarono, ed io le ho da fare il ritratto. -
Esco adesso dalle stanze della Grassini divina. Chi me lo
avesse detto! Ed ora sono cognato di sua Maestà.
Non
oziosamente ci siam diffusi nel parlare del pittor Bossi; anzi
preghiamo il lettore a tener nota di quanto abbiam detto, per tutto
quello che accadrà in avvenire. Ma egli continuava a parlare
col suo amico e collega, il cav. Zanoja, canonico di S. Ambrogio,
predicatore, professore d'architettura in Brera, e poeta satirico. La
saetta dell'epigramma mordace e l'acredine della satira gli si
vedevano in volto, segnatamente nel labbro inferiore più
sporgente del superiore.
-
Sua Altezza pare di buon umore, diceva Bossi.
-
Tutte le cingallegre son liete.
-
Egli non ha motivo d'esser triste.
-
Colla sua testa e col suo cuore no.
-
Voi alludete al divorzio cui fu costretta sua madre; ma già
era indispensabile.
-
Lo so, ma non toccava a lui a far in Senato l'elogio dell'imperatore
perchè ripudiava la madre.
-
Ora, credete voi che il divorzio avrà per tutti un posto nella
legislazione?
-
Toccherà al ministro Prina a pensarci.
-
Volete dare al dicastero delle finanze gli attributi del culto?
-
Quando occorreranno altri danari, e col sistema corrente non c'è
oro che basti, il ministro Prina consiglierà la sanzione del
divorzio; e valutando la consolazione di tanti mariti liberati una
volta per la virtù d'un paragrafo dai ceppi sacramentali,
metterà sulla universale consolazione tali tasse da empire due
erarj. Avete visto come egli ha fatto l'anno scorso colla caccia?
Prima era un privilegio di pochi, che nessuno osava toccare; ma al
ministro occorrendo danari, Il tempo dei privilegi è
finito, proclamò; tutti gli uomini sono eguali,
tutti devono dunque andare a caccia, e mise una tassa enorme sulle
licenze. Quando una misura finanziaria può comparire in
maschera di salute pubblica e di umanità, è certo che
prospera. Così il divorzio entrerà nel regno italico
sotto il braccio del ministro di finanza e il settimo sacramento
riceverà scacco matto dall'erario esausto.- E chi sa
che il primo ad imitare S. M. non debba essere Sua Altezza?
-
Bisogna bene che il divorzio gli abbia dato alla fantasia, per
dimenticare così indegnamente i riguardi dovuti alla propria
madre. Se poi al fatto del divorzio aggiungete l'aumento di un
milione all'anno con cui S. M. gli pagò la perfida mediazione,
è facile a comprendere l'allegria che brilla sulla faccia del
vicerè.
-
Caro cavaliere professore, non deve esser questa la ragione, io ci
vedo altro. Ma io posso penetrare in luoghi che son vietati a un
canonico di S. Ambrogio. Or fatemi un piacere. Per qualche tempo
tenete d'occhio il vicerè e la contessa Aquila, che oggi ha
ricevuto la nomina di dama di palazzo, e sappiatemi dire il vostro
parere. Or va ad avviarsi una monferrina, e il vicerè sta
invitando la contessina a volere ballar seco. Credetemi che
l'allegria di questa notte non gli deriva nè da Giove, nè
dal tesoriere Plutone.
-
Fauni, Satiri, Silvani, Dei cornuti... e che cosa dirà
il conte Aquila.... il Vice Lucifero?
-
L'osso da rodere sarà più duro degli. altri. Ma
l'orgoglio del conte lo salverà da qualunque sospetto.
-
Ma guai se il sospetto romperà nel suo orgoglio!
-
Io mi meraviglio però come esso abbia concesso alla propria
moglie di accettare la carica di dama di palazzo.
-
È presto pensato.
-
Cioè?
-
Perchè facesse più rumore il suo rifiuto alla carica di
ciambellano. Siccome poi è voce che circola in piazza, che il
vicerè è il gallo della Checca, il conte avrà
pensato di stornare la taccia di marito geloso coll'ostentare
noncuranza e disprezzo. Costui è giovane della più
strana e straordinaria natura. È un miscuglio di Catilina e di
Giulio Cesare. Ora ei si tiene in disparte dalla cosa pubblica,
rifiuta cariche, respinge onori per il solo motivo che non è
vacante un posto d'imperatore. Per quello presenterebbe volentieri le
sue petizioni. Io lo conosco benissimo.
-
Lo conosco anch'io assai bene; e tanto che, se sua moglie fosse mia
sorella o mia figlia, io vivrei dì e notte in continuo timore.
-
Vada per la moglie, ma la cosa più pericolosa è il
nascere suoi figli.... il suo primogenito lo ha provato.
-
Possono esser calunnie.
-
Lì c'è il dottor Monteggia. Interrogate lui. La cosa fu
messa a tacere; ma quel che è avvenuto non si può
negare. Pare che il conte abbia voluto imitar Giovanni de' Medici,
quando per interrogar l'avvenire ed esplorare a che cosa era
destinato il suo unico figliuolo, ingiunse alla moglie di
gettarglielo giù in braccio dalla finestra. Ma se Cosimo
bambino fu accolto sano e salvo dalle braccia paterne, perchè
doveva diventare il Tiberio della Toscana, al figlio del conte non
toccò la stessa fortuna.
-
Il conte però non fece come il Medici...
-
No; ma gettando egli stesso in alto il bambino, come se fosse una
palla, e ripetendo, ad onta degli strilli infantili, il giuoco
spietato, venne la volta che gli cadde in terra, e là giacque.
Mentre
costoro parlavano, avendo il maggiordomo di corte fatto segno al
direttore d'orchestra Alessandro Rolla che annunciasse una
monferrina, primo il vicerè, dando braccio alla bella
contessina Aquila, s'avanzò nel mezzo della sala per aprire la
danza.
Beauharnais,
quantunque contasse appena ventinove anni, non aveva nessuna fisica
attrattiva; era già calvo, era atticciato. Ma, per compenso,
aveva modi gentili e insinuanti, e una grand'arte nel darla ad
intendere, specialmente alle donne. Era francese in tutta
l'estensione della parola, con un viso a zigomatici rilevati e a naso
rivoltato, di quelli che tanto abborriva l'italico Alfieri; ma, per
sua fortuna, le donne, non essendo sempre profonde in estetica e
lasciandosi lusingare troppo facilmente dalla possanza, dalla gloria
o dalle sue apparenze, dalle vesti pompose, lo giudicavano assai
favorevolmente. Egli poi aveva la prerogativa di essere, sul terreno
d'amore, un cacciatore instancabile; ben potevano le beccaccie e le
beccaccine deviare, nascondersi, tentar voli subdoli, fargli perdere
interi giorni; egli non abbandonava la preda, finchè veniva il
punto d'aggiustar bene il tiro, e di lasciar la fuggitiva con qualche
ala infranta.
-
Queste sale, contessa, posso giurare d'averle aperte espressamente
per voi (così nel suo francese diceva Beauharnais alla
contessa Amalia). In febbraio io vi attesi invano tutta la notte al
ballo che mi diede il Senato: però, quantunque fosse mia
intenzione di non dar feste altrimenti in quest'anno, perchè
devo partir subito per il matrimonio di S. M., pure ho cambiato
consiglio, sapendo che la vostra novella carica vi costringeva a
intervenire alle feste di corte.
-
Se sono venuta, disse gentilmente la contessa, è perchè
mio marito me lo ha permesso.
-
Se vostro marito ve lo ha permesso, è perchè non poteva
impedirlo.
-
Poteva impedirmi di accettare la carica di dama di palazzo.
-
Io dunque non ringrazierò che vostro marito.
-
Oh.... ma non fate, altezza, ch'io debba lamentarmi della sua
condiscendenza....
Il
vicerè si sentì esaltato da queste parole, dando loro
la più ampia interpretazione.
Dallo
sguardo che solo aveva insinuante ed espressivo, gli traspariva
l'intima gioja. Nel passare in mezzo alle vive cariatidi dell'impero
e del regno, volgeva parole amabili a tutti e loro comunicava quelle
notizie che potessero dar piacere e soddisfazione.
-
Eccellentissimo signor duca, diceva, passando dinanzi al gran
ciambellano Litta, da questo momento ho finito di chiamarvi marchese.
Il governo di S.M. ha riconosciuta la dote che voi avete assegnata al
ducato cui foste innalzato fin dall'ottobre passato. - Caro
marchese Trivulzi, oggi è venuta per voi la nomina di
ciambellano; preparate le chiavi. - Il signor conte Annoni
permetterà che lo saluti commendatore; - e via su
quest'andare.
Ma
Rolla diede il segno, e il vicerè aprì la monferrina.
Assai presso al vicerè e alla contessa Aquila, trovavasi
madama Falchi, atteggiata anch'essa per la danza. Il pittor Bossi,
amico suo di casa, staccatosi dal collega Zanoja, s'era messo a
sedere al posto di lei, intanto che ella erasi alzata. Appena la
monferrina finì, il pittore fu presto a levarsi per
restituire il posto a madama.
-
Ma, non ho volontà di sedere, - essa gli disse; -
piuttosto accompagnatemi a fare un giro per le sale. Se il pittore,
ch'era ottimo di cuore, avesse saputo di che si trattava, certo non
avrebbe accompagnata quella donna. Però non lamentiamoci della
sua condiscendenza fatale; la Falchi in ogni modo avrebbe trovato
l'accompagnatore. In quanto a noi, stiamo attenti a ciò che
sarà per fare colei, che fu davvero in quell'occasione:
L'infernal
dea ch'alla vedetta stava.
III
Mentre
la pantera, fiutata l'orma della gazzella, si appiatta adocchiando ed
aspettando, diciamo qualche cosa della contessa Aquila; teniam conto
de' suoi diporti in casa e in collegio; interroghiamo i suoi maestri,
la sua governante; tentiamo di eccitare il suo confessore a svelar
qualche segreto; sopratutto vediamo di far cantare qualcuna delle sue
più intime amiche, di quelle che dall'infanzia
l'accompagnarono fino ai quindici, fino ai vent'anni.
Che
interesse desterebbe il nostro racconto se ci fosse concesso di
manifestare il nome e cognome di questa nuova eroina! Quando si pensa
che vivono ancora tante persone che l'hanno conosciuta più o
meno dappresso, ed è infinito il numero di quelle che la
conobbero di vista, è un dolore per noi, che siamo artisti
nemicissimi del convenzionale, l'essere costretti a trattare questo
personaggio come se fosse un ideale, mentre fu vivo e vero e
realissimo. Ma se è un dolore, non è un ritegno; anzi,
per consolarci, è un'occasione di più per lasciar
libera l'uscita a tutta quanta la verità e per mettere allo
scoperto tutti i segreti. Però, se non potrà essere
appagata la curiosità del bel mondo, troverà maggior
pascolo il filosofo investigatore, che, al pari del medico, ha
bisogno di conoscere i più minuti elementi che produssero ed
esacerbarono malattie ed ammalati celebri.
Cominciamo
intanto dal dire, che il titolo di contessina, essa lo trovò
in casa, bell'e fatto da molti secoli. Il suo casato, se non
ricchissimo, era cospicuo. I suoi genitori, tanto il maschio che la
femmina, furono buoni, per taluni anche ottimi, e di costumi assai
rigorosi: così rigorosi, da non parer contemporanei di quella
generazione lieta e gaudente che inventò il topé
e la cipria. Le amiche della fanciulla, che vissero con lei gli anni
dell'infanzia nel monastero di S. Giuseppe (d'una delle quali noi
abbiam conosciuto il figlio, che dalla madre tenne molte notizie),
furon tutte d'accordo nel dire, che indole più mite, più
soave, più angelica della sua non ci fu mai; aggiungendo però
che tutte queste qualità erano mantenute nel loro più
perfetto stato di conservazione da una gran dose di ghiaccio nativo:
press'a poco come avviene di alcuni prodotti vegetali, che, se non si
tengono in fresco, si corrompono.
Non
era per altro del parere comune la madre di quel tal figlio che noi
conoscemmo, la quale per combinazione fu la sua amica più
intima e più costante. Per suo mezzo potemmo raccogliere che
la calma serafica era tutta nell'apparenza di quella creatura, ma di
sotto all'onda gelata, non ostante una gran bontà e gentilezza
di natura, ferveva e bolliva e scorreva la lava. Di questo però
il mondo non ne seppe nulla. Bensì quand'ella fu uscita di
monastero, e dopo che, avuta in casa una educazione di
perfezionamento più varia, più ampia e più
squisita, toccò i quindici anni, fu generale la voce che, tra
le adolescenti da marito, non v'era in tutta Milano fanciulla più
educata, più bella, più santa. Ora, in quel periodo
appunto, tra i giovani patrizj milanesi, per vigore d'intelletto, per
suppellettile di cognizioni, per energia di volontà, per
prepotenza d'orgoglio aveva un assoluto primato il giovane conte
Aquila. E poichè in tutto ei voleva essere il primo -
mise gli occhi su quella che si diceva essere la più eletta
tra le maritande del patriziato milanese.
Ma
più che tutte le distinte qualità della contessina, ciò
che davvero aveva determinata la scelta del conte Aquila, era la
giovinezza di lei. Tra le fanciulle da marito ch'ei conosceva degne
di lui, era la sola che avesse compiuto da pochi giorni gli anni
quindici, l'età legale. Se la legge, come in Sicilia, in
Egitto, in Arabia, avesse permesso di sposare una fanciulla a dodici
anni, egli avrebbe scelta quella che non avesse sorpassata quell'età.
E a ciò era portato, non già perchè fosse amante
dell'eccessiva giovinezza: il suo gusto lo portava anzi a vagheggiare
la donna che, al pari di una mela e di una pesca, avesse tocca la più
completa maturanza; ma sì perchè, conoscendo il mondo e
gli uomini ed anche le donne, pensava che, a sorprendere in sui primi
albori una rosa sbocciata di notte, ancor madida delle gemme della
rugiada, si poteva quasi esser certi che altri non aveva potuto
accostarvi le nari.
Era
sempre l'orgoglio che lavorava; era il tormento del primato. Il conte
poneva lo sguardo alla futura sua sposa, press'a poco come un
bibliomane lo pone a un libro, che è avido di acquistare non
già per la materia che contiene, nè per il pregio del
dettato; ma perchè sa che dell'edizione principe, fatta in
pochi esemplari e involata dal tempo, è l'unico che sia
rimasto. Quando una ragazza che va a marito è destinata a far
la figura di un libro in cartapecora, il lettore può ben
comprendere che nemmeno la prima luna abbonderà di miele.
Ora,
per disgrazia della giovinetta, il signor conte Aquila, ricco di
tutte le doti che possono rendere appetitoso uno sposo, più ai
padri e alle madri, già s'intende, che alle figliuole, chiese
la mano di lei, che senza un ostacolo al mondo gli venne concessa dai
parenti, e così fu conchiuso e stretto il matrimonio;
matrimonio modello, perchè, come un contratto di compra e
vendita, come un atto ipotecario, come un passaporto, recava tutte le
firme e tutti i bolli voluti dall'autorità.
Gli
uomini che portarono dalla natura il dispotismo e la gelosia, ed
hanno sì poca fiducia nelle donne, che se la civiltà lo
permettesse, adotterebbero volentieri il sistema orientale degli
eunuchi custodi e spie; o rimetterebbero in vigore le consuetudini
dei baroni del medio evo, che chiudevano sotto chiave la fedeltà
muliebre, hanno sempre fatto malissimo i loro conti. Essi non hanno
pensato, che non è il possesso materiale della donna che
importa; ma il suo affetto. Ora l'affetto non s'impone, non
s'imprigiona, non s'ipoteca; come tutti gl'imponderabili, esso non
può essere contenuto in nessun recipiente. I poeti e gli
storici ci hanno assicurato, che la donna non fu mai tanto
idealizzata, rispettata, idolatrata come nel medio evo, perchè
in quel tempo s'introdusse l'invenzione delle così dette
regine delle feste e dei cuori. Ma se i nomi sono speciosi e
lusinghieri, e se le apparenze sono belle e buone, cari i miei poeti
sempre pronti a scaldarvi d'entusiasmo, storici egregi sempre corrivi
a far dei sistemi, abbiate la bontà di considerare che invece
non fu mai tanto materializzata la donna come dal giorno che, per
assicurare la loro fedeltà corporea, fu messa la ceralacca sul
loro pudore, come se si trattasse di uno scrigno da consegnarsi al
tribunale. Non è così che si rispetta la donna, signori
storici e poeti.
Gli
uomini del mondo romano, che voi avete condannati come dispregiatori
e conculcatori della dignità delle donne, si fidavano, o
fingevano almeno di fidarsi, della loro parola. È un bel
tratto di cortesia. Le donne, sul terreno dell'amore e della fedeltà,
eran le sole custodi responsabili di sè stesse. È a
questo patto che si rispettano. Ora il conte Aquila era un vero
barone del medio evo. In attestato della più profonda
devozione all'onore di sua moglie, se avesse dovuto fare un viaggio
armato in Terra Santa, avrebbe prese tutte le misure per assicurarsi
che non sarebbe stato violato il casalingo tesoro. Ma il signor
conte, al pari di qualunque cavaliere della spedizione di Palestina,
faceva i conti senza l'oste. Considerando la donna come se fosse una
statua d'inestimabile pregio, ma senz'anima e senza sangue, non
pensava che la fedeltà si può rompere con un desiderio,
con uno sguardo; non parliamo dei baci, Dio ci liberi; e che i
desiderj vengono e che gli sguardi si comincia a mandarli in giro
allora appunto che si sente il peso delle catene. Non c'è
nessuno che più del prigioniero sia avido di cielo e d'aria.
Ben è vero che il proverbio: l'occasione fa l'uomo ladro,
consigliò molti mariti a non lasciar mai sole le proprie
mogli, a vegliare dappresso, a farle vegliare. Ma se questo proverbio
può dar molto da pensare, non fa minor senso quell'altro: la
proibizione genera l'appetito. Comprendiamo assai bene che un
marito, collocato tra questi due proverbj, sta peggio di un soldato
collocato tra due fuochi. Ma bisogna pur pensarci e prendere una
risoluzione. Il conte Aquila non ruminò che il primo
proverbio, e a quello s'attenne, e non ascoltò che le sue
inspirazioni, e qui fu il danno. Quanti guai di meno se da filosofo
indulgente, che vive e lascia vivere, non si fosse regolato che col
secondo!
Quando
la contessina entrò sposa nella casa di lui, oltre ad essere
giovine come l'acqua, aveva tutte le virtù di cui può
andar fornita una fanciulla. Ma, se la soave timidezza del suo
contegno poteva far sospettare quel ghiaccio di cui abbiamo parlato,
il ghiaccio non c'era. Noi confessiamo di portare una avversione
speciale, accanita, per tutti gli uomini, per tutte le donne che son
bravi e virtuosi perchè sono gelati, che non bevono perchè
non hanno mai sete. Ora la contessina aveva la sua sete, come il suo
sangue aveva i suoi bollori, come il suo cuore i suoi sussulti e i
suoi slanci. È appunto per questo che ella era una cara
fanciulla; una fanciulla, cioè secondo natura, e secondo la
più perfetta e la più florida natura. Tutto però
era in germe, nulla v'era di sviluppato. Quindici anni son pochi; e
un marito che si piglia in casa una creatura da far crescere e
sviluppare, se non ha una dose abbondante d'intelligenza e
d'esperienza, ma sopratutto di bontà e d'amabilità, è
un affar serio tanto per il coltivatore che per la pianta.
L'intelligenza nel conte c'era, c'era l'esperienza; ma la bontà
mancava affatto, e l'amabilità. Il conte era un uomo, lo
ripetiamo, orgoglioso ed ambizioso; sempre tormentato dall'idea che
in tutto il regno, per quanto girasse lo sguardo, non v'era un posto
degno di lui; sempre pensieroso del fatto che, fin che durava
quell'ordine di cose di cui Napoleone era stato il generatore e il
padrone, la fortuna stava tutta per quegli uomini che erano sorti con
lui e per lui. Codesto tormento ei lo sentiva tanto più forte
in quanto non vedeva per allora nessuna nube, nessun lampo, nessun
segno atmosferico che accennasse a un cambiamento di tempo. Il
barometro segnava sereno costante. Guai per chi desiderava un
temporale! Fantasticava ei dunque continuamente, trasportato da
strani desiderj in campi ignoti; press'a poco come chi ambendo
vivamente una prodigiosa ricchezza, pensa a fortune ed eredità,
senza sapere da che parte gli possano venire.
Sempre
pieno di queste idee, era meditabondo e cupo. Non era cortese se non
con quegli amici che, tirati nel vortice delle sue idee, la pensavano
come lui, e lo applaudivano quando, mettendo l'ipotesi d'una
possibile caduta di Napoleone, con quella fantasia e quell'eloquenza
che deriva dal pensiero più costante della vita, accennava a
future combinazioni europee, alla caduta di tutti quelli che chiamava
adulatori e satrapi e schiavi e vili. Una fanciulla di quindici anni
che abbia un simile marito, si trova ben peggio che in
monastero o in casa. Esso non si pigliava veruna cura della felicità
della contessina: a lui bastava che fosse virtuosa, fedele,
intangibile. Credeva che non avendo mai conosciuto il mondo non
l'avrebbe desiderato; ma spesso la vegetazione prospera in sè
stessa e per le occulte virtù della natura; ma il non aver mai
provato le passioni prima di quindici anni, non vuol dire che non si
debbano provar dopo, perchè l'isolamento non basta a prevenire
dei mali, che sono sfoghi necessarj nella vita morale, come certi
esantemi nella vita fisica. Il vajuolo può investire anche chi
vive da molto tempo isolato dagli uomini; e spesso l'elemento
venefico vien recato da regioni nemmen sospettate. E così fu
della contessina. Se il conte avesse saputo da che periglio ell'era
attesa, l'avrebbe piuttosto gettata nelle braccia di mille spasimanti
volgari.
LIBRO
DECIMOQUINTO
SOMMARIO
Il
figlio del conte Aquila. - L'anno 1809 e il vicerè
Beauharnais. - Una festa in casa Litta. - Don Giovanni
e fra Cristoforo. - Il vicerè, le classiche
reminiscenze e il medio evo. - Beauharnais e la Falchi. -
Il conte Aquila e il vicerè. - Ugo Foscolo. - Il
colonnello Baroggi. - Un bacio e un colpo di scudiscio. -
Il ministro Prina.
I
Il
conte Aquila, orgoglioso di posseder la contessina Amalia, in quella
guisa onde un Arabo, nell'idea di perpetuare la celebrità
della razza, tien preziosa una puledra nata in incliti presepj da
inclita coppia, non desiderò altro che di avere un figliuolo:
maschio, già si intende, forte, bello, ingegnoso,
straordinario. Se gli avessero detto: «per adunare nel tuo
primogenito tutte codeste qualità, è necessario che la
madre muoja nel parto», ei non avrebbe esitato un istante a
rispondere: Muoja. In simile maniera un possidente non ha
nessuna pietà del baco morituro, per l'aurifera seta che gli
dee produrre.
Da
vero fisiologo e teologo, ei non considerava il matrimonio in sè
stesso, ma pel suo fine. Il multiplicamini della Bibbia non fu
mai interpretato con più spiegato rigore scientifico. La
scienza non ha viscere. E il suo desiderio fu presto appagato;
appagato in massima; e perchè il figliuolo fu esatto nel
venire in luce nel più breve tempo possibile, e perchè
fu un maschio. Ma la forza, fin dal primo momento che il fanciullo
fece capolino dal nulla, non si rivelò nè al padre
ansioso, nè all'ostetrico esperto. Non la forza e non la
bellezza: due cose che, ad onta della speranza che stava sempre in
aspettativa di qualche benefica sorpresa della natura onnipotente,
non comparvero nemmeno in un anno, nemmeno in due.
Il
conte Aquila cominciò allora ad amar la madre più del
figliuolo, il quale, per dispetto, non accusava neppure svegliatezza
di spirito. Il conte diventò cupo più che mai, e
bisbetico, ed anche un po' inumano. Voleva come sciogliere e
disnodare quella natura inerte e disadatta.
Senza
volerlo, egli sfogava l'interna stizza quando al fanciullo, con
intento ortopedico, stirava e gambe e braccia e collo, per vedere di
migliorare coll'arte lo scarto della natura. Il lettore si ricorderà
del dialogo tra il pittor Bossi e il canonico Zanoja, dove vennero a
toccare della morte di quel fanciullo. Pur troppo il fatto era vero.
Avendo egli l'abitudine di far subire al fanciullo una ginnastica
intempestiva, qualche volta lo palleggiava, lo forzava a star dritto
sul palmo della mano, lo gettava in alto per riprenderlo nelle
proprie braccia. La contessina Amalia tremava e pregava e piangeva a
que' giuochi perigliosi; il fanciullo strillava; ma il padre era
irremovibile, perchè tenevasi certo di giovare allo sviluppo
del figliuolo. E venne il dì che, siccome sappiamo, gli cadde
in terra, e là giacque. - La nutrice accorse, ma
indarno; la madre svenne; il conte rimase attonito e atterrito. Fu
mandato a chiamare il dottor Monteggia. Ma la scienza non risuscita i
morti. Al racconto che fecero e nutrice e madre e astanti, il celebre
chirurgo, preso di sdegno, stette per rimproverare acerbamente il
conte. Ma il conte lo saettò collo sguardo in modo, che al
professore non bastò l'animo di parlare. D'altra parte, dal
rimprovero non scaturiva un rimedio.
Dopo
questo caso funesto, la contessina Amalia sentì nascersi in
cuore un'irresistibile avversione; per il conte, prima, non aveva
provato che rispetto, stima, soggezione, amore non mai; nemmeno
quell'attrazione istintiva e, quasi a dire, meccanica, che una
giovinetta può sentire qualche volta per un uomo giovane
perfettamente costituito. In ogni modo quando, dopo qualche tempo,
venne diminuendo in lei il rammarico per la morte dell'unico
figliuolo, diminuì anche l'avversione. Le rimase però
nell'animo quanto basta per renderle incresciosa la vita maritale. Nè
il conte desisteva dal suo contegno ottomano; la contessina era
tenuta in casa il più del tempo; quand'ella riceveva visite
così d'uomini come di donne (e a ciò v'era l'ora
stabilita), egli non la lasciava mai sola; segnatamente colle donne,
che dal punto di vista dei cattivi consigli e delle tentazioni, ei
credeva assai più pericolose degli uomini stessi; e in questo
non aveva forse torto. Quand'ella poi usciva di casa senza il signor
consorte, per l'igienica necessità da lui ben compresa di
cambiar aria, c'era l'obbligo della carrozza. Guai s'egli avesse
saputo che, per snodare un po' le gambe, ella avesse osato far
qualche passo nei pubblici giardini o sulle mura!
Per
questa operazione era indispensabile l'accompagnatura maritale. Il
tempo però, che cambia tutte le cose di questo mondo, e induce
qualche lassitudine perfino negli uomini più rigidi e più
tenaci, allentò le redini anche nelle mani del conte. Della
sua giovane moglie egli non ebbe mai a lagnarsi; non mai una
disobbedienza, non un atto di malavoglia, nè un segno, fosse
pur fuggitivo e involontario, di malumore. Ben rassicurato adunque di
avere per compagna una donna marmorea, cominciò a lasciarla
sola qualche volta in conversazione; le permise d'andare a trovar
sola qualche amica. Nell'occasione di alcune feste straordinarie, non
già permise, perchè ella non gli domandò mai
nulla, ma le ingiunse espressamente di comparire in esse pomposamente
foggiata. Assaporando il trionfo di sentirla lodata e ammirata e
citata dagli uomini e dalle donne, perfino dai galanti ufficiali,
come un modello insuperabile di virtù, anzi come un'eccezione,
rinnovò quei comandi. Era sempre la smania del primato che lo
consigliava. Nè la contessa, sebbene qualche volta girando lo
sguardo sentisse qualche lampo istantaneo di desiderio, poteva
correre nessun pericolo. Quantunque bella e leggiadra e soave e
simpaticissima, ella, in quanto agli effetti, era nella condizione di
una donna diabolicamente deforme; chè nessuno dei giovinotti
pretendenti e battaglieri osava accostarla con intenzioni oblique;
nessuno si sarebbe fatto lecito di rivolgerle una di quelle frasi,
che sono gli scandagli, gli ami e le reti della galanteria.
Non
si spera se non ciò che è possibile, anche dando alla
possibilità il più esteso confine. Ma l'impossibile non
entra mai nel giro delle nostre ambizioni. Bonaparte quand'era
colonnello a Tolone non sognò mai di diventare imperatore; ma
lo sognò, lo desiderò e potè sperarlo quando fu
console. Ora la conquista di quella donna era considerata dal bel
mondo fuori affatto di ogni sfera di probabilità. Ella era
forte e impenetrabile come il diamante; e, d'altra parte, il marito
faceva assolutamente paura; paura mescolata di ammirazione, quando
anche non voluta. Egli era uno di quegli uomini rari, che esercitano
sugli altri un fascino arcano, sebbene potesse essere un fascino
odioso. Anche il duellista più intraprendente, più
sfacciato e provocatore, non avrebbe mai voluto aver brighe con
quell'uomo là.
E
il conte si accorse di tutto ciò; ed anche la contessina
leggiadra se ne accorse, e, diciamolo pure, con un certo rammarico.
Aveva toccati i venti anni; lo sviluppo fisico avea raggiunta la sua
massima pompa; il sangue, che non domanda il permesso al signor
curato, cominciava a bollire fieramente, ned ella conosceva il
segreto del ghiaccio, tanto usufruttato da S. Francesco. Vedeva
pertanto e guardava e contemplava gli attraenti splendori della vita
viva, come il povero Mosè condannato a vedere in lontananza i
grappoli della terra promessa, ed a morire senza poter mettervi il
labbro. Povera contessina Amalia!
Per
qualche tempo i nuovi pensieri passavano e ripassavano nella mente di
lei senza fermarsi. Ella versava in quello stato di apatia
incresciosa, senza gioja e senza dolore, che lascia gli occhi oziosi
al pianto e rende il labbro incapace al riso. Stato molto simile a
quel malessere indefinito, che alla lontana suole annunziare nel
corpo umano lo sviluppo di una malattia di carattere. Ma se la cura
profilattica e l'acqua imperiale può giovare talvolta nei
turbamenti fisici a far dileguare il germe d'una infiammazione
futura, pei turbamenti del cuore, che sono necessità della
fisiologia sentimentale, non v'è acqua imperiale che giovi. Se
non è oggi sarà domani; ma il giorno dell'eruzione è
inevitabile.
Senza
annojare il lettore col richiamargli alla memoria le grandi battaglie
e le vittorie luminose ottenute da Napoleone nel 1809, gli diremo
soltanto che quelle vittorie dovevano portare il disastro nel cuore
della contessa. Che colpa ne avea Napoleone? D'altra parte, che
relazione può avere la tattica e la strategia e il valor
militare con una donna che vive in ritiro? In apparenza, nessuna. Se
non fosse che, verso la fine del 1809, il vicerè Eugenio
Beauharnais ritornò in Italia. Questi, per quanto ne portò
la fama e per attestazione concorde dei prodi che avevano militato
sotto di lui, si era coperto di gloria. I cittadini e gli uomini
della pace, che da qualche tempo avevano cominciato, per delle
cagioni anche giuste, ad avere in qualche uggia il vicerè,
dovettero subire, volere o non volere, quel fracassìo di
gloria. Gli uomini, che si erano intiepiditi a suo riguardo, lo
celebrarono; i maldicenti cangiarono argomento; gli odiatori
compresero le ire. Tutto questo in quanto al sesso forte. Rispetto al
sesso debole, le cose avean proceduto e procedevano diversamente.
Talune delle cagioni giustissime per cui i mariti, gli amanti, i
fratelli, i cognati avean preso avversione per il vicerè, eran
quelle cagioni medesime per cui alle donne invece era riuscito e
riusciva tanto simpatico. La cosa è naturale. Il difetto
capitale nel vicerè, lo abbiamo già detto, consisteva
in un sistema continuo ed esagerato d'infedeltà conjugali. Il
suo lato vulnerabile si scopriva ogni volta che veniva alle prese col
nono comandamento. Ma le donne, in generale, che sono dispensate da
quel paragrafo del decalogo, hanno un gusto matto che esso venga
infranto dagli uomini. Le donne hanno tutti i torti; ma è una
questione di gusto come un'altra, e bisogna lasciar andare.
La
gloria esercita sulle donne un fascino speciale. Sia dessa d'oro o di
princisbecco, fa sempre su di loro il medesimo effetto. Se poi è
una gloria cogli spallini e gli sproni, non c'è più
nessuno che le tenga. Povere donne, noi almeno le sappiamo compatire!
Ad un uomo circondato di gloria, purchè sia un po' giovane
(qualche cosa già ci vuole), le donne sono capaci di perdonare
la calvizie incipiente, la ventraja incipiente, i labbri grossi, un
naso che non sia perfettamente in regola col codice dell'arte greca,
ecc., ecc. In questo esse sono assai più soprasensibili e
spirituali degli uomini, i quali di solito preferiscono la bella
faccia, la pelle fresca, e delle linee curve afrodisiache.
Premesso
tutto ciò, quando Beauharnais fece, dopo il suo ritorno, la
sua prima rivista in piazza Castello, gli istoriografi notarono che
le mani che più applaudirono furono di femmine; notarono che
la loro maggioranza aveva conchiuso col dire, che le fatiche delle
battaglie lo avevano reso più simpatico; sopratutto che lo
avevano fatto dimagrare. La magrezza è un altro ingrediente
che, in generale, non dispiace alle donne. Paride era magro, Leandro
era magro, Abelardo era magro, Romeo era magro, Jacopo Ortis non
lasciò nemmen tempo al tempo di farlo ingrassare; se poi il
Petrarca era grasso, è perchè non doveva essere
corrisposto; ma andiamo innanzi.
Alle
riviste militari tennero dietro le feste a corte; le feste in qualche
casa patrizia, dove il vicerè si compiaceva d'intervenire. Fra
tutte egli preferiva la casa Litta: casa proverbiale allora per la
ricchezza e la cordialità. Il marchese Litta gran ciambellano,
creato duca nel 1809, aveva una sostanza di più di 30 milioni,
che oggi equivarrebbero a 60. Aveva il primo guardaportone del regno
italico; il primo cuoco con nove mila lire di stipendio (la paga di
un capo divisione di ministero); sopratutto possedeva il più
sontuoso vasellame d'oro e d'argento che allora si conoscesse. La
casa reale non arrivava a tanto. Baldassare avrebbe dovuto ricorrere
a lui per adornare il suo festino. Il vicerè, che amava le
pompe e gli sciali, e teneva dall'imperatore la commissione di
eccitare il ricco patriziato a spendere e a rovinarsi, affettava per
il duca Litta un'assoluta predilezione, allo scopo di far nascere
imitatori e gare. Il vicerè si recò pertanto una notte
ad una festa in casa Litta. Il conte Aquila che, sdegnando le aure di
corte, si faceva sempre desiderare alle feste vice reali,
ostentò di figurare in casa Litta tra i primi amici del duca,
non solo facendovi intervenire la moglie, ma adornandola con tanta
pompa di gemme e di trine, che fu proclamata la regina della festa.
Il vicerè che l'aveva vista altre volte in occasioni comuni e
partecipava per lei al sentimento generale, e, diciamolo pure, anche
un po' alla paura del marito, in quella notte si sentì
fieramente colpito dalla contessa Aquila; non gli era mai sembrata
così bella; era la prima volta che la vedeva splendida di
vesti, ben si poteva dire, regali.
Il
rispetto e la paura, che quasi sempre trattengono dal voler
conquistare le cose che piacciono indifferentemente, si trasmutano di
tratto in incentivi, che inviperiscono ed esacerbano il desiderio, se
l'oggetto altre volte veduto ci sembra diventato prezioso oltre
l'usato. Ed il vicerè sentì il coraggio e la
irritazione degli ostacoli; e portata repentinamente l'indole sua,
già baldanzosa e temeraria, all'estrema sua espressione, colse
un momento che il conte non trovavasi nella sala dov'era la contessa:
fu guardingo anche nel cogliere il punto che altri non potesse
sentire; e con quell'accento francese pieno di fascino e di grazia
ch'egli aveva ereditato dalla madre Giuseppina e teneva in serbo
nelle grandi occasioni, le rivolse poche parole: poche e tronche e
dove l'audacia d'una dichiarazione non preparata da nessun antefatto
e che poteva anche venir giudicata come una scortesia, raggiunse
invece quell'effetto che viene dall'ispirazione; press'a poco come
certi trovati del genio, che sembrano spropositi, e sono miracoli.
Il
vicerè parlò e partì e lasciò la festa,
ed anche questo fu un capolavoro d'astuzia. Egli conosceva le donne.
Povera contessa Amalia! Quelle parole essa non le aveva mai sentite
da nessuno. Il superbo marito non ne ebbe mai. Quelle parole furono
come un raggio azzurro di cielo, che si rivela dopo una lunga
aspettazione a delle pupille desiose! Oh fatalità! Oh
tradimento della nemica fortuna!
II
La
gioja più intensa e sopracuta che fa provare l'amore, così
almeno ci assicurano i professionisti e i dilettanti, succede
quand'esso fa la sua annunciazione, come l'arcangelo Gabriele; quella
gioja è d'un prezzo inestimabile, perchè in quella
prima ora non vedendosi che la faccia radiante della novella
condizione in cui l'ingaggiato viene a trovarsi, quella gioja non è
alterata da nessun elemento eterogeneo; non ha lega nessuna nè
di rame, nè di zinco; è oro puro a mille. Ma l'oro puro
a mille convertito in moneta si piega nelle mani, e va soggetto a
delle avarie. Gli usurai tosarono senza pietà gli zecchini di
Venezia. Ora anche la prima gioja dell'amore si riduce presto ai
minimi termini. La gioja, intendiamo bene, non l'amore; questo anzi
cresce a dismisura e in ragione inversa della gioja stessa. L'amore
s'alimenta d'affanni e di spasimi. Chi ci ha trasmessa
quest'asserzione, ci disse altresì di fidarci della sua
parola, senz'altre indagini. Dunque proseguiamo. La contessa Amalia,
appena il vicerè fu partito, si sentì come tutta
inondata dal calore e dalla luce di quella gioja. Fu una rivelazione,
fu una scoperta, fu un genere di sensazione intorno a cui ella aveva
potuto in addietro far delle congetture in via filosofica. Ma quando
quella sensazione si rivelò e la invase, la contessa si
accorse che la filosofia era stata assai lontana dal vero. Per dare
una giusta idea di quella sensazione, noi avremmo in pronto una
similitudine precisa e calzante, ma non potremmo dirla che
all'orecchio di un professore di fisiologia. Essa poi è tale
che produce per consueto un fenomeno speciale, migliora cioè
di tratto l'indole di quanti la subiscono; chi è chiuso
diventa loquace e aperto; chi è acre e mordace diventa alla
mano e indulgente; chi odia si placa e transige. Però la
contessina, quando si trovò col conte marito, fu dolce seco e
piena di grazia e pazzericcia anche un poco. Il conte non aveva mai
trovata la moglie tanto cara e carezzevole come in quella sera.
Quando
le mogli si mostrano cortesi coi mariti oltre l'usato, non è
sempre una ragione perchè questi debbano rallegrarsi.
Una
tale esaltazione continuò nella contessa tutta la notte; nel
tempo dell'apatia e della noja matrimoniale ella aveva sempre dormito
le sue otto ore saporitamente e d'un fiato solo; diciamo ore otto,
perchè il conte, che s'intendeva d'igiene, decretò che
la moglie non dovesse dormire che quelle ore. Se la cameriera
l'avesse svegliata qualche momento dopo, poteva correr pericolo di
essere scacciata. Tuttavia se esso poteva impedire alla moglie di
dormire nove ore, se la sua giurisdizione era implacabile sul più,
bisognava pure che si adattasse sul meno. Se gli occhi si fossero
potuti chiudere e mettere sotto custodia, certo ch'egli ne avrebbe
ritirata la chiave; ma per combinazione la natura decretò
diversamente. Ecco perchè la contessa ebbe diritto in quella
notte esagitata di non consumare nel sonno nemmeno una di quelle ore
statele concesse, e di lasciar vagare liberissimamente il pensiero
per campi che non aveva mai nè percorsi, nè sospettati
in addietro, ed anche di gettare, durante la veglia rischiarata dalla
notturna e opaca lampada, qualche occhiata sulla faccia del conte
addormentato. Vi sono dei casi in cui tanto più si guarda un
oggetto quanto più dispiace; questo fenomeno strano è
forse fratello di quell'altro per cui chi soffre il mal di denti,
ritorna spesso colla mano quasi ad esacerbare la parte addolorata.
Ella dunque guardò e riguardò e ritornò a
guardare il conte; e che frutto ne ricavasse, ognuno lo può
pensare. Fu per quella vista e, per quell'esame ripetuto che la prima
gioja solenne, sopracuta, completa, quell'oro a mille, senza lega,
non potendo snaturarsi affatto, s'accartocciò, si raggrinzì;
fece come il sole, che non si oscura, ma le nubi temporalesche non lo
lasciano più vedere. Ed infatti sul sereno tutto raggiante del
suo pensiero si alzò una fitta nube d'affanno e di spavento.
La contessina provò quello che tutte le anime calde,
appassionate, ma generose ed oneste, provano ogni, qualvolta sono
assalite da uno di quegli amori per cui i mariti e le mogli possono
gettare e gettarsi dalla finestra; per cui il confessore non suol
dare l'assoluzione alle sue divote; per cui gl'interessati possono
adoperare i fulmini delle leggi: gli uomini e le donne, i quali non
hanno altro pensiero che quello della digestione, adoperano parole
d'ironia e di scherno; e i bigotti inquisitori avventano maledizioni
e saette; di quegli amori per cui non sente pietà che qualche
uomo il quale tenga un piede nella filosofia e l'altro nel bel mondo,
ed abbia potuto essere a un tempo e don Giovanni e fra Cristofaro.
Quando
le donne vengono assalite dal tifo erotico, si trovano sempre in una
condizione molto più grave e allarmante degli uomini. Questi
possono far nascere gli avvenimenti; le donne devono aspettarli:
d'altra parte, a meno che non siano vedove, il quale stato
dev'essere, a parer nostro, il non plus ultra della felicità
muliebre, non possono nè andare, nè stare, nè
uscire quando vogliono, nè penetrare in certi luoghi, nè
passeggiare sub luna, ecc. Le pene così dette
dell'inferno debbono avere qualche analogia con quelle di una donna,
che, sia essa nubile o maritata, non aspira che a vedere e trovarsi
con colui che gli sta sempre in pensiero. Nè la contessa
Amalia potè andar sciolta dalla legge comune. Sebbene in sul
principio, come avviene sempre delle donne che non fanno all'amore
per capriccio e passatempo, ella avesse fatto proponimento di non
dare alcun alimento a quella passione, di troncare di colpo ogni via
di comunicazione tra il desiderio e il suo adempimento, di fingersi
ammalata, di non uscir più di casa, di non recarsi più
a nessuna festa, perfino di palesar tutto al marito, onde terminar
ogni cosa in un momento; pure non fece nulla di tutto ciò.
Certo che avrebbe fatto assai bene a mettere in atto quei propositi,
e chi non lo sa? Ma la cagione del non esserci riuscita sta nel fatto
che erale davvero entrato in petto il demonio della passione, il
quale vuol quel che vuole, ed è onnipotente. Taluno potrebbe
domandare in che modo alcune poche parole, dette in un momento
fuggitivo, abbiano potuto suscitare un incendio così pronto e
così generale; ma noi risponderemo appunto colla teoria degli
incendj. - Una favilla di sigaro acceso, la quale voli per
caso in un covone di paglia, basta a distruggere un villaggio; mentre
talvolta, se ci proviamo ad accender fuoco per il bisogno di
riscaldarci, un mazzo di zolfanelli è poco per arrivare a far
sorgere qualche fioca fiammella dalla catasta indarno disposta con
arte sugli alari. Quel che è degli incendj materiali è
degli incendj morali.
Or
continuando, se la contessa non aveva nessuna virtù di far
nascere una combinazione per cui potesse rivedere il vicerè,
questi non istette ozioso, e dispose le reti in maniera che non
dovessero rimaner sempre vuote. Egli aveva bisogno di avvicinarsi
alla contessa; di avvicinarsi al conte; di trovarsi un po' a lungo e
coll'uno e coll'altra; aveva bisogno che il luogo del ritrovo fosse
numerosissimo di persone come una festa; ma che avesse anche una base
d'operazione infinitamente più estesa. Pensò quindi ad
una partita di caccia. In una partita di caccia c'è rumore e
disordine: le compagnie dei cacciatori si sparpagliano; chi va da una
parte, chi dall'altra; la maggior parte degli amori del medio evo si
manipolarono a caccia sotto gli auspicj degli alani e dei falchi.
Virgilio non trovò miglior modo di mandare a perdizione
Didone, che con una partita di caccia ajutata da un buon temporale.
Noi non sappiamo, se Beauharnais fosse ben forte nelle classiche
reminiscenze, nè se avesse pensato ai baroni e ai trovatori
dell'evo medio, che ingaggiavano amori col corno da caccia, il fatto
sta che pregò il suo carissimo duca Litta a dare un invito per
una partita di quel genere a Lainate.
Il
duca Litta, che era felicissimo quando poteva appagare un desiderio
del vicerè, non si fece pregare due volte; e mandò
fuori gl'inviti. Anche il conte Aquila lo ricevette e lo accettò,
per la solita ragione di far vedere a tutti che egli non odiava nè
le feste, nè i numerosi convegni, ma che soltanto si asteneva
da quelli che si davano a corte.
Ora
se, invece di scrivere oggi, fossimo addietro quarant'anni, quando
Walter Scott era l'autore più avidamente letto in Europa e gli
scrittori di Francia e d'Italia se la godevano ad imitarlo, ce la
godremmo anche noi a descrivere quella caccia in ogni suo momento, in
ogni suo accidente; a fare il nome di tutti i cacciatori illustri che
v'intervennero, di tutte le Diane seguaci col cappellino alla
Bolivar; a dar l'elenco di tutti i levrieri più celebri che
addentarono l'orecchio alle lepri fuggitive.
Sopratutto
poi non ci lasceremmo sfuggire la bella occasione di descrivere parte
a parte la villa di Lainate, che allora era in tutta la sua voga e la
sua celebrità. Ma, per nostra fortuna, la moda delle
descrizioni interminabili è passata; onde, lasciando ai
lettori il permesso di dipingersi il fondo, ci occuperemo soltanto
delle macchiette e dei gruppi che staccano su di esso.
III
Ci
siamo diffusi a far la storia dei principj e del processo della
malattia di cuore sofferta dalla contessa Aquila non per altro
motivo, che perchè fu una delle cagioni che prepararono e
resero irreparabile uno dei più funesti avvenimenti che mai
abbiano contristata la città di Milano.
Quando
di un fatto storico segnalato e celebre s'è rintracciata una
delle prime cause, questa, sebbene possa essere lieve in sè
stessa, assume di tratto un grande interesse per le conseguenze che
sono derivate. Nè crediamo di offendere menomamente la memoria
del personaggio reale, che, per la necessaria delicatezza, abbiamo
nascosto sotto il pseudonimo assunto. La contessa Aquila, come noi
l'abbiamo rappresentata, ci pare sia un modello della donna completa,
della donna cioè che, ad onta e della virtù nativa e
della educazione squisita e della vita senza rimproveri, ebbe tale
esuberanza di sentimento, da accogliere in petto la più
possente delle umane passioni.
Gl'ipocriti,
che biasimano le anime passionate, pronti a far sempre da Tartufi ed
a nascondersi sotto il tavolino dei perpetui Orgoni, dovrebbero
compiangere ed ammirare invece la condizione di una donna che,
ardente di fantasia, d'affetto, di sangue, pur riesce, dopo lunghe
battaglie, a star salda nella propria virtù.
Queste
cose le abbiam dette altre volte; ma pare che non sia bastato
l'avviso, nè basterà mai. I corvi calanti alle carogne,
condannano sempre le donne fatte di carne, di sangue e di cuore.
Quando
il duca Litta mandò a invitare per la grande caccia da darsi
presso la villa di Lainate, quanti conoscenti patrizj e non patrizj
aveva in Milano, si dimenticò, o espressamente omise di
comprendervi l'avvocato Falchi con sua moglie, quantunque li
conoscesse assai bene.
Siccome
gl'inviti furono mandati fuori molti giorni prima, e l'avvocatessa
potè vederne alcuni, ella salì in furore per essere
stata dimenticata; ed a questo punto giova che il lettore abbia una
idea dell'indole di una tal donna.
L'ambizione
di lei era di quella natura che non riposa mai, nè si
accontenta di un ordine solo di cose. Ella pretendeva di essere la
più bella, voleva essere la più corteggiata, ambiva
d'essere la più ricca; voleva essere tutto e comandare in
tutto. Dava consigli al marito, e guai se non l'obbediva; e il
marito, che era volpe e lupo, faceva qualche volta anche l'asino,
ostentando di adattarsi a fare assai cose per un'eccessiva
condiscendenza alla moglie, ma in fatto, perchè eran atti che
gli piacevano, atti d'avidità e rapacità; ella dava
consigli anche non pregata, anche allorquando era scansata, a quanti
le andavano per casa.
Se
poi qualcheduno aveva avuto con essa e coll'avvocato qualche rapporto
d'interesse, di clientela, di sudditanza, comandata dalla necessità
degli affari, ella era la padrona di tutti loro, faceva la padrona in
tutte le loro famiglie; negava l'assenso ai matrimonj, imponeva ella
le mogli; teneva la giurisdizione persino sulle vesti e sulle foggie.
Conoscere l'avvocatessa Falchi significava aver rinunziato alla
libertà personale.
Siccome
però era stata assai bella, bella nel senso mercantile e
carnoso, non già nella sfera dell'accademia e dell'arte, ed
era ancor bella, e veniva molto corteggiata; così quando la
sua vanità e i suoi appetiti venivano lusingati e soddisfatti,
aveva dei momenti di lieto umore, ed anche, ma questo avvenne
rarissime volte, qualche lampo di bontà, di generosità,
di cortesia. Appena però la si contrariasse, diventava a un
tratto una tigre reale ferocissima, di quelle del Senegal. Anche il
marito aveva un bel da fare in quei giorni per sopportare quel
temporale in casa. Persino il ministro Prina, che era di Novara, come
l'avvocato, ed era suo intrinseco, e frequentava quotidiano quella
casa, e perchè aveva molti affari con lui, e perchè
anche si giovava dell'acutezza pratica di quell'uomo, spesse volte
ebbe a subire le tempeste dell'avvocatessa, che, da uomo di mondo e
da uomo superiore, sopportava e compativa, ed anche derideva.
Questa
donna singolare era stata sposata in seconde nozze dall'avvocato
Falchi, auspici l'avvocato Prina appunto e l'avvocato conte
Gambarana. Il Falchi fece passar brevi ma amarissimi giorni alla
prima moglie, che era nativa del Genovesato, e che gli avea recate in
dote lire d'Italia trecentomila, la spina dorsale deviata, e quella
bontà che deriva dalla natura e si fortifica cogli abiti
religiosi. Quantunque non si possa ben asserire, pare però che
l'avvocato Falchi abbia avuta l'intenzione, fin dal giorno che
accettò quel partito, di svincolare le lire trecentomila dalla
servitù della rachitide e dalla noja delle giaculatorie.
Quando un uomo giovine sposa per la dote una vecchia o una rachitica,
si può giurare che quell'uomo è perverso. Intanto che
all'altare, in abito festivo, mette l'anello in dito alla compagna, e
ode dal curato la figura rettorica del crescite, egli pensa
già ai buoni servigi della morte, e in quel crescite
mendace sente invece in embrione il requiem æternam.
Questo sia detto in via di passaggio, come diciamo di passaggio che
la morte fu lesta a servire l'avvocato Falchi, quasi avesse ricevuto
una mancia anticipata.
È
un fatto strano, ma pur degno della riflessione dei legislatori, che
dalla casa della maggior parte di coloro che sposano per la dote una
donna o vecchia o deforme, in pochissimo tempo la donna scompare. Noi
abbiamo conosciuta una mezza dozzina di cacciatori di doti, che
arrivarono giovani ancora alla seconda od alla terza moglie. Sarà
una combinazione, sarà un fenomeno puro e semplice; ma, a
buoni conti, se noi avessimo una sorella od una figlia, ci
guarderemmo bene di gettarla alle bramose canne di questi
galantuomini, al cui confronto noi sentiamo quasi una certa simpatia
pei famigerati Scorlini.
Vivente
ancora la prima moglie, l'avvocato Falchi avea adocchiato sulle rive
del Verbano quella che diventò poi la seconda, la quale, a
soli quindici anni, veniva già chiamata quella bella
giovinotta, alta qual'era e rigogliosa e densa e proterva, e che
aveva già tenuta a bada la sua mezza dozzina di amanti.
L'avvocato se ne invaghì, e appena fu libero la sposò.
Era il rovescio della medaglia della sua prima moglie; era una
tacchina grassa e appetitosa e fragrante di rosmarino, in confronto
di un osso già gettato a' cani. Il dì delle nozze, la
combinazione volle ch'egli in un affare guadagnasse trenta mila lire
italiane per fortuito intervento della sposa. La freschezza, i
fianchi baldanzosi, la petulanza allettatrice di lei, e quella specie
di buon augurio ch'entrò seco in casa, fecero sì ch'ei
si gettasse corpo ed anima, per allora e per sempre, nelle ampie sue
braccia. Per dare un'idea del genere d'accordo che passò
sempre tra l'avvocato Falchi e la nuova moglie, la quale dalla sua
ciarla perpetua e dal suo ficcar il naso in tutto, venne dai
conoscenti cognominata l'avvocatessa, noi non possiamo che richiamare
alla memoria dei lettori i coniugi Macbeth; con questa differenza,
che se lady Macbeth per riuscire nei suoi intenti ebbe l'ajuto di
Ecate e di tre streghe, l'avvocatessa Falchi fece anche la parte
delle streghe di Ecate.
Ora
è da ricordare un fatto. Nel primo anno che il principe
Beauharnais fu installato vicerè d'Italia, e cominciò,
nel tempo che risiedeva in Milano, quel sistema di vita discola e
donnajola che, grado grado, doveva poi addensargli contro tanti
nemici, ebbe ad adocchiare anche l'avvocatessa Falchi. Allora ella
poteva contare ventinove anni, ed era nel massimo fiore della sua
beltà da baccante, senza linee greche, nè etrusche;
linee, come tutti sanno, caste e severe, e che non possono far
nascere che amori seri; ma pomposa invece di quelle forme portate
dall'arte carnale della decadenza; la quale se sarebbe fuor di posto
nei riti di Vesta, potrebbe fare da frontispizio ad una illustrazione
delle feste lupercali. Il vicerè dunque la adocchiò e
l'avvicinò, ed ella, quantunque fosse orgogliosa come una
Gezabele, fu benigna e cortese con quell'Acabbo, gran cordone della
Legion d'onore e della Corona ferrea. Che a lei piacesse il vicerè,
come uomo, come giovane, come cavaliere, nessuno lo voglia credere.
Ella sorrise al vicerè perchè era il vicerè,
senza considerare che avesse piuttosto ventiquattr'anni che sessanta.
Il vicerè poteva essere cagione che la ricchezza già
considerevole dell'avvocato Falchi crescesse a dismisura. Per suo
mezzo infatti, nella compra e vendita di beni nazionali, nel giro
delle carte pubbliche, negli appalti, l'amicizia del vicerè
equivalse ad una lauta eredità.
Il
Falchi era un po' geloso di sua moglie; specialmente se i giovinotti,
per cui ella poteva avere qualche debolezza, non presentavano alcuna
speranza di speculazione, nè assomigliavano a carte di
rendita, nè a beni demaniali. Però, quando si accorse
che le maritali corna potevano fruttare qualche migliajo di pertiche
di prati irrigatorj, egli tosto offerse il fenomeno di un amore
eccezionale, di un amore cioè che cresce col cessare della
gelosia. Lasciò pertanto andare, chiuse un occhio, anzi tutti
e due, e solo si accinse a cavare il maggior profitto possibile da
quella nuova posizione. Tutto questo in quanto ai conjugi; in quanto
al vicerè è facile comprendere com'egli non desse
nessuna importanza a quella relazione, come per conseguenza, placato
il capriccio e satollato a piena gola, sentisse tedio di quella
vivanda più nutriente che pruriginosa. La Falchi, insieme al
pensiero dell'utile che potea ritrarre dai rapporti col vicerè,
si sentiva anche lusingata dalla vanità. Ella non aveva avuta
nessuna educazione squisita, e la sua stoffa morale era volgarissima;
simili nature sentono la vanità più di tutte; a lei
pareva di essere la viceregina. Benchè tanto astuta e
perversa, convien confessare che in ciò era stolida la sua
parte. Pavoneggiandosi dunque come se fosse una viceregina, non
pensava a quel che era davvero, a quel che si diceva di lei, alla
trista figura che faceva il suo signor marito. Una donna volgare
amoreggiata da un alto personaggio, da un vicerè, da un
imperatore, al giudizio degli uomini onesti appar più triviale
e disonorata che se fosse amoreggiata da tutt'altra persona.
La
grandezza in questo caso e la possanza, invece di dar la luce,
ottenebrano e corrompono. La ragione è che la donna non sembra
attirata che dall'interesse; la ragione è che l'amore pare una
cosa imposta come un tributo, come una tassa. Il sentimento
reciproco, che spesso comanda l'indulgenza anche sui trascorsi e
sulle colpe, in questi casi non è nemmeno sottinteso, pur se
fosse vero.
Tornando
a Beauharnais, sebbene colle donne fosse ognora gentile e cortese fin
a toccare le linee barocche del Galateo, avvenne che arrivò il
tempo che non potè più nascondere il senso d'uggia e di
noia che gli destava la presenza dell'avvocatessa Falchi. Com'è
naturale, ella se ne accorse, e fremette. Diciamo fremette,
perch'ella non era capace di altra sensazione; non fu abbattimento il
suo, nè dolore; non sentì che quell'ira, la quale è
capace di ulcerare e tormentare come la pece greca.
Non
sappiamo in che dramma Metastasio abbia detto che:
.......L'offensore
oblia
E
non l'offeso il ricevuto oltraggio.
Questo
è sì vero, che il vicerè, il quale in cinque
anni ebbe tante volte a lasciar Milano, dovette combattere in tante
battaglie, adempire a tanti mandati dell'imperatore, si dimenticò
quasi affatto della signora Falchi, anche perchè la
combinazione volle che non si avessero mai a vedere. Ma se il vicerè
che, per certi principj strani di diritto privato, era l'offensore,
si dimenticò di tutto, non se ne dimenticò
l'avvocatessa. È certo che non dimagrò, anzi ingrassò
vistosamente; è certo che continuò a godere
giocondamente il bel mondo e il bel tempo e le ricchezze che
crescevano in proporzione geometrica; ma è certo altresì
che, se anche in mezzo alla gioja convivale, se anche nell'ebbra
vivacità provocata dal Gattinara, per cui, da vera laghista,
ella aveva una passione dichiarata, un discorso fortuito le
richiamasse in memoria quel fatto, ella sentiva ancora fitto in gola
quell'osso, che non voleva andar giù, per quanto Lieo ci
versasse sopra.
IV
Uditi
gli scalpori della Falchi per quella fortuita omissione del duca
Litta, il ministro Prina, che stava una sera giuocando all'ombretta
spagnuola coll'avvocato:
-
La si tranquillizzi, signora Teresa, diss'egli, così tra il
buffo e il serio; il signor duca la inviterà. La caccia deve
essere dopodomani; dunque a quest'ora tutti gl'inviti non possono
esser fuori. Che, se mai fosse stata dimenticata, già ella sa
che chi manda fuori gl'inviti è il maggiordomo della casa, il
quale è un balordo, e si regola così a vista di naso, e
può benissimo essersene dimenticato. Il maggiordomo ha passato
i sessantacinque anni; ha altro per la testa che le belle donne della
città (il ministro calcò su questa frase, perchè,
ridendo fra sè stesso, sapeva che quello era il lato da
solleticare per far cessare il temporale). Ma in ogni modo, signora
Teresa, faccia conto di essere bell'e invitata. Prima di andare a
letto devo passare dal duca, e tutto anderà a suo posto.
-
Ma che il signor duca non creda poi che io faccia impegni
-
Il duca non crederà niente... lasci fare a me, signora Teresa,
e cessi di riscaldarsi.
-
E non vorrei che quelle smorfiose dei quattro quarti venissero a
sapere...
-
Ma, e che vuol mai, che si venga a sapere?... Cara la mia signora,
m'accorgo in conclusione che ha ragione Andrea, il cameriere, quando
dice che la signora padrona ha buon tempo...
-
Come, come, il cameriere ha avuto coraggio?... Ma io lo scaccerò
su due piedi.
-
La signora Teresa non verrebbe con ciò che a dare ragione a
quel buon diavolo di Andrea, il quale disse per giunta che tutte le
belle donne dal più al meno hanno un poco del matto e che chi
le rovina sono i cicisbei che lor dànno l'incenso.
L'avvocatessa
Falchi si placò di colpo; il ministro partì, passò
al duca Litta, il quale, essendo buonissimo e non dando molta
importanza a cosa nessuna, accontentò i desiderj e dell'amico
e dell'avvocatessa.
Sorse
il giorno della caccia: al mattino di quel giorno, dal palazzo di
corte, da quasi tutti i palazzi della città uscivano le
carrozze col tiro a sei, col tiro a quattro, col tiro a due; uscivano
a cavallo i giovinotti ufficiali e non ufficiali, in costumi strani,
cosidetti alla cacciatora, come allora portava il Corriere delle
Dame del Lattanzi; il poeta Monti sorse anch'egli mattutino, e
venne a pigliarlo la carrozza del conte Paradisi; il Foscolo, che
allora corteggiava la contessa A..., galoppò a cavallo in
soprabito di panno verdolino con pantaloni di casimiro color piombo e
stivali a trombini.
La
contessa A..., bellissima fra le belle, aveva molto spirito, molto
ingegno, molta coltura (parlava quattro lingue); era buona, generosa
e affabile; costituiva insomma il complesso rarissimo di egregie
qualità; ma tutte parevano sfasciarsi sotto all'uragano di un
difetto solo. Ella faceva dell'amore l'unico passatempo; ma un
passatempo tumultuoso, fremebondo, irrequieto; nè occorre il
dire che quell'amore era parente di quello rimasto nudo in Grecia e
nudo in Roma, come disse Foscolo; e che, mancando di un candido velo,
non era stato meritevole di riposare in grembo a Venere celeste. Ma
Foscolo, nonostante la sua poetica distinzione, si trovò un
bel giorno avvolto e impigliato nell'ampia rete che la contessa
teneva sempre immersa nella grande peschiera della capitale lombarda.
Il
lettore non può immaginarsi quanti belli e cari giovinetti si
trovarono a sbatter le pinne convulse in quella rete ognora protesa:
giovani cari e belli, e, ciò che fu il danno, senza punto
d'esperienza, che pigliando fieramente in sul serio le care lusinghe
di quella sirena, ebbero poi a subire disinganni orridi e desolazioni
lipemaniache! Ma non solo i giovinetti di prima cottura, non solo i
paperi innocenti del ruscelletto; ma frolli don Giovanni, stati più
volte immersi nel fiume Lete; ma grossi topi veterani del Seveso,
dovettero sovente parer novizj al contatto maliardo di quella donna.
Colei, lo ripetiamo, non era cattiva, ma nel suo intelletto e nel suo
cuore non era mai penetrata l'idea della costanza in amore. Nè
è a credere che non amasse; amava assai, amava ardentemente; e
nei primi istanti che le entrava nel sangue la scintilla incendiaria,
ella non aveva pace, e si struggeva finchè non avesse potuto
accostare l'oggetto de' suoi desiderj. Ma un amante nelle sue mani
non era nè più nè meno di un cappone messo in
sul piatto di un ghiotto. In pochi momenti non rimanevano che le
ossa, e la fame chiedeva tosto altro cibo. Povero Foscolo! indarno ti
stettero intorno le sante muse
Del
mortale pensiero animatrici.
A
ogni modo quella contessa, sebbene fosse così eccezionalmente
volubile e cangiasse gli amanti come i guanti e le scarpe, aveva però
le sue predilezioni. Nella lunga sfilata dei suoi adoratori, ella si
rammentava di taluno che davvero amò, e che forse avrebbe
voluto aver sempre seco, sotto condizione peraltro che si adattasse
ai capricci suoi, e chiudesse un occhio quando ella sorrideva agli
altri. Com'è naturale, non trovò mai nessuno che si
acconciasse a codesto patto. Ella era tanto bella e cara e seducente,
e nel periodo acuto del suo innamoramento faceva provare tali estasi
a chi ne era il passeggiero oggetto, che questi subiva tosto quella
passione acuta che non soffre commensali alla medesima tavola. Ognuno
voleva essere il solo possessore di quel caro bene. Ma il caro bene
non volendo vincoli di sorta, e dando accademia d'amore, come la si
darebbe di poesia estemporanea, metteva tosto alla porta i
pretendenti che ambivano un trono assoluto, ed erano avversissimi
alla monarchia mista.
Ugo
Foscolo, che aveva una predilezione particolare pei grandi occhi
lucenti, guardò spesso in teatro colei, che in vero
ne possedeva un pajo di primissima qualità. Egli, sentendo a
sparlare di quella divinità volubile da coloro che erano stati
e trionfatori e vittime, ne assunse la difesa con quella sua
eloquenza procellosa e invadente, fatta di sentimento e d'erudizione
classica. Tuonava in favore del genere di vita ch'ella conduceva, e
la raffrontava alla greca Aspasia, che diede lezioni d'amore anche a
Socrate. La contessa seppe di quelle arringhe di Foscolo, e come
donna di vivacissimo ingegno e di molta coltura, essendo innamorata
dell'Ortis e dei Sepolcri e dell'Ode per la
Pallavicini, un giorno scrisse un letterino a Foscolo, pregandolo a
passare da lei. Foscolo ci andò; le prime parole che la
contessa gli rivolse, appena esso comparve sulla soglia del
gabinetto, furono precisamente queste: «Ho sentito che voi mi
chiamate Aspasia; accetto la lode e, purtroppo, anche il biasimo; ma
voi, che siete greco, dovreste fare assai bene la parte di Pericle;
se ci state, rinnoveremo i bei tempi di Atene; fra tanti asini che le
stanno intorno, se Aspasia è volubile non è poi da
condannarla; si provi adunque Pericle a far miracoli.»
Certamente
che una dichiarazione così esplicita e più che audace,
fatta da donna ad uomo, era un fatto che doveva peggiorare il
concetto ch'altri potesse avere di lei, e anche a Foscolo avrebbe
dovuto non far buona impressione. Ma se avrebbe dovuto, non lo fu.
Con quell'animo ardente di Ugo, con quel temperamento in esaltazione,
con quell'entusiasmo per la bellezza, con quel naturale orgoglio che
gli fece tosto trovar spiegabile e giusto quella specie di privilegio
in cui la contessa costituiva lui solo a petto di tanti; alle
lusinghiere parole della contessa, ei si sentì di punto in
bianco preso d'amore; uno di quegli amori roventi che lasciano segno
e solco e piaga. Povero Foscolo!
Quando
ci fu la caccia a Lainate, già da quasi un mese era egli
l'assiduo cavalier servente della A..., e in quel tempo non era mai
comparsa nessuna nube ad intorbidare quel nuovo cielo in cui la
procellosa anima di lui erasi rasserenata. La contessa in sul
principio sentì l'orgoglio di avere nel proprio dominio quella
fiera generosa e indomita; si compiacque di quei tête à tête,
che per lei riuscivano una rivelazione. I dialoghi erano veri
capolavori di eloquenza, di poesia, di sentimento. È facile
immaginarlo. Se Foscolo non aveva quella che comunemente si chiama
bellezza; anzi, allorchè stava immobile e taciturno, potesse
sembrare passabilmente brutto alle ragazze che prediligono il bel
nasino e i mustacchietti; assumeva, per dir così, una bellezza
transitoria, allorchè animavasi, la quale gli derivava dal
raggio dell'intelletto che gli balenava tra ciglio e ciglio;
oltredichè era ancor giovane d'anni e ben costrutto di membra,
e una selva pittoresca di capelli fulvi e inanellati gli comunicava
un aspetto poeticamente selvaggio, che lo faceva diverso da tutti gli
altri.
Lungo
lo stradale egli galoppò accanto al carrozzino della contessa.
Altri cavalieri avrebbero assai volontieri fatto corteggio a lei; ma
dal giorno che Foscolo fu in carica, nessuno osò più
accostarsi, perchè era nota l'indole del poeta soldato, e il
suo coraggio e le sue furie e la storia dei duelli, ne' quali a' suoi
avversarj non era mai riuscito di ferirlo. Tra via furono raggiunti
dalle carrozze del vicerè, che salutò cortesemente la
contessa, e non rispose al saluto di Foscolo. Di lì a poco
passò la carrozza della contessa Aquila. Il conte la seguiva a
cavallo insieme con altri suoi amici. La contessina Aquila e la A...
si salutarono gentilmente nell'avvicinarsi delle carrozze. Quando la
A... tornò ad esser sola con Foscolo:
-
Conoscete voi la contessina? gli disse.
-
Non la conosco, ma la vidi più volte, e mi piace, e mi commove
la sua santa virtù...
-
Siete tanto devoto dei santi?
-
Ammiratore, non devoto. Quella donna non mi farebbe mai impazzire
d'amore; ma la onoro e l'ammiro e sento una pietà
profondissima quand'odo a dire che il marito la tiene in dominio di
tirannia. Essa mi fa pietà anche perchè mi son fitto in
testa che sia una di quelle creature nate sotto alla cattiva stella!
Così
parlava Foscolo, ed era così difatto; chi avrebbe pensato
allora che persino la generosa pietà dell'autore dei Sepolcri
doveva riuscire a danno di lei?
V
La
caccia era incominciata fin dall'alba. Anzi i cacciatori entusiasti,
della specie di coloro che opprimono gli amici obbligandoli a star
sempre in ascolto di racconti venatorj, e darebbero dei punti ad
Esaù, pronti a cedere un regno per una starna, s'eran trovati
sul posto che era notte ancora. Però quando i personaggi di
nostra conoscenza arrivarono a Lainate, giunsero più in tempo
per far colazione che per empire il carnajo. Tra questi personaggi
non si poteva defraudare il primato al conte Paradisi, a Vincenzo
Monti, al librettista legulejo Anelli, e ad altri dell'inclita classe
dei letterati, che il duca Litta voleva invitar sempre. In quanto al
vicerè ed ai giovani ufficiali del suo stato maggiore,
sebbene sentissero l'obbligo di fare entro la giornata la loro mezza
dozzina di fucilate, avevano altro per la testa. Essi erano
cacciatori in ogni modo; ma cacciatori di cacciatrici. Le più
eleganti e desiderate di queste, dalle carrozze passarono sulle selle
inforcate dei leardi più o meno docili ed ammaestrati, che il
duca Litta aveva fatto loro apprestare.
Così
venne preparandosi una cavalcata, che poteva assomigliare a qualcuna
delle più pittoresche del medio evo. Dopo qualche tempo la
schiera, che era numerosa, cominciò a scomporsi, a dividersi,
a sciogliersi in vari gruppi di otto, di sei, di quattro...
Dopo
qualche tempo ancora si potè notare che non v'erano più
gruppi ma coppie, e che taluna di queste coppie, a scoprir nuovo
terreno e a veder nuovi accidenti di prospettive, s'era sbandata
senza domandare il permesso a nessuno. Il vicerè per lungo
tratto di via s'era sempre intertenuto a parlare col ciambellano
marchese conte Pallavicini; poi a un certo punto, come se fosse per
caso, si portò di slancio vicino al conte Aquila. La
contessina Amalia, che cavalcava anch'essa, erasi dilungata di tanto
quanto misura un cavallo, perchè un suo fratello l'aveva
soffermata per raccorciarle la staffa. Il vicerè disse una
parola di complimento al conte, e fece fare nello stesso tempo al
cavallo due o tre impennate, che lo portarono innanzi d'un gran
tratto e si volse come ad attendere il conte; il quale, sebbene di
malavoglia, si trovò costretto a portarsegli di fianco. Così
l'uno e l'altro si trovarono lontani dalla schiera comune.
-
Giacchè i cavalli, disse allora il vicerè al conte
Aquila, ci han tratti fin qui, assecondiamo il loro capriccio, e
teniamoci un po' in disparte dagli altri.
Il
conte non rispose, perchè non comprese. Beauharnais mise
allora il cavallo a un trottino sollecito, che costrinse il conte a
far lo stesso. Così in pochi secondi furono fuori affatto
della vista altrui, e si trovarono in solitudine perfetta.
-
Perdonate, signor conte, se vi ho tratto fin qui.
Il
conte volse al vicerè uno sguardo, in cui la sorpresa non
bastava ad ammorbidire l'orgoglio e un non so che di sdegnosamente
imperioso da far dubitare chi dei due fosse il vicerè.
Questi
continuava:
-
Sapete, signor conte, perchè oggi il duca Litta ha dato questa
caccia?
-
No, rispose asciutto il conte.
-
Perchè io ne l'ho pregato, soggiunse il vicerè.
Il
conte fece un movimento lieve colle spalle, quasi pensasse: E che
m'importa?
-
E sapete perchè l'ho pregato, e a qual condizione?
Il
conte taceva.
-
L'ho pregato perchè desiderava di trovarmi con voi; e la
condizione fu appunto che egli facesse di tutto perchè voi non
mancaste. Mi rincresce che la illustrissima signora contessa abbia
dovuto affrontar l'aria del mattino; ma io credevo che aveste a venir
solo.
Il
conte capiva sempre meno; fermò uno sguardo acuto sulla faccia
del vicerè, e nel punto stesso, per un movimento spontaneo,
fermò il cavallo. Beauharnais fece altrettanto, mentre
continuava:
-
È precisamente così, caro signor conte. Egli è
da qualche tempo ch'io doveva parlarvi. Voi siete stato un mese fa il
soggetto interessante di un lungo dialogo tra me e l'imperatore, che
durò più di due ore.
Il
conte, sebbene non amasse l'imperatore e tenesse in basso conto il
vicerè, provò a quelle parole una soddisfazione
d'orgoglio che non aveva mai provato in tutta la vita. La sua faccia
si colorò, la circolazione del sangue gli si accelerò.
-
Per cagion vostra ho dovuto sentir dei rimproveri da Sua Maestà.
-
Per cagion mia?
-
Vi ripeto le sue parole testuali: - «Io so che a Milano,
nella classe dei nobili, c'è un giovine di una straordinaria
capacità e di un carattere antico. Perchè non me ne
avete mai parlato?» - L'imperatore mi disse precisamente
così. Io gli risposi che non glie ne ho mai parlato perchè
sarebbe stato inutile, e gli toccai del tenore della vostra vita e
dell'ostinazione a tenervi in disparte da ogni pubblico ufficio. -
So anche questo, mi replicò allora l'imperatore, e ne so anche
la ragione, aggiunse. Ditegli adunque che egli giri uno sguardo per
tutto l'impero e tutto il regno; consideri i seggi più
difficili, e ne scelga uno. Questo ebbi io l'incarico di riferirvi.
Gli
odj e le antipatie bene spesso non sono altro che una conseguenza
dell'amor proprio offeso. L'uomo che è avido della stima
altrui, sente un'avversione invincibile, per chi egli sospetta non ne
abbia punto per lui. Quando uno dice: quel tale mi è
orribilmente antipatico, e non so il perchè; non gli credete;
il perchè lo sa benissimo; egli teme che colui non lo tenga in
quel conto a cui egli aspira. Ma in conseguenza di ciò
appunto, se per caso quel tale, contro l'aspettazione, si fa innanzi
con degli attentati di grande considerazione, l'antipatia scompare di
colpo e si converte nel suo contrario. Ecco perchè soventi
volte vediamo diventare amicissimi due che si scansavano per
antipatia. Dopo tutto, non è facile dar l'idea della repentina
trasformazione che avvenne non solo in tutti i pensieri, ma, quasi
diremmo, nello stesso carattere del conte Aquila, durante lo strano
colloquio avuto col vicerè. Il suo orgoglio non fu mai sì
appagato, lusingato, gonfiato, come in quel giorno. Quello fu per lui
il più grande dei suoi trionfi; fu un trionfo inatteso che lo
mise sossopra tutto quanto. Fece l'effetto di quei poderosi agenti
chimici che improvvisamente decompongono e snaturano una sostanza.
Nulla però ne trasparì al di fuori; il conte Aquila si
contenne, e rispose pacato:
-
Mi fa meraviglia, altezza, come l'imperatore abbia potuto avere il
tempo di pensare a me; come altri abbia osato fargli perdere il tempo
parlandogli di me. Mi rincresce però che ciò sia
avvenuto; che S.M. mi abbia dato un valore mille volte superiore al
vero. Il fermo proponimento di rimanere nell'oscurità in cui
mi trovo potrebbe parere scortesia e peggio; mentre non è che
un bisogno, una necessità della mia vita fisica, morale,
intellettuale. Io amo l'oscurità.
-
Perdonate, conte; ma lasciatemi dire che è l'oscurità
dell'orgoglio.
-
Siete in errore, altezza. Dite piuttosto: della disperazione.
-
Disperazione... ma di che?
-
Dispero degli uomini e delle cose. Gli eventi che la fortuna
onnipotente ha scatenati nel mondo da gran tempo, non appagano la mia
natura; nè io ho tanta forza da mettere, per trattenerla, le
mie braccia tra i razzi della sua ruota. Se però io vivo
nell'oscurità e nell'inazione, S. M. mi deve ringraziare.
-
E perchè?
-
Perchè sarei pericoloso se operassi. Pericoloso a lui,
pericoloso alla patria.
-
Non vi comprendo.
-
Vi dirò tutto. Ancora io dubito... se le mie opinioni avessero
raggiunta la certezza, io sarei già stato un ribelle. Così
versando ancora e nell'incertezza e nell'investigazione affannosa di
chi cerca e ancora non trova, faccio atto di sapienza a star celato
in casa nell'aspettazione della parola estrema che mi spieghi tutto
il passato; nell'aspettazione dell'ultima pagina, in cui sia
consegnata la prova e la riprova dell'idea madre di tutto il libro.
Se domani io potessi convincermi che il costrutto architettonico
dell'edificio napoleonico è perfetto, io sarei il più
operoso capomastro dell'architetto sovrano. Spero, altezza, che voi
mi saprete grado della mia sincerità. Io non potrei mai essere
uno strumento nella mano di chi non comprendo.
Se
il lettore è stato attento alle parole del conte Aquila, si
sarà accorto come il disegno del suo edificio, ch'egli
improvvisò dopo che la sua ambizione venne lusingata dal
discorso del viceré, fosse fatto in modo da lasciare
l'addentellato per un edificio di tutt'altro stile. È
carattere dell'ambizione, quello di non aver nessun sistema
prestabilito e inconcusso, ma di odorare il vento e virare e
atteggiarsi a seconda degli avvenimenti e dell'invito delle
circostanze. Al conte Aquila non parea vero che Napoleone avesse
potuto parlare di lui in quel modo e avere di lui quel concetto;
però, quando ebbe quella rivelazione inattesa, il suo pensiero
fu tosto di approfittare della fortuna e di giganteggiare con Giove,
giacchè era assai arduo il rinnovar l'impresa dei Titani. Così
parlò in guisa da innalzarsi sempre più nel concetto di
Beauharnais; facendo vedere, coll'apparenza della massima sincerità,
quanto egli poteva essere pericoloso, e per conseguenza che magnifico
e solenne compenso ci sarebbe voluto per renderselo amico; nel tempo
stesso poi lasciò aperto un varco ad una nobile ritirata in
quelle parole: Ancora io dubito. Il vicerè rispose:
-
Io vi ringrazio, conte; ma posso sapere se questi vostri sentimenti
li avete manifestati ad altri prima che a me?
-
Ad altri sarebbe stato inutile; con voi, altezza, era indispensabile.
-
Io dunque vi ringrazio: ma ben più vi ringrazierò il
giorno che vi compiacerete di uscire da una oscurità dannosa.
Tutto quello che mi avete detto oggi stesso, lo scriverò
all'imperatore, e mi lusingo che ci rivedremo presto. Ma ora ci
conviene raggiungere il campo di battaglia. - Sento le
fucilate. - Ecco l'Ajace dei cacciatori: il marchese
Sannazzaro... È meglio che ci dividiamo, caro conte; questa
dev'essere l'ala destra della caccia. Io vado a capitanare la
sinistra; a rivederci in casa Litta.
Il
marchese Sannazzaro, giovinotto alto, forte, bruno, peloso come un
Esaù, era assai intrinseco di Beauharnais, e suo ajutante di
campo nelle battaglie di Pafo e di Cipro. Beauharnais, senza dirgli
il perchè, lo aveva incaricato di non lasciar più in
libertà il conte Aquila, quando gli fosse comparso innanzi. Il
vicerè, che era stato tante volte a caccia nei dintorni di
Lainate, e conosceva benissimo i luoghi, era andato d'accordo col
Sannazzaro, il quale co' suoi cani lo attendeva da qualche tempo a un
posto determinato della campagna. Il conte Aquila, che era amico del
Sannazzaro, rimase così dunque con lui.
-
Se vuoi fare qualche colpo, disse il Sannazzaro al conte, questo è
un bel posto. I cani sono in lavoro. Discendi da cavallo, e dàllo
lì al palafreniere, che lo condurrà in quel pagliajo.
Il
vicerè intanto, di generoso trotto, preso per una scorciatoia
che conosceva, raggiunse il grosso della comitiva.
Al
generale Saint Hilaire, suo ajutante di campo, aveva dato
incombenza di farsi presso al cavallo della contessa Aquila, di
allontanarla, con qualche pretesto, dal resto della schiera. Non
vedendo adunque nè il Saint-Hilaire, nè la contessa,
chiese agli altri dov'era il suo ajutante.
La
contessa A..., che parlava enfaticamente con un colonnello dei
dragoni reali:
-
Sono andati per di qui, rispose; c'è il poeta Foscolo con
loro.
Il
motivo per cui Foscolo s'era staccato dalla contessa A... fu perchè
vide che il generale Saint Hilaire s'era fatto a parlare colla
contessa Aquila, e manifestamente aveva voluto allontanarla dal resto
della compagnia. Come sa il lettore, egli aveva espresso all'amica un
grande interesse per quell'infelice signora. Vedendola cogitabonda e
mestissima, gli parve che fosse quel genere di mestizia a lui troppo
noto: al vedere poi il vicerè parlare al conte Aquila e trarlo
seco, gli entrò il sospetto e si confermò in esso
quando osservò l'ajutante di campo di Sua Altezza fare
altrettanto colla contessa. Non sapeva nulla, non capiva nulla, ma
deliberatamente spronò il cavallo, e si portò ai
fianchi della contessa Aquila, la quale un momento prima gli aveva
domandato qual'era l'edizione più compiuta e più
corretta dell'Ortis. Egli non poteva spiegarlo a sè
stesso, ma conoscendo il vicerè e sapendo che l'ajutante lo
serviva nelle tresche amorose più che sul campo di battaglia,
quei movimenti lo misero in apprensione. Ugo Foscolo poteva essere
rimproverato di tutti i peccati, ma era generoso; generoso oltre la
sfera comune, generoso e cavalleresco.
Or
continuando, Beauharnais mise il cavallo al galoppo. Dopo pochi
secondi vide infatti la contessa tra Saint Hilaire e Foscolo, li
raggiunse, saettò con occhio iracondo l'ajutante; non osò
far nessun atto dispettoso con Foscolo; disse alla contessa:
-
Il signor conte vostro marito vi chiama.
Saint Hilaire
rallentò il cavallo: Foscolo, incerto, lo rallentò esso
pure, e si fece a parlare con Saint Hilaire.
Il
vicerè si pose a lato della contessa. Foscolo l'avea veduta
smarrirsi alla comparsa di lui. Stette attentissimo durante il breve
tempo che si trovò con loro. Quando Foscolo tornò
presso alla contessa A...:
-
Sentite, le disse, se voi siete pentita di qualche vostro peccato,
oggi potete acquistarvi mille anni d'indulgenza, facendo una carità.
-
Di che si tratta?
-
Quel che vidi e quel che sospetto, lo terrei chiuso in me per sempre;
ma tacendo si può lasciar aperta la via ad un gran disastro.
Voi siete amica della contessa... Se le siete amica, ditele dunque
che stia in guardia. Ditele che quel gallo furfante di vicerè
vuol disonorarla; che però sappia ritirarsi a tempo da un
vergognoso abisso. Io abborro il conte; ma più di lui abborro
il vicerè.
-
Ma come ora potete dirmi tutto questo, mentre un momento fa non
sapevate nulla?
-
Ho l'occhio medico, madama, e quando lo fermo sulla faccia altrui,
tutto quello che è di dentro m'appare di fuori. Avvisate
dunque la contessa. Ma che ogni cosa stia segreta fra me e voi. Nè
che la contessa venga a sapere mai ch'io ho parlato. Siete voi che
avete visto, voi che date i consigli. Intanto fate in modo che la
contessa ed il vicerè non stiano più soli. A me non
conviene accompagnarvi. A rivederci alla villa.
Ugo
Foscolo avrebbe fatto molto meglio a tenere in sè il sospetto,
e non a incaricare una donna di dar consigli a una donna. È
sempre un'impresa pericolosa. Ma è l'indole degli uomini
generosi di mettere tutta la propria confidenza nella persona amata,
di metterla a parte di tutti i proprj segreti, di desiderare che, in
loro vece, s'innalzi con azioni gentili nell'altrui concetto. Ugo
Foscolo della contessa A... volea farne una gentildonna perfetta; ma
era arrivato troppo tardi.
In
ogni modo, essa che non amava il vicerè (la ragione già
ci sarà stata), acconsentì al desiderio di Foscolo,
girò intorno gli occhi, chiamò il colonnello dei
dragoni reali che già abbiam visto seco: - Mettete
gente insieme, gli disse, e seguitiamo il vicerè.
E
molti si misero al galoppo. Il colonnello stava ai fianchi della
contessa A...
Ed
ora è certo che il lettore farà gli occhi attoniti, ad
onta di tutto quello che abbiam detto sul conto della A...; ma pur
troppo le faccende non eran nette con quel colonnello; Jacopo
Ortis e all'Ombra dei cipressi non furono rimedj
abbastanza eroici per far la cura radicale di colei. Essa in quel
giorno sentì per il dragone, che aveva visto altre volte, una
di quelle accensioni di cui già parlammo; di quelle accensioni
che le facevano cacciar dietro le spalle ogni rispetto. Senza perder
tempo, secondo il suo costume, con quei suoi modi, dove la
sfacciataggine (già non c'è altra parola) si rendeva
amabile per un garbo tutto suo proprio, aveva fatto la sua
dichiarazione al colonnello, il quale dal canto suo pare che abbia
voluto tener conto del proverbio che a caval donato non si guardi
in bocca.
Raggiunsero
il vicerè, che rimase sconcertato, e a tale che a un certo
punto dovette lasciar la contessa. Questa si mise con altre dame. La
A... era tanto infervorata del colonnello, che non si curò più
della raccomandazione di Foscolo. L'ora si fece tarda. Scavalcarono
alla villa Litta a Lainate. La contessa A
condusse le cose in
modo da rimaner sola sotto un androne col colonnello. Questo, tirato
nel vortice, baciato, baciò; ma in quella una scudisciata da
cavallerizzo infierito fischiò e piombò sul tergo
afrodisiaco della contessa A... Era Foscolo, il quale avea visto, e
che accompagnò la scudisciata che fu il fulmine, con parole
orride d'ingiurie che furono la gragnuola.
Il
colonnello guardò Foscolo, che lo guardava furibondo.
Vi
fu un momento di silenzio.
-
Io sono il colonnello Baroggi.
-
Ed io sono Ugo Foscolo.
-
Allora a domani.
-
A domani.
Fu
un parapiglia di un istante, nessuno vide. La A... entrò nelle
sale infuocata di erotismo insaziato, di vergogna e di rabbia.
Ma
è possibile e probabile questo fatto che abbiamo narrato? È
codesta una questione inutile. Dal momento che un fatto è
realmente avvenuto, potrà essere strano, inverisimile,
incredibile; tutto ciò che si vuole, ma non cessare per questo
d'essere avvenuto.
Foscolo,
poeta sentimentale; Foscolo, cavaliere degno della Tavola Rotonda;
Foscolo che aveva tuonato nei caffè per difendere la rediviva
Aspasia, ha potuto percuoterla come una cavalla da maneggio? È
un tormento a pensarci, ma non c'è rimedio. Egli è
certo che non fece bene; è certo che egli doveva appagarsi di
disprezzarla e di abbandonarla. È certo che anch'egli se ne
pentì e se ne vergognò nel punto stesso che vide
contorcersi sotto il flagello spietato le bianche spalle tanto care
un minuto prima. Ma si può disfare e rifare un verso; non
distruggere una battitura. D'altra parte, volendo metterci un istante
ne' panni di Foscolo; volendo considerare che il suo temperamento era
tutto di materia incendiaria, non è possibile pretendere che
all'inatteso spettacolo dell'amante che bacia un dragone dovesse
imitare quel professore di diritto romano che si accontentò di
mostrare al ganzo della moglie infedele che cosa un marito offeso
avrebbe potuto fare se si fosse attenuto al codice Giustiniano.
Ma
che Foscolo abbia avuto ragione o torto, è una questione
affatto secondaria. Le serie conseguenze furono che il segreto
ch'esso per generosità comunicò alla A... cessò
di essere un segreto; che la contessa in quel dì stesso lo
comunicò alle altre sue amiche e alla Falchi e...
Vedremo
in seguito quel che avverrà di questa istoria.
VI
Dopo
la caccia, verso sera, vi fu un sontuoso banchetto nella gran sala
terrena del palazzo di Lainate. Uno di quei banchetti che, per
consueto, facevano ombra ai medesimi di corte, e che contribuirono
tanto a dare alla casa Litta quella fama di ricchezza stragrande, che
passò persino in proverbio.
Il
pranzo fu dei più fracassosi e giocondi. Solo quattro faccie
erano aggrondate e scomposte: quella del vicerè, quella della
contessina Amalia Aquila, quelle di Ugo Foscolo e della contessa A...
I loro volti erano trasvolti e abbattuti al punto da dar nell'occhio
anche dell'osservatore meno esperto. Altri aspetti non troppo lieti,
e che non parevano partecipare della gioja comune, erano quelli del
colonnello Baroggi, per una ragione gentile che sapremo dopo, e
quello dell'avvocatessa Falchi. Non era per altro malinconia quella
di costei; ella non sapeva dove stesse di casa; non era nemmeno
malumore. La Falchi aveva precisamente quella che i Milanesi, non
sappiamo con quanta proprietà, chiamano luna; luna
bisbetica che la spinse fino al punto di uscire in qualche
espressione scortese col vicerè, che, stralunato qual era, la
mise a tacere con delle parole che manifestamente valevano un
insulto. L'avvocato sentì e non sentì; il ministro
Prina sentì e crollò la testa; tutti i commensali
sentirono ed ebbero un gusto matto di vedere umiliata quella superba
sfrontata.
Allorchè
si levarono le mense (questa frase è di conio classico) e
tutti i convitati passarono nelle altre sale, l'avvocatessa Falchi,
simulando indifferenza e disinvoltura, si accostò alla
contessa A... e:
-
Che diamine vi è capitato oggi? le disse: siete infuocata come
un basilisco e mandate saette dagli occhi. E che diavolo ha in corpo
il vostro Foscolo, che non disse una parola in tutto il tempo del
pranzo? Qualche cosa vi dev'essere successo. Già ve l'ho detto
che non è possibile vivere in pace con quello stravagante.
La
A..., buonissima in fondo, e di quelle nature aperte che non sanno
tener nascosto nulla anche a loro danno, senza rispondere alle parole
della Falchi, si volse, e alzando lo scialle di casimiro, ond'erasi
coperte le spalle:
-
Guardate, disse.
-
Che diamine è questo? chiese la Falchi; avete tutta quanta
sollevata la prima pelle, come se vi avessero messo un settone. Ma
che cosa è stato?
-
Vi dirò piuttosto chi è stato.
-
Chi dunque?
-
Foscolo.
-
Ma perchè?
-
Per niente.
-
Oh!...
-
Non vogliono capirla questi uomini pretensiosi, che da noi si vuole
avere la nostra libertà. Curiosa davvero. C'era forse un patto
scritto tra me e lui? Eppoi che patti, che scritti! Oggi mi piace un
poeta coi capelli rossi, perchè in tutto c'è il suo
buono; ma se l'ingegno e la fantasia e il sentimento e l'eloquenza e
il diavolo che li porta possono piacere un giorno, una settimana, un
mese; viene poi quel dì che si sente proprio la necessità
d'un bel giovane e d'una bella faccia e di una bocca con dei baffi su
cui dare dei baci; io già son fatta così, e non posso
cambiarmi.
-
Ma insomma, che cosa avvenne?...
-
Una cosa naturalissima. Il colonnello Baroggi mi piace da un pezzo
immensamente. Già è un gran bel giovane. Oggi mi son
trovata con lui. Ci siamo subito intesi. Gran difficoltà, eh?
Qui presso l'uscio dell'anticamera grande l'ho baciato... Ecco tutto.
Già tu sai che i baci sono la mia morte...
-
Ma e così?...
-
E così, Foscolo ha veduto. Se avesse avuto la sciabola, certo
che m'avrebbe tagliata in due. - No, no, con tutt'altri potrei
fare la pace... Con lui, no. La vita è in pericolo. Che pazzia
fu la mia di mettermi a far all'amore con un leone in frac... Ma
osserva il colonnello! - Come è caro! Oh! guardando e
pensando a lui, non sento più nemmeno il dolore della pelle.
In
questo mentre la Falchi fece notare alla A... che il principe
Beauharnais da qualche tempo era stretto in colloquio col conte
Aquila.
-
C'è un mistero che non so comprendere, soggiunse poi.
-
Il conte fu sempre nemico e denigratore del vicerè, ed oggi
pare che sia tutt'altro. Questa mattina cavalcarono in disparte e
soli per lungo tempo. Adesso mi sembrano più amici che mai.
Come può essere questa faccenda?
-
Come può essere... volete saperlo?...
-
Il conte, con tutta la sua prosopopea, è caduto nella rete
come un barbagianni... La contessa, con tutta la sua santità...
sta per abbracciare un'altra religione... Vi dirò anzi che
perciò appunto io ebbi un incarico da... da Foscolo... sì,
da Foscolo, il quale volea che io facessi l'angelo custode di questa
donna che è alle prese col diavolo...
-
Ma in conclusione, di che si tratta?...
-
In conclusione, il vicerè desidera una delle solite
conclusioni, e Dio sa che cosa dà ad intendere al marito per
incantar la moglie. Ma non sarà mai che alla contessina io
stia a dare i consigli di Foscolo... Già questi letterati, con
tutta la loro pretesa, non hanno nessuna esperienza di mondo...
Adorano le donne inginocchiate, ma per farne delle schiave... Bella
maniera di compensarle... Chi sono le donne? C'è libertà
per tutti, ci sia dunque anche per loro. E in piena regola. Se, per
esempio, la contessina Amalia è sazia di quell'originale di
suo marito, fa bene a volgersi a un altro; e perchè no?
Certamente che io non avrei scelto il vicerè, ma se a lei
piace... tocca a me a dirle: fate male? Fa benissimo. Già, io
abborro tutte le marmotte superbe, che, perchè sono di sasso,
credono di essere sante... Ora sapete, signor Foscolo, cosa dirò
alla contessa? Le farò innanzi tutto i miei complimenti, poi
mi lamenterò con lei perchè non abbia incominciato
prima... poi se le mancasse il coraggio... le farò animo io...
e..., in un bisogno, le presterò anche mano.
La
Falchi stette un momento senza parlare; poi disse:
-
Non credo niente di tutto ciò. Il conte Aquila non è un
uomo come un altro. In quanto al vicerè, non sono le donne di
tale stampo quelle che piacciono a lui...; che cosa volete che ne
faccia di questa santa Cecilia in convalescenza, cogli occhi sempre
rivolti al cielo? Finchè ci sono donne della nostra struttura,
mi fanno pietà codeste etiche sparute, buone tutt'al più
per i collegiali che hanno il capo nella Teresa e Gianfaldoni.
La
Falchi, che aveva importunato il ministro Prina per essere invitata
del duca Litta, colla speranza di trovarsi ancora col vicerè e
ritessere la calza di cui eran cadute le maglie, si sforzò a
non voler credere alle parole della A...; ma in conclusione capì
che ci doveva essere qualche cosa davvero; e diede il giusto valore
ad alcune circostanze che dapprima le erano sembrate enigmi; infine
ne ebbe un tal dispetto, che le si converse in arsenico tutta
l'abilità del cuoco di casa Litta.
Gli
uomini e le donne che hanno l'indole della Falchi non è facile
misurare fino a che punto possono riuscire infeste al prossimo. Le
bestie feroci c'è l'usanza di chiuderle in gabbia. I
delinquenti si mettono in prigione; ma che provvidenza sarebbe se si
potesse fare altrettanto cogli uomini, la cui ferocia è di
quel genere latente che dilania e divora alla sordina e salta a piè
pari, senza nemmeno rasentarli, tutti i paragrafi del codice
criminale? La Falchi era ignorante e triviale, ma aveva ingegno acuto
e forte; ingegno fatto di perfidia e di veleno, ma ingegno sempre. La
sua indole l'abbiamo analizzata alquante pagine addietro, e il
lettore si ricorderà come l'ambizione e la smania di
soverchiare altrui in tutto fosse la febbre acuta che non la lasciava
mai tranquilla. Così fosse stata una febbre acuta da gettarla
in un letto e da metterla presto nelle braccia d'una morte
benefattrice. Ma se, come la tigre reale, ella aveva indosso una
rabbia cronica, come la tigre reale aveva una forza poderosa e una
salute inalterabile e un piloro di porfido da macinare anche il
diamante. Ella viveva di rabbia mantenutagli costantemente dalla sua
eccessiva vanità. Questa vanità che, ad onta della
mente svegliata, la vediamo sovente nelle persone ignoranti e
presuntuose e che hanno la villania nell'intelletto, fu tale che,
quando il vicerè gettò gli occhi sulla sua faccia rosea
e sulle sue spalle classiche, ella sognò addirittura e troni e
dominazioni e sa Dio che altre strane cose.
Ecco
perchè le riuscì così amaro l'abbandono del
vicerè; ecco perchè, ammirando sè stessa nello
specchio e parendole di veder conservata tutta quanta la propria
freschezza voluttuosa, coll'aggiunta di certe rotondità
recategli in dono dalla completa maturanza, si tenea certa che un
giorno o l'altro il vicerè sarebbe ricascato; ecco perchè
quando invece potè convincersi che Beauharnais avea messo gli
occhi su di un'altra, e s'accorse (perchè una volta messa in
via aveva l'occhio acuto) ch'esso era sollecitato e riscaldato ed
esaltato da qualche cosa di diverso dal solito, ella avrebbe dato
scacco matto anche a Medea per vendicarsi di quel nuovo Giasone.
Ma
ora, tralasciando tutte le cose inutili, dobbiamo ritornare alla
festa di corte, con cui abbiamo incominciato questo episodio.
VII
Giova
intanto sapere che questa festa fu posteriore di qualche mese alla
caccia di Lainate. In tale frattempo le passioni dei personaggi
principali del nostro dramma subirono quelle modificazioni e
alterazioni che il tempo suol sempre produrre. La contessina Amalia
Aquila era stata fatta dama di corte, annuente il marito che non
volle nulla per sè, ma che attendeva ben altre cose
dall'avvenire, e fiutava gli eventi come il leone fiuta il vento che
investe la selva; la viceregina Amalia Beauharnais supplicò
ella stessa il conte Aquila perchè concedesse alla moglie di
accettare il posto di dama di corte. Veramente fu il vicerè
che indusse la vicereale consorte a far quella preghiera; ma anche
essa ebbe piacere di accondiscendere al marito, perchè,
ingenua e virtuosissima qual era, vedeva nella contessina Aquila una
delle più splendide e gloriose eccezioni in quella schiera di
voluttuose donne che stavano alla contessina come le abitatrici
olimpie a qualcuna delle martiri cristiane.
Quella
martire però, degna d'essere dipinta dal Beato Angelico, da
qualche tempo volgeva e rivolgeva nell'animo pensieri ed aspirazioni
e desii e voti che non eran certamente quelli del paradiso celeste,
ma di quell'altro paradiso che si trova dappertutto, anche in un
tugurio, anche nelle lande della pianura, anche in una risaja, purchè
vi siano un uomo e una donna che si vogliano bene con ardore e con
gentilezza. Davvero che la contessina fece malissimo a riposarsi
troppo su quei pensieri; davvero ch'ella avrebbe fatto meglio a
gettarsi ai piedi di un confessore oblato, e a flagellarsi sette
volte al giorno per trenta giorni; ma in conclusione ella non uscì
mai dal segreto de' suoi pensieri; ma in tutto e per tutto si ridusse
a far dei conti senza l'oste.
Tornando
indietro, abbiamo vista la contessina a ballare la sua quadriglia
d'obbligo col vicerè; però possiamo congetturare le
parole che il vicerè le deve aver dette all'orecchio nei
riposi alternati della danza.
Quando
una donna ha pensato molto ad un uomo nella solitudine non mai
svegliata della casa; ed è stata gran tempo senza vederlo, e
col desiderio di vederlo, la prima volta che si trova con lui subisce
una tale ebbrezza vertiginosa, che non è più capace di
governare sè stessa, malgrado di tutta la sua virtù
nativa. Ella si lascia trascinare dal suo affascinatore come una
bambina infatuata. La stessa innocenza della vita, la stessa
ingenuità dell'indole, invece di essere armi di difesa,
espongono i lati più deboli alle ferite. La contessina dunque
danzò e ascoltò le parole del vicerè senza
sapere quel che si facesse; senza ricordarsi più in che mondo
si fosse. Vi fu persino un momento in cui si lasciò andare ad
un abbandono così spensierato, che il vicerè medesimo
si fece guardingo e riservato per paura che troppi se ne
accorgessero. Tanto l'innocenza assume talvolta la sembianza del suo
opposto. Alle altre dame e alla Falchi non sarebbe mai capitato di
trovarsi come la povera Amalia nella condizione del rosignuolo che
trepidando e inconscio sbatte l'ali per volare sulla lingua del
crotalo. Ma non si scansa che chi conosce il pericolo; e se è
un pericolo ambito, lo vuol rendere più appetitoso
protraendolo!
Più
d'una volta, anche senza essere stati il vicerè, nè
avere avuta un'assisa tutta carica d'oro, sarà capitato a voi
tutti, i miei cari giovinetti, che oggimai, al pari di me, siete in
liquidazione, d'avere avuto sotto il braccio o tra le braccia taluna
di quelle care giovinette o donne sature di sentimento e d'indole
ingenua, che per un momento, nell'entusiasmo dell'affetto, vanno
soggette ad una specie di sincope mentale; e, se siete stati
galantuomini, non avrete abusato di quei momenti, perchè non
c'è nè coraggio nè gloria a vincere chi non è
in parata. Ebbene, la contessina Amalia, alla festa del 1810,
assomigliò appunto per un istante ad una di codeste donne; nel
medesimo tempo che il vicerè non pensò nemmeno per un
minuto a sfoggiare quel galantomismo del quale voi ed io,
probabilmente, avremmo dato un così bel saggio. Egli si mise
soltanto in gran riguardo, finchè stette nell'affollatissima
sala delle Cariatidi, ma appena cessò la musica, e i danzatori
ricondussero agli aurei sedili le sudate Alfesibee, egli passo passo,
dopo aver dette due parole al generale ajutante, tirò di lungo
colla bella contessina sotto il braccio e, adagio adagio, scivolò
con essa attraverso ad una delle porte e passò nelle altre
sale. Fu allora che l'avvocatessa Falchi, come fu già detto,
attaccatasi sotto al braccio del pittor Bossi, seco lo trasse sui
passi della povera contessina.
-
Venite con me un momento, avea detto la Falchi al Bossi.
-
Dove?
-
Si sa; a far un giro per le sale.
-
Rechiamoci allora nella sala del buffet, che ci ristoreremo di
questo caldo africano.
-
Al buffet ci andremo dopo. Venite ora con me...
-
Sempre disposto all'obbedienza. Ma di che si tratta?
-
Di nulla o di molto. Ma non vorrei che stanotte nascesse qualche
tragedia.
-
Tragedia?
-
Il conte Aquila è qui, e non è cieco; la contessina ha
perduta la testa; e quella frasca di vicerè vuol
comprometterla in ogni modo.
-
Vivere e lasciar vivere, cara signora. Che cosa vuol ella fare? Il
conte è là che parla con Marmont da più di
un'ora. Ella sa ch'ei non bada più a nulla quando è
sprofondato in una disputa. Lasci dunque andare.
Il
pittor Bossi conosceva troppo la Falchi e non si fidava, e
comprendeva che tutte quelle premure non derivavano da buone
intenzioni.
-
Sa ella che cosa dovremo fare piuttosto? soggiunse poi.
-
Sentiamo.
-
Recarci là presso al conte, e quando Marmont si staccasse da
lui, metterci tosto al posto del generale; e non lasciar solo il
conte, e trattenerlo e annaspargli la vista, e dar tempo al tempo per
lasciare che chi vuol cavarsi un piacere se lo cavi senza pericolo e
senza conseguenza.
-
Ma che propositi son questi, signor pittore? Per chi mi credete?
-
O propositi o spropositi, io non disfaccio mai il piatto altrui. Chi
ha appetito mangi, e buona notte. Ho altro per la testa io.
Il
pittor Bossi non parlò certo con gentilezza cavalleresca, ma
disprezzava la Falchi, di cui non poteva sopportare la capricciosa e
vanitosa burbanza. In quanto a lei, con sgarbo plebeo e da fantesca
si staccò da lui, lo piantò in mezzo alla sala, e mosse
incontro, imponendo il proprio braccio a un giovane patrizio, il
quale allora poteva avere dai ventiquattro ai venticinque anni, e
oggi vive ancora con quasi sessant'anni di più, e sta benone
di salute.
Questo
vecchio, che nel 1810 era un giovane, veniva da' suoi conoscenti
soprannominato il Milordino, perchè aveva fatto
due volte il viaggio di Londra, perchè aveva portato
dall'Inghilterra tutte le caricature che là si erano diffuse
contro Bonaparte generale, console, imperatore; perché
preferiva il roast beef alla nostrana coppa di manzo, e
perchè portava nel taschino del panciotto, che aveva dovuto
far ingrandire, un grosso orologio inglese da capitano di nave,
comperato a Londra da un ajutante di Nelson. Non era troppo ben
veduto dal governo; ma siccome era tutto dato a cavalli, a donne, al
giuoco, così non era per nulla temuto, e lo lasciavan fare, o,
per esprimerci più giusto, lo lasciavan dire. Fra tutti quelli
che da qualche tempo avevano sulle corna il vicerè, egli
primeggiava incontestabilmente, e ciò per il disdoro toccato
d'essere stato messo alla porta, senza nemmeno il ben servito nè
la concessione degli otto giorni di pratica, dalla sua troppo bella
amante, che riuscì troppo cara a Beauharnais. La Falchi sapeva
questi antecedenti, onde quando lo vide spuntar da una porta, pensò
tosto di abbandonare il buon Bossi per attaccarsi a un confederato
più disposto ad una lega offensiva e difensiva. Nè
ancora la sua mano era appoggiata al braccio del Milordino, che già
questi le aveva detto:
-
Ha visto, madama? quasi quasi sarei tentato di andare ad avvisare il
conte e di farlo venir qui.
-
È facile ingannarsi, caro conte. È meglio prima
accertarsi...
-
Accertarvi?.. ecco... avete visto?
-
Davvero che ho visto... Ma, sapete che se da una parte la petulanza
ha passato ogni ritegno, dall'altra l'inesperienza e la leggerezza
sono tali che una collegiale di S. Filippo potrebbe darle dei
pareri!...
Queste
parole furono provocate dal fatto che il vicerè, quando fu in
quella camera che precede l'attuale stanza da letto, nonostante che
le livree di corte stessero immobili a guardia delle porte,
nonostante che alcuno degli intervenuti fossero là per trovare
qualche ristoro al caldo soffocante delle sale affollate, non seppe
vincersi così, che non baciasse sulla gota la trasognata
contessina Amalia. Fu l'atto di un minuto secondo; ma fu tale che la
contessina parve come svegliarsi di colpo da quello stato di
trasognamento deliro in cui versava da qualche tempo. Si svegliò,
sottrasse la gota alla bocca del vicerè, e si sciolse dalle
braccia di lui con un movimento così risoluto e quasi
guerriero, che il vicerè non valse a trattenerla. I servitori
di corte che stavan là immobili addossati agli stipiti delle
porte, come statue di terra cotta, videro ogni cosa; ma
gl'intervenuti, i quali erano aggruppati in un angolo confabulando in
crocchio, non ebbero il tempo di voltarsi, che la contessina,
inseguita dal vicerè, era già uscita. La Falchi e il
lord contino tirarono di lungo come se fossero dell'altro mondo,
e, ritornando nelle sale affollate, si confusero al mare magno.
Un'ora
dopo la contessina Aquila, dama di corte, era seduta presso la
viceregina Amalia; che, nella sua angelica bontà, le diceva le
più gentili parole, le faceva le più affettuose
carezze. Il vicerè, in altra parte, diventato di mal umore e
asprissimo, si rendeva, senza volerlo, antipatico e uggioso a quanti
ebbero a parlar seco. La Falchi, seduta col ministro Prina, gli stava
narrando e descrivendo quanto aveva veduto, e il ministro, crollando
la testa:
-
Che queste cose, osservava, le diciate a me, cara signora Teresa, sta
bene, - ma per carità non vi venga la tentazione di
dirle ad altri... È già una disgrazia che abbiate avuto
un testimonio, e che testimonio!... A proposito, voi dovreste fare
una cosa: pregare il conte a non dir niente a nessuno di quanto ha
visto. Capisco che sarà difficile chiuder la bocca a un
farfallino tale... In ogni modo, giacchè voi avete
dell'ascendente su costui, perchè le belle donne fanno fare
tutto quello che vogliono ai giovanotti, potreste indurlo, per lo
meno, ad essere un po' circospetto... In conclusione, quando avesse
parlato e avesse fatto in modo che il conte venisse a saper tutto...
su chi verrebbe a cadere la tempesta?... Sulla più innocente
di tutti... Nè stia mai a credere di poter vendicarsi del
vicerè... Pretendereste che il vicerè potesse aver
paura del conte? Ma non state mai a credere una simile corbelleria.
Tutto quello che potrebbe succedere, avuto riguardo all'indole
superba e terribile del conte, sarebbe di far nascere uno scandalo
inaudito da far parlare tutto il paese; il conte potrebbe sfidare il
vicerè... e il vicerè, come vicerè, non
accetterebbe, e lascerebbe il conte scornato più che mai, e in
tale stato d'esacerbazione da far nascere una tragedia domestica. È
sempre la povera contessina che ne va di mezzo; la sola contessina.
Abbiate pietà di lei, per carità; fate capire al
Milordino che a parlare commetterebbe un atto di viltà
inaudito... Pigliatelo da questo lato... Lusingatelo nel suo
carattere di gentiluomo e di cavaliere... Vedrete che vi ubbidirà;
facendo credere agli uomini che noi siamo intimamente persuasi che
essi possedono qualche virtù che non hanno, finiscono ad
assumerla, per il momento almeno. - Ditegli adunque che un
cavaliere onorato e squisito come lui non può trovare nessuna
compiacenza a compromettere una povera donna, che è già
infelice abbastanza. Che se poi volesse vendicarsi del vicerè...
è subito fatto. Si faccia innanzi, e gli rubi alcuna delle sue
amanti... È questo il solo genere di sfida e di duello che il
vicerè non può rifiutare. Guardate che il contino è
lì. Non perdete tempo. Attendete ch'io gli faccia cenno.
Eccolo... parlategli chiaro e forte, come sapete far voi. Addio -
siamo intesi; e si alzava dicendo al contino che si avvicinava:
-
Madama ha bisogno di parlarvi. Io vi lascio con lei.
Il
ministro Prina, da uomo di mondo e di retto senso e buono di quella
bontà che non vuole gli scandali e le sventure inutili, perorò
così fortemente perchè l'avvocatessa serbasse il
silenzio, che ella infatti, quantunque fosse d'una caparbietà
per lo più invincibile, obbedì per allora e indusse
anche il Milordino ad obbedire. Egli è vero che il giovinotto
aveva già detto qualche cosa a taluno de' suoi amici, egli è
vero inoltre che anche altri in quella notte s'accorsero che qualche
cosa c'era stato tra il vicerè e la contessina. Ma le dicerie
si fermarono tutte a molti passi di distanza dal conte; ma se il bel
mondo parlò e sparlò dell'avvenuto, il conte per assai
tempo visse nella più profonda oscurità, e la
contessina, ritornata nei silenzj casalinghi, dopo aver ripensato con
orrore al pericolo fuggito, giurò, per quanto il cuore le
gemesse e la passione la straziasse in mille modi, di non mettersi
mai più al punto di trovarsi da sola a solo col vicerè.
E attenne la promessa e il giuramento; e non ebbe in seguito ad
incolparsi d'altro che di pensieri ed aspirazioni sentimentali, e fu
tanto modesta seco, che non si ascrisse a merito, come bene avrebbe
potuto, l'essere fuggita così deliberatamente dal vicerè
che volea trarla a perdizione. Tutto adunque sembrò finito in
quella notte. Il dramma incominciato con grande aspettazione erasi
sciolto in nulla, tra un pentimento, un dispetto fuggitivo, uno
sbadiglio e un consiglio prudenziale. Ma sinchè si è
vivi, se durano le speranze, sono anche incessanti i timori e ognor
presenti i pericoli: e dovevano trascorrere due anni prima che quel
bacio fatale, come una morsicatura di cane idrofobo, avesse a
ricomparire nelle sue conseguenze con sintomi i più esiziali.
Chi
avrebbe detto al ministro Prina, quando perorò a vantaggio
della felicità domestica dei conjugi Aquila, che più
che mai aveva perorato per sè? Chi avrebbe detto ai più
veggenti, che la prima volta che fosse giunta all'orecchio del conte
la notizia di quell'avventura galante, il destino avrebbe in quel dì
stesso segnata una sentenza di morte; e che del famoso eccidio
sarebbesi in quel giorno cominciata a tessere la prima trama?
Saltiamo ora dunque due anni di piè pari, per trovarci in sul
principio dell'anno 1813, sotto la luce sinistra della stella
tramontante di Napoleone.
LIBRO
DECIMOSESTO
SOMMARIO
Il
genio di Napoleone. - Spagna e Russia. - Il corriere
Barbisino. - Le satire milanesi. - Il conte Aquila e
madama Falchi a Parigi. - Il colonnello Baroggi e il vicerè.
- Il testamento del marchese F... e il tribunale di Milano. -
I nemici di Beauharnais. - Una vittoria di Napoleone. -
I vecchi e i giovani. - La famiglia Baroggi. - Il
maestro Galmini. - L'Europa e il Nihil. - Il
ministro Prina e il dott. Scappa. - Due milioni. -
I coniugi Falchi nella camera da letto. - Ricomparsa del
vecchio Galantino.
I
Nel
tempo in cui Beauharnais diede quella festa, che fu l'ultima del
regno italico, la gloria e la potenza di Napoleone avevano raggiunto
il loro apogeo. L'adulazione dei letterati cesarei, che si eran fatti
imprestare dal Giove d'Omero i classici predicati d'Ottimo e di
Massimo, per darli a Napoleone, rappresenta compiutamente quel
periodo. Al pari e più di Nabuccodonosor, esso allora poteva
dire: Non son più re, son Dio. Ma è una
legge eterna della natura e dell'umanità che il grado massimo
delle cose sia transitorio. Bonaparte impiegò quindici anni a
toccare il vertice supremo d'una onnipotenza umana, che quasi rendea
l'ideale dell'onnipotenza divina; ma in quindici mesi tutto
precipitò. Il simbolo biblico del colosso dal capo d'oro e dai
piedi di creta è la formola perpetua che riassume la biografia
di coloro, i quali abusarono d'un genio smisurato per far violenza ai
minori viventi, andando a ritroso delle leggi economiche della
società. Con ventotto mila uomini in ciabatta, e dodici
cannoni stracchi, Bonaparte in tre mesi spaventò l'Europa. Con
ottocentomila soldati e milleduecento cannoni provocò il
barbarico ghigno dei pidocchiosi Cosacchi.
Ma
coi laceri e mal pasciuti battaglioni il genio aveva operato
miracoli, perchè trovò un ausiliario nelle aspirazioni
dell'universalità. Armato di una forza materiale quale non
s'incontrò mai nella storia, il genio si degradò e fu
umiliato perchè pretese di soffocare i desiderj legittimi
delle nazioni. Assecondando le leggi della natura, un fanciullo può
far portenti, movendo una macchina ben congegnata; ma un braccio
d'atleta si spezza se pretende arrestare una ruota mossa dal vapore.
Il
genio, essendo l'espressione massima della potenza delle facoltà
mentali che si corroborano e si esaltano a vicenda per la virtù
di una conflagrazione eccezionale che quasi esce dalla condizione
fisiologica, se appena d'un grado sorpassa quell'espressione, tosto
si altera in modo da diventare un accidente patologico. L'ingegno e
il genio, già lo scrisse il Sarpi, non sono altro che una
lenta infiammazione del cervello. Concesso che ciò possa esser
vero, appena quell'infiammazione cresca di qualche poco, siamo già
allo stato dell'encefalite. Romolo, che senza dubbio fu un uomo di
genio, negli ultimi anni del suo regno ebbe tali afflussi di sangue
alla testa e diventò così prepotente e insoffribile,
che i padri coscritti, tanto per respirare, cogliendo l'occasione di
un temporale, lo fecero scomparire dalla terra e lo trasmutarono in
una stella meno incomoda a loro e ognor cara alle credule plebi. Il
genio di Alessandro il Grande subì a trent'anni una così
tremenda flogosi, che trucidava gli amici a titolo di passatempo.
Alla possibile encefalite di Giulio Cesare apprestarono i congiurati
la cura preventiva di ventitrè salassi.
Tornando
a Napoleone, come è noto che a Parigi vi fu un momento critico
in cui si pensò a farlo scomparire al pari di Romolo, così
è un fatto che dopo la pace di Tilsit, quando si vide ai
proprj piedi i troni degli altri re, e ricevette fumate di incenso
adulatorio dal fallace Alessandro; e vestì la polacca di
velluto verde coll'ermellino e l'oro e i rubini per sembrare più
avvenente alla malfida di Varsavia, ei ritornò a Parigi tutto
trasmutato e così furioso d'orgoglio che gli si oscurò
la vista e non discerse più il vero.
Nelle
spedizioni fatali della Spagna e della Russia son consegnate le prove
della non breve malattia del suo genio. Ognuno sa come i suoi
luogotenenti ad una voce si lamentassero ch'egli fosse diventato
inerte e torbido e strano sui campi di battaglia. Ognuno sa come Ney
abbia detto che sarebbe stato ben meglio ch'esso si fosse fermato a
Parigi a far l'imperatore. Bensì la sventura doveva risanarlo;
il ghiaccio di Russia e i disastri di Spagna dovean ricondurre la
calma e l'equilibrio nelle sue prodigiose facoltà mentali,
sebbene sia stato indarno, perchè fu troppo tardi. Il sansone
ricuperò la forza fatale, ma non gli valse che ad infrangere
le colonne per rimanere anch'egli schiacciato sotto alle rovine del
tempio.
Piegando
al concreto delle cose, tutt'Europa, negli ultimi giorni del 1812,
era variamente attonita per la notizia degli orrendi disastri di
Russia. Più di settecentomila famiglie gemevano in quei giorni
o sconsolate o tementi; in quanto all'esercito d'Italia, sapevasi
come fosse ognora avvolto in tutti i pericoli d'una disastrosa
ritirata. Tutta Milano era in lutto; disotto al lutto scoppiavano gli
odj e le ire in addietro compresse. I lodatori del nome napoleonico
tacevano per paura; i giusti estimatori, che non si lasciavan vincere
nemmeno dalla mutata fortuna, si chiudevano in se stessi, per non
insultare alle piangenti famiglie; e tutti, stanchi delle voci vaghe
e generali che accrescevano le proporzioni della sventura, col non
definirla, aspettavano notizie più particolari, più
esatte; aspettavano lettere di qualche attore del sanguinoso dramma;
aspettavano con impazienza carriaggi di feriti. Il primo di gennajo
del 1813 verso sera si sparse finalmente la voce che era giunto a
Milano, insieme collo scudiere Alemagna, il notissimo corriere
Barbisino, famosissimo allora per la sua robustezza
fisica e per aver fatto più volte quasi d'un fiato il viaggio
da Parigi a Milano. Durante la notte, il cortile dell'albergo dei Tre
Re, dove il Barbisino alloggiava, fu per più ore gremito di
gente che si rinnovava ogni minuto. Il corriere, mentre cenava,
descriveva, raccontava, rispondeva a cento domande.
La
tavola a cui esso sedeva, era tutt'all'ingiro circondata da una folla
stipatissima di ascoltatori.
-
Senti, Trasella (così parlava il corriere, e Trasella era il
nome del maneggione dei Tre Re), giacchè l'ora è
tarda, dovresti far chiudere l'osteria e mandar a casa tutta questa
santa croce di gente, che con tanto freddo sta lì ad aspettare
in corte. Già è impossibile che io abbia potuto veder
tutti i loro parenti e figliuoli che hanno militato in Russia...
Bisogna dir loro che si preparino a non veder più nessuno. Di
seicento o settecento mila uomini è molto se rivedranno le
loro case da dieci a dodici mila giovani. Per duecento leghe continue
io non ho visto che morti. Morti di freddo, di fame, di malattia. Chi
è morto è morto, e non c'è rimedio. Io credo
che, dal diluvio in poi, non sia mai successo un disastro così
spaventoso. Il mio collega Brioschi è morto di freddo poco
lontano da Vilna, e il corriere Rampini che viaggiava con lui ha
dovuto di propria mano scavargli la fossa e seppellirlo. Bisogna
averle viste e passate a cavallo quelle pianure sterminate di
ghiaccio e di neve. Bisogna aver provato l'effetto di quelle
solitudini immense, e di quel silenzio profondo e misterioso, che mi
faceva credere d'esser fuori di questo mondo. Vi basti il dire che
persin la vista dei cadaveri mi alleggeriva dallo spavento e mi
faceva compagnia. Era per essi se m'accorgevo d'essere ancora a
questo mondo.
-
Ma, e Napoleone?... chiedeva un ascoltatore.
-
E di tanto in tanto quell'orrido silenzio veniva rotto da scoppj
violenti, i quali mi facevan credere che da lontano continuasse
ancora la battaglia
E dite un po', che cosa era? Erano i tanti
e tanti cavalli morti, che imputriditi e gonfiati e ingrossati come
elefanti, crepavano per dar sfogo ai gas in fermentazione...
-
Ma, e Napoleone? chiedeva per la seconda volta il solito ascoltatore.
-
Questo signore l'ha sempre con Napoleone. Napoleone sta ora
scaldandosi al caminetto... Per adesso non le posso dir altro... Ma a
Parigi si sparla assai del suo contegno, e dell'aver abbandonato
l'esercito, e dell'aver lasciato tutto nelle mani di Murat, che poi
se la cavò per lasciar nell'impaccio il vicerè... Ma, a
proposito di caminetto, Napoleone ha detto una parola che irritò
tutti i Parigini, e segnatamente coloro che hanno perduto e piangono,
o aspettano i loro figliuoli assassinati.
-
E che cosa ha detto Napoleone?
-
Ha detto, fregandosi le mani, ch'ei si trovava assai meglio al
caminetto di Parigi che al ghiaccio di Russia...
-
Fin qui non poteva dir altrimenti. Sfido io!
-
Certe cose si pensano, e non si dicono... Ma, dopo tutto, non sarebbe
mai escito in quelle parole se fosse stato in mezzo ai soldati.
Sapete, a proposito, che cosa mi raccontò lo scudiere
Alemagna, che ho trovato a Parigi, e che ha perduto a Brescia i
dispacci del vicerè? Mi raccontò, dunque, che l'ira e
la disperazione e l'insubordinazione erano a tal punto fra gli stessi
soldati della guardia, i quali per il freddo soffrivano fino allo
spasimo, che non seppero tollerare che Napoleone stesse chiuso in
carrozza, e gli gridarono minacciosi: Giù dalla carrozza!
e Napoleone, atterrito di quella dimostrazione per lui strana e
nuovissima più che del pericolo di cadere nelle mani di Pultow
(il quale, se non lo sapete, è un generale cosacco tutto pieno
di pidocchi e in tanta famigliarità con essi che allorquando
sta riposando si diverte a farne la caccia sulla propria testa)...
Dunque... che cosa dicevo? Ah, dunque Napoleone fu così
atterrito da quel grido d'indignazione disperata, che discese a
piedi, calcando la neve, insieme cogli altri. Ma nemmeno questo
bastò, perchè essendo tutto imbacuccato nella
pelliccia, i soldati tornarono a gridare: Fuori la pelliccia!
Ed egli si mise in redingote, perchè i soldati lo
guardavano come chi ha volontà di metter altrui le mani
addosso. Questi fatti precisi li seppe il conte Alemagna
dall'ajutante del vicerè.
-
E che cosa dicono i Parigini?
-
Che cosa dicono? Se non fosse per la lingua, un forastiero potrebbe
credere di essere piuttosto a Londra che e Parigi.
-
Cioè?...
-
Cioè... non mi capite? Voi altri sapete quanto Napoleone sia
odiato dagli inglesi. Ebbene, fate conto che, in confronto dei
Parigini, gli Inglesi possono passare per adulatori. In
quarantott'ore che mi son fermato a Parigi, non ho sentito che
bestemmie, e ingiurie e satire. In ogni modo, torneranno a tacere,
perchè il ministro Fouché è l'uomo dei miracoli,
e fra pochi dì chi non saprà parlar bene, starà
in silenzio. Intanto è pericoloso a pigliar le difese di S. M.
nei pubblici convegni, tanto è vero che (e questa che vi vendo
è nuova di zecca) il nostro conte Aquila che trottò a
Parigi, per vedere più dappresso il temporale, così
almeno mi fu detto, e in un caffè, con quel suo fare altero e
dispotico, diede sulla voce a un Francese perchè insultava
alla sventura (tali erano le sue parole), poco mancò non
venisse maltrattato da quanti erano presenti. E vi dirò
inoltre che fu esclusa da qualche casa quell'intrigante
petulantissima della moglie dell'avvocato Falchi, la quale andò
a Parigi invece del marito; e colà faceva da profetessa, e
assicurava vittorie grandi e prossime, e tutto ciò perchè
le premeva di smerciar i boni del tesoro che l'avvocato ebbe troppa
premura di acquistare. Queste cose io le sentii a Parigi da un
commesso viaggiatore, e vi ripeto che due o tre case di banchieri,
dove probabilmente ci sarà stato da piangere qualche giovane
soldato morto sotto il ghiaccio, la misero sgarbatamente alla porta.
Queste
parole franchissime, pronunciate in una pubblica osteria da un
corriere pagato dal governo, dimostrano come fosse cessata, per il
momento almeno, l'idea della sterminata autorità napoleonica,
e come ognuno desse libero sfogo ai proprj sentimenti, avendo
ritornato il dio alle proporzioni dell'uomo. I cittadini milanesi,
seguendo l'impulso di quell'indole che ne costituisce il carattere
speciale (ed è quello di trar materia di ridere anche da
qualunque sventura), ricamavano di barzellette e dicerie ed epigrammi
la tremenda epopea tragica di Napoleone; ma perchè non si
creda che fossero spietati dell'altrui sventura, convien dire che
continuavano le celie anche allorquando del gran
disastro napoleonico, essi insieme col resto dell'impero, dovettero
adattarsi a pagar le spese per tentar di rifare il disfatto colosso.
Ognuno
sa come, appena Napoleone fu giunto a Parigi, a tutt'i sudditi del
vasto impero fu fatto intendere dai ministri, dai prefetti, dai
sottoprefetti, la necessità di fare a Sua Maestà delle
oblazioni volontarie. Per fermarci a Milano, tutti i corpi
pubblici mandarono copiosi doni all'imperatore; tutti i magistrati,
tutti gli impiegati, tutte le classi cittadine, i banchieri, i
negozianti, i giojellieri, gli orefici; gli ordini degli avvocati,
dei notai, dei ragionieri, dei medici fecero a gara nell'offrir
danari e doni, in virtù di quella volontà comandata,
che spesso è più forte della volontà spontanea.
L'Ospedal Maggiore e quello di S. Corona concorsero anch'essi, per
mezzo degli amministratori, ispettori e giù giù fino
agli infermieri, a quello scopo. Gli stessi preti in cura di anime
nei due nosocomj si tassarono soldi quindici per ciascuno.
L'impresario della Scala diede una serata a beneficio di S.M., e in
quella sera tutti i virtuosi di canto e di ballo fecero una colletta,
che trasmisero alla direzione del R. Teatro. Mad. Ribier, modista
della viceregina, mandò al ministro la oblazione di franchi
trecento. Ma, come dicemmo, se i Milanesi si distinsero per
l'abbondanza delle elargizioni, nel tempo stesso se ne ricattavano
con satire. Una mattina di gennajo molta folla s'accalcava per
leggerne una, che a grandi caratteri era stata impastata sul portone
di mezzo della Metropolitana. La satira era questa:
Milan
l'è de vend:
In
quaresma l'istrument.
General
e uffizial
Hin
tucc all'ospedal:
De
soldaa ghe n'è pû;
Bonapart
el cerca sù.
Questa
era l'espressione comica del sentimento generale dei Milanesi,
segnatamente della classe operaja e della gente minuta. Ma se
l'espressione era comica, conteneva nella sostanza qualche cosa di
terribilmente profetico, che potea dar da riflettere agli uomini
serj. Il verso - Milan l'è de vend -,
come un'effemeride astronomica, annunciava gli accidenti
dell'anno successivo.
A
queste satire in vernacolo, rappresentanti l'acume popolano che
riassumeva il vero senz'odio e senza menzogna, facevano contrapposto
altre satire che circolavano manoscritte e si leggevano ne' crocchj
del teatro, nelle conversazioni, nei caffè; ed erano
l'espressione delle ire e delle antipatie di qualche patrizio
incarognito pel passato, di qualche letterato testardo, di qualche
prete che aveva perduto la prebenda.
Già
fin dal dicembre, quando Napoleone a grandi giornate s'affrettava a
Parigi, erano corsi per tutte le mani i seguenti distici:
Napoleon
quondam Magnus cognomine dictus,
Nunc
merito in castris dicitur exiguus.
Coelo
ipsum petiit furibunda superbia regis,
Dementem
regem deprimit ipse deus.
Funditus
absorpta est, Bonapars, victoria; avitos,
Si
poteris, satis est, tutus adire lares.
Nei
primi mesi dell'anno 1813 il cavaliere Aldini scriveva
incessantemente ai ministri del regno italico, perchè
sollecitassero indirizzi da tutte le parti a felicitare l'imperatore,
ad assicurargli attaccamento e fedeltà, a lodarlo dell'avere
saputo scappare perfino all'ira degli elementi, a far voti per nuove
e più gloriose vittorie; e tosto corse per Milano un
epigramma, che si disse mandato da Roma da Alessandro Verri al
fratello Carlo, che fu poi presidente della reggenza. Il conte Carlo
lo lesse in privato a pochi e fidatissimi amici, coll'esortazione
preliminare di non parlarne in pubblico, o almeno di tacerne
l'origine. Ma, come al solito, il segreto fu sparpagliato ai quattro
venti, e l'epigramma lo ebbero anche i cioccolattieri, che se lo
fecero tradurre da qualche canonico. Eccolo nell'originale latino:
Napoleon
Regum dedecus, furumque magister,
Quem
tota abhorret progenies hominum.
Attamen
a cunctis laudari mandat et ambit.
Nec
pudet heroem se celebrare virum.
A
poco a poco però le satire scomparvero; un po' gl'indirizzi,
un po' i giornali, un po' le notizie che venivano da Parigi, un po'
il falso, un po' il vero; ma più di tutto il fatto che
Napoleone delle oblazioni dei sessanta milioni di sudditi e dei mezzi
finanziarj improvvisati per miracolo, e del novello esercito che si
vedeva a comparire da tutte le parti, accennava di ristaurare il
crollante edificio; tutte queste cagioni insieme fecero tale effetto,
che l'ammirazione compressa ricominciò ad espandersi, che gli
amori che parevano spenti si rinfocarono, che i suoi nemici vecchi si
rintanarono, che i suoi devoti intiepiditi si riscaldarono ancora. E
di giorno in giorno ritornavano gli avanzi dell'esercito italiano. Il
popolo andava ad incontrarli alle porte; erano ovazioni, erano sfoghi
d'affetti. Alcuni mesi prima Napoleone veniva maledetto; mentre, ad
onta di tanti antecedenti avversi, il principe Beauharnais veniva
esaltato pei suoi sagrifizj, per la sua costanza, perchè solo
era rimasto a proteggere la ritirata degli estremi avanzi del
grand'esercito.
Ma
i convogli dei reduci feriti vennero a cambiare il favore popolare in
odio; si raccontarono le ingiustizie fatte da Beauharnais ai soldati
italiani, si raccontavano le controversie avute col general Pino;
l'iniqua malizia con cui impedì alla divisione di quel
generale di segnalarsi in più fatti d'armi ove il suo aiuto
sarebbe stato tanto salutare. In una parola, Napoleone fu rimesso sul
piedestallo, e il vicerè fu generalmente detestato. Ad
accrescere quest'odio giunsero da Parigi a Milano il conte Aquila e
la moglie dell'avvocato Falchi. Essi avevano fatto il viaggio in
compagnia. L'ambizione che aveva spinto a Parigi il conte Aquila, e i
boni del tesoro per cui la moglie dell'avvocato erasi recata a
scandagliare le banche francesi, furono le cause funeste degli
avvenimenti che racconteremo.
II
Come
dunque abbiam sentito dal corriere Barbisino, il conte Aquila e
l'avvocatessa Falchi erano andati a Parigi sulla fine dell'anno 1812,
quando appunto sapevasi che Napoleone a grandi giornate vi ritornava
dalla Russia. - Essi eransi recati nella capitale dell'impero
per diversi intenti, e senza che l'uno sapesse dell'altra. Il conte
Aquila, che non erasi mai più trovato col vicerè ed era
stracco di fiutare l'avvenire, ed era più stracco di vivere in
un non glorioso riposo, alla notizia dei disastri inauditi del grande
esercito che in pochi mesi aveva rovesciato l'edifizio miracoloso di
tanti anni, si affrettò a Parigi per vedere più
dappresso le cose, per affiatarsi coi personaggi più vicini al
trono e più addentrati nella cosa pubblica. L'uomo ambizioso
che non aveva potuto trovare un seggio abbastanza alto per sè
finchè durò la gloriosa fortuna di Napoleone, sperò
che quel repentissimo cambiamento di cose, quella procella furiosa
che aveva soffiato nelle viscere del mare, avrebbe slanciato alla
superficie tutto ciò che per le circostanze era rimasto al
fondo. Le sue idee e le sue aspirazioni però erano tutt'altro
che determinate.
Più
anguste, più mercantili, ma più precise, erano le
cagioni per cui l'avvocatessa Falchi erasi anch'essa recata a Parigi.
L'avvocato, speculando sul cattivo andamento delle cose di Spagna,
aveva comperato per bassissimo prezzo una grande quantità di
boni del tesoro. Secondo il suo modo di vedere, avvalorato assai dai
consigli del ministro Prina, erasi tenuto certissimo che le continue
disfatte della guerra di Spagna sarebbero presto state riparate dai
trionfi del Nord; si gettò dunque audacemente in quella
speculazione, la quale, se avessero côlto nel vero le sue
previsioni, avrebbegli portato in cassa un pajo di milioni. Ma per le
inattese rotte di Russia, che nell'opinione degli uomini non
avrebbero dovuto succedere colla presenza di Napoleone, che era
mancato in Ispagna, la carta moneta correva pericolo di rimaner
carta semplice. L'avvocatessa che, siccome suol dirsi, era una donna
coi calzoni, e voleva far l'uomo, e l'uomo d'affari, e ajutava il
marito in tutti i modi, si profferse a fare il viaggio di Parigi, e
perchè l'avvocato era più necessario a Milano, e perchè
a lei, donna ancora avvenente, e, secondo la sua particolare
opinione, ancora tale da trovar aperte le porte che comunemente si
chiudono in faccia agli uomini, il còmpito sarebbe riuscito
assai più facile che al marito. A Milano, se il conte Aquila
conosceva la Falchi e s'era trovato secolei in qualche pubblico
convegno, non era però null'affatto nè suo amico nè
intrinseco; di più, il suo orgoglio e il suo rigore
aristocratico gli rendeva spregevole quella donna di plebeo casato e
di modi più ancora plebei, al punto che vietò alla
propria moglie, ch'era d'indole gentile e affabile oltre l'ordine
consueto, di non far troppe parole con quella donna, quando per
combinazione si fosse trovata seco in qualche ritrovo.
Quest'avversione
superficiale sembrò scomparire quando il conte, per caso, ebbe
ad incontrarsi colla Falchi a Parigi. Un uomo che in patria appena si
conosca di vista, quando s'imbatte a vederlo in terra lontana tra
faccie straniere, improvvisamente si trasmuta in vecchio conoscente.
Se una persona di consueto la si scansava per antipatia invincibile,
diventa per lo meno tollerabile alla distanza di cinquecento o
seicento miglia. Se con un amico ci siam guastati il sangue e s'è
venuti alla risoluzione di levarci il saluto, appena lo si vede
spuntare da una via d'un paese lontano, ogni rancore scompare, senza
bisogno d'intermediarj, e tutto finisce con una risata sonora, che
vale per cento scuse e cento dilucidazioni. In virtù di questo
fenomeno umano, che si ripete e si verifica costantemente,
allorquando il conte vide la Falchi al teatro imperiale, malgrado il
proprio orgoglio e la nessuna stima che aveva di quella donna, si
recò a farle una visita.
L'avvocatessa,
naturalmente, politicava e spoliticava, trinciava sulle questioni le
più ardue con una sfacciataggine beata, che qualche volta le
permetteva persino di dir qualche cosa di buono. Il conte si sarebbe
turate le orecchie per non sentirla; ma quella rosea facciotta, e
quel dialetto, e quel pezzo di patria vivo e vero, che valeva almeno
come una veduta del Duomo di Milano, gli faceva sopportabile e
persino amabile quella compagnia. Siccome poi, sempre in virtù
di quella sfacciataggine beata, ella si mescolava a tutti i crocchj e
recavasi dappertutto e un po' per commendatizie del ministro Prina,
un po' per l'amicizia del cavaliere Aldini, aveva potuto parlare e
avrebbe parlato ancora con qualche alto personaggio, e anche con
taluno di quelli che stavano vicinissimi all'imperatore, così
amava di sentire da lei che cosa aveva pescato nel mare della
politica ancor burrascosa; e con tanto più di interesse faceva
questo, in quanto considerava che quei personaggi si sarebbero
abbottonati con lui che era patrizio ed elettore e tenuto in conto
d'uomo di gran levatura, mentre si sarebbero lasciati cogliere
spensierati dalle interrogazioni di una donna che a tutta prima
pareva una chiacchierona insulsa, ma che all'ultimo era scaltra e
svegliata fino a non lasciarsi sopraffare dai monosillabi di
Talleyrand.
Per
queste ragioni quotidianamente egli andava a visitarla, e più
spesso quando l'imperatore tornò a Parigi.
È
inutile il dire che il conte si accontentava delle sole notizie, nel
tempo stesso che, se il galateo lo avesse permesso, si sarebbe
licenziato tutte le volte che cominciavano le di lei considerazioni e
congetture e ipotesi e profezie. Era ben contento d'imparar la storia
da lei, ma la filosofia della storia assolutamente non poteva
mandarla giù, tanto più ch'egli era di opinioni affatto
opposte. Ad ogni modo, e l'uno e l'altra, nonostante una così
diverga tempra d'ingegno, si sarebbero anche avvicinati nelle vedute
se l'uno e l'altra si fossero posti a giudicare a sangue freddo; ma
l'avvocatessa dovendo smerciare quel milione di boni del tesoro,
avendo urgente bisogno che tutto piegasse in bene, si sforzava così
a non vedere che rose nell'avvenire: mentre il conte, a cui premeva
che il disastro napoleonico continuasse, nemmeno un momento seppe
credere che l'edifizio in isfacelo potesse ricostruirsi. In due altre
cose inoltre differivano affatto. Ella voleva che Napoleone si
rimettesse sul piedestallo, e cadesse Beauharnais, senza che a ciò
vi fosse ragione di sorta, ma soltanto perchè lo desiderava;
laddove il conte, vedendo inevitabile l'ultima rovina
dell'imperatore, faceva dei conti su Beauharnais, dopo le parole
avute con esso lui, e su Milano e sul regno italico.
Or
fermiamoci qui, in quanto a pubblici affari, e vediamo come una lieve
notizia, di indole affatto privata, cambiando le passioni, abbia
influito con tanta efficacia a cangiare anche le opinioni e le
simpatie politiche del conte.
Una
sera il conte Aquila discese, insieme con madama Falchi, alla tavola
rotonda dell'albergo di Marengo, dov'era alloggiato e dove erasi
trasferita anche madama, per essere stato chiuso, per ordine del
ministro di polizia, l'albergo di Montmorency, dove alloggiava prima,
perchè l'albergatore fu indiziato di aver avuto parte nella
congiura Malet. Fattasi ora tarda, l'avvocatessa, che beveva forte
come un'ostessa del lago Maggiore, alzò la mano più del
consueto, eccitata da un eccellente chambertin vecchione,
soprannominato il vino Napoleone, dall'uso che ei ne faceva di
preferenza ne' suoi pasti campali. Il discorso naturalmente era la
politica del giorno. Il conte, per le ragioni addotte, ne sopportava
la chiacchiera intemperante, perchè tra tante cose nojose e
strambe, ne raccoglieva qualcuna che faceva per lui.
-
Mi fa senso, ella venne a dire a un certo punto del suo articolo di
fondo improvvisato, come il signor conte non abbia nessuna fiducia in
un completo risorgimento della potenza napoleonica. Mi fa più
senso ancora, come un uomo del suo talento possa mettere gli occhi
addosso a quel gallo insuperbito di Beauharnais, nel caso che dovendo
andar per aria il trono di Francia, debbano gl'Italiani pensare
seriamente ai casi proprj, e piantare il regno d'Italia su delle
fondamenta ben solide.
Il
conte non rispondeva quasi mai alle continue domande di madama
Falchi, e la propria politica se la teneva per sè. Ma in
quella sera non avendo saputo schermirsi abbastanza ogni qualvolta
l'avvocatessa gli aveva colmato il bicchiere di vin Napoleone, fu
espansivo e men chiuso del solito: però a quelle parole della
Falchi, ridendo e celiando ed esprimendosi con modi affatto nuovi in
lui:
-
Già io so il perchè, disse, a lei sta tanto a cuore la
fortuna dell'imperatore.
-
Perchè?
-
Quando glielo avrò detto, ella avrà la bontà di
confessare che ho côlto nel segno. Ma non vada in collera. Se
ella non avesse nello scrigno tanta carta, il cui valore non aspetta
l'esito delle cannonate, non spasimerebbe tanto per S. M. Vorrei
vedere, cara signora napoleonista, se suo marito, invece di
acquistare dei boni del tesoro, avesse, prima del sistema
continentale, investito un grosso capitale in qualche fabbrica di
Londra; vorrei vedere se adesso si tormenterebbe tanto a veder tutto
bello e lucido e sereno.
-
Cosa c'entra il tormentarsi?
-
Ma la mi lasci finire... Io già so come sono i capitalisti che
fanno speculazione di borsa. Le loro opinioni politiche durano dalla
mattina alla sera, e al dì dopo se soffia una inattesa
notizia, volano via tutte le simpatie del dì prima.
-
Questo va bene, ma....
-
Altro che andar bene! ma se mi ascolta andrà meglio. Io dunque
credo fermamente che Napoleone non può più star in
piedi: prima però ch'ei cada affatto ella ha tempo di vendere
benissimo tutti i suoi boni. È probabilissimo che Napoleone,
rientrando in campagna, abbagli ancora il mondo con qualche brillante
vittoria. Quello è il momento, cara signora, di vender bene la
sua carta. Tutto il mondo crederà che a una vittoria terrà
dietro un'altra, come una volta; ma le vittorie non saranno molte, si
fidi di me. Ho parlato a due o tre generali dei più intimi di
Napoleone: ebbene? crollano la testa, cara signora, e criticano il
padrone, perchè son sazj. Non c'è più
entusiasmo, perchè non c'è più fede, e, peggio
ancora, perchè non c'è più speranza, ossia
perchè la speranza non ha più niente da fare. L'uomo
mette in pericolo la vita, finchè la vita non val nulla, e
colla lusinga, che, se la fortuna è propizia, possa col tempo
valer molto. Ma quand'uno ha raggiunto quello che è al di là
d'ogni desiderio, che volontà si ha ad avere di farsi
ammazzare per un uomo il quale è persuaso che le donne debbano
sciuparsi a fabbricar soldati, per dare a lui solo lo spettacolo di
una strage perpetua?... Vedrete quel che vi dico io. Vi do tempo sei
mesi, un anno; e poi giù, e per sempre.
-
In ciò ch'ella dice, c'è del vero. Ma io mi son
limitata a credere e a dire che Napoleone farà ancora tremare
l'Europa. Non ho parlato della durata io...
-
Ah, dunque siamo d'accordo! Lei s'accontenta del tempo che è
necessario per liberarsi di tutta la sua carta. Voglia dunque esser
sincera; già io non vado a dirlo all'imperatore, e nemmeno al
ministro Prina.
La
Falchi era esaltata, e un pochino ebbra, e però aggiunse
quello che coll'acqua fresca non avrebbe mai detto.
-
Al ministro Prina ella può dire benissimo quello che ha detto
a me. In fin dei conti, più della metà di questi boni è
proprietà del ministro.
-
Passa il milione?
-
Son più di due milioni...
-
Me ne congratulo tanto.
-
Era un avvocato... fu messo a fare il custode della pubblica
ricchezza... Doveva starsene forse colle mani in mano?
-
Va benissimo, e buon pro gli faccia. Pur farebbe meglio a non
rovinare il proprio paese... Dato un rovescio napoleonico... quando
noi fossimo per riuscir ad aggiustar le cose a casa nostra...
quest'uomo potrebb'esser utilissimo. Ma è necessario che si
stacchi da Napoleone e appoggi il vicerè.
-
Ella, signor conte, l'ha sempre col vicerè. Per me dico, e ora
non parlo per l'interesse, che vorrei che andasse tutto a soqquadro
anche per noi, piuttosto che veder quell'uomo a diventare il nostro
padrone.
-
Non è necessario che sia il padrone.
-
Voi non lo conoscete.
-
Lo conosco benissimo.
-
Scusi, signor conte, ma certe cose noi donne le sappiamo meglio di
loro signori. E se le dicessi quello che io so, certo che il signor
conte cangerebbe d'opinione, qui sull'istante.
Il
Conte Aquila, essendo in quella sera di un umore eccellente fuor
dell'usato, erasi divertito a discorrere colla Falchi, e rideva nel
vederla così un poco ebbra ed espansiva. Pure all'ultima sua
parola cessò di pigliarla leggermente:
-
E che cosa sapete ch'io non sappia? domandò con una certa
apprensione.
Senza
saper nulla, ei sentì corrersi qualche brivido per le ossa,
come allorquando, anche sotto il limpido sole e il ciel sereno, il
corpo fa le veci del barometro e presente che il tempo vuol
guastarsi.
III
La
Falchi era in quella condizione di mezza ebrietà, che non
concede più alla lingua di esser cauta, che addensa le tinte
ad ogni nostra qualità caratteristica, e, se un'indole non è
buona, la fa diventar bieca e pericolosa:
-
Così è, caro signor conte, essa continuava: se io
arrivo a dire che Beauharnais sarebbe un pessimo re, bisogna proprio
che questa sia una verità chiara come la luce del sole, la
quale non si può negare, qualunque sia il colore degli
occhiali che portiamo; perchè, se dicesse questo il mio signor
marito, vada, si potrebbe dire che parla per dispetto... Ma son io
che parlo; io che, siamo sinceri, non mi sono poi fatta pregar tanto
allorquando... Il signor conte ride... pure non vorrei per tutto
l'oro del mondo che un soldato petulante, un francese che ci
disprezza, un re nominato da noi avesse il diritto di penetrar nelle
famiglie a mettere sottosopra la pace domestica, a canzonare i
mariti, ad insultare i fratelli, a farsi beffe degli amanti... e che
so io. Torno a ripetere che non parlo per me; nè me la piglio
calda per il mio avvocato... che è il marito più caro e
più comodo di questo mondo... un vero scaldaletto... che
quando annoja lo si dà alla cameriera da portare in cucina...
Il
conte Aquila, contro il suo solito, non potè trattenersi dal
ridere a queste parole.
-
Or tornando alla prima mia idea, quantunque io non abbia studiato
molto, e non conosca molto la storia, più d'una volta ho
sentito a dire che fu sempre per cose di donne che i principi e i
tiranni furono creduti impossibili, e furono messi fuori di
combattimento, da chi non pativa che venisse offesa la nazione nella
sua parte più viva e più delicata.
-
È vero, o non è vero?
-
Dunque, in questo genere, relativamente al vicerè, io so tante
e tante cose, che sarebbe veramente pericoloso per noi il mettere
nelle sue mani il nostro paese. In questi ultimi anni poi, fors'anche
perchè i Milanesi s'inasprirono seco, egli è diventato
manifestamente nemico degli Italiani. A tutti è noto quel che
avvenne col general Pino: tutti sanno le ingiustizie d'ogni sorta
fatte da lui ai soldati italiani, quando per qualche cosa si
trovavano in competenza coi soldati francesi. E da qualche tempo, per
coronar l'opera, è diventato anche avaro fino alla
spilorceria. Il signor conte si ricorderà bene del modo
saporito con cui l'incisore Rosaspina si vendicò della di lui
avarizia.
-
Non me ne ricordo.
-
Oh è bella, bella davvero. L'incisore dedicò due anni
fa una sua stampa al vicerè, il quale non si degnò
nemmeno di far rispondere all'artista, nè di mandargli quel
dono consueto per il quale, in conclusione, si fanno le dediche. Or
che cosa fece il Rosaspina? quando pubblicò ultimamente una
nuova incisione, dica un po', signor conte, a chi ne fece la dedica?
-
A chi?
-
A Sua Altezza l'uomo di Pietra. Vi piace?
-
Davvero che è saporita. Ma, tornando a noi, se le troppo
frequenti ingiustizie fatte dal vicerè ai nostri, se
l'ostentazione di un disprezzo che sinceramente non può
sentire, se la grettezza e l'avarizia, delle quali però è
la prima volta che sento a parlare, possono e devono dar da pensare
seriamente a chi volesse mettere quest'uomo sul trono d'Italia, per
il resto non state a darvi un pensiero. Cara signora, se voi stessa
non mi aveste preceduto col dirmi, che sarebbe toccato al vostro
signor marito a far di questi lamenti, davvero che mi fa senso come
una bella signora come voi, tutt'altro che disposta a imitar le
sante, siasi messa a sfoggiar tanta morale sul fatto che al vicerè
piacciono le dame. E a chi non piacciono? Bisogna poi tener conto
della posizione e delle tentazioni. Se, per un supposto, al luogo del
vicerè si potesse mettere S. Luigi Gonzaga o S. Francesco
d'Assisi, in meno d'un mese vedremmo impegnati l'uno e l'altro in
qualche avventura galante. Sono cose da non badarci nemmeno. Eppoi
bisogna considerare che il principe venne giovanissimo a Milano, e
col tempo daranno giù i bollori; d'altra parte, sentite, chi è
padre, o marito, o fratello, o amoroso, ci pensino loro. State
tranquilla, che chi sa fare il padre e sa fare il marito, può
mettere alla porta anche il vicerè. Diavolo! non è più
il tempo del diritto di coscia.
-
Caro conte, io sono disposta a credere e a giurare in tutto quello
che ella dice; perchè fui assicurata da chi ne sa, che ella è
una gran testa; mi accorgo però che in queste faccende la sua
sapienza non vale la mia. Oh... è un pezzo ch'io sento a dire
che i buoni mariti fanno le buone mogli, e che quando essi
custodiscono bene la casa, non c'è ladro che possa
introdursi... Ma c'è un male, caro signor conte, un gran male;
ed è che questa sentenza venne pronunciata dai soli uomini,
senza sentire il parere delle donne, che in tali argomenti hanno voce
in capitolo... Ora io le so dire che è precisamente quando i
mariti stanno sempre intorno alle loro mogli, che a queste viene una
gran voglia di cambiar aria, e ai cacciatori di professione entra la
smania addosso di tentare la caccia proibita. Mi ricordo del mio
primo anno di matrimonio, quando anche il mio signor avvocato si mise
in testa di fare il cane da pagliajo, e ringhiava se qualche altro
cane di razza più fina entrava in casa; ebbene, posso
assicurarla, che se ho lasciata passare la luna di miele fu un vero
miracolo, e che appena spirato quel termine, proprio in un giorno che
mio marito mi fece una scena tragica, che mi pareva il Blanes quando
ha il turbante di Frosmane, proprio allora gli piantai il mio primo
corno; carissimo corno, saporito tutto quel mai che si può
dire. Fu precisamente così; e ancora mi vien voglia di ridere
quando penso a quell'avventura.
-
Tutto va bene, rispondeva il conte ridendo e divertendosi molto dello
spettacolo di quella insolita sfacciataggine; ma pensate che,
parlando, siete uscita di strada, e avete trovato la maniera di darvi
torto da voi stessa.
-
In che maniera?
-
È presto capito. - Se voi trovate tanto giusto che le
donne facciano il loro comodo...
-
Io non ho detto questo...
-
Ma all'entusiasmo con cui ne parlate... bisogna conchiudere...
-
Io parlo di quello che ho fatto io... eppoi sì... giacchè
è detta... la lascio andare... Le donne hanno tutto il diritto
di fare il loro piacere; e in ogni modo, anche senza avere
l'approvazione del ministro di giustizia e dell'arcivescovo, non
verranno mai da voi altri a chiedervi il permesso quando...
-
Ebbene, vi piglio in parola; e tornando al punto da cui siamo
partiti, il principe Beauharnais è nato fatto per convertire
in obbligo legale i vostri desiderj.
-
Ed ecco ciò che non voglio. Credevate, signor conte, che
queste tre bottiglie da me vuotate mi avessero fatto uscire di testa
il mio argomento... Tutt'altro... Anzi sento che lo chambertin mi
ha rischiarato mirabilmente le idee... Torno adunque a dirvi che con
quella facilità che abbiamo noi donne di fare spuntar le corna
anche sulla testa la più grande, la più nobile e la più
perfetta, è necessario che il vicerè vada
all'inferno...
-
Ma non vi accorgete della contraddizione?
-
Che altri non mi abbia a comprendere, può esser possibile...
ma che voi, signor conte, col vostro ingegno non mi arriviate, è
assai strano.
-
E vi capisco sempre meno, continuava il conte con quel sorriso tra lo
sprezzo e l'indulgenza onde si tien conto delle parole di chi sembra
soverchiamente esaltato dai vapori vinosi.
-
Oh adesso poi mi sentirete a sfoggiare eloquenza; mi sento in vena, e
voglio ripetervi le parole dette una sera da Ugo Foscolo... A
proposito del quale mi fanno ridere gli asini che pretendono gli sia
stata tolta la cattedra per incapacità. Altro che incapacità!
Badate: io che non ho fatto nessun studio e non ho mai potuto pigliar
gusto a nessuna lettura, pure ho imparato infinite cose quella sola
volta che per tutta una sera l'ho sentito parlare, e a gridare, e a
tuonare, e a mettere in un sacco tutti quelli che stavano in
conversazione, compresi i chiacchieroni di mestiere, e i colleghi di
mio marito, che per la smania di contraddire, non so che cosa
direbbero. Ebbene, sapete che cosa ha detto Foscolo? mi pare
d'avervene già parlato; ha detto, dunque, che un principe
donnajuolo e che pretende abusare della condizione regia nel fatto di
donne, è il più detestabile tiranno che mai possa
darsi... e citò non so che fatto della storia romana, per cui
i re se ne andarono a spasso per una bricconata di un giovinotto che
aveva tutto il carattere di Beauharnais.
Oh
guardate che cosa vi arrivo a dire... Vi arrivo a dire che se mio
marito, fingendo di conoscere il vicerè, gli avesse regalato
un carico di legnate, quando mi faceva la corte, quella sarebbe stata
la prima e la sola volta che la gelosia d'un marito, che di solito mi
fa ridere, mi avrebbe dato piacere. Un marito può, anzi deve
chiudere gli occhi su tutti gli zerbinotti che pizzicano sua
moglie... ma quando è il vicerè che pizzica... e il
marito lascia fare... il marito è un asino se non è
un... voi mi capite.
-
Qui cominciate ad aver ragione... Ma voi, che sfoggiate delle teorie
così splendide
perchè non avete messo alla porta
il vicerè, quando...?
-
Oh bella! perchè tutte le cose lasciate sono perdute... e
perchè le donne hanno l'obbligo di esser deboli... Ci chiamate
il sesso debole per disprezzo, e poi pretendete che si debba esser
forti soltanto allora che preme a voi. Siete veramente curiosi, i
miei cari uomini... Ma ripigliando il filo, ecco perchè è
da mandar al diavolo chi, abusando della debolezza delle donne, vuol
schiaffeggiare sfacciatamente tutta la nazione nelle persone dei
mariti e degli amanti... Ho parlato bene adesso?
-
Benissimo... ma mi permettete di dirvi una insolenza?
-
Questa sera permetto tutto.
-
Ma non andar poi in collera...
-
State tranquillo...
-
Se molte donne, senza aver le vostre teorie, vi assomigliano in
pratica, ve ne sono però alcune, e non poche, di tale e tanta
virtù e tanta dignità, da far arrossire e
indietreggiare anche un principe il quale avesse tutte le voglie e
tutta la forza di farle valere.
-
Non sono del vostro parere; in coscienza non posso esserlo. Tutte le
donne, dal più al meno, sono le stesse; la virtù che
oggi fa meraviglia, cade domani, e non c'è da farsene stupore.
Nella mia esperienza, tutte le donne che ho conosciuto, d'ogni risma
e d'ogni conio, anche di quelle che parevan nate per far la madre
badessa, la santa Teresa, la santa Cecilia, e che so io... ebbene,
venne il loro giorno... e alle tentazioni, quando furono fatte da un
diavolo simpatico, non seppero resistere e...
-
Oh... qui poi vi sfido.
-
Accetto qualunque sfida.
-
E torno a dire che chi fa la moglie è il marito...
-
Davvero?
-
Sì.
-
Ebbene... io mi do vinta..: se però mi saprete accennare una
sola di queste eccezioni, una sola di queste donne che nacquero sante
e rimasero sante per la virtù del marito.
Il
conte Aquila, quantunque tenesse conto della sbilanciata loquacità
della Falchi, pure fu punto da quell'insistenza. Non gli pareva vero
che, almeno per complimento, quella donna non avesse fatto eccezione
della moglie di lui. - Stette così alquanto in
silenzio, perchè avrebbe voluto sentire da altri quello ch'ei
fermamente pensava; ma poi, ad onta del suo carattere orgoglioso e
duro, non seppe dominarsi così che non prorompesse con accento
severo e con voce alterata:
-
Ebbene, signora, che cosa mi sapreste dire, per esempio, di mia
moglie?
A
queste parole la Falchi diede in uno scroscio di risa sfacciato e
infernale; così infernale che il conte impallidì in
modo da parere un cadavere. Succedette un terribile silenzio. La
Falchi vuotò un altro bicchiere di chambertin.
IV
Quand'ella
lo ebbe vuotato e deposto sulla tavola, e, tornando a guardare il
conte con occhi lucentissimi, accennava di voler continuare a
parlare:
-
L'ora è assai tarda, disse il conte, con una calma profonda, e
come se avesse assistito ad un discorso indifferente. È tardi,
e ho bisogno di riposo.
-
Ma aspettate, caro conte, chè a me pare d'incominciare adesso
la mia giornata, tanto sono in lena...
-
Voi potete aver ragione, ma io devo andare a dormire - e tirò
furiosamente il campanello per chiamare il cameriere.
A
sentire la voce bassa e lenta e quasi dolce del conte, e a vedere il
furore convulso con cui non tirò ma strappò il
campanello, non parea vero che quei due diversi atti venissero da lui
solo.
Il
cameriere entrò.
-
Fatemi lume, che voglio salire in camera, gli disse; e anche voi
vogliate fare altrettanto, soggiunse poi piegandosi tranquillamente
verso la Falchi. E si alzò e partì. - Buona
notte, madama, esclamò quando fu sulla soglia del salotto.
La
Falchi, uscito che fu il conte: «Che originale è costui!
pensò tra sè. Un altro mi avrebbe tempestato di
domande... Egli invece se ne va a letto... Non avrei mai creduto che
un uomo così duro e severo, come mi dicono, fosse anch'esso
una così buona stoffa di marito!»; e fermandosi su
quest'idea, e pensando ad altre cose, a poco a poco il vapore dello
chambertin le lavorò sugli occhi in modo, che chinò
il capo e s'addormentò e così profondamente, che la
donna di servizio, avvisata dal cameriere, che era stanco di far la
guardia fuori dell'uscio, dovette entrare per svegliarla e condurla
poscia in camera.
Ma
seguiamo il conte Aquila nella sua camera.
L'orgoglio
gli aveva comandato di far tutto perchè non uscissero altre
parole dalla bocca oscena della Falchi, ed in sul primo, era come
fuggito da colei. Non pertanto, quando fu solo, ripensando a quelle
risa infernali, si sentì assalito da un desiderio furibondo di
appurarne le vere cagioni; e fu per uscire ed entrare dalla Falchi
per chiederle conto de' suoi modi oltraggiosi... ma si trattenne e un
raggio lieve e fuggitivo di consolazione gli rischiarò l'anima
affannata. Si consolò pensando che la Falchi era
manifestamente ubbriaca; che, per conseguenza, non era a far caso
nessuno delle di lei parole; ch'egli era stato un pazzo a darci peso;
che non meritava la pena di più oltre pensarvi. Ma quel lampo,
lo ripetiamo, dileguò nel punto che aveva guizzato, e:
-
Se non fosse stata ubbriaca, avrebbe taciuto, - pensò...
e una tale idea lo percosse in modo, e il dolore che ne provò
fu di quel genere che mette gli uomini nella tentazione di
ammazzarsi.
Si
mise a sedere, e fece ogni guisa di congetture. Riandava colla
memoria tutta la vita della contessa sua moglie e non giunse a
trovare un momento solo in cui gli sembrasse avere colei meritato un
rimprovero; considerava che il metodo rigoroso ch'egli avea imposto
alla vita di lei, che il non averla mai perduta di vista un momento,
e il non averle mai lasciata libertà di sorta, rendeva
assolutamente impossibile che quella donna desse esca alla calunnia e
alla maldicenza. E si confortava un istante, ma per immergersi poi
subito nei più disperati e strani pensieri. L'indole dura e
fortissima del conte Aquila piegò in quella notte allo spasimo
del sospetto - del sospetto che è sovente ancora più
tormentoso della più crudele verità appurata. Eppure
non amava sua moglie; non l'aveva mai amata. Non era mai stata per
lui che la donna incaricata di portargli dei figli; il solo
sentimento ch'essa ingenerava in lui non era che l'orgoglio di chi
possiede una rarità universalmente apprezzata e
desiderata. Ma è appunto l'orgoglio, ma è l'amor
proprio offeso che alimenta la più tremenda gelosia... perchè
la gelosia che non deriva dall'amore, non potrà mai essere
placata dalla pietà.
Il
giorno dopo, nell'ora della colazione, in cui il conte soleva vedere
la Falchi alla table d'hôte, aveva pensato di non
vederla altrimenti, e giacchè non c'era più nessun
motivo di trattenersi a Parigi, aveva presa la risoluzione di partire
senza nemmeno salutarla, per rompere di colpo ogni relazione con
quella donna perversa. Ma la puntura tormentosa del dubbio non gli
permise di fermarsi in quella risoluzione; e si venne anzi cambiando
al punto da sentire irrequietudine ed impazienza nell'aspettazione
dell'ora consueta. Giacchè la Falchi aveva lanciato un primo
motto, egli voleva saper tutto il resto, e si affannava nel desiderio
di conoscere ogni cosa con certezza. E venne l'ora, vide la Falchi,
sedette a tavola con lei; ostentò umore lieto e cortesia; e
l'impazienza lavorò tanto sull'animo di lui, che fu il primo a
riappiccare i fili del discorso lasciato sospeso la notte prima.
-
Sono contento, madama, che le vostre belle guance abbiano ripreso il
loro incarnato naturale, e che beviate acqua fresca. Jeri notte,
bisogna confessarlo, eravate un po' sostentata, e ho troncato la
continuazione di un certo discorso che... voi mi capite... jeri notte
c'era pericolo di sentir le cose alterate... mentre è la
verità rigorosa e intera ch'io voglio conoscere. Voi siete una
dama piena d'esperienza. Io sono un uomo di mondo e filosofo, e, in
quanto alle donne, so compatirle ed amo l'indulgenza. Abborro i
mariti che vanno in furore e sono capaci di commettere delle
violenze, se, per combinazione, le loro mogli hanno guardato
piuttosto a dritta che a sinistra. Catone il Censore, uomo duro e
inesorabile in tutto, e un modello di virtù romana perfino coi
Romani, nelle cose che interessavano sua moglie, non guardava tanto
per il sottile; bensì amava di sapere, per poter perdonare e
sapersi regolare. Era un vero filosofo. Dunque vogliate spiegarmi.
madama, la ragione del vostro strano ridere di jeri sera.
La
Falchi tacque un momento, poi disse:
-
Mi rincresce, caro signor conte, di non aver saputo trattenermi. Ma
anche voi un momento fa avete detto ch'io era un po' sostentata.
Quando si è un po' allegri, non si misurano le parole, e fanno
male a chi le sente. Ma ora non vogliate dare alcuna importanza a
quanto io dissi jeri sera. In una certa sfera di cose, non avendo
nessuna opinione delle donne, cominciando da me, ho osato di tirar
dentro nel coro anche la vostra signora. Ecco tutto. Sia dunque per
non detto quello che fu detto, e cambiamo discorso.
Il
conte, stato un momento perplesso, soggiunse poi:
-
Jeri notte avete fatto male a ridere in quel modo; ma oggi fate
peggio a tacere. Se non parlate, io andrò fantasticando cose
che forse non son vere, e che possono aggravare la condizione di chi
può essere l'oggetto de' miei dubbj.
-
Un momento fa mi avete detto che siete filosofo, ma ora parlando
così, mi fate vedere che siete un uomo come gli altri.
-
Il filosofo non ama l'ignoranza; bensì, quando intravvede un
fatto qualunque, vuol conoscerlo appieno, per sapersi regolare con
calma e con sapienza. Parlate dunque e dite tutto.
La
Falchi stava per rispondere, quando entrarono nella sala comune altri
forestieri, coi quali così il conte come la Falchi avevano in
quei giorni fatto conoscenza. Il colloquio adunque fu sospeso, e per
più di un'ora il conte dovette adattarsi a parlar di cose, che
deviandolo dal suo pensiero fisso, lo annojavano terribilmente. Tra
quei forestieri v'era l'avvocato Gambarana, venuto da Milano e
chiamato a Parigi dal marchese F... che ci stanziava da qualche
tempo.
-
E così, avvocato, gli chiese la Falchi, che effetto ha fatto
al marchese F... la notizia del testamento trovato?
-
Quando un ricco signore è in pericolo di perdere la metà
di quello che possiede, vedete bene che non può essere molto
tranquillo.
-
Ma, e credete voi?...
-
Io non posso parlare, madama, e molto meno con voi; già vi
sarà noto che il colonnello Baroggi scelse per avvocato
patrocinatore il vostro signor marito?...
-
Avete ragione, e non vado innanzi.
-
Ma questo testamento da che parte è saltato fuori? chiese il
conte Aquila che conosceva il marchese F...
-
È quello che non si sa. Il giorno 14 del passato gennajo, il
presidente del tribunale civile di Milano riceve un grosso piego, lo
apre, e nell'interno dell'involto trova scritto: Testamento
olografo del marchese F... morto il 21 febbraio dell'anno
1750. È una bagatella di sessantatrè anni fa. Da
questo testamento appare che l'erede universale del marchese defunto
è un tal Baroggi, che morì nel 92 caposquadra
delle guardie di finanza, e che fu il padre del colonnello Baroggi
che noi tutti conosciamo.
Tra
i forastieri che alla tavola comune mangiavano, sentivano e non
parlavano, v'era il noto giojelliere e minutiere Giovanni Manini di
Milano, il quale aveva bottega sotto il coperchio de' Figini e
serviva la Corte. Era venuto a Parigi per liquidare de' conti
arretrati, e il giorno prima avea parlato al vicerè
Beauharnais, tornato allora allora dalla Russia a Parigi.
Egli
dunque ascoltò per un pezzo; poi disse con quell'accento di
compiacenza orgogliosa d'un negoziante alla moda che per la sua
condizione è ammesso alla confidenza dei grandi che serve:
-
Di quest'affare me ne parlò jeri il vicerè stesso. Loro
signori già mi conoscono. Io sono il giojelliere di corte.
-
Ah sì!
disse il conte Aquila.
-
Io ebbi l'onore di fornire le gioje all'illustrissima contessa sua
moglie.
-
E come ha fatto il vicerè a sapere e a interessarsi già
di questa notizia?
-
Pochi giorni fa ritornò di Russia lo stesso colonnello Baroggi
colla bella sua moglie. Il vicerè ha della predilezione per
questo colonnello; le male lingue dicono che sia per la moglie; ma io
non so niente. Quello che so è che il vicerè mi disse
jeri queste precise parole: «Voi, che non siete più
giovane, dovreste sapere qualche cosa di un testamento stato rubato
dallo scrigno del marchese F... nel 1750, la notte stessa della sua
morte.» Nel 50, io non ero nato, gli risposi, ma di questo
fatto mi parlò cento volte mio padre, nominandomi il preteso
autore del furto.
-
E chi sarebbe questo autore preteso? domandò il vicerè.
-
La cosa è delicata, altezza, allora io dissi. Le dicerie fanno
presto a compromettere un galantuomo, e non vorrei che un vecchio, il
quale deve aver passato di un pezzo gli ottant'anni, dovesse, per
cagion mia, avere dei dispiaceri in sull'orlo del sepolcro.
V
I
nuovi interlocutori che nella sala dell'hôtel Marengo
interruppero il dialogo tra madama Falchi e il conte Aquila,
secondo le consuetudini dell'arte, avrebbero dovuto essere introdotti
in altra occasione, quando, almeno, il dialogo avesse toccato la sua
conclusione. Ma noi non amiamo le consuetudini, e spesso ci piace
d'andare a ritroso delle stesse leggi. In questo caso poi, siccome
nella realtà storica le cose camminarono precisamente come le
abbiamo esposte, e l'innesto inaspettato della nuova notizia relativa
a quel testamento, fu ed è il perno maestro di questo lavoro,
ebbe una grande influenza su altri fatti importantissimi; così
siamo perfettamente in regola se abbiamo obbedito alla legge
razionale del vero piuttosto che all'arbitraria dell'arte. Intanto,
prima di trovarci soli col conte e colla Falchi, e prima di assistere
ai loro intimi discorsi, giova sapere che il conte Aquila, che s'era
spesso congratulato col marchese F..., perchè una grande
ricchezza, forse destinata a una famiglia oscura e plebea, fosse
rimasta in quella casa patrizia, sentì con dispetto, che il
vicerè, contro il suo istituto, volesse far pesare la sua
autorità nelle decisioni giuridiche che i tribunali avrebbero
proferite per la inattesa ricomparsa d'un documento stato smarrito.
Il
discorso intorno al testamento del marchese F... si prolungò
più tempo che al conte Aquila sarebbe piaciuto, tanto egli era
impaziente di trovarsi da solo a solo colla Falchi; tuttavia vi prese
abbastanza interesse per dire all'avvocato Gambarana, quando la
compagnia si sciolse, che avrebbe desiderato di trovarlo il giorno
dopo nell'alloggio del marchese F..., nel desiderio di conoscere con
precisione quel fatto, e di far sentire in proposito il proprio
parere. Dopo di ciò, quando tutti furono usciti, e la Falchi
stava per salire nella propria camera:
-
Permettetemi, disse il conte a madama, che io vi segua. Ho bisogno di
parlarvi a lungo.
-
Signor conte, sono ai vostri ordini.
In
silenzio salirono le scale; in silenzio entrarono nell'appartamento
di madama Falchi, si misero a sedere in silenzio. Finalmente così
prese a dire il conte:
-
Vi ripeto, madama, che so di parlare con una signora di grande
esperienza, e che sa dare il giusto valore e alle cose...
-
Vi ringrazio, signor conte.
-
Fate in modo che piuttosto io debba ringraziar voi; intanto
comprenderete che io ho ragione di non lasciar cadere in terra il
tema che ieri notte, forse contro la volontà vostra, avete
messo sul tappeto.
-
Voi ne avete tutte le ragioni; ma devo anche dirvi che voi avete data
soverchia importanza alle mie parole, e che io sono sicura di vedervi
tranquillo, quando conoscerete i fatti precisamente come stanno.
-
Dunque?
-
Dunque comincio a dirvi che ho avuto torto di ridere quando mi
parlaste della virtù di vostra moglie; io non so nulla e non
posso dire nulla contro di lei.
Il
conte, a queste parole, che per verità dovevano essere
tranquillanti, si turbò e si sconvolse invece come se avesse
udita una verità crudele. La dissimulazione della Falchi gli
fece pensare che trattavasi di una cosa assai più grave de'
medesimi suoi sospetti. Egli si alzò agitatissimo:
-
Per carità, madama, parlate. Col tacere, sapete che cosa fate
voi?... Mi costringete a partir subito per Milano... e là...
Non credo che, per quanto abbiate poca stima di mia moglie, voi
desideriate ch'io l'ammazzi.
La
Falchi, ad onta del suo animo perverso, rimase percossa a queste
parole del conte, e:
-
Ma io non vi ho detto che avrei taciuto; vi ho detto soltanto che non
trattavasi di una cosa seria
e aggiungo adesso, per mettervi
tosto in sulla via giusta, che tutta la colpa è del vicerè.
-
Del vicerè?... ma come c'entra il vicerè?...
-
Se credete alle mie parole, non cominciate a contraddirmi. -
Vi ripeto adunque che se la fama di vostra moglie fu in pericolo di
essere appannata, la colpa non è di lei, povera donna, ma di
quell'imbecille impudente e invanito.
-
Ma che diavolo può essere avvenuto, che nulla me ne sia
trapelato? - Ciò è inverosimile.
-
Vi ricordate, signor conte, dell'ultima festa di corte?
-
Sono già trascorsi tre anni.
-
Ciò non importa...
-
Ebbene
-
Ascoltatemi tranquillo... Il vicerè in quella notte diede un
bacio a vostra moglie; ecco tutto.
-
Il vicerè baciò mia moglie?...
-
Un vostro amico era con me, e vide con me tutto... egli è il
conte X che potete interrogare.
-
Dunque fu uno spettacolo pubblico?...
-
No, il fatto avvenne nelle sale più interne del palazzo. Noi
due soli abbiamo veduto, e si voleva in quella notte stessa farvene
avvisato... appunto perchè vostra moglie era innocente
dell'avvenuto... e forse occorreva che voi, per vostra norma, aveste
a saper tutto.
-
E perchè non avete parlato?
-
Perchè si è poi creduto di far meglio a tacere. E si
tacque... scrupolosamente... tanto io che il conte... E ciò è
così vero, che il fatto rimase sepolto in modo che non ne
trapelò mai nulla a nessuno...
Il
conte Aquila si alzò, e passeggiò qualche tempo senza
parlare; poi:
-
Oh fossi precipitato dal Cenisio col corriere, piuttosto che metter
piede qui e veder voi e aver sentito quel che ho sentito!...
E
indi dopo qualche pausa:
-
E ora che si fa? soggiunse.
-
Vendicarsi di quel furfante vicereale, e mandarlo colle gambe in
aria...
-
Vendicarsi di un uomo perchè ha baciato una donna? la
avrebb'egli baciata se lei...
E
sedette innanzi ad una tavola, appoggiando su quella i due pugni
stretti, e tenendo fissi gli occhi sulla parete opposta come se
guardasse un oggetto.
-
Quando il vicerè osò baciarla, continuava la Falchi,
ella si sciolse da lui con violenza, e lo lasciò senz'altro, e
retrocesse sola. Questa è la pura verità.
-
Sì?...
E
il conte guardava macchinalmente la Falchi, come chi sembra inteso ad
una cosa e ne pensa un'altra.
-
Davvero, essa continuava, che non avrei mai creduto che un fatto
simile fosse per darvi tanto fastidio... Già si sa che quando
uno sfacciato s'è messo in testa di baciare una donna, non ha
bisogno d'interpellare il suo consenso... È come se un
borsaiuolo vi rubasse l'orologio... Sarebbe strano se si pensasse che
il derubato è complice.
Stato
assai tempo sopra pensiero, il conte a poco a poco si ricompose, si
fece dignitoso e quasi solenne:
-
Voi avete ragione. So chi è mia moglie e di lei non faccio
alcun sospetto... Ora soltanto vorrei che il vicerè fosse un
uomo che a ricevere uno schiaffo, mandasse il dì dopo i
padrini a casa mia.
-
Sarebbe uno schiaffo gettato. Egli è il vicerè... voi
siete un privato... quindi, perdonatemi, sareste trattato come un
pazzo... E non avreste nemmeno la compiacenza d'andare in prigione...
perchè per qualche tempo dovreste assoggettarvi all'aria
malsana della Senavra, e a sentire gli urli dei furiosi... Il povero
Celestino Marelli, mercante di pannine (credo bene che vi sia nota
quella storia), il quale bastonò il vicerè in borghese,
fingendo di prenderlo per un altro quando usciva dalle stanze di sua
moglie... ha dovuto adattarsi a vivere coi matti sei mesi. Capisco
che voi appartenete ad uno dei primi casati di Milano... Capisco che
siete riverito in paese pel vostro nobile carattere e per la vostra
sapienza... ma, in faccia a chi è padrone d'uno Stato, ed ha
la forza ed è prepotente, così i grandi come i piccoli,
quando stanno al disotto ed hanno ragione, son tutti eguali.
-
Di che paese è padrone il vicerè?... Vorrei saperlo.
Noi siamo i padroni, perdio, e con un calcio io sbalzerò colui
lontano mille miglia.
-
Ah, adesso parlate bene, e cominciamo ad intenderci.
-
Fra un anno Napoleone sarà all'inferno; e fra un anno il
vicerè non sarà più nè padrone nè
servo.
-
A questo solo si deve provvedere.
-
Ma i servi del servo devono tutti andar a spasso con lui.
-
Purchè si sappia fare.
-
E cominciando da uno dei più cari e più assidui amici
di casa vostra...
-
Io non ho amici.
-
Se non voi, che non amate i vecchi, si sa però che vostro
marito accende tutti i giorni la sua candela all'altare del Prina.
-
Se la accende, non è per devozione, fidatevi di me. Eppoi ci
sono delle novità. Ecco quel che mi scrive mio marito...
guardate qui, leggete: da qui a qui.
Il
conte, dopo aver letto un brano di lettera, levò gli occhi in
faccia alla Falchi e disse:
-
Io me l'aspettavo. Tuttavia, conosco i Milanesi, e i loro malumori
sono fuochi di paglia.
-
Ma voltate la carta e vedrete di peggio...
-
Sì... vedo che due volte hanno affisso sulla porta della sua
casa in S. Fedele...
-
Avete visto?... un cartello colle parole. Prina, Prina,
il giorno si avvicina.
-
Oh
ci dò poco valore. Son le solite pasquinate
i
Milanesi in ciò son famosi, ma cane che abbaia non morde.
-
Sarà come voi dite. Ma io ho scritto a mio marito di pregare
il Prina a star lontano da casa nostra.
Intanto
che la Falchi parlava, il conte, a caso scorrendo il resto della
lettera, s'imbatté in queste parole che gli fecero senso: Oh
se andasse al diavolo prima della scrittura.
La
Falchi, vedendo che il conte fermava l'occhio oltre il passo della
lettera da lei segnatogli, fu presta a cogliere un pretesto per
levargliela di mano; ciò che accrebbe la prima sorpresa di
lui. Per verità egli non aveva traguardate che quelle sole
parole; ed esse potevano riferirsi a tutt'altra persona che al
ministro Prina, ma uno strano sospetto gli era penetrato in mente;
sospetto che noi ora non possiamo nè distruggere nè
accertare, e intorno al quale lasceremo che il lettore pronunzii
spontaneo il proprio giudizio, quando si troverà in cospetto
di altri fatti.
VI
Lasciando
questo incidente, e tornando al tema del precedente dialogo:
-
Domani andrò a Milano, proseguì il conte. L'umore d'una
popolazione non si può conoscere davvero se non le si vive in
mezzo. Vedrò e sentirò. Tutto per altro dipende
dall'esito delle nuove battaglie; l'esito momentaneo, intendiamoci,
perchè del finale mi tengo sicuro.
-
Se andate a Milano, fate di vedere il Milordino che fu con me
testimonio della sfacciataggine del principe. Sentendo lui prima di
parlargli di me, vedrete che alla pura verità non ho aggiunta
nè levata una sillaba. Ed ora vorrei pregarvi di una cosa.
-
Che cosa?
-
Che la buona e brava signora contessa non debba avere nessun
dispiacere per quello che vi ho riferito.
-
Siate tranquilla; io sono sicuro della sua innocenza. Io non le
parlerò giammai di questa avventura. E voi, madama, dovete
promettermi di non parlarne mai con nessuno. Il vostro silenzio vi
sarà compensato... con usura... quando si tratteranno cose di
ben più grave momento.
-
Ho taciuto tre anni, posso ben tacere tutto il resto della mia vita.
-
Mi annoja però che il Milordino siasi trovato con voi quella
notte.
-
Esso è vostro amico, ed è nemico del vicerè.
Quando io lo pregai di tacere, mi rispose che se si fosse risolto di
parlare, non lo avrebbe fatto che con voi solo.
Dopo
queste parole, il conte Aquila, serio ma tranquillo in apparenza, si
licenziò da madama Falchi.
Abbiamo
detto in apparenza; e in fatti quando fu solo passeggiò
agitatissimo lungo la Senna. Il suo orgoglio non gli aveva permesso
di dare alla Falchi lo spettacolo d'un marito geloso, furioso e
tradito. Egli, come Alboino, non voleva degnarsi di domandar conto ad
altri della fedeltà della moglie; egli lo diceva, e doveva
bastare. Ma quell'orgoglio, in ragione che gli avea comandato di
atteggiarsi da uomo calmo, gli avea addensato tanto livore e fiele
nel fegato, che sentiva la tentazione di mordersi le mani per dargli
uno sfogo meccanico qualunque. Egli pensava che se sua moglie fosse
stata innocente, sarebbe stata e avrebbe dovuto essere la prima a
manifestargli l'atto sfacciato del vicerè; pensava che questi
doveva avere troppo timore di lui, per osare quell'atto, se non fosse
stato certo che la contessa avrebbe taciuto. E qui, richiamandosi in
mente le parole del vicerè, e le lodi da lui ricevute a nome
dello stesso imperatore, si sentiva doppiamente umiliato, perchè
sospettava che quella grande stima di S.M. poteva essere invenzione
del vicerè stesso per abbonirlo e ingannarlo e tradirlo.
Sentiva,
per conseguenza, che non solo il vicerè non lo stimava, ma lo
disprezzava come qualunque altro uomo volgare, credendolo degno di
prenderlo al laccio e di scornarlo poi. E qui, invece di provare
compassione per sè, che si era lasciato ingannare; di nutrire
ira pel vicerè, che lo aveva disprezzato, sentiva colmarsi il
petto di un veleno e di un odio mortale contro la propria moglie;
argomentando che per sola sua colpa era nato tanto scandalo. -
Povera donna! ed era innocentissima!
Il
giorno dopo si recò a far visita al marchese F..., nella cui
casa trovò anche l'avvocato Gambarana di Pavia:
-
Prima di tornare a Milano, sono venuto a trovarti, marchese.
-
Ti ringrazio, e ti prego di un piacere. So che qui l'avvocato t'ha
informato della lite che m'è stata intentata dal Baroggi.
Ebbene, avrei bisogno che tu parlassi al ministro di giustizia; so
che lo conosci... e che ti mettessi in comunicazione coi due
presidenti del tribunale e con quanti giudici tu puoi. Qui
all'avvocato fu scritto che il vicerè, in tono minaccioso, ha
già fatto sapere a quei signori ch'egli voleva essere
informato dell'andamento di tutta la procedura, e che avrebbe
vegliato perchè si adempisse alla più scrupolosa
giustizia. E anch'io voglio la giustizia; ma dico nello stesso tempo
che il vicerè comincia ad infrangerla col far pesare la
propria autorità sull'opinione dei giudici.
-
Il ministro di giustizia è più tremante del vicerè
che dell'imperatore. I due presidenti poi tremano del ministro.
Dunque per quella via non c'è da fare nulla, marchese: ma io
me ne occuperò in ogni modo; è tempo di farla finita
anche con questo asino prepotente di vicerè. Eppoi, eppoi...
le liti giuridiche sono solite ad andare fino alle calende greche.
Dio sa dove sarà Beauharnais quando uscirà la sentenza
finale dei tribunali!
-
Ma non vorrei che intanto mi si sospendesse l'amministrazione della
sostanza in quistione... Starei fresco, caro conte!
-
È qui il nodo, soggiunse l'avvocato.
E
su questo tema quei signori continuarono a parlarne per un pezzo, e
ne parlarono ancora quando accompagnarono il conte fino all'Ufficio
delle Messaggerie del Moncenisio, il giorno della partenza di lui per
Milano.
Come
allorquando vediamo un piccolo nuvolo in sull'orizzonte, che non
sembra dover turbare per nulla la tranquillità del cielo; ma
poi quasi facendosi incontro ad altro nuvolo che non si sa donde
siasi spiccato, si congiunge e s'ingrossa con quello, e a poco a poco
altri si accumulano in modo che chi guarda può benissimo aver
timore di un temporale; così, per caso, vennero a congiungersi
in Parigi e il conte Aquila e la Falchi, poi l'avvocato Gambarana e
il marchese F... e il vicerè, e il colonnello Baroggi, che
rimasto pochi giorni a Parigi, era tosto partito per Milano.
La
rivelazione di un fatto improvvisò di punto in bianco un
nemico implacabile a Beauharnais; una quistione giuridica di indole
puramente privata, per influenza onnipotente dell'interesse, avvicinò
un altro patrizio al conte Aquila, nel desiderio di vedere in rovina
il figlio adottivo di Napoleone; la Falchi, sollecitata dall'auri
sacra fames, ci fece presentire un altro temporale, che dovrà
scaricarsi su altre teste. Vedremo, tornando a Milano, di che qualità
sarà la grandine.
VII
La
sera del 12 aprile il conte Aquila entrava in Milano da Porta
Vercellina. Egli aveva già dato avviso al maggiordomo del
proprio arrivo e indicatone anche il giorno e approssimativamente
l'ora. Dopo il dialogo avuto colla Falchi non aveva più
scritto alla moglie; soltanto nelle lettere dirette al maggiordomo,
gli aveva sempre lasciato l'incarico di porgere alla contessa i
proprj saluti. Come un re di Spagna non poteva mancare a nessuna
legge del cerimoniale domestico; d'altra parte non voleva tradire
alle persone di servizio i proprj segreti. La carrozza di casa era a
pigliarlo all'Ufficio delle Messaggerie. Era notte tarda quando
l'androne del suo palazzo risuonò del rumore delle ruote e
dello scalpito dei cavalli.
La
contessa si sentì rimescolare il sangue a quel rumore. Era
gioja? era dolore? Non lo sappiamo. Probabilmente era l'effetto d'uno
di quei sentimenti indefiniti che da qualunque cagione derivino, non
fanno mai bene alla salute.
Per
quanto ci dà la nostra esperienza, ben di rado avviene che al
ritorno d'un marito in casa propria da una lunga assenza, risvegli il
buon umore in coloro che hanno l'obbligo di aver sentito un gran
vuoto per la sua lontananza. Spesso noi abbiamo assistito al ritorno
più o meno atteso di qualche marito, e sempre abbiam dovuto
conchiudere che colui avrebbe fatto un gran buon effetto a non
ritornare così presto. Per caro che sia un marito, per quanto
penelopea possa essere una moglie, la presenza di lui implica sempre
sudditanza, obbedienza, impaccio. Perfino gli amici e le amiche di
casa se ne risentono. Quante volte, seduti a lieta mensa, a mensa
innocente, intendiamoci bene, dove l'allegria la più schietta
animava la brigata invitata dalla vice gerente moglie; a un
tratto vedemmo dileguare la generale festività all'improvviso
annunzio recato in tavola insieme colla zuppiera: È
arrivato adesso il signor padrone!
Ben
è vero che all'entrare che fa il padrone nella sala comune, la
moglie gli si fa tosto incontro con mille gentilezze, ed è
perfino capace di baciarlo; gli amici e le amiche di casa vanno in
cerca delle più belle espressioni per festeggiarlo; ma non
bisogna fidarsi delle apparenze; ma dopo pochi minuti i visi sono
tutti aggrondati, cominciando da quello del marito, che non era
preparato a trovar tanta gente in casa. Il lettore non può
immaginarsi l'avversione che, in generale, noi abbiamo per i mariti;
essi sono i veri autocrati della vita intima, senza sindacato e senza
equilibrio di poteri; è tanta la paura che abbiamo di loro,
che abbiamo paura persino di noi stessi; giacchè il lettore
deve sapere, e lo diciamo perchè si accorga che siamo in buona
fede, che anche noi, sebbene senza vocazione, ci troviamo ascritti
alla sterminata camorra di coloro che hanno rinunziato alla
libertà, per il barbaro diletto d'impacciare l'altrui.
Non
è dunque ad immaginare come si respirò in casa Aquila
durante la lontananza del conte; come la servitù sentì
tutta la beatitudine dell'obbedienza volontaria che avea prestato a
quell'angelo della contessa; come questa fosse lieta di trovarsi in
mezzo a tanta gente che la servivano adorandola; come ella poi,
trovandosi a tutto suo agio e libera dall'orrido incubo maritale,
avesse già messo sulle guancie, fatte più piene, un
lieve color di rosa, il quale era scomparso dal giorno che dal
collegio passò nelle spire del suo serpente sacramentale,
stato benedetto dal signor curato!
Quando
si pensa alla leggerezza crudele onde i genitori gettano le loro
figliuole inesperte nelle mani del primo che capita, senza esaminare
previamente il carattere intimo, senza conoscere le abitudini, spesso
anzi non curando la pubblica fama che, se non sempre, qualche volta è
un surrogato delle leggi impotenti: quando si pensa al numero
sterminato di agonie tormentose e lunghissime subite da tante e tante
infelici che i mariti hanno ammazzato in tutta pace, e persino
nell'apparente e recitata bonomia delle pareti domestiche, e senza
nessuna revisione legale; quasi si dura fatica a trovare
indispensabile l'instituzione del matrimonio; e senza quasi, la
coscienza spaventata si ribella ai codici invalsi.
Allorchè
il conte Aquila, salito lo scalone, fu per entrare nel proprio
appartamento, la contessa, insieme colla propria madre, che per caso
quel giorno trovavasi là, fu sollecita a muovergli incontro.
Ma il conte la salutò severamente, secondo il suo costume;
salutò la madre secco, e comandò al maggiordomo, ch'era
là anch'esso, di seguirlo in camera. Dopo alcuni minuti,
stando la madre e la figliuola nel gabinetto di questa ultima,
sentirono la voce del conte alterata e iraconda, e il maggiordomo che
di lì a poco uscendo dalle stanze del padrone, diceva
sottovoce:
-
Non si può più vivere in questa casa.
S'egli
è vero che, per consueto, i padroni di casa, come tutti coloro
che esercitano un'autorità qualunque, provocano in chi li
avvicina un sentimento il quale, anche allorquando le indoli son
buone, insieme coll'amore e col rispetto, tien tuttavia in deposito
qualche elemento di tedio e di pena; figuriamoci poi che tristissimo
effetto essi sono destinati a produrre quando i caratteri sono
orgogliosi, acri e tempestosi, e l'affetto non li riscaldò mai
nemmeno durante il fuggitivo corso della luna di miele: un senso
assiduo come di paura impaccia ogni pensiero, ogni gesto, ogni atto
della povera moglie e di quanti sono condannati ad obbedire ed a
servire in casa. Il conte Aquila, già lo sappiamo, apparteneva
a questa genìa spaventosa dei tiranni domestici. Il
maggiordomo non aveva ricevuto dal padrone che rabbuffi e parole
crude per ogni menoma cosa che non gli fosse piaciuta; o un avaro ed
un austero silenzio quando ne aveva indovinata ogni volontà. I
servi e le cameriere si presentavano ai suoi ordini con pauroso
rispetto; la moglie non differiva dai servi che per il posto
gerarchico, il quale però contribuiva ad accrescere la sua
rispettata servitù.
La
contessina chiamò in gabinetto il maggiordomo:
-
Che cosa ha il conte? gli disse.
-
Io non so più, signora contessa, che cosa fare. Nemmeno il
Padre Eterno, se venisse al mio posto, potrebbe accontentarlo. È
andato in sulle furie perchè ho affittato al colonnello
Baroggi l'appartamento del secondo piano. E consideri, signora
contessa, che prima di partire, fu egli stesso a darmi l'ordine di
affittarlo anche a qualche ufficiale dell'esercito, se si fosse
presentato. Adesso si lamenta perchè ci sarà l'incomodo
delle ordinanze e dei cavalli che vanno innanzi e indietro. Ma doveva
saperlo anche prima, mi pare.
-
Abbiate pazienza. Domani non si lamenterà più, quando
saprà che il colonnello e sua moglie sono due buonissime e
gentilissime persone... Ora andrò là io a dirgliene
qualche cosa.
-
Signora contessa, la consiglio a non andarci. Mi ha detto che era
stanco, e voleva andar subito a letto, e mi ordinò di non
lasciar entrar nessuno da lui: chiunque sia.
-
Ma io non sono un conoscente qualunque che venga a fargli visita.
-
Questo lo so... ma volevo dire, che nemmeno lei lo troverebbe di
lieto umore.
La
contessa stette in forse perchè, pur troppo, conosceva suo
marito; ma d'altra parte pensò che a non farsi vedere la prima
ora del di lui arrivo, era un atto di trascuranza non perdonabile ad
una moglie; si recò dunque al di lui appartamento; bussò
leggermente alla porta, e con quel suo accento naturalmente soave, e
in quel punto fatto più tenue e gentile dalla titubanza:
-
Si può entrare? domandò.
-
A domani, contessa, rispose bruscamente il conte; sono già a
letto, e voglio dormire.
Ella
tacque: stette ancora in forse; poi con voce che quasi non si poteva
sentire:
-
Felice notte, - disse, e partì assai pensierosa, perchè
il conte non si era mostrato mai come allora tanto scortese con lei.
VIII
Il
giorno dopo il conte ricevette molte visite di conoscenti, e fu con
loro affabile e loquacissimo; tra le altre ebbe anche quella del
conte X.
-
Chi mi avvisò del tuo arrivo fu la moglie dell'avvocato
Falchi, la quale mi scrisse da Parigi. M'annunzia che s'è già
messa in viaggio, e mi prega di passare da te.
-
Non ti scrisse altro?
-
Null'altro. Di che si tratta?
-
Di un'inezia. - Siedi. - Madama a Parigi mi raccontò
la scena comica dell'ultima festa da ballo data a corte.
-
Che scena comica? Non so niente io...
-
Allora vuol dire che sarà tragica. Tutto dipende dal modo con
cui si piglian le cose.
-
Ti prego a spiegarti.
-
Diavolo! non hai tu visto il vicerè a far la corte a una dama
e a darle un bacio?
-
Ah... sì... ma passò tanto tempo, che quasi non me ne
ricordava più...
-
È dunque vero?
-
Quello che è vero è vero. Ma la moglie dell'avvocato ha
fatto male a mettertene a parte.
-
Ha fatto benissimo. - E tu, come amico, avresti dovuto essere
il primo a parlarmene. Vedi bene che mia moglie non ci ha nè
colpa nè peccato, nè io non avrei mai potuto adirarmi
con lei; però, credimi, che se tu avessi detto tutto quella
notte stessa, sarebbe stato meglio.
-
Son sempre cose che fanno dispiacere... Ma tua moglie non te ne disse
nulla?
-
Veramente no... cioè... mi diede a capire qualche cosa
e
più d'una volta mi fece sentire la sua avversione per il
vicerè, e un'altra volta si rifiutò di venire a un
pubblico convegno dove il principe doveva venire... Ma io ci passai
sopra, nè feci domande... e se non era madama Falchi, non
avrei saputo precisamente com'è corso il fatto. In ogni modo,
bada di non parlar mai di ciò a mia moglie. Il tempo stringe,
gli avvenimenti incalzano; e si vuole mandare colle gambe in aria il
vicerè; nè vorrei mai che mia moglie e i suoi parenti e
gli amici credessero che io sono diventato un nemico del vicerè
per quest'avventura tutta da ridere. Zitto adunque, caro conte, e
pensiamo a far cambiar faccia al paese. - Fra due o tre
settimane l'imperatore entra in campagna. - Dei prodigi ne
farà ancora, ne son certo; ma sarà per poco. -
Il suo tempo è finito, e deve cominciare il nostro. Gli
elementi devono essere al tutto nuovi. Nessun uomo dovrà
salire al potere, il quale sia stato adoperato e straccato dal
governo imperiale.
In
questo mentre un servitore bussò alla porta, entrò, e
disse:
-
È in anticamera il signor colonnello Baroggi, il quale prega
di essere introdotto.
-
Digli che sto chiuso con un amico per affari, e che se vuol
ritornare... Ma no, è meglio farlo entrar subito.
-
Pare anche a me.
-
Ma è il Baroggi dell'eredità?
-
Non ce n'è altri; è il colonnello.
-
Ma sai tu che tutta Milano parla di questa faccenda?
-
È naturale... Ma il testamento anderà in fumo... Sono
passati sessantatrè anni; e come si fa ad asserire che il
documento presentato in tribunale non sia una mistificazione, una
contraffazione, una commedia?
-
Sono curioso di vedere in faccia questo signor colonnello.
-
Fermati, e lo vedrai.
-
Esso è il marito della contessina S...
-
E chi non lo sa?
-
Quella ragazza stravagante e pazza, degna veramente di esser figlia
di quello scavezzacollo del conte S..., porta ancora l'elmo e gli
stivali alla dragona?
-
Essi abitano in casa mia al secondo piano. Capitando qui potrai
vederla.
Il
servitore spalancò la porta, e si presentò il
colonnello Baroggi col braccio destro avvolto in una custodia di
cuojo e appeso al collo, e tenendo l'elmo nella sinistra.
IX
Il
lettore che, dopo i fatti di Roma, vide già il Baroggi alla
caccia di Lainate impegnato in un grave alterco con Foscolo, che finì
poi colla più calda amicizia per parte d'ambedue, ed oggi lo
rivede in casa Aquila; avrà desiderio di sapere che cosa è
avvenuto di lui e di donna Paolina in tutto il tempo decorso. Il
Baroggi, subita l'operazione della spalla, guarì compiutamente
in capo a due mesi. Il colonnello S... in quell'occasione fu più
volte a visitarlo, e ne' giorni che, dopo l'operazione chirurgica,
parve che il capitano versasse in grave pericolo di vita, esso fu il
primo a proporre, sposasse dal letto donna Paolina. Le destre furon
congiunte, tra le lagrime degli sposi e degli astanti e il dolore più
cupo del conte S...; chè in quel dì appunto, infierendo
l'infiammazione, il chirurgo avea quasi tolta ogni speranza di
guarigione. Ma tante angosce si rivolsero nella più schietta
gioja quando il pericolo cessò. Il conte S... parve trasmutato
in tutt'altr'uomo e non v'erano carezze che non facesse alla
figliuola. Ma venne il dì del distacco. La divisione del
general Massena lasciò Roma; e il colonnello S... dovette
partire col reggimento.
Il
capitano Baroggi, perfettamente ristabilito in salute, raggiunse il
presidio di Bologna, lasciando la moglie in Roma, dove diede in luce
un figliuolo. Nei rovesci del 99 lasciò l'Italia con lei. Nel
1800 passò il gran San Bernardo col primo console; alla
battaglia d'Austerlitz ebbe il piacere di rivedere il suocero, allora
generale di brigata, ma dal dì stesso divise colla moglie il
dolore per la morte di lui sul campo di battaglia, dove una palla da
cannone lo rovesciò da cavallo. Venuto a Milano,
nell'occasione che Eugenio Beauharnais fu fatto vicerè
d'Italia, entrò nel suo stato maggiore. In quel tempo collocò
a pensione nel collegio Calchi Taeggi il proprio figlio,
raccomandato alle cure speciali della contessina Ada, che, rimasta
sola a Milano, per esser morta nel 1801 in vecchissima età la
contessa Clelia, ripose in quel fanciullo ogni affetto, ed ebbe per
lui tutte le sollecitudini. Seguito il vicerè in tutte le
battaglie in cui questo si trovò, ebbe parte con esso anche
nella campagna di Russia, dove fu colto nel braccio da una palla di
fucile rimbalzata.
L'accoglimento
che il conte fece al colonnello fu quello di un re non costituzionale
e affetto dal mal di fegato, che adempie all'etichetta, senza dire
nessuna parola confortevole a chi si presenta all'udienza. Discorsero
della campagna di Russia; del generale Pino e de' suoi disgusti col
vicerè; il conte domandò al colonnello in che luogo e
in che modo egli era stato ferito; parlarono anche del testamento, e
il conte non mancò di significare al colonnello che la
protezione del vicerè gli pareva dover riuscire più di
danno che di vantaggio; gli chiese inoltre se esso sapeva da che
parte e da che mani quel testamento aveva potuto sbucar fuori. Dal
lato suo il Baroggi, disgustato di quell'accoglimento, rispose secco
e stando sempre sulle generali, e infine si accommiatò,
soggiungendo che si recava negli appartamenti della signora contessa
a levare la propria moglie. Il conte allora, spinto dalla curiosità
più che dai riguardi del galateo, si alzò anch'esso, e
seguì il colonnello, dicendo che gli piaceva di far la
conoscenza di una donna ch'era stata di sì forte animo da
seguir sempre il marito alla guerra.
Donna
Paolina, vestita nella sua completa divisa di dragone, stava seduta
accanto alla contessina Aquila, e teneva la mano di lei nella
propria, quando il conte ed il colonnello entrarono. Chi non avesse
conosciuto l'esser suo, l'avrebbe creduto un giovinotto amante, tutto
intento a corteggiare la propria dama. Donna Paolina si alzò
all'improvvisa comparsa del conte; alta e snella e leggiadra, e cogli
occhi saettanti come quelli della Camilla di Virgilio. Il conte, che
non l'aveva mai veduta, fu colpito da quello spettacolo. Esso era
duro e non avea cuore; ma il sangue lo aveva, e quella donna, vestita
in quella foggia e così diversa da tutte le altre, gli mise
sossopra il sangue. Se non che, considerandola una conquista
impossibile, l'ebbe tosto in avversione, come un fatto che umiliava
il suo orgoglio; e parendogli, sotto il lavoro di quella stessa
umiliazione, ch'ella fosse altera e sprezzante, sentì crescere
la tentazione di nuocere a lei e a suo marito in quanto poteva. Il
conte Aquila era un perfetto cavaliere, nè mai sarebbesi
degnato adoperare armi oblique e insidiose a danno di chicchessia; ma
in quell'occasione, anche perchè gli premeva che la ricchezza
rimanesse al patriziato e non alla gente oscura, si sentì
irresistibilmente portato a volere il loro danno.
In
quel giorno non avvenne altro di considerevole; i coniugi Baroggi si
recarono dall'avvocato Falchi, per sentire in che posizione si
mettevano i loro interessi; l'avvocato Falchi diede loro le più
belle parole del mondo; ma in quel dì stesso invitò a
pranzo l'avvocato Gambarana, perchè non c'è legge la
quale proibisca ad un avvocato di mangiare un boccone in compagnia
dell'avversario.
Il
conte Aquila, incumbenzato dal marchese F
, fece una visita al
giudice a cui dal presidente del tribunale era stata affidata la
trattazione dell'eredità Baroggi; quel giudice, che era il
cavaliere F..., aveva tanto ingegno e criterio e sapere legale
quant'era scialacquatore e dissestato ne' proprj affari; circostanza
di cui il conte Aquila era stato informato, e della quale avea
pensato di trar profitto. Il signor giudice fece intendere al conte
che quell'affare era stato chiamato espressamente dal ministro Luosi;
non ommettendo però di conchiudere, con quell'arte fina che
accenna senza lasciar traccie le quali possano compromettere, che il
Luosi doveva pensare ai casi proprj, per la medesima ragione onde il
vicerè non era ben sicuro sul proprio cavallo. Per questo
affare privato, che pure doveva avere la sua influenza sulla pubblica
cosa, il conte non ebbe dunque motivo di lagnarsi in quel giorno;
come ebbe assai ragioni di portar la testa più alta e di avere
gli occhi più provocanti del solito, allorchè, parlando
cogli amici, sentì da tutte le parti che gli elementi del
pubblico malumore erano sufficienti a rovesciare due governi, non che
uno. Sentì con gioja i fallimenti colossali di tre o quattro
case commerciali, che avevano rovinato per consenso tutto il piccolo
commercio dipendente; tra gli altri quello del negoziante Bignami,
che dovette fuggire perchè già da un anno era creditore
verso il governo di più di un milione, e il suicidio d'un
fratello di lui; sentì con piacere come il ministro Prina, con
acutissimo ingegno, inventando sempre nuovi modi vessatorj per cavar
danaro, fosse stato cagione che in quei giorni una grossa mano di
popolo tumultuasse minaccioso innanzi al palazzo del Broletto; e in
più borgate e villaggi contemporaneamente i contadini
insorgessero, e si presentassero al Comune armati di badili e forche
per l'accrescimento del testatico.
X
Il
cielo rimase così per molto tempo ingombro di nubi minacciose
al governo francese; ma un giorno, e fu il 5 maggio, corse una voce
che, del resto, da molti era aspettata; la voce di una clamorosa
vittoria riportata da Napoleone; essa venne confermata dal bullettino
della grande armata, e cento colpi di cannone annunciarono
officialmente la vittoria di Lutzen. Il cielo si rischiarò. Il
vicerè Beauharnais ebbe l'accorgimento di ritornare a Milano
subito dopo i cento colpi. Il negoziante Bignami, che era fuggito a
Parigi e che era stato visto dal vicerè stesso, fu da questo
confortato a ritornare subito a Milano, colla promessa che tosto il
governo lo avrebbe rimborsato; e Beauharnais mantenne la promessa ed
ajutò la casa Bignami; lo che fece pure con altre ditte
commerciali, che avevano dovuto soffrir danno per i mancati pagamenti
delle casse governative.
In
que' giorni avvenne a Milano un rivolgimento strano.
Non
pochi dei vecchi padri di famiglia, che nel 96 potevano contare dai
quaranta ai cinquant'anni, avevano serbato qualche simpatia per il
governo di Maria Teresa sotto cui eran nati, per il governo di
Giuseppe II e di Leopoldo sotto cui eran cresciuti. Parliamo della
parte meno squisita della popolazione; di quegli uomini di pasta
volgare, onesti ma pregiudicati, inaccessibili alle idee nuove,
testardi nelle loro consuetudini; di quelli che andavano ancora in
calzoni corti, in calze e scarpe con fibbie; che portavano ancora la
coda col chiodo, che per lungo tempo avevan serbato un austero
silenzio con quei figliuoli che l'avevan tagliata senza il permesso;
e che avean minacciato di scacciare il giovine di banco se mai avesse
osato lo stesso: presso a poco come, in tempi a noi vicinissimi ed
anche oggidì, sebbene rarissimamente, non si vuole da qualche
padrone di negozio che il maneggiante porti i baffi, perchè
crede incompatibile colla onestà il labbro coperto di peli. I
figliuoli di costoro, cresciuti nelle idee nuove e attratti dallo
splendore della gloria di Napoleone, non avean parole che
d'entusiasmo per lui, e avean costretto a tacere i padri
incorreggibili che crollavano la testa, ma che avean paura di
compromettersi a parlar chiaro. Ora, pel cambiarsi dell'orizzonte
politico dalla fine del 12 ai principj del 13, s'era cangiato scena
anche nell'interno delle famiglie. I padri che credevano d'aver
sempre avuto ragione, cominciarono a investire con sarcasmo e peggio
i figliuoli. Questi, che per tanti anni s'erano avvezzati a non aver
mai torto, non voleano lasciarsi soverchiare dalle vecchie
ostinazioni ricalcitranti. Insomma l'ora del pranzo, che per consueto
è consacrata alle consolazioni dello stomaco e alla pace
domestica, diventò invece l'ora più tempestosa della
giornata.
Non
eran molte quelle case dove ogni giorno non succedessero liti
d'inferno per argomento politico. E per vero, il pubblico disastro in
quegli ultimi giorni era andato tant'oltre, che a poco a poco ai
giovani venne a mancar l'eloquenza, crescendo, di rimpatto, la
petulanza dei vecchi e dei codini (allora questo vocabolo era
in senso proprio e non traslato), al punto che non si poteva più
vivere nelle loro mani.
Ora
può immaginarsi il lettore come le acque che s'eran gonfiate
per deflusso retrogrado, rifiorirano impetuose e rumoreggianti quando
venne la notizia della vittoria di Lutzen, quando s'udirono dal
Castello i cento colpi di cannone; quando ritornò il vicerè;
e come questi ebbe medicate, coll'intento di abbagliare il facile
volgo, molte piaghe pubbliche e private, venne vivamente applaudito
da quella parte di pubblico che gli stava d'intorno nell'occasione
che comparve a una rivista militare. I giovani tornarono ad avere il
sopravvento sui vecchi; i gallomani fecero tacere tutti quelli che
erano affetti dalla tabe austriaca. E il medesimo avvenne in seno
alla terza fazione, la quale era men frequente di uomini di vero
ingegno: la fazione di coloro che ripugnavano dai ricordi austriaci
come da un cadavere; e volevano sferrarsi dalle braccia della Francia
imperiale come da un prepotente. Il conte Aquila, che era il capo di
una dozzina di patrizj i quali costituivano appunto il nerbo di
questa fazione, ricevette un colpo mortale dagli ultimi fatti,
sebbene gli avesse e preveduti e pronosticati, e fosse persuaso che
non dovessero aver che l'effetto di una meteora. Ma non s'era
aspettato che il pubblico dall'oggi al domani si trasmutasse così
repentinamente, ma non s'era immaginato che il vicerè, del
quale negli ultimi mesi si era detto tutto il male possibile, e che
partendo nel 1812 per la guerra, aveva attraversata la folla in mezzo
al più cupo silenzio, dovesse al suo ritorno essere ricevuto
da così festose acclamazioni.
All'intento
di scrutare il pubblico pensiero, egli s'era confuso nella folla
quando il vicerè si mostrò alla rivista. Insieme col
seguito di lui aveva veduto il colonnello Baroggi con accanto la
moglie in assisa militare: gli parve il vicerè guardasse
troppo spesso a quella virago, ricordante i tempi greci e romani; e
allora, ricordandosi di ciò che aveva udito a Parigi dal
giojelliere Manini relativamente alla protezione che Beauharnais avea
accordato al Baroggi, sentì un nuovo e fortissimo dispetto per
tal fatto. Non aveva veduto che una volta sola la moglie del Baroggi,
e sarebbe morto piuttosto che rivolgere a lei una parola sola che
significasse ammirazione e simpatia, tanto egli era superbo e duro e
strano; pure il pensare che quella donna poteva essere posseduta
precisamente da colui ch'egli da un mese abborriva con tutta la forza
di un odio rovente, gli fece provare una sensazione indicibile.
La
moglie del Baroggi apparteneva a quel genere di donne fatali, che per
dove passano lasciano il segno, anche a loro insaputa, anche contro
l'espressa loro volontà. Il suo fascino consisteva non
nell'esser più bella delle altre; chè anzi, a rigore di
regole accademiche, parecchie potevano superarla; ma nell'essere una
specialità che si distingueva da tutte; specialità
accresciuta dal suo vestire soldatesco, e dall'elmo e dagli stivali
alla dragona.
Ad
un maestro di pittura e scultura che avesse voluto far la critica
artistica di quella donna, si poteva rispondere quel che rispose
Cherubini al suo allievo Halévy, quando questi diceva che
Rossini non sapeva l'armonia: Se non la sa, la inventa.
Il
lettore però non voglia accogliere le dicerie che allora
corsero sul conto di lei. Donna Paolina non aveva amato che il suo
Baroggi; esso era stato il primo e l'assiduo amor suo; era stata la
liberissima scelta del suo cuore; il matrimonio venne fatto senza
interrogar l'interesse, il dio consueto dei connubj; la
simpatia reciproca di quei due giovani fu così forte e
legittima e onnipotente, ch'era riuscita a superare tutti gli
ostacoli che il mondo si affanna ad inventare, quasi iracondo che la
natura possa qualche volta avere il suo libero corso. La vita del
campo, e i pericoli continui delle battaglie, che alimentano tra i
soldati le più profonde amicizie, contribuirono a mantenere ed
accrescere quel santissimo affetto. Per quanto e per quante volte
quella donna fosse stata tentata, e per quante splendide e geniali
apparenze di amatori le fossero comparse dinanzi, ella non sentì
per nessuno mai neppure una simpatia leggera; a Roma un ufficiale
francese s'era gettato nel Tevere, disperato ch'ella non volesse
corrispondere all'amor suo; ella fu dolente di quella sventura, ma
non si cangiò. A Dresda un giovane generale di brigata, dopo
averle indarno protestato amore, minacciò di vendicarsi, le
giurò che avrebbe trovato il modo di rovinare la carriera di
suo marito; se non che avendo tentato di mettere su di lei le mani
villane, essa col piatto della sciabola gli ammaccò il viso in
modo, che comparve deriso fra gli squadroni di cavalleria, e fu
poscia degradato.
In
quanto al vicerè, è facile imaginarsi come, con quella
sua indole procace e sulfurea, rimanesse preso la prima volta che
vide quella donna, e, misurato il terreno in lungo e in largo con
sguardo rapidissimo, facesse mille disegni di vittoria, di conquiste
e d'impero; perciò promosse il Baroggi da capo squadrone a
colonnello; gli fece tenere la Corona ferrea che, per verità,
avea meritata più volte, ma che allora come adesso e come
sempre, quando si tratta di decorazione, se non c'è chi la
cerchi e la voglia per forza, non cade mai spontaneamente dall'alto
come l'acqua piovana. Ai bivacchi militari e alla tenda vicereale
invitò sempre lui, perchè c'era lei. Venne però
a sapere le storie di Roma e gli fu poi riferita quella di Dresda, la
quale gli fece l'effetto come di chi ha comperato uno stupendo
cavallo e poi sente che ha il mal del montone; ed accostatosi a lei e
tenutole più d'un discorso e calato qui e là lo
scandaglio, non tardò molto ad accorgersi di fenomeni
insoliti; d'un clima straordinario; della presenza, insomma, del
diamante che taglia, ma non si lascia tagliare.
Nè
il vicerè, in questa circostanza, si comportò come
tutte le altre volte che gli era riuscita a male una conquista. Non
si sentì offeso; non si allontanò dispettosamente dalla
donna desiderata; non si vendicò gettando insidie ai parenti,
ai fratelli, al marito, o col sospenderli da qualche impiego, o
coll'impedire una promozione. Per la prima volta non fece nulla di
tutto ciò, e stette contento a poter veder spesse volte quella
donna eccezionale, a sentirla parlare, a vederla sorridere. Siccome
poi gli giunse all'orecchio che qualche voce maledica aveva messa
anche colei nel novero delle donne ch'esso aveva corteggiate e gli
avevano corrisposto, si sentì completamente appagato
nell'orgoglio, e non cercò altro, senza tentare di distruggere
quelle dicerie; che anzi fece di tutto, per quanto era in lui, onde
accrescere le apparenze che potessero ajutare l'altrui credulità.
In
quanto a donna Paolina, ella si sentiva così in regola colla
propria coscienza, così forte e superiore, che non si dava un
pensiero al mondo dei sospetti e delle dicerie; nè altrimenti
si comportava il colonnello suo marito. Egli, come Bajardo, era un
cavaliere senza paura e senza macchia, malgrado quel tal bacio
ricevuto dalla contessa A..., che per certe leggi del galateo
mascolino non aveva potuto rifiutare; e ai più caldi tra i
suoi amici, che, presente donna Paolina, gli avevano fatto osservare
come taluno avesse notato la eccessiva deferenza che il vicerè
mostrava per loro, rispondeva che, a voler tener dietro a tutte le
fluttuazioni dell'opinion pubblica, non era sperabile di avere tregua
mai; ch'egli non aveva altro fine al mondo che di essere contento di
se stesso; che tutt'al più, se qualche voce più precisa
gli fosse andata all'orecchio, e avesse conosciuto l'uomo che avesse
parlato di loro, il suo squadrone avrebbe fatto giustizia.
Ma
lasciando il sereno ambiente della famiglia Baroggi, passiamo a
delinear le scene dell'estrema catastrofe del regno italico.
XI
Siamo
ai 27 dicembre dell'anno 1813. Il teatro della Scala è aperto
al pubblico; è incominciata la stagione di carnevale; non
ostante la notte chiusa e nera, e la neve che cade a larghi fiocchi,
il pubblico vi si è affollato, e la fila delle carrozze non
manca di far ingombro alle vie del Giardino e di S. Giovanni alle
Case. L'opera è l'Aureliano in Palmira del maestro
Gioachino Rossini; il ballo è l'Arsinoe del coreografo
Gioja. Calata la tela dopo il primo atto, fra clamorosi applausi alla
Correa ed al Velluti, qualche frazione della platea e alcuni
palchettisti si versano nelle sale del Ridotto dove, fin dalle sette,
accigliati e cupi, stanno i professionisti e i dilettanti della
rolina, indifferenti ai progressi della musica ed alle coscie della
ballerina Millier.
In
quella sala del Ridotto che sta dietro alla sala maggiore, e che,
nell'inverno, è confortata dalla presenza del camino, un
cerchio di persone tutte in piedi stavano intorno ad un cerchio
minore di persone sedute al camino, sul quale ardeva della bragia in
consunzione. Tra le persone sedute, chi attirava l'attenzione di
tutti era un vecchio di anni 127 (diciamo centoventisette anni), ed
era quel maestro Galmini, di cui parlammo già indietro, che,
nato nel 1687, doveva morire 138 anni dopo; e fu il caso più
straordinario di longevità che siasi presentato nell'evo
moderno. Ancor sano e vegeto, sebbene un po' indebolito nelle gambe,
da Parigi era venuto a Milano nell'autunno, ed aspettava la primavera
per ridursi finalmente a Firenze sua patria.
Non
aveva mai sentito la musica di Rossini, e quella sera volle recarsi
in teatro per farsi un'idea del genio del maestro ventiquattrenne, di
cui si pronosticavan prodigi.
-
Mi ricordo, diceva quel vecchio, con voce un po' fievole, mi ricordo
dello scalpore che si fece quando il maestro Monteverde, io allora
era un ragazzotto, mise in rivoluzione tutta la musica; son passati
più di cento anni da quel tempo. In confronto di questo
giovinotto, che è come l'organo di una cattedrale, quel
maestro assomigliava agli organetti che insegnano il canto agli
uccelli; eppure allora era detestato da tutti i suoi colleghi per il
troppo rumore che aveva introdotto nella musica. Ora io sento a dire
lo stesso di questo giovane, e i vecchi gli sono tutti avversi, e
anch'io lo sarei, se avessi la metà degli anni che ho. Ma a
questa età trovo giusto quello che non mi sarebbe sembrato
mezzo secolo fa. In che modo stia quest'affare, non so. Ma forse
avendo vissuto il doppio degli, altri, or mi trovo d'accordo coi
giovani; press'a poco come chi, alla corsa dei fantini, avendo
avanzato gli altri d'un giro intero, finisce col trovarsi in
compagnia degli ultimi. E questo non avviene soltanto in musica;
parlo della musica perchè sono in teatro, e perchè fu
la mia professione; ma in tutto il resto m'è riuscito così.
Mi ricordo quando giunsero in Italia le prime opere di Rousseau e di
Voltaire. Io allora viaggiavo dai cinquanta ai sessant'anni, e quei
libri mi scandolezzavano assai mentre la gioventù vi spasimava
dietro. Or venne il famoso 89; io aveva vedute a quel tempo tante e
così orrende cose nel mondo, e comprendendo tutt'intera la
verità, compresi anche quello che non piaceva agli uomini di
60 anni e metteva in esaltazione i giovani di venti. I giovani
capivano per istinto, io per esperienza. Avevo fatto mezzo giro di
più che tutti gli altri uomini. Il sangue che si versava in
Francia allora, trovavo che non era una strage inumana, ma bensì
la cura dei salassi abbondanti fatti all'umanità minacciata di
apoplessia. Io mi trovai d'accordo coi giovani in quest'idea. E
adesso, anche adesso mi accorgo che io non vado d'accordo che colla
gioventù, sempre per la medesima ragione. Tutti i giovani,
meno i coscritti che scappano perchè son fatti scappare dagli
uomini maturi e dai vecchi, tutti i giovani vedono con dolore i
disastri dell'imperatore, mentre i vecchi e gli uomini maturi, anche
allorquando non lo dicono, danno a divedere che non hanno altro
desiderio che di vederlo caduto, e per sempre. Vissi in questi ultimi
mesi a Parigi; nel ritorno ho attraversato lentissimamente la
Francia; mi accorsi che dappertutto è così. Ora io
domando: che cosa sarà per succedere di bello quando Napoleone
sarà caduto? Se adesso mi sento giovane colle idee, allora
ritornerò giovane di fatto, perchè il mondo avrà
fatto un passo indietro di cento anni. Mi si dice che Napoleone è
un tiranno. Ma si diceva lo stesso anche di Giulio Cesare; e vorrei
sapere che cosa avvenne di bene nel mondo dopo che quelle teste
esaltate di Bruto e Cassio e compagnia, lo han mandato al diavolo?
-
Ma se egli cade, perchè i suoi nemici sono più numerosi
di lui e perchè l'Europa è stracca, di chi è la
colpa, signor maestro?
Chi
parlava era il conte Aquila. Il vecchio Galmini volse a quelle parole
la testa verso il conte che stava dietro di lui, e gli disse:
-
Il signore che parla, quanti anni ha, se è lecito?
-
Trentasette, maestro.
-
E allora è troppo vecchio per me. Non è possibile che
c'intendiamo; e si alzò, un po' tremolante, e dicendo al
giovane che gli stava presso e lo ajutava del braccio: - È
tempo di ritornare in palco, perchè il secondo atto sarà
incominciato, e la musica è men pericolosa della politica.
La
maggior parte degli astanti tennero dietro a quel vecchio degno dei
patriarchi e della Bibbia, e che faceva l'effetto di un indice e di
un sommario storico. Non rimasero vicino al camino che il conte
Aquila con cinque o sei amici, tra i quali trovavasi quel Giocondo
Bruni di nostra antica conoscenza, che in quel giorno stesso era
arrivato da Parigi e da quel tal conte, cognominato il Milordino,
era stato presentato all'Aquila.
Tra
il conte Aquila e il Bruni si avviò allora un dialogo, che noi
abbiamo la fortuna di poter riportare quasi testualmente perchè
ci fu riferito dal Bruni medesimo.
XII
-
E così, incominciò il conte Aquila, che cosa ci porta
di bello da Parigi?
-
Le porto un NIHIL, signor conte.
-
Che cosa significa questo nihil?
-
La vera posizione dell'Europa, della Francia e dell'Italia in tal
momento.
-
Vale a dire?
-
La parola nihil è composta di cinque lettere, ciascuna
delle quali rappresenta un regnante che se ne va a spasso. Questa
nuova interpretazione della parola latina fu fatta a Parigi in questi
ultimi giorni. Dieci dì fa, in tutti i caffè di Parigi,
una tale parola metteva in esercizio l'acume di tutti gli avventori.
-
Or che cosa le pare, signor conte, che possa significare N?
-
Oh! Napoleone.
-
Benissimo, ella è già in via, e può andare
avanti da sè... dunque prosegua: che cosa significa I?
-
Re che comincino coll'I non ne conosco.
-
Traduca il nome in latino.
-
Allora sarà un fratello di Napoleone.
-
Benissimo.
-
Joseph.
-
Joseph, re di Spagna; poi viene un'H.
-
S'ha ancora a far la traduzione latina?
-
Mi pare.
-
Dunque sarà l'altro fratello: Hieronimus, il re
d'Olanda.
-
Ottimamente.. e l'altro I?
-
L'altro fratello è Luigi... Ludovicus.
-
Lo tengo per l'ultimo, e avremo provveduto alla lettera L. Or
rimane l'I di mezzo.
-
Non può essere che Murat, Giovachino, Joachim.
-
Ecco fatta la spiegazione del nihil, l'estremo risultato di
tanta potenza, e di tanti re sfumati in nebbia. Queste satire bastano
a dimostrare qual è lo spirito pubblico di Parigi. Ma qui ne
tengo un'altra, ed è il ritratto dell'imperatore.
-
Oh vediamo!
-
Ecco qua.
-
Come? l'imperatore con quattro gozzi?
-
Bisogna guardare a quello che 'è scritto su ciascuno di essi.
-
Veggo un S, un I, un R, un E.
-
Che vuol dir Sire.
-
Il sale non abbonda in questa combinazione di lettere.
-
Adagio, signor conte. Tutte insieme significano Sire, ma ad
una ad una hanno altri significati: S vuol dir Spagna, I
Inghilterra, R Russia, E Egitto, ossia tutti i regni e
imperi che Napoleone s'è provato di ingojare, e gli si
fermarono nella gola, trasformandosi in quattro enormi gozzi.
-
Caro signor Bruni, la ringrazio dei nihil e dei quattro
gozzi imperiali. Queste satire sono più fedeli del
barometro. I giornali possono dir quello che vogliono; i bullettini
dell'armata possono divertirsi ad alterare le cifre del dare e
dell'avere come un contabile del demanio; ma la gran voce del
pubblico europeo non inganna e non s'inganna quando appende sui canti
delle pubbliche vie le sue sentenze capitali in istile bernesco.
Anche la mano di Meneghino può scrivere il suo mane thechel
phares, e consacrare a morte i contemporanei Baldassari. Oggi,
allorchè il domestico venne a riferirmi quel che fu scritto
sulla porta della casa del ministro delle finanze, ho pensato che per
quell'uomo tutto è finito.
-
Io giunsi in tempo di leggere il cartellone.
-
Che cosa vi si diceva precisamente?
-
Oh, uno scherzo semplicissimo, ma tremendo. V'era scritto: Casa
d'affittare: Ricapito al dottor Scappa.
-
Il pubblico, malgrado di tutte le bugie del Giornale Italiano;
malgrado ch'abbia sempre sentito a magnificare le luminose e continue
vittorie dell'esercito francese, è riuscito a comprendere,
senza tanti studj, che un esercito di 500 mila uomini che dalla
Slesia ritorna al Reno e si concentra nelle fortezze della Francia,
non va innanzi ma indietro; e nel tempo stesso ha capito che è
un modo affatto nuovo di vincere quello del vicerè, il quale a
forza di battere il generale Hiller, ha dovuto cedergli il Tirolo, il
Mincio e il territorio Veneto. E la viceregina fu fatta partire
immediatamente, nonostante il suo stato di salute. Ho sentito dire
che il ministro Veneri s'è messo giù colla febbre; che
Luosi è diventato graziosissimo co' suoi subalterni. Soltanto
il ministro Prina è insensibile a tutto, e ride dei colleghi
tremanti; e questa sera ha voluto perfino mostrarsi dal suo
palchetto.
-
Egli si diletta a sfidare l'opinione pubblica. Ultimamente, quando si
trovò scritto su tutti i muri: Prina, Prina, il giorno si
avvicina; poco tempo dopo inventò la tassa sui capitali
ipotecarj. Ora non mi farebbe gran senso, se presto mettesse una
tassa sugli affitti, a proposito della sua casa d'affittare.
-
È una gran testa però, bisogna confessarlo.
-
Una gran testa! e chi non saprebbe fare altrettanto? non è
questione di testa qui, ma di coscienza. Allorchè la forza
costringe all'obbedienza i cittadini, non c'è sacrifizio che
lor non si possa imporre. Il talento d'un finanziere non consiste in
un sistema perpetuo d'espilazioni vessatorie; ma bensì
nell'aprire nuove fonti di pubblica ricchezza, giovando allo Stato
senza nuocere al cittadino. Ora il ministro Prina fece tutto
all'opposto: non ha servito che ai capricci istantanei
dell'imperatore, senza pensare alle conseguenze; egli ha fatto come
quegli agenti che, per non sentire i rimproveri del padrone giocatore
e violento, invece di pensare a migliorare le campagne, mettono mille
angherie sui contadini, i quali un bel giorno finiscono poi col dar
fuoco al fienile e col mettere la falce al collo dell'agente. Ora se
qui sta la testa, io non so che cosa dire. Ma oramai siamo allo
stringere del nodo.
-
Dopo tutto, se c'è un uomo al quale il regno d'Italia dovrà
render grazie infinite, è appunto il ministro Prina.
-
In che modo?
-
È presto capito. Avendo messo le mani in tasca a tutti, ha
disgustato tutti; e così dato un disastro, ha reso impossibile
la durata del governo.
-
Per questo lato merita una statua, è verissimo.
-
Ma ora mi permetta, signor conte, di fare alcune considerazioni.
Quand'io sento parlare d'un governo che cade, domando sempre qual
sarà il suo successore. Io vengo da Parigi. A Parigi già
si pensa ai Borboni. Posso dire che non v'è altro pensiero
colà. Ma c'è una cosa che mi rincresce, ed è che
vogliono intrigarsi dei fatti nostri; e pretendono non ci sia altri
che l'Austria, la quale possa sanare le nostre piaghe. A Parigi ci
sono degli agenti austriaci. Io ne ho conosciuto uno, che, se non mi
sono sbagliato, mi pare d'averlo visto là in fondo a un
tavolino da giuoco. Sarebbe bene che ciascuno di noi lo avvicinasse.
Egli va facendo reclute.
-
Fatemelo conoscere, che lo tasterò io, disse il conte Aquila.
-
Or vado ad assicurarmi se è lui; dopo il signor conte potrà
fare il resto.
XIII
Nel
mentre costoro lasciavano il camino, entrava il ministro Luosi,
accompagnato dal giudice cavaliere F...
-
È arrivato oggi; e stasera è a teatro; diceva il
secondo.
-
In teatro?
-
Ritenete che questo è stato un felicissimo pensiero; fu
l'avvocato Strigelli, che lo ha suggerito.
Egli
conobbe assai dappresso il Suardi, e non è la prima volta che
gli ha teso le reti. L'uccello però è di rapina, e ha
sempre rotte le maglie col becco.
-
Stando a quello che mi disse lo Strigelli, quest'uomo dovrebbe essere
ben vecchio.
-
Credo che possa avere da 83 a 84 anni.
-
A questa età la testa si confonde; e se la cosa viene da lui,
parlerà, lo vedrete.
-
Non è facile però a capir la ragione dell'avere esso
tenuto presso di sè il testamento per tanti anni.
-
La ragione, se non è chiara per gli altri, egli l'avrà
avuta.
-
E allora, per che motivi ha pensato di mandare il testamento al
tribunale?
-
Il motivo, secondo l'avvocato Strigelli, ci sarebbe.
-
E quale?
-
Una vendetta.
-
Converrebbe ch'io parlassi allo Strigelli.
-
Vi dirò io tutto. Il marchese F... possedeva nel Piacentino un
fondo limitrofo a un altro del Suardi. Ora ci fu tra loro una lite
per un diritto d'acqua che importava la somma di un mezzo milione; il
marchese vinse la lite, e fu lo stesso avvocato Strigelli che lo ha
assistito. Il Suardi, il quale, non so per che ragioni, ha sempre
fatto dei dispetti al marchese, rimase scornato e indignato per il
mal esito della causa; e, com'è probabile, avrà pensato
a rovinarlo col far saltar fuori il testamento trafugato. Così
almeno la pensa l'avvocato Strigelli.
-
La congettura è acuta. Ma non posso credere che un banchiere
in ritiro, un vecchio di 80 anni, padrone di due o tre milioni,
voglia rischiar d'andare in galera, dopo averla cansata tante volte e
con tanta abilità, se almeno si vuol credere a quel che si
raccontava e si racconta, per il dispetto d'aver perduto mezzo
milione.
-
Sapete, signor giudice, cosa dovreste fare?
-
V. E. comandi.
-
Tentar di parlare al Suardi questa notte medesima. L'ora tarda, la
confusione, lo sbalordimento del teatro, la vecchiaja che cede alla
stanchezza, il trovarsi con voi non preparato... potrebbe finalmente
vincere la natura della volpe, e lasciar aperto uno spiraglio alla
verità.
-
Davvero che ci ho pensato.
-
Se riuscite a fare il colpo, voi fate sbalordire tutta la città,
e non so che ricompense potreste aspettarvi dal vicerè...
-
Il mio attuaro è in platea; per suo mezzo mando pregare il
Suardi a darmi un abboccamento.
-
Fate; io ritorno nel mio palchetto.
Partiti
che furono il ministro Luosi e il giudice F..., entrarono nella sala
e sedettero al camino il ministro Prina e l'avvocato Falchi.
-
In questa lite tra il marchese F... e il colonnello, diceva il Prina
continuando un discorso incominciato prima, un avvocato, credetelo a
me, può farsi un onore immortale.
Il
Falchi ascoltava e taceva, ma con una certa espressione del volto, da
indicare che era tutt'altro che disposto a far tesoro degli altrui
consigli. - Non però sappiamo se il ministro se ne
fosse accorto.
-
Tutta Milano parla di questa lite; l'importanza le viene innanzi
tutto dalla ingente ricchezza che è in controversia; poi dalle
persone che sono in conflitto. Il marchese F
colle sue
originalità, col suo carattere duro e pretino, co' suoi viaggi
in Europa, colla sua antipatia al governo, ha dato nell'occhio a
tutti i suoi concittadini; il colonnello Baroggi, per le sue storie
passate, per le scene tremende avvenute col suocero, per l'indole
romanzesca di sua moglie e per la sua bellezza, ha provocato
l'interesse e la simpatia dell'universalità. È una vera
fortuna che a voi sia toccato di patrocinarlo. Ma ciò che
rende ancor più interessante questo fatto, è la storia
antica, e che si credeva dimenticata, di questo testamento; ed oggi è
l'improvvisa comparsa a Milano del banchiere Suardi, che sessanta o
settant'anni fa era lacchè in casa F..., ed ebbe poi a
sostenere un lungo processo per essere stato fortemente indiziato
d'aver fatto scomparire il testamento del suo padrone.
-
Causa più bella e più strana e più atta a far
rumore di questa non mi è mai capitata... Voi dite benissimo,
Eccellenza. Ma la decisione di essa non può dipendere che da
una perizia calligrafica. L'avvocato ci ha poco o nulla a fare.
Aggiungete che questa medesima perizia sarà difficile a
compirsi; perchè non si può dare una perizia senza
confronto; e del marchese F..., il quale si presume aver lasciato un
testamento olografo, non rimangono scritture di sorta. Esso era un
gaudente ignorantissimo e fannullone, che non adoperò quasi
mai nè penna nè calamajo.
-
Ma qui appunto può mettersi in mostra l'abilità
dell'avvocato.
-
Qui.... dove?
-
Nel tentar la via per venire al possesso di qualche sua scrittura;
intanto fu un pensiero quello del cavaliere F...
-
Quello forse d'aver intimato al Suardi di comparire in tribunale?
Scusate, Eccellenza, ma a me sembra un'idea assai storta. Il vecchio
Suardi (io ebbi a che fare con lui) è tal volpe da metterci
tutti in sacco.
-
L'avvocato Strigelli non è del vostro parere.
-
Mi piacerebbe tanto a sapere che cosa sia riuscito a far lo
Strigelli, quando fu alle prese col Suardi. Costui era un lacchè...
ed ora è un milionario beato e trionfante... e se ha qualche
cosa di cui debba lamentarsi... è la vecchiaja, la quale non
gli fu inflitta nè per l'acume giuridico dello Strigelli, nè
per sentenza del tribunale.
-
Caro avvocato, io non ho fatto che mettervi in sull'avviso; voi
sapete che questa causa sta molto a cuore al vicerè... Egli
stesso ha saputo dalla mia bocca che era nelle vostre mani... e
Vedremo, mi disse, se colui ha l'abilità che tutti dicono.
-
Eccellenza, voi potete bene imaginarvi s'io ho volontà di
farmi onore in questa faccenda...
-
E allora sono sicuro dell'esito. Or venendo ai fatti nostri, domani
verrò a casa vostra. Abbiamo da ultimare quell'affare dei boni
del tesoro che la vittoria di Lutzen ci ha fatti vendere così
bene... C'è poi anche quel capitale... non indifferente... che
è lì da un pezzo... fin da quando i fondi del monastero
di S. Giuseppe e di S. Prassede furono incamerati.
XIV
Come
chi, dovendo governare una operazione di guerra, spedisce una
divisione in un dato punto, un'altra in un altro; dispone una brigata
a dominare una via; un distaccamento a proteggere un passo; ciascuno
dei quali corpi, in sul primo, sembrano non aver relazioni tra di
loro, nè mirare ad un intento comune; ma, a suo tempo,
dovranno congiungersi per spiegare le loro forze riunite in una
battaglia decisiva, così dobbiamo fare anche noi coi diversi
drappelli dei nostri personaggi.
Nell'ultimo
capitolo abbiamo spediti il conte Aquila co' suoi aderenti a vegliare
i passi di un emissario austriaco. Poi abbiamo messo il lettore
nell'aspettazione di due colloquj: l'uno tra il giudice F... e il
decrepito Galantino; l'altro tra il ministro Prina e l'avvocato
Falchi. Abbiamo inoltre accennato a nuove cose e nuove persone.
Queste
disposizioni sembrano estranee affatto l'una all'altra; ma se il
lettore avrà pazienza e starà attento, vedrà
esservi un punto in cui tutte verranno a convergere e ad unirsi.
Cominciamo
intanto dal promesso colloquio tra il ministro Prina e l'avvocato
Falchi. Il fatto che ne costituisce il tema non risulta legalmente
provato da documenti scritti e d'irrefragabile autorità, ma
soltanto dalle relazioni di testimonj auricolari e d'uomini degni di
fede. Noi sentiamo l'obbligo di avvisare di ciò il lettore
dichiarando che lasciamo a lui la piena libertà di dare al
fatto stesso quella valutazione che gli parrà meglio; solo
bastando a noi di consegnare alla storia nuovi dati, che
possano condurre a trovare il valore di alcune incognite da
essa contrapposte, per tutta risposta, alle domande dei contemporanei
e dei posteri.
Secondo
l'intelligenza, la sera dopo il dialogo nel ridotto della Scala, il
ministro Prina, poco oltre le undici di notte, s'incamminò
pedestre alla casa dell'avvocato Falchi, che non era lontana nè
dal teatro della Scala, nè dalla piazzetta di S. Fedele.
L'avvocato
lo attendeva nel proprio studio. Madama Falchi era ancora in teatro.
Nell'anticamera
sedeva un servitore, che si chiamava Camillo Guerrini, uomo
obbediente, paziente, fedele, imperturbabile agli strapazzi di
madama; ma curioso fino all'indiscrezione, e che senza volerlo, ma
solo per un bisogno dell'indole sua, aveva l'abitudine di raccontare
a' suoi amici, tutta gente inscritta nella camera dei cocchieri e dei
cuochi, ogni minimo interesse de' suoi padroni; e, perchè non
mancasse mai materia alle sue chiacchiere, non perdeva mai nè
d'occhio nè d'orecchio tutto quanto si faceva e si diceva in
casa Falchi.
Quel
servo aprì la porta al ministro, dopo averlo annunciato. Indi
ritornò in anticamera e si mise a sedere con
quell'atteggiamento floscio e cascante di chi, non potendo mai
dormire abbastanza, ha sempre sonno e sempre dorme. Il lettore però
voglia ricordarsi del proverbio: Uomo che dorme, gatto che
sbircia. E per ora basti di lui.
Il
ministro entrò e disse:
-
Bravo, avvocato, siete stato di parola.
-
E quando ho mancato?
-
Sono venuto a piedi, e non mi son fatto accompagnare da nessuno,
nemmen dal servitore. Di più ho lasciato il teatro prima
dell'arione di Velluti, perchè so che vostra moglie da quel
momento non si potrebbe staccarla dal parapetto del palco nemmen
cogli argani. È necessario che siam soli, affatto soli.
-
Qui non c'è nessuno.
-
Voglio che mi promettiate inoltre che vostra moglie non debba saper
nulla degli affari nostri. Ecco perchè ho lasciato il teatro
un'ora prima.
-
Io non dirò nulla; ma sapete com'è quella donna; eppoi
bisognerebbe che non avesse saputo mai nulla...
-
Allorquando abbiam comperato per un milione e mezzo in tanti boni del
tesoro...
-
Non dovete ignorare, eccellenza, ch'ella stessa andò per
quest'oggetto a Parigi...
-
Lo so... ma vi avevo raccomandato di farle credere, che erano
o proprietà vostra, o di qualche altro vostro cliente.
-
Ho fatto quello che ho potuto... ma non posso assicurarvi,
eccellenza, ch'ella non abbia sospettato sieno roba vostra.
-
Ebbene, fin qui non c'è gran male; soltanto è
necessario che non sappia il resto. Ed ora veniamo a noi: -
per quell'affare si è quasi raddoppiato il capitale, non è
vero?
-
Ve l'ho già detto: io tengo in deposito due milioni e
centocinquantamila lire, che ho collocate sul banco di Genova. Ecco
qui la regolare ricevuta e i documenti relativi ch'io depongo nelle
vostre mani, per tutto quello che può succedere.
-
Se li avessi voluti, ve li avrei già cercati; ma per ora non
voglio tener nulla presso di me. Vi conosco per uomo onesto e
rettissimo, e mi fido, starei a dire, più di voi che di me.
-
Eccellenza, vi ringrazio... ma dalla vita alla morte... è
sempre bene...
-
Come avvocato dovete avere il vostro repertorio; per conseguenza non
potrà esser mai che il mio possa parer vostro...
-
Questo è vero... ma... per tutto quello che può
succedere... torno a ripetere... amerei di essere in regola.
-
Questi sono altri ricapiti.
-
Che cosa avete qui, eccellenza?
-
Guardate.
-
Un vaglia del banchiere Bignami per lire quattrocentosessantamila. Un
mese fa, eccellenza, potevate accendere la candela con questo vaglia.
-
Ma oggi invece lo dò a voi, perchè domani mandiate al
suo banco a riscuotere il denaro. Se la casa Bignami s'è
rifatta da morte a vita, lo deve a me. Sono io che ho scritto al
vicerè. Sono io che ho consigliato ad ajutar quella casa. Se
il fratello del Bignami avesse domandato prima il mio parere, non
avrebbe fatto la corbelleria di bruciarsi il cervello. Voi dunque
domani vi farete sborsare il denaro: il signor Bignami è già
avvisato.
-
Sarete obbedito, eccellenza!
-
Or veniamo alla conclusione. Io ho potuto salvare la casa del Bignami
ed altre case bancarie e commerciali, perchè il vicerè
ha eseguito il mio consiglio. Ma non ho potuto salvarle tutte. Il
tempo dei miracoli è passato. La casa Bonel ha dovuto fare un
capitombolo. Gorio, per le sue prodigalità, è stato
messo sotto amministrazione. Raschisi ha rassegnato tutti i suoi
beni. Guglietti vuol vendere la sua villa e i suoi fondi sul lago
Maggiore. La somma che tenete in mano e i danari che riscuoterete
domani, dovrebbero bastare per far l'acquisto delle case e delle
campagne di costoro, prima che vadano all'asta pubblica. I danari
pronti e sonanti potrebbero essere un'esca alle amministrazioni, e
noi potremmo fare un buonissimo affare. Pensate voi a questo, e
comperate tutto a nome vostro, o per persona da dichiararsi. Di me
non voglio che si sappia e si dica nulla. Non è il momento.
-
Eccellenza, con queste vostre disposizioni, che quasi mi sembrano
testamentarie, voi mi mettete in grande timore. Ma, in conclusione,
che cosa pensate sarà per nascere da questo orrendo temporale
che ci minaccia e continua da tre mesi?
-
Quello che suol sempre succedere dopo i temporali. L'aria più
fresca, il sereno più netto, il sole più ridente.
-
Uhm!!! Vorrei crederlo anch'io. Ma intanto, perchè mi avete
dato gli ordini che mi avete dato?
-
Ma per potere appunto godere a suo tempo dell'aria, del sereno e del
sole che verrà. Ora non posso dissimularmi ch'io sono
detestato dai Milanesi. È fuoco di paglia, lo so; com'è
un fuoco di paglia l'odio che si porta all'imperatore e al vicerè.
Ma intanto convien mettere al sicuro quella ricchezza colla quale si
è tutto quello che si vuole, e senza della quale si è
nulla.
-
Ma che cosa dunque, eccellenza, sarà per succedere?
-
Io voglio pensare al peggio possibile...
-
Ebbene...
-
L'imperatore sarà battuto e costretto a ritirarsi in Francia.
-
E poi....
-
Non vi basta? Ma credete voi che l'imperatore d'Austria voglia
lasciar senza regno il marito di sua figlia? Tutto ciò adunque
che può accadere di peggio è che Napoleone debba
accontentarsi della Francia, e restituire quanto ha tolto agli altri.
In questo caso le sconfitte frutteranno a lui e ai sudditi un
benessere che non si sarebbe mai potuto ottenere colle vittorie. Le
vittorie e le conquiste sono acque di fiume che straripa; tutto è
minacciato, tutto va sossopra. Solo la calma ritorna quando le acque
si acquietano nel loro letto naturale.
-
Ciò potrà andar bene per la Francia. Ma il regno
d'Italia? Questa è roba rubata.
-
Rubata? a chi?
-
All'Austria, che la reclamerebbe per diritto.
-
Essa non può vantar diritti nè maggiori nè
minori di quelli di Napoleone; ma non parliamo di diritti. Non ci
sono diritti a questo mondo. Soltanto s'insegnano nelle Università
e si parla d'essi nei codici; e anche alle Università ed anche
nei codici, vediamo che non sono altro che un complesso dei fatti
stati imposti primitivamente dalle autorità arbitrarie e della
forza e della scienza. Ma, tornando al regno d'Italia, se Francesco
II non vorrà che sua figlia rimanga senza corona, la
viceregina Amalia starà garante perchè suo marito non
resti nè a piedi nè a cavallo. Soltanto è
necessario che gl'Italiani, e segnatamente i Milanesi, non facciano
l'asino e che, per giuocar di puntiglio, non si rovinino per sempre.
Ma ciò non accadrà, lo spero; essi saranno fortunati a
loro dispetto. Napoleone sarà l'imperator della Francia,
Beauharnais sarà il re d'Italia. Fate che vada questa
combinazione di cose, ed avremo una pace lunga e beata. Allora si
accorgeranno i Milanesi che ho adoperato i loro danari per fare la
loro fortuna. Oggi Napoleone dee essere sostenuto. Il pubblico danaro
è indispensabile a ciò. Solo allora che l'imperatore
starà chiuso nella sua Francia, e Beauharnais sarà il
re d'Italia, tutte le tasse saran diminuite della metà e più,
se sarà bene. Tutte le classi dei cittadini ad un tratto si
troveranno allora più ricche, e proveranno la consolazione di
quei pupilli sempre torbidi e malcontenti, i quali, giunti all'età
maggiorenne, si accorgono finalmente che il tutore aveva ragione di
non aver lasciato loro troppo denaro in tasca, e d'averlo invece
impiegato a lauto frutto. I Milanesi mi benediranno, ne son sicuro.
Ma intanto bisogna aver pazienza e stare in guardia, perchè se
l'amore è futuro, l'odio è presente.
Dette
queste parole, il ministro si alzò, salutò l'avvocato
Falchi e partì.
L'avvocato
uscì con lui dallo studio, ordinò al domestico che
sonnecchiava in anticamera di far lume a sua eccellenza; l'accompagnò
egli stesso fin sul pianerottolo della scala, poi si ritirò
nella stanza da letto. Guardò le ore: erano le dodici e mezzo.
XV
Madama
può tardar pochissimo a tornare, pensò tra sè. È
inutile ch'io vada a levarla. Una buona fiammata, e andiamo a letto.
Ravvivò
il fuoco; mise due fascinetti sugli alari, sedette, scorse le ultime
notizie del Giornale Italiano, si alzò, e colle spalle
rivolte al camino, stette pensando molte cose; infine si spogliò,
si calcò fin sotto le orecchie la berretta da notte, e si
cacciò sotto le coltri.
Mezz'ora
dopo entrava madama.
-
Già a letto, eh? disse ella all'avvocato con accento agro.
Potevo dormire in teatro stanotte se aspettavo te.
-
Con tanti cavalieri serventi che ti fanno avanguardia e retroguardia,
era certo che non avresti dormito in palchetto. E così come ha
cantato il musico Velluti?
-
Sempre come un dio. La R... ne è innamorata.
-
Davvero? Bravissima! questo è un buon affare per suo marito,
che si lamentava d'aver troppi figli. Il Velluti è un amante
da coltivare; per lui non crescerà la famiglia.
-
Che maniera di parlare!
-
Sta a vedere che madama si scandalizza...
Madama
non rispose, perchè nello spogliarsi e nello slacciarsi il
busto, s'incontrò in un nodo così fisso e testardo che
la fece prorompere in una filza di bestemmie degne di qualunque
briffalda.
Vista
discinta a quel modo, malgrado le bestemmie e la faccia proterva e la
beltà assai matura, non era niente affatto una donna da gettar
via.
Alla
fine diede una strappata robusta e violenta alla cordicella, che si
spaccò, e potè levarsi il busto.
Allora
s'accostò al camino; con un movimento affatto virile e plebeo,
pestò con un piede sulla legna, per accostarla e riadattarla;
fece un po' di fiamma; poi:
-
Stasera, disse, è stato qui il ministro, eh?
-
Chi te l'ha detto?
-
C'è stato o non c'è stato?
-
Sì che c'è stato.
-
Dunque, che fa a te se l'ho saputo piuttosto dal Biggia che dal
portinajo.
-
Niente mi fa.
-
Ma quando, stando nel tuo studio, ti capiterà qualche sassata
nei vetri, allora ti farà qualche cosa.
-
Faremo aggiustare i vetri.
-
E la testa te la farai aggiustare quando te l'avran rotta bene?
-
Se ho da dirti la verità, non ti capisco.
-
In teatro più d'uno e più di due e più di tre,
mi han detto che tu fai malissimo a continuare questa maledetta
relazione col ministro; m'han detto che perderai ogni clientela e
diserterai lo studio; e quando tutti i leccazampa imperiali e
vicereali dovranno far fagotto e mettersi in coda ai carriaggi del
vicerè, anche tu dovrai fare i tuoi bauli, perchè
l'aria di Milano diventerà assai malsana per te. E queste son
cose che io già ti dissi mille volte.
-
S'io dovessi ascoltar te, farei dei bellissimi affari.
-
Come sarebbe a dire?
-
Sarebbe a dire che, tanto a te che a' tuoi calabroni, s'è
riscaldato un poco il cervello.
-
Se io ho il cervello riscaldato, tu hai un cervello d'asino.
-
Obbligatissimo alle sue grazie. Deve sapere però, madama, che
se il ministro è stato qui, è perchè si trattò
d'affari importantissimi; la mia professione la conosco
discretamente, e non son di quelli che piglian mosche.
-
Cogli altri lo so... ma col ministro, in tanti anni che lavori per
lui, non ho sentito che aria ed odor di fumo. Non v'è al mondo
uomo più sordido, più avaro e indiscreto di lui.
-
Tu parli perchè hai la bocca.
Qui
madama investì il marito con parole della più insolente
trivialità. L'avvocato sentiva e non parlava. Madama continuò
per un pezzo a sagrare con la rapidità di un mulino a vento.
L'avvocato,
che subiva al pari di uno schiavo l'influenza e il dominio di quella
donna uomo:
-
Via, le disse per calmarla, vieni a letto, e dormi tranquilla, che
domani ti dirò qualche cosa che non ti spiacerà.
Madama
tacque un momento, si mise la cuffia da notte, gettò la cenere
sulla bragia del camino, ed entrò nel letto maritale.
L'avvocato
dormiva già. Ella stette un momento tranquilla, poi riscosse
il marito... che si svegliò.
-
Quello che volevi dirmi domani, puoi dirmelo adesso.
-
Che cosa? domandò l'avvocato tra sonno e veglia.
-
E che hai detto un momento fa?
-
Oh lasciami un po' dormire!... che impazienza! da qui a domani non ci
sono che poche ore.
-
Non dormo sinchè non so tutto.
-
Oh che tormento!
-
Parla dunque.
L'avvocato,
che avea promesso al ministro di non dir nulla, stette un momento in
forse; poi, come sempre aveva fatto, mise a parte la moglie
d'ogni segreto, e concluse con queste parole:
-
Se il ministro fin qui non ha mai compensato le mie prestazioni,
bisogna però considerare quanti affari vantaggiosissimi ho
fatti per suo consiglio e per suo intervento; in quanto poi alla
faccenda di stasera, tu vedi che a far passare per le mani più
di due milioni e mezzo, deve ad esse restare attaccato qualche
cosa; perchè bisogna anche confessare che, se quell'uomo è
avaro, fa eccezione fra tutti gli avari in questo, che non è
per nulla diffidente e, se si mette nelle altrui mani, lo fa
occhi chiusi. Ne vuoi una prova, e una prova incredibile? Non ha
voluto nemmeno la ricevuta de' suoi capitali che ho nelle
mani; e la compera dei beni stabili, fino all'ammontare della somma
che tengo, devo farla in testa mia. Vedi or tu che, s'io fossi un
birbante, potrei fare un brutto tiro al ministro, e senza un timore
al mondo e senza nemmeno il pericolo ch'egli avesse a parlare;
egli ha troppa paura del pubblico in questi momenti, e non vuol che
si sappia ch'egli ha accumulato tanta ricchezza. Credo persino che,
se ha rifiutato la ricevuta, gli è perchè teme possa
mai essere veduta da qualcuno. Quell'uomo, che ha tanto ingegno e
acume veramente straordinario, in certe cose è piccolo come
una donnicciuola. Ma è il solito sistema di compensazione che
va.
Madama
Falchi ascoltò tutto attentamente, e non disse nulla; ma
quando l'avvocato dormiva profondamente, ella vegliava ancora, e
colla sua mente infernale andò almanaccando sinistri disegni.
A
quel modo che lady Macbeth fu la rovina del re Duncano, per una
ragione della stessa natura il ministro Prina sarebbe forse morto a
suo letto se l'avvocato Falchi avesse taciuto quel fatto alla perfida
moglie. Diciamo forse, perchè altre detestabili furie entraron
seco in concorrenza.
XVI
Ritornando
tre ore indietro, e rientrando nel teatro della Scala, saliamo le
scale de' palchetti fino alla quarta fila e facciamo capolino
all'ingresso del N. 18 di facciata. Per una strana combinazione le
tappezzerie, gli specchi, le dorature di quel palco anche oggi sono
ancor quelle dell'anno 1813, e se il lettore se ne vuol persuadere,
ne esamini lo stile decorativo, guardi gli specchi pallidi, e smonti,
consideri l'oro ridotto al punto da sembrare un signore decaduto. Al
parapetto di quel palco sedevano il colonnello Baroggi, che per la
ferita ostinata e ribelle non aveva potuto seguire al campo il
reggimento; sedeva donna Paolina femminilmente abbigliata, con gran
dispiacere di chi amava vederla sempre in assisa di dragone, ma
rilevante la nudità delle sue olimpiche braccia in compenso
delle gambe scomparse sotto la veste prolissa. Vicino a donna Paolina
stava il vecchio Andrea Suardi, il Galantino del 1750.
Sessantatrè anni eran passati sulla sua persona; ma nella
lunga lotta con essi egli era rimasto in piedi, tutt'altro che
disposto a lasciarsi atterrare. Gli occhi aveva vivissimi e viperini,
e l'abitudine a volgerli obliqui, per quell'espressione indefinibile
di astuzia maligna e sardonica che fu sempre il carattere dominante
della sua bella faccia, erasi impadronita dei muscoli al punto, che
quel modo di guardatura, in gioventù fuggitivo e a guizzi, in
vecchiaja era divenuto costante.
Il
colore della sua pelle che, se il lettore se ne ricorda, si protrasse
con molle freschezza quasi muliebre fino agli anni virili, aveva
cessato di essere equabilmente diffuso su tutta la faccia, ma s'era
invece come rappreso e ritirato agli zigomatici, con lievi
screpolature salsedinose. Le guancie si erano emunte, mancato il
sostegno di parecchi denti molari; a malgrado di ciò, la bocca
avea conservata qualcosa della prisca eleganza. I capelli avea
bianchi come l'argento, ma lucidi come quello, ma ancor fitti e
inanellati e cadenti in una ciocca tra le tempie, a lambire la
divisione de' sopraccigli. Era insomma un bellissimo vecchio, com'era
stato un bellissimo giovane; nè, in quanto alla foggia del
vestire, s'era dimenticato dell'eleganza onde gli venne il
soprannome. Portava una giubba color oliva a larghe falde, giusta le
prescrizioni dell'antipenultimo figurino di Parigi; calzava stivali
di sommacco con fiocco agli orli delle gambiere e increspature al
collo del piede. Dai taschini gemelli de' calzoni uscivano, di sotto
al panciotto di casimiro bianco, due catenelle con suggelli di
corniola e d'ametista, ad indicare il costume non ancora cessato dei
due orologi in vicendevole controlleria.
Il
musico Velluti aveva finito di cantare il suo arione, quando entrò
in palco un servitore di teatro per dire al Suardi che un signore
desiderava di parlargli, e domandava il permesso di entrare.
-
Ma entri pure, disse Galantino.
Poco
dopo entrò infatti il signor attuaro Tagliabue, che il
Galantino si fece seder vicino, col solito:
-
In che posso servirla?
-
Ella avrà ricevuto dal tribunale civile di Milano l'invito a
comparire innanzi al signor giudice cavaliere F
-
Per l'appunto, signore; sono arrivato oggi stesso e domani mi lascerò
vedere.
-
Il signor giudice, che è in teatro e ha saputo che V. S. era
qui, a guadagnar tempo e a levarle il disturbo, mi ha mandato a
dirle, ch'egli era disposto a parlarle questa sera stessa, e che
perciò l'attendeva nella sala del Ridotto.
-
Per me tutti i momenti son buoni.
-
Allora io l'accompagnerò.
-
Mi rincresce che l'opera non sia finita...
-
Ella faccia come crede...
-
No, no - andiamo pure - a Milano mi fermerò
alcuni giorni, e avrò tempo di sentire il resto un'altra
volta.
Con
queste parole il Galantino si alzò; disse a donna Paolina:
torno subito - e partì coll'attuaro.
Il
cavaliere F... era seduto al camino nella solita sala del Ridotto;
mosse incontro al Suardi, quando questi entrò in compagnia
dell'attuaro, se lo fece sedere vicino e:
-
Ella mi perdonerà, disse, se l'ho costretto a mettersi in
viaggio di questa stagione.
-
Non stia a darsi fastidio, signor giudice, fu anzi per me una buona
occasione di scuotermi d'addosso la poltroneria.
-
Quand'è così, tanto meglio. Intanto mi figuro che ella
avrà già indovinato il motivo per cui l'ho fatto
chiamare.
-
Avendo saputo che la causa del colonnello Baroggi era stata affidata
a lei, cavaliere, tosto ho imaginato che la mia chiamata dipendesse
da questo oggetto. Le dirò anzi, che sarei venuto a Milano
anche senza essere chiamato; perchè ho pensato che avrei forse
potuto gettare qualche luce in quella materia imbrogliata. Or dunque,
come stanno le cose? Ho sentito dal colonnello, che il suo avvocato
non gli dà troppe speranze.
-
Non so che dire. Se non si sa da qual parte è saltato fuori il
testamento, tanto fa che avesse continuato a dormire dove dormì
per sessant'anni.
Qui
il giudice diede al Suardi una di quelle occhiate che assomigliano
agli specilli dell'arte chirurgica. Esso, dal marchese F... per mezzo
del conte Aquila, recentissimamente aveva ricevuto una lauta caparra,
in anticipazione d'un più lauto compenso finale; di maniera
che le bilancie della Giustizia nelle sue mani eran ridotte alla
condizione di un orologio le cui sfere si menano a dito, a seconda
dell'ora che meglio si desidera. Ma contuttociò, siccome era
stato criminalista e aveva sortito dalla natura la smania
dell'indagine legale, e aveva sempre riposta tutta la sua compiacenza
nell'abilità di far cantare un delinquente; così e per
impulso naturale e per abitudine di mestiere, sentì la
tentazione di gettare un laccio al vecchio Galantino. Ma siccome le
trappole anche meglio dissimulate sono viste alla lontana e scansate
dai topi veterani, così il Galantino, ridendo fra sè e
delle parole e dell'occhiata del giudice:
-
Eh... pur troppo, rispose, sono anch'io del suo parere, signor
cavaliere, e mi rincresce pel colonnello che ho visto nascere e a cui
voglio bene; il quale, benchè siasi imparentato con una delle
più nobili famiglie di Milano, il fumo non gli ha lasciato mai
veder l'arrosto, perchè quello scavezzacollo di suo suocero ha
portato via tutto ed ha mangiato tutto. Ma capisco anch'io che tutti
i buontemponi, che si divertono alle spalle del prossimo, potrebbero
tutti i giorni inventare dei testamenti, così a titolo di
passatempo, mettere la confusione nei tribunali e la disperazione
nelle famiglie.
-
In questo caso però dovrebbero essere stati i buontemponi di
sessant'anni fa.
E
il giudice scandagliò ancora acutissimamente il Galantino.
-
Questo io non lo posso sapere. Bisognerebbe che, al pari del signor
giudice, avessi potuto vedere il testamento. La carta, il carattere,
l'inchiostro
che so io
Io ho delle scritture di quaranta,
di cinquant'anni fa, che nessuno direbbe essere di quest'anno. Una
tale diversità, secondo me, dovrebbe già costituire un
indizio...
-
Come fa ella a dir questo?
-
Io sto alle parole del signor giudice; per qual cosa ella ha parlato
dei buontemponi di sessant'anni fa?
-
Così per modo di dire
Qui
il Galantino diede al giudice una di quelle sue occhiate oblique,
saettanti, lunghe. Parve, per un momento, che si fossero scambiate le
parti.
Il
cavaliere F
taceva.
-
Ora, se è lecito, continuava il Galantino, domanderei a che
oggetto ella mi ha fatto venire a Milano?
-
Per sentire da lei tutto quello che potrebbe sapere in proposito.
-
Ciò che so io è ciò che dovrebbero sapere tutti
quelli che possono vantare una fede di battesimo al pari della mia...
-
Ella però...
-
Continui pure; cavaliere, e non abbia paura d'offendermi. Sì
io ebbi più volte dei replicati incomodi per questo
malaugurato testamento... e parrebbe di dovere ch'io dovessi saperne
più di tutti... ma in conclusione, io non posso dir altro se
non che i giudici e avvocati e criminalisti sono come i medici, i
quali in presenza di certe malattie, si trovano imbrogliati al pari
di qualunque idiota.
-
Come sarebbe a dire?....
-
Mi perdoni, signor giudice; ma che in sessant'anni non si abbia mai
potuto scoprirne nulla... è cosa che fa senso
per cui
devo dire che quell'avvocato e quel giudice, il quale in tale
occasione arrivasse a coglierne qualche filo, meriterebbe un posto
d'onore vicino a quel professore di Pavia che ha inventato la pila.
-
Non occorre che sia nè giudice nè avvocato... Ella che
fu contemporaneo alla scomparsa inesplicabile di quel testamento,
ella solo potrebbe avere i mezzi di acquistare tanta gloria...
E
qui un'altra occhiata acuta e profonda.
-
Tutto quello che potrò fare, lo farò, perchè mi
sta veramente a cuore la sorte del Baroggi e di sua moglie; ma avrei
bisogno di essere ajutato.
-
Si spieghi.
-
Intanto non reticenze.
-
Vale a dire?
-
Vale a dire che io vorrei sapere da lei se il testamento che tiene in
sua mano ha i caratteri di essere stato fatto sessant'anni addietro o
adesso? Un momento fa mi pare d'averglielo domandato, e non mi ha
risposto.
-
Davvero che non dovrei parlare. Ma a lei dirò, che quel
documento ha tutti i caratteri della vecchiaia. La carta è
ingiallita, l'inchiostro è svanito.
-
Allora siamo in casa.
-
Cioè?
-
Bisogna cercare altre carte dell'autore del testamento.
-
È un provvedimento che viene in testa a chicchessia... Ma non
c'è più nulla, e non s'è trovato nulla...
-
Io m'impegnerei a trovarne.
A
queste parole, sul volto del cavaliere F... si svolse un'espressione
involontaria che fu notata dal Galantino; non era l'espressione di un
giudice che deve essere soddisfatto nel sentire che c'è uno
spiraglio per riuscire a scoprire la verità.
Però
il Galantino, che conosceva il marchese F
, ed aveva l'idea
fissa che i giudici fossero tutti venali, si mise in sospetto.
-
Suvvia dunque, continuava il cavaliere, sentiamo i suoi disegni.
-
Sono semplicissimi, e non mi par vero non siano già venuti in
mente ad altri.
-
Ebbene, sentiamo.
-
Tutta Milano sa, perchè è un fatto che fece gran
rumore, e perchè, se la maggior parte dei padri sono morti, i
figli hanno sentito a parlare i padri di tutte le circostanze di quel
fatto stesso; che il notajo che assisteva il marchese F.... era il
dottor Macchi, morto nel 1802, e di cui ogni due anni vedesi il
ritratto esposto sotto i portici dell'Ospedale Maggiore. - Io
so, e tra gli altri deve saperlo anche l'avvocato Strigelli, il quale
ora è conte del Regno, che fu lo stesso Macchi che stese il
testamento, perchè il marchese lo copiasse di proprio pugno.
Quel notajo era tanto esatto che, certissimamente, deve aver tenuto
copia di quello scritto; di più, è assai probabile che
nelle cartelle abbia serbato anche qualche lettera del marchese
defunto.
-
Tutto va bene, ma se il notajo è morto...
-
Mi lasci dire: io so che il notajo Agudio, nipote del famoso
avvocato, che fece pratica presso il Macchi, acquistò tutti i
libri e tutte le carte di lui. C'è dunque da mettere cento
contro uno che presso l'Agudio si deve trovare quanto basta per
distruggere ogni dubbio.
-
Se tutti i disegni di lei stanno qui, rispose il cavaliere F...
accigliato, non ne faremo nulla, caro signore. L'Agudio avrà
conservato le carte di qualche valore, non delle lettere inutili, nè
una minuta inutile di testamento. In ogni modo vedremo.
E
il giudice si alzò, assumendo, per la prima volta in faccia al
Suardi, quella dignità gerarchica che prima non aveva
mostrato; e dicendo per conclusione del suo discorso:
-
Nonostante le parole che abbiam tenute questa sera, avrò
ancora ad incomodarla, signor Suardi; però la pregherei a
volersi trattenere a Milano per qualche giorno ancora.
-
Per un pajo di settimane io mi fermerò qui.
-
Spero che basterà; e intanto le do la buona notte.
Ciò
detto, partì.
XVII
Il
Suardi si alzò, lo inchinò, e pensando fra sè:
-
Vedo che siamo nel bosco della Merlata, e converrà tenere il
pollice sul grilletto - uscì anch'esso a lenti passi
dal Ridotto e risalì in palco.
Il
giudice F
,appena partito, si recò nel palco del ministro
Luosi a riferirgli il colloquio avuto col Suardi del quale però
soppresse tutta l'ultima parte relativa al notajo Macchi ed al notajo
Agudio. Lasciato il ministro andò poi subito in traccia
dell'avvocato Gambarana, che era in teatro. Trovatolo, lo informò
del dialogo avuto col Suardi, ma esponendogli invece esattamente
quella parte che aveva taciuto al Luosi.
-
Questo è un contrattempo, disse il Gambarana.
-
Io non credo però che possano essere rimaste delle carte
presso il notajo Agudio.
-
Può essere e non essere; in ogni modo converrebbe che noi
fossimo i primi a poter esplorare l'archivio del defunto Macchi.
-
Fatelo.
-
A me, non conviene.
-
Con dei denari...
-
Non mi conviene.
-
Dunque?...
-
Dunque tocca all'avvocato Falchi a tentare le indagini colà.
Fatto da lui, nella sua qualità di patrocinatore del Baroggi,
è un atto giusto e naturale.
-
Ma non bisogna perder tempo.
-
Domani mattina parlerò all'avvocato.
Scambiatisi
di fuga tali disegni, il giudice e l'avvocato si lasciarono, entrando
l'uno in un palchetto, l'altro in un altro.
Il
giorno dopo, nelle ore pomeridiane (notiamo questo perchè, se
fosse stato di mattina, i fatti avrebbero forse avuto altro
avviamento), il Suardi si recò dal notajo Agudio.
Si
fece annunziare, fu ricevuto, com'è naturale; ma trovò
un uomo di un'agrezza quasi villana.
-
Ella mi conoscerà.
-
Non lo conosco niente affatto.
-
Allora le dirò che è il medesimo signor giudice F...
che m'ha fatto espressamente venire a Milano, per l'oggetto di cui le
parlerò; e che sono qui perchè è già
corsa intelligenza con lui.
-
Dica presto, dunque, in che cosa posso servirla, perchè non ho
tempo da perdere.
-
So che ella ha conservato tutto il repertorio lasciato dal dottor
Macchi.
-
Ho conservato quel che ho conservato.
-
È probabile però, che, avendo il Macchi prestato per
molto tempo l'opera sua al marchese F... defunto sessantatrè
anni fa, sieno rimaste nelle sue cartelle e lettere e carte e
documenti di spettanza di quella casa.
-
Può essere benissimo. Ma io non so, nè ho tempo di far
ricerche. D'altra parte, siccome tutto quello che ho acquistato è
di mia proprietà, così io non ho nessun obbligo nè
di conservare quello che tengo, nè di mostrarlo altrui, nè
di cederlo.
-
Non c'è nessuno che voglia venir qui a fare il padrone in casa
sua, signor dottore; ma è affare di coscienza, e una sola
carta trovata può far saltar fuori quello che si pena a
trovare da sessant'anni.
-
La prego, signore, a non pigliarsi briga della mia coscienza, perchè
di questa ne sono il custode io.
-
Non voglio farmi padrone nemmeno della sua coscienza, caro il mio
signor dottore; ma, siccome non deve costar molta fatica a guardare o
a far guardare nelle cartelle che devono portar la data dell'anno,
così pregherei la sua gentilezza, che, del resto, verrebbe
pagata come si merita e profumatamente, a fare questa ricerca, la
quale, in un minuto, potrebbe risolvere tutto, e determinare la
sentenza dei tribunali intorno alla causa ch'ella ben conoscerà.
-
La risposta che io ho dato a lei, che in faccia mia non ha veste
nessuna nè di giudice, nè d'avvocato, nè di
parte interessata, la darei anche all'autorità se venisse qui
ad impormi quello che non ha il diritto d'impormi.
Il
contegno e i detti dell'Agudio parvero, più che strani,
inverosimili al Suardi; però, dopo aver taciuto un istante:
-
Dunque, ho capito tutto, signor notajo, proruppe, alzandosi; ho
capito tutto.
-
Che cosa ha capito?
-
Che è vero quel che mi fu detto. Sappia adesso ch'io non sono
venuto qui che per fare una verificazione. Ora so di che si tratta...
Le carte ed i documenti di cui le parlava, ella li ha già
cercati e trovati e ceduti stamattina a chi non si doveva...
Il
notajo Agudio fu scosso da queste parole, e si confuse al punto da
farne accorto il Galantino, che rimase sorpreso alla sua volta,
perchè avendo slanciata quell'asserzione all'avventata, e
soltanto per tentare il terreno, non avrebbe mai creduto di dover
cogliere così preciso nel segno. Ma rimase ancor più
stupito per l'improvvisa scoperta di un turpe intrigo, di cui gli
parve complice anche l'autorità.
LIBRO
DECIMOSETTIMO
Giocondo
Bruni, il conte Ghislieri e il conte di Domodossola. -
Un'adunanza in casa del conte Aquila e il regno d'Italia. -
Milano nel 1813. - I partiti. - Un dialogo tra il conte
Aquila e madama Falchi. - Il vetturale Bernacchi Giosuè
e il colonnello Annibale Visconti. Il giorno 20 aprile 1814 e
il ministro Prina. - Il capomastro Granzini, il ritratto di
Napoleone dipinto dall'Appiani e il busto in gesso di Beauharnais.
I
Abbiam
lasciato i coniugi Falchi al loro sonno, che non fu certamente quello
del giusto, per ritornare in teatro onde assistere al colloquio tra
il Galantino e il giudice F
e tener dietro alle sue
conseguenze; ed ora ci convien staccarci dal notajo Agudio e dal
Galantino per rifarci ventiquattr'ore addietro e ritornare di nuovo
nelle sale del Ridotto.
Il
nostro amico Giocondo Bruni erasi fatto guida al conte Aquila, al
conte milord, ed agli altri che costituivano il partito italico
assoluto, per vedere la faccia di un conte, che il Bruni aveva
conosciuto a Parigi come emissario austriaco.
-
È lui, assolutamente lui, disse il Bruni al conte Aquila,
allorchè furono vicini a un tavolino da giuoco,
-
Quell'ometto là piccino?
-
Quello là appunto.
-
Con quella faccia da coniglio?
-
È una maschera naturale, che a lui serve benissimo.
-
Gli avete parlato voi qualche volta?
-
Non ho mai voluto mangiare di quella carne; però l'ho sentito
a parlare molte volte, nè egli lo sa, nè mi conosce.
-
Che cosa credete voi che sia qui per fare?
-
Quello che faceva a Parigi: giuocare, perdere spesso, e mettersi al
paretajo come la civetta, per attirare gli uccelli di brocca. Adesso
giuoca, poi perderà. Scommetto che è già in
perdita... Ecco qui, sentite, signor conte?...
Questa
interruzione derivò dalle parole di due astanti, i quali
dicevano:
-
Ha un gran sangue freddo, colui... È già la terza volta
che mette sul tappeto cento napoleoni d'oro; e al risolino continuo
che fa si direbbe che è in guadagno.
-
Vedete se ho detto vero, signor conte?... ebbene, fra un'ora va a
cena con tutti quelli a cui ha riempito le saccoccie; e là
parla di politica; compera per un pezzo; poi vende e fa propaganda.
Alla mattina, poi, credo che riferisca il risultato dell'opera sua e
mandi la cacciagione a Metternich e a Bellegarde.
-
Converrebbe renderne avvertita l'autorità.
-
Converrebbe certo. Ma chi se ne piglierebbe l'incarico? Io, no
davvero, che stetti fuor di paese troppo tempo.
In
questo punto entrò nella sala un personaggio ancor giovane,
bene incravattato, che il conte Aquila salutò ed
avvicinò.
-
Guarda un po', gli disse questi, tu che sostenevi avere l'Austria
deposto ogni pensiero della Lombardia.
-
Che cosa?
-
Vedi quell'ometto là, che giuoca, perde e ride?
-
Sì che lo vedo... lo vedo e lo conosco.
-
Oh!... Lo conosci davvero?
-
Sì... è un prodigo senza testa. È venuto a
Milano da poco tempo, e s'è innamorato della città
nostra. Ha voluto persino farsi inscrivere nella guardia civica; per
la sua generosità, lo si voleva nominare ufficiale; ma egli si
accontentò di essere sergente.
Il
conte Aquila guardò il Bruni come se pensasse: or chi di voi
due dice il vero? Il Bruni non disse parola.
Questo
ci raccontò poscia, tanti e tanti anni dopo, come ebbe a
scoprire esservi stato accordo, tra quell'emissario austriaco, e
colui al quale il conte Aquila aveva parlato. Chi poi fosse quel
personaggio, è subito fatto intendere al nostro lettore, se
appena egli ha l'abitudine a sciogliere sciarade e logogrifi.
Colui,
dunque, noi lo abbiamo visto molte volte; e alla processione del
Corpus Domini e ai Te Deum per gli
anniversarj ed i giorni onomastici austriaci, col suo collo torto,
colla sua aurata assisa di consigliere intimo, e colla sua fascia
traversale bianco rossa dell'Ordine di Maria Teresa. Egli era
conte, quantunque i suoi avi di sessant'anni prima avessero fatto
carbone presso Ossola. Era ricchissimo, e di una ricchezza ereditata
da un padre che, pur avendo usufruttata la pubblica fame, ebbe fama
di uomo onesto, forse per l'effetto dei confronti. Ma siccome
dev'essere vero che la farina del diavolo si converte in crusca, così
tutta quella ricchezza fu da esso adoperata per la massima parte ad
alimentare i magazzinieri delle indulgenze plenarie, ad ammorbare le
pusille coscienze di pregiudizj e di bigottismo, a scapito della
religione vera e del sincero progresso.
E
il conte Aquila continuava ad interrogarlo:
-
Sai tu almeno come si chiami questo prodigo sventato?...
-
Il nome non me lo ricordo. Ma non credo ne valga la pena.
-
E voi lo sapete? domandava poscia al Bruni.
-
Sto appunto tormentando la memoria per richiamarmelo, ma non mi
riesce. So per altro che è un conte, e un conte che conta
assai poco in quanto a ricchezza; per ciò non si sa bene a che
tesoreria vada a prender il danaro che sparpaglia a piene mani.
-
Mi sembra, caro mio, continuava il conte Aquila rivolto all'altro
conte, che questo signore, venuto or ora da Parigi, ne sappia più
di te.
-
Può darsi anche questo; ma torno a ripetere che non vale la
pena di far tante indagini sul conto suo. Gli ho parlato due o tre
volte, ed è un uomo perfettamente nullo.
Qui,
un'onda di pubblico entrò nella sala, e scompaginò quei
gruppi di persone che stavano intorno ai tavolieri.
L'Aquila,
il Bruni e gli altri si trovarono divisi dal futuro consigliere
intimo, e lasciarono il Ridotto.
Di
lì a poco, il conte Ghislieri (che così chiamavasi
quella civetta al paretajo):
-
Per questa notte, disse, possiamo spegnere i lumi: chè s'è
perduto abbastanza. Ora, se questi signori mi favoriscono, potrem
passare il rimanente della notte al Gallo.
Il
futuro consigliere intimo trasse allora per un momento in
disparte il conte emissario, e:
-
Stanotte, gli disse, continuatela pure in compagnia di quest'allegra
brigata, ma domani partite.
-
Perchè?
-
Qualcuno ha messo gli occhi su di voi.
-
Davvero? ma come mai?
-
Il come non lo so; ma se vi avviso, è perchè desidero
che le cose ben avviate non si guastino.
-
Se parto, parto per ritornare.
-
Ritornate, ma a suo tempo, ma quando il frutto sarà maturo.
Intanto vogliate passar da me, prima di lasciar Milano. È
arrivato da Parigi il marchese F..., che, quantunque sia un
consigliere di Stato, è dei nostri. Troverete pure in casa mia
alcuni de' meglio pensanti. Or vi saluto.
E
il piccolo contino Ghislieri, emissario, spia di prima classe, anzi
Gran Cordone di quell'Ordine, e sergente intruso della guardia
civica, ritornò alla sua brigata e lasciò il teatro.
Il
conte Aquila intanto, accompagnato da dieci o dodici del suo partito,
era ritornato a casa. Com'era suo costume far sempre colla servitù,
entrò accigliato e burbero nella stanza del guardaportone, che
stava inferraiuolato innanzi ad un gran braciere:
-
Tirate la campana, e chiamate i domestici di settimana. Presto.
Il
guardaportone obbedì, s'affrettò, suonò la
campana. Discesero i servi.
-
Accendete fuoco nel camerone terreno. Presto.
I
due servi obbedirono.
Il
conte entrò coi colleghi nel camerone. Dopo alcuni momenti,
una gran catasta di legna crepitava già e mandava scintille su
per la cappa di un camino monumentale, con iscolture rappresentanti
gli stemmi del casato.
-
Andate a dormire, disse il conte ai due domestici. Solo il
guardaportone stia sveglio finchè questi signori partiranno.
Andate ad avvisarlo.
Quella
società che s'era adunata in casa del conte Aquila, era
composta da dodici a quindici persone, la maggior parte patrizj,
quasi tutti ricchissimi, e per ciò influenti sul popolo della
città e sugli abitanti della campagna. Tra essi v'era un B
,
capo battaglione della guardia civica; un E... V
, giovane di
straordinario ingegno e di altrettanta coltura, ma eccentrico e
strano; un G... di Como; un V... di Lodi; il conte milord,
l'avvocato Gambarana, ecc. ecc. Il nostro Giocondo Bruni, dal quale
sappiamo tutto quanto verremo raccontando, fece parte anch'esso della
comitiva, e come amicissimo del conte milord, e perchè
aveva espresso degli intendimenti assai conformi a quelli del conte
Aquila.
Intorno
al gigantesco camino eran state disposte in semicerchio delle vecchie
sedie di bulgaro a bracciuoli. Tutti sedettero. La catasta accesa
illuminava la scena. La parte accessoria e pittorica di
quell'adunanza pareva ne accrescesse l'importanza e il mistero.
L'E...
V
, che era un ingegno letterario e caustico, e soleva parlare
con epigrammatica amenità anche delle cose gravissime:
-
Chi ora ne sorprendesse, cominciò a dire, ci piglierebbe per
altrettanti personaggi del Noce di Benevento. Però
sarebbe bene per un'altra volta radunarci più presto e
scegliere un luogo men fantastico.
-
Più presto non è possibile, osservò il conte
Aquila, perchè ci bisogna a noi tutti di lasciarci vedere in
teatro. In quanto al luogo, non fu fabbricato apposta, e poi ha il
vantaggio di essere lontano da chi può vedere e sentire. Ma
veniamo a quel che importa. Che cosa, o signori, pensate di fare?
Jeri non si trattava che di cogliere l'opportunità che la
Francia si sfasci, per liberarci di lei e fare da noi le cose nostre:
oggi ci siamo accorti che, di dietro alla Francia che si va
sprofondando come un fantasma da palco scenico, torna a spuntare lo
spettro dell'Austria.
-
L'affare è spinoso, osservò l'E... V...; pure, se il
duca di Lodi avesse vent'anni di meno e non soffrisse di gotta,
potrebbe raccogliere nelle proprie mani il supremo potere nel punto
che tutte le acque fossero in alluvione. Il fatto di Bernadotte, che
era un mangia carte e diventò re di Svezia, non farebbe
parer strano che un privato, il quale è stato il
vice Napoleone durante la Cisalpina e il Consolato, possa un bel
giorno, dal voto nazionale, essere eletto re d'Italia.
-
Il duca di Lodi, osservò il conte Aquila, sarebbe sempre un
uomo stracco, quand'anche fosse sano e contasse vent'anni meno.
-
Questo non sarebbe un ostacolo, basterebbe che piacesse al popolo.
-
Ma se non può piacere, non se ne parli più.
-
Per tener lontana l'Austria, e per disfarci di Beauharnais,
bisognerebbe almeno che ci fosse un italiano, il quale, o negli
ordini civili o nei militari, avesse talmente fermata l'attenzione
dei suoi connazionali, che l'imitazione dei Longobardi che
innalzavano sugli scudi il loro re eletto non sembrasse una
burattinata. - Ma dov'è quest'italiano? Lo domando a
te, che, per un mal inteso orgoglio, come ti dissi mille e mille
volte, hai voluto sempre vivere in disparte.
Il
conte Aquila tacque, ma il petto gli ansò forte per la sistole
e la diastole dell'ambizione.
Chi
aveva parlato non era adulatore, e sebbene per ingegno non fosse
inferiore al conte, pur aveva di lui una stima gigantesca.
Questo
fenomeno avviene spesso tra gli uomini, che taluni vengono apprezzati
in ragione del nulla che fecero, e solo perchè alcune loro
attitudini, viste in iscorcio e sotto ad una luce passeggera,
lasciarono un'impressione di una grandezza virtuale non provata mai
alla cote dell'azione e dei fatti. A ciò si soggiunga che, se
essi hanno dato segno di qualità incontestabilmente superiori,
e pur tuttavia, in opposizione della tendenza del più degli
uomini, si tennero celati o comparvero in pubblico qualche volta per
iscomparir subito, come il sole temporalesco; il buon prossimo se ne
esagera talmente la potenza, da crearne tosto una divinità in
fieri. Questo era veramente il caso del conte Aquila. Il suo
carattere altero, la sua coltura ampia, la sua parola forte, cruda,
tagliente, e quel mai non aver voluto imbrancarsi col resto dei
viventi, avevano fatto concepire di lui un'idea così alta, che
qualunque più eccelsa opposizione non pareva soverchia per
lui.
-
Io non credo, disse egli poi all'E... V..., che tu voglia pigliarmi
in canzone: ma se hai la persuasione che, se io mi fossi accostato
alle cariche o civili o militari, avrei fermata l'attenzione de' miei
connazionali, pensa che non avrei potuto farlo se non imitando tutti
quelli che diedero nell'occhio al pubblico: col girare, cioè,
come un satellite intorno al sole di Napoleone. Ed è ciò
appunto che non ho voluto fare. Se ci ha ad essere un capo italiano,
un presidente, un dittatore, che so io? la parola re mi fa ribrezzo
(il lettore non ci creda), deve essere appunto un uomo nuovo, che non
abbia servito a nessuno, che non abbia avuto onorificenze da nessuno,
che non sia stato nè Gran Cordone, nè Grande Ufficiale
di nessun Ordine. Tu mi dirai che pure è necessario aver fatto
qualche cosa in passato, a saggio e a prova dell'avvenire. Ma in
questo caso ritieni che una pagina bianca vale meglio di una pagina
tutta coperta di caratteri, dove alcuni luminosi pensieri sieno
deturpati da propositi e da concetti servili.
-
Tu parli bene, ma bisognerebbe farla intendere al popolo; ma
bisognerebbe che Iddio volesse di nuovo pigliarsi l'incarico di
ungere i re per mano di qualche Samuele. Anzi, il popolo oggidì
non crede più nulla ai sacerdoti, poco a Dio, e vuol fatti e
fatti e poi fatti. Non occorre che essi siano meraviglie sostanziali,
ma che abbiano almeno la virtù di abbagliare il mondo.
-
Tu hai ragione, e parli da quell'uomo che sei. Ma io ti so dire, che
se in questi giorni io fossi eletto, per esempio, colonnello della
guardia civica, con questa semplice carica, io saprei far miracoli.
-
Lo credo, ma il colonnello non è morto e non vuol morire; nè
vuol nemmeno cedere il posto.
-
Io so, entrò allora a parlare il B..., capo battaglione della
civica, io so che tu sei nella terna per essere nominato capitano del
mio battaglione...
-
E domenica, nell'occasione della rivista, una fascia ricamata in oro
da mia moglie sarà appesa alla vostra bandiera e benedetta in
piazza Castello
-
Ebbene, allorchè tu sarai nominato capitano, ti cedo subito il
mio posto di capo battaglione. Io non faccio nessun sacrificio; e
nelle tue mani può essere utile ciò che nelle mie non
giova a nulla.
A
queste parole succedette un po' di silenzio; l'avvocato Gambarana,
uomo torbido, non amico, nè ammiratore di nessuno, e
istintivamente oppositore:
-
Faccio osservare, uscì a dire, che nelle osterie e nelle
bettole si parla talvolta degli interessi del paese con più
acume che altrove.
Egli
pronunciò queste parole con una certa asprezza sardonica,
perchè era stato nauseato dall'eccessiva ammirazione che
l'E... V... avea mostrato pel conte Aquila; e perchè, più
che strane, gli erano sembrate ridicole (e non aveva tutti i torti)
le mal dissimulate aspirazioni di quest'ultimo.
-
Allora tocca a voi, caro avvocato, soggiunse tosto l'E... V... colla
sua causticità consueta, a fare in modo che noi possiamo aver
l'onore di pensare come i frequentatori delle bettole e delle
osterie.
-
Vi è andata la mosca al naso più che a un filosofo non
convenga, soggiunse il Gambarana, ma io non ho fatto che ripetere un
passo d'oro di quel Rousseau pel quale voi andate in deliquio.
-
Non mi ricordo del passo d'oro; ma quand'è così,
continuate.
-
Una di queste sere, mi trovavo all'albergo del Gallo col mio
praticante Valesi. V'era gente di tutte le qualità; ma il più
eran mercanti, giovani di banco, bottegaj, gente che voi altri
signori avete il torto di non voler mai nè avvicinare, nè
sentire. Parlavan tutti alla distesa e alla libera; e parlavano
appunto del tema corrente; si venne persino, come abbiam fatto noi
stanotte, a mettere in questione: Chi mai fra gl'Italiani avrebbe
avuto le qualità necessarie per tenere in mano, pel momento
almeno, le redini del governo, quando mai le grandi potenze, troppo
caricate d'affari, ci avessero lasciati in vacanza. Tutti tacevano e
pareva che nessuno sapesse dove dar la testa, quando uscì a
dire un giovinotto:
«Diavolo!
a me pare poi che d'uomini adatti ce ne sia più d'uno. Ma, a
caso disperato, v'è un tale che non può a meno di
saltare agli occhi di tutti. - Sentiamo, sentiamo, gridavan
gli altri. - Non è vero, proseguiva colui, che Murat,
il quale nacque in casa di un oste e fece il postiglione per qualche
tempo, diventò poi re di Napoli? I tempi si sono cambiati, e
Napoleone ha fatto vedere che non è più necessario di
trovar la corona bella e fatta nel ventre della madre. Or bene, noi
in casa nostra abbiamo un tal uomo, che nacque di casato distinto,
che ebbe un'educazione compiuta, che fece prodigi di valore, non in
una nè in due, ma in una dozzina di battaglie, al punto da
destare l'invidia persino del vicerè; un uomo, un soldato, un
generale che è adorato da tutto l'esercito italiano. E non
potrebbe dunque costui essere il re d'Italia? Viva il re Pino,
gridò allora un altro... Viva, viva, gridarono tutti. -
Finalmente abbiamo trovato il re, e un re di cavalli!
«È
un gran difetto che abbiam noi Italiani, quegli proseguiva, di
disprezzare tutto ciò che è nostrano, e di volere a
tutti i costi fare acquisto della roba forastiera. E com'è
degli uomini, così è delle mercanzie e di tutto. Il
vino di Francia ci avvelena, ma si paga mezzo marengo al boccale: noi
con sedici soldi si beve un vino che fa resuscitare i morti: se
venisse di Francia, non lo beverebbero che i gran signori. Ma
vivaddio, che il re è trovato, e se il nostro disgraziato
paese arriverà finalmente ad avere e ad apprezzare un re
nostrano, tutto il resto verrà da sè e tutte le piaghe
si chiuderanno.» - Così diceva quel giovine, non
so se mercante o lavorante; ed ora domando a voi tutti se non parlava
con fior di senno?
-
Molte volte ho pensato anch'io al general Pino, osservò il
conte Aquila; ma senza giro di frasi, vi dichiaro schiettamente che
io abborro il regno della sciabola. Quando un soldato si fa capo di
uno Stato, tutti gli ordini della società vanno a fascio e la
caserma diventa il Sancta sanctorum.
«Del
rimanente (continuò) qui non si tratta di andare a cercare dei
re; si tratta di provvedere al modo di tener lontana l'Austria; e
d'impedire che l'incapacissimo Beauharnais abbia ad acquistare un
regno nel punto stesso che Napoleone perde un impero. Pino sia pure,
chè lo merita, il generalissimo delle truppe italiane; ma lo
Stato deve essere governato dalla toga e non dalla spada. Che se si
volessero ancora dei re o, se anche non volendoli, ci fossero imposti
dalle grandi potenze vittoriose e tutte monarchiche e tutte paurose
d'altre forme di governo; v'è pure in Italia e a poche miglia
da noi un re di antichissimo ceppo italiano, la storia della cui
dinastia è una epopea continua di battaglie, di vittorie e di
gloria. Ma questo, per ora, è un discorso immaturo. Ciò
solo che dobbiam pensare a far oggi è di premunirci contro gli
attentati dei servili, i quali rappresentando la nazione senza
regolare mandato, potrebbero, data l'opportunità,
mercanteggiarla a loro beneplacito e per loro uso e consumo. Ma per
ciò fare, conviene appunto metterci in possesso di qualche
forza, di una forza materiale, voglio dire, di una forza armata;
questa noi l'abbiamo in una istituzione a cui oggi nessuno pensa,
perché è considerata come uno spettacolo da parata e da
teatro; ma che nelle mani di chi avesse la virtù di pensare,
di calcolare e sopratutto di volere, potrebbe diventar poderosa e
onnipotente da un momento all'altro. Ecco perchè desidero che
voi altri tutti entriate a far parte della guardia civica; ecco
perchè m'affannai per avervi grado di capitano; ecco perché
da mia moglie feci trapuntare una ciarpa da consacrarle in
dono; ecco perché avrei carissimo se potessi essere capo
battaglione o colonnello. Or m'avrete compreso, o signori, e a
rivederci domani».
La
seduta fu sciolta; tutti partirono; il conte stesso li accompagnò
al portone. Disse al custode, sempre in tuono burbero: - «Ora
puoi andare a dormire»; e senza più altro, salì
nei proprj appartamenti. Quantunque fosse ora tardissima, il conte,
entrato in camera, non andò a letto. L'opposizione
dell'avvocato Gambarana gli aveva dato gran noja, e in quanto a sè,
pentivasi di aver messo innanzi il nome del re di Piemonte.
All'intento di mascherare le proprie aspirazioni, più che
temerarie, strane ed incredibili, egli aveva giuocato di
dissimulazione e d'astuzia. Ma gli pareva d'essere andato troppo
oltre, tanto più che quella proposta ei la stimava di tal
natura da mettere d'accordo tutte le opinioni controverse. Esso aveva
l'ingegno robusto e la veduta sicura e, quasi diremmo, infallibile,
ogni qualvolta pensava e giudicava senza passione. In quel momento
che, per mettere a tacere vittoriosamente l'avvocato, gli era occorso
dimenticarsi di sè stesso, la sua mente sgombra gli aveva
fatto vedere d'un colpo ciò che nessuno allora avrebbe
pensato, e che doveva poi sembrare una scoperta tanti anni dopo; ma
appena fu solo e lasciò le verità generali per
l'interesse proprio; e l'ambizione che in lui quasi toccava il grado
di quel che si chiama ramo di pazzia, tornò ad esaltarlo, non
sappiamo qual cosa avrebbe fatto per ritirare quella proposta.
Ai
nostri lettori, al pari che a noi, un tal fatto potrà
sembrare, più che incredibile, assurdo: ma quanti abbiamo
interrogato di coloro che avvicinarono il conte e poterono leggergli
in fondo all'anima, alla quale di tanto in tanto eran guida ed
interprete alcune sue fuggitive espressioni, ci assicurarono che
l'idea di poter mettersi alla testa degli Italiani e di recarsi in
mano la somma del potere, lusingò davvero per qualche tempo
l'amor proprio di quell'uomo strano, le di cui più alte e più
nobili attitudini vennero turbate dall'eccesso dell'orgoglio e dalla
mancanza di cuore.
Quando
il conte fu per mettersi a letto, rammentandosi della ciarpa
destinata per la guardia civica; si recò nel gabinetto della
contessa, scoperse il telajo, e gli sembrò che il lavoro fosse
in ritardo e mancasse il tempo necessario ad apprestarlo pel dì
della rivista. Il sangue a tal pensiero gli andò al capo;
tirò, strappò più volte il campanello. Comparve
un servitore in mantello e mutande, tutto rabbuffato.
-
Chiama qui la Maria, presto! gli disse il conte.
Venne
una donzella discinta e sgomenta.
-
Tu e la tua padrona, che avete fatto in questi giorni? Nemmeno in un
mese avrete finito.
Le
parole non eran che queste; ma l'aspetto del conte faceva paura, ma
la sua voce era così forte, così furibondo l'accento,
da mettere a rumore tutta la casa.
Destata
infatti da tutto quello schiamazzo, comparve la contessa frettolosa e
tremante, e avvolta in un ampio scialle.
Il
conte la guatò, la saettò, la coperse di contumelie.
Ella
diede in un dirotto pianto; piangeva la donzella, l'una e l'altra
supplicavano e promettevano.
Tutta
la famiglia era in iscompiglio.
Quasi
ci fu men terrore nelle case di Priamo, quando le fiamme avvolsero
Troja.
Tanto
è feroce e spietata e demente un'anima ambiziosa!
II
La
condizione della città di Milano, nel dicembre dell'anno 1813,
presentava i sintomi di una malattia, come suol dirsi, di carattere,
ma di cui era difficile a prevedersi e a prefinirsi la qualità,
la gravezza, la durata e la riuscita. Lavoravano in lei molteplici
elementi occulti, che ad esplodere o a ritirarsi inoffensivi
aspettano l'esito di circostanze superiori e fatali.
Nei
primi mesi dell'anno successivo, quei sintomi si vennero sempre più
aggravando. Le cause nascoste di tanti effetti futuri e contingenti a
seconda delle funeste notizie che venivan dal campo della guerra,
uscivano dallo stato d'aspettazione nel quale ad intervalli si
adagiavano, per agitarsi nel campo dell'azione ed accelerare i
desiderati rivolgimenti.
Abbiamo
detto che molti partiti in quel frattempo si vennero costituendo in
Milano. V'era quello di chi voleva un regno d'Italia indipendente con
Beauharnais sul trono. E chiamavasi il partito delle marsine
ricamate; ma vi appartenevano tutti coloro che, per combinazioni
dirette e indirette, avevano potuto raccogliere molte ricchezze sotto
al governo francese. A tale partito (ciò che a tutta prima può
destar meraviglia, ma che diventa chiaro dopo qualche esame)
appartenevano, pure sebbene col semplice desiderio e senza azione
efficace, tutti quelli che dalla natura avevano sortito il senso
retto dello cose, che nella vita avevano imparato a fare i conti
sempre in compagnia dell'oste; e che, vivendo di libere entrate o di
pensioni molto ipotecate, o di proventi non attaccabili dal flusso e
riflusso degli eventi sociali, potevano vedere la condizione della
patria, come spettatori seduti in platea, i quali giudicano il dramma
senza essere nè parenti nè amici dell'autore.
Ma
costoro, com'è naturale, non solo erano in pochissimo numero,
ma conducevano una vita, che equivaleva al non essere, perchè
non parlavano mai con nessuno, non dicevano mai il loro parere a
nessuno; e se al teatro, all'osteria, al caffè venivano
trascinati repentinamente nel vortice del tema consueto, sfoggiavano
tosto tutta la loro bravura nella così detta arte delle
cavatine. Care persone, ma meno utili delle cariatidi di molera;
orologi perfetti e precisi, ma senza sfera che indichi l'ora.
Un
altro partito era quello dei vili, degli indifferenti, degli
immobili, dei materialoni, degli imbecilli e dei bigotti; per
conseguenza era il partito monstre e, pur troppo, era quello
che aspettava l'Austria come un tocca e sana.
Quasi
tutte le casane milanesi che avevano i servitori coi
passamani; quasi tutti i monsignori, i mezzaconici, i canonici, i
cappellani corali del Duomo, di S. Ambrogio, di S. Babila e di S.
Celso vi erano naturalmente aggregati. Un terzo era il partito di cui
abbiam già parlato e del quale conosciamo i personaggi: il
partito italiano puro; puro però sino ad un certo segno;
perchè il suo agitatore principale, se aveva la mente sana,
aveva il cuore guasto. Gli uomini poi di grande ingegno, di gran
cuore, infervorati dell'amor di patria, non costituivano veramente un
partito; tanto era scarso il loro numero! Essi vedevano l'Italia in
quel periglio che avevano preveduto, ma non nutrivano speranze per
l'avvenire e non si attentavano di suggerir rimedj. Erano irritati di
tutto e contro tutti, e, sebbene lor paresse che delle sventure la
men grave fosse ancora il principe Beauharnais fatto re d'Italia,
pure non osavano consigliare ai mali d'Italia un rimedio non
italiano. Ugo Foscolo era tale da rappresentare la schiera
meditabonda e disdegnosa di questi solitari.
Tornando
al primo partito, a quello che veniva generalmente chiamato il
partito delle marsine ricamate; dobbiamo aggiungere che se
l'appellazione era giusta, era pur vero che in mezzo a quelle marsine
v'erano degli odiatori accanitissimi del vicerè e del nome
francese e di quanti venivan denominati i servili. Odiatori
non liberi nè indipendenti nè equi, ma sovreccitati da
interessi privati, da offese ricevute, da speranze frustrate.
Tutti
gl'impiegati che non erano stati nominati al posto ambito; che s'eran
presentati inutilmente a qualche udienza vicereale; che dal principe
o da qualcuno dei ministri avevano ricevuto, o credevano d'aver
ricevuto, delle ingiustizie, tutti costoro soffiavano a piena gola
nel pubblico malcontento, per tenerlo sempre desto e perchè si
risolvesse alfine in un vasto incendio.
Per
citare qualche esempio, il giudice cavaliere F... da qualche tempo
era diventato il più feroce e il più impaziente di
tutti. E la ragione ne era chiara. Egli era stato chiamato dal Luosi
a dar conto del suo operato nel fatto della causa Baroggi: con
sorpresa udì dal ministro, come il vicerè avesse
scritto, che, al suo ritorno a Milano, avrebbe dato corso rapidissimo
alla giustizia; con terrore apprese inoltre che il colonnello Baroggi
e il signor Andrea Suardi s'erano espressamente recati a Lubiana per
parlare al vicerè, al quale avean esposto, come nello studio
del notajo Agudio dovevano esser state acquistate, allo scopo di
farle scomparire, delle carte d'importanza, sufficienti a comprovare
l'autenticità del testamento; del qual fatto forse
consigliatore e complice, per più indizj, pareva essere lo
stesso giudice del tribunale.
Bene
avea dovuto accorgersi che il Luosi, timoroso di sè per le
future contingenze, mentre con insolita severità gli avea
parlato della collera del vicerè, avea tuttavia dato a
divedere di non voler farsene l'interprete nè il più
attivo nè il più sollecito; e a prova di questo gli
bastò avere il gran giudice lasciato passare alcuni giorni
prima di chiamare a sè e d'interrogare il notajo Agudio; forse
per dar tempo di far scomparire le traccie del fatto a chi aveva
potuto aver mano in esso. Ma se il vicerè tornava, ma se
quelli che lo volevan re d'Italia avessero avuto il sopravvento; in
che tremendo spineto egli veniva a trovarsi! E nello stesso pericolo
trovavansi pure avvolti e fatti compagni solidali l'avvocato Falchi,
e, più di tutti, il marchese F..., avuto riguardo alla sua
carica di consigliere di Stato, cui era stato nominato dallo stesso
Napoleone, a dispetto e all'insaputa di Beauharnais che, non si sa
per quali ragioni, avea sempre detestato quel patrizio milanese.
Immaginiamoci
ora dunque quale efficace e terribile influenza dovessero esercitare
tutte queste persone variamente autorevoli e potenti su tutto il
pubblico vessato ed espilato in cento modi, e più recentemente
percosso da un'ultima requisizione sterminatrice, che fu l'uno per
cento messo ai capitali impiegati con ipoteca sui fondi dei
debitori, e da pagarsi dai medesimi in proporzione che si spogliavano
i registri; requisizione che doveva involare al popolo altri sessanta
milioni. Al cospetto di questo fatto enorme, tutti i partiti, tutte
le classi si fondevano in una massa sola, vasta, cupa e mugghiante. E
il ministro Prima, che era l'autore spietato e imperterrito di quelle
tasse, riceveva sopra di sè, perché era presente, tutti
i colpi dell'odio pubblico preparati per il vicerè assente, in
nome del quale venivano estorte.
La
cosa pubblica e le vicende private de' nostri, personaggi versavano
in queste condizioni alla seconda metà del mese di marzo
dell'anno 1814. La campagna di Francia, nella quale Napoleone
inutilmente era stato soprannominato il Centomila uomini,
precipitava al suo fine. Il cielo politico, lungo tutta la zona
d'Italia e Francia, andava sempre più tempestosamente
annottando. In quella notte buja gli uomini dell'azione lavoravan
celati. La guerra dei partiti e degli uomini individui che
capitanavano opposte fazioni veniva fatta all'oscuro. Il conte
Ghislieri sotto mentite spoglie era tornato a Milano in fretta e in
furia. Era il corvo che chiamava altri corvi, per calar tutti insieme
e d'accordo dello Stato alla carogna. Il conte Aquila coi suoi
aderenti, dal proprio palazzo avea trasportato la sede dei convegni
in casa Falchi, specie d'albergo politico, molto simile a quelle
osterie sinistre, dove l'oste e l'ostessa fanno da manutengoli ai
contrabbandieri, e in un bisogno scannano anche gli avventori.
Una
sera appunto del marzo di quell'anno fatale, il conte Aquila
trovavasi in casa Falchi, solo con madama.
-
Sono già le undici e non si vede nessuno, ella diceva.
-
Nè verrà nessuno per questa sera. Ho detto ai soliti
amici, ch'era meglio sospendere questi ritrovi serali. Nel pubblico è
trapelato qualche cosa. È meglio stornare ogni sospetto.
D'altra parte, già son gente che bisogna condurli a mano, e
non c'è nessuno che abbia iniziativa.
-
Me ne sono accorta anch'io. Son brave persone, ma da adoprar solo al
momento, senza preavvisi. Ma intanto, signor conte, come vanno le
cose e come stiamo a notizie? Lo sparo del cannone di jeri mattina ha
fatto cessar per un istante il fermento della popolazione.
-
Non ci credete.
-
Non ci credo.
-
Sono gli estremi giuochi del bussolottiere. Si ha bisogno che il
pubblico rimanga sopraffatto dalla notizia di nuove vittorie, e creda
in Napoleone sempre morto e sempre vivo. Ma la Pasqua di risurrezione
non fu che una privativa di Gesù Cristo. Intanto con questi
stratagemmi, la popolazione pagherà senza andare in collera la
tassa dei capitali ipotecati che ci ruba una cinquantina di milioni,
e la nuova contribuzione di sette milioni, posti sull'estimo, sui
piccoli mercanti, e sui possidenti. Intanto la campagna provvederà
le recenti requisizioni di frumento, fieno e biada, senza osare di
rispondere colle forche e colle zappe.
-
Jeri io fui in campagna.
-
E così?
-
È tutta una polveriera. Un po' di paglia accesa, e lo scoppio
si ha da sentir fino a Parigi. Quei villani irritati hanno detto che
alla prima mia parola saran tutti qui.
-
Lo stesso succede nelle campagne degli altri nostri amici. Ma non
basta.
-
Come non basta?
-
Se io fossi il general Pino, o soltanto il colonnello della Civica,
allora direi d'aver le redini in mano e di poter frustare i cavalli
per dove meglio mi parrebbe.
-
Ma non fate voi le funzioni di capo battaglione?
-
Sì... finchè B... si trattiene a Parigi. Ma ciò
non basta; caporale e capo battaglione vale lo stesso. Bisognerebbe
che tutta la Civica dipendesse da me.
-
Se il colonnello Visconti fosse dimesso, o si ritirasse, o gli
venisse un accidente, dico così per dire, voi sareste sicuro
di salire a quel posto?
-
Avrei per me il novanta per cento.
-
Allora bisogna pensarci.
-
Non c'è via nessuna; è un'idea da mettere in disparte.
Madama
Falchi non rispose nulla a quelle parole del conte, perchè non
c'era da risponder nulla. Ed in quella sera divagarono ad altri
argomenti; nè forse avrebbero pensato mai più alla
carica di colonnello, nè al marchese Visconti che la
sosteneva, nè alla possibilità di rimoverlo con qualche
stratagemma, se non fosse sopravvenuto un accidente dei più
strani, e fuori affatto da ogni previsione. Ecco ciò che
avvenne.
Tre
o quattro giorni dopo, madama Falchi ebbe occasione di far delle
visite. Non avendo ancor messo carrozza, ogni qualvolta non voleva
andar a piedi, prendeva a nolo un fiacre di lusso da un tal
vetturale che stava in Santa Maria Podone e si chiamava Bernacchi
Giosuè. Era questi un bel giovinotto di trent'anni; sedeva
egli stesso a cassetta quand'era ai comandi di madama e, quantunque
fosse il padrone, indossava in quelle occasioni una magnifica livrea
con lavorini, panciotto rosso, lucerna con passamani e stivali
a trombini. Quando madama mandava a chiamarlo, soleva egli stesso,
due o tre ore prima del bisogno, andare in persona a prendere gli
ordini da lei. Quest'incomodo che si pigliava non era indispensabile,
ma a quel vetturale giovinotto e benissimo piantato piaceva
moltissimo madama. Era una bizzarria come qualunque altra; ma anche
le bizzarrie hanno le loro origini prime e le loro cause remote. È
dunque a sapersi, che, molti mesi addietro, intanto che madama stava
abbigliandosi, il Bernacchi venne a prender gli ordini; ed ella,
trasandata com'era e proterva, lo aveva fatto entrar senza tante
cerimonie.
Colui
stuzzicato da un certo spettacolo voluttuoso, ebbe l'ardire di far
dei complimenti a madama con certe frasi involute di scherzo e di
rispetto, ma non senza qualche presa di petulanza. Madama sorrise,
gli diede del matto, ma non andò in collera. Ella era di
quella medesima stoffa carnale onde la natura avea largheggiato
allorchè mise al mondo colei che doveva diventar la donna
dell'impero vasto, che fu l'eroina del Poema tartaro di
Casti, e per le solite viltà degli uomini abbacinati, doveva
dalla storia venire giudicata una sovrana di genio. E la Falchi, meno
l'impero e meno i granatieri, andava molto soggetta agli estri di
Caterina la Grande.
Tornando
al fatto, madama Falchi mandò a chiamare il vetturale. Questi,
secondo il solito, venne di mattino a prendere gli ordini. Fu fatto
introdurre. Essa era a letto.
-
Oggi, gli disse, verrai alle due dopo mezzodì col tuo più
bel fiacre.
-
Alle due io sarò a' suoi comandi.
-
Hai molto a fare in questi dì?
-
La miseria va crescendo tutti i giorni, signora, e chi non ne ha
molti, ama d'andar a piedi. Perfino i gran signori, quando hanno
bisogno di me, non vogliono pagar quasi più nulla. Anche ieri
poco mancò non venissi alle mani con un prepotente.
-
Oh, com'è stata? racconta.
-
Se mi son frenato, è perchè colui aveva le spalline.
-
Qualche generale francese?...
-
No... un nostro milanese... il marchese Visconti...
-
Quale?
-
Il colonnello della guardia civica.
-
Hai fatto male a non lasciargli un ricordo.
-
Sì, per andare in galera...
La
Falchi tacque un momento; era sopra pensiero... infine si alzò
in sui gomiti, come per cambiar positura; in quell'atto le trine
della camicia si scomposero alquanto.
-
Signora, io vado via subito.
-
Che diavolo hai?
-
Quando mi trovo in questa stanza, mi par di girar sullo spiedo e mi
sento bruciare...
-
Oh diamine!
-
Voglia almeno aver la bontà di nascondersi nella coltre, sino
alla testa. Ah signora, che cosa io farei per...
-
Bada, briccone, che tiro il campanello; e qui avendo ella steso il
braccio e la mano verso la corda, rivelò delle proporzioni
romane e delle tinte venete.
-
Senti, continuò poi, se io venissi a sapere che tu hai data
una buona bastonatura al colonnello, e fosse tale da obbligarlo a
letto per qualche mese, ti assicuro che verrebbe la mattina in cui tu
saresti contento di me.
Dette
queste parole, alzò dietro il capo simmetricamente ambe le
braccia, quasi per accomodarsi le treccie; il qual movimento le
rovesciò fin alle spalle le maniche della camicia.
-
Tu dunque devi avermi compreso, proseguiva intanto; e lo guardò
a lungo, come chi adopera gli occhi invece delle parole.
La
faccia del giovane vetturale erasi infuocata come quella di un
ubbriaco.
-
Ora puoi andare, soggiunse. Alle due non mancare; domani o dopo avrò
ancora bisogno di te, e ti manderò a chiamare.
Egli
la salutò e partì, e quando fu per lasciar la casa,
sbagliò l'uscio e si trovò in cucina, tanto era
attonito e fuori di sè.
Questo
colloquio tra il Bernacchi Giosuè e la Falchi avvenne il 19
marzo. La sera del 25 la bottiglieria del Cambiasi dirimpetto alla
Scala era piena zeppa di curiosi che parlavano e s'interrogavano a
vicenda.
-
Ma dove avvenne l'aggressione? chiedeva uno.
-
Precisamente sulla piazzetta del Bocchetto presso al Demanio.
-
Il ladro si avventò con uno stilo.
-
E il colonnello?
-
Il colonnello era stato ad ispezionar le ronde e le pattuglie, e se
n'andava pei fatti suoi. Sebbene colto all'impensata, fu lesto a
cavar la pistola che mise alla faccia del ladro, il quale venne
ferito in una mandibola.
Queste
voci corsero la sera del 25 marzo; e il dì successivo, dopo
che il chirurgo Monteggia ebbe estratta la palla dalla guancia del
presunto ladro, si seppe che l'aggressore non era un ladro
altrimenti, sibbene un vetturale che faceva buonissimi affari, e si
chiamava Bernacchi Giosuè.
III
Quando
la notizia dell'aggressione del colonnello Visconti e del colpo
andato a vuoto e della pronta di lui difesa, insieme colla più
grave che l'aggressore era stato il vetturale Giosuè
Bernacchi, vennero all'orecchio della Falchi, ella, per quanto fosse
perversa e imperterrita, ne ebbe un tale sgomento da sentire per la
prima volta in vita sua che cosa fossero le irrequietudini convulse.
Per un momento ella si tenne perduta, pensando che l'aggressore,
sottoposto a un esame criminale, probabilmente avrebbe messo fuori il
suo nome, esponendola ad uno scandalo inaudito e facendola segno
dell'ira pubblica. Ma la fortuna maledetta, che si compiace di far
l'interesse dei malvagi, condusse le cose in maniera che il
Bernacchi, o fosse veramente in una violenta alterazione mentale,
provocata da una eccezionale esaltazione erotica, quando pensò
di assalire il colonnello; o l'operazione chirurgica della mandibola
fracassata, interessando le parti più delicate del capo e
affini del cervello gli avesse prodotta una infiammazione
violentissima, il fatto sta che ei diede in tali escandescenze
delire, che dalla perizia medica fu giudicato essere in istato di
alienazione mentale; e però, tolto al processo criminale,
venne trasportato al manicomio della Senavra, per essere assoggettato
a cura normale. La Falchi a questa notizia si riebbe, respirò,
e riacquistò quell'appetito vorace ch'erale abituale, e che
l'oppressione patologica delle facoltà digestive le aveva per
alcuni giorni sospeso.
È
inutile il dire che il conte Aquila in quella congiuntura, come di
consueto, venne a farle visita, e solo e insieme con qualche suo
collega; è inutile il dire che il ferimento del colonnello
Visconti fu più d'una volta il tema dei loro discorsi. Ma
giova che il lettore sia messo a parte della seguente frazione d'uno
di quei dialoghi.
-
Anch'io, disse un dì il conte Aquila alla Falchi, vo d'accordo
in questo con Napoleone. Voglio dire che ho una grande
credenza nel destino. Però questo fatto del colonnello mi ha
messo sottosopra. Si vede che il destino ha fatto di tutto per
giovarmi, e tentò quella via appunto che a me pareva la sola
efficace. Ma non c'è riuscito nemmeno lui. Bisogna dunque
cambiar strada. Oggi mi dimetto dalla supplenza di capo battaglione,
e rassegno anche il grado di capitano. O tutto o niente - già
lo dissi. O aver la Civica in pugno, o uscir dalle sue file, perchè
non voglio trovarmi obbligato all'altrui comando, nè essere
impedito di tentare quel che ho in testa.
E
il conte fece infatti come disse. Prodotta una ragione plausibile,
lasciò il grado di capitano, e si recò per alcuni dì
in villa a meditare un nuovo piano di battaglia.
Intanto
i tristi giorni si venivano avvicinando. Si era già oltre la
metà d'aprile; il conte Aquila fece venire a Milano a proprie
spese alcuni uomini che vivevano di contrabbando, furiosi tutti
contro il governo, e segnatamente contro il ministro Prina, perchè
da qualche tempo faceva esercitare dalle guardie di finanza che
stavano al confine svizzero una vigilanza così insistente e
rigorosa, che a coloro non rimaneva più che consegnarsi o
morir di fame. Il conte che, e per il fatto del colonnello Visconti e
per altri ostacoli che non gli pareva di poter superare a seconda
delle proprie vedute, s'era venuto attiepidendo, si sentì
riardere d'ira e di vendetta a certe parole della Falchi che
astutamente gli tornò a parlare dell'offesa fatta dal vicerè
alla povera contessa di lui moglie.
Alla
sua volta, l'avvocato Gambarana avea fatto venire in città
alcuni barcajuoli del Ticino, che dalle nuove gabelle erano stati
ridotti a mordersi le mani per mangiare. La vasta polveriera dell'ira
pubblica era dunque tutta spalancata ai quattro venti, quantunque i
tizzi incendiarj stessero in mano di pochi. Non si aspettava che
un'estrema notizia da Parigi, la quale, come un colpo di cannone,
fosse il segnale di lasciarveli cader dentro. E il colpo alfine
tuonò, che doveva provocare il dì nefasto del venti
aprile.
Già
noi ci siam diffusi intorno ai varj partiti che s'eran costituiti in
Milano durante la rovinosa guerra di Francia i quali,
nell'aspettazione quasi generale di una catastrofe che inghiottisse
l'imperatore e l'impero, stavan tutti in agguato, coll'arme al
braccio, pronti a balzar fuori improvvisi e ad operare giusta i
preparati disegni e i diversi intenti, all'estremo segnale che fosse
venuto da Parigi. Codesto segnale, sebbene per Napoleone fosse tutto
finito sin dal giorno 11, non giunse a Milano con tutti i caratteri
della certezza che il 16 aprile. I partiti principali e d'azione, il
lettore non se lo sarà dimenticato, erano tre. Quello delle
marsine ricamate, ossia dei sostenitori del vicerè;
quello del regno d'Italia indipendente con un re italiano; il partito
austriaco. Il più numeroso era l'ultimo, è inutile
dissimularlo. Il più possente avrebbe potuto essere il primo.
Ma il secondo partito, non avendo un piano ben determinato e negli
estremi giorni essendosi ingrossato di uomini più odiatori del
nome francese che desiderosi del bene della patria, non servì
che a togliere ogni potenza al primo partito, per darla tutta al
terzo, il quale essendo già il più numeroso, diventò
presto il più potente. Il partito italiano puro ebbe inoltre a
subire delle defezioni in sull'ultimo. Tra gli altri, l'avvocato
conte Gambarana, o perchè non patisse la preponderanza
soverchiatrice del conte Aquila, o perchè veramente avesse
cangiato opinione, s'era staccato da esso e dai colleghi, per unirsi
al consigliere di Stato Marchese F... suo cliente, ed al conte di
Domodossola. Nella casa di costui iva e rediva, colla alterna
prestezza di un postiglione, quel marchese o conte Ghislieri di
Bologna, il quale metteva in comunicazione la tenda campale di
Bellegarde, col quartier generale del partito austriaco residente in
Milano, e capitanato appunto da due patrizj, per stortura
d'intelletto funestissimi rinculatori del secolo e ristauratori
inclementi di ogni ordine antico che la libertà redentrice del
pensiero aveva respinto.
Nè
questo partito era destinato a prevalere per le sole ragioni
suaccennate; ma più ancora perchè l'azione impaziente e
furibonda dei capi del secondo partito doveva cadere a suo totale
beneficio.
Ognuno
sa come il duca Melzi, nella notte del 16, mandasse invito ai
senatori perchè si radunassero il dì dopo, affine di
deliberare intorno ad un suo progetto di decreto, e spedire una
deputazione alle alte potenze per chiedere la cessazione delle
ostilità, l'indipendenza del regno, ed un re nella persona di
Beauharnais. Ognuno sa che Prina e Paradisi, nel desiderio del Melzi
e di tutti i fautori del principe, dovevano essere i deputati. Ognuno
sa che il conte Guicciardi fu il più fiero impugnatore del
progetto del duca Melzi; e che il conte Carlo Verri esplicitamente
dichiarò in Senato, che il principe non avrebbe mai avuto il
suffragio della nazione, chè troppi e da troppo lungo tempo
erano i dolori e i lamenti e gli odj che aveva provocati in paese.
Ognuno sa inoltre che, sebbene il presidente del Senato Veneri avesse
raccomandato che ogni discussione e deliberazione rimanesse nell'alto
segreto dell'aula senatoria, pure il pubblico venne invece a sapere
tutto quello ch'era avvenuto là dentro, al punto che alla
sera, nel ridotto, nella platea, nei palchetti del teatro della
Scala, nei caffè, nelle osterie, nelle bettole, la condotta
del Senato, il carattere, i diportamenti, le parole di ciascun
senatore furono i temi generali di tutte le discussioni e di tutti
gli alterchi.
Dai
diffusi rumori di questa gran voce del pubblico si potè allora
comprendere che il senatore Carlo Verri aveva avuto ragione; si potè
comprendere che la maggioranza assoluta dei Milanesi era così
avversa al nome di Beauharnais, che i suoi nemici dovevano avere
facilissimo il giuoco nell'abbatterlo; e che i due partiti, quello
dell'indipendenza e l'austriaco, così contrarj negli intenti,
s'eran trovati, senza saperlo, confederati ed uniti nel tentar
l'ultima prova sul campo di battaglia. I villici e i barcajuoli del
Ticino assoldati dal conte avvocato Gambarana furono per tal modo
sostenuti dai contrabbandieri del conte Aquila, e da un capomastro
guidatore di una coorte di muratori pagati dalla Falchi.
Sorse
così il giorno 20 aprile. Era un giorno cupo e piovigginoso.
Si sapeva che il Senato doveva adunarsi, secondo il consueto, verso
un'ora dopo mezzodì. Lungo i boschetti vicino al palazzo del
Senato da qualche tempo prima di quell'ora passeggiavano sparsi
drappelli di persone. Quegli sparsi drappelli rappresentavano tutte
le gradazioni della società, tutti i toni dello spirito
pubblico; dall'apprensione calma e ragionevole di chi pensa e pondera
il male ed il bene senza passione e senza ira, fino all'impazienza e
alla concitazione fremebonda di chi vuol tagliare ogni nodo senza
indugio e senza ponderare nè il meglio nè il peggio. Si
vedevano uomini ben vestiti, giovinotti eleganti, parecchi ufficiali
della guardia civica in uniforme; si vedevano gironzare lungo la
roggia che lambe il giardino della Villa Reale alquante giacchette di
velluto e di fustagno, che di tant'in tanto si fermavano ad
adocchiare d'intorno, con guardature sinistre e provocanti.
Alcune
persone d'aspetto tranquillo e signorilmente vestite, tenendosi
discoste dagli altri crocchj, discorrevano fra di loro.
-
La giornata vuol essere torbida.
-
Oggi i senatori pagheranno anche la sopratassa del loro stipendio.
-
Pare anche a me. Più d'un'uniforme deve andare all'aria.
-
Ma quel che più mi fa senso è che, mentre da noi tutti
si sente il temporale nelle ossa, l'autorità non se ne dia
punto per intesa.
-
E a me par tutto il contrario.
-
Come?
-
Può darsi che io mi pigli un abbaglio; ma l'autorità...
voglio dire la polizia e il comando militare... par che desiderino
dar mano a quelle berrette e cappello che vedete laggiù.
Stamattina dunque tutta la gendarmeria è uscita da porta
Orientale; perchè? in Milano non vi è un mezzo
battaglione di coscritti; perchè? mentre a Cremona ci son due
reggimenti di granatieri e due squadroni di cavalleria, non si
potevano far venire a Milano, dopo tutto quello che, in seguito
all'ultima seduta del Senato, ad alta voce si disse in pubblico?
-
Il general Pino è venuto jeri.
-
Questo lo so; ma a far che?
-
Che sia stato lui a fare uscire la gendarmeria di città?
-
Potrebbe darsi, ma a qual fine?
-
Gli avranno scritto che tutta la popolazione di Milano è
avversa alla nomina di Beauharnais e vuol fare una tumultuosa
dimostrazione al Senato; ed egli avrà pensato di lasciarla in
piena libertà di tentar tutto quello che vuole.
-
Chi sa che cosa rumina nella sua testa il general Pino?
-
Che abbia preso sul serio il progetto di alcuni matti?...
-
Non sarei lontano dal crederlo, quantunque ei sia buono, semplice e
liberale; ma egli ha tanto il vicerè sulle corna, che per
potergli dire: - Io, che tu volevi umiliare, sono diventato il
re d'Italia, e tu sei una livrea in fuga, - potrebbe perdere
la tramontana e mettersi a discrezione dei matti.
-
Frattanto, in tutto ciò che si sta preparando, io vedo una
rovina irreparabile.
-
Prima di far cattivi pronostici, stiamo a vedere il risultato della
deputazione.
-
Che risultati vuoi tu attendere? se oggi il Senato va all'aria,
domani i Tedeschi son qui. Quel capitano dalmato, col quale fummo
jeri sera al caffè dei Servi (mi pare che si chiamasse
Radonich) e mi ha tutta l'aria d'essere un emissario e un emissario
astuto ed esperto, ha detto che vi è un patto segreto
d'alleanza tra l'Austria e le alte potenze, pel quale, quando la pace
fosse fermata, essa può conservare dell'Italia soltanto la
parte che avrebbe conquistata durante il tempo della guerra.
-
Ma questo mi parrebbe un vantaggio per noi.
-
Se si stesse queti, sì... e se il Senato avesse ottenuto di
proclamare Beauharnais a re d'Italia. Quel Dalmato rivelò il
passo del trattato segreto, per stornare ogni sospetto d'ingerenza
austriaca. Ma quando parla un agente prezzolato, un emissario, una
spia, si coglie la verità a interpretare tutto al rovescio.
Bellegarde ha dunque bisogno di trovarsi a Milano prima che la pace
sia conchiusa. Vi pare che ciò sia chiaro?
-
Fino a un certo punto sì. Ma se Beauharnais si è reso
odioso e insopportabile a tutti; che pro se ne avrebbe ad assumerlo
per re?
-
Allora non si parli d'indipendenza; giacchè per scartare
Beauharnais, bisognerebbe che noi avessimo in guardaroba una scorta
di re italiani belli e fatti, perchè le alte potenze potessero
scegliere. Mi fanno ridere quelli che propongono il general Pino; ma
ci vogliono dei precedenti, i miei cari, e il solo Beauharnais
sarebbe possibile, e perchè ha ancora un esercito, e perchè
è parente di re, e perchè si sa che è carissimo
all'imperatore di Russia. Molti dicono: Murat era un postiglione,
Bernadotte era un avvocato, ed hanno potuto diventar teste coronate;
e il general Pino, se si guarda alla schiatta, è in miglior
condizione di loro. Ma fu una mano onnipotente che coronò quei
primi, non un popolo in ribellione, che non sa nemmeno quel che si
vuole.
Intanto
che questi tre galantuomini parlavano tra loro con tutte le doti che
dovrebbe avere lo storico di Quintiliano, ossia con tanta
tranquillità e freddezza che, se tutti gli abitanti di Milano
fossero stati della loro tempra non sarebbe mai avvenuto nulla di
sinistro; gli altri sparsi drappelli avean lasciati i boschetti
solitari. E a un tratto s'udirono alquanti fischi acutissimi che
venivano dalla parte del naviglio, interrotti da alcuni fuggitivi
battimani. Quelle persone accorsero allora per vedere di che si
trattava. Dinanzi alla porta del Senato era addensata una mediocre
folla di popolo. Coloro si avvicinarono, e per quanto fossero amici
del quieto vivere, attratti dalla curiosità, s'internarono fra
quella al punto da mettersi in prima fila. Da varie parti venivano i
carrozzoni dei senatori. La folla faceva ala alla lor venuta. Un uomo
che alcuni affermarono essere un cameriere del conte Aquila, altri un
servitore del conte Castiglioni, teneva tra mano uno scaleo da
sagrestia, e ad ogni carrozzone che si fermava, vi saliva, guardava
dentro lo sportello, e diceva ad alta voce i nomi dei senatori che ad
uno, a due, perfino a tre vi eran seduti. - Presidente
Veneri - gridava quello con voce stentorea. - Un
lungo fremito, con fischi lacerati e tali da passar le orecchie, fu
l'ora pro eo di quella nuova litania. - Conte
Armaroli, Condulmer, Bruti - altri fischi
come sopra. - Conte Cavriani - nuovi fischi con
esacerbazione. L'astronomo Oriani - battimani
d'entusiasmo. La gloria della scienza non aveva lasciato tempo di
pensare al colore politico. - Conte Carlo Verri -
qui la folla non solo battè palma a palma, ma quando il Verri
discese, molti gli furono intorno a complimentarlo in cento maniere e
a raccomandargli la salute del paese, e che continuasse a tener le
redini a tutta quella canaglia di senatori.
Di
tal modo e con tal processo e successo sfilarono quasi tutti i
carrozzoni senatorj. - A questo punto la folla era cresciuta.
A questo punto quel capo mastro, di cui un nostro amico ci diede
il nome e cognome, ed era un Antonio Granzini, staccatosi di mezzo a'
suoi compagnoni, andò chiedendo a tutti se non era ancor
venuta la carrozza del ministro Prina. A questa domanda, chi si
alzava nelle spalle come a dire: ne so molto io? Chi rispondeva: sarà
entrato cogli altri senatori. Ma dalla maggior parte de' discorsi e
delle risposte colui potè arguire che il ministro Prina non
era venuto altrimenti, come non era venuto nemmeno il conte Paradisi,
forse perchè, essendo stati esclusi dall'incarico della
deputazione, alla quale avevali proposti il duca di Lodi, e avendo
trovato una concorde opposizione in tutti i colleghi, avevano creduto
bene di non presentarsi in Senato. Quel capomastro rimase assai
sconcertato a tale notizia, e ritornò accigliato in mezzo al
drappello dei suoi. Questo gruppo d'uomini, che per la qualità
speciale del vestito furono dagli astanti giudicati muratori e
facchini, finchè non avvenne nulla di nuovo in quella folla
ognora crescente, eran l'oggetto degli sguardi e delle congetture
universali. Ma a un tratto ogni attenzione si distolse da loro,
perchè da Sant'Andrea sboccò sulla piazzetta una
compagnia di guardia civica a farsi strada fra la turba, a collocarsi
davanti al portone, a dire al capitano di piazza Marini, che volevano
essi far la guardia al palazzo, e che però venissero rimandati
i soldati di linea, per la maggior parte coscritti, a cui erasi dato
quell'incarico.
Il
capitano di piazza salì allora nell'aula senatoria a
presentare quella domanda al presidente Veneri, il quale subito
accordò che il palazzo venisse custodito dalla guardia civica
piuttosto che dalla truppa di linea. In questo frattempo il conte
Durini, podestà di Milano, aveva spedito al presidente del
Senato quella famosa dichiarazione, che venne firmata da più
che 140 persone, nella quale si rappresentava al Senato stesso che
«nelle straordinarie vicende in cui versava il paese, era
necessario invocare straordinarj provvedimenti, e che però i
sottoscritti credevano necessario, in coerenza dei principj della
costituzione, che fossero convocati i collegi elettorali, nei quali
solamente risiedeva la legittima rappresentanza della nazione.»
La notizia di questo messaggio del podestà corse tosto tra la
folla. Si dicevano i nomi dei primi che comparivano in quella lista,
e fece senso che il general Pino fosse in testa a tutti.
A
questo punto, disceso il capitano Marini col permesso del presidente,
la guardia civica scacciò bruscamente dai loro posti i soldati
di linea, e strappò i fucili a quelli ch'erano alla porta
immediata della sala della seduta. Avvenuto questo, come quando il
temporale s'addensa ed è prossimo lo scroscio della gragnuola,
corse un orribile fermento nella folla, che s'addensava sempre più
e si stringeva presso alla porta del palazzo. Al di sopra del vasto
mormorio della moltitudine si faceva sentire la voce tuonante del
conte Aquila: - «Noi vogliamo la convocazione dei
collegi elettorali; noi vogliamo che si richiami tosto la deputazione
del Senato.» E qui tra il capitano Marini e lui avvenne un
fiero alterco. Diceva il capitano al conte, che il Senato era già
entrato in seduta, e che invece d'innalzare delle grida plebee,
manifestasse i suoi voti ai senatori stessi. Rispose il conte che ciò
non potea fare, per non avere nessuna veste di rappresentanza; e
senza dar più retta al capitano Marini, continuò per un
pezzo a parlar alto al popolo, il quale, eccitato dalle sue parole,
irruppe a furia nel palazzo, per impedire che il Senato continuasse
nelle sue deliberazioni.
Al
rumore che si udiva nell'aula senatoriale, agli urli di minaccia, il
conte Verri, come quello ch'erasi accorto d'essere in molta grazia
del popolo, si offrì di uscire a parlargli e acquietarlo.
Prima comparve accompagnato dai senatori Massari e Felici. Alla vista
di lui scoppiò un applauso generale; egli tentò
parlare, ma il rumore vasto copriva la sua voce. Rientrò
allora nell'aula; e crescendo gli urli e le minaccie, tornò ad
uscir solo. Ma parlò ancora inutilmente, perchè non era
possibile intendersi tra chi aveva bisogno di calma e una turba
d'uomini che schiamazzava per tirar tutto al peggio. Questa intanto,
che per un pezzo si era trattenuta nel gran cortile, animata dalla
stessa guardia civica, ma più che mai dal conte Aquila, che
pallido e tremendo come Catilina, la eccitava «a salvare il
paese dall'assassinio dei ladri togati che tentavano di scavare
l'ultimo abisso alla patria col volerla prostituita al più
scellerato di tutti», ascese irruente le scale, invase i
corridoj, si addensò nell'anticamera dell'aula. I senatori
tremavano; le parole di minaccia erano esplicite. Allora col conte
Verri entrarono nella sala della seduta il capo battaglione
Ballabio, l'amico del conte Aquila, e il quale, come uomo di mite
animo, tremava di dover essere complice di una strage; ed entrò
con lui il capitano Bossi. Gridavano molti senatori: Che cosa
infine si vuole da noi? Rispose il Bossi: Richiamate la
deputazione. - Convocate i collegi.
Il
conte presidente Veneri non era della tempra del senatore Romano che
percosse quel Gallo il quale aveva osato toccargli la barba; ned era
disposto a morire con arte come un gladiatore. Tremava come una
foglia, e si voleva salvare senz'arte e a qualunque costo. Alle
parole del capitano scrisse dunque tosto, e senza nemmeno
interpellare i colleghi: «Il Senato richiama la deputazione
e riunisce i collegi» e consegnò il foglio al Bossi;
e allorchè questi rientrò, dichiarando al presidente
che il popolo voleva sciolta la seduta, il presidente, a cui tardava
di respirare un po' d'aria aperta e sana, incontanente tornò a
scrivere con una rapidità desiderabile in uno stenografo: «Il
Senato richiama la deputazione, riunisce i collegi elettorali
e scioglie la seduta.» Di questo decreto trenta copie
furono fatte in sull'istante dai segretarj e distribuite al popolo.
I
senatori allora usciron tutti queti queti per una porta segreta. Il
Verri prese con sè tre o quattro dei più odiati, e per
conseguenza dei più tremanti; li raccolse nel proprio
carrozzone, e come il Ferrer di Manzoni aveva fatto col povero
vicario di provvisione, raccomandò loro di rannicchiarvisi in
fondo in fondo, mentre egli, affacciandosi alternativamente ai due
sportelli, avrebbe tentato di stornare la vista del pubblico.
Nè
alcun senatore ebbe a patir violenze nè offese, se non ai
timpani delle orecchie, orribilmente percosse dai fischi estremi.
Tutto
adunque pareva che dovesse esser finito; ma il popolo, quando si è
acceso, è come un ebbro: più si tenta di placarlo e più
gli si dà ragione, e più s'infuria, peggio poi se c'è
qualcuno che ad arte lo riaccenda.
Il
conte Aquila, appena irruppe nell'aula senatoria, in capo alla folla
ululante, si avventò percuotendo col pomo di uno scudiscio la
testa del busto in gesso di Beauharnais, che rotolò giù
per i gradini dell'impalcamento dov'era il tavolone presidenziale; e
mentre altri, salendo sul tavolone stesso, strappò dalla
parete da cui pendeva e trapassò con un colpo d'ombrello il
ritratto ad olio di Napoleone dipinto dall'Appiani, egli stette a
contemplare quella testa divelta dal busto, la fracassò d'un
colpo di piede, e disse: Or regna e bacia le donne altrui. Il
Bruni eragli al fianco e udì quelle parole, e supplicandolo di
rimettersi in calma, quegli invece, più esasperato che mai,
afferrò alcune suppellettili dorate e le scagliò fuori
delle finestre. Il popolo lo imitò. Sedie, tavole, specchi,
stufe, orologi, perfin le vetriere, perfin le porte, tutto fu
manomesso, fracassato, gettato nella strada sottoposta.
Nè
bastò ancora; il furore aveva messo la benda a tutti; i più
scellerati approfittarono di quella cecità ubbriaca. Gli
emissarj austriaci, che non pochi erano già in Milano,
ghignavano che gli uomini dell'indipendenza lavorassero così
efficacemente a pro dell'Austria.
IV
Appena
l'aula senatoria fu smantellata, e le suppellettili, state gettate
sulla via che rade i boschetti, furon raccolte da coloro che non
mancano mai alle dimostrazioni tumultuose, come gli stelloni alle
aste, la folla si diradò e si disperse affatto. Ma c'era quel
drappello d'operai in giacchetta, che lasciando il palazzo del Senato
e prendendo per la via di S. Andrea, camminava di mala voglia perchè
non pativa che il tumulto dovesse finire così presto; e ciò
che più loro cuoceva, che l'oggetto principale a cui volevano
dar la caccia, miracolosamente non fosse comparso in iscena. Giunti
nella via della Sala, trovarono altri sparsi drappelli che si
fermavano di tant'intanto. Avevano anch'essi quell'aspetto,
quell'andatura, quel piglio tra il tediato e l'iracondo che di solito
assumono i bassi operaj quando hanno abbandonato il lavoro consueto e
quotidiano, e aspettano impazienti di poter dar opera a qualche cosa
di straordinario e di sedizioso. Il capo-mastro Granzini, che, in
mezzo a dieci o dodici uomini suoi dipendenti, vide coloro da lunge,
capì che eran pasta da usufruttare assai bene e da mescolare a
quella ch'egli aveva già sotto mano: affrettò quindi il
passo, e come fu loro presso:
-
E che si fa? gridò.
Quelli
si volsero, e si fermarono, guardando biechi chi loro parlava a quel
modo.
-
E che si ha da fare? Quel che fatto è fatto.
-
Il bello non è ancor venuto, galantuomini. Su, dunque, andiamo
a fare una visita al ministro Prina; e se il ministro non c'è,
andiamo a vedere il suo appartamento.
Allorchè
quella squadra d'uomini fu allo sbocco della via della Sala, un'altra
accozzaglia. procedente dalla corsia dei Servi, s'addensava nella via
dell'Agnello. Quantunque fossero persone di apparenza civile e
tenessero spiegati gli ombrelli, pur camminavano concitati
coll'irruenza di un torrente in alluvione. Gridò allora il
capo mastro in mezzo a suoi: Alla casa del Prina! Al qual
grido, come se fosse una parola d'ordine: Alla casa del Prina! fu
risposto da una voce sonora, e che molti asseriscono essere la voce
del conte Aquila. Questo grido ebbe l'effetto di un comando militare;
tutti si mossero uniti come ad assalto determinato: Il ministro
non è in Milano - s'udì allora a
gridare un'altra voce. Nessuno seppe da chi fossero pronunciate
quelle parole, ma dev'essere stato un cocchiere dello stesso Prina,
che, uscito un momento prima dalla casa in cui serviva, e sentendo
quelle minaccie, ritornò a corsa indietro e giunse in tempo
per avvisare il portinajo di sbarrar subito le imposte. Ecco perchè
quando quella torma si presentò e si fermò innanzi alla
casa del ministro, ognuno si meravigliava che fosse già chiusa
a quel modo. Le persone dalle seriche ombrelle, stettero allora
irresolute, quasi pensando che non c'era a far altro. Ma, con
sorpresa generale, quei dieci o dodici uomini in giacchetta, a guisa
di soldati che sfoderano le armi al comando del capo, prima agitarono
in alto i martelli, che seco avevano portato con premeditato
proposito; poi si scagliarono percuotendo di conserva sui battenti
della porta e gridando: Aprite. E in quel punto per disgrazia
venne loro un ajuto inaspettato. D'improvviso fu vista la figura di
un vecchio alto, in maniche di camicia, col capo scoperto, canuto ed
arruffato. Egli s'era fatto largo tra la folla con impeto giovanile.
Volgeva intorno sguardi da ossesso, e colle due braccia alzate
mostrava a tutti una spranga di ferro, di quelle che servono di leva;
una tanaglia, dei chiodi, e una corda, e gridava a tutti con una
concitazione furibonda, che faceva sgomento e ribrezzo a un tempo: Lo
inchioderemo qui su questo battente, appena lo avremo
ammazzato. Avanti or dunque e sfondiamo la porta.
Vorremmo
sapere se Manzoni, quando con tanta efficacia di pennello descrisse
quel vecchio vituperoso che aveva proposto di fare altrettanto collo
sventurato vicario di provvisione, abbia disegnata l'orrida figura
colla reminiscenza di questo modello tolto dal vero.
Ma
che cosa avveniva nell'interno del palazzo? Una di quelle scene che
rinnovano sempre i brividi nel ripensarle. I servi erano entrati
nello studio del ministro, tremanti anche per sè stessi.
Signor padrone, gli dicevano, si nasconda, si
salvi - scappi. Insieme col ministro era un suo
cugino, che per la pietà del parente aveva assunto un aspetto
minaccioso con tutti: minaccioso ed iracondo persino col ministro.
Ecco il frutto della vostra ostinazione maledetta. Ecco a che ci
troviamo per non aver voluto partire. Vi fu un momento di
silenzio. Si sentiva dal basso la furia dei martelli percuotenti la
porta. La figura alta e scarna del ministro era appoggiata allo
scrittojo. L'atteggiamento rivelava uno sforzo di dignità
superstite; ma tremava come una foglia dalla testa ai piedi. E in
quel punto stesso, perchè un lampo fuggitivo di speranza
venisse ad accrescere l'orrore di quella scena, cessò a un
tratto nella via il rimbombo dei colpi di martello, tacque il mugghio
della folla, e si sentì invece a qualche distanza lo scalpito
prolungato della cavalleria. Erano infatti i dragoni della guardia
reale che attraversavano la piazzetta della Scala. Come la folla
erasi dileguata al sonito della cavalleria, e i manigoldi avevano per
poco abbandonata l'infame impresa, così il ministro ebbe un
tremito di reazione e si credette salvo. Ma i dragoni della guardia
reale procedettero quieti per S. Margherita come se nulla fosse;
laonde la folla tornò indietro, e i manigoldi con più
furore di prima tornarono all'assalto. I colpi spesseggiarono con più
orrendo frastuono. Il ministro uscì allora in uno di quei
gridi soffocati che mandano gli epilettici quando vengono assaliti
dal loro malore; piegò le ginocchia e sembrò svenire.
Il cugino e i servi lo presero, lo trassero fuori dello studio, a
braccia lo portarono all'ultimo piano. Incuorato dai servitori, il
ministro si riebbe alquanto e tornò in sè. Ma in quel
momento tutti si accorsero al rumore più intenso e vicino che
il palazzo era invaso. I servi fuggirono. Il cugino disse al
ministro: Nascondetevi là in quel camino, presto.
Poi uscì anch'esso, calcandosi il cappello in testa, e,
senza essere notato da nessuno, s'imbrancò poscia colla
marmaglia che ululante saliva per le scale come fiamme di un incendio
che già raggiunge e soverchia il tetto.
Quando
il popolo invase la casa del Prina, si credeva generalmente che il
ministro non fosse in Milano; tanto è vero che in sul primo,
senza più darsi pensiero del ministro, tutti quelli che erano
entrati si diedero tosto ad abbattere usci ed antiporti, a fracassar
vetriere, a gettar nel cortile e nella via tutte quelle suppellettili
che non eran portabili a mano, a depredare e ad appropriarsi le più
preziose. Quei manuali poi, muratori o fabbri che fossero, capitanati
dal Granzini e da quel vecchio vituperoso che si chiamava Fontana,
e da un figlio di costui feroce come il padre e notissimo a Milano
per la sua vita di prepotenze e di misfatti, salendo sul terrazzo
della casa costrutto a giardino pensile e tutto all'intorno
circondato da grandi vasi d'agrumi, si diedero tosto a lavorare per
demolire, precisamente come se fosse loro stato ordinato da qualche
autorità di atterrare quel palazzo per lasciar sgombra
un'area. Cominciarono dal levare l'inferriata che circondava il
fastigio, dallo smuoverne le pietre che servivano di tetto e di
pavimento, dallo scoprirne e denudarne la travatura. Compiuta
quest'opera con rapidità non credibile, discesero agli altri
piani a levar tutte le inferriate delle scale, delle ringhiere, dei
poggiuoli. In questo frattempo il general Pino, chiamato dalla
gravità enorme del fatto, pedestre era accorso colà ed
era entrato in palazzo. Egli sapeva che il Prina era a Milano,
credeva inoltre che fosse in casa, onde s'affrettò per
salvarlo; ma dopo aver sfidato tutto l'urto spaventoso della folla,
dalla quale, per quanto ei fosse carissimo ai Milanesi, ebbe pure
qualche insulto, partì per avere sentito che il Prina era
altrove. Una orrenda fatalità avea davvero decretato l'eccidio
dello sventurato ministro, perchè se il Pino si fosse
indugiato appena alcuni minuti, forse colui sarebbesi potuto
strappare al furore del popolo. Ma il Pino non poteva esser giunto in
fine della via del Marino, che una voce gridò: Badate che
il Prina è in casa nascosto.
Questa
voce in un baleno passò di bocca in bocca. Il Granzini
capo mastro la sentì e gridò subito ai suoi: Se
c'è, si ha a trovare. Cercate e frugate
dappertutto. Il Fontana padre e figlio stavano in quel punto
strappando l'inferriata della scaletta che metteva alla camera dove
il Prina erasi rifugiato. Giunsero in capo alla scaletta, là
v'era un uscio: l'uscio era chiuso, chiuso per di dentro;
l'atterrarono di un colpo; pareva che quelle belve avessero sentito
l'odore della preda. Pochi uomini erano là. Una persona
civile, che i Fontana non conoscevano, entrò quasi nel
medesimo tempo in quella camera con loro. Entrò nel punto che
il ministro stramazzone stava per essere azzannato. Quell'uomo con
voce soffocata: Centomila franchi, disse,
duecentomila, un milione per voi, se tacete e lo salvate.
Il
Fontana figlio mandò un grido feroce a quelle parole; lo
sconosciuto atterrito fece in due salti la scaletta e fuggì.
(I due Fontana narrarono quel fatto qualche tempo dopo, vantandosi
d'aver rifiutato un milione. Chi fosse poi quello sconosciuto non si
potè mai sapere; forse era lo stesso cugino del ministro.)
Scoperto il Prina, afferrato da quei feroci, tutto fu finito per lui.
Lo fecero discendere. Alle grida: È trovato, è
trovato, si empì di gente il corridojo che metteva alla
scala ed alla stanza fatale. Contemporaneamente il general Pino,
sentito da altre voci che il Prina non era uscito, aveva tosto
spedito il general Peyri, mantovano, per placar la folla e salvare il
ministro. Ma lungo la via, il generale, raffigurato da taluni per lo
stesso Prina a cui somigliava, non sarebbe riuscito a salvarsi, se
non fosse accorso lo stesso Pino per toglierlo all'ira pubblica col
testimoniare chi esso era veramente.
Nè
più nessuno ormai avrebbe potuto stornare la catastrofe della
tragedia orrenda. Nell'interno del palazzo aveva già
cominciato a sfogarsi l'ira pubblica, diventata repentinamente una
furiosa demenza. Cogli ombrelli, coi bastoni, coi pugni, coi piedi
percuotono il ministro, lo strascinano nel cortile, lo denudano dai
panni ond'è coperto, lo portano in una stalla, tutto sudicio e
immelmato, lo mostrano per ischerno alla folla da una lurida finestra
della stalla medesima. Un urlo spaventoso di gioja diabolica alza la
turba a quella vista, mentre quelli che lo tenevano lo lascian cadere
a capo in giù tra quella turba istessa.
Nell'atroce
parapiglia, alcuni uomini forti e generosi, insieme con altri che
forse avevano altro fine, lo strappano alle mani della folla e lo
trasportano nel palazzo Blondel già Imbonati. Ma i due Fontana
e gli assassini, vedendo quel fatto, furibondi discendono sulla via,
spezzano la calca a minaccie di martelli, s'avventano alla porta di
casa Blondel. La porta si riapre, succede una mischia; i più
feroci vincono, e preso ancora il ministro, lo trascinano di nuovo
tra la folla che mugghiante prende per piazza S. Fedele e S. Giovanni
alle Case Rotte. Il Prina domandava il confessore. Lo si
consegna per questo a un vinattiere, che aveva bottega sull'angolo
delle Case Rotte. Succede un po' di tregua. Qualche pietà si
fa strada negli animi della moltitudine. Il padrone della bottega
nasconde il Prina sotto un tino, colla speranza di salvarlo. Ma il
vecchio Fontana, che per poco s'era allontanato, ritornò tra
la folla e sembra che della propria rabbia inesplicabile riaccenda
tutti quanti. Si chiama a gran voce il Prina, si assalta l'uscio
della bottega, si minaccia ferro e fuoco al proprietario - la
bottega è aperta - entra il Fontana cogli altri,
cercano dappertutto e trovano il Prina che loro si offre semivivo.
Qui ebbe fracassata la testa, vuotata una occhiaja, sfiancate le reni
- e qui spirò.
Il
cadavere fu preda della bordaglia inferocita per altre quattr'ore.
Nelle vie per dove esso veniva trascinato, le donne che
s'affacciavano esterrefatte cadevano svenute.
Battevano
le ore nove all'orologio della piazza dei Mercanti, e il cadavere
stava ancora nelle mani della folla. Allo sbocco della via dei
Bossi... una squadra di guardie civiche sentì il lungo
ululato, e vide le fiaccole che rischiaravano l'orribil scena.
Deliberarono di farla finita; incrociarono le bajonette, respinsero
la folla, s'impadronirono del cadavere.... lo trasportarono nel
Broletto; di qui a notte alta fu trasferito e deposto nella chiesa
del Carmine; verso l'alba nel Campo Santo detto La Mojascia.
E
in quella sera stessa, e non molti se lo rammentarono, si videro già
in volta per la città alquante assise bianche d'ufficiali
austriaci. Il conte Aquila si rincasò in preda alla più
cupa costernazione. Ma la Falchi, anche dopo aver veduto a passare
più volte sotto le proprie finestre la folla assassina, potè
tuttavia dormire indifferente la consueta sua notte.
Fidi
al nostro intento di non rivelar che cose nuove o assai poco
conosciute, avevamo divisato di omettere la relazione di questa
famosa giornata; ma assai ragioni ci determinarono a scriverla. Di
quella funesta sommossa uscì a Parigi, come i più
devono sapere, una memoria storica con documenti fin dal novembre del
1814; nella stupenda lettera apologetica del Foscolo vi sono alquante
pagine dedicate a quel fatto; esiste una relazione di esso stesa
dallo stesso Carlo Verri, che fu presidente della Reggenza; sul fine
dell'anno 1859, quando la verità della storia potè
uscire all'aperto, venne pubblicato a Milano un breve racconto di
quell'avvenimento, scritto da un cittadino bresciano, che ne fu
testimonio oculare; a Novara, nel 1860, coi tipi di Agostino Pedroli,
venne in luce un volume intitolato: Milano e il ministro Prina,
narrazione storica tratta dai documenti editi ed inediti per M. Fabi.
Libro commendevole come riassunto, nel quale senza rivelazioni nuove
venne raccolto in fascio tutto quello che prima era stato scritto
sparsamente. In tutti questi lavori è deposto, per così
dire, il processo verbale di quanto succedette all'aperto e sotto i
medesimi occhi del pubblico, ma non si penetra nella vita intima
degli uomini e delle famiglie. Sono vedute prospettiche della parte
ortografica dell'edificio: ma l'occhio non intravede spaccati; vi si
narrano gli effetti e le conclusioni ultime, ma delle origini prime
non si tocca, ma non si risale alle cause; o se qualche volta loro si
accenna, sono esse volgarissime e già da molti anni di dominio
pubblico, nel medesimo tempo che non bastano a sciogliere nessun
nodo, nè a distruggere nessun dubbio; nè per loro,
rimanendo pur sempre alla superfice delle cose, ci è dato di
gettar mai uno scandaglio nel profondo del terreno, che non fu
nemmeno smosso. Colla varia forma d'arte, noi dunque abbiam tentato
di adempire a ciò che in quelle memorie indarno si cerca.
Ed
ora dobbiamo aggiungere, che il sig. Giocondo Bruni seppe da quel
Guerrini, domestico in casa Falchi, che all'alba di quel dì
stette a lungo colla padrona un uomo mal vestito e di tristo aspetto;
che alla sera di quel dì medesimo, allorchè l'orribile
tragedia era finita e il cadavere del ministro Prina già stava
nella sala anatomica della Mojascia, quell'uomo ritornò in
casa Falchi; ch'egli ebbe un lungo alterco colla padrona; che per
parte di lei e di quell'omaccio s'udirono frasi e parole che pareva
di essere all'ergastolo; e che tutto finì in un lungo
silenzio, non rotto che dal suono, per alcuni istanti continuato,
come di monete che si contassero.
E
qui, se si chiude il periodo storico che potrebbe intitolarsi dal
ministro Prina, ci rimangono però a fare altre
rivelazioni, per mettere a nudo alquanti misteri ond'è ancor
buja la catastrofe di quella tragedia. Ma, come vedrà il
lettore, la sede naturale di tali rivelazioni non può essere
questa, ma la successiva, che potrà essere designata sotto il
nome della Compagnia della Teppa. In essa verrà in iscena
l'uomo ignoto che all'alba ed alla sera del 20 aprile ebbe colla
Falchi lunghi e torbidi colloqui; in essa farà una nuova
comparsa il vetturale Giosuè Bernacchi, nell'occasione che dal
manicomio della Senavra sarà licenziato come ristabilito in
salute; in essa verranno ripigliate tutte le fila che in questa
rimasero sospese.
Intanto,
come conclusione al presente episodio, noi faremo al lettore le
domande seguenti:
Il
conte Aquila sarebbe diventato un così fiero nemico di
Beauharnais, se questi non avesse baciato la moglie di lui alla festa
di corte dell'anno 1810?
Senza
di ciò, non pare al lettore che il conte sarebbe stato invece
un gran sostenitore del vicerè?
Se
colui, sempre per avversione al vicerè, che aveva il brutto
vizio d'impacciarsi per simpatie ed antipatie degli interessi privati
e influire arbitrariamente sul corso della giustizia, non avesse
subornato un giudice assai autorevole allora a Milano, e ridottolo al
punto di abusare della propria carica, avrebbe trovato in esso un
complice tanto attivo da rivoltare contro al governo francese quasi
tutta la massa dei pubblici funzionarj di secondo e terzo ordine?
Se
il conte Aquila avesse adoperato per sostenere il vicerè tutta
quell'energia di volontà che adoperò contro di lui, il
principe Beauharnais sarebbe caduto? il regno d'Italia sarebbe andato
a fascio? gli Austriaci sarebbero ritornati?
Se
i due milioni e mezzo del ministro Prina non fossero stati affidati
nelle mani dell'avvocato Falchi; oppure se questi avesse serbato il
segreto colla moglie, il ministro avrebbe potuto scampare dall'ira
pubblica?
Per
quanto lo sdegno pubblico fosse generale e forte, esso avrebbe potuto
scoppiare ed operare nel modo onde operò, senza i pochi che lo
governarono a loro voglia e per i proprj interessi?
Se
il vicerè, dai collegi elettorali e dal voto della
popolazione, fosse stato proclamato re d'Italia, e le potenze
europee, rispettando tal voto, lo avessero confermato, v'erano poi
gli elementi duraturi di un governo forte e sapiente, di una nazione
risorta e felice?
La
teoria inflessibile della provvida sventura non verrebbe qui
opportuna per giudicare quei tempi e quegli avvenimenti?
Noi
poniamo tali quesiti al lettore, senza comunicargli le nostre
soluzioni. Egli deve esser libero di valutare i fatti e di profferire
la sua sentenza.
A
noi bastò d'aver recato in mezzo nuovi dati, che chiameremo
storici, quantunque non sieno desunti che dalla tradizione orale e
dal vago mormorio del pubblico contemporaneo, e da relazioni private
e da racconti di testimonj. Non sempre i documenti legali e deposti
negli archivj svelano intera la verità. Talvolta la
intorbidano, perchè la loro serie non è completa.
L'induzione soltanto è un documento razionale e perpetuo, che,
al pari di un grimaldello, può aprir tutte le porte.
LIBRO
DECIMOTTAVO
La
notte del 9 marzo 1820. - Una serenata. - Stefania
Gentili e la Giulietta e Romeo di Zingarelli. - Giunio
Baroggi. - Il figlio del Galantino. - Una notte nella
casa di Giocondo Bruni. - Il marchese F. - Monsignore
Opizzoni. - Waterloo. - Prometeo e lo scoglio. -
Francesco I e la città di Milano. - La gioventù
lombarda. - Origine della Compagnia della Teppa. - Sue
gesta.
Dei
Cento anni, quasi sessanta hanno ormai compiuta la loro
evoluzione innanzi a noi. Tre generazioni sono scomparse; tre periodi
storici esaurirono il loro processo; a chiudere il centenario ci
rimangono poco più di trent'anni, una generazione e un
periodo. Chi scrive potrà dunque aver la consolazione di
declamare tra poco quei versi con cui il maledetto Oreste inaugurò
il suo ritorno in patria; e l'altra non men dolce compiacenza di
ripetere il distico famoso che l'autore della Secchia rapita
fece incidere sotto al proprio ritratto:
Dextera
cur ficum quæris mea gestet inanem?
Longi
operis merces hæc fuit, etc.
Ma
passiamo al nuovo periodo, che, in mancanza di un altro battesimo più
complesso, abbiamo intitolato dalla Compagnia della Teppa.
Di
questa compagnia, che fece gran rumore in Milano dal 1818 al 1821,
non rimane altra memoria che nella tradizione orale o nella
testimonianza di alquanti galantuomini ancor vivi, sebbene non più
giovani, che nella loro diversa qualità di bastonatori o di
bastonati, furono o parte attiva di essa o vittime tragicomiche. Non
v'è libro stampato, nemmeno tra i più fuggitivi di quel
tempo, dove se ne tenga parola; soltanto ne esiste il processo
firmato dall'attuaro Lomazzi; vi è una relazione scritta da un
tal Milesi, che abbiamo tra mano; e se ne parla nel diario
manoscritto del canonico Mantovani. Sul Giornale di Napoli,
appena quel periodico venne a sapere (com'egli disse con parole per
noi lusinghiere) che noi attendevamo a trattarne distesamente, uscì
un articolo sulla Compagnia della Teppa. Quasi
contemporaneamente ne uscì un altro sul Pungolo,
milanese.
Ma
noi, ringraziando que' due periodici delle parole gentili espresse a
nostro riguardo, osiamo asserire che il ritratto che essi fecero
della famosa compagnia non è conforme all'originale, e che
però siamo indotti a credere l'abbiano confusa con qualche
altra. Essi la fanno scaturire come una guasta propaggine della
Carboneria, e pongono la sua durata dal 1821 al 1829. Ma non c'è
nulla di men vero; chè, sorta invece nel 1817, essa era già
dispersa e soffocata nell'anno 1821. E fu precisamente nei giorni
estremi della sua vita che la parte più generosa di quel corpo
immorale, sotto la falsa luce delle orgie e delle prepotenze
(che il governo austriaco tollerava e forse ajutava), si convertì
repentinamente, prestando mano a quella società segreta che si
costituì allora tra noi non già col nome di Carbonari,
ma di Federali, e tramutando le così dette Vendite in
altrettante Chiese, di cui la principale era a Milano, le
figliali in tutte le città dell'Alta Italia e dell'Emilia.
Se
la Compagnia della Teppa non avesse avuto un tale esito, per
verità che non meritava la pena che la storia e l'arte se ne
occupassero. Come episodio comico avrebbe forse potuto provocare
qualche ilarità; ma gl'intenti quasi sempre bassi e triviali,
a lungo andare, avrebbero soffocato anche il riso nelle bocche dei
lettori onesti. Soltanto essa diventa un fatto assai degno della
riflessione dei pensatori, quando la si considera come una occasione,
sebbene fortuita, di gravi avvenimenti.
Dei
periodi storici onde constano i Cento anni, questo è
forse il più importante; è il punto massimo della
parabola. In tutte le sfere e le forme e gli svolgimenti del pensiero
e dell'azione, tutto si rinnova, si nobilita, si rafforza. Sorgono
nuovi pensatori; una rivoluzione mirabile si compie nella
letteratura; le altre arti, quelle del disegno e dei suoni, procedono
con essa e per essa. In poche parole, la forza espansiva del corpo
italiano tanto più si fa poderosa, quanto più è
violenta la pressione del governo straniero.
Il
21 è il padre del 48, è l'avo del 59. Però,
ond'essere fedeli al programma del nostro lavoro, noi terremo conto
anche di questi elementi. Inoltre, col sistema empirico dell'azione
drammatica e senza avvilupparci nel paludamento scientifico,
proporremo al lettore alquanti problemi sul diritto di testare, sul
matrimonio, sulla patria podestà, sulla maritale. La nuova
imbandigione adunque, per la qualità della materia, e per il
buon volere, ci lusinghiamo vorrà esser presa in qualche conto
dai lettori, i quali vorranno fingere almeno di non essere
malcontenti di noi. Non si è mai sentito a dire che un
Anfitrione sia stato bastonato dai commensali, nemmen quando il
pranzo è riuscito cattivo.
I
Le
prime scene dei periodi storici fin qui da noi rappresentati, si
aprirono sempre, per combinazione, o in teatro o in qualche festa da
ballo, tra la musica, la danza e la bellezza. Sempre si cominciò
coll'allegria e il geniale buon tempo, per finir sempre coll'affanno,
colle sventure e col beccamorto. Possiamo assicurare che questo per
noi non fu mai un sistema adottato. Bensì, contro ogni
disegno, fu una riproduzione spontanea della maggior parte delle
vicende onde è contesta la vita pubblica e privata degli
uomini. Troppo spesso si comincia colla giocondità, colle
speranze e coi castelli in aria; quasi sempre si finisce coi
disinganni e colla disperazione.
E
anche questa volta, se precisamente non ci è dato rimetterci a
sedere o in teatro o all'osteria, dobbiamo però incominciare
il preludio della nuova opera seria con un andantino allegro, ma che,
pur troppo, è destinato a preparar dalla lunga e attraverso a
processi e a successioni inattese di toni, le frasi strazianti di una
catastrofe degna di un Romeo moltiplicato per tre. A noi vengono i
brividi al solo pensarci.
La
notte del 19 marzo 1820, giorno consacrato a San Giuseppe, il
santo nel cui nome l'autore dei Cento anni è stato
battezzato; sulla piazzetta dei santi Pietro e Lino, due
inservienti dei Regi Teatri prepararono in gran segreto una
orchestrina sotto al balcone di un primo piano d'una delle case che
rispondevano su quella piazzetta.
Quasi
contemporaneamente vennero là portati un contrabbasso, un
violoncello, quattro cassette da violino e viola, ecc. Di lì a
non molto sopraggiunsero gli egregi suonatori, o professori, quasi
tutti appartenenti all'orchestra della Scala: Merighi il
violoncellista, Rabboni il professore di flauto, Yvon d'oboe, Corrado
il suonatore di clarinetto, Cavinati e Migliavacca incliti violini di
spalla, Majno prima viola. Tra una schiera eletta di dilettanti,
vennero in ultimo il tenore della stagione, Claudio Bonoldi, cantante
insigne, e più insigne bastonatore di uomini e di giornalisti.
Tra lui e il basso Fioravanti, stretti in grande dimestichezza,
comparvero due belli ed eleganti giovani; uno era il conte Emilio
Belgiojoso, l'altro il figlio del colonnello Baroggi e di donna
Paolina S..., che noi non conosciamo ancora, e che era nato nel 1798
a Roma, dopo le luttuose scene dell'avo, d'ingrata memoria. Il suo
nome di battesimo era Giunio, perchè, essendo stato battezzato
nella chiesa d'Ara Cli, sul Colle Capitolino, sventolando gli
stendardi repubblicani, si volle dargli un nome che ricordasse
l'eterna città e l'instauratore della repubblica romana.
Questo sia detto di passaggio, e torniamo all'orchestra.
I
professori e i dilettanti, messisi al loro posto, diedero principio
alla serenata colla sinfonia dell'Aureliano in Palmira, di
Rossini, che d'allora in poi, per più di trent'anni, continuò
ad essere la sinfonia d'obbligo di tutti i ritrovi musicali. Come
avviene in tali occasioni, la piazzetta e la via dei Meravigli, che
in principio erano al tutto solitarie per la notte assai inoltrata, a
poco a poco si animarono di tutte quelle persone che, avvezze a
rincasarsi ad ora tardissima, s'erano accorte, chiamate dai suoni
lontani, che la loro giornata non era ancor finita. Le finestre e i
balconi delle case rispondenti sulla piazzetta si popolarono d'uomini
e donne, che staccavano come ombre sul fioco albore degl'interni lumi
trapelanti dalle aperte imposte. Curiosa platea e più curiosi
ordini di palchetti, dove le acconciature più appariscenti
erano bandeaux e berrette da notte, sottanini e
mutande. La sinfonia dell'Aureliano fu applauditissima dal
pubblico, che cominciò a diventare affollato, perchè
molti giovinotti che abitavano nelle vie circonvicine ebbero il
coraggio, giacchè era una bella notte di marzo, di rivestirsi
e discendere in istrada. Il tenore Bonoldi cantò di poi
l'arione dell'Otello: «Vincemmo, o padri». Il
conte Emilio, che diventò in seguito il principe Emilio
Belgiojoso, eseguì in unione col basso Fioravanti il duetto
del Mosè: «Parlar, spiegar non posso». Ad
ogni pezzo gli applausi erano strepitosi e meritati. E negli
intermezzi d'aspettazione, il pubblico faceva le chiose, non tanto ai
motivi dei pezzi eseguiti, quanto al motivo di quella serenata.
-
È strano (notava uno degli ammiratori) che la signorina non si
faccia vedere.
-
Che signorina?
-
Diavolo! quella per cui si canta e si suona. Credi tu che si voglia
compromettere la trachea di un tenore di cartello, e far gettare il
tempo ai professori della Scala, per solo amore dell'arte? Là
al primo piano, dove c'è quel poggiuolo, abita quella
giovinetta che in queste ultime tre sere ajutò l'impresario
del teatro Re e il Don Giovanni, che faceva fiasco, col
cantare in costume l'ultima scena della Giulietta e Romeo di
Zingarelli.
-
Ah! la Gentili!
-
Madamigella Stefania Gentili, sissignore, la quale, se continua come
ha cominciato, che Pisaroni e che Colbrand e che Catalani! Ed è
la prima volta che mette piedi sulla scena. Qual voce e qual
sentimento!
-
E quanta bellezza!
-
Per carità, non tocchiamo questo tasto, perchè mi va il
sangue alla testa; in costume di Romeo, coi capelli cadenti... con
quella figura divina, con quelle gambe, con quelle maglie di seta
bianca... torno a pregarti
, cangiamo discorso.
-
Ma, di ragione, sarà il suo amante quello che avrà
fatto allestire una tal serenata.
-
Amanti son tutti quelli che l'hanno sentita. Quando penso che, nel
momento in cui, disperata, ella si lascia cadere sulla tomba di
Giulietta, io ho visto a piangere perfino il barone Gehausen,
direttore di polizia! Che cosa vuoi di più? Questo è il
suo massimo elogio.
-
La presenza però del conte Emilio Belgiojoso mi darebbe a
credere...
-
No. A quanto mi disse ieri in teatro il primo oboe dell'orchestra,
che è quel giovinotto là coi baffi neri, chi avrebbe
dato in qualche furore per lei sarebbe quel giovane lì che sta
presso al conte Emilio Belgiojoso, e che ora prende in mano la
viola... probabilmente suonerà un a solo... È
uno dei più bravi dilettanti, allievo del professore Majno che
gli siede lì presso. È figlio di quella tale che seguì
il colonnello Baroggi in Russia e che vestiva l'uniforme di dragone
come il marito... Te ne devi ricordare...
-
Sì, sì, ne ho qualche barlume...
Ma
qui, i zitto! e i silenzio! della folla, troncarono di
tratto questo dialogo; e il Baroggi incominciò il suo a solo
sul tema della romanza di Garcia, innestata nel Barbiere di
Rossini.
L'a solo
fu suonato a meraviglia, perfino a compiacersene lo stesso
maestro Majno; se non che, proprio nel punto che si era alle ultime
cadenze delle variazioni, dal vicino vicolo Porlezza una schiera di
dodici o quattordici giovinotti irruppe nella via, si rovesciò
come una tempesta maggenga sulla piazzetta, improvvisando una cadenza
di legnate formidabili, dedicate al merito insigne di quei
filarmonici notturni.
Il
tenore Bonoldi, che era alto, nerboruto e prepotente, e che, figlio
di un vetturale di Piacenza, era avvezzo alle baruffe fin da ragazzo,
non si lasciò smarrire, e lavorò di rimando colla sua
canna d'India; la sua canna d'India fedele ch'egli avea sempre seco
per tenere in soggezione la critica. Il suo esempio animò
tutti. Il conte Emilio armeggiò benissimo con una sedia di
bulgaro. Il Baroggi con un leggìo. I più offesi furono
i suonatori, che erano seduti; e in modo speciale se ne risentì
la schiena del professore Majno; perchè l'amore sviscerato,
del genere dell'amor materno, che egli portava alla sua viola di
Stradivari, lo rese dimentico di sè stesso; onde, incurvatosi
su di essa e strettasela al seno, non pensò più che la
schiena rimaneva affatto senza difesa e tutta esposta alle percosse
nemiche. Tutto questo parapiglia avvenne in un minuto. Strillavano le
donne dai poggiuoli e dalle finestre; piangevano i ragazzi che si
erano alzati colle mamme; tumultuavano e si scompaginavano e
fuggivano molti della folla raccolta in piazza.
Ma
ad un tratto gridò uno della schiera degli assalitori: Fermi
tutti! - e fu una voce sonora, piena, autorevole; tutti si
fermarono infatti. Esso guardava il Baroggi, e il Baroggi lui.
-
Ma come sei qui tu fra costoro?
-
Diavolo, non è permesso fare una serenata, tanto per goder le
stelle e provar l'istrumento? Ma costoro poi, che cosa hanno fatto a
te?
-
Nulla m'han fatto; non li conosco nemmeno - se ne togli qui il
tenore della Bianca e Faliero che canta bene e bastona meglio.
-
Dunque?
-
Dunque si era là all'osteria del Galletto fuori di porta
Vercellina, annojati tutti maledettamente, perchè son già
tre giorni che non s'è rotta nemmeno una testa... e ve ne sono
centotrentamila in Milano. Io dico: che cosa si fa stanotte? È
una vergogna per la compagnia... guai s'ella va perdendo del suo
credito. Allora questo signore, che è il conte Alberico B...
ed è il nostro decano, perchè ha trentasett'anni
compiuti... ci sarebbe una serenata da mandar all'aria, - ci
dice - una serenata sulla piazzetta di San Pietro e Lino.
Bastò la proposta. Non si stette nemmeno un minuto a far
consulta; e via tutti, senza nemmen pagare l'oste... La cosa è
semplicissima, e non ho ad aggiunger altro.
Dette
queste parole all'amico Baroggi, del quale teneva stretta una mano
nella propria, colui si rivolse alle due schiere nemiche che avevano
abbassate le armi, come quando sui campi trojani Ettore o Ajace davan
segno alle falangi di sospendere la pugna:
-
Tutto quello che fu detto e fatto, soggiunse poi, sia per non fatto e
non detto. Questo è un mio caro amico, e costoro si sono
difesi in modo che hanno diritto a tutta la nostra stima e
considerazione. Giù dunque le armi, via gli strumenti e
ritorniam tutti insieme a santificare la pace all'osteria...
Siccome
non v'erano antecedenti rancori né cagioni di odio profondo,
l'aspetto, la voce, il contegno del giovine amico del Baroggi, così
fra il farabutto e il bizzarro, mise in un istante la pace e
l'allegria, dove un momento prima aveva infuriato la tempesta.
Essi
partirono. L'orchestra e gli strumenti furon levati, i rimasti della
folla si allontanarono, le finestre si chiusero, le virili berrette
da notte tornarono a comprimere i guanciali accanto ai muliebri
bandeaux; e i silenzj profondi di quella notte non furono più
turbati da rumori nè lieti nè tristi.
Giunte
che furono le due schiere rappacificate al canto dei Meravigli, che
risponde al corso di porta Vercellina:
-
Per andare all'osteria, disse il professore Majno, l'ora è
troppo tarda. Domani alle 9 debbo dar la solita lezione al
Conservatorio. Proporrei dunque di trasportare ad altro giorno la
celebrazione della pace.
-
Allora troviamoci tutti domani alle ore quattro all'osteria del
Galletto, soggiunse il conte Emilio Belgiojoso.
-
Domani, signor conte, è l'ultima sera della stagione, osservò
il tenore Bonoldi. Ella sa che in queste benedette ultime sere
bisogna cantar due volte lo spartito, e contendere colla Camporesi la
mia parte di corone e di fiori.
-
Ebbene, dopodomani.
-
Dopodomani, ripetè il conte Alberico B..., e prego
tutti questi signori ad accettare il pranzo da me. La proposta di
mandare all'aria la serenata, disgraziatamente, fu mia, tocca dunque
a me a pagar la multa. È giusto?
-
È giusto. E qui vennero i saluti, i buona notte, gli a
rivederci, gli addio. Il conte Alberico prese per via di
Brisa; alcuni pel corso; altri per Santa Maria Porta. Il Baroggi, col
suo amico, col conte Belgiojoso, con Bonoldi e i professori
d'orchestra, ritornarono nella via dei Meravigli. Sulla piazzetta
della Scala, Bonoldi diede un fischio, e un servo facendogli lume da
una finestra della casa dove ora è la spezieria del Riva
Palazzi, gli gettò giù la chiave. Altri saluti ed altri
buona notte come sopra. Il conte Emilio fu accompagnato al suo
palazzo in piazza Belgiojoso. Ultimi rimasero il Baroggi col suo
amico, i quali s'avviarono per San Paolo, tirarono innanzi per San
Martino, svoltarono in San Zeno, e qui si fermarono davanti al
portone d'una casa molto vecchia.
-
Abiti qui?
-
Sì... sto in casa del signor Giocondo Bruni, che tu conosci;
un caro vecchio, che mi fa da padre, da tutore, da amico e da
consigliere. Mia madre, ch'è andata a Parigi, lasciò a
lui in custodia tutta la nostra roba, con cui c'è da empire un
magazzino da rigattiere e da fare una pinacoteca sussidiaria alla
raccolta dei quadri dell'Ospedal Maggiore. Anche il signor Bruni ha
una raccolta di oggetti curiosissimi. Anzi ha un ritratto di tuo
padre... eseguito a pastello da uno scolaro del pittore Porta...
quando tuo padre non aveva che venti anni... Esso è in costume
di...
-
Di che cosa? Mio padre faceva il lacchè a venti anni. Credi tu
ch'io abbia paura di perdere la nobiltà? Ma davvero che vedrei
volontieri quel ritratto
mi somiglia?
-
Un gemello non somiglia all'altro come tu a lui...
-
Già il sangue non traligna mai nella porca plebe... a cui mi
vanto d'appartenere... Mio padre era bello come un angelo, era forte
come un leone, era veloce come un cervo... Ed io non canzono... Mi
fanno ridere questi nobili che piangono sui casi della Fuggitiva
del Grossi, e si purgano tutti i giorni per diventare
interessanti... Ma giacchè siamo giunti fin qui... si potrebbe
dormire da te questa notte?... Mi rincresce di andar laggiù
sino a Sant'Ambrogio; d'altra parte ho bisogno di star teco a lungo.
-
Letti non ne mancano. Aspetta che apro lo sportello, e fa conto di
entrare in casa tua.
Giunio,
aperto lo sportello:
-
Va innanzi, disse all'amico.
-
È meglio che tu mi preceda. Fino al primo d'aprile la mia
coscienza non è mai tranquilla abbastanza per quel che
riguarda la cura delle mie gambe.
-
Perchè?
-
Perchè in quel giorno c'è una corsa di fantini a piedi
da porta Orientale fino a Loreto. Ho fatto una scommessa, e già
sono venute a Milano le gambe più veloci del regno Lombardo
Veneto. In questi giorni si concertarono due prove e così
nell'una come nell'altra, quand'io era già di ritorno alla
porta, i miei competitori arrivavano allora a Loreto. Or si aspettava
un Vicentino, del quale si raccontan meraviglie; ma io sono figlio di
mio padre, come Achille era figlio di Peléo, e me ne rido.
Giunio
andò innanzi, accese un cerino, rischiarò la scala
all'amico, e aperse l'uscio della casa. Entrarono ambidue, e passate
due o tre stanze, si fermarono in una sala. Giunio accese una
fiorentina d'argento.
-
Vedi tu questa fiorentina? disse. Ebbene, essa rischiarava le veglie
dotte della madre della madre di mia madre. Eccola lì viva e
parlante in quel ritratto. Guarda...
-
Se questa fiorentina avesse la parola, chi sa che corriere delle
dame!...
-
Zitto, e rispetto ai morti...
-
Ma sai tu che questa tua bisnonna aveva una faccia da far girare la
testa anche ad un mazzaconico?
-
Lo so bene. E quella lì?
-
Oh... cara...
-
Questo cara lo disse un altro prima di te trenta o
quarant'anni sono.
-
Zitto, e rispetto ai morti.
-
Questa poi è mia madre.
-
Non ha la regolarità nè dell'una nè
dell'altra... ma con quell'elmo alla dragona...
-
Rispetto ai vivi: ella è una santa.
-
Intercede pro nobis.
-
E quello lì?
-
È il conte colonnello V...
-
Quegli che avrebbe dovuto essere il padre di tua nonna... se...
-
Che faccia curiosa, non è vero?
-
È un testone bovino... Nel contemplarlo, il pensiero corre più
facilmente al macello che alla caserma, siamo sinceri, caro Giunio, e
lasciando da parte i pregiudizj... Dimmi dunque: se tu, dopo di me,
sei il più bel giovane che abbia conosciuto... a chi ne vai
debitore? Vien giù liscio. Fu un peccato in cipria e parrucca
che si introdusse con garbo nella casa del conte colonnello a far le
veci della commissione d'ornato, e aggiustò i profili ai
posteri. Guarda che bel naso hai tu! Greco d'alta scuola. Che mai
sarebbe stato di te, se questo faccione da profosso, giù per
il naviglio del tempo fosse rotolato, come un pioppo del lago
Maggiore, fino in casa Baroggi?... Ma tu fai delle smorfie, e mi fai
capire che questi discorsi non ti piacciono punto... Ah!... ora
comprendo tutto... Qui vedo gli Inni sacri di Alessandro
Manzoni.
-
E che c'entrano adesso gli inni? ma taci, che sento la voce del
signor Bruni...
E
il signor Bruni, in vesta da camera e in berretta da notte, comparve
sulla soglia d'uno degli usci della sala.
-
Sei tu, Giunio? egli disse.
-
Son io...
-
È tardi, caro, troppo tardi. Manca un quarto alle quattro...
Guaj se tua madre sapesse...
-
Chi ha imparato a suonar la viola (e questo fu col permesso di mia
madre) si espone al pericolo delle serenate... e le serenate
cominciano sempre dopo mezzanotte. E oggi ce ne fu una colla coda...
-
La coda del diavolo, soggiunse l'amico di Giunio.
-
Ma chi è questo bel giovinotto?
-
Non lo ravvisa?
-
Ah... il figlio del Galantino... oh come mi fa diventar vecchio
questo diavolo... Ma da quanto tempo siete a Milano?
-
Da più d'un mese.
-
E perchè non siete mai venuto qui?
-
Precisamente per la grande necessità che ho di intrattenermi
con voi e con Giunio a lungo.
-
È una ragione curiosa.
-
È naturalissima. Ogni qualvolta c'è un affar grave,
difficile e disgustoso da disbrigare, lo si tira sempre per le
lunghe. Gli è come quando c'è la necessità di
un'operazione chirurgica. Si teme più la guarigione che viene
collo spasimo, che la cancrena che si sviluppa senza dar
tropp'incomodo. Ho trovato due o tre volte Giunio, e sempre l'ho
lasciato andar pe' fatti suoi senza dirgli nulla... E se non fosse
stata la bell'occasione di questa notte...
-
Oh bella davvero... (disse Giunio ridendo), ed io non so trovar le
parole per ringraziarti come meriti. Sa ella, signor Giocondo, in che
modo ci siamo incontrati stanotte? Non lo indovinerebbe in cento
anni. Intanto che io suonavo le variazioni del professor Majno su un
tema di Garcia, costui, in compagnia di altri dieci o dodici
ammiratori, mi attestò il suo entusiasmo a colpi di bastone.
-
Ma tu non sei ragionevole, il mio caro Giunio. Dal momento che uno
appartiene ad una corporazione, bisogna bene che ne adempia le leggi.
Questa notte toccò a te e a' tuoi amici. Un'altra notte
potrebbe toccare allo stesso signor Giocondo, se non si facesse
conoscere in tempo. La Compagnia della Teppa bastona tutti
quanti, e non ha nessun obbligo di assumere informazioni preventive.
-
Ah, siete anche voi uno della compagnia? domandò il Bruni.
-
Diavolo!
-
Me ne congratulo tanto; è però una gran vergogna per la
città di Milano..., e mi fa meraviglia come l'autorità
e la polizia non ci provvedano. Ma, in conclusione, a che oggetto
questa compagnia s'è instituita, e in che modo va ingrossando
tutti i giorni?
-
La cosa è semplicissima. Domeneddio, pentito d'aver creato gli
uomini, mandò il diluvio per sterminarli tutti, senza aver
riguardo ai tanti innocenti che, senza dubbio, ci saranno stati anche
allora; perchè la cura doveva essere perentoria, radicale,
assoluta, inesorabile. Se il Padre Eterno avesse dovuto istituire
prima delle commissioni di scelta, sarebbe stato fresco lui più
che le vittime del diluvio... vi pare o non vi pare?
-
Va bene... e così?
-
E così la Compagnia della Teppa, umilmente, si è
proposto il santo scopo di bastonare senza distinzione tutti gli
uomini che di notte trova per istrada. Non vi sembra giusto?
-
Ma se è così, perchè non cominciate a bastonarvi
tra di voi, o membri effettivi della compagnia?
-
Potrà darsi che a ciò si provveda in seguito... il
progresso va per gradi. Per ora bastoniamo gli altri. Ed io non
stetti in dubbio un minuto, quando fui invitato a far parte della
nobile compagnia.
-
Ma non pensate quante brave persone, quanti padri di famiglia che
hanno bisogno di essere lasciati vivere in pace, saranno vittima
della vostra brutalità, ben più facilmente che i beoni,
gli oziosi, i prepotenti?
-
Idee piccole, caro signor Giocondo, idee storte; è impossibile
giudicare i tristi dalle apparenze. Chi sa quante ingiustizie un
padre collo torto commette in famiglia? Chi sa quanti
stranguglioni costa alla moglie un marito che logora il
confessionale? Chi sa come alla sordina succhia il sangue dei pupilli
un tutore che porta il baldacchino? La legge non ha gli occhi d'Argo
nè le braccia di Briareo; non può veder tutto, non può
toccar tutto... Ora un buon bastone che alla cieca e indistintamente
cada sulla testa di quanti s'incontrano a caso, è l'imagine
nodosa e reale della fatalità vendicatrice, tanto rispettata
dagli antichi, perfino dagli dèi, perfino da Giove.
-
Io sarei disposto ad accettare, disse Giunio, tutti questi tuoi
principj di filosofia comica, se nella Compagnia della Teppa non vi
fossero che buontemponi colla fedina criminale netta;
ma ognuno sa che vi sono furfanti d'ogni risma e d'ogni conio.
-
È un errore. Sicuro che nessuno di noi aspira a morire in
odore di santità. Una certa inclinazione al buon vino e alle
belle donne non mostrerebbe in noi alcuna vocazione ad accettar la
regola di S. Francesco; ma furfanti, nel senso che comunemente
si suol dare a questa parola, non ne conta la compagnia.
-
Ti convinco subito del contrario... Qui il signor Giocondo ti potrà
dire chi sia quel conte Alberico B...i che tu m'hai presentato come
uno dei vostri decani.
-
Che cosa so io...? È nobile, è milionario... paga
pranzi e cene... è prodigo, fa il democratico, aspira alla
popolarità... giuoca alla morra anche coi facchini e coi
toffi... racconta frottole con garbo... è stato a
Costantinopoli, è stato in Egitto... fu impresario di
virtuosi, fu direttore di palchi scenici...
-
Fu cortigiano, lasciate che continui io adesso, soggiunse il Bruni,
fu cortigiano e galoppino di biglietti amorosi al servizio di
Beauharnais. Fu spia per diporto. Fu Creonte e Jago e Tersite tutt'in
una volta. Fu manipolatore di discordie tra amici e amici. Libertino
e osceno come Tiberio, come il re di Bitinia, a trent'anni avea già
i denti spazzati via dal calomelano. Prepotente e crudele con quelli
che hanno bisogno di lui, vile e tremante coi generosi e coi forti;
sposò due mogli... che morirono, l'una e l'altra, assassinate
da lui alla sordina, senza coltello, senza veleno, senza laccio;
perchè in maschera spesso d'onesto uomo, essendo volpe
astutissima, teme la legge e sa scansarla; ha sentito parlar della
forca, e sa come le si gira d'intorno senza toccarla.
-
Vi faccio i miei complimenti, signor Giocondo. D'ora innanzi verrò
da voi a imparare lo stile delle lettere commendatizie.
-
Dunque?... disse Giunio.
-
Dunque, anche in questo caso non voglio discostarmi da una mia
teoria... ed è che quando si scopre che un conoscente, un
collega, un amico, è uno scellerato, bisogna fingere di non
saper nulla, bensì tenerlo d'occhio e averlo sottomano.
-
Non si può esprimere con parole, proseguiva Giunio, la
ripugnanza ch'io sento per colui. Senza conoscere affatto i suoi
antecedenti, mi ricordo che mi rifiutai di sedere ad una mensa
comune, per la sola ragione che anch'esso era fra gli invitati. Né
sapendo trovar ragione ad un'antipatia così invincibile, e nel
medesimo tempo fidandomi assai delle antipatie, che per me son come
avvisi del cielo, ne chiesi conto qui al signor Giocondo, il quale
press'a poco mi disse quello che ha ripetuto un momento fa.
-
Eh, caro mio, se si dovesse sempre far caso alle antipatie, e
respingere da sè tutti quelli che per un verso o per un altro
hanno bisogno d'un bagno di zolfo o di acqua ragia, sarebbe
necessario di ritirarsi in una grotta a viver di radici come i
santoni della Tebaide. Ma lasciamo da parte costui; e parliamo
piuttosto di ciò che ben più ti deve interessare.
E
a questo punto, dopo una lunga pausa, il figlio di Andrea Suardi si
cavò di tasca un portafoglio; lo aprì, lo svolse, ne
trasse un involto che spiegò, levandone una carta.
-
Vedi questa carta, Giunio? disse poi; la vede, signor Giocondo?
Ebbene, darei la metà della mia fortuna perchè non mi
fosse mai stata consegnata da mio padre. Sono sei anni che l'ho con
me, ed è dal giorno precisamente in cui esso morì.
Appena l'ebbi letta, il mio primo pensiero fu di volar subito a
Milano per consegnarla a' tuoi parenti; ma mi trattenni. Dopo
sorvennero gli intrighi dell'eredità; e la storia d'una
famiglia e d'una ragazza che pretendeva avere dei diritti al pari di
me: poi la vendita ch'io feci dei possedimenti che mio padre aveva
sul Modenese, perchè non volevo in nessun modo aver a che fare
con quel duca infame che fa da despota, da papa e da boja; poi
vennero i miei viaggi... e sapete perchè ho viaggiato per
tanto tempo? per togliermi appunto alla tentazione di cavar fuori
questa carta e farla di pubblica ragione...
-
Ma e che diavolo c'è in quella carta?
-
La tua fortuna e il mio disonore.
Il
Bruni si alzò aspettando e indovinando. Il giovane Giunio, per
un movimento naturale, stese la mano su quella carta, ma la ritrasse
subito, quasi vergognandosi di un tale atto.
-
Molte volte io fui per abbruciarla, continuò il Suardi; e se
non ti avessi conosciuto davvicino... se non mi facesse dispetto quel
marchesone, gesuita, ipocrita, scellerato, che fu tra quei ch'hanno
ajutato i Tedeschi a tornar qui, e il cui avo fu la rovina della tua
casa, e il disonore della tua bisava, e la cagione per cui mio padre
fu messo alla tortura, certo che l'avrei abbruciata. Ora leggete.
Sono tre facciate, scritte tutte di proprio pugno da mio padre... e
qui c'è la sua firma...
Giunio
prese la carta, e la lesse con attenzione, con affanno e con
impazienza. Il signor Giocondo Bruni, messisi gli occhiali, si
collocò dietro la testa del giovane Giunio per tentare di
leggerla anch'esso. Il giovane Suardi intanto s'alzò, e dopo
aver fatti alcuni passi per la sala, si piantò innanzi al
ritratto di donna Clelia colle braccia incrociate sul petto. La
baldanza provocatrice e gioviale che abitualmente saettava da tutti i
muscoli della sua bella faccia era scomparsa affatto, per dar luogo
ad una concentrazione accigliata e cogitabonda. Sì volse poi
di tratto a queste parole del signor Giocondo:
-
E dire che ci vollero settant'anni per verificar quello che mio padre
già aveva indovinato il dì dopo il fatto avvenuto!...
ma or venite un momento nella mia camera da letto.
I
due giovani seguirono il signor Giocondo.
-
Quello là è il ritratto di mio padre, disse il Bruni
additando un dipinto ad olio dentro una gran cornice barocca. -
Quell'altro è il ritratto della celebre Gaudenzi, mia madre,
quella per cui fu creduto avesse il tenore Amorevoli scavalcato il
muro di cinta del giardino del palazzo V... in contrada Velasca... la
notte che vostro padre trafugò...
Il
giovane Suardi si scosse.
-
Vostro padre, eccolo lì... continuò il Bruni. Guardate
che bell'aria di testa. Aveva vent'anni allora. E adesso vi farò
vedere una cosa rara... molto rara oggi, e aperto un armadio e
trattane una scatola:
-
Questa, disse, è una maschera ritratto, di quelle
ch'erano in gran voga a quel tempo; è della più
perfetta somiglianza, come fui assicurato; mio padre se la mise sulla
faccia a un veglione del teatro ducale per ingannare la contessa
Clelia... e costringerla a palesar la verità. È il
ritratto del celebre tenore Amorevoli. Guardate bene! è opera
del pittore Clavelli, famoso allora in questo genere di lavori.
Così
dicendo, il Bruni, gettatosi un ferrajolo intorno alle spalle, si
adattò quella maschera al volto. Pareva un'ombra evocata e
riplasmata di forme, di carne e di vita.
I
due giovani provarono una sensazione che non era di piacere.
-
È questa un'ora ben solenne, esclamò il Bruni. Vivi e
morti, ci ritroviamo qui tutti uniti, come in un consulto di
famiglia.
II
Il
Galantino, come abbiamo udito dal giovane Suardi, è dunque
morto, assolutamente morto. Gl'impazienti della lunga e, per essi,
troppo lunga sua parte sulla scena di questi Cento anni,
possono ora consolarsi. Noi qui aggiungeremo che, nato nel 1730, morì
nel 1815 a Modena, d'anni 85, lasciando quel figlio che abbiamo
conosciuto; figlio naturale, ma ch'ei volle battezzato col proprio
nome e cognome, e al quale lasciò tutto il proprio avere,
ammontante in terre e capitali a quasi tre milioni di lire milanesi.
E
un altro schiarimento è più che mai necessario a questo
punto. Che cos'era e che mai stava scritto in quella carta che il
giovane Suardi aveva mostrato a Giunio Baroggi e al Bruni?
Il
testamento che fin dall'anno 1813 Andrea Suardi, senza scoprirsi,
aveva spedito in originale al giudice del tribunale civile nelle cui
mani era stata posta la causa tra il Baroggi e il marchese F
,
non aveva ottenuto l'effetto che il Suardi se n'era aspettato. I
denari del marchese avevano corrotto il giudice, avevano corrotto il
notajo Agudio, che a prezzo d'oro aveva vendute le carte e i
documenti relativi a quel fatto, e che si trovavano da sessant'anni
nell'archivio privato del dottor Macchi. I periti calligrafi non
avevano potuto, per mancanza di sufficienti confronti, constatare che
la scritturazione di quel testamento fosse di proprio pugno del
defunto F... In conseguenza di tutto ciò, per sentenza del
tribunal civile venne dichiarato, che «in mancanza di prove
assolute, non potendosi asserire essere quel testamento olografo, ed
autografo del marchese F...; ed anzi, dovendosi ragionevolmente
sospettare fosse una carta ad arte falsificata, a tale sospetto dando
fondamento il modo misterioso onde quel documento era stato
presentato al tribunale; ripugnando inoltre l'idea che potesse essere
in buona fede e avesse in petto i sacrosanti fini della verità
e della giustizia chi aveva pensato a stare occulto con tanta
circospezione, si respingeva fino a nuove dilucidazioni l'atto di
petizione del colonnello Baroggi, rimanendo intanto legittimo
possessore dell'eredità F... il marchese F... ecc., ecc.»
Il
Suardi che, nell'auge della propria fortuna e negli anni della
virilità e della ancor verde vecchiezza, aveva tenuto
gelosamente presso di sè il prezioso documento, sempre col
pensiero e col proposito di farlo comparire all'aperto
inaspettatamente, quando si fosse presentata l'occasione favorevole,
e quando il molto tempo trascorso avesse potuto ragionevolmente
stornare da lui ogni sospetto, si era accorto in che pericolo erasi
messo nello spedire al tribunale di Milano quel documento, e come,
dato un altro giudice ed altri avversarj e men corrompibile la
giustizia, avrebbe potuto scontare sessant'anni dopo la pena scansata
con tanta accortezza, arte e fortuna; onde, dopo la sentenza del
tribunale, senza darsene per inteso, e proponendosi di non mettere
più le mani in quell'intrigo, ritornò alle proprie
terre che aveva acquistate nel Parmigiano e nel Modenese, per vivere
fuor della cerchia e della vista di Milano che lo aveva conosciuto
ciliegia, come dice la frase paesana, e dove vivevano ancor
troppi de' suoi coetanei a rinfacciargli, soltanto col guardarlo, la
sua origine, la sua vita e il libro nero delle sue azioni.
Rincresceva
però al Galantino che la fortuna del Baroggi dovesse rimanere
così inevitabilmente rovinata, e tanto più che delle
ricchezze del conte V..., il marito di donna Clelia, per le
dilapidazioni continue e forsennate del marito di Ada, non era
rimasto quasi più nulla. Come il lettore deve ricordarsi, il
Galantino aveva protetto il Baroggi, capo delle guardie di finanza,
ed erasi preso cura del figlio di lui, e in ogni occasione aveva dato
a divedere di desiderare il loro vantaggio: al punto che, per
rimediare al fatto del testamento, era una volta venuto in pensiero
di lasciare a loro tutta la propria sostanza. Ma, per una delle più
consuete combinazioni della vita, a Parma conobbe una donna e da
questa ebbe un figlio, il quale, com'è naturale, gli fece
cambiar proposito.
E
fu precisamente in quella occasione che, almanaccando dì e
notte, non sapendo in che altro modo giovare al Baroggi, venne nella
determinazione di spedire il testamento olografo al tribunale. La
natura del Galantino non era al tutto perversa; egli non aveva fatto
e non faceva il male per il male. L'arte per l'arte veniva detestata
da lui. Egli era stato uno scellerato, ma per un fine, ma con logica.
La sua individualità lo aveva portato ad amar l'eleganza, a
volere la ricchezza e il fasto; per raggiungere questo scopo avrebbe
sacrificato tutto il parentado, compreso il padre e la madre; ma
appena l'ebbe toccato, e con quella solidità da non fargli più
temere un capitombolo, egli diventò, quasi potrebbe dirsi, un
buon uomo: generoso, caritatevole, affabile, cortese. Non era di
quegli scellerati che, pur nel mezzo dell'abbondanza e di tutte le
cortesie della fortuna, pur nel fasto e tra le grandezze, sono sempre
rabidi di far male altrui, al pari delle tigri che, anche nella piena
sazietà del cibo e colle zanne ancora insanguinate di preda
recente, si avventano tuttavia sul primo che passa, non per altro,
che per metterlo in brani. Il Galantino, crediamo di averlo già
detto, assomigliava al leone che, quando ha ben mangiato, vive e
lascia vivere.
Per
tutte queste cose, il Suardi ebbe amareggiata la vecchiaja da questo
assiduo pensiero di una famiglia che amava, e che, per colpa sua,
trovavasi sul pendio della povertà, senza ch'egli potesse
venire in suo soccorso. Più volte aveva pensato di istituire
eredi in due eguali porzioni il proprio figlio e la famiglia Baroggi.
Ma quando il figlio divenne adulto e crebbe in modo da lusingargli ed
esaltargli il paterno orgoglio, naturalmente mise da parte anche quel
disegno, e provvide ad accrescere anzichè a diminuire le
ricchezze da lasciargli. Godeva di vedersi così fedelmente
riprodotto nell'aspetto fisico del giovane Andrea; si esaltava
all'idea che questo, simile a lui per tutti i doni materiali, più
attraente per quelli di una educazione compita, non aveva bisogno di
lacerarsi la fama onde mettere insieme quella ricchezza che a lui era
costata l'intero sacrificio del buon nome. Così il Suardi
passò gli ultimi anni della vita. E nell'ottantesimoterzo
cominciò a guastarsegli la salute. Allorché la salute
diventa mal ferma, e gli organi della digestione vengono ad
infiacchirsi, l'uomo si fa più apprensivo, il mondo gli si
scolora; retroguardando sul proprio passato, ha noia e pentimento e
rimorso di quegli atti perversi che in una eccezionale vigoria fisica
e nella baldanza di una natura ambiziosa non ha avuto il minimo
dubbio di commettere, e tanto più questo rimorso si fa acuto,
in quanto vede perdurare ed esacerbarsi in altri le tristi
conseguenze di quegli atti stessi.
Fu
allora che, dopo avere stancata la propria mente in cento consulte,
meditò di fare un'ammenda postuma, collo stendere, cioè,
la storia del fatto clamoroso togliendola dal mistero in cui era
ancora avvolta, e col fare la confessione più ampia della
parte principale che in essa egli aveva avuto. Questo disegno lo
eseguì compiutamente; scrisse con brevità e con
chiarezza la storia del fatto, la convalidò colla formula del
suo giuramento, e la suggellò con questa soprascritta: «A
mio figlio Andrea, mio erede universale, perchè la spedisca al
tribunale civile di Milano».
Nello
stendere e nel suggellare questo scritto, egli, a tutta prima, aveva
fermato di non farne parola al figlio; ma quando fu colto dall'ultima
malattia, cangiò d'avviso; chiamò il giovane Andrea
presso di sè, e dopo avergli detto che, come avrebbe trovato
nel testamento, lo instituiva erede universale di tutte le proprie
sostanze, lo mise a parte dell'alto segreto; dissuggellò la
scritta, e gliela diede a leggere, soggiungendo: «Il mio
desiderio sarebbe che tu spedissi, appena sarò morto, questo
documento al tribunale civile di Milano, o alla famiglia Baroggi. Un
desiderio però non è una volontà. Lascio a te
dunque di fare di questa carta quello che ti parrà meglio».
Al
giovane Andrea era nota in gran parte la vita del padre; era noto il
famoso processo (non poteva essere altrimenti) in cui esso era stato
avvolto; ma ripugnandogli l'idea che avesse dovuto trafugare un
testamento chi non poteva vantare alcun diritto all'eredità
della casa F..., egli avea creduto che il padre fosse al tutto
innocente di quell'imputazione. Però è facile
imaginarsi qual colpo gli desse la rivelazione inattesa. La tempra
del giovane Andrea era di quelle così eccezionalmente sane e
rigogliose, che per la via della robustezza e della, a dir così,
baldanza fisica, esercitano una influenza sullo spirito, sul
sentimento e sulle idee morali, inducendovi quel cinismo e
quell'indifferentismo che fa guardare con eccessiva indulgenza tutte
le azioni umane, e definisce per scrupoli e idee piccole e cavilli
quei principj di squisita moralità che rendono inesorabili i
giudizj e le sentenze; laonde non si affannava troppo al pensiero che
suo padre avesse accumulato tanta ricchezza, senza aver troppo
sottilizzato sui mezzi; e che in un mondo così pieno di
bricconi e di raggiratori e di ipocriti e di ladri larvati, egli si
fosse sempre regolato in modo da non cader mai nelle altrui reti,
adottando invece il sistema di tenderle egli stesso a tutti, per ogni
buon conto. Nei giocondi ritrovi, quando egli, studente
all'università di Pavia, spendeva e spandeva a manate le laute
mesate che il padre gli mandava, pel desiderio ch'ei facesse la prima
figura pure tra i giovani delle più ricche famiglie patrizie,
egli non si era mai acceso d'ira contro chi più volte, quasi a
ricattarsi della propria inferiorità, avevagli ripetuto il
noto adagio: Benedetti i figli dei padri che vanno
all'inferno. Invece avea presa la celia pel suo verso e,
rincarando la dose, aveva esternata la propria pietà per quei
poveri giovinotti che avevano i parenti in paradiso.
Nonostante
però una coscienza così elastica, si corrugò e
fremette quando il vecchio padre gli affidò l'inattesa
scritta. Il mondo si abitua allo spettacolo di quelle tante azioni
che, turpi e vergognose e infeste al pari di qualunque delitto
percosso dalla legge, pure non furono contemplate in nessun codice
del mondo; ma non soffre la compagnia di coloro che ne abbiano
commessa alcuna di quelle le quali figurano nella tariffa delle leggi
criminali. Quasi si crederebbe che agli uomini, in generale, non
faccia orrore nè l'idea della colpa, nè la colpa in sè
stessa e per sè stessa; ma sibbene per la pena che deve
subire.
Un
fornitore d'armata che, somministrando vettovaglie avariate e
corrotte, espone un esercito al flagello dei morbi castrensi ed è
la causa certa di più migliaja di morti, non fa quel ribrezzo
che comunemente suol eccitare uno sciagurato che sia stato cinque
anni in galera, per avere, nel furore d'una passione o nell'impeto di
una rissa, ammazzato un uomo.
Il
giovine Andrea, il quale considerava senza turbamento, come suo
padre, allorchè imperversava il sistema delle ferme, aveva
espilato il pubblico a proprio vantaggio; e come in quindici giorni
sotto Mantova, pel tritello guasto da lui somministrato, eran morti
di colica più di cinquecento vigorosi giovani; non seppe
vincere il ribrezzo all'idea che esso aveva trafugato un testamento,
e ciò per il pensiero che un tal delitto, prima del codice
Giuseppino, era punito colla forca.
Or
ripigliando i fatti, il Galantino morì: e dalla straordinaria
acutezza della mente, alla quale era stato debitore della propria
fortuna durante una lunghissima vita, potè dipendere se la
cura che lo aveva affannato negli ultimi anni, gli si alleggerì
al letto di morte, perchè colla condizione di lasciar arbitro
il proprio figlio intorno alla decisione di quell'affare intricato,
esso aveva trovato il modo di liberar la propria coscienza, e
d'impedire nel tempo stesso che il figlio gli portasse un postumo
odio.
Il
giovane Andrea, infatti, se gli fosse venuta la volontà,
avrebbe potuto dare alle fiamme il misterioso documento, e lasciare
che la fortuna e la contingenza dei casi portassero una decisione
definitiva sull'avvenire della famiglia Baroggi.
E
come abbiamo sentito da lui stesso, fu sovente tentato di liberarsi e
di quel documento e delle cure conseguenti; e la lotta tra il
desiderio del buon nome paterno, da cui dipendeva anche il proprio, e
la coscienza che gli mostrava trovarsi tutta nelle sue mani la
fortuna di un'intiera famiglia, fu così forte e così
lunga, da lasciar trascorrere sei anni prima di prendere una
risoluzione. E se, nella notte del 19 marzo, ei non si fosse
incontrato col giovine Giunio Baroggi in quello strano modo che
sappiamo; se l'aver fatto offesa all'amico non gli avesse ingenerato
il desiderio di ripararvi; se la stessa esaltazione mentale provocata
in lui dall'orgia antecedente e dal tafferuglio notturno non lo
avesse tolto a quell'eccessiva cautela che, mantenendo l'uomo
nell'egoismo, lo fa spesso autore di molte ingiustizie; forse sarebbe
trascorso assai tempo ancora prima che il segreto si sprigionasse da
lui e tutto fosse rivelato al Baroggi e al Bruni.
E
a quest'ultimo egli disse, dopo un lungo silenzio:
-
Ora cessate di fare il morto risuscitato, e provvediamo a regolar
quest'affare, che è grave, tanto grave, che a dispetto della
mia natura che sfiderebbe a duello anche il diavolo, e troverebbe la
volontà di ridere anche nel dì del giudizio, pure di
tanto in tanto mi sconvolge il buon umore e mi amareggia l'esistenza.
Il
Bruni si tolse il ferrajuolo e la maschera; ripose questa nella
scatola, la rimise nell'armadio, e:
-
Non c'è poi tanto da amareggiarsi la esistenza, rispose; i
figli non sono solidali delle azioni paterne; e voi avete fatto il
vostro dovere.
-
E se poi tu fossi pentito, soggiunse con slancio il giovane Giunio,
tutto si può finir qui colla fiamma di questa fiorentina. Per
campar la vita a mia madre è rimasto quanto basta; in quanto a
me...
-
In quanto a te mi farai il favore di deporre quella carta nelle mani
del signor Bruni. Nelle tue non è sicura, e so bene che
saresti capacissimo di commettere anche questa pazzia. No. La
giustizia deve avere il suo corso; e penso poi che se a me deve
dolere della fama paterna... anche il marchese F... dovrà
adattarsi a veder messi alla berlina tutti i suoi quarti di
nobiltà... Che cosa vuoi? questo pensiero mi consola
dell'altro, e mi rimette in allegria.
-
Ed or mi viene un'idea, disse il Bruni.
-
Quale?
-
Che si potrebbe finir tutto alla sordina, senza rumori e senza
scandali, e senza che nulla ne trapeli al pubblico.
-
In che modo?
-
Con una transazione.
-
Parlate.
-
Da questa relazione risulta che fu il conte F... a tentar vostro
padre ed a spingerlo a far quel che ha fatto.
-
Ebbene?
-
Andate dunque voi stesso in persona dal marchese e lasciategli andar
di tutto peso sul capo la notizia di questa carta. Voi avete detto
benissimo: se a voi preme la fama del nome vostro, a colui deve
premere quella del suo... e tanto più che essendo gesuita e
sanfedista, ha bisogno d'ingannare il mondo e d'imbiancare i
sepolcri.
-
Caro signor Giocondo, meritate un bacio per questo consiglio: ed è
così semplice ed ovvio, che non capisco come non mi sia già
venuto in testa. Domani vado dal marchese. È in Milano?
-
Lo credo.
-
Come voglio divertirmi allo spettacolo della sua umiliazione!...
-
Per questo non sperate molto... Bisogna conoscerli costoro... Ma or
mi viene un'altra idea... Io conosco un tale che ha delle ruggini
colla moglie dell'avvocato Falchi... Quest'avvocato e l'avvocatessa
devono sapere il come e il quando dal notaio Agudio furon venduti i
documenti che si trovavano nell'archivio Macchi, e forse anche essi
ne furon complici... Questo tale ha un segreto da spaventar
l'avvocatessa; così egli mi disse. Or se una scoperta aiutasse
l'altra, che bel colpo!
-
Ma chi è questo tale?
-
È un tal Granzini, già capomastro, ed ora appaltatore.
Un birbone matricolato che ebbe mano nel fatto del Prina. Ma non
bisogna aver paura d'imbrattarsi, e tutto serve.
-
Io lo conosco. È un socio della compagnia della Teppa.
III
Siamo
in casa del marchese F... nella via di... (quasi ci dimenticavamo
ch'è proibito il dirlo). La stanza dove siede il marchese in
mezzo a cinque o sei persone, è la stessa che mezzo secolo
addietro aveva servito di camera da letto al conte F...; dove era
morto imitando Cosimo de' Medici, il quale, piuttosto che abdicare al
potere per ricevere l'assoluzione dal confessore Savonarola, volse la
testa dall'altra parte, non parlò più, e rinunziò
all'assoluzione. Il conte F..., infatti, nel punto di svelare al
curato di Santa Maria Podone il segreto del testamento fatto
trafugare, udendo la voce del proprio figlio, tacque, e si risolse a
partire per l'inferno, piuttosto che scemare di tanti milioni la
ricchezza dell'unico erede. Rammentiamo queste cose alla memoria di
chi legge, perchè, attraversando tanti anni, è permesso
non ricordarsi più della pagina dove si parla di questo fatto.
Il
marchese F..., in presenza del quale or ci troviamo, è dunque
figlio del figlio di quel conte F..., e pronipote del marchese F...
che per insinuazione del prevosto di S. Nazaro, prevosto galantuomo,
aveva lasciato erede l'unico figliuolo natogli dalla sventurata
Baroggi, con testamento olografo steso sull'abbozzo minutato dal
notajo Macchi. Questo marchese, come aveva riunita in sè solo
la ingente ricchezza provenutagli da due larghe sorgenti, così
aveva congiunti nel proprio esteriore fisico, in un complesso che non
mancava di una tal quale unità di stile, i varj tratti della
fisonomia del padre e dei due avi: l'occhio grigio del marchese senza
cuore, il mento quadrato ed ampio del nonno, il naso aquilino del
padre. Rispetto alle qualità morali, insieme coll'occhio bigio
aveva ereditato dal prozio l'indifferenza spietata; col mento
quadrato l'ostinazione del nonno; col naso aquilino l'orgoglio
paterno; superando poi tutti e tre gli antenati per le facoltà
intellettuali, e più per la coltura letteraria e scientifica.
Onde
non dilungarci in una troppo lunga e minuta analisi, e rendere
tutt'intera la sua fisonomia con una pennellata a guazzo, diremo che,
s'egli fosse nato re o duca, sarebbe riuscito il facsimile del
presente re di Prussia, o di Ferdinando IV di Modena. Ci pare che non
ci sia molto da consolarsi. Viaggiatore, politicante, economista,
bibliofilo, aveva scritto e stampato parecchi opuscoli; aveva
raccolta una biblioteca. Era ambiziosissimo, e desiderava che il
mondo si occupasse di lui. Parlava di tutto con sentenze recise.
Radunava intorno a sè alquante notabilità del terzo e
del quarto ordine. Come dotto, l'oblato bibliotecario
dell'Ambrosiana; come bibliofilo, il librajo Brizzolara; come
direttore di coscienze, monsignore Opizzoni; come letterato,
Francesco Pezzi, estensore della Gazzetta di Milano; per
la parte poi che potevano avere nella cosa pubblica e nella milizia
accoglieva nel proprio palchetto il generale Bubna e il barone
Gehausen.
La
conversazione enciclopedica quasi quotidianamente ei l'apriva in
propria casa dopo il mezzodì, e la chiudeva verso le ore tre,
per uscire in carrozza o a piedi, onde dar aria al polmone, mettere
in movimento il sangue, e preparare lo stomaco a trovare eccellente
l'opera del cuoco.
Nel
giorno in cui ci troviamo, che è il successivo alla
tragi comica serenata di S. Pietro e Lino, la conversazione
verteva su cose d'ordine privato, e il marchese, continuando un
discorso coll'Opizzoni, veniva alle conclusioni seguenti:
-
Insomma, caro monsignore, giacchè ella è l'uomo della
religione e della carità, è necessario si pigli il
fastidio di finir questa faccenda. Mio cugino è stato quel
ch'è stato; pur troppo non è possibile dimenticarsene.
Ma ella m'insegna che il futuro fa spesso l'emenda del passato.
Perchè mio cugino metta la testa a partito e diventi un uomo
come tutti gli altri, non c'è rimedio migliore che questo
matrimonio. Il mondo potrà dire che c'è la figlia
dell'ultimo letto, e con un nuovo matrimonio si verrebbe a
danneggiare la sua condizione pecuniaria. Ma a queste cose monsignore
non suole, come non deve, aver nessun riguardo. Val più
un'anima salvata che la prosperità materiale di cinquanta
figliuoli. C'è la morte, pur troppo, e la ricchezza è
una larva. D'altra parte, a rifletterci bene, io, come tutore della
fanciulla, penso che con un matrimonio fatto fare a tempo a questo
stranissimo uomo di mio cugino, si può arrivare a salvare
qualche parte di quei due milioni che ancora gli rimangono e che, col
suo sistema di prodigalità forsennata, e colle cappellate
colme di zecchini che profonde sul capo di tutte le donne che gli
danno in fantasia (lascio da parte i peccati mortali), finiranno a
svanir tutti ben presto, ed a lasciare a me l'obbligo di fargli la
carità di due o tremila lire all'anno, perchè non abbia
a correre in pubblico la voce che un cugino del marchese F... fu
ricoverato a San Marco.
-
Caro signor marchese, rispose l'Opizzoni, se io mi lascio indurre a
frammettermi in quest'affare, non è tanto (mi perdoni se dico
tutto quel che penso) non è tanto per riguardo del conte
Alberico suo cugino, quanto per riguardo di quella povera ragazza.
Quella ragazza nacque sott'al Duomo, e l'ho battezzata io... una
pasta eccellente, ben avviata, religiosa, timorata... Or che va a
saltar in testa a suo padre e a sua madre (che pur sono bravissima
gente), di farle imparar la musica e di metterla sul teatro?... Fu
una vera ispirazione del diavolo... ed ebbi perciò un alterco
vivissimo col maestro Brambilla, quello che è organista a San
Simpliciano; perchè fu lui che consigliò i parenti a
far fare quel pericoloso passo alla figliuola. Il maestro che mi
sentì a sgridare di ciò i parenti, ebbe un dì il
coraggio d'apostrofarmi con ingiurie... Io già gli ho
perdonato tutto... è il mio dovere, è questa una
condizione del nostro carattere e del nostro istituto... ma da quel
giorno tra me e lui s'impegnò una lotta, una lotta terribile,
una di quelle che, se non fosse superbia il dirlo, e tanto più
ad un ministro di Dio meschino e indegnissimo come io sono, si vedono
impegnarsi nelle sacre istorie tra Satanasso e san Michele; ma voglio
vedere chi la vincerà, se un monsignore del Duomo, o un
suonatore di organo che, di sopramercato, scrive la musica per i
balli di Viganò.
Presente
a questo dialogo trovavasi Francesco Pezzi, il proprietario ed
estensore della Gazzetta di Milano, e il critico teatrale più
in voga e più temuto e, in gran parte, più indipendente
che allora si conoscesse. Avendo esso officiato qualche tempo
addietro il marchese F..., perchè lo raccomandasse al
Governatore di Milano, quando appunto la Gazzetta era stata
messa al concorso, il marchese ammise in seguito il giornalista alla
propria intimità, per averne ammirata la coltura e lo spirito,
e più di tutto, per essere stato preso dalla di lui
cortigianeria, molto lusingatrice del suo amor proprio letterario e
scientifico. In quanto al Pezzi, se adoperò tutti i mezzi e
tutte le seduzioni per rendersi sempre più accetto al
facoltoso ed autorevole marchese, la cosa era naturale. La Gazzetta
gli rendeva da trenta a quarantamila lire all'anno, ed egli aveva
bisogno di tutti coloro che lo tenessero sempre raccomandato presso
la presidenza del governo.
Il
marchese, quando l'Opizzoni si tacque:
-
Ma ella, disse rivolgendosi al Pezzi, ella come giornalista e critico
teatrale, di ragione deve conoscere la signora Stefania Gentili.
-
La conosco benissimo, ed è un prodigio di natura e d'arte. Ma
è costei che il conte Alberico vorrebbe sposare?
-
Costei per l'appunto.
-
Ed è contenta la ragazza?
-
Il conte direbbe di sì... ma ella, caro signor Pezzi, conosce
mio cugino... e sa bene che per conoscere la verità, bisogna
sempre pigliare a rovescio le sue parole. Ha sempre avuto questo
difetto, e convien regolarsi... Ma in conclusione, che ne penserebbe
lei di questa idea di mio cugino?...
Il
Pezzi stette qualche momento senza parlare... Egli conosceva
abbastanza il conte Alberico; al pari di chicchessia, lo disprezzava
e detestava; inoltre, come intelligente ed amantissimo dell'arte
teatrale, essendo anch'egli preso d'ammirazione per le doti
straordinarie di madamigella Gentili, gli aveva fatto addirittura un
senso di dispetto e di ribrezzo, che precisamente al più
spregevole uomo tra quanti ei conosceva, fosse venuta l'idea
d'impadronirsi di quel vago e rarissimo fiore di bellezza, di bontà
e di ingegno. Ma non era il caso di manifestar per intero la propria
opinione. Relativamente a monsignor Opizzoni, bisognava diportarsi
con gran riguardo; e se il marchese tagliava spesso a dritta e a
sinistra sul carattere e sulle qualità del suo nobile cugino,
facilissimamente si sarebbe adontato di chi, senza essere un pari, si
fosse messo a fare altrettanto in sua presenza.
-
Non crederei, disse poi, che madamigella Gentili, alla quale ho
parlato sul palco scenico del teatro Re, possa per ora avere volontà
di prendere marito. Non ha che diciasette anni, ed è tutta
assorta nelle cose dell'arte... Tuttavia... trattandosi d'un
milionario, d'un uomo che ha tante parentele cospicue... potrebbe
benissimo... Ella sa bene, signor marchese, come vanno a finir queste
cose...
Il
Pezzi, che aveva incominciato il suo discorso coll'intenzione di
dargli una conclusione ben diversa di quella che gli diede, cangiò
intonazione, essendosi accorto che il marchese erasi già
rannuvolato.
IV
Ma
non aveva ancora finito di dir queste parole, che un servitore
annunciò il lupus in fabula: il conte Alberico
B...i.
-
Addio, marchese, disse questi entrando... - Ah! Bravo,
monsignore... Spero che il marchese le avrà detto che mi
occorre di lei... Signor Pezzi, la riverisco. Sono contento di
vederla qui per poter farle i miei complimenti pei suoi bellissimi
tre articoli contro il Carmagnola di Alessandro Manzoni. Oh
quella è la maniera giusta di adoperar la critica! Coloro che,
per avere assistito al parto e aver fatto da levatrice, pretendevano
che la nuova creatura fosse una divinità non mai più
veduta, a quest'ora sono tutti ammutoliti... A proposito, conosce
lei, signor Pezzi, l'epigramma che su quest'argomento ho scritto e
fatto inserire nel Corriere delle Dame?
-
Un epigramma l'ho visto infatti... ma, se è quello ch'io
lessi... mi fu detto essere di Davide Bertolotti...
-
Il mio è questo...
Si
leggeva il Carmagnola,
Gran
tragedia al mondo sola:
Chi
dormia, chi sbadigliava,
Uno
solo lagrimava;
Piango,
disse quel buon sere,
Per
quel prode cavaliere,
Che,
da quanto or qui si sente,
Messo
è a morte malamente.
-
È questo appunto l'epigramma che mi fu detto...
-
Essere mio... Quello di Bertolotti non lo conosco.
Il
Pezzi tacque.
-
Eppure alcuni pretendono, proseguiva don Alberico, che il signor
Alessandro Manzoni, per questo sistema di poesia tragica ad uso
oppio, sia destinato a diventare il Dante Alighieri del nostro
secolo... Povero secolo, se il pronostico andasse bene!...
-
Di questa tragedia, entrò allora a parlare il marchese,
rivolgendosi segnatamente al Pezzi, ieri sera ebbi a discorrerne
lungamente nel palchetto del governatore.
-
Del governatore...?
-
Del governatore, sì, che ha voluto leggerla da capo a fondo,
perchè qualcuno gli aveva sussurrato all'orecchio, contenere
dei passi pericolosi e offensivi al governo. Or sapete che cosa mi
disse sua eccellenza?... L'ho trovata tanto cattiva, mi disse, che
sebbene ci sia da notar qualche cosa sulla maniera di pensare
dell'autore, pure non ho creduto di dare alcun rimprovero al censore
che gli ha accordato l'Admittitur. È una produzione
nata morta; a proibirla si correva pericolo di farla vivere, anche in
mancanza di fiato.
Così
nell'anno 1820 venne accolto e giudicato tanto dall'autorità
censoria quanto dalla critica superficiale e sistematica quel lavoro
letterario, che piantava in Italia le prime basi di una letteratura
nuova, la quale, ripudiando le leggi del convenzionalismo arbitrario,
si proponeva di non essere fedele che alla ragione e alla verità;
ma per tal modo fu lasciata uscire in pubblico, col famoso coro della
battaglia di Maclodio, la lirica più alta, più
indipendente, più rivoluzionaria che mai abbia avuta l'Italia.
Quel
coro fu la prima protesta scritta e divulgata, sotto gli stessi occhi
dell'autorità, contro il dominio straniero. Da quella poesia,
per la prima volta, spiccò il volo il pensiero emancipatore,
che non si fermò più. Una fatalità
provvidenziale avea decretato che la stolidezza di un governatore e
l'ignoranza di un censore proteggessero quel volo inaspettato e
incompreso.
Ma
questa breve discussione letteraria fu troncata di colpo dal solito
domestico, che entrò a dire al marchese:
-
C'è un signore che ha bisogno di parlarle.
-
E chi è?
-
Ecco il suo biglietto di visita.
-
Diamine! esclamò il marchese gettandovi l'occhio e
rivolgendosi al conte Alberico: ma non è morto il vecchio
Suardi?
-
Il vecchio Suardi? Che dite mai? Chi sa da quanti anni non c'è
più nemmeno la polvere!
-
Ma qui leggo Andrea Suardi.
-
Andrea Suardi, va bene: è suo figlio.
-
Ma aveva un figlio il vecchio Suardi?
-
Chi sa quanti ne avrà avuti! Ma questo è il solo che si
conosce.
-
E che mai può volere da me? Io lo rimando, che te ne pare
Alberico?
-
Uhm... è un furfante prepotente e manesco, che potrebbe
mettere sossopra tutto il palazzo, se gli negaste di riceverlo.
-
Allora gli faccio dire di tornare un altro giorno.
-
Fate quel che volete, ma io conosco la bestia; è razza di
stalliere, di lacchè e d'ergastolo. Non si sa mai quel che può
succedere.
-
Ma tu lo conosci?
-
Lo conosco benissimo. Chi vive in pubblico, come faccio io, bisogna
bene che si trovi spesso questa canaglia fra le gambe.
-
Allora va tu stesso a dirgli di tornare un altro giorno.
Il
conte B...i, ch'era intrigante e curioso per natura, e avrebbe voluto
sapere a ogni costo il motivo di quella strana visita del consocio
della Teppa, si pigliò l'incarico di fare l'ambasciata egli
stesso.
V
Il
Suardi, intanto, fatto entrare in una antisala, stava guardando i
ritratti della casa F... Marchio F... leggeva in uno scudo
dipinto nell'angolo destro al basso del ritratto ad olio, ed era il
marchese nella cui casa suo padre era nato e aveva servito. Comes
F... lesse sotto a un altro ritratto, ed era il conte rapace, il
vero ladro, il fur magister: stette poi a guardare a
lungo il ritratto del nonno del marchese a cui doveva parlare.
-
Se l'erede ha il muso di costui, pensava tra sè, ora capisco
perchè mi si costringe a un'anticamera così lunga; e
fece due o tre giri per la camera impaziente. In questa entrò
il conte Alberico.
-
Tu qui?
-
Qui tu? domanderò piuttosto. Il marchese è mio cugino
ed è tutore di una mia figliuola. Ecco perchè troppo
spesso devo sopportar la presenza di questo gesuita in cravatta
bianca. Ma tu, che puoi vivere lontano da questi, che son come i
succursali del Sant'Uffizio, che pessima tentazione hai avuta? Ora il
marchese è là con un monsignore del Duomo: un
bacchettone inferocito, che farebbe abbruciare tutte le ragazze
quando son belle... e non darebbe quartiere che alle sciancate, alle
gobbe, alle oppilate. Per accrescere il divertimento, c'è
anche un oblato di S. Sepolcro, un erudito che non parla mai; e
affinchè poi l'intingolo riesca più saporito, c'è
quel chiacchierone superficiale di Francesco Pezzi, che mentre dà
giù botte da orbo a quei poveri diavoli che cantano e ballano
per cavarsi la fame, vien qui tutti i giorni a dare il turibolo sotto
al naso del marchese... il quale l'ha preso a proteggere presso il
direttore di Polizia. Figurati che società! Ti consiglio a
tornare un altro giorno.
-
Non ho tempo d'aspettare; devo parlare al marchese oggi.
-
Ma dimmi tutto a me. Di che si tratta?
-
Si tratta che devo parlare al marchese, a lui, a lui solo, a lui
subito, per un affare della più grande importanza... e sono
stanco di fare anticamera; ma che diamine aspetta a tornare il
servitore che mi ha annunziato? Teme forse il marchese che io lo
mangi?... Non lo mangerò... Va dunque tu stesso a dirglielo.
Il
modo riciso ed aspro, onde il Suardi aveva risposto al conte
Alberico, determinò quest'ultimo a far l'ambasciata presso il
marchese, in maniera da sollecitarlo ad accordare l'udienza
domandata; e ciò anche pel desiderio di venire a saper subito
egli stesso di che grave affare potesse trattarsi. Il marchese disse
dunque al domestico di far passare in un'altra sala quel signore che
aspettava.
Il
servo fece il suo dovere; il Suardi fu introdotto in un'altra camera;
poco di poi v'entrò anche il marchese.
La
presunzione, che il vecchio Galantino avesse avuto la parte esecutiva
in quella faccenda del testamento, che era la storia arcana di
famiglia; e l'altra presunzione, che il conte F... ne fosse stato la
parte principale e direttiva, per cento ragioni e cento indizj e per
delle rivelazioni sfuggite ai vecchi servitori di casa, eransi
radicate nella mente del marchese; ed eran passate al grado di
convinzione, allorchè venne presentato al tribunale il
testamento in originale. Un'altra sua convinzione poi era, che fosse
stato lo stesso Galantino a metter fuori quel documento. A tali
presunzioni e convinzioni s'aggiungeva la coscienza, per la quale ben
sapeva il marchese di avere, a forza di corruzione, fatta violenza
alla giustizia; e che però il vecchio Suardi, con cui era già
stato in lizza per altre vertenze private, avrebbe potuto,
sollecitato dal puntiglio, che è implacabile più del
medesimo interesse, trovare il modo di far saltar fuori, senza
proprio danno, tutta la cabala ascosa. Per tutte queste
considerazioni, allorchè venne a sapere che il vecchio
Galantino era morto, respirò e si tenne salvo, alla scomparsa
di quella spada di Damocle, che per tanti anni gli era
rimasta sospesa in sul capo.
Non
ci vuole pertanto un eccessivo sforzo d'induzione, per imaginarsi
che effetto dovesse produrgli quel biglietto sul quale era il nome e
cognome di Andrea Suardi; che effetto ancor peggiore l'avere appreso
dal conte Alberico B...i che quel nuovo Andrea era figlio del famoso
Galantino, e che in un bisogno, poteva riuscire assai più
formidabile dell'antico.
Questi
effetti però, se furono acuti e lancinanti come le fitte di un
dente molare guasto, investito da un colpo d'aria, furono anche
passeggieri. Era troppo l'orgoglio suo, troppo grande l'idea che
aveva della propria autorità e del nome influentissimo del
proprio casato, troppo tenace la sua ostinazione, troppo profondo lo
sprezzo che sentiva per chiunque fosse sorto dall'infima plebe,
perchè egli pensasse in prevenzione a metter giù le
armi in faccia a quel nuovo nemico. Tuttavia, se non ebbe questo
pensiero in prevenzione, sentì però un astio furioso
per quello che era un giovinastro, secondo le informazioni del
maldicente Alberico; che era sorto dal più corrotto fango, ma
che era milionario al par di lui; milionario e prepotente, e che
veniva d'improvviso a turbare i nobili ozj del suo fastoso e
rispettato ritiro.
VI
Il
marchese, entrando, percorse con una rapida occhiata riassuntiva
tutta la persona del Suardi dalla testa ai piedi.
Il
giovane Suardi, ad un aspetto bellissimo, univa una eleganza
naturalmente signorile, accresciuta dal suo vestito all'ultima
foggia. Portava un abito di panno turchino con bottoni di metallo
dorati; un panciotto di velluto verde a stelline d'oro; pantaloni di
casimiro color persico. Il cappello che teneva fra le mani era di
felpa plumée. Era questo un distintivo di tutti gli
addetti della Compagnia della Teppa. La differenza dei loro
cappelli non consisteva che nella preziosità della stoffa, la
quale dipendeva dalla varia facoltà di ciascuno; ma di
qualunque colore fosse la felpa, il pelo ne doveva esser lungo e
sollevato e scomposto. Secondo alcuni etimologisti, è anzi da
questa usanza che derivò l'appellativo alla compagnia; i quali
etimologisti stanno contro ad una schiera più numerosa, la
quale pretende che un tale appellativo sia invece derivato dai verdi
prati di piazza Castello, situati presso i palazzi Dal Verme e Litta,
dove i socj avevano cominciato a tenere le loro adunanze.
Quando
il marchese entrò, il Suardi stava in piedi. L'uno salutò
l'altro con modo assai contegnoso; era evidente come adempissero alla
prammatica del più vetusto galateo, ma nel tempo stesso come
la loro espansione cordiale fosse molto simile a quella di due
duellanti che si salutano prima di uccidersi. Il marchese però
non disse nemmen di sedersi al Suardi, dopo di avergli domandato in
che cosa poteva servirlo.
-
Il discorso che ho da fare, illustrissimo signor marchese, rispose il
Suardi con ostentata gravità, dev'esser lungo, perchè
la materia è intralciata e seria; però, se mi permette,
mi metto a sedere.
Il
marchese non disse parola, non fece nemmeno alcun cenno; lasciò
fare, ma rimase in piedi.
-
Ella mi ha chiesto in che cosa può servirmi? continuava il
Suardi. La ringrazio della domanda, ma le dirò che ho dei
motivi di credere d'essere invece venuto io stesso a fare un buon
servizio al signor marchese. Vostra signoria sa chi sono. Sa inoltre,
lo credo almeno, di chi sono figlio. Mio padre poi è
conosciuto dalla illustrissima casa F... da più di
novant'anni... è una bella tirata! È dunque per questa
vecchia conoscenza ch'io son qui; per dei rapporti intimi, troppo
intimi, e così non fossero mai esistiti, passati tra mio padre
e il nonno di vostra signoria illustrissima.
-
Io non so nulla e non capisco nulla, rispose il marchese
appoggiandosi ad una poltrona, senza però sedersi.
-
Eppure, ella dovrebbe saper tutto e capir tutto... Io non era nato
quando vostra signoria avrà sentito a parlare di cose ch'io
venni a conoscere tanti e tanti anni dopo. Io non era nato quando la
casa F... era già in questione colla casa Baroggi per una
eredità contestata... Questo vossignoria lo saprà, come
saprà che nel 1813 fu presentato al tribunale il testamento
olografo in originale del suo prozio marchese... Ella poi deve
conoscere più di me e più di tutti in che strano modo e
per che vie arcane siasi riuscito a far sentenziare dal tribunale che
quel testamento era una carta falsificata.
-
Di tutto questo io ne so tanto quanto gli altri. La sentenza non l'ho
proferita io. Se quel testamento fu giudicato essere un documento
falso, fu perchè le prove ne risultarono numerose, chiare,
palmari. Però non comprendo a che conclusioni il signor Suardi
voglia tirare le sue parole.
-
Le conclusioni sono che oggi saltarono fuori dei fatti da cui risulta
che quel testamento era tutt'altro che un documento falso; e che per
conseguenza, dopo settant'anni, la casa Baroggi deve andare al
possesso di quanto le appartiene per diritto.
-
Se ciò è, rispose con agrezza e con sarcasmo il
marchese, non so per che cosa V. S. sia venuta da me. Io non sono il
tribunale.
-
Se V. S. non è il tribunale, è però il marchese
F...; vale a dire che è il pronipote del conte F..., del quale
le deve premere la fama.
-
La fama del mio avo?
-
Se quello che oggi io so... e che domani, occorrendo, potrà
esser fatto noto all'autorità, si fosse conosciuto
settant'anni sono, l'illustrissimo signor conte F... avrebbe perduta
la nobiltà per sè e pei suoi discendenti, e sarebbe
stato condannato ad una pena infamante.
-
Signor Suardi, disse il marchese alteratissimo, mi lusingo ch'ella
non vorrà abusare della mia tolleranza.
-
Voglio vedere invece s'ella saprà far uso della sua sapienza.
Io non venni qui per insultar nessuno. Che pro ne avrei per me e per
gli altri? Venni invece per proporre al signor marchese i modi di
ovviare a tutti gli scandali.
-
La mia coscienza mi dice di non avere nessun timore d'affrontar
scandali. Chi li teme, provveda a scansarli.
-
Ma qual compiacenza, disse il Suardi indignato, può trovare il
signor marchese nel sentire che si abbia a sapere da tutto il mondo
che il suo signor nonno è stato un ladro!
-
Mi stupisco come questa parola debba uscire dalla bocca del figlio
del Galantino. Vostro padre fu scacciato dalla casa del mio prozio
per infedeltà.
-
Ed io so che il vostro nonno eccitò mio padre a togliere il
testamento dallo scrigno del defunto fratello. So che per spingerlo a
ciò gli fece tenere del denaro; so che, per mezzo del suo
maggiordomo, gli promise ventimila lire milanesi di regalo ad opera
compiuta, e quando fossero superati tutti i pericoli. So che,
scomparso il testamento e rimasti in casa F... quei milioni che
dovevano passare in casa Baroggi, il signor conte vostro nonno non si
ricordò più nemmeno della promessa, considerato che a
mio padre non rimaneva modo di far valere le proprie ragioni innanzi
alla giustizia; motivo per cui mio padre tenne sempre presso di sè
il testamento involato, nel pensiero che col tempo si sarebbe
presentata una occasione di punire la vilissima azione del signor
conte. Durante la sua vita, l'occasione non si presentò mai;
ma il vostro nonno, accecato dall'avarizia, non fu previdente, ed io
sono qui a far le veci di mio padre. Questi lasciò scritta la
relazione ampia e circostanziata di tutto ciò che è
avvenuto; in essa espone e confessa la parte che ebbe in quel fatto;
convalida il tutto con giuramento, e medesimamente asserisce e giura
che il testamento stato depositato presso il tribunale è il
vero testamento scritto di proprio pugno dal prozio di V. S. Ill...
Una
tale relazione mio padre la rimise nelle mie mani al letto di morte,
lasciando a me piena facoltà di fare di essa quello che mi
fosse parso più conveniente. Ora il signor marchese può
dire di essere al fatto di ogni cosa; può indovinare il motivo
per cui sono qui; può pensare a condurre le cose in modo
perchè un tale mistero, che per settant'anni rimase nel bujo,
continui a rimaner nel bujo per sempre. Il signor marchese conceda
alla famiglia Baroggi la metà dell'eredità contestata.
I tribunali non devono saper nulla, perchè è una
transazione da farsi e compirsi in via amichevole. Io tacio, il
signor marchese tace, la casa Baroggi tace, e tutto resta finito
colla soddisfazione e l'utile di tutti. Che ne pensa il signor
marchese?
-
Penso, rispose il marchese dopo qualche tempo, che chi ha potuto
inventare il testamento e presentarlo al tribunale come un documento
autentico, può bene avere inventato anche il romanzo di cui
vossignoria, così in digrosso, mi ha dato il sunto, e che mi
sembra degno della fantasia dell'abate Chiari.
VII
Il
Suardi rimase muto; l'ira che lo investì alle parole del
marchese fu di quel genere che pel momento toglie al labbro la
facoltà di parlare.
Ma,
oltre il dispetto che gli venne dall'imperterrita tracotanza del
marchese, ciò che lo fece ammutolire fu il ritorno di un
pensiero che già gli si era sollevato in mente; che, cioè,
l'autorità giudiziaria, come aveva sentenziato essere falso il
testamento, poteva per le ragioni medesime sentenziare essere una
invenzione perversa anche la relazione e la confessione di suo padre.
La pessima fama paterna, l'antecedente giudicato, la riputazione, la
nobiltà, l'autorità di casa F... costituivano degli
antecedenti e delle circostanze tutte favorevoli al marchese, tutte
contrarie al Baroggi.
Allorchè
si è convinti che un fatto è vero; che una ingiustizia
si compie; che altri stanno commettendo un'azione iniqua, a
gravissimo danno di qualcuno, e nel tempo stesso si considera come la
legge non sia sufficiente a venire in soccorso di chi ha ragione,
come la fortuna abbia saputo congiurare in tutti i modi perchè
la verità stessa e la stessa giustizia si presentino sotto una
falsa luce, l'animo riman colto da una specie di disperazione che
scompiglia lo spirito e fa dare in tali schianti d'ira da farci
uscire dalla necessaria moderazione e da spingerci a commetter degli
atti che quasi ci costituiscono in colpa.
Infatti
il Suardi, dopo aver taciuto per un pezzo:
-
Or ben mi accorgo, proruppe alzando e guatando con occhi biechi il
marchese dal capo alle piante; ben mi accorgo che ella è il
degnissimo figlio di suo padre e il più degno nipote di suo
nonno, razza d'infami e di ladri, che protetti dalla nobiltà,
dalle apparenze, dai milioni, dalle parentele, dagli amici satelliti,
dai clienti vili, dalla stessa autorità che si lascia
corrompere volontieri; che facendo l'ipocrita, biasciando ostie sugli
altari per dare pubblico spettacolo di religione e di santità
al popolo credenzone, commettono impunemente ogni sorta di colpe.
Ladro fu il vostro nonno, ladro il padre vostro e più ladro di
tutti, voi, signor marchese; e ve lo dico a chiare note, e se vi
credete offeso, vi sfido. In questa faccenda io non ho interesse di
sorta. Anzi è a mio danno se mi son lasciato indurre a mettere
nelle mani dei Baroggi quella carta di cui io poteva disporre a mio
beneplacito. Ma l'idea di una iniquità rimasta impunita per
tanti e tanti anni; ma il pensiero che quella povera donna stata
tradita dal vostro infame prozio meritava una vendetta postuma; ma il
considerare che il vostro padre scellerato non ha mai saputo dare
nemmeno un soldo di carità a chi era stato defraudato di tanti
milioni; ma più di tutto, il vedere che anche oggi l'ultimo
dei Baroggi, che è un mio amico, è sul pendìo
della povertà insieme colla madre, nata di famiglia
nobilissima e che s'illustrò gloriosamente insieme col marito
sui campi napoleonici; tutte queste cose mi han fatto risolvere a dar
corso a questa giustizia, mi han fatto risolvere, perfino a turbar la
memoria del padre mio. Or vede, signor marchese, che disprezzo ella
mi deve inspirare; ma già dovevo sapere che non era a sperar
nulla da un nemico del paese, da uno che ha fatto tornar qui quella
maledetta peste dell'Austria, da uno che congiura coi Gesuiti a
infestar le coscienze, a guastare la gioventù, a corrompere la
generazione. Razza di ladri siete voi tutti; razza di ladri e, in un
bisogno, anche di spie.
Il
marchese aveva gli occhi fuor delle orbite; spalancò l'uscio,
chiamò i servi a gran voce.
Tutta
la famiglia, accorse.
-
Scacciate, gridò il marchese, questo furfante dalla mia casa.
I
servi, in quattro o in cinque, si accostarono al Suardi; ma esso non
ci vedeva più; e al primo sentirsi tocco dalle loro mani, alzò
il nodoso bambù, lasciandolo cadere come un flagello sulle
loro schiene passamantate. Nacque un parapiglia e uno strepito che
mise a rumore tutta la via.
La
folla si fermò sotto le finestre e innanzi al portone.
Molti
salirono le scale ed entrarono nell'appartamento. E di lì a
non molto un picchetto di poliziotti, di quelli che vennero chiamati
in seguito, con poco gloriosa antonomasia i soldàa della
sgiaffa, capitanati da due gendarmi, entrarono presso il
marchese; e, dopo aver sopportate alquante percosse dall'inferocito
Suardi, s'impadronirono di lui e lo trassero a Santa Margherita.
VIII
Taluno
potrebbe lamentarsi che, dopo sette capitoli, la Compagnia della
Teppa, che fu messa in cima a questo libro come un frontespizio
appetitoso per attirar gente, non sia ancora entrata regolarmente in
fazione. Ben è vero che nel bel primo capitolo ella è
comparsa al mostrone, e ha fatta anche qualche evoluzione
colle sue armi di precisione, quantunque non dotte; ma conosciamo i
lettori e bisogna accontentarli.
Se
non che, siccome abbiam dovuto segnare i contorni delle figure
principali del quadro, prima di arrischiare le linee del fondo; e in
un angolo, per le nostre buone ragioni, ci convenne far trapelare di
già il gruppo futuro dedicato ai sentimenti del cuore; e nel
mezzo alcune aspre figure incaricate di rappresentare tre o quattro
de' più formidabili peccati capitali; e in altro lato, per
l'equilibrio necessario della linea, alcune facce di diversissimo
carattere, onde obbedire alla legge estetica dei contrasti; così
ora ci sarà necessario di metter giù la tinta generale
dell'ambiente storico, prima di far sfilare regolarmente innanzi a
noi le macchiette più o meno strane e bizzarre di coloro onde
si venne costituendo la veramente brusca Compagnia della Teppa.
Caduto
Napoleone a Waterloo, tradito sul Bellerofonte, incatenato
come Prometeo allo scoglio di Sant'Elena, tutt'Europa in un giorno si
trovò arretrata d'un secolo. La fortuna porgendo ajuti
inattesi agli errori militari del mediocre Wellington, aveva fatto
cadere il capolavoro campale dell'inarrivabile Bonaparte. Il
progresso del mondo che, venuto nelle mani di un genio armato e
inesorabile, pareva non dovere trovar più ostacoli
nell'avvenire, di improvviso si mostrò al sole come un mucchio
di rovine, al pari della Roma di Nerone distrutta dalle fiamme in una
notte. Tre secoli di preparazione coraggiosa, insistente, indomabile,
una schiera di genj emancipatori, sempre decimata e sempre rinnovata,
come il drappello della morte, erano trascorsi indarno, avevano
lavorato indarno. Wellington, Schwartzenberg, Blücher, vale a
dire un uomo di second'ordine, ajutato da un bue e da un cignale,
aveano bastato a tanto. Davvero che a pensarci cadon le braccia, e i
supremi concetti della verità, della giustizia e della
grandezza sembran larve e menzogne.
Pio
VII, rinnovatore di tenebre, era tornato a Roma per ispegnere,
riabilitando i Gesuiti, la luce feconda uscita dal Breve Dominus
ac Redemptor di Clemente XIV. A Vienna l'alleanza dei nemici
dell'umanità s'era chiamata santa, quasi a
compromettere il calendario e il martirologio. Il parricida
Alessandro era diventato il dittatore d'Europa, Francesco d'Austria,
Tiberio casto e bigotto, ma più crudele dell'antico,
ricuperava la facoltà di assicurare al suo impero la fama di
spavento della civiltà. Tutti i Borboni, in Francia, in
Spagna, in Italia, erano ricomparsi, come il ritorno di un
contagio, come la peste del bubbone, come il colèra.
Quello
di Napoli, morto che fu Murat, s'affrettò a decretar onori a'
suoi assassini. Ristaurato era il granducato di Toscana, ristaurato
il ducato di Modena. Già il re Emanuele di Piemonte aveva con
un decreto fatto scomparire tutto quanto il sedimento fecondo
lasciato giù dal regno italico. Già Francesco d'Austria
e il re di Napoli s'eran trovati a Roma intorno al papa. Già
la città di Milano era stata visitata dall'Imperatore,
che aveva nominato il vicerè del regno Lombardo Veneto.
Il governo austriaco in Lombardia era compiutamente costituito e
ordinato e di qui influiva direttamente e indirettamente su tutta
Italia.
Già
la popolazione nella sua più larga generalità, stanca
di così lungo e incomodo scombussolamento, si era adagiata,
intenta ai proprj interessi individuali, nel nuovo ordine di cose.
Già nella classe dei pubblici funzionarj, dei nobili, dei
negozianti, fatte sempre le debite eccezioni, erasi svegliato un
germoglio, se non di simpatia, di tolleranza almeno, verso il
ritornato dominio. Ad omettere i frequentati Tedeum ufficiali,
comandati sempre dai dispacci governativi, i ciambellani abbondavano
intorno al sorridente vicerè Ranieri; le dame di corte
affluivano intorno alla viceregina, giovane, bella ed alta come un
granatiere. La popolazione accorrente alle processioni della Santa
Croce e del Corpus Domini, trovava ameno e soave l'eterno
sorriso dell'arcivescovo Gaisruck.
In
altra parte e in altro tempo era una gara per ottener biglietti onde
assistere alla lavanda dei piedi nella sala delle Cariatidi a corte.
Il popolo, stanco di disinganni, aveva trovato il modo di mettere in
pratica il detto vetusto: «accontentati di quello che hai»;
onde potè acconciarsi a mangiare di buon appetito anche le
semplici patate, mentre in addietro gli erano venuti a noja perfino i
pruriginosi tartufi.
La
platea del teatro della Scala, pur troppo, batteva le mani al
comparire delle Loro Altezze nel duplice palchetto.
Le
faccende del mondo teatrale, segnatamente dell'opera in musica,
avean cominciato a diventar l'occupazione principalissima del bel
mondo; però se otto e dieci anni prima era un assiduo tener
dietro ai movimenti delle truppe, alle nomine dei marescialli, ai
bullettini della grand'armata, questo medesimo interesse erasi tutto
rivolto a sapere invece, se, per esempio, Gioachino Rossini scriveva
piuttosto per la fiera di Sinigaglia che per il Tordinona di Roma; a
disputare se Mozart aveva avuto più fantasia di lui; a
domandare se Filippo Galli era di nuovo stato scritturato per la
Scala; se si poteva sperare che Tacchinardi avrebbe cantato al teatro
Carcano; e sopratutto, per qualche tempo, a chieder notizie
sull'incendio del teatro San Carlo di Napoli; e se una volta nelle
osterie e nei caffè nascevan feroci dispute per dare la
preminenza piuttosto a Ney che a Massena, piuttosto a Murat che a
Bessière, caricatori incliti di cavalleria, or quasi
venivasi alle mani per la preferenza da darsi piuttosto alla Catalani
che alla Pisaroni, piuttosto a Nozari che a David.
Ciò
in quanto alla generalità del bel mondo; rispetto agli
specialisti, tra chi portava un certo amore, per esempio, all'arte
drammatica, era un discorrere assiduo di De Marini e Modena e
Barlaffa, e della esordiente Marchionni e dei due Righetti, il
milanese e il veronese; e del caratterista Pertica e del padre nobile
Verzura, ecc. ecc.; e un discutere alquanto appassionato se i
dilettanti del Filo drammatico fossero migliori di quelli del
Filo Gambaro o del Filo Fuston o
del Filo-Navasc, teatrini di dilettanti allora in gran
voga in Milano, ed ora scomparsi tutti. - Se poi erano
antiquari, o proprietarj di quadri, o incettatori di nummi e cammei,
non facevano che parlare del ritorno di Canova a Roma cogli oggetti
di belle arti restituiti dalla ristorazione francese, e della
fondazione del Museo borbonico a Napoli, o del Leone alato rimesso
sulla colonna della piazzetta di Venezia. - Di tutti costoro,
che formavano i quattro quinti del mondo colto e gli undici
dodicesimi della popolazione, non v'era chi punto si occupasse delle
cose di politica; era un terreno che avea scottato e disgustato
troppo: però era molto se correva sottintesa la nozione della
Carboneria; quasi ignote eran le sêtte dei Sanfedisti e dei
Calderari; il nome poi di Adamo Weishaupt e del suo Illuminismo,
chi lo avesse proferito, poteva essere compreso come un professore di
meccanica celeste da quelli che appena conoscono le quattro
operazioni aritmetiche.
IX
Questo
fenomeno storico s'era prolungato dal 15 al 18; soltanto i movimenti
di Rimini avevan fatto nascere alquante bolle fuggitive sull'ampia
gora stagnante; il tentativo di Macerata aveva per poco sospesa
l'attenzione esclusiva per la Gazza ladra di Rossini. Gli
arresti dei Carbonari di Rovigo avevan fatto più senso della
misera fine di Aristodemo. Ma la calma rimettevasi presto.
Codesta
calma tuttavia non piaceva alla gioventù, a qualunque classe
appartenesse; a quella gioventù che, nell'infanzia, dalle
scuole, dai collegi, dal recinto domestico aveva assistito, con
prepostera alacrità, ma senza poter avervi parte, alla
turbinosa epopea napoleonica; e nell'assiduo desiderio di uscire una
volta dalla condizione di fanciulli e di adolescenti, d'improvviso
trovarono che tutto era finito, quando appunto anche per essi parea
venuto il momento di pigliar le armi, di aspirare alle spallette,
alla Corona ferrea, alla Legion d'onore. I più ardenti che,
non sospettando un così repentino cangiamento di cose, aveano
adoperato ogni cura per essere più preparati alla lotta, nella
delusione rimasero iracondi. Quel che avviene nell'ordine fisico,
avviene nell'ordine morale: se un giovane di tempra robustissima,
abbisognevole di moto e attività ed espansione, vien
condannato, per circostanze non prevedute, ad un tenore di vita
sedentario e tranquillo e chiuso, è facile assai che da quella
medesima robustezza, da quel medesimo rigoglìo del sangue
compresso e respinto, gli derivi qualche malore, che lo renda dannoso
a sè e agli altri, mentre sarebbe stato utilissimo, se
l'indole sua naturale e le occupazioni a cui si era preparato fossero
state assecondate e adempiute. Così press'a poco avvenne di
moltissimi tra i giovani lombardi, che, nel punto di lasciare il
collegio e l'università per vestir l'assisa militare e
passeggiar l'Europa militando, si trovarono condannati
all'immobilità, senza sapere a che appigliarsi.
Tutti
questi giovinotti, che per essere naturalmente accattabrighe e
turbolenti e maneschi, avevan tutta l'attitudine, se fosse continuato
il tempo delle guerre, a saltar in mezzo a un battaglione quadrato,
ed afferrare un caporale austriaco per la cravatta, a far prodigi
investendo il nemico a bajonetta in canna; costretti invece a rimaner
chiusi in casa, bisognò pure che sfogassero il loro prurito in
qualche modo; in quella guisa onde spesse volte le adolescenti
monacande, nei silenziosi chiostri, non essendo mai consolate da
nessun bel viso di giovane, eccitate dall'istintivo ardore del
sangue, arrivano a trovare appetitoso perfino il faccione
dell'ortolano e dello spaccalegna del convento. Se a un torrente si
chiude lo sbocco da una parte, esso irrompe da un'altra. È
antico l'adagio, che quanto non va nella suola, va nel tomajo. Tra
gli anni 1816 e 1817 non pochi di codesti giovani, attratti da
un'indole congenere, si trovarono insieme e si confederarono; e non
avendo un nemico propriamente detto da combattere, si accinsero, per
passatempo e a sfogo di umori acri, a tribolare il prossimo.
Cominciarono dapprincipio con alcune risse, spontaneamente offerte
dall'occasione; di poi, l'esito più o meno fortunato di quelle
li venne impegnando grado grado a un sistema di offesa e di difesa;
in seguito, acquistatisi qualche fama per frequenti e chiassose
vittorie, si diedero, come avevan fatto un tempo i paladini e poscia
i capitani di ventura, a fiutare dappertutto dove vi fosse da menar
le mani, da metter la via in rumore, da portar lo scompiglio in
qualche pubblico o privato convegno, da disturbare qualche crocchio
di persone. Codeste loro imprese, al pari dei melodrammi, si
dividevano in serie, semiserie e buffe. In generale però,
nella loro intenzione, meno qualche caso di vendetta, non avevano mai
fini nè serj, nè colposi; bensì avveniva spesso
che una soperchieria fatta da essi per ridere e passare il tempo,
producesse poi degli effetti gravi, e qualche volta anche funesti.
Per
trovar le prove di ciò in un fatto a cui abbiamo assistito; se
il bastone della compagnia brusca avesse fracassata la
viola Stradivari del professor Majno, che a lui era costata lire
tremila, per metter insieme le quali aveva dovuto sottostare a mille
privazioni e tenere allo stecco tutta la famiglia; il mondo poteva
ridere fin che voleva, ma l'egregio professore del Conservatorio
avrebbe dovuto passare lunghi giorni di lutto e ritornare alle
privazioni di prima, e far gemere di nuovo la famiglia; chè
non per nulla aveva sagrificata la schiena al troppo caro istrumento.
Ma questo è ancor nulla; ma i socj della Teppa avevano un
gusto matto di bastonare i mariti per toglier loro le mogli. Non sarà
stato frequente il caso che un marito idolatrasse la moglie come il
Majno idolatrava la viola; ma, in ogni modo, essere assalito di notte
all'impensata, sentirsi bastonato molto, trascinarsi a casa a passo
lento come il Cucullino di Ossian, tastarsi le doglie, prepararsi
l'empiastro d'olio e cera, applicarsi le fasciature; in ultimo, tra
le fitte in crescendo del dolor fisico, volgere intorno lo
sguardo, e trovar la casa deserta, e non veder più la moglie,
e domandarla indarno, come Enea aveva fatto colla sua Creusa; e poi
pensare, oh orrore! che i rapitori eran tutti giovani e anche belli,
e che la cara moglie era bella e molto giovane e, per certi sintomi,
Forse
non nata a fedeltà modello;
caro
lettore, siamo giusti e non neghiamo la nostra pietà a quel
migliajo di mariti, de' quali il citato non è che uno smorto
ideale.
Queste
soperchierie quotidiane avevano suscitato un certo spirito guerriero
anche in molta parte di quella popolazione che non apparteneva alla
Teppa; chè non creda il lettore che i compagnoni di essa
fossero invulnerabili come Achille, concessa la sanatoria
anche del tendine. - No - le rappresaglie nascevano, e
frequenti e feroci. E molte volte quelli che s'eran mossi per rompere
la testa altrui, eran andati a casa colla testa rotta. Per aver
un'idea di codesto spirito guerriero passato di quel tempo dai campi
aperti delle battaglie europee nelle anguste vie della tortuosa città
nostra, basta dare un'occhiata ai bastoni dei nostri padri: bastoni
che da quarant'anni giacciono polverosi e dimenticati in qualche
angolo di qualche vecchia casa; bastoni di frassino o di spino o del
più formidabile corniolo, con pomi d'avorio grossi come
biglie, e puntali lunghi di ferro. In quella guisa che gli spadoni a
due mani, adoperati dai catafratti, che si trovano in qualche
polverosa armeria, ci danno idea dei feroci costumi del medio evo;
così que' bastoni ci insegnano senza parlare la storia di
quarant'anni fa. Un nostro amico più che ottuagenario, il
quale ebbe il vanto di conservare una fanciulla, che si chiamava la
bella Celestina, all'affetto di un celebre suonatore di flauto,
lavorando senza pietà sulle terga dei rapitori, ci mostrò
il suo storico bastone che aveva servito a quell'impresa, e che noi
abbiamo guardato ed ammirato e palleggiato con quella divozione onde
i visitatori della cappella di Aquisgrana toccano e sollevano la
Giojosa di Carlomagno.
X
Però
la Compagnia della Teppa, fra tante ribalderie poteva anche, a
intervalli, vantarsi d'aver compiuto qualche fatto che collimava
persino cogli intenti supremi della giustizia assoluta. I suoi mezzi,
come al solito, non furono mai nè legali nè legittimi,
e nemmen lodevoli; ma per quanto un filosofo sentimentale avesse
pensato e ripensato, non avrebbe mai trovato il modo di far la
giustizia più prontamente e più compiutamente che con
quei mezzi. Siamo sempre alla vetusta teoria della giustizia
sommaria, che sola riesce a tagliare dei nodi che nessun codice umano
si attenta nemmen di toccare. Però più di un birbone
sotto mentite spoglie, di quelli che alla sordina rovinano la società
come fanno i topi nei bastimenti; più d'un funzionario
pubblico noto per abusi di potere non intaccabili dalla legge; più
d'un padre tiranno, più d'un marito assassino fu messo al
dovere dalla minaccia e dall'assaggio del notturno bastone. Queste
imprese eccezionali non avvenivano per merito dell'instituzione, ma
bensì per la inclinazione speciale di alcuni pochi individui
che ne eran membri: giovinotti ardenti, ma acuti e generosi, ma
dotati di tempra e d'ingegno affatto eccezionali.
Nessun
di costoro erano, come si suol dire, persone serie. Tutt'altro: non
avrebbero potuto appartenere alla Compagnia della Teppa; eran tutti
uomini dediti al buon tempo, ai bagordi, al fracasso. Taluno, fornito
ad esuberanza del tubere della giovialità e della potenza
comica e della virtù della satira empirica, per distinguerla
dalla poetica, tutti i giorni inventava qualche stranezza, gettava
qualche insidia che con modi berneschi andasse a ferire in sul serio
qualche mala bestia della società patrizia o della
burocratica; o mettesse in ridicolo qualche fatto del pubblico o del
privato costume, qualche stolta consuetudine, qualche provvedimento
sciocco.
Di
tal tempra era, tra gli altri, un certo Mauro Bichinkommer, incisore
di cifre, milanese, che aveva dimorato per molti anni a Torino, e
poscia di là aveva dovuto ridursi a Milano, in conseguenza di
alcuni scherzi serj fatti subire a personaggi collocati in alto.
Costui era un famoso imitatore d'ogni mano di scritto. Usando di tale
singolarità, una volta, a Torino, aveva spedito un ordine,
come se fosse del primo ministro di corte, con cui comandava al
castellano di recarsi sulla piazza di Madama Reale nel mattino colle
truppe, volendo il re fare una rivista generale. (Il re, contro il
genio storico della dinastia Sabauda, s'intendeva di milizia come
d'astronomia). La seconda burla fu un invito segnato dal principe di
Carignano al provinciale dei Cappuccini, di recarsi alla casa del
principe per trasportare alla chiesa la povera principessa sua moglie
morta di parto. (Il Carignano non aveva ancora avuto figli). La
buffonata ebbe luogo con grande scandalo della casa principesca ed
infinite risa del pubblico. La terza burla fu un invito a pranzo
fatto a diciotto curati della città e sottoscritto dal
segretario di quell'arcivescovo con ordine contemporaneo ai
pasticcieri, ai pizzicagnoli, agli osti di mandar dolci, salsiccie,
manicaretti. (L'arcivescovo era famoso per la sua sordida avarizia, e
i diciotto curati erano stati scelti fra i più ghiottoni).
Vedremo
in seguito come i fili della nostra azione drammatica si verranno
arruffando per la bizzarria della sua indole e del suo ingegno.
LIBRO
DECIMONONO
Mauro
Bichinkommer. - Francesco I e i Milanesi. - Il conte
Alberico B...i. - I genitori della Stefania. -
Monsignore Opizzoni e il filosofo Cardano. - Ritratto di
Giunio Baroggi. - L'impresario Barbaja. - Il Monte
Tabor. - L'Ildegonda di Tommaso Grossi e il Coro
della battaglia di Maclodio. - Rossini e Carlo Porta. -
Gaetano Donizetti. - Giunio Bazzoni, Pozzone e Redaelli di
Cremona. - Francesco Hayez e Pompeo Marchesi. - La
viceregina e Stefania Gentili. - La Compagnia della Teppa e i
conjugi Falchi. - Il Palazzo della Simonetta. -
Rapimento di dodici nani. - Vendetta longobarda. - I
Federati. - Conferenza in casa del calzolajo Ronchetti.
I
Di
Mauro Bichinkommer giova delineare e colorire il ritratto più
accuratamente che ci sarà possibile, tenendo conto di tutte le
notizie che intorno a lui ci diede il vecchio Giocondo Bruni che fu
suo amicissimo.
Il
suo cognome strano, aspro e di germanica desinenza, potrebbe a tutta
prima indisporre il lettore italiano contro di lui. L'Austria ci ha
talmente guasto il sangue, che ogni qualvolta ci compare innanzi un
galantuomo con cognome tedesco, il cuore, invece di espandersi, imita
le corna delle lumache quando sentono il tatto di un corpo straniero.
Ci ricorda che, viaggiando in Italia nel 1848 in compagnia d'un
nostro caro amico italianissimo, ma che aveva la disgrazia di un
cognome che finiva in er, ogni qualvolta ei presentava la
carta di passo alla porta di qualche città, tosto era un
aggrinzar di ciglia nell'impiegato che guardava la carta, un
rientrare sollecito per darne avviso al capo d'ufficio, e quasi un
batter a raccolta prima che l'amico indispettito e fuor de' gangheri
non avesse dato conto dell'esser proprio, e mostrato di essere
nientemeno che un incaricato del governo provvisorio di Venezia.
Non
mettiamoci dunque in agitazione se il nuovo nostro personaggio si
chiama Bichinkommer. Egli era di origine svizzero; il suo bisavo per
commerci era venuto a Milano nella prima metà del secolo
passato; qui si era fermato, qui aveva preso moglie, e come di cosa
nasce cosa, così d'uno in altro parto venne la volta anche per
il nostro eroe, che nacque a Milano in via de' Pennacchiari. Anche la
via giova a provare ch'esso era milanese in tutta l'estensione onde
si può esserlo. - Messo a scuola, erasi distinto nella
calligrafia e nell'imitare con straordinaria esattezza ogni sorta di
caratteri sì stampati come manoscritti; era passato poi nelle
scuole di Brera a studiare l'ornato sotto Giocondo Albertolli: in
seguito sotto a Longhi a imparare l'incisione; ma nel 1808, colto
dalla coscrizione, abbandonò l'arte grande ed entrato negli
ufficj del genio militare, si applicò a disegnar mappe, piani,
ad incidere carte geografiche e topografiche. - Nel 1814,
tornato a Milano da Laibach, dove erasi trovato collo stato maggiore
di Beauharnais, si diede all'incisione di caratteri e d'ornamenti per
indirizzi, per cifre, per oggetti d'oreficeria e d'argenteria.
Lavorando per tutto e per tutti con inarrivabile prontezza e bravura,
guadagnava spesso la sua mezza sovrana al giorno, impiegando tre o
quattr'ore soltanto della mattina; a mezzodì, sgombro di cure
e libero e colla borsa piena, trovavasi già nel cortile del
Falcone a bere la sua mezzetta di vino bianco razzente. All'esercito
aveva acquistato una certa celebrità per i suoi talenti come
incisore topografico; poi perchè a Wagram nel 9, a Fortolivo
nel 12, quando occorse anche a lui di spianare il fucile, erasi
meritate le lodi speciali dei capi, ed era anche stato proposto per
la Corona ferrea, se per una delle tante combinazioni che avvengon
sempre in tali cose, il suo nome non fosse stato dimenticato sotto lo
spolverino del quartiermastro. Ma la dote per cui era prediletto dai
camerati e dai colleghi, e benvoluto e festeggiato perfino da' suoi
superiori, era la perpetua sua piacevolezza, erano i suoi trovati
strani messi innanzi ad ogni occasione per tenere allegri bivacchi e
caserme. Sopratutto aveva un'attitudine specialissima ad imitare
altrui; e copiava le scritture d'ogni genere da parer facsimili i più
perfetti; così contraffaceva la voce, il gesto, l'incesso, lo
stile, le frasi, le smorfie caratteristiche di chicchessia. Allorchè
gli ufficiali superiori sedevano a qualche banchetto, nell'allegria
dei bicchieri, non isdegnavano di mandare ad invitare il sergente
Bichinkommer dell'ufficio topografico. Brilli e un po' fuori di
bilico, applaudivano a furia quando ei metteva in caricatura qualche
generale assente, il vicerè Beauharnais, Murat, qualche volta
perfin l'imperatore.
Notissimo
per tutte queste cose ai generali dell'esercito italiano, esso ebbe
occasione di trovarsi frequentemente con loro, quando ripatriarono.
Nella
congiura militare del 1815, essendo conosciuto come uomo di
scaltrissimo ingegno e fermezza di carattere (chè questa rara
qualità bene spesso si trova nelle nature apparentemente più
bizzarre), venne adoperato dai generali Bellotti e Fontanella per
missioni di grande delicatezza. Veramente ei non era stato messo a
parte della congiura; ma aveva compreso tutto, e i suoi committenti
sapevano che, avendo gli occhi di lince, avrebbe penetrato qualunque
bujo; segnatamente poi lo avevano caro e prezioso perchè,
mentre nelle loro mani era un congegno che lavorava mirabilmente, non
correvano pericolo di compromettere e di compromettersi. Quando la
congiura venne scoperta per opera di quel falso personaggio parente
del Bellegarde, che costui con astuzia felina aveva fatto venire
espressamente a Milano a rappresentare la parte di un messo del
governo francese onde riscaldare ed incoraggiare i congiurati
all'intento di scoprirli, il Bichinkommer, che era stato il primo a
sussurrare all'orecchio del Fontanella come colui avesse faccia da
traditore, fu anche il primo ad evadere da Milano, allorchè
s'avvide che la polizia militare era stata informata di tutto. Da
Milano passò a Torino, dove si fermò qualche tempo; poi
tornò a Milano come negoziante di minuterie per vedere che
aria tirasse, e per fiutare davvicino la polizia nel punto di
lasciarsi fare un passaporto in regola pei suoi viaggi commerciali.
Accortosi, con sua grande consolazione, di essere perfettamente
ignoto all'autorità, ripartì, ma per ritornare e
rifermare a Milano la sua dimora, ripigliando la vecchia professione.
Quest'uomo
detestava la nazione tedesca quant'altri mai poteva detestarla. Aveva
dapprincipio cominciato col disprezzarla considerandone gl'individui
dall'unico lato di una caricatura goffa, dura, sciocca e ridicola.
Quando egli imitava i modi, la lingua e l'accento di un ufficiale
austriaco, se di ciò avesse dato accademia, avrebbe potuto
mettere a un tallero il biglietto d'ingresso. Ma il suo disprezzo si
convertì in un ben diverso sentimento dopo l'astuzia onde
l'Austria aveva ripigliata la Lombardia dopo la sconfitta
degl'Italiani di Murat, dopo le inqualificabili canzonature
diplomatiche con cui si era promesso tanto per non mantener nulla;
segnatamente, dopo la trappola tesa con sì pieno esito dal
maresciallo Bellegarde. Non poteva capacitarsi che gl'Italiani
avessero potuto acconciarsi a vivere tranquilli sotto il dominio di
gente che aveva apparenza più di bestie che d'uomini. Si
rodeva entro sè stesso pensando che alcuni uomini italiani, e
specialmente alcuni Milanesi, avevano potuto pensare al modo di far
risorgere il governo dei buoi della Carinzia, com'egli lo chiamava; e
rodevasi tanto più quando vedeva che tutta quella immensa
mandra di buoi ch'era venuta a provocare colle inerti e antiestetiche
figure le più grasse risa dei Milanesi rifatti lor schiavi,
era dominata da due o tre uomini che, senza meriti reali, senza
nessun vero ingegno, nè virtù nessuna, nè
diritto a stima di sorta; pure a forza di ostinazione, di
dissimulazione, di taciturnità, colle doti del gatto, in una
parola, erano riusciti a canzonare i più scaltri e ad averli
sottomano. Queste idee ei le teneva per sè, e non si
sprigionava con nessuno, perchè conosceva il mondo, e degli
uomini, in generale, non aveva buona opinione, e non si fidava di
chicchessia. Però, valendosi della sua giovialità
sarcastica, alimentata dal suo cervello sano in perfetto accordo con
un fegato di diamante, si vendicava di tutti, mettendo tutti in
canzone.
II
Nel
tempo che Francesco I venne in Italia, egli, come tutti i Milanesi,
aveva di quell'imperatore quel concetto che si esprime col disprezzo.
Ancora non sapevasi nel mondo quanto, rimanendo pur sempre ignorante
e inetto a qualunque lodevol cosa, colui fosse astuto e crudele.
Prima del 1820 tutte le qualità morali e intellettuali
dell'imperatore vennero espresse con inarrivabile breviloquenza da
quella parola che finiva in on, uscita dalla bocca dell'ombra
di Prina. A questo giudizio dei Milanesi dava appoggio il giudizio
stesso degli Austriaci e dei Viennesi. Nel tempo che l'Austria era
stata messa al più duro partito dalle vittorie di Napoleone,
sul piedestallo della statua equestre di Giuseppe, nella piazza di
questo nome a Vienna, fu posta una iscrizione che diceva così:
«Discendi, o imperatore Giuseppe, dal tuo cavallo di bronzo, e
riprendi le redini del governo. Francesco starà seduto
immobile al tuo posto finchè dureranno i travagli
dell'impero.» Or quando Francesco fece il viaggio in Italia,
venne, vide e non fece nulla; onde i Milanesi ribadirono il giudizio
della Prineide di Grossi. Molti epigrammi corsero allora in
pubblico intorno a lui, e il nostro Bichinkommer, che non conosceva
l'arte di fare versi giusti, ma che facilmente infilava la rima ed
era poeta nell'intimo, senza palesarsi mai con nessuno, come al
solito, ne fece parecchi che fecero ridere tutta la città. Per
citarne alcuni, egli attaccò una notte al piedestallo
dell'uomo di pietra questo distico, che fu letto a lume di sole:
Tutti
si lagnano; io non mi lagno
Perchè
ho Francesco per compagno.
Un
altro dì, quando si seppe che Francesco I, dopo avere visitato
tutti gli stabilimenti di Milano, aveva lasciato ogni cosa come
prima, scrisse egli stesso sui muri delle vie più frequentate:
Nuova
aritmetica di fresco:
Zero
e zero fa Francesco.
Medesimamente,
ad un serraglio di belve ch'era stato aperto al pubblico in San
Romano, appose per affisso il motto:
«consiglio
aulico in vienna.»
Ma
quel che maggiormente fece chiasso e corse di bocca in bocca per gran
tratto di paese, fu il seguente epigramma ch'egli dettò
quando, partito Franceschino dall'Italia, ognuno commentava
l'accoglimento che gli era stato fatto alla sua venuta ed alla sua
partenza.
L'epigramma
era questo:
Verona,
città giuliva,
L'applaude
quando arriva;
Milano,
che sa l'arte,
L'applaude
quando parte;
Le
altre città, che la pensan bene,
L'hanno
in c... quando parte e quando viene.
I
versi non sono tutti versi; ma le rime ci sono e la sostanza fa le
spese della forma. Nè si limitava ai versi, ma metteva gli
scherzi in pratica, e sempre con qualche intento che racchiudesse una
lezione.
A
una festa che il Casino dei negozianti aveva sfoggiato, per
festeggiare l'arrivo delle LL. AA. il vicerè e la viceregina,
le carrozze di corte tenendo ingombra tutta la via di San Paolo con
insopportabile disagio degli accorrenti, egli si presentò al
battistrada, e parlandogli in lingua tedesca, ch'egli aveva imparato
fin da fanciullo, appartenendo, come sappiamo, ad una famiglia
d'origine svizzera tedesca; gli ingiunse, mettendo innanzi un ordine
del conte Settala, gran cerimoniere, di far tornare tutte le carrozze
al palazzo di corte. - Il battistrada, sentendosi parlar
tedesco e col piglio autorevole di chi comanda perchè sa di
poterlo fare, obbedì e con tanta esattezza, che il vicerè
e la viceregina col seguito, quando uscirono dal Casino, non
trovarono più le carrozze. Non si può immaginare il
furore in cui salì l'ispettore delle stalle vice reali, e
il rabbuffo che ne ebbe il battistrada; e il pestar dei piedi onde si
sfogò l'impazienza della viceregina italica, indarno tentando
d'acquietarla quel sornione ipocrita dell'arciduca Ranieri, che,
aspettando senza far motto, andava dondolando il capo come un orso
bianco del Baltico.
Nè
solo esso prendeva di mira il governo e i personaggi pubblici, ma si
dilettava di ferire colle sue canzonature anche le persone d'ordine
privato. Infiniti aneddoti potremmo raccontare in proposito da farne
un opuscoletto, ma li teniamo in serbo per qualche compilatore
d'almanacchi, e tiriamo innanzi.
Allorchè,
nel 1818, ei tornò a Milano, la Compagnia della Teppa era già
salita in qualche fama, ed egli, mentre si meravigliava che la
polizia le lasciasse commettere tante soperchierie impunemente, e,
mentre in cuor suo disapprovava che la tranquillità pubblica
venisse turbata a quel modo senza ragione e senza scopo, volle
nondimeno aggregarvisi, nella persuasione che col tempo avrebbe forse
potuto recare anch'essa qualche utile. - Sono i più
prepotenti e più maneschi della città, egli rifletteva,
che imparano la solidarietà dell'associazione; quantunque per
fini indegni, pure si avvezzano ad una scuola perpetua di coraggio e
di pericoli; e con tutto ciò l'autorità e la polizia li
lascia fare, nell'idea che, finchè la parte più giovane
e più ardente del paese spreca le proprie forze nei vizj, nei
bagordi e nei tafferugli, il governo può dormire più
tranquillo i suoi sonni. Ma il governo s'inganna; e quando venisse il
bisogno, questi giovani educati a dare alle gambe dei passeggieri
come cani da presa, possono diventar formidabili per qualche cosa
migliore. Tutto dipende dal comando e dal fischio del padrone. -
Così il Bichinkommer la pensava, e così una sera,
trovandosi a mangiare all'osteria del Galletto fuori di porta
Vercellina, dove quei della Teppa solevano radunarsi quando in estate
tornavano dal bagno o dal nuoto nella vicina Olona, egli fece
conoscenza con essi, e fu giudicato da tutti loro aver tali qualità
da meritare di essere piuttosto un generale che un gregario.
Nei
primi giorni ch'egli entrò in fazione con alcuni di loro,
diede un diverso avviamento alle imprese, e avvennero cose che non
dispiacquero nemmeno ai cittadini più tranquilli e più
timorosi della bastonatura notturna. Fu per lui infatti se una
mattina la folla si accalcò alle sbarre di quel tratto di
naviglio che corre dal Palazzo del Senato a Porta Nuova, per vedervi
galleggiar sull'onde, come se fosse un canotto americano, una garitta
dipinta in giallo e nero. Quella navicella di nuovo genere non voleva
dir nulla per sè; ma il gran ridere che faceva il pubblico
accorso, dipendeva da ciò, che sapevasi come quei della
Compagnia della Teppa, colta l'occasione che la notte era stata
piovosa e che la sentinella col suo cappotto erasi messa al coperto,
presero la garitta e la gettarono con gran disinvoltura nel naviglio,
tutt'insieme, guscio e lumaca; con gran stupore di quel biondo
gregario del Baumgarten, il quale, temendo l'acqua piovana, si trovò
invece inzuppato in un bagno più fitto, e buon per lui che
nelle acque del patrio Inn aveva imparata l'arte del nuoto!
Esposti
questi preliminari, con cui il lettore può farsi un'idea
abbastanza compiuta del carattere eccezionale di questo Bichinkommer,
aggiungeremo qui, che egli, nello stato maggiore di Beauharnais, per
motivi di servizio, aveva avute intime relazioni col colonnello
Baroggi, con sua moglie e col figlio; che nel 1815, avendo il
colonnello avuto parte nella congiura militare, fu per un consiglio
avuto dal Bichinkommer, se potè fuggire in tempo e riparare a
Parigi. Aggiungeremo altresì, ed è ciò che più
monta, che a Milano spesse volte andava a far visita al figlio del
Baroggi, in casa del Bruni; ch'egli era per i rapporti della
Compagnia della Teppa in grande intimità col giovine Suardi.
Ora, senza dilungarci a dipanare tutti i fili accessorj della
matassa, diremo che, dopo il fatto dell'arresto del Suardi, egli ebbe
a trovarsi insieme col Bruni e col Baroggi appunto; che, saputo da
essi com'era corso il fatto, e le cagioni che l'avevano provocato, e
tutti gli antecedenti del marchese F..., dell'avvocato Falchi, del
consigliere F
, del notajo Agudio, meditò un piano di
guerra affatto nuovo, il quale ci lusinghiamo farà strabiliare
anche il lettore più preparato alle sorprese.
III
Come
quando, appena alzato il sipario, alla rappresentazione di un'opera
in musica, si sente al di là delle quinte, come se venisse da
un camerino, il vocalizzo di una voce femminile, che si sospetta
esser quello della prima donna e della quale il pubblico è in
grande aspettazione; così, senza vederla, noi abbiam già
sentita la presenza della giovinetta Stefania Gentili; ne abbiamo
udito gli elogj; e in parte, per bocca del pubblico, ne abbiam
conosciute anche le qualità dell'ingegno e del cuore. Ma ora è
tempo che anch'essa compaja in iscena, col privilegio quasi sempre
accordato dai drammaturghi convenzionali al protagonista, di
lasciarsi vedere, cioè, dopo che tutti gli altri personaggi
hanno fatta la loro comparsa, e piuttosto al second'atto che al
primo, per dar tempo al pubblico di condensare la propria impazienza.
Nella
via dei Mercanti d'oro, in una di quelle case dove il portinajo è
impossibile; case vecchie, sudice e fetenti; piene zeppe d'inquilini
da sembrare alveari, la notte del 10 luglio dell'anno 1803, Caterina
Frigerio, ricamatrice in oro, moglie di Giacomo Gentili, impiegato
d'ordine presso il tribunale civile di Milano, diede in luce una
bambina. Una certa Stefania Corali, cantante in quiescenza, e che
alloggiava i virtuosi e le virtuose di terzo ordine che venivano a
cantare nei teatri di Milano, fu la matrina che la tenne a battesimo.
Il battezzatore della neonata, già lo sappiamo, fu monsignor
Opizzoni parroco della metropolitana, notissimo fin d'allora per la
sua vita rigorosamente ascetica e per l'instancabile zelo adoperato
nella cura delle anime. Monsignore volle egli stesso battezzar la
fanciulla, per una predilezione speciale in cui aveva i conjugi
Gentili; due ottimi cristiani, di costumi irreprensibili e di
esemplare pietà. Essi si confessavano e si comunicavano una
volta al mese; piuttosto che mangiare una fetta di salame in venerdì
o in sabato, si sarebbero messi in nota per la palma del martirio;
astinenza che praticavano rigorosamente tutte le vigilie dei santi di
gran riguardo, nelle quattro tempora, tutta la quaresima, tutto il
mese di Maria, ecc. Della settimana santa non parliamo; il signor
Giacomo, che era piuttosto gracile e cui lo star tante ore al
tavolino dell'ufficio a trascriver minute, aveva fiaccato lo stomaco,
ebbe spesso in quella settimana turbate le digestioni dal troppo
olio. Ascritto alla confraternita del Santissimo, sospirò, con
un ardore che non è facile concepire, il felice momento di
poter essere uno degli otto che portano il baldacchino; e per un
intero anno si astenne dal bere vino, mettendo tutti i giorni nel
salvadanaio i risparmiati otto soldi onde in capo all'anno avere i
danari per farsi un completo abito nero. Il primo giorno che vestì
quell'abito, e che, nella sacrestia occidentale del Duomo, infilò
i guanti bianchi di filugello colla rosetta ricamata, la sua gioja fu
una di quelle che non comprende umana idea.
La
signora Caterina era perfettamente della stoffa del marito, e basta
così. - Queste due perle, che avevano quasi la medesima
età, s'eran sposati trentenni. Avevano passati tre anni senza
aver prole, con vero rammarico di tutti e due; ma il dì della
Madonna della Ceriola, avendo fatto accendere in Duomo due candele,
di quelle di cera fina miniate, una mattina la signora Caterina, così
tra il pudore e la soddisfazione, sussurrò all'orecchio del
suo Giacomino, ch'ella credeva finalmente d'avere avuta la grazia per
cui tanto erasi rallegrata la moglie d'Abramo. In quel giorno i
colleghi di ufficio del Gentili s'accorsero ch'egli aveva in corpo
una allegrietta insolita, e si dava spesso delle vivacissime
fregatine di mano; onde taluno dei più celiatori si fe' di
domandargli se aveva vinto al lotto. - E veramente la signora
Caterina aveva indovinato; la gestazione fu delle meno incomode; il
parto fu un capolavoro di spontaneità; e venne in luce una
bambina che si chiamò Stefania; fu data a balia, e dopo venti
mesi tornò a casa, bella, tonda e grassina come un puttino
dell'Albani; bianca e rasata che parea carta da scrivere, con due
occhi poi che parevan due stelle. Siccome il signor Giacomino era
piuttosto brutto, fors'anche per le abitudini devote che gli avevan
tolto ogni attraenza; e la signora Caterina, ad eccezione di una
certa aggiustatezza d'ossatura, non aveva nulla di straordinario,
così avrebbero dovuto esultare di quel piccolo prodigio; ma,
tant'egli è vero che se si ottiene molto, subito si vuole aver
di più, essi trovarono d'affliggersi perchè, in mezzo a
tante bellezze, la ragazzina avesse il nasino troppo piccolo e
alquanto schiacciatello. Bene le donnicciuole blaterone del vicinato
li assicuravano che tutti i nasi, quando sono destinati a diventar
belli, i fanciulli debbono averli a quel modo. Bene lor citavano
molti quadri di chiesa, dove gli angiolini avevano il naso simile a
quello della loro bambina; ma essi non si capacitarono di ciò
se non allorquando, verso gli anni otto, il nasino di Stefania si
mise nel più perfetto accordo colle altre parti del suo viso,
e, a tutti i sintomi, dava indizio di diventar ancora più
bello.
-
Che te ne pare, Caterina? disse un dì il marito a sua moglie;
avevan proprio ragione quelle donne.
-
Sì davvero, Giacomino. Ma bada che Stefania non ci senta,
perchè comincia a mettersi in superbia.
Non
ancora tredicenne, Stefania aveva raggiunta una sì compiuta
armonia di bellezza e di leggiadria, con tale espressione nello
sguardo, innocente e affatto inconscia, ma per ciò stesso
esercitante un caro fascino su quanti la vedevano, che divenne
l'oggetto della predilezione di tutti. A ciò si aggiunga, che,
trovandosi nella casa dell'ex cantante Corali, dove provavansi
ogni giorno sul pianoforte i pezzi delle opere in musica allora più
celebri, ella, per sola virtù d'imitazione, ripeteva tutto
quello che sentiva, con una voce così toccante nella sua
acerbezza, con una intonazione sì perfetta e una espressione
tanto superiore alla sua età, da fermar l'attenzione di quei
medesimi cantanti che nelle stanze della Corali attendevano alle loro
esercitazioni mattinali. Se non che, dobbiamo qui tener conto di un
fatto strano, ed è che, in ragione che ella diventava sempre
più cara e interessante a quanti la vedevano, veniva per
contrapposto a perdere sempre più della benevolenza di un
uomo.
IV
Monsignor
Opizzoni aveva l'abitudine di visitare una volta o due alla settimana
quelli tra i suoi devoti che più aveva in petto. I conjugi
Gentili erano tra gli eletti, e come esso prediligeva i genitori,
così per qualche tempo prodigò le sue gentilezze sante
anche alla bambina, regalandole Agnus Dei, immagini di santi,
libretti da messa, ecc. ecc.; ma, di tratto, e quasi senza
accorgersene, egli provò una certa avversione per lei, quando
appunto si vennero in essa sviluppando tutte quelle qualità
per cui era diventata tanto cara agli altri. Quell'uomo aveva sortito
dalla natura, e aveva avvalorate colla più rigida costanza
nelle abitudini della vita, tutte le qualità che costituiscono
i santi; ma i santi senza talento. Il sentimento, il cuore, le
intenzioni erano mirabili; ma la mente non era di quelle che
Romagnosi, a scrupolo di scienza, chiamò sane.
Egli
aveva preso con soverchio rigore matematico il detto e il fatto, che
il mondo non è che un luogo di passaggio. Per questa
ragione, riputando che l'uomo non deve mai nè pensare nè
operare se non nell'intento supremo di meritarsi un posto nel regno
de' cieli, aveva sgomento e avversione di tutto ciò che può
rendere più cara e più attraente ai mortali la vita
mondana; in certi momenti in cui lo invadeva più del consueto
il sacro furore dell'ascetismo, avrebbe voluto che la luce del
firmamento fosse lugubre e uggiosa, che le stelle inviassero sulla
terra un raggio sinistro, che i fiori non avessero fragranze, che le
donne non avessero avvenenza. A forza d'adorare Iddio, di non pensare
che a lui, di credere che ogni cosa si dovesse fare quaggiù
onde glorificarlo, per uno strano pervertimento del suo giudizio, di
cui non aveva la consapevolezza, veniva di tal modo ad offendere Dio
stesso, rifiutando e biasimando gran parte delle opere sue mirabili.
Non arrivò mai a sospettare che il fattore del mondo, se ha
dato alla più squisita delle sue creature tanti doni
seducenti, non lo deve aver fatto a caso; che il rifiutare quei doni
stessi era un cessare dalla sua adorazione. Ma sopratutto egli aveva
un'istintiva ripugnanza per le donne, sempre inteso, quand'erano
giovani e belle; aveva paura di loro, come di un serpente insidioso;
paura non egoistica ma tutta oggettiva, convinto come era che la
maggior parte dei peccati ricevevano da esse il più succoso
loro alimento, che esse erano le confederate più attive e più
fedeli del diavolo; che, pur senza volerlo ed anche colle più
virtuose attitudini del mondo, ma soltanto collo spettacolo
inevitabile delle loro grazie e delle loro attrattive, riuscivano
funeste agli altri e, per consenso, anche a se stesse. Dopo la
bellezza egli temeva l'ingegno, sempre inteso quando usciva dalla
misura vulgare. Ei soleva dire che per amar Dio non occorreva tanta
sublimità di mente nè tanto slancio di fantasia; senza
aver lette le opere del Cardano, e con tanta discrepanza di
intelletto e d'intendimenti, egli concordava con lui in quella
balzana e audace opinione, che le condizioni della società
furono sempre peggiorate dalla comparsa degli uomini di gran talento.
Con
tutto ciò egli era un lettore indefesso di quanto si veniva
pubblicando per le stampe; non v'era opera o brochure
francese, per quanto eterodossa, e rivoluzionaria, e diabolica
ch'egli non raccogliesse nel proprio studio. Chi, senza conoscerlo,
avesse dato un'occhiata alla sua libreria segreta avrebbe detto
ch'essa apparteneva a qualche volterriano libertino. Nè in ciò
v'era contraddizione. Per far la caccia al demonio, ei lo inseguiva
dappertutto, onde non perderlo di vista, e attraversarsi in un
bisogno alle sue insidie perverse; e come un processante attivo e
inesorabile, teneva sempre i corpi del delitto sul suo tavolino.
Paventava dunque l'ingegno e non amava la bellezza. Delle arti poi,
fra tutte, detestava la musica, quella che usciva dalla sfera del
canto fermo e del Pange lingua. E, più della musica da
camera, abborriva la teatrale, tanto che, per questo lato, aveva
fieramente in sulle corna l'Italia stata inventrice di quel mostro
infame del melodramma.
Con
questi precedenti il lettore può immaginarsi con che cipiglio
monsignore si trattenne stupefatto sulla soglia della casa dei
conjugi Gentili, quando sentì la loro figliuola cantare
quell'aria fatta celebre dalla Gafforini
Chi
vuol la bella Rosa
L'ortolanella
è qua.
Aria
che più volte la fanciulletta aveva sentito a cantare da un
mezzo soprano in casa Corali, e che, inconscia e innocentissima,
ma solo eccitata dall'istinto prepotente per l'arte, ripeteva a
perfezione con un certo garbo pieno di smanceria onde risultava lo
stile di quell'aria proterva. Cogli occhi aperti, come chi è
colpito da una scena d'orrore, esso lasciò che la tenera
cantatrice terminasse l'aria fino all'ultima sua cadenza per vedere
fino a che punto il diavolo l'aveva assassinata; poi irruppe nella
casa, con voce asprissima intimò alla fanciulla di tacere e di
non cantare mai più quell'aria; il suo rabbuffo fu così
violento, che la ragazza si mise a piangere, e tanto più
ch'ella aveva una terribile soggezione di monsignore, il quale da
qualche tempo non aveva più avuto nè un sorriso nè
una parola dolce per lei, per la ragione che non gli piaceva niente
affatto quel suo modo di volgere gli occhi pieno di grazia e di
mollezza affettuosa.
Nè
l'Opizzoni si fermò qui, ma diede una tremenda lavata di capo
ai genitori, e tenne loro sospesa l'assoluzione quando gli si
presentarono al confessionale. Ebbe anche il coraggio (il vero zelo è
imperterrito) di entrare dalla signora Corali a intimarle che
proibisse ai suoi alloggianti di scandolezzare il vicinato con quelle
invereconde canzoni. La signora Corali, com'è naturale, gli
rispose che aveva buon tempo; da quel giorno monsignore circuì
la casa Gentili e la piccola Stefania di mille precauzioni
vessatorie.
V
Alcune
egregie persone che conobbero dappresso questo personaggio, distinto
per celebrità municipale, ci dissero molte cose in lode sua.
Esse ci fecero sapere che monsignore, nei penetrali domestici, era
tutt'altro che un uomo da spaventare col suo rigoroso ascetismo, ma
che anzi si mostrava sovente pieno di amabile gajezza; ci
assicurarono inoltre che, per quanto a loro constò, non era
per nulla avverso alle cose mondane, in prova di che addussero che
era contrario al monachismo; e, in quanto alle fanciulle, desiderava
che si maritassero e presto. Ma ora noi vorremmo pregare quelle
egregie persone a voler credere che, a tutto rigore di coscienza, noi
abbiamo appurato sul vero le nostre asserzioni, a tener conto delle
considerazioni che faremo in proposito, a valutare i fatti che ci
furono riferiti da uomini degnissimi di fede, e che da noi stessi
furono verificati. - Abbiamo detto che quel personaggio, se
aveva il cuore, il sentimento e le intenzioni ottime, non aveva poi
quella che il Romagnosi chiamò mente sana. Ciò
lasciando intatta la santità dell'uomo, non viene a toccare
che i suoi errori di giudizio, i quali, per loro natura, come ognuno
sa, non lo costituiscono in colpa. A mostrare com'ei fosse
eccessivamente rigoroso nel suo ascetismo e nel mettere in pratica
gli assunti del suo arduo ministero, annunciamo questo fatto, che
siamo sicurissimi di poter garantire. Ad una ragazzetta di dieci
anni, nell'occasione che si presentò per fare la prima
comunione, ei negò inesorabilmente il permesso di presentarsi
alla mensa eucaristica insieme colle altre sue coetanee, per la sola
ragione ch'ella era avviata ad una delle carriere teatrali. Noi non
facciamo commenti: giudichi il lettore.
Se
l'età infantile, se l'innocenza, se l'adempiuto sacramento
della penitenza, se l'assoluzione ricevuta permisero ad essa di
ricevere l'ostia santa a un altro altare, perchè ciò le
doveva essere conteso all'altare apprestato per le sue giovinette
compagne? Un fatto può bastare a svolgere un ordine completo
di principj, e in questa circostanza i principj dell'Opizzoni, per un
errore della sua mente, lo portarono all'ingiustizia, lo portarono a
fare un privilegio d'un sacramento; a far credere che vi fossero due
Cristi e due ostie diverse. Esso era avverso al monachismo, ci vien
detto, e consigliava le fanciulle a prender marito piuttosto che
farsi monache. Questo è vero. Ma, in troppi casi, per lo
sgomento che aveva della pericolosa condizione delle fanciulle troppo
a lungo lasciate nubili, influì, benchè ognora
coll'intento del bene, a combinare e ad accelerare matrimonj, che
qualunque altro uomo più esperto di lui della vita e più
scaltrito dalla scuola delle umane passioni e degli interessi umani,
avrebbe fatto di tutto per stornare e rompere a mezzo, scorgendo in
essi i germi di disastri futuri inevitabili. In quanto alla sua
amabile gajezza, questa non è sempre il sintomo della
spregiudicata indulgenza. La coscienza tranquilla può dare la
contentezza e l'amabilità. Ma la coscienza scrive sotto la
dettatura del criterio. Se questo sbaglia, la coscienza si atteggia
alla sua misura. San Carlo, quando comandò i roggi della
Valtellina, era tranquillo e pago.
VI
Premesse
queste considerazioni, proseguiamo con fiducia la nostra narrazione.
Non per obliquo desiderio di offendere un uomo di chiesa, abbiamo
stimato a proposito di mettere in iscena quel monsignore di
popolarissima fama, ma per un intento che, a parer nostro, ben ci può
dare il permesso di rinnovare il sindacato su tutti gli uomini che
esercitarono una forte influenza sul pubblico e privato costume,
sulla pubblica e privata felicità.
Or
tornando alla fanciulla Stefania, essa per molto tempo stette zitta e
non cantò più. Il signor Giacomo e la signora Caterina,
dopo che eran rimasti in asso una volta coll'assoluzione, provarono
una specie di terrore nel pensiero che quel fatto potesse mai
ripetersi. In casa della signora Corali però continuavasi a
far musica, come suol dirsi; ed or dall'una or dall'altra cantante
venivan ripetute, per esercizio, tutte le cavatine e tutte le arie
del repertorio musicale allora più in voga. È inutile
il dire che trattavasi quasi sempre di qualche pezzo di Rossini. La
piccola Stefania poteva bensì, per obbedienza, tener chiusa la
bocca; ma l'orecchio era indipendente da qualunque comando, precetto
e volontà, e non poteva rifiutarsi a sentire; e la memoria,
per suo mezzo, non poteva rifiutarsi a ricevere le successive
impressioni delle note e delle frasi e dei concetti musicali. Ora
avvenne che quando la sua memoria fu piena di quella folla di motivi
deliziosi onde rigurgitano le opere di Rossini della prima maniera,
ella provasse come una specie di replessione dolorosa a contenerle
con violenza entro di sè. Allora si verificò anche in
lei quella legge di natura espressa così bene dall'expellas
furca del poeta. Seguendo così il sistema delle capinere e
delle filomele e di tutti gli augelli canori, che stanno muti e muti
un pezzo, per dar fuori poi tutt'a un tratto con una piena repentina
di pipillamenti e di gorgheggi e note tenute, a svegliare il
vicinato; la fanciulla una sera, essendo salita su un terrazzo
insieme con alcune sue amiche, credendo di non essere sentita dai
genitori, si mise a eseguire per la prima volta, quasi a titolo di
prova, la famosa aria del Tancredi:
Di
tanti palpiti,
Di
tante pene,
Dolce
mio bene, ecc.
E
la prova le riuscì così a meraviglia, che tutte le sue
giovinette amiche smisero ogni lor giuoco, per stare attente a udirla
a bocca aperta; i casigliani che avevano qualche pratica del teatro e
del loggione della Scala, e vi avevano spesso fatto capolino per
sentire o la Belloc o la Camporesi o la Catalani, ecc. ecc., si
fecero tutti alle finestre e alle loggie, attratti irresistibilmente
dall'incanto che esercita una voce soave quando esprime soavi
concenti musicali. E il signor Giacomo e la signora Caterina
ascoltarono anch'essi, e come no? In que' sei mesi che la fanciulla
aveva taciuto, dal gennajo al giugno circa, essa aveva varcati i
tredici anni e s'innoltrava ai quattordici; in tutto il suo organismo
era avvenuto, sebben precocissimo, uno sviluppo completo; la voce non
era più acerba, ma erasi fatta rotonda e flautata. Quel riposo
di sei mesi fece sì che il suo svolgersi non venisse
menomamente offeso da un soverchio esercizio, che poteva riuscire
funesto in que' mesi della crisi corporea. Il più guardingo
maestro di canto non avrebbe potuto essere più sapiente del
semplice caso. Monsignor Opizzoni, condannandola al silenzio, ottenne
effetti non sempre concessi al prof. Bordogni. Quando la fanciulla
cessò di cantare, uomini, donne, vecchi, fanciulli, dalle
finestre, dalle loggie, dai poggiuoli, si diedero a batter le mani
con quella sincera esplosione d'entusiasmo, così raramente
accordata anche agli artisti di professione. In quanto al signor
Giacomo e alla signora Caterina, avvenne un fatto singolare. Al primo
udir la voce della figliuola, si sentiron tentati a salire per
sgridarla; ma Stefania aveva cantato in modo, che essi, contro
voglia, stetter fermi al loro posto; poi, quando risuonò per
il recinto della casa quello strepitoso e concorde applauso, l'uno e
l'altra, guardandosi scambievolmente in faccia, si trovarono gli
occhi pieni di lagrime.
VII
Quando
la fanciulla discese, non la sgridarono, ma tacquero e stettero
chiusi come se non avessero sentito nulla.
La
signora Corali, che, più di tutti quegli uditori, poteva
apprezzare quella straordinaria vocazione della fanciulla all'arte
del canto, ne parlò un giorno al maestro Brambilla, il quale,
per caso, avendola sentita, anche lui, senza aspettar altro, salì
in compagnia della Corali a fare una visita ai genitori di Stefania,
per proporre loro di farle studiar la musica e il canto; e, a
distruggere tutte le objezioni che a quella proposta essi gli fecero,
egli stesso si esibì ad istruirla gratuitamente fintanto che
fosse stata al punto di salir le scene; chè allora soltanto
avrebbe richiesto un compenso delle sue fatiche. Ma nemmeno a questa
generosa esibizione i signori Gentili per allora si lasciarono
persuadere.
-
Io non comprendo, diceva il maestro Brambilla, maravigliato di tanta
ostinazione; non comprendo come si possa dir di no a chi in poche
parole vien loro a proporre nientemeno che di diventare ricchissimi.
Loro signori saranno contenti del loro stato; ciò va bene; ma
se hanno il diritto di far tutto quello che vogliono per sè,
non hanno poi quello di rubare alla loro figliuola quella ricchezza
che la natura le ha dato. Mi perdonino se, non avendo il bene di
essere un loro amico intimo, parlo con tanta franchezza. Ma, ripeto,
che è un peccato, un sacrilegio il lasciare che vada perduto
un talento così straordinario. Questa ragazza, in un anno di
tempo (so quel che dico e non posso ingannarmi, nè voglio
ingannar nessuno) può essere in grado di guadagnare venti,
trenta, cinquantamila lire all'anno. Mi pare che non sia una
bagatella da guardare con occhio indifferente.
-
È vero, rispose il signor Giacomo; ma è quella
benedetta carriera teatrale che mi fa paura.
-
Bisogna che sappiate, caro maestro, entrò allora a parlar la
Corali, che queste due perle hanno la disgrazia di conoscere un
prete, un monsignore del Duomo, che viene spesso a scompigliar loro
la testa e a spaventarli con cento scrupoli.
-
Non dica così, che è anche troppo un sant'uomo
monsignore, osservò la signora Caterina.
-
Sarà un santo, voglio crederlo; sarà tutto quel che
volete, ma meno preti vengono per casa, e meglio si sta. Figuratevi,
caro maestro, che un bel giorno m'entrò in casa a farmi la
dottrinetta e pretendeva nientemeno che proibissi a' miei dozzinanti
di cantar le arie amorose per non scandolezzare il vicinato.
-
Ma è dunque perchè hanno paura di questo monsignore che
non sanno risolversi a fare quel che ho proposto? Ma non è
possibile che, se loro vuol bene, esso non veda di buon occhio la
loro fortuna. E non è poi sempre vero che il teatro sia tanto
pericoloso, come generalmente si crede. Quando poi una prima donna
diventa di gran cartello, può passeggiar sicura su tutti i
trabocchetti. È ben più pericolosa la povertà
per una fanciulla, che, come sento dire, è di una bellezza
straordinaria.
-
Ebbene, faremo così, rispose allora il signor Giacomo; domani
probabilmente monsignore verrà qui; sentiremo lui.
-
E se dicesse di no?
-
Allora bisognerà aver pazienza.
-
Allora gli farò dir di sì io, conchiuse il maestro
Brambilla, e partì colla signora Corali.
VIII
Allorchè
monsignore Opizzoni capitò in casa dei conjugi Gentili,
questi, dopo una lunga titubanza, gli fecero motto della proposta del
maestro Brambilla. L'Opizzoni salì sulle furie al sentire
quello, per lui, più che strano progetto; e disse cose che
persino al signor Giacomo parvero eccessive. In altri casi, se il
reverendo personaggio avesse trasmodato nel suo rigoroso ascetismo,
egli non si sarebbe mai accorto della stortura di quel cervello; ma
nel caso presente, il paterno orgoglio e le straordinarie attitudini
della figliuola e la conseguente idea della ricchezza stata così
asseverantemente promessa dal maestro Brambilla (le informazioni
assunte sul quale lo avevano pienamente rassicurato) gli servirono
come di lume e di scorta per distinguere il vero dal falso, e per
comprendere che nel modo di vedere del venerabile uomo c'era qualche
cosa di esagerato e di stravolto. Quest'idea lo padroneggiò al
punto che per la prima volta da che era nell'intimità di
monsignore, si fece lecito, quantunque rimessamente, di fare qualche
opposizione alle sue parole. È facile immaginarsi come siasi
risentito monsignore a quell'inattesa resistenza; se non che a
portare un improvviso ajuto al signor Giacomo gli entrò in
casa il maestro Brambilla, il quale, avendo visto salir l'Opizzoni in
un momento ch'ei trovavasi in casa Corali, pensò, franco
com'era e risoluto, a coglier subito quell'occasione per trovarsi col
prete e giungere in tempo ad impedire che per eccesso di zelo
rovinasse una famiglia.
-
Ecco il maestro Brambilla, disse tosto il signor Giacomo
all'Opizzoni, felice di vedere un soccorso inaspettato in un momento
che non sapeva più cosa rispondere alla tempesta dei
rimproveri e delle argomentazioni onde l'Opizzoni lo andava
soffocando.
Nel
loro genere, così il maestro come monsignore, avevano
quell'individualità distinta e caratteristica, da meritare di
essere collocati, secondo l'espressione volgare, nella classe degli
originali.
Tanto
l'uno quanto l'altro erano due galantuomini della più
specchiata onestà; tanto l'uno quanto l'altro erano
continuamente sovreccitati dagli slanci del cuore, al punto da uscire
quasi sempre da quei confini che la prudenza dell'egoismo suole
imporre agli uomini: ma l'uno era agli antipodi dell'altro in quanto
al modo di pensare. Questi due originali, se non si conoscevano
ancora di vista, si conoscevano per fama, onde al primo trovarsi a
contatto, si diedero un'occhiata vicendevole lunga ed acuta. Come
tutti gli uomini di cuore, che sono convinti delle proprie idee, essi
erano intrepidi, per così dire, ed espansivi, e non
balbettavan mai quando si trattava di esporre il loro pensiero, nè
si lasciavano imporre da nessun ostacolo, da nessun rispetto umano,
da nessuna autorità. Però non è a fare alcuna
meraviglia se alle prime parole l'Opizzoni investì il maestro
ex-abrupto e senza flessuose circonlocuzioni.
-
Ella è il signor maestro Brambilla?
-
Per l'appunto.
-
Ella ha dunque voluto togliere a questa buona famiglia quella pace
modesta, che nella vita mondana si cerca sempre e non si trova quasi
mai?
-
Io faccio il maestro di musica, e non faccio il prete; ma avendo, con
grande mia soddisfazione, scoperto nella loro figliuola un vero
prodigio di natura, così ho creduto mio dovere di avvisarne i
genitori, i quali lo avrebbero certamente trascurato.
-
E adesso questi due cristiani hanno già per la testa dei
grilli che non ebbero mai; e già son tutti agitati da cento
desiderj e certe speranze, e vedono già la loro figliuola
diventare una principessa. Se poi tutto questo andasse in fumo, ella
avrebbe fatto veramente un'opera meritoria.
-
Io non ho detto a questi signori che la loro figliuola diventerà
una principessa; ho detto che, mettendo a buon partito le qualità
straordinarie che la natura le ha dato, diventerà
certissimamente, collo studio e col tempo, una grande artista: questo
io ho detto e promesso, e questo oggi ripeto e mantengo.
-
E quando, concedendo pure tutto ciò ch'ella dice, costei sarà
diventata una grande artista, che cosa crederebbe lei d'aver fatto?
-
Che cosa ho da credere?... Credo che se io fossi venuto in questa
casa, e dopo aver sentito a cantare questa ragazza, avessi taciuto e
non avessi fatto quel che ho fatto, sarei stato o un grand'asino, o
un gran birbone; sempre, inteso, nella mia qualità di maestro
di musica, che conosce l'arte propria, e l'ama, e desidera il suo
maggior progresso.
-
Sarebbe ben meglio che quest'arte non fosse mai venuta nel mondo.
-
La musica?
-
La musica, sì, la musica.
-
Ma davvero che ella, monsignore, non mi sembra quel prete dotto che
ho sentito tanto a decantare! Ma la creazione non è forse
un'armonia sola? E non si suol sempre dire: il concento, l'armonia
delle sfere? Ma gli angioli non cantano in cielo? E non si vedono a
suonare la viola e il violoncello in tanti quadri di chiesa? Il re
Davide non cantava? Santa Cecilia non ha un posto riservato in
paradiso come suonatrice d'organo emerita? Ma cosa dice mai,
monsignore? bestemmiar la musica, volerla proscrivere, crederla
funesta al mondo!... Ma so bene che mi canzona... A questi patti
bisognerebbe mettere in pensione anche il Padre Eterno, che è
il primo maestro di musica!
-
Ella ben sa, signor maestro, ch'io non parlo della musica sacra. Così
la musica non fosse mai uscita di chiesa! Parlo della musica
teatrale; parlo dell'arte melodrammatica. La corruzione del costume,
l'effeminatezza, i peccati divenuti oggetti di moda e di gara nel bel
mondo, datano precisamente dal giorno che la più pericolosa
delle umane passioni fu portata sul palco scenico, e, vestita di
melodie maliarde, accese di più fatali ardori il sangue della
gioventù.
-
Ma, in questo caso, monsignore, bisognerà incolparne il sangue
che si lascia accendere, e non la musica. Del rimanente, quando la
pioggia di fuoco cadde sovra Sodoma e Gomorra, il melodramma era
forse stato inventato da Peri? la Gafforini aveva cantato? Rossini
aveva scritto il Barbiere di Siviglia? Se si dovessero abolire
e manomettere e distruggere tutte le cose che possono diventare
pericolose, non so più che cosa dovrebbe conservarsi.
Taglieremo i vigneti perchè vi sono degli uomini che si
ubbriacano? Estirperemo i gelsi perchè vi sono delle donne che
vestono di seta a scapito della saccoccia dei mariti? Romperemo la
faccia a tutte le belle ragazze, perchè i giovanotti corron
pericolo d'andar in rovina per loro? Idee piccole, monsignore, idee
false, idee storte.
-
Io sto in confessionale, caro signor maestro, e lei sta all'organo.
Dal confessionale io vedo tutto il mondo sotterraneo che agli altri
non è dato di penetrare. Io posso sapere quali sono le classi
sociali, quali le professioni, quali le condizioni, dove il cattivo
costume si fa strada più facilmente. Ora devo dirle, signor
maestro, che per la mia esperienza ormai lunga, mi riesce provato che
la corruzione imperversa colla sua massima forza appunto in quella,
ora pur troppo numerosissima, schiera d'uomini e donne che, o
cantando o recitando o ballando, divertono il pubblico in teatro.
Queste orecchie hanno sentito orrori da far fremere non solo un
prete, ma anche un libertino a cui fosse rimasto appena un barlume di
onestà. Se pertanto, conoscendo questa buona famiglia; se
assistendo con vera e continua mia gioja ad uno spettacolo quotidiano
e veramente esemplare di pace domestica, di onestà, di
modestia, di abitudini religiose, e per conseguenza d'inalterabile
contento, desidero col più intenso ardore, e Iddio mi è
testimonio, che ciò si mantenga, mi pare d'aver ragione. Onde
farò uso di tutte le mie forze e di tutta la mia fermezza
affinchè, per un apparente fortuna, che io ritengo invece una
disgrazia sostanziale, per la porta dell'arte corruttrice e della
ricchezza non entrino in questa casa tutte le miserie di cui il mondo
si lagna, e che sino ad oggi questa casa, per una benedizione
speciale del cielo, affatto non conosceva.
IX
Queste
parole monsignore le proferì senza quel consueto impeto acre
onde soleva esprimersi allorchè, colla convinzione di aver
ragione, credeva di combattere il male; ma le porse invece con
mansuetudine, con emozione, e con un certo tremito nella voce; il
quale significava che quanto diceva, lo sentiva con vivissima
passione.
Lo
stesso maestro Brambilla ne fu commosso; onde si tacque per un
momento, pensando al bene che quel reverendo personaggio avrebbe
potuto fare, se la sua testa avesse sortita la forza e la virtù
del suo cuore.
-
In ciò ch'ella dice, monsignore, ci può essere qualche
cosa di vero. Ma risponda intanto ad una mia domanda: se questi
signori avessero fatto una pingue eredità, li consiglierebbe
forse a rifiutarla, per la paura che la ricchezza potesse mai
spostare ed alterare la loro beata condizione di adesso?
-
La ricchezza nelle mani di questa buona gente non potrebbe essere che
un mezzo felice di beneficare largamente il prossimo.
-
Dunque non è sempre vero che la ricchezza sia corruttrice.
Dunque l'essere essa di vantaggio o di danno non dipende che dalla
qualità delle persone che la posseggono. E quale è
della ricchezza, tale è pure d'ogni altra cosa del mondo.
L'abuso che si fa di tutto, non vuol dire che sia impossibile un uso
ragionevole e lodevole. Io conosco delle donne di teatro, che non
sono certo un esempio da proporsi; ma ne conosco anche di tali che,
se fossero imitate da tutte le donne delle altre classi, il mondo
sarebbe una meraviglia di costumatezza. E son qui con un esempio,
monsignore. In questi due anni, nell'arte drammatica, è
divenuta celebre una giovinetta, quella che l'anno scorso recitò
con grande successo al Lentasio la Francesca da Rimini di
Silvio Pellico: Carlotta Marchionni, insomma. Questa giovinetta è
un modello di virtù, e il suo esempio frutta alle altre sue
compagne; perchè il proverbio dice che i buoni fanno i buoni,
e perchè anche la virtù, per fortuna, è
attaccaticcia. Siccome questo teatro c'è, perchè ci
dev'essere ed è una necessità inevitabile della
convivenza sociale; così, per purgarlo della corruzione che
ella teme tanto, il miglior mezzo è quello di avviarvi anche
le persone che, avendo un talento fatto apposta per far prosperar
l'arte, hanno anche sortito un'indole così buona, ed hanno
avuta un'educazione così costumata, da far venir di moda la
virtù anche là dove, secondo quello che troppo
facilmente crede il mondo, sarebbe impossibile.
-
Di questa Marchionni ho sentito anch'io parlar con gran lode. Ma so
anche che ella non ha il dono funestissimo dell'avvenenza. Quanti
guai si stornano allorchè una ragazza non fa nè freddo
nè caldo! ma la bella ragazza provoca la tentazione; e la
tentazione, se non trionfa oggi, trionfa domani...
-
Per la medesima ragione trionferà sulla figliuola di costoro
qualunque fosse il tenore di vita che dovesse seguire, anche
rimanendo in casa, anche fuggendo il teatro, anche trascurando quel
talento straordinario che la natura le ha dato. Queste due oneste
persone, senza loro colpa, non sono ricche. Lei, monsignore,
m'insegna che la povertà è l'ausiliaria più
obbediente della tentazione. Se la fanciulla avesse a far la
ricamatrice, come sua madre, o la sarta, o la modista, crederebbe,
monsignore, di poterla salvare da tutti i pericoli del mondo?
-
C'è il matrimonio per questo... basta ch'ella trovi un uomo
della sua condizione... e tutto è aggiustato; e per questo
m'impegnerò sempre io.
-
Mi pare che dovrebbe toccare alla fanciulla a scegliersi il marito...
non al parroco della metropolitana. Non mancherebbe altro che i preti
dovessero avere il diritto di far da arbitri anche nelle questioni
dell'affetto! Ma ella, insomma, a forza di zelo, vuol condannare alla
miseria questa famiglia; vuol negare alla fanciulla il diritto più
incontrastabile che ha di non sprecare quel talento onde la
Provvidenza le fu benefica; vuol, infine, impacciarla anche nel fatto
del suo marito futuro, e condannarla, se le venisse mal scelto, ad
una vita perpetuamente scontenta e infelice.
X
A
questo punto s'impegnò più viva che mai la lotta tra
monsignore e il maestro Brambilla, dopo la quale, nessuno dei due si
smosse dalle proprie idee. Monsignore dichiarò solennemente ai
conjugi Gentili, che se essi avessero avviata la loro figliuola sul
teatro, non avrebbero mai più veduta la sua faccia; perchè
egli non voleva essere testimonio inerte e complice indiretto di
tanta disgrazia... Così dicendo, partì, lasciando i
signori Gentili immersi nella costernazione, nell'esitanza e
nell'imbroglio; e raddoppiando nel maestro Brambilla la voglia e il
proposito di liberare quella buona famiglia da una protezione che, se
era santa nel desiderio, poteva riuscire dannosissima nelle
conseguenze.
Passarono
più mesi. La fanciulla compì i quattordici anni.
Siccome aveva assai svegliatezza d'ingegno, così cominciò
a comprendere di avere il diritto di esprimere la propria volontà.
I genitori non le avevano mai detto del diverbio avvenuto per lei tra
l'Opizzoni e il maestro Brambilla; ma ella seppe ogni cosa dalla
signora Corali, onde un giorno ebbe il coraggio di risentirsi con sua
madre, e lamentarsi che la si sacrificasse in quel modo, col
rifiutare le generose esibizioni del maestro Brambilla d'istruirla
nel canto. Era quella la prima volta che essa, buona qual'era e
sommessa per indole e per educazione, parlava in tuon sì alto
a sua madre, laonde questa, pel dispetto, sebbene la mattina si fosse
confessata e comunicata, le diede due sonori schiaffi. Non ci mancava
altro! lo seppe la signora Corali, la quale fece gran chiasso; lo
seppe il maestro Brambilla, che rimproverò la madre, già
pentita d'aver percossa la propria figliuola; la quale, alla sua
volta, tenne il broncio per un pezzo, dicendo e ripetendo e gridando,
che se avessero continuato ad attraversarsi così ostinatamente
alla sua inclinazione, un bel giorno sarebbe fuggita di casa.
Queste
non erano che parole, ed ella era tanto buona, che non so che cosa
avrebbe fatto piuttosto che abbandonare i genitori. Ma alla fine i
parenti si risolsero a prendere un partito. Mandarono a chiamare il
maestro Brambilla; questi, per tranquillare la loro coscienza, li
consigliò a sentire anche qualche altro prete, un uomo di
vaglia, e propose loro il prevosto di San Simpliciano, della qual
chiesa egli era l'organista. Per tagliar corto, una mattina il
maestro Brambilla fece portare un pianoforte in casa Gentili, e
cominciò le sue lezioni. I progressi furono rapidi e
straordinarj. Di lì a un anno fece sentire la sua allieva in
varie accademie: la giovinetta sorprese tutti. Cantò al Casino
dei Negozianti, e la vice regina le regalò uno smeraldo e
la baciò in volto; chè la bellezza di quella fanciulla
era di quel genere che eccita la simpatia e l'ammirazione perfino
nelle donne. Cantò più volte al teatro Filodrammatico;
là i giovinotti galanti cominciarono a farle intorno le loro
evoluzioni d'idolatria e di spasimo; i socj del Casino s'addensarono
sul palco scenico, per vederla dappresso e farle i loro complimenti
nel punto che rientrava nelle quinte. I mercanti della via dei
Pennacchiari s'accorsero presto che più d'un damerino passava
e ripassava per di là, onde cogliere il momento fortunato
ch'ella s'affacciasse; e molti s'accontentavano persino di far la
sola conoscenza dalla finestra.
Di
tutte queste evoluzioni galanti, ella, assorta come era nell'arte
sua, e naturalmente modesta, non se ne dava nemmen per dedita. Bensì,
di quanti complimenti le avean fatti i giovani nelle sale accademiche
dove aveva cantato, ella non tenne a mente che quelli d'un solo; non
ci fu nulla di serio, però; ella vide colui più volte,
e lo sentì a suonar la viola con un interesse speciale, ma
vago e non profondo; colui le rivolse più volte la parola, ma
ella, contegnosa e riservata, non adempì, rispondendogli, che
alle leggi imprescindibili del galateo.
Nè
si ricordò di lui solo, ma con più frequenza, sebbene
con suo gran dispetto, si ricordò delle parole enfatiche, in
cui eran trascorse più gocce corrosive di lubricità,
che le aveva rivolte il conte Alberico B...i sul palco scenico del
Teatro Filodrammatico.
E
qui dobbiamo occuparci un po' a lungo di questo conte: il crotalo
infesto, destinato a spander bava e veleno su quanti lo avvicinano.
XI
Di
questo personaggio abbiamo già avuto un abbozzo fatto alla
sfuggita dal signor Giocondo Bruni. Ora tocca a noi, se ci riuscirà,
a farne il ritratto compiuto.
Vi
sono famiglie, segnatamente patrizie (e ciò per la ragione che
dànno più nell'occhio, e il pubblico ha il modo di
seguirle coll'attenzione), nelle quali s'è potuto notare,
essere ereditarie certe tempre di carattere, certe qualità
morali, certe attitudini d'intelletto. La dinastia sabauda conta una
serie non interrotta d'uomini di studio. La casa Capponi, da colui
che fece cader la cresta dello spavaldo Carlo di Francia al vivente
Gino, non annovera che uomini di gran senno e di gran propositi.
In
casa Belgiojoso si può far conto del perfetto gusto musicale,
delle voci di basso e di tenore sempre avvicendate e di una
intonazione impuntabile, che in questi tempi può diventare un
oggetto d'affezione. In certe case è
D'età
in età
Ereditaria
L'asinità.
In
alcune l'avarizia, in altre la prodigalità; in queste
l'orgoglio, in quelle la modestia, ecc. ecc. Il contino Alberico
B...i nacque in una casa dove dal capostipite fino a lui si
alternarono, col sistema delle piastrelle e della pila voltaica, un
birbone d'ingegno e un birbone volgare; un ramo pronunciatissimo di
pazzia esaltata dalla protervia era poi stato comune a tutti, e fu,
come il cartone bagnato, mantenitore della corrente elettrica. Il
contino, fin da ragazzo, a chiarissimi segni mostrò di non
essere un bastardo; mostrò di poter appartenere alla classe
dei birboni volgarissimi. Manesco e crudele coi fanciullini più
piccoli e più deboli di lui, per trafugar loro un balocco, fu
colto spesso dai servitori e dall'ajo a commettere tali atti da far
raccapricciare, e quando questi venivano riferiti alla madre,
piuttosto severa, allora dava saggi così cospicui d'indole
bugiarda, che non era possibile cavargli di bocca la verità
nemmeno a strozzarlo. Ma, ciò che è peggio, questa sua
avversione a confessare la verità non si limitava a difendere
sè stesso, ma invadeva il campo dell'invenzione; per
vendicarsi, si godeva a raccontar cose gravissime a danno dei
servitori, e con tale malizia e astuzia, che, a tutta prima, non era
possibile negargli fede; quindi, più d'una volta, accadde che
qualche servitore venne scacciato, che qualche frequentatore della
casa si vide, senza poter mai indovinare il perchè, male
accolto dai padroni, e anche messo alla porta.
Collocato
in un collegio di gesuiti, primeggiò fra i condiscepoli per
una memoria straordinaria. Delle facoltà dello spirito, in
quell'età che esse si spiegano e si sviluppano, diede poi a
divedere di non avere di distinta che quella sola; le altre erano
tutte mediocrissime. Però, quando fu a quel punto degli studi
che non basta soltanto imparare e ritenere, ma bisogna produrre; più
di un condiscepolo lo sopravanzò e di molto; e allora
quell'orgoglio, che in lui non aveva potuto destarsi prima, balzò
fuori di colpo, e insieme coll'orgoglio anche l'invidia; bugiardo
com'era, e in quel modo più infesto che abbiamo detto dianzi,
mise sovente i condiscepoli in gravi condizioni al cospetto dei
maestri. Scoperto, ebbe più d'una volta, dai compagni più
generosi e più espansivi, delle formidabili tambussate,
ch'egli subiva a capo chino senza far motto, per rapportare poi tutto
ai superiori. In un collegio di gesuiti poteva essere tollerata la
bugia, la calunnia, la viltà, la denunzia; ma i cazzotti dati
a buona guerra non potevano figurare mai nella tabella delle cose
permesse: onde esso riusciva sempre a trionfare, e i generosi a
portar sempre la pena di tutto.
Uscito
di collegio, passato all'università, risparmiato dalla
coscrizione militare per esser figlio unico; studiò legge
dapprincipio, poi si ascrisse alla facoltà medica, sollecitato
non già dal nobile amore della scienza, ma da un intento
stranissimo e turpe, che noi non troviamo la parola per poter
definirlo. Egli nella sala anatomica si pasceva della vista dei
cadaveri muliebri sottoposti alla sezione; nè l'indole sua
simulatrice bastò a nascondere ai condiscepoli quella orrida
sua bramosia; perciò un suo compagno, osservatore acuto, lo
chiamò la satiriaca jena. E questo fu l'altro istinto
che si sviluppò tra gli anni dell'adolescenza e della
giovinezza; «chè ad ogni fase della vita era destino che
gli desser fuori tutte le prave tendenze onde, nei tristi, ciascuna
età dell'uomo può essere contaminata. Fu dunque un
libertino dei più dissoluti e osceni, e dello spettacolo delle
donne andava sì preso, che le divorava cogli occhi, e i suoi
occhi assomigliavano, nella movenza maligna e procace e in quel senso
d'ineffabile disgusto che eccitava, a quelli dell'ourang-outang e del
mandrillo. A ventun anni s'invaghì d'una bellissima giovinetta
di nobile casato. Il suo non fu l'amore che deriva dalla squisitezza
del sentimento; ma quel furore voluttuoso fatto di grascia bollente;
quel furore ributtante che, in alcuni quadri barocchi, vediamo nei
fauni che inseguono qualche ninfa.
Siccome
era profondamente dissimulatore, e nel collegio dei gesuiti aveva
condotta all'ultima perfezione quella sua qualità, così
nella casa di lei recitò così bene la parte di bravo
giovine, che alla fanciulla non dispiacque del tutto, e i parenti
furono contentissimi di dargliela in isposa, quand'egli ne fece la
domanda. Povera giovinetta! Un canarino gentile dato in dono a un
fanciullo perverso, che in sul primo lo accarezza e lo bacia per la
novità, poi gli strappa la coda, poi gli spenna le ali, poi
gli cava un occhio con uno spillo, può dare qualche idea del
come si trovò quella disgraziata nelle mani di quel tartufo
maniaco inferocito. Di tal modo ella visse con lui cinque anni, e,
per sua fortuna, morì di febbre perniciosa. Egli stette solo
per assai tempo, durante il quale gettò dietro alle donne
danari a manate; poi, venutogli un altro capriccio indomabilmente
rapido, prese in moglie un'altra giovine e ricca. Contava allora
ventisette anni, e di fresco aveva accresciuto l'asse paterno,
alquanto dilapidato, coll'eredità di un grosso milione. Questa
seconda moglie era di carattere altero e forte, ed a coloro che si
fecer lecito di dirle, si guardasse bene di unirsi a quella bestia
feroce, rispose: la domerò io.
XII
Quando
al conte B...i morì la prima moglie, si disse da taluno che
quella morte immatura era stata la conseguenza degli assidui
patimenti onde il marito l'aveva torturata. Questa diceria però
era corsa vagamente pel mondo; chi lo conosceva intimamente, non si
rifiutava a prestar fede a quanto si andava buccinando; quelli che lo
conoscevano superficialmente, e che al teatro, al caffè, nelle
liete brigate lo trovavano uomo compagnevole e festoso, credettero e
non credettero; nessuno però diede a quella voce l'importanza
che meritava. Nessuno sapeva immaginarsi in che modo l'avesse potuta
torturare al punto da farla morire. Agli egoisti gaudenti del bel
mondo non pareva vero che si potesse uccidere una donna senza
pistola, senza coltello, senza corda, senza veleno... La novella
sposa pensò anch'essa come costoro, e piena di fiducia entrò
nella casa maritale. Per qualche tempo le cose camminaron bene; anzi
trionfalmente, al segno che essa ebbe a dire che tutti gli uomini
possono essere e buoni e cattivi, e che dipende dalle donne il farli
piegare piuttosto in un verso che nell'altro.
Ma
i gaudj non si protrassero nemmeno un anno. La nuova donna aveva
cessato di piacere al conte; però dalle gentilezze ei passò
tosto alle persecuzioni. Queste persecuzioni non erano gravi; anzi
eran minute; ma quotidiane, assidue, incessanti, e non lasciavan
tempo al fiato di rifarsi nel polmone. L'indiano si difende e si
salva dal leone e dalla tigre, ma cade affranto se nugoli di vespe lo
assalgono e gli avventano senza tregua il loro pungiglione. Il conte
Alberico contraddiceva a tutto: il suo studio maligno consisteva
nell'osservare che cosa piacesse o non piacesse alla moglie, per far
sempre tutt'all'opposto; se essa prediligeva la compagnia di qualche
cara amica, egli si comportava in modo che questa fosse costretta a
non entrargli più in casa. Se a lei era antipatico qualche
omaccio parassita e vile, che facesse la corte a lui per scroccargli
i pranzi, ei gli prodigava ogni maniera di gentilezze, e sopratutto
lo voleva aver sempre seco in casa, in carrozza, in palco, in villa.
Ma,
quello che costituì il tormento massimo di quella donna che,
nonostante la sua forza d'animo, cominciò a perdere
l'allegria, la freschezza e la rotondità, fu la continua
burrasca in cui venne a trovarsi avvolta per ciò che
riguardava la servitù. Egli pretendeva, senza dirlo (ma
ciascuno se ne accorgeva) che la servitù odiasse e trattasse
male la padrona; e siccome ciò, se avveniva per qualche poco,
non poteva continuare, allora egli si rivoltava contro la servitù,
ed or con un pretesto, or con un altro, scacciava la cameriera,
scacciava il cocchiere, scacciava il cuoco. I servi si rinnovavano;
sobillati da lui, in sul principio si comportavano indegnamente colla
padrona, ma presto, accorgendosi della tristizia inqualificabile di
lui, piegavano pentiti verso di lei, e si studiavano di risarcirla
dell'offese. E allora egli ricominciava le persecuzioni, gridava,
strepitava, qualche volta percuoteva; e i servi si licenziavano uno
dopo l'altro, ed altri comparivano, e si tornava sempre al medesimo
barbaro giuoco. In un mese si cambiarono tanti servi e camerieri e
cuochi, che la casa del conte B...i pareva l'ufficio d'indicazione
del mediatore Mustorgi. Nè le vessazioni dovevano fermarsi
qui. La signora si trovò incinta. In quella circostanza i suoi
portamenti furono tali, a giudizio dei servi impietositi, da far
sospettare che egli, intendente com'era di medicina, cogliesse ogni
occasione per sconcertarla nella gestazione.
Quando
giunse il giorno che la signora si sgravò, egli col pretesto
che, invece d'un maschio, era venuta in luce una bambina, s'infuriò,
gridò, ululò, sbattè imposte, e, a tutti
gl'indizj, parve che, coi sussulti e gli sgomenti tanto pericolosi
alle puerpere, mirasse a provocare una flogosi violenta che gli
portasse via la moglie in poco tempo. Il professor Strambio, chiamato
dalla levatrice inorridita, prese allora di fronte il conte Alberico,
e gli diede un lavacapo con minaccia di peggio. E allora colui a
infingersi, a umiliarsi, a protestare un immenso affetto per la sua
cara moglie, a dichiarare ch'egli era tutto stravolto pel timore che
aveva di perderla; laonde il dottor Strambio, non sapendo a chi
credere, se ne andò crollando il capo, e non si fece più
vedere.
Queste
scene atroci si ripeterono: la madre e la sorella di quella povera
donna stavan sempre in timore di qualche sventura quand'ella
trovavasi incinta; condizione già pericolosa per sè
stessa, ma che in quella casa e con quel marito assomigliava ad una
sentenza di morte sempre sospesa sul capo. Di tre figlie che ebbe,
l'ultima nacque morta, e la disgraziata madre ebbe a subire una
malattia lunga, che le guastò al tutto la complessione.
XIII
In
questo tempo, il conte parve più sopportabile in casa;
ma ciò potè dipendere da un nuovo vizio datogli fuori:
il vizio dell'ambizione. - Presentato a corte, desiderò
di essere qualche cosa, di esser fatto ciambellano, di aver
decorazioni, di aver titolo di duca come il Litta, di esser fatto
consigliere di Stato. E, a quest'intento, perchè quando una
passione l'invadeva, ei le si dedicava corpo ed anima, si accostò
al vicerè, e fu il suo lecca zampa più fedele, più
obbediente e più vile. Indovinando le voglie di lui, spesso,
con impudenza codarda, fu il suo manutengolo in tresche amorose;
spesso, e ciò con maggior danno del prossimo, o riferendo il
vero che non poteva piacere al vicerè, o inventando cose
compromettenti, con ingegno diabolicamente astuto mise in gravissimi
imbarazzi conoscenti e amici. Ma il vicerè se lo adoperava, lo
disprezzava anche, e non gli concesse mai nulla di ciò che con
insistenza domandava; laonde nel 1814 il conte B...i se gli voltò
contro, e sebbene respinto dai galantuomini, nondimeno, scaltro
com'era e matricolato nella simulazione, riuscì a ingraziarsi
al partito italico.
Nella
famosa giornata del Prina, a rendersi accetto al popolaccio
inferocito, fisse e rifisse nel cadavere sfigurato il puntale
dell'ombrello. Ritornati gli Austriaci, fu presto ai pranzi di
Bellegarde; poscia alle feste di corte, quando vennero il vicerè
e la viceregina. Nel tempo stesso però aveva fatto di tutto
per aver parte nella congiura militare del 15; continuava a
infastidire con proteste di devozione gli uomini del partito
italico. Era una pecora codarda ed importuna, che ad ogni costo
voleva introdursi tra le gambe dei cavalli generosi.
Quando
quelli di cui si vantava amico, lo respingevano con qualche sgarbo;
quando non trovava il modo di ficcarsi dov'egli voleva, allora i
malumori e le procelle e le tempeste casalinghe ricominciavano.
Nel
1817 ci fu altro cambiamento di scena. Esso venne ad incapricciarsi
bestialmente di una giovine cortigiana di meravigliosa bellezza,
venuta allora a tender le sue reti ai paperi milanesi della classe
nobile e ricca. Al solito, quel capriccio fu una mania e un furore.
Mantenne lei, il padre, la madre, le sorelle di lei; le apprestò
carrozze, cavalli, palco in teatro, villa sul lago di Como. Ma in
breve venne a mancare il denaro per la moglie e per le figlie; ma i
servi non eran pagati puntualmente; ma il fieno fatto passar nelle
stalle della cortigiana, venne meno al servizio della casa. E qui i
lamenti della moglie e le querele dei parenti di lei; e i furori di
lui e minacce ogni sorta, e più che minacce, perchè una
notte misurò sulla testa della disgraziata moglie un colpo
colle molle del caminetto, intanto che vi stava attizzando il fuoco.
Questo
fatto, saputo dai parenti di lei, li determinò a procedere per
una divisione legale di mensa e di letto. La petizione fu presentata
ai tribunali. Chiamato a dar conto di sè, esso calunniò
la moglie con oscenissime invenzioni; ma non operò che a danno
proprio, perchè i giudici indignati sentenziarono per la
divisione legale, per la pensione alla moglie, per l'interdizione di
lui. Questa volta tutto camminò col trionfo della giustizia.
Ma fu per poco. Essa morì in capo all'anno, lacerata d'animo,
disfatta di corpo, ridotta a tal condizione che pareva una larva,
anzichè una persona viva. Quando gli giunse la notizia della
morte di lei diede un banchetto ai contadini della villa dov'egli
erasi ritirato colla concubina, e la notte volle che il palazzo fosse
illuminato a giorno.
Vedremo
in seguito, come, nonostante questi orribili precedenti, quest'uomo,
in conseguenza di pessime istituzioni sociali, per alcune leggi
improvvide, per una podestà lasciata con soverchio abbandono a
chi non deve averla e non la merita; per l'onnipotenza del denaro che
dà la ragione a chi ha torto; per la viltà degli
uomini, complice troppo spesso l'autorità stessa, fu lasciato
ancor padrone del campo: come un lupo, che, dopo essere stato lo
spavento delle madri e dei bambini nel villaggio remoto, non si
provvede a prenderlo nel laccio, nè a coglierlo
coll'archibugio, ma lo si lascia ancora vagar liberamente per le
campagne.
XIV
Quando
vedemmo il conte Alberico mescolato ai soci della Compagnia della
Teppa sulla piazzetta di San Pietro e Lino, egli era nella massima
esaltazione di un furore amoroso per madamigella Gentili; aveva già
mandato persone a parlare ai parenti di lei, a far proposte di
matrimonio. Aveva anche ricevuto due rifiuti, che sempre più
gl'irritarono quel suo desiderio ardente; era inoltre tutto sossopra
per le smanie gelose che alcuni suoi conoscenti gli avevano messo in
cuore, col dirgli che la fanciulla era innamorata di un altro. Fu
allora che avendo sentito a parlare di una serenata, aveva eccitato i
compagni per scompaginarla a suon di bastone, nella speranza che si
sarebbe potuto spezzar la testa anche al rivale, dal quale
presuntivamente quella serenata doveva essere stata ordinata. Le cose
camminarono come camminarono: avendo scorto tra i suonatori e i
cantanti il conte Emilio Belgiojoso, a tutta prima s'era perduto di
coraggio, vedendo in lui un rivale formidabile; ma poi, assicurato
dal suonatore d'oboe, Yvon, il quale aveva una speciale predilezione
per la cronaca urbana e s'interessava d'ogni fatterello privato, che
il conte aveva tutt'altro per la testa, e che invece il presunto
amante doveva essere quel Giunio Baroggi dilettante di viola, il
conte Alberico a tale notizia si sentì riposto in sella,
perchè comprese che coi milioni non era difficile a scavalcare
un giovine non ricco. Tornò pertanto a tempestare il cugino
marchese F..., tutore delle sue figlie, perchè s'interessasse
a tal faccenda; il marchese aveva creduto bene, come sappiamo, di
parlarne a monsignor Opizzoni, suo conoscente intimo, siccome
all'unico personaggio adatto a compor simili negozj. Le cose erano a
questo punto, quando avvenne la scena procellosa tra il giovine
Suardi e il marchese F...
Questa
scena, non tanto per sè stessa, ma per le sue conseguenze,
venne a sconcertar le speranze e i disegni di Alberico. Ma prima di
spiegarne il modo, dobbiamo intrattenere il lettore d'altri fatti.
Monsignore
Opizzoni erasi assunto l'impegno di parlare coi conjugi Gentili,
dimentico, nella sua qualità di santo, di ogni rancore avuto
secoloro, e certo d'altra parte di fare un'opera meritoria, col
salvare cioè un'anima già ipotecata al diavolo, e col
togliere con un colpo maestro una fanciulla ancora innocente dagli
orrendi pericoli che la carriera del teatro le veniva minacciando.
Salvare un'anima perduta, e assicurare il paradiso a un'anima nata
fatta per esso, furono le due idee che esaltarono la carità
entusiasta di monsignore. A ciò s'aggiunga una specie di
puntiglio, che, a sua insaputa, gli si era fitto nell'animo, e nol
lasciava tranquillo da un pezzo, di riuscire ad avere il disopra su
quel petulante di maestro Brambilla. Il conte Alberico, dal canto
suo, avendo recitato maravigliosamente con lui la parte d'impostore,
col protestare d'essere stanco e pentito della propria vita
peccatrice, coll'assicurare di sentirsi purificato da quell'amore, e
di non scorgere per sè altra via di salvamento che nel
matrimonio con quella fanciulla santa, era pervenuto a far veder
chiaro a monsignore che la Provvidenza in quella occasione avea
voluto dar la più evidente prova della sua presenza, e che
però bisognava assecondarla con tutta l'anima e con tutto lo
zelo.
Quando
monsignor Opizzoni riprese le sue visite ai conjugi Gentili per fare
quella proposta che, secondo il suo concetto, doveva riuscir salutare
come un miracolo di Gesù Cristo; madamigella Stefania stava
per conchiudere una scrittura coll'impresario Barbaja. Quest'uomo,
che avea cominciato la sua carriera col fare il guattero nei fondaci
delle bottiglierie, poi, spinto dal suo genio, nell'anno medesimo che
Volta inventò la pila, scoperse l'alto segreto di mescolare la
panna col caffè e colla cioccolata onde nell'imperitura parola
di barbajata si fece un monumento più saldo del
granito; poi, diventato appaltatore dei giuochi d'azzardo nel ridotto
della Scala, arricchì straordinariamente, di modo che presto
assunse l'impresa del teatro stesso e quella del San Carlo di Napoli;
quest'uomo dunque, meno le sue speciali cognizioni sul cacao e sul
moka, era di una ignoranza mitica; ma aveva il genio del far danaro,
senza guardare ai mezzi, senza idee di onestà, non fido che
all'ultimo intento; come un condottiero il quale divorato dal furore
delle conquiste, move innanzi senza badare al diritto, calpestando le
popolazioni e moltiplicando le stragi. Nella sua condizione
d'impresario era perciò uno strozzino inesorabile di maestri,
di cantanti e di ballerini. Fiutava così in di grosso il vero
merito, come una volpe che, così anche da lontano, alzando il
muso nell'aria, sente odor di pollastro; e tosto gli era sopra per
impadronirsene e divorarlo. Quando sentì l'entusiasmo che
madamigella Gentili aveva destato al teatro Re, senza por tempo in
mezzo, pensò ad ipotecarla a suo vantaggio. Si recò
dalla fanciulla, la lodò, ma in modo da farle capire che
valeva molto meno di quello che essa potesse credere; le fece capire
così vagamente che, se possedeva una voce simpatica, essa era
però debole, segnatamente nelle corde di mezzo, e per di più,
aveva un certo tremulo che a lui, pratico del mestiere, accusava i
sintomi di un facile e vicino scadimento. Dietro questo esordio le
propose una scrittura per sei anni, nel primo dei quali le avrebbe
corrisposto lire cinque mila, sei nei tre successivi, otto mila negli
ultimi due.
I
genitori rimasero sbalorditi di così misere proposte, e si
guardarono in faccia quasi a dire: Il maestro Brambilla ci ha dunque
ingannati. - E madamigella Stefania rispose che non poteva
accettare quei patti in nessun modo, e che piuttosto avrebbe
rinunziato per sempre alla carriera teatrale: l'impresario replicò,
ragionò e sragionò, e conchiuse che sarebbe tornato
entro tre giorni a sentir la risposta definitiva. Ma nel secondo di
questi giorni comparve invece monsignor Opizzoni, impresario d'anime,
a fare la sua proposta inaspettata. I parenti della ragazza
conoscevano il conte B...i appena di nome; tuttavia, per quanto
vivessero fuori del mondo, era giunta fino a loro la notizia della
torbida vita di colui, e ne fecero motto a monsignore; ma egli tosto
lor contrappose. che se esso aveva avuto un cattivo passato, era da
ascriversi al bollore della gioventù, all'inesperienza,
all'essere stato disgraziato nella scelta delle mogli; che, di
presente, quantunque fosse ancora in freschissima età, non era
però più in quella procellosa stagione della vita, in
cui tutti gli uomini, quelli eziandio destinati a diventare
sapientissimi, non mancano di fare sovente i loro stramazzoni; che
esso avea parlato in modo, aveva espressa una tale deferenza per la
fanciulla, aveva così altamente protestato che soltanto per
quel matrimonio avrebbe ottenuta quella tranquillità d'animo
che non ebbe mai prima e per mancanza della quale potè far
cose di cui tanto si vergognava e si pentiva; che meritava
assolutamente di esser preso in considerazione; e per conseguenza,
dal lato di loro e della ragazza, l'annuire a una tale proposta, non
era soltanto un colpo di fortuna inaspettato, un beneficio della
Provvidenza, la quale esibiva alla ragazza tutti gli agi della vita,
mentre le faceva scansare tanti pericoli; ma era una buona azione,
un'opera meritoria, un mettersi sicuramente sulla via del Signore. I
genitori guardarono alla figlia, come a dire: Che te ne pare? Ma la
figlia non rispose nulla: onde monsignore, conchiudendo che, in ogni
modo, la questione di un matrimonio essendo sempre una cosa
gravissima, meritava il più maturo consiglio, si licenziò
dicendo ai genitori che sarebbe ritornato a sentire le loro
deliberazioni, e che intanto egli avrebbe pregato il cielo perchè
volesse inspirarli.
XV
L'idea
della ricchezza possibile aveva in addietro lavorato così
fortemente nella testa di quelle due sante persone del signor
Giacomino e della sua metà, ch'eransi rassegnati a non più
veder monsignore per casa, e a lasciar che la fanciulla seguisse la
propria vocazione. Ma l'idea della ricchezza certa, subentrata in un
momento che l'impresario Barbaja aveva ridotta ad una inaspettata
diminuzione di prezzo il merito vocale di Stefania, fu così
forte e formidabile da far loro conchiudere, che i figliuoli devono
sempre obbedire; che la giovinezza non sa quel che si fa; che se
Stefania aveva tanta passione per il canto, poteva continuar a
cantare anche in casa del conte B...i. Ma Stefania, interrogata,
rispose ricisamente che non voleva maritarsi; che quel signore lo
conosceva di vista, e non gli piaceva niente affatto, perchè
era brutto e perchè, per certe parole che aveva avuto la
sfacciataggine di rivolgerle sul palco scenico del teatro
Filodrammatico, doveva anche essere disonesto. Allora il signor
Giacomino che frequentava le quarant'ore montò sulle
furie; disse che il conte Alberico era abbastanza un brav'uomo ed
anche un bell'uomo, senza essere una meraviglia; che in quanto alle
parole dette o non dette, tutti i giovanotti quando parlano a donne
di teatro hanno sempre quei modi e quello stile, e che era ridicolo
il pigliarne scandalo.
Stefania
rispose con un certo slancio stizzoso, che all'uomo delle quarant'ore
parve insopportabile, e al tutto sconveniente col rispetto che i
figliuoli devono ai genitori; onde su quella cara e leggiadra testina
lasciò andare uno scappellotto plebeo, che fece dar la
fanciulla in un dirotto pianto di dolore e di rabbia. Il diavolo
insomma era rientrato in casa Gentili, nascosto sotto la sottana del
suo gran nemico Opizzoni. È difficile immaginare le vessazioni
assidue che quei due santi fecero soffrire alla loro figliuola. Una
mattina la madre la prese alle strette, perchè confessasse se
mai avesse un altro amante: Stefania rispose di no; e alle repliche
materne protestò e giurò, per finire a piangere come
una disperata. Nel frattempo monsignore tornò più volte
in casa Gentili. I genitori parlarono sempre in nome della figliuola;
e questa sentì una mattina che monsignore tutto beatificato: -
«Ah son ben contento, esclamò, ch'ella sia felice
d'accettar la mano di colui.» Il conte B...i ebbe così
il permesso d'andarle in casa. E i modi di lui, siccome aveva
dell'ingegno ed era educatissimo ed ipocritissimo, furono così
cortesi ed anche così ameni e disinvolti che, per la prima
volta, Stefania si sentì alquanto placata e risolse di dir di
sì, anche per fuggire le domestiche torture, e benchè
non le paresse vero di dover sposare un uomo la cui bocca, allorchè
s'apriva, presentava il desolante spettacolo dei troppo felici
esperimenti dell'in allora celebrato dentista Bonella.
I
parenti di Stefania che, finchè durò l'opposizione di
essa, avean sentito in fondo alla coscienza certe fitte intermittenti
di rimorso, pur nell'esaltazione e nel dispetto che provavano nel
trovare la figliuola tanto indocile e nella certezza di far l'uso il
più legittimo della potestà paterna; assaporarono
l'ebbrezza di una felicità non mai provata prima, nel vedere
che finalmente non solo ell'erasi piegata al loro desiderio, ma
pareva anche contenta: onde diede lor fuori un amor paterno e materno
così sviscerato che le prodigarono ogni sorta di carezze, di
gentilezze, di delicatezze. Pareva quasi ch'ella fosse diventata la
padrona di casa, perchè la madre adempiva ad ogni suo
desiderio colla sollecitudine e la sommessione quasi d'una fantesca;
e il padre era diventato dell'umore il più gajo, e al desco
quotidiano era sollecito di servir la figliuola per la prima,
chiamandola già contessa Stefania, così tra il serio e
il buffo. Monsignor Opizzoni, che, essendosi accorto in principio
dell'avversione della fanciulla per quel matrimonio, rigorosamente
coscienzioso com'era, aveva già pensato di non parlarne altro;
provò una soddisfazione ineffabile quando fu convinto che la
fanciulla era contenta. Ringraziò il cielo con tutta la
espansione del suo animo santo, e recatosi in casa del conte
Alberico, gli fece, come suol dirsi, una paterna così calda,
così eloquente, nel mettergli innanzi tutti gli obblighi a cui
andava incontro nel legare per sempre alla propria vita quella della
fanciulla; gli parlò con tanta effusione delle qualità
squisite e maravigliose di lei, gli raccomandò con un fervore
così appassionato, perfino colle lagrime agli occhi di
provvedere con ogni sforzo, con ogni cura a farla felice, che per
verità, chi avesse ascoltato quel discorso, avrebbe dovuto
piangere di tenerezza.
XVI
In
quanto al conte, il delirio che lo invase nel pensiero che avrebbe
realmente posseduto quel capolavoro di bellezza femminile, fu tale
che in realtà era diventato quasi buono; non era più
invidioso di nessuno, aveva smesse le menzogne e le calunnie; e
stette intorno alla fidanzata con ogni maniera di gentilezze.
Chicchessia pertanto (non chi scrive però, perchè di
tali cose se ne intende troppo) avrebbe dovuto invidiare quella
giovane creatura cullata dai genitori come se fosse una neonata,
raccomandata espressamente al cielo dalle preghiere di un venerando
sacerdote, idolatrata dal futuro sposo; al che si aggiunga la
splendida prospettiva del cocchio, del palco in teatro, delle livree,
dei viaggi a Parigi, a Londra, a Madrid, delle conversazioni serali e
vocali, dov'ella necessariamente sarebbe stata la regina legittima e
perpetua della festa.
Esultavano
dunque tutti, ma tutti a danno di una sola, e precisamente quelli
che, esaurita la maggior parte della vita, avean raggiunta l'età
in cui gli uomini non dovrebbero avere altro obbligo che di
provvedere al bene della gioventù che sorge, di apprestarle
tutte le occasioni della felicità possibile, di soccorrerla,
di salvarla, di colmarla di beneficj. Esultavano tutti a danno di una
sola. La giovinetta Stefania, leggiadra, bella fra le bellissime,
dotata di un talento straordinario e in quella sfera dell'arte che è
la più lusinghiera e la più affascinante di tutte;
essendo alimenti naturali di questo medesimo ingegno il sentimento,
l'entusiasmo, l'amore ardente del bello, e attraverso e intorno e
dentro a tutte codeste attitudini, una serpigine occulta, persino a
lei stessa, ma prepotente e fortissima, di una sensualità
gentile, che non offendeva la castità nativa, ma le metteva in
ebollizione il sangue con tentazioni arcane; l'unica figliuola di due
santi testardi e inconsciamente spietati, eletta creatura che
cresceva allora e per la quale quanti le stavano intorno avean
l'obbligo di sacrificarsi, era predestinata invece, come Ifigenia,
per i fatali responsi di un sacerdote, ad essere immolata sull'ara
paterna, e a diventare, come Andromaca o come Angelica, pasto
consacrato alle zanne d'una belva affamata.
E
la belva affamata, divenuta transitoriamente mansueta
nell'aspettazione del pruriginoso cibo adocchiato e presentito, si
recò una mattina dal suo nobile cugino marchese F...,
amministratore della di lui sostanza e di quella delle sue figlie,
per pregarlo di anticipargli un centinajo di mila lire per le spese
degli sponsali. Ma il marchese, contro ogni sua aspettazione e con
sua dolorosa sorpresa:
-
Io non ti anticipo nulla, disse. - Ho altro per la testa in
questi dì.
-
Ma, e che è avvenuto?
-
È avvenuto che non ho danari da dare altrui: segnatamente
quando si tratta di soddisfar capricci, e probabilmente di far
nascere dei disordini.
-
Disordini?
-
Peggio che disordini, perchè una bellissima ragazza di
diciott'anni, vagheggiata e desiderata dalla più avvenente
gioventù di Milano, e che si adatta a congiungersi con un tuo
pari, è una tale anomalia da non potersi comprendere. Io ti ho
raccomandato a monsignore, perchè credevo che quel sant'uomo,
liberando me dal fastidio di fare il sensale di matrimonj, avrebbe
detto tutto ai parenti della fanciulla; non omettendo di far loro
presente che a soli trentasei anni ti son già morte due mogli,
giovanissime l'una e l'altra.
-
Ma che discorsi son questi, caro marchese? Ma quando uno sposa una
donna, ha forse l'obbligo di garantirle la vita?
-
Non so nulla. Ma io non darei mai mia figlia ad un uomo ancor
giovine, che si è già trangugiato due mogli come due
uova fresche. Ma queste sono parole; il fatto è che i danari
non te li do.
Questo
repentino cangiamento nell'umore del marchese F
, che in quella
mattina si mostrò col conte Alberico bisbetico fino alla
provocazione e all'ingiuria, e che il conte Alberico sopportò
per quella viltà che lo faceva tacer sempre innanzi a quelli
che potevano più di lui e non dipendevano da lui, era stato
provocato da un incidente tutt'altro che atteso dal marchese, il
quale si trovò risospinto nel mare pericoloso del tribunale, e
si vide di nuovo nel pericolo di perdere quei tanto contestati
milioni della lite centenaria, per una lettera che il notajo Agudio
da una sua campagna presso Varese, dove era gravissimamente ammalato,
aveva scritto al Direttore di polizia.
Il
marchese nell'ozio fastoso della sua ricchezza non contrastata, nella
compiacenza beata d'essere un gran facoltoso rispettato e temuto,
soleva assecondar volontieri chi gli si raccomandava, e non si
lasciava troppo pregare nel far piaceri a parenti ed amici, e perciò
aveva trovato giustissimo che suo cugino si preparasse ad assassinare
un'altra moglie. Ma l'inatteso pericolo sorgiunto gli rovesciò
l'animo, lo fece diventare bisbetico e intrattabile. Parendogli che
tutti fossero in miglior condizione di lui, sentì il morso
della più dispettosa invidia pur contro quel vile briccone di
Alberico che, senza cure di nessun genere, pensava a soddisfare a
nuovi capricci. Non sperar nulla però, o lettore di buon
cuore; bensì preparati a fatti strani.
XVII
Una
quarantina d'anni sono, il corso festivo del popolo milanese,
disertato dall'antica via Marina, e poscia dai giardini e dal
bastione di porta Orientale, erasi ridotto a porta Romana. Pare che
questa deviazione, che infranse per cinque o sei anni la secolare
consuetudine, sia stata occasionata da un tale, che, avendo viaggiato
in Russia, introdusse nell'osteria del Monte Tabor, posta ai fianchi
della porta Romana, il divertimento della slitta. Costui, traendo
profitto degli accidenti di giacitura di quella parte di bastione che
si venne col tempo addossando ed innalzando sulle vetuste mura di
Milano, vi praticò una discesa precipitosa di centocinquanta
passi, pavimentata in legno liscio con solchi paralleli, in cui
scorrevano delle ruotelle in ferro portanti una seggiola per una
persona, od anche per due, quando l'una avesse caro di sedere in
grembo all'altra.
Questo
divertimento, per quanto fosse puerile, come dicevano gli uomini
gravi e non più giovani d'allora, fu potente a far cambiar
direzione a centomila gambe. Fosse la novità della cosa; fosse
che (siccome si usa nelle feste da ballo, che il cavaliere si piglia
seco la dama o la damigella, e anche senza conoscerla, dalla usanza
tiene la sanatoria di danzare con essa e di abbracciarla a
suon di musica), fosse dunque che i giovanotti e i cacciatori d'amore
avessero il permesso di tirarsi in grembo le signore più o
meno maritate, le fanciulle più o meno custodite, e che alle
fanciulle e alle signore non dispiacesse niente affatto di sedere a
quel modo, il fatto sta che l'insolito gioco ebbe un successo di
entusiasmo e di delirio. Nelle giornate di giugno il concorso
cominciava all'alba e finiva a mezzanotte; cosa che si comprende
facilmente quando si sappia che con soli 50 centesimi si pagava
l'ingresso e tre slitte.
Nei
giorni di festa e di giovedì l'affluenza delle carrozze era
tale, che dal ponte alla porta dovevano procedere lentissime in due
file, ed anche far lunghe soste. Il fortunato importatore di questa
slitta senza ghiaccio guadagnò per molto tempo più di
mille lire al giorno. Quando uno, nel caso di metter fuori una ditta,
sceglie per socio il peccato, è quasi sempre sicuro di far
fortuna. In conseguenza però di parecchi disordini avvenuti,
la polizia dovette sospendere quel divertimento per qualche tempo; e
non ne concesse di nuovo l'esercizio che col primo maggio del 1820.
Fu allora che il Monte Tabor, abbellito di nuove piantagioni, ornato
di pergolati e padiglioni, rallegrato dalle bande musicali, col
libero ingresso alla slitta accordato a chi desinava in
quell'osteria, tornò ad attirare a sè tutta la folla
gaudente della città di Milano.
Nel
dopopranzo del 24 settembre, giorno di domenica, era, come di
consueto, affollatissimo lungo il corso di porta Romana il passaggio
dei pedoni, prolungato e lento e ad ogni istante interrotto il
procedere delle carrozze, dei pesanti e maestosi landò,
dei bombé non ancora scomparsi, dei birbini,
dei cabriolets; piena la corsia interposta tra le due file di
eleganti cavalieri, che si fermavano al fermarsi de' cocchi, a' cui
sportelli apparivano tutte le foggie dei cappelli femminini che in
quei giorni erano stati incisi e dipinti sul Corriere delle Dame,
redatto allora da Angelo Lambertini; cappelli di crepon, di
raso, di treccie di cotone, di paglia di Firenze con penne di
struzzo, con marabouts, con piume scozzesi, ecc., ecc. Presso
all'osteria del Monte Tabor era un ingombro inestricabile di cocchi,
di cavalli tenuti a mano dai palafrenieri, dalla più minuta
gente del popolo, la quale, mancante degli indispensabili cinquanta
centesimi per entrare, si accontentava di vedere lo spettacolo
esterno e di sentire la musica delle due bande militari, che,
collocate alle parti estreme dell'osteria, si alternavano
nell'eseguire i pezzi delle opere teatrali allora più in voga.
In quel dopopranzo, il concorso alla slitta era forse maggiore del
solito, perchè si sapeva che, per la prima volta, vi dovevano
intervenire il vicerè e la viceregina, i quali tenevano
dall'imperiale parente il mandato di aspirare alla popolarità,
mescolandosi ai cittadini e al popolo.
L'interno
dell'osteria, dai bassi piani, dalle falde sino all'ultima vetta del
Tabor, era un vero alveare rumoroso e gozzovigliante, percorso e
ripercorso senza posa da camerieri trafelati. Verso le ore sei
arrivarono, preceduti dal giallo battistrada, i due tiri a sei
vicereali, il che se, pel momento, produsse una sosta nella agitata
faccenda della cucina e della cantina, accrebbe il movimento e il
fracasso del pubblico accorso, e non mancarono, pur troppo, i
battimani prolungati all'entrare delle loro Altezze Imperiali nel
locale della slitta. Vi fu, com'è naturale, qualche faccia
pesta, qualche costa indolenzita, allorchè i curiosi pretesero
tutti di vedere dappresso la viceregina ad assidersi nel calessino
della slitta, ed a fare i suoi cinque o sei giri in pochi minuti.
Possiamo assicurare che la viceregina ebbe un successo di fanatismo
anche perchè era una bellissima donna, più alta di una
Patagona, e perchè forse nella rapida discesa, squarciando il
vento, permise che le candide gonne, alzandosi in barocchi svolazzi,
lasciassero vedere un pajo di gambe dense e poderose, di quelle che
di solito non sembrano concesse alle Altezze Imperiali. Non mai
artista, nè cantante, nè ballerino o cavalcatore,
nemmeno la Malibran, nemmeno la Elssler, nemmeno Miss Ella, fecero
girar la testa al pubblico, affrontando tutte le difficoltà
dell'arte e il pericolo di rompersi il collo, come la viceregina
sedendo comodissimamente in slitta.
Qualunque
straniero, di quelli che non stancano gli occhi sui giornali e non
tengon dietro alle politiche altalene, se si fosse trovato allora in
Milano raggirato nel vortice di quella baraonda, avrebbe dovuto dire
che l'età dell'oro era tornata fra noi; che i sudditi italiani
andavano in amore per i sovrani tedeschi; che questi non avevano a
temere più nulla; che il barometro della storia assicurava un
sereno dei più costanti; che una specie di beatitudine
asinesca aveva avvolto nella sua tepida atmosfera tutta la nostra
popolazione. Eppure non era così, anzi era precisamente il
contrario. Pochi giorni prima era stata mandata ai parroci una
notificazione da leggere in pubblico, portante obbligo a tutti di
notificarla, pene gravi ai delinquenti, perdono e impunità ai
complici che li denunziassero.
Numerose
truppe e treni d'artiglieria arrivavano e passavano per Milano,
diretti a Pavia a guardare il Ticino ed il Po. Al console di Napoli
era stato ingiunto di partire immediatamente da Milano, quasi che la
costituzione imposta al suo re, per suo mezzo dovesse diventar
contagiosa qui come la febbre gialla e il vajuolo nero.
In
quanto all'ordine interno e alla sicurezza pubblica, le strade
suburbane eran continuamente infestate da bande di assassini; nella
città quasi quotidiani gli assalti notturni, le uccisioni e i
furti. L'allegria cittadina assomigliava dunque alla luce del sole,
che rischiara indifferentemente tanto il male quanto il bene.
Come
quando il corpo umano dev'essere travagliato da qualche malore
critico, che porterà lo scompiglio in tutte le sorgenti della
vita, per ispegnerle o per rinnovarle tutte, che il colore vivace
della salute è mantenuto in viso pur dalle stesse accensioni
della febbre, così appariva alla superficie lo spirito della
società di quel tempo, in cui diedero fuori i primi sintomi di
una profonda trasformazione in tutte le sfere della vita pubblica e
privata, del pensiero e delle aspirazioni nazionali, in tutti i rami
della scienza, in tutti i campi dell'arte.
In
quella stessa gazzarra del Monte Tabor erano ostensibili tutti gli
elementi vivi della rigenerazione che stava per succedere in tutto
l'organismo della società.
Giunio
Baroggi, salito sur uno dei poggi più elevati dell'osteria, da
cui si poteva dominare tutta la scena che gli si svolgeva dintorno e
di sotto, guardando ora a un gruppo ora all'altro, stava immobile
riflettendo appunto al contrario tra l'apparenza e la realtà
di quello spettacolo.
XVIIII
Ma
di questo Giunio, che è destinato ad essere una specie di
Childe Harold, ed avrà poi l'incarico di
congedare i cari lettori del nostro libro, ne pare, che prima di
continuare ad accompagnarlo ad ogni passo, sia necessario sapere
minutamente com'egli era fatto di fuori e di dentro.
Già
ne uscì dalla penna la notizia ch'egli era un bel giovane;
bello al punto che l'Accademia di belle arti e l'Ateneo delle donne e
delle fanciulle milanesi avrebbero dovuto disputare assai, prima di
conchiudere se il primo premio in beltà doveva concedersi a
lui o al conte Emilio Belgiojoso o al Marliani.
Coloro
che propendevano per le proporzioni atletiche, avrebbero scelto il
conte Emilio; quelli per cui non v'è bellezza se non è
garantita dai capelli neri e dagli occhi neri stavano pel Marliani;
ma quanti propendevano per quella beltà che riceve tutta la
sua espressione dal sentimento e dallo spirito, non avrebber tardato
un minuto a dar la palma al nostro Giunio. Concepito nel 1798, quando
la giovinetta sua madre era tenuta in continuo sussulto da cento
ansie e paure, erasi insinuato nel suo organismo una tale
eccentricità che, sebbene ei fosse sanissimo e perfettamente
costituito, pur gli dava talvolta l'apparenza di un giovane
travagliato da qualche malore. Ma, per sua fortuna, col tramontare
del classicismo carnale, allora era già incominciata la moda
delle faccie languenti; la sua poi era di quelle che non son sempre
eguali; la mobilità dello spirito e le varie impressioni
l'alteravano in un momento. I pensieri si vedevano a passare tutti su
di essa, come le nubi sul cielo. - Codeste alterazioni erano
tali e sì forti, che in certi istanti il suo volto, tanto era
lo spostamento e la battaglia dei muscoli, poteva persino parer
brutto, per lo meno disgustoso. Se però una subita gioja lo
esaltava, s'egli animavasi in qualche disputa gentile, se trovavasi
al contatto di una persona cara, se una musica agitante gli metteva
il tumulto nel sangue, tosto pareva che gli si togliesse dinanzi come
un velo cupo; tutta la sua fisonomia si esilarava, le linee quasi
sgominate ripigliavan di tratto il loro posto regolare; gli occhi
mandavano lampi ed esercitavano un tal fascino, che quanti lo
vedevano e lo ascoltavano, si animavan seco.
Codesta
eccitabilità, che alterava sì facilmente il suo
aspetto, alterava e modificava, com'è naturale, anche le
manifestazioni della sua mente e dell'animo suo.
Talvolta
era chiuso, taciturno, triste, timido, circospetto; talvolta ilare,
espansivo, loquace, epigrammatico, imperterrito. Talora il suo
ingegno era riflessivo, preciso, misurato come la geometria: più
spesso traboccante, disordinato, concitato, pieno di voli audaci come
la poesia lirica. Impressionabile qual era al pari di un barometro,
riceveva e riteneva tenacemente in sè le impronte di tutte le
parvenze anche fuggevolissime del mondo oggettivo. Dotato di uno
spirito d'osservazione acuto e penetrante, un'occhiata dal capo al
piè bastava sovente a rilevargli un uomo; da ciò una
straordinaria facilità, che potea parer precipitazione, a
portar giudizio degli altri; da ciò altrettanta facilità
a sentire propensione o avversione per quelli che avvicinava;
propensione che si cangiava tosto nella più calda amicizia;
avversione che lo portava spesso a non dissimulare le più
violenti antipatie. Nei lunghi e frequenti viaggi in compagnia del
padre e della madre, aveva acquistata esperienza di mondo oltre il
diritto dell'età sua. Datosi agli studj con intensità
quasi febbrile, ne' due anni che dimorò a Parigi (chè
era nell'indole sua il portar tutto all'eccesso nel tempo che
applicava la mente e il cuore a qualche cosa), s'era così
arricchito di cognizioni, che in una compagnia di letterati e di
dotti potea giocar buonamente la sua partita con chicchessia.
La
tempra però del suo ingegno e del suo sentimento lo inclinava
più al culto dell'arte che a quello della scienza. La sua era
anima di poeta, e idolatrava il grato della beltà
spettacolo, e credeva che i prodotti dell'arte
consolassero l'umanità più direttamente e più
istantaneamente che quelli della scienza. Nella sua mente aveva
spinto fino alle più esagerate conseguenze quel detto di
Foscolo «che le discipline più utili ai mortali son
quelle che diradano gli affanni e le noje della vita.» La sua
eccitabilità stessa, che lo rendeva sensibilissimo ai
patimenti altrui, e per conseguenza manteneva lui medesimo quasi
sempre in uno stato di dolore morale, lo aveva confermato sempre più
in quell'opinione. «Val più, egli solea dire, la
corrente elettrica messa in movimento in tutti i teatri dei due mondi
dalla musica poderosa di Rossini, che quella eccitata dalla pila di
Volta.
«Colla
scienza arida e sola, l'umanità rimane sempre infelice;
soltanto per mezzo dell'arte può avere dei quarti d'ora
passabili.»
Riferendo
questi suoi detti, non crediamo di metterci la nostra firma;
intendiamo soltanto a mostrare che strana tempra di giovane era il
nostro Giunio.
Essendosi
trovato più volte in compagnia di Ugo Foscolo, quando questi,
al pari di tanti altri, sebbene indarno, aveva fatto la corte a donna
Paolina, la sua fantasia adolescente era stata scossa e penetrata
dalla fiera e generosa misantropia di colui. Però, fosse che
l'indole sua lo avesse portato spontaneamente a pensare come Foscolo,
o un po' di vanità giovanile lo avesse spinto ad ostentar
d'imitarlo, abborriva romanamente ogni sorta di tirannide; sentiva
un'avversione invincibile per l'invadente autorità, fosse pur
quella che deriva dalla superiorità dell'ingegno. Degli
uomini, in generale, avea disistima e sgomento, salvo i pochissimi
che gli paressero egregi; questi poi amava con entusiasmo e con
efficacia operosa, e credeva con ciò di confortarli ed
ajutarli, e di stringersi ad essi quasi in lega di mutua difesa
contro all'attentato dell'universalità.
Allorchè
gli pareva che uno fosse buonissimo, lo frequentava con intimità,
fosse il falegname, fosse il calzolajo, segnatamente se mostrava
d'avere abbondanza d'ingegno naturale: chè l'ingegno spontaneo
e il vergine buon senso anteponeva a qualunque dottrina.
Portato
a studiare gli uomini, come un medico che si affanna nello studio di
una malattia creduta incurabile, li andava a cercare in tutte le
classi della società. Oggi passeggiava sotto al braccio del
duca Litta, del conte Belgiojoso, dell'Archinto; domani sedeva nel
cortile del Falcone a bere il vin bianco magro col Bichinkommer, che
prediligeva in modo particolarissimo. Dopo aver passata qualche ora
in discussioni letterarie al caffè della Palla, dove
convenivano parecchi professori del ginnasio e del liceo di
Sant'Alessandro, lo si vedeva al caffè della Cecchina a
intrattenersi a lungo con cantanti e ballerini. Rimaneva spesso delle
intere giornate nella Biblioteca Ambrosiana a leggere, a studiare, a
consultare gli Oblati che ne erano i dottori. Un altro giorno,
ammesso a suonare il quartetto in casa Castelbarco, si, deliziava
colle composizioni di Beethoven, di Kromer, di Haendel, di
Boccherini, ecc. Sosteneva lunghe discussioni estetico musicali
col maestro Soliva, con Minoia, con Federici, con Alessandro Rolla,
con Lichtenthal, coll'energumeno Prividali, agente,
giornalista-librettista, che dalla cronica bolletta e dal fegato
guasto era mantenuto in continua esacerbazione, e nella disputa
schizzava veleno e acido solforico. Un altro dì, assistendo
alle prove del circo equestre ai Giardini pubblici, perchè era
grande conoscente di Alessandro Guerra, allora primo cavallerizzo
della compagnia di Bach di Vienna, vi si tratteneva a lungo,
suggerendo pose eleganti alle belle amazzoni cavalcanti, e
incoraggiando il Guerra al non ancora tentato Non plus ultra.
Codesta varietà di studj vivi e di divagazioni gli era imposta
non tanto dalla mobilità dell'indole che non gli permetteva di
fissarsi troppo a lungo in una occupazione esclusiva, ma dal
proposito che vagamente gli era sorto in mente, dopo aver letta la
traduzione squisita del Viaggio sentimentale di Sterne fatta
dal Foscolo, di portare cioè alle più ampie proporzioni
possibili quel modo di componimento, e di fare un lavoro letterario
che riflettesse gli infiniti colori dell'umanità.
A
Venezia, dove noi conoscemmo il Baroggi del 1849, abbiam potuto
vedere l'abbozzo ed alcune parti compiute di quell'opera vasta. E,
secondo il parer nostro, quel lavoro condotto a compimento, avrebbe
fatto un gran rumore nel mondo letterario; l'Italia avrebbe
certissimamente avuto un uomo illustre di più, se eccezionali
sventure e dolori fierissimi non avessero affranto quel generoso ed
originalissimo ingegno.
Intanto
che il Baroggi stava, come fu detto, guardando ora una parte, or
l'altra, or l'altra del fracassoso spettacolo del Monte Tabor, sentì
battersi una spalla, e contemporaneamente udì la voce di
Andrea Suardi. Con questi trovavasi un giovane di aspetto e di modi
assai distinti.
-
Eccovi il vostro amico, gli disse questi. Stando laggiù, vi
abbiam conosciuto. Si veniva in cerca di voi appunto... Siamo già
stati alla vostra casa, e non avendovi trovato, abbiam detto che,
siccome tutto il mondo corre qui, così vi sareste venuto anche
voi. Non è un'ora del resto che il vostro amico ha potuto
lasciare, e speriamo che sarà per sempre, la sua cella di
Santa Margherita. Io mi lodo di aver potuto giovare tanto a voi che a
lui, e mi lodo tanto più che avendovi promessa la mia
assistenza, questa ha portato il miglior frutto possibile.
Ed
ecco un altro personaggio, dirà il lettore. Sì, un
personaggio, e di che importanza e di che natura fatta apposta per
esercitare lo spirito d'indagine di chi studia gli uomini nella vita
viva!
XIX
Il
giovine che con tanta gentilezza di modi e di parola presentò
il Suardi al nostro Giunio, era impiegato nell'alta gerarchia della
polizia di Milano. Benché fosse noto che egli era ammesso alla
famigliarità del barone Gehausen, allora direttore di quel
dicastero, e amico intrinseco del Pagani, consigliere di governo e
vicem gerens del Gehausen, pure la sua presenza non solo
era tollerata, ma ricercata nelle conversazioni delle case più
distinte e nei crocchi degli uomini più intemerati e illustri.
Per assai riguardi noi non ne diremo il nome, quantunque crediamo che
riuscirà ben facile d'indovinarlo a quei lettori che non sono
più giovani, ed hanno chi sa quante volte parlato con lui. Di
aspetto simpaticissimo ed attraente, di modi gentili ed insinuanti,
di ampio ingegno e di eguale coltura, segnatamente nelle cose della
giurisprudenza, che era stata prima e diventò poscia la sua
professione, era uno di quegli uomini che dalla natura tengono una
specie di sanatoria di poter fare tutto ciò che
vogliono, senza incontrare la così pronta e inesorabile
censura pubblica. Chi avesse occupato il suo posto, anche senza il
pericolo d'incontrar l'odio altrui (perchè quel posto era
nella pianta del dicastero, e qualcuno bisognava pur che
l'occupasse), sarebbe stato per lo meno gentilmente sfuggito da
quanti non amavano il governo austriaco, e guardavano il palazzo
della polizia con quell'apprensione indefinibile, ma molto simile
all'istinto onde la lepre scansa il levriere; chiunque poi avesse
avute le pratiche cittadine ch'esso aveva e fosse stato come lui
tanto intimo delle persone ch'erano in uggia al governo,
certissimamente che non l'avrebbero scelto a sedere tra il barone
Gehausen e il consiglier Pagani. Ma egli aveva quel - parlar
facondo lusinghiero e scorto - ond'è caratteristico
l'Alete della Gerusalemme, sebbene non fosse sorto come Alete
tra le brutture della plebe, chè anzi era nato da una famiglia
onestissima e stimata, e non fosse perverso e calunniatore come quel
personaggio del Tasso.
Ma
il suo parlar facondo e i suoi modi flessuosi e un viso
dove pareva che la sincerità e il candore avessero posta la
loro sede preferita, facevan di specchietto incantatore con tutti, e
lo mettevan tosto nelle grazie di quanti avvicinava. Avendo fatto
letture svariate, essendo fornito di straordinaria memoria, di
percezione prontissima e sagace, parlava d'ogni cosa e in qualunque
ramo, come se quello fosse l'oggetto appunto della sua professione.
Dato il caso che, per modo d'esempio, il discorso fosse caduto sui
cinti elastici, avrebbe dato da pensare anche al Pioroni, anche al
Corbetta. Questa eccezionale qualità gli metteva nelle mani
quasi a dire il biglietto d'ingresso per tutte le classi, per tutte
le professioni, per ogni qualità di persone, sapendo
opportunamente toccar le corde che oscillavano più grate
all'orecchio di ciascuno. E codesto ei faceva anche senza intenti
speciali, ma soltanto per appagare un bisogno spontaneo della sua
mente e dell'indole sua.
Se
ne vogliamo una prova, possiamo ottenerla subito a proposito del
nostro Baroggi.
Dopo
avere intrattenuto quest'ultimo colla relazione delle pratiche
ch'egli aveva fatto presso il marchese F..., affinchè questi
si piegasse a levar la querela mossa contro il Suardi; dopo avergli
detto come la prima volta lo aveva trovato inesorabile, e la seconda
invece, con sua gran meraviglia, arrendevolissimo, al punto che gli
parve avesse più volontà il marchese di far mettere in
libertà il Suardi, che questi di uscire all'aperto; dopo aver
dato le più belle speranze al Baroggi relativamente
all'eredità in contestazione pel fatto inatteso che il notajo
Agudio aveva scritto una lettera al direttore Gehausen, e un'altra al
presidente del Tribunale Civile, informandoli come egli avesse
consegnati nelle mani dell'avvocato Gambarana e dell'avvocato Falchi
dei documenti importanti trovati nell'archivio del defunto dottor
Macchi, dopo aver risposto ad alcune domande del Bichinkommer, che in
quel punto erasi presentato per congratularsi e stringer la mano al
Suardi:
-
Ma io scommetterei, concluse, che con quell'anima di poeta che avete
e coll'amore che portate all'arte e alla gloria, voi cedereste tutti
i vostri diritti alla ricchezza che probabilmente vi aspetta, per
assaporare un giorno solo di compiacenza letteraria simile a quella
onde oggi esulta il nostro Tommaso Grossi, che siede laggiù,
come potete vedere, in mezzo a quella schiera numerosa di donne che
gli fanno crocchio intorno, e lo guardano e lo esaminano e lo
perlustrano da tutte le parti per vedere se chi ha scritto
l'Ildegonda, e in questi giorni ha saputo far versare tante
lagrime alle nostre belle impietosite, abbia gli occhi, o il naso, o
la bocca diversi da quelli di tutti gli altri. Sono tre dì che
la novella è uscita, e l'edizione è quasi tutta
smaltita. Ben m'immagino che voi l'avrete letta e straletta.
-
L'albero del Conciliatore, osservò il Baroggi, sebbene
vandalicamente troncato, comincia a dare oggi frutti saporiti e
maturi; in aprile uscì il Carmagnola, in settembre
l'Ildegonda. Due battaglie e due vittorie in un anno solo, non
è poco, per Dio; e non so che cosa dirà il Monti, che
vedo laggiù in carrozza in compagnia dell'avvocato Marliani.
-
Il Carmagnola non fu che una battaglia indecisa. Ma la
vittoria compiuta è dell'Ildegonda.
-
Il genio di Napoleone sfolgorò più assai nei capolavori
sventurati delle battaglie di Francia che nell'orbata
fortunatissima di Marengo.
-
Che cosa vorresti dire?
-
Ch'io vorrei aver fatto fiasco con Manzoni, piuttosto che aver
trionfato con Grossi. Mi conforta però che il campo dell'arte
non è quello della politica e della guerra. Qui l'esito
momentaneo è tutto; là, se non è duraturo, non
può deporre nessun germe che fecondi l'avvenire.
-
Dunque voi non siete, un ammiratore dell'Ildegonda.
-
Immensamente l'ammiro, e mi godo che l'esito suo fortunatissimo
troncherà tutte le questioni di colpo; ma sostengo altresì
che gli elementi legittimi del trionfo completo della rivoluzione
letteraria son deposti soltanto nel coro del Carmagnola.
-
Potete aver ragione, ed io non m'attento di confutarvi. I paragrafi
del codice non mi danno tempo di percorrere da padrone il campo
vostro; però, senza poter percorrerlo, mi basta la vista per
misurarlo, e da tutti i sintomi mi par di vedere che in tutte le cose
nostre è incominciata una primavera novella. Guardate là
a quel circolo di persone che stanno intorno al Grossi... La
combinazione ha voluto che in questo momento si trovino riuniti tutti
i portabandiera del nostro avvenire; parlo del pensiero, e delle
arti, e della civiltà.
-
Se mai vi fosse Manzoni, vi prego a farmelo conoscere
-
Il Manzoni non c'è. Ma v'è uno de' suoi più
grandi amici, Giovanni Torti; e v'è Pietro Borsieri, giovane
di altissimo ingegno e che, come saprete meglio di me, sta attendendo
a un gran lavoro letterario... una trilogia intitolata: Torquato
Tasso.
-
Che non compirà mai. Io ebbi a parlar seco più volte,
ma non mi sembrò di trovare in lui le più legittime
qualità dell'ingegno. Ha molta memoria, molta facilità
di parola, una grande smania di primeggiare nel crocchio e di
brillare contraddicendo a tutto e a tutti. Posso sbagliare, ma costui
non farà mai nulla di veramente grande in letteratura.
L'opuscolo che pubblicò qualche tempo fa, ha spolvero, e
chiacchiera superficiale; ma nulla più. All'età sua
(credo bene ch'egli abbia passato i trentacinque anni), bisognerebbe
aver già dato fuori qualche frutto maturo. Costui è uno
di quelli che han l'arte di metter in movimento la fama, facendo poco
o nulla, e tenendo sospeso il mondo con grandi promesse e colossali
frontispizj. Sapete piuttosto, egregio signore, chi, a mio parere,
sarà per far parlar molto de' fatti proprj?... è
Giovanni Berchet.
-
Anch'egli ha i suoi trentasei anni, e secondo la vostra opinione, non
avendo ancor fatto nulla, non potrà più far nulla in
avvenire.
-
Badate però a tutto quello che ha scritto nel Conciliatore
sotto il pseudonimo di Giovanni Crisostomo, e forse sarete per
dir meco ch'egli ha già fatto moltissimo; nella sfera almeno
della teoria, se non in quella dell'esempio pratico. Ermes Visconti e
lui sono i veri evangelisti della nuova legge che si promulgò
nel mondo letterario; Manzoni è il Cristo che illumina
coll'esempio, lasciando agli altri l'incarico di dettar la legge.
-
Per questa parte io credo che il Visconti sia il più grande di
tutti.
-
Divido perfettamente la vostra opinione; ingegno straordinario,
conoscitore di tutte le letterature, acuto, penetrante, intollerante,
dalla stessa eccentricità dell'indole portato necessariamente
al novo e all'intentato, egli è forse quegli che primo gridò
l'en avant a tutta la nostra gioventù. Ma temo
ch'ei sia per somigliare a quegli eroi che cadono sotto alle mura
prima che sia compiuto l'assalto; o a quegl'infusorj che
rimangono estinti nell'atto della fecondazione.
-
Vi sono gl'ingegni che additano, e gli ingegni che fanno. I primi
hanno il merito, i secondi la ricompensa.
-
Benissimo detto. Ma, senza i secondi, i primi sarebbero inutili. A
che sarebbe valso 1'Orlando del Bojardo, senza il Furioso
dell'Ariosto; a che la leggenda del Faust senza il dramma
di Goethe; a che il crescendo di Generali, senza Rossini che lo ha
fatto trionfare?
-
A proposito di Rossini, guardate che entrò adesso Carlo Porta.
-
Mi piace quell'a proposito. Carlo Porta è davvero il
Rossini della nostra poesia vernacola. Questi due ingegni si
assomigliano così negli ultimi risultati a cui portano l'arte
loro, come nelle precedenze storiche che li hanno preparati. Il
Maggi, per l'originalità e la potenza dell'invenzione, è
il più grande poeta in vernacolo che mai sia esistito; come in
musica il Marcello, che viveva contemporaneo al Maggi, è il
più sublime, il più originale e il più lirico.
Ma Rossini e Porta sono più trasparenti, più veloci,
più lusinghieri, più popolari. L'arte, che non è
accessibile alla moltitudine, quasi cessa di essere arte e però
rimane solitaria e non compensata. Se alcuno ci udisse, forse si
riderebbe nel sentirci a mettere in compagnia Maggi e Marcello, Porta
e Rossini. Ma l'arte è sempre la stessa, nonostante l'infinita
varietà de' suoi mezzi; e chi si sgomenta dei troppo arditi
ravvicinamenti, non è nato nè all'arte nè alla
critica. Ma chi è quel caporale dei granatieri del Bellegarde,
che ora sta parlando con Grossi?
-
È un giovanotto di Bergamo, che ha studiato musica sotto
Simone Mayr. Egli, non potendo andar d'accordo col padre, il quale
non voleva assolutamente che si dedicasse alla musica teatrale, uscì
di casa e si fece militare un anno prima della coscrizione. Il Mayr
però, che è il più buon tedesco del mondo ed è
il padre dei suoi scolari, lo ha raccomandato caldamente al general
Bubna, e questi ha dato ordine che si desse tempo e modo al giovane
granatiere di scrivere pel teatro.
-
Ma sarebbe mai quel Donizetti, che scrisse già il Falegname
di Livonia per il San Moisè di Venezia; e che,
quest'inverno, fece fanatismo a Mantova colle Nozze in villa?
-
È lui appunto.
-
Il Falegname di Livonia l'ho sentito, ed è una musica
piena di vivacità e d'estro.
-
Or chi direbbe che un granatiere sì grande e grosso e
rubicondo, possa essere un maestro melodrammatico? ma la musica
dev'essere un'arte che ingrassa come il lichene. Cimarosa era tondo
al pari di un pallone; Jomelli aveva parti così colossali, che
ci volevan due scranne per dargli agio a sedere. Rossini ha un
faccione sì paffuto e lucente, che non si sa capire come abbia
potuto far piangere Desdemona a quel modo, e dar tinte così
terribilmente tragiche a tutto il terzo atto dell'Otello.
-
Le battaglie dello spirito possono essere dissimulate anche dalla più
gioconda maschera carnale. Al genio basta anche un momento fuggitivo,
in cui gli si riveli il dolore, o un altro sentimento, per
comprendere tutta l'estensione ed applicarlo all'arte. Anzi, la
condizione essenziale del vero genio artistico è questa. Il
genio è un'arpa a mille corde. Ciascuna, alla sua volta, manda
il suo suono. La luce dell'umanità si decompone nell'anima sua
in raggi infiniti, o, per dir meglio, i raggi infiniti dell'umanità
vanno tutti a metter capo nell'anima sua, che li rimanda e li
riverbera e li restituisce al mondo sotto le molteplici forme
dell'arte. È a questo modo che si comprende Shakespeare. È
a questo modo che si dee comprendere Rossini.
XX
Il
Baroggi non aveva finito di pronunziare il nome di Rossini, che la
banda del reggimento Bakony, per indulgenza al gusto pubblico, si
mise a suonare la sinfonia della Gazza ladra; diciamo per
indulgenza, perchè il maestro direttore di quella banda,
cresciuto alla scuola esclusivamente germanica e alla frazione di
quella scuola stessa che farebbe inscrivere la disciplina dei suoni
tra i rami della facoltà matematica, detestava Rossini, e
perchè questo, alle prove della Bianca e Faliero, colla
sua celia mordace lo aveva preso di mira, e aveva fatto ridere alle
sue spalle tutto il palco scenico. Allorchè si fu al passo di
carattere della celebre sinfonia, dove l'immaginazione, la forza,
l'eleganza, la grazia si fondono in quel complesso maraviglioso, non
raggiunto fin qui che da Rossini, e, mettendo in effervescenza il
sangue, par che comunichi allo spirito insolite attitudini:
-
Ecco l'arte, esclamò il Baroggi, alzando gli occhi e
sorridendo coll'esaltazione dell'ebbrezza; ecco l'arte, l'arte vera,
l'arte sola; quella che, costringendo a commuoversi anche il maestro
della cantoria del Duomo, perchè i sensi non hanno scuola nè
sistemi e si esaltano a loro beneplacito senza domandare il permesso
a nessuno, arriva ad agitare, senza che ne abbia neppur la coscienza,
anche il facchino di dogana, anche il beccajo. Se l'arte non arriva a
tenere nel proprio dominio gli estremi della scala intellettuale
dall'alfa fino all'omega, è una cosa bastarda, che importuna i
galantuomini, e non ha nessuna ragione di essere; un maestro che
tedia e disgusta e tormenta gli uditori in nome della dottrina e del
diploma ottenuto dal padre Mattei, vorrei che fosse contemplato da
qualche paragrafo del codice penale.
Così
parlando, si misero a passeggiare in su e in giù pei viali, in
mezzo alla folla ognora crescente, tra la quale incontrarono Pompeo
Marchesi.
-
Addio, Giunio.
-
Addio, Pompeo, come va coll'arte?
-
Potrà andar bene col tempo, ma ora le acque son basse; vengo
anch'io al Monte Tabor, perchè con cinquanta centesimi mi par
di esser ricco.
-
Canova è morto; e tutte le arti si rinnovano. È il
momento questo di tirare alla fortuna che passa veloce. Quel diavolo
che ha fatto questa musica, ha sfidato il passato che pareva
insuperabile, e ha vinto. Tutta Milano è sottosopra; e le
ragazze singhiozzano e si tormentano se han le guancie rubiconde,
perchè Ildegonda doveva averle pallidissime; Hayez quest'anno
ha trionfato nelle sale di Brera, e, lasciando l'antichità, ha
fatto il suo ingresso nel medio evo. Non si parla più
d'Appiani, meno di Bossi. Camuccini è un pedante; Benvenuti è
convenzionale. Landi e Serangeli fanno pietà; Palagi si
arrabatta nel circo per atterrar l'avversario di Venezia; ma non ci
riuscirà; or dunque tocca a te a dar le mosse al terremoto; e
va pur là, che non sei uomo da perderti nella polvere.
-
Non pare nemmeno a me; e Pompeo Marchesi, coi capelli dietro
l'orecchio, cadenti sulle spalle, colla testa alta e come fiutante
l'aria del proprio avvenire, tirò innanzi facendo far la ruota
a un modesto bastone, di quelli che si chiamavano pagadebiti,
perchè anch'esso, insieme col pittore Comerio, apparteneva
alla Compagnia della Teppa; memori e orgogliosi entrambi delle
pericolose fazioni compiute quand'erano studenti a Roma, dove per
aver insultato un cardinale, sarebbero stati chiusi in Castel
Sant'Angelo, se il console di Francia non li avesse fatti fuggir
nottetempo.
E
il Baroggi tirò innanzi passeggiando e chiacchierando, e di lì
a poco s'incontrò in due giovani da lui amatissimi: il Bazzoni
Giunio di Milano e l'abate Giuseppe Pozzone; nato il primo a lasciar
traccie luminose nella poesia italiana, se l'indole austera, e una
modestia eccessiva, e una misantropia selvaggia non gli avessero
impedito di alzare più audace e più lungo il suo volo;
e il secondo, carissimo anch'egli alle Muse, di gusto più
squisito, e che se l'abito sacerdotale non gli avesse contristata la
vita, avrebbe avuto salute più florida, vita più lunga
e fama poetica più duratura. Con questi il Baroggi continuò
parlando di letteratura e discutendo sul merito del poeta Redaelli di
Cremona, morto giovanissimo due anni prima, e già celebre
allora per alcune anacreontiche leggiadre, per delle terzine sui
disastri della campagna di Russia; ma specialmente per un
componimento a tinte lugubri, in cui si cominciava ad aprire il varco
alle nordiche influenze, alla moda dei singulti disperati, e dove si
accennava che il chiaro di luna, le ombre, le upupe e le strigi
immonde, dovevano essere i novelli ingredienti dell'estro poetico; di
quell'estro però che non è genio, ma una specie di
convulsione intellettuale e di lusinghiero pervertimento del gusto.
Intanto
che il Baroggi e il segretario di governo e gli altri passeggiavano
discutendo, dietro di loro venivano il Suardi e il Bichinkommer,
tutt'intesi essi pure a parlar di cose, che, se non erano tanto
ideali ed alte, avevano però un'importanza più vicina,
più diretta e più necessaria. Il motivo, anzi, per cui
il Baroggi si lasciò andare alle sue volate
letterario artistiche senza intrattenersi col suo amico uscito
allor allora di Santa Margherita, era perchè il Bichinkommer
lo aveva tratto da parte come per comunicargli cose d'interesse
privato.
XXI
Il
lettore che sia avvezzo al metodo onde generalmente son fatti i libri
come il nostro, si sarà annojato delle digressioni del
Baroggí, e avrà fatto le meraviglie nel trovarsi
invitato all'osteria del Monte Tabor per sentir poi a parlare di
letteratura e d'arti, come se si fosse a qualche ateneo od accademia;
ma gli elementi della vita pubblica e privata sono infiniti, e noi ci
siam proposti di tener dietro alla maggior parte di essi ogni
qualvolta ci si presentan spontanei. Nella società, i fatti
più disparati succedono simultaneamente, e senza che l'uno
attraversi all'altro. Intanto che un negoziante rimane atterrito alla
notizia di un fallimento, un verseggiatore è capace di essere
infelice perchè non gli vien spontaneo un tronco che gli
chiuda la strofa.
-
Hai fatto malissimo, diceva il Bichinkommer al Suardi, a venir qui in
compagnia di questo signor segretario.
-
Fu egli stesso che venne a levarmi dalla mia cella; fu lui che mi usò
tutte le gentilezze di cui può esser capace il più
compìto gentiluomo; fu lui, infine, che si esibì di
accompagnarmi fino alla casa del Baroggi e fin qui.
-
Di costui non ho sentito che parole di elogio dappertutto e da tutti.
Ma io non posso capire come il mondo trovi giusto che uno oggi
passeggi sotto a braccio del diavolo, domani di Sant'Antonio. Non ti
par egli che, per riuscir gradito tanto al diavolo che al santo,
bisogna che di necessità inganni qualcuno?
-
Generalmente parlando, sì; ma costui mi sembra qualche cosa di
eccezionale. - D'uomini me ne intendo anch'io, e ti assicuro
che io vidi sulla sua faccia i segni più manifesti della
soddisfazione e della contentezza, quando mi lesse la lettera con cui
il notajo Agudio domandava la mia liberazione, ed esponeva il fatto
d'aver ceduto al marchese F... i documenti trovati nell'archivio del
dottor Macchi. Ma, a proposito di questo Agudio, come spieghi tu,
ch'egli siasi preso tanta cura di me, mentre io non so nemmen chi
egli sia?
-
In che modo la lettera venne nelle mani di questo segretario, mentre
fu indirizzata al direttore di polizia?
-
Il direttore lascia far tutto al consiglier Pagani. E questi, per
certe materie, lascia far tutto al segretario. Ecco spiegata la cosa.
-
Costui ha detto un momento fa ch'erasi recato dal marchese F... per
officiarlo a tuo vantaggio.
-
È così, infatti; e col mostrare la lettera al marchese,
ottenne tutto quello che domandò. Il marchese ne fu
spaventato, e si recò issofatto dal barone Gehausen a levar la
querela contro di me, e a intercedere perchè fossi tosto
rimesso in libertà.
-
Ma che si fece della lettera spedita dal notajo Agudio?
-
Io non so più niente.
-
Qui c'è sotto un nuovo imbroglio. Son due giorni che la
lettera venne recapitata al direttore, contemporaneamente ad un'altra
che fu spedita al tribunale civile; ma, ad eccezione della tua
liberazione, non vedo gli effetti che quelle lettere dovevano
produrre. Pur troppo il marchese è onnipotente, e...
-
Pare che questo segretario voglia avviare un aggiustamento tra il
marchese e il Baroggi...
-
Che aggiustamento! Se i documenti saltan fuori il Baroggi deve
ottenere tutto il fatto suo, senza bisogno di transazioni.
-
È vero... e allora posso prepararmi a godere una parte dello
spettacolo tutto a mio beneficio...
-
Quale?
-
Lo spettacolo d'un marchese collarone e gesuita che per
combinazione possa aspirare alla berlina. Che cosa vuoi? Io amo il
Baroggi, e desidero che si volti e rivolti in mezzo a zecchini... ma
ciò che più esalta la mia fantasia, e mi mette la
smania in corpo è il progresso dell'umanità...
-
E che c'entra adesso il progresso dell'umanità?
-
Nel trovare il modo che i titoli, le aderenze, la ricchezza, non
bastino più a coprir le magagne degli uomini e a far chiudere
la bocca anche alla legge.
-
Il desiderio è bello e buono; ma i titoli e la ricchezza avran
sempre in saccoccia il ventun di tarocco.
A
questo punto i quattro passeggianti salirono fin sulla rotonda a
piattaforma, dove si entrava nella slitta e da cui si poteva dominare
la sua discesa precipitosa. Quella rotonda era quasi sempre
affollata; in quel momento poi era stipatissima di spettatori perchè
le Loro Altezze Imperiali trovavansi là. Ci pare di aver detto
come, in una delle accademie vocali date a Milano, dov'era
intervenuta la viceregina, questa aveva donato a madamigella Gentili
un grosso smeraldo, accompagnando il dono con parole cortesi e
carezze senza fine. Ora in quel dopopranzo del 24 settembre, i
coniugi Gentili vollero condurre la loro figliuola a quel
divertimento popolare. Come dicemmo, la notizia dell'intervento delle
Loro Altezze aveva fatto accorrere al Monte Tabor quasi tutta Milano,
e la madre di Stefania, a cui, dopo il fatto dello smeraldo, pareva
d'essere diventata un po' parente della viceregina e sentiva un
segreto orgoglio di avere una figlia stata onorata di tanta
distinzione, pregò il docile marito a non lasciar passare
quell'occasione. Il conte Alberico B...i, che aveva saputo la cosa,
erasi trovato là colla carrozza, e nella sua qualità di
futuro sposo, quantunque i parenti, per certi riguardi portati
all'esagerazione, lo tenessero alquanto discosto dalla figliuola,
erasi tuttavia accompagnato seco loro. In una parte della rotonda
v'eran delle sedie privilegiate, che si pagavan due lire austriache
l'una; e il conte Alberico, com'è naturale, ne pagò
tre, perchè madamigella potesse sedere tra il papà e la
mamma, e godere agiatamente lo spettacolo.
XXII
Ora
avvenne, che quando la viceregina tornò colassù per
assistere alla corsa che dovevan fare alcune sue dame di compagnia,
girando l'occhio intorno, vide madamigella Gentili, e ravvisandola,
le si accostò, rinnovando seco le affabili cortesie della
prima volta. La folla s'era stipata in giro a quel gruppo, e
madamigella divenne l'oggetto dell'attenzione universale. Essa
vestiva un bianco abito semplicissimo di mussola d'India con
guarnizione ricamata e forata, e con una lieve orlatura di raso
celeste; un nastro parimente di raso celeste le cingeva la vita, una
vita sottile, leggiadra, come snodata, di quelle che i francesi
chiamano à guêpe. La testa della Gentili (noi
abbiam visto il suo ritratto miniato dal Romanin) era di quelle che
disarmano anche la critica; aveva capelli neri lievemente crespi,
pettinati come portava la più semplice delle mode d'allora, e
press'a poco come li ha la Tersicore o l'Ebe di Canova; bianchissima
avea la pelle, di quelle che non hanno color fisso, ed ora
impallidiscono, come il chiaro di luna, ora s'invermigliano come il
carmino; agli occhi neri e vellutati, dove di tanto in tanto pareva
scorresse una lieve scintilla quasi a scuotere un languore abituale,
che poteva essere desiderio e poteva essere noncuranza, sovrastavano
due sopraccigli neri e folti oltre le leggi della bellezza
accademica, ma per ciò stesso produttori di quel fascino che
deriva dal contrasto: sopraccigli neri e folti, e di quelli che fan
fare dei computi indiscreti. Su quel caro viso era soffusa una tinta
di bonarietà che, nel momento del massimo languore, potea
parer persino melensa, ma che in certi istanti scompariva di tratto,
e dava luogo a una vivacità, che parea perfin maliziosa.
La
Gentili, insomma, era di quelle beltà che non vanno soggette a
scrutinio, ma ottengono la maggioranza assoluta di voti e vengono
prescelte per acclamazione; di quelle, inoltre, che, se lo abbiam già
detto, lo ripetiamo, piacciono anche alle donne. Alla viceregina,
poi, che aveva diciannove anni appena, ed era bella anch'essa, e non
poteva sentire invidia, quella fanciulla aveva fermato l'attenzione
in un modo particolarissimo, onde le carezze che le aveva prodigate e
la prima volta e questa erano affatto naturali e cordialissime. Però
le fece molte domande; tra le altre, se pensava ad accasarsi; al che
la madre rispose tosto di sì, parlando in luogo della figlia,
come le madri fan sempre, e additando nel tempo stesso il futuro
sposo Alberico B...i, ch'era lì presente. La viceregina diede
dall'alto al basso una rapida occhiata a colui, e a' segni manifesti
ne rimase disgustata, quasi sdegnata. Non disse nulla però,
quantunque fosse vivacissima e balda, e, ad onta della educazione
principesca, ancora in quell'età che si lascia trasportare
alle imprudenze. Ma, fosse che anch'ella avesse dovuto, per obbedire
ai regi parenti, sposare un marito che, quantunque grande, grosso e
sano, non erale mai entrato in fantasia, e perciò le venisse
agevole il sospetto che alla povera fanciulla si facesse forza; fosse
che il conte Alberico le riuscisse in ispecial modo antipatico per
istintivo presentimento, il fatto sta che, accostando il labbro
all'orecchio della giovinetta, le domandò s'ell'era contenta
di quello sposo.
La
viceregina aveva sempre a' fianchi il marito arciduca, che, stando
alla stregua del volgo, era un bell'uomo dal lato della salute e del
trabucco. Grande, florido, robusto, con un volto in cui la fisonomia
caratteristica della dinastia lorenese aveva trovato il modo di
ridurre alla maggior possibile regolarità le sue forme;
l'ogivale della sua faccia non era così eccezionalmente
oblungo come quello di Francesco I; il labbro inferiore non era sì
grosso come quello di tutti gli altri arciduchi fratelli; ma questa
regolarità era tutta a spese dell'intelletto e dello spirito;
egli era un uomo semplice e melenso; piacendogli assai quella sua
giovane sposa, alta, bella, rigogliosa, vivace, si compiaceva a far
da testimonio a tutto quello che ella faceva, anche allorquando
uscisse dalla misura che l'etichetta impone alle Altezze Imperiali.
Egli teneva dietro a tutti i passi di lei, con quell'apparente
bonarietà onde il can bracco, quando non è preoccupato
dalla caccia, segue obbediente il padrone, s'adagia tra le sue gambe,
cambia posizione ad ogni suo movimento, e gli tien sempre l'occhio in
volto con un misto di amorevolezza e d'indolenza. La viceregina non
poteva adunque aver soggezione alcuna di quel placido ed annuente
marito, e nei pubblici convegni ella si prendeva sempre l'iniziativa
di tutto. Quando pertanto s'accostò alla Gentili, il vicerè
non fece altro che stare un passo indietro di lei, e guardare
anch'esso, non senza un certo piacere, quel caro volto di fanciulla;
nè trovò da opporsi in nulla quando la viceregina disse
a colei:
-
Ora vi troverò io chi vi farà da cavaliere in slitta.
Invitata
dalla folla, la folla sempre più cresceva e s'accalcava per
vedere che cos'era avvenuto di nuovo. Anche il Baroggi in compagnia
del signor segretario, anche il Suardi in compagnia del Bichinkommer,
s'introdussero tra gente e gente, e si portarono sulla prima fila del
semicerchio fittissimo di spettatori. Il Baroggi, animato
dall'artistico colloquio avuto col segretario, concitato dalla musica
rossiniana, più concitato dalla vista inattesa della Gentili,
era in uno di quei momenti in cui gli occhi e il volto gli
folgoreggiavano di sensazioni vivissime. La viceregina, che volendo
soddisfare un capriccio quasi infantile, ma pur generoso, di fare un
dispetto a chi le pareva indegno di metter le mani su quel fiore
vaghissimo e fragrante, voleva scegliere il più bel giovane
che per avventura si trovasse là tra gli altri, sentì
fermarsi lo sguardo dallo sguardo lampeggiante e da certa audacia
piena di onestà ch'era improntata in viso del giovane Baroggi,
il quale, per soprappiù, aveva aspetto assai signorile, e
vestiva con eleganza e all'ultima foggia.
Fissato
adunque il viso del Baroggi, che avrebbe assai di buon grado
trascelto anche per sè, perchè tra gli occhi del
giovane milanese e quelli del vicerè passava la differenza che
esiste tra un carbonchio e un opale, coll'avventatezza che dà
l'inesperienza giovanile e col piglio autorevole che l'alta sua
posizione e la maritale condiscendenza le concedeva:
-
A voi, disse rivolgendosi al giovane; vogliate essere il cavaliere di
questa fanciulla, e accompagnatela in slitta.
La
strana proposta, messa innanzi colla solennità del comando,
fece senso a tutti gli astanti, stupore ai genitori bigotti della
Gentili, dispetto al conte Alberico, e mise in un grande imbarazzo il
Baroggi, il quale, assalito repentinamente in quel punto da quella
timidezza passeggiera che talvolta lo rendeva impacciato e inerte, ed
era così in opposizione col fondo dell'indole sua franca,
coraggiosa e talvolta persino audace, non seppe nè muoversi,
nè rispondere. In quanto alla giovinetta Stefania, or guardava
perplessa la viceregina, ora interrogava coglii occhi i parenti, ora
fissava il Baroggi, con una espressione indefinibile. Solo il crotalo
Alberico rimase dimenticato da lei, dalla viceregina, da tutti,
fuorchè dai parenti, che lo guardavano come a dirgli:
«Provvedete ora voi ad impedire questo scandalo». Ma il
crotalo si rannicchiò in se stesso, condensando veleno e bava
per il futuro, e lasciò fare.
XXIII
Il
Bichinkommer, che stava seduto dietro al Baroggi:
-
Su via, coraggio, gli disse; mi sembrate un collegiale: lasciatevi
ajutare da questa pollastrona di sangue reale, che mentre non sa quel
che si fa, pare incaricata dal destino a strappare la tortorella
dagli artigli del nibbio. Avanti, e disinvoltura, e siate quel che
siete. È una viceregina che vi fa da mezzana. Il gran Luigi di
Francia non poteva pretendere di più.
Come
accade quasi sempre degli uomini eccitabili, allorchè vengono
sopraffatti da quella timidezza che può chiamarsi fisica, che,
se arrivano a dominarla colla volontà, passano di punto in
bianco al suo eccesso opposto; così fu del Baroggi, il quale,
uscito di tratto dalla sua immobilità, ringraziò
inchinandosi alla viceregina, si volse alla Gentili, le porse la
mano, le disse molte cose cortesi ed eleganti; eppoi, quando il
calessino della slitta fu apprestato, la invitò ad entrarvi.
Dopo i disordini avvenuti, quando si riaperse il giuoco nel 1820, non
venne più permesso agli uomini di farsi sedere le donne in
grembo lungo il corso della slitta; bensì le donne
s'assidevano sole nel calessino e gli uomini, come i napoletani
guidatori del curricolo, o come i cosacchi, stavano in piedi di
dietro. Madamigella Gentili s'assise, come voleva l'usanza, e il
Baroggi le si pose a tergo, e di tal modo discesero insieme lungo la
precipitosa curva. Egli aveva ventidue anni ed ella diciasette;
l'affare era piuttosto serio. Il termometro, immerso nel sangue di
quei due giovani, in due secondi sarebbe di certo salito al grado
della massima ebollizione. Al di fuori però non appariva
nulla. Egli, colla faccia inclinata sul capo leggiadro della
fanciulla, inspirava con ineffabile voluttà la fragranza che
usciva dalle sue chiome inanellate. Non si sa da che dipende, ma
l'odore che esala da una giovane chioma femminea può
assassinare un galantuomo più che la punta di un pugnale di
Damasco vibrata da un traditore. Il giovine s'inchinò ancora
di più; osò varcar la linea della convenienza; baciò
quei capegli; la fanciulla tacque, ma un brivido sacro la percorse
tutta lungo la colonna vertebrale.
In
pochi minuti due o tre giri furono compiuti. Nel discendere dalla
slitta: - Fate di svincolarvi da quello scellerato! -
disse il Baroggi alla fanciulla, accennando al conte Alberico. -
Ah, non s'è più in tempo! - rispose
Stefania, senza guardare in volto al Baroggi, perchè era già
in presenza dei genitori e del futuro sposo. La viceregina, che era
già in pronto per partire col seguito, quando Stefania fu di
ritorno, le mise in dito un anello di brillanti, la baciò in
fronte e le disse sommessa: - Se qualcuno vi facesse violenza,
e vi costringesse, contro il vostro genio, a sposare quell'uomo là,
fate conto della mia protezione. - Stefania non fece motto, la
Corte partì. I signori Gentili e il conte Alberico, chiudendo
in mezzo la fanciulla, quasi temessero che qualcuno la trafugasse, la
tempestarono di cento interrogazioni. Sulla faccia del conte,
alterata dal dispetto e dalla gelosia, si poteva leggere, come su di
una tabella, l'elenco di tutte le sue perfide qualità.
Stefania lo guardò con ribrezzo, e quasi contemporaneamente
rivolse e posò uno sguardo lento sul gruppo di persone in
mezzo alle quali spiccava ancora la bella figura del Baroggi. Nè
altro avvenne per allora, ma quel complesso di accidenti, ben lievi
in sè stessi, bastò a gettar le fila d'altri accidenti
futuri.
XXIV
Frattanto
il sole era tramontato, e cominciava ad imbrunire. Due uomini
s'accostarono al Bichinkommer, e lo trassero in disparte:
-
Ci sono, gli dissero ad una voce.
-
Chi?
-
La Falchi e l'avvocato, ma sono in compagnia di molti altri.
-
Son venuti a piedi o in carrozza?
-
In carrozza.
-
Dei socj chi è con voi?
-
Il Milesi, che è disposto a fracassarli a stangate. Il
Paltumi, che non può più dalla smania di pigliare a
schiaffi quella sfacciata pu... L'Inverningo, il Carulli, il Besozzo,
ciascuno dei quali val per tre e per quattro.
-
Le stangate e gli schiaffi bisogna tenerli in serbo. Altre occasioni
non mancheranno; quel che oggi più importa è di aver
l'avvocatessa tra le mani.
I
due che parlavano col Bichinkommer erano nientemeno che quel
vetturale Giosuè Bernacchi, che in un momento di esaltazione
encefalica, provocata in lui dalle messaliniche promesse della
Falchi, aveva tentato di assassinare il maresciallino Visconti, ed
era stato sì fortunato, che la perizia medica, involandolo
alla forca, lo aveva fatto passare al manicomio della Senavra.
L'altro era il capomastro Granzini, che nella notte successiva
all'eccidio del ministro Prina aveva avuto quel misterioso alterco
coll'avvocatessa nella medesima sua casa.
Costoro
appartenevano alla Compagnia della Teppa, e in diverse occasioni
quando il tema s'era offerto spontaneo, parlando col Bichinkommer,
gli manifestarono tutte quelle cose che credettero di non tacere
relativamente all'avvocato Falchi e sua moglie. Sopratutto espressero
il desiderio di vendicarsi di lei. Il Bernacchi disse i fatti come
stavano; ma il Granzini, capomastro, diventato appaltatore e ricco,
non disse che quanto gli accomodava. Tanto però bastò
perchè il Bichinkommer facesse assegnamento su di loro. Egli
sapeva come nel fatto dell'eredità contestata, l'avvocato
Falchi, sebbene patrocinatore del Baroggi, aveva avuto mano nel far
scomparire dall'archivio del dottor Macchi, passato in proprietà
del notajo Agudio, i documenti che potevano risolvere definitivamente
la questione. Sapeva come l'avvocatessa fosse a parte d'ogni segreto
del marito. Aveva dunque, per l'amore che portava alla casa Baroggi e
per l'avversione profonda che nutriva naturalmente contro i birbanti
fortunati, pensato più volte alla possibilità di fare
una sorpresa a colei, di averla tra le mani, di costringerla, col
timore, a confessare e a rivelare quello che in nessun altro modo
legale s'era potuto verificare.
E
prima di ciò, per preparar meglio la strada, aveva messo gli
occhi sul medesimo notajo Agudio. Essendo riuscito a poter vedere e
tener presso di sè due o tre lettere che quel notajo, per gli
elementi preliminari di un rogito di compra e vendita, aveva scritto
al fittabile signor Mario Bosio, suo grande amico; con
quell'attitudine straordinaria che aveva ad imitare tutti i caratteri
calligrafici, come il lettore ben sa, studiò attentamente
anche la scrittura e la firma del dottor Agudio; scrisse quelle due
lettere, di cui più volte abbiamo parlato, una diretta al
direttore di polizia Gehausen, l'altra al presidente del tribunale.
Però, se il lettore avesse potuto credere che quelle fossero
di mano dello stesso Agudio, ora può accorgersi d'essersi
ingannato a partito. Il notajo da qualche tempo giaceva malato in una
sua villa presso Varese, e il Bichinkommer approfittò anche di
questa occasione per colorir meglio il proprio disegno; del qual
disegno egli non fece parte a nessuno, nemmeno al Baroggi; fido al
vetusto adagio:
Non
lo saprai perchè son solo.
Ei
sapeva assai bene che quelle lettere a suo tempo sarebbero state
disconfessate dall'Agudio; ma pensava anche che cento inattese
combinazioni potevan sorgere dalla comparsa di esse; che gli aventi
interesse alla perpetrata frode, sgomentati dall'apparente
confessione del notajo, potevano essere indotti a fare una
confessione sostanziale e decisiva; che, infine, la perizia
calligrafica avrebbe dovuto penar molto per trovar il modo di dar
ragione al notajo, quando questi, chiamato in giudizio, avesse
sconfessate quelle lettere, anche colla formalità del
giuramento.
Non
si può negare che un tal piano di battaglia era degno
dell'astuzia di Annibale e di Napoleone, colla differenza, che
accresce sempre più in loro confronto il merito del
Bichinkommer, che cioè questi lavorava in segreto e alla
sordina, senza pretesa nè di fama nè di gloria, ma pel
solo desiderio di fare il vantaggio di un altro, senza che
quest'altro potesse nemmen ringraziarlo; per l'intento ancor più
nobile di tentar che la giustizia, svincolata dagli ostacoli, dalle
insidie e dai trabocchetti dei tristi, potesse finalmente avere il
suo libero corso; e nel pericolo, sebben lontano e improbabile, ma
che stava pur sempre nella sfera del possibile, di essere condannato
per falsario, se, per circostanze fatali, l'opera sua avesse mai
potuto venire scoperta.
Giusta
le informazioni, che, adoperando que' mezzi che erano in sua mano,
aveva potuto assumere, quelle lettere non avevano prodotto tutti gli
effetti ch'egli erasene aspettato. Già prima che il Suardi
avesse parlato, seppe come il segretario del consigliere Pagani aveva
fatto una visita al marchese F...; seppe che il marchese erasi recato
tanto dal direttore di polizia quanto dal Presidente del Tribunale;
da un giovane di studio dell'avvocato Falchi venne a conoscere, che
il marchese aveva invitato a pranzo l'avvocato medesimo; dal
cavallante del borgo dove il notajo Agudio teneva la villa e giaceva
ammalato, seppe che presso colui erasi recato un attuaro del
tribunale civile; ma che il medico, per la gravezza del male, non
aveva permesso che il signor notajo gli desse udienza. Tutti questi
fatti indicavano, che per quel sasso da lui scagliato nel torbido
stagno, la belletta era venuta a galla; ma ciò non poteva
bastare, onde credette che per dare una risoluzione pronta a quella
malattia misteriosa, lunga ed ostinata, la Falchi poteva riuscire
opportunissima se, cedendo alla necessità, avesse cantato e
fatto cantar altri.
Da
due o tre giorni egli e i compagnoni sunnominati stavan sulle peste
dei signori Falchi per coglierli alla impensata, e, previo un buratto
più o meno incruento all'avvocato marito, pigliar lei di
forza, come erasi fatto dalla Compagnia della Teppa con tante altre
mogli e amanti; e tirarla in luogo, dove l'ingiustizia, l'illegalità
e l'arbitrio, divenuti onnipotenti, potessero far le veci della
giustizia troppo spesso nominale e invalida.
Con
questi pensieri, a guisa di un generale che ha da comandare una
difficile e importante fazione, disse ai due: aspettatemi fuori
dell'osteria, raccoglietevi prima intorno tutti gli altri, e, confusi
nella folla, non perdete mai d'occhio la carrozza della Falchi. È
bene che, per ora, io non sia visto con voi. In ogni modo, qualunque
contrattempo possa nascere, sapete che il luogo dove ella dev'essere
condotta è alla Simonetta, dove quel pazzo di... ha
organizzato un'altra strana burla, la quale gioverà anche a
noi, perchè, dato mai che la Falchi strillasse e, lasciata poi
in libertà, facesse chiasso presso le autorità, di cui
conosce tutti gli aditi, l'apparenza della pazzia e dello scherzo e
del disordine senza costrutto e senza scopo, potrà dare un
altro colore ad un'impresa fatta sul serio e per un intento serio.
Andate, che vengo subito.
Quelli
partirono, e il Bichinkommer s'accostò al Baroggi, il quale
parlava ancora col Suardi e col segretario del Pagani. La Gentili era
partita co' proprj genitori nella carrozza del futuro sposo. Questi
erasi fermato, e simulando il più lieto umore del mondo, erasi
avvicinato a quel crocchio, sotto pretesto di fare le più
sentite congratulazioni allo scarcerato Suardi. Il Baroggi, visto il
Bichinkommer, gli disse piano all'orecchio: Stasera non ci vedremo. -
Nemmeno io posso vedervi.
-
Ho già parlato di te al conte; oggi sarai formalmente
accettato; domani verrai anche tu, e farai la nota di tutti quelli
della Compagnia della Teppa che sono degni di lasciare le birbonate
per le grandi azioni.
-
Va bene; e dov'è il luogo del convegno?
-
Stasera in casa del calzolaio Ronchetti. Domani in casa del conte. Il
luogo si cambia sempre. Addio.
E
si lasciarono.
Quanta
carne a bollire! dirà il lettore. Ma non si sgomenti, chè
la legna non manca.
XXV
Il
Bichinkommer, congedatosi dal Baroggi, discese all'ingresso
dell'osteria, per vedere co' propri occhi dov'erasi fermata la
carrozza dell'avvocato Falchi. Era quella un phaëton,
foggia di cocchio estivo venuto allora dall'Inghilterra. Non
aveva cocchiere a cassetta, ma un jockey in livrea di
postiglione con calzoni di daino bianco teneva i cavalli.
Il
Bichinkommer disse al Bernacchi vetturale:
-
Sarebbe stato assai meglio se fossero venuti a piedi.
-
È facile a capirsi.
-
Voglio dire, che bisogna governarsi in modo, da rendere questa
carrozza inservibile.
-
Come si fa?
-
Far nascere qualche scompiglio... spaventare i cavalli... qualche
cosa, insomma; i milionarj non amano di affrontare i pericoli.
-
Questo si sa...
-
Per combinazione, ci sarebbe qui tra gli altri qualche fiacre
guidato da qualcuno de' tuoi uomini?
-
Più d'uno ce ne sarà.
-
Fa dunque in modo che si trovi un fiacre fuori della porta,
sulla strada di circonvallazione che mette a porta Tosa.
-
È presto fatto.
-
Ora io rientro nell'osteria, e mi metto sui passi loro.
-
Son là seduti, presso la banda militare... Ella momenti fa
parlava col general Bubna.
-
Per fortuna non mi conoscono, e potrò tenerli d'occhio senza
metterli in sospetto. Or lascia ch'io dia una occhiata al
postiglione.
Detto
ciò, fece tre o quattro passi, attraversò il bastione,
e si piantò presso la carrozza, ambe le mani nelle saccoccie e
il cappello bianco plumé in sugli occhi. Pareva un
mercante di cavalli che esaminasse le sue bestie, per accertarsi se
potevasi fare un negozio, ma di sott'occhio egli sbirciava il
postiglione.
-
La faccia è abbastanza di mammalucco, ei diceva fra sè.
Va benone. Questi milionarj di nova data si fan sempre scorgere a
qualche indizio: il phaëton è inglese, ma il
jockey è tolto di certo al cavallo dell'erpice. L'abito
è nuovo e ben tagliato, ma la schiena tradisce l'abitudine
della vanga. Può darsi che mi sbagli, ma questo villanzone
deve sgomentarsi per nulla.
Ciò
detto, o meglio, pensato, si ritrasse lentamente, e come chi va
almanaccando tra sè, diede di nuovo un'occhiata d'intelligenza
al Bernacchi, al Granzini e agli altri; rientrò nell'osteria,
e si portò sull'ingresso della cucina. Colà, senza
perder mai di vista il pergolato presso la banda militare, dove
trovavasi la Falchi, disse alto al cuoco:
-
Avresti ancora del fegato crudo?
-
Aspetti... sì... c'è quest'ultimo pezzo... Vuol forse
una buona frittura?
-
Dammelo come sta. Ognuno ha i suoi gusti.
-
Ma...
-
Te lo pagherò come se fosse fritto e rifritto; sta di buon
animo.
-
Si serva; badi a non imbrattarsi.
E
il Bichinkommer, nascosta la mano che teneva l'involto sotto la falda
della giubba, uscì di nuovo.
L'osteria
del Monte Tabor, alle ore sette, quando cessò il giuoco della
slitta, cominciò a versar fuori gente, gente e gente, con quel
rigurgito profluente onde la birra in fermentazione, tolto il
turacciolo, si versa in quella misura che par superare le proporzioni
della bottiglia. Il fiacre del vetturale Bernacchi era già
fermo fuori della porta; e un altro fiacre fu mandato ad
aspettare sul bastione per il caso che d'improvviso si dovesse
cambiare il piano di battaglia. Presso alla carrozza della Falchi, a
conveniente distanza, stavano quelli fra i compagnoni della Teppa
ch'erano men noti al pubblico. Altri s'eran recati a bere ad
un'osterietta posta allo sbocco della strada di circonvallazione, e
che serviva di succursale al Monte Tabor, quando questo minacciava di
lasciar morire di sete la folla soverchiante. Il Granzini capo mastro
passeggiava sul bastione a dritta, il Bernacchi sul bastione a
sinistra della porta. Il Bichinkommer, col cappello sugli occhi,
teneva tutto nel dominio del proprio sguardo, lasciandosi sospingere
e respingere dalla folla, come uno di quei ceppi del lago, a cui fan
capo le reti, e che vengon di continuo sobbalzati dall'onda. A misura
che i signori proprietari delle carrozze uscivan dall'osteria, i
cocchieri, avvisati dal noto fischio delle livree che ricevevan
l'ordine dai padroni, facevano avanzare i cavalli. In quel momento
adunque l'ordine delle file non poteva essere molto rispettato. E
venne anche la volta del phaëton di casa Falchi. Il
jockey venne chiamato. Questi d'un tratto fu al suo posto. Il
Bichinkommer, colto a volo quell'istante, s'era recato presso al
cavallo che doveva portare il jockey, e intanto che questo,
messo il piè sinistro nella staffa, colla gamba dritta girava
la sella, per mettervisi a sedere, ei gl'intromise di volo l'involto
del fegato insanguinato, senza che colui nè altri se ne
avvedessero. Il jockey fece avanzare i cavalli; il Falchi
colla moglie salirono; il phaëton si rimise nella fila
de' cocchi che procedevano non senza disordine. Ma a un tratto i
monelli spettatori gridano: Ferma, ferma. - Guarda,
guarda. - È ferito. - Siete
ferito; versate sangue da tutte le parti. Il jockey,
alla luce crepuscolare, si volge, guarda, si spaventa, si smarrisce,
grida ajuto, e governa sì male le briglie, che i cavalli
s'impennano, sconvolgono le file, fanno urlare donne e ragazze, che
si mettono in fuga, mentre altri accorrono. Nel disordine, nella
confusione e nel parapiglia, alcuni, ed eran socj della Teppa,
pigliano nelle braccia il jockey quasi svenuto, fermano i
cavalli, fingono di far coraggio ai seduti in carrozza; intanto il
Bernacchi, dietro consiglio improvvisato lì per lì dal
Bichinkommer, monta in sella, guida i cavalli, li fa uscir di fila, e
approfittando dello scompiglio generale, li spinge a gran carriera
fuori di Porta Romana.
Senza
perder tempo, il Bichinkommer dà ordine al Milesi e a due
altri di salir nel fiacre che stava fermo sul bastione, e di
uscir tosto per mettersi in coda al phaëton, e di
concerto coll'altro fiacre, far nascere un nuovo parapiglia,
simulare un alterco, una rissa, un qualche inferno, per ottener
l'intento di tagliare in due il matrimonio seduto in cocchio,
trasportando la Falchi alla Simonetta, e lasciando per una notte in
piena e desolata vedovanza il milionario avvocato. Audaces fortuna
juvat; le cose camminarono a seconda delle previsioni e dei
desiderj. Il fiacre situato sul bastione tenne dietro al
phaëton; dopo qualche istante, il fiacre
che attendeva sulla strada di Circonvallazione, avvisato in tempo
debito, si mise a carriera, come per inseguire le altre due carrozze,
sotto pretesto d'esser stato attraversato e insultato. In
quest'ultimo erasi gettato il Bichinkommer. Egli vomita ingiurie
contro quelli dell'altro fiacre; questi rispondono di
conformità, e versano tutta la colpa sul guidatore del
phaëton. Il Bernacchi, recitando benissimo
la propria parte, si mette a sagrare come un indemoniato. Tutte e tre
le carrozze si fermano. Gli uomini nei due fiacres discendono,
e fanno le viste di assalire il Bernacchi. La Falchi grida,
l'avvocato strepita, e tutti si volgono a quest'ultimo, portandolo di
viva forza fuori della carrozza. Il Bernacchi, avvertito dal
Bichinkommer, finge allora di svincolarsi dall'impaccio dei due
fiacres, e mette i cavalli alla più precipitosa
carriera, indarno gridando la Falchi che il marito era rimasto a
terra. Il qual marito, dopo essere stato urtato e riurtato e anche
tambussato, fu lasciato solo in mezzo alla strada e all'oscurità
della notte già caduta; e i compagnoni della Teppa risalirono
tutti nei fiacres e via di gran galoppo.
XXVI
Tutti
questi fatti seguirono con tanta rapidità, che coloro i quali
dovettero subirli per forza, non ebbero il tempo necessario nè
di fermarli, nè di comprenderne lo scopo, nè di
conoscerne gli autori. Tanto il Falchi quanto sua moglie rimasero
così sbalorditi e confusi, che non raffigurarono il Bernacchi
quando questi montò in sella, e non s'accorsero d'essere
portati piuttosto fuori che dentro la città. E dopo il
simulato alterco, a tacere dell'avvocato che, restato solo nella
solitudine e nell'oscurità della Circonvallazione, non mise in
iscritto per nostro uso le sue impressioni, la paura s'era per
siffatta guisa impadronita dell'animo di madama Falchi, che la sua
carrozza svoltò entro il portone di un palazzo, prima che si
fosse riavuta; sebbene confidasse nelle parole del Bernacchi, da lei
non ravvisato, il quale, lungo la precipitosa corsa, andò
ammonendola e persuadendola ch'ei l'avrebbe tratta in salvo. Al
rumore della carrozza accorsero i famigli del palazzo, che era quello
della Simonetta appunto, situata tra porta Tenaglia e porta Comasina,
e celeberrima per il suo eco. Parve che quella visita fosse
aspettata. La Falchi fu fatta discendere. Giosuè Bernacchi
allora le si presentò, e dandosi a conoscere: -
Ringraziatemi, le disse, se ho saputo trarvi di pericolo.
Di
lì a poco giunsero gli altri due fiacres. Ne uscirono
nove uomini, fra i quali il Bichinkommer. Tutti fecero cerchio
intorno alla Falchi che, vedendo il capomastro Granzini, si smarrì,
senza che però potesse comprender nulla.
A
rendere più ampia la linea del semicerchio discese un uomo
alto e di forme robuste, affatto calvo, quantunque ancor giovane,
tinto fortemente di quel color di mattone, che di consueto è
il deposito della triplice concorrenza della salute, del sole e del
vino. Sebbene in abiti da caccia, aveva aspetto e modi signorili,
indarno dissimulati da una, poteva dirsi, abitudine di prepotenza
ostentata e da uno sguardo particolarissimo, nel quale un osservatore
esperto poteva vedere a lampeggiare un duplice raggio di sinistra
gravità e di vivezza comica. Pareva un miscuglio d'innominato
e di don Giovanni, col naso pavonazzo di Falstaff e il ghigno
provocatore di don Cesare di Bazan. Colui aveva due soprannomi; da'
suoi pari e in città veniva chiamato il barone Bontempo; in
villa e dai contadini era denominato El Mazzases, per aver
ucciso sei aggressori, mentre viaggiava affatto solo in sediolo. Non
era il padrone della Simonetta; ma la teneva soltanto a pigione e da
poco tempo; e ciò sia detto a scanso d'equivoci.
-
Quantunque non abbia il bene di conoscervi, disse egli alla Falchi,
nè voi sappiate ch'io mi sia, ho caro siate venuta a trovarmi.
Qui avrete buonissima compagnia d'uomini e donne; donne degne di voi,
uomini superiori ai vostri desiderj, sebbene forse contrarj ad ogni
vostra aspettazione. Non parlo di quelli che vedete qui, noi siamo
uomini volgari.
La
Falchi, benchè fosse compresa di sgomento, fissò in
volto l'interlocutore con una cert'aria di sussiego.
-
Voi dite di non conoscermi, disse poi, ed io pure non vi conosco.
Abbiate dunque la bontà di dirmi per qual ragione adesso io mi
trovo in questa casa, che, a quanto mi sembra, è casa vostra.
-
Parlate voi, signor Giosuè, disse il barone al Bernacchi.
-
Mi riconoscete voi? chiese allora il vetturale alla Falchi.
-
Sì, ella rispose.
-
Per colpa di chi un certo tale ha dovuto passare due anni nel
manicomio della Senavra?
-
La colpa dovrebbe essere di quel tale, se i pazzi fossero colpevoli.
-
Se dunque i pazzi non sono colpevoli, la colpa sarà di chi con
arti diaboliche incaricò un pazzo di ferire un uomo. Signori,
ecco la strega infame che spinse un giovane onesto a vibrare il colpo
dell'assassino. Il resto lo sapete.
-
Avete dunque capito, o signora, esclamò il barone; siete qui
per essere giudicata e condannata.
-
Mi riconoscete voi, signora? le chiese allora ad alta voce il capo
mastro Granzini.
-
Sì, vi riconosco.
-
Ebbene?
-
Non so che vi vogliate dire.
-
A poca distanza di qui c'è il cimitero della Mojascia.
Fra i mille cadaveri che giaciono colà, non ve n'è uno
che vi tolga il sonno la notte, e vi assedii con paure e con rimorsi?
-
Non vi comprendo, e non so nulla.
-
Si tratta dunque di far sapere a tutti quello che voi dite
d'ignorare.
-
E noi la giudicheremo e la condanneremo, esclamò il barone con
voce profonda e con gravità ostentata.
-
Conoscete voi, entrò allora a parlare il Bichinkommer,
conoscete voi il notajo Agudio?
-
Non lo conosco.
-
Voi lo conoscete, e sapete anche in qual modo si comperarono da lui
delle carte preziose, a danno di una povera famiglia, e a vantaggio
di un ricco potente.
-
Io non so nulla.
-
Allora si troverà il modo di farvi confessare la verità,
vostro malgrado.
-
E noi la giudicheremo e la condanneremo, concluse il barone,
caricando la profondità della voce e mettendo fuori le parole
come se fossero una formola tremenda della Santa-Vehme.
La
notte era profonda; i fanali dei fiacres, portati a mano da
quattro socj della Teppa, rischiaravano lugubremente quella scena. La
Falchi pareva la Lucrezia Borgia nel famoso sestetto dell'opera di
Donizetti.
Ma
la varietà del finale del sestetto consistette in ciò,
che la Falchi venne condotta in una gran sala terrena tutta
illuminata, dove alcune belle donne, mostranti tutt'altro che
allegria, sedevano in mezzo a dodici mostruosissimi nani. Ed ora
narreremo la storia dei nani.
Una
notte s'impegnò un vivissimo alterco tra alcuni soci della
Teppa e un nano assai noto nella via dei Pennacchiari, soprannominato
el nan Gasgiott, il quale lavorava a far fiori artificiali.
Apparteneva esso alla specie superlativa di que' nani che, nel
dialetto milanese, con vocabolo intraducibile, si chiamano besios:
forti di salute, tarchiati di spalle, presuntuosi e maneschi,
e che diventan feroci se alcuno ha l'audacia di arrischiar qualche
critica sul sistema delle loro gambe. Questo nano era prepotente anco
non provocato, e faceva professione di tentar tutte le donne del
circondario con parole e con fatti, pe' quali avvennero innumerevoli
risse, e si appoggiaron randellate famose, e corse anche
qualche coltellata. Tra i socj della Teppa che s'incontrarono in
costui quella tal notte, v'era l'atletico Milesi, il quale
amoreggiando una servotta che stava ne' Pennacchiari, aveva sentito
da lei che el nan Gasgiott le aveva dette parole non mica
belle. Ognuno può immaginarsi che tempesta di cazzotti
cadde sull'ampia schiena del nano, e come esso non riuscisse a
svincolarsi dalle ferree mani del Milesi, che lo trasportò
seco all'osteria del Falcone, e qui, incontratosi coi barone
Bontempo, questi propose al Milesi di portare il famoso nano in
campagna e colà sottoporlo ad un regime severo, che lo
preparasse a diventar più calmo e trattabile per l'avvenire.
Siccome
da pensiero nasce pensiero, così nelle teste di quei
giovinotti buontemponi, che talvolta spingevan le pazzie fino
all'ingiustizia ed alla crudeltà, nacque la idea di
organizzare un rapimento di tutti i nani più vistosi della
città. I Romani fecero il ratto delle Sabine; i pirati greci e
turchi rapivano le beltà delle isole greche e dell'Eritreo o
della Cascemira per provvedere odalische ai voluttuosi emiri. La
Compagnia della Teppa tese invece i suoi agguati a quanti ebbero
gambe tortuose e menti da gnomo. Se il fatto fosse continuato per
molto tempo, i nani, diventati oggetti di lusso, sarebber saliti a
prezzi d'affezione.
XXVII
Come
già fu detto, la polizia austriaca, così instancabile e
vessatrice nel sorprendere e punire le azioni che più o meno
le paressero dannose al governo, chiudeva poi un occhio, con iscopo
deliberato, su tutti quegli atti che turbavano la pace e la sicurezza
cittadina. Non è possibile ammettere che la polizia austriaca
non abbia repressa e distrutta in sul primo suo nascere la Compagnia
della Teppa per aver trovato degli ostacoli insormontabili. Come
vedremo, appena lo volle, potè farlo. Ma a lei premeva di
deviare la gioventù dalla serietà della vita; e godeva
che si fiaccasse nella corruzione e nel disordine; e però, per
tre anni consecutivi, permise che i placidi cittadini fossero esposti
ad ogni sorta d'insulti e di soperchierie, le quali, se non toccavano
la sfera rigorosamente criminale, offendevano però il pubblico
e privato costume, e più d'una volta furon cagione di mali
assai gravi.
Nè
ai reclami de' cittadini la giustizia provvide mai a soddisfare
compiutamente. A ciò s'aggiunga, che le ingiurie e le
persecuzioni di cui tante buone persone eran fatte segno,
appartenevano a un ordine di cose che insieme colla pietà
provocavano anche il ridicolo.
Quindi
nella maggior parte un'invincibile ritrosia a mettere in pubblico gli
scandali ch'erano avvenuti nelle tenebre; perchè più
d'una volta accadde che, portate ai circondarj le querele, i pubblici
funzionarj, per quanto fossero onesti e disposti a far giustizia, non
seppero sempre comprimere gli scoppî di risa, allorchè
gli offensori, quasi tutti giovinotti senza pensieri e senza cure,
pieni di salute e di allegria e di comica giovialità,
esponevano le loro storie di fatto, a rettifica delle querele
avversarie; onde succedeva che, a processo chiuso, chi aveva avuto il
danno in segreto, non avea ottenuta altra soddisfazione che di
trovare anche le beffe in pubblico. Per questa condizione di cose, i
disordini vennero ad aggravarsi ed a moltiplicarsi sempre più.
Quasi tutta la gioventù di Milano, quella eziandio che era
portata alla vita ragionevole e tranquilla, trovò opportuno di
aggregarsi alla Compagnia della Teppa, se non foss'altro, per essere
rispettata dai colleghi prepotenti; laonde sempre più vennero
a mancare i difensori alle persone oltraggiate. Una tale comodità
imbaldanzì ad affrontar imprese d'un ordine più
pericoloso e più alto; si pensò a maltrattare anche
persone distinte; si concertarono vendette d'ogni genere, contro
uomini e donne della classe ricca e patrizia; se non che, per
fortuna, la famigerata compagnia, in questo medesimo eccesso, venne a
trovare il germe della propria distruzione. E un fatto curioso è
da notare, che negli ultimi mesi della sua vita, per insinuazione dei
migliori, tra' quali il Bichinkommer, essendosi voluto assegnare
qualche scopo utile alle imprese bizzarre e violenti, e quasi tentar
di giustificare col fine l'iniquità dei mezzi, questa per
avventura fu la causa principalissima che le diede il tracollo,
perchè avendo essa preso di mira alcuni uomini tristi e
potenti, incontrò in essi quella reazione valida e
distruttrice che non trovò mai nel tribolare il prossimo
innocente e tranquillo. Tra le ultime imprese bizzarre e comiche, ma
nel tempo stesso violenti e turpi, quella che abbiamo incominciato a
raccontare fu probabilmente la più efficace ad accelerare il
suo termine; e fu precisamente allora che si adoperarono i mezzi più
strani ed iniqui coll'intento di fare la giustizia più
generosa.
Il
rapimento del nano fiorajo della via dei Pennacchiari e la sua
deportazione alla Simonetta, suggerì dunque a quei capi strani
il ratto dei nani più noti e più velenosi che possedeva
Milano. La caccia durò qualche tempo; le imboscate furono
molte; i nani celebri, i quali sapevano che si volevano metter le
mani su di loro, giocarono per un pezzo di astuzia onde involarsi e
trafugarsi; ma i monelli della città tenevan bordone alla
compagnia, e al pari dei levrieri e dei bracchi che avvisano il
cacciatore della presenza del selvatico, svelavano il nascondiglio
dei nani inseguiti, il come e il quando ne uscivano, e, colto il
punto, eran tutti addosso, come sul cignale, quando, tentato e
ritentato, finalmente sbuca infuriato dal covo. Allorchè i
compagnoni ebbero messo insieme una cacciagione di una dozzina di
nani, pensarono di non farne altro, e di raccoglierli tutti in un
luogo solo per dar loro un lauto banchetto, e poi rinviarli in pace
alle loro dimore. Ma il Bichinkommer fu causa che di quella schiera
di gnomi si cavasse un partito, e si venisse in seguito a stabilire
il modo onde poter dare una pratica applicazione a quella stramberia
che non aveva nessun fine in se stessa.
XXVIII
-
Molte volte ho pensato fra me, disse un giorno il Bichinkommer al
barone Bontempo, come si potrebbero punire quelle donne che fanno uso
della propria bellezza per tormentare e tener continuamente in sulla
corda i giovani inesperti; quelle tra le elegantissime patrizie, che,
dopo aver dato un calcio al marito, all'amante italiano, fanno
sfacciatamente all'amore coll'ufficialità austriaca; come si
potrebbero punire quelle, che, sebbene agiate, permettono che i
giovani vadano in malora per soddisfare alla loro ambizione e ai loro
capricci, e, rovinati, li abbandonano poi alle risate, alle fischiate
del bel mondo. Come si potrebbe, tanto per venire a qualche caso
pratico, far piangere a calde lagrime, siano poi d'ira o di
pentimento non importa, quella signora C... (e qui nominò una
famosissima beltà perfida, della quale noi dobbiamo tacere il
cognome) che fu vista a ridere in palchetto il dì dopo che il
suo adoratore erasi abbruciato il cervello per lei; e ballar tutta
notte al veglione con un ulano, il quale sparlava poi animalescamente
di tutte le nostre donne, facendo un sol fascio delle Messaline e
delle Lucrezie? E non converrebbe una lezione tremenda a quella
contessina che rubò il fidanzato alla figliuola dell'avvocato
B... e fu causa che si sciogliesse un matrimonio, quasi pervenuto
alla presenza dell'altare, non per altra ragione che perchè
quell'innocente ragazza aveva meritate le lodi del suo cavalier
servente? La legge non arriva e non può arrivare sin qui, ma
nel tempo stesso è duro che certe colpe speciali non debbano
aver pene speciali e proporzionate. Queste donne io vorrei che si
potessero condannare a un perpetuo disonore, ma a un disonor fisico e
materiale, non ideale; ci vuol altro. Io, per esempio, le metterei in
compagnia di questi gnomi ributtanti e furibondi, farei chiudere le
porte, e buona notte. Non capisco, come nell'Inferno di Dante,
che, sebbene ignorante, ho voluto leggere per averne un'idea, non
siasi immaginata una pena consimile per tormentare sino alla
disperazione l'orgoglio e la crudeltà di tali scelleratissime
carogne.
Questa
strana idea il Bichinkommer la mise fuori così per passatempo
e senza credere che si potesse in nessun modo attuare; ma il barone
Bontempo:
-
È un peccato, soggiunse, che un progetto simile non abbia ad
effettuarsi. Però bisogna pensarci, caro mio; come si son
trafugate altre donne e ragazze, trafugheremo anche queste; così
rideremo noi e vendicheremo gli altri.
-
La cosa è pericolosa più di quel che sembra. Son tutte
signore altolocate, e che hanno aderenze cospicue e potenti.
-
Tanto meglio; l'auto da fè sarà così
più segnalato e meritorio.
E
qui adesso non istaremo a raccontare minutamente come questo disegno,
messo là per bizzarria, fu poi maturato seriamente e messo in
esecuzione con tutti i mezzi necessarj perchè riuscisse. Le
insidie, gli agguati, i trabocchetti, i rapimenti hanno un modo quasi
sempre uguale di processo e di sviluppo, onde, senza annojare il
lettore, lasceremo la sua fantasia in piena libertà di far le
nostre veci, concludendo solo che quando la Falchi fu tratta alla
Simonetta, quelle donne di cui parliamo più sopra, vi erano
state trasferite fin dal giorno prima.
Esse
erano tutte della classe più alta e più ricca; scelte
tutte fra le più orgogliose e beffarde che avevano abusato
della beltà, come i più tristi dei dodici Cesari
avevano abusato del potere. Non parliamo delle tre nominate dal
Bichinkommer, e che furono le prime ad esser rapite e trasportate
alla Simonetta. Quelle eran già famigerate in Milano per le
colpe che sappiamo, le altre avevan tutta la capacità a
delinquere, e se non si erano segnalate per la profondità
della perfidia, era estesissimo il terreno sul quale l'aveano
esercitata. Una poi era stata amante riamata del barone Bontempo; ma,
dopo le più fervide proteste, dopo il più infuocato
epistolario, dopo l'assicurazione di un amore duraturo vita natural
durante, un bel dì il barone si trovò accolto come un
estraneo, licenziato su due piedi, senza nemmeno il beneficio degli
otto giorni che suole accordarsi ai servitori; e tutto ciò
perchè un principe di Lichtenstein, che vestiva la sfarzosa
uniforme d'ussero, sembrò più conveniente alle mire
della damina.
Il
barone Bontempo, quantunque avesse fermato di non vendicarsi
altrimenti di quell'ingiuria, riputando essere la vendetta indegna
d'un gentiluomo, non seppe poi resistere alla tentazione di metter
colei nel novero delle condannate, quando il Bichinkommer con
fantasia ariostesca gl'improvvisò lo strano progetto. E così
anch'essa, come una starna ferita, fu messa nel carnaio ed inviata al
cuoco perchè l'acconciasse in salmì. Allorchè la
Falchi, condotta a mano dal barone, con apparenza di cortesia
cavalleresca, comparve sulla soglia della sala, quelle donne avevan
l'aspetto di altrettante regine Zenobie trascinate dietro al carro
del trionfatore; ed eran cupe ed acide come le Longobarde quando
videro le proprie dimore invase dai Franchi. I dodici nani, per
un'altra idea bizzarra, erano stati travestiti in abiti teatrali,
somministrati dal vestiarista della Scala, e potevan benissimo far la
prima figura in qualunque cenacolo di Paolo Veronese.
-
Eccovi, o nobilissime signore, disse allora il barone, un'altra
compagna assai degna di voi. Credo bene ch'ella vi sia nota. Fu per
aspettar lei che vi ho fatto attendere quarantott'ore in questa casa.
Non credo però che vi possiate lamentare. Ora vi annunzio che
domani potrete far ritorno alle vostre case, e intanto vi prego ad
accettare una cena. Ho anche pensato a non lasciarvi sole; ma siccome
nè io nè questi miei amici non siamo abbastanza degni
di voi, così, come vedete, ho fatto ricerca dappertutto per
mettervi in mezzo ad una schiera d'uomini rari e sperati come
ova di Pasqua. Ciò che determina l'alto prezzo delle cose, più
che la bontà e la bellezza, è la rarità. Tutto
quello adunque che si è potuto fare per voi, s'è fatto
con amore e con coscienza, e mi lusingo che ci sarete grate. Questi
signori, che per renderli sempre più degni delle vostre
signorie ho fatto vestire in costumi di re, di duchi, di baroni,
spero sapranno rendersi amabili al vostro gusto squisito; e tanto più
quando si saran diguazzati come anitre nel fumoso liquore spremuto
da' miei vigneti, e quando sentiranno gli effetti di un certo
ingrediente gentile, che è tratto da quell'insetto che i
naturalisti iscrissero nell'elenco dei Coleotteri, ed
appartiene alla famiglia degli epispastici. Or vi lascio alle
gioje che vi ho preparate, e la fortuna vi sia propizia.
Quando
il barone ebbe ciò detto, un servo gallonato spalancò
una porta, da cui trapelava un gran chiarore; vi si fermò, e
disse ad alta voce: In tavola, signori.
XXIX
Il
precetto di Orazio - Nec pueros coram populo Medea
trucidet, ci comanda di calar il sipario e d'impedire che
l'occhio del pubblico penetri ad assistere all'orrenda cena che i
compagnoni della Teppa imbandirono alle colpevoli dame che fecero
parlar troppo di sè nell'anno 1820, e delle quali non vogliamo
che oggidì si sospetti nemmanco il nome. La cena d'Alboino e
il cranio di Cunimondo poterono esser narrati e descritti e dipinti;
ma la vendetta dei Teppisti non potrebbe trovar grazia presso
nessun'arte, nè posto in alcun libro che non venisse inspirato
dalla nefaria musa dell'Aretino. Che se noi l'abbiamo accennata di
volo e in ombra, fu solo per mostrar come un governo corruttore,
lasciando libero il freno al disordine ed alla scostumatezza per
avvelenare tutte le fonti della virtù, sia occasione che anche
degli uomini non perversi e perfino onesti, tentati dall'invito o
dalle circostanze, possano di cosa in cosa e di abuso in abuso
pervenire a tali eccessi, che essi medesimi ne debbano poi rimaner
pentiti. Il Bichinkommer fu il primo ad accorgersi che si era andato
troppo oltre nell'esecuzione di quel disegno, ch'egli avrebbe voluto
non aver mai pensato; e fu anche il primo, quando, per molti indizj,
potè intravedere che la barbara commedia, in quella notte
minacciava di convertirsi in un'atrocissima tragedia, a consigliare
di entrare presso le dame e i loro commensali onde impedir
conseguenze ancor peggiori.
Per
fortuna esso fu ascoltato ed obbedito; le dame furon fatte uscire, e
i nani inferociti si dovettero placare a bastonate; tanto è
vero che troppo spesso una serie di violenze non può essere
troncata che da una violenza estrema.
Il
giorno dopo, tutte le signore, in altrettanti fiacres che
furono fatti venire dal Bernacchi, vennero rinviate a Milano, con
tutte le precauzioni necessarie perchè non potessero sapere in
che luogo erano state. Madama Falchi fu trattenuta per l'ultima alla
Simonetta, onde sottoporla alle interrogazioni del Bichinkommer ed
alle intimazioni del Granzini e del Bernacchi, e cavarle di bocca
come furon fatti sparire i documenti appartenenti all'archivio dello
studio Macchi Agudio. Se non che la Falchi, dotata, come
sappiamo, d'una natura assai affine a quella delle tigri, invece di
subire l'effetto delle umiliazioni e degli insulti, s'era venuta
inferocendo pel dolore stesso delle ferite. Così stette forte
e chiusa e imperterrita, e perfino minacciosa, tanto che fu rimandata
anch'essa in città senza nessun'utile conclusione. I
compagnoni tornarono a Milano; il barone Bontempo, che, ad eccezione
del Granzini e del Bernacchi, era il solo conosciuto dalle dame,
lasciò a buoni conti il Palazzo della Simonetta, e si recò
nel Cantone Ticino ad aggiustare i conti col fattore delle terre che
possedeva a Mendrisio, e ad informarsi come era andata la vendemmia
in quelle parti là. Ma se il palazzo della Simonetta e il suo
eco rimasero silenziosi, un rumor sordo era già corso per
tutta Milano. I padri, i mariti, i fratelli, i parenti delle dame
malcapitate, sebbene queste avessero volontà di tacere, le
costrinsero a parlare, e il poco che palesarono di quel ch'era loro
seguito, bastò perchè tutte quelle famiglie
strepitassero: e rimostrando questi e tanti altri disordini avvenuti
di quei giorni per opera della Compagnia della Teppa, con un ricorso
sottoscritto da molte persone, invocarono dalle autorità
competenti un provvedimento che mettesse fine a quel flagello pari e
peggiore d'ogni altra peste. È poi facile immaginare ciò
che fece l'avvocato Falchi, sebbene la reduce avvocatessa, per timore
delle rivelazioni del Granzini intorno all'assassinio del ministro
Prina, raccomandasse il silenzio e la prudenza.
E
questa volta, tutta l'astuzia e il talento e il fervore generoso del
Bichinkommer non valsero che ad accrescere le disgrazie vecchie ed a
crearne delle nuove, come già era accaduto al grande
Napoleone, che nelle battaglie di Francia, che sono il capolavoro del
suo genio, non trovò che disastri e l'ultima rovina.
Il
notajo Agudio, migliorando di salute e fatto interrogare dal marchese
F... sul fatto delle lettere che aveva scritto al barone Gehausen,
mandò a dire e a protestare ch'egli non sapeva nulla, e che
quegli scritti presentati in suo nome e colla sua firma non potevano
essere che una falsificazione. Le minaccie fatte dal Bichinkommer
alla Falchi e riferite da lei al marito, mostrarono che ci doveva
essere un piano prestabilito, in cui più d'una persona poteva
aver parte a danno del marchese F... e a vantaggio del Baroggi; e per
ultima conclusione si venne a sospettare di quest'ultimo, siccome
della sola persona interessata in quest'intrigo. Il crotalo Alberico,
che strisciava sott'erba e tirava a farsi prestare i centomila
franchi dal marchese; e che dopo la scena del Monte Tabor,
volentieri, data l'occasione, avrebbe messo l'arsenico nel bicchiere
del Baroggi, lavorò con perfidissima e vile astuzia contro di
lui, per rovinarlo in tutti i modi.
XXX
Quel
dì stesso il Bichinkommer e il Baroggi pranzarono insieme
all'osteria della Stadera. Il secondo non sapeva nulla di quello che
aveva fatto il primo, e tutto sprofondato com'era da qualche giorno
nei pensieri e nelle cure del paese, non conosceva nulla affatto del
così detto Gazzettino di quel mondo che, quando non fa
nulla, fa peggio. Ma alla tavola ove pranzavano e a tutti i tavolini
che lor stavano intorno e dappresso, non si parlava che del rapimento
dei nani e dello scandalo fatto subire ad alcune dame milanesi.
Queste, com'è naturale, avevan taciuto quello che ai nani
premeva invece di raccontare, perchè un certo senso d'orgoglio
e l'idea di una specie di trionfo aveva fatto passare il dolore e
l'avvilimento delle bastonate ricevute. Tenuto conto di tutto, e
messo insieme il dare e l'avere, all'ultimo essi furono ben contenti
d'essere stati rapiti; onde fu precisamente per opera loro se lo
scandalo venne a propalarsi. Il Baroggi, che non comprendeva nulla di
quei discorsi, ne domandò la spiegazione all'amico, che gliela
diede amplissima, confessando la brutta parte che, colle buone
intenzioni del mondo, esso aveva avuto in quel fatto.
-
Oh mi pento davvero, esclamò allora il Baroggi, di aver dato
ascolto al Suardi e d'essere entrato a far parte di questa compagnia;
ma come ti dissi già altre volte, per ammenda degli altrui
falli e dei nostri, come si pensa a convertire in medicina anche i
veleni, bisogna provvedere a convertire in qualche bene anche questo
malanno. Molti giovani gli ho già convertiti, e trovai
buonissimi terreni. Adesso bisognerà pensare a cavar partito
anche dalle schiume più ribelli. Tu ci penserai. Stasera
verrai con me, e ti presenterò alla società. Ti farò
conoscere a suo tempo anche il conte, che è quello che sta al
timone e governa tutti gli avvenimenti. Abbiamo bisogno di qualcuno
che conosca il Piemonte come la Lombardia, e sia pronto a viaggiare
innanzi e indietro per tutto quello che può abbisognare. Ho
già parlato di te, sei già noto ed accettato; per cui
stasera non ci sarà che la formalità della
presentazione. Intanto è bene che sappi quali sono tra noi i
segni di riconoscimento. Eccoti spiegato il tutto in poche parole: -
Tu vai, per esempio, in un luogo ignoto, e ti trovi tra persone
ignote, nel tempo stesso che desideri sapere che aria tiri e che
discorsi si possono arrischiare e che reti gettare: ebbene: se tu
adocchi uno che ti dia nel genio più degli altri, e ti venga
in sospetto che per avventura sia un affigliato alla Società
dei Federati, non devi far altro che unire ambe le mani nell'atto di
salutarlo; se l'altro non ti comprende, è indizio che bisogna
parlar di cose indifferenti, e troncare ogni discorso pericoloso; ma
se invece quegli a cui tu guardi si pone la mano destra al fianco,
come facendo mostra di mettersela sulla spada, allora è segno
che è un federato, e che, all'occorrenza, puoi far capitale di
lui.
-
Ma questa società che, siccome ho sentito dire, è assai
diversa da quella dei Carbonari e dei Frammassoni, ha però, al
pari di quella, una gerarchia?
-
La Società dei Federati non ha che due gradi: quello di
capitano e quello di semplice addetto.
-
Ma in che differisce il capitano dal semplice federato?
-
In ciò, che il primo ha il diritto o l'obbligo, come tu vuoi,
di far quattro proseliti. Io, per esempio, son capitano, e tu sei il
quarto dei proseliti che ho fatto.
-
L'altro dì m'hai detto che la Società si convoca in
casa del calzolajo Ronchetti?
-
Le adunanze generali si tengono sempre in un sito; le speciali in
varj luoghi. La casa del calzolajo Ronchetti è uno di questi.
Devi inoltre sapere che questa Società si divide in due
centri, quello dei nobili e quello dei plebei.
-
Ahimè, caro Giunio, si comincia male.
-
Comprendo che cosa vuoi dire, e sono anch'io del tuo sentimento; ma
ho dovuto accorgermi che, per ora, questa distinzione era necessaria.
-
Ma, e perchè?
-
Gli uomini che amano la patria sono più frequenti di quelli
che odiano i privilegj. Ecco perchè, onde attrarre nell'ardua
impresa anche i nobili, bisognava far loro toccar con mano che
coll'entrare nella nuova Società e col far parte dei lavori
che devono concorrere alla creazione vera e non fittizia della nostra
patria, i blasoni rimanevano intatti. Col tempo andranno per aria
anche questi. Un tal tempo però sarà lungo, lungo
assai; press'a poco come uno dei sette giorni o delle sette epoche
della creazione. Noi, i nostri figli, i figli dei nostri figli, e
continua pure colla litania delle generazioni, saremo morti tutti, e
ancora ci saran duchi e marchesi e conti. Bisogna adattarsi, caro
mio; chè, se cominciamo a prender ombra dei titoli, addio
speranze; non si fa più nulla.
Continuando
su quest'andare, essi finirono di desinare, lasciarono l'osteria,
passeggiarono per qualche ora, si recarono fuori di Porta Orientale
all'osteria dei Tre Merli, allora famosissima, a bere un bicchiere di
Villacortese, pure di quel tempo in gran voga; finalmente, verso le
ore otto, entrarono nella casa Ronchetti, in via della Cervia,
situata in quell'angolo vicino alla chiesa, che, per il consueto alto
e basso delle cose umane e divine, ora somministra le legna a quanti
fanno bollire pentole in casa, e si riscaldano al caminetto ed alla
stufa.
XXXI
Milano,
nel principio di questo secolo, forse per essere stata la capitale
del regno italico, ebbe il privilegio di raccogliere in sè i
prototipi dell'intelligenza italiana in tutte le sue sfere e
manifestazioni, dall'alfa all'omega, dalla testa ai piedi: da
Vincenzo Monti e Romagnosi e Sabatelli e Appiani e Carlo Porta, ecc.,
sino al calzolajo Ronchetti, prototipo dell'intelligenza operaja,
dell'onestà plebea, dell'espansione popolana. È noto
come questi, nato a Parabiago, per infortunj domestici sia stato
costretto a riparare a Milano, e qui, sotto la scorta di una madre
tanto bella quanto virtuosa, per trovar pane pronto, abbia dovuto
acconciarsi alla professione di calzolajo, la quale per sua virtù
meritò quasi di ottenere un posto nell'Istituto e
nell'Accademia delle Belle Arti; dell'Istituto di Scienze, perchè
coll'invenzione delle forme e con appositi congegni consolò le
conformazioni viziate, le perfide gotte, i calli inclementi;
dell'Accademia, perchè, facendo risaltare tutta la bellezza
che può avere la linea di un piede sì maschile come
femminile, l'occhio imparò ad innamorarsi di qualche cara
persona cominciando dai piedi, invece che dalla testa.
Ma,
lasciando da parte la calzoleria, ciò che rendeva
distintissimo il Ronchetti era la svegliatezza del suo ingegno, e
l'amore quasi febbrile per tutto che v'è di grande tra gli
uomini, le idee e le cose: per codesta qualità, siccome egli
ambiva di avvicinare le persone più eminenti del suo tempo;
così queste facevano a gara nell'avvicinar lui, nel
complimentarlo, nell'esaltarlo; i poeti gli mandavavano le loro
opere; i pittori e gli scultori le produzioni del loro pennello e del
loro scalpello; gli alti dignitarj lo onoravano di lettere; così
che la raccolta degli autografi posseduti dal Ronchetti parrebbe
quella di Voltaire, dell'Algarotti, di Talleyrand, di Nesselrode;
tanto è vero che un primato, qualunque sia la sfera delle
umane discipline, può mettere un individuo al livello e al
disopra di chicchessia. Aveva ragione il ciabattino del Giulio
Cesare di Shakespeare, quando esclamò, pieno di giusto
orgoglio: «Io sono il primo cittadino di Roma; tutta Roma
passeggia sull'opera delle mie mani». Ma, tagliando corto, la
sua umile casetta fu scelta anzi da lui stesso, tanto amava il
progresso e il bene del paese, fu esibita per conventicolo
segnatamente dagli operaj ed industriali, e di quanti s'erano
incaricati di fare entrare anche costoro nella santa impresa di
rigenerare la patria comune. In quella sera molti eransi là
raccolti, compresi il padre Ronchetti e il maggiore dei suoi figli,
ancora adolescente, ma di tale ingegno e di tempra così
severa, che quanti lo conoscevano tra i Federati frequentatori della
casa Ronchetti, permisero che anch'egli assistesse alle conferenze.
E
noi adesso, come parrebbe farci invito l'argomento, non ci
dilungheremo a parlare dei Federati, nè della loro origine e
dei loro intenti. Sul movimento italiano fu parlato con tanta
abbondanza e da tanti autori, che non c'è lettore, per quanto
scarsamente istruito, che non ne conosca tutte le vicende e le fasi
principali. Qualche cosa però, che non è senza
importanza, fu omessa nelle opere stampate. La conferenza, per
esempio, che si tenne quella sera in casa Ronchetti, e che a noi fu
riferita oralmente dal Bruni che vi assistette, mette in luce qualche
fatto sfuggito altrui; ed ecco perchè amiamo accompagnarci
colà insieme col Baroggi.
XXXII
Dopo
i preliminari d'ordine e dopo alquanti discorsi vaghi e varj, Giunio
Bazzoni, che trovavasi là insieme col Marliani, col prete
Camisana, che fu poi vice prefetto del ginnasio di
Sant'Alessandro, e con altri giovani ingegni i quali volevano che il
progresso si facesse forte attraversando le vie delle classi operaje,
così prese a parlare:
«Siccome
alcuni son d'opinione che a scacciare i Tedeschi è cosa
facile, e che tutto il difficile sta nel trovare gli uomini che poi
sappiano governare il paese, così, in più conferenze
tenute in casa del conte, abbiamo passato in rivista tutti i nostri
uomini più distinti, e, fatte le debite valutazioni, e tenuto
conto di ciascuna specialità, siam venuti redigendo questo
elenco della reggenza o governo provvisorio, come lo volete chiamare,
che dovrà succedere al governo austriaco, appena questo sarà
decaduto.
«Ministri
per gli affari esteri sarebbero dunque il marchese Giorgio
Trivulzio e il conte Federico Confalonieri. Per gli affari interni
l'avvocato Carlo Marocco e il consigliere aulico Paolo De
Capitani. Per la giustizia e la legislazione il
consigliere Alberti e il Bellani. Per le finanze il Pecoroni.
Per la guerra il colonnello Arese e il Locatelli, già
commissario generale nel ministero della guerra. Pel culto
monsignor Sozzi, vicario della Metropolitana.
«Per
la sicurezza pubblica si è pensato al barone Smancini,
già prefetto del dipartimento dell'Adige; oppure al Luini, già
direttore generale di polizia. Segretari degli ordini e della
corrispondenza sarebbero poi Carlo De Castillia, Pietro Borsieri, ora
protocollista di consiglio all'Appello, Tagliabò e Berchet.»
Il
Bazzoni fece pausa, e invitò gli astanti a fare le loro
osservazioni. Allora sorse il Baroggi, e disse:
«Non
si può negare che quest'elenco sia stato redatto con sapienza
e con sufficiente cognizione degli uomini, ma mi sembra che siasi
data più importanza alla posizione già occupata dai
diversi nominati, all'alta loro condizione sociale e alla ricchezza,
che alla prevalenza dell'ingegno, avuto riguardo segnatamente a
coloro che godono già di una gran fama in Europa e in Italia.
- Mi fa senso, per esempio, come pel ministero di giustizia e
legislazione, nessuno abbia pensato a Romagnosi, per i consigli e
l'assidua collaborazione del quale il mediocrissimo Luosi sembrò
l'ideale del giustiziere; e invece che a lui, siansi gettati gli
occhi sovra un semplice amministratore d'ospedale. Non comprendo
perchè siasi dimenticato il barone Custodi, tanto amato e
stimato da Pietro Verri, e il quale fu presidente del Magistrato
camerale e l'innovatore più coraggioso, più fecondo e
più utile che abbia avuto la Lombardia in tutto ciò che
riguarda l'erogazione della ricchezza pubblica. Il consigliere
Pecoroni è un uomo di pratica e non di teoria, e se la seconda
non va senza l'ajuto della prima, negli alti ordini
dell'amministrazione finanziaria non è possibile che chi è
sprovveduto di apparato scientifico riesca mai a far cose grandi.
Così come non comprendo l'omissione del Romagnosi e del barone
Custodi, non comprendo la dimenticanza di Melchiorre Gioja.
«Del
ministero della guerra non parlo, perchè bisogna star paghi di
quello che si ha in casa; non parlo dell'interna amministrazione, per
la quale però l'avvocato Marocco e il De Capitani mi sembrano
più che sufficienti. In quanto al culto, perchè far
capo a monsignor Sozzi? Non sarebbe forse più adatto il
professor Prina dell'Università di Pavia o il consiglier
Giudici? Un'altra ommissione mi fa senso, ed è quella del
ministero importantissimo d'istruzione pubblica. C'è forse
mancanza d'uomini per questo? Vincenzo Monti è forse morto?
Ermes Visconti non ha forse dato il più vigoroso impulso a
tutta la nostra gioventù studiosa? Dunque io penso che si
debba provvedere anche ad instituire il Ministero della pubblica
istruzione.
-
Di tutte queste osservazioni sarà tenuto conto, rispose il
Bazzoni, e le svilupperete di nuovo in una delle adunanze generali.
Ora vi leggerò l'elenco della guardia nazionale.
«Il
comandante in capo sarebbe dunque ancora il marchese Annibale
Visconti; l'Arese il quartier mastro generale; colonnelli sarebbero
il cavalier Vacani barone di Fortolivo, Galeazzo Fontana, Bianchi
d'Adda e Litta Pompeo; tenenti colonnelli, i banchieri Soresi,
Ciani e Ballabio; capi battaglioni, il marchese Arconati, D.
Benigno Bossi, Emilio Belgiojoso, Renato Borromeo, Giorgio
Pallavicini e Raffaele Bossi; capitani sarebbero, tra gli altri, il
visconte d'Aragona, Leopoldo Incisa, il Prinetti, figlio del
banchiere, i due Negri banchieri, il Manzi, il Zoppis, il figlio
dell'avvocato Marocco, ecc., ecc.»
Dopo
alquanti commenti fatti dal Bichinkommer, perchè aveva
appartenuto alla milizia, sul carattere e sui meriti degli ufficiali
superiori della guardia nazionale, la conferenza politica si sciolse
in una conversazione comune, e il discorso cadde segnatamente sugli
ultimi fatti della Compagnia della Teppa.
-
Pur troppo, disse il Baroggi, questa compagnia, alla quale io e molti
di quelli che stanno qui apparteniamo, in questi ultimi tempi
raggiunse l'estremo della prepotenza, dell'arbitrio e della violenza.
«Al
pari di molti uomini generosi, i quali rimediarono alle intemperanze
della gioventù colla virtù, coi nobili propositi e con
altre imprese degli anni maturi, così dovremo fare anche noi.
Propongo pertanto si conducano le cose in modo che un massiccio
numero di compagnoni si riunisca in uno dei soliti convegni, per
tentare di dare un nuovo indirizzo alla nostra esistenza. La Società
dei Federati ha bisogno così delle forti intelligenze come
delle braccia robuste e dei cuori imperterriti. Nella nostra
compagnia vi ha un gran numero di giovani che, bene indirizzati,
potranno essere di gran vantaggio alla patria comune. E con queste
parole, se l'egregio Bazzoni lo vuole, possiamo chiudere l'adunanza
di questa sera.»
Ed
essa si chiuse di fatto, e tutti uscirono e si dispersero.
E
in quella sera, nell'umile casa dell'ottimo Ronchetti, con
quell'adunanza si venne a rappresentare la crisi che subiva la
società milanese in quel periodo storico. I membri della
Compagnia della Teppa, che pure si erano ascritti alla Società
dei Federati, rappresentavano in sè medesimi la lotta tra gli
sforzi di un governo che voleva portare in tutto la corruzione, e
l'elemento antico, indistruttibile, ognora risorgente sotto la
medesima pressione della tirannide, che si opponeva a questi sforzi
con altrettanti e più tremendi; e che a lungo andare dovevano
rimaner vittoriosi sul troppo a lungo conteso campo di battaglia.
Se
non che, i rimedj che il Baroggi allora aveva proposti, riuscirono
intempestivi. Gli ultimi arbitrj, probabilmente il fatto enorme delle
dame disonorate provocò una tale tempesta, che il governo e la
direzione della polizia stabilirono finalmente di distruggere quella
compagnia con un colpo improvviso e decisivo. Allora fu manifesto che
l'autorità non aveva mai voluto quello che poteva, perchè
in una giornata sola fece eseguire l'arresto di più che
sessanta individui, i quali, per mancanza d'altro locale adatto,
furono in prima tutti chiusi nel convento di San Marco, e in seguito
inviati a Szegedin e a Komorn, o costretti al servizio militare.
Altri molti arresti si compirono dopo, a non contare un numero
straordinario di giovanotti che, avvisati in tempo, ripararono
altrove fuggendo. In quanto al Baroggi, una mattina il suo amico e
tutore Giocondo Bruni ricevette un letterino, non firmato da alcuno,
nel quale gli si raccomandava di far fuggir lui e i suoi amici.
Baroggi conobbe, esaminando la lettera, il carattere del segretario
di governo presso la polizia, che aveva agevolata la liberazione del
Suardi.
Esso
pertanto lasciò Milano, e il Bruni venne a saper poi che il
conte Alberico B...i aveva ajutato il marchese F..., facendo ciò
che il marchese per se stesso non avrebbe mai voluto fare. Quale
altro dei compagnoni della Teppa, sotto colore di essere indignato di
tanti scandali e di sentir l'obbligo di farli cessare, in una
conversazione tenuta nel palazzo del governatore, parlando col
consiglier Pagani e simulando di raccomandargli molti giovani sui
quali la polizia avrebbe potuto far pesare la propria severità,
li venne nominando tutti, e calcò principalmente sul Baroggi,
il solo che gli premeva fosse tolto di mezzo, e per odio del quale
non ebbe ribrezzo di commettere quella vile perfidia.
LIBRO
VENTESIMO
La
città di Parigi. - La lingua e l'indole francese. -
L'Italia e gli Italiani illustri. - Detto di Ugo Foscolo. -
Chateaubriand e gli scolari della Politecnica. - Heine e
Rossini. - Il Guglielmo Tell. - Serenata a
Rossini sul boulevard des Variétés. Giunio
Baroggi e i suoi amici d'Italia e Francia, al caffè Tortoni. -
Parole di Giunio Baroggi sull'arte italiana. - L'avvocato
Montanara e l'eredità F... - La contessa Stefania B...i
Gentili. - Del divorzio. - I giuristi e i teologi. -
Il quarto piano e il cannocchiale. - Il dott. Broussais. -
Il biglietto della lotteria di Baden Baden. - Il Viatico.
- Il Baroggi e il conte B...i.
I
La
massima parte della nostra storia si svolse a Milano, una parte a
Venezia, un'altra a Roma, nè ciò per sfuggire
all'accusa di non presentare che un interesse municipale, ma
veramente perchè quanto avvenne a Roma e a Venezia non avvenne
altrove; e perchè la necessità del vero e del reale ci
comandò di tramutarci ora in un luogo, ora nell'altro. Ed ora
per la medesima ragione, correndo l'anno 1829, dobbiamo recarci a
Parigi e dimorarvi per qualche tempo.
Milano,
Venezia e Roma, senza nessun merito nostro, bastano a far sì
che il presente lavoro assuma un interesse quasi italico. Ed ora, se
dall'onda impetuosa degli avvenimenti ci troviamo trasportati a
Parigi ciò significa che la fortuna sospettando che non ci
bastassero i confini italiani, ha fatto di tutto per metterci in
comunicazione con tutt'Europa.
II
Parigi
è la capitale del mondo; anche senza essere francesi bisogna
confessarlo. Essa, in questo primato, è succeduta alla vetusta
Roma. Nè vale che Londra abbia un milione d'abitanti più
di lei; se il numero degli abitanti fosse il sintomo della
superiorità d'una capitale, i Chinesi, già orgogliosi
d'aver avuto un Adamo di dieci millenarj più vecchio del
nostro, potrebbero contendere questo vanto così a Londra come
a Parigi. - Ma questa è la capitale del mondo per il
fatto della lingua; della sua lingua, che successe alla latina.
Quand'essa diventò l'indispensabile interprete nei bisogni
della diplomazia, nella necessità delle comunicazioni del
sapere universale, allora Parigi fu dichiarata erede della fortuna di
Roma. - Un dotto, un letterato, anche senza l'obbligo di
rinnovare il miracolo di Mezzofanti, può conversare con tutti
i tesmofori dei due mondi, i quali in quella perpetua fornace del
pensiero, spogliati della vesta nativa, lasciano vedere trasparente
la sostanza dell'idea, che talvolta si migliora colà,
rendendosi meno scabra e più accessibile. Il longanime
alemanno che, nelle ricerche ostinate della scienza e dell'arte, e
più dell'erudizione, mostra tutti i caratteri d'una affannata
monotonia, non varcherebbe i patrj confini, se l'agile francese,
liberandolo delle scorie importune, non ne presentasse al mondo il
carbonchio lucente.
L'altra
ragione del suo primato sta nel sapersi espandere compenetrando.
Parigi,
nella schiera delle città illustri, assomiglia a quegli
ingegni fortunati che sanno approfittare delle fatiche altrui, e
riproducono assimilando e completando. - Se la si considera
come un individuo, non ha il genio della invenzione, ma della
perfezione. Non è il Boiardo che inutilmente per sè
crea e trova i personaggi dell'Orlando, ma è l'Ariosto
che, adottandoli e trattandoli come figli proprj, li rende immortali,
e appena permette che il suo antecessore abbia un posto fra i poeti
di terz'ordine.
Parigi
non è l'ignoto autore della prima leggenda del Faust, ma è
Goethe, che trovando un edificio compiuto, ma chiuso da tutte le
parti, lo apre, lo adorna, lo illumina e lo rende accessibile a
tutt'Europa leggente. - Non è Galvani, ma è
Volta. - Nell'89 essa non ha fatto che dar consistenza e
attitudini pratiche al pensiero rivoluzionario, annunciato già
tre secoli prima da altre nazioni che maltrattarono i loro veggenti,
e dai veggenti che pagarono le divinazioni colla testa. -
Rousseau e Voltaire, preparatori dell'89, non dissero nulla di nuovo;
ma il loro eco poderoso perfezionò i rauchi suoni dei loro
predecessori e li converse in una vasta e tremenda armonia che, come
la Marsigliese, conflagrò tutte le menti, le quali,
trovandosi confederate, diventarono invincibili.
Parigi
è la capitale del mondo, perchè in ogni tempo e per
qualunque circostanza, si fece il suo interprete perfino del male, e
s'affrettò a mettere in esecuzione gli sparsi e mal repressi
desiderj della società. È la capitale del mondo, perchè
il suo genio è tale da spingerla a maltrattare anche sè
stessa, per l'ambizione d'essere la prima a convertire in fulmine
l'elettricità che ognora serpeggia nel serbatojo terrestre. -
Nel 1815 essa, al pari di Saturno, divorò il proprio figlio
onde placare tutta Europa allora fremente. La borghesia mercante di
Parigi comprese la classe usuraja di tutto il mondo, e sacrificò
la gloria all'interesse e alla certezza di un tanto per cento.
Oltre
a ciò, è la capitale del mondo, perchè seppe
costituirsi in patria universale di tutti i grandi ingegni.
Parigi
venera l'intelligenza da qualunque parte venga, comunque si presenti;
già s'intende, quando esca dalle mediocri proporzioni, e
quando la sua virtù non stia soltanto nella forma, ma nella
sostanza.
Heine,
scacciato da Berlino, povero ed ammalato ricovera a Parigi; e qui è
provveduto di quattro mila lire all'anno, malgrado che nella Lutezia
egli sfoghi la sua gratitudine dicendo tutto il male possibile de'
parigini. - Un'altra nazione non l'avrebbe tollerato.
Mentre
un critico in Sicilia ostentava, or non son molti anni, di appena
conoscere Manzoni; mentre il napoletano Emiliani Giudici lo
insultava obbliquamente in un libro che ebbe spaccio in Italia; e il
toscano Ranalli lo copriva d'ingiurie; a Parigi Artaud l'aveva già
chiamato il primo de' poeti viventi; Chateaubriand l'aveva dichiarato
più grande di Scott; Dumas diceva che da Davide a lui non
aveva mai trovato inspirazione lirica più potente della sua.
«Apprendete, o Italiani, a rispettare gl'ingegni»,
tuonava Foscolo mezzo secolo fa, e mezzo secolo dopo si è
ancora condannati a dire che a Parigi trova ricovero e giustizia chi
è svillaneggiato o maltrattato in casa propria. - Nè
giova che altri c'interrompa mettendo innanzi il pretesto delle
credenze, delle scuole, delle fazioni. - Questo pretesto
sarebbe una colpa di più; e quando pure non fosse, il vero
merito copre e scuole e sêtte, ed una nazione deve rispettare
sempre il merito dell'ingegno e della virtù, in qualunque fede
ei versi. Nelle tre giornate di luglio gli studenti della Politecnica
portarono sulle braccia in trionfo Chateaubriand, che pure aveva
parlato contro di loro. È a questi patti che una nazione è
una Nazione. - O Italiani, rispettate gli
ingegni! - ripetiamo le parole di Foscolo, senza delle
quali le nostre andrebbero disperse o fraintese.
Rossini
in dodici anni scrive quaranta spartiti che fanno di lui il più
rivoluzionario, il più immaginoso, il più versatile, il
più grande dei maestri melodrammatici d'Italia e d'Europa; ma
presto la sua patria, volubile come l'antica Grecia, annojata di lui
e de' suoi trionfi, lo coglie al varco in un momento di stanchezza e
d'indolenza, e lo umilia con quel trasporto onde in addietro lo aveva
esaltato; poscia ostenta di non comprenderlo nel punto massimo della
sua sterminata abbondanza, allorchè nella Semiramide aveva
gettate a profusione le ricchezze della sua fantasia, come i principi
del medio evo in un giorno di corte bandita; e lo lascia deluso,
iracondo e ancora povero.
Gli
Italiani trattano gl'ingegni come gli agricoltori i filugelli:
arricchiscono della loro seta e li gettano poi, conversi in bruchi,
nel letamajo. - Ma Parigi accoglie Rossini, il quale in quella
Babilonia era andato a cercar nuovi amori per divagare gl'importuni
pensieri, al pari di un amante che ha trovato la sua donna infedele;
e la capitale del mondo lo vendica, lo esalta, lo tratta come un
trionfatore coronato, erigendo simulacri marmorei a lui vivo, e
intitolando le pubbliche vie del nome suo.
Parigi
è la capitale del mondo, perchè nelle cose della
scienza e dell'arte l'entusiasmo sempre sveglio non permette mai di
sconfessare la verità che sfolgora. A Vienna, in tanto oceano
di note rossiniane, appena si trovò grande la prima metà
della sinfonia del Guglielmo Tell: a Berlino, un'accademia di
maestri algebristi quasi fu per negargli l'onor del ritratto nella
serie dei grandi compositori, e stette in procinto di punirlo come
Marin Faliero.
Ma
vediamo Parigi nel momento appunto che a Rossini si tributano onori
più che a un mortale, e l'Italia, per consenso, viene esaltata
nel trionfo di lui.
III
Era
la mezzanotte del 10 agosto 1829; una folla immensa erasi raccolta
sul boulevard des Variétés, innanzi alla casa di
Rossini, essendo corsa la voce che gli artisti dell'Opéra
volevano offrire una serenata al re della musica contemporanea,
all'autore del Guglielmo Tell. A mezzanotte infatti cantanti e
suonatori occupavano una delle terrazze dell'elegante abitazione di
Rossini, e allora al tumulto popolare della folla impaziente successe
il più profondo silenzio. L'orchestra incominciò
coll'eseguire la stretta della sinfonia del Guglielmo Tell,
che, ridomandata a forti grida, venne di nuovo eseguita e di nuovo
ricoperta d'applausi. Dopo questo pezzo fu cantata la tirolese Un
oiseau ne suivrait pas, che rapì di piacere la platea a
cielo aperto, e i cantanti dovettero ripetere questa musica, tanto
avea infuriato la tempesta del bis. In seguito fu cantato il
coro dei balestrieri, e quello, senza accompagnamento, del Conte Ory:
Noble Châtelaine, che le voci sonore di Nourit, della
Debadie e di Levasseur fecero giungere fino all'orecchio dei più
lontani spettatori.
La
notte molle, il cielo stellato, la musica incantevole eseguita con
amore speciale, l'attenzione religiosa di un intero popolo di
dilettanti entusiasti, tutto concorse a rendere straordinaria e
solenne quella festa del genio, la quale era nel tempo stesso la
festa dell'addio; chè Rossini doveva fra poco lasciar la
Francia.
Giunio
Baroggi, che dimorava a Parigi da qualche tempo, trovavasi compreso
tra quella folla, insieme co' suoi amici di Parigi e d'Italia. Vi era
Nodier, Ingres, Halévy, Marliani, Suardi. Dopo la serenata si
recarono tutti al caffè Tortoni. - Com'è
naturale, il discorso cadde sull'arte e su Rossini e sull'Italia.
Halévy sosteneva che il Guglielmo Tell era il
capolavoro di Rossini, e che se questi non avesse dimorato a lungo in
Francia, il suo genio sarebbe rimasto incompleto.
Baroggi,
esaltato dalla serenata, versava in uno stato eccezionale di
vivacità, d'estro e di vena. - Si mise a parlare per
rispondere ad Halévy ed agli altri:
-
Non è possibile, ei disse, non dividere in gran parte la
vostra opinione - il Guglielmo Tell è un serbatoio
d'inesauribile arte e di scienza musicale, dove un'intera generazione
di maestri potranno attingere la loro parte di melodia e d'armonia
per acquistar fama e denaro; dove anche un maestro di scarsa
levatura, in un momento di peritanza e di dubbio, potrà
pigliarsi quello che farà pel caso suo, senza nemmeno parere
un copista. Sì, io sono felice che codesta specie di Bibbia
dell'arte musicale sia uscita dalla testa prodigiosa di Rossini; ma
non sarò mai per sacrificarle il Mosè, dove il
genio lampeggia di una luce ancora più abbagliante,
abbagliante sì che par quasi eccedere la natura umana. Ma tra
il Guglielmo Tell e le altre opere della scuola
germanico francese e i capolavori della scuola italiana corre
quella differenza che intercede fra il dramma diffuso, fatto per la
lettura, e il dramma concentrato, fatto per la rappresentazione. Ma
io non posso ammettere che sì debbano far drammi per la sola
lettura, perchè allora vien più opportuna un'altra
forma dell'arte; e per la stessa ragione non posso ammettere che ci
debbano essere opere in musica che condannino il pubblico a star
confitto sulle panche cinque o sei ore; perchè la lunghezza
non è una condizione dell'arte, perchè nemmeno il genio
sa scongiurare la noja, e la stessa bellezza genera sazietà
quando non sappia scomparire a tempo.
-
Voi altri Italiani, disse allora Halévy col modo il più
educato, ma con tale accento che rivelava qualche dispetto; voi altri
Italiani avete ragione di aggrapparvi unicamente e sempre al gigante
Rossini, come alla nave ammiraglia, perchè egli è il
solo che anche oggidì rappresenti l'Italia con antica
grandezza.
-
No, rispose il Baroggi, colla prontezza e l'impeto onde Massimo
soleva rimettere un pallone traditore. Non posso ammettere che
l'Italia non abbia nelle altre arti un genio che faccia degno
corteggio a Rossini. - Intanto, tra le spire della colonna
Vendôme, il bassorilievo della battaglia d'Austerlitz, scolpito
da Bartolini, è il vanto di quella colonna, e la più
gran cosa che in scoltura siasi fatto in Europa dopo la morte di
Canova, anche a fronte della grandezza di Thorwaldsen. - Ma
nella poesia e nella letteratura v'è un uomo in Italia che può
benissimo far degno riscontro a Rossini; ed è Manzoni; e se la
fama di quest'ultimo non risuonò così rapidamente e
vastamente come quella del primo, bisogna trovarne la ragione
nell'indole e nella diversa fortuna delle due arti. - Il primo
fatto intanto per cui Rossini e Manzoni si fanno riscontro l'un
l'altro è il primato che ciascuno occupa in Italia e fuori per
consenso universale e concorde. - Ma lasciando da parte la
fama e la gloria, che sono le conseguenze e i compensi del merito,
anzichè il merito stesso; è nella sostanza, è
nell'originalità, è nella grandezza che Rossini e
Manzoni sono veramente i re di due diversi regni. - Un'altra
virtù caratteristica poi che hanno in pari grado (ed è
il distintivo dei veri genj nell'arte, perchè li fa esser varj
e vasti come il pensiero e la vita), è la potenza di
esercitare il riso ed il pianto, come se in ciascuno fosse unita la
natura di due uomini diversi. - Gl'ingegni i quali non sanno
fare altro che ridere o piangere, non sono completi, sono uomini a
mezzo, perchè della vita non riflettono che un lato solo -
Dante piange e ride, alla sua foggia, s'intende; è sublime ed
è grottesco; accanto alle creazioni più pure e
celestiali pone le più strane figure; Michelangelo nel suo
Giudizio sotto al Cristo ha messo in caricatura il diavolo;
Ofelia e Falstaff uscirono dall'unica mente di Shakespeare. -
Il largo al factotum e il pianto di Desdemona da quella
di Rossini. - Così è il Manzoni; l'elemento
comico corre e serpeggia per tutto il suo romanzo, sbizzarrisce
persino tra le lugubri scene del Lazzaretto. È alle spalle di
don Abbondio che un'intera generazione ha riso e rideranno i futuri.
- Ma se questa figura ci allarga i precordi di giovialità,
Cristoforo e Federico ci appianano il volto di una severità
compunta; e nell'Adelchi il dolore raggiunge una grandezza
tragica, che non si trova nemmanco in Alfieri, ma è quella
medesima altezza tragica che, allorchè vien raggiunta dal
gioviale Rossini, lo fa superiore allo stesso Gluck appassionato.
«Un'altra
qualità caratteristica per cui Rossini e Manzoni non
possono confondersi cogli altri ingegni che fioriscono in questo
tempo, sta in quell'originalità indipendente, per la quale
diedero un movimento affatto nuovo all'arte loro; sta in quella
pienezza di facoltà per la quale, anche allorquando non
riformarono del tutto un ramo dell'arte, lo completarono almeno.
Monti riprodusse, non completò, non riformò.
«In
esso vedonsi distinti tutti gli elementi coi quali eran nati molti
poeti, prima di lui; ma non ebbe mai la virtù di assimilare
tanta varietà di caratteri in una pasta unica, da cui potesse
uscire, se non la novità assoluta, almeno l'apparenza della
novità. Non così fu di Manzoni; egli fece in
letteratura precisamente quello che fece Rossini in musica. Mise a
contribuzione tutti quanti, ma lo fece in modo che non apparisse più
traccia d'essi nel nuovo edificio letterario ch'egli costrusse sulle
loro fondamenta e coi loro materiali; egli non invase alla
spicciolata i dominj altrui per trasportare in casa propria un'ibrida
varietà di maniere e una veste screziata di più colori,
ma trasse gli altri nel proprio dominio e li sottomise alle proprie
leggi, unificandoli. È precisamente la stessa grande
elaborazione che operò Rossini in musica. - Ecco perchè
questi uomini nella storia del pensiero vanno collocati a paro. La
musica fu condotta all'ultima maturanza da Rossini, come da Manzoni
fu condotta all'ultima maturanza la letteratura.»
Gli
astanti applaudirono vivamente alle parole del Baroggi. -
L'Italia in quel punto veniva glorificata in Francia.
IV
A
notte altissima (erano le tre passate) il Baroggi, accompagnato da
Musset, da Vigny, da Nodier, da Armand Carrel, da Vernet, da
Delaroche, da Rossetti, dal milanese Berchet, dall'amico Andrea
Suardi, tornò al suo alloggio che era un terzo piano d'una
casetta semplice ed elegante situata nella Cité presso
al ponte Double. Al caffè Tortoni egli aveva comandata
l'attenzione e spesso l'ammirazione a quanti lo circondavano, colla
sua faconda ed inspirata parola. Al pari di un termometro che,
secondo le circostanze, discende sino al freddo di Danzica o sale
fino al calore del Senegal, in quella notte, esaltato dalla musica di
Rossini, dallo spettacolo dell'entusiasmo frenetico che tutta Parigi
aveva mostrato al Maestrone con quella serenata musicale, e, non
possiamo tacerlo, esaltato dal vapore generoso di un bordeaux che
un segretario d'ambasciata aveva potuto avere dalle stesse cantine di
Carlo X; le sue facoltà intellettuali avevano raggiunta la
massima effervescenza. La mente del Baroggi assomigliava a que' fogli
bianchi sui quali è stato scritto con inchiostro simpatico;
perchè sul bianco risaltasse il nero e perchè se ne
potessero leggere i caratteri, era necessario un reagente chimico.
Toccato da circostanze speciali, il suo ingegno, chiuso nel silenzio,
e nella mestizia, erompeva di tratto come un congegno pirotecnico che
d'improvviso mandi un'eruzione di razzi e stelle e colori bengalini.
- Accompagnato fino alla porta della sua casa, fu salutato con
trasporto e lasciato coll'amico Suardi quando battevano le tre e
mezzo all'orologio di Notre Dame.
V
Entrato
nella propria camera, una voce dalla vicina gli gridò:
-
Ben venuto! Pare che manchi poco all'alba; e sì che ho sentito
che a Parigi c'è l'abitudine di rincasarsi per tempo.
-
Caro mio, è stata una notte eccezionale questa. Ho assistito
al trionfo dell'Italia in Francia, e se tu, uscendo dal teatro,
m'avessi accompagnato alla serenata fatta a Rossini e al brindisi del
caffè Tortoni, non avresti perduto il tuo tempo.
E
dicendo questo entrò col Suardi nella camera di chi aveva
aperto il dialogo.
Quegli
che stava a letto era l'avvocato Montanara di Milano, venuto
espressamente a Parigi, come arbitro nelle ultime vertenze della
causa F... Baroggi.
-
Hai gli occhi che mandan raggi e la faccia color di carmino, disse
l'avvocato al Baroggi. In che felice maniera è scomparsa la
tua pallidezza abituale?
-
Attendi un momento, rispose Giunio, e la pallidezza ritornerà.
Questo rosso fuggitivo che mi riscalda le guance, assomiglia ad una
maschera modellata al riso, e gettata per passatempo sopra una testa
da morto. Sento già gli effetti della reazione nervosa. Il
tempo di far sei scale e due minuti di silenzio bastarono per
ritornarmi al tristissimo vero dond'era uscito:
Sento
gli avversi numi e le segrete
Cure
che al viver mio saran tempesta.
-
Io so che tu dici la verità, povero Giunio; eppure qui in
Parigi quanti mi han parlato di te, credono che tu sii uomo piuttosto
strano che infelice, piuttosto spensierato che cogitabondo.
-
Lo crede questo volgo elegante e ricco del caffè Tortoni,
ch'io rallegro spesso coll'epigramma che mi è abituale; ma non
i pochi che hanno l'attitudine del pensare, e coi quali alcuna volta
mi sprigiono.
-
Eppure cagioni reali e visibili d'infelicità tu non ne hai.
Sei nel fiore della giovinezza, sei avvenente, e di quell'avvenenza
non pomposa la quale tanto piace al sesso gentile che tu non odii;
sei d'ingegno acutissimo e di facile e simpatica facondia. Per di
più, se in addietro non hai conosciuto la povertà,
sebbene costretto a viver parco, d'ora innanzi ti adagerai nella
ricchezza.
-
Ventimila lire di rendita!... esclamò il Suardi.
-
Dite trentamila, osservò il Montanara. Ma questo Giunio è
sempre stato dello stesso umore. Ci siam conosciuti a Pavia; io
studiavo il quarto di legge, lui il primo. E fin d'allora vedendolo
sì tristo e sospettandone la cagione: Quando sarò
laureato, gli dissi, e passerò avvocato, penserò io a
distrigarti di tutto. E così fu.
-
Ma, e come mai, domandava il Suardi all'avvocato, a voi riesce nella
vostra professione di ottener cose che per gli altri son dichiarate
quasi impossibili?
L'avvocato
Montanara in fatti, come sapranno tutti i nostri lettori che lo hanno
conosciuto o ne han sentito parlare, oltre a una gran dottrina
legale, possedeva un tatto così squisito e acuto, che a lui
riusciva spesso di dipanar matasse credute inestricabili.
-
Un avvocato è come un generale, rispondeva il Montanara. Egli
non dee limitarsi a conoscere la propria professione; ei dev'essere
versatile, deve conoscer gli uomini, deve trar partito da tutte le
circostanze anche non legali che gli si presentano. Ad un avvocato
non dee bastare d'esser reputato un gran giureconsulto. - In
questo caso scriva opere giuridiche, si sfoghi nella teoria, ma non
s'impacci della pratica. - Egli, precisamente come un
generale, innanzi deve vincere. - Giulio Cesare a Farsaglia,
sapendo che i giovani patrizj che appartenevano alla cavalleria
romana avevano cara la freschezza del viso, disse a' proprj veterani:
Abbiate cura di rivolger l'arme alla faccia di costoro; e la
cavalleria fu tosto sgominata, perchè i bellimbusti d'allora
avrebber fatto qualunque sacrificio piuttosto che avere il volto
sfregiato. Ora questa regola non la troverete in nessun trattato di
strategia e di tattica. - Tornando ora all'avvocato e tornando
a me, anche senza la conoscenza del codice, avrei ottenuto quel che
ottenni; perchè più di tutto mi valse il conoscer gli
uomini e l'arte di saper pigliarli dov'è il loro lato debole.
- Nel caso qui del mio Baroggi, saputo che il marchese erasi
piegato verso la chiesa, e più ancora, saputo che il suo più
intrinseco amico era più bigotto, e diciamolo pure, più
galantuomo di lui, mi rivolsi ad esso innanzi tutto, schierandogli
innanzi tutta la batteria buona e non buona dei miei argomenti
legali, e dei tanti indizj che sussistevano, ma che tutti insieme non
costituivano una prova. Chiesi inoltre un'udienza privata al
presidente Mazzetti, che fin dal 1820 era stato a Milano, credo come
ispettore dei tribunali. - Gli parlai in modo che rimase
convinto, perchè l'esistenza del testamento, tuttochè
giudicato apocrifo, e parecchie deposizioni di due scrivani del
notajo Agudio, sebbene insufficienti a far prova rigorosamente
legale, non potevano a meno di piantarlo nella persuasione, che
l'edificio che durava da tanti anni, non doveva essere affatto un
edificio immaginario. Dichiarai inoltre ch'io era disposto a trattar
la causa ab ovo, e che infinite cose avrei rivelate, che al
marchese non sarebbero certo piaciute. Il Mazzetti, nelle sale del
governatore, parlò all'amico del marchese, e questi, dopo
alcuni giorni, mandò a chiamarmi, e sotto colore di cedere
alla gran bontà dell'animo suo, mi invitò a far delle
proposizioni: siamo a casa, dissi fra me, e cominciai dal chiedere
moltissimo. Il marchese s'impennò di nuovo. Io stetti forte e
irremovibile, e non mi lasciai più vedere. Ma un bel giorno
ricevo un bigliettino dal conte amico del marchese, col quale mi
invita a casa sua. - Ci vado senza farmi aspettar troppo. -
Il conte mi dice: il marchese è pronto a pagare settecentomila
lire milanesi al signor Giunio Baroggi. Per finirla, rispondo,
giacchè vi spaventa la cifra del milione, aggiustiamola in
novecentomila lire. Il conte non disse nè sì nè
no per allora; ma, dopo molto tempestare, si concluse che stava egli
garante di tutto, e si sarebbe finito l'affare a quel modo. -
Ora sai tu, caro Suardi, perchè ho dovuto venire a Parigi?
Perchè dalle lettere di risposta di questo originale di Giunio
io non poteva raccogliere nessun costrutto. Mi trovavo d'aver fatto
un miracolo, e costui quasi lo rifiutava. Però appena giunsi a
Parigi, lo costrinsi a farmi la sua buona procura, e così sarà
ricco a suo dispetto; non è vero, il mio caro originale?
-
Se tu ti trovassi continuamente, al pari di me, disse il Baroggi,
sotto l'incubo di un affanno al quale non c'è rimedio, non
diresti così, caro avvocato.
-
Ma, in conclusione, domandò l'avvocato, che diamine t'è
mai capitato che l'animo tuo, ad eccezione di alcuni istanti di
giocondità, che dirò artificiale e meglio ancora
morbosa, è avvolto in una perpetua tetraggine? Negli otto
giorni che son teco, non mi è riuscito di cavarti una parola.
Parla dunque una volta. Io ho l'abitudine di vedere e giudicar le
cose non colla stregua volgare del mondo incarognito ne' pregiudizj,
ma coi criterj del buon diavolo che è filosofo e nel tempo
stesso ha viscere. Parla.
-
Dunque vi dirò tutto, i miei cari amici, ma se ne avrete
tedio, non incolpate me.
-
Sta pur tranquillo su ciò. Noi non desideriamo che di poterti
giovare in misura del poter nostro.
VI
-
E allora ascoltate: Io vivo come un uomo che, per necessità di
circostanze, deve attendere di essere percosso da un dì
all'altro da una sventura suprema e irreparabile; da una di quelle
sventure che fanno incanutire in ventiquattr'ore. La mia vita è
attaccata alla vita ognora in pericolo di una donna bella e leggiadra
fin dove può immaginarsi; virtuosa sino ad essere in assidua
violenza tra le aspirazioni più legittime del cuore e le leggi
crudeli di un dovere arbitrario; infelice in tutta quell'intensità
ed estensione che può derivare dalla più sensitiva
indole propria e dalla più spietata persecuzione altrui. Io
amo questa donna; ed ella, pur senza volerlo, mi ama; dico senza
volerlo, perch'ella condanna codesto amore e vorrebbe liberarsene, ma
deve subirlo come un morbo affannoso, come uno spasimo fisico, perchè
i preti le spaventarono la coscienza fino a farle credere ch'è
vietata ogni spontanea affezione, pur se rimanga nella sfera più
alta ed immateriale. I preti hanno fatto il sensale di matrimonio
nella sua casa. I parenti le han fatto violenza perchè
sposasse un uomo che i preti hanno scelto; i preti l'avvolsero in una
rete di paure inestricabili. E l'uomo alla cui vita essa fu legata,
come quando s'intrecciavan le membra de' condannati nella ruota del
tormentatore, quest'uomo è un assassino; ma un assassino
protetto dalla legge, titolato milionario; che ha voluto impadronirsi
di questa donna divinamente bella, non per altro che per placare i
momentanei ardori del senso lascivo, e punirla poi di morte, saziata
la fame; press'a poco come quando l'orrida Caterina si faceva
accarezzare dall'improvvido coscritto, per consegnarlo poi al boja.
«Quest'uomo
aveva già ammazzate due donne prima di sposare
quest'infelicissima. Per il complesso delle sue abitudini perverse,
nel momento d'andar all'altare, era l'oggetto dello schifo e del
ribrezzo generale. Or sai tu per che strano motivo i preti non solo
permisero ma vollero questo? il motivo è specioso e acuto. Con
un matrimonio provvidenziale, pensarono, placando la torbida natura
di un tal uomo, potremo salvare un'anima. - A queste
possibilità fu sacrificata l'innocenza, come quando nella
gabbia del leone febbricitante, per tentar di placarne le
irrequietudini, si mette una gazzella, nella presunzione che il leone
la risparmii e faccia amicizia seco.»
-
Ma, domandò il Montanara, conosco io le persone di cui parli?
-
È facilissimo che tu le conosca. L'assassino è il conte
Alberico B...i - La vittima infelice è quella Stefania
Gentili che avrete sentito a cantar al teatro Re, se siete arrivati
in tempo, perchè non vi cantò che due o tre sere sole,
non avendo i preti permesso che si contaminasse sul palco scenico.
-
Ma chi sono questi preti?
-
Ho detto i preti, ma il prete veramente fatale fu uno solo: un
monsignore del Duomo.
-
Ma ora dove stanno costoro?
-
Il monsignore è a Milano, vivo e vegeto e santo; tutt'intento,
senza saperlo, a rovinar famiglie, a guastar teste, a spaventar
coscienze. Il conte Alberico è qui in Parigi con sua moglie;
se voi spingete l'occhio oltre il ponte e, saltando due case, lo
fermate all'angolo della terza, potete vedere dove abita. È al
terzo piano di quel palazzo barocco. Col cannocchiale io posso vedere
la leggiadra figura di quella vittima moribonda. - Egli la
condusse qui; innanzi tutto perchè, fuori dell'aria nativa,
ella non può avere il più efficace dei rimedj al male
che l'affligge; in secondo luogo perchè, sotto colore di
viaggiare, non ha preso con sè nè servi, nè
cameriere, che la proteggessero e curassero; poi perchè, non
essendo conosciuto a Parigi, può dar ad intendere tutto quello
che vuole, può persino calunniare sua moglie ed essere
creduto; infine per non aver testimonj agli assidui maltrattamenti
ond'egli, esacerbando di continuo il malore di lei, riuscirà a
troncare prestissimo quel tenue filo di vita che ancora le è
rimasto. E nemmeno vuol permettere che ella si ponga sotto la cura di
un medico valente. - Men danno che io la faccio visitare dal
dottore Broussais; ma ella è condannata a medicarsi di
nascosto, perchè il conte, dopo aver scialacquato due o tre
milioni, ora è diventato avaro fino alla demenza, e mette a
rumore tutta la casa e rovescia tavole e sbatte usci e minaccia
tutti, se gli è posta tra le mani la polizza dello speziale.
-
Ma in che relazione sei tu con lui?
-
Ora in nessuna; benchè egli sappia che io mi trovo a Parigi, e
fors'anche per qual ragione son qui.
«Per
amor di lei io ebbi in addietro la debolezza di farmi intrinseco suo,
sebbene sapessi quant'egli mi fosse avverso, e come in più
circostanze avesse tentato di rovinarmi in tutti i modi possibili. Ma
trovatomi seco nell'occasione d'un viaggio che insieme colla moglie
ei fece a Firenze, accolti come buona moneta i complimenti della sua
bocca bugiarda, finsi di non sapere nulla; e per pietà di lei
e, dirò anche, per l'estrema simpatia, che, come sempre ella
mi aveva ispirata, m'ispirava ancora, ebbi per molto tempo
l'abitudine della sua casa, dove con tutti gli sforzi dell'animo
ond'io ero capace, comprimeva gli sdegni, per tentar colla mia
presenza di rendere più ammansata quella bestia feroce.
-
E cominciò allora il tuo amore con lei?
-
Amore no. Ella mi pareva troppo bella e troppo preziosa per me. Non
era che amicizia e pietà. Bensì il mondo, considerando
le apparenze, credette altrimenti, ma s'ingannò... e se voi
non mi credeste ora, ascoltate, e ne avrete le prove. Lasciata
Firenze per certi miei affari, e passato a Napoli, qui la mia avversa
fortuna mi diede a conoscere una giovinetta; infelicissima quando io
la conobbi, perchè ciò avvenne nel punto che il
fidanzato l'aveva abbandonata. È il mio destino di non
interessarmi che agli infelici. Questa fanciulla, dopo qualche tempo,
mi fece capire che, per trovar pace, ella riponeva ogni sua speranza
in me. Bellissima qual'era e d'indole straordinaria e di cuore
ardentissimo, mi mise addosso un sì terribile incendio, che
allora per la prima volta compresi l'antica sapienza, la quale
inventò la formola della camicia di Nesso che arse ed esulcerò
le membra del fortissimo Ercole. Tutto l'entusiasmo che può
suscitare l'amore, lo provai a quel tempo. Credetti di avere
finalmente raggiunto un lato della possibile felicità.
«Ma
fu per poco; e quella felicità, cotanto acuta, sembra che la
nemica fortuna abbia voluto farmela assaggiare compiutamente, perchè
mi dovessero poi riuscire più terribili le amarezze del
disinganno. Assentatomi da Napoli per poco tempo, quando ci tornai,
tutto era cangiato. Quella fanciulla erasi lasciata cogliere dalle
insidie di un altro, che pure l'abbandonò prestissimo; e fu sì
procelloso il travolgimento, che quando ella mi rivide ne fu
atterrita, e non ebbe nemmeno le forze di dissimulare un istante. Io
mi trovai così posposto ad uno scalzacane mentitore, che a lei
si era annunziato addirittura come sposo, e ai parenti di lei come
milionario, senza voler far l'una cosa ned esser l'altra. Chiusi
dentro di me tutto il mio tormento, e mi affrettai per le poste, onde
parteciparlo a colei che, sentendo per me la santità
dell'amicizia, sola mi poteva consolare. Quell'angelo di donna mi
confortò, e mi disse ch'ella non mi avrebbe di certo trattato
così; e me lo disse in modo da farmi comprendere ciò
che mai non avrei sospettato. Ti ripeto che io non sapeva credere che
quella donna potesse degnarsi di amar me.
«La
cosa si rinfuocò sempre più, sebbene ella non
esprimesse chiaramente, nè io parlassi. Passò qualche
anno. Io frequentava la casa. Il conte perdurava nelle sue assidue
vessazioni, ed io gli venni in odio, non per altro motivo che perchè
vedeva in me un naturale protettore di sua moglie; chè di me e
di lei non poteva, per altre ragioni, lamentarsi in nessun modo. Un
dì si venne a un sì fiero alterco, che non mi fu più
permesso di vegliar da vicino quella cara ed infelicissima donna. Il
conte abbandonò Firenze, licenziò tutti i servi; seppi
dappoi da un amico che egli pretese che ella viaggiasse affatto sola
con lui a Parigi, per fermar in questa città la loro dimora.
Ed ecco perchè son qui. Ed ora voglio tu mi dia il tuo parere
in una grave questione, tu che sei fortissimo in giurisprudenza.»
VII
«Il
pensare continuamente, proseguiva il Baroggi, alla condizione orrenda
di quella infelicissima donna, mi popolò la mente di tante
idee, per le quali io mi attenderei di scrivere un libro così
logico, così facondo, così rovente d'ira generosa e
tenero di pietà, da costringere tutti quanti a riconoscere la
necessità del divorzio. - Se ci fosse il divorzio,
quella donna sarebbe salva; e chi sa quante e quante migliaja di
donne vanno consumandosi nel perpetuo tormento di questa vera Gehenna
del matrimonio indissolubile, dove l'uomo è il
tiranno protetto dalla legge, e la donna è la schiava in
lagrime, a cui la legge non si degnò mai di volgere uno
sguardo affettuoso. - Ah pur troppo, e già altri lo
disse, dopo tante migliaja di volumi compilati dai giuristi, manca
perfino la definizione esatta dei diritti e dei doveri degli uomini;
restano ancora da determinare l'origine e i limiti della patria
podestà; e l'autorità coniugale vacilla in mezzo alle
eterne dissensioni dei legisti, i quali, per consueto, trattando le
più gravi quistioni dell'umanità, studiandola
nell'interminabile apparato d'una fossile dottrina, e non nella vita
e non nella verità che, cercandola con amore, si presenta
continuamente agli occhi nostri.
«Che
ne pensi or tu?»
-
Io concordo perfettamente nella tua opinione; ma le persone di
carattere severo e d'imaginazione paurosa si schierarono tutte a
difesa del matrimonio indissolubile. - Esse credettero che,
gettato il divorzio in mezzo alla società, dovessero tosto
sciogliersi tutte le famiglie e brulicar le piazze di vedove afflitte
e di figli abbandonati; il timore tenne luogo di ragione, e fu
riguardato come la miglior risposta alle objezioni degli avversarj. I
vecchi, in cui tutte le abitudini sono catene infrangibili e che
guardano con invidia i piaceri che non possono più gustare,
senza rammentarsi che spesso la sola stanchezza della vaga venere li
condusse al talamo nuziale; i vecchi tacciarono il divorzio di novità
scandalosa, e credettero che questa taccia bastasse per proscriverlo.
I teologi, senza pensare che altro è lo stato, altro la
ragione, pretesero che le loro idee fossero norma a tutto l'universo.
-
Ma, più che coi giuristi (disse il Baroggi), io l'ho coi
teologi, i quali audacemente si misero a trattare quest'arduo e
delicato argomento senza conoscerne la materia. Solitarj, senza
famiglia, senza affetti, essi non seppero e non poterono contare la
somma de' tormenti che portava seco il matrimonio indissolubile.
«Non
è l'ordine domestico che predicano i teologi, ma l'assoluta
tirannia. Non s'accorsero che, in quel modo che l'esservi il padrone
in casa, non porta la conseguenza che i servi debbano star sempre
sotto il suo dominio quando egli viola i diritti della servitù,
così la donna, la moglie, che è qualche cosa più
di un domestico, dovrebbe per lo meno essere costituita nei diritti
di un servo volgare.
«Il
contratto matrimoniale racchiude un impegno di protezione e
d'obbedienza. Se il marito cessa di proteggere la moglie, questa
dovrebbe essere dispensata dall'obbedire. Se la protezione si cangia
in tirannia, non si dee condannar la donna ad essere perpetuamente la
vittima.
«La
coscienza respinge tra ira e pietà quella legge che riduce
allo stato passivo di schiavitù quel sesso, a cui, attesa la
debolezza e i bisogni, è necessaria la protezione della
giustizia più che all'uomo, più forte e naturalmente
soverchiatore. I teologi parlano delle donne come un sultano in mezzo
al serraglio.
«Ma
giacchè parliamo di teologi, che sono gli avversarj più
ostinati del divorzio, io voglio per un momento mettermi nei loro
panni, e far da teologo. Però, al pari di un uomo in cura
d'anime, come un sacerdote pio e casto, che cosa mi dovrebbe premere
di più, se non che le leggi divine e umane siano tali da
rendere meno ovvio il sentiero de' peccati? Avendo perciò in
orrore l'adulterio, io devo dunque suggerire una legge, che
spontaneamente gli tolga le occasioni più tentatrici. E
appunto col divorzio ottengono questo. I teologi, ajutati dai
giureconsulti teoristi e senza viscere, hanno creduto di accordar
molto proponendo e sancendo la semplice separazione a mensa et
thoro. E nella loro cecità non si sono accorti che hanno
aperto con questo mezzo un varco sterminato all'adulterio. In
generale i teologi, atrofizzati dall'ascetismo, perchè voglio
concedere che non sieno impostori; e i legulej, sotto l'inspirazione
di una coscienza senile, hanno meditato sugli interessi più
gravi dell'umanità senza tener mai conto del fatto capitale
che l'uomo innanzi tutto è fatto di carne e d'ossa; che, per
una legge naturale, necessaria, irrevocabile, ha delle tendenze che
non dipendono dalla sua volontà, ma dall'economia fisiologica
del corpo umano...»
-
Tanto è ciò vero, osservò l'avvocato, che questi
avversarj del divorzio ebbero la franchezza di dir seriamente, che
ogni donna separata dal suo sposo dovrebbe ritirarsi in una società
religiosa, che è la sola alla quale possa ancora appartenere.
Essi dissero che questo asilo aperto al pentimento, alla debolezza,
alla infelicità, le offrirebbe nell'unione più intima
colla divinità la sola consolazione che debba ricercare e che
debba gustare una donna virtuosa che si è disgiunta da un
marito ingiusto; così si farebbe sparire dalla società
lo scandalo di un essere che è fuori del suo posto naturale,
d'una sposa che non è più sotto la dipendenza del suo
sposo, d'una madre che non ha più autorità sopra i
propri figli.
-
Ma sai tu che cosa fu già risposto a questi sragionatori di
professione? fu risposto che essi sentenziano colla logica di quel
chirurgo, il quale facendo un'operazione sopra una mano fratturata,
dopo aver tagliato quattro dita, tagliò in seguito anche il
quinto affatto illeso, adducendo per ragione che quel dito, rimanendo
solo, potea sembrar ridicolo. Ma, continuando il nostro discorso, se
la filosofia razionale aprì le porte dei monasteri alle
vittime della superstizione, e ricusò di sancire dei voti
eterni che, dettati da un momentaneo entusiasmo, sono quasi sempre
seguiti da un lungo pentimento; perchè ciò non dee
succedere anche per lo stato conjugale? La debolezza, l'errore, le
passioni inseparabili dell'uomo sembrano annunziare che un contratto
conjugale, che tiene il marito congiunto indissolubilmente alla
moglie per tutta la vita, in tutte le vicende variabilissime della
fortuna, è imprudente, e crudele, è assurdo.
«Nè
la semplice separazione distrugge tanto male. Essa vieta ad una donna
onorata, disgiunta da un marito brutale, i sentimenti d'un nuovo
matrimonio, che soli possono consolarla; per essa ciascuno degli
sposi isolato, in preda alla noja, al dolore, al vuoto dell'animo,
respinto da una nuova legittima unione, costretto a fuggir sè
stesso, a cercar distrazioni, si trova insensibilmente trascinato in
mezzo alla dissipazione ed alla dissolutezza, giacchè sussiste
in esso ed agisce con tutta forza ciò che Tacito chiama
irritamenta malorum.»
-
Mi ricordo d'aver letto in un libro, dove tra l'altre cose si
svolgeva tale questione, queste parole che tenni a memoria, dove c'è
il rigore scientifico e la filosofia del sentimento: «Se la
legislazione si propone il problema: dato un desiderio costante negli
uomini, fare in modo che venga soddisfatto con pubblico vantaggio,
senza pubblico pregiudizio, o col minor pregiudizio possibile, il
divorzio viene appunto a soddisfare i desiderj più costanti
del cuore umano, non solo senza pubblico pregiudizio, ma in modo
vantaggioso alla società; mentre la semplice separazione,
tormentando questi desiderj, nel soffocarli li costringe a sfogarsi
in un modo scandaloso e nocivo.»
-
E ad onta di tale evidenza, rimane ancora nel mondo questa piaga
tremenda della società; nè valsero i consigli della
storia, che ha sempre dato ragione ai propugnatori del divorzio.
Percorrendo in questi giorni, alla biblioteca reale, un libro che
parlava della giurisprudenza romana, lessi, che, avendo l'imperatore
Giustino ristabilita la legge che autorizzava il divorzio di buona
grazia, dopo aver protestato che operava contro il proprio
volere, che riconosceva giusta l'abrogazione fattane da Giustiniano,
conchiudeva d'esser stato costretto a ripristinarla, per i mali che
immediatamente erano avvenuti dopo l'abrogazione.
«L'esperienza
lo aveva persuaso che quando i conjugi avevan concepito vero odio
l'uno contro l'altro, era impossibile riconciliarli, e che un tal
odio cagionava una guerra domestica, crudele e perpetua.»
-
In coda al divorzio viene poi la tremenda questione del celibato. È
grande il numero dei celibi, perchè sono spaventati
dall'indissolubilità del nodo conjugale, e perchè, in
generale, sia che si parli di matrimonj, di servigi, di condizioni, o
di paesi, la proibizione d'uscire equivale alla proibizione
d'entrare.
-
E ciò è tanto vero, che voglio raccontarvi un fatto,
lievissimo in sè, ma che viene a provar molto, e si può
riferire a un infinito ordine di cose. Nell'occasione di una vittoria
napoleonica, a Fontainebleau si doveva dare uno spettacolo di fuochi
d'artificio. La quantità della popolazione accorsa fu tale,
che un segretario di Corte propose all'imperatore di chiudere
l'ingresso ai nuovi accorrenti. - Non è giusto, rispose
Napoleone; piuttosto fate una cosa: alle porte di Parigi i gabellieri
dicano ai cittadini che, chi vuol uscire, per tutta la notte non
potrà rientrare. Quest'ordine bastò. Una folla
innumerevole ritornò indietro, anzi che divertirsi a quella
condizione.
-
Un tal fatto rivela la penetrazione e il tatto sicuro di quel genio
universale.
-
Se la giurisprudenza avesse i mezzi di prova che ha la matematica, il
matrimonio indissolubile non sarebbe entrato nel mondo ad accrescere
le miserie dell'umanità. Ma, dopo tutto, se i più
ostinati avversarj del divorzio potessero, anche per pochissimo,
assistere alle scene che tuttodì avvengono nella casa del
conte B...i, scommetterei che non rimarrebbe più un
sostenitore del matrimonio indissolubile.
-
E intanto quella donna non può essere strappata al suo
destino, ed io devo tormentarmi senza speranza di poter alleviare
tanta miseria; ora invidiatemi, se potete, e continuate a dire che
sono un capo strano, un uomo incontentabile. Anche senza tener conto
di questa piaga speciale e tutta mia, non potete immaginarvi che
strazio orrendo mi dà lo spettacolo di tante miserie che la
società ha inventate, che l'ingegno umano si affaticò
ad accrescere, e per le quali il buon senso impietosito non può
versar che lagrime impotenti.
Il
Montanara e il Suardi non seppero che cosa aggiungere. Il discorso
languì. - Il Suardi andò a dormire. -
L'avvocato uscì a prender aria e a veder com'era fatta una
bell'alba di Parigi.
VIII
Trattenutisi
in questa città parecchi giorni ancora, il Suardi partì
poscia per Londra in compagnia di Giovanni Berchet; e l'avvocato
Montanara tornò a Milano.
I
soli intimi amici che rimasero al Baroggi tra i Parigini erano il
dottor Broussais, autore del celebre libro Della Irritazione e
della Pazzia, allora medico in capite e professore all'Ospedale
militare, uomo d'ingegno sterminato, di costumi semplici e di cuore
eccezionalmente buono. Esso era a parte d'ogni segreto del Baroggi
insieme col poeta Musset, giovanissimo allora e di una tale, quasi
diremmo, ammalata squisitezza di sentimento, che accresceva anzichè
alleggerire le pene del nostro Giunio.
Questi,
per coloro che si accontentavano di giudicare un uomo dal di fuori e
nella sola stima della condizione fisica e materiale, pareva
invidiabile. Il bel mondo parigino, tra cui qualche volta egli si
mescolava, facea le meraviglie nel vederlo così spesso
meditabondo e chiuso, e talora stravolto. Anche i più leggieri
e increduli osservatori dovevano persuadersi ch'egli soffriva
sinceramente, ed era ben lontano dal recitar la parte dell'infelice,
come allora correva la moda tra' giovani, per rendersi più
interessanti ed andare a seconda di quel dolor tragico che allora
s'era accampato nelle produzioni dell'arte, specialmente della musica
e della letteratura.
Allorchè,
un mese dopo che l'avvocato Montanara era venuto a Milano colla
procura di conchiudere amichevolmente ogni controversia col marchese
F..., ei ricevette, insieme coll'avviso che tutto era finito, anche
le credenziali per ritirare dal banchiere Aguado le convenute
novecentomila lire; si diede, com'era naturale, a più largo
vivere, e si acconciò d'un cavallo da sella e d'un calessino;
ma i suoi conoscenti, i quali avevan sospettato prima che qualche
angustia domestica potesse, fra l'altre cagioni, avere influenza
sull'umor suo, tanto più si meravigliarono, quanto più
videro accrescersi la sua tristezza insieme collo spettacolo di
quella nuova ricchezza.
In
sul principio, a dir tutto, egli ne aveva provato qualche
soddisfazione e contento; ma fu per poco. Egli si era illuso un
istante che con quella ricchezza avrebbe potuto di punto in bianco
cangiar la propria e l'altrui condizione; ma è anche vero che
non sempre l'oro è onnipotente, perchè con esso non si
piegano certe volontà inflessibili, come non si scongiura la
morte.
Trovandosi,
qualche volta, insieme colla contessa Stefania, manifestò a
lei con una certa gioja le conclusioni definitive di quella tanto a
lungo disputata lite giuridica; ma la sua gioja derivava solo dalla
speranza di poter finalmente tradurre in atto alcuno almeno di quei
tanti castelli in aria fantasticati durante l'aspettazione di quella
ricchezza.
Egli
aveva pensato: se la contessa fosse ricca del proprio, se
un'improvvisa eredità, se qualunque altra inattesa fortuna le
desse il modo di svincolarsi dal marito, e di provvedere col proprio
denaro al mantenimento dei proprj genitori, le cui pensioni, per
l'arte infesta di un notajo, servo devoto della ricchezza e nemico
naturale dei poveri, erano state vincolate in modo nel rogito
insidioso che tutti, padre, madre e lei, dovessero ripiombare nella
miseria, senza l'adempimento di certi patti; se dunque fosse ricca
del proprio, egli aveva pensato, cesserebbe di tratto ogni cagione di
tormento; ora non potrò io, ripensò poi, quando
ricevette le credenziali sulla banca dell'Aguado, condurre adesso le
cose in modo che, salvando tutte le apparenze, ella raggiunga
quell'agiatezza sufficiente per diventar libera e padrona assoluta
della propria volontà? Nel punto però che il Baroggi
manifestò alla contessa l'avvenimento della sua mutata
fortuna, sorpreso di colpo da un pensiero della più scrupolosa
delicatezza, e sapendo quanto ella fosse naturalmente dignitosa e
fiera, non osò al primo farle quella proposta, ed aspettò
si presentasse un'occasione, che rendesse l'animo di lei più
accessibile ad accoglierla: e l'occasione venne.
IX
Il
Baroggi dimorava, come sappiamo, presso al ponte Double che
mette in comunicazione l'atrio di Notre-Dame col Quai
Montebello; egli aveva scelto quel luogo e s'era
acconciato in un terzo piano, perchè di là poteva
spingere lo sguardo fino all'angolo della Rue du Plâtre,
dov'era la casa in cui abitava il conte Alberico; e ad una delle cui
finestre poteva, col cannocchiale, vedere la contessa, la quale, alla
sua volta, allorchè era sicura di non essere sorpresa dal
marito, faceva lo stesso per vedere il Baroggi quando s'affacciava.
Questi fervidi e gentili sotterfugi, che fanno tanto ridere i cuori
adiposi e le menti obese, e provocano le sacre escandescenze nelle
persone rese crudeli dalla falsa pietà, costituivano il solo
conforto di quelle due anime addolorate; tutte le domeniche poi,
quando la contessa recavasi a sentir messa in Notre Dame, egli
l'attendeva in una viuzza poco frequentata, onde parlare per alcuni
minuti fuggitivi; e codesta era per loro la sola e la suprema
consolazione. Ora avvenne che una domenica ella non comparve in
Notre Dame, e il povero Baroggi, che viveva continuamente
nell'affannosa aspettazione di una qualche disgrazia, rimase percosso
da quel senso profondo di desolazione, che nell'ordine morale
assomiglia allo spasimo fisico.
Risalì
in camera; s'affacciò alla finestra, appuntò il
cannocchiale, nè in molte ore gli venne fatto di veder mai la
desiata figura di Stefania. - Temette il peggio - fece
mille congetture e mille disegni; e sebbene riguardoso fino allo
scrupolo per non compromettere in nulla la sua cara donna, si recò
sino alla casa dov'era l'abitazione del conte, con quella speranza
irragionevole, ma che è appunto un delirio del desiderio
irrequieto, che i muri, le porte, le finestre, i balconi avessero in
loro qualche cosa che valessero a dargli alcuna notizia.
Abbandonata ogni idea di precauzione, si sentì persin tentato
di aspettare ed affrontare il conte; lo scandalo che con ogni arte
aveva sempre scansato, e del quale era in una continua apprensione,
in quel momento gli parve assai desiderabile, in confronto di
quell'orrido ignoto in cui dibattevasi indarno. Tornato più
volte in quella via, quando Dio volle, vide finalmente uscir dalla
casa del conte il dottor Broussais. La vista del medico, sebbene
recasse con sè l'annunzio di una disgrazia, pure gli fece
provare un soprassalto di gioja. Il dottore lo scorse e, senza
aspettare d'essere interrogato, leggendo tutto nel volto stravolto di
Giunio:
-
Tranquillatevi, disse, la contessa è a letto, ma non c'è
nulla di veramente serio.
Il
Baroggi respirò, e trasse di lungo in compagnia del dottore.
-
Non c'è nulla di serio, continuò questi, ma se non si
rimove la causa, la gravità del male può diventare
irreparabile. Quell'infelicissima donna ha bisogno del ristoro della
pace domestica. Vi assicuro che con sei mesi d'inalterata
tranquillità essa potrebbe guarire radicalmente. Bisogna
dunque che pigliate una risoluzione, se volete salvarla. Siete ricco,
involatela a suo dispetto; l'amore che vi porta è immenso;
l'occhio medico me ne avvisa; ma è un ardore che la divora,
perchè è combattuta da una trascendente idea del
dovere.
-
Lo so.
-
Dunque ci vuole una risoluzione e un colpo inaspettato. La mano del
chirurgo assale spesso a tradimento l'ammalato che si rifiuta a
sottoporsi ad un'operazione dolorosa. Io parlo da medico; il solo
modo di guarire colei, è di trasportarla violentemente da un
ordine ad un altro d'idee, e di toglierle d'attorno la vista
abborrita di quell'uomo infame di suo marito, il quale, nonostante le
sue inconcepibili stranezze e una morbosa volubilità di
carattere, in un certo ordine di cose e d'intenti, è longanime
e irrevocabile. Quel che voi mi avete detto, l'ho già
verificato. L'odio ch'ei sente per quella donna gli prorompe da tutti
gli atti, da tutti i movimenti, da tutti i muscoli della sua
laidissima faccia, sebbene talvolta, fisicamente, ei l'adocchi ancora
con bramosia. Pare che voglia disfarsi di lei in ogni modo; ma
essendo vilissimo senza essere scemo, sa trattenersi sempre con
astuzia d'inferno entro i limiti di certe azioni, che sembrano
imposte dall'autorità maritale; ma non abbandona mai un
momento la sua vittima, che investe e solca e scava col lento, ma
certo lavoro della sega e della goccia.
A
queste parole il Baroggi si scolorava e rabbrividiva.
-
Fra pochi giorni potrete riveder la contessa, proseguiva il dottor
Broussais; il solo rimedio efficace, ve lo ripeto, sta in un atto di
violenza, che si risolverà in un atto supremo di pietà
e di carità.
Il
Baroggi accompagnò il dottor Broussais fino alla porta
dell'ospedale militare, e, messo sulla via delle speranze, andò
tutto solo a passeggiare ai Campi Elisi, ingolfandosi in una fitta di
pensieri e di progetti.
X
Passarono
sei giorni; rivide la contessa.
-
Se il dottor Broussais non mi avesse ogni dì informato dello
stato della tua salute, certo sarei morto di affanno.
La
contessa, guardando il suo Giunio coll'espressione indefinita di
un'anima innamorata che sente la più profonda gratitudine, gli
strinse la mano.
-
Or vedo che stai meglio.
-
Sto meglio di fatto.
-
E come si porta colui?
-
Da qualche giorno sembra un po' ammansato; il dottor Broussais ebbe
un lungo dialogo con lui; non so che cosa gli abbia detto, ma mi pare
gli abbia messo qualche spavento nell'animo...
-
Ammansato per un giorno o due, ritornerà presto, come di
consueto, alle sue demenze omicide.
-
Pur troppo!
Dunque bisogna prendere un partito.
-
Gli è un pezzo ch'è preso.
-
Quale?
-
Aspettar la morte.
-
Ed è così che cerchi la via di consolarmi?
-
Piuttosto che vivere d'inutili speranze, è meglio tener
l'animo preparato.
-
Se al tuo male non ci fosse un rimedio, avresti ragione di dir così;
ma il rimedio c'è; e se tu lo rifiuti, ti fai rea di suicidio.
-
E dunque?
-
Dunque, dimmi se il tuo amore per me è sincero e profondo.
-
Non farmi ridire quello che sai: sentire una affezione è un
fatto irresistibile del cuore, che può essere perdonato;
esprimerla, spiegarla, riposarvi sopra colle parole è un
accrescere la colpa.
-
Non parlare di colpa; e che cosa hai, da rimproverarti?
-
Guarda al modo onde tutti quelli che passano ci guardano. La loro
curiosità indiscreta e beffarda ti avvisa, che hanno già
compreso quel che passa tra me e te. Pensa a quel che direbbero se
sapessero chi sono io, chi sei tu... Spesso tu tenti di fare
opposizione alle mie convinzioni religiose... Il mondo vuol le cose a
modo suo, ed è più inesorabile dello stesso Iddio che
punisce i peccatori coll'inferno. Tutti quelli che entrarono nella
mia casa e conoscono il conte, sono convinti che sono stata
spietatamente sacrificata; ma non mi risparmierebbero però
nessun biasimo se sapessero in che condizione il mio cuore è
verso il tuo; ma c'è di più: essi m'insulterebbero, nel
loro pensiero almeno, sospettando cose che non avvennero e non
avverranno mai. Voi altri increduli l'avete sempre col Dio
inesorabile e colla religione di spavento e coi sacerdoti funesti; ma
se Dio punisce le sole colpe consumate, il mondo va più
innanzi di Lui; esso inventa e punisce le colpe che non furono mai
commesse.
-
Dunque non bisogna curarsi del mondo, e non pensare ad altro che ad
essere in regola con noi stessi. Il tuo confessore, quando non sia un
cretino inferocito, credo non avrà potuto rimproverare la tua
condotta.
-
Mi rimprovera la debolezza onde son troppo indulgente col mio cuore;
mi rimprovera questa pratica, quantunque non sia mai uscita dalla
sfera della più pura simpatia, perchè dice che è
un atto d'orgoglio l'affrontare i pericoli, e il tenersi certi di
poterli sempre superare
mi riprovera
-
E non ti ha rimproverato il disprezzo che hai per la tua salute? e
non ti ha detto che non a caso Iddio deve averci fatto dono della
vita, e che è nostro primo dovere il conservarla con ogni
cura, e che è un disprezzar Dio il non tener conto di tutto
ciò che ci diede in dono? Io parlo adesso come un prete, e
vorrei ben sapere come farebbe il tuo confessore a rispondermi. -
Ma lasciamo codeste inutili discussioni, e pensa a prendere un
partito, e a lasciar la casa di tuo marito. Tra me e te c'è
una tale solidarietà di affetto purissimo e fuori affatto
d'ogni ordine volgare, che non devono esistere tra noi quei
miserabili rispetti umani per cui talvolta si respingono gli ajuti
fraterni per un mal inteso orgoglio. Tu avrai dunque da me centomila
franchi; nessuno saprà mai da chi li hai avuti. Scegli per tua
dimora quella città che ti parrà meglio, fai venir teco
i tuoi parenti. Avrai giorni tranquilli, se non giocondi, e il mondo
che tanto temi, non avrà mai nulla a dire contro te... Io mi
riserberò soltanto il puro diritto di venire a vederti qualche
volta, come un amico che non si dimentica degli amici.
Nel
dir queste cose, gli occhi del Baroggi s'inumidirono, e due lagrime
lente gli corsero sulle guancie.
Stefania
non seppe rispondere che versando altre lagrime uguali.
-
E che risolvi?
-
La tua immensa bontà ti fa prestar fede a cose impossibili.
-
Possibili non solo, ma di facilissima esecuzione. Tutto dipende dal
tuo volere; per carità, rispetta e pensa a conservare quella
vita da cui dipende la mia. - Se tu persisti nel rifiuto, è
indizio manifesto che credi di amarmi, ma non è vero. -
L'amore è imperterrito, e non trova ostacolo in cosa nessuna.
Quella
proposta di Giunio aveva sollevato nell'anima di Stefania una folla
di speranze nuove. Compresa d'una insolita gioja, e parendole
d'intravedere un avvenire del quale non aveva mai sospettato nemmen
la più lontana possibilità, sentì la tentazione
di accettarla e di far pago il generoso desiderio di Giunio; ma
assalita da nuove paure, si tacque crollando la testa.
-
E che pensi di fare?
-
Non so che cosa risponderti; la mia testa è confusa. -
Lasciami tempo a riflettere. - Domani uscirò di casa;
alle ore due mi troverò nel tempio della Maddalena.
E
si lasciarono.
Il
dì dopo venne; ma Stefania era tutta mutata; non vedeva che i
pericoli ed occasioni di disonorarsi in faccia al mondo..
Il
Baroggi si aperse allora col dottore Broussais, e lo supplicò
d'adoperare la sua autorevole parola di medico e di filosofo per
indurre quella donna a salvare se stessa.
Il
dottore parlò, ma con poco frutto; e Stefania trasse innanzi
assai tempo, sempre tentennando tra il desiderio ardente di appagare
il suo Giunio, e lo sgomento di compromettersi e di fare un passo
falso.
XI
Una
mattina il Baroggi sente picchiare all'uscio dell'abitazione. -
Era il dottor Broussais.
-
Caro Giunio, forse ho trovato il mezzo di poter indurre quella vostra
infelice donna ad accettare la proposta. Un tal Samuele Mircki,
banchiere di Berlino, si ammalò a Parigi, ed è in mia
cura da un mese. Della lotteria di Baden-Baden possiede, tra gli
altri, il biglietto che gli dà la vincita di quarantacinque
mila fiorini. Stamattina mi parlò egli stesso di questa
vincita. Questo fatto mi fece balenare un pensiero. Voi pagate al
banchiere i quarantacinque mila fiorini, e ritirate il biglietto.
Siccome è da un anno che su tutti i canti di Parigi l'avviso
gigante di tal lotteria offende gli occhi anche dei ciechi, e la
contessa può benissimo aver preso di que' biglietti; così
voi lo passate a lei; ella lo mostra al marito; niente di più
naturale che chi ha comperato un biglietto, possa anche vincere. Il
segreto rimane fra noi due. Nessuno potrà sospettar nulla. Ed
ella si capaciterà che a questo modo non c'è più
nessun pericolo di provocare nè dicerie nè scandali.
-
La vostra fu un'inspirazione del cielo!!
-
E così?
-
Tutto è fatto. Ora esco per prendere i danari che tengo presso
Aguado.
-
Portateli a codesto signor Mircki, e ritirate il biglietto.
-
E quella povera troppo squisita mia donna vedrà in questa
strana combinazione un espresso ajuto del cielo, e si piegherà.
- Oh quante obbligazioni vi ho, caro dottore; ma voi avete
l'ingegno sterminato come immensa la bontà del cuore!
Quest'affare,
com'è facile a comprendere, fu tosto combinato e conchiuso;
Baroggi ritirò il biglietto, e quando potè parlare alla
contessa:
-
La fortuna, per un indizio manifesto, ha voluto ajutarci. Ecco di che
si tratta; e mostrando il biglietto, le raccontò com'era corsa
la cosa.
-
Or vedi che non è possibile salvar le apparenze più di
così. Il conte non potrà nemmeno far le meraviglie. -
Di queste vincite a Parigi se ne fanno ad ogni momento. L'anno
passato la modista che sta presso il teatro delle Variétés
guadagnò centomila lire a questo modo... Che mi rispondi
adunque...?
-
Mi par di sognare.
-
Accetti? per carità, parla... bada che se tu stai ancor forte
in sul negare, io farò certissimamente quello che potrà
gettarti nella disperazione...
-
Accetto...
-
Che tu sii ringraziata... sei libera finalmente... potrai svincolarti
dai nodi del tuo serpente... Per carità, non pentirti di
nuovo; prendi il biglietto e provvedi tosto a convertirlo in danaro.
È un'operazione che devi far tu, perchè così è
chiusa ogni via al benché minimo sospetto; puoi andare da
qualunque banchiere. - Addio, per ora; non puoi immaginarti la
mia gioia... Riavrai la salute; sarai felice, meno infelice almanco.
XII
Stefania,
sbalordita, confusa, commossa, si avviò a casa. Mille volte
aveva pensato, che se fosse stata ricca, avrebbe potuto esser padrona
di sè e ridursi a viver sola; ed ora che aveva in mano la
facoltà di farlo, non sapeva come risolversi; non sapeva come
dirlo al conte; le pareva che questi dovesse leggerle in volto ogni
mistero, ogni segreto. Venne l'ora del pranzo..
Il
conte e la contessa sedettero a tavola. È inutile dire
che il conte da anni non aveva mai una parola cortese per lei. Nelle
occorrenze quotidiane della casa, quando la necessità voleva
che si parlassero, eran risposte tronche e acerbe per parte di lui,
erano sguardi obliqui e severi. Sedettero adunque a tavola, la
contessa taceva; il tumulto che aveva nell'animo le aveva colorite le
guancie straordinariamente, ond'essa pareva tornata alla soave
freschezza de' suoi diciott'anni. La leggiadria del suo volto e della
sua figura era un incanto anche allorquando il pallore del patimento
investiva le sue guancie; possiam dunque immaginare quel che dovesse
parere con quelle rose ricomparse, sebben fittizie.
Il
conte la guardò di sott'occhio, e la riguardò più
volte:
-
Che cos'hai oggi che sei così rossa? le disse. So che il
principe Demidoff, che ha dieci milioni di rendita ed è un bel
giovane, ti ha lodata... Sei stata forse a fargli visita?...
-
Non so nemmen chi sia questo principe Demidoff, e non capisco che
cosa tu voglia dire...
Il
conte si diede a ghignare con disprezzo.
La
contessa si alzò da tavola, saettando il conte con uno sguardo
di nobilissimo sdegno. L'esordio strano con cui il conte l'aveva
interrogata relativamente al suo rossore, diede a lei il coraggio di
parlare.
-
Sai tu perché sono infuocata in viso?
-
Che?
-
È la gioia che provo nel doverti dare una consolazione.
-
Oh!
-
Sì, signore; potrò finalmente liberarti della mia
presenza odiosa...
-
Diamine! che cosa è successo?
-
È successo che, siccome non passa giorno che non ti lamenti
d'aver dovuto spendere e spandere per me, al punto da ridurti quasi
in miseria per colpa mia, il cielo ha voluto ajutar te e me.
Il
conte, senza parlare, guardava fissa la contessa.
-
Su tutti gli angoli di Parigi avrai visti gli avvisi della grande
lotteria di Baden Baden...
Il
conte si alzò, protendendo il collo e il muso, e strabuzzando
l'occhio felino...
-
Un dì, saranno or due mesi, entrai da un cambiavalute che
teneva quell'affisso a' lati della bottega, presi un biglietto di
quindici franchi. Stamattina passando da quello stesso cambiavalute
seppi d'aver guadagnato quarantacinque mila fiorini -
novantamila franchi circa. - Ecco tutto. - Ora posso
cessare di vuotare la povera tua cassa.
Il
conte si staccò dalla tavola repentinamente, e misurò
tre o quattro volte innanzi e indietro la camera, come una jena in
gabbia.
-
Perchè non m'hai detto mai nulla? gridò poscia.
-
Perchè era inutile, e, secondo il tuo costume, potevi
rimproverarmi d'aver sciupato quindici franchi; or te lo dico, perchè
ti deve far piacere che anch'io possieda un capitale che dà
un'entrata sufficiente per vivere con decoro.
La
risposta che diede il conte fu un calcio nella tavola che rovesciò
in terra piatti e bottiglie.
Accorse
una fantesca.
-
Che volete voi qui? le gridò il conte; e accompagnò
l'urlo ferino collo scagliarle dietro una terrina, che le s'infranse
sulla schiena.
La
contessa dignitosamente e fieramente atteggiata, era riparata dietro
una poltrona; teneva fra le mani un trinciante, non a caso ma ad
arte, perchè sapeva che al conte, tanto vile quanto perverso,
bisognava far paura in qualche modo. - La sventurata però
tremava dal capo a' piedi come una foglia investita dal vento.
Ed
ora chiederà il lettore: come si può spiegare quella
repentina escandescenza del conte?
Una
infesta mescolanza di cause tutte morbose aveva fatto impeto sul suo
sangue.
Egli
aveva bisogno di una vittima su cui sfogare i suoi perversi umori;
quella povera donna, e perchè era moglie e perchè era
inesorabilmente avvinta alla povertà dei genitori, era la sola
su cui potesse esercitare un'autorità assoluta e continua; i
domestici potevano schiaffeggiarlo e piantarlo su due piedi, com'era
successo tante volte. Ma la moglie bisognava che s'acconciasse a star
lì sempre stretta a quella catena d'inferno.
C'era
un altro fenomeno stranissimo, ma vero. Egli, nei momenti men truci e
quando nel corpo incarognito gli si ridestava il titillamento
erotico, considerando la bellezza sempre superstite della moglie e
udendola lodare da quanti la vedevano, sentiva l'orgoglio di
essere nel pieno dominio di quella creatura; però
mentre la martoriava di continuo, pur talvolta si compiaceva di
possederla, e nei giorni che, per il malore, la bellezza di lei
scompariva nella pallidezza eccessiva, la insultava con parole di
spregio, ma non perchè la spregiasse, sì perchè,
sebbene ei ne fosse la causa volontaria, vedeva che, continuando ella
a dar giù a quel modo, ei non avrebbe potuto più
dire: - Fra quante donne conosco, la mia è ancora la
più leggiadra di tutte. Ora all'annunzio inaspettato ch'ella
possedeva quasi centomila franchi, comprese di colpo tutto quello che
poteva nascer da ciò. Non poteva più insultarla,
perch'ella era in condizione di abbandonarlo quando voleva;
vedendola, per quel rossore che aveva provocate le sue prime strane
interrogazioni, più attraente del consueto, le parve più
tormentosa l'idea di doverla perdere, e per conseguenza di essere
costretto a deporre le armi ai piedi di lei, se pur voleva
conservarla; oltre a ciò sentì anche la fitta
dell'invidia nel pensiero ch'egli non poteva più umiliare la
moglie col richiamarle la sua povertà; e prima e dopo e in
mezzo a tutto ciò serpeggiava anche il truce pensiero che
ella, mettendosi in salvo, poteva guarire, onde a lui non rimaneva
più mezzo di disfarsene. Queste cause che noi designiamo ad
una ad una, lo assalirono insieme e lo irritarono sino a
quell'estremo da dar prova di tutti i fenomeni della vera pazzia. Ma
egli non era pazzo nè sempre nè abbastanza per essere
chiuso in un manicomio; come non era così legalmente
scellerato da poter essere appeso ad una forca.
Ah!
pur troppo quell'improvvisa scoperta del dottor Broussais e l'atto
delicato e generoso ed eccezionale del Baroggi, che pareva dovesse
togliere di mezzo ogni ulteriore occasione di sventure possibili, fu
invece la causa definitiva di altri e irreparabili disastri.
XIII
Quelle
espressioni dei fatalisti, trovate al tempo dell'astrologia: -
Egli è nato sotto la cattiva stella. - Ella è
la vittima degli astri -, e che tanto ripugnano al buon
senso ed alla schietta ragione, troppo spesso par che abbiano la loro
riprova nel labirinto delle miserie umane.
Il
conte non fu più sopportabile; la contessa in quella casa
fatale si trovò condannata ad una specie di quaresima di
Galeazzo applicata all'ordine delle pene morali. Ciò che il
conte ebbe detto per uno scherzo atroce allorchè domandò
alla contessa s'ell'erasi forse recata a far visita al principe
Demidoff, lo replicò sempre e con tutta l'apparenza di parlar
sul serio in tutti i momenti delle sue furiose escandescenze. Gridava
come un ossesso, e in modo da farsi udire da quanti abitavano nella
sua medesima casa, e adoperando l'idioma francese, nell'intento di
passar egli per vittima e di render la contessa dispregevole ed
obbrobriosa in faccia agli altri.
Ella
raccontò tutto al Baroggi, il quale rimase costernato e
incertissimo su quel che dovesse consigliarle; tuttavia continuò
ad esortarla perchè si determinasse all'unico partito utile e
si staccasse dal marito carnefice. Ma ella non ebbe mai il coraggio,
e sotto al lavoro assiduo di quell'orribile contrasto, il suo fisico,
sempre sofferente e sempre più indebolito, non resse. Non potè
più uscire di casa; il malore aveva ripresa la sua invasione
devastatrice, ed ella non si alzò più dal letto.
Il
dottor Broussais, chiamati a consulta anche i suoi più
riputati colleghi, non omise studio di sorta per vedere di salvare
quella povera e preziosa esistenza.
E
noi possiamo immaginarci come il Baroggi disperatamente traesse la
vita in que' lunghi giorni, senza poter veder mai la contessa; e col
solo malinconico conforto delle quotidiane informazioni del dottore,
il quale, mentre desiderava sostenere le di lui speranze, non voleva
nel tempo stesso far sì che, colpito, non preparato, da una
estrema sventura, dovesse poi rimaner vittima di un'angoscia
insopportabile.
XIV
Dall'agosto,
in cui c'incontrammo per la prima volta a Parigi col Baroggi, si
venne sino al giorno sette novembre. Era un'alba parigina
dell'estremo autunno, nebbiosa e fuliginosa. Il Baroggi dormiva, ma
di quel sonno che è piuttosto un sopore patologico, e si
direbbe prodotto più dalla virtù di un narcotico che
dall'intima legge del corpo tranquillamente stanco. Era da molte
notti ch'ei non poteva chiuder occhio, e da molti albori che
sonnecchiava per qualche istante in quell'ora appunto.
A
un tratto si sveglia e balza giù dal letto: un suono speciale
lo aveva scosso, ma egli non lo sapeva. Stette così un poco su
due piedi come smemorato, ma nella via, intercalato a un sordo
mormorio come di vento che mugghia in basso tono, sente lo squillo di
un campanello. Un brivido gelato lo percorre tutto... Spalanca i
vetri della finestra e s'affaccia. Era il viatico, che venendo da
Notre Dame passava sul Pont Double. Molte
volte il viatico era passato per di là, e non c'era ragione
ch'egli ne rimanesse tanto atterrito; ma l'irrequietudine convulsa
che lo agitò fu tale, che quasi senza mettere a consulta i
proprj pensieri, si vestì frettolosamente per uscire, e le
mani gli tremavano come a paralitico, nell'abbottonarsi il pastrano.
Esce, e dette alcune cose al domestico, discende le scale a
saltelloni. - Pareva uscito di ragione affatto. - Segue
la processione del viatico. - Ah, pur troppo tra l'affannosa
alternativa di un baleno di speranze che rischiarava il suo sgomento,
ei vede che il viatico tien la via che dal Pont Double
mette alla Rue du Plâtre. Tende l'orecchio con
faticosa attenzione alle voci delle devote del Santissimo, che
rispondevano in lugubre cadenza alle litanie intuonate da una
vecchia:
-
Consolatrix afflictorum - Ora pro ea.
-
Refugium peccatorum - Ora pro ea.
Si
fa ancor più attento per accertarsi se le devote mormorassero
pro eo o pro ea; ma nell'afferrare quell'orrenda
certezza, collo scarso lume degli occhi che per lieve deliquio gli
fuggiva, vede nel tempo stesso piegare il baldacchino verso la casa
del conte.
Non
era più il caso d'attenersi a quella scrupolosa osservanza
d'ogni riguardosa cautela per non scoprire sè stesso e per non
compromettere la contessa. - Il dolore soverchiava. -
Egli entrò nel cortile della casa, in coda alle devote. Stette
un momento perplesso sul limitare, e fece alcune confuse domande al
portinajo, che, indifferente come lo stipite di sasso al quale si
appoggiava, rispose che il viatico era per la contessa B...i.
gravemente ammalata. Intanto il parroco di Notre Dame era
salito. Il Baroggi, senza pensare ch'era in mezzo a una fitta di
persone che lo vedevano, misurava a gran passi il cortile. A un
tratto si ferma parlando tra sè, e facendo gesti come se fosse
impegnato in un discorso con qualcuno; poi, risoluto, a due, a tre
gradini per volta, ascende le scale. È all'uscio
dell'abitazione del conte. Era spalancato, ma alcune donne in
ginocchio ne ingombravan l'ingresso. - Egli va oltre, passa
d'un'in altra camera. Le donne di casa, vedendolo e conoscendolo,
perchè i domestici sanno tutto, non sapendo che si pensare, lo
lasciano fare e andare innanzi. Quando il Baroggi s'accorse d'esser
presso la camera dove la contessa giaceva a letto, e dove era entrato
il parroco, si fermò quasi colpito da un sacro spavento.
Alla
fine entrò; la contessa travide e vide, s'alzò in sul
gomito raccogliendo tutte le sue forze, mandò un gemito nel
quale pur si ripercuoteva un suono ineffabile di gioja, e ricadde col
capo indietro sul guanciale. Il Baroggi s'accosta al letto, cade in
ginocchio, le prende la mano, che bacia e ribacia e torna a baciare.
Il
parroco, che era un prete gallicano dei più tremendi, e che
rappresentava la vendetta di Dio più della misericordia: Che
è questo? gridò; e afferrò un campanello.
Accorse
la servente; dopo alcuni istanti si fermò sulla soglia il
padrone di casa, il conte B...i.
La
contessa aveva la testa abbandonata sul guanciale, e di traverso
fissava uno sguardo lento e profondo in volto al Baroggi, che,
tenendo il labbro sulla mano di lei, la fissava terribilmente immoto.
D'improvviso
grida il conte: - Chi è l'infame che profana la mia
casa, che profana la dimora di una moribonda? Lei, che rappresenta
Iddio qui, scacci l'abbominando sacrilego. - Il prete, che
aveva l'aspetto di un Domenicano inquisitore, colla pretenziosa
prepotenza di chi ha fede di tenere dall'alto un mandato sacro,
santo, mise la scarna sua mano, come se fosse quella di Samuele,
sulla spalla del Baroggi, e lo rovesciò sul pavimento. Ma il
Baroggi, rovesciato, si rialzò di tratto... Il conte intanto
aveva aperta la finestra e gridava all'accorr'uomo. Cessò
il mormorio devoto nelle anticamere e nel cortile. Il conte
continuava a gridare.
La
campana minore di Notre-Dame suonava a lenti rintocchi. Stefania
spirò in quel punto.
Il
parroco, nel benedirla: - Voi avete forse impedito, disse al
Baroggi, che quest'anima volasse in cielo.
L'appartamento
del conte erasi affollato di gente accorsa alle grida.
-
Questo scellerato, diceva il conte a quanti gli entravano in casa, è
venuto ad assassinare la povera mia moglie.
Il
Baroggi non si moveva - guardava attonito; sentiva
macchinalmente, e taceva.
Il
conte ebbe l'audacia di accostarsegli, e di mettergli una mano sul
braccio, come per iscacciarlo.
A
quell'atto il Baroggi si scosse, afferrò il conte per il
collo, e di peso l'alzò, trasportandolo presso la finestra. Il
suo primo pensiero fu di rovesciarlo nella via sottoposta. Ma si
trattenne.
Le
persone astanti, imprecando al Baroggi, gli si serrarono intorno,
tentando di strappare il conte dalle sue mani.
Egli
taceva e guardava, e tenendo colla sinistra sempre il conte per il
collo, colla destra vibrò a rovescio uno schiaffo furibondo ad
un giovinotto che osò toccarlo, e lo respinse fino a percuoter
la testa in una delle pareti della stanza.
Scorsero
alcuni minuti d'immobilità generale, quando il Baroggi trasse
violentemente il conte nella camera attigua. Tutti lo seguirono, ma
nessuno osava nè farglisi presso, nè parlare.
-
Assassino di tre mogli, urlò allora il Baroggi, oggi tu
pagherai tutti i tuoi misfatti. E in te sia punita la legge che
permette ai tuoi pari di vivere e di operare impunemente a danno di
tutti; e in te sia punita la vile umanità che alla sola
ricchezza si prostra e si fa complice d'ogni suo delitto; e in te sia
punito il prete funesto che legò quella povera vittima al tuo
corpo infracidito, e all'anima tua più laida del tuo corpo.
Una lezione voglio io oggi dar qui a tutti, e sia di me quello che
vorrà essere.
E
accostatosi a un caminetto su cui ardevano tre pezzi di legno, ne
prese uno pel capo ancora intatto, e prima che alcuno sospettasse
quel che fosse per fare, compresse la parte infuocata con violenza
repentina nelle occhiaie del conte, che grugnì come una scrofa
scuoiata; e cadde, abbandonato che fu dalla ferrea mano del Baroggi,
ad arrotolarsi urlando sul pavimento.
Entrò
in quella il dottor Broussais.
CONCLUSIONE
Venezia
nel 1849. - La Germania e l'Italia. - Hegel e i suoi
proseliti. - La scienza e il senso comune. - La camera
di Winkelmann a Roma. - Un'iscrizione latina nel cimitero del
Père Lachaise.
I
Nell'agosto
dell'anno 1849, dimorando a Venezia, entrai una notte, in compagnia
di alcuni amici, nell'osteria del Cavalletto. - V'erano là
ufficiali di tutte le armi, costituenti il presidio di quella
gloriosa e sventurata città, che, in que' giorni, stava
dibattendosi tra la vita e la morte. V'erano Italiani di tutta
Italia: Polacchi, Ungheresi, Dalmati, Greci, militanti per noi.
Venezia
in que' dì offeriva uno spettacolo sublime insieme ed
angoscioso. Milano era ricaduta sotto il gioco austriaco; Toscana
erasi ridata al granduca; Roma, indarno difesa da Garibaldi, era
stata occupata da Oudinot: Italia tutta era sommersa. Venezia
sola sporgeva ancora il capo dall'onda mugghiante, ma le braccia
spossate più non potevan reggere contro all'impeto di essa.
In
quell'osteria era incessante il fracassìo di chi andava e
veniva, dei tanti che parlavano, dei camerieri che servivano e
gridavano: a tutti i tavolini, pur fra tanta varietà di
discorsi, campeggiava sempre il tema unico della patria in pericolo.
- A una tavola stavano il colonnello Belluzzi e il colonnello
Morandi, mio amico. - Sedeva con loro un uomo tra i
quarantacinque e i cinquant'anni, in abito nero. - La figura
di lui, le pose, il piglio erano giovanili ancora; ma i capelli
prolissi erano sparsi di striscie senili, la fronte solcata da lunghe
rughe, l'occhio, sebben di linee grandiose e pure, era patito e
stanco.
Salutato
il colonnello Morandi, sedetti lor presso; feci portar un pan fresco
di tritello, che in quell'estreme traversie del blocco, poteva dirsi
un pane di lusso; e un bicchiere di vino di Barletta, il quale
costava quanto lo Château Lafitte delle cantine
dell'imperatore dei Francesi; e stetti così ascoltando i
discorsi avviati.
-
A quanto m'avete raccontato, diceva quel signore in abito nero, vedo
che la difesa non potrà prolungarsi molto.
-
Due o tre settimane al più, e non c'è altro, disse il
Morandi.
-
Purtroppo! soggiunse il Belluzzi.
-
È una fatalità, osservò quel signore, che in
quest'anno, dovunque io capiti, debba sempre essere l'augello del
malaugurio. Arrivai a Torino due giorni prima del disastro di Novara.
- Giunsi a Roma e mi son messo con Garibaldi poco tempo
innanzi la sua caduta. - Or venni qui per mettermi con voi,
colonnello Morandi...
-
E non c'è a far altro, credetelo a me. La difesa poteva
protrarsi molto più a lungo; ma il Governo non seppe e non
volle.
-
Manin, rispose quel signore, era convinto (e lo provano le sue note
alla Francia e all'Inghilterra) che Venezia, per un riguardo dovutole
dalle potenze, sarebbe stata costituita come città anseatica:
e questa speranza fu appunto cagione degli errori del governo. -
La conveniente posizione politica che Manin era certissimo
sarebbesi data a Venezia, gli ha fatto credere impossibile un lungo
assedio; è per ciò se la marina non fu allestita in
tempo; se l'esercito non fu bene organizzato; se la guardia civica
non fu resa abbastanza numerosa; se le provvigioni da guerra non
furono accumulate in tempo e in quantità sufficiente a
sostenere l'assedio anche per qualche anno.
-
E così, osservò il colonnello Belluzzi, di questa
popolazione straordinaria nella costanza; dei soldati venuti da
tutt'Italia, gloriosi per prove di coraggio uniche nella storia, non
si trasse il vantaggio che certamente si sarebbe potuto; ed oggi le
cose sono al tutto disperate.
Il
colonnello parlava ancora, quando entrò a cercarmi il filologo
e poeta Sternitz, prussiano, col quale io m'era stretto in amicizia;
uomo di grande ingegno, di vasta dottrina e d'abitudini
semplicissime, sebbene talvolta alquanto strane ed eccezionali. -
Dimorava da anni a Venezia, ed era innamorato dell'Italia, della
quale conosceva profondamente la letteratura, ed era iracondo verso i
proprj compatrioti.
-
E che fate qui, mi disse, con questa caldura che opprime? Usciamo
all'aperto.
Io
chiesi al colonnello Morandi s'ei voleva uscire.
-
E si esca, ei mi rispose, con quel suo fare schietto e soldatesco.
Belluzzi
e il signore vestito di nero uscirono del pari; e così
tutt'insieme, collo Sternitz, il capitano De Luigi della legione
lombarda, ed altri, ce ne andammo a passeggiare sul molo.
II
Io
chiesi allora al Morandi, chi era quel signore vestito di nero.
-
È un lombardo; io l'ho conosciuto prima a Parigi, poi in
Atene; è un signore assai distinto, e si chiama Giunio
Baroggi.
-
Che? io esclamai commosso; io so la storia della sua vita; io
conobbi un vecchio che fu amicissimo suo. Quasi glielo
nominerei, ma non so che ben fare; non potete immaginarvi,
colonnello, il vivo interesse che m'ha inspirato e m'inspira questo
signore.
-
Comportatevi con gran riguardo, mi disse allora il Morandi, perchè
a toccargli certi tasti del suo passato, si riscuote tutto e si
conturba e si sprofonda in una tristezza senza pari. In conseguenza
d'un fatto orribile, è stato rinchiuso un anno nel manicomio
di Parigi; e fu il celebre dottor Broussais che di tal modo lo ha
salvato, facendolo passar per demente onde liberarlo da un processo
criminale.
-
So tutto, io dissi, e so anche che lo scellerato che egli punì
abbruciandogli gli occhi, morì nel 1839.
-
Nel '31 io vidi colui, affatto cieco, trascinarsi lento per le vie di
Parigi, appoggiato a un servo.
-
Un fatto orribile, ma fu anche una giustizia.
-
Ad ogni modo, abbiate gran riguardo nel parlargli.
III
Passeggiando
lungo il molo, i discorsi continuarono sempre sul medesimo tema di
Venezia. - Si parlò dell'origine e del procedimento
della sua rivoluzione; si parlò di Daniele Manin e di
Tommaseo. - Il colonnello Morandi non aveva grande stima di
Manin, ed essendo venuto a Venezia assai tardi, non conosceva i
precedenti storici, e giudicava con troppa severità il popolo
veneziano. - Su tal proposito udii il Baroggi a fare le
seguenti osservazioni:
-
Avendo io, egli disse, viaggiato tutta Italia, prima che scoppiasse
la rivoluzione, all'intento di veder dappresso le popolazioni e di
esplorare i sintomi della crisi italiana, mi trovai a Venezia nei
primi mesi del 1848; quel che avvenne in que' mesi di preparazione,
fuori di Venezia non è noto che in parte. - Le
carneficine di Milano e quelle di Padova assorbivano allora
l'attenzione generale. - Ma io, che in quel tempo ho potuto
osservar da vicino quel che qui si operò, debbo dire che i
Veneziani, una volta messi in via, guadagnarono con alacrità
straordinaria il tempo prima perduto. - A mantener vivo lo
spirito pubblico e ad incuorare Venezia ad operare più che a
far dimostrazioni, contribuì principalmente la prigionia di
Manin e di Tommaseo, e la loro dignità affatto antica in
faccia alla ingiustizia e alla sventura.
«Crocchi
segreti d'uomini pronti se ne improvvisarono molti; alcuni, più
esperti dei mezzi speciali che Venezia aveva in sè, guardavano
alla marina veneta; considerando quello che, volendo, avrebbe potuto,
vedevano facile la riuscita, se si fosse tentata qualche impresa
audace. - A tale intento, alcuni più astutamente
volonterosi, s'accomunavano, quantunque la diversa condizione non
paresse comportarlo, ai soldati della fanteria di marina; e versando
con essi in famigliare colloquio nelle taverne del buon popolo, e
mescendo loro con mano liberale, li mettevano a parte de' proprj
pensieri, li istruivano intorno alle pubbliche faccende, e li
esortavano a star pronti. E così facevasi cogli arsenalotti,
siccome quelli che potevano, all'occasione, impadronirsi del punto
più importante della città.
«Di
questi sforzi veneziani e di questo senno che mostrarono
nell'adoperare quei mezzi, è tempo che si parli, perchè
fin qui si è creduto e si crede anche da parecchi che
dappresso esplorarono il movimento italiano, che la rivoluzione di
Venezia sia stata l'affare d'un giorno; e che la sua riuscita così
felice e completa sia dovuta a fortuna più che a fatica.
Credetelo a me: in que' giorni pieni di vita e di speranza, il popolo
veneziano e i suoi capi fecero prodigi. Tommaseo e Manin furon
veramente benemeriti, e Manin ebbe istanti luminosi ed eccezionali di
prontezza, di sagacità, di coraggio.»
-
Ma, a parer mio, osservò il Morandi, fu atto improvvido l'aver
proclamata la repubblica prima di sentire il voto delle altre città
d'Italia.
-
Oggi è facile dir così, rispose il Baroggi, ma
bisognava trovarsi qui allora. È necessario tener conto delle
tradizioni speciali di questa città, e allora converrete che,
se quello fu un errore, fu però un errore sublime.
Il
Baroggi tacque un momento, e, fermatosi tra le colonne di Todero e
del leone, girò l'occhio sugli edifizj augusti della piazzetta
e della piazza. Muggiva cupo il cannone di Campalto e Campaltone. Nel
silenzio e nella solitudine della notte si sentiva ad intervalli quel
suono particolare, come di stoffa serica lacerata, che produce l'aria
quand'è investita da una palla. Da un mese i cannoni alla
Pexens, collocati a quarantacinque gradi, percorrevano quattromila e
cinquecento metri di spazio, e tenevano in assiduo pericolo due terzi
della città.
Il
Baroggi era come assorto e gli altri per un istante lo guardarono in
silenzio.
IV
-
Oh! voi, proruppe di poi, non eravate qui nel marzo dell'anno scorso.
Che giorno sublime fu il 22 di quel mese!
Qui
fece ancora una breve pausa; poi, come se leggesse una pagina, con
accento d'entusiasmo continuò:
-
Allorchè Manin fu padrone dell'arsenale, e fu sicuro
dell'ajuto di tutti i soldati della marina veneta, che avevano saputo
uccidere il maggior Bodai quando loro comandò di far fuoco
sulle guardie cittadine; infiammato d'entusiasmo per un concorso
d'accidenti così fatale, che parve davvero che in questa città
si fosse allora rinnovato il prodigio delle trombe di Gerico; alla
testa delle sue guardie portanti un'asta sormontata dal simbolico
berretto, venne in piazza, e là, salito su d'una tavola, alla
presenza di non molto popolo, proclamò la repubblica.
Alla parola repubblica di San Marco, fatta risuonare dalla
poderosa e veramente rivoluzionaria voce di Daniele Manin, una
vertigine sublime occupò tutte le menti. Non era quello il
momento delle misure prudenziali. La realtà aveva sembianza di
una visione. Questa repubblica gloriosa di una vita di quattordici
secoli, fatta segno, è vero, di gravi accuse dalla storia
troppo severa, ma per le stesse colpe imputate, poeticamente
misteriosa, e, non ostante, ammirata da' suoi detrattori e
idoleggiata poi dalle più squisite intelligenze, era scomparsa
in un giorno obbrobrioso; caduta e scomparsa, erasi detto, per sempre
dalla faccia del mondo politico: e invece la si udiva proclamata, e
la si vedeva risorta. Allorchè disotto alle aquile tedesche,
in un baleno atterrate e sparite quasi per virtù d'incanto, si
vide balzar fuori l'alato leone di bronzo che non s'era osato
distruggere; e sulle antenne, a un punto rovesciate e svestite dalla
bandiera non nostra, e a un punto rialzate, sventolò il
vessillo del vetusto San Marco, e tutte le campane delle chiese di
questa tanto storica Vinegia risposero in giocondo e vasto concento
ai più profondi rintocchi del campanone maggiore, che prima
aveva comunicato ai venti la novella inaspettata; e sulla piazza un
popolo fittissimo si vide inginocchiato innanzi alla metropolitana,
perchè nell'avvenimento straordinario, forse gli parea vedere
il Dio degli eserciti; in presenza di questo continuo prodigio,
credetelo a me, l'entusiasmo, il delirio non poteva più aver
misura; ed oggi, pensandovi nell'aspettazione in cui siamo
dell'estrema sventura, il sangue si gonfia nel cuore, e la memoria ha
bisogno di velarsi un tratto, perchè il giudizio riprenda la
sua calma.
V
Il
Baroggi a queste parole s'interruppe; e, dopo un breve silenzio,
continuò:
-
Da quel giorno gli errori si accumularono agli errori. Ma tutti i
governi d'Italia ne commisero. A Milano si lasciarono in ingiusta
dimenticanza gli uomini che, per la vastità della mente, più
eran fatti per governare la cosa pubblica. Il popolo sapiente ebbe
colà dei capi incompleti. Quando, nell'aprile da Venezia
passai a Milano, la piaga pubblica era già per incancrenirsi
là. - A Firenze invece un popolo troppo simile alla
garrula e volubile Atene, non volle aver fiducia nel fortissimo
ingegno di Guerrazzi. Qui in Venezia i ladri si introdussero a
manomettere il pubblico danaro, non accorgendosene l'intemerato
Manin, dall'ideale della sua onestà fatto incapace a
sospettare l'altrui perfidia. In pochi giorni scomparvero diciasette
milioni dalla cassa dell'erario: - a Parigi vive un ricco che
prima era un povero operajo qui, e non si sa dove abbia preso i
denari. Io non lo nomino, ma voi già sapete a chi accenno. Io
vorrei che i giuristi inventassero una pena speciale, infamante,
straziante, per questi ladri del pubblico patrimonio. In quanto a
Manin e Tommaseo, certo che furono i primi, i più coraggiosi e
più virtuosi cittadini di Venezia; ma la fatalità volle
che tra loro ci fosse uno strano squilibrio di pensiero e
d'aspirazioni. Manin innamorato di questa sua cara Venezia smarrì
nell'intensità dell'affetto municipale l'estensione
dell'ambito italiano; ecco perchè respinse in principio la
proposta di un governo lombardo veneto; poi di far centro
Venezia di un governo italiano; in ultimo di aderire alla
Costituente. Tommaseo invece, portato, dalle contratte abitudini
della sua mente e de' suoi studj, a percorrere le indefinite regioni
dell'ideale, ed a considerare l'umanità nel suo più
vasto significato, non istette contento ai limiti della sua cara
Italia; ma delle affezioni sue amò far parte a tutti i popoli
della terra. Scrisse note diplomatiche di consiglio e d'amore a
tutti, perfino alla Germania. - Non vi scuotete, signor
Sternitz, io vi conosco, vi amo, e vi ammiro, perchè non mi
sembrate un uomo nato in quelle parti là; ma io non amo la
Germania, l'incorreggibile Germania, incorreggibile perchè la
sede del suo morbo cronico sta nella testa de' suoi pensatori e nella
sua filosofia. Quasi dappertutto la scienza va innanzi beneficando;
là invece si affatica a' danni dell'umanità.
VI
«Agli
indirizzi, proseguiva, che l'anno scorso i più generosi
Italiani, pur nell'impeto del combattimento e nell'odio implacabile
del dominio austriaco inviarono a tutti gli Stati di quella nazione a
proposta di fratellanza; la patria di Schiller, il poeta più
innamorato dell'umanità, lasciò cadere indifferente
quelle parole d'invito, e si chiuse sospettosa in sè stessa.
Il canto di Manzoni dedicato a Koerner, il Tirteo della Germania, non
trovò un eco in mezzo ai cuori fatti muti dalla passione e
dall'egoismo.
«Il
nostro popolo, che ha sentito a parlare della Germania come
dell'officina più operosa della scienza e del centro più
fitto d'instancabili cercatori del vero, domanda come un sì
tristo frutto abbia potuto uscire da così faticose
preparazioni.
«Questa
domanda del popolo incolto rivela che, nella sua intuizione
spontanea, ha compreso ciò che gli uomini dotti non seppero
scorgere nell'abbagliata ammirazione per una scienza che, nelle sue
intemperanze e nelle sue improbe elucubrazioni, ha smarrito il senso
retto, ed è rimasta senza viscere.
«In
Germania è la così detta filosofia quella che governa e
impiglia la politica. Filosofia e politica si abbracciano colà
e si compenetrano. Guai se la prima si contorce nell'indeterminato e
nel falso! la politica ne risente il contagio, e il senso giusto e
pratico della vita si adultera e si smarrisce.
«Hegel,
il Maometto della Germania, le comunicò un sentimento così
entusiasta per sè stessa, un'idea così orgogliosa della
sua missione nel mondo, che tutte le altre nazioni, specialmente
quelle del mezzodì, debbono parere agli occhi di lei come
nazioni diseredate e decadute, e perciò indegne di risorgere a
rifare una grandezza che comprometterebbe il nuovissimo genio del
Nord, al quale, secondo le enfatiche parole del suo falso profeta, è
assegnato l'incarico nientemeno che di rifare Iddio.
«Dopo
Hegel, i suoi proseliti, dilungandosi da lui e più che mai
compromettendo le teorie del maestro, si divisero in più
sêtte, le quali, sforzando a sempre nuove trasformazioni i
principj raccolti dalla bocca di lui, misero dapprima il capogiro
nelle menti giovanili, per non lasciar poi negli animi che aridità
e indifferenza.
«L'ateista
Feuerbach giunse a combattere perfino il sentimento della patria, e
di cosa in cosa a propugnare principj che derivano dall'infame teoria
dell'homo sibi deus.
«Nelle
teorie di Stirner, che sono un tessuto cangiante delle enormità
di Feuerbach, sta il codice completo dell'egoismo.
«Rouge
provò come due e due quattro che l'amore della patria è
un sentimento ipocrita ed una virtù impossibile; perchè
l'amore, secondo lui, ha orrore delle astrazioni e vuole delle vive
realtà. E così d'argomento in argomento, venne a
santificare l'inesorabile tornaconto.
«Nel
campo dell'economia politica, Federico Lizt; il più celebrato
della sua nazione perchè ne lusingò più di tutti
l'egoismo, colla sua dottrina isolatrice, rinserrò la Germania
in sè medesima, barricandola colle dogane protettive, ed
ammonendola a non ammettere sul suo mercato roba straniera, per non
introdurre nelle mura della patria il perfido cavallo di Troja (son
sue parole).
«La
giurisprudenza respinse colà dalle cattedre il diritto
naturale e razionale, incatenandosi schiava dell'unico diritto
storico.
«Perfino
la filologia, nel labirinto di una prodigiosa, ma gelida dottrina,
affogando le più care e generose aspirazioni della fantasia
inventrice e del sentimento, tolse allo studio dell'arte classica
l'intento suo più legittimo: quello di educare al bello
estetico, che, ingentilendo gli animi, li prepara al bello morale.
«L'Eneide
di Virgilio non fu più il poema latino-italico per
eccellenza, il modello eterno del più perfetto stile, ma
un'occasione di sommovere questioni di geografia e di etnografia.
«L'Iliade
di Omero parve più preziosa ai filologi tedeschi per il
catalogo delle navi che per la preghiera di Priamo ad Achille, o per
l'addio di Ettore ad Andromaca.
«E
nella storia e nella letteratura e nella poesia, lo studio del medio
evo, che in Italia, evocando le memorie della Lega Lombarda, preparò
le libere aspirazioni del periodo in cui viviamo, là invece
non servì che ad innamorare le menti delle consuetudini
feudali, a far desiderare il ritorno di un passato impossibile, e a
consigliare l'anacronismo dell'immobilità delle caste.
«Questo
hanno fruttato le intemperanze di una dottrina, che del proprio
eccesso fa velo ai limpidi giudizj del senso comune.
«Ora
voi, signor Sternitz, che tanto amate l'Italia, e avete tanto
ingegno, dovreste parlare in questo tono a' vostri. - Un
Tedesco di mente e di cuore, che severamente ammonisse i suoi
compatrioti, potrebbe finalmente ridestare qualche eco generoso.»
VII
Spuntavano
i primi crepuscoli; lo Sternitz che era un Tedesco straordinario,
strinse lagrimando la mano al Baroggi.
-
Piango, esclamò poi, per la mia patria che abborrite, e per
questa Italia tanto sventurata!
Una
tal scena ci commosse tutti. - Si partì muti e pensosi,
e per quella notte dai nostri labbri non uscirono che le parole
ultime dei vicendevoli saluti.
Il
dì dopo io fui sollecito di vedere ancora il Baroggi. -
M'intrattenni a lungo con lui. Mi sprigionai; si sprigionò; e
quantunque io fossi giovinissimo e di tanto inferiore a lui
nell'esperienza e nella dottrina, venne spesso a cercarmi, e si degnò
molte volte di parlar meco a lungo. Fu in una di queste volte che,
discorrendo, tra le altre cose, della condizione della letteratura in
Italia, mi fe' cenno di quel suo lavoro del quale abbiamo parlato
alquante pagine addietro. - Pregato e ripregato, mi diede un
dì a leggerne gli sparsi frammenti. - Che originalità,
che grandezza, che vastità, che sentimento! Io passavo
continuamente dalla meraviglia al dolore, dal dolore alla meraviglia;
perchè, esaltandomi in una sfera altissima di bellezze,
consideravo poi che, per la condizione infelice dell'animo suo, non
gli sarebbe mai stato possibile, com'egli disse molte volte, di
condurre a termine quel lavoro.
La
sventura lo aveva percosso in modo, che il dolore per lui erasi fatto
natura. Bensì, facendo uso di liquori generosi, con abitudine
che pareva toccare il soverchio, talvolta assumeva l'apparenza della
giocondità, che si espandeva in un profluvio d'epigrammi. Ma,
di tratto, a una svolta inattesa di qualche parola che gli facesse
risentire la fitta del dolore inclemente, si concentrava in sè
stesso, si faceva cupo e taciturno, e qualche volta dava anche in
lagrime dirotte. - Un dì, essendogli ciò
avvenuto in mia presenza: - Non vi faccia meraviglia, mi
disse; è questo una specie di vomito morale che, prorompendo
dagli occhi a furia, permette poi allo spirito di rifarsi alquanto, e
di respingere la tentazione del suicidio.
VIII
Vennero
i giorni estremi per Venezia libera, il cannone tacque per la prima
volta, dopo tanti mesi che aveva tuonato incessantemente. -
Quel silenzio insolito, come il silenzio della morte, piombò
sugli animi di tutti, producendovi un'angoscia che non ha riscontri.
- Una commissione veneta già erasi recata al quartier
generale austriaco ad offrirvi la sommissione dei Veneziani. -
La capitolazione venne segnata. - Il dì 27 agosto, per
la via di terra io uscii da Venezia per ridurmi a Genova. Il
Baroggi m'avea salutato ed abbracciato prima di salire a bordo d'un
vapore da guerra inglese; chè aveva stabilito di recarsi in
Inghilterra. - Nè più lo vidi. - Seppi in
seguito che da Londra erasi tramutato a Roma, per applicare di nuovo
l'ingegno alle lettere e alle arti, a sollievo dei proprj dolori e
delle sventure della patria. - Nel 1850 ebbe un duello, se non
erro, col segretario dell'ambasciata di Russia; e nell'ottobre di
quell'anno stesso morì di febbre intermittente.
Ai
27 di quel mese, un nostro amico di Roma ci dava il doloroso annunzio
della morte di quell'uomo straordinario. Ecco un brano di quella
lettera:
...«Ieri
è morto Giunio Baroggi in età di 52 anni. La sua camera
che, come sapete, era quella che già aveva appartenuto a
Winkelmann, era ieri piena d'amici e d'ammiratori, che piangevano nel
vedere vicinissimo il termine di quell'uomo raro. - Negli
estremi momenti, fece aprir le finestre per vedere il sole che dietro
la cupola di San Pietro tramontava in globi di fuoco; le ultime sue
parole furono: «Il sole di Roma vecchia è in tramonto;
sorgerà il sole di Roma nuova, e tutta Italia verrà a
riscaldarsi in hac luce - Exoriare aliquis.»
IX
Nell'anno
1862, trovandoci noi a Parigi, ci recammo al Père Lachaise, e
là, cercando con insistenza una lapide di cui ci aveva parlato
il Bruni, ci venne fatto finalmente di rinvenirla tra quella selva di
tombe e cippi e statue. - Su quella pietra leggemmo la
seguente iscrizione:
stephania
gentili
comitissa
b
decora
forma
anima
suavi
ingenio
in melodia præclaro
liberalis
eam fecit natura
interfecit
dira fortuna
anno
mdcccxix
E
qui la nostra storia si chiude. Ripetere gl'intenti che si
sono avuti nello scriverla, e le lezioni che se ne volevano far
scaturire, è inutile. - Se il lettore non le vede, non
vale che l'autore le manifesti.