Giuseppe Rovani



CENTO ANNI




PRELUDIO




Di tutte le forme della letteratura e della poesia il romanzo è la più disprezzata, e per alcune classi di persone la più abborrita. — La lettura di un romanzo si fa, per solito, di nascosto e lontano possibilmente dagli occhi de' curiosi, press'a poco come quando si commette un peccato. — Se una ragazza è in odore di gran leggitrice di romanzi, storna da sè qualunque possibilità di matrimonio; la spina dorsale deviata, il broncocele, la clorosi, l'isterismo, l'epilessia, sono in una fanciulla, contro i giovinotti assestati che voglion metter casa, spauracchi meno spaventosi dell'abitudine a legger romanzi. — I maestri, i pedagoghi, i prefetti di camerata, se colgono un giovinetto alunno sprofondato nella lettura di un romanzo, tosto è un tumulto nella famiglia, un parapiglia nel Collegio-Convitto; minacce di castighi, di espulsioni, di collere implacate. — Gli uomini gravi, i torci-colli, quelli che si danno importanza, quelli che vogliono parere senza essere, i cultori di matematica, i poliglotti, quelli dell'alta e della bassa filologia, gli studiosi d'economia, quelli che aspirano, per lo meno, a diventar soci corrispondenti di un qualche istituto, danno tutti quanti a più potere la caccia ai romanzi, e guardano ai romanzieri con atti di commiserazione e di sdegno e d'inquietudine; press'a poco come gli esorcisti del bel tempo dell'inquisizione guardavano i sospetti di stregoneria. Bene sono esclusi dalla persecuzione e dall'odio universale alcuni pochi romanzi celeberrimi, che a buoni conti si chiamano libri, perchè la parola non corrompa l'opera. — Ma anche questi pochi libri, che in Italia crediamo che sommino a cinque, e in Francia a tre, e in Inghilterra ai migliori di Scott e ai due di Bulwer, sono concessi in via di tolleranza, press'a poco come al tempo dell'editto di Nantes erano sopportati i protestanti. — Egli è bensì vero che il romanzo storico era come riuscito in addietro a sottrarsi all'interdetto, se non altro per la difficoltà delle ricerche e per la necessità di rovistare negli archivj, e perchè, in una parola, la mente e la fantasia erano condannate alla schiavitù della schiena. — Ma dopo che il più grande dei romanzieri venne a condannare il romanzo storico come una mostruosità della letteratura, come un ente ibrido, come un assurdo, come un impossibile, il romanzo storico fu cacciato più sotto ancora del romanzo intimo; e i pedanti che non trovarono mai di lodare Manzoni, questa sola volta s'accorsero della presenza del suo genio, questa sola volta che con coraggio inaudito nella storia dell'orgoglio umano, il grande uomo venne a dar di martello all'opera più colossale del suo genio appunto. — Da più anni in fatti il romanzo storico sembra che sia quasi scomparso dalla faccia del mondo; sembra che ai cacciatori della fama sia passata la voglia di farne: e colui che oggi ha la malinconia di pubblicare questo lavoro, e che, nell'età dell'innocenza, stampò tre romanzi storici uno dopo l'altro; quantunque ne avesse avviato un quarto, dopo il discorso manzoniano lo converse tutto quanto in fidibus per la sua pipa casalinga. Ma se gli uomini onesti e pacifici, se i padri di famiglia, se i prefetti, se i prevosti possono essere oggimai quasi sicuri dall'assalto de' romanzi storici, hanno tutte le ragioni di perdere l'allegria, se pensano a quell'altro genere di romanzi che si è convenuto di chiamare contemporanei, intimi, di costume. Questi romanzi crebbero a dismisura nella persecuzione, come gli schiavi d'Egitto e di Babilonia; si moltiplicarono a miriadi sotto alla percossa dei testoni pesanti, come le lumache quanto più si zappa nell'orto contaminato. In Inghilterra e in Francia è una produzione di romanzi tale che sembran fatti a gualchiera, a trancia, a torchio, a mulino, a vapore; è un'eruzione perpetua e in tutti modi, e più invadente che la lava, dello spirito umano contro lo spirito umano. — Che direbbe se comparisse Orazio col suo precetto degli anni dieci?
E quanti ne producon Francia e Inghilterra ajutate dagli Stati Uniti, tanti ne inghiotte il mondo, che come sigari li fuma e abbrucia, e ne getta gli avanzi alla bordaglia. Tuona la critica, tuonano i pergami, le fanciulle son minacciate di celibato, gli adolescenti di essere cacciati dai ginnasi, i giovani di studio d'essere esclusi dal banco. — Ma i romanzi si riproducono, si sparpagliano, penetrano dappertutto, e sono letti persino da chi tuona e sbuffa; persino dalle madri sospettose; persino dagli uomini che si danno importanza; persino da quelli che hanno la missione di far prosperare l'alta filologia e la numismatica e la diplomatica e i concimi e il baco e il gelso. Sotto al grosso volume severo noi spesso abbiam visto trafugare, alla nostra visita inattesa, la leggiadra brochure parigina, su cui di gran volo potemmo sorprendere i nomi orridi e peccaminosi di Gozlan, di Gautier, di Kock, di Dumas!!! Oh orrore!!!
Dopo tutto ciò, è egli giusto codesto dispregio in cui è tenuto il romanzo, sia storico, sia contemporaneo, sia di costumi, sia morale, sia industriale, sia marittimo, sia dell'alta, sia della bassa società, sia didascalico, sia psicologico: ramificazioni tutte del gran ceppo del vetusto romanzo cavalleresco? — Noi crediamo fermamente di no, e fermamente crediamo che il dispregio provocato dai guastamestieri ingiustamente siasi rivolto contro al genere. Intanto, in codesto interesse antico e perpetuo del romanzo dev'essere deposta la ragione che storna la sua abolizione. — Intanto i più grandi scrittori del secolo sono romanzieri; Foscolo, Manzoni, Goethe, Byron, Scott, Châteaubriand, Vittor Hugo, Bulwer tradussero in forma di romanzo le più splendide e più consistenti emanazioni della loro mente. Intanto in un libro di un grand'uomo morto di recente, abbiamo letto che l'Iliade d'Omero è un romanzo storico, l'Odissea un romanzo intimo, la Divina Commedia un romanzo enciclopedico, il Furioso un romanzo fantastico, la Gerusalemme un romanzo cavalleresco. — Tutte le verità e della religione e della filosofia e della storia, se hanno voluto uscire dall'angusta oligarchia dei savj, per travasarsi al popolo, hanno dovuto attraversare la forma del romanzo che tutto assume: — la prosa, la poesia, le infinite gradazioni dello stile; ei si innalza, in un bisogno, nelle più alte regioni dell'idea, s'abbassa tra le realtà del mondo pratico; è elegia, è lirica, è dramma, è epica, è commedia, è tragedia, è critica, è satira, è discussione; al pari dell'iride, ha tutti i colori, ed è per questo che si diffonde nel popolo, e piove come la luce di luogo in luogo e di ceto in ceto e d'uomo in uomo, e per l'onnipotenza sua appunto può recar danni funestissimi come vantaggi supremi; chè tutto dipende dalla mente che lo governa. Così avviene degli elementi più poderosi che sono in natura, i quali riescono nel tempo stesso e benefici e pericolosi all'uomo. Il romanzo di Scott invogliò alla ricerca delle memorie rivelatrici del Medio Evo, e inspirò il sommo Thierry; Carlo Dickens in Inghilterra propose ed ottenne riforme legali, indarno proposte e domandate dalla scienza in toga. Se non che questi elogi che facciam del romanzo or quasi ci fan parere indegni di esporne uno; mentre prima il quadro detestabile che ne abbiam fatto quasi ci faceva venire il rossore sul volto al pensiero che stavamo per ritornar romanzieri anche noi. — Ma, sia qual vuolsi, è ridicolo tanto l'abbellirsi di modestia, quanto l'accusarsi di superbia. — Già, ogni qualvolta un galantuomo stampa qualche prodotto della sua mente, è reo della più luciferina superbia di cui un uomo può esser capace. — Stampare significa credere bellissimo e utilissimo all'umanità quello che si è pensato e scritto; e chi, nel punto massimo della più alta stima di sè stesso, si fa innanzi col capo chino e colle proteste della sua incapacità è un bugiardo. — Però noi aspiriamo al merito di non essere mendaci. — Cento Anni è il titolo del nostro lavoro, e Cento Anni dovremo veder passar di fuga innanzi a noi, cominciando dalla metà del secolo andato e chiudendo alla metà del secolo corrente. — Vedremo le parrucche cadenti a riccioni stare ostinate contro i topè; vedremo il topè subire più modificazioni e concentrarsi nel codino col chiodo; vedremo i ciuffi a campanile, i capelli alla brutus e la cerchia del rinascimento; vedremo il guardinfante del secolo passato attraverso a più vicende venire a patti col guardinfante del secolo presente. — Vedremo la cipria, che imbiancava i capelli neri, di mutamento in mutamento, svolgersi in quell'empiastro che oggi fa diventar neri i capelli bianchi.
D'altra parte vedremo il progresso dello spirito umano, pur subendo la altalene di questi matti capricci della moda, trovare la sua uscita e andare innanzi. — E vedremo le arti camminare a spina-pesce, perchè il nostro romanzo dev'essere anche un trattato d'estetica — e sentiremo a cantare i tenori e i soprani del secolo passato al teatrino del palazzo Ducale; e prendendo le mosse da essi e con essi e cogli altri che lor tennero dietro, calcheremo per cento anni il palco e la platea dei nostri teatri; e vedremo lo spiegarsi e il ripiegarsi e l'estendersi e l'accartocciarsi della musica; e nella nostra lanterna magica passeranno le ombre dei poeti, dei letterati, dei pittori, dei pensatori; attraverseremo, dunque, a dir tutto, i decorsi cento anni, scegliendo i punti salienti dove le prospettive si trasmutano allo sguardo, e dove si presenta qualche elemento nuovo di progresso o di regresso, di bene o di male, che dalla vita pubblica s'infiltri nella privata; e osserveremo forse per la prima volta fatti e costumi e accidenti caratteristici che non ottennero ancora posto in libri divulgati, e di cui la traccia o la notizia completa rimase o nella tradizione orale che ancora si può interrogare, o in carte manoscritte, quali i processi, i decreti, gli atti giuridici, le memorie di famiglia, ecc., o in opuscoli che, sebbene stampati, pure stettero segregati dal commercio e dalla pubblica attenzione e al tutto dimenticati, o nei quali si leggono cose da cui derivano idee o più complete o modificate, o qualvolta anche affatto opposte alle accettate intorno alle condizioni de' nostri padri, per somministrar così criteri più interi o più nuovi onde stimare i fatti successivi; però al fine di tener dietro al movimento storico di periodo in periodo, essendosi dovuto rompere le dighe dell'unità di tempo nel modo il più rivoluzionario, abbiamo provveduto a stornare la rivoluzione dal campo sacro e inviolabile dell'unità d'azione, ricorrendo al partito, che è forse nuovo e che ci fu suggerito dal fatto vero di un processo criminale e di un'azione giuridica civile conseguitane, di svolgere il nodo drammatico nel seno di quelle famiglie più o meno cospicue per le quali quel processo e quell'azione continuarono per settantacinque anni, così che la differenza originale tra il nostro libro e i libri congeneri, consistesse in ciò appunto, che, dove per consueto gli attori sono individui operanti nel tempo limitato d'un periodo della vita, nel nostro lavoro gli attori fossero invece famiglie, la cui vita si prolunga di padre in figlio e cammina colle generazioni, cogliendo da ciò occasione di tener dietro agli svolgimenti graduali di tutte le parti che costituiscono la civiltà di un paese. Vedremo pertanto gli scherzi curiosi che faranno nel corso di un secolo codeste famiglie, appartenenti a varie caste, distinte alla sorgente e confuse alla foce; e nella vita di un uomo che visse nonagenario, e che, nato quasi alla metà del secolo passato, morì quasi alla metà del secolo corrente, e che parlò e mangiò e bevve e rise con noi, avremo, ci si permetta l'espressione, la chiave di volta che varrà a tener congiunto il vasto edificio e a ravvicinare fra loro quattro generazioni; press'a poco, come il patriarca Enos che andò a caccia con Adamo e spremette i primi grappoli con Noè, e congiunse le due grandi epoche della creazione del mondo e della dispersione delle genti.
Le promesse sono gigantesche e presontuose: ma guai a chi promette poco. Il lettore lo piglia tosto in parola.

LIBRO PRIMO


Il lago di Pusiano e il vecchio nonagenario. – Il teatro Ducale di Milano nel 1750. — Musica, ballo, costumi, pittura scenica. — La contessa Clelia V.... — Il tenore Amorevoli e la ballerina Gaudenzi. — Cinque finestre e cinque lumi. — Il giardino di casa V… — Amorevoli e i custodi del morto. — Sospettato trafugamento di carte. — Il giudice del Pretorio. — Il caffè del Greco. — Il violino di spalla. — Donna Paola Pietra. — Gli scolari del Ginnasio di Brera e il nano guardaportone del senator Goldoni. — La musica sacra e la celebre suor professa Rosalba Guenzani. — Storia degli avvenimenti di donna Paola Pietra.


I


Convien risalire a quindici anni addietro, allorquando chi scrive trovavasi in quella età felice, in cui si è amici di tutto il mondo, e il mondo per contraccambio vuota con noi il sacco delle cortesie; età in cui la bile non è ancora uscita dal suo sacchetto a invelenir le vene, e il volto conserva le sue rose, e le influenze atmosferiche non fanno di noi quel che il rame fa delle rane scorticate; età in cui l'umore è sempre uguale e sempre lieto, e l'animo si apre a tutti, spensierato e fidente; età in cui sin la bruttezza ha la sua beltà; tanto che tutti, vecchi e giovani, uomini e donne, matrone e fanciulle si volgono a noi, chi per consigliarci, chi per compatirci amabilmente, chi per accarezzarci senza malizia la barba nascente; età in cui l'uomo è il legittimo re dell'universo, del finito e dell'infinito, perchè se il presente gli sorride da tutte le parti, l'avvenire gli si svolge dinanzi in lungo e in largo, senza confine, tutto pieno di fantasmi dorati. Chi pensa a codesta divina adolescenza della vita, e senza consultare la fede di battesimo, vede nello specchio che ha tanti anni di più, e, guardando il fumo che esce dalla sua pipa, può esclamar col poeta:


Questo di tanta speme oggi mi resta


si fa silenzioso e tetro, e cerca tosto di sommover l'onda delle tristi idee, mescolandovi lo spirito d'assenzio. Allorchè dunque chi scrive aveva quindici anni meno, ebbe a far la conoscenza di un vecchio, il qual vecchio, a quel tempo, dei due milioni e cinquecento mila abitanti che contava la Lombardia, era forse quello che portava più anni sulle spalle, tanto che, se fosse stato povero, avrebbe fatto la prima figura alla lavanda de' piedi. Ma non era povero, quantunque non fosse nemmen ricchissimo. — Fu presso al lago di Pusiano, che vedemmo per la prima volta questo vecchio, e precisamente nell'istante che stavamo leggendo l'iscrizione che addita a' passeggieri la povera casa dove nacque il grande Parini.
Quel vecchio era là seduto, in mezzo ad alcuni contadini che lo guardavano con gran rispetto, e sentendo che noi andavam tempestando di domande i proprietari di quella casa, per aver notizie della famiglia Parini e per sentire se vivesse ancora in quel contado qualche parente del poeta, si alzò e avvicinatosi a noi:
— Della casa Parini, disse, non vive oggi che un prete, il quale sta fuori di questo territorio. Del resto io ho conosciuto il poeta, e ho vissuto con lui in grande dimestichezza e qui e laggiù a Milano, e ho conosciuto la madre dell'abate.
— Sua madre, ha ella conosciuta?
— Sua madre, sì signore. A lei ch'è nato jeri, parrà strano ch'io fossi già sul tramonto di quella che si chiama la virilità, quando Parini venne a morire. Avevo pochi anni, quando col poeta, che di fresco aveva dato fuori l'immortale suo Giorno, fui a visitare la sua madre decrepita. — Io conto oggi i miei ottantott'anni, come se fossero ottantotto zecchini, e sto bene di stomaco, perchè la natura ha messo l'eternità ne' miei denti molari; e sto bene di gambe, perchè non ho mai patito d'indigestione e mi giova tuttora il mio vinetto di collina. — Così dicendo si mosse a discendere, accennando ch'io lo seguissi. — Io me gli accostai per dargli braccio; ma egli, ridendo: — Non s'incomodi. Ella potrà stancarsi, giovinetto com'è, non io così vecchio... — e si discese insieme. Non aprì bocca finchè non si fu al basso, e soltanto quando venimmo all'orlo del lago, dove molti villeggianti lo salutarono riverenti:
— Dunque, ella vuol bene al mio Parini? Io chinai la testa. — Parleremo di lui, soggiunse allora; ed io mi feci ad accompagnare il vecchio venerabile, senza esser punto maravigliato dell'affabile libertà ond'egli mi parlava senza conoscermi. Chi ha vissuto una lunghissima vita, sta nel mondo come nel proprio dominio e tratta gli altri colla cortesia dell'ospite verso i nuovi venuti. — Accompagnatolo ad una sua villetta, stetti con lui per più d'un'ora, e quando presi licenza, gli promisi di ritornar il giorno dopo; tanto m'interessava. Allorchè poi lasciai Pusiano, promisi che in novembre mi sarei recato a visitarlo nella sua casa in Milano. — Ciò che feci religiosamente.
Quel vecchio era un tal Giocondo Bruni, benestante, di sufficiente ma non di eccessivo peculio. — Era piccolo di statura, e magrissimo. La natura, che il volle destinato ad una vita lunga, lo aveva emunto d'ogni umore superfluo, e ridotto come una corda di violino. Poteva spezzarsi, non affloscirsi. — Aveva capelli canuti e tuttora folti che gli coprivan la fronte; occhi neri, piccoli, fondi, tuttora vivissimi, e che attestavano come gli abbondasse ancora il fosforo del cervello. A ottantotto anni aveva la mente lucida, le idee ancora ordinate, la memoria fedelissima. Soltanto lo tormentava, nelle giornate piovose, un sonno ch'egli chiamava morboso, del quale s'inquietava ed affliggeva.
Amava la gioventù con predilezione che pareva originalità di natura; ma soffriva antipatie feroci, tanto che ne' crocchi, dove mi trovai seco qualche volta, investiva con rabbuffi insolenti qualcuno che non gli aveva mai fatto offesa. — Ma i vecchi, come i fanciulli, amano ed odiano per istinto; i fanciulli hanno l'istinto della natura, i vecchi quello dell'esperienza; ed il vecchio Giocondo, in quelle tali faccie profilate, costrutte e tinte in quel tal modo, aveva imparato a leggere quel tal carattere; di qui le sue cortesie e le sue asprezze. Nato di madre ballerina, come aveva percorso tanta parte del tempo, aveva così percorso molti luoghi dello spazio, perchè colla madre sino a dodici anni, in compagnia d'un precettore, s'era trovato in tutte le città d'Italia e d'Europa, dove c'era un teatro, dove c'era opera e ballo. — A Milano, dove nacque, stette per più mesi, sino ad otto volte ne' primi dodici anni; poi vi prese stanza, a compire gli studi, sino ai venti; poi fu a Parigi, a Berlino, a Vienna, con la madre che volgeva al tramonto; poi ritornò in Italia e dimorò a lungo in Venezia sempre colla madre, che là morì, lasciandolo erede di un bell'avere a ventitrè anni. Di questa età mi mostrò un suo ritratto eseguitogli dal Tiepoletto a Venezia. — Faccia bellissima e spiritosissima. — Dai ventitrè anni in poi fermò la sua dimora a Milano, recandosi però, quando occorreva, a vedere altrove le cose e gli uomini e le donne degne d'esser osservate dappresso. — Con questa vita, e con quella tempra, e con quel fosforo della massa cerebrale, e con quello spirito della curiosità e dell'investigazione che non lo lasciò mai vivere quieto, era esso la storia universale viva e vera degli ottant'anni che aveva vissuto dopo i primi otto. Aveva passato i sette anni quando Federico il Grande stava disperandosi per gli affari di Sassonia, e Pitt, il padre, veniva rimosso dal ministero britannico, e Caterina II saliva il trono, e la Pompadour facea nausea ai galantuomini, quantunque piacesse al re di Francia. Avea quindici anni. quando Pitt, figlio, facendo stupire i professori dell'Università di Cambridge collo studio indefesso e coll'intelletto universale, imparava a far dimenticare la fama paterna; quando Foxe nei danari che il più bizzarro ed azzardoso dei padri gli dava per tentar la fortuna al giuoco, e nell'oceano della vita, nel quale immaturo si gettò come a nuoto, trovò il segreto della futura sua grandezza, mescendo il punch alle filippiche nel greco di Demostene; quando Rousseau, dando in luce opere di sovrumano concepimento e abbaglianti di forma incomparabile, nel punto stesso che scandolezzava le sane menti con atti ingiuriosi alla dignità d'uomo, pareva che s'affannasse a far creder vera quella definizione del Sarpi, essere l'ingegno una malattia del cervello; quando Robespierre, ancora fanciullo, leggendo avidamente Gian Giacomo, apprendeva l'odio contro tutte le istituzioni sociali, e l'idea nuda ed innocua del filosofo pensava a tradurre in ferro ed in fuoco. Aveva diciassette anni quando per la prima volta s'introdusse la coscrizione militare, e ventitrè quando Maria Antonietta sposò il Delfino di Francia e si concluse la pace al Congresso di Teschen. — Era giovane fatto allorchè a Venezia conobbe Foscarini, e il vecchio Zeno e il Tiepolo, il pittore e il poeta, e il Canaletto, e l'abate Chiari, e Goldoni giovinetto e Carlo e Gaspare Gozzi; a Roma udì il Miserere dell'Allegri, a Napoli assistette al fiasco dell'Armida di Jomelli. Fece una rissa ferocissima di parole con l'Alfieri a Torino. — A Milano conobbe tutti quanti. — Sparlò del prossimo con Casti, stette serio con Parini, fece pazzie col pittor Londonio, sovvenne di danaro il poverissimo Biondi, il ritrattista per eccellenza, che non mangiava per comperare i pennelli. Quando ci trovammo due o tre volte a fare con esso lui qualche giro sulle mura di porta Orientale, ne' giorni che le mille carrozze sfilano in gala, era bello a sentirlo dire: Di quel signore ho conosciuto il bisavolo; quello lì che or va in carrozzino dee la sua prima fortuna alla roletta; quello là che va col tiro a quattro la deve ad una birbonata. Ne' giorni del perdono all'Ospedale Maggiore, quando sono esposti i ritratti dei benefattori di tre secoli, si piantava con soprassalti di gioia davanti a taluno di que' venerandi vecchioni del secolo passato, e diceva: questo somiglia, quello no...; e tosto una biografia, un racconto pieno di accidenti curiosi, di quelli che la storia ignora e pur basterebbero a far la storia vera. Un giorno che si stava innanzi al ritratto del dott. Macchi, di colui che visse in povertà quasi d'accattone per lasciar all'ospedale tutto quanto ebbe dal padre e raccolse dalla sua professione di notajo, dopo averci narrati molti particolari di quell'uomo, che peccò d'avarizia in vita, per essere insigne benefattore in morte, d'improvviso soprastette dicendo: «Vi ricordate di quel tale che la prima domenica di quaresima abbiamo veduto nel carrozzino di gala sulle mura di porta Orientale, e di cui abbiamo tenuto alcuna parola? — Ebbene, questo notajo fu quegli che scrisse la minuta di un testamento che doveva esser trascritto da uno zio del padre del padre di quel signore». Del quale pronunciò il nome che noi non ripeteremo; chè molti dei personaggi che faranno parte della nostra epopea in veste da camera, hanno l'obbligo di costituire una società anonima.
Quando il novantenne vegliardo levò gli occhi dal ritratto del dottor Macchi: «Se verrete da me, soggiunse, fra qualche giorno, vi racconterà un fatto stranissimo, il quale, se può interessare la curiosità degli oziosi da caffè, può interessare il filosofo che spasima d'affanno per i mali che l'uomo ha inventati onde tormentare sè stesso; e può battere alla porta della giustizia e illuminarla, e illuminar persino la sapienza legale».
Ma qui ci conviene lasciare il nostro decrepito amico, che tante volte accompagnammo a veder l'Arco della Pace e a far il giro de' bastioni; e poi, in più angusto cerchio, e sotto i tigli de' pubblici giardini, abbiam sostenuto del braccio quando non poteva più soddisfare al suo orgoglio di camminare isolato; e soltanto continuava a dispiegarci lo sterminato volume contenente uomini e cose vissuti e avvenute in cento anni, ripetendo sempre quel suo intercalare: La mia memoria è una valle di Giosafat tutta affollata di maschere. — E dal bel mezzo del secolo XIX ora ci convien saltare nel bel mezzo del secolo XVIII, e recarci al Teatrino del palazzo Ducale, a quel Teatrino che lasciò per molto tempo il nome al successivo della Canobbiana; colà udremo la musica della Semiramide riconosciuta del maestro Galuppi, e vedremo a danzare la bellissima Gaudenzi... quella che fu la madre del nostro decrepito amico.


II


È dunque la fine del carnevale dell'anno 1750, e ci troviamo nella platea del Regio Ducal teatro di Milano, detto volgarmente il Teatrino. Mancano pochi momenti alle due di notte, le otto dell'odierno orario. — Le sedie della platea sono tutte quante occupate; il semicerchio che corre dall'ultima fila delle sedie alla porta d'ingresso è affollato. — Al davanzale dei palchetti s'affacciano dame e cavalieri; e succede, in una parola, tutto quello che avviene anche oggidì in que' dieci minuti che precedono l'incominciamento di uno spettacolo ne' nostri teatri. — Ma se in un teatro e in un pubblico sono perpetue alcune abitudini, non per questo si confidi un pittore di poter ritrarre lo spettacolo di quella sera, regolandosi con quello che vediamo oggi. — Il teatro Ducale, meno ampio del teatro Carcano, con quattro ordini di palchi, era sovraccarico d'ornamenti barocchi. — Volute in oro e vermicelli e ghirigori e nastri, colle indispensabili maschere della tragedia e della commedia, l'una trapassata in un occhio dal pugnale di Melpomene, l'altra colla bocca sghignazzante piegata in arco. — Il velario è un Febo in quadriga, a cui s'attraversa Diana colle bianche sue cerve, forse a significare la lotta in cui è impegnata la notte per tener lontano il giorno; il tutto nello stile di un allievo di Tiepolo, che abbia l'immaginazione e il colore e la pratica e i vizj del maestro, insieme al manierismo ed agli svolazzi del cavalier d'Arpino. — Il sipario rappresenta la primavera, trionfante sopra le altre stagioni, e coronata da Minerva; bel lavoro dei fratelli Galliari, che oggi farebbe arrossire i nostri contemporanei della tolleranza onde lasciano che tutti i siparj de' teatri in Milano offrano a' forestieri la più misera idea delle arti nostre. — Ma se un amante della pittura poteva congratularsi con quel sipario, un amante della luce doveva protestare contro il nebuloso crepuscolo che avvolgeva tutto il teatro. — Non v'era lumiera che pendesse dal velario; qualche luce soltanto usciva dall'interno de' palchetti, tutti messi sfarzosamente; e, prima che comparissero i ventiquattro becchi di fiamma al luogo della ribalta, gettavano intorno un poco di albore le candelette che alcuni, seduti in platea, tenevano fra mano per leggere il libretto dell'opera. — L'abitudine a quelle mezze tenebre aveva però avvezzate le pupille del frequentatore del teatro a vedere e ad osservare. Tutta la sala era piena; sui rossi, i verdi, i gialli, gli azzurri, e tutta la varietà delle gradazioni di questi colori, il fiordaliso, il pistacchio, il vigogna, il tortorella, l'isabella, il tané, il testa di pavone, ecc., onde in qualche modo aiutavano la poca luce le giubbe, le marsine, i gilets dei messeri buongustaj dell'opera, adagiati in platea, si distendeva uno strato tutto bianco, ed era la polvere di cipro di quelle seicento parrucche di varia foggia, e, come allora dicevasi, costrutte alla reggenza, a tre martelli, alla circostanza.Se da questa nevicata che copriva tanta varietà di colori, si alzavano gli sguardi ai palchetti, il quadro si faceva più ancora stranamente pittorico. Era il tempo in cui le pettinature femminili, che già avevano cominciato a rialzarsi sotto alla reggenza, si spingevano a tale altezza, che bene spesso una testa cessava di essere la settima parte del corpo umano. — La contessa Marliani, bellissima ed elegantissima fra le eleganti di Milano, quando comparve al suo palchetto in second'ordine vicino al proscenio, mise in mostra una pettinatura che dalle tempia si alzava quasi un braccio, allargandosi come una piramide capovolta, sulla piatta superficie della quale erano fiori e frutti, e due tortore imbalsamate che si beccavano gentilmente. Codesta acconciatura veniva denominata il puff di sentimento. E se in quella sera il puff della bella contessa Marliani superava tutti gli altri puff, la gara aveva generata una tale varietà negli oggetti accumulati su di essi, che sarebbe soverchio tenerci dietro colla descrizione. — Pappagalli, aironi, uccelli di paradiso, foglie e fiori e frutti disposti in modo che una testa pareva un capitello corinzio; le quali mode, se piacevano alla maggior parte, tanto che venivano seguite ansiosamente, non per questo cessavano di far ridere gli uomini di gusto e quegli altri che ridono anche delle cose serie.
— Che ve ne pare delle nostre Milanesi, diceva un giovinotto colla sua bianca parrucca ad ala di piccione, ad un altro che gli rispondeva in dialetto veneziano.
— Non sono nè più belle nè più pazze delle veneziane.
— Ma chi è quella dama là che porta la passionata?
La passionata era una delle tante denominazioni che si davano alle mosche e a' nei onde le gentildonne facevano, quel che si direbbe, la loro professione di fede; la passionata era la mosca che si portava all'angolo dell'occhio, la sfrontata quella che stava sul naso, la civetta al labbro, la galante alla pozzetta, l'assassina all'angolo della bocca. E chi o davvero o per bizzarria voleva o intendeva di avere le qualità morali rispondenti a quegli aggettivi, portava una di queste mosche, come un tempo i cavalieri erranti recavano i motti sugli scudi. Il più delle volte però non erano che simulazioni, onde chi avrebbe dovuto aver l'assassina portava l'appassionata, e sempre poi quelle gentildonne cangiavano posto alle mosche, onde tutte quante in una stagione riuscivano e passionate e galanti e civette e sfrontate e assassine.
Ma que' due, tenendo fissi gli occhi in quella che recava all'occhio la passionata, e continuando un discorso incominciato: — Colei è una delle nostre più infocate dilettanti di musica; del resto non v'ha bella signorina in Italia, la quale, nel ricevere la visita di un giovane cavaliere, dopo aver fatto pompa delle sue grazie, non passi al cembalo a cantare un'arietta per rendersi più amabile. — Quella dama là della passionata pigliò molti alla rete cantando l'arietta, — Se tutti i mali miei — ed è così bizzarra che, quando di recente gli fu presentato un giovanotto per essere il suo cavalier servente, così lo interrogò sulle qualità che lo dovevano far degno di quel posto: Signore, sapete la musica?No, quegli rispose. — Ebbene, ripigliò la dama, andate ad impararla e poi venite a ritrovarmi. La musica nel mondo galante è divenuta indispensabile; senza di essa un amante corre sovente pericolo di cadere in disperazione per non essere in istato di cantare un'arietta. — E quel cavalierino che ora siede rimpetto a colei, fu respinto più volte dalla crudele, ed egli sarebbe morto se non avesse imparato a memoria quell'aria del Buranello:


Ah che nel dirti addio,
Cara, morir mi sento...


che gli salvò la vita — e così press'a poco fan tutte... E qui cangiando discorso, il giovane di Milano nominò a quel di Venezia tutte le principali beltà che in quella sera mostravansi al palchetto: la marchesa Serbelloni con puff a nastri azzurri, la marchesa Dadda con puff ad airone, la marchesa Litta con puff a capitello corinzio, la contessa Borromeo del Grillo senza puff, ma con un sistema di riccioni altissimo e intrecciato con dieci braccia di nastro, e la contessa Verri e la marchesa Beccaria, ecc., tutte insomma le arcavole delle nostre più distinte patrizie. — Ma già i suonatori, incipriati anch'essi, eran tutti al loro posto in numero di trenta, e il primo violino, signor Belletti, aveva dato un primo colpo d'archetto. Il maestro Galuppi soprannominato il Buranello, il quale era il compositore della Semiramide riconosciuta, stava già alla sua spinetta, in tutto quello sfarzo di vestito che era la caricatura di tutte le caricature che si trovavano in teatro. Seduto tra il contrabbasso e il violoncello, aveva dietro di sè due viole da gamba, strumento soavissimo, che scomparve per dar luogo alle catube, ai bombardoni, ai serpenti, ai pelittoni, e a tutto il parco di artiglieria della musica di oggidì; e sedevano innanzi a lui due suonatori di flutte, due di oboè, due di corni. Il resto eran contrabbassi, viole e violini.
Quando il maestro Galuppi comparve alla spinetta:
— Costui è il sopracciò di tutte le case di Milano, disse uno de' suddetti interlocutori; chi vuol farsi d'accosto a qualche dama non dee che appigliarsi alle grandi falde quadrate della sua marsina, ed è tosto introdotto. Come compositore val più del nostro Lampugnani, suo collega concertatore, il quale è un buon ambrosiano e un forte contrappuntista, ma quando non assorda fa dormire; codesto Buranello invece compone con molt'arte, va in traccia dell'espressione, e la trova; tuttavia se la sua musica è la scuola dei professori, ne guasterà molti, perchè ha troppi passi pericolosi, e convien essere eccellentissimo nell'arte per collocarli a proposito, com'egli ha saputo fare.
In questa si alzò il sipario e si mostrò allo spettatore un — Gran portico del palazzo reale di Babilonia corrispondente alle sponde dell'Eufrate — lavoro di quei fratelli Fabrizio e Bernardino Galliari, che furono i primi fondatori della nostra scuola scenica, che recaron poscia oltremonte. Essi non conoscendo tutti gli stili architettonici e non avendo erudizione archeologica, applicavano il greco romano dappertutto, in Babilonia, a Menfi, alla China; ma avevano una tal pratica nella prospettiva e una così sterminata immaginazione nel costrutto architettonico e nella combinazione delle linee, dei contrapposti, degli interrompimenti, delle fughe, che lo spettatore ne rimaneva abbagliato e anche oggi ne sentirebbe meraviglia. Le scene poi a quel tempo raggiungevano il più completo effetto, perchè la quasi oscurità della platea concedeva tutto lo splendore al palco scenico, e la ribalta non ancora riboccante di fiamme (chè le lucerne ad argand s'introdussero posteriormente) permetteva che la distribuzione della luce si facesse nel modo più conveniente e più proporzionato alle leggi prospettiche.
Ma lasciando ora i pittori Galliari e la scenografia, dopo la comparsa del palazzo reale di Babilonia, comparve Semiramide tra gli applausi del pubblico, Semiramide in abito virile, sotto nome di Nino, ed era la virtuosa signora Cassarini, che cantò il recitativo: Olà, sappia Tamiri, con quel che segue; dopo del quale venne fuori Sibari, o la seconda donna signora Ghiringhella, e lì s'impegnava un lungo recitativo intercalato di guaiti di violoncelli e viole, sino al punto che Semiramide, con solenne portamento di voce, diceva alla seconda donna: T'accheta, ecco Tamiri; e usciva Tamiri, ossia la signora Giuditta Fabiani Sciabrà; e quando, dopo alquante parole di complimento, Semiramide s'assideva in trono in mezzo a Tamiri e a Sibari, e una guardia recavasi sul ponte a chiamare i principi rivali, tosto, preceduti dal suono di strumenti barbarici, passavano il ponte Minteo, Scitalce e Ircano. Allorchè questi si mostrò, successe un movimento nel teatro, come quando il vento investe una selva, e scoppiò di poi un applauso strepitoso e unisono che pareva fuoco di plotone fatto da un reggimento di veterani. L'opera nel complesso annoiava anzichè no, chè il pubblico aveva ancora nell'orecchie l'Olimpiade di Pergolese, e l'Artaserse di Scarlatti, rappresentate poco tempo prima; e non era pago gran fatto nè della Casserini, nè della Sciabrà, perchè esso ricordavasi troppo della voce stupenda della Turcotti, della grazia dell'Aschieri, del prodigio della Tesi che commoveva irresistibilmente al pianto, e della soavità dell'Agujari che veniva chiamata il rossignuolo della scena. — Però, essendo inferiori le prime donne di quella stagione, alle altre che aveva già sentite, il pubblico si rivolse al nuovo sole che era Ircano, ovvero il tenore Amorevoli, l'occulta passione delle donne. — Applaudito al suo primo comparire, fece fremere d'entusiasmo la platea ad ogni emissione di voce; ma il segreto di mettere in pericolo la mente sana degli spettatori se lo serbò all'aria:


Maggior follia non v'è

Che, per godere un dì,

Questa soffrir così

Legge tiranna.  


Alle cadenze di questa cabaletta il teatro parve dividersi in due per lo scoppio d'applausi.
— Vengano ora i musici — gridava un giovinotto — ora che finalmente questo Amorevoli canta come un uomo e non come una donna.
Il tenore Amorevoli diffatto fu il primo che, per l'ineffabile dolcezza d'una voce naturale e pel gusto squisitissimo del suo canto, fece sperare che col tempo si potesse far senza de' musici. Ma così non la pensavano i vecchi, uno de' quali diceva indispettito:
— Tutto va bene, ma bisognava sentire Carestini a cantar quest'aria. Egli aveva gli estremi dei bassi e degli acuti, tanto che il Ciardini tenore disse, che voleva farsi evirare per poter cantare il basso come lui.
— E dove lasciate Cafariello? — diceva un altro che portava ancora la parrucca a riccioni; — giammai uomo mortale spinse così lungi l'audacia del canto.
— E Bernacchi il patetico?
— E dove lasciate Egiziello, il grande, l'unico Egiziello, il re dell'espressione? fu egli che nell'opera Artaserse fece piangere tutta Roma per questo solo accento:


E pur son innocente.


E dopo lui Guadagni e Salimbeni e Monticelli e Reginelli e Garducci e l'Elisi; se il men valoroso di costoro fosse qui, codesto Amorevoli non piacerebbe nè poco nè assai...
— Intanto si compiaccia a sentirlo.
— Per forza, non c'è altri...
E l'opera continuò... e Amorevoli dalla voce piena di fascino e dall'aspetto bellissimo, fu chiamato sei volte al proscenio, dopo che, con un'espressione e un ardore indicibile, ebbe cantato quell'aria con cui finisce l'atto primo:


Empio fato se m'opprime,
Seguirà le mie ruine
Chi superbo mi contende
La beltà che mi piagò.


Le ultime due volte che Amorevoli uscì, tenne fisso lo sguardo ad un palchetto... Nessuno però nè s'accorse, nè prese informazione di quell'atto...
Solo il gentiluomo veneziano che teneva dietro alle beltà lombarde, guidato macchinalmente da quello sguardo ad osservare egli pure il palchetto, chiese all'amico che gli serviva d'interprete:
— Chi è quella bellissima dama là, al numero quattro del second'ordine?
— Bellissima, se avesse imparato a sorridere, e se ricevesse la grazia dalla bontà... Quella è la contessa Clelia V..., odiata dalle donne ed anche dagli uomini.
— Odiata?
— Sì, odiata... Sa il latino, il greco e la matematica... e dall'alto del suo tripode ci guarda tutti come una divinità sdegnata. — Mentre il cavalier servente è dovunque un mobile di casa, ed è adottato da chi lo considera come un'imposizione della moda e nulla più, ella non ha mai patito d'averne uno. La natura le ha messo il cuore in ghiaccio per preservarlo dalle infiammazioni.
— Ha marito?
— Altro che marito! Vedetelo là nel palco dirimpetto... È un ex colonnello di cavalleria, fatto con sangue di Spagna e con sangue lombardo. Nobilissimo, del resto, e ricchissimo; ma serio come un cavaliere del tempo del Cid. — Sposò la sapienza, perchè s'accorse che la grazia lo avrebbe fatto diventar geloso come il Moro di Venezia...


III


Il fischio dell'avvisatore, partito dal palcoscenico, fece cessare tutti i discorsi che si tenevano nella platea e ne' palchetti, e si alzò il sipario. Il ballo di quella sera rappresentava La Morte d'Ercole, del coreografo Pitraut, colui che aveva destato tanto chiasso a Parigi per aver messo in ballo il Telemaco dell'arcivescovo di Cambray, nel quale ballo la dea Calipso, in conseguenza di un passo falso, avea corso pericolo di perdere l'immortalità. — L'azione dell'Ercole si apriva con un grande strepito guerriero; una folla di popolo annunciava il ritorno d'Ercole che entrava in cocchio tirato da alcuni schiavi di nazioni diverse da lui soggiogate. Jole era strascinata dai lottatori; Filoteta ed Ilo stavan seduti sul cocchio ai piedi d'Ercole. — Compariva finalmente Dejanira, la bellissima Gaudenzi. Questa ballerina destava allora il massimo fanatismo in Europa, non tanto perchè fosse d'una bellezza abbagliante, ma perchè nell'arte sua era un'eccezione alla regola, ovverossia poteva servire di regola tra gli abusi. — La critica sapiente, che allora usciva a protestare in opuscoletti, si lamentava forte che i compositori de' balli andassero lontanissimi dalla natura; ma più ancora si lagnava degli esecutori. Tutta l'arte de' ballerini in generale si riduceva alla capriuola. Non si trattava più di ballare, ma di andare in alto, e quegli che più s'approssimava al cielo del teatro passava per il più bravo. Il ballerino Sauter, per far vedere al pubblico la forza delle sue gambe, si propose in un gran ballo eroico, dopo aver fatto duecento capriuole ed altrettanti tours de jambes, di cadere in à plomb sul piede dritto, e di starvi per otto minuti in equilibrio, affine di dar tutto il tempo alla platea di battere le mani. Questi salti eran tanto pericolosi, che bene spesso in teatro succedevano grandi inconvenienti, e in quella medesima stagione a cui ci troviamo, nello stesso ballo della Morte d'Ercole, una divinità, facendo uno sforzo pantomimo, prese così male la sua misura, che si precipitò nell'orchestra, dove ruppe sei istromenti, disordinò quindici parrucche, gettò a terra il violino di spalla, cui poco mancò che uccidesse invece di fracassare sè stessa; avvenimento, che per quello che poi saprà il lettore, fece cadere in deliquio la bella Gaudenzi. — Ma continuando a parlar dell'arte della danza a quel tempo, non parea vero che i compositori de' balli, che volevano far effetto affrontando qualunque assurdità e mettendo in pericolo la vita dei loro esecutori, trovassero ballerini e ballerine, e ricche e sospirate dal bel mondo, che si adattassero a sfigurarsi e a diventar furie sulla scena. La celeberrima Campioni e la milionaria Curz, a forza di contorsioni e movimenti irregolari, finito il ballo, diventavano deformi a segno da far paura; i loro occhi si facevan torti e biechi, si tramutavano le loro fattezze e lor fuggiva il colore. Non così la Gaudenzi. Il nostro amico, parlandoci un giorno di sua madre, ci fece vedere un libro, che teneva carissimo, nel quale davasi di lei il seguente giudizio: «Anche nel bel mondo ballante si trovano le rare fenici. La Gaudenzi è una di quelle; ella balla con agilità inarrivabile, con elegante portamento e con brio vivacissimo; il corpo suo è sì ben formato che sembra fatto per ballare. È grande attrice pantomima; con un volto oltre ogni dire bellissimo esprime al vivo le diverse passioni dell'animo, la tenerezza, il dolore, lo spavento, l'allegria, il furore». Noi siamo inclinati a credere che l'autore dell'opuscolo, stampato a Milano dal Motta, dove stanno queste parole, fosse uno spasimante della Gaudenzi, e che però caricasse le dosi; tuttavia viene una gran voglia di credergli, quando si pensa che tutta Europa andava perduta dietro a codesta Gaudenzi, mentre pure aveva uno stile di danza contrario a quello allora in voga. Ma se ella poteva danzare con ragionevolezza d'arte, non poteva far scomparire le assurdità della composizione coreografica; però nel nuovo ballo del Pitraut, dopo essersi gettata nelle braccia dello sposo Ercole, doveva adattarsi a ballare un pas de trois con lui e con Jole, e solo poteva mettere in atto tutte le riforme ch'ella avea introdotte nella danza quando eseguiva l'a solo. — Ella avea compreso che la danza non è altro che un'arte plastica viva e vera, in cui la figura umana, dotata di forme bellissime, s'atteggia a consigliar pose e movenze e contorni eleganti alla pittura e alla scultura.
I pittori Galliari, che non s'interessavano gran fatto alla musica, nell'ora che danzava la Gaudenzi, erano assidui ad osservarla, stando fra le quinte; e noi abbiam veduto un disegno a penna d'uno di loro, dove è ritratta la celebre danzatrice in costume di Dejanira, adagiata su d'un letto di cespugli, in preda al dolore. Quantunque però, nel massimo imperversare dell'arte barocca, ella avesse tanta purezza di atteggiamenti, non aveva il coraggio di omettere l'entrechat propriamente detto, perchè voleva far tacere le ballerine rivali, le quali, se ometteva la capriuola, l'accusavano di poca agilità nelle gambe. — Sapeva dunque soddisfare in un punto e alle esigenze legittime della bellezza assoluta, rivelando forme d'indescrivibile perfezione, e ai capricci della moda, e alle pretese dei compositori. — Del resto, se ella era abilissima come danzatrice, riusciva inarrivabile come attrice, e sapeva provocare il vero orror tragico, quando, nell'ultima scena del ballo, mentre Ercole ardeva nella camicia funesta, ella entrava come forsennata, e, non potendo reggere allo spettacolo straziante, si uccideva. Se non che tutte le sere doveva risuscitar tosto per uscire al proscenio (non si potevano contar le volte), a ricevere le dimostrazioni di un pubblico che andava in delirio; e, dopo calato il sipario, il palco scenico abusivamente era invaso dai giovani zerbinotti, che recavansi a farle tributo dei loro omaggi e a lasciarle un tappeto di rose e viole sul pavimento del camerino, dov'ella gentile e spiritosa e vivacissima dava belle parole a tutti, e occhiate che parevano significare quel che non volevano dire. Veduta da presso, la Gaudenzi non scapitava d'un punto dell'effetto che produceva a chi la guardava dalla platea; chè veramente era dessa di una perfetta beltà. Aveva la capigliatura biondo cupa increspata e prolissa, la quale nella sua schietta natura non potea vedersi che nel momento in cui, attendendo a dar parole, scioglieva i capegli per poi foggiarli anch'essa nel puff di convenzione. — Aveva occhi azzurri, bocca e mento e contorni della purezza più completa; soltanto il naso, come quello della greca Aspasia, sopravanzava d'alquanto il confine stabilito dalle scuole accademiche. — Ma quegli occhi azzurri e quel naso erano un argomento di censura per le altre beltà invidiose, segnatamente del ceto patrizio. — La contessa Marliani affermava, sdegnosissima nella sua convinzione, che non può essere una beltà perfetta chi non ha gli occhi neri; la quale asserzione diede luogo ad una disputa de' begli spiriti che recavansi alla sua conversazione. — Fu persino convocata una consulta di pittori per decidere in proposito; e avendo essi sentenziato in favore degli occhi azzurri, quasi corsero il pericolo di perdere il loro posto alla tavola di casa Marliani. — Ma anche noi che scriviamo, avremmo perduta l'amicizia della contessa perchè le avremmo detto che, se gli occhi neri lampeggiano in virtù della legge dei contrasti, gli occhi azzurri risplendono per virtù propria; le avremmo detto che la pupilla azzurra sdegna la mediocrità, vuol bellezza perfettissima di linee nel sopracciglio e nella cassa dell'occhio, mentre la pupilla nera s'appaga invece anche di linee irregolari; che l'occhio nero non avendo un colore, non ha sempre nè varietà nè nobiltà nè iridescenza nè riflessi, sia dalla luce esterna che dall'intima luce dell'anima; ora tutte queste qualità avevan gli occhi della Gaudenzi, occhi esercitanti un fascino, che poteva persino sembrar colpevole a chi non conosceva l'indole di quella donna.
Ma intanto che i cavalierini incipriati stavano indugiandosi alle soglie del camerino della Gaudenzi, in aspettazione dell'ultima occhiata, e tutti nella speranza che quell'occhiata significasse una scelta, senza, del resto, arrivar a comprendere che la Gaudenzi era sudatissima e sentiva il bisogno di spogliarsi e rivestirsi, e nel suo segreto, pur conservando l'amabilità dell'azzurra pupilla, li mandava tutti al diavolo, s'intesero voci d'alterco sul palco scenico. — Ad un illuminatore, che passava in quel punto, tutti que' gentiluomini si volsero per domandarli di che si trattasse:
— È il signor Amorevoli che non vuol più cantare...
— Come, come?
— Per questa sera, no.
— Ma perchè?
— Dice di star malissimo, e i medici, richiesti dai cavalieri ispettori, dichiarano invece che non è mai stato così bene; ed egli ha minacciato di bastonar tutti quanti, cavalieri, ispettori e medici... — e senza dir altro e sghignazzando di gran voglia, l'illuminatore passava oltre. — Allora gli spasimanti della Gaudenzi s'allontanarono dalla loro vittima e mossero a spingere un occhio e un orecchio curioso al camerino del tenore. Ma tutto era tornato nella più perfetta calma. In conclusione, convenne fare la volontà del tenore, il quale dichiarava che, quand'anche non avesse la febbre richiesta dai regolamenti del teatro, pure non poteva spingere la voce al di là del sol, aveva compromesso il la, e sarebbe stata una imprudenza solamente a parlare del si e dei falsetti. Così, dopo alcuni momenti, uscì l'avvisatore a gridare dal proscenio, in mezzo ad un silenzio di tomba:
— Per improvviso abbassamento di voce del tenore signor Amorevoli, si ommetteranno nel secondo e nel terz'atto tutti i pezzi d'Ircano. -
Non è a dire come rimanesse percosso da questa notizia tutto quanto l'uditorio, il quale, per non saper come sfogare il dispetto, fischiò disperatamente l'avvisatore, il quale si ritrasse con un volto pieno d'indifferenza, di calma e d'ironia; con un volto che pareva quello di Socrate quando si alzò a sfidare le risate della folla d'Atene. — Tanto in qualche cosa giova essere gli ultimi per assomigliare ai primi.
Ma tornando all'Amorevoli, noi, al pari dei medici del teatro e dei cavalieri ispettori, siamo inclinati a credere che in quella sera egli avesse una salute di ferro e una voce a tutta prova.
Seduto di fatto nel suo camerino innanzi ad uno specchio, stava disbellettandosi; e ridendo tra sè, pareva che godesse di un trionfo ottenuto. — Entrava in quella il servo universale del palco:
— Si va dunque a casa?
— Prepara il mantello e gli stivali, Zampino.
— Gli stivali?
— Gli stivali ed il mantello... Sì.
— Ecco il mantello.
— Tu vuoi assaggiare la mia canna, eh?
— Non sono il medico del palco scenico.
— Porta via dunque questo drappo rosso, che fa uscire il sole anche di notte... e prepara il mantello nero, bestione.
— Vuol l'amo o le reti, signor Angelo?
— Bada a te, Zampino. — E Amorevoli si alzava aspergendosi il volto e le mani d'acqua odorosa, e mettendo in mostra una camicia tutta gaja di preziosissime trine, e un pajo di calzoni di raso turchino con punte d'argento. Si adattò il gilè, che pareva un mazzo d'ortensie, mise gli stivali di rnarocchino nero con rovesci azzurri come i calzoni, infilò la marsina variopinta come una squama di serpente, si calcò il cappellino a tre punte sulla parrucca alla circostanza, e si gettò il mantello sulle spalle. Dopo aver detto a Zampino: — Preparati ad accompagnarmi col lampione — uscì dal camerino, e recatosi sul palco scenico, nel momento che era calato il sipario, dopo i frammenti del second'atto, mise l'occhio ad un buco del telone, e guardò al numero quattro in second'ordine. Il palco era vuoto... egli soffregossi le mani e ripartì queto, uscendo per la falsa porta del teatro. Zampino lo seguiva senza far parola, col lampione che già aveva acceso.
Lasciato il teatro, Amorevoli volse il passo verso la contrada Larga... alla quale rispondeva una porta del teatro per dove uscivano i proprietarj de' palchetti. — Molti carrozzoni erano là in fila, e i cocchieri aspettavano di esser chiamati dal lacchè della propria casa.
— Casa Borromeo, casa Litta, casa Marliani, casa Gambarana, casa Annoni, casa Belgiojoso, casa Sanazzaro, casa Bossi, casa Taverna... — gridavano essi di mano in mano che i carrozzoni si facevano innanzi.
Amorevoli si fermò sull'angolo della contrada delle Ore, porgendo orecchio alle voci rauche di quei poveri lacchè che facevan venire innanzi le carrozze in processione.
— Casa Verri, casa Beccaria, casa V...
Amorevoli stette un istante senza far motto, gettò il mantello alla veneziana intorno alle spalle, ascoltò il cupo e pesante romor delle ruote di quell'ultimo carrozzone che s'allontanava.
— Quante sono le ore? — chiese poi a Zampino.
— Manca poco a mezzanotte.
— Vieni che faremo una passeggiata per la città.
— A quest'ora?
— A quest'ora — e partirono.
Camminarono una mezz'ora buonamente... Zampino di tant'in tanto diceva ad Amorevoli:
— Ma che si fa?...
— Bada a te... e attendi a servirmi bene — e vennero a Poslaghetto. Colà era un'antica osteria, donde partivano grandi schiamazzi e canti e villotte...
— Che diavolo c'è laggiù, Zampino?
— Siamo agli ultimi di carnevale, signore; saranno i compagnoni della Badia de' facchini.
— Benissimo. Ora va' a mangiare il tuo boccone in quell'osteria, e attendimi là...
— Non devo accompagnarla?
— No.
— Ma e se?...
— Va' a mangiare il tuo boccone... — e Amorevoli partì solo.
Pareva praticissimo di quel gruppo di contrade, e difilò dritto ad una cinta di un gran giardino. Era il giardino del palazzo V..., nome che dobbiamo tacere, avvertendo solo, a scansare equivoci, che aveva desinenza spagnuola, e che una volta aveva probabilmente dato l'appellativo ad una contrada.
Faceva una notte di febbrajo limpida e stellata... e dal dietro della cinta si vedeva la sontuosa facciata di un gran palazzo antico, — Da due finestre, poste tra loro a molta distanza, ai lati estremi di quel palazzo, trapelavano due lumi. — Un altro lume trapelava più in lontananza da una casetta modesta, che rispondeva ad un giardino confinante a quello della casa V..., il qual giardino apparteneva al palazzo del marchese F... che era morto la mattina di quel giorno; due lumi luccicavano a due balconi di quello stesso palazzo. Il lume della prima finestra del palazzo V... rischiarava la stanza della contessa Clelia che vegliava...; quello della seconda finestra rischiarava la camera dell'ex colonnello conte V... che già dormiva; il terzo lume, che traspariva dalla finestra della casa modesta, rischiarava l'alloggio della ballerina Gaudenzi, che s'era acconciata là per esser vicina al Teatrino Ducale e che in quel momento stava mutandosi la camicia.
Delle ultime due fiamme, l'una illuminava un lenzuolo in cui era avvolta la salma patrizia del marchese defunto; e l'altra una mano di gente venale, pagata la notte a far compagnia al morto.
In quello spazio misurato dall'occhio del tenore Amorevoli non scintillavano che quelle cinque fiamme... Esso le contò macchinalmente, e scavalcò il muricciuolo di cinta,


E con un'ansia incognita
Ebbe la debil orma accelerato
E in alto..................................
Scintillava il beffardo occhio del fato.


IV


La contessa Clelia era sola nella sua stanza da letto, di cui gli addobbi e gli ornamenti, sovraccarichi di sfoggiata ricchezza, fuor delle leggi del buon gusto, è più facile che un uomo d'immaginazione se li dipinga, di quello che li descriva un galantuomo di null'altro temente che di riuscir nojoso a' lettori. — Tuttavia in quelle linee contorte e peccaminose del barocco, e in quell'oro condensato senza risparmio in forme d'ornamenti, c'era qualcosa che poteva parlare alla fantasia, e tanto più in quanto in mezzo ad essi spiccava una donna così severa e così bella, bella di quella bellezza di rigida perfezione che lascia placidissimo il cuore, ma che provoca lo spirito d'osservazione in menti avvezze ad esaminare le opere dell'arte. Pure non si potea dar figura che fosse meno adatta a quella stanza; chè l'una e l'altra rappresentavano due stili di due periodi opposti e nemici tra loro. Il volto della contessa apparteneva a quello stile greco romano che non sopporta transizioni di scuola; e siccome in quell'ora in cui vegliava, ella si era lasciata cadere l'alta acconciatura de' capegli, dai quali, ravviati un momento prima dalla cameriera, era scomparsa anche la cipria, così a quelle volute contorte del Borromini e del Fumagalli faceano più cruda antitesi quella fronte quadra, quei piani delle guancie modellati a rigore, come quelli d'un cammeo antico, quel mento romano che richiamava il mento appunto della Clelia, quando passa il Tevere, disegnata dall'improvvisatore Pinelli, quel naso rigorosamente giusto e ad angolo retto, il quale insieme cogli occhi grandi e neri e di lento giro, e colle palpebre prolisse e co' sopraccigli arcuati e folti, più forse che nol comportasse la delicatezza muliebre, generava quel tutto che sarebbe necessario a dipingere una Minerva convenzionale. Occhi tuttavia e sopraccigli e palpebre, che pur di sotto al rispetto quasi disgustoso che imponevano, e alla fuga in cui mettevano ogni pensiero giocondo e gaio, potevano, in certi momenti e a seconda di certe nature, provocare strani pensieri e sommovere il senso voluttuoso.
La fronte però, quasi sempre corrugata, di quella gentildonna e certe protuberanze che, preziose sotto alla mano del frenologo, recano sempre offesa alla completa bellezza per l'occhio dell'artista, potevano venir in soccorso onde spegnere la seduzione. — Ma da quella fronte, senza saperlo, i rigidi parenti (di cui, per esser fidi ad un sistema di prudenza, sopprimeremo al solito il nome del casato), avean preso consiglio per dare alla fanciulla Clelia una educazione che fosse distinta oltre il consueto, a ciò poi singolarmente sollecitati da un dottissimo abate, un tal Carlantonio Tanzi, stato precettore al fratello della contessina, il quale, non trovando più nessuno a cui comunicare la sua dottrina, pensò fare di lei un oggetto di esercitazione scientifica pe' suoi vecchi anni, e una meraviglia del gentil sesso. — Ad ogni modo, l'abitudine di introdurre le fanciulle a discipline non fatte pel sesso grazioso, nel secolo passato, secolo delle esagerazioni e delle cose a rovescio, fu comune più che non si creda. — Era il barocco applicato all'educazione, per cui alle fanciulle si gonfiavano le teste a spese del cuore, e si riduceva la scienza a ricovrarsi per forza all'ombra de' guardinfanti. Molte donne, nel secolo passato, studiarono filosofia, giurisprudenza, matematica; talvolta, qualche stragrande ingegno, fece parer sapienza cotale pazzia, e valga per tutte quel prodigio della Gaetana Agnese; ma più spesso furono anomalie di sterilissima dottrina, rigonfiata da orgoglio infelice. La contessina Clelia pertanto, dal dotto abate che non aveva cavato nessun costrutto dal fratello di lei, fu incaricata di far le sue veci e di rappresentarlo al consesso dei dotti. — A dieci anni la contessina, oltre alla lingua francese, che si parlava abitualmente dal conte padre, il quale tante volte s'era trovato a Parigi confuso nella folla dei cortigiani del gran Luigi, conosceva la lingua latina; e il prof. Branda, quello col quale ebbe accanite dispute il giovane Parini, fu invitato dal prete Tanzi a sentir la contessina Clelia tradurre l'orazione di Cicerone Pro Archia e il Sogno di Scipione, e recitar a memoria uno squarcio di Lucrezio De rerum natura. Non istupisca il lettore: chè Voltaire mandava già il figurino da Parigi; e il professor Branda, lodata al conte padre la contessina miracolosa, consigliò l'abate Tanzi ad insegnarle anche la lingua greca... e la lingua greca fu imparata; poi quand'ella ebbe sedici anni, apprese matematica insieme col giovane Paolo Frisi, quello che fu in seguito autore del trattato De gravitate universali corporum, e in questa scienza, ajutata da un naturale ingegno e sollecitata da quelle prove di distinzione onde si vedeva circondata ogni qual volta trovavasi colle altre fanciulle patrizie sue coetanee, fece tali progressi, che fu introdotta persino all'intima confidenza di Urania; di modo che nella notte a cui ci troviamo, quantunque la contessa pensasse assai più di quello che leggesse, pure si teneva sul tavoliere di lapislazzulo, insieme coll'opera di Boscovich — De maculis solaribus, e all'altra d'Eulero Novæ tabulæ astronomicæ, il famoso trattato sulla processione degli equinozj, che d'Alembert aveva pubblicato due anni prima; del qual d'Alembert ella sapeva tener dietro, senza scontorcersi, alle dimostrazioni; tantochè avrebbe potuto ripetere ad un consesso di dotti, come gli assi dell'ellisse descritta dal polo dell'equatore sieno fra loro come i coseni dell'obliquità dell'eclittica ed i coseni del doppio di questa obliquità. Ma i coseni dell'obliquità dell'eclittica non bastavano a render felice una bella donna di venticinque anni. Sette intanto ne eran corsi da che era stata fatta sposa all'ex colonnello conte V..., senza mai averlo veduto prima, senza avere dell'amore e delle questioni aderenti, altre idee che quelle che sono depositate ne' classici latini; idee che non poterono avere uno sviluppo intero, compresse come vennero dall'algebra e dalla geometria, due scienze più infeste della brina ai primi germogli dell'affetto. Sposò dunque l'ex colonnello che aveva quattordici anni più di lei. Egli vantava un gran casato, una grande ricchezza, e brillavagli inoltre sull'uniforme di parata un segno che attestava il suo valor militare. Era serio, era dignitoso, parlava poco, ma dalle poche parole trapelava la stima profonda che aveva della giovinetta prodigiosa. Ond'ella, quando i rigidi parenti proposero il matrimonio, consentì e provò anche qualche sussulto che non veniva nè dalla geometria nè dall'algebra, ma fu un sussulto di brevissima durata, e la scienza dovette colmare i vuoti lasciati dall'affetto vero. D'altra parte è a tener conto d'una cosa. Non tutte le creature umane raggiungono la maturanza un punto medesimo. L'abitudine agli studi severi, quel non riposarsi mai su pensieri e desiderj erotici, aveva ritardato il completo sviluppo della contessa. Fu necessario il tempo, più che il sole di un'anima appassionata, a togliere l'acerbità a quel frutto. La giovane contessa era alta, era ben fatta, era bella — parliamo d'allora che andò a maritarsi — ma le mancava quell'arcana virtù della donna, che non si sa da chi e da che, e come e quando venga provocata.
Noi non possiamo dire precisamente in qual periodo della vita della contessa Clelia abbia incominciato codesta misteriosa virtù, ma pare che sia stato tra l'anno ventiquattresimo e il ventesimoquinto della sua età; nessuno però s'accorse di questo, perchè nessuno poteva sospettare che fosse una virtù l'eccessiva acerbità ond'ella esprimevasi parlando sia cogli uomini sia colle donne. Un fatto solo notarono tutti, e uomini e donne: ch'ella era cresciuta in beltà. S'era fatta più maestosa nel volto, s'era arrotondata ne' contorni del corpo, soltanto negli occhi era diventata più seria. Del resto, chi mai non potesse capacitarsi del come una donna possa essere più bella a venticinque anni che a diciotto, sappia che la contessa Clelia non aveva mai avuto figli; e che i parti e il latte guastano un bel corpo di donna più che i classici latini e i trattati d'astronomia. Quantunque però crescesse di maestosa bellezza e di attraenti rotondità, non per questo nessuno presumeva che la gioventù galante le si facesse dappresso. Ella non era che ammirata quando non era temuta, ed era temuta quando non era odiata; chè vi sono tali beltà a questo mondo, sia maschili sia femminili, che raccolgono tanto meno quanto più hanno di perfezione nel loro aspetto. Sono conquiste considerate al di sopra di ogni forza volgare, epperò lasciate in disparte come imprese disperate; donne condannate tutta la vita a desiderare e ad essere desiderate, a tormentare e ad essere tormentate per finire i vecchi anni tra le reminiscenze di una gloria vanitosa senza felicità. Nessuno adunque dei bei giovani di Milano osava avvicinarsi alla contessa, quantunque taluno de' più audaci sì fosse azzardato persino a dire all'amico: Che bella donna!! Nè è da credere che facesse paura il grave e superbissimo suo marito ex colonnello, tutt'altro: la paura non veniva che dalla maestà soverchia della bellezza di lei, e da quelle parole piene di sapienza riposta ond'ella faceva ammutolire tutti quelli che le si avvicinavano, e dal sospetto ch'ella fosse più sapiente ancora di quello ch'ell'era. Ma come potè adunque un tenore?... Noi stavamo in aspettazione di questa domanda, però la soluzione del problema eccola qui.
Nel famoso 18 brumajo, Bonaparte, che pure era passato imperterrito attraverso alla flottiglia inglese, fidente nel proprio destino, per giungere in tempo a Parigi onde recarsi in mano le redini di tutta la cosa pubblica; quando si trattò di abbattere il Consiglio de' cinquecento, si smarrì e parve minor di sè stesso, e nessuno de' suoi coraggiosi fautori, nemmeno il fratello Luciano, avrebbe osato disperdere quel formidabile Consiglio. — Chi seppe far tanto? Colui che aveva men testa di tutti, colui che ripeteva il suo coraggio dalla spavalderia militaresca, e affrontava il pericolo per non saperne misurar le conseguenze. Fu Murat, che, alla testa de' suoi granatieri, a bajonetta in canna, entrò nel Consiglio, e i membri dovettero discendere dalle finestre... con che le sorti di Napoleone furon fermate. I grandi fatti giovano a spiegare i piccoli, e viceversa, però la contessa Clelia che riusciva a' cavalieri milanesi più formidabile del Consiglio dei cinquecento, non fece nessuna paura al tenore Amorevoli, il quale anzi s'incalorì delle difficoltà, e fatto baldanzoso dalla lunga lista de' proprj amori fortunati e reso intraprendente dalle sopracciglia folte della contessa che gli richiamavano le sue belle compatriotte di Trastevere (perchè il tenore Amorevoli era nato a Roma), fece quello che fece poi Murat, mezzo secolo dopo, col Consiglio dei cinquecento.
Nelle serate musicali che si tenevano o nell'una o nell'altra delle case patrizie di Milano, Amorevoli era pregato, supplicato a intervenire, ad imbalsamar tutti quanti col suo dolcissimo canto. La contessa Clelia, come di prammatica, era sempre intervenuta a quelle serate, e ad onta dell'algebra che le faceva usbergo al cuore, si sentì penetrare da quella voce, nè fu la sola a subire quel fascino. Tutte le gentildonne leggiadre che si trovavan là a bever l'onda soave, avrebber battuto moneta falsa per quel fatal Romano, il quale le saltò via tutte e s'accostò alla sola contessa Clelia. — Amorevoli non era uomo di sterminato ingegno — nessuno durerà fatica a crederlo; — non era troppo forte in letteratura — nemmen questo è improbabile; — anzi bisognava si facesse ajutare per afferrar bene il concetto dei paragrafi de' contratti teatrali, e più ancora per comprendere alcune strofe dei libretti di Metastasio; ma l'arte di far all'amore è appunto un'arte, e non una scienza; è in essa che l'istinto va innanzi a qualunque studio, e l'istinto conosce le vie segrete e le percorre da padrone; d'altra parte Amorevoli non mancava d'una certa drittura naturale, e quando parlava, parlava bene e con quell'accento là dei romaneschi...; lingua toscana in bocca romana... il proverbio è antico, e i proverbj sono la sapienza del genere umano... e la verità di quel proverbio riuscì fatale alla contessa... Infelice!!
Perfino il gobbo Tacchinardi, gobbo e vecchio, fece impazzir qualche donna col veleno imbalsamato della sua voce: pensi or dunque ognuno che brecce doveva aprire Amorevoli, giovine di ventisei anni, bello, elegante, con certi occhi in cui la penetrazione pareva nuotare nella voluttà, con una voce che, anche allora solo che parlava, era già musica, e con quegli accorgimenti del serpe flessuoso che avvolge e stringe pur continuando a dispiegare la pompa della sua variopinta veste. Così la scienza fu investita dall'ignoranza, e la matematica fu messa a giacere dalla melodia. — Il lettore non può immaginarsi il dolore che noi ne proviamo.


V


Ma tornando ai fatti, in quella notte in cui la contessa vegliava, non per amore della scienza, siccome pare, ma per amore di qualche altro oggetto, e in cui Amorevoli stava seduto su d'un sasso cui faceano spalliera foltissimi carpini, che a lui servivano e di paravento e di paraluna nel tempo stesso, doveva succedere uno di quei contrattempi che e’ si direbbero espressamente concertati dalla perfida malizia della fortuna, uno di que' contrattempi pe' quali si è convenuto di dire che talvolta il vero non è verosimile. — Non era la prima volta che Amorevoli, saltando pel muro di cinta, recavasi nel giardino di casa V... dopo mezzanotte, ovvero sia dopo finito il teatro; e non era la prima volta che la contessa, quando batteva un'ora all'orologio dell'Ospedale Maggiore, discendeva nella biblioteca situata al piano terreno del palazzo, la quale, per un grande finestrone arcuato, rispondeva al giardino; finestrone difeso da un'inferriata a modo di cancello, tutta messa ad oro e foggiata a ricchissimi rabeschi. — La contessa, stando di dentro, sentiva le proteste d'amore dell'infuocato Amorevoli, il quale protestava inoltre contro quel cancello che non aveva mai voluto essere aperto, e che serviva alla contessa e di parlatorio e di fortino. — Come, del resto, e quando donna Clelia e il tenore della stagione di carnevale siensi dati l'intesa per trovarsi a que' notturni abboccamenti è quello che non si sa. — Allorchè il destino iniquo ha stabilito che succeda quello che non dovrebbe mai succedere, offre egli stesso le opportunità, consiglia i mezzi, tende le reti, suggerisce le parole, è il Figaro più scaltro e più disinvolto e più briccone di tutti, tra due individui che cogli occhi si son detti quello a cui non basterebbero cento sonetti del Petrarca. — Quale adunque sia stato il momento e quale il modo con cui que' due concertarono la maniera per trovarsi insieme, non è ciò che più importa di sapere. — Ma il fatto sta che allorchè in quella notte di febbrajo suonò quella tal ora, la contessa discese, e Amorevoli si alzò dal sedile di sasso e si tolse d'intorno al volto il ferrajuolo, e nell'esaltazione affrontò anche il chiaro di luna quando sentì aprir la vetriera; e così in meno d'un lampo fu là, e nella sua, sebbene con renitenza ineffabile, stette la morbida mano di donna Clelia; di donna Clelia, che, ignara, di tutto, fuorchè di quello che è men necessario alla donna, e versando allora come attonita in un mondo di sensazioni non mai esplorato prima da lei, riusciva ingenua e quasi stolidamente inesperta, come una fanciulla quattordicenne, la quale, sebben difesa dal senso arcano del pudore, se non è vegliata da esperti custodi, concede improvvida le sue fragranze al primo vento protervo che le soffi intorno. — Quella stima eccessiva di sè stessa che aveale generato lo studio e la scienza, quell'orgoglio in cui era venuta, forse perchè la sua intelligenza, sviluppata da infinite cure, non era però per natura forte abbastanza da sostenere il peso della dottrina, quella acerbezza dei modi e del linguaggio, che era l'espressione e dell'uno e dell'altra, erano scomparse. Ma ciò non solo con Amorevoli (sarebbe troppo facile a comprendersi), ma con tutti, ma colle donne di sua conoscenza, ma co' gentiluomini, ma con quelli che avea sempre trattati con dispregio e a cui per contraccambio ella era riuscita così disgustosa.
Chi volesse dar la spiegazione dell'acredine ond'era involuta l'indole di quella gentildonna nel tempo in cui non si pasceva che d'orgoglio scientifico, potrebbe forse assegnarne la cagione a questo, ch'ella, sebbene in confuso e senza nemmeno averne la coscienza, sentiva fieramente la mancanza di uno di quegli affetti che bastano a colmare un'esistenza; noi per esempio portiamo l'opinione che se essa, in quei sette anni di matrimonio, avesse avuti una mezza dozzina di figlioli, il corpo sarebbesi tanto quanto sciupato, ma l'animo sarebbesi nudrito dei più cari conforti dell'esistenza. — Fu perciò una vera disgrazia, ch'ella per sentire com'è dolce la vita quando è dolce, abbia dovuto porre il labbro sugli orli imbalsamati di un vaso che doveva poi esser pieno d'assenzio. — La contessa e Amorevoli stavano da qualche tempo infervorati in un dialogo, che noi non riporteremo per quella ragione che i dialoghi di due amanti, come le poesie improvvisate, per conservare il loro prestigio, hanno bisogno di non essere trascritti. Possiamo però assicurare che, chi fosse stato presente a quella notturna confabulazione senza conoscere gl'interlocutori, avrebbe detto che l'ingegno e l'acutezza e l'amabile scaltrezza e l'eloquenza appartenevan in proprio a colui che si lasciava allegare i denti persin dalle strofe di Metastasio: e che invece la povertà delle idee, la mancanza di slancio, la parola impacciata, la timidezza puerile erano di colei che pure aveva tanta confidenza con Eulero e con d'Alembert. E purtroppo l'eloquenza del tenore Amorevoli era come un ferro tagliente che mira a squagliare una corazza, mentre la timidezza e il turbamento di donna Clelia rendevano quel combattimento oltre ogni dire ineguale. — Il cancello dorato della biblioteca stava fra loro due come una guardia di confine, ma siccome la contessa ne aveva la chiave e dipendeva dalla sua volontà l'aprirlo, così non potremmo giurare quel che avrebbe fatto la sua timidezza se dal desiderio fosse stata convertita in coraggio. — In una parola, è probabile che sia stata necessaria una disgrazia per soccorrere la virtù. — Amorevoli, colla sua voce soave e colla sua facondia insidiatrice, tentava di metterla all'ultime strette, con una argomentazione serrata, in cui i sofismi comparivano e scomparivano trasportati dalla velocità delle parole, l'opposizione sempre più lenta e fiacca dell'avversario... quando di repente... s'udirono a non molta distanza più voci che gridavano all'accorr'uomo, al dàgli dàgli. — Davvero che se quello che stiamo per dire non avesse altro documento che la relazione orale e solitaria del nonagenario da cui raccogliemmo tanto cumulo di fatti, noi non avremmo il coraggio di esporre un avvenimento, che, siccome abbiam detto, non parrebbe verosimile. Ma una difesa scritta nel secolo passato, che reca la firma: I. C. C. Benedictus Comes Aresius carceratorum protector... e una sentenza del Senato con motivazioni profonde, ci fa vedere che quanto è realmente avvenuto, non può essere rivocato in dubbio. — Però andiamo avanti coraggiosamente, anche perchè, d'altra parte, se il fatto è strano, riuscì poi fecondo di conseguenze gravissime.


VI


Amorevoli, per un movimento troppo spontaneo, balzò indietro tre passi a quel dàgli dàgli, risuonato improvvisamente nel silenzio della notte, e s'inferrajuolò sino al viso per un altro movimento spontaneo; nè egli aveva finito di coprirsi la faccia movendo, senza proposito determinato, in ritirata, che la contessa era già uscita, anzi fuggita dalla biblioteca, per fermarsi affannata sui gradini della scala che metteva alla sua stanza da letto, comprimendosi colla sinistra il cuore che parea volesse scoppiarle. Chiunque attende a far cosa che, se potesse, vorrebbe tener nascosta anche a sè medesimo, trema dello stormire non aspettato d'una foglia; figuriamoci poi d'una voce, anzi di più voci che squarcino l'aria intera in un momento che tutto per consueto dev'essere silenzioso, e che accusino la piena veglia di molte persone che avrebbero l'obbligo di dormire profondamente. — Amorevoli, sgomentato, s'accostava al muro di cinta e già stava per tentare il varco; chè le voci, anzichè cessare, facevansi più vicine, e con esse udivasi un rumore diffuso, come di molte pedate che battessero l'ortaglia. Ma un uomo, a pochi passi da lui, in quel punto stesso, colla velocità non avvertibile di un lepre, coll'elasticità di un saltatore di corda, balzò oltre il muricciuolo; e Amorevoli, trattenuto da quell'improvvisa comparsa, non ebbe tempo di raccapezzar le idee, che si trovò d'improvviso fra molti uomini che gli furono sopra afferrandolo pel mantello e gridando Ah... ci sei... è qui — l'abbiam côlto — non ci scappa più; — e in quella sorvenivano altri con lumi e con lampioni, stringendosi tutti d'intorno a lui, che, rischiarato da quelle fiamme messegli al viso per riconoscerlo, apparve in tutto lo splendore del suo ricchissimo vestito, con gran meraviglia di coloro che gli si serravano a' fianchi, i quali tosto per la magica virtù di quella serica marsina e di quelle trine sfoggiate e delle catenelle e degli anelli, mutarono il ci sei... nel chi siete e nel chi è lei? Ci fu un istante in cui nelle teste di quanti eran là corse un pensier solo, il pensiero che doveva essere un altro l'oggetto delle loro ricerche; e questo pensiero apparve così chiaro all'esterno, che un di loro, il più vecchio di tutti, uscì con asprissima voce a ricacciarlo indietro:
— Ma cosa mai vi fa stupire, balordi, che state lì a contemplarlo come se fosse un'eccellenza? Che cosa vi credete?... È appunto questa catena e questa seta e questo bel gilè che ci voleva per conoscere il selvatico... È l'uomo senz'altro costui; vi sono i ladri cenciosi ed i ladri scialosi. Tutto dipende dalla qualità del furto.
In questa comparivano lumi a molte finestre del palazzo V... e lo stesso conte ex colonnello s'affacciò, degnandosi di parlare a quella gente, mentre i domestici erano già chiamati dal rumore.
— Che cosa è successo?
— Eccellenza, ci perdoni, fu côlto questo signore, vogliamo dire quest'uomo, nella stanza dell'illustrissimo signor marchese F... morto stamattina, come V. S. illustrissima sa bene...
— No, che non fu côlto nella stanza..., usciva un altro ad interrompere...
— Fuggiva quando noi ci siamo accorti del rumore.
— Bisogna dir le cose giuste.
— Perdoni, illustrissimo signor conte... ma noi siamo accorsi quando l'uomo fuggiva....
— Ma no, non è così...
— Illustrissimo signor conte, dee sapere...
Ma al signor conte illustrissimo scappò la pazienza, e disse al cameriere, già disceso in giardino:
— Vieni su in camera, e conduci con te uno di questi uomini.
Mentre il cameriere obbediva, gridava uno dalla siepe che divideva il giardino di casa V.... dal giardino del marchese defunto:
— Qua tutti, presto.... che è venuto il signor tenente del Pretorio.
Amorevoli non aveva mai parlato; nella sua testa era un tal cozzo di pensieri, che gli pareva di sognare, e solo volse lo sguardo alla finestra della stanza della contessa, quando vide uscir molti lumi dalle finestre del palazzo; poi ripiegò il capo come sdegnoso di vedere e di esser veduto. Bensì, quando sentì nominare l'ufficiale del Pretorio, provò qualche cosa entro di sè che assomigliava ad un sollievo. Ma fu di breve durata; chè un pensiero crudo come la fitta di un coltello gli attraversò la mente.... il pensiero che l'unica giustificazione che gli rimaneva per togliersi da quel tristo impiccio non era adoperabile per nessun modo. Egli aveva veduto fuggire un uomo; comprendeva che trattavasi d'un qualche delitto, sebbene non sapesse immaginarsi quale; ma nel tempo stesso pensava che si poteva fracassargli le ossa colla corda e il cavalletto, ma non strappargli di bocca il nome della contessa. Vi sono uomini, tutt'altro che esemplari, più donne che uomini se si bada alla mollezza del costume, alle abitudini da cui son tratti da condizioni speciali; ma che, in certe contingenze della vita, si son fatta una legge morale, la quale nemmen sanno dove l'abbiano attinta, ma che per loro è incontrovertibile. Una di queste leggi morali, a cui Amorevoli obbediva con religione di scrupolo, con quella religione onde taluni sono schiavi dei pregiudizj, i quali sono i padroni più despoti dell'uomo, era quella di non compromettere mai la donna colla quale aveva avuto od aveva tresche d'amore. Potea essere debole in tutto; in questo era un eroe; non lo sgomentava per nulla l'idea della colpa; ma lo facea fremere soltanto l'idea che altri potesse mettere in piazza il nome di una donna amoreggiata. Quando dunque gli si affacciò alla mente il pensiero, che a palesare il motivo della sua venuta in quel giardino, tutto si potea sventare, lo respinse come una abbominevole tentazione.
— Avete sentito? — fu detto allora ad Amorevoli, — venite con noi; suvvia presto, che cosa state pensando?
— Badate ai fatti vostri, e statemi un tantino discosti... so far la strada da me, senza essere sorretto. Spicciamoci.
Amorevoli pronunciò queste parole in modo, che a quella gente passò la voglia di dir altro, e si avviarono.
Per una callaja che era aperta nella siepe di divisione entrarono nel giardino del marchese F... Sotto l'atrio del palazzo li attendeva il tenente del Pretorio con un barigello, un guardiano e un fante, come allora venivano appellati.
Il tenente del Pretorio aveva sentita la storia particolareggiata dell'avvenuto da chi era stato a chiamarlo. Però, quando vide Amorevoli: — È costui? — disse.
— Sì, signore.
— No — soggiunse Amorevoli imperterrito. L'uomo che cercate l'ho visto io a fuggire e a saltare il muro di cinta. Tant'è vero che questi uomini mi vennero addosso quand'io stavo di piè fermo.
Senz'essere avvezzo agli interrogatorj come l'uom del Pretorio, a chicchessia poteva riuscir ovvia la dimanda che gli fece infatti il tenente: — Ma voi che cosa stavate facendo là?
— Quest'è un altr'affare, e il signor tenente ha ragione di chieder questo; ma io risponderò in Pretorio, se vossignoria me lo permette. Intanto è bene che vossignoria sappia ch'io sono il tenore Amorevoli, al servizio di S. M. il Re di Spagna, e che oggi ho l'onore di cantare al Regio Ducal teatro di Corte.
A' tempi di Tramesani, di Crivelli, di Rubini, in qualunque, trambusto costoro si fossero trovati, bastava che si nominassero per essere tosto riconosciuti; e lo stesso accadde al tenore Amorevoli, che vide spuntare sulla faccia dell'ufficiale un sorriso di rispetto e di bonomia.
— Mi rincresce, signore, questo contrattempo, ma...
— Comanda il signor tenente — interruppe allora il barigello — che si salga nella camera che fu aperta, o da questo signore o da chi è fuggito, e là, alla presenza di tutta questa gente, si stenda tosto la deposizione del fatto?
— Benissimo — rispose l'ufficiale che s'avviò, pregando il tenore Amorevoli a seguirlo. Tutti in silenzio salirono lo scalone, sfilarono per due o tre anticamere, entrarono in un salotto dove era una gran tavola, sulla quale stavan fiaschi e bottiglie, tazze e bicchieri, che attestavano come quella gente, che avea vegliato a custodia della salma patrizia, avesse passato la notte a tracannare il vino della cantina del quondam marchese. Da questo salotto passarono nella camera in cui giaceva sul letto, avvolto in un lenzuolo, il corpo del defunto. Tutti dovettero entrar là, compreso Amorevoli che volea ritirarsi.
— No, signore; si compiaccia di rimanere, disse il barigello, più risoluto e fiero e men musicale assai del tenente del Pretorio.
— Quello è dunque l'uscio che fu scassinato?
— Quello, sì signore — risposero tutti ad una voce; e il tenente e il barigello s'affacciarono all'uscio, e videro tra molta suppellettile, un rolò aperto.
— È questa la camera?
— Questa.
E il tenente del Pretorio cogli altri retrocesse nel salotto, e là, fatte da un lato le bottiglie e le tazze, stese la seguente succinta relazione del fatto, che è quella che noi abbiam trovato allegata agli atti del processo, il quale diede a far tanto, in prima al tribunale criminale, di poi per tanti anni, e iteratamente e a lunghi intervalli, al foro civile.
«Oggi, giorno 11 febbrajo dell'anno 1750, alle ore otto italiane, chiamati dagli uomini che vegliavano in casa F.... per custodire il cadavere del marchese A. F., morto la mattina del 10 corrente, abbiamo trovato aperto l'uscio della camera attigua a quella dove giaceva il cadavere, e di cui la chiave dal sullodato marchese F., per quanto asserisce un domestico della casa, qui presente, e per quanto è da verificare, venne consegnata un'ora prima della sua morte al molto reverendo preposto di S. Nazaro. — Al qual preposto, per asserzione dello stesso domestico, e sempre come sarà a verificare, il marchese F... disse aver messe carte importanti nel rolò della sua camera da studio, il qual rolò fu parimenti da noi trovato aperto. — Raccolte in seguito le deposizioni concordi delle otto persone qui presenti, tre domestici della casa, e cinque uomini di fuori, riferiamo come costoro, colpiti da un rumore in un momento che cessavano di parlare, e spaventati perchè veniva dalla stanza del morto, accorsero cionulladimeno, e videro in quella un uomo che usciva per l'uscio che stava a dritta del capezzale del letto. — Riferiamo inoltre come tutti si rimanessero prima spaventati, temendo non fosse il morto risorto, ma che poi fattisi animo, inseguirono l'uomo che era uscito, il quale pareva assai pratico della casa; perchè passando per gl'interni corridoj, giunse a un mezzanino, e di là saltò nel giardino... Che due lo inseguirono saltando pure di là.... ma che, smarritolo al salto della siepe... trovarono poi nel giardino di casa V... e presso il muro di cinta, una persona col mantello, che ora, alla nostra presenza, dice di essere il signor Angelo Amorevoli, cantante di camera di S. M. il Re di Spagna, e primo tenore nell'attuale stagione al Regio Ducale teatro di Corte; il quale però protesta di non essere lui altrimenti l'uomo fuggito, ed aggiunge di aver visto invece egli stesso a fuggire uno.


«F. Baldini, tenente del Pretorio. — F. Rò,
barigello. — G. Cialdella, guardiano».


Stesa questa relazione, il tenente si alzò e disse agli uomini di casa F...: — Voi tutti domani sarete chiamati al Pretorio, e nessuno esca dalla città sotto pena d'arresto. In quanto a voi, signor Amorevoli, quando pure sia vero quanto asserite, bisogna che veniate a passare una notte al Pretorio... Domani... si farà quel che si farà...
Amorevoli non disse una parola.
Quando tutti furono al portone del palazzo, trovarono una frotta di gente che, sebbene ad ora tarda, dalle osterie vicine, era accorsa al rumore e alla vista delle guardie. — Tra quella frotta c'era Zampino, il servo del palco scenico, che riconobbe Amorevoli, ed ebbe il coraggio di gridare:
— Che cos'è? che cos'è stato? che diavolo è successo? Ma signor Amorevoli.... Ma loro signori non sanno che è il primo tenore del teatro Ducale? È uno sbaglio, non può essere che uno sbaglio.
— Taci, Zampino, e va' a casa — gli disse Amorevoli.
Ma il tenente gli si rivolse, e sentito chi era desso:
— Giacchè sei qui, soggiunse, la tua presenza può essere opportuna... e vieni con noi anche tu.
— Dove?
— Al Pretorio.
— In prigione?
— Sta' queto, Zampino.
— Ma che diamine ha fatto, signor Amorevoli, in quel poco tempo ch'io stava mangiando il mio boccone all'osteria!... e quasi piangendo lo seguì.
Ed in breve furon tutti al palazzo del Pretorio.


VII


Il giorno dopo, a quell'ora in cui si può giurare che tutto il mondo è svegliato, ad eccezione degli ammalati che hanno preso la decozione di morfina, dei giuocatori che nella notte hanno voluto ad ogni costo inseguir la fortuna che li fuggiva, e di altre cento eccezioni; in quell'ora, che a buoni conti noi la poniamo due o tre quarti d'ora dopo mezzodì, chi si fosse preso il diletto di percorrere la città di Milano in cabriolet, facendo sosta alle botteghe di cioccolatteria e di bottiglieria, e a quelle per la vendita del tabacco; in piazza del Duomo, in pescheria, in piazza dei Mercanti; o fermandosi presso i libraj Agnelli e Motta e Bianchi e Galeazzi, in Santa Margherita, dove facean cerchio maestri, accademici, letterati, preti, giureconsulti; o presso gli speziali Rapazzini nei Tre Re, e Archinti in piazza del Duomo, e Omodei a porta Romana, dove s'adunavano i medici e i chirurghi più riputati della città; o nelle sale degli Accademici Trasformati in casa Imbonati, sulla piazza di San Fedele, o nello studio di pittura del Londonio, giovane allora di 22 anni, che già raccoglieva d'intorno a sè i capi più strani e pazzi e avventati della città; o sotto il Coperchio de' Figini nelle botteghe di mode, frequentate dalle più eleganti dame; o nel salon di qualche maravigliosa, per esempio, della contessa Marliani, la regina dello spirito e della maldicenza; o in quello della contessa Clelia Borromeo del Grillo, calamita dei numerati patrizj dediti agli studj, e degli abati poetanti e dei maestri di spinetta; ovvero nella bottega del parrucchiere Blanchy, nato Giuseppe Bianchi in Cordusio, ma che avea cangiato nome dopo il suo viaggio a Parigi, donde avea importato nella nostra bella patria, per la prima volta quel tal puff a capitello che era lo spasimo delle nostre dame; nella qual bottega non sdegnavano di soffermarsi i più sfoggiati cicisbei o per farsi raccomodare un riccio, o rimettere un neo caduto, o rimpastare un po' di biacca e belletto...; se qualcuno adunque si fosse preso il diletto di scorrazzare in lungo e in largo per la città a far raccolta dei discorsi che si tenevano in quei tanti centri di buontempo, non avrebbe sentito che un discorso solo, come se fosse una parola d'ordine passata dal quartier generale ai soldati del campo; non avrebbe sentito che un nome solo, quello del tenore Amorevoli; e del suo arresto e del sospetto delle carte trafugate, e del prevosto di S. Nazaro. — Codesto tema poi, generale e costante, si sparpagliava in mille ramificazioni; chi narrava la vita del tenore; chi quella del defunto marchese; chi si fermava al giardino di casa V..., chi voleva perder la testa a indovinare il motivo per cui il tenore avea potuto trovarsi là; chi passava in rivista tutte le cameriere e le fantesche di casa V..., perchè i tenori, diceva un tale, hanno pur troppo de' gusti plebei; chi tutte le donne del vicinato che per caso avessero qualche poggiolo o finestra o mezzano a cui si potesse ascendere dal giardino; giacchè nessuno, letteralmente nessuno, nemmeno per un istante fuggitivo, potè credere che Amorevoli fosse l'uomo fuggito dalla casa F... e avesse dovuto aver interesse a entrar nello studio del defunto marchese, chè in ciò non v'era probabilità di sorta, e conveniva esser pazzi a supporlo.
Nella cioccolatteria e caffetteria del Greco, in piazza del Duomo, il quale cento anni fa era il caffè arcavolo degli odierni, dell'Europa, del Cova, del Martini, dove traeva tutta la gioventù più galante e più pazza e più sfaccendata di Milano, verso le ore due dopo mezzodì, sembrava quasi che vi si tenesse un'adunanza solenne. Mezza dozzina di giovani sedevano là intorno ad un gran braciere; uno teneva la paletta, e pareva colui che, per diritto di eloquenza, desse l'avviamento a' discorsi; intorno a quella mezza dozzina, che potea passare per il direttorio, stavan raccolte da trenta o quaranta persone, le quali or crescevano ed or scemavano, a seconda di chi andava e veniva; l'attenzione però era profonda.
— Voi dite — così parlava quel della paletta, che è improbabile che il tenore Amorevoli siasi introdotto nella stanza del morto per rubar carte importanti; e chi non lo dice e non lo crede? bisognerebbe essere un gran mellone solo a sospettarlo. Ma, cari miei, mi rincresce a dirvelo, altro è che una cosa sia inverosimile, altro è che non possa essere possibile. — Chi sa tener dietro alla possibilità... essa è un mare senza fine e senza fondo... e la legge non può pescare in quel mare, e i giudici del Pretorio e quelli del tribunale e il collegio dei giureconsulti potranno tenersi le loro convinzioni in petto, e basta lì; ma se non vien fuori l'uomo che davvero ha fatto il colpo, chi si trovò al suo posto, suo danno.
— Ma che interesse volete voi che potesse avere il tenore?
— Ma chi parla ora dell'interesse? cosa c'entra l'interesse? Se qualcuno avesse tirato una schioppettata al tenore, perchè il tenore per combinazione venne a trovarsi al posto del birbone fuggito, che cosa valeva il dire — egli era innocente? — Lo so anch'io. Ma fu ucciso perchè il maledetto accidente ha voluto così... Or fate conto che tal sia della legge: essa tira su chi si trova in mal punto, e a chi è toccata è toccata.
— Basterebbe poi, a mio rimesso parere, che il tenore dicesse il motivo per cui trovavasi là...
— Ora parlate bene; a tal patto la cosa cambia di aspetto...
— Un motivo qualunque...
— Un motivo qualunque no... la giustizia è inesorabile; essa è un ragioniere che tien conto anche dell'ultimo quattrino, e se la somma non riesce, il bilancio non si può fare. — Ci vuole, caro mio, un motivo che possa essere provato come due e due quattro; e, a quel che ho sentito da uno scrivano del Pretorio... sapete cos'ha risposto il tenore al primo interrogatorio del giudice?
— Che cosa ha risposto?
— Una assurdissima bestialità. Ma già si sa quel che può uscire dalla bocca di un tenore...; ha risposto, se lo scrivano non ha detto una sciocchezza, perchè anche questi scrivani.... ha risposto che nessuno poteva nè può impedirgli delle bizzarrie innocenti; che però gli era venuta voglia, passeggiando in quelle parti là dopo il teatro, e vedendo quel bel giardino e quel gran palazzo, e giacchè faceva anche il più bel chiaro di luna che mai, gli era venuta, come dicevo, la voglia di saltar dentro a far una passeggiata...
— E che cos'ha risposto il giudice?
— Questo non si sa. Ma se il giudice è quell'uomo acuto che tutti conosciamo, gli dee aver detto: — Siete stato disgraziato a passeggiare in giardino, in un momento che si andava in cerca di un ladro... Ora il ladro siete voi, se non avete qualcosa di meglio da dire al giudice.
— Ebbene, sarà come voi dite... osservava un altro, e ad uscire d'impiccio dovrà pensarci il tenore; ma ora vorrei sciogliere l'altro gruppo del nodo. — Che diamine ci poteva essere di così importante tra le carte del marchese?... se ognuno sa, almeno lo si diceva da gran tempo, che l'erede universale di tutte le sue sostanze era suo fratello, il conte Lodovico?...
— Io non so nulla nè del marchese nè del conte, eccetto che il primo fu un gran libertino a' suoi giovani anni, e il secondo è croce, se il primo fu lettera. Il conte non è niente di più che un uomo posato, misurato, tirato, che sta con quattro cavalli mentre potrebbe averne dodici, perchè s'è fitto in capo che suo figlio, il contino Alberico, che ha tutta l'aria di voler assomigliare allo zio, possa mettere col tempo la prima casa in Milano, e metter sotto casa Litta e casa Borromea; che bel matto!...
— Jeri è partito per la campagna.
— Tanto per nascondere nella solitudine campestre la gioja che gli deve esser derivata dal dolore provato in città sentendo i tocchi dell'agonia suonati per il caro fratello, che Dio l'abbia in gloria...
E costui avrebbe continuato per un pezzo a tagliare i panni e al vivo e al morto; chè era di quelli alla cui parlantina velocissima conviene di tanto in tanto metter la scarpa, se può passar l'espressione, per dar qualche riposo agli orecchi degli ascoltatori e lena ai volonterosi di contraddire; ma per fortuna s'aprì l'invetriata della bottega, e comparve un compagnone della brigata, il quale a quei trenta o quaranta che voltarono le faccie a lui, fece un paio d'occhi pieni di significazione, e gridò:
— Amici, una grande scoperta!!
— Che? Cos'è stato?
— Chi di voi sa dove alloggia la Gaudenzi?
— Nella contrada dei Moroni, chi non lo sa? l'abbiamo accompagnata a casa tante volte dopo il teatro fra i battimani e gli evviva...
— Questo va bene. Ma se nessuno sa che la finestra della sua cameretta, dove riposa il suo bel corpo, guarda nel giardino vicino al giardino dove fu colto Amorevoli, lo so io e l'ho scoperto io... e lo dico a voi tutti.
Quando a Newton nel pomo caduto balenò l'idea della gravitazione universale, quando Galileo nel Duomo di Pisa fu colpito dall'oscillazione della lampada, quando Volta nelle piastrelle di zinco alternate al cartone inzuppato d'acqua salata afferrò il prodigio delle perpetue correnti elettriche, quando... tutti coloro, in una parola, che fecero qualche gran scoperta, non provarono soddisfazione maggiore di quella a cui si esaltarono que' trenta o quaranta al fiat lux del nome della Gaudenzi e della finestra e del giardino...
— Or ecco sciolto il maledetto enigma.
— La è chiara come il sole.
— Non ci può esser dubbio.
— Ma tu, come hai fatto a sapere?
— Vi basti che l'ho saputo... e se non mi credete, andate a verificare voi stessi.
— Però bisogna confessare che il tenore è un bravo giovane...
— Ma certo che è un bravo giovane.
— Mi rincresce per la Gaudenzi che ho sempre tenuta per la fenice del suo ceto... Ma vada; allorchè da una scappata si sviluppa una bell'azione... è sempre una cosa che fa piacere... Bravo Amorevoli! così va fatto. Già, quando nel canto uno sa trasfondere tutta quella dolcezza e quell'affetto e quella passione... bisogna bene che nel cuore ci sia del buono... non si sbaglia... Oh quanti di questi cavalieri, che portano spada, avrebbero gridato là sfacciatamente in Pretorio il nome della cara beltà, pel crepacuore di non poter dormire a proprio letto... Oh sepolcri... Oh apparenze!!
Ma chi parlava, a queste parole si fermò, perchè la sua attenzione, come quella degli altri, si volse al carrozzone del giudice, che in quel punto attraversava la piazza del Duomo.
Lasciando ora dunque i giovinotti del caffè del Greco, e tenendo dietro al giudice del Pretorio, dobbiam dire che, sottoposto all'interrogatorio di pratica, il tenore Amorevoli, il quale davvero aveva risposto quanto fu già riferito nel caffè del Greco; sottoposti pure all'interrogatorio gli uomini di casa F..., dietro quanto risultava dalla deposizione del tenente Baldini; il signor don Antonio De Capitani di Arzago, chè tale era il nome del giudice, giovane d'anni, ma di matura e soda intelligenza, pensò bene di recarsi egli stesso a visitare il preposto di S. Nazaro, anzichè citarlo a comparire in Pretorio, per rispetto alle qualità venerabili di quel degno sacerdote. Smontato alla canonica, si fece annunciare, e il pio e umile prete discese egli stesso a riceverlo.
— So già per qual ragione ella s'incomoda a venir da me... — disse il preposto. — Era anzi mia intenzione di venire da lei fra poco.
E così, precedendo il signor giudice, lo fece entrare in un salotto, dove sedettero ambidue.
— Ella dunque, signor preposto, sa perchè son qui... La cosa è seria più che non si creda...
— Lo so.
— Ora abbia la bontà di dirmi, fin dove però glielo permette il suo ministero, in che rapporti ella si trovò col marchese defunto...
— Non le tacerò cosa nessuna; ella sa quale fu il tenore di vita di quel benedetto uomo...
— Lo so.
— Or bene, sette anni sono, da una povera giovine, che ebbe la disgrazia di capitare nelle sue mani, ebbe un figliuolo...
— Qualcosa ne sapeva...
— Dopo le prime smanie, ogni affetto, come sempre, venne a sbollire in quell'uomo volubilissimo; e dato un pugno d'oro a quella poveretta, si dimenticò presto e di lei e del fanciullo...
— Siam sempre a queste...
— Quella sciagurata veniva spesso a piangere da me... e a pregarmi perchè pregassi il marchese... Non le so dire quanto mi pesasse il recarmi da colui... Spesso... troppo spesso... la dignità dell'uomo, non che quella del sacerdote, veniva offesa. Ma appunto codesti insulti, che per gli altri è una virtù il respingere, per noi è un merito il sopportare. Insieme colle brusche parole veniva però sempre qualche pezzo d'oro, ond'io tornavo all'assalto ogni qualvolta la poveretta veniva da me per bisogno. Se non che l'uomo venne a star male un anno fa... una malattia di generale disfacimento... Allora una fiera tristezza gli entrò nell'animo, e con quella una arrendevolezza insolita. Dietro le mie preghiere, volle vedere quella sciagurata e il fanciullo; e un giorno più dell'altro lavorando su quell'animo ammollito, ottenni quel che era nelle vie della giustizia; almeno io vissi nella speranza d'averlo ottenuto. Lo consigliai a nominare erede universale il figlio suo, chiamandolo all'onore del mondo, e a distruggere il testamento fatto prima, pel quale l'erede universale doveva essere il suo fratello conte Lodovico, una degna e brava persona, per verità, ma ricca a sufficienza; del rimanente non aveva dimenticato nemmeno lui... Mi pregò gli facessi venire un notajo... gli ho mandato il giovane dottor Macchi, il quale vegliò alla stesa del testamento olografo... perchè quell'uomo non sapea nulla di nulla. Io seppi dal dottore che quel testamento infatti era stato scritto dal proprio pugno del marchese, e firmato, e così messo tra altre carte. La cosa rimase segreta tra me, il dottore ed il marchese, il quale però soltanto due ore prima di morire: «Do a voi, mi disse, la chiave del mio studio. Là dentro nello scrigno c'è quello che voi avete voluto che si facesse.» Ecco tutto. Del resto io non ho veduto nulla.
— Qui c'è una mano esperta che trafugò il testamento, soggiunse il giudice, dopo un momento di pausa. Ma il mare delle congetture è troppo vasto per scoprirvi il filo, se non vien fuori l'uomo. D'altra parte il conte Lodovico...
— Partì due ore prima della morte del fratello... egli e suo figlio.
— Per questa parte adunque non c'è a far nulla.
— E poi, torno a ripetere, il conte è un uomo irreprensibile...
Dopo queste parole vi furono alcuni istanti di silenzio, trascorsi i quali, il parroco:
— Sarebbe bene — uscì a dire — che V. S. illustrissima parlasse col notajo Macchi... Egli ha letto la scritta del marchese dopo averla dettata... chi sa che il notajo non sappia qualcosa di più?
Il giudice si alzò e: — Non voglio perder tempo — soggiunse: sull'istante vado dal dottor Macchi...
— Egli sta in borgo delle Grazie.
— Lo so.
Così dicendo, il giudice si partì dalla casa del preposto di S. Nazaro, e quando lo salutò:
— Mi scuserà, reverendo signor preposto, soggiunse, se per le volute formalità sarò costretto a sentirla anche in Pretorio. — Risalì poi in carrozza per recarsi difilato alla casa del dottor Macchi.
Ma quando fu nella via, pensò che era più conveniente mandarlo a chiamare, che andarlo a visitare, perchè questa poteva essere una deviazione dalle leggi d'ufficio, soltanto compatibile, in via straordinaria, con un reverendo preposto. Giunto così al Pretorio, mandò infatti a prendere in carrozza il notajo, il quale non si fece aspettare, e ripetè press'a poco le parole del preposto di S. Nazaro, senz'altra aggiunta che questa:
— Del resto, illustrissimo signor giudice, se io ho dettato il testamento, e se il marchese lo ha tutto trascritto di suo pugno, ciò non vuol dire che dopo non l'abbia anche lacerato... perchè già ella sa che il suo costume fu sempre di disfare oggi quello che aveva fatto jeri... onde il trafugamento può forse essere stato un delitto inutile.
— Ma a che proposito, osservò allora il giudice al notajo, ella mi dice questo?
— A nessun proposito. Bensì è mia opinione che se mai i protettori del fanciullo volessero muover lite al fratello del marchese, di che ho sentito a toccare un tasto, se il secondo testamento non salta fuori, ognuno potrà pensare quel che vuole; ma l'erede è il signor conte di pieno diritto.
Il giudice non replicò nulla, e licenziò il notajo.
Alcuni momenti dopo entrò un usciere ad annunciare all'illustrissimo signor giudice una visita dei cavalieri ispettori del palco scenico del teatro Ducale.
— So di che si tratta, disse fra sè il giudice, — e li fece venire avanti.
I cavalieri ispettori del teatro Ducale erano venuti a domandare formalmente al giudice il permesso che il tenore Amorevoli potesse cantar la sera al teatro, dimostrando che col pubblico s'era contratto l'impegno e col pubblico non si scherzava; e che, del resto, come il signor giudice avrebbe ingiunto, si sarebbe seguita la pratica di riconsegnarlo alla giustizia, tutte le sere, dopo finita la recita.
Il giudice rispose, che, non solo non aveva nessuna difficoltà a conceder questo, ma che anzi era suo debito di fare in modo che il pubblico si dovesse soddisfare pienamente; che però tutto dipendeva dallo stato di salute del tenore, cui mandò infatti a riferire la visita e il desiderio degli ispettori cavalieri. Dopo alcuni momenti, con loro maraviglia e soddisfazione, Amorevoli mandò a dire che era assai ben disposto a cantar la sera.
Ma lasciando ora il Pretorio e il giudice, vorremmo sapere che cosa fa e che cosa aveva fatto donna Clelia, dalle due ore dopo mezzanotte a quell'ora in cui gli ispettori del palco scenico partirono per dar gli ordini opportuni, onde il pubblico fosse avvisato che la sera il tenore Amorevoli avrebbe cantato.
L'infelice, in quella giornata, pur troppo, aveva dovuto recarsi a far visita ad una dama sua conoscente; e ognuno può immaginarsi quel ch'ella abbia provato udendo i tanti discorsi che si fecero intorno all'avvenimento della notte. E dovette trattenersi colà tanto tempo, quanto potè bastare per sentire anche la scoperta relativa alla finestra della stanza della Gaudenzi; poichè dal caffè del Greco quella notizia si diffuse repentinamente per tutta la città, anche senza il telegrafo elettrico. Al qual proposito è ad osservare che mentre ella, donna Clelia e non la Gaudenzi, avrebbe voluto giacer mille braccia sotterra, piuttosto che trovarsi in punto che venisse conosciuta la parte che ella aveva avuto in quel fatto misterioso; pure, in fondo al suo cuore era deposto un cruccio inavvertito anche a lei; il cruccio, il dispetto perchè nessuno avesse mai sospettato che il tenore Amorevoli fosse venuto nel giardino per amor suo. L'essere amati da persona amatissima aggiunge un tale orgoglio al cuore in sussulto, che, ad onta di qualunque pericolo, esso vorrebbe, all'ultimo, far noto a tutto il mondo il trionfo del suo amor proprio. Ma, lo ripetiamo, questo sentimento giaceva recondito e dissimulato da altre pressure nel fondo del cuore di quella donna, e ad ogni sguardo che innocentemente veniva a fermarsi su di essa, mentre il discorso percuoteva quel tasto, ella gelava e ardeva di confusione e di spavento; e solo, solo allora che sentì nominare la Gaudenzi, quasi fu per tradirsi; così forte tentazione la prese di gridare: No, non è lei! Ma le fitte più crude le ebbe a subir la sera, quando coll'orgoglioso conte ex colonnello, suo marito, dovette recarsi in teatro ad assistere all'opera.
Il fatto della notte, l'arresto dell’Amorevoli, le mille dicerie, il silenzio generoso ond'esso avea reso sempre più difficile la propria posizione, la credenza ormai fatta generale degli amori di lui colla bellissima Gaudenzi, misero in tutta la popolazione una tal voglia di andare in teatro, che, la sera, i soldati del corpo di guardia dovettero accorrere per stornare gravissimi disordini. Nessuno poi saprebbe immaginarsi gli applausi prodigati in quella notte dal pubblico a colui ch'egli chiamava il re del canto; indescrivibili furono le pazzie che si fecero per testimoniargli la universale simpatia, e per significare la disapprovazione universale alla lettera cruda della legge e al codice delle manette; e quanto fu strepitoso il trionfo del tenore arcangelico (perchè l'aggettivo arcangelico fu trovato la prima volta pel tenore Amorevoli, e non per Moriani, come crede il volgo), altrettanto fu quello della danzatrice olimpica. — Amorevoli e Gaudenzi, furono i due nomi echeggiati tutta la sera, senza riposo, con tutta l'aria che può mettere nelle sue canne la gran gola del pubblico; tanto parea ammirabile il connubio di quelle due belle e giovani persone! tanto sembrò perfetta quell'armonia della danza e del canto!
Ma se l'infelice donna Clelia dall'alto del suo palchetto facea sangue nel suo segreto, altri, al cui orecchio eran pur giunte tutte le dicerie del pubblico, fremeva in più basso scanno, ed era il primo violino di spalla, il quale, nella sua potenza, a tutti nascosta, dall'umiltà del suo posto, era destinato a gettar fuoco e fiamme nella polveriera di questo dramma. Ma non è tempo ancora ch'ei si faccia innanzi.


VIII


L'amore è il sole dell'anima, ha detto e stampato Vittore Hugo, quando non contava che vent'anni, ossia quando nemmeno gli uomini di genio hanno potuto ottenere dall'esperienza il permesso e il diritto di parlar dell'amore, nè di nessuno degli altri enti morali che costituiscono l'infesta e crudele famiglia dell'umane passioni; Vittore Hugo s'attenne poi al metodo più sicuro per definire una cosa a rovescio, quella di non guardarla che da un lato. — S'egli in quel punto si fosse limitato a descrivere la felicità, certo vi sarebbe riuscito; chè egli amava allora, riamato, quella virtuosa e leggiadra fanciulla, che poi sposò coll'assenso de' superiori, colla benedizione dei parenti, con tutti i più felici augurj degli amici, colla contentezza della Francia, che preconizzò altissime sorti al suo giovine poeta, il quale si assestava nella vita con tutto il suo agio, stornando per sempre, coll'applicazione di un matrimonio precoce, quelle feroci ambascie del cuore che troppo spesso hanno la compiacenza persin di sfiancare i più robusti intelletti. Così il primo poeta della Francia fece coll'amore la cura dell'amore, e, avendolo in isbaglio preso per il sole, lo curava intanto al pari di una malattia, innestandoselo come il vajuolo. L'amore è una malattia; una delle più terribili malattie del genere umano, in quanto i nove decimi degli uomini ne devono essere flagellati almeno una volta nella vita. Se non è oggi, sarà domani, ma verrà il tuo giorno anche per te, o gaudente bevitore di wermuth. Felici noi, soltanto, che, grazie al cielo non siam più di primo pelo, e che, avendolo subìto a' nostri giovinetti anni colla sequela di non so quante ricadute, ora, al pari di Renzo, possiam diguazzarci in mezzo al flagello, sicurissimi d'andarne illesi. Ma chi fosse innamorato della definizione di Hugo e sospettasse il paradosso nelle nostre parole, a persuadersi rifletta questo fatto, che di tante centinaja di migliaja di suicidj onde l'umanità fu contristata da Adamo in poi, di due terzi buonamente ne fu cagione l'amore; a compire l'altro terzo, pare abbia contribuito la confraternita dei debitori.
Allorchè la favola inventò la camicia avvelenata di Nesso che arse le immani membra del semidio Ercole, côlto all'impensata, seppe ben ella cosa faceva; ma in Fedra, in Medea, in Didone, nella Saffo, e a voler saltare più di due mila anni, in Gaspara Stampa e in Properzia de' Rossi, che consolazione e qual sole sia l'amore, ognuno lo può vedere, perchè l'amore, se non trova contrasti, si spegne o si trasmuta in un'infiammazione benigna che non intacca l'appetito e non infesta le digestioni e allora non è amore; e quando sia tale veramente, si crea i contrasti da per sè, quantunque non ci provveda la perfida fortuna; inventa fantasmi e larve e sospetti e affanni, e si confedera alla gelosia; ed è allora che esso entra nel suo pieno stadio, nel suo più completo sviluppo, che assume le sue virtù più micidiali, che fa scomparire il color vivo delle fronti, che emunge le guancie, che turba il numero delle battute del polso, che toglie il sonno, che sfila e sfianca anche le vite meglio costrutte dalla rigogliosa natura. O giovinetti, o giovinette, o donne, o uomini, che versate in qualche periglio amoroso, o voi tutti adunque che mi ascoltate, se mai il quadretto che v'ho delineato fosse atto a produrre alcun effetto, fate buon pro dell'avviso, e ringraziatemi; e chiudete i vostri cuori in fretta, come quando si chiudono le persiane al comparir dell'uragano.
Così fossimo vissuti al tempo di donna Clelia e fossimo stati suoi amici, e avesse ella potuto bere il contravveleno di queste poche righe! ma, pur troppo, non siamo nati in tempo, e l'uragano scoppiò, e il suo cuore, rimasto aperto, ne fu messo sossopra, e terribile uscì il malanno; perchè potrebbe darsi benissimo che qualche testolina leggiera ne avesse a ridere, ma noi non ridiamo: tanto quella donna era diventata infelice, chè l'amore esaltato dalle furie della gelosia, era penetrato nel cuor suo per siffatto modo, che ben poteva esser definito un tétano morale.
In quella notte del trionfo d'Amorevoli e della Gaudenzi, preveduto, ne siamo quasi certi, dal primo, e per nulla aspettato dalla seconda; tanto che, non sapendo darsene una spiegazione a sè stessa, ne richiese, piena di meraviglia, lo stesso tenore che non le seppe dir nulla (poichè se arrivava a comprendere il motivo per cui egli era stato così festosamente accolto dal pubblico, non riusciva a capacitarsi perchè anche la Gaudenzi dovesse avere una porzione di quegli applausi prodigati in via straordinaria); in quella notte adunque la falsa diceria degli amori della ballerina col tenore, aperse a tutta prima una profonda ferita nel cuore di donna Clelia; chè la gelosia, stranamente immaginosa nell'inventar sospetti, anche allora che nessun fatto vi dà argomento, aveva trovato in quelle voci il naturale suo pascolo; pur tuttavia, per la relazione spontanea della stessa passione ajutata dal desiderio, a poco a poco si lasciò persuadere dagli interni ragionamenti a creder false tutte quelle voci, e si veniva così rassicurando e quasi consolando; chè l'idea del gravissimo pericolo in cui ella si trovava in faccia al marito, e in cui si trovava la sua fama in faccia al mondo, se il vero si fosse scoperto, dopo il primo spavento, erasi quasi del tutto dileguata; tanto l'amore è imperterrito. Ma la sventura volle che un cavaliere, di quelli che in teatro esercitano l'officio di gazzettino orale e, raccolta una notizietta alla porta, la sparpagliano di palchetto in palchetto col cinguettio d'una cutrettola, volle dunque la sventura che colui entrasse da lei, presente il conte ex colonnello, a raccontarle che il Pretorio in quella sera stessa aveva mandato d'ufficio un invito cortese alla Gaudenzi, affinchè per il giorno susseguente dopo mezzodì volesse aver la compiacenza di recarsi nelle sale della giudicatura per essere sentita intorno ad un fatto in cui essa poteva avere qualche parte. Tale notizia era la pura verità, poichè il giudice, al cui orecchio dopo molti giri e rigiri capitò pure la fama di quei pretesi amori della Gaudenzi con Amorevoli, sospettando nella delicatezza generosa del secondo il motivo del suo silenzio, pensò che sarebbe stato forse più facile cavar la confessione sincera dalla bocca della Gaudenzi, e così poter mandar libero e assolto da una imputazione gravissima un uomo, che in faccia al mondo era fuori d'ogni dubbio innocente, ma non lo poteva essere in faccia alla legge.
Ma quella notizia tornò a suscitar la tempesta nel cuore di donna Clelia, che già erasi venuta tranquillando; e le si fisse in petto, relativamente agli amori di Amorevoli colla Gaudenzi, con tutti i caratteri della certezza, di quel genere di certezza che produce la desolazione. Il conte marito e il cavaliere s'accorsero di un certo trasmutamento nel volto di lei, onde ad una voce le domandarono s'ella si sentiva male, senza però insistere di troppo, tanto erano lungi dal vero. Ma il ballo e l'opera finirono, il sipario calò, il lacchè entrò nel palchetto, il conte e la contessa scesero nell'atrio, salirono nel carrozzone, e in breve, ridottisi a casa, il conte spagnolescamente accompagnò la contessa alle soglie del suo appartamento, ed egli, come consueto, ritirossi nel proprio. — Or che notte fu quella per la contessa Clelia! che irrequietudine, che affanno! Coloro che in questo punto stanno comprimendosi le mascelle per uno spasmodico dolor di denti; quelli che all'inattesa notizia di un grosso fallimento guardano spaventati al totale rovescio dei proprj affari; quelli che si sentono annunciare dal medico che bisogna risolversi all'amputazione di una gamba, han tutto il diritto di dire che la contessa avea buon tempo, e che bisognava aver smarrita la ragione onde pigliarsi tanto affanno per l'infedeltà di un tenore. — E il medesimo quasi diciam anche noi, che non abbiamo nè dolori, nè gambe in pericolo, nè fallimenti... Ma non per nulla abbiam detto che l'amore è una malattia, e che la mente cessa di essere sana quand'è investita dai suoi roventi pensieri. — D'altra parte quell'affanno veniva accresciuto alla contessa dal non avere a chi confidarlo. Un male, soltanto a raccontarlo altrui, scema della sua intensità. Ma la contessa non aveva amiche, non ne ebbe mai: e ciò non tanto per la sua indole naturalmente altera, quanto perchè, cresciuta tra l'invidia astiosa delle sue pari, che non poteano sopportare la superiorità del suo ingegno e il prodigio della sua dottrina, si era venuta, a così dire, guastando il sangue in quella necessità continua di render disprezzo per invidia. Ma qualcosa conveniva pur fare, pensava la contessa nella veglia angosciosa di quella notte; ma se Amorevoli era stato arrestato, qualunque fossero le sue relazioni colla Gaudenzi, era pur stato côlto in un momento (e tal pensiero la beatificava) in cui stava intrattenendosi seco in affettuosi e caldi parlari; ma se Amorevoli si mostrò così generoso a tacere il suo nome, ella non doveva permettere, serbando un vile silenzio, che quell'uomo avesse a subire tutte le conseguenze d'una imputazione infame. Nella stretta di tali pensieri, e nel bisogno che più e più sentiva di confidarsi a qualcuno, si ricordò d'una donna; di una matrona milanese, colla quale erasi trovata due sole volte a parlare in tutta la sua vita maritale; d'una donna che a Milano era l'oggetto dell'amore, dell'ammirazione, della venerazione universale, e dal cui colloquio anch'ella aveva raccolto un grande conforto; così grande che aveva potuto comprendere per la prima volta com'è soave l'amicizia d'una donna, quando questa abbia tutte le virtù che le son proprie, senza le sue debolezze. — Sapeva inoltre che colei, quasi per una professione della vita, era stata ed era pur sempre mediatrice pietosa, eccitatrice imperterrita di buone opere, benefattrice instancabile, in molte gravissime contingenze in cui altri erasi trovato. Risolse pertanto di recarsi da quella signora. — Questa si chiamava donna Paola Pietra; severa come la vetusta Cornelia, in continuo lutto vedovile, andava essa educando severamente due suoi figliuoli.
Le avventure di costei, fuori affatto di ogni ordine comune, la costanza, la virtù, i sacrifizj, il coraggio che ebbe a mostrare in una condizione di vita specialissima... tutto ciò aveva diffuso la sua fama per tutta l'Italia ed anche per l'Europa; chè, già claustrale professa nel convento di Santa Radegonda, ne era fuggita per adempiere il voto fatto in segreto a Dio, di far cancellare da più alta autorità gli effetti d'una violenza che si era voluto farle, spingendola renitente ai voti monastici.
Intorno a questa donna Paola Pietra, sta manoscritta una relazione in una serie di motti volumi miscellanei raccolti da un padre Benvenuto di Sant'Ambrogio ad Nemus di Milano, ed esistenti nella biblioteca di Brera.
Il monaco suddetto comincia dal premettere al suo, come egli stesso lo chiama — «Succinto rapporto degli avvenimenti della signora donna Paola Pietra, uscita dal monastero di Santa Radegonda di Milano nell'anno 1730» — scritto di sua propria mano, pare, nel 1766; comincia, diciamo, dal premettere «un'efficace invettiva contro il non mai abbastanza detestato (sono sue parole), e dall'Italia principalmente non mai cacciato abuso di sagrificare, o cogli artifizj o colle violenze, le povere fanciulle allo stato religioso, a cui nè da Dio nè dalla loro inclinazione, sono chiamate». Assicurando indi il lettore «che nella relazione (son pure sue parole) non si dirà cosa veruna di cui non se ne abbiano autentiche prove,» viene a raccontar il fatto, dichiarando però di dover passar sotto silenzio, per un certo riguardo, gli avvenimenti che precedettero la professione religiosa fatta da donna Paola nel 1718.
Tali riguardi sembra che fossero comandati al monaco di S. Ambrogio dall'esistere in Milano, nel momento in cui egli scriveva, e dall'avervi grande autorità coloro, per colpa de' quali la fanciulla Paola ebbe a sopportare tanta violenza. — Ma quegli avvenimenti in prima da noi sospettati, poi inseguiti e sorpresi, a dir così, in alcuni cenni sfuggiti quasi per inavvertenza ad altri paurosi autori di memorie intorno a quel tempo, noi li verremo esponendo, giacchè non siamo condannati dai riguardi che facevano ostacolo ai contemporanei di donna Paola. — Narrando la storia della quale, se dobbiamo uscire per poco di via, dall'altra parte avremo facile il mezzo di rilevare certi atteggiamenti particolari del pubblico costume, in un periodo anteriore al tempo che ci siam proposti d'illustrare, ma di cui è necessario conoscere quanto basta per valutare con più sicuro criterio il tempo successivo. Vedrà inoltre il lettore, nel rovescio della medaglia che offre la monaca di Santa Radegonda di Milano a suor Virginia di Santa Margherita di Monza, che mai possa la forte volontà assistita dalla pura coscienza, e come il solenne spettacolo d'una sincera virtù sia talora potente a placare anche il decreto di consuetudini di ferro.


IX


Quando si pensa che Carlo VI, subentrato ai Re spagnuoli nel dominio di Lombardia, era innamorato della Spagna e del suo sistema, è facile a comprendere come doveva camminare la cosa pubblica in Lombardia, durante il regno di lui, sebbene ei fosse d'indole mitissimo. L'arbitrio dell'autorità costituita tenne allora le veci della giustizia; il diritto storico fu così onnipotente, che il diritto razionale e naturale parve davvero un'utopia di filosofi sentimentali e innamorati, per adoperar la frase di un moderno statista dalla pelle di cuojo; come pare anche oggidì a qualche sincretico legista, che dalla memoria sterminata e prevalente su tutte le altre facoltà dello spirito, ebbe guasto l'intelletto e contaminato il cuore. Quel periodo adunque di Carlo VI contrassegnò la massima prevalenza del ceto patrizio. Chi non era nobile era una bestia, non tollerabile se non in quanto serviva come un cavallo o come un bue; e se appena appena si rivoltava per l'istinto inalienabile della difesa, o sbizzarriva per insipiente indocilità, tosto veniva tolto dal corpo sociale come pericoloso e infesto. Il Senato poi che, sotto il dominio spagnuolo (non sono parole nostre), corredato nella sua istituzione di somma autorità, si reputava maggiore del Governo stesso; per cui la vita, la libertà, la fortuna d'ogni cittadino, erano abbandonate al potere illimitato di lui, che si credeva sciolto dai rigidi principj di ragione, e solea dire che giudicava tamquam Deus; sotto Carlo VI vide più ancora accresciuta l'autorità propria, e perchè le istituzioni mantenute in vigore da chi è innamorato di esse, non ponno a meno d'invadere un campo maggiore di quello che primamente era loro stato conferito; e perchè inoltre, negli anni di Carlo VI, non si presentarono governatori così prepotenti come quei di Spagna, a respingere l'arbitrio coll'arbitrio, ed a farsi beffe del tamquam Deus.
Quando un popolo è condannato a portare simultaneamente il peso di due poteri arbitrarj e iniqui, ma che pure si faccian mutua controlleria, può avere intervalli di sollievo e può accidentalmente trovar anche la giustizia; mentre invece, se di que' poteri uno solo rimane sul campo, allora ai soggetti non resta a far altro che mordersi le mani, perchè loro è impedito anche di esprimere i gemiti del dolore. Ad onta di ciò, qualche uomo di Stato e qualche istoriografo potè lodarsi di quel periodo transitorio; ma la logica rivede i conti alla cronaca, le cui cifre, se non rispondono alla riprova della prima, è indizio che sono fallaci. Però il fatto che siamo per raccontare viene a smentire l'asserzione: che sotto il governo di Carlo VI siasi respirato quanto lo comportava la condizione dei tempi. — Degli arbitrj inumani del Senato, rimasto solo sul campo, fu dunque conseguenza un funesto avvenimento che non si è potuto scancellare dalla tradizione inorridita, sebbene siasi fatto scomparire dagli archivj il relativo processo criminale. Però, furono uomini devoti alla giustizia ed alla santa ragione quelli che pensarono di conservare il dettato della tradizione da essi raccolta dalla stessa bocca di chi era stato testimonio di quel fatto, che ben potè chiamarsi la strage degli innocenti; e la conservarono, perchè lo spettacolo dei traviamenti a cui può andar soggetta un'autorità costituita in arbitrio illimitato, rimanesse ad ammonizione ed a sgomento delle future generazioni.
Chi quindici o vent'anni fa era studente al ginnasio, al liceo, all'università, avrà sentito parlare di un tempo non molto lontano, in cui i giovinetti battaglieri e maneschi solevano ordinarsi in truppa, e assumevano tra loro un'ostilità di convenzione per aver un pretesto di menar le mani. — Gli scolari del ginnasio e del liceo di Sant'Alessandro eran nemici giurati di quelli, per esempio, del ginnasio di Santa Marta, o di quelli di Brera; e questi, non volendo patire insulti, respingevano i nemici armata mano, vale a dire colle munizioni scolastiche, quali i pennajuoli, le righe, le cinghie di pelle, i temperini che convertivano l'ostilità di convenzione in ostilità vera, e le antipatie in furore, e le ragazzate in fatti gravi e in occasioni di affanni alle famiglie. Spesso gli assaliti diventavano assalitori, e l'esercito del ginnasio di Brera, che aveva la riserva formidabilissima degli studenti di disegno, armati di squadra e compasso, trasportavan la guerra fuori del proprio nido, e inseguivano i nemici fin nelle loro sedi come gli antichi Romani. La contrada del Fieno e la piazza dell'Albergo Imperiale parlano ancora di queste guerre, a chi sa interrogarle, come i campi di Zama e di Cartagine. Noi stessi poi ci ricordiamo come alcuni scolari di retorica, che avevano appartenuto a quei tempi gloriosi, guardassero a noi, scolari novizj di prima classe, con quell'aria di pietà e di dileggio con cui un veterano di Waterloo guardava ai molli giovani cresciuti dopo la restaurazione.
Codesta pericolosa consuetudine, di che a' nostri tempi fanciulleschi non era rimasto che la ricordanza, ricordanza che qualche rara volta provocava lo spirito d'imitazione, ora, per fortuna, è scomparsa affatto; ma invece trovavasi nel suo massimo vigore nel secolo passato. Quanto più era rigoroso e quasi tirannico il regime casalingo de' nostri padri, tanto più i giovanetti reagivano a quel rigore, allorchè eran fuori della vista paterna e materna. Non potendo respirare in casa ragionevolmente, perchè il terribile papà, colla parrucca di Filicaja o col topè di Scannabue, li fulminava con lo sguardo, si sfogavano irragionevolmente fuori di casa, e con tanto più intensa, quasi diremmo, rabbia fanciullesca, quanto minore era il tempo di libertà a loro concesso. — Cattivo il sistema d'educazione, pessime le conseguenze. — Però avveniva talvolta che le nature giovanili più vivaci e generose prorompessero peggio delle altre in atti d'insubordinazione e di disordine. Nè limitavansi a quelle battaglie tra loro; ma talvolta quando durava la tregua, siccome avevano degli spiriti esuberanti da versar fuori, tanto più esuberanti quanto più, siccome dicemmo, venivan compressi in casa dal folto sopracciglio paterno e in iscuola dall'arcigna canizie del frate professore gesuita o barnabita, così si sfogavano sui passeggieri, su qualche figura barbogia e ridicola, su qualche vecchia che vendesse i libretti della cabala e avesse odore di sortilega, press'a poco, come non è gran tempo, potemmo vedere qualche sucida vecchiarda inseguita a dileggi e a fischiate dall'irrompente folla della fanciullesca marmaglia.
Qualche volta però, uniti in formidabile truppa, segnatamente gli scolari già adulti della rettorica, si dilettavano anche a far qualche atto di giustizia sommaria, a fare scherzi e dileggi a coloro che per verità li avevano provocati, scherzi e dileggi che non mancavano di spirito, e mettevano di buon umore tutta la città. Ora avvenne il seguente fatto. Alcuni allievi del ginnasio di Brera, delle classi superiori, giovinetti dai quindici ai sedici anni, finite le scuole, uscirono un dì in truppa dalla porta maggiore del palazzo, e di là traendo per le contrade, si dilettarono a metterle a rumore, trattenendosi di tanto in tanto a far celie e dispetti ai passanti, ai bottegaj, alle vecchie portinaje, alle livree passamantate di qualche casa, ai cocchieri, ai lacchè, ecc., ecc.; quando, un di loro, proponendosi qualche soperchieria più saporita, rivolto ai colleghi di scuola, così disse: — Andiamo a vedere il nuovo guardaportone del senator Goldoni. Invece di quel bell'uomo che aveva prima, il Marchese ha voluto seguir la moda, e s'è provveduto di un nano, ma il più brutto e laido nano che m'abbia mai visto; non patisce che nessuno si fermi a guardarlo, e sfido a vincere la tentazione. A chi gli ride in faccia, ringhia come un cane, e scaglia invettive a tutti, e qualche volta mena anche a tondo la lunga canna d'India, che a chi gli tocca il pomo nelle gambe non è un servizio. Il senator Goldoni sa tutte queste cose, e va superbo di questo bel mobile; e quando sa che il suo nano ha fatto cadere il pomo del bastone su qualche testa o qualche schiena, gli dà doppia giornata e doppio pranzo. — Ora, fatto tesoro di queste parole, i compagni mossero tutti e di gran lena, senza nemmeno far precedere una consulta, alla volta del palazzo Goldoni. Giunti di faccia al quale, e visto che il nano guardaportone era là tronfio e pettoruto, e con un faccione protervo e provocatore e ghignoso, tosto si schierarono in semicerchio innanzi a lui, e si misero a cantare in coro una villotta allora in voga, dove c'erano delle celie che parevan pensate e messe in musica apposta per esso. Non è a dire la furia a cui montò il nano, e come tosto facesse succeder le brutte parole e le minaccie e i fatti; e come, all'ultimo, secondo il suo costume, si desse a far girare su quella schiera il suo lungo e pesante bastone senza modo nè misura. Ma il nano era solo, e la schiera era giovane e fitta e forte e baldanzosa, onde fattiglisi intorno, lo disarmarono, lo avvoltolarono come un palèo, e così raggirandolo a spintoni, a calci, a schiaffi, gli fecero fare il giro di tutta la città, fra le risate universali, ottenendo, quel che oggi si direbbe, un vero successo d'entusiasmo.
Il tumulto crebbe al punto, e i guaiti del nano, infuriato e percosso da tanti pugni, furono tali, che, come avviene di consueto in queste faccende, accorse la sbirraglia. Allora gli studenti abbandonarono il nano e tentarono la fuga; ma la folla stipatissima essendo stata d'inciampo ai loro passi, gli sbirri s'impadronirono de' più adulti, lasciando andare la ragazzaglia minuta, mentre il nano mezzo pesto fu ricondotto al suo portone. I quattro giovinetti, che tale riuscì il numero dei disgraziati, vennero tratti al capitano di giustizia ammanettati come ladri. — Se quel nano fosse stato un povero del volgo, esercitante qualche professione, forse gli sbirri avrebber dato una mano agli scolari di Brera; ma avendolo conosciuto pel nano del senator Goldoni, si fecero un paléo, di difenderlo con devozione di vassalli, e di accompagnarlo a casa con tutti i riguardi dovuti a un alto personaggio. E se gli sbirri si comportarono di questa maniera, non stettero indietro i giudici, gli auditori, i notaj, gli scrivani del Capitano di Giustizia, allorchè, maravigliando e quasi inorridendo del gravissimo insulto, guardarono a quei quattro giovinetti scellerati, che ebbero tanta audacia di percuotere il Guardaportone del senator Goldoni. Ma la cosa non doveva fermarsi qui. All'annuncio di quanto era avvenuto, quel senatore, pallido d'ira e giurando di trarre una terribile vendetta, la quale fosse a lezione ed a sgomento della plebe, si recò, abbandonando il pranzo e lasciando i convitati in gran trambusto e cordoglio, al palazzo dell'eccellentissimo presidente del Senato, il quale non meno stupito e convulso d'ira del marchese Goldoni, quasi che si trattasse della patria in pericolo, convocò extraordinariamente il Senato, ingiungendo che facesse parte dell'adunanza il Capitano di Giustizia e il suo Vicario, come praticavasi nelle bisogne d'urgenza. A chi considera oggi tali fatti, la storia pare bugiarda, chè la ragione si rifiuta ad ammettere tanta demenza, più quasi che ferocia, in uomini gravi, costituiti in autorità. Ora il Capitano, avendo già esaminati i giovinetti, lesse in Senato il costituto, esponendo il fatto come un atto manifesto di pubblica sedizione, ed anche, subordinatamente, pronunciando il voto per la massima pena da infliggersi ad essi. Sebbene la maggior parte de' senatori, per la vertigine provocata dall'orgoglio di corporazione, giudicassero quella colpa gravissima, e, smarrito ogni lume di ragione, non sapessero tener conto menomamente dell'inesperienza inconscia e non responsabile di quegli adolescenti, e però non credessero di derogare alla proposta del Capitano di Giustizia, pure non mancò in quel consesso di giudici iracondi qualche voce pietosa; e forse quella voce avrebbe potuto stornare la carneficina; poichè, essendosi letti a quel consesso i nomi de' giovinetti, fece senso a tutti quello di don Giovanni Pietra, figlio del conte Francesco Brunon-Pietra, e fece senso non per altro che perchè era il nome di un nobile. Questo incidente bastò a fare aggiornar la sentenza; ma tutto, purtroppo, fu inutile. Una soperchieria infantile doveva esser causa di un'ingiustizia, e questa doveva provocar poi un atto inumano e veramente inaudito, atto inumano che, a primo aspetto, avrebbe potuto aver sembianze di una virtù somigliante all'inesorabile giustizia della patria potestà di Roma antica; chè il dì dopo, il segretario del Senato, lesse in pieno consesso uno scritto sottosegnato dal conte Francesco Brunon-Pietra, col quale ei supplicava che non si avesse riguardo nessuno alla nobiltà del suo casato, quando fosse stato d'impaccio al corso della giustizia; perchè, riferiamo le sue stesse parole, «l'obbedienza alle leggi e il rispetto all'autorità e segnatamente il culto dell'alta maestà del Senato doveva andar innanzi a tutto.» Le voci pietose che s'eran fatte sentire il giorno prima, si fecero riudire ancora, ma in segno di dolorosa meraviglia, inculcando che si dovesse considerare come non ricevuto uno scritto in cui la devozione all'autorità faceva tacere l'umanità, e offendeva le leggi più antiche e più irrepugnabili di natura, ma tutto fu indarno. — I giovinetti vennero condannati a morte.
Or che indole d'uomo era quel conte Francesco Brunon-Pietra, e come e perchè aveva potuto inviare al Senato quel terribile scritto? Noi abbiamo fatte molte e lunghe e non facili ricerche per scoprirne le cagioni, e alla fine, tenuto scrupolosamente conto di tutto, ci riuscì di cavarne quanto segue.
Quel conte Brunon-Pietra era stato assai famigerato in Milano per le sue galanterie donnesche, per la sua vita disordinata e facinorosa; e soprattutto per aver consumato nella prima gioventù l'intero patrimonio, che era di qualche milione di lire milanesi, e ingoiate poi, l'una dopo l'altra, quattro eredità laterali. Fu allora che, ridotto quasi al verde, seppe così ben fare e comportarsi nella casa dei marchesi Incisa, che una graziosa e virtuosissima giovinetta di quel casato, ricchissima di un'eredità legatale da un suo padrino, tirata ad arte nelle insidie, finì ad invaghirsi perdutamente di lui, ed a concedergli la mano di sposa. — Da questo matrimonio nacquero, ne' primi due anni, un figlio maschio e una fanciulla che non conobbero la madre, perchè, vittima delle furibonde ingiurie maritali, morì tre mesi dopo il secondo parto. Pare che le cagioni di quelle ingiurie e di quella morte immatura sieno state delle tresche scandalosissime con una contessa Ferri, nata Alfieri; poichè, non ancora compiuto il lutto vedovile, il conte Brunon, senza riguardo alcuno, la sposò, e n'ebbe poscia un figliuolo. — Intanto che il primogenito e la fanciulla del primo letto, eredi della ricchezza materna, erano tuttora in cura delle nutrici, il figliuolo del secondo letto cresceva in casa, e la nuova moglie del conte, che aveva preso sul marito quell'impero ch'egli in addietro aveva sempre esercitato sulle donne, gli comunicò un tale amore per quel fanciullo, ch'esso, al pari della matrigna, sentì avversione pei primi due, e tutto l'incomodo e il peso della loro esistenza. — Questo non apparì manifestamente in principio, ma quando i fanciulli avanzarono in età, trapelarono al di fuori le intenzioni del conte, tanto che i parenti della defunta marchesa Incisa, fecero reclami per avocarne a sè la tutela; ma invano, perchè il conte, astutissimo e versipelle, seppe condursi così bene, che furono respinti i reclami e a lui data piena soddisfazione. — Se non che d'allora in poi il conte, affinchè i figliuoli non si lamentassero, finse di trattarli bene. La fanciulla, che era donna Paola, fu messa educanda, com'era di consuetudine, in un monastero che fu quello di Santa Radegonda, il fanciullo fu tenuto in casa; e siccome egli era naturalmente acuto e vivacissimo, e si sentiva come il padrone in casa, e non poteva soffrir la matrigna, nè vedea molto di buon occhio il fratellastro, il conte Brunon, per non averlo contrario, e perchè non gli uscisse di mano l'amministrazione delle sue sostanze, si diede ad accarezzarlo, ad assecondare ogni suo capriccio. — Quali disegni poi si volgesse in testa non si sa..., ma forse, senza che lo sapesse spiegare a sè medesimo, meditava di addensar pericoli al giovinetto, perchè avesse o tosto o tardi a rimanerne travolto. Ed or la mente vorrebbe respingere l'idea di un tanto accordo tra il destino e i desiderj di quel padre scellerato.
Prima che si eseguisse la pena capitale contro que' sventurati giovani, si commosse tutta la città, impietosita e di loro e dei parenti desolati; e nei giorni d'intervallo molte pratiche si tentarono per smuovere l'autorità del Senato da tanta efferatezza. — Or non è a dire la dolorosa meraviglia di tutti, nel sentire quel che era stato scritto al Senato dal conte Francesco, il quale solo, per la sua nobiltà e per quella del figliuolo, avrebbe potuto, se avesse voluto fermamente, impedire quella carneficina e salvare col proprio figliuolo altri giovinetti complici.
Ma la costernazione generale, se fu sincera e profonda, non fu coraggiosa, perchè non par vero che lo spettacolo di così scellerata, ripetiamo demenza, non abbia fatto insorgere tutta la città, per strappare quelle giovani vite dalla mano del carnefice, con tali dimostrazioni solenni dell'ira pubblica, che valessero ad inspirare al Senato stesso quello sgomento che insegna la pietà.
Il conte Francesco potè dunque veder lieta l'infernal moglie per quel primogenito spento, e spento, gli parea quasi — tanto sono assurdi i sofismi dell'iniquità — per un ordine provvidenziale; ma restava la fanciulla, educanda in Santa Radegonda, la giovinetta donna Paola Teresa, che già toccava i sedici anni, e doveva fra poco tempo uscire di là per accasarsi convenevolmente, essendo ricca di buona parte della ricchezza materna. Ora quella figliuola, superstite al fratello, turbò la gioia del connubio infernale. Il conte Francesco ereditava dal figlio i due terzi della sostanza che aveagli lasciata la marchesa Incisa; — ma questo non bastava alla sua seconda moglie, la quale, eccitata da un affetto smodato pel proprio figlio, le parea che fosse rubato a lui quello che potea pure diventar suo, se donna Paola Teresa, o scomparisse come il fratello infelice, o giacchè era in convento, vi rimanesse professa per sempre. — Ma la fanciulla non avea mai dato segno di vocazione alla vita claustrale. Ricca e bella e, per soprappiù, avendo sortito dalla natura una grande virtù per la musica e pel canto — virtù fatta poi mirabile dagli insegnamenti della celebre suor professa Rosalba Guenzani, cantatrice e suonatrice d'organo nel monastero appunto di Santa Radegonda — aveva già potuto presentire le attrattive del mondo; chè ogni qualvolta usciva di convento, a stare un giorno col padre, nella qual occasione recavasi anche a far visita a' parenti, veniva accolta da tutti come in trionfo; e già le era stato toccato di qualche cospicuo matrimonio; di modo che, per modesta e virtuosa che fosse — ed era virtuosissima, tanto da esser l'idolo, non solo della sua maestra suor Rosalba Guenzani, ma delle altre suore e delle amiche colleghe — ogni qualvolta ritornava in convento, sebbene le fossero care e la maestra e le amiche, pure non desiderava altro che di lasciare quelle meste mura del chiostro e di uscire all'aperto. Or venne il tempo in cui, finita la sua educazione, doveva infatti uscire. — Ma fu allora che il conte Francesco, messo innanzi il pretesto d'un viaggio, cominciò ad insinuare alla fanciulla di rimanervi fino al suo ritorno; ed ella vi rimase. — Di poi, quando non valse più quel pretesto, ne cavò fuori altri molti per poterla dimenticare colà; ed ella pazientò senza lamentarsi, ma con grande suo affanno. Infine il padre un dì le fece motto della convenienza ch'ell'avrebbe avuto di abbracciar la vita monastica. La fanciulla stupì a quella proposta, e rispose con sdegno, e risolutissimamente negò. Allora il padre finse di non adirarsi e di trovar giusta quella fermezza di risoluzione; onde levatala dal convento, la condusse in casa. Se non che, dopo alcuni giorni, il portone del palazzo Pietra stette chiuso, perchè tutta la famiglia erasi recata in campagna in un luogo tra i monti valtellinesi. Passarono così due mesi, finchè corse la voce che tutta la famiglia era tornata, ed anche la fanciulla donna Paola. — Ma con grande meraviglia di tutti, essa venne ricondotta dal padre nel convento di santa Radegonda, dove la madre abbadessa sentì dalla bocca stessa di lei che voleva farsi monaca. La poveretta in que' due mesi erasi per tal modo disfigurata, che pareva una larva di fanciulla strappata per miracolo alla morte dall'arte medica. Che cosa del resto sia avvenuto in quel luogo del valtellinese, con che atti di crudeltà siasi trattata la giovinetta in quel tempo, non si sa; onde è libero il campo alle congetture. Quello che pur troppo avvenne si fu, che, dopo un anno, donna Paola Pietra si professò monaca in Santa Radegonda. — Ma, dice il frate di S. Ambrogio ad Nemus, in quella sua succinta relazione:
«In quello stesso momento in cui la fanciulla non da un solo timore riverenziale, ma da una manifesta violenza, fu costretta fare nel suddetto monastero la solenne professione de' voti, protestò nell'interno del suo animo a Dio di non concorrere colla volontà ad un atto, a cui era trascinata dall'altrui volere.» Paga d'aver di ciò chiamato Dio stesso in testimonio, si persuase di poter conservare intera quella libertà che Dio stesso le avea data. Tuttavia, fosse prudenza o un resto del timore onde ella erasi lasciata obbligare all'atto solenne, non confidò che assai tempo dopo, a fide e virtuose persone, gl'interni suoi sentimenti; e come se fosse presaga di quanto doveva poi veramente succedere, nella dolorosa solitudine del chiostro si consolava colla speranza di dover un giorno romper quei lacci che la violenza degli uomini le avevan posto. A tale effetto conservò per molti anni un suo abito secolare, di cui credea fermamente di doversi servire. — Pure in qual modo ella avesse ad uscirne non poteva nemmeno immaginarselo, ben conoscendo che era impresa impossibile il tentarlo per le solite vie giuridiche. Ma la straordinaria virtù del suo canto, come l'aveva già esposta, quand'era ancora educanda, all'ammirazione generale, doveva additarla, monaca, all'altrui pietà. — Già abbiam detto che tutta la città di Milano accorreva nella chiesa di santa Radegonda a sentirvi le migliori produzioni della musica per canto ecclesiastico. — Il maestro Prediani, bolognese, che allora era in Milano, soleva, per così dire, stare in giornata su tutto quello che producevasi in Italia in questo genere, e appena venisse in luce qualche composizione squisita, era sollecito di mandarla alla celebre suor Rosalba, affinchè ella la facesse conoscere ed apprezzare con quel magistero ch'ella aveva nel toccar l'organo e nel cantare, e perchè specialmente, se trattavasi di pezzi a due voci, veniva squisitamente assecondata da suor Teresa Paola Pietra. — L'Ave maris stella di Leo era uscito di fresco in que' giorni.
Il ceto distinto della città, che allora tenea dietro a tutte le novità musicali, e s'interessava anche della musica di chiesa, veniva informato dal maestro Prediani, che dava lezioni nelle principali case, del quando si doveva eseguire qualche gran pezzo istrumentale in Duomo, o qualche canto in Santa Radegonda, onde accorse per sentire quella nuova composizione. La folla, come suol dirsi, si portava a que' trattenimenti, tanto che l'arte faceva dimenticare la devozione; e però, in proposito, erano uscite alquante pastorali contro l'uso e l'abuso della musica sacra. — Ora, tra quella folla stipatissima, si trovò un Inglese, che si chiamava lord Crall, uomo straordinario e cavalleresco, e portato naturalmente all'entusiasmo. Egli sentì quella musica e sentì la voce commossa della monaca giovinetta, la quale, ripetendo quel canto divino, vi trasfondeva tutta l'intensità dei proprj affanni, e con tal fascino, che tutti, mentre atteggiavano il volto al sorriso per la soavità della melodia, pur si sentivano irresistibilmente inondati di lagrime.
Quel gentiluomo dunque, più commosso ed esaltato di tutti, chiese di quella monaca, e udita la storia del fratello di lei e del tristo padre, e com'ella fosse venuta renitente ai voti; tanto si interessò di essa che, d'una in altra ricerca, venne a conoscere i segreti suoi pensieri, ed eccitato dalla pietà e dall'entusiasmo per tanta virtù e sventura, si offrì di liberarla e di farla sua sposa. La forza di codesta tentazione fu sì gagliarda sulla monaca giovinetta, che il pericolo della fuga, i disastri d'un lungo viaggio, l'abbandono della patria, la diversa religione del gentiluomo, e i mille sentimenti di pietà e d'onore che doveano sostener la sua ragione, se la tennero per qualche tempo in grande sospensione d'animo, pur non valsero a soggiogarla; poichè, all'ultimo, ella si faceva imperterrita nell'idea d'esser libera innanzi a Dio, e di potere col matrimonio serbare inviolato il proprio onore. — Rispetto ora al gentiluomo che aveva promesso di liberarla, giova sapere com'egli nascesse da una famiglia illustre inglese passata in Francia, e come il padre suo, pel celebre editto fulminato da Luigi XIV contro gli Ugonotti, nel 1685, siasi trovato costretto a tornare in Inghilterra; dove morì lasciando due figlie ed un maschio, che fu poi questo lord Crall.
Custodivansi le chiavi del monastero nella stanza dell'archivio, a cui si entrava per una bussola chiusa da una piccola serratura; fatta per ciò la prova di diverse chiavi, ne fu trovata una che l'apriva. Dopo di che, fissato il giorno e l'ora per l'uscita, licenziatosi pubblicamente il cavaliere dagli amici, partì da Milano; ma trattenutosi segretamente in un casino poco distante dalla città, vi fe' ritorno pochi giorni appresso, nella stessa notte stabilita per la fuga. — Giunta l'ora in cui la si dovea eseguire, accaddero nel monastero alcuni piccoli e curiosi accidenti che non mette conto di riferire, i quali parea avessero ad impedirla, ma invece l'agevolarono.
Il cavaliere si trovò, con altri, ben armato alla porta del monastero, ed una carrozza stava preparata in vicinanza alla chiesa di S. Paolo; prima d'uscire depose la fanciulla la veste religiosa, e comparve in sott'abito da uomo. — Alla presenza di testimonj si rinnovarono allora ambidue la fede ed il giuramento di sposi, di cui il cavaliere avea prima fatto dichiarazione in iscritto; e, senz'altro contrattempo, lasciarono la città.
La notizia di codesta fuga fece un tal rumore e provocò tanti parlari, che per molto tempo circolarono scritture in proposito e poesie di vario tenore; nelle quali, o lo sdegno dell'ascetismo esaltato condannava altamente quella risoluzione della giovane monaca, o la pietà spontanea di una ragione più libera protestava in sua difesa; ma più di tutti levò grido e si diffuse rapidamente ed ebbe migliaja di copie manoscritte un sonetto ch'ella medesima scrisse in propria difesa: ed è questo, che, sebbene scorretto e tutt'altro che prezioso in faccia all'arte, è preziosissimo in faccia a più gravi ragioni:


Donde n'entrai, m'involo alla ventura,
Porto meco l'onor, la fè nel core.
Benchè questo rassembri un grande errore,
Pianger dovrà chi lo mio mal procura.
So che al mondo non v'è legge sì dura,
Ch'obblighi un cuore ad un sforzato amore.
Amo il decoro e son dama d'onore,
Onde vincer saprò la mia sventura.
Qual combattuta nave in mezzo all'onde,
Oggi imploro dal ciel soccorso, aìta
Per arrivar le sospirate sponde.
Se fortuna o periglio a me s'impetra,
Sia noto al mondo come fui tradita,
Se ben ebbi nel seno un cor di Pietra.


Ma da Milano i due fuggiaschi viaggiarono sollecitamente a Venezia, dove si trattennero parecchi giorni in una casa vicina a quella d'altri Inglesi, nonostante lo strepito che presso la Repubblica faceano il ministro cesareo e il nunzio del papa. Se non che, essendo stati avvisati che non avrebbero potuto fermarsì colà più lungamente senza pericolo, la donna, vestita, come sempre era stata, da uomo, fu condotta di notte sopra un vascello inglese che stava alla rada; mentre il cavaliere, dopo averla consegnata al capitano, per una maggior cautela, passò in altro bastimento olandese. E bene erano stati avvisati in tempo, perchè il giorno dopo, per ordine del Magistrato, si fece la ricerca della fuggitiva in quella medesima casa donde poche ore prima era uscita. Dalla rada di Venezia passato il vascello inglese a Zante per farvi provvigione di vino per l'equipaggio, non potè fermarsi colà quanto bisognava, perchè recatosi di notte al suo bordo il nipote del Console inglese in quell'isola, avvisò il capitano che suo zio aveva accordata al governatore la permissione di far la visita al vascello, per toglierne una religiosa trafugata. Il capitano, levate allora le ancore, si allontanò dall'isola, apprestandosi alla difesa, nel caso che lo si fosse attaccato. La mattina seguente si mostrò infatti una marciliana con altra nave. Ma quella, avendo scorto che l'equipaggio era sotto l'armi, ed essendo il vento poco favorevole per tentare l'abbordaggio del vascello, dopo averlo per qualche tempo inseguito, dovette abbandonarlo. Donna Paola intanto era stata, per maggior sicurezza, nascosta dal capitano nel fondo del vascello, dove ebbe a trattenersi parecchie ore. Cessato il pericolo, all'uscire di quella sepoltura, fu salutata con grandi evviva da tutto l'equipaggio, già informato delle avventure della medesima. Il vino che dovea provvedersi a Zante, fu provveduto in altro porto; e dopo un viaggio non molto lungo, il vascello approdò felicemente a Londra. Qui donna Paola venne accolta dalle due sorelle del cavaliere e ritrovò preparata l'abitazione. Il cavaliere intanto, che per maggior cautela s'era trattenuto alle spiaggie di Venezia, venne poi con abito mentito ad Ancona, donde, attraversata per terra l'Italia, giunse a Livorno, dal cui porto con altro vascello passò in Inghilterra, dove sbarcò poco dopo l'arrivo di donna Paola.
Sparsasi per tutta Londra la novella di codesto fatto straordinario, tosto l'arcivescovo di Canterbury, con proposte onorevoli, tentò l'animo della donna ad abbracciare la religione anglicana; ma la donzella fermissimamente dichiarò che, non essendo passata in Inghilterra per motivo di religione, ella non era in istato nè in volontà di cangiarla; dichiarazione che ripetè poscia alla regina medesima, quando, con maggiore grandezza di offerte, essa le mandò lo stesso invito dell'arcivescovo. La sola cosa che bramava donna Paola era di convalidare il suo matrimonio colla presenza d'alcuni parroci cattolici di Londra; ma questi avendo ricusato di assisterla finchè Roma non avesse decretata invalida la sua professione religiosa, ella inviò una supplica al pontefice allora regnante. Ma o non fosse stata la supplica debitamente concepita, o fosse stata mal diretta, non ne ottenne risposta veruna; per cui deliberò di condursi in Francia insieme col cavaliere, e di là, bisognando, anche a Roma, per implorare personalmente ciò che non s'era potuto ottenere per lettere.
Giunti in una città di quel regno, il vescovo, a cui era noto il fatto già pubblico in tutta Europa, penetrando il loro arrivo, fece qualche passo per assicurarsi della religiosa. Ma essi, avutone sentore, sollecitamente si ritiraron in Ginevra, dove dall'istesso magistrato furono, poco tempo dopo, segretamente avvisati perchè si guardassero dall'uscirne, essendo attesi ai confini; e qui uno stratagemma servì loro di scorta, e preso altro cammino, dubitando di nuovi incontri, se ne tornarono in Inghilterra. Colà, senza nessun avvenimento notevole, visse donna Paola fino all'anno 1732, con quella tranquillità che le potea permettere la sua specialissima condizione, e il rimordimento che di tanto in tanto la infestava d'essersi fatta giustizia da sè stessa, quantunque pur sempre si confortasse della protesta fatta in suo segreto a Dio, e della insistenza e diligenza assidua ond'ella erasi adoperata e s'adoperava per riconciliarsi colla Chiesa. Quando finalmente la sua fortuna volle che ritrovasse un mercante cattolico di Londra, il quale prese l'impegno di scrivere ad un suo corrispondente in Roma, uomo che si assunse l'incarico con religioso calore; e a servir meglio e l'amico e la coppia virtuosa, recossi a ragguagliarne il cardinal di Sant'Agnese, di cui aveva la protezione, il qual cardinale era un Giorgio Spinola di Genova. Questi, riflettendo alla gravezza dell'affare, ne parlò tosto al Santo Padre, ed al cardinale Vincenzo Petra penitenziere, dal quale, coll'assenso pontificio, fu per mezzo dello stesso mercante spedito sollecitamente a Londra il solito breve assolutorio col salvacondotto, affinchè la donna nel termine di sei mesi si portasse a Roma. A tale uopo furon dati gli ordini a banchieri di varie città pel somministramento del denaro e di tutto quello che nel viaggio potea bisognare alla medesima.
All'arrivo di questi ricapiti, benchè fosse il cuor dell'inverno, partì donna Paola da Londra con un cameriere cattolico; ed attraversata la Francia sotto altro nome, giunse a Marsiglia, non senza gravi patimenti cagionati dalla stagione, e il giorno 8 febbraio 1733 entrò in Roma. Il cardinal di Sant'Agnese, avvisato preventivamente dell'arrivo, fe' che le movesse incontro una matrona di esemplare saviezza, in casa della quale donna Paola si trattenne segretamente alquanti dì, trascorsi i quali, per ordine del pontefice, passò al convento del Bambino Gesù, sotto apparenza di dama fiamminga, per ivi addurre le sue ragioni contro la profession de' voti.
La prima determinazione del papa fu di deputare un congresso di cardinali, dal quale si esaminasse se una tal causa dovea agitarsi nella Congregazione del concilio o nel tribunale della sacra Penitenzieria. Le gravi e particolari circostanze che, a primo aspetto, si videro in quest'affare, fecero abbracciare il secondo partito. Per operar tuttavia con più cautela, a' giudici della Penitenzieria furono aggiunti cinque cardinali, fra' quali lo stesso prefetto della Congregazione del concilio.
Da lungo tempo non eravi stata in Roma una causa più intralciata di simil materia. Tre volte, in tempi diversi, radunossi la Congregazione, e si tennero altresì molti Congressi. Non potè sapersi quel che in essi s'andasse di volta in volta determinando: ma quello che si può dire è, che le prove delle violenze da principio accennate, furono, dopo quasi tre anni, poste in sì chiaro lume che, non potendosene dubitare neppur da' giudici più austeri, finalmente, nel mese di settembre dell'anno 1735, a pieni voti venne fatto dalla Congregazione il decreto: Constare de nullitate professionis. Il papa confermò il decreto, e, dopo risolute altre dipendenze, fu data a donna Paola la libertà d'uscire dal chiostro, in cui aveva dimorato per tutto quel tempo con universale edificazione.
Donna Paola Pietra, toccato così il supremo suo intento, a cui incessantemente era stata fida, più, quasi diremmo, per un'ostinazione della mente che si esaltava nell'idea di aver per sè il diritto e la giustizia, che per la probabilità della riuscita, lasciò Roma, sicurissima di sè medesima, poichè s'era come veduta espressamente protetta dalla provvidenza; e ritornò in Inghilterra a ricongiungersi con colui che l'aveva tratta in salvo, e che sempre le si era mantenuto religiosamente fedele. Abbandonata poi l'Inghilterra, venne con esso a Roma dove solennemente ei la sposò. Ma la fortuna non volle permettere che tanta felicità fosse duratura, e, dopo tre anni di convivenza maritale, il virtuosissimo gentiluomo venne a morte, lasciandola madre di due figli. Donna Paola per qualche tempo se ne stette nelle vicinanze di Roma, poi, nel 1743, dopo tredici anni di assenza, ritornò a Milano a fermarvi stabile dimora. Un tale ritorno gettò lo sgomento in coloro che l'avevan voluta sagrificare, sapendola così efficacemente protetta dal santo padre; ma provocò un tripudio universale, tanto che le diverse maestranze della città la vollero festeggiare con notturna luminaria. Ed ella, se magnanima disprezzò tutte le vili paure di chi l'aveva voluta opprimere, non mostrando nemmeno di ricordarsi di loro; volle corrispondere efficacemente a quella pubblica estimazione con atti di carità viva, col farsi consolatrice degli altrui dolori, col metter pace nelle trambasciate famiglie; più spesso, col difendere contro l'attentato de' tristi l'innocenza che non si guarda; tra i molti suoi atti meritorj aveva destato gran rumore un viaggio che fece appositamente per ottenere da Maria Teresa la grazia della vita per un giovane, colpevole d'aver ucciso un cavaliere che avea fatto contumelia alla sua fidanzata. Naturalmente dotata di acuto intelletto, fortificata dall'esperienza, virtuosa senza rigidezza, benefica senza ostentazione, era essa richiesta di consiglio anche da persone di gran riguardo.
Quand'ella recavasi a passeggiare lungo le pubbliche vie, era segno agli sguardi di tutti quel suo grave aspetto, in cui serbavansi tuttavia i resti di una maestosa bellezza; aspetto grave di quella placida mestizia che viene dalle angoscie passate, dalla memoria di una perdita irreparabile, dalla severa considerazione della vita; ed ella, che nell'animo avea tanta pietà per altrui, ne destava poi altrettanta in tutti coloro che la guardavano, conoscendo il suo passato; poichè facea senso quel perpetuo suo lutto vedovile, il quale attestava un dolore che non poteva aver riposo nella vita; e faceva senso quel suo comparire in pubblico assiduamente accompagnata dai due suoi figliuoli già quasi adulti, e come lei vestiti a lutto, e severi e mesti al par di lei. — E davvero che il gruppo di quelle tre figure, che si staccava come un simbolo di dolore sul fondo vivace e variopinto e giocondissimo di quel tempo, giungeva a compungere di gravi pensieri quella società così spensierata e vana, la quale, ignara delle fiere lotte che l'aspettavano, non attendeva che a darsi buon tempo, come chi spende e getta e scialacqua le ultime ricchezze, e tuffa nell'ebrietà il pensiero del domani.
Era dunque stato un felice pensiero della contessa Clelia, quello di voler recarsi da questa donna Paola Pietra, e per richiederla di consiglio in un affare dilicatissimo e serio, e che poteva aver conseguenze luttuose, quantunque vestisse le apparenze di un amore galante; e per versare nel cuore di colei le ambascie, che ormai non potevano più esser contenute nel suo.



X



Per quanto durante la notte, nell'imperversare di un affanno, riesca impossibile di chiuder gli occhi al sonno, v'è pure un momento, vicinissimo all'alba, in cui è convenuto che si debba dormire; ma quel momento pare che, da un genio squisitamente acuto nell'inventar mezzi a tormentare l'umanità infelice, sia stato introdotto apposta fra il confine della notte e del giorno, perchè appunto, al risvegliarsi dopo un fuggitivo, più che riposo, assopimento, sia ancor più cruda la fitta del dolore.
Felici coloro che non ebbero mai nella vita uno di questi quarti d'ora micidiali! Ma se la contessa Clelia, in cinque lunghi lustri, non ne aveva provato neppure uno, ne sentì per la prima volta l'amarezza in quel mattino, in cui il sole di febbraio entrato, come una punta che scatti, da un angolo della finestra, attraversò la stanza da letto, e a guisa di una lancia luminosa, venne acremente a ferirla negli occhi. Ella si svegliò in soprassalto, si alzò sul guanciale, girò gli occhi intorno, e, stata un istante in pensiero, mandò un sospiro amaro; uscì dalle coltri pesanti, e si vestì senz'ajuto di cameriera, che chiamò poi, dando una lieve e lenta strappata al campanello; e mettea la lentezza in tutto quello che faceva, perch'era irresoluta, e voleva e disvoleva, e pensava e ripensava più cose ad una volta. La cameriera entrò in silenzio, in silenzio l'acconciò, chè il tumulto e l'amarezza dell'animo erano sì evidenti nel volto della contessa, che nessuno avrebbe osato parlarle se non per rispondere alle interrogazioni; e in silenzio sarebbe partita, se, quando fu per uscire, la contessa non l'avesse chiamata per nome:
— Lucia?
— Cosa mi comanda?
La contessa stette sopra di sè pensando ancora, poi soggiunse:
— Chiamami Giovanni, il figlio del carrozziere.
Dopo pochi momenti, entrò Giovanni — un servitore in livrea.
— Sai tu dov'è casa Borromea?.
— Lo so.
— Lì presso c'è una casa vecchia.
— Lo so.
— In quella casa abita una signora, che si chiama donna Paola Pietra.
— La conosco benissimo.
— Bene. Va' là da quell'egregia signora. Bada di domandar prima s'ella è alzata, e se riceve a quest'ora, e ad ogni modo aspetta finchè sia possibile di parlarle.
— Sì, signora.
— Quando ti riescirà, le dirai che sei una livrea di casa V..., e che ti manda la contessa Clelia, la quale brama di sapere in qual ora di tutto suo comodo può recarsi da lei, per parlarle di una cosa urgentissima. Ma falle capire però che quest'ora dev'essere prima di mezzodì in ogni modo. — Aspetta... Se mai quella pia e umil donna ti dicesse di voler venir essa da me, le farai comprendere essere assolutamente necessario che vada io medesima in casa sua. Va', e fa' presto.
Il servitore partì; la contessa si gettò a sedere, e richiamò la cameriera... e, ordinate alquante cose, la rimandò subito. Donna Clelia era più sconcertata che mai, e non potea star seduta, e l'irresoluzione le rientrò nell'animo, e persino il pentimento d'aver inviato il servitore da donna Paola; chè le pareva un atto imprudente e pazzo, e tanto più in quanto non aveva parlato che due sole volte a quella donna. Ma, d'uno in altro pensiero, si fermava a quello della Gaudenzi, e andava almanaccando i gradi di probabilità che ci poteano essere negli amori di colei con Amorevoli... e si indispettiva pensando che la Gaudenzi non fosse una sua pari; chè allora, almeno, avrebbe potuto avere un pretesto qualunque per recarsi a visitarla, e trovarsi con lei, e tentare e frugare e interrogare e scoprire il vero... Ma nel mentre stava dibattendosi in tanto contrasto di idee, tornò il domestico a dirle: che donna Paola Pietra era in casa, e che appunto la stava attendendo allora. La contessa Clelia a quella risposta che pur doveasi aspettare, si sentì dare un nuovo tuffo nel sangue e, quasi senza voce, tanto era oppressa:
— Dirai al carrozziere, soggiunse, che attacchi tosto i cavalli; e tu sali a prendermi senza perder tempo. — Indi chiamata la cameriera, che comparve tosto: — Fa' venir qui, le disse, il cameriere del conte.
Questo si mostrò subitamente.
— Direte al signor conte, che questa mattina, per un atto urgentissimo di carità, debbo portarmi da quella donna Paola Pietra ch'egli conosce; e che prima di mezzodì sarò di ritorno. — Il cameriere accennò col capo che farebbe, e partì.
La contessa, cominciando dal conte che la stimava forse assai più di quello che l'amasse, e giù giù fino all'ultimo gradino della gerarchia di quella casa signorile, aveva impresso in tutti una così alta idea della sua superiorità mentale, e d'un certo carattere fuori d'ogni ordine donnesco, e, per conseguenza, d'una virtù inaccessibile ad ogni sorta di pericoli, e quasi eslege da tutti i vincoli del galateo femminile, che andava, stava, dava ordini senza dipendere nè in poco nè in tanto da quell'autorità superiore, che in tutte le case e in tutti i tempi e presso tutte le nazioni, ad onta di qualunque rilassatezza indulgente del costume, è sempre il padrone marito.
Il domestico salì a prenderla, ed ella uscì, e messasi in carrozza, in dieci minuti, con nuovissimo suo affanno, i cavalli si fermarono innanzi alla porta della casa dov'era l'abitazione di donna Paola Pietra.
Preceduta dal servo che l'annunciò, ella pose il piede in una anticamera a pian terreno, nella quale, uscendo da un salotto vicino, le mosse incontro donna Paola.
All'occhio esperto e penetrante di quella grave matrona, bastò uno sguardo, un solo sguardo, per comprendere che la contessa Clelia veniva da lei per qualche proprio cordoglio e non per cose d'altri: onde di punto in bianco cangiò il solito formulario gratulatorio e complimentoso del saluto, che qualche volta può amareggiare altrui colla crudezza del contrasto; lo cangiò nel sorriderle soavemente, e nello stendere la mano per stringer quella della contessa, che lasciò fare senza dir verbo. — Donna Paola intese che in quel momento un tale atto confidenziale, il quale forse in altr'occasione non sarebbe stato dicevole alla poca intimità in cui ella trovavasi colla contessa, era il solo che potesse riuscire conveniente.
Egli è a questi atti sfuggevoli e che passano inavvertiti all'ottuso vulgo, che si riconosce di volo un'indole e un carattere privilegiato. Egli sta in codesti minimi atti il sintomo di quella squisita delicatezza, senza di cui non vi può essere interezza d'ingegno.
Entrarono silenziose ambidue in una sala, e silenziose si posero a sedere. Per qualche tempo stettero così taciturne, perchè donna Paola, com'era naturale, aspettava che parlasse la contessa; ma visto che la titubanza le facea nodo alla lingua:
— Per qual causa, ruppe essa prima il silenzio, la signora contessa ha voluto aver la degnazione di venire da me?
Donna Clelia si scosse, e dopo un istante ancora di titubanza:
— Per un fatto grave, rispose, e nel quale ella sola mi può aiutare...
Vi fu ancora qualche minuto di profondo silenzio. La contessa non sapea risolversi a manifestare il proprio fallo; trattavasi di offuscare con una parola sola, e al cospetto di una donna insigne di virtù, quell'aureola d'onoratezza distinta e quasi eccezionale, di cui ella sapeva pure d'aver, sino a quel punto, fruito nel mondo, sebbene il cicisbeismo avesse trasmutato in peccato veniale e quasi gentile l’infedeltà coniugale; essa lo sapea, e ciò l'aveva ad usura compensata spesso di quell'aridezza invidiosa onde soleva essere trattata dalle sue pari. E dopo tutto questo ell'era venuta là a distruggere con una parola il solo vanto della sua vita; il solo, dopo quello della scienza, di cui, in quell'istante, non faceva più nessun conto; era venuta là per compire, quasi diremmo, un suicidio morale, comandato sì dal dovere, ma pur sempre un suicidio violento; onde se titubava e fremeva e avrebbe voluto lasciar quel luogo, senza farne altro, convien ben compatirla, poichè è durissima cosa il distaccarsi da quanto di più prezioso si possiede, e di cui il mondo tiene pur sempre conto. Alla fine alzando gli occhi, che avea sempre tenuti abbassati, in faccia a donna Paola, e leggendo in essa come un'espressione non definibile d'indulgenza soave e nel tempo stesso di acuta penetrazione, onde le parve di capire che quella donna venerabile avea in qualche parte compreso di che si trattava: parlò e raccontò tutto quello che noi sappiamo, e conchiuse, stringendo con forza convulsiva le mani a donna Paola, ed esclamando: — Or che si fa?
Donna Paola, fattasi forte, per non amareggiar troppo la contessa, onde nascondere il profondo stupore dell'animo a quel racconto, stette anch'ella un momento silenziosa, poi soggiunse con un accento blando, e come se volesse far scorrere un balsamo refrigerante sull'arida piaga di quella che stava innanzi a lei come una colpevole:
— Quel che si dee fare, voi già lo sapete, povera e cara donna mia; lo sapete e lo avete pensato.
— Io?
— Voi, mia cara. Vi sono tali partiti da prendere, in alcune gravissime condizioni della vita, partiti voluti dalla ragione, dal dovere, dalla giustizia, dalla generosità, che, anche nella più tempestosa irresoluzione dell'animo, è impossibile non balenino di colpo alla mente come la luce dell'evidente verità. Però anche a voi dev'essere già venuto in cuore ciò che dovete fare. Le paure, i falsi rispetti, i pregiudizj vi avranno, dopo, fatto rigettare il primo partito, ed anzi ve lo avran fatto parer detestabile. Io conosco queste cose purtroppo, cara mia, perchè le ho provate. Ma sempre si mette in salvo chi sa scansar le vie tortuose, e piglia la strada retta, e cerca il giusto. Ditemi ora la verità, mia cara, non avete già pensato a un tale partito?
— Ah sì, voi dite il vero; ma nelle conseguenze io vedo un abisso che mi spaventa.
— Lo comprendo... ma ciò che è necessario dev'esser fatto. — E tacque con un'espressione quasi d'autorità severa.
— Il silenzio generoso di colui, continuò poi, il quale, per un'inezia (un'inezia, intendiamoci bene, in faccia all'infame delitto ond'è imputato), può condurlo, voi già lo sapete, fino alla tortura, perchè così comanda la legge, la quale vuol far scoppiar violentemente la verità dai corpi umani, come quando si preme la vena per farne uscir sangue... quel silenzio comanda che illuminiate la giustizia. Se voi dunque, confessando imperterrita e senza rispetti umani il vostro fallo, siete la sola che potete salvar colui, dovete farlo e tosto. Salvarlo e dimenticarlo, e non voler rivederlo, e non attendere di esserne ringraziata, e non riposarvi troppo nella compiacenza d'averlo salvato perchè guai! Vostro marito è sempre il vostro marito.
Questa parola fece dare un guizzo come di paura a tutte le fibre convulse della contessa... che alzò gli occhi al cielo, quasi esclamasse: — Sono perduta!
— Voi tremate, cara la mia donna, tremate come una foglia. Ma abbiate coraggio, non è detto poi... Infine non fu che un colloquio... Ben è vero che l'amor proprio e l'idea dell'onore talvolta è più forte e più violenta, e più inesorabile dello stesso amore tradito. Ma l'atto vostro generoso diminuirà la vostra colpa in faccia al mondo, e il mondo può essere mediatore d'indulgenza con vostro marito. Una riparazione fatta con coraggio generoso, quasi quasi concilia la colpa medesima col senso morale, e se vostro marito non perdonasse, il mondo condannerebbe lui. E voi nella stessa solitudine del ripudio, sarete ancor rispettata nella vostra nuova virtù; alla quale però è imposto, perchè possiate per sempre e davvero essere rispettata, di essere incrollabile per tutta la vita.
La contessa taceva e perchè non trovava nulla che le facesse parer men saggio il consiglio di donna Paola e perchè, d'altra parte, non sapeva ancora indursi a prometterle di adempire quella risoluzione, necessaria in faccia al dovere, ma pericolosissima nel tempo stesso.
— Quando poi considero, continuava donna Paola, il vostro ingegno e il vostro sapere straordinario, per cui siete un'eccezione tra le donne; tanto più mi accorgo che, nella solitudine della vostra nuova virtù, assai compensi potrete trovare alla vita.
— Questo straordinario sapere, rispose la contessa, che il mondo m'invidia, è troppo poca cosa, donna Paola, per poter riempire il vuoto e il tormento della mia vita avvenire, credetelo a me. Io so d'esser tenuta orgogliosissima; ma, invece, non v'è nessuno che possa fare di me stima più severa di quella che faccio io stessa. Una donna non deve penetrare nel campo delle gravi discipline, dove improvvidamente io fui spinta, se non a patto di possedere un ingegno sterminato, un ingegno che possa essere un'eccezione anche tra i virili intelletti. Io ho imparato quello che mi fu fatto insegnare, prima per obbedienza, poi per puntiglio e per costanza di volontà; ma ora la mia indole di donna mi fa cadere spossata sotto il peso della mia inutile dottrina; perchè qui dentro ci sono passioni, donna Paola, che, se fossero svampate nella prima adolescenza, mi avrebbero lasciata ancor libera di me; ma invece, trattenute indietro, inconsapevole io stessa, dall'ordine dei miei studj e della mia educazione, ebbero campo di farsi più forti nel lungo riposo; ed ora che trovarono un'uscita, scoppiarono con tanta violenza, che il mio cuore non può fermarle, non può sopportarle più; onde ormai tremo e temo di me stessa.
E fece una lunga pausa.
— Guardate invece, seguì poi, quell'ammirabil donna di Gaetana Agnese. Ella poteva e doveva affrontar la scienza. La natura le concentrò tutta la forza nella testa, e lasciò nel cuore una calma inalterabile, che la fece inaccessibile ad ogni affetto umano. È a queste sole condizioni che una donna può uscire dalla sua natura, e può e deve entrare nel campo altrui per raccogliervi compenso e conforto e pace. — L'Agnese non è già una semplice eccezione tra le donne, bensì è un grand'uomo tra gli uomini, laddove io non sono che la più infelice del mio sesso. Perchè, vedete, questa istessa mia grande riputazione di dotta, di austera e di superba, chè tale io sono riputata pur troppo, e sì a torto, renderà ancor più vergognosa e più detestabile la mia caduta in faccia al mondo.
Donna Paola rimase come percossa a quest'ultima considerazione della contessa, e non rispose, tanto le sembrò amaramente vera; ma tosto, assumendo modi più risoluti e quasi crudi, come se volesse far forza alla propria pietà che l'ammolliva:
— Quando un partito, disse, è comandato dalla necessità e dal dovere, non giova guardar oltre; tutte le conseguenze possibili non entrano nel conto. Se, fatto il dover vostro, all'uscio vi attendesse la morte, converrebbe morire; dico così per dire, cara la mia donna, soggiunse poi subito, pentita d'aver detto troppo; perchè, del resto, io sono convinta che l'applauso generale accompagnerà il vostro atto generoso.
La contessa Clelia stette alquanto silenziosa a quelle parole, poi stringendo nelle proprie la mano di donna Paola con affannosa gratitudine, si alzò, e disse:
— Quand'è così, il vostro consiglio sarà adempiuto. Oggi stesso mi recherò in Pretorio... e tutto sarà finito.
A queste parole donna Paola, abbracciando la contessa: — Permettete, le disse, che io vi faccia una preghiera.
— Una preghiera?
— Se mai, fuori di qui, foste per cangiar d'avviso, e la desolazione vi consigliasse qualche altro passo... per carità, venite prima da me, ve ne supplico.
— Ci verrò, ma per dirvi come sia stato seguito il vostro consiglio.
Nè vi furono altre parole, e la contessa partì riabbracciata da donna Paola Pietra. e risalì in carrozza.




LIBRO SECONDO


La ballerina Gaudenzi e Lorenzo Bruni. — I pensatori celebri e oscuri e i nembi precursori della procella sociale. — Lo studio del pittore Londonio. — Artisti milanesi nel 1750. — Il pittore Clavelli e le maschere-ritratti. — Gli Zanni. — La maschera del Tasca. — Meneghino. — La villotta di Cesare Larghi. — La lanterna magica del pittor Londonio. — Il minuetto. — La prima domenica di quaresima. — Il Capitano di Giustizia. — Sistema di giurisprudenza. — Il processo criminale. — Venezia. — Il lacchè Andrea Suardi detto il Galantino.



I


Se il lettore desiderasse di tener dietro alla povera contessa Clelia, per conoscer tosto le sue risoluzioni e le conseguenze di esse, noi ci troviamo nella necessità di non poterlo accompagnare, perchè siamo invitati da altre persone, per esempio dalla ballerina Gaudenzi, la quale in quella sera in cui il pubblico delirio toccò la sua massima espressione al di lei riguardo, si trovò in camerino l'usciere del Pretorio che le presentò una citazione a comparire; e subito dopo vide il signor Lorenzo Bruni, violino di spalla per l'opera, e primo violino direttore d'orchestra pel ballo; il signor Lorenzo Bruni venutogli innanzi agitato, convulso, iracondo e cogli occhi stralunati; il quale, se in quella sera non proruppe in parole violenti e non fece una scena dietro le scene, è perchè i veglianti regolamenti proibivano a quelli dell'orchestra di andare in camerino, ed egli comprendeva che, se i cavalieri ispettori chiudevano per lui, a loro dispetto, un occhio su quella contravvenzione, perchè così voleva la da tutti quanti idolatrata Gaudenzi, avrebbero còlto però assai volontieri la prima occasione in cui egli avesse commesso qualche stranezza, per far ritornare nel più crudo rigore i regolamenti del palco scenico. Però erasi limitato a dir sottovoce alla Gaudenzi, ma con un fremito mal compreso:
— Che cosa dunque è successo, Margherita?
— Ma non siete contento? Non vedete, che pazzie fa il pubblico per me?
— Pazzie, eh?
— O forse vi dà noia che il pubblico divida le sue grazie in due esatte porzioni tra me e il tenore?
— Il tenore, eh?... il tenore... Ma sapete che cosa si dice in pubblico di voi?... Ma sapete perchè il pubblico v'applaudisce?
— Gran novità da domandare e da sapere.... perchè il pubblico m'applaudisce? Oh curiosa!.... perchè siamo belle, perchè siamo divine, come dicono gli allocchi che vengono da me; perchè Tersicore potrebb'essere la nostra fantesca, come dice il poeta di teatro; perchè, in conclusione... Ma guardate che paio d'occhi mi fate ... Ma sapete che siete bello stasera, ma bello assai... Oh che matto!
— Matto? Or sentirete se son matto, or sentirete che cosa dice il pubblico di voi... Dice... dovreste per dio sentirvi a scottar la faccia pel rossore della vergogna... Dice che il tenore stanotte era disceso dalla finestra della vostra stanza, in quel punto che fu preso dal bargello...
— Ora ho capito, oh bella!... e una sonora e lunga e giocondissima risata, di quelle che in buona lingua si chiamano cachinni, fu il comento che la Gaudenzi fece a quella notizia inaspettata. Poi soggiunse: — Guardate, Lorenzo, cosa c'è lì su quel tavolino.
— Che? una citazione?
— Una citazione, sì... ma ora comprendo tutto, oh bella, bella davvero!
E per quella sera non ci fu altro, perchè il fischio acuto e importuno dell'avvisatore costrinse Lorenzo ad affrettarsi in orchestra; e la Gaudenzi, quando il ballo fu finito e rivide Lorenzo più torbido di prima:
— Addio, Lorenzo, gli disse; avete bisogno di dormire... e di far buona cera; a rivederci domattina, caro; e vispa e vivace e saltellante e sghignazzante l'aveva lasciato là senz'altro.
Ma la mattina venne presto, e quando fu un'ora ragionevole, Lorenzo Bruni non si fece aspettare, ed entrato nell'angusto ma elegantissimo appartamento della Gaudenzi:
— È alzata la Margherita? — domandò ad una zia di lei; una zia rachitica e gibbosa, ma piena di acutezza, e che stava presso a quella giovane beltà come il cane che ringhia sul tesoro messo sotto la sua custodia.
Lorenzo Bruni non aveva finito di nominar la Margherita, che questa, coi capegli mal raccolti dalla notturna rete e fuggenti sulle spalle, e in veste breve e discinta, dalla stanza da letto balzò con un salto nella camera dov'egli trovavasi colla zia; e appoggiando ambedue le mani sulle spalle di lui, fece due o tre battements rapidissimi, dicendogli intanto con aria motteggiatrice e carezzosa:
— Siete guarito, Lorenzo? — e accompagnò queste parole con quella giocondissima e suonante risata a lei abituale; suonante e leggera, e nel tempo stesso plebea insieme e gentile, che assomigliava ad una scala musicale o ad un vocalizzo, in cui le note spiccansi nette e granite; o che, se il confronto non è troppo da naturalista, pareva il lieve e oscillante nitrito di una cavallina che si stacchi allora dalla materna poppa. Lorenzo, venuto là torbido e arrovesciato, com'ella ebbe finito di saltare e di ridere, non potè a meno di spianare la sua fronte corrugata; tanto era completo e ricreante lo spettacolo che, avvolta così a bardosso nelle bianche vesti mattinali, offeriva quella regina della beltà, della gioventù, della salute e dell'allegrezza. E tale davvero era la Gaudenzi, che, veduta a quell'ora, avrebbe fatto girar la testa anche al rettore magnifico dell'università di Bologna. E tanto più riusciva pericolosa, quanto più era inconscia degli effetti che produceva; effetti che potevan suscitare incendj funesti, perchè nella vivacità romorosa e irrequieta e, quasi diremmo, infantile, del suo carattere, ella celava una calma profonda e inalterabilmente serena, cui nulla avrebbe potuto offuscare.
E a vedere com'ella moveva e girava quei suoi grandi occhi azzurri, e come li fermava negli occhi altrui era imposibile credere che quegli sguardi non avessero una significazione profonda; ed era impossibile a non sospettare com'ella non fosse innamorata morta di chiunque, segnatamente se fosse un bel giovane, che stesse parlando seco; e che il più delle volte, infatti, beveva avidamente la luce di quelle pupille, esclamando fra sè con gran tripudio: Son io dunque il fortunato! — Ma ella non ne sapeva nulla, tanto era tranquilla e ingenua!! Ingenua, sì signori, quantunque da nove anni, (chè allora toccava i diciotto) respirasse l'aria torbida e la polvere corrosiva del palco scenico. Ma oltre ad essere perfettamente calma, era anche perfettamente buona; e la calma e la bontà, moltiplicate per una salute non mai stata turbata dal giorno che, bambina, aveva finito di metter l'ultimo dente, sino a quell'ora, davano per prodotto il buon umore appunto, e l'allegria costante; al che, se si aggiunga un'esistenza vissuta nell'agiatezza senza il fasto, tra gli applausi senza l'invidia, nell'amore dell'arte che la preoccupava assiduamente senza le amarezze di chi non è al primo posto, e tutto ciò col condimento di un'ignoranza felice, ignoranza d'ogni altr'arte e d'ogni altra cosa; il lettore potrà valutare completamente il fenomeno di questa figliuola ingenua della natura, della natura che aveva voluto appunto sfoggiare tutti i proprj tesori nel formarla e nel crescerla.
Ma in che rapporti viveva questa giovinetta di diciott'anni con Lorenzo Bruni, e in che tempo si erano conosciuti e in che modo? e da qual luogo erano usciti e l'una e l'altro?
Lorenzo Bruni aveva avuto per patria Treviso, dove nacque da un padre notajo, trentacinque anni addietro. Anch'esso aveva atteso alla giurisprudenza nello studio di Padova; ma essendosi applicato, così per passatempo, a suonare il violino, e riuscitovi più che mediocremente, e fatto con questo i primi guadagni a Venezia, e non colla giurisprudenza, la quale invece lo aveva condannato alla soggezione di un padre insopportabile, tempra curiosa d'uomo che forse suggerì l'idea di sior Todero a Goldoni; risolse di non farne altro, e un bel giorno, senza domandare il permesso paterno e senza nemmeno salutare i consanguinei, fece la scritta con un impresario, e passò da Venezia a Bologna; e così, d'orchestra in orchestra, percorse le principali città d'Italia. A Livorno s'impegnò in seguito con un impresario di Marsiglia, e da questa città erasi condotto a Parigi, dove rimase un pajo d'anni. Libero come l'aria e insofferente d'ogni benchè minimo legame, aveva scelto la professione di suonatore appunto perchè, indipendente da qualunque padrone, da qualunque paese, da qualunque autorità, cittadino di tutto il mondo, trovava dovunque il fatto suo. E oltre a ciò, dotato di mente svegliatissima e istrutto più che mediocremente, travasandosi di luogo in luogo, si godeva a notare le varietà dei costumi, della natura dei paesi, dell'indole dei ceti, delle leggi, delle corti, de' cortigiani, delle arti, ecc., e a far la conoscenza degli uomini più distinti d'ogni città che visitasse; a Parigi, tra gli altri, aveva avvicinato Voltaire e Rousseau e Diderot e d'Alembert. Quella sua natura inquieta e libera, per la quale non aveva potuto sopportare il giogo paterno, nè indursi a chiudersi in una città sola per tutta la vita, dimostra com'egli fosse più adatto che mai ad esaltarsi alle idee di quei quattro atleti dell'intelligenza, che erano destinati a far da leva al mondo invecchiato.
Fin da giovinetto, quantunque i precetti paterni avessero fatto di tutto per chiudere il suo spirito in una scatola, egli aveva però compreso, in confuso, che troppe cose non andavano bene intorno a lui; a Venezia, per esempio, si era invelenito pensando alla consuetudine delle denunzie segrete, e siccome aveva visto che colà al reggimento della cosa pubblica non saliva che il patriziato, ad esso dava colpa di tutto e l'aveva preso in odio con tutta l'esagerazione di un giovane più caldo che riflessivo, il quale non guarda che un lato unico dei prospetti umani. Nè, quando stette fuori di Venezia, potè mai nelle altre città trovar cosa che placasse l'ideale delle sue aspirazioni; e allorchè, venuto a Parigi e lette le prime opere di Voltaire, e sentitosi preso d'amirazione per esso, udì poi raccontare il fatto, incominciato a tavola del duca di Sully, tra Voltaire e l'arrogante marchese Rohan Chabot, e finito in istrada con quella bastonatura che il nobile borioso avea fatto applicare, per vendetta, a Voltaire; tanto più sentì crescere l'avversione verso quel ceto, il quale allora almeno, se non cercava di aggiungere i proprj ai meriti aviti, si ajutava d'orgoglio e di prepotenza per essere rispettato. E, in tale avversione, Lorenzo non aveva nè modo nè misura; e quantunque ricevesse le sue impressioni dalla realtà che lo circondava, pure, trascinato dall'imaginazione, o infervorato dallo sdegno, della società di allora faceva piuttosto la caricatura che il ritratto.
Avveniva pertanto che se, per esempio, raccontavasi qualche bell'atto generoso di un qualche nobiluomo, egli se ne rodeva come di una causa perduta, e cercava cento modi per offuscarlo; e invece, se taluno della bassa plebe si fosse distinto per un qualunque nonnulla, ei ne menava sì lungo scalpore, da provocare lo spirito di contraddizione anche in coloro che pur la pensavano al pari di lui. Era insomma un uomo irrequieto, e che malissimo s'adagiava nel suo tempo. — Ma, di tali uomini, in quel momento critico della metà del secolo passato, ne eran nati parecchi, non si sapeva come, in molte parti dell'Europa. Eran come quelle nuvolette bigie che si mostrano a grandi lontananze e a vari punti dell'orizzonte su di un cielo tutto sereno di un giorno d'estate e d'affannosa caldura; nuvolette che sembran comparse a caso e per dileguarsi tosto; ma che, invece, s'avvicinano grado a grado e, nell'avvicinarsi, s'ingrandiscono finché, a un tratto, tutto il cielo non è che una nuvolaglia sola, e intanto il sordo brontolìo del tuono si fa sentire in lontananza.



II


Codesti curiosi mortali che, dotati d'intelligenza eccedente la sfera comune, non poteano trovarsi bene nel loro tempo e ne sentivano la pesantezza, non sapeano ancora, al punto in cui siamo con questa storia, quel che si volessero. Assomigliavano a chi, fornito di fibra delicata e straordinariamente eccitabile, si sente dominato da un mal essere che non sa spiegare, e volendone assegnare la causa all'aria, alla stagione, a qualche cosa insomma, si vede invece contraddetto dal limpido sole e dalla serenità del cielo e dall'allegria di quanti lo circondano, i quali si lodano e del tempo e del sole e dell'aria. Tale era la condizione in cui versava la maggior parte delle intelligenze squisitamente acute che vivevano alla metà del secolo passato. Del resto, nemmeno Voltaire sapea precisamente quel che si volesse, quantunque fosse il più maturo di tutti; nemmeno Diderot, che si agitava in un'assidua contraddizione e, se parlava chiaro negli intimi sfoghi cogli amici, smarriva il coraggio quando trattavasi di stampare quel che pensava; nemmeno Rousseau, il quale non faceva che accusare un gran dolore senza saper indicarne il luogo. Al pari di costoro, che, per l'ardimento sin colpevole delle loro opere, dovevan poi salire al più alto fastigio della rinomanza, un numero non piccolo d'uomini ignoti e dalle circostanze condannati all'oscurità perpetua discutevano e si disfogavano ne' parlari privati; anzi era codesta massa di uomini ignoti che somministravano la materia, e venivano a determinare i propositi di quelli chiamati a capitanarli. Ed uno di tali uomini, che nel sentire e nel considerar le cose, non era inferiore a quegli ingegni predestinati all'immortalità, era Lorenzo Bruni, che forse avrebbe potuto spiccare sul fondo del suo tempo fra i pensatori più audacemente liberi, se invece di suonare il violino in tutte le orchestre delle principali città di Europa, avesse atteso agli studj con volontà costante, e avesse avuto pazienza di sopportare il burbero padre.
Lasciata Parigi, quando finirono i suoi obblighi contratti coll'impresario, e ritornando in Italia, Lorenzo conobbe a Venezia la Margherita Gaudenzi ancor fanciulla, rimasta due anni addietro orfana del padre, stato ballerino grottesco e morto d'una contusione per un salto mortale mal calcolato; e poi anche della madre, perita nell'incendio del teatro di Sinigallia, la quale, esercitando la professione di figurante ed essendo stata una bella donna, avea sempre fatto le parti d'una qualche dea, quando non si trattava nè di agire nè di danzare; e nelle pantomime che finivano coll'Olimpo illuminato, costantemente era stata incaricata di sedere in qualità di Giunone accanto a Giove Tonante. La fanciulletta, quando rimase orfana, era già tanto innanzi nell'arte, da eccitare la meraviglia di quelli della professione. Allorchè Lorenzo Bruni la vide per la prima volta a ballare sulle scene del teatro di San Moisè, ne fu anch'esso maravigliato, insieme col pubblico che accorreva da tutte le parti della città per ammirare quel piccolo portento; tuttavia, rincrescendogli che anch'ella, come voleva il pessimo gusto di allora, si lasciasse andare alla danza grottesca, e ricordevole delle lunghe discussioni tenute a Parigi con Rousseau stesso, sull'origine e sullo scopo del ballo, nell'occasione che al teatro del Re aveva ballato la celebre Guzzani; e abborrendo al pari del Ginevrino, quella danza che non può al bisogno, suggerire movenze e pose e contorni e linee al pittore ed allo statuario, e non sapendosi contenere nei limiti di una casta eleganza, si abbandona frenetica e lasciva, a inconditi movimenti, in cui non si cerca che di superare strane difficoltà; dispiacendogli dunque tutto ciò, volle conoscere quella fanciulla, colla quale tanto disse e tanto fece, che senz'esser ballerino e solamente guidato dal buon gusto e dal bisogno che sentiva di riformar tutto, la ridusse ad un sistema di danza allora insolito, ma che pure destò ovunque un insolito entusiasmo; tanto è vero che v'è un bello assoluto, il quale trionfa anche ne' più corrotti periodi dell'arte! Basta solo avere il coraggio di promulgarlo.
Era dunque stato in gran parte per merito di Lorenzo Bruni, se la Gaudenzi aveva potuto riuscire un'eccezione gloriosa tra le danzatrici più celebri del suo tempo. — Ma siccome la fanciulla aveva obbedito, fosse per naturale pieghevolezza, fosse per un felice istinto, alla volontà di Lorenzo, e questi compiacevasi del frutto dei proprj consigli; così venne stringendosi tra di essi una spontanea dimestichezza, che stava però ne' rapporti di un maestro colla scolara, d'un tutore colla pupilla; il qual tutore, guidato da una grande onestà naturale, e sollecitato da quel suo spirito irrequieto e originalissimo che lo metteva sempre in contraddizione colle opinioni più generali; volle, aiutando la custodia vigile della zia della fanciulla, far vedere al mondo come la virtù potesse conservarsi intera anche in seno a quella professione che, comunemente, era creduta il varco della perdizione. Suonatore di violino, aveva seguìto così la fanciulla, da quell'ora in poi, di teatro in teatro, facendole sempre da padre e da tutore e da maestro. Se non che il padre e il tutore, man mano che la fanciulla cresceva, e l'adolescenza diventava giovinezza, sentì in petto qualche cosa che non era più nè calma di affetto paterno, nè severità di precettore. Gradatamente insomma e inconsapevolmente s'era innamorato della fanciulla; ma se non aveva mai voluto confessar ciò nemmeno a sè stesso, non è possibile che volesse manifestarlo alla giovinetta Margherita, la quale di qualunque benchè minimo sospetto non aveva neppur gli elementi in sè stessa, onde continuò con ingenuità e con obbedienza a non riguardarlo che come padre e tutore. Se taluno de' nostri lettori è così mal andato di salute da rifiutarsi a credere ciò che diciamo, non getteremo nè il tempo nè il fiato per cercare argomenti a persuaderlo. Non si crede veramente se non ciò che si sarebbe capaci di fare.
Di teatro in teatro, eran venuti ambidue la prima volta al Ducale di Milano, nel 1748, dove erano stati confermati per il carnevale dell'anno 1750. Godeva il Bruni dei trionfi della sua, diremo dunque, pupilla; godeva a sentirla lodata dappertutto dell'onesta virtù onde conservavasi ornata; perchè, anche ne' tempi del più indulgente galateo morale, e del più rilasciato costume, la virtù è sempre applaudita e rispettata, al pari del vero bello artistico che trionfa ognora, pur nel mezzo delle deviazioni del gusto. Pensi ora adunque il lettore che pugnalata al cuore di Lorenzo dovette essere la prima voce che gli giunse all'orecchio del sospettato amore di Margherita con Amorevoli e, più che dell'amore, della notturna tresca. Per verità che non prestò fede neppur un istante a quella bugiarda voce, e tanto più che, quando entrò nel camerino della Margherita a dirle di che trattavasi, le vide l'innocenza in volto e s'accorse d'un'ingenuità fin quasi stolta in quel suo ridere spensierato. Ma che fa l'esistenza delle virtù se nessuno ci crede?
Lorenzo, pur mettendo da canto ogni altro affetto, sentiva l'entusiasmo della vittoria nel poter dire: — Cosa mi diventano tante dame superbe che tutti i giorni cambiano il cicisbeo come la camicia? cosa mi diventano al confronto di questa povera figliuola di un grottesco e di una figurante? — E una voce sinistra, che in un baleno era corsa per tutta la città, aveva bastato a distruggere tutto, e a far succedere parole turpi e scherni inonesti al rispetto di prima! Perchè ben è vero che gli applausi della sera trascorsa eran saliti fin al velario per festeggiar la Gaudenzi; ma eran gli applausi di quella parte di pubblico che avea goduto nello scoprire che la intemerata colomba, cui bisognava rispettare per forza, era pur essa iniziata ai misteri d'amore tanto allora in voga.
— Cara mia, disse dunque Lorenzo alla Margherita, quando questa, ridendo, gli domandò se stava bene di salute; voi ridete, ma vogliatemi credere che non c'è da ridere.
La Margherita si fece allora un po' seria, e soggiunse :
— Caro Lorenzo, non vi comprendo; in fin de' conti la verità è una sola... e quando avrà parlato, perché so parlar alto anch'io, vedete, quand'è necessario, ogni sospetto sarà dileguato.
— Cioè volete dire che non avrete più citazioni in Pretorio, e nessuno potrà insultarvi impunemente, se non vorrà essere passato da una parte all'altra, perchè di scherma io so giocar tanto bene, quanto suonare un a-solo di violino. Ma tutto ciò non vuol dir nulla... e fino a tanto che non esca il nome di colei per la quale il tenore dev'essere venuto in queste vicinanze, a nessuno potrà esser tolto dalla testa che voi eravate l'oggetto delle sue visite notturne.
— Ma perchè io e non altre! Domandate a Zampino, il quale stamattina è venuto per le solite cose del teatro, quante donne furono chiamate a comparire... N'è vero, zia?
— È vero, disse questa, ma la compagnia non vi fa molto onore... Una è la moglie d'un gabelliere che sta lì dirimpetto... L'altra sta lassù al quarto piano e si diletta di far la cucitrice. Belle e giovani tanto l'una che l'altra, ma della loro onestà non mi parlate. Chiedetene qualcosa alla Gilda che ci serve, e sentirete... Ben v'è la moglie d'un pittore che gode buonissimo nome, e la bella figliuola d'un mercante... della quale non c'è chi dica male... Ma in conclusione, voi vedete, signor Lorenzo...!
— Ma! — esclamò egli strabuzzando gli occhi; e stette un momento silenzioso, poi soggiunse: — In Pretorio v'accompagnerò io stesso, Margherita, e chiederò io stesso di parlare al signor giudice. Fate adunque di esser pronta fra un'ora, ch'io sarò a pigliarvi in carrozza.
L'ora passò, Lorenzo venne colla carrozza, e la Margherita accompagnata dalla zia, vi salì tosto. — Giunsero tutti e tre verso mezzodì al Pretorio, dove s'accorsero che una folla di curiosi stava aspettando nel cortile. Quando la Gaudenzi ascese lo scalone e corse la voce della sua venuta per tutti gli ufficj del Pretorio, molti calamaj macchiarono d'inchiostro atti e processi e libelli, tanta fu la fretta e la furia degli impiegati per giungere in tempo a vederla. Notaj, auditori, uscieri, scrivani, colla penna nell'orecchio e i paramanica di bambagina verde, facean capolino dagli usci e dalle finestre; altri uscivan sul corridoio per dove la Gaudenzi aveva a passare, fingendo un'incumbenza di premura. Altri le s'attraversavano al passo per guardarla in faccia ben bene, con gran dispetto di Lorenzo. — Ma questi potè confortarsi quando, all'annuncio della Gaudenzi, il giudice, ch'era giovane e di maniere squisite, le mosse incontro, dicendole alquante cose cortesi, e concedendo sì alla zia di lei come a Lorenzo di assistere all'esame, e di essere interpellati in proposito.
Le domande del giudice, le risposte della fanciulla Gaudenzi, le osservazioni di Lorenzo, le appendici della zia rachitica costituiscono un dialogo da empire quattro facce di processo verbale, dialogo che noi abbiam qui, e che per molti rispetti non è indegno d'una lettura, ma che potrebbe anche provocar gli zitti di quella parte di pubblico che preferisce la musica veloce di Verdi a tante altre musiche; onde, senza riportarlo, ci limiteremo a dire che le sue risultanze furono tali, quali ciascun lettore poteva aspettarsele. Il tenore Amorevoli, interrogato prima dal giudice sul fatto della Gaudenzi, aveva parlato e protestato in modo da impedirgli una soverchia insistenza nell'ordine delle domande da farsi alla Gaudenzi stessa. E il giudice, quando ebbe praticate tutte le indagini iniziatrici, come voleva il suo ufficio, accorgendosi che le cose prendevano una piega ostinata, risolse di non farne altro, e di passare al criminale il processo così incoato. Ma Lorenzo non fu pago per nulla di quell'esame, perchè, si apponesse o no, gli parve che il giudice, il quale aveva lasciato andar qui e là qualche epigramma e qualche scherzo gentile, non fosse del tutto persuaso dell'innocenza della Gaudenzi; e ciò ch'è peggio, allorchè, dopo ricondotta al suo alloggio la Margherita, egli si gettò ne' pubblici ritrovi della città, a sentire come generalmente la si discorresse, dovette fremere più d'una volta alle parole che udì, e più d'una volta fu per venire a qualche atto violento, onde, se si contenne, fu un miracolo.
Almanaccando così mille cose, e pensando al modo di far saltar fuori la complice, se ne tornò in quel giorno verso il quartiere dove era la casetta della Gaudenzi, il palazzo del marchese F... e quello della contessa V... Entrò dai portinaj e nelle botteghe là presso, interrogò serve e servitori e lacchè e barbieri, esplorò porte, cancelli e finestre; chiese conto dei signori padroni del giardino dov'era stato còlto Amorevoli, e quando sentì a nominare la contessa Clelia, e dire ch'era giovane e bella, egli che non sapeva nulla nè del suo carattere austero, nè della sua dottrina astronomica, disse tosto fra sè: — Ma perchè, la si lasciò da parte costei?... Ma perchè? — Nessuno de' cittadini milanesi, i quali erano compresi della fama di quella donna intemerata, nemmen per ombra avean potuto fare un sospetto su di lei... ma Lorenzo, il quale era di fuori, e non era stato a Milano che due stagioni, e, se conosceva pittori e poeti e accademici, non conosceva tutta quanta la nobiltà, nel suo sospetto non fu arrestato neppur da un dubbio; e sdegnato di que' privilegj manifesti e segreti che si accordavano ai grandi signori, quasi fu per recarsi dal giudice; ma, pentitosi di quel partito, che poteva aver aspetto di denuncia, giurò di venirne a capo in altro modo, e quello che si avvisò di fare e che fece, nessuno se lo potrebbe imaginare in mille anni...
Ma e la contessa Clelia?... Ah pur troppo che non ebbe il coraggio di metter tosto in atto il consiglio di donna Paola Pietra, come sentiremo poi; e volendo lasciar passare gli ultimi tre giorni di carnevale, per istornare uno scandalo che, secondo lei, sarebbe riuscito rumoroso in mezzo alla folla dei teatri, delle feste, delle mascherate, aveva pensato di aspettare il primo giorno di quaresima per adempire al dovere... Ma precisamente quegli ultimi giorni di carnevale le dovevano esser fatali.



III


Lasciando per ora da un lato l'infelice contessa, che in ventiquattr'ore è già dimagrata; e dovendo infingere col conte marito, colla cameriera, col parrucchiere seccatore e venditor di frottole instancabile, colla sarta, che in quel dì le portò fin quattro vestiti, l'uno più bello dell'altro, per farne sfoggio in teatro e alle feste, infingersi con tutti quanti l'avvicinavano, i quali erano invasi dall'allegria del secolo e dalla pazzia della stagione; quasi era per morire dello sforzo violento che faceva onde chiudersi in petto la passione. — Ci conviene inoltre lasciare nella solitudine del suo camerino in Pretorio il tenore Amorevoli, pentito e strapentito d'essersi impigliato in quel terribile vischio; e che, a dar sfogo al dispetto che lo rodeva e a passare il tempo della giornata lunghissima, solfeggiava a voce distesa, onde tener la gola preparata per la sera, e talora cantava alcuna cabaletta o dell'Artaserse, o della Semiramide riconosciuta, o dell'Olimpiade, e si concitava nell'esprimere:


Se cerca, se dice
L'amico dov'è ......
L'amico ........


E come se fosse in teatro, quando era alla cadenza, dove azzardava, per non esser al cospetto del pubblico, i passi e le volate più audaci, sentiva le voci e gli applausi di un altro pubblico, lo scarso pubblico inquilino insieme con lui de' locali del Pretorio, voci maschie e anche voci femminine; ladri di mezzo carattere, e tagliaborse novizj, e debitori insolventi e donne di Pafo che s'attaccavano all'inferriata a strillare il loro bravo, appannato dalla raucedine e dall'accento del vernacolo di Cittadella; e a cantare anche, come per corrispondergli un complimento, una di quelle canzoni da orbo, che in que' dì scriveva Pietro Cesare Larghi:


Imparate, o peccator,
Con la stanga del dolor
A sarà la porta granda
Che a l'inferno la ve manda.


Amorevoli taceva, si guardava i calzoni di raso azzurro colle stelle d'argento e diventava malinconico, indignandosi d'essere stato messo là con quella gente; chè, pur troppo, se non ci si è provveduto oggidì, tanto meno a quel tempo s'era pensato ad un'opportuna segregazione tra le diverse qualità d'imputati, e tra gl'imputati e i rei. — Ci convien dunque lasciare alle sue pene il tenore Amorevoli. E dobbiam privarci della compagnia edificante di donna Paola Pietra, e tutto ciò per seguire il signor Lorenzo Bruni in san Vicenzino, nella casa che, movendo dalla contrada de' Meravigli, è anche oggi la quarta a dritta.
In quella casa, a piano terreno, verso il giardino, teneva il suo studio il giovane Francesco Londonio, e più forse che studio di pittura, vi teneva accademia sempre aperta di allegria, e fabbrica operosissima di scherzi e matterìe; e ritrovo, a una cert'ora, di tutti i pittori e scultori ottimi, buoni e grami che allora possedeva Milano; e in que' giorni di carnevale, quartier generale della compagnia dei Foghetti, di cui esso era il capitano.
Lorenzo, che già altre volte erasi recato a quello studio, vi si diresse difilato; e indugiatosi un momento all'ingresso, prima di bussare, sentiva il suono d'una voce che parlava, la quale veniva susseguita, di tratto in tratto, da una risata unissona di più persone. E codesta risata pareva come un intercalare obbligato alle pause che faceva il parlatore. Quando tra una mano di persone v'è una grande allegria e una gran vena di motteggio, riesce penoso, non si sa bene perchè, il farsi tra di loro non chiamato: e Lorenzo, che pur conosceva que' compagnoni, stette un momento in forse per tornare indietro, ma si fece poi animo e bussò forte. — Avanti, avanti, avanti, — gridarono più voci ad una; ed egli entrò...
— Oh!! benvenuto, signor Lorenzo...
— Benvenuto.
— Benvenuto... signor capitano degli archetti; le presento qui, nel nostro pittore Gazzetta, un buon suonatore di violino, il quale giacchè le fabbricerie lo lasciano senza lavoro, vorrebbe ritrovarsi in orchestra.
Chi parlava era il giovane Londonio, la cui figura dovendo comparire a più riprese, in mezzo alle tante che popoleranno il nostro quadro centenario, è bene si sappia quello che ancora non è stampato in nessun libro, come cioè, nato in Milano nel 1723 (e fin qui ci arriva anche il Ticozzi nel suo Dizionario de' pittori), fosse discendente di una famiglia originaria spagnuola, che si chiamava Londognos, feudataria di Ormilìa, un ramo della quale s'era stabilito in Lombardia al tempo della dominazione spagnuola, quando per la prima volta vi capitò un cadetto, in qualità di generale delle truppe spagnuole. Questo Francesco Londonio, quantunque non avesse che 22 anni quando ricevette la visita del signor Lorenzo Bruni, era già noto come pittore di soggetti campestri; ma ciò che allora ne costituiva davvero la rinomanza nelle società alte e basse, era la sua amenissima giovialità, per la quale avrebbe sparsa l'allegria anche tra le file di un mortorio; pensatore di bellissimi trovati, a chi ne faceva, a chi ne prometteva, onde se egli era un amico carissimo, qualche volta riusciva pure un amico molesto; ma quanto era temuto, altrettanto era cercato, e si moriva di noja senza di lui, in tutti quei convegni dov'era solito praticare.
In quel momento stava adunata nel suo studio quasi tutta la confraternita dei pittori milanesi.
V'era il maestro di lui, Ferdinando Porta, figlio di Andrea, scolaro del Cerano e del Legnanino; v'era il giovane pittor De Giorgi, allievo del pittor Del Cairo; v'erano gli esordienti Bergami e Pagani, scolari del pittor Frasa e del Lucini; v'era Angelo Mariani e Zucchi Carl'Antonio già provetti, scolari l'uno del Fiori, l'altro del Sant'Agostino, scrittore di cose d'arte, e che s'era dimezzato tra il Procaccini e il Crespi Daniele. V'erano Lucini e Fabbrica e Clavelli e Zaccaria Rossi e il Crivellone, pittore di trote e di aragoste. V'era il fanciullo Biondi, che attendeva allora a macinar colori: nomi la maggior parte di pittori ignoti a tutti, sin anco ai Milanesi, e che non sono registrati in nessuna storia dell'arte; e de' quali taluno sarebbe forse celebre se fosse nato a Bologna, a Venezia, a Firenze; tanto questa nostra città in talune cose è trascuratissima, fino alla barbarie; così che quei che volesse far la storia delle arti milanesi, potrebbe bene invecchiar nelle ricerche, pur colla pazienza straordinaria di Muratori, ma non venirne a capo mai di farla completa.
Ma, che noja! Ci par di sentir a dire; ma che strana idea di regalarci qui una pagina lacera dell'elenco della confraternita de' pittori del 1750? — Ma perchè farci camminare fino a san Vicenzino, in traccia di persone nuove, mentre vorremmo stare colle conosciute? In quanto alla noja, rispondiamo dunque, che, dal momento che la si prova, è inutile dire che c'è a torto; pure dobbiamo far notare che bisognava passare per di qui, poichè se al lettore noi dicessimo che, dall'umile studiolo d'uno dei pittori che si trovavano là presso il Londonio, e da un disegno grazioso e da pochi colori stemperati su di una tavolozza, dovrà uscire un risolvente drammatico più possente di quanti ne uscirono dal laboratorio chimico di Dumas, il lettore non crederebbe. — Ma dal momento che il signor Lorenzo, che non era uno sciocco nè un buontempone, pur in quell'affanno in cui versava, erasi recato a far visita al Londonio, dove sapeva che di solito si riuniva una congrega di pittori, bisogna bene che ne abbia avuto la sua ragione. — Stiamo dunque attenti a tutte le sue parole, e non perdiamo la traccia de' suoi passi.



IV


Lorenzo dunque era tutto preoccupato del suo gran pensiero, il quale aveva due intenti: quello di far sfolgorare all'aperto l'intatta onestà della sua Gaudenzi, e quello di tirare in campo una gran dama, di mettere in pubblico quel che era successo in segreto, di tal maniera che, nè per protezioni, nè per deferenze, nè per privilegi nè per sotterfugi, non riuscisse più possibile di salvare da uno scandalo solenne i due blasoni del casato lombardo della contessa, e del casato ispano del conte colonnello. Costretto pertanto a fermarsi là, tra quegli allegri compagnoni del pittor Londonio, e ridere insieme cogli altri dei piacevolissimi racconti di lui, si tormentava del tempo che passava inutilmente, e che era preziosissimo per la natura del suo disegno. — Egli aveva bisogno di trovarsi un momento a solo col Londonio, e, non volendo dar nell'occhio, gli conveniva aspettare che quella compagnia si sciogliesse. Buon per lui che il Londonio entrò a dire:
— Orsù, amici, a momenti sarà qui a pigliarci il carrozzone per andare al corso di porta Romana; non v'è tempo a perdere e bisogna vestire la divisa dei Foghetti, perchè mi preme la riputazione. Dopo il corso pranzeremo, se vorrete, tutt'insieme; dopo si andrà all'opera, dopo alla festa in maschera. Quante faccende in un sol giorno!... domani poi, se non volete andare alle vostre case per dormire un pajo d'ore... potete dormir qui tutti da me... perchè domani è un altro giorno pieno zeppo di faccende... e ci converrà non perderci di vista...
— A dormir qui, va bene, entrò a dir uno, ma non si vorrebbe che ci trattassi come hai fatto col podestà di Chioggia: perchè siamo ancora in febbraio.
— Che cosa ha fatto al podestà? domandarono allora tutti ad una voce.
— Ma come? non la sapete?
— Io no.
— Nemmeno io.
— Racconta.
— Raccontate.
— È un fatto molto semplice; fu l'anno scorso, quando ho passato quegli otto giorni, al carnevale di Venezia... che gli alberghi erano zeppi al punto, che a trovar un letto era come trovar un tesoro. Io però ne avevo trovato uno allo Scudo di Francia, sebben mi costasse un occhio. Ora sentite questa. Voi sapete il dispetto che provo a trovarmi a tu per tu con una persona non conosciuta; figuratevi poi quando si viaggia, e si è in una camera da letto. — Ebbene, a una cert'ora, quando l'albergo era tutt'occupato dal primo all'ultimo piano, dalla prima all'ultima stanza, viene da me l'oste. Forse perchè io era il più giovane di quanti eran là e gli avevo ciera da buon figliuolo, e mi dice: — Signore, è arrivato il podestà di Chioggia, e vuole alloggio.
— Buon pro gli faccia, gli dico, doveva arrivar prima il podestà. Cerchi una gondola e dorma la sua notte sotto il felze.
— Va bene, ma io gli ho promesso... insisteva l'oste, e in quella entra il signor podestà in persona, e tanto fa e tanto insiste, che io non posso dire di no. Voi sapete che, per quanta ira uno possa avere in petto, in certi momenti non si trova il modo di scacciare un seccatore. Ma quando fummo soli, non potendo resistere all'idea di dover dormir con un altro, con un podestà... e tondo e grasso qual era colui di Chioggia... non so se voi lo conosciate (diceva rivolto al Bruni), pensava al modo di disfarmene, perchè aveva anche un gran sonno, per aver ballato tutta la notte al ridotto di san Moisé, e così nel pensare, guardando il soffietto che pendeva da lato del camino, mi viene un'idea, e tosto, rivolgendomi all'amico, sì gli dico: — Signor podestà?
— Cosa mi comanda?
— Ho a farle mille scuse anticipate.
— Di che?
— Di questo, che vado soggetto a un grave incomodo.
— Ed è?
— Una febbre acuta, la quale mi ha messo in fin di morte sin da fanciullo, mi lasciò un vizio, un gran vizio.
— Ebbene?
— Vo soggetto a quelli che si chiamano i venti freddi.
Una malattia nuova.
— Nuovissima, e chi ha la disgrazia di dormire con me ci soffre, ma assai. — Ora che cosa avreste fatto voi se foste stati il podestà?
— Darvi la buona notte, e andar via.
— Così pare almeno; ma il podestà fu di un altro parere, e metà credulo e metà no, entrò per il primo in letto. Allora io non feci altro che seguirlo, e, così mezzo vestito, mi cacciai sotto coltre, armato di soffietto, e spensi il lume. Lasciai che il podestà dormisse della grossa, e poi misi in movimento il mantice... Tirava un vento, cari miei, che il letto pareva il Cenisio, onde il podestà si risvegliò spaventato, e non potè trattenersi dal dire dopo qualche momento:
— Ah! è veramente orribile la vostra malattia, signor mio, per carità, accendete il lume, ch'io vo a gettarmi in laguna, piuttosto che dormire con voi.
Io obbedii, accesi il lume. Egli si alzò, non parlò più; soltanto borbottò tra' denti, ed uscì chiamando l'oste a tutta voce. Il resto della notte la dormii così assai placidamente. Or non temete che io voglia oggi estendere a maggiori proporzioni l'esperimento di Venezia. Voi non siete nè sconosciuti, nè podestà, nè ostinati, e v'invito io. Su lesti, dunque, e vestiamoci. La carrozza è qui... sentite. — Poi, voltosi al Bruni: — Dovreste venire anche voi, gli disse. Qui c'è riserva di vesti e maschere per tutti gli amici che capitano... purchè sien tutti artisti, non importa se di pennello o di scalpello o di arco o di fiato o di gola o di rima. Stupisco anzi che non sia venuto oggi il segretario Larghi, il più caro scrittor di villotte che si conosca; e bisogna sentir lui stesso a cantarle! ma lo sentiremo alla festa del teatrino. Risolvetevi dunque. Volete esser Pantalone o Brighella?
— Caro mio, nè l'uno nè l'altro, rispose Lorenzo: e còlto il momento che gli altri attendevano a vestirsi, così gli disse: — Son venuto da voi per un affar di premura.
— Cattivo giorno, ma non importa.
— Ho bisogno dell'opera di un pittore... ma di tale che sia e valente e improvvisatore, e conosca l'arte di colorir le maschere ad uso di Parigi. Ne ho già chiesto altrove, e so che a Milano ve n'è uno bravissimo.
— Siete fortunato... eccolo là... È il pittor Clavelli... Ma...
E dicendo questo, il Londonio crollò la testa.
— Ma... che cosa?
— Ma non sapete che, se l'anno passato tali maschere eran tollerate, quest'anno sono proibite, dopo il lagrimevole fatto della vedova del Duca di Choiseul?...
— Ma qui non si tratta di far piangere, ma di far ridere, soggiunse il Bruni.
— Fate voi... non so che dire; quel giovine lì vi servirà bene; d'altra parte, è in così povere acque, che certo deve aver più paura della bolletta, che delle ordinanze di sua eccellenza. Or lo chiamo e mettetevi d'accordo. Badate però ch'io non so nulla.
— Fate conto ch'io non v'abbia mai interpellato su di ciò. Per altro non è e non sarà che uno scherzo.
Il giovine pittore Clavelli fu chiamato, il Bruni gli parla, il pittore mise innanzi quella difficoltà che sappiamo; ma sentendo che si trattava di guadagnar bene, acconsentì, e promise al signor Bruni che si sarebbe lasciato trovare al caffè del Greco, mezz'ora prima che incominciasse il teatro.
Così stretto il contratto col signor Lorenzo, finì il pittore di adattarsi i due gobbi di Pulcinella, chè tale era la sua maschera, e si mise in ischiera cogli altri, i quali vestivano ciascuno il costume d'uno dei Zanni, allora tanto in voga, i quali eran come i deputati rappresentanti delle principali città d'Italia. Il pittore Londonio, nella sua qualità pur di confratello onorario della badia de' facchini e nella sua qualità di pittore campestre, vestiva la maschera di Beltrame di Gaggiano, maschera che di quel tempo sussisteva ancora, quantunque avesse dovuto cedere il primo posto a quella del Meneghino, inventata già dal Maggi, lo splendor di Milano, come lo aveva chiamato il Redi, e che fu l'Allighieri del dialetto milanese. Così tutti discesero e salirono, meno il Bruni, nel carrozzone carico di munizione per la battaglia del giovedì grasso: fiori, confetti, coriandoli, melaranci, pomi, ova; e di buon trotto si gettarono nel fitto del combattimento, sul corso di porta Romana, a percuotere e a rimaner percossi dalla pioggia de' pomi, a imbrattare e a rimaner imbrattati dalle ova, che si rompevan sulle parrucche incipriate a farvi strani empiastri e lorde miscele di tuorli e di cipria.
Ora, senza perdere il tempo a descrivere il corso del giovedì grasso dell'anno 1750, perchè noi siamo nemicissimi delle descrizioni, segnatamente se siano state fatte da cento altri scrittori; ci limiteremo a dire, a coloro che volessero pur farsene un'idea, che a gettare tutti i colori dell'iride, con tutte le loro infinite gradazioni, su quelle ottanta o centomila figure allora stivate lungo il corso di porta Romana, e a raddoppiare il frastuono, come se quelle centomila persone avessero due gole enfiate per ciascuna; e a lasciare alle carrozze, ai padovanelli, ai calessi, ai birbini, ai carri convertiti in forma di barche e di vascelli il permesso di muoversi a loro beneplacito e di produrre per conseguenza un disordine molto simile a quello di un corpo di truppe che sia piuttosto in fuga che in ritirata; e a portare a un tre quarti buonamente della popolazione colà affollata il numero delle maschere d'ogni forma, d'ogni foggia, di ogni paese e d'ogni colore; a far insomma colla mente tutte queste operazioni, ne può uscire, chiudendo gli occhi e lavorando d'imaginazione, lo spettacolo d'un corso carnevalesco di quel tempo. Ma noi, che non abbiam voglia di attendere a ciò, lasceremo passar l'ora del corso, per recarci invece in piazza del Duomo al caffè del Greco, dove il pittor Clavelli a un'ora di notte stava aspettando il sig. Lorenzo Bruni, che venne di fatto a pigliarlo puntualmente, e a condurlo al teatro Ducale.
— Vi basterà osservar dalla platea, disse il Bruni al pittore, nel far la via, o sarà necessario salire sul palco scenico?
— Farà bisogno della platea e del palco scenico, perchè, a condurre la cosa in modo che l'arte si confonda colla realtà, conviene pigliar tutte le misure.
— Andrete dunque in platea e sul palco scenico. Conoscete i fratelli Galliari, quelli che dipingon le scene? —
— Li conosco benissimo; ma se non mi vedranno, vi sarò obbligatissimo.
— Perchè?
— Perchè è bene che la cosa stia fra voi e me; so quel che dico... l'ordinanza parla chiaro; e fu gran tracollo per me, vedete, quella benedetta ordinanza! fate conto che ne' carnevali passati io arrivassi a guadagnar sino a cento zecchini veneti, tanto che avevo lasciato da una parte la pittura di chiesa, che è la gran pittura, per dir la verità; ma col pane non si scherza... e questi curati di campagna credono di sciupare il pane dei poveri a dar da mangiare a' pittori, segnatamente se son giovani e non han nome.
— Abbiate coraggio, amico, e se mi servirete bene, farete poi il ritratto intero della ballerina Gaudenzi.
— Oh che fortuna sarebbe! sento che è una gran bellezza! una bellezza famosa! Se il ritratto mi riuscisse, tutte le dame di Milano verrebbero da me... sono le occasioni che fanno l'uomo. Cosa credete voi... che tanti pittori famosi sarebbero riusciti tali, se non avessero avuto le occasioni? Che, per esempio, il cavaliere Del Cairo, che fu il maestro del mio maestro, fosse davvero un gran pittore? Non lo credete; ha avuto il vento in poppa; opere di qui, ritratti di là, zecchini a staja, e poi l'ordine di san Maurizio. Ma, per colpa sua e di qualch'altro, s'imbastardò la maniera lombarda cogli innesti della scuola di Bologna; e poi col pigliare qualcosa da Roma, qualcosa da Firenze, qualche cosa da Venezia, ne uscì una mescolanza tale, che non siam più nè di qui nè di là... Ma quando un paese ha avuto la fortuna di possedere un Leonardo, e poi un Luino, e poi quello spavento del Crespi... il Crespi del San Brunone... Non so se voi abbiate visto quel lavoro a fresco? Quello è un a fresco!... Domando io dunque, se c'era bisogno di andar altrove a far gli accattoni? Ma la moda fa tutto; ed io che parlo, son guasto più degli altri, e col far quello per cui voi m'avete chiamato, mi son guasto la mano, e poi mi son messo al punto di guastarmi anche la saccoccia. Se, per esempio, domani taluno mi desse a dipingere una Deposizione, farei le tre Marie col guardinfante. Così vanno le cose.
In questa entrarono nel teatro già affollato, e nel punto che già cominciavan le dame a sedere ai loro posti nei palchetti.
— Vedo che in platea non c'è luogo, disse il Bruni, troveremo dunque un posto comodo in orchestra, dove senza dar nell'occhio, potrete gittar giù sulla carta qualche segno. Quando poi vi bisognerà d'andar tra le quinte, me lo direte.
Lorenzo Bruni si recò allora col pittor Clavelli in orchestra; messo a sedere l'amico, si mise anch'esso al posto, che i suonatori erano già tutti sulle loro sedie, e già attendevano ad accordar gl'istrumenti. Il teatro era zeppo, già faceva quel mezzo silenzio che precede l'alzata del sipario; tutti i palchetti erano occupati; Lorenzo girò gli occhi lungo le file, e il caso volle che fosse, nel momento che il conte V... e la contessa si ponevano a sedere l'uno rimpetto all'altra. Allora sul volto di questa, egli, dal suo basso scranno, tenne fisso uno sguardo lungo e indagatore.
Alla bellezza abituale della contessa Clelia, di cui nessuno erasi prima infervorato, per l'eccesso della sua medesima perfezione, si era sovrapposta una velatura leggiera nel colore, e talune indescrivibili impressioni nella superficie, le quali, togliendole quella, quasi diremo, pompa orgogliosa della beltà nudrita dalla salute e dalla calma, vi aveva soffuse le traccie del patimento e di un certo languore di stanchezza, languore prezioso (per la poesia, intendiamoci bene, non per la realtà), il quale essendo appunto la prima volta che compariva su quella faccia, vi produceva un contrasto ineffabile e la rendeva oltre ogni dire attraente a tutti gli sguardi. Tanto è ciò vero che, quasi a un punto stesso, da tutti coloro che la osservarono quand'ella girò gli occhi intorno, si fecero queste medesime osservazioni a di lei riguardo.
— Ma come s'è acconciata stasera la contessa V...? — Davvero che mi pare un'altra. Se si sapesse ch'ella ha una sorella, si direbbe ch'è la sorella a punto. — È però sempre bella. — Per me, dirò anzi, che è più bella del solito. — Ah, è un gran peccato che l'abbiano inzuppata nella scienza, e fatta così indurire come quel legno che diventa marmo stando nell'acqua!
Ma se molti in quel punto la guardavano fuggitivamente, Lorenzo teneva gli occhi sempre fissi in lei; e da quel palchetto non li abbassò che per volgersi e girarli torvamente sulla platea, così parlando fra sè: — Balordi che siete!... si trova un bel giovane in un giardino, di quelli che s'innamorano per professione, lo sorprendono al piè del palazzo e della stanza dove sta una donna che ha quella faccia lì... e si va a turbar la pace di cinque o sei case per trovar la donna de' suoi sospiri... Balordi voi e balordo il giudice, quando non vi sia di peggio... perchè pare impossibile... una bellezza di quella sorte... che... in conclusione ... qual è la più bella di tutte queste duchesse e contesse e marchese e marchesine che stan qui?... E nessuno è arrivato a pensare che ai tenori, segnatamente quando toccan di quelle grosse paghe che ognun sa, piacciono i buoni bocconi, e, se furono cullati sul letto di paglia, aspirano ai moschetti di drappo. Ma pazienza fossero tutte Vestali le donne di Milano, tutte Lucrezie, tutte Cornelie... Ma no... perchè, anche senza far torto a questa città... si sa ch'è la malattia del secolo, che più si sale e più si pecca... che si è sempre fatto così... Ah sciocchi e balordi... c'è da scavar vicino... ed essi, no... voglion correr mezzo miglio per le ortaglie, e far fatica a trovar l'accesso alla casetta di quella povera ragazza... che è pura come l'acqua... E tutti a intestarsi che debba davvero essere la Gaudenzi... come se non ci fosse stato tutto il tempo e tutto il comodo, supposta una simpatia, d'intendersela sul palco scenico!... Ma non piace al signor pubblico ciò che è naturale e semplice... siam sempre alla storia del teatro... bisognava che il tenore Amorevoli, per essere un caldo amante, saltasse muri, saltasse siepi, si lacerasse tra i pruni la seta dei gheroni, corresse pericolo di rompersi l'osso del collo salendo per qualche scala di seta... allora va bene... allora il signor pubblico è contento...
E così avrebbe seguito il corso de' suoi pensieri chi sa sin dove, se un gran colpo d'archetto del primo violino non gli avesse tagliati i pensieri in due. Gettò allora gli occhi sulla musica, mise il violino alla ganascia, e stette pronto.
Il sipario si alzò, e avvenne tutto quello che era avvenuto la notte addietro. Uscì il tenore Amorevoli tra un subisso d'applausi, i quali poco ormai lo confortavano, perchè, se lo si lasciava andar in teatro, v'era accompagnato in cocchio dal tenente e dal guardiano del Pretorio, che stavan con lui in camerino perchè non parlasse con nessuno; uscivan con lui, e lo accompagnavano all'orlo del palco scenico e lo aspettavan tra le quinte. Queste cose si sapevano dal pubblico, che le disapprovava, quantunque a torto. E venne l'ora del ballo, e il momento in cui usciva la Gaudenzi divina.
Ma che è questo? che novità? che segreto? Cos'è successo?... Ah! noi non sappiam cosa dire, ma il fatto è così precisamente, lettori miei. La Gaudenzi venne accolta da un bisbiglio ostile, intercalato da una dozzina di fischi portentosi, indarno respinti da pochi battimani, che si ritirano tosto, quasi vergognosi d'essersi compromessi.
Da che dunque poteva dipendere questo inaspettato cambiamento delle teste del pubblico? Da un fatto assai semplice: da ciò che, essendosi egli ostinato nel credere agli amori della Gaudenzi con Amorevoli, e avendo sperato, quando sentì ch'essa era stata citata a comparire in Pretorio, volesse confessare ciò che generosamente e cavallerescamente il tenore aveva taciuto; gli venne un fiero dispetto di quell'aspettazione delusa, e più ancora della supposta ipocrisia della fanciulla, che si pensò non avesse voluto corrispondere alla delicatezza dell'amante, per continuare a godere in faccia al mondo di quella gran fama d'onestà, usurpata a troppo buon mercato; la quale onestà, in quella universale rilassatezza del costume, era così eccezionale e strana, segnatamente se la si applicava al teatro, che se molti avean prima potuto apprezzarla, altri l'avean sopportata di mal animo, come un'ostentazione; e questi altri, i quali s'eran compiaciuti della scoperta che la Gaudenzi fosse pur essa infine una donna da teatro come tutte le altre, si rivoltarono senza ritegno contro al preteso sforzo che, secondo essi, ella avea fatto per proseguire ad ingannare il mondo. Talvolta un'idea, un'opinione, una credenza s'impadronisce di un'intera massa di gente in un modo irresistibile. E gli uomini di buon senso e di spirito equo, che volendo esaminare prima di condannare, azzardano qualche difesa e qualche osservazione, sono quelli precisamente che danno le mosse al temporale.
Cane d'un pubblico, scrisse il conte Rostopchin nel proprio epitafio, in attestato del suo profondo disprezzo all'opinione pubblica; e Cane d'un pubblico, disse Lorenzo fra sè e sè fremendo, quando da un collega d'orchestra sentì la spiegazione di quell'improvviso malumore della platea; ma ciò che più di tutto gli fece salire il sangue alla testa, e lo raffermò nel suo proposito di vendetta, fu l'aver visto lo stesso signor conte V... a degnarsi di uscire dalla sua orgogliosa gravità per zittire anch'esso.
— Anche tu, pensò tra sè, anche tu, bufalo bardato di Catalogna! ma non sai quel che ti attende? E quando calò il sipario, tutto convulso si avvicinò al Clavelli, per chiedergli se gli occorreva d'andar sulla scena.
— Ho visto bene, e già ho qui il profilo che non ne scatta un pelo, tanto che in un bisogno potrebbe bastare. Ma un'occhiata attenta e ben dappresso e tra le quinte gli farà nascere il gemello...
— E si arriverà in tempo?
— Altro che in tempo! abbiamo due giorni.
— Quando fosse pronto per sabbato a mezzanotte, è anche troppo.
— Io vi avrò servito per mezzodì, — e Lorenzo accompagnò il pittore Clavelli sul palco scenico, collocandolo presso una quinta; e, prima di discendere in orchestra, andò nel camerino della Gaudenzi, la quale piangeva dirottamente.
— Il pubblico di Milano, esclamò allora Lorenzo, scoppiando dall'ira e dalla commozione, potrà versare a' tuoi piedi tutto l'oro che costa il suo Duomo... ma faccia conto d'averti veduta per l'ultima volta. Del rimanente aspetto sabbato...



V


Ad un savio, non ci rammenta più nè quando nè dove, fu domandato: quale può essere la cosa più fatta per addensare la tristezza nel cuore di un uomo sentimentalmente intellettuale? — Forse la vista di un campo santo, ha egli risposto, nelle ore notturne, con cielo profondo, e luna pallida e stelle tremule e fuochi lambenti e strigi volanti? No. — Forse la cima inaccessa delle Alpi, dove il cacciatore rimane percosso dal mortale solengo? O in una campagna abbandonata e brulla durante il bigio novembre, la vista di uno stagno, sull'opache acque del quale incumba immobile, da un ramo che vi peschi, un decrepito airone? O la solitudine infinita del mare ghiacciato, dove Alfieri, poeta e viaggiatore, potè scoprire com'è tremendo il silenzio quando sta nel suo regno desolato? No. — Forse una camera anatomica, dove il coltello dell'investigatore chirurgo sprigioni i gas più letali e più putridi da un cadavere umano? No. — Che luogo dunque? — Una festa da ballo. — Così rispose quel savio, con incredulo stupore di tutti; ma per quanto potesse essere uno strano pensatore, noi dividiamo perfettamente la sua opinione. Se fosse possibile scrivere un compendio della storia dei dolori, dei disastri, delle tragedie, degli odj, delle vendette, dei delitti di cui il primo filo, più o meno avvertitamente, fu gettato nel rigurgito abbagliante della luce notturna, nel vortice fracassoso delle danze, nella polvere sollevata, nella gioja, nell'orgia, negli scherzi vellicanti, nel motteggio malizioso, nell'epigramma ambidestro, nella schiuma dello sciampagna, nell'allegria saltante, nelle grida incondite, nell'ebbrezza, nella stanchezza, nella dormiveglia di una festa da ballo in maschera; quel compendio sarebbe più voluminoso delle più voluminose enciclopedie condensatrici dell'umana sapienza. — Chi non vuol credere, non s'incomodi; ma la nostra opinione è questa.
Quante volte dalla bocca vermiglia di una faccia di cera uscì la folgore muta di una parola sola, ma che, sola, bastò a scomporre per sempre la felicità di due vite; che potè esaltare in un marito il cieco furore d'una gelosia omicida; e persuadere un troppo credulo fidanzato a respingere quella che indarno fu insidiata da qualche turpe amatore. Quante volte dell'effervescenza del senso, protetto dalla maschera e liberato per lei dal vigile pudore, Mefistofele approfittò per gettar la trama d'un futuro infanticidio! Quante volte una mendace accusa fu portata in alto dalla maschera, a cui nulla è inaccesso, per far percuotere un innocente odiato! e l'iniquità, resa inoffensiva dalla viltà nativa, diventò di colpo e audace e micidiale, celandosi dietro un volto di cera! Quante volte l'effimera virtù si disciolse tutta in sudore al contatto di quel volto stesso... e la ferma virtù vacillò... e cadde a un tratto chi avea potuto resistere a lungo. Per dio la maschera ci fa spavento! sicchè riputiamo che sarebbe un bel passo della civiltà se scomparisse per sempre dalla faccia degli uomini; e tanto più che è già una maschera la faccia naturale. — E dopo di ciò una festa da ballo è luogo di mestizia anche senza i volti finti! — Quante infelici passioni vi s'infiammano, quante felici illusioni scompajono; quanta gara funesta di perfide vanità; quanti gentili tessuti affranti dalla danza frenetica! Chi ha assistito coll'occhio investigatore e colla riflessione a quel punto in cui la prima luce del sole entra a mescolarsi in una gran sala colla fiamma decrepita dei doppieri consunti, e un raggio vivo di quella luce va a percuotere le faccie di un gruppo di giovinette che, vaghe, poche ore prima, delle più fresche rose della salute e della gioja, nell'abbattimento sorgiunto, nella stanchezza, nel repentino avvizzire, nella pupilla fuggita, nel livido pallore, lasciano già indovinare il processo con cui la dissoluzione s'impadronirà col tempo dei loro corpi, e dietro a quella che è quasi larva di gioventù e di bellezza, lasciano travedere con raccapriccio la futura vecchia e il cadavere futuro: ci saprà dire in confidenza, se si può raccogliere allegria da una festa da ballo! Ma abbandoniamo le inutili digressioni, e facciamoci con chi deve recarsi alla festa da ballo in maschera del sabbato grasso.
Pochi minuti prima della mezzanotte di quel sabbato, ossia circa quarant'otto ore dopo che la dea Gaudenzi venne fischiata dal pubblico, lasciatosi trascinare da quella infesta precipitazione di giudizj che ha sul collo tante vittime; Lorenzo Bruni, un po' colle dolci parole, un po' colla finta collera, un po' colla vera, stava distogliendo da un ostinato proposito la Gaudenzi, che, abbigliata con tutto lo sfarzo di una regina, nel punto che stava per salire in carrozza alla festa del teatro Ducale, d'improvviso, come una puledra che adombri, erasi fermata, e, risalendo la scala, avea cercata la sua stanza, giurando che sarebbe morta, piuttosto che mostrar la propria faccia a coloro che aveano potuto insultarla senza ragione.
Avvezza fin dalla prima infanzia alle carezze de' genitori, alle gentilezze di tutti; e, fatta adulta, alle lodi, all'ammirazione, agli applausi, alle adulazioni, ai trionfi; quel primo insulto la trapassò di una profonda ferita, e in modo che la vescichetta del veleno, ci si permetta questa espressione, del veleno onde la natura non manca mai di provvedere anche la più soave e mite creatura, s'era dischiusa con uno squarcio repentino, tanto che lo avea schizzato con veemenza d'intorno a sè, al punto da mettere nella più seria costernazione la vigile zia e Lorenzo. All'invito ch'egli le avea fatto il giorno prima di recarsi all'ultima festa da ballo in maschera, ella aveagli risposto con isdegnosa ironia; alle dolci persuasioni opponendo una fierezza fin quasi selvaggia, di cui ella sino a quel punto non avea sospettato neppure la possibilità, e che aveva dato da pensare all'esperimentato Bruni. Bene, a poco a poco, s'era venuta placando, e piangendo e chiedendo perdono con carezzevoli blandizie, avea promesso di far il suo desiderio e s'era lasciata ornare dalla sollecita zia di fiori, di perle, di brillanti; ma la vescica del veleno le si riaprì, come abbiam veduto, nel punto di salire in carrozza.
— Senti, Margherita, hai tu fiducia in me? le diceva Lorenzo.
— Non mi fido più di nessuno; gli uomini son come i gatti; oggi leccano, domani graffiano...
— Ma puoi tu dire ch'io t'abbia mai fatto un torto...
— Chi v'ha detto questo? rispose acremente la Gaudenzi. Voglio dire che... — ma qui diede in uno scoppio di pianto. Il pensiero dell'insulto ricevuto, riassalendola, non le concedeva pace.
— Dammi retta, Margherita; se ciò che è avvenuto ti affanna tanto, e n'hai troppe ragioni, l'unico tuo desiderio deve esser quello di confonder tutti quanti, dando modo alla verità di mostrarsi intera; ed è ciò appunto a cui ho pensato.... Tu sai che non t'ho mai consigliato cosa che non dovesse portare il tuo bene... Potrei dunque eccitarti a venire stanotte in teatro, se non fossi certo che all'alba del domani, ne uscirai vendicata da quegli stessi che ti hanno offesa?...
— Ma se è vero quel che mi dite... perchè dunque mi fate mistero del modo?...
— Il perchè lo saprai... ed io pretendo d'aver diritto alla tua fiducia... Suvvia, alzati, e andiamo.
— Suvvia, soggiungeva la zia, torna buona come prima, e obbedisci chi vuole il tuo bene...
La Gaudenzi non rispose, si alzò, mosse lentamente verso l'uscio, e Lorenzo la seguì.
— Andiamo, disse il Bruni, a pigliare il padre della prima donna, che s'è incaricato di farti il bracciere alla festa; — e partirono.
Ma intanto che Lorenzo Bruni e la Gaudenzi salivano in carrozza, dopo un'ora di contrasto, in casa V..., quasi che da un medesimo filo dipendessero i successivi movimenti di due congegni, continuava ancora un contrasto incominciato dopo. — La contessa Clelia, la quale mille volte s'era pentita di non aver tosto messo in atto il consiglio di donna Paola Pietra, e alle fischiate onde si volle punire la Gaudenzi aveva provato un cruccio, un affanno, un'inquietudine particolare; e però non desiderava altro, fuorchè spuntasse la prima domenica di quaresima per recarsi in Pretorio, o per iscrivere al giudice, contenta di affrontare affanni peggiori ma di tagliare quel nodo una volta per sempre e finirla; sazia della festa del giovedì grasso e d'un pranzo incomodo di sessanta coperti e d'un'accademia del venerdì e del trovarsi sempre in mezzo a tanti uomini e donne, in ciascuno de' quali e delle quali ella vedeva i suoi denigratori spietati, quando la gran notizia fosse scoppiata in piazza; e affranta per di più da un tedio convulso che la faceva stare di malissima voglia, aveva risoluto di non intervenire altrimenti in quella notte alla festa da ballo in maschera del teatro Ducale. Ma non avesse mai fatto una simile proposta al conte marito! La contessa, nelle più comuni circostanze della vita, poteva in casa far tutto quello che voleva, lo abbiamo già detto; ma in certe occasioni speciali, guai ad omettere una pratica, una consuetudine, un cerimoniale. Allora il conte, rispettosamente ammiratore della contessa, diventava il suo despota e il suo tiranno; e per dare, a modo d'esempio, il permesso alla moglie di non intervenire all'ultima festa del carnevale, dove tra le dame più cospicue si compiva l'ultima e più fiera battaglia di eleganza e di ricchezza, bisognava che la moglie fosse stata assalita, per lo meno, da una encefalite fulminante. Il conte era della famiglia di quel tale che, piuttosto che infrangere un cerimoniale, volle morire asfissiato da un braciere.
Fatto adunque il viso più severo che per lui fosse possibile alla moglie, e pronunciate quelle parole più irrevocabilmente di ferro che per lui si potevano, passò nella sala dov'era la madre della contessa, una sorella e un fratello; e tutto aspro:
— Donna Gertrude (disse alla madre), la si compiaccia di recarsi un istante da sua figlia, la quale pare che abbia volontà d'inquietarmi.
— Che cosa?... Che è avvenuto? rispose donna Gertrude, maravigliata di veder così a rovescio il conte, il quale per consueto, sebbene un po' duramente, le si era sempre dimostrato cortese; ma in quella entrava la contessa.
— Preghi il conte, mamma, a permettermi di non uscire; perchè sto male, male assai.
Il colonnello non seppe allora più contenersi, e strepitò, senza però mancare alla sua gravità.
Ma in quel punto il fratello di donna Clelia si alzò, e di queto le disse non so che parole all'orecchio.
A quelle parole piegaronsi i ginocchi alla contessa, e si gettò a sedere.
La madre e la sorella si guardavano... Il conte passeggiava... Il fratello taceva.
Trascorsi alcuni momenti, la contessa Clelia si levò e:
— Andiamo, disse, non voglio che per sì poco il conte si affanni.
Una mezz'ora dopo, preceduta dal conte marito e dalla sorella, la contessa discendeva lo scalone, rallentando il passo per essere raggiunta dal fratello. Quando questi le fu vicino:
— Chi ti ha detto...? gli disse la contessa.
— È un bisbiglio che corre per la città... La tua assenza avrebbe potuto accrescere i sospetti.... Or pensa a te...
A piedi dello scalone, tra le torcie di due lacchè, la contessa, attonita, salì in carrozza; il conte lieto e sorridente sedette vicino a lei; la portiera si chiuse, e via di trotto. Il conte fratello e la contessina tennero lor dietro in altra carrozza.



VI


Un'ora dopo, la festa da ballo al teatrino era già all'apogeo dello splendore, della folla, della vivacità, del frastuono. Così in quel tempo, come oggidì, il palco scenico si congiungeva alla platea per mezzo di una gradinata divisa in tre scompartimenti. Gl'intervenuti salivano al palco per quello di mezzo, e discendevano in platea pei due laterali. — Essendo il teatro più piccolo, l'orchestra veniva collocata in una galleria espressamente eretta sul palco. — Del resto, noi uomini della civiltà e del progresso, che abbiamo fatto le meraviglie quando il Fetonte degli impresarj introdusse per la prima volta il tappeto verde in teatro, dobbiamo sapere che, nel 1750, i più ricchi tappeti di Gand a rosoni variopinti coprivano tutt'intero il pavimento in occasione delle feste, e tutto era di conformità con quella ricchezza; dimodochè, se la sala tenevasi, come dicemmo, alquanto oscura durante lo spettacolo, pel migliore effetto ottico della scena e delle vedute architettoniche e campestri dei fratelli Galliari, le fiamme inondavano il teatro di luce quando si convertiva in festa da ballo. Ciascuna fila de' palchetti era rigirata da trenta lumiere di cristallo, portanti cadauna sei torcie di cera; dalla vòlta pendevano otto grandi lumiere pur di cristallo, e dall'interno de' palchetti usciva un'altra luce ausiliaria. Siccome poi da ciascun davanzale cadevano sui parapetti ricchissimi arazzi e ricami d'oro e d'argento, o di broccato tutto d'oro tempestato di pietre d'ogni colore e di luccicanti berilli, così l'effetto che allora produceva lo spettacolo interno del teatro Ducale era di gran lunga superiore a quello d'ogni più sfarzosa festa da ballo in maschera d'oggidì. E se il lusso e lo splendore era tanto in platea e sul palco, le sale del ridotto costituivano davvero un Olimpo di ricchezza e di luce in mezzo a cui sfolgoravano le deità terrene; chè le dame più cospicue s'addensavano tutte colà, o adagiate in apposita sala, su scranne dorate, a beare di loro presenza chi le adocchiava; o in altra sala, aggirantisi in quelle danze passeggiate che si chiamavano minuetto e perigordino. Nè è da credere che le sale del ridotto fossero accessibili soltanto alle dame; tutt'altro. La divisione che tra ceto e ceto era ancora ben determinata, nel secolo passato, in tutte le relazioni della vita, e la distanza che tra patriziato e borghesia e plebe era mantenuta inesorabilmente da cento prammatiche e distinzioni e cerimonie, scomparivano affatto in quelle feste del carnevale. Era una continuazione modificata del medio evo, quando il feudalismo dei padroni e dei servi potè costituire quasi due nature diverse; quando per una legge di compenso, a Milano, nelle notti fescennine del famoso san Giovannino alla Paglia, tutti quanti si mescolavano in istrane dimestichezze. Ma quei giorni di eguaglianza eccezionale erano in ragione della disuguaglianza legale e consuetudinaria; tanto che, mitigandosi e trasmutandosi la seconda, grado grado la prima si limitò, e di svolgimento in isvolgimento si pervenne al punto che ambedue scomparvero e si confusero, come vediamo oggidì, in una cosa sola, e tolti gli argini, le acque si riunirono. Ma non preveniamo i tempi, e non esponiamo al pubblico intempestivamente il dietro le scene del nostro libro.
In mezzo a quell'Olimpo lucente delle più belle dame milanesi comparve, a una cert'ora, la Gaudenzi accompagnata dal signor Casserini, il marito della prima donna, quella che faceva la parte di Semiramide riconosciuta. Ma appena fu vista dalla folla de' cicisbei curvati in vari atteggiamenti sulle dame sedute, come statue, che facessero gruppo convenzionale con altre statue, si alzò un bisbiglio ostile. Lorenzo Bruni, che, tutto coperto dal domino nero e dalla nera maschera, stava dietro alla pupilla, quando la vide indietreggiare perplessa, la spinse ad adagiarsi su d'una sedia. La Gaudenzi obbedì, ed egli si indugiò là un momento. Seduta tra la contessa Marliani e la contessa Borromeo del Grillo stava la contessa Clelia. — Ferveva un incessante cicalìo tra la folla incessante. — Maschere d'ogni generazione passavano davanti alle dame per avventar loro motti e scherzi e complimenti. — Il villottista cantava il nome e cognome a ciascuna, e le loro qualità fisiche e morali in accozzamenti strani di idee e di rime; di tratto in tratto fermavasi loro dinanzi un arlecchino, un brighella, un pulcinella, un dottorazzo bolognese, a dir lunghe filastrocche nel dialetto della città rappresentata dalla loro maschera. — Intanto sentivasi la musica del minuetto, la quale, con poche variazioni, era quella che introdusse poi Mozart nella festa da ballo del suo Don Giovanni, e oggidì, con altre poche variazioni, rifece Verdi nell'introduzione del suo Rigoletto. — Tra quella musica e lo strisciar lento dei piedi e il ronzìo continuo, s'udiva strillato, con accompagnamento di chitarra, qualche strambotto d'una maschera curiosa, che s'intitolava il Tasca e parlava un dialetto composto, mescuglio di veneziano, milanese e bolognese:


Nol xè, nol xè pi mondo
De viver all'antiga,
Chi no truffa e no intriga
Resta in fondo.
Tanto la zente xè destomegae,
Che pi no l'ha favor la veritae.
Chi negozia col vero
El xè fallio de botto;
Se domanda Zinzero
El xè merlotto,
Vedo la lealtae scalza e confusa
Perchè tutti la loda, e pochi l'usa.


E altrove gridava Meneghino una filastrocca del Maggi in quel dialetto che, dopo cent'anni, ha potuto alterarsi tanto:


. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Ferr e strasc, cardeghee,
Rivendirœu, postee,
Conch, e tajee e messò,
Garzonscii de sartô,
Canaja che vivii
De menuder guadagn,
E criee per i strad cont i cavagn,
Ciovirœu de san Sater,
Tucc compagnon de better,
El vost car Meneghin
El va in lontan paes;
Se pu no s'vedaremm, a revedes.
. . . . . . . . . . . .
Mortadell di tri Scagn,
Busecca de la Gœubba,
Passerit di trii Merla,
Moscatel di trii Re,
Montarobbi del Gall,
Malvasia d'offelee,
Tutt cose de tesoree,
El vost car Meneghin
El va in lontan paes;
Se pu no s'vedaremm, a revedes.


E ad un certo punto entrò nella sala una frazione della compagnia de' Foghetti. — Il pittor Londonio, in costume di Beltrame di Caggiano, mostrava nella lanterna magica alcune sue bizzarre composizioni, le quale facevano sghignazzar tutti quanti e abbassar gli occhi ad alcune dame che s'indispettivano di non poter comprimere il riso. — E subito dopo Cesare Larghi, ch'era segretario soprannumerario di governo, in costume di contadino brianzolo, accennando di voler cantare una delle sue villotte con accompagnamento di ribeba, imponeva silenzio a quanti eran là, i quali gridavano ai suonatori e ai ballerini, basta, zitto, silenzio; — e Cesare Larghi, vista la Gaudenzi, e indispettito col pubblico del modo ond'erasi comportato secolei, si pose precisamente innanzi ad essa, a cantare quella veramente poetica villotta dettata in dialetto contadinesco... e che fu stampata nella collezione de' poeti vernacoli milanesi:


I to oggitt me paren dò bei stelli
Che hin pu lusurient de la lusnava,
E quij to ganassitt ch'hin de sgioncava,
E hin inscì svernighenti e tanto belli.
Famm vedè, cara ti, quii to bocchini
Tanto streccit che paren facc col fuso,
Che fan ol pover Togn deslenguà in giuso
E van disend a tucc: femm di basini.


La cantilena soavemente campestre onde si esprimevano quelle poetiche parole, la bella voce e l'accento e il garbo onde il Larghi la cantava, in prima avean messo un silenzio così profondo in quelle sale, che si sarebbe sentito a volare una mosca; e provocarono poi un tale scoppio d'applausi, che di più non avrebbe potuto ottenere lo stesso Amorevoli.
Come il Larghi ebbe finito, quella dozzina di socj della compagnia de' Foghetti si presentarono alle dame, e le invitarono a ballare un minuetto. Poche vi si rifiutarono, ma tra queste vi fu la contessa Clelia, che accusò di star male. Cesare Larghi invitò la Gaudenzi, la quale, ringraziandolo della cortesia, non si fece pregare. — Si rimise allora lo schiamazzo nelle sale, si rinnovarono le grida, l'orchestra tornò a suonare; e dodici coppie strisciarono la danza con mille scontorcimenti leziosi della testa e delle braccia che sporgevano rose nel punto che fingevano involarle, e sulla punta delle dita deponevan baci incaricati di volar sul volto delle dame danzanti. Lorenzo Bruni che aveva seguito per poco la Gaudenzi nella sala da ballo, ritornò dove s'era trattenuta la contessa Clelia, e girandole dietro le spalle, le accostò la bocca della maschera nera all'orecchio, e, parlandole con voce sottomessa e alterata, l'invitò a danzare.
— Signore, ho già rifiutato un altro gentile invito, perchè sto male.
— Signora, devo parlarvi. — Si tratta di un affar grave... Favorite ad accettare un ballo; avremo agio a stare insieme senza sospetto altrui.
La contessa sentì scorrersi un brivido per l'ossa, e non trovò parola per rispondere; chè quanto aveale detto il fratello l'aveva messa in gravissima apprensione; onde si alzò allora e, detto alla sorella che le sedeva presso:
— Aspetta qui; e, pregata la contessa del Grillo a tenerle compagnia: — Vengo, soggiunse poi alla maschera, la quale offrendole il braccio, la accompagnò nella sala da ballo.
Si posero così tra le figure danzanti, e fecero un giro; indi, quando le dodici coppie si ritirarono per dar luogo alle altre, la maschera trasse la contessa a sedere nel vano di un finestrone.
— Signora, sapete voi chi sono?
— No.
— In mille anni mai più vi apporreste.
— Spiegatevi. Che volete dire?
— Che vi avrei creduta generosa come siete bella...
— Ma chi siete voi?
La maschera aspettò che molte persone si fermassero lì presso, e colse il punto che uno degli ispettori del palco scenico, il conte Pertusati, gli passasse dinanzi. Allora parlò e gestì in modo da attirar l'attenzione altrui; poi di tratto, balzando in piedi, disse ad alta voce:
— Non meritate, no, ch'altri vi abbia riguardo... Vedete ora dunque chi sono; e togliendosi la maschera nera, scoprì la maschera bianca. — Balzò fuori allora, come per arte d'incanto, la figura del tenore Amorevoli. — Sua la faccia, sua la statura, suo tutto. Quanti erano là il riconobbero, e la contessa non potè comprimere un grido, e cadde.
La maschera si ricoprì tosto.
— Ora, voi tutti che siete qui, esclamò, potete attestare qual fu la donna per cui Amorevoli fu arrestato; e, detto questo, s'involò tra la folla, e scomparve.
Noi crediamo che il lettore avrà, presso a poco, compreso da un pezzo in che doveva consistere la trama onde Lorenzo Bruni aveva pensato, con un mezzo per verità illecito, di far uscire la verità allo scoperto.
Era da circa mezzo secolo che in Francia, dove si davano in pubblico persino otto balli alla settimana, si era introdotta la perversa invenzione delle maschere-ritratti, le quali, eseguite da pittori esperti e da plasticatori, rendevano al vivo la sembianza di chiunque si voleva. Questa maschera-ritratto di solito la si copriva con un'altra maschera qualunque, la quale, levata con destrezza, lasciava intravedere il volto imprestato che stava sotto, e che ricoprivasi tosto, onde impedire si potesse conoscere l'inganno. Questa moda dalla Francia si diffuse tosto in Italia, e segnatamente a Milano e a Venezia. Ma i disordini che ne conseguirono furono tali e tanti, che la pubblica morale se ne risentì altamente. Giovani scaltri assumevano il volto di fortunati amanti a ingannar donne e donzelle inesperte. Donne gelose e gelosi amatori e mariti, traevano in insidia donne e amanti creduli, dal che derivarono vendette e delitti.
E due anni prima del tempo a cui ci troviamo, alla duchessa di Choiseul, che, rimasta vedova, s'era invaghita d'un giovane cavaliere, con atroce giuoco fu fatto comparire ad una festa il marito defunto, ond'ella ne prese tale raccapriccio e sgomento, che, caduta ammalata, morì poi di consunzione. Perciò nella Francia stessa s'eran pubblicati editti e pene gravi contro questa invenzione turpe. Poco dopo la proibì anche la Repubblica di Venezia, e nel marzo dell'anno 1749 era uscita pure a Milano, in conseguenza di gravi inconvenienti avvenuti in quel carnevale, la seguente ordinanza:


«L'eccellentissimo governatore, avendo, con sua gravissima indignazione sentito il pessimo e colpevole uso che si è fatto da taluni male intenzionati e osceni giovinastri delle così dette maschere ritratti, ha ordinato che ne sia assolutamente vietata ed interdetta la fabbrica e l'introduzione, sotto pena di sei mesi fino a due anni di carcere, da infliggersi tanto a chi ne pagasse o sollecitasse con male suggestioni l'esecuzione, come a chi vi prestasse l'opera dell'arte e della mano per danaro o per qualunque altro compenso. Tanto sia partecipato al senato, ai tribunali, al pretorio e ai giusdicenti.
Milano, 12 marzo 1749.»


Al grido, alla caduta, allo svenimento della contessa si fermarono le danze, fu fatta tacere l'orchestra, accorsero ad onde uomini e donne da tutte le parti, accorsero le dame dalla sala vicina e la sorella della contessa e la del Grillo; e tosto il fratello, i parenti, gli amici, ultimo il conte V..., la comparsa del quale compresse a tutti la parola in bocca, sicchè fu il solo che, per il momento, non seppe nulla, e potè così ajutare la contessa, quando si riebbe, a recarsi in palchetto. — Scoppiarono allora le dicerie come una eruzione vulcanica. Da quel punto del ridotto all'ultimo angolo del teatro si propagò, colla rapidità della luce, la notizia che il tenore Amorevoli era in teatro; si propagò la notizia ch'era venuto per vendicarsi della contessa V...; che le tresche del tenore erano impegnate con lei e non con la Gaudenzi; e insieme colla notizia corsero e serpeggiarono e s'intersecarono gli stupori; le incredulità, le osservanze, le testimonianze, le persuasioni, le ire, le ingiurie contro quella donna che, dicevasi, alla superbia insopportabile aveva potuto congiungere anche una detestabile ipocrisia; e colle nuove ire e le nuove ingiurie versate contro la nuova vittima, cominciarono i pentimenti d'aver a torto fischiata la ballerina, la vittima di due sere prima, e i propositi di rimettere in piedi quell'idolo stato rovesciato, e d'andare a cercarla e di portarla a casa in trionfo.
E intanto quella notizia era giunta all'orecchio del signor giudice del Pretorio, che si trovava precisamente nel palchetto del signor segretario del Senato. — Còlto come da un colpo di fulmine, e balzato in piedi al sentire che il tenore Amorevoli era venuto in teatro, chiamò un de' tenenti che sopravvegliavano al pubblico, e lo mandò ad assumere informazioni, mentre il segretario del Senato, indarno trattenuto dal signor giudice, che voleva prima verificar la cosa e aveva paura d'una solenne sgridata, si recò, pago di farsi apportatore d'una straordinaria novella, nel palchetto dell'eccellentissimo governatore, dove trovavasi il presidente del Senato. Essi erano già informati di tutto, e facevan chiose e commenti, e già avean mandato a domandare il giudice stesso del Pretorio, che diffatto venne, pochi momenti dopo, tutto confuso a protestare com'egli aveva lasciato il tenore Amorevoli sotto buona custodia. — Tutti stettero perplessi ad aspettare il tenente ch'era corso al Pretorio, il quale, sollecito e ansioso, era salito dal custode delle prigioni, e con esso era entrato nel camerino dove Amorevoli giaceva sdrajato sul letto tra un mezzo sogno e una mezza veglia. E il tenente ebbe l'ingenuità di interrogarlo se mai fosse uscito per recarsi al teatro, per il che il tenore sospettò avesse quel zelantissimo ufficiale dato di volta al cervello.
Allora il tenente, felice che non si fosse verificato lo scandalo d'un prigioniero fuggito, si trovò d'aver gambe velocissime al pari d'un lacchè, e giunto tutto trafelato al teatro, fu introdotto al palco delle loro eccellenze ad annunciare, con gran contento del giudice, ma con nuovo stupore di tutti, che il tenore Amorevoli non era mai uscito dalla sua cella e che quei del ridotto dovevano aver preso uno strano abbaglio. Fu chiamato pertanto il conte Pertusati, uno de' cavalieri ispettori del palco, il quale si maravigliò che il governatore dubitasse della sua asserzione; e furono fatti venire testimonj più di parecchi: tutti si misero la mano al petto, protestando di aver la vista perfetta e la testa sulle spalle. Governatore, presidente, giudice almanaccarono a lungo. Che è? Che non è? Cosa può essere stato? Pensa, ripensa e torna a pensare... Ma, quasi contemporaneamente, nella testa del presidente del Senato e del giudice del Pretorio sorse quel sospetto, che poteva spuntare anche più presto, perchè l'uso delle maschere-ritratti non era che del carnevale passato, e l'ordinanza non gli era posteriore che di nove mesi. Appena messo fuori quel sospetto, fece tosto presa nella testa del governatore conte Pallavicini, il quale fattolo diventar certezza, sentì il diritto di salire in furore, e d'ordinare al signor giudice che praticasse tosto e in tutti i modi possibili le più rigorose indagini per scoprire i contravventori dell'ordinanza.
Quando il giudice uscì dal teatro, la primissima luce bigia dell'alba si confondeva già colle torcie dei lacchè che attendevano, presso le carrozze, i loro padroni. In una parte era uno schiamazzo assordante di evviva; in un'altra, vicino a una carrozza, ferveva un alterco vivacissimo tra due gentiluomini su cui si projettava la luce delle torcie dei lacchè.
Il giudice domandò che significasse quel rumore da un lato e quel contrasto dall'altro, e gli fu risposto come alcuni giovinotti accompagnavano a casa, colle torcie a vento, la Gaudenzi in trionfo; e che l'alterco era tra il conte V... e suo cognato, perchè non s'era più trovata in nessun luogo del teatro, nè in palchetto nè altrove, la contessa sua moglie, e, mandato il lacchè a vedere al palazzo, nessuno l'aveva vista ritornare. Il giudice che aveva il pensiero ai contravventori, non badò a tal fatto più che tanto, e s'affrettò al Pretorio, dove spiccò tosto gli ordini, perchè si mandassero a chiamare tutti i pittori della città di Milano senza perder tempo. E anche noi senza perder tempo diremo, che non batteva il mezzodì, che già il pittore Clavelli, semplice e schietto, invitato a comparire e interrogato, confessò la cosa, e nominò il violino per il ballo del teatro Ducale. Questi, non trovato in casa, come si seppe che praticava presso la ballerina Gaudenzi, colà appunto fu cercato e trovato ed arrestato, con nuovo dolore e spavento e lagrime della Gaudenzi, la quale, pur troppo, cominciava ad essere visitata dalla sventura.
Così nell'ora trista del tramonto di quella tristissima prima domenica di quaresima, il destino di cui abbiam veduto a scintillare in alto l'occhio beffardo, potè contemplare a un punto solo quattro scene dolorose: una sala del palazzo V... in cui il conte passeggiava innanzi e indietro, rapidissimo, mentre il furore che lo divorava per la scoperta dell'infedeltà di quella che aveva riputata irreprensibile, gli si svolgeva in cuore e gli si tramutava in un sentimento spasmodico di pietà e di costernazione, all'idea che la contessa era scomparsa e non si sapeva nè dove nè come, onde mille orridi timori gli straziavano l'animo; e nella sala stessa, la contessa madre sedeva immobile, coll'occhio impietrito e spaventato, intanto che la contessina piangeva dirottamente, e il conte fratello stava ritto in gran pensiero, guardando macchinalmente da un finestrone nella via sottoposta. Altrove poi, la povera Gaudenzi teneva appoggiato il bel volto sulle spalle della zia che, costernata, osservava la nipote costernata, mentre più lontano, in una povera casupola di legno, una vecchia, la madre del pittor Clavelli, pareva fatta stupida, all'annunzio che l'unico figliuolo era stato trattenuto prigioniero; e nella casa in contrada Borromeo, donna Paola Pietra, tenendo una lettera spiegazzata sulle ginocchia, volgeva gli occhi al cielo, esclamando con un sospiro profondo: Ahi sventurata!
E tutto ciò per un muricciolo saltato... e colui che era stata la cagione prima e sola di tanto disordine, attendeva placido in quel punto, ne' suoi vasti latifondi, ad esaminare un prospetto di conti presentatogli dal maggiordomo, di cui la somma totale veniva a dire che l'entrata dell'illustrissimo signor conte era di lire milanesi duecent'ottanta mila, a non contare due diritti d'acqua, che potevano fruttare altre lire venti mila annue.



VII


Dobbiamo saltare alcuni giorni dal tempo in cui avvennero le cose che noi raccontiamo; per ora non son che giorni, ma in seguito ci accadrà di saltar mesi ed anni e olimpiadi e lustri, e non è del tutto improbabile che si debbano saltar via anche decenni. Egli è a questo modo che il lettore potrà farsi capace della possibilità di passar in rivista gli avvenimenti di cento anni in un sol anno; perchè, se dovessimo continuare a tener dietro ai giorni colla fedeltà di un calendario, converrebbe venire a patti colla morte, tanto a chi scrive come a chi legge; la qual cosa, quand'anche fosse possibile, non sarebbe certo un buon affare... parliamo per noi; de' lettori non sappiamo. Tornato ora a' nostri personaggi, a quelli segnatamente che vennero arrestati, il tenore Amorevoli, Lorenzo Bruni, il pittore Clavelli, erano stati trasferiti al capitano di giustizia; di modo che il primo, dopo cinque giorni, e gli altri dopo ventiquattro ore, avean lasciato il Pretorio in santa Margherita. — Diciamo in santa Margherita, non già nell'odierno locale della Direzione di Polizia, perchè a quel tempo qui sussisteva ancora il convento delle monache Benedettine. Del rimanente codesto fatto del trovarsi il Pretorio nella contrada di santa Margherita, in quell'anno o in quel torno, noi lo abbiamo ricavato da alcune ordinanze e avvisi a stampa che abbiamo sott'occhio, ordinanze di quella classe, che, applicabili al momento fuggitivo, non v'è per consueto chi ne tenga conto, onde si perdono senza venir raccolte a fermare ne' libri una notizia stabile di un accidente passeggiero. E da tali ordinanze e avvisi abbiam potuto congetturare appunto, come nel locale assegnato pel Pretorio vi fossero pure delle celle suppletorie pei detenuti. Ognuno sa poi, che l'antico Pretorio non era che l'attuale palazzo dell'Archivio nella piazza dei Mercanti, e che là erano i sedili per il Podestà, pei due giudici, così detti del cavallo e del gallo, i quali rendevan ragione nelle cause civili e criminali; infine pel giudice dei dazj e pel vicario, ecc. Ma tali ordini di cariche e di località, modificate, sebben lentamente, col tempo hanno fatto trasportare il Pretorio altrove, e, forse, per un provvedimento provvisorio, nella contrada di santa Margherita. E pare inoltre, che, alla metà del secolo passato, il Pretorio non serbasse tutte le sue antiche attribuzioni, ma ne avesse invece in gran parte di simili a quelle dell'odierna pretura urbana, con una sezione per le cause criminali.
Colà si instituivano i primi esami e si assumevano le prime informazioni, per passarle poi al capitano di giustizia; sebbene ci siano documenti pe' quali è provato che, anche solo dietro relazione definitiva del giudice pretore, o dei giudici del cavallo o del gallo, si passasse alla condanna degli accusati.
Ora, lasciando da parte cotali questioni che non hanno che qualche lieve rapporto colla natura de' fatti che noi raccontiamo, e desiderando solo voglia taluno stendere una descrizione della città nostra, che completi e continui quella del Lattuada, che si ferma al 1735; diremo che, se Lorenzo Bruni aveva tanto fatto per mettere a nudo la verità, e ben potea dire d'esserci riuscito nel modo il più trionfante, sebbene illecito, come que' capitani che vincono una battaglia per avere saputo ridersi del diritto delle genti; la verità, appena comparsa, fu trattenuta indietro a viva forza, e persino si tentò di farla scomparire, tanto che Lorenzo non aveva altra certezza se non questa, d'aver saputo trovar la maniera d'andar in prigione e di trarsi dietro il povero Clavelli, senza aver trovato poi quella di farne uscire Amorevoli. — Avendo esso, al primo interrogatorio, per le sue buone ragioni, confessato il fatto senza titubanza, e in conseguenza di ciò, essendo stato inviato, benchè in carrozza, perchè pagata da lui, al palazzo del capitano di giustizia, quando colà ebbe a subire il secondo interrogatorio, la sua condizione si venne terribilmente peggiorando. Fin dalle prime parole che gli rivolse l'attuaro, Lorenzo potè accorgersi, acuto com'era naturalmente e penetrativo e scaltrito dall'esperienza, che chi lo esaminava gli aveva una singolare avversione; perchè non era quella consueta severità del giudice verso il reo, ma una severità speciale, trovata e adoperata espressamente per lui, rinfocata dalla natura speciale di quella da lui commessa contravvenzione alla legge, e più che mai dall'intento di quella contravvenzione stessa.
La madre della contessa Clelia aveva un fratello senatore, la sorella del senatore era la moglie del marchese Recalcati, in quell'anno regio capitano di giustizia, uomo integerrimo e giurisperito profondo. Il marito della contessa aveva un fratello, il quale, avendo provato che la sua illustre casa erasi stabilita a Milano da più di un secolo, aveva potuto entrare nel collegio dei nobili dottori. Ora questo dottor collegiale era intrinseco del vicario di giustizia, carica corrispondente a quella che, se non oggi, alquanti anni or sono, chiamavasi di vicepresidente del tribunale criminale. Ognuno può imaginarsi quanto alla contessa madre e al conte marito e a tutto il parentorio premesse, se non l'innocenza di donna Clelia (ormai improbabile, perchè la di lei fuga aveva chiuse le porte a tutte le speranze), almeno l'apparenza di quella. Nei primi giorni adunque dopo la sua scomparsa, se calde e affannose e insistenti e continue furono le ricerche praticate dappertutto per poter scoprire dove ella si fosse ridotta; ricerche che, sino a quel punto, non avevano fatto altro che accrescere il dolore e la desolazione; furono calde e affannose del pari le pratiche, le preghiere, le insinuazioni che la sorella adoperò col fratello, che il cognato senatore fece pesare gravemente sulle spalle del cognato capitano, che il dottor collegiale, mediatrice l'amicizia, fece penetrare nelle ossa del vicario; e siccome eran tutta gente di legge, ossia gente avvezza, in mancanza d'un codice preciso e determinato, a giuocar di testa e d'acume e di sofismi e di cavilli nel labirinto inestricabile delle leggi statutarie, così non affaticarono a conchiudere, che, dopo tutto quello che era successo, non era ancora provato che donna Clelia fosse quel che si voleva che fosse; perchè dal suo labbro non era uscita confessione nessuna, essendo caduta in deliquio; che Lorenzo Bruni poteva, anzi doveva essere un briccone matricolato, e Dio sa quale scopo abbominevole aveva potuto proporsi, e forse della stessa scomparsa di lei poteva essere l'autore egli medesimo. È a notare però, che nè il senatore, nè il capitano, nè il vicario non avean fatto che ascoltare, e con aspetto di sapienza e di prudenza respingere le insinuazioni de' parenti e degli amici, terminando sempre i discorsi coll'intercalare obbligato: non si farà che la pura giustizia, e cogli intercalari accidentali: bisognerà vedere, bisognerà sentire; non si può aver riguardo a nessuno fosse il padre, fosse la madre. Ma in conclusione s'eran lasciati penetrare; perchè gli uomini bisogna che paghino il tributo degli uomini, e nelle questioni di sangue e di parentado e di ceto e d'onore, quando le instituzioni non sono imposte da una giustizia che sia veduta da tutti i lati e in pubblico, il sentimento provoca il sofisma, e il sofisma l'arbitrio, e tutto a nome del giusto e del retto, e tutto senza che l'onestà dell'uomo prevarichi, perchè non è sempre questione di cuor guasto, ma di testa conturbata.
Crediamo sia inutile di dire come, nel secolo passato, nel sistema della giurisprudenza pratica, e segnatamente del così detto processo criminale, non si fosse fatto alcun passo oltre il secolo XVII. (Ci riferiamo a questo secolo, perchè i lettori, nella disquisizione legale di Manzoni intorno alla colonna infame, avran potuto farsi una idea della condizione della giurisprudenza a quel tempo). Non v'era un codice scritto ben discusso, ben formulato e ben determinato in nessun paese. Le leggi statutarie e il diritto romano e le varie interpretazioni dei legisti costituivano tutto il capitale giuridico tanto di un dottor collegiale, come di un senatore. Ed era da quattro secoli che ciò continuava, senza che nessuno si accorgesse che quel sistema fosse irrazionale; irrazionale del pari e assai meno popolare di quello che avea a lungo durato nel feudale medio evo. Diciamo assai men popolare, perchè prima del secolo XIII le cause criminali si trattavano in pubblico, onde, come dice Sclopis, manifesta era l'accusa, pubblico l'esame de' testimoni, aperta e libera così l'interrogazione come la difesa del reo. Ma nel secolo XIII l'eresia suggerì nuove forme d'inquisizione, e, all'uso de' tormenti preparatori, che fu il crudele sistema di prove introdotto dallo studio delle leggi romane (il quale, del resto, per tutte le altre parti era stato così benefico), s'accoppiò il segreto nell'orditura del processo. Che se in prima il processo segreto era invalso soltanto nelle questioni ereticali e in via di eccezione, col tempo si diffuse e si allargò a tutte le cause civili e criminali, e come regola costante. In Mario Pagano, in Meyer, in Sclopis ognuno può vedere tutte le forme originate da questo principio, e come, essendosi voluto corroborare la coscienza morale del giudice colla così detta coscienza giuridica sottoposta al calcolo della probabilità, si fosse edificato un corpo di dottrina falso e pieghevole ad ogni maniera di assurdi e di arbitrj. Per queste cose, tanto nelle cause criminali, come anche nella trattazione delle cause civili, se il giudice o l'avvocato o il patrocinatore che sosteneva un assunto o lo contrastava, era dotto, acuto e dialettico, e se per avventura tra la dottrina, l'acume e l'eloquenza lavoravano la passione, l'ostinazione o l'errore implacabile del giudizio, allora la legge statutaria, il diritto romano, e l'interpretazione dei giuristi facevan la figura e subivan la sorte delle tre palle sotto al bossolo del giocoliere. Per il che ognuno può considerar com'eran degni di pietà coloro dalla cui parte era la ragione. Se poi una tale pratica di giurisprudenza era comune a tutt'Italia e a tutt'Europa, ciascuno Stato vi recava alcune sue forme proprie addizionali, e alcune sue proprie modificazioni di vita e di costumi, le quali rendevano ancor più inestricabile il labirinto degli arbitrj. Per fermarsi a Milano, nel secolo XVIII, oltre al sistema del processo segreto invalso dappertutto, e al diritto romano, e ai commenti dei legisti, la città si regolava ancora cogli statuti e colle costituzioni criminali di Carlo V; ma v'era un fatto che, quand'anche il sistema generale fosse stato ottimo e gli statuti di Carlo V i migliori possibili, era tale da mettere ogni cosa in disordine; ed era che il campo della giurisprudenza giudiziaria era tenuto e padroneggiato con mano tenacissima, meno qualche rara eccezione, dal solo ceto patrizio.
Il collegio dei dottori era costituito per la maggior parte di nobili. — Da questo collegio, che era, quasi diremmo, un vivaio perpetuo di capacità giuridiche più o meno profonde, uscivano quasi sempre i giudici del cavallo e del gallo, il giudice del Pretorio, il vicario, il capitano di giustizia, i senatori, il presidente del Senato. — Abbiamo un elenco manoscritto dei capitani di giustizia dal 1750 al 1783, da cui risulta, che tutti appartenevano alle principali case della città. Si poteva pertanto quasi dire, che la giurisprudenza fosse a Milano una proprietà di famiglia. Ora, se a questo fatto si aggiunga quello de' privilegj ancora sussistenti, ognun vede come poteva camminare il vero diritto, concesso pure che quei patrizj avessero teste di bronzo e cuori pietosissimi; e potessero, per un prodigio della natura e della fortuna, aver tutti la testa, per esempio, di Farinaccio, e la carità squisita, per esempio, di san Francesco d'Assisi. Ma oltre ai legami, abbastanza forti del ceto, v'eran quelli della parentela. Bensì qualche volta s'intromettevano le rivalità e i puntigli e gli odj antichi tra casato e casato: ma questo non era già un mezzo di equilibrio, sibbene un'occasione nuova di poter offendere la giustizia in un altro modo.
Ma torniamo a' nostri personaggi.
Nella prima metà del mese di marzo, Lorenzo venne condotto dal barigello al banco dell'auditore, per essere sentito in un secondo esame. Messo a sedere innanzi al banco, il Bruni stette attendendo con impazienza che l'auditore, il quale era intento a sfogliar carte, gli rivolgesse la parola. Era ansioso di sapere se gli avevano destinato un protettore. I protettori de' carcerati (Protectores carceratorum) erano giovani causidici, che esordivano la carriera assumendo la difesa degli accusati. Eran nobili per la maggior parte anch'essi e bisognava che passassero attraverso a questa pratica per poter avere il diritto di essere ascritti col tempo al collegio dei dottori. Le difese si scrivevano in lingua latina o in lingua italiana, e così venivano presentate al capitano di giustizia per passar poi anche in Senato.
Quando l'auditore alzò la testa, volse a Lorenzo uno sguardo tale da fargli temere il peggio; poi disse:
— Persistete voi dunque nell'asserire che la causa per cui avete ricorso ad una abbominevole astuzia, al fine di trarre in insidie la nobilissima signora contessa Clelia V..., sia stato il desiderio di stornare il disonore dalla vostra protetta?
— Non posso che persistere, perchè è la pura verità.
— Vogliate però considerare che la cosa è inverosimile, e che una tale inverosimiglianza ci consiglierà gravi misure.
— La verità è una sola, rispose Lorenzo con un certo sdegno, e mi pare d'avere già esposto suffizienti argomenti per togliere ogni altro sospetto dalla testa del signor giudice. Torno a ripetere che, dal momento che la giustizia trovò d'escluder dagli esami, non so per che sue ragioni, precisamente la donna che sola era stata la cagione di trarre a mal partito il signor Amorevoli, io mi trovai in dovere di illuminarla; prima di tutto perchè trovavo ingiusto e insopportabile che una virtuosa ragazza avesse taccia di disonestà per colpa altrui; in secondo luogo perchè dal momento ch'io potei intravedere che la nobilissima signora contessa avea potuto aver la debolezza...
— Vi intimo di adoperar parole più rispettose.
Lorenzo tacque un momento, come per respingere un leggiero soprassalto d'indignazione, poi soggiunse:
— Io ho l'obbligo di difendere me stesso. È un obbligo santo come un altro, poichè ciò che mi s'ingiunse qui è di dire la verità. Però se, quand'anche con un mezzo riprovevole ma il solo tuttavia che m'era possibile, ho potuto mostrare a tutto il pubblico da che parte stesse la colpa, io non so in che modo debba nominare la signora contessa, quando per necessità devo parlare di lei.
L'auditore lo guatò bieco, senza far motto.
— Siam tutti di carne umana, soggiunse poi Lorenzo sempre più indispettito, e non è detto che una nobil dama non possa avere una qualche debolezza... il signor auditore mi perdoni la parola.
— Non è più questa la cosa di cui si tratta. Già nel primo esame avete scagliato abbastanza vituperj contro il rispettabile ceto patrizio.
— Io non ho offeso nessuno. Ho detto solo che una povera fanciulla non doveva portar la pena delle colpe altrui, e che, mi perdoni il signor auditore l'amore della verità, la giustizia non doveva avere nessun riguardo alla nobiltà della signora contessa; e dal momento che non aveva dubitato d'interrogare tutte le donne che possibilmente avean avuto parte nel fatto, non c'era nessuna ragione per cui dovesse omettersi precisamente quella, sotto alle cui finestre era succeduto l'arresto del signor Amorevoli. Se gli uomini che tengono il sacrosanto mandato di rappresentare la giustizia avessero fatto il loro dovere, io non mi sarei trovato al punto di offendere la legge. Questo solo ho detto e dovevo dire, per mostrare, d'altra parte, che se ho dovuto ricorrere a un mezzo proibito, fu per un fine retto.
— Un fine retto?... esclamò allora l'auditore rompendo le parole all'accusato; rispondete, ora a questa domanda: — Chi ha fatto scomparire dalla sala, dal teatro e dal palchetto la nobile signora contessa, di cui non si è ancora potuto scoprir traccia?
Questa domanda riuscì così improvvisa e inaspettata al povero Bruni, ch'ei ne rimase colpito, e tanto più in quanto d'un colpo d'occhio ne misurò tutta l'estensione pericolosa. Ma soggiunse poi subito:
— Cosa poss'io sapere di quel che sia avvenuto della contessa?... Dio faccia che non sia successa una disgrazia... Ma se ella è scomparsa e fuggita, il motivo ne è così chiaro, che non se ne può cercare un altro.
— Il motivo n'è tanto chiaro, che la giustizia v'intima adesso di addurre le prove onde convincerla che non siete stato voi a far scomparir dal teatro la contessa.
Lorenzo Bruni stette un momento silenzioso poi ripigliò:
— Tocca a chi mi accusa di questo fatto, per me impossibile e assurdo, a produrre le prove, non a me. Io non posso dir altro, se non che dopo lo svenimento della contessa, avvenuto per l'effetto delle mie parole e della creduta presenza del tenore Amorevoli, io non l'ho veduta più, e non seppi che alla mattina com'ella era scomparsa dal teatro e dalla casa, e non la si ritrovava in nessun luogo.
— La giustizia potrà rendervi ragione in seguito, ma per ora, essendo voi il solo interessato ai danni della nobile contessa, la giustizia è in obbligo di metter voi in istato di accusa per un tal fatto.
Lorenzo, a questo dire, si turbò forte e non trovò parole, sospettando come nell'impegno, forse assunto, di stornare il disonore della contessa e dal suo casato e da quello del marito, si era determinato di prender lui di mira in ogni modo, gettando nel pubblico false voci e false accuse.
— Cosa dunque potete aggiungere al già detto?
— Nulla... Io non posso che ripetere sempre le stesse parole. Io non vidi mai più la contessa dal momento che cadde svenuta.
— Quand'è così, voi sapete quali mezzi tiene in serbo la giustizia per fare in modo che una bocca pronunzii la verità.
E l'auditore, suonato il campanello, ingiunse al custode di ricondurre il Bruni nella sua prigione.
Partito Lorenzo, l'auditore si alzò, e prendendo il processo verbale dalle mani d'un assessore:
— Nessuno, disse, mi leverà dalla testa che costui sia un iniquo matricolato — E con tali parole sulle labbra, e coi relativi pensieri nella testa, si mosse per recarsi nell'aula dell'eccellentissimo signor capitano di giustizia. Quando fu nell'anticamera e già stava per farsi annunziare, gli mosse incontro una livrea dell'illustrissimo signor capitano marchese Recalcati, e:
— Per ora non si può entrare, gli disse.
— Perchè non si può... ?
— Perchè...
Ma in quella si fecero intorno all'auditore molti notaj e assessori e scrivani che si trovavano là, e:
— Sapete, gli dissero, chi fu ammesso or ora all'udienza dell'illustrissimo signor capitano?...
— Che cosa posso saper io?... chi dunque?...
— Non lo indovinereste in mill'anni. Quella venerabile matrona che tutti conoscono, donna Paola Pietra.
— Ma che relazioni può avere una tal donna colla giustizia?
— Chi lo sa?
— Gli è molto che sta col capitano?
— Se non è di più, non è di meno di un'ora... Chi sa mai cos'è avvenuto di strepitoso?
Ma in questo punto s'udì una lunga scampanellata dalla camera del capitano, e accorse le livree ad aprir l'uscio, comparve sulla soglia donna Paola, la quale uscì, attraversando l'anticamera tra gl'inchini riverenti di quanti eran là.
L'auditore allora si fece annunziare, ed entrò dal capitano con una faccia tutta giuliva.
— Ecco il processo verbale del nuovo esame a cui oggi fu assunto Lorenzo Bruni. Ho tali indizj, che mi danno la convinzione possa costui essere il colpevole del trafugamento della contessa.
A queste parole il signor capitano non fece motto, e preso il foglio dalle mani dell'auditore, contro l'aspettazione di quel giudice zelante, non disse nulla, e lo licenziò severissimo.
Ora ci rimane a sapere per qual fine donna Paola Pietra abbia domandato un'udienza al capitano di giustizia, e che cosa sia avvenuto della bella e sventurata donna Clelia.



VIII


Talora dà il caso che, nella massima esaltazione di un sentimento o di più sentimenti, quando tutte le facoltà dello spirito, quasi ubbriacate, hanno cessato di agire regolarmente, essendo messe in rivoluzione da una sventura, da un pericolo, da un dolore, da un colpo imprevisto, occorra necessariamente di prendere un partito; e in tal contingenza si abbracci precisamente quello che è il più opportuno, e che forse non sarebbe giunto a trovare nè a proporre nemmeno la mente più calma e più provvida. — Bisogna adunque che quella esaltazione procellosa de' sentimenti assomigli all'acquavite campale, che spinge fin le reclute contro le bajonette d'un battaglione quadrato; e, per valerci d'una similitudine un po' più gentile, conviene che quell'esaltazione produca quasi un sonnambulismo benefico, il quale, togliendo per poco all'uomo la ragione, la quale può turbarsi in conseguenza della sua potenza medesima e della sua virtù illimitata, gli dà invece l'istinto che va diritto per la sua via, men nobile, se vogliamo, ma più determinata e precisa. — La disperazione, per esempio, non accetta mai le sue leggi dalla ragione, ma si sottomette, sebbene inconscia, alla spinta cieca dell'istinto, ed egli è per questo che qualche volta i suoi consigli sono un sublimato di prudenza.


Una salus victis: nullam sperare salutem.


Applicando ora queste nostre riflessioni alla condizione speciale della contessa Clelia, se, dopo avvenuta la catastrofe del finto Amorevoli e del deliquio, tre uomini di consiglio, come soglionsi chiamare, si fossero uniti per risolvere in fretta e in furia quel che la sventurata avrebbe dovuto fare, è assai probabile che non avrebbero dato il più sano parere.
E, in quanto a noi, siamo specialmente convinti che si sarebbero ben guardati dal dirle: Fuggite, e senza perder tempo, e sola e in qualunque modo ciò vi riesca. Eppure, a pensarci bene, era questo il partito più conveniente che rimaneva alla contessa. Anche noi, dobbiam confessarlo, quando sentimmo per la prima volta che donna Clelia era scomparsa dal teatro, abbiamo fortemente sospettato non le avesse dato di volta il cervello; ma poi, a nostro dispetto, dovemmo convenire che un consiglio di tal fatta non le poteva esser venuto che da Salomone; tanto la disperazione avea tenuto luogo di sapienza! A rimanere a Milano e nella sua casa, come poteva sopportare la presenza del marito? e poi, chi sa cos'avrebbe potuto fare quello spagnuolo inferocito? Come sostenere lo sguardo della madre? come rispondere, cosa dire? Con che fronte uscire in pubblico ad incontrare gli sguardi di tutta la città? Come resistere all'insultante pietà delle rivali trionfanti? Ma ella non avea nemmen pensato a tutto ciò. Riavutasi del deliquio e uscita dal palchetto, col domino tra le mani e come per pigliar aria, guizzò tra la folla delle maschere che facevano ingombro al palchetto e assiepavano il corridojo, e senza titubanze e rispetti, chè la disperazione è imperterrita e non conosce ostacoli, uscì dal teatro; e là, allontanatasi dalla porta dell'ingresso, avvolta nel domino a bardosso, ed esposta così al freddo e al vento, che pareva un Sibilla vaticinante, vista la carrozza di casa Cusani che conosceva (per essere la moglie del marchese Cusani in grande intrinsichezza col Conte V...), chiamò il cocchiere per nome. Quegli si volse, e, col lume del fanale e del primo crepuscolo, riconosciuta, sebbene a stento, la contessa:
— Cosa mi comanda? disse.
— Sta queto, che già siam d'accordo colla marchesa; ho bisogno della sua carrozza; e di buon trotto accompagnami alla mia villa a Gorla...; tu ci sei stato altre volte. Vogliam fare una burla a qualcuno.
Il cocchiere non rispondeva, e stava perplesso; ma la contessa, aperta la porticina :
— Suvvia dunque, t'affretta; chè non c'è tempo a perdere, e se non si corre, ogni cosa può andare a vuoto.
Il cocchiere si strinse nelle spalle, ma obbedì; e sferzati i cavalli, in mezz'ora fu a Gorla sul naviglio. Spuntava il primo sole quando fece una magistrale voltata entro al portone già dischiuso della sontuosa villa V... — Colà giunta, la contessa chiamò il castaldo, che accorse con di lui grande stupore; fece pagar lautamente il cocchiere, al quale impose di ritornar subito a Milano; poi rivolta al castaldo:
— Ti farà meraviglia ch'io mi trovi qui? Ma oggi verrà il conte... e sentirai da lui... or non è tempo a perdere... e fa attaccare i migliori e più veloci cavalli che hai nelle stalle... e dammi un uomo. — Il castaldo obbedì anch'esso prontissimo, per quante congetture facesse. — La carrozza fu tirata fuori, i cavalli attaccati, l'uomo fidato fu tosto in serpe colla sua frusta disposta alle battiture. — Donna Clelia intanto aveva scritta una lettera, che, fatto chiamare un contadino, della cui incapacità a leggere e a scrivere volle prima assicurarsi, gli consegnò, perchè la ricapitasse al curato di Santa Maria Podone. — E il contadino era partito sotto gli occhi stessi della contessa, e senza che il castaldo potesse veder la lettera, dopo ciò la contessa erasi levate le gioje, che mise in un fazzoletto; poi si sciolse i capegli, li abbassò, li rese meno appariscenti, e li nascose in un velo nero che si fece dare dalla moglie dell'agente; raccolse infine al possibile la coda del vestito azzurro ricamato in argento e si avvolse tutta come potè meglio nel domino, adattandoselo alla vita come un vestito comune; e così stranamente acconciata, chè il tumulto de' pensieri gl'impediva d'avere il capo a tali cose, salì finalmente in carrozza, dicendo forte al cocchiere: Ponte san Marco. La casa V... aveva un vasto tenimento tra questo luogo appunto e il lago di Desenzano, e se la contessa si diresse a quella volta non fu per altro motivo che perchè era quella la terra più lontana dei possessi di casa V... Il viaggio durò tutto quel giorno e il successivo. — A notte inoltrata donna Clelia giunse alla villa, tra le solite meraviglie degli agenti e delle fattoresse. All'alba del terzo giorno, avuto il modo di cangiar vesti, scomparve improvvisa anche dalla villa, all'insaputa di tutti.
Se la contessa non avesse pensato a partire inosservata dalla villa di Ponte san Marco, la sua prima fuga non le avrebbe giovato a nulla; perchè, di fatto, da Milano fu spedito sulle sue traccie un uomo fidato sin là, e ciò dovea naturalmente succedere, poichè il cocchiere di casa Cusani, tornato a Milano, quando la marchesa padrona era già a letto, dopo essersi sentito minacciare lo sfratto dalla casa del padrone montato in sulle furie, raccontò il fatto della contessa V... Allora il marchese Cusani, che già sapeva della sparizione di lei, mandò il cocchiere stesso ad avvisarne il conte marito, che tosto inviò un servo a Gorla, ove ebbe la notizia che la contessa era partita per Ponte san Marco; tanto che, quando esso, la madre, il fratello e la sorella di donna Clelia, verso l'ora bassa della prima domenica di quaresima, versavano in quell'angoscia che il lettore sa, un uomo della casa era già in viaggio per quella volta; chè il conte non avea voluto per nessun modo che partissero nè il fratello nè la madre; se a ragione o a torto non sappiamo, ma chi s'attenta di discutere sulla ragione e sul torto in momenti di tanto affanno e scompiglio?
Qui poi occorre di notare per la completa intelligenza delle cose, che il fratello della contessa, quando sentì dal carrozziere di casa Cusani quel ch'era avvenuto, si recò insieme con esso dal marchese medesimo, il quale, dopo un lungo discorso tenuto col conte, ingiunse al carrozziere di non lasciarsi sfuggir di bocca quel ch'era seguito, nemmeno colla marchesa, alla quale si sarebbe concertato quel che dovevasi dire. — E la casa V... incaricò della medesima incumbenza verso i gastaldi della villa a Gorla, l'uomo spedito colà e altrove a cercar notizie della contessa. È a notare inoltre come, in sull'ora tarda della stessa prima domenica di quaresima, il curato di Santa Maria Podone avea portato in persona una lettera a donna Paola Pietra, ed era quella appunto che la contessa aveva scritto prima di partire per Ponte san Marco. In quella lettera, con un disordine d'idee e di modi che è facile immaginare, donna Clelia narrava in prima il fatto accaduto in teatro, poi veniva prorompendo in questi sentimenti:
— «Così tutto è finito per me, nè potrò mai più mostrare la mia fronte a chi m'ha conosciuta, chè piuttosto vorrei trovarmi mille braccia sotto terra. Oh se tosto avessi adempito il suo consiglio, donna venerata, almeno il mondo mi avrebbe dato il merito di una franca confessione, e forse non sarei stata disprezzata da colui, nè tanto punita; quantunque, per verità, non mi sembri poi di aver meritato così fiero e spietato trattamento. Oh potessi far noto al mondo qual era la mia intenzione, e come il pensier mio non fosse altro che di scansar pel momento gli scandali del carnevale... Almeno colui potesse conoscere che la mia intenzione era di salvarlo in ogni modo! Ma faccia ella per me, venerabile signora, il bene che io non ho potuto. La sua carità proveda e accorra e ripari. Se mai credesse di parlare a mia madre, di parlare al conte, lor faccia intendere ch'io non ho veruna macchia grave a rimproverarmi, e che fui assai più disgraziata che colpevole, disgraziata quanto mai si può pensare... Ma ora vedo di darle un incarico impossibile... perchè non è bene, e non desidero ch'ella veda nè mia madre, nè il conte. Chè lo giuro formalmente a lei, venerabile signora, nè ella stessa potrebbe distogliermi da questo proposito... Non sarà mai ch'io ritorni mai più a vivere col conte; io non voglio vederlo mai più. Io non l'ho mai amato, nè lo amo, quantunque lo rispetti e lo compianga. Ma se egli è or fatto infelice per me, son sette anni ch'io son fatta infelice per lui; e d'altra parte vivo certissima che nemmeno esso non mi ha amata mai. Dunque si rompa una volta e per sempre questo nodo, il cui solo pensiero mi ha desolata, perchè... ma io sento il rossore di quello che stavo per dire, ma io sento il bisogno ch'ella mi protegga e mi consigli, e mandi il balsamo della sua parola soave sulla piaga insopportabilmente dolorosa del mio cuore. Or dove io vada non so. Nè so quello che io sia per tentare, nè quello che la disperazione vorrà fare di me. Ma qualunque cosa fosse per succedere; ma dovessi anche morire, chè oramai non vedo miglior mezzo d'uscita alla passione che mi divora e al tormento inesprimibile di non poter vivere senza alimentarla, e di dover incontrare il disprezzo di tutti e il mio stesso; dovessi, dico, anche morirne, io desidero che la sua parola, pietosissima signora, venga a confortarmi nella mia ora suprema. Or io parto... Ed ella mi scriva e tosto... e mandi la sua lettera a Brescia, dove io manderà a levarla, e sulla soprascritta metta il nome del mio casato a rovescio.»
Come rimanesse donna Paola al ricevere questa lettera, è facile imaginarlo. — Il primo pensiero fu di recarsi tosto a spargere qualche conforto fra coloro che dovevano vivere in angustie per la partenza della contessa. Ma poi riflettè che ne potevano scaturire guai più serj, e che prima di parlare alla madre e al marito della contessa erano indispensabili altri provvedimenti. — Intanto credette bene di rispondere subito a donna Clelia, e di trovare il modo perch'ella si ricoverasse in luogo sicuro, dove potesse guardarsi e dalla passione propria e dall'ira gelosa del conte. — Le scrisse dunque di volo una lettera il cui tenore era questo:


«Donna tanto infelice quanto a me cara!
«Se la sventura vi ha visitata, voi dovete essere più forte della sventura. — Se abbiate ben operato ad abbandonare la vostra casa, nella pericolosa e speciale condizione in cui versate, non mi attenterò di recarne giudizio. Ma quand'anche aveste fatto il peggio, la Provvidenza metterà un riparo a tutto. Vi ringrazio, cara donna, che il vostro primo pensiero sia stato quello di scrivere a me, ed io vi mostrerò la mia gratitudine col fare tutto quello ch'io potrò per voi. Di questo potete vivere sicurissima, e se per ora non vi è dato altro conforto, questo vi sia almeno intero. Da più parole della vostra lettera, io scorgo che il vostro cuore, più assai che dalla medesima sventura e dall'onta, è penetrato da un pensiero troppo costante verso chi è vostro obbligo assoluto di dimenticare. — Cara la mia donna, il tempo guarisce di grandi piaghe, e vogliate aver fiducia nel tempo: ma credetemi, che per tornare a rialzarvi in dignità di donna onorata, e costringere il mondo, che si appaga di maldicenza e di disprezzo, a tacere e a rispettare, ve l'ho già detto, conviene che la vostra vita da quest'ora in poi proceda inalterabile e senza un rimprovero. Allora voi troverete che il mondo è qualche volta tanto giusto ne' suoi giudizj, quanto più spesso è precipitoso e spietato. Allora verranno i giorni in cui amerete la stessa sventura, perchè per suo mezzo sarà scaturita la vostra felicità.
«Ma pace per ora, la mia cara donna, pace e coraggio...; e giacchè non avete ancor ben determinata la meta a' vostri passi, e fuggite così a caso, cacciata dalla sola disperazione; e la solitudine potrebbe trarvi a malissimo partito, Dio vi guardi dalle funeste tentazioni della solitudine! Io scrivo in sull'istante ad una famiglia virtuosissima di Venezia, quella dove fui accolta io stessa con carità d'affetto, quando ci capitai da Milano, fuggita da chi mi teneva in ingiusta prigionia; che rividi, come tornai da Roma, e che l'anno scorso fu a visitarmi a Milano, con sempre costante amorevolezza. Voi dunque avete a recarvi colà, e, a tale oggetto, v'accludo un foglio perchè siate riconosciuta e accolta e abbracciata e consolata, e forse guarita coll'insistenza delle cure amorose. Ricevuta questa, rispondetemi di volo, e Dio vi benedica.


«Paola Pietra»


Questa lettera giunse a suo luogo a Brescia, e presto arrivò nelle mani della contessa Clelia, la quale tosto rispose alla donna pietosa con effusione d'affetto, e coll'accettare il partito proposto. Così ella recossi a Venezia, dove infatti fu accolta con ogni maniera di affettuose dimostrazioni in quella casa a cui donna Paola aveala raccomandata.
Ma chi avrebbe detto che il destino, così spesso strano e capriccioso, come talvolta provvido, della dimora di donna Clelia a Venezia doveva valersene per iscoprire i capi del filo a cui s'attiene il fatto principalissimo del nostro racconto, e quello per cui sino ad ora avvenne tutto quello che avvenne? chè il lettore, dato che, per un caso de' più strani, abbia preso interesse a quest'istoria, non deve obbliare che, nella stanza vicina a quella dove giaceva il defunto marchese F... erano state trafugate delle carte; che probabilmente tra quelle ci doveva essere un testamento; che se era stato commesso un delitto di tanta gravezza, qualcuno necessariamente doveva averlo commesso e, se non di certo a Milano, in qualche parte del mondo colui doveva bene esistere e starsene cheto.



IX


Or lasciamo per poco Milano, la Babylo minima di Ugo Foscolo, e rechiamoci a Venezia, la città adottiva del chiaro di luna, del romanticismo convenzionale e degli amori pseudo-platonici. O Venezia! Oppure Vinegia, come noi preferiamo di chiamarti per appagare un nostro gusto da antiquario, quante fantasie di poeti hai tu stancate; quanti romanzieri hai raggirati lontano dal vero, attraverso all'inestricabile labirinto delle tue calli; a quanti esageratori di professione hai fatto prestito grazioso della tragica tinta de' tuoi palagi secolari e dell'onda stigia de' tuoi rii, saturi di gas fosforici e di quel jodio che è tanto lodato per la cura della scrofola! Quante bugie, senza tua colpa, hai fatte pronunciare agli storici, che pure, con un coraggio da leone, s'incaricano di dire la verità! Quanti femori e coscie e stinchi hai tu infranto colla pietra bianca de' tuoi ponti traditori! A quanti giovinotti hai fatto perdere l'appetito e la salute ricoverandoli insidiosamente sotto al felze delle tue gondole! Quanti odorati squisiti e permalosi hai offeso coll'odore infesto del tuo baccalà! Quante spregiate crete Versâr fonti indiscrete dalle tue altane e dalle tue finestre plebee sul capo dell'ansioso visitatore delle vetuste tue glorie! O Venezia, o, come ci piace meglio, Vinegia, tanto straordinariamente bella e fantastica e divina, quanto, in certe parti, difettosa e incomoda e talora fetente! O regina dell'Adriatico, o donna di duplice aspetto, che rendi veraci tutte le descrizioni perchè, al pari della fata Alcina, ti mostri in apparenza di vegliarda a mettere in fuga chi pure è venuto a visitarti colle migliori intenzioni; ma per chi ben ti contempla, sei bella e giovane ed attraente e divina così, da ammaliare Ruggero. Ma la colpa è di chi ha sempre voluto descriverti da un lato solo; e dei pittori di prospettiva che non sanno altro che far ripetizioni eterne della tua piazza e del tuo palazzo Ducale. Così il visitatore, tratto in inganno e venuto a te coll'ansietà come di chi vede una terra di consolazione nella fata Morgana, s'indispettisce, se, dopo l'incantevol piazza e Rialto grande e le colonne del molo e l'ampia laguna, non vede che calli e callette, e negri rii, e casupole miserabili, e ballatoj con luridi cenci, e zucche baruche, addentate ovunque dagli squallidi figli de' tuoi pescatori. Il viaggiatore poetico che, pieno la testa delle narrazioni convenzionali di Venezia, vi capita la prima volta, e per una bizzarria dell'accidente, in un giorno di pioggia; e prima di vedere le tue ricchezze gloriose s'incontra nelle miserie deplorabili, e affacciandosi alla finestra dell'albergo, non ha altra sensazione che di chi abitasse nell'interno d'un pozzo, tra l'acqua in fondo e una pezzetta di cielo bigio su in alto..., che indignazione egli sente contro le guide d'Italia menzognere; che assalti repentini di nostalgia, quand'anche venisse dalle febbrifere risaje! e l'aspetto di codesta prima impressione è così micidiale, che gli dimezza e gli turba l'ammirazione e l'entusiasmo anche pei giorni del sole e per le scene che non hanno riscontro in nessun altro luogo del mondo.
Perchè, ad essere sinceri, chi mai può dire che sia facile trovare un riscontro, pur ne' sogni fantastici delle Mille ed una notti, alla scena che si svolge innanzi all'occhio di chi s'affaccia, per esempio, al finestrone della sala degli Scrutinj del palazzo Ducale, in un mattino del mese d'aprile o di maggio, od anche di settembre, quando un leggier vapore azzurro avvolge tutta la prospettiva lineare degli edificj cospicui che decorano la grande e la piccola piazza, e che rende più vaga e indefinita la prospettiva aerea? E ad arte accenniamo al finestrone della sala degli Scrutinj, perchè il giuoco prospettico riesce tale da quel punto che all'imaginazione è permesso di sospettare interminabili le fughe delle Procuratie nuove e delle vecchie, e più fantastico il bisantino San Marco e quasi ampia come il Bosforo la laguna, e più gigantesche le cupole del tempio della Salute, e quasi alberi annosi d'un'aerea selva i campanili, i comignoli, i pinnacoli che spuntano da ogni parte di dietro al sontuoso, diremo sipario, costituito di quelle tante meraviglie architettoniche che l'arte occidentale innalzò, e staccano su d'un cielo che nei giorni della massima vampa solare e del voluttuoso vento africano, parrebbe essere stato trasportato dall'Oriente! Ma cosa diventa il tuo sole, o Venezia bella, in confronto della tua luna? Qual è regione della terra dov'ella si mostri con tutti i suoi prestigj come in casa tua? in quali altre onde si specchia più volontieri che nelle tue? Da che torri d'altre città si mostra con più attraente vezzo che da' tuoi edificj, o regina dell'Adriatico? Se non che, siccome Byron ha detto che i malefizj della luna sono diabolici in ragione della sua fama usurpata di castità e di modestia, così noi dobbiamo credere che gl'influssi della luna di Venezia sui deboli mortali e sui cuori giovanili siano assai più funesti e irresistibili di tutti gli altri influssi ch'ella esercita altrove, per esempio sul lago di Lucerna e di Costanza. O gondole brune e romite che movete lente, troppo lente per credere che voghiate con innocenza, o nel canale della Giudecca, o in quello più storico dei Marrani, il canal Orfano dei drammaturghi sepolcrali, o nella più espansa laguna delle Fondamenta Nuove, in cospetto di San Cristoforo della Pace! come vi giova il pretesto di dover usufruttare l'influsso della luce lunare! — Quanti giovani, anche inclinati al puritanismo, furono tratti in insidia dalla bianca luna confederata ad una gondola nera, dal cui felze, ove penetrava un suo raggio malizioso, uscì il suono di una qualche voce vellutata o flautata, come vi par meglio, perchè le voci femminili a Venezia, quando si sentono nel canale o nel rio, subiscono, non sappiamo perché, una specie di trasformazione, e infondono un suono che non ha riscontro in nessun'altra delle città a noi note.
Ma lasciando le gondole e le voci flautate, chi vuole a Venezia godere la luna senza pericoli, non la contempli che quando ella s'interessa all'incremento delle belle arti; allora egli si rechi a metà Piazzetta, e la osservi quando il suo raggio attraversa le vetriate dei due finestroni che coincidono all'angolo del palazzo Ducale; e si fermi sotto al campanile quando il disco di essa, rompendo, quasi diremmo, sul massimo suo vertice, sembra sciogliersi in raggi infiniti, che piovono da quel punto come una cascata di luce; e ascenda al ponte della Paglia a vedere come il contrasto del suo bianco raggio che taglia sui marmi anneriti, accresca l'incomparabile bellezza dal lato del palazzo del Doge, che risponde al ponte de' Sospiri; e passi al ponte dell'Arsenale a guardare al suo lume i leoni portati a Venezia dal Peloponnesiaco, i quali vegliano alla custodia di quell'edificio da cui uscirono tante navi coraggiose e fortunate; e trasvolando più lungi in gondola, entri nel rio de' Zecchini a vedere i ruderi di palazzi abbandonati; o passi davanti a S. Giovanni e Paolo, od agli avanzi del convento de' Serviti, dove meditava il prodigioso Fra Paolo; e se gli cresce il tempo, non ommetta il tempietto di Santa Maria de' Miracoli, che direbbesi trasportato a Venezia da uno svolazzo di cherubini fatti architetti; e osservi da vicino il giuoco dei tre ponti, dove la luna si sbizzarrisce in mille modi con quelle arcate e collo specchio di quell'acqua; e di qui ritraendosi e vogando altrove, si prolunghi fino al rio San Polo, a vedere il contrasto che produce la luna colle onde d'acciajo e coi palazzi gotici che sembran di pietra di lavagna, e, colle fiamme che trapelano dalle finestre sparsamente, mentre il fondo stacca sul cielo azzurro e stellato il vetusto campanile di Santa Maria de' Frari.
Ma a codesta scena appunto che si svolgeva lungo il rio San Polo stava intendendo lo sguardo la contessa Clelia dal balcone gotico di una casa di ragione del patrizio Salomon, intanto che l'ultima notte del mese di febbraio sfoggiava tutto il suo sereno, tutte le sue stelle e tutta quanta la sua luna! Al di sopra della sua testa scintillava Giove; ma la contessa era ben lontana dal considerarlo astronomicamente, come un tempo avrebbe fatto; nè gli dava nessun pensiero che quel pianeta, sebbene non apparisse che un semplice punto brillante, fosse circa mille volte più grande della terra; ed era ben lontana dal notare, quantunque in altra parte le apparisse la costellazione di Cassiope a lei ben nota, come il lume di questa costellazione, natante nell'albore della via lattea, fosse meno brillante della costellazione d'Andromeda! O tempi per lei felici, e forse non redituri che alla più tarda età, tempi felici, quando potea attendere a tali oggetti della scienza più eccelsa, sgombra da ogni altro pensiero! O triangoli obliquangoli, o parabole, o ellissi, o iperboli, o diametri e triametri, o assintoti rettilinei, o punti multipli, o curve algebraiche, o radici di polinomj irrazionali! chi mai, potendo in quel punto esplorare i pensieri di donna Clelia, avrebbe sospettato che in quella testa, ora così ardente e fantastica, avessero potuto penetrare e per tanto tempo avere stabile dimora quelle austere forme della scienza più austera? Perchè, ci rincresce a dirlo, se avessimo saputo che si doveva riuscire a tal punto, quasi ci saremmo astenuti dal trarre in iscena una donna che per tanti rispetti ci è cara; ma purtroppo ella non pensava in quel punto nè all'astronomia nè alla matematica, e molto meno a suo marito; pensava bensì al tenore Amorevoli, e tanto più che il giorno antecedente aveva saputo come non era stato esso a trarla in insidia nel ridotto del teatro, e come invece colui stava ancora in prigione; e, giacché non è a far mistero di nulla, se ella a quell'ora si affacciava al balcone, sebbene spirasse una brezzolina crudetta, era perchè da un palazzo vicino, dove tutte le sere tenevasi accademia di musica, tra le molte voci cantanti ve n'era una che, quantunque in minor suono, parea la voce gemella della voce d'Amorevoli. Ad onore del vero però e della giustizia, dobbiamo dire che se la contessa stava tutta sola di notte a quel balcone, era inoltre per fare un atto di carità squisita, che andasse a sconto dei suoi peccati veniali, un atto di carità a vantaggio di una giovinetta tanto bella quanto inesperta, la quale stava per far la figura del rossignuolo quando il serpente a sonagli lo incanta per farselo volare sulla lingua trisulca.



X


Ma per spiegare al lettore più cose che forse non ha compreso al primo, giova sapere come la contessa Clelia fosse stata bene accolta dalla famiglia Salomon per virtù della lettera di donna Paola Pietra: giova sapere, che se la persona e il nome della contessa stettero nascosti per alquanti giorni in Venezia, a poco a poco ne trapelò qualche notizia tra persona e persona che, frequentando la piazza di San Marco, portarono in piazza la notizia medesima; la quale venendo ad intrecciarsi al fatto che si attendevano al teatro di San Moisè in Venezia, per la stagione di primavera, la celebre ballerina Gaudenzi, e, per la stagione futura di carnevale, il non men celebre tenore Amorevoli, presto, insieme alla notizia ch'era già corsa dell'arresto di lui avvenuto a Milano pel contrattempo d'una tresca amorosa, e pel sospetto d'un delitto di più grave importanza, tali e tanti parlari si sparsero e racconti e congetture e sospetti e domande e lettere scritte espressamente a Milano, e risposte avute con gran sollecitudine, che si diffuse per tutta Venezia la novella che la contessa Clelia V..., la fatale Elena di quella seconda Iliade, erasi rifuggita in Venezia appunto e dimorava in casa Salamon. Però non si può dire quanto fosse generale il desiderio di vederla, di avvicinarla, persin di ammirarla; di esaminare dappresso se era poi tanto bella come si diceva, se il tenore era stato di buon gusto, se non aveva avuto torto a sfidare tanti guai, a farsi arrestare, a serbare un pericoloso silenzio, a rinnovare insomma quasi la tragedia di Antonio Foscarini per amore e rispetto e venerazione di lei. E la curiosità fu tanta, che il ponte che attraversava il rio San Polo, di repente si vide frequentato a tutte l'ore del giorno da gran numero di persone, per osservare se mai da qualche finestra si mostrasse la testa della donna che era l'oggetto del discorso universale. La contessa Clelia, a cui la buona famiglia che l'alloggiava riferiva quel che dicevasi nella città, stavasene celata dietro le finestre per vedere tutti senza essere veduta; ma tra i moltissimi notò una figura che assai le diede da almanaccare. Quella figura era d'un giovane gentiluomo, gentiluomo, almeno, per quanto appariva al di fuori, e per la ricchezza dell'abito e pel veladone di broccato e per la spada col fodero di velluto bianco; giovane tanto che forse non arrivava ai vent'anni, ed oltracciò di tant'avvenenza di corpo e di una bellezza così baldanzosa di volto, che quand'anche ella avesse il pensiero altrove, lo avrebbe distinto fra gli altri, anche se non le fosse sembrato d'averlo visto tante e tante volte, e più facilmente a Milano che in altro luogo. Quel giovane passò un giorno, passò due, passò tre giorni per di là e più volte quotidianamente; se non che ella potè accorgersi che non veniva coll'intenzione della moltitudine, la quale attraversava il ponte e gettava un'occhiata al palazzo Salomon; ma sibbene ci veniva per fermarsi a volgere lo sguardo ad una finestra del palazzo dirimpetto che stava presso al ponte, alla qual finestra compariva anche una fanciulla. Chiesto di chi era il palazzo, a donna Clelia fu risposto che apparteneva al patrizio Zen; ma non serviva che d'alloggio alle figlie di lui, le quali per educazione vivevan separate dal resto della famiglia; chiesto chi era la fanciulla, le fu detto essere la maggiore delle figliuole di quel gentiluomo; la qual giovinetta, che forse non aveva quindici anni e rappresentava il tipo più vetusto e più legittimo e più completo della beltà veneziana, era la sorella maggiore di quella Cecilia, che doveva col tempo, sposata al patrizio Tron, diventar celebre ed ispirare al grande Parini la famosa ode intitolata: Il Pericolo.
Donna Clelia, per accertarsi se quel giovane era colui veramente ch'ella sospettava, o almeno per raccogliere un indizio di più onde avvicinarsi alla verità, lo additò un giorno ad uno della famiglia nel cui seno ell'abitava; affinchè senza farsi scorgere lo codiasse e lo sentisse a parlare con qualcuno. L'incarico venne accettato, e senza molta difficoltà, come ognuno può imaginarsi, in quel dì stesso venne riferito alla contessa che colui parlava il dialetto milanese. Questo bastò perchè donna Clelia potesse ritenere d'essersi apposta infallibilmente. In conclusione ella aveva creduto di ravvisare in quel giovane un tale Andrea Suardi detto il Galantino, che a diciasette anni era stato lacchè nella casa del marchese F... ed erasi reso famoso per la straordinaria velocità delle sue gambe, e per avere riportato tre volte il primo premio e la bandiera bianca nelle corse, che, secondo voleva allora il costume, le case più ricche di Milano, in certi determinati giorni dell'anno, facevan fare ai loro più riputati lacchè, onde vedere chi lo aveva più abile e più veloce. Quel giovinetto era dunque diventato una specie di celebrità del suo ceto, e siccome era di un'avvenenza non comune, ch'egli accresceva vestendo la livrea di lacchè con un'eleganza insolita, così veniva da tutti i grandi signori e accarezzato e regalato abbondantemente, ma il giovinetto, di mente svegliata ma di trista indole, era stato guasto da tante carezze e da tanta fortuna. Essendo manesco e rissoso, ad ogni momento il padrone, che gli voleva bene, bisognava pagasse le busse, le bastonate e, una volta, persino una coltellata che, ubbriaco, aveva appoggiato ad un collega nell'acciecamento di una rissa. Essendo discolo, e ch'era peggio, essendo bello, aveva messo a mal partito più ragazze del popolo; e il padrone, il quale aveva della debolezza per quel fanciullo, cresciutogli in casa da un vecchio carrozziere, s'era trovato costretto più d'una volta a pagare indennizzi e a far sospender reclami. A tutto ciò aggiungevasi, che diventato anche giuocatore e non bastandogli più nè il salario nè le mancie ordinarie e straordinarie, e avendo debiti di giuoco da pagare, un giorno rubò alcune monete d'oro al padrone; fatto che, per non essere stato scoperto, rinnovò più volte; ma alla fine, essendo caduti i sospetti su di lui ed essendo stato perciò tenuto d'occhio, fu visto una mattina da due servitori entrare bel bello nella stanza del signor marchese mentre dormiva, prendere una borsa da un tavoliere e, vuotatala per una buona metà, mettersi il danaro in tasca. Fu allora che, riferito e provato il furto, il giovane lacchè venne scacciato sui due piedi dalla casa F...
Il marchese vietò ai due servitori di raccontare il fatto in pubblico, e per qualche tempo continuò il salario al giovane Suardi, il quale, trovandosi ozioso e fuggito da tutti, ognuno può pensare come potesse avviarsi al ravvedimento. Se non che, nell'occasione di una corsa straordinaria avvenuta a Milano tra i lacchè delle varie città di Lombardia, essendo quei di Milano, per esser mancato l'intervento di lui, rimasti gli ultimi, con grave offesa della gloria municipale, il giovane Galantino si offerse allora di battersi coi tre lacchè vincitori, i quale eran di Brescia, di Cremona e di Lodi; e la sfida andò di maniera, che la gloria di Milano riuscì per virtù sua a rimettersi al primo posto, tanto che egli ricevette doni da tutte le parti, e si rifece in gala. — Inoltre, per quella vittoria, un gran signore di Napoli, che era venuto allora a stare a Milano, prese il Suardi al proprio servigio, benchè dopo pochi mesi lo avesse licenziato, onde il giovane ritornò presto alla vita scioperata di prima. — Ora la contessa Clelia aveva veduto molte volte quel giovinetto lacchè, e anch'essa, pur nella sua severità scientifica, aveva applaudito e di cuore a' trionfi di lui, come avean fatto tutte le dame alle quali, com'è naturale, doveva essere simpatico quel giovane così bello e così alacre. — È dunque facile a comprendere come, ad onta del veladone di broccato e dei due orologi e delle ricche trine e della parrucca ad ala di piccione e del cappellino a tre punte listato d'oro, e di tutta quella trasformazione, dell'abitino succinto di lacchè all'abitone prolisso di gentiluomo, a lei facesse colpo quella figura e quella faccia veduta tante volte; faccia caratteristica quant'altra mai, perchè ad un profilo finissimo, ad una bocca quasi da fanciulla, ad un incarnato bianco e rosato, che parea quello di una educanda non ancora trilustre, facean contrasto due occhi neri, vivacissimi e pieni di fuoco, ma d'un taglio così traditore e d'una luce tanto sinistra, che a lungo lasciava disgustato chi lo guardava.
Che il giovane Suardi, ossia il Galantino, come veniva comunemente chiamato a Milano, da questa città fosse passato a Venezia, non ci era nulla di straordinario, sebbene non fosse questo il luogo più adatto alla sua professione di lacchè; ma quel che ragionevolmente doveva promuovere di grandi sospetti era quello sfoggio repentino del suo abbigliamento e quell'aria di profumatissimo gentiluomo ch'egli si dava. La contessa, quando lo vide la prima volta sul ponte, pensò ch'egli avesse fatto una gran vincita al giuoco, e bizzarro qual era e amante della eleganza e del lusso, come ne aveva dato un saggio anche a Milano pur nell'umile sua livrea di lacchè, attendesse allora a gettare i guadagni in fretta e in furia nel recitare per poco tempo la parte del gran signore; ma a questa prima congettura ne tennero dietro delle altre, essendole nota la cagione per cui era stato cacciato dalla casa F..., e fece così altri sospetti di più grave natura. — Quando poi s'accorse del motivo pel quale più volte al giorno capitava su quel ponte, e vide la giovane Marina Zen aspettarlo ansiosa al balcone, e una notte, gettargli anche un letterino; fremette d'indignazione, e sentì una pietà profonda per quella giovinetta, che, cedendo alle prime effervescenze del sangue ed agli arcani desiderj del cuore, si era lasciata cogliere da quel vago aspetto di giovane, onde impaziente lo attendeva, e mestissima lo vedeva discendere dal ponte e dileguarsi. — Donna Clelia, nella sventura congenere in cui versava, aveva trovata quella nuova sollecitudine per i pericoli altrui, e un timore sinceramente affannoso che una fanciulla sbocciante allora allora dall'infanzia, cresciuta in tanta distinzione di natali, bella e fragrante come una rosa, ingenua al punto di abbandonarsi all'insidia per non sospettarla, fosse per cadere negli avvolgimenti di quel furfante mascherato.
Lo spirito, la bontà e il senno di donna Paola erano in quel punto, trapassati nella contessa; tanto riuscì efficace il contatto della virtù, che per lei fu una consolazione l'imitarla.
Da due notti il giovane Suardi, quando tutto dormiva, entrava nel rio in gondola; la fanciulla veniva ad una finestra del pepiano, come la chiamano i Veneziani; ed egli salendo al di sopra del felze, alzandosi in sulla punta de' piedi, e protendendo la mano, poteva toccar quella della fanciulla che, volendo e disvolendo, pur gliela concedeva. La contessa Clelia stava in sull'ali, e se non s'intromise prima in verun modo fu perchè, dopo pochi minuti, in quelle due notti, la fanciulla erasi ritirata, il giovane era disceso, e la gondola, movendo muto il remo, erasi dileguata. Pur quelle visite notturne, continuando, potevano esser causa d'irreparabili sventure, onde la contessa pensò che fosse debito suo il vegliare assidua e attenta. E in fatti, in quella notte in cui abbiam visto la contessa Clelia al balcone mentre le scintillava il pianeta di Giove in sulla testa, quel Giove tanto abile a trasformarsi per tendere insidie alle giovani beltà più celebrate della mitologia; nel punto che si smezzava in seno la passione propria e la pietà per la passione altrui, s'accorse della gondola consueta che procedeva nel rio; e di lì a poco, ferma che fu la gondola, vide affacciarsi la Marina, e tosto impegnarsi un dialogo sommesso e una corrente elettrica di sospiri affidati all'aria. Il Suardi stava, come di solito, sul felze; ma, ad un certo punto, come un leopardo che spicchi un salto traditore, gettò una corda al balcone, e di slancio fu al contatto del viso della fanciulla. Se non che, quasi contemporaneamente, si spalancarono a battere rumorosamente sui marmi le imposte della finestra del palazzo dirimpetto; e il Suardi sentì una voce squillante di donna a gridargli: Galantino! La fanciulla si ritrasse e chiuse i vetri; egli si volse a saettare la pupilla ardente, come un serpe inferocito percosso nella coda. Il raggio della luna, per una divisione che era tra palazzo e palazzo, penetrato allora nel rio, illuminava la finestra dove stava ferma donna Clelia in tutta la maestà della sua faccia di Minerva. Ci fu un istante di profondissimo silenzio e quasi terribile. Il Galantino ravvisò la contessa.



XI


Tanto la contessa che il Galantino stettero per qualche tempo immobili e perplessi, la prima al balcone, il secondo sul felze della gondola; donna Clelia fu molte volte in procinto di parlare, molte volte il Galantino fu tentato di avventare ingiurie a quella che in così mal punto lo aveva sorpreso. Il pensiero però di essere stato riconosciuto, lo aveva colpito in modo che gli tolse il coraggio e la sfrontatezza; onde senza dir nulla, saltò dal felze alla poppa e mosse la gondola. Allora la contessa si ritrasse assai turbata, perchè dopo la prima compiacenza d'aver salvata una fanciulla inesperta, gli sorvennero i timori per sè stessa; poiché, ben conoscendo l'indole tristissima di quel giovinetto, rifletteva che, nella condizione in cui ella trovavasi, da quell'incontro disgraziato potevano derivarle altri guaj. Donna Clelia non sapeva che in parte come stessero e camminassero le cose a Milano, e ciò pel carteggio che teneva con donna Paola Pietra, la quale da un lato prudentemente le taceva alcune cose, e dall'altro non poteva conoscer tutto nemmeno essa. La contessa aveva dunque raccolto dalla terza lettera l'arresto di Lorenzo Bruni, tutore della Gaudenzi; aveva maravigliato al racconto della maschera di cui era stata la vittima; si era consolata al pensiero che Amorevoli era ancora in prigione; che sorta di consolazione! ma il cuore umano è fatto così. Aveva saputo le pratiche che in sui primi giorni i parenti di lei, la madre, il marito avean fatto per tentare di venire sulle sue traccie, ma come s'eran poi racquetati. Se non che donna Paola aveale scritto che a Milano correva qualche voce, non sapeva poi in che maniera, della sua dimora nella città di Venezia, e che però attendesse a stare nascosta e ritirata; che in ogni modo le avrebbe fatto noto prestissimo se potesse trattenersi a Venezia con fiducia, o le fosse necessario rifuggirsi ad altro luogo, con maggiori cautele di quelle che si erano usate prima. Non è dunque a dire quanto, dopo avere appagato lo slancio generoso della sua pietà, si pentisse del non essersi saputa misurare e tener nascosta pur nel momento ch'era accorsa all'altrui soccorso. Se avesse saputo che, nell'intenzione di tutto il patriziato amico de' suoi parenti, si desiderava invece che ella stesse lontana da Milano, e si fingeva di non conoscere dov'ella si fosse ricoverata, perchè alle loro mire giovava il supposto che Lorenzo Bruni, più che della contravvenzione alle leggi sulle maschere, fosse colpevole d'un rapimento eseguito da altri per conto suo, non si sarebbe dato tanto affanno dell'essersi fatalmente incontrata coll'ex-lacchè di casa F... Del rimanente, se donna Clelia poteva aver qualche timore della presenza del Galantino in Venezia, non è a dire quanto costui, dopo il sobbollimento della prima sorpresa, e dopo la prima furia, maledicesse cento volte la coincidenza del trovarsi la bellissima giovinetta Zen nel palazzo dirimpetto al quale doveva venire a dimorare la contessa Clelia V... Ma ciò che lo coceva e gli metteva in cuore di strane paure, chè ben egli sapeva come stava, era quell'essere stato sì tosto riconosciuto, trasvestito qual era e pur fra l'oscurità; onde mille altri sospetti gli entrarono nell'animo.
Per quanto il Galantino della pravità avesse tutta la naturale vocazione e la sfrontatezza, e fosse di quelle complessioni fisiche così perfettamente costituite, che non sono accessibili nemmeno ai turbamenti morali; talchè ai disappunti, agli sfregi, al disonore, alla cattiva fama aveva fatto il callo, pure non dormì troppo tranquillo in quella notte. Alla mattina però si rinfrancò tutto quanto, chè coll'aria fresca che veniva dalla terraferma gli sorvennero anche i secondi pensieri. E si maravigliò di non aver considerato a tutta prima le circostanze speciali in cui versava la contessa Clelia V...; poichè anch'egli conosceva la storiella di Milano, e la fuga di lei, e com'ella se ne stesse in Venezia di contrabbando. Perciò, d'uomo assalito qual egli era, pensò di farsi assalitore, cangiando in sull'istante, sul campo di battaglia, e tattica e strategia; e d'una in altra cosa fermò il partito di recarsi a fare una visita alla contessa. Nessuno può imaginarsi la straordinaria svegliatezza della mente di quel tristo giovine, e il colpo d'occhio onde sapeva scansare i pericoli nel punto di affrontarli, e come, ad onta di così poca età e di una educazione sì rozza, avesse il senso di quelle cose che non s'imparano che cogli anni, colla squisita coltura e con una gran pratica di mondo. Aveva poi una memoria prodigiosa e una facilità strana d'apprendere, tantochè, per venire ad un esempio, in quel mese da che stette in Venezia, si era impadronito d'una buona metà del dialetto veneziano e già ne faceva qualche sfoggio pe' suoi fini. Non è poi a dire come della propria bellezza, di cui non s'invaniva, ma che valutava, quasi a prezzi di stima, aveva stabilito di cavare quel partito che altri trarrebbe dalla ricchezza e dalle altre facoltà che hanno peso e misura; sicchè, contando sulla forza qualche volta onnipotente d'un bell'esteriore, aveva pensato che a lui sarebbero state lecite tante cose, che agli altri potevan venire ascritte a colpa. — Perciò aveva gran cura della propria bellezza, e dell'incarnato delle proprie guancie; e dei denti bianchissimi, che puliva e curava colla sollecitudine del soldato il quale sfrega col pomice la bajonetta, non per amore della bajonetta, ma perchè gli deve servire in fazione. — La natura insomma aveva largito a lui tutti i suoi doni, ma egli aveva condotto le cose in modo da convertirli tutti in altrettante armi d'offesa, e ciò senza nemmeno averne avuto un proposito deliberato; sibbene, torniamo a ripeterlo, per quella pravità irresistibilmente attiva della sua natura, che solo sarebbesi mitigata, o fors'anco si sarebbe tramutata in qualche altra cosa, se avesse avuto un'altra nascita e un'altra educazione. Allora non sarebbe stato il Galantino piè-veloce, ladro e truffatore, come lo vediamo indicato nelle carte che abbiamo sott'occhio, ma sarebbe riuscito un gemello, per esempio, di Fouché o di Talleyrand. A quell'ex-lacchè travestito occorrevano molte ore di toaletta; e in quel mattino adoperò la pomata di riserva, per poter far visita con un certo successo, secondo lui, alla signora contessa.
Vestì pertanto l'abito più sfarzoso che aveva; un veladone ampio di velluto nero, tutto tempestato di puntine d'oro, col panciotto d'una stoffa a duplice trama di fil d'argento e di fil di seta azzurra, che dava molteplici combinazioni di luce, d'ombra e di colori ad ogni screzio di piega; coi calzoni corti di spinone, aventi legacci di velluto a punte d'oro come il veladone, e fibbie di brillantini; tutto il resto faceva corredo e complemento rigoroso al vestito principale.
Non solo adunque aveva adottato lo sfarzo e la ricchezza, chè a ciò poteva arrivare in ventiquattr'ore qualunque villico arricchito; ma nelle stoffe, nei colori, nel disegno de' ricami, nell'eleganza totale dell'acconciatura, metteva l'intelligenza dell'uomo squisito, e persino il colpo d'occhio dell'artista, talchè pareva un cavalierino che tenesse il privilegio del buon gusto dal lungo uso della ricchezza, dalle continue consulte col sarto, dai viaggi a Parigi, che allora era il quartier generale della moda, e lo era diventato fin dal tempo di Luigi XIV, che gli storici si sentirono obbligati a chiamar grande, forse per non aver pronta in quel momento un'altra parola. Ma venendo ora al fatto, quando il Suardi fu bene in assetto, dalla casa ove dimorava, presso al palazzo Pisani in campo san Stefano, discese al rio, ove l'attendeva la gondola con un gondoliere in livrea, al quale, nell'entrar sotto il felze, gridò: — Casa Salomon. Allorchè la gondola si fermò davanti allo scaglione di quella casa, Galantino diede al gondoliere un breve portafoglio di seta legato con nastri, fuor del quale spuntava una cartolina. Allora, come ognun sa, non c'eran biglietti di visita propriamente detti e propriamente fatti, ma c'eran i loro precursori; e giacchè era il secolo delle eleganze più profumate e delle caricature, chi voleva farsi annunziare a qualcuno per una visita, faceva presentare al guarda portone, perchè lo facesse avere al padrone della casa, un bigliettino su cui scriveva il proprio nome, il qual bigliettino veniva sempre collocato in un portafoglio, in un astuccio, in un vezzo qualunque; e tali vezzi qualche volta avevano un gran valore, essendo d'argento, d'oro e persino ornati di pietre preziose; a seconda della ricchezza del visitatore, e del bisogno che aveva di rendersi gradito e d'imprimersi bene nella memoria di chi voleva visitare; perchè era di prammatica che il padrone o la padrona di casa, tolto il foglietto, e letto il nome, si tenesse il vezzo per sè, come pegno e come dono. Il Suardi, che conosceva tutte queste bizzarie della moda, aveva creduto bene di farne uso in quell'occasione. Il gondoliere, chiesto pertanto della signora contessa V..., presentò al servo il portafoglio di seta (la prammatica non voleva che in una prima visita si sfoggiassero i metalli fini e le gemme). Il servo, il quale era stato indettato dalla padrona di casa fin da quando la contessa le era stata raccomandata, rispose non saper nulla di quel nome, ma che avrebbe fatta l'ambasciata alla padrona stessa. Questa era in casa, e disse: — Va dalla contessa, e domanda a lei quel che si ha a fare. Dal nome che è lì dentro ella piglierà norma. Così, entrato il servo nell'appartamento della contessa e fattosele annunziare, le presentò il portafoglio di seta; la contessa levò il foglietto, e lesse — Galantino, per due parole. — Rimase stupita e sconcertata. Il servo, ch'era a parte degli arcani, le chiese se avesse a licenziare il gondoliere. La contessa non sapeva che risolvere; fremeva e arrossiva al pensiero di dover ricevere una tal visita. Dall'altra parte temeva a rimandarlo; però, dopo molte titubanze:
— Fallo entrare, rispose.
Galantino, ad onta della sua baldanza, stava pure in gran paura non gli venisse un rifiuto dalla contessa: perciò quando il suo gondoliere e la livrea di casa Salomon gli dissero di restar pure servito, balzò fuori dalla gondola tutto pago e colla sua baldanza raddoppiata, e s'avviò, preceduto dal servo, all'appartamento della contessa, annunciato lungo i corridoj e le vaste anticamere dallo scricchiolio delle sue scarpe di sommacco. Quando il servo spalancò i battenti dell'uscio della sala ove stava la contessa, egli si trattenne in gran rispetto, sulla soglia, curvando il tergo e chinando la testa fin quasi alle regioni dell'ombilico, di modo che l'elegantissimo fodero della sua spada, alzandosi in quel movimento, veniva colla punta a trovarsi a livello della testa. La contessa Clelia, stando in piedi, colla mano dritta appoggiata ad un tavoliere, come una regina Elisabetta in atto di dare udienza, chinò leggerissimamente il capo, in maniera però come s'ella tentasse d'ingannare sè stessa sulla realtà di quell'atto. — Ma Galantino alzatosi tosto, varcò la soglia, e fu nel mezzo della sala, faccia a faccia con donna Clelia. Il servo si ritrasse, nè la contessa gli osò dir di fermarsi. quantunque ne avrebbe avuta tutta la volontà. Passò qualche momento in cui Galantino stette aspettando che donna Clelia si ponesse a sedere; ma quando vide ch'ella non movevasi, senza mostrare il benchè minimo disdegno a quell'attitudine di regina in trono, con una disinvoltura piena di garbo e con un sorriso dolce, sebbene un po' affettato, le offerse egli stesso una sedia, rompendo in questi termini il silenzio:
— Signora contessa, io non sono più il Galantino di Milano, sono il signor Andrea Suardi, venuto a fermar la mia dimora a Venezia, perchè qui, secondo il mio gusto, si spendono meglio i danari e si gode meglio la vita. La fortuna mi è stata favorevole, e le carte e i tavolini verdi hanno fatto venire nelle mie mani il danaro altrui. Oggi sono benestante e ricco...; col tempo poi non è affatto improbabile ch'io diventi anche nobile. Conosco due o tre qui di Venezia, che cent'anni fa attendevano al miglioramento delle carni suine, ma che per aver fatto in processo di tempo un prestito alla serenissima repubblica, oggi son nobili, dell'ultima qualità questo s'intende, ma nobili in ogni modo. In quanto a me poi, l'assicuro, signora contessa, che del mio passato appena mi ricordo.
Così dicendo, e porgendo la sedia, col gesto pregava donna Clelia a voler sedere. Per quanto la contessa sentisse dentro di sè sdegno e disprezzo e persino paura di quel vezzoso serpente che le stava davanti, pure si lasciò per il momento quasi deviare e placare da quell'aspetto così vago e sorridente, da quell'eleganza così profumata; credeva, ma senza che nemmeno sapesse formular la cosa a sè medesima, che quel volto geniale, que' modi eleganti e quel ricco vestito costituissero come un muro di divisione tra lei e l'abbiettezza e la tristizia di quel giovane. — L'uomo è così fatto: anche il più sapiente, anche il più astuto ama lasciarsi ingannare dall'apparenza, anche allorquando sa benissimo che di sotto sta il marcio. — La contessa dunque accettò la sedia, e dirimpetto a lei si pose a sedere il Galantino.
— Mi rincresce, disse allora questi, ch'io debba incominciare il mio discorso con un rimprovero... e sorrideva maliziosamente, mentre la contessa, abbassando gli occhi, non rispondeva. — Che malefizio egli è poi, seguiva il Galantino, perchè lo si debba rompere in due da chi veglia a notte tarda, che malefizio può essere egli mai che un giovinotto, il quale non è ammogliato, faccia la sua corte ad una ragazza che non è maritata?
E fece un'appoggiatura su questa parola, e nel pronunciarla, tutto il dolce che prima avea tentato di accumulare nella sua vivace pupilla, scomparve, per lasciar intravedere un guizzo di luce sinistra e serpentina.
La contessa, tutta rimescolata a quelle parole, alzò di repente gli occhi che aveva tenuti abbassati, e li fermò con tanta serietà negli occhi mobilissimi del Galantino, che questi pensò di ammorbidire la lama, e di darle una piega.
— Io non aveva cattive intenzioni (continuava), e non ne ho; ma che colpa è la mia se quella ragazza è la figlia del conte Zen? poichè, venga il diavolo a portarmi via, ma posso giurare che aveva tanto la testa ai tavolini verdi in questi giorni, ch'io non pensavo a ragazze; ma colei mi parlò tante volte e così chiaro con que' suoi occhi da penna di pavone, che a non tenerle dietro e a non accompagnarla per vedere dove fosse il suo palazzo, sarei stato una gran bestia.
Il lettore si avvedrà come lo stile di queste ultime parole di Galantino faccia un po' di sconcordanza coi modi eleganti del suo primo presentarsi; ma un giovane che era nato da un carrozziere, ed era cresciuto tra le gambe de' cavalli, e dai dieci ai vent'anni non aveva fatto altro che correre, facendo a gara con essi, bisognava bene che di tanto in tanto, a sua insaputa, e ad onta della sua straordinaria attitudine a saper uscire da sè stesso, lasciasse tuttavia trapelare fra poro e poro l'acre odor di cipolla.
Se non che la contessa non lo lasciò continuare, e soggiunse:
— In conclusione, per qual fine voi oggi siete venuto da me?
— Per due oggetti.
— Quali sono?
— Uno è dedicato all'ottima signora contessa, e s'inchinò; l'altro deve fruttare interamente per me; e del resto, una mano lava l'altra.
— Non vi comprendo affatto.
— Mi lasci parlare, e vedrà la signora contessa, che forse le verrà fatto di capirmi.



XII


A queste parole donna Clelia si alzò, fece alcuni passi, e si recò in sull'uscio, con aria sbadata in apparenza, ma per vedere se qualche servitore fosse lì presso; poi ritornò all'obliqua scherma di quel dialogo, disposta a parlar chiaro e a non lasciarsi intimorire.
— Sentiamo dunque, ella disse, qual'è la cosa che pretendete usufruttare per voi.
— Una cosa semplicissima, signora contessa, ed è questa, che, dal momento che in Venezia ella è la sola che sappia quel che io sono stato una volta, voglia così aver la compiacenza di non guastare con delle importune rivelazioni la mia condizione d'adesso. La qual cosa spero che la signora contessa non mi vorrà negare, anche per riguardo a ciò, che, se io, per esempio, andassi a Milano, e qualcuno mi chiedesse dove sta al presente donna Clelia V... io non avrei certamente l'obbligo di tacere; e allora, a che scopo mettersi in carrozza; e correre a rompicollo per togliere la lena a chi poteva venir dietro, se il signor conte non dovesse far altro che attaccare i cavalli di posta, noleggiar la gondola di Mestre, e venire a Venezia, a ripigliarsi la sua moglie?
— Parliamo di voi, disse allora con piglio assoluto la contessa; di voi e de' vostri bisogni, e lasciamo agli altri la cura dell'altre cose. — Il Galantino fu punto dall'accento altero più che dalle parole di lei; onde si alzò anch'esso, e volendo come insegnarle ad essere un po' più umile, assunse un fare triviale e sguajato.
— Ma sapete però ch'è bella, signora contessa?... di tante donne e gentil donne, di tanti guarnelli e guardinfanti che stanno a Milano, chi avrebbe detto che la più fredda doveva essere la più calda, e che le balzane meglio impiombate dovevano poi essere le più leggiere? Però, bisogna confessarlo, la signora contessa è stata di buon gusto, e vivano gli artisti da teatro; anch'io, per esempio, se trovassi una donnetta di quelle che s'imbellettano in camerino, potrei mettere da un canto la contessina bionda, e appagare così i rigori della sua protettrice.
— Senti, Galantino, vuoi tu ch'io suoni il campanello, e dica al servitore di condurti alla gondola? Bada che in questa casa capitano patrizj del Gran Consiglio, procuratori e avogadori, e se io dicessi loro chi sei tu e chi eri tu e cosa tu hai fatto, e come tu vesta da gentiluomo essendo stato un lacchè, per tentar le figliuole dei nobiluomini veneziani, presto ti metterebbero al bujo; a Venezia si fa presto, e sarebbe per loro un tratto d'indulgenza a scrivere al Senato di Milano; e siccome chi si traveste e si vende per quello che non è mette di grandi sospetti, non so quel che il Senato di Milano farebbe di te quando il Senato di Venezia pensasse a consegnarti al Pretorio del confine del ducato, perchè t'inviasse dritto al Capitano di Giustizia! Sappi, che il tuo nome passò per più bocche la notte che i servitori di casa F... vider l'ombra d'un uomo a fuggire dalla stanza del marchese...
Queste ultime parole furono di tanta forza, che il volto del Galantino corrugato allo scherno, si spianò a un tratto, come se gli si rilasciassero tutti i muscoli; e il colore incarnato e vivace, per la prima volta forse, fuggì da quella faccia tanto bella quanto sfrontata.
Ora convien sapere, che tra i molti sospetti venuti alla contessa sul conto del Galantino, quando lo vide per la prima volta a Venezia in quello sfarzo, fece presa nell'animo suo anche questo, che la ricchezza di lui fosse la conseguenza di quel delitto, e ciò per la ragione, che la mattina del giorno successivo all'arresto dell'Amorevoli, quando a tutti quanti in casa V... pareva inverosimile e assurdo che il tenore potesse aver avuto interesse a quel trafugamento, un servitore tra gli altri, entrò a dire: Scommetterei che è stato il Galantino. Quel sospetto gettato là da un servitore parve una gran sciocchezza, perchè fu subito fatto osservare che il Galantino non avrebbe mai fatto lo sbaglio di aprire uno scrigno dove non v'era che della carta scritta, essendo noto il suo attaccamento sviscerato all'oro e all'argento sonante... e una risata generale mandò per allora quel sospetto agli atti di casa V..., donde non era mai uscito o, almeno, non ne era uscito in modo da poter viaggiare sino al Pretorio. — Ora, che la contessa, in quelle strette di cuore e in quella febbre d'amore, avesse dovuto occuparsi di quell'indizio criminale, il lettore sarà abbastanza ragionevole per non pretenderlo. — Ma quelle parole del servitore, — Scommetterei che è stato il Galantino — parole che erano scomparse affatto dalla memoria della contessa, le si riprodussero tali e quali, alla vista di lui in Venezia, come quando torna a dar fuori una macchia untuosa non ben lavata dalla saponaria. Non gliene avrebbe però mai fatto motto in quel dialogo, se il Galantino non l'avesse stuzzicata con quella baldanza (e qui fece un errore indegno di lui), baldanza che una dama di condizione non poteva sopportare. Dopo tutto, convien confessare che la contessa si comportò con più fermezza e colpo d'occhio di quello che si sarebbe potuto aspettare; onde ci pare non sia sempre vero che lo studio della scienza dei corpi celesti tolga agli intelletti la facoltà di saper distrigarsi bene anche delle cose terrestri.
Intanto però il Suardi aveva avuto tempo di ricomporsi, e insieme col colore che gli era tornato sulle guancie, gli ritornò anche in petto la fidanza; per la quale riprese di nuovo il fare squisito del gentiluomo che aveva dimenticato per un momento con tanto suo danno.
Pur troppo un piè messo in fallo può balzare dall'amenità di un luogo montano in un precipizio.
— Signora contessa, disse poi, ella mi fa torto, o, per dir meglio, ella fa torto a sè stessa, dando luogo a sospetti di simile natura. Che ho a far io col defunto marchese F...? che interessi mi legano a lui? poichè, se non mi fu riferito il falso, credo che si tratti di un testamento...; ella dunque vede bene, signora contessa, che egli è vero ch'io fui il suo lacchè, e che, se quel signore ebbe qualche vanto al mondo, fu per aver avuto il primo lacchè di Lombardia a' suoi servizj, ma ciò non fa ch'io sia un suo parente.
Donna Clelia taceva, ma nella sua testa era penetrata la convinzione che quel che aveva sospettato era vero.
Nella bilancia della giustizia legale, il rossore, il pallore e lo smarrimento sono imponderabili morali; ma nella bilancia dell'uomo valgono più della stessa colpa confessata.
Bene, qualche volta dà il caso che, nelle nature eccessivamente sensitive, il rossore ed il pallore compajono per quelle arcane movenze dello spirito, che si conturba pur al semplice annunzio delle colpe altrui, ma ciò non poteva succedere in quella natura di cuoio del lacchè Galantino: il quale, se potè sgomentarsi alle parole della contessa, fu perchè era tutt'altro che preparato a sentirle, e la sorpresa lo rovinò; chè, sotto il lavoro immediato della sorpresa, l'uomo di solito smarrisce il suo carattere abituale.
Ma alle parole del Galantino così rispose la contessa:
— Io ti dico quel che si pensa di te a Milano, non già quello che ho pensato io, nè che penso adesso. Io non sono la giustizia, e basta che io pensi e provveda a me. Ti dico soltanto che può bastare un sospetto a perdere un uomo, e che perciò ti giova arar dritto e prudente, e non immischiarti colle famiglie patrizie di Venezia e non toccar le loro figlie, perchè l'orgoglio dei Veneziani è tale, che guai se scoprissero quello che tu sei... chè d'uno in altro fatto... si potrebbe... tu mi comprendi...
— Obbligarmi a non far la corte a nessuna delle belle patrizie veneziane, rispose il Galantino, è un pretender troppo, signora contessa, nè io so se in questo, quando mai si presentasse una bell'occasione, potrò accontentarla. Pur d'una cosa trovo che è mio dovere l'esaudire i suoi desiderj; perchè, se la signora contessa conosce la famiglia Zen e ne ha preso a proteggere la bella figliuola, io mi asterrò da questa pratica, sicuro per altro di far un gran dispiacere alla ragazza, del qual dispiacere voglia ella, signora contessa, pigliarsi tutta la responsabilità.
Donna Clelia non rispose, e il Galantino si licenziò, grazioso, sorridente e gajo, in apparenza, come un damerino a cui la dama adorata gli avesse detto di sperare.
Quando la contessa rimase sola, chiamò il servitore cui raccomandò di non lasciar mai più entrare quel signore, poi si mise a fare tra sè e sè una consulta su ciò che gli restava ad operare in quella circostanza.
Pensò a quello strano e quasi inverosimile concordo di accidenti, pel quale, in un modo lontanissimo da tutte le previsioni imaginabili, venne a scoprire, o credeva almeno, l'uomo che era fuggito in quella notte fatale dalla casa F... e da cui era nato tutto il parapiglia. — Per quanto però ella ne tenesse la convinzione, e a sè stessa avesse potuto giurare che il Galantino e non altri era l'autore del trafugamento; pure rifletteva che la convinzione morale è una cosa troppo lontana dalla certezza fisica, per poter così di leggieri mettere nelle mani della legge inesorabile un giovane che, per quanto fosse tristo e avesse tutta la capacità a quel delitto, pure non si poteva assolutamente escludere dalla possibilità la sua innocenza in quel caso speciale. Considerava poi che non era facile a trovare la cagione verosimile del trafugamento consumato da quell'ex lacchè di casa F...; perchè e documenti scritti e testamenti non avevano nelle sue mani nessun valore utile per lui. Ella sentiva inoltre un'avversione invincibile a farsi denunziatrice di un fatto a danno altrui, anche data la piena certezza della colpa, anche data la certezza che, a tacerla, si potesse recar mali gravissimi ad altri. Son le solite lotte dell'intelletto e della logica col dominio del sentimento o di quei sentimenti che, generati da controversi principj e da pregiudizj, si piantano nel cuore dell'uomo a trattenere i consigli della ragione e della coscienza. Siccome poi la comparsa in giudizio del lacchè Galantino, come reo imputato del trafugamento, poteva aprir la porta alla prigione del tenore Amorevoli, così l'eccesso di questo desiderio era d'impaccio a donna Clelia, la quale avrebbe voluto che il vero balzasse netto e schietto sul banco del giudice, senza che ella vi dovesse aver parte. In ogni modo, dopo aver messo a contatto e in disputa nel suo cervello tutti i pro e tutti i contro, pensò di scriverne alla sua consolatrice e consigliera donna Paola Pietra, sotto condizione del più profondo segreto.

LIBRO TERZO


Il capitano di giustizia marchese Recalcati. — I protettori dei carcerati. — Benedetto Arese e Pietro Verri. — Il conte Gabriele Verri. — Sistema rigido d'educazione nel secolo passato. — Problema storico. — Pietro Verri e la campana della piazza de' Mercanti. — Le difese del Verri e dell'Arese. — Lo zio di Cesare Beccaria. — I giuochi d'azzardo e il ridotto di San Moisè in Venezia. — Una curiosa notizia intorno al Senato di Milano.



I


Prima di partire per Venezia abbiam lasciato donna Paola Pietra che usciva dalle stanze del marchese Recalcati. E quella visita potè recare un gran bene, in quel punto segnatamente che il Bruni e l'Amorevoli, nella casa della giustizia, per un perfido giuoco della sorte, erano alle prese coll'ingiustizia. La lettera scrittale dalla contessa nel tumulto della passione le aveva data piena facoltà di riparare i danni che essa non avea potuto stornare in tempo. Però donna Paola assunse quel mandato a rigore di scrupolo e nell'intento di soddisfare a ciò che era giusto ed onesto in tutti i modi possibili. Si tenne dunque informatissima e delle voci che correvano in pubblico, e di ciò che facevasi in privato, e, fin dove era possibile, dell'azione interna delle pubbliche magistrature. Visitata com'era di frequente dalle persone più distinte della città, giunse a subodorare le intenzioni celate dietro alle formalità apparenti; chè per quanto, come dicemmo, i processi criminali camminassero segreti, pure dov'eran tanti assessori e attuari e scrivani, uscivano un po' per volta a circolare tra pubblico e pubblico le cose che più volevano tenersi nascoste. Donna Paola seppe dunque che il parentado della contessa aveva gettato i dadi opportuni per far credere ch'ella fosse vittima innocente di qualche terribile intrigo; seppe inoltre che sulla contravvenzione alla legge commessa dal Bruni si volevan edificare altri supposti ed altre cose, perchè colui dovesse pagare i debiti di tutti. Del resto donna Paola era quella precisamente che doveva conoscere più d'ognuno (e il cuore le faceva sangue rammentando il passato) come lo spirito di corporazione talvolta, a quel tempo, facesse tacere la voce dell'assoluta giustizia. A prevenire così, in quanto dipendeva da lei, le conseguenze possibili di quelle oblique insinuazioni, aveva risolto di far visita ella stessa all'illustrissimo marchese Recalcati, che aveva fama d'uom dotto e di rettissime intenzioni, ma per modestia e per bontà era d'indole pieghevolissima, e cedeva facilmente a chi stava o più in su di lui, od era pari a lui per grado di magistratura, e lo soverchiava poi per ostinazione di principj e d'opinioni, e per superiorità di ingegno e d'eloquenza. — Donna Paola sapeva poi che i membri del nobile collegio dei giureconsulti, e i giudici e i senatori (eccettuato qualche uomo specialmente rigido, e quel senator Goldoni, pensando al quale essa fremeva ancora), presi ad uno ad uno, quando la loro testa e la loro coscienza moveva libera e nell'atmosfera sgombra della giustizia legale, temperata dalla giustizia morale, sentivano e vedevano e desideravano e comandavano il vero bene, ma poi, quando si fondevano in quella formidabile unità del collegio e del Senato, sovente venivano a comprovare quanto fosse vera la sentenza ciceroniana de' Senatores boni viri, con quel che segue. — Armata dunque di tutti questi dubbj e di tutti questi sospetti, per tacere del senno e dell'esperienza, donna Paola si recò negli uffici del Capitano di giustizia. Quando al marchese Recalcati fu annunziata la sua visita, insieme colla meraviglia, provò qualche sensazione che non era tutta di piacere, chè ben conosceva anch'esso quella celebre e venerabil matrona, e la di lei carità operosa e vigile; e sapeva inoltre come colei non facesse mai passo che non fosse per cosa della più grande importanza, e che, allorquando ella si proponeva un fine, animata qual era dalla convinzione e dall'amore del bene, non si rimanesse mai a mezza via, per qualunque ostacolo incontrasse. È poi ad aggiungere, che, in quel giorno della visita di donna Paola, la coscienza di quell'ottimo magistrato non era tranquillissima, onde in tutto ciò che gli si presentava di straordinario, gli parea come d'affacciarsi in un rimprovero
Nulladimeno l'illustrissimo signor marchese, quando donna Paola Pietra entrò, le mosse incontro con atto di profondissimo rispetto, e avanzato di propria mano un seggiolone, la pregò a sedere.
— Qual grave affare, soggiunse poi, ha determinato la signoria vostra venerandissima a venire in questa casa della colpa e della sventura?
— Il desiderio appunto, illustrissimo signor marchese, d'impedire qualche possibile sventura, e di stornar qualche colpa. Ma di una cosa io le debbo innanzi tutto far domanda.
— Parli.
— Vorrei sapere se il signor marchese può ascoltarmi, non nella sua qualità di capitano di giustizia, ma come semplice e privatissimo gentiluomo, e al bisogno farsi depositario di un segreto?...
— È un segreto relativo alle cose della mia carica e alla sorte di coloro che dipendono da me?
— Esso è tale appunto.
— Allora debbo dire, che se dal fatto che mi venisse rivelato, potesse cangiarsi ed anche semplicemente modificarsi lo stato di qualche processo, io non potrei più in coscienza conservare il segreto.
Donna Paola stette per qualche momento silenziosa, poi disse:
— Parlerò in ogni modo.
— Io sto ad ascoltarla.
— In queste prigioni son detenuti da qualche tempo un tale Amorevoli cantante, e un tal Bruni Lorenzo suonatore di violino?...
Il Recalcati si scontorse, e affermò col cenno.
— Ora, siccome è facile congetturare (seguiva donna Paola), che la condizione di costoro può migliorare o peggiorare a seconda delle rivelazioni che qui dentro potessero penetrar dal di fuori, così venni precisamente a farle una rivelazione, che può di subito mandarli ambidue assoluti o quasi... ma il nome ch'io debbo pronunziare ha bisogno del massimo riguardo, e converrebbe che non uscisse da quest'aula.
— Vossignoria parli pure con fiducia.
— Il nome è quello dell'illustrissima contessa Clelia V... Se una strana fatalità non sopravveniva, sarebbesi recata ella stessa qui a confessare a V. S. illustrissima com'ella sola fosse stata l'oggetto di quella visita dell'accusato Amorevoli. Or io vengo per sua commissione e in nome suo a far questa deposizione appunto. Siccome poi ho sentito a correr tra il popolo la voce, anzi la credenza, che quel suonatore, sotto la falsa maschera, celasse il fine di tenderle un'insidia gravissima, ed anzi di trafugarla o di farla trafugare; così vengo ad aggiungere che la contessa è fuggita di sua piena volontà, senza aver piegato ad insinuazione d'altri, col fermo proposito di abbandonare una casa dove, secondo lei, non poteva più vivere. Delle quali cose potrò a suo tempo ed a richiesta della signoria vostra illustrissima esibire le prove.
— Ma dove s'è rifuggita?
— V. S. illustrissima non ha mai sentito a parlare di questo?
— A me finora non consta nessun fatto preciso. Molte voci ne corsero. Ma sa ella, rispettabile signora, dove di presente si trovi la contessa?
— Siccome una tale notizia non giova nè nuoce a nessuno, e soltanto potrebbe far danno alla signora contessa, così V. S. illustrissima non troverà essere un contrattempo che anch'io possa ignorarla.
Il marchese stette muto per qualche istante; poi disse:
— Io ringrazio di cuore, venerabile donna, l'alta e operosa sua carità per la quale ha voluto venir ad illuminare la giustizia. Soltanto debbo dirle che codesta sua carità la esporrà al grave incomodo d'esser sentita più e più volte in giudizio.
— Ed io sarò sollecita, ella conchiuse, di far in modo che tutto corra a vantaggio del vero e del giusto; e ciò detto partì.
Ora, quella visita e quella rivelazione cangiò il piano della procedura, perchè donna Paola era temuta di quel timore il quale non è altro che un modo del rispetto. Il capitano di giustizia parlò col vicario, questo col fratello del conte V...; collegiali e senatori furon sentiti privatissimamente, e si risolse di lasciar che il processo camminasse per la china, senza preoccupazioni, senza esacerbazioni, senza cavilli. Però, fu determinato che, dietro esplorazione degli atti, i signori patrocinatori dei carcerati, da eleggersi all'uopo, stendessero la difesa dell'Amorevoli e di Lorenzo Bruni. Del primo fu eletto patrocinatore il conte Benedetto Arese, giovane di non ancora venticinque anni, e a Lorenzo Bruni toccò in sorte il conte Pietro Verri, che appena avea varcati gli anni ventidue.
Fra i personaggi, che sono già molti e saranno numerosissimi di questa nostra storia, e che non tengono da noi altro incarico, pur nella loro importanza drammatica, che di costituire la moltitudine ed il fondo ai veri grandi uomini storici dei cento anni decorsi, facciamo ora, per la prima, avanzare la figura giovanile di Pietro Verri, come antiste a quella schiera gloriosa di uomini grandi appunto e d'uomini utili, i quali e a gruppi e sparsamente e ad uno ad uno vedremo sorgere, come alberi di alto fusto tra la fitta selva delle piante volgari. — Essendoci proposti di mostrare in azione il più di questi benemeriti, per cui Milano e la Lombardia, e, rispetto a certi elementi speciali della vita pubblica, l'Italia tutta e persino l'Europa si atteggiò a vita più razionale, vedrem frattanto il giovane Verri a contrassegnare il suo primo ingresso tra gli uomini, con uno spirito già vigile a combatter le male consuetudini, per cui il secolo non poteva più reggersi, e col coraggio ad affrontar tutti gli ostacoli che i pregiudizi della sua casa, del suo ceto, del suo tempo dovevano opporgli onde farlo stramazzare a' primi passi.



II


Il conte Benedetto Arese, il giorno dopo che si vide eletto a patrocinatore del tenore Amorevoli, trovandosi nelle sale dell'Accademia de' Trasformati, prese pel braccio l'amicissimo suo Pietro Verri, e lo trasse nella libreria, dov'era un po' di silenzio.
— Caro Pietro, mi trovo in un grave imbarazzo.
— Capisco già cosa mi vuoi dire... Non sai da che parte incominciare a scrivere la difesa di cui sei stato incaricato?
— Se tu non mi aiuti mi trovo al punto di rinunciare all'incarico.
Tutti gli amici coetanei di Verri e quelli che erano stati suoi compagni agli studi, lo avevan sempre riguardato e lo riguardavano come colui che aveva su tutti un'incontestabile superiorità; acuto, arguto, epigrammatico, vivace, parlatore facilissimo, per poco che s'agitasse una questione, di qualunque più lieve cosa si trattasse, tirava gli altri facilmente dalla sua, o, almeno, costringeva tacere gli oppositori; il che se potè stornargli qualche amico che fosse un po' men caldo degli altri, se potè generare qualche antipatia, qualche odio, chi ha pratica di mondo se lo può facilmente imaginare. In ogni modo per una tale superiorità, tutti lo richiedevano di consiglio.
— Caro Benedetto, disse il Verri all'Arese, non far la sciocchezza di rinunziare ad altri il patrocinio a te affidato; perchè se tu ti credi in un grand'imbarazzo, è questo invece il caso di cavarsela con grand'onore e con poca fatica.
Una delle qualità caratteristiche del Verri era di non patir quasi d'invidia (diciamo quasi, perchè è una parola questa a cui non vogliamo rinunziare, tanto è comoda); provava esso dunque una gran soddisfazione nel procurare di far figurare bene i suoi amici.
— Non so comprendere dove tu trovi sì grande facilità?
— Passano anni, caro mio, e corrono centinaja di processi prima che si presenti il caso in cui abbia più desiderio il giudice d'aprir le porte al prigioniero che quasi al prigioniero di uscire; e quel ch'è più raro ancora, che il giudice sia tanto convinto dell'innocenza del costituito, al punto d'indispettirsi che questi mantenga un silenzio che è a suo danno.
— Questo lo so anch'io, ma che mi fa a me?
— È assai facile, caro mio, dare a credere al giudice quello che il giudice stesso pagherebbe qualche cosa per dar ad intendere agli altri.
— E che ho io da fargli credere?
— Che sia probabile, e, sopratutto, che sia verisimile quel che a tutta prima pare stranissimo e appena possibile. Fin adesso il tenore si è sempre ostinato ad un sol punto di difesa, non è vero? onde avrebbe sempre ripetuto, che passeggiando dopo il teatro e vedendo quel bel giardino di casa V..., non volendo perdere l'occasione di godersi tra quelle alte piante un chiaro di luna de' più limpidi, gli venne il ghiribizzo di fare un salto e di passeggiare in giardino.
— Ma chi può prestar fede a una tale bizzarria?
— Non è detto che una cosa bizzarra non sia una cosa vera. Qui sta il punto... Quante volte è capitato a me, quante volte sarà capitato a te, in villa, di saltare un fosso per entrare in un parco altrui, onde guardare cosa c'era di bello e di nuovo.
— Chi non lo sa che un tal ghiribizzo può capitare a chicchessia? ma in villa, ma di giorno; non in una città, non di notte, non nel mese di febbrajo.
— Sia qual tu vuoi, ma tu devi piantarti qui e addurre l'esempio di fatti consimili; poi c'è a tener conto della professione di cantante, la quale dà il diritto ad esser più matti degli altri. E poi c'è la vita passata del tenore, tutta senza rimproveri, per il caso ond'è imputato, almeno; poi c'è la sua agiatezza e i pingui quartali che vorremmo aver noi giovinotti di famiglia, che abbiamo i berilli sul borsellino, ma di dentro c'è poco o nulla, perchè i nostri buoni padri ci voglion troppo bene... non è egli vero, Benedetto mio caro? — E poi c'è la sua condizione di forastiero, e d'uomo che non è mai stato in Milano, e che per conseguenza non deve conoscer la pianta delle case, al punto da passeggiarci dentro e passar per le fessure come un topo domestico; e qui non sarà male il mettere un po' di ridicolo che faccia rilasciare i muscoli troppo tesi dei magnifici signori senatori. Alle volte val più un epigramma ben scagliato e a tempo, che tutte e tre le parti d'un'orazione ciceroniana... E poi già, non mi pare che si vorrà star tanto sodi sulle formalità; quante volte elle si dimenticano per peggiorare la condizione d'un galantuomo... A fortiori le si dovranno dunque dimenticare anche per lasciar respirare libero un galantuomo... Ma, per di più, c'è il fatto che il tenore è aspettato a Venezia; e i patrizj veneziani, che amano tanto la musica, faranno uno scalpore del diavolo perchè al tenore sia data facoltà di cantare a San Moisè... e c'è di meglio che il tenore è al servizio di sua maestà il re di Spagna, e io so che si è già scritto al re con tutte le circostanze mitiganti... e il re scriverà... e l'imperatrice ne parlerà al ministro di Vienna... il quale scriverà al plenipotenziario di qui... e... e poi bisognerebbe aver coraggio, nominar la contessa e tagliar corto e aprir la breccia; e giacchè si è già usciti dalla giustizia per riguardo di lei, ed essi lo sanno, quantunque non vorrebbero farlo sapere all'aria, così fulminarli con un quousque tandem che non manca mai di fare il suo effetto, un quousque tandem però, intendiamoci bene, condito con attestazioni di gran rispetto, e fiancheggiato di magnificentissimi e di eccellentissimi, tu mi comprendi.
— Io ti capisco benissimo; ma in quanto alla contessa; nemmen per ischerzo è a consigliarmi di gettar là qualche cosa sul conto suo. Tu sai che mio padre...
— Ah questi padri, questi padri benedetti, che pretendono di pigliar sempre per l'orecchio i figliuoli, anche quando i figliuoli ci vedon più di loro.
E il giovane Verri si fece serio e tacque, per un momento, poi aggiunse:
— Basta, io son certo che la tua riuscirà una bellissima difesa e che la spunterai, perchè ti proteggono il re di Spagna, i patrizj musicanti di Venezia, e il desiderio de' giudici, i quali imiteranno quelle dame, che nel loro interno sono felicissime di aver avuto la sventura d'essere state sorprese da un zerbinotto intraprendente e sfacciato. — Ma io sì che tengo i piedi in un pantano, da cui sarà difficile uscir netti, perchè se rispetto la verità e la giustizia e la coscienza, son sassate che vanno a cadere sull'invetriate dell'aula dei magnificentissimi senatori; e se mi propongo di lavorar di scherma soltanto per far sentire il suono del fioretto, ma senza ferire, io avrei vergogna di me stesso, e allora sarebbe meglio lasciar la difesa a un altro.
— Ed io ne' tuoi panni farei questo precisamente.
— Bel consiglio!
— È il migliore...
— E lasciar in balia di qualche scimunito la ragione di quel povero diavolo di Lorenzo Bruni, che ti so dire essere un uomo di proposito e di pensamenti generosi tutt'altro che vulgari! Eppure non è che un povero suonatore di violino; ma quando questo è sano (e picchiava colla punta del dito sulla fronte), e la ragion naturale può andar dritta per la sua strada senz'essere trattenuta, contrastata, deviata dai pregiudizj, oh che sapienza è l'ignoranza!...
— Ma e che dunque ti proporresti di fare?
— Nient'altro che mettere la mia coscienza nel vuoto pneumatico, e liberarla da tutta quella pesantezza che le potrebbe derivare dai rispetti umani, e allora...
— E allora?
— Sarà quel che sarà. Ma non dir nulla di questi nostri discorsi nè con tuo padre, nè con altri, nè col marchese Beccaria, lo zio di Cesarino... A proposito del qual Cesarino, sai tu che egli è un ragazzo adorabile, e che tremo di lui soltanto perchè quello zio testardo potrebbe far tanto da riuscire a guastarlo?...
— Oh... sinchè Cesarino sta in collegio a Parma, non è possibile che lo zio possa far male co' suoi consigli stemperati nelle lettere.
Mentre i due interlocutori stavano così parlando nella sala della libreria, udirono un furioso batter di mani che veniva dalla aula maggiore dell'accademia de' Trasformati. — Si recarono dunque anch'essi colà, e stettero a udirvi dalla viva voce del buon Passeroni, un canto del poema il Cicerone, che di quel tempo egli stava componendo. — Quando il Passeroni ebbe finito di leggere l'ultima ottava del canto, l'accademia si sciolse, e i due amici partirono insieme cogli altri.
Il Verri passò il resto della giornata meditando il suo subbietto, e la sera, quando uscì per fare una passeggiata, affatto solo, come soleva, verso il borghetto di porta Orientale, gli venne in pensiero che a riscaldare l'eloquenza e a far raccolta d'argomenti, per persuadere e, all'uopo, per intenerire i giudici, gli sarebbe stato necessario, giacchè aveva sentito replicate volte il Bruni nella sua prigione, di sentire anche la Gaudenzi, che trovavasi ancora in Milano, quantunque fosse già in sulle mosse onde trasferirsi a Venezia per la stagione di primavera. Pietro Verri, quantunque avesse ventidue anni, pure non era stato in teatro che poche volte, e anche quelle poche volte, sempre in compagnia di suo padre, il signor conte Gabriele; il quale non aveva mai permesso che il figlio si staccasse un momento da lui per uscire dal palchetto. Quel rigidissimo uomo non voleva assolutamente che il suo figliuol maggiore si trovasse neppure un istante in compagnia degli eleganti zerbini che passavan la notte in teatro a corteggiar dame, a giuocare nel ridotto, a dar mezz'oncie alle giovani corifee sul palco scenico. Perchè è un fenomeno curioso e che può dar molto a fare alla riflessione d'un filosofo, quello che, mentre il costume generalmente era allora così rilasciato, e le tresche amorose costituivan l'affare più importante e più continuo della vita, e le dame giovani sfoggiavano tal nudità che oggi farebbe senso, e le leggi del matrimonio avevano assunto un'elasticità senza pari (e diciam questo perchè lo troviam detto e ripetuto in storie, in libri di costumi, in poesie, ed anche ce ne assicurò, oltre al nostro amico Giocondo Bruni, qualche altro vecchio vivente, che giunse in tempo per mettere il labbro sull'orlo di quei vasi di voluttà); pure dall'altra parte è incontrastabile che l'educazione, nell'intimo della maggior parte delle famiglie patrizie e non patrizie, si manteneva rigidissima; che i padri e le madri attendevan più a farsi rispettare e temere che amare dai figliuoli; che il tu di Roma antica e il tu alla quacchera d'oggidì era ignoto tra genitori e figliuoli, e sarebbe allor sembrata una profanazione l'assumerlo e l'accordarlo. Guai se alla mattina, prima dell'ora d'asciolvere, le ragazze non si recavano, con una prolissa riverenza appresa a scuola da suor'Agata e da suor Martina, a baciar l'anellone d'amatista del signor papà e l'anellino di brillanti della signora mamma; guai se i ragazzi non imitavan le ragazze; e se ciò non si ripeteva e prima e dopo il pranzo, e prima e dopo la merenda, e prima e dopo la cena; perchè è un altro fenomeno storico che i nostri avi mangiavano più di noi. Come dunque, ad onta di tanti rigori e di tanta etichetta casalinga, e di tanto risparmio di sorrisi confidenziali, dalla casa uscissero nel mondo tante zucche vuote e tanti scapestrati e gaudenti e voluttuosi, è un problema che mal si riesce a sciogliere; nel modo istesso che non possiamo spiegare come ne' libri e nelle satire e nelle opere dell'arte, ad ogni quattro parole, ad ogni pennellata si accenna all'ignoranza classica dei nostri avi patrizj, mentre poi il più de' giovani studiavan legge e si mettevano in lista per entrar al nobile collegio de' giureconsulti, alle magistrature, al Senato? — La spiegazione noi crederemmo di trovarla in ciò, che nei libri anche i meglio riputati, il più delle volte le cose e gli uomini e i tempi si considerano da un lato solo, nel che sta il gran segreto di far scaturire il falso perfino dall'istessa verità.
Ma tornando al giovane Pietro Verri, sebben trattenuto in palchetto dai rigori di suo padre, aveva però vista e contemplata e quasi divorata la bellissima Gaudenzi... Era giovinotto, era vivacissimo. E la simpatia verso la beltà, se non è una prova, è sempre un indizio di squisitezza di sentimento e d'animo gentile.
La ballerina Gaudenzi aveva dunque fatto, se non nel cuore, perchè non sempre si arriva fin là, certamente nell'imaginazione di Verri una fortissima impressione; ond'esso invidiò spesso i cavalierini che si recavano a visitarla sul palco scenico — fin qui non c'è nulla di male. Nè quella figura gli era uscita di mente, anche dopo il tempo trascorso dall'ultima notte ch'ei l'aveva veduta in teatro; ed è anzi probabile che, una o due volte al giorno, ella facesse una visita, sebbene di pochi minuti, alla memoria di lui; chè le cose straordinariamente belle si piantano con ostinazione nella mente di chi è nato a comprenderle, pur nella sfera, intendiamoci bene, ingenua e pura e sgombra dell'estetica.
Per tutte queste cose, quando si sentì eletto a difendere il Bruni, e da costui ascoltò ripetute le lodi ch'eran già corse in pubblico della virtù di quella giovinetta, virtù tanto più preziosa quanto ora men facile in quella professione; gli venne il desiderio di conoscerla da vicino e di parlarle. Il desiderio derivava da una fonte un po' sospetta, ma il giovine Pietro s'ingegnò a dargli l'ammanto della necessità impostagli dal suo delicato ufficio di patrocinare colui che le teneva luogo di padre. — Si recò dunque in porta Romana, e, d'una in altra contrada, fu alla casa dove dimorava la Gaudenzi. — Ma tutto il coraggio gli mancò quando fu in veduta della porta, — indizio che non era proprio convinto della necessità di quella visita. Il timore che suo padre potesse mai giungere a sapere ch'egli era andato nella casa della ballerina Gaudenzi, lo annientò, e al segno, che fu per retrocedere. — Una batteria di pensieri avversi gli rintronò nel capo per qualche minuto; ma poi si fece animo, e gettata un'occhiata di sopra, di dietro, a dritta, a sinistra, per assicurarsi se nessun suo conoscente lo vedeva in quel punto, entrò nella porta. — Com'è ingenua e pudica la giovinezza degli uomini straordinarj!



III


Chiesto se per avventura trovavasi in casa madamigella Gaudenzi, e sentito ch'ella non era mai uscita in tutta la giornata, il giovane Pietro Verri si fece annunciare senza dare il proprio nome, ma semplicemente come chi aveva cose importanti da comunicare ad essa. — Dopo alcuni momenti, insieme colla fantesca ch'era corsa a riferire quella visita, uscì la Gaudenzi senza nessuna delle affettazioni tanto comuni alle donne di teatro di gran cartello, le quali, in tutti i tempi, e forse una volta più ancora d'adesso, arrivavano a far parer umili fin le dame che serbavan gelose le tradizioni dei tre Filippi di Spagna. Ma la Gaudenzi era la figliuola schietta della natura, e l'animo suo versava allora in tal condizione che, all'annuncio, d'una persona che avea a significarle cose di rilievo, non poteva aver sì gelida calma da stare immobile nella camera di ricevimento, posando accademicamente il corpo sul seggiolone e mettendo in vista, impressa nel cuscino dello sgabello, la punta delle scarpine di raso.
— Signore, disse la Gaudenzi al conte Verri con una semplicità piena di vezzo, si degni di restar servito; e precedendolo e schiudendo ella stessa le porte, lo pregò ad entrar nella sala, e gli presentò la sedia con quella disinvoltura onde un uomo avrebbe potuto comportarsi con una donna. — L'ingenuità era pari tanto nel giovine Verri quanto nella Gaudenzi; ma il primo era timidissimo, mentre la seconda, dall'abitudine ad affrontar le mille pupille del pubblico, aveva contratta quella scioltezza, quasi diremmo virile, che forse, a chi era avvezzo al profumato galateo delle aule dorate, potea parer soverchia; ma che in quella giovinetta così bella, e in quell'eleganza spontanea e quasi non voluta d'ogni suo movimento, si vestiva di un incanto specialissimo. Pietro Verri la contemplava muto, e andava pensando come non fosse sempre vero quel che comunemente avea sentito dire, che cioè le beltà da palco scenico non debbano mai esser vedute in camera.
— Signora... disse poi, e stentava a trovar le parole, tanto era impacciato dalla sua timidezza. Dovete dunque sapere, madamigella, riprese tosto, che dall'eccellentissimo signor capitano di giustizia fui prescelto all'onore...
Quell'onore non era certamente la parola che più facesse al caso; ma sovente chi ha l'abbondanza delle idee nella mente, affatica in certe particolarissime circostanze a trovar la parola adatta, quella parola che pur verrebbe sulle labbra di qualunque più meschino sfrontato.
— Io fui dunque prescelto a protettore del sig. Lorenzo Bruni, vostro tutore...
— Mio padre e benefattor mio, assai più che tutore, potete dire, o signore... Ma in grazia, chi siete voi?...
— Sono il conte Pietro Verri.
Per quanto egli fosse sgombro da qualunque pregiudizio e da qualunque benchè minimo orgoglio di sangue, pure provò un'interna soddisfazione nel poter pronunciare quella parola conte; e tutto ciò perchè sentiva come, mettendo innanzi quella parola, egli veniva a liberarsi dall'importunità della propria timidezza; mentre forse la ballerina che lo atterriva col suo fare disimpacciato, a quel titolo sonoro si sarebbe potuta mettere in gran riguardo, e avrebbe subita quella soggezione di cui egli s'accorgeva d'aver gran bisogno. Quanti inesplicabili accidenti in questa nostra povera natura umana!
— Illustrissimo signor conte, io la ringrazio della degnazione per la quale ha voluto venire da me; e ora, giacchè ella è il protettore giuridico del signor Lorenzo, mi voglia dire la verità, la verità schietta, la verità intera. Oh s'ella sapesse da quante persone io mi recai in questi giorni, quante preghiere ho fatte per vedere di poter conoscere come veramente stesse la condizione del signor Lorenzo! ma non ho trovato che faccie arcigne e parole fredde, e giri e rigiri di frasi, dalle quali appariva chiaro che si voleva piuttosto ingannarmi che dirmi la verità.
— I magistrati, cara mia, hanno il debito del segreto, e bisogna aver loro un certo riguardo… D'altra parte il signor Lorenzo Bruni è in una condizione speciale per aver insultato in pubblico il decoro di una delle più cospicue case di Milano...
— Ma guardi, signor conte, che tentazione fatalissima è venuta a quel benedetto uomo di mettere, per amor mio, in così grave pericolo sè stesso, e di far tanto male a quella povera contessa... ch'io non conosco... e per la quale darei la metà del mio sangue perchè non fosse avvenuto quel ch'è avvenuto. Ma Lorenzo fu tratto di cervello dall'ingiustizia del pubblico, e dal desiderio che lo tormentava di poter trovare il modo di convincer tutti del quanto fosse assurda la diceria che il sig. Amorevoli... — E qui la Gaudenzi abbassò il capo, tutta soffusa di rossore, e soggiunse tosto: — Ma non è egli vero, signor conte, che quando un uomo, quando una donna, quando una fanciulla, trovandosi sola con se stessa, può giurare di non aver cosa alcuna a rimproverarsi, non dovrebbe temer di sfidare tutte le calunnie di questo mondo, anche in silenzio, perchè quel che non si sa oggi si sa domani, e la verità esce in fine all'aperto per sua propria virtù?... Devo però confessarle, signor conte, che quando il pubblico mi ricevette, schiamazzando e insultandomi, anch'io non so quel che avrei fatto allora per vendicarmi... e la mia disperazione in quel momento nessuno se la può imaginare, e forse fu per avermi veduta in quella condizione, che Lorenzo non badò più ai mezzi, e giurò di far balzar fuori la verità ad ogni modo, e il modo fu de' peggiori, perchè, ecco a che s'è ridotto, pover'uomo!...
E due lagrime lente le rigaron la guancie.
— Ma io, continuava, non so farmi capace, signor conte, che vi possa essere così grave delitto nell'aver messo una maschera ad una festa da ballo... In fin de' conti, che intenzione era la sua? Quella di far vedere che il pubblico aveva torto e che io era innocente... Ben è vero che offese gravissimamente una nobil donna, ma, per quanto sento a dire, pare che questa nobil donna... fosse davvero la... e allora... di chi è la colpa?...
Pietro Verri sorrideva e compiacevasi di sentir quel discorso vivo e animato, e reso più attraente dall'accento veneto, chè, se non lo abbiam mai detto, lo diciamo adesso, la Gaudenzi parlava il dialetto veneziano, quantunque, pel tramutarsi ch'ella faceva continuamente di luogo in luogo, lo avesse tant'o quanto alterato.
— Cara mia, sapete voi che cos'è la legge?
— Cosa so io? ma la legge dovrebb'essere tutto ciò che è giusto.
— Ed ella infatti si propone la giustizia... ma non sempre la raggiunge, nè lo può; perchè la legge bisognerebbe che potesse trasformarsi all'infinito come tutti gli accidenti umani, e tener dietro a tutte le bizzarrie della fortuna.
— E così qualche volta chi ha ragione paga i debiti di chi ha torto... È questo l'intercalare del signor Lorenzo. Ma mi vorrebb'ella dire di grazia, signor conte, per qual motivo il metter maschere ad una festa da ballo fu posto nel numero dei delitti?
— Per i cattivi usi che se ne fecero troppo spesso dagli uomini cattivi.
— Ma allora si dovrebbe punire il cattivo uso e non l'uso delle cose: sarebbe bella che fosse proibito a parlare, perchè parlando si possono dire delle calunnie!
— Oh che sapienza è l'ignoranza! pensava tra sè Pietro Verri, mentre sorrideva alla Gaudenzi. — Attendete dunque, soggiunse poi, a mettere il vostro bel cuore in pace; poichè se la legge fu fatta per un fine ragionevole, non è poi detto che non si debba tener conto della buona intenzione di chi l'ha trasgredita, trasportato da un nobile riguardo e da una nobile passione...
— E di chi l'ha trasgredita, continuò vivacissimamente la Gaudenzi, perchè in quel momento non c'era altro mezzo di far cessare una perfida calunnia.
— E per questo io mi confido di poter riuscire ad alleggerire al possibile la condizione del vostro signor Lorenzo.
— Come ad alleggerirla? domandò piena di dolorosa meraviglia la Gaudenzi... Ma non è a sperare che lo possan mandare assolto in su due piedi?...
— Tranquillatevi, cara mia, ma per bene che vadan le cose, converrà pure che voi siate disposta a un lieve sacrificio...
— Qual sacrificio?... dite, dica, io son parata a tutto.
— È un sacrificio che non dipende dalla vostra volontà, ma solo dalla vostra pazienza; perché mi rincresce a dirvelo, cara mia, ma per un sei mesi almanco converrà che vi adattiate a restar priva della vista del signor Lorenzo…
— Oh… questo non sarà mai, signor conte; io mi scioglierò in lagrime ai piedi del signor governatore, e otterrò la grazia. E se il governatore starà inflessibile, metterò sossopra mezzo mondo.
— Tranquillatevi, e prima di far passi, lasciate che io faccia i miei; che se fosse necessaria la vostra cooperazione immediata, ho io la persona che, se è possibile far miracoli, ella li sa fare davvero...
Ma la Gaudenzi più non badava a quelle parole, e, alzatasi, misurava in lungo e in largo e concitata la camera, cogli occhi pieni di lagrime e col labbro inetto a proferir parola, perchè un tremito convulso stava per farla dare in uno scoppio dirotto di pianto... Il Verri le teneva dietro coll'occhio, pieno di commozione anch'esso e d'ammirazione, e assalito da un sospetto, come da un lampo che baleni improvviso.
Le anime squisite, anche senza lo scaltrimento di una lunga esperienza, tengono il filo d'Arianna per misurare, senza smarrirsi, il labirinto del cuore umano. Diciamo questo, perchè di fatto, quel ch'egli sospettò, era vero. — Un mese prima, chi avesse detto a quella cara e semplice ragazza: scommettiamo che voi siete innamorata del signor Bruni, ella non avrebbe data altra risposta che una delle sue consuete risate baccanti e sonore... Ma il giorno in cui Lorenzo venne arrestato, e i giorni in cui ella provò, per quel distacco, una costernazione che mai non aveva provato in vita sua, non si potrebbe dir bene in che modo, ma le si depose inavvertito nell'animo un lieve germe di amore, che fruttificò di dì in dì, a seconda della natura appunto dei germi. — Ben è vero che ella non sapeva ancor nulla, e a chi di nuovo le avesse chiesto, se era innamorata, di nuovo ella avrebbe risposto, se non con una risata, certamente con un sorriso accompagnato da un lieve agitar della testa; ma, in conclusione, l'amore lavorava e limava nell'animo suo con tutta la forza di un amore a cui non manca più nessuna delle sue attribuzioni.
— Sentite...
Interruppe il Verri con questa parola il passo concitato della Gaudenzi. Ella si fermò in faccia a lui, attirata da quel sentite, e come chi spera sempre qualche consolazione da tutti gli accidenti del discorso.
— Da quanti anni, egli continuò, il sig. Lorenzo Bruni veglia alla tutela della vostra giovinezza?
— Oh da moltissimi anni! Io era una ragazzina senza padre e senza madre, e ballavo a Venezia al teatro di San Moisè... Chi mi curava non era allora che questa buona e paziente mia zia... Ma si viveva a discrezione degli impresarj che guadagnavano, non tocca a me il dirlo, alle nostre spalle, eppur non ci facevano che soprusi e angherie, n'è vero, zia? Il signor Lorenzo Bruni volle difenderci una volta da un appaltatore usurajo e ottenne di farlo stare al dovere... onde ci fece tener tanti danari, quanti certamente non potevo dire d'aver meritati. Ma questo è poco, perch'egli si prese cura della mia educazione; e siccome ei veniva da Parigi, ed avea vedute tutte le più celebri ballerine e conosceva la danza più di chi ne fa professione, tanto fece e consigliò, che riuscì a tirarmi indietro dall'arte viziata... Onde quel poco che sono, lo voglia credere, illustrissimo signor conte, non lo debbo che a lui.
— E tutto, entrò a dire la zia, senza neppure un'ombra d'interesse, perché i mettimale che vedevan con dispetto quel suo tanto adoperarsi in pro della ragazza, mi andavan susurrando all'orecchio che lo avrebbe fatto per arricchirsi... Ma invece, se non ci ha perduto, non ci ha guadagnato, perchè la bilancia non è più giusta di lui: e i quartali ei non volle nemmen toccarli, e collo scrupolo va tanto in là, ch'ei vuole che dalle mani dell’impresario passino nelle mie; e se provvede a collocarli a buon frutto, desidera ch'io medesima vada a consegnarli… Oh… ci creda, signor conte, che per noi è una gran disgrazia a rimanere senza quell’uomo d'oro.
— Ho caro d'aver sentito tante lodi di quel bravo uomo; così mi lusingo di farle comparire opportunamente nella difesa...
— E può aggiungere, signor conte, i discorsi pieni di consigli, di sapienza e di virtù onde il signor Lorenzo era instancabile a vantaggio di questa ragazza... perchè lo creda, signor conte, ma quel signor Lorenzo, se è un uomo probo, è anche un uomo di gran talento.
E la bella Gaudenzi stava per venire in ajuto della zia; ma in quel punto ch'ella stava per parlare, giunsero all'orecchio del conte Pietro Verri, il quale era là quasi in attitudine di magistrato, i primi tocchi della campana della piazza de' Mercanti. Il giovane patrizio si alzò, come scosso disgustosamente da quel suono, e, tagliando di colpo tutte le fila sospese del discorso, si licenziò, e fu molto se ebbe l'animo di rinnovare alcune parole di consolazione alla fanciulla. Ma che mai c'era di tragico in quella campana della piazza de' Mercanti, dirà il lettore, da mettere i brividi al giovine Verri? — Cari miei, saranno inezie, ma l'eccellentissimo senatore conte Gabriele era un uomo di ferro, e guai se avesse saputo che suo figlio non era già rincasato prima della campana; che una sera in cui il giovane Pietro, trattenuto in certe calde discussioni al caffè Demetrio, giunse a casa un'ora dopo... Filippo II non guatò così bieco il grand'ammiraglio, quando gli tornò innanzi coll'annunzio d'una battaglia navale perduta e della flotta distrutta, come fece allora il conte Gabriele con suo figlio Pietro, il quale per rientrare nelle grazie del signor padre dovette metter sossopra tutto il parentado. S'affrettò egli dunque a saltelloni giù per le scale, divorò la strada, e tutto trafelato giunse a casa quando la campana non aveva ancor finito di dare i suoi tocchi; si recò a far riverenza e a dar la felicissima notte al signor papà, poi si chiuse in camera per stendere la difesa di Lorenzo Bruni.





IV


Là chiuso, si diede a passeggiare tutto pieno e invasato del suo argomento, lodandosi seco stesso dell'aver fatto visita alla ballerina Gaudenzi, perché dall'osservazione attenta di quella beltà, di quella virtù, di quella schiettezza, di quel dolore, e dai particolari che in sì caldo accento erano usciti dalla bocca stessa di lei, e costituivano il più completo e appariscente ritratto di Lorenzo Bruni, s'accorgeva che gli eran venute nuove idee e nuovi fervori; però gli pareva di poter alla fine scrivere una difesa tale da conquidere trionfalmente l'animo dei giudici, pur senza omettere nessuna verità nuova e coraggiosa. L'animo e l’ingegno del Verri era di quella tempra saldissima, che dal momento che una cosa vera o creduta vera gli facea forza, non gli era più possibile, per nessun conto, nè dissimularla nè tacerla, non che falsarla. Poteva adattarsi alla più sommessa obbedienza in casa, a non star fuori oltre i tocchi della campana della piazza de' Mercanti, a non andare in teatro solo, a non frequentare certe conversazioni; ma non poteva piegarsi a far proprie le idee e le convinzioni di suo padre, dal momento ch'egli ne aveva di assolutamente contrarie.
Si mise dunque a tavolino, e con velocità animata dalla concitazione empì tre o quattro fogli di carta. Noi abbiam veduto un ritratto giovanile di Pietro Verri, che press'a poco potrebbe dar l'idea della sua faccia quand'egli era preoccupato di qualche forte pensiero: occhio vivace, arguto e tanto quanto espanso, che sembra inseguire un'idea balenata d'improvviso; guancia calma e fiorente, naso breve e bocca soavissima, la quale quasi sempre si osserva in coloro che hanno squisitezza e di mente e di cuore.
Quand'ebbe finita quella non breve scrittura, se la lesse tutta ad alta voce, e si stropicciò le mani come pago d'aver detto tutto quello che voleva dire; se la rilesse poscia... e cominciò e pentirsi di alcune espressioni troppo ardite, e di quelle segnatamente dove metteva quasi in istato di accusa l'autorità giudiziale. Volle rimediarvi, e cancellò tutto quel brano; ma poi s'accorse che ad ometterlo si distruggeva tutto l'edificio, e si taceva la sola verità insolita e coraggiosa che poteva dare alcun merito a quella difesa; onde rifece il periodo, ammorbidendo soltanto le frasi, decorandole di vocativi pieni di sommessione, e conservando intatto il concetto. Infine pensò che il miglior partito era di far la versione di quella difesa in lingua latina; e ciò per due ragioni: la prima, che l'idioma del Lazio, costringendo l'intelletto degli ascoltatori a fare un breve lavoro, prima di averlo tutto quanto tradotto in parole schiette e lampanti, la verità si ammorbidiva nel trapasso dal latino all'italiano, e le toglieva di far l'effetto di un sasso scagliato altrui senza pietà; la seconda ragione consisteva in ciò, che suo padre era innamorato della lingua latina, e le poche volte che lo aveva veduto sorridere con insolita compiacenza fu sempre nelle occasioni che egli stesso aveagli dato a leggere qualche proprio scritto latino. Così dunque pensò, e così fece. Ma ci voleva ben altro. Lavorò buona parte della notte e il giorno successivo a far la traduzione; poi al terzo dì la presentò al Capitano di giustizia. Non ci pare qui il luogo opportuno di riportare per intero quella lunga difesa, nè tampoco di darla tradotta, nel nostro italiano; chè troppe cose sono in essa riassunte, le quali già furon dette e ripetute da noi in più luoghi; soltanto diremo come l'esordio toccasse alcune idee generalissime intorno alla genesi ed allo scopo della legge, nel quale intese a far campeggiare il concetto, che tutti debbono essere eguali in faccia ad essa; poi venne a parlare delle leggi statutarie, poi delle gride e ordinanze suggerite da casi speciali; poi si fermò all'ordinanza del ministro plenipotenziario governatore di Milano, conte Palavicino, relativa alle maschere-ritratti, lodandone assai l'opportunità e la saviezza.
Ma qui parlò dell'intento che aveva quell'ordinanza, la quale proibiva le maschere non per sè stesse, ma per i gravi e deplorabili danni che, adoperate da uomini iniqui, avevano prodotto; faceva allora acutamente intendere come la prava intenzione e il delitto consumato per mezzo di essa erano i soli elementi che costituivano il caso della penalità e della sua misura. E poi, piegando la parola al fatto speciale del Bruni, mostrava che non avendo egli avuto nessuna prava intenzione, anzi l'intenzione essendo stata lodevole come di chi protegge e difende chi sopporta ingiustamente una calunnia; e, per risultato, non esibendo la consumazione di nessun delitto, ma sibbene lo scoprimento di una verità che ridondava a vantaggio dell'innocente e a danno di chi veramente era in colpa; venivasi con ciò a costituire un caso specialissimo, pel quale quell'ordinanza doveva cessare dalla sua forza attiva, e, in ogni modo, doveva consigliar d'interpellare il voto dell'eccellentissimo governatore per una grazia straordinaria. Ai quali argomenti che mettevano in chiaro l'assenza d'ogni colpa per parte del Bruni, di cui tesse l'elogio riferendo le attestazioni della stessa Gaudenzi, della quale pure lodò la vita senza rimprovero, come portava la pubblica opinione; fece osservare che non sarebbe avvenuta nemmeno la materiale contravvenzione alla legge, se la magistratura non si fosse imposta un obbligo che veniva a ferire il diritto comune, l'obbligo cioè di considerare come intangibile dalla legge e persino dai sospetti la nobiltà di una persona, dalla quale precisamente si dovevano incominciare le indagini. E qui riferiamo un passo, che ci pare assai squisito: «Nè io credo nemmeno che potesse andar offeso il carattere della nobile contessa se fosse stata interpellata in giudizio; chè forse quelle voci vituperose che or circolano in pubblico contro di lei, sarebbero state trattenute da una parola detta in tempo al giudice; così invece, tanto più l'opinione si compiace a denudare e ad esagerare le colpe di una persona, quanto più s'accorge che la magistratura discende dal suo nobile seggio, al punto di tentar di scambiarle le carte in mano e d'ingannarla.»
Questa difesa, quando fu letta, fece l'effetto che naturalmente doveva fare, quello cioè di tirar addosso al giovane Verri tutta l'iracondia della magistratura.
Quasi contemporaneamente a questo scritto, fu presentata al Capitano di giustizia la difesa di Benedetto Arese, una cosettina magra e che per se stessa non poteva certamente essere il tocca e sana per le disgrazie del cantante di camera di S. M. il re di Spagna. — Ma quanto lo scritto del giovane Verri aveva provocata la collera e lo spirito di contraddizione e negli attuari e negli assessori e nel vicario e nell'eccellentissimo capitano marchese Recalcati; e, allorchè fece il suo passaggio d'ufficio al Senato, anche in tutti i senatori e nel loro presidente; altrettanto trovò lode e fautori quella dell'Arese. — In simile maniera noi vediamo nelle accademie e letterarie e scientifiche e artistiche, le quali, per consueto, portano inalberato sul frontone il vessillo del Così faceva mio padre, accordarsi la medaglia d'onore a colui che nell'opera prodotta lusinga l'amor proprio de' giudici e sta ligio ai sistemi invalsi, e non avendo la forza di camminar colle proprie gambe, s'appoggia al braccio altrui.
Quella difesa dell'Arese fu dunque tale, che dispose gli animi a far maturare una sentenza d'assoluzione a favore del signor Amorevoli. Se non che un bel giorno fu presentato d'urgenza un libello dell'avvocato Carl'Antonio Agudio, patrocinatore del figliuolo della signora Celestina Baroggi, nel qual libello si esponeva il fatto del testamento olografo stato scritto dal marchese F… dietro dettatura del dottor Macchi notaio, a favore del figlio suddetto della Baroggi; riferiva che tra le carte del detto marchese non s'era più trovato il testamento in discorso; si conchiudeva, che essendo noto il trafugamento delle carte che stavano nello scrittoio di esso, l'avvocato patrocinatore e il reverendo proposto di S. Nazaro, tutore del figliuolo della Baroggi, facevano istanza perchè si rinnovassero le indagini più severe, allo scopo di rinvenire il trafugatore; e nel tempo istesso facevan rispettosamente intendere che, sebbene le presunzioni a danno del costituito signor Amorevoli paressero prive di fondamento, l'eccellentissimo capitano di giustizia, quando mai nell'alta sua saviezza credesse di mandarlo assolto, adoperasse tuttavia in modo che non potesse evadere dalle ulteriori possibili inquisizioni dell'autorità criminale.
Aveva in pubblico fatto gran senso che, in quel non breve tempo trascorso dalla cattura dell'Amorevoli, non si fosse proceduto con tutti i mezzi reclamati dall'importanza del caso, segnatamente per l'interesse del figlio della Baroggi, che dicevasi essere stato istituito erede universale dal marchese F...; e però il reverendo proposto di san Nazaro aveva ricorso all'avvocato Agudio, il quale godeva fama di gran legista, e quel che più importa, di gran galantuomo, e ciò che meglio preme ancora, di grande ostinato; e il solerte proposto avea fatto capo a lui come a quello che potea aver la forza di conservare nella sua dritta strada la trattazione d'un affare che per mille circostanze poteva essere deviato.
Tornando ora all'Amorevoli, s'egli non avea motivo di lodarsi troppo della fortuna, venne però chi dovea trarlo d'imbarazzo. Allorchè donna Paola Pietra ricevette l'ultima lettera dalla contessa Clelia, dove, colla raccomandazione del segreto, le era fatta la rivelazione intorno al lacchè Suardi; ella nella sua saviezza pensò che non era a tener conto nessuno di quella raccomandazione di segretezza; invece, senza por tempo in mezzo, fece una seconda visita al marchese Recalcati, al quale raccontò il fatto del Galantino, e della vita sfoggiata che colui conduceva a Venezia, e come eranvi tutte le ragionevoli presunzioni che il trafugatore fosse stato colui medesimo.
Quel nome del lacchè Galantino fu per il marchese Recalcati come uno di quei lampi, che, solcando di tratto il fitto bujo, lasciano vedere la posizione degli oggetti circostanti; tanto che uno che abbia smarrita la via, si raccapezza, ed esclama: Ora comprendo per qual parte si dee camminare. — Laonde non sono a dire le feste e le accoglienze ch'egli fece e i ringraziamenti che espresse a donna Paola per quella improvvisa e non aspettata rivelazione. — Lasciandolo ora nel pieno godimento di quella scoperta, saltiam via due giorni, che in faccia a cento anni sono un bicchier d'acqua in faccia al mare, e rechiamoci in casa Verri, in un giorno che l'illustrissimo signor conte Gabriele dava un pranzo quasi diplomatico.
La sfera dell'orologio percorreva l'arco di quella mezz'ora o di quel quarto d'ora che precede il momento solenne, in cui il cameriere in gran livrea diventa un personaggio importante, vogliamo dire, in cui grida dalla soglia: In tavola. In una sala d'aspetto, ferveva, o diremo meglio, languiva la conversazione tra molte persone divise in varj gruppi, ciascun de' quali constava di elementi tra loro affini. — Gravi personaggi di toga e di spada, conti e marchesi e cavalieri che non avevano altro peso da portare che il diploma d'accademico Trasformato, dame e matrone e giovani donne e spose — non una fanciulla. — Il conte Gabriele Verri stava parlando in un angolo della sala col marchese Beccaria, lo zio di Cesare.
— Vedo pur troppo, caro marchese, diceva il conte Gabriele, che questo mio figliuolo, pel quale non ho risparmiato nè cure nè dispendj, vorrà essere la mia croce.
— Ve l'ho detto più volte; bisognava lasciarlo a Roma maggior tempo, o a Parma; la sua vivacità fu sempre eccessiva e bisognava metter acqua e cenere sul fuoco. Vi sono certi temperamenti, che, a lasciarli svampare prima del tempo, diventan acidi come il vino mal turato.
— Ma... volevate che a ventidue anni lo tenessi ancora in collegio?...
— In collegio no... ma mettergli accanto un uomo di proposito, un sacerdote di vaglia...
— Se la mia severità non è valsa a nulla, che cosa volevate che facesse un prete?
— Voi vedrete quel che ne farò io di Cesarino, perchè bisogna che ne prenda io stesso la cura. Suo padre è troppo dolce. Se si vuole, il fanciullo è pieno d'ingegno, e in collegio lo chiamano il piccolo Newton; ma quanto è maggiore l'ingegno, tanto son maggiori i pericoli; ond'io veglierò... così avessi vegliato ne' giorni che da Parma venne a Milano questo carnevale; perchè si trovò spesse volte col vostro Pietro... il quale non so che malefizj abbia fatti a quel ragazzo, che mi venne fuori un giorno con certi propositi, i quali non mi piacquero niente affatto.
— Davvero?
— Per l'appunto.
— È dunque bisogno di qualche provvedimento serio a riguardo di mio figlio... Son dieci giorni che mi venne in mano quella difesa, e quando l'ebbi letta non ho più permesso ch'ei mi comparisse dinanzi. Ma quel che più mi fa dispiacere si è, che non manca d'ingegno... e quello scritto... mi dà a divedere che, se fosse meglio diretto, potrebbe...
— Ma dove è andato a pescare tutte quelle idee, diciamolo pure, rivoluzionarie contro i nobili e contro le autorità? Ma sapete che c'è voluto un bel coraggio?
— È questo appunto ciò che m'affligge, e tanto più che... son cose che si pena a dirle... ma pur troppo s'è fatto male a non far caso della contessa, in quel malaugurato processo... A mio dispetto devo dirlo, e Pietro non sbagliò nell'affermare che, conosciuta in tempo la verità, si poteva sopir tutto senza che ne trapelasse nulla al di fuori. E così... un dì un fatto, un dì un altro... ci ridurremo alla fine... ve lo dico con crepacuore, a perdere la fiducia del popolo, e allora...
E qui si fermò come colpito da una dolorosissima idea, indi soggiunse dopo alcuni momenti:
— E adesso c'è quest'affare del testamento del marchese F... e del lacchè..., che è una spina acuta e pericolosa, la quale può aprir piaghe profonde, e trarsi dietro cento malanni. Ah, marchese, qui sotto c'è qualcosa di seriissimo, e guai se... Il marchese Recalcati me ne fece or ora un motto... che tosto gli ho troncato in bocca... perchè se una parola è pronunciata fuor di tempo e a sproposito... ne scaturisce un'iliade di sciagure...
Il marchese Beccaria guardava fisso il conte come a sorprendergli nell'occhio il segreto del pensiero; poi soggiunse:
— Se un sospetto lo fa uno, lo può fare un altro, e lo ponno fare cento; e tanto più quelli che patrocinano il figliuolo della Baroggi... poichè, a dir la verità, questo contrattempo del lacchè... qualcuno già deve averlo pagato il lacchè a fare il colpo... e chi mai poteva avere interesse a ciò, se non...
— Zitto... la marchesa D*... è là, e ha intenzione di dar la figliuola al figlio del conte e ci potrebbe sentire...
— Ma in conclusione, che si pensa di fare?
— Non ci possono essere due partiti in affare di tanta delicatezza... La giustizia dee fare il suo debito senza essere impacciata da nessun riguardo. Anzi si è già scritto al Senato della serenissima Repubblica di Venezia perchè, se siamo in tempo, passi tosto alla cattura del lacchè; soltanto è mestieri che di tal fatto si mantenga un segreto profondissimo, e non si facciano scandali; perchè guai se il popolo s'accorge che il contagio viene da quel ceto a cui la provvidenza ha ordinato di essere d'esempio e di edificazione a tutti gli altri. — Ma c'è un'altra cosa, marchese caro, che mi ha passato l'anima, ed è che, ieri l'altro, Pietro, mentre stava supplicando sua madre a farsi mediatrice di pace tra lui e me... d'uno in altro discorso vennero a toccare, non so come, un tal tasto; e a Pietro scappò detta... questa frase ribalda: — Se il conte F... fosse un sensale di piazza, a quest'ora il capitano di giustizia gli avrebbe già fatto mettere le manette. Convien dunque che oggi teniamo con lui un discorso serio e dolce nel tempo stesso. Oggi ho dato, posso dire, questo pranzo d'invito per lui, perchè, necessariamente, non ne potendo venir escluso per decoro, io avrò l'occasione di volgermi a lui senza cedere; ed egli d'accorgersi che io non sono poi un uomo inesorabile. Così dopo il pranzo, noi lo faremo chiamare in un'altra camera, e gli terremo un discorso che valga ad insegnargli la prudenza, ed a provargli che è sempre in via di bene tutto quello che noi facciamo; e che finchè uno è giovane, l'esperienza la deve apprendere dai vecchi. Ah pur troppo, caro marchese, la gioventù ha preso aria in questi tempi, e bisogna ricorrere all'astuzia perchè non sian crollate le basi di una salda autorità paterna.
Ed or lasciando che questi rigidi vecchi se la intendano col giovinetto Pietro, ritorneremo a Venezia, e volgeremo i passi verso il calle del Ridotto.



V


Rousseau, il quale asserì che l'uomo lasciato in balia della sua vergine natura, è una perla immacolata, e che dai bisogni fittizj inventati dalla società fu tratto ad inventare egli stesso quei delitti contingenti e convenzionali che, variando di tempo e di luogo, possono persino esser chiamati virtù, come il furto in Atene; non pare abbia voluto esaminare tutti i casi in cui l'uomo, anche nel fitto della società, si trova in pieno arbitrio della sua natura liberissima; tra le altre cose, non ha saputo applicare la sua potente riflessione ai fenomeni d'una bisca.
Una casa da giuoco è un microcosmo; in essa l'uomo appare in tutta la nudità de' suoi istinti. Nella Francia contemporanea di Rousseau, lo spettacolo di un gran re, intento a passar le notti, non animato che dalla speranza di spogliare i ciambellani e i confidenti, doveva bastare a far vedere al sublime lipemaniaco di Ginevra che non sono sempre i bisogni quelli che fanno sviluppare sulla testa umana il bernoccolo della rapacità.
Ma ciò, anche prima della storia di Francia, era provato dalla storia di Roma e dall'esempio d'Augusto che, padrone di tutto il mondo, pure si compiaceva se l'oro di Mecenate passava nelle sue mani; e dall'imperatore Claudio, che affidava ai dadi il destino perfin di quattrocentomila sesterzj, e dai patrizj romani, che, ad onta che il giuoco fosse multato d'infamia, giocavan persin nei comizj, persino in Senato; tanto è vero che l'uomo, per saziare il suo naturale istinto, combatte contro la medesima civiltà, e fa il ladro per diporto; chè non a torto ha detto un acuto scrittore inglese: Essere il giuoco un furto mascherato.
Queste riflessioni le facciamo pensando al ridotto di San Moisè in Venezia, dove, meno i giuochi d'azzardo che ad ogni momento venivan proibiti dagli illustrissimi Correttori, indizio manifesto che non eran sempre obbediti, tutto camminava di maniera da far credere che gli uomini non avessero altra destinazione a questo mondo che quella di passar la vita giuocando. Quel ridotto, che doveva diventar celebre in conseguenza de' suoi peccati, e meritare di venir soppresso, come vedremo, aveva una libreria al pari di un istituto di scienze e lettere; una libreria, intendiamoci bene, tutta di opere relative al giuoco; tra queste primeggiavano il Ludus chartarum seu foliorum, di Lodovico Vives, stampata a Parigi nel 1545; Le carte da giuoco, del P. Menestrier; La giurisprudenza del giuoco, di Lucio Marineo Siculo; Il tarocco, di Gebelin; L'invettiva contro il tarocco, di Lollio Ferrarese; i numeri del Giornale di Trévoux, dov'erano le ricerche storiche sulle carte da giuoco; il capitolo del Berni, intitolato Il giuoco di primiera; Le carte parlanti, di Pietro Aretino; Il trionfo del tresette; la Piazza universale di tutte le professioni — ed altre opere molte, che venivano consultate nei gravissimi casi dubbj.
Quel ridotto era zeppo d'illustrissimi della seconda e della terza qualità, e in mezzo ad essi, da qualche giorno, aveva fermato l'attenzione il giovane gentiluomo milanese, signor Andrea Suardi, pel coraggio onde giuocava le più grosse somme e per la sua meravigliosa virtù a vincere dieci volte su dodici. Ma come potevano quegli illustrissimi patrizj di Venezia gettar le loro notti, ed esser tuttavia parati alle gravi cure del governo, della pace e della guerra? Non confondiamo le idee: a Venezia vi avevano più qualità di patrizj, ovvero sia due qualità ben distinte quella dei tutto facenti, e quella dei nulla facenti. Dal dì che Gradenigo aveva decretato come statuto fondamentale — che niuno fosse mai più eletto nè eleggibile a sedere nel gran consiglio, da quelli in fuori che allora vi si trovavano; — che il loro privilegio sarebbe eredità ai loro discendenti in perpetuo; — che eleggerebbe dal suo corpo tutte le magistrature di Stato; dal dì che codesta aristocrazia s'andò sempre più concentrando in oligarchia, che persino ai figli del doge fu tolto di poter coprire ogni magistratura: lasciato alle poche famiglie vetustissime il monopolio del potere trasmissibile di padre in figlio in perpetuo, tutta la rimanente nobiltà — che era numerosa, e alla quale in Venezia non rimaneva altro scopo alla vita che l'uso e l'abuso di essa, e l'uso e l'abuso della ricchezza — dov'era gentilezza d'ingegno, ell'erasi data all'esercizio delle arti; dove no, proruppe ai godimenti, e con tanta sfrenatezza spensierata con quanta riflessiva e longanime rigidezza gli oligarchi si tenevan saldi al potere; rigidezza riflessiva, e che fomentava quel viver leggiero e svagato dei discendenti di coloro ch'erano stati chiamati uomini nuovi al tempo della prepotenza di Pierazzo Gradenigo, pel motivo che non erano più temibili quelli che per costume s'indebolivano nell'inerzia. E tanto più si erano a questa ragione di vita abituati i nulla facenti, sia che fossero discendenti degli esclusi dal gran consiglio, o figliuoli dei vetusti pantaloni, o piantaleoni nelle terre conquistate, o figli del doge esclusi dalla magistratura, quanto più, comportandosi in tal guisa, vivevano tranquilli della sospettosa vigilanza del tribunale segreto, che più del capo di Buona Speranza e del Mediterraneo abbandonato e della politica spostata, fu causa che si spegnesse la potenza espansiva di Venezia; spenta la qual potenza si troncarono di colpo gli elementi generatori della sua perpetuità. Fin da quando, dopo la forzata abdicazione di Foscari, il tribunal segreto rese amarissimo e pericoloso l'alto onore di recar servigj alla patria, da quel punto cominciò davvero la sua decadenza. Temettero i sospettosi oligarchi il possibile soverchiare del vero merito, temettero l'eccessiva potenza del doge, e l'uno e l'altro circuirono di arcane paure; ma non intravvidero la conseguenza finale di tutto ciò; non intravvidero che se i patrizj e i non patrizj, divagati agli ozj e alla voluttà, non potevano più far paura al Consiglio segreto, per la medesima ragione avrebbero cessato di far paura anche a tutta Europa, la quale non amò giammai Venezia, e la guardò sempre gelosamente; e che se ciò le poteva stornare i pericoli presenti, accumulava sovra di essa i pericoli futuri, rendendo bensì più lenta la sua caduta, ma facendola inevitabile.
Era dunque da quasi tre secoli che la vita interna di Venezia era una vita continua di godimento, che l'allegria de' suoi carnevali era divenuta proverbiale in tutt'Europa, che ai tavolini verdi delle case patrizie e dei pubblici ridotti l'oro aveva imparato a trapassare di mano in mano, con più velocità che altrove, pel decreto di una carta e della cieca fortuna. Che il giuoco poi abbia trovato accoglienza più forse a Venezia che in altri luoghi, sarebbe dimostrato da ciò, che taluno dei così detti giuochi d'azzardo fu invenzione di Veneziani; che un Giustiniani, ambasciatore della Repubblica a Parigi, vi portò per la prima volta la cognizione del giuoco della bassetta, il quale fu poi accolto trionfalmente a quella Corte, e onorato colà dagli uomini della scienza, che pubblicarono considerazioni e calcoli e intrapresero ricerche pazientissime su quel giuoco, sulle probabilità del guadagno e delle perdite.
Il Galantino aveva dunque fatto suo pro di quelle abitudini veneziane; e ricevuto al ridotto qual gentiluomo milanese da quell'ospitalità cortese che sempre distinse i Veneziani tanto d'allora che d'adesso, passava colà le sue notti. Ma siccome i giuochi che vi si tenevano non eran d'azzardo, essendo recentissima un'ammonizione dei signori Correttori; così a una cert'ora, in compagnia di molti gentiluomini, lasciava il tavoliere del tresette e il ridotto per trasferirsi al di là di Rialto, nelle stanze di un umile caffè detto di Costantinopoli; e là, fuori d'ogni sospetto, aperta la voragine del faraone e della bassetta, ei passava il resto della notte. Munito, quando recossi a Venezia, di molto danaro contante, il Galantino, giocatore tanto esperto che pareva aver gli occhi nelle dita, governavasi però prudentemente al ridotto, e in modo da lusingare con mille attrattive i suoi compagni di giuoco, perchè, rilasciato il freno all'avidità, non potessero andare a letto senza prima tuffarsi a piene voglie nel flusso e riflusso dell'azzardo.
Fornito d'oro, egli conduceva le cose in modo da tenere il banco di sovente; ed era un tagliatore di tanta destrezza che in pochi giorni erasi messo insieme una bella sommetta. — La notte a cui ci troviamo con questa narrazione, era la terza d'aprile, ed egli più del consueto era stato favorito dall'audacia e dalla fortuna: onde, in sull'alba, quando uscì da quell'umile caffè, dopo aver bevuto una tazza d'appio, volle assaporare il piacere d'una passeggiata solitaria, spingendo uno sguardo allegro in seno all'avvenire, e scorgendovi già, di mezzo alla nebbia rosata, prospettive di palazzi con macchiette di parassiti intorno a sè, e cocchi e cavalli e tutte le grandezze della vita. Se ne veniva così per ponti e per calli, guardando sbadatamente case ed altane, e sogguardando alla sfuggita le portatrici d'acqua pienotte, già in volta a quell'ora; fin che riuscito al campo Santo Stefano, volse il passo alla casa ove dimorava; ma in quel punto scorse due uomini appoggiati al muro, due uomini che non avrebbe voluto vedere, perchè eran due cappe nere del palazzo Ducale. Diede una rapida occhiata all'intorno, e vide non molto lungi due guardie che passeggiavano, facendo d'occhio di tanto in tanto alle due cappe. — Così queste come le guardie potevano trovarsi là per tutt'altro, ma il Galantino sentì la certezza che aspettavano lui; gli era come quando uno si sente colto da un malore anche lieve durante un morbo contagioso; che in quel malore, provato spesso senza turbarsi, sente con isgomento il sintomo fatale. Galantino si fermò un istante su due piedi, come per fare una rapidissima consulta fra sè e sè; poi, considerato che non c'era a far nulla, mosse difilato, sebbene con placida lentezza, verso la porta della sua casa. — Fu allora che le cappe, venutegli incontro:
— È ella, domandarono, il signor Suardi Andrea di Milano?
— Sono io per l'appunto; in che posso ubbidirle?
— Voglia venir con noi un momento a palazzo.
— Subito?
— Senza perder tempo. Questo è l'ordine.
Il Galantino, con viso calmo, con occhio blando, guardò alle due cappe, e:
— Io sono pronto, disse, quantunque non abbia dormito la notte... Ma vogliano permettere ch'io mi serva della mia gondola...
La gondola è già pronta.
— Allora eccomi qui.
Vennero al rio; la gondola e i gondolieri avevano lo stemma di palazzo. Il Galantino fu pregato di mettersi a sedere sotto il felze; le cappe nere stettero fuori. I remi toccarono l'acqua, e via.



VI


Disceso al palazzo Ducale, il Suardi fu condotto negli ufficj del Consiglio dei Dieci, dove da un segretario gli venne fatta lettura d'una nota del Senato milanese che lo riguardava; dopo di che gli fu soggiunto essere stato deliberato dai signori Dieci di esaudire l'inchiesta del Senato di Milano, facendo scortare il Suardi fino al confine, dove lo si sarebbe consegnato alle autorità competenti del ducato di Milano. Galantino a quell'intimazione, senza smarrirsi in apparenza, quantunque fosse oltremodo percosso nell'intimo suo, rispose: Riuscirgli inesplicabile una tale inchiesta; non aver esso fatto atto veruno pel quale potesse aver timore di chicchessia; che però si sottometteva obbediente al decreto e della Repubblica e del Senato di Milano, certissimo che in poco tempo ai signori Dieci sarebbesi fatta conoscere la causa dell'errore di cui egli in quel punto era vittima. Il segretario non rispose nulla, e soltanto chiesto al Suardi se voleva mandare a prendere le sue robe, se aveva affari lasciati in tronco in Venezia che volesse adempire; e sentito il suo desiderio, provvide a che fosse esaudito. Così in quello stesso giorno venne sotto buona scorta mandato a Milano.
Il Galantino, lo abbiamo già detto, aveva una tal tempra adamantina di corpo, che per il rapporto necessario che è tra materia e spirito, gli rendeva l'animo saldissimo e imperterrito, anche nel più fiero conflitto di quelle circostanze che avrebbero bastato ad abbattere qualunque altro. Avea pure, abbiam detto anche questo, una tal prontezza di veduta, da fargli pigliare di volo la misura esatta delle cose; ne sia prova il non esser fuggito innanzi alle cappe della Repubblica.
Sebbene dunque quell'arresto impreveduto lo avesse a tutta prima sconcertato, come avviene di un uomo robusto colto all'impensata da un colpo violento, tuttavia si riebbe dopo la prima scossa, e si bilanciò per non perdere l'abituale saldezza.
— Chi ne fa una ne fa due, pensava intanto fra sè nel fare il viaggio. E chi non ci mise nè pepe nè sale a tradire il marito, doveva ben tradire un lacchè. Ma va pur là, contessa... Se il diavolo mi toglie da questa trappola... voglio bene che ci rivediamo, e... allora tu sentirai cosa fa il Galantino quando pensa a vendicarsi. Prima però bisognerà scappar dalla trappola... questo lo capisco anch'io. In quanto a me, mi aiuterò... ma sarà sempre bene che gli altri non faccian l'asino... perchè di ragione, se io taccio, essi dovrebbero strapparsi la lingua piuttosto che parlare. Ah signor conte... io penso che la mia salute gli debba star a cuore più che a me... perchè se io cado, anch'esso ha a cadere... e da che altezza! Ben è vero che il conte non mi ha mai nè veduto nè parlato, e potrebbe, in un bisogno, lasciarmi solo nell'intrigo... Ma allora, quand'io sappia stare ben sodo nel dir di no... il malanno svanirà da sè. — E qui a codesti pensieri abbastanza gai in mezzo al disastro, succedevano altri pensieri, tutt'altro che lieti; e si presentavano alla fantasia conturbata del Galantino le parti squallide della sua condizione, malediva il giorno e l'ora che si era lasciato pigliare all’amo da chi non conosceva, per tentare una impresa delle più pericolose; perchè alle cose che già sa il lettore, aggiunga ora avere il Galantino aderito a trafugar le carte, tra le quali era il testamento del marchese F..., per insinuazione di un uomo che a lui volle tenersi ignoto. Che se egli aveva tosto pensato al conte F..., in quella circostanza, e per alcune parole scappate di bocca allo sconosciuto e per altri indizj, ciò non era stato che in conseguenza della sua straordinaria acutezza. Pensando così lungo il viaggio ad un tale sconosciuto, si turbò alquanto nel sospetto che colui, nel frattempo, avesse mai potuto commettere qualche imprudenza; o, per un giuoco non previdibile della maledetta fortuna, anche senza sua colpa, fosse caduto in qualche agguato. Più dunque l'ex-lacchè e l'ex-gentiluomo avvicinavasi a Milano, più smarriva la baldanza e non per il timore di dover passare troppo tempo in prigione, chè a questo, in suo pensiero, si lusingava di anche abituarsi; ma ciò che lo cruciava veramente si era che aveva con sè molt'oro e ricapiti di danaro; oro e ricapiti che avrebbe consegnato al diavolo piuttosto che alla giustizia. Ma a questo punto, per la solita legge del flusso e riflusso, gli vennero i terzi pensieri, che lo rimisero in calma nel punto che fu in veduta di Milano. — Il tarocco l'ho io, riflettè, e bene io fui destro nè a cederlo nè ad abbruciarlo, ed è riposto in tal luogo, che sfido il diavolo a scovarlo fuori; e prima converrà parlare con me. — Ma per quanto codesta riflessione lo avesse alquanto consolato, quando venne in piazza Fontana e guardando per la contrada Nuova vide la facciata negra e burbera del palazzo di Giustizia, uno dei pochi edificj architettonici di Milano che abbiano il di fuori come il di dentro, la sua faccia rosea diventò color di piombo.
Il Senato di Milano, poche ore prima, aveva ricevuto una nota da quello di Venezia, nella quale gli si annunziava la cattura fatta dell'Andrea Suardi e la sua partenza per Milano; però quando il Galantino entrò nel palazzo del capitano di giustizia, la sua venuta era attesa da qualche ora, e già gli era stato preparato l'alloggio. Il più generoso degli avventori non poteva venir trattato con maggior sollecitudine da nessun albergatore. La notizia intanto che le presunzioni pel fatto di casa F... erano cadute sul Suardi, lacchè notissimo a tutta Milano, era già corsa per la città, come avveniva sempre ad onta di tutte le precauzioni di segretezza; parimenti eran note a tutti le misure prese contro di lui, e questa volta pare che il Senato non abbia desiderato un soverchio segreto, e meno ancora quando il reo convenuto fu catturato; perchè un tal avvenimento accresceva presso il pubblico la riputazione dell'autorità criminale. Tutta la città di Milano fu dunque piena di un tal fatto, e l'aspettazione delle sue conseguenze erasi convertita in un'ansia impazientissima, perchè da un lato in tutti gli animi era spontaneamente penetrata la persuasione che il reo doveva precisamente essere il lacchè; e dall'altro era universale l'opinione che quel giovane furfante doveva aver lavorato per mandato altrui. Ma d'un nuovo fatto era in attesa la città, ed era la liberazione del tenore Amorevoli; a cui sapevasi già dover essere favorevole la sentenza del Senato. Questo, infatti, appena seppe che il lacchè era nelle mani del barigello, si raccolse a consulta e, ad una gran maggioranza, sentenziò per la liberazione del costituito Amorevoli; con ingiunzione però che non dovesse uscire dalla città di Milano fino a tanto che non si fosse iniziato il processo del Suardi, onde poterlo, all'uopo, sentire in giudizio a constatare la somiglianza o meno tra il costituito Suardi e l'uomo che il tenore Amorevoli aveva sempre asserito di aver veduto a fuggire.
Ma se per il cantante di camera del re di Spagna, dopo aver fatto per la prima volta in sua vita una quaresima di tutto rigore in carcere, a un tratto era comparso il sereno; per Lorenzo Bruni le cose camminavano diversamente, e tale e tanta era la mala prevenzione della magistratura contro di lui, che non solo venne chiamata assurda la difesa del Verri, la quale aveva proposto di mandarlo assolto d'ogni pena; ma contro la verità palmare, contro la deposizione di donna Paola, contro la irrecusabile prova esibita dalla lettera stessa della contessa Clelia, prodotta in giudizio, si volle capziosamente persistere nell'accusa di tentato trafugamento a danno della contessa medesima, o pel manco, trarre le cose in lungo, quasi in attesa di nuovi indizj contro il costituito Bruni. Pietro Verri, a cui la cosa fieramente cuoceva, e voleva pure, benchè solo e giovane e avversato dal padre, riuscire a far trionfare la giustizia assoluta contro la giustizia convenzionale, pensò di recarsi ad impetrare per quel fatto la valida cooperazione di donna Paola Pietra di cui era ammiratore sviscerato. Nemico per istinto e per ragionamento d'ogni pregiudizio e d'ogni schiavitù alle consuetudini tiranniche, aveva ammirato in colei quella potenza di ragione e di volontà, per cui, convinta del vero, era stata fortissima contro l'arbitrio; e per cui, avendo fatto ciò che, tra gli spiriti pinzocheri e il vulgo impregnato di idee false, doveva pure generare scandali e persecuzioni, non per tanto s'era comportata di maniera, da produrre gli effetti contrarj; onde fuggendo dal convento, ed essendo passata dalla vita claustrale a quella del secolo, aveva tuttavia fatto forza all'opinione vulgare ed era salita in tanta venerazione, che la maggiore non avrebbe potuto conseguirsi in verun altro modo. Il qual caso singolarissimo della vita di donna Paola aveva fatto più volte considerare al giovane Verri come non fosse poi, siccome altri opinava, impossibile il distruggere i pregiudizj e le male abitudini inveterate del pubblico costume; e come se tutti gli uomini che vedono il giusto avessero vero coraggio e costanza vera, gli errori non avrebbero mai avuto nel mondo una vita eccessivamente lunga. Fanciullo e giovinetto, essendo stato più volte insieme colla contessa madre a far visita a quella venerabile donna, pensò dunque che gli tornasse bene parlarle adesso che aveva una cosa importante ad affidarle. Per verità che la casa di donna Paola Pietra era frequentata giornalmente da un numero così strabocchevole di persone, e le cose a cui ella era supplicata di provvedere erano tante e così continue e intricate, che non basterebbe il portafoglio di due ministri per darne un'idea. Però il lettore potrà credere che una tal ragione di vita dovesse riuscire molto incomoda e penosa a quell'egregia donna, e che a' dar spaccio a tutto non le potessero bastare le ventiquattr'ore del giorno. Una tal cosa infatti l'abbiamo pensata anche noi, e al punto da sentirci mancare il respiro, quel respiro che qualche volta avrà dovuto mancare alla stessa donna Paola. Ma a tutto si risponde col dire che ella vi aveva il suo genio, e che recava l'entusiasmo nel pensiero di poter essere utile altrui. Certo che una donna di tal tempra è una eccezione fuor d'ogni ordine comune; ma è perciò appunto che l'abbiam messa innanzi ai lettori; che gli uomini e le donne di tutti i giorni non meritano sempre di essere oggetto alle elaborazioni dell'arte. — Fra Cristoforo, ideale sublime, si rifuggì al chiostro, perchè il mondo lo sgomentò, e non vide che fuori del mondo il da ubi consistam per far fruttare la sua calda virtù a pro de' fratelli. — Donna Paola Pietra fuggì invece dal monastero, perchè non sentiva come nel claustro ella potesse esercitare un'azione benefica a pro dell'umanità, e volle ritornare nel tumulto della vita e nel fitto della battaglia, felicissima di affrontar pericoli e di medicare ferite.
Pietro Verri si volse dunque alla casa di lei, e fattosi annunziare, senza tanti preamboli così le disse:
— Molte volte, in compagnia di mia madre, io venni qui, senz'altro fine che di vedere dappresso chi, anche fanciullo, io ammiravo tanto; ora vengo per una delle solite cagioni per cui vengon tutti: voglio dire, per interessarla ad ajutare delle buone persone, maltrattate dagli uomini. A me è riuscito di sapere come V. S. siasi già interessata a pro del costituito Lorenzo Bruni, del quale io fui eletto protettore per sua disgrazia.
— Per sua disgrazia? in che modo?
— È presto detto: per avere espressa la verità intera, e senza le solite astuzie della prudenza. Perciò sarebbe necessario che V. S. parlasse di ciò al signor ministro-plenipotenziario, il conte Pallavicini, il quale è l'autore appunto dell'ordinanza sulle maschere-ritratti, contro la quale il Bruni non ha altra colpa che della materiale contravvenzione. Ma siccome V. S. sa bene che si vuol persistere nel ritenerlo, se non colpevole, per lo meno sospetto d'aver fatto rapire la contessa... così...
Donna Paola Pietra si alzò a queste parole indignata, e:
— Ciò non è possibile, esclamò; io stessa produssi la lettera della contessa, che toglieva ogni dubbio.
— La luce non c'è, tanto per chi non ci vede, come per chi non ci vuol vedere...
— Parlerò al ministro...
— Prima però sarà bene preparare il Senato, che di ragione verrà interpellato: e i cavilli non mancano, e i sofismi e i soliti giuochi delle carte tramutate e dei bussolotti. C'è poi di più, che la contessa, a rigore di processo, dovrebb'essere sentita personalmente in giudizio... perchè una lettera... la S. V. capisce bene... può essere stata dettata e imposta dalla violenza, e la legge, quando vuole, tiene calcolo di tutto... onde a queste rimostranze il governatore potrebbe... Ella, che ha tanto senno ed esperienza, vede bene come vanno il più delle volte a finir queste cose, allorchè c'entra di mezzo il puntiglio.
— Voi dite benissimo... ma allora che si fa?
— V. S. mi perdoni, ma mi lasci parlare con libertà.
— Io sono qui ad ascoltarvi.
— È necessario che la S. V. senta la ballerina Gaudenzi alla quale io ho già parlato... Questa ragazza è la pupilla del Bruni, ed è la fanciulla più semplice e più virtuosa che dar si possa in seno a qualunque onesta famiglia, non che in mezzo alla polvere d'un palco scenico... ed è tanto sconcertata per la prigionia di quel bravo uomo di Bruni, che darebbe la vita onde vederlo rimesso in libertà. A costei ho dunque detto di venire a raccomandarsi alla S. V.
— Non c'era nessun bisogno, io sono disposta a far tutto quello che c'è da fare... anche senza che questa fanciulla s'incomodi a venire da me...
— Questo lo so anch'io, ma è un'altra la ragione per cui è necessario che questa buona ragazza venga consolata dalle parole e dai consigli della S. V.
— Ma di che dunque si tratta?
— È un affare assai delicato.
— Sentiamo.
— V. S. sa che il Senato... voglio dire i Senatori, almeno alcuni di loro, non sono quelli che precisamente dovrebbero essere... e che taluno, son cose che fa pena a dirle, ha, per esempio, l'abitudine di fare, benchè di nascosto... bottega dell'alto suo ministero...
— Oh!!...
— Io non credo d'aver detto cosa che le possa riuscire assolutamente nuova; ella ha provato di peggio.
— Pur troppo. Continuate.
— Il caso poi ha voluto che quelli precisamente che trattan la giustizia colle ganascie più che colla mente e col cuore, sono i più aperti d'ingegno.... e quel che più fa, sono i più ostinati e violenti, e hanno l'arte di tirar la maggior parte a votare con loro... V. S. vede dunque che...
— Vedo tutto e non vedo nulla.
— Converrebbe che la ballerina Gaudenzi in compagnia d'una sua zia facesse una visita a questi tali... e dopo le suppliche e i sospiri e i pianti... trovasse il modo di lanciar gentilmente deposto sul tavolino verde, tra la penna e il calamajo, qualche rotoletto onnipotente di zecchini. I nomi dei signori senatori a cui l'oro fa dir Toma per Roma son questi e questi (e pronunciò nomi che noi non possiamo ripetere). Ma, continuava il Verri, come si fa a dir tutto questo alla fanciulla, dal momento che a me, per mille rispetti, è impedito di toccar un tal tasto?... Nè lo avrei fatto oggi, se non fosse qui ad ascoltarmi la vostra saviezza.
— In conclusione, a che volete riuscire con queste parole?...
— La vostra sapienza m'illumini; ma se, a mettere in salvo gli innocenti, non ci fosse proprio nessun altro mezzo che il sacrificio di cinque o sei rotoletti... che sono una bazzecola per chi saltando in teatro guadagna più di un ministro, converrebbe forse, per soverchio rispetto alla giustizia, lasciar offendere la giustizia?
Donna Paola Pietra si alzò, e:
— Mandate da me codesta fanciulla. Sentirò e vedrò... ma, caro mio, la cosa è così estremamente delicata ch'io non so quel che sarò per fare. Son propositi che solo a toccarli contaminano la ragione e l'onestà... Un tempo erano crudeli e feroci. Ora han mitigate le apparenze, e son diventati... Oh tempi infelici! Mandatemi dunque la fanciulla.
Pietro Verri partì.
Il dialogo surriferito del conte avrà fatto senso al lettore, e anche noi fummo per gran tempo in dubbio di mettere a nudo cotali piaghe. Ma pensando poi che tutto serve a lezione, e che il fatto solo della possibile pubblicità che tosto o tardi viene a svelare le colpe state commesse nella creduta sicurezza del segreto, può utilmente fare il suo effetto in tutti i tempi e in tutti i luoghi; abbiamo creduto opportuno di affidare per la prima volta alla stampa la notizia di alcuni accidenti della vita pubblica e privata del secolo passato, che finora non ottennero che di passar di bocca in bocca dall'una altra generazione, e di non deviare e perdersi nel trapasso. Ma dove sono i documenti orali di quanto fu riferito? Essi sono scarsi e succinti, ma fedeli; essi sono sfoghi repentini della satira plateale, ma che ottennero di perpetuarsi quasi come l'epigrafe della storia in tavola di bronzo. Chè il popolo avea l'abitudine di nominare alcuni senatori intinti nella pece della venalità con motti proverbiali; e per citarne uno, aveva condannato a subire il disonore della strofa seguente due che in ciò avevan passato il segno:


Divora il C…erro
L'oro, l'argento e il ferro;
Il senator M…tone
Divora anche l'ottone.


Che più? In un vivacissimo diverbio avvenuto nelle aule stesse del Senato, un Morosini, il quale era svizzero (in Senato confluiva la nobiltà non solo del ducato di Milano, ma anche d'altri Stati, della Toscana, per esempio, della Romagna, ecc.), ebbe a dire ad un senatore che avea gran voce in capitolo, ma che facilmente si lasciava pigliare all'amo, Ch'egli non aveva i suoi possedimenti a Biassonno, ossia che non biasciava o non mangiava alle spalle altrui. Se non che quello stesso Morosini che avea la virtù d'essere incorruttibile, assaporava poi con truce diletto i tormenti fatti subire agl'imputati, e assisteva alla tortura sorseggiando la cioccolata.
Ed ora andiamo a trovare il tenore Amorevoli.



VII


La letteratura sarebbe assai più feconda se avesse il comodissimo privilegio della musica, nella quale, allorchè un maestro si trova a contatto di una bella situazione drammatica, e si ricorda d'aver letto in qualche vecchio spartito un bel motivo che gli paja ben adatto alla situazione stessa, se lo appropria senza molti scrupoli e senza timore che gli si possan fare i conti addosso. Il sommo, l'unico, l'immortale Rossini, allorchè un amico gli fece osservare, a proposito d'un suo celeberrimo quartetto, che quella musica trovavasi già in un vecchio spartito di Meyer, il maestrone non fece altro che crollare il capo, ed esprimere la sua compassione per la mellonaggine dell'amico scrupoloso, soggiungendo, per un di più, queste parole: — Dal momento che a quella situazione non c'era e non ci poteva essere musica più acconcia di quella già fatta da Meyer, perchè correr pericolo di guastare una situazione per la smania puerile di fare una musica nuova? — Oh così potessimo godere anche noi di un tal privilegio, e tanto più che vi avremmo un diritto maggiore per la nostra condizione di non immortali! In virtù di questo privilegio noi oggi non avremmo fatto altro che riportare come cosa nostra quella bella variazione che Goethe mise in bocca al suo Fausto sul tèma eterno della primavera: «I ruscelli e i torrenti si disvolgono sotto il soave, vitale sguardo della primavera; il vecchio e debole inverno si va ritraendo sull'ispide cime dei monti. Di lassù ci manda ancora, nella sua fuga, qualche spruzzaglie di gelo, ecc., ecc.,» e così, senza molta fatica e colla sicurezza d'un gran successo, avremmo fatto l'istrumentale d'introduzione all'aria di sortita del tenore Amorevoli, che uscì di fatto di prigione in primavera, mentre faceva una splendida mattina del mese d'aprile, un aprile che avrebbe ben potuto chiamarsi fiorile anche prima della nuova nomenclatura della repubblica francese. Oh dev'essere bene esuberante la gioja che prova un galantuomo il primo istante che, preso commiato dall'amico secondino, esce all'aperto, libero, tra gente libera... vogliamo dire senza manette. E una tal gioja non possiamo gustarla che per intuito, dal momento che non abbiam mai avuto, non sappiamo se la disgrazia o la fortuna, d'andare in prigione; diciamo la fortuna, perchè da quel Giuseppe che disprezzò la moglie di Putifarre, al violinista Tartini, pare che la prigionia talvolta faccia l'effetto d'un di que' sogni per la cui virtù discendono infallibili ai mortali i numeri del lotto. Ma, per tornare a’ fatti nostri, Amorevoli uscì tutto attillato, dalla prigione; chè i secondini pagati lautamente da lui, gli avean sempre fatto i punti d'oro. Uscì, e venendo per contrada Nuova e piazza Fontana, s'avvide di esser presso alla contrada Larga, e, per conseguenza, vicinissimo al teatro Ducale; però non ebbe allora altro pensiero che di recarsi là, e presto si trovò alla porta del teatro. Zampino, il servo del palco scenico, fu il primo a raffigurarlo, quand'egli si mostrò all'ingresso, e fu per cadere in deliquio per la gioja; non c'è nè cane barbone, nè cane maltese, nè cane pinch, che sappia fare smorfie e salti di consolazione alla vista d'un padrone ritrovato, quanti ne fece quel caro nanerottolo di Zampino a vedere la faccia del suo tenore, del signor Angelo Amorevoli, il quale era stato la sua risorsa durante la stagione di carnevale. — Nè Zampino si fermò lì, ma sempre, come un buon cane amoroso che corre abbajando in casa per annunciare alla famiglia la venuta del padrone aspettato, corse in teatro, dove si facean le prove per la stagione di primavera, e ad onta che la nuova prima donna signora Amarillide Bagnoli stesse sfoggiando una cadenza di parata, gridò con quanta voce aveva in corpo: Signori, è qui il signor Amorevoli! è qui finalmente il signor Amorevoli!
Tutti i professori d'orchestra, i cantanti, i coristi, le comparse non ebber più l'animo alle prove, e furon tutti intorno all'Amorevoli a tempestarlo di domande e di congratulazioni; tanto che egli si vide obbligato ad invitarli tutti a pranzo all'albergo dei Tre Re, dov'egli era alloggiato e dove, pochi momenti dopo, si recò in compagnia di Zampino, de' cui servigj in quella giornata aveva grande bisogno. — E là non è a dire la festa che gli fecero l’oste, i camerieri, il cuoco, il quale andava superbo della confidenza che gli aveva accordato il primo tenore del teatrino, quel tenore tanto affabile che più volte erasi recato in cucina, con insolita degnazione, per ordinargli dopo il teatro il solito brodo a gelatina. — Ma il nostro Amorevoli entrò finalmente nel suo alloggio, rimasto vuoto da tanto tempo, e che l'oste aveva voluto a buoni conti chiudere a chiave nel tempo della cattura, pensando che qualcuno avrebbe pagato, e quando non si fosse presentato nessuno, si sarebbe pagato egli stesso col baule e coi tre cassoni, zeppi di roba e di vestiarj. A proposito dei quali, Zampino fu tosto in faccende per far loro pigliar aria, chè questa era sempre stata la sua incombenza; e intanto che il tenore attendeva a dare udienza alle visite, delle quali, dopo alcun'ora, cominciò la processione, era bello vederlo a togliere da un cassone un elmo che aveva servito nella parte d'Alessandro nelle Indie, e pulirlo colla seppia; toglier da un altro una daga con lama di damasco, che aveva brillato nell'Artaserse, e strofinarla con panno lano; sprigionare e spiegazzare un manto rosso tutto ricamato in oro, dicevasi, da una principessa incapricciatasi del signor Amorevoli (manto prezioso, che molto aveva contribuito al successo del Ciro in Babilonia), e metterlo a pigliar aria sulla ringhiera; e tirar fuori stili e stiletti d'ogni sorta con foderi di velluto di tutti i colori e prepararli per dar loro la polvere di pomice, e disporre tutte in giro a cavalcione della stessa ringhiera quelle dieci o dodici paja di maglie, color carne, bianche, rosse, azzurre. — Oh com'era felice Zampino di aver ripigliato quell'operazione importante!
Quando le visite, fra le quali, oltre ai nobili ispettori del palco scenico, vi furono molti giovani cavalieri delle primarie famiglie, singolarmente innamorati della musica, concessero un po' di respiro al nostro tenore, divenuto in quel dì il personaggio più considerevole della città, al punto che se avesse fatto pagare il biglietto d'ingresso per farsi vedere, avrebbe guadagnato una bella somma; allorchè dunque tutti coloro lo lasciarono respirare, ed ei si trovò solo un istante, colse il momento opportuno, ed uscì per recarsi egli stesso a fare un atto di dovere con sua eccellenza il governatore conte Pallavicini, alle cui feste aveva cantato più d'una volta, e che, per quanto gli era stato riferito, aveva messa una valida parola a di lui vantaggio. Quando dall'usciere fu introdotto nell'anticamera magna, dove da qualche ora stavano in aspettazione i molti che si erano dati in nota per parlare a sua eccellenza, vide uscire dalla stanza del governatore la Gaudenzi appunto, insieme con la quale trovavasi donna Paola Pietra, ch'egli non conosceva. — Si riconobbero tosto e l'una e l'altra, e pari essendo stata la meraviglia in ambidue, si corsero incontro interrogandosi a vicenda:
— Voi qui?
— Qui voi?...
E tosto la Gaudenzi volgendosi a donna Paola:
— È il signor Amorevoli, disse.
— Che oggi per la prima volta respira un po' d'aria libera, soggiunse tosto egli stesso.
Donna Paola, sentendo quel nome, non potè a meno di guardare il tenore con grande curiosità, ma non disse nulla.
Continuava intanto la Gaudenzi:
— Sono qui, come vedete, perchè la nobile signora (e additava donna Paola) che si è degnata di accordarmi la sua protezione, ha avuta la compiacenza di presentarmi ella medesima a S. E., per impetrare la grazia del signor Lorenzo Bruni.
— Scusate, disse Amorevoli, io vengo dal bujo, e veggo ancor bujo; qualcosa ho sentito dire, ma di preciso non so nulla; intanto che aspetto, vogliatemi dunque raccontare ogni cosa; e con atto di cortesia presentava una sedia a donna Paola.
— Non vi pigliate incomodo, ella disse, mi attende la carrozza che mi dee condurre dove sono aspettata. Voi intanto, cara mia, soggiunse volta alla Gaudenzi, indugiatevi qui fin che il segretario vi porga il biglietto confidenziale di S. E. per il presidente del Senato... E in quanto al resto, vivete di buon animo, chè presto, mi lusingo, sarete uscita da ogni fastidio; che Iddio vi benedica! — E partì.
— Oh che santa donna, oh che donna amorevole è quella che ora ci ha lasciati! disse la Gaudenzi. Senza di lei sa Iddio che mai sarebbe avvenuto di Lorenzo! — E si fece a raccontare all'Amorevoli tutto l'imbroglio storico che noi sappiamo. Amorevoli, che in prigione non aveva raccolto che qualche frammento di notizia dai secondini, il quale gli avea cresciuto la confusione delle idee, mentre poi coloro che lo avean visitato all'albergo non l'avevano intrattenuto che di complimenti, credette di sognare quando sentì la storia della maschera, del deliquio, della fuga, dell'arresto.
— Dunque la contessa è fuggita?
— Fuggita, sicuro.
— Ma dove?
— Si dice a Venezia.
— Oh!!!...
Amorevoli tacque...; la Gaudenzi non parlò. Un eloquentissimo silenzio durò per qualche momento.
— Ma voi dovete ballare al san Moisè questa primavera, soggiunse poi Amorevoli.
— Sì... e devo partire a giorni, e faccia la fortuna che Lorenzo ci abbia ad accompagnare. Ma ho sentito che anche voi...
— Io sono scritturato, a stagione, pel carnevale venturo...; in quanto alla primavera, non sono obbligato che per sei recite, e non ho potuto dir di no, perchè quei signori patrizj mi hanno mandato una cambiale colla cifra in bianco; perciò vedete bene che ho dovuto lasciarmi vincere.
La Gaudenzi sorrise, e non rispose nulla. In quella entrò un segretario di S. E., e le consegnò una carta, ricevuta la quale partì di là, insieme colla zia che l'attendeva in un angolo dell'anticamera.
Amorevoli stette aspettando che venisse la sua volta di essere introdotto al governatore; per il che dovette lasciar passar quasi un'ora avendo cangiata la noja dell’aspettare nell'altra noja non meno pesante di dover subire mille interrogazioni da quanti erano là ad aspettare con lui.
Entrò finalmente dal governatore, trovò affabile accoglienza, parlò, ebbe lusinghiera risposta, prese commiato, e, partito di palazzo, e adempiute alcune altre faccende, ritornò finalmente all'albergo dei Tre Re, dov'era già preparata una gran tavola per più di quaranta posate, la quale era la tassa che Amorevoli doveva pagare per essere stato liberato dalla prigione.
Il numero dei convitati l'avea dato Zampino, che in quel giorno fu cameriere soprannumerario e sovrintendente. Poco prima delle due tutti i commensali eran raccolti all'albergo. Alle due fu dato in tavola. Vi sedevano la nuova prima donna, il nuovo primo tenore, il nuovo primo basso. Il primo violino direttore d'orchestra, il maestro Giambattista Lampugnani, compositore e concertatore; i rappresentanti di tutti gli ordini della gerarchia teatrale. Il pranzo principiò in silenzio, si animò a mezzo, si riscaldò poscia; prima cominciarono a parlare alcuni, poi ad uno ad uno entrarono tutti gli altri col sistema precisamente degli stromenti d'orchestra; e col sistema del crescendo rossiniano, allora nemmen sospettato dai maestri, quantunque fosse un modo spontaneo della combinazione dei suoni, tutti si confusero finalmente in quel poderoso e strepitoso unisono che compromette il timpano degli orecchi delicati. Quando poi corse il moscadello e il monterobbio, e le idee nei cervelli riscaldati cominciarono a far la ruota, non vi fu più ritegno nè di parole nè d'allegria.
— Viva il tenore Amorevoli!
— Viva il re dei tenori!
— La simpatia delle platee.
— Dite piuttosto dei palchetti.
— Ah mio caro Amorevoli amoroso, saltò su un tal Frontino, secondo tenore, un po' esaltato, tu porti il nome con te e dovunque tu vada, quando non fai da Giasone, fai da Paride e fai da Enea... Ah diavolo che tu sei, ti ho seguito un pezzo per tutti i primi teatri e d'Italia e di fuori... e dappertutto hai sempre fatto l'effetto d'un tizzone gettato in una polveriera... Ti ricordi a Roma... ti ricordi a Napoli... Oh, a Napoli... quello fu un contrattempo!... E a Madrid... a proposito, sei guarito da quella puntura nel collo?... Ah... ecco qui...


Chi si guarda dal guarnello,
Più si guarda dal coltello....


Ah! ah! ah!… Poveri mariti, dove tu bazzichi... È però anche vero che non sei de' più fortunati... Là il collo fasciato, qui le mani legate. Ah! ah! ah!, e rideva un po' perchè aveva ragione, un po' perchè il vino rideva per lui.
— Taci, taci, Frontino, disse Amorevoli, e lasciami in pace, e se sei allegro più del solito, sta in carattere almeno e parla di cose allegre.
— Ho detto così per dire, e anche per darti un consiglio, il mio Amorevoli, perchè so che tu vai a Venezia... e quella è la città dei pericoli e dei trabocchetti amorosi. Però sta in guardia.
Ma gli altri compagnoni, sebbene allegri come il secondo tenore signor Frontino, diedero di svolta a quel discorso malsano, e trovati altri propositi, prolungarono sin quasi a sera lo sturamento del monterobbio; e se ne uscirono tutt'altro che responsabili della conservazione del loro centro di gravità. E fu davvero un mezzo prodigio se, verso mezzanotte, i suonatori del teatro raccapezzarono tanto di lena e di fiato da mettersi a sedere ad una orchestra posticcia innanzi alla porta dell'albergo dei Tre Re, per fare una serenata di congratulazione e d'addio al celebre tenore che il giorno dopo doveva partir per Venezia; perchè, se il lettore non lo sa, lo sappia adesso, che prima di abbandonare il Capitano di giustizia, condotto a guardar la faccia di Galantino, protestò di non ravvisarlo affatto; onde ebbe licenza, se voleva, di partire anche dalla città di Milano.
La parte giovane e vivace e tanto quanto musicale della popolazione di Milano, che aveva subodorata quell'accademia a ciel sereno, affollò la contrada dei Tre Re, e, secondo il costume imperscrivibile dei giovinotti di tutti i tempi e di tutti i luoghi, fecero un baccano del diavolo, e chiamarono a gran voce il tenore, che dovette più volte mostrarsi sul poggiolo dell'albergo a ringraziare, come se fosse una testa coronata, il buon popolo delle attestazioni di benevolenza onde gli era cortese; e finalmente potè andar a dormire quando i violini cominciarono a sentir l'aria umida della notte, e gli strumenti da fiato cessarono di ricever fiato dai loro proprietarj, che sonnecchiavano coi corni e i clarinetti in bocca.
Ma v'è chi dorme di notte, e v'è chi veglia; e precisamente quando il tenore Amorevoli potè pigliar sonno, vegliava ancora... chi? un uomo di cui il lettore si è forse dimenticato: il conte ex colonnello V..., il marito della contessa Clelia.
Noi lo abbiamo lasciato in un tristo momento, in cui l'ira gli era stata dimezzata in petto dalla pietà... Dopo, dovette cedere alle circostanze... ai pianti della madre di donna Clelia, a quelli della sorella, ai consigli del fratello... D'altra parte, fuggita la contessa, imprigionato il reo tenore, quand'anche avesse voluto far mulinelli collo spadone che aveva portato al reggimento, non avrebbe potuto che farli all'aria: si contenne dunque fremendo, al punto che potè aderire al suggerimento di suo fratello, uno del nobile collegio dei giureconsulti, e presentar la petizione formale per ottenere contro la moglie la divisione giuridica di letto e di mensa. — Essendo poi noto sì a lui come al parentado che la contessa erasi rifuggita a Venezia, dopo il falso gioco tentato per far credere ch'ell'era stata rapita, più volte ei fu in procinto di recarsi colà, e solo si trattenne al pensiero che poteva nascere uno scandalo nuovo, superiore al disonore. Oltre a ciò, il fatto che l'Amorevoli era in prigione, e trovavasi chi sa per quanto tempo fuor d'ogni libertà d'azione, gli ammorzò il furore per quella parte che bastava onde non lasciarlo partir da Milano.
Ma durante quella giornata seppe che il tenore era stato messo in libertà; seppe inoltre (e a una tal notizia poco bastò non uscisse di cervello affatto), che il tenore era stato scritturato dai messeri ispettori del teatro di Venezia per sei recite. — Un uomo placido e di buon senso e di spirito, che fosse nato, per esempio, a Parigi e fosse un seguace del sistema onde colà trattavansi le infedeltà conjugali, non avrebbe fatto altro che recarsi a domandar consigli di prudenza a una mezza dozzina di ballerine voluttuose del teatro del Re... Ma egli era ispano-italico.E questo fu il contrattempo. — Perciò, dopo il primo subbollimento del sangue, si contenne in apparenza, e si finse tranquillissimo coi parenti, col fratello, cogli amici; e tutto questo per potere annunciar loro, senza generare sospetti, che voleva lasciar per qualche tempo la città, e uscire a diporto... Partì dunque due giorni dopo, quasi contemporaneamente all'Amorevoli... e, pur troppo, alla volta di Venezia. Abbiamo pertanto, lettori amici e nemici, tutte le ragioni di credere che la guerra sia tutt'altro che finita, e che soltanto siasi trasportato altrove il quartier generale.

LIBRO QUARTO


Il giovane Parini. — Una lezione intorno ad Orazio. — I due figli di donna Paola Pietra. — Venezia ed il suo maggio. — La contessa Clelia, ed il gondoliere—poeta Antonio Bianchi. — Il conte V... — Preliminari del processo del lacchè Galantino. — Gli statuti criminali di Milano. — Il diritto romano e comune. — I giurisperiti interpreti. — Il giovane Angelo Emo. — Il palazzo Pisani e l'architettura a Venezia. — Il conte Algarotti. — Letterati, pittori e architetti veneziani. — Il padre Vallotti e il violinista Tartini. — La contessa Clelia V..., e il recitativo del maestro Vinci. — La suonata del diavolo. — Il duello e i suoi commentatori del secolo XV. — Il conte V... — Il tenore Amorevoli e il gondoliere—poeta.


I


..............Si et vivo carus amicis,
Causa fuit pater his; qui macro pauper agello
Noluit in Flavi ludum me mittere, magni
Quo pueri, magnis e centuribus orti,
Lævo suspensi loculos tabulamque lacerto,
Ibant octonis referentes idibus aera;
Sed puerum est ausus Romam portare docendum
Artes, quas doceat quivis eques atque Senator
Semet prognatos..............


Così è, cari miei; espressamente vi ho fatto tradurre questo passo d'Orazio della satira VI del libro primo, perchè impariate a conoscere questo poeta, osservato in tutte le sue facce... Il vostro professore di rettorica, il quale fu anche mio professore può aver ragione... ma non mi par giusto che si debba chiamar vizioso chi del suo padre serba così onorata memoria; e ad ogni momento non cessa di esprimergli la sua gratitudine, e vivendo tra cavalieri e accanto a Mecenate, esalta il padre liberto, e dice:


.......at hoc nunc...


Leggete qui:


Laus illi debetur et a me gratia maior.
Nil me pœniteat sanum patris hujus.


Costui non poteva dunque essere nè cortigiano mai nè vile.
Ci vuol altro che richiamar sempre l'epistola Cum tot sustineas, ecc., dove Flacco per la prima ed unica volta esagerò le lodi d'Augusto, e della quale fu cagione una lettera minacciosa scritta dallo stesso principe a lui; ci vuol altro che dimenticare a bello studio il coraggio onde Orazio non dubitò di ricordare i suoi legami con Bruto, e di lodare gli ultimi eroi della repubblica agonizzante, e di rifiutare il posto di segretario presso Augusto medesimo. Così è, i miei ragazzi; tuttavia io non voglio già dire che Orazio fosse senza peccato; chi lo è in questo mondo? chi lo poteva essere in que' tempi? ma dico e sostengo, e ad ogni occasione vi mostrerò, che egli fu uno degli uomini più virtuosi e più schivi e modesti e più liberi di quel tempo e di tutti i tempi. Nè se non fossi convinto di ciò, mi sarebbe sì cara la sua poesia, nè io sprecherei il mio tempo a spiegarla a voi con tanto amore e costanza, se credessi quello che il padre Branda dice di lui. Io non posso scompagnare quel che si pensa da quel che si fa, nè posso dividere la ragione della vita dalla ragione dell'arte, perchè chi conduce torbidi i giorni non può aver limpido il pensiero; onde, se io pensassi d'Orazio quel che ne pensa il padre Branda, getterei le sue odi e le sue satire da questa finestra; nè voi, cari ragazzi, mi avreste vostro ripetitore, se fossi condannato a magnificarvi la potenza dell'ingegno di un uomo di cui disprezzassi la vita. Intanto da questo passo vi è mestieri apprendere come dobbiate onorare la memoria paterna, come dobbiate venerare la vostra madre santa.
— Che cosa ha il nostro signor abate, disse in quella donna Paola Pietra che entrava, nella stanza di studio dei suoi figliuoli.... Cos'avete, mio caro, che tuonate come un predicatore dal pulpito? e sorridendo amabilmente, strinse la mano al giovane abate, che tutti i giorni veniva a far la ripetizione ai suoi ragazzi, i quali frequentavano le scuole Arcimboldi.
— Nulla, o signora, ma in talune cose non posso andar d'accordo col reverendo padre Branda, che onoro moltissimo, e al quale mi lega gratitudine di scolaro. E non lo potendo, ho l'obbligo di parlar chiaro e di dir tutto il mio pensiero anche a questi cari giovinetti. La questione riguardava Orazio, di cui, contro il padre Branda, sostengo che non solo era un grande poeta, ma era anche un poeta galantuomo, perchè se non fosse così e se intorno a ciò non avessi tranquillissima la mia coscienza, non sarei mai a permettere che dei ragazzi avessero a correre pericolo di contaminarsi a leggere le opere di tale, di cui non si potesse vantare una vita complessivamente onesta; perchè è una mia opinione che, pur di sotto alle avvenenze della forma, serpeggerebbe il veleno funestissimo ai giovani.
L'abate che parlava in tal modo, alto, scarno, che nell'esprimersi mandava lampi dai grandi occhi neri, e spirava un'aura solenne dall'arco maestoso del ciglio e dalle forme del volto già austero, per quanto fosse giovane, tanto giovane che gli mancavano 25 giorni a compire gli anni ventuno, era Giuseppe Parini. Donna Paola si compiaceva ad assistere ella stessa alle ripetizioni che il Parini dava a' suoi figli, e perchè si dilettava di quelle animosissime digressioni, e perchè alquanto ne serbava in mente per venire, all'uopo, in ajuto dei figliuoli, quando soli attendevano ad eseguire il còmpito che dava loro il professore. In quanto al Parini, ei s'infervorava per tal modo nella spiegazione de' classici latini, e segnatamente del suo prediletto Orazio, che il più delle volte bisognava che donna Paola lo pregasse a desistere, ed aversi qualche riguardo; e gli facesse presente dover esso dare altre ripetizioni in altre case prima che terminasse la giornata.
Ciò che può fare grandissimo un uomo in quelle arti dove la forma e il gusto sono indispensabili a rendere efficace ed evidente ed amabile il concetto, e segnatamente poi s'egli è nato per esser genio di perfezione più che d'originalità, è, diremo, la fortuna di trovare fra i grandi autori colui che abbia quasi identiche alle sue, oltre alle qualità primitive dell'intelletto, anche talune circostanze della vita. Il Parini, nel suo presago orgoglio giovanile, si compiaceva forse di quel concorso fortuito di accidenti pel quale, siccome Orazio dalla natia Venosa era stato condotto a Roma dal padre liberto; così a lui era toccato un padre tanto amoroso, che non dubitò di vendere l'umile poderetto presso l'Eupili, pel desiderio ch'ei potesse attendere agli studj nella capitale del Ducato di Milano.
Applicatosi a questi e passato alle lettere umane, quando il Parini conobbe Orazio, forse credette conoscer di più sè stesso, e poter misurare con maggior sicurezza le naturali e caratteristiche qualità del proprio ingegno. — Fu quello adunque il suo autore; lo studiò, lo tradusse, lo sottopose alla più minuta analisi, disfacendolo, a dir così, per rifarlo; come chi nato, per esempio, alla meccanica, si prova a scompaginare e sciogliere ad uno ad uno tutti i congegni d'un movimento d'orologio, per provarsi a ricostruirlo poi da capo. Egli è a questo modo che lo studioso diventa padrone di una disciplina o di una parte di essa, al punto ch'ella si faccia obbediente e docile alla sua volontà, e possa così ampliarsi e fruttificare in nuovi aspetti. Egli è di tal modo che nella scienza succedono le scoperte, e nelle arti le innovazioni e le riforme del gusto. Ma codesta indagine insistente intorno agli autori latini e ad Orazio, era appunto giovata al Parini dal bisogno inesorabile per cui doveva salir tante scale al giorno a dar lezioni e ripetizioni a dieci soldi l'una, onde soccorrere alla madre poverissima non che a sè stesso. Dovendo spiegare ad altri un oggetto, nel bisogno di far passare nell'altrui mente le idee e le cognizioni che stanno nella nostra, sotto l'assiduo martello dell'analisi, si svelano interi e ad uno ad uno tutti gli elementi costitutivi di quell'oggetto stesso. È così che il sapere si trasmuta in sangue, come un cibo sano assimilato da uno stomaco perfetto.
In quelle lezioni e ripetizioni che il Parini dava a non pochi suoi allievi, senza ch'egli se ne fosse fatto un sistema premeditato e discusso, bensì per la spontanea felicità del suo ingegno, era riposto il metodo più sicuro e più amabile d'istruzione. La bellezza fatta gustare dalla vivacità dell'espositore attraeva i giovani ingegni, i quali, una volta fermati nella contemplazione di quella bellezza medesima, s'infervoravano negli studj, dei quali s'appigliavano poi a taluna delle molteplici diramazioni a cui si volgeva col tempo la speciale loro vocazione. Parini spiegando un'ode d'Orazio, per l'associazione spontanea delle idee e per la sua naturale facondia, divagava a più cose; e gli scolari in quelle divagazioni imparavano ad interrogare sè stessi per determinarsi poi ad una disciplina speciale. Però anche nel maggior progresso de' tempi sarebbe sempre stato avverso il Parini a quella infesta enciclopedia onde si condannano a stanchezza anticipata le menti giovanili nel punto medesimo che si profumano d'orgoglio; chè, per codesta enciclopedia, si trascura, quasi come accessoria, l'arte prima di dare ordine logico e forma decorosa al pensiero, la quale, appresa nei classici prosatori e poeti, cosparge di gentilezza perpetua tutta la vita, e da essa scaturisce poi il desiderio di riparare a scienze più sode, ma in quella età che è robustissima a comprenderle, a trattarle e a dominarle. Da fanciulli imbrattati di polvere enciclopedica, che hanno ridotto l'intelletto come una pietra lavagna continuamente scritta e continuamente cancellata dallo sfregatojo, e ammaestrati a disprezzare la forma del pensiero, quasi che la forma non fosse un modo del pensiero stesso, non potranno uscire uomini capaci a far progredire nè un'arte nè una scienza mai.
Ma, più che codesta nostra incompleta e nel tempo stesso troppo lunga digressione, a mostrare come dovrebb'essere governata l'istruzione letteraria, basterebbe che si potesse riprodurre qui al vero e al vivo una di quelle lezioni che il Parini faceva a' giovinetti a lui affidati. Donna Paola, assistendovi quotidianamente, aveva imparato a stimare di giorno in giorno sempre più il giovine maestro, e tanto più che di mezzo all'esercitazioni letterarie, quando il tema lo eccitava, egli usciva in certi schianti, diremo così, di bile generosa e di caldissima eloquenza, a cui era fomento la nativa severità del suo costume.
Donna Paola lo ammirava, e sentiva pietà del suo povero stato, e avrebbe voluto in qualche modo poterlo soccorrere, se non vi si fosse opposta la dignitosa fierezza del giovine.
Questi intanto continuava la sua lezione, ed ella ascoltava in silenzio. Se non che pareva preoccupata da qualche altro pensiero e quasi le tardasse che non si desse fine alla lezione; perciò quando il Parini fece una lunga pausa al discorso:
— Badate che si fa tardi, ella disse, e voi, come di solito, trascinato dall'amore degli studj e dallo zelo per l'educazione de' giovani, trascurate il vostro interesse. Per oggi dunque può bastare... e voi, disse poi rivolta ai figli, potete fare una passeggiata col domestico.
I due giovinetti si alzarono, fecero un saluto gentile al Parini, baciarono la mamma, e uscirono.
— E così, che vi pare di questi miei figliuoli?
— Io ne spero assai bene. Carlo ha più rapida perspicacia; Arrigo è più tardo. Ma non dubiterei che il secondo non fosse per lasciarsi indietro il maggiore nell'età del più completo sviluppo... Ma cos'ha ella oggi, che mi sembra turbata?... perdoni l'osservazione.
— Lo sono di fatto... anzi... ho bisogno di voi...
— Mi comandi.
— Siete già stato oggi a far lezione al figliuolo della contessa Marliani?
— Ci fui.
— Avete parlato colla contessa, col conte, con qualcheduno di là?...
— Io sì... ma....
— Ascoltate. Io so che la casa Marliani è in gran dimestichezza colla casa V... Mi bisognerebbe dunque di sapere se il conte è realmente partito da Milano, come ho sentito dire ...
— È partito... ed anzi vi dirò che la cosa non è liscia…; la madre della contessa Clelia venne stamattina in casa Marliani... ed era tutta sconcertata... in conclusione si teme che il conte sia andato a Venezia...
Donna Paola balzò in piedi a queste parole, esclamando:
— Ah il mio sospetto! Ma, cosa pensano di fare coloro... Madre, sorella, fratello... i quali non so se abbian sangue in corpo o stoppa?... Io non ci capisco nulla. Aspettar tanto per accorgersi di ciò; e lasciarlo partire senza pensare, senza temere, senza prevedere... Ah gente stolida e senza cuore!
Il Parini facevasi attento.
— Sentite, continuava donna Paola, vorreste voi assumervi un incarico?... È d'uopo che qualcuno apra loro gli occhi... che uno della famiglia.... Se non può la madre, c'è il fratello... cosa fa qui il fratello?… chè non vola a Venezia a difender la sorella? Stolido!!
— Cosa dunque avrei a far io?
— Parlar alla contessa Marliani, senza nominar me in verun modo, mostrarle la gravezza del caso, interessarla a voler determinare il fratello della contessa Clelia perchè si rechi a Venezia senza perder tempo. Io ho già scritto alla contessa, ma che può mai fare una lettera? Ah, caro mio, voi non potete imaginarvi in che tormentoso affanno io mi trovi... io che, nell'intento di stornare de' mali gravi, ne ho forse accumulati di gravissimi... Ma che potevo far di più?...
— Ella non doveva e non poteva essere responsabile delle azioni altrui...
— Fui io stessa a consigliarla di riparare a Venezia, perchè là conoscevo una famiglia d'oro a cui affidarla.
— Dunque?
— Chi poteva sospettare e prevedere che l'uomo per cui ella si trovò in così grave intrigo, per cui lasciò marito, parenti, patria, doveva precisamente trasferirsi a Venezia anch'esso?... Ora dunque potete comprendere di che si tratta... e come sia possibile e probabile e, Dio non lo voglia, forse vicina una tragedia domestica... Fate dunque presente tutto ciò alla Marliani, giacchè la contessa ama qualche volta intrattenersi con voi; sopratutto mi premerebbe che la raccomandazione fosse fatta in modo che paresse una vostra inspirazione.
— Io farò in maniera che possiate esser contenta...
— Un momento fa vi raccomandava di attender meglio al vostro interesse, e di non abusare lo zelo a danno vostro e di vostra madre... Ma ora debbo dirvi tutto il contrario... che bisogna mettiate per oggi da parte tutte le cose vostre... Del rimanente, chi perde il tempo, dee esser compensato... e...
— Che! gridò il Parini, vorrebb'ella togliermi la mia parte di merito, quando, sotto a' suoi ordini, avessi potuto cooperare a vantaggio altrui?
— Non mi guardate così, anima fiera, disse donna Paola sorridendo lievemente; e giacchè so che avete tanto entusiasmo nel fare il bene... andate e siate sollecito, e Iddio vi benedica.
Il Parini partì; donna Paola si gettò a sedere in gran pensiero. E noi mettiamoci sui passi di coloro per cui la pietosa donna tanto si affannava.


II


Se Amorevoli avesse dovuto partire da Milano, lasciandovi quella per cui, avendo sopportato un malanno non indifferente, gli era cresciuto in cuore l'affetto; certo che il contento di trovarsi finalmente libero e in piena balia di sè stesso, gli sarebbe stato amareggiato dal pensiero che forse non avrebbe veduta mai più colei che abbandonava; ma invece, alla gioja della libertà, a quella che gli veniva dalle attestazioni di stima di un pubblico intero, da una salute perfetta, dalla gloria presente e dalla futura (tutte le professioni dall'astronomo al ciabattino hanno la loro gloria), e dalla ricchezza già in parte accumulata e che prometteva di crescere, e per sè stessa e pel frutto de' capitali, si aggiungevano le speranze agilissime e l'esaltazione cerebrale di chi move, per un felice concorso di circostanze, là precisamente dove si trova la persona che in quel momento è, fra tutte, la più desiderata; e per la quale, tanto si è prodighi quando l'affetto è in tumulto, si darebbero in compenso alcuni anni della vita onde toglier gli ostacoli che si frappongono al completo suo possesso. Ma per questa gioja, per queste speranze appunto, il viaggio di cent'ottanta miglia gli riuscì nojosissimo, e s'impazientò più volte col lento postiglione e colle ardue e tortuose e fangose e ciottolose strade che facevan bestemmiare alla sua volta anche il postiglione, e che invocavano quel sistema a cui, siccome vedremo, fu provveduto finalmente molti anni dopo, per opera di que' nostri concittadini sapienti, che misero coraggiosamente la mano ad estirpare tutti gli avanzi della vetusta barbarie. Ma egli giunse finalmente al Dolo e toccò Mestre, e là, coll'ansia che gli cresceva in petto in ragione che si avvicinava all'isola incantata, noleggiò una gondola non avendo voluto entrare nel barcone del procaccio; e sentì finalmente sotto di sè il gorgoglìo dell'onde di quella tanto decantata e tanto da lui vagheggiata laguna; chè delle molte città d'Europa che avevano un teatro celebre, soltanto Venezia gli rimaneva a conoscere, la città musicale per eccellenza, quella i cui giudizj in fatto di musica e di canto, avevano meritamente allora la preferenza su tutti quelli delle altre città. Però, egli era sollecitato da un'altra ansia, che gli derivava dall'amore dell'arte e dal desiderio che anche Venezia suggellasse la di lui celebrità col suo voto autorevole e co' suoi applausi. Chi professa un'arte qualunque per vocazione e con entusiasmo, non può mai scompagnare il pensiero di essa da qualunque altro pensiero. Del rimanente, il gondoliere, giacchè trattavasi di un viaggiatore, e d'un ricco viaggiatore, per quel che gli pareva, non prese nessuna scorciatoia quando fu presso Venezia, e volle fargli gustare lo spettacolo innanzi al quale avea veduti tutti quanti i foresti, com'essi dicono, ad inarcare le ciglia. È commovente e poetico quell'amore veramente figliale che hanno per la loro bella patria anche gli uomini più incolti e più rozzi di Venezia. Il gondoliere gode e si compiace della meraviglia che vede dipinta sul volto del forastiero che per la prima volta, entrando nel Canal grande, non sa farsi capace di una così interminabile schiera di palazzi insigni, tre o quattro de' quali basterebbero a far onore a qualunque città; del forastiero che s'imagina di trovarsi al cospetto di una scena incantata quando la gondola si ferma al molo, ed egli uscendone si trova in faccia la piazzetta.
— Ghe piasela sior? disse il gondoliere quando vide il nostro Amorevoli fermarsi estatico sulla scalea. No la xe mai stada a Venezia, ela?
— No, caro mio.
— E ben, la fazza conto che no i xe qua tuti i so tesori, come se vorave da qualche foresto invidioso... Me credela, sior?
— Perchè non ho da crederti?
— Se vostra zelenza me permetese, gh'avarave vogia de compagnarla mi a veder le maravege de la zittà.
— E vieni, alla buon'ora... ma prima accompagnami all'albergo... al migliore... capisci tu?...
Il gondoliere invitò il suo viaggiatore a rientrare in gondola, e lo condusse allo Scudo di Francia.
— Vieni a pigliarmi colla gondola fra un pajo d'ore, che intanto debbo dar sesto alle mie robe. Tu mi hai faccia da galantuomo, e avrò bisogno dei tuoi buoni servigj... e così dicendo diede al gondoliere una mancia oltre al convenuto.
Il gondoliere vi gettò un occhio di traverso; fu contentissimo e partì.
E tosto Amorevoli, da un cameriere che non era di Venezia, ma parlava l'italiano coll'accento di chi è nato in Francia, fu condotto in una bella camera al primo piano che rispondea sul rio...
— Le piace quest'alloggio?
— Va bene sì... ma...
— Che?
— C'è qualcosa qui presso che non manda buon odore... Io ho le nari, caro mio, assai delicate e permalose... e vorrei...
— Signore, mi permetta di dirle una cosa... A Venezia c'è tutto di grande, di bello, di buono, ma bisogna avvezzarsi all'odore della laguna. Tutte le città hanno il loro difetto... vorrebb'ella che Venezia ne fosse senza?... A Roma vien la terzana a chi va fuori sulle ventiquattro... A Milano c'è l'aria grossa... A Parigi c'è il fango che imbratta le vesti... A Cadice, di notte, vola nell'aria un verme assassino che intacca il polmone. Io ho servito in più città di Europa... e non v'è luogo che non abbia il suo malanno. Però mi permetta, signore, ch'io le dia un consiglio.
— Che consiglio?
— Non tocchi un tal tasto ai Veneziani, perchè c'è pericolo di perdere la loro amicizia. Ella può lasciarsi andare a criticare il loro teatro, la piazza, il ponte di Rialto, il corno del Doge... tutto... ma non tocchi il cattivo odore de' suoi rii... Per questo lato è convenuto che debbano esalare essenza di rose.
Noi non sappiamo se quel cameriere, che non era di Venezia, dicesse la verità, ma in ogni modo si vede che le città son come gli uomini. Canova s'indispettiva se altri non dava alcuna importanza alle sue povere tele; e non teneva gran conto dell'ammirazione che tutta Italia prodigava alle sue grandi opere statuarie.
In quanto ad Amorevoli, egli non trovò da replicar nulla col cameriere, e dato sesto alle sue robe e rimbionditosi con ogni cura, discese a mangiare; dopo di che aspettò che venisse l'uomo della gondola, il quale venne in fatto sull'imbrunire.
— Ormai si fa tardi, caro mio, e ci resta ben poco a vedere...
— Ma no sala, zelenza, che Venezia la xe megio de notte che de zorno... La se contenta de lassarse guidar da mi, e la vederà che cosse grandi, sior!
Dopo pochi minuti erano al largo verso la Zueca. Il felze era stato levato, e Amorevoli appiccò conversazione col gondoliere, da cui sperava di raccogliere tutto quello che gli abbisognava.
Lasciamoli dunque andare. E noi vediam d'abbandonarci a qualche digressioncina, secondo il solito.
Noi siamo dunque ammiratori entusiasti della città di Venezia. Basta il dire che la nostra fortuna è che Venezia non sia una donna; diversamente chi sa che tremende pazzie avremmo commesso per amor suo. A dare una prova di codesto amore sviscerato, chi, per esempio, a voce e in scritto ha lodato più di noi il suo mese di maggio? Dappertutto questo mese è tenuto in grande riputazione, e i devoti lo chiamano perfino il mese di Maria, tanto è soave e benefico. Con tutto ciò a Milano il mese di maggio, nel suo carattere verace e completo, non lo si conosce che per relazione e in teoria, e per quelle nozioni che si attingono dai poeti classici greci e latini, i quali, imbalsamati come erano dal vento che soffiava dal mare Argolico o dal porto di Ostia, poteron gustare il maggio in tutto il suo splendore; ma in pratica, almeno per quanto ci consta, Milano non sa che cosa sia un tal mese, e non trova in esso che la più completa contraddizione alle descrizioni dei poeti. Invece a Venezia è tutt'altro. Venezia è la madre adottiva non solo del chiaro di luna, ma sì anche del maggio; e noi possiam dire d'aver fatto la conoscenza di lui soltanto sotto il suo cielo! Almeno, nei due anni che vi passammo, quel mese fu d'una eleganza così greca, d'una mollezza così orientale, che non potremo dimenticarlo così facilmente. Se non che, mescendosi all'eleganza, come dicemmo, la mollezza, il maggio di Venezia è un mese pericoloso. Lord Byron, che faceva i suoi computi a seconda del meridiano di Londra, trovò essere il giugno il men puritano dei mesi; ma noi, cresciuti in plaga più mite, siamo stati obbligati a fare il trasporto di trenta giorni. È a Venezia, pur troppo, almeno secondo la nostra esperienza, è nel mese di maggio che l'uomo, riscaldato dal sole di una primavera orientale, e circonfuso dalle molli aspergini marine, prende somiglianza del baco, il quale pasciuto e sazio di foglia, s'irretisce lieve lieve nel serico filo, aspettando di eromperne farfalla. In quanto poi all'anno 1750, il mese di maggio veneziano cominciò appunto co' più lieti pronostici del suo limpido sole, del suo cielo trasparente e dell'aure sue mitissime, attraversate di quando in quando dall'afrodisiaco scirocco.
Però anche alla contessa Clelia, non avvezza al clima veneziano, più che mai parve balsamica in quell'anno la stagione primaverile; e confrontandola alla consueta di Milano, le sembrò tutt'altra cosa; di modo che parlandone ai signori che la ospitavano:
— A Milano, ella diceva, la primavera è la stagione in cui s'accumulano tutti i disastri delle altre, e sebbene anche laggiù la si debba chiamare la gioventù dell'anno, è una gioventù infelice, travagliata e disperata. Quasi quasi, se non fosse per le buone speranze che dà, sarebbe da posporsi alla vecchiaja.
Da queste parole si vede che, anche prima del taglio delle foreste, le primavere milanesi non eran le più accreditate neppure nel secolo passato; tale almeno era l'opinione e l'esperienza della contessa Clelia. Ma ella, siccome spirava il vento più molle, più carezzoso e più tepido sull'espansa laguna, sentiva così a circolare in sè più rapido il sangue e più caldo, il che le comunicava all'intelletto, e più alla fantasia, che è una sezione di quello, una indefinibile esaltazione e un tumulto di desiderj vaghi, che le impedivano persino di dar tutto il peso all'infelice situazione in cui versava. Per molti e molti giorni. avea saputo essere costante a non uscir mai dal proprio appartamento, e ad imporsi tutti gli obblighi di una volontaria prigione; ma un dì cominciò a creder ragionevole di poter far parte della serale conversazione che tenevasi in casa Salomon; e siccome eravi stata accolta con que' segni di stima e di amorevolezza che troppo rare volte avea trovato a Milano, così non fu per nulla restìa a passare da quella conversazione ristretta, tranquilla e casalinga, alle altre di case più cospicue ed affollate del bel mondo. E là, fra tanti giovani che le fecero cerchio intorno, trovò persino entusiasmo. I romanzi dell'abate Chiari eran letti avidamente allora, e avean messo in tutti gli animi giovanili il desiderio del maraviglioso e dello strano; onde la contessa V... di Milano, giovane, bella, dotta, avvezza a trattare con dimestichezza i corpi celesti (chè di ciò era corsa la voce anche là...), infedele al marito, la qual cosa, in un secolo corrotto, facea stupendo giuoco più ancora dell'astronomia; per di più, innamorata del più bravo e del più bel tenore del secolo, personaggio che in una città musicale dovea produrre l'effetto di un giovane e prode capitano dei dragoni, in tempo d’esaltazione guerriera; e, per il non plus ultra del romanzesco, autrice di una fuga disperata (le fughe hanno sempre trovato entusiasti in tutti i tempi, ad eccezione di quelle in musica); tutte queste cose avean dunque fatto sorgere intorno a lei un'atmosfera di splendori così abbaglianti, che l'ammirazione per lei, in un periodo in cui le pesanti parrucche ajutavano a riscaldare i cervelli, diventò, come dicemmo, entusiasmo, diventò delirio. Se poi la contessa Clelia si compiacesse di ciò, non tocca a noi a dirlo. Era la prima volta che provava quel genere nuovo di soddisfazioni; laonde del non aver essa voluto o saputo ritrarsi da quel vortice, noi non ci sentiamo il coraggio di condannarla. Per giunta aveva trovata accoglienza e cortesia straordinaria persin nelle donne, fatto piuttosto unico che raro; ma bisogna considerare che, in virtù di tanto intreccio di cose, ell'era salita a quel fastigio che toglie perfino il sentimento dell'invidia. Ell'era insomma una specie di lord Byron vestito da donna e in guardinfante. Però se le altre patrizie bellissime e argutissime, chè di tali Venezia ebbe a tutte l'epoche forse la più eletta schiera, esercitavano tra di loro, e come a dire in famiglia, le loro gare, le loro invidie, le loro guerre più o meno astute, più o meno perfide, tutte si trovavan poi d'accordo nel festeggiare l'ammirabile lombarda.
Ma, come sappiamo, il sole era entrato in gemelli, e verso notte le gondole avevan cominciato a vogare a diporto. Però anche donna Clelia, ch'era stata chiusa tanto tempo, ebbe volontà di uscire all'aperto; e per non incomodare la famiglia dov'era ospitata, e anche perchè amava di figurare sola (non c'è nè donna nè uomo, compromessi da qualche po' di fama, i quali sappiano resister sempre all'assalto della vanità), si fece noleggiare per qualche tempo gondola e gondoliere. I signori della casa credettero farle una grata sorpresa mettendo a' suoi servigj il più celebre allora dei gondolieri di Venezia. Ed era quel Bianchi Antonio ammirato pel suo raro talento poetico, di cui lasciò prova in due poemi, nei quali tra molti errori di scienza e di lingua, v'è imaginazione straordinaria ed estro vivacissimo.
Il titolo di essi, nelle edizioni da noi vedute, è: Davide re d'Israele, poema eroico sagro di Antonio Bianchi, servitor di gondola, veneziano (Canti XII, Venezia 1751 in fol.); Il tempio, ovvero Salomone (Canti X, Venezia 1753 in 4.°). Vi sono poi altri poemetti comici, quali La cuccagna distrutta, La formica contro il leone, oltre l'oratorio drammatico Elia sul Carmelo. Quando al Bianchi che ad onta della sua condizione di poeta, non cessò mai in tutta la sua vita di far il gondoliere, fu proposto quel servigio e gli fu nominata la gentil donna lombarda, non istette in sulle pretese, e fu tosto a comandi della contessa Clelia. Così, quando Amorevoli capitò in Venezia, era già da tre giorni che la contessa usciva a diporto in gondola tutta sola col suo gondoliere-poeta; e nella sera, quasi nel punto stesso che Amorevoli lasciò lo Scudo di Francia, essa discendeva la scalea di casa Salomon ed entrava in gondola. Antonio Bianchi era un giovane di trent'anni appena, veneziano di sangue puro, tra' più valenti al remo, e onorato di più bandiere nelle celebri regate veneziane; natura schietta di poeta, esso era entusiasta e fantastico, di modo che, avendo saputo anch'esso le avventure della contessa, ed essendogli stato detto come fosse una gran dotta, si compiaceva che gli fosse toccato in sorte di poterle presentare i proprj servigj. Siccome poi in quel periodo di tempo egli stava dando l'ultima mano al poema Davide, così aveva pensato di pregarla a legger que' canti, e di consultarla in quelle parti del poema in cui egli sentiva che l'ignoranza faceva impaccio all'ardua fantasia.
Appena lasciata la casa, donna Clelia amava recarsi a diporto in sul Canal grande, scorrendo sola tra l'altre gondole patrizie che le si avvicinavano a gara, e dalle quali cadevano su di lei sguardi curiosi e ammiratori: e per dir la verità, ella era tale che per forza doveva fermar l'attenzione. Abbiamo più volte espressa la nostra predilezione per la bellezza delle donne veneziane, ma nel tempo stesso dobbiamo far luogo ad una nostra opinione che parrà strana, ma forse traduce il vero, ed è: che il fondo della città stessa di Venezia, così pittoresco e così colorito, è il più opportuno a far spiccare una beltà. — Non per nulla i pittori vanno in cerca di quella tal luce, di quel tal raggio azzurro, persino di quella tal cornice per dare il miglior risalto all'opera del loro pennello; può darsi pertanto che la specialità della parte materiale di Venezia giovi alle figure che staccano su di essa.
Molte donne che altrove non ci avevan fatto nè freddo nè caldo, vedute a Venezia ci parvero ammirabili. Quale ne possa essere la vera cagione non è provato a rigore, ma certo che una ragione ci dev'essere. Intanto anche la contessa Clelia è un altro argomento in nostro favore. Oh qual mirabile effetto faceva quel suo corpo maestoso, gettato a sdraio sui cuscini della gondola, e avvolto in una veste di broccato di stoffa turchina a liste d'argento, che, pel lavoro interno del guardinfante, usciva e galleggiava quasi sugli orli della gondola stessa! come incorniciava bene quella sua testa di Minerva l'indispensabile puff di sentimento, foggiato a cimiero, ch'era una delle cento forme allora in voga!... come, di sotto alla polvere bianca onde quel puff era cosparso e quasi inargentato, spiccava il nerissimo arco del sopracciglio e i grandi occhi lucenti! Già il vero non si può nascondere, noi abbiamo qualche debolezza per donna Clelia; e se in teoria e coi trattati d'estetica alla mano combattiamo e combatteremo sempre per gli occhi azzurri, in pratica abbiam sempre usato i dovuti riguardi agli occhi neri, e quelli di donna Clelia poi sono la nostra morte... Ma in prova che non siamo di cattivo gusto, si è che piacevano fieramente a tutti i giovinotti veneziani; che piacevano persino al nostro gondoliere-poeta, pieno di fantasia qual era, e di fervori sentimentali, e di passione caldissima per la bellezza, che è la febbre terzana dei poeti.
Spinto dal naturale desiderio di parlare di sè stesso e delle proprie opere, difetto che rende qualche volta importuni gli uomini dell'arte, il nostro Bianchi gondoliere, dopo aver lentamente condotta come in trionfo lungo il canal Grande la contessa padrona, venuto a santa Chiara, svoltato nell'aperta laguna, e là fermando talora il remo, compiacevasi a intrattenere de' propositi proprj la contessa, che affabilmente l'ascoltava e rispondeva alle sue interrogazioni; al punto che, in que' tre giorni, poteva dire d'aver dato tre lunghe lezioni d'astronomia elementare all'autore del Re Davide. Se non che la contessa lasciava poi cadere il dialogo, per riconcentrarsi ne' proprj pensieri. Ella sapeva che il tenore Amorevoli doveva venire a cantare a Venezia. Il residente veneto di Milano aveva scritto che il processo di lui era compiuto, ch'ei sarebbe uscito presto per venire a tenere il patto ai signori ispettori dell'opera. L'effetto che fece la prima volta una tale notizia sull'animo di donna Clelia, che non aveva saputo mai nulla di quelle sei sere di recite straordinarie, ognuno se lo può imaginare. I fervori erotici le salirono al viso, e mentre la ragione le facea vedere tutti i pericoli che poteano conseguire da quel fatto, sentiva certi soprassalti di gioja insolita, di gioja non voluta; e mentre vedeva che il destino stava forse per tenderle una mala insidia, si fermava con delizia nell'idea che la fortuna avesse voluto espressamente avvolgerle intorno le inestricabili sue reti. Se non che ricordavasi di donna Paola e delle sue ammonizioni; e al vedere coll'occhio della mente quasi impaurita quella santa figura, si vergognava di que' pensieri, di que' desiderj, di quella gioja... Amorevoli era atteso di giorno in giorno... ella ne aveva sentito a parlare di volo ad una conversazione serale, da un gruppo di giovinotti spensierati che, speranzosi di far breccia nel cuore della mirabile lombarda, aveano dimenticato quel ch'era passato tra essa e il tenore.
Intanto la notte stava per calare affatto... smoriva sempre più all'orizzonte la luce crepuscolare... i colli Euganei, ch'ella vedeva, si erano scolorati e come confusi col cielo.
Erano uscite le stelle rare e sparse... era uscito un quarto di luna... suonava l'avemmaria a tutte le chiese; il campanone grave e profondo di san Marco parea facesse sentir la voce storica e veneranda della vetusta Vinegia. Taceva il gondoliere-poeta, intento a poter ritrarre quel poetico vero. Tacea donna Clelia, assorta e mesta, e coll'animo sollevato da una commozione ineffabile. Il gondoliere, avvisato dell'ora tarda, girò la gondola per tornare in canale. Poco prima era passata per di là anche la gondola ove, e fu un punto se non vi si scontrò, trovavasi Amorevoli... di modo che donna Clelia potè vederla materialmente, ma senza provare veruno dei soliti sospetti presaghi e dei soliti palpiti arcani; nel punto medesimo poi ella vide alla sfuggita il lume di un fanaletto che probabilmente doveva essere di una gondola che s'era spiccata allora allora da Mestre, e soltanto il notò pel giuoco che faceva col suo luccicore tremulo e intermittente; ned ella da nessun genio dell'aria, segretario delle belle donne, venne avvisata che se innanzi le correva in gondola la vita, di dietro potea forse venire in gondola la morte.


III


Abbiamo accennato che, quasi contemporaneamente al tenore Amorevoli, era partito da Milano il conte colonnello V... Esso infatti lasciò la città all'alba del giorno successivo a quello nella cui sera Amorevoli erasi messo in viaggio. Il conte V... avea detto di voler fare una gita nelle sue terre; i servi però poterono accorgersi, pei preparativi che loro vennero ingiunti, che trattavasi invece d'un viaggio di qualche importanza e non breve; così quel che allora pensarono nel far le valigie lo avesser subito detto!... ma, come avviene di consueto, parlarono quando non c'era più l'opportunità. E il conte si mise davvero in viaggio per Venezia, ed essendo partito dodici ore dopo il tenore, tanto martellò e pagò i postiglioni, ch'ei potè guadagnare su chi lo precedeva più di mezza giornata. Ma che intenzioni aveva il conte? che voleva? che pretendeva? In verità esso non ne sapea più di quello che ne sanno in questo punto i nostri lettori.
Noi non abbiamo avuto mai il tempo di fare uno studio fisiologico di questo personaggio, perchè ogni qualvolta ci capitò innanzi, si aveva tanta carne a bollire, che appena appena lo abbiam guardato di traverso; ma oggi convien pure che ne tiriamo il profilo, almen col carbone, se non colla matita o col pennello. Quell'uomo, pigliato in natura, non era un cattiv'uomo; e prima dell'invenzione degli stemmi e dei quarti di nobiltà e de' pregiudizj, probabilmente non sarebbe stato nemmeno il più orgoglioso tra i membri dell'umana razza; sebbene la sua testa fosse molto grossa, il che, stando coi cranioscopi, è indizio di gran mente, pure convien che lo spessore della crosta ossea avesse occupato una buona metà dello spazio che bisogna concedere al cervello perchè adempia passabilmente alle sue funzioni. Non vogliamo dire con ciò che esso mancasse al tutto d'intelligenza, no. La sua testa avea più d'uno spiraglio per cui poteva penetrare, sebbene a stento, qualche raggio dal di fuori. Ma le poche idee che erano entrate là dentro vi si fermarono con tenacità pari allo stento onde vi si erano introdotte, generandovi una durezza ed una ostinazione indomabile. Se fosse lecito imitare i caricaturisti parigini, che cercano nella struttura delle bestie le forme più adatte a dar idea di alcune varietà di tipi umani, a quel conte noi troveremmo il riscontro piuttosto in un bisonte, in un ariete, in un merinos che in altro animale. Apparteneva insomma alla razza delle bestie cozzanti, la meno intelligente e la men domabile di tutte. Però, a lasciarlo tranquillo, era un buon diavolone d'uomo; e soltanto ad aizzarlo, ad inquietarlo, lo si riduceva nella condizione d'un toro, che punzecchiato, arrota gli occhi sanguigni, alza la coda, curva il collo, abbassa la testa, e vibra cornate a tutti quelli che gli si fanno incontro. Cresciuto in seno ad una famiglia il cui sangue, per parte di padre, era un fiume reale che aveva avuto le sue prime scaturigini da un ramo del gran ceppo dei re di Spagna; e per parte di madre, da colui che portò dalla terra santa lo scudo colla biscia; l'idea del suo alto lignaggio fu introdotta e ribadita per tal modo nella sua testa colle sue idee concomitanti e conseguenti, che non per sè, ma per quello, si sarebbe fatto mettere in pezzi. A codesta idea convenzionale dell'onor del sangue, veniva poi a confederarsi l'altra idea pur convenzionale e parimente indomabile, e per la sua natura, più pericolosa, dell'onore del soldato. Esso era stato, come sappiamo, colonnello di cavalleria, e le sue fazioni di guerra le avea fatte con coraggio e con fede; e perciò all'assisa, agli stivali, allo squadrone, in certi momenti, dava assai più importanza che alle nove stelle della corona sormontante il suo stemma. Però al suo cospetto e quando si parlava con lui, siccome era pieno di sospetti e non sempre intendeva le cose nel loro vero senso, bisognava comportarsi con mille riguardi e precauzioni, perchè non pigliasse le parole in mala parte, e adombrasse al punto di chiamarsi offeso colle formole dell'etichetta militare; chè allora non c'era più rimedio, bisognava battersi con lui. Ben è vero che in molti di tali duelli provocati da lui, egli aveva quasi sempre risparmiato l'avversario, pago che fosse salvo il decoro cavalleresco. Ma intanto era un incomodo a trattarlo; onde molti lo scansavano volontieri, e quando si trovavano seco per necessità, discorrendo, giravan largo per istornare querele; poichè, torniamo a ripeterlo, nel frantendere le questioni e nel prendere un violino per un trave, quell'ex colonnello era un portento. Se dunque, conservando però sempre nell'aspetto una compostezza ed una severità castigliana, esso pigliavasi tanto caldo per una mezza offesa, figuriamoci se l'offesa era evidente ed era grave; peggio ancora se l'offesa era di quelle che stanno in prima lista fra i casi contemplati anche dagli indifferenti e dai filosofi della pace; fra i casi per cui anche l'uomo timido diventa feroce, com'era il suo caso precisamente! O fortuna tutt'altro che cieca ma perfida, o fortuna con occhi di lince e piena di sagacia omicida, che attendi a pigliar fuori della folla gli uomini fatti apposta e lasci cader la scintilla dov'è la polveriera! Proprio tra le gambe del conte V... doveva capitare quel fatal romano, fatale così per le prime donne del libretto d'opera, come per tutte le belle donne che gli piacevano! Tuttavia nemmeno il tenore, nato espressamente nel secolo più comodo per gli uomini della sua professione e della sua tempra, poteva chiamarsi il beniamino della fortuna per essersi incontrato in chi facea terrore a tutti, il quale non è a dire che furore sentisse contro il tenore; un miscuglio di furore e insieme di disprezzo che gli facean desiderare di avere dinanzi il rivale, non per battersi con lui, chi mai poteva imaginarsi una simile ignominia! ma per pagarlo, a misura, come suol dirsi, di carbone, a colpi di scudiscio, di frusta, di bastone e di peggio, se di peggio ci fosse stato — perchè più che contro la propria moglie infedele, l'ira sua soffiava tutta come una fornace animata da un mantice contro il tenore; e se l'adagio vulgare che in tali frangenti assegna maggior colpa alla donna che all'uomo, era sulla bocca di tutti anche allora, egli tuttavia non voleva saper nulla di quel diritto per cui l'uomo può fare impunemente il cacciatore; — non ne voleva sapere e strepitava. Del rimanente un'altra ragione per cui era sì poco inclinato alla pietà verso di Amorevoli stava in ciò, ch'ei non era filarmonico punto, e aveva un orecchio così mal costrutto e anti-musicale, che per lui non c'era differenza tra una cadenza di Caffariello e lo zufolo d'un merlo. A dir tutto, non è certissimo che, pur andando pazzo per la musica, avesse potuto aprir le braccia al tenore protervo; ma in ogni modo, quella sarebbe sempre stata una ragione mitigante la collera. Infiammato continuamente da questa, egli erasi messo in viaggio per Venezia, senza veramente un progetto deliberato; ma con più propositi in mente, il più umano de' quali, aveva per intercalare scudisciate e bastonate.
Ma lasciando il conte, dieci ore dopo la partenza di lui, partì da Milano per Venezia la lettera di donna Paola Pietra, quella appunto ch'essa accennò al Parini. — La contessa Clelia la ricevette la mattina del giorno successivo a quello dell'arrivo d'Amorevoli, e fu spaventata quando lesse quelle parole: Credo che il conte V... abbia intenzione di venire a Venezia; e fu maravigliata, e nel tempo stesso consolata, quando pure vi lesse: A quest'ora il signor Amorevoli dev'essere a Venezia. La sera prima ella non aveva sentito a parlare di lui in nessun modo, talchè in quel momento ignorava tuttora il suo arrivo.
Ed ora dobbiamo tornare a Milano, e dar conto di più cose. La visita e le parole di Parini alla contessa Marliani aveano ottenuto il loro effetto, quello cioè di determinare il fratello di donna Clelia a recarsi a Venezia. — Il partito, il lettore se ne avvedrà facilmente, era stato preso un po' tardi, se mai il destino avea fermato di far succedere qualche sventura, ma la presenza di lui potea però tornar sempre di vantaggio. In ogni modo, per l'onore della famiglia, quel viaggio del giovine conte A... era un atto di dovere, e ciò bastava per far tacere il mondo e perchè egli fosse creduto un uomo di cuore.
Ma intanto che il giovine conte A... si affretta verso Venezia abbiam l'obbligo di recarci a prendere informazioni sullo stato delle cose relative al fatto di Lorenzo Bruni.
Il governatore conte Palavicino, messo in cognizione dell'indole genuina del fatto, mandò a chiamare il presidente del Senato; questi espose al ministro che essendo messo ad arbitrio del Senato stesso la misura della pena per la contravvenzione all'ordinanza sulle maschere-ritratti, e una tale misura essendo tassativamente determinata nell'ordinanza stessa dai sei mesi agli anni due, a seconda del caso; per quanto, disse il presidente, tutte le circostanze depongano a favore del costituito, pure non si poteva mandarlo assolto perchè la contravvenzione era stata compiuta; e solo era il caso di applicare al costituito la minor pena di sei mesi, che, giusta la più ragionevole interpretazione, era precisamente la misura voluta per la semplice contravvenzione materiale della legge senza intenzione criminosa. Il conte governatore parve soddisfatto di ciò, ma non già la Gaudenzi; la quale, allorchè le fu annunciata una tale determinazione, diede in lagrime disperate e si recò nuovamente da donna Paola, onde si degnasse accompagnarla di nuovo dal governatore. Era il caso di domandare non già la scrupolosa giustizia, ma una sentenza in via di grazia. Donna Paola parlò con eloquenza, la Gaudenzi sparse lagrime abbondanti; il conte Palavicino si sentì commosso, e quantunque veramente uscisse dalle sue attribuzioni, perchè l'autorità del Senato nelle vertenze civili e criminali era superiore a tutti, pure, trattandosi che l'ordinanza era sua, che forse aveva abbondato nella pena, mandò per un di più a chiamar di nuovo il Presidente del Senato e lo interrogò, ma affermativamente, se si potevano ridurre i sei mesi a due soli, e senza aspettar risposta, gli mise tra mano il rescritto, e lo pregò a dargli corso incontanente. Il presidente mostrò il rescritto in Senato, alcuni senatori strepitarono; altri, e forse n'avevano la loro ragione, applaudirono; il conte Gabriele Verri, che secondo l'indole sua avrebbe dovuto strepitare più di tutti, perchè guai a toccargli l'onnipotenza dell'autorità senatoria, non disse nè sì nè no, e finse d'aver tutt'altro per la testa; onde trionfò il partito dell'indulgenza e, invece di protestare contro quel rescritto com'era stato il pensiero di alcuni senatori, ne fu tosto spedito al Criminale la determinazione in estratto, perchè il capitano provvedesse a darle esecuzione.
E giacchè abbiamo toccato del Capitano di giustizia, non possiamo tralasciare di tener dietro ai preliminari del processo contro il lacchè Andrea Suardi, detto il Galantino, e ciò innanzi di gettarci fra i personaggi che da Milano passarono a Venezia; perchè abbiam bisogno di dar prima qualche cenno intorno alla pratica criminale nel ducato di Milano e di conoscere qualche accidente dell'interrogatorio fatto subire al lacchè, per essere poi in grado di dare giusto valore a ciò che accadrà in seguito.


IV


Alessandro Manzoni, nella Colonna infame, lavoro di breve mole, ma d'importanza grandissima, illustrò per tal modo la condizione della teoria e della pratica criminale nel ducato di Milano, che dopo di lui non è più possibile dir cosa nuova su tale argomento; e soltanto ci rimane a far le meraviglie, quando in taluni fatti avvenuti e prima e dopo l'epoca sulla quale ei scrisse il profondo suo commento, si scoprono le riprove di quanto per la prima volta egli annunciò agli studiosi della giurisprudenza e della storia, al fine di distruggere una credenza invalsa per l'autorità di uomini riputatissimi; la credenza, vogliamo dire, che le atrocità assunte per antica e troppo lunga consuetudine nella procedura criminale fossero suggerimenti de' così detti interpreti del diritto romano. Questa verità dimostrata dal grande scrittore, costituisce quel che si dice una scoperta; chè, è come una necessità naturale a quel sommo intelletto di far dono di nuove forme a tutte le sfere dell'arte a cui si è applicato, e di verità non sospettate prima, e di notizie peregrine o, per lo meno, di questioni nuove a quelle parti della scienza a cui ha voluto dare opera. Cento e più anni dopo l'iniquissima condanna degli untori, ovvero sia nel 1750 e per altri molti anni ancora, vigevano gli Statuta criminalia Mediolani; ed erano consultati ancora e studiati quei medesimi interpreti del diritto romano e del diritto comune che erano celebri al tempo della peste di Milano del 1630. Non v'era dunque nulla di mutato nè nella scienza, nè nella pratica; la prima non aveva avuto nessun uomo di genio e di coraggio che avesse potuto scoprire la verità tutta intera e prefinire colla sapienza della filosofia e collo scrupolo della morale i confini della giustizia; nella seconda non era penetrata nessuna ordinanza speciale a frenare la mano pesante del giudice; tuttavia, guardando i processi posteriori a quel troppo famoso della Colonna infame, se gli arbitrj sono sempre eccessivi e il poter discrezionale appar troppo corrivo in molte parti della procedura, non ricompajono più, per quanto almeno ne sappiamo noi, negli atti preparatorj della tortura... Vogliamo dire che non ricompajono più in quella maniera che si riscontra nel processo degli untori; chè, dopo, le formalità vennero seguite; e bene spesso appare essere stati consultati ed obbediti gl'interpreti, consultando ed obbedendo i quali, il Senato del 1630 avrebbe dovuto mandare assolti i presunti untori. Chi volesse dunque conoscere quali norme doveva tenere nel secolo scorso un giudice prima di sottomettere un imputato alla tortura, e tutte le condizioni che, non volendo varcare i limiti del dovere, si avevano a seguire per obbedire gl'interpreti della legge, assunti, per consuetudine diuturna ma pur sempre provvisoria, in autorità quasi di legislatori, non deve far altro che leggere il capo II dell'Appendice sulla Colonna infame. Là è dimostrato come la folla degli scrittori criminalisti non abbiano avuto altra intenzione che di restringere l'arbitrio del giudice, e di guidarlo secondo la ragione e verso la giustizia; là son riportate le generose invettive de' più celebri giureconsulti contro i giudici crudeli che si arrogavano il diritto d’inventar nuovi tormenti; là, per conseguenza, è provato come non solo debbasi togliere dalla testa dei giureconsulti interpreti l'odiosità che per tanto tempo le fu lasciata pesar sopra; ma si debbano anzi riguardare come i primi che iniziarono la via lunghissima delle riforme; i primi che, costretti a render ragione delle loro decisioni, richiamaron la materia a principj generali, raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi nelle leggi romane, e cercandone altri nell'idea universale del diritto; i primi che prepararono il concetto, indicarono la possibilità e, in parte, l'ordine d'una legislazione criminale intera ed una.
Le cose nuove, e le cose vere, e quelle che costringono la ragione a dir di sì, dopo averla collocata nel più giusto punto di veduta, sono tali e tante in quell'opuscolo, che lo si legge con sempre crescente meraviglia; alla quale vien compagna un'altra meraviglia, quando si considera che un tale opuscolo, perchè non conta molte centinaja di pagine, fu poco letto e peggio sentenziato; mentre altre opere d'altri autori, le quali assomigliano a' magazzini di Lambro pirata, pieni zeppi di roba rubata, sono spacciate per tutta Italia, anzi per tutta Europa, a togliere lo spazio che, pur troppo, manca ai libri ottimi! Ma questa digressione ha tanto a che fare col nostro libro, quanto col regno della luna, onde rientrando in casa, diremo ai nostri lettori, per dilucidare quel passo della stessa Colonna infame, dove, richiamando gli Statuti di Milano, è detto che essi non prescrivevano altre norme alla facoltà di mettere un uomo alla tortura, se non che l'accusa fosse confermata dalla fama, e il delitto portasse pena di sangue; diremo dunque che da queste ultime parole non bisogna lasciarsi trarre a credere che la tortura non si potesse infliggere che agli imputati di omicidio o d'alto tradimento: no, le categorie dei delitti portanti pena di sangue erano molte, anzi erano troppe, prova ne siano gli statuti criminali, dove alla rubrica De forma citationis, ecc., e al capo De tormentis, espressamente si dichiara che la tortura può essere ministrata «in Casibus infrascriptis videlicet: in crimine haeresis, sodomiae, turbationis pacifici Status domini nostri... crimine homicidii, assassinamenti, adulterii, veneficii, privati carceris falsitatis; schachi, seu robariae, furti, ecc.». Il che basta per dimostrare che il delitto ond'era imputato il lacchè Suardi era di quelli per cui gli statuti avevan decretato, all'uopo, l'uso della tortura.
Dalla materia giuridica venendo ora agli uomini che la professavano: dottissimo fra i giureconsulti milanesi era il conte Gabriele Verri, il padre del nostro Pietro. — Il diritto romano, gli statuti, le opere dei più autorevoli interpreti eran talmente famigliari a lui, che, nei casi dubbj, nelle controversie, egli citava a memoria e si diffondeva con facondia e con tutti i saliscendi della dialettica. Però gli ammiratori lo chiamavano la biblioteca ambulante del Senato; gli avversi lo chiamavano il sofista. Una testimonianza della di lui dottrina sono le Constitutiones decretis et senatusconsultis illustrata curante Comite Gabriele Verro; quibus accessit Prodromus de origine et progressu Juris Mediol., eodem Verro auctore, stampate a Milano dal Malatesta nel 1747. Ma è cosa strana a pensarsi che quell'uomo così dotto, e che aveva sotto mano, a dir così, il processo lungo e lento del tempo e i lavori interminabili dei legisti per cui la verità e l'assoluta giustizia si sforzavano a tentar il varco per uscire all'aperto, pur si mantenne sempre stazionario ostinato e quasi feroce nelle consuetudini vecchie; mentre il figlio suo, che applicatosi ad altri rami della scienza e dell'amministrazione pubblica, era di tanto men profondo di lui nella materia giuridica, ebbe tuttavia lo spontaneo intuito del vero e del giusto; — tanto nelle cose che interessano il bene dell'umanità, basta il sentimento a far trovare i rimedj! tanto, spesse volte, la dottrina soverchia e frammentaria, non rischiarita nè da un vasto concetto, nè dall'amore degli uomini, è impaccio alla scoperta del vero!
Per la sua qualità adunque di biblioteca legale ambulante, il senatore Verri, ogni qualvolta trattavasi di qualche fatto fuor dell'ordinario, complicato, inestricabile, veniva sempre consultato confidenzialmente, e come suol dirsi, in camera charitatis. Però se già era stato interrogato in prevenzione dal pretore e dal capitano di giustizia relativamente ai costituiti Amorevoli e Bruni, tanto più lo si volle sentire quando il lacchè venne catturato, e prima che lo si sottomettesse all'interrogatorio. Il nome del conte F... era già corso, il lettore lo sa, sulle labbra e del capitano e del conte Gabriele. Ma questi s'affannò a dimostrare che del conte non era punto a far parola, come se nemmeno fosse esistito, e ciò fino a tanto, ei soggiungeva, che ei non fosse stato messo innanzi espressamente dal costituito Suardi. Prima di aprire la procedura contro il quale, credette bene di sfoderare tutte le sentenze dei trattatisti, e specialmente quelle relative alla qualità ed alla quantità degli indizj necessarj per poter mettere un imputato alla tortura, ed ai limiti onde si doveva intendere ristretto l'arbitrio del giudice dall'osservanza scrupolosa del diritto comune; insistendo segnatamente sull'autorità del Farinaccio, dove questo legista raccomandava che il giudice deve inclinare alla parte più mite, e regolare l'arbitrio colla disposizione generale della legge e con la dottrina dei dotti approvati; e riferendo molti passi di quei giurisperiti che avevano stabilita la regola contraria a quella più comunemente ammessa sull'arbitrarietà dei giudizj. — Il Claro, il Bartolo, il Pozzo, il Bossi, il Marsiglio, il Casoni, oltre al Farinaccio, autore prediletto del conte Gabriele, furono fatti passare tutti innanzi alla memoria del marchese Recalcati, in via di conversazione amichevole e affatto casalinga, ma col fine di predisporlo all'indulgenza, all'indulgenza, s'intende, compatibile colla giustizia, e ciò con tanto più d'insistenza quanto più forte era la sua convinzione che il Galantino fosse il vero e materiale autore del delitto, e che un altro, interessato all'eredità del marchese defunto, fosse stato necessariamente la volontà occulta che aveva guidato i movimenti del lacchè.
Se il conte Gabriele Verri avesse vissuto cento venti anni prima, e fosse stato senatore, e fosse stato interpellato in prevenzione sul fatto degli untori; avrebbe sfoggiata quella medesima dottrina? avrebbe inculcata la scrupolosa osservanza del diritto comune? l'obbedienza alle norme raccomandate da' giurisperiti interpreti? avrebbe insinuata l'indulgenza? Non è facile a rispondere, se non aderendo a quanto fa osservare il Manzoni, che cioè nel 1630 l'universalità del pubblico credeva e voleva le unzioni, e pretendeva che l'autorità scoprisse il delitto; che per ciò era comune e prepotente l'interesse e del pubblico e della magistratura di trovare i rei laddove nel caso nostro l'interesse non è più comune; anzi da parte del Senato e della classe patrizia è quello di non trovare il colpevole; è una preoccupazione gelosa di far scomparire, se fosse possibile, tutte le pedate, a dir così, impresse nel terreno, seguendo le quali, si può giungere al punto donde il vero colpevole s'è mosso; è dunque il caso in cui l'osservanza scrupolosa di tutte le formalità degli statuti criminali, dei principj del diritto comune, della mitezza raccomandata dai giuristi; l'indulgenza, in una parola, può soltanto far sperare di raggiungere quell'intento... E in tal caso, c'è l'uomo di buona memoria e di gran dottrina che fa conoscere tutto ciò che la teoria legale raccomanda alla pratica, e che converte, dove precisamente meno occorre, in un sistema di prudenza guardinga e mite, un sistema di procedura che generalmente, pel modo onde il più delle volte veniva adottato, faceva spavento a tutti. Tanto è necessario che la lettera della legge sia precisa, inesorabile, geometrica, e che i codici scansino al possibile il bisogno dell'interpretazione, se si vuole che la giustizia non sia il balocco della dialettica ambidestra. — Ma veniamo al Galantino.


V


Abbiamo accennato che prima di lasciare in libertà il tenore Amorevoli si volle ch'ei vedesse il lacchè Galantino, dato il caso che ravvisasse l'uomo che egli aveva asserito di aver veduto fuggire e saltare il muricciuolo di cinta del giardino di casa V... Come ognuno può pensare, codesta non era che una misura di formalità, perchè non era probabile che Amorevoli potesse ricordarsi della figura d'un uomo che di notte gli era passato innanzi a gran fuga; nè, quando avesse dichiarato di riconoscerlo, la sua deposizione poteva essere attendibile. Del rimanente poi, Amorevoli, che aveva una gran smania in corpo di uscire all'aperto, non avrebbe mai dichiarato di ravvisarlo, anche se ne avesse avute in memoria le sembianze al pari di quelle di donna Clelia, come fece in fatti. Compiuto dunque quell'atto, s'incominciarono gl'interrogatorj, de' quali non sappiamo se di proprio senno, o per consiglio d'altri, il capitano di giustizia incaricò un nobile Paolo Tradati, auditore di mezzana capacità e notoriamente sprovveduto di quella acutezza legale e segnatamente criminale, onde una domanda gettata opportunamente al costituito, è come un randello scagliato a tempo tra le gambe di chi vorrebbe fuggire. Quell'auditore, onesto, corto, senza fiele, docile, era uno di quel felici mortali, che di quel tempo ed anche in altri tempi, e forse, chi sa mai, anche nel tempo nostro, sono destinati a far carriera, e d'uno in altro posto salgono, non si sa come nè perchè, provocando continuamente le dicerie del pubblico, il quale non sa che l'incapacità costituisce una preziosa capacità sui generis e un arme a più tagli, eccellente nelle mani di chi la sa adoperare. Tuttavia, in quanto all'auditore incaricato d'esaminare il lacchè, non creda il lettore che fosse privo d'ogni sapere e di qualche pratica forense; tutt'altro; vogliamo dire soltanto che tutti gli altri assessori ed auditori del capitano di giustizia ne sapevano più di lui ed erano acuti più di lui.
Chiamato adunque il costituito Galantino innanzi all'auditore criminale nobile Paolo Tradati, presente l'illustr. signor capitano di giustizia, gli fu domandato se sapeva la cagione per la quale era stato arrestato a Venezia per ordine dei Dieci.
Il Galantino rispose di no..., perchè il signor segretario del Consiglio non gli avea fatto motto nessuno, fuorchè dell'inchiesta dell'eccelso Senato di Milano.
Gli fu replicato, se almeno egli congetturava alcuna cagione.
— No, ripetè di nuovo il Galantino... perchè se avessi potuto aver motivo di temere per me... non sarei andato incontro ai fanti del Consiglio dei Dieci, quando gli ho veduti star fermi sulla porta della mia casa. Tuttavia, facendo il viaggio, m'è passato per la mente che m'abbian voluto arrestare a motivo dei giuochi d'azzardo, a cui mi recavo tutte le notti in un caffè remoto di Venezia.
— Come v'è potuto passare in mente un simile sospetto, se il segretario v'aveva detto che l'inchiesta veniva da Milano?
— Il come non lo so... ma il fatto è che mi passò per la mente... Del resto oggi capisco benissimo che ero pazzo a pensarlo... ma, quando non s'è fatto nulla per cui si abbia a temere la giustizia, nell'andare a tentone per cercare un motivo qualunque, si dà dentro spesso in una pazzia...
— Voi dunque potete ripetere che non sapete nulla affatto del motivo del vostro arresto?
— Lo ripeto, disse asseverantemente il lacchè.
Qui succedette un momento di pausa. L'auditore guardò il capitano di giustizia, il quale, disse solamente:
— Continuate.
— In che giorno voi vi siete recato a Venezia per la prima volta? continuò l'auditore.
Questa domanda era un colpo maestro... Il capitano stupì... come uno che vede un fiacco giuocatore di bigliardo a tentare un colpo riservato, e coglier bene la palla, e pensò fra sè stesso: Sta a vedere che costui oggi mi sfalsa per la prima volta...
— Rispondete, quando siete partito da Milano per Venezia?
— Il dì preciso non me lo ricordo bene... ma so che del carnevale di Venezia ho passato nove giorni, e là finisce al martedì, quattro giorni prima di Milano.
La risposta era più ancora da maestro. L'auditore guardò il capitano di giustizia.
— Come potete provare che voi eravate a Venezia prima del mercoledì grasso?
— Che cosa so io?... Da Milano sono partito solo, perchè avendo guadagnato assai al giuoco, m'è venuta la tentazione di recarmi in una città dove il giuoco si fa più largamente che qui... Sono partito senza dir niente a nessuno... e sono arrivato dove non conoscevo nessuno... Però io non saprei come trovare i testimonj...
— Che somma vi trovavate in saccoccia quando partiste da Milano?
— Cento zecchini veneti...
— In che luogo avete giuocato... con chi li avete vinti?
— In che luogo? in più luoghi... ai Tre Re, al caffè Demetrio, al Gallo... in Ridotto. In quanto alle persone... posso nominare il figlio dell'oste dei Tre Re, al quale ho guadagnato dieci zecchini; posso nominare il lacchè di Casa Isimbardi, al quale vinsi sei mesate, ossia l'importo di cent'ottanta lire milanesi; posso nominare il mastro di scuderia di casa Litta, al quale ho vinto quindici partite al tresette l'una dopo l'altra, ossia quindici zecchini... Ma la somma più grossa l'ho presa al Ridotto del teatrino... Non mi domandi però nè il nome nè il cognome di chi ha giuocato con me... perchè non lo so.... e chi mai domanda il nome a un forestiero che in teatro c'invita a giuocare?... Pure se costui fosse ancora a Milano, non c'è dubbio che lo riconoscerei, e sarebbe una fortuna per me, che così potrei far persuasa la signoria vostra illustrissima.
— Perchè vi preme tanto di persuadermi? Chi vi ha detto ch'io voglia farvi colpa dei denari che avevate indosso?... Queste parole mi fanno nascere dei sospetti.
— Vostra signoria illustrissima mi ha chiesto quanti denari avevo quando sono partito... Io ho risposto il vero, punto per punto... e siccome chi dice il vero, vuol essere creduto... così vorrei che alla S. V. ripetesse tale verità quello stesso che ha giuocato con me e che mi lasciò sul tavoliere sessantasei zecchini, ecco tutto.
— Voi, a Venezia, i rapporti parlan chiaro, vi eravate dato a far il ricco gentiluomo, con gondola e livrea e il resto. Come si poteva far tutto ciò con mille cinquecento lire di Milano?
— Molti dei nostri più ricchi patrizj non hanno più di duecento, più di trecento lire al giorno. Vostra signoria illustrissima vede bene che per dieci o dodici giorni chicchessia che voglia assaggiare la vita del gran signore ci può riuscire con mille cinquecento lire... Tutto sta a continuare... Questo è il difficile.
E l'auditore proseguiva:
— Voi asserite di non aver avuto che cento zecchini in tasca quando partiste per Venezia... ma da questi ricapiti e chirografi che il barigello si fece consegnare da voi, appare che sui banchi di Venezia voi avete messo a frutto più di trenta mila lire.
— Queste le ho guadagnate a Venezia, dove mi sono recato espressamente per moltiplicare al giuoco la somma che già teneva presso di me. Vostra signoria sa che il conte Barbò in una sera guadagnò quaranta mila talleri di Carlo VI. Al giuoco si fa presto...
— Ma perchè dunque mi dicevate che avete voluto provarvi a far il gentiluomo con cento zecchini; mentre potevate dirmi addirittura che non si trattava più di cento zecchini ma di trenta mila lire?
— Ho detto così per dire... Del resto vostra signoria non può credere ch'io volessi nascondere il fatto dei recapiti che tenevo presso di me, dal momento che ho dovuto consegnarli al barigello, e che sapevo ch'erano stati consegnati nelle mani dell'eccellentissimo signor capitano di giustizia... Ma ora domanderei licenza a vostra signoria illustrissima di fare una domanda?
L'auditore guardò in viso al signor capitano, il quale accennò di lasciar fare e dire.
— Parlate liberamente.
— Vostra signoria mi domandava un momento fa se io conoscevo la cagione per cui venni arrestato ed ho risposto che non ne sapevo niente, come non ne so niente; ora si contenti, signore, di lasciarmi domandare il motivo per cui oggi sono qui.
L'auditore finse di non intendere, fece pausa... e frugò in un fascio di carte da cui trasse un foglio che pareva una lettera spiegazzata, e la rilesse tutta attentamente senza dir verbo, poi continuò:
— Con quali persone del ducato o della città di Milano vi siete voi trovato nel tempo della vostra dimora in Venezia?...
— Con una sola.
— Con chi?
— Colla signora contessa V...
— Per quali ragioni vi siete recato a farle visita?
— Dirò tutto; per supplicarla ad avere la bontà di non interrompere una mia tresca che avevo con una giovinetta che le abitava dirimpetto.
— Come avete saputo che la contessa V... trovavasi , in Venezia?
— Era più difficile a non saperlo che a saperlo; tutti ne parlavano.
— Ma perchè avete voluto mascherare la vostra condizione in Venezia, e supplicare per ciò la contessa a non palesarvi?
— La mia condizione di lacchè non era favorevole per farmi aprir le porte delle prime case di Venezia, e nemmeno per entrar nelle sale del ridotto di san Moisè. Se la contessa mi avesse palesato, io avrei dovuto sottostare ad un avvilimento vergognoso; perciò la pregai di tacere, e di non mettermi in piazza e di lasciar vivere, se anch'essa voleva vivere.
— Perchè dite: se anch'essa voleva vivere?
— Ma chi non sa la storia della contessa, dal momento che tutta Venezia n'era piena? e appunto per questo le ho fatto intendere, rispettosamente, che badasse piuttosto a' fatti proprj, che non a guastare i fatti altrui. Anzi, sul proposito della signora contessa, giacchè essa ha tentato di rovinarmi...
Qui il Galantino si fermò di punto in bianco, spaventato dalla propria imprudenza, e diventò pallido come un panno lavato.
Il capitano di giustizia fece un atto di sorpresa; l'auditore guardò il capitano contento, come un pilota che dopo una lunga bonaccia, odora finalmente un fil di vento, e s'accorge che si può spiegar la vela.
— Come sapete voi che la contessa abbia tentato di rovinarvi, scrivendo sul conto vostro ad una persona fidata di Milano, e mettendo innanzi i sospetti che voi gli avete ispirati?
— Io non so nulla.
— Come non sapete nulla? Cosa vi disse la contessa quando vi siete trovato seco? badate a non dir la bugia, perchè qui c'è tutto... e mostrò una lettera.
— Cosa mi disse? molte cose mi disse.
— Dite tutto, alla buon'ora, continuò l'auditore che in quel giorno era più coraggioso del solito.
— Io non ho difficoltà nessuna a ripetere tutto il discorso...
— Le cose inutili mettetele da parte e rispondete a me. La contessa vi parlò del trafugamento di carte commesso nella casa del marchese F... nella notte del mercoledì grasso?...
Il lettore si accorgerà che l'auditore, se fosse stato più acuto e sagace, avrebbe potuto scansar tante lungaggini, e cominciare l'interrogatorio da questo punto principale... Buon per lui che il Galantino, per quanto astuto e destro, si lasciò accecare dall'ira momentanea e perdette la scherma: tanto è difficile a navigar sicuri nell'arduo mare delle bricconate.
— Sì, avete detto? continuava l'auditore... Come dunque avete potuto affermare, e, interrogato di nuovo, avete avuto la franchezza di ripetere che eravi ignota la causa per cui siete stato arrestato a Venezia e tradotto a Milano?
Il Galantino aspettò un momento a rispondere, poi disse:
— Torno a ripetere che quando V. S. mi domandò se conosceva la causa del mio arresto, in quel punto era lontano le miglia dall'immaginarla, e soltanto adesso comincio a capire qualche cosa ...
— Ciò è affatto inverosimile... e nelle vostre parole mal si cela una bugia.
— Una bugia? perchè? V. S. illustrissima mi perdoni.
— Se la contessa vi manifestò com'era caduto su di voi il sospetto del furto tentato e consumato in casa F… in che modo non avete pensato a questa circostanza allorchè foste arrestato?
— In che modo non lo so... Ma il fatto è che non ci ho pensato; perchè le parole e i sospetti della signora contessa non mi fecero nè freddo nè caldo. Chi è mai a questo mondo che può temere le conseguenze di quel che non ha mai fatto? E, a proposito della signora contessa, io mi sento in dovere di annunciare un fatto. Un fatto che potrebbe dare un filo, a chi ci ha l'interesse, di scoprire l'autore del delitto commesso in casa F...
— Che?
— V. S. mi permetta di parlare liberamente.
— Ve lo impongo.
— Sappia dunque la S. V. che la contessa V... era l'amante occulta del marchese defunto.
Qui ci fu un momento di pausa; il capitano e l’auditore si guardarono maravigliati.
— Come potete asserir questo? La contessa ebbe sempre fama di donna onesta, austera...
— Della fama io non so niente; guardo ai fatti, io; però chi ha potuto avere una tresca con un tenore... non c'è da restare balordi se potè intendersela prima con un marchese.
Il capitano e l'auditore si guardarono di nuovo e raddoppiarono d'attenzione.
— Io era lacchè in casa F... e queste cose posso saperle... Ma non è ciò che importa... Una sera, prima ch'io partissi da Milano, voglio dire molti giorni prima della settimana grassa... io passeggiavo a notte tarda, in Rugabella... due uomini camminavano innanzi a me… intenti a discorrere, e credendosi affatto soli... non abbastanza a voce bassa; diceva dunque l'un di essi: Io so che il marchese F... (il marchese F... allora era gravemente ammalato) ha lasciato nel testamento alla contessa V... la sontuosa villa che ha in Brianza. L'altro che ascoltava si fermò su due piedi, e disse: A questo modo è un mettere in piazza la contessa... Quasi quasi ci sarebbe da sospettare che ciò possa esser mai una vendetta del marchese contro il conte V... dal quale, per un alterco, venne insultato e ferito in duello. Ma qui non ho sentito altro, perchè que' due, accortisi d'una pedata, si tacquero tosto.
— Ma e che fa tutto questo?
— V. S. mi perdoni... ma se alla contessa potè mai trapelar qualcosa del testamento... è naturale ch'ella dovette desiderare che il testamento sfumasse per aria. La contessa non aveva bisogno delle ville del marchese... ma bensì che a tutti rimanesse celata la sua tresca vergognosa... Se dunque le signorie loro vogliono venire a capo di qualcosa... giacchè hanno voluto mandare ad arrestar me, sino a Venezia... me che non poteva avere, come non ho interesse nessuno nelle cose del marchese defunto... sicchè un tale sospetto mi fa venir voglia di ridere; mandino ad arrestare la signora contessa, e salterà fuori, lo scommetto, quel che si vorrà. La mia condizione è tale anzi, V. S. mi perdoni, che mi dà il diritto di pretendere che la contessa venga chiamata a Milano... Io che ho sopportato e sopporto la pena delle colpe altrui, il che non è giusto... V. S. perdoni questo sfogo alla mia infelice posizione...
L'auditore non disse nulla, e si volse al capitano, il quale dopo alcuni momenti di silenzio:
— Potete rimandarlo in carcere, disse. Per oggi basta.
Il Galantino fu ricondotto in prigione; il capitano e l'auditore, quando furono soli:
— A me par di sognare, disse l'uno. — Io casco dalle nuvole, disse l'altro...
Ma intanto che l'uno e l'altro attendono a riaversi dallo stupore, noi siamo sollecitati dall'amore che portiamo a donna Clelia, a dichiarare al lettore che tutto ciò che disse il Galantino era una sua perfida invenzione per vendicarsi della contessa... Invenzione però che fe' presa in giudizio, e fu occasione di una stranissima combinazione di cose, nella quale il costituito Suardi, tanto esperto giuocatore, non giuocò, di certo, la sua carta più fortunata.


VI


La condizione degli avvenimenti che abbiamo a raccontare è tale, che ci conviene viaggiare innanzi e indietro da Venezia a Milano e da Milano a Venezia, come un conduttore di diligenza. Intanto adunque che a Milano il Galantino sottoponevasi al primo interrogatorio, a Venezia il tenore Amorevoli aveva raccolte dal suo gondoliere quante notizie gli bastavano sul conto della contessa Clelia. Siccome il Bianchi, gondoliere, quando non era al servizio di lei, stava di consueto al traghetto del molo alla punta dell'isola della Zueca, così i suoi compagni del traghetto medesimo sapevan benissimo chi egli serviva di gondola in quegli ultimi giorni. Amorevoli adunque, per quanto avesse fatto interrogazioni prudenti e velate, venne pure a conoscere ogni cosa, e della casa ove essa alloggiava, e della famiglia che la ospitava ed anche delle corse che da qualche giorno ella solea fare a diporto lungo il Canal grande; perchè il Bianchi, spiccandosi ad ora tarda dal suo posto, ove stava il più della giornata facendo versi sotto il felze negli intervalli di riposo, aveva detto più volte:
— Ora andiamo a prendere la nostra bella lombarda.
Però volle anch'egli il tenore recarsi tra l'altre gondole in canale per vedere se mai gli venisse fatto d'incontrarsi in quella della contessa. Lo scontro potea benissimo succedere, senza che fossero turbate le leggi del possibile o del probabile, ma il caso volle che per quel giorno non se ne facesse nulla, e giuocassero quasi a chi si fuggiva; e anche allora che furono a pochi tratti di distanza, là verso santa Chiara, l'uno non avesse sentore dell'altra, e buona notte. Tornò dunque all'albergo e là, messosi in tutta gala, si portò poi, sempre intendesi in gondola, a far visita al corregidore Pisani, che aveva la sorveglianza de' teatri di musica, e dal quale eragli stato fermato il patto di sei sere di recita a quello di san Moisè, perchè solea tenersi chiuso in primavera ed estate l'inallora maggior teatro di san Cassiano. Recatosi da quel ricco patrizio, fu accolto come si poteva accogliere un celeberrimo artista di canto in un tempo in cui la musica era tenuta necessaria come l'aria e l’acqua. Il tenore si scusò del ritardo, dandone cagione a' fatti imperiosi, che il patrizio veneziano, sorridendo, accennò di sapere benissimo, e si dichiarò pronto ad incominciare i suoi impegni.
Il corregidore gli disse che il teatro sarebbesi aperto fra poco perchè dovevasi attendere anche la ballerina Gaudenzi, la quale avea fatto scrivere, le si concedessero alcuni giorni prima di partire da Milano.
— Ed ora, caro mio, ho a supplicarvi di un favore, soggiunse il conte.
— Vostra eccellenza mi comandi.
— Domani sera, a festeggiar l'arrivo del conte Algarotti, do un'accademia di musica a cui interverrà tutto il bello e il buono che abbiamo in Venezia, e molte preziosità che ci son capitate di fuori. Voi avete ad essere tra queste, e dovreste, se non pretendo troppo, cantare una scena, un'aria, che so io, un madrigaletto, qualche cosa insomma; v'è qui Luchino Fabris, l'imitatore di Egiziello, che vuol sentirvi; e nientemeno che la moglie di Hasse, la celebre Faustina, venuta per certe sue faccende di famiglia dalla Germania; la Faustina, ora matura fin troppo, ma che, cantando di agilità, è ancora capace di passar sedici crome in una battuta. V'è qui poi la Turcotti, che voi dovete conoscere perchè mi parlò di voi con entusiasmo tale che parrebbe oltrepassare persino i confini delle crome; e il conte sorrideva. E poi c'è il mago, il gran mago dell'archetto, quel diavolo di Tartini, che v'ha sentito e vuol risentirvi. Dunque, se mai vi bastasse l'animo di dir no, dovrei credervi un uomo ben inflessibile...
— Il vostro desiderio, eccellenza, basta perch'io m'induca a far ciò che di solito non faccio di buona voglia; perchè, prima di farmi sentire in camera, amo che mi si conosca in teatro...
— Vi comprendo benissimo, e tanto più vi ringrazio; ma io so, e me lo disse più d'uno, che voi siete padrone dell'arte in modo, che la governate a vostro arbitrio e in camera e in teatro. Dunque v'attendo domani, così verso le quattro di notte...
— Io vi sarò senz'altro... e Amorevoli si licenziava, il quale non avrebbe certo accettato di far la sua prima comparsa in Venezia a quel modo, se non lo avesse sollecitato la brama di vedervi la contessa. In questo pensiero, giacchè erasi fatto tardi e per quella notte ei non sapeva in che luogo ridursi di Venezia, ritornò al suo alloggio allo Scudo di Francia. Là, giacchè l'albergatore gli aveva fatto portare in camera, siccome ne avea avuto l'ordine, una spinetta da nolo; trasse dal baule la sua biblioteca musicale portatile, e si mise a sfogliazzarla, onde cercarvi qualche cosa che potesse fare all'uopo per l'accademia del giorno successivo. Un'aria della Merope di Jomelli, per la quale il celebre napoletano tre anni prima aveva fatto impazzire tutta Venezia e gli era stato offerto un posto di direttore nel Conservatorio delle fanciulle povere; un'altr'aria dell'Achille in Sciro dello stesso maestro; l'aria celeberrima dell'Olimpiade di Pergolese, che già l'udimmo cantare nelle carceri del Pretorio a Milano. Un grande recitativo dell'Artaserse del Vinci, il maestro perfezionatore dei recitativi obbligati. Alcuni madrigali dell'abate Steffani, passato da Venezia in Germania ad educarvi Haendel, il quale si assimilò le più care imagini melodiche del maestro, e infuse per tal modo la psiche italica nell'astrusa compagine germanica; alcuni altri celeberrimi madrigaletti dell'abate Clari, sposati per lo più a giuocherelli di poesia erotica, ma squisitissimi di stile melodico. D'una in altra cosa, Amorevoli cominciò a provare qualche frase sottovoce, accompagnandosi alla spinetta; ma quando dalle arie passò al recitativo di Vinci, la musica declamata eccitandolo ad entusiasmo, gli fece mandar fuori tutta la sua voce piena, come se fosse alla ribalta d'un grande teatro.
Era la terza volta che Amorevoli riprovava una nota tenuta, un sibemolle prodigioso, alla risoluzione del sublime recitativo di Vinci, quando sentì batter crudamente alla porta della camera. Interrompere chicchessia, foss'anco l'uomo il più placido, nel fitto d'un'occupazione a cui mette tutto l'interesse e tutta l'anima, è il vero segreto di farlo prorompere in atti d'ira, di quell'ira che è deposta in petto a tutti i mortali anche i più linfatici, non essendovi differenza che nella dose. Amorevoli aveva avuto dalla natura una dose d'ira, come suol dirsi, normale, ma gli era stata accresciuta dalle suscettività teatrali e dalle diverse liti cogli impresarj, e dalle controversie coi vestiaristi, sempre incapaci ad accontentare un cantante; per di più essendo romano, da Transtevere, dov'era nato, aveva portato seco ne' suoi viaggi tutti que' modi risoluti e troppo espressivi onde quella frazione di popolo sa imprecare più di tutti i popoli del mondo. Quando adunque si sentì rotto in due il suo preziosissimo sibemolle da quell'importuna picchiata, mandò fuori una di quelle tali frasi, e in quel tono acuto e vibrato che gli era rimasto in gola... e nel tempo stesso andò ad aprire. Era un servo in livrea, con baffi, distintivo rarissimo in quel tempo, e che per lo più soleano portar coloro che, dopo aver servito a lungo nella milizia, si riducevano a mestieri ed a servigj comuni della vita, press'a poco come al tempo nostro, in cui quanti hanno portato sciabola o fucile al reggimento, o hanno inforcato un arcione, serbano nell'aspetto qualche marchio indelebile, pel quale si può quasi indovinare se furon soldati di cavalleria o di fanteria. Quel servo pertanto, con un accentaccio lombardo e con parole nelle quali, per indefinibili combinazioni, si sentiva un'incondita fusione di Milano, di Spagna e di Veneto:
— Il mio padrone, disse, è stracco, e vorrebbe dormire, e gli danno gran noia i vostri gridi. Però uomo avvisato, mezzo salvato.
A quell'intemerata così improvvisa e così villana, Amorevoli s'accontentò in prima di guardare quel servitore con tutto il veleno che gli potea schizzare dagli occhi, poi soggiunse:
— E chi è codesto capo di popone che ti dà simili incarichi? Esci tosto, o non avrai tempo di contare i gradini di questa scala, tanto di fretta io te li farò fare. — E senza più, richiuse i battenti dell'uscio sulla faccia del servitore, e rimessosi alla spinetta, tornò al suo recitativo, azzardando un do sopracuto di petto, che parea voler trapassare il soffitto della camera...
Ma chi era quel servo, e a nome di chi veniva? Già noi non intendiamo di fare una sorpresa; son cose presto indovinate. Lo Scudo di Francia era allora tra' più sontuosi alberghi di Venezia. Il conte V... ch'era entrato la sera in città, in quella barca precisamente della quale la contessa Clelia, non presaga di nulla, aveva veduto alla lontana luccicare il fanale, era disceso a prendere alloggio a quell'albergo appunto, e in compagnia del suo più fido servo, il quale era già stato suo caporale al reggimento. Preso uno degli appartamenti più ricchi dell’albergo, abitava il piano superiore a quello ove Amorevoli s'era acconciato. La combinazione può parere strana per coloro a cui tutto riesce improbabile. Ma il tenore non era poi obbligato a prendere alloggio in una bettola, e il conte, per quanto fosse conte e colonnello, non aveva diritto nessuno di alloggiare nelle camere del Doge. Onde se si trovarono ambedue in quell'albergo, la cosa è tanto verosimile, che quasi sarebbe inverosimile la sua contraria. Ma di ciò non è questione. Il conte V... era dunque venuto a Venezia con intenzioni terribili... in questo almeno era logico: o non muoversi affatto da Milano e bever l'onda di Lete, ciò che invero sarebbe stato atto prudentissimo, chè il suo decoro, non ne andava di mezzo per nulla; o, giacchè erasi mosso, doveva averlo fatto per qualche cosa. Lungo il viaggio aveva meditati, come sappiamo, o almeno come si può congetturare, cento progetti, che tutti gli pareano eseguibili e tosto: ma appena furon tolte le distanze, che a lui erano sembrate il solo ostacolo all'ira sua ed alla sua vendetta, se gli rimase l'ira, si trovò impacciato sul modo di scaricarla agli altrui danni. Bastonare, frustare, sfregiare in qualche modo l'effeminato e petulante e plebeo cantore, com'esso lo chiamava, era il voto supremo della sua mente in ebollizione, ma bisognava pure che si presentasse un'occasione. Bene si ricordava dello sfregio fatto a Voltaire da quel tal duca irritato dalle sue punture; ma cogliere un uomo all'impensata e farlo bastonare da mani prezzolate gli pareva un'azione vilissima, e indegna di cavaliere e di soldato. Dovevasi pertanto cogliere un'occasione plausibile; ma per coglierla era necessario che l'occasione venisse e spontanea e tale, che il mondo potesse dire: — È giusto che colui sia stato bastonato. — E in quanto alla contessa?... Ahimè, che pensando a lei il colonnello si smarriva in un abisso di dubbj.
Ei non era nè determinato, nè focoso, nè innamorato, nè geloso come Otello. Non era assassino come Pietro de' Medici; non efferato come il duca di Guisa; non era cupo e taciturno come Nello della Pietra; non longanime come il Lopez dalla vendetta segreta; bensì in quel suo testone di ceppo e in quel suo cuoraccio da galantuomo era una miscela di tutti questi ingredienti. Ma val più una goccia di acido prussico a produrre i subiti effetti, che dodici elementi che si faccian guerra a vicenda; onde egli si affannava senza costrutto e senza mai sapersi determinare a cosa nessuna; al pari del tenore Amorevoli aveva anch'esso, in quella sera, pagato lautamente, se non un gondoliere, un servitore di piazza, per sapere tutto quello che gli occorreva di sapere; nè per questo i denari erano stati mal spesi; col verboso cicerone era stato in gondola a visitare i luoghi, il rio san Polo, il palazzo Salomon, la scalea, la finestra, la porta del lato della calle, tutto. Ma più raccoglieva notizie e mezzi, insomma più innoltrava nella via ch’egli aveva cercato, e più crescevano le sue irresoluzioni. Se non che, nel fitto appunto di quelle sue accalorate consulte, sente un suono di spinetta di sotto a sè, poi un cantare sommesso, poi una voce che si snoda e si alza, e si diffonde in vibrazioni acute.
Gli pare e non gli pare; chiede a sè stesso: chi è mai costui? e, chiamato il servitore, fa domandare il cameriere.
— Chi è costui che a quest'ora grida come se fosse in teatro?...
Il cameriere mal comprende, non tanto le parole del conte, quanto il piglio sdegnoso onde le pronuncia.
— Eccellenza... è uno dei più celebri cantanti del giorno... Tutti i forestieri che alloggiano qui... son discesi tutti nel salone che è presso le sue camere, per sentirlo più dappresso, e tutti fanno le meraviglie e vanno in solluchero, e si chiamano fortunati d'essere venuti ad alloggiare qui, e poterlo udire prima che canti in teatro, chè egli è la prima volta ch'ei ci capita a Venezia.
— Ma chi è dunque?
— È il tenore Amorevoli, per servirla.
E il conte che già ne avea un sentore, non fece atto di meraviglia nessuna; e rivolto al servo-caporale ch'era lì presente:
— Va tosto abbasso, gli disse, e di' a costui che a quest'ora altri dorme qui, e non vuol essere messo in soprassalto da' suoi strilli.
Il cameriere s'intrometteva per impedire un tale atto, ma il conte-colonnello:
— Va dunque, ruggì al servo-caporale, e bada di non far complimenti. Parla chiaro e risoluto... e se non obbedisce la vedremo.
Il servo, come sappiamo, fece quel che fece, ma quando venne respinto dal tenore, non sapendo che risolvere, perchè di fuori erano molti camerieri che adocchiavano, risalì agli appartamenti del padrone a riferirgli la risposta... Il conte stava in ascolto... quando gli giunse all'orecchio quel do di petto sopracuto che lo fece spiritare, onde, senza rispondere, discese precipitoso e formidabile, come un orso che affamato si rotola dal monte se mai gli venga veduto un giovenco sbandato alla campagna. Discese e bussò sì forte, che Amorevoli dovette aprire... e si vide innanzi, non certamente aspettato... il conte grande e grosso e fiero, il conte che molte volte dalla ribalta aveva veduto in palchetto.


VII


Che la vista improvvisa del conte V... facesse un'ingratissima sorpresa ad Amorevoli, ognuno lo può credere senza fatica. Si scolorò nel viso, fece un passo indietro perplesso, e, in una parola, mostrò di fuori tutti i segni di chi si lascia cogliere dal timore; ma tutto dipendeva dalla sorpresa.
— Or che si fa? gli disse il conte.
È così vero che l'effetto della musica deriva tutto dal colorito, che quella domanda del conte, per sè stessa così semplice, fece avvicinare di qualche passo all'uscio della camera d'Amorevoli i camerieri che si trovavano là presso e i forestieri ch'eran discesi, chè l'inflessione della voce e l'accento fece parer terribili quelle pur così insignificanti parole.
Un momento di riflessione però era bastato perchè Amorevoli si rimettesse, come suol dirsi, in sella, onde a quella domanda del conte:
— Si canta e si suona, rispose.
— Fango salito in scanno, al cospetto di chi credi tu di trovarti?
— Al cospetto di chi meriterebbe discendere dallo scanno nel fango.
Il conte fece un passo innanzi, e la mossa fu tale, che i camerieri accorsero e lo trattennero.
— Ma, disse allora Amorevoli, che pretendete da me, signor conte? Con che diritto vi siete fatto lecito di mandare ad insultare un uomo dabbene? Io sto nella mia camera, io attendo a' fatti miei e all'arte mia, e se momenti fa colla voce potevo ferire l'orecchio altrui, pregovi a pensare che non è mezzanotte e siamo in Venezia, e di quest'ora gli è come si fosse di mezzodì, in un'altra città. Le costumanze, i convenevoli, i riguardi li conosco al pari di chicchessia. Se mi aveste mandato a pregare coi modi del gentiluomo, meno male, vi avrei esaudito; ma invece quel vostro domestico si comportò di maniera, che fu assai se non l'ho spinto rotolone giù per la scala. Del rimanente, se in poco o in nulla vi credete offeso, io son qui pronto a darvi qualunque soddisfazione.
— E quali soddisfazioni mi puoi dare tu?
— Quelle dell'uomo onesto in faccia a chi vuol dar spettacolo di coraggio.
— Ma giacchè ti vanti di conoscere i convenevoli e le prammatiche, non sai tu, istrione vilissimo, ch'altri offende se stesso misurandosi co' pari tuoi?
— Pari o no pari, questa la xe ona prepotenza da sior Lelio...
Chi diceva queste parole era un giovane di vent'anni, poco su poco giù, il quale vestiva l'assisa di soldato di marina. S'era trovato là ad udire insieme cogli altri forestieri; ed avendo preso notizia del fatto, e parendogli quella del conte un'insopportabile soperchieria, non potè più contenersi, e strillò quelle sue parole con fremebonda concitazione. Il conte si volse, e:
— Chi m'interrompe? disse.
— Angelo Emo, nobile di nave, disse il giovine uscendo dal crocchio, e saettando la sua giovane pupilla nella pupilla torva del conte.
Era esso davvero quell'Angelo Emo, il futuro assediatore di Tunisi, colui che gloriosamente doveva chiudere la serie degli ammiragli della serenissima repubblica. Di quel tempo, uscito appena dalla istituzione del Bilesimo consultore della Repubblica, del padre Lodoli, altro consultore, e del celebre Stellini, era entrato da pochi giorni nella carriera marittima, nella qualità appunto di nobile di nave, tirocinio che si faceva durare quattr'anni, col saggio intendimento che i giovani alunni unissero la pratica alla teoria. Di que' giorni egli stava coll'equipaggio lungo le coste dell'Adriatico, e avendo sentito com'era aspettato a Venezia il conte Algarotti, che fanciullo egli aveva conosciuto nella casa paterna, impetrò dal capitano di nave il permesso di venire a Venezia; e siccome il padre, per essere riformatore degli studi, stavasi a Padova colla famiglia, egli avea preso alloggio all'albergo dello Scudo di Francia.
— Or come c'entrate ne' fatti altrui? disse il conte al giovine soldato.
— Quand'uno offende un altro senza ragione e con violenza, tutti hanno diritto d'immischiarsi ne' fatti dell'uno e dell'altro. In conclusione, che v'ha fatto quel signore? Chi mai poteva imaginarsi che la musica vi dovesse far abbaiare alla luna come un cane da presa? O quel signore v'ha offeso, o voi avete offeso lui... Fin qui non c'è nulla di straordinario. Ciò che v'ha di strano si è ch'egli si dichiari disposto a darvi ogni soddisfazione... e voi la rifiutate. E che vorreste dunque?... ch'egli si ammazzasse per rispetto alla vostra corona di conte?
— Ragazzo, bada, ch'io non torca su di te l'ira che mi venne da lui!
— Ed ora son io che vi chiedo soddisfazione, signor conte!... Or non vi può soccorrere la scusa della mancanza di parità fra noi... Voi siete conte ... lo credo perchè lo sento a dire, e poco me ne importa ... In quanto a me... i miei avi furon reggitori di quest'isole quando primamente si congiunsero a città. Piero Emo fece prodigi di valore nella battaglia di Chiozza. Altri si onorarono in ambasciate e in magistrature. Molti di quelli che sono qui presenti sanno chi sono, e ponno fare testimonianza di ciò... però raccogliete questo guanto.
E il giovinetto generoso, levatosi il guanto di daino, lo gettò al piede del conte V... che lo raccolse e soggiunse:
— Sta bene. Or pensate al resto, perch'io non son di Venezia, e non posso scegliermi i padrini in una città che non conosco.
Il lettore si ricorderà d'aver veduto qualche volta addensarsi un terribile temporale al di sopra di un tratto di territorio, e d'aver detto in cuor suo: non vorrei aver io il mio grano e le mie vigne colà; ma d'improvviso il vento cangiar direzione alla procella stessa, e portar lo schianto della gragnuola in quelle parti invece su cui alcuni momenti prima il cielo si distendeva sgombro e tranquillo.
Quando il conte V... feroce e bestiale discese precipitoso a percuotere con violenza la porta della camera d'Amorevoli, scommettiamo che la metà almeno dei nostri lettori avranno ripreso fiato per assistere alla truculenta scena del tenore fracassato e morto. E di fatto, una parola, un gesto di più, qualche cameriere di meno, più radi forestieri e più placidi e prudenti, una sola insomma di tali cause potea bastare a far iscattare la molla d'una catastrofe tragica...
Ma invece un fil di vento e poche parole in dialetto veneziano valsero a cambiar la direzione delle cose. — Omnia sunt hominum tenui pendentia filo; e se Amorevoli potè scampare dal pericolo, per verità che quasi aveva l'obbligo di far cantare un Te Deum in San Marco.
Del resto, in una relazione storica, scritta nel secolo passato da un Cadorin padovano, dove è parlato di Angelo Emo, è riferito codesto fatto del duello ch'egli ebbe nella sua prima giovinezza con un nobile lombardo.
Ed ora tornando a noi, quando il conte V... ebbe raccolto il guanto, il giovine Emo, con quella delicata cortesia che accusava in lui e mente e cuore fuor dell'ordine comune, disse, rivolto ad Amorevoli:
— Mi perdonerete, signore, se io ho voluto per ora togliervi di mano il fioretto. Ma al tempo non manca mai il tempo.
— Per me sono sempre disposto a ripigliare il vostro, quando l'abbiate adoperato. La mia nobiltà sta nell'arte mia e nella mia vita senza rimproveri. Quando il conte accetti, io sono sempre qui ad attenderlo.
Il conte non fece motto. Angelo Emo soggiunse qualche altra gentilezza ad Amorevoli, poi scambiate alcune parole con alcuni amici che gli stavano intorno, due di questi si mossero ed accostatisi al conte V...
— Adesso, gli dissero, giacchè noi per parte del nobile Emo lo assisteremo sul terreno come padrini, voi sceglierete i vostri fra que' quattro gentiluomini là, che sono parati ai vostri comandi, e intanto ci ritireremo a trattare del come e del dove.
Così tutti si ritrassero, mentre Amorevoli si rinchiuse nel suo camerino.
E intanto noi balzeremo da questa notte alla notte successiva per assistere, nel palazzo Pisani, alla lanterna magica, dove si vedranno a passare l'un dopo l'altro i letterati, poeti, i pittori, i musici,


Le donne, i cavalier, l'armi, gli amori


onde in quel tempo Venezia brillava fra le città d'Italia. Nè ciò sarà fatto a caso, perchè colà si offriranno forse le occasioni per isciogliere nodi a cui il lettore probabilmente tien l'occhio.


VIII


Due palazzi egualmente celebri, che portano il nome dei Pisani, vi sono in Venezia; quello a San Paolo, che ha la facciata rispondente sul Canal grande; e quello in Campo San Stefano. Il primo, appartenente a quello stile archi-acuto veneziano che ha per distintivo caratteristico il foro quadrilobato interposto agli archi, ma che nei pilastri bugnati e nel basamento accenna alle prime transazioni tra l'arte del medio evo e il ritorno dello stile romano, è lodato per l’eleganza nativa dell'ordinamento generale del primo stile e la felice libertà degli innesti del secondo. Ma il palazzo Pisani di San Stefano è bestemmiato dalla critica più recente, che lo chiamò un'insignificante montagna di pietre sagomate. Ognuno ha i suoi gusti, e noi, sebbene troviamo pessima di stile la facciata di questo palazzo, giudichiam d'altra parte degnissima di meraviglia la gigantesca grandiosità di tutto l'edificio; i cortili a molti piani di poderosa struttura, le scale, gli appartamenti, le sale che ancora oggi, pur nel tristo abbandono in cui giaciono, fanno rimpiangere allo spettatore quell'avito splendore ove al tempo nostro è infranta affatto la tradizione. Nelle opere dell'arte, segnatamente dell'architettura, la grandiosità dell'impianto e l'audacia del concetto sono elementi che non ponno essere disprezzati, bastando soli a dare importanza agli edifizj. La miscela di più forme, i giuochi di parole, i bisticci, le freddure onde pur sono offese le composizioni drammatiche di Shakespeare, non tolgono ch'egli giganteggi su tutti coloro che non straripano perchè non hanno fantasia che rigurgita. D'altra parte quella miscela ha un valore, se non per l'arte almeno per la storia di essa, almeno per le significanze ch'ella serba in molte parti della storia generale. I drammi di Shakespeare sono l'enciclopedia storica della grammatica inglese, chè cento autori portarono le diverse loro acque a quell'oceano; e il medesimo può dirsi di alcune opere dell'edilizia, fatte innalzare da più volontà e da ingegni diversi, che serbano le varie impronte dei tempi in cui hanno operato; onde se il gusto squisito, contemplando il tutto, si offende, non essendo preoccupato che delle linee e delle forme; l'intelletto abbracciando invece più elementi, non resta offeso dalle forme imperfette, perchè si lascia preoccupare dai varj significati che offre l'edificio. Nel vetusto San Marco, la meraviglia massima delle meraviglie veneziane, è una mescolanza di tutti gli stili e di tutte le idee che quegli stili, secondo alcuni, dovrebbero rappresentare — l'arte cristiana vi transige colla pagana, le incondite stranezze dell'impero basso contaminano spesso i simboli cristiani, la cupola orientale gira sugli archi latini, la colonna greca posa sulle costruzioni bizantine. — La critica inesorabile che è fida al bello assoluto e lo trova nella sola unità poderosa, s'indispettisce di tali mescolanze; ma v'è quell'altra critica più grande, più intellettuale, più liberale, che trova quell'edificio d'un valore inestimabile, per le sue varietà appunto, e perchè l'architettura essendo un libro di granito, come disse il poeta, tanto più quel libro è prezioso, quanto più fatti ricorda della storia di un popolo. Tutte queste nostre chiacchiere vorrebbero dire che anche il grandioso palazzo Pisani, imperfetto, difettoso, senza carattere deciso, ha un merito, se non in faccia alla critica dell'arte, in faccia a quella della storia, e che per ciò i Pisani che lo hanno fatto innalzare e continuare, non hanno mal speso i denari, come taluno ha detto. Cominciato alla metà del 1500 dal Sansovino, fu compiuto quasi due secoli dopo dal vicentino Frigimelica, onde codesto edificio, esaminato in tutte le sue parti, presenta tutte le vicende della grandezza veneziana negli ultimi suoi secoli, e dei trapassi del gusto, rappresentati da vari architetti. Che se anche oggi, pur nell'abbandono in cui è lasciato, serba ancora qualche significato, si figura il lettore quel che nel secolo passato dovesse parere al visitatore intelligente, in uno di quei giorni in cui la ricchezza del proprietario Alvise Pisani lo apriva alla folla dei patrizj e delle altre classi distinte; quel che dovesse parer nella notte in cui lo dischiuse per festeggiare l'arrivo del conte Algarotti, il quale in quel tempo, per straordinario beneficio di fortuna, sedeva re di tutti i regni delle scienze e delle arti. Erano le tre ore di notte; risplendevano tutte le finestre della facciata che guarda il Campo San Stefano. Le due statue oziose, che stanno a' fianchi della maggior porta, avevano avuto anch'esse in quella sera l’incarico di portare un gran fanale sulla testa; risplendeva tutto il lato del palazzo che guarda il rio; e più servi con torcie a vento stavano sulle due scalee per cui si ha accesso al palazzo da quella parte appunto; era tutta illuminata la lunga calletta per la quale il palazzo ha una comunicazione col Canal grande, sulla scalea della quale stavano pure altri servi con torcie a vento per ajutare lo sbarco dalle gondole accorrenti. Dalla parte del campo venivano a frotte di due, di tre, di quattro gentiluomini e gentildonne, preceduti dai servi col lampione. Il Canal grande, per quanto spazio misura la linea di due o tre palazzi, era tutto pieno di gondole con gondolieri schiamazzanti ad aprirsi la via, chi verso l'approdo della calletta, chi verso il rio interno. Gl'invitati che veniano dal campo, s'incontravano nell'atrio con quelli che arrivavano dal rio; e quand'erano forestieri o veneti di terra ferma, si soffermavano a guardare il leone rampante scolpito, che era lo stemma di casa Pisani, colla spada da un lato, la mazza e l'elmo dall'altro; e i fanò delle galeazze che già avevano rischiarate le vittorie del glorioso Vittor Pisani. Tutti costoro poi si incontravano nell'ultimo cortile con quanti vi approdavano dal canale, e insieme salivano lo scalone e, d'una in altra anticamera, entravano nella maggior sala, la cui vôlta, dipinta dal Guarana, è sorretta da molte colonne corinzie, oggi mostranti il gretto legno, allora tutte splendide d’oro nel capitello, nelle scanalature, nella base.
In quella sala v'era uno scompartimento apposito per l’orchestra e pei clavicembali.
L’accademia, dovendosi incominciare ad ora più tarda, la folla dei visitatori traeva di sala in sala ad ammirare gli sfoggi straordinarj di quel palazzo e di quegli appartamenti: i dipinti di Tiepolo, del Tiepoletto, del Canal, del Rizzi, del Cignaroli; i damaschi, i sopraricci, gli arazzi della fabbrica privilegiata, allora celebratissima, delle sorelle Dini, le quali ritraevano un assegno annuo dalla stessa Repubblica. E segnatamente si trattenevano ad esaminare a parte a parte le ricchezze d'ogni guisa che risplendevano nella così detta sala d'Apollo dipinta a chiaroscuro dall'Amigoni bergamasco. Se non ci tormentasse la noja delle descrizioni, onde amiamo dipingere a sguazzo con pennello scenografico e in istile piazzoso, piuttosto che col pennello minuto dei Fiamminghi, vorremmo riprodurre così al vivo il palazzo Pisani di dentro e di fuori in quella serata musicale, che il lettore dovrebbe confessare che oggidì per questo lato la ricchezza par miseria; e quando pure dà il caso che taluno voglia sfidare il passato per superarlo, non riesce che ad essere la scimia che imita il padrone, e provoca il riso invece della meraviglia; perchè c'è una cosa, che distingueva i nostri buoni vecchi, ed è l'armonia che univa la loro persona e i loro vestiti colle proprie abitazioni, le suppellettili, gli addobbi, le tappezzerie, gli ornati, le pitture onde si circondavano. Oggi invece il cilindro del secolo decimonono copre una testa colla barba di Carlo V, o i mustacchi a coda di topo di Tamerlano. Oggi il monotono e gretto frack di panno nero, e i calzoni attillati del marito, si smarriscono nelle volute e nelle sinuosità del guardinfante risuscitato dalla moglie ingrossata. Oggi il signore sotto i soli d'Italia porta il soprabito di guttaperca, che ci fa sentire il ribrezzo delle nebbie inglesi impregnate di filigine; mentre poi sul serpe della carrozza parigina il cocchiere reca l'impronta di una vecchiezza anticipata sotto la parrucca a tre giri del senator Tredenti; e nelle case la stessa sconcordanza perpetua, e negli addobbi e negli ornati sempre una ricchezza senza logica e che rinnova l'immagine oraziana del mostro equino.
Rifacendoci coi nostri personaggi, a tre ore di notte Amorevoli portossi al palazzo Pisani, dove s'incontrò in Luchino Fabris, musico di gran merito, imitatore fortunato del celebre Egiziello. Essi eransi trovati insieme viaggiando più volte, e avevano stretta amicizia; ma, per combinazione, non eran mai stati scritturati a cantare insieme nè in un medesimo teatro nè in una città medesima, onde si conoscevano per fama, e avevano il desiderio di sentirsi a vicenda.
— Ho caro assai di vederti qui, disse il Fabris ad Amorevoli, e finalmente udrò la tua voce.
— Ed io avrò il dispiacere di fartela sentire in un cattivo momento, disse Amorevoli. Non sto niente di lena, e cento cose mi dan noja.
— So tutto, amico mio, ma sono ingredienti quelli che non scemano punto il colorito al canto. Tu vedrai la contessa, e...
Amorevoli finse di aver preoccupata l'attenzione a qualche oggetto, e non rispose.
— Credo bene che la bella lombarda verrà stanotte qui, come s'è mostrata altrove in questi giorni addietro... Ma tu guardi Apollo in quadriga, e non ci senti da quest'orecchio. Pure, se tu taci, tutti parlano. Dammi dunque retta. Sento che c'è qui il marito della contessa...
— Anche questo si sa?
— E che mai? pretenderesti forse che del duello col giovine Emo non fosse trapelato nulla, quando cameriere e cuoco e guattero sono stati testimonj della scena?
— E come si racconta la cosa?
— Sta tranquillo; tu ci fai buonissima figura. Ma ora si vuol sapere come riuscì il duello... è il discorso di tutti... Non sai nulla tu?
— Nulla affatto. Sono andati in Terra Ferma, fuori un tratto del territorio della Serenissima per scansare certa legge che li avrebbe colpiti. Però non se ne sa nulla ancora. Lasciamo dunque che tutto vada a beneficio o maleficio di fortuna; e dimmi chi è quel cosino là smilzo e pallido, colla collana e il medaglione e la croce in petto... Tu hai cantato per due stagioni l'una dopo l'altra a Venezia... e questa che s'innoltra sarà la terza... Devi dunque avere la città tutta quanta in sul palmo, e saper vita e miracoli di ciascuno come un barbiere.
— Davvero che di questa città ormai conosco il dritto e il rovescio come se fosse la mia giubba. Ma non domandarmi chi sia colui, perchè non l'ho mai veduto nè qui, nè altrove, nè in piazza.
Dicendo questo il Fabris si volse a chi gli passava presso, e chiese il nome di quel gentiluomo.
— Chi è colui? rispose l'interrogato con un sorriso secco e amaro. Ma gli è forse permesso ignorarlo? Esso è nientemeno che il re della festa.
— Chi? il conte Algarotti?
— L'Algarotti... sì signori... plebeo di Venezia, conte di Prussia, ciambellano di S. M. il Re Federico, cavaliere del Merito, consigliere intimo del Re di Polonia, consultore del duca di Savoja, di quello di Parma, del Papa; membro di tutte le università, socio di tutte le accademie che furono, che sono e che saranno: astronomo, poeta, pittore, architetto, suonatore di violino... Di molti si suol dire che cosa è... di costui bisogna dire che cosa non è... Tuttavia quel ch'ei valga davvero, lo si conoscerà da qui a cinquanta e meglio ancora da qui a cento anni. Intanto ha la tosse, e un polmone che si rifiuta a fare il suo solito servizio. Padroni riveriti.
Così dicendo, quel gentiluomo si mescolava tra folla e folla.
— Che costui sia un qualche letterato o poeta, razza invidiosa e malefica? disse il musico Fabris, il quale scontrandosi in quel punto faccia faccia con un uomo tutto vestito di nero, alto e magro, ch'ei ben conosceva:
— Signor abate, disse, vorrei sapere il nome di quel giovinotto lì alto e stecchito, con cui testè ho parlato e che or sorride a quella dama.
— Se non amate ch'altri vi tagli i panni addosso, fate di scansarlo... Egli è il conte Carlo Gozzi, il quale ha il cervello fatto di fegato, onde se schizza fiele e bile ad ogni parola, la cosa è naturale.
— Addio Luchino, e via.
— Chi è questo prete? domandò Amorevoli al Fabris.
— È il celebre abate Chiari.
— Ma perchè non presentarmi a lui, che lo avrei ringraziato?
— Di che?
— Del favore che da qualche anno mi fa tutte le notti. Sullo stipo accanto al letto io tengo sempre una tazza d'acqua di gomma e un romanzo dell'abate. Prima di dormire bevo due goccie di gomma, e leggo due pagine di romanzo. La gomma mi fa morbida la gola, le pagine mi fan morbido il sonno. Se mi sveglio, bevo altre due goccie di gomma e leggo due altre pagine di romanzo; così conservo la voce e la salute, rintuzzando la veglia. Se c'incontriamo ancora in lui, ti prego di presentarmi. È un mio benefattore.
— Se tu metti i suoi romanzi insieme coll'acqua di gomma, buon padrone. Ma non si fa così a Venezia; parlo delle donne e del pubblico che legge avidamente i suoi libri; che corre in folla alle sue commedie, e schiamazza d'entusiasmo; e lo supplica a dar sempre qualcosa di nuovo; e sì che l'abate sembra una fontana intermittente, che cala per crescer sempre, e annaffia tutti quanti; eppure tutti si senton arsi.
A questo punto un maggiordomo della casa s'accostò al Fabris, significandogli che il signor conte padrone chiedeva di lui e dell'amico suo. Questi lo seguirono nella massima sala, dove il conte Alvise Pisani sedeva accanto al conte Algarotti, intorno al quale facevano ampia corona molte persone.
V'era il Canaletto, a lui particolarmente devoto per la protezione che ne aveva avuto. Esso tornava allora dall'Inghilterra, dove aveva raccolto molto danaro; e dalla Sassonia, dov'erasi recato a portarvi due suoi quadri per interposizione appunto dell'Algarotti, il quale aveva avuto incumbenza dall'Elettore di acquistar opere ad arricchire la galleria di Dresda. Con lui stava discorrendo l'amico suo Tiepolo, quegli che di stupende macchiette gli ornava le prospettive animandole di vita e rendendole più importanti per lo studio dei costumi e delle foggie. Il Tiepolo era tornato di fresco da Milano, dove avea dipinta la vôlta della maggior sala in casa Clerici. De' letterati, v'era il Gozzi Gaspare, e il senatore Seghezzi, il quale stava in quel punto presentando all'Algarotti un fanciullo di undici anni, autore in quella così giovane età di due o tre poesie in dialetto veneziano, che aveano fatto il giro della città. Ed era quel Gritti che doveva poi riuscire nel vernacolo veneziano ciò che il Maggi era stato nel milanese. Ma di tutti mancava il primo, mancava il Goldoni, il quale era andato a Torino a mettere in iscena il Molière. L'Algarotti dava belle e graziose parole a tutti, ma con quel fare di affabilità convenzionale che, se indispettiva fieramente Carlo Gozzi, non piaceva troppo nemmeno al più mite Gaspare, che giuocava di scherma coi complimenti onde il conte gli era cortese riguardo alla fondazione di quell'accademia de' Granelleschi che, fin dal 1740 iniziata per celia e portando sempre la maschera della matta giovialità, nel fatto era però diventata il conservatorio della buona lingua italiana.
— Ella, signor conte, mi dà lodi che son dovute ad altri, così diceva Gaspare Gozzi. Ecco il vero fondatore dell'accademia, il suo massimo sostegno, il suo principe perpetuo; e dalla schiera circostante, pigliando pel braccio un pretino rachitico, lo presentò al conte dicendogli:
— Questi è il celebre abate Sachellari, l'arcigranellone; si provi, signor conte, a interrogarlo, e sentirà parole di sapienza.
Quel Sachellari era un originale curiosissimo, pieno di goffaggine e di orgoglio. Quando parlava faceva smascellar tutti dalle risa, e più quando recitava gli stolidissimi suoi scritti. Tuttavia quello scimunito aveva data l'occasione perchè si adunassero le migliori intelligenze di Venezia. In prima era stata una gara a chi lodavalo di più con componimenti berneschi; poi da quella gara nacque la celebre accademia in cui risplendette più che mai l'ingegno, la vena poetica, il brio, lo spirito satirico di Gaspare Gozzi.
— La testa di costui, caro Algarotti, è come quella de' miei detrattori.
Chi diceva tali parole era il padre Carlo Lodoli, che nel convento di san Francesco della Vigna teneva aperta scuola privata a molti giovani patrizj e facoltosi, ed era stato maestro anche all'Algarotti. Istrutto in molte scienze e lingue e nell'arte architettonica, egli aveva ottenuta grande rinomanza per avere tentato di distruggere tutti i principj fin allora invalsi nell'architettura, negando obbedienza all'autorità, detronizzando Vitruvio, e introducendo quella filosofia architettonica, che turbò di sottigliezze e astruserie le menti, onde per libidine di opposizione fece poi più tenaci dell'imitazione gli architetti pratici. Del resto, quelle parole ch'esso aveva pronunciate erano dirette a due architetti là presenti: il Poleni che avrebbe battuto moneta falsa per Vitruvio, e il Temanza che aveva scritto un opuscolo contro di lui e di quelle, secondo il parer suo, dementi dottrine. Il Temanza non rispondeva, e ammiccava allo zio Scalfurotto, l'architettore di san Simone Maggiore, mentre ridevan tra loro il Massari, che stava in quel tempo edificando i Gesuati, ed il Lucchesi che eresse san Giovanni in Oleo e l'Ospedaletto di san Giovanni e Paolo. Per altro se il Temanza s'accontentava d'ammiccare e tacere e lasciar che svampasse l'iracondo e dotto frate, dipendeva da ciò, ch'ei sapea assai bene come nessuno desse ragione al suo avversario, mentr'egli era lodato ed ammirato dai più celebri architetti ed archeologhi d'Italia, ed invitato dai più facoltosi patrizj di Venezia, delle cui mense ei teneva gran conto, perchè s'egli era celebre come architetto civile e idraulico, lo era pure come insaziabile mangiatore. Ma il conte Pisani, visti il Fabris ed Amorevoli, li presentò in prima all'Algarotti, poi al P. Vallotti, il celebre maestro suonator d'organo del Santo di Padova, ed a Tartini, e disse loro:
— Or tocca a voi. A momenti sarà qui il doge e il procuratore Foscarini e i signori Dieci, e converrà incominciare.
Il maestro Galuppi, che in que' giorni era passato a Venezia a concertarvi l'opera in musica, si alzò, e volgendosi con grande rispetto al P. Vallotti, il quale allora era stimato nell'arte dei suoni quel che oggi il professor Bordoni è stimato nella scienza dei numeri, lo supplicò a volere esaminare i pezzi di musica da eseguirsi in quella sera.
Vallotti si volse a Tartini, e:
— Avete visto, voi? gli disse.
— Io conosco la musica che devo eseguir io, dell'altra non so. Ma chi ha a cantare dee far quello che più gli piace.
— Però sarebbe ottimo, soggiunse il P. Vallotti, che alla musica di camera non si mescolasse mai la musica di teatro.
— Io ho alcuni madrigali dell'abate Clari e dell'abate Stefani, disse Amorevoli.
— Ecco un artista di buon senso.
— Per metà, maestro. Perchè ho anche un recitativo di Vinci, e due arie del Pergolese e di Jomelli; il pubblico vuol essere accontentato anch'esso, e se dieci gustano Clari e Stefani, mille comprendono la musica teatrale, anche perchè l'hanno sentita ad eseguire più volte, e vi recano un giudizio più ammaestrato dall'esperienza.
— È questa un'ottima ragione, disse l'Algarotti.
— Pessima, entrò a rispondere il P. Vallotti che aveva la stizza del frate, del vecchio e del profondo scienziato, disprezzatore degli uomini superficiali e che, in quanto all'Algarotti, non avea potuto sopportar la lettura di quel suo trattatello sulla musica.
Ma l'Algarotti non si scontorse punto a quella cruda opposizione, ma sorridendo blandamente:
— Ognuno porta l'opinione sua, disse. Bensì mi rincresce di averne una che sia opposta a quella di un sì grand'uomo qual siete voi.
L'Algarotti era stato, già ognun lo sa, alla Corte del Re filosofo, la cui filosofia consisteva nel volere all'ultimo essere adulato. Era stato col Re di Polonia, il quale non amava certo di essere strapazzato dai letterati. S'era trovato in Francia con Voltaire, con Diderot, con tutte le altre colonne della Francia nuova, e seppe sì ben fare che quei grandi uomini avevano lui in conto d'uomo grandissimo. La società di mutuo incensamento non è una invenzione di questi ultimi anni. Essa fioriva anche nel secolo passato, e l'Algarotti ne poteva a buon diritto essere il presidente.
Ma intanto che i signori virtuosi maschi e femmine, e i signori maestri di musica e i signori professori di violino, di viola, di violoncello, di contrabasso, di clarino, di clarone, di fluta, d'oboè, ecc., recavansi nello scompartimento a loro assegnato nella gran sala delle colonne; il maggiordomo e i camerieri facevano un giro per gli appartamenti dov'erano disperse le dame co' loro cavalieri, onde invitarle a sedere nella gran sala.
E in poco tempo s'eran tutte infatti messe a seder là in più file disposte a semicerchio intorno al seggiolone del doge e della dogaressa, press'a poco come le deità dell'Olimpo intorno al Giove nel quadro d'Appiani. E per verità ch'era quello un nuovo olimpo, olimpo terrestre e palpabile, migliore assai del mitologico. Olimpo di ricchezza, di splendore, di gioventù e di bellezza.
Amorevoli, che stava più in alto sulla gradinata dell'orchestra, innanzi al clavicembalo, volse lo sguardo in quella via lattea di pupille tremule; ma nella patria dei grandi occhi lucenti non vide gli occhi che cercava. La contessa Clelia non c'era. L'estro, che un momento prima lo aveva eccitato, leggendo col P. Vallotti un madrigale erotico del Clari, gli svampò in quell'infelice ricerca e chinò la testa avvilito. In quel punto entrava il doge che, girata intorno la testa e messosi a sedere vicino al conte Alvise, tosto gli domandò con grande sollecitudine:
— Non avete ancora veduta la contessa Clelia V... di Milano?
Or che relazioni potesse avere il doge Grimani colla contessa e qual cosa lo sollecitasse a di lei riguardo vedremo fra poco.


IX


Se il labirinto dedaleo in cui, senza sua colpa, si trovò impigliata la contessa Clelia, non fosse un fatto incontrastabile, che fece parlar tanto i nostri buoni vecchi cento anni fa, e che una secca mano registrò in carta grossa; perchè il tempo e l'umido de' muri solitari non bastasse a distruggerla, e così potesse pervenire alle mani di un postero incapace di custodire i segreti; se tal fatto adunque non fosse una verità irrefragabile, noi gli avremmo negata ogni fede quando lo avessimo udito da uno di quegli uomini avvezzi a inventar frottole. Perchè, passi pure tutto quello che fin qui è avvenuto a Milano, passi la maledetta fortuna per cui un semplice dialogo tagliato in mezzo da un cancello e, fino ad un certo punto, anche innocente, mise in piazza i pudibondi arcani di una gentildonna; mentre più spesso quella stessa iniqua fortuna sa conservare intangibile l'aureola penelopea a chi s'intrattiene a lungo in dialoghi senza cancello; passi dunque tutto ciò, e passi la fuga, e passi il ricovero di Venezia: ma ciò che veramente ci fa intolleranti e fremebondi per quella sventurata contessa, è l'infesta combinazione della scrittura teatrale del tenore che cambiò la sede della malattia senza distruggerla, anzi aumentandola a più doppj.
Povera Clelia, seduta presso la finestra della sua camera, colla faccia mestissima e gli sguardi profondi rivolti macchinalmente al cielo, anzi alla luna, alla luna fredda e incapace d'intenerirsi per nessuno, mentre pure da tempo immemorabile si gode la fama di pietosa.
Povera infelice Clelia, gettata e trattenuta dalla fortuna tra un amante fatale e un marito funesto, in una terribile vicinanza e dell'uno e dell'altro; dell'uno e dell'altro, che pure coraggiosamente e fortemente avea fuggiti.
Almeno coloro che si picchiano il costato per ogni nonnulla, e sono inesorabili accusatori delle debolezze altrui, le vogliano tener conto, per tutto quello che potrebbe succedere in avvenire, di questa prima violenza usata contro sè stessa!
Chè anzi, nel punto ch'ella guardava la luna, stava precisamente compiendo contro sè medesima una seconda violenza. Se donna Clelia fosse cotta e stracotta dal desiderio di rivedere Amorevoli, lo pensino i giovinotti che non hanno ancora venticinque anni e che, per un occhiata, sì, per un'occhiata (anche noi abbiamo avuto i nostri verd'anni!) farebbero due volte di notte, non che una, il traverso dell'Ellesponto; lo pensino le fanciulle che non hanno innanzi agli occhi che un unico oggetto; lo pensino anche le donne che hanno più di venticinque anni e son compromesse in qualche pericoloso contrabbando, mentre la guardia di finanza batte la campagna. Donna Clelia dunque, ci rincresce dirlo, ma la verità è una sola, desiderava di vedere Amorevoli con un ardore, con tale ardore, che noi amanti della buona bottiglia e della coppa di manzo, non possiamo nemmeno concepire. Tuttavia, con sì smisurato ardore nell'animo, non si mosse dalla sua camera, e resistette agli inviti della moglie dell'illustrissimo conte Alvise Pisani. Non si mosse per non incontrarsi in colui, negli occhi suoi, per non sentir la sua voce, per non provocare nuovi parlari, per non essere cagione di nuovi scandali; nè si creda che la paura del marito abbia potuto influire sulle sue deliberazioni. No, al marito non pensava, nè poco nè assai; lo fuggiva colla mente, come allorquando si torcono gli occhi da una imagine disgustosa, e passava ad altro; onde il timore non potè mai padroneggiarla. Solo pertanto il fermo proposito di non voler vedere Amorevoli la trattenne in casa. Però se questa non è virtù, noi non sapremmo invero dove andarla a pescare. Seduta a canto a quella finestra, ella sentì suonar due, tre, quattr'ore al campanile di S. Polo, quando un cameriere venne ad annunciarle che il conte Alvise Pisani domandava d'essere introdotto.
Introdotto ch'esso fu:
— Mi rincresce, contessa, egli disse, d'essere stato costretto a rompere il silenzio della vostra camera. Ma voi non avete voluto appagare il desiderio vivissimo che avevamo della vostra presenza nella mia casa in questa sera; vi supplico a voler essere cortese all'invito che per mia bocca vi manda il doge.
— Il doge?... e che... non ho io nessuna volontà, caro conte, di occuparmi stasera in discorsi d'astronomia.
Perchè il lettore possa comprendere queste parole, dee sapere che il doge Grimani, uomo dottissimo, era particolarmente versato nell'astronomia, e però la prima volta che gli venne presentata, in un'altra serata musicale, la contessa Clelia, sapendo quant'ella fosse istrutta in codesta scienza, s'era compiaciuto di intrattenersi con lei in argomenti affini; e per quel discorso, che s'era prolungato più di quello che parea comportare una conversazione di diporto, esso avea fatto una così alta stima della contessa, che parlandone poi a molti, avea contribuito ad accrescere più che mai la voga in che era venuta la bella lombarda.
— Mi pare che non si tratti d'astronomia, rispose il conte Pisani. Il doge ha bisogno di parlarvi per cosa d'importanza.
— Il doge? ma perchè il doge? domandò allora la contessa alquanto turbata, e alzandosi da sedere.
— Vogliate essere tranquilla, contessa. Il doge non mi disse veramente di che si trattasse, ma il suo aspetto era calmo. Onde non è a temere di nulla. Forse, chi sa, sarebbe occorso che vi presentaste ai Dieci. Ma i Dieci e il doge hanno forse voluto cogliere l'occasione di un ritrovo quasi pubblico e di una spontanea intervista per potervi parlare. Del rimanente un tale desiderio del doge è noto a me solo. A voi pertanto non resta che di accettare l'invito della contessa mia moglie, e onorare l'accademia della vostra presenza, come naturalmente avreste dovuto fare se foste stata un po' più amica di noi.
La contessa stette un istante in silenzio, poi disse:
— Ebbene, verrò...
E un impeto di gioja occultamente le innondò l'animo; la gioja del trovarsi costretta a far quello che assolutamente non avrebbe mai fatto per sè stessa, ma che aveva desiderato con ansia affannosa.
Il conte Alvise partì. Ella chiamò le cameriere, e:
— Mi è forza andare in casa Pisani; ajutatemi come si può meglio e di gran fretta a vestirmi.
Ella tremava in tutta la persona, e il fuoco dalle membra convulse le era salito sul volto. La pupilla erasele fatta ardente più del consueto, e un raggio insolito le lampeggiava tra ciglio e ciglio.
A recarsi in casa Pisani per volontà propria erale in prima sembrato una colpa gravissima, onde s'era trattenuta in casa; ma le parole del conte Pisani le avean fatto parer quella visita un atto indispensabile; sicchè il desiderio le fece afferrare con cieca fidanza quel pretesto per illudersi da sè medesima. Non rifletteva, no, che, fermamente volendo, non aveva nessun obbligo di piegare nemmeno all'invito del doge. Ma provava un'esaltazione piena d'ebbrezza e quasi voluttuosa nel pensare d'aver quell'obbligo, e d'essere costretta a rivedere colui; d'altra parte, per le consuete arcane fantasie della mente, le pareva quello un decreto espresso del destino, e si consolava come di un presagio felice.
Non bastandole il tempo e mancandole la voglia, si scelse vesti e acconciatura semplicissima. Avvolse i capelli, che aveva in gran disordine e non potevansi così presto disporre a parata, in molti giri di una ciarpa di pizzo bianco di Gand, foggia allora parimenti usata; puntandola davanti in sul confine della fronte, con un grosso diamante che solo bastava a dar splendore ed aura d'Olimpo a tutta la figura, e senza più se ne uscì.
Venuta in Canal grande, erano affollate tante gondole nello spazio che correva presso al luogo dell'approdo dalla parte del canale, che il suo gondoliere piegò verso il rio e si fermò alla prima scalea.
La contessa discese, preceduta dal servo, e s’indugiò perplessa sotto l'atrio che mette allo scalone...


E soffrirò che sia
Sì barbara mercede
Premio della tua fede, anima mia?
Tanto amor, tanti doni!
Ah! pria ch'io t'abbandoni
Pera l'Italia, il mondo.


La prima sillaba della parola mondo del celebre recitativo della Didone di Vinci, usciva dalle finestre del piano superiore, portata a volo da quel medesimo do sopracuto onde Amorevoli la sera prima aveva fatto salire in furore il conte V... La contessa subì la sorte di chi s'affaccia per veder la battaglia, e senza più è colto nel petto da una palla che fischia. Fu per cadere, sì le forze le mancarono, a quella vibrazione sonora, e dovette appoggiarsi al servo.
Applausi frenetici seguirono quel do privilegiato, che aveva il dono della forza insieme e della soavità. E il recitativo continuò, e venne la cadenza alle parole Numi, consiglio, in cui la nota tenuta di un si bemolle di prodigiosa limpidezza e, come dicono i maestri, di argentina sonorità, attraversò gli spazi dell'aria, e non pareva voce da uomo, no, ma quella bensì di un essere soprannaturale, incaricato di dar qualche buona notizia ai mortali.
Insistiamo su codeste qualità della voce d'Amorevoli, in prima perchè i suoi contemporanei ne parlano come d'un fenomeno non mai più udito; poi per far comprendere ai lettori che non v'è nulla al mondo di più penetrante negli umani petti di una voce in quella chiave; intendasi sempre quando è bella, perchè non bastano i soli suoni a renderla pregevole. Molti uomini storici denno ascrivere la loro fortuna all'avere avuto in dono una voce in chiave di tenore. Il re Davide sarebbe stato trapassato dalla lancia di Saulle impazzito, s'egli non lo avesse placato col sol, col la e col si d'una soavità arcangelica. Eginardo lo storico fu per la stessa ragione se invaghì Emma, la figlia di Carlo Magno. Rizio e Monaldeschi erano tenori di mezzo carattere, e innamorarono due regine. Sarebbe però stato meglio per loro l'aver avuto tutt'altra voce, chè probabilmente sarebber morti in pace al loro letto. Ma ciò non significa nulla contro il nostro assunto. La voce di soprano sfogato ferisce le orecchie, ma non lascia nulla nel cuore; la voce di basso provoca il rispetto ma non l'affetto; ci sarebbe la voce di contralto, ma nei sùbiti trabalzi dai suoni gravi agli acuti compromette troppo sovente i buoni successi. Soltanto la voce di tenore impera sugli animi. Il gobbo Tacchinardi, gobbo e nano, ed arieggiante più il mandrillo che l'uomo, potè ai suoi bei tempi dispiegare la lista di Don Giovanni, tanti capi femminili ei fece girare! chè l'orecchio, lusingato dal suono maliardo della sua voce, lavorava insidiosamente sugli occhi, innanzi a' quali, come a' tempi del mago Merlino, usciva il silfo dal nano, il genio alato dal diavolo colle corna. Dopo tutto, vogliam dire con ciò, che se una donna s'innamora d'un tenore, non pretenda di poter bere l'oblio nemmeno in Acheronte; e se qualche giovinotto ha per rivale un tenore, faccia conto d'esser tisico in quarto grado, e di dovergli senza più far la regolare cessione del suo tesoro.
Non creda però il lettore che codesta sia una malizia di chi scrive, per far le lodi della propria voce; tutt'altro; chi scrive ebbe in sorte la voce di basso; soltanto gli toccò in dono, quasi a titolo di compenso, un fa diesis squillante, di cui si giova per aver ragione nelle dispute fracassose cogli amici.
Ma tornando a donna Clelia, conquisa dalla voce d'Amorevoli, ella si trattenne sotto l'atrio premendosi il cuore, finchè il recitativo si svolse nell'aria:


Se resto sul lido,
Se sciolgo le vele,
Infido, crudele
Mi sento chiamar.


E intanto, confuso
Nel dubbio funesto,
Non parto, non resto —
Ma provo il martire
Che avrei nel partire,
Che avrei nel restar.


Dove appar chiaro come i fervori della passione congelassero nell'anima fredda di Metastasio in tante formole precise e quasi aritmetiche, avverse al genio della poesia e del dramma.
Ma la musica di Vinci aveva l'abbandono e lo slancio e il sentimento che mancava a quelle strofe; e Amorevoli vi mise nel renderla la duplice virtù dell'arte più squisita e dell'animo il più ardente.
Donna Clelia, come i battimani rintuonarono nei cortili:
— Or si può ascendere, pensò, e fatto lo scalone, entrò nelle sale.
I servi di casa Pisani, che la stavano aspettando, mossero a dimandare il conte padrone, che accorse tosto a riceverla.
Preceduta da lui fece l'ingresso nella maggior sala. Il fremito dell'applauso e dell'entusiasmo recente che ancor durava là entro, cessò di colpo alla sua comparsa, e vi successe un profondissimo silenzio. Tutti gli occhi furono fissi in lei. Il conte Pisani, per toglierla dall'imbarazzo in cui la vedeva impigliata, si volse tosto al conte Algarotti dicendogli:
— Ecco la contessa Clelia V..., de' cui talenti avete sentito a parlare. E l'Algarotti si alzò e venne a sedersi vicino a lei. Anche il doge la guardò da lunge, con atto di affabilissima cortesia, e parve dirle:
— Ci parleremo dopo con maggior comodo.
La contessa intanto, rispondendo macchinalmente alle gentilezze del conte Algarotti, guardava di furto allo scompartimento dell'orchestra, dove Amorevoli era investito dalle congratulazioni de' suoi colleghi: da Luchino Fabris, dall'Aschieri, dalla Turcotti, dal P. Vallotti, che nella sua severità gli batteva una spalla in atto di protezione; dal violinista Tartini, uomo di febbrile vivacità, che ad attestargli la sua soddisfazione gli andava squassando un braccio. Nè Amorevoli erasi ancora accorto della comparsa di donna Clelia. Bensì il musico Fabris gli parlò all’orecchio, e l'avvisò dell'arrivo di lei.
Amorevoli si volse lentamente, quasi che non fosse fatto suo...
Medesimamente la contessa Clelia non fece atto nessuno, e stette immobile come un simulacro marmoreo. Solo incontraronsi i raggi delle loro pupille, e benchè gli astanti, che da quell'incontro s'erano atteso una catastrofe, dicessero fra loro: Bada ch'ei pare, non si conoscano nemmeno, pure l'effetto dell'incontro di que' raggi non può esser reso che in parte da quella strofa fremebonda della Parisina,


Un sospiro, un senso arcano
D'un amor maggior d'amore
Trapassò da cuore a cuore
E di gioja l'inondò.


Intanto il conte Algarotti andava circuendo di domande scientifiche la contessa, e d'una in altra notizia, rispondendogli ella pure alcun che macchinalmente, la intrattenne dell'astronomo Lieberkam conosciuto da lui a Dresda, quegli che nel 1743 aveva inventato il microscopio solare; e le parlò del celebre Clairut, colui che avea fatta la dimostrazione dello schiacciamento della terra, mediante l'attrazione e la forza centrifuga. E la contessa, alla sua volta, si trovò costretta a chiedergli conto di Bouger, l'inventore dell'astrometro, e ad informarlo d'un lavoro che in que' giorni il P. Frisi di Milano stava meditando sul moto diurno della terra, facendo uso dell'analisi geometrica di Newton, per mostrare che un tal moto non poteva essere impedito dalle maree. Ma se il microscopio e l'astrometro e la forza centrifuga e l'analisi geometrica di Newton fossero compatibili collo stato dell'animo di donna Clelia, ognuno lo può pensare.


X


Intanto che il conte Algarotti e la contessa attendevano a parlar di scienze esatte, passava quel quarto d'ora o quella mezz'ora di riposo, in cui i vecchi pigliano il tabacco, i giovani susurrano qualche parola all'orecchio delle giovani, e queste pigliano il sorbetto o l'acqua cedrata.
Tartini, cessato di scrollare il braccio ad Amorevoli in segno d'entusiasmo:
— Senti, disse, qui il nostro Luchino Fabris, questa seconda edizione di Egiziello, m'ha raccontato le tue storie e i tuoi amori, e sono contentissimo di te. Così va fatto. Anch'io a vent'anni misi gli occhi addosso ad una fanciulla dell'alto cielo. Hanno tanto orgoglio questi signori che si chiaman lustrissimi, e son così persuasi d'esser fatti di tutt'altra pasta della nostra, che di tanto in tanto conviene che qualcuno metta loro il cervello a partito, e li faccia persuasi che è più nobile di tutti chi è più giovane, più bello e più bravo. Ecco i tre quarti della nobiltà vera; quello che manca a fare i quattro quarti sta nella ricchezza che col merito uno s'acquista. Dunque tu sei un nobile degno del tosone; e giacchè a Milano non avevi amori, hai fatto benissimo a sceglierti qualche stella del cielo superno, e a dar dentro in un marito borioso. Qui Luchino mi ha detto che jeri tu eri prontissimo a batterti con lui, ed egli ha rifiutato per orgoglio, ond'altri ha preso le tue veci. Ma ciò non va bene; voglio conoscerlo io questo signor conte lombardo. Già tu sai che la mia prima professione fu quella dello schermidore, e fu un tempo in cui volevo metter sala d'armi, e anche oggi non so chi abbia occhio più acuto e braccio più fermo del mio. Dunque lascia fare a me a trarre in ballo questo signor conte; che se ricuserà, lo assalirò di tratto, senza dirgli nè asino, nè bestia; onde, se gli è cara la vita, dovrà pur mettersi in sulla parata. Chi sa mai, caro Amorevoli, ch'io debba farti il piatto a dovere, e che il conte sia venuto a Venezia per trovarvi una tomba fatta d'acqua salsa e d'alghe marine? Ma a proposito, dov'è questa signora contessa? Io sto scrivendo qualcosa intorno ai principj dell'armonia musicale contenuta nel genere diatonico, e in questo lavoro non posso disimpacciarmi da certe formole numeriche. A lei dunque, ch'è gran matematichessa, come sento dire, vo' dare a leggere il manoscritto. Così farò la sua conoscenza. Io già ho cinquantott' anni, e tu non devi aver gelosia di me.
Ma il maestro Galuppi, a fermare codesta velocissima parlantina del celebre violinista:
— Ora è venuto il momento, signor mago, gli disse scherzando, di evocare il vostro diavolo, e di mettere lo spavento in tutte queste leggiadre gentildonne.
Per comprendere queste parole del maestro Galuppi, dee sapere il lettore che in quella sera Tartini doveva eseguito appunto quella sua celeberrima sonata, così detta del Diavolo da uno strano sogno ch'esso avea fatto, e che gli aveva messo il pensiero di trarne una composizione musicale.
Avendo il Tartini, a queste parole di Galuppi, preso il proprio violino, l'Algarotti dalle matematiche balzò di tratto a parlar di musica; che era una sua speciale ambizione, quando trovavasi con qualche persona nuova, di percorrere tutto quanto l'ambito delle scienze e delle arti, per far maravigliare chi l'ascoltava, della sua straordinaria versatilità.
— Non avete mai, contessa, sentito questo prodigioso violinista?
— Non ancora; bensì ho sentito il Veracini, dal quale dicesi che costui abbia molto appreso.
— E il Giardini torinese? Il Giardini cantava col violino; ma costui lo fa palpitare e fremere e piangere. Si direbbe che il suo strumento sia un essere animato e dal quale, più che suoni, si debbano attender parole e discorsi. Quando venne a Praga, dove io mi trovava col principe di Prussia, ch'ora è il re Federico II, per l'incoronazione di Carlo VI, nessuno sapeva spiegare il modo con cui traeva dal violino tanta pienezza e rotondità di suono. Chi pensava fossero qualità speciali della costruzione e del legno del suo violino, chi dell'animale che avea date le corde. E nessuno s'accorgeva che il gran segreto era nell'arco, nel modo di governarlo, nella sua pressione sulle corde. Mi diceva il medesimo Tartini, che il suo lungo esercizio in gioventù nel tirare di scherma gli ha comunicata una tal vigoria nel braccio e nel polso, la quale gli tornò poi utilissima a tenere l'archetto. Ma or ora l'udrete e lo giudicherete nella suonata del Diavolo; perchè tutto dev'essere strano e straordinario in costui. La sua vita, le sue vicende, tutto, persino i titoli delle sue composizioni. Doveva essere un frate, e rubò una fanciulla patrizia. Studiava a Padova per fare il giureconsulto, e dì e notte tirava di scherma e ingiuriava or l'uno or l'altro, e li sfidava e li ammazzava a titolo d'esercizio. Va a sentir Veracini a Firenze, e ne ha tanto avvilimento che si nasconde in Ancona per sette anni a crearsi uno stile nuovo d'esecuzione, e fare la famosa scoperta del fenomeno del terzo suono, a scrivervi suonate a centinaja, e un trattato sulle amenità del canto. Infine, venuto maestro di cappella al Santo di Padova, vi fa un sogno che lo esalta sino alla pazzia e gli fa scrivere questa suonata che or ora udrete, e che si chiama del Diavolo.
— Ma come fu?
— Sognò d'aver fatto un patto, e che il diavolo era al suo servizio. Però gli diede a suonare il proprio violino, per vedere quel che il diavolo ne avrebbe saputo fare, e ne udì tal cosa che lo fece trasalire. Risvegliato per così violenta sensazione, dà di piglio al violino per ripetere quel che aveva udito, ma non seppe riprodurre, com'egli asserisce, che il trillo del diavolo a piè del letto. Il resto non è che una composizione di sua fantasia, e una variazione su quel tema, ma è certo la più bella di quante ne ha scritte sin qui.
A questo punto il maestro Galuppi si mise al pianoforte, e facendo scorrere due o tre volte le dita sulla tastiera, richiamò l'attenzione dell'uditorio, il quale fece un silenzio profondo, quando Tartini col violino e coll'arco comparve al parapetto dell'orchestra.
Nel tempo che Tartini faceva correr l'arco sulle corde e regolava i bischeri, l'Algarotti ebbe campo di sfoggiare la sua dottrina archeologica sulla genesi del violino, confutando Aristofane e Ateneo che fecero il violino coevo ad Orfeo, e confutando quelli che lo vollero inventato dagli Indiani e donato all'Italia dalle crociate; e piantandosi nell'opinione che vuole il violino figliuolo dell'occidente, e probabilmente del principato di Galles, e trascorrendo sui varj tramutamenti della sua forma, dalla viola primitiva, alla viola da braccio, a quella da gamba; i quali a lungo andare generarono poi in Francia il piccolo violino.
— Oh che noja, caro signor conte Algarotti. — Per fortuna che Tartini cominciò l'adagio d'introduzione, e il conte dovette permettere che la contessa, trasportata dalla seduzione di quello stile incantato, s'immergesse con tutta l'anima nell'onda voluttuosa della sua passione. Dall'adagio d'introduzione passò il Tartini al secondo pezzo che è a due tempi e da questo alla terza parte, la quale consiste appunto nel trillo del diavolo.
La forza, la soavità, il fremito, la grazia, l'estensione incalcolabile della voce che usciva dal suo violino, erano cose che non si erano mai udite anteriormente a lui, e infatti egli era stato il primo a trovare come la forza che deve spingere l'arco debba radunarsi tutta nelle falangi delle dita; e a far in modo che la mano, all'attaccatura, sia così pieghevole che sembri slogata. Da questi segreti venne senza limite accresciuta la potenza del violino, il quale, allorchè viene sotto la pressione di una mano così ammaestrata, ma che riceva l'impulso da un gran talento musicale, da una fibra nervosa e da un cuore agitato dalla tempesta delle passioni, come avveniva appunto in Tartini, e come lo fu poi in Viotti alcuni anni dopo, e al grado massimo, e fuori quasi dei limiti naturali, in Paganini mezzo secolo dopo, è lo strumento che più fruga ne' precordj a mettere in esaltazione lo spirito. Non era dunque codesto il farmaco migliore pei nervi in parossismo della contessa!
Dopo il pezzo di Tartini, Luchino Fabris, l'imitatore di Egiziello, ebbe la disgrazia di cantare l'arione dell'Euridice, che per verità era il suo cavallo di battaglia, ma dopo, non diremo l'entusiasmo, ma le convulsioni provocate dalla suonata del Diavolo non fece nè freddo nè caldo. Tant'è vero che a questo mondo le cose bisogna saperle fare a tempo. Se la sua voce di musico fosse stata sentita in quella sera prima delle oscillazioni tremende delle minugie incantate del violino di Tartini, avrebbe fatto l'effetto che di solito produceva in teatro; ma pur troppo dovette restarsene avvilito e pieno di dispetto.
E qui un altro riposo succedette all'esecuzione di que' due pezzi, durante il quale il doge Grimani si alzò, e recossi vicino alla contessa Clelia.
— Io attendeva, serenissimo principe, che l'accademia terminasse, e questi egregi signori si dilungassero in altre sale, per potervi parlare, e sentir dal vostro labbro per che grave cagione mi avete mandata a chiamare.
— Io spero che mi vorrete perdonare, contessa, se vi ho fatta venir qui forse contro vostro genio. Ma d'altra parte, anche per adesione dei signori Dieci, ho creduto di non dover farvi chiamare a Palazzo, come pure avrebbe portato il debito. L'eccellentissimo Senato di Milano scrisse al Senato di qui, e supplicandoci ad usar con voi tutti i riguardi a che la vostra alta condizione e i vostri meriti speciali hanno diritto, ci diede incumbenza di provvedere, come ci sarebbe parso meglio, a mandarvi tosto a Milano.
— Io non comprendo, altezza. Chi mi può impedire di vivere in Venezia?
— Noi no; ma il Senato di Milano dev'essere stato costretto a questa determinazione da qualche circostanza straordinaria che noi ignoriamo, e che non potete forse congetturare nemmeno voi. Il Senato di Milano, serbando il silenzio anche colla nostra Repubblica, quantunque per verità avrebbe dovuto parlar più chiaro, ci ha fatto intendere, essere insorta così grave circostanza, per cui è necessario che voi siate sentita in giudizio.
— In giudizio io?
— Dalla lettera dell'eccellentissimo Senato appare che la necessità di sentirvi in giudizio sia una conseguenza della cattura fatta di quel lacchè che voi ben sapete aver dimorato per troppo lungo tempo a Venezia. Non crederei che si tratti di cagione più grave. In ogni modo è bene che non se ne sappia nulla qui... Se noi vi avessimo fatta chiamare a Palazzo, la città tutta quanta sarebbesi tosto gettata in un mare di congetture e di dicerie, e non crediamo che questo v'avrebbe potuto far piacere. Però abbiateci per iscusati se abbiamo colta l'occasione di questa accademia musicale, per mettervi a parte del fatto, e per significarvi che domani occorre che vi mettiate subito in viaggio per Milano. Per verità che, ad adempiere al mandato in modo che non vengano frustrate le intenzioni del Senato di Milano, sarebbe obbligo nostro, dovete perdonarci l'amara parola, di assicurarci della vostra persona. Ma giacchè il Senato milanese ci prega di avervi ogni riguardo, così interpretiamo la cosa più ampiamente che sia possibile, e mettiamo la nostra fede in voi. Il Senato veneto è così persuaso, contessa, dell'incomparabile vostra lealtà che vi lascia in piena balìa di voi stessa.
La contessa Clelia stette per qualche tempo in silenzio, percossa da quelle parole del doge, poi rispose:
— Non mi sarebbe difficile, serenità, indovinare la cagione di tutto ciò, se il Senato di Milano mi avesse scritto direttamente. La cattura del lacchè dev'essere successa per una lettera ch'io scrissi a Milano; onde parrebbe probabile che il Senato volesse sentirmi per raccogliere indizj in una questione gravissima, che adesso non occorre menzionare; ma l'avere incaricato di ciò il Senato di Venezia, senza far scrivere nulla a me stessa, distrugge al tutto una tale congettura. Però, altezza, mi pare come di essere caduta in un abisso, senza sapere chi m'abbia dato la spinta. Abbiate però la mia fede che io sarò a Milano religiosamente nel più breve tempo possibile, per quanto dipende da me.
Può parere strano come in questo breve dialogo nè la contessa abbia mai parlato del conte marito, adducendo al doge il fatto ch'ei trovavasi in Venezia; nè il doge, che pur sapeva tutto, non le abbia mai toccato un tal tasto. Ma la contessa naturalmente scansò di nominare chi poteva farla arrossire. E il doge a cui era stato riferito il fatto del duello, tacque perchè e l'autorità suprema di Venezia e tutte le altre autorità subalterne avevan l'obbligo di ignorare una cosa che, nota, doveva provocare una pena a danno degli infrattori di una legge della Repubblica contro il duello. Chè tanto allora, come prima, e come dopo, e come ora, non possiam dire come sempre, il duello costituiva un fenomeno sui generis del codice criminale, pel quale era esso proibito e punito; e nel tempo stesso era punito e svergognato chi non lo accettava, e non adempiva agli obblighi assurdi che traeva seco. Onde l'autorità, come una mamma innamorata dei figli, chiudeva un occhio, quando sapeva che un Veneziano dava od accettava un duello, e si compiaceva del suo coraggio; mentre poi esagerava nelle ordinanze pubbliche la severità delle frasi contro i trasgressori delle leggi.
Un'altra cosa poi dobbiamo far osservare ai lettori che della Repubblica di Venezia e dei Dieci si son fatti un'idea convenzionale, tutta nera e tutta cupa. Essi avran fatto le maraviglie a vedere il doge parlare in tanta dimestichezza, e quasi da privato, alla contessa. Ma delle terribili apparenze dell'autorità la Repubblica facea conto nelle gravi bisogne della patria, e non in tutte le circostanze della vita pubblica e privata. D'altra parte la serenissima, è forza confessarlo, non era più quella de' secoli antecedenti. La lettera degli statuti era intangibile, ma le costumanze s'erano venute attiepidendo. In una parola, s'era messa anch'ella in cipria e parrucca ad onta del canal Orfano e del Ponte de' Sospiri, che sono gli spauracchi perpetui de' drammaturghi stranieri e de' nostrali che scrivono per gli anfiteatri.
Tornando ora al doge e alla contessa, essendosi mostrato il P. Vallotti a batter la solfa, perchè doveva aver luogo, a chiuder l'accademia, un suo coro fugato, si disgiunsero con atto di reciproco rispetto.
E il coro fugato venne eseguito tra gli sbadigli dell'adunanza, chè esso stava alla musica come il Pape Satan Aleppe alla poesia, sebbene Tartini lo ammirasse e ne fosse compunto.
A notte alta le sale a poco a poco si vuotarono. Quando Tartini si volse per cercare Amorevoli, questi era già scomparso; scomparso prima che la contessa uscisse dalla sala.


XI


Abbiamo lasciato il conte V... e il giovane Angelo Emo intenti ad adempire alle prammatiche preliminari di un duello: di questo mezzo assurdo di riparare le ingiurie, il quale, nato in seno alla barbarie, si è prolungato insino a noi, e vi s'è piantato in guisa che moralisti e filosofi e legisti non arriveranno forse mai a sradicarlo del tutto. Almeno i Barbari erano più logici di noi. Dipartivano bensì da una falsa premessa nell'assegnare i motivi a tale costumanza, ma, dopo la premessa, cessava l'assurdo e le deduzioni camminavano regolarmente. Nel duello, che per loro non era altro che un modo dei giudizj di Dio, essi ponevano per principio che la divinità avrebbe data la vittoria a chi aveva la ragione. Codesta credenza spiega la causa primitiva del duello, il quale poteva sussistere fin che le menti rimanevano acciecate dal pregiudizio; ma non si sa più conciliarlo con verun fine logico dal giorno che tutti furono persuasi che la vittoria dipende dalla fortuna e dalla vigoria, non mai nè dalla giustizia, nè dall'intervento divino. Anzi il fatto diventa ancora più inesplicabile quando si pensa che, precisamente allora che il mondo fu persuaso che Dio non interveniva in codeste prove a fiaccare il braccio di chi aveva torto, e a dar forza al debole che aveva ragione; precisamente allora, ossia nel secolo decimoquinto, quando la civiltà sembrò avviata verso la sua massima altezza, sorsero scrittori a decine per comporre quella che chiamarono scienza dell'onore e del duello.
I legisti di quel secolo, volendo giustificare il duello, si piantarono sull'idea dell'onore convenzionale, senza riguardo nessuno alle leggi invariabili della morale; onde i celebri giureconsulti Passevino, Paride del Pozzo, Baldi, Grimaldi e gli altri seguaci, offrono il miserando spettacolo della scienza intenta ad accrescere occasione alle aberrazioni dello spirito umano. Così il duello, nato spontaneamente in seno a popoli barbari, come un mal frutto d'una mala pianta, fu innalzato all'onore di sistema scientifico dalla civiltà, per cui l'errore insegnato dalle cattedre accrebbe i modi e i mezzi delle offese. Bensì quarant'anni prima del tempo in cui il nostro conte colonnello dovette accettare il guanto dal giovane Angelo Emo, quell'autorità dei vecchi legisti era stata messa in brani da un grande e coraggiosissimo ingegno, dal marchese Scipione Maffei, col suo libro della scienza cavalleresca, a cui appose il bel motto nos nostra corrigimus; e quel libro fece senso in Italia e fece senso in Francia, e trovò sostenitore del nuovo assunto Rousseau; e forse Luigi XIV, forte della sapienza dell'uno e dell'altro, multò il duello colla pena di morte, e instituì il tribunale de' marescialli; e il suo successore accrebbe nell'applicazione la severità alla lettera stessa dell'editto. Ma per quanto in quegli otto lustri si fosse fulminato e scritto e parlato contro il duello, il duello era tuttavia all'ordine del giorno; chè il prestigio del coraggio e dello spregio della morte consigliava indulgenza agli stessi esecutori della legge; e più spesso, non potendosi infrangerne il dettato, se un duello avveniva a dritta, l’autorità, come vedemmo, guardava a sinistra.
Nè pur in codesto fatto, nei cento anni che sono decorsi, non si può dire che siasi fatto un progresso. Sussiste ancora il prestigio del coraggio, sussiste ancora la falsa idea dell'onore. Ed anzi crebbero i sofismi e le sottigliezze e i sotterfugi della mente nel cercare i modi di salvare l’onore senza nemmeno fare appello al coraggio. Son noti i molti duelli a' dì nostri, dovuti indire ed accettare, per far pago il rispettabile pubblico che chiama vile chi non discende sul terreno, foss'anco per un nonnulla; duelli così ben preparati dai pietosi padrini, che la vita de' duellanti fu tanto al sicuro sul terreno della battaglia, quanto sull'origliere dei placidi riposi; onde contemporaneamente alla misura delle pistole e all'assaggio della polvere, e al giuoco de' bussolotti onde si facean scomparire le palle micidiali, il più celebre ristoratore della città stava ammannendo il più lauto asciolvere, e apprestando sulla mensa lieta lo spumante sciampagna. E ciò tuttavia fu decretato potesse bastare per l'onore. Però, stando così le cose, ed essendovi nell'umanità malattie del cervello croniche e incurabili, si può ben profetare un completo fallimento alle società che in Francia, in Germania, in Inghilterra s'instituirono contro il duello; a meno che non vi si consocii l'autorità costituita fondando i tribunali d'onore, onde provvedano a riparare coi loro placiti a quelle ingiurie speciali che fin qui non si credettero vendicabili che dal duello.
Ma comunque fosse e comunque sia di codesta faccenda, Angelo Emo lo propose e il conte V... lo accettò, senza darsi un pensiero al mondo di quel che se ne giudicava e diceva e scriveva dai loro dotti e onesti contemporanei. Anzi, se non il giovane Emo, che era istruttissimo, è probabile che il conte V... non sapesse nulla nè di Scipione Maffei, nè di Rousseau, nè di tutta la parte teorica relativa all'abolizione del duello e solo avesse contezza così in digrosso degli editti dei due ultimi Luigi di Francia.
Si recarono dunque in compagnia dei loro padrini al confine dell'estuario veneto, e là da veri gentiluomini che dovevan ferirsi senza aver nemmeno nè il bene nè il male di conoscersi, si apprestarono a incrociar le spade, fermo dagli arbitri che la sfida dovesse essere, secondo la più generale consuetudine, a primo sangue; il quale, secondo Rousseau, è il modo più assurdo di duello, più assurdo del medesimo duello all'ultimo sangue. Perchè, diceva esso in uno di que' suoi impeti di generosa facondia, al primo sangue?... gran Dio! e che vuoi dunque tu fare di questo sangue? beverlo forse, o bestia feroce? Ma questo primo sangue eruppe con un lieve zampillo dalla clavicola sinistra del conte V... a fargli rossa la bianca lattuga che gli usciva dal panciotto; zampillo lieve di più lieve ferita e che fu giudicata un nonnulla dal chirurgo ch'era presente.
Ma non può immaginarsi il lettore come riuscisse profondissima la ferita che ricevette l'orgoglio del conte, e l'ira che provò contro la fortuna, la quale diede la vittoria al suo giovane avversario, di gran lunga inferiore a lui nel maneggio della spada. Quell'ira però dovette chiudersela in petto, perchè le leggi della cavalleria non permettevano che, compiuta la prova dell'armi, si facesse il viso dell'armi all'avversario, al quale doveva anzi cordialmente stringersi la mano.
Adempiuto pertanto alle prammatiche posteriori al combattimento, il conte V... e il giovane Emo e i padrini e il chirurgo ritornarono tutti a Venezia.
Il conte entrava nella laguna che facevano le tre ore di notte. Torbido com'era, e pur non avendo nessun proposito bene deliberato in testa, discese all'albergo, e, ripartito, andò alla casa Salomon dove aveva in animo di recarsi fin dalla prima sera, ed erasi indugiato, assalito, come il lettore sa, da cento pensieri in battaglia. Nè cosa volesse fare, ei lo sapeva nemmeno, dopo ventiquattr'ore; bensì, per determinarsi, quando fu là, percosse due o tre volte col martello la porta che rispondeva alla parte di terra.
Le imposte si spalancarono, e si mostrò il guardaportone.
— Non è in casa nessuno, diss'egli, senz'attendere che il nuovo venuto parlasse.
— Nessuno?
— L'ho già detto.
— Allora aspetterò fin che venga qualcuno.
— Quando non c'è nessuno in casa, ho l'ordine di non lasciar entrar anima viva, signore.
— Non c'è nemmeno l'illustrissima contessa V... di Milano?
— Nemmeno. Ma anche allora ch'ella è in palazzo, gli è come se non ci fosse; e non riceve nessuno, nessuno affatto.
— Ciò va bene. Ma io sono il conte suo marito, venuto espressamente da Milano, e devo e voglio e ho il diritto d'entrare.
— V. S. illustrissima mi perdoni, ma debbo tenere gli ordini. Io poi non so che V. S. illustrissima sia davvero...
— E credi tu ch'io voglia vendermi per quello che non sono? Va là in malora e lasciami entrare, ch'io stesso parlerà a' tuoi padroni e alla contessa. E così dicendo sforzò, a così dire, l'ingresso; ed entrò in quel lungo androne che, nelle case di Venezia, mette in comunicazione la parte di terra con quella del rio.
— Signore, questa è una violenza di cui il padrone, che è senatore...
— Taci, e bada a te, che nemmeno il diavolo basterebbe a farmi uscire di qui, non che un senatore; e ho nelle valigie il tuo padrone e la tua Repubblica e il Senato e il doge e il corno.
Così dicendo, calcato in testa il cappello a tre punte filettato in oro, abbottonatosi il soprabito turchino da viaggio, ch'era lungo fino agli orli degli stivali e aveva il bavaro pur filettato in oro che copriva le spalle, misurava a gran passi quell'androne colla grande e grossa figura; spingendosi di tanto in tanto fin sul primo gradino della scalea verso il rio a guardare a dritta, a sinistra, a porger l'orecchio, a stare in ascolto se mai venisse qualcuno; poi tornava a passeggiare innanzi e indietro, facendo risuonare sotto la vôlta lo sgarbato scricchiolio de' suoi stivali forti.
Ed or lasciamolo passeggiare a sua posta, chè noi dobbiamo ritornare al palazzo Pisani fra i gondolieri schiamazzanti, a piedi delle scalee, nei cortili interni, ad assistere al passaggio delle belle veneziane, e a dare il braccio alla contessa Clelia per ajutarla ad entrare in gondola e ad adagiarsi sotto il felze.
Scendevano dunque tutte a quell'ora dallo scalone di casa Pisani le ultime e più cospicue beltà patrizie convenute all'accademia. E precisamente s'eran trattenute le ultime per un tacito accordo della loro ambizione e della loro civetteria ad accrescer l'ansia de' giovani cavalieri, aspettanti in due schiere sotto l'atrio che esse facessero loro la carità di qualche occhiata. Discendeva la contessa A..., quella che possedeva gli occhi più grandi e più glauchi in tutto l'estuario veneto. Beltà calcolatrice e perfida, che si compiaceva della interminabil schiera delle sue vittime, e che bisognava ostentar di sprezzarla, per farle spuntare in cuore, se non l'amore, almeno qualche velleità di simpatia. Discendeva la M..., bruna beltà capricciosa, dalla pelle di raso, e dall'occhio andaluso, lucente e tremulo come l'astro di Venere, e che precisamente, pari alla dea che imprestò questo nome a Lucifero, trattava lo sposo come Vulcano, quantunque non fosse zoppo, e lo sagrificava a Marte, anzi a un drappello di semidei più o meno guerrieri che si movevano in evoluzione in faccia a lei, e ch'ella cangiava e sprecava come i guanti e le pantofole. Discendeva la B…, bellezza epigrammatica e mordace, che già navigava cogli anni verso l'equatore della vita femminile, e copriva di nèi le incipienti rughe, che un suo amante corbellato e tradito chiamava i solchi del peccato. Discendeva la S…, beltà perfetta, ma più carnale che spirituale, dall'occhio di capra, dal collo della Diana efesia, dalle membra in cui trionfava la linea curva; sparpagliante a tutti sorrisi ed occhiate, e che era la delizia dei giovinotti in pensione, che, varcati i trentacinque, galoppavano verso i quarant'anni.
Discesero altre più o meno desiderate, più o meno belle, più o meno alte, più o meno grasse; sebbene il guardinfante dal cinto in giù le facesse tutte d'una circonferenza... e tra l'ultime discese la contessa Clelia, che Alvise Pisani e il procurator Foscarini accompagnarono alla scalea, presso alla quale, sotto l'atrio, successe come un ingorgo d'uomini e donne, mentre al di fuori era una confusione inestricabile di gondole e di gondolieri, i quali rispondevano, Vengo, Son qua, al servo colla torcia che gridava i nomi dei signori che si presentavano per andar via: Casa Mocenigo, conte Erizzo, senator Barbaro, Polcastro, Caotorta, Zen, contessa Rezzonico, contessa V..., e questa, dopo un quarto d'ora d'aspettazione, sentì la voce del gondoliere Bianchi, ch'era scivolato tra gondola e gondola fin lì. Il conte Pisani diede il braccio alla contessa, che discese finalmente i gradini, e si adagiò sotto il felze.
Intanto da più di mezz'ora Amorevoli stava nella sua gondola ferma in Canal grande, importunando di continuo il gondoliere:
— Ma bada che non ti sfugga.
— La se fida de mi...
— Ma sai tu ch'è già passata un'ora...
— Gnanca mezz'ora, sior.
— In tante gondole, come vuoi tu conoscere?...
— La lassa far a mi. Nu altri semo come bracchi… se ghe ze el salvadego... nol scapa... La se meta intanto a dormir.
— Ho già visto a passare più di trenta e di quaranta gondole.
— De zento che ghe ne ze... la fazza conto, patron, che semo indrio... Ma la guarda che la ze là... ch'el se consola, sior. E spingendo la gondola codiò dalla lunga quella della contessa per qualche tempo, poi, quando gli parve seconda l'occasione, le si portò ai fianchi.
— Buon dì... compare, disse il gondoliere al Bianchi.
La finestra del felze d'Amorevoli era a due dita dalla finestra del felze della contessa.
— Donna Clelia, egli disse...
Ella trasalì a quella voce, e non rispose; Amorevoli seguì a dire altre parole, ma la contessa non parlò.
Allora il gondoliere Bianchi che, stando in poppa, s'accorse del silenzio della contessa, sospettando ch'ella fosse in un malo impaccio... diede due o tre colpi di remi… e si portò innanzi di tutto lo spazio che misura appunto una gondola, e disse anche qualche mala parola al gondoliere di Amorevoli; e siccome era di tanto più robusto di colui... lo sopravanzò di sì lungo tratto che l'altro indarno s'attentava di raggiungerlo; mentre come un fuoco d'artifizio Amorevoli sagrava al lento gondoliere. Infine, la gondola della contessa svoltò nel rio San Polo. Amorevoli dice al gondoliere: — Va là e t'affretta che la raggiungeremo. Ma il Bianchi era già pervenuto alla casa della contessa, che Amorevoli procedeva ancora discosto. Se non che, in quel punto, ode la voce della contessa, anzi un grido, poi una voce d'uomo, e un rumore di parapiglia. È vicino alla scalea della casa. È presso alla gondola della contessa; vede il gondoliere Bianchi che appoggia un colpo di remo sul cappello a tre punte di un uomo d'alta statura, ch'ei ravvisa pel conte marito. Il cappello a tre punte, inconscio di tutto, fa tre giri grotteschi come un paléo, e cade in laguna. Il conte sfodera la spada e si fa addosso al gondoliere, e l'uno e l'altro cadono a fascio nella gondola, intanto che la contessa piega come in deliquio sulla prora... Tutto questo avvenne in men tempo che noi abbiamo impiegato a dirlo... e Amorevoli, inspirato non si sa da che, ma pronto come una molla che scatti, prende la contessa e, ajutato dal gondoliere, la porta di peso nella propria gondola… mentre dice: — Or t'affretta e non farmi il poltrone.
Nè il conte, nè il gondoliere Bianchi che stavano a fascio nella gondola, non feriti per fortuna, ma bensì martellandosi senza distinzione di rango, poterono veder quel ch'era avvenuto; nè il guardaportone accorso, intento al parapiglia; onde il gondoliere d'Amorevoli si partì senz'impicci... e dopo cinque minuti era già in Canal grande.
Quando furono colà, Amorevoli respirò; ma non era ancora tranquillo, sicchè fece intendere al gondoliere che vogasse più al largo... e il gondoliere si spinse infatti verso il canal de' Marani. Intanto la contessa fu scossa dagli aliti freschissimi della notte e tanto quanto si riebbe; e vedendosi faccia a faccia con Amorevoli, raccolse gli sparsi pensieri e, fatto alla meglio il riepilogo di tutto, gli strinse la mano. Certo che non avrebbe fatto nemmeno quest'atto, per sè al tutto innocente, se fosse stata pienamente in sè stessa; ma dal recente turbinìo dei sensi, la ragione non essendosi ancora tutta quanta sviluppata, l'istinto teneva il suo posto; e l'istinto, il men che potè fare, fu di permettere che la sua mano stringesse quella d'Amorevoli, in segno di gratitudine.
E dopo quella stretta di mano, che lasciò un'impressione indefinibile sulla mano di Amorevoli, vennero le parole tronche, breviloquenti, infuocate, che non ripetiamo perchè per noi non avrebbero senso, tanto ne avevano per quei due! parole che, nell'enfasi erotica, per quelli che le profferiscono hanno un significato che non è inteso da chi le ascolta nella calma di un cuore senza passione. Bensì nella pienezza luminosa di quella gioja istantanea, sapean pur penetrare colla loro acutissima fitta i pensieri del passato e del futuro, e i laceranti rimorsi.
Ma vi sono momenti della vita in cui, al cospetto di un bene presente insperato e supremo, non possono prevalere tutti gli altri pensieri e tutti gli altri dolori. Momenti in cui persino il colmo della sciagura, che pur troppo si presagisce dover essere duratura, comunica al piacere fuggitivo un'esaltazione senza pari.
E qui ci vorrebbero le essenze di rosa, di mirra e belgioino distillate già nella fabbrica di Tomaso Moore di Londra, e passate poi in Italia nella casa figliale di Prati; qui ci vorrebbero le flebili eleganze di Aleardi, di Maffei, di Gazzoletti, per cantare il cantante Amorevoli che muto e pensoso, stava contemplando l'inclita donna pensosa e muta; qui ci vorrebbe qualche svolazzo degli altri poeti minori, che appartengono alla famiglia dei pettirossi, dei canarj e dei capineri, perchè aliassero e gorgheggiassero e pipilassero in segno di festa intorno a costoro, che usufruttano un quarto d'ora di gioja ineffabile, a dispetto della loro falsa posizione.
Notte, cielo stellato, chiaro di luna, Venezia, canal Orfano, canti lontani smorenti nell'aria, gondolieri colle sventure d'Erminia in bocca. Due esseri nell'infelicità felici, un marito terribile lasciato sotto il pugno e il remo d'un gondoliere poeta, eccitabile e fantastico; un passato con de' rimorsi, un avvenire tenebroso: ecco, o signori, consommé di poesia e di romanticismo.
Or qui venite, o giovani fantasiosi e teneri, e voi tutti, che se foste fiori, non potreste esser altro che l'erba sensitiva, venite e volteggiate a vostra posta e in tutti i modi in codesta azzurra sfera che vi appartiene in diritto. Quanto a noi, non abbiamo a far altro; chè il nostro cuore è ruvido oggimai come la pelle di un postiglione.
Ma dove eran diretti que' due felici infelici?... Ma in che ora il gondoliere rivolse il ferro dentato verso la città?
La risposta a queste domande il lettore potrà averla assistendo in seguito a strane cose che avverranno nella città di Milano nell'anno 1766. Per ora,


Galeotto fu il libro e chi lo scrisse,

nè più vi possiam leggere innanzi.

LIBRO QUINTO


Il conte F... e il suo bisavolo. — I medici Moscati, Patrini e Gallaroli. — L'agente Rotigno e don Alberico F... — Donna Paola e la contessa Clelia V... — L'avvocato Agudio. — Un rotolo di cento zecchini e l'avviso a stampa di casa Morosini. — Il Capitano di Giustizia e la contessa Clelia. — Il Viatico — Il confessore e l'erede. — Storia del Senato di Milano. — La tortura, il Galantino e il senatore Morosini.


I


Il giorno ventitrè o ventiquattro maggio salv'errore, un lungo strato di paglia copriva quasi tutto il selciato della via*... Peccato che gl'importuni riguardi ci proibiscano d'indicarla.
Le carrozze, i carri, le carrette cessavano di far rumore appena impigliavano le ruote in quello strame. La qual cosa, tanto allora come adesso, voleva dire che giaceva là presso gravemente ammalato un beneficiato della fortuna. La ricchezza, lo sfarzo, la vita gaudente, persino l'orgoglio e la prepotenza fanno men crudo senso sulla moltitudine di tale insegna di ricchezza, la quale in fine non è che un'insegna di paglia; — e la povera plebe che ha consumata per sè stessa tutta la sua pietà, si ricatta spesso, e nel passare, lanciando all'illustrissimo infermo crudeli epigrammi. Però, se noi fossimo ricchi, faremmo collocare verso corte o verso i giardini il nostro letto, e lasceremmo la paglia a suo luogo, a placare così la pubblica maldicenza, e ad aspettare in segreto che la dea salute tornasse a confortarci, senza fare oggetto di spettacolo pomposo persin la febbre e il vomito e il secesso.
Ma chi giaceva allora a letto obbligato da questi tre incomodi era il conte F..., fratello del defunto marchese.
— Come sta il signor conte? diceva un tale al guardaportone, il quale stava dondolandosi sulla soglia del palazzo.
— Male, sempre male, anzi peggio: oggi a mezzodì si terrà consulto tra gl'illustrissimi signori dottori Bernardino Moscati, Guglielmo Patrini e il dottor Bartolomeo Gallaroli, che è il medico della casa.
— Che Dio vi scampi dai consulti... ma già questo di solito è il malanno di chi ha il diritto di levar colla paglia il rumore delle ruote... Più crescon le cure e le premure, più crescono i pericoli.
E a queste parole s'attraversava la domanda d'un altro, che passava:
— Come sta il signor conte?
— Trattasi di un consulto...
— Più che la medicina sarebbe meglio consultare la carità, la medicina dell'anima, la quale non tarderebbe a dirgli che, per guarire, bisognerebbe fare qualche atto di beneficenza, e non lasciar nella miseria la madre del figlio di suo fratello...
— Queste cose andate a dirle a chi vi piace, non a me che mangio il suo pane...
— Voi parlate bene... ma il vostro padrone opera male. Però state di buon animo, che se mai venisse a morire, come pare che voglia succedere a tutti gli indizj, non saranno pochi quelli che in Milano berranno alla salute dei medici che lo hanno accoppato.
Come dunque ora ha sentito il lettore, il conte F... non avea nessuna buona fama presso i suoi concittadini. Di lui e delle sue qualità caratteristiche non si conoscevano che l'avarizia fastosa e l'orgoglio. Era tradizionale il cattivo credito in cui era tenuto il suo casato, fin dal bisavolo che aveva tormentati i figli cadetti per concentrare nel primogenito tutte le ricchezze. Codesta, come sanno i nostri lettori a sazietà, costituiva allora un modo impreteribile nell'economia della ricchezza patrizia; ma v'erano tuttavia diversi mezzi di farla valere, e i mezzi adottati da quel bisavolo furono de' più disumani. Bensì un ricchissimo parente, il quale non aveva avuto buon sangue con quel tristo antenato, per fargli dispetto, lasciò erede di tutto il proprio un suo figlio secondogenito; (chè troppo spesso nei testamenti, i quali, essendo fatti in fin di morte, dovrebbero pure essere atti di purificazione di tutta la vita, si condensa invece tutta l'acredine morbosa d'una mala esistenza). E colui vincolò la cosa in maniera che, rimanendo senza figli il suo erede, la sostanza dovesse passar sempre al secondogenito. In virtù di questa disposizione, il conte F..., dopo avere, nella sua qualità di secondogenito, odiato per cinque anni il primogenito marchese, e vissuto in continuo timore che lo zio non morisse abbastanza in tempo, e potesse mai congiungersi ad una moglie feconda, ebbe finalmente la consolazione di sentirsi annunciata la morte dello zio, e di andare al possesso di quelle sostanze che gli si competevano per diritto.
Questo fatto, togliendo di mezzo le funeste disuguaglianze, avrebbe dovuto scemargli l'avversione ch'egli avea pel fratello marchese; ma fosse che, duratagli in petto tanti anni, quella fosse passata in istato cronico, o il pingue cibo gli avesse cresciuta la fame; dal giorno precisamente in cui diventò ricchissimo, cominciò a pensare, struggendosi di desiderio, come il casato F... sarebbe stato il più ricco di Lombardia... se le sostanze del marchese e le proprie si fossero unite in una facoltà sola. E a questa considerazione tormentosa dava ansa il fatto che il marchese viveva una vita scostumata e discola, e non aveva un pensiero al mondo d'accasarsi con nessuna patrizia nè di Milano nè di fuori. I luoghi comuni e le tirate sulla virtuale ferocia dell'ambizione si trovano in tanta copia presso tutti gli autori di commedie e di tragedie e di racconti morali, che torna affatto inutile una nuova dimostrazione delle sue attitudini spaventose, segnatamente dopo la famosa parlata del convenzionale Aristodemo; però, il lettore può farsi capace dello stato dell'animo del conte F..., e come avesse tremato ad ogni annuncio che il marchese prolungasse di troppo i suoi amori colla tale e colla tal'altra; e come si fosse consolato alla novella ch'erasi finalmente risoluto di mandar al diavolo colei che avea tenuto il segreto di dominarlo più di tutte; e come avesse provato gli effetti di un colpo apopletico quando sentì che una amante di colui aveagli partorito un figliuolo, ed egli erasi acconciato a conviver con essa e con esso; e come un contraccolpo apopletico gli fosse minacciato dal giubilo che lo fece trasalire alla notizia che il suo fratello, come Abramo, avea finalmente ripudiata quell'Agar in uno col suo Ismaele; e come poi gl'imperversasse nell'animo una vicenda tormentosa di timori e di speranze, quando, percosso il fratello marchese da lunga e penosa malattia, il conte sentì a vociferarsi d'intorno che il prevosto di San Nazaro, cogliendo al varco la di lui natura, fatta più mite dal malore, lo avesse consigliato a non lasciare in balìa della fortuna l'innocente fanciullo ch'esso ebbe dalla infelice Baroggi, e come anzi per dettatura del notajo Macchi avesse scritto di proprio pugno un testamento a favore di quel fanciullo medesimo.
Tutto il resto è già noto al lettore. Gli rimane però a sapere che l'agente di casa F... il quale fu l'uomo adoperato dal conte per tentare il lacchè Suardi, era un tal Giorgio Rotigno, che conosceremo meglio a suo tempo. Ora, se il marchese F... erasi messo a letto molti mesi prima, per lasciarsi consumar lentamente dalla ricomparsa di un antico morbo ribelle ad ogni cura, il conte s'era messo giù invece alquanti giorni prima della partenza per Venezia del conte V... e del fratello della contessa Clelia, per malattia violenta sopraggiuntagli in giorno di venerdì, dopo aver fatto un lauto pranzo di magro.
Ma il mezzogiorno stabilito pel consulto non era lontano, e alquanti servitori di casa F... stavano sulla porta attendendo che venissero i due medici consultori e il medico della cura. — Ed ecco che non si tardò a sentire il lontano rumore di una carrozza, la quale dal lastrico e dall'acciottolato svoltando nella via sullo strato di paglia, smorì in un fruscìo lento e maestoso, e si fermò davanti al palazzo. Era la carrozza del dottor Gallaroli, che dopo pochi minuti venne raggiunta da quella del dottor Bernardino Moscati, e infine da quella del medico chirurgo Patrini. I passeggieri si erano fermati a veder discendere quelle tre celebrità mediche. Il dottor Moscati, padre di Pietro, era un vecchio alto, secco, arcigno, angoloso. La moltitudine lo guardava con venerazione insieme e con spavento.
Esso era professore d'anatomia nell'ospedale maggiore, e veniva chiesto a consulto in molte città anche fuori del Ducato nei casi gravissimi di malattie. Patrini era professore di chirurgia pratica, temuto anch'esso per l'imperterrita asprezza, ond'era fama che sgomentasse gli amputandi per averli docili e immobili sotto al ferro operatore. Dalla scuola di lui e del Moscati doveva poi uscire il celebre Paletta. Il dottor Gallaroli era un ometto rubicondo e allegro, ricercatissimo in tutte le case cospicue e un po' agiate della città, perchè dicevasi che guariva spesso gli ammalati colla sola sua presenza e col buon umore onde purgava l'aria mefitica delle stanze da letto. Smontati i dottori dalle carrozze, e scomparsi dalla vista del pubblico, la ragazzaglia, com'è consueto, si fermò a vedere le rispettive carrozze e i cavalli.
È difficile a spiegare il fenomeno, ma le bestie domestiche ritraggono assai del carattere dei loro padroni, o diremo più giusto, della professione dei loro padroni; segnatamente i cavalli da tiro che stanno lungo tempo al loro servizio. Il cavallo di un medico, inquartato e ben pasciuto, ha qualcosa di solido, di posato, di severo, che impone alle moltitudini press'a poco come il cavallo d'un arciprete. Un occhio avvezzo, senza conoscere il padrone, può distinguere al corso e tra la furia delle carrozze il cavallo del medico dal cavallo del sensale, da quello del patrizio titolato, e perfino può distinguere le gradazioni d'indole e d'età di coloro che stanno in carrozza. E i tre cavalli dei tre dottori, a cui la ragazzaglia facea circolo, confermavano più che mai codesta nostra opinione. Tutti e tre dell'altezza di più che trent'once, tutti e tre gravi e vecchiotti e un po' meditabondi, parevano dire, in loro tenore, al vulgo profano: rispettateci che siamo al servizio della scienza. Oggidì chi volesse fare tali studj sui cavalli dei medici non troverebbe quasi più gli animali da studiare. Non sappiamo perchè, ma oggi la medicina va tutta a piedi. Non vi sono che i cavalli dei medici condotti, ma essi partecipando della condizione de' loro padroni, non sono più riconoscibili, tanto sono maltrattati; e i cavalli di quei medici che, essendo nati ricchi, sarebbero andati in carrozza anche senza la medicina, sfuggono all'analisi ed alla fisiologia. Sarebbe dunque un problema nuovo e curioso: «Valutare la condizione attuale della medicina, non come scienza, ma come professione, dal semplice punto di vista dei cavalli da tiro, ed esibire considerazioni e suggerimenti in proposito.»
Ma lasciamo i cavalli a scalpitare dignitosamente sulla paglia accumulata, e vediamo di poter assistere, per nostra istruzione, al consulto medico.


II


Entrati nella stanza da letto del conte F..., la regola generale vorrebbe che ne facessimo la descrizione esatta, minuta, circostanziata, come si usava una volta dai romanzieri che facevano l'esercizio comandati dal generale Walter Scott, o meglio, come si pratica negli inventarj e negli atti di consegna. Noi però lasceremo una tale descrizione a chi vuol fare uno studio di stile, e collocare a loro posto le parole registrate nel dizionario domestico del chiaro professor Carena; e d'altra parte lasceremo ai pittori la libertà di volteggiare con tutta la loro fantasia per rinvenire una degna cornice al signor conte F..., per sua disgrazia gravemente ammalato, tanto gravemente che il dottor Gallaroli ebbe e scrollare più volte la testa, e in fine a trovare la necessità di domandare un consulto per togliersi dalle spalle l'intera responsabilità della troppo possibil morte dell'illustrissimo suo cliente. Venuto al letto del quale, il dottor Moscati, che ci vedeva poco e allora non ci vedeva punto perchè la stanza era fatta quasi buja dalle persiane semichiuse e dalle tendine di seta verde, ordinò sgarbatamente alla vecchia cameriera, che stava al capezzale, di aprire e di lasciar entrar nella stanza tutta la luce che era disponibile.
I tre dottori gettarono allora un'occhiata acuta e profonda sulla faccia dell'ammalato, che la teneva sprofondata nel cuscino sovrapposto ad altri quattro, tutti messi a merletti e a trine; ma i merletti e le trine facean parere più cruda l'antitesi di quella faccia ossuta, gialla, solcata, distrutta.
I tre medici, a questa prima esplorazione, si guardarono senza far motto, ma si compresero; tanto che il Gallaroli, il dottor della cura:
— Eppure, disse, non è decombente che da otto giorni.
Il Moscati, vecchio cinico, bisbetico e senza prudenza, crollò la testa e passò a toccare il polso dell'ammalato; atto che fu susseguito da un'altra scrollata di testa.
— Che un tale stato, soggiunse poi, possa essere la conseguenza di una replezione, lo credo, perchè lo dite voi; se foste un medico novizio vi direi che quello di toccar polsi non è il vostro mestiere. Cosa m'avete detto ch'egli abbia mangiato?...
— Anguilla di Comacchio, professore; un suo cibo prediletto. Ma egli è solito di mangiarne a dismisura, per quanto io ne lo abbia tante e tante volte sconsigliato. Tutti i venerdì, per sua degnazione, io pranzo qui... e tutti i venerdì mi è toccato dirgli: badi che è troppo, e le farà male; e quel che previdi è avvenuto. Onde, che questo sia un caso gravissimo di replezione, non è possibile negarlo, professore. Prima di pranzo il conte stava bene, non è vero, conte?
Il conte accennò di sì, e, facendo cenno al dottore che gli si accostasse, soggiunse a voce bassa:
— Tant'è vero che ho mangiato troppo, perchè credevo di poter mangiare.
Stia zitto, signor conte... Ma tornando a noi, egli stava bene prima di pranzo, e continuò a star bene anche dopo; anzi vi dirò che, quando il cameriere che portava lo sciampagna, entrò a dar la notizia che ci fece strabiliar tutti, che il lacchè Galantino, catturato a Venezia e fatto viaggiare sotto buona scorta, era stato consegnato un momento prima al Capitano di giustizia, il conte stava tanto bene che, a questa notizia, balzò in piedi e disse: Sono assai contento di questo; da quella canaglia Dio sa che sarà per saltar fuori adesso che è nelle mani della giustizia... Io poi ho uno speciale interesse perchè parli e sia fatto parlare... — e qui bevve due o tre bicchieri di sciampagna l'uno dopo l'altro, e si cacciò poscia a motteggiare e a ridere in modo tale che non è del suo temperamento... Figuratevi, professore, quanto il conte stesse bene... Se non che egli uscì, e alcuni momenti dopo... qui, questa donna entrò in sala tutta scalmanata a dirmi: Venga un po' là, dottore, che il signor conte sta male, male assai, e par che gli manchi il respiro e voglia morire. Io accorsi. Era gettato a stramazzone sulla poltrona, fuggita la pupilla, fuggito il polso. Come vedono, signori professori, non era il caso di una cacciata di sangue. Gli feci dunque servire una limonata acidissima e tepida, dopo la quale, quando si riebbe, lo feci porre a letto, e sebbene la giornata fosse calda per sè, provvidi a farlo ristorare con panni caldi; e così attesi il beneficio del sonno e delle dodici ore della notte.
— Ben pensato, ben provveduto. Non c'era a far altro...
Così diceva il professore Patrini.
— Tutto va bene, soggiungeva il Moscati, ma il giorno dopo, come lo avete trovato il giorno dopo?
— Peggio che mai. Era bensì tornato in sè stesso, ma accusava dolore profondo alla testa, dolore insopportabile allo stomaco. Il polso era duro e inerte... Passammo a' purganti... non se ne ottenne nulla. Ed ora sono scorsi otto giorni, e quasi son venuto in sospetto che l'impedimento sia meccanico. In tanti anni di cura non mi è mai capitato un caso tanto ribelle alla scienza... chè tutto quello che essa può consigliare fu amministrato. Cosa ne pensa il professore Moscati?
— Penso che bisognerebbe conoscere la causa per cui l'anguilla di Comacchio gli ostruì il ventricolo.
— La causa è il cibo medesimo mangiato, anzi divorato in eccesso.
— Va bene... ma questa causa essendo conosciuta, non dovrebb'essere poi tanto intrattabile alla mano risoluta della scienza. Secondo il mio parere, quando gli effetti sono permanenti, e non si modificano nè in più nè in meno sotto al lavoro medico, è indizio che la causa è ignota; ora il nostro studio dovrebb'essere di rintracciar questa causa, per conoscere s'ella sia di tal natura da esser poi governata colla medicina.
Il dottor Gallaroli e il chirurgo Patrini si guardarono in faccia come se non avessero ben afferrato il concetto del professore Moscati.
Ma a questo punto l'ammalato, con voce fonda e intercalata da riposi asmatici, e tuttavia piena di fremito e d'ira:
— Che cosa dunque si conchiude? disse, posso guarire o no? Di che natura è questa malattia?
— Il dottor Gallaroli non ha sbagliato, rispose Moscati. La cura a cui ha sottoposta la signoria vostra illustrissima era l'unica e ragionevole. Ma se il corpo del signor conte non risponde ai trattamenti medici, i medici non possono fare miracoli. Tuttavia speri; e qui tornò a tastargli il polso.
— La febbre è feroce, soggiunse. Il dottor Gallaroli non può che continuare nell'intrapresa cura. D'impedimenti meccanici non credo che sia nemmeno a parlare. Che ne dice il professor Patrini?
— Non c'è sintomo di sorta che accusi un tale impedimento; onde in questo caso non c'è altro che attenersi ad una cura d'aspettativa.
Qui il dottor Gallaroli scrisse una ricetta, toccò anch'esso un'altra volta il polso dell'ammalato, lo tasteggiò alle regioni dello stomaco, poi conchiuse:
— Tornerò sul finire della giornata. E partì insieme coi due medici consulenti.
Quando aprirono l'uscio della stanza, urtarono in un gruppo di persone che stavan tutte origliando, servitori e cameriere, e confuso con loro l'agente della casa, signor Rotigno. — Il figlio del signor conte, giovinetto di vent'anni, che in casa era chiamato don Alberico, passeggiava innanzi e indietro per quell'antisala, tristo in volto, ma vestito con attillatura soverchia, e che certo contrastava e colla gravezza della circostanza e col suo volto medesimo. Ma più di quella medesima attillatura, ciò che facea meraviglia era la preoccupazione ch'esso aveva del proprio aspetto, fermandosi di tanto in tanto a contemplare sè stesso nei due specchioni che dall'alto al basso ornavano due pareti della sala.
Quando i tre medici uscirono, il signor Rotigno tenne loro dietro.
— E così? come si mette, dottore? chiese al Gallaroli.
— Male, male assai.
— Tanto male, soggiunse il dottor Moscati, che, per ogni buon conto, sarebbe opportuno mandare pel prete.
Don Alberico, che, intento a guardar l'effetto d'un neo applicato per la prima volta in quella mattina dal parrucchiere all'angolo del suo occhio destro, non s'era accorto dei tre consulenti ch'erano usciti in quel punto, fu scosso a quella parola prete, e si volse e domandò:
— Come dunque hanno trovato il conte mio padre?..
— Fatevi coraggio, don Alberico, ma non a caso ha detto il dottor Moscati... che c'è bisogno del prete.
Quando i medici si trovaron soli sotto all'atrio del Palazzo:
— Ora ci spiegherete, dottore, disse Patrini a Moscati, quel che avete voluto intendere quando avete parlato della causa della malattia...
Il dottor Moscati crollò allora la testa, e rispose:
— Mi accorgo che nel libro della vita si legge meglio quanti più anni si hanno; e siccome io sono ancora più vecchio di voi altri due, così mi sono accorto di ciò che voi non avete intraveduto. Tuttavia, caro dottor Gallaroli, voi che siete della famiglia, avevate l'obbligo di accorgervi di qualche cosa. Quando mi avete detto, che il malore scoppiò subito dopo l'annuncio della cattura del lacchè, ho tosto compreso da che tutto deriva.
Il dottor Gallaroli e Patrini tornarono a guardare in faccia al dottor Moscati con quell'atto di chi non comprende nulla.
E il Moscati:
— Va benissimo che i preparati anatomici e le lezioni di chirurgia pratica e quelle di medicina non ci devan lasciare il tempo di pensare alle cose di questo mondo. Ma il sole e la luna si vedono, come il freddo e il caldo si sentono anche senza volerlo, perchè sono essi medesimi che si fan vedere e sentire. E così è del fatto presente. Non sapete dunque quel che si dice in tutta Milano, che cioè il lacchè Suardi deve aver trafugato un testamento per insinuazione del... sì, signori, del conte?
— Che? cosa dite?
— Oibò!!...
— Oibò? perchè oibò? vediamo. L'accusa per cui il lacchè Suardi è ora al Capitano di giustizia, è precisamente ch'esso abbia rubate delle carte preziose al marchese defunto, tra le quali un testamento, e un testamento a favore d'un suo figlio naturale. Questo testamento a danno di chi era? Del conte. La scomparsa di questo testamento a vantaggio di chi era? Del conte. Il lacchè a trafugare delle carte cosa poteva guadagnare per sè? Niente. Qualcuno dunque lo dee avere istigato. Chi dunque? Colui solo che ci ha interesse. E chi può essere questo colui? Il conte. Vi parrebbe ancora di sbagliare a credere che non può essere che il conte?... Suvvia dunque... già io non vado dall'illustrissimo signor capitano a ripetere queste parole, che del resto sono in bocca a tutta Milano. Nè io voglio dire in giudizio che la causa per cui l'anguilla di Comacchio si fermò sullo stomaco del signor conte, fu l'annuncio improvviso della cattura del lacchè, nel punto precisamente che i fluidi gastrici lavoravano a manipolare il suo chilo. Fate che domani il lacchè possa escire innocente o dichiarato tale dal Senato... e allora vi accorgerete che siamo ancora in tempo a salvare la vita del signor conte; perchè tolta la causa permanente che non gli lascia aver tregua, è salvo. Son morti degli uomini sul colpo per un eccesso di paura, di collera, d'affanno. È dunque già molto che il conte sia ancor vivo... perchè, colleghi miei carissimi, il caso è serio; e se il lacchè dà fuori il nome del conte, vedete che scandalo, che onta, che vitupero!! Ma torniamo all'Ospedale il quale in certi casi è più allegro del Capitano di giustizia e del Senato, e spesso un forcipe fa meno paura d'un articolo delle istituzioni criminali.
Dicendo questo, aprì lo sportello della sua carrozza, traendoselo dietro a richiudersi romorosamente. Gli altri fecero lo stesso, e i cavalli si mossero con trotto dignitoso e scientifico.


III


Ed ora tornando nella camera del conte, ci accorgiamo che è necessario di spiegar nettamente molte cose che lo risguardano, in continuazione a quel po' di schizzo che, qualche pagina addietro, abbiam dato della sua vita e dell'indole sua. Non sappiamo perchè ogni qualvolta ci occorse di parlare del conte F... e della parte che ebbe nel trafugamento delle carte di suo fratello, lo abbiamo sempre fatto con una circospezione che non potremmo nemmen spiegare a noi stessi. Parrebbe quasi che il desiderio onde il senatore Gabriele Verri e gli altri, i quali erano più o meno in parentela, più o meno in dimestichezza col conte, e che, meglio ancora che per l'onore di lui, spasimavano per il decoro e la buona fama della casta, sia passato nel nostro sangue come un male attaccaticcio; tanto che, se il lettore si ricorda, abbiam sempre parlato a mezza bocca, e gettatigli innanzi in cumulo i fatti senza divisarli bene, quasi timorosi che il conte potesse risuscitare a farci pagar cara la nostra imprudenza. Ci vergogniamo dunque di questo nostro modo di procedere, e vogliamo parlar chiaro, e senza l'ajuto de' personaggi, ma per la nostra bocca medesima. Il conte F... avendo dunque saputo qualche giorno prima che morisse il marchese, che il prevosto di San Nazaro era riuscito a fargli stendere un testamento a favore del figlio della Baroggi; avendo saputo inoltre che il testamento non era stato consegnato a nessuno, e che anzi il marchese aveva dichiarato al prevosto stesso: trovarsi nello scrittojo del suo studio, in mezzo a molti documenti di famiglia, anche le disposizioni dell'ultima sua volontà; il dì medesimo che esso morì e che i notai del Pretorio apposero i suggelli allo scrigno, parlò col suo agente signor Rotigno (che per lui aveva il merito d'avergli ridotto, con un'amministrazione inesorabile, a un terzo di più il valore de' suoi possedimenti), parlò un lungo discorso che condusse il Rotigno a fargli la proposta di tentare il lacchè Suardi, stato tanti anni al servizio del marchese, e che, per essere respinto da tutti e non aver più nè dove dormire nè di che mangiare, dalla disperazione facilmente sarebbe stato persuaso ad accettare buoni patti. La sostanza, in palazzi, case, ville, terreni, capitali, diritti d'acqua, ecc. del marchese F... era valutata a circa dieci milioni di lire milanesi. Il conte promise al Rotigno lire 200 mila di regalo, quando l'impresa fosse riuscita bene; in quanto al lacchè, avrebbe dovuto ricevere sessanta mila lire di compenso, compiuta ogni vertenza; quando cioè fosse tolto di mezzo ogni pericolo d'investigazione criminale, e dopo un lasso di sei mesi; delle quali sessanta mila lire se gliene dovevano anticipare due mila prima di tentare il fatto; altre vent'otto mila subito dopo consumato il trafugamento; il resto, come dicemmo, maturati i sei mesi.
Queste cose, secondo le regole della drammatica e de' suoi sospensorj, il lettore avrebbe dovuto saperle in altro luogo e tempo, quando cioè, dopo un lungo ordine di anni e di vicende, ogni segreto dovrà saltar fuori all'aperto per uno di quegli accidenti che non sanno uscire che dalla bisaccia agitata dalla cieca fortuna. Ma siccome queste cose noi le sappiamo già, avendo sott'occhio tre quinterni di carta gialla e tarlata, tutta nera d'inchiostro svanito, dove la storia del processo c'è tutt'intera, così ne facciamo una graziosa anticipazione ai nostri lettori, anche perchè possano così valutar meglio la portata di questi due personaggi: il conte F... e l'agente Rotigno.
Compiuto il fatto, seppellito il marchese, pagato il lacchè, il conte e l'agente respirarono. Del qui pro quo provocato dagli amori di donna Clelia col tenore gioirono in segreto di una gioja profonda, di una di quelle gioje onde nelle vecchie leggende della nubilosa Germania vediamo esaltato il maligno spirito quando riesce a trarre a perdizione qualche innocente; gioirono in segreto, vogliamo dire che non si comunicarono le loro gioje; perchè e l'uno e l'altro evitarono sempre di parlare di quant'era avvenuto, e per qualche giorno parve anzi che si scansassero. Un'avversione misteriosa grado grado era nata tra di essi; e tanto più implacabile quanto l'uno era più avvinto all'altro, e quanto più dovevano dissimularla con degnazione cortese per un lato, e con profondo rispetto per l'altro. Sul resto erano tranquilli, meno però sul fatto del lacchè, il quale, dopo aver mostrato il testamento originale al signor Rotigno, ostinatamente volle tenerlo per sè, limitandosi a trarne di proprio pugno la copia. Tanto il conte che il Rotigno avevano conosciuto il Galantino per una faccia sola, per quella della ribalderia, dell'audacia e della miseria; ma non sospettarono affatto quella dell'ingegno, dell'acume e dell'astuzia naturale. Davvero che non s'era adempiuto per parte del lacchè alla più grave delle condizioni. Ma dieci milioni erano guadagnati, il fatto era corso tanto bene, che pareva espressamente comandato dalla fortuna. Il capriccio del lacchè poteva essere un capriccio senza pericolo di conseguenze gravi, e del resto anch'esso era interessato a tacere. Non si pensò dunque ad altro che a dar corso alle faccende domestiche, e giacchè solo il conte era chiamato all'eredità, a procacciare gli opportuni provvedimenti per andare al possesso di essa.
Per tutte queste circostanze adunque, ci pare sia facile a capacitarsi del terribile effetto che dee aver fatto sull'animo del conte F... la notizia inaspettata della cattura; ella veniva a dire in conclusione, secondo le consuete risultanze de' processi, che fra pochi giorni tutto sarebbe stato palese, e, insieme coll'edificio che veniva a crollare dalle fondamenta, il decoro del casato, il decoro apparente, già s'intende, veniva ad essere oscurato per sempre. La vivacità lieta che il conte mostrò a' commensali quando la notizia venne annunciata, e le parole che pronunciò non erano state che un effetto dell'esaltazione della paura e dell'astuzia istintiva e quasi meccanica che ha chiunque per trarre in inganno gli astanti intorno a cosa che vuolsi tenere nascosta e si trema possa venir palesata pur dal menomo turbamento esterno, dal colore mutato, dalla voce indebolita. L'uomo allora finge ed esagera sentimenti in tutto opposti a quelli che gli si agitano in petto, di modo che talvolta ei si rivela per l'eccesso appunto della finzione medesima; e il conte si rivelò in fatti a molti de' commensali che notarono ogni cosa e tacquero; si rivelò persino, chi mai lo crederebbe, allo stesso dottor Gallaroli, uomo naturalmente acuto e scaltrito da una lunga esperienza, tanto acuto e tanto scaltro, che finse di esser caduto dalle nuvole quando il sincero e sciolto e burbero dottor Moscati non dubitò di dire quel che pensava. Ma se quella notizia fu tanto micidiale al conte, da fargli l'effetto dell'acqua dei Borgia e dell'arsenico, non lasciò intatto nemmeno l'agente Rotigno, come è facile a credere. Benchè fornito com'era dalla natura di un corpo robusto e inquartato come quello d'un cavallo da stanga, e avendo colorito il volto da quel colore permanente che par vernice metallica e che non permette di distinguere un uomo in deliquio da uno che ha ben bevuto, non ne lasciava trapelar nulla all'esterno. Nessuno però dei nostri lettori più infelici e malcontenti della vita avrebbe potuto invidiarlo; chè in otto giorni e otto notti, se riuscì a sfiorare tre o quattr'ore di dormiveglia, s'arrischia a dir troppo.
Ben è vero ch'egli aveva prese tutte le precauzioni, onde, anche nel caso che il Galantino fosse stato posto alle strette, non potesse nominare l'uomo da cui aveva tenuto il mandato, perchè egli non gli s'era dato a conoscere; ma nel tempo stesso avea potuto accertarsi che il lacchè avea, come suol dirsi, mangiata la foglia, e nel caso di un buon tratto di corda che gli avesse fatte veder le stelle anche di giorno, avrebbe presto dato fuori i nomi per cercar sollievo o trarre altrui nel laccio. Il fatto però d'una malattia grave e pericolosa del conte gli aveva messo in cuore qualche speranza. — Se mai fosse per morire, pensava, prima che il lacchè ci tiri in ballo, a me non riuscirebbe difficile trarmi d'impaccio. Il lacchè nominerà il conte... ma il conte morto non potendo comparire in giudizio... il tutto finirà colla restituzione del testamento... e chi deve esser ricco sarà ricco, e buona notte, e don Alberico s'accontenti di quello che ha. Per tali considerazioni, il signor Rotigno si consolava ogni qualvolta il dottor Gallaroli gli dava pessime informazioni dell'ammalato; e arrivò perfino a stropicciarsi le mani per un soprassalto repentino di giubilo quando sentì annunciato il consulto, tanto avea buona opinione dei consulti medici!!! Se non che questo fresco venticello che gli soffiò sull'animo agitato venne respinto da una frase sola del dottor Moscati: — È mestieri del prete. — Egli non avea pensato che alla morte del conte, e non all'agonia nè a' suoi preliminari, talchè non avea mai considerata la necessità della confessione e dell'olio santo. Però quella parola prete gli penetrò nel cuore coll'effetto di un cuneo che squaglia un ceppo, chè, pensava egli: La vita eterna farà parere al conte un nonnulla i dieci milioni del marchese... e per alleggerir l'anima verserà tutto nelle orecchie del prete... — Insomma lo spavento che gl'indusse quella parola fu tale che se in quel punto avesse mangiato anch'esso due o tre rocchj d'anguilla, l'indigestione lo avrebbe soffocato. Tant'è vero che fare il galantuomo è la migliore speculazione di questo mondo.


IV


Lasciando adesso le nostre digressioni, e venendo a' fatti; quando il signor agente Rotigno e don Alberico tornarono nell'antisala:
— Bisognerà dunque, disse il secondo, mandare a chiamar don Giacinto.
Don Giacinto era il vicario di Santa Maria Podone, dipendente dal curato di Santa Maria Porta; era il prete di casa, ossia quello che più frequentemente aveva a che fare col signor conte padrone; non tanto, a dir la verità, per le faccende dell'anima, ma per le vertenze di un beneficio di jus patronale, pel quale il conte F... aveva diritto di nomina.
— Don Giacinto è stato qui sin dall'altro jeri, rispose il signor Rotigno, ma ho creduto bene di rinviarlo. Queste sottane nere, caro don Alberico, fanno un tristo effetto sugli ammalati. Dopo i purganti e gli altri argomenti, ciò che procura la guarigione di un ammalato è la faccia gioviale del medico e la speranza. Ma a che amministrar purganti e conforti, quando un prete dee venire a mettere spavento? Che effetto farebbe a lei, don Alberico, se dopo il quarto o quinto giorno di malattia, il prete venisse a farle visita subito dopo il medico?
— Che effetto? si sa... Ma quando il medico lo consiglia...
— Il dottor Gallaroli è un furbo che vuol darsi importanza e ama far correr la voce per Milano ch'egli è l'uomo dei miracoli... e sa, anche dopo l'olio santo, rinnovare la vita; gli altri due, è naturale... son della professione, e una mano lava l'altra, e il mestiere non vuol essere rovinato — però son venuti, come succede sempre, per dar ragione al medico della cura, il quale, a dir la verità, mi par il prete che canta messa, mentre gli altri due fan da diacono e gli tengono il piviale. È sempre la stessa storia, però bisogna saperli interpretare, e non seguirli testualmente questi signori.
— Basta, fate voi. Badate però che stasera il dottor Gallaroli non faccia strepito del non essere stato obbedito.
— Vedrà che il dottore non dirà nulla... E poi io vivo certo che il conte debba migliorare...
— Fate pure, fate pure... Ora sentite ...
— Che cosa?
— Fatemi contar dal cassiere un cento talleri di Carlo Sesto.
— Siam sempre a queste, don Alberico.
— Sono otto giorni che ne ho di bisogno.
— Il signor conte mi proibì di darle altro danaro prima che incominci il mese di giugno.
— Il giugno è qui presto... è un'anticipazione di pochi giorni...
— Eppoi?
— Eppoi, fate presto. Non mancano usuraj a Milano, e se batto di piede saltan fuori talleri da tutte le parti. Non è la prima volta. Ma che maledetto gusto è questo di costringermi a pigliar dieci per restituir venti! Non c'è al mondo uomo più avaro e più sucido di mio padre; e voi gli tenete la staffa. È tempo di finirla. Ho ventun'anni, e colla nuova eredità sono il figlio unico più ricco di Lombardia. Venti milioni... una piccola bagattella... e sempre aver bisogno di denari come se fossi un pezzente, e domandar la carità a voi. Ma chi siete voi?
L'agente sorrise, e:
— Sono il suo umile servitore, che ama lo splendore della casa, e desidera che l'unico erede di tanta facoltà non trovi d'aver decimato nulla quando sarà egli il capo della casa e il padrone assoluto di tutto. Però, giacché veramente le occorrono, vado a farle contare i cento talleri.
— Sentite, se fossero centocinquanta non mi lamenterò; anzi, ora che ci penso, mi lamenterei se fossero appena cento.
Il signor Rotigno discese nello studio dov'erano molti impiegati subalterni, cassiere, ragioniere e scrivani, perché l'amministrazione della casa era vasta e complicata. Si fece contare dal cassiere i centocinquanta talleri, li fece notare alla partita di don Alberico, incaricando uno scrivano di stendere una ricevuta che il figlio del padrone avrebbe firmata per la necessaria regolarità, e perchè voleva così il signor conte padrone.
Mentre il signor Rotigno s'indugiava là per tale occorrenza, entrò un commesso di studio seguito da un facchino portante un sacco di denaro; entrò e disse:
— Gran novità.
— Che cosa?
— È tornata, pochi momenti sono, la signora contessa Clelia V...
— Tornata?... ma perchè?
— S'ella voleva tornar così presto, tanto aveva a non fuggire.
— Oh bella! il conte marito volle andare dov'ella si trovava, ed ella ritornò dove non si trova più suo marito. Fin qui non ci vedo nulla di strano, ed è facile a capire.
— Che cosa è facile a capire?
— Quello che voi non sapete, soggiunse il commesso. La contessa è tornata perchè fu fatta ritornare.
— Da chi?
— Da chi ha l'autorità, s'intende; voglio dire, dal Senato. Ma sapete il motivo? è il motivo che vi farà strabiliare tutti.
— Sentiamo, parla, di' presto.
— Il motivo è che il Galantino ha dato fuori il suo nome; e in conclusione, è dessa che lo ha pagato a rubare il testamento. E si sa anche com'era il testamento. Erede, già s'intende, il nostro illustrissimo signor padrone, e diversi legati, tra' quali uno, e il più vistoso, all'egregia contessa... in compenso di... mi capite... Altro che Urania e Minerva e che so io, come la chiamava il vicario don Giacinto: ah! ah! ah!... a dire che mi divertono tali intrighi, è dir poco.
— Ed ella deve aver fatto trafugare un testamento, perchè il testatore ha voluto regalarla? Ma c'è sale in zucca a creder queste fandonie?
— Altro che sale! Il testatore assegnò il premio... ma assegnò anche i servigi... vedete che scandalo. Ah ah ah... Ma già è sempre stato un po' matto il signor marchese. Non somiglia per niente al nostro illustrissimo signor padrone.
Il signor Rotigno intanto ascoltava e taceva; e siccome era informato in parte del processo del Galantino, e già avea sentito toccare un tasto di una simile deposizione, credette a mezzo, e quasi quasi si sarebbe confortato, se non gli fossero tosto sorgiunti i secondi pensieri a fargli capire che l'inganno poteva durare per poco e non per sempre. Tuttavia pensò di farne parola al conte. Prese allora i centocinquanta scudi, salì, entrò nella sala dove ancora stava passeggiando don Alberico, gli consegnò i denari colla ricevuta che don Alberico sottoscrisse; e quando questi partì, pensò di entrare nella camera da letto del conte... Se non che, allorquando fu per aprire, si fermò e disse tra sè, anzi pensò... perchè certe cose, nemmeno i bricconi di cartello le osano dire neppure in soliloquio: — Questa notizia potrebbe consolarlo un po' troppo, e aprire il varco alla salute... un'inezia accoppa, un'inezia fa rinascere. È dunque meglio tacere. — E così ridiscese nello studio, prese il cappellino a tre punte e la sua canna d'India, e uscì ad appurare le notizie della giornata.
Intanto che il Rotigno se ne va pe' fatti suoi, facciamoci colla contessa Clelia. Il commesso di studio, raccontando che era tornata a Milano, avea detto il vero. Al serenissimo doge Grimani, nelle sale del nobile Alvise Pisani, ella avea promesso che il giorno successivo impreteribilmente sarebbe partita da Venezia; e il doge aveale detto: confidare interamente nella sua parola e non volere per verun conto commetterla a scorta nessuna. Queste furono le parole: ma i fatti non vi corrisposero esattamente. Chè alla contessa Clelia il dì dopo fu reso al tutto impossibile di lasciar Venezia, per varj accidenti sorvenuti all'impensata, e che, scorsi che saranno sedici anni dal tempo in cui versa il nostro racconto, il lettore probabilmente saprà indovinare. In quanto al doge incaricò l'ufficio de' corregidori di far tener dietro ai passi della contessa; e allorchè seppe, con sua grande meraviglia, ch'ella trovavasi ancora in Venezia, alla promessa che donna Clelia rinnovò di partire fra breve tempo, non fu tanto credulo; e sotto specie d'onorarla, la fece accompagnare sino al confine del ducato di Milano da messer Zuane Pizzamano, camerlengo di Comune, e dalla nobile sua moglie. Onore che, giunto al confine, le fu rinnovato dal signor luogotenente di Pretorio, dottor Rocco Orlandi, il quale, espressamente a ciò incaricato da lettera senatoria, le domandò con rispettosa deferenza, ma con quel modo d'interrogare che significa essere il provvedimento già stato ventilato e ingiunto dall'autorità, le domandò adunque se ella desiderava, giungendo a Milano, d'essere alloggiata nella casa dell'egregia donna Paola Pietra sua conoscente.
Ma in che modo l'autorità provvide a far alloggiare la contessa presso donna Paola Pietra? Il fatto è chiaro. Dopo che il Senato fu istrutto della strana deposizione del lacchè Suardi, e riputò indispensabile di sentire di presenza in giudizio la contessa V..., l'illustrissimo capitano di giustizia, dopo una conferenza col presidente del Senato e col senatore Gabriele Verri, mandò a chiamare donna Paola, a cui fece palese la deposizione del Galantino, e insieme la risoluzione in che era venuto l'eccellentissimo Senato d'interessare il Consiglio Veneto a mandare a Milano la contessa.
Che terribile colpo facesse una tale notizia sull'animo di donna Paola è facile immaginare.
Dopo il primo turbamento e dopo quella tremenda confusione in cui le persone educate da una lunghissima esperienza son gettate al sentire imputato di una colpa detestabile chi si ama e si protegge, appunto perchè alla predilezione ed alla stima si mesce sempre il dubbio dell'umana perversità e delle apparenze ingannatrici; donna Paola, nel fondo dell'animo suo, rifiutossi a prestar fede all'oscena accusa. Disse poi tali cose al signor capitano, e le espose con tanta eloquenza e fervore, che lo stesso marchese Recalcati, ch'era un eccellente galantuomo, fu presto dell'avviso, essere infondata l'accusa del Galantino, e dovere anzi l'accusa medesima servir col tempo alla riprova della di lui ribalderia. Perciò, alla profferta che donna Paola gli fece di ricevere in casa la sventurata contessa sotto la sua protezione e sorveglianza non potè che accondiscendere, onde al luogotenente di Pretorio al confine del Ducato furono inviate istruzioni in proposito. Nè qui si fermò la caritatevole donna, ma affannata di avere col proprio consiglio peggiorata la condizione della contessa, pensò di non omettere cosa nessuna, la quale potesse giovare alla causa di quella sventurata e, in ogni modo, dovesse giovare al trionfo della verità. A tale oggetto si recò dall'avvocato patrocinatore del figlio della Baroggi, perchè vedesse di poter raccogliere una o più testimonianze ad indicare e provare, non essere altrimenti vero che il lacchè Galantino si trovasse già a Venezia prima degli ultimi otto giorni del carnevale di Milano. E l'avvocato si prese l'assunto, e in pochi dì fu sulla via di far qualche preziosa scoperta.
Se dunque queste ultime pagine furono noiose anzi che no, ci lusinghiamo che il ritorno della contessa, e la sua chiamata in giudizio, e le sue confidenze a donna Paola e le sue ansie: come pure la scoperta dell'avvocato patrocinatore, e i nuovi interrogatorj imposti al Galantino, e le lotte in Senato sul proposito della tortura, e i risultamenti provvisorj di codesta matassa, saranno


Vasta materia di sermon futuro.


V


Il giorno stesso in cui si tenne il consulto medico in casa F..., donna Paola Pietra, con lettera confidenziale, venne avvisata dall'illustrissimo signor marchese Recalcati, che il giorno dopo, accompagnata dal luogotenente del Pretorio di confine, sarebbe giunta a Milano la contessa Clelia V... Per ciò ella si trattenne in casa onde adempire all'ufficio cui si era spontaneamente offerta.
Le persone che, sollecitate da una stragrande bontà di cuore e dall'amore degli uomini, s'interessano con operosità alle cose altrui, quando le loro premure non hanno riuscita, si sentono travagliate da insopportabili inquietudini, e talora, per quanto invase dallo spirito di carità, provano il pentimento d'essersi volute adoperare a vantaggio degli altri. In una tale condizione d'animo trovavasi appunto donna Paola nelle ore che stava aspettando la sua protetta, e tanto più si affannava, quanto più, ripensando le cose avvenute (e non conosceva il peggio), vedeva che i buoni consigli non assicurano sempre la felice riuscita delle cose, e talvolta, pur troppo, come nel caso suo, partoriscono effetti al tutto opposti ai desiderati. A taluno de' nostri lettori parrà strano che siasi voluta mettere innanzi donna Paola siccome l'ideale della carità, un surrogato in terra alla Provvidenza, quando poi, in sulle prime operazioni, doveva fallire agli intenti desiderati. Ma innanzi tutto, quando un fatto è realmente avvenuto con quelle circostanze speciali, impreteribili al raccontatore, un personaggio non può sempre appagare i desiderj di chi legge. D'altra parte una storia come la nostra non è che uno specchio più o meno terso, più o meno ondulato, in cui si riflette la prospettiva della vita. Ci può essere qualche deviazione di linea, qualche raggio che s'interseca o prima o dopo, ma l'immagine riflessa in poco può variare dal vero. C'è di più, che un personaggio, tanto nei lavori dell'arte come nella vita reale, il quale si distingua per carattere segnalato di virtù, si fa manifesto per l'intenzione ed il fervore della volontà di operare il bene, non già per l'ultima riuscita, la quale non è mai la vera misura onde valutare il grado della virtù stessa. Coloro che pretendessero dovere la comparsa di donna Paola Pietra stornare sciagure e peccati e cadute, mostrerebbero di non conoscere la differenza che passa tra i personaggi della vita vera e gli dei d'Omero. A questi era permesso far scomparire Paride in una nube e involarlo all'ira di Menelao per stornar l'asta del Telamonio dallo scudo di Ettore; ma ai nostri personaggi, vogliam dire ai buoni, non sono obbligatorj che il desiderio del bene e la facoltà di sudare per correre sulla sua traccia; non già la sicurezza di conseguirlo.
Ma ciò non toglie che donna Paola fosse afflittissima e si riputasse quasi colpevole di quanto era avvenuto. Tuttavia, quel che più le cuoceva, era il dubbio che di tanto in tanto veniva a galla delle sue medesime persuasioni e de' suoi raziocinj; il dubbio, vogliam dire, che donna Clelia fosse ben altra da quella ch'essa aveva creduto; e che quanto potè sembrare un trascorso accidentale, fosse invece un'abitudine perversa dell'intera vita. — Inoltre la passione violenta ond'era stata assalita al cospetto di un cantante, circondato dal fascino della gioventù, della bellezza, dell'eccellenza dell'arte, lasciava trovar scusa e perdono pur nell'animo del più inesorabile censore; ma le relazioni col defunto marchese, perduto di costumi, nè giovane, nè attraente, rendeva turpe e non perdonabile la colpa. Se non che, nel punto che donna Paola stava dibattendosi fra cotali pensieri, il servo entrò a dire che la contessa V... era discesa dalla carrozza.
Donna Paola alzossi quando quella entrò.
Il lettore si ricorderà delle caldissime espansioni di affetto, dell'abbraccio tenero e commosso onde queste due donne si lasciarono dopo il primo loro dialogo. Chi ora dunque crederebbe che, rivedendosi, dovessero tanto l'una che l'altra mostrare una freddezza riguardosa, e proferir parole e saluti a cui non corrispondeva la gelida espressione del volto e degli occhi! Ma nell'una era un sospetto, nell'altra era una recente memoria che la faceva timorosa della presenza di quella venerabile donna. — E codesta peritosa freddezza della contessa, accrebbe in quel punto i dubbj di donna Paola, di maniera che, per un movimento istantaneo, il suo volto assunse l'espressione della più severa austerità.
Partito il servo, rimaste sole, aspettando la contessa, altre parole, e vedendo perdurare donna Paola in quella gravità ch'ella non sapeva spiegare:
— E che cosa è avvenuto, esclamò, perchè io non veda più il sorriso benevolo su quella vostra santa faccia?
Dir queste parole, gettar le braccia al collo di donna Paola e prorompere in pianto fu un punto solo. La mestizia acerbissima del viaggio solitario, i timori, le rimembranze che da molte ore le avean fatto nodo insopportabile al cuore, si sciolsero in quello scoppio di lagrime.
Donna Paola sentì sottentrar tosto la commozione alla severità, e riabbracciando la sventurata:
— Oh, fate animo, disse, io sono sempre la stessa per voi. Sedete e tranquillatevi... e faccia Iddio che...
E qui s'interruppe, perchè non le parve il momento opportuno di uscire con disgustose interrogazioni.
Ma se donna Paola per allora aveva creduto bene di tacere, la contessa dopo qualche momento:
— Or io vorrei sapere, disse, la cagione per cui, con gravissimo scandalo, il Senato sollecitò il doge di Venezia a farmi partire da quella città e, sebbene con apparenze onorifiche, a mandarmi qui custodita e guardata, in conclusione, come si pratica coi malfattori.
— Ma non sapete nulla, contessa? disse donna Paola, veramente nulla? e la mirava fissa, quasi a passarla fuor fuori, come dicono i Fiorentini.
— Nulla io so, bensì mi perdo inutilmente in un mare di congetture. Il doge Grimani non sapeva nemmeno esso la causa di tale misura, ed anzi ebbe a lamentarsene. Il camerlengo di Comune che insieme colla nobile sua moglie mi accompagnò sino al confine del Ducato, com'è naturale, ne sapeva meno del doge. In quanto al signor luogotenente di Pretorio, che dal confine mi accompagnò sino alla porta di questa stanza, mi sembrò bene che fosse al fatto della cagione vera, ma scansò sempre le mie domande, e quando gli manifestai il mio sospetto di una qualche falsa deposizione di quello scellerato lacchè: — Potrebbe darsi benissimo, disse; che il Galantino non sia straniero a questa faccenda, ma io non so nulla; e dicendo questo si capiva troppo bene ch'ei sapeva tutto, ma gli era stato ingiunto di tacere. Intanto, appena m'ebbe lasciata alla porta di questa stanza, si recò dal capitano per annunziare il mio arrivo, e presto sarà di ritorno. Ora ditemi voi in che consiste questo mistero.
Donna Paola tornò a guardar fissamente la contessa; poscia, prendendola per mano, le disse affettuosamente :
— Sedete e ascoltate;... e, prima ch'io parli, fatemi una promessa.
— Che promessa?
— Di non tacere il vero, di non mentire (perdonatemi questa parola), di confessar tutto, quando pure si trattasse di cosa, che, a pronunciarla, vi dovesse abbruciare la lingua.
— Ma parlate, in nome del cielo; voi mi spaventate. Di che dunque si tratta?... Io non conosco fatto nessuno che possa recar tali effetti.
E qui donna Paola, con voce bassa, manifestò alla contessa la deposizione del Galantino.
Donna Paola, proferita ch'ebbe la trista parola, avvezza a leggere nei repentini guizzi del volto quel che passava nell'animo altrui, allorchè la contessa balzò in piedi saettando lei d'uno sguardo che dell'orgoglio offeso avea persino la ferocia; d'uno sguardo che, incredibile a dirsi, esprimeva quasi un iracondo disprezzo per lei medesima; d'uno sguardo che sembrava persino minacciare un atto violento; si alzò di colpo, tanto si tenne sicura dell'innocenza della contessa, le buttò le braccia al collo, la baciò e la ribaciò in volto, poi disse:
— Che voi siate mille volte benedetta, cara la mia donna, ho avuto torto di credere a una tale accusa, or vogliate perdonarmi. Ma, pur troppo, dovevo parlar chiaro e così.
La contessa si buttò allora a sedere, come spossata. Successe un lungo silenzio... Cadevano intanto le lagrime a dirotta sulle pallide guancie della contessa, che il suo labbro convulso beveva, quasi a tentar di nasconderle. E donna Paola s'era volta altrove per non turbare quel profondissimo dolore... e quando macchinalmente prese e aprì un libro, ne bagnò le pagine di due grosse lagrime repentinamente sgorgate anche a lei.
In questa fu bussato alla porta, e, senz'attender altro, entrò un vecchietto colla zazzera del tempo del senator Filicaja e con una giubba stata già rossa color fuoco, ma pel lavoro degli anni diventata color zenzuino. Egli, senza cavarsi il cappellino a tre punte e appoggiato alla canna d'India, come stesse in casa propria o sulla pubblica via:
— Buone nuove, donna Paola, disse, buone nuove!
Era l'avvocato Agudio, il patrocinatore officioso del figlio della Baroggi. Uomo burbero, bisbetico, cinico, ma galantuomo, una specie di Paletta applicato al ceto legale. Rigido di una rettitudine insolita, che traeva all'ideale e si spingeva fino al cavillo; affettava trascuratezza di tutte le convenienze sociali, andando in ciò fino alla caricatura ed alle aperte lesioni del più dozzinale galateo. Vestiva male e all'antica, quasi ad attestar disprezzo al tempo che correva; magro, sano, forte, come se fosse d'acciajo, era di una operosità prodigiosa; tenace del suo proposito fino ad esser caparbio, inasprito inoltre da quel demonio interno che si chiama spirito di contraddizione, faceva paura al Collegio dei dottori, al Pretorio, al Capitano di giustizia, al Senato medesimo, che aveva in esso un controllore indomabile; e siccome a tali qualità congiungeva una gran dottrina giuridica, così era il più riputato e temuto del fòro milanese.
Alla sua improvvisa comparsa, la contessa Clelia balzò in piedi, e vergognosa delle proprie lagrime, si ritrasse in un'altra camera.
Donna Paola Pietra si volse e vide lui che ripeteva:
— Buone nuove!!...
— Buone nuove davvero? chiese donna Paola.
— Buone vi dico.
— Or raccontate e sedete...
— Non ho tempo da perdere, e vo via subito; uno de' miei giovani di studio, che ha trovato il modo di essere astuto insieme e onesto, s'è messo al punto di far saltar fuori la verità, perchè dice d'averlo veduto egli stesso, il Galantino all'albergo dei Tre Re, precisamente un giorno della settimana grassa, quantunque non sappia giurarlo. Però l'altro jeri andò a mangiare un boccone a quell'albergo e là, d'una in altra parola ebbe il piacere di sentire confermato il suo sospetto da un cameriere. — Questo cameriere venne da me stamattina e ripetè quanto avea detto al giovane di studio... Ben è vero che, allorquando gli domandai s'ei sarebbe disposto a ridire le stesse cose al signor capitano di giustizia, parve tentennare e voler ritirarsi... Ma la fortuna ha voluto ch'egli nominasse un altro cameriere, il quale per combinazione cangiò in questi giorni osteria e città, ed è andato a Cremona; lo nominò dicendo che colui aveva giuocato in una di quelle notti col Galantino, e siccome era amicissimo del lacchè così avrebbe facilmente saputo ogni affar suo... Intanto il cameriere di qui sarà sentito oggi stesso dal capitano... Spero che non saprà ritrattarsi, perch'io gli ho fatto paura, mettendogli innanzi tutte le conseguenze del non dire la verità... Egli è bensì a considerare che la sola sua testimonianza non basta all'intento... Ma ho mandato or ora a Cremona il giovane di studio, e ritornerà, spero, col cameriere che passò in quel luogo... Se i due vanno d'accordo... la volpe è presa... e il Senato dovrà decretare la tortura... Sino a questo punto, per verità, non si verificarono gli estremi, ed il senator Verri, che conosce il diritto, ha messo a tacere, com'io seppi, il senator Morosini che vorrebbe cominciar sempre dalla tortura, tanto ci si guazza dentro... e il Verri ha tirato dalla sua tutti gli altri, perchè la sua chiacchiera quando ha preso il vento è una tempesta che dove tocca lascia il segno. Bensì il Morosini tentò rifarsi producendo casi criminali a dozzine in cui la tortura venne inflitta anche senza quegli estremi dai quali il Verri non decampa, e il Verri a ripetere che gli errori passati non devono essere esempio a nuovi errori, e qui ha ragione, ma sibbene un salutar avviso per scansarli. E intanto c'è un altro fatto, di cui la città è piena. Sentite, che questa è nuova, e giudicate voi... È un avviso a stampa su tutti gli angoli della città, col quale il maggiordomo di casa Morosini invita il proprietario di un rotolo di cento zecchini veneti stati mandati all'indirizzo del senatore, a voler rimandarli a pigliare. La folla è stipata a tutti i canti e chi ne dice una e chi un'altra... Il Morosini, se non è un gran giureconsulto, è un furbo matricolato... e... odia tutti i suoi colleghi, segnatamente il Verri, e... voi già capite dove va a parar la cosa. Or io vo, e voi state di buon animo e dite lì alla... (e qui fece un lezio curioso accennando la porta della camera per cui la contessa era dileguata) che dopo il temporale viene il sereno... È ben la contessa V.... non è vero? soggiunse poi subito.
— Sì, la contessa, arrivata or ora da Venezia.
— Povera donna, è la vittima di un assurdo arbitrio... Ma lo studio fu di gettar la polvere negli occhi, e di rivolgere l'attenzione altrove... Però non ci riusciranno. No, non ci riusciranno... Far venir con violenza una persona che sta altrove di pien diritto, perchè un ladro briccone inventa una frottola a suo danno... e pazienza avesse detto, il ladro bugiardo, d'aver visto egli stesso, d'essere stato testimonio, mezzano, che so io... Ma no, tutt'altro... Ora basta... la verità dee balzar fuori... Intanto buon dì e buon anno — e l'avvocato Agudio uscì.
Quando l'avvocato attraversò il cortile, incontrossi nel luogotenente del Pretorio che tornava dal palazzo del Capitano di giustizia.
Questi lo inchinò con atto di profonda devozione, esclamando:
— Signor avvocato, i miei rispetti...
— Oh addio... non ti conoscevo... Or dove sei tu?
— Luogotenente di Pretorio al confine.
— Bravo, ma cosa fai qui?
— Ho accompagnato a Milano l'illustrissima signora contessa V..., ed ora, per commissione dell'egregio signor capitano di giustizia, vengo a portarle l'ordine scritto di recarsi domani per essere sentita in giudizio... E stasera torno donde sono venuto... Presto poi spero di venir traslocato a Milano... Mi conservi la sua protezione...
— Addio... E l'avvocato uscì sulla via, e attraversata la piazza Borromeo e santa Maria Podone, se ne venne al Broletto, al Cordusio e alla piazza de' Mercanti, salutato per via rispettosamente da molte persone di cappa e di spada, come suol dirsi, ai quali egli non corrispondeva che il più confidenziale saluto, e tirava via parlando fra sè e borbottando tra' denti.
Quando fu in piazza de' Mercanti, la folla non era scemata innanzi ad uno de' pilastroni del palazzo, in oggi dell'Archivio, sul quale era impastato l'avviso firmato dal maggiordomo di casa Morosini, che diceva così:
«Il sottoscritto, d'ordine dell'illustrissimo senatore Morosini, suo padrone, invita il proprietario di un rotolo di cento zecchini veneti mandati, certo in isbaglio, all'indirizzo del sullodato suo padrone, a voler recarsi dalle ore 12 alle ore 3 nello studio della casa per ritirare il detto rotolo.
«Milano, di casa Morosini, 28 maggio 1750.»
L'avvocato si fermò perchè si dilettava dei discorsi del pubblico.
— Credi, tu che sia stato per isbaglio? diceva un giovinotto ad un altro.
— Se è stato uno sbaglio, certo che non è stato l'unico, e usciranno altri avvisi.
— Può bastare anche un solo, diceva un terzo. Ma invece del maggiordomo di casa Morosini dovrà sottoscriversi il custode del palazzo del Senato.
— Non ti capisco...
— Oh bella... Vuoi tu che chi ha fatto il dono sia così dolce da credere che possa bastare l'aver pensato a un senatore solo?...
— Poteva anche bastare... giacchè si trattava di rompere il sasso più duro...
— Io per me credo che non usciranno altri avvisi. Intanto l'affar si fa serio... e comincio a dire che il conte F... ha perduto la prudenza...
— Che prudenza! è moribondo... eppoi non si può dire...
— Che?... bisognerebbe esser orbi... od esser qualcuno di coloro che hanno l'obbligo di veder più degli altri... Altro che fandonie, amico caro!
L'avvocato si partì ghignando e proferendo tra sè e sè:
— Sciocchi, i quali credete di menar il mondo per il naso... costui v'ha già letto in fondo all'anima... però a rivederci al sabato; ed entrò sono i portici del nobile Collegio dei giureconsulti.


VI


Com'è facile a credere, il pubblico, che, nel caso nostro, era l'aggregato di tutti coloro i quali non aveano parte veruna nella magistratura e molto meno nella giudiziaria, e che senza nessuno studio preparatorio, nè teorie discusse, procedeva avanti coraggioso nel giudizio delle cose colla sola guida del senso comune, erasi fatto un concetto a modo suo dei fatti che abbiamo raccontati e delle conseguenti tesi criminali; e, cosa strana, il concetto del pubblico riuscì precisamente la camicia del vero. Vogliamo dire che esso opinava per la reità del Galantino, come opinava per la reità del conte F...; anzi, quando mai avesse dovuto essere indulgente con uno dei due, propendeva piuttosto a favore del primo che del secondo; in quanto poi all'accusa che il lacchè avea gettata contro la contessa, mentre e capitano e vicario e attuario e auditori e assessori e senatori, a primo colpo ne furono influenzati al punto da ammetterla, e in conseguenza da trovar necessario il sentir di presenza la contessa in giudizio; il pubblico, vogliamo dire la maggioranza, non credette nulla affatto; chè il senso comune rifiutavasi a vedere tresche amorose là dove correva un divario di più che trent'anni d'età, tresche venali dove la ricchezza era pareggiata, tresche turpissime dove, cessa anche la fragilità umana, era però innegabile l'ottima fama della contessa, l'ottima fama del casato cospicuo a cui apparteneva, l'educazione avuta, la specialità sublime degli studj fatti. Però quelle ragioni medesime per cui il pubblico non avea sospettato mai che Amorevoli si fosse trovato nel giardino per lei, tornarono a ricomparire, quasi indignate della prima sconfitta, a ricomparire per difendere fervorosamente la sventurata contessa, e per isparlare con iracondia del procedere della giustizia.
E c'è di più, che al pubblico si confederò per la prima volta, nel desiderio di difendere la contessa, indovinate chi? tutte le donne più o meno cattive, più o meno giovani, più o meno belle del ceto patrizio e anche del ceto solamente ricco, che un tempo erano sempre state le naturali nemiche della superba contessa. Fu una specie di diserzione inattesa, un cambiar repentino di propositi e d'opinioni, un mettersi tutti da un lato a protestare in favor suo, e in modo di far salire in orgoglio coloro che hanno buon concetto dell'indole femminina.
Donna Paola che, nel tempo dell'assenza della contessa, mediatore il giovane Parini, era andata a visitare la madre di lei, partiti che furono per Venezia il conte V... e il conte fratello, credette bene, qualche ora dopo l'arrivo di donna Clelia, di rinnovar la visita alla contessa madre, e d'invitarla a venire ad abbracciar la figlia per confortarla. Molte dame trovavansi per caso colà... e tutte furono intorno alla contessa madre, la quale, nei dì della fuga e dell'assenza di donna Clelia, avea protestato di non voler mai più riconoscerla per sua figlia; tutte adunque le furono intorno per supplicarla a cedere alle preghiere di donna Paola. Che più!.... talune espressero persino un desiderio vivissimo d'andare a far visita alla fuggitiva ripatriata.
In quel giorno adunque madre e figlia si riabbracciarono; in quel giorno la contessa del Grillo andò a far visita a donna Clelia, e le rasciugò il pianto e la consolò riferendole quel che si diceva di lei per la città, e come avesse mille difensori, ed esortandola a star lieta. E donna Clelia infatti, se non lieta, almeno placida, dormì la notte; e soltanto quando si risvegliò fu percossa acerbissimamente dal pensiero che in quel giorno doveva comparire innanzi al Capitano di giustizia.
È un pregiudizio e un errore della mente, ma i luoghi dove si amministra la giustizia criminale incutono un vago sgomento anche nelle persone più intemerate, se per caso son esse chiamate a presentarsi ai giudici, sia pure per una semplice testimonianza, per un'informazione di poco conto, fin anco pel proprio vantaggio. Se dunque la contessa Clelia non potea sopportare il pensiero di doversi presentare al Capitano di giustizia per un'accusa e una presunzione gravissima, quantunque ella si sentisse innocente, la cosa è ragionevole. Confortata però dal reintegrato amore della contessa madre, sostenuta da donna Paola, si ricompose, e pensò ad assumere quel contegno che dovesse comandare alla sua volta un gran rispetto ai giudici medesimi.
Verso mezzodì la contessa madre le mandò un carrozzone di casa. Di concerto coll'illustrissimo marchese Recalcati, erasi stabilito che donna Paola avrebbe accompagnata la contessa, e l'avrebbe assistita di presenza anche nella sala degli interrogatorj. Partirono dunque di casa e l'una e l'altra poco dopo il mezzogiorno, e presto il carrozzone entrò nel cortile del Palazzo di Giustizia. La livrea pavonazza coi galloni gialli del cocchiere e dei due servitori, fece tosto conoscere a quanti trovavansi colà ch'era la carrozza di casa A..., chè la stessa donna Paola avea consigliata quella specie di pubblicità fastosa, perchè in simile circostanza doveva riuscire assai significante.
Il capitano marchese Recalcati, che stava in aspettazione di esse, quando sentì il loro arrivo, credette bene di uscire insieme col vicario e cogli assessori a riceverle in capo allo scalone. Era una degnazione insolita, ma che all'ottimo Recalcati era stata suggerita dalla specialità del caso, e, dopo i discorsi tenuti con donna Paola e le pubbliche dicerie pervenutegli all'orecchio, dalla persuasione che la contessa meritava il suo rispetto più che la sua severità. Dopo que' primi atti di ricevimento, ai quali però non fu straniero un certo sussiego di cerimoniale tutt'altro che adatto a mettere altri di buon umore, le signore furono fatte entrare in una sala, nella quale comparvero poco dopo il capitano, il vicario, un attuario, due auditori e due assessori, ponendosi a sedere presso una gran tavola coperta dal tappeto verde e su cui stava una croce d'ebano col Cristo d'avorio. I due assessori, pregando la contessa ad accostarsi, essi medesimi le portarono il seggiolone a bracciuoli.
Donna Clelia era vestita con austera semplicità, per quanto poteva esser permesso dalle foggie del tempo. Quand'ella si mosse tenendo dietro agli assessori che le portavano il seggiolone, la severissima regolarità del suo volto, fatta allora più grave dalla condizione dell'animo, la fronte che, per l'azione dell'orgoglio offeso, le si aggrondava in quel punto, raccostandole i neri sopraccigli al vertice del suo naso romano, i labbri e il mento che, modificati dai muscoli in soprassalto, parvero assumere fuggitivamente il disegno della bocca e del mento del giovane Bonaparte cogitabondo e cupo; tutto ciò, anzi che farla credere una donna chiamata a rispondere in tribunale, le avea comunicato l'aspetto della istessa dea Temide convenzionale, persuadente col severo simulacro l'inesorabile giustizia.
Quando la contessa fu seduta, l'attuario, dopo avere scorse alcune carte e guardato con significazione in faccia all'illustrissimo signor capitano, quasi a dire, siamo a tempo? incominciò l'interrogatorio dal consueto punto di partenza, domandando cioè alla contessa se ella sapeva la cagione per cui era stata citata in giudizio.
— La cagione, rispose donna Clelia, l'ho saputa ieri dalla venerabil donna Paola qui presente, ed è tale che mai non avrebbe potuto esser materia di una congettura a chiunque non sia offeso nella mente.
(Dal costituto che abbiam sott'occhio crediamo bene trascrivere le precise parole pronunciate dalla contessa, le quali, per una nota apposta in calce dall'attuaro signor Bignami, siamo avvertiti essersi voluto trasportarle e conservarle per intero nel processo verbale.)
Dopo quell'esordio, rivoltasi la contessa al signor capitano:
— Or io domando a vostra signoria illustrissima, soggiunse, se mi dà licenza di parlare con libertà.
Il capitano con atto benevolo accennò che dicesse. Allora la contessa incominciò; e un auditore, intinta la penna nel calamajo, si mise a scrivere come sotto dettatura.
— Più vo pensando al fatto per cui sono qui, disse la contessa, meno so farmi capace delle cagioni che possono avere spinto questo tribunale a credere, anche per un momento, alle deposizioni infondate di un costituito notoriamente malvagio, già più volte venuto nelle mani della giustizia e più volte, credo, punito.
L'illustrissimo signor capitano interruppe a tal punto la contessa. dimostrando come la deposizione a cui essa alludeva non aveva già ottenuta fede, ma bensì aveva costretta la giustizia a non trascurare nemmeno quel filo, per quanto potesse parere assurdo, trattandosi di una causa della più grande e delicata importanza.
— Di nuovo mi trovo costretta, replicò allora la contessa, a domandare se mi si dà licenza di continuare a parlar con libertà.
E di nuovo accennatole dal capitano affermativamente:
— Io non mi lagno, continuò la contessa, che la giustizia abbia fatto quel che doveva fare; mi lamento bensì che nell'intento di rintracciare il capo di quel filo assurdo che venne messo fuori dal costituito Suardi, siasi incominciato di là dove, al peggio, avrebbesi dovuto finire. Comprendo assai bene quanto possano parere e siano ardite e, ciò che più monta, intempestive e dannose le parole di chi, invitato a difendersi in giudizio, vuol farsi censore dell'autorità; ma ci sono tali ingiurie, che, da qualunque parte vengano, non è permesso non respingerle con coraggio. La colpa di che obliquamente mi si vuole imputare, e che in uomini gravissimi e sapienti come voi potè pure prendere stanza, è di tale natura che ogni prudenza si ribella; e l'onestà, crudamente offesa, si rivolta iraconda non solo contro l'accusatore, ma anche contro chi ha potuto credere all'accusa, e così procedere di conformità... Questa è forse la prima volta che da chi sta al mio posto è tenuto un linguaggio di tal natura a chi sta al vostro, ma io confido che l'illustrissimo capitano vorrà tener conto della specialissima condizione in cui mi trovo.
— Vi ho lasciato parlare, contessa, prese a dire allora il capitano, perchè ve ne avevo dato licenza, e perchè è a tener conto della condizion vostra appunto. Ma la giustizia non può avere de' speciali riguardi per nessuno, nemmeno per l'innocenza, fosse pur veduta con certezza, quando da circostanze eccezionali è tratta a comparire come rea convenuta innanzi alla legge. Però la signoria vostra or si compiaccia di rispondere alle domande che le farà l'attuaro, per rispondere alle quali era necessario, illustrissima contessa, la vostra presenza; onde l'autorità non poteva operare diversamente da quel che ha fatto. Del resto, sia un attestato codesto della buona stima che si ha di voi, illustrissima contessa, se l'autorità medesima si degna di venire alla giustificazione de' proprj atti.
La contessa si rimise in calma, e:
— Vi ringrazio, disse, eccellentissimo signor capitano, di questa degnazione.
Qui ci fu un po' di pausa.... indi l'attuaro continuò:
— L'illustrissima signora contessa ha conosciuto il defunto marchese F...?
— L'ho conosciuto ... ma, quasi potrei dire, soltanto di nome e di vista... dico quasi, perchè a una festa in casa Borromeo, tre anni fa, esso mi rivolse la parola, ed io di conformità gli risposi... e d'allora in poi, se l'ho visto spesse volte e spesse volte ho risposto al suo saluto stando in carrozza al corso della strada Marina, non gli ho parlato mai più, nè mi sono trovata mai con lui nè tanto nè poco nè punto.
L'auditore allora chiese alla contessa: quale a suo giudizio, doveva essere la cagione per la quale il costituito Suardi fu tentato di scaricare su di essa la colpa ond'egli era imputato.
— Nella lettera che scrissi alla venerabile donna Paola qui presente, e che so essere stata deposta nelle mani delle signorie vostre, mi pare risulti evidente la cagione per cui il costituito Suardi ha messo innanzi il mio nome. È questa una cagione di vendetta e di rappresaglia, come suol dirsi. La sua cattura essendo avvenuta subito dopo la visita ch'egli venne a farmi, per indurmi con impudenza inaudita quasi a rendermi complice dell'insidia in cui egli stava per trarre una inesperta fanciulla veneziana di casato patrizio, ch'io per avventura potei giungere in tempo a salvare dalle scellerate sue mani; dovette necessariamente fargli credere che l'accusa potesse essere venuta da me, essendosi egli smarrito contro la natura sua, e avendo perduto la sfrontatezza e l'audacia quand'io, con sua sorpresa, gli toccai del sospetto che si aveva di lui pel fatto del defunto marchese. Chiunque avesse osservata la faccia di quel ribaldo, quando io lo colpii all'impensata, non potrebbe oggi dubitare nemmen per ombra della sua reità... Per tutte le quali cose persuaso il costituito Suardi che da me gli sia venuto il colpo, ha voluto vendicarsi e, ingegnosissimo qual è e astutissimo, ha saputo sì ben fare e sì ben dire, ch'è riuscito a trarre in inganno anche voi. Del rimanente, quand'io scrissi quella lettera alla venerabile donna Paola, la pregai di non farne motto con veruno, perch'io non intendevo di farmi accusatrice di nessuno al mondo, nemmen de' ribaldi; ma ella, che ha più sapienza di me, ha pensato che, quando l'indulgenza verso i tristi torna a danno, e a gravissimo danno di sventurati innocenti, tosto si converte in colpa; e però di quella mia lettera fece un atto d'accusa.... accusa che oggi maturatamente io rinnovo, supplicando l'alta giustizia di questo tribunale a non intralasciare indagine nessuna, a non fermarsi alle ingannevoli apparenze, a inseguire il vero con insistenza, perchè trattasi di un povero fanciullo derelitto, trattasi di una sventuratissima donna lasciata nella miseria a macerarsi della colpa altrui. Il testamento fu dettato dal notajo Macchi, e scritto dal defunto, e deposto fra le sue carte più preziose; jeri la contessa del Grillo mi assicurava di ciò, avendone parlato collo stesso notajo. De' riguardi troppo giusti alla fama di famiglie cospicue possono far peritosa la giustizia nel frugare colà dove precisamente dev'essersi appiattata la colpa... Ma testè, con sapienza, l'illustrissimo signor capitano dicevami che nemmen l'innocenza può lasciarsi in riposo quando da fatti eccezionali è chiamata siccome rea convenuta innanzi alla legge: tant'è vero ch'io sono qui... Per tutte le quali cose codesto tribunale voglia provvedere, nell'alta sua saviezza, perchè la giustizia abbia l'intero suo corso. Al qual fine io sono qui sempre disposta a dar ragione d'ogni mio fatto... Dirò di più, tanto sono persuasa di poter essere utile a degli sventurati, che io sono disposta, giacchè ho superato il primo ribrezzo di venire a questi scanni, a sopportare la vista del costituito lacchè... Io porto opinione che la mia presenza e le mie parole e la ricordanza de' fatti avvenuti gli faranno smarrire l'audacia, e la verità balzerà fuori.
E la contessa tacque in mezzo al silenzio de' giudici.


VII


Ella, vedendo che l'auditore scrivente aveva deposta la penna, aspettava di essere di nuovo interrogata dall'attuaro. Ma questo invece si fece dare il processo verbale, e lo passò all'illustrissimo signor capitano, il quale, dopo averlo letto attentamente, si alzò e così disse alla contessa :
— Il tribunale ha compiuto l'ufficio; dolente per un lato di avervi sottoposta a gravi disturbi, felice per l'altro di aver consolato queste aule dove risuona di continuo la voce della colpa, d'averle consolate, dico, colla vostra presenza, colla vostra coraggiosa franchezza, coi vostri savj ragionamenti, colle vostre calde preghiere. Spero che vi sarete fatta capace della necessità che si aveva di sentirvi in giudizio di presenza. Se il vostro senno e le vostre fervide sollecitazioni potranno far sì che la giustizia, per quanto spontaneamente solerte, pure accresca il suo zelo, e, messa in guardia dai vostri consigli, scopra il lato giusto e sorprenda il varco che mette alla scoperta della verità, voi stessa dovrete ringraziare l'eccellentissimo nostro Senato se da Venezia vi ha obbligata a venire tra noi.
Così dicendo, si mosse dalla seggiola, si accostò a quella dove stava donna Clelia, le porse il braccio a sorgere, e insieme con lei venne a donna Paola, la quale strinse affettuosamente la mano alla contessa.
Così e l'una e l'altra furono accompagnate fino al capo dello scalone, dove il signor capitano marchese Recalcati, con un profondo inchino, le lasciò. E donna Clelia, che nel punto in cui la carrozza entrò nel palazzo s'era sentita a coprire il cuore per ribrezzo, provò in quel momento una soddisfazione insolita, una compiacenza, di cui da molto tempo non aveva provata l'eguale. Così avviene spesso nelle cose di questo mondo; e in quel modo che dagli indizj di felicità scaturisce talvolta l'affanno, le paurose aspettazioni si convertono sovente in occasioni di contento. Intanto uno de' servi, già salito con esse, discese a far venire la carrozza ai pie' dello scalone e a tener aperto lo sportello. Le donne salirono, adocchiate da cento curiosi che s'erano affollati lì presso; e tosto lo scalino fu ripiegato con rumore, lo sportello si richiuse con solennità, il servitore salì a far compagnia al collega. Il cocchiere sollecitò i cavalli, e di rumor di ruote e di scalpiti risuonò tutto il palazzo all'uscire del carrozzone patrizio.
Ma quello non era giunto in piazza Fontana, che tosto svoltò nel cortile un altro carrozzone non patrizio, ma che era un rappresentante legittimo del popolo; un carrozzone da nolo, dalla cassetta del quale, dove s'era assiso baldanzosamente insieme al cocchiere, discese un domestico colle gambe arcuate, portante una livrea azzurra passamantata di rosso fuoco, la quale gli scendeva fino ai piedi, ad attestare come essa, senza fargli carico della statura, apparteneva, nè più nè meno del carrozzone, a tutto il rispettabile pubblico pagante.
E il domestico disceso ad aprir la portiera era nientemeno che l'amico Zampino del teatrino Ducale, e la signora che ne uscì era la ballerina Gaudenzi, a cui tenne dietro l'indispensabile zia.
Alla celebre danzatrice trattenutasi a Milano con permesso scritto e sottoscritto dagl'ispettori del teatro di san Moisè di Venezia, scadeva in quel dì appunto il termine estremo, onde il giorno dopo doveva partire per Venezia. Ella veniva a trovare il signor Lorenzo Bruni, che stava adempiendo alla sua quarantena là dentro, e raccomandato dal ministro governatore, vi era anche ben trattato, avuto riguardo alla qualità della locanda. Quelle visite della Gaudenzi si rinnovavano spesso, e siccome essa largheggiava di mancie a dritta e a sinistra, così accorse il custode del palazzo appena ella discese; accorsero gli uscieri appena ella salì; accorsero i secondini appena ella si mostrò all'anticamera del signor carceriere in capo. Ed or lasciamola andare al suo destino, chè la raggiungeremo tra poco.
Nel cortile trovavasi contemporaneamente una mano di giovinotti buontemponi, con cui ci siam già affiatati altra volta al caffè del Greco, ci pare al mercoledì grasso; e che, se non è assolutamente necessario, non è nemmeno tempo gettato a sentirli anch'essi, e tanto più che ci troviamo avere a' nostri comodi un quarticello di ricreazione.
Era dunque la solita compagnia del caffè del Greco, trascinata dall'ozio e dalla curiosità fino al Capitano di Giustizia per appurare le notizie del giorno indietro e per raccogliere quelle della giornata, un po' tempestando il custode, un po' qualche usciere che per caso discendesse; un po' qualche assessore, o auditore, o notajo, o scrivano amico. Tra quella schiera di buontemponi felici, si trovava, già s'intende, anzi stava a capo di tutti, quel chiacchierone indomabile che già vedemmo seduto colla paletta in mano al braciere d'inverno del caffè.
— Ma sapete che è una giornata curiosa questa! (era esso che parlava). Il palazzo del Capitano di giustizia ha cambiato faccia... e se la va innanzi di tal passo, il teatrino si trasloca qui. Carrozzoni con tre livree, contesse in gran gala, conti e contini e baroncini e marchesini che passeggiano su e giù per gli atri e per le scale. (Erano infatti i nobili praticanti e i patrocinatori dei carcerati). Per ultimo ballerine col carrozzone del teatro... è qui Zampino in persona, Zampino in livrea... Sta a vedere che fra poco questo cortile sarà la platea, e le celle dei detenuti saranno i palchetti. Ma va benissimo così. È assai meglio che il palazzo di Giustizia metta il parrucchino e il belletto e diventi allegro come il palco scenico di quello che presentano le tragedie asmatiche di Corneille; men male quelle di Racine, il quale par che faccia il disperato o pianga per diporto, tanto è calcolato in tutto, onde si direbbe che paga il fiaschetto delle lagrime un tanto all'oncia.
— Ma cosa fai qui, Zampino, e come puoi abbandonare il teatro?
— Meglio servitore di carrozza, che servitore di palco scenico, quando non è stagione di carnevale. Allora gli artisti son tutti di cartello, e pagano senza contare... Adesso sono straccioni che non han di proprio nemmen le maglie; perciò di giorno servo il carrozzone del comune e conduco in giro i forestieri... Men male però stavolta che s'è fermata a Milano... questa cara bionda, la quale non guarda pel sottile... e insieme coi denari vien anche roba e cibo e vino... Ah... questa ragazza e il signor Amorevoli, per far star bene chi li serve, non c'è chi li somigli.
— A proposito, che è avvenuto del tenore?...
— È a Venezia... ed or sa Dio quando tornerà, perchè quando un tenore di quella vaglia, piglia il volo, chi può sapere dove andrà a finire? Inviti di qua, inviti di là, se poi vanno alla Corte di Francia, o alla Corte di Spagna, o alla Corte di Vienna... a rivederci all'altro mondo... E dire che m'aveva promesso di condurmi con lui... perchè gli piaceva il mio servizio... ma... È stato un tal diavolo a quattro questo carnovale passato, con tante disgrazie... che... basta!... Ora son qui.
— Povero Zampino, e cosa viene a fare in questi luoghi la tua bionda?
— Bella domanda! a trovar il signor Bruni, il violino di spalla... e lo sposerà, appena uscirà all'aperto. Sì, signori. Così rimarranno con tanto di naso quei cari cicisbei spasimanti che credevano abbagliarla collo specchietto degli anelli di brillante e coi titoloni; e va benissimo, e mi fanno ridere questi ruba occhiate... Ma il signor Bruni è un altro galantuomo che paga bene.... e che è quel che si direbbe una mosca bianca fra i suonatori... bollettoni eterni che portano in deposito al pignoratario persino il contrabasso e il corno quando non c'è teatro, e non sono chiamati a far baldoria a qualche festa di chiesa di campagna.
Tutta la brigata volle smascellarsi dal ridere a codesta espansione furibonda del nano Zampino contro gli stracci teatrali; ma vedendo che scendeva dallo scalone un auditore, il quale era uno degli amici, furon tutti colà a tempestarlo di domande:
— E così? non si sa nulla della contessa che fu lasciata partire com'è entrata?
— E che diavolo! volevate che le si mettessero le manette come a un borsaiuolo?
— Chi ha mai pensato e detto questo? entrava lesto il chiacchierone; io anzi ho sempre detto che a mandar a prender la contessa per forza, la giustizia avrebbe fatto un buco nell'acqua.
— E se non la si fosse mandata a pigliare, avreste detto che erano i soliti riguardi paurosi che l'autorità ha verso i titolati.
— E voi altri dottoroni della legge, per far vedere che siete uomini integerrimi, avete cominciato a dar prova d'imparzialità precisamente dove non occorreva... Così siete caduti dalla padella nella brace!
— Che brace e che padella?
— Brace e padella, sì... Prima si poteva dire che eravate maligni ma acuti, oggi si può dire che siete galantuomini ma balordi... Ma già è un destino che non abbiate a imbroccarne mai una.
— Taci, taci, buontempone... che se il mondo dovesse regolarsi a chiacchiere.... tu saresti il Giove in cipria; fortuna che ti si lascia dire e dire... e chi deve fare fa, senza il tuo parere...
— E per questo le cose camminano come camminano; piuttosto è che ad un bisogno sapete essere e bricconi e balordi — così si pigliano più piccioni a un favo... bravissimi! e mentre s'importuna la Repubblica di Venezia per importunare la contessa che stava benissimo là col suo bel tenore... qui non si pensa che il conte F... è il fratello del marchese; e che, data pure per assurda e impossibile la presunzione, sentirlo in giudizio, bisognava ben sentirlo... Ma invece... se il conte F... fosse morto da cento anni non si potrebbe dimenticarlo meglio...
— E puoi tu dire di sapere quel che si farà?
— Che cosa so io?... Quand'anche si finisse coll'impiccarlo, la giustizia avrebbe sempre il torto di avere aspettato troppo tardi... E poi che bel merito... Di qui soffia uno e discopre gli altarini, di là l'avvocato Agudio spicca un libello e mette sossopra la città, e cerca e trova testimonj. Capisco anch'io che a questo modo, a calci nel sedere, dee camminar la giustizia anche a Milano... Oh ci vuol proprio un gran merito...
— Ma intanto il cameriere dei Tre Re....
— Che cameriere?
— Diavolo, tu che sai tutto... non sai che il testimonio ingaggiato dall'avvocato Agudio è il cameriere dei Tre Re? e domani sarà messo agli interrogatorj un altro cameriere che si mandò a pigliare fino a Cremona?
— Oh ora va bene... e questo primo cameriere?...
— Fu messo alle strette... e disse che il lacchè Suardi trovavasi in Milano e bazzicò più volte all'albergo nella settimana grassa. Questo basta perchè il Galantino sia trovato in mendacio... basta, cioè, sino ad un certo segno... perchè poi c'è un altro guajo...
— Che guajo?
— Che nel punto in cui il cameriere doveva confermar tutto con giuramento, ei fece di tratto un gran passo indietro e protestò che la memoria poteva forse ingannarlo... e in ogni modo non sapea risolversi a giurare a danno altrui... e qui non c'è nè che dire nè che fare... Ma domani si sentirà l'altro... e se mai parlasse come questo... e per soprappiù giurasse... e, messo in confronto col Galantino... Basta, vedremo... Ora tu continua a dire che noi vogliamo chiuder la porta al vero, e tener mano a' birbanti. Il contrattempo sai tu piuttosto in che consiste? consiste in ciò che il conte F... è a malissimo partito. Ma voi... mi fate perder tempo, mentre sono aspettato in Pretorio. Addio, buone lane.
E l'auditore partì, e la brigata, salutato il Zampino, se ne andò, indovinate dove?... verso le parti di Santa Maria Podone, per raccogliere notizie intorno alla salute del conte F... Ma non avevan voltato il canto di Santa Maria Fulcorina, che sentirono a qualche distanza i suoni intermittenti di un campanello scosso a mano, una voce acuta che spiccava nel silenzio, per esser tosto seguita dal rumore di cento voci. Sancta Maria, acclamava la voce bianca; ora pro eo, rispondeano le altre in sordo brontolìo. E il campanello intercalavasi a quelle voci: Salus infirmorum, ora pro eoRefugium peccatorum, ora pro eo — Consolatrix afflictorum, ora pro eo... e così finchè i nostri compagni giunsero in veduta del santissimo Viatico, il quale entrò nel portone di casa F...
— Si vede che il conte non sta benissimo di salute, disse ridendo il più assiduo interlocutore. Ora guardate, che, allorquando un uomo è nato sotto la protezione della ruffiana fortuna, muore nel punto preciso che la morte è un colpo orbo alla bassetta.
Ma per vedere in qual condizione si trovi precisamente il moribondo conte, entriamo anche noi in casa F... insieme col Viatico.


VIII


Quello che don Alberico avea pronosticato al maggiordomo di casa, che cioè il dottor Gallaroli avrebbe fatto, tornando alla visita della sera, un grande scalpore al sentire che non s'era ancor mandato a chiamare il prete, avvenne per l'appunto.
Il conte F..., in quelle sei o sette ore che erano passate dal consulto al suono della campana serale, aveva peggiorato a furia; onde il bisogno del prete erasi fatto più necessario che mai. Come dunque montasse in collera il medico della cura, sebbene per abitudine gioviale e cortese ed anche un po' adulatore, è facile imaginarsi. Si trattava di spargere di sè e delle sue osservanze religiose un'opinione favorevole, la quale lo avrebbe ingraziato al clero in cura d'anime, certo che un medico dee necessariamente tenersi confederato; e il dottor Gallaroli tanto più salì sulle furie, quanto più era straordinaria e cospicua l'occasione. Data pertanto una buona sgridata al maggiordomo, perchè in quel momento la collera serviva al suo intento, come altre volte la giovialità e la condiscendenza, partì facendosi promettere obbedienza intera, e raccomandandosi in ispecial modo, e qui cangiando tono e frasi e faccia, a don Alberico. Non però cessarono le dispute tra questo e il maggiordomo, dopo che il medico si fu partito. E il Rotigno non faceva che ripetere i paralogismi sfoderati fin dal mattino col figlio del signor conte, difendendo il suo proposito con tanto maggiore insistenza e caparbietà, quanto più disperava della possibilità di potervisi mantenere; anzi l'insistenza e la caparbietà crebbe al punto che diventò iraconda petulanza; tanto la considerazione del pericolo vicino lo avea fatto uscire da quelle misure di rispettosa convenienza che pur gli erano comandate dalla sua condizione e da quella di don Alberico. Ma ciò gli partorì appunto l'effetto contrario a quello per cui si crucciava; che don Alberico, inasprito da quella così audace contraddizione, ordinò a' domestici che tosto andassero a chiamare don Giacinto di Santa Maria Podone.
I domestici di casa F... non erano mai stati i più pronti esecutori degli ordini di don Alberico, perchè il conte padre e il maggiordomo erano sempre stati i soli a far paura alla servitù; ma in quel momento successe una repentina diversione. Il conte padrone potea morire; e allora il maggiordomo, cessando a un tratto di essere dopo di lui la persona più autorevole della casa, doveva diventare invece il servitore devoto di don Alberico, non rimanendo, in quanto al resto, che l'uomo il più abborrito dai dipendenti; perchè questi, se lo avean sempre obbedito con prontezza, lo avevano anche sempre odiato con effusione, per quelle relazioni di sudditanza oppressa e di tirannia che intercedono quasi sempre tra un maggiordomo e le livree d'una casa. Don Giacinto fu dunque mandato a chiamare. Il vicario di Santa Maria Podone, indignato di essere stato messo alla porta dal maggiordomo quando erasi presentato a visitare il conte, non s'era più mosso, ma sentendo peggiorar sempre le notizie della salute del conte, aspettava di venir invitato. Quando pertanto il servo di casa fu a dirgli, che venisse subito perchè il conte padrone stava a malissimi termini, tosto accorse.
Il maggiordomo, allorchè vide il prete entrar nella stanza da letto del conte F..., provò quell'oppressione di cuore e quello sgomento onde è assalita una moglie infedele che, sorpresa dal marito, lo veda entrar nella stanza dove avea creduto di poter nascondere il furtivo amante.
Don Giacinto il quale, per una lunga abitudine al letto degli ammalati, aveva fatto, come suol dirsi, l'occhio medico, avvistosi tosto del massimo pericolo in cui versava il conte, senza por tempo in mezzo gli propose la confessione, che dall'ammalato incadaverito fu accettata.
Quando la vecchia cameriera uscì per lasciare il padrone da solo a solo col prete, trovò il maggiordomo che s'indugiava nella sala vicina.
— Or come sta il padrone? quegli le chiese.
— Sta con don Giacinto e si confessa. Usciamo tutti di qui, e non si lasci entrar nessuno.
— Io mi fermerò, e non entrerà alcuno; disse il maggiordomo preoccupato; e, uscita la vecchia, in prima egli si diede a passeggiare per la camera, rallentando di tratto in tratto il passo, per finire a fermarsi poi del tutto in un angolo della sala, raggruppato in un atteggiamento che significava la più profonda concentrazione in un pensiero unico. Ma a riscuoterlo entrò improvviso don Alberico che gli disse con accento di meraviglia:
— Or che fate lì rincantucciato? E la sua voce risuonò in quel profondo silenzio: chè tutti i servi si erano allontanati.
Alla voce di don Alberico, la quale distintamente arrivò fin all'orecchio dell'ammalato, rispose un sospiro grave, anzi un gemito rantoloso dell'ammalato stesso. I due, scossi da quel gemito, stettero un momento immobili e senza quasi tirare il fiato.
— Or su, coraggio, dica pur tutto.
Era il prete che parlava; ma il prete quasi nel punto medesimo usciva, e vedendo i due:
— Presto, si chiami qualcuno, che al padrone è sorvenuto un deliquio. — E diede egli stesso una strappata al campanello, e s'udì lungo le sale silenziose l'oscillazione prolungata del filo metallico.
Accorse incontanente la vecchia cameriera, ed entrò col prete nella stanza del conte.
— Or vedete, disse allora il Rotigno a don Alberico, i buoni effetti da me pronosticati di queste negre sottane.
— E che si doveva fare? rispose il giovane.
Dopo una mezz'ora il conte erasi tanto quanto riavuto, onde don Giacinto, fatta di nuovo uscir la vecchia, ripigliò la confessione.
Ma ora non creda il lettore di potere, introdotto da noi in quella stanza di morte, mettere la testa tra le orecchie del prete e la bocca del conte. No; di quella confessione noi non sappiamo nè principio, nè mezzo, nè fine. Chè il sacramento della penitenza non è costituto criminale, e non si traduce in processo verbale a saziare la curiosità dei posteri curiosi. Soltanto possiamo dire che, allorquando il prete uscì, il maggiordomo che lo attendeva alla porta per leggergli in volto e penetrargli l'anima, non vi potè legger nulla; o, diremo più giusto, non vi notò altro che quell'abituale tranquillità del sacerdote che ha fatto il suo dovere; ed anzi quella tranquillità era tale che se la sentì trasfusa in se medesimo. In quanto a noi, volendo avventurare qualche congettura, regolandoci con quello che avvenne dopo, ci pare di poter sospettare, che il conte fosse al punto di fare al sacerdote la rivelazione intera d'ogni cosa; ma la combinazione fatale avendo voluto che in quel punto la voce dell'unico erede gli suonasse all'orecchio, quella bastò per impietrargli il segreto in gola. L'indomita ambizione e il pensiero della grandezza del casato perpetuata nel figliuolo, fu più forte d'ogni altra angustia, e tacque; vogliamo dire, è assai probabile che sia avvenuto così, perchè, del rimanente, ripetiamo, non sappiam nulla di preciso.
La mattina successiva, sacerdote e dottore furono al letto del conte; e il malore, durante la giornata, progredì al punto che, nel dopo pranzo, fu indispensabile accorrere col Viatico, in vista del quale, coi cappelli devotamente levati, ci staccammo da quella schiera di giovinotti avventori del caffè del Greco. Ma come essi per raccoglier novelle della salute del conte F... lasciarono il palazzo del Capitano di Giustizia; a noi conviene invece ritornare di necessità in quel luogo, nell'aula degli interrogatorj. E dobbiamo ricordarci anche della Gaudenzi, venuta colà a visitare Lorenzo Bruni. Se non che il dialogo che s'impegnò tra questo e la bellissima danzatrice, e il terzetto a cui si allargò il duetto, al sorgiungere di Pietro Verri, interessa un ordine di fatti che qui potrebbero far sbadigliare il lettore, tutt'altro che disposto a tener dietro al corso generale delle cose di quel secolo in un punto che più ci attirano le particolarità del processo; per la qual cosa omettiamo un tal dialogo, reclamando il diritto ai ringraziamenti.
Dall'auditore che parlò nel cortile del palazzo di Giustizia cogli amici del caffè del Greco, abbiamo sentito come il primo cameriere dell'albergo dei Tre Re messo agli interrogatorj abbia, in prima, deposto contro il lacchè Suardi, dicendo di aver giuocato con lui in una delle sere della settimana grassa; poscia, interpellato se fosse disposto a raffermare la deposizione col giuramento, siasi ritratto di un passo, accusando la possibilità che la memoria avesse mai potuto tradirlo. In tal guisa veniva a riuscire secondo l'espressione dell'attuaro, irrita affatto la sua prima dichiarazione, e però a risolversi in un indizio, più che insufficiente, nullo. Se non che il causidico praticante nello studio dell'avvocato Agudio, che era un tal Gerolamo Benaglia, recatosi a Cremona, aveva trovato all'albergo del Sole il secondo cameriere, e interrogatolo, lo aveva sentito confermare l'asserzione del primo, dichiarandosi inoltre pronto e a giurare e a sostenere il confronto col medesimo Galantino; perciò, senza por tempo in mezzo, avealo condotto seco a Milano; del che avendo dato avviso al signor capitano di giustizia, questi avea ordinato che il dì dopo dovesse comparire per essere sentito in giudizio.
Il marchese Recalcati, se per le molte circostanze sorvenute era disposto a lasciar corso liberissimo alla giustizia senza riguardi obliqui per nessuno, e nel bisogno a parlare anche in Senato, dove il capitano spesso era chiamato e sentito; non però aveva mai avuto gran voglia di comunicare una velocità straordinaria all'andamento del processo. La sua natura onestissima era pur sempre alle prese con quella sommessa deferenza ch'egli sentiva per chi voleva virare il naviglio in modo, che finisse per perdersi in alto mare, lontano dalla vista del pubblico.
Ma l'esame fatto alla contessa Clelia V..., le franchissime parole di lei, le calde sue sollecitazioni raddoppiarono la sua onestà e scemaron la deferenza ch'egli avea per altri. Però venne in pensiero di dar corso più rapido al processo, e a tal fine volle, che il secondo cameriere venuto a Milano col causidico praticante Benaglia dovesse comparire in giudizio quel dì medesimo, senza attendere il giorno successivo; e siccome l'ora erasi fatta tarda, così dispose che l'esame si avesse a fare dopo i vespri a chiaro di lucerna, e gli esaminatori dovessero, al bisogno, vegliar la notte perchè «col sorgere del sole (togliamo queste parole dal processo) qualche lume di verità dovesse rischiarare la casa della giustizia».


IX


Per l'ora prima di notte fu dunque invitato a comparire innanzi al signor capitano di giustizia, come testimonio contro il costituito Suardi, detto il Galantino, il già cameriere nell'albergo dei Tre Re, Cipriano Barisone.
Questi comparve di fatto in un col causidico praticante Benaglia. Aperto il costituto, l'attuaro domandò al Barisone se conosceva il Suardi.
— Lo conosco fin da due anni, fin da quando esso era al servizio del marchese F...
— In quali relazioni vi siete trovato con lui?...
— Io ero cameriere all'albergo... e, quando lo conobbi per la prima volta, esso era un avventore che scialava e mangiava i migliori bocconi, e beveva il vin migliore... Di poi, allorchè venne scacciato da quella casa, si astenne per qualche tempo di venire all'osteria; e quando ci tornò, se prima faceva il signore e non giuocava che cogli avventori, dopo ha dovuto, di necessità, se voleva trovare un compagno, mettersi a far comunella con noi gente di servizio... e a notte tarda, quando i più degli avventori eran partiti, giuocava con noi alle carte; e siccome a quell'ora si cenava, egli non aveva schifo di mangiare nei nostri piatti, perchè si capiva benissimo che capitava all'Osteria senza che nè una crosta di pane gli avesse toccato un dente. Si rifece però un poco, e lo vedemmo con de' zecchini d'oro assai in quell'occasione che vinse la corsa co' lacchè di Brescia e di Cremona. Ma fu un'allegria corta, perchè presto tornò ad aver bisogno degli avanzi della nostra cucina.
Qui l'auditore l'interruppe.
— Di qualche cosa però avrà dovuto vivere; con che dunque esso mantenevasi?...
— A dormir sul fenile dell'osteria, a mangiare nell'altrui piatto, ad avere i piedi fuor delle scarpe, mi pare a me, che non debba occorrere gran cosa per vivere. Tuttavia, se mai capitava ch'egli avesse qualche lira tra le mani, le guadagnava al giuoco delle carte nel quale aveva sempre ragione, e quando non era la fortuna, egli stesso faceva le parti di lei.
— Spiegatevi meglio.
— È presto spiegato: s'egli faceva il mazzo, le buone carte eran sempre le sue, e in ciò nemmen chi giuoca ai bussolotti in piazza poteva essere più svelto di lui.
— Ma conoscendo questo, perchè avete continuato a giuocare con esso?
— Che cosa vuole? ci sono a questo mondo de' buoni semplicioni coi quali non si vuol aver a che fare per la ragione dell'antipatia. Parimenti vi sono de' mariuoli che più te ne fanno, più ti innamorano di loro. E il lacchè era uno di questi... Ci rubava i punti, faceva scomparir le carte, ci mangiava il boccon migliore, talvolta ci portava via qualche camicia, qualche calza... che so io.... e tuttavia, quando non lo si vedeva a comparir all'osteria, si pareva senza una mano... Era pieno di piacevolezze, di pazzie, di invenzioni... e perfino il padrone dell'albergo che è un uomo col viso sempre aggrondato e che non ride mai, arrivava a domandar conto di quel briccone se passava una giornata senza vederlo. In quanto a me però, ultimamente, ne avrei fatto anche senza.
— Or dunque, venendo al fatto, quando fu l'ultima volta che voi avete giuocato seco all'albergo dei Tre Re?
— L'ultima volta fu la domenica grassa.
— Come potete provarlo?
— Provarlo? colla buona memoria... io non ho altro... perchè mi ricordo benissimo come se fosse adesso, che la domenica grassa ho giuocato con lui, ed era quasi la mattina del lunedì... E il far tanto tardi non succede che in tali giornate di gran faccende... E poi c'è un altro fatto... Giuocavano con noi due camerieri soprannumerarj, i quali non sono venuti che in settimana grassa, e precisamente alla domenica. Ma chi li va a prendere adesso questi camerieri i quali ora sono qua, ora sono là... e spesso se fanno il cameriere in settimana grassa, fanno il facchino a san Michele... e non si riconoscon più nè al viso né al vestito?...
— Ma voi sapreste sostenere tutto quello che avete detto fin qui anche in confronto del lacchè?
— Perchè no?... s'io parlo... è perchè trattasi di dir la verità... e se dico la verità... è perchè il signor causidico, che venne a pigliarmi a Cremona, mi ha assicurato che a dir la verità tutta quanta si reca vantaggio a delle persone oneste e povere..., e a tacerla, si tiene invece il piatto a' birbanti.
L'attuaro, che avendo proposto il giuramento al primo cameriere, lo aveva sentito a ritirar la parola per ispavento della solennità dell'atto; credette di non farne motto al secondo testimonio, e di provocar prima il confronto di lui col Galantino. Di fatto avrebbe dovuto incominciare anche coll'altro da questo atto, preterendo il giuramento; ma sbaglia anche il prete a dir la messa.
Il cameriere Barisone fu dunque fatto uscire, pel momento, dalla sala degli interrogatorj, e fu mandato a prendere il costituito Suardi. — Questi comparve nella sala un quarto d'ora dopo, in mezzo a due secondini, o come chiamavansi allora più comunemente, sbirri.
La faccia del Galantino, quando si mostrò, era sorridente; lo sguardo di lui lampeggiava a dritta e a sinistra con vivacità gioviale. Un occhio esperto però avrebbe dovuto comprendere ch'ei sorrideva vivacemente, perchè la sua forte volontà moveva i muscoli del viso e degli occhi. Era, se ci si passa la similitudine, come un caratterista brillante di una compagnia comica, il quale ha i creditori alle calcagna e gli arresti personali intimati per debiti, e tuttavia, sul palco scenico, ride e fa ridere, e par l'uomo più allegro del mondo. Del rimanente, quel roseo incarnato che avea sempre colorito il volto bellissimo del Galantino, era scomparso per dar luogo a un lieve pallore, insolito su quella faccia trionfante di sfrontatezza e di salute.
L'attuaro, fatta una lunga pausa, durante la quale guardò il Galantino con una significazione severissima, rilesse ad alta voce il primo costituto stato già sottoscritto dal Suardi, poi soggiunse:
— Avete ancora il coraggio di sostenere tutto quello che avete detto e deposto qui in processo verbale sottoscritto?
— La verità è una sola, e io non posso già dire che non è avvenuto quello che realmente è avvenuto.
— Voi sapete che chi spontaneamente confessa la propria colpa alla giustizia, ha meritato che la giustizia alla sua volta gli si mostri indulgente. Vi esorto adunque di nuovo a dire la verità, se volete che la giustizia non faccia uso contro di voi di tutto il suo rigore.
— La giustizia può fare quello che vuole; ma io non posso cambiare quello che è stato.
— Ebbene, sappiate che abbiamo assunte testimonianze, dalle quali risulta che voi avete mentito. La domenica grassa, a notte tarda, avete giuocato alle carte all'albergo dei Tre Re... Vedete dunque che non è verosimile che voi foste allora a Venezia già da otto giorni.
Il Galantino, benchè fosse di bronzo, non potè a meno di commuoversi a quelle parole, e fu una sua fortuna s'egli era illuminato dalla fiamma della lucerna piuttosto che dai raggi del sole; si ricompose però sull'istante, come un cavaliero, fatto piegare indietro da una lancia, che tosto si rimette in sella; e rispose con asprezza:
— Non sarà mai vero che alcuno possa dire, ch'io mi trovassi a Milano la domenica grassa. Torno a ripetere ch'io andai a Venezia otto giorni prima. E quegli che a loro signori avesse detto il contrario è un bugiardo infame.
L'attuaro tacque un momento, poi disse ad un usciere:
— Fate entrare il testimonio.
L'usciere entrò col Cipriano Barisone cameriere.
Il Galantino, che nel frattempo aveva almanaccato per indovinare chi mai poteva essere venuto a deporre in giudizio contro di lui, e quasi erasi accostato al vero, si trovò parato a sostenere la prima vista del cameriere Cipriano, e tanto che, dalle difese, con una sfrontatezza senza uguale, passò alle offese.
— Ah è costui, disse, quegli che viene a inventar fandonie per farmi danno. Ma non mi fa meraviglia. No... È naturale... però bisognava essere un birbone come lui. Sappiano dunque loro signori che costui ha parlato per vendetta... perchè più volte ha detto che volea vendicarsi di me... Or di' un po' tu se questo non è vero, o ribaldo.
L'attuaro, assalito anch'esso e sorpreso da quell'inattesa franchezza del costituto:
— È vero, chiese al Barisone, che voi avete potuto dire altre volte di voler vendicarvi di lui?
— Sì, signori, è vero, e ne ho le ragioni, e gravi. Prima di tutto costui... che regala del proprio agli altri... e non è mai stato innocente nemmen quando poppava, perchè vi son dei serpenti che avvelenano appena usciti al sole... costui dunque non mi restituì mai cinquanta lire che gli ho prestate, e una sera che gliele richiesi, in faccia agli avventori, mi appoggiò un pugno qui... che, ecco, mi spezzò questo dente. Poi... ma...
— Taci lì, che continuerò io, aggiunse il Galantino cacciandosi a ridere nel profferir quelle parole.
Il Barisone fremeva...
— Sappiano dunque, signori... e innanzi tutto già si sa che si è di carne, e dove c'è carne c'è sangue. Ebbene, questo bel pappione s'è fitto in testa di sposare la figlia della lavandaja dell'albergo. Un fior di ragazzotta, giovane e fresca... una gioncata colle fragole. Il marito dunque era costui... ma...
— Taci...
— Dopo qualche mese la bella sposa... si guardò dunque intorno e vide che, in conclusione, ci voleva qualche cosa dolce per far passare l'amaro dell'aloè. Il caso ha voluto che io gli capitassi innanzi nel momento appunto che era presa dalla nausea di questo gabbiano... Ora chi non lo sa? l'uomo è cacciatore... e quando l'allodola è novella... va presto nel carniere... Del resto la colpa... (e qui si diede a sghignazzare come se fosse in piazza) è di costui che una notte, invece di stare all'osteria, è venuto a casa due ore prima del consueto... e si cacciò a strepitare come uno spiritato ed io a dar giù botte da orbi... perchè questi mariti gelosi van tenuti in soggezione. Così la bella lavandaja tornò a picchiar sulla pietra, e costui giurò di vendicarsi di me. Ecco tutto.
A queste parole del Galantino, e il viso tra il goffo e l'iracondo che faceva il Barisone, sulla faccia dell'attuaro guizzò un sorriso fuggitivo, ch'esso respinse a forza aggrondando il sopracciglio; l'illustrissimo signor capitano guardò con severità l'attuaro, quasi ad ammonirlo perchè desse sulla voce al Galantino e lo richiamasse al dovere ed al rispetto; ma due giovani scrivani, che, per fatalità, s'erano adocchiati, si comunicarono a vicenda quella volontà contagiosa di ridere, che cresce in ragione diretta della sconvenienza, della gravità della circostanza e della severità dei superiori. Ben la nascosero in prima con tali conati da meritare ogni maggior elogio da chi tien conto dell'intenzione; ma i conati e gl'impedimenti non fecero altro che accrescere gl'impeti convulsi, di modo che, dopo essersi soffocati per qualche tempo, come si fa colla tosse quando potrebbe tradire un segreto pericoloso, alla fine scoppiarono in uno schianto così scandaloso e indecente, che la terribilità del luogo, la gravità del signor capitano, l'aggrondatura artificiale dell'attuaro, l'inerte serietà dei due sbirri non valsero a salvare la solennità della dea Temide.
Accorse però al riparo l'attuaro, gridando bieco al Galantino:
— Basta così, e attendete a rispondere ai giudici voi quando sarete interrogato; indi voltossi al testimonio:
— È vero quanto ora fu detto?
— È vero.
— Perchè dunque non lo avete esposto prima?
— Vostra signoria mi perdoni, ma quando io era per continuare e dir tutto, ho dovuto rispondere ad altre domande.
— È egli vero altresì che siete stato eccitato contro il costituito qui presente da spirito di vendetta?...
— Ho detto più volte di voler vendicarmi di lui, questo è vero, ma non furono che parole, e sarebbero sempre state tali. Ciò però non ha nulla a che fare con tutto quello che ho deposto circa il fatto di aver giuocato con esso la domenica grassa, perchè questa è la pura verità, e quando io stavo a Cremona e fui chiamato e interpellato dal signor causidico Benaglia, era lontano mille miglia dal credere ch'io dovessi venire a Milano, ond'essere sentito in giudizio per cosa che risguardava costui.
— Ma come avete potuto, col malanimo che avete seco, giuocare ancora con lui?
— Chi si poteva salvare dalla sua importunità, e anche dalle sue prepotenze? d'altra parte i compagni ridevano di me quando facevo il dispettoso con esso... onde, pel quieto vivere... bisognava adattarsi a giuocare e a lasciarsi incantare anche le carte... Ma se V. S. non crede alle mie semplici parole, io sono disposto a giurare tutto quello che ho detto, perchè non sarà mai che per malanimo io voglia inventar storie a danno di chicchessia.
— Ora parlate voi, disse l'attuaro al lacché.
— Quel che ho detto, lo ripeto. La domenica grassa io stava a Venezia... e costui è un bugiardo... e s'egli è disposto a confermare le sue fandonie col giuramento, non è la prima volta che a questo mondo si sente a giurare il falso con indifferenza.
L'attuaro, a queste parole, guardò al signor capitano di giustizia, che a quella tacita interpellazione:
— Or si rimandi in prigione, disse.
E gli sbirri condussero fuori il Galantino.
— Che vi rimane adesso da aggiungere? disse l'attuaro al cameriere.
— Io non ho niente da aggiungere; son uomini questi che farebbero perdere la testa a chicchessia. Del resto io vivevo tranquillo in Cremona, all'albergo del Sole, e non avrei mai voluto recar danno nè a lui nè ad altri nè a nessuno, se non fossero venuti espressamente a cavarmi di là e a tirarmi a Milano per forza. Questo io dico perchè V. S. si persuada della verità delle mie parole, e che non ho mai ingannato nessuno al mondo, e vorrei che il Signore Iddio mi castigasse qui se mai ho detto il falso.
A queste parole venne rimandato anche il testimonio Barisone, fattagli intimazione di non uscire da Milano fin che non ne avesse avuto il permesso dall'autorità; per la qual cosa venne chiamato nella sala anche il giovane causidico Benaglia, a cui fu parimente intimato che, sotto la sua responsabilità, il cameriere dovesse restare a Milano sino a nuove disposizioni.
E il capitano di giustizia, che si attendeva di venire al chiaro d'ogni mistero in quella notte, trovò invece d'aver raggruppato di più il nodo nel tentare di scioglierlo, avendo bensì la convinzione morale invincibile della reità del Galantino, ma non avendo le prove legali per condannarlo; anzi non avendo raccolto, a rigore, nemmeno gl'indizj legittimi per metterlo alla tortura, come egli avrebbe creduto opportuno, e come e l'attuaro e gli assessori e gli auditori consigliavano ad una voce.
Però ad onta che gl'indizj non fossero a rigore di scrupolo i più legittimi, perchè dei due testimoni necessarj, uno erasi ritirato, e il secondo aveva infirmata la sua deposizione col sospetto di malanimo contro il costituito; e prescindendo anche da ciò, non potea bastare come testimonio solo, non verificandosi in lui gli estremi voluti dagli statuti e confermati dagli interpreti, perchè la sua condizione non era tale che si potesse dichiararlo superiore ad ogni eccezione; tuttavia, avuto riguardo che i due camerieri in massima erano andati d'accordo, che il secondo era disposto a giurare, avuto riguardo inoltre alle deposizioni della contessa Clelia V... e all'abito criminoso del Suardi, l'illustrissimo signor capitano marchese Recalcati pensò di portar la cosa in Senato, affinchè quella suprema magistratura provvedesse in proposito; e il referato che fu steso e spedito il giorno dopo, venne chiuso col voto espresso che appoggiava l'applicazione della tortura al costituito di cui si trattava.


X


Quando codesta relazione, col voto dell'illustrissimo capitano di giustizia e colla nota — d'urgenza — fu portata in Senato, correva il primo di giugno. Essendo giorno di mercoledì, che, al pari del lunedì e del venerdì, era riservato alle cause civili, i segretarj del Senato la misero fra le cause da trattarsi in consiglio il giorno dopo (chè nei giorni di martedì, giovedì e sabato si discutevano esclusivamente le cause criminali). Ed ora giacchè si ha ad assistere allo spettacolo di questo Senato in sessione, di questo Senato che sta vivendo gli ultimi anni della sua vita (e dovremo assistere fra non troppo lungo tempo al suo totale scioglimento); per coloro che non hanno letto la sua storia scritta da Orazio Landi, nè il commentario del Garoni, nè le memorie di don Martino de Colla, nè il Lattuada; o che, anche avendoli letti, non li serbano tutti in memoria, è bene che riassumiamo qui con breviloquenza da telegrafo: che l'origine del Senato di Milano risale al primo duca Giovanni Galeazzo Visconti, quando, nel 1390, ottenne titolo e dignità ducale dall'imperatore Venceslao, non avendo allora che l'appellazione di Consiglio; — che, nel 1499, questo Consiglio ebbe titolo di Senato da Lodovico XII di Francia ed era un Consiglio di diciasette Senatori presieduti dal Gran Cancelliere; che, nel 1522, ritornato Francesco II Sforza in Milano, un nuovo regolamento portò a 27 il numero dei padri coscritti; — che, nel 1527, venuto a pigliar possesso del Ducato di Milano il Borbone in nome di Carlo V, venne sconvolto il regolamento sforzesco, e fu costituito il Senato da un presidente, quattro cavalieri, dodici giureconsulti con sette segretarj, per tramutarsi poscia e stabilirsi nel presidente con quattordici giureconsulti; di modo che al tempo in cui ci troviamo colla nostra storia, il Senato constava del presidente e di quattordici senatori, uno de' quali aveva titolo di senatore reggente o vicepresidente, come decano. Di quattordici però non risiedevano che dodici, perchè due venivano sempre impiegati nelle preture della città di Pavia e di Cremona. A questo illustre corpo si univano sei segretarj e nove portieri, vestiti di divisa color violetto cupo e portanti collane d'oro al collo nelle pubbliche comparse. Giova inoltre sapere, per coloro almeno che pel momento non hanno cosa di maggior importanza da imparare, che i senatori cambiarono due volte il vestito, perchè sotto i duchi e i re di Francia portavano berretta o giubbone colle divise bianco rosse; e al tempo del dominio spagnuolo assunsero le toghe foderate, in tempo d'inverno, colle pelli di zibellino (ponticus mus), come lo chiama il Garoni, il qual zibellino distingueva i senatori dagli altri magistrati togati, onde è probabile che i più vanitosi dovessero nutrire una certa avversione per l'estate.
E come l'eccellentissimo Senato cambiò titolo, numero, ingredienti, vestito, più d'una volta, medesimamente dovette cangiare spesso il luogo delle sue adunanze; onde sotto il primo duca probabilmente, e, di certo, sotto l'ultimo, si radunava in porta Vercellina presso la parrocchia di san Protaso al Foro; poi, sotto i re di Francia, nella casa pure in porta Vercellina assegnata al gran cancelliere: infine si traslocò in una parte del medesimo reale palazzo.
Ed è in questo luogo che noi adesso dobbiamo recarci. Un'ora dopo mezzogiorno del primo giovedì del mese di giugno, il presidente e i senatori intervenuti, che in quel giorno erano in numero di otto (non era necessario che tutti quanti intervenissero), dopo avere ascoltato la santa messa nella cappella del palazzo medesimo, come voleva la consuetudine, entrarono nella gran sala, che nel 1750 si denominava ancora delle udienze, perchè sotto i duchi e i re di Francia vi si tenevano infatti le udienze pubbliche; entrarono e si posero a sedere intorno ad una gran tavola con tappeto verde; i senatori si assisero quattro per parte, nelle cattedre che si chiamavano ancora de' padri coscritti; il presidente nella più rilevata cattedra posta in capo alla tavola. Dietro di lui, ad una tavola più piccola sedette uno de' sei segretarj. Tutto era augusto e solenne in quell'aula. Al disotto dei dipinti a fresco della metà superiore delle pareti si vedevano cinque grandi quadri, dov'erano dipinte ad olio le proprietà della giustizia, portanti al disotto dell'ampia cornice i titoli latini a caratteri cubitali, cioè Æquitas, Legislatrix, Distributiva, Commutativa, Vindicativa, del che ha lasciato memoria il Lattuada. Intercalati a queste tele si vedevano i ritratti di Giovanni Galeazzo Visconti, di Francesco II Sforza, di Carlo V, Filippo II, Filippo III, Filippo IV, Carlo II di Spagna, e dell'imperatore Carlo VI, che stava in faccia alla cattedra del presidente. Più basso, a coprire in parte i magnifici arazzi, rigiravan l'aula alcuni quadri con cornici ad intaglio messo ad oro, rappresentanti i principali misteri della passione di Gesù Cristo, tra' quali spiccava per eccellenza d'arte quello di Gesù portante la Croce sul Calvario, dipinto dal Daniel Crespi, e regalato al Senato dall'arcivescovo di Milano, cardinale Monti successore di Federico Borromeo. Vedevasi pure un altro gran quadro rappresentante il trionfo di san Michele sopra Lucifero, quasi a simboleggiare la trionfante giustizia.
Aperta dall'eccellentissimo signor presidente la seduta, il segretario mise in prima sul tappeto due o tre cause criminali estranee affatto al nostro argomento, di quelle cause che non provocano discussione, e in cui le opinioni e tutti i sistemi si mettono d'accordo; indi pose innanzi all'eccellentissimo signor presidente le carte relative al processo del lacchè Suardi, dichiarando ad una ad una le pezze, a dir così, di tutto il costituto, e domandando se doveva far lettura del rapporto presentato dal signor capitano. Il presidente, com'era di pratica, accennò che facesse; e il segretario lesse adagio adagio il rapporto, facendo, quel che in musica si direbbe, delle appoggiature sui punti che costituivano le saglienze della tesi; ed esponendo il voto del capitano con una chiarezza particolare, che potea significare la deferenza dell'egregio signor segretario per quel voto medesimo.
Finita che fu una tale lettura, prese la parola il senator M ...tone che era decano.
Dopo il senator Morosini, svizzero ticinese (perchè i senatori, come già notammo, si eleggevano da tutte le città e capiluoghi del Ducato ed anche da altre città fuori del Ducato stesso), il M...tone era il più caldo partigiano della giustizia armata di cavalletto e di scure, onde propendeva al rigore, non per l'indole perversa, ma per quell'impulso che viene da ciò che oggi si chiamerebbe l'arte per l'arte. Per di più non essendo di Milano, non era in gran dimestichezza col patriziato milanese e però non era nè intrinsico nè conoscente del conte F... Questi elementi dovevan dunque farlo presumere più propenso che mai al voto del capitano di giustizia. Ma forse perchè non avea avuto torto il popolo milanese, quando col suo senso comune vendicatore lo aveva ferito, avventandogli l'aculeo di quella strofa che già abbiamo accennato in addietro; v'era probabilmente una ragione per cui la spinta naturale in lui si trovava in lizza con una controspinta avventizia. Del resto, comunque fosse la cosa, egli cominciò a parlare cercando di giustificare i motivi che dovevano aver provocato il voto del capitano, ma conchiuse, dichiarando che non trovava gli estremi per decretar la tortura al costituito Suardi.
Se non che, non aveva esso finito di parlare, che il senatore Morosini, di temperamento impetuoso e bilioso, pronunciò, affoltandole, molte parole che parevano schiuma, quand'esce a dirotta da una bottiglia dove ha dovuto per troppo tempo fremere chiusa. Nè in prima quelle parole parevano aver senso, ma a poco a poco, rallentandosi, si disposero in ordine e il discorso procedette perfettamente intonato colla solennità del luogo.
— I sommi capi, così egli proseguì, pei quali non si troverebbe di sottomettere alla tortura il costituito Suardi, si ridurrebbero dunque al non aver avuto il Suardi per proprio vantaggio un eccitamento al furto; all'avere nel primo interrogatorio risposto con tale aggiustatezza e conseguenza alle domande del giudice, da far presumere in uomo indotto quella tranquillità d'esposizione che deriva dal non aver altro a fare che ripetere la pura verità; alla ritrattazione del primo testimonio, alla proposta del giuramento; al non poter bastare le sole deposizioni del secondo, per non verificarsi in lui la qualità dell'essere superiore a qualunque eccezione; e, quand'anche vi si verificassero, all'essere state infirmate dalle cagioni di vendetta che dovevano presuntivamente aver eccitato il secondo testimonio a danno del costituito. Ora dunque, in quanto al primo punto mi meraviglio come ancora possa mettersi in campo la mancanza d'una causa che, direttamente e spontaneamente sorta in lui stesso, doveva eccitare il lacchè al furto; quasi che non fosser noti a migliaja i casi di sicarj prezzolati, i quali assassinaron persone da essi nemmen conosciute. Il vantaggio che doveva raccogliere il costituito Suardi dal furto, non deve cercarsi nel furto in sè stesso e per sè stesso, ma nel premio che presuntivamente deve essergli stato dato o promesso da chi poteva avere interesse a far scomparire le carte più preziose del defunto marchese. In quanto al secondo punto, se nel primo interrogatorio appare l'astuzia del costituito, faccio osservare che non ci appar sempre la coerenza là dove, eccitato dall'ira, esce a dire che la contessa lo ha tradito... (prego l'egregio segretario di leggere quel passo, ch'io notai, appena le carte furono portate in Senato e di cui non ricordo bene le parole).
Il segretario cercò, trovò e lesse il passo.
— Or mi pare che sia difficile il dimostrare esserci coerenza qui, quantunque subito dopo il costituito, con arte diabolica, torca le parole a diverso significato. Ora la mancanza di coerenza in un uomo di sì manifesta astuzia, fa presunzione che vi sia colpa. Venendo ora ai testimonj: se il primo si è ritrattato accusando una memoria infida, per la paura che nelle persone ignoranti desta l'idea di dover giurare; pure le sue deposizioni fatte prima vanno d'accordo colle deposizioni del secondo testimonio, il quale, per soprappiù, spontaneamente dichiara di volere confermare gli asserti con giuramento. Bene io sento a dire che il secondo, essendo solo a testimoniare, non basta a formare un indizio, perchè non si verifica in lui la qualità di essere superiore a qualunque eccezione. Ma perchè, domando io, non si verifica? Ma quand'è che un uomo è superiore a qualunque eccezione in faccia a un tribunal criminale? Io credo, allorquando la sua vita è senza macchie criminali di sorta. È la vita senza rimproveri che costituisce la qualità dell'essere superiore a qualunque eccezione; non la condizione alta, nè la ricchezza, nè i titoli. Il marchese Alfieri, che l'anno scorso ebbe il bando dalla Repubblica di Venezia per attentato di veleno contro il marito della sua amante, non è più oggi superiore a qualunque eccezione, sebbene sia titolato e ricchissimo. Due anni or sono, il sagrestano di San Satiro, solo testimonio contro il Faldella che rubò la lampada dell'altare maggiore, bastò a formare legale indizio, perchè fu dichiarato superiore ad ogni eccezione. Perchè dunque non lo potrà essere anche questo Barisone Cipriano? In ogni modo, non merita si dica neppure una parola a dimostrare l'assurdità dell'essere egli stato mosso da spirito di vendetta; sopratutto è a considerare, eccellentissimi colleghi, che egli trovavasi a Cremona, dove tanto era lontano dal pensare a vendicarsi, che si dovette andarlo a chiamare e pregarlo per farlo venire a Milano. È a considerare, finalmente, se mentre questo Cipriano Barisone non ha note criminali di sorta, il costituito ha contro di sè la pessima sua fama, e il fatto d'aver già commesso un furto nella casa stessa del suo padrone che, notoriamente, pur lo amava e lo proteggeva.
Il senatore Morosini avendo a tal punto fatto pausa:
— Se bastasse, gli subentrò tosto il senatore conte Gabriele Verri, la morale convinzione di un giudice a determinare la legittimità degli indizj per mettere un uomo alla tortura, io per il primo non esiterei a farla applicare al costituito Suardi. Ma questa convinzione non basta, perchè può procedere da errore di giudizio, da false parvenze, dall'impossibilità di vedere tutti i lati delle cose. È dunque necessità l'aderire in tali casi quasi passivamente alla legge.
— E sia fatto, osservò il Morosini, giacchè la legge rimette gl'indizj all'arbitrio del giudice.
— Ma il nostro predecessore senator conte Bossi, ribatteva il Verri, nel suo aureo trattato, al titolo De indiciis ante torturam assegna all'arbitrio del giudice l'obbligo di esaminare con coscienza la verisimiglianza e la probabilità (indicium verosimile et probabile sit). Ora la coscienza ci ammonisce di non prestar fede soverchia alle convinzioni morali, e, torno a ripetere, di aderir positivamente alla legge. Ma giacchè la legge nuda e nel diritto romano e negli statuti criminali di Milano lascia questi indizj all'arbitrio del giudice, bisogna chieder consiglio a coloro che hanno continuata la legge stessa, interpretandola.
— Ma la parola degli interpreti, interruppe il Morosini, non è Vangelo, e tanto si può esser tratti in errore dalle loro convinzioni come dalle nostre.
— C'è un divario notabile. Essi, interpretando la legge, non erano circoscritti da un fatto speciale; bensì erano rischiarati da un complesso di fatti molteplici che hanno la virtù di costituire una norma assoluta. Noi invece, al cospetto di un fatto solitario, siamo tratti, non volendolo, a decisioni condizionate e relative. Gl'interpreti hanno questo vantaggio su di noi, di aver meditato e scritto in circostanze lontane dall'influenza pervertitrice della passione fuggitiva del momento, dalle opinioni correnti e dai pericoli che presenta all'intelletto un fatto unico; epperò essi hanno il diritto di essere ascoltati, noi l'obbligo di ubbidire; di modo che assumono virtù di legge in mancanza d'una legge scritta, determinata, sanzionata, comandata; e come avviene delle gride, che le ultime possono derogar le prime e sostituirle, e però, come tali, sono le sole che devono essere seguite; così avvien degli interpreti, de' quali gli ultimi più acclamati dal consenso universale dei giurisperiti e dei magistrati, devono essere di preferenza consultati e seguiti. Ora il consenso più generale è pei due celebri giureconsulti, il Casoni e il Farinaccio; e costoro, spaventati dagli eccessi a cui nell'amministrar la tortura furon tratti giudici o troppo crudeli o troppo confidenti nelle loro convinzioni, o troppo ciechi, sono giunti a conchiudere, il primo: che la tortura non è arbitraria; il secondo, che non sono arbitrarj nemmeno gli indizj. Communis error judicum putantium torturam esse arbitralem — dice il primo, e non sbaglia; — Non immerito audivi plures jurisperitos dicentes posse melius formari regulam, inditia ad torquendum, non esse judici arbitraria, dice il Farinaccio chiarissimamente. Però dal processo verbale relativo al costituito Suardi non risulta provata la bugia dell'accusato, che sarebbe uno degli indizj legittimi; perchè mancano i due testimoni, quali son voluti dal Farinaccio che qui fa testo di legge. Può esser vero che il primo testimonio non abbia giurato per sgomento. Ma può essere, non vuol dire è. — Può esser vero che il secondo testimonio abbia abito di onestà, ma intanto sussistono presunzioni contro di lui provocate da gravi disgusti passati prima del preteso furto tra accusato e testimonio. E, anche qui, il può essere non vuol dire è — poichè la giustizia è come l'aritmetica, nella quale, se manca la verificazione, non può asserirsi che il calcolo sia giusto.
Dette queste parole, il conte Verri si tacque; e quasi nel momento istesso, entrato nell'aula uno de' segretarj, s'accostò al segretario in seduta, che, alzatosi, parlò all'orecchio dell'eccellentissimo signor presidente, il quale, rivoltosi ai signori senatori :
— Un'ora fa, disse, ha cessato di vivere l'illustrissimo conte F... Come l'egregio segretario Carlo fu sollecito di portarne l'avviso, così io lo ripeto ai senatori qui congregati; faccio presente che la morte del conte F... nella causa che ora qui si sta discutendo... può essere forse un fatto significante.
Questo annuncio fece l'effetto di quei congegni dell'arte nautica, che di punto in bianco fanno galleggiar ritto e baldanzoso un naviglio che, appena uscito dal cantiere dell'arsenale, procedeva impacciato e piegato sull'un dei fianchi.
I diversi pareri degli otto senatori tacitamente si armonizzarono in un consiglio unico, quantunque due o tre altri senatori prendessero la parola, parlando con varia sentenza. Se non che, mentre il Morosini, in quel giorno, tornò impetuoso a ribattere gli argomenti degli avversari, il conte Gabriele Verri parve minor di sè stesso, e lasciò dir gli altri; nè più parlò il senator M...tone. Per le quali circostanze, venuta la votazione, la determinazione del Senato fu che il costituito Suardi, soprannominato il Galantino, si dovesse sottoporre alla tortura lieve e semplice. La voce pubblica che cominciava a parlar alto contro la lentezza onde si procedeva verso il Galantino, e dicea chiaro che si voleva salvare il lacchè, per non compromettere la riputazione del conte F..., fu per il momento placata dal decreto del Senato, di che tosto gli eccellentissimi membri, al cui orecchio eran giunte le pubbliche querele, fecero divulgar la notizia. E per quel giorno e pel successivo tutta la città di Milano non s'interessò che a quell'unico tema della tortura del Galantino e della morte del conte F...
Il giorno 3 giugno la piazza Borromeo era tutta gremita di popolo, chè si celebrarono le solenni esequie del defunto nella chiesa di Santa Maria Podone, sulla cui facciata, tutta coperta a nero e ad oro, si leggeva il seguente cartellone sormontato dalla corona e incorniciato dagli stemmi:


comiti a… f…
eq. hierosol
pio munifico
charitate in egenos ex corde
domesticam gerenti felicitatem
excesso anno lv
ætatis suæ
filius comes albericus moerens
fidelium preces poscit


Due giorni dopo, al costituito Andrea Suardi, chiamato a nuovo esame, venne intimato si risolvesse a dire la verità, altrimenti verrebbe messo alla corda, così portando la determinazione dell'eccellentissimo Senato, pel concorso di molte circostanze atte a formare indizio; segnatamente per le deposizioni del Barisone Cipriano, confermate con giuramento. Nel rescritto del Senato era stato ingiunto al capitano di giustizia di far adempire al secondo testimonio l'atto formale del giuramento prima d'esaminar di nuovo il costituito.
Questi, che nel confronto col Barisone avea creduto di essere riuscito a togliere ogni forza alle di lui deposizioni; che, per soprappiù, stando in prigione e tastando gli sbirri e mettendo insieme le sparse parole che loro eran cadute di bocca, come chi si affanna di riunire i minuti pezzetti di un foglio lacerato, era riuscito a sapere che il conte F... era morto, e però erasi lasciato andare alle più allegre speranze; rimase come sbalordito a quegli inattesi propositi del giudice; e lo sbalordimento fu di tal natura, da preparar la via ad una susseguente indignazione, anzi ad una esasperazione così aperta e dichiarata, che potea benissimo parer quella di un innocente calunniato. Le parole pertanto che rispose al giudice furono quelle della collera che non ha nè ritegno nè riguardi; e questa volta non già pel calcolo consueto del suo ingegno lungoveggente e scaltro, ma per l'accensione spontanea del sentimento offeso. Erasi messo al posto dell'innocente, s'era lusingato d'aver fatto per potersi fermare a quel posto usurpato; di più attendeva a raccogliere il frutto dei suoi calcoli e della sua fortuna, allorchè di punto in bianco e crudissimamente si vide frustrato nella sua aspettazione; l'ira sua doveva dunque essere naturale e spontanea.
Se un ladro giunge a involare con fortuna una somma di denaro, e avendola nascosta in luogo da lui creduto sicuro, allorchè va per riprenderla non la trova più, il dolore ch'ei ne prova, è simile in tutto a quello del legittimo proprietario stato derubato. E così nè più nè meno avvenne del Galantino al cospetto dell'accusa e del giudice; egli sentì ed espresse tutti i fenomeni dell'innocenza oltraggiata; li sentì anzi e li espresse in modo che il capitano di giustizia ne fu colpito.
Il marchese Recalcati, d'indole mite, aveva avversione a quella barbara eredità del diritto romano, la tortura; tanto è ciò vero che al Suardi la volle decretata dal Senato, mentre egli stesso avrebbe potuto infliggerla; e qui, di passaggio, dobbiamo notare, che la maggior parte dei giudici del suo tempo che avevan viscere, avevano cominciato a detestarla. Viveva essa gli ultimi anni, a dir così, della sua vita feroce, e lo spirito pubblico, senza dichiararlo manifestamente, le s'era rivoltato contro, a preparare e ad accelerare quella morte che le doveva poi venire dal colpo meditato e risoluto di un grand'uomo.
I medesimi sostenitori d'essa, a forza di commentarla e confortarla e mostrarne la validità, facendo passare e ripassare innanzi alla mente degli ascoltatori non propensi, nei momenti più caldi della disputa, la lettera del diritto romano e quella dello statutario e quella dei criminalisti, avean fatte balenare molte verità che dimostrarono la fallacia; verità inchiuse in quegli articoli medesimi stati scritti per darle vigore.
Molte volte il senator Gabriele Verri, che era un partigiano della tortura, aveva detto e ripetuto in Senato quel titolo cospicuo del Digesto, dove è parlato della fragilità e del pericolo della tortura; esso lo aveva ripetuto perchè, avendo fede in quel mezzo, pretendeva che si adempissero tutti i suoi preliminari con rigore di scrupolo; persuaso com'egli era, che, adempiendo con esattezza a tutti i dettami della legge, prima di decretar la tortura, questa non poteva infliggersi che al veramente reo, la cui ostinazione poi era presumibile potesse domarsi solo coi tormenti. L'uomo dialettico e preoccupato, correndo con precipitazione alle conseguenze ultime, non aveva mai saputo fermarsi un momento di più su quel titolo, ch'ei non adduceva che per provare la necessità dell'esattezza aritmetica nel raccogliere indizj; ma che, in realtà, inchiudeva già tutta quanta la condanna della tortura nel punto stesso che le dava sanzione; bensì vi s'erano fermati gli uomini meno preoccupati e meno oppressi dal cumulo della dottrina e più illuminati dal raggio del sentimento, e ne eran rimasti colpiti, e tra questi il marchese Recalcati appunto, il quale, per consueto, andava sempre a rilento e come di malavoglia quando trattavasi di ministrare la tortura.
Se dunque stette perplesso e quasi pauroso di quanto egli stesso aveva fatto allorchè sentì prorompere il Galantino con tanta sincerità di sdegno, è facile a comprendersi. Se non che, a confortarlo ne' suoi dubbj e nelle sue ansie, entrò qualche momento dopo nella sala stessa degli interrogatorj il senator Morosini; colui che propugnava la tortura, non per una convinzione scientifica al pari di Gabriele Verri, nè per considerarla una fatale necessità della procedura criminale, ma per una di quelle arcane voluttà della mente, anzi del senso viziato, che pur talvolta si riscontrano in individui non affatto pervertiti e talvolta, come nel caso nostro, persino onesti; una di quelle arcane voluttà onde si spiega il fenomeno di qualche fanciullo che si gode a denudar la farfalla delle sue ali, o a spennare il pulcino vivo, o a percuotere fieramente in sull'aja il pollo in fuga. Tale era il senator Morosini. Egli veniva in carrozza al palazzo del Capitano di giustizia ogni qualvolta trattavasi di qualche bel caso di tortura. Compiacevasi a far egli stesso le parti d'auditore e d'attuaro, abilissimo come era a gettar scaltre insidie negli interrogatorj; più abile a farle riuscire, accennando agli stessi aguzzini i modi dell'atroce arte loro; press'a poco al pari di un maestro di musica (ci fa ribrezzo l'apatica e spietata similitudine, ma un carattere dev'essere messo a nudo tutto quanto), al pari dunque di un maestro compositore che all'orchestra imponga e faccia sentire gli accelerati e i rallentati. E tanto dilettavasi quel senatore di sì feroce passatempo, che si faceva portar la cioccolata, già lo abbiam detto, nelle aule medesime del capitano, e l'assorbiva lentamente dove s'interrogava, dove davasi la corda.
Quando il senator Morosini entrò, tutti, compreso l'illustrissimo signor capitano, si alzarono; ed egli, nella seggiola che gli fu messa innanzi, si calò, a dir così, con quella pesantezza convenzionale che quasi sempre affettano gli uomini costituiti in una gran carica, anche allorquando non hanno a portare nè il peso degli anni nè quello dell'adipe. Si assise dunque, e nel punto che dal panciotto cavò la scatola d'oro, tutta a figure ed ornamenti in rilievo e a smalto, e porse il tabacco all'illustrissimo signor capitano:
— È il lacchè? domandò; e al cenno del marchese Recalcati non rispose che caricando a più riprese di rapato vecchio le ampie narici di un naso abbastanza senatoriale.
Il Galantino intanto s'era fatto tranquillo, squadrando solo il nuovo venuto (che non era in toga, ma in giubba rosso fuoco gallonata, e panciotto di teletta d'oro) con certe occhiate fra l'iracondo e il beffardo, che parea dicesse:
— Oh se fossimo noi due a quattr'occhi, non so come l'andrebbe, caro nasone, con quella carta d'oro che hai sulla trippa, eccellente per avvolgere il mandolato di Cremona!
Ma l'attuaro, come tutto tacque e il senatore ebbe rimessa la scatola nell'ampia saccoccia del panciotto:
— Ancora dunque, così parlò al Galantino, vi esorto a dire la verità; e a risparmiarci il dolore di dovervi far mettere alla corda.
— Quello che ho detto ripeterò sempre, rispose il costituito, perchè è la pura verità, e sfido qualunque prepotenza a farmi dire quello che non è.
— Prepotenza di chi? domandò blandamente il senatore, sebbene fosse per indole focoso.
— Di chi ha la forza, e l'adopera per tormentare chi non l'ha.
— Ma che ostinazione è la vostra, soggiunse allora con lentezza quasi soave il senatore, di non voler confessare quel che manifestamente risulta dai fatti e dalle deposizioni di testimoni giurati?
— Che cosa risulta? vostra signoria illustrissima mi illumini, perchè da quello che io so e ho l'obbligo di sapere non risulta nulla, nulla affatto contro di me, e sino ad ora non sono che la vittima di una maledetta calunnia. Io sono accusato d'aver rubate delle carte al marchese F... ma chi può asserirlo? chi m'ha visto a rubarle?... Dove sono questi pretesi testimonj?
— Se qualcuno v'avesse veduto, caro mio, non farebbe bisogno di mettervi alla tortura. Sareste condannato addirittura come convinto. Ma voi avete detto una bugia... asserendo di trovarvi altrove nella notte del furto mentre eravate a Milano. Però se avete negato questa verità secondaria, vuol dire che avevate interesse a negarla… Dunque se si procede oltre, è perchè colla vostra ostinazione voi stesso comandate la severità alla giustizia.
— Io ero a Venezia otto giorni prima della settimana grassa, e ripeto che chi dice di no è un bugiardo infame.
— E questo è quel che si vedrà, soggiunse l'attuaro.
Allora il senator Morosini parlò sottovoce al capitano. Questi si alzò. L'attuaro fece un cenno ai due sbirri che stavano dietro le spalle del Galantino; ed essi, presolo per le braccia, lo trassero fuori di quella sala per condurlo nella vicina, dove soleva darsi la corda. Il senator Morosini, il capitano, gli altri entrarono anch'essi in quel tristo camerone, e si posero a sedere, rinnovando in prima l'attuaro al Galantino l'esortazione di dire la verità, poscia accennando agli sbirri di fare il loro dovere.
Questi, avendolo pigliato di sorpresa, gli levarono il vestito e il panciotto, e l'afferrarono per le braccia, traendolo presso la corda che pendeva dalla carrucola.
Il volto del Galantino che, siccome dicemmo, s'era da qualche tempo fatto pallido, si caricò allora improvvisamente di un rosso cupo che gl'invase la fronte e gli orecchi; e l'occhio, naturalmente bieco e serpentino, vibrò sugli sbirri uno sguardo così infuocato di furore, che fece un'impressione strana sugli astanti; poscia, flessuoso e forte come un leopardo, diede uno squasso irresistibile ai manigoldi, avventando loro bestemmie a furia. Per un istante fuggevolissimo ei si tenne disciolto, ma i manigoldi lo ripresero e, ad un cenno dell'attuaro, altri due sorvennero ad ajutare i primi. Ned egli perciò si ristava dal dare squassi formidabili. La camicia, slacciata e laceratasi in que' forti sbattimenti, metteva a nudo collo, petto, braccia. La chioma, sollevata e scomposta e gettata or da un lato or dall'altro della testa in movimento assiduo, or copriva or lasciavagli scoperto il viso. L'animale uomo non comparve mai così bello, così sfolgorante, così formidabile nella sua giovinezza come in quel punto. Nella pelle e nella tinta v'era la delicatezza di una fanciulla; nelle forme, ne' muscoli, nelle proporzioni perfettissime l'aitanza di un gladiatore giovinetto. Il medesimo senator Morosini, rivoltosi al capitano, non si potè trattener dall'esclamare: — Che bel ragazzo!
Ma il bel ragazzo fu incontanente tratto in alto come un fascio di fieno; e un gemito ferino che sordamente gli muggì in gola, perchè una volontà di ferro avea tentato di trattenerlo, accusò il dolor fisico derivatogli dalle braccia squassate.
Così sospeso per aria, all'attuaro che gli ripeteva se risolvevasi a dire la verità:
— La verità l'ho detta, rispose, anzi urlò.
Il senator Morosini suggerì allora ai quattro manigoldi di alzare la vittima più presso la carrucola, e accompagnò le parole caricando di nuovo le nari di rapato, e scuotendo colla punta del pollice e dell'indice la cadente polvere dalle ampie lattughe di pizzo di Fiandra della camicia, asperse di oscura goccia.
Rialzato così il Galantino, potè sentirsi lo stridere della carrucola e il fruscìo della corda; non però un lamento di lui, che, alla sempre uguale domanda rinnovatagli, rispose sempre le stesse parole.
A tal punto, per ingiunzione del capitano, venne calato giù. Sotto al labbro inferiore del Galantino i giudici videro una striscia rossa. A respingere il dolore col dolore s'era ficcati i denti superiori nel labbro inferiore, al punto di farne sprizzar vivo sangue.
Allora venne di nuovo ammonito con mitissimo linguaggio dal marchese Recalcati, il quale gli mise innanzi il pericolo che, per la sua ostinazione, si sarebbe dovuto passare alla tortura grave col canape; ma di nuovo rispose il Galantino che, giacchè essi volevano sapere la verità, questa l'aveva già detta; e nemmeno abbruciandolo a fuoco lento, sarebbero riusciti a fargli dir la bugia. Nè il capitano avrebbe insistito più oltre; ma il senatore Morosini lo interrogò di nuovo, e di nuovo lo fece mettere alla corda, sempre però infruttuosamente; laonde quando il Galantino fu rimandato in prigione, il capitano e l'attuaro e gli auditori espressero il dubbio che il costituito potesse per avventura essere innocente.
— È giovane e forte, forte di corpo e d'animo, disse il senator Morosini. La tortura semplice non basta. Vedrete che confesserà tutto alla tortura grave.
E al Senato fu spedita relazione del fatto, con interpellanza se si dovesse passare alla tortura grave appunto.
Ma il senatore Gabriele Verri parlò e parlò forte e mostrò come tutti gli interpreti andassero d'accordo nel proibire di passare alla tortura grave, se non fossero sopravvenuti altri indizj; onde, per mancanza di essi, la giustizia dovette accontentarsi del risultato della prima tortura.
E qui ci conviene tagliar crudelmente il filo del racconto, e dare un addio all'anno 1750; perchè un altro periodo, secondo noi, abbastanza curioso della storia della città nostra, c'intima di affrettarci, essendo ben lungo il còmpito che ci siamo assunto.

LIBRO SESTO


Gli attori del secondo atto. — I due mondi. — Il Galantino. — Gli appalti delle Regalìe. — Ferma generale. — I fermieri Greppi, Pezzolio, Rotigno, Mellerio. — Strana risoluzione del popolo milanese. — La contrada delle Quattro ganasce. — Editto del 7 aprile 1766. — Il tabacco di contrabbando e la beltà adolescente. — Il monastero di S. Filippo.



I


Sono trascorsi sedici anni. Saltano fanciulli e parlano adolescenti di cui i genitori nel 1750 o non si conoscevan tra loro affatto, o non sapevano di dover diventare marito e moglie, o i loro nomi non erano stati ancor gridati da nessuna balaustra di altar maggiore; son giovinotti maturi quelli che alla metà del secolo, non avendo che venti anni, eran chiamati fanciulli dai giovinotti maturi del loro tempo. Le belle donne che, allora nella canicola dei venticinque anni, facevano girar la testa a chi le avvicinava, ora hanno varcato il quarantesimo anno, e qualche ruga incipiente ha fatto cadere, a loro dispetto, il termometro fin quasi a zero; e non osano più sfidare le lucide e bianche mattine, e molto meno il perfido sole di mezzogiorno, ma amano di preferenza le luci artificiali, modificate dalle seriche cortine piuttosto color rosso o rosa o violaceo, che gialle e verdi; e, se escono a passeggi sollazzevoli, benedicono gli smorenti crepuscoli, incaricati di gettare una benefica confusione tra i confini che dividono la gioventù dalla maturanza! E chi era maturo ora è vecchio e chi vecchio è decrepito: l'avvocato Agudio, per esempio, non può più recarsi nemmeno in carrozza nè in lettiga al collegio dei giureconsulti, e, obbligato al letto dal femore cronicamente offeso, serba però ancora lucidissima la mente e inesauribile la dottrina legale, e dà consulti a chi ne vuole. Il dottor Bernardino Moscati si fa ajutare dal figlio Pietro e il giovinetto Giambattista Paletta lascia la giurisprudenza per la chirurgia superiore. Il pittor Londonio ha sparpagliato per tutta Lombardia una popolazione di vacche e buoi e asini e capre con tanta verità e in tale quantità, da essere chiamato in questo genere il primo pittore del suo tempo. Pietro Verri non è più il destituito patrocinatore dei carcerati, ma un ex-ufficiale ripatriato, e, da cinque mesi, consigliere del consiglio supremo d'economia; e Beccaria non è più fanciullo, ma un giovane di trent'anni, già rinomato in tutt'Italia e in tutt'Europa per un libro che fu alla scienza del diritto quello che molti anni dopo fu la pila di Volta alle scienze fisiche. E giacchè l'accennare a questo libro, insieme col libro ci fa uscire da Milano e dall'Italia, voglia ricordarsi il lettore che poco oltre la metà dei tre lustri decorsi erasi pubblicata a Parigi l'Enciclopedia, a gettare in tutto il mondo un filo di congiunzione e di fratellanza tra tutti gli uomini del pensiero, quel pensiero che irretì e dominò e generò poi l'azione. Federico II aveva fatto le sue grandi prove di valore nella guerra de' sette anni; ma la preponderanza del pensiero cominciava ad essere così invadente, che il re soldato pareva spesse volte un suddito al cospetto dell'ironia dissolvente di Voltaire, il Mefistofele in carne ed ossa, al cui confronto impallidisce e si dilegua il postumo ideale del poeta di Weimar. E il genio del sentimento, intinto di pazzia e armato di sofisma, aveva già dettato a Rousseau tutti i suoi capolavori e il Contratto sociale, in cui stava il germe di Robespierre e la profezia della rivoluzione francese; ed era morto papa Lambertini, l'epigrammatica sapienza, ed eragli successo colui che doveva essere perpetuato dal genio di Canova; e giacchè la chiesa ci allarga a tutto il mondo, voglia ricordarsi il lettore, per farsi un'idea del colore e della densità dell'atmosfera ond'è tutt'all'intorno vastamente circondata la nostra piccola sfera drammatica, voglia ricordarsi che, nel frattempo da noi saltato, l'Inghilterra aveva già fondata la sua compagnia nelle Indie, e cercato di sottrarre le mogli indiane al rogo volontario, e i fanatici al carro di Jaggernath; mentre Spagna aveva ordinato il battesimo ai Cinesi delle Manille, quasi nel tempo stesso che scopriva il nuovo Messico ed ordinava il censimento delle Filippine; e voglia ricordarsi che Caterina II era successa a Pietro III sul trono di Russia, ed erasi fatta la pace tra la Svezia, la Prussia e la Russia; e un'altra ne facevano Austria, Prussia e Sassonia, e un'altra ancora Inghilterra, Francia e Spagna; e a proposito di Spagna e Francia, i gesuiti della seconda avean deposto l'abito regolare, mentre quelli della prima erano stati mandati per mare nelle terre del papa; che nell'anno anteriore a quello a cui ci troviamo oggi colla nostra storia, cominciò l'insurrezione delle Colonie Inglesi nell'America settentrionale quando appunto era uscita l'opera Dei Delitti e delle Pene. Due fatti che non hanno in apparenza parentela nessuna, ma che pure, in così diverso modo, vengono a mostrare la scienza dell'uomo solitario e l'istinto delle moltitudini, anelanti alla riconquista del diritto razionale e naturale. Ma se il nome di Beccaria ci fece uscir da Milano, ora con lui dalle lontane regioni dei due mondi, colla velocità quasi della luce, rivoliamo in casa nostra, a tener dietro ai personaggi a noi già famigliari, che cangiarono età, aspetto, condizione, fortuna; e a far la conoscenza dei nuovi, per dominare così gli atteggiamenti di due generazioni.
Ed ora si ripigli il filo del quale abbiam reciso un capo.
È probabile che taluno dei più fantasiosi tra i nostri lettori qualche volta abbia pensato, come sarebbe vario e bizzarro e proficuo, se fosse possibile, lo spettacolo che si presenterebbe a chi avesse facoltà in un dato punto di simultaneamente girar l'occhio e penetrare nell'interno di più luoghi e di più dimore, ad assistere dall'alto alla varietà delle scene e delle azioni di molti uomini intenti a disparate cose in uno stesso momento. Tale spettacolo, che è e fu sempre un assurdo impossibile se non nelle ballate nordiche o nelle leggende del medio evo, noi vogliamo presentarlo a' nostri lettori oggi, senza essere maghi e senz'avere nessuna scopa ai nostri comandi; e questo ne giova, perchè sorprendendo alcuni de' nostri personaggi di antica conoscenza e alcuni de' personaggi nuovi in quell'attitudine onde ci si mostreranno, vedremo, senza perder tempo, che intenzioni hanno e da che punto prendon le mosse, e a che accennino.
Collochiamoci dunque in alto, e volgiamo l'occhio ad osservare le molteplici macchiette delle figure che stanno e s'agitano e formicolano al basso.
Gettiamo lo sguardo nella camera di ricevimento di donna Paola, e la vedremo impegnata in un dialogo seriissimo con una dama, dell'età press'a poco come la sua, e che è la contessa Arese, conservatrice del monastero di san Filippo Neri.
E se dopo gli occhi, vogliamo far lavorare gli orecchi, ecco quel che al lettore potrà giovare per conoscere di che si tratta. Così dunque sta parlando la contessa Arese:
— Io ho creduto bene, donna Paola, di renderla avvisata di questa grave circostanza. La fanciulla è troppo bella, vivace e troppo ardente, perchè la si possa trattenere più oltre in mezzo alle altre educande, e tanto più con quell'inconveniente che le ho detto. D'altra parte, proibirle di passeggiare in giardino insieme colle sue compagne, prendere per lei misure particolari, sarebbe un gettare lo scandalo nel convento, sarebbe mettere in allarme tutti i parenti delle fanciulle... Giacchè dunque la ragazza è già per varcare i quindici anni, io sarei di parere che vostra signoria, nella sua saviezza, la levasse di là, e la tenesse qui sotto ai suoi occhi.
— La ringrazio, contessa, dell'avviso e del consiglio, risponde donna Paola; ma non è cosa che si possa fare con precipitazione. Se colui, ch'ella dice, ha fatto acquisto della casa e del giardino contiguo al convento con manifesta intenzione di gettare insidie alla ragazza, mi pare che all'amministrazione del convento, pel pericolo a cui potrebbero essere esposte tutte le monache e le educande in conseguenza di questa comunicazione immediata coll'altrui dimora, potrebbe far murare una cinta ed isolare il monastero affatto. Io stessa ne farà parola... Intanto, domani che è giovedì, parlerò alla ragazza; sentirò, e vedrò poi, di pieno accordo colla signoria vostra, quello che si dovrà fare.
Ma in questo punto, in cui la nobile conservatrice del monastero di san Filippo sta parlando con donna Paola, noi, girando l'occhio e facendolo penetrare entro al monastero stesso, possiamo vedere una fanciulla trattenersi nel dormitorio, mentre le sue compagne educande ne escono a coppie; indugiarsi un momento davanti uno specchio, accarezzarsi le chiome quasi a migliorare la gretta acconciatura del convento, levarsi il grembialetto di levantina nera, assottigliarsi la vita stringendo la cintura oltre il punto voluto dalla governante del dormitorio; e, fatto questo, accostarsi al proprio letto, tirar la stringa della fodera del guanciale, levarne un gelsomino appassito, odorarlo, con una inspirazione lenta, estatica, voluttuosa, che finisce in un lungo sospiro; poi rimetterlo di furto, guardandosi in torno, sotto la copertina del guanciale, e con passo lieve lieve e quasi trasvolante uscir dal dormitorio, discender le scale e farsi colle compagne, baciando sulla guancia la prima che le si fa incontro, ma con un trasporto e con un atto così particolare e curioso, che sembra quasi che, baciando materialmente quella faccia, coll'intelletto del senso ne baci un'altra.
Tentare di tradurre al vivo il profumo incantevole, la vaghezza, diremo, trasparente, ma che parrebbe voler dissimulare i tratti più risentiti di quell'adolescente beltà; rendere quella grazia lieve e quasi fuggitiva e che lascia indovinare come, scorrendo qualche lustro, ella potrebbe forse ritrarsi per lasciar luogo a forme più compiute, più sode, più solenni; tentare adunque di tradurre ciò in sembianza di verità viva, è impossibile. Anche ai pittori è malagevole più che mai il far ritratto della beltà femminile adolescente; forse perchè presenta il fenomeno d'un'assidua ineguaglianza.
Ma nel punto che questo lavoro ineffabile della natura artefice bacia il volto della fanciulla compagna, lungi da Milano, a Bologna, in una delle aule assegnate alla facoltà matematica, la laureata contessa Clelia V..., seduta nella cattedra, sta leggendo ad un uditorio di trentacinque giovani studenti le seguenti parole:
«Galilæus ad Magni Verulamii votum deterso scholarum situ veterum geometrarum severitate ratiocinari homines edocuit, et quadam veluti expeditione in lunam, venerem, solem, jovem, et fixas usque feliciter absoluta, ad reformandam physicam et mechanicam delapsus genuina principia aperuit, quibus problemata motus omnia expedirentur, ecc.»
E intanto che la laureata contessa sta recitando la sua prolusione, a Monaco, nella casa vicina al teatro, il tenore Amorevoli, in variopinta veste da camera, sta scorrendo questo brano di lettera del signor Bruni, marito della signora Gaudenzi, il quale brano dice così:
«Lasciando per ora il discorso della mia Gaudenzi, che ha fatto furore a Napoli, quantunque, per verità, non sia più giovane, vi dirò che essendo io venuto a Milano per trattare con questi signori interessati all'appalto del regio Ducale Teatro la scrittura di mia moglie pel prossimo carnevale 1766 67, ho raccolte le notizie che m'avete raccomandato. La fanciulla è tra le educande del monastero di san Filippo Neri, e porta il nome del conte V..., e come tale anzi fu collocata colà; il conte che vive ancora qui, ha fatto causa per declinare la legittimità di detta sua figliuola... La causa dura da quindici anni, avendo il conte rinnovata la lite più volte per essergli sorvenuti sempre nuovi documenti e testimonianze da persone di Milano e di Venezia. Ma il Senato ha rigettato le sue domande ed ha pronunciato sentenza contraria, dichiarando sua figlia legittima quella che voi sapete, e avente per conseguenza pieno diritto al nome del casato del conte, all'eredità, alla successione.»
Scorsa la qual lettera, il tenore non fa altro che sorridere e dalla poltrona passare alla spinetta a ripetere de' vocalizzi per tenere in esercizio la sua trachea oramai di quarantadue anni.
E dalla casa attigua al teatro di Monaco, piegando ancora l'ala dell'occhio verso Milano, e fermandola al disopra di una casa in contrada di Pantano, dopo aver percorsa una fuga di stanze a pianterreno, in ciascuna delle quali stanno seduti giovani scrivani col capo chino su grossi libri maestri, vediamo in un salotto un bellissimo giovane di trentacinque anni, vestito riccamente, ovverosia vediamo il signor Andrea Suardi, detto il Galantino, ora banchiere, successore al signor Rocco Rotigno, quale altro degli impresari della Ferma generale del sale, del tabacco e delle mercanzie del ducato di Milano, intento a dir queste parole ad un suo commesso:
— In forza dell'articolo ottavo della grida del 7 aprile di quest'anno, farete oggi, anche per ordine del presidente camerale, come appare da questo foglio che terrete con voi, una rigorosa perquisizione nel monastero di san Filippo Neri, dove sappiamo essersi nascosta una gran quantità di tabacco di Spagna. Nel fare tale perquisizione, trattandosi d'un luogo privilegiato e godente del sacro asilo, per vostra norma vi farete leggere prima dal capo dello studio il disposto nell'ultimo concordato colla santa sede.
Licenziato il qual commesso, il nostro ex lacchè tira il campanello, e al servo gallonato che gli compare innanzi:
— Fa mettere la sella al cavallo, dice, che voglio uscire a fare una galoppata.
E una galoppata in questo medesimo istante la sta facendo un giovane di ventisette anni, il quale chi ha veduto il ritratto di Shelley, il fantastico amico di Byron, è costretto a dire che gli somiglia in tutto e per tutto.
E di fatto il giovane è figlio di padre inglese, ossia è lord Guglielmo Crall, ossia è il figlio maggiore di donna Paola Pietra. E il giovine caccia il cavallo a furia, avendo probabilmente per isprone e per iscudiscio un pensiero che lo esalta, e dopo aver fatto il giro di tutte le mura della città, se ne vien giù per porta Romana, e d'una in altra via, fa sentire lo scalpito suonante del suo cavallo nella contrada Nuova, dov'era situato il monastero di san Filippo, e nella quale, venendo dal naviglio di porta Tosa, entra, pur galoppando, il signor Andrea Suardi, incontrandosi in lord Crall appunto, e voltando subito dopo nella porta d'una casa.
Ed ora che abbiam fatto sfilare la maggior parte degli attori del secondo atto, imitando i direttori delle compagnie equestri che, allorchè danno spettacoli nell'arena, prima d'incominciare fanno caracollare in giro i così detti artisti che devono prodursi sulla corda, sui cavalli e sulle bighe; ora dunque, previe alcune spiegazioni troppo necessarie al lettore, per comprendere talune inaspettate trasformazioni, stiamo attendendo quel che sarà per succedere, giacchè pare che il celebre sestetto della Cenerentola — O che nodo avviluppato — sia stato scritto espressamente dal maestrone per essere poi applicato come epigrafe al nostro libro.



II


E intanto ci rimetteremo in compagnia del sig. Andrea Suardi che fu l'ultimo rimasto sul palco scenico. Il lettore, dopo aver lasciato costui nelle stanze del Capitano di Giustizia, in una condizione tanto prossima alla berlina, avrà fatto le maraviglie nel vederlo, sedici anni dopo, libero e sano e più bello di prima, e colle apparenze della ricchezza, e avente un servitore coi galloni al proprio servizio, e un cavallo da sella per le passeggiate di diporto. Ma la fortuna e il diavolo, in tutti i tempi, han sempre dato il braccio a' furfanti.
Ed ora è probabile che il lettore si lamenti dell'aver noi troncato il processo del nostro eroe. Però, a confortarlo, lo consigliamo a pensare alla noja che avrebbe dovuto subire se avessimo riprodotto qui tutto quello che fu scritto dagli attuari e dagli auditori del criminale dopo l'ultimo tratto di corda dato al costituito lacchè; lo preghiamo a considerare che, da tanta carta e tanto inchiostro il solo fatto importante che ne risulta, è che, non essendo sorvenuti nuovi indizj, si dovette desistere dalla tortura grave; e che dopo sei mesi di indagini, requisizioni, interpellanze, di esami fatti a gentiluomini, servi, camerieri, ecc., non essendo saltato fuori neppure un appiglio importante a danno del costituito, esposta in ultimo ogni cosa al Senato, questo sentenziò che il reo convenuto Andrea Suardi, detto il Galantino, dovesse rimandarsi in libertà, mancando le prove reali del delitto ond'era stato imputato.
Il Suardi, appena uscito dalle carceri del Capitano, dal quale gli furon consegnati i chirografi del denaro che esso aveva depositato sul banco di San Marco a Venezia, non pensò che ad abboccarsi col signor Rotigno, agente della casa F...
Dopo la morte del conte, che nel testamento gli ebbe assegnato un legato di milanesi lire 200 mila, l'ex-agente avea abbandonato la casa F..., e si era congiunto al suo fratello Rocco per intraprese commerciali.
Ora si venne maturando un fatto pubblico che diede poi un avviamento speciale e curioso ai fatti privati. In quell'anno medesimo 1750, anno fatale a quelle persone di cui abbiamo fatto la conoscenza, il generale Pallavicini, ministro plenipotenziario a Milano, come sa il lettore, abolì i separati appalti delle regalie del sale, del tabacco, della polvere, ecc., e formò la così detta Ferma generale, riunendo tutte le suddette regalie in un sol corpo, ed affidandole ad una società costituita in prima da tre Bergamaschi, quali erano Antonio Greppi, Giuseppe Pezzolio e il detto Rocco Rotigno, a' quali in seguito si aggiunsero Giacomo Mellerio di val Vegezzo, Francesco Antonio Bettinelli, cremonese, ed altri, fra cui il fratello di Rocco Rotigno.
Premessa questa notizia, e tornando ai nostri personaggi, se il Galantino, appena uscito di prigione, pensò all'agente di casa F...; questi non era mai stato un giorno solo senza pensare al detenuto, chiara ragione che dalle risultanze del processo dipendevano quasi immediatamente le condizioni della sua vita. Ben è vero che, appena venne in possesso della somma legatagli dal conte F..., domandò licenza all'erede di ritirarsi dall'amministrazione della casa, accusando il desiderio di voler ridursi a vivere a Bergamo, presso il fratello Rocco, che vi teneva commercio di seta; ma in realtà per trovarsi lontano dal ducato di Milano, di cui fin che gli pendeva sul capo la spada di Damocle, gli bruciava sotto il terreno.
Ma un dì gli giunse la notizia che il lacchè Suardi era stato rimesso in libertà per mancanza di prove legali, e per avere, anche sotto la duplice prova della tortura semplice, costantemente respinta ogni accusa. Il Rotigno respirò, com'è ben naturale, e per tal fatto gli si mise una tale bonarietà nel sangue e s'atteggiò a tanta condiscendenza, che quando il fratello Rocco, che spendeva più di quello che guadagnava e che trovavasi in qualche disordine commerciale, gli propose d'entrare secolui in una impresa, che doveva essere lucrosissima, purchè egli fosse disposto ad esporre alla fortuna la metà almeno de' suoi capitali, egli vi annuì senz'altro.
Codesta impresa così vantaggiosa era appunto l'accessione che egli, il Rotigno, come altro de' socj, doveva fare alla Ferma generale del tabacco, sale e merci, ecc., istituita dal conte Pallavicini. L'anno 1750 era in sullo scorcio quando i tre fermieri generali Greppi, Pezzolio e Rotigno vennero a trattare i patti col ministro plenipotenziario. Entrava l'anno 1751 quando i loro nomi furono pubblicati quali assuntori dell'impresa. E in quel torno appunto il Suardi s'era, dopo sette mesi di detenzione, trovato sotto il libero cielo.
Questi fermieri, intanto che scadeva il termine imposto dall'abolizione delle regalie, e prima d'entrare, a così dire, in carica, si trovarono aver bisogno d'un gran numero d'impiegati, di commessi, di esattori, ed anche di socj ausiliarj, i quali, congiungendosi ad essi con qualche piccolo capitale, ricevessero da' fermieri principali un salario congruo e una data quota sugli utili annui.
Quando si pensa ai miracoli che sa far la fortuna, allorchè ha fermamente deliberato di prendere alcuno a proteggere, si rimane percossi di maraviglia vedendo come quegli accidenti stessi che per la maggior parte degli uomini sono colpi mortali e ostacoli insormontabili, diventino per i suoi beniamini occasioni di felicissimi avviamenti. E così avvenne del Galantino. Cercato del signor Rotigno, come sentì ch'esso erasi ritirato a Bergamo, andò colà, trovollo senza difficoltà, ebbe lunghi abboccamenti seco; e il fine di questi abboccamenti essendo, per parte del Galantino, quello di riscuotere da lui il residuo della somma di compenso che gli era stata promessa, il Rotigno di necessità lo soddisfece, e per soprappiù, importandogli, come se si trattasse di salvar gli occhi e la vita, di mettere a tacere per sempre quel serpe velenoso da cui, volere o non volere, egli dipendeva; gli propose appunto di entrare come esattore a servizio della Ferma generale, investendo in quella una parte del suo danaro, ond'essere accettato come uno de' soci secondarj.
Il Suardi, alla cui intelligenza balenò tutta l'importanza di quella vasta azienda, accolse il partito, siccome suol dirsi, a bocca baciata, e impiegate nella Ferma lire quindici mila milanesi, entrò in carica quale altro degli esattori. Essendo uscito innocente persin dalla prova della tortura, egli non provò rossore nessuno a tornare a fermar stanza a Milano. D'altra parte, comunque fossero le cose, il pudore era un elemento del tutto straniero alla natura sua. Venne dunque a Milano, si diede al suo ufficio con alacrità insolita e con un'attività, quasi diremmo, febbrile. La spinta prepotente d'ogni suo atto, fin da quando era fanciullo, era sempre stato l'amore del denaro. Venuto pertanto al posto di esattore, fu tanta la sua abilità e scaltrezza nel trovar modo di cavar sangue anche dalle rape, che, mentre riuscì il più pronto e il più efficace degli esattori della Ferma, tanto da recare a questa vantaggio grandissimo; indirettamente, con astuzie speculative che a nessun altro sarebbero venute in pensiero, intascava lautissimamente anche per sè. Col tempo impiegò nella Ferma altre lire ventimila, dalle quali e dalle altre quindicimila ritraeva il cinquanta, il cento per cento. Pietro Verri, in una memoria inedita di cui è riferito un brano dal barone Custodi, parlando dei fermieri, dice che «costoro avevano poco o nulla al mondo, ma affrontarono arditamente la fortuna. Essi pagavano alla Camera cinque milioni all'anno e ne ritraevano di netto prodotto sei milioni e mezzo. Indirettamente poi essi avevano poste tali angarie alla filanda delle sete, che buona parte della raccolta dei bozzoli del paese cadeva nelle loro filande, le quali erano sparse nello Stato, e comparivano col nome di supposti proprietarj.» Avvenne pertanto che, non volendo figurare il Rotigno Rocco quale acquirente di una vastissima filanda di seta, sul confine del Bergamasco, per le ragioni addotte sopra dal Verri, il Suardi ne fosse investito apparentemente; ed anche da ciò, alla sua maniera, ritrasse vantaggi quanti ne volle. Avvenne inoltre che il fratello del Rotigno Rocco venne a morire nel gennajo dell'anno 1752, la qual cosa produsse altre conseguenze vantaggiosissime al Suardi: ed eccone la ragione. L'impresario Rocco, che già era venuto, allorchè attendeva al semplice commercio delle sete, a tristi termini, per la sua abitudine allo spendere più delle entrate; fatto fermiere e, in poco tempo, trovando di poter raccogliere guadagni al di là d'ogni preventivo, erasi dato alla larga vita, al banchettare, al signoreggiare, senza darsi più un pensiero al mondo del governo della casa, perchè di ciò era specialmente incaricato il fratello ex agente, prudente amministratore. Di modo che pare che un giornale di quel tempo, intitolato il Corriere Zoppo, alluda a lui in quel numero del mese di dicembre dell'anno 1753, dove è stampato che i fermieri, oltre i gran profitti che traono, pascono la propria ambizione nel signoreggiare e nel farsi servire alla sovrana da una truppa di commessi.
Mortogli pertanto il fratello, e datosi a sfoggi, a bagordi, a giuochi, a scialacqui, e non avendo più mente per governare il fatto proprio, fece, come suol dirsi, carta bianca al Suardi, di cui quanto le mani fossero fedeli, il lettore lo sa al pari di noi.
Dal 1752 pertanto al 1754, per parte del signor Rocco Rotigno, non fu altro che un guadagno continuo e senza misura e uno spendere in proporzione; e da parte del Suardi, occhio dritto e mano dritta del signor Rocco, non fu altro che un usufruttare il capogiro del suo principale, tanto da far entrare in casa propria, senza che nessuno se ne accorgesse, o almeno senza che se ne accorgesse chi poteva impedire tal fatto, buona parte dei redditi annuali di colui, a non tener conto de' guadagni legittimi, e non legittimi, ch'egli, quale esattore e cointeressato, faceva per se stesso. Questa cuccagna continuò senza interruzione e senza importuni timori sino al mese di agosto del 1754. Ma in questo tempo, il popolo milanese, indignato dalle espilazioni sistematiche della Ferma generale, fece tale risoluzione e la attuò con tale fermezza e concordia di volontà, che le casse dei signori fermieri per qualche tempo ne dovettero sopportare gran danno.
La relazione manoscritta di questo fatto sussiste nella biblioteca di Brera, e fa parte della raccolta di quel monaco Benvenuti di sant'Ambrogio ad Nemus, da cui abbiamo tolta la storia di donna Paola Pietra; e su questa relazione sarebbe stato nostro pensiero di condurre un quadro disegnato e colorito in modo, che il lettore fosse, come a dire, trasportato in mezzo a que' fatti. Ma un istancabile scrittore, molti anni sono, avendo pubblicato gran parte di quella cronaca, non ha lasciato che noi potessimo far cosa nuova. Però ci limiteremo a riassumere i fatti principali di quella relazione stessa con quegli intendimenti che non sono in essa e che non si propose chi la diede in luce; riporteremo poi, sempre riassumendo, quelle parti della cronaca stessa che il suo editore ha creduto bene di omettere, ma che al fatto nostro riescono preziose e caratteristiche. Nell'azione così di un astuto furfante (il Suardi) infaticabile a frodare il danaro pubblico per la protezione d'improvvide leggi, e nella reazione oculata, sapiente, ed ugualmente infaticabile di un generoso e vigoroso intelletto (il Verri) che si propose di difendere la pubblica ricchezza dalla mano rapace di pochi, vedremo un atteggiamento curioso di quel tempo, e la crisi benefica operarsi, come in quasi tutti i membri della società d'allora, così anche in codesta parte della pubblica amministrazione.



III


Più dunque era il guadagno de' fermieri e degli interessati della Ferma, più cresceva in essi, meglio che il desiderio, la libidine del guadagno e la gelosia sospettosa che il pubblico frodasse loro qualche cosa. In quell'anno 1754 erano diventate frequentissime e vessatorie le perquisizioni nelle botteghe, ne' magazzini, nelle case private, persino in quelle delle più cospicue famiglie, persino ne' conventi e nei monasteri, i privilegi de' quali, in faccia alle inesorabili esigenze della Ferma, venivano transitoriamente sospesi dalla sacra Congregazione. L'avarizia e l'auri sacra fames de' fermieri aveva loro consigliato un sistema di prodigalità nella corruzione, vogliamo dire che essi facevano regali così lauti e pesanti ai pochi nelle cui mani stavan le redini principali della cosa pubblica, che questi, interessati indirettamente negli utili, aprivano le mani per star pronti a chiudere gli occhi, e a proteggere gli abusi, le prepotenze e le esorbitanze colla legge e colla forza. A Ferragosto, a Natale, ogni qualvolta era opportuno, si mandavano a coloro che potevano quel che volevano, casse di cioccolata sopraffina di Caracca, i cui pani dovevano far l'ufficio di coprire un sedimento di talleri, o di zecchini, o di oggetti preziosi in oro, in argento, in gemme, a seconda del grado e dell'indole dell'uomo. Una volta tra l'altre — e crediamo sia stata la sola perchè l'occasione e il bisogno fu della massima importanza — un servizio da tavola tutto d'oro, del valore di circa ottantamila ducati, venne avvolto nella bambagia, dissimulato appunto dalla fragranza del cacao, del thè e del caffè; e così spedito al ministro Kaunitz. Nel torbido adunque si pescava chiaro; e il sinedrio dei divoratori sedeva a tavola con formidabili ganascie, mentre i loro commessi entravano dappertutto insolentemente a metter sossopra merci, masserizie, mobiglie, per cercare quel che talvolta non c'era, e spesso per avere l'occasione di metter l'indulgenza a caro prezzo.
Una tale tempesta imperversò, come dicemmo, in quell'anno 1754 più ancora degli anni addietro, al punto da costringere i cittadini a perdere la pazienza.
In poco spazio di tempo, dice il cronista di sant'Ambrogio ad Nemus, la città in ogni ordine di persone si vide tutta contro i fermieri. Non potendo privarsi degli oggetti utili e indispensabili per privare i fermieri del guadagno che ne ritraevano, risolsero di smettere l'uso del tabacco, dal quale appunto ricavava la Ferma il principale provento. Sembra incredibile ma fu vero, continua il cronista, ed in poco più di quattro giorni, tanto nella città capitale che in altre città del Ducato, l'impresa del tabacco rimase quasi del tutto abbandonata. Si bruciarono in piazza mucchi di tabacchiere di legno; quelle d'argento furono mandate in offerta al sepolcro di san Carlo; si stamparono patenti scherzevoli sopra il tabacco, e motti derisorj da mettersi nelle scatole vuote e da inviarsi a chi si fosse pensato di non obbedire al voler generale; si scrissero componimenti poetici, sonetti, scherzi d'ogni sorta che rapidissimamente facevano il giro di tutto il Ducato. All'ingresso dell'Impresa generale del tabacco, situata in Pescheria Vecchia, fu appeso un cartello colle parole cubitali: Bottega d'affittare fuori di tempo; fu gettato un arcolajo tra gli assistenti della Ferma che sedevano in essa bottega, per indicar loro che attendessero a far giù filo, non avendo più occasione di vender tabacco; s'indirizzò da essi una frotta di contadine, venute a Milano per vender filo; di notte s'affiggevano in molte parti della città iscrizioni d'ogni foggia, relative tutte al medesimo oggetto; fu fatta circolare una leggenda erudita contro il tabacco, estratta dalla scuola del Buon Cristiano, stampata nel 1733 dal Marelli; fu diretto un sonetto a sua eccellenza il signor conte don Beltrame Cristiani, capo della Giunta governativa, sostenitore de' fermieri, e mangiatore anch'esso alla buona tavola comune, sebbene, del resto, fosse un egregio ed abile e dotto uomo; le quartine del qual sonetto erano le seguenti:


Il volere arricchir troppo le Imprese
È un vero impoverir tutti i mercanti,
È un voler che Milan fra stenti e pianti
Vada il vitto a cercar fuor del paese.
Manca il danaro e non si guarda a spese
Per arruolare battidori e fanti;
Giuro, se va così, per tutti i santi,
Che Milan diverrà come Varese.


Sulla nuova fabbrica del palazzo dello stesso conte Cristiani in Monforte fu appesa l'iscrizione: Sumptibus Firmaræ generalis; la qual contrada di Monforte, appunto per esservi il palazzo del conte Cristiani, da qualche anno veniva chiamata dal buon popolo milanese: Contrada delle Quattro ganasce, adoperando esso al solito quella satira gioviale che è una qualità caratteristica della sua indole e di cui è tutto quanto condizionato il suo dialetto.
Per sei mesi continuò così la popolazione ad astenersi dal tabacco. Se non che i lamenti essendo stati rivolti anche alla cattiva qualità di quello che si vendeva prima dell'anno 1754, i fermieri cominciarono a introdursi con destrezza tra persona e persona, a donare alcune prove di tabacco veramente perfetto a varie delle più cospicue e nobili case, le quali a poco a poco si arresero. E Andrea Suardi, con insolita scaltrezza, per ricattar l'impresa e ricattar sè stesso del danno passeggiero, propose ai capi della Ferma, al fine di rimuovere il popolo milanese dalla risoluzione di non prender tabacco, di farlo venire da altrove, per qualche tempo, come se fosse di contrabbando.
Ed egli s'impegnò di governare il nuovo stratagemma, e di vincere la universale fermezza coll'inganno. Di tal modo l'astuto ottenne di gabbare e la popolazione e la stessa Ferma; chè l'una e l'altra, prese come furono all'amo, lavorarono a tutto suo vantaggio. Ed ecco in qual modo.
Da molto tempo egli erasi accorto del quanto avrebbe guadagnato chi si fosse posto a capo di un vasto contrabbando, mettendo in lizza l'odio che la popolazione avea contro la Ferma; ma un tale assunto, oltre che era pericolosissimo per chicchessia, a lui riusciva impossibile, impegnato com'era colla ferma stessa; perchè necessariamente avrebber dovuto dar nell'occhio le sue pratiche coi capi dei contrabbandieri di confine, detti volgarmente spalloni. Quando pertanto gli parve che il contrabbando poteva servire a far credere al popolo che a prender tabacco frodato si perdurava nella dimostrazione contro i fermieri, e che ciò intanto veniva opportunissimo a far ripigliare un'usanza, che, per puntiglio, potea facilmente andare in dissuetudine, egli lo propose ai capi, a cui il nuovo trovato parve una scoperta mirabile. Il Suardi in tal modo, sotto gli occhi e per volontà degli stessi fermieri, si mise in relazione coi così detti spalloni di confine, relazione che non abbandonò più, anche allorquando, dopo un anno, ogni cosa tornò alla condizione primiera; per il che e da una parte e dall'altra i guadagni fioccarono nella sua cassa.
Mandava inesorabilmente i suoi fanti a sequestrare nei magazzini e nelle botteghe il tabacco e le altre mercanzie di contrabbando; ed era spesso quel tabacco ed eran quelle mercanzie stesse de' cui contrabbandi egli era il manutengolo supremo. Così era pagato lautamente dai capi della Ferma, e nel tempo stesso era ringraziato dagli spalloni che guadagnavano per lui e con lui. Faceva da Giasone e facea da Medea, facea da Paride e Menelao. Tanto il diavolo poteva parere un semplicione al suo confronto.



IV


Rimessasi la popolazione milanese in tranquillità, sbolliti gli odj, almeno in apparenza, ricomprate le tabacchiere, riscossi i nasi dal semestrale riposo, i signori fermieri e compagnia tornarono ad assidersi a tavola coll'appetito accresciuto e coi pilori instancabili, e più il tempo fuggiva dal temuto agosto del 54, più si facevano imperterriti alle espilazioni ed alle vessazioni. La miniera dell'oro e dell'argento a loro medesimi pareva così esorbitantemente ricca, che pel timore che da un giorno all'altro loro potesse mai venir tolta, facevano in fretta e in furia, a così dire, le scorte per ovviare ai pericoli contingenti. Un tal timore crebbe nel 1758, in conseguenza dell'abolizione de' fermieri, decretata negli Stati Pontificj il 12 dicembre 1757, e delle lodi che da tutte le gazzette e dai fogli pubblici vennero al capo della chiesa, Benedetto XIV. Segnatamente nel Corriere Zoppo o Mercurio storico di Lugano fu stampato un lungo ed assennato articolo, che fece gran senso; e nel quale, tra l'altre cose, dopo dimostrati i vantaggi che dovevano conseguire negli Stati romani alla risoluzione pontificia, leggevansi queste considerazioni:
«Chiunque si fa a vedere que' paesi, ne' quali è libero tal genere (ossia il commercio del tabacco dalla Ferma), a prova conosce che le lusinghevoli esibizioni de' fermieri non finiscono poi che a spopolare e ad inquietare le città, i cittadini e i forestieri, a tutto loro profitto e con iscapito del principe a cui servono.»
E soggiunge (alludendo senza dubbio al ducato di Milano): «Si è sperato in un luogo fioritissimo d'Europa poch'anni fa, che si dovesse abbracciare l'opportuno partito preso ora dal Pontefice. Le compensazioni proposte al Re per reintegrare le sue finanze del prodotto di tale appalto e i beni che ne sarebbero avvenuti nello Stato, erano posti in tal chiarezza da un gran personaggio, che i popoli credevano da un giorno all'altro di sentirne l'abolimento.
«Ora però, conchiude, che il capo della Chiesa ha dato un così bell'esempio, è credibile che sarà da altri principi imitato, e che essi approfitteranno dei vantaggi che può produrre il dilatato commercio d'un genere reso tanto comune. Se il tutto si riducesse ad appalti, le città più fiorite diverrebbero solitudini, restringendosi a poche case quel che è il sostegno di tante famiglie.»
Il fatto adunque del decreto pontificio, la voce pubblica, le gazzette misero in tale apprensione i signori fermieri, che questi presero il partito di Wallenstein, il quale saccheggiava i paesi quando vedeva di non poter fermarvisi a lungo coll'esercito.
Fra tutti i fermieri e gli addetti alla Ferma, quel che viveva in minor timore era pur sempre il Suardi, per le ragioni sopraccennate, ed anche perchè in quell'anno medesimo il signor Rocco Rotigno, in conseguenza di una prodigalità forsennata, dei colpi maestri che egli il signor Suardi aveva dato al di lui naviglio pericolante, carico di debiti enormi, sparì improvvisamente da Milano nel mese di ottobre. La favola del cavalier Beltrame e di Roberto il Diavolo s'era verificata nell'intimità del Suardi col Rotigno; e questi dovette perder tutto, sollecitato dalle maligne insinuazioni del suo amministratore, che comparve in prima lista fra' creditori quando il fallimento venne pubblicato.
Riguardo al detto Rotigno è curioso il Monitorio pubblicato nelle parrocchie della città di Milano, segnato dal canonico Bazetta, cancelliere arcivescovile, e stampato in Milano per Beniamino Sirtori, tipografo arcivescovile. È diretto a tutti i reverendi abati, priori, prevosti, arcipreti, rettori, curati e vice curati delle chiese tanto regolari, quanto secolari, e comincia così: «Ci è stato esposto per parte di certi signori di questa città, che alcune persone, li nomi delle quali non si sanno, in perdizione delle anime loro ed in gran danno dei creditori del signor Rocco Rotigno, indebitamente occultano, detengono, occupano o sanno chi indebitamente ha, detiene, occupa ed usurpa oro ed argento, denari, ferro, legno, bronzo, stagno, rame, lino, seta, suppellettili di casa, istromenti, scritture, libri de' conti, ragioni, crediti ed altri beni spettanti al detto signor Rocco Rotigno, non curandosi di restituire, soddisfare e rivelare come devono...»; e continua, comandando ai sopraddetti, «che in virtù di santa obbedienza e sotto pena di sospensione a divinis nelle loro chiese in presenza del popolo, avvisino pubblicamente le persone di qualsivoglia stato, grado e condizione le quali occultano, usurpano, ecc., che in termine di nove giorni debbano, sotto pena di scomunica, aver interamente restituito a' detti creditori ciò che detengono», ecc.; e conchiude invitando anche i soli aventi notizie di qualche mal atto, a far le debite rivelazioni in mano del cancelliere arcivescovile o del vicario foraneo, colla dichiarazione che delle rivelazioni non si potesse agire che civilmente e per solo interesse civile.
Per verità non consta, ma ci pare che, tenuto conto dei fatti precedenti, e avuto riguardo agli istinti rapaci del nostro ex lacchè Galantino, egli avrà dovuto essere uno di quei tali detentori minacciati di scomunica. Ma nessuno si occupò di far rivelazioni a danno suo, nè egli si prese premura alcuna di consegnare o al cancelliere arcivescovile o al vicario foraneo oggetto di sorta; nè la scomunica lo colpì mai nè allora nè dopo. Bensì fu notato com'esso, da una certa magrezza accidentale, ma che non fu troppo fuggitiva, la quale aveva alterato di qualche poco la sua bellezza giovanile, cominciò a riaversi alquanto dopo la morte del primo Rotigno; se ne rifece quasi del tutto dopo la scomparsa del Rotigno secondo, e trascorso un anno, gli si soffusero di novello incarnato le belle guance, che ritornarono tumidette e rigogliose di beata salute: press'a poco siccome avvenne di alcuni famosi eroi delle antiche e delle moderne storie, i quali dalla squallida magrezza onde furono investiti sotto all'azione violenta dell'insaziato genio della conquista, si riebbero quando poterono appagare la loro ambizione, e raggiunger l'ultimo intento.
E otto anni passarono così al Suardi tra la giovinezza che baldanzosa gli maturava, e la salute che continuava, e l'allegria che cresceva, e la ricchezza che s'accumulava. Ma a un tratto la popolazione milanese sbuffò come nel 1754, e fu nell'occasione in cui venne pubblicato l'editto del 7 aprile 1766, provocato certamente dai fermieri, coi soliti mezzi onde sapevano ottenere tutto quel che volevano, e forse da essi medesimi imaginato e scritto, perchè l'assurda violenza che v'è comandata non può spiegarsi se non facendone autrice la loro insaziabile ingordigia. L'editto consta di ventotto articoli, ne' quali è tenuto conto, con minutezza cavillosa, di tutti i casi, non soltanto probabili, ma semplicemente possibili in cui la Ferma, rispetto alla regalia del tabacco, potesse menomamente venir danneggiata. Le pene, per la detenzione clandestina di tabacco frodato, varcano, senza nessuna apparenza della benchè menoma giustizia legale, ogni misura di proporzione colla colpa; poichè si estendono dalla multa di scudi cento per ogni libbra di tabacco, a due tratti di corda, a tre anni di galera, persino alla confisca dei beni; e, quel che è incredibile a dirsi, questa pena veniva minacciata a' padroni per la possibile colpa dei servi, ai padri per la colpa dei figli, come dichiarava la lettera del capitolo primo. E la sola detenzione di tabacco estero, pur in quella piccola quantità che non potea passare il privato consumo, veniva punita colla frusta, colla corda, col bando, e quando si trattasse di nobili, colla relegazione in fortezza, a tenore dell'articolo terzo. E davasi facoltà agli ufficiali e deputati della Ferma di entrare, d'ogni ora e tempo, a loro beneplacito in casa di qualunque persona, di qualsivoglia stato, grado e condizione... come in qualunque luogo esente di rispetto e privilegiato, a sensi dell'articolo ottavo; e persino di far perquisire nei castelli e nei quartieri militari, infliggendo la pena dell'indennizzo del quadruplo del danno e del sequestro del soldo ai castellani, capitani, tenenti ed ufficiali, come ingiungeva l'articolo undecimo.



V


Or piegando dai fatti pubblici ai privati, alcune pagine addietro abbiamo udito il Suardi a dar gli ordini ad un suo commesso per una perquisizione da farsi nel monastero di san Filippo Neri. Pare adunque che il tabacco di contrabbando sia per aver qualche relazione coll'adolescente beltà che già abbiamo delineato con matita color di rosa, e che forse avrebbe avuto tutt'altro avviamento nella vita se non ci fosse stata la Ferma generale del tabacco, e se non fossero stati pubblicati i ventotto capitoli dell'editto del 66. Gli amanti delle salsette piccanti, che odiano il tabacco ed hanno in orrore i capitolati, vogliano compiacersi a credere qualche volta che alle cose più scabre si connettono le più vaghe e gentili, e che se un libro dovesse tutto quanto essere, cosparso di amori e sospiri e baci, provocherebbe una sazietà, da far desiderare l'abolizione dei baci, dei sospiri e degli amori.
Dopo di ciò, il nome di quella beltà adolescente era Ada, nome che, per quanto ci consta, non fu portato che da due donne celebri, vale a dire dalla moglie giovinetta di Caino e da una figliuola di lord Byron. Come poi le sia stato imposto quel nome, pochissimo usato adesso e allora forse ignoto, non essendo ancora uscito il mistero di Byron a renderlo popolare, bisogna domandarlo a sua madre, che un dì, leggendo la Bibbia per consigliarsi coi proverbj di Salomone, nello sfogliare il libro, le corse all'occhio la parola Ada che è nella Genesi e fu così colpita da quella parola soave pel duplice a e per la consonante di greca mollezza, che ricercando da qualche tempo un bel nome da imporre a chi ella doveva mettere in luce fra pochi dì: — Ecco quel che cercava, disse fra sè, pel caso che chi nascesse avesse la fortuna sì poco benigna da essere piuttosto femmina che maschio. — E così avvenne di fatto, e la fanciulla fu chiamata Ada. Portata al sacro fonte, la neonata, quando l'inconscia sua testolina sentì il freddo battesimale, mandò guaiti sì acuti, che pareano persino presaghi di futuri affanni. Dopo, per tutto il tempo ch'ella pendette dalle poppe materne, fragranti come quelle d'Andromaca, obbedì saporitamente alle leggi fisiologiche di quel periodo di sedici mesi. Indi subì le malattie inevitabili dell'infanzia; subì un croup assalitore che mise in disperazione l'amor materno e in moto tutta la facoltà medica di Milano; ebbe le ferse che minacciarono di rientrare per un colpo d'aria infesto. Poi fu divisa da sua madre che andò a Bologna, perchè sua madre era donna Clelia, come il lettore sa sebbene non glielo abbiamo ancor detto. Quando la contessa passò in quella città (perchè, in conseguenza di talune bizzarrie del conte colonnello, che non basterebbe chiamar tali, essendo state piuttosto atti pericolosi di feroce escandescenza, ella dovette abbandonare Milano), la fanciulla aveva cinque anni; quattro ne scorsero prima che donna Clelia vi ritornasse, per rivederla di passaggio e di gran premura, cogliendo la propizia occasione che il conte V... era andato per diporto a Parigi. E allorchè la vide, ammirò beata quel suo capolavoro di bellezza infantile; tanto più beata quanto più le pareva di veder nel lume di quegli occhi giovinetti balenare un raggio d'altri occhi, benchè nell'insieme la fanciulla fosse tanto somigliante a sua madre come la parte più piccola somiglierebbe alla parte maggiore di una gemma preziosa che si potesse dividere in due. E la passione che, pel lavoro del tempo, s'era in lei tanto quanto attiepidita rispetto a colui che sa il lettore, riproruppe nell'intimo suo un dì che la fanciulla, dandosi a ridere, riprodusse una lieve e fugace alterazione delle linee del viso, che era caratteristica in suo padre; diciamo — in suo padre, non nel conte V...
È cosa dolorosissima a pensarsi, ma, troppo spesso, ella è vera. Le passioni nate e cresciute e alimentate in onta al grido dell'opinione pubblica, e al decreto dell'assoluto dovere, e al soliloquio assiduo della coscienza, sono le più ardue a sradicarsi da un cuore, e spesso non si sradicano che colla vita. Un amore invece che sia stato protetto anche dalle sospettose madri, e benveduto dai padri perplessi, e che abbia meritato le congratulazioni di tutto il parentorio, per quanto ei sia fervido agli esordj, è destinato a svampare, ad addormirsi, a morire, appena abbia percorso il suo periodo fisiologico; a morire in pace bensì e a suo letto, come suol dirsi, ma pur sempre a morire; press'a poco forse come i conforti incessanti di una vita agiata afflosciano l'esistenza, e i leni tepori del caminetto ponno addormentare dopo il pranzo anche uomini attivi e impazienti come Giulio Cesare e Napoleone. Davvero che c'è da gettar via la testa meditando su codesti arcani del cuore umano, ma la colpa non è nostra se gli amori benedetti muojono in pace, mentre le maledette passioni vivono in guerra. Ora quella indefinita alterazione nelle vaghe linee della fanciulletta Ada, che riprodusse al vivo il sorriso di Amorevoli, fece nel cuore della contessa l'effetto di un metallo rovente che, immerso nell'acqua alquanto sbollita, ritorni a farla stridere. O cara e sventurata Clelia, indarno protetta dai logaritmi e dalle ipotenuse! Divisa da colui da otto anni, troncato ogni carteggio seco per uno sforzo violento della sua volontà, ossia per un atto di virtù vera..., che brividi ella sentì corrersi pel sangue nel sorprendere il fuggitivo baleno di quell'antico sorriso! Fu allora che l'affetto antico, risorto tutt'intero, non trovò altra via di sfogo salutare che nell'abbracciare e baciare e stringere a sè quella soave sua Ada, per la quale in quel momento, sentì cresciuta la tenerezza al punto, che l'amor materno sembrò quasi assumere, per un istante, i fervori di una violenta passione! Ma ora dovevan dividersi.
La contessa tornò a Bologna; Ada fu ricondotta in monastero. Or che lume d'intelletto risplendeva entro al leggiadro velo di quella fanciulletta? che spontanea virtù di natura avea sortito? che cuore, che sentimenti, che istinti? Ahi, nata di passione, pur troppo, il germe di essa le si depose inavvertito nel sangue, quasi come avviene de' malori gentilizj! germe destinato a dar subite espansioni e precoci, a guisa di un fiore che, affidando all'aria ancor fredda le sue prepostere fragranze, precorra, annunciandola, la primavera; — e all'occulto germe doveva dar forza e riceverne a gara, per le consuete rispondenze arcane, una non comune svegliatezza di mente, recando essa nell'ingegno un abito spontaneo a manifestarsi col linguaggio dell'arte! Tutte queste cose, quando la fanciulla non avea che otto anni, non furono intravedute che dalla penetrazione profonda di donna Paola; ma a dieci anni vennero considerate, e con inquietudine sospettosa, anche dalla madre superiora del monastero di san Filippo. L'ingegno straripava in insolita vivacità, e certe baldanzose interrogazioni della fanciulletta turbarono spesso l'insipienza bigotta delle monache maestre. Per di più, come voleva l'uso del tempo e la consuetudine dei monasteri, alla fanciulla fu insegnata la musica; domandando ella stessa un tale studio, perchè un naturale istinto ve la portava, e desiderandolo anche donna Paola Pietra, per essere ella medesima, come sa il lettore, tanto insigne in quest'arte.
Un bello e acuto ingegno, ma piuttosto amico del paradosso, s'è messo in testa di voler provare che la musica, fra tutte, sia l'arte religiosa per eccellenza. Il valent'uomo ha sfoggiata a ciò molta dialettica e maggior dottrina, ma non è riuscito a persuaderci, quantunque abbia santa Cecilia per sua naturale protettrice. La musica, onde giungere all'intelletto, deve attraversare necessariamente i sensi; e non rendendo essa nessun concetto preciso e determinato che attragga l'intelletto con velocità, spesso avviene che, indugiandosi troppo a lungo coi sensi stessi, smarrisca poi la via di pervenire allo spirito. Però non a caso ha detto un savio dell'antichità, che la musica feconda il senso prima del tempo; onde, stando così le cose, non vediamo come la teologia possa giovarsi troppo del suo ajuto. Ma, comunque sieno per sentenziare i saggi su di ciò, e limitando la questione ad un solo esempio, a quello esibitoci dalla giovinetta Ada, ella mostrò in sè stessa che quel savio dell'antichità aveva pronunciato il vero. Anzi, or che ci rammenta, ella non vien nè sola nè prima a dar ragione a colui; ma vien seconda a una certa duchessa Elena, di nostra intrinseca conoscenza. Al pari di questa adunque, come la fanciulla Ada toccò i tredici anni, ossia come le si dischiuse il periglioso crepuscolo dell'adolescenza, allorchè per istudio e per diporto facea scorrere la mano sui tasti dell'organo, più non istette paga ai suoni tesi ed agli accompagnamenti solenni del Tantum ergo; ma con estro inventivo traendone suoni della più fantastica inspirazione, questi le rivelarono la confusa iride di una vita di cui non aveva ancora notizia. Siamo sempre ai soliti misteri della vita.
In seguito a tali idee, la fanciulla, uscendo al giovedì dal monastero per recarsi alla casa di donna Paola, cominciò a guardare il mondo circostante con un occhio che non era più quello dell'infanzia; così l'anno tredicesimo sfumò, e spuntò il quattordicesimo; e trascorse anch'esso, e la bellezza intanto cresceva e il lago del cuore non era più calmo, e vennero gli anni quindici. Ahi! che un giorno il Suardi, il quale già l'aveva adocchiata altre volte, e aveva notizia di lei e dell'origine sua, si fermò a contemplarla con perfida intenzione, guardandolo pur essa con innocenza mal presaga; chè il volto e gli occhi del Suardi erano di quella fatale qualità che dove cadono lasciano il segno, quantunque non fosse più giovinetto; ma anche Adalgisa cantava:


E tutta assorta in quel leggiadro aspetto
Un altro ciel mirar credetti in lui.


pensando a Pollione, il quale aveva trentacinque anni, giusta un computo esattissimo. Del rimanente, guai se una giovinetta trova di riposar l'occhio in un giovane che tramonta. Ella è perduta, se altri non la strappano. Un giovane che quasi ha finito d'esser giovane, e annuncia già la calva e bigia virilità, aduna tutte le sue forze e i suoi prestigj in sull'estremo, e combatte come un soldato il quale sa che il ponte gli fu tagliato alle spalle. Però guardatevi, o giovinette care, dalle tentazioni di un giovane che a momenti non sarà più tale. Il diavolo stesso vi potrà essere men funesto. Fuggite, o fanciulle, i giovani vecchi. È questo un parere da vero amico, che vi scongiuro di ascoltare.



VI


Molte erano le ragioni per cui il Galantino, descritta che ebbe quella strana parabola, per la quale, dopo essere nato da un cocchiere nelle stalle del marchese F..., ed essersi dilettato a frugar nelle saccocce del suo padrone protettore, e aver mostrato la gamba più veloce tra quelle dei lacchè di tutto il Ducato, ed aver fatto il ladro commissionario per compensi non vulgari, e avere indossata a Venezia la serica velada di lustrissimo per frodare l'altrui al giuoco, e aver subìto la tortura col coraggio onde quell'antico Romano mise la mano ad ardere nel braciere, e averla subìta e vinta per uscir dalle mani della legge netto e purgato come un lebbroso da un bagno di zolfo, era pervenuto ad essere uno degli addetti alla Ferma, a possedere tre case in Milano, due grandi magazzini di varie merci nei Corpi Santi, due filande di seta tra Palazzolo e Bergamo, una villa ridente e voluttuosa tra Gorla e Crescenzago, un'altra villetta in Brianza; a nuotare in somma nell'oro, a dormire sotto il moschetto di damasco violetto, a portare uno splendido anellone di lapislazzuli sull'indice ed un altro di diamante dalla più pura e bianca goccia sul medio, e due orologi d'oro a ripetizione nel taschino, perchè, come allora voleva il costume, l'uno facesse la controlleria dell'altro; a calzare gli stivaletti di sommaco filettati d'oro, col fiocco d'oro e gli speroni d'argento, per caracollare su d'un bellissimo puledro normanno color isabella, a lunga criniera nera e coda lunghissima che sommoveva la polvere del corso di via Marina; lungo il quale, tra le file dei carrozzoni patrizj, faceva leggiadra mostra di sè, mentre le giovani dame gli lanciavan guardi furtivi, e i mariti bestemmie e dileggi che non trovavan eco nelle mogli (e qui ci sia permesso tirar il fiato, perchè abbiam fatto un periodo alla Guicciardini); molte dunque erano le ragioni per cui aveva messo l'occhio sulla fanciulla Ada, educanda nel monastero di san Filippo. Egli ricordavasi troppo del dialogo avuto colla contessa Clelia a Venezia, e s'era fitto in capo che le rivelazioni di essa fossero state la causa della sua cattura. Aveva pertanto fermato di trarne vendetta, e se questa non gli riuscì la prima volta che l'ebbe tentata, non vuol dire ch'ei dovesse deporne il pensiero. Ben è vero ch'egli non era uomo da trascurare i propri affari per un tal fine, e nemmeno di cercarne affannosamente le occasioni; ma tuttavia avea sempre pensato che, se un'occasione qualunque gli si fosse presentata spontanea e nei momenti d'ozio, egli sarebbe sempre stato disposto a coltivarla. Oltre a ciò, e indipendentemente dai rancori colla contessa Clelia, egli, sebbene avesse avuto un protettore nel marchese F... e un compenso in danari non dispregevole dal conte fratello di esso, portava un'avversione profonda alla casta patrizia, pel semplice motivo, ma significantissimo, che dai crocchj dei gentiluomini al teatro, al ridotto, alle case di giuoco, ai pubblici convegni era sempre stato e veniva sfuggito con disprezzo manifesto, in ispecial modo dal conte-colonnello. Poco curandosi del resto del conte colonnello, gli era nato un desiderio vivissimo, uno di quei desiderj che diventano irrequieti perchè nascono di puntigli, di regolarsi in modo che, o una qualche dama vedova, delle primissime famiglie, la quale per combinazione fosse straricca e fosse ancora giovane e ancora bella, cadesse per avventura nelle sue insidie amorose; oppure, e per lui era il disegno più conveniente, invece della vedova, venisse a trovarsi nel laccio una qualche contessina o marchesina giovinetta e inesperta, e le cose si riducessero al punto che il matrimonio fosse reso indispensabile.
A tutto questo pensò per lungo tempo, senza tuttavia darvi una grande importanza, e solo in quei momenti, in cui beveva il caffè dopo il pranzo, o cavalcava solitario, o stava così sottocoltre alla mattina, aspettando che il servo gli recasse l'acqua fresca inzuccherata. Se non che il destin volle che un giorno, sedendo a pranzo in casa d'uno dei capi della Ferma, tra i varj parlari, il discorso cadesse sulla contessa V... e da uno dei commensali venissero dette queste precise parole: «a proposito, ho visto jeri la figliuola di lei, quella che fu messa in San Filippo; oh che bella e graziosa tosina!... È tutta sua madre, se forse non ha una certa grazietta inesprimibile, che sua madre non aveva!»
Non ci ricorda in qual battaglia, ma in una delle più celebri, Napoleone, il quale non vedeva ancora ben chiaro sull'esito di essa, a un tratto, sentite le relazioni d'un suo ajutante che accorreva sbuffante, balzò in piedi e gridò: — La vittoria è nostra. — Ora il Suardi non balzò in piedi e non gridò, ma pensò tra sè: Adesso vedo quel che si ha a fare, — e fermò un mezzo partito. Così, otto giorni dopo, ossia quando ricorse l'altro giovedì, giacchè dal commensale amico aveva sentito anche i particolari della giornata, si trovò in luogo ed in ora opportuna, e vide, anzi guardò la fanciulla. Gironzando poi là in vicinanza del monastero di San Filippo, osservata un'ortaglia con casamento, entrò così a caso a dimandare di chi fosse, e giacchè da qualche tempo andava cercando un vasto luogo in Milano, non molto distante dal suo studio in Pantano, per deposito di mercanzie, chiese se il proprietario sarebbe disposto a vender quel luogo. Il proprietario non era spontaneamente disposto, ma il Suardi esibì di pagarlo qualcosa più del valore, e alcuni giorni dopo egli ne era diventato il padrone. Quando lo comperò, non aveva per verità altro fine che di farne un deposito di merci; dell'averlo poi scelto invece d'un altro non aveva una ragione precisa, quantunque ne avesse molte d'indeterminate. Ma nell'ora e nel luogo acconcio ei si mostrò alla fanciulla un altro giovedì; e la fanciulla lo guardò ancora più attenta, ed egli la ferì d'una di quelle occhiate che, ogni qualvolta in simili contingenze le ebbe dirette con ferma intenzione, al pari delle frecce di Guglielmo Tell, non gli erano mai fallite; e sorse un quarto giovedì, e il Suardi si comportò di maniera che la fanciulla s'accorgesse com'egli uscisse da una casa accosto al monastero.
Entrava l'estate dell'anno 1766, e quotidianamente cominciò a recarsi colà, verso le ore in cui le monache e le educande discendevano a passeggiar per diporto in giardino. Se si dovesse dire che il Galantino, nella vaga confusione de' suoi disegni, non avesse altro scopo che di soddisfare a' suoi rancori colla contessa, si direbbe il falso. In realtà, quando vide la fanciulla, e quando la fanciulla guardò lui, segnatamente alla seconda ed alla terza volta, egli sentì nel sangue, se non precisamente l'amore, qualcosa certo di molto affine ad esso, e l'avrebbe sentito e coltivato quando pure non si trattasse della figlia della contessa.
Al Suardi, il lettore già lo sa, era sempre piaciuta la bellezza femminile, e, avvenente qual era, nella sua progressiva trasformazione di lacchè in vagabondo, in fermiere, in negoziante, in ricco possidente, ebbe tante avventure amorose quante ne volle. S'era poi sempre mostrato, fin dall'età adolescente, assai propenso a innamorarsi di chi era di qualche grado superiore alla sua condizione. Ora, siccome le facce del poliedro umano sono tante, e fu già dimostrato dalle prove e riprove de savj che un uomo non è mai tutt'affatto cattivo nè tutt'affatto buono, e che anche nel sangue più guasto, sapendo adoperare, nell'analisi di esso, la virtù degli agenti e reagenti chimici, si rinviene sempre qualche dose più o meno abbondante di buon sangue, così il Suardi, nelle contingenze amorose, recava spesso una gentilezza che, quasi, potea dirsi quella di un gentiluomo squisito.
Amando le donne, anzi idolatrandole, allorchè s'aveniva in quel genere di beltà che aveva potenza di su di lui, lasciavasi vincere da essa, dominare e, quasi diremmo, tramutare. Era forse quella medesima cagione recondita per cui, fin dalla fanciullezza, avendo sempre ambito il vestire elegante, avea frugato nelle saccocce del padrone, vinto dalle tentazioni di parere in faccia alle donne più di quello che era. Qualunque poi fosse la cagione, serbando esso un abito di gentilezza nel fare all'amore, trovandosi là solo, all'ora dei miti crepuscoli estivi, su d'un balcone che rispondeva sul muro di cinta dell'ortaglia del monastero, la quale non frequentata che dall'ortolano, serviva come d'antemurale al giardino stesso dove passeggiavano le monache e le educande, ei si deliziava nel sentire le voci fresche, che l'aria gli portava, delle giovinette convenute là a sollazzarsi; e si compiaceva nel tentar d'indovinare e distinguere, fra tutte le altre, la voce della fanciulla che da qualche tempo gli si era piantata immobile in fantasia. Del resto, per astuto che fosse e ricchissimo di trovati, egli veniva là tutti i giorni, senza saper ancora perchè, e quasi per aspettar dalla fortuna il premio dell'insistenza; press'a poco come un astronomo che tutte le notti appunti il telescopio in qualche plaga sospettata del cielo, nella fiducia che un astro novello ci cada dentro a dargli il vanto di scopritore. Ma che volete, o lettori? È tanto vero che la fortuna è l'alleata più fida del genio del male, che un dì l'astro aspettato brillò veramente agli occhi del Suardi.
Ed ecco in qual modo. Se il Suardi, scaltrito da lunghissima esperienza, preoccupato da tanti affari, sacerdote anziano del tempio di Gnido, col cuore fatto a squama di coccodrillo, per quanto, come dicemmo, lo spettacolo della bellezza avesse scoperto il suo lato molle e penetrabile, erasi tuttavia lasciato dominar tanto dal pensiero di quella fanciulla; è troppo facile imaginare come stesse il cuore e come tumultuasse la fantasia della quindicenne Ada, appena l'occhio maliardo del bellissimo Suardi la ebbe penetrata.
Nova in quella nova regione dell'amore, sebbene da lei presentita in confuso per la misteriosa intuizione del senso precocemente riscaldato dall'ingegno e dallo studio di un'arte che recava in sè stessa la seduzione, ella provò tosto quell'intima gioja, mista di compiacenza e persino d'orgoglio, che non si confonde con nessun'altra gioja al mondo, e quell'irrequietudine particolare e senza riposo la quale spesso converte l'amore in ciò che può chiamarsi, già lo dicemmo, il tetano morale. Sapeva che colui abitava, o, almeno, veniva spesso in un sito contiguo al monastero, chè in questo il Suardi aveva ottenuto il suo intento. Passeggiando ella dunque nel giardino, cominciò a dilungarsi dalla giovinetta schiera delle compagne alunne, e ad esplorare d'ogni intorno per iscoprire se mai le potesse pervenire qualche sentore di colui. Quando facevasi sommesso o taceva del tutto il cicaleccio delle amiche, stava, come suol dirsi, in sull'ale, quasi sperasse che quell'insolito silenzio venisse mai rotto da qualche voce che non fosse quella delle amiche o delle maestre; allorchè un giorno, pervenuta all'ultimo lembo del giardino, dov'era come una baracca, la quale serviva di legnaja e di ripostiglio per gli strumenti rurali dell'ortolano, penetrò in essa come un viaggiatore sempre in cerca di una terra inesplorata, e s'affacciò così a caso ad una rozza finestretta con inferriata. S'affacciò e fuggì e cadde a sedere su dei covoni di paglia, quasi svenuta. Il Suardi era al balcone, e vide quel raggio balenare di tratto, e svanire come una stella di sant'Elmo.

LIBRO SETTIMO


Ada. — Il Galantino e l'ortolano del monastero di San Filippo Neri. — Guglielmo lord Crall. — La casa Ottoboni Serbelloni. — Pietro Verri e il bilancio dello stato del commercio nel ducato di Milano. — I commissarj della Ferma. — Una loggia di Liberi Muratori nella contrada di san Vittorello. — Il Galantino e il figlio della Baroggi. — La madre priora di San Filippo. — I commessi della Ferma e i Liberi Muratori.


I


Il giorno dopo (e correva la prima metà del mese di giugno, del che non a caso facciamo avvertito il lettore) il Galantino ritornò, com'è naturale, a quella sua vedetta.
Ritornò, ma non uscì sul balcone, bensì stette nascosto dietro le griglie. Per quanto ei fosse fiducioso di sè e della propria avvenenza, e fosse reso baldo dalle molte e continue e facili sue vittorie, pure non avrebbe saputo giurare a se stesso d'aver fatto nella fanciulla quella profonda impressione, da cui dovesse poi prorompere la necessità d'una corrispondenza. Era ingegnoso e acuto, lo abbiam detto cento volte, e conoceva le anomalie dei cuori femminili; ma d'altra parte, nella interminabil lista delle sue avventure, non ancora era comparsa una figura sì giovane, sì olezzante di fragranza virginea.
Era quella la prima volta ch'ei trovavasi al cospetto d'una innocenza tanto pura, mentre egli era di tanto più provetto di lei, che avrebbe potuto essere suo padre. E congetturava che l'innocenza può parere audace, può sembrar perfino d'esprimere desideri non puri, e ciò per l'eccesso appunto della illibatezza, la quale procede spensierata e confidente; e pensava che poteva essersi ingannato, e l'apparizione repentina della fanciulla e la repentina sua scomparsa riuscirne una prova fedele. Però disse tra sè, quando si pose ad aspettare in silenzio dietro le griglie: — Se ella oggi ritorna, allora non c'è dubbio, sarà quel che sarà, e nessuno m'incolpi se farò quel che sarò per fare. Se poi non ritorna...
E la fanciulla Ada ritornò e s'affacciò: s'affacciò e si ritrasse, per affacciarsi e ritrarsi ancora, come fa la capriuola che, irresoluta, sporge la testa dalla rupe, quasi odorando il vento se gli porta rumor di cacciatori, e fugge precipitosa, per ritornar tosto a rigirar l'occhio sospettoso finchè, rassicurata, spicca il salto e procede. E anche Ada ritornò là, e girato l'occhio intorno e non vedendo nessuno, si fermò e alzò lentamente lo sguardo al balcone poco discosto lasciandovelo riposare a lungo, e quasi dimenticandolo su di esso, assorta in una immobile contemplazione! Oh divino spettacolo della giovinezza, della beltà e della innocenza! Oh spettacolo doloroso della tentazione, che sorge lenta lenta, e inavvertita si associa a così dolci compagne!
O voi che avete i cuori fatti d'agata, e dal gelo del sangue vi fu reso arcigno e spietato il giudizio, non vogliate abborrire in anticipazione, quasi fosse una figliuola del diavolo, questa leggiadra figura che, senza sua colpa, portò dalla natura strani fervori nel sangue. Costei, credo bene di dirvelo anche a costo di prevenire gli eventi, perchè se avete degli odj a usufruttare, ne scagliate altrove il veleno; costei, pur attraverso a un doloroso tramite di pericoli, è predestinata alla sincera virtù, se la virtù sta nel far violenza a se stessi, e non nel portarne la maschera senza volere il vero bene, anzi senza nemmeno comprenderlo. Questo sia detto senza andare in collera, perchè non veniate a turbarci coi vostri obliqui affanni, o lividi farisei, e coi sospetti di chi non vede che colpa e maledizione in ogni spontanea effervescenza dell'affetto.
Or continuando, il Suardi uscì sul balcone, e contemporaneamente alla sua comparsa gettò una carta entro alla finestra, dove Ada stava in contemplazione; ed ella, arrossendo, ancora si ritirò, raccogliendo però la carta, nella quale era quel fiore, quel fiore che noi l'abbiam già vista a levare di sotto alla tela del guanciale del suo lettuccio collegiale, ed a fiutarlo, coll'olfatto, diremo, dell'anima. Allora il Suardi si tenne certo di essere rimasto nel cuore della fanciulla, e su tale certezza ordì un disegno che mai non gli era venuto in mente sino a quel punto. E, uscito di là, e recatosi alla sua casa civile in Pantano, mandò, senza perder tempo, un suo uomo di studio a cercare dell'ortolano del monastero di San Filippo, con ordine che gli desse qualche danaro a persuadergli d'andare a lui, quando per caso si fosse mostrato restìo. Ma l'uomo di studio si portò bene, e l'ortolano, senza farsi troppo pregare, si accompagnò con esso, e venne alla presenza del Suardi, nel suo gabinetto segreto.
— Oh bravo! così disse il Suardi seduto all'ortolano che stava in piedi, quando l'uomo di studio uscì dal gabinetto; ti ringrazio dell'essere stato così sollecito. Ma prima di tutto... ti piace il vin di Cipro?
— Per dire che mi piace penso che bisogna aver buona memoria. Me ne ha dato un bicchiere tre anni fa il cameriere della marchesa Ottoboni, quando portai in quella casa un mazzo di fiori, nell'occasione che si faceva sposa la marchesina ch'era stata educata in convento.
— Rinfresca dunque la memoria e riscalda lo stomaco con questo.
— Obbligato alle sue grazie... buono! Ma ora posso sapere per cosa vossignoria mi ha fatto chiamare?
— Dimmi un po', il mio uomo, sei tu ammogliato?
— Mancherebbe anche questa, caro signore, con quella miseria di salario che si ha in convento. È già molto se posso provvedere a me e alla mia vecchia madre. Per la moglie e per i figliuoli non c'è posto davvero.
— Guarda mo, il mio uomo, io credevo che tu stessi benissimo colà... perchè conosco molti altri ortolani e giardinieri che hanno il tuo e poi ancora il tuo. Ma come va dunque la cosa?
— Come vada ora lo so io... come è andata una volta non lo so... Ma pare che non si sia pensato all'ortolano, quando si fondò il monastero... Tanto che la dama conservatrice mi dà qualche cosa del suo... e del resto vivo d'incerti che capitano quando capitano; e se mai dà il caso d'un'annata in cui le educande non escano in molte dal convento, per ritornare, fatte grandi e brave nelle loro famiglie, non c'è nemmeno il pretesto di far loro qualche bel regalo coi fiori del giardino che è il solo mio vantaggio, dal momento che, non per superbia, ma son più giardiniere che ortolano, ed è questa ancora una fortuna; perchè fagiuoli, cavoli, carote e cipolle van tutte a finire nella cucina del convento, dove il cuoco par che mangi anche la parte delle reverende e delle educande.
— Quand'è così, va benone. La mia paura era che colà tu stessi troppo bene.
— Paura? ma perchè paura?
— Perchè, per una villa che ho in Brianza, ho bisogno di un giardiniere, ma di un bravo giardiniere. Io lo pagherei bene. Oltre a ciò avrebbe i proventi dell'ortaglia per lui, e le mance de' mazzi di fiori che di tanto in tanto si mandano a regalare alle belle che escono a villeggiare. Io t'ho visto, e mi sei parso il mio uomo. Non vecchio, non giovane, buone spalle, cera lustra, occhio furbo ma galantuomo. E allora potresti prendere anche moglie. Scommetto che più di una volta t'è venuto il ghiribizzo di prender moglie...
— Il signore scherza.
— Io non ischerzo, il mio uomo. Ma se ti piacciono i patti, domani o dopo esci in campagna con me... ed oggi, anzi adesso, prima che tu esca di qui, ti do, a titolo di caparra, una mezza dozzina di zecchini. Ti piacciono i zecchini?
— Più ancora del vin di Cipro.
— Dunque ci stai?
— Ci sto.
— Ecco i zecchini. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. Va bene?
E licenziò l'ortolano; nè per quel dì gli disse altro; ch'ella è astuzia antica e greca il non parlar mai in sulle prime della cosa che più importa.
Intanto il giorno successivo, all'ora consueta, il Suardi fu al balcone consueto, o, per dir meglio, stette ancora nascosto, per vedere se la fanciulla ricompariva, e per non darle soggezione, quando mai ricomparisse. E Ada ricomparve, e si fermò, e il Galantino le rivolse una parola, una parola vaga e insignificante, tanto per provar la voce; e Ada rispose una parola anche essa, ma non intera; e soltanto per far sentir la voce; una voce di mezzo contralto vellutata, la quale compì l'opera, mettendo alla massima bollitura il sangue di Galantino.
E in quel dì stesso egli fece chiamare di nuovo l'ortolano del convento, e:
Senti, gli disse, prima che ce n'andiamo in campagna, ho bisogno che tu mi faccia un piacere.
— Vossignoria non ha che a comandarmi.
— Prima di tutto, hai tu accesso libero in convento?
— Fino ad un certo punto, sì.
— Già s'intende, sino ad un certo punto. Ma fin dove, per esempio?
— In cucina, in legnaja, in cantina... e qualche volta, quando le monache sono in refettorio o in giardino, si va a far pulizia ne' dormitoj; e quando le ragazze sono a letto, si va a farla in refettorio.
— Sei tu solo a far questo?
— Io e il facchino del convento.
— Ma va benone. Or vedi che si ha a fare. Vieni intanto con me.
E l'ortolano seguì il Suardi in un camerone terreno.
— Vedi tu tutta questa roba?
— Vedo e sento. È un tale odor di tabacco che si starnuta anche senza annasare.
— Ebbene, ho bisogno che tutta questa roba, già non è poi gran cosa, tu la distribuisca, un po' per giorno, in molte parti del convento, in quelle parti che sono fuori della vista giornaliera.
— Oh... questo è impossibile.
— Per chi ha buona volontà non c'è niente di impossibile.
— Anche questo può esser vero... ma...
— Che ma?
— Vossignoria sa cosa c'è di nuovo.
— Vuoi tu che non lo sappia? Sono uno di quelli che hanno fatta la legge.
— Capisco.
— Non c'è dunque per me nessun pericolo a contravvenirvi.
— Per vossignoria, no; ma per quelle del convento...
— Ma sei forse innamorato delle monache?
— Io? oh!...
— Lascia dunque andare, e piglia questi due zecchini che cogli altri faranno otto... Finita la cosa, te ne darò altri quattro, e così faranno dodici. Trovami fuori or tu un ortolano in tutto il Ducato che in ventiquattro ore guadagni dodici zecchini.
— A far l'ortolano, no; ma nemmeno io ci riesco, perchè mi pare ch'oggi non si tratti nè di cipolle nè di lattughe.
— Dunque...
— Eh... basta... quando si tratta di cambiar stato, si può fare un tiro anche alle monache.
— Sicchè?
— Sicchè... se vossignoria ha altri affari a cui pensare, ci pensi pure... che in quanto a questo è bell'e spicciato.
— L'ho detto io. Cera lustra, occhio furbo e galantuomo.
Furbo sì... galantuomo non si può sempre viver sicuri di esserlo...
— Va là, va là... e non farmi lo scrupoloso, chè son tutte inezie, e già non si ha a far male a nessuno. Del resto, fatta la cosa, tu viaggi in collina, e un altro verrà al tuo posto. Anzi, dovresti pensare fin d'ora al sostituto.
— Oh non occorre pensarci. Ci sono aspiranti a trentine, chè tutti credono che il convento ingrassi e l'orto delle monache sia un bel zapparlo...
— Ah furbo che tu sei... dunque siamo intesi.
E l'ortolano partì.
Ora per non trarre il lettore per le lunghe, gli basti sapere che, siccome il Suardi volle, così venne fatto; chè l'ortolano distribuì il tabacco tanto equabilmente in tutte le parti del convento, che non ne andarono senza nè il refettorio nè i dormitoj.
E il lettore durerebbe fatica a prestar fede a questo, se non lo avessimo informato appuntino degli abusi e delle enormezze ribalde che si commettevano in Milano per mettere i cittadini in contravvenzione rispetto al nuovo editto sulla Ferma. Nè soltanto si faceva entrar di soppiatto il tabacco nelle case de' gran signori e dovunque si presentava una facile occasione, o un servo venale o un portinajo più venale ancora che facesse il manutengolo; ma ne' giardini si buttavan da' muricciuoli di cinta anche sacchetti di sale, onde poter così gettar la colpa sul padrone di casa, sul prevosto della parrocchia, sul priore del convento: perchè la voracità de' fermieri s'era diffusa a tutta la folla de' loro satelliti, i quali, anche senza averne il comando, commettevano inaudite nefandità per intascare le quote che loro eran dovute sulla esazione delle multe; e, sovente ancora, per altri fini indiretti che sapevano iniquamente dissimulare sotto colore di dover fare inesorabili perquisizioni nelle interne dimore; delle quali esorbitanze or appunto ci porse un saggio il Galantino. Ma che intenzioni aveva egli? ma perchè, sotto pretesto di frugare onde cercare il tabacco di contrabbando, aveva pensato di mandar volpi e faine nell'ovile intemerato?
Questo è ciò che vedremo in seguito. Intanto ci convien recarci in casa di donna Paola, negli appartamenti del suo figlio maggiore, di quel Guglielmo lord Crall che noi abbiamo già visto a venir di gran trotto per via Nuova, verso le parti appunto del monastero di San Filippo. E ci convien far la sua conoscenza intima, perchè non dobbiamo attenderci cose indifferenti da questo bel giovane biondo, costituito dalla duplice natura d'italiano e d'inglese, nato da genitori di tempra fuor dell'ordine comune, caldo di mente, caldo di cuore, scolaro di Parini, lettore di Rousseau, entusiasta, misantropo, che dovea presentire quella melanconia destinata dal secolo a certi spiriti eccezionali, donde poi scaturì il concetto del Werther di Goethe, e quella che si potrebbe chiamare la moda del suicidio.


II


Questo Guglielmo lord Crall lo abbiam già veduto adolescente di dieci in undici anni a tradurre, in compagnia del suo minor fratello, una satira d'Orazio, essendone istitutore ripetitore il giovane abate Parini.
Ora devesi sapere che il marito di donna Paola lasciò morendo una ricca facoltà ai due figli; che mancato a Londra nel 1762 un fratello di esso, accrebbe di tanto gli averi dei due suoi nipoti, che questi potevano stare a fare coi più ricchi di Milano; che il minore di loro, due anni prima del tempo a cui ci troviamo, si recò a Londra per compiacere alla tendenza che sentiva in sè irresistibile per i viaggi e la vita avventurosa; e che il maggiore prescelse di starsi invece con sua madre a Milano, tutto infervorato com'era di lettere e poesia e speculazioni filosofiche. Di questo Guglielmo lord Crall abbiamo anzi sott'occhio un volumetto, stampato del Galeazzi, di poesie latine (Carmina Latina — Domini Gulielmi Cralii — E Londino oriundi — Mediolani, typ. Jos. Galeatii 1765), poesie tibulliane assai più che oraziane, sebbene di mestissima vena, e qua e là soffuse di una mistica nebbia che non poteva appartenere al genio di nessun poeta pagano e latino. Ma de' suoi versi tibulliani modificati dallo spleen inglese, il quale dal sangue del padre era passato nel suo, parleremo in altra circostanza. Per ora ne basti sapere che, mentre egli attendeva alla stampa de' proprj versi, s'innamorò, come può innamorarsi un italiano moltiplicato per un inglese, di una fanciulla, la quale, e chi non l'ha indovinata prima? era appunto la crescente Ada.
Vi sono persone, per lo più femminili, qualche volta maschili, le quali, trovandosi giovani in presenza di giovani dell'altro sesso, non possono nè muoversi nè respirare nè guardare senza nuocere all'altrui buon umore, ossia senza destare qualche furente passione, la quale poi, allorquando non è corrisposta, finisce per essere incomodissima e molesta, e qualche volta persino pericolosa a chi l'ha innocentemente provocata. Egli è perciò che sono talora degni d'invidia quelli che dalla natura fisica non ricevettero tutt'intero nè perfetto il loro appannaggio, ed ebbero qualche occhio di meno, o qualche protuberanza di più, e dalla rachitide e dalla scrofola furono preparati in modo da servire di controstimolo a chi è nato per amare. Costoro almeno, se hanno il diritto di lagnarsi di molte cose, non hanno a subire la sorte di esser vittima dell'altrui simpatia!
Tornando ora al giovane Guglielmo e alla fanciulla Ada, la disgrazia fu che egli stette assente da Milano, per essere stato alle più celebri università d'Italia, una mezza dozzina di anni; e che non potè assistere al graduato sviluppo della fanciulla; bensì, lasciatala ragazzetta, la rivide adolescente, anzi con tutti i prestigi d'un'adulta. Noi non pretendiamo che sia un rimedio sicuro per non innamorarsi di una fanciulla, l'averla vista a nascere, a crescere, a piangere colle lagrime dell'infanzia. Gli uomini non vedono all'ultimo che il frutto maturo, e non rinunciano a mangiarlo per averlo visto acerbo. Tuttavia, qualche volta, giovò questa circostanza a serbare illesi de' giovani maturi dai tormentosi affetti per fanciulle adolescenti, e forse avrebbe giovato anche al giovane Guglielmo. Ma per fatalità quando ei ritornò, a ventisei anni, vide Ada che ne aveva quattordici, con tutti gli attributi esterni dei quindici e quasi anche dei sedici anni. Allorchè la vide, e fu appunto un giovedì di vacanza, la prima di lui sensazione fu di rimanere abbagliato e scosso; la seconda, di non credere che fosse quella stessa Ada che l'avea spesso frastornato co' suoi trastulli infantili. Se non che, passando il tempo, e vedendola altre volte, e sentendola parlare con garbo assai, e ascoltandola cantare e suonare, con quella voce di mezzo contralto velata di voluttà, con quelle mani bianche, lunghe, sottili, intellettuali, se può passar la parola, l'incanto cessò di esser passeggiero. Per di più, movendo ella gli occhi con una espressione di guardatura tenerissima, egli si confidò d'interpretare quell'espressione a proprio vantaggio ogni qualvolta i lenti e grandi occhi di Ada riposavano inconscj su di lui. Ma non bisogna fidarsi dei begli occhi delle belle, chè il loro linguaggio somiglia molto a quello della musica, la quale possiede un linguaggio universale che può dir tutto e può dir nulla, e guai se le parole del libretto non vengono in soccorso delle note. Però, cari i miei giovinotti, che cantate vittoria perchè un'occhiata v'ha lusingato, vogliate credere a chi ha più esperienza di voi: Non vi fidate. E a buoni conti, per la vostra tranquillità, fate venire in soccorso degli occhi una esplicita dichiarazione, la quale, se sarà scritta e in carta bollata, meglio.
Ma se oggi possiamo venire in aiuto de' nostri giovani amici, ci stringe il cuore di non aver potuto aiutare il cogitabondo Guglielmo lord Crall, il quale prestò una fede così illimitata agli occhi di Ada, che ne rimase ferito incurabilmente; gli occhi di Ada, i quali erano ben lontani dal credere di doversi compromettere adempiendo alla necessità del loro ufficio. Ned egli confidò a nessuno il suo segreto; onde la passione tanto più fremeva quanto più era compressa di dentro. Nè mai pensò di farne motto alla fanciulla. Le pareva di troppo acerba. E quando pure avess'egli saputo passar sopra a tal fatto, lo faceva ritroso la condizione di educanda in cui Ada trovavasi ancora. Ma il suo silenzio se valse con tutti non valse con donna Paola. Gli occhi delle madri, quando trattasi di figli amatissimi, comprendono cose che nessun occhio acuto non potrebbe mai decifrare. Ma ella pure, dal canto suo, non solo non ne fece motto al figlio, ma dissimulò profondamente d'essersene accorta. Ella non poteva veder di buon occhio quest'affetto, e si crucciò amarissimamente appena ne ebbe sentore. Le parea come di farsi rea di lesa delicatezza, soltanto a pensare alla possibilità che, ritornando a Milano la contessa Clelia, la quale con sì fiducioso abbandono le avea lasciata la cura della figlia, trovasse poi nella casa medesima di donna Paola già adulto un amore tra la propria figliuola e il figlio di lei. Perciò taceva e sperava, e quando la nobil donna conservatrice del monastero di San Filippo, le parlò dell'indole troppo vivace e risentita dell'educanda Ada, e le propose di ritirarla dal collegio, ella amò di lasciar cadere quel discorso, perchè tutto avrebbe voluto anzichè tenersi in casa quell'occasione di contrattempi e di sciagure possibili.
A tal punto eran dunque le cose, quando Ada alle tentatrici parole del Suardi ebbe risposto più col suono della voce che con altre parole. Ma il dramma sollecitava il suo gran colpo di scena.
Tutti i giorni, essendo entrata l'estate, il giovane Crall soleva recarsi in sul tramontare della giornata in casa della marchesa Serbelloni Ottoboni, dov'era il convegno di tutti i begli spiriti della città di Milano. Il dì stesso in cui il Suardi, per ingiunzione dei capi della Ferma, e per decreto della magistratura, e con permesso della sacra congregazione, trattandosi di luogo eccezionale, aveva stabilito di mandare la solita sgherraglia a perquisire il monastero di San Filippo Neri; quel dì stesso lord Crall non credette di rompere le sue abitudini e si recò in casa Ottoboni. Era l'ora in cui cominciava, a dir così, la processione delle carrozze patrizie dirette al corso di via Marina; e dal terrazzo di casa Ottoboni vedendosi le carrozze che di tanto in tanto si soffermavano, e i cavalcatori eleganti che facevano pompa di sè e dei preziosi puledri, e i passeggieri pedestri, si traeva partito da questa congiuntura per passare quelle ore che precedevan la cena, dimezzando così il tempo tra la conversazione in sala e lo spettacolo del pubblico che moveva a diporto.
In quel giorno, tra gli altri, v'era là l'abate Parini, v'era Pietro Verri, v'era il suo intrinsicissimo Padre Paolo Frisi, v'era Cesare Beccaria, il segretario Cesare Larghi, v'era la sorella di Gaetana Agnese, la non meno rinomata, almeno allora, Maria Agnese, la sola compositrice di musica drammatica ricca di fantasia e di dottrina che vanti ancora la storia dell'arte; v'era quel maestro Galmini destinato a fare il quarto con Adamo, Matusalem e Noè; chè di quel tempo aveva settantanove anni, e tenne dalla natura un piloro di bronzo così poderosamente costrutto, che per morire dovette aspettare altri cinquantanove anni ancora, essendo morto nel 1825 di centotrentotto anni, e avendo così potuto abbracciare in un amplesso quasi tutta la scala ascendente delle vicende progressive dell'arte sua, dal rivoluzionario Monteverde al rivoluzionario Rossini. V'era il pittor Londonio, il tormento dei preti, dei frati, dei vecchi, di tutti, e che, per farlo stare alquanto in riga a quella conversazione quotidiana, non ci voleva che la graziosa dignità della marchesa padrona, e l'occhio fulminante dell'austero Parini. Era quella insomma una bella e buona compagnia, e non sapremmo se oggi se ne potrebbe mettere insieme una migliore.
Il Parini aveva allora trentasette anni, e quantunque, per mangiare, dovesse ancora arrabbattarsi a dar lezione, chè assai poco gli fruttava l'avere avuto dal conte Firmian l'incumbenza di stendere la Gazzetta Ufficiale di Milano, pure era già la figura più gloriosa della città. Erano usciti il Mattino e il Mezzogiorno; e risuonava delle sue lodi tutta Italia, ed avea già ottenuto di frenare il mal gusto che aveva straripato a furia per un secolo e mezzo; di ricondurre l'arte alle sue limpide e severe sorgenti, e di farsi odiare da una mezza dozzina di nobilissimi milanesi, che ebbero l'orgoglio di voler vedere sè stessi nell'ideale dipinto dell'immortale poemetto; tra' quali spiccava quel conte Alberico F..., con cui ci troveremo; il qual conte Alberico volle disputare al principe B... il vanto di aver tentato di consacrare ad una vindice bastonatura le povere spalle dell'abate scellerato.
Ma l'abate impaziente, irrequieto e versatile, passava così zoppicando da un crocchio all'altro, parlando di musica colla bella Agnese, e digredendo, a proposito della mano di lei che scorreva sui tasti di un gravicembalo, sulle qualità indispensabili, costitutive d'una bella mano; e contraddicendo Londonio che voleva sfoggiare la sua dottrina in ciò, e contraddicendolo con apparenza di violentissima enfasi, per finir tutto in celia e lasciar scornato l'avversario comico, il quale, quell'unica volta, avea parlato sul serio; chè era codesto un modo caratteristico del conversare di Parini, come ci vien riferito anche dal suo scolaro e biografo Reina. E dalla musica e dall'estetica delle mani egli passava a parlare col Larghi, schizzando spirito e bile in qualche fuggitiva questione di letteratura e poesia; anche qui alzando la sonora sua voce a far tacere quanti parlavano nella sala, i quali, sebbene conoscessero quella sua abitudine bizzarra, si mettevano in grave apprensione, non fosse mai per impegnarsi qualche lotta violenta e scandalosa. Soltanto tra Parini e Pietro Verri i ragionari correvano in un modo speciale. Quel venerabile vecchio Bruni, che abbiam conosciuto a Pusiano, e che fu per noi il libro parlante che più ci istruì intorno a buona parte delle cose già descritte, ci disse più volte, parlando di Parini e Verri coi quali e tra' quali si trovò sovente, ch'eglino si stimavano assai vicendevolmente, ma si temevano forse più di quello che si amassero, e che però ei sarebbe stato disposto a credere, frugando in fondo a' penetrali della coscienza di ambidue, che qualche spruzzo di celata antipatia avesse leggermente inacidito il loro sangue. Parini primeggiava, e, avea il diritto di primeggiare. Verri voleva primeggiare, e ne avea il diritto. Era dunque invidia, era gelosia?... chi lo sa?... Ma anche gli uomini più intemerati e santi sono uomini; e non ponno frugar ne' cuori de' benemeriti mortali se non gli acuti contemporanei che hanno potuto leggere attentamente ne' loro occhi. Or mentre Parini tuonava, il conte Verri era impegnato in un discorso colla marchesa Ottoboni, alla quale proponeva, essendo essa letteratissima, di tradurre il teatro francese applaudito, e segnatamente le ottime commedie di Molière, per tentare in tal guisa di purgare anche il teatro comico a Milano dalle scipite laidezze ond'era contaminato, chiamando così il Verri in ajuto delle sue idee innovatrici l'opera altrui; applicando la sua immensa attività a infondere vita nuova a tutto quello che invocava una riforma nella sua patria, e amando che fosse applicato a sè quel passo di Sofocle:


Per me, per voi, per tutta
La città mi travaglio ......


In altra parte poi, Cesare Beccaria, seduto solo, anzi sdrajato su d'un canapè, già annojato del peso della sua precoce corpulenza e della gloria che non aveva cercato, dissimulava, sotto l'aspetto d'una indolenza invincibile, l'attività prodigiosa ma intermittente di uno spirito che conflagrava a sbalzi, e prorompeva poi come la lava; e, inerte, pareva non avesse nè pensieri nè volontà di pensare, e non badasse a nessuno dei discorsi che si facevano intorno a lui; chè girava vagamente la semichiusa pupilla di cosa in cosa, come uno che abbia piuttosto volontà di dormire che d'operare; ma in realtà ascoltando tutto, e avvicinando le idee estreme che tumultuavano in quella sala nel cicaleccio di tante persone, e di ciascuna idea che gli paresse non rigettabile facendo base alla feconda generazione di tutte le idee conseguenti, colla prontezza d'una facoltà induttiva prodigiosa.
Ora nel punto che codesto quadro animato si moveva in sala, sul terrazzone agitavasi un altro quadro animato, più attraente di quello che stava in sala, essendo costituito di belle e giovani gentildonne.
I discorsi che volavano all'aria dalle lor bocche leggiadre non assomigliavano a quelli che facevansi al di dentro. Non un tèma industriale, non un tèma scientifico, non uno di belle arti, nemmeno di musica; se pure alle arti non si volessero ascrivere i bei giovinotti attillatissimi che passavano a cavallo per di là. Tenendo dunque dietro quelle care donne ai cari giovani, d'improvviso chi stava in sala sentì esclamare da mezza dozzina di bocche: Guarda, guarda — guardate il Galantino. E tutti, meno il Beccaria, che non avrebbe lasciato il molle canapè per tutto l'oro del mondo, si fecero al terrazzo, ai balconi, alle finestre, tanto quel Galantino era diventato un oggetto di moda, un capo d'arbitrio, come suol dirsi; tanto era esso presente alla memoria di tutti, poichè l'eccesso della sua famigerata ribalderia, quasi redenta da una smodata fortuna, la quale pareva si dilettasse a camminar sfacciatamente sul collo alla virtù; e l'origine abbiettissima di lui, come veniva giudicata dalla casta patrizia preponderante e trionfante in quel secolo, dissimulata dalla più bella faccia di giovine che mai abbia adornato corpo di duca o di marchese, e dalle più belle gambe che mai abbiano fatto risaltar forme greche e guizzar muscoli gladiatorj sotto a maglie di seta bianca, producevano un tale imbroglio e generavano una confusione nelle teste di quelle giovani dame, le quali cavavano pure il fazzoletto canforato se mai bottegajo o bracciante lor passasse d'accosto, che a vantaggio del Galantino avrebbero rinnovate le sommosse cruente di Roma antica per mettere la plebe sulla testa dei patrizi.
Il nostro vecchio amico Bruni, che conobbe il Galantino e lo vide più volte in Milano tanto a cavallo che a piedi, un dì, mentre stava raccontandoci i suoi fasti più celebri, ci fece il suo fisico ritratto senza trascurare la ricchezza degli accessorj. «Io non mi ricordo — riportiamo le precise parole del Bruni — d'aver mai veduto più bell'uomo vestito più sfarzosamente; e quando esso cavalcava per la città, preceduto da un servo gallonato, il suo nobile aspetto, lo sfarzo de' suoi abiti, la ragazzaglia che spesso gli traeva dietro, tutto questo, ad un forastiero che lo avesse visto la prima volta senza conoscerlo, potea facilmente darlo a credere pel governatore della città o per qualche altro distinto personaggio. Eppure era quello che era, e mio padre, col quale mi trovavo a Milano nel '66, mi disse d'averlo veduto più volte aiutare il mozzo di stalla dell'albergo dei Tre Re ad attaccare i cavalli alle vetture».
Venendo ora al fatto nostro, la comparsa del Galantino sotto i balconi di casa Ottoboni Serbelloni diede una repentina diversione a tutti i discorsi che si facevano dalle persone là convenute, associandole tutte in una discussione sola. Pochi momenti prima era entrato in sala lord Crall. Il fasto del Suardi fece mettere sul tappeto l'editto del '66. Parlò il Verri, parlò il Parini, parlò Beccaria, parlò il giovane Guglielmo. E il dibattimento fu tale, che merita la pena che noi lo riproduciamo, tanto più che la conseguenza di esso fu una pericolosa risoluzione presa dal figlio di donna Paola, risoluzione che aggruppò, facendolo più serio, il dramma.


III


— Bello eh?... disse ironicamente il segretario Cesare Larghi, il celebre villottista, alla figlia maggiore della contessa Marliani che somigliava alla madre.
— Altro che bello, bellissimo... rispondeva la contessina; guardate là il marchese Sannazzaro e don Glicerino Brebbìa che figura fanno, cavalcando poco discosti da lui.
— Io scommetto, entrava a dire una assai matura dama, la quale era però stata molto giovane e molto bella, e s'era giovata troppo bene e della gioventù e della bellezza; io scommetto che venne fatto uno sbaglio o dalle comari o dalle balie, e che colui fu tramutato in cuna con qualchedun altro... perchè il sangue sopraffino si conosce alla sua pelle. Guardate là il conte V... che gli passa accosto galoppando... Chi venisse oggi a Milano per la prima volta, e non sapesse niente di niente, come mai potrebbe dire che colui è un grande di Spagna, a dispetto di tutto quell'oro... e che il Galantino è quello che è?
— Sapete cosa c'è di nuovo, cara contessa?
— Sentiamo.
— C'è di nuovo che tanto il conte V... quanto il Sannazzaro e don Glicerino e il conte Alberico che vedo laggiù e gli altri, farebbero assai bene a studiare un certo epigramma che so io, e a metterlo in pratica, già s'intende colle opportune varianti...
— Sentiamo l'epigramma...
— Scusate se vi richiamo un nome che puzza di scandalo... ma chi non ha conosciuto la Valaperta?...
La dama torse il viso con un lezio della bocca che significava schifo e ribrezzo...
— Eh, non occorre che mi facciate quel viso, amabile contessa. Ma volere o non volere, se la Valaperta girò da una mano all'altra per vent'anni e su tutte le piazze come una cambiale tempestata di accetto e di firme; ciò non vuol dire che non fosse molto bella e in ultimo molto ricca, e che scarrozzasse su e giù per di qui e per il corso di via Marina con gran treno e livree rosse...; ma un bel giorno si videro scritte su tutte le cantonate della città queste parole chiare e tonde:


La Valaperta infame
Oggi trionfa in cocchio.....
Andate a piedi, o dame.


E l'epigramma fu così efficace, che una grida, con minaccia di multa e prigionia e corda, non poteva essere eseguita più puntualmente; tanto che per una quindicina di giorni non si videro più carrozze al corso, nè dame in volta... e la Valaperta, vedutasi sola e saputa la congiura, lasciò Milano e sparì... Ecco dunque quel che dovrebbero fare questi cavalierini sciocchi...
— Scusate, ma se le dame avevano ragione, i cavalieri avrebbero torto; credereste forse voi che, scomparendo i cavalieri, il Galantino volesse scomparire per puntiglio?...
— Per puntiglio, no certo... non è un uomo tanto sottile di pelle. Tuttavia la ribalderia scornata in pubblico farebbe sempre il suo buon effetto...
— Caro il mio Larghi, entrava a dire il Londonio pittore, non è troppo facile a scornare la ribalderia quando mette gli speroni e va a cavallo; e cavalca meglio della virtù....
— Vi prego di andare adagio colla virtù, faceva osservare il Parini, perchè non mi pare che nel conte V..., per esempio, e nel conte Alberico F... e nel principe B... ella abbia dei rappresentanti troppo legittimi. Quando si nasce sul materasso trapuntato di zecchini, a non commettere ladrerie e trufferie non occorre di essere nè sant'Ambrogio, nè san Carlo...
— Sono anch'io del vostro parere... ma giacchè si parlava di scornare i ribaldi... io li ho ben tratti nell'agguato l'altro jeri... e senza pigliar le cose sul serio... anzi...
Il vecchio Galmini, amicissimo di Londonio, proruppe in una risata a queste parole, soggiungendo poi:
— Questo l'ha proprio trovata fuori di conio; e dimostrò l'inutilità delle dimostrazioni in pubblico… e la sciocchezza dell'astenersi dal piacere di tirar tabacco per farla ai fermieri.
— Ma cos'ha fatto? dissero molti ad una voce, cos'ha fatto?... qualcuna delle sue, già m'immagino... Orsù, raccontate...
— Ma non san nulla... lor signori?...
— Davvero che è stata bella, diceva il Larghi, ma non tutti hanno il coraggio e la vena e il buon tempo di questo bel matto qui...
— Raccontate dunque...
— Ma io stupisco, diceva il Londonio, che non se ne sappia ancora niente... Però m'accorgo che quelli stessi che furono presi in trappola sono andati d'accordo nel non lamentarsi in pubblico... Ah ah ah!!
— Sentiamo dunque...
— Care damine gentili... abbiano pazienza, ma non son cose da dire a loro... I loro nasi ne soffrirebbero più che i loro cuori; e altro che canfora ci vorrebbe...
Ma continuando il Galmini a sganasciarsi dal ridere, cresceva nelle dame la volontà di ascoltare, mentre il Londonio si faceva serio, di quella serietà comica che mette il buon umore negli astanti, e accennava di non rompere il silenzio.
— Suvvia, dunque, parlate...
— Ma e poi, se mi fan mettere alla porta?
— Non lo faremo.
— E poi, se venendo per far loro una visita, ordineranno ai servi di dirmi che non sono in casa?
— Non lo faremo.
— E poi, se non permetteranno mai più ch'io parli alla loro presenza?...
— Lo permetteremo sempre.
— Sempre?
— Sì.
— Lo promettono?
— Lo promettiamo.
— Ebbene... si tratta di...
E tutte le dame, a sentir la parola che noi non vogliamo trascrivere, ma che uscì dalla bocca di Londonio, fuggirono chi in un lato, chi in un altro della sala, gridando ad una voce: Uh!...
— Or basta così, disse allora seriissima la marchesa Ottoboni, ma nascondendo i guizzi del riso sotto a muscoli protesi a gravità. Basta così...
— Adesso poi, mi permetta, marchesa, ma voglio andare innanzi io... Sappiano dunque che lunedì, la direzione dell'ufficio della Ferma generale ricevette una lettera anonima, che io naturalmente avevo letto prima che fosse ricapitata. Nella qual lettera era fatta la denuncia «Qualmente che in casa del pittore Londonio fosse nascosta una quantità considerevole di tabacco da naso, tabacco di Spagna di prima qualità... e che era nascosta nei tali e tali luoghi...» Ora la lettera anonima fece presa... e tanto, che nell'ora in cui si stava a tavola, tre commissarj della Ferma, due tenenti della giunta, due bargelli del capitano di giustizia si presentano al portinajo di casa, il quale tutto scalmanato entra e dice: — È qui la forza... coll'ordine di fare una perquisizione in tutti i locali della casa... — Or viene il buono. Dietro la scorta di una carta che avevano tra mano, si dirigono a luogo sicuro... e in un sottoscala vicino al mio studio trovano una dozzina di boette, o almeno d'involti che a loro pareano boette forestiere; e insieme con quelle tre grandi vasi coperti; e dal sottoscala passando in giardino trovano altre boette e altri vasi in un ripostiglio del corridojo... e così altrove. Scoperto il corpo del delitto, fatta portar penna, carta e calamajo, due de' commissarj della Ferma e un tenente della giunta si accingono a stendere il processo verbale... ma prima, a constatare la qualità del tabacco, que' tre personaggi gravi, arcigni, terribili, fatto scoperchiare un vaso, immergono le loro sei dita contemporaneamente come se facessero l'esercizio, portando poi ciascuno le due dita al loro naso magistrale; se non che, pur contemporaneamente, si guardarono in faccia con un tale scontorcimento del viso e tali smorfie strane, che per quanto io fossi preparato, non potei trattenere gli scoppj del ridere... Allora... quei tre minossi, compromessi nel decoro, proruppero in basse villanie contro di me... ma io intimai loro il rispetto alla casa altrui, mentre li invitava a spiegarmi il motivo della loro venuta... E così, dopo molto tempestare, dovettero partire scornati; chè in conclusione non era tabacco, ma fimo polverizzato di stambecco e di bue e di cavallo, ecc., ecc., e quei signori credo che avranno dovuto consumar molto ranno e sapone per lavarsi le mani, e purgare le narici autorevoli. Del resto, la cosa mi pare che abbia fatto un cert'effetto... perchè è da tre giorni che non si sente a parlare di perquisizioni domiciliari.
Così parlò il Londonio, tra il riso mal celato delle dame permalose e curiose; e noi lo abbiamo lasciato dire perchè il lettore sapesse un fatto che, propalato allora dal Londonio stesso, menò rumore per tutto il Ducato. Del rimanente, quando mai avessimo offesa la delicatezza squisita de' nostri lettori, la colpa non è nostra, se dovendo porre in iscena la vena epigrammatica del pittor Londonio, il quale fece tanto ridere il suo secolo, non abbiam potuto far peccare quest'uomo per abuso di acque nanfe, mentre fu una sua abitudine costante il non lasciar mancare mai l'odor d'ammoniaca negli intingoli delle sue incessanti celie, che mettevano di buon umore anche le dame più accigliate.


IV


— Bravo il nostro pittore, disse lord Crall; il vostro spirito, per maturare, ha bisogno, come i cavoli dell'agro lombardo, di essere ingrassato dal concime. Voi avete trattato da pari vostro questa faccenda, ma io la tratterei da par mio, ossia con tutta la serietà di cui può essere capace un uomo che ride due o tre volte in un anno; e vorrei che i signori commissarj della Ferma venissero una qualche volta in casa mia; una volta sola, e vi assicuro che, senza tener conto delle conseguenze, io farei tal cosa da insegnar la giustizia col mezzo della violenza. Giacchè pur troppo mi accorgo che contro a certi mali ci vogliono rimedj speciali. Ma intanto mi scusi l'abate Parini, se questa volta me la piglio anche con lei.
— Con me?
— Precisamente con lei per quanto io le sia obbligato da tanta gratitudine. Prima di tutto, a che essere ammesso, pe' suoi meriti straordinarj alla confidenza del conte Firmian, che mi dicono avere l'istinto del bene, senza parlargli chiaro, e senza dimostrargli lo scandalo dell'ultimo editto? In secondo luogo, a che avere tra le mani l'arme onnipotente di una gazzetta, lasciata in suo arbitrio, senza adoperarla quando più freme il bisogno? A Roma la Ferma venne abolita in virtù delle gazzette; è una gazzetta che fuori di qui scarica assiduamente le sue armi per ferire la Ferma. Ma le armi degli ignoti valgono poco. Vuolsi che la verità sia fatta risuonare da un uomo venerato dal pubblico e rispettato dagli stessi uomini del potere, perchè sia riconosciuta siccome tale da tutti; ed io sono certo che se nel gazzettino di Milano uscisse una catilinaria dell'autore del Giorno contro agli arbitrj de' fermieri, questi si conterrebbero alquanto, o l'autorità penserebbe a contenerli.
— Mi piace la vostra franchezza, giovane generoso, rispose il Parini, ma quel che torna inutile non va fatto. L'autorità che un uomo d'ingegno e di cuore s'è legittimamente acquistata, finisce a spuntarsi quando il pubblico s'accorge che, per quanto ella sia generosa, non viene ascoltata. Avete veduto che risultamenti ebbe la notizia che ho spacciato sull'abolizione de' castroni. Lodi da Voltaire, lodi da Federico di Prussia, lodi da tutte le teste quadre d'Europa. Fin qui va benissimo. Ma gli elefanti canori continuano a contaminare le scene; e tutti gli anni genitori spietati offrono sul bacile, in sacrificio all'arte musicale, la parte migliore de' loro figliuoli... ed io... io son posto nella schiera di coloro che tengono, da quelli che in apparenza lodano l'ingegno, sprezzandolo in fatto, il permesso di garrire a deserto. Del rimanente ho parlato al conte Firmian di quello che tanto vi cuoce, e per consolarvi, vi dirò che qualche cosa si farà, e l'editto verrà in gran parte riformato; e poi c'è qui il consigliere Verri che...
— Io spero, prese la parola il Verri, di poter venir in aiuto dello scherzo serio del nostro pittor Londonio e della vostra giusta indignazione, lord Crall. L'abate Parini, protestando sul gazzettino e contro l'autorità di chi ha fatto l'editto e contro i fermieri che lo usufruttano colla più schifosa interpretazione, sapete che avrebbe raccolto gran lode dai buoni, e basta lì... ma si sarebbe inimicato il governatore, e sarebbe stato perseguitato, Dio sa in che modo, dagli interessati alla Ferma; e il pubblico non ne avrebbe avuto nessun vantaggio. Queste cose, caro mio, bisogna pigliarle blandamente; e poi quando si vuole inoculare ai grandi e ai piccoli, a chi comanda e a chi obbedisce il senso della giustizia e della moralità, sapete che cosa bisogna fare? bisogna far sì che la giustizia e la moralità trovi un posto sul libro mastro del dare e dell'avere, e farle comparire non più austeramente vestite e colle mani vuote, ma addobbate sfarzosamente, e col cornucopia versante dobloni nelle casse dell'erario. Non è che la finanza, la quale in certi casi, confederandosi colla giustizia, può, facendo i proprj, far anche gl'interessi della povera compagna, quasi sempre derelitta. È un pezzo che lavoro a queste cose, e già ho aperto gli occhi a chi li aveva chiusi naturalmente e a chi li teneva chiusi per convenienza. Persuaso di questo, ho cominciato a fare indagini insistenti per redigere un bilancio dello stato del commercio nel ducato milanese, che feci pubblicare senza perder tempo. Io sapevo benissimo che, a discoprire gli altari e a togliere il velo ai misteri, più di uno avrebbe guaito, e qualcheduno anche di quelli che stanno più in su. Il che di fatto avvenne, ed ebbi accusa d'avventato e d'imprudente; perchè non si voleva che io mettessi il pubblico a parte delle mie rivelazioni; e si amava piuttosto che dalla mia testa le versassi nella testa altrui, senza che nemmen l'aria se ne accorgesse. Ma io sapevo quel che mi facevo, prima di tutto perchè fatto palese il falso movimento di un congegno della gran macchina civile, chi la governa è costretto ad operare a suo dispetto, e a suo dispetto spesse volte s'incammina a raccogliere gli applausi della moltitudine; poi, perchè di questi applausi, giacchè avevo fatto la fatica, desideravo averne anch'io la mia quota; e ciò mi pare che sia ragionevole. Intanto sono riuscito a far comprendere che l'innocente diletto di far strillare il pubblico sotto alle battiture dei fermieri costava allo Stato due milioni all'anno, e che però l'abolizione d'infinite vessazioni ne faceva entrar due nelle casse erariali. Quando gli atti magnanimi fruttano danari è facile a farli diventare contagiosi. Ecco perchè senza perdere gran tempo, sono riuscito a insinuare l'idea della Ferma mista. Questo è il primo passo, ed era il più difficile; il resto verrà da sè.
— Ma come avvenne, domandava il Parini, che i ventotto capitoli dell'editto del mese d'aprile, i quali hanno messo la costernazione in tutto il popolo, sono posteriori alla vostra nomina di consigliere del Consiglio d'economia, e alla vostra elezione a rappresentare il Governo nella Ferma mista?
L'editto era già steso, e per quanto io abbia strepitato, lo si volle far impastare sulle cantonate della città, perchè i fermieri furono più forti d'ogni più forte ragione.
— E perchè, per il momento, soggiunse il Beccaria colla solita sua aria sbadata, due mila ducati nelle saccocce di chi porta l'armellino sotto la toga, pesano di più che due milioni nelle casse forti della finanza. In ogni modo puoi chiamarti fortunato, il mio Pietro, perchè appunto hai trattato una questione, in cui l'amore per il pubblico bene si trasmuta in oro sonante. Così potessi anch'io provare che la riforma del diritto penale è un buon affare di commercio da convertirsi in danaro; che in quarantott'ore scomparirebbero dai crocicchj gli squallidi apparati della tortura... Così qui il nostro abate Parini avesse potuto dimostrare che l'abolizione de' castroni è un lauto affare di finanza; chè allora avremmo veduto un decreto del Ganganelli a precedere gli encomi di Voltaire. — Così il suo Giorno e le sue Poesie... Ma che cos'è successo che lord Crall grida come uno spiritato?
Codesta repentina diversione del discorso di Beccaria era infatti provocata dalla voce di lord Crall, che tuonò improvvisa, come allorchè sorviene qualche disastro, o corre qualche ingiuria tra gl'interlocutori.
Che è, che non è, tutti si misero ad ascoltare. Un giovinotto, entrato allora in casa Ottoboni, avea raccontato che, cavalcando lungo il corso di porta Romana, e piegando, per la strada del naviglio, verso san Barnaba e le vie lì presso, avea veduta accorrere gran folla di gente per quei luoghi quasi sempre abbandonati; ed egli per curiosità tenne dietro alla moltitudine, e venuto al monastero di San Filippo, avea sentito come i commissarj della Ferma colla sbirraglia erano entrati a perquisire in convento; e siccome ad onta delle mille esorbitanze de' fermieri, pur era quella la prima volta che si attentavano di introdursi in un monastero, così la voce corsa v'avea chiamato e vi chiamava gran gente.
Lord Crall a quel racconto, in prima era rimasto immobile, poi non avea potuto trattenersi dal rompere in parole della più violenta esasperazione: e Spada e pistola ci sono, gridò... e qualcuno oggi la pagherà per tutti, e così dicendo, calcandosi il cappello a tre punte in testa, uscì come un invasato dalla casa Ottoboni.


V


Il giovane Crall, uscito dal Palazzo Ottoboni Serbelloni, fece la via con quell'affannosa sollecitudine di chi non ha altro timore che d'arrivar tardi. Passando a volo tra gente e gente, venuto alla corsia de' Servi, svoltò a sinistra nella contrada de' Pattari, passò per piazza Fontana, venne in contrada Larga, attraversò la contrada Velasca e, riuscito a Porta Romana, piegò a destra, e svoltò infilando la viottola di san Vittorello, giunto alla metà della quale entrò in una porta larga e tozza, quella porta medesima su cui oggi si legge — Vettura per città e per campagna. Attraversato il cortile, si fermò davanti ad un ingresso chiuso da due imposte, nella destra delle quali era infisso un pendulo martello a serpente. Diede due gran colpi, l'uno vicinissimo all'altro, poi attese alquanti secondi, e diede un terzo colpo più deciso e più sonoro dei due primi. Allora le imposte si spalancarono, come se un nascosto congegno le avesse fatte girare, e com'egli fu entrato, quelle si chiusero dietro lui. Il luogo dove lord Crall avea inoltrato il piede, era un'aula vasta; tre lampade pendevano dalla vôlta. Questa e le pareti eran tutte tappezzate di drappo nero; scheletri interi e frammenti di scheletri umani, costati, braccia, stinchi, teschi erano appesi intorno intorno come trofei. Una gran tavola coperta di panno nero era ad un'estremità dell'aula. Assiso innanzi ad essa stava un vecchio, d'aspetto grave, con due altri seduti alla destra ed alla sinistra di lui. Sulla tavola, davanti all'uomo seduto nel mezzo, era un teschio, uno squadro, una cazzuola ed altri ordigni. Dietro a lui, molto in alto, pendeva dalla parete un quadro che rappresentava i ruderi di un gran tempio, sulle due colonne anteriori del quale si leggevano queste parole: — Iachin e Booz. — Sotto ad esso era un tripode, e sul tripode una lampada funeraria, da cui guizzava una gran fiamma verde azzurra che rischiarava misteriosamente quel quadro e tutta l'aula e le faccie dei tre che stavano innanzi alla tavola, e le trenta o quaranta faccie degli altri, seduti in ampio cerchio rimpetto ai tre. Quando il giovane Crall fu entrato, pronunciò le stesse parole che si leggevano sul quadro — Iachin e Booz, — e tutti si alzarono, ed egli prese posto tra gli altri. Ma ora, perchè il lettore non sospetti che lo si voglia divertire colle fantasmagorie della lanterna magica, sappia che era quella un'adunanza di uomini appartenenti a quella società segreta, i cui fasti, giusta la credenza di alcuni dei suoi più fanatici seguaci, si sprofondavano nella più remota antichità, società che si vantava discendente persin dai vetusti Bramini, dai Ginnosofisti, dai Druidi remoti; che credeva procedere dai misteri eleusini; che venerava qual suo gran maestro capostipite l'architetto Hiram, il costruttore del tempio di Salomone; ed ecco perchè sulle due colonne superstiti del portico del tempio distrutto, cui figurava il quadro che abbiam descritto, vedevansi le parole Iachin e Booz, le quali vennero fatte scolpire da Hiram sul tempio di Gerusalemme, per accennare alle idee della edificazione e della forza. Mentre però quella società gloriavasi d'una nobiltà tanto antica, che all'uopo non bastandole di fermarsi ad Hiram, risaliva a trovar le sue origini fin nella torre di Babele, compiacevasi pure di procedere da più umile ma più prossimo e più sicuro stipite; chè dopo il secolo VIII e nei secoli XII e XIII, nell'occasione segnatamente che fu innalzato il tempio di Strasburgo, fu dessa rappresentata e diffusa vastissimamente da quella confraternita di capimastri e muratori che lavorarono ai più cospicui edificj di tutte le parti d'Europa, e impressero dappertutto con opera continua ed uniforme, quello stile d'architettura che, falsamente detto lombardo in Italia e falsamente gotico in Francia, non fu altro che il neogreco, il quale, abbandonato il Partenone, si era appreso al tempio cristiano. Se non che il fatto dell'architettura murale s'era convertito in simbolo dell'idea di civiltà e di progresso; epperò tutt'Europa avea brulicato di tante figliazioni di quella società, quanti erano uomini invaniti della persuasione di poter essere illuminatori del loro secolo.
Una tale società che, senza essersi mai spenta del tutto, ebbe però de' periodi del più inerte languore, si ridestò tutt'a un tratto verso la metà del secolo passato in Inghilterra prima, poi in Francia, e colla più rapida moltiplicazione poi in Italia. Nel 1732 avea stabilita una loggia a Roma. Nel 1747 ne piantò una a Milano (si chiamavano logge i luoghi delle sue adunanze). Nel 1766 ella viveva ancora ed avea residenza appunto nella contrada di san Vittorello. L'autorità conosceva l'esistenza sua, ma non ne pigliava gran fastidio perchè da essa non era mai derivato danno di sorta; d'altra parte sapeva che la moltitudine, alla quale era pur nota l'esistenza di lei, la derideva manifestamente, e perchè non avea mai veduto procedere da essa atto veruno che, in poco o in tanto, influisse sul bene pubblico; e perchè sapeva come quelle serali e notturne conventicole si sciogliessero spesso in pranzi lauti e cene prolungate. Comunque del resto fosse di ciò, nel tempo a cui ci troviamo colla nostra storia, quella società, ingrossata di fresca schiera e sollecitata da qualche spirito fervoroso, avea preso un avviamento un po' più determinato e serio. A noi non consta che il Verri v'appartenesse. Il suo ingegno acuto e pratico e consistente gli avrà fatto riconoscere e deridere l'inutilità di tali riunioni. Ma vi appartenevano molti suoi amici, e di quelli ch'egli stimava e che stimavano lui, tra' quali il giovane Crall, ch'era il più caldo di tutti.
Questi, domandata ed ottenuta la parola dal gran maestro presidente, così parlò a quell'adunanza:
— Venerabile maestro del grand'Oriente, maestri fratelli, compagni ed iniziati, la causa che qui m'ha oggi mandato è della più alta importanza, ed ha bisogno della vostra forte e pronta cooperazione. Nelle ultime adunanze, a voti unanimi, fu determinato che la nostra loggia sarebbe d'ora innanzi intervenuta immediatamente a soccorrere il prossimo in pericolo, non soltanto coll'opera del pensiero, ma anche con quella della mano, esponendo al bisogno anche la vita, quando l'occasione fosse stata grande ed urgente. Venerabili fratelli, quest'occasione è venuta! Tutte le case, tutti i ceti, tutte le confraternite, tutti i corpi sacri e morali della città di Milano sono da più giorni esposti alle violenti soperchierie, ed alla rabida fame de' fermieri. Sono esposti eziandio agli arbitrj, ai capricci, alle voglie talvolta oscene degli sgherri della Ferma. Finora vennero risparmiati gli asili delle sacre vergini, dove si raccolgono per educazione le fanciulle delle più distinte famiglie della città. Ma oggi per la prima volta si penetrò in essi. Il monastero di San Filippo Neri fu, momenti sono, invaso dalla sbirraglia de' fermieri, sotto pretesto che vi sia nascosta mercanzia di contrabbando. Propongo adunque che quanti siamo qui tra i più giovani e i più avvezzi all'arme, usciam tosto per recarci colà a respingere la violenza colla forza. È necessario un esempio, è necessario che qualche vita si sacrifichi alla giustizia, è necessario che qualche fatto enorme scuota dal colpevole letargo coloro che pur tengono il mandato del pubblico bene, ma che, impinguati dalle volpi, chiudono gli occhi e lasciano fare. Quelli che sono del mio avviso, permettendolo il maestro venerabile, si alzino dunque e mi seguano.
A queste parole così determinate, proferite con voce sonora e con accento caldissimo, successe un bisbiglio fra quanti erano là radunati nell'aula. Il maestro venerabile, con placido discorso, tentò dissuadere il fratello Crall da quell'impresa arrischiata; il maestro oratore venne in soccorso del venerabile, così pure il maestro tesoriere e il segretario, tutte persone che probabilmente non volevano compromettere i pranzi e le cene future con qualche passo arrischiato.
— Ma a che, gridò allora il giovane Crall, abbiamo pronunciato con tanta solennità il giuramento dell'ordine? Dimmi tu, e qui si rivolse ad un giovane vicino, dimmi tu che l'altro giorno non eri che un lupicino venuto a cercar qui la luce (si chiamavan lupicini i candidati prima di essere ricevuti in quella società), dimmi ora dunque: che cosa hai giurato quando fosti trovato degno di essere ammesso fra gli adepti? Parla, che cosa hai giurato su questa spada?
— D'amare i miei fratelli, e soccorrerli a norma delle mie facoltà.
— E a che hai acconsentito quando mai tu non sapessi mantenere il giuramento?
— Che mi sia troncato il capo, strappato il cuore, abbruciato il corpo e gettate le ceneri al vento.
— E perchè dunque una così atroce sentenza?… soltanto forse per togliere la possibilità che qualcuno di noi manchi al convegno, quando si tratta di sedere a mensa per divorare con formidabili ganasce le più saporite imbandigioni? È forse ai cuochi soltanto o ai vinattieri che abbiam giurato di esser utili? e per così poco mettere a repentaglio e testa e cuori e ceneri? Suvvia, dunque, che si fa?
Al venerabile mancò la parola, tacquero l'oratore e il tesoriere. Una dozzina di giovinotti si alzarono, sfoderando le spade e gridando: Noi siam tutti pronti, se lo permette il venerabile. Questi crollò il capo, e disse: Andate, che la fortuna vi salvi, ma ricordatevi del segreto. L'adunanza si sciolse, e ne uscirono una decina di giovani armati di spada e di proposito deliberato.
Or lasciamo che costoro s'avviino verso il monastero di San Filippo, prontissimi a cavar dal fodero di pelle bianca inverniciata la spada non ancor molto cruenta, e in procinto di produrre un tal disordine, da far strillare di spavento la madre badessa, le monache e le educande e da costringere le leggi tapine a dar la testa nelle muraglie per la novità del caso. In questo frattempo noi dobbiamo recarci altrove ad assistere a un dialogo tra il Galantino ed un personaggio che comparirà per la prima volta in iscena, ma che fu da noi tante volte nominato, e che, a tutto rigore, potrebbe reputarsi il primo personaggio del dramma, o per lo meno il personaggio indispensabile; perchè se costui non fosse nato, non sarebbe avvenuto nulla affatto di tutto quanto abbiamo raccontato e racconteremo. Egli è il figlio della Baroggi, il pupillo patrocinato indarno dal galantuomo Agudio. Noi l'abbiamo nominato più volte quand'esso non aveva che cinque anni, ed ora che dobbiamo conoscerlo di presenza ha compiuti gli anni ventuno, ed è sotto-tenente nelle guardie di confine della Ferma generale; carica che press'a poco ora corrisponderebbe a quella di sergente nelle guardie di finanza. Ma in che modo questo disgraziatissimo giovane, che pure fu a due dita di essere uno tra i pochissimi benedetti dalla fortuna e dalla ricchezza, passò i sedici anni dal 1750 al 1766? in che modo il Galantino, per le sue buone ragioni, andò a soccorrere la povertà infelicissima della madre di lui e ad offrire al figliuolo un posto tra le guardie della Ferma? a che cosa or lo vuole adoperare, per usufruttuare il beneficio, nel colpo che sta per tentare? che effetto sarà per fare in convento la comparsa d'una dozzina di giovani guardie della Ferma, protette dalla legge, prepotenti e viziate? che sarà per nascere dal parapiglia guerresco tra i compagni della loggia di san Vittorello capitanati da lord Crall, e che stranissimo qui pro quo potrà generarsi da tutta questa arruffatissima matassa?


VI


Intanto, prima di assistere al dialogo tra il Galantino e il figlio della Baroggi, e a sapere in che modo incominci la relazione tra l'uno e l'altro ed inoltre com'erano riuscite infruttuose le cure del prevosto di san Nazaro e dell'avvocato Agudio per far constare la paternità del defunto marchese F... a favore del fanciullo stato battezzato nella parrocchia di san Nazaro sotto il nome della madre; così avendo voluto il marchese stesso, previa una dichiarazione orale fatta dal medesimo al prevosto, colla quale avea promesso di volere a tempo migliore dargli il proprio nome. È a sapere altresì come la testimonianza solitaria del prete non avea avuto nessun peso in giudizio, perchè la consuetudine voleva che insieme col parroco testimoniasse anche il padrino il quale mancò; e nemmeno ebbe valore la testimonianza del notajo Macchi, quello ch'era stato chiamato a stendere il testamento nel quale veniva istituito erede il figlio della Baroggi, pur nominato qual figlio dal marchese testatore, ed assunto al diritto e all'obbligo di portarne la parentela; e tutto questo ad onta del patrocinio dell'avvocato Agudio, che invano aveva adoperato tutta la sua sapienza e sagacia legale per far che quelle due testimonianze avessero valore a provare la paternità che si negava dagli avversarj. Ma gli avversarj erano riusciti a convincere i giudici, o almeno i giudici avevano avuto il loro interesse a lasciarsi convincere, come quelle testimonianze dovessero valutarsi separatamente e al cospetto di due circostanze diverse e che però, prese isolatamente, non dovevano e non potevano avere nessuna forza di prova; e tanto meno, in quanto il registro battesimale era il solo atto scritto legittimo e pubblico a cui doveva aversi riguardo nella trattazione di quella causa. Bene l'Agudio aveva insistito nella dimostrazione che, sebbene fosse vero, per essere la testimonianza del notajo Macchi relativa alla scritturazione d'un testamento, e quella del parroco relativa ad una dichiarazione orale fatta dal marchese in tutt'altra circostanza e per tutt'altro intento, che dovessero prendersi isolatamente; non di meno venivano esse come a confederarsi ed a costituire la validità della duplice testimonianza quando si guardava al solo ed esclusivo fatto della paternità.
Perduta adunque la lite dalla Baroggi, sentenziate insussistenti le sue pretese a favore del di lei figlio, ella si venne a trovare nella più deplorabile condizione.
Il prevosto che l'avea presa a proteggere, erale sempre stato liberale di qualche soccorso, anche dopo svanita ogni speranza; ed avea provveduto eziandio a far educare convenientemente il fanciullo. Ma, per disgrazia, venuto a morte anch'esso, nel 1761, la Baroggi si trovò derelitta del tutto, con un figlio che avea sedici anni, non in posizione di continuare nell'educazione incominciata, non atto a guadagnarsi tosto il vitto per sè e per la madre, dimostrando bensì le più belle attitudini, ma nell'incapacità di poterle far maturare e condurre a perfezione.
Allora la sventurata Baroggi erasi rivolta allo stesso conte Alberico, il quale, per levarsi l'importuna d'attorno, ordinò che il maggiordomo le contasse qualche danaro. Ma il maggiordomo, sborsato per quella volta la somma di che aveva avuto l'ordine, provvide da quell'ora in poi a sbarrar la porta alla sventurata, e a spuntare gl'improvvisi affetti di quella pietà superficiale e sbadata che pur sorgeva in petto al giovine conte ogni qualvolta gli perveniva qualche supplica straziante di quella povera donna.
Questo fatto provocò un certo rumore nella città, tanto che giunse all'orecchio anche del Galantino, il quale di quella faccenda ne sapeva qualche cosa più di tutti. Ora la notizia della condizione deplorabile in cui versavano la Baroggi e il figlio di lei (e difficile a dire se per un senso di pietà spontanea, o per qualche altra causa meno generosa benchè più forte), gli fece una profonda impressione, tanto profonda che pensò di mandare un suo commesso dalla madre a proporle se voleva impiegare in qualche modo il figlio presso gli ufficj della Ferma, che gli sarebbe dato un salario sufficiente onde provvedere a sè ed alla madre. In tal guisa il giovinetto Giulio Baroggi fu impiegato in prima siccome scrivano; poi avendo mostrata assai svegliatezza e solerzia, venne promosso a commesso delle esattorie, infine a sotto-tenente nelle guardie della Ferma; carica che gli fruttava un non dispregevole salario, una bella divisa, e molti di que' guadagni che soglionsi chiamare incerti, sia per le quote che gli eran contate sulle perquisizioni e contrabbandi, sia pel soprassoldo che toccava quando aveva il mandato di percorrere alla testa di un numeroso drappello di guardie tutta la linea del confine.
Se non che la necessità di vegliare le notti, di vivere tra la più rozza gentaglia, e più di tutto, i tristi pensieri che gli derivavano dal confronto tra quello che era e quello che avrebbe potuto essere, gli fecero contrarre la mala abitudine della gozzoviglia, del bere, dell'uso e dell'abuso dell'acquavite, per dar tono alla vita, per mettersi all'unisono e acquistar baldanza tra quelli a cui comandava, e più ancora per scacciare i molesti pensieri, che si facevano sempre più intensi quando la reazione che succedeva all'esaltazione provocata dalle bevande spiritose, gli lasciava infiacchita la fibra e più disposta a subir l'influenza della tristezza. Codeste sue abitudini non gl'impedivano però di essere zelantissimo alle sue incumbenze, perchè la natura gli aveva pur concesso saldezza di mente e saldezza di carattere. Bensì lo avevano condotto al punto d'impegolarsi nei debiti e tanto, che non sempre i suoi guadagni poteano bastare a conservare alla madre quella vita modestamente provveduta che pure fervorosamente egli desiderava nella quiete dell'animo suo, ma di cui si dimenticava tra i bicchieri e tra i compagni. Da ciò dovettero originare disgusti e malumori e alterchi tra lui e la madre, la quale finiva in pianto le sue querele, lasciando il figlio desolato e pentito e pieno di proponimenti di cangiar vita. Però la tristezza gli si era confitta nell'anima al punto, che la giocondità anche passeggiera non era più una condizione naturale del suo spirito, ma un effetto artificiale delle bevande spiritose, delle quali ormai non poteva più far senza, perchè erano il solo mezzo che gli era rimasto a dar qualche istante di requie all'anima travagliata, press'a a poco come chi fa tacere lo stridore dei denti col versarvi sopra l'alcool addormentatore.
Insistendo sul qual fatto, egli è a considerare come dall'infanzia alla fanciullezza, alla giovinezza, avendo egli sempre avuta dinanzi la figura turbata e piagnolosa della povera sua madre, necessariamente gli si venne invelenando l'esistenza; sentendo a parlar sempre di miserie, e vedendo sempre la disgrazia in casa, il suo spirito avea, per questo lato, contratta quasi l'abitudine del timore, come que' fanciulli che, percossi continuamente da madri spietate, si rannicchiano tremanti ad ogni alzar di braccio che pur si mova per tutt'altro. Così anche allora che non v'erano occasioni che potessero presagire infortunj, egli viveva col sangue agitato, e paventava miserie che non solo non eran probabili, ma impossibili. Su questa condizione, diremo fondamentale, della sua esistenza, si vennero poi radicando altri sentimenti profondi. Un odio implacabile contro ai ricchi e ai nobili, che usciva affatto dalla ragionevolezza e dalla giustizia, ma che pur troppo era spiegabile in chi era stato ed era ancora la vittima d'uno di loro, e pareva dovesse portarne le conseguenze in perpetuo. Il marchese F... aveva ingannato sua madre, e sebbene il Baroggi credesse che colui avesse testato a favor suo, temeva tuttavia non fosse stato anche quello un giuoco ingannatore per togliersi d'attorno gl'importuni, i quali volevano impedirgli di lasciar tutte le sue ricchezze al fratello, e di appagar la boria coll'accrescer sempre più l'importanza del casato. In quanto al conte Alberico, è inutile a dire com'egli lo abborrisse con tutta l'esaltazione di un sentimento implacabile. Se non che d'accosto a tant'odio contro di un ceto in genere e di que' due uomini in ispecie, quasi per concedere un po' di riposo al suo spirito, il quale sarebbe stato consumato da quell'assidua acredine, venne spuntando, lo abbiamo già detto, il sentimento della gratitudine per colui che solo fra tutti — egli poi ne ignorava la vera cagione — aveva pur provveduto a sostenerlo, ad ajutarlo, a beneficarlo. E questa potrebbe parere una fortuna, se la disgrazia non avesse fatto che un tal protettore fosse di quelli appunto che si chiamano piaghe e vituperi dell'umanità.
Questi poi alla sua volta tenevasi caro il Baroggi, perchè si valeva di lui in quelle circostanze dove era necessaria una stoffa d'uomo più sopraffina del consueto, una cera più gentile e modi più delicati di quelli che mostravano comunemente i bassi impiegati e le guardie della Ferma. Dopo tutto alfine è a confessare che il Suardi si compiaceva dei beneficj che faceva al suo giovane protetto, e che in cuor suo lo compiangeva, e non pensava e non guardava a quel giovine senza sentirsi tanto quanto commosso. La natura del Galantino era tristissima, il lettore ne ha delle prove per fin soverchie; ma avendo il dono di una mente svegliata, questa di tanto in tanto mandava sul cuore di lui un raggio benefico, che lo rendeva migliore. Si addomestica il leone e l'orso nero, perchè un certo loro istinto d'intelligenza permette all'uomo di ammansarne la ferocia. Ma l'orso bianco è implacabile, perchè è il più torbido di tutte le fiere. Il Galantino tristissimo aveva pur pensato a cercare e della Baroggi e del figlio suo. Il conte Alberico invece, dopo un pugno d'oro concesso per forza, li aveva lasciati alla loro miseria.
Ben è vero che il Galantino più di tutti doveva misurare l'infortunio di quella madre e di quel figlio. Ma il conte Alberico sapeva pure che il defunto marchese ne era il padre, sapeva pure che un testamento era stato scritto a suo favore, sapeva pure che quel testamento era stato trafugato, e che credeva che fosse distrutto; sapeva pure che la fortuna, il solo giuoco della fortuna aveva messe a sua disposizione le ricchezze che avrebbero dovuto appartenere al figlio Baroggi. Ma una volta che si sentì protetto e salvo e assolto dalla legge, e che la legge avea alzato un muro di divisione tra lui conte e il Baroggi finanziere, non pensò mai che dalle sterminate sue rendite che ascendevano a lire milanesi seicentotrentamila, poteva levarne, senz'accorgersi, una lievissima annata, che pure avrebbe bastato a sostentar due vite e a stornare la maledizione dal capo dello zio defunto, e da quello del padre e dal proprio. Or chi dunque può dirsi più tristo, tra l'ex-lacchè Galantino e il conte Alberico F...?


VII


Tornando ora al racconto, quando il Galantino, passando a cavallo sotto al balcone di casa Ottoboni, attrasse gli sguardi e provocò i parlari delle donne allegre e voluttuose che vi stavano radunate; in quel punto, agitando molti disegni in capo, pensava di volgere la corsa verso la casa propria, dove avea fatto dire al sotto-tenente della Ferma, Giulio Baroggi, che si trovasse in sul tramontare della giornata, che egli avea gran bisogno di parlargli. E il Baroggi fu pronto alla chiamata, tanto che, quando il Suardi scavalcò nel cortile della propria casa, quello lo stava aspettando da quasi mezz'ora. Il Suardi salì appena il portinajo gli nominò il sotto-tenente, ed entrato nell'anticamera, e vistolo a passeggiare innanzi e indietro:
— Attendi un istante che vengo subito, gli disse.
— Faccia i suoi comodi, rispose quegli, levandosi il cappellino, e calcandoselo di nuovo in testa quando il Suardi si ritirò.
Vestito della sua verde assisa, coi rivolti bianchi al petto, alle maniche ed alle falde, colle uose di panno nero che gli giungevano a mezza coscia, colla sciabola cinta non senza una certa trascuratezza che aveva il suo vezzo, col cappellino a tre punte tanto piegato in sulla banda destra, che il sopracciglio veniva quasi tagliato a metà; nel passeggiare innanzi e indietro per l'anticamera presentava quell'aspetto eteroclito che, assunto per una consuetudine indeclinabile, sembra farsi quasi una seconda natura in tutti quelli che, senza appartenere alla milizia regolare, portano divisa ed armi in servizio degli ordini civili, e nelle frequenti scaramuccie coi contrabbandieri, sono esposti ai pericoli della guerra, essendo ascritti al men glorioso esercito della pace. Tuttavia le mosse ch'ei faceva nel passeggiare, più che quelle di una guardia di finanza vera e reale, parevano quelle di un attore che ne caricasse le apparenze per rappresentare un personaggio. Chè di tanto in tanto, e per atti fuggevolissimi, la trivialità, quasi assunta per proposito, tradiva una certa eleganza nativa, avendo esso la taglia spigliata e leggiadramente costituita, e la fisonomia e i contorni e i tratti del volto belli e gentili. Bensì sul fondo bianco e pallido della faccia, nella regione dei zigomatici segnatamente, si vedea soffusa una tinta come di rosso di mattone, la quale non pareva naturale, sibbene artificiosamente sovrapposta, ed era infatti l'insegna dell'acquavite e del rack di cui faceva tanto abuso. Esso non contava che ventun anni, ma ne dimostrava buonamente una mezza dozzina di più, perch'era torbida la tinta dell'occhio, il quale però, sotto all'ampio e puro arco del sopracciglio, girava con guardatura intelligente ed espressiva e soave, quando era in calma.
Dopo brevissimi istanti rientrò il signor Suardi, e disse lesto e sommesso al Baroggi:
— Andiamo di là che t'ho a parlare di un affare urgentissimo... Quante ore abbiamo? aspetta, e già tardi... — e così dicendo condusse il Baroggi in un gabinetto vicino.
— Sai, continuava il Suardi, che in sull'imbrunire i commessi della Ferma devono fare una minuta perquisizione nel convento di San Filippo Neri, perchè, per sicurissime informazioni, sappiamo che v'è nascosto in gran quantità del tabacco forastiero.
Il Baroggi guardò il Galantino con un lezio del volto significantissimo.
— Chi ve l'abbia gettato non si sa... perchè non par vero nemmeno che la madre badessa, per il suo privato consumo e per quello delle suore coadjutrici... basta... qualcuno sarà stato... e a noi non importa nè di chi nè del come nè del quando; quel che preme si è che la perquisizione non torni inutile... E voglio che anche tu sii presente... essendo necessario che quella gentaglia di commessi e guardie e sbirri sia tenuta in freno... tu mi capisci.
— Capisco benissimo. Ma capisco anche che si può fare un buco nell'acqua.. e che questa volta era meglio chiudere un occhio e lasciar che il tabacco marcisse in convento, anzichè liberare il volo ai falchetti e gettarli tra quelle povere rondini. Il malumore della città è al punto, che un minimo fatto di più basta a convertirlo in una tempesta da ammaccar il capo di chi si lascerà cogliere. Figuratevi poi questa bagattella. Fin ad ora non fu mai fatta perquisizione in nessun monastero... Torno a ripetere, mi pare che questo voglia essere un colpo falso, di quelli che feriscono e fanno saltar le dita a chi tiene l'archibugio.
Il Galantino tacque un momento, con un certo atto di preoccupazione, poi soggiunse:
— Ma, caro mio, la legge c'è, e se ci fu pel convento dei Cappuccini, e per quello dei Barnabiti... e per casa Visconti e per casa Arconati... ci può e ci dev'essere anche per la casa delle monache. Chi sono infine quelle pettegole? i signori che hanno fatta la legge dovevano pensarci loro...
— Ma sapete, signor Galantino... già qui si può parlar chiaro, che nessuno ci sente... sapete che quell'editto fu una grande iniquità... e dacchè Milano è Milano non s'è mai vista la magistratura a tenere il sacco ai... che cosa si ha da dire?... ai birboni e ai ladri... come in quest'occasione?...
— Come? ai birboni e ai ladri?
— So quello che dico... e quand'esce una legge di quella conformità, chi ha l'incarico di farla eseguire ha naturalmente il mandato di fare il ladro e il birbone... Ed io dichiaro di aver dovuto essere e l'uno e l'altro, quantunque a mio dispetto. E, giacchè si ha a dire la verità tutta quanta, ho avuto caro che voi m'abbiate fatto chiamare, dal momento che avevo un ardente desiderio di parlarvi...
— Parlarmi? e di che?
— Di questo, che se fosse possibile farmi passare dal corpo delle guardie negli ufficj d'amministrazione, a me parrebbe di toccare il cielo col dito.
— Io t'ho fatto nominar sotto-tenente perché sapevo che un tal posto impingua le saccocce.
— E ve ne ringrazio e tanto, chè, dopo mia madre, siete voi il solo uomo a cui mi professi obbligato in tutta questa mia vita maledetta...
— Maledetta... perchè tu l'hai voluto... tu bevi, tu giuochi, tu gozzovigli, tu spendi e spandi, e poi tua madre piange... ed io...
— Voi mi avete sempre soccorso, e torno a ripetere che a voi solo io sento l'obbligo della più profonda gratitudine... ma...
— Che?
— Quando un uomo è nato per correre ad un fine e riesce ad uno opposto; quando un uomo si sente la mente e il cuore fatti per riuscir bene in una certa vita, e dal bisogno è invece costretto a far quello che gli ripugna... allora è necessitato a violentar la natura propria, ubbriacandola, affinchè non si risenta del peso insopportabile che gli è imposto. Quando ho bevuto e la testa mi si esalta, posso vivere tra quella masnada di briganti che ho d'attorno. Quando ho bevuto, e il mio cuore è addormentato e i miei sentimenti sono soffocati, posso anch'io dar mano alle nequizie che si compiono per obbedire la legge. Del rimanente, sarebbe ora minor male se ci fosse il pericolo di affrontarla: ci sarebbe almeno il merito del coraggio. Ma così è una vigliaccheria senza esempio. Io so che il boja è più abborrito dell'assassino... il mondo almeno la pensa così, e c'è il suo perchè... Ora noi siamo ancor peggiori di lui, chè, se non altro, egli uccide i colpevoli, mentre noi ci facciamo il più tristo giuoco de' galantuomini.
— Non so che dire, e può darsi benissimo che tu abbia ragione, ma se domani vuoi lasciar giù questa giubba color pistacchio e questa sciabola, bisogna che tu stasera, anzi fra pochi momenti, lor faccia guadagnare il ben servito.
— Vale a dire?... Non afferro bene.
— Vale a dire che tu devi far parte della spedizione del monastero.
— Io?
— Tu.
— Ma perchè?
Il Galantino stette un momento perplesso, poi soggiunse:
— Perchè voglio che il conte Alberico F... vada al diavolo e crepi di bile.
Il Baroggi si fece attento.
— Caro Giulio, tu sei il primo al quale faccio una tale confidenza; ma in conclusione ho stabilito di prender moglie...
— Niente di più naturale e di più facile.
— Naturale sì, facile no... Non per la moglie, ma per quella che voglio io; e quella che voglio io è nientemeno che la promessa sposa del conte Alberico (il lettore comprenderà come questa fosse un'invenzione del Suardi), e tutto è pronto, e si dice che il bello e leggiadro e profumato e viziato conte, messi da parte i suoi cento amori, e lasciatine gli avanzi alla servitù come si fa cogli stivali e colle calze smesse, siasi innamorato perdutamente di quella che piace a me. Ma il conte non l'avrà e non la sposerà... e tu mi devi ajutare.
— Io?... Ma che cosa posso far io?
— Sai tu dove sta di casa quella che piace al conte e piace a me?... non lo sai? ebbene te lo dirò io: sta di casa nel monastero di San Filippo, ed è piaciuta anche a te...
— A me?
— Tu l'hai veduta e guardata e lodata un giorno in cui, mentre passeggiavi con me, ella mi passò vicino, accompagnata dalla livrea di casa Pietra Incisa.
— Chi?... quell'angelo?...
— Quello appunto... ma oggi ha da volar via, e sei tu quello che gli dee fare spiegar l'ali e farlo uscire, non dalle finestre... guai! ma da un uscio che t'indicherò.
— Ma che vi pensate? Io non sarò mai per far questo.
— Tu lo farai.
— E quand'anche avessi tutta la miglior volontà di obbedirvi, non vedo nessuna via da poterne uscir fuori ... Prima non la conosco, colei... ed ella non conosce me ... e poi una fanciulla non è una puledra da farsela venir dietro passo passo soltanto col darle a veder lo zuccaro.
— Senti, Giulio; la cosa non è facile e, se vuoi, nemmen troppo probabile; possibile però mi pare che sia. Forse, da che ci sono al mondo conventi di monache, è la prima volta che un decreto della magistratura ingiunge ad una truppa di giovinetti armati e caldi d'acquavite, di entrare tra la santità e l'innocenza, come se fosse in caserma; non s'è mai sentito che il pastore il quale ha in custodia le pecore si confidi alle volpi ed ai lupi per guardarle dai cani. Non c'è che dire. L'autorità ha perduta la testa... ma conviene approfittare di questo capogiro, di questa ubbriachezza non mai udita, perchè scommetto che ciò non sarà mai per avvenire una seconda volta. Ora tornando a noi, la novità del caso metterà una tal confusione nella testa di quella povera badessa, e di quelle semplici e buone suore maestre e coadjutrici e sorveglianti, che le monache e le monachelle giovani e le educande si spanderanno per i corridoj e per i cortili con un gusto matto. Tu un momento fa hai parlato di puledre: ebbene... metti che il fuoco s'appigli ad un fenile, e da quello ad una scuderia. È già molto che i palafrenieri pensino a salvar la pelle, senza tener dietro ai cavalli che, rotta la catena e la cavezza, si spanderanno per la città con trotto vivace e allegro, e coi nitriti della libertà. Ho tenuto conto di tutto, e il mio piano non è una pazzia.
— Quasi.
— La possibilità della riuscita c'è, e ciò mi basta. Dunque cosa intendi di fare? Bada intanto che è un affare d'urgenza e non c'è tempo da perdere.
— Non so che dire... io non mi prendo questo impegno.
— Che?
— Dite quel che volete, chiamatemi ingrato... sconoscente. Dirò che avete ragione, ma per quest'impresa io non mi movo. Mi son dato alla crapula per stordire la testa e far il callo alle bricconate legali....figuratevi se nel giorno stesso che voglio cangiar professione e vita... posso commettere una vilissima scelleraggine... posso ingannare... trafugare una povera ragazza... per metterla nelle mani di chi... domando mille perdoni, ma di chi non è certamente un santo.
Il Suardi, a queste parole, guatò in prima torvamente il Baroggi, poi fece due o tre passi per la camera concitato e convulso; poi si piantò in faccia al sotto-tenente, pigliandolo per mano colla sinistra, e mettendogli la destra sulla spalla.
— Tu credi, Giulio, che di questa fanciulla io voglia farmi un giuoco osceno e crudele. T'inganni. Pure mi piaci, e ti voglio bene ancor più di prima, e ammiro il coraggio onde rifiutasti di dar mano a un'azione, perchè temevi fosse per essere scellerata. Ma t'inganni, Giulio. Io ho trentacinque anni... e in parte puoi immaginarti e in parte lo sai, quante e quante donne mi corsero dietro... semidee e semidonne; la lista di Don Giovanni potrebbe parer la polizza del tuo pranzo in confronto. Ebbene... questa è la prima volta ch'io mi sento innamorato, innamorato alla follia, innamorato al punto da compromettere tutta la mia esistenza, e tutta la mia ricchezza accumulata con tanti pericoli e con tanta fatica, per il desiderio che mi tormenta di poter avere in moglie questo angelo del paradiso, che è venuto quaggiù per fare il miracolo di convertire al bene i demonj dell'inferno. Io non vanto nessuna nobiltà, ma, siamo sinceri, il mio blasone potrebbe sempre essere la coda del diavolo in campo rosso. Eppure, da qualche tempo, io mi sento tutt'altr'uomo... e se questa fanciulla potesse mai diventar mia moglie... certo che il mio avvenire sarebbe la più luminosa ammenda del mio passato. Dunque?...
— Posso ammirarvi, posso anche compiangervi, ma non posso ubbidirvi... ve l'ho già detto. Sono stanco di fare il servitore d'anticamera nel palazzo dell'iniquità. Io non nego che voi abbiate delle buone intenzioni... ma ingannare, insidiare una fanciulla... perchè, in fin dei conti, voi siete padrone di essere innamorato di lei, ma ella non è poi obbligata a diventar vostra moglie.
— Quella fanciulla è innamorata di me, come non lo fu mai nessuna delle tante donne e fanciulle che ho conosciute....
— Quand'è così, andate voi stesso; la vostra presenza farà certo più effetto della mia. Tutto quel che si può fare... è che... indossiate la mia montura, e facciate suonar questa sciabola sul lastrico del convento; giacchè mi sembra che vi prema di non essere riconosciuto... e ciò è troppo naturale.
— Caro mio, tu hai studiato più di me, ma sei più giovane di me... e sarai sempre men dritto, meno esperto e men ragionevole di me. Sei contento a prestarmi sciabola e montura, e non vuoi prestarmi la mano. Ma giacchè abborri il male, e non vuoi commetterlo credendolo tale, se ritiri la mano devi ritirare anche la sciabola. In conclusione hai paura di esporti per me.
— Paura? lo sanno i contrabbandieri di confine... lo sanno gli spalloni che sono armati di tutto punto, quasi come i soldati del reggimento Clerici.
— Se dunque non hai paura... prestami mano, chè a far riuscir bene l'impresa non basto io solo; ma guarda come sei caparbio e a torto. Tu facendo il mio piacere fai quello della fanciulla, fai crepare di rabbia il conte Alberico; tu che l'hai tanto colla casta dei nobili, fai sì che un ramo d'un loro antichissimo albero s'innesti su d'un albero plebeo, benchè carico di frutti e di fiori: tutto ciò tu fai ajutandomi.
E qui si fermò come colpito da un forte pensiero, poi continuò:
— Infine... sai tu quel ch'io posso fare per te?... sai che da un atto, da un atto solo e rapido della mia volontà, dipende che tu dall'oggi al domani diventi a un tratto uno de' più gran ricchi del ducato di Milano...!
Il Baroggi si scosse a tali parole, e lo guardò fisso, e colla pupilla penetrativa parve addentrarsi in quella del Suardi, che si fermò ad un tratto impallidendo, poi:
— Vieni con me, soggiunse; e lo trasse in una camera attigua.
Il Suardi si tolse allora una piccola chiave che aveva in uno dei due taschini dei due orologi; salì su di un seggiolone di cuojo, accostò la mano per alzare un lembo della tappezzeria di damasco verde, foggiata a tenda; poi si rivolse ancora più pallido di prima, e ridiscese... e accostò la bocca all'orecchio del Baroggi. Questi era muto, e il cuore gli batteva per l'affanno della curiosità e dell'aspettazione.


VIII


Quando il Suardi ebbe messo il labbro all'orecchio dei Baroggi, si trattenne di colpo, come se un secondo pensiero avesse istantaneamente distrutto il primo; si trattenne, e a colui che stava in sull'ale:
— Quel che ti volevo dire te lo dirò domani. Il tempo passa, e se si giunge tardi non si fa nulla. Per ora, affinchè tu metta il cuore in pace riguardo alla purezza di quella fanciulla, ti propongo questo partito: se mai si riesce, come spero (chè allorquando una cosa la si vuole la si ottiene, purchè la volontà sia quella tale), se mai si riesce dunque a trarla dal monastero, ella rimanga, finchè sarà bisogno, presso tua madre. Tua madre che colle ginocchia logora i gradini degli altari, e si macera, poveretta, nelle preghiere e nei digiuni, pentita e strapentita e troppo pentita di avere... ma non richiamiamo il tristo passato, che, del resto, s'ella fu ingannata, non ha ragione di credersi colpevole, mentre non fu che una vittima. Tua madre sia dunque la sua custodia. Così tu non potrai avere più scrupoli... e mi presterai quell'ajuto, senza del quale non si può far nulla. Suvvia, coraggio... e pensa al tuo avvenire.
Capitò a molti, anche tra uomini i più tenaci del loro proposito, di avere a lungo respinte le insidiose insinuazioni degli scaltri con franchissimo coraggio, e che poi, o per qualche accidente inaspettato o per la stanchezza della lotta, si sentiron costretti a lasciarsi trarre nel laccio senza dir di sì e senza dir di no, e di seguire, sebbene contro genio, la volontà altrui. È sempre la storia del diavolo e delle sue tentazioni. Un tal fenomeno lo dovette subire anche il Baroggi. Quella uscita inaspettata del Suardi sulla facoltà che aveva detto d'avere, di poter cambiare dall'oggi al domani la fortuna di lui; le parole e i modi misteriosi onde egli avea toccato quel tasto, la tappezzeria rimossa dalla sua mano, quasi fosse per discoprire cosa della più alta importanza, e fino a quel punto gelosamente celata; tutto ciò gli mise una tale agitazione nel sangue, una tal commozione nel cuore, una tal confusione nella mente, che, in una parola, non si trovava nella condizione di prima. Egli sapeva la storia del Galantino, e la sua prigionia e la tortura subita e sopportata, e le carte importanti trafugate al defunto marchese, sicchè a queste cose egli corse di slancio col sospetto, appena il Galantino gli parlò con quel piglio misterioso. Allorchè poi quegli troncò il discorso, e, svoltandolo in un altro, propose al Baroggi di affidar la fanciulla a sua madre; non ebbe in quel momento il coraggio di costringerlo a palesar tutto, e d'altra parte non seppe persistere nel rifiutargli il proprio ajuto, perchè non voleva lasciarsi fuggir di mano l'occasione e il merito di poter penetrare in quel segreto, che era stato ed era, e, sino a quel punto, gli pareva che avesse dovuto continuare ad essere, il segreto di tutta la sua vita. Non rispose dunque nulla all'ultimo eccitamento del Suardi, bensì, come questi si mosse, gli tenne dietro sbalordito e pensoso e disposto a far tutto quello che colui avrebbe voluto in quel giorno. Così usciti dalla stanza, discesi in cortile, salirono nella carrozza che li aspettava, dicendo il Suardi:
— Strada facendo ti spiegherò il mio piano.
Mentre il signor Suardi, al pari di un comandante in capo, insieme col suo ajutante di campo, guardando di tratto in tratto l'orologio, si recava al quartier generale, lontano dalla mischia, e nel tempo stesso in situazione di accorrere al riparo, e d'improvvisare sul medesimo campo di battaglia un nuovo colpo strategico, quando mai un rovescio inaspettato fosse per mandare in dileguo il primo piano già da lungo meditato; i commessi incaricati della perquisizione, le guardie, gli sbirri, quelle col loro archibugio ad armacollo, questi colla sola sciabola girata dietro le reni, erano usciti dal palazzo della Ferma generale, e si avviavano difilati alla volta del monastero di San Filippo Neri. Le ventiquattro erano passate, e già stava per compirsi l'ora che ad esse succedeva. Il sole primaverile illuminava per carità qualche camerotto al quinto piano, dove degli estremi raggi stava approfittando con ansiosa sollecitudine qualche povera cucitrice, la quale voleva compir l'orlo di qualche camicia per risparmiare i tre soldi della popolana candela di sego. In quell'ora, nella chiesuola del monastero di San Filippo, nella parte ch'era segregata dal pubblico, erano discese la madre badessa, le suore maestre, le monache semplici, le converse, le incipienti, e il drappello delle educande. Il mantice dell'organo veniva caricato d'aria da due grosse e ottuse converse; intanto che, quasi a provare la quantità d'aria che era entrata nelle canne, e la propria valentia nell'arte, una mano percorrendo agilissimamente i tasti, ai profondi suoni della canna maggiore, con netta e rapidissima decrescenza, faceva succedere il sibilo acuto e flautato della canna ottavino. L'organo, come al solito, dava in sulla parte della chiesa aperta al pubblico, e i pochi che a quell'ora erano intervenuti, guardando attraverso la griglia di legno che dal parapetto dell'organo si alzava fino a due terzi della canna maggiore, vedevano per la luce di due ceri, i quali erano accesi al disopra della tastiera, muoversi tre teste. Ed eran le teste della suora maestra di canto fermo e d'organo, e di due fra le allieve più distinte in quell'arte. Di queste due, quella che, seduta alla tastiera, sbizzarriva colla mano velocissima, era la giovinetta Ada. Poco dopo, dall'altare, collocato dietro al muro che divideva la chiesa in due parti (e faceva riscontro all'altro posto oltre il muro, ed al quale si ufficiava per il pubblico), una suora intuonava le litanie della Beata Vergine; ad essa, le altre monache, le educande, il pubblico rispondevano, mentre l'organo colle sue echeggianti variazioni interpolava ogni tema di que' predicati, coi quali la più sublime poesia sgorgata dall'entusiasmo della fede e dell'amore decorò il nome di Maria.
Di qui passando altrove, il lettore può accompagnare di nuovo i commessi della Ferma, usciti dal palazzo dell'amministrazione generale per recarsi al convento, quando le litanie potevano essere al loro termine. Allorchè dunque il primo dei commessi, lasciati i compagni nella via di san Barnaba, entrava nell'ortaglia dov'era il nuovo casino del signor Suardi, per abboccarsi con lui, come aveva avuto ordine; la suora inginocchiata all'altare cantava già il concede nos famulos tuos, ecc., e quando, dopo avergli parlato, il commesso usciva frettoloso, in compagnia del sotto tenente Giulio Baroggi, aveva già rintronato sotto alle vôlte della chiesa il sub tuum e l'a periculis cunctis libera nos semper.
Una mezz'ora dopo, il commesso e il Baroggi e gli altri erano già entrati in monastero, e fu allora che quel gentiluomo amico di casa Ottoboni, galoppando per diporto in quei luoghi, e saputa la cosa, s'era affrettato a raccontarla agli amici, e innocentemente a mettere la tempesta nell'anima del giovane Crall, che divorando e tempo e strada, corse alla loggia dei compagni Frammassoni di San Vittorello.
Il sole era scomparso, da qualche tempo, e anche i luminosi crepuscoli di quella serena giornata s'erano spenti affatto, e qua e là lasciavasi veder nel cielo qualcuna delle stelle più premurose, allorchè sboccò dalla contrada di San Vittorello quella scelta schiera di Frammassoni giovani e frementi, armati tutti di spade e qualcuno anche di pistola; dispostissimi tutti a far nascere un tale scompiglio e un tal disordine, che fosse poi atto a provocare un ordine. Ed ora dobbiamo dire quello che, sebbene non sia indifferente, pur ci fuggì di memoria allorchè parlammo di quella loggia di Muratori; ed è che fra coloro i quali si trovavano presenti alla tornata, v'era un uomo che abbiamo conosciuto fin dall'anno 1750, e che, se non fu il primo, non fu nemmeno l'ultimo ad aver parte attiva negli avvenimenti d'allora; vogliamo dire il signor Lorenzo Bruni, violino di spalla per l'opera, e primo violino del ballo al teatro Ducale. Il lettore deve ricordarsi e della lettera che lo stesso Bruni scrisse da Milano al signor Amorevoli, tenore al teatro di Dresda, per dargli informazioni intorno alla figliuola della contessa Clelia V...; e com'egli fosse venuto a Milano onde conchiudere di presenza, co' signori ispettori del teatro Ducale, la scrittura di sua moglie, madama Gaudenzi-Bruni, per la prossima stagione di carnevale.
Or dunque si aggiunga al resto che il Bruni, venuto a Milano solo, era stato poi raggiunto dalla moglie e da un suo figlio giovinetto, il quale non aveva ancora tre anni (Chi avrebbe detto a noi che questo fanciullo, figlio di un tal uomo, dovevamo poi conoscerlo vecchio novantenne in riva al lago di Pusiano, perchè ci fosse anello di comunicazione tra il passato e il presente!) Aggiunga inoltre il lettore, che il Bruni, per esser diventato marito e padre, non aveva cangiato carattere, idee, aspirazioni, abitudini. Che anzi in quegli anni, avendo percorso mezz'Europa, più e più s'era infervorato nelle sue opinioni; che, siccome voleva la nuova onda delle cose, s'era ascritto alla loggia dei Frammassoni di Parigi, che s'era messo in comunicazione colle logge erette nelle principali città d'Europa, e che arrivato a Milano, e saputo della loggia milanese, avea sollecitato di mettersi in comunicazione con essa; ch'era stato de' più caldi ad esortarla perchè dall'inerte discussione passasse all'azione pratica. Infine che, sebbene non avesse più trentacinque anni, ma cinquant'uno, pure alla proposta di lord Crall, s'era messo in compagnia de' giovani più deliberati, sfoderando anch'esso la spada, e giurando su quella, come voleva il formulare.
Ed or presto vedrà il lettore fino a che punto sappiano giungere i maledetti ghiribizzi della fortuna e gli strani giuochi della combinazione; e come il signor Bruni ogni qualvolta inciampava nei ciottoli delle contrade di Milano, avesse a dar della testa anche nelle corna del diavolo, occasionando trambusti serj, e dovendo alla sua volta rimanerne vittima.


IX


Il generale in capo, ossia il Galantino, che, al pari del duca di Wallenstein, combatteva per proprio conto, aveva dato ordine al suo ajutante di cogliere, senza sgarrare d'un minuto, quell'istante in cui le monache e le educande, uscite appena dalla chiesuola, si sbandavano per diporto, a sparsi gruppi, lungo i corridoj ed i portichetti del monastero, aspettando che la campana le chiamasse in refettorio per la cena. E un tal ordine venne di fatto eseguito puntualmente; chè il giovine Baroggi era di quella tempra d'uomini che ponno dubitare a lungo prima di accettare un incarico; ponno anche averlo accettato contro la propria convinzione: ma una volta che hanno promesso di mandarlo ad effetto, non disputano più se sia buono o cattivo, onesto o turpe, utile o dannoso; si dimenticano delle proprie persuasioni e di se stessi, non da altro sollecitati che dal desiderio di farsi riconoscer degni dell'altrui fiducia. Avea insomma le qualità d'un perfetto soldato, il quale può disapprovare una battaglia, una mossa strategica, ma si lascia tagliare a pezzi piuttosto che mancar menomamente ad un comando ricevuto; con tali norme erasi comportato infatti nella sua condizione di sotto tenente della Ferma; disapprovava quell'istituzione, e vituperava le malversazioni legali; ma quando al confine comandava un picchetto di guardie, i contrabbandieri avevano con lui un malissimo giuoco. Allorchè dunque il piccolo esercito che era sotto la sua direzione fu alla soglia della porta del convento, la prima cosa fu di posare due guardie rappresentate dal loro fucile, ai due lati di essa; poi il primo commesso, seguito da tutti gli altri, entrò nel camerotto della vecchia custode del convento, che trasalì nel veder quell'uomo seguito da tanti altri armati. Ma il commesso, alla vecchia che, per un movimento istintivo, si alzò da sedere e fece alcuni passi per piantarsi in luogo da sbarrar loro l'entrata:
— Siamo i commissarj della Ferma, precedeteci, chè vogliamo parlare alla madre priora del convento. Fate presto e non temete, chè non si vuol mangiarvi, nè voi nè la madre priora nè le monache; e senza dir altro, sforzò, a così dire, il passo e varcò la soglia, ed entrò procedendo fino al secondo cortiletto del monastero, seguìto dal secondo commesso, da un sergente, dalle guardie, dagli sbirri e dal sotto tenente Baroggi che veniva ultimo e colla testa bassa.
Chi avrebbe detto alla pia fondatrice di quelle sacre mura che doveva venir giorno in cui, senza un rispetto al mondo, avevano ad essere violate da uomini profani, anzi dalla più ribalda feccia degli uomini profani? Ma la vecchia custode, volendo essere la prima a comparire innanzi alla reverenda madre priora, stupita e barcollante s'affannava a precedere que' giovinotti, di cui sentiva gli sghignazzi protervi.
Le monache e le fanciulle educande sfilavano in quel punto lungo un portichetto, per dove avevasi a passare. La vecchia, con quello spavento di chi ha in cura una nidiata di pulcini e osserva un gatto che li guarda e li fiuta:
— Aspettate! esclamò con un certo accento, nel quale si sentiva che il tremito della paura materiale era confuso all'indignazione. Aspettate! chè la reverenda madre priora viene in coda a queste.
V'è una certa specie di rispetto e di riguardo che è provato anche da' più ribaldi, persino allora che sono ubbriachi. Tutti adunque si fermarono, mentre il Baroggi, che stava dietro a tutti, si portò anch'esso in linea per guardar le fanciulle che passavano: e guardò infatti, e vide quella che cercava.
Intanto, allo spettacolo nuovo e inaspettato di quelle faccie, di quelle armi, di quelle canne lucenti d'archibugi, s'era messo uno strano bisbiglio e scompiglio tra quella lunga fila di monache e ragazze; e s'udirono anche esclamazioni di sgomento; e si videro anche alcune uscir dalla fila, e affrettare il passo, e svoltare chi per una parte, chi per l'altra.
Sostati i commessi e il sotto tenente Baroggi alla testa delle guardie, la vecchia portinaja volgendosi alla madre priora, che già aveva intraveduto quegli uomini armati, con quel senso di stupore che non era e non poteva essere sgomento, ma somigliava piuttosto al turbamento confuso di un cattivo sogno:
— Reverenda madre, le disse con voce gutturale e pecorina, questi uomini sono entrati, perchè hanno voluto entrare e perchè tengono un ordine da quelli che comandano.
La madre priora, fattasi presso ai commessi della Ferma, che alla lor volta si avanzarono verso di lei:
— Che cosa vogliono, loro signori? disse.
Le parole non erano che queste, ma le pronunciò con quel piglio grave, severo, burbero, di chi, preposta da trent'anni al governo del monastero, teneva l'abitudine del comando più assoluto e inesorabile, ed era avvezza ad essere impreteribilmente ubbidita.
Se la madre priora avesse avuto maggior pratica di mondo, è certo che non avrebbe parlato con quell'accento a quei rozzi uomini, i quali erano usi anch'essi a non sentirsi contraddetti.
— Noi siamo i commissarj della Ferma, rispose con piglio più rozzamente burbero il primo dei commessi; e se siamo qui, vuol dire che ci possiamo stare; del resto, per un di più, veda vostra maternità l'ordine che teniamo dai nostri padroni.
La reverenda madre lesse l'ordine scritto, poi soggiunse: Questo non sarà mai.
Il primo commesso guardò in faccia al collega a quell'uscita inaspettata della priora; il secondo commesso guardò al sotto-tenente Baroggi, il quale, levatosi già da qualche tempo il cappellino a tre punte, si avanzò facendo un profondo inchino alla reverenda.
La gioventù, il bell'aspetto e gli atti di cortesia costituiscono sempre una buona raccomandazione in quasi tutti i casi della vita: e tanto ciò fu vero in quell'occasione, che alla reverenda, senza ch'ella il volesse, anzi senza che nemmeno pensasse a volerlo, si spianarono di tratto gli aggrottamenti del ciglio, e si sciolsero due profonde rughe che le si eran fatte ai lati della bocca contorta.
— A vostra maternità, continuava il Baroggi, raddolcendo più che poteva la voce, dev'essere noto l'editto pel quale è data facoltà alla Ferma generale del tabacco di mandare i suoi commessi anche nell'interno de' monasteri a fare perquisizioni, quando vi sia presunzione che in qualcuno di essi siasi nascosto del tabacco proibito.
— Che... che cosa... cosa mi tocca di sentire?
— Vostra maternità si degni ascoltarmi; la colpa non è nè della Ferma nè di noi, e molto meno della vostra maternità reverenda se fu riferito trovarsi appunto nascosta in questo convento una grande quantità di tabacco proibito. Io sono persuaso che questa possa essere stata una denuncia infondata... fors'anche la calunnia di qualche malevolo: ma siccome la legge parla chiaro, e parla chiaro e forte anche contro di noi se ci rifiutiamo a fare il nostro dovere; così vostra maternità deve permettere che la legge venga in tutto e per tutto eseguita.
Quantunque il Baroggi parlasse a voce alta, veniva essa però soverchiata dal bisbiglio e dalla pispilloria di tutte le monache e fanciulle che si erano affollate sotto al portico, tanto che le arcate echeggiavano di quell'insolito frastuono raccolto in un sol punto. Le monachelle più paurose, in prima fuggite, eran tornate, attratte dalla curiosità irresistibile; le più audaci s'erano stipate in densa schiera presso ai nuovi venuti; le più adulte fra le semplici educande facevano luccicare, mentre parlavano, i loro vivaci e non più timidi occhi sul bello e giovane soldato che parlava. E non si può nemmeno sgridarle, poverette, giacchè dal momento che non erano destinate alla vita claustrale, la figura del giovane colla sua assisa brillante e la sciabola lucente, che staccava sovra di un fondo cupo occupato dalle figure severe della priora e delle suore maestre e dalle nere loro vesti, quasi somigliava all'effetto che un cielo azzurro, riflesso da un lago, produrrebbe su chi uscisse da un luogo tenebroso, dove sia stato a lungo per altrui volontà.
Ma la reverenda, dopo aver girato un severissimo sguardo su quella truppa di giovinette che facevano tanto rumore, e intimato loro il silenzio:
— Non nego la legge, disse, nè l'ordine che tenete da chi l'ha fatta; ma prima che io vi permetta di passar oltre, dovrò parlare alla nobil donna conservatrice di questo sacro asilo. L'autorità sarà informata di tutto... e allora... quando essa persista nel suo comando... voi potrete adempire al debito vostro.
Il primo commesso a queste parole si permise di ridere villanamente; e per ispirito d'imitazione fecero lo stesso e il secondo commesso e le guardie e gli sbirri. Per verità che la reverenda madre l'aveva detta grossa; ma ella non era poi obbligata ad intendersi molto dei diritti della finanza.
— Madre reverenda, soggiunse allora il Baroggi, mentre saettava un'occhiata come di rimprovero a quei profani irrisori, noi non siamo obbligati ad aspettare altri ordini dell'autorità; anzi il nostro obbligo preciso è di non aspettarne alcuno. Bensì vostra maternità potrà sempre raccontar l'accaduto alla nobile conservatrice del monastero, perchè essa provveda a far mettere questo convento sotto la protezione di un privilegio straordinario.
Il sotto tenente non avea quasi finito di pronunciare queste parole, che il commesso, perduta la pazienza:
— Orsù, andiamo! disse al collega ed alle guardie. Noi sappiamo, madre reverenda, dove fu nascosto il tabacco; non abbiamo nemmeno bisogno di scorta; e così dicendo varcò l'arcata del portico, seguito dai soldati.
Il Baroggi lasciò fare, e si ritrasse in coda. La madre badessa, coraggiosa della propria autorità e di quello zelo ardentissimo di religione che mette agli ultimi gradi tutti gli altri rispetti, fece, quantunque vecchia, due passi rapidi e si piantò innanzi al commissario, e:
— Nè voi nè i vostri passerete per di qui, disse. Ma in quella le suore maestre e coadjutrici le si fecero intorno come per trattenerla onde il commissario e le guardie passarono oltre, fulminati dai solenni anatemi di lei, fino a che, nell'eccesso dell'affannosa sua indignazione, ella cadde come spossata e svenuta nelle braccia di quelle che la circondavano. Allora crebbe più che mai il susurro delle suore atterrite e indignate; allora s'udirono voci alte e querule; e persino qualche scoppio di pianto di qualche fanciulla commossa; allora, chi si fosse trovato là, avrebbe potuto assistere al vario modificarsi delle varie indoli delle fanciulle ivi raccolte: chè alcune eran passivamente atteggiate; altre, non trattenute da nessun riguardo, si sentivano tratte a seguir quelle guardie per ispiare i loro passi; altre osavano perfino di far sentire qualche mal compresso cachinno di riso; ed eran forse le più riottose tra le educande, quelle che più spesso avevan subita la severità della madre superiora, ed erano incoercibili dai castighi, e sospiravano di uscire a respirar l'aria libera del mondo.
Quando i perquisitori si trovaron soli in un androne, il Baroggi li trattenne, e disse:
— Or che volete fare senza la presenza di tre o quattro di codeste suore maestre, giacchè alla reverenda superiora è venuto un deliquio? Sapete bene che, affinchè la perquisizione sia legittima e non dia luogo a recriminazioni ed a gravami per parte de' perquisiti, bisogna che il processo verbale venga sottosegnato da qualcuno di loro. Perciò è necessario che faccian testimonianza del nostro operato tre o quattro di codeste suore, le quali, se sono ragionevoli, non devono ritenersi in pericolo per trovarsi in mezzo a noi, protette come sono naturalmente dalla loro vecchiaja e dalle grinze impresse nella loro faccia dalla devozione e dalla penitenza. Or lasciate che io vada a supplicarle perchè vogliano seguirci, intanto che la reverenda superiora attende a ricuperare i sensi smarriti.
E coloro, a tali parole, si fermarono, ed il Baroggi retrocesse per far quanto aveva detto, ma più ancora per ripassare tra la schiera delle giovinette educande, in mezzo alle quali il suo occhio acuto aveva già scorto quella per cui era stata ordita una trama tanta complicata e pericolosa. Ritornato così nell'atrio, diede un'occhiata ai varj gruppi che s'eran sparpagliati qua e là sotto ai portici; s'accostò a quello dove rivide l'Ada; rispettosamente e col miglior garbo s'accostò, e:
— Dove si son ritratte le reverende suore maestre? domandò.
Più d'una rispose a quella domanda; e il Baroggi sentì anche la voce della fanciulla Ada; e più d'una si mosse per andar a cercare di quelle venerande che, nella confusione e nella preoccupazione del deliquio della madre superiora, non avean pensato a non lasciar sole le loro giovinette allieve; e si mosse anche Ada. Se non che il Baroggi, colto il punto, lesto e sommesso: «Ella aspetti... le disse; nell'ortaglia v'è chi dee parlarle. Si volga per di là, la supplico...», e via ratto come se nulla fosse, camminando sui passi delle giovinette che s'eran mosse in cerca delle maestre.
Ada, a quelle parole del Baroggi, trasalì e stette immobile alcuni istanti, e pareva un leggiadro simulacro marmoreo che rappresentasse l'incertezza. Se non che, allorchè vide ritornar il Baroggi seguito da tre fra le venerande madri, ella uscì dalla immobilità, senza però uscire dalla perplessità affannosa.
In quel punto la confusione nel convento era giunta a quel grado che non pareva potersi dar la maggiore. Chi andava da una parte, chi dall'altra; chi stava origliando presso l'androne dov'erano entrati i perquisitori; chi, salito che fu il Baroggi coi compagni e colle tre suore nella parte superiore del monastero, tenne lor dietro per non saper vincere la curiosità; chi si recava a domandar della salute della madre superiora; chi, tra le giovinette più ottuse, più apatiche e più sensuali, giacchè era l'ora della cena, aveva messo il piede in refettorio, sollecitata dal giovanile appetito che non lasciava scorgere al mondo cosa veruna, la quale avesse maggior importanza d'una buona minestra; chi tra le più maliziose e ribaldelle s'ingegnava a far chiose astute ed epigrammatiche sull'avvenuto. Solo Ada non faceva parte nè dell'una nè dell'altra schiera.
Da molti e molti giorni ella avea cessato di mettere in comune i proprj coi pensieri, colle cure e colle abitudini infantili delle compagne. Ella avea smarrita l'allegria delle amiche spensierate, avea perduto l'appetito delle amiche prosperose e placide; non sentiva la tentazione d'imitare le più astute e le più riottose; in una parola, non trovavasi più in monastero che colla presenza materiale, perchè col pensiero e col cuore trovavasi assiduamente altrove.
Da alquanti giorni non aveva potuto vedere il giovane Suardi, perchè, siccome sa il lettore per le parole che la nobil conservatrice del monastero disse già a donna Paola, era trapelato qualche vago sospetto alle monache maestre, e queste, tenutala d'occhio, non l'avean mai lasciata sola; però la fanciulla si crucciava, e continuamente andava almanaccando sul modo di poter eludere quell'assidua vigilanza. Nè mai si era attentata di affidare il suo pericoloso segreto a nessuna delle compagne, nemmeno ad una che, pari a lei d'età e sua vicina nella camerata, avea preso ad amarla svisceratamennte, sebbene coll'amore più d'una madre o d'una sorella maggiore che d'una compagna. Codesta sua amica, figliuola d'un marchese Crivello, era piuttosto cagionevole di salute, graziosa nel volto, ma tanto quanto deformata dalla rachitide, fornita d'ingegno fuor dell'ordine comune, e infervorata di così religioso zelo, che quasi parea tramutarsi in quello che suol chiamarsi abito bigotto e scrupoloso. Essa erasi accorta del segreto di Ada, ma avea taciuto. Amorosa, previdente e prudente, pensava di vegliarla dappresso e di fare, per quanto era in lei, la cura di quel male senza avvisarnela. Interrogata dalla superiora e dalle maestre sul conto di Ada, quando s'eran messe in qualche apprensione, e interrogata appunto perchè la conoscevano come la miglior sua confidente, ella tacque, ed anzi cercò stornare i sospetti, per stornare i castighi dall'amica. Bensì coi modi più gentili nel discorso abituale, avea tentato distogliere i pensieri di Ada da quella direzione che loro avea comunicata la passione. Sempre adunque trovandosi seco, perché anche Ada la ricambiava d'affetto sincero, e in que' giorni le stava più del solito accosto, accadde che, nel momento in cui il Baroggi s'era avvicinato al gruppo delle educande dove di volo avea veduto la fanciulla Ada, questa parlasse precisamente colla Crivello. Bene l'inchiesta del Baroggi aveva diviso quel gruppo di fanciulle, ed Ada era rimasta sola un istante fuggevolissimo con lui, ma la Crivello s'avvide che era corsa qualche parola. S'avvide e tacque, e si dilungò facendo mille pensieri, e fermandosi non veduta a guardare Ada rimasta immobile e concentrata.
A questo punto eran le cose nel monastero, quando un sordo muggito di voci confuse di popolo affollato e battimani e fischiate, contemporaneamente rintronarono nel monastero; poi fu sentito un colpo secco d'archibugio squarciar l'aria, ripercosso in degradate oscillazioni.


X


Quelle grida, quello scoppio di fucile giunsero fino al dormitorio delle maggiori educande, dove i commessi della Ferma avevano già trovato, lungo il cornicione che lo rigirava, buon numero di boette di tabacco, con gran meraviglia delle tre suore vegliarde che assistevano, dichiarando ad ogni minuto la loro assoluta ignoranza di quella contravvenzione; e le grida e la detonazione inaspettata colpirono di vario stupore i commissarj, le monache e il Baroggi, che, senza dir parola, uscì e discese precipitoso nel cortile. Accorreva in quel punto la vecchia portinaja, accorreva una delle due guardie state collocate ai lati della porta del monastero. Sotto l'androne della porta si sentiva un crescente frastuono, in mezzo al quale spiccavano voci d'ira veementissime; e quasi contemporaneamente fu invaso il cortile dalla folla. Il Baroggi stupefatto si guardò intorno e cercò la via dell'ortaglia che gli era nota, e, quando fu in quella, vide una fanciulla che fuggiva seguita da un'altra che cercava trattenerla. Egli credeva che Ada si fosse già recata nell'ortaglia, ma la ravvisò in quella che affannata correva precipitosa, quasi si schermisse dall'altra, e la raggiunse.
— Siete la signora Ada, disse quando le fu presso. Suvvia, affrettatevi. Un gran precipizio vi sta sopra. Ma chi è costei?
L'Ada e la Crivello non parlavano. Allora il Baroggi prese la prima per mano e la trasse con sè.
— Che tentate di fare? disse allora la Crivello.
— Zitto... voglio salvarla.
Allora la Crivello afferrò con quanta forza aveva la veste dell'amica. Questa tentò sciogliersi, esclamando sommessa: — Deh lasciami, per carita! Ma la Crivello si avvinghiò ad Ada con invincibile tenacità, e:
— Bada a te, diceva, la mia povera Ada. Ma, intanto, l'una fuggendo, l'altra trattenendo, il terzo inseguendo, eran tutti pervenuti nell'ortaglia. Una voce maschile fu udita in quel punto. Il Baroggi la riconobbe; Ada ne trasalì.
— Sei tu? ripeteva quella voce: era il Suardi.
— Son io, rispondeva il Baroggi.
— Or che avvenne di Ada?
— Zitto. Ella è qui; e il Baroggi, non sapendo che fare, giacchè la fanciulla a lui ignota teneva strettamente abbracciata Ada, le prese ambedue in un fascio, e di peso le portò fino a quella parte del muro di cinta dove era un uscio. Là stava in piedi il Galantino, tra il muro e un'imposta semichiusa.
— Siete voi? esclamò allora il Baroggi, ecco qui. Ma sono due invece d'una sola. E dal peso mi pare che sieno svenute e l'una e l'altra.
— E che vuol dir ciò?
— Che quando si vuol strappare una rosa di furto e in fretta, due o tre se ne strappano in una volta, e si rovina l'arbusto. Ecco qui, ed or prendete, chiudete, mettetele in carrozza e via come il fulmine; se no va a succedere un gran precipizio.
— Ma che vuol dire che ho sentito un colpo di fucile?
— Vuol dire che la faccenda è seria più di quel che pare, e v'è un mistero che non comprendo... m a sostenete queste ragazze, e salite in carrozza, e sopratutto badate a non passare innanzi alla porta del convento. Il popolo par che sia uscito dai gangheri affatto, ed è penetrato in convento.
Il Galantino non rispose, prese in braccio quel fascio di due fanciulle, e quando fu per richiuder l'uscio di cui gli aveva data la chiave il ribaldo ortolano:
— Vieni anche tu, disse al Baroggi.
— Non sarà mai, rispose questi; il Baroggi non è mai fuggito innanzi al pericolo, e or vedo che si ha a menar le mani. Addio dunque, e se nella mischia si dovesse lasciarci la pelle... chi sa mai? fate che quella fanciulla non mi maledica... rispettatela e fatela felice... Poveretta!... Addio dunque.
Il Galantino non aggiunse verbo, e chiuse l'uscio del muro di cinta. Il Baroggi stette fermo un istante ancora a quel posto. Tese l'orecchio... e raccapricciò nell'udire una confusione di strilli femminili; e gli parevano ululati di naufraghe che si mescolassero al muggito di un mare tempestoso. Tese l'orecchio, e sentì il precipitoso trotto di due cavalli e il rumore di una carrozza. Allora volse gli occhi al cielo tutto stellato: — Oh Dio, esclamò, che mai feci? Oh povere ragazze! e ripetè la via dell'ortaglia desolato e cupo.
Allorchè poi dall'ortaglia ei mise piede entro il recinto del monastero, que' dieci o dodici campioni della frammassoneria che, seguiti da una densa onda di popolo, avevano forzata la porta del monastero e atterrata, anzi uccisa quella guardia che aveva lasciato partire il colpo d'archibugio, si trovarono dirimpetto alle guardie della Ferma, le quali, partito il Baroggi e sentito crescere il tumulto, erano discese a furia sotto il portico. Impegnatasi una fiera mischia, come se il cortile del monastero fosse un campo di battaglia, le monache e le fanciulle atterrite affacciandosi agli ingressi, fuggendo su e giù per le scale, attraversando i corridoj continuavano ad assordar l'aria di grida di spavento. Il Baroggi, vista quella scena e osservando i proprj compagni impigliati in quella lotta disuguale, chè il popolo ajutava gli assalitori, onde le guardie della Ferma erano percosse da tutte le parti, sentì il sangue salire alla testa, e cieco di furore, sfoderando la sciabola si fece largo tra il popolo, dando giù a dritta e sinistra; ma qual fu la sua meraviglia, quando si vide dirimpetto que' gentiluomini, dei quali conosceva alcuni che erano delle prime famiglie di Milano! I colpi erano corsi senza pietà, onde il sangue non mancava; vide cadere due dei proprj, vide atterrati tre degli avversarj. Ed egli, parando colla sciabola un colpo di spada che gli veniva calato dal giovine lord Crall, ch'ei conosceva benissimo:
— Ma che demonio v'ha inspirato? gridò. Che c'entrano le guardie della Ferma se adempiscono gli ordini della superiorità? Dovevate andare al palazzo dell'ammistrazione, se avevate senno e coraggio e...
E in quella si sentì gridare: «lasciate il passo, il passo, il passo.» Poi una voce sgangherata che tuonava: «Fermi tutti, o vi faccio abbruciare in questo cortile a schioppettate.»
Il popolo naturalmente fece ala. Due padri cappuccini entravano insieme con un grosso picchetto di soldati del reggimento Clerici, comandati da un tenente, che era quello che gridava stentoreamente.
Quella quarantina di soldati di milizia regolare, che i cappuccini, saputo lo scompiglio, erano andati a prendere alla vicina caserma di San Barnaba, circondarono le guardie assalite e i gentiluomini assalitori, e i colpi cessarono, se non cessò il sangue di scorrere. La folla che, allorquando i soldati fecero largo, ebbe teste e stomachi e ventri percossi e scompigliati spietatamente dai colpi di calcio, di necessità si fece più rada. Un po' di calma sottentrò al tafferuglio inaudito di prima, un po' di silenzio successe al frastuono che parve aver voluto far crollare le mura del monastero. Cinque uomini erano stesi sul selciato del cortile; nè in quel primo istante si ebbe tempo di vedere se erano morti o feriti.
— Che cosa dunque è stato tutto questo fracasso? domandò il tenente a quelli ch'eran là accerchiati.
— Noi non possiamo saper nulla, rispose il Baroggi. Noi siamo qui per ordine della superiorità. E s'è scoperto molto tabacco proibito in convento. Ecco tutto. Cosa poi sien venuti a fare questi signori non si sa.
— Siamo venuti a far giustizia noi, gridò lord Crall, giacchè nessuno non sa più farla qui. Siamo venuti a dare un esempio, e a lasciare un segno che faccia risensare gli stolidi che hanno voluto sguinzagliar questa canaglia nell'asilo delle sante vergini. Ecco cos'è stato.
Il tenente del reggimento Clerici non rispose nulla nè al Baroggi, che nella sua qualità di soldato urbano al servizio della Ferma era tenuto in dispregio dagli ufficiali della milizia regolare; nè a lord Crall, che conosceva e stimava, ma al quale non poteva dar ragione, per la gran ragione che in faccia alla legge colui aveva torto. Soltanto si limitò a dire:
— Io non sono un auditore, nè un attuaro del Capitano di Giustizia, e non c'entro a metter parole in questa faccenda. Bensì è mio dovere di farli scortar tutti, illustrissimi signori, e di farli consegnare al Capitano di Giustizia per l'appunto. Mi rincresce che sia toccato a me un così odioso incarico. Ma lor signori farebbero lo stesso se fossero ne' miei panni.
— È giusto, disse lord Crall; e noi promettiamo di consegnarci al Capitano, e diamo perciò la nostra parola d'onore. Soltanto vi prego di prestare soccorso a questi carissimi miei amici che sono lì distesi per terra. L'uno è don Giorgio Porro, l'altro è un conte Rusca, quello là, che mi par morto, è uno Stefano Pecchio.
I Frammassoni superstiti partirono poco dopo, seguiti alla lontana da una mano di soldati. Le guardie della Ferma, i commessi, il Baroggi uscirono anch'essi, con promessa di esser pronti alla chiamata del capitano.
I cinque stesi per terra, assistiti dai due cappuccini, vennero fatti porre su altrettante barelle, e trasportati nel loro convento.
Quella medesima notte nel palazzo del Capitano di Giustizia furono esaminati coloro che si consegnarono e fu steso il processo verbale, presente il signor tenente del reggimento Clerici, che nel processo, veduto da noi, è firmato tenente Angelo Birago di Casal Monferrato. Il processo reca anche i nomi degli accusati, e sono i seguenti: don Giorgio Brentani, Guglielmo lord Crall Pietra Incisa, Gaspare Antolini avvocato, Carlambrogio Negri negoziante, Lorenzo Bruni professore di violino, Amilcare de Brème, Vincenzo Ghisalberti.
Nella medesima notte, uno dei due cappuccini accorsi al trambusto, per ordine della reverenda superiora del monastero di San Filippo Neri, riferì al Capitano, con nota scritta e firmata dalla madre priora e da tre suore maestre, come non s'eran più trovate in convento due tra le maggiori educande del monastero. Donna Giacoma Crivello dei marchesi Crivello, e donna Ada V..., figlia della contessa Clelia V..., tutelata, per esser assente la madre, da donna Paola Pietra Incisa.
Il giomo dopo, tutta Milano, anzi tutto il Ducato, fu pieno di codesto avvenimento, e, com'è naturale, fu portato a cielo il coraggio di quelli che avevano affrontata la guardia della Ferma per dare un esempio solenne. Ma insieme colle grandi lodi e coi lamenti pel loro arresto, corse anche la voce che coloro erano frammassoni; perchè, ad onta che il cardine fondamentale della frammassoneria fosse il segreto, pure, nei tre periodi dell'esistenza di quella società in Milano, anche per testimonianza di molti vecchi che vivono oggi, il pubblico conosceva molti degli ascritti ad essa, ond'erano additati comunemente siccome oggetti di speciale osservanza, a dispetto del tanto raccomandato segreto. Se non che una tale notizia fu un lampo che suggerì al Suardi il modo di gettar la confusione nelle teste del pubblico e dell'autorità.
In quel dì stesso trovatosi insieme col Baroggi, dopo aver parlato molto di molte cose con esso lui, il Suardi, cacciandosi di tratto a ridere:
— Ma sai tu, disse, che quegli originali pare che siano stati pagati espressamente da noi?
— E in che modo?
— È presto capito. All'autorità ora è noto che coloro sono Frammassoni. Tu sai che se molti dicevano che la loro esistenza avea per iscopo la propagazione dei lumi e il vantaggio del popolo, altri assicuravano che celavano, sotto questa bella apparenza, fini turpi e disonesti. Or è facile far pendere tutti i sospetti da questa parte. A che sono venuti ad assalirci? per cogliere l'occasione di gettar lo scompiglio in tutti e trafugar due fanciulle. Va benissimo; ciò almeno par assai chiaro. Ma c'è di più; e un sospetto ne genera sempre degli altri. Sappi dunque, che quel lord Crall lo vedevo a galoppar di frequente nelle vicinanze del monastero. Ora ho pensato che potesse essere innamorato di Ada... e ciò è naturalissimo, essendosi egli trovato seco spesse volte nella casa della propria madre. Del resto, che ciò sia o non sia, non importa; basta che sembri, e che l'accusa lanciata contro lui d'aver tese le insidie per farla trafugare, abbia tutte le apparenze della verità... Una nota di tal genere, senza firma di nessuno, sta da qualche ora nelle mani del signor Capitano... Ah! ah! va benissimo... E a te, che ne pare? È bella sì o no? Ma davvero che la fortuna è la mia schiava più devota... e t'assicuro che darei del capo nel muro, quasi incredulo di così strana combinazione! Or che fai tu che stai così serio?
— La rete è lunga e larga, rispose il Baroggi, e ci siam dentro anche noi... e quella povera mia madre. Ah no, per Dio, che non c'è tanto da ridere.
— Sta tranquillo, Giulio, te l'ho già detto jeri: il mio blasone è la coda del diavolo in campo rosso.

LIBRO OTTAVO


I discorsi di casa Ottoboni. — Parole di donna Paola Pietra intorno all'impresa dei Liberi Muratori contro i commessi della Ferma. — La contessa Arese e le dame del biscottino. — Dialogo tra l'Arese e donna Paola. — La calunnia. — Il caffè Demetrio e il maggiordomo Carlantonio Baserga. — L'abate Parini. – Il pubblico e il Galantino. — Donna Ada V... e donna Giacoma Crivello. — Il conte V... e il decreto del Senato. — Un sermone morale. — Il lago di Como. — La contessa Clelia V... — L'abate Frugoni e Condillac. — Da Casal Pusterlengo a Lodi. — Il figlio di Lorenzo Bruni. Suo racconto. — Donna Paola, la contessa Clelia e la Gaudenzi. — L'avvocato Strigelli. — Cattura de' Liberi-Muratori. — Il Galantino e il Baroggi.



I


Nella notte in cui avvennero i gravissimi disordini raccontati, la conversazione di casa Ottoboni, che sul tramonto era sparpagliata in varie sale e sui terrazzi, si raccolse tutta in due salotti, in uno dei quali continuarono i discorsi; nell'altro gli abitudinarj si unirono per giuocare all'ombretta spagnuola, all'arduo tarocco, allo scientifico scacco.
A quei convegni serali interveniva anche donna Paola Pietra, e nella sua tarda età, per consueto, sedeva al tavoliere e giuocava a tarocco col padre Frisi, col questore conte Pertusati, che allora era il prefetto della nobilissima scuola di san Giovanni alle Case Rotte, col maestro Galmini, ed altri; e qualche rarissima volta si faceva al pianoforte colla contessa Agnese, la maestra di musica già da noi nominata, sorella della celebre Gaetana, quando quella supplicava d'eseguire qualche pezzo celebre o dell'abate Stefani, o di Scarlatti, o dell'abate Clari, o di Hasse, o d'altri. Ci pare di aver detto più d'una volta come tutta la città di Milano, tanti anni addietro chiamata dalla valentia straordinaria di donna Paola, aveva avuta l'abitudine di accorrere in folla alla chiesuola del monastero di santa Radegonda, quand'ella monaca professa o cantava mottetti e responsorj, o suonava l'organo. Però ella non aveva dismessa affatto la pratica di quell'arte, e anche nella sua vecchia età, nei ritrovi più intimi, si lasciava indurre a dar saggio della sua ancor abile mano, quando ne veniva pregata o importunata.
Quasi dunque ogni sera ella interveniva in casa Ottoboni; vi si fermava fino al tocco della campana, alla qual ora o veniva a prenderla la carrozza, o se il tempo era bello e l'aria mite, veniva a pigliarla il suo figlio Guglielmo, il quale viveva con essa nel più ammirabile accordo; e così pedestri, seguiti dal servitore col lampione, si rincasavano, per ritirarsi, ella a riposare, lord Guglielmo a studiare fino a notte tardissima.
Anche in quella sera donna Paola Pietra, sul tardi, come soleva, recossi in casa Ottoboni. Essendo stata bellissima la giornata, lord Guglielmo aveva detto al carrozziere di non attaccare per quella sera, ch'egli stesso avrebbe accompagnato a casa sua madre. Spesse volte poi il padre Frisi e il Parini e l'avvocato Fogliazzi si facevan con loro, e così lentissimamente passeggiando e qualche volta scegliendo apposta la strada più lunga, continuavano la conversazione e qualche volta anche salivano tutti in casa Pietra Incisa a bere l'acqua cedrata. La partenza precipitosa di lord Crall, all'annuncio che il monastero di San Filippo era stato invaso dalle guardie della Ferma aveva provocato i parlari e messo in movimento le congetture fra quanti erano là radunati in casa Ottoboni. Però, quando venne donna Paola, fu un accordo tacito di tutti di non farle motto alcuno di quel ch'era successo.
Soltanto quand'ella si fu adagiata nel salotto da giuoco a farvi una partita al tarocco coi soliti suoi competitori, la ciarla continuò più abbondante e più investigatrice e più fiscale di prima nella sala della conversazione. In tal modo era trascorsa qualche ora di notte, allorquando entrò l'avvocato Rejna, il padre, crediamo, del noto bibliofilo, che di quando in quando aveva l'abitudine di frequentare quella casa. Entrò circospetto e, con un'aria di mistero che svegliò la curiosità in tutti quanti, chiamò in disparte l'abate Parini, e:
— Guai, caro abate, guai serj. Un disordine, un parapiglia da non imaginarsi il secondo in mille anni.
— Che cosa è successo? — domandò il Parini.
— Prima di tutto... è qui donna Paola?
— È qui.
— Male. Avrei voluto che fosse a casa sua.
— Ma di che si tratta?
— Una compagnia di cavalieri e d'uomini civili con spade e pistole sono entrati nel monastero di San Filippo.
— C'era lord Crall?
— Sì... e sono entrati coll'intento di dare alle guardie della Ferma una lezione che loro lasciasse il segno, e da far nascere un tale scompiglio da costringere l'autorità ad abrogare l'editto del mese di aprile; e lo scompiglio è nato in fatti, ma di tal sorta che sono rimasti in terra cinque tra morti e feriti, e dovettero accorrere i soldati del reggimento Clerici... e lord Crall...
— Che? È forse morto?
— No, ma fu condotto, anzi scortato al Capitano di giustizia insieme con altri sei o sette... tra cui vi sono due che furono vostri scolari, e v'è il figlio del banchiere Negri... quell'accattabrighe...
— Oh che caso!
— Or cosa credete di fare? Dobbiamo dire il fatto a donna Paola?...
— Domando a voi come si fa a serbare il segreto con quella donna; con quella donna che avanza gli uomini in consiglio e prudenza e fermezza. E poi già... quello che non saprebbe stasera, saprebbe domattina, e avrebbe ragione di lamentarsi con noi; e poi, non vedendo a comparire suo figlio, passerebbe una notte di spasimo. Un male che si conosce è sempre meglio di un disastro che si teme e si ingrandisce coll'imaginazione.
La faccia espressiva del Parini, e il suo grand'occhio, in quel punto insolitamente espanso, e la fronte spaziosa e pura su cui appariva, quasi a dir, la fuga dei veloci suoi pensieri; e ciò, dopo quell'aria di mistero onde lo aveva chiamato in disparte l'avvocato Rejna, provocò l'attenzione di quanti stavano parlando nella sala; di modo che la marchesa Ottoboni s'accostò ai due interlocutori, chiedendo che cosa era avvenuto; e quasi contemporaneamente quanti eran seduti si alzarono, e alle loro domande l'avvocato dovette ripetere quello che aveva detto al Parini.
— Ah me l'era imaginato, diceva uno.
— In quanto a me avrei sospettato qualunque cosa fuorchè questa...
— Ma che interesse... che desiderio... che smania... Non ci capisco niente affatto io...
— Quello che non avete capito voi aveva capito io da un pezzo... (e chi parlava era una dama).
— Che cosa avete capito?
— Lord Guglielmo ha ventisei anni ed è letterato... ed è fantastico... e in monastero c'è qualche ragazza che ha più di quindici anni.
— E che?... Volevate che fosse geloso delle guardie della Ferma?...
— Altro che gelosia... paura e spavento... e fin qui non ha torto... Da soldati in convento non c'è da attender nulla di buono.
— Donna Gioconda egregia, disse il Parini con ironia severa alla bella e giovane e maliziosa dama che parlava sommesso, ma non abbastanza perchè non fosse intesa da quelli che le stavano vicino; donna Gioconda egregia, abbiate la bontà di credere che qualche rara volta gli uomini, e specialmente i giovani, affrontano il pericolo per impulso spontaneo ad operare il bene e ad operarlo a vantaggio altrui, anche senza il secondo fine di qualche interesse proprio che toglie merito a qualunque bella e coraggiosa azione; e mi pare che questo sia precisamente il caso. Vogliate dunque essere cortese con lord Guglielmo, concedendogli la virtù del disinteresse.
— Chi affronta il pericolo, foss'anco per il solo intento di proteggere dall'altrui violenza qualche cara persona, mi pare sia degno d'ammirazione anche senza andare a cercar altro, rispose donna Gioconda punta, ed arrossendo di dispetto sotto il minio e i due nèi posticci che, appiccicati all'angolo dell'occhio sinistro e sulla pozzetta della sinistra guancia, le alteravano l'armonia del bel volto, rendendolo però più piccante.
— Donna Gioconda è tanto spiritosa, che mi obbliga a concedere questa gentile interpretazione a' suoi arguti sospetti.
E a questo punto successe nella sala un generale silenzio che lasciò sentir le voci di quelli che giocavano nell'altra.
— Abbiamo tempo di far la pace, diceva il padre Frisi. Lord Guglielmo non è ancora venuto.
— Come volete... ma non capisco perchè stasera tardi tanto.
Il Parini sentì e, senza dir nulla, dignitosamente zoppicando, attraversò la sala e si recò nell'altra dov'era donna Paola Pietra.
La marchesa Ottoboni gli tenne dietro.
Fattosi presso al tavoliere, dove stava seduta donna Paola:
— Lord Guglielmo, le disse il Parini, non può venire stasera per essere trattenuto altrove da un affare urgentissimo, che le dirò dopo.
— Che novità? ha mandato qualche servitore?
— No... ma finisca la partita e dopo le dirò di che si tratta. Spicciatevi, il mio caro padre Paolo, che quand'anche foste per commettere uno sbaglio, gettando giù una cattiva carta, non si tratta di un calcolo matematico.
— Un poeta non ci perde nulla se confonde il re di spade col re d'oro, rispose il padre Frisi, colla sua consueta facezia; ma un professore di matematica... ci va dell'onor suo... Ah!.... Donna Paola... non avrei mai pensato ch'ella avesse il ventuno... Caro abate, mi sono comportato da poeta questa volta...
La partita finì, il padre Paolo Frisi si alzò, si alzarono gli altri e donna Paola con essi, la quale voltasi impaziente al Parini:
— E che cos'è quest'affare di tanta urgenza?
— Lord Guglielmo ha voluto impegnarsi, d'accordo con alcuni altri gentiluomini, e metter mano in quella brutta pasta dei fermieri, per l'utilissimo intento di convincere l'autorità, con qualche atto clamoroso, dei pessimi provvedimenti da lei presi. Però, trattandosi stasera di una perquisizione in luogo dove la Ferma non aveva mai osato penetrare...
— Ah... me l'aspettavo... Ho compreso tutto, si è dunque voluto assolutamente far resistenza alla forza pubblica, e Guglielmo...
— Guglielmo si trovò impegnato cogli amici e... già è facile imaginarsi che queste cose non vanno via lisce... insomma... hanno dovuto tutti quanti presentarsi al Capitano di giustizia.
Il Parini che, in prima, aveva proceduto con lentezza guardinga nel dar quel tristo annuncio alla madre di Guglielmo, continuò più spedito e più franco quando si accorse che ella non ne era gran che percossa. Tutti poi rimasero assai meravigliati allorchè donna Paola, sentito il fatto, sul volto, conservatosi calmo e sereno, mostrò gl'indizj di qualche cosa che somigliava alla compiacenza.
— Cari amici, soggiunse ella poi, giacchè le soperchierie eran procedute al punto che, a sopportarle, potevano col tempo generar malanni ancora più terribili, ed era necessario che qualche uomo coraggioso e fermo protestasse forte e senza quelle benedette mezze misure che finiscon quasi sempre a lasciar le cose peggio di prima; così vi confesso la verità, sebbene qui questa cara ed ottima marchesa mi guardi stupita, che ho gran piacere ci sia entrato mio figlio. Prevedo, pur troppo, che ci saranno travagli seriissimi da incontrare; ma... penso che il mondo sarebbe cento mila volte peggio di quello che è, se di tant'in tanto non ci fossero quelle felici e generose tempre d'uomini che danno da pensare alla prepotenza e spaventano i pregiudizj. Così è... sono contenta di Guglielmo... Pur troppo l'audacia gli costerà cara... ma verrà il buon mercato... e gli altri godranno...
Così esprimevasi quella donna forte e singolarissima, e tra ciglio e ciglio le brillava quel raggio antico dell'intelligenza coraggiosa che si conforta nella convinzione del giusto — quell'intelligenza coraggiosa onde aveva saputo vincere e far piegare innanzi a sè consuetudini e pregiudizi inveterati, siccome sa il lettore.
— Ed ora, continuava donna Paola, è necessario ch'io mi riduca a casa, perchè è probabile che là vi sia qualche lettera del signor capitano di giustizia, o qualche avviso di Guglielmo... Vedremo. Chi dunque mi accompagna?
Tutti si offersero. Ma il Parini, il padre Frisi e il conte Pertusati, prefetto della confraternita di san Giovanni alle Case Rotte, si disposero a farle seguito di fatto, dandole braccio l'avvocato Fogliazzi. Quando poi tutti furono per uscire, la marchesa Ottoboni, la padrona di casa, che aveva coltissimo l'ingegno come ottimo il cuore:
— Donna Paola, permettete che v'accompagni anch'io. Verrà più tardi a prendermi la carrozza a casa vostra.
E così se ne partirono tutti, facendo la via lentissimamente: donna Paola tra la marchesa Ottoboni e l'avvocato Fogliazzi, e il Parini che incedeva lor presso, appoggiato al braccio del Padre Frisi.
Quando, venuti a santa Maria Podone, attraversarono la piazza, videro fermato un carrozzone innanzi al portone di casa Pietra. Il lacchè, col piede sullo scalino del cocchio, tenendo nella sinistra la torcia accesa che rischiarava di una luce rossastra gran tratto di quella buia contrada Borromeo, attendeva a far chiacchiere col cocchiere. I servitori, che precedevano coi lampioni i nostri personaggi, furono i primi a dire, ravvisandola a quel chiarore: È la livrea di casa Arese.
— Ahi, disse donna Paola, questo mi è di cattivo augurio. È la contessa.
E in fatti, quando furono al punto da svoltar nel portone, mettendosi in fila, per passare tra la carrozza e il muro di casa Pietra, il lacchè, ritraendo il piede dallo scalino, e cavandosi il cappello a tre punte:
— La signora contessa mia padrona è entrata, ed aspetta da quasi mezz'ora...
— Ahimè... replicò donna Paola... davvero che prevedo disgrazie...
Se il lettore si ricorda, la contessa Arese, dama della croce stellata, priora di molte congregazioni, era la protettrice e conservatrice del collegio di san Filippo Neri.



II


Questa nobil dama, supplicata per lettera, qualche ora prima, dalla reverenda badessa a recarsi al monastero, senza perdere un minuto di tempo, aveva sentito con grande indignazione il gravissimo disordine avvenuto, e con stupore la scomparsa delle due fanciulle educande.
— E l'avea pur avvisata io quella signora donna Paola, esclamò al racconto; l'avea pure avvisata a ritirare la fanciulla dal convento. Ma colei vuol sempre fare a modo suo, e non m'ha dato ascolto, ed ora ecco che cos'è avvenuto.
— Questo può andare per donna Ada, nobilissima contessa, avea risposto la madre badessa, ma chi può spiegare la scomparsa della Crivello, la perla delle educande? Ah, che disonore, che smacco per il convento, nobile contessa, per questo convento che godeva di una così grande e meritata riputazione!
— Pur troppo, madre reverenda, pur troppo! Ed or che si fa?... Quella signora donna Paola, che entra dappertutto, che dà consigli a tutti, che dispensa grazie e favori e soccorsi a tutti, vedremo, vedremo ora quel che saprà fare. Senza perder tempo io mi recherò da lei. Voi intanto, madre reverenda, spedite tosto qualcuno del convento de' cappuccini ad avvisare i signori Crivello... Oh che diranno mai quegli egregi signori, quell'ottima marchesa! ah, è questo un grande scompiglio, madre reverenda! E così dicendo, aveva lasciata la superiora e le altre suore in lagrime; e messasi in carrozza, se ne venne alla casa Pietra.
Donna Paola era veduta con segreto rancore dalla contessa Arese, e da tutte quelle altre dame segnalate per titoli, e investite di qualche importante incarico relativo alla carità od alla beneficenza pubblica, priore di sacre congregazioni, protettrici d'orfanotrofj, raccoglitrici di largizioni della carità privata, e che, in virtù di tali incarichi, erano ossequiate, supplicate, temute. La cagione di quel segreto rancore era che quella donna singolare non aveva mai voluto appartenere a nessuno di quei corpi morali, avendo sempre preferito di esercitare la beneficenza in un modo eccezionale e ne' casi eccezionali, perchè soleva dir sempre: «ai bisogni e alle disgrazie comuni e di tutti i giorni v'è chi ci pensa; e perciò è necessario che qualcuno provveda a quei casi a cui, per essere insoliti o per trovarsi in contrasto con qualcuno dei pregiudizi più radicati nel mondo, nessuno vuol pensare». Sin qui però quelle donne esimie si sarebbero anche tranquillate, ma il loro dispetto più forte nasceva da ciò, che sebbene donna Paola non avesse veste nessuna di pubblico incarico, nè titolo sonoro che la distinguesse fra le dame, nè croci stellate, nè altro, pure ogni qualvolta si mostrava in pubblico o appariva tra la minuta gente, a preferenza di tutte loro, raccoglieva le più segnalate dimostrazioni d'affetto; e spesse volte i poveri e gl'infelici che ricorrevano ad esse, se mai insorgeva qualche difficoltà di soccorso, mettevano innanzi il nome di donna Paola, quasi lor domandando consiglio, se era il caso di ricorrere a quella come a suprema autorità. Codesto fatto era il colpo più crudo per quelle esimie dame; e spesso i poveretti che, per inesperienza ingenua, avevano proferito quel nome venerato, si sentivano licenziati con solenni rabbuffi e peggio. Tanto s'infiltra ovunque il perfido amor proprio, e, quand'è offeso, mette il turbamento persino negli atti di carità!
Ma tornando ai fatti, donna Paola, affannata ed ansiosa, salì le scale preceduta da tutti gli altri. Il servo gallonato della contessa Arese era in anticamera, e con esso un servo di donna Paola, alla quale e l'uno e l'altro contemporaneamente dissero:
— La signora contessa Arese è nella sala di ricevimento.
Il rumore dei passi e delle voci fecero alzare la contessa dal seggiolone, ove erasi messa per meditare la formola migliore da dare al tristo annuncio, di modo che, quando donna Paola entrò, quella gli moveva incontro:
— Qual grave motivo vi ha costretta a venire da me in ora così tarda?
La voce di donna Paola, la qual non s'era per nulla turbata quando il Parini le aveva narrato il fatto di suo figlio, tremava nell'esprimere quella domanda.
Un vago presentimento l'affannava e, per di più, vedevasi innanzi una donna colla quale non s'era mai trovata d'accordo un momento solo. V'hanno persone che, relativamente o assolutamente, nella faccia, nei modi, nelle parole, serbano un'impronta indefinibile che arrovescia l'anima di chi, senza volerlo, è costretto a trovarsi con esse. E donna Paola era precisamente in questa condizione al cospetto della contessa, e per quell'impulso naturale ed invincibile dell'antipatia, la quale spesso è un'ingiustizia, ma qualche volta è pur salutare come l'istinto; ed anche perchè sapeva come l'Arese, di cheto e sott'acqua, fosse la sua perpetua avversaria, e si adoperasse a mantenere contro di lei i rancori delle dame vegliarde sue degne consocie, e soffiasse astutamente nelle ire, velate di pretesti devoti.
Quando una persona versa in tali relazioni affettive con quella a cui deve annunciare una disgrazia, non è possibile che trovi in quel punto il modo da farsi ben volere.
— Donna Paola si ricorderà dell'ultima mia visita, rispose dopo qualche pausa la contessa.
— Me ne ricordo, sì, soggiunse con impazienza donna Paola.
— Si ricorderà anche del consiglio che rimessamente mi son permessa di darle... Ahi!... perchè mai, nella sua saviezza, donna Paola, non ha creduto bene di ascoltarmi! e mandò un grave e lungo sospiro.
Davvero che si potrebbe forse scommettere che in fondo all'animo della contessa c'era un sentimento di compiacenza, che le faceva trovare una, quasi diremo, vendetta nel dar quell'annunzio a donna Paola; un sentimento irresistibile e che, per mancanza di espressioni più proprie e precise, si potrebbe chiamar fisico. Infatti, se non fosse così, perchè incominciare il suo discorso a quel modo?
— Ma in nome di Dio, parlate, continuava donna Paola; che cosa c'entra il vostro consiglio di tanti giorni fa, colla vostra visita di quest'oggi?
— Se quella fanciulla da voi protetta fosse stata ritirata dal monastero in tempo...
— Che?...
— Quest'oggi non sarebbe scomparsa...
— Scomparsa!... Ma chi scomparsa? ma da dove? ma parlate più chiaro e più spiccio.
— Donna Paola si tranquillizzi... Vi deve essere nota la visita de' fermieri in convento e il parapiglia con alcuni... non dirò cattivi, ma certo turbolenti e avventati giovinotti... Lord Guglielmo, vostro figlio, ha voluto onorarli della propria complicità... e ciò mi rincresce, mi rincresce davvero... un così distinto giovane! Ma per non lasciarvi in pene, vi dirò che, mentre avveniva il più strano e terribile caso che mai abbia sconvolta e funestata la santa tranquillità di un convento, scomparvero due educande; donna Ada, figlia della contessa Clelia, e una Crivello... della quale poi non mi so far capace in nessun modo... perchè era chiamata la perla delle educande.
— Scomparsa!!!... esclamò donna Paola, lasciandosi cadere sul seggiolone, e girando lo sguardo attonito su tutti gli astanti che, percossi e muti e immobili, guardavano lei.
Allora il più profondo silenzio si prolungò sino al punto che donna Paola, alzandosi da sedere e stringendo le mani della marchesa Ottoboni colle proprie convulse e tremanti:
— Povera infelice contessa proruppe... or che le diremo?... Ah! è una disgrazia maggiore di tutte le disgrazie!
E il silenzio continuò ancora, finchè fu rotto dalle parole della contessa Arese:
— Donna Paola, non v'è chi misuri e trovi giusto il vostro dolore più di me... ma se è permessa una riflessione in così tristo punto, lasciate ch'io ridica quello che ho sempre pensato e detto. Non era conveniente, per nessun conto, che una donna vostra pari si desse tanto pensiero della contessa, che Dio però le perdoni; nè che vi pigliaste tanta cura di quella fanciulla... molto meno poi fu conveniente il metterla ad educare nel monastero... La nobil donna che m'antecedette come protettrice e conservatrice di quel santo luogo... ha voluto fare a modo suo... ha trovato giusto che voi... che la contessa... ma in conclusione fu uno scandalo, uno scandalo inaudito che... e molti infatti dei nobili ed ottimi genitori che misero ad educare le loro fanciulle là dentro... se ne lamentarono e se ne lamentano.
Donna Paola, sprofondata nel doloroso suo pensiero, a tutta prima non aveva prestato orecchio alla contessa Arese; ma arrestata da quella parola scandalo, si scosse e comprese e si mise a guardar fissa la contessa, aspettando attonita la conclusione delle sue parole; se non che non le bastò la pazienza di lasciarla finire, e:
— Che mi tocca di sentire? proruppe; di che scandalo mi parlate, di che lamenti? Vorrei che parlassero a me questi signori padri e queste signore madri che voi mi nominate! Ma dov'è la legge del perdono? ma che nuova dottrina è la vostra, ma chi ve l'insegna? La contessa Clelia è oggi un esemplare di virtù e di scienza. Ella ha provato al mondo che, se si può fallire, ben si può rompere una mala pratica, ed oggi, esponendo altrui il tesoro faticoso de' suoi studi severi, è più utile al mondo che voi tutte colla vostra carità falsa, per la quale vorreste messa alla gogna anche in fasce una creatura innocente perchè... ma che perchè? La fanciulla Ada è la figlia del conte V..., chi può negarlo? voi sole, egregie dame della carità, siete state a far sorgere gli scandali, gettando nel mondo le avventate congetture che la coscienza, l'onestà, la bontà dovrebbero sempre respingere. Ma sta a vedere, contessa, che voi sareste capace di pensare, e anche di volerlo far credere a me, che questa sventura possa essere un indizio dell'ammonizione, della punizione del cielo; perchè tra le altre vostre abitudini avete anche quella di dar ad intendere di essere confederata al cielo in tutto quello che dite e fate, e siete per dire e per fare; così il cielo, al cospetto del povero vulgo ingenuo, ingannato dalle false apparenze, quasi parrebbe complice della cecità, per non dire del pervertimento del vostro giudizio. Ed ora vi debbo dire, che, dacchè il monastero di san Filippo Neri fu eretto dalla sua pia fondatrice, la vigilanza fu sempre così esemplare che non è mai avvenuto che scomparissero o vi si trafugassero fanciulle. L'esimia signora che vi ha preceduto nell'incarico di proteggere quel sacro asilo, lo mise in tanta floridezza, che da tutte le parti del Ducato fu una gara il mandarvi ad educar fanciulle. Ora è sotto la vostra tutela, ed è per la prima volta che avviene una sventura di tal fatta, una sventura la quale non può ascriversi che a disordine di regolamento, a incompleta sorveglianza, a incapacità tollerata nelle superiore, alla insufficiente custodia del luogo, cose tutte di cui voi, voi sola dovete render ragione... Ed ora che diremo, che dirò io a quella povera contessa Clelia, la cui vita travagliata e, adesso, di tutto sacrificio, non aveva altro conforto che l'esistenza di quella sua unica ed angelica figliuola?... che le dirò io? con che parole le scriverò? Ah!... avrei voluto morir prima, piuttosto che sentire una simile disgrazia...
E così dicendo, cadde spossata sulla seggiola.
— Condono al dolore, disse la contessa rivolta agli astanti, dignitosamente burbanzosa, l'amarezza delle sue espressioni; e additava donna Paola; ma nè la conservatrice del monastero nè la priora, nè le suore maestre potevano rispondere dell'ordine consueto del monastero in una notte di tanto trambusto. Chi poteva prevedere una perquisizione in convento?... chi, e fu il peggio, la venuta di que' giovani armati che tramutarono il monastero in un campo di battaglia? E non posso tacere la voce che ormai circola per Milano... che quei giovani siano entrati in quel sacro asilo per coprire un colpevole intento con un atto coraggioso... Non posso dissimulare essere generale la persuasione che quei giovani fossero appartenenti alla pericolosa e iniqua società dei Liberi Muratori... Vi fu perfino chi... ma io non voglio credere... vi fu dunque chi mise innanzi a tutti il nome di lord Crall...
Donna Paola si volse a quelle parole, e un lampo le balenò nel pensiero e un sospetto. Ella, avendo letto in cuore al figlio Guglielmo l'amore per Ada, era la sola che di necessità doveva essere più vicina ad ammettere quell'accusa, ripensando la quale e misurandola in tutta la sua gravezza si trasmutò in viso, ed essendosi sforzata a parlare, non potè.
Allora corsero diverse parole tra la marchesa Ottoboni, la contessa Arese, il Parini, il Frisi e gli altri. In fine la contessa, avvicinandosi a donna Paola, con accento dignitoso, ma in cui fremeva l'aria del trionfo:
— Io ho fatto il mio dovere, le disse, se fui sollecita nel venirvi ad avvisare di tutto. Credo che non avrete rancore con me, se ho manifestato le mie opinioni, come io non ho nulla con voi se avete manifestate le vostre. Io vi lascio intanto, pregando il cielo perchè vi dia buoni pensieri e la calma di sostenere un tal colpo.
— Abbiate i miei ringraziamenti, rispose donna Paola, alzandosi e stringendo sbadata la mano che quella le porse. E la contessa uscì accompagnata dalla marchesa Ottoboni sin sulla soglia della sala. Quando la marchesa tornò indietro, donna Paola stava interrogando il Parini se fosse conveniente o no avvisare la contessa Clelia di quella sventura.
— Bisogna scriverle senza perder tempo, rispose il Parini, anzi supplicarla di venir tosto a Milano. Io non m'arrogo, donna Paola, di dar consigli a voi; ma per quanto segnalata sia la vostra prudenza e feconda di consigli la vostra esperienza e operoso il vostro amore, pure è necessario che in tal caso la madre sia qui. L'amor materno serba delle virtù arcane, che talvolta arrivano ad ottenere quel che parrebbe impossibile ad ogni altra volontà intelligente e infervorata. Io ho un presentimento, torno a ripeterlo, che soltanto la madre troverà sua figlia.
— Scrivetele dunque subito, disse donna Paola, ma non spaventatela. Un pretesto... una malattia... che so io?... ma badate di non spaventarla... Povera Clelia!! ed abbassando la voce e facendosi all'orecchio di Parini: — Ed ora, soggiunse, io sono più povera di lei!
Poco tempo dopo, la carrozza venne a prendere la marchesa Ottoboni, a cui donna Paola diede un bacio; anche gli altri partirono; e noi pure usciremo all'aperto.



III


La calunnia è un tema inesauribile, press'a poco come quello dell'amore. Si credeva che essa, dopo essere stata svergognata nell'ideale di don Basilio, e messa in musica da Rossini, avrebbe cessato di somministrar nuovi concetti al filosofo ed all'artista. Ma siccome gli uomini, se appena appena si elevano di tanto, quanto basta a destare invidia, ne hanno sentito nelle reni il coltello traditore, così, anche dopo il fa diesis che Rossini applicò al colpo di cannone, vi si fecero intorno degli studj, i quali se non valgono ad esprimere con novità il concetto generale della calunnia, ne mostrano però sempre qualche nuovo carattere speciale e peregrino degno sempre di un paragrafo in un trattato di patologia sulla natura intellettuale e morale degli uomini.
Il figlio di Lorenzo Bruni che fanciullo conobbe donna Paola di persona, ci raccontò come anch'essa, a sessantasei anni, dovette sentirsi avvolta dalla bufera della calunnia. Un nuovo modo della quale, e si manifestò la prima volta allora per ferire quella donna singolare, consistette in ciò che, ad assalirla, colse il punto in cui la virtù di lei aveva mandato il suo raggio più vivo e più caratteristico. Noi abbiamo veduto che, allorquando l'abate Parini le annunciò guardingo la cattura di lord Guglielmo, ella, invece di provare quella costernazione che tutte le madri nella sua condizione avrebbero provata a quella notizia, mostrò invece un vivo soddisfacimento, e disse tali parole, per cui fu manifesto che posponeva la tranquillità del suo carissimo figlio all'idea generosa di vederlo in pericolo per essersi adoperato a vantaggio altrui. In quel secolo, o per dir meglio, in quel periodo di secolo poltrone, la madre romana che uccise il proprio figlio in punizione d'aver gettato lo scudo in battaglia non potea avere dall'opinione codarda dei più che un grado distinto tra le pazzie celebri; e però doveano fare uno strano senso le parole di donna Paola. Gli intelletti e i cuori squisiti, che, come sempre e dovunque, costituivano una desolata minoranza anche nella società di casa Ottoboni, rimasero ammirati e commossi a tanto slancio d'insolita magnanimità; ma gli altri, ovvero sia i nove decimi di quella società stessa, subirono una meraviglia ottusa e cretina, per la quale non poteano capacitarsi che una madre, e una madre di quel senno tanto decantato, dovesse esprimere così avventati sentimenti.
Guai se un atto qualunque, sia pur originato dal più generoso impulso e venga dall'uomo più incorrotto, si eleva oltre la sfera delle abitudini vulgari, in modo da non poter essere più seguito dall'ala del senso comune! quell'atto, di repente, girando di bocca in bocca, è soggetto a mille esami fiscali; i più vili, che non possono nemmeno concepire le buone azioni comuni, si rivoltano come serpenti alla buona azione eccezionale, la quale è gettata innanzi al tribunale della pubblica opinione come una colpa vituperosa.
Ma per vedere come la calunnia abbia lavorato ai danni di quella donna insigne, entreremo nel caffè Demetrio per assistere al processo con cui l'ozio, onde canzonare il tempo, si spassa a far rotolare innocentemente le accuse a cui diedero la prima spinta i vili.
Dopo quella tal giornata memorabile del mese di marzo del 1750, noi non siamo mai più entrati nel caffè del Greco o Demetrio. Bensì, in sedici anni, non mancarono di intervenirvi quotidianamente quasi tutti coloro che abbiamo udito a far commenti intorno al tenore Amorevoli, stato colto dal barigello nel giardino di casa V... Continuava ad intervenirvi anche quel tal che, fin d'allora, abbiam veduto sedere, quasi al banco presidenziale, in quell'assemblea di sfaccendati, a tener la paletta e a ventilare il braciere delle novità e della maldicenza. Colui, se nelle rughe agli angoli esterni degli occhi, spiegatesi in forma di ventaglio, mostrava che i tre lustri non avevano mancato di fare il loro dovere, nel rimanente, per salute, abitudini, spirito e parlantina, si conservava perfettamente lo stesso. Ai vecchi avventori se ne erano poi aggiunti di nuovi, tra gli altri un tal Carlantonio Baserga, stato già ragioniere maggiordomo in casa Origo, poi venuto agli stipendj del monsignor G..., ricchissimo prelato, primicerio della Metropolitana. Quel signor Baserga veniva dopo mezzodì a sorbire la cioccolata al caffè Demetrio, e per essere un collo torto, e per aver fama d'essersi arricchito nell'amministrare le altrui sostanze, ingannando i buoni padroni coll'ostentazione delle più devote pratiche, coll'abbandonare, per esempio, un pranzo in venerdì o in sabato, se mai avesse veduto qualche cappone mostrare i suoi pingui gheroni sulla tavola di un ricco gaudente; per essere, insomma, tenuto in conto d'astuto ipocrita e d'indefesso procacciatore d'acqua pel suo mulino, era malissimo veduto da quella società di gente allegra e un po' libertina.
Con tutto ciò, guardate caso strano, la prima volta che colui, sentendo a commentare in caffè l'avvenimento del monastero e a parlare di lord Crall e degli altri, pronunciò blandamente una parola, che cangiando di punto in bianco tutta la direzione delle congetture, schizzò uno spruzzo di veleno risolvente sulla riputazione del figlio di donna Paola e su quella di lei medesima, in quell'occasione tutti, o quasi tutti, aguzzarono l'orecchio e lo ascoltarono ansiosi e, osiamo dire, con piacere; con tanto piacere che tacque pel momento l'invidiabile antipatia che avevano per esso.
Donna Paola dovette allo slancio più luminoso della sua generosa indole, se nella maggior parte che l'ascoltarono nacque un primo senso di maraviglia diffidente e di ripulsione. Il collarone Baserga, esoso a tutti, nel punto che con più ardimento spiegava la sua mala natura, precisamente in quel punto i credenzoni gli si volsero più benigni. A seguire colla riflessione codeste bizzarre contraddizioni della società che si piega ad ogni vento, chi vive d'entrata può divertirsi tanto, quanto basta per purgarsi delle amarezze che vi si raccolgono ad ogni minuto!
Un'ora dopo mezzodì, i nostri vecchi avventori erano dunque tutti seduti in caffè; il nostro amico presidente passeggiava innanzi e indietro, colle braccia conserte al petto, come se il mondo posasse tutto quanto sovra i suoi larghi omeri. Solo in un angolo l'amico collarone, il signor ragioniere Baserga, sorseggiava la cioccolata.
A quell'ora, com'è naturale, tutta la città era piena dei fatti avvenuti la notte antecedente, figuriamoci poi se non ne doveva essere completamente informata quella società di compagnoni, cacciatori instancabili di notizie e di pettegolezzi.
— Avete ragione, diceva il presidente; il fatto, anzi l'intreccio de' fatti, è strano, è curioso, è avviluppato fino a parere inverosimile, ma è ancora un niente per sè stesso. Quel che fa strabiliare si è che, per questi fatti, tornino oggi in ballo precisamente coloro che tanti anni fa provocarono tali e tante ciarle da andarne sottosopra tutto il Ducato. Che la signora contessa Clelia abbia dato al mondo una bella figliuola... niente di più naturale. Ma quel che fa senso è, che da un monastero dove non è mai avvenuto scandalo di sorta, debba scomparire una fanciulla, e che questa fanciulla sia precisamente la figlia della contessa! Se ciò fosse successo nel monastero di Santa Radegonda... non poteva andar meglio... Donna Paola lo rese celebre per esserne fuggita, e per aver avuta tanta drittura di cervello e forza e coraggio da farsi dar ragione anche dal papa... onde la fuga della figliuola di donna Clelia avrebbe fatto di quel monastero un istituto sui generis, da essere di preferenza visitato dai forastieri.
— Se mi permetti di contraddirti, soggiungeva un altro, sarebbe stato ben più strano e inconcepibile che donna Paola avesse mandato ad educare la sua, dirò, pupilla in quel convento stesso, dove ella aveva passata una gioventù tanto infelice, e che la pupilla fosse poi fuggita di là appunto per imitare chi l'aveva in tutela.
— Come vuoi tu...? Ma tornando alla scomparsa o alla fuga della ragazza, non poteva al certo avvenire in un modo più clamoroso; perchè gli ingredienti e della Ferma e delle guardie e delle schioppettate nel recinto, e dell'intervento dei Frammassoni, se sarà vero, e del giovane lord Crall, precisamente di un figlio di donna Paola, fanno un tal garbuglio e un tal nodo, che sfido la fantasia del prete Passeroni a inventarmene uno più intricato... e scommetto che, coll'andar del tempo, qualche bizzarro ingegno, se mai verrà a conoscere tutta questa matassa, e sia di quelli che o bene o male sanno tenere una penna in mano, ne stenderà la storia in modo, che i nipoti dei. nostri nipoti sentiranno il desiderio di essere nati tanti anni prima.
— Ah, è una gran donna quella donna Paola...
— Cosa c'entra adesso la gran donna?
— C'entra tanto che, senti un po', caro mio, giacchè ti dispiace che una notizia venga da una bocca che non sia la tua, ma l'ho sentita stamattina nello studio dell'avvocato Fogliardi....
— Sentiamo; che cosa?
— Che invece di lamentarsi della disgrazia toccata al figliuolo, donna Paola, jeri sera, in casa Ottoboni, se ne gloriava. e diceva che esso aveva fatto benissimo a comportarsi a quel modo...
Colui che parlava non incontrava di solito l'approvazione dei compagnoni affaccendati. Può darsi che forse rappresentasse il solitario buon senso in perpetua lotta col senso comune; però fu contraddetto anche in questa occasione.
— Oh... tu la dici grossa... bada che donna Paola non avrà detto così... non è possibile....
— Se lo dico, è perchè lo so....
— Allora si vede che anche donna Paola può dir delle sciempiaggini... e che, per distinguersi dalle altre dame, ha voluto far la parte di Spartana. Io abborro tutto ciò che sa di ostentazione...
— Ma che ostentazione?...
— Rallegrarsi perchè il figliuolo va in galera... ma sai tu che è nuova di conio?
— Cosa c'entra la galera?... È motivo che la si deve guardare.
— Che motivo?... Già io non sarò mai per approvare che coloro siano andati con violenza a portar il campo di battaglia in un monastero, per fare il bulo coi finanzieri. Non si potevano aspettar in istrada... od assalirli nel loro nido?
— Bravo! per rimanere schiacciati dal numero. Saresti un generale assai astuto... Bravo!
— Ma che bravo! Credi tu ch'io solo sia di questo parere?... tutti lo dividono con me... E sfido io a pensar altro, chi ha la testa sulle spalle....
— Grida pure a tua posta; ma intanto ti prego a considerare che non basta aver la testa sulle spalle... quel che importa è di avere una buona testa.
— Signor buona testa... mi perdoni, dunque.... ma quando tu mi proverai che la prepotenza di quei giovinotti...
— Ma ho da sentir a parlar di prepotenza, quando si trattava di sbarrar le bocche a quei cani de' fermieri...
— La questione non è sui fermieri... la questione è se sia stato bene entrar in un monastero a fare il gradasso... e a far strillar le monache... bel gusto!... bell'onore!...
— Sono andati a cercarli dove si trovavano, e per coglierli nel punto che, per la prima volta, ebbero la sfrontatezza di entrar in un luogo consacrato alle sante vergini.
— Ma che sante vergini!...
— Sta a vedere che adesso l'hai colle sante vergini!... mentre prima disapprovavi chi aveva loro turbato il sonno. Ma dov'è la connessione delle idee?
Il presidente, messo alle strette, faceva gli occhiacci all'avversario, quando l'amico collarone entrò a parlare:
— Con buona pace di loro signori... se mi permettono, dirò anch'io il mio parere.
Tutti si volsero.
— Trovo che il signore ha ragione nell'asserire che donna Paola non aveva poi tanto a gloriarsi che suo figlio siasi cacciato in monastero per calar la spada sulla testa de' fermieri.
— Diavolo!... si può pensar diversamente?... e il presidente chiacchierone guardò con amabilità insolita l'ipocrita collarone, a cui aveva pur sempre e fatto e detto delle scortesie. Ma, per un'altra delle tante debolezze umane, quando uno è a capegli con un avversario in una disputa qualunque, e, volendo aver ragione ad ogni costo, si sente a dar torto con virulenza, non tarda un minuto a farsi amico del primo che venga in suo soccorso, fosse pure colui il peggiore suo nemico.
— E trovo inoltre di dire, continuava il signor Baserga, che lord Crall nell'entrare armata mano in monastero ha commesso una solenne prepotenza.
— Diavolo, non si può avere un'altra opinione.
— E i fermieri, che Dio però li tenga lontani dalla mia casa, dovevano essere attratti in altro modo, e sfidati, se pur si volevano sfidare, in altro luogo.
— Così è certissimamente; allora avrebbe potuto dire di aver saputo respingere la violenza stando sul terreno della legge. È chiara come il sole.
— Sicuro, certo, non c'è che dire, soggiunsero allora tutti in coro.
— Non c'è che dire? Adagio, soggiungeva l'uomo del buon senso; c'è da dir qualche cosa, perchè quando sento a parlar di legge, ho l'onore di dire che a bastonare le guardie della Ferma anche in un'osteria, il terreno della legge sarebbe stato invaso tanto, quanto ad averli percossi in convento... e che dall'istante che si doveva dar di cozzo e nella legge e nell'autorità viva e recente e calda di un editto che non parla a mezzabocca, tanto valeva un'osteria quanto un monastero; anzi il monastero spiega la ragione e della difesa e della protezione dei deboli; e l'osteria invece avrebbe presentato il sospetto di una rissa plebea e villana, e tutt'altro che degna di gentiluomini...
— Se il signore mi ascolta... sentirà che non si trattava di difesa... bensì era una trappola tesa da lontano...
— Che? come?
— Ma innanzi tutto devo dire che, se loro signori sono tra i caldi ammiratori di donna Paola, io ho l'obbligo di tacere.
— Ma parli, ma parli, gridava il presidente. Oh, sarebbe bella che... Vi rammentate quel che ho detto un giorno in cui abbiam veduto donna Paola nel carrozzone scoperto, seduta insieme colla figlia della contessa Clelia che le stava presso, e col giovane lord sdraiato dirimpetto?... Io le vedo da lontano le cose... Ma se sta il sospetto, la contentezza mostrata da donna Paola deve aver bene la sua ragione.
— In fatti non è senza ragione. Ascoltino.



IV


«Non so se loro signori conoscano il fatto della lite intentata dal signor conte V... alla contessa sua moglie, riguardo alla figliuola che fu messa ad educare nel monastero di San Filippo.»
— Altro che conoscerlo, rispose il facente funzione di presidente degli avventori del caffè; per non esserne al fatto bisognerebbe aver viaggiato tutti questi anni lontano da Milano.
— Tanto meglio... ma forse non conosceranno la parte attiva, continua, calda, instancabile che donna Paola ha avuto in questa faccenda; tanto che, sebbene il conte fosse dalla parte della ragione, e per quanto la contessa fosse convinta... del suo, non si può a meno di dire, vergognoso trascorso... pure... l'illustrissimo signor conte, per sentenza del Senato, venne, or non sono molti giorni, costituito nei diritti e negli obblighi della paternità verso la figlia della contessa... Questo forse loro signori non lo sapevano.
— Lo si sapeva assai bene, e quasi avevam stabilito di fare una serenata di congratulazione al signor colonnello...
— Ella ride, signore; e fa bene, perchè non si trova ne' panni del colonnello; ma lasciando lo scherzo, che ne pensa ella della sentenza del Senato?
— Che può far numero colle tante e tante altre ingiuste e assurde che ha pronunciate in trecento anni.
— Bravo!
— Chi bravo? il Senato? disse l'uomo dalle opinioni solitarie, sorridendo ironicamente.
— Cosa vorresti dire tu?
— Che non divido il tuo parere, nè il parere del signore, e che il Senato...
— Or sta a vedere che costui è capace di farci il panegirico anche del Senato...
— Va adagio, caro mio, e se hai buona memoria, devi ricordarti che ad odiare il Senato t'ho insegnato io... Dunque non c'è pericolo ch'io voglia lodarlo adesso... Ma altro è avergli avversione, altro è dire che siano ingiusti tutti quanti i suoi atti. Diavolo! non volete voi che qualche volta, per isbaglio, non possa anche il Senato servire alla giustizia? Questo, per esempio, è un caso.
— Giustizia l'aver dichiarato che il padre della figlia... sì, insomma, ci comprendiamo, deve essere il signor colonnello?...
— Giustizia, sì... e chi non lo crede si diverta; ma se tutti hanno gli occhi nella testa, non tutti li hanno nella mente... e se voi altri...
— E che fa a noi il vederci, se tu ci vedi per tutti?
— Non andare in collera, e ascolta: già la giornata è lunga, e al terzo pasto ci mancano molte ore; ascolta dunque, e si compiaccia d'ascoltare anche quel signore, e prima di tutto vorrei pregarlo a provarmi che la sentenza del Senato è ingiusta.
— È una cosa così chiara e lampante, che è più facile vederla che dimostrarla. Come farò io a dimostrare e a provare a lei che oggi è una giornata calda, se ella mi dice d'aver freddo?...
— Il signore conosce l'arte delle anguille... me ne congratulo tanto... ma qui non si tratta nè di caldo nè di freddo... si tratta di torto e di ragione, e di un fatto in cui ci son gli indizj e le prove palmari e dell'uno e dell'altra... Ho dunque l'onore di dirle che nelle consuetudini, e negli statuti, e negli interpreti, i figli di un matrimonio appartengono tutti a quel padre che non s'è mai diviso dalla moglie in faccia alla legge, e che dalla legge non fu dichiarato prosciolto dai vincoli di marito... Ora, durante l'intero anno 1750, il signor colonnello non fu mai legalmente diviso dalla signora contessa.
— Questo è vero... ma...
— Che ma? in aggiunta poi ho il piacere di dirle che il signor colonnello, tanto è più grande e grosso quanto meno acuto, per paura forse che la pratica del foro milanese non bastasse a salvar la riputazione della moglie, andò espressamente a visitarla in Venezia... e più d'una volta fu alla casa dov'ella alloggiava; il che venne constatato dalle testimonianze e di quei padroni di casa, e dei servi, e del guardaportone... È contento ora?....
— Tutt'altro; bensì le dirò che il signor conte, difeso dall'avvocato Rapazzini, che è l'avvocato di monsignore mio padrone, ha opposto al fatto dell'essersi presentato due volte alla casa della contessa in Venezia, quello del non essersi mai trovato davvero con lei.
— Davvero?... cosa significa davvero?... Ha prodotte testimonianze il conte?
— No.
— Dunque?
— I testimonj furono interrogati capziosamente...
— Cioè?
— Cioè... cioè... S'ha proprio a dir tutto?
— Se ci dobbiamo intendere!
— Dunque le dirò, che la formola dell'interrogatorio fu regolata in modo da voler manifestamente giovare alla contessa...
— Chi lo ha detto a lei?
— Dal processo verbale appare che i testimonj non dovettero rispondere che a questa semplice domanda: È vero che il conte si presentò in Venezia alla casa della contessa? e i testimoni, naturalmente, anche senza pericolo di dire il falso, hanno risposto di sì... e su questo «sì» venne innalzato tutto l'edificio della ragione della contessa e del torto del conte. Ed ecco come si fa a dar di gambetto alla giustizia... E fu donna Paola a subornare i giudici; ella che li invitava a pranzo e li regalava, e...
— E perchè doveva far tutto questo, se anche senza le visite del conte alla casa della contessa in Venezia la pratica del foro lo dichiarava padre della nata... e per conseguenza...
— Che conseguenza?...
— Una bellissima conseguenza, ed è questa, che la figlia della contessa sarà un giorno una delle più ricche dame della città.
— Ah... qui ci siamo e qui lo volevo! gridò allora il maggiordomo Baserga con un impeto che tradiva la sua natura chiusa, subdola e circospetta.
— Ecco perchè donna Paola s'interessò tanto in questa faccenda... La cosa che più di tutto premeva a quella donna era, che la figliuola della contessa potesse recare una pinguissima dote al futuro marito. Comprendono ora loro signori?
— Guarda un po' se io mi sono apposto bene? soggiungeva il facente funzione di presidente. Or ecco com'è la cosa...
— È vero...
— Non può essere diversamente...
— Però, o in un modo o nell'altro, quella donna è sempre una donna di gran testa.
— Questo è un altro pajo di maniche; altro è l'essere una gran testa, altro è l'essere una santa, un'eroina... una, che so io?... perchè qualche volta il mondo impazzisce... e c'è da stupire pensando che doveva meritarsi il nome di venerabile, di santa, di miracolosa, chi avea saputo fuggir da un convento, di notte e coll'amante!
— Mi stupisco molto di lei, rispettabilissimo signor maggiordomo, diceva il solito contraddittore, mi stupisco molto di lei che, mentre con tanta edificazione del pubblico suda a tenere uno degli otto bastoni del baldacchino del Duomo nell'ottava del Corpusdomini, parli in tal modo di una dama che meritò sì distinti riguardi dal santo padre e dal suo concistoro...
— L'astuzia può arrivare ad ingannare chicchessia, mio signore.
— Non il pontefice però... badi che, a contraddirmi, ella incorre in eresia...
— Ma lasciagli continuare il discorso, seccatore eterno che sei!
— Continui pure... Son curioso anch'io di sentire a che conseguenze ei ci vorrà tirare.
— E non ha già compreso ogni cosa la tua buona testa?
— Questa volta non ci arrivo proprio; ho bisogno che il signore si spieghi in lungo e in largo.
— Il signor maggiordomo vuol dire, che alla esimia donna Paola premeva che la figlia della contessa fosse dichiarata legittima figliuola del signor conte colonnello, perchè così sarebbe stata ricchissima; e ciò, com'è ovvio a credere, per aver in tutela la futura moglie del proprio figliuolo. Hai capito adesso?
— Precisamente, così..., soggiunse il maggiordomo, ed io, per poter dir questo, ho dei riscontri che non sbagliano.
— Ma volendo pur concedere che la cosa sia come ella dice... io non trovo poi che nel desiderio di accasar bene il figliuolo ci sia colpa di sorta; nobile e ricco l'uno, nobile e ricca l'altra, giovani e belli ambedue. Che ci trova ella a dire in contrario?
— Quando il signore sia capace di provarmi che è un atto di virtù e generosità il lavorare assiduamente e in una materia così delicata per arricchire la propria casa a spese altrui, per me non ho nessuna difficoltà a lasciarmi convincere. Prima però faccio osservare che la contessina aveva avversione al giovine milord, e non mancò di manifestarla, poverina! ed io so che, in proposito, ci furono dei disgusti, dei gravi disgusti in casa. Donna Paola vagheggiava la ricchezza futura e la splendida posizione del figlio... troppo giusto! il figlio vagheggiava la bellezza della ragazza, della quale s'innamorò pazzamente... è da compatire. Il cocchiere di casa Pietra è fratello del cocchiere di monsignore... e, come loro sanno, i segreti dei padroni son sempre messi in piazza dai servitori. Così dunque, per continuare, madre e figlio si strinsero in lega per tirar nella rete la giovinetta inesperta... Questa, sgomentata, l'ultimo giovedì, giorno in cui era solita uscire per andare in casa Pietra, volle di forza rimanere in convento, e resistette alle sgridate della madre superiora, ignara dei lacci; e respinse le preghiere della governante di donna Paola che era andata a pigliarla in carrozza. Loro signori mi guardano attenti e maravigliati, ma non aggiungo nè un punto nè una virgola alla verità. Ma i sepulcra dealbata sono antichi come la lettera del vangelo; e finchè una persona non è morta, non la si può giudicare, e spesso la fortuna è tanto benigna con certuni, che aspetta il punto in cui vien loro dato l'olio santo per alzare il bianco lenzuolo che da anni ed anni nascondeva le nere magagne. Che se donna Paola non ha potuto aspettar l'olio, vuol dire che la fortuna, la quale è capricciosa, s'è disgustata seco tutt'in un tratto. Così è, signori; del rimanente, che la fanciulla sia scomparsa dal monastero è un fatto che tutti conoscono fin da jeri; che poi sia stato lord Crall a farla scomparire è il fatto che io ho l'onore di raccontare oggi per la prima volta, e se non credono a me, vadano al criminale e interroghino qualche attuaro, e sentiranno; sentiranno chi è stato a ordir la cabala, a riscaldare quegli otto o dieci giovinotti contro le guardie e i commissarj perquisitori, a far nascere tanto disordine e tanto scandalo in convento; sentiranno e confesseranno per la seconda volta che donna Paola Pietra, come ha detto questo signore, è proprio una gran donna! Ma con quello spirito turbolento, audace, irrequieto, e con quell'astuzia in corpo sarebbe riuscita assai meglio nei panni di un uomo; e se, per un modo di dire, avesse abbracciato il mestiere delle armi, chi sa mai?... Federico di Prussia avrebbe forse avuto un competitore.
Queste parole del maggiordomo, calme, continue, stringenti, penetrarono nelle menti degli ascoltatori ad imbeverle tutte quante, come quelle pioggerelle minute e fitte dell'aprile che infiltrano la terra; aggiungeremo anzi che, per un istante, ne rimase penetrato anche colui che pur s'era preparato a far testa al maggiordomo con tutti gli sforzi d'una incredulità sistematica; di modo che, mentre gli altri si ricambiavano a vicenda delle esclamazioni di meraviglia, piombando tutti in colonna serrata sulla riputazione di donna Paola, colui passeggiava silenzioso, non sapendo a tutta prima come ribattere le velenose insinuazioni del collarone del Duomo. Ma infine, caldo di sdegno, si piantò nel mezzo del caffè, e:
— Caro signore, esclamò, permettetemi di dirvi che io non credo nulla di tutto quanto avete raccontato. Ci vuol altro che qualche chiacchiera sciocca della servitù ignorante per martellare così su due piedi una riputazione di cinquant'anni. Eppoi, come farete a spiegare il modo con cui lord Crall in quel serra serra avrà potuto trafugare o far trafugar la fanciulla tutt'altro che disposta, come voi stesso avete detto ad uscir dal monastero? E concesso pure che tutto fosse stato concertato per fare il colpo con sicurezza, come c'entrarono i commissarj e le guardie della Ferma? Pretendereste forse che, per fare un favore a donna Paola e al figlio di lei, abbian voluto aver la compiacenza di farsi pestare e ferire ed uccidere dagli assalitori amici di lord Crall?... Abbiate dunque la bontà di ponderare un po' meglio la storiella... e vedrete che tosto si risolverà in una favoletta alquanto scipita, se volete, ma molto maligna.
— Io ho raccontato quello che so.... quello che non so... non posso nè dire nè spiegare.
— Ma io spiego benissimo quel che a voi sembra intricato e oscuro, soggiunse allora il facente funzione di presidente. Dal momento che lord Crall e donna Paola avevano stabilito di fare il colpo, a spingere le guardie in convento bastava, com'è chiarissimo, una denuncia segreta all'amministrazione del tabacco, a carico delle signore monache... Dunque..
— Va adagio coi dunque… e piuttosto pensa alle conseguenze... e pensa alla consumata esperienza di donna Paola; la quale, quando mai, ciò che non si deve ammettere nemmen per celia, fosse così astuta ed iniqua, non avrebbe mai voluto compromettersi in un modo tanto vituperevole e scandaloso; perchè la fanciulla dovrà pure saltar fuori, e alla fanciulla non si può mettere il bavaglio alla bocca; e se lord Crall gli era odioso prima, tanto più gli diverrebbe odioso dopo. Insomma l'assunto di questo signore e la vostra credulità mi riescono tanto assurdi, che, anche solo a gettare il fiato per confutarlo, mi par di dividere la vostra balordaggine.
Costui non avea finito di parlare, che da uno stanzino contiguo alla sala del caffè, dove i riguardosi sedevano a bever la cioccolata, uscì piantandosi sulla soglia l'alta e magra e dignitosa figura dell'abate Parini, il quale, dopo un po' di pausa, maestosamente zoppicando si fece presso a quello appunto che aveva parlato ultimo e:
— Amico, disse, stando di là... v'ho sentito e lodato: ma, se avete senno e rettitudine, continuando a star con costoro, finirete per perdere e l'uno e l'altra.
E senza più, volgendo in giro sugli astanti il suo grand'occhio pieno d'espressione severa, attraversò la sala ed uscì dal caffè Demetrio; e un lettore d'Omero, guardandolo, ben poteva ripetere,


Indi coll'ira
Di chi vibra dall'alto armi celesti,
Taciturno con lente orme si tolse.



V


Quando il Parini fu uscito, aveva lasciato dietro a sè, quasi diremmo, il profumo della sua nobile natura. Quanti erano raccolti in caffè stettero alcuni istanti senza parlare, assorti in quella nuova atmosfera; così se una elegante gentildonna, passando in mezzo ad una frotta di rozze contadine che alterchino, avvien che le avvolga nella fragranza lasciata dalle sue vesti, coloro si tacciono, irresistibilmente comprese di quell'aura odorosa. Quel silenzio rispettoso però non durò molto, chè al pari delle rozze contadine, le quali, svanito il profumo, deridono la squisitezza di chi lo ha lasciato indietro, anche quei compagnoni si rivoltarono contro l'autorità dell'alto poeta, e:
— Bella anche questa, cominciò a dire il ventilatore del braciere; curiosa davvero, che uno si creda in diritto d'insultare una società di galantuomini perchè ha stampato de' versi che, se i suoi amici dicono il vero, saranno immortali.
— Ma è assai più strano, soggiunse il Baserga, che chi si arroga d'insegnare i buoni costumi a' ricchi, si trattenga poi in una bottega ad origliare i discorsi altrui. Del rimanente loro signori sapranno che l'abate Parini è stato il precettore de' figli di donna Paola, e che anche adesso frequenta assiduamente quella casa.
Proferendo queste parole il signor Baserga si alzò ed uscì. Colui che il Parini avea onorato del nome di amico uscì pure, per non intrattenersi in nuovi ed inutili alterchi. Gli altri poi si fermarono, e, liberati dalla controlleria d'un contraddittore perpetuo, ridussero a più chiara e speciosa lezione, e rimpolparono colle loro congetture il racconto del maggiordomo, perchè potesse circolare con miglior successo fra il popolo, ed essi medesimi s'incaricarono di farne gli spacciatori; press'a poco come gli editori francesi, quando hanno ridotto in forma di libro accessibile a tutti qualche nuovo trovato della scienza.
Ed ora dirà il lettore: come mai in tanto cicaleccio del pubblico attento ai fatti che abbiam narrati e ai personaggi che li generarono, non saltò fuori un sospetto che venisse a percuotere e a trarre innanzi al tribunale dell'opinione pubblica anche la persona del Galantino, che necessariamente, per l'associazione delle cose, per la memoria del passato, per la sua condizione che lo faceva quasi vivere una vita pubblica al cospetto continuamente del pubblico, doveva essere ricordato in quell'occasione?... Come mai dunque ha potuto passarsela netta, senza che nessuno pensasse a lui, pur dal momento che si voleva andare in cerca di un rapitore qualunque della fanciulla? che si conoscevano le sue abitudini libertine, e l'audacia sfrontata onde solea valersi anche in quelle tresche che per lui non erano che un divertimento dagli affari; che, ed è il più, a tutti era noto aver esso abitazione, giardino e deposito di mercanzie in luogo attiguo al monastero di San Filippo Neri? Dare a questa domanda una risposta che sia l'espressione del vero non è possibile; ma volendo pur arrischiare un'opinione, ci parrebbe di poter dire che il pubblico d'allora, il quale, come quello di tutti i tempi, talvolta è capriccioso al pari di un ragazzo, di quel personaggio eteroclito del Galantino aveva tanto parlato e straparlato; lo aveva accusato, manomesso, vituperato, maledetto in tanti modi e a tutte l'ore, che oramai era quasi sazio di occuparsi di lui. Così vediamo qualche fanciullo dimenticare in un angolo della camera da giuoco il fantoccio col quale s'era scapricciato a strappargli testa, braccia e gambe sotto gli occhi stessi dell'ajo; ma di soppiatto poi farsi a rompere un prezioso oriuolo per vedere com'è fatto di dentro. Che che ne sia, il pubblico vuol variare le vittime; talvolta, stanco di percuotere i tristi passa a maltrattare i buoni. La storia d'Aristide rimane sempre là ad ammonirci di questo fenomeno perpetuo.
Or tornando al Galantino, se il pubblico non pensava a lui, pensava ben egli a se stesso, e più seriamente che non avesse mai fatto in tutta la vita. La passione, che è come l'ubbriachezza, lo aveva portato fuori alquanto della sua natura. Sebbene astuto e antiveggente per una straordinaria saldezza d'intelletto, pure, prima di compire il fatto del trafugamento, aveva creduto che nella sola riuscita di quello vi fosse l'adempimento de' suoi desiderj, e si dovessero trovare tutti gli elementi necessarj per mandare ad effetto ogni suo disegno. Ma, dopo qualche tempo, dopo che ebbe messo al sicuro d'ogni ricerca le due fanciulle, dopo che ebbe finito di pensare alla prima parte, diremo così, della sua impresa, la quale per verità era la più arrischiata e la più disperata; forse anche dopo che il Baroggi, invece di confortarlo lo sbaldanzì, ebbe campo di considerare più freddamente tutte le conseguenze possibili di quel primo audacissimo passo, e si turbò. Il fatto segnatamente che dominava, e quasi atterriva la sua audacia, era il contrattempo della fanciulla dei marchesi Crivello, che non s'era potuta svincolare dall'altra. Pensava che la propria ricchezza avrebbe reso meno odiosa la proposta d'un matrimonio agli occhi della nobiltà, che l'amore appassionato della fanciulla per lui avrebbe intenerito i cuori, onde facilmente si sarebbe messa una pietra sui fatti avvenuti; ma a guastargli questa speranza e queste belle idee ridenti entrava il pensiero che i parenti della Crivello avrebbero reclamato dall'autorità la più severa punizione del trafugamento. Bene, dopo l'assalto impetuoso di questi timori, la sua mente feconda almanaccava, improvvisando progetti di difesa e di nuovi inganni e d'insidie nuove; ma colla stessa facilità con cui li aveva improvvisati, li rifiutava poi uno dopo l'altro, con dispetto iracondo, al pari di un poeta che, nell'ansia della composizione, non trovi un'idea che gli attalenti.
In conclusione, se i nostri lettori hanno potuto maravigliarsi e dolersi, che un così astuto ribaldo sia stato sempre fin qui portato, come suol dirsi, in braccio dalla fortuna; possono ora consolarsi nel vederlo finalmente esso alle prese con un pericolo che non sembra voler offrire un varco probabile di salvezza.
Quando, la mattina del giorno successivo al tafferuglio del monastero, l'abbiamo udito a parlare col Baroggi, ei ci dovette sembrar ancor pieno di sicurezza e baldanza; ma ciò dipendeva che non s'era ancor trovato al cospetto delle due fanciulle dopo riavute dallo stupore e dallo spavento che nella notte le aveva oppresse, al punto da non poter parlare fino a tanto che videro un volto di donna. Ma allorchè si recò nella casa del Baroggi, e parlò alle ragazze, queste si comportarono di maniera, che sentì la necessità di allontanarle da Milano; e quando egli stesso in persona e con cautela le ebbe accompagnate in un luogo in riva al lago di Como insieme colla madre del Baroggi, potè accorgersi che la presenza della Crivello rendeva pericolosissima la custodia delle fanciulle; e tanto più avuto riguardo allo spirito religioso e bigotto della donna a cui le aveva affidate, la quale, eccitata dagli scrupoli, avrebbe potuto parlare e metter fuori il suo nome.
E perciò avea pensato di non condurle in nessuna delle terre che aveva in proprietà, ma sì in un luogo d'affitto presso Torno, borgo ch'egli conosceva assai bene, per avere avuti affari negli anni addietro col proprietario d'una fabbrica di lana, l'ultima rimasta delle tante di cui, prima delle guerre de' Comaschi, Torno era pieno. Il luogo poi dove aveva loro trovato stanza era Montepiatto, situato sopra Torno, e noto per esservi stato un convento di monache. Queste circostanze del sito preciso dove donna Ada della contessa V... e donna Giacoma dei marchesi Crivello vennero collocate sotto la custodia della Baroggi, sono esattamente riferite dal monaco Benvenuto di sant'Ambrogio ad Nemus; e diciam questo perchè non si creda che da noi siasi scelto quel luogo soltanto per aver l'opportunità di fare una nuova descrizione del lago di Como. Il classico Lario stancò la penna di tanti scrittori di prosa e di verso, e i pennelli di tanti paesisti, che non è possibile che chi non aspira ad assere nojoso creda di ringiovanire tra congetture della causa del fonte intermittente della Pliniana e l'etimologia della parola Tivano. Bensì quando ci fosse capitato una landa uggiosa della bassa Lombardia, forse ci saremmo fatto un grande onore a descriverla, per la ragione che ci piacciono i temi dimenticati dagli altri; ma il monaco Benvenuto ci ha condannati a non poter scegliere un paesaggio di nostra fantasia.
Senz'obbligo dunque di far descrizioni, rechiamoci a Torno, ovvero sia a Montepiatto, a toccare il polso febbrile della giovinetta Ada...
Se non che questo nome ci ammonisce d'una dimenticanza, per la quale dobbiamo indugiarci ancora un istante a Milano, e dir qualche parola dell'illustrissimo signor conte colonnello V... per tanto tempo trascurato da noi, con un dispregio che parrebbe superar quello della contessa.
Questa fermatina ci torna inoltre necessaria a far conoscere una nuova e micidiale bocca da fuoco, apertasi all'impensata per rendere ancora più difficile la posizione del Galantino. Dal ragioniere Baserga abbiamo saputo che, per decreto dell'eccellentissimo Senato di Milano, era stata dichiarata la paternità del conte V... rispetto alla fanciulla Ada. Dio sa, penserà il lettore, di che scoppio di furore avrà dato spettacolo il conte alla notizia di quel decreto! ma in vero che avvenne il contrario, ed ecco come. La natura del conte ci è nota. Forza muscolare assorbente l'intellettuale, cuore schietto, nascosto ed avviluppato in mille modi dall'orgoglio di casta, dall'intolleranza, dalla spavalderia soldatesca; e nel tempo stesso un corredo di pregiudizj così inveterati, che lo facevano devoto al principio dell'autorità. I senatori, ad uno ad uno, ei li avrebbe, in un bisogno, fatti correre a squadronate, ma il Senato tutt'insieme raccolto, ma il presidente di esso, circondato dalle più pompose apparenze del pubblico ossequio, che veniva chiamato Quasi rex e pareva un semidio, imponeva alla sua imaginazione; il decreto pertanto che emanò da quel formidabile consesso, firmato da colui, che solo col suo carrozzone lentamente tirato da quattro cavalli aveva il privilegio di poter interrompere l'ordine regolare delle carrozze sul corso di via Marina, gli fece un tal senso, che credette più a quel decreto che a sè stesso. A questo però conviene anche aggiungere che il furore di vendetta aveva avuto, in quindici anni, il tempo di svaporare; che l'avvocato il quale difendeva il suo diritto e gli altri causidici consulenti non gli aveano mai data per sicura la vittoria sulla parte avversaria; che (e forse questa fu la causa prevalente), avendo avuto più volte occasione di veder la fanciulla Ada, quell'aspetto leggiadro, attraversando soavemente gli orgogli, i disdegni, i pregiudizj, gli penetrò fino al cuore, e vi si fermò. Spesse volte nella solitudine della sua casa vedovile, pensando a quel vago angelo, si sentiva commosso rimeditando le sventure, le quali non vollero che la sua casa fosse benedetta. Un giorno perfino si pentì d'aver gettato lo scandalo nel mondo con quella lite giuridica, e si corrucciò d'aver voluto respingere per sempre da sè quella creatura innocente.
O arcani dell'umana natura, per cui, talvolta, colui che sembra il più immite, al contatto di contingenze speciali diventa il più accessibile alla tenerezza! E questo appunto era avvenuto del conte, di modo che, allorchè uscì il decreto del Senato, quasi ne provò gioja. Però fu il colpo più spietato della fortuna quello per cui, dopo tre giorni, la fanciulla che per forza gli era stata imposta dalla legge ed egli l'aveva accettata in pace, improvvisamente scomparve! Quando gli amici stolidi, credendo di fargli piacere, gli recaron l'annunzio di quel fatto, il suo furore non proruppe, ma scoppiò con tal impeto, che quasi parve presentare i sintomi della forsennatezza, e gli astanti ne stupirono come quelli che non potevano comprender tutto. Così un nuovo formidabile avversario sorse, non sospettato, a far più impacciata la condizione del Suardi, che contro di tutti si sarebbe messo in guardia, fuorchè contro di lui.
Ed or che sappiam questo, possiamo recarci in riva al Lario a fare una visita alla povera Ada.



VI


O giovinette leggiadre, fiorenti, appetitose, che avete tanta virtù da fermar l'attenzione persin di coloro che, sotto il cumulo degli affanni, del tedio, delle disillusioni, metterebbero volentieri la vita all'asta! o giovinette care e troppo care che, per le vostre qualità attraenti, vi trovate nella condizione precaria delle allodole, delle quaglie, delle gallinelle, dei tordi e delle tordelle, quando i cacciatori battono la campagna, e son tese nelle ampie tenute le brescianelle e le ragnaje! O giovinette, ascoltate il parere di un galantuomo. Non vi fidate mai della bella faccia e del bel vestito di un giovane ignoto che vi segua al corso, che vi aleggi intorno quando sedete a rinfrescarvi col sorbetto, che rinnovi le pazzie del conte d'Almaviva sotto al vostro balcone. Non vi fidate e, prudentemente, prima di lasciar cadere su di lui una di quelle occhiate eloquenti e compromettenti, che quasi hanno la forza di una cambiale, pigliatevi l'incomodo di domandar conto di esso, di farne assumere le più minute informazioni coll'esattezza di un impiegato di circondario. Io so quello che dico. Il viso ingenuo potrebbe essere la maschera di un perfido mascalzone. Il frac di panno sopraffino potrebbe coprire un debitore cronico, un avventore assiduo della Pretura Urbana. La faccia giovanile potrebbe appartenere al padre di una mezza dozzina di figli mantenuti, più che da lui, dalla moglie venutagli a noja. Però vogliate aver la bontà di confidarvi colle vostre madri e colle vostre sorelle maggiori, se non amate comprarvi affanni e spasimi, e correr pericolo di smarrir la freschezza e la beltà!...
Coloro che furono sì ciechi da credere immorale il nostro libro, si affrettino ad ammirare il sermone or ora fatto e non perdano questa bella occasione di cambiar di parere. Povera Ada! è dessa che ci mise sul labbro le caritatevoli parole.
Se, le prime volte che ella vide la figura del Galantino, e sopratutto quando cominciò a sentire sommosso il sangue da quel leggiadro aspetto, avesse domandato conto di colui alla governante, che, insieme colla livrea di casa Pietra Incisa, andava a levarla dal convento; certo che la storia dell'ex-lacchè le avrebbe fatto torcere il viso inorridita, tutte le altre volte che si fosse incontrata in esso; perchè la forma esteriore non basta ad acciecare anche la più inesperta delle fanciulle; tanto più poi quando l'amore è ancora nel primo stadio della simpatia, e non è penetrato nel più profondo del cuore. Ma invece di parlare si tacque, per quell'astuzia istintiva che si mescola anche all'innocenza più ingenua, e pel pudore di nominare un bel giovane alla governante. Se per colui non avesse provato che una curiosità indifferente, il pudore non l'avrebbe trattenuta e l'astuzia non l'avrebbe costretta a tacere per tema che la governante, messa in sospetto, non fosse per cambiar strada in avvenire.
Ma in ogni modo, ella è degna di pietà, più che di biasimo, se inciampò nell'agguato, al pari di un'augelletta che, immatura sporgendo il capolino dal cavo dell'albero, è tosto ghermita dal cercatore di nidi.
Bensì, d'ora innanzi saranno più degne di biasimo che di pietà quelle fanciulle che, dopo aver fatto conoscenza colla giovinetta Ada, non vorranno ascoltare i nostri consigli, ed apprendere dalle sventure di lei l'utile lezione.
Intanto noi dobbiamo far silenzio, se, ascendendo verso Montepiatto, vogliamo vedere un quadro mobile e quasi immobile di tre figure femminili. Una donna di quarantacinque anni circa, seduta sotto il pergolato di un'umile casetta; a qualche distanza da lei, all'ombra di un castagno, adagiata sull'erba, una giovinetta piccola e rattratta, con un visino in cui brilla una vivace sebben mesta intelligenza, visino che sarebbe bello se non fosse troppo acuto; più in giù verso il lago, assisa, medesimamente sotto un castagno, un’altra fanciulla, la nostra Ada, assorta, muta, che volge lo sguardo sull'onda sottoposta, e lo gira lento lento, ma con moto macchinale, a seguire qualche vela che si dilunga.
È giorno di domenica: è quell'ora, dopo i divini ufficj, in cui la gente del contado è raccolta nelle casupole intorno al povero desco, e in cui il silenzio è profondo e diffuso in tutta la solitudine del lago; e per renderlo, a così dire, più presente al senso e penetrante più addentro nell'animo, dal giardino di qualche villa signorile par che apposta s'innalzi di quando in quando lo strido acuto di un pavoncello, ingrato come una trombetta fessa.
Chi è fresco d'un'eredità o ha vinto una lotteria, quegli a cui per una special benedizione del cielo la vita scorre normale, regolare, infallibile, come la sfera di un orologio a cronometro, tanto che, se c'è un pericolo, è forse che la soverchia pace gli può rallentare la circolazione del sangue, al punto da metterlo all'impensata sotto la protezione di Sant'Andrea Avellino, e felice notte! coloro che sono circondati da una prole sana e da una densa moglie fedele e a cui sono fedeli; coloro che benedetti dal papà, dalla mammina, dai parenti, dallo zio facoltoso stanno beatamente sfiorando il primo quarto della luna di miele, si capisce benissimo come possano lodare i romitaggi al monte e al lago; ma in quanto a noi comprendiamo assai meglio come fosse più che mai accresciuta la tristezza e l'infelicità di Ada dal momento che fu tratta a vivere in quella solitudine di Montepiatto.
Tornando al lago, fu sempre per noi un oggetto di maraviglia e un fenomeno degnissimo di studio lo spettacolo di quegli uomini dell'Inghilterra, che un bel giorno, dalla loro capitale di due milioni d'abitanti, fuggono per ritirarsi sul lago di Como, e colà, eccettuate le ore consacrate al sonno, vivono continuamente nel loro canotto, soli tra il cielo e l'acqua, veri nautili umani, e pensano e pensano senza riposo, quando però non pescano, sinchè arriva il giorno che un temporale spietato porta via e sommerge Inglese e canotto!
Povera Ada, te felice se la sorte ti avesse fatto dono delle qualità minerali di un Inglese in ritiro sul lago di Como!... Ma quanto eri diversa! e quanto la tua triste condizione doveva farti parere insopportabile quella sempre uguale solitudine, quelle scene ognora le stesse, quel cielo sempre riflesso da quel lago, quel guizzasole ognor ripetuto dall'increspare dell'onde, quelle barche e quelle vele andanti e ritornanti alla lontana, quella silenziosa natura, quelle voci di uomini così rare, remote e sonanti a lunghi intervalli! — Allora l'incessante cicaleccio delle sue colleghe, persino le gutturali sgridate delle suore maestre le ritornavano in memoria, gradite e desiderate in confronto! e nella solitudine, d'accosto al trasporto che le cresceva in petto per quegli che l'aveva ridotta in quel luogo, sorgeva un desolante sospetto... La Baroggi aveva nominato il Suardi; quel nome non era giunto nuovo alla Crivello, che nella casa paterna aveva sentito a parlare di esso, e però nelle sue assidue esortazioni per distogliere Ada dall'affetto colpevole, si valse di quanto sapeva onde salutarmente sgomentarla.



VII


L'amore talora è più funesto dell'antipatia e dell'odio; ci pare di averlo detto un'altra volta, sebbene in diverso modo. Egli è per questo che, in quella medesima occasione, da bravi conseguenzarj, abbiam tosto soggiunto che l'imperfezione del corpo reca spesso assai più vantaggio che la più completa bellezza. Una gemma preziosa che brilli in dito a un galantuomo, una catena d'oro che sfolgoreggi tra il nero di un gilet di velluto e il bianco di una camicia di batista rendono pericolosissimo il passeggiare ne' vicoli dopo la mezzanotte. La cosa è chiara, per la sicurezza del passeggio notturno, benedetta la giacchetta di fustagno e il cappello a larghe falde. Non ci ricorda in qual libro, ma certo abbiam letto in un libro, che un uomo di spirito, tediato delle querele di un bellissimo giovine, vittima della gelosia delle donne, — Fa che t'assalga il vaiuolo, gli disse, e t'imprima nel viso a centinaja i segni del suo passaggio, e sarai felice! — Quantunque un tal rimedio possa parere troppo eroico, e troppo paradossale il nostro esordio, il fatto è intanto che quelle due fanciulle, donna Giacoma e donna Ada, nacquero per appoggiare la nostra opinione.
Donna Giacoma, fin dalla prima infanzia meno accarezzata delle fanciulle che recavan nell'aspetto una bellezza regolare e i vezzi a lei negati dalla natura, e però meno viziata da' parenti, quando passò in convento per esservi educata, non sentì come le altre e come Ada in ispecie il crudo passaggio dalle amorevolezze casalinghe alla severità del contegno delle maestre del monastero; anzi tenendosi più tranquilla per non sentire il bisogno di rivoltarsi impaziente contro una vita nuova, le parve di trovare in convento una cortesia, una mitezza, una dolcezza che prima non aveva mai provato. Fornita di molto ingegno, lo aveva adoperato per mostrarsi grata a quelle premure, approfittando più che le compagne dell'insegnamento che le veniva dato; fornita di grande bontà e di una gentilezza squisita di spirito, sapeva all'uopo placare colle sue preghiere la madre superiora e le suore inclementi verso le più riottose alunne. Per questa ragione, anzichè esser segno all'invidia e, per conseguenza, al motteggio altrui pel difetto del corpo, era amata da tutti e rispettata. Ed ella, certo senza volerlo, si avvezzò per tempo ad esercitare in convento una specie di superiorità premurosa, e dolce bensì, ma pur sempre una superiorità, che da tutte le veniva accordata e di cui ella sentiva una interna compiacenza, che però non era orgoglio.
Ada, la più vivace e tempestosa di tutte e la più frequentemente sgridata e punita dalle superiore, era perciò appunto stata presa sotto la sua particolare protezione; e siccome le preghiere della Crivello avevano sempre avuto il loro effetto, e d'altra parte essa era riuscita, più che le superiore non avrebbero mai saputo, a rendere Ada più docile, più obbediente, più pacata; così tra le due fanciulle, sebben coetanee, si era impegnata quella corrispondenza affettuosa che non intercede già tra due eguali, ma sì tra una protettrice e una protetta. La Crivello poi, come avviene delle madri che spasimano dietro a que' figliuoli che più le han fatte vegliare e più loro costarono di fatiche e d'affanni, pose davvero in Ada un affetto che ben si potea dire materno.
Adolescenti e quasi adulte, ambedue crebbero in questo affetto. Donna Giacoma dalla modestia, dall'intelletto acuto, dalla religiosità, convinta che per lei nella vita non vi sarebbero stati altri conforti se non in occupazioni congeneri a quelle che esercitava in convento; per di più, avvisata dal senso e dalla misteriosa intuizione di esso di quel che era serbato alle altre nel mondo, si pose intorno ad Ada (è strano ma è edificante e commovente a dirsi), precisamente con quella preoccupazione di una madre che è sollecitata dal pensiero per la felicità della figlia. Queste cose noi avremmo dovute dirle prima che avvenissero i disastrosi fatti del monastero, perchè il lettore si sarebbe fatto capace allora di ciò per cui forse gli è rimasto qualche dubbio; ma quelli erano momenti di gran trambusto e premura; in ogni modo, può provvedere la spiegazione d'oggi al silenzio d'allora, e può provvedere a spiegare la tenacità onde la Crivello si strinse ad Ada per non abbandonarla più, il motivo per cui, in carrozza, avendo dirimpetto il Suardi, mentre il cocchiere sferzava i cavalli a fiaccacollo, si tenne abbracciata ad Ada come chi vuol salvar la vita a una figliuola minacciata di morte da un assassino.
Tuttavia, quando si trovò nella casa della Baroggi, avendo sentito il tenore onesto delle parole del Suardi, ed esplorato il contegno della donna, mite, riguardoso ed educato; e poscia avendo notate le abitudini devote di essa, si tranquillò e tacque; quando poi, avendo insinuato ad Ada l'idea di supplicare quella donna perchè volesse condurle alle loro case, l'innamorata fanciulla protestò con pianti di non voler per nessun conto fuggir prima che il Suardi non fosse tornato; ella si trattenne, ed aspettò prudente e lasciò fare, guardinga però e sospettosa; ed avendo sentito a parlare il Suardi, quasi anch'essa si lasciò andare a credere alle maliarde parole di lui, e non si rifiutò d'andare a Montepiatto per non abbandonare la sua cara Ada. Ma qui, ne' discorsi fatti colla Baroggi, sentendo il nome del rapitore, si risovvenne di quanto sul conto di quel nome avea udito più volte in casa; e col coraggio di una madre che è spietata colla figlia in ragione dell'amore che le porta, le manifestò tutti i suoi sospetti, e le raccontò le storie che conosceva in parte; e le dimostrò che non poteva essere se non un tristo colui che aveva potuto osare una così scellerata impresa di rapire a tradimento una fanciulla da un monastero.
Un momento prima che noi vedessimo quel quadro di tre figure, la Crivello avea fatto appunto un lungo discorso di tal genere all'Ada, e questa, iraconda del sentirsi penetrare dal sospetto contro il giovane di cui le sembianze non le partivano mai dalla calda fantasia, indispettita si era disgiunta dalla Crivello, e sola erasi adagiata a pensare e a ripensare, scorata e confusa. E la Crivello, stata pietosamente a contemplarla per qualche tempo, al fine si alzò, e lentamente fattasi presso ad Ada, e cingendola del suo braccio:
— E così come stai, le disse, cara la mia Ada? Sei ancora adirata meco?
Ada si volse e:
— Come ho da stare, rispose, e perchè ho ad essere adirata con te?... Ma le labbra le tremarono per la commozione e, non potendo continuare, guardò la Crivello colle lagrime negli occhi; poi tutt'a un tratto, abbassando il capo e nascondendolo in seno all'amica, diede in uno scoppio di pianto.
E noi, dopo questo pianto, dolenti di non poterlo asciugare, nè di poter fermarci a Montepiatto per sentire i lunghi dialoghi tra la Crivello ed Ada, nè di recitar insieme con esse e colla devota Baroggi la terza parte del rosario, dobbiamo recarci di premura a Bologna.
La contessa Clelia tornava una sera dalla casa Bentivoglio dove convenivano il fiore de' gentiluomini e delle gentildonne bolognesi, i più distinti professori dell'università, gli artisti più noti, i pittori incaricati di sostenere con uno sforzo estremo il tramontante splendore della scuola caraccesca; tornava dunque alla sua dimora, lieta e paga oramai della propria condizione. Gli uomini della scienza le davan prove quotidiane della loro stima, le gentildonne giovani e belle l'ammiravano senza invidiarla, perchè più non temevano in lei chi potesse loro disputare il primato, o rubar qualche amante sul terreno sdrucciolevole della galanteria. Ben è vero che quella sua poderosa beltà romana, col crescere degli anni, non avea punto scemato, se forse non era diventata più solenne; ma la toga scientifica e la cattedra dove saliva a dettar matematica, la facea considerar loro come una donna sui generis, più atta a destare il senso dell'invidia nei colleghi professori che in esse.
I giovani galanti poi la circondavano con un'ammirazione piena di premura, ammirazione in cui, se non per tutti, per alcuni almeno, si nascondeva pure qualche altro sentimento; ma quelli che lo nutrivano in secreto rimanevano paghi d'un discorso che loro ella rivolgesse, d'una approvazione che accordasse, persino anche dell'opposizione che lor facesse in una disputa qualunque. Magnifica e severa precisamente come una Minerva (perchè, se come tale l'abbiamo dipinta ne' suoi anni giovanili, nell'età matura non v'era chi potesse contrastarle un tal predicato), ella serbava un contegno, che al giovane più fervido ed audace, perfino alla stessa ebrietà tracotante avrebbe fatto gelar la parola in bocca.
Ella però (le donne sono sempre donne, ed anche gli uomini non canzonano) si compiaceva tra sè e sè, indovinando quel che si celava sotto quell'ossequio. Per tutto ciò adunque, ritornando quella sera a casa, si lodava della propria sorte, e pensava che quasi poteva chiamarsi felice se avesse avuto seco la sua Ada, e d'uno in altro desiderio, affrettava il giorno di farla uscir di convento per tenersela ognora a fianco e deliziarsi tutta in essa.
Piena di questi pensieri, che erano gli abituali della sua vita, salì nel suo appartamento, dove trovò una lettera con un Preme a grandi caratteri sulla soprascritta. Quella parola bastò per agitarle il sangue e per far ch'ella aprisse la lettera con mano tremante. Non sappiamo se il fatto sia comune a tutti o a molti, ma la presenza di una lettera che non si aspetta, anche allora che non reca quel terribile Preme, il Mane, Thechel, Phares delle soprascritte, produce una sensazione disgustosa e angustiosa; forse ciò avviene in coloro che non hanno avuto nella vita che maledette battiture dalla fortuna, di modo che ad ogni indizio di un fatto che ancora non si conosce, si paventa una nuova sciagura. Dopo questo, non sappiamo quel che la contessa Clelia pensasse in proposito, nè se a lei la vista di una lettera facesse costantemente quel senso disgustoso che produce in altri e in noi segnatamente; il fatto sta che quando vide quella lettera deposta sul tavoliere, per la ragione forse che non l'attendeva, volontieri ne avrebbe fatto senza. Ma qual fu il suo parossismo, quando, lettala e rilettala, non seppe afferrar bene la cagione per la quale veniva pregata a recarsi senza perder tempo a Milano. Non sappiamo se il foglio fosse stato scritto di proprio pugno, o soltanto dettato, o semplicemente consigliato dal Parini, che ne era stato incaricato da donna Paola; ma con accorto ingegno era parlato in esso di una malattia della fanciulla Ada, per la quale, mentre si raccomandava la sollecitudine della contessa a mettersi in viaggio, le si faceva riflettere tuttavia che non v'era nulla di grave e di pericoloso; tutto questo poi era espresso con tale arte, che la contessa non dovesse rimanere percossa con violenza da un troppo crudo annunzio, ma nel tempo medesimo giungesse a comprendere che oltre la malattia, trattavasi di qualche altro fatto che richiedeva la sua presenza. Comunque pertanto sia la cosa e comunque fosse savio il consiglio che aveva dettato quel foglio, si mise una tale impazienza, un'ansia, un'irrequietudine sì forte nella povera contessa che, di punto in bianco, scrisse un letterino al marchese Bentivoglio, dalla cui casa era uscita un momento prima, con cui lo pregava a passare un momento da lei; il marchese non si fece troppo attendere, e sentito dalla contessa come, per un affare urgentissimo, le occorresse di recarsi a Milano, le ottenne in quella notte medesima dal cardinale Legato un foglio di via per Milano.
Alla prim'alba, coi cavalli di posta, a tutta carriera, dando e promettendo mancie a' postiglioni, che allora avevano a lottar di continuo colle scabre strade, viaggiò per Milano. Da Bologna venne a Modena, da qui a Parma, dove passò la notte e dove volle il caso che si sapesse della sua venuta. Il nome della contessa, non ci ricorda se lo abbiamo già detto, e per il suo casato e per quello del marito, e per la sua bellezza, e per le azioni che se n'eran fatte, e per le sue avventure eccezionali e degne di storia, e per la sua qualità di scienziata, e per essere successa in Bologna nella cattedra di matematica alla grande Agnesi, era divenuto celeberrimo in tutta Italia ed anche fuori, tanto che molti uomini di Bologna e d'altre città avevano ambito di far la sua conoscenza o per lo meno di vederla, aspettandola quando usciva di casa, quando si recava all'università, mescolandosi fra gli studenti per sentirla a parlare. Per queste cose adunque, allorchè corse la voce ch'ella era in Parma e che alloggiava all'albergo ducale, tosto fu una folla di persone intorno alla porta dell'albergo stesso per poterla vedere, e, tra le altre persone cospicue, furono a visitarla l'abate Frugoni in compagnia del celebre Condillac, stato precettore del figliuolo del duca di Parma, morto alcuni giorni prima.
Il Frugoni, che già s'era trovato colla contessa in Bologna, e ne aveva tenuta parola spesse volte con Condillac quando con esso s'intratteneva alla corte del duca, fu sollecito di fargliela conoscere, perchè, torniamo a ripetere, la contessa Clelia V... era divenuta, come si direbbe con frase moderna, una maravigliosa tanto in voga, che molti andavan superbi soltanto a poter dire: Ci ho parlato anch'io.
Il Condillac, sebbene fosse amico della vita ritirata e fosse grave ed austero al punto che nella medesima Corte ducale, per insolito privilegio, era stato esentato da tutti quegli obblighi consentanei ad un precettore di un principe Infante, pure molte volte avea espresso all'amico poeta il desiderio di conoscere quella donna singolare, nella quale per lui era inconcepibile il contrasto tra la scienza grave che professava ed insegnava, e la storia delle sue avventurose vicende. Andò dunque assai volontieri a farle visita. Ma questa circostanza accrebbe più che mai l'imbarazzo della contessa che aveva tutt'altra volontà che di ricever visite d'uomini illustri, chè il suo pensiero assiduamente assorto dalla sollecitudine che la spingeva verso Milano, si trovò insopportabilmente angariato, costretta com'era a stare in guardia per non perdere la scherma e conservarsi nella sua riputazione, parlando con un uomo che tutt'Europa esaltava. Il Frugoni, quantunque toccasse i settantaquattro anni, vivace, epigrammatico, motteggiatore, parlatore instancabile, com'era stato instancabile e inesauribile produttore di versi, giovò ad empir le lacune che troppo spesso intercedettero tra le parole del Condillac e le risposte lente della contessa distratta altrove; ma non fu così abile che il filosofo francese non si lamentasse poi dopo coll'abate poeta di aver trovato una donna più bella e superba, che simpatica ed eloquente.
In ogni modo la contessa respirò più libera quando si trovò sola, e quando, alla prim'alba, potè finalmente riprendere il viaggio. Venuta a Piacenza, passato il ponte di barche sul Po, rimessi i cavalli al trotto, lungo la strada da Casal Pusterlengo a Lodi, al rumore di altra carrozza che le veniva incontro, mise fuori la testa dallo sportello per quel movimento irresistibile onde chi viaggia è spinto a guardare i passaggeri che battono la stessa strada, e s'incontrò quasi faccia faccia col passeggiero che stava nell'altra carrozza e che medesimamente sporgeva la testa a guardare dallo sportello. Le due carrozze, che erano tratte velocemente dai cavalli, non lasciarono a quello scontro la durata di un minuto secondo. Ma questo bastò perchè e l'una e l'altro si ravvisassero. Il viaggiatore era il Galantino. Or non è a dire che turbamento mise in cuor alla contessa, senza che n'avesse una ragione precisa, quella vista inaspettata; ma ciò che veramente la colpì fu che nel retroguardare, sporgendo di nuovo la testa dallo sportello per una curiosità che non seppe vincere, vide che il postiglione faceva dar di volta ai cavalli, e la carrozza del Galantino alla lontana teneva dietro alla sua.



VIII


Or come avvenne che il Galantino si trovasse sulla strada che da Lodi va a Casalpusterlengo? Ecco il fatto. A Milano, dopo che il conte V... seppe del trafugamento della fanciulla Ada; furibondo e nel tempo stesso sospettoso che chi ci aveva interesse avesse voluto offendere lui stesso, col togliergli i diritti della paternità, mentre si era voluto imporgliene gli obblighi; esaltato inoltre dalla perversa voce che rapidamente era corsa per tutta Milano, a dispetto delle objezioni degli increduli, che donna Paola di concerto col figlio Guglielmo avesse tentato il mal colpo; aveva fatto tanto scalpore presso il Senato, che il capitano di giustizia, il quale, messo già sulla falsa via dalla lettera anonima del Galantino, aveva sottoposto ai più severi interrogatorj lord Crall e i complici suoi, non tanto pel reato dell'aver assalito a mano armata la forza pubblica, quanto per l'accusa dell'aver ricorso a quella violenza per rapir due ragazze dal convento; dovette invitare a comparire indilatamente anche donna Paola Pietra Incisa per essere sentita in giudizio. Come è naturale, e per la cattura del figlio e per la fuga di Ada, il giorno dopo ella stessa avea pensato di rivolgersi al capitano, e perchè s'incaricasse tosto di pubblicare un bando a rintracciar le fanciulle, e per informarsi della condizione in cui trovavasi suo figlio; se non che, con sua sorpresa, quando già stava per uscire e per recarsi dall'eccellentissimo capitano, ricevette un foglio sottoscritto da esso, nel quale, omesse le formole dell'etichetta epistolare, la si citava d'ufficio a comparir tosto innanzi a quel tribunale.
Donna Paola, stupita del modo onde le veniva fatta l'intimazione, si recò al Palazzo di Giustizia senza farsi aspettare; e colà venne a trovarsi al cospetto del signor capitano, il quale, dismesse le rispettose parole, la sottopose ad un interrogatorio che sarebbe prezzo dell'opera il riportare qui, perchè la paziente assennatezza di donna Paola, l'eloquenza efficace, il disdegno sublime, ma calmo e soffocato dalla preoccupazione dell'ultimo intento, il rimprovero temperato di umiltà, ma forte abbastanza per compungere altrui, vi risplendono in tal modo che è un'edificazione a leggerlo. Il capitano, com'è facile a supporsi, ne rimase penetrato; allora, fatto venire innanzi anche il conte V... che era là ad attendere donna Paola, questa giunse a persuadere colui stesso dell'ingiuria inaudita che le si era voluto fare col crederla rea di un sì turpe ed empio attentato. Il conte V... non fece altro che unire le proprie sollecitazioni a quelle di donna Paola affinchè il capitano volesse tosto far uso di tutti i mezzi che aveva a disposizione perchè, mentre si pubblicava il bando, s'incaricassero il pretorio della capitale e tutti i pretori delle altre città del Ducato, e i pretorj suppletorj di confine a spedire per ogni dove uomini esperti e guardie a rintracciar le fanciulle. In quel dì stesso anche il marchese Crivello, avendo presentata una furibonda querela al Senato, questo tanto più si trovò obbligato a intimare allo stesso capitano di giustizia che col più formidabile apparato che non si fosse mai praticato in altre circostanze simili, si facesse dalle guardie frugare in tutti i luoghi della città e dei corpisanti, e batter la campagna in lungo e in largo, e percorrere tutto il Ducato e i luoghi confinanti, se fosse stato necessario.
Di questo bando, per decreto del Senato, furono alcuni giorni dopo messi gli affissi a tutti gli angoli della città e delle borgate vicine; per lo che il Galantino si trovò in una terribile apprensione. Pensando che a Torno, e per la vicinanza di alcune ville signorili, e per la prossimità della città di Como, le fanciulle potevano troppo presto venire scoperte dagli agenti e dai fanti del capitano e dei pretorj, senza perder tempo le levò di là e le trasferì in un luogo remoto della Vallassina, con promessa che sarebbe tornato subito; e che recavasi intanto a Bologna per parlare alla contessa madre, onde ella medesima venisse in persona a toglier la figlia da quelle solitudini, per ricondurla poi fidanzata in città, e benedire a' prossimi sponsali. Difatto, venuto a Milano, visto che sino a nuove circostanze non vi era più aria sana per lui, pensò di trasferirsi senza perder tempo a Bologna, di presentarsi alla contessa, e quando mai, ciò che secondo lui non era improbabile, ella avesse ricevuto l'avviso della scomparsa di sua figlia, consolarla col darle notizia che per suo mezzo era stata rinvenuta, e cogliere l'occasione per domandargliela in isposa. Con ciò, innanzi tutto, egli pensava ad attuare il proprio desiderio ardentissimo; in secondo luogo provvedeva anche a vendicarsi della vecchia ingiuria. Di tal modo ei si lusingava inoltre che, una volta che la contessa avesse annuito al matrimonio, spinta dall'amor materno, messa in altalena tra la paura di perder per sempre la figlia e la consolazione di riabbracciarla tosto; con lei si poteva anche concertare il mezzo di dare un altro colore al fatto del trafugamento e far tacere l'autorità. Con questi pensieri pertanto, non essendo ancora stato colpito da sospetto di sorte, fece disporre una carrozza da viaggio degna del conte di Firmian, per poter abbagliare altrui colle apparenze, più che era possibile, signorili; e si mise in viaggio per Bologna, sicurissimo di trovarvi la contessa. Or ecco in che modo, viaggiando difilato a quella volta, s'incontrò nella carrozza di lei che riconobbe con sua gran sorpresa, onde fece rivoltare i cavalli per tener dietro a lei, e raggiungerla e parlarle alla prima fermata.
La contessa Clelia, traguardando di tanto in tanto dal finestrino della carrozza, vedeva che quella del Galantino seguiva la sua placidamente, con tutti gl'indizj di non voler cambiar strada. Allora, tra i molti pensieri, congetturando che colui avesse viaggiato per venir sulle sue traccie, Dio sa per quale intento, ingiunse al postiglione di mettere i cavalli alla più veloce carriera che fosse possibile: comando che fu tosto adempiuto, perchè non c'è al mondo uomo più docile e più condiscendente d'un postiglione quand'ha ricevuta una buona mancia e quando sa di doverne ricevere di più grosse. Se non che la contessa, guardando indietro, vide che il postiglione del Galantino aveva fatto il medesimo co' suoi cavalli. Allora non dubitò più di essere inseguita, e ne fece motto alla cameriera.
A Lodi, il suo postiglione svoltò nel portone dell'albergo del Gambero per cambiare i cavalli; e dopo pochi minuti fece lo stesso anche il postiglione del Suardi; e come la contessa Clelia salì in una camera perchè si doveva fare una fermata di un'ora, anch'esso salì in un'altra.
Dopo pochi minuti, un cameriere si presentò alla contessa, dicendole che un signore arrivato in quel punto all'albergo e che stava in una stanza lì presso desiderava di parlare con lei, e domandava perciò licenza di poter entrare.
La contessa, a tutta prima, quasi fu per acconsentirvi; ma poscia, nauseata di quel che le era occorso a Venezia, e nel tempo stesso temendo da quell'uomo ogni peggior cosa, gli mandò a dire che non riceveva nessuno lungo il viaggio; ch'ella si recava a Milano, e che là egli avrebbe potuto parlarle. Il Galantino insistette ancora, e a tal segno, che la contessa dovette interporre l'albergatore medesimo, per non essere importunata d'avvantaggio.
Il Suardi, all'imbasciata dell'albergatore, con ostentato sussiego:
— Dite alla signora contessa, rispose, che l'oggetto per cui aveva a parlarle interessava lei e non me. Non si trattava che d'un atto di riguardo che m'ero imposto. Pur faccia come vuole. A Milano si accorgerà di aver fatto male a non ascoltarmi. Riportatele queste mie parole, e fate attaccar subito i cavalli.
L'albergatore riferì tutto alla contessa, ma ella, sebbene le si fosse accresciuta l'affannosa curiosità a quelle parole, non si smosse e rispose:
— Va bene.
Il Suardi, sconcertato nel suo disegno, dovette ritornare a Milano, in bocca al lupo, come si suol dire, ma non gli rimaneva a far altro. Lungo il viaggio pensò come quel primo tentativo fallitogli poteva, arrivata che fosse la contessa a Milano, offerire un indizio per mettere gli occhi su lui. «Mi son trovato in impacci ben più gravi di questo (rifletteva egli tra sè) e non mi son lasciato mai intimorire da nessun ostacolo. Anzi gli ostacoli quanto più eran serj mi servivano quasi di mezzo ad ottenere tutto quello che volevo. Cos'è dunque questa paura che mi assale tutt'a un tratto? Non sono io più il Suardi di una volta? Non sono or forse in possesso di quella ricchezza colla quale si rimedia a tutto e si fanno tacer tutti? Coraggio dunque, e avanti. Mi fa ridere questa contessa orgogliosa... perchè se vuol bene alla sua figliuola, bisognerà pure che per forza o per amore ella venga a patti con me. Mi fa ridere quel signor capitano di Giustizia col suo bando! Un po' d'unto alle mani di qualche senatore, un po' di unto alle mani di qualche barigello... Senatori e barigelli!.. va benissimo! quand'io mi sono assicurato di chi dà gli ordini e di chi li eseguisce, mi pare che non mi rimanga null'altro a fare. La mia cassa rigurgita di ducati e di talleri di Carlo VI. Coraggio dunque, e non ci si pensi più.»
E il Galantino, sebbene tanto perspicace, non arrivava a comprendere che quella ricchezza medesima, che gli pareva un'arma onnipotente, era la vera cagione de' suoi insoliti timori. Egli nuotava nell'oro, e perciò, data l'ipotesi di un passo falso e di una caduta, aveva da perder troppo. Il coraggio intero e sfrontato lo ebbe quando nel mondo nulla aveva da perdere e tutto da guadagnare. Allora procedeva sicuro e colla forza invincibile dell'istinto che lo sollecitava a ghermir la fortuna in qualunque modo.
Mezz'ora dopo del Suardi si rimise in viaggio anche la contessa, che entrò in Milano per Porta Romana un paio d'ore innanzi sera, discendendo poco dopo alla casa Pietra.
Nella sala di ricevimento, impegnata in gravi discorsi con donna Paola, stava da qualche ora la Gaudenzi la quale aveva condotto seco l'unico suo figliuolo. La Gaudenzi, ignara di tutto quanto era avvenuto ed avveniva in Milano che non le appartenesse, e d'altra parte, memore del cortese ajuto ricevuto fin dal 1750 da donna Paola, aveva pensato di rivolgersi ancora a lei, dopo che le erano riusciti infruttuosi tutti i passi mossi presso il capitano di Giustizia onde aver nuove del marito e saper in che condizione ci si trovasse. Sentito a nominare lord Crall fin dal giorno che dall'attuaro erale stato comunicato l'arresto del Bruni, quel cognome di suono straniero non le avrebbe mai potuto far sospettare chi veramente colui si fosse. Però alle prime parole che ella tenne con donna Paola fu reciproca la meraviglia in entrambe.
Donna Paola stupì che il marito della Gaudenzi fosse impigliato nel processo di Guglielmo; e la Gaudenzi si meravigliò più ancora nel sentire che lord Crall era figlio di donna Paola. Per questa circostanza singolare crebbe più che mai l'interesse dell'una per l'altra a vicenda; però era da un pezzo ch'elleno stavan parlando del doloroso accidente e del modo di ripararvi, allorchè il servitore entrò e disse:
— È arrivata la signora contessa Clelia V... in questo momento; eccola.
Donna Paola si alzò turbata a quel nome, al punto che parve le fuggissero le forze. La buona Gaudenzi, informata d'ogni cosa un momento prima, fu invasa da tanta pietà per la contessa, quando la vide entrare, che dimenticò quasi sè stessa.
E il suo figlio, che poteva avere dodici anni, abbastanza svegliato per comprendere tutto, si mise anch'esso in aspettazione e in apprensione a quella venuta.
Ed oggi, quando noi pensiamo che abbiam conosciuto quel fanciullo stesso, fatto vecchio decrepito, siamo esaltati da un tal senso di meraviglia che quasi diventiamo increduli verso noi stessi. Però, senza alterarle d'un punto, vogliamo riferire le parole stesse del figlio di Lorenzo, quando ricordandosi di quel fatto, e di quella scena, e di quelle donne, ce le dipinse con tale schiettezza e semplicità che quasi in ascoltarlo ci pareva di vivere con esso in quell'anno 1766; e tanto più che abbiamo stretto più volte la mano e baciato il venerando volto di quell'uomo che, fanciullo, era stato baciato da donna Paola e dalla contessa.



IX


«Settantasette anni fa, precisamente in questo stesso mese di giugno, non mi ricordo bene il giorno, ma press'a poco intorno a quest'ora, verso il tramonto, io mi trovavo in casa di donna Paola Pietra con mia madre, quand'entrò in quella sala terrena, dove mi par di trovarmici ancora, la contessa Clelia V..., ed era la prima volta che la vedevo. Io non avevo che dodici anni, poco su poco giù, ed ora che siamo nel 1842, potete immaginarvi, in tanto numero d'anni, attraverso a tanti avvenimenti, essendomi trovato in tanti luoghi d'Europa, che sterminata folla di gente m'è passata innanzi agli occhi; pure la figura di quella donna, come l'ho veduta nel punto che metteva il piede in quella sala, non mi è mai uscita, e non m'uscirà mai più dalla memoria.»
Di queste precise parole del signor Giocondo Bruni, anche noi ci rammentiamo tanto bene che ne par di sentirle ancora; e ancora, dopo sedici anni, ne sembra di veder vivo quel vecchio quasi novantenne, nel punto che, fatto pausa alle ultime parole, socchiuse un momento gli occhi, disturbati dalle persone che ci passavan davanti (trovandoci noi adagiati sur uno dei sedili delle mura di porta Orientale che guardano il Resegone); socchiuse dunque gli occhi e stette così un momento, quasi contemplasse coll'imaginazione riproduttrice quel quadro ch'ei voleva dipingere a noi, che, nella curiosità giovanile, lo andavamo importunando di mille interrogazioni per addentrarci nei minimi particolari di que' fatti.
«Io stavo seduto, così continuava il signor Giocondo Bruni, su d'una gran seggiola coi cuscini di marocchino entro ai quali mi perdevo, e di dove mia madre m'aveva ingiunto di non muovermi, perchè in quella mia età, curioso qual era, andavo guardando e toccando gli oggetti ch'eran deposti su' tavolieri, e, visto una spinetta aperta, m'ero provato a far correre la mano sulla tastiera. Ma quando entrò la contessa, il suo aspetto era tale, ch'io per la meraviglia non potei trattenermi dal sorgere in piedi. La sua bellezza era di quel genere che io chiamerei terribile, e forse me ne son fatta questa idea perchè entrò così corrucciata e stravolta da mettere in apprensione chi la guardava. Ella non vide, almeno mi parve, nè mia madre nè me; e a donna Paola che le mosse incontro:.
«— Come sta dunque mia figlia, chiese tosto, e si lasciò andare sul canapè.
«— Stavamo appunto parlando di ciò qui con madama Gaudenzi, rispose donna Paola che non sembrava aver più la voce di prima, tanto le si era affievolita.
«— È dunque gravemente ammalata?
«Donna Paola, a queste parole, passò la propria mano sulla fronte della contessa, e con un fare dolce dolce:
«— Ho bisogno che vi mettiate in calma, la mia cara Clelia. No, non si tratta di malattie...
«— Ben m'accorsi dalla lettera che ci covava sotto qualche mistero. Or dunque?
«— Or dunque vi supplico a star forte contro quello che sono per dirvi.
«A queste parole la contessa balzò in piedi, e:
«— Ditemi adunque tutto ad un tratto, e ammazzatemi con un colpo solo... io sarò forte.
«E dopo di ciò torse la testa, e guardava precisamente me, nel punto che, mandando un gran sospiro, oh Dio!! esclamò. E donna Paola, con una calma che certo doveva costarle sudori:
«— Tutto è però disposto, disse. Io, il conte vostro marito, il signor capitano di Giustizia... il Senato... abbiamo fatto, si è fatto tutto quello che dovevasi in questa circostanza, e da un momento all'altro aspetto una buona notizia; perchè non è possibile che tanta gente spedita in tutte le parti sulle loro tracce non giunga a trovare la figliuola del marchese Crivello che è scomparsa dal monastero insieme colla vostra...
«Donna Paola non ebbe finito di parlare che la contessa, mandando, non già un grido, ma un singhiozzo rantoloso, si rovesciò indietro... io credetti... morta. Mia madre e donna Paola le furono tosto intorno; mia madre sostenendola, donna Paola chiamandola per nome e baciandola. Io era tutto spaventato; e a riscuotermi, la medesima donna Paola, la quale a un tratto pareva diventata un'altra, essendo scomparsa ogni traccia della sua soavità:
«— Dà una strappata a quel campanello, mi gridò, quasi fosse in collera con me. Io obbedii... e comparve una livrea che, vista la scena, ritornò tosto con due donne.
«Queste, essendosi fatte presso alla contessa con acque odorose ed altro, ed accingendosi a spogliarla, io fui mandato fuori; e mi ricordo benissimo, come se fosse adesso, che, passando vicino alla contessa, non potei a meno di soffermarmi a guardarla. Il vestito di drappo azzurro, illuminato da un ultimo raggio di sole che entrava per la finestra del giardino, dava a quel volto una tinta di cielo e avvolgeva quel gruppo di donne come in un'atmosfera di luce particolarissima.
«Uscito e messomi a sedere in anticamera, sur una di quelle cassapanche vecchie cogli stemmi che si vedon nelle case de' gran signori, confuso e sbalordito, assistetti alla scena della servitù che andava e veniva, riceveva ordini, li trasmetteva d'uno in altro. Dopo qualche tempo, una di quelle cameriere ch'erano state chiamate a soccorrere la contessa, uscì, e, nominato un servitore: — Fate attaccar subito, disse, e andate allo studio dell'avvocato Agudio dove troverete il giovane avvocato Strigelli. Gli direte che la signora padrona lo prega di venir tosto qui. Dopo andrete dal signor abate Parini, e pregatelo pure a voler lasciarsi vedere entro la giornata. Rientrata la cameriera, partito il domestico, passò una mezz'ora buona, ed io fui lasciato là solo con un altro servitore; nè mia madre usciva, nè io sapeva quel che succedesse di dentro, ed ero pieno di inquietudine e d'impazienza. Quando volle Iddio, uscì mia madre finalmente, e, chiamatomi, mi disse d'entrare a fare il mio dovere colle signore prima di partire; Allorchè rientrai, la contessa era seduta sul canapè, alquanto ricomposta, se volete, ma abbattuta così da far compassione. Donna Paola le sedeva presso e le teneva stretta la mano. Nel punto che mia madre mi sospingeva leggermente verso la contessa, questa mi guardò e mi sorrise in prima sbadatamente; poscia tornò a guardarmi con più attenzione, e mi dette un bacio; finalmente, continuando a guardarmi, voi non sarete per credere, diede in uno scoppio di pianto, nascondendosi la faccia nel fazzoletto. Ed io, che cosa volete? mi diedi a piangere anch'io dirottamente. Forse vedendo me fanciullo presso mia madre, più insopportabile erale ricorsa l'idea della sua figliuola smarrita; forse pensando che io era il figlio di quel Bruni che era stato la cagione d'ogni suo disastro, e fors'anco associandosi il pensiero di mio padre coi fatti di tanti anni prima e col pensiero di Amorevoli; di nuovo, per tutto questo cumulo di memorie e di dolori e d'affetti, sentitasi a lacerare il cuore, la disperazione s'impadronì di lei e le lagrime le sgorgarono a furia. Questo ho pensato molti anni dopo, perchè allora io non ho saputo che piangere. Mia madre non avrebbe mai dovuto ricondurmi innanzi a quella infelicissima donna. Ma pochi sono così esperti del cuore umano e degli umani dolori da conoscere quelle squisite delicatezze onde si rompe la via a nuovi affanni. Così dunque passò quel giorno, e venne l'ora che mia madre ed io uscimmo di là; fu nel punto in cui v'entrava l'avvocato Strigelli che ho sentito a nominare; quello appunto mandato a chiamare molto tempo prima.»
Staccandoci intanto dal nostro buon Giocondo Bruni, il racconto del quale, per quanta cura gli abbiam messo intorno a conservarlo nella sua evidente ed affettuosa semplicità, ci accorgiamo di aver non poco guastato, torniamo a ripigliar la parola noi medesimi.
L'avvocato Strigelli, giovine di venticinque anni, era l'occhio diritto del decrepito avvocato Agudio. Quando entrò, sapendo naturalmente ogni cosa ed avvisato inoltre dal servo che la contessa era arrivata e che aveva voluto morir di dolore alla terribile notizia, si contenne come voleva la circostanza.
In quel momento la contessa Clelia, appoggiato il braccio al dossale del canapè, nascondeva ancora la faccia nel fazzoletto, e continuava a singhiozzare. Donna Paola allora si alzò, e stesa la mano al giovine Strigelli: — Non potete immaginarvi, disse, che strazio mi dà questa infelicissima donna; poi parlandogli sommessa all'orecchio e volgendo gli occhi al cielo, con atto anch'ella di sconsolata: Se questa benedetta fanciulla, soggiunse, non si rinviene tosto, costei non può certo resistere a sì fiero colpo. Ah è stata una gran disgrazia, caro mio, una gran disgrazia! e quasi mi pento d'averla fatta venire a Milano prima che non si fossero esaurite tutte le indagini... e a queste parole si volse, guardando a lungo la contessa che continuava a singhiozzare. Il giovane Strigelli la guardava esso pure tutto compunto.
— È però sempre meglio che si trovi qui, egli osservò poi.
— Voi mi consolate, togliendomi il rimorso di tante lagrime. V'ho inoltre mandato a chiamare per un consiglio. Ah confesso che dopo tante sventure non mi fido quasi più di me stessa. Ora sentite lei.
E si avvicinò a donna Clelia, e dopo averla riabbracciata e baciata e fattale come una soave violenza:
— Fatevi coraggio, cara, le disse, è qui l'avvocato che v'ha patrocinata e difesa. Parlategli dunque.
Allora donna Clelia, asciugatasi gli occhi e lasciando cader la mano in abbandono, alzò un viso tutto scombujato e guardò lo Strigelli.
— Perdonatemi, disse, se vi ricevo così. Vi ringrazio che siate stato così sollecito.
— Ma che mai dice, contessa? Sarei volato ad una sua parola, e sono qui tutto per lei. Or si degni di comandarmi.
Ricompostasi alla meglio, donna Clelia ripetè all'avvocato Strigelli quel che prima aveva detto a donna Paola dell'inaspettato incontro col Galantino, dell'insistenza importuna onde colui aveva tentato di avere un abboccamento con lei a Lodi, e come tutto la induceva a credere ch'esso era partito per recarsi espressamente a Bologna per cercare di lei.
Lo Strigelli ascoltò attentamente e con grande stupore, poi soggiunse:
— Altro che accordargli un abboccamento, signora contessa, quando il Suardi si presentasse! anzi il mio parere sarebbe quasi di mandarlo a cercare quando non venisse subito... Si sa mai, contessa! Tutto può servire in questa circostanza e bisogna metter da parte ogni riguardo. Ma perchè non sentirlo a Lodi, senza perder tempo quand'egli chiese di parlarvi?
— E chi si poteva fidare di quel ribaldo?
— Comprendo benissimo... tuttavia... ma qui si fermò con quell'atto di chi improvvisamente è assalito da un pensiero curioso e strano, non mai avuto nè sospettato prima, e, dopo aver fatti due o tre passi per la camera:
— Ma sa cosa devo dirle?... esclamò tutt'a un tratto.
— Che?...
— Un filo è trovato, contessa. Or tutto è chiaro. Vuol ella sapere chi ha fatto scomparire le fanciulle dal monastero? Ma già lo ha indovinato...
— Il Galantino?... esclamarono ad una voce la contessa e donna Paola.
— Il Galantino, sì signore. Sono tanto sicuro di ciò come di nessun'altra cosa al mondo... e non averlo mai pensato prima, nè io, nè loro, nè altri, ciò pare impossibile, eppure il fatto mi par così chiaro!...
Donna Paola e la contessa si guardavano stupefatte.
— Non si ricorda forse donna Paola d'avermi detto un dì che costui fece intendere più volte di voler pure vendicarsi della contessa?...
— Sì...
— Non è noto a tutti che questo ribaldo fortunato fa aperta professione di sedurre donne e fanciulle, e con tanto più di voglia quanto più sono al disopra di lui? E non è di sua proprietà un'ortaglia e un casamento per deposito di mercanzia, contiguo affatto al monastero di San Filippo?... e la visita de' fermieri non può forse essere stata fatta espressamente per provocare un disordine che desse luogo e agevolezza?... loro mi comprendono. Ma ora è caduto egli stesso nelle sue medesime insidie... Oh, si consoli, contessa.
L'idea d'aver trovato il filo che potea guidare a scoprir tutto, in sulle prime, come avea messo in bocca al giovane Strigelli quel si consoli, mise pure un soprassalto di gioia repentina e nella contessa e in donna Paola. Ma fu un sentimento fuggitivo, chè quasi contemporaneamente:
— Ahimè! uscì con accento di disperazione ad esclamar la contessa mettendosi le mani ai lati della fronte.
E senza che aggiungesse altro, tosto la compresero e divisero il suo ribrezzo il giovane Strigelli e donna Paola.
— Eppure, che volete? soggiunse l'avvocato dopo un lungo silenzio. Io ho de' felici presagi. Io so, e lo sanno tutti, che il Suardi, dacchè s'è fatto così ricco, desidera ardentemente di far dimenticare il passato col presente, con beneficj, con carità, con atti generosi; che volete? ho sentito a benedire il suo nome da quelli che lautamente furono soccorsi da lui nell'occasione che in borgo San Gottardo avvenne, nello scorso mese di marzo, quel terribile incendio di cui rimangono ancora i guasti. Io ho de' felici presentimenti, e prego la contessa a sperar bene.
— Ma che presentimenti?
— Codesti ribaldi saliti in fortuna son capricciosi... chi sa che non abbia voluto vendicarsi per aver poi l'orgoglio di confortarla, contessa?... Le faccio osservare che insieme colla sua figliuola è scomparsa una figlia de' Crivelli che, per la forma infelicissima del corpo, è tutt'altro che atta ad ispirare amore in chicchessia.
— E dunque?....
— E dunque conviene aspettare ch'ei si presenti, mandarlo a chiamare; se non che, pensandoci meglio, è più conveniente che esso venga di sua voglia.
— Ma io non posso resistere a questo tormento dell'aspettare.
— Non tarderà a lasciarsi vedere, lo creda a me. Si figuri, contessa, se chi per veder lei s'era messo espressamente in viaggio per Bologna, voglia lasciarsi attendere adesso ch'ella e in Milano.
Lo Strigelli parlava in tal modo, com'è facile a credere, non già perchè fosse certissimo di quello che pensava, nè delle congetture che aveva fatto e nemmeno di ciò che aveva detto parergli cosa tanto chiara; ma vedeva la necessità di confortare la contessa in qualunque maniera, anche con pietosi inganni. Non per nulla però donna Paola avealo mandato a chiamare, conoscendo la straordinaria acutezza e la prontezza di veduta prodigiosa di quel giovane giureconsulto, che abbiam conosciuto un po' tardi, ma che vedremo in seguito aver molta parte in questa azione. Avealo poi anche mandato a chiamare perchè a suo tempo informasse la contessa del come era corsa ed erasi chiusa la lite giuridica col conte V... Inoltre avea bisogno di lui per l'intralciata condizione in cui versava lord Guglielmo; ed affinchè volesse prendersi egli l'assunto di farsene difensore innanzi al criminale, chè lo Strigelli, non avendo peranco varcato i venticinque anni, trovavasi ancora nel tirocinio di protettore dei carcerati al Capitano di Giustizia.
La sera, quando venne l'abate Parini e Paolo Frisi e l'avvocato Fogliazzi, e gli altri intrinseci di casa, si tenne, quasi a dire, consulta su tutta quella matassa di cose. È a sapere che, dopo gl'interrogatorj fatti subire e a lord Guglielmo e a Lorenzo Bruni e agli altri detenuti, erasi constatato appartenere essi veramente alla società segreta dei Franchi Muratori. Anzi in quel dì stesso da un notajo, da un attuaro e da una mano di fanti del bargello era stata improvvisamente invasa la loggia di San Vittorello, e quanti si eran trovati in quel convegno, tutte persone e giovani delle prime famiglie di Milano, tra gli altri un figlio dello stesso capitano di Giustizia, furono tutti quanti tradotti nelle carceri suppletorie del Pretorio. Non mai s'era veduta tanta severità contro una conventicola che per tanti anni era stata, se non permessa, tollerata; onde pareva che tutto in que' giorni volesse piegar terribilmente al peggio.
E adesso uscendo da casa Pietra e recandoci in Pantano, in casa Suardi, noi vi udremo il padrone di casa, tutt'altro che di buon umore, in serio colloquio col sotto tenente Baroggi.
— Già io v'ho fatto riflettere che non c'era poi tanto da ridere, diceva il Baroggi, e che la cosa era e doveva diventare ben più grave di quel che pareva.
— Se non hai altro a dire, puoi anche tacere.
— A questo mondo è meglio temere assai, che sperar troppo. Non si sa mai quello che può succedere.
— Io so prevedere i pericoli da uomo ragionevole. Ma ho però anche una gran fiducia in me. Guai chi si perde d'animo.
— Questo lo so.
— Ma dimmi un po' tu... Sei di parere che ella mi riceverà quando sarò alla sua anticamera?
— Mi parrebbe di sì.
— Aspetta. Giacchè m'hai dato mano una volta, non ti rifiuterai ad ajutarmi anche adesso. In conclusione sei un po' compromesso anche tu in questa faccenda. Se io cado... tu mi comprendi... giù tutti e due.
— Non vedo questa necessità...
— Giù tutti e due... e addio per sempre alla tua fortuna... Tu sai quello che voglio dire.
— So quello che volete dire; ma non credo niente, perchè è da troppo tempo che mi andate conducendo di camera in sala; e qual possa essere codesto gran segreto che deve fare la mia fortuna, non comprendo.
— Comprenderai, ma ora pensiamo ad altro. Domani mattina tu metterai giù questa tracolla e questa sciabola, e vestirai una delle mie più sfarzose marsine con panciotto di teletta d'argento: lascia fare a me. Voglio che tu veda in anticipazione la figura che farai a Milano fra una decina d'anni, così in via d'esperimento. In tal modo trasfigurato ti rechi in casa Pietra, e ti fai annunciare per parlare alla contessa.
— Ma perchè tutto questo?
— La ragione è semplicissima. Non voglio più affrontare un altro rifiuto. Mi scapperebbe la pazienza, e... guai se mi scappa la pazienza! Tu dunque ti presenti, ella ti riceverà, tu le dirai le mie intenzioni, cioè che debbo parlarle, ma per cosa che deve premere più a lei che a me. Una volta ch'ella m'accolga, sta pur tranquillo, niente mi può resistere e la vittoria è mia, anzi nostra.
— Ebbene, io anderò.
— Domani mattina.
— Non si può tardare di più.
— La mia guardaroba è tutta a tua disposizione.
— Un vestito semplice sarà meglio d'uno sfarzoso.
— Ognuno ha i suoi gusti. Fa dunque quello che più t'aggrada. E si lasciarono.



X


La mattina seguente, il Baroggi in abito civile e semplice, per quanto lo comportava il costume, si recò alla casa Pietra, e domandò se si poteva parlare alla signora contessa V...
Il portinajo che aveva ordine di lasciar passar tutti, lasciò passare anche il Baroggi, il quale, venuto in anticamera e detto il proprio nome a un servitore, di là venne introdotto in sala, dove trovò la contessa insieme con donna Paola.
Questa, allorchè vide il Baroggi:
— Oh... voi? disse.
Se il lettore si ricorda, donna Paola s'era adoperata in pro suo e della madre.
— Non vengo per me, soggiunse il Baroggi, nè per darle nessun disturbo. Vengo a nome del signor Andrea Suardi per dire una parola alla signora contessa V.... che, se non isbaglio, è quella innanzi a cui ho l'onore di trovarmi.
— Dite, dite, rispose la contessa pallida e tremante, chè il nome del Suardi le avea fatto rifluire il sangue al cuore.
— Veramente il signor Suardi m'avea raccomandato di non parlare che a lei sola... ma io credo che in quel momento non pensasse a donna Paola; e per questo io credo d'interpretare il desiderio di lui, anche parlando in sua presenza. Il signor Suardi domanda pertanto alla signora contessa il favore di poterle dire una parola in tutta segretezza, per cose della più grave importanza.
— Gli avevo già detto a Lodi che a Milano avrebbe potuto parlarmi liberamente. Però venga e tosto.
— Sapete la disgrazia da cui è afflitta la contessa, soggiunse donna Paola; cento cose abbiam da fare nella giornata. Dunque sarebbe necessario che venisse qui subito.
Il Baroggi, a quelle parole, sapete la disgrazia da cui è afflitta la contessa, divenne rosso come una bragia; cosa che diede nell'occhio a donna Paola ed anche alla contessa, la quale sommessamente disse alcune parole a donna Paola.
— Sì... è il figlio della povera Baroggi, rispose quella ad alta voce. Ma, a proposito, da che dipende che vi vedo in abito civile?
— Fu per rispetto a questa casa che ho messa giù la casacca da finanziere. Anche questo è stato un desiderio del signor Suardi.
— Ma siete a' suoi servizj?
— No: bensì la mia professione porta che molte volte debba trovarmi con lui; egli ha della bontà per me e per la povera mia madre. Se dunque mi dà qualche incombenza, non mi faccio pregare ad eseguirla.
Donna Paola si alzò a queste parole, quasi che una molla le avesse dato la spinta; ed era infatti un movimento comunicatole da un pensiero improvviso che era già per tradursi in una domanda al Baroggi; ma si trattenne, e dandole tosto di svolta:
— Affrettatevi dunque; dite al signor Andrea Suardi che la signora contessa lo sta aspettando. Affrettatevi.
Il Baroggi s'inchinò e partì.
Quando fu uscito:
— Costui sa tutto di certo, osservò donna Paola, e forse ha prestato mano al trafugamento. Egli è un sotto tenente delle guardie di finanza al servizio della Ferma. Povero Baroggi!... ed era un fanciullo di buonissima indole; ma il bisogno lo ha spinto a quel pericoloso mestiere, e s'è dato alla crapula... e poi vennero i debiti... e poi... Ecco gli effetti. Ah! è meglio morire quando mancano i mezzi di soccorrere a tutte le miserie!
La contessa non rispose, e quasi non sentì tali parole, perchè era tutta sossopra per l'ansia dell'aspettare; e nel frattempo non fece altro che sedere, alzarsi, passeggiare senza mai potere aver requie.
Finalmente, dopo una mezz'ora, il servitore annunciò:
— Il signor Suardi.
Le due donne si alzarono. La contessa incrocicchiando le dita d'ambo le mani, le strinse le une contro le altre con forza, distendendo simultaneamente le braccia, come fa chi tenta sciogliersi da un'oppressione convulsa; poi disse:
— Ah! non vi allontanate, donna Paola.
— Lasciate fare, starò nella camera vicina, essa le rispose; abbiate coraggio e sperate bene.
Donna Paola uscì. La contessa Clelia si appoggiò al canapè e stette ritta in piedi. La porta s'aprì, ed entrò il Suardi.
Se la contessa tremava, il Suardi non era tranquillo. Bensì la prima mostrava nel volto e nella persona tutta quanta la condizione dell'animo proprio; mentre il Suardi, sotto al calmo sorriso delle sue labbra lievemente arcuate, celava compiutamente l'intima battaglia de' pensieri. Le parole però non gli vollero venir tosto, onde la contessa fu la prima a rompere il silenzio:
— Or dunque, cosa avete a dirmi, signore?
— La supplico di sedere, contessa. Il discorso non può esser breve... Intanto la ringrazio dell'avermi accordato questo abboccamento. La ringrazio non per me... ma per lei.
— Dovevate parlarmi per cosa di gravissima importanza? Sappiate dunque che una sola è tale per me.
— Ed è la sua figlia, lo so; ecco perchè son qui e perchè l'ho pregata a volere ascoltarmi a Lodi. Ma ora... per rasserenarla, le dirò, contessa, che ho la speranza di poter forse presto meritarmi i suoi ringraziamenti.
— E dov'è dunque mia figlia? chiese allora impetuosamente la contessa, con un accento iracondo, non mitigato che da un tremito di singhiozzo.
— Si rimetta in calma, signora contessa, e speri bene; perchè se la sua figliuola le comparirà presto innanzi, io confido che questo avverrà per mio merito.
— Ma dov'ella è? torno a domandarvi.
— S'io lo sapessi, vossignoria avrebbe avuto a domandarmelo? Essa troverebbesi già nelle sue braccia.
A queste parole la contessa guardò il Galantino con un volto tra l'attonito e lo spaventato; poi soggiunse disperatamente:
— Ma e che dunque siete venuto a far qui, se non sapete dove sia? ma e dove mai può essere adesso? O mia Ada!! — e cadde sul canapè.
Quella disperazione fece colpo al Suardi, e si sentì sinceramente commosso; onde alzandosi da sedere ed avvicinandosi alla contessa:
— Ma non stia a travagliarsi così, torno a ripeterle; perchè forse e presto e per opera mia ella potrà rivedere sua figlia. All'annuncio della disgrazia avvenuta, io che ho gente sparsa in tutte le parti del Ducato, e mezzi di comunicazioni a centinaja, ed esploratori pei contrabbandi, tosto ho detto fra me: Ben io la rintraccerò questa ragazza, e così vedrà la contessa Clelia come fa a vendicarsi un mio pari... Ed ho già de' contrassegni, contessa, e mi par bene che oggi o domani si verrà a capo di tutto e si verrà a saper tutto. Si consoli dunque e risparmi le lagrime. Vuol ella, contessa, ch'io debba essere venuto qui per nulla? Per consolarla sono venuto qui. Onde capacitarla poi ch'io sono un galantuomo, e non un tristo nè un ribaldo, le dirò che di noi due non so chi più desidera di venir a capo d'ogni cosa. Si consoli dunque, contessa, e rasciughi le lagrime e m'ascolti.
— Ma per darmi una così lieve notizia vi siete messo espressamente in viaggio per Bologna? rispose la contessa rimettendosi in qualche calma. È ciò verosimile? Posso io prestar fede alle vostre parole?
— Chi v'ha detto, contessa, ch'io andassi a Bologna? Io trovavami in giro per affari miei particolari. Dato fine ai quali, recavami a Piacenza così per diporto. Di modo che, allorquando vi ho veduta, sospettando o che foste già al fatto della disgrazia, o foste per saperla, ho creduto dover mio il mitigarne il colpo, cercando di dirvi quel che io aveva fatto per voi e le speranze che ne concepivo; ecco tutto.
Quando il Suardi ebbe ciò detto, donna Clelia fatta certa dalle parole dell'avvocato Strigelli che il rapitore non poteva essere ch'egli solo, fu per investirlo con impeto e parlar chiaro, e pigliarlo di fronte; ma si trattenne, paurosa di irritarlo e di peggiorare la condizione delle cose, onde si tacque perplessa. Nè dal canto suo il Suardi sapeva tirare innanzi il discorso. Egli era piantato male, ed aveva fatto un passo falso, e una passione gli lavorava terribilmente di dentro; una passione di cui non aveva mai subìto il dominio in tutta la sua vita. Egli era venuto lì per manifestare l'animo proprio alla contessa, per dirle quel ch'era passato tra lui e la fanciulla Ada, per ottenere da lei pacificamente una parola che togliesse ogni ostacolo a' suoi desiderj. Ma quando fu al punto di parlare, non si sentì la sfrontatezza di farlo. D'altra parte non volea confessare d'essere stato l'autore del rapimento, perchè pensava alle conseguenze, e volea pur serbarsi un varco alla ritirata; e nel tempo stesso rifletteva che, per costringere la contessa ad una risoluzione, bisognava pure che le facesse toccar con mano come la fanciulla fosse in suo pieno arbitrio, e che un matrimonio era pure il solo mezzo per finir tutto senza scandalo e in pace.
Qualche nostro lettore potrà dire che, in uomini della natura del Galantino, è impossibile una passione amorosa di quella forza, di quella intensità, di quella durata; e che l'abito della sfrontatezza così vecchio in lui doveva soccorrerlo anche in quella circostanza. — Il lettore può aver ragione, ma il vero è che il Galantino, al contatto di quella passione affatto nuova per lui, e in conseguenza di quella sua condizione mutata, subì veramente in parte quella trasformazione. Al fatto della ricchezza, alle apparenze del gentiluomo, erano susseguiti in lui anche i sintomi di una natura quasi nuova. Le facce dell'uomo sono molteplici, e sbaglia chi lo considera da un lato solo. Non v'è mortale, per quanto tristo, che non abbia in sè un germoglio di qualche virtù. Ciò, per fortuna, lo hanno detto cento altri, onde ne sarà più facile l'essere creduti. Però non è detto che un tal germoglio non possa fruttificare col tempo, e al contatto di circostanze speciali; sebbene l'uomo antico di quando in quando torni pur sempre a far capolino attraverso alle cangiate abitudini dell'uomo nuovo.
Ecco perchè tra questo colloquio del Galantino colla contessa, e l'altro ch'ei tenne con lei medesima a Venezia, l'intonazione è così diversa, che ci par quasi di trovarci al cospetto di un'altra figura. Ma non si tratta di un dramma in cui l'azione si svolga in ventiquattr'ore; in un giorno un uomo non può menomamente modificare il suo carattere: ma nel corso di una vita intera ben si può dire che, dall'adolescenza alla gioventù, alla virilità, alla vecchiaia, egli presenta nell'animo tante alterazioni quante appaiono nella sua faccia. Non è che l'arte di convenzione quella che considera un uomo come se fosse fatto d'agata, e come l'agata impenetrabile dal tempo.
Chi applicò alla vita l'osservazione continua, ci saprà dire se abbiam ragione.
Continuando adunque il silenzio più che la circostanza lo avrebbe dovuto permettere, la contessa ebbe campo di volgere in mente più pensieri, e infine:
— Sentite, signore, gli disse.
L'iracondia era scomparsa, l'accento mutato, e ad infletterlo non era rimasto che un fremito lieve lieve e quasi non avvertibile di singhiozzo; e coll'accento mutato erasi mutata anche l'espressione del volto della contessa. Esso appariva sconvolto ma tranquillo, ma soffuso di un languore soave, e il labbro per la prima volta schiuse al Galantino un mesto sorriso. Il Galantino non aveva mai vista che la severità la più arcigna nella bellezza solenne della contessa; onde quel sorriso gli fece un senso nuovo e gradito.
— Jeri, continuò la contessa, un uomo stimabile mi parlò di voi lodandovi.
— Di me?
— Di voi... e mi disse che molti sventurati hanno benedetta la vostra carità.
— Io non so...
— Lo sapete e ne dovete sentire una gran compiacenza. Ah... io vi prego dunque di continuare in questa vostra bella disposizione d'animo. Pensate che è una madre che ha perduta la sua unica figliuola quella che vi prega. Ditemi dunque tutto sinceramente; io non proferirò parola per lamentarmi. Quel ch'è stato è stato. Foste voi dunque a levarla dal convento? Ditemi tutto, tutto.
Dopo una pausa significantissima:
— Io no, rispose il Suardi, quantunque l'avrei voluto.
— Voluto, ma come voluto? Io vi comprendo meno ancora di prima. Voluto?...
— Sì... perchè...
— Perchè? dite.
— Quando io ci penso, contessa, quasi non posso crederlo a me medesimo; ed ora ascoltatemi, ma senza andare in collera.
— Che?...
— Io sono perdutamente innamorato della vostra figliuola.
— Ah!! e la contessa mandò un respiro affannoso, e torse lo sguardo dal Galantino.
— Con ciò vi sia spiegato l'interesse che mi son preso per la disgrazia avvenuta alla vostra figliuola, e l'essermi potuto dimenticare dell'ingiuria che mi avete fatto, e della posizione orribile in che mi avete posto. Con ciò potete credere alle mie parole, e vivere sicura che tutto quello che ho fatto per venir sulle tracce della vostra figliuola, non l'ha fatto nè il Senato, nè il Capitano, nè altri, ad onta dei loro bandi e di tante guardie mandate dovunque. Io ho scoperto tutto, io so tutto. Ed ora credetemi e consolatevi; la vostra figliuola è in salvo, e consolatevi di più, pensando ch'ella è oggi quel giglio puro e immacolato ch'ella era quando uscì di monastero. Consolatevi e credete alle mie parole, chè, per Dio, non sono un bugiardo.
La contessa si alzò, e per un istante fuggitivo brillò un raggio di contento su quel suo viso augusto; ma poi si rabbujò di nuovo, e:
— Finchè, disse, voi non mi diate la spiegazione del fatto da parte a parte, giacchè asserite di saper tutto; e la spiegazione non sia tale che mi si snebbii la mente e mi si dilegui ogni mistero, e non vi sia nulla più per me d'inverosimile, perdonate, io non vi credo.
— Questo è giusto, ma prima è necessario che io apra tutt'intero l'animo mio, e vi esponga la vera e prima cagione, l'unica ragione per cui son venuto qui, e ho tanto insistito per potervi parlar prima a Lodi.
— Parlate, in nome di Dio, ch'io sto ad ascoltarvi.
Il Galantino fece due o tre passi per la camera, poi disse:
— L'amore che mi ha inspirato quell'angelo della vostra figliuola è tale, quale non ho mai provato in tutta la mia vita: esso è di quella forza che non può esser vinto senza che... ma voi vi corrucciate. Io taccio. E si diede a passeggiare innanzi e indietro rannuvolandosi anch'esso.
— Continuate, continuate, disse poi la contessa, riassumendo nel viso la più completa espressione della severità e dell'orgoglio; chè essa voleva sentir tutto, e nel tempo medesimo voleva quasi porre un freno alle parole del Galantino.
Ma questi si piantò in faccia a lei, e come tediato della propria perplessità e di quella delicatezza riguardosa di cui egli stesso era maravigliato, tentò quasi a dire un colpo arrischiato e risoluto.
— È inutile ch'io vada in cerca di parole e di modi nuovi per far dei lunghissimi giri intorno al mio solo desiderio senza esprimerlo. Parlerò dunque schietto e breve. Il mio desiderio è di unirmi in matrimonio colla vostra figliuola. Ecco tutto.
Donna Clelia che stava ritta in piedi appoggiata al canapè col braccio sinistro, avendo al lato destro il Galantino, al quale non guardava, osservando in sua vece un quadro che aveva dirimpetto, piegò un momento la testa a quelle parole, e con quei suoi grandi occhi neri saettò il Galantino d'uno sguardo così, diremo, gonfio di sprezzo e d'orgoglio, che valse per mille parole d'insulto; e il Galantino si sentì ferito al punto da smarrire ogni pazienza, ogni riguardo.
— E ben questo m'attendevo! così proruppe egli di fatto. Voi altre signore dame potete morire per la perdita delle vostre figliuole, potete gettarvi dalla finestra per la disperazione, ma nel tempo stesso il vostro orgoglio farebbe morir le figliuole di consunzione e di crepacuore, e le metterebbe al punto di darsi la morte piuttosto che appagare un'affezione innocente del loro cuore, quando di questa affezione ne sia oggetto un giovane, un uomo che non appartenga al vostro ceto. Crepi la figliuola, va benissimo, ma guai s'ella non si marita a un conte, a un marchese, a un duca; crepi la figliuola, non c'è nulla in contrario; la tenera madre ha sempre tempo di piangere dopo con comodo. Siete tutte fatte così voi altre signore dame. Orgoglio e niente di più, e affezioni finte e dolori affettati e lagrime da commedia. Tutte così; sciocche, ignoranti e dotte, nella boria andate tutte d'accordo. Del rimanente mi fate ridere, contessa. Se si presentasse a domandar la mano di vostra figlia il conte M... per esempio (e pronunciò intero quel nome), o il barone C... (e nominò anche costui per esteso), od altri di tal fatta, i cui padri, cinquanta, sessant'anni, cento anni fa, voglio essere abbondante, appartenevano alla più marcia plebe; e comprarono poi i titoli coi danari o con servigi equivalenti, servigi non gloriosi, intendiamoci bene... perchè so distinguere anch'io cosa da cosa... e allora si vedrebbe che edificazione, che complimenti, che festa, che allegria in casa per la grande fortuna della sposina!! Ma se tutto l'ostacolo sta qui, tranquillatevi contessa, provvederò io al resto... ho larghe tenute anch'io, e ville e case e oro e carrozze e cavalli... e tempra di salute invidiabile... e freschezza di gioventù ancor salda, e avvenenza, per Dio. Sappiatemi dire di grazia se quell'ometto ridicolo del conte M... può valere l'unghia d'un mio dito; sappiatemi dire se il barone C... con quel suo naso pavonazzo, ch'è lo stemma al naturale della sua casa arricchita nel vender vino, può vantare questa mia fronte... ampia e nobile, per Dio... Anche la bella apparenza è qualche cosa, signora contessa; che se a lei preme davvero che il marito della sua figliuola sia nobile, ci penseremo anche a questo; e se non io precisamente... mio figlio, o il figlio di mio figlio saranno conti... e questa condizione la metteremo nel patto nuziale.
Codeste parole in bocca del Galantino è indubitabile che denno far senso. Ma coloro a cui per avventura potessero riuscire ingrate, si consolino pensando che le ha pronunciate un ribaldo in collera; quelli poi che ci vedessero balenar dentro pur qualche barlume di verità, riflettano che la verità non ha paura di farsi annunciare nemmeno dalla bocca dei tristi, tanto ella è invulnerabile.
Ma la voce del Galantino, in ragione che parlava, s'era venuta alzando gradatamente, tanto che, alle ultime sue parole, donna Paola comparve all'ingresso della sala. — Ah! esclamò allora la contessa nel vederla, sentite anche voi... sentite, ajutatemi, consigliatemi; e fece tre o quattro passi rapidi dal canapè alla soglia della porta su cui donna Paola stava ritta e severa, e le prese strettamente la mano, traendola nell'altra camera e dicendo al Galantino, mentre gli si rivolgeva: — Aspettate.
Passarono alcuni minuti. Il Galantino, alterato nel viso e parlando tra sè e se, misurava nel frattempo a gran passi la camera. Ricomparve poco di poi donna Paola sola. Ricomparve, e mettendosi a sedere e facendo sedere il Galantino:
— Scusate, signore, disse, se mi prendo la libertà di dirvi che dovevate avere maggior riguardo al dolore profondo di quella povera donna. E pronunciò queste parole in modo che al Galantino sbollì ogni sdegno, e si sentì umiliato.
— Vostra signoria mi perdoni, ma io venni qui con tutte le migliori intenzioni, e se ho potuto far dispiacere all'egregia signora contessa, ne sono sinceramente pentito. E di che sorta fossero le mie intenzioni, donna Paola può averlo appreso dalla contessa, s'ella ha detto a vostra signoria come la fanciulla sia ora in salvo, e tutto per opera mia.
— Questo me lo ha detto... e se ciò è il vero, che non ne dubito, abbiate la bontà di riflettere, perdonate se parlo sincerissima, che le buone opere e i beneficj non hanno più nessun merito quando se ne chiede, anzi se ne pretende un compenso, e un compenso che soverchia il potere e le forze di chi dee darlo; poichè dovete sapere che non è nella contessa la facoltà di accordare o negare la sua figliuola in isposa a chicchessia; ma nel conte V... suo marito. Il decreto del Senato vi dovrebbe esser noto.
Il Galantino non aveva in quel punto la mente al decreto senatorio, ed era lontano le mille miglia dal pensare al conte colonnello V...; onde, essendo rimasto fieramente colpito e sconcertato a quel nome, non seppe a tutta prima che cosa rispondere.
— Vedete ora dunque, continuava donna Paola, che a voi non rimane che a compire l'opera meritoria e ricondurre la figliuola nelle braccia di sua madre.
Il Galantino guardò per qualche tempo donna Paola; ma poi, dando a un tratto in uno scoppio d'ira:
— Ebbene, proruppe, giacchè non si vogliono le vie tranquille... venga l'inferno ad aiutarmi. Giacchè non si vuole che quella fanciulla sia mia per sacramento, non sia più di nessuno; nè di me, nè di sua madre, né di suo padre, nè d'altri. So io quel che farò. Lascio tutta la mia ricchezza all'ospedale perchè i poveri sguazzino un momento; e fuori io e lei da questa vita maledetta, dove senza ricchezza non si fa nulla e quando c'è non vale a nulla, e la gioventù è un martirio, e la bellezza un'occasione di tormenti, e l'orgoglio il carnefice universale. Fuori di questa vita io e la fanciulla, e il conte e la contessa rimangano a consolarsi coi loro quarti. Così è e così sarà, lo giuro..., e vogliate perdonarmi questa visita inutile.
Ciò dicendo si volse per partire, e già era alla porta, quando la contessa, uscendo con violenza dall'altra camera:
— No, gridò, con accento disperato. No, fermate. Aspettate.
Il Suardi si fermò.
Continuava la contessa:
— Voi vedete la condizione mia infelicissima; parlate voi al conte.
— Io non parlo più a nessuno. So quel che debbo fare.
Fermo sulla porta il Suardi; muta a guardarlo la contessa, con uno sguardo della più intensa preghiera; pensierosa donna Paola col mento abbassato sul petto... Codesta scena si prolungò per qualche tempo. Infine donna Paola disse:
— Io stessa parlerò dunque al conte. Siete contento di ciò?
— Fate pure, signora.
— Domani tornate qui?
— Ci tornerò...
— E mia figlia quando potrò rivederla? esclamò la contessa, giungendo le mani.
— Quando lo vorrete voi, quando lo vorrà il conte; ma badi quel signore di non far motto di tutto ciò all'autorità. Tutto sarebbe perduto irremissibilmente, quando ei fosse per credere di aver tutto salvato.



XI


Qualche ora dopo il colloquio or ora riferito, l'avvocato Strigelli, tornato a far visita a donna Paola e alla contessa, sentì da loro ciò che era avvenuto; sentì e ponderò il tutto, si fece ripetere da donna Paola qualche brano dei discorsi del Suardi, la interrogò parte a parte sul modo onde questo s'era comportato, sulla qualità del calore che aveva messo nelle sue parole, sulla qualità del colore che aveva mostrato sul viso; tenne conto delle angosce che invece di cessare erano accresciute nella contessa; ma fece precisamente come un medico esperto e risoluto, che assicuratosi della condizione d'una malattia gravissima, e dovendo procedere a mezzi eroici e di dubbio evento, ma i soli tuttavia da lui adottabili, interroga quei della casa sul grado di fiducia che hanno in lui, e se sono disposti a lasciargli fare tutto quello ch'ei vuole. Disse dunque lo Strigelli.
— Da quanto mi avete raccontato mi pare che questo scellerato beniamino della fortuna abbia stancato anche sua madre, e tanto che pare voglia abbandonarlo. La passione gli ha penetrato il cervello in maniera, ch'ei non ha più il colpo sicuro d'una volta. Già a quest'ora ha commesso tante imprudenze che davvero non so farmi capace del come ei si pensi di far tutto quello che vuole, quasi che non vi sia più un'autorità al mondo, nè un buon capitano di Giustizia con barigelli e fanti, che se possono mettere le manette a qualche facoltoso, si comportano senza nemmeno pensare all'interesse, ma pel solo e semplice amore dell'arte. Pare adunque che questo sia il momento di coglierlo questo signor Suardi. Quando i serpenti stanno facendo la loro digestione, quello è il punto che i cacciatori se ne impadroniscono. Donna Paola egregia, qui non bisogna avere scrupoli. Signora contessa, qui bisogna aver coraggio, nè credere che il signor Suardi possa far quello che ha minacciato. Voglio bene che la passione gli abbia fatto girare il cervello, ma se può commettere delle imprudenze, non vorrà commettere dei fatti gravi. D'altra parte ha promesso di venir domani, non è vero?... Queste ventiquattro ore d'aspettazione sono un tesoro... per chi le sa valutare. Ma bisogna lasciar fare a me e fidarsi di me.
La contessa, a queste parole del giovane Strigelli, opponeva naturalmente l'invincibile sgomento in cui versava per la vita e l'innocenza della sua Ada, sgomento che nel suo massimo accesso arrivava perfino a far tacere il ribrezzo che del pari irresistibile provava per il Galantino. Donna Paola poi, tanta era l'emancipazione della sua mente e de' suoi generosi principj, emancipazione che raggiungeva un ideale quasi non valutabile nemmeno dagli intelletti più indipendenti del tempo, un ideale che talvolta pareva persino trascendere all'intemperanza, opponeva alle parole dell'avvocato e al ribrezzo della contessa queste ed altre considerazioni:
— Voi dite, avvocato, essere così manifesti nel Suardi gli effetti della vertigine della passione, che tutto induce a persuadervi essere venuto il momento di coglierlo, per la ragione che non sembra più in possesso de' suoi naturali mezzi di difesa...
— Certamente, donna Paola, Sansone fu potuto mettere in ceppi dall'astuzia, quando gli cadde la chioma.
— Ma ciò mi ripugna, e tanto più che il Suardi si è come confidato in noi. Le ultime sue parole erano d'uomo che è così penetrato dall'amore, che a questo sembra posporre ogni altra cosa; che per questo parrebbe quasi essersi operata in lui una completa trasformazione morale. Egli è ricco, le ultime sue largizioni ai danneggiati per l'incendio del borgo san Gottardo accusano esservi in lui qualche sentimento generoso. Se un amore sincero, legittimamente appagato, potesse mai tradurre a benefizio degli uomini quelle sue qualità particolari per cui una volta potè loro riuscire dannosissimo; non provate voi, avvocato, una certa titubanza nell'assalirlo in questo momento appunto? Troncare e distruggere un frutto che può essere buono non per altro motivo che perchè nasce da un albero che in addietro ne diede di cattivi, non mi parrebbe, scusate, nè sapienza nè giustizia.
— Io ammiro, donna Paola, queste vostre considerazioni. Le anime nobilissime sono condotte dal desiderio del bene ad illudersi sulle apparenze delle virtù in altri; ed a credere nella durata di quelle, che non sono altro poi che un'accensione subitanea, avvenuta per circostanze tanto speciali quanto passeggiere. Se ci potesse essere una certezza assoluta di codesta completa trasformazione della perversità nell'onestà; io direi, si faccia quanto dite. Ma c'è questa certezza? Possiamo noi dire che di una ardente passione possono essere perpetui i beneficj effetti? o non piuttosto che, dileguandosi essa nell'atto stesso del suo soddisfacimento, abbiano a sparire simultaneamente anche quelle larve di virtù che s'erano mostrate alla sua comparsa?
Donna Paola a queste parole si alzò, e:
— Avete ragione, avete ragione, disse; io mi lascio sovente trasportare di troppo. Ah se il mondo fosse come io vorrei; se fosse vero che, siccome talora fantastico, la virtù potesse essere un prodotto della volontà costante di chi la sente e la vede; e fosse errore il credere, darsi nature così terribilmente guaste da tornare impossibile il placarle pur sotto i più beneficj influssi... che consolazione sarebbe!... Ma io fantastico talvolta... lo so bene; dunque fate voi... se qui la contessa lo permette.
— Libertà di operazione bisogna concedermi, ed io confido che tutto debba piegar in bene.
La contessa tornava ad opporsi.
— Ma a respingere ogni obbiezione, ritenete voi, disse lo Strigelli, che il conte voglia permettere quel che il Suardi domanda? È una pazzia il crederlo. Dunque lasciate fare.
La contessa, rassegnata, si affidò alle promesse incoraggianti del giovane avvocato, a cui, mentr'esso si accomiatava, strinse la mano, quasi facendo con quell'atto una nuova preghiera. E donna Paola lo seguì fin nell'anticamera, per dirgli cosa che non voleva fosse sentita dalla contessa:
— Oggi medesimo ho risoluto di recarmi dal conte V...
— E che? pensereste mai d'indurlo...
— No, no. State tranquillo. È un altro il mio fine. Io voglio indurlo a venir qui domani. All'idea di umiliare il Suardi, certo ch'ei ci verrà. In ogni modo, voi mi comprendete... quale consolazione sarebbe se la contessa avesse mai a rappattumarsi col marito... e dopo tanti anni si ricongiungessero! che consolazione per me, pei parenti, per gli amici! Quale edificazione per tutta la città! che insegnamento solenne ai calunniatori farisei! Al conte ho dovuto parlare in più di un'occasione... e, a dir il vero, l'ho trovato migliore di quello che me l'avean dipinto...
— Oh certo, sotto a quella scaglia tutta irta di petulanza feudale, in fondo, chi sa pigliarlo pel suo verso, finisce a trovare un buon bestione, disse lo Strigelli sorridendo; e per certe sue espressioni a cui si lasciò andare parlando con me, quasi non sarei lontano dal credere... ma temo della contessa, temo assai...
— La contessa farà quello di cui la supplicherò... e i venticinque anni sono passati, ed anche i trenta...
— Tutto va bene, ma la disuguaglianza non sta negli anni ma nella testa.
— Eppure è un tentativo che sento l'obbligo di non tralasciare.
— Troppo giusto, troppo giusto.
E il giovane Strigelli, inchinando profondamente donna Paola, si partì.
Ed ora dovremmo parlare della visita fatta in quel giorno dallo Strigelli all'eccellentissimo capitano di Giustizia e il lungo colloquio avuto seco, ma troppe pagine si consumerebbero, e non c'è tempo a perdere. Poi dovremmo riferire un altro lungo discorso investigatore tenuto dal medesimo Strigelli nel dì stesso al sottotenente Baroggi, cui espressamente andò a trovare in caserma. Poi la visita di donna Paola al colonnello V.... e l'escandescenza di lui alla notizia della sfrontata pretesa del Suardi; ma anche per ciò ci vorrebbe troppo tempo e spazio. Pensiamo inoltre che tutto questo, meno il piacere ch'altri potrebbe avere a legger dialoghi, sarebbe al tutto superfluo, perchè in seguito dovendo veder le conseguenze di queste visite e di questi colloquj, di necessità potremo indovinarne il tenore, come se fossero stati riferiti. Bensì ne giova assistere a una mezza dozzina di soliloquj successi nella notte di questo giorno pieno di affannose faccende.



XII


In questa notte adunque alcuni de' nostri personaggi passarono le ore in uno stato di continua dormiveglia; vogliamo dire: l'avvocato Strigelli, il Galantino, il conte V..., donna Paola Pietra, la contessa Clelia V...; nè potè dormir benissimo nemmeno il sotto tenente Baroggi. Vi fu un'ora in cui, quasi contemporaneamente, non potendo chiudere occhio, anche perchè il caldo era salito ai ventisette gradi di quel termometro che Réaumur aveva inventato nel 1731, e di cui l'uso s'era diffuso in Italia da pochi anni, i più di loro si alzarono sui gomiti a seder sul letto, e acceso il lume, si misero a conversare con quei pensieri, che ronzando intorno siccome insetti importuni, lor avevano rotto il sonno; così tutti fecero, quel che si suol dire, il loro soliloquio.
Il letto del giovane avvocato praticante, che già prometteva di voler diventare un luminare della giurisprudenza, era posto vicinissimo ad un tavolone sul quale, tra il Corpus juris e le Illustrationes ad Constitutiones Mediolanenses di Gabriele Verri, e il volume della Praxis et Theoricæ criminalis di Prospero Farinaccio aperto alla Quæstio XVII De delictis et pœnis, trovavasi un cumulo di libelli e processi. Lo Strigelli, non potendo dunque dormire, lesse attentamente due fitte colonne di quell'irto latino; eppoi:
— Tutte queste cose vanno bene, disse tra sè, ma un avvocato, allorchè trattasi di vertenze criminali, e gli premono i suoi patrocinati, deve recarsi egli stesso, come un buon generale, sui luoghi minacciati, per veder tutto dappresso; e deve far egli i piani e metter egli medesimo i giudici inquirenti, quasi senza che se n'accorgano, faccia a faccia cogli indizj della verità; di maniera che siano costretti a vederli e a non poterli respingere. Ecco qui: il signor capitano di Giustizia non avrebbe mai pensato al Suardi, e anche dopo avervi pensato, non volea saperne di fargli una sorpresa. Or io ho tanto tempestato che l'ho indotto a fare il mio volere... Domani mattina la vorrà esser bella! Sta volta son certo che il Suardi cadrà nella rete... Così potessi governar io gli interrogatorj!... chè d'una in altra cosa... senza che se n'avveda, lo ricondurrei al primo processo... In conclusione quel processo fu sospeso, non fu chiuso. Sarebbe un grande avvenimento se, col pretesto di far la difesa di lord Crall e dei Frammassoni, riuscissi a far fuori tutto il vero intrigo, e far stupire tutta la città dell'insperata scoperta. Che bell'ingresso nella carriera d'avvocato! La lega tra il Suardi e il Baroggi non è a caso. Peccato che questo giovane sia onesto!! Ma guarda a che conduce l'amore della professione! Mi fa dispetto la sua onestà perchè gli vieta di dir tutto quello che sa a danno del Galantino. Egli ha ricevuto de' beneficj e teme di nuocere al protettore. Or ecco combinazione... fra una così fitta e ognor crescente schiera di scellerati che contaminano il mondo ha a capitarmi innanzi un giovine onesto, che è cosa sì rara, precisamente allora che m'è d'impaccio. Oh un indizio, un indizio solo, ma grave e intero... e un buon interrogatorio, e una risposta del Galantino che implicasse contraddizione... e allora... mi ripugna ad essere costretto a trovare, sia pure per questo solo caso, la necessità della tortura... ma il caso eccezionale di questo astuto lacchè arricchito giunge a far rimanere perplessa anche la sapienza. Il Galantino, or più avanzato d'età, più ammorbidito, più infiacchito dalla ricchezza e dal lusso, non potrebbe più resistere alla tortura e parlerebbe.
La disgrazia è che il Baroggi gli diede mano attiva nel rapto virginum, che è fra i crimini più gravi... ed io pur non vorrei mettere in ballo quel povero diavolo, il quale non è che la vittima della prepotenza altrui... Del resto, Dio sa come è corso il fatto precisamente, e però converrebbe sentir le fanciulle. Ah! trovar le fanciulle, questo è il problema. E a questo dev'esser tutto posposto. Domani, dopo il colpo, se riuscirà, parlerò ancora al Baroggi, e giacchè ha voluto ajutare il Galantino, farà la penitenza ad ajutare anche me.
E così proponendo e rifiutando e ponderando, a poco a poco i suoi pensieri s'intersecarono fra di loro e si confusero in una vaga e disordinata mescolanza; mentre gli occhi, avendo di troppo, durante il lavoro della mente, fissata la fiamma della fiorentina, ne rimasero sopraffatti e stanchi, e si chiusero e stettero chiusi fino all'alba.
Ma un momento prima, nella propria stanza, nella caserma della contrada degli Stampi, li aveva aperti il Baroggi, perchè essendo andato a letto inquietissimo, i tristi pensieri lo molestarono nel sonno sotto tante forme, che al fine si svegliò nell'ora che di solito cominciava il bello del dormire. E aperti gli occhi, dopo un momento di torpore, i pensieri a un tratto gli si levarono come uno stormo di passere sgomentate, ed: — Oh maledetta la visita d'jeri! esclamò. Io mi sono lasciato indurre a parlar troppo dalle sue domande insidiose... e non accorgermi a bella prima ed aspettare adesso a pentirmene! Eppure non posso credere ch'egli mi vorrà tradire. Educato da quel buon vecchio dell'avvocato Agudio, non vorrà fare un tristo giuoco a me e a mia madre, che il vecchio ha sempre protetto con tanta carità, e felice il mondo se l'avesser sempre anche i preti... Se il vecchio è tale, non dovrebbe essere diverso da lui il suo giovane allievo... e i giovani... Ah che vorrei crederlo! ma qualche volta i giovani sono peggiori dei vecchi. In conclusione però... che cosa ho detto?... La verità intera non l'ho confessata... e dalla mia bocca, per quanto l'avvocato abbia fatto, non è riuscito a cavare quel ch'egli voleva... e quasi quasi io era lì per farlo... chè mi pareva di trovare una consolazione ad abbandonarmi tutto in lui... tanto mi pareva sincero! Ma egli pur sa che sono entrato in convento nella mia qualità di guardia della Ferma! e questo, prima di venire da me, l'ha saputo dal tenente... Ecco il sospetto... si sarebbe comportato di tal modo l'avvocato, se avesse avuto delle buone intenzioni a mio riguardo? Qui sta il punto... Ah... maledetto il giorno e l'ora che il Galantino è venuto a cercare di mia madre e di me... Cosa mi hanno fatto i suoi beneficj? eppoi che beneficj? Quando un birbone matricolato fa qualche cosa che sembra una buon'azione, è proprio allora il momento di stare in guardia. Or ecco come andò a finire... aveva bisogno d'uno strumento nelle sue mani... bestione che sono stato a lasciarmi indurre!... Pazienza fossi io solo... ma c'è quella povera donna di mia madre... tirata anch'essa nella rete... Ah che imbroglio! che imbroglio!... Ma anche tu ci sei dentro però, birbone scellerato; ed or quasi son contento d'aver pensato anch'io a rovinarti... Oh come mi guardò fisso il giovane Strigelli, quando gli ho parlato del giorno in cui il signor Suardi pareva in procinto di svelarmi una gran cosa! Come si compiaceva il signor avvocato a farmi ripetere le parole con cui il signor Suardi, in tuono di profezia, mi parla sempre della mia ricchezza! Ah! se questo giovane, astuto e svegliato com'è, facesse balzar fuori... e il signor conte Alberico dovesse vomitar tutto quello che ha mangiato... oh che caso!... Ma io però doveva tacere... Ah doveva tacere... Ho fatto un'azione infame a gettar quel sospetto... perché poi i beneficj son sempre beneficj, e chi ci cavò di miseria fu lui... Guarda un po' se quella maledetta faccia del conte Alberico, impiastrata di belletto come se fosse quella d'una ballerina, ha sentito un'oncia di compassione per noi? Or che sarebbe stato se il Suardi non fosse venuto?... eppoi non sono io quello a cui egli ha dato e da danari e soccorsi... È però anche vero che io ho parlato a mezza bocca, e chi parla a mezza bocca può sempre dar del matto a chi pretende d'aver capito troppo. Pure doveva tacere. Ho fatto una cattiva azione; ma come resistere alla tentazione di scoprir terreno su di ciò che più di tutto deve interessare la mia esistenza? Perchè un mistero c'è, e il testamento del marchese qualcuno lo ha di certo; ed io dovrei essere uno dei più ricchi del ducato, con carrozze e cavalli... se...
E l'occhio del giovane Baroggi, mentre pensava queste ed altrettali cose, si fermò sulla sciabola appesa al muro per la tracolla di pelle gialla; e dalla sciabola a contemplare un ritratto appeso là presso, ed era quello di sua madre quand'era giovane; e il raggio della candelaccia di sego che diradava di poco l'oscurità della stanza, ammorbandola di odor grasso, si rifranse nelle grosse e poche lagrime che lentamente calarono in quel punto sul volto al Baroggi; e così stando in sui gomiti e colla testa appoggiata al muro che faceva di spalliera al letto, tra una borsa di pelle donde spuntava il calcio di due pistole, e una borsa di tabacco, grado grado si riassopì in un sonno affannoso.
E verso le tre dopo mezzanotte, ora che probabilmente poteva corrispondere a quella in cui il povero Baroggi s'era svegliato per l'inquietudine, e si era di nuovo addormentato nel dolore, la carrozza del Suardi svoltava, sterzando pomposamente nel portone della sua casa in Pantano, mentre spalancavasi con rumore la pusterla, spinta dalla mano del portinajo accorso, cogli occhi ancor sonnolenti, all'iterato fischio del cocchiere.
Il Galantino aveva passato la notte gozzovigliando e giuocando e bevendo più del consueto nell'allegro convegno dei ricchi amici e di alcuni regj impiegati della Giunta d'Economia e di Governo che frequentavano la casa del milionario Mellerio. E vi avea giuocato e tracannato ad ampj sorsi per affogare il dispetto e la rabbia del giorno e i mille presentimenti vaghi che gli davan noja; e che, quanto più egli si sforzava d'irridere e rintuzzare, tanto più ritornavano poderosi e sempre in maggior numero all'assalto. Muto discese dalla carrozza, muto salì lo scalone, muto entrò nella sua stanza da letto, non rispondendo nulla al servitore che, precedutolo ad accendergli i lumi della caminiera, lo aveva lasciato solo, pronunciando il consueto saluto: Buona notte, signor padrone. L'allegro sciampagna non aveva lasciato nessun deposito d'allegria in lui, chè il vino eccellente, quando lo spirito è in affanno, fa l'effetto dei bei giorni sereni e dei limpidi soli, i quali arrovesciano un animo già mal disposto, peggio che i giorni tetri e piovosi, i quali, mettendosi all'unisono con l'anima, non la turbano almeno coll'importuna antitesi. Meditabondo e col capo grave si spogliò, e si gettò nel letto, spenti che ebbe i lumi; ma sporse alcuni momenti dopo il braccio dalle cortine di damasco per dare una strappata al campanello, e per dire al servo riaccorso tutto sollecito: Accendi ancora quelle candele.
Stato adunque così un po' colla testa, sprofondata ne' guanciali, s'accorse che per quella notte avrebbe potuto fare qualunque cosa fuorchè dormire, onde si mise a seder sul letto, puntando il gomito sinistro ne' cuscini e reggendosi la testa colla sinistra mano come portava quella posizione, e lasciando il destro braccio abbandonato sulla copertina di seta:
— Domani a quest'ora tutto sarà deciso, pensava; o uno di quegli scandali da mettere sottosopra tutta la città, o allegria generale. Spero poco però, poco assai; in conclusione mi par di essere nella condizione di un giuocatore impazzito, che abbia messo su d'una carta tutto quello che possiede. E fosse davvero una carta!... io le ho educate a servirmi... Ma che cosa si può sperare da quella bestia feroce del conte?... E doveva il Senato mettere in sua balìa la ragazza?... dichiararlo suo padre? Che razza di dichiarazioni e di decreti! Decretare che il sole non è più il sole ma è la luna!... Perchè?... volta pure e rivolta e rimescola la cosa... la conclusione è questa. Ma c'era un grande ricchezza da conservare, e Dio sa come avranno lavorato sott'acqua i parenti della contessa!... Ecco qui; se il Senato avesse dato causa vinta al conte, m'accorgo che colla contessa, ad onta della nobiltà del suo casato, jeri si poteva finir tutto... e mi pare che donna Paola Pietra non avrebbe messo male. E in fatti, se si considera la cosa da tutti i lati possibili e con tutta la tranquillità imaginabile, ed anche concedendo tutta la tara ai fumi del sangue patrizio... la mia pretesa è onesta... nè solo onesta, ma necessaria... Se io avessi fatto portar via la fanciulla per un mio gusto scellerato... via... non ci sarebbe scusa... Ma quel caro angelo divino... quel fiore così bello, così puro e fragrante si è piegato verso di me, per un movimento spontaneo, e comunicatogli, non è possibile dir di no, da una forza che, se non è precisamente il destino, dev'essere certo qualche cosa che gli somiglia... Io suo marito... ed ella mia moglie... O guarda come questa idea mi fa arrossire del mio passato, e mi mette addosso una smania di poter diventare il re dei galantuomini! Ma no, questo maledetto bue catalano colla corona a nove punte deve aver il diritto di mandar tutto al diavolo! Questa idea mi mette addosso l'inferno, e arrivo ora a comprendere come per un'idea si può diventar matti!
E parve che un diavolo azzurro, sentite le ultime parole del Galantino, e volando da Pantano alla contrada non discosta dov'era il palazzo V..., recasse quelle stesse parole nella stanza del conte in quel punto, per gettargliele sgarbatamente in faccia. Onde il conte, come riscosso da un sogno perverso, balzò ritto sul letto a mezza vita, e:
— Stupido sfrontato! quasi gridò. Domani la vedremo, e sentirai come pesa il bastone di un mio pari. Perchè sei diventato ricco, facendo il birbone, neppur di nascosto, ma in piazza e di pien meriggio, osi chiedere la mano di quella che dee portare il mio nome! il mio nome, per Dio... Scommetto che dacchè al mondo ci son padroni e servi, patrizj e plebei, non s'è mai data un'impudenza com'è questa. Un giovinastro nato in una stalla, processato per ladro... Ahi l'ira che ne provo è tale che se non arrivo a farlo in pezzi questo scellerato inaudito, e a dare un esempio solenne, io scoppio; per verità, ch'io scoppio! e la fanciulla ha a trovarsi in suo potere?... e di necessità si ha ad aver la pazienza di tacere e di dissimulare per timore... Ah! questo è troppo. Ma io ammazzerò la fanciulla, piuttosto che vederla contaminata da un matrimonio simile... Che maledetto destino è il mio!... e mi dev'esser venuta in petto da non so dove tanta predilezione per quella figliuola! e per amor suo ho potuto lasciarmi strappar la promessa d'andar domani là dov'è la contessa... Oh che caso, che scandalo!... e come ne parlerà e ne sparlerà il mondo... Ma tanto peggio per quell'abbominevole lacchè ch'io stritolerò sotto ai piedi, come si fa coi rospi, quando si va a caccia in palude, e ci striscian sugli stivali. Voglio dare un esempio io, un esempio voglio dare.
E pensando e dicendo questo, e tra per l'ira e tra pel caldo non potendo star sotto coltre, ne uscì, non possiam dire ne balzò fuori, perchè la sua grande e forte corporatura non gli concedeva troppa agilità di movimenti; e messasi la veste da camera, si diede a passeggiare, e per pigliar fresco, preso il lume, passò in altre camere. In una v'erano i ritratti nuziali di lui e della contessa. Ma quello della contessa, a pompa di cordoglio e forse a segno di condanna, fino da quindici anni addietro era stato coperto da una tela nera. Fermatosi a guardar sè stesso nel ritratto dipintogli dal Porta, gli venne la tentazione, certo in conseguenza del pensiero che il dì dopo doveva recarsi dov'era la moglie, di alzar quella tela, e l'alzò infatti; e si mise a contemplar la contessa effigiata al vivo, e bella della trascorsa bellezza di diciotto anni. Strane idee gli passarono in mente a quella vista, e fisso in quella contemplazione si mise a sedere su d'un'ampia poltrona che strascinò rimpetto al ritratto.
La mattina, quando il servo entrò nella stanza da letto per isvegliarlo, secondo l'ordine avuto, non avendolo trovato, passò, così a caso, d'una in altra camera, intimorito e pieno di meraviglia quando vide il padrone addormentato in faccia al ritratto della padrona, su cui la candela di cera, quasi tutta sgocciolata, mandava la luce di una fiamma intermittente, larga e rossastra.
Pure il conte V... e il Galantino e il Baroggi e l'avvocato Strigelli, se furono turbati nel sonno, poteron pure sfiorarlo qualche poco, o la stanchezza chiudesse loro per forza gli occhi, o l'inquietudine fosse placata da qualche pensiero confortevole, vero o falso che fosse; ma la contessa Clelia era da quasi cento ore che non poteva dormire; aveva viaggiato senza riposo; appena giunta a Milano non ebbe che oppressioni assidue di corpo e di spirito; la stanchezza fisica non le concedeva quasi più di reggersi in piedi; tanto che nell'ultimo giorno di quando in quando le cadevano le palpebre oppresse da una pesantezza invincibile, ma tuttavia non fu mai possibile che il sonno la involasse un momento al suo affanno. Ella aveva nello spirito quel dolore spasmodico che è in alcuni malori acuti, onde la vita è sempre desta per tormentare la vita. Chi non s'è mai trovato in questa condizione amara di cader sfilato dalla stanchezza e dalla veglia diuturna, e non poter tuttavia dormire, per sua fortuna, non può dire di aver misurata in tutta la sua crudele intensità la potenza del dolor morale. E donna Clelia non s'era nemmeno coricata in quella notte, ma così discinta se ne stava un po' seduta, un po' in piedi, un po' in ginocchio. E pel caldo affacciatasi alla finestra, volgendo gli occhi al cielo sereno e sgombro e tutto stellato, nell'esaltazione dello spirito provocata dalla medesima stanchezza fisica, stette assorta nella contemplazione di quel cielo e le parve come di trovarsi faccia a faccia con Dio; onde gettatasi in ginocchio, si mise a pregare con un fervore intenso come il suo affanno.
— Io non chiedo altro se non che mi sia ridata la mia figliuola viva e pura. Se per la gioja di poterla rivedere io dovessi morir subito dopo... benedetta la morte con cui avrei pagata tanta consolazione di vita... Venga la mia figliuola, e purchè sia felice... deh si faccia il miracolo che mio marito rompa una volta l'ostinata crudeltà del suo orgoglio... Io non so come vorrei scontare quell'istante di superbia onde mi parve che avrei anch'io voluto qualunque cosa piuttosto che la felicità di mia figlia nel modo onde mi venne imposta. Ma ella viva e ritorni a me, e sia felice... Questo solo io desidero e supplico.
E così pregando e gemendo, non potendo più reggere in ginocchio a quel modo, cadde accosciata su sè stessa, e depose la testa sul cuscino del davanzale della finestra, lasciando pendere in abbandono le braccia in posizione simmetrica.
Allorchè donna Paola, alla prim'alba, le entrò in stanza, accorse a sollevarla, vedendola colà immobile; la sollevò e la baciò in fronte, e la portò di peso sul letto, senzachè quella sventurata si svegliasse.
— Infelice, pensava donna Paola, guardandola in silenzio. La stanchezza finalmente fu più forte del tuo dolore; e la Provvidenza forse ti ha concesso questo momento per farti più valida a sostenere le terribili scosse che ti si apprestano in questa dubbiosa giornata che sorge. Pensando a' tuoi travagli è da più notti che anch'io non chiudo occhi... ma sono io forse più fortunata di te?... Di due figliuoli carissimi, uno è ramingo pel mondo, spinto dalla sua irrequieta natura, in cerca di pericoli e di venture; l'altro... Ahi, pensando al cuor suo e al dolore che avrà provato e in cui sarà immerso tuttora al pensiero che la sua Ada fu rapita... la sua Ada per cui... Oh inestricabile intreccio d'affanni... Oh avvenire incertissimo, che la mia vecchiaja paventa di non giungere in tempo per vedere snebbiato!


LIBRO NONO


Il vecchio Agudio e il Baroggi. — Dopo quindici anni. — Marito e moglie. — La gran voce del pubblico. — Origine dei banchetti generali notturni. — La città di Milano e un verso d'Alfieri.   Il Collegio dei giureconsulti. — Le università degli orefici, dei mercanti d'oro, ecc., ecc. — L'accademia dei Trasformati e il conte Imbonati. — La scuola degli scultori in Camposanto. — La piazza del Duomo. — Un progetto architettonico. — Le badie dei bergamini, dei caseri e dei facchini. — L'accademia dei Fenicj e l'abate Oltolina. — Una colonia dell'Arcadia nel palazzo Pertusati. — Don Alberico marchese e conte F... — Triplice eredità. — La casa del diavolo. — La cantante Agujari e il cavallo arabo. — Ada, don Alberico e il Galantino.


I


La mattina l'avvocato Strigelli si alzò per tempissimo, e si recò con gran sollecitudine dal suo vecchio maestro Agudio, come solea chiamarlo. Aveva cangiato parere su molte parti del suo piano, ed urgendo il tempo, voleva essere rassicurato anche dal senno di quell'espertissimo giureconsulto. Avuto il piacere di sentire approvato il proprio disegno, si trasferì difilato al Capitano di Giustizia per parlare all'attuaro, di concerto col quale e coll'eccellentissimo signor capitano si era provveduto ad aprire un nuovo varco al processo di lord Crall e di Lorenzo Bruni, e degli altri Frammassoni, che, confessando quel che non potevano negare, e manifestandosi anzi con coraggio e con fermezza contro le soverchierie de' fermieri, furon tutti saldi e d'accordo nel negare d'aver avuta parte veruna nel fatto della scomparsa delle due fanciulle dal convento di san Filippo Neri. E l'attuaro, in conseguenza delle parole dell'avvocato Strigelli, mandò a chiamare il tenente dei fanti di giustizia per trasmettergli nuovi ordini.
Dopo di ciò l'avvocato recossi alla casa di donna Paola Pietra, per prendere lingua su alcune cose che non avea potuto sapere il giorno prima.
— Al conte ho parlato, gli disse donna Paola, e l'ho indotto a venir qui, e l'aspetto anzi a momenti. Davvero che mi pare d'aver fatto un miracolo. Non vorrei però che fosse per nascere qualche scena scandalosa e terribile, messi il conte e il Galantino al cospetto l'uno dell'altro.
— State tranquilla, donna Paola, chè abbiamo pensato ad ovviare anche a questo inconveniente.
— Ma in che modo?
— Vedrete... e spero che forse avrete a lodarvi di me... Confortate intanto la contessa, e fatele coraggio.
— Caro avvocato, che pena mi ha fatto la contessa un momento fa, quando ho dovuto pur dirle che il conte oggi veniva qui!
— Già v'ho detto che tutte le difficoltà per questo vostro nuovo e giustissimo intento sarebbero insorte dal lato della contessa. Ciò era ben naturale.
— No, no, caro mio, non si tratta di questo. Ella, sentendo che il conte s'era lasciato indurre a venir qui, tosto s'è fissata nella persuasione che il conte fosse disposto ad accogliere le proposte del signor Suardi. Figuratevi com'io mi sentissi di dentro rimeditando la furia onde ieri proruppe il conte nel sentire le pretese del Suardi! Ma la contessa non sospira che la figliuola, e per rivederla, non so quel che farebbe. Davvero che fa pietà.
— Torno a ripetere, supplicatela ad aver coraggio; so io quello che dico. Ieri ho parlato al Baroggi...
— E così?
— Sa tutto, quantunque non voglia dirlo; ma quel che non ha voluto dire ieri, lo dirà oggi, so ben io il perchè. Sa tutto, ripeto... e ho potuto comprendere che le fanciulle sono davvero in salvo, e che non è che la pura verità quello che il Suardi ha esposto. Ma non sentite? — è una carrozza che entra dal portone.
— È il conte senz'altro. — E donna Paola diede una strappata al campanello.
— Ma che ora può essere adesso? chiese lo Strigelli.
— Sentite che batte la campana dell'orologio.
— È tardi... io devo essere altrove; perdonate, io vado. Dio faccia che fra un'ora possa essere portatore d'una buona novella.
E l'avvocato Strigelli, nell'uscire, s'incontrava nel conte V...
Quest'ultimo, nell'entrare, diede, per un moto che gli era abituale, un'occhiata d'alto in basso all'avvocato, e:
— Chi è colui? chiese, mentre salutava donna Paola.
— L'avvocato Strigelli.
— Ah, ah... il giovane praticante dell'avvocato Agudio, colui che scrisse tanti atti contro di me; lo conosco assai bene. Scusate, donna Paola, ma venendo in casa vostra, posso dire d'esser venuto nel campo nemico.
— Nel campo di un alleato, dite meglio, dove i parlamentari si son radunati per venire a patti e per cedere volontieri le armi. Quel giovane vi stima assai, e fu egli a consigliarmi di venire da voi, egli e la contessa... L'uno e l'altra si trovaron d'accordo nel pensare che voi solo potevate incutere timore al Suardi.
— Ribaldo sfrontato!... esclamò il conte, e si mise a sedere.
La vasta poltrona di marocchino entro la quale s'era come perduto il piccol corpo del nostro Giocondo Bruni ancor fanciullo, appena bastò per contenere la colossale persona del conte. Era esso vestito da mattina, ossia portava un soprabito color turchino con baverina filettata d'argento che gli scendeva oltre la spalla; aveva stivali corti di pelle di cordovano pur filettati d'argento, con sproni corti; all'occhiello del soprabito portava il nastro dell'ordine di San Jago, e teneva nelle mani un grosso scudiscio da maneggio. Non gli mancava che le spallette e la sciabola per essere creduto un militare in servizio, e tanto più quando si guardava a quella faccia burbera, atteggiata ad una fierezza di convenzione sulla quale, tra il bianco della parrucca ad ala di piccione e il rosso color mattone equabilmente soffuso senza gradazione sulla fronte, sulle guance, sul naso, spiccava il nero di due baffi corti, piuttosto che ai quali avrebbe rinunziato alla corona di conte o per lo meno all'ordine di San Jago. Come poi fossero neri non lo sappiamo, perchè il loro obbligo sarebbe stato di essere almanco grigi, chè nell'anno di grazia 1766 i cinquant'anni doveva averli passati da molto tempo. Ad ogni modo, fosse il privilegio ordinario di natura, o fosse la virtù parigina di qualche pomata che potrebbe forse venire a gara colle miracolose d'oggidì, i baffi erano neri, e basta di ciò.
Dopo aver girato, senza parlare, lo sguardo intorno alle pareti per osservare i ritratti di famiglia della casa Pietra Incisa:
— Quanto potrà tardare a venire questo mascalzone? domandò egli.
— All'ora di ieri...; però mi pare che potrebbe mancar pochissimo.
Il colonnello si alzò, e fatto come un giro intorno a sè stesso:
— Le pare, soggiunse, che dobbiamo riceverlo qui in anticamera?
— Le convenienze ci vogliono anche con costoro. La contessa jeri gli parlò qui... la contessa ed io...
Il colonnello stette muto qualche momento.
— Ma c'è da impazzire, donna Paola, disse poi, pensando che nelle mani di costui, precisamente nelle mani di costui doveva cadere quella... quella ragazza...
— Ah, fu davvero una gran disgrazia, conte, perchè temo che anche quando avremo riconquistata la ragazza, pur troppo, ci sarà pericolo di perdere la contessa.
Il conte, a quelle parole di donna Paola, non afferrandone bene il significato, e tuttavia rimanendone turbato, fu in procinto di domandarle una spiegazione; ma si trattenne... e volse altrove la faccia... e fece alcuni passi per la camera; e come per dare sfogo all'ira che provava nel sentirsi, suo malgrado, commosso, ed anche per quell'indole sua militarmente brusca, lasciò cadere un colpo di scudiscio sulla spinetta, che risuonò come un ghitarrone sfregato nelle corde.
— Scusate, disse poi, ma costui si fa aspettare un po' troppo.
— Abbiate pazienza, conte... e vogliate perdonarmi se vi lascio un momento solo. Vado a vedere come sta la contessa, perchè poco fa era a mal partito assai. Sono tre giorni e tre notti che non mangia e non dorme, e non fa altro che disperarsi, sospirare e piangere. Stamattina soltanto si lasciò andare ad un sonno invincibile, riposando la testa sul davanzale della finestra ad aria aperta. Il che le ha fatto malissimo; onde, pochi minuti sono, fu colta da un deliquio e da un sudore mortale, che ce ne volle a ritornarla in sè stessa. Scusate, vado e torno.
Il piglio burbero e fiero che appariva ognora sul volto del conte, era il più delle volte, lo abbiamo già detto, un piglio di convenzione. Quasi tutti coloro che passarono la loro gioventù fra le armi, nei bivacchi, e sui campi di battaglia hanno l'abitudine di sfoggiare un tale frontispizio e di caricarlo talora, fin quasi comicamente, per far colpo; press'a poco come i bassi profondi che, quando parlano in pubblico, alterano la voce in modo che sembrano uomini soprannaturali. Ma in quel modo che i bassi profondi, quando sono in veste da camera e si trovano al cospetto di persone che non hanno a far nulla col teatro, lasciano uscir la voce senza pretesa e a beneplacito della natura; così anche i militari in quiescenza, quando son soli, permettono che i muscoli del viso si rilascino alquanto come comanda la natura. E così avvenne della faccia del conte colonnello. Quella specie di velo artificiale ed avventizio lasciò allo scoperto la nuda e schietta tinta della bonarietà che la natura gli aveva pur data, di maniera che quel suo faccione parve per un istante quello di un sempliciotto contrito e commosso, tanto commosso che gli occhi gli si inumidirono.
Donna Paola, che conosceva l'uomo, non a caso avea detto quel che avea detto. Fin dal giorno prima ella erasi accorta come in lui fosse sbollito ogni sdegno contro la contessa. Non si trattava or dunque più d'altro che di penetrare più addentro che fosse possibile, mettendo in movimento la compassione, in quel terreno già tutto quanto smosso e rammollito.
E non a caso lo avea lasciato solo, perchè avvedutasi che il racconto del misero stato della contessa lo aveva messo sottosopra, pensò di non avviare altri discorsi, che, interrompendo quel pensiero, lasciassero tempo al cuore di rimettersi in calma e di riassumere la consueta padronanza; e intanto erasi recata infatti nella camera della contessa che, per verità, stava malissimo, trovavasi in una prostrazione di corpo e di spirito da far compassione a chicchessia.
— Come va, donna Clelia?
Quella rispose crollando il capo.
— Sapete chi è venuto?
— Chi?
— Il conte!
— Oh Dio!! Ma non è necessario ch'io sia presente al colloquio.
— Non è necessario, ma sarebbe utile, e, più che utile, conveniente e generoso.
— Generoso?... ma credete che il conte... no, no, donna Paola. Voi non lo conoscete. Dio sa che scena orribile sarebbe per fare.
— Io non sono della vostra opinione; e quando debbo dirvi la verità intera, s'io fossi ne' vostri panni, alla notizia ch'egli si lasciò indurre a venir qui... io sarei volata nella sala dov'egli si trova. In conclusione, bisogna esser giusti, donna Clelia. Chi si deve umiliare per il primo? Chi? E l'interesse vivissimo che ha preso e prende per la vostra figliuola, ci dev'essere per nulla? So quel che volete dire, lo so. Ma in quanto a lui, dimenticate il passato e rammentate il presente. E in quanto a voi, per quest'oggetto, non abbiate in mente che il passato. Perdonate, la mia cara Clelia, se vi parlo così in questi momenti. Ma io prevedo che immensa consolazione sarà per riempire il vostro cuore quando vi sarete risoluta a rivedere vostro marito.
— Io sono pronta a fare tutto quello che volete, ma per oggi no. Per oggi non mi sento disposta. Lasciate prima che io possa riabbracciare la mia Ada.
— L'avvocato Strigelli m'ha ingiunto di rassicurarvi su di ciò; perchè da jeri ad oggi ha trovato, egli stesso me lo ha detto, la via giusta per venire a capo di tutto. Ma zitto, che sento parlare nella sala di ricevimento; fosse mai venuto il Suardi? Mi rincresce di non essermi trovata là prima ch'egli entrasse.
E così dicendo lasciò sola la contessa, e tornò dov'era il conte.
Attraversate rapidamente le camere interposte, quando entrò nella sala di ricevimento, si maravigliò di trovarvi l'avvocato Strigelli invece del Suardi. Onde gli chiese:
— In che modo voi siete qui, e perchè colui si fa aspettar tanto?
— Chi... colui?
— Il Suardi.
— Lo aspetterà per un pezzo, donna Paola. Ma sieda qui, di grazia, e sentirà.
— Sentite, sentite, donna Paola, soggiunse il conte con una schiettezza di gioja insolita. Sentite.
Ma il lettore, invece di ascoltar l'avvocato Strigelli, si compiacerà, se è di comodo, di ascoltar le nostre parole.



II


Noi siamo avversi a quella che noi chiameremo morale di convenzione, la quale non è già quella che Mirabeau chiamava la piccola, e che secondo lui non faceva gli interessi della morale grande; quasi che vi possano essere più categorie di morali nel mondo assoluto delle idee; ma è bensì quella che fu stabilito di adottare nelle opere dell'arte, e per la quale i personaggi più o meno scellerati dovrebbero ricevere la loro conveniente punizione prima che cali il sipario o si chiuda il libro, affinchè la lezione balzi di tratto dall'opera alla testa del lettore anche il più volgare e ottuso. Questa morale, o, diremo più giusto, questo modo di far uso della morale, è spesso erroneo, perchè se l'arte dee riflettere i fenomeni del mondo e della vita, sarebbe costretta ad alterare la verità ogni qualvolta non trovasse che nella vita e nel mondo i galantuomini siano premiati e i perversi puniti. — La moralità sta nell'ordine delle idee e non nel campo dei fatti; — perciò all'assoluta moralità, per esempio, del don Giovanni Tenorio, non era per nulla necessario che il convito si trasmutasse in una scena infernale coi diavoli tormentatori; nè era necessario alla moralità dell'Otello che Jago venisse ferito dalla scimitarra vendicatrice del geloso Africano.
Quanti uomini noi abbiamo veduto, noi e i nostri amici, ad attraversare la vita gloriosi e trionfanti delle loro medesime cattive azioni, senza che la legge abbia potuto ghermirli, senza che nemmeno l'opinione pubblica abbia potuto sfogarsi rumorosamente contro di loro, senza che nè in iscritto nè in istampa rimanga pur una nota d'esecrazione contro di essi, anzi rimanendo invece qualche elogio scolpito nel marmo, per abuso di postuma pietà! E per questo la morale ha forse cessato di essere la morale? è ella così impotente e miserabile, così relativa e precaria, che, per dar segno di vita, debba essere in obbligo di aggiustar le partite a tutti gli uomini, prima che escano da questo mondo? E in quanto alle opere dell'arte, perchè possano scansar la taccia d'immorali, dovranno essere impreteribilmente costrette a mandare, nel punto della catastrofe, tutti i galantuomini all'osteria, e tutti i birboni all'inferno? Noi crediamo fermamente di no, e per questo di mala voglia oggi prendiamo la penna in mano, perchè dobbiam raccontar cosa che parrebbe introdotta appositamente, non per altro che per fare un po' di corte alla così detta morale di convenzione. Ma quel benedetto frate di sant'Ambrogio ad Nemus, tenendo conto con molta precisione di tutto quello che avvenne del Suardi e che giunse a di lui notizia, registrò, sebbene meravigliandosi anch'esso (il che proverebbe che al pari di noi non avesse molta opinione della giustizia relativa), registrò tal fatto che non possiamo assolutamente levare da questa storia, a dispetto de' nostri principj d'arte: e perchè il vero non è una cosa che a capriccio si possa pigliare quando ci torna utile, e respingere quando è incomodo, e perchè da questo fatto tanti altri ne dipendono per conseguenza necessaria, che, ad alterarlo o a distruggerlo, bisognerebbe poi far tutto il resto di sola fantasia, il che è assolutamente contrario al nostro intento.
Abbiamo dunque lasciato il Galantino sotto al baldacchino di drappo, in seriissima consulta co' suoi pensieri, i quali, sotto diverse forme, gli ricomparvero poi nei sogni dell'alba, quando finalmente potè chiudere gli occhi a dormire. Ma ad onta della veglia durata si destò presto, e si alzò, e discese nello studio. L'aria elastica del mattino, una tazza d'acqua freschissima bevuta in un fiato, un'occhiata ai libri mastri, due parole fatte col giovane di studio che teneva la corrispondenza, lo misero in tôno, tanto che uscì persino in qualche celia.
Esaminati così i mastri e rallegratosi, perchè l'idea di una gran ricchezza che va sempre crescendo ravviva lo spirito anche più dell'aria sana e dell'acqua fresca, ritornò all'appartamento superiore, e si dispose alla toilette, la quale non ostante la gioventù ancor viva e la bellezza che non avea bisogno d'ajuto, pure gl'involava tutti i giorni un'ora buona, per quella sua innata predilezione allo sfoggio e alle delicatezze profumate del vivere. Guardandosi dunque nello specchio intanto che lo andava impolverando il parrucchiere Castini (il quale era tra i più rinomati del rione di porta Romana, e di cui noi abbiam conosciuto il figlio, celebratissimo anch'esso a' suoi bei giorni, finchè rimase oscurato dalla fama irrompente degli Scandelari, dei Migliavacca e dei Brambilla); guardandosi dunque nello specchio, moltiplicando l'idea di gioventù e di beltà che si vedeva innanzi agli occhi in tutta la sua seducente apparenza, per l'idea di ricchezza di cui un momento prima aveva veduto le cifre espressive sui mastri, ne cavò un prodotto che mise in fuga tutti i timori e le incertezze provate durante la notte; e per soprappiù, dalla finestra vedendo nel cortile il carrozzino di gala verde, rigirato intorno intorno da una ghirlandella dipinta ad oro, colore e ghirlanda che erano all'ultima moda, non gli sembrò vero che, investito dall'eloquenza di tutta quella pomposa apparenza e di quella innegabile sostanza, il conte V... potesse rimanere ostinato nel negargli quello che in fin de' conti, secondo lui, bisognava concedere. Con queste allegre idee pertanto, acconciato che fu, e mandato a dire al cocchiere che attaccasse, discese ancora un momento in istudio per dare alcuni ordini, poi salì nel carrozzino, e di buon trotto, passando il crocicchio del Bottonuto e infilando i Tre Re, e giù per la contrada degli Speronari e Spadari, e svoltando sulla piazza della Rosa, e quasi radendo l'edificio della Biblioteca Ambrosiana, riuscì sulla piazza di San Sepolcro. Ma qui avvenne quel che Galantino non avrebbe mai nè creduto nè voluto che avvenisse. Un'ora prima che egli uscisse dalla sua casa, agli sbocchi della contrada di Pantano, stavan fermi, a quello verso l'Ospedale, due uomini adagiati in sediolo, specie di curriculo che allora era molto adoperato dai viaggiatori commercianti, e in generale dagli uomini d'affari; allo sbocco poi che metteva alla contrada Larga stava un uomo a cavallo in abito civile. Quest'ultimo, quando vide uscir la carrozza dalla casa Suardi, diede di sprone al cavallo, facendogli fare due o tre caracollate, e tosto si mise in coda al carrozzino, mentre quasi contemporaneamente veniva raggiunto dai due uomini del sediolo.
— Or che si fa? disse uno di questi ultimi.
— Aspettate che si sia usciti di queste contrade di gente, rispose l'uomo a cavallo; s'egli sa ove deve andare, passerà di San Sepolcro. Quello è il luogo, e attenti.
Quando appunto la carrozza del Suardi attraversava la piazza di San Sepolcro e stava per svoltare nella contrada del Bollo, l'uomo a cavallo si spinse al galoppo, e si accostò allo sportello abbassando la testa e dicendo:
— Signor Suardi, si compiaccia d'ascoltarmi, e nel tempo stesso intimò al cocchiere di fermare i cavalli.
In quel punto il sediolo si fermò presso i cancelli dell'Ambrosiana, e mentre un uomo teneva il cavallo, l'altro si alzò da sedere, stando così piegato in sul dorso, e coll'occhio intento alla carrozza del Suardi, nella posizione di chi, ad un cenno, è disposto a balzar giù per accorrere.
Il Suardi si volse, il cocchiere tirò le redini, l'uomo a cavallo continuò:
— Mi perdoni, signore, se sono costretto a tenerla qui impacciata; ma l'eccellentissimo signor Capitano di Giustizia la invita a recarsi da lui un momento per un affare di urgenza; perciò, se non le rincresce, la pregherei di far subito voltar indietro la carrozza, e di andare al palazzo. Io la seguirò da lontano.
Quando un uomo è colto da un colpo inaspettato, in quel minuto secondo in cui balza da un ordine di pensieri ad un altro affatto opposto, le facoltà dello spirito assumono una velocità inconcepibile. La memoria, l'associazione, la riflessione, il giudizio, fanno in quel minuto secondo quello che tante volte non arrivano a fare in un giorno. La luce non è così rapida a correre di cosa in cosa, e a rischiararle tutte in un baleno. E così avvenne in quel punto del Galantino; si ricordò, s'interrogò, si rispose. Vide che quello era un agguato, pensò che qualcuno poteva e doveva aver dato un consiglio alla contessa; per la prima volta riconobbe con rabbia furibonda tutte le imprudenze da lui commesse; misurò il pericolo, calcolò quel che era da fare e non da fare; e pensato e riflesso tutto ciò colla velocità del lampo, si contenne, e calmo e gentile e sorridente, quantunque fosse pallido come la morte, tremante come un paralitico, rispose all'uomo a cavallo:
— Non occorre altro; e disse al cocchiere: torna indietro, e va in piazza Fontana.
Il Benvenuti nel conciso suo ragguaglio intorno a questo fatto dice, che «Alcune persone che erano in piazza, furono presenti a quella fermata, e, avendo riconosciuto che la carrozza era del Suardi appaltatore, hanno potuto credere che quell'uomo a cavallo e quelli nel sediolo fossero suoi addetti al servizio della Ferma generale, e fossero accorsi per dargli qualche grossa notizia che non patisse ritardo. Solamente qualche ora dopo si è saputo che il detto signor Suardi era stato condotto al Capitano di Giustizia nel suo stesso carrozzino di gala. La qual cosa arrecò gran stupore a tutti, e per il modo irregolare con il quale era stata fatta la captura, e per essere stato così trattato un uomo che con li danari e la prepotenza faceva stare tutti in gran rispetto».
Non siamo arrivati a capire che cosa il frate di sant'Ambrogio ad Nemus intendesse di dire colle parole: il modo irregolare con il quale era stata fatta la captura, salvo che non abbia voluto alludere all'uomo travestito a cavallo, e ai due altri travestiti in sediolo, i quali probabilmente saranno stati il barigello, o qualche tenente, con due fanti di Giustizia; e forse nella cattura avranno pensato di valersi di questo modo insolito, avendo un ragionevole sospetto che il Galantino potesse mai opporsi alla forza o deluderla, quando fosse stato colto in casa, e da uomini portanti insegne dell'autorità criminale. E recano pur meraviglia quelle altre parole del frate raccoglitore, con cui sembra quasi lamentarsi che la Giustizia non abbia portato rispetto a un uomo che aveva molti denari ed era prepotente. Sono esse però un segno fedele di quel tempo, di quegli uomini e di quei costumi; giacchè, o siano un'espressione sincera del frate o un'espressione ironica, quel che risulta si è, che il più delle volte la Giustizia chiudeva un occhio, o lasciava fare, o si comportava con gran riguardo ogni qual volta trovavasi al cospetto dei ricchi e dei prepotenti. Ed ora ritorniamo di volo in casa Pietra, per dare ascolto a quel che dice l'avvocato Strigelli.
Di tutto quello che abbiamo raccontato, recando in mezzo la testimonianza d'un contemporaneo, egli stava intertenendo il conte V... e donna Paola; lo Strigelli aveva mandato il proprio portinajo, che gli faceva anche da servitore, e uno scrivano del vegliardo Agudio, l'uno in contrada di Pantano, l'altro nel cortile del palazzo di Giustizia ad osservare e a tener nota di tutto, perchè ne portassero poi la notizia allo studio dell'Agudio medesimo. Ed ecco come spiega il brevissimo tempo in cui lo Strigelli stette lontano da casa Pietra, perchè, recatosi allo studio del suo maestro in contrada di Zecca Vecchia, colà trovò e il portinajo che gli raccontò come avea visto ad uscire la carrozza del Suardi dalla di lui casa, e a mettersi in coda ad essa l'uomo a cavallo e i due uomini in sediolo; e lo scrivano che gli disse di aver assistito all'ingresso della carrozza del Suardi nel cortile del palazzo di Giustizia, e al discendere del Suardi dalla carrozza per salir tosto lo scalone.
— Ora, soggiunse lo Strigelli a conclusione della sua relazione, siamo al sicuro da ogni colpo del Galantino, il quale poteva, egli è vero, fermarsi alle sole minaccie; ma poteva anche, nell'esasperamento della passione, mandare ad effetto quel che aveva minacciato. Ecco perchè s'è creduto bene di coglierlo così di sorpresa, perchè guai se fosse sfuggito alla Giustizia! Sarebbe stato pericoloso come un toro ferito, che chi gli si trova dirimpetto può far subito l'atto di contrizione, e non pensare ad altro. Ed ora non ci rimane che mandar sulle traccie della fanciulla, e già confido di averne il mezzo, e che, dentr'oggi o, tutt'al più, domani, ella debba essere qui in questa casa sana e salva, e, speriamo, anche contenta. Dico anche contenta perchè, per più riscontri, mi pare che la fanciulla si fosse davvero invaghita di quel ribaldo seduttore, ma voglio sperare che, quando avrà saputo chi esso è veramente, ogni illusione scomparirà, e il cuore sarà guarito.
— E qual è questo mezzo col quale credete di potere dentr'oggi trovar traccia della fanciulla? chiedeva il conte.
— Permettetemi di non aggiunger altro per ora, perchè non posso arrischiarmi a dare una promessa formale; però un tal mezzo è quello per cui domando licenza di partir subito di qui; perchè l'uomo che deve servire al mio intento, credo che, a quest'ora, si troverà ad aspettarmi nello studio Agudio.
E lo Strigelli partì.
L'uomo su cui faceva conto lo Strigelli e che, per le sue eccellenti ragioni, non aveva voluto nominare al conte V..., era il Baroggi, al quale, in quel colloquio con cui gli guastò il sonno, aveva raccomandato di recarsi il giorno dopo nello studio dell'avvocato Agudio in quell'ora che le sue incumbenze di finanziere gli avrebbero permesso, ma, se fosse stato possibile, non molto dopo il mezzodì. Se il lettore si ricorda, l'Agudio aveva tentato di beneficare il Baroggi in tutti i modi possibili, e per sostenere le sue ragioni contro il conte Alberico F... aveva messo sottosopra il diritto romano, lo statutario, il diritto razionale, tutti gli interpreti; aveva dato un'occhiata alle leggi dei re longobardi, messo a contribuzione persino le opere di etica allora più riputate, domandato persino un soccorso alla teologia; insomma tentati tutti i varchi per riuscire ad assediare la mente dei giudici colle forze combinate del diritto puro, del diritto positivo, della buona morale, del timore della vita eterna. Tutto indarno. Queste cose il Baroggi le sapeva, e però nutriva una gratitudine profonda per quel vegliardo così burbero e brusco in apparenza, così retto e pietoso in realtà. Per questa circostanza dunque, e per lo sgomento che aveva in petto, fu assai sollecito di mettersi in libertà per recarsi da lui.
Il vecchio Agudio, più che ottuagenario, non poteva più moversi dal letto. Non gli era rimasta che la lucidezza della mente e la dottrina. Teneva seco due giureconsulti praticanti che sotto il suo consiglio facevano, come suol dirsi, andare lo studio, tra' quali lo Strigelli era il suo prediletto.
Quando lo scrivano gli annunziò che era venuto il Baroggi, egli se lo fece venire innanzi e seder vicino al letto.
— Lascia che ti guardi in faccia, gli disse appena gli fu presso. La faccia è un frontispizio più sincero di quello de' libri. Però, senza tanti preamboli, ti dico che solo a guardarti si capisce che tu in questi giorni hai commesso qualche cosa che ti morde la coscienza.
Il Baroggi taceva, onde l'avvocato continuava:
— Non hai nulla di nuovo da raccontarmi?
— In caserma non si sanno le notizie del Capitano di Giustizia.
— Ah! dunque sai qualche cosa... Perchè dunque non mi dici nulla?
— Ho saputo adesso, prima di uscire dalla caserma, qualche cosa così in confuso; del resto vedo che il signor avvocato sa tutto.
— Sicuro che so tutto, e so anche che i birboni, se non è oggi sarà domani, sarà l'altro, ma viene il giorno che convien pure che paghino i debiti. Chi lo avrebbe detto che colui fosse per aprirsi una buca da se stesso, e lasciarsi cader dentro, come un semplicione, essendo pure più astuto del diavolo! Ma quasi sempre ai birboni avviene così. Il mondo non arriva a ghermirli, e si feriscono poi da sè medesimi, che è poi tutt'uno. E per un capriccio, per un amoretto, per una fanciulla. A forza di far birbonate impunemente e di credersi invulnerabili, finiscono a rimanere ubbriacati dalla medesima fortuna; perchè come mai si può credere che quel dirittone non sapesse che le ragazze non si possono rubare così per passatempo? Ma la fortuna gli ha dato alla testa; e così oggi è ritornato donde per miracolo ha potuto uscire quindici anni sono. Tu allora avevi cinque anni. Che bella cosa se in questa circostanza tu avessi avuto ancora quell'età! È così, caro mio, è così; e non farmi l'attonito, perchè so tutto; ed ora bisogna rimediarci, perchè quella povera donna di tua madre mi fa compassione; capisci?... mi fa compassione.
Il Baroggi si alzò da sedere inquietissimo, poi disse:
— Giacchè quel ch'è stato è stato, ho caro che il signor avvocato sappia tutto. Ma vorrei anche che ella si persuadesse ch'io non ci ho colpa; colpa propriamente no.
— Ma dimmi un po', balordo. Se un tale ti dice: Dammi un momento la tua sciabola, perchè mi occorre di ammazzare uno che mi dà noja; e tu non ti fai pregare e gli presti l'arma, crederesti di potertela cavar così per le belle?...
— Capisco bene; e pareva che il cuore, me lo dicesse.
— Ma infine c'è questa fanciulla?
— Oh, per questo c'è.
— Ma ci son molte maniere di essere.
— Che ho da dire? Si figuri che fu affidata alle cure di mia madre, la quale ora è una santa... e fin troppo.
L'avvocato a queste parole si alzò ritto in sulla vita come una vipera percossa, e:
— Anche tua madre mi dovevi tirare in ballo. Anche tua madre! insensato! — Questo è un precipizio, soggiunse poi; ma raccontami or dunque tutto l'avvenimento, senza ometter sillaba; tutto, capisci?
E il Baroggi raccontò al vecchio Agudio tutto quanto noi sappiamo.
In questa il giovane Strigelli, che non soleva nè farsi annunciare nè fare anticamera, entrò in stanza, e veduto lì il Baroggi:
— E così? domandò.
— L'affare è più serio di quel che avrei creduto, rispose l'Agudio.
Lo Strigelli si spaventò a tali parole.
— Parlo per questo ragazzo senza testa, soggiunse poi subito il vecchio. Tuttavia la figliuola c'è, e costui sa dove si trova; ma ora stupirai a sentire che sta in compagnia della madre di costui. Tu rimani di stucco... sfido io!... Imbrattarsi peggio di così non era proprio possibile; non ci voleva che questo balordo. Questo balordo che dovrebbe arar dritto più di tutti; e dire un'avemaria prima di fare il benchè minimo passo, prima di mangiare, prima di bere, prima d'andare a letto; perchè è di quei tali che son nati colla disgrazia in cuna; anzi colla disgrazia bell'e preparata nel ventre della madre; e a non camminare con tutte le precauzioni dell'equilibrio, o da una parte o dall'altra bisogna pure che caschino, perchè il maledetto destino non li abbandona mai un momento, e al primo scappuccio li agguanta. Or che si fa, caro mio?
— Intanto mandar tosto a pigliar le ragazze.
— Io stesso ci andrò, disse il Baroggi: basta che il signor avvocato Strigelli s'incarichi d'ottenermi il permesso dal mio capo.
— Tu starai qui, disse l'Agudio. Poi soggiunse, volgendosi allo Strigelli: Se le ragazze lo riconoscono, non c'e altro. Basta che costui dia l'indicazione precisa del luogo, e il signor conte manderà la sua carrozza a pigliarle; e tu stesso mi capisci, si tratta di prepararle, tanto la madre di costui che le ragazze, prepararle, si intende, a regolar le parole; ci andrai dunque tu stesso, e qui il Baroggi se ne starà a Milano ad aspettar che Dio gliela mandi buona. Va, dunque, e pel rimanente ascolta ciò che' ti dirà quella perla di donna Paola; va, e fa che, per questo lato, la fine rimedii al resto. In quanto a te, conchiuse poi rivolgendosi al Baroggi, puoi tornare in caserma, e se mai in questi giorni ci fosse da perlustrare il confine e da far le schioppettate coi contrabbandieri, va alla buon'ora, che non sarà mal fatto; e una volta che ti trovi al confine, così a cavallo dei due Stati, pensa che quella è aria sana... e tira colà le cose in lungo più che puoi, finchè qualche amico non ti faccia sapere che l'aria sana tira anche a Milano; ma sarà difficile. Or va, chè per te ho fatto fare anticamera a tre o quattro signori che aspettano da un pezzo.



III


L'avvocato Strigelli uscì dallo studio Agudio colla contentezza di un poeta che ha finito in quel punto un componimento al quale sia stata d'impaccio una strofa, che, per essere la conclusionale, aveva l'obbligo di riuscire la più felice di tutte. Uscì colla nota e l'indicazione del luogo in cui il Baroggi avea detto trovarsi le fanciulle insieme con sua madre, e tornò in casa Pietra. Il conte non era ancora partito; e l'avvocato, entrando nella sala colla gioviale baldanza di chi si sente quasi più padrone dei padroni di casa, interruppe un discorso che colui aveva avviato con donna Paola, esclamando:
— Or tutto è fatto, ed ogni nodo è sciolto, e ormai non rimane al signor conte che di far attaccare i cavalli; a donna Paola di mettere in mia compagnia quella buona vecchia che fu già la governante della fanciulla, e a me di pormi tosto in viaggio. Da qui a Como, trottando con focosi cavalli, ci voglion sei ore; da Como ad Asso... Ah, vedo che per oggi non si arriva in tempo, e non si fa nulla, e bisognerà che la signora contessa abbia la pazienza di aspettar fino a domani ad abbracciare la sua figliuola... Ma noi stiamo qui, e non pensiamo a dar questa notizia alla contessa... Ma dov'è la contessa?... Voglio sperare che risorgerà da morte a vita, quando sentirà di che si tratta. Mi conduca dunque, donna Paola, dalla contessa... Signor conte... andiamo a trovar la contessa.
E l'avvocato, senz'altro, tant'era trasportato dalla compiacenza d'aver fatto quello che forse nessun altro avrebbe saputo fare, già s'avviava all'appartamento dove sapea trovarsi la madre di Ada. Donna Paola si mosse ella pure, volgendo al conte un'occhiata più eloquente di qualunque discorso; e il conte la comprese e guardò a lungo donna Paola, e questa volta anche l'occhio di lui, per consueto insignificantissimo, espresse mille cose; e seguì donna Paola, a passo lento e colla testa piegata sul petto, e attraversò insieme le stanze intermedie. Ma quando ella entrò in camera della contessa, precedendo l'avvocato e il conte per annunziarli; nel punto che, dopo quindici anni, egli sentì, stando di fuori, la voce di donna Clelia, si trattenne un momento, e lasciò che entrasse lo Strigelli. E stette così un poco perplesso; poi, come se a un tratto fosse respinto indietro da più uomini vigorosi sbucati d'improvviso per scacciarlo di là, retrocesse, e con passo concitato ritornò nella sala di ricevimento, e si gettò a sedere nella poltrona, percuotendo gli stivali con forti colpi di scudiscio; si alzò di nuovo e si mosse per ritornare dond'era fuggito, e di nuovo retrocesse, e tornò a sedere nella poltrona. Lo Strigelli e donna Paola intanto, fattisi intorno alla contessa con quell'impaziente sollecitudine dei buoni che non vogliono ritardare altrui una consolazione, non si accorsero al primo che il conte fosse rimasto fuori, e:
— Or dunque si rallegri, signora contessa, disse lo Strigelli.
— Coraggio, la mia cara Clelia, disse donna Paola. Qui il nostro avvocato parte a momenti colla carrozza del conte per andar a prendere la vostra figliuola.
La contessa, alzandosi a quelle parole dalla seggiola, respinse con violenza la cameriera che in quel punto stava ravviandole alla meglio lo scompigliato tupè, e:
— Voi andate a pigliar mia figlia, domandò all'avvocato; ma sapete dove si trova?
— Ecco qui... rispose l'avvocato. Da Como bisogna andare in Vallassina, a una villetta in riva al Lambro tra Scarenna e Caslino. Là vivono in solitudine e in devozione la vostra figliuola e la figlia del Crivello, essendo state affidate, cosa di cui stupirete, alla custodia della madre del Baroggi; la quale, come ognun sa, è tra quelle che oggidì a Milano logorano di più le panche delle chiese.
La contessa non ebbe tempo di maravigliarsi di questa, che pur doveva essere per lei, stranissima notizia. Ma rivoltasi alla cameriera:
— Spàcciati dunque, che non c'è tempo a perdere. Credo bene che si partirà subito subito? soggiunse poi rivolgendosi allo Strigelli.
— Quel che si dee fare si dee far tosto. Ma la signora contessa, giacchè ha avuto tanta pazienza fino ad oggi, la prolunghi fino a domani, e voglia persuadersi che è molto meglio che io parta solo colla cameriera qui di casa, che fu già governante della ragazza. Anche il signor conte voleva venire in persona ad accompagnarmi, ed io l'ho persuaso... Ma dov'è il signor conte, domandò a donna Paola, non è egli entrato qui con noi?
— S'è fermato di là, ella rispose, perchè non si permise d'entrare prima che...
E donna Paola, interrompendosi ad arte, guardò la contessa, pigliandola per mano e stringendogliela con gran significazione, senza dir altro, perché non voleva che lo Strigelli fosse testimonio di quella soverchia ostinazione della contessa.
Ma questa, senza dar peso nè alle occhiate nè alle parole nè alla stretta di mano:
— Non sarà mai, avvocato, soggiunse, che io debba fermarmi a Milano ad aspettare. Non sarà mai.
— Quand'è così, faceva osservare donna Paola, stiamo a quanto vorrà il conte... Lasciate fare, avvocato... Se ella sa pregare il conte in modo che esso le permetta d'andare a prendere la figliuola, lasciate fare. Suvvia dunque, andiamo di là, cara Clelia, e giacchè avete questa smania, troppo giusta del resto, d'andare voi stessa in compagnia dell'avvocato, saprete trovar le parole da persuadere il conte. Non è vero, avvocato? e a costui ammiccò, volendo significargli che venisse in suo soccorso. Io vado di là e vi precedo... e la mia cara Clelia avrà la bontà di venir subito a parlare al conte... Così si parte... sull'istante... e riabbraccerete la vostra Ada stasera invece di domani.
E, senza attendere risposta, donna Paola uscì, recandosi nella sala di ricevimento.
Il conte era ancora seduto in poltrona, colla testa appoggiata al braccio sinistro puntato sulla sinistra coscia, mentre, per un movimento macchinale, andava percuotendo collo scudiscio che aveva nella dritta il soppedaneo della sala.
— Signor conte, disse donna Paola, parlandogli stando di dietro del dosso della poltrona, quella povera contessa vorrebbe pregarvi... anzi sta per venir qui...
—Che!? esclamò il conte alzandosi di subito e volgendo in giro gli occhi torvi.
Gli uomini della natura del conte V... sono sempre perplessi intorno a quello che debbono fare; inoltre avendo una debole intelligenza, finchè il cuore può andar liberissimo ne' suoi slanci, tutto va bene, e qualche volta da uomini di tal fatta, a pigliarli con garbo, se ne cavano grandi cose; ma guai se d'improvviso tra gli slanci del cuore si inframmette qualche bisbetica riflessione della mente! Di tratto s'impennano e retrocedono da quella via su cui il sentimento spontaneo gli avea fatti correre fin con troppa velocità. S'impennano e non sono poi capaci di dissimulare pur un pensiero fuggitivo da cui sieno molestati. Un altro uomo, nella condizione del conte, dal momento che si fosse indotto a recarsi in casa Pietra, fatto quel primo passo, non avrebbe esitato a far tutti quelli altri che erano comandati come una conseguenza necessaria. Ammesso il principio di voler essere indulgente, e mostrarsi, quel che suol dirsi, un uomo di mondo, e di concedere tutto il suo pieno sviluppo a quella pietà, a quell'affetto che spontaneamente eragli pur nato in cuore, toccava a lui a pigliar l'iniziativa in tutto, toccava a lui a preparare, se va l'espressione, il piano inclinato per cui la contessa, senza il pericolo di troppo gravi scosse, potesse, dopo quindici anni d'assenza e dopo quanto era successo, non sentirsi umiliata a venire in apparenza di penitente contrita al cospetto del marito oltraggiato.
Ma il conte si comportò tutt'all'opposto. Aveva lasciato in prima che il cuore facesse quel che volesse; poi, al contatto di alcune circostanze che trattennero il libero slancio del cuore, sottentrò la riflessione; e questa riflessione, non essendo quella di un intelletto forte fece sì ch'egli, al fatto del non aver mai veduto a comparir la contessa in tutto quel tempo che stette in casa Pietra, non desse nè la più ragionevole nè la più benigna interpretazione.
Quando fu per entrare nella camera di lei e ne ebbe sentita la voce, retrocesse, percosso improvvisamente dall'idea che fosse per accoglierlo male; e questo argomentava da ciò appunto ch'essa la contessa, mentre sapeva ch'egli era lì da tanto tempo, non s'era mai degnata di uscire dalla sua camera e di venire a lui, che pure s'era mosso per amore e di lei e della sua figliuola. Retrocesse dunque con dispetto a questa idea, e si pentì d'esser venuto lì; e un pensiero portandone seco altri della stessa natura, di quel complesso di cose che alla mattina lo aveva intenerito, gli si mostrò in quel momento il rovescio che gli rinfocava invece gli sdegni. Ma in quel punto comparve sulla soglia della sala la contessa Clelia, preceduta d'un passo dal giovine avvocato Strigelli.
Era da quindici anni che il conte e la contessa non si vedevano. Però, quand'anche e l'uno e l'altra si fossero trovati in una diversa condizione d'animo e di cose, sarebbe sempre stato pieno di turbamento e di solennità quell'istante del rivedersi dopo che de' fatti gravissimi li avevan tenuti divisi per tanto tempo. Or pensi il lettore come si accrescesse quel perturbamento, e come fosse fatta angosciosa e terribile quella solennità, nella stanchezza di spirito onde era sopraffatta la contessa, nel fremito iracondo onde era colto in quel momento il conte.
La faccia di lui, il suo corpo stettero immobili alla vista della contessa, come se una virtù arcana vi avesse comunicata la rigidezza inalterabile di una figura marmorea. In quanto alla contessa, che, e per le parole di donna Paola e per quelle dello Strigelli, si attendeva dal conte il più benigno accoglimento, si rattenne più attonita che spaventata, vedendo quell'occhio torvo e quel viso arcigno, e non osò fare un passo di più, e si volse allo Strigelli come se gli dicesse:
— Or che v'ho detto io?...
Donna Paola, che non s'era atteso quel repentino mutamento nei modi del conte; lo Strigelli, che aveva incoraggiata la contessa a venire al cospetto del marito, coll'assicurarla ch'esso la stava attendendo colla più benigna disposizione d'animo, non seppero trovar parole per togliere la contessa dal suo imbarazzo, per ispianare la fronte accigliata del conte.
Ma questi che era impacciato al pari degli altri, vedendo la pallidezza sepolcrale della contessa e gli occhi di lei notabilmente alterati dalle traccie del pianto, sentiva in sè il ritorno d'una irresistibile compassione, e il dispetto di non poterla tener lontana, onde quasi per deviarla:
— Or perchè, proruppe con iracondia che varcava ogni convenienza, non mandate tosto, signor avvocato, a far attaccar i cavalli... invece di star qui a far... a gettare il tempo inutilmente?
A codesta esclamazione del conte, la contessa, consigliata Dio sa da che, e probabilmente dalle continue esortazioni di donna Paola, uscì dalla propria immobilità e si avvicinò al marito, e:
— Giacchè vi pigliate tanta premura per la mia figliuola... lasciate che vi ringrazii...
Queste semplici parole proferite in suono di pianto dal labbro della contessa cangiarono a un tratto l'espressione alla faccia del conte.
E donna Paola, la quale stava come attendendo quella risoluzione:
— La contessa, entrò sollecita a dire, vi prega di volerle concedere d'andare ella stessa in compagnia dell'avvocato a prender la figliuola.
— Ma, e tocca a me, rispose il conte, a dare un tal permesso? e non è ella sua madre? E ciò disse con voce alterata ed alta, ma con quell'accento particolare degli uomini burberi, i quali non hanno altra paura che di parer buoni; accento in cui, di sotto al suono dell'ira che soverchia per l'atto della volontà, si sente come a fremere il suono della pietà che il cuore, a dispetto del dissenso mentale, non può a meno di lasciar trapelare. E il conte non potè proseguire, perchè la contessa, abbracciando donna Paola, diede in un violento scoppio di pianto, che fu l'ultimo di quei procellosi giorni e di quel giorno; chè, senza più oltre protrarre una tal scena, trattandosi che anche noi, che abbiamo i nostri fastidj, sentiamo il bisogno di confortare lo spirito con qualche spettacolo un po' più lieto, diremo che fu mandato un servitore a far attaccare i cavalli alla carrozza da viaggio del conte; che la carrozza entrò dopo qualche tempo nel cortile di casa Pietra; che la contessa vi salì, dandole il braccio lo stesso signor conte, il che è un gran buon indizio; che l'avvocato sedette alla sinistra di lei, e così partirono ambidue di trotto serrato, rimanendo il conte per tutto quel giorno ed anche a pranzo insieme con donna Paola, a parlare di tante e tante cose, per le quali possiamo sperare di poter assistere finalmente ad una giornata del tutto sgombra e serena, dopo tanti giorni di pioggia inclemente.



IV


L'arresto di Andrea Suardi, del quale il pubblico, per uno di quegli sbagli che non si sanno come spiegare, si era dimenticato in que' giorni, fece l'effetto d'un congegno che s'intrometta fra i raggi della ruota centrale d'un mulino, la quale ferma di punto in bianco tutte le ruote minori che in essa imboccano. Vogliamo dire che la calunnia colossale che avea investita la riputazione persino di donna Paola, fermandosi di colpo, arrestò tutte le mille congetture che figliarono da quella, con gran dispiacere di coloro che le avevano messe in corso, e vedevano crollare come per incanto un edificio a cui tanto volentieri avevano portato la loro pietra. E contemporaneamente alla fermata di quella ruota che aveva girato velocissimamente e aveva fatto girar tante teste e muovere tante lingue, quel nome del Galantino balzato fuori all'impensata fu causa che una quantità innumerevole di persone si dessero del balordo a vicenda, perchè a tutte quante non sembrò vero di non aver tosto messi gli occhi su colui che, solo fra tutti, presentava i veri requisiti indispensabili per essere il primo a cadere sotto al pubblico sospetto. E nel tempo stesso vi fu un rinnovamento di tutte le dispute calorose che si eran fatte pochi giorni prima tra coloro che stavano contro donna Paola e quelli che la difendevano; i secondi, riscaldati dal trionfo, si ricattavano delle offese ricevute; i primi, umiliati dalla sconfitta, si ritraevano affannandosi di dare speciose interpretazioni a quanto avevano detto. Però i rabbuffi cessaron presto, perchè il ritorno del Galantino alle camere dell'albergo del Capitano di Giustizia, come lo chiamavano i buontemponi gioviali, fu un avvenimento così saporito per tutto il rispettabile pubblico milanese, che tutti furono ben contenti, per un così lauto cambio, di dover rinnovare e rinfrescare la loro stima e venerazione che avevano per donna Paola Pietra. Il pubblico è talvolta come i fanciulli: — ha bisogno d'aver qualcosa in bocca da rosicchiare, e qualche oggetto tra mano da stritolare, sempre disposto ad abbandonare quello che ha in proprio potere, quando se gliene getti un altro su cui sfogarsi come gli par meglio. Questo caso poi del Galantino, per il pubblico, torniamo a ripeterlo, era davvero un piatto appetitoso. La ricchezza del Suardi, e le altre sue qualità abbaglianti compreso il magnifico suo cavallo normanno colore isabella, col collo ad arco e la prolissa criniera bruna, aveva come imposto alla pubblica opinione; e se tutti strillavano contro i fermieri ladri, come di consueto que' signori venivano chiamati dalla ciurmaglia che non misura le parole, l'ira era piuttosto rivolta contro i tre capi principali che contro del Galantino, il quale veniva come scusato dalla sua condizione di appaltatore in secondo. Qualche volta è una compiacenza curiosa che ha la moltitudine di far la corte all'uomo che manifestamente è protetto dalla fortuna; ma guai se ella s'accorge che la fortuna abbandona il suo protetto! Allora fa in un istante quella diversione per cui la fortuna ha impiegato molto tempo, e si rivolta infuriata contro quello stesso che in prima aveva blandito, talchè se le parole del pubblico fossero sassate, il derelitto cadrebbe morto in piazza, prima che la giustizia arrivasse in tempo a giudicarlo.
— Birbone lo si conosceva, ma scellerato fino a questo punto no, dicevan gli uni. E all'ombra delle foglie di tabacco doveva giungere fino a questo di diventar sacrilego, dicevan gli altri. Questo è il caso di dar un esempio, gridavan tutti, e giacchè in piazza c'è la ruota, farlo andare come al girarrosto: lui e i suoi tre colleghi. Questo s'intende. Ma lui al primo posto. Oh, questa volta non gli sarà così facile di canzonar la giustizia e l'aspettazione pubblica, come ha fatto tanti anni fa. Se il Senato lo rimanda assolto, è il caso di rivoltarsi contro al Senato. Chi si fa pecora la mangia il lupo. Chi vuole può. La trambussata nel convento di San Filippo, i cinque morti e il coraggio dei frammassoni hanno fatto l'effetto, e l'editto del 6 aprile fu levato jeri da tutti gli angoli della città. L'editto è del 6 aprile... e il birbone acquistò la casa presso al convento pochi giorni dopo. La trama era dunque già bell'e ideata da questo scellerato.
Questi dunque, o di tal genere, erano i parlari del pubblico; e in ragione che l'odio cresceva e si versava tutto sulla persona del Galantino, nasceva l'entusiasmo per gli altri; nasceva per i Frammassoni di cui s'era chiusa la loggia di San Vittorello; prorompeva per il giovane lord Crall, di cui si esaltavano a cielo le virtù; cresceva la venerazione per donna Paola Pietra a un punto che non è imaginabile. Quando poi corse per tutta la città la notizia, che l'avvocato Strigelli aveva scoperto il luogo dove le fanciulle erano state nascoste, e che, in compagnia della contessa Clelia V... nella carrozza del medesimo signor conte colonnello, era partito per ricondurle a Milano; fu un delirio universale, e più ancora quando si vociferò dell'acutezza sapiente e mirabile di donna Paola che aveva ella sola provocato tutto questo, e aveva colto l'occasione d'una sventura gravissima per far venire a Milano la contessa V.... e perciò aveva ottenuto quel che nessuno avrebbe potuto aspettarsi; che cioè il conte colonnello V... dopo quindici anni si trovasse insieme colla moglie, e dessero così il buon esempio della riconciliazione e del pentimento e del perdono. Perchè i servi di casa Pietra avevano palesato ogni cosa; i servi che, se non sanno tacere gli scandali segreti dei padroni, hanno poi anche la smania, bisogna dir il vero, di propalare le loro virtù, se ve ne sono, e i loro bei fatti, e persino d'esagerarli. Però gli elogi che corsero quella sera della contessa Clelia V... varcarono la misura iperbolica di un panegirico convenzionale. Essa era più grande quasi dell'Agnesi, al cospetto della scienza; più degna di compassione che la Maria Stuarda, al cospetto della sventura e della persecuzione; più rassegnata e più costante di tutte, al cospetto dell'espiazione; se niente niente continuava di quel passo, poteva aspirare ad un posto nel martirologio. Quanto poi a bellezza, le più fresche e leggiadre giovinette potevano nascondersi tutte, eclissate dagli splendidi avanzi della sua: ad eccezione però della sua figliuola, di quel caro angelo di Ada, la quale, insieme colla madre, poteva bastare a provar che la città di Milano era la prima nel vanto della beltà femminile; che Venezia non poteva aver nulla da contrapporre di meglio, che Genova e Bologna e Ferrara, le quali menavano tanto scalpore per le loro donne, avrebbero dovuto dar le mani, vinte nel veder queste due. Con tutta quella buona disposizione del pubblico all'entusiasmo verso le persone che abbiamo nominate, fra cui è pur da includere il conte colonnello V..., che è tutto dire, giacchè aveva un segreto affatto suo di saper venir in uggia ai conoscenti, ai parenti, agli amici, a tutti; si figuri dunque il lettore l'effetto, diremo, invadente che fece quando si sparse per la città la notizia che la signora contessa V... e l'avvocato Strigelli erano tornati in compagnia delle fanciulle. E tanto più fu grande l'effetto, in quanto era pur stato generale il dubbio sulla difficoltà di rinvenirle; generale il timore, che, nel punto stesso di ritrovarle, fossero per dar fuori nuovi disastri e nuovi affanni. Appena dunque si sparse quella felice nuova, fu un accorrere di tutti i parenti della contessa, della madre, della sorella, del fratello, per congratularsi con essa; fu un affaccendarsi di tutti gli amici del conte per lodarsi di lui e della sua generosità. E la cosa andò tant'oltre, che l'intensa gioja di pochi si comunicò a tutta la popolazione, e quella gioja fu così viva, che, siccome voleva un costume curioso venuto dalla Francia, si credette perfino di dover palesarla con atti di pubblica esultanza.
Nel 1735, quando Luigi XV, il prediletto, fu assalito da una pericolosa malattia che aveva fatto temere della sua vita, nel punto che stava per toccare l'età maggiore, la costernazione di tutto il popolo parigino fu tale, che si manifestò rivoltandosi contro il reggente duca d'Orléans, sul quale aveva pesato la più atroce calunnia, per essere avvenuta quasi simultaneamente la morte della madre, del padre, del fratello maggiore di Luigi. Gli odj del pubblico contro il Reggente erano anche rinfocati dai disordini che in Francia aveva prodotto il sistema di Law, che il duca aveva protetto. Tutti adunque, credendo nella scellerata ambizione del Reggente, tenevano per certa la morte del giovinetto re. Ma la fortuna volle che un salasso opportunamente e coraggiosamente ordinato dal medico Helvetius, contro il parere dei colleghi, salvasse invece i giorni di Luigi. È indicibile il trasporto che ebbe il popolo per tale notizia. Il Reggente, a confondere la calunnia, presentò il giovane re al popolo radunato. Fu in quell'occasione che la fantasia parigina trovò di manifestare l'insolita allegrezza in un modo insolito, introducendo per la prima volta i così detti banchetti di famiglia fatti alla porta delle case col favore delle belle notti d'estate.
I pubblici d'Europa, quando seppero le novelle di Parigi e la guarigione del giovine monarca e il modo nuovo e bizzarro di festeggiarla, non sappiamo fino a che grado dividessero la consolazione del popolo parigino, ma sentirono un sincero entusiasmo per coloro che avevano inventato quel nuovo metodo di stare allegri, e una smania che, si presentasse presto un'occasione appena appena ragionevole e plausibile per introdurre in patria quel così splendido trovato, e per applicarlo in modo da non rimanere addietro degli inventori.
La città di Milano fu probabilmente la prima in Italia che tentasse in ciò di emulare la maggior Parigi. Se le invenzioni veramente utili all'umanità fossero sempre tanto fortunate e rapide nella loro diffusione quanto questa dei banchetti di famiglia alle porte delle case, come si tormenterebbero meno i veri amanti del ben pubblico! Quanto risparmio di parole, di discussioni, di guerre, di odj, di contumelie. Quante ossa di meno sarebbero state slogate; quanti dolori e ingiustizie risparmiate a molti innocenti sventurati se il libro dei delitti e delle pene, per esempio, avesse avuta una così sollecita applicazione come codesta invenzione parigina!
La città nostra attese dunque impaziente la prima occasione per poter farsi onore a banchettare in istrada col favore delle belle notti e delle stelle e della luna. In mancanza di un re adolescente che scampasse da morte, si accontentò, tanto per far presto, della nascita del primogenito di qualcuna fra le più ricche e cospicue famiglie; di qualche splendido matrimonio che avesse fatto sbattere le ali e spiegare il canto di tutti quanti i cigni del Ducato; in un bisogno (e allora i banchetti si limitavano, al giro del rione o della parrocchia) si accontentarono anche dell'ingresso solenne di qualche nuovo curato o prevosto alla sua chiesa. Col tempo, se mai nell'anno non si fosse presentato uno di que' tali matrimonj che fanno epoca, o la nascita di qualche primogenito più aspettato del solito, celebrarono invece la vigilia di qualche solennità festiva. A quella di san Pietro, per esempio, che cadeva in estate, era diventato di pratica il banchettare alla serena per tutta la città. Di tali banchetti generali v'erano quelli che riuscivano più o meno splendidamente, e questo dipendeva dalle maggiori o minori elargizioni dei festeggiati, i quali, in certe contingenze, avrebbero forse preferito di essere in odio al pubblico, perchè le casse forti se ne risentivano di quel tripudio universale. Celebre tra gli altri era stato il banchetto generale dato a Milano nel 1760 per la nascita del primogenito delle loro eccellenze don Alberico conte di Cunio, Barbiano; Lugo, Belgiojoso, marchese di Grumello, ecc., e donna Anna Ricciarda, principessa d'Este e del sacro romano Impero, al quale fu padrino S. E. il signor conte Carlo di Firmian, e che fu cantato da molti cigni, i quali deposero le loro uova in una raccolta poetica, in cui, fra tanti nomi oscurissimi, compare ultimo il Parini, forse perchè allora non era che semplice abate e non era ancora uscito il suo Mattino. Guai dunque che si trascurasse l'occasione di convertire in allegria pubblica una gioja domestica!
La smania del divertirsi era molto maggiore nel secolo passato che nel nostro, e nel popolo v'era una corrente assidua di buon umore e di bonarietà che oggidì venne languendo per mille circostanze; per di più il popolo, nelle sue relazioni col più ricco e cospicuo patriziato, si trovava quasi nella condizione degli antichi clienti di Roma: provava davvero una gran gioja alle gioje dei principali casati, si gloriava delle loro glorie, pareva quasi che le loro ricchezze fossero sue, onde si affannava a decantarle, a magnificarle, ad esagerarle a' forestieri. Le nuove idee, di cui il lievito andava gonfiandosi a Parigi, s'erano trasfuse allora soltanto in alcune teste che avevano imparato a girare lo sguardo in una sfera di che il vulgo non sospettava nemmeno l'esistenza. Con questa bonarietà nativa, non turbata da nessun grave avvenimento, con questa prosperità materiale della vita, con questa tranquillità dello spirito, mantenuta nei più bassi ordini dall'ignoranza che li faceva contenti di quello che avevano e della protezione de' gran signori, con questa smania per l'allegria che dai padroni era passata ne' servi, e da un ordine all'altro; per quell'agiatezza conservata dalle compatte e numerose confraternite e maestranze di tutte le arti e mestieri, onde ciascuna aveva sempre in pronto grosse somme di denaro, raccolte dal contributo di tanti, e che talvolta volentieri si erogavano per star allegri, sotto pretesto di qualcosa di più importante; è facile a comprendere come il pubblico prendesse amore ai pubblici festeggiamenti, e andasse perciò continuamente a caccia di buone occasioni.
Nel giugno di quell'anno 1766 era da qualche tempo che non si offriva un motivo plausibile per far qualche cosa. Ora mancavano due giorni alla festa di san Pietro quando venne a Milano la contessa Clelia V... in compagnia della sua figliuola Ada e di donna Giacoma dei marchesi Crivello, e si sparse la notizia del come, del dove, del quando erano state ritrovate; e alla moltitudine parve quasi di veder un miracolo in ciò, non sapendo spiegare come quello scellerato di Suardi avesse potuto affidarle alla custodia di una Santa: indizio manifesto che un angelo custode si era espressamente incaricato di esse.
Tutti pensarono di conseguenza essere quella una occasione mirabile per dare un banchetto generale che superasse in isplendore tutti i già fatti. Il conte colonnello V... per aggiunta si chiamava Pedro. Potevansi così celebrar più fatti in una volta: il ritorno della contessa V... a Milano, la sua riconciliazione col marito, la salvezza miracolosa di quell'angelo della fanciulla Ada, la salvezza della figliuola del Crivello, il giorno onomastico di don Pedro conte V..., la solennità della festa di san Pietro. Gli ingredienti erano piuttosto troppi che pochi.
La notte era già alta, quando una fitta moltitudine di persone, di quelle che, o per mandato altrui o per volontà propria, sono sempre alla testa delle pubbliche manifestazioni, si portarono sotto le finestre del Palazzo Pietra Incisa a gridare con tutta quella voce che loro era disponibile: — Viva donna Ada V..., viva donna Paola, viva la contessa Clelia, viva il conte, viva tutti, in una parola; e l'entusiasmo, il quale si condensa per virtù propria, andò al punto che alla contessa Clelia e a donna Ada fu necessità il mostrarsi dal balcone alla moltitudine schiamazzante.
Quando le due figure della contessa e della sua figliuola comparvero tra due livree che portavano i lumi, non è a dire a che diapason salissero le acclamazioni della moltitudine, trasportata da quello spettacolo commovente e leggiadro. La faccia di donna Clelia, colorata in quel punto da tante emozioni e lumeggiata per soprappiù dalla tinta calda della fiamma, anzichè la madre, sembrava la sorella maggiore di Ada. E questa osservata colà presso la contessa, potea sembrare una copia più in minuto di quell'augusta figura, copia eseguita da un artista più morbido e più squisito. Il suo volto giovinetto raggiava di una gioja alquanto soffusa di mestizia, e con ambedue le sue leggiadre manine tenendo la mano della mamma, pareva quasi che si ricoverasse presso di lei, come sopraffatta da tanta moltitudine che la chiamava a gran voce. Ma per dipingere degnamente codesta scena ci vorrebbe il pennello di Gherardo delle Notti; in quel modo che ci converrà domandar consigli alla tavolozza del Canaletto e del Guardi, quando, tra poco, faremo il giro della città, passando in carrozza in mezzo ai banchetti notturni in compagnia della contessa e della sua figliuola: — noi intenti a certi nostri studj speciali, esse tutte occupate a rispondere ai saluti e agli applausi del pubblico mangiatore e bevitore.



V


Vi sono città la cui storia è tutta una disgrazia, come la biografia di qualche infelice nato sotto la cattiva stella; città che nemmeno coi sacrificj possono placare la maldicenza; di cui i meriti e le virtù reali e le apparenti sono disconosciute e passate in silenzio; di cui i benefizj sono retribuiti d'ingratitudine; città che, al pari di qualche padre, di qualche madre, son disprezzate e bistrattate persin dai medesimi figli. Ci vorrebbe, per esempio, un bel talento a sostenere che la città di Milano sia stata il beniamino della sorte. Ella ha avuto le sue grandi pagine storiche al pari di chicchessia. Ella ha avuto qualche momento in cui fu piuttosto la prima che l'ultima; e questo momento, sebben sien corsi molti secoli, è stato, salvo errore, forse il più glorioso di tutta la storia d'Italia. Ella ha dovuto ed ha voluto patire e dissanguarsi per sè e per gli altri. Ella ha dato il suo contingente d'uomini grandi a tutte le discipline che fanno la civiltà; ella ha murato i suoi giganteschi edifizj, ella ha dato la sua schiera eletta di artisti per decorarli; ella fu così gentile e così amante del grande, del bello e del buono, che qualche nobile intelletto, mal compreso e infelicissimo altrove, raccolse qui le sue tende, e qui diventò famoso. Dopo tutto ciò è una gara universale di ripetere quel che Alfieri già disse in quel celebre sonetto, dove, lacerando le genti d'Italia come pagine di un libro che si disprezza, sentenziò che i Milanesi non sanno far altro che mangiare:


I buoni Milanesi a banchettare;


sentenza che Foscolo, forse a gratificarsi la grande ombra del suo modello, peggiorò e trasmutò e condensò in quel tal predicato disprezzativo che non amiamo ripetere. È dunque destino l'essere maltrattata in verso e in prosa, l'essere ingiuriata anche dagli uomini sommi e santi. Persino i suoi figli fanno a gara nel percuoterle ad ogni ora il seno abbondantissimo di latte nutriente; e noi stessi che diciam questo e parrebbe quasi volessimo prenderci l'impegno di difenderla, noi stessi ci assumiam l'incarico, per usare una frase d'ingegnere di campagna, di ricevere la consegna di tutti i suoi elementi materiali e morali che la compongono, in un momento che tutta quanta ella sta abbandonandosi ai piaceri del banchettare. Tuttavia noi non crediamo di offenderla, perchè, avesse ella pure avuta in addietro questa geniale tendenza, e che vuol dire perciò? Non sempre si deve creder nell'allegria di coloro che sembrano allegri; spesso l'uomo da cui più scoppietta la facezia, è il più melanconico di tutti: talvolta è un modo tutto suo di salvarsi dalla pressura dell'affanno. Chi più si tuffa nell'onda di Lieo, creperebbe d'amarezza se non esilarasse con esso il percosso ingegno. Ci fu un savio che quando vedeva taluno ebbro più del solito, e per gli effetti dell'ebbrezza intento a tenere in giocondità la brigata: Dio sa quanto costui ha sofferto! pensava tra sè, e convertiva in pietà quel primo senso di gajezza che in lui destava la presenza dell'uomo eccitato dai vapori del vino.
La città nostra sotto il martello di Uraja, nell'eccidio del Barbarossa, in mezzo ai cani di Bernabò, nei tradimenti onde abortì il triennio decorso dall'ultimo Visconti al primo Sforza, fra i pidocchi dei lanzichenecchi e le atroci guasconate dei gendarmi dei re di Francia, quasi a dare uscita all'affanno che minacciava di scoppiarle di dentro, ebbe sempre pronto l'aculeo della sua strofa vernacola che celò il pianto sotto alle risate gioviali e sonore; e lo celò al punto che quasi parve indifferente alle vecchie ingiurie, ai dolori nuovi, alle minaccie del peggiore avvenire; e forse fu allora che cominciarono a tenerla in basso conto quelli che, non sapendo che piangere come fanciulli battuti, non riuscivano a comprendere come si possa bere la cicuta ironicamente ridendo come Socrate. Da queste riflessioni il celebre verso d'Alfieri potrebbe dunque ricever l'ultimo e il più vero suo commento, e l'insulto di Foscolo verrebbe a ribadire il frons prima decepit multos di Fedro. A ogni modo, nel secolo passato l'allegria della nostra città era sulla sua superficie com'era nelle sue viscere. Ella si era dimenticata delle sue antiche miserie, e non viveva in timore d'un peggiore avvenire. S'era adagiata sul triclinio in pace, e non attendeva che a darsi buon tempo. Ma tutta l'Italia e tutt'Europa facevan lo stesso. Venezia bella pareva non voler più ricordarsi di Venezia forte. Parigi tripudiava come una baccante ubbriaca, eppure se ancor non le muggiva il vulcano dappresso, già ne usciva il fumo dal cratere. Ma è codesta una condizione inevitabile così dei popoli come degli individui, di non pensar più alle cose serie, nel punto stesso che lor si stanno maturando i gravi avvenimenti. Ed ora ritornando donde siamo partiti, alcuni fra quelli che più avevano schiamazzato sotto al balcone a cui dovettero affacciarsi donna Clelia e donna Ada, entrarono nella casa e domandarono di poter parlare alla padrona. Erano alcuni priori di maestranze che chiesero, affermativamente, ben s'intende, di festeggiare nell'occasione della prossima vigilia di san Pietro il ritorno della contessa, e il felice ritrovamento della sua figliuola. Noi crediamo che la contessa avrebbe volontieri fatto senza di quella pubblica dimostrazione, e probabilmente anche il conte; ma non essendo di prammatica il rifiutarsi, perchè il rifiuto non significava che il desiderio di risparmiare quel migliajo di zecchini, di cui tante quote entravano in quante erano casse di maestranze; espressero a quei bravi maestri operaj, colla consueta fraseologia della modestia di convenzione, la loro gratitudine; e si chiamarono assai felici, quantunque non meritevoli, di essere tanto onorati. Onde quei priori, usciti di casa Pietra, si recarono tosto alla casa Crivello a farvi anche colà un'abbondante messe di gratitudine.
Adempiuto a questi preliminari, su tutti gli angoli della città si affissero gli avvisi che la vigilia della festa di san Pietro vi sarebbe stato banchetto generale notturno alle porte delle case, e questo a glorificazione del Santo, e ad esultanza pubblica pel miracolo avvenuto nelle persone delle nobilissime zitelle donna Ada del conte V... e donna Giacoma dei marchesi Crivello.
In sabato dunque era stata fatta la dimostrazione sotto al balcone di casa Pietra. Alla domenica furono pubblicati gli avvisi. Al lunedì tutta la città non fece altro che pregustare l'allegria della prossima notte, e darne le disposizioni, perchè la festa di san Pietro cadeva in martedì.
Chi vuol farsi un'idea del trambusto giocondo che era in tutta la città in quel giorno, non deve far altro che esagerare l'idea della gioja che penetra in tutte le famiglie alla vigilia e all'alba del dì di Natale, gioja temperata soltanto da qualche velo di melanconia nei capi di famiglia i quali devono dar le mancie e son fuori affatto dal tiro di poter ricevere regali. E dalle intime consolazioni passando al movimento materiale della città, per farsene una imagine non si deve che esagerare il quadro del giorno del Corpus Domini in quelle contrade e in quelle case dove e innanzi a cui passa la processione; e, se occorre, risalire colla memoria a qualche anno addietro, quando in codeste faccende delle pubbliche processioni la città, e segnatamente il popolo minuto, pigliava un interesse che più non suole avere oggidì: giorno solenne in cui quelle case che guardano nelle contrade privilegiate si riversano, per così dire, tutte al di fuori, e segnatamente le popolane. La coperta gialla di filugello assume nuovo incarico, e va a servir di tappeto alla finestra e al poggiuolo; le secchie di rame e le secchioline di latta emigrano dalla cucina e vanno ad appendersi all'archetto della porta, fatte più lucenti del solito dalla cenere e dal pomice, per esser pari all'onore di tenere in fresco qualche mazzo d'ortensie appariscenti, circondate d'arundini listate.
Il canarino, il fringuello, il capinero, il merlo, soliti a far compagnia alle vecchie casalinghe, lasciano anch'essi la cucina e il terrazzo, e vanno a pigolare al pubblico, sulla porta della casa, o nelle gabbie messe a nuovo e guernite di foglie di lattuga e d'indivia, ornamento e cibo al tempo stesso. Giorno solenne, in cui chi possiede qualche vecchio arazzo è sollecito di decorarne le pareti esterne della casa; e la solerte fanciulla espone al pubblico il tuo tappeto a scacchiera d'arlecchino, fatto coi ritagli di panno a vario colore, sfuggiti già in più anni alla forbice paterna.
Se dunque per una festa che deve durare mezz'ora è tanta la giocondità che percorre le case, ed esalta segnatamente le persone giovani e i ragazzi, è facile imaginarsi che commozione febbrile ci doveva essere nei preparativi di una festa pubblica che aveva a distendersi da un capo all'altro della città, e in cui la devozione pel santo festeggiato e le congratulazioni per alcune persone a cui si credeva che in quei giorni la fortuna avesse voluto dare una beneficiata, dovevan ricever la loro sanzione ed essere documentate da tante cene quante eran case in Milano; e in cui tutti gli stomachi, come avviene nel dì di Natale, avevano il permesso di affrontare tutti i pericoli di una replezione, e gli aridi esofaghi d'inaffiarsi al punto che cessasse il buon accordo tra le teste e le gambe. E le case si riversavan davvero tutte al di fuori, e tutte si affannavano di parere sempre qualche cosa di più di quello che erano. Chi era avvezzo a mangiare in piedi e sulla nuda tavola di peccia plebea, sfoggiava la tovaglia e i tovagliuoli; chi mangiava per consueto ne' cucchiali di legno sfoggiava i cucchiali d'ottone luccicanti e tersi. Tra le case signorili poi era una gara a chi metteva in mostra più ricchezza e più varietà di vasellame d'oro e d'argento. Tutto il giorno di lunedì fu passato in apparecchi; i cuochi patrizj si apprestarono a dar saggio di tutte le risorse dell'arte loro; i maggiordomi discesero nelle vietate cantine a farvi una meditata scelta delle bottiglie più decrepite, consultando ed esplorando in cento modi il turacciolo se mai desse indizio che la soverchia vecchiaja del vino non lo avesse mai convertito in aceto. E nelle case medie e nelle povere e nelle poverissime era un affaccendarsi in altro modo. Le oche e le anitre plebee erano state fin dall'alba prese d'assalto dalle solerti madri e dai padri ghiottoni, che dalla bottega giravano l'occhio anche in cucina. Gli splendidi tacchini di otto in dieci libbre, distintivo della classe mercantile che aspira a regioni più eccelse, erano scomparsi tutti fin dal giorno antecedente dal Verzajo, dal Cascinotto, da san Clemente, contrada riputatissima fin d'allora nell'industria dei polli ben purgati e nell'arte di condurre al punto supremo la putrefazione della beccaccia; e le beccaccie e le beccaccine e i fagiani e i francolini e le folaghe, ecc., e tutta quella specie e sottospecie d'uccelli, che costituiscono, quasi a dire, l'alta nobiltà del regno ornitologico e che perciò hanno il diritto e l'obbligo di puzzar più degli altri, eran già tutte passate dalle panche della piazza alla prelibata moscajola della cucina patrizia.
Se non che ad intorbidare tutto questo allegro movimento della città avvenne quello che avviene quasi sempre allorquando il bel tempo e la più perfetta serenità del cielo è un elemento indispensabile al buon andamento di una festa pubblica. La statistica delle illuminazioni, sebbene non si possa garantire della sua esattezza, porta che una buona metà vennero offuscate dalle nebbie e dalle nevi, e spente sgarbatamente dal vento e dagli acquazzoni. Nei giorni della canicola e negli eterni del giugno e luglio, in cui il sole par che faccia di tutto per provocare l'ingratitudine de' mortali; chè dalle quattro del mattino ha l'indiscrezione di risplendere fin quasi alle nove della sera: in questi giorni in cui la pioggia è invocata come un beneficio salutare, essa è inflessibile, e non cade mai e sembra quasi compiacersi del tormento dei postiglioni che affogano tra i vortici della polvere delle strade postali, e dell'ira dei poeti che non trovano la rima, impediti dall'afa e dalle cattive digestioni. Ma solo allora che per un pubblico spettacolo si voglia approfittare di questa troppo cortese disposizione del cielo, state bene attenti che di punto in bianco si lascerà scorgere sull'orizzonte qualche nuvoletta bigia a sgomentar gli appaltatori che sospirano il guadagno, e il pubblico che sospira il divertimento.
Ma lasciando questa oziosa digressione, capitò dunque che in quel dì della vigilia di san Pietro, dopo che il sole per venticinque giorni aveva infuocata la città, dardeggiando senza interruzione per sedici ore al giorno; precisamente verso il mezzodì, per la prima volta e senza avvisi erasi ritirato dietro a un gruppo di nuvole di cattiva qualità, le quali misero l'incertezza in tutti quanti e fecero nascere molti alterchi nelle famiglie, perchè gli spiriti eran diventati acri pel dispetto, dacchè i banchetti non avrebbero avuto la metà del loro prestigio senza luna e senza stelle, e la pioggia li avrebbe resi affatto impossibili.
La fortuna però volle che, dopo essere stata la città continuamente in forse fin oltre al tramonto sulle mutazioni del cielo, al segno che alcuni pensavano per fino di trasportare al dì dopo, e di pieno giorno, e nell'interno della casa la loro quota di giubilo da consumarsi a pranzo; verso un'ora di notte un venticello inaspettato rendesse affatto sgombro il cielo; e la luna fosse pronta al suo posto, e le stelle popolassero il firmamento. Onde tornò la lena ne' petti, e giacchè le cene dovevano incominciare al tocco della mezzanotte, quelle ore intermedie si impiegarono nell'apparecchiar la tavola fuori delle porte di ciascuna casa, ed a metter la facciata delle case in quella maggior gala che era consentita dalla condizione dei padroni e degli inquilini. E venne anche la mezzanotte. E allo scampanamento che si fece sentire, com'era di pratica, agli orologi pubblici, tutta la città si mise a tavola, senza che fosse più incomodata da cavalli, da carri, da carrozze, perchè era severamente proibito a chicchessia d'uscire a quel modo nè per diporto nè per bisogno; rimanendone il privilegio a coloro soltanto per cui si faceva la festa; i quali anzi, qualche tempo dopo lo scocco della mezzanotte, dovevano per consuetudine fare il giro di quasi tutta la città in carrozza. Così dunque le carrozze di casa V... e quelle di casa Crivello si misero in movimento, allorchè qualche bottiglia era già stata vuotata tanto alla tavola dei ricchi che a quella dei poveri.
Ed ora, se il nostro racconto fosse un poema, l'invocazione della Musa sarebbe indicatissima. Ma invece, quando il lettore ce lo permetta, essendo assolutamente necessario di animare gli estri per riprodurre al vivo e al vero quella scena notturna, beveremo anche noi in anticipazione una buona bottiglia d'un vino che oramai più che all'enologia, può appartenere all'archeologia, quasi come il falerno d'Orazio; un vino che fu spremuto dai grappoli nel vendemmiale del primo anno di questo secolo. Per quello che dobbiamo far noi, che teniamo al guinzaglio cento anni, cinquanta del secolo passato e cinquanta del secolo corrente, l'ispirazione non può venire da Musa più propizia di questa bottiglia contenente il Napoleone dei vini, maturato anch'esso tra due secoli e capace di spumeggiare arbitro tra l'uno e l'altro.


VI


Verso le sette ore, ovvero sia un'ora dopo mezzanotte, il carrozzone di gala scoperto che il conte V... mandò in casa Pietra Incisa, uscì trionfalmente dal portone di questa. La contessa Clelia e donna Ada vi stavano adagiate sole senz'accompagnamento di cavalieri. Donna Paola se ne stette nelle sue stanze perchè, sebbene fosse paga della buona riuscita di ciò che le avea dato tanto affanno, pure aveva troppi dolori proprj per poter essere perfettamente all'unisono colla gioja universale. Anzi dopo che le ultime tormentose sollecitudini furono cessate, il pensiero rimasto solo della condizione di suo figlio parve che fosse più forte di tutti gli altri dolori che in cumulo aveva prima provati. Ella dunque se ne stette in casa; nè il conte V... uscì del proprio palazzo, o fosse determinazione sua, o fosse consiglio anche questo di donna Paola, perchè, dopo tutto, se riusciva un fatto edificante la riconciliazione tra lui e la moglie, non era poi la cosa più conveniente che in quella notte il conte figurasse in carrozza colla contessa. Il mondo nella contemplazione di alcuni spettacoli trova il modo di ammirare insieme e di deridere; trova degno del più grande elogio che una cosa sia stata fatta, e non sa nel tempo stesso capacitarsi che vi possano essere stati uomini di pasta così molle da lasciarsi indurre a farle.
La contessa e la giovinetta uscirono dunque sole; la prima in tutto quello sfarzo imposto dalla solennità; la seconda in quella semplicità, ben s'intende riccamente decorosa, voluta dalla sua condizione non ancor cessata di educanda, e fors'anche, chi lo sa? dal desiderio materno che la semplicità facesse parere ancora più giovane d'anni quella beltà adolescente. Il topè necessariamente ci doveva essere, e la polvere di cipro aveva dovuto imbiancare quelle chiome di seta bruna, la cui bellezza era un geloso segreto di cui non era a parte che la governante e la mamma; ma il grembialetto di levantina nera colle spalline non venne dimenticato; tanto era piaciuto a donna Clelia che l'aura infantile circondasse quella sua figliuola più di quello che l'età comportasse. Una rosa purpurea, intrecciata nei capelli, era il solo ornamento accessorio che alterava di qualche poco la sobrietà di tutto il resto.
Vicina alla contessa, a cui lo sfarzo sovrabbondante aveva come scemata quella perfetta somiglianza che due sere prima mostrò d'avere colla figlia, questa poteva rendere l'imagine dell'arte pura del quattrocento posta a raffronto coll'arte sfoggiata di poi a Venezia da Tiziano e Paolo; pareva — già le similitudini non costano niente — la giovinetta e primitiva Etruria messa a paro colla Roma imperiale, decadente sotto il manto di porpora e d'oro. Nè il cocchiere tutto passamantato in argento, e che, come un oggetto prezioso, poteva far gola ai ladri e venir rapito, seduto in alto sulla cassetta a drappi e a frangie del carrozzone, e i tre servitori ritti in piedi di dietro, gallonati senza risparmio, anch'essi, collo scialacquo della prodigalità che ha smarrito il senso del gusto, le facevano il fondo più adatto.
La corsa della carrozza ne' luoghi principali della città doveva assomigliare ad un lungo viaggio, perchè i cavalli avevano a camminare di passo, come avviene negli ingressi trionfali, e perchè ad ogni momento era d'obbligo una fermata per rispondere agli evviva ed alle cortesie di chi stava banchettando; e precisamente in piazza Borromeo, appena uscite dal portone di casa Pietra, le due donne dovettero sostarsi innanzi al palazzo Borromeo, onde ricevere le congratulazioni del conte padrone. Nel mezzo della piazza era stato eretto un obelisco di legno posticcio tutto coperto dal vertice alla base da cento fiammelle in vetri di vario colore che rischiaravano all'intorno la piazza, e davano migliore aspetto alla facciata onde Fabio Mangone decorò quella chiesa, fondata tanti secoli prima da quel figliuolo di un soldato di Carlo Magno, che si chiamava Podone. Di qui svoltando a sinistra e procedendo lentamente tra i consueti evviva che passavano di mensa in mensa, la carrozza non fece altra fermata se non quando arrivò nella piazza dei Mercanti.
La scena che in quella notte offriva questa piazza era in vero delle più pittoresche. Qui non v'erano banchetti di famiglia, ma quelli delle rappresentanze del nobil Collegio de' giureconsulti, e delle Università dei libraj, degli orefici, dei mercanti d'oro, dei bindellaj. Attraverso alle colonne dello splendido edificio che Pio IV fece murare con disegno del Seregno per le adunanze de' giureconsulti, stando in piazza si vedeva al vivo quella scena che ci si offre nelle cene di Paolo Veronese; chè le mense erano state disposte sotto ai portici stessi, per quanto erano lunghi. Il lusso dell'architettura, le colonne doriche binate che tagliavan la scena ad intervalli; la luce delle lumiere che pendevan dalla vôlta, la fiamma dei doppieri che stavan sulla mensa; quei cinquanta o sessanta parrucconi bianchi, que' colori delle giubbe d'ogni generazione, il fumo delle vivande che involgeva quelle teste, tutte in agitato movimento, la luce in tremolìo che sbizzarriva per mille accidenti fuggitivi e tramescolava tutte quelle tinte vivaci e forti, tra cui dominava segnatamente il rosso fiamma, il verde pomo e pistacchio, il fiordaliso, il croco, ecc. — chè la giovialità del secolo pareva quasi cercare la sua espressione anche nel colore de' panni — tutto questo miscuglio di cose produceva in vero un effetto de' più bizzarri e pittoreschi.
Al basso poi, intorno ai portici del Pretorio, oggi Archivio generale, erano apprestate quattro lunghe mense; verso il lato che guardava il Collegio dei giureconsulti stava seduta a tavola in gran numero l'Università dei Libraj e Stampatori; al lato che prospetta l'ingresso all'Archivio v'era la mensa dell'Università dei mercanti d'oro e chincaglie, ecc.; al lato verso la loggia degli Osii, la numerosa Università degli orefici; a quello guardante lo sbocco nella contrada dei Profumieri, l'Università dei mercanti di cordaria e canevazzi, ecc.
Il palazzo dell'Archivio aveva smarrita l'unità della primitiva architettura che fu convenuto di chiamar longobarda; il tempo e, peggio del tempo, gli uomini lo avevano già reso informe per cattivi riattamenti, per aggiunte importune, per la preoccupazione di servire al comodo passeggiero senza rispetto di sorta alla forma decorosa; pure, con tutto questo, nella sua apparenza di un edificio che aspetta di essere compiutamente ristaurato, presentava ancora alcune parti solenni della vetusta architettura, e segnatamente i finestroni sopra i portici. Per questa stessa mescolanza poi di più elementi, il talento pittorico ne avrebbe al certo potuto cavar qualche bizzarro partito per una scena prospettica, quando si fosse saputo fare una bella scelta del punto di vista.
Quei sei finestroni aperti in alto nei lati più ampi dell'edificio bastavano a ricordare e il tempo in cui esso era stato innalzato, e tutte le idee concomitanti che quello svegliava: finestroni aperti a grand'arco tondo, circoscrivente tre bassi e piccoli archetti addentrati e sostenuti da due leggiere colonne. Tanto i pittori però, che gli architetti di quel tempo, erano così lontani dal vedere con buon occhio la conservazione di quelle, secondo loro, barbariche finestre, quanto noi dal congratularci cogli architetti vandalici che fecero poi scomparire quelle aperture, richiamanti l'età splendida dei liberi Comuni ed apersero nel piano aggiunto i giganteschi occhi di bue i quali comunicarono a tutto l'edificio quella pesantezza goffa, onde tutta la piazza e i decorosi e squisiti edificj di essa par come che ne rimangano oppressi. Nè gli architetti nè i pittori di allora sapevano veder di buon occhio nemmeno la loggia degli Osii, la quale per miracolo rimase salva dal compasso devastatore degli architetti posteriori, i quali portarono la confusione delle lingue in tutti i luoghi che ebbero a ristaurare. E la loggia degli Osii era allora in tutta la sua primitiva schiettezza, nè erano anco restate incastrate nel muro aggiunto le colonne su cui posano gli archi acuti. Ma dell'essere rimasto incolume questo squisitissimo pezzo d'architettura nessuno si congratulava in quel tempo, perchè i Bibienisti, che erano sul tramonto della loro gloria, erano ben lontani dall'amare quello stile; e la nuova, diremo, setta dei Pacisti, che spuntava allora a Roma ed in breve ebbe eco per tutta Italia, prese una tale avversione a tutto ciò che non era greco e romano, che guai se invece di pacifici architetti fossero stati conquistatori armati: dell'Italia non sarebbe rimasta salva che una metà. Ma nè la contessa Clelia nè la sua figliuola Ada ebbero tempo di far queste considerazioni architettoniche, e dopo aver risposto agli evviva dei Giureconsulti che sorsero tutti in piedi a far libazioni gratulatorie al passaggio della carrozza, e dopo che la fanciulla Ada colla sua gentile manina mise il rotolo di prammatica nell'urna che stava sotto alla bandiera portante il nome delle Università, e in quella che stava ai piedi di un Sant'Eligio di legno dorato, il santo protettore degli orefici; la carrozza svoltò in santa Margherita, e passò innanzi alla chiesa di santa Maria alla Scala, e traendo per le Case Rotte nella piazza san Fedele, venne a fermarsi davanti al palazzo Imbonati che allora era tra i più splendidi della città, e oggidì mal si ravvisa in quella casa che sta rimpetto a san Fedele.
Innanzi dunque alla porta di casa Imbonati, dove era distesa una lunga mensa che occupava tutta la sua fronte, dovette necessariamente arrestarsi la carrozza delle festeggiate. Su quella mensa v'eran tutti gli sfoggi della ricchezza che converte in eleganza, diremo intellettuale, anche le imbandigioni. Intorno ad essa erano seduti i più segnalati fra gl'ingegni di Lombardia. L'antica accademia dei Trasformati, sorta per la prima volta a Milano nel 1546, per opera di dodici letterati insigni, fra cui il Majoragio e il Gallerano, e in breve tempo venuta in gran fama in tutta Italia, aveva dovuto per l'avversa condizione dei tempi ammutire e spegnersi, nè per un secolo e mezzo non vi fu chi più tentasse a rinnovellarla. Soltanto nel 1743 il conte Giuseppe Maria Imbonati, in cui la squisitezza dell'ingegno era pari alla squisitezza dell'animo, avendo pensato di farla sorgere a nuova vita, per raggiungere questo intento si associò alcuni fra i più alti ingegni milanesi, ed aprì nella propria casa le aule per i convegni de' socj. Gli statuti dell'accademia antica avean dato ai trattenimenti più ampio cerchio di quello che comunemente allora era adottato; onde non solo s'era occupata di letteratura amena, ma aveva dato opera anche alla filosofia morale ed alle altre scienze.
La nuova società inaugurata da Giuseppe Imbonati si propose dunque i medesimi scopi, ed anzi ne allargò la sfera, e tosto divenne celebre per gli uomini eminenti che furono ascritti ad essa. A quella mensa sedevano Pietro Verri, Gian Rinaldo Carli, il Tanzi, Cesare Beccaria, il professore Teodoro Villa, Paolo Frisi, Giuseppe Parini, il conte Giorgio Giulini, il Quadrio, il Baretti, e vi sarebbe seduto anche colui che dalla bontà prodigiosa del cuore sembrò aver attinto l'ingegno, vogliam dire Gian Carlo Passeroni, ma in quel tempo viveva a Colonia qual segretario di monsignor Lucini, nunzio apostolico presso gli elettori e principi pel circolo del Basso Reno; vi sedeva il poeta Balestrieri, il successore del più grande Maggi: il Fogliazzi, il Guttierez, ed altri molti. Nell'aula di questa società si può dunque dire che furono primamente ventilate quelle questioni organiche che si proposero il più razionale ristauro della vita civile. Qui il Parini si consigliò spesse volte col Passeroni sull'orditura del suo Giorno. Qui il Passeroni fece lettura del suo poema il Cicerone, dove, dissimulato dalla forma semplicissima fino a parer disordinata, e dall'ingenua giocondità, e da quella bonomia di chi è e non vuol parere, è sì prezioso tesoro di sapienza, di sana morale e di coraggio. Nell'attrito della discussione qui si mostrò l'acuta penetrazione di Pietro Verri, qui il più giovane Beccaria, sollecitato dall'amico, imparò a liberare il potentissimo ingegno dall'indolenza. Però ripensando a queste cose, e al tanto bene che iniziarono alcune accademie in Italia, e, segnatamente questa dei Trasformati a Milano, non par vero come siasi potuto avvolgerle tutte quante in un fascio, e multarle di ridicolo tutte; ma la storia delle pecore, e quel che fa la prima e l'altre fanno — si presenta sempre a ripetere qualche sbagliata opinione pronunciata per la prima volta, e messa in corso non si sa da chi e perchè.
Nel mezzo dell'ampia mensa, fra vasi d'argento, di cristallo, di porcellana, sorgeva un ramo di platano portante scritto su di un largo nastro il motto virgiliano: Et steriles Platani malos gessere valentes, che era l'impresa dell'accademia. Al fermarsi della carrozza s'alzaron tutti, e il conte Giuseppe Imbonati insieme coll'unico figlio, e col genero don Francesco Carcano e colla moglie contessa Bicetti, anch'essa valorosa poetessa, si tolsero dalla tavola e si recarono allo sportello della carrozza: i primi a fare i loro speciali complimenti a donna Clelia, l'ultima a deporre un bacio sulla fronte della fanciulla Ada. Nel tempo che succedeva questa amorevole intervista, stettero in silenzio tutti i commensali dell'Imbonati, intenti a guardare le festeggiate, commosse a tanta benevola accoglienza. E mentre si faceva silenzio, in quel punto si sentiva il vasto e vario rumore che l'aria vi portava da tutti i punti della città. La scena era grandiosa e interessante tanto per l'udito che per la vista. La maestosa mole del palazzo Marino era illuminata dalla luna. In quel tempo non era ancora stata edificata, a toglier la prospettiva del tempio di san Fedele, quella casa che nel 1814 doveva poi essere l'orrida scena di un gran delitto pubblico; però la piazza, se si eccettui il palazzo della Bella Venezia, stato costrutto in seguito dall'architetto Zanoja, offriva press'a poco l'aspetto d'oggidì: l'aspetto di una gran sala a cielo scoperto, solenne ed elegante pei due cospicui edifici, senza contare la facciata di casa Imbonati che presentava linee grandiose e ricchezza di ornato, linee e ornato che scomparvero nel ristauro che se ne fece molto tempo dopo.
Ma la carrozza passò oltre, e giù per san Raffaello se ne venne al Duomo, e giacchè il cocchiere aveva come a dire l'itinerario e quasi la nota dei luoghi dove aveva a far le fermate, deviò verso Camposanto dov'era un altro banchetto che meritava una distinzione, quello della scuola degli scultori, la quale aveva sede precisamente in quel luogo. A quella mensa insieme cogli scultori si trovaron alcuni architetti. Tra i primi v'era il Franchi e il Bussi, e con essi un fanciullo di nove in dieci anni, Angelo Pizzi, che lavorava in qualità di garzone scarpellino per la fabbrica del Duomo, e che avendo poi mostrato uno straordinario ingegno per l'arte figurativa, invece di fermarsi a far gli spigoli alla pietra di Viggiù e al granito, era destinato a competere con Canova, e forse a superarlo nel ritrarre in apoteosi e in dimensioni gigantesche la figura di Napoleone ottimo massimo. Tra gli architetti poi sedevano il prospettico Bibiena sessagenario, e il giovane Simone Cantoni, i quali rappresentavano in sè stessi il tramonto dell'arte che sbizzarrisce e si perde per eccesso di fantasia e di audacia, e il sorgere della scuola severa inaugurata a Roma, a cui sono impacciati i voli per l'esclusiva adorazione delle tradizioni italo greche. Vicino a questi sedeva un fanciullo, anzi un abatino di dodici anni, che il Bibiena sessagenario aveva carissimo per l'acutezza d'ingegno che mostrava, e per la non comune attitudine che aveva alle arti del disegno. Quel fanciullo era Giuseppe Zanoja d'Omegna.
Il Bibiena, che aveva condotto alcune opere nel palazzo del conte V..., si alzò e si mosse e s'appressò allo sportello per inchinarsi alla contessa, la quale nel girar lo sguardo su tutti quegli artisti là riuniti, non potè a meno di chiedergli, maravigliando, per qual motivo fosse tra loro quel piccolo abatino; e l'abatino, chiamato dal suo maestro, dovette lasciar la tavola e farsi innanzi e rispondere alle domande della contessa, senza saper togliere gli occhi dal volto della fanciulla. Ed ora se il lettore sente le minacce della noja, costretto com'è a passare in rivista tante cose, di cui probabilmente gli importa poco o punto, lo consoleremo con un po' di pausa, e colla promessa di un avvenire migliore.


VII


Se alcuni dei nostri lettori, quando non sien tutti, il che non è lontano dall'improbabile, si annojano a tener dietro alla carrozza delle nostre due eroine, vuol dire che per questa volta si trovano in una condizione peggiore dei due lacchè che la precedevano colle torcie a vento, e che obbligati in quella notte a camminare di passo, respiravano invece a tutto loro agio, vuotavano i bicchieri di vino che loro venivano sporti dai banchettanti e si divertivano, senza fatica, ritardando con quell'impreveduto riposo l'inevitabile ernia dei vecchi anni. I quali due lacchè, quando il cocchiere applicò leggermente alle loro gambe lo scoppiettante spago della frusta (perchè era un vezzo dei cocchieri, quando erano di buon umore e andavan d'accordo coi lacchè, di far loro quel complimento, credendo così d'innalzarli fino al grado dei cavalli), lasciarono quelle catapecchie del Camposanto, dove a stento la carrozza si era internata, ed ajutando a mano i cavalli ad uscirne, precedettero il carrozzone lungo i fianchi del Duomo, ed entrarono trionfalmente su quella che anche allora, come adesso, con un coraggio degno di miglior causa, si chiamava la piazza del Duomo; ma foss'ella o non fosse una piazza, alla vista del carrozzone di casa V..., sorse tutta come un sol uomo, mandando tali evviva da intronarne l'aria e da minacciare, se non i pilastroni del Duomo, almeno le impalcature che stavano a molte parti di esso, e segnatamente alla guglia massima che era ancora in costruzione. Il Coperchio de' Figini, illuminato a giorno, dentro e fuori, presentava un ordine lungo di banchetti, ed eran quelli dei proprietarj delle botteghe colle loro mogli, coi loro figliuoli, colle loro fantesche. Il rumore delle voci e le liete strida infantili e le trombette acutissime onde i papà eran stati indulgenti ai figliuoli, soverchiavano tutti gli altri suoni, e rendendo inutili le orecchie, la libertà di scelta non rimaneva che agli occhi, i quali, dai banchetti, situati sotto il coperchio, giravano a veder una lunga fila di tavole che dalla porta maggiore del tempio andava a finire alla porta della casa che le sta dirimpetto, alle quali tavole, divise in più scompartimenti, sedevano altre università d'arti e mestieri: l'università dei ricamatori, dei tessitori, dei mercanti di lana, dei sellari. Tutta sola poi, e quasi sdegnosa di star colle altre, sedeva in quell'appendice della piazza, che era incorniciata dal palazzo Ducale, colle proprie insegne e i proprj titoli fatti con lumini in vetri colorati estesi nella lingua del Lazio, l'Abbatia et Universitas Salsamentariorum et Postariorum pinguedinis civitatis, ecc.
La contessa Clelia che, tenuto conto di tutto, era piuttosto seria in quella notte e meditabonda, sebbene avesse vicino a sè e tenesse per mano quel caro angelo della sua Ada, sentì gli assalti del buon umore a leggere quelle parole, e si diede a ridere di cuore, riso che i rispettabili membri dell'abbazia interpretarono come un segno della gratitudine e dell'affabilità di quella egregia dama, e strepitarono per acclamarla e batterono palma a palma; e misero poi coi loro baci riconoscenti in gravissimo pericolo la bianca manina di donna Ada, quand'ella depose un rotolo di zecchini sovra il bacile d'argento, presso cui posava l'enorme testa di un cignale incoronato di salsiccia.
Liberata la bianca mano di donna Ada dai baci micidiali dei Salsamentariorum, la carrozza tirò innanzi; ma fu trattenuta dalle acclamazioni speciali che s'innalzarono da una gran tavola numerosa di convivi, e disposta in modo che girava come un semicerchio irregolare intorno alla testa, diremo, dell'informe corpaccio dell'isola del Rebecchino, nella parte che guarda la facciata del Duomo. Quei convivi erano gli avventori del caffè del Greco, giovinotti liberi per la maggior parte e senza famiglia, e che anch'essi, quantunque senza statuti nè scritti nè stampati, e senza privilegj d'abbazia e d'università, costituivano di fatto, in una parola, se non di diritto, la più felice università dei benestanti, dei nullafacenti e dei maledicenti, tra' quali abbiamo alcuni nostri conoscenti vecchi. Avevano tutti una gran voglia di veder dappresso tanto la contessa che la sua figliuola, perchè la curiosità è il carattere dominante di coloro per cui il problema più arduo della vita sta nel come si possono passar senza noja le ventiquattr'ore del giorno astronomico.
Il chiacchierone di nostra conoscenza, che ben potea essere il priore di que' socj più o meno felici, s'incaricò, senz'essere pregato, di parlare per tutti; e a nome di tutti espresse alla contessa la gioja ond'erano compresi al vedere ridonata a Milano una così celebre dama, da cui la città riceveva sì gran lustro e decoro; e soggiunse che tanto più si congratulava, in quanto la vedeva felice appresso alla sua giovinetta e bellissima figliuola, la quale, non ancora uscente dalla fanciullezza, aveva già patito la sventura; ma qui faceva considerare che per ciò appunto ella aveva ragione d'esaltarsi avendo vedute le prove manifeste del come la Provvidenza volle pigliarsi di lei una cura speciale; il che rendeva poi ragionevole la presunzione che fosse per essere chiamata a grandi destini chi aveva avuto così solenni principj.
La contessa, un po' annojata, un po' imbarazzata, un po' eccitata all'ilarità da quell'orazione gratulatoria pro forma, rispose quattro parole complimentose, e due ne aggiunse come seppe la più confusa Ada, e il cocchiere frustò cavalli e lacchè, e tirò innanzi. E appena la carrozza fu a una distanza conveniente, tutti quanti liberarono una risata compressa a stento, e:
— Bravo, il nostro oratore, esclamarono; bene il nostro cicerone. Altro che monsignor Bovio quando predica in Duomo!
— Vi pare!...
— E come!
— E se non c'era io, faceva una bella figura la società del caffè Demetrio tanto rinomata per il suo spirito, che, per dar spaccio al suo giornale, Verri stesso ha stimato bene di dar ad intendere che venga pensato e scritto qui.
— Tu però che assordi gli amici e chiacchieri di tutto e fai lo scalmanato su tutto, anche di mattina, quando nello stomaco non hai che cioccolata... si può dire che eri in soggezione, se dopo tanto Monterobbio hai pronunciato quel così goffo e mal unito discorso. Oh come deve aver riso la contessa!
— Riso? tu parli per invidia.
— Sarà per invidia, ma son contento del mio umile posto, di non aver fatto altro che ridere insieme colla contessa. Ma a proposito della contessa, dove diavolo è andato a finire il tenore Amorevoli. di cui non si sente a dir più parola? Questo sarebbe per lui il momento di tornare a Milano.
— Sì, per cogliere la buon'occasione, e andare in prigione un'altra volta.
— Perchè?
— Perchè?... vedo che tutti quelli che andarono in prigione nel 1750 tornano in prigione nel 1766. Guardate: — Lorenzo Bruni, il violino del teatro Ducale, è ancora sotto custodia. Al Galantino non bastò la ricchezza per tenere in rispetto il barigello. Quasi quasi mi parrebbe che invece di sedici anni non sieno passate che ventiquattr'ore. È tutto precisamente al posto di prima; onde torno a ripetere che se il tenore capitasse a Milano... non sarebbero staccati i cavalli dalla sua vettura, che i fanti dell'eccellentissimo capitano andrebbero a fargli visita. Oh se ci fosse l'arte di tirarlo qui... che bella cosa! tutto quello che par finito scommetto che rincomincerebbe da capo. E per noi che non abbiam nulla a fare sarebbe una risorsa. Tornare al prologo quando si crede che manchi poco a calare il sipario!
E chi parlava avrebbe continuato, ma le sue parole non essendo state raccolte da alcuno, caddero naturalmente in terra, e i compagnoni, rimessisi a sedere, passarono ad altro; onde noi non avremmo altro obbligo di lasciarli in compagnia delle loro bottiglie e della loro allegria, e dopo aver girato un altro sguardo alla piazza al Duomo in costruzione, alla sua facciata di cui non sorgevano che le porte del Pellegrini, stupende in sè stesse, ma che, per aver voluto contraddire ad Orazio, riuscirono ad essere la Prima e sola cagion d'ogni sventura; — ai due piloni del Buzzi, quelli del secondo progetto; alle traccie, diremo così, sbozzate degli errori futuri; dopo aver data un'occhiata all'architettura gotica e poderosa del palazzo ducale, un'occhiata tenera perchè non la vedremo più, chè il Piermarini sarà incaricato di scopare via la facciata, il nostro obbligo or sarebbe di tener dietro alla contessa e alla contessina, ma un discorso curioso ci trattiene ancora in piazza.
— Che bella cosa (saltò su a dir uno, che non s'era mai mosso da sedere, e tutto assorto nella contemplazione della scena che gli si spiegava dinanzi, non s'era nemmen lasciato tentare dalla curiosità di veder dappresso la contessa e la sua figliuola); che bella cosa, disse, se invece di questa miseria di piazza, chi ha pensato a far sorgere questa montagna lavorata, avesse anche provveduto a distenderle intorno uno spazio conveniente, decorato di edifizi, degni della città!... in una notte come questa imaginatevi che magnifico effetto farebbe.
— Quando il Duomo sarà finito, sta tranquillo, che chi verrà dopo di noi penserà a far quello che non si poteva e non si doveva fare tre secoli fa.
— Perchè non si poteva?
— Ma vuoi tu che si pensasse a fare la cornice prima di veder l'effetto totale del quadro?
— Può darsi che tu abbia ragione, ma una piazza non è una cornice; e il popolo passeggia e si ferma e si trattiene in piazza prima ancora di entrare in chiesa, sicchè l'opportunità della piazza è contemporanea al tempio che vi deve campeggiare. Dirò di più, che se si fosse pensato fin d'allora a distendere la piazza per tutto lo spazio necessario a sì gran mole, anche il Duomo vi avrebbe guadagnato, e non sarebbe venuto in mente agli ingegneri del secolo passato, quando vennero a cessar gli scalpori sui tre progetti del Castelli, del Richini e del Buzzi, di impiccolire e immiserire il progetto dell'ultimo, respingendo l'idea dei due giganteschi campanili ai fianchi della facciata. La piazza regolare avrebbe mostrato che i due piloni laterali che vediamo adesso, non adempiono alle leggi della proporzione con tutto il resto del tempio. Che volete? la mia sarà un'idea stramba, ma due anni fa, quando Paolo Frisi si oppose alla determinazione degli ingegneri ed architetti del Duomo di innalzare la massima guglia sul lucernario prima di compire le altre parti del tempio, io ho detto: il padre Frisi, da quel grande uomo che è, ha ragione, ma avrebbe più ragione ancora se dicesse: signor capitolo del Duomo, signora fabbriceria, signori architetti e ingegneri, non abbiate tanta fretta; aspettate a far la guglia; aspettate a far la facciata; e, innanzi tutto sollecitate il pensiero di distenderle innanzi una piazza. La prima operazione dev'esser questa.
— E dove si troverebbero i danari?
— Dove? nelle saccocce dei cittadini, s'intende; son dieci, son dodici, son quindici milioni? Ebbene; i decurioni aprono un prestito, e giacchè sento che tanti e tanti temono sempre di non poter impiegare il danaro con sufficiente sicurezza, qual ci può essere garanzia più valida della città stessa? Ma di ciò non mi voglio impacciare io. Molti sono i mezzi per erogar danaro; e purchè ci sia la buona volontà e il buon accordo e la fermezza, la questione del danaro... a voi parrà ch'io dica una sciocchezza... ma la questione del danaro è ancora l'ultima. Ed ecco là che sorge gigante la prova perpetua di quel che dico. Mancavano i danari due anni fa, quando tutti gli architetti strepitarono a favore della guglia e ottennero il loro intento, e il padre Frisi alla testa di pochi altri voleva la facciata? No, ma mancava il buon accordo. Mancavano i danari nel 1656, quando sorsero tante dispute sui tre disegni presentati? anche allora era il buon accordo che mancava, e segnatamente nella schiera degli uomini dell'arte; perchè, come può darsi che i migliori architetti, almeno i più famosi, e tra gli altri anche Lorenzo Bernini, lodassero quella ridicola bomboniera dell'architetto Castelli; e tutti poi si gettassero addosso inviperiti al progetto del Buzzi? Or che n'è derivato? Gli uomini della scienza e dell'arte protestarono. Ma l'occhio che vuol la sua parte fece sì che i fabbricieri e il capitolo e i decurioni stessero per il Buzzi, e adottassero il suo progetto. Ma tanto per venire a patti coi pregiudizj, lo corressero in varie parti, e più e peggio dove c'era il pensiero più bello e più splendido. Ed ora ecco lì... due piloni meschini che fanno sperar pochissimo dell'avvenire di questa facciata, la quale allora fu continuata di mala voglia perchè la fabbriceria non era soddisfatta, e rallentò le operazioni colla speranza forse che il tempo correggesse gli spropositi. Ma ci vuol altro...
— Tu dici benissimo, osservava un altro, e giacchè si parlava di piazza, se io fossi quello che comanda e che paga... il mio primo pensiero sarebbe rivolto alla piazza appunto, e farei sospendere tutti gli altri lavori. Un gran portico tutt'all'ingiro, e che girasse la più grande area possibile.
— Allora, mio caro, comincerebbe subito l'opposizione, perchè se anch'io fossi quello che comanda e che paga, farei di tutto perchè non andasse il tuo progetto.
Quegli che, dopo aver appoggiate le parole del commensale, che, a quanto pare, rubava all'ozio quotidiano qualche ora a pigliarsela calda pei progetti architettonici della città di Milano, si sentì, a titolo di ringraziamento, da lui così crudamente contraddetto:
— Ma perchè, disse, tu saresti un mio oppositore?
— Perchè piuttosto che vedere un grande spazio tutto circondato da portici uniformi con edifizj tutti d'uno stile e tutti d'una medesima altezza, mi accontento della piazza che vedo adesso.
— Sarà bene che tu abbia ragione... ma se non io, c'è la piazza di San Marco di Venezia che ti dà torto da quasi tre secoli, e c'è la piazza di San Pietro a Roma che te lo dà da cento anni.
— Domando mille perdoni, ma la piazza di San Marco è sempre là invece e a darmi ragione; in quanto poi a quella di S. Pietro, son ben contento ch'essa mi dia torto. Essa è l'opera più assurda del Bernini; basti il dire che, passeggiando sotto i portici, ad ogni momento fugge di vista il tempio per cui la piazza fu fatta.
— Lascia da parte la forma ellittica, ed è subito tolta l'assurdità.
— Sì... in quanto alla vista del tempio; ma resterebbe però sempre, invece d'una piazza, un gran cortile quadrato, che può parere anche un cimitero.
— Torno a rammentarti la piazza di San Marco.
— Bisogna distinguere, caro mio.
— Distinguiamo pure. Non ho niente in contrario.
— Dunque è da considerare che, quando si dice piazza di San Marco, l'imaginazione corre subito al suo quadro totale; vale a dire all'unione della piazza colla piazzetta, la quale, siamo sinceri, è quella poi che fa le spese di tutto.
— Come fa le spese di tutto?
— Sì, perchè se non ci fosse la piazzetta, ti regalo la piazza, che per me è davvero un cortile, grandioso, vasto, splendido, ornatissimo, ma sempre un cortile, e guai, dico, se non ci fosse la piazzetta a darci vita.
— Ma che cosa ci vuole per te, affinchè una piazza debba essere una piazza?
— Prima di tutto che non sia chiusa, vale a dire, che manifestamente presenti gli sfogatoj e gli sbocchi alle altre parti della città; in secondo luogo che offra la maggior varietà possibile tanto negli stili, quanto nelle elevazioni, quanto nell'indole degli edifizj ond'è determinata.
— La confusione di Babele, in una parola; va benissimo.
— Mi pare, caro mio, che tu prenda la piega di spropositare.
— Bada che ho viaggiato, e ho buona memoria, e ho tutte le piazze d'Italia in testa e ho sempre avuto una certa inclinazione per l'architettura.
— E nemmeno io posso dire d'esser sempre rimasto a Milano, e se ti cito San Pietro e San Marco, vuol dire che li ho visti; in quanto poi al resto, se tu sei amico dell'architettura, me ne congratulo tanto; ma anch'io schicchero, così per passare questi giorni lunghi, qualche quadruccio di prospettiva sotto la direzione del Bibiena, che ha ingegno da vendere e fantasia da regalare al tuo Cantoni. Tutta la sua disgrazia sta che la moda or pare che abbia preso di mira il suo genere; e la peggior disdetta è che la moda non si fermi alle parrucche, ai topè, ai puff, ma pretenda di sedere in cattedra a dar le leggi dell'arte.
— Ma a che cosa vuoi riuscire con tutte queste?...
— A ciò, che non basta nè l'aver viaggiato nè l'aver studiato, ma bisogna avere quel che si chiama buon occhio, buon gusto e criterio.
— E tu sei così riccamente provveduto di queste tre cose, che per gli altri non è rimasto indietro nulla. Anche questo vuoi dire?
— Non pretendo tanto; ma mi viene bensì qualche assalto di superbia quando mi trovo in faccia ad uno il quale mi dice che la varietà ha per conseguenza la confusione; e che ignora quel gran principio dell'arte vera, e quel segreto con cui il genio, e senza incomodare il genio, anche l'ingegno riesce a colpire di meraviglia gli osservatori; ed è quello appunto di saper far sì che l'unità trionfi nella varietà, — questo è il problema da sciogliere.
— Ma spiegati meglio.
— Mi spiego subito... e mi spiego pigliando per punto di appoggio precisamente la piazzetta di San Marco. Perchè tutti i forestieri d'ogni paese, d'ogni generazione, d'ogni levatura, sono costretti a confessare che in quell'aggregato d'edifizj è il trionfo dell'architettura, e che forse in nessuna parte del mondo può trovarsi una scena più maravigliosa di quella che si presenta a chi approda sulla scalea del molo della piazzetta di san Marco? perchè appunto trova l'unità nella varietà. A destra il palazzo Ducale del Calendario; vicino ad esso le prigioni del Da Ponte, dirimpetto l'edificio della libreria del Sansovino; vicino a questo il palazzo degli ufficj. E se dal primo, dirò così, sipario, si spinge l'occhio oltre le colonne di Todero e del Leone, ecco la basilica di San Marco a dritta colle sue cupole bisantine, ecco la torre dell'orologio di fronte e un brano delle Procuratie nuove de' Lombardi. Nientemeno che sette edifizj, sette stili, sette varie altezze, e una schiera d'architetti di tempi diversi e di diverse scuole che vi portarono il vario contributo della loro ricca fantasia. Ora, se invece di tutte queste cose non si vedesse che un portico lungo ed ampio a tiro d'occhio, lo spettatore sarebbe già addormentato prima di avere il tempo d'andar in entusiasmo.
— Lo credi tu?
— Lo credo perchè ciò mi accadde precisamente a Roma, stando sulla piazza di San Pietro.
— Ora sentiamo che cosa faresti tu se la cassa pubblica avesse il ghiribizzo di vuotarsi tutta per il piacere di nominarti architetto della gran piazza del Duomo; perchè bada che questa piazza, per esser degna del tempio, bisogna che giri un'area immensa, e che però dovrebbe andar giù tutto il Coperchio de' Figini, tutta quest'isola del Rebecchino; e si dovrebbe lavorar di martello fino alla Dogana, demolire il corpo delle case che dividono la piazza de' Mercanti da quella del Duomo.
— Se questo fosse, tanto andrebbe per la piazza a portici uniformi, come per la piazza a varietà d'edifici. Ma non è così, caro mio, ed è precisamente coll'idea del variare stili e altezze e indole d'edifici, e col gran segreto dei giuochi prospettici che non è necessaria tant'area; perchè coll'artistica illusione della varietà, l'occhio crede sempre di girare uno spazio infinitamente maggiore del vero. Che se fosse indispensabile quello che tu dici, il miglior architetto della piazza del Duomo sarebbe il parco d'artiglieria del re di Prussia. Ma stando a quel che io dico e che diceva appunto il Bibiena, fa in modo di rendere regolare la piazza, fa che la facciata del Duomo si metta d'accordo col suo asse, e passeggiando sotto agli archi dei vari edificj si vedano i fianchi del tempio. Fa scomparire quest'isolotto e innalza da questa parte due corpi di diversa architettura: uno greco romano puro, per esempio, sormontato da due statue che fanno sempre effetto con poco; l'altro più basso, più gentile con dei portici leggieri bramanteschi; lega i due edificj con un terrazzo, perchè così di sopra e di sotto appaja la fuga delle altre contrade, con che si ottiene d'ingrandir la piazza all'occhio; innalza dirimpetto al Duomo qualche edificio con quello stile che più ti garba, ma il di cui organismo sia tale che sembri come a traforo con fughe d'archi e di colonne nella base, con opportuni interrompimenti nelle elevazioni onde appajano così dalla lontana, e quantunque per isghembo, i fastigj dell'archivio e della torre dell'orologio della piazza de' Mercanti; allora la piazza de' Mercanti, senza accorgersi, verrà in ajuto di questa; demolito poi il Coperchio de' Figini, fa in modo che in quel lato sorga qualche palazzo a servizio di Pubblici uffizj, la di cui architettura, per esempio, somigli..., sei stato a Mantova?
— Sì.
— Bene, al palazzo Ducale di Mantova. Per introdurre poi de' cambiamenti, fa che il palazzo sia come diviso in due ale, e che la parte di mezzo sia una galleria ad ampi ed alti finestroni, i quali rendano come trasparente l'edificio, chè in tal maniera a suo tempo, anche la luna potrà venire in soccorso dell'architettura. I fianchi del Duomo finalmente sieno illustrati qui dal palazzo Ducale come sta, sebbene invochi un compiuto ristauro; là, da qualche altro palazzo che abbia una fronte molto ornata. A questo modo abbiam anche il vantaggio, di poter fare tutto a poco a poco, e senza che si stanchi il pubblico nell'aspettazione di veder compiuto un sistema unico di costruzione, che per la sua natura può stancar la pazienza di più generazioni.
— A dire la verità, non afferro bene quest'ultimo tuo pensiero.
— Voglio dire che, se venisse adottato un progetto sontuoso di una piazza, per esempio, come tu hai detto, tutta a portici uniformi e ad elevazioni eguali, subordinate ad un'idea sola architettonica, finchè l'opera tutta quanta non è condotta a compimento, le generazioni che ne vedono il principio e la lenta continuazione avranno sempre innanzi agli occhi qualche cosa che li disgusta. Col mio pensiero invece dei molteplici ordini d'edificj, quello con cui si dà avvio alla piazza può essere finito in breve tempo; e presentando un tutto armonico e compiuto in sè stesso, soddisfa appieno quelli che hanno avuto il merito d'innalzarlo, ed è come un compenso dell'opera loro. Ma questo è nulla; c'è un altro vantaggio ben maggiore: c'è che sulla piazza, potendosi innalzare più opere di varia architettura e di varia sontuosità, qualche ricco privato potrà sentir la tentazione di sfoggiarvi la sua ricchezza e il suo buon gusto; e l'esempio provocar l'imitazione; e la cassa cittadina venir così in gran parte risparmiata per la spontanea concorrenza dell'oro privato; con che si otterrebber nel tempo stesso due intenti: l'uno di render la piazza più magnifica mettendo in lizza le gare; l'altro di ridurla a compimento nel più breve tempo possibile. Or che te ne pare?
— Che bisogna aver la fantasia molto riscaldata per poter fare di questi conti.
Ma lasciando che questi due s'arrabattino tra di loro, noi raggiungeremo il carrozzone di casa V..., senza entrar arbitri in codesta questione, solo dicendo a coloro i quali fossero nemici delle piazze aperte ed a varietà d'edifizj, che possono consolarsi pensando che il prolisso interlocutore in quella notte dei banchetti era esaltato dai vapori della cena; quelli poi che fossero del suo parere si rallegrino pensando che le lucide cene sono eccitatrici mirabili di fantasia, senza della quale non si fa mai nulla di grande nelle opere dell'architettura.


VIII


Spaventati dallo spavento onde possono essere compresi i nostri lettori, i benevoli, intendiamoci bene, pel dubbio che questa nostra corsa notturna attraverso alle contrade dì Milano abbia a prolungarsi oltre i limiti della discrezione, abbiamo supplicato il cocchiere di casa V... a sollecitare al trotto i cavalli e a costringere al corso anche i due lacchè, sebbene dondolanti pel troppo vino bevuto. Non occorre dunque che ci arrestiamo in piazza Fontana dove banchettano l'illustre badia dei Bergamini e dei Caseri, e la più celebre dei Facchini, tre caste poderose, che costituivano l'aristocrazia della forza muscolare, e che, guardate anche di fuga, pur bastavano per distruggere tutte le opinioni di un filosofo persuaso della graduale decadenza della razza umana. Nè occorre che la carrozza si trattenga nel classico Verzajo, dove in quella notte imperversarono più dell'usato tutte le ricchezze del vocabolario milanese; ma, dopo aver fatto una visita in Chiaravalle, alla tavola dove sedevano i soci dell'accademia dei Fenicj, di cui il segretario perpetuo era l'abate Andrea Oltolina, erudito, bibliografo, poeta vernacolo e pedagogo, proceda oltre verso porta Romana, perchè là bisognerà pur troppo che si trattenga innanzi a qualche banchetto patrizio. E casa Annoni ecco che si mostra per la prima volta alle due donne che si sentono acclamate avanti quasi di essere vedute, e a qualche distanza dirimpetto a quella, ecco la casa dei Mellerio, il fermiere milionario che manda fuoco e fiamme a soverchiar lo splendore di casa Annoni. Nell'umile prospetto della qual casa (chè il Cantoni non era ancora stato chiamato a rifabbricarla), contrastante colla pompa sibaritica che sfolgorava alla porta, appariva come in evidente compendio la storia perpetua della ruota della fortuna. E innanzi ad essa, chiamate ad alta voce dal ricco e pomposo padrone, circondato da numerosa folla di dipendenti, dai tosatori di seconda mano e dalle ausiliarie sanguisughe del pubblico, dovettero pur fermarsi le due donne, dopo essere state un momento prima baciate e ribaciate dalla contessa Annoni, vecchia dama, tutta compresa della propria posizione, e quasi fatta più rispettosa verso se stessa per la considerazione della grande nobiltà del casato in cui la Provvidenza l'aveva fatta nascere. Adempiuto a questi convenevoli, la carrozza procedette con trotto normale fin oltre il ponte, non arrestandosi che innanzi al palazzo Pertusati, ovvero sia all'albergo delle Muse, come esso veniva chiamato per antonomasia. Coloro che sedevano a quel banchetto erano tutti pastori e pastorelle d'Arcadia, della così detta colonia milanese, introdotta fra noi dal padre Giannantonio Mezzabarba fin dal 1704. A questa colonia il conte Carlo Pertusati, stato presidente del Senato e gran cancelliere, aveva dato per sede delle adunanze il proprio palazzo. Ad imitazione degli orti Rucellaj vi aveva poi fatto disporre un giardino, il più squisito nel Ducato per piante rare ed esotiche, dove gli Arcadi si raccoglievano in estate a recitarvi i loro componimenti, e dove don Luca Pertusati, ad alternare la scienza colla poesia, aveva radunati i più valenti cultori di botanica per mettere in comune i loro studj. Ma ciò che costituiva la rinomanza di quel palazzo era la copiosa biblioteca che il conte Carlo, nel tempo ch'era stato reggente del consiglio d'Italia, aveva arricchito di opere onnigene e delle più riputate edizioni. Chi avesse detto al conte che quella biblioteca era destinata a diventar la base di quella che fu in seguito la biblioteca di Brera, per lasciar poi che si sperdesse nell'obblio il nome del suo primo padre!
Ricevute le più calde congratulazioni dal conte Pertusati, conservatore di quella colonia, e che, nelle solenni adunanze, dimentico quasi della sua qualità di questore del Senato e di prefetto della compagnia di San Giovanni alle Case Rotte, non si gloriava che di essere un pastore; accolti i complimenti degli altri arcadi, e sopportata con aspetto ridente la tempesta dei baci di quella dozzina di pastorelle che sedevano al banchetto; la contessa e la contessina colle guancie fatte frolle dalle impronte di tanta cordialità, si partirono, ingiungendo la contessa al cocchiere di tirar via dritto pel corso senza tornare indietro, di pigliar la via de' bastioni di porta Romana, e per di là passare a porta Orientale; chè sentiva, tanto essa che la figliuola, un gran bisogno di respirare, salvandosi per un momento dal pubblico entusiasmo. Come furono sulle mura, i loro occhi riposarono da tanta luce, e gli orecchi da sì prolungato frastuono. Bene dal bastione, girando lo sguardo sulla città sottoposta, si vedevano gli sparsi splendori di tante e tante cene, ma resi sopportabili agli occhi stanchi dalla vaporosità interposta; e medesimamente il vario e vasto concento in cui si confondevano tante migliaja di voci e di grida saliva fin là, ma fatto più fioco dalle distanze.
I cavalli intanto, annojatissimi anch'essi dell'aver dovuto andare a passo per tanto tempo, o tutt'al più ad un mezzo trottino, si slanciarono a carriera appena il cocchiere ebbe loro liberato i freni; e i due lacchè agitando le torcie a vento si spinsero anch'essi al corso, con una velocità a cui erano obbligati rare volte ma che pur bastava per assicurare e l'asma e l'ernia al loro deplorabile avvenire.
Per un raccoglitore d'impressioni, quel carrozzone sfarzoso che con fragor cupo rotolava sul terreno nudo e brullo e ineguale e gibboso de' bastioni, allora incolti e senza fronda d'albero; e quei due lacchè, che, colla zazzera a riccioni svolazzanti (perchè i lacchè così come i cocchieri portavan quasi sempre una foggia di pettinatura già respinta dalla moda, per un capriccio della moda stessa), correnti a rompicollo e colle torcie a larghe fiamme lascianti indietro odor di resina e faville, parevano, veduti a qualche distanza, quasi due furie anguicrinite dell'inferno pagano, mal dissimulate dalla livrea del secolo XVIII; e il fondo bizzarro su cui staccavano queste figure volanti, fondo luminoso e romoroso da una parte, smorto e silente verso la vasta campagna; e su nel cielo e luna e stelle e pace infinita, e ai lembi estremi dell'orizzonte i primi annuncj della luce crepuscolare, che aggiungeva una tinta nuova ai lumi artificiali che apparivano da tutti i punti della città, come onde chiazzate di un lago; tutta questa scena dunque, diciamo, doveva necessariamente fare effetto in un poetico raccoglitore d'impressioni. Ma la carrozza, ad onta del terreno che si affondava spesso, percorse in breve tutto il bastione di porta Romana, e giunse a quello di porta Tosa, e trasvolò innanzi alla cupola della Passione, e in breve fu alla porta Orientale. Arrivata dove il bastione inclina alla città, uno splendore straordinario che usciva dalle piante di un giardino e una confusa armonia di voci e canti e suoni colpirono l'attenzione della contessa, che domandò al cocchiere:
— Or che è questo?
— È il signor marchese Alberico F... insieme colla solita brigata, rispose il cocchiere.
— Allora fermati qui, gli disse la contessa nell'udire quel nome.
I cavalli si fermarono, trattenuti da una forte imbrigliata. I lacchè sostarono anch'essi, ansando come due mantici di maniscalco quando soffiano nella massima furia del lavoro notturno, ed asciugandosi il sudore che pioveva di sotto alla prolissa cesarie.
— Non si può entrare in città, scansando di passare per di qui? chiese poi la contessa.
E il cocchiere che aveva compreso dove andavano a finir quelle parole:
— Non pensi a nulla, signora contessa, chè io, anche passando in mezzo a costoro, tirerò via di buon trotto, e la carrozza non sarà trattenuta da nessuno.
— Bene, ma aspetta un momento.
E intanto s'udiva la musica d'un minuetto; ed era quella precisamente che Mozart trasportò molti anni dopo nel suo Don Giovanni nella scena della festa; perchè, come abbiamo già fatto osservare, il grande Mozart prendeva spesso in piazza i motivi già fatti popolari, affinchè trionfasse la verità in tutta la schiettezza ne' suoi drammi sublimi.
Ma lasciando Mozart e il minuetto, già diffuso dappertutto prima ch'egli lo rendesse celebre e lo perpetuasse nel Don Giovanni, per qual motivo la contessa s'era come sgomentata al nome del marchese Alberico F...? Cari lettori, non fu per un motivo solo, ma per due; il primo era ovvio, vale a dire che il marchese Alberico era in voce del più sfrenato libertino della città, e sapevasi che i suoi pranzi, le sue cene, le sue feste somigliavano troppo ai lupercali di Roma, e spesso vi danzavano a tondo le alunne di Tersicore involate alle scene dei principali teatri d'Italia. Donna Clelia non voleva dunque che la sua Ada neppur dalla lontana avesse a intravedere quelle baraonde; la seconda cagione poi non avrebbe saputo spiegarla a sè medesima nemmeno la contessa; ma all'annuncio ed al cospetto di cose e di persone che neppure si può dir di conoscere, coloro che hanno sentimento squisito provano talvolta delle ripugnanze invincibili, alle quali, secondo il nostro debole parere, si deve dar sempre ascolto anche alla cieca. Sono esse, quasi potrebbe dirsi, le arcane ammonizioni che il destino, nei suoi momenti pietosi, dà come di sfuggita a coloro che, contro suo genio, è incaricato d'insidiare e d'affliggere.
Ma intanto che la contessa, tenendosi stretta la sua Ada, tende l'orecchio a quei suoni, perplessa di far retrocedere o di mandar innanzi la carrozza, noi la precederemo, per soddisfare anche alla curiosità del lettore, se mai ne avesse alcuna, e


Col favor della Musa o del demonio
Che il crin ne acciuffa e là ne scaraventa,
Ci cacceremo in mezzo al pandemonio.


IX


Don Alberico F..., il quale è pur quegli che, a perfetta vicenda col finanziere Baroggi, dee dividere il seggio di protagonista in questo lungo dramma; fino a questo punto lasciò che tutti gli altri personaggi facessero liberamente e con tutto agio le loro evoluzioni sul davanti del proscenio, senza ch'egli, nella sua indolenza, siasi mai mostrato un istante in prima fila. Soltanto ha permesso che lo nominassimo spesso e senza lode; e una volta sola, quando non aveva ancora vent'anni, è comparso in iscena per pochi minuti, a contemplare nello specchio la sua bella faccia con gran compiacenza, tutto preoccupato ad aggiustarsi un neo, crediamo alla destra pozzetta; e tutto ciò nel punto solenne che all'illustrissimo suo padre il conte F... stavano per suonare i tocchi dell'agonia a Santa Maria Podone.
E riepilogando il già detto ed aggiungendo quello che non fu ancor detto; quando don Alberico marchese e conte F... rimase erede, a vent'anni, delle grandi ricchezze del padre e delle maggiori dello zio marchese, liberato dalle stringhe paterne e dalle più tenaci dei maggiordomi che s'eran proposti di gratificarsi il conte padrone, fin che fu vivo, coll'imitarlo; fu repentina e compiuta l'eruzione di tutti suoi istinti, e di tutte le sue, non le chiameremo nè facoltà nè doti, ma semplicemente tendenze; i quali istinti e le quali tendenze, un po' native un po' acquisite, parve che si fossero accumulate in lui precisamente com'era avvenuto della eredità del padre e dello zio. Il padre era stato il più indomabile egoista del suo tempo; riservato, pacato, avaro, non erasi occupato che ad ammontare ricchezze; al quale intento, con tutte le arti e con astuzia squisita, ogni qualvolta si presentò il pericolo, s'era adoperato affinchè il fratello non riuscisse a sperdere altrove i suoi grandi averi con qualche matrimonio. Questo egoismo orgoglioso, inteso soltanto alla prosperità del casato, aveva fatto le spese di tutti gli altri suoi vizj. I preti non avevano mai potuto rimproverargli un peccato: le Lidie astute e le crescenti Cloe non arrivarono mai ad involargli uno zecchino. Il più ricco fratello, all'opposto, in bagordi, in cene, in giuoco, in donne, aveva profuso largamente il suo; e se, sparnazzando a dritta e a sinistra le copiose entrate, non era mai riuscito ad intaccare il capitale, era perchè il fratello potè sempre accorrere a prevenire i disastri, con una prontezza e una importunità da provocar la collera e gli strapazzi e le ingiurie violenti del marchese, ingiurie ch'ei sopportava senza turbarsi, non fedele che all'ultimo intento. Di questi due fratelli ognuno dunque può vedere che la pasta del maggiore era stata di gran lunga meno trista di quella del cadetto. La prodigalità talvolta avrebbe condotto il marchese a qualche beneficio; e la sensualità talora lo avrebbe messo al tu per tu di provare qualche meno impuro sentimento, qualche affetto; e quantunque fosse assiduamente passato di amori in amori, come fossero larve d'una lanterna magica, con una incostanza sempre sazia di tutto e sempre sitibonda, pure era stato spesso al punto di fermarsi in una affezione durevole, e più specialmente dopo che era caduta nelle sue insidie l'infelice che fu poi la madre del Baroggi. Se il conte cadetto non fosse sempre accorso a recitar le parti di Creonte quando vedeva il vizio disposto a capitolare, c'è da scommettere cento contro uno che la povera Baroggi sarebbe riuscita a diventar la moglie del marchese. Ma abbandoniamo i due fratelli morti; è dell'erede vivo che dobbiamo occuparci. Le qualità del padre e dello zio confluirono dunque tutte in lui, cospirando a farne un originale stranissimo; poichè egli era avaro e fastoso, prodigo e taccagno, continuamente raggirabile dalle proterve beltà, ma pur sempre presente a sè stesso quando alcuna minacciava di voler durar troppo in carica; splendido mecenate di cantanti e di ballerine ed anche di artisti, e sovventore spontaneo delle loro povere famiglie; e pur nel tempo stesso egoista e spietato, chè il beneficio era apparente, e non si risolveva all'ultima che in una paga anticipata alle insidie future. Avaro e prodigo, come dicemmo, ad onta della contraddizione per soddisfare ad un capriccio fuggitivo avrebbe gettato un tesoro colla spensieratezza di un fanciullo; ma era poi capace di condurre i creditori di camera in sala per mesi e mesi onde usufruttare la loro bisognosa impazienza, e angariarli in mille modi coll'avidità insaziabile di un usurajo.
Dopo tutto ciò, egli aveva qualche non vulgare qualità; qualità, state bene attenti, non virtù; conosciamo benissimo, il valore delle parole, e le misuriamo, non volendo che i farisei fiscalizzino, per trovarci lodatori di quella che vituperiamo; e codesta qualità era un'abitudine di eleganza che aveva recata nella sua vita orientalmente voluttuosa. In Milano possedeva due palazzi, quello del padre e quello dello zio. La casa paterna era stata da lui abbandonata. Invece aveva arricchito il palazzo dello zio di statue e quadri e vi dimorava nell'inverno. Per la stagione estiva s'era poi fatto fabbricare appositamente un palazzino sibaritico tra platani e tigli, in una parte di quell'area che fu poi tutta occupata appresso dai pubblici giardini. I fratelli Galliari e il Bibiena vi dipinsero prospettive; del Tiepolo juniore di Venezia vi erano raccolti quadretti di genere, rappresentanti scene di una giocondità tutt'altro che irreprensibile. Aveva fatto acquisto d'una Galatea del Maratta, della toilette di Venere del Lazzarini, di una bellissima Leda col cigno dello Zuccari, e di altre tele molte d'antichi e contemporanei. Aveva commesso al giovinetto Biondi, scolare del vecchio Porta, una copia del ritratto della Fornarina di Raffaello, un'altra della Gioconda di Leonardo. Amava dunque l'arte e se ne circondava, quantunque la pagasse scarso e lento. E come amava l'arte, così prediligeva la beltà femminile, nella stima della quale poteva sostenere la discussione con un intero corpo d'artisti accademici; e la giudicava anche di sotto alle dubbie apparenze col colpo d'occhio d'un trafficante di schiave, commissionario d'harem; o come un mercante di puledre, estimatore infallibile d'incollature e terga e fianchi e popliti e garetti. Frequentatore assiduo del palco scenico, quantunque fosse intendentissimo di musica e della grande arte delle capriole, pure non era già nè il trillo più agile, nè la scala più granita, nè la nota tenuta più limpida, nè il salto più imperterrito che lo esaltavano; bensì era capace di attaccarsi con sembianza d'amore (aprendo però sempre la borsa, per la gran pratica che aveva nel mondo) anche alla stonatrice più perversa, purchè avesse il collo di Diana; di scegliere anche l'ultima danzatrice in linea d'arte, purchè fosse la prima nella linea del corpo.
In codesta sfera di erudizione nessuno lo vinceva; qui era tutta la forza del suo genio.
Circondato da' suoi colleghi di stravizzo, il signore del luogo, tra le alunne di Citerea e le bottiglie di Sciampagna e le carte micidiali, vi passava in trista giocondità, non i giorni ma le notti quando trovavasi a Milano. Diciamo le notti perchè di giorno tutto taceva colà, e nelle ore in cui tutta la città era operosa, quel luogo poteva meritar l'appellativo di Casa del sonno, quantunque il popolo per antonomasia continuasse a chiamarla argutamente La casa del diavolo.
Abbiamo detto che vi passava le notti quand'egli trovavasi a Milano, perchè spesso trovavasi in fazione, aggiunto al presidio militare di qualche città del Ducato, nella sua qualità di capitano del reggimento Clerici. Chè egli aveva a danaro comperato quel grado nella milizia, essendo vaghissimo di sfoggiar le insegne militari come quelle che più che mai lo rendevano accetto alle donne. E non sempre eran le venali alunne di Tersicore e di Pafo quelle di cui si compiaceva; ma faceva la corte anche alle dame, e spesso accompagnava al teatro la pudica d'altrui sposa a lui cara, che capricciosamente cangiava quasi ad ogni cangiar di luna: e l'assisa e le spallette e gli speroni facevano l'effetto del guizzasole negli occhi ingenui anche di qualche fanciulla inesperta, e qualche fratello, rovinato da lui al giuoco e da lui soccorso con diabolica intenzione, diventava spesso il funesto intermediario d'amore.
Ad onta di tutte queste scellerate qualità, il più delle volte protette dall'oscurità e dal silenzio, perchè il danaro faceva miracoli, ed era interesse della vergogna di non lasciarsi vedere in pubblico; esso non era, pur troppo, come si sarebbe meritato, in odio alla moltitudine. I suonatori d'orchestra, per esempio, parlavano benissimo di lui, perchè quando taceva il teatro, era per lui se scansavano il pericolo di andar ad impegnar il contrabbasso o il violino; i portinai del teatro lo portavano a cielo, perchè non c'era nessuno che lo superasse nell'abbondanza e nella frequenza delle mancie. Gli impresarj, i mediatori teatrali che da lui avevano tante incombenze d'ingaggio ed erano ben pagati, tra le altre cose ebbero persino a lamentarsi perchè non fosse nominato direttore perpetuo del regio ducale teatro. Ed anche fuori di Milano, anche nelle altre città del Ducato non si parlava male dì lui, perchè se alla testa dei suoi soldati non vi recava la scuola dei buoni costumi, vi metteva bensì in movimento molto denaro; chè s'era proposto d'imitare il celebre general Clerici, il quale, quando si moveva, trasportava seco un'intera compagnia teatrale d'opera e ballo pur nelle stesse fazioni di guerra, avendo fatto erigere più volte a proprie spese dei teatrini posticci per rallegrare i bivacchi notturni. Fido infatti a questa imitazione, il marchese Alberico aveva lasciato buonissimo nome di sè anche fuori d'Italia, quando nel 1759, giovane di ventott'anni, aveva militato ad Hohenkirchen sotto al generale Lascy, il Vauban della Germania.
Dopo tutto ciò, questo Sardanapalo cogli spallini e in calzettina di seta; questo Baldassare non minacciato da nessun motto arcano e non intercedente spiegazioni da verun profeta di sventure, in quella notte dei banchetti generali, per mantenersi nel suo primato di sibarita scialoso, aveva aperto intorno a sè una specie di corte bandita. Alla mensa apparecchiata per lunghissimo tratto innanzi al suo casino, mezzo nascosto dalle alte piante, i convivi sedettero in gran numero. Se vi fu profusione d'imbandigioni, vi fu buon gusto straordinario nella disposizione, diremo, ornamentale del banchetto; vi fu originalità nel modo onde venne servito; chè in luogo di camerieri incipriati e livreati e passamantati, dodici donzelle, præstanti corpore, alla più matura delle quali la Parca, appena appena — Il decimo ed ottavo anno filava — dodici donzelle foggiate in vario costume e discinte anzichè no facevano il servizio della tavola, e ad un cenno degli invitati, da espertissime Ebi a cinquanta soldi al giorno, versavano spumante lieo nei calici lucenti. Allorquando poi i convitati furono saturi, e la mensa presentò come la scena di un campo di battaglia, e rovine di pasticci, e ruderi di bomboniere, e una selva inestricabile di bottiglie e di vasi e di calici, allora cominciarono le danze, e più decine di cavalieri colle loro ballerine intrecciarono quadriglie ed eseguirono il lento minuè, tanto propizio alle digestioni.
Innanzi a questo banchetto, con pochi amici e col bicchiere alla mano, continuò a star seduto il marchese, intanto che fervevano le danze, e negli intervalli la bella e capricciosa Agujari cantava nell'aperto salone del palazzino mettendo il delirio in tutti gli ascoltanti; la bella Agujari che costava tesori a chi la voleva corteggiare, e che da poco tempo s'era degnata di accordare la sua benevolenza allo splendido marchese, perchè un giorno, dopo il pranzo, le aveva concesso di fracassare un ricchissimo servizio di porcellana del Giappone; e un altro giorno che don Alberico era smontato da un bellissimo cavallo arabo, ottenne da lui, se non voleva ch'ella il piantasse sui due piedi, di poter tirare un colpo di pistola nell'orecchio di quel nobile animale.
Mentre adunque l'orchestra suonava e i ballerini ballavano, oppure quella viziata virtuosa sfoggiava sghiribizzando le note più acute della voce più estesa che, al dire degli esperti, allora vi fosse al mondo; egli s'indugiava a tavola, e precisamente per aspettare l'arrivo della carrozza della contessa Clelia e della sua figliuola. — Don Alberico quasi poteva dire di non conoscere la prima e non aveva mai veduta la seconda; onde per le avventure strane dell'una e dell'altra, e per la gran fama della loro bellezza aveva una grande curiosità di vederle e di complimentarle; e tanto più che s'era banchettato per loro e bevuto alla loro salute.
Aspettava dunque da qualche tempo, e si maravigliava che, essendo già tardi, non si vedessero ancora a comparire; quando, all'improvviso, fortissimi evviva e battimani che venivano da coloro i quali avevano estese le danze fin quasi alla porta della città, lo avvisarono che ciò doveva essere pel loro passaggio.
Infatti, allorquando la contessa diede ordine al cocchiere di procedere per porta Orientale col trotto il più serrato, il cocchiere spinse i cavalli, sicuro della felice riuscita; ma appena dal bastione ebbe svoltato verso il borghetto, che le loro signorie, la contessa e la contessina, furono salutate con urla di gioja matta da quelli che ballavano sub luna; e le danzatrici ebriose, alcune fermarono i lacchè con violenza, lor togliendo le torcie, e agitandole come tirsi con faunina protervia; altre si fecero imperterrite al muso de' cavalli, quasi offrendo quella scena che si presenta al viaggiatore nauseato, quando nella città di Napoli si avventura a passar per via Capuana. Pure, ad onta di tutto questo, la carrozza potè andare innanzi, sebbene con lentezza, e quando fu per passar presso la mensa abbandonata, il marchese Alberico, circondato da' suoi, quasi diremmo, camarlinghi, si presentò allo sportello.
Or guardate caso stranissimo! — Ada, nel vederlo, tirò la mano intrecciata a quella di sua madre, e mandò un'esclamazione di maraviglia paurosa che a tutti sfuggì, com'è naturale, ma non a sua madre, la quale si volse a quel sommesso grido, interrogandola cogli occhi indagatori più che colle parole.
Che dunque significa ciò? Significava.... ma non mettiamoci in apprensione, significava un fatto naturalissimo. La giovinetta Ada, quando vide il conte Alberico, credette, a tutta prima, di vedersi innanzi il Galantino in divisa militare, e ciò per la ragione che, infatti, tra il Galantino e il marchese Alberico era una gran somiglianza, di quel genere però che forse poteva passare inavvertita agli indifferenti, ma non a chi aveva imparato a palpitare per la prima volta sotto il fascino di quelle tali forme, di quelle tali linee caratteristiche e distinte.
Or che cos'è, dirà il lettore, codesta storia della somiglianza? È anche questa una conseguenza d'un altro fatto naturale, poichè bisogna ricordarsi che l'Andrea Suardi era nato in casa F... da un Giovanni Suardi stalliere, salito poi al grado di cocchiere. E ora è da aggiungere che il cocchiere Giovanni, quando da una bellissima moglie del contado di Cremona gli nacque il fanciullo che fu il primo e l'ultimo, non potè più salvarsi dalle celie de' suoi compagni di scuderia e di rimessa e di tutta la servitù di casa F...; e le celie crebbero col crescere del fanciullo, il quale, se il marchese avesse avuto moglie, tutti avrebbero detto che era suo figlio. Al conte Alberico che, siccome avviene sovente tra consanguinei, per le misteriose bizzarrie della natura, rendeva più le sembianze dello zio che del padre, toccò dunque in sorte di somigliare al figliuolo d'un cocchiere; somiglianza che andò dileguando col tempo, e che, a dir così, non guizzava che di sfuggita dai muscoli dei loro volti e da certi movimenti caratteristici dei loro corpi; perchè il lacchè, anche per quelle ragioni fisiologiche sviluppate dal bastardo Filippo Faulconbridge nel Re Giovanni di Shakespeare, aveva sortito due gambe poderose dove l'altro aveva avuto de' fuseragnoli; due braccia atletiche dove l'altro avea dovuto ricorrere alla correttrice ovatta; un viso della più bella tinta incarnata e porporina dove l'altro non aveva potuto rinunciare ai beneficj del minio. — Ecco dunque come nacque lo scambio che mise sottosopra il sangue della povera Ada, e la rituffò ne' suoi tristi pensieri, onde sollecitò la mamma di partire di là, gettando però alla sfuggita un'occhiata al protervo marchese; come chi non può staccarsi dalla contemplazione di un ritratto che ricorda un originale il quale, a proprio dispetto, non si può dimenticare.


LIBRO DECIMO


L'anno 1797.   Il ballo del papa.   La predica dell'arciprete Besozzo in San Lorenzo.   Il teatro della Scala nella sera della domenica di quinquagesima.   Il programma del cittadino Salfi.   Il coreografo Lefèvre.   Giuseppe Peruccone, detto Pasqualino.   Le cittadine: signora R...; contessa A...; avvocatessa F...;   Il figlio del finanziere Baroggi.   Una figlia della contessina Ada.   La Libertà, l'Eguaglianza, la Dionisa.   Rappresentazione del ballo.   Scioglimento con perigordino. - Andrea Suardi e Marchese F...



I



Saltando coraggiosamente sei lustri, dobbiamo entrar e piantarci nel fitto dell'anno 1797, nel carnevale di tale anno, pigliandolo precisamente alla sua domenica di quinquagesima, per stare più in regola col calendario ecclesiastico e col nostro fedele Pescatore di Chiaravalle. Trent'anni sono trascorsi dal giorno che la contessa Ada fu perduta e trovata; quarantasette da quella notte memoranda, quando il tenore Amorevoli saltò il muro di cinta del giardino di casa V... Quante vicende, quanti affanni, quanti mutamenti pubblici, che procelle, che trasformazioni! Ben si può dire che, in questo intervallo, l'umanità ha cambiata tutta quanta la sua pelle come il serpente. Eppure dei nostri personaggi non è ancor morto nessuno. Nessuno, tranne la venerabile donna Paola Pietra, perchè era già vecchia quando ne abbiam fatta la conoscenza; tranne l'avvocato Agudio, perchè era decrepito quando lo scontrammo sull'uscio di casa Pietra; tranne il giovane lord Crall, perchè ebbe la malinconia di voler fare il precursore di Werter e di Ortis: gli altri sono tutti ancora vivi, il che vuol dire che la natura umana è ben tenace, e i suoi dolori pajono piuttosto dolori teatrali che veri; se si eccettuino quei della renella e quei della gotta, e gli spasimi dei denti molari!!
Ora, essendo quasi tutti vivi i personaggi di nostra vecchia conoscenza, è naturale che da loro e per loro sien nati altri personaggi, che nel tempo a cui siamo saltati, sono giovani e adolescenti e fanciulli, e i quali, l'uno dopo l'altro, dovranno pur passare, per forza o per amore, sotto la nostra mano. Noi ci troviamo nella condizione del cavallerizzo che attende nel circo ai giuochi romani. Ei comincia con due cavalli, poi sottentra un terzo, poi un quarto, poi due d'aggiunta, e un altro, e due altri ed altri ancora, finchè si trova aver tra le mani un grosso manipolo di redini refrattarie e quasi insensibili alla mano, con dodici o quattordici cavalli da far correre nell'arringo, col pericolo di stramazzare ogni momento, e di vedere qualche indocile corridore uscir dal sistema e trascinare i lunghi freni per la polvere olimpica ad impacciare la corsa, e ad assicurargli le fischiate del caro Pubblico che guarda all'esito e non alle difficoltà superate, e ne ha tutte le ragioni.
Ma, tirando innanzi, se la società cangiò faccia, e il pensiero umano fu tutto messo sottosopra, il resto ha seguito le sue sorti. Le vesti, le foggie non sono più quelle d'una volta; le mura stesse della città non sono più quelle. - Molti edifizj scomparvero, altri ne sorsero di nuovi. - Un galantuomo, defunto nel 1750 o nel 1766, risuscitato per incanto, non avrebbe più trovato modo di raccapezzarsi passando in quella mattina di marzo per la via della Scala. - L'antica chiesa era scomparsa; trent'anni prima avrebbe letto, passando per di lì, sulla facciata di essa, o un Pax vobis, o una Indulgenza plenaria, o un Pregate per l'anima, ecc., ecc. In quel dì invece, alzando la testa, avrebbe dovuto far le meraviglie vedendosi innanzi un gran teatro, con un gran portico, con un gran terrazzo, con un frontone greco romano chiudente in bassorilievo un Febo auriga che sferza i cavalli. Altro che idee e cose di chiesa! E sotto, invece del cartellone della confraternita del Santissimo Sacramento, un cartellone pendente dall'arco di mezzo, sul quale il Pubblico affollato nella mattina di quinquagesima del 97 leggeva queste parole:



il ballo del papa

ossia

il general colli in roma

pantomimo

eseguito

dal cittadino lefèvre


Più basso, impastati sui due estremi pilastri del portico alla portata della vista di un uomo d'ordinaria statura, si vedevano due piccoli affissi, senz'eleganza nè di carta nè di carattere. Il gesso non aveva ancor invaso la manipolazione degli stracci. Bodoni non era ancor comparso. Su quei due affissi, dopo il titolo generale del nuovo ballo, e il nome dei personaggi e degli attori, spiccava l'epigrafe dantesca:


Ahi Costantin di quanto mal fu matre


con quel che segue; poi si leggevano queste parole del cittadino Salfi al popolo di Milano:
«Questo pantomimo, che annunzia il regno della ragione, non è un'invenzione semplicemente ingegnosa, ma il risultato di quei fatti e di quei caratteri che formano la storia più interessante degli ultimi tempi di Roma. Si potrebbero verificare le più minute circostanze con quei monumenti che debbono oramai essere notissimi al pubblico, e che si conservano sparsi nel giornale intitolato Termometro politico della Lombardia. Possa questo primo lampo della verità incenerir l'impostura ed il fanatismo, e far trionfar la religione e la pace.
Salute e fratellanza.»


Correndo il marzo, come abbiamo detto, faceva una bella giornata limpida e trasparente, e per soprappiù soffiava un vento marino tepido e consolante. Esso era annunziatore della primavera, e poteva anche annunziare un ultimo saluto di neve. Gli uomini che non vantavano il piè veloce di Achille, o andavano soggetti a flussioni dentali periodiche, erano anzi di questo parere. In ogni modo, essendoci il sereno e l'almo sole, e soffiando i tepidi favonj, gli avventori della bottiglieria Cambiasi, che era celebre di quel tempo per i suoi rosolj, segnatamente per il latte di vecchia e il perfetto amore, stavano fuori della bottega divisi in gruppi, parlando precisamente del ballo andato in iscena il dì prima. - Il che medesimamente succedeva innanzi al vecchio caffè così detto dei Virtuosi. La Cecchina non era ancor nata, e forse nemmeno sua madre, a proporre una variante di quell'appellazione. - Ora le insubre puledre calpestano l'area dove sorgevano quegli incliti ritrovi. Davvero che pensiamo a ciò con crepacuore, quantunque la colpa sia tutta nostra. La descrizione di Persepoli riesce più difficile al poeta senza le venticinque superstiti colonne; ma giacchè il progetto di demolizione è venuto da noi, tal sia di noi dunque, e andiamo avanti.
I vecchioni, ancora tenaci del cappello a tre punte, e del topè ad ala di piccione, e della faccia sgombra, e del mento raso, passando per di là rimanevano scandolezzati a vedere le nuove e strane foggie de' giovanotti. I cappelli espansi a caldaia, alti e larghi con nastroni di velluto, fuor de' quali faceva capolino il coccardone repubblicano, celavano fino all'occhio quelle faccie atteggiate ad un cipiglio di convenzione; fedine larghe e folte coprivan le guancie, rendendo la figura di due pere crinite che, scendendo dal cappello, andassero a nascondersi in un enorme cravattone bianco, entro il quale stavano fasciati e collo e mento, fino ad invadere i diritti del lobo auricolare. Gli occhi soltanto e il naso erano lasciati in libertà; ma di sotto all'ombra fitta del cappello, che radeva il sopraciglio, avevano un'apparenza truce e sospetta.
I rivenduglioli di carte e stampe e bullettini gridavano intanto sulla piazza: «Signori! Il credo del Papa per due soldi; Il discorso dell'Ussaro, signori! - Il sogno dell'arciduca Ferdinando. - La bolla di Pio VI. - Avanti, signori, chi compera, signori?» Poi tutt'a un tratto, tra le diverse voci di quei pubblici schiamazzatori se ne sentì una più forte e più invadente di tutte, e veniva da un nano tutto coperto, dalle spalle alle piante, per nascondere il perfido sistema delle sue gambe, di un soprabito rosso color fuoco, sormontato al petto da un gran medaglione inargentato, avente nel mezzo un occhio del Padre Eterno: A S. Lorenzo, signori! gridava quel nano: - Il cittadino arciprete farà a momenti la predica del papa. - A S. Lorenzo, a S. Lorenzo!
Il signor Giocondo Bruni, quel nostro vecchio amico, che non avrebbe mai dovuto morire; quella storia animata ed ambulante che il lettore ben conosce, e che ci raccontò tante e tante cose che non stanno nei libri, perchè i libri troppo spesso sdegnano di raccogliere gli sparsi minuzzoli del vero, senza dei quali il vero non è però mai completo: il nostro signor Giocondo, dunque, si trovava anch'esso quella mattina, insieme cogli altri, sulla piazza della Scala, anch'esso, già si sa, col suo cappellone e il suo coccardone e il suo cravattone e anch'esso atteggiato al burbero, perchè un legittimo repubblicano non poteva aver sorrisi e grazie senza correr pericolo di parer un tepido, e, quando l'altrui malumore l'avesse voluto, anche un pericoloso cittadino. Egli ci raccontò che si sapeva fin dalla sera prima, che l'arciprete di San Lorenzo aveva promesso di fare al pubblico una predica relativa al papa e alla sua temporalità e alla sua infallibilità, per animare i cittadini timidi, scrupolosi e bigotti, a recarsi a vedere il nuovo gran ballo della Scala, e che però, quando il nano della bussola di San Lorenzo comparve a gridare in piazza, la piazza rimase subito vuota, e tutti, compresi gli avventori del caffè dei Virtuosi, tra i quali trovavasi anche il cittadino Lefèvre, il coreografo, che faceva la parte di Pio VI, e il signor Raimondo Fidanza, che rappresentava il personaggio del general Colli, si avviarono a San Lorenzo tra gran folla di persone che, strada facendo, si faceva sempre più stipata; tanto che ci volle gran fatica e ajuto di gomiti e d'urtoni a farsi largo tra le colonne di San Lorenzo; e fu un'impresa veramente erculea il tentar di penetrare sotto gli archi della rotonda, nella quale echeggiava già sonora e concitata la voce dell'arciprete Besozzo, caro ai professori di rettorica per la sua eloquenza, rispettato anche dai bigotti per la sua dottrina in divinità e la profondità in patrologia; temuto dagli aristocratici, esaltato dai patrioti.



II



Quando il Bruni si trovò, dopo lungi stenti, sotto ad uno degli archi della rotonda, fu adocchiato alla lunga da suo padre; sì, signori, da suo padre ancora vivo, ossia dal signor Lorenzo, il decrepito marito della ballerina Gaudenzi; colui che, se il lettore se ne ricorda, era un giacobino nato fatto, prima che dei giacobini nessuno sospettasse per ombra nè l'esistenza nè l'appellazione; il signor Lorenzo Bruni, che contava i suoi ottantadue anni come se fossero ottantadue zecchini l'uno sopra l'altro, e che, avendo visto di presenza a nascere la rivoluzione in Francia, s'era consolato nel vedere l'attuazione di quelle cose ch'egli in confuso aveva pensato e desiderato quarant'anni prima. Vicino a lui era il prevosto Lattuada di Varese, prete fenomeno, e che poteva parere esaltato tra gli esaltati. V'era il frate somasco Carrera, che, educato ai rigori della vita claustrale, di tanto lasciò prorompere alla libertà la sua indole, di quanto era stata violentemente compressa.
Adocchiato dunque dal padre e dagli amici, il nostro Giocondo, che sta fra noi non vecchi e i nostri vecchissimi avi, come Enoc stette fra Adamo e Noè, venne invitato e fu soccorso anche da un sagrestano a trascinarsi fino a quella cappella privilegiata, collocata nei rapporti col pulpito in modo, che della voce del predicatore non si perdesse alcun suono.
Ma il predicatore continuava la sua predica da qualche tempo, onde i nostri ascoltanti lo seguirono coll'attenzione, appena seppero togliere il bandolo del discorso:
«Reca dolore, così parlava il famoso arciprete di San Lorenzo, reca dolore il mettere in vista cose di sì poca edificazione, e temo che chi mi ascolta, più fornito di pietà che di lumi, prenda occasione di scandalo, e pensi che convenisse dissimularle; ma chi parla al popolo credente deve dire la verità tutt'intera. Un tale esempio ce lo danno gli storici sacri. Mosè non dissimula i delitti del popolo, nè le proprie sue colpe; Davide volle che il suo peccato fosse reso palese; gli evangelisti, nel Nuovo Testamento, rappresentarono concordi l'infedele caduta di San Pietro.
«Io so che alcuni uomini ammalati di pregiudizj e d'ignoranza incurabile, perchè non amo credere ad altre cagioni meno oneste, andarono insinuando, e dal pulpito quando avevano coraggio, e dal confessionale quando avevano paura, che non bisognava dare ascolto alle mie parole, che io non possiedo nè sapienza nè dottrina, che abuso di quella autorità di che sono stato rivestito. Ebbene, io voglio dar ragione anche a costoro; io voglio che non crediate alle mie parole; io stesso, dirò di più, non mi attento di star sicuro della mia sola opinione: ma che direte quando i più grandi luminari della storia ecclesiastica mi daranno ragione? che direte quando parleranno gli evangelisti, dai quali io non ho fatto che attingere quello che già vi ho detto? che direte quando verranno gli stessi santi padri ad accusare la condotta della curia pontificia? che direte quando gli stessi pontefici confesseranno il vero in danno proprio, e non avranno paura di annunciarlo?
«Perchè chi vi ha detto che il papa sia infallibile, ha detto menzogna. L'infallibilità da G. C. non fu data che alla Chiesa. Quotiescumque congregati eritis in nomine meo, in medium vestrum ero.
«I santi Padri hanno osservato un profondo silenzio sulla pretesa infallibilità del papa.
«S. Basileo accusò vivamente Damaso papa, perchè andava in collera contro chi diceva la verità. Se San Basileo avesse creduto il papa infallibile, avrebbe egli accusato il pontefice Damaso?
«Rustico e Sebastiano sostennero che il papa Virgilio aveva combattuta la definizione del concilio di Calcedonia, cosa che fece dire ad Eumaro arcivescovo, che questo papa era veramente eretico.
«Io sono sommamente scandalezzato da voi, scrisse San Colombano a Bonifacio IV, imperciocchè la vostra condotta è grandemente sospetta d'eresia. Se volete essere giudicato successore di Pietro, dovete essere custode della di lui fede: Doleo de infamia cathedræ Petri: ut ergo honore apostolico non careas, conserva fidem apostolicam.
«Può esservi espressione che più radicalmente distrugga l'infallibilità pontificia? «Agostino Trionfa, tuttochè gran partigiano del papa, nella sua opera Clavis Scientiæ, ha detto chiarissimamente, che il papa è fallibile: Papa potest errare.
«Lo stesso Innocenzo III ha affermato che il papa può errare come qualunque altro: facile crediderim, ut Deus permitteret, romanum pontificem contra fidem posse errare.
«Ma tant'è vero che i papi sono fallibili, che la storia registra i loro errori e i loro disordini. E anche intorno a ciò, se non volete credere a me, se avete in sospetto i libri profani, se credete ch'io parli per bocca dei nemici della chiesa, udite i suoi adoratori.
«Alcuino, scrivendo a Carlo Magno sulla corruzione della corte di Roma, gli fa intendere, che in essa non vi regna nè pietà, nè giustizia, nè carità; che egli non ha altro rifugio che ricorrere alla di lui saviezza, e pregarlo, giacchè Roma non vuole porre argine a siffatti disordini, di trovar mezzo con cui rimediarvi. — Ecce in te solo tota salus ecclesiarum Christi inclinata recumbit.
«Chi non sa quel che scrisse S. Bernardo a Innocenzo III? Fideliter loquor quia fideliter amo.
«Parlava sincero perchè amava sincero, e diceva che la cagione del decadimento della Chiesa universale doveva trovarsi nella corruzione della curia romana: In vos, pontifices, curiamque romanam. E nella lettera ad Eugenio IV egli dice ancora di più.
«Nel consilio Remense, convocato nell'anno 992, è detto con tutta quanta la libertà, che Roma era divenuta venale e che tutto dicevasi e facevasi colà secondo la quantità dell'oro e dell'argento: Roma venalis exposita; ad nummorum quantitatem judicia trutinat.
«Adriano IV ha detto che la corte di Roma era macchiata di morali disordini: Scimus in hac sancta sede, aliquot jam annis multa abominanda fuisse, et omnia in perversum mutata.
«Non sono io dunque che parlo; non è a me che voi avete obbligo di prestar fede. Ma se venerate San Bernardo, se avete fede nei papi Innocenzo e Adriano, se avete rispetto alla parola inappellabile dei concilj, dovete dire che io non ho fatto che ripetere contro la curia romana e il potere pontificale quelle accuse che furono già scagliate da quei grandi e santi uomini. - Ascoltate dunque coloro, se non volete ascoltar me.
«La veneranda Chiesa cattolica, egli è G. C. che la istituì; le diede precetti fondamentali di umiltà, di giustizia, di carità; la premunì pien d'amore per essa, di tantissimi sacramenti; la fecondò coi suoi divini esempj, colla predicazione, cogli stenti, colle fatiche; la consolidò col sangue e colla morte. Ma guardatevi, disse a' suoi discepoli, che tra voi non escan fuori uomini scellerati e perversi; tenteranno costoro di perturbarla, di disordinarla, di distruggerla: Nascentur ex vobis viri peversi ut abducant post te discipulos suos. - Il testo è di S. Paolo.
«Ma che cosa dunque si deve fare per ovviare a tanti disordini? Richiamare il pontificato alla santa semplicità delle sue origini;. fargli restituite i doni funesti che ebbe dai re della terra. Costringerlo, per dir così, ad esser santo, obbligandolo alla sola giurisdizione spirituale. Uomini e sacerdoti ignoranti e pregiudicati vi hanno detto che, tentar di smuovere la temporalità del potere papale, è atto sacrilego, e tale da meritarsi la pronta punizione di Dio. Ma costoro come faranno a chiamar sacrilego G. C.? come faranno a invocar su lui l'ira divina? Dabo tibi claves regni cœlorum, ha detto G. C. a S. Pietro; e quando il popolo, stupito de' tanti miracoli che operava, voleva farlo re, che cosa fece G. C.? Fugit ne eum facerent regem; e che disse quando fra' suoi discepoli si agitò quistione di maggioranza? Qui major est inter vos, fiat sicut minor; e di che parole fece uso quando parlò dei re della terra? Reges gentium dominantur eorum, vos autem non sic. Com'è dunque che, se i comandi e gli esempj dati personalmente dal Redentore sono precisi, comandi ed esempj da doversi fedelmente seguire, com'è che, mentre e G. C. e San Pietro hanno avuto in orrore ogni sorta di dominio sopra gli altri, il papa potrà pretendere monarchia terrena?
«Alla podestà temporale si oppone dunque il carattere dell'ecclesiastica società, la dottrina e l'esempio di G. C., gl'insegnamenti degli scrittori e dei Padri, la pratica fedelmente seguita nei primi secoli della Chiesa.
«La società ecclesiastica non si propone altra cosa, che disporre il cuore de' popoli a vivere secondo le massime del Vangelo, e condurli alla vita eterna.
«Gesù Cristo non dà a' suoi discepoli altra autorità che d'istruire, predicare e battezzar le nazioni: docete omnes gentes, baptizate eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.
«Gesù Cristo non concede a' suoi discepoli altra podestà che di legare e sciogliere dai peccati gli uomini: Amen dico vobis, quæcumque ligaveritis super terram, erunt ligata; et quæcumque solveritis, erunt soluta. Dal che ognuno ben vede che una simile podestà riguarda unicamente la salvezza eterna degli uomini, ed ha soltanto di mira il dominio spirituale.
«Quando gli apostoli dissero a Gesù Cristo, allorchè i Samaritani non l'hanno voluto ricevere: - Fate scendere il fuoco dal cielo e inceneriteli, - «Che dite mai, rispose loro G. C., e di che spirito siete? il figliuol dell'uomo non è già venuto a perdere uomini, ma a salvarli, filius hominis non venit animas perdere, sed salvare». E quando Pietro troncò l'orecchio a Malco, che gli disse il Cristo? Mitte gladium tuum in vagina, omnes enim qui acceperint gladium, gladio peribunt.
«E i santi Padri? Udite i santi Padri; ascoltate Sant'Ambrogio: - Tutte le ricchezze della santa Sede non consistono in altro se non nella fede. Ecclesia nihil sibi, nisi fidem possidet.
«E S. Fulgenzio che cosa dice? Udite S. Fulgenzio: - Tutta quanta l'autorità del pontefice riguarda lo spirituale e nulla più. In sæculo nemo rege celsior» E Innocenzo III dice che l'autorità temporale compete al solo re: Rex in temporalibus neminem superiorem habet.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«E dopo tutto ciò, sino a quando si vorrà far servire il supremo sacerdozio all'errore, alla passione, ai disordini? Sino a quando chi è supremo pastore delle anime, si avrà a vederlo disposto a servirsi della religione come d'appoggio per estendere i suoi temporali interessi a taccia propria, a scandalo universale, a distruzione della cattolica Chiesa?
«Ma sinora abbiamo udito Gesù Cristo, i santi Padri, i pontefici più sapienti, gli apostoli, i concilj. Udiamo adesso coloro che pretendono di saperne più di loro.
«Se si tolgano al papa, dicono essi, le ricchezze e il temporale dominio, Roma, il papa, la Chiesa cadranno in disprezzo, quando invece conviene che sian sempre presso i popoli cristiani in somma venerazione.» Ma non sentite voi tutti come sia questa una manifesta follia? la disistima e il disprezzo non dipende tanto dall'influenza delle umane ricchezze, quanto dalla mancanza delle evangeliche virtù; la stima e la venerazione che si porta a chi abbonda di ricchezze, è una venerazione e una stima apparente, effimera e falsa; quando, all'opposto, quella che procede da una vita ricolma di virtù, è reale, è sincera, è soda; questa riflessione ci somministra una pratica verità, la quale, senza che l'accenniamo, ognuno può facilmente congetturarla.
«Tolgansi pertanto da Roma codeste terrene ricchezze, tolgasi al papa l'affluenza dei beni che gode, ed ecco rinascere ne' sommi pontefici il primitivo amore, ed eccolo riacceso anche nel cuor dei fedeli.
«Ma per conchiudere su questo punto delle ricchezze e del temporale dominio del papa, voglio che sentiate quello che, al suo segretario Eginardo, ha detto in punto di morte Carlo Magno, colui che esercitò la sua liberalità facendo grandi donazioni al papa:
- Rispetto alle mie militari imprese ed alle imprese politiche - ripeto le precise sue parole, - niuna cosa è per cui tanto tema di avermi tirato l'ira di Dio, quanto le cose che ho fatto in Italia. In quella occasione la mia ambizione mi precipitò in mille iniquità. Ho ajutato i papi; ho rotto, a persuasione di essi, il matrimonio colla figlia di Desiderio; l'ho rimandata disonorata al padre.
- Per colmar lo stajo delle mie reità, mi sono lasciato indurre a far signori i pontefici romani di una gran contrada d'Italia, con che veggo d'aver gettato i fondamenti della di lei totale rovina. Per la qual cagione mi debbo aspettar da Dio un castigo severissimo, e la memoria mia sarà avuta in abbominazione dalla italiana posterità. Il dominio di tante città e provincie, in mano di un ecclesiastico, non può produrre che mali gravissimi. Come mi giustificherò io dunque, o Dio, di tanti guai, delle tante guerre, e delle tante calamità, che, per la donazione che feci alla Chiesa di S. Pietro, sovrastano all'Italia? -
«Queste parole di Carlo Magno sul letto di morte fanno piangere a ripensarle oggi. Però non è fanatismo nè errore il dire, che la soppressione del dominio temporale, ossia la distruzione di tutto ciò che portò seco la fatale donazione di Carlo Magno, è l'unico rimedio per far cessare gli orrendi abusi della corte di Roma e per salvare l'Italia.
«Sono secoli e secoli che la Chiesa mortalmente geme sotto i disordini della corte di Roma, prodotti dal temporale dominio del papa; tempo è dunque oramai che si dia contro di essi un colpo vigoroso, risoluto e decisivo. I disordini allora cesseranno; la Chiesa, depurata da' pregiudizj, trionferà; gli Stati saranno tranquilli; la pace sarà nel mondo; l'umanità potrà finalmente provare tutti i beni dell'esistenza, e Dio sarà glorificato.»
A questo punto l'arciprete predicatore, il quale, esaltato dal suo tema, aveva percorso tutto il diapason della sua voce sonora, cangiò tono e modi a un tratto, come se l'oratore ecclesiastico cessasse dalle sue funzioni e sottentrasse il cittadino consigliere ed amico del popolo; cangiò tono e modi, e così prese a dire:
«A coloro i quali, siccome ho già fatto osservare, hanno più pietà che lumi e buon senno, farà meraviglia che io vi abbia chiamati qui per invitarvi ad assistere ad una rappresentazione in teatro, dove il pontefice è messo in scena. Ma siccome è corsa voce, che alla persona del pontefice fosse fatta ingiuria, e che una satira indecente lo esponesse al dileggio del popolo, così vi esorto a credere, che questa non è che una menzogna dei religiosi fanatici, e una vana paura degli spiriti deboli. Il papa vi è rispettato. Bensì la rappresentazione è condotta in modo che serva di ammaestramento al popolo, e proponga utili consigli a coloro che hanno promesso di voler chiudere finalmente le vecchie piaghe d'Italia.»
E il predicatore, dopo queste parole, scomparve dalla vista dell'uditorio affollato, il quale cangiò l'attenzione silenziosa in un bisbiglio, che man mano si fece sempre più rumoroso; chè le varie opinioni vennero manifestandosi in tali discussioni, da far credere che la rotonda di San Lorenzo fosse piuttosto un'aula parlamentaria che una chiesa. Questa nullameno si andò vuotando a poco a poco, senza disordine di sorta. Bensì avvennero disordini gravi sulla piazza della Scala e nelle contrade laterali al teatro, per la gran folla che vi si accalcò verso le ore tre dopo mezzodì. Lo spettacolo davasi gratis e a porte aperte, e tutti volevano giungere in tempo per trovar posto. Vi furono risse e percosse. La guardia nazionale accorsa vi lasciò qualche fucile e qualche lume e qualche falda del marsinone bianco verde. Molti veli e drappi e sottane furono messe a lembi; molte donne furono portate semivive fuori della folla.
I fortunati siamo noi soli, che, senza fare anticamera, potremo recarci in teatro un momento prima che si alzerà il sipario; e probabilmente avremo l'accesso a qualche palchetto, o troveremo un posto in orchestra, o sul palcoscenico addirittura. Da questi punti, oltre lo spettacolo teatrale, godremo lo spettacolo del pubblico, e percorrendo col cannocchiale le cinque file dei palchi, faremo di riconoscere i vecchi amici dai loro discendenti, e qualche cara beltà; e spingendo l'occhio indagatore nell'indistinto brulicame della platea, vi scorgeremo qualche elmo a criniera, che coprirà la testa giovanile di chi, sebbene uscito di plebe,



Forse è chiamato a non oscuro imene.



III


La predica fatta in San Lorenzo aveva dunque raggiunto l'intento voluto dal predicatore, il quale era di mandare in teatro, ad assistere al ballo del papa, quel maggior numerò di persone che fosse stato possibile. La verità dimostrata a parole non penetra intera che negli intelletti robusti e liberi da pregiudizj; ma la verità rappresentata dall'azione palpitante del dramma e affidata a personaggi vivi, ottiene più facilmente il libero ingresso nell'intelligenza di tutti. D'altra parte, l'idea trapassa al popolo, quando è sazia di soffiare inutilmente nelle alte regioni. A tre ore dopo mezzodì, come dicemmo, la piazza della Scala era talmente stipata di pubblico, da presentare tutti i pericoli di un fiume straripato e irruente, che non trova il suo sfogo, e che, fino a tanto che non gli è dischiusa una via, non manca di lasciare qualche traccia e qualche vittima dell'impeto suo.
Tuttavia, dopo molto tempestare e urtare, dopo che la folla, rappresentata atleticamente dagli uomini che erano riusciti a collocarsi colla schiena alla porta tanto della platea che del loggione, dandovi di tanto in tanto degli urtoni e delle scosse formidabili, ebbe esaurite tutte le intimazioni minacciose di aprire, le porte finalmente si dischiusero, ma non là precisamente dove la folla s'era di più accalcata, ma bensì agli aditi laterali di quell'angusto e basso e prolungato androne, che l'architetto Piermarini sembra avere ideato e disegnato in un momento di collera contro il pubblico milanese e coll'intento di vendicarsene tutte le volte che si recasse alla Scala per divertirsi.
Codeste irruzioni di pubblico nel teatro, le quali presentano i pericoli di una battaglia, dopo la decadenza dell'arte, non si verificarono più affatto; e i giovani ventenni che, a spettacolo incominciato, oggi possono, anche in una prima sera, avere accesso in platea, crederanno esagerata la nostra relazione. Ma noi avemmo più volte compresse le costole agli spigoli dell'andito, là dove svolta a mostrarci la faccia burbera del portinajo, quando adolescenti ci recammo ad assistere agli ultimi splendori dell'arte vera. Non del resto, in quella sera di quinquagesima, trattavasi d'arte. La musica e la danza, le trachee e le tibie, che per un secolo intero avevano tenuto il mondo nel loro dominio, avevano dovuto cedere il campo alle grandi cose e ai grandi fatti, tanto che la musica serviva più d'occasione che di scopo, e se voleva attrarre la gente e scuoterla, bisognava che si facesse ausiliaria della politica e dei fasti militari. La scienza e l'arte della parola avevano preceduto, anzi avevano generato i fatti, ma le altre arti sorelle dovettero aspettare, per trasformarsi, la piena maturità di essi. Ma di ciò parleremo in momenti di minor premura, e quando la folla non ci assorderà col suo vasto mormorìo, da farla parere un mar tempestoso.
Appena infatti la folla, dopo l'ultima lotta e le ultime violenze incontrate nel prender d'assalto le sedie della platea, potè espandersi in lungo e in largo e respirare; e quelli che avevano sofferto di più, poterono tastare le membra indolenzite per valutare il grado di importanza delle contusioni ricevute, e dare una occhiata di riassunto ai vestiti, per verificare se le falde strappate erano ancora capaci di un ristauro, se gli orologi non si erano dileguati strada facendo, se le ciarpe e i veli erano stati irremissibilmente involati dalla bufera; cominciarono i discorsi, le discussioni, i diverbi, gli alterchi, segnatamente fra i crocchi e i gruppi di quella parte di pubblico, che, ad onta di essersi trovata sulla piazza col boccone in bocca e sotto il sole ancora brillante delle ore tre, non era stata molto esperta nel regolare le mosse durante la crisi dell'ingresso, e aveva dovuto accontentarsi di stare in piedi, esposta alla perpetua ondata di cui era vittima e cagione nel tempo stesso.
Come il lettore sa benissimo, il teatro prima dell'ora della rappresentazione non era illuminato che da due povere fiamme ad olio, le quali spargevano un pallido albore per tutta la vastità del vaso; albore ajutato in gran parte dai cerini, che i seduti in platea avevano accesi, per potere intanto passar la noja dell'aspettare col leggere il programma del nuovo ballo di monsieur Lefèvre. - Veduta quella scena dall'altezza del loggione, intorno intorno al quale era stipata la moltitudine due volte repubblicana, pareva come di vedere un'acqua stagnante e cupa, in cui si riflettessero le stelle senza l'aerino del cielo; o meglio un pavimento a traforo, da cui trapelassero qui e qua delle fiammelle. - Ma anche il loggione, nella sua dignità repubblicana e nella sua avversione d'istinto al terzo stato che sedeva in platea, ad onta dell'albero della libertà e della cambiale non girabile dell'eguaglianza, volle fare a gara con lui e accese i suoi cerini sugli orli del parapetto.
Senonchè l'illuminazione suppletoria fatta dalla platea e dal loggione si consumò colla lettura del programma, e vi fu un momento in cui tutto ritornò nel bujo crepuscolare di prima, il quale durò più di un'ora. Il signor Giocondo Bruni che, per essere amico dell'impresario e del coreografo Lefèvre, e del primo violino per i balli, signor Giuseppe Peruccone, detto Pasqualino, aveva libero accesso in teatro, vi si recò a tutto suo agio, verso quell'ora appunto in cui dovevano tardar pochissimo ad entrare i suonatori in orchestra e a popolarsi i palchetti, e a scattar fuori le fiamme della ribalta. Mosse innanzi tutto al palcoscenico a salutare i suoi amici e a dare una stretta di mano a monsieur Lefévre, già vestito in abito pontificale; poi spinse, attraverso al pertugio del telone, un'occhiata su quel cupo maremagno della platea muggente; poi, quando vide che i professori d'orchestra erano tutti ai loro stalli, e che l'esimio signor Luigi De Baillou, primo violino per l'opera, ultimo era entrato a metter piede sull'alto suo seggio, e stava dando la pece greca all'archetto, in dignitosa posa e con burbero ciglio, ombreggiato dal cappellone con coccarda e con fibbia d'acciaio lucente, in cui faceva il guizzasole la luce della ribalta; discese anch'egli in orchestra, e si mise a sedere fra due contrabbassi suoi amici, sotto alla cui protezione aveva l'abitudine di godersi lo spettacolo degli spettatori, più che quello del palco scenico.
Stando così fra que' due amici, porgendo l'orecchio attento al vasto frastuono che faceva il pubblico, sentiva da molti punti spiccarsi netto il suono di varie parole, che servivano quasi ad indicar l'argomento dei molteplici discorsi che si facevano. Bonaparte - Alvinzi - Caldiero - Arcole - Tedeschi - Pio VI - Mantova - Tolentino - Arciprete Besozzo - Repubblica Romana - Francesco - Arciduca Carlo - Aristocratici - Morte - Inferno - Papa - Capitale del mondo - le quali parole, prese così al volo da un uomo di garbo, e cucite insieme con della frangia, potevano bastare a fare il riassunto dello stato delle cose in Italia in quel momento.
Difatti Bonaparte, nell'anno antecedente, dal maggio in poi, come sanno anche i fanciulli, aveva del tutto ricacciati i Tedeschi dall'Italia colle battaglie di Caldiero, d'Arcole e di Rivoli. Dopo s'era dato a far la guerra al pontefice, aveva vinto il generale Colli alla battaglia del Sevio, aveva provocato la pace di Tolentino, nel febbrajo del 97, togliendo le Legazioni agli Stati della Chiesa. Ma l'Austria, dopo tutto ciò, e precisamente in quei giorni di marzo, mandava nuove genti in Italia sotto la condotta dell'Arciduca Carlo. Però da una parte speranze illimitate; dall'altra timori non irragionevoli; e gli odj quasi, più che contro l'Austria, erano contro il pontefice, nemico di repubblica, nemico del nome francese, nemico di civiltà e di progresso.
Ma intanto che la gran caldaja del teatro bolliva e gorgogliava repubblicanamente, a dare una piega più morbida a quei pensieri, a quei discorsi, a quei progetti, le belle milanesi si affacciarono a brevissimi intervalli l'una dall'altra, ai palchetti, sfoggiando quasi tutte il berretto frigio, specialmente quelle che si ritrovavano in prima fila, tra le quali ve n'erano alcune che s'erano messe alla testa dei rivolgimenti, in gran parte per convinzione, come vogliamo credere, ma anche per moda, ma anche per ingraziarsi la parte più giovane dell'esercito vittorioso, e per far pompa della loro giovanile beltà. Comparve prima in un palchetto in prima fila una donna straordinariamente bella e straordinariamente seminuda, della quale non solo taciamo il nome, ma non metteremmo nemmeno l'iniziale, se la consonante R non ci facesse forza; diremo poi che essa capitò tra noi dalle beate sponde del Verbano a recarci la spettacolo della più splendida vegetazione femminile; che di essa noi conosciamo i figli de' figli de' figli; che noi stessi ne abbiam visto il ritratto dipinto dall'Appiani, di grandezza al naturale, in costume di una Diana che entra nel bagno, senza sospetti d'Atteoni che la stiano mirando; che... ma è meglio finirla coi soverchi indizj.
Tante cose fece e disse quella donna, tanti peccati, sebbene gentili, ella commise, tante teste fece girare; tanti affanni diede ai figli ed alle figlie di alcuna di que' personaggi che già abbiam conosciuti, che, in quanto al nome, è meglio lasciarlo nel mistero.
E medesimamente nella prima fila, quando si mostrò al palchetto, fece voltare a sè tutte le teste un'altra giovane donna, di tanta bellezza che, per il momento, fece dimenticar la rivale; ma più che la bellezza, la cagione di tanta attenzione era il suo abbigliamento, che, continuando essa a stare in piedi, appariva in faccia al pubblico in tutta la licenziosa esattezza del costume d'allora. - Portava il berretto rosso; le spalle e le braccia, di greca perfezione, aveva nudissime; una veste di lana bianca, fermata al sommo delle spalle con chiovi romani, discendeva in quattro ampie liste senza cintura; quelle liste, al moversi di lei, si scomponevano e si aprivano, lasciando travedere come di furto e col passaggio repentino del baleno le linee e l'incarnato della sottoposta nudità, la quale, per chi non sapeva nulla, potea parere, più che altro, un sospetto da verificarsi; ma per chi aveva intimità colle mode e col figurino, non era illusione, ma realtà, quantunque le maglie incarnatine coprissero la pelle; ma ciò non certo a custodia di pudore, sibbene ad obliqua lusinga di desiderio, e a tentazione del sangue. Anche di costei dobbiamo tacere con gran riguardo, avendo solo il permesso di dire che l'iniziale della parentela di suo marito era la prima lettera dell'alfabeto.
E una terza comparve pure a fermar l'attenzione generale. Meno bella delle altre, anzi, per certi guizzi fuggitivi delle linee del volto, tale da parere irregolare, di quella irregolarità che lascia sospetto di deformità morale; era però maestosa e plastica delle forme del corpo. Ella si assise girando intorno sugli spettatori il suo occhio d'aquila. Veniva colei dai bassi fondi della società, ma dotata di scaltrissimo ingegno: seguì e s'accompagnò alle sorti di un avvocato, furbo, acuto, avaro, ladro; fu una delle dee infernali dell'eccidio del Prina. Ma basti anche di questa donna, e tiriamo innanzi.
I cinque ordini dei palchi, in un quarto d'ora di tempo, apparvero dunque tutti splendidi di beltà più o meno giovani, sormontate tutte quante dal rosso berretto, ad espressione non problematica di colore politico, e sovente a tutela della sicurezza personale. E in ragione che salivano gli ordini dei palchetti, scemava il valore nominale delle donne repubblicane; le modeste, le prudenti, le timorose temevano più che mai la berlina della prima fila; medesimamente le foggie si facevano tanto meno obbedienti al figurino, e il pudore, tanto più ci guadagnava quanto più si ascendeva; ma il pubblico, quantunque non in tutto approvasse quella trionfante protervia e delle tre dee e delle altre che facevan cerchio in prima fila, pur le festeggiava, come succede sempre dell'arte falsa messa in concorso coll'arte vera.
Alle ore sette, il direttore De Baillou diede dell'archetto in sulla latta, e tra il costante mormorio della platea l'opera incominciò, e i cantanti si sfiatarono senza che il pubblico si desse nemmeno per inteso, perché era venuto in teatro per tutt'altro, e i consolidati dei soprani e dei tenori avevano in quel biennio sofferto un ribasso formidabile. Soltanto attrasse l'attenzione la fine del primo atto dell'opera, ma non già per il merito del dramma e della musica dell'Ademira, ma sibbene perchè e dramma e musica e maestro pensarono bene, a stornare le fischiate, di trasformarsi in una strofa d'occasione. L'atto normale si chiudeva cogli affanni e le lagrime della prima donna, e colle parole:



Quest'acuta gelosia

Nella tomba mi trarrà


ma, tutti i cantanti, compresa la prima donna in lagrime, e i coristi, proruppero invece di punto in bianco nei seguenti versi:



A suon di violini,

Di corni e clarinetti,

Con giubili perfetti

Andiamo a festeggiar;

E per render la gioja palese

D'un bel canto patrioto francese

L'aria intorno facciam risuonar.


E il canto patriota finiva con questa stanza:



D'âge en âge, de race en race.

Que le plus brillant souvenir

Porte jusqu'au sombre avenir

Les prodiges de notre audace!

Que nos neveux, leurs enfans,

Par nous à jamais triomphans,

Nous doivent leur indépendance!

Que le monde brise ses fers!

Et que ce jour cher à la France

Soit la fête de l'univers.


Siccome e strofe e musica erano conosciutissime, perchè state composte e cantate fin dall'autunno dell'anno prima, ed appiccicate, senza badare al senso, con violenza demagogica all'ultima scena dell'Astuta in amore, di Fioravanti; così gli applausi da tutte le parti del teatro scoppiarono contemporaneamente alle prime battute del canto patriotico, e lo accompagnarono, con quel crescendo naturale che poi diventò arte con Generali e con Rossini, fino alle ultime note. Le grida di Viva la Francia, Viva 1'Italia succedettero a quel canto con tempestosa irruenza, e insieme i Viva la libertà e l'eguaglianza; alle quali voci fuse in una sola onda sonora, come quella del mugghiante oceano, si sovrappose, partendo dalle alte vette, non dell'Olimpo, ma del loggione, una voce stentorea di trachea taurina, che gridò Viva la Dionisa. La tremenda satira popolana, con breviloquenza inimitabile, in quel detto avea saputo condensare la critica delle esorbitanze generali onde i perpetui guastamestieri, che s'introducono nel santuario del progresso, aveano cercato di contaminare il nuovo ordine di cose. La Dionisa era il nome di una donna paffica del Bottonuto. Applicando questo nome alla figura che rappresentava la libertà sullo stemma dei venditori di tabacco e sale, il popolo, col prepotente intuito del giusto, stigmatizzava quella libertà fescennina, tanto deplorata dal Parini e tanto contraria alla libertà vera.
Ma poco a poco si rimise la tranquillità nel pubblico, segnatamente quando il primo violino, signor Peruccone, comparve al suo seggio, e dalla boccascena l'avvisatore battè palma a palma, per significare che l'orchestra poteva cominciare il preludio del nuovo ballo.
In questo intermezzo il signor Giocondo Bruni puntò il suo cannocchiale monocolo verso un giovane dragone dall'elmo lucente; indi lo drizzò a un palchetto in terza fila, poi a quella fra le tre dee della prima che, siccome dicemmo, fu dipinta dall'Appiani, in costume di Diana. - Il dragone guardava al terz'ordine. Di là una giovinetta guardava lui; il Bruni si accorse che la dea del frigio berretto fremeva nel sorprendere lo scontro di quei due sguardi furtivi.

Il dramma domestico ha i suoi ritorni storici come la vita delle nazioni. Nell'esordio del nostro racconto abbiamo visto il tenore Amorevoli a guardare la contessa Clelia V… - ora il tempo dei tenori è passato, la musica ha dato luogo all'arte bellica: chi è senz'elmo e senza speroni disperi di piacere al bel sesso. Ma dopo tutto ciò, i cuori e le passioni sono sempre le medesime, e quello sguardo del dragone, il quale è nientemeno che un figlio del povero Baroggi, incontratosi con una figliuola nientemeno che della contessina Ada... intersecato dagli sguardi iracondi della Diana della prima fila, produrrà, mutatis mutandis, un affastellamento di casi tali, che la pronipote ne gemerà come la nonna. - In quella sera v'era anche la contessa Ada in teatro; e v'era anche il banchiere Andrea Suardi, più che sessantenne; e v'era il marchese F.... sessantenne esso pure; e tutti si guardavano per mille cagioni, ricordando il passato e congetturando il futuro; e in alto ancora, come in quella tal notte di cui dee rammentarsi il lettore,




Scintillava il beffardo occhio del fato.



IV


Intanto che quell'occhio beffardo scintillava, il primo violino, signor Peruccone, fatto d'occhio al buttafuori, mise lo strumento alla ganascia, e accennò che si desse principio al preludio del nuovo ballo, la musica del quale era stata scritta dal signor Pontelibero Ferdinando.
La Cerrito e la Taglioni crediamo sieno giunte in tempo per essere accompagnate dal suo violino; chè egli fu il successore appunto del professore Peruccone. Lo spirito repubblicano e le idee democratiche che fin dal 1750 bollivano, non si sa come e per un arcano presagio de' tempi nuovi, nel signor Lorenzo Bruni, passarono, comunicate forse allo sgabello teatrale, fino al signor Pontelibero, che, leggendo Rousseau al pari del signor Lorenzo, fu de' primi a tendere l'orecchio avido alle cose di Francia; de' primi a desiderare che l'ondata rivoluzionaria venisse a gettarsi con impeto sulle coste d'Italia; de' primi a far festa all'ingresso delle truppe francesi, e a portarsi fin sotto allo scalpito del cavallo bianco di Bonaparte, per vedere dappresso il giovane imberbe che, colla severa maestà del sopraciglio e colla preponderanza, quasi parea, di un Dio, teneva in timorosa obbedienza i più anziani eroi sanculotti, irti di chiome e di basette.
Del rimanente, se mai il lettore ci domandasse, per qual ragione spendiamo tante parole pel signor Pontelibero; diremo che, trattandosi dell'autore della musica coreografica, che fu certo un avvenimento di quel periodo di storia italiana, bisognava bene che si sapesse con che idee, con che convinzioni il suo autore abbia infiammata la propria inspirazione nello scriverla. Così potessimo dire altrettanto del signor Lefèvre; ma se molti lo hanno conosciuto, nessuno trovò una variante alla notizia nuda e cruda, ch'esso era un galantuomo, convertito, di semplice mimo che era stato, in coreografo, quando s'accorse che per vivere ci voleva il concorso di due mestieri. Il pensiero del Ballo del Papa, e quello di portare sulla scena, concentrata in dramma visibile, una delle questioni più gravi suscitate dagli avvenimenti d'allora, era venuta dal cittadino Salfi, che aveva steso e sceneggiato il programma; e questo, per un'idea balenata nella testa fervida del prevosto Lattuada di Varese, la quale idea, chi sa, era forse stata suggerita dalla perfetta somiglianza che la figura del ballerino Lefèvre aveva con quella del Pontefice Pio VI.
Ma, a proposito del libretto del ballo, immaginato e scritto dal cittadino Salfi dietro suggerimento del prevosto Lattuada: come avvenne che di seimila e più copie che ne furono stampate allora, tutte siano scomparse oggi? nelle numerose collezioni de' magazzini librarj e delle case private che noi abbiamo esplorate, in quelle, vogliamo dire, dove era presumibile la possibilità di rinvenire un tal documento curioso; nelle stesse collezioni delle pubbliche biblioteche, abbiamo trovato un salto e una lacuna precisamente alla sede del famoso libretto.
Se fosse stato ritirato o fatto abbruciare in piazza per comando della pubblica autorità, la cosa sarebbe ben chiara; ma non avvenne mai nulla di simile: che cosa adunque è a conchiudere da un tal fatto? che le coscienze, appresso, devono aver subìta la legge della paura; che i proprietarj de' libretti devono aver fatto in segreto il loro auto da fè, per timore che il papa, il quale aveva, come per tanti anni pretese il pubblico pregiudizio, mandate a male le sorti del primo Napoleone, compromettesse, per vendicarsi di quel libretto conservato, anche i loro affari privati. Così i libretti sparirono tutti, e se noi ne abbiamo trovato uno, è perchè il libraio Silvestri gli risparmiò il rogo, e gentilmente ce ne fece tener la copia.
Ma or tornando in teatro, le cadenze del preludio finirono tra gli applausi del pubblico; e il sipario si alzò.
Comparve la sala del concistoro in Vaticano; il papa era assiso sul trono; i cardinali, i vescovi, i prelati, i teologi, secondo l'ordine loro, gli sedevano intorno; il nipote del papa e il principe romano stavano ai due lati del trono.
La platea applaudì alla stupenda scena, imaginata e dipinta dal fantasioso Landriani; ma di mezzo agli applausi si fè sentire la nota tenuta di un fischio acuto, la quale andò smorendo a poco a poco nel vasto recinto. Nè quel fischio era uscito per far opposizione al pubblico. Chi lo aveva emesso non s'intendeva gran fatto di scenografia, e non era nemico del Landriani; ma, veduto il pontefice, non volle tardare a manifestargli le sue simpatie. Quest'incidente lo sappiamo dalla bocca dell'amico Bruni, che dall'orchestra vide l'uomo che fischiava, ed era il gobbo Rigozzi, noto allora e dopo per la sua procellosa maldicenza, pel suo spirito irrequieto, e per la foga onde s'era dato a diffondere le idee parigine del tempo del terrore, idolatra qual era di Robespierre e di tutti coloro che avevano inteso di disfare a colpi di scure e di rifare il mondo incancrenito.
Ma qui ci conviene seguir passo passo il programma, perchè il lettore d'oggi veda se meritava poi che ne fossero distrutte le sei mila copie.
L'azione adunque s'apriva nel momento in cui il papa stava consultando una congregazione straordinaria di cardinali, prelati e teologi, sugli articoli della pace, proposti dalla repubblica francese. Questi articoli si leggevano e si rigettavano con indignazione generale come contrarj all'autorità della corte pontificia. Ma in questo mezzo un frate domenicano, generale dell'ordine, acceso di zelo, si gettava a' piedi del papa per dimostrargli che in quella decisione c'era più il voto degl'Inglesi e degli Austriaci che degli Apostoli e dei Cristiani; onde il papa, maravigliato di trovare ne' suoi teologhi lo zelo di S. Paolo, domandava ancora il voto degli altri, che di bel nuovo proclamavano la guerra. E tosto il cardinale segretario Busca stendeva il decreto della S. Congregazione dopo di che il papa brandiva la spada fra gli applausi dei cardinali.
A questo punto, per produrre l'effetto voluto, e per mettere nel pubblico la massima esaltazione ed esacerbazione, il coreografo, a ciò sollecitato dal prete Lattuada, aveva raccomandato alle comparse, incaricate di far le parti di cardinali, di applaudire con impeto e con insistenza, per rendere il vero con quell'interezza da trarre in illusione la platea; ma tra la platea e tra il palco scenico s'impegnò, pur troppo, una lotta di fischi e d'applausi tali, da minacciare di uscire dalla sfera coreografica, perchè il pubblico pretendeva che i cardinali cessassero di applaudire mentre questi non se ne davano per intesi, sapendo di fare il loro dovere; e la cosa andò tant'oltre, che le più basse ingiurie, accompagnate, per parte del loggione, da alquanti pezzi di munizione di bocca convertiti in proiettili, furono scagliate contro quella trentina di poveri diavoli, obbligati per trenta soldi a far il cardinale e il teologo, e a farsi odiare senza colpa e maltrattare dal pubblico. Gli uomini sensati però s'intromisero a gettar acqua sul fuoco; e, per quella legge inversa onde talvolta i meno tirano i più, riuscirono a ricondurre la tranquillità e a far proseguire il ballo.
E il ballo, dopo molto tempestare, continuava colla spedizione del messo incaricato di partecipare la mente infallibile del S. Padre agli agenti della repubblica francese. E qui si scioglieva la congregazione; dopo di che si cambiava la scena in un interno della corte pontificia, dove, per far luogo alle inevitabili donne, si rappresentava un intrigo tra la principessa Braschi, nipote del papa, la quale aveva una speciale predilezione per la guerra, e la principessa Santa Croce, la quale invece si dilettava della pace. Se non che il papa, adulato e dall'una e dall'altra, spediva il senator Rezzonico e il brigadiere Gandini per le opportune disposizioni di guerra. Ma, a questo punto, di bel nuovo il generale dei Domenicani, eccitato a parlar chiaro dalla principessa Braschi, prorompeva ad accusare francamente l'inganno e l'impostura dei cortigiani che aggiravano il papa; e coi gesti si affannava di esprimere quello che per fortuna diceva chiarissimamente il libretto: Il ministro di una religione di pace non deve che abjurare ogni pensiero di guerra. - Il successore di S. Pietro deve maneggiare le chiavi e non la spada. - Bisogna seguire le massime degli apostoli, e non quelle dei cardinali. - L'eredità del papa è la Chiesa, e non già l'impero temporale altrui usurpato.
Ma, a tutte queste sentenze belle e buone, il papa rispondeva che, avendo parlato, ex-cattedra, la vittoria era assicurata: e così finiva l'atto primo, nel momento che Pio VI partiva da una parte, seguito dalla principessa Santa Croce, e il generale dei Domenicani partiva dall'altra, seguito dalla principessa Braschi.
Fin qui può dunque vedere il lettore, che l'azione coreografica, più che le intenzioni di una satira scandalosa, racchiudeva quella di una ragionevole dimostrazione del vero e del giusto.
E cominciò anche il secondo atto, il quale, se si conservò fedele alle buone intenzioni, si ribellò al buon senso drammatico; e, tanto per tirare innanzi fino all'inevitabile quinto atto, presentava un miscuglio triviale di qui pro quo, facendo che la principessa Braschi ad arte svenisse nelle braccia del generale dei Domenicani, onde determinare il convenzionale colpo di scena, per mezzo del cardinal segretario che, furtivamente sorprendendo e principessa e frate, andava ad avvisarne il papa, il quale compariva in iscena a risolvere la situazione, e a minacciare il generale dei Domenicani di punirlo colla soppressione dell'ordine; e qui, dopo un altro parapiglia indispensabile per mettere insieme un be1 gruppo, e che non merita la pena di riferire, si sentiva in lontananza una cornetta da postiglione e, pochi istanti dopo, entrava in iscena il brigadiere Gandini, ad annunciare l'arrivo del general Colli, mandato dall'Austria per essere il campione del papa. A questo punto cadeva il sipario, per dar tempo di preparare il grandioso atto terzo.



V



Nell'intermezzo furono fatti circolare nei palchetti e nella platea molti foglietti stampati, i quali contenevano il famoso proclama del cardinal Busca, segretario di Pio VI, che, nel febbraio, prima della battaglia del Sevio, era stato affisso su tutti gli angoli della città di Roma. Ci fu un momento di silenzio, in cui non s'udì che il fruscio de' foglietti, che passavano di mano in mano; poi seguì il mormorio di tanto pubblico leggente; poi parole alte, e commenti e risate sonore.
E in un lato della platea, a un tratto si sentì a declamare ad alta voce alcuni brani di quel proclama; onde tutti volsero le teste a quel punto, e si misero in ascolto:
«L'Europa, da un estremo all'altro, tien fisso in voi lo sguardo (nei soldati del papa); non dubita del vostro coraggio e d'un esito felice che gli corrisponda.
«L'ottimo imperatore d'Austria», e qui ci fu una salva di fischiate.... «L'ottimo imperatore d'Austria Francesco II, il difensore magnanimo, l'avvocato della Chiesa romana, nel tempo stesso che manda in nostro aiuto gl'intrepidi volonterosi ungari, transilvani, croati e alemanni, vi ha spedito, alla prima richiesta del santissimo nostro affettuoso padre Pio VI, uno de' migliori, più pregiati, più sperimentati di lui generali... (e qui un uh!... sonoro e prolungato di quanti ascoltavano), che solo vi mancava, che bramavate. Ei venne sollecito; è fra voi. Il nome solo di Colli non vi commove, non v'infonde spirito, non ravviva gli animi di tutti i popoli?... (A queste parole s'innalzarono da varj punti delle risate sonore).
«L'onor comune vuole da voi che lo stimiate un nuovo Cesare, onde per mezzo vostro venga, veda, vinca. Fortunati voi che potete sperarlo con tanto fondamento...»
E le risate continuarono, e intercalate ad esse de' sibili e dei basta!!! I quali basta cominciarono a prendere il sopravvento.
Pur la voce continuava: «Voi, sotto l'immagine di quella Vergine medesima, che vi ha eccitati a questa impresa, potrete dubitare dell'amoroso efficace di lei patrocinio? Voi, generosi cavalieri, che nelle vostre insegne portate lo sfolgorante segno della croce, non vorrete augurarvi a credere fermato ne' divini decreti che, siccome Costantino il Grande vinse il tiranno Massenzio in virtù di quel segno comparsogli al ponte Milvio, e per tal vittoria egli stabilì nella capitale del mondo...»
A queste parole il declamatore fu interrotto da un nocciolo che, scagliato da uno di coloro che stavano in piedi nella destra corsia della platea, venne a colpirlo netto secco nella fronte, contemporaneamente al grido: Abbasso Costantino!
Il declamatore naturalmente s'interruppe; nella corsia, vicino e intorno a colui che avea lanciato il projetto, nacque un alterco e un parapiglia terribile; ai basta di prima successe un'esplosione di avanti, avanti, avanti!
«E voi del pari (continuò dopo alcuni istanti il declamatore imperterrito, ad onta della sorba che si andava sviluppando sulla fronte), voi del pari, da questo segno salutare protetti, trionferete di più empj e brutali nemici...»
Ma, a queste parole, di nuovo tornò a dominare il campo una esplosione simultanea di basta, silenzio, zitto; e la voce del declamatore ne fu soffocata, in quel momento stesso che il buttafuori fece capolino dal proscenio, e diede, battendo le mani, il solito segnale al primo violino, il quale percosse con forza la latta del lettorino.
Allora dal loggione, quella medesima voce taurina che già aveva gridato viva la Dionisa, gridò silenzio! squarciando l'aria teatrale con tale risolutezza, da non ammettere la possibilità che si potesse disobbedire; e silenzio fu fatto; e si udì netto il fischio che annunziava l'alzata del sipario, il quale si alzò infatti, e comparve la piazza di S. Pietro in Roma. Il pubblico mandò quella concorde esclamazione di maraviglia onde anche oggi suol salutare la discesa della lumiera; esclamazione che fu susseguita da applausi prolungati al bravo Landriani, il quale stupendamente aveva dipinta quella scena; e il Landriani dovette mostrarsi a ringraziare il pubblico.
La piazza di S. Pietro era ingombrata da immenso popolo, impaziente, come diceva il libretto, di godere del general Colli. Dopo alcuni momenti d'aspettazione, conceduti al pubblico appunto per ammirare la grandiosa prospettiva della città eterna, comparve il papa sulla sedia gestatoria, e venne portato nel mezzo della piazza: la sua corte, in tutto lo sfoggio delle vesti ecclesiastiche, lo circondava; le guardie d'onore e le guardie svizzere, sfolgoranti d'oro ed argento con esagerazione, introdotti a beneplacito del vestiarista, che volle farsi merito e contendere la palma al pittor scenico, gli sfilarono ai lati in duplice ala. - Tutte le altre truppe in armi si schierarono sul fondo del palco. Anche qui, per conceder tempo al pubblico di ammirare ed applaudire, furono lasciati trascorrere alcuni minuti; e il pubblico ammirò infatti ed applaudì vivamente; e il pontefice Pio VI, ossia monsieur Lefèvre, il quale si dimenticò del suo carattere, si alzò dalla sedia gestatoria e fece tre riverenze alla platea, che lo avea preso a ben volere; ma la platea tacque di tratto, perchè non desiderava che s'imbrogliassero le idee. Monsieur Lefèvre ne fu alquanto mortificato; ma di chi era la colpa?...
In quel punto, al suono di una marcia militare, spuntò dall'ultima delle quinte a destra la testa piumata di un cavallo bianco; ed era il cavallo del general Colli, il quale finalmente si mostrò fra due soldati che gli tenevano le staffe, coll'incarico di regolare il passo della bestia, in modo da non compromettere i vetri della ribalta. Alla sinistra del general Colli, ossia del signor Raimondo Fidanza, procedeva, pure a cavallo, il senator Rezzonico, comandante delle truppe pontificie, ossia il signor Luigi Corticelli.
E il general Colli discendeva da cavallo, e con incesso il più convenzionalmente teatrale, si portò innanzi alla sedia gestatoria del pontefice, e, piegossi a baciargli la santissima pantofola. Il pubblico non applaudì, non fischiò, e si contenne in un silenzio dignitoso, intanto che il pontefice presentava ai cortigiani il general Colli, siccome la speranza del Vaticano. Il pubblico, che s'era già sfogato contro l'arringa famosa del cardinal Busca, dalla quale appariva come lo spirito profetico non fosse più il lato forte dell'ordine jeratico, assistette a questa scena con indifferenza, non sapendo determinarsi con risolutezza piuttosto a ridere che ad andare in collera. Ma forse l'allegria e la collera si sarebbero confederate a provocare una procella popolare, se non ci fosse stata la valvola di sicurezza degli indispensabili amori della prima mima col primo mimo, ossia della signora principessa Braschi col general Colli; ai quali bastò lo scambio fuggitivo di un'occhiata per intendersela tosto. Ben è vero che la principessa lavorava per progetto, perchè le premeva di ammaliare il cuore del novello campione e volea prevenire la Santa Croce, sempre disposta a tagliarle la strada sul campo sdrucciolevole dell'amore e della politica; e per assicurare il buon esito di quella guerra, dalla quale sperava tanto. Stando dunque così le cose, la sedia gestatoria del papa veniva alzata da robuste braccia; e però accennando il sovrano di partire, i cortigiani e i sudditi e i militi non poterono star fermi, e lo seguirono, e innanzi a tutti il general Colli, servendo la principessa Braschi più da Cupido che da Marte, e provocando un terribile dispetto tanto nel nipote del papa quanto in un certo conte Antonio, i quali non erano indifferenti ai vezzi della bella principessa.
Così amorosamente finito il terz'atto in piazza San Pietro, ragion voleva che la scena posteriore fosse un magnifico interno; e il quart'atto infatti si aprì con una gran sala del Vaticano splendidamente adornata, con una mensa in fondo lautamente imbandita. - Intorno a questa si elevava una gradinata, occupata da musici e, siccome garantiva il libretto, da eunuchi. Diversi trionfi di lumi, per usare una frase allora in voga nel linguaggio dei pittori teatrali e degli attrezzisti, rischiaravano a giorno tutta la galleria.
Dopo l'aspettativa di prammatica, entrava in iscena il papa, in compagnia del general Colli, il quale riceveva molti segni di stima e di riconoscenza. - Se non che il quart'atto, essendo destinato alle indispensabili danze, e la prammatica dovendo per forza escludere il buon senso e il verosimile; il pontefice si metteva a sedere in trono, circondato da tutta la sua corte; e il corpo di ballo e le bis septem præstanti corpore nymphæ d'allora, e le tre emerite di magazzino, e la coppia danzante di cartello, attesero a far pompa innanzi al papa di tutte le loro grazie palesi ed anche segrete, di tutta la loro abilità, compreso il ballerino, in costume d'eunuco, il quale saltando a furia, accennava di voler appartenere, a dispetto dell'arte sincera, all'atletica confraternita dei grotteschi. - Il programma del cittadino Salfi ci assicura, che il papa spiegava in questo mentre tutta la passione che aveva per le gambe più gentili e meglio tornite, applaudendo chi più si distingueva; e non omette di fare una particolare menzione di monsignor Busca, il cardinale segretario, il quale non si risparmiava, nè risparmiava altrui. - Ma intanto che ferveva la baraonda ballante, il general Colli, da buon stratego, non perdeva nessun momento che gli offrisse occasione di sacrificare i suoi piani di guerra a quelli d'amore; e ovunque continuava a perseguitare la Braschi, la quale ben volentieri si lasciava perseguitare, alla barba del principe marito e del vicemarito conte Antonio. Se non che la festa e l'amore venivano interrotti da un'altra marcia militare, e a tutti conveniva partire; e primo il generale Colli, colla duplice felicità del dio Marte che, cercando Bellona, volentieri s'intrecciava nelle reti di Vulcano.
E finalmente siam giunti al quint'atto; all'atto risolutivo, alla catastrofe, a quello che deve spiegare tutto il concetto e l'intento della rappresentazione coreografica. - Siamo ancora nella gran piazza di S. Pietro, ancor più folta di popolo, ancor più fitta d'armi e d'armati. Il papa, dal general Colli e dal senator Rezzonico, è accompagnato a cavallo sulla sua sedia gestatoria. Colli fa la rivista delle truppe, e ne preconizza le glorie; tutti, inginocchiati, presentano le armi a terra, e il papa dà la benedizione alle bandiere; indi, smontato, fa un dono della sua spada al general Colli, che, in riconoscenza, giura di combattere per la causa del fanatismo della schiavitù. - Se non che quando si dà il segnale della marcia, un corriere importunamente reca al santo padre alcuni dispacci, la cui vista produce lo svenimento di lui e la costernazione di tutti gli astanti, chè i dispacci annunziavano la resa di Mantova e le altre vittorie francesi.
Ma in questo frangente torna in iscena il generale dei Domenicani, il quale dal poeta compositore e dal coreografo tiene la duplice missione, e di rappresentare l'alta ragione del dramma, e di produrre a luogo e tempo i colpi di scena invocati dal colto pubblico. Esso dunque, avendo la virtù di sacrificare i sentimenti particolari all'amore del prossimo, e amando sinceramente i veri interessi pontificj, all'improvvisa novella pensa di recarsi anch'esso dal papa. Qui nasce un terribile contrasto d'idee, d'opinioni, di passioni. Il general Colli vorrebbe, dopo il primo colpo della sorpresa, far credere ch'ei solo può bastare a cambiare l'aspetto delle cose; ma il papa, rinvenuto dal suo deliquio, ondeggia fra il timore e la speranza, e mostra in tutti gli atti della sua costernazione ch'egli è soggetto a tutte le passioni di un mortale fallibile. Però, dopo lungo esitare, si abbandona fra le braccia del generale dei Domenicani; il quale lo conforta cristianamente a provvedere una volta, qual degno successore di san Pietro, alla gloria della Chiesa ed alla salvezza del popolo. «Rinunciate, esclama altamente il Domenicano, rinunciate al fasto ed al regno di questo mondo che non è quello del cielo; deponete la tiara, e mettetevi invece il berretto della libertà, ch'era certamente quello degli apostoli pescatori (e qui gli offriva quell'insegna); riconoscete insomma i diritti inalienabili del popolo, che è la vera Chiesa di cui dovete esser padre e non già despota.»
A queste parole il general Colli si slanciava contro il berretto della libertà; ma il popolo, compreso della verità più che dell'impostura, rivoltava le armi contro di lui. A questo prodigio il papa riconosceva la libertà, di cui cingevasi il berretto, deponendo il simbolico triregno.
E qui avvenne quello che non avrebbe dovuto avvenire. Al gruppo analogo che tutti i personaggi e le comparse fecero intorno al papa, abbracciato col generale dei Domenicani, e col general Colli, che aveva transatto anch'esso, il pubblico non potè a meno d'applaudire freneticamente; e la frenesia passò il segno. Veramente la mozione venne da un ufficiale francese, che gridò: Vive le pape; vive le général - mais nous voulons un périgordin entre le pape et le général. Allons, vite - un périgordin. E quella parte di popolo che ama sempre di straripare, si mise ad assecondare la mozione del bizzarro ufficiale; e allons, vite, un périgordin, fu il grido frenetico che invase platea e palcoscenico; grido che, non essendo tosto adempiuto dai signori attori, minacciò di convertirsi in atti violenti. Se il papa fosse stato il papa, certo che avrebbe resistito alla pubblica violenza, e avrebbe piuttosto voluto morir martire; ma monsieur Lefèvre non aveva nè questa smania, nè una eccessiva devozione per la dignità pontificale; così, per stornare i projettili dell'ira pubblica, si mise a danzare col signor Raimondo Fidanza un perigordino che andò alle stelle. La strana danza inaspettata provocò una sconcia ilarità generale, al punto che scoppiavano dalle convulsioni del riso anche quelli che ne avevano dispetto e quasi paura.
Ma a far cessare lo scandalo provvidero i direttori del palco scenico, ordinando che si calasse il sipario. Il pubblico mandò degli urli a quella calata, strepitò per lungo tempo ancora; minacciò e fu in procinto di tradurre le minaccie violenti, se di nuovo i pompieri metafisici, gettando acqua su quel fuoco, non fossero riusciti a spegnerlo del tutto.
Tale, nelle sue generalità, fu l'andamento del così detto Ballo del papa, rappresentato al nostro massimo teatro della Scala, col titolo di General Colli a Roma; ballo più famoso che conosciuto, perchè appena qualche storia stampata ne toccò di volo; e qualche cronaca tuttora manoscritta, e tra le altre quella del canonico Mantovani, ne ha somministrate alcune strane circostanze. Del resto, di questo ballo si parlò a lungo nel mondo, e allora e dopo, come di una enormità inaudita. Ma ciò avvenne per quella indecente applicazione a cui lo trasse violentemente in quella sera una parte di pubblico. - Tant'è vero che lo stesso prevosto Lattuada di Varese, e l'arciprete Besozzo e il cittadino Salfi, i quali ebbero tanta opera in quel lavoro, nella persuasione che, parlando visibilmente all'imaginazione popolare, giovasse a raddrizzar le idee in gran parte ancora pregiudicate, instarono con sollecitudine presso l'autorità perchè lo proibisse - come in fatti venne proibito. Temettero e il Besozzo e il Lattuada che di quella scandalosa piega che avea preso, loro malgrado, quella rappresentazione coreografica, se ne giovasse pe' suoi obliqui fini una conventicola di aristocratici frementi e di frati aboliti, che si radunava di soppiatto in una casa situata in Santa Maria Fulcorina, della qual conventicola era il raggiratore supremo (chi mai lo avrebbe immaginato nel 1766?) quell'istesso marchese F…, quel sacerdote perduto dietro ai riti paffici, alle cui orgie abbiamo assistito nell'ultimo capo del libro nono; quel marchese che vedemmo a trattener la carrozza in cui si trovava la contessa Clelia V… colla sua figliuola Ada. Per che piano inclinato sdrucciolevole, da quei riti colui sia passato ai tenebrosi misteri dell'aristocrazia clericale, lo vedremo in appresso. Anzi farem di assistere ad una di quelle conventicole, le quali s'eran proposto di mandar a fascio il nuovo ordine di cose. Oggi son passati più di sessant'anni da quell'epoca; ma sembra che in mezzo non sia corsa che una notte affannosa. Anche oggi ci troviamo in cospetto dei medesimi fatti; ci troviamo di contro e di dietro gli stessi nemici; siamo sollecitati dai medesimi problemi.





LIBRO UNDECIMO



Il banchiere Andrea Suardi e il marchese F... - La reazione aristocratico-clericale. - Un vescovo e un monsignore. - Frati aboliti. - La contessa A... - La congregazione bonapartista. - Il colonnello Landrieux. - Il capitano Geremia Baroggi. - Gli anni 1750 1766 1797. - La contessa Clelia V... - La contessa Ada S... - Donna Paolina. - Il Dragone benefico, commedia di Mirocleto Ghedini.


I


Allorchè la folla fu quasi tutta uscita dalla platea e si riversava nella piazzetta, il banchiere Andrea Suardi era disceso dal suo palchetto in quarta fila a sinistra, ed usciva dal corridoio della prima, mettendo piede nell'atrio quasi nel punto stesso che il marchese F... faceva altrettanto, spuntando fuori dal corridoio della prima fila a destra. L'uno e l'altro erano vestiti come voleva la legge rigorosa del costume repubblicano: gran marsinone a larghe falde, ampia cravatta bianca con cappellone e coccardone. L'uno e l'altro avevano sessantott'anni per ciascuno; la perfetta loro somiglianza era data fuori coll'età, perchè il marchese F... avendo messo trippa, presentava anch'esso quel beato embonpoint che aveva sempre distinto il florido Andrea Suardi dall'asciutto marchese.
Discesero, si fermarono ambidue all'ultimo gradino, come se fossero i due guardaportoni di quelle soglie; si guardarono scambievolmente e, sembrò, con qualche significato; poi volsero altrove la testa, tenendo dietro alle code estreme della folla che usciva, e osservando le voluttuose e seminude marchese e contesse democratizzate, che attendevano la venuta del non ancora abolito e non mai abolituro cocchiere. Chi si ricorda la faccia dell'attore Bon, quando rappresentava il personaggio di Ludro nella sua gran giornata, può farsi una qualche idea di quei due gemelli sessagenarj; colla differenza però, che l'ex stalliere e lacchè e ladro processato, e contrabbandiere, e fermiere, e finalmente banchiere milionario, cittadino Andrea Suardi, adocchiava le dame seminude con isfacciata protervia; e l'ex amante non mai amato di quante ballerine peccatrici e peccatrici cantanti calcarono il palco scenico, convertito poi in fabbriciere di S. Maria alla Porta e condirettore dell'Orfanotrofio della Stella, le sbirciava con quel ghigno onde il Tartufo di Molière guardava la bella moglie d'Orgone. Ma i due Ludri a perfetta vicenda, sebbene usciti da due alvi diversi e non congiunti in parentela di sangue che da un duplice atto paterno, l'uno legittimo, l'altro di contrabbando, e di cui non era consapevole che la misteriosa natura, uscirono dal teatro senza aspettare che le loro carrozze si presentassero in regolare processione sotto al portico, ma andandole a cercare pedestri nella contrada di San Giuseppe, dove avevano l'ordine di star ferme ad attenderli. Coloro sapevano benissimo di non essere molto amati dal popolo, e però non desideravano di lasciarsi cogliere a salire in carrozza in mezzo alle ondate della folla che, in nome della libertà e dell'eguaglianza, avrebbe potuto prevenire appositamente per essi l'invenzione della tassa sui cavalli. Come furono usciti, si avvicinarono a pochi passi dal servo, che, senza livrea ma colla sua brava coccarda tricolore anch'esso, li stava aspettando da più d'un'ora. Il marchese F... disse sommesso al signor Andrea:
- Domani vi aspetto all'ora solita.
- All'ora solita io sarò là.
- Che ne dite del ballo?
- Mi sono divertito assai.
- Ma che cosa ne pensate?
- È quello che ci voleva... I curati di campagna potranno così spaventare i villani coi terrori della religione; e tirarli dove noi vorremo.
- E intanto, per fortuna, l'arciduca Carlo vien giù con un esercito fresco e numeroso. Questo lo sapete?
- Credo d'avervela data io questa notizia.
- Oh se queste maledette acque che han rotto gli argini, potessero ritornar presto nel loro letto!! Che respiro!!!... Che ne dite, voi?
- Dopo la piena vien la magra; ho sempre visto così. Ma salite in carrozza, che io farò altrettanto; e a rivederci domani.
A questo punto il lettore, che si ricorda della condizione speciale in cui lasciammo questi due personaggi, e della distanza non facilmente avvicinabile che intercerdeva tra l'uno e l'altro, spontaneamente domanderà, in che modo accadde codesto loro avvicinamento e per quali processi psicologici e fisiologici si venne cangiando l'indole del marchese F... Dietro alla qual domanda ne dovrebbero venire altre molte. Che cosa, per esempio, sia avvenuto della contessa Clelia V... e della contessina Ada? e, stando alle ultime parole con cui abbiamo commentato il fortuito incontro del marchese F... colla giovinetta Ada, quali rapporti passarono in appresso tra loro due? e giacchè il banchiere Andrea Suardi era stato messo una seconda volta nelle carceri del Capitano di giustizia per accusa di rapimento, pro rapto virginum, mossagli contro dall'avvocato Strigelli, con quali mezzi lo stesso banchiere abbia potuto uscirne? e giacchè costui, fin da quando era lacchè, aveva involato il testamento olografo dello zio del marchese F..., fatto che costituisce il perno capitale intorno a cui s'aggira tutta la matassa arruffata degli avvenimenti che abbiamo preso a raccontare; che cosa avvenne, in trent'anni, di un tale testamento appunto, e della madre del Baroggi, e di questo sventurato giovane, tirato nel trabocchello dal Suardi? E se il marchese F... ha preso moglie? e se l'ha presa il banchiere Suardi? e come si chiamano, di grazia, codeste loro consorti, concesso che essi abbiano incontrato matrimonio? E se la contessina Ada siasi congiunta a qualcuno, ed a chi? E, giacchè abbiam sentito nominare un Geremia Baroggi, e sappiamo che è il figlio del sottotenente di finanza, in che modo nel 1797 si trovasse già capitano dei dragoni, stando a quello che fu già accennato, ecc., ecc.?
Siccome, a voler rispondere a tutte queste domande col mezzo dell'azione drammatica, ci vorrebbe un ben grosso volume, così, giacchè il tempo incalza, quando verrà il momento opportuno, non faremo che ripetere ai lettori, concentrato e condensato, il racconto che, in diverse riprese, fece a noi stessi il signor Giocondo Bruni. Per ora, sgruppiamo la nuova matassa.


II


Fin dai tempi più remoti dei Bramini, il tirannico proposito di spaventare le moltitudini coi terrori della divinità, avvolgendole in una catena inestricabile di riti arcani, che avessero la forza della legge, corroborata dalla minaccia di orribili pene, passò di generazione in generazione, quasi per fedecommesso, agli ordini sacerdotali di tutte le religioni. Il cristianesimo solo, nella sua prima istituzione e nei primi anni della sua vita, recò e mantenne nel mondo una luce serena, a consolazione dell'umanità. Ma fu per poco. I sacerdoti snaturarono l'istituzione; - la lettera mite del Vangelo fu torta a diverso significato. - La scienza della teologia turbò di commenti tortuosi la semplicità del testo. Allorchè il successore di S. Pietro si dimenticò della povertà primitiva, e della prima rete e della prima navicella, e vestì la pompa mondana dei re e dei sacerdoti di Babilonia e di Ninive, il limpido zampillo della parola di Cristo scomparve nell'onda impura dell'interesse umano. Il potere temporale del papa fu la più grande sventura del cristianesimo. Quei pontefici, che gli diedero la massima espansione, intentarono alla religione una guerra funesta. Gregorio VII, che venne canonizzato santo, non fu che un genio d'ambizione e d'astuzia; egli offese non solo la religione vera, ma offese l'umanità, condannando i sacerdoti all'assurdo obbligo di un celibato impossibile, che gli avvezzò ai raggiri dell'ipocrisia, all'odio dei fratelli più privilegiati. Pur troppo, dal giorno che il monaco Ildebrando cinse la corona, la storia della corte romana è uno spettacolo che contrista la ragione.
Senza rammentare le pagine più cupe di codesta storia; senza ripensare ai più tortuosi avvolgimenti della politica dei pontefici; senza rinnovarci il fremito dei patiboli e dei roghi da essi accesi; senza ponderare i due memorandum delle Marche e delle Legazioni, dove sono consegnate tutte le accuse e le prove irrefragabili dei delitti ufficiali dell'ultimo periodo del potere pontificio; per rimanere percossi di stupore, basta scorrere soltanto un libro, che pur si limita a prudenziali intenti: questo libro è l'Indice dei libri proibiti.
Non ricorriamo ad altri documenti, non sommoviamo la storia, lasciamo gli apostoli e i santi padri in pace. Questo libro, nella sua semplicità numerica, nella sua laconica grettezza, è il riassunto di tutti i capi d'accusa, di tutto il corpo delle citazioni erudite, di tutte le argomentazioni della sapienza, di tutte le strettoje della logica inesorabile. Il potere pontificale è giudicato in ultima istanza dal suo Indice dei libri proibiti. L'uomo colto si faccia passare innanzi alla memoria tutte le opere del pensiero che più hanno beneficato l'umanità, quelle che hanno determinato un nuovo atteggiamento della civiltà, che apersero nuovi mondi alla scienza, che vivificarono coll'incanto del linguaggio poetico i pericolosi ozj della vita; eppoi consideri, che quasi tutte codeste opere furono messe all'indice pontificio dei libri proibiti: le più splendide emanazioni delle menti privilegiate, tutte son segnate a condanna in quell'Indice, che si riduce ad essere il rifiuto documentato dei doni più insigni del genio che, in terra, è l'ombra più sublime della divinità.
I Paria erano maledetti dai sacerdoti del Dio Brama: gli uomini più benemeriti della società lo sono dal potere pontificale. Per negare questo fatto spaventoso, bisogna mettere sul rogo il libro dell'Indice. La più sofistica dialettica del più astuto figlio di Lojola non può che ammutolire al cospetto di questa verità.
Quando Gioberti consolandosi, per un violento artificio del suo forte intelletto e delle sue generose aspirazioni, col primo jeratico posseduto in proprio dall'Italia, cosperse di lodi convenzionali il pontefice e la sua corte, coll'intento di placarlo e di renderlo propizio all'Italia e al mondo, mise per condizione, che fosse tutta quanta ristaurata l'educazione dell'ordine sacerdotale, ma senza pensare che era impossibile la florida vegetazione degli sparsi rami, senza provveder prima al tronco dell'arbore vetusto. Ben se ne accorse dieci anni dopo, e con ritrattazione coraggiosa scompose tutto quanto il suo edifizio, e propugnò la necessità inevitabile della distruzione del poter temporale del papa, e venne a conchiudere, che l'ordine sacerdotale non avrà mai educazione propizia al sincero progresso dell'umanità, se non si procederà innanzi tutto alla riforma radicale della corte romana.
Da quella fonte corrotta derivano tutte le torbide gare che infestano il libero progresso.
Nei seminarj, la scienza che si amministra ai giovani adepti è una scienza intralciata e caotica, quando non è mendace e sovversiva. Se gl'intelletti che vi si abbeverano, hanno, per una particolare benedizione del cielo, il privilegio della serenità e della forza, col dono del sentimento e dell'istinto del bene, i sacerdoti ne escono intatti, non conservando che la veste sacerdotale, ma senza appartenere in realtà all'ordine clericale; soltanto allora che vi si raccolgono menti volgari e fiacche, oppure ingegni forniti di quella prontezza meccanica delle facoltà con cui s'imparano e si esercitano molte discipline, ma senza il benefizio del buon senso e del sentimento, - soltanto allora dai seminarj escono i sacerdoti nel mondo, secondo l'intenzione di Roma, ciechi al progresso, testardi di falsa scienza, propugnatori crudeli di oscurantismo, nemici degli uomini, contristatori assidui delle povere anime ingenue, alleati naturali di tutti i tristi.
Di quest'ultima classe, erano alcuni sacerdoti, che, nel lunedì della settimana grassa del 1797, si trovarono, verso il mezzodì, in quella tal casa in Santa Maria Fulcorina; casa che noi non dobbiamo designare esplicitamente, per un riguardo ad uomini morti di recente, consanguinei di persone tuttora vive, e, ci confidiamo, ben pensanti e ben volenti.
In un ampio salotto, a pian terreno verso corte, stavano, alcuni seduti, alcuni in piedi, da dieci a dodici tra preti e frati, uniti in quel punto in domestichezza, quantunque vi fosse tra loro la discrepanza portata dai diversi gradi della gerarchia ecclesiastica a cui appartenevano. Quei dieci o dodici preti e frati erano tutti in abito secolare completamente nero, col cappello tondo, protetto dall'inevitabile coccarda, incaricata di stornare dalle loro schiene le probabili bastonature della folla capricciosa. Quello di loro che stava seduto nel mezzo, era nientemeno che il vescovo di... di una città non molto distante da Milano, e non era di quelli che la natura, ne' suoi momenti di probità, compone apposta, perchè il mondo esperimentato non rimanga ingannato dalle apparenze; testa grossa, fronte ampia e fatta a cofano, naso corto e quadro, bocca larga, con labbra sottili e in tutto rendente la somiglianza di una sferla fatta con un coltello in una zucca; gli occhi si vedevano, e basta. L'uomo, come vescovo, era giovane, vale a dire non varcava i quarantatre anni; era di corporatura breve, ma densa e pettoruta, con un lieve sintomo di quella rachitide, che distingue i nani tarchiati e petulanti dai gobbi mingherlini e gentili. - Colui era stato uno dei migliori allievi usciti dal Seminario di Milano. Avendo predicato nella chiesa di S. Gottardo a Corte, ebbe la protezione dell'arciduca Ferdinando, e quindi dell'arcivescovo, del vecchio Kaunitz, e di Leopoldo II; e in breve, di curato fatto prevosto e arciprete, balzò alle insegne vescovili. Alle scuole ginnasiali era stato l'antipatia de' suoi condiscepoli giovinetti, che l'avevano odiato perchè aveva avuto l'abitudine di far la spia presso al maestro; ed anche perchè, fornito di gran memoria ed essendo un gran sgobbone, era salito al grado d'imperatore, come voleva il costume a que' tempi.
Venuto alla scuola di belle lettere in Brera, il Parini, lettore sagacissimo di fisionomie, e acre e bisbetico, lo ebbe talmente in sulle corna, che lo espose spesso alle risate della scolaresca. Dalla giovine società che lo aveva circondato, non ebbe mai dunque che segni d'antipatia e di disprezzo in tutto il tempo de' suoi primi studj. Però il seminario riuscì per lui un luogo di sicurezza e di tranquillità, dove fu ben felice di sentir l'odore de' sornioni suoi pari, che l'odorarono a gara, e gli si accostarono e si strinsero in lega seco. In simile maniera s'accovacciano insieme nelle cantine, e accanto ai focolari delle vecchie pinzochere, i gatti soriani, in odio al mondo e all'allegra brigata dei cani barboni.
Vicino a quel vescovo v'era un monsignore del Duomo, stato professore in seminario di lingua ebraica, poi di casistica; dottissimo interprete di scritture antiche, e forte in numismatica, specialmente nella romana. Costui era dotato di quell'ingegno specialissimo, a cui riescono agevoli tutte quelle discipline che non hanno viscere, e che al più degli studiosi presentano insuperabili difficoltà. Era un uomo non cattivo; viveva e lasciava vivere; era modesto, pacato, non pretendeva nulla, non offendeva nessuno. Ma sebbene paresse fatto di ghiaccio, e nella maggior parte delle quistioni fosse inclinato alla mitezza la più indulgente cogli avversarj, toccato nelle cose di religione, mandava di repente fuoco e fiamme, e, contrariato, muggiva come un tigre ferito. In conclusione, pare che fosse un po' tocco nel cervello, e che le facoltà dello spirito che più aveva ricevute perfette dalla natura, e più aveva esercitate, avessero provocato uno strano squilibrio nelle altre. Barnaba Oriani, che aveva studiato seco, lo qualificava per quel furioso cretino pieno di sapere. Gli altri astanti erano stati frati di varj ordini regolari, di quelli che Giuseppe II, il quale aveva fatto male anche il bene, dall'oggi al domani aveva gettati senza ricovero e senza pane sulle pubbliche vie, provocando per essi nelle moltitudini una pietà, che quei frati aboliti non avevano meritato per sè stessi, ma che meritavano come uomini aventi il diritto di vivere, e di non sentire la necessità di confederarsi alla colpa per vendicarsi dei concittadini secolari, e di quel monarca esaltato e presuntuoso, che fece parere atti di tirannia crudele e insopportabile, anche le più benefiche riforme volute dalla filosofia. Quei frati, dopo aver passato un pajo d'anni in una vita che non fu certo una meraviglia nè d'agiatezza nè di buone azioni, avevano finalmente trovata la protezione di quel monsignor vescovo e dell'altro monsignore del Duomo, e furono messi curati e vicarj in alcuni villaggi della diocesi milanese, coll'incarico di guastar le teste della povera gente. Di coloro uno era anche buon predicatore, per quella parte, già s'intende, che non sta nel raziocinio, ma nell'aria del polmone.
A sospendere i discorsi di costoro, entrò nel salotto con burbero cipiglio il marchese F..., accompagnato da un conte T..., dal milionario Mellerio, da un tal Vincenti, provveditore della repubblica di Venezia, e dal banchiere Suardi.


III


Tutti quelli che hanno imparato a leggere ed hanno un po' di memoria, ed ebbero appena un mediocre desiderio di conoscere le vicende della patria durante il periodo napoleonico, devono conoscere i fatti più importanti e più rumorosi, e che furono ripetuti da tutti gli storici di quel tempo, e però devono essere informati delle sommosse avvenute a Bergamo, a Crema, a Brescia, nel marzo del 1797; medesimamente devono sapere, e sarebbe cosa vergognosa se non lo sapessero, che quelle città facevan parte del dominio di terra ferma della repubblica di Venezia. In conseguenza di tutto ciò, deve aver fatto senso che la conventicola di Santa Maria Fulcorina, iraconda delle cose nuove, impiombata con malvagia caparbietà al passato, meditasse il disegno di far nascere una rivoluzione in quelle città appunto che abbiamo nominate; dovechè nelle storie è scritto, ed è verissimo, che le sommosse in quelle città vi furono eccitate per latente favilla dei Francesi stessi, e di quegli Italiani che più erano infervorati di libertà, e più idolatravano Francia e Bonaparte e tutto ciò che di nuovo e di strano aveva qui recato l'impetuosa onda repubblicana.
Ma il fatto della società segreta, che noi chiameremo dei retrivi, con vocabolo nuovo di zecca, surta a Milano contemporaneamente ad una congregazione segreta dei Bonapartisti e mediante una rivoluzione ben contraria agli intenti di quella, è appunto ciò che di nuovo e di non ancora stampato viene a dire al lettore la nostra musa storica in sottana di bigello; la nostra musa, che si propose l'intento speciale di raccogliere tutti i minuzzoli di carta che la storia aulica lacerò e gettò via con improvvido disprezzo.
E prima ne giova di ripetere, riassumendo, quel che è narrato dal Botta e da altri, come la città di Bergamo fosse stata occupata in que' giorni appunto da Bonaparte, quale strumento a volgere a sua devozione i popoli della terra ferma veneta; come Baraguay d'Hilliers avesse guidato i repubblicani in quella città, con cannoni e miccie accese, intimando al podestà Ottolini di far sgombrare dalla terra tutte le truppe venete; come appunto in quei giorni si fosse creata a Milano, per opera stessa di Bonaparte, una congregazione segreta, nella quale entravano in gran numero i repubblicani italiani, il cui fine era di portare la rivoluzione nel paese veneziano. Di quella congregazione, composta del conte Caleppio bergamasco, dei Lechi e dei Gambara di Brescia, del Porro di Milano, ecc., ecc., facevan parte anche molti Francesi, tra cui il colonnello di cavalleria Landrieux, che era stato eletto dalla congregazione quale operatore principale. Il capitano Geremia Baroggi, che era sotto gli ordini di questo colonnello, era entrato anch'egli in quella società. Andrea Suardi, il quale, come spiegheremo a suo luogo, aveva fatto educare quel giovane, e lo teneva seco sovente, e gli aveva dato alloggio in una delle sue case, per suo mezzo seppe di essa, e v'entrò; or vedremo perchè entrasse poi a far parte anche di quell'altra consorteria.
Ma prima è necessario di sapere, come Andrea Suardi, quantunque non avesse più nè venti nè trentacinque anni, ma si trovasse sotto al grave pondo dei sessant'otto, e, uscito, in virtù della sua astuzia e della sua buona fortuna, dalle unghie tenaci della legge, si adagiasse beato nella sua ricchissima condizione di banchiere, pure la sua antica natura ricomparisse sempre alla prova, e, dotato di una penetrazione d'ingegno incomparabile, continuasse imperterrito, un po' per una tendenza irresistibile del carattere, un po' perchè della ricchezza non era mai sazio, a convergere ai proprj intenti le vicende succedentisi nel paese, usufruttando quelle piaghe che negli svolgimenti graduali della cosa pubblica pur rimanevano e nelle leggi e nelle consuetudini, ad onta di riforme e di progresso, e si aprivano improvvise per la comparsa di qualche fatto nuovo. In quella guisa che nel 1766 si era attaccato a quella profonda piaga del sistema delle Ferme, per arricchir sè a danno del paese, così nel 1796, appena il terreno d'Italia brulicò d'armi e d'armati, accostatosi ai commissarj di guerra e ai fornitori di truppe, tosto odorò come in quella nuova sfera di cose si potesse divorare a quattro ganasce; onde, fattosi innanzi, assunse appalti che parevano arrischiatissimi, ma che, in sostanza, gli fruttavano il quaranta, il cinquanta, il sessanta per cento. Le pubbliche vicende, la rivoluzione francese il general Bonaparte, l'albero della libertà, la democrazia, l'aristocrazia, il progresso, il regresso, le vittorie e le sconfitte non entravano gran fatto a determinare per se stessi le sue affezioni e le sue simpatie; bensì stavano nella sua testa come oroscopi da consultare, per vedere sino a che punto e in che modo poteva regolare le manovre de' suoi furti. Era sempre colui che aveva fatto il suo ingresso in società, vuotando la borsa dimenticata nel panciotto del marchese F..., suo antico padrone. L'ingegno era il medesimo; la diversità non stava che nelle proporzioni.
Se non che quell'acutissima vista che gli faceva trovare speculazioni nemmen sospettate dagli altri, e quella confidenza in sè stesso che gli comunicava un'audacia di cui nessuno sarebbe stato capace, lo spingevano nel fitto dei pericoli, dove altre menti più limitate, ma più prudenti, non si sarebbero mai avventurate. Se fosse nato più cauto non sarebbe stato in prigione due volte, non si sarebbe mai trovato al limitare dell'ergastolo e al piedestallo della berlina; nemmeno però avrebbe accumulato tanta ricchezza. Queste parole ci conducono a dire che il signor Andrea Suardi, nell'appalto dei foraggi, aveva tentato a que' dì una impresa arrischiatissima. Amico, anzi ammesso alla confidenza dei capi dell'esercito austriaco; nel tempo stesso, amico e conoscente dei capi dell'esercito francese, aveva maneggiato un appalto in modo che, data la sconfitta di Bonaparte e governando egli le spedizioni dei carriaggi, si potessero far passare alla parte austriaca, dopo essere stati pagati, già s'intende, dalle casse francesi, usufruttando a tal uopo qualche istante di crisi, o l'impeto passaggiero di una sommossa popolare possibile sul teatro stesso della guerra; o la connivenza della repubblica di Venezia; qualche fatto insomma che potesse onestare la scomparsa dei trasporti di vittovaglie, per prendere così dalle casse austriache la seconda volta il prezzo già ricevuto dalle casse francesi. Se il lettore si ricorda, è ancora lo stratagemma medesimo per il quale, trent'anni prima, esso era stato a parte degli utili della Ferma del tabacco, ed esercitava per proprio conto il contrabbando del tabacco stesso, contro il quale i fermieri avevan pur fatto promulgare leggi tanto severe.
Ci si dirà ch'egli è un fenomeno troppo strano e quasi inverosimile, che un'intelligenza così perspicace giocasse la propria condizione per accrescere una ricchezza che era già esuberante. E siamo anche noi di questo parere; ma nel medesimo tempo facciamo osservare, che l'amore del denaro è insaziabile, e l'ambizione che per esso si lusinga di toccare le massime soddisfazioni, ogni qualvolta raggiunge un'altezza desiderata a lungo, e nella quale gli sarebbe sembrato di riposare, al di sopra di quell'altezza ne vede un'altra, e un'altra ancora: e se non sopravvenisse la morte, o la vendetta della società ad aggiustar le partite e a metter senno negli uomini, qualunque più feconda fantasia non arriverebbe a congetturare, nemmeno nei limiti della possibilità metafisica, quello che l'ambizione trova di desiderare, ed anche di acquistare nel campo della possibilità reale.
Bisogna poi sapere che il nostro Andrea Suardi si era avvezzato ai fumi persino dell'aristocrazia nelle lunghe sue conversazioni coll'arciduca Ferdinando, il quale, come ognuno sa, essendosi dato intemperantemente al commercio dei grani, ebbe a trovarsi spesso in compagnia di negozianti e di sensali, tra' quali, per la sua bell'apparenza e pe' suoi modi insinuanti, e più ancora per gli eccellenti affari che gli aveva procurato, il nostro Galantino sedette per molti anni ai primi posti. E fu anzi in quell'occasione che egli si trovò spesse volte a contatto col parroco della chiesa di S. Gottardo, nel palazzo di corte, quel parroco fatto vescovo, di cui abbiamo or ora fotografato il ritratto; e il quale, giacchè l'ex lacchè e ladro era piaciuto all'arciduca, non mancò di farselo piacere anch'esso, e gli piacque difatto; perchè quando un uomo non è sincero, e si propone d'ingannar tutti, ed è dotato di seduzione diabolica, riesce a farsi amare anche da coloro che, per istituto, odiano tutto il genere umano.
E in quell'occasione ebbe a trovarsi spessissimo col marchese F..., e a stringersi con lui in qualche familiarità. - Ma qui, non potendo dir tutto quello che al lettore sarebbe necessario onde farsi capace di tante cose, per quella ragione che il carciofo non può essere mangiato che foglia per foglia, lo introdurremo intanto nel mezzo di quel conciliabolo.


IV


- E che si fa, marchese?
- Monsignore, che si fa?
- Meno chiacchiere, e più fatti.
Così, colla franchezza petulante dell'uomo avvezzo a padroneggiare gli altri uomini, il vecchio Galantino ruppe in mezzo le mutue interrogazioni di quei due titolati della gerarchia civile ed ecclesiastica.
E i due titolati lo guardarono, senza poter dissimulare il dispetto che provarono all'urto di quelle risolute parole.
- Suggerite voi dunque i fatti; e suggerite il modo di prepararli senza chiacchiere, disse poi il monsignore, aprendo leggermente, con un lezio crudo delle linee, quella sferla ad uso bocca, che aveva nella zucca ad uso testa.
- I fatti, per parte mia, li avrei preparati; ma ho bisogno che i vostri preti inventino delle spaventose fandonie pei villani della vostra diocesi; e che esercitiate la vostra ben nota influenza sulle terre veneziane. In quanto a me, ho una fabbrica di carta sul Brembo; ho un filatoio di seta presso Bergamo, che mantiene qualche migliaio d'uomini avvezzi ad obbedirmi. Tengo pure a' miei comandi qualche centinajo di spalloni, soliti a far le schioppettate coi finanzieri. Costoro, in un bisogno, possono spingere avanti a calci nel sedere quelle carogne di contadini, che, se hanno paura del diavolo, hanno paura anche delle armi francesi.
Naturalmente se insorge tutto il paese veneto colle marre, colle zappe, coi badili; se di ciò è avvisato l'arciduca Carlo; se si lasciano senza vettovaglie, foss'anche per sole ventiquattr'ore, le truppe del generale Bonaparte, vedete che, in un momento, le partite si mutano. Fate che il generale Bonaparte tocchi una buona rotta, e addio simpatie e adorazioni e campane a festa e Tedeum e falò di consolazione. Conosco il mondo.... e chi più ha gridato, è il primo a metter le armi a terra... Questi chiacchieroni di patrioti li conosco benissimo.
Ma anche voi, signor provveditore (e qui si rivolgeva al Vincenti), dovete adoperarvi con energia, se volete che la vostra repubblica non vada all'aria o non sprofondi in mare. Scrivete al podestà Ottolini di Bergamo, che è un uomo forte ed è fedele al leone; scrivete al Battaglia di Brescia che, a dirla così tra noi, mi sembra un gran tentennone; e tenetelo in riga, e ad un bisogno, fate sapere al vostro senato che farebbe bene a internare colui in laguna, e a nominarlo ispettore dei fanghi del canale. Credetelo a me: questo Battaglia si è lasciato cogliere come un luccio nelle reti di Bonaparte, e lì a Brescia, quantunque sia un mellone, può produrre l'effetto di un alleato di Francia. - Animo dunque; bisogna far presto; bisogna dire a que' vostri senatori, che è tempo di tirar su la sottana lunga della toga, che consiglia i comodi della vita e impedisce di spacciarsi. Bisogna esser lesti a questi dì, se non si vuole sprofondar nel pantano; perchè, anche a correr veloci, è un affar serio a tener dietro a questo maledetto levriere di Bonaparte, che salta siepi e fossati e vigne, e divora campi e brughiere, e non s'arresta se non ha preso la lepre per l'orecchio. Ha bisogno di scuotersi un po' quella vostra vecchia repubblica dai suoi lunghi sonni senili.
Quando il Suardi troncò il suo discorso, uno di quei frati aboliti che si trovavano là, e che era in quel tempo vicario d'una pieve sul confine del vecchio ducato:
- Ma, disse, rivolgendosi prima a monsignor vescovo, come per chiedergli il permesso di parlare, avrei anch'io il mio debole parere da dare.
- Ma dica pure, molto reverendo, esclamò colla solita vivacità il Galantino.
- Non è egli vero, continuava l'ex frate di S. Damiano, che sarebbe una gran bella cosa se si potesse ottenere il nostro intento e glorificare la nostra santissima religione, e tagliar la strada alle opere del diavolo, senza dare incomodo a tanta gente, e senza mettere in pericolo tante vite?
Monsignor vescovo lo guardò e tacque. Il marchese lo guardò, poi guardò il Galantino; questi pure lo guardò, e soggiunse:
- Il convento in cui siete stato educato mi fa sperar molto dai vostri consigli. Parlate dunque, e sbrighiamoci.
- Non è egli vero, monsignore, che Giuditta fu venerata dai seniori di Betulia, e che tra le eroine della sacra Bibbia è riconosciuta santissima per aver troncata la testa d'Oloferne?
- Ma terreste voi mai a vostra disposizione una qualche Giuditta nella vostra pieve? domandò il Suardi facendo d'occhio al marchese; se è così, sarebbe bene che, prima di mandarla al suo destino, la faceste conoscere a me e al marchese. Le daremo dei pareri.
Monsignor vescovo tacque; tutti tacquero; ma prese la parola il monsignore del Duomo, il professore emerito di lingua ebraica e di casuistica.
- Io mi meraviglio molto col signor marchese, e non so come spiegare la presenza in questo luogo di monsignor vescovo illustrissimo, quando sento a parlare in questo modo, e con parole cosparse di maledetta miscredenza, al cospetto di sacerdoti, al cospetto di dignità ecclesiastiche reverende. Ma a che scopo ci siamo uniti qui? per tentare di mettere un riparo ai pericoli che da ogni parte, circondano la nostra santissima religione, o per sentirla a vituperare e a metterla in canzone?
- Reverendo monsignore, disse il vescovo, mettete in calma il vostro spirito, riposate tranquillo su di me: perchè in verità vi dico, che non permetterei che questo secolare fosse qui, se i suoi pensieri, se i suoi disegni non fossero precisamente i nostri.
Il monsignore del Duomo, che già abbiamo dato in nota per quel bigotto furioso, forte di quella dottrina che viene dalla sola memoria, chinò il capo sul petto a tali parole, e senza aggiungere altro, incrociò le mani e si mise a sedere, recitando sommesso delle orazioni.
Il Galantino fu in prima tentato di levarlo di peso con una violenta rimbeccata, ma, limitandosi a guardarlo fisso per un pezzo, si volse poi al marchese, dicendo sommesso:
- Che bestia!?
- Abbiate pazienza, gli accennò il marchese; ma bisogna compatirlo, perchè è un sant'uomo; e poi è anche un gran sapiente.
- Alla larga, caro mio; ma se avessi saputo di compromettermi con questi stolidi, avrei fatto i miei affari altrove. Gli altri almeno sono impostori; ma costui ci crede davvero.
Tutti si rimisero in silenzio: poco dopo monsignor vescovo invitò l'ex frate di S. Damiano a continuare il suo discorso, e a metter fuori le sue proposte.
- Quand'io ho nominato Giuditta, riprese l'ex frate, non l'ho fatto per indicare che ve ne fosse una rediviva; così l'avesse concesso la Provvidenza; così, nel tempo medesimo, la Provvidenza avesse decretato che questo giovane Côrso fosse arso anch'esso dalla salacità orientale di Oloferne! Il peccato avrebbe fatto la vendetta del delitto. Ma egli è temperante, è sobrio, è freddo, è casto. Egli non ha altra voglia che di distruggere gli uomini e di far guerra a Dio. Però ben meriterebbe degli uomini e di Dio chi trovasse il modo di togliere di mezzo questa fatale esistenza. Giuditta fu acclamata dai seniori quando mostrò al popolo di Betulia il teschio d'Oloferne. Chi uccidesse il generale sarebbe benedetto da tutti gli uomini, dagli uomini d'Italia ed anche dagli uomini di Francia.
Qui il Galantino interruppe l'ex frate:
- Ma, in conclusione, vi proporreste voi stesso di far le parti di Giuditta?
- Io?
- Voi, molto reverendo.
- Io no.
- Allora sarà difficile di trovar l'assassino.
- L'assassino!?... balzò in piedi, gridando come un energumeno il monsignore ex professore di casuistica. - Ma chi è costui che parla di tal modo qui? ma che parte è la sua? È un nemico di Satana costui? o è un nemico nostro? Ma è assassina la legge quando fa morire un nemico della società? Ma perchè da tanti secoli tutta l'umanità ha convenuto di venerare come eroine fortissime, inspirate dal divino volere, e Giuditta appunto e Giaele?
­- Io ho poca intimità, monsignore, con queste due donne, rispose il Galantino: e non ho la vostra sapienza; ma se sono disposto a batter le mani alla legge quando fa morire un assassino, trovo poi che è sempre tale chi ammazza altrui a tradimento, per quanto ottimo ne possa essere il fine... Io sono piuttosto ignorante, e non sono molto addentro negli affari di questa signora Giuditta e di quell'altra che si chiama Giaele. Ma siccome ho sentito la Betulia liberata del maestro Guglielmi, dove cantava l'Agujari... che voce eh... marchese? che vocalizzi! che trilli! quelli eran tempi!... ma tornando a noi, so benissimo chi era anche Giaele, perchè ho visto il ballo grande di monsù Pitraux, intitolato Debora e Sisara, e so i meriti di colei; e più ancora quelli della mima che la rappresentava, la Giuliana Bidò, famosissima e cara e tonda tutto quel mai che si può dire; qui il marchese lo sa meglio di me...
Avendo dunque visto assai bene quel che han fatto e l'una e l'altra, dico e sostengo, e mi pare che l'ignoranza giovi a qualche cosa, che oggi tutte le Giuditte e tutte le Giaeli, colte sul fatto, e anche col solo appoggio d'un pajo di testimonj, diventerebbero proprietà del tribunale criminale... Perchè bisogna tener conto anche della distanza dei tempi e degli usi... che so io? di tante cose bisogna tener conto. Io non so niente; ma ne so abbastanza, per dire al molto reverendo ex padre, che su questo progetto non c'intendiamo; e che per ora basterebbe che tornasse alla sua Pieve a metter l'inferno nella coscienza delle sue pecore, per farle diventar lupi e orsi contro i Bonapartisti; e così e altrettanto facessero questi reverendi sacerdoti. All'illustrissimo monsignor vescovo, io non m'attento di dar pareri, ma poco su poco giù quel che si ha a fare si sa. Quanto finalmente a monsignore, mentre la prego a perdonarmi, la supplicherei anche a tornare in Duomo, e a pregare per i suoi devoti e, se gli cresce il tempo, a pregare anche per me, che per ora basterebbe.
Dunque veniamo a noi, perchè sino adesso mi pare che si perda il tempo, torno a ripetere, in chiacchiere, mentre occorrono fatti pronti e naturali e spontanei. A tutte le apparenze, pare che Bonaparte si voglia ingoiar la repubblica di Venezia: bisogna dunque far insorgere tutto quel paese contro di lui. La repubblica soffierà di là, noi soffieremo di qui. Il marchese, che ha venti milioni in terre, può disporre de' suoi terrieri. Io farò la mia parte. Ma sopratutto sono i preti che ci debbono ajutare. Lo scandalo del ballo grande, rappresentato in questi giorni sulle scene del teatro della Scala, è tale che, esagerato dal pulpito, come sanno fare loro signori, alle popolazioni, può metter la febbre nei credenzoni, mi perdoni monsignore; sopratutto bisogna spaventare la coscienza delle buoni madri, le quali, volere o non volere, hanno una grande influenza sui figli coscritti. Alla prima rotta che può capitare, questi la danno a gambe, e... un disastro tira l'altro.
- Se mi permette, monsignor vescovo, tornò a parlare l'ex frate, io insisto ancora sulla mia proposta, e vi insisto perchè sembra che la Provvidenza abbia voluto espressamente darmene l'occasione.
Il Suardi si scontorceva.
Monsignor vescovo soggiunse:
- Sentiamo.
- Uno di questi giorni, continuava il vicario, mi si presentò al confessionale un mio devoto, un giovane di vent'anni, che fin dall'ottobre milita nell'esercito repubblicano. Suo padre, nel paese ov'è nato, è priore della confraternita del SS. Sacramento; sua madre è una santa, che si confessa e si comunica ogni otto giorni. I figliuoli e le figliuole somigliano al padre e alla madre. Famiglia più religiosa di questa credo non se ne trovi nè qui nè altrove. Ora il giovane coscritto, presentatosi, come ho detto, al confessionale, mi dice: - Reverendo signor vicario, sono qui da lei per consiglio. Ho fatto un sogno, uno di quei sogni che Dio espressamente manda agli uomini, e son qui a raccontarlo, ed ecco precisamente quel che ho visto e sentito: - Il generale Bonaparte era nell'acqua sotto al ponte d'Arcole, dove ho combattuto anch'io, ma l'acqua non era acqua, era sangue. Il generale vi nuotava a fatica, allorchè io vidi vicino a lui quel granatiere, che ho visto infatti sulla riva del fiume, quando salvò il generale. Nel tempo stesso sentii una voce, una voce che, secondo l'idea che mi son fatta leggendo i libri devoti, deve esser quella degli angeli che stanno a' piedi del trono di Dio, colle ali spiegate e pronte per volare ad eseguire i suoi decreti. Quella voce esclamò: «Colui che, nato di madre italiana, ha tratto il figliuolo di Satana dalle onde di sangue, sarà perduto in eterno. Ma starà invece tra i beati del paradiso chi, uccidendolo, salverà l'Italia e il mondo.» Io dunque sono qui per consiglio, io mi sento da tanto da mandare ad effetto i divini voleri.
- E voi, che cosa avete risposto? domandò monsignor vescovo.
- Nulla ho risposto, bensì gli ho detto: Tornate da me fra tre giorni.
Monsignor vescovo non parlava. Non voleva dar consigli.
Egli era profondo in divinità, ma la scienza non gli aveva stravolto il cervello! Se il disegno progettato si fosse già compiuto, avrebbe trovato i sofismi per giustificarlo; ma trattandosi di consigliarlo, non osava. Era stato educato in seminario, non a S. Fedele, nè a S. Damiano.
Ma intanto che tutti tacevano, l'ex professore di casuistica esclamò:
- La scienza approva un tal disegno. I libri santi ne offrono l'esempio. Abramo non istette in dubbio di uccidere Isacco.
A questo punto il Suardi, perduta la pazienza, esclamò con forza:
- Ma io, che non sono Abramo, non dubito di non voler fare una minchioneria. - Il coscritto è certamente un povero pazzo. - Quando ritorna al vostro confessionale insegnategli la via di porta Tosa. È tutto quello che si può fare per quel povero demente, vittima certo e del padre priore, e della madre santa, e delle santocchie sorelle, e dei preti, e dei frati gabbamondi.
L'ex professore di casuistica si alzò inferocito; fulminò d'uno sguardo terribile il Suardi; guardò altiero il vescovo; poi, a un tratto, piegò il capo sul petto, congiunse le due mani, e:
— Io parto di qui, disse.
Nessuno lo trattenne.
Or parrà strano che il vecchio Galantino irritasse colle sue parole i preti ch'erano là a congiurare con lui; ma egli, quantunque fosse quello che fosse, sentiva per i cattivi sacerdoti e per i bigotti una decisa avversione. - D'altra parte, è un fenomeno da non lasciar senza studio, che un frate, un prete, un torcicollo, quando sono tristi, superano la tristizia di qualunque altr'uomo. Nel caso attuale, per esempio, al Galantino faceva ribrezzo l'assassinio; all'ex frate di S. Damiano pareva invece un atto meritorio; al professore di casuistica pareva un corollario della scienza. - Il vescovo poi, senza compromettersi a dar consigli, avrebbe veduto assai di buon occhio che il disegno si fosse compiuto. In quanto al resto poi, è da aggiungere che il Suardi non solo non odiava il giovane Bonaparte, ma ne aveva una certa ammirazione. E si può giurare che, se non ci fosse stato di mezzo l'appalto dei foraggi, avrebbe figurato fra i suoi partigiani.
Quando il monsignore del Duomo fu partito, il vescovo di... prese con sussiego la parola per assicurare il marchese F... che tutti i ben pensanti e i veri amatori del paese, dei buoni costumi e della religione avrebbero trovato in lui un efficacissimo appoggio.
- Quand'è così, soggiunse il Marchese F..., sarà bene che voi, monsignore illustrissimo, vi troviate alla vostra sede, perchè la guerra corre velocissima, e in un giorno, in poche ore le cose possono mutare. Anch'io mi recherò dove tengo i miei più vasti possedimenti, attento a cogliere l'occasione.
- Allora, continuò il vescovo, rivolto ai sacerdoti che si trovavano là, ritornerete alle vostre arcipreture, ai vostri vicariati, alle vostre cappellanie; quando il momento sarà giunto, riceverete da me le opportune istruzioni. - E il signor Suardi? disse poi voltandosi a lui con dignità ostentata.
- In quanto a me lasciate che mi regoli da me, che regolerò anche loro signori. - Il generale Bonaparte percorre come un fulmine tutti i punti della base della guerra; ma ha anche 27 anni. Ma anch'io mi troverò dappertutto, e non lascerò tempo nemmeno al tempo, sebbene abbia i miei sessant'ott'anni passati. A rivederci dunque.
Il marchese rimase. - Il vescovo e gli altri uscirono. - Dopo pochi minuti, quand'era uscito anche il Suardi, s'udì sotto l'androne del cortile lo scalpitio de' cavalli e il rumore delle carrozze che dovevano condurre al loro destino quei reverendi congiurati.
Quando il marchese fu solo, avendo sentita nell'anticamera una voce femminile, si alzò, facendo un gesto di malcontento, e disse tra sè:
- Cosa diavolo viene adesso a far qui mia figlia?
Or chi era questa figlia?
Era la contessa A…, che noi abbiamo già conosciuta e descritta la sera del ballo del papa; la bellissima delle tre dee, quella che lasciò vedere, stando in palco, la massima parte possibile della sua nudità.
La quale contessa A..., incontratasi nel Suardi:
- Come siete qui, cittadino? gli disse con una disinvoltura gaja e baccante, perchè i suoi vent'anni, e la folla dei corteggiatori, e la schiera scelta e squisita degli amanti, e l'amor proprio femminile perpetuamente lusingato, la tenevano in una continua condizione come di vanitosa ebbrezza. - Come voi siete qui? e che cosa vogliono dire quegli uomini neri, che un dopo l'altro sgusciarono dall'appartamento del marchese mio padre?
- Contessa, io non li conosco; ma saranno preti venuti a prendere la loro quota dei benefizj ecclesiastici, che l'illustre casa F... distribuisce di jus patronato...
- Ah, ah... va bene. Ma sapete cos'è che va meglio, caro signor Andrea Cittadino?
- Che cosa?
- Che voi avete un bellissimo e interessantissimo nipote.
- Io non ho nipoti.
- Ma chi è quel bel dragone che vedo spesso con voi in carrozza?
- Chi è?.. è un mio protetto.
- Vorrei che si facesse proteggere anche da me.
Il Suardi stette un momento sopra di sè... un baleno gli aveva attraversato i pensieri; e in un baleno, fatto un calcolo e un disegno:
- Ebbene, le rispose, divideremo la protezione in due metà. Accettate, contessa?
- Sì che accetto!
- Ho un mazzo profumato di viole, colte nel mio giardino d'Inzago. Manderò il mio bel capitano a farvene un presente.
- Bene, caro signor Andrea; e la contessa gli strinse le mani in segno della più grande soddisfazione.
Il Suardi partì, recandosi difilato dove si raccoglieva l'altra congregazione segreta.
Ed ora, cari lettori, se non state attenti, perderete il filo del più bello imbroglio che mai sia capitato e capiterà da disimbrogliare.


V


Poche pagine addietro abbiamo parlato d'un colonnello Landrieux, capo dello stato maggiore della cavalleria, stato eletto dalla congregazione segreta stabilita in Milano per volere di Bonaparte, quale operatore principale onde promuovere rivoluzioni nello Stato di Venezia.
.Questo colonnello Landrieux abitava in casa Annoni, e là quotidianamente si radunava la congregazione bonapartista. Qui si rivolse dunque il cittadino Suardi.
Entrato nel palazzo, quando mise il piede sul primo gradino dello scalone, sentito che alcuno parlava al disopra della propria testa, si fermò per un atto macchinale, e ascoltò il seguente dialogo:
- Tutto va bene, tutto procede colla sicurezza di un esito felice. Ma, prima di venire agli atti definitivi, c'è un passo da fare.
- Che passo?
- È necessario lasciar da parte il banchiere Suardi. Io non so ancora come costui abbia potuto introdursi nella nostra società.
Il Suardi naturalmente aguzzò le orecchie, anche per sentire se gl'interlocutori discendevano.
- Tu hai ragione, continuava uno di quegli interlocutori; ma come si fa adesso?
- Come si fa? Non gli si dice più nulla, e si fa tutto senza di lui. Se le cose andassero bene, come pare, il Suardi ne menerebbe gran vanto, perchè costui non fa nulla senza il suo perchè; e il general Bonaparte non mancherà di rimproverarci d'aver messo a parte di un'impresa così solenne un uomo che... già non è possibile che il generale non venga a sapere all'ultimo la vita e i miracoli di questo furfante milionario.
Il Suardi si ritrasse, perchè sentiva che gli interlocutori discendevano. Si nascose in un androne, e stette là sin che vide a partire i due maldicenti, che eran Porro e Caleppio.
Quando il Suardi entrò nel palazzo Annoni, non aveva nessun disegno nuovo in testa; era venuto là per assistere alle dispute della congregazione, a cui era stato ammesso dal colonnello Landrieux, e nulla più. Ma le parole udite e il dispetto che ne provò, gli fecero spuntare in testa improvviso e adulto un pensiero.
Avendo potuto stringersi in amicizia col colonnello Landrieux per mezzo del capitano Baroggi, volontieri aveva fatto parte della congregazione, perchè, col conoscere per disteso i piani degli avversarj, egli avrebbe potuto governare più sicuramente i proprj. Ma dopo ciò per lui sarebbe stato meglio che la congregazione bonapartista non potesse dare effetto ai suoi maneggi; per la qual cosa sarebbe stato necessario che chi ne aveva la direzione principale, all'insaputa dei colleghi, virasse di bordo e cangiasse strada. Il colonnello Landrieux era stato introduttore al Suardi per gli appalti dell'esercito, e però aveva avuto dal Suardi stesso il suo lauto boccone da mangiare.
Quel colonnello non era più dunque nè trasparente nè liscio come uno specchio, bensì presentava delle scabrosità, alle quali un uomo abile poteva attaccarsi.
Un'altra qualità distingueva quel colonnello, qualità che poteva riuscire eccellente nelle mani del Galantino. Esso era un giuocatore disperato. Bensì, per essere piuttosto valente e fortunato, non esibiva sempre quegli angosciosi alti e bassi che offrono il cuore insanguinato agli avoltoj di professione. Il Galantino si ricordò pertanto del passato, e rammentatasi la propria abilità, risolse di tenerla in pronto per il bisogno.
Improvvisato così a mezzo un progetto, il Suardi ascese lentamente lo scalone, e quando fu alla porta dell'appartamento del colonnello, s'incontrò negli altri soci della congregazione segreta, che uscivano in quel punto.
- Troppo tardi, cittadino Suardi.
- Non è mai troppo tardi. Quel che avrei dovuto dire a voi tutti lo dirò al colonnello, che poi ve ne farà comunicazione. Ma dov'è il capitano Baroggi?
- S'è fermato col colonnello, per cose che riguardano il reggimento.
- A rivederci dunque stasera in teatro, dove ci sarà un chiasso del diavolo, perchè so che è stato proibito il nuovo ballo di Lefèvre.
- A rivederci, tutti risposero; - e il Suardi, fattosi annunziare, entrò dal colonnello.
Quando fu in camera, salutato in prima il colonnello, si rivolse poscia al Baroggi, e:
— Ho un'incumbenza da darti, gli disse.
Il capitano Baroggi si alzò da sedere, spiegando, senza volerlo e senza pensarci, tutta l'aitanza disinvolta e leggiadra della sua giovanile figura, nata fatta per l'assisa e gli spallini e i calzoni di pelle e gli stivali alti. Aveva nel corpo quella eleganza poderosa e accentata del discobulo greco; con una di quelle faccie, care le mie donne, che non si sanno definire; perchè c'era in quelle vaghe linee la sprezzatura del soldato, la severità e persino l'asprezza, se, a un guizzo repentino dei muscoli, tutte quelle impronte non fossero scomparse per dar luogo ai loro opposti; perchè la fronte, se si spianava, era serena come quella d'una fanciulla; e se l'occhio perdea il lampo virile e crudo di chi, a cavallo, eccita alla carica e alla strage lo squadrone, assumeva una soavità quasi infantile, nella quale tuttavia parevano nuotare l'arguzia e la seduzione. Il ritratto in miniatura che noi possediamo di questo bel capitano, eseguito in allora dal distinto pittore ed incisore Evangelisti, ci fa trovare qualche somiglianza tra la sua faccia e quella del Tancredi, che il pittore Riva dipinse nel suo quadro di concorso, premiato dall'Accademia di belle arti tanti anni sono.
Ma com'è, dirà taluno, codesta strana combinazione per la quale tutti i giovani personaggi che entrano successivamente in iscena in questo libro, hanno tutti ricevuto dall'autore l'obbligo di essere bellissimi e carissimi e interessantissimi?
Il tenore Amorevoli faceva diventar matti soltanto a vederlo; il Galantino, quando fu spogliato, per esser messo alla corda, mostrò un tal collo e un tal petto e braccia tali, che persino il senator Morosini ne mandò un'esclamazione di maraviglia. La contessa Clelia pareva una Minerva perfezionata. La contessina Ada era sua madre ingentilita. La ballerina Gaudenzi aveva i capelli, gli occhi e il naso della Diana Efesia. Recentemente, ovvero sia nella sera del ballo del papa, il tumulto della folla fu placato dalla comparsa di tre donne in costume di libertà, delle quali se l'una era bella, l'altra era più bella ancora.
Ed ora compare in iscena questo capitano dei dragoni, il cui volto e la cui persona son fatti cogli ingredienti degli dei e degli eroi più riputati; e precisamente col sistema onde fu messa insieme la Venere greca, che ebbe in prestito le cosce appetitose di Taide, la schiena provocatrice di Frine e le diverse bellezze di sette fanciulle.
Com'è dunque questa faccenda? La faccenda è naturalissima; e se il lettore ne stupisce, vuol dire che l'ultima fase dell'arte, che ha messo in trono il brutto, dal Triboletto e del Quasimodo di Victor Hugo al gobbo Esopo di Bartolini, lo ha preparato a credere impossibile la bellezza perfetta. Ma questa bellezza c'è e, per trovarla, basta cercarla.
Nel caso nostro poi, oltre la testimonianza del Bruni, che sta garante per noi, di alcuni dei nostri personaggi esistono ancora i ritratti, eseguiti per mano di pittori più o meno distinti, compreso appunto questo del capitano Baroggi.
Or, tornando ai fatti, il Galantino, col permesso del colonnello, disse al Baroggi:
­- Ho un'incumbenza da darti, la quale chi sa quanti te la invidieranno.
- Di che genere ella è?
- Del miglior genere. Si tratta di portare un mazzo di viole ad una signora.
- È proprio necessario per questo la persona di un capitano di cavalleria?
- Non è necessario, ma è utile; seppure è utile far la conoscenza della più bella donna di Milano.
- Ma chi è questa donna?
- È la contessa A..., che desidera proteggerti. Ella stessa me lo disse ora colla sua bocca di rose. Va e ringraziami; trent'anni fa avrei finto di non capire, e ci sarei andato io stesso.
Il colonnello Landrieux, messosi a ridere, ed entrato a far parte di quel discorso:
- Ah, ah, disse, se a voi dispiace l'incumbenza, il mio caro capitano, passate il mazzo di viole a monsieur Chapier, l'intendente di guerra, che è innamorato pazzo di questa vostra bella contessa, la quale, mentre sciala con tutti, s'è messa in testa di far l'avara e la pinzochera con lui. Tanto che tutti ridono alle sue spalle, ed egli si dà per disperato, e dice di voler uccidere tutti gli amanti di lei.
Il Galantino era benissimo informato di tutto questo, e allorchè s'incontrò colla contessa, se fu sollecito a prometterle che le avrebbe mandato il bel capitano, fu perchè aveva bisogno e della contessa e del capitano per tirare in ballo l'intendente Chapier, il solo che gli fosse d'impaccio nel fatto degli appalti. Però, seguendo le parole del colonnello:
- Se la cosa è così, disse, allora bisogna essere pietosi, il mio bel capitano, e tentar di placare la bella contessa, e introdurre da lei monsieur Chapier.
- Perchè no? disse il giovine Geremia; e così sbadatamente rispondendo, si calcò l'elmo in testa, e mosse per uscire.
- Va dunque entr'oggi da colei, gli replicò il Suardi, e fa in modo che lo Chapier sia introdotto in quella casa. Certo che ci divertiremo.
Intanto che il capitano partiva, il colonnello Landrieux disse al Suardi:
- Voi volete che quell'istrice d'intendente, oltre alla ferita della contessa, riceva qualche colpo anche dallo squadrone del capitano.
- Oh! soggiunse ghignando il Suardi, non ne avrei nessun dispiacere. Ed ora parliamo dei nostri affari, colonnello.
Ma intanto che que' due parlano, pensiamo che or ora entrò in scena un personaggio nuovo, anzi più d'un personaggio; e coi nuovi personaggi, nuovi annunzj di curiose combinazioni. - Prima una congiura; poi una contro congiura; poi un amore non platonico subodorato; poi la minaccia di qualche duello che faccia chiasso; poi il Galantino che va tentando successivamente varj uomini, per ottenere, almeno pare, di farli lavorare tutti in una evoluzione grandiosa. - Davvero che, mettendoci nei panni dei lettori, ci par di camminare colla benda agli occhi, tenuti a mano da gente maliziosa; ma possiamo anche assicurare, che è vicinissimo il momento che lor si toglierà il fazzoletto, e vedranno chiarissimamente dove si trovano.


VI


Non è poco il dire, che, per ottanta pagine circa, un libro che i bibliotecarj metteranno sempre nel dipartimento della Phantasia, siasi occupato esclusivamente, e quasi ex cathedra, di storia vera e di politica vera, tirando in ballo il papa ed il suo potere temporale, e congiungendo non a caso il passato col presente; e citando, come un dottor della Sorbona, e Apostoli ed Evangelisti e santi Padri e pontefici galantuomini; e parlando del vecchio Napoleone Bonaparte, e delle sue insidie politiche e dei colpi e contraccolpi rivoluzionarj, ecc. ecc. Di queste ottanta pagine crediamo che i lettori gravi, e che tirano il rapè, ci vorranno essere grati, e tanto da credere che il nostro lavoro possa esser letto anche da quelli che hanno in odio le produzioni della fantasia. - Ma la storia, la quale rifà la vita, per esser completa, deve rifarla di dentro e di fuori; e se quasi sempre, come un ciambellano, segue devota i re dell'azione e del pensiero, che vissero e furono proclamati in pubblico, e dei quali con atto pubblico si fece il trapasso alla posterità: come un benefattore deve poi entrare nelle dimore private a cercarvi quelle figure che vissero non abbastanza note o ignote all'universale, per indagare come la vita intima della società segua l'impulso della vita pubblica, e come persino le virtù, i vizj, gli affetti e le passioni ripetano da essa il modo di manifestarsi; chè non tutte le virtù nè tutti i vizj sono possibili in tutti i tempi, e il dramma domestico si atteggia senza volerlo all'epopea storica. - Lasciamo dunque per ora le piazze e i teatri e i luoghi pubblici e gli uomini che operarono cose già divulgate dalla storia, e penetriamo nel silenzio di una privata dimora a vedere la progressione di un dramma domestico, che si modifica lungo il cammino, e piega a seconda dei pubblici avvenimenti.
Nel palazzo situato nella contrada della Spiga, appartenente al marito della contessina Ada, in una sala a terreno, verso il giardino rispondente al naviglio, in sul tramonto d'un giorno di marzo del 97, stavano tre donne. - Quelle donne rappresentavano tre età e tre periodi diversi; ed erano precisamente la contessa Clelia V…, la contessina Ada... e donna Paolina S...
La prima aveva settantadue anni; la seconda quarantasei; la terza diciasette.
È pieno di tristezza quel momento in cui si vede nell'estrema decrepitezza una creatura umana, di cui siasi fatta conoscenza quand'era nello splendore della beltà.
Noi non abbiamo ancora potuto fare sul vero un tale esperimento, perchè bisognerebbe che avessimo almeno i nostri settant'anni; mentre invece, per sciagura nostra, ne siamo distanti al punto, da misurare con ispavento la vita lunga che ancora ci rimane a percorrere, se una saetta benigna non ci viene a cogliere strada facendo. - Ma oltrechè un tale esperimento lo fecero altri, i quali ci hanno assicurato non esservi niente di allegro, noi lo abbiamo tentato confrontando di una medesima persona i ritratti eseguiti a periodi distanti, dove si vedeva riprodotta l'immagine fresca e ridente della cara giovinezza, e le alterazioni estreme della triste vecchiaja.
È doloroso a vedere, e nel tempo stesso non è senza un certo interesse l'osservare come il tempo, pur non toccando l'ossatura e il disegno di una faccia, la vada totalmente contraffacendo, imperversando sulla liscezza, sul colore, sugli accessorj: - il lento processo della dissoluzione, esaminato su di una medesima faccia, è certo, caro il mio gaudente lettore, che turberebbe anche la tua allegria.
Or, venendo a donna Clelia, un tale esame potevasi fare guardando il suo ritratto ad olio, opera del pittore Porta, che pendea da una parete della sala, ed era lo stesso innanzi al quale abbiam visto addormentarsi in torbido sogno il conte colonnello V…. Ella non contava che ventidue anni quando avea posato innanzi al pittore. Erano dunque trascorsi cinquant'anni; mezzo secolo! una piccola bagatella. Nè tuttavia potea dirsi che il tempo distruttore avesse cavato tutto il partito possibile della sua forza crudele. No, la dissoluzione non aveva fatto miracoli; perchè i capelli bianchi anche nella giovinezza per la polvere di cipro, erano rimasti foltissimi, e le loro onde argentine scaturivano da una cuffia tagliata a foggia di camauro; i sopraccigli si erano conservati neri; bensì, come avviene nella tarda età, cresciuti in foltezza e diventati ispidi, adombravano cupamente l'occhio infossato, e imprimevano a tutta la faccia una terribilità indescrivibile; così quella cara trasparenza del colorito, che, nella prima gioventù, comunica una tal quale bellezza perfino alle tinte più aborrite, si era cangiata nella rigida opacità della cartapecora; il mento e la bocca, siccome dicemmo altre volte, di linee severe e ricordanti il profilo napoleonico, ma che nell'età prima avevano esercitato un fascino strano per il contrasto colle altre parti floridissime di quella bella donna, avevano raggiunta la massima angolosità. Tutto quel complesso poi di disegno, di colore, d'espressione, d'atteggiamento, era tale, che imponeva altrui un rispetto, il quale sarebbe stato disgustoso e pesante, se dopo il primo urto non vi fosse letto il riassunto di un'intera vita di pensieri, di sventure e d'affanni.
Questa vegliarda severa stava seduta a lato di un tavolino sul quale era dischiuso un libro; portava gli occhiali d'ebano inforcati sul naso e, tenendo alzati gli occhi al disopra delle lenti, guardava fissa da qualche tempo la figlia della propria figlia, della contessina Ada, ai freschi e leggiadri quindici anni della quale, che appena contava allorchè la vedemmo l'ultima volta, se ne erano aggiunti trentuno; il che vuol dire che, nel 97, aveva quarantasei anni: età incomoda e nojosa tanto per gli uomini che per le donne; chè i primi hanno cessato di amare, le seconde di essere amate, messe in discredito dai reumatismi, dalla gotta incipiente, e dall'età critica. Tuttavia, se questa è la regola generale, le eccezioni non mancano; e in quanto alla contessa Ada, se non avesse avuto tutt'altro per la testa, ben avrebbe potuto suscitare ancora qualche simpatia in coloro, almeno, che per bizzarria, sono capaci di anteporre le bigie giornate d'autunno e la cascata delle foglie ai soli sfacciati del giugno e del luglio. Essa, nella persona, serbava intatta la leggiadria d'un tempo, e nel volto mobilissimo aveva qualcosa che in parte nascondeva quell'età.
Anzi, a spiegarci meglio, quel volto, per la mobilità accennata, era così ineguale, che pareva cangiare età ad ogni lieve guizzo di muscoli. Certo che non avremmo consigliato mai la contessina Ada ad esporsi al perfido sole di mezzodì, e molto meno ai fatali riverberi di un muro tinto in giallo, chè allora il lavoro che il tempo aveva fatto su quella faccia, saltava fuori da tutte le parti, e tradiva cento macchiette cutanee, e qualche ruga ribelle ai lati e sotto gli occhi, e qualcosa come di pesto e di frollo e di sciupato nelle guancie, serbanti però sempre la giovanile pozzetta; ma tutti questi guasti scomparivano, appena un raggio propizio di luce pittorica avesse investito quel volto, o un riflesso benefico di qualche tenda serica, azzurra o rossa; o, meglio di tutto, quell'albore annacquato che è in una camera illuminata di notte da una lampada. Allora pareva quasi che, per incanto, si togliesse il melanconico sipario degli anni quarantasei, per iscoprire il sotto tessuto di una faccia di trent'anni al più. Nel momento in cui l'abbiamo sorpresa per farne la descrizione, siccome era verso sera, e, se non c'era il sole vivo, non c'era nemmeno nè la luna nè la fiamma di candela, mostravasi così mezz'a mezzo, tra gli estremi che abbiamo delineato, e piuttosto più vicina ai trenta che ai quaranta; perchè in quel punto era concitata dall'arte, e da qualche cosa di più forte ancora. Seduta innanzi al pianoforte, stava provando la musica della Marsigliese che teneva aperta sul leggio, e si esaltava nell'interpretazione di essa.
Ma intanto, che la nonna guardava come perscrutando non sappiamo che cosa, e la mamma passava al cembalo la Marsigliese, donna Paolina, che tale era il nome della figliuola di donna Ada (non si meravigli il lettore di sentire ancora i titoli sonanti di marchese, di conte e contessa e don e donna in un tempo che i titoli di nobiltà erano stati messi inesorabilmente al bando dalla Libertà e dalla così detta Eguaglianza; perchè nell'intimo della vita domestica, dal periodo della loro invenzione fino ad oggi, non furono mai sospesi nemmeno un minuto; e i servitori e le cameriere e i cocchieri hanno sempre continuato a dare del don e della donna e del conte e della contessa ai loro padroni, perchè era una questione di pane come un'altra. Anche fuori delle pareti casalinghe, e anche fuori della schiera infelice delle fantesche e dei servitori propriamente detti, i servi dilettanti e devotissimi di tutto il mondo, e i pagnottisti perpetui hanno sempre continuato anch'essi a dare i titoli a chi toccavano per diritto di blasone, anche in piazza, anche in teatro; ad una condizione però, già s'intende, che nessuno dei democratici sfogati li sentissero, perchè le bastonature erano in voga, e la prudenza e il parlare sommesso erano consigliati dalla pubblica intimidazione; e qui mettiamo il claudite alla parentesi, che ci portò fuori affatto di traccia), dunque donna Paolina (che così venne chiamata al fonte battesimale, perchè la nonna e la madre vollero perpetuare in essa la cara memoria di donna Paola Pietra; ed ecco un altro claudite), donna Paolina dunque, essendo aperto un finestrone che dava nel giardino, perchè il marzo non era freddo e si voleva usufruttare l'ultima luce, stava appoggiata ad una spalla di esso, in una posa tutta sua particolare e, diremo, affatto maschile, perchè aveva il tergo appoggiato a un punto del muro che non era sufficiente per concederle di star ritta in piedi; onde, colle gambe tese e i piedi puntati al basso del muro opposto, segnava una diagonale. -
Or venendo alla descrizione di quella fanciulla, vorremmo che il lettore l'avesse veduta cogli occhi proprj, per capacitarsi che non è già per amore di convenzionalismo che noi regaliamo a tutti i nostri giovani personaggi una bellezza incomparabile; ma sibbene perchè se quella fanciulla era bella veramente, non è in nostro diritto di contraffarla e peggiorarla per intento di varietà; la varietà è infinita in natura, anche senza incomodare la scrofola e la rachitide.
A misurarla dunque, così a calcolo d'occhio, quella fanciulla poteva essere alta come un uomo di statura regolare; ma siccome aveva la testa leggera ed il collo non corto, e le mani ed i piedi piccoli, ed una vita che si poteva stringere in due mani, e la vesta lunga, così potea sembrar alta fino all'eccedenza; alta e sottile e lunga come una frusta; se non che le maniche di seta strette, come allora voleva il costume, rivelavano un braccio sviluppato e denso; e le sottane di levantina che, per quella strana positura di lei, cascando mollemente, profilavano le sue gambe tese, lasciavano trapelare forme così aitanti, da parere un’esagerazione per una ragazza di anni diciasette. Quando ci si permettesse il confronto, suggeritoci dal più gretto naturalismo, noi diremmo, che se colei, invece di una fanciulla, fosse stata una puledra, ben poteva valere i duecento mila franchi della Katinka di Abdul Megid. Ma donna Paolina, che da un pezzo stava immobile in quella strana positura, concentratissima com'era in un pensiero, di slancio si rizzò in piedi, e fece due o tre passi, aggirandosi intorno a sè, sciolta ed elastica e come snodata.
La contessa Ada, in quel punto, continuando a provare sul cembalo la Marsigliese, s'era concitata nell'esecuzione, e facendo intera l'emissione della voce, espresse con accento verace tutta la concitazione selvaggia di quel grido di guerra.
La fanciulla si fermò di colpo; diede manifestamente un guizzo. Quella musica, quelle parole, quel grido le avean messo addosso l'inferno.
Caduta la notte, si recarono i lumi. Dopo qualche tempo venne gente in quella casa, e si vegliò fino oltre le undici. Tutto quanto avvenne in quelle ore per noi è affatto indifferente, bensì terremo dietro a donna Paolina quando, dato il bacio della notte felice alla nonna e alla mamma, prese un lume, e, accompagnata dalla cameriera, si recò nella sua camera da letto.
Muta si lasciò ravviare e intrecciare e mettere nella rete i capelli; muta lasciò che partisse insalutata la cameriera.
Dopo si spogliò adagio adagio, sempre fantasticando e osservando macchinalmente il ritratto di suo padre, che pendeva dalla parete di contro al letto; il qual padre, lo diremo così di fuga e rimettendo le indispensabili spiegazioni e dilucidazioni ad altro tempo, era il conte Achille S..., ricchissimo patrizio milanese, il quale, dopo essersi mangiato un lauto patrimonio, fatta l'eredità di un secondo, sposò impaziente e furente di passione la contessa Ada, per amareggiare poi tosto di cento infedeltà il talamo nuziale e la pace di quella povera donna, innamorata fino all'infelicità. Sciupato il secondo patrimonio, strano e bisbetico qual era, aveva abbandonato e casa e moglie e figliuola, ed era corso a prestare i suoi servizi militari fin dal 92 nell'esercito di Francia. - Fatta una terza eredità, aveva lasciato l'esercito; ma i parenti avendolo interdetto per prodigalità, indispettito tornò a riprendere il suo grado nell'esercito del Reno, dove trovavasi ancora. Più giovane della contessa Ada, l'avea sposata, vedovo già da due volte e dopo aver fatta l'infelicità di molte e molte donne; chè, ad onta della sua torbida fama, aveva sempre esercitato sul sesso debole un fascino irresistibile.
Questo era il padre di donna Paolina, osservando il cui ritratto, ella s'era venuta a grado a grado spogliando. E qui i giovani lettori non isperino una descrizione, chè ci preme troppo la calma del loro sangue.
Soltanto diremo che, quando mise il ginocchio, oh che ginocchio!!! sul letto, a un tratto balzò giù, e tratto un cassettone di un guardaroba, ne levò.... che cosa? Un elmo con criniera; un'assisa verde coi risvolti bianchi; un pajo di calzoni di daino bianco; un pajo di stivali; una sciabola.
Ma a chi appartenevano? a lei. Ma in che modo? ecco.
Nel carnevale, al collegio dond'ella era uscita pochi mesi prima, s'eran date alquante rappresentazioni comiche; di quelle che un certo professor Ghedini Mirocleto allora scriveva apposta pei collegi, press'a poco come sarebbero oggi quelle del Genuino.
Fra quelle commedie, che noi abbiamo letto, e che sono d'una miseria incomparabile, esso ne aveva scritto in quel tempo una d'occasione, che s'intitolava Il dragone benefico; una bestialità in punto e virgola, ma che era piaciuta alla direttrice del collegio, la quale pregò donna Paolina, allieva emerita, ad assumere la parte del protagonista. La fanciulla accettò, col permesso della nonna e della mamma, e ottenne che le si facesse fare un vestito completo da dragone. Quando comparve sul palco scenico abbigliata a quel modo, gli spettatori, che non eran tutti donne, andarono in visibilio. Però donna Paolina prese maggior stima di se stessa, e s'innamorò di quell'abbigliamento militare; e se ne innamorò per una ragione più pericolosa di quello che pare. Allorchè dunque trovavasi sola, ed era sicura di non essere scorta, si dilettava a rivestire quelle armi, e se ne compiaceva orgogliosamente, guardandosi nella specchiera che teneva nella camera da letto; ma pazienza fosse qui tutto! il peggio è che quel vestito le suggerì...
A pensare che una simile inezia doveva essere la cagione di conseguenze tristissime, davvero che c'è da rimanere increduli; ma nel carnevale istesso avea visto più d'una volta il capitano Baroggi. Oh non l'avesse mai veduto! Noi che sappiamo quel che avvenne dopo, non possiamo vincere la commozione. E ora, o lettore, fermando lo sguardo a contemplare il leggiadro spettacolo di questo dragone che sta specchiandosi, preparati a stupire; e se hai il dono delle lagrime, anche a piangere.


VII


In una tragedia, celebre e mediocre nel tempo stesso, perchè fu il lavoro di un giovane ignaro della mappa del cuore umano, fu scritto che chi sostenne d'aver amato due volte, non ha mai amato. Queste cose si possono dire a sedici anni, anche a venti, anche dopo, se la faccia di un galantuomo sia così eteroclita da stornare l'ago calamitato delle femminili beltà; ma in circostanze ordinarie, e allorchè e uomini e donne abbiano qualità sufficienti da provocare e mantenere la corrente elettrica, quante volte, in una vita di trent'anni ed anche di quaranta, la specie umana può amare, senza compromettere il vivo interesse di ciascun amore! anzi noi pregheremmo gli uomini e le donne di molta esperienza, e che dalla indulgente natura sortirono delle doti appetitose, a saperci dire, in tutta segretezza già s'intende, se non è possibile manovrare due, tre, anche una mezza dozzina di amori simultaneamente, conservando il nativo galantomismo, e un cuore ben fatto e, ad un bisogno, anche poetico.
C'è una condizione però da osservare (di questo almeno ci assicurano gli esperti), ed è che bisogna guardar bene di perdere l'equilibrio nel governo di codesti amori. Se un giorno solo, di quei tre o quattro affetti che si hanno nella propria giurisdizione, uno sorge più alto degli altri e, senz'avvedercene, ci lasciamo andare a star con lui in troppo lunga domestichezza, allora, correndo esso il pericolo di diventar solitario, può tramutarsi in quell'amore acuto al quale è più conveniente un posto in un trattato di patologia. Ciò premesso veniamo ai fatti. Il capitano Geremia Baroggi avendo ventitrè anni, ed essendo, come fu notato, bellissimo, e per di più esercitando una professione che allora era di ultima moda, e appartenendo alla cavalleria, e perciò avendo il diritto di portar gli speroni, era appunto nella opportunità di poter manovrare la sua mezza dozzina d'amori senza turbarsi, come una volta l'incomparabile Cocchi della compagnia Guerra guidava imperterrito la sua mezza dozzina di cavalli bianchi a dorso nudo. Non so per che cosa, ma, a parte anche la giovinezza e la beltà e gli altri fascini, gli speroni hanno un potere irresistibile sui nervi delle donne, tanto maritate che zitelle. È un fatto provatissimo che, a parità di circostanze, un ufficiale di fanteria passerà ai secondi posti e andrà soggetto a delle mortificazioni inaspettate, se appena balzerà fuori a mettersi in suo confronto un ufficiale di cavalleria. Il suono dell'arpa era indicatissimo una volta perchè i giovinetti si trovassero bell'e innamorati, senza vedere nè la faccia nè le mani della bella incognita; ma anche il suono semplice e puro degli speroni bastò più d'una volta a far risolvere dei cuori femminili a battere a favore di un ignoto che a caso passasse sotto le finestre cogli stivali tintinnanti. È un fenomeno strano e d'origine arcana; ma non per questo cessa di esser vero.
Lasciando ora gli speroni, è a sapere che il capitano Baroggi, senza che fosse vagheggino, nè vanitoso, nell'ultima volta che venne a Milano di presidio, e fu per tre mesi, si trovò, senza accorgersi, ingaggiato in tre amori che gli serrarono addosso in pochi dì l'uno dopo l'altro. Non eran molti, a dir vero, per la pace del cuore, ma siccome le donne che lo avevano inspirato erano tutte belle a perfetta vicenda, ed egli aveva saputo dividere equabilmente le sue ore d'ozio con ciascuna di esse, così avea vissuto felicissimo i suoi novanta giorni. Nell'ultimo mese però s'era incontrato nella signora R..., che gli penetrò, non dirò nel cuore, ma nella simpatia un po' più delle altre, ed egli stesso se ne accorse, ciò che fu un eccellente indizio. Però quando il signor Andrea Suardi gli propose di fare una visita alla contessa A…, che per turno divideva colla R... il seggio della regina del torneo milanese, fu contentissimo, presentendo che a quel modo ei si sarebbe rimesso in equilibrio. Ma non si perde mai l'equilibrio quando si sente e si vede il pericolo. L'affare bensì diventa seriissimo allorchè, frugando così a caso intorno a qualche rosaio, ti si ficca inavvertita una spina nel dito. Un bel giorno, non si sa da che cosa dipende, ma la mano è gonfia e il braccio è al collo. Ora il nostro bel capitano, mentre era contento di potere colla bellissima e voluttuosissima contessa A..., fintanto almeno che sarebbe rimasto a Milano, farsi scudo e riparo contro alle invasioni ognora più minacciose della bella R..., non sapeva che appunto una spina gli era penetrata tra pelle e pelle pochi giorni prima.
Nel carnevale dello stesso anno 97 si diede, come fu detto, un corso di rappresentazioni drammatiche in un collegio femminile, fondato nell'anno antecedente in Milano da una dama francese, per nome, Blanchard, venuta da Parigi con fama di gran letterata, di grande sventurata, perchè suo padre era stato ghigliottinato e le di lui ricchezze, almeno così ella asseriva, si erano dileguate in mezzo ai furori popolari. - Quella donna, capitata in momenti opportuni, venditrice insigne di vento e di fumo, e nominatasi direttrice del nuovo collegio, ottenne di vederlo in breve popolato dalle figliuole appartenenti alle più ricche famiglie di Milano. Parve alla maggior parte che colà potessero ricevere un'educazione più liberale, più sciolta, più svariata, più conveniente insomma ai tempi nuovi. I parenti stessi, messisi d'accordo per giovare a quello stabilimento con laute contribuzioni, in breve gli diedero un impianto così ricco e fastoso, che quando trattavasi di esami, di accademie, di musica, di ballo, pareva di trovarsi piuttosto nelle sale di un ricco pomposo, che tra le pareti di una sala di educazione. Le giovani mammine vi accorrevano in gara di bellezza e di ricchezza; e col pretesto dell'educazione e dell'amor materno, velate di devota incontinenza, non tutte già s'intende, ma alcune e non poche, s'ingegnavano a piantare qualche mirto tra le innocenti ajuole di quel giardino. - Siccome poi un passo ne chiama un altro, così la vivace ufficialità dell'esercito repubblicano, che aveva alloggio e tavola presso le più facoltose case di Milano, accompagnando qualche volta le mammine a quei domenicali e serali ritrovi, trovavano il loro conto a fermarsi colà; tanto eran fatti premurosi del buon'andamento della pubblica istruzione!
Allorchè poi s'intavolò la storia di un corso di rappresentazioni drammatiche per la stagione di carnevale, nelle sere del giovedì e della domenica, riusciva un'impresa molto affannosa quella di ottenere un biglietto di ingresso a quel collegio; perchè vi erano poi anche rinfreschi, e pei brillanti ufficiali s'introdusse così un po' per volta anche il fervido sciampagna, il quale verso mezzanotte metteva in giro un'allegria bacchica tutt'altro che irreprensibile.
In quel collegio v'erano, come accade, giovinette di quattordici, di quindici, di sedici anni.
A queste erano affidate le parti più difficili e importanti delle commedie scelte a rappresentarsi.
Le mamme di quelle giovinette, non potendo vincere nella gara muliebre, le mamme delle bambine di quattro o cinque anni, quantunque amassero le loro figliuole, pure erano le meno assidue a quei trattenimenti serali. Ora, quando le fanciulle quindicenni si trovano lontane dall'occhio della mamma e subiscono l'influsso diabolico di altri occhi, sono, parliamoci schietti, molto vicine all'orlo del precipizio. Quelle ragazze, negli intermezzi, escivano come puledre sbrigliate, a precipitarsi qualche volta perfino nel giardino, perchè v'era anche il giardino.
Certo che venivano seguite e vegliate dalle governanti. Ma le governanti erano o troppo vecchie o troppo giovani. Nel primo caso riuscivano lente alla corsa e un po' balorde; nel secondo caso pensavano tanto a sè, che dimenticavan le alunne. Queste poi, per legge di galateo, dovevano spesso fermarsi ad ascoltar gli elogi di quelli fra i più gentili intervenuti che si godevano a intrattenerle. Non a caso ci arrestiamo a lungo su queste cose, e le assennate madri ci comprenderanno. Ad ogni modo, anche disprezzando ciò che in queste righe si adombra a combattere certe consuetudini, dovevamo dir tutto per far vedere in che collegio donna Paolina aveva passato gli ultimi diciotto mesi della sua educazione, e su che palco scenico, nella sua qualità d'allieva emerita, era venuta a rappresentar la parte di protagonista nel Dragone benefico del prof. Ghedini.
Richiameremo ora al lettore come la prima sera che essa andò in iscena, in quel costume, suscitò, plasticamente considerata, un tale capogiro, che, nelle successive rappresentazioni, il teatro della Scala e della Canobbiana e di Sant'Anna e di San Martino rimasero abbandonati dalla parte più scelta della cittadinanza, e dalla parte più giovane e più brillante dell'ufficialità, di modo che le mammine leggiadre si trovarono spostate e punte, e si lamentarono di avere edificato a vantaggio altrui.
Donna Clelia, allorchè nel segreto delle pareti domestiche vide, a titolo di prova, quel diabolico angelo di diciasette anni in quel costume provocatore, il quale faceva risaltare voluttuosamente delle forme, il cui obbligo era quello di rimaner celate; protestò altamente, e disse che non ne voleva altro, e che la signora direttrice provvedesse a cambiare il protagonista. Ma la fanciulla, che era già stata lodata alle prove, perchè possedeva un talento drammatico assai distinto; e guardandosi nello specchio, quando le fu recato l'abito, scoperse di esser molto più avvenente di quello ch'ella stessa credeva, diede in tali escandescenze a sentire quel veto inatteso della nonna, che la mamma, la nostra cara Ada, la quale era meno rigida di donna Clelia, e aveva il suo amor proprio, e sentiva la compiacenza d'aver ella stessa messo insieme quella leggiadra figura, compiacenza che era un misto d'amor di madre e d'amor d'artista; si sentì commossa alle lagrime iraconde e agli strepiti della sua Paolina; e tanto disse e fece, che la contessa Clelia, crollando la testa, lasciò che la cosa andasse.
E così non fosse andata! I consigli dei vecchi, più che non si crede, vogliono essere ascoltati. Come dicemmo adunque, e per il suo talento drammatico, e per le sue qualità plastiche, donna Paolina fece un tal furore (non possiamo sostituire altre parole a questo motto convenzionale), che diventò l'idolo della platea. Allorchè poi, negli intermezzi, ella discendeva nell'anticamera del palco scenico a ricevere i complimenti delle mammine, i cavalieri serventi, tanto militari che borghesi, si affollavano intorno ad essa per poter vederla da vicino.
Non occorre che qui ci diffondiamo in minuti particolari per mostrare come donna Paolina, allieva emerita, e le altre fanciulle adolescenti, ancora convitte e prigioniere, potessero discendere nelle anticamere della sala che serviva di platea e ne' corridoj dove la folla si stipava, e scivolassero così di contrabbando anche nel giardino. Chi ha avuto pratica di collegi e conservatorj dove il pubblico può penetrare, e dove l'adolescenza, tenuta in soggezione con ferule più o meno indulgenti, aspira impaziente, e talvolta rivoluzionaria, alla libertà, sa benissimo in che modo avviene quel che non dee avvenire, e come spesso anche l'oculatezza la più insistente è sopraffatta dalla malizia giovanile che, come un fluido imponderabile, sguiscia e fugge e va dappertutto. Nei principj del marzo di quell'anno 1797, soffiando i venti che una volta annunziavano la primavera, e che oggi, non sappiamo perchè, si son come involati dalle nostre spiagge, quelle fanciulle che sentivano la primavera anche di gennajo, per mille ragioni, si godevano a recarsi di soppiatto nel giardino. Nè, perchè fosse la maggiore delle altre, donna Paolina si stava nascosta. La contessa Clelia, quando interveniva a que' trattenimenti, fermavasi in platea; e la nostra soave Ada si teneva dietro le scene, intenta a sorvegliare la toilette delle giovinette artiste. Colla lestezza adunque del contrabbandiere, che misura il tempo e fiuta l'aria, donna Paolina, quando le pareva il momento acconcio, recavasi lontana dagli occhi della mamma e della direttrice.
Non è a dire quanto, sebbene innocentissimamente, si ringalluzzasse, allorchè una schiera di giovani le si aggirava intorno in corona a colmarla di elogi e di motti leggiadri e di ambidestre espressioni, che ella non comprendeva interamente, ma comprendeva abbastanza! Di quello sciampagna che, nella sala, correva in giro per gli spettatori mascolini, le sue compagne, trionfanti di qualche furto tentato in cucina, facevano parte a lei come a maggiore, come a protagonista, e sopratutto come a dragone. Ora quella spuma gasosa le metteva nel sangue una vivacità così balda, così imperterrita, che le concedeva di lasciarsi andare ad atti briosi e alquanto scomposti, e di movere in giro, su quelle faccie marziali, delle occhiate affascinanti, e che parevano significar quello di cui ella, possiamo giurarlo, non aveva nemmeno la coscienza.
Quando abbiamo detto che nel collegio si recavano alquanti ufficiali, non abbiamo detto che vi andasse tutta la guarnigione. La fortuna dunque e il destino che spesso si mettono d'accordo per tender le reti ai mortali, concertarono fra loro di far che il Baroggi fosse, tra gl'intervenuti, il solo che appartenesse all'arma dei dragoni. Spesso un'inezia basta per avvincere due persone dell'uno e dell'altro sesso. Una sera, che il giovane capitano potè uscire un momento di fazione, a cui era obbligato, colla bella signora R... si recò dove si recaron gli altri; e naturalmente si trovò anch'esso in giardino a far corona intorno al suo commilitone femminile. Lo sguardo della fanciulla corse di preferenza all'elmo del giovine capitano, e spiritosa com'era e un po' eccitata, le venne detto:
- Ecco finalmente un camerata.
- Così fosse, rispose il Baroggi. Sul campo di battaglia, con un tal camerata, sarei invulnerabile, chè mi proteggerebbe un angelo custode cogli stivali e cogli speroni.
La fanciulla non rispose, ma guardò il bel capitano con una occhiata lenta e piena d'espressione.
Gli astanti, uomini e donne, a quelle parole, a quell'occhiata, provarono unanimi un senso di simpatia, e, cosa strana, le donne a favore della fanciulla, gli uomini a favore del giovane soldato. Ogni sentimento d'invidia era scomparso e negli uni e nelle altre, chè l'invidia non sorge se non quando spunta l'idea della gara. Bensì corse in tutti simultaneo e concorde il giudizio: non potersi dar coppia più adatta e più attraente di quella.
E tutto finì per quella sera; donna Paolina venne chiamata dalla voce stridula della governante. Rapida s'involò da quel crocchio, guadagnando la gradinata che metteva nelle scale, con un salto a piedi giunti, che fece risuonar gli speroni sulla pietra percossa.
È singolare che, nel tempo in cui il Baroggi si staccava dalle sue quattro Aspasie, delle quali era pur tenerissimo, per tornare alle sue occupazioni militari, o alla manovra in piazza Castello, o alla cancelleria del colonnello Landrieux, o alla scuola di maneggio, egli dimenticavasi compiutamente e della prima, e della seconda, e delle altre donne che usufruttavano in quote proporzionali il suo cuore di convenzione; e questo avveniva anche perchè, oltre alla simpatia esplicita e dichiarata e documentata di quelle quattro signore, strada facendo, e al passeggio, e ne' pubblici ritrovi, e nei teatri quotidianamente, avea occasione di compiacersi di cento altre dichiarazioni, fatte cogli occhi se non col labbro. Di quelle care e bellissime signore si occupava dunque con fervidissima espansione finchè trovavasi con loro; ma, dopo, il suo pensiero rimaneva sgombro e netto come una tavola rasa. Questo salutare fenomeno era quello che, ad onta delle molte fatiche di campo e di camera, gli conservava quella vivacità e freschezza di colorito, il quale, forse un quarto di secolo dopo, gli sarebbe stato ascritto a difetto e quasi a colpa dalle donne sentimentali, che nell'Ildegonda di Grossi e nel Tu vedrai la sventurata di Bellini, appresero a mettere in voga i colori sepolcrali e la tisi tubercolare. Ma, pur troppo, il sereno non può essere perpetuo. Nella sera stessa dello spettacolo, quando accompagnò a casa la signora R... nella stessa carrozza di lei, non ebbe tempo di ricordarsi dell'allieva emerita. Dormì anche, com'è naturale, tranquillissimo tutta la notte; si alzò dal suo letto di caserma, lieto, florido, raggiante e con quell'appetito modello che può avere un giovane di ventitrè anni, il quale nel trotto e nel galoppo trova il tocca e sana, indarno promesso dalle acque ferruginose. Ma, che volete, lettori carissimi? allorchè egli discese nel Maneggio ad assistere il sergente istruttore di cavallerizza, e prese egli stesso il frustone per comandare una ballottata, nel guardare a' giovani coscritti che duri e inerti stavano sul cavallo come fantocci inchiodati; al pari di un'apparizione diafana e vaporosa gli si presentò alla memoria la figurina leggiadra del dragone del collegio di madama Blanchard, gli si presentò alla memoria insieme col desiderio di vederla seduta in sella caracollare sotto alla di lui istruzione. Quella comparsa improvvisa assimigliò molto (volendo trattar l'amore come una malattia, convien ricorrere a similitudini ippocratiche), assimigliò molto a quegli esantemi fatali che compajono inaspettati per significare a un povero infelice che non ha potuto involarsi all'invasione di una epidemia o di un contagio.
Per colpa adunque della sua memoria e della sua fantasia, sentì il desiderio di tornare un'altra sera al collegio di madama Blanchard, e con certi sotterfugi riuscì d'andarci solo. Ma si preparò troppo bene a quella comparsa, perchè la fortuna gli arridesse. Si postò ne' corridoj, si recò nelle anticamere, s'introdusse fino alla soglia del palco scenico sotto alla protezione di due mammine alle quali ei non dispiaceva nient'affatto; andò in giardino: ma tutto fu invano; per quella sera donna Paolina non gli si mostrò che sul palco scenico; ond'egli si partì di là rovesciato e lento, traendosi dietro il lungo squadrone, come Fingallo, l'eroe di Ossian. Uno dei segreti perchè una ragazza si fissi in pianta stabile nella testa di un giovinotto, è il non averla veduta dopo aver desiderato ed essersi tenuta in tasca la certezza di poterla rivedere. Il capitano stette dunque di malumore tutta notte, stette di perfido umore il giorno dopo... e non mancò di chiedere informazioni e di colei e della famiglia, e che so io. Ma ciò che seppe non valse a rasserenarlo; perchè la quasi clausura onde la contessa Clelia aveva circondato e sè e la figlia e la fanciulla non era molto opportuna a mettere di buon umore un giovinotto intraprendente. Ma, tanto era destinato l'intreccio e la catastrofe di un dramma serio, che si apprestò in que' giorni appunto la prima delle due sontuose feste da ballo che si dovevano dare nel palazzo Busca Serbelloni.
Il nostro capitano vi andò in calzoni di spinone e in calzettine di seta; perchè il giovane Bonaparte, in fondo in fondo alla sua ambizione fiutando già l'impero, in quel breve anno di vittorie favolose, dall'irta Sparta erasi già converso alla geniale Atene, e gli scapigliati e squallidi sanculotti aveva cangiati in damerini ad allettamento delle moltitudini. Ora noi non sappiamo come sien corse le cose tra donna Clelia rigidissima e donna Ada; ma il fatto sta che, in mezzo alle belle dame e alle fanciulle che sedevano intorno intorno alla sala da ballo sui bianchi sedili, trovavansi donna Ada appunto e donna Paolina. Questa anzi, nell'istante che il capitano Baroggi mise piede nella sala, stava sorgendo perchè un gentile ufficiale le porgeva la mano invitandola ad un perigordino. Il Baroggi non la conobbe al primo, perchè le vesti femminili la facevano parer diversa da quella che a lui era comparsa nella verde giubba e nei calzoni di pelle di daino; ma la ravvisò poi, e si ravvisarono e danzarono insieme e contradanze e perigordini e monferrine, e si parlarono a lungo e concertarono...
Madri amorose e sollecite, le quali vivete in timore d'ogni nonnulla che mai possa avvenire alle vostre figliuole, ascoltate un nostro parere: tenetele ben lungi dalle feste da ballo. Nell'ebbrezza della danza vorticosa, in quel tepore che, al pari di una corrente elettrica, è mandato e rimandato da corpo a corpo stretti in artistico abbraccio, v'è un veleno assassino che basta per intorbidare le pure sorgenti dell'innocenza inconsapevole!...


VIII


Di molte guerre e catastrofi di popoli la storia più volte registra che la prima causa impellente è stato un bacio fatto scoccare in un cattivo momento, un'infedeltà, una gelosia, ecc. Se l'incendio di Troja e l'Elena divina e il dandy Alessandro non fossero stati citati in tanti e tanti libri fino alla noja, noi saremmo capaci di citarli ancora. Però, tanto per contrapporre qualche cosa di più nuovo alla guerra di Troja, sappiano gli investigatori delle cause prime, che l'eccidio del ministro Prina, che fu uno de' fatti più dolorosi e più terribili della città nostra, è avvenuto non per altro che perchè una moglie non plebea ebbe un bacio fuggitivo da un amante regio. Per oggi non possiamo dire di più. Il tempo di svelare i misteri, finora rispettati, di quell'orribile tragedia non è ancor giunto; ma verrà, e il lettore saprà da noi cose che nemmeno sospetta. Intanto torniamo a donna Paolina ed al Baroggi, dalla simpatia de' quali divenuta per gradi un amore incandescente, scaturiranno tali conseguenze, che non saranno certo una bagatella nemmeno per coloro che hanno passata la loro vita a contar le epoche delle rocce granitiche, o ad accrescere l'elenco delle stelle, o a indagar gli effetti dell'acido prussico, o a cercar un rimedio all'idrofobia.
Cara donna Paolina!!! più bella e più formidabile, nel nostro concetto almeno, delle stesse eroine guerriere dei nostri due epici sovrani, anche noi cominciamo a sentire per te una certa affezione; ed è invero una fortuna l'innamorarsi delle persone morte, che risorgono come creazioni della nostra fantasia, perchè ciò almeno non danneggia nè la nostra salute, nè la nostra borsa.
Alquante pagine addietro abbiamo di gran fretta abbozzato il ritratto fisico e morale del conte Achille S..., il padre di donna Paolina, colla promessa che a tempo debito ne avremmo fatto il ritrattone ad olio. Fu quella un'informazione un po' allarmante, e che in coloro i quali credono al sistema dei trapassi morali deve aver generato qualche apprensione anche a riguardo della figliuola: Talis pater, con quel che segue. Ora non possono immaginarsi quei signori con che piacere noi vorremmo dir loro che si sono ingannati; ma, pur troppo, ciò che è non si può negare. Quell'avventatezza onde il padre aveva fatto saltare in aria due o tre patrimoni, quell'impeto di sangue onde, senza badare alle conseguenze, avea fatto tutto ciò che il capriccio istantaneo gli aveva suggerito; quella spensieratezza imperterrita onde aveva abbandonato patria, casa, moglie, figliuoli, tutti, pur troppo, si trasfusero, sebbene, con modificazioni benigne, nella fanciulla Paolina. La contessa Ada, con quel suo cuore nato fatto per le profonde e ardenti affezioni, innamoratasi al delirio di quello scavezzacollo pieno di fascino, ne avea riprodotte le stigmati, come si riproduce una voglia, nel corpo, nell'intelletto, nel cuore della figliuola. Solo in cuore, per lasciarle un impronto anche di se stessa, le depose una forte sentimentalità affettiva. Della bontà non parliamo, perchè (e come potrà ora crederlo il lettore? ma lo vedrà a suo tempo) essa esisteva, sebbene in fondo in fondo e sotto mille pieghe, anche nell'inestricabile guazzabuglio del cuore di suo padre. Ora fu con queste disposizioni elementari che la fanciulla, rinnovando le danze fatali col capitano Baroggi alla festa in casa Serbelloni, sentì per la prima volta da colui il linguaggio esplicito, ardente, entusiastico dell'amore, con dichiarazioni da far girar la testa anche a una marmotta; con promesse, con proposte, con insinuazioni che potevano parer armi ed artificj e insidie perfino di un'anima corrotta e ribalda, se il giovane Baroggi non fosse stato in piena buona fede, e se, riscaldando la fanciulla, non se ne sentisse riscaldato a gara, al punto da smarrire la prudenza e il senno.
Noi vorremmo riprodurre per intero il dialogo di fuoco che avvenne tra loro; quel dialogo vertiginoso che li trasportò in un mondo fuori del mondo, se non avessimo fiducia nella sagace interpretazione de' nostri più giovani lettori. In conclusione, per non perdere il tempo in eccessive chiacchiere preparatorie, il Baroggi, a quella festa in casa Busca, disse alla fanciulla ch'egli tra pochi giorni, ed era vero, avrebbe probabilmente dovuto partire per seguire le truppe; che non poteva o non voleva lasciarla a Milano; che s'ella si rifiutava, egli, al primo scontro in campo aperto, non avrebbe fatto altro che gettarsi sulle baionette nemiche, per esalar l'anima a un tratto; che un'altra giovine milanese, e alludeva forse alla ben nota signora Scanagatta, erasi fatta soldato; ed altre avean seguiti gli sposi, senza mettere in pericolo il decoro; che il destino e la Provvidenza (che spalle grosse ha costei!) avevano mostrato a più segni di volere ciò ch'ei proponeva; che il fatto stesso dell'avere essa un completo abito militare e della medesima arma in cui egli serviva, era un indizio manifesto, che la fortuna voleva in tutti i modi agevolar la via della fuga. La fanciulla non avea risposto a tali parole; ma nel cuor suo prese fermissima risoluzione di seguirlo in ogni modo, per quanto serie ne potessero essere le conseguenze. Anzi, nei giorni consecutivi, se il capitano Baroggi fu assalito più e più volte da mille dubbj e paure, ella non ebbe mai in mente altro pensiero che quello di mettere quandochesia in esecuzione quel partito disperato.
Verso la metà di marzo eran venuti di Francia nuovi battaglioni e molta cavalleria, la quale, dovendo partire da un giorno all'altro, fu messa a serenare nei giardini pubblici, come praticarono e prima e dopo e sempre quasi tutte le truppe venute qui in momenti burrascosi, per passare altrove. Il capitano Baroggi, per le incombenze portate dalla sua condizione d'ajutante del colonnello Landrieux dello stato maggiore di cavalleria, due o tre volte al giorno recavasi ai giardini, nel breve periodo che il nuovo reggimento dragoni stanziò a Milano. Passando lungo il naviglio, vedeva due o tre volte al giorno la fanciulla che stando continuamente alla vedetta e quasi indovinando l'ora e il punto, usciva in giardino quando occorreva, spingendosi sino ad una ringhieretta mascherata di carpini, la quale si protendeva molto sul naviglio, e però non era a molta distanza dalla sponda opposta. Il Baroggi guardando il naviglio che era asciutto, per gli spurghi che, siccome è d'antica pratica, vi si cominciano nel mese di marzo; e osservando che, in molti punti, gettandovi mattoni o ceppi grossi, potevasi attraversare, senza la necessità d'immergere nell'acqua quasi nemmen la punta dei piedi; pensò che la fuga della fanciulla tentata per quella via non presentava nè difficoltà nè pericolo di sorta. L'irresoluzione in cui da più giorni ei versava dipendeva in gran parte dall'idea delle difficoltà che naturalmente si opponevano al suo disegno. Ora quella specie di scoperta lo sollevò al punto, che stabilì risolutissimamente di mandarlo ad effetto. Scrisse dunque alla fanciulla una lettera, la quale come sia stata ricapitata non lo sappiamo, perchè non si può saper tutto. Ella rispose, e la risposta avea qualcosa di determinato, di fiero, di romano, per così dire, che egli stesso ne dovette maravigliare, ma d'una maraviglia che gli accese più che mai il cuore e la testa.
A questo punto eran le cose quando noi vedemmo per la prima volta donna Paolina appoggiata alla spalla del finestrone della sala terrena verso il giardino, in una posa affatto maschile. Allora ci pare d'aver notato come ella fosse concentrata in gravissimi pensieri; ci pare d'aver notato come si scuotesse tutta a sentir la Marsigliese, eseguita sul cembalo e cantata da sua madre. Ora dobbiamo aggiungere che, dopo avere scritta quella lettera di risposta al capitano Baroggi, avea pensato di proporgli che, prima di partire, provvedesse a sposarla. Codesta idea sorse in lei, e per quel senso profondo di decoro e di pudore che è in tutte le fanciulle, anche allorquando sono esaltate e traviate dalla passione; e per esperimentare se le proteste ardentissime del Baroggi non fossero proteste oblique e malfide. Il dubbio o il sospetto è inseparabile da qualunque passione, nel soddisfacimento della quale si ripone ogni maggior bene. Ella, del rimanente, aveva sentito a dire che i matrimonj, senza il consenso dei genitori, erano nulli per legge; ma avendo pur letto, non sappiamo in qual libro, che in alcuni casi non è necessario il loro consenso, intelligente e acutissima qual'era, andò a squadernar il catalogo dei libri della biblioteca ricca e scelta, raccolta dalla dottissima contessa Clelia, l'ex lettrice di matematica nell'archiginnasio bolognese, per vedere se mai vi fossero delle opere che trattassero del matrimonio. Squadernò dunque, e ne trovò più d'una, e di recenti: tra l'altre, le Considerazioni attribuite a don Giovanni Bovara sopra l'imperial regia costituzione del giorno 16 di gennaio 1783, risguardante i matrimonj, stampate a Milano dal Motta nel 1794; i due opuscoli dell'abate segretario Giudici, Sulla civile potestà del matrimonio, stampati pure a Milano in quel medesimo anno 1797; e un altro sul medesimo soggetto, d'ignoto autore, stampato a Brescia nell'anno stesso.
Lesse avidamente quei libri, ma per quanto ella fosse colta e intelligente, quella materia mista di giurisprudenza e di teologia era alquanto superiore alle sue forze: e tanto più che così il Bovara, come l'abate Giudici e l'anonimo di Brescia non ebbero certo in mente di scriver per le ragazze. Lesse dunque molto e capì assai poco, ma per quel poco comprese che l'affare era disperato e si sentì venir freddo.
Ma tutt'a un tratto balzò in piedi, come se avesse fatto una scoperta, mandando un lungo respiro di soddisfazione. Aprendo l'opuscolo di Brescia, s'imbattè nella pagina 23, dove lesse quel passo che per lei era davvero un passo d'oro: - Ognuno sa che il concilio di Trento volle stabilire che valido sia il matrimonio dei figli anche senza il consenso de' genitori. - Ciò le bastò; chiuse il libro; ripose tutti gli altri nella libreria, e non ne volle saper altro; e su quel passo solitario e sgranato, come praticano molti dotti che vogliono fondare un sistema nuovo a qualunque costo, e storpiano i fatti per farli stare sul loro letto di Procuste, fondò la sicurezza del suo matrimonio col bel capitano.
Scrisse allora al Baroggi una seconda lettera, nella quale metteva il matrimonio come indispensabile condizione, anzi come condizione preventiva alla partenza e alla fuga. Il capitano, che ignorava il decreto del concilio di Trento, ma senza saperlo, sapeva benissimo che la sostanza di quel decreto non era mai stata ricevuta da nessun governo; e recentissimamente il general Bonaparte avea promulgato la legge del matrimonio civile, per il quale, essendosi fissato il principio del contratto, le difficoltà erano accresciute pei contraenti; volle darsi per disperato, e tanto più che le parole della fanciulla, mentre pure esprimevano il turbine della passione, erano parole di ferro in quanto al matrimonio.
Codesto ostacolo improvviso gli accrebbe la smania di riuscir nell'intento; e la tempesta fu tale in lui, che, sapendo come il vecchio Suardi poteva dar punti al diavolo, risolse di aprirsi a lui per ajuto.
Si recò pertanto a trovarlo sull'istante; ma volle la combinazione che entrasse nelle sue camere in malissimo punto. Contro il consueto e con suo gran stupore, trovò il signor Andrea Suardi in un terribile abbattimento. Che cosa era successo? Dal signor Andrea, com'è naturale, non potè saper nulla; si ritirò dunque, e, ne chiese qualcosa ai servitori, ma anche questi non sapevan nulla. Discese nello studio, parlò a uno scrivano. Il Baroggi, da quanto colui gli disse, potè argomentare che una cattiva notizia aveva cagionata la costernazione del Suardi; ma non potè nè sapere, nè indovinare qual fosse codesta notizia. Noi però non abbiamo bisogno di andare a tentone; ed ecco che cosa c'era di nuovo. Da un messo velocissimo e clandestino gli venne riferito alla mattina di quel giorno, esser caduto prigione, nelle mani dei francesi, il generale austriaco Scultz, morto poi per le ferite; il quale era il suo manutengolo nelle manovre degli appalti; che, nel tempo stesso, dopo un'amputazione, era morto anche un ufficiale del treno francese, il quale, prima di morire, avea scritto una lettera all'intendente di guerra francese, residente ancora in Milano, nella quale pareva si facessero importanti rivelazioni sul fatto degli appalti e dei foraggi. Or vedrà il lettore che tempestoso viluppo sta per ammassarsi da tutto ciò; e come il Baroggi finisse a giovare al Suardi, e questi al Baroggi.


IX


Il capitano Baroggi, quando non stava in castello, alloggiava, lo abbiamo già detto, in una delle case che il Suardi possedeva in Milano, e spesse volte andava a pranzo da lui. Il giorno stesso in cui era andato a visitare il suo protettore, e contro il solito, lo aveva trovato così mal disposto, ricevette poco prima di pranzo un biglietto d'invito del Suardi, con preghiera di non mancare. La preghiera era superflua. Il capitano non desiderava altro.
In quel dì non ci furono commensali. Il Suardi e il Baroggi pranzarono soli, l'uno in faccia dell'altro. Il signor Andrea era tornato calmo e lieto come d'ordinario; questa almeno era l'apparenza.
- Caro capitano, come vanno le faccende colla bella contessa?
- Nè bene, nè male; anzi piuttosto male che bene; nè colla R... vanno meglio, chè dice di esser gelosa, e minaccia scandali. In conclusione, signor Andrea, sono abbastanza annojato del mio quadruplice impiego, e vorrei domandare la giubilazione. D'ora innanzi non voglio più saperne di tali donne. Ambizioni, capricci, dispetti, finzioni, ecco ciò che ho raccolto in questi novanta giorni di guarnigione.
- Col tuo metodo di tenerle tutte a bada in un tempo solo, non si possono che raccoglier dispetti e malumori. Credi tu che l'una non viva in sospetto delle altre, e che ignori?... È un miracolo che t'abbiano sopportato fino adesso.
- Ma io non mi sono ingaggiato con nessuna... non ho nessun patto di scrittura che mi obblighi piuttosto all'una che all'altra. Io vado nelle loro case come ci va un amico comune. Quanti altri ci vanno! Sarebbe bella che...
- Non voglio entrar in dispute...nè insegnarti che, oltre ai patti scritti, vi sono i taciti, nè convincerti che gli amanti sono come gli avvocati, i quali non possono simultaneamente prender la difesa di due parti avversarie tra loro. Sarebbe uno scandalo. Oggi però, giacchè dici che vuoi domandare la tua giubilazione, desidero che ti meriti un ben servito. Lo avrai dunque da me, ma a un patto... che tu conduca questa sera stessa alla Canobbiana la cittadina contessa... (guai se i repubblicani arrabbiati ci sentissero a mettere insieme queste due parole!); tu devi dunque recarti in sua compagnia alla Canobbiana, e farle tutta la tua corte... e spingerla fino all'esagerazione quando ti troverai vicino al tavoliere dove di solito il colonnello Landrieux giuoca alle carte con monsieur Chapier.
- Ma perchè tutto questo?
- Il perchè lo so io... In quanto agli scandali della signora R..., se hanno a succedere, lascia che succedano... Saranno essi uno spediente per romperla con tutte e quattro, e finirla, giacchè ne hai tanto desiderio.
- Il parere non è cattivo; ma tutto sta che la signora contessa abbia volontà di venire. Perchè siam sempre lì...: se si chiede, non si ottiene.
- Chi vuole può. È un proverbio che non falla. Con questo proverbio alla mano mi sono governato tutta la mia vita. Colle donne poi è un vero tocca e sana.
- Quando sono semplici e buone, può andare benissimo. Ma voi non conoscete nè la A... nè la R... Non c'è nè semplicità, nè bontà vera in loro. Superbia, ira, invidia, sono i peccati capitali che la loro gioventù e la loro bellezza e il loro ingegno e il loro spirito fanno lavorare continuamente a danno del prossimo e dei poveri bietoloni che hanno la debolezza d'innamorarsi davvero. La R... la conosco da un pezzo... La A... la conosco da poco tempo, e voi ne avete tutto il merito; ma la seconda non fa che spiegare la prima e completarla. Se io so star bene in staffa con loro, e se le loro signorie non mi hanno ancora mandato al diavolo, è perchè non sono innamorato, ed esse ben se ne accorgono, ad onta delle mie parolone, e sperano tuttora di poter ridurmi allo stato di vittima, per abbandonarmi poi di punto in bianco, e farmi cader dall'alto, tra le risate degli astanti e il sorriso trionfante del mio successore, il quale, dopo esser rimasto in carica più o men tempo, farebbe la mia fine medesima, e così di successore in successore, fino alla dispersione della loro carne fresca e color di rosa.
- Bravo il mio capitano, vedo che sei matricolato la tua parte. Ma che cos'è che poco tempo fa non parlavi così?… sarebbe mai...?
- Che cosa?
- Che cosa, che cosa... Non si comincia a prendere avversione alle amanti vecchie se non quando sottentra qualche amante nuova. In questo genere ho cominciato i miei esercizj a sedici anni; e me n'intendo. Ma che cos'è successo? Il mio bel dragone si fa serio... Or bene, si può sapere o no di che si tratta?
Il Suardi insistette perchè il Baroggi si svelasse. Questi stette sodo e serio un pezzo, poi si sciolse alla fine, e si svelò e dichiarò di avere finalmente provato che cosa sia un innamoramento. Sviluppò di poi delle teorie, e volle dimostrare che un giovane non può innamorarsi davvero che delle ragazze.
Disse in appresso il nome di battesimo della fanciulla. e come l'avea conosciuta vestita militarmente; infine mise fuori anche il casato.
Il Suardi, a quella rivelazione, stette muto qualche tempo per la grande sorpresa, poi, battendosi la fronte, e gettandosi a sdraio sul dossale della sedia, rimase un pezzo cogli occhi rivolti alla soffitta della sala; poi si alzò e passeggiò, esclamando di tanto in tanto:
- Oh che caso! Oh che combinazione!
Il Baroggi lo guardava con meraviglia.
- Ma in fine che c'è egli di così strano? gli chiese poi.
- Ah, se tu sapessi! Tu non conosci niente di tutto quello che... Ah, questa è la più curiosa di tutte le combinazioni... Va poi tu a fischiare in teatro quando la compagnia Fabbrichesi ti recita una commedia inverosimile... Ma l'ora è tarda; e non c'è tempo da perdere, e per condurre la contessa in teatro alle otto, bisogna cominciare a corteggiarla due ore prima. Va dunque, capitano, va e sbrigati, e fa di non mancare perchè...
Proferendo queste parole il Suardi si era fatto serio, chè davvero l'impaccio in cui si trovava non era tale da passarci sopra ridendo.
Il Baroggi, che avrebbe voluto continuare a manifestare al signor Andrea i proprj piani, e, in proposito, domandargli dei consigli e degli ajuti, dovette tacere per forza, rimettere ad altro giorno il seguito del discorso, cingersi tosto lo squadrone, e prendere il caffè stando in piedi, perchè il Suardi era diventato persino stucchevole nel raccomandargli di far presto e d'andare.
Suonavano le ore sei quando il capitano uscì per recarsi difilato in casa A...
Il costume d'andare a tavola alle ore quattro, per quella classe di cittadini che non mangia più di tre piatti; alle cinque per quella classe di negozianti e di pubblici funzionarj che hanno quattro piatti oltre la frutta e formaggio e la bottiglia di contrafforto; alle sei per gli uomini altolocati e i milionarj patrizj che hanno piatti senza numero fisso, e che studiano la geografia coi vini, è un portato del nostro secolo. Negli ultimi anni del secolo passato v'era tuttora nelle case popolane la consuetudine del pranzo a mezzodì, e della merenda, e della cena.
Soltanto nelle classi distinte, la rivoluzione - che non era penetrata nel resto - penetrò invece nell'orario del pranzo. Questo però non avea oltrepassato ancora le ore quattro. Vogliamo dire con ciò, che quando il capitano fu annunziato in casa A..., la dea del loco co' semidei e le semidee commensali erano già tutti assisi nel salone del chilo a sorseggiare il caffè.
Allorchè il capitano fu annunciato nella sala, le sedie degli adoratori estatici, degli incensatori muti, e degli adulatori ciarlieri, che in semicerchio concentrico stavano intorno al seggiolone aurato della bellissima e voluttuosissima dea, si ritirarono tutte come se dipendessero dall'impulso di un unico congegno. Allorchè una bella donna, venuta in gran voga ed a cui si convergono tutte le bussole dei navigatori avventurosi, ha scelto un prediletto, costui è riguardato comunemente come il padrone di casa; è più rispettato o più abborrito del marito medesimo, a seconda degli umori, delle condizioni, degli affetti, delle aspirazioni diverse. Che il Baroggi fosse divenuto tale da pochi giorni, era la certezza di quegli astanti, e fu il motivo onde tutti, per un moto macchinale, si ritrassero non senza bestemmiarlo in segreto. Spessissime volte capita che, in circostanze consimili, quando il favorito vien scelto da una bella signora, tutti gli adoratori che hanno inoltrato il loro ricorso e che hanno vissuto in isperanza per qualche tempo, dileguano in massa, come le rondini in autunno. Ora questo fatto non si verificò nel caso del nostro Baroggi, perchè tutti sapevano che fra pochi giorni esso, volere o non volere, avrebbe dovuto andarsene al campo, e che probabilmente poteva essere portato via da una cannonata. Per quanto quegli adoratori fossero in fondo giovani non perversi, tuttavia, siccome erano giovani e pretendenti, non potevano veder di buon occhio chi avea tali qualità da costringerli, sul loro terreno, a una perpetua ritirata. Paganini era l'idolo del pubblico, ma non dei suonatori di violino. La Malibran, quando morì, fece piangere in palese, ma ridere in segreto tutte le prime donne assolute che viaggiavano colla carrozza propria. La speranza adunque che quel Ganimede stivalato potesse essere involato al mondo da una palla micidiale, senza ricorrere nè all'aquila, nè a Giove, fece sì che i signori, i quali allargarono il cerchio de' sedili allorchè comparve il Baroggi, non solo non avessero abbandonata la casa, ma accogliessero anche con sorrisi e complimenti il bel capitano. In quanto alla contessa A…, non ostante che, per la qualità speciale del suo sangue, si trovasse benissimo tra tanti bei giovinotti traspiranti desiderio e ardore, non potè a meno di scuotersi tutta nel sentire la voce e nel veder quella per lei tanto attraente figura del Baroggi. Il nostro amico Bruni, che fu sempre un gran fisionomista e che per gli occhi vedeva i cuori, ci ebbe a dire tante volte, a proposito di quella contessa, la quale fece parlar tanto di sè che egli non la vide nè prima, nè dopo a comportarsi verso altri amanti (di cui la lista, pur troppo, riuscì innumerevole) con quella speciale e delicata deferenza onde, pel breve tempo ch'egli potè esserne spettatore, si comportò col Baroggi. - «Si vedeva, riportiamo le precise sue parole, che quella era stata una simpatia invincibile e ingenua, tanto che se il capitano non le fosse stato tolto dalle circostanze, la cronaca scandalosa non avrebbe avuto a empir tante pagine.» Però da quello che il Baroggi ebbe a dire sul conto di essa al Suardi, si vede che egli, o non la seppe conoscere, o fu ingiusto seco; l'ardente passione per donna Paolina, non solo gli rese uggiose le pratiche vecchie, ma superficiali e insipide le relazioni nuove.
Diciamo questo perchè vorremmo che nel giudicare gli uomini e le donne, segnatamente quando si tratta di trascorsi, e debolezze, e peccati, che non intaccano nè la vita, nè la borsa del prossimo, si facesse sempre uso di una certa indulgenza. - Ma è assai probabile che la bella e spiritosa e ardente figliuola del marchese F..., se invece dello sposo, che il padre fatto bigotto le mise innanzi come un medicinale, avesse trovato un giovane che nell'insieme avesse arieggiato il Baroggi, con quel corredo agro dolce di qualità intellettuali che valgono a tenere in freno una signorina facile ai capogiri ed a renderla invulnerabile alle tentazioni, ella non avrebbe forse cercato altro, e sarebbe stata una donna esemplare.
Ma, per lasciare la moralità in pace, il bel dragone si mise in prima a sedere, poi, dovendo rispondere a cento domande che le rivolse la contessa, fu costretto a piegare la testa verso di lei; poi, piegando la contessa la propria per dirgli qualche cosa in segreto, contro le prime regole fondamentali del galateo, le due persone, che si trovavano fra lei e il Baroggi, dovettero alzarsi per forza, e avviare la conversazione in un altro crocchio; esempio che, l'uno dopo l'altro, tutti imitarono, maledicendo l'importuno e anche odiando un po' quella capricciosa donna, che non temeva di farsi scorgere da tutti. Il Baroggi, finchè stava con lei, tanto era affascinante quell'atmosfera ond'ella avvolgeva chi le stava presso, sebbene pensasse a troncare ogni relazione con la contessa, pure non poteva a meno di cercare quelle espressioni e quelle parole che piaciono tanto alle donne innamorate, e alle quali esse danno qualche volta l'importanza di un contratto firmato. Or avendo parlato in modo che la contessa se ne sentisse tutta quanta inzuccherata, ella non pensò un momento solo a stare in sulle ripulse quand'ei la pregò a voler permettere che per quella sera l'accompagnasse in teatro.
- Che cosa dirà la cittadina R...? gli chiese però la contessa, sorridendo.
- Pensi pure e dica quello che vuole.
- Il cittadino R... e il general Lechi sono tornati a Milano.
- Da quando?
- Come? non lo sapete?
- Davvero che non so nulla.
- Non è una bugia questa?
- Da soldato d'onore torno a ripetere che non so nulla.
- Quand'è così... - e qui lasciando in sospeso il discorso, girò l'occhio nella sala sui varj gruppi di persone che lontani da loro due attendevano a ciarlare; e visto che nessuno guardava, colse il punto, e di volo gli dette un bacio.
La grazia, l'incanto, l'abbandono pieno di ingenuità insieme e di malizia, onde la contessa mise la sua bocca di rose sui baffi del dragone, avrebbero messo il disordine nella sistole e nella diastole di qualunque cuore, fosse stato anche quello di un protocollista; chè quel bacio, messo all'asta, avrebbe potuto salire a un prezzo favoloso. Pure il Baroggi ne arrossì senza contento.
Quel bacio, del rimanente, nell'intenzione della bella contessa, doveva essere un premio. - Ella aveva creduto in principio che il Baroggi le si fosse profferto ad accompagnarla in teatro per vendicarsi della cittadina R…, che la pubblica maldicenza pretendeva avere avuto qualche tresca col general Lechi, ed essere per rinnovarla ora che il generale da Brescia era venuto a Milano. - Conosciuto pertanto che il Baroggi non ne sapeva nulla, e non aveva secondi fini, gli volle attestare la propria gratitudine.
Queste coserelle ci rivelano che la contessa faceva proprio da senno. Peccato, torniamo a ripeterlo, che il bel dragone fosse tirato altrove!
Ma l'ora d'andare al teatro venne presto; la carrozza fu in un momento in contrada Larga. Al palchetto della prima fila la contessa e il dragone s'affacciarono nel punto che il telone s'alzava. - Tutte le teste che erano in platea e nei palchetti, col movimento simultaneo di un battaglione che faccia l'esercizio si voltarono issofatto per vederla. - Ma appena comparve il dragone, come quando ne' campi si levan gl'incastri, che tosto si sente il fremito e il mormorio delle acque irrigatrici, proruppero in chiacchiere, le spiritose invenzioni, le congetture, i sospetti, le calunnie, le quali s'intrecciarono poi in mille combinazioni e varianti quando fu notato che il signor Andrea Suardi era entrato in palchetto anch'esso: il signor Andrea, che in quella sera, come il Beltrame del Roberto il Diavolo, lavorava colle occulte sue armi per spingere tutti a perdizione, se ci fosse stato il bisogno, onde salvare se stesso.
Allorchè, dopo l'intermezzo, il pubblico si rimise a sedere per vedere il ballo, che non era più quello del Papa; la contessa A... e il capitano Baroggi erano usciti dal loro palchetto, circostanza comunissima, che non fece nè freddo, nè caldo. - E il ballo andò fin quasi alla fine; quando, nel momento che la coppia danzante stava facendo le sue pose di grazia, la platea fu tutta in scompiglio. Quelli che stavano in piedi furon visti uscire repentinamente; i seduti si alzarono per domandare di che si trattasse; corsero voci diverse; si parlò di un alterco avvenuto in ridotto. La coppia danzante cessò i suoi vaghi giri; tacque l'orchestra.


X


Gli scellerati per vocazione e per arte, i quali di ogni cosa si fanno un'arme per raggiungere i proprj intenti, spesse volte nella raccolta dei mezzi somigliano a quella classe speciale d'avari che sono avidi dell'oro e lo accumulano affannosamente, non perchè amino l'oro in se stesso, ma perchè temono sempre di essere sorpresi da improvvisi bisogni, e però non vogliono lasciarsi cogliere sprovvisti. Il vecchio Suardi, nella sua speciale condizione, assimigliava a questi avari. Nel dubbio che i suoi disegni incontrassero ostacoli, nel sospetto anche lontanissimo che un uomo potesse diventare un suo oppositore, subito pensava agli schermi, alle ritirate, alle armi di difesa e d'offesa, come se il suo sospetto si fosse già avverato, e se il suo possibile nemico lo avesse già colpito. Al pari di un feudatario del medio evo, asserragliava il proprio castello anche allorquando non gli era posto l'assedio da nessuno, ma soltanto nel timore che ciò potesse succedere. Allorchè, nelle faccende degli appalti per l'armata repubblicana, si trovò la prima volta a contatto con monsieur Chapier, comprese che con quell'uomo non avrebbe mai potuto trovarsi d'accordo, e pensò tosto ai mezzi di potere, all'occorrenza, disfarsi di quel francese. Ne studiò l'indole e le debolezze; studiò le relazioni in cui trovavasi con altri uomini; in che grado fosse rispettato, amato, odiato; su queste osservazioni abbozzò i proprj disegni, che modificò, perfezionò o cangiò addirittura a seconda delle circostanze sorvenienti.
In principio, appena ebbe fatta la conoscenza del colonnello Landrieux, pensò se mai fosse stato possibile di far le parti di Creonte tra il colonnello e l'intendente, per suscitare tra di loro una tale avversione, che l'uno dei due, o l'uno e l'altro insieme, potessero andar colle gambe in aria; s'accorse però presto che del Landrieux, per quell'affare speciale, non c'era da cavare nessun partito; onde se lo tenne buono per qualche altra cosa, e lasciò andare. In appresso s'avvide che monsieur Chapier, con cui la natura, per ciò che riguarda l'avvenenza, non era stata cortese, guardava di pessimo occhio i bei giovinotti, e all'uopo anche ne sparlava e li metteva in dileggio. A questa scoperta presto ne tenne dietro un'altra; e fu che monsieur Chapier andava perduto dietro al bel sesso, e, per quanto pareva, con tanto maggior fervore quanto più era implacabile il loro gelo a suo riguardo; e che durante il carnevale avea tentato ogni sforzo per rendersi amabile, vale a dire avea tentato l'impossibile; e che si era in sul serio riscaldata la testa quando vide quel portento di bellezza che era la contessa A... Indi, da certe contrazioni di muscoli e da certi sguardi obliqui che l'intendente gittò sul capitano Baroggi, una sera che nella platea della Scala gli era passato innanzi, potè indovinare ch'ei lo avrebbe voluto piuttosto morto che vivo. Gli uomini disgraziati colle donne portano un'avversione singolarissima a quelli che ne sono la calamita. Su questi dati adunque il signor Andrea Suardi fece i suoi calcoli, in conseguenza dei quali approfittò dell'amabile invito della bella contessa per mandarle tosto il capitano, avviare tra loro un amore qualunque, e farlo luccicare poi sugli occhi dello Chapier, con quell'insistenza onde il monello persecutore spinge al suicidio l'improvvido merlo, tormentandolo senza posa coi raggi del sole raccolti nello specchietto. Il Baroggi fu per ciò messo da lui al posto dove il Landrieux non avrebbe saputo far nulla; fu da lui messo a quel posto coll'intento onde un piantatore americano mette il generoso cane di Terra Nuova sul sentiero dov'è la traccia del leopardo o del giaguaro, per aver tempo di porre sè stesso in salvo, dato un repentino assalto, e senza pigliarsi gran pensiero del pericolo del cane fedele.
Il Suardi aveva preso a proteggere il povero figliuolo del disgraziato Baroggi; lo aveva fatto educare senza risparmi; aveva sentito e sentiva per lui qualche affezione, che in certi momenti diventava anche caldissima. Ma egli era avvezzo a sagrificare tutto ai proprj fini; avrebbe sagrificato anche i figli, se ne avesse avuti; onde non vi poteva essere un'eccezione nemmeno pel Baroggi. Se non c'era la necessità di adoprarlo, lo risparmiava ed era contento; ma se la necessità facevasi imperiosa, sentivasi disposto ad immolarlo freddamente, e addio affezioni. Nella categoria degli uomini belve il Suardi poteva essere qualificato come il leone messo a raffronto col tigre: il primo divora per fame; il secondo per rabbia e voluttà di strage.
Ora, tornando al teatro della Canobbiana, la contessa A... assaporò a lungo il piacere di sedere in palco dirimpetto al bel capitano; chè tutte le donne che fanno all'amore per passione e per diporto esultano nel mostrare al mondo, quasi in atto di trionfo, l'ultima loro conquista: in ciò non molto dissimili dai fanciulli che con giubilo fanno vedere a tutti l'ultimo loro giocattolo. Ragion volle però che, uscendo dal palchetto, dove erano entrati altri aspiranti, lasciasse lo strenuo dragone per farsi accompagnare da loro in Ridotto dove, di quel tempo, si raccoglieva il fiore della cittadinanza, e dove, anche dopo finito lo spettacolo teatrale, si prolungavano sino ad ora tardissima la conversazione e il giuoco.
Il Suardi, colto il momento che il Baroggi fu solo, lo prese sotto il braccio, e così gli disse:
- Caro Geremia, c'è un originale di francese al quale è necessario che tu dia una lezione piuttosto grave.
­- È borghese o soldato?
- È un anfibio.
- Come un anfibio?
- Voglio dire che veste la montura, ma quando gli altri si fanno ammazzare, egli conta i denari e prepara i pacchi per le truppe. È un intendente.
- Ah, ah, monsieur Chapier. Lo conosco benissimo. Al teatro di S. Martino c'è uno scimiotto vestito da generale che sulla corda va dal palco scenico alla soffitta, il quale sembra suo fratello gemello. Ha la debolezza di voler piacere alle donne. Oh... lo conosco benissimo.
- Che tu lo conosca va bene; ma va male che egli sparli di te.
- Come fa a sparlare di me, se io non gli ho mai tôrto un capello?...
- Ha sparlato di te e ha sparlato di lei...
- Di lei? di chi?
- Della contessa, s'intende. Ha detto che la contessa paga gli amanti, e che ti...
Qui il Baroggi mandò un'esclamazione che si sarebbe sviluppata in un fremito ferino, se il Suardi non lo avesse frenato.
- Che cosa gridi, matto? Lascia gridar chi è sporco. Piuttosto va a pigliar quel furfante pel collo e…
Il Baroggi, senza rispondere, aveva già saltato tre gradini. Il Suardi lo trattenne ancora.
- Ma dove corri, se non sai nemmeno dov'egli si trova?
- Sarà in Ridotto, come al solito. Eppoi, dovunque ei si fosse cacciato, lo troverò io in ogni modo.
- Chi ha fretta va adagio, chi vuol vendicarsi manda giù l'ira e si arma di sorrisi. Non occorre che a un soldato tuo pari io dia dei suggerimenti; ma colui non deve sentire dalla tua bocca la cagione del tuo sdegno. Sopratutto che il nome della contessa sia rispettato col silenzio. Sorridendo gli si va vicino e lo si guarda, come a dirgli: Mi fai ridere e mi fai compassione nel tempo stesso; se non s'accorge, si torna da capo; se non basta, passando vicino alla sedia, gli s'urta dentro; se non basta ancora, gli si pesta un piede, in guisa da fargli comprendere che non è stato uno sbaglio. Già quando un cane guarda un gatto, non occorrono raccomandazioni per farli venire alle prese. Il resto vien da sè.
Quel che il Suardi aveva detto, era il vero. Monsieur Chapier aveva infatti, momenti prima, sparlato del Baroggi a quel modo che fu riferito. Il Suardi, che stette in sull'ale tutta la sera per non lasciar sfuggir nulla, sapute quelle ingiurie, corse a farle fruttare, e fruttarono infatti più di quello che si sarebbe pensato. Il Baroggi quando salì in Ridotto, traspirando ira da tutti i pori, non disse nulla; ma, passando vicino alla sedia dov'era monsieur Chapier, la urtò di tanto, che spostandola un buon tratto, il Francese sarebbe caduto, se un ufficiale non l'avesse preso tra le braccia. È inutile il dire che gl'insulti scoppiarono senza farsi aspettare. Tutto il Ridotto fu sottosopra, e la prova delle armi sarebbesi fatta là issofatto, se non si fossero intromessi ufficiali e cittadini a metter pace pel momento, e a trasportar la questione sul terreno del così detto onore.
Le cose erano a tal punto quando la platea sorse tutta quanta.


XI


Non occorre l'aggiungere, che il pubblico, addensatosi nell'atrio del teatro, perchè la notizia del fiero alterco dalle sale del Ridotto in un baleno avea disceso le scale, come seppe le cagioni e sentì che gli effetti si erano risolti in un duello da definirsi all'alba del dì prossimo, a poco a poco si diradò, perchè, non passando quasi giorno senza qualche duello tra borghesi e soldati, tra Italiani e Francesi, vi aveva fatto l'abito e non ci annetteva moltissima importanza. Ma se non ci annetteva importanza il pubblico indifferente, nell'eccesso medesimo della sua perpetua curiosità, ben v'era chi doveva sentire tutta la gravezza di quel doloroso incidente.
Il signor Giocondo Bruni abitava in una casa nella contrada della Spiga, alla distanza di tre porte dalla casa S... Ora, siccome egli era amicissimo di donna Clelia e donna Ada, per quello che sa il lettore; anzi tutti i venerdì, quand'era a Milano, andava a pranzo da loro; così per appagare un desiderio di quelle due donne, quando si rincasava un po' per tempo, entrava prima a visitarle, per dar loro le ultime notizie della giornata, quelle segnatamente che venivano dal campo, e che egli raccoglieva dalla fonte meno incerta dei capi militari coi quali trovavasi in teatro. Quella sera adunque dell'alterco avvenuto tra il Baroggi e l'intendente di guerra, il signor Bruni verso le undici ore entrò un momento in casa S..., e passato nella sala a terreno, senza nemmeno sedersi, perchè era un po' tardi per le consuetudini di quella casa, raccontò alla contessa che il generale Massena aveva ottenuto una vittoria a Raibel, facendo prigioni 4000 soldati con quattro generali, e togliendo al nemico 25 cannoni; che Bonaparte, congiuntosi con Joubert, era entrato vittorioso a Klagenfurt; che a Brescia era scoppiata la rivoluzione, e che il conte Lechi, venuto a Milano di volo, era partito a precipizio. In ultimo poi, quando era già in sulle mosse per partire, raccontò l'affare dell'alterco tra il capitano Baroggi e monsieur Chapier, aggiungendo come essi all'alba sarebbero venuti alla prova delle armi fuori del Portello di piazza Castello, luogo da più mesi diventato famoso pei non pochi uomini lasciati colà sul terreno morti di punta e di taglio.
- Ma si sa almeno la causa di quest'alterco? chiese donna Ada.
- La causa? è presto domandata la causa; ma chi ne dice una, chi un'altra. I più però pretendono che sia stato, già è sempre lì che si casca, per cose d'amore e di gelosia.
Donna Paolina, che da molti giorni e da molte notti, non avendo in mente che un oggetto solo, e non ruminando che un disegno unico, era diventata indifferente a tutto, si sentì spezzare il cuore a quell'ultima notizia; e certamente donna Clelia si sarebbe accorta di qualche cosa, se la fanciulla, alzatasi un momento prima, non fosse stata per uscir di camera, quando il signor Bruni nominò il capitano Baroggi. Si scosse dunque tutta e si fermò a quel nome e stette ad ascoltare il resto.
- Non si sa bene, continuava il signor Giocondo, ma egli è da un mese che il Baroggi sta sempre in palco al parapetto colla signora R...; ma questa sera cambiò bandiera e passò sotto agli ordini della contessa A…, seppure è vero, perchè il pubblico fa presto a parlare. Monsieur Chapier, che s'è messo in testa di poter piacere alla contessa, si lasciò andare a dir non so che ingiurie contro il Baroggi; e questi, saputa la cosa, non si fece aspettare in Ridotto, e per non farsi scorgere, diede un calcio nella sedia dov'era monsieur Chapier, il quale sarebbe caduto stramazzone, se altri non lo teneva sollevato. Il fatto è tutto qui... Ma domani uno dei due o sarà morto, o penserà a guarire.
Donna Paolina uscì di là precipitosa, si chiuse nella propria camera, si lasciò cadere sul letto colla testa volta in giù sulle coltri, versò lagrime d'iraconda angoscia.
La mamma entrò a vederla un'ora dopo.
- Che cosa fai qui?... le disse, e perchè ci hai lasciate senza una parola?
Donna Paolina finse di svegliarsi allora, e:
- Avevo sonno, rispose; poi si alzò e gettò le braccia al collo di sua madre, e la baciò forte.
Ada fece altrettanto, inconsapevole di quel che la figliuola aveva determinato, e lasciolla colla buona notte.
Ma che divisamento aveva fatto donna Paolina in quell'ora di disperazione e di lagrime?... Nientemeno che d'uscire di casa in quella notte medesima, travestita da dragone, per cercare del capitano Baroggi e parlargli. La notizia del duello le aveva in prima messo nell'animo un dolore pieno di paura e di pietà; poi i nomi della R... e della contessa A... le sollevarono nel sangue una procella nuova, una procella di sospetti e di gelosie. Quelle donne le conosceva da tempo; ma allora per la prima volta le suonarono all'orecchio come due nemiche; che, per esse, potè credere che il capitano Baroggi fosse un traditore scellerato, non intento che a sorprendere al varco l'inesperienza che non si guarda. L'idea che forse il giorno dopo esso poteva rimanere ucciso, o ferito gravemente, in modo che ella avrebbe dovuto aspettare a vederlo Dio sa fin quando; l'idea che essendo egli, com'ella pur non volendo sospettava, un traditore di donne per indole e per abitudine, potesse mai approfittare di quella circostanza del duello per partir subito, e addio promesse e impegni e giuramenti; tutti questi pensieri lavoravano siffattamente sulla di lei fibra eccitabilissima e fremebonda che, se in quella notte non avesse potuto vedere il capitano e sentire da lui ogni cosa, forse poteva correr pericolo di smarrir la ragione. Per lei dunque non esistevano più nè ostacoli, nè riguardi, nè paure di conseguenze funeste. Inoltre è da aggiungere che, a cagione della torbida e procellosa vita che suo padre, il conte S..., avea sempre condotto sin tanto che stette a Milano in casa propria, e a cagione delle inqualificabili di lui stranezze, che soltanto quell'angelo soave di donna Ada aveva potuto sopportare; si pensò fin quasi dalle fasce di far educare altrove la fanciulla. Avendo ella dunque vissuto più di quindici anni lontana dalle pareti domestiche e dalle cure materne, e l'educazione cominciata fuori di casa essendosi dovuta compire fuori di casa, donna Paolina stava da troppo poco tempo presso la mamma e la nonna. Certo che il germe dell'amor figliale c'era tutto, ma non aveva potuto diventare adulto e forte e tenace a segno che fosse superiore ad ogni altra passione. La colpa non era di nessuno, non era che della maledetta fatalità, di cui la vittima prima aveva ad essere donna Paolina appunto.
Or tornando al momento in cui ci troviamo, ella aspettò che la casa fosse tutta nella più profonda quiete del sonno; poi uscì ad esplorar la notte all'esterno; discese nella consueta sala terrena e leggerissimamente aprì le imposte del finestrone che metteva nel giardino.
Entrò in quello; andò a guardare se il fondo del naviglio era tuttora asciutto: lo era in fatti. Diede un'occhiata all'ingiro, nei giardini attigui, alle' finestre ed ai terrazzi delle case vicine, per accertarsi se tutto fosse perfettamente in riposo, e se nessuno, vegliando a quell'ora, potesse vedere e notare e riferire. Allora prese una breve scala a mano, di cui in que' dì aveva fatto uso il giardiniere per potar le piante, la calò fuori del parapetto, fino a toccar il fondo del naviglio stesso; poi risalì prestissima nella propria stanza.
Là, in tutta fretta, chè l'impazienza e la fibra tutta convulsa ed esaltata non le concedevan riposo, vestì i calzoni di pelle, mise gli stivali, infilò l'assisa, si cinse lo squadrone, si calcò l'elmo in testa, prese poi dodici zecchini di Venezia, che erano il suo peculio d'avanzo, e ridiscese. Quando fu al parapetto del giardino, si fermò perplessa; era il primo dubbio che l'assaliva; ma fu anche l'ultimo. Lestissima venne al basso esplorò il fondo del naviglio dov'era più asciutto; lo attraversò, traendo seco la scala a mano; appoggiò la scala alla riva opposta; fu tosto sulla strada, che percorse di fuga, finchè giunse agli archi di porta Nuova; di là in un attimo fu in piazza Castello. Sapeva che da qualche giorno il Baroggi, per le incumbenze derivategli dalle nuove truppe venute, alloggiava appunto in Castello. Questo nel 1797 non era ridotto in istato di caserma, quale si vede oggidì; ma, come ognuno può osservare nelle vecchie piante di Milano, era tutt'all'intorno circondato da costruzioni fortilizie, in modo da presentare cogli ultimi rivellini la consueta forma stellare. Con quelle fortificazioni estreme arrivava, dalla parte della città, fin quasi alle case che gli stanno di fianco e dirimpetto. - Ai cittadini era conteso l'ingresso, salvo che non avessero una licenza del comandante, o entrassero accompagnati dagli ufficiali che vi avevano stanza. Ad onta degli ordini, non v'erano rigori di sorta, perchè ai molti ufficiali che alloggiavano colà, e si ritiravano ad ora assai tarda, premeva che così fosse. Però quando donna Paolina, protetta dalla divisa di dragone, rispose al chi va là delle sentinelle, queste la lasciarono andar avanti. - Altri soldati stavano di custodia alla porta d'ingresso, compreso, già s'intende, il sergente d'ispezione, che aveva la consegna del posto e i diritti e gli obblighi inerenti. I forti dolori e le passioni forti, come tutte le escandescenze nervose, comunicano agli uomini una specie di coraggio spensierato e cieco, in faccia al quale non v'è nulla d'impossibile. Donna Paolina trovavasi in questa condizione; onde, come aveva risposto alla sentinella, si presentò anche al sergente. Si presentò, e gli chiese in francese del capitano Baroggi. Il sergente si alzò, la squadrò così in di grosso al lume del fanale che rischiarava fiocamente l'androne; poi la osservò più al minuto, irradiandola colla fiamma della lanterna cieca ch'ei prese dalla panca ov'era posata, e che gli serviva per le ispezioni speciali. Tra i soldati adolescenti ve n'era più d’uno che, non avendo ancor messo barba, avrebbe potuto arieggiare la gentilezza femminile; ma la bellezza di donna Paolina era di un genere troppo elevato per mentire la figura di un giovane. - Quel sergente poi sembra che avesse fatto l'occhio pratico, poichè disse tra sè (egli era italiano): «Se c'è un capo fino, è di legge che vada a cascar nelle mani di colui.» Forse egli aveva saputo qualche cosa della contessa A... e della R..., e a questi pensieri avrebbe fatto seguire altre parole e altre domande; ma il rispetto pel capitano lo teneva in soggezione, onde con tutto il garbo di cui era capace, e che in tale circostanza era accresciuto da quella naturale raccomandazione che di sè medesima suol fare la beltà e la giovinezza, detto al caporale: Bada e sta attento, - si profferse ad accompagnare il bel dragone, protendendogli innanzi con più che soldatesca cortesia la lanterna per illuminargli il bujo cammino che doveva fare.
Quando colui fu nel secondo cortile, fermatosi sotto alla terrazza, domandò ad alta voce il capitano. Venne un'ordinanza in sua vece, a vedere chi fosse; poi uscì il Baroggi stesso, ancora compiutamente vestito.
- Chi è lì? domandò.
- Sono il cittadino S..., rispose donna Paolina. Scendete subito.
Il Baroggi trasalì, ma tacque e discese. Quantunque fosse lungi le mille miglia dall'aspettarsi una tal visita, pure conobbe la voce e si appose; e tutto tramescolato venne abbasso, e si avvicinò alla fanciulla travestita.
Quel giovane e prode soldato, sebbene indurito dalla milizia e derisore d'ogni pericolo, pur tremava come una foglia e la voce gli uscì fioca quando ingiunse all'ordinanza ed al sergente di andar pei fatti loro: tanto era commosso!
Il dialogo che seguì fu breve e rotto e, alle prime inchieste, pieno di fremente orgoglio per parte della fanciulla. Ma i modi del giovane, ma le sue parole, ma le promesse da esso a lei rinnovate, sciolsero quell'orgoglio in un pianto dirotto. Ella, abbracciata dal giovane soldato, di cui l'impeto della tenerezza comunicava qualcosa di santo pur a quell'atto di eccessiva confidenza, gli appoggiò sugli spallini le sue mani bianche e minute, inchinando sul di lui petto affannato il caro capo coperto dall'elmo.
La prospettiva del vetusto Castello faceva pittorico fondo a quel gruppo, che parea riprodurre le fantasiose avventure del cavalleresco medio evo.
Il silenzio della notte era profondo. Nè i due giovani lo interrompevano, assorti come erano in un entusiasmo particolare, che riceveva la sua esaltazione dalle paure stesse dell'avvenire.
Alla fine il capitano si scosse, e guardando al cielo e passando la mano sulla fronte:
- Ora che si fa? disse. All'alba io devo battermi e tu?…
- Io aspetterò lì presso, rispose la fanciulla; se tu muori, io morirò; se tu rimani ferito, ti assisterò. Il mio destino è questo e deve esser questo.
Il Baroggi, commosso a tali parole, ed abbracciando onestamente la fanciulla:
- Non morirò, disse, non è possibile; tu sei il mio angelo tutelare, ed io tengo sicuri i miei colpi. Ma ora dimmi: v'è qualche persona, qualche donna pietosa, qualche uomo d'autorità e di senno, che entri qualche volta nei consigli della tua famiglia; che sia richiesto ed ascoltato, e in cui la madre tua riponga intera la sua confidenza?
La fanciulla sentì un colpo inaspettato a quel nome di madre, della quale, pur troppo, da qualche ora viveva smemorata. Ma quanto fu lunga la dimenticanza, altrettanto fu cruda la fitta del risovvenirsene, e:
- Povera madre mia! esclamò.
E stette muta, e in quell'atto di chi cerca e non trova un rimedio a una gran sciagura.
E di lì a poco:
- Che cosa dicevi tu? soggiunse. Io conosco molte persone amicissime di casa; ma perchè domandi questo?
- Perché qualcuna di esse potrebbe metter riparo a tutto.
- E in che modo?
- Il modo lo so io.
Allora donna Paolina nominò molte persone; nominò, fra l'altre, donna Gaetana Agnese; la contessa del Grillo; la duchessa del Sesto; l'avvocato Strigelli, ecc., ecc.; in ultimo nominò anche il nostro amico Giocondo Bruni. A questo anzi si fermò, notando che esso abitava nella medesima contrada della Spiga, a due porte dalla propria casa, e soggiungendo altri particolari.
Naturalmente il capitano Baroggi mise gli occhi sull'ultimo nominato, e disse:
- Senti, cara, hai tu coraggio?
- Tu l'hai veduto.
- Ti basterebbe l'animo di fermarti qui fin ch'io ritorno?
Donna Paolina lo guardò dubitosa...
- Non ci vuole che il tempo di far la strada... Ora sono le quattro... Io volo da questo amico di casa tua... Giacchè dici che è uomo da gettarsegli in braccio interamente... gli dico tutto... ed egli s'incaricherà del resto. Speriamo; forse il partito disperato che hai preso fu un'ispirazione del Cielo.
Ciò detto, invitò la fanciulla a salire nella propria camera.
Donna Paolina gli fece osservare che non avrebbe patito, mentre aspettava, di star chiusa in una camera; bensì avrebbe aspettato passeggiando nel cortile.
Allora il capitano chiamò l'ordinanza, che venne tosto.
- Senti, camerata, gli disse, io esco un momento e torno subito. Intanto non scostarti da questo mio amico. Se qualche ufficiale entrasse, domandasse, che so io... tu mi capisci.... di' che il capitano Baroggi risponde per lui, e basterà.
E il capitano salì in fretta, ridiscese con elmo e squadrone, strinse con mano forte la mano alla fanciulla; diede di nuovo un'occhiata d'intelligenza all'ordinanza, e partì di volo.
Donna Paolina non si mosse, e tenne l'orecchio in ascolto finchè sentì a morire in lontananza il suono dello squadrone e degli speroni.


XII


A questo punto, per non perder tempo, ci conviene riprodurre la relazione che lo stesso signor Giocondo Bruni ci fece dei fatti di quella notte.
«Io dormivo profondamente (son sue parole) uno di quei sonni del mese di aprile che rifanno il sangue anche a noi vecchi; quando fui scosso violentemente da replicati colpi di martello dati alla porta. - M'alzo e vado a vedere che cosa significasse tanta furia; e nell'affacciarmi alla finestra vedo un dragone alla porta, e sento impegnato un dialogo tra lui e il portinaio, e nel dialogo ripetuto spesse volte il mio nome. - Io grido dall'alto: «Chi è lì? chi mi chiama? chi ha bisogno di me?» Il dragone, che non mi conosceva, comincia a far mille scuse; poi mi prega di volergli accordare un abboccamento, e mi prega con tali modi, ch'io senz'altro gridai al portinaio: «Apri tosto, e fallo salire.» Mi butto sulle spalle la veste da camera e vado ad aprire. - Al lume della candela chè, essendo le quattro e mezzo di notte, faceva ancora assai bujo, vedo un bel soldato, il quale tutto alterato mi dice:
«- Ho bisogno di parlarvi di gran premura e in tutta segretezza.
«Io lo faccio venire nella mia camera da letto, e gli domando in che cosa posso servirlo. Egli, senza sedere, mi racconta la storia di donna Paolina S... e di lui.
«Rimasi di sasso. - Voi, caro capitano, gli dissi poi, chiedete il mio appoggio, e il mio consiglio? - Ma io non ne ho che uno da darvene. - Andiamo a pigliar la ragazza, e riconduciamola subito a casa.
«- Ciò non è possibile, mi risponde. La fanciulla è di quelle indoli estreme, che, a contrariarla, potrebbe balzarmi giù da una finestra.
«- Ma sapete voi a che pericolo?...
«- So tutto. Ma io non ci ho colpa. Giuro al Cielo che, per quanto io ami quella fanciulla, non l'avrei mai consigliata a venire da me in tal modo. Ma ora non c'è più rimedio. Il ponte è rotto dietro le spalle.
«- E dunque?
«- Dunque tocca a voi a proporre... Voi che siete amico della famiglia... La mia condizione di soldato, la mia povertà… io non possiedo altro al mondo che la paga; la mia bassa origine.... mio padre non era che un finanziere; tutto ciò mi fa temere di commettere quasi un atto di pazzia a chiedere di poter issofatto unirmi in matrimonio colla fanciulla.
«Io alzai le spalle.
«- Credete voi dunque, mi chiese egli allora, che quel ch'io domando sia assolutamente, impreteribilmente, impossibile?
«- Bisognerebbe cambiar la società e le teste degli uomini, io risposi secco.
«Egli stette muto qualche tempo, in atto di profonda costernazione. A dir il vero mi faceva pietà, perchè mi accorsi di trovarmi in presenza di un giovane onesto e sincerissimo. Allora, come a temperare la mia asprezza. gli chiesi il nome suo. Si può imaginare la mia meraviglia quando udii ch'era il figlio del povero Baroggi. Quel nome, per la catena di tutti gli antecedenti, mi piegò a nuovi consigli. - Io intanto stavo pensando, e si taceva l'uno e l'altro. Suonavano le cinque ore. Egli si dà un colpo di mano sull'elmo e dice: Non c'è tempo a perdere, non manca che un'ora; sono aspettato per un duello. Io mi ricordai d'averne infatti data la notizia in casa S....
«- Che si fa dunque? esso continuava, io non mi posso fermar qui più a lungo.
«Non aveva finito di dir queste parole, che quel buon vecchio di mio padre, che avea allora precisamente quell'età che io ho adesso, vale a dire i suoi ottantatrè anni colla buona misura, chiamato dal rumore insolito, entra improvviso in camera.
«Il capitano Baroggi lo guarda impacciato; io gli dico. State tranquillo, che è mio padre... Anzi, dopo alcuni momenti soggiunsi: - È meglio per voi s'egli è venuto qui. Egli solo può ottener quello che nessun altro potrebbe. E senza più, mi faccio a raccontar l'accaduto a quel sapiente e acutissimo vecchione di mio padre.
«Questi ascoltò non senza un grande stupore; poi, dopo essere stato un pezzo in consulta con se medesimo:
«- Già, prese a dire, è ormai tempo di finirla, che quando le ragazze sono contesse, i mariti debbano a tutti i costi esser conti o marchesi. Per che cosa avremmo fatto tutto questo fracasso di rivoluzione, se si fosse ancora al punto di partenza? - Sono o non sono aboliti i titoli di nobiltà? Gli editti parlano chiaro. - Un giovinotto che a 24 anni è alla testa di uno squadrone di dragoni, mi pare a me che non debba andare in cerca di blasoni. - Se si trovano dei denari, meglio; ma le corone oramai sono mercanzia da rigattiere. Caro capitano, io ho conosciuto vostro padre, e per verità che non ho mai conosciuto uomo più disgraziato di lui. Chi sa dunque che la parte di fortuna che a lui mancò non debba toccare al figliuolo? Speriamo. Io parlerò. E a questo punto, rivoltosi a me: - Senti, Giocondo, disse, tu accompagnerai questo signor capitano dov'è la ragazza; e starai con lei finchè non sarà finita questa storia del duello. Dopo penseremo al resto.
«- Ma intanto, io feci osservare, sarebbe una santa cosa l'andar subito qui presso in casa S... per disporre la nonna e la madre.... e per avvisarle che la fanciulla è trovata prima d'averla perduta. A quest'ora tutta la casa è in sonno, e nessuno non si sarà accorto ancora della fuga della fanciulla.
«Mio padre stette pensoso alcuni momenti, poi:
«- No, disse, no. - Conosco la contessa Clelia, conosco la contessina Ada. Care, angeliche donne.... ma... sono nate in seno a quella benedetta nobiltà, e il peccato d'origine tanto quanto vuol sempre farsi sentire. È meglio dunque tirarle per la via del dolore ai consigli della sapienza. Dopo che avranno cercato la fanciulla e non l'avranno trovata; dopo che l'amor materno avrà fatto tacere ogni altro sentimento, qualunque proposta potrà parere un consiglio del cielo; facendo diversamente, si arrischia di trovar de' rimbrotti, invece di ringraziamenti. Vi sono tali pregiudizii e tali fumi di boria, che, al pari di certi fenomeni dell'alienazione mentale e di certe malattie curiose, non si guariscono che con un colpo inaspettato e forte. - Lasciate fare a me; non inutilmente ho ottantatrè anni.»
Dopo altre parole e altre proposte e osservazioni di tal genere, il capitano Baroggi e Giocondo Bruni partirono.
È inutile che riferiamo tutto quello che il nostro vecchio amico ci raccontò minutissimamente intorno alla sua andata in castello; all'incontro di lui con donna Paolina; alle smanie della fanciulla quando il capitano, in compagnia dei padrini, uscì per andare a battersi. È inutile che ci facciamo a descrivere gli accidenti di quel duello, il quale non fu che uno dei tanti che, siccome dicemmo, avvenivano giornalmente a que' dì in Milano. L'Ariosto e il Tasso, in fatto di duelli, hanno esaurita la materia al punto, che non c'è il prezzo dell'opera a contraffarli. È inutile parimenti che noi ci indugiamo a studiare psicologicamente la gioja della ragazza, quando il Baroggi, dopo una mezz'ora, ritornò sano e salvo e colla notizia d'avere, sebbene a malincuore, ferito gravemente il commissario di guerra. E se non è inutile, è intempestivo il parlar qui delle conseguenze che quel duello recò per le faccende del Suardi.
Bensì ora ci converrà accompagnare in casa S... il vecchio Lorenzo Bruni, l'uomo del popolo per eccellenza, il quale, rappresentandone i liberi germi per intuito spontaneo di fortissima e acuta intelligenza, desiderò, presentì, vide la rivoluzione delle idee e dei fatti; e ne gioverà accompagnarlo per assistere all'interloquio avvenuto tra lui, la vecchia contessa Clelia, e la non più giovane contessina Ada.


XIII


Quando Lorenzo Bruni entrò in casa S.... usciva un servo tutto scalmanato a cercare del figlio di lui appunto; il servo gli disse quel che egli sapeva, e il vecchione salì, e vide le due donne in preda a quel dolore disperato e violento che il lettore può immaginare, e che noi non osiamo e non vogliamo descrivere. Tante volte ci trovammo al cospetto di dolori consimili, e tante volte li abbiamo anatomizzati con mano convulsa, che or ci pesa di rifarne il processo.
- So tutto, disse il vecchio, appena vide quelle due donne affannate; e so più di quello che voi sapete (e brevissimamente espose loro di che si trattava); ma il rimedio, soggiunse poi, è ovvio e naturale. - Mio figlio Giocondo è già sulle traccie della vostra figliuola; ella dentr'oggi può essere fatta sposa.
Lorenzo erasi accorto che il dolore aveva abbastanza lavorato sul cuore di quelle due donne, e non amò di prolungarlo, quantunque egli volesse, colla pietosa inflessibilità del medico, usufruttarlo tutto, per preparare poi con esso le vie della salute. Egli conosceva nell'intimo quelle due donne, e le amava e le stimava in preferenza di tante altre, perchè una vita lungamente travagliata le aveva fatte accessibili a molte di quelle verità che i pregiudizj, accumulati per tante generazioni in seno alla più alta società, avevano, o celate del tutto, o, quel ch'è peggio, fatte passar per errori.
- Sperate, ripetè il buon vecchio; la vostra figliuola a momenti potrete vederla.
- Ma, e chi mai ha osato?
- Nessuno le ha fatto violenza; fu ella a lasciare la propria stanza e la propria casa. Pur vi consiglio a non rimproverarla quando la rivedrete. Io non so se a voi sia trapelato mai nulla di quello che da qualche tempo succedeva nel suo cuore; ma, anche a non saperlo, bisognava sospettarlo; all'età della vostra figliuola, non può essere che per un'eccezione viziata della natura umana, se le fanciulle hanno il cuore muto e il senso inerte; per lo più sono perverse, quando sono di ghiaccio, Dio salvi l'umanità da una giovinezza che sembra la vecchiaia. Tutte quelle madri badesse, onde ora si vanno svelando le storie arcane, e sotto il cui governo claustrale si murarono fanciulle delle quali ne' conventi smantellati si scoprono gli scheletri; tutte quelle spietate badesse, io dico, devono avere avuto una giovinezza senza cuore e senza palpito. Io spero bene della vostra figliuola. Ella amò con sincerità, e non interrogò che il cuore, e il turpe tornaconto non ebbe posto ne' consigli della sua intelligenza adolescente.
Quando alla scoperta improvvisa di una sventura, di cui è arcana l'origine e sono ignoti i particolari, succede la notizia certa e precisa del fatto, per quanto esso appaia grave, l'animo tuttavia si ricompone, e all'angoscia disperata tien dietro un dolore tranquillo e riflessivo.
Ciò avvenne precisamente nel cuore di donna Clelia e della contessina Ada.
Quest'ultima domandò al Bruni come si chiamava il giovane che aveva provocato un sì doloroso accidente.
- È il figlio di un uomo sventuratissimo, che morì prima che la giustizia abbia trovato il tempo di far le di lui vendette. - Cara contessina Ada, ricomponete i vostri spiriti; e preparatevi a sentire nel cognome che vi pronuncierò qualche cosa che pare annunciare una volontà espressa della Provvidenza.
- Ma chi è dunque?
- È il figlio del Baroggi.
- Del Baroggi? e donna Ada fece un viso e un gesto in cui appariva disgusto e ribrezzo.
Lorenzo Bruni disse tra sè: Cominciamo male.
- Quel Baroggi, soggiunse poi, non era che una guardia di finanza, lo so; e visse povero come Giobbe. Ma in tutto questo non v'è nulla per cui debba arrossire nè il morto nè il vivo. - In quanto al suo figlio, è un nobile e valoroso soldato. - A soli 24 anni è già capitano dei dragoni. Tra pochi anni può essere colonnello, può essere generale. Nei tempi avventurosi e grandi in cui viviamo, e in cui pur contento io trascino la mia vecchia età, codesta professione di chi cerca e trova la gloria sui campi di battaglia, è la più generosa, è la più nobile di tutte. Il vostro marito chi è? Il giorno meno sciagurato della sua vita, e che forse gli varrà qualche indulgenza, fu quel solo in cui sotto il titolo di capitano andò a nascondere quello di conte.
Donna Ada si riscosse tutta a queste parole, e non disse nulla.
Parlò per lei la contessa Clelia:
- Voi, caro Lorenzo, avete nominato il conte mio genero; ma avete precisamente nominato l'unico ostacolo a quanto avete proposto... Voi sapete al par di me, al pari di questa povera disgraziata, l'indole violenta di quell'uomo. - Se mai venisse a sapere d'un simile matrimonio... da Parigi o dal Reno dove ora si trova, piomberebbe qui come una saetta a metterci tutti sossopra... Questa povera disgraziata ha troppo sofferto... Voi già sapete tutto...
La contessa Clelia finiva appena di dire queste parole, che s'udì una carrozza fermarsi alla porta. Tutti e tre furono in piedi. e corsero alla finestra.
Or torniamo indietro un momento.
Donna Paolina, dopo il primo orgasmo che l'aveva spinta a un passo disperato; dopo che ne furono scomparse le più forti cagioni, quali il sospetto d'essere tradita, e il terrore che forse all'alba il suo Baroggi sarebbe rimasto sul terreno; in una parola, dopo che fu cessato quella specie di deliquio intellettuale che le aveva coperto ogni lume di ragione, si trovò, per così dire, faccia a faccia con sè stessa; allora quegli affetti che erano come cessati sotto al colpo d'altre passioni più impetuose, le rifluirono a furia nel cuore; e con quelli il pentimento affannosissimo d'aver potuto abbandonare così crudamente quell'angelo di sua madre, da cui tanto era amata. Per ciò, avendole il Bruni consigliato, per togliere ogni occasione di scandalo, di ritornare fra' suoi, ella, con quella smania medesima onde a notte era fuggita di casa, pregò e volle che, senza perder tempo, la si riconducesse presso la sua cara mamma. Qui però, a dir tutta la verità, bisogna soggiungere che non la potevano far ritrosa a tal passo le parole del Bruni, il quale aveale promesso di adoperarsi col più vivo interesse a sollecitare quelle nozze che il giovane Baroggi ed ella chiedevano; e di più l'aveva assicurata che il proprio padre Lorenzo a quell'ora stava certamente parlando di ciò colla nonna e colla contessa Ada. Egli è un fatto che anche negli slanci più spontanei e impetuosi del cuore umano, l'interesse e il calcolo trovano sempre il modo di farsi sentire e di dar pareri.
Una mezz'ora dopo che il capitano Baroggi fu tornato in Castello, esso e il Bruni fecero venire una carrozza, e partirono colla fanciulla senza por tempo in mezzo. - Giunto il Bruni alla casa propria, fece fermare i cavalli, chiese di suo padre e, sentito ch'era andato in casa S..., consigliò il capitano Baroggi a salire, e trattenersi nelle di lui stanze finchè fosse stato chiamato. - Così fu fatto, e la carrozza toccò via e si fermò innanzi al portone di casa S...
Donna Paolina, preceduta dal Bruni, balzò a terra, passò a volo, non amando farsi vedere, dinanzi al portinajo; fece a salti lo scalone, quasi a stento seguita dal Bruni, il quale non sapendo come eran corse le cose, non voleva discostarsi da lei; e non se ne staccò infatti se non allorchè seppe che il suo padre stava presso le donne da qualche ora.
Donna Paolina, quando vide il vecchio Lorenzo a moverle incontro, affannata gli chiese di que' di casa, e contemporaneamente si precipitò nella sala, e, come se stramazzasse, andò a cadere nelle braccia della mamma, che, non sostenendo l'urto, ricadde sulla seggiola; così che la fanciulla, senza volerlo, venne a piegare i ginocchi e il corpo, e a nascondere la faccia lagrimosa nelle vesti materne.
Non ci furono parole per parte di nessuno. La fanciulla singhiozzava; la madre, abbracciando e baciando quel caro capo, nè singhiozzava, nè faceva motto, ma inondava di lagrime sgorganti a furia la propria faccia ancora bella, quasi ancora giovanile. Donna Clelia non piangeva, nè quasi guardava; ma volgendo in alto gli occhi e il volto severissimo e venerando, teneva intrecciate le vecchie mani tremanti, come chi prega o ringrazia Iddio, o recita cose devote.
Il vecchio Lorenzo chiese allora sottovoce al proprio figlio dov'era il capitano; e, sentito che s'era ritratto nella stessa casa Bruni: Va tosto a chiamarlo, senza perder tempo. Se non si coglie al volo l'affetto e la pietà, non si fa più nulla.
Giocondo Bruni uscì, e tornò tosto col giovane Baroggi.
Allora Lorenzo, sentito dall'anticamera il tintinnio degli speroni, disse alla contessa Clelia: C'è qui il capitano Baroggi. Io stesso l'ho fatto venire. Accoglietelo come vi consiglia la vostra sapiente bontà. - Così dicendo uscì, e condusse con sè a mano il giovane soldato. - Donna Paolina alzò il capo e guardò, e rattenne il singhiozzo, e sorrise guardando il caro giovane.
Codesta scena intima di famiglia, tradotta e fermata dall'arte figurativa, ben potrebbe sembrare un'allegoria storica per chi si rifiuta a credere che dal semplice caso sieno generati uomini e cose.
Nella contessa Clelia pareva rappresentata la vetusta aristocrazia che, ad onta della dottrina delle sventure, delle lezioni dell'esperienza, degli stessi affetti più nobili e più disinteressati, pure si ostina a star separata ancora dall'elemento popolare.
Lorenzo Bruni raffigurava codesto elemento appunto, più antico di tutte le aristocrazie; e il cui lavoro incessante in tutti i tempi, sebbene più o meno celato e più o meno efficace, era prossimo a dominare gli altri, in virtù di una legge naturale più legittima di tutte le leggi storiche sorvenute.
La contessina Ada adombrava un'epoca di transizione emersa dal connubio del patriziato e della plebe. Il capitano Baroggi, la forza delle armi e l'incanto della gioventù, che esercita un potere irresistibile su tutto quello che avvicina. La fanciulla, inginocchiata e sorridente sulle lagrime, gli effetti ultimi della legge d'amore che toglie gli ostacoli posti tra stato e stato dalla prepotenza o dall'ambizione.
Ora, lasciando l'allegoria, allorquando quella specie di gruppo plastico di figure variamente atteggiate si sciolse e si scompose, Lorenzo Bruni avviò un discorso per ravvicinare il capitano Baroggi alla contessa Clelia e a donna Ada; la bellezza del giovane e quella tinta d'ingenua onestà che gli colorava il volto, resero efficacissime le parole del vecchio; e donna Ada, intenerita dalle lagrime e dalle preghiere della figliuola, proruppe finalmente in queste parole che sciolsero ogni viluppo:
- Ebbene, se il destino vuole che ciò sia fatto, si faccia.
Alle quali parole la contessa Clelia lanciò alla figlia un'occhiata severa, ma non osò parlare.
- Allora, conchiuse il vecchio Lorenzo, lasciate a me e a mio figlio la cura di tutto il resto... per una vera provvidenza del Cielo, al conte vostro marito non fu levata l'interdizione; così non ha nè il diritto, nè l'obbligo di dare o di togliere il suo assenso; per un'altra provvidenza, in virtù della nuova legge che decreta essere il matrimonio un contratto civile, quello che si dee fare lo si può fare prestissimo, e senza tante lungaggini e cerimonie, e prima che il capitano parta pel campo.
Nessuno contraddisse alle parole del vecchio, e così si sciolse quella giornata, che sorse tanto sinistra e sembrò minacciare casi funesti e inestricabili viluppi. - Ma la vita non consiste in un giorno.
Quando il capitano fu partito, e la vecchia contessa Clelia pur nella sua cupa severità, che pareva quasi un affanno profetico, si lasciò intenerire fino a deporre un bacio sulla fronte della figliuola che consolata l'abbracciava; donna Ada, accompagnato il padre e il figlio Bruni fino alla porta dell'appartamento, disse queste parole:
— Io faccio il desiderio della mia figliuola, perchè ho fiducia di fare il suo bene. Ma temo guai; guai terribili per me. Per quanto ne sappiate e ne abbiate sentito dire, voi non conoscete il carattere del padre della mia figliuola. Pensando a ciò che avverrà quand'egli verrà a sapere di questo matrimonio, vi confesso, miei cari, che mi vengono i brividi. Nè, del resto, se per un atto di estrema delicatezza si fosse mandato a chiedergli il suo assenso, mai non lo avrebbe dato. Basta, la sola cosa che mi conforta, è che il dovere delle madri è di sacrificarsi interamente pe' figliuoli; e in quanto a me, qualunque danno sia per capitarmi, è dover mio di affrontarlo, per il bene della mia figliuola, e per preservarla da pericoli che potrebbero trarla in rovina, se ora non la si compiacesse in un desiderio che è legittimo.
E, dette queste parole con pacata rassegnazione, così conchiuse dopo un momento di pausa:
- In quanto a me non so quando finirà codesto strazio continuo a cui fu posta la mia vita, nella quale non appena è finito un malanno, che un altro sopraggiunge più spaventoso del primo. Voi altri, amici fedeli, che conoscete tutti i casi della mia vita, potete dire se vi è stata donna più tribolata di me al mondo...
E quasi singhiozzando, strinse la mano al vecchio Bruni e li salutò ambidue, lasciandoli addolorati e pieni di tristi presentimenti.


XIV


Le ultime parole della contessa Ada S... relative alle vicende della sua vita passata, ci consigliano a cogliere questo momento per raccontare quanto avvenne nel tempo decorso dalla notte del 1766 in cui si tenne l'ultimo banchetto pubblico alle porte delle case di Milano al giorno 12 marzo del 1797.
La narrazione di un tale intermezzo, se a tutta prima può sembrare un inciampo per que' lettori che hanno volontà d'andar sempre avanti, è qui necessaria, perchè, senza di essa, mancherebbe lume ai fatti che descriveremo in appresso e ai personaggi che compariranno in iscena per la prima volta. E questa narrazione la faremo riproducendo una specie di promemoria che il signor Giocondo Bruni stese per noi, quando gli abbiamo manifestato il pensiero di pubblicare un libro relativo a ciò che a mano a mano ei c'era venuto raccontando.
E credemmo bene di riprodurlo tale e quale fu steso da quell'ometto di garbo, ma non in tutto fornito di quella che chiamasi perizia letteraria; non arrogandoci altro diritto che di far scomparire gli errori più solenni di sintassi e quelli d'ortografia, e di aggiustare alla meglio il contesto della narrazione, là dove ci parve che alla memoria o al periodo fosse scappata qualche maglia.
Adoperando di questa maniera, se dubitiamo di non poter piacere a quelli che amano la più completa armonia nei costrutti architettonici; siamo però certi di riuscire accetti a quanti, nel timore di venire ingannati dai libri stampati e dalle storie, vanno negli archivi a cercar la riprova del vero nei documenti originali.
Ecco dunque la narrazione del signor Bruni, trascritta qui letteralmente:
«La festa di S. Pietro dell'anno 1766, che fu il giorno successivo alla festa cittadina dei banchetti notturni, io fui insieme con mia madre a far visita alla contessa Clelia e a donna Paola. Là per la prima volta vidi la contessina Ada, che io guardai con avidità più di giovane che di fanciullo, innanzi tutto perchè, fino a quel giorno, io non avevo mai visto niente di più bello; in secondo luogo, perchè me la rendevano attraente in sommo grado le strane avventure e il pericolo che aveva corso. In quel giorno stesso e in quel luogo stesso conobbi anche il marchese F...., che io scambiai pel Suardi. A proposito di che mi ricordo d'aver domandato sottovoce a mia madre che cosa mai era successo al signor Suardi per essere diventato così pallido e così magro, ma secondo il costume delle mamme, ella per tutta risposta mi guardò severissima, e mi mise a tacere; tanto che non seppi se non tornato a casa chi era davvero quel giovane tutto tempestato di berilli e colle dita piene d'anelli.
«Per lo scrittore o per il pittore che di costui volesse di fantasia fare un ritratto in punto e virgola, credo bene di darne qui la descrizione:
«Era un giovane di statura piuttosto alta; aveva la faccia regolare, naso aquilino, bocca ben disegnata, ma lievemente piegata verso gli orecchi come quella di un fauno; aveva occhi neri e piccoli e lucenti come quelli di un topo di chiesa; quando sogghignava d'improvviso gli si spiegavano, ai lati della bocca, due rughe che non si vedevano allorchè stava serio. Quando, a casa, seppi chi era colui, pensai tra me, da qual cosa dipendesse che, essendovi pure tanta somiglianza tra il Suardi, avanzo di galera, e lui cavaliere nobilissimo, pure si guardava il primo con una certa soddisfazione dell'occhio, dove il secondo riusciva diabolicamente antipatico. Metto qui codesta considerazione, perchè, fatta allora da un fanciullo senza esperienza e senza l'abito di riflettere, viene ad acquistare un certo significato.
«Per quell'anno io non vidi più nè quella casa, nè quelle persone, nè la giovinetta Ada, la quale, quantunque io non contassi che dodici anni, avrei visitata assai volontieri. Dopo, per tre anni successivi. vissi con mia madre e mio padre, un po' a Parigi, un po' a Berlino, un po' a Napoli, e non ritornai a Milano che nel 1770. Io avevo allora sedici anni.
«A questa età chi è stato a Parigi e ha viaggiato mezz'Europa e non è nato scimunito e ha sfregate le quinte di tanti palchi scenici, non è più un ragazzo, ma un giovane fatto. Noto questo perchè, quando seppi che mia madre era andata sola a far visita in casa della contessa, io mi lamentai dell'essere stato dimenticato, e, senza chiedergli nè un permesso, nè un parere, pensai di recarmi là io solo.
«Prima d'andare, m'informai di ciò ch'era avvenuto di tutte le persone che componevano quella casa. Rimasi assai maravigliato quanto seppi che la contessina Ada la chiamavano già la sposina; chè, dopo molti dispetti e lagrime della fanciulla, finalmente erano riusciti a farle dire che era contenta di concedere la mano al marchese F... Tutti però mi assicuravano ch'ella avrebbe voluto andar piuttosto alla morte, che a quelle nozze. A tale notizia io rimasi ancora più stupito, perchè non mi pareva vero che donna Paola Pietra, e la contessa Clelia, che avrebbe dato il sangue per la sua figliuola, fossero e l'una e l'altra congiurate ai danni della medesima. A tutta prima dunque pensai che non era quello il momento opportuno per andare in quella casa; chè certissimamente sarei stato accolto malissimo come una persona di più in quel parapiglia domestico. Tuttavia, dopo alcuni dì, sfacciatello com'era, mi risolsi, e un bel mezzogiorno entro in casa Pietra.
«Annunciato e introdotto dal servo, mi trovo innanzi a donna Paola; fresco di Parigi e colla fumana degli adolescenti che vogliono far l'uomo, dissi in sull'istante mille cose a quella donna veneranda, e senza più avventuro una congratulazione sul matrimonio della contessina. Donna Paola non rispose al primo, poi soggiunse: - È vero - ma non si fermò su quel tasto, e passò ad altro, e mi chiese dei viaggi fatti da me col papà e la mamma, e del come erami venuto educando, e che cosa avrei voluto fare in avvenire, ecc., ecc. - Io risposi di conformità, e partii, ma col fermo proposito di ritornare ancora, perchè era pur sempre quella cara Ada ch'io volevo vedere.
«Qui, sebbene mi sia proposto di essere brevissimo, perchè toccherà poi allo scrittore a distendere in lungo e in largo e a far diventare arte questo cencio di carta, pure non posso far a meno di dir qualche cosa di me stesso. Sono le consolazioni della vecchiaja che si volta indietro a dare un'occhiata al passato. Devo dunque dire che, senza ch'io stesso lo sapessi, io era un po' innamorato di quella ragazza. - Vedutala quand'io non avea che dodici anni ed ella quindici, m'avea lasciato di sè una tale impressione, che la sua cara figurina mi rimase sempre innanzi agli occhi per tutto il tempo che stetti fuori di Milano co' miei parenti; venuto poi coll'età il primo rigoglio del sangue, quel rigoglio che ti fa desiderare per fin ciò che non si conosce; non avendo mai avuto occasione di fermare a lungo la mia attenzione su fanciulla nessuna, perchè oggi si era qua, domani là, invece di crearmi un ideale, come fanno i giovinetti quando il sentimento si sviluppa e non si conosce nessuno con cui alimentarlo, io nella mia memoria mi ero messo a fare conversazione perpetua coll'imagine di colei; cagione codesta perchè tanto desiderai di rivederla, quando ritornai a Milano. Fatto così il primo tentativo e non vedutala, tornai altre volte in casa Pietra, tornai solo e tornai spesso con mia madre, e mi consolai vedendo che noi eravamo benissimo accetti, e mi consolai tanto più quando mi accorsi che la contessa Clelia fece delle confidenze non indifferenti a mia madre. Questa però non mi disse mai nulla, perchè voleva tenermi all'oscuro di tutto. - Fortuna che mio padre Lorenzo non la pensava come lei, e voleva che un giovane sapesse tutto quello che si può sapere. Egli dunque, filosofando, com'era il suo costume, mi disse tutto quanto era avvenuto e avveniva in quella famiglia; mi disse che donna Paola non dovevasi incolpare se non si era opposta a quel matrimonio. Guglielmo Crall suo figlio amava donna Ada con tanta maggior passione quanto più la giovinetta, sebbene egli potesse vantare tutte le doti della gioventù, della bellezza, dell'ingegno, aveva dimostrato di sentire un'invincibile ripugnanza per lui. Perciò donna Paola desiderava che, giacchè erasi presentato un partito più che conveniente, lo si affrettasse al più presto, nella fiducia che, troncando al figliuolo ogni speranza e togliendogli l'occasione di veder la fanciulla ogni dì, egli alla fine avrebbe fatta la cura del cuore col rimedio del tempo. In secondo luogo, non potevasi ascrivere nè a crudeltà, nè a pregiudizio l'aver cercato di costringere la fanciulla ad accettare la mano del marchese F..., ricchissimo, nobilissimo, ancor giovane, ancora avvenente; e tanto più che bisognava pure cercar di toglier di mezzo quel fatale amore del Suardi; amore che, essendo stato il primo, ed avendo incontrato tanti contrasti, s'era sprofondato tanto, che pareva divenuto incurabile. Su questo fatto poi, per dare una novella prova del cuor generoso di donna Paola e della sua mente spregiudicata e indipendente, mio padre mi raccontò che, parlando con essa di quest'affare intralciato, l'udì una volta ad uscire in queste precise parole:
«- Vi assicuro, che se questa Ada fosse mia figlia, o se credessi lecito di consigliare altrui in una cosa così delicata e pericolosa, io lascerei strillare tutto il mondo, ma accontenterei la fanciulla, anche perchè ho la convinzione che il Suardi, a diventare un perfetto onest'uomo, non ha bisogno che di questo matrimonio. Finchè il mondo continuerà a contrariarlo, a sprezzarlo, ad abborrirlo, egli, di necessità, sapendo di essere in guerra con tutti, deve trattar tutti come nemici; essendo poi naturalmente scaltro e facoltoso, a lungo andare è lui che si vendicherà degli altri. Se l'opinione pubblica non fosse così implacabile, quanti iniqui di meno ci sarebbero a questo mondo! Però io temerò sempre dal Suardi qualche colpo terribile, o a danno della fanciulla o a danno della contessa Clelia; però la fanciulla non potrà mai essere felice con questo marchese che, per dirvelo a quattr'occhi, e purchè non lo ripetiate a nessuno, mi sembra ben più tristo di quell'altro. Ma il bel mondo applaude a queste nozze, perchè ci son venti milioni, perchè il casato è cospicuo, perchè è disposto a perdonare al marchese tutta la sua vita scapestrata, essendo come attratto simpaticamente verso un certo genere di colpe; e credendo di conciliar l'indulgenza colla morale, coprendo tante vergogne con un matrimonio degno di festa pubblica e di pubblica illuminazione. -
«Così pensava donna Paola; ma ora bisognerà dir qualche cosa del Suardi, e di quel che avvenne di lui dal maggio del 1766, quando fu carcerato pro rapto virginum, come portava la denuncia dell'avvocato Strigelli.
«Il Suardi, a malgrado della sua posizione, delle sue ricchezze, delle sue conoscenze, stette otto mesi interi nelle prigioni del Capitano di Giustizia. Fu generale il desiderio così del pubblico come dell'intera magistratura, che quella vecchia volpe lasciasse finalmente la coda nella trappola. Ma la vecchia volpe fu superiore perfino alla propria fama; ma la fortuna e le speciali circostanze giovarono alla volpe più di quello che si sarebbe creduto. Il Baroggi, sottotenente di Finanza, era innocentemente complice di quanto il Suardi aveva ordito e consumato; ora l'innocenza innegabile per l'avvocato lontano dal tribunale e per l'uomo che giudica le cose fuori delle aule della giustizia costituita, non era una moneta in corso nelle mani del Capitano di Giustizia. La complicità c'era, e per provar tutto a danno del Suardi bisognava provar il resto a danno del Baroggi. L'avvocato Strigelli, volendo risparmiare costui per cento buone ragioni, si trovò dunque impacciato nella procedura. Accadde poi, tanto quel Suardi era protetto dalla fortuna, che la madre del Baroggi, la quale, per l'eccesso della sua semplice natura avrebbe potuto, una volta chiamata in giudizio, far delle rivelazioni dannose al Suardi, ma più dannose al figliuolo; accadde adunque ch'ella venne a morire sette mesi dopo la carcerazione del Suardi; e cosí mancando le prove effettive incontrovertibili, l'accusato diventò quasi innocente il mese dopo, e venne rimesso in libertà.
«Qui però giova tener conto di una cosa, anzi di un sistema di cose in forza del quale la giustizia a Milano non rimase che in istato d'emblema là dove sedeva l'autorità, ma cessò affatto di essere un ente reale, pratico, efficace. Mi spiego in due parole.
«Gli storici, l'uno dopo l'altro, allorchè pervengono a quel periodo della dominazione austriaca, quando Kautniz aveva in mano le redini di tutto l'impero, e il conte di Firmian quelle del ducato di Milano, non hanno che parole di lodi enfatiche per questi due ministri. Non è qui il luogo di parlare di Kautniz, ma, per dirla così di passaggio, questo troppo a torto venerato personaggio era di tal natura, che per denaro si lasciava tentare a chiudere un occhio sulle piaghe più profonde dello Stato.
«Io ho letto delle sue lettere di ringraziamento dirette al conte Greppi, il quale ogni anno, d'accordo coi colleghi della Ferma, gli mandava dei regali del valore di più migliaja di lire, dove erano consegnate le prove e della colpa e della complicità. Su una di esse ho notato questa frase, che è degna invero di don Basilio: Voi avete degli argomenti ai quali non si risponde. Tali lettere furon viste dai giovani di studio del conte Greppi nell'atto di deporre quei documenti negli archivj di casa. Lo scrittore faccia di una tale notizia quell'uso che vorrà, ma se non vuol essere un copista pecorone e adulatore come tutti gli altri, approfitti di quanto gli dico. Or veniamo al conte di Firmian. Molte volte, a proposito di codesto Tirolese, così concordemente lodato dagli storiografi, mi vennero in mente quei versi dell'Ariosto stupendissimi:


Non fu sì santo nè benigno Augusto
Come la tuba di Virgilio suona:
L'avere avuto in poesia buon gusto,
La proscrizione iniqua gli perdona.


«L'aver dunque avuto o mostrato di avere qualche interesse per la poesia, e non essendo stato scortese con Parini, fu la causa per cui quel ministro trovò tanta indulgenza negli scrittori. Ma egli era ignorante, sospettoso, vendicativo, prodigo e ladro - mi pare che basti. Per di più, e questo fu il colmo del disastro, aveva a' proprj stipendj un ex barbiere di Trento, che innalzò al grado di suo segretario privato, un tristo arnese della stampa del barbiere di Luigi XI. Esso per molti anni fu il mestatore principalissimo delle cose di Lombardia, e segnatamente della città di Milano.
«Se lo scrittore, in vista dell'enormità di queste accuse, fosse tentato a non prestarmi fede, per buona fortuna può leggere un libretto postumo di Pietro Verri, dove si dice precisamente quello che dico io. Non già che Pietro Verri sia più galantuomo di me, ma avendo più autorità, toglierà di mezzo qualunque dubbio. A proposito di codesto signor Diletti, io ho saputo dalla bocca del signor Giovanni Ambrogio Rosnati, ragioniere in capo della Banca Suardi, come, avuto il permesso di abboccarsi col proprio principale, quando questi trovavasi ancora nelle carceri del Capitano di Giustizia, ei gli fece comprendere, in un momento che i secondini si erano allontanati, fatti più morbidi dal consueto unguento, di tentare il Diletti con promessa di danaro; il quale, dopo essersi dimostrato inespugnabile in principio, diventò arrendevolissimo dopo; tanto che in più riprese ricevette da lui fino a quattromila zecchini di Venezia. Queste cose io le seppi dal detto ragioniere quando il Firmian era già morto, legando un debito di un milione di lire milanesi, e lasciando nella miseria più d'una famiglia perfidamente ingannata dal segretario Diletti, che per il prodigo e fastoso padrone aveva fatto il sensale onde ottenergli molte somme in prestito. Della quale notizia lo scrittore approfitti per cavarne qualche situazione interessante, collocandola in quella sede del suo racconto che più gli parrà adatta.
«Tornando al fatto, se io ho aspettato molti anni per sapere dalla bocca del Rosnati la riprova delle pubbliche dicerie; già sin dal giorno che il Suardi, improvvisamente, per decreto del Senato, venne rimesso in libertà, tutto il mondo sapeva che ciò era avvenuto per ordine espresso del conte di Firmian, il quale voleva quel che voleva; e tutto il mondo vociferava che il cameriere Diletti era stato impinguato dal Suardi.
«Ora, giacchè mi trovo sotto la penna questo nome, dirò che mio padre, allorchè venne per certi nostri affari a Milano e andò a visitare donna Paola, seppe da quella veneranda signora come il Suardi, due mesi dopo essere stato rimesso in libertà e dopo aver trovato il modo di diventare accetto al popolo con abbondanti largizioni di denaro, di grano e miglio, nell'occasione che il calmiere del pane diventò insopportabile per la carestia, credendo di esser diventato nobile, ebbe l'animo di recarsi da donna Paola per chiederle di bel nuovo la mano della contessina Ada. In quella casa dove assiduamente frequentava il marchese F..., per necessità il Suardi non poteva essere accolto. La servitù propalò poi per la città come fosse avvenuto un alterco scandalosissimo tra que' due, e come il tutto finisse collo sfratto del Suardi. Dico che fu la servitù a propalare la notizia di quest'alterco, perchè donna Paola, quantunque si sprigionasse affatto con mio padre, che era uomo da comprenderla, non gli disse mai nulla di tutto ciò.
«Ora è tempo di raccontare quanto avvenne in quella famiglia, quasi direi, sotto alla mia testimonianza.
«Come dissi, essendo io fortemente preso di simpatia per quella fanciulla, dico simpatia perchè non oserei dire se fosse precisamente amore, mi recava in casa Pietra soventi volte, e più forse che nol comportasse la convenienza e la mia speciale condizione. Ma mi dava coraggio quella santa donna di donna Paola, e trovava indulgentissima e cortese anche la contessa Clelia. Bensì quella carogna odiosissima (sic) del marchese poteva bastare per farmi star lontano mille miglia, tanto ei mi guardava d'alto in basso al punto da toccar la manifesta villania; ma questa medesima invincibile antipatia mi comandava di non abbandonar quella fanciulla, e di tentar di consigliarla a star forte e a rifiutare la mano di quello stupido spavaldo. Un dì, che per caso mi trovai da solo a sola con lei, mi feci animo a interrogarla per tastarle, a così dire, il cuore. La risposta fu quella che mi attendevo; ella si adattava a sposare il marchese perchè sua madre lo desiderava, ed ella non aveva cuore di contrariar sua madre. Io le dissi che si trattava della condizione di tutta la vita, e che nessuno ha diritto d'imporci la nostra infelicità, nè i padri, nè le madri, e che però stesse salda e si consigliasse con donna Paola. - Ah, mi rispose, se quella donna fosse sola qui, sola, mi capite, certo che mi ajuterebbe; ma.... - e qui troncò le parole con un sospiro. Entrò in quel momento la contessa Clelia, che addatasi del colloquio, colse il pretesto di far uscire la figlia, poi mi domandò di che cosa stavamo parlando. Io risposi franco e netto, e con impeto e con ira le dissi che era un'indegnità il voler sagrificare a quel modo la sua unica figliuola. La contessa alle mie parole rimase come percossa dal fulmine, e non replicò; ma tutto fu inutile, e venne stabilito per le nozze il giorno 7 di luglio del 1770.
«Bisogna sapere che mio padre, il quale era molto accetto a donna Paola, e anche alla contessa Clelia, non ostante tutto quello che era avvenuto, fu pregato e dall'una e dall'altra a lasciarsi vedere spesso, perchè essendo uomo disinvolto e scaltrissimo, e nel tempo stesso di una rettitudine specchiata, amavano adoperarlo nel disbrigo di molte cose necessarie a farsi in quella circostanza del matrimonio. È inutile il dire che mio padre avea sempre tempestato perchè si mandasse al diavolo il marchese; ma come s'accorse che non c'era verso, e che v'erano circostanze tali, in faccia a cui non era più possibile scansare il male, si adoperò col più sincero interesse perchè almeno potesse rendersi più sopportabile. L'avvocato Strigelli, che per celia chiamava mio padre il suo consultatore, lo richiese da senno del suo parere, quando si trattò di stendere il contratto nuziale. Il marchese F... vedeva ciò di malissima voglia, perchè tra mio padre e lui c'era un'avversione cordiale; ma siccome, non dirò l'affetto, ma la sua passione per la contessina, apparteneva alla categoria dei furori, onde era impaziente e convulso d'ogni benchè minimo indugio, così taceva e lasciava andare, e non aveva objezioni da fare, comunque fossero i patti. Per tutto ciò e per le mille gentilezze di cui colmava la contessina e pei regali veramente principeschi che aveva messo a' piedi di lei; inoltre, per una giocondissima amabilità che gli era data fuori e gli andava crescendo in ragione che si avvicinava il giorno del matrimonio; per tutto questo adunque era riuscito a metter la pace e l'allegria in tutti; e m'accorgevo che s'era fatta abbastanza lieta anche la fanciulla, e quasi era diventato sopportabile anche a me. Torno a ripetere, io sentivo molta simpatia per quella ragazza; ma era una simpatia molto somigliante a quella che un uomo ragionevole e povero ha pei cavalli e le carrozze, che cioè ne ha il desiderio, senza per questo dar la testa nelle muraglie se deve andare a piedi. Perciò, giacchè tutti erano contenti, io assistevo in pace all'allegria generale. Così dunque camminavan le cose, e non mancavano che tre dì a quello stabilito. La sera del terz'ultimo io vado in casa Pietra. Mio padre era con me. Mi ricordo di quella sera come se fosse adesso. Entro in sala, e, dopo aver data un'occhiata in giro, mi faccio tosto all'orecchio di mio padre, e gli dico: Che cosa diavolo è successo? Mio padre non rispose, ma aveva capito anch'esso che c'era qualche novità. Quando entrammo, c'era il marchese F..., la contessina, donna Paola, donna Clelia, l'avvocato Strigelli, tutti quelli, in conclusione, che ci dovevano essere. E tutti parlavano, e tutti erano tranquilli, e non mancavano nemmeno i sorrisi. Chi insomma non era pratico della casa e dell'indole delle persone, non avrebbe avuto a fare osservazioni di sorta. Ma noi che avevamo assistito alla giovialità eccessiva sviluppatasi nel marchese alcuni giorni prima; noi ci accorgemmo precisamente che il marchese parlava per parlare e sorrideva per obbligo di galateo, ma era manifestamente impacciato e preoccupato; del che accortisi gli altri, per consenso necessario erano preoccupati e impacciati del pari. Quando una conversazione procede per la sola virtù legale dei reciproci riguardi, si prova un gran desiderio di trovarsi altrove. Pare che l'avvocato Strigelli fosse di questo parere, perchè di repente si alzò, accusando di essere chiamato altrove per oggetti della sua professione, e nel tempo stesso guardò mio padre, come a dirgli: Usciamo insieme. Mio padre non si fece pregare, e, sebbene donna Paola lo invitasse a rimanere, egli, promettendo di tornar tosto, si alzò, e fatto segno a me di seguirlo, uscì coll'avvocato.
«Quando si fu nella pubblica via, parlò prima l'avvocato:
«- Vi siete accorto che ci deve essere qualche novità?
«- Qualche cosa sì; mi pare ci sian dei nuvoli. Ma che mai è successo?
«- Che cosa possa essere successo non lo so, ma si direbbe che il marchese abbia veduto il diavolo.
«- In conclusione, che ha detto?
«- Nulla affatto, ma è appunto perchè non ha detto nulla, che non si sa cosa pensare.
«- Dunque?
«- Il dunque lo lascio a voi da spiegare. Però un sospetto l'ho anch'io.
«- E quale?
«- Che il Suardi lo abbia minacciato di fargli qualche mal gioco se sposa la ragazza.
«- Il Suardi non è tale da compromettersi con una minaccia che lo ritornerebbe diritto al Capitano di Giustizia.
«- Il Suardi, tra l'amore che lo cuoce sempre più e il puntiglio che lo agita e la rabbia di essere stato scacciato dai servitori del marchese, può essere in tale condizione da non saper più quel che si faccia.
«- Non sono del vostro parere…
«E dopo aver ciò detto, mio padre tacque e almanaccò un pezzo prima di parlare... Io stava attento. Alfine così prese a dire (mi ricordo delle sue parole come se mi suonassero ancora nell'orecchio. Povero uomo, non era possibile trovare chi fosse più onesto e nel tempo stesso più furbo e acuto di lui!):
«- Caro avvocato, disse dunque, a questo mondo bisogna aver buona memoria. È il passato che fa lume al presente, e se siamo nel 1770 è una minchioneria dimenticarsi del '50. Però sono tanto certo che il mio sospetto è la verità, che scommetterei centomila talleri di Maria Teresa per sostenere il mio punto.
«- Non vi capisco.
«- Se nel '50 invece di aver sette anni aveste avuta la mia età, certo che capireste. Ora ascoltate. Io ho sempre creduto che lo zio dell'attuale marchese abbia realmente istituito erede il figlio della Baroggi. Io ho sempre creduto, che alla morte di colui il testamento fosse chiuso nello scrigno del suo studio. Io ho sempre creduto che il Suardi l'abbia trafugato, e ho sempre creduto e credo che il testamento sussista ancora.
«A questo punto mio padre mi guardò, come se si fosse pentito d'aver parlato in mia presenza, e però, scostatosi due o tre passi, continuò a parlar sottovoce allo Strigelli, il quale, facendo le meraviglie e fermandosi ad ogni quattro passi, ripeteva come per intercalare:
«- Ma sta a vedere che la indovini, volpone!
«Io, com'è giusto, non capii più nulla; onde m'entrò addosso tanta curiosità, che quando mio padre ebbe lasciato l'avvocato sulla porta della sua casa, io lo tormentai perchè dicesse qualche cosa anche a me. Ma mio padre, dopo aver tentato di tirarmi più volte giù di strada, conchiuse bruscamente col dirmi: La cosa di cui si tratta è un'inezia. Ma tu per ora non la devi sapere.
«Per quel giorno dunque non si parlò oltre di quell'affare. - Il giorno dopo l'avvocato venne da mio padre, e stettero insieme un pezzo: ma io non potei penetrar nulla. - Mi recai in casa Pietra per vedere se mai le nubi del giorno prima si fossero condensate in temporale. - Ma con mia grande sorpresa era tornato il sereno. - In ogni modo passò quel dì e un altro e il terzo, e spuntò quel delle nozze. - Era ricomparsa l'allegria. Le visite di tutto il parentado affollavano la casa. - La matrina della sposa, che fu donna Valcalzel De Cordova marchesa dello Balbases e duchessa del Sesto, veniva da qualche giorno a star colla sposina e accompagnarla. I testimonj erano stati scelti, e furono don Giacomo Sanazzari e il marchese Paolo Recalcati Cernuschi. - Era un andare e venire continuo di carrozzoni e carrozzini di tutta la nobiltà di Milano. - Nè mancavano i preti, e segnatamente i due parroci, perchè allora v'erano due parroci, così detti porzionarj, della parrocchia di Santa Maria alla Porta, che si chiamavano don Giambattista Redaelli e don Felice Temperati. - Alla vigilia delle nozze ho visto anche l'abate Parini, ma era accigliato, e, dopo poche parole con donna Paola, colla contessa e i saluti di convenienza al marchese e alla sposina, se ne andò con quel suo zoppicare caratteristico, che pareva piuttosto un movimento dell'orgoglio che un difetto del corpo. Venne la sera; le nozze dovevano essere benedette alle due di notte all'altar maggiore di Santa Maria alla Porta dal parroco Redaelli. - Gl'inviti erano stati numerati per ordine severissimo del marchese F... Mio padre naturalmente fu messo nel numero degli invitati; ed io, dubitando di essere escluso perchè, per uno di quei pregiudizj sciocchi che erano tanto in voga nel secolo passato, non si voleva che gli adolescenti assistessero a simili cerimonie, io dunque supplicai donna Paola perchè mettesse una buona parola per me. - Non era possibile che quella cara donna mi dicesse di no.
«Ma veniamo a quella sera memoranda di cui mi ricorderò per tutta la vita. - Il matrimonio del marchese F... colla contessa Ada S... era da molti giorni il discorso di tutta la città, di tutti gli ordini, di tutti i luoghi. - La grande ricchezza del marito e la sua vita passata; la gran bellezza della sposina e le sue peripezie sofferte, accrescevano quell'interesse volgare che s'attacca pur sempre a un matrimonio d'alta sfera. - In sull'imbrunire v'era la folla alla porta di casa Pietra per tentare di poter vedere la sposina; v'era la folla alla porta maggiore della chiesa; la folla alla porta sussidiaria che risponde sulla contrada dei Meravigli e a quella del vicolo del Teatro. - Come quando si attende la lepre, che s'appostano i cacciatori dov'è probabile di sorprenderla al varco, il pubblico adocchiava impaziente ed avido tutti i pertugi per dove credeva che la sposina potesse passare.
«Quando si fu presso alle due di notte, l'onda del popolo che da Santa Maria Podone veniva impetuosa verso la parrocchia e il rumore delle carrozze fecero muovere il sagrestano e i chierici che stavano alla porta maggiore, i quali entrarono tosto per andare a chiamare il parroco. - Io era già entrato in chiesa, e mi ero messo tra quei chierici. - Vennero dunque presto le carrozze, ed eran sei. - Tre svoltarono ne' Meravigli. La sposina era in una di quelle. - Le altre si fermarono innanzi alla facciata, e ne discesero tutti quelli che erano ammessi alla cerimonia. Le guardie urbane nella strada tenevano indietro la folla che faceva impeto e, in un batter d'occhio, appena gl'invitati furono in chiesa, si chiusero tutte le porte, e solo fu lasciata dischiusa quella che mette al vicoletto, standovi a guardia il servitore del parroco, che, in quella solenne occasione, aveva messa vesta e cotta. - Quel servitore non lasciava passar persona che non presentasse un viglietto di casa F… Io era tutto intento a guardar la contessina nel punto che colla duchessa del Sesto e i testimonj e il marchese F... entravano in sagrestia per adempire alle cerimonie d'uso, quando, a un tratto, vedo un parapiglia sull'ingresso della porta segreta tra il servo in cotta ed uno che voleva entrare. - Sull'istante abbandono una scena per l'altra; e, avvicinatomi, vedo il signor Suardi in persona, il quale lascia andare sulla faccia del servo in cotta uno schiaffo così sonoro e potente che me lo sbatte dietro la bussola; e buon per lui che strisciò lungo la pattona, la quale gli tolse il colpo nella caduta. Tutto questo avvenne in un batter d'occhio, e il Suardi fu subito in chiesa, e si collocò presso la predella dell'altar maggiore (scoperto allora di fresco, ed era lavoro di Agostino Agrati), tra lo stupore dei signori invitati. - Passò un quarto d'ora. - I chierici si schierarono intorno all'altar maggiore colle torcie accese. - Il parroco Redaelli salì l'altare. - Dalla sagrestia uscirono nel tempo stesso gli sposi col seguito.
«La contessina Ada, tenuta a mano dalla matrina, fu messa a inginocchiarsi sul cuscino preparatole. Contemporaneamente l'altro parroco don Felice Temperati invitava il marchese a inginocchiarsi sul suo. Com'è naturale, io m'ero collocato ben presso alla balaustra, e dal momento che il signor Suardi era entrato in chiesa, io non l'aveva mai perduto d'occhio. Ora nel momento che il marchese stava per inginocchiarsi, m'accorsi ch'ei vide per la prima volta il Suardi, il quale gli teneva gli occhi fissi in volto. Il modo di guardare del Suardi e la sua curiosa immobilità mi fecero, dico il vero, un senso di paura, quantunque io non sapessi nulla; ma era la scena dello schiaffo che m'aveva fatta impressione. - Com'io guardava intanto, guardavano tutti e guardava il parroco Redaelli.
«Il fatto sta che tutt'a un tratto il marchese si alza e dice non so che cosa all'orecchio d'un chierico. - Questi parla al parroco, che lascia l'altare, si fa presso al marchese, e dopo un momento rientra in sagrestia con esso.
«Poco appresso furono chiamati in sagrestia i due testimonj, don Giacomo Sanazzari e il marchese Recalcati, uno de' quali uscì per accostarsi alla duchessa del Sesto, che non s'era mai staccata dal fianco della sposina; - la sposina e la duchessa uscirono sull'istante. Di lì a poco il parroco don Giovanni Redaelli, fattosi alla balaustra: - Per oggi, gridò, è sospeso il matrimonio. Loro signori possono andare.
«Per quanto la stranezza del caso mi facesse attonito, pure non ho mai tolto l'occhio dalla figura del Suardi, che non si era mai mosso dal posto dove si collocò in principio. Tranquillo e grave lo vidi dunque a muoversi per la prima volta, e levarsi di là, quando il parroco disse quelle parole agli intervenuti.
«Ora è facile imaginarsi la meraviglia di tutti costoro, e il bisbiglio e il malcontento che ne seguì, quasi che il matrimonio lo dovessero far loro; è facile imaginarsi come quel bisbiglio e quel malcontento passasse dalla chiesa al piazzale, alle vie, al vicolo dove tanta folla aspettante e curiosa era stipata. Ma più di tutti gl'intervenuti e della folla, quelli che rimasero veramente colpiti dallo stupore furono mio padre e l'avvocato. Quand'io m'accostai ad essi, per domandar qualche schiarimento, essi stavano guardandosi muti con quell'espressione che hanno le statue. Uscendo dalla chiesa insieme con essi, udii mio padre, che fu il primo a rompere il silenzio, a dire queste precise parole: - Non c'è Cristi che mi possa far cambiar di parere. Non può essere stata che la virtù magica di dieci milioni quella che ha spezzato in un istante i legami di un matrimonio, a preparare il quale ci son voluti quattro anni. Il marchese, coi suoi stravizj degni d'un imperatore della decadenza, ha scantonata la propria ricchezza, come fanno gli ebrei, quando tosano gli zecchini. Se veniva a questo nuovo scappellotto, certo che lo avremmo veduto all'ospizio di S. Vincenzo. Lo Strigelli crollava il capo ripetendo:
«- Non è possibile.
«E mio padre:
«- Per che cosa volete dunque che il Suardi abbia avuto quel lungo colloquio col marchese?
«- Ma ne siete poi sicuro?
«- Il guardaportone di casa F... l'ho fatto cantar io. - Il carrozziere del Suardi cantò lui.
«Com'è naturale, io ascoltai questo dialogo, senza comprenderlo. - Quanti anni dovettero passare prima che mi si porgesse la chiave per aprire quella serratura congegnata a segreto!
«E qui finisco, perchè di tutto quello che avvenne dopo, in quel periodo, non mi riuscì d'esser testimonio oculare. - Il matrimonio non fu solamente sospeso, ma troncato. Il marchese si astenne affatto dalla casa Pietra. La contessina Ada rimase ancora una fanciulla da marito.»
Questa relazione del Bruni sarebbe rimasta in tronco, se noi non lo avessimo pregato a stenderne un'altra per que' fatti posteriori, troppo necessarj al complemento della nostra storia; e che avvennero vivente lui, e che sentì egli stesso a raccontare o dalle parti o dai testimonj o dalla pubblica voce. Eccola, conservatissima nel contesto, sebbene alquanto raccomodata nella forma:
«Nell'anno 1776 cominciò a fermare l'attenzione del pubblico milanese un giovane patrizio, il conte Achille S... Questo giovane allora poteva contare ventitrè anni, ed era già tornato dall'America, dove, avendo sentito che Lafayette, non ancora diciottenne, aveva già fatto abbastanza per la gloria, si mise in testa di emulare il francese sul campo dell'onore. - Ma la differenza stava in ciò, che Lafayette, oltre il coraggio e il desiderio della vita avventurosa, possedeva una grande uguaglianza di carattere e una costanza inalterabile; dovechè il nostro giovane patrizio era uno di quei caratteri inestricabili, in faccia ai quali anche il giudice più sapiente e più tranquillo non sa che sentenza pronunciare, perchè se da un lato gli sembra scorgere le qualità di un eroe, dall'altro gli pare d'intravedere i tristi istinti di uno scellerato. - Infatti, rimasto, a diciasette anni, senza padre e senza madre, ed erede di una sostanza ingente, non tollerando i consigli e l'autorità del tutore, che fu il conte Sanazzaro, con questi venne a tali escandescenze, da percuoterlo violentemente e da lasciargli le impronte del proprio furore. - Fu dopo codesto fatto che, pentito dell'avvenuto e iracondo di non poter spendere e sciupare, come voleva, i proprj averi, lasciò Milano, passò in Francia, in Inghilterra e di là in America. - I giornali dell'una e dell'altra nazione in più circostanze ebbero a fare onorevole menzione di lui pel coraggio dimostrato in molte battaglie; ma dopo due anni, comparve sulla Gazzetta di Sciaffusa la relazione di un tremendo alterco avvenuto tra esso e un colonnello americano, pel quale, venuti alle mani, pur in mezzo alla festività di un banchetto, il sottotenente milanese uccise il suo capo, onde senz'altro se ne dovette fuggire e ritornare in patria, lasciando colà una giovane moglie che morì di lì a poco tempo.
«Reduce a ventidue anni compiuti, trovò che il conte Sanazzaro era morto; il pretore ducale invitò allora altri tra i parenti del conte S... perchè ne volessero assumere la tutela; ma nessuno amando togliersi quel carico per cui erano in pericolo anche le spalle, e il giovane tempestando di non voler tutela in nessun modo; esso in via d'eccezione e per decreto del presidente del Senato fu dichiarato maggiore prima dell'età legale.
«Ricco, come ho detto, di una sostanza ingente, cominciò una vita di pazzie, di scialacquo, di giuochi, d'amori, di scandali a tal punto, da destare un gran rumore non solo in Milano, ma anche fuori del ducato. - Ed io mi ricordo che nella settimana grassa, al carnevalone, quando da tutte le città della provincia e da quelle del Veneto affluiva la folla a Milano e nel teatro Ducale, tutti gli sguardi erano appuntati al palco dove questa bestia feroce sedeva insieme co' suoi degni colleghi. - Mi sono dimenticato di notare che questo giovane aveva qualità straordinarie d'avvenenza, d'ingegno e di spirito. - Pareva insomma che la natura, in un momento d'esaltazione, avesse vuotato il sacco per metterlo insieme; e che dall'altra parte il diavolo o qualche suo agente si fosse messo in testa di assassinare l'opera geniale della natura stessa. - Ma, per queste qualità appunto, anzi per la loro contraddizione violenta, non è a dire quanto costui riuscisse caro alle donne. - Posso assicurare che molte marchese e contesse, in fama d'invincibile castità, smarrirono la tramontana per questo scavezzacollo; posso assicurare che molti matrimonj avviati da lunghi e casti amori si turbarono di punto in bianco al comparire di questo Lucifero vivo e vero, il quale aveva l'incarico di portare il disordine e il peccato ovunque si presentasse.
«Se non che una vita così turbolenta e pazza doveva portare le sue inevitabili conseguenze. Infatti non passarono tre anni che, indebitato fin sopra la testa, ipotecati tutti i fondi, si trovò nella condizione di chieder soccorso a un suo vecchio zio, col quale era già venuto a terribili alterchi. - Lo zio, com'è naturale, fu sordo a tutte le preghiere dei parenti e degli amici, tanto che il giovane dovette un giorno seguire le guardie urbane e recarsi nelle carceri del pretorio alla Malastalla. - I debiti, l'avvilimento, la prigione non mancarono di fare un certo effetto sull'animo di quel giovane, il quale, cosa strana, si acconciò a scrivere una lettera allo zio. Siccome era d'ingegno e d'animo versatile, e dall'oggi al domani si trasformava come un camaleonte, così trovò il modo, secondo dicevasi per la città, di scrivere una lettera allo zio così affettuosa, toccante ed eloquente, che lo zio si lasciò smuovere, e, chiamati i creditori, venne con loro a convenzione, e, aggiustato alla meglio il disastro economico del nipote, gli assegnò una pensione ragionevole perchè potesse vivere con decoro e con tranquillità, promettendo che a seconda dei diporti la pensione avrebbe anche potuto crescere. Infatti, ritiratosi in campagna, il giovane visse per quasi un anno una vita esemplare; tanto che, quando veniva a Milano, o lo si vedeva in teatro, ciascuno lo compiangeva, e malediva l'avarissimo zio perchè lo condannava a vivere così allo stecco; e allora lo zio, a cui vennero all'orecchio codeste dicerie, lo mandò a chiamare per fargli una proposta.
«La proposta fu che, giacchè per molti indizj avea mostrato di poter essere anch'egli come tanti altri, un giovane savio e assestato, così si preparasse a prender moglie; in tal caso il signor zio gli avrebbe fissata una rendita degna della sua condizione e della sposa, e per di più lo avrebbe nominato suo erede. Il nipote accettò; la sposa era già preparata, giovane, bella, ricca. Il matrimonio si fece; ma colla ricchezza ricominciarono i capogiri del giovinotto; e gli sciali, e i giuochi, e le donne e il diavolo a quattro; e non finì un anno, che la consorte, la quale fu donna Giulia Rodriguez de Arevolo, figliuola unica, morì, il mondo disse, per un calcio dato dal marito furioso a lei che era incinta. - Rimasto vedovo con un ragazzino, perdette di lì a poco anche questo, ond'egli ereditò tutti gli averi della moglie; ma li ereditò per buttarli all'aria come avea fatto con tutto il resto. Allora, tornando i dissesti economici, e le angustie, e l'assedio dei creditori, lo zio dovette ricomparire ancora a sanar le piaghe. Siccome poi quello zio era ciambellano, e avrebbe fatta moneta falsa per l'arciduca Ferdinando, così, quella volta, in pagamento del beneficio, pretese che il signor conte nipote entrasse tra le guardie d'onore di Sua Altezza serenissima. Quelle guardie, per l'eccesso del lusso, e perchè nelle solennità, quando in chiesa sfilavano a lato dell'arciduca, dagli spallini, dalla spada, dai ricami d'argento riverberavan le fiamme delle torcie, venivano chiamati i candellieri d'argento; appellativo che rimase poi alle guardie d'onore fin sotto al Regno italico. Ora fu nella sua qualità di candelliere d'argento che, a una festa da ballo, data dall'arciduca, danzò per la prima volta colla giovane contessa Ada. Vederla e andarne preso, e con quel suo sistema di portar tutto all'esagerazione e al delirio, dichiarare che si sarebbe ammazzato se ella non corrispondeva all'amor suo; e recarsi dallo zio, e far mille proteste, e supplicarlo perchè si interessasse a rendere possibile quel matrimonio, fu una cosa sola. Lo zio non desiderava altro. La prima volta avea durato fatica a indurre il nipote ad accasarsi; ora veniva lo stesso nipote a chiedere e pregare. Era un fatto superiore ad ogni speranza, era una vera conversione. La contessina Ada, si sa, non aveva più nè 16, nè 18, nè 20, e nemmeno 25 anni; ma, correndo il 1780, era prossima a' suoi 28. Ben è vero ch'ell'era ancora bellissima, e le giovinette sedicenni potevano ancora invidiarla; ma a quell'età le donne ancor nubili, cominciando a capire che dopo il mezzodì viene il tramonto, sentono nelle ossa la minaccia d'una diminuzione di prezzo, e diventano impazienti tanto, che se hanno passato la miglior parte della vita a dir di no, sospirano qualunque occasione per poter dire di sì. La contessina Ada, poi, di sopraggiunta, si era veramente invaghita del conte Achille S.... nè più dovea temersi la competenza del Suardi, il quale aveva toccato i suoi quarantanove anni. Ben egli continuava ad essere un bellissimo uomo, prosperoso, vegeto, vivace. - Ma il colore del volto aveva perduta la trasparenza; ma l'occhio aveva smarrito il fosforo; ma la pancia aveva varcata la linea accademica. È sempre la pancia quella che chiude il protocollo degli amori. Dunque la contessina Ada era guarita di quell'affezione infelice.
«Nel tempo che avvenivano queste cose, io non mi trovavo a Milano. Da un anno e più stavo a Venezia per assistere la povera mia madre, che morì poi in ancor fresca età, compianta e desiderata da quanti la conobbero. Stavo dunque a Venezia, quando mi giunse come un colpo di fulmine la notizia che lord Crall, il quale da qualche tempo erasi ritirato in una sua villetta presso Milano, fu trovato morto in camera, immerso nel proprio sangue. Colla notizia corsero anche manoscritte le copie di alcune lettere ch'esso avea scritto per donna Ada: lettere che si faceva a gara a rubarsele di mano, perchè a Venezia destavano un grande interesse, non tanto per sè stesse, quanto perchè n'era eroina la figliuola di quella contessa Clelia che molti anni addietro aveva lasciata tanta impressione in quella città. Fu allora che, intanto che mio padre recavasi a Genova per certe somme lasciate da mia madre su quel Banco, io tornai a Milano coll'intento di conoscere appieno e dappresso i particolari di tanta sventura; e fu allora ch'io sentii per la prima volta la storia dei nuovi amori del conte Achille S... e delle prossime nozze di lui colla contessina, e appurai essere stata questa la vera cagione del suicidio di lord Crall. - Le ultime lettere di questo infelice, pubblicate oggi, farebbero ancor senso, ad onta delle famosissime di Werther e Ortis; ma io, dopo averne con religiosità conservata copia per molti anni, non so come, le ho smarrite; nè mi venne mai fatto di rinvenirle altrove, per quanta cura ci abbia posto; specialmente allorchè, discorrendo un dì con Ugo Foscolo di quel fatto e di quelle lettere, egli mi mostrò un gran desiderio di vederle.
«Saputo tutto quello che si poteva sapere, io, sebbene sentissi l'obbligo d'andare a trovare e a confortare in qualche modo la madre infelice del povero estinto, pure stetti lontano dalla casa Pietra; perchè, se mi aveva annojato in addietro il trovarmi a contatto col marchese F..., ben più m'avrebbe pesato il trovarmi allora insieme con quel petulantissimo conte S...; nè troppo a me importava ch'ei fosse un candelliere d'argento dell'arciduca, e molto meno che fosse bello come un dio, e meno ancora che avesse in sulla coscienza una mezza dozzina di cavalieri ammazzati da lui in duello; circostanza che, invece di far ribrezzo, accresceva, tanto il mondo è curioso, il prestigio che lo circondava; bensì lo abborrivo di tutto cuore, perchè, pieno com'ero io delle idee di mio padre, non potevo soffrire che colui, dopo essere stato in America a battersi per la libertà, fosse poscia tornato più gonfio che mai di vento aristocratico, e si comportasse con tutti di maniera, come se il mondo fosse suo vassallo. - Tornando ai fatti, per essere colui impastato di contraddizioni e delle cose non amando che gli estremi, io seppi da chi lo avvicinava in quel tempo, che il suo amore per donna Ada portò tutti i caratteri di una procella, procella che continuò nel medesimo orgasmo per molto tempo; anche perchè, quando tutto era disposto per il matrimonio, e lo zio gli aveva assegnato una rendita degna di lui e della sposa, la morte di donna Paola Pietra che tenne dietro, dopo un anno di languore e d'abbattimento, alla misera fine di suo figlio, venne a sospendere ogni cosa, perchè donna Clelia volle che il lutto per quella santa donna fosse intero e solenne. - Nei giorni estremi di quella vita preziosa e veramente eccezionale, io ritornai finalmente in quella casa e fui testimonio di scene sublimi d'amore e di dolore. - Allorchè la veneranda donna mandò l'ultimo respiro, sembrò davvero che alla contessa Clelia fosse strappata l'anima. In mia vita non ho mai assistito a più profondo cordoglio; e la prova ne fu, come già ho detto, che, per quanto ella conoscesse e compassionasse la condizione d'animo della propria figliuola, e per quanto potesse temere le violenze del conte S..., pure volle che per un anno intero non si parlasse di nozze, e si onorasse la defunta anche co' sagrificj del cuore.
«Quel matrimonio non ebbe dunque luogo che nel giugno dell'anno 1780, con tutta la solennità e le pompe d'uso. Ma trascorsa la luna d'obbligo, la procellosa passione del conte, nel soddisfarsi, si spense; e la tetra noja, assediando ancora quell'incontentabile natura d'uomo, lo spinse a cercare nuovi stordimenti nel giuoco, nelle donne; a portare la desolazione nel proprio talamo maritale, a funestar la pace dei talami altrui, provocando ire, vendette, tafferugli, duelli, e giungendo a mettere sossopra persino la Corte dell'arciduca.
«A tante pazzie presto tennero dietro i dissesti domestici e i dissapori col vecchio zio, il quale riuscì a fargli decretare l'interdizione. Dopo questo fatto esso diventò così acre e turbolento, che tutti facevano a gara per iscansarlo. Fu allora che nacque un accidente per cui dovette abbandonar Milano, e lasciar la casa e la famiglia. Quell'accidente però, bisogna dirlo ad onor del vero, gli recò molto onore, e fu tale che gli acquistò la simpatia anche di quelli che l'odiavano e lo scansavano. - Ecco di che si tratta. È un fatto di non poca importanza, e che si connette coi grandi interessi del paese.
«Giuseppe II, quando salì al trono, vi recò l'orgoglio del sovrano assoluto e la presunzione di saperne più di tutti. - Una tempesta doppia. - La seconda fu assai peggiore della prima giacchè per essa egli applicò le riforme con tale violenza e impazienza, da mandar disperso il bene a cui mirarono coloro che le avevano inventate. Per fermarci al ducato di Milano, Giuseppe II fu il primo sovrano austriaco che abbia manomesso dispoticamente questo inesauribile salvadenaro dell'Impero. Fu per lui che la Lombardia ha cessato, allora per la prima volta, di vivere della vita propria. Per lasciar da parte tutto il resto, e per venire al caso nostro, l'abolizione del Senato di Milano, che stava in piedi da tre secoli, fu un avvenimento che mise il malumore in tutta la popolazione. - Ben è vero che, di quel Senato, noi stessi da moltissimo tempo avevamo vedute le piaghe; ma, come avviene, il nostro legittimo orgoglio nazionale fu punto e si risentì quando venne offesa da altri quella nostra unica rappresentanza. Non si abolisce, ma si riforma, se c'è da riformare; ma si rispettano le più antiche e le più care tradizioni di una città, di una patria. In famiglia si può rimproverar la sorella, la madre, ma non si sopporta che altri le schiaffeggino. È codesta una legge di natura. È dunque una mia opinione che l'odio dei Lombardi, voglio dire dei Lombardi italiani, per il dominio austriaco, se non cominciò affatto con Giuseppe II, s'inviperì allora per la prima volta, e si manifestò per mille indizi. Il mezzo più sicuro con cui un governo può inimicarsi i governati è quello di attestar per essi in pubblico il proprio disprezzo, col rifiutare e respingere tutto ciò che fu il portato delle loro consuetudini e della loro sapienza tradizionale. I sudditi ragionevoli possono acconciarsi a pagar tasse esorbitanti; possono chiamarsi gloriosi di mettere ai piedi del trono i loro averi, perchè un tal sagrificio è giustificato dalla necessità o dalle sue apparenze, e perchè la dignità di una nazione o di una parte di essa non ne rimane offesa. Ma guai se si pretende di sconquassare ciò che costituisce la fisionomia caratteristica d'un paese.
«I veri sapienti onde allora era cospicua la città di Milano ben potevano essere incaricati non della distruzione, ma della riforma ragionevole del Senato, ed essi medesimi dovevano poi venir chiamati a farne parte e ad esserne il decoro e la gloria. - Ma Giuseppe II si credeva al disopra di tutti, anche per l'intelligenza; e quanto alla Lombardia, senza conoscerla mostrò di disprezzarla in più d'un'occasione. Mi ricordo che, allorquando venne a Milano per la prima volta e s'incontrò, nell'aula massima del Senato, nel presidente Motone, guardando all'altissimo topè che colui portava, ebbe, non dubito di così chiamarla, la vile sfrontatezza di rivolgergli queste precise parole: Davvero che voi mi sembrate un buffone. - Questa frase di quel presuntuoso monarca, riferita dai testimonj, e messa in giro per tutta la città, non è a dire quanta indignazione e rancore e dispetto abbia recato in tutti gli animi dei buoni Milanesi; quei Milanesi che pure in molte circostanze avean giudicato con molta severità quel presidente. - Ma, torno a ripeterlo, i Milanesi non potevano biasimare quel loro magistrato; ma dovevano indignarsi, come fecero, quando lo sentirono insultato così vituperosamente da un sovrano straniero.
«Or tornando al Senato, o meglio tornando al conte S..., candelliere dell'arciduca, in uno di que' giorni in cui tutta Milano parlava della soppressione del Senato, a una festa di Corte, accostatosi a un crocchio di ciambellani che lodavano a cielo quell'atto dell'imperatore, egli investì tutti quanti con parole così acerbe e veementi, da far credere ch'ei non avesse altro desiderio che di esser tradotto in carcere; e tanto più quando prese pel collare inargentato il conte Mellerio, e lo scrollò allegramente allorchè quel ladro in carta bollata ebbe il coraggio di rispondergli con altrettanta veemenza. Tutti dissero allora che il conte S... era alterato dal vino, che era fuor de' gangheri per aver perduto al giuoco, che cercava mille modi di far nascere degli scandali, quasi a vendicarsi di essere stato interdetto dal nuovo Tribunale succeduto al Senato; ma, sia pure come vuol essere, io provo sempre una grande soddisfazione quando penso a quella scena violenta, e mi lodo della fortuna quando considero che, per parlar alto a quel modo, non ci voleva che un uomo di quella tempra. Le prime sassate nei vetri, anche allora che si vuol fare una dimostrazione legittima, son pur sempre gettate dalla canaglia inferocita. E il conte, ad onta di tutte le sue pessime qualità, pur serbava in fondo in fondo all'animo qualche cosa di generoso; soltanto ce ne voleva a farlo balzar fuori. - E qui metto codesta osservazione, a mitigare in parte il giudizio severissimo che ho dato più addietro di quest'uomo; ma dico il vero, che quella furiosa scrollata data da lui al bavero inargentato del conte Mellerio m'ha disposto all'indulgenza.
«Il giorno dopo, il barigello della Pretura con una mano di guardie urbane fu alla casa S... per condurre seco il padrone. - Ma questo, in fretta e in furia, messo in sull'avviso non si sa da chi, era partito la notte; nè d'allora in poi non fu mai più veduto a Milano; nè, dopo una sola lettera che da Parigi scrisse alla contessa sua moglie, nella quale, com'ella più e più volte mi raccontò piangendo dirottamente, le raccomandava di dare un bacio alla piccola Paolina, non scrisse mai più alla famiglia; nè mai più per sua parte giunsero notizie di lui in patria.»
Qui finisce la seconda parte della relazione lasciataci dal signor Giocondo Bruni.
Ed ora dovremmo tornare indietro, ovverosia andare avanti, e risalire in casa S..., e collocarci, come il vecchio Simeone, tra il capitano Baroggi e donna Paolina per metter l'anello in dito alla sposina e congiungere le due mani. Ma il genio della storia e della rivoluzione ci sollecita e c'invita ad un teatro più grande che non è Milano; in mezzo a scene più solenni; e tanto più che su quel teatro e tra quelle scene ritroveremo ancora i nostri personaggi, e per la prima volta finalmente ci si presenterà la strana figura del conte Achille.


LIBRO DUODECIMO


Roma. - Il Colosseo e S. Pietro. - Il Camillone di Trastevere. - Pio VI. - Pio VII. - Napoleone I. - La Chiesa e l'Italia. - Le idee rivoluzionarie a Roma e a Milano. - Il popolo romano. - I Trasteverini. - Gli artisti. - L'avvocato Corona. - L'albero della libertà. - Il Campidoglio. - Il generale Cervoni. - La Repubblica Romana. - L'anfiteatro Flavio. - La Morte di Cesare di Voltaire e la statua di Pompeo. - Il colonnello Achille S... - Donna Paolina S... - Il capitano Baroggi.


I


Di tutte le città cospicue del vecchio e del nuovo mondo, due sole tengono i caratteri e le virtù e il diritto di essere, come in un'orbita ellittica, i due fochi dell'umanità, Roma e Parigi. Queste città esercitano sugli uomini che vengono da altre patrie un'attrazione così prepotente e irresistibile, che quasi li seduce a non tornar più a casa loro.
Tutti quelli che sono affetti di municipalismo cronico, non è che a Roma o a Parigi dove possono sperar di guarire. Tutto sta a non errare nella scelta.
I gaudenti che antepongono il Bordeaux al vino d'Orvieto, e che paurosi dell'avvenire e smemorati del passato vogliono, per tutto quel che può succedere, godersi tutti i beni che loro può dare il presente, vadano a Parigi; coloro che sono ascritti all'ordine della cambiale e interrogano, quotidiano oroscopo, il listino della Borsa, vadano a Parigi; coloro che, per fermarci alla città di Milano, odiano l'autore di questo libro, perchè difese la conservazione dei portoni di Porta Nuova, vadano a Parigi; a Roma potrebbero morir d'indigestione archeologica. Ma coloro che, volendo far la cura del municipalismo, non vogliono, essendo italiani, mettere a repentaglio il nazionalismo, vadano a Roma.
Vadano a Roma coloro i quali credono che si possa assicurare il futuro coll'amore tenace delle grandi tradizioni, e hanno fede nei ritornelli storici. Vadano a Roma i prosciugatori di paludi, i bonificatori di terreni, i cercatori d'una città capitale per l'Italia quando sarà rifatta.
È pur sempre dal monte Pincio e dall'umile quarto piano dove abitava l'indefesso Winkelmann che si può ancora appuntare il telescopio, per scoprire quella stella che sgombrerà del tutto le nubi d'Italia.
Ma giacchè il nome di Winkelmann ci venne sulla penna, esso che, passato a Roma, non seppe più dipartirsene se non per morire; che cosa significa codesta irresistibile attrazione che l'eterna città, dal centro d'Italia, precisamente come al tempo che era l'Urbe dell'Orbe, esercita ancora sugli animi più nobili e sugli intelletti più privilegiati di tutte le nazioni?...
Gibbon, trovandosi a Roma, seduto sulle rovine del Campidoglio, mentre i frati cantano vespro nel tempio di Giove, quella strana antitesi lo percuote, e per vent'anni non vive che sprofondato nelle memorie della città eterna.
Byron, indarno trattenuto da colei che per la prima volta riuscì a far parer legittima l'infedeltà conjugale, viaggia appositamente a Roma per dedicare alla regina delle città l'ultimo canto del suo Childe Harold immortale, e al cospetto delle sue rovine, la saluta Niobe delle Nazioni, e sente per essa quell'entusiasmo di amante che non ebbe mai per la fredda sua patria. Perfino i figliuoli di Venezia, per consueto innamorati della cara madre al punto da far piegar in passione il naturale affetto del luogo nativo, a Roma dimenticano e San Marco e Canalazzo e Giudecca, e vi conducono in gloriosa e feconda prosperità la parte migliore della loro vita.
Il veneziano Piranesi è così pieno dell'aria, del cielo, del suolo di Roma, da ritrarla con prodigiosa fedeltà, e da farla comparire come per incanto innanzi agli occhi di chi non l'ha per anco visitata.
Canova vive di Roma e per Roma, e qui vince nella gara l'invidioso danese, che in essa dimorò tutta la vita per tentare di rapire la palma al veneziano.
Ma giacchè il rivale di Canova ci fa pensare agli artisti del settentrione, Bruloff e Bruni dalla gelida Neva venuti a Roma, crescono pittori grandissimi nel fecondo tepore del suo cielo, tanto che se l'artista è cittadino di quella patria da cui tiene l'inspirazione e l'esempio, non sono essi che legittimi romani; e Bruloff lo confessava e lo voleva, e il corpo atletico, affranto dal soverchio peso del suo ingegno sterminato, sperò di ritornarlo a salute ricoverandosi, dopo lunga assenza, a Roma, nella fiducia che là soltanto gli soffiasse quell'aere nativo, estremo rifugio delle vite per cui l'arte medica non ha più consigli.
Tutto Cornelius, che alcuni esteti nostrali proclamarono antistite dell'arte contemporanea, quand'era di moda non vedere e non sognar che l'arte e la scienza germanica, e sotto la maschera della scuola e del gusto cercavano onestare la colpevole adulazione e le maledette schiene curvate, tutto Cornelius non è all'ultimo che un rivenditore eclettico dei tesori raccolti a Roma.
Il sommo Delaroche, il più originale forse e il più perfetto dei pittori contemporanei, giunse a vestire della più decorosa forma i nuovi concetti per aver ripensato tutta la vita e Raffaello e Roma.
Che più? Una popolazione di giovani artisti di ogni lingua, d'ogni nazione, sotto l'egida dell'arte, stornatrice dei sospetti clericali, qui rappresentano la parte più eletta dell'umanità, o come espressione sincera delle loro patrie progressive e liberali, o come eccezione gloriosa delle loro patrie corrotte.
E in quella scienza della storia e dell'indagatrice filologia, uomini d'ogni nazione dimenticano le origini e la storia delle loro patrie, per cercare e rifar quella di Roma, e comparire in faccia al mondo gloriosi di una dottrina che qui soltanto hanno trovato. Niebuhr s'innamora di Roma e si sprofonda a perdita d'occhio nelle sue più remote origini, sotto la scorta del romano Vulpio, tanto letto nel mondo quanto derubato, e men celebre de' suoi saccheggiatori astuti.
Se non che tutti costoro stettero al cospetto di Roma, senza speranza e senza fede, come al cospetto di un cadavere imbalsamato, ancor bello e ancora coperto di porpora e di gemme. Alcuni anche vi stettero senza dolore, e solo coll'intento d'involarne i tesori sotto specie d'ammirazione. E i più generosi e sentimentali, come Byron e Chateaubriand, non manifestarono che un dolore sterile e senza conforto.
Byron, chiamando Roma la Niobe delle nazioni, volle conchiudere che non v'era speranza ragionevole di veder risorgere i suoi figli saettati da un Dio nemico.
Chateaubriand, pur nello sfoggio del suo entusiasmo e di poeta e di cristiano, al cospetto di Roma non fa che ripetere l'Inania regna d'Isaia, e conchiudere declamando il Rem plenam miseriæ, spem beatitudinis inanem, di S. Agostino.
Ma, dopo tutto, chi resta ultimo, a perder la speranza vicino al letto del moribondo parente non è che il devoto consanguineo. Però ad aver fede nella risurrezione di Roma è necessità essere uomini d'Italia. È già molto che lo straniero rammenti con ammirazione il suo passato, e s'assida con poetica commozione presso le sue rovine.
La teoria storica dell'impossibile risurrezione delle nazioni tramontate può essere ammessa da chi trionfa nella massima piena della fortuna; ma la respinge con sapiente orgoglio chi, caduto da alto, geme in non meritata sventura.
Pure, tanti anni sono, gli stessi Italiani che deploravano la patria infelice e divisa, allorchè visitavano Roma, se il pensiero della giustizia e la forza del dolore generavano un qualche barlume di speranza, la ragione calcolatrice degli ostacoli faceva sbollire ogni entusiasmo destato dagli avanzi del passato e dall'idea che non indarno fosse pur rimasto ancor tanto di tanta grandezza.
Quando i congressi scientifici non avevano ancor maturato il frutto politico; quando, dopo la fatale dispersione dell'esercito del regno d'Italia, la coccarda italiana stava ancora celata nel confidente scrigno di qualche superstite veterano del Raab, e il tricolore italico non veniva ancora trapuntato dalle generose lettrici dei canti patriottici del milanese Berchet; e le cinque proverbiali giornate che lo dovevano per la prima volta far sventolare in Italia, erano ancora in mente Dei; un giovane milanese, e a chi scrive era ben noto, trovavasi precisamente a Trinità di Monti per godere lo spettacolo di un tramonto romano; e mentre un artista andava additando l'antico foro e il Campidoglio, e coi ruderi infranti ricostruiva a mano a mano la Roma reale, la Roma repubblicana, la Roma imperiale, il giovane milanese, guardando ora al cupolone di S. Pietro, che pareva nuotare in un oceano d'oro, ora al Colosseo, che sorgeva gigante ma tristo e infranto e nella condizione di un'architettonica cava di marmo: - Ecco, disse, le due costruzioni più gigantesche di mole e più sontuose d'ornato che mai siano sorte al mondo. In nessuna parte della terra non v'è nulla che possa paragonarsi a questi due edifizj, che sembrano rappresentare l'evo antico e l'evo moderno. Peccato che il Colosseo rimanga smantellato a mezzo. La grandezza romana, se ciò non fosse, rivivrebbe tutta in lui.
- Così fosse affatto scomparso, esclamò allora con veemenza un abate in mantelletta che per caso era là presente, che almeno non rimarrebbe più traccia della feroce èra pagana e dei tanti martiri qui immolati agli dèi bugiardi.
- Ma perchè allora non v'è chi smantella il Vaticano? esclamò il giovane milanese.
L'abate guardò stupito quel che così parlava; poi soggiunse quasi gridando: - Chi bestemmia così?
- Nessuno bestemmia. Ma se volete distrutto il Colosseo, io vi domando perchè si lasciano sussistere tante testimonianze dei delitti dei pontefici? L'altro giorno mi fu mostrato un luogo dove Paolo II stava ascoltando i gemiti delle migliaja di prigionieri stipati in castel Sant'Angelo, onde il popolo atterrito dal notturno ululato ebbe a chiamar questa mole per antonomasia il toro di Falaride ingigantito.
Queste parole provocarono una discussione tra quel giovane e l'abate.
- Da quanto avete detto, continuava il primo, mi accorgo che hanno ragione que' dotti scrittori che della colpa d'aver smantellata Roma assolvono e le invasioni, e i saccheggi, e i Barbari, perfino i cataclismi naturali, i terremoti, e gl'incendj spontanei.
- Chi dunque può aver fatto questo?
- Il cristianesimo corrotto, la malvagità pretina, l'ignoranza del popolo credenzone.
- Mi piacerebbe sentire come si può far ora ad assolvere i Barbari.
- Col dirvi che i Barbari nel furore dell'avidità ben ponno essersi attaccati all'oro, all'argento, alle gemme, al ferro, al rame, al piombo, alle belle donne, a tutto ciò che volete, ma non alle colonne di granito, non ai massi di travertino, non ai frontoni, agli attici, ai capitelli. Già, tutta la storia delle rovine romane non a caso fu riassunta nel Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini. Ma lasciando i Barbari, l'ultimo sacco, che fu il più terribile di tutti e che durò tanto tempo e dischiuse una tal voragine di miseria che ci vollero anni ed anni a porvi riparo, chi lo ha voluto, chi lo tirò in casa? Rispondete a me adesso.
- Vi rispondo col farvi una domanda. Di chi fu la colpa se in quell'altro sacco?...
- Qual è quest'altro sacco?
- Quello del 1798. Quello che, sotto specie di protezione, di beneficio, operarono i rivoluzionari di Francia e d'Italia. Di chi dunque fu la colpa se le più stupende opere degli ultimi secoli adunate in Roma per la magnificenza pontificia; se le più famose statue dell'antichità raccolte ne' musei furono depredate e trasportate in Francia?
Il giovane milanese, che in tutte le storie contemporanee aveva trovato intorno a quel fatto e relazioni e giudizj sempre concordi, ed egli stesso non sapeva dar ragione a quanti storici e a quanti uomini vituperarono le estorsioni, le rapine, le concussioni, i disordini d'ogni maniera che avvennero di quel tempo in Roma, prima sotto Berthier, poi sotto Massena, si trovò sconcertato a quella domanda improvvisa dell'abate; e andava, tanto per non parer vinto, biascicando una risposta che però si rifiutava ad uscir dalla bocca. Ma allora venne in suo soccorso l'artista che in quel crocchio faceva da Cicerone per tutti.
- Troppo spesso, prese dunque a dire colui, nelle storie molto lodate e molto divulgate la verità si cerca e non si trova. Certo che quei disordini sono avvenuti, certo che le concussioni furono fatte, certo che i capolavori furono rubati; ma bisogna portarsi a quei tempi, ma bisogna conoscere le nefandità che prepararono quelle vendette. Oggi non v'è, per esempio, chi non chiami Pio VI e santo e martire. Ma dove si legge quel ch'egli fece prima di toccare gli ottant'anni? Caro signor abate, ella è ancora giovane, e poi non è alla segreteria, nè alla curia dove si legge la vita ai papi. Non è alla curia dove si conoscono gl'insidiosi intrighi dei cardinali e dei vescovi e degli altri prelati di tutti i colori... Ma cangiamo discorso, che se alcuno riportasse le mie parole, anche nella mia condizione di cittadino francese, potrebbero assassinarmi colla mordacchia; chè i sacerdoti di Cristo hanno trovato il modo di superare la feroce antichità nel tormentare i galantuomini quando manifestano opinioni contrarie a quel ch'essi vogliono. Discendiamo dunque, che è disceso anche il sole, ed è scomparso dietro la palla di rame.
L'abate tacque. Discesero tutti. Strada facendo, l'artista, che si diede a conoscere per un tal Baldani, emigrato lombardo fin dal 1814, diventato suddito francese, e allora dimorante a Roma per collaborare a un'opera sulle antichità romane che doveva uscire a Parigi, rivoltosi al giovine milanese, gli disse che se voleva conoscere i segreti del tempo in cui si piantò a Roma l'albero della libertà gli avrebbe fatto conoscere un popolano, figliuolo di un tal Camillone di Trastevere, per mezzo del quale avrebbe saputo quello che non c'è in tutte le storie.
E così fu fatto. L'architetto Baldani condusse il Milanese in Trastevere e lo presentò al figlio già maturo dell'una volta famoso Camillone; diciamo una volta famoso, perchè ora non v'è più chi lo nomini nè si ricordi di lui; sebbene negli ultimi dieci anni del secolo passato abbia rappresentato a Roma quella parte che Ciceruacchio rappresentò nei primordj del fatale pontificato di Pio IX; ed abbia dettato in dialetto romano un curioso diario dell'ingresso dei Francesi in Roma nel 1798, e di tutto quello che avvenne colà in quel periodo famoso. Del qual diario il giovine milanese ottenne di poter trascrivere gran parte.
Se non che di questo Camillone noi abbiamo cercato il nome con insistenza in tutte le storie più o meno celebri che parlano delle cose generali d'Italia a quel tempo e delle speciali di Roma, compresa la postuma di Alessandro Verri, il quale, per aver dimorato tanti anni in quella città e per essersi, per ciò che aspetta ai Francesi ed alla repubblica colà improvvisata, diffuso in insoliti particolari, avrebbe potuto parlarne con più ragioni e con più mezzi degli altri. Ma non ne abbiam trovato neppur un cenno fuggitivo, il che ci sembrò tanto strano, che siamo venuti perfin nel sospetto che fosse un'invenzione e l'uomo di Trastevere, almeno per l'importanza che gli si volle dare, e il manoscritto, almeno per la sua autenticità; chè a Roma è frequente la professione di vendere vesciche ai forastieri che vanno a caccia di notizie e di scoperte. Ma, un mese fa, rovistando in Biblioteca, abbiamo trovato un opuscolo stampato a Bologna nel 1800, relativo ai fatti di Roma, dove il Camillone di Trastevere è nominato in lungo e in largo, e vi è rappresentato come l'uomo a cui l'autorità stessa doveva ricorrere quando si voleva metter pace nella moltitudine, la quale in lui solo avea fiducia. Questa scoperta distrusse tutti i nostri dubbj, e ci animò a ricostruir questa parte dell'edificio, che quasi lasciavamo andar in ruina. Ed ora il racconto quasi assume importanza di epopea; feconda epopea, perchè fu nel 98 e in Roma, dove per la prima volta deliberatamente venne vibrato il colpo che avrebbe potuto ferire a morte il nemico più formidabile dell'Italia, che da tanti secoli si tormenta per ritrovare sè stessa e per riavere quel posto che le si compete fra le nazioni; e perchè l'Italia presente dee guardare quell'anno memorabile, non per ripeterlo, ma per emendarlo e compirlo; ma per convincerci, che, finchè rimarrà il poter temporale al pontefice, la questione italiana non sarà mai risoluta davvero; e anche nel caso che l'aspetto della nostra nazione potesse presentare i segni della salute, in quel potere starà chiuso il germe del morbo antico, pronto sempre a pigliar forza dalle possibili occasioni, per prorompere più minaccioso e funesto.


II


Pio VI e Pio VII, avendo usurpata una fama mille volte superiore al merito, e comparendo al cospetto della storia in sembiante di oppressi, di martiri, di eroi del cattolicesimo, riuscirono funestissimi all'Italia, e furon cagione che si prolungassero nel mondo i falsi concetti sulla natura e sui diritti del papato. Ma più ancora di Pio VI e Pio VII, Napoleone fu quegli che imbrogliò il pubblico giudizio relativamente alle quistioni della Chiesa, e consacrò nella maggior parte del mondo cristiano una specie di mistica paura, che rese formidabile il re pontefice; e nella moltitudine, la quale si lascia sopraffare dalle catastrofi, depose la persuasione che le basi del poter temporale fossero inconcusse. La luce della ragione indipendente che, in sul finire del secolo passato, dai pensatori solitarj era passata alle assemblee nazionali, da queste agli eserciti, dagli eserciti alle popolazioni, si spense tutt'a un tratto, per concentrarsi ancora nella chiusa lanterna d'alti pensatori aspettanti con fiducia i tempi migliori. Bonaparte fu il gran colpevole. La risoluzione ch'ei prese contro a Pio VI, ossia contro al poter temporale del papa, quando nel 98 da Roma lo fece portare a Siena, invece di sembrare al mondo, siccome era, il colpo deliberato della sapienza che, confederata alla forza, voleva richiamare una istituzione degenerata alle sue origini primitive, parve un'ingiustissima violenza, allorchè col concordato conchiuso nel primo anno del secolo corrente egli mostrò, o di non aver saputo quel che si facesse, o di pentirsi di quanto aveva fatto. Il mondo in quella fatale transazione imparò a rispettare il poter temporale, al quale s'inchinò sempre più quando vide Napoleone inchinarsi egli stesso al Chiaramonte, per poi ritornare agli atti della prima violenza. Questa ineguaglianza di condotta fu quella, lo ripetiamo, che imbrogliò il pubblico giudizio; perchè i disastri sorvenuti e il grande eroe fulminato, nell'opinione del vulgo, parvero vendette del cielo; e come ai tempi di Samuele e di Saulle, si riputò che Iddio avesse colpito il re della terra che avea osato offendere il suo luogotenente.
Ma qual fu la causa di quella strana condotta di Bonaparte? Quella causa stava intera nel pubblico europeo, che non tutto si era lasciato persuadere dalla parola dei savj, perchè dieci anni non bastarono a mettere in fuga i pregiudizj di dieci secoli, e perchè la rivoluzione delle idee non si era attuata che alla superficie, senza penetrare nella carne, nelle ossa e midollo delle moltitudini. Bonaparte ebbe dunque paura della gran massa del pubblico, per conseguenza di quella sagacia che non gli permetteva d'illudersi sulle apparenze. Ma la sagacia del tornaconto non è il genio magnanimo del sacrificio; però i calcoli dell'ambizione gli consigliarono le transazioni, sebbene gli sdegni naturali dell'uomo salito al massimo potere gli consigliassero poi le violenze. Se non fosse stato ambizioso, non avrebbe avuto paura della moltitudine, la quale, alla sua volta, nella imperterrita continuità degli atti di lui, avrebbe trovata la riprova dei principj annunziati dai pensatori, e avrebbe finito a liberarsi dai pregiudizj. Così il pubblico corruppe l'uomo di genio, e questi, di rimando, rituffò il pubblico negli errori secolari; così rimase interrotta la più radicale riforma che, quando sarà adempiuta, sarà la più gran pagina della storia moderna.
Ma ritorniamo a Pio VI. Questo pontefice, essendo morto ottantenne e in esiglio e inflessibile, trovò gli storici indulgenti fino ad essere dissimulatori, fino ad essere bugiardi; trovò il pubblico europeo disposto a non vedere in lui che un'altra vittima della prepotenza, un altro martire glorioso del cattolicismo. E anche in ciò gli storici imitarono Napoleone I; vogliam dire che anch'essi ebbero paura del pubblico e tacquero la verità, la quale, se avessero adempito all'obbligo dell'indagine scrupolosa, certissimamente lor si sarebbe data a conoscere. Or chi era Pio VI? ovvero sia: chi era l'uomo che, sotto tal nome, doveva rappresentare una delle parti più vistose del suo tempo? È subito risposto: - Colui, se non fosse salito al potere, sarebbe stato gettato alla rinfusa nel carnajo degli uomini più spregevoli.
La natura che fu avara seco delle doti della mente e del cuore, volle invece essergli liberalissima di doni fisici. L'avvenenza fu la sola qualità che in lui poteva valere, se fosse stato e rimasto un uomo privato, a distinguerlo dagli altri. Ma di essa egli s'invaghì al punto, che mal non si appose chi nel tempo ch'egli era semplice vescovo, lo chiamò il Narciso mitrato. Adunque, persin la forma decorosa, che è sempre un pregio, come è un beneficio della cortese natura, trovò il modo di tramutarsi in lui, se non in un vizio, certo in una debolezza vituperosa, e per l'eccessiva importanza ch'ei le diede, e più di tutto perchè, accarezzata a quel modo, faceva uno scandaloso contrasto col carattere ch'egli vestiva. Ma se questa tuttavia rimaneva una debolezza facilmente condonabile, ben v'erano nello spirito di quell'uomo altre abitudini assolutamente perverse. Egli era vano, invidioso, orgoglioso; e fin da quando salì al vescovado, ossia fin da quando potè esercitare qualche autorità sui soggetti, si mostrò bisbetico, oppressore, ingiusto. Per mancanze leggerissime maltrattava coloro che avevano la dura sorte di servirlo o come prelati di camera o come semplici domestici. Ma se un uomo collerico è facile a dar corso agli impeti primi, egli non aveva poi quella qualità che per consueto è il compenso degli uomini irascibili, la generosità prontissima a riparar le ingiurie; bensì una volta che avesse punito qualcuno, quand'anche se la verità fosse venuta a galla a mostrare l'innocenza del povero malcapitato, egli faceva il sordo alla voce della giustizia, e lasciava che i suoi atti di violenza avessero intero corso. Avvenne un giorno (ed egli era già salito alla sedia pontificia) che uno de' suoi camerieri venisse accusato di grave colpa. Pio VI precipitosamente, senza esame, senza processo, non solo lo discacciò da sè, ma lo fece sottoporre ad una gravissima pena corporale. Ora l'accusatore fu trovato bugiardo; che risultò evidentissima l'innocenza del povero sventurato, e che, per necessità legale, lo si dovette rimetter libero. Tuttavia Pio VI non pensò mai a ritornarlo alla sua prima condizione, e per quanto colui avesse pregato e fatto pregare la Santità Sua, e messo Roma sottosopra per ottenere una grazia, che infine non era che nuda giustizia, Pio VI non ne volle sapere, ed avendogli detto taluno che quell'uomo per l'insopportabile angoscia avrebbe potuto tentare qualche partito disperato, il padre santissimo non si mosse punto a pietà; e quando gli venne riferito che colui si era affogato nel Tevere, ascoltò quella notizia senza riscuotersi nè poco, nè assai, e tosto si volse ad altro.
Di questi atti di vilissima crudeltà, il santissimo Pio VI ne commise più d'uno.
Se non che, dopo quanto abbiam detto, sentiamo la necessità di convalidare le accuse con delle testimonianze; le quali accuse sono di tale enormità che, se, non avessimo avuto per testo che il Diario del citato Camillone, gli avremmo quasi negato fede; o, per dir meglio, non l'avremmo spinta al punto da farne un uso pubblico.
Ma la testimonianza del Camillone si trasmuta in valida autorità, e perchè è appoggiata dalla testimonianza d'un altro, e perchè è aiutata dalle qualità insigni di quest'altro appunto.
Esso è Alessandro Verri; la sede dove depose quella testimonianza è la sua Storia delle vicende memorabili dal 1789 al 1801.
Nessuno speri però di trovarla nei due volumi usciti in luce due anni sono; chè coloro i quali tennero il manoscritto dall'egregio nipote di Alessandro, stettero intorno ad esso colla preoccupazione gelosa di chi compilava i libri ad usum Delphini, e però non ebber cura che di amputare crudelmente dal corpo del libro quella dozzina di pagine le quali si riferivano appunto alla vita privata di Pio VI, pagine che per la novità inaspettata delle notizie e per l'amore coraggiosissimo del vero onde venivan pôrte, risolvevansi in quella che si chiama una rivelazione. Per caso però, anzi per cortesia dell'editore tipografo, noi abbiamo veduto quel manoscritto e lette quelle pagine, e ne abbiam tenuto conto pel nostro libro. Ad ogni modo, preghiamo coloro che operarono la barbara amputazione, a porvi riparo, col pubblicare in seguito la parte espunta o nelle copie rimaste, o in una nuova edizione di quella storia.
E questo nostro desiderio è tanto più caldo in quanto, non avendo potuto serbare a memoria quelle pagine preziose, oggi siamo stati costretti a limitarci all'unico fatto dianzi citato, il quale sta nel Diario di Camillone; e ad omettere, per timore di alterarli in qualche parte, altri fatti simili e peggiori che il Verri racconta distesamente.
Ora non v'è considerazione di sorta che valga a scemar fede alle parole del Verri, chè anzi tutto concorre a comunicar loro una autorità incontrovertibile, e perchè Alessandro Verri dimorò costantemente a Roma durante il pontificato di Pio VI, e ha potuto conoscere di presenza tutti quei fatti intimi che, sebbene importantissimi e di gran peso nelle valutazioni storiche, pure sono di tal natura che non varcano sempre il recinto della città, nè talora quello del palazzo; e sono poi gelosamente mantenuti all'ombra da uomini interessati; e perchè il Verri era uomo tutt'altro che avverso al potere pontificale; e del nuovo ordine di cose, che procellosamente si annunziarono alla fine del secolo passato, era estimatore severo e sospettoso e timoroso, e spesso anche denigratore; non per difetto della sua mente, nè per mal animo, ma per il punto di vista a cui si trovò o si pose per osservare la prospettiva che gli si svolgeva d'intorno; punto di vista disadatto a comprenderla tutta e a giudicarla spassionatamente.
Però tanto più fa senso che un tal uomo, il quale si atterriva ai pericoli di Roma e della santa Sede, abbia riferite tante cose pregiudicievoli alla fama di Pio VI; ma tanto più anche bisogna convincersi della verità di esse, quando si considerano le parole onde conchiuse la sua relazione; parole che noi non possiamo ripetere testualmente, ma delle quali il senso è precisamente questo: «Tale è la virtù della grazia divina, che di un uomo (Pio VI) per sè stesso tanto spregievole ha saputo farne un eroe e un martire del cattolicismo.»
Ora, lasciando da un lato la grazia divina, alcuni potrebbero dire che non sempre le debolezze, le tristi abitudini, le colpe della vita privata possono impedire che un uomo si faccia glorioso nel mondo; e a prova di ciò si potrebbero addurre esempj cospicui della storia. Ma concedendo pure che questo sia possibile in cento condizioni speciali della vita pubblica, come nella milizia, nella politica, nelle scienze, nelle arti; non può assolutamente esser fattibile nella vita di chi assume il nome di padre santo. In tutti i modi però siamo d'avviso che in nessuna condizione chi è tristo nella vita privata, possa farsi veramente grande in pubblico ed essere benemerito dell'umanità; chè ad onta degli esempj della storia, mal citati perchè male interpretati, esplorando con profonda sagacia nella vita degli uomini grandi, eziandio di coloro che, o per prepotente invito delle circostanze, o per momentaneo errore di giudizio, o per impeto di natura, poterono commettere qualche atto colpevole; nella vita furono esperimentati continuamente buoni e miti e generosi; per la ragione, che è ben più facile che le intime virtù si corrompano nell'attrito esterno degli uomini e degli eventi, di quello che un'indole viziata si trasformi in virtù quand'ella esce all'aperto.
E la vita pubblica di Pio VI viene appunto a prova di questo; e negli anni in cui il pontificato stette sotto alla sua amministrazione, il cristianesimo fu in Roma sempre ingiuriato, al cattolicismo non si ebbe riguardo nè punto, nè poco; e soltanto si sollecitarono i bassi interessi terreni, al segno che indirettamente la santa Sede tentò di portar soccorso anche ai Turchi allorchè minacciarono di rovina gli uomini che volevano le riforme invocate dalla civiltà.
Queste notizie e le altre che daremo ci serviranno di norma quando si dovrà entrare in Roma cogli uomini della Francia e dell'Italia rivoluzionaria. In quell'occasione, se avremo reso sempre più evidente il fatto che Pio VI, ad onta de' suoi ottant'anni, non fu degno di quella pietà onde si fece tanto scialacquo nelle storie; rispetteremo rigorosamente il vero, pur narrando le enormità e di quei generali e di quei soldati, per vedere come una perversa esecuzione di un disegno sapientissimo rovinò le cose talmente che, spostandosi i termini e scambiandosi le sorti, chi doveva essere condannato dal pubblico giudizio, fu al contrario chiamato martire ed eroe.
Sul qual fondo procelloso e grande nel tempo stesso compariranno alla lor volta i personaggi che per poco abbiamo abbandonati, a proseguirvi un'azione, che loro malgrado dovrà respirare ed inspirarsi di quella pubblica tempesta, e pigliare senza volerlo delle proporzioni non indegne di quel suolo romano e delle sue memorie.


III


Chi dovesse definire il cattolicismo, non tenendo conto che del valore pratico che gli comunicarono gli ultimi pontefici, potrebbe farlo consistere nell'intento di perseguitare la civiltà, ovunque ella si manifesta o in sostanza o in apparenza; ossia di perseguitarla universalmente, vivendo in sospetto di tutti i popoli e col proposito costante di staccarsi da quelli che, in virtù della parola dei savj, più si lasciano riscaldare dal calore della ragione, e più son fatti capaci di usufruttare i tesori che la divinità donò agli uomini; e che una scienza gelosa, tiranna, tentò involare e disperdere.
Pio VI in ciò, più forse che i suoi predecessori, ha passato il segno; esso ha mostrato evidentissimamente a che deplorabili esiti doveva ridursi il poter temporale, dacchè lo si lasciò infettare la purezza del cristianesimo.
Pio VI è il nemico di tutti, fuorchè dei nemici della civiltà, fuorchè dei nemici della religione di Cristo. Il suo cuore non ha simpatie per nessuno; oggi è nemico dell'Austria, domani lo è della Francia; e se nell'odio è volubile con tutte le nazioni straniere, solo è costante coll'Italia. La prima volta poi che si risolve a stendere il braccio a qualcuno, egli si volge alla Turchia e patteggia con Maometto.
Quando Giuseppe II, con un'attività ed un'irrequietudine febbrile, stava tentando e operando riforme, sebbene tedescamente; e inoculava all'Austria Voltaire e Rousseau, per salvarla da un'esplosione violenta, e, comunque si comportasse, mostrava, se non altro, di aver compreso che l'umanità, corrosa da tabe senile, aveva bisogno di essere tutta quanta rifatta, Pio VI protestò contro le tante innovazioni di quel sovrano in materia di disciplina e di culto, dispettoso di veder prossimo il fine del traffico delle sue carte e delle pergamene della Dateria. Fu allora che si mise in viaggio per Vienna, col proposito di riuscire a spaventare Giuseppe II, e farlo desistere dalle prescritte formole di giuramento pei vescovi, dall'abolizione dei monasteri e dei conventi. Se non che andò per ispaventare, ma ritornò spaventato; e due anni dopo, quando lo stesso Giuseppe II recossi a Roma, piuttosto che mettere in pericolo i proprj interessi terreni minacciati da quel sovrano, rinunciò alla nomina dei vescovadi della Chiesa milanese e mantovana. Si vide allora a che veramente si riducesse il poter temporale. Si vide allora come codesta assurda larva non avesse efficacia che nel contaminare, non diciamo la dignità della Chiesa, ma quella dell'uomo; perchè se la ipocrisia, se le menzogne, se le false accuse, se le insidie oblique rendono detestabile qualunque uomo, quando anche costituito in privata e non autorevole condizione; che cosa si dovrà dire di chi le adopera essendo costituito in qualche dignità; che parole basteranno a qualificare l'uomo che, salito al grado più eccelso della gerarchia, offende sè e la dignità propria col ricorrere costantemente a tali armi? Pio VI incaricò dunque i suoi cardinali, i suoi vescovi; incaricò preti e frati d'ogni risma; incaricò i suoi cortigiani, i maestri di camera, i curiali d'inventare calunnie e satire d'ogni genere, e spargerle pel mondo ad ingannare i credenti intorno alla verità dei fatti. Egli intanto sottomano cercava stringersi sempre più coi due rami borbonici di Francia e Spagna; soffiava sul fuoco della domestica discordia acceso tra le due regine di Napoli e di Madrid. E allorquando l'imperatore intraprese la guerra contro i Turchi a favore di Caterina di Russia, permise che in Roma per la prima volta s'invocassero Cristo e Maometto, uniti in istrana mescolanza, e si invocassero ai danni di chi aveva voluto sottrarre una parte dell'umanità alle funeste consuetudini della barbarie.
Monsignore Saluzzo, che era nunzio a Varsavia, e che era un agente di cambio politico e un mestatore de' più scaltri e de' più subdoli, fu incaricato di tentare ogni mezzo per indurre i Prussiani e i Polacchi ad attraversare le imprese dei nemici della Turchia. Gli ex gesuiti, capitanati dall'energumeno Spedalieri, magnificavano per le stampe le imprese dei Musulmani; esageravano l'importanza dell'irruzione che operarono nel banato di Temeswar; nel tempo stesso che il papa spediva un breve iniquo e sovversivo al primate di Malines perchè incoraggiasse la sollevazione dei Paesi Bassi; e l'Arteaga, prezzolato da lui, faceva affiggere su tutti i canti delle vie di Roma la notizia della provvidenziale malattia di Giuseppe II, colla consueta epigrafe sempre abusata dagli impostori - Ecco la mano dell'Altissimo. - Se non che un nuovo e più terribile sgomento venne a sconsigliare tanto odio; e la corte pontificia, colla sua abituale ipocrisia, tentò a un tratto di riavvicinarsi alla casa d'Austria; e fu quando giunse a Roma la notizia della rivoluzione di Francia. Pio VI dissimulò allora i suoi rancori verso un nemico, per garantirsi colla forza del medesimo contro le idee dei filosofi che, trasmutatesi in fatti, minacciavano l'esterminio degli affigliati alla confraternita della vecchia menzogna. Quel che allora fece Pio VI, cooperato dal satellizio dei cardinali, dei frati e dei curiali, non è che un complesso di violenze e di morali deformità. Si perseguitarono, s'imprigionarono, si assassinarono tutti coloro che venivano accusati di esser seguaci delle nuove idee. Il Sant'Uffizio ebbe un lavoro incessante e crudele. Promiscuamente col famigerato Cagliostro fu arrestato il Balio dell'ordine de' cavalieri di Malta, per l'accusa d'aver tentato di rimettere in piedi le così dette Logge egiziane; e sarebbe stato arrestato anche il marchese Vivaldi, se non fosse giunto in tempo a fuggire e a porsi in salvo a Trieste. Quasi tutti gli scultori, pittori ed architetti francesi (riportiamo le parole di una relazione storica allora stampata, la quale non è che una replica di ciò che è detto nel citato Diario), spogliati di tutto, vennero arrestati ed accompagnati ai confini della Toscana.
Intanto quei medesimi predicatori e missionarj, che già avevano tentato di esaltare i popoli a favore del trionfo della Mezzaluna contro i Fedeli, d'improvviso, mutato proposito, si misero a girar per le vie e per le piazze, esortando il popolo stesso a star saldo nella fede cattolica, dipingendo alle menti coi più vivi tocchi gli errori dell'anarchia e della disobbedienza. Mattina, giorno e sera rimbombavano per ogni angolo le stesse voci, le stesse tetre descrizioni, ingrandite dalle più artificiose ipotiposi. Si vedevano stampe e quadri ove i membri dell'assemblea nazionale stavan dipinti colle ale di pipistrello e gli altri segni dati dal vulgo al demonio; ed al contrario si osservavano i più famosi borbonici effigiati colle ali e colle attribuzioni beate degli angeli. E se qui non occorre di richiamare l'assassinio famosissimo di Bassville, inspirato dall'atroce cardinale Zelada, il braccio destro allora di Pio VI, ben giova riferire le cose che pochissimi oggi e forse nessuno conosce, vogliam dire le vessazioni a cui fu segno il medico Bussan, per la colpa di avere assistito il ferito, sino al punto di morte; e l'imprigionamento e le esasperazioni crudeli inflitte allo speziale Meli e al chirurgo Liborio Angelucci per la medesima ragione.
Come locuste assassine si moltiplicarono allora le spie del Sant'Uffizio e del governo, che si trovavano dappertutto, s'introducevano dappertutto; onde riuscì innumerevole la quantità delle vittime o innocenti o incaute; incredibile la diffidenza e la paura penetrata in tutte le classi della società romana, di modo che l'amico più non si fidava dell'amico, il fratello del fratello, il marito della moglie, il devoto del confessore, il figlio degli stessi genitori.
E allora quella simpatia che il Santo Padre avea mostrato per i Turchi e per Maometto, fu tutta quanta concessa alla Casa d'Austria e a Francesco II: al quale, essendo Pio VI venuto nella determinazione di valersi delle armi temporali, chiese ufficiali per addestrare le avvilite sue truppe e un comandante per guidarle in campo; e li ottenne col profondere a quel giovane sovrano, destinato a far pesare sull'Austria l'antonomasia di spavento della civiltà, tanti elogi quanti vituperj avea scagliati a suo padre e a suo zio.
Se non che la pessima amministrazione interna dello Stato non concedendo di erogare sufficiente denaro, nemmeno coi balzelli duplicati, per mantenere un esercito proporzionato e allo Stato e al bisogno, si dovette ordinar tosto un disarmamento generale, lasciando come per l'addietro allo scellerato Barbèri, che era il Nardoni di quel tempo, l'esecuzione dei decreti dei tribunali di giustizia.
Magnificavano intanto le solite penne venali, come già s'era fatto coi Turchi, i vantaggi riportati dagli Austriaci sul Reno. Ma i fatti erano più eloquenti delle parole, e le vittorie di Bonaparte fecero ammutolire il pontefice, e consigliarono la fuga al cardinale Hertzan, ministro plenipotenziario cesareo. Ora se ognuno sa (chè tutte le storie ne parlano) come Bonaparte, per mediazione dell'Azara, accordasse allora al papa l'armistizio di Bologna, dietro la pattuita provvisione di cinque milioni di scudi, delle due provincie di Bologna e Ferrara, ecc.; non fu molto divulgata la notizia che, dopo il pagamento della prima rata, nel punto medesimo che il ministro francese Miot entrava in Roma, per adempiere e far adempiere ai patti del trattato; Pio VI con fede peggiore della greca incaricò il numeroso suo satellizio di sollevare il basso popolo per spingerlo all'eccidio e del ministro e dei commissarj francesi. E per ottener ciò si ricorse alle solite armi della barbara superstizione. Versò allora lagrime vive la Maria Vergine di Ancona, della realtà delle quali il vescovo Calcagnini rilasciò un attestato, di cui vennero diffuse per le vie di Roma migliaja di copie a stampa. Fu allora che tutte le Madonne di Roma, messe in puntiglio da quella d'Ancona e gelose e invidiose, quasi fossero prime donne di teatro (a queste turpissime, derisioni l'ipocrisia del santissimo Pio VI martire ed eroe esponeva la madre del Cristo!), piansero lagrime bianche e lagrime rosse. E affinchè il popolo in quelle lagrime vedesse la virtù del miracolo, si fece circolare una falsa lettera di monsignore Albani, auditore di Rota, dimorante a Venezia, che raccontava la compiuta disfatta delle truppe francesi e Massena ucciso e Bonaparte fatto prigioniero; e perchè l'ipocrisia pontificale fosse ancora più squisita, mentre quelle sconce e bugiarde scene si macchinavano in segreto, in pubblico si fece comparire un editto col quale, sotto comminatoria delle più gravi pene, s'intimava alla popolazione di rispettare ogni persona che fosse addetta alla Francia.


IV


Abbiamo detto che nell'atto stesso di sborsare la prima rata dei cinquemila scudi imposti dall'armistizio di Bologna, il governo di Pio VI tentò di far assassinare dal popolaccio il ministro francese e i commissarj incaricati di ritirarla. Pure, se questa volta il tentativo andò a vuoto e i primi denari dovettero esser sborsati, ben si pensò di non adempiere alle condizioni rimanenti, e di trarre in lungo il tempo per non pagare la seconda rata; e invece si fece circolare un manifesto, il quale invitava tutti i cittadini atti alle armi ad accorrere al suono delle campane nel caso che le truppe repubblicane avessero invaso il territorio romano.
Noi non siam disposti a concedere troppa sincerità agli atti del primo Bonaparte; ma egli è un fatto che, confrontata la sua colla condotta del Santo Padre, fanno pietà e schifo gli ingiusti giudizj dell'epatico Botta. E Bonaparte infatti scrisse al papa per sapere se quel manifesto era stato promulgato d'ordine suo; ma il santissimo padre non ebbe nemmeno il coraggio nè di affermare, nè di negare, e si chiuse in un pauroso e traditore silenzio, riponendo la sua fiducia nell'ajuto del Borbone Ferdinando IV; e attendendo prodezze e dalle reclute che andava mettendo insieme d'ogni conio e di ogni risma, e dalla sapienza di un consiglio di guerra fatto di cardinali e vescovi e frati e preti; e dall'esperienza strategica di un nipote di papa Rezzonico, e dal valore di un brigadiere Gandini, sotto del quale i soldati del papa, per assicurazione non sappiamo se di Marforio o di Pasquino, ebbero fama di portare quella famosa patta di rame, custode di coglie e di ernie, che diventò proverbiale.
Ma il papa che, se era fedifrago, era anche incauto e per nulla conoscitore degli uomini e delle cose, ben presto dovette accorgersi che conto potesse far egli dell'ajuto del Borbone, quando pervenne nelle sue mani un proclama, che pubblicamente leggevasi per Napoli e nel quale, tra l'altre cose, dicevasi: «che importa a noi che i Francesi entrino in Roma e che in quella città penetri la rivoluzione? Si pianti pure l'albero della libertà in Campidoglio, in piazza Navona, in piazza San Pietro, e venga intanto il papa a rifugiarsi tra noi, e faccia circolare nel nostro regno le trafugate ricchezze. Un paese privo di derrate, di coltivazione, di commercio, spopolato e mancante di braccia, dee presto o tardi riuscire a carico della repubblica conquistatrice, e spogliato che sia, non potendo mantenersi senza il papa, dee cadere nelle nostre mani, come ai tempi di Roberto, di Ladislao, di Giovanna.»
E fin qui abbiam creduto bene di diffonderci sulle cose romane e sulle vertenze tra la Santa Sede e le armi repubblicane; per essere fedeli all'intento principalissimo di questo lavoro, che costituisce la sua ragione di essere, ed è quello di pubblicare ciò che si tenne celato o nei manoscritti o in quegli opuscoli coraggiosi, che, avendo circolato liberamente allorchè il tempo lo concedeva, furono poi violentemente messi sotto chiave, o, senza più, vennero abbruciati dalle gelosie, dalle ire e le vendette posteriori; e ciò facciamo per rimediare, in parte almeno, alle bugie, alle simulazioni, alle dissimulazioni di alcune tra le storie più riputate e più lette, e che, protette dalla bandiera della verità, portarono in giro molta merce di contrabbando. - Non parleremo, dunque dei fatti che conseguirono alla subdola condotta del pontefice; nè della rotta vergognosissima che al Senio toccò alle armi romane; nella qual circostanza fu manifesto che il potere temporale, affidato al sacerdozio, mentre snatura e deturpa il sacerdozio stesso, degrada, corrompe tutto ciò che viene nelle sue mani; e ha il funesto privilegio di avvilire eziandio quelle nobili e generose schiatte, che sono, a dir così, la gloria della natura; e tra le quali, per testimonianza di tanti secoli, la romana conquistò appunto il primato. Di quella rotta vergognosa, noi dunque non parleremo, perchè è registrata in tutte le storie; come non parleremo del famoso trattato di Tolentino, e perchè si legge dovunque, e perchè noi stessi già ne abbiam fatto cenno, quando assistemmo al ballo del Papa rappresentatosi al teatro della Scala; il qual ballo fu suggerito appunto e da quel trattato e dell'avvilimento in cui venne la Santa Sede, e dall'onta che toccò al generale Colli, da cui tante cose attendevasi il papa e i suoi cortigiani e i suoi fautori, e che in allora rappresentò nel dramma italiano quella parte che oggi vi rappresentò l'avventuriere Lamoricière.
Ma, a proposito di codesto trattato di Tolentino, che cominciò a scassinare di fatto il poter temporale, ossia a dimostrare che ciò che per donazioni o per forza si acquista o si conquista nel tempo, si può perdere col tempo; alcuni scrittori, a provare che Bonaparte non ebbe mai di mira quella riforma radicale, citano una lettera di lui al pontefice scritta durante le negoziazioni del trattato, e una risposta di Pio VI a lui. E veramente quelle due lettere, considerate oggi nel silenzio del gabinetto, col proposito di non tener conto che del valor delle parole, parrebbero quelle di due innamorati, e per la dolcezza dello stile e per la qualità delle espressioni e per l'espansione delle proteste. Ma quando si pensa da che uomini erano scritte, e in che circostanze, davvero che ci fanno ridere coloro che da esse vorrebbero indurre una reciproca simpatia esistente tra Pio VI e Bonaparte. Se vi fu uomo simulatore, e pronto a fare tutt'all'opposto di quel che diceva e scriveva e prometteva e giurava, fu Pio VI appunto, e ne è prova la prontezza con cui fu sottoscritto l'armistizio di Bologna, e la maggior prontezza onde fu messo sotto i piedi; in quanto a Bonaparte, non ci par vero che, per dare un valor letterale alle parole, si possa dimenticare la preoccupazione ognora vigile di lui a celarsi in perpetuo mistero, per riuscire ne' suoi intenti tanto sicuro quanto inaspettato. Ma, dopo tutto, per dare il giusto valore alla lettera bonapartiana, e per non ingannarsi e non ingannare altrui sulla pretesa propensione di Bonaparte a conservare alla Santa Sede il poter temporale, oltre al fatto delle molte provincie tolte da esso al Papa, il quale basta a toglier di mezzo ogni dubbio; v'è un altro fatto, che rimase tra i segreti passati di bocca in bocca, ed omessi dagli storici o per proposito deliberato o per ignoranza: ed è che egli incoraggiò a perdurare nelle sue sedute il sinodo di Pistoja, aperto molti anni prima dal vescovo de' Ricci; il qual sinodo si proponeva di discutere tutte le questioni relative alla Chiesa romana, tra le quali primeggia quella del potere temporale; e oltre a ciò fu sollecito nell'incoraggiare la pubblicazione di un voluminoso manoscritto, che nel marzo del '96 era stato presentato a Pio VI, intitolato: Disordini morali e politici della corte di Roma, esposti dai difensori della purità della prima Chiesa cattolica; e che infatti venne poi stampato a Siena nel principio dell'anno 1798; nel qual libro, con dottrina non facilmente superabile, e con tranquilla dignità pari a quella dottrina, e con tutti gli attributi di uno zelo intrinsecamente religioso, ad una ad una si passavano in rivista tutte le piaghe della Chiesa, e a ciascuna si suggerivano rimedj salutari, dandosi la parte massima alla questione del poter temporale, che trionfalmente vi era dimostrato illegittimo, assurdo e funesto, con una potenza di argomentazione avvalorata da citazioni infinite, tolte da Gesù Cristo, dagli Apostoli, dagli Evangelisti, dai santi Padri, dai pontefici stessi più benemeriti dell'umanità e dell'Italia e della religione.
Richiamando ora alla mente del lettore quel che abbiamo detto di Bonaparte alcune pagine addietro, esso, per acutissima sagacia, si accorse che di tutti gli elementi della vita sociale ristacciati dall'indagine coraggiosa dei pensatori, l'elemento religioso era il solo che, nella persuasione della maggior parte, era rimasto ai vecchi pregiudizj; però sentì la necessità di preparare il popolo a comprendere interamente quelle quistioni con libri popolari, compilati da penne d'uomini di Chiesa; chè manifestamente vedeva che, in tal materia, la volontà e le leggi dell'autorità civile non potevan nulla sulla convinzione dei vulghi; nè sopra di sè volendo prendersi così pericoloso carico, desiderava che il terreno si preparasse in palese da altri, quantunque in segreto i consigli venissero da lui.
Infatti col trattato di Tolentino dischiuse per la prima volta il varco agli elementi necessarj a compire la riforma della Chiesa romana; quando poi si ritrasse dall'Italia, chiamato da gravissimi eventi in Francia, condusse le cose in modo, che il fratello Giuseppe, il quale era docile a' suoi voleri, fosse spedito a Roma; poi, quando il Direttorio formò di mandare un esercito contro il papa a vendicare le vecchie e le nuove ingiurie, troviamo scritto in un opuscolo di quel tempo, che fu Bonaparte stesso ad eccitare a ciò il Direttorio; fu Bonaparte a proporre che il generale della spedizione fosse Berthier, per la ragione che, essendo questi obbediente ad ogni suo consiglio, al pari di Giuseppe Bonaparte, non si sarebbe dipartito per nulla dalle sue vedute; in ultimo fu egli che mise accanto a Berthier il côrso Cervoni, conoscendo gli spiriti risolutissimi di quel suo compatriota, il quale era di tal natura da far nascere o presto o tardi di quegli scompigli che il senno e la giustizia debbono biasimare e proibire; ma che quando sono avvenuti, si comprende che erano indispensabili per risolvere certe quistioni.
Però, se va il paragone, Bonaparte fece come chi, credendo necessaria un'inondazione, togliesse gl'incastri di propria mano, per recarsi poi altrove nel punto che le acque irrompono dappertutto, onde non essere costretto a rimediare ai disordini istantanei, persuaso che da questi, lasciando andar le cose a beneficio di natura, sia per generarsi quell'ordine che nessuna antiveggenza e fermezza di volontà vorrebbe mai produrre. Ma per che cosa, domanderanno alcuni, al giovane Bonaparte doveva premer tanto di toglier di mezzo la temporalità del papa, se questa fu ed è una piaga non fatale che all'Italia, e perciò stesso opportuna agli stranieri che vogliono tenerla in soggezione? Una tale questione non potendo essere sciolta risolutamente, è permessa una congettura. Nel primo fervore della gioventù, e nell'impeto primo e spontaneo del genio, e nella sua natura italianamente e romanamente costrutta, Bonaparte deve avere provato per la sua patria vera una simpatia irresistibile, la quale, guidata dal fortissimo giudizio, gli deve aver mostrato la massima piaga di lei, e fattogli sentire il desiderio di sradicarla. Testimonj di vista e di udita, dei quali citiamo un Porro, che fu prefetto del Lario, ci assicurano che a Mombello, nel '97, discorrendo Bonaparte dell'Italia, in un momento di quegli impeti generosi, che, come un lampo, rischiarano un immenso buio e svelano cose nemmen sospettate, egli uscì in queste memorabili parole: - In Italia non devono stare ni Franciosi ni Todischi. - parole che, pronunciate risolutamente dalla profonda e rauca sua voce, e in un pessimo e quasi selvaggio italiano, colpirono gli astanti in modo da lasciar loro un'impressione per tutta la vita, tanto in que' detti e nel modo onde furono pronunciati sembrò fremere l'affetto e il dolore al cospetto di una gran patria avvilita. Come è amaro il pensiero che una smisurata ambizione abbia poi soffocato questo naturale affetto!!


V


Berthier ebbe dunque dal Direttorio l'incarico della spedizione romana, perchè così avea consigliato Bonaparte; e l'italiano di Corsica, Cervoni, fu l'alter ego di Berthier, perchè Bonaparte avea voluto che Berthier lo volesse.
Il vincitore di tante battaglie deve aver previsto che quella non doveva essere una spedizione nè disastrosa nè difficile, ma soltanto un viaggio militare.
Ciò per altro non aveva pensato Berthier, che si mise alla testa delle truppe affidategli come se andasse ad una assai ardua impresa, e passato Ancona, dove non accolse i messi del papa, e inoltratosi in mezzo alle gole degli Appennini, trasse innanzi con grande circospezione, temendo ad ogni piè sospinto ostacoli ed agguati. Ma, con grande sua meraviglia, giunse fin sotto a Roma senza trovare un drappello di soldati papalini, tanto che vide non rimanere a lui per allora altra cura che di provvedere all'ingresso trionfale.
Nel Diario del Camillone leggiamo, che primi ad entrare in città per la porta del Popolo furono due squadroni di usseri. Ei si diffonde a parlare del colonnello che li comandava, «il quale, soggiunge, era un milanese di Milano, il più bel soldato che mai si vedesse al mondo». E poco appresso gli fa il nome; così che non abbiamo nessun dubbio di asserire, ch'esso era nientemeno che il conte S..., il marito di donna Ada e il a padre di donna Paolina.
Qui comincia per noi l'opportunità di far camminare di pari passo e senza fatica i pubblici avvenimenti coi fatti privati.
Chi volesse sapere in che modo esso venne a trovarsi a Roma in quel tempo, noi siamo in grado di poter dare delle notizie anche su questo. Il lettore sa come, negli ultimi mesi dell'anno 1797, improvvisamente, e per cagione ancora misteriosa, sia venuto a morire appena ventottenne il generale Hoche, che comandava l'esercito del Reno. Il capitano S..., per la sua indole procellosa e pe' suoi disordini d'ogni maniera, non aveva mai potuto andar d'accordo con nessuno dei suoi capi; tanto che, sebbene essi non potessero disconoscere la sua straordinaria prodezza, pure tutti, l'uno dopo l'altro, pensarono a disfarsi di lui, cercando pretesti per farlo girare di luogo in luogo, e passare d'uno in altro corpo d'armata. Il solo Hoche aveva saputo ammansarlo; tanto che egli stette ben volontieri sotto quel giovine eroe, il quale lo promosse al grado di capo squadrone. Allorché dunque Hoche morì e Augereau venne in suo luogo, il capo squadrone S..., che già avea avuto mille alterchi con quel generale, d'indole difficilissima e irrequieta al pari e più della sua, se fosse stato possibile, sollecitò di uscire dal corpo dov'era; e ottenuto il permesso d'andare a Parigi, si trattenne colà qualche tempo, finchè, saputo che Berthier era stato preposto all'impresa romana, e che lo seguiva il generale Cervoni, col quale se l'era sempre intesa assai bene, forse per una certa eguaglianza d'indole; tanto si adoperò, che ottenne non solo di seguirlo nel suo grado di capo squadrone, ma di essere innalzato a colonnello, e posto al comando di due squadroni di un corpo di usseri di recente formazione.
E si può asserire che Bonaparte favorì questa destinazione, desiderando per quelle ragioni che son facili a comprendere che non mancassero italiani a far parte della spedizione di Roma.
Il lettore vedrà in appresso come un tal fatto, il quale nel cumulo de' pubblici avvenimenti non era tale da lasciar gran traccia di sè, fosse destinato ad essere occasione di tremende sventure domestiche.
Or, ritornando al governo di Roma, giova che il lettore si rammenti come, ancorchè Berthier non avesse ammessi a colloquio i messaggieri da quel governo mandatigli incontro, e ad Ancona avesse promulgato un bando, in cui aveva minacciate cose terribili, pure il pontefice erasi lusingato che il generale francese, pago di ottenere una compensazione pei tragici fatti di Bassville e Duphot, non sarebbe entrato in Roma altrimenti; e come per ciò sia stato tanto più grande lo stupore, lo sgomento e l'ira di lui, quando seppe che, contemporaneamente all'intimazione data al presidio romano di abbandonare Castel Sant'Angelo e all'occupazione fatta dalle armi repubblicane dei bastioni di quel forte, il resto delle truppe era entrato in città.
A questo punto dell'occupazione di Roma cominciano le declamazioni furibonde di quasi tutti gli storici che narrarono quel periodo caratteristico e famoso con intenzioni partigiane.
Il Botta, pur tanto avverso al governo pontificale, e che nella sua continuazione della storia di Guicciardini, quando parla delle nequizie di qualche papa, ha la cura assidua di far campeggiare il predicato di Padre Santo, a titolo di scherno e a significazione efficace di idee, perchè alla mente del lettore risalti crudamente la scandalosa antitesi tra la parola e la cosa; a questo punto par cangiare a un tratto opinioni e convinzioni; par diventare a un tratto e papista e bigotto, e cieco, e smemorato; e si compiace a sfoggiare indignazione pietosa, e si ferma con insistenza d'autore tragico e d'artista che vuol fare effetto, sulla tarda età, sul venerabile aspetto, sulla inferma salute di Pio VI; e prorompe furiosamente perchè alcuni dei cardinali, i quali avean sempre sostenuto dei loro obliqui consigli l'obliqua ragione di quel papa, e all'uopo eransi fatti provocatori di popolari ferocie e di eccidj, sieno stati messi sotto vigile custodia dalle armi repubblicane.
Ma il repentino mutamento di quello storico tanto celebrato, si spiega con ciò, ch'egli era così pregiudicato estimatore di quei tempi rivoluzionarj e odiatore tanto astioso di Bonaparte e de' suoi seguaci, che tutti gli altri suoi odj dovevano tacere in faccia a questo; e al suo occhio, in confronto d'ogni impresa e d'ogni atto di Bonaparte e delle armi rivoluzionarie, anche le colpe altrui parevano trasmutarsi in virtù.
E Alessandro Verri non si dilunga da lui. Ben è vero che egli si mostrò veneratore sempre costante dell'autorità temporale della Chiesa, ed è per questo appunto che le accuse scagliate da lui contro la vita privata di Pio VI fanno testo autorevolissimo; ma le sue idee fisse e i suoi sistemi e i suoi amori e i suoi odj sono così tenaci e implacabili, che la memoria del passato pare che gli annebbii nella valutazione dei fatti posteriori, e il lavoro della logica gli proceda a rovescio; talmente che non par vero che chi ha detto tanto male di Pio VI, dopo si affanni, al pari di Botta, a metterlo nella miglior luce possibile; ed esprima un'ira spasmodica contro tutte le idee rigeneratrici che, tradotte in fatti, vennero ad assalire l'errore nella sua sede più antica e più formidabile. Perchè bisogna bene che i galantuomini tentennanti si persuadano di questo, che, siccome abbiam fatto vedere, il germe rivoluzionario portato a Roma colle armi, era e doveva riuscire un'impresa salutare all'Italia e all'umanità e al medesimo sacerdozio, se non si fosse trasmodato nell'esecuzione, la quale, siccome avviene spesso anche nelle opere dell'arte, guasta e snatura le più squisite invenzioni della mente. Facendo uso adunque con somma precauzione di questi autori, d'altra parte meritamente reputatissimi, e continuando a far loro la più oculata controlleria colla scorta di coloro che parlarono e scrissero e stamparono senza speranze, senza timori, senza pregiudizj, senza aver riguardo a chi sta in alto, senza le funeste paure dei giudizj del pubblico, senza i pericolosi intenti della gloria, entriamo anche noi in Roma a vedere e a sentire quel che vi succede.
E innanzi tutto, non bisogna credere che le idee rivoluzionarie fossero penetrate in Roma, e avessero attecchito con quel rigoglio legittimo di sviluppo che si verificò a Milano. A Milano i nostri pensatori avevano tentate e sciolte le questioni più connesse alla vita pratica, e però avevan saputo illuminare le masse; a Roma per contrario la scienza, limitandosi all'archeologia, alla filologia e all'erudizione in genere, era rimasta perfettamente oligarchica, ed aveva lasciato il popolo qual era. Bensì avvenne colà un fenomeno singolare.
Gli artisti di Francia, pensionati e dimoranti in Roma, furono i primi a mettere in circolazione le idee francesi; ma queste non passando per lo staccio dei pensatori, invece di migliorare, temperandosi nel trapasso, peggiorarono esagerandosi. Eran giovani bollenti ed esaltati dalla natura stessa de' loro studj, che si trovarono aver nelle mani delle armi, le quali, adoperate senza riflessione, potevano diventare pericolosamente micidiali. Quanto ai popolani di Roma, senza che fosse stata necessaria l'Enciclopedia e Voltaire e Robespierre ad aizzarli contro il clericalismo, odiavano i preti, non per l'effetto delle idee importate e trovate nei libri; ma perchè erano scaltriti dallo spettacolo quotidiano, e da mille fatti di cui erano testimonj e vittime; era un odio cresciuto per virtù spontanea, e però più potente d'ogni altro.
Che effetto dovesse dunque produrre la domestichezza che, siccome se chi è stato a Roma, è di vecchia consuetudine tra gli studenti di belle arti e la plebe di Trastevere, ognuno lo può pensare. Diciamo questo perchè di molte enormità che avvennero nel tempo in cui le truppe repubblicane stettero in Roma, bene spesso complice e guida fu quella plebe appunto; l'inettezza colpevole del governo temporale del papa aveva fomentata in anticipazione l'ira dei popolani, i quali, anche allora quando nella vendetta passarono il segno, non fecero che continuare ad esser vittima di un'autorità assurda e corruttrice.
Al disopra di questa classe v'era poi quella schiera numerosa d'uomini, che non manca mai in tutti i paesi di questo mondo, perchè è la natura che li mette insieme. Uomini che hanno il privilegio di veder giusto nelle cose, ed hanno in sè l'antidoto sicuro contro i pregiudizj e le cattive istruzioni; ma che nel paese ove stanno, arrischiano qualche volta di essere odiati dai partiti estremi non per altra ragione che perchè tengono la media proporzionale. Costoro sono sempre disposti a festeggiare tutte le novità, per l'istinto che hanno del progresso, e tanto più, quanto più si accorgono di vivere in mezzo ad uomini e cose sopraffatti da una decrepitezza incurabile. Costoro dunque, seguiti da quella parte di popolo che nella prima allegrezza è sempre buono, ma che può imperversare nell'ubbriachezza, fecero festa all'esercito repubblicano quando entrò in città; fecero festa a Berthier, a Cervoni, al colonnello S..., e a tutti quegl'Italiani militanti che, parlando la lingua comune, dicevano di essere venuti a infondere sangue nuovo nella vecchia Roma.


VI


Il terzo giorno dopo l'ingresso delle truppe francesi, nel quale ricorreva l'anniversario dell'incoronazione di Pio VI, fu, a significazione d'antitesi, dedicato invece alla solenne instaurazione della repubblica romana.
I grandi ritorni della storia, esaltando l'immaginazione, commuovono gli uomini ad insolito entusiasmo, anche allora che non arrecano vantaggio. Se poi la grandezza si marita all'utile o alla speranza di raggiungerlo, l'entusiasmo non ha più limiti. Un sublime delirio investe le moltitudini, senza che occorra a ciò nè potenza di fantasia, nè straordinaria squisitezza di sentimento. Quelli che insieme con noi nell'anno 1848 a Venezia hanno visto balzar fuori di repente l'alato leone di sotto alle aquile austriache, e l'antico stendardone risventolare davanti a San Marco, e i gondolieri e i pescatori e i vecchioni di Canareggio e di San Pier di Castello comparire in piazza colle vecchie stampe, tenute in serbo, effigiate di dogi, possono far testimonianza più sicura di codesto fenomeno.
Per analogia dunque ognuno potrebbe immaginarsi, anche senza che ci fosse attestato da testimonj di veduta, quale sia stata l'esaltazione dei Romani il giorno in cui risalendo il corso di mille ottocento anni, si trovarono a faccia a faccia col loro grande passato.
Quando diciamo i Ronani, ognuno lo pensa già, non vogliamo dire tutti i Romani. Anzi bisogna fare l'esclusione quasi totale dei due estremi della scala sociale; ossia della più alta gerarchia ecclesiastica e civile, e dell'ultima feccia del popolaccio al di qua del Tevere, a cui quella gerarchia medesima avea spesso ricorso per tentar di stornare con opere scellerate i nuovi giorni.
A coloro poi bisogna aggiungere un'altra classe di Romani: ed era quella costituita, in prima, da alcuni letterati ed eruditi di professione, quali il Guattani, l'Orlandi, il Cicognini, ecc., ecc., uomini innamorati del quieto vivere, del silenzio e del pranzo settimanale in casa Braschi, in casa Albani, in casa Massimi: tutta gente che idolatrava Roma antica nei libri, nelle lapidi, nelle monete, in tutto ciò che era morto; ma non avrebbe mai fatto sacrificio di un solo pranzo per rivederla viva e risorta; in secondo luogo, da altri letterati, chiari d'ingegno, e galantuomini, e anche indipendenti da cardinali e da principi e da duchi, ma non indipendenti da sè stessi e dai caparbj pregiudizj; tra costoro certamente primeggiava il nostro Verri Alessandro, in molte cose tanto simile al fratello Pietro, e in troppe altre così diverso; il quale Alessandro, ad onta delle sue Notti Romane, avrebbe voluto veder ruinare tutta Roma, piuttosto che essere spettatore dell'invasione ognora crescente delle idee rivoluzionarie. Finalmente venivano alcuni artisti, architetti, scultori, pittori già saliti in gran fama, e già adagiati nella ricchezza, e che dell'una e dell'altra eran debitori alla protezione e del papa e dei cardinali e dei ricchi patrizj, tra' quali si distingueva il celebre Mariano Rossi e il Tofanelli e il Nocchi scolare del Battoni, e il Pacetti Vincenzo che, quantunque fosse un ottimo uomo, avea sempre crollato la testa alle notizie di Francia, e avea consigliato Canova, che non si fece molto pregare, a cavarsela da Roma prima che arrivassero i tempi bruschi. Queste categorie d'uomini non sentivano dunque l'esaltazione generale. Gli uni, o stavan celati, o passeggiavano nelle vie remote, o tutt'al più, se erano sollecitati dalla curiosità, traevano, sempre però a una rispettosa distanza, dove traeva il pubblico schiamazzante, e guardavano e notavano ogni cosa senza aprir bocca; o se l'aprivano a qualche evviva forzato, era perchè s'accorgevano che qualcuno li guardava in cagnesco.
Pur, a dispetto di tutti costoro, rimanevano quanti bastavano per affollar piazze e contrade, e per empir l'aria romana di acclamazioni, di evviva, di grida. V'erano intanto tutti gli uomini di Trastevere, nei quali il vecchio sangue latino è trapassato senza alterazioni d'innesti spurj; uomini ignorantissimi di tutto quello che sta oltre la cerchia romana, e che credon che il Tevere vada in Francia e in Inghilterra e in America e in tutto il mondo conosciuto; ma perciò appunto orgogliosissimi di esser romani. La storia della loro patria è per essi passata di bocca in bocca attraverso a venti secoli, per raccogliersi e far sosta nel loro rione; onde parlano ancora di Giulio Cesare, e Cicerone, e Catilina, e Bruto, e Catone, e Pompeo come se fossero loro fratelli e li avessero visti a crescere, e avessero bevuto con loro il falerno nell'anfora stessa; uomini che, per questa parentela, sentono il privilegio di un'aristocrazia speciale e guardano d'alto in basso quanti stranieri, comunque grandi e illustri, vanno per curiosità a visitarli; e lor parlano col tu di Roma antica, e ad un bisogno, senza tanti rispetti, anzi in atto di protezione, mettono loro sulle spalle le mani poderose. - «Come stai, re Michele?» diceva ai nostri giorni un beccajo di Trastevere a don Miguel; e mentre con una mano gli batteva una spalla, coll'altra gli porgeva l'ampia caraffa rasa d'orvieto; e accompagnava quest'atto con tale posa e tale espressione di volto, che pareva dicesse: Io mi degno di abbassarmi fino a te. Quest'ignoranza e questo costume non impedisce però che essi abbiano acutissimo l'intelletto; e giova poi a conservar loro un carattere intero, il quale, nella sua medesima fierezza, è spesso custode di nobili affetti, della santità dell'amicizia, dello scrupolo della fede. I giovani artisti, che anche allora, come adesso e come sempre, mescolandosi a quella gente per gl'intenti dell'arte, erano i loro più intimi amici, e però li avevan messi a parte di tutte le belle e grandi cose che l'onda rivoluzionaria avrebbe portate in Roma, li trassero adunque entusiasti e plaudenti sulle piazze. Quegli artisti, ad onta dei tempi burrascosi, soverchiavano sempre le due e le tre migliaja, e quantunque di tutte le città d'Italia: di Napoli, di Bologna, di Firenze, di Venezia, di Milano, di Genova; e di tutte le nazioni d'Europa: di Russia, di Spagna, d'Inghilterra, di Germania; pur dall'arte e dalla gioventù bollente e dalle aspirazioni messe in comune eran ridotti come se fossero figli di una patria sola, e seguaci di una sola bandiera. Essi bastavano a mettere sottosopra tutta Roma, e con tanto più di esaltazione e quasi di furore, in quanto che i pensionati delle accademie di Francia e tutti gli artisti di colà, poco tempo prima, erano stati violentemente espulsi dal governo pontificio, siccome fu già riferito. Duce degli uomini di Trastevere era il Camillone, il Ciceruacchio d'allora; quello di cui teniamo parte del Diario, ch'egli dettò per non saper scrivere; uomo tanto amato da quelli del suo rione, e perciò di tanta autorità, che il governo stesso dovette più volte far capo a lui per riuscire a sedare dei tumulti.
Fra gli artisti v'era il famoso Pinelli, giovanissimo allora, ma già di fantasia così potente, così feconda e veloce nell'improvvisazione di disegni istoriati, che quando voleva, lavorando in piazza Navona sotto gli occhi del pubblico e dei tanti forastieri che accorrevano a quello spettacolo per loro insolito, raccoglieva tante monete d'oro e d'argento da empire il proprio cappello; oro e argento ch'egli convertiva poi tosto in tante misure di vino; perchè la sua compiacenza e la sua gloria era di poter dar da bere a tutto il popolo romano con luculliana munificenza. Amico del Pinelli e amico del Camillone, i quali erano come i re confederati di due schiatte diverse, era quel Corona giureconsulto, al quale spontaneamente si trovarono uniti tutti i giovani avvocati e tutti gli studenti, e tutti coloro che eran nati per andare avanti e per affrettarsi a qualunque costo, anche con pericolo di stramazzare e fiaccarsi il collo.
Tutti costoro uniti insieme costituivano buonamente una truppa di cinque o seimila persone, sufficienti, in qualunque città anche popolatissima, a rappresentarla, a comunicarle la propria volontà e il proprio impeto; e a condannare all'inazione e al silenzio tutti quelli che per combinazione non dividessero cogli agitatori le opinioni correnti.
Fin dall'alba dunque del terzo giorno quella folla capitanata dal Camillone, dal Pinelli e dal Corona, mosse festosa a piantare l'albero della libertà nelle piazze principali di Roma.
Era da quasi due anni che sentivano a parlare con invidia della nuova condizione delle città dell'alta Italia, e di Milano segnatamente; della libera vita che vi si godeva, dell'utile delle nuove istituzioni, della pubblica felicità, dei clubs, dei teatri, della libera stampa, dei discorsi in piazza, dei nuovi costumi introdotti; e la fama, magnificando ed esagerando il bene senza toccar punto del suo contrario, e dissimulando gli abusi, gli eccessi, i disordini, aveva talmente esaltati i desiderj e le speranze di que' cittadini, che quando finalmente le videro appagate, la loro gioja non ebbe più ritegno e proruppe con un impeto che la stessa Milano non avea mai sorpassato.
Ma seguiamo l'onda del popolo, e fermiamoci con essa nel foro romano per sentirvi il discorso che l'avvocato Corona improvvisò nell'istante che si piantò colà, per la prima volta, la simbolica pianta coi motti: libertà, eguaglianza, virtù, patria.
Colui, salito sopra un capitello corinzio rovesciato che giaceva da tempo immemorabile tra la colonna di Foca e le tre della Curia, così prese a dire:
«Romani, siete liberi. L'albero della libertà è piantato. Libertà, eguaglianza, virtù, patria; - ecco le quattro pietre su cui s'appoggia a perpetua durata il sacro vessillo della comune nostra rigenerazione.
«Libertà è questa, la quale non iscuote il ferreo giogo della tirannia con altro fine che con quello di garantire a ciascun uomo i suoi diritti naturali inalienabili.
«Eguaglianza è questa, la quale, santamente sprezzando e privilegi e titoli, colla bilancia del diritto e della legge, eguaglia l'uomo all'uomo; e non sa, non può, non vuole conoscere altra distinzione che quella che passa tra il vizio e la virtù.
«Virtù è questa, la quale, divinizzando l'uomo, fa che egli non trovi la felicità se non se nel far felice altrui; ond'è che l'uomo veramente virtuoso si crede fatto più per la patria e pe' suoi simili che per sè stesso.
«Patria è questa risorta a nuova vita.
«Virtù premiata, vizio disonorato, merito riconosciuto, vanità cadente, verità svelata, ipocrisia vilipesa, innocenza sicura, oppressione bandita, emblemi tirannici distrutti, umanità vendicata, giustizia imparziale, santuario restituito all'antica purezza, genio marziale ridestato. Ecco i frutti che oggi ne promette questa patria risorta.
«Falsi sacerdoti, superbi patrizj, tirannucci iniqui, ipocriti maliziosi, impostori ignoranti, intendete qual libertà, quale eguaglianza, quale virtù, qual patria servano di base al grande edificio della nostra rigenerazione? E voi, anime timide e deboli, sentite quali sono le radici che prodigiosamente alimenteranno la simbolica pianta?»
Queste parole, dette con enfasi e con quell'accento speciale che significa la sincerità e la convinzione profonda di chi le pronuncia, furono coperte da una salva di applausi e di viva la libertà, viva l'eguaglianza, viva la repubblica, viva Roma.
«E viva Roma,» continuò allora l'avvocato Corona, approfittando di quel grido per dare una piega al discorso, e dalle generalità, che parevan quasi divenute di convenzione, veniva a cose particolari e di utilità più pratica ed evidente. «Viva Roma. Se, infatti, v'è città nel mondo alla quale la rivoluzione attuale torna vantaggiosa di preferenza, è questa appunto; è questa Roma, a cui davvero oggi comprendo perchè si competa il predicato di eterna. Dopo l'avvilimento in cui la gettarono gli ultimi pontefici; dopo la fuga ignominiosa di Annibale Albani, che fece parere i Romani vilissime pecore; dopo l'ultima rotta del Senio, dove si raddoppiò quella prima ignominia, qual posto potea vedere per sè nell'avvenire quest'infelice città?
«O dirò meglio: che cosa sarebbe stato di lei, se gli avvenimenti si fossero troncati di colpo; e se la fortuna, obbedendo alla Provvidenza, non avesse fatto in modo che l'errore e il disordine e l'ingiustizia nel proprio eccesso medesimo trovassero la morte? Pio VI ricorrendo alle ambagi, alle subdole scaltrezze, al tradimento, nella speranza di poter riuscire ad arrestare il corso fatale degli avvenimenti, e non potendo ottener ciò colla forza del proprio potere, ossia colle proprie armi, ha messo in evidenza che codesta larva di potere a cui i papi, dal giorno che tennero il dono funesto dai re della terra e non dal cielo, stanno attaccati coll'avida e gelosa cura onde gli avari guardano l'illegittimo tesoro, non è che un'occasione perpetua di disordini, di ingiustizie, di viltà, di delitti, non è che un potere che svela l'impotenza, e intacca la pura santità del Vangelo e della Chiesa primitiva e dei primi pastori, i quali tengono il santissimo mandato di guardare e provvedere alle anime e alle coscienze; ma non già ai corpi, non agli interessi terreni, non all'uso della forza per respingere la forza. Se fosse vero che la divinità avesse decretato che il suo rappresentante in terra avesse a farsi temere coll'uso della forza materiale, avrebbe permesso che i più degli altri monarchi fossero materialmente più forti di lui? Avrebbe permesso che la maestà e la santità del re pontefice potesse rimaner vinta e avvilita dall' altrui preponderanza?
«Ma lasciamo una tal questione a chi non parla in piazza, ma scrive pei libri. Piuttosto dirò, che il vantaggio maggiore che produsse la pessima condotta di Pio VI, fu di aver stancata la pazienza di chi appunto era materialmente più forte di lui; e nel tempo stesso che era più forte, era anche più pietoso dell'umanità conculcata, più vergognoso della vergogna d'Italia, più innamorato della grandezza e della gloria di questa Roma; e Italiano di avi e di nascita e d'intelletto e d'anima, ha sentito la necessità di ajutare la sua vera patria sollevando il cuore di essa dall'incubo assiduo, che, alterando la completa e libera e normale circolazione del sangue, viziava e rendeva inette tutte le altre sue membra; perchè Roma, questa Roma che fu l'urbe dell'orbe; questa Roma che, per antonomasia, fu chiamata la città eterna; questa Roma che, ad onta della sua degradazione, è ancora la prima città del mondo, o per dir più giusto, serba ancora intero il germe e le condizioni del suo primato; questa Roma è veramente il cuore dell'Italia; onde per far la cura dell'Italia non si dee far altro che ristorarne il cuore.
«O Romani, e voi uomini di Trastevere, nelle cui faccie e nelle cui membra vedo rivivere l'antica saldezza, guardate ai miseri avanzi di questo fòro romano; e se siete capaci, ricostruitevi in pensiero la solenne maestà dei tanti edifizj che, sulle varie e graduate eminenze nei colli, d'ogn'intorno un tempo gli facean corona; edifizj di marmo e d'oro, ciascuno dei quali era la dimora di un nume, di un semidio, di un eroe.
«Là in alto stavan gli edifizj dell'Arce Capitolina: più sotto, in gradazioni succedevoli, il tempio di Giove Tonante e quel di Saturno; qui nel mezzo era il cavallo gigantesco di Domiziano, e dietro, gli antichi rostri; più in alto era il portico del Tabulario, sotto del quale stavano i due templi di Vespasiano e della Concordia; e dietro all'arco di Settimio, nella parte più eminente, il tempio di Giove Capitolino, che soprastava alla basilica Emilia; e v'eran gli edifizj del Palatino e la Curia Giulia e la basilica Giulia e il Miliario Aureo e la basilica di Costantino; e statue equestri, e colonne commemoratrici, e bighe e quadrighe e sestighe trionfali... Ma se, guardando le presenti rovine di questo fòro, dieci anni fa, due anni fa, un anno fa, ripensavate con rammarico alla folla dei vostri gloriosi avi irruenti a quei rostri famosi che ora non sono più; oggi è cessata la cagione del rimpianto; un anno fa pareva impossibile in perpetuo il ritorno dell'antica gloria di Roma; ma ora possiamo vedere in un futuro non remoto la prospettiva rinnovata e accresciuta e migliorata della grandezza antica. Tutte le città d'Italia, soli minori giranti in astronomica armonia intorno a questo massimo sole di Roma, qui manderanno i loro figli più preclari di virtù, di operosità, d'intelletto, di genio; qui si faranno le leggi; qui si tratterà della guerra e della pace; qui si decreteranno le leve; qui si distribuiranno gli onori ai generosi che saranno stati prodighi del loro sangue per l'indipendenza della gloriosa nazione; e il pontefice intanto, ritirato a pregare nel suo Vaticano, colle porte aperte, senza satelliti e senz'armati, benedirà e ringrazierà quel Dio di cui ora è rappresentante indegno; lo benedirà e lo ringrazierà di aver decretati gli avvenimenti che gli tolsero il potere e la forza materiale, per fargli il dono più prezioso della venerazione dei popoli, i quali non sentiranno più le coscienze contristate da colui che tiene il mandato di consolarle.».


VII


L'albero della libertà, per il quale l'avvocato Corona improvvisò il suo discorso, fu il primo che sia stato piantato in Roma; e lo si pose appunto là dove si riputava trovarsi il sito dell'antico fòro romano, giusta le conclusioni archeologiche allora pronunciate dagli eruditi più stimati, segnatamente dal Piranesi e dal Visconti; conclusioni che vennero poi modificate in qualche parte dagli eruditi posteriori, tra cui il Venuti, il Nibby e il Canina, che portarono le congetture fino alla condizione della certezza. Quel sito, con cerimonie quasi rituali, venne allora determinato e segnato con una barriera che ne girava la periferia; e la quale venne coperta con drappi a tre colori, bianco, rosso, nero, i colori emblematici della Repubblica. Adempiuto a ciò, tutta la folla lasciò l'antico fòro, per recarsi nelle altre principali piazze di Roma, dov'eran già scavate le buche per ricevere le radici degli altri alberi di libertà che, al pari dell'antico, ben potevano simboleggiare la scienza del bene e del male. Salita finalmente al Quirinale, dopo un'altra breve allocuzione all'albero e una specie di ballo rituale saltato dai più enfatici intorno ad esso, stette aspettando il generale Berthier, che alloggiava nel palazzo apostolico, col suo stato maggiore. Esso, alla testa delle truppe, doveva in quel dì salire in Campidoglio ad instaurarvi solennemente la repubblica romana.
La notizia di quella solennità chiamò tanta gente dalle città vicine e lontane che a memoria d'uomini nessuno si ricordava d'aver veduto sì numeroso popolo in Roma; e gli osservatori sagaci, i quali guardando al presente miravano al futuro, pensarono all'attrazione irresistibile che quella città avrebbe esercitata su tutti gli Italiani d'Italia, quando fosse divenuto il teatro principale de' fasti nazionali; diremo che coloro i quali, per aver molto viaggiato, hanno pronte e sicure le occasioni d'instituire confronti, si accòrsero del quanto Roma vincesse tutte le altre più celebri città nella maestà solenne del suo aspetto, quando assistettero allo spettacolo che presentò il Campidoglio allorché Berthier salì sul poggio del palazzo del Senatore, e tutta la truppa si schierò nella piazza sottoposta, e l'onda del popolo si agitò in tutte le direzioni, e su tutte le salite che mettevano a quel luogo eminente; e sull'alta ed ampia scalinata che dalle falde del Campidoglio ascende fino alla chiesa d'Ara Cœli, offrì l'aspetto di una cascata che ribollisse in sè stessa, per precipitarsi sulle onde sottoposte; e quando un così formidabile movimento e fremito di vita, e frastuono di voci e di grida si arrestò di colpo nell'immobilità e nel silenzio, appena che la parola sonora del generale Cervoni tuonò dall'albero della libertà eretto nell'aja capitolina, tra i colossi di Lucio e Cajo e i trofei di Augusto e la statua equestre di Marco Aurelio.
Del resto, il profondo silenzio, fatto da tanto popolo accorso non giovò che a coloro che si trovavano sull'aja propriamente detta; agli altri fu molto se l'onda sonora portò qualche perduto monosillabo; e in questa condizione ci troviamo anche noi, posteri non lontani; chè quel discorso non fu messo a stampa, nè serbato manoscritto, onde non possiamo farlo riecheggiare agli orecchi dei nostri lettori. Nè il Camillone di Trastevere che lo sentì a suo agio, perchè stette ben vicino al generale, si occupò di riferirlo; bensì conchiude con queste segnalate parole: «Chi poi si lamentasse del tacere nostro, pensi a credere che dopo le parole del nostro buon Corona, quelle del generale ti paiono più che altro fuochi di festa e di luminaria che rintronano nell'aria senza lasciare traccia nè di lume nè di colpo.» Stando infatti anche al giudizio d'altri testimonj, il generale Cervoni deve aver dette tante e tante cose in quell'occasione, e con tale esagerazione e di pensiero e di parole, che nel troppo andò perduto anche il poco, e nelle pompose generalità rimase celato il concetto chiaro delle cose. Ma ciò è naturale: Cervoni, quantunque fosse italiano e, al pari di Bonaparte, sentisse tutta l'importanza della questione romana, pure parlando sotto l'orecchio di quell'oca di Berthier (è Napoleone che così lo chiama), non voleva parlar dell'Italia in modo che il Francese si adombrasse.
Compiuta la solennità dell'instaurazione della repubblica romana, alla quale assistettero cinque pubblici notaj che rogarono l'atto, in quel medesimo giorno il generale Cervoni si presentò a Pio VI per intimargli a nome della repubblica francese, che si preparasse a lasciar Roma e a partire per Siena, facendogli sentire come il papato avesse a entrare in una nuova fase e l'Italia fosse chiamata a nuovi e grandi destini. Tutti coloro che hanno letto le storie conoscono la risposta del pontefice, e il suo contegno in quel momento; tutti dalle storie stesse furono tratti come a sentir l'obbligazione di venerare il pontefice per la sua fermezza di non voler cedere quel che gli era stato tramandato da' suoi antecessori; e, per l'opposto, a biasimare la condotta di Cervoni per ciò che ha fatto in quella gravissima quistione, e per il modo con cui lo ha fatto.
Ma ci troviamo sempre allo stesso nodo; chè la venerazione e il biasimo non sono altro che le conseguenze del diverso modo di valutare i fatti. Certo che, se la condotta del pontefice fosse stata sempre irreprensibile, se tutta la sua vita privata e pubblica fosse stata l'attuazione continua di quanto costituiva il carattere e il dovere della sua dignità; se fossero stati palesi e innegabili i beneficj e i sacrificj da lui resi e da lui fatti alla religione di cui era capo, alla nazione di cui doveva essere il figlio più devoto per essere il padre più amoroso, all'umanità intera alla quale, come rappresentante del Dio in terra, doveva rivolgere tutte le sue cure, la pietosa commozione che si proverebbe per lui, dovrebbe essere pari all'indignazione provocata dalla condotta del generale Cervoni, o da chi gli aveva dato quel mandato: ma le parti si tramutano compiutamente alla vista di chi considera i fatti coll'inesorabile sindacato del vero e del giusto; tanto che, mettendoci a contatto con quei fatti stessi, senza attraversare il prisma fallace delle interpretazioni degli storici, ben si è tratti a conchiudere che il generale Cervoni non fece nè più nè meno di quello che aveva dovuto fare; e che nè l'età ottantenne del papa, nè il suo venerabile aspetto, nè le sue infermità stesse sono motivi sufficienti per placarsi al cospetto di una non interrotta serie di debolezze e di colpe. Che se, messe le cose a un punto ancor più alto e più solenne di veduta, la tarda età del pontefice e le sue infermità corporali si dovessero mettere in cumulo colle debolezze e colle colpe medesime, per farle tutte insieme oggetto di una suprema pietà filosofica; anche in tal caso la pietà non escluderebbe la giustizia; anche in tal caso la condotta di Cervoni sarebbe giustificata dal dovere e dalla necessità. Dovere e necessità che si verificherebbero pur nel supposto che Pio VI fosse stato lo splendore del pontificato, la gloria della nazione, l'onore dell'umanità, perchè non era più la persona del pontefice che entrava in questione, ma sì le condizioni alterate del pontificato che invocavano una riforma; non era già Pio VI a cui si faceva ingiuria, ma era il potere temporale che, sentenziato assurdo e infesto dal voto concorde dei savj, doveva essere abolito per sempre, a beneficio dell'umanità ed a vendetta della stessa religione.
Se non che, per le ragioni medesime che ci comandano di giustificare il generale Cervoni nel suo colloquio con Pio VI, non troviamo sufficienti parole di biasimo e di condanna per la condotta del commissario Haller che ebbe l'incarico di provvedere all'arresto del pontefice; per verità che quell'uomo non fu pari alla delicatezza del suo mandato; e Pio VI, nel modo onde si comportò con colui, diede prova di una dignità che sembrò persino una deviazione dall'indole sua; ma sempre avviene che chi non sa usufruttare della buona causa, costituisce in un'apparenza di ragione anche chi è dalla parte del torto. Così, fu per colpa di quel volgarissimo commissario francese se un fremito irresistibile d'indignazione corso nel sangue degli uomini intemerati pel modo onde fu eseguito un disegno necessario, modificò i giudizj anche sul disegno stesso, e non lasciò veder più chiare le cagioni prime, e diede pretesti e capi d'accusa ed armi ai nemici del sincero progresso, e preparò le vie delle storiche menzogne.
Ma, lasciando il papa, ripercorriamo la città di Roma nei giorni più agitati della sua vita repubblicana, per far tesoro d'esperienza, e per vedere come l'ottimo può diventar pessimo, se una cauta prudenza non governa le cose, e se gli uomini non si preparano con sapienza a godere dei frutti della libertà.


VIII


La confutazione più trionfante che si possa fare all'asserzione di Botta, il quale, prestando volontieri la più cieca fede non sappiamo a che falsi testimonj, non ebbe vergogna di stampare, che in tutta Roma non v'era chi amasse veramente il nuovo ordine di cose, e che in essa non si trovò che un solo democrata, il quale propose a Berthier di mettere in libertà duemila condannati dell'ergastolo, per trovar gente che sapesse e, ben pagata, volesse far festa all'ingresso delle armi repubblicane; la confutazione, diciam dunque, più trionfante che si possa dare a codeste stolide menzogne sta nella insolita esultanza che, instaurata la repubblica e partito il papa, s'impadronì di tutta la popolazione di Roma, salvo le eccezioni che abbiamo già fatto; salvo quei ricchi patrizj venuti in uggia al popolo, nelle cui case i soldati si adagiarono come in caserma; salvo i pingui agenti dei prelati fuggiti, nelle cui cantine la plebe di Trastevere penetrò a conquista e a strage di botti.
Che la popolazione stesse queta fin tanto che il presidio pontificio trovavasi sugli spaldi di castel Sant'Angelo e gli sgherri assassini gironzavano per la città e le spie lavoravano d'olfatto come cani codianti la lepre, è cosa naturalissima. Pretendeva forse il Botta che la popolazione di Roma offrisse pronta il collo ai carnefici, per esibirgli i documenti del suo odio al governo pretino, e delle sue ispirazioni all'aere libero che da più mesi le ventava dal di fuori?
La prova che quell'esultanza, una volta che cessarono i sospetti e le paure, diede fuori con tutti gli attributi della natura che non può più nascondere un sentimento antico e tenuto per troppo tempo compresso, si è che toccò tutti i suoi eccessi. Se non fosse stata sincera sarebbe stata guardinga. Tutti i cittadini trovandosi dunque in piena balìa di dare sfogo alla propria contentezza, questa nelle proprie manifestazioni si atteggiava e si alterava e si modificava a seconda del carattere, del sentimento, dell'ingegno, dell'immaginazione di ciascuno. Trattandosi d'instauramento di repubblica, e di repubblica romana, i moltissimi a cui non è concessa un'intelligenza privilegiata, attesero di preferenza a mettere in trionfo piuttosto le forme repubblicane che la sostanza; attesero più ad evocare un passato impossibile che a preparare con sapienza le nuove vie dell'avvenire. Si trascurarono le grandi idee del sincero progresso, per rimettere in voga teatralmente i nomi degli uomini e delle cose passate, e i costumi e le foggie e i vestiti e le armi e le abitudini, senza accorgersi dell'improvvido e assurdo anacronismo. Il primo a dare lo strano esempio fu l'architetto Barbera, che comparve togato in pubblico, accompagnato dalle sue tre figlie avvolte nel peplo, dichiarando di rinunciare da quell'ora alla propria parentela, e di voler essere chiamato Ctesifonte.
Bastò quell'esempio perchè, con una rapidità impossibile a qualunque impresario o coreografo o vestiarista di teatro, si producesse per le vie e per le piazze la storia romana antica. Coloro che credevano di assimigliare piuttosto a questo che a quel personaggio dell'antichità, si mostravano in piazza ad arieggiarne il gesto, l'incesso, la dignità. Chi aveva i capelli neri e crespi e la barba spessa, invadente le guancie fin sotto gli occhi e vantava l'ampia persona, era Muzio Scevola, senza tante titubanze; chi aveva la chioma fulva e foltissima oltre il consueto, e la barba intera e inanellata, si nominava Lucio Vero, senza farsi pregare; si videro Collatini e Lucrezie in buon dato; e Gracchi non pochi e Cornelie di convenzione, e Clelie e Tullie e Tulliole con pepli indulgenti e coscie e popliti in voluttuosa trasparenza, e braccia nude fin sopra la spalla. Di Bruti poi, così della prima che della seconda qualità, ovverosia così di Giunii che di Marchi, l'assortimento era così vario e numeroso, da poterne fare un emporio per tutti i casi futuri. Ma, nemmeno a pagarli a peso d'oro, si sarebbe potuto trovare nè un Giulio Cesare, nè un Augusto; erano merce proibita, e guai a cui si fosse attentato di passeggiare in piazza tramutato in que' personaggi. Che più? Allo stesso fondatore di Roma, che è tutto dire, non fu fatto buon viso; e il primo Romolo che si lasciò vedere in piazza Navona, per la gran ragione di essere stato il primo dei re, fu colto a fischi e preso a torsi di cavolo, peggio di un tenore stonato; tanto che di tutta fretta rifugiatosi in una bottega, e per di là passato a casa sua, ricomparve il giorno dopo in costume di Mario. Nè codesta fantasmagoria rappresentata in piazza con intento serio e colla ferma fiducia di onorare e puntellare e difendere la patria, deve parere una cosa inverosimile ai lettori che vivessero nel 48, e furono a Milano e a Venezia; e videro giustacuori e batticuli e maglie del Quattrocento; e tôcchi e robe del Cinquecento; e gorgiere e mantellette e brache e stivali del Settecento; e spadoni e manopole ed elmi tolti a polverose armerie.
Che se a Roma Marforio e Pasquino eccitavano la pubblica ilarità, rivelando che il tale passeggiava in piazza portando l'elmo involato alla guardaroba del teatro Valle o Tordinona, e che già avea posato sulla testa del castrato Crescentini negli Orazj e Curiazj di Cimarosa, o nell'Attilio Regolo di Jomelli; che il tal altro cingeva la spada cinta già dalla mima Pitrot nelle Amazzoni del coreografo Ferlotti, ecc., ecc.: questi scandali si rinnovarono precisamente ai giorni nostri, con qualche cosa di più saporito ancora; perchè lo scrivente si ricorda benissimo di aver veduto un impresario, nominatosi da sè stesso colonnello, passeggiare in piazza San Marco con spallini dorati e galloni doppj e tripli, facendo battere sul lastrico la sciabola stessa che pochi giorni prima al San Samuele aveva adoperato il conte d'Almaviva per spaventare don Bartolo; e abbiamo visto un duce improvvisato di trenta improvvisati eroi sedere al caffè coll'elmo crestato di un Nabuccodonosor che già avea tuonato in teatro col Treman gl'insani di Verdi; ma purtroppo codesti scandali che offendono la maestà dei grandi avvenimenti sono malattie inevitabili dei popoli che, tenuti in lunghissima schiavitù, vengono assaliti da una specie di capogiro nel respirare le prime aure della libertà; come chi rimasto a lungo nell'oscurità della prigione, ha offesa la vista dalla repentina luce, o avendo lo stomaco estenuato dall'imposto digiuno, sente sconvolgersi dal primo vino a morbosa ubbriachezza. Ma il tempo e l'esperienza e i ripetuti disinganni insegnano sapienza ai popoli, e gli errori del 96 e del 98 e del 48 saran forse per essere lezioni salutari, se il destino vorrà concederlo. Ma tornando a Roma, e rifacendo settant'anni indietro il volo della mente, pur troppo quella grande pagina, che la Provvidenza sembrò voler preparare alla storia, fu deturpata ben da peggiori cose che da quelle teatrali stranezze.
Abbiamo detto di voler dire intera la verità, e mettere in palese le colpe di tutti, senza intenzioni partigiane. Perciò, se da noi fu alzato il panno misterioso onde si vollero tener celate ai profani le vere sembianze di Pio VI; se riputammo giusta e necessaria la condotta di Cervoni; se trovammo indispensabile l'avere allontanato il papa da Roma; se riputiamo essere stato una misura di giustizia, la quale se è assoluta dev'essere anche inesorabile, l'avere arrestati tutti i cardinali, arcivescovi, vescovi e prelati che componevano la romana corte, perchè complici tutti e cospiratori a danno della nazione e dell'umanità; perchè interessati tutti a mantenere nell'ignoranza e nella schiavitù le moltitudini, e a volerle piuttosto colpevoli e scellerate che istrutte e felici; non è poi possibile comprimer l'indignazione pensando che da questi atti giustissimi, quantunque severi, non si seppe cavar l'utile che si doveva; nel tempo stesso però che la massima parte di questa indignazione deve ancora andar a cadere sul papa e la sua corte e sull'assurda istituzione del governo clericale. In fatti, da quel governo pauroso d'ogni libero pensiero e della scienza multilatere e feconda, essendosi interdetto in Roma ogni altro studio che non fosse la sterile erudizione, o alcuna di quelle discipline che non hanno irradiazione sulla vita pratica nel momento di assestare il nuovo ordine di cose, i migliori, chiamati al potere legislativo e consultivo, tra' quali primeggiava l'archeologo Visconti, conoscendo poco il presente e non curandosi affatto dell'avvenire, per disperazione si rifuggirono nel passato, che era il solo loro dominio, e nel riprodurlo non seppero atteggiarlo e piegarlo ai nuovi bisogni dell'umanità; ned ebbero riguardo alla sostanza, la quale avea fatto la grandezza e la potenza degli antichi; ma soltanto ai nomi, alle forme, alle apparenze; perciò nei quattordici titoli della costituzione ricomparvero, come se fossero scavi archeologici e colonne e statue infrante, il senato e il tribunato, e pretori consolari e questori e edili: nomi che si guastarono con certe strane definizioni che derivavano da una scienza impregnata di rettorica e d'Arcadia; onde il tribunato fu chiamato l'immaginazione della Repubblica, e il senato la ragione della Repubblica. Il primo dovea farsi un onore e un dovere di mandare le sue proposizioni al secondo, acciò maturamente le ponderasse; onde tutti i giorni vedeansi i messaggi che conducevano l'immaginazione a umiliare i suoi complimenti alla ragione.
Ma ci voleva ben altro che forme e pompe e cerimonie arcadiche; il mal governo papale aveva lasciato vuoto l'erario, e un abisso di povertà e di miseria pubblica. Però i consoli che sapevano il greco e il latino e tutte le vesciche della scolastica, non essendo mai stati assunti in addietro ai pubblici impieghi, perchè questi stettero sempre nelle mani dei preti, non seppero o, meglio, non poterono provvedere alla mancanza delle derrate, del pane, delle cose più invocate dalla plebe affamata; nè potendo far scaturire la moneta tanto necessaria alle pubbliche contrattazioni, in prima pensarono di far fondere il vasellame d'oro e d'argento che si trovava nei palazzi pontificj e in quelli dei cardinali, poscia tutti gli utensili domestici di rame e le campane delle chiese degli otto dipartimenti del nuovo Stato.
Questa deplorabile misura, che però era ingiunta da una terribile necessità, e di cui, percorrendo la catena delle cause, si trova pur sempre la prima cagione effettiva nel mal governo pontificale, sedusse al furto i popolani chiamati ad operare quelle fusioni; sedusse al furto e al saccheggio i soldati chiamati a far loro la guardia; sedusse e persuase i capi stessi dell'esercito a prevenire quei furti con furti più colossali e vistosi per conto proprio; e siccome quei capi seppero che di ciò si mandavano querele al Direttorio, furono solleciti di spedire a Parigi i tesori dell'arte italica, perchè lo splendore di quella sterminata preda abbagliasse gli occhi e respingesse i rimproveri e trattenesse le punizioni.
Si tolsero a Roma, come ognuno sa, più di cinquanta fra le più celebri statue dell'antichità;. tutti i busti famosi degli dèi e degli eroi greci e romani; i più riputati capolavori di Raffaello e di Domenichino. La qual preda rappresentava un valore medio valutato dagli esperti in cento milioni di franchi; ma di cui il prezzo d'affezione era incalcolabile dalla stessa immaginazione.
Se tanti disordini e malversazioni e depredazioni furono in gran parte conseguenze inevitabili di cause antiche e funestissime, certo che vennero accresciute dalla presenza di due uomini, di cui l'istinto rapace pareva aver raggiunto i gradi della ferocia e della demenza. Codesti uomini furono il commissario Haller, che essendo stato il primo a rubare sfacciatamente, incoraggiò all'imitazione tutto l'esercito; poi il generale Massena, che non aveva bisogno di essere incoraggiato, e che quando, partito Berthier, rimase solo al comando e fu padrone delle casse pubbliche, da quella piena balìa di sè stesso fu sedotto a scaricarle tutte in casa propria senza tanti rispetti, tanto quella sua furibonda passione dell'oro non gli lasciava pensare alle conseguenze. Queste infatti scoppiarono terribili; perchè i soldati non ritraendo denaro, e gli ufficiali, avidi al par di Massena, non sopportando di dover rimanere colle tasche vuote, condotti dal colonnello S... (il conte Achille, che finalmente potremo conoscere di presenza, il quale, rotto al giuoco e a cento altri disordini, era diventato furioso per la mancanza di denaro), si radunarono nella rotonda del Panteon, e là, riscaldati ed arringati da esso, invasero le stanze di Massena, che opponendo a quella furia una furia ancor più tremenda e una ostinazione incrollabile e un coraggio incredibile, corse pericolo che la sua piccola figura venisse tagliata in due dalla sciabola del nostro S..., se non fosse stato strappato di là per forza dal generale Marat.
Ma, dopo tutto, non creda il lettore che l'aspetto di Roma fosse diventato squallido per queste cose; certo che furono frequenti i tumulti del popolo; frequenti le vendette e le uccisioni; che la miseria c'era; e la fame c'era. Ma la veste che copriva queste piaghe e queste ferite e questi cenci continuava pur sempre ad essere di porpora e d'oro. E per chiamar gente in Roma e mettere in circolazione qualche denaro, e abbagliar quei di dentro e quei di fuori, si davano spettacoli d'ogni sorta, spettacoli pomposi che rammentavano la grandezza antica. Per citar quello che fece più senso, la notizia che, per la prima volta dopo tanti secoli, si sarebbe aperto al pubblico l'Anfiteatro Flavio, per rappresentarvi la morte di Giulio Cesare a piedi di quella medesima statua di Pompeo, che aveva veduto estinto il vero Cesare, fece affluire gran gente in Roma da luoghi anche lontani. Di codesto fatto noi non abbiamo trovato parole nè in Botta, nè in Verri, nè in altri; ma il Camillone nel suo Diario si diffonde a parlarne per molte pagine; e tra i celebri scrittori lord Byron è il solo che, in una delle note eruditissime intorno a Roma, apposte al canto quarto del Child Harold, parla di questo spettacolo, e della statua di Pompeo stata in quell'occasione trasportata dal palazzo Spada nel Colosseo.
Anche noi dunque ce ne occuperemo, ma non tanto per l'interesse che può destare in sè, quanto perchè, invitati da quella circostanza straordinaria, il capitano Baroggi e donna Paolina S..., che trovavansi a Bologna, si recarono a Roma, e furono, senza volerlo, gli sventurati attori di una scena reale, la quale staccò l'attenzione di trentamila spettatori dalla tragedia di Voltaire, per rivolgerla tutta su loro e sul colonnello S...


Il fatal Dio pur degli Dei sgomento.





LIBRO DECIMOTERZO


Roma e Chateaubriand. - Voltaire e Shakespeare. - Massena e donna Paolina. - Padre e figlia. - L'attore Rosier. - La statua di Pompeo. - L'antico Cesare e il repubblicano Bonaparte. - I colonnelli Paoli e Ballabio. - Il sepolcro di Cecilia Metella.


I


Siamo ancora in Roma, la città eterna; che consolazione! il solo dolore è che non ci siamo che colla fantasia. O Roma, al pari e più di Venezia, com'è naturale, tu fosti descritta e illustrata, e ben trattata e maltrattata, e contraffatta e svisata da migliaja di scrittori. Degli eruditi non parliamo; dal più al meno s'attennero al positivo e ai documenti; ma gli scrittori poeti! che scempio ne han fatto... ovvero sia, come si mostrarono amanti infidi e bugiardi, forse per eccesso d'entusiasmo! L'ultimo dei celeberrimi e dei più immaginosi fu Chateaubriand, il quale, di certo, col suo largo pennello e co' suoi colori smaglianti ne ritrasse la prospettiva, lasciandone sulla tela la macchia generale forse con più verità di tutti; ma nei particolari, ma nelle considerazioni poetico istoriche, quante falsità, quante alterazioni, quante allucinazioni, crediamo, involontarie!
Allo scopo di esagerare, per l'amore delle antitesi, che sono il delirio dei poeti, la decadenza materiale di Roma, incaricò persino il Tevere di essere afflitto e di aver voluto ritirarsi, per la gran vergogna, in un angolo della città, non d'altro occupato che di somministrare le sue acque, che, sole, rimasero bionde come in antico, a lavare i lini sudici dei neonati Quiriti. Ma noi ci siam recati a bella posta sul luogo, come un ingegnere di campagna, per verificare co' nostri occhi se davvero il Tevere avesse assunto le passioni e i dolori di un poeta sentimentale; ma possiamo assicurare che il Tevere, nei diciotto secoli che sono decorsi, non ha fatto altro che rimanere un fiume, e non sentì nessuna vergogna, forse presago del possibile risorgimento della sua città; e non si ritirò in nessun angolo e non diventò più piccolo. Visto dal ponte Elio e dal ponte Senatorio, è ancora il più maestoso fiume d'Italia che attraversi una città. A ripa Grande, la selva delle antenne e il biancheggiar delle vele e i fumi densi delle vaporiere lo fanno parer davvero un porto di mare; il che è ben altra cosa dall'esser ridotto un rigagnolo avvilito, non visitato che dalle lavandaje!
Diciam questo perchè quei che si impennarono alla idea di dover portare la capitale a Roma, e la chiamarono un'idea stracca di rettorica ammuffita, e una specie di regresso al paganesimo e al classicismo spento; e credettero opporsi e vincer l'onda impetuosa di tutta Italia concorde nel tendere le braccia affannate alla sua capitale, potrebbero inorgoglire e fidarsi d'aver un confederato onnipotente in Chateaubriand, che vedeva anche il Tevere impicciolito.
Ma Roma dissanguata dal malgoverno, nella sua terza parte abitata ha ancora più di 200.000 persone; e in pochi anni, sotto il nuovo sole della libertà e dell'indipendenza, espandendosi a riconquistare, per dir così, le parti desolate, potrebbe toccare facilmente la popolazione di 600.000 anime. Ci pare che per una capitale possa ben bastare. La popolazione di Londra, eguale a quella di tutta Lombardia, è un'esagerazione inutile, e provocatrice di disordini non possibili che in quella incondita vastità. Ma lasciando la popolazione, e trascurando anche le maestose antichità che pur fecondano intelletto e cuore, quantunque a molti, segnatamente a qualche ingegnere della città di Milano, sembrino incomodi ingombri di utili spazj; in quante e quante cose Roma è superiore a tutte le altre città d'Italia! Equidistante dai punti estremi d'Italia, essa, per Civitavecchia, è in comunicazione diretta col Mediterraneo, che ritornerà, per l'istmo di Suez, il gran lago storico romano, datore di ricchezze infinite. È dunque vicina allo scalo marino per tutti i vantaggi che le possono derivare; e ne è abbastanza lontana perchè, in una guerra o in un assalto fortuito, i primi colpi non debbano toccare a lei.
Tutte queste cose, se possono andar bene anche adesso; se andavano tanto bene ai tempi degli antichi Romani, che piantarono in quel sito fatale le loro tende, perchè l'istinto felice e la sapienza spontanea loro fecero comprendere che non v'era punto migliore per dominare da tutte le parti la penisola della media e della bassa Italia; come ai Galli fece comprendere che non v'era punto migliore del sito di Milano, benchè dalla natura paresse in ispecial modo maledetto; perchè, diciamo, non dovranno andar meglio in un prossimo avvenire, quando, per le ferrovie, dal Po al Tevere si volerà in un giorno? Ma la questione è così chiara, è così nettamente veduta da tutti, è così risoluta, che non sappiamo perchè noi l'abbiamo ritentata ancora; se non fosse che, trovandoci in Roma, il discorso doveva cadere spontaneamente su Roma, prima di recarsi al Colosseo dove uno spettacolo insolito, dopo quasi sei secoli che non se ne davan più in quell'anfiteatro, chiamò da tutte le vicinanze dell'eterna città, e da altre città d'Italia, una folla infinita di popolo italiano, invitata, anzi attratta per quell'occasione, anche allora, come adesso, a respirare in quella luce, in illa luce, per ripetere il motto di Cicerone, un'aura più libera, più forte e più feconda.
Il lettore conosce per qual ragione entriamo nel Colosseo e ci occupiamo di descrivere l'ultimo spettacolo che là siasi dato.
Il giorno 17 ottobre dell'anno 1798, intorno alle ore ventuna, tutta la città pareva che si fosse versata nelle adjacenze del Colosseo. Una compagnia drammatica francese, diretta dal capocomico Rosier, di quelle compagnie che fiutano da tutte le parti la pubblica passione, per atteggiarsi a quella, e saziarla, e cavar denari e applausi anche senza il prestigio di una grande abilità, aveva ottenuto dal generale Massena il permesso di rappresentare nel recinto dell'anfiteatro Flavio La morte di Cesare, di Voltaire. Tutto fremeva di repubblica allora; chi avesse osato manifestare delle simpatie monarchiche, sarebbe stato pugnalato in piazza. Lo stesso Bonaparte, che, fremente, chiudeva in sè l'esagerazione del dispotismo, pur s'inchinava al simbolico berretto, e gridava repubblica anch'esso; che, chi vuol dominare la moltitudine, comincia dall'accarezzarla e accontentarla in tutto, col sistema onde i seduttori blandiscono le amanti, per ottenerle, e disprezzarle dopo, se mai dà il caso. Se dunque fra le tragedie di Voltaire, allora tanto in voga, fu scelta La morte di Cesare, la cosa è naturale. - Non ci poteva essere argomento più di quello adatto all'onda dei tempi e alla pubblica aspirazione.
Peccato che Voltaire, dopo aver usufruttato Shakespeare e spogliatolo di tutto, abbia avuta tanta malizia di gettare a piene mani il disprezzo su quel barbaro che non mancava d'ingegno, onde la tragedia originale, mal nota al pubblico, fu riposta negli scaffali, e l'imitazione scaltra ma servile, ma guasta dal convenzionalismo, non permise che il pubblico assistesse alla rappresentazione del capolavoro del sommo Inglese. Che spettacolo grande e compiuto sarebbe stato! Come Roma antica, per quel miracolo di poetica divinazione, sarebbe riapparsa viva e vera e moventesi, agli occhi degli spettatori!
Nell'anno 1798 il Colosseo era nella più deplorabile condizione di un monumento rovinato nella massima parte, e che minaccia di rovinare anche nelle parti superstiti. La prima scarpa che fermò la grande muraglia rimasta intatta, non fu eseguita che nel 1805 per volontà di Pio VII; l'altra venne ordinata da Leone nel 1813. Tutta la parte esterna adunque, che anche oggi permette di misurare l'altezza di quell'edificio unico al mondo, abbandonata a sè stessa, faceva paura a' riguardanti, perchè visto da lontano e dal basso in profilo, non parea vero che quell'enorme paravento di trentatrè archi a tre piani, a non contare l'attico gigantesco, non dovesse crollare da un momento all'altro. La descrizione del Colosseo, così in istato di rovina, come negli studj architettonici che ne porgono il ristauro completo, venne fatta da tanti scrittori, tante volte e in tanti modi, che ci par tempo gettato il rifarla oggi per quei pochi lettori che in proposito non sapessero nulla. Soltanto ripeteremo quello che fu detto da coloro che si recarono a visitare quel prodigio architettonico dell'antichità; che cioè, per quanto uno ne abbia un'aspettazione immensa, essa è sempre di gran lunga superata dallo stupore che colpisce anche l'uomo il più freddo e più preparato.
Per darne un'idea a chi non l'avesse mai veduto, basti il dire, che osservando la parte superstite, dall'esterno e dal basso, l'occhio difficilmente arriva al fastigio; che ciascuno dei grandi archi (e degli ottantasette non ne son rimasti che trentatrè) è d'un terzo più alto della porta maggiore dell'Arena milanese; che con questi archi s'innalzano tre piani a diversi ordini, dorico, jonico, corinzio; e che l'attico coi clipei è alto quanto ciascuno degli altri piani; tanto che si può asserire, che l'Arena milanese ripetuta in altezza sei volte, appena darebbe l'altezza del Colosseo.
Quando, in fantasia, si arriva a immaginare il ristauro completo di questa mole, e si ricostruiscon in mente gli ottantasette archi completi, e le colonne dorate del secondo e del terzo piano, e le statue d'oro che posavano in mezzo a ciascuna di quelle arcate; e nell'interno la fuga delle gradinate dal basso in alto delle tre precinzioni; colle pareti del podio tutte rivestite di marmo, e i baltei, che dividevano le precinzioni stesse, tutti coperti di smalto e d'oro e di gemme,


Balteus en gemmis, en illita porticus auro, etc.



e al sommo della cavea un portico tutto a colonne, e statue di marmo bianco, e di porfido, e di verde antico, e di bronzo dorato, disposte sparsamente lungo i baltei; e vasi e tripodi diffondenti odori di essenze bruciate;... davvero che la mente calma si rifiuterebbe a dar fede al volo della fantasia, se i poderosi avanzi non fossero un documento fedele per le indagini dell'arte e della scienza.
Ma lasciando la fantasia e gli splendori antichi per venire agli avanzi presenti, è certo che torna assai più difficile descriver questi che quelli; perchè l'arte completa ha misure e contorni e linee e forme determinate; mentre i disastri del tempo, e della barbarie, e degli smantellamenti, e dei cataclismi lasciano un tal disordine caotico, che s'invola ad ogni descrizione precisa.
Al tempo in cui nel Colosseo si rappresentò La morte di Cesare di Voltaire, il disordine era ancora maggiore. In molti spazj interni, dove le cavee e le gradinate eran cadute nella massima rovina, i monaci, custodi dell'edificio, avevano coltivato e broli e giardini, e innalzate capannuccie e pagliaj. Se non che tutti questi ingombri, che parevan voler nascondere l'origine e la destinazione dell'anfiteatro, vennero fatti scomparire dall'appaltatore dello spettacolo. Così furon poste gradinate di legno dove quelle di sasso non eran più servibili in verun modo; così con drappi e sostegni e pulvinari si resero ancora praticabili le gradinate più basse del lato dell'edificio men rovinato.
Allorchè il pubblico penetrò nell'anfiteatro, e venne quel momento vicinissimo alla rappresentazione, in cui tutte le parti occupabili si videro gremite di gente; certo che, se la architettura non aveva a lodarsi di quelle rovine, la pittura non poteva trovare spettacolo più fantastico, più grandioso, più vario, più strano di quello. Nelle prime gradinate più vicine al circo, dove Bruto doveva congiurare contro Giulio Cesare, v'erano le gerarchie militari del presidio comandato da Massena. - Generali, colonnelli, capi squadroni; - dragoni, usseri, artiglieri, granatieri; già s'intende la sola ufficialità; perchè la repubblica democratica, è aristocratica al par di chicchessia. Presso gli ufficiali, e insieme con essi, le matrone e le donne romane della classe più elevata; ma di quelle che, o per amore di sè stesse, o per inclinazione agli alunni di Marte, che, guerrescamente gentili, avevano invaso tutte le case, o per una tendenza spontanea alla libertà pubblica e privata, avevano applaudito all'ingresso delle armi repubblicane in Roma; e tutte in costume press'a poco come le tre dive che abbiam ammirato nei palchetti del Teatro alla Scala, in occasione del ballo del papa. - Mescolati ai soldati ed insieme colle donne, i buoni mariti borghesi, coi capelli alla Brutus sulla fronte e sul ciglio; coi cravattoni nascondenti mento e orecchio, e colla gran coccarda sul cappellone tondo. In altra parte, per far contrasto, uomini e donne di Frascati e d'Albano e di Tivoli, coi loro costumi invariabili; e altrove le Trasteverine coi loro uomini in giacchetta di velluto e le faccie in cagnesco; una folla poi di ragazzi seminudi, a dispetto dei custodi, in quel parapiglia, s'erano introdotti ed erano iti ad arrampicarsi sulle parti più alte dell'edifizio. In mezzo a tutta questa moltitudine variopinta, un venti o trenta di que' cari originali, che comprendendo meno di tutti, sembrano i più caldi e fanatici di tutti, vestivano, come dicemmo, in costume di antichi Romani, e facendo da Collatino e da Muzio Scevola e da Curzio, parevano aver la speciale incombenza di ravvicinare in quel recinto le distanze di venti secoli.


II


Il palco scenico, dove gli attori della compagnia Rosier dovevano declamare stentoreamente i versi di Voltaire, per farsi sentire da chi stava sulle più alte gradinate, non era che un impalcato di forma ellittica, inscritto nella proporzione di due terzi nell'ellissi dell'anfiteatro. Era dunque un palco che si vedeva da tutti i lati, senza siparj, senza scenarj, senza nulla di tutto ciò che, comunemente, costituisce un palco scenico. Bensì quell'impalcato, dovendo rappresentare il Campidoglio, aveva delle gradinate di legno, e dei portici rivestiti di tela imitante il marmo, e sotto agli archi, delle statue con pallj di canovaccio spalmati di gesso e di creta. Gli attori dovevano aggirarsi tra quei portici, intorno a quelle statue, discendere da quelle gradinate. Per verità che c'era qualche cosa di nuovo, e, se vogliamo, anche di più naturale del solito. La cosa poi che più di tutto giovava a crescere quel che si chiama l'illusione teatrale, e a ravvicinare più che mai il finto al vero, era la statua colossale di Pompeo, quella veramente, ai piedi della quale, come voleva e vuol la fama, venne ucciso Giulio Cesare, e che è la stessa che oggi ammirasi ancora in una delle sale del palazzo Spada. Essa era stata collocata presso al portico costrutto appositamente; e l'importanza che le si volle dare, e le lettere cubitali con cui nell'avviso al pubblico venne accennata, quasi ci trarrebbe a credere che siasi voluto rappresentar la tragedia per usufruttare la statua.
Ma, domanderà taluno, i signori comici che dovevano per un pajo d'ore trasmutarsi in Giulio Cesare e Marcantonio e Bruto e Cassio e Dolabella, da qual parte, in mancanza di quinte, dovevano uscire per fare i colpi di scena con qualche illusione degli spettatori? A questo bisogno si adempì con più naturalezza e spontaneità che non si crederebbe; sotto all'impalcatura delle gradinate e dei portici avevano il loro dietro le scene, e là aspettavano il momento opportuno di uscire sul palco e far la loro parte.
Lo spettacolo finalmente incominciò in mezzo al silenzio generale, che durò pochissimo; perchè dei trentamila spettatori accorsi, ventimila, ad essere cortesi, non comprendevan nulla; altri perchè non capivano il francese, altri per l'inevitabile rumore che vi si faceva. I ragazzi del popolo, che s'eran arrampicati fin sulle ultime gradinate, dopo essere stati attenti un momento, per l'istinto della novità, al comparire di Antonio, che aveva il manto turchino filettato in bianco, e di Giulio Cesare che lo aveva color porpora, si diedero a schiamazzare senza tanti rispetti, e a correr innanzi e indietro, a sfoggio di agilità e di coraggio, sui cornicioni praticabili. Ad ogni modo. Antonio potè declamare la prima parlata:


César, tu vas regner...
sino al verso:
Qui peut à ta grande âme inspirer la terreur?


e Cesare potè rispondere quasi d'un fiato:


L'Amitié, cher Antoine:



e attraverso a sessanta e più versi conchiudere, abbracciando Antonio:


Ta promesse suffit, et je la crois plus pure
Que les autels des dieux entourés du parjure.


Quelli tra gli spettatori che avevano un posto, abbastanza vicino per sentire le voci, e intelligenza sufficiente per afferrare il concetto delle parole, e, quel che più importa, la conoscenza della lingua francese, ascoltarono tutta la prima scena senza annojarsi e senza divertirsi, e senza dar segni nè dell'una cosa nè dell'altra. Necessariamente, quand'anche Giulio Cesare fosse stato rappresentato da Garrik, da Kean, da Talma, da Modena, un buon repubblicano non poteva applaudirlo in coscienza, e meno ancora quello scellerato adulatore di Marcantonio. L'indifferenza continuò fino alla scena terza, quando Cassio, Cimbro, Cinna, Casca e Bruto entrarono in iscena, e schieraronsi innanzi a Giulio Cesare assiso sotto ad uno degli archi.
Bruto avrebbe dovuto uscire insieme cogli altri colleghi ed amici, chè non v'era nessuna necessità drammatica di far diversamente; ma Bruto era il primo attore della compagnia; doveva produrre un grande effetto soltanto col farsi vedere; uscì dunque ultimo, dopo qualche momento d'aspettazione ad arte prolungata. I battimani scoppiarono strepitosi, lunghi, susseguiti da migliaja di grida: Vive la république, vive la liberté, vive l'égalité. Perfino i seminudi birichini correnti e ricorrenti sulle cornici dell'anfiteatro, si arrestarono anch'essi schiamazzando, evviva! E Bruto, che non s'inchinò mai nemmeno a Giulio Cesare, fece un inchino a tutti costoro, e li ringraziò.
Cessato lo strepito e gli evviva, ricominciò la recita. Anche il Camillone, che pur non sapeva il francese, ma che aveva per interprete uno scultore di Parigi che da più anni dimorava a Roma, ci racconta che si sentì trasportato a tutto ciò che Bruto nella scena terza disse a Giulio. Aggiunge poi che l'entusiasmo di tutto il pubblico, anzi la frenesia, andò al colmo a quei versi onde si chiude, la scena:


Tout mon sang est à toi, si tu tiens ta promesse;
Si tu n'es qu'un tyran, j'abhorre ta tendresse:
Et je ne peux rester avec Antoine et toi.
Puisqu'il n'est plus Romain, et qu'il demande un roi.

Dopo una tal scena, non ci fu più interesse di sorta; e il primo atto si chiuse tra una specie di bisbiglio sedizioso, soverchiato dalla voce sonora di un uomo del Trastevere il quale, allorchè Cesare e Antonio uscirono dalla scena:
- E che ve pigli un accidente, - gridò tra le risate universali e le interrogazioni dei soldati francesi, che domandavano che cosa significasse quel motto.
Tra il primo e il secondo atto ci fu un intermezzo abbastanza lungo, il quale, pur troppo, per la nostra storia, ha un interesse assai più grave che la recita del Giulio Cesare e l'esposizione della statua di Pompeo Magno.
In mezzo all'ufficialità, presso a Massena e al generale Cervoni, sedeva colui che il lettore forse desidera di conoscere da un pezzo: il colonnello Achille S...
Vestiva la divisa d'ussaro, tutta coperta di argento; stava seduto militarmente, senza tanti rispetti forse per essere seduto a mal agio, teneva con un braccio il ginocchio della gamba destra, che era piegata sin quasi a toccargli il mento; la gamba sinistra, stretta nei calzoni rossi e negli stivali succinti, si stendeva quant'era lunga a toccare il gradino sottoposto. Un raggio importuno di sole, attraverso una tenda stata innalzata per far ombra, annaspandogli la vista, lo aveva costretto a piegare innanzi il caschetto piumato e a tirar l'ala fin quasi sul naso. Della faccia si scorgevano perciò soltanto i baffi enormi congiunti a delle enormi fedine, che finivano precisamente alla regione della bocca, lasciando rasa la parte inferiore delle mascelle e il mento. Chi lo guardava dal basso in alto vedeva a girare di sotto all'ala del caschetto un pajo di pupille piene di lampo provocatore e protervo, al quale aggiungevano una tinta sinistra tutte le parti alterate della cassa dell'occhio, come di chi, non ostante una tempra robustissima, deve adattarsi a portare in qualche parte le impronte degli stravizj, delle veglie abusate, degli abusati liquori. Quell'uomo aveva allora quarantotto anni, ma non ne dimostrava quaranta, perchè la barba foltissima e perfettamente nera faceva le spese delle parti alterate del viso, e la corporatura lunga, elegante, forte, asciutta, come quella di un tigre reale maschio, con delle coscie atletiche di cui i muscoli si pronunciavano di sotto alla pelle di daino tinta in rosso, faceva le spese di tutto il resto. Egli, durante l'intermezzo dal primo al secondo atto, senza cambiare posizione, teneva fisso lo sguardo, dove lo tenevano fisso quasi tutti gli spettatori che si trovavano presso a lui o in quel raggio di veduta. Ciò che attirava quegli sguardi e provocava le domande, i discorsi e i commenti di tante persone, erano due persone. È quasi inutile il dire chi fossero. Il Baroggi, in completa divisa di capitano dei dragoni, a non molta distanza del colonnello S..., stava seduto vicino ad un milite, che a tutta prima sembrava un giovinetto, ma che ciascuno, dopo un'occhiata, riconosceva benissimo per una fanciulla; ed era infatti donna Paolina in assisa di dragone. Il veder fanciulle travestite militarmente, seguaci di mariti ed amanti, era un fatto così comune allora, che per sè solo non avrebbe fermato l'attenzione di nessuno. Ma se un vestito portato da una persona non fa nè freddo nè caldo, portato da un’altra può mettere l'entusiasmo, le vertigini e il capogiro anche negli uomini più calmi. Un effetto di questo genere produceva appunto su tutti la giovinetta compagna del capitano Baroggi. Donna Paolina, noi l'abbiamo già delineata in addietro; ma il ritratto si risolse piuttosto in quattro segni generali, tirati giù colla matita tanto per fermar la macchia e il contorno, che in un quadro disegnato e colorito coll'intenzione che debba essere messo in una cornice. Chi ci fece a voce la descrizione della figura di donna Paolina S..., ci mostrò anche la copia a lapis rosso di un ritratto che il giovine Pinelli fece di lei dal vero in Roma stessa. Quello che dunque noi stiamo per delineare colla penna, non è altrimenti una creazione di fantasia; ma una riproduzione esatta del vero, sebbene sia una copia di un'altra copia.
Il lettore si ricorderà, che, essendo essa della statura di un uomo comune, paresse eccessivamente alta come donna, anche per la piccolezza della testa, la quale, a misurar la figura intera, sarebbe stata un'eccezione a quella regola che decretò dover essere la settima parte del corpo umano. Ma tutta la persona s'illeggiadriva dominata da quella testina elegante, aerea; sebbene le forme del corpo, al primo, sembrassero sottili e quasi gracili, osservata poi parte a parte apparivano consistenti e ampie più di quello che comunemente suol presentare una fanciulla di diciott'anni. Vestita da dragone coi calzoni di daino stretti alle coscie, e gli stivaloni pei quali riusciva ancor più attraente il contrasto del piccolo piede muliebre, vi assicuro, i miei cari amici, i quali ponete ancora qualche interesse in questo genere di studj, che c'era da perdere la testa. Seduta sugli scaglioni del Colosseo, teneva così a bardosso su d'una spalla il mantello verde; aveva l'elmo in testa piantato assai indietro colla criniera che le cadeva sullo spallino sinistro. Colla gamba destra sormontata dall'altra stava movendo macchinamente il piccol piede. Quello però che più di tutto fermava gli sguardi altrui, era il volto dilicato e fino incorniciato dall'elmo; volto pallido con linee squisite, sebbene accentatissime, segnatamente alla linea del mento; con un giro di bocca di eleganza ineffabile e con un naso (il naso ha un gran posto nelle quistioni della simpatia), con un naso che, sebbene piccolo ed elegante, aveva però una forma speciale, perchè le nari si disegnavano più alte del setto divisore, il quale mostravasi troppo più di quello che avrebbe voluto la regola perfetta.
Ma che mestizia meditabonda e accorata era su quel volto; ma quante e quante cose pareva volesse dir l'occhio eloquentissimo ogni qual volta lo girava a guardare il suo Baroggi!
O perchè tanta mestizia? e non eran forse marito e moglie?
Oh no... non lo erano; non si volle che lo fossero... Avevan dovuto fuggire, e viaggiavano incalzati da timori e da sinistri presagi. Da Bologna eran giunti a Roma in quel dì che il Baroggi aveva ottenuto dal suo colonnello alquanti giorni di permesso.
E qui è necessario che col racconto noi ritorniamo indietro... Oh come la commozione ci assale pensando a quanto era avvenuto, a quello che avverrà di loro! Davvero che la fortuna scellerata par che provi una compiacenza crudele nel perseguitare quelle esistenze squisitamente infelici, che la natura, la sola natura, non la legge umana inesorabile, ha mostrato per mille indizj d'avere voluto espressamente avvicinare e legare in nodo non dissolubile.


III


La condizione in cui, nell'ultimo libro, lasciammo il Baroggi e donna Paolina rispettivamente all'ava e alla madre, erasi presentata come una delle più felici risoluzioni di una crisi pericolosa. Pareva che l'intromissione del vecchio Lorenzo e di Giocondo Bruni avesse in realtà fatto un miracolo. L'orgoglio di donna Clelia, che in lei era andato crescendo colla vecchiaia al pari delle sue folte sopracciglia; la paura che Ada avea de' suoi rimbrotti, e peggio del lontano marito, aveano ceduto innanzi allo spettacolo presente della figliuola, che avrebbe potuto soccombere all'affetto e al dolore e, più ancora, al fatto del grave pericolo in cui ella s'era messa, fuggendo così imprudentemente dalla casa. Sotto all'azione di una gioja inaspettata, e nel primo istante che cessa la causa di un grande dolore, tutti gli uomini, anche i più ostinati, sono disposti a concedere quello che mai non vorrebbero in nessun altro momento della vita; un avaro può fare un atto di carità; un uomo aspro e intrattabile può diventar pietoso; a un padre snaturato può essere strappata una parola indulgente. Tuttavia, se questo è vero, è anche verissimo che quegli atti, imposti dalla violenza, diremo così, del fatto eccezionale, portano con sè il carattere della violenza stessa, che è quello di non poter durare. Cessate le cagioni che agli uomini fecero come cangiar natura, la natura ritorna tosto alla prova, e spesso con più fierezza di prima; quasi a vendicarsi di chi avea saputo sopraffarla e domarla.
La contessa Clelia, dopo aver concesso che il capitano Baroggi sposasse donna Paolina, tentò ogni cosa per trarre in lungo l'atto indiscutibile del matrimonio. Sperava che il tempo e la fortuna potessero improvvisare e mettere innanzi qualche ostacolo ugualmente indistruttibile. L'orgoglio del sangue, pur troppo, era in lei tenacissimo. Diremo di più: la rivoluzione di Francia e le nuove idee e le leggi nuove che decretarono l'abolizione della nobiltà, le avevano inasprito quell'orgoglio stesso; come avviene sempre di un sentimento antico e profondo che vien contraddetto e vietato dal comando della forza pubblica.
Donna di forte ingegno, convalidava l'opposizione al nuovo ordine di cose con tutto l'apparato del sofisma scientifico. Però sosteneva le idee vecchie delle caste privilegiate col duplice elemento, e del sentimento naturale che non può distruggere sè stesso, e dell'amore del sistema, che, nelle persone di scienza, si pone innanzi a tutto il resto, con ostinazione e persino con ira. Non si ricordava, la vecchia contessa, diventata crudele, che nei giovani anni non aveva consultato il blasone allorchè la voce di un tenore, figliuolo di un sarto, le sussurrò all'orecchio parole d'amore. Quando pensiamo alla tenerezza speciale che noi sentivamo per questa donna allorchè aveva venticinque anni; quando pensiamo che avremmo fatta moneta falsa per lei onde aiutarla in quell'amore di contrabbando, non ci par vero che dovesse venir il tempo d'odiarla; di odiarla, sì, perchè noi odiamo con tutta l'enfasi di un odio implacabile tutti coloro che vogliono distruggere, colla violenza di una falsa legge, l'unica legge legittima della natura, che suscita gli affetti, e li riscalda e s'affanna perchè trovino il loro adempimento. Ah! vecchia contessa scellerata, e come, riandando nella memoria tutti gli spasimi atroci della tua violenta passione, non imparasti ad avere pietà delle passioni altrui! come anzi imparasti a farti torturatrice longanime di due cuori predestinati ad intendersi! E doveva egli esser questo il modo di compensarci della cura assidua che ponemmo nel tentare di renderti in addietro così cara e attraente ai lettori?
Ma ella, che comandava in casa e dominava la figliuola, e quando parlava metteva a tacere tutti quelli che non volevano quel ch'ella voleva, trovò dunque il modo di trarre in lungo il matrimonio, senza quasi accorgersi, perchè la crudeltà pregiudicata è cieca, che la povera Paolina languiva e consumava in quella comandata aspettazione di ciò che era la condizione della sua vita. Del rimanente, le considerazioni della contessa non in tutto derivavano da male intenzioni; bensì da quella consueta falsissima credenza, che il tempo, se mai si riusciva a dividere quelle due creature, avrebbe fatta la cura radicale d'ogni piaga, e impedito chi sa quanti guai possibili nell'avvenire. Modo assurdo di ragionare, che è invalso nei padri, nelle madri, negli zii e nei tutori, onde s'affannano a provocare nel presente un dolore fortissimo e inevitabile, per stornare dei dolori futuri ipotetici, che forse non nasceranno mai, e che non vivono se non nell'immaginazione di quanti abusano dell'autorità che la legge umana loro ha accordato. Ma il fatto è tale, e per ora non c'è rimedio.
E la contessa si appose nelle sue speranze, chè l'accidente preparò infatti l'occasione di prolungare di più quel matrimonio.
Siccome eran tempi di guerra, venne al capitano Baroggi l'ordine improvviso di partire col reggimento entro ventiquattr'ore per Piacenza. Oh Dio! che colpo orrendo fu quello per la fanciulla, che colpo per il Baroggi, quantunque se l'aspettasse.
Quel distacco sembrò loro non una sospensione più o meno lunga dei loro desiderj, ma un colpo di scure, una condanna di morte; e si tennero perduti, perduti irremissibilmente. Chi considera codesti affanni nella calma di un'anima indifferente, può riderne e crollare il capo di pietà sprezzante, ma chi soffre e si tormenta, non per questo cessa di soffrire e di tormentarsi. Il mondo ha pattuito di sentir compassione e di attestarla perfino in pubblico, anche fingendo, se uno è assalito da una fiera malattia corporale; ma le malattie dell'animo, il mondo ha stabilito di pigliarle in canzone; a meno che la portantina dell'infermiere non venga a trasportare al desolato manicomio chi ha smarrita la ragione spaventata dal peso insopportabile della sventura.
Un ordine di guerra non potendosi trasgredire per nessun conto, il capitano Baroggi dovette partire, e partì. Al pari dell'accusato innocente, che sente chiudersi dietro l'uscio del carcere, dove ha da rimanere Dio sa per quanto tempo, così rimase donna Paolina nella casa materna, disperata, trasognata, quando all'ora consueta della visita quotidiana non vide entrar più il suo giovane amico dalla solita porta, alla quale il suo sguardo irrequieto volgevasi più e più volte, se la sfera dell'orologio mai avesse segnato un minuto di più!
Prima di partire, com'è naturale, ella e il Baroggi fermarono di scriversi, per trovarsi in quella comunicazione spirituale e d'immaginazione, che è l'unico sollievo nel dolore della lontananza. Ma anche qui nacque un incaglio, che la nonna pretese di legger prima le lettere così del capitano, come della nipote. Pretesa assurda e tirannica, e tale da rendere illusoria ai fidanzati la consolazione dello scrivere. Le lettere ove due innamorati si versano interi nell'effervescenza dell'affetto e dell'affanno, possono elle subire prima la censura dei vecchi rugiadosi e dei giudici indifferenti e spietati? Di quelle lettere adunque non ne furono scritte che un pajo, e anche queste per obbedienza; poi donna Paolina, nella più fiera desolazione dell'animo, si concentrò in sè stessa e si tacque. Piuttosto che scrivere quello che non pensava e non sentiva, piuttosto che distruggere la parte più viva di ciò che le dettava il sentimento in tumulto, si accontentò del silenzio. Ma che nacque da ciò? Nacque che il Baroggi, per molti e molti giorni aspettando lettere indarno, colla immaginazione inesausta dell'amore che, non pago de' suoi naturali affanni, inventa sciagure e miserie che non ci sono e fantastica sospetti d'ogni sorta, si mise in testa che donna Paolina, in quel breve lasso di tempo, si fosse cangiata a suo riguardo. Già qualcuno che praticava in casa V..., ed altri che conoscevan lui e la famiglia, avevangli sussurrato all'orecchio qualche amoretto che la fanciulla aveva avuto fin da quando trovavasi in collegio; gli avevan nominato qualche giovane patrizio, che, nelle vacanze autunnali, trovandosi a villeggiare sul Lario, s'era inteso con lei molto bene, onde eran corse lettere, e si erano ricambiati saluti e sospiri e addii.
Qualcuno pretese persino d'essere stato testimonio accidentale di colloquj furtivi, e d'aver visto la fanciulla a notte alta uscire clandestinamente sull'aereo terrazzo ad aspettar l'amante. Avevano esagerato l'indole troppo espansiva e tumultuosa della fanciulla, e i bollori del suo sangue adolescente, più forti di quello che comportasse l'età e l'educazione casalinga. Avean gettato sospetti di una eccessiva volubilità, per cui la fanciulla potè avere molti amanti in poco tempo. Il bel mondo, insomma, com'è suo costume, non avendo a far altro, si dilettò anche allora, come sempre, a passare il tempo lacerando, senza darsene per inteso, quella giovinetta riputazione; come una mano villana, quasi senza saperlo, va sfogliando una rosa appena sbocciata.
Il Baroggi, finchè s'era trovato in compagnia della fanciulla, bevendo la voluttà dell'affetto corrisposto non aveva mai dato importanza a quelle dicerie, solo accagionando di mal animo e d'invidia quelli che gli avevan parlato in quel modo. Ma tutte quelle accuse, che non gli avevan lasciato che una traccia lieve nella memoria, quando vennero a mancar le lettere, levarono il volo repentino, come augelli di sinistro augurio, ad oscurargli la vista e a circondarlo di sospetti orrendi. Un sospetto basta che appena spunti, che tosto è gigante e veloce, e trascina la immaginazione spaventata a inventar fatti, che non stanno nemmeno al possibile.
La cosa si prolungò per qualche tempo. Il capitano non scrisse più lettere nemmeno lui. Il silenzio del Baroggi provocò in donna Paolina i medesimi sospetti ch'egli provava per lei. Ella ricordavasi degli amori galanti che aveva avuto colla contessa A…, colla R…, con altre di Milano. - «Quel che ha fatto qui, potrà farlo altrove», pensava; e si tormentava pensandolo, e non aveva requie e non mangiava e non dormiva, e dimagrava un giorno più dell'altro... ma continuava in lei l'ostinazione di tacere e di non scriver più lettere... Codesta ostinazione era generata dall'idea che il suo Baroggi (e ciò avveniva nei momenti meno infelici, che non dubitava di lui), stanco di quella lontananza senza corrispondenza, avrebbe preso qualche partito disperato e risolutivo.
In casa, intanto, la contessa Clelia, vedendo quella sosta delle lettere, quel silenzio della fanciulla, che non parlava mai, che non si lamentava mai, perchè il dolore, quand'è profondissimo, è muto, si argomentò di poter finalmente tentare una parola per dissuaderla da quel matrimonio.
Ma lo sguardo onde la disgraziata fanciulla saettò la nonna, appena si accorse dove andava a finire il suo discorso, fu tale, che la contessa non ebbe più il coraggio d'andare avanti, e non ne fece altro per allora, senza però dimettere la speranza che un giorno o l'altro si sarebbe piegata al suo volere.
Quanto al Baroggi, dopo aver continuato per tanti giorni a sopportare un dolore morale superiore a qualunque spasimo fisico, risolse di mandare a Milano un giovane, col quale erasi stretto in amicizia a Piacenza e al quale aveva confidato la condizione deplorabile in cui trovavasi. L'amico accettò l'incarico, e venne a Milano. Recossi in casa V…, perchè non c'era nessuna ragione che la visita fosse clandestina. Trovò le tre donne insieme. Naturalmente il discorso cadde sul Baroggi, e sul quando sarebbero finite le pratiche per conchiudere il matrimonio. La contessa Clelia colse un pretesto per far uscir di camera la fanciulla, la quale obbediente in apparenza, come una pecora avvilita, uscì senza far motto. Ma quanta disperazione l'amico del Baroggi lesse in quell'obbedienza muta!
Questa volta però la contessa, volendo troppo, ruppe l'incantesimo della sua inesorabile autorità. Se donna Paolina non fosse uscita in quel punto, non sarebbe nato quello che nacque.


IV


Quando donna Paolina fu uscita, si ritirò nella propria stanza, e prese subito il partito di scrivere questo letterino al Baroggi:
«Se Dio mi ajuta, spero che potrò consegnare all'amico che qui hai mandato queste righe, che finalmente scrivo perchè non saranno lette che da te, il solo che abbia diritto di leggerle, ed il cuore per comprenderle. Non valgo a dirti quello che ho sofferto in questi orribili giorni; credo che le pene dell'inferno possano essere un sollievo in confronto. Ho perfino dubitato anche di te. Chi molto ama, molto dubita. Tra mia nonna che non sa vietare, ma che non vuole il nostro matrimonio, e la povera mia madre che vorrebbe, ma non ha il coraggio di opporsi alla nonna, io ho vissuto in continuo silenzio, nel quale il mio cuore lacerato non trovò mai riposo un istante.
«È questo il primo minuto che un raggio improvviso illumina il mio cuore e la mia mente. Ho risoluto. Lascerò questa casa; il come e il quando non lo so. Ma ho risoluto, e nessuno potrebbe distruggere gli effetti del mio proponimento se non coll'ammazzarmi. Per Dio, vorrò ben vedere sino a che punto saprà giungere la crudeltà di una vecchia testa piena di pregiudizj. Che nobiltà, che ricchezze, che leggi, che autorità! Soltanto il mio cuore ha la autorità legittima di comandarmi di amarti e di seguirti e di distruggersi per te. Degli altri tutti respingo ogni comando. Sfiderei Dio stesso, se mi ingiungesse di dimenticarti e di fuggirti. Ma Dio è buono; così lo fossero i padri e le madri, che, pur troppo, credono di fare il nostro bene col farci morire, per piangerci poi quando non si può più risuscitare. Sento, rumore. - Oh Dio! - Non posso continuare. Ripeto dunque il giuramento di fuggire di qui e venire da te, e nasca quel che vuol nascere.»
Intanto che donna Paolina scriveva, il discorso tra l'amico del Baroggi e la vecchia contessa Clelia era tenace, forte ed eloquente dall'una parte e dall'altra. La contessa colla sua dialettica fredda ed inesorabile come l'algebra e la geometria, che rimasero le consolatrici estreme della sua tarda età, si provò a dimostrare coll'amico del Baroggi, che se si fosse riuscito a togliere di mezzo quel malaugurato matrimonio, si sarebbero scansati infiniti guai; chè, essendo tempi di guerra, e il Baroggi essendo un soldato, ed un valorosissimo soldato (qui la lode fu abbondante perchè giovava al suo intento), le probabilità della morte erano tante e così vicine, che la povera fanciulla, dato che avvenisse quel che tutti i giorni avveniva, certo ne avrebbe dovuto soffrire assai più che col cercar di dimenticare quel giovane. Parlò inoltre della mancanza dell'assenso del padre della fanciulla, il conte colonnello S..., del carattere suo, onde non si sarebbe mai piegato a concedere quel permesso; degli affanni interminabili che sarebbero sorti per la fanciulla, pel Baroggi, per la famiglia, quand'anche la fortuna avesse conservata la vita al giovane capitano.
L'amico del Baroggi rispose di conformità, con abbastanza eloquenza anche lui, anzi con un'eloquenza più liscia, più spontanea e più naturale, perchè la ragione era dalla sua parte; ma la contessa Clelia non si lasciò smuovere per questo, e:
- Lasciate fare a me e al tempo, disse, e tra pochi anni la fanciulla mi benedirà, e il capitano, o sarà morto, o ne avrà sposata un'altra, e della figlia di mia figlia appena si ricorderà.
- Che cosa dunque devo dire al capitano? conchiuse il di lui amico.
- Tutto quello che avete udito.
- Ma la fanciulla, signora contessa, non deve essere sentita per nessun conto in una cosa che tanto la riguarda?
- Le ragazze devono obbedire e lasciar fare a chi ha la sapienza e l'esperienza. In ogni modo, è giusto che mia nipote v'incarichi de' suoi saluti al giovane capitano...; e così dicendo, diede ordine alla cameriera che andasse a chiamar la fanciulla.
La fanciulla entrò lenta e pallida, col letterino già piegato fra le mani.
- Il signore parte per Piacenza; se hai qualche cosa da dire al capitano, egli s'incarica di esserne il relatore.
Donna Paolina tacque un momento, irresoluta e tremante; poi, come animata da un coraggio insolito:
- Quello che dovrei dirgli, l'ho scritto qui; e così dicendo diede la lettera all'amico del suo Baroggi; indi soggiunse con significanza che aveva del terribile: Nessun altro che lui deve e può leggere queste parole.
Quegli prese la lettera, e senz'altro la ripose. Aveva capito tutto.
La contessa Clelia fulminò la fanciulla d'uno sguardo minaccioso. Ma non osò dir nulla. Sentiva d'aver torto a domandar di voler leggere prima lei quella lettera.
L'amico partì, promettendo di ritornare il giorno dopo; partì, e il primo suo atto fu d'impostare tosto quella lettera per Piacenza alla direzione del capitano Baroggi.
Se donna Paolina, sempre silenziosa ma risoluta, dovette sostenere una tempesta di rimbrotti, ottenne però il suo fine. La lettera giunse a Piacenza; annunciata da quella dell'amico, il capitano l'aperse tremando; perchè chi ha l'animo agitato teme sempre sventure! Ma qual fu la sua gioja nel leggerla, quanta allorchè l'ebbe letta! Un primo raggio di sole che compaja, dopo molti giorni di una pioggia inclemente, a rischiarare la terra, è un paragone ben misero per dare una minima idea del trasmutamento che avvenne nel cuore accasciato del giovine capitano. Baciò e ribaciò quella lettera, chiamò mille volte cara cara cara la sua Paolina, con una espansione delira che non può descriversi a parole, e che è troppo sublime perchè il mondo indifferente meriti di conoscerla appieno; si rimproverò dei tanti sospetti avuti e ingranditi ed esasperati con quell'affanno onde il sofferente sfrega la piaga che lo tormenta. Giurò di volare in soccorso della sua Paolina, di mettere sossopra cielo e terra per riuscire nell'intento. E vi riuscì. Allorchè due si amano intensamente, ed hanno fermo di scuotere il giogo che li tiene in schiavitù, su cento tentativi, in novanta trovano la fortuna propizia. E donna Paolina e il Baroggi furono tra i suoi protetti.


V


L'amico del Baroggi, che era partito per Piacenza, ritornò presto a Milano; una vecchia portinaja, la quale era stata sgridata da donna Clelia, non sappiamo per quali mancanze e minacciata di espulsione, fu proposta da donna Paolina, tutt'altro che tarda ne' suoi concepimenti, come assai adatta a far da manutengola. L'amico del Baroggi pagò la portinaja in modo da lasciarla sbalordita. Una mattina, mentre suonavano le prime ave marie a San Pietro Celestino, donna Paolina discese, trovò la porta chiusa, ma lo sportello spalancato per dimenticanza pensata; e di là, più lesta di una capriola, corse ad una vettura che la stava attendendo a pochi passi dalla casa. Quando la fanciulla si presentò, la portiera si aperse per chiudersi tosto, e via di furioso trotto.
Ed ora ritorniamo a Roma, e rientriamo nel Colosseo.
Coloro i quali sono d'opinione che tra figli e genitori corra quel senso arcano, che volgarmente passa sotto il nome di moto del sangue, in virtù del quale essi si presentono e s'indovinano mutuamente, anche allorquando non si conoscono; coloro, a nostro debole parere, possono essere messi in compagnia di quanti credono nella bollitura del sangue di S. Gennaro. Il colonnello S..., intanto, per parte sua, sentiva così poco i moti del sangue paterno, che adocchiava la giovinetta militarmente vestita, con un senso di desiderio, ci rincresce a dirlo, di desiderio sensuale, il quale in ogni modo ben poteva essere perdonato dal momento ch'egli avrebbe creduto, non sappiamo qual'altra cosa piuttosto che quella potesse essere sua figlia. Dalla curiosità che per qualche tempo si limitò al guardare, passò a quella di voler sapere chi fosse quella bella ragazza, e come si chiamasse il giovane capitano che stava con essa. Interrogò alcuni ufficiali che stavangli intorno, ma nessuno aveva il piacere di saperne di più. Quel desiderio si comunicò allo stesso generale Massena, il quale, sebbene amasse le doppie di Genova più delle fanciulle, pure non potè essere indifferente all'aspetto di donna Paolina.
La domanda fece in breve il giro di tutto l'anfiteatro, ma rimase senza risposta, perchè non v'era spettatore che conoscesse il capitano Baroggi, arrivato in Roma la sera prima. Allora il general Massena, che, in tutto, anche nelle inezie, voleva quel che voleva ed era irrequieto e impaziente, ordinò a un ufficiale di prender notizia di quel capitano non appartenente a nessuno dei reggimenti di presidio in Roma; e gli ingiunse, ad un bisogno, d'interrogare il capitano medesimo sull'esser suo.
L'ufficiale, nell'intermezzo tra il secondo e il terzo atto, senza aspettar altro, si recò presso il Baroggi, e fattogli il saluto militare:
- Scusate, ma il generale desidera sapere chi siete, e sono qui per ordine suo.
- Io sono il capitano Geremia Baroggi di Milano, del 7.° dragoni, che ora sta di presidio a Bologna; sono qui in permesso, e ho già presentato i miei recapiti al comando militare di Roma.
- Non è per questo, capitano; già si sa che un bravo soldato fa il suo dovere; ma è perchè il generale vorrebbe conoscervi.
- Io mi presenterò al generale domani... Credo che i suoi alloggiamenti siano in piazza Cavallo.
- Al Quirinale, capitano.
E l'ufficiale s'indugiava, adocchiando avidamente la giovinetta, che affettava, per togliersi d'impaccio, di stare attentissima ai cambiamenti che si stavano facendo sul palcoscenico.
- È per voi, proseguì l'ufficiale, una combinazione fortunata, che il colonnello del mio reggimento sia un vostro compatriota.
Il Baroggi guardò l'ufficiale, senza riuscire del tutto a nascondere l'espressione di un sospetto, che a quelle parole gli balenò d'improvviso.
Donna Paolina, senza volgere la testa, anzi continuando a fingere di essere attentissima a tutt'altro, fu scossa anch'essa a quelle parole di colonnello e di compatriota.
È strano che lungo il viaggio, tra le tante agitazioni e paure a cui furon sempre in preda, non avevano pensato mai alla possibilità di avere a trovarsi un dì o l'altro col colonnello S..., che essi credevano in Francia o al Reno.
Ma il Baroggi, ricomponendosi, interrogava alla sua volta l'ufficiale:
- Io non posso conoscere tutti i miei compatrioti che entrarono a far parte dell'esercito repubblicano; ma come si chiama questo colonnello?
- È il colonnello S..., ed è quello là precisamente che sta seduto alla sinistra del generale comandante. Esso avrà gran piacere di conoscervi, e però non tardate domani a presentarvi... Ma il generale m'aspetta, ed io vi lascio.
E così dicendo, salutò militarmente il capitano e la sua giovinetta compagna, intorno alla quale non gli era bastato l'animo di chieder nulla.
Ora il lettore s'immaginerà facilmente lo scompiglio che si mise nell'animo e del Baroggi, e più ancora di donna Paolina, a quella improvvisa rivelazione; scompiglio stranissimo e che era fatto di spavento, di curiosità, ed anche di qualche gioja. Ella non aveva mai visto suo padre, almeno non se ne ricordava; e il ritratto di lui, dipinto ad olio, fatto venti anni addietro, e che era stato appeso alla parete della sua camera da letto, se il lettore se ne rammenta, non aveva quella perfetta somiglianza, da far tosto ravvisar l'originale, se altri non ci mette in sull'avviso. Ella, intanto che l'ufficiale s'accomiatava dal Baroggi, guardò con curiosità intensa il conte, e, per quanto lo permetteva la distanza e la posa in cui esso era adagiato, andava come spiando nel volto di lui, se ad onta di tutto il male che ne aveva sentito dire, vi era ancora qualche traccia di quella bontà che la povera sua madre Ada più e più volte le avea assicurato trovarsi in lui. E, senza ch'ella medesima quasi il sapesse, pensava già a tener conto di quella bontà, a tentare di rivolgerla tutta a proprio vantaggio; ma, pur troppo, in quello sguardo fiero e saettante del colonnello, in quell'attitudine troppo militarmente spavalda e come provocatrice, non gli parve ravvisare un segno solo che la incuorasse.
- Ed ora che si fa? disse rivolgendosi al Baroggi quando l'ufficiale fu partito. Io mi sento opprimere... Oh Dio, che cosa abbiamo mai fatto?...
Il Baroggi, più che per lo sgomento, rabbrividì a quelle parole, che rivelarono per la prima volta un sintomo di pentimento nella sua Paolina.
- Che si ha a fare? soggiunse poi con calma ostentata; partire senza perder tempo. Io non ho nessun obbligo di presentarmi al generale.
Donna Paolina tacque, e piegò la faccia sul petto.
E il suo volto erasi coperto di quel pallore madido, che accusa un vicino abbandono dei sensi.
L'ufficiale intanto aveva fatto il giro dello scaglione, e stava già parlando al generale Massena. Il Baroggi guardava attento, e vide dopo brevi istanti alzarsi il colonnello.
Questi infatti, sentito dall'ufficiale che quel capitano dei dragoni era un Baroggi di Milano:
- Oh è gran tempo, troppo tempo che non vedo la faccia di un Milanese; son curioso di sapere da lui molte notizie di laggiù: vorrei sapere anche qualche cosa della mia famiglia; così mi si risparmierà la noja dello scrivere, e la peggiore di ricevere delle risposte.
- Ha paura di annojarsi, prese allora a dire ghignando un colonnello di fanteria che gli stava presso, e sono più di tre anni che non scrive una riga a sua moglie; e l'unica sua cura, quando cambia di guarnigione, è di non far mai sapere a casa dove è stato traslocato il suo reggimento.
- Ed oggi invece mi viene una strana tentazione di saper qualche cosa.
- Va la, va là, colonnello, che ho già capito tutto: a te non dispiace niente affatto quel caro dragoncino là... Però ti avviso, caro il mio colonnello, che hai passato da un pezzo la linea equinoziale, e quella ragazza là, se ha diciott'anni è molto; e per quanto io giri gli occhi sugli ufficiali che ci stanno qua intorno, non vedo giovane più bello di quel capitano.
- Chi giuoca di gioventù, chi giuoca di astuzia... e in questo genere di cose chi ultimo arriva meglio alloggia. Ma e poi, chi ha detto a te ch'io abbia di queste intenzioni?... oibò... quel che mi preme è di saper nuove di Milano e di casa mia... Ma guarda che colei si alza... Davvero, che ragazza più bella non ho mai veduta al mondo.
- Si direbbe però che è ammalata...
- Ammalata o sana, non so cosa dirti; ma la vista di costei mi dà quel tal genere di noja che... Ah, capisco che io non ho mai da diventar vecchio.
Così dicendo il conte si alzò, rifece il giro dello scaglione percorso prima dall'ufficiale di ordinanza, e si fermò presso al capitano Baroggi. Messi in rispetto dalla sua divisa tutta a ricami d'argento, gli spettatori ch'erano là affollati, provarono la felicità di potergli dar luogo.
Donna Paolina erasi riavuta dal suo malore istantaneo, e però raccolse tutte le sue forze quando, avvisata dal Baroggi, vide il conte lasciare il suo posto e farsi alla loro volta.
- Caro capitano (il primo a parlare fu il conte), ho piacere di stringere la mano di un compatriota.
Il Baroggi, stando in piedi, in quell'atto militare che vuol dire che un inferiore sta davanti al suo superiore:
- Io ringrazio, disse, la degnazione e la bontà del signor colonnello.
- Sedete, sedete, mio caro, e parliamo un po' tra noi, finchè cada morto questo Giulio Cesare, che io odio non tanto per quello che ha fatto, quanto perchè oggi mi ha condannato a tante ore di noja.
E così dicendo, si gettò trascuratamente a sedere sui cuscini dello scaglione...
- È di Milano anche la signorina che sta con voi? Credo bene di non sbagliarmi a crederla una signorina... Ah! andate poi a dire che le donne non stanno bene che colle sottane... Davvero che v'invidio, il mio caro capitano, v'invidio la fortuna d'avere con voi una così leggiadra recluta... Ne tenevo una anch'io, vedete, due anni fa, una fanciulla di Bordeaux, che ho vestito all'ussara come me... una ragazzotta stupenda, che fermò l'attenzione perfino del general Bonaparte... Peccato che una bella mattina non siasi lasciata trovar più, essendo fuggita con un giovane caporale del 17.° - Ah! cara la mia ragazza, credo però bene ch'ella vorrà mantenersi un po' più fedele. Ma è di Milano anche lei?
- Di Milano, veramente, no, fu presto a rispondere il Baroggi, ma dei dintorni.
- Ah, ah, è poi lo stesso... ma ditemi dunque qualche cosa di Milano... Vive ancora quel bestione del conte Mellerio? Che cosa ha detto, eh?... quando il suo caro arciduchino ha dovuto pigliare il dazio... Gran brava gente c'è a Milano... gran bravi giovinotti... Ma, siamo sinceri, ci sono anche delle gran carogne... Tuttavia desidero di vedere gli amici vecchi... Ma sapete voi da quanti anni manco da Milano?... ecco qua.... uno, due, tre… sicuro, quattordici anni… una piccola bagatella…; e sì che vi ho moglie e figlia e suocera. Ma che cosa volete? vivendo alla lontana, i matrimonj vanno meglio... Non c'è il tempo d'odiarsi. Mi dicono infatti che mia moglie mi voglia ancora bene... povera donna... è una bella donna, vedete, la mia moglie... Ma voi, caro capitano, avete un certo cognome che... Di qual ceppo di Baroggi uscite voi? ci sono i Baroggi banchieri... quelli li conosco; c'è un altro Baroggi... un uomo della mia età, che fu con me guardia d'onore dell'arciduca. C'è... quel Baroggi per cui è nato tanto scompiglio per l'eredità del marchese F... A proposito, come va quella faccenda?... è una faccenda curiosa, vedete... Ma, e quel birbone del Suardi, vive ancora?... dev'esser vecchio, perdio!… gran bel birbone però... vi assicuro che un uomo di quella fatta può far l'onore di qualunque capitale.
Il Baroggi taceva, donna Paolina non parlava e tremava; guardando però sempre in faccia al conte con un sorriso artificiale, che le costava tutti i sforzi dell'animo.
Cessata quella tempesta di parole del conte S..., la quale significava una gran baldanza:
— Io, rispose il Baroggi, sono appunto il figlio di colui pel quale nacque lo scompiglio dell'eredità F...
- Ah, ah!... ho capito; disse il conte.
Il modo onde il conte proferì queste parole, dinotava manifestamente un senso di disprezzo.
- È morto vostro padre? continuò poi.
- È morto in Milano dieci anni or sono, poverissimo; e mia nonna morì l'anno passato... e il marchese F... intanto sciupa milioni a mantenere preti e frati e spie.
- Ma e come siete entrato soldato, e in così giovane età siete già capitano?
- Io fui più fortunato di mia nonna e di mio padre. E se la verità non dev'essere nascosta, guai per me, se tutti a Milano fossero stati galantuomini!
- Vale a dire?...
- Vale a dire che, senza gli ajuti del banchiere Suardi, io avrei dovuto passare qualche anno a San Pietro in Gessate.
A questo punto, le trombe della banda militare avendo annunziato che incominciava il terzo atto, e tosto essendo usciti sulla scena Cassio, Cimbro, Decimo e gli altri congiurati, il dialogo necessariamente fu sospeso. Così lo fosse stato per sempre!


VI


Il colonnello, al ricominciare dell'azione, si alzò, e detto al capitano che lo consigliava a recarsi la sera a veglia negli appartamenti del generale, dove per consueto si raccoglieva il fiore de' cittadini e dei forestieri, si allontanò lentamente, e ritornato al suo posto presso al general Massena, gli parlò in modo, che questi impose all'ufficiale d'ordinanza di recarsi, prima che finisse lo spettacolo, a invitare formalmente il capitano Baroggi e la sua donna.
Proseguiva intanto l'azione. Già, Cassio aveva declamato tra gli applausi generali que' versi:


Enfin donc l'heure approche où Rome va renaître:
La maîtresse du monde est aujourd'hui sans maître.


Già Bruto, nel dialogo con Giulio Cesare, aveva destato entusiasmo, e strappato le lagrime ai veraci repubblicani, segnatamente a quel passo dove, gettandosi ai piedi di Cesare, esce in quelle parole per verità sublimi:


César, au nom des dieux, dans ton coeur oublies;
Au nom de tes vertus, de Rome et de toi-même,
Dirai je, au nom d'un fils qui frémi et qui t'aime,
Qui te prefère au monde, et Rome seule à toi,
Ne me rebute pas!...


Il terz'atto adunque, fino a questo punto, piacque assai più degli altri due, e lo spirito repubblicano si era talmente impadronito di tutti gli spettatori, che anche alcuni patrizj delle più illustri case di Roma, e che non era usciti senza fede in nessun Dio, ma per non sapere a che appigliarsi; anche qualche dotto memore ancora della protezione pontificia e cardinalizia; anche qualche pagnottista, di quelli che hanno l'intelletto e il cuore nel ventre, pur si sentirono scossi a quelle parole; e colti all'improvviso in quel momento, e costretti a votare, certo avrebbero messa la palla bianca nell'urna repubblicana. Se non che, tutto questo entusiasmo finì per produrre un uragano, non molto piacevole al capocomico Rosier e all'appaltatore.
Come fu già detto, dal palazzo Spada era stata trasportata sulla scena, che rappresentava il Campidoglio, la statua di Pompeo.
La parte men colta del popolo, la quale costituiva, com'è naturale, i quattro quinti del pubblico, non avendo letto prima la tragedia di Voltaire, credeva, e per verità ne aveva tutte le ragioni (chè per una semplice esposizione poteva bastare il palazzo Spada), che la statua di Pompeo non a caso fosse stata trasportata sul palco; e però, nell'estrema accensione della sua ira repubblicana, aveva rivolta tutta l'aspettazione al momento in cui i congiurati avrebbero trafitto il tiranno, ed esso, dignitosamente avvolto nella toga, sarebbe caduto a' piedi del simulacro del rivale.
Ma Voltaire aveva troppo studiato Orazio, ed essi non conoscevano quel passo:


………Non tamen intus
Digna geri promes in scenam......
Nec pueros coram populo Medea trucidet. -


Come dunque sanno tutti coloro che hanno letto la tragedia di Voltaire, questi, colto il punto in cui Dolabella intrattiene i Romani colle lodi di Cesare, fa scoppiare di dietro alle scene le grida dei congiurati:


Meurs, expire, tyran; courage, Cassius;


e fa uscire, momenti dopo, questo Cassio appunto col pugnale in mano a gridare come un invasato:


C'en est fait, il n'est plus;



e impegnasi tra Cassio e Dolabella una gara a chi più riesce a tirare a sè il popolo:



- Peuples, secondez moi, frappons, perçons ce traître.
- Peuples, imitez moi: vous n'avez plue de maître.


Ma il popolo vivo e presente, ch'era assai più repubblicano del popolo romano della storia e dell'archeologia, dando ragione a Cassio e a tutti i suoi amici, non voleva però che dell'uccisione di Giulio Cesare se ne facesse un segreto di consorteria; onde da un punto all'altro dell'anfiteatro cominciò una tempesta di grida:
- E muoja dunque Giulio! muoja, muoja!
- È morto! gridò allora stentoreamente uno del popolo.
— E risorga, per Cristo... vogliamo vederlo noi a morire... vogliamo.
Gli attori si arrestarono a quel tumulto inaspettato, senza conoscere di che si trattasse. Qualcuno s'interessò a far loro sapere la cagione dell'ira pubblica. E qui si avviò un dialogo tra pubblico e attori. Gli attori eran forti dell'autorità di Voltaire; il pubblico accennava la statua di Pompeo, e voleva che Cesare fosse trascinato là, e là fosse trafitto...
E in quella un uomo di Trastevere, tarchiato e terribile e con una testa da Caracalla:
- E son qua io, gridò, per Cristaccio! dov'è sto Giulio? dov'è? ch'io lo spaccerò io, lo spaccerò.
Quel popolano di Trastevere fu in breve seguito da gran moltitudine di compagnoni, che tutti si misero a gridare ad una voce: morte a Cesare! vogliam vedere Cesare morto!
Il tumulto andò tant'oltre, che l'appaltatore si recò dal generale Massena, supplicandolo perchè provvedesse a metter fine colla forza a tanto disordine.
- E che ci ho a far io? Tocca a voi a tirarvi di impaccio, rispose il generale. Dopo tutto, che difficoltà avete a improvvisare in vista del pubblico e ai piedi della statua di Pompeo la scena che avete gridato di dentro?
- Nessuna difficoltà, ma Giulio Cesare è fuggito.
- Come fuggito?
- Per paura che il popolo lo pigliasse davvero per il Cesare di diciotto secoli fa, lasciò andar giù in fretta e toga e manto, rivestì i proprj panni e se ne andò.
- Ma in che modo se ne andò, se il palco è nel mezzo dell'anfiteatro?
- Tanto fa, non c'è più. Bisogna che il popolo non l'abbia riconosciuto.
Il fatto strano fece ridere anche il generale, che rideva poco e aveva tutt'altro per la testa; poi soggiunse:
- Se l'antico e vero Cesare avesse fatto come costui, forse il mondo avrebbe pigliata un'altra strada.
- Ma or che si fa, generale? Sentite come il popolo urla laggiù. Guardate che già piglia d'assalto il palco scenico.
Il generale non si moveva, e guardava, e non dava ordini. Pareva che prendesse gusto a quella scena.
Difatto il popolo penetrò a furia nell'edificio capitolino, innalzato con trabacche per far scena; ne snidò tutti i congiurati in toga: Cassio, Casca, Cimbro, il medesimo Bruto, che è tutto dire; investendoli e lor domandando fieramente che cosa avevano fatto di Giulio Cesare.
Se non che a un altro uomo del popolo scappò detto:
- Ebbene, se è fuggito il tiranno, pigliamoci questo Marc'Antonio che sta qui e ammazziamo lui.
Non l'avesse mai detto! Tutta la furia del popolo si rivolse di colpo contro il povero comico incaricato di quella parte odiosa; il quale cadde svenuto per la gran paura.
Fu allora che il general Massena mandò tosto colà un picchetto di granatieri a far finire l'atroce burla.
Per chi dall'alto del Colosseo avesse guardato con intento filosofico quella scena, quel miscuglio d'antico e di moderno; quella statua di Pompeo che parea davvero far retrocedere tutti gli spettatori a diciotto secoli addietro; quelle toghe e quei manti misti alle giacchette de' Trasteverini; in ultimo i granatieri della repubblica nuova che vennero a spianar le bajonette contro un popolo che mostrava d'amar tanto la repubblica vecchia, e che voleva saziar la vista nello spettacolo della morte di Cesare, ben poteva trovare. argomento di peregrine considerazioni.
Or chi avrebbe mai pensato, tra quanti erano congregati in quel famoso ricinto, che, nonostante la memoria di Giulio Cesare fosse tanto odiata da destare un commovimento per tutta Italia, e un rigurgito di tutti gli Italiani repubblicani in Roma, per assistere ad uno spettacolo, che, dato nel Colosseo, pareva dovesse riuscire solenne e pieno di grande significanza; chi allora avrebbe pensato, ripetiamo, che fra poco stava per scaturire dal repubblicano Bonaparte la seconda edizione del Cesare antico?
Ma lasciando le inutili considerazioni, e tornando ai nostri personaggi, l'ufficiale d'ordinanza, nel momento che i granatieri del general Massena comparvero sul palco scenico a respingere i popolani inferociti, si recò di nuovo presso il capitano Baroggi, al quale richiamò in prima le parole del colonnello; poi si rivolse a donna Paolina, per significarle che il generale Massena invitava anche lei a volere onorare la consueta veglia, ch'esso offriva ne' suoi appartamenti ai repubblicani di Roma, d'Italia e di Francia.
Ora quando il Baroggi e donna Paola lasciarono il Colosseo e si trovarono districati dalla folla, che a vortici li aveva circondati e oppressi finchè si trovarono in quelle vicinanze, ricominciarono più seriamente che mai la loro consulta.
- Il mio partito, diceva il Baroggi, è che si debba partire, e senza perder tempo, e meglio stasera che domattina.
- Così si fugge il pericolo presente, questo è vero; ma nemmeno si provvede all'avvenire.
- Ma com'è che non dividi, mia cara, il mio pensiero, se pure alla sola vista di tuo padre minacciavi di cadere in isvenimento?
- E che vuoi? Questo mio padre, ho un presentimento che pure debba esser lui quello che ci debba far uscire da questa condizione di pena e di paure continue. Egli mi pare uomo più bizzarro che cattivo. È un soldato valoroso, questo lo dicon tutti; di più è un repubblicano caldissimo, e fu dei primi a far guerra alla nobiltà. Ora, qual fu la nostra più gran nemica? codesta nobiltà appunto che alla contessa Clelia sembra Vangelo.
- Tu parli benissimo: ma io ne ho conosciuti assai di questi repubblicani stati ricchi e stati nobili... Ho provato anche a stuzzicarli. Or piglia la più superba e pinzochera damazza del biscottino, e credi, che in confronto può parere un sanculotto. Non hai veduto come egli si scontorse, quando gli dissi ch'io non era altrimenti nè il Baroggi figlio del banchiere, nè un parente del Baroggi guardia d'onore? Anche a te è riuscito di veder questo?
Il Baroggi in quel breve colloquio col conte aveva perfettamente indovinato il vero; ma donna Paolina, per sua disgrazia, non fu dello stesso parere, e tanto disse e ridisse, che la sera e l'uno e l'altra furono nelle sale del general Massena.
Il lettore non si metta in isgomento, chè noi non descriveremo quelle gioconde veglie. Già quasi tutte le grandi celebrità artistiche, come letterarie, e patrizie, e muliebri, erano uscite di Roma. Il Canova era andato a pigliar aria nel Veneto: Pompeo Battoni stava godendo il fresco alla Riccia: il Piranesi erasi riparato a Ercolano: Vincenzo Monti, mutati i panni, già assisteva a Milano al rogo cui venne condannata la sua Basvilliana: Winkelmann moriva asfissiato per non poter più bere l'acqua di Trevi. Solo era rimasto in Roma a far il triumviro l'archeologo Visconti. In quanto ai cardinali (parliamo dei dotti e dei celebri, e di quelli che si ha la curiosità a vederli e a sentirli a parlare), innanzi tutto non sarebbero mai andati a far la loro corte quotidiana a un soldato; ma quel che meglio si dee sapere, è che in Roma non ce n'era più nemmeno uno, anche a metter fuori la mancia d'un milione di scudi romani. Delle donne, celeberrime per casato e per beltà, le Braschi, le Borghesi, le Massimi, le Buoncompagni, le Santa Croce, le Rezzonico, ecc., ecc., avevan tutte preso il volo ben lungi, in coda ai loro zii e cognati e fratelli principi; non rimaneva dunque che la nobiltà dei gradi più bassi; poi le bellezze borghesi nate in seno alla ricca mercatura, e che vedute dall'occhio dell'artista e da un amante sincero delle belle donne, facevan lo stesso effetto delle assenti. Diciam tutto questo perchè il lettore comprenda il motivo della descrizione mancata. Se presentassimo l'elenco di tutti gli intervenuti, egli non conoscendo nessuno di costoro, non potrebbe prendervi interesse di sorta.
In ogni modo, colle belle donne patrizie e mezze patrizie, e colle altre, gli ufficiali dell'esercito repubblicano passavano le loro notti lietissimamente, prolungando i giuochi e le danze ad ora tardissima. Nè il colonnello S..., sebbene avesse toccato i suoi quarant'otto anni, si era ancora ritirato dal campo sdrucciolevole della danza e della tresca amorosa. La cosa è precisamente così; nè serve, o lettori, crollar la testa in aria d'increduli. Ma egli era ancor bello ed elegante della persona; ma egli era snello e nerboruto; ma, a lume di sera, due lustri buonamente scomparivano dalla sua faccia; ma innanzi tutto, si credeva giovane; e a questo mondo ognuno è quello che crede di essere. Intanto già qualche beltà di prima fila, sebbene non più celibe, guardate che errore! gli si era sfregata presso lusinghiera e carezzosa; intanto già qualche ufficialetto, che contava venti o venticinque anni meno, aveva ricevuto da lui qualche colpo invincibile, ed era stato messo fuori di partita. Intanto... ma intanto fece senso a tutti, che donna Paolina, l'angelico dragone che aveva fermato l'attenzione di tutti gli spettatori del Colosseo, la prima sera stessa che venne a quella veglia, bella di quella bellezza fatale che fa classe da sè e non appartiene a nessuna scuola, come il genio, avesse mostrato già tanta propensione per quel colonnello, che poteva essere chiamato la Ninon del suo sesso e della sua classe; tanta inclinazione da ballare con esso lui quattro contraddanze in due ore; e da lasciare in un canto il bellissimo capitano Baroggi.


VII


Uno dei più grandi spropositi, o, per dir meglio, uno dei tiri più assassini che la natura ha fatto all'umanità, è quello di non aver voluto, attraverso alla vita, tener sempre in accordo le facoltà della mente e del sentimento colle qualità appariscenti del corpo. Il corpo invecchia e perde d'anno in anno tutte le sue seduzioni; e perchè la crudeltà riesca ancora più squisita, il volto, che è sempre in vista, le perde ancor più presto. Nel tempo istesso che l'intelletto può sfolgorare in tutta la sua forza giovanile, e il sentimento può ancora esaltarsi colla foga di un'esistenza che s'affaccia per la prima volta al tumulto della vita, il corpo mostra i segni della dissoluzione, che stornano ogni simpatia. Allorchè un uomo viene a trovarsi in codesto funesto sbilancio tra le attrattive corporee e i desiderj dello spirito, può ben dire d'esser tisico in quarto grado. Una tale condizione si rende sempre più grave, quando negli anni della giovinezza abbia avuto il dono o il malefizio della beltà, che è il biglietto d'ingresso al teatro delle seduzioni, degli incanti, della voluttà dell'esistenza; e diventa ancora peggiore, pericolosa e inquietante, quando un uomo, pur in quell'età in cui non sono permessi che gli affetti per i beefsteak e il vino di dieci anni, conserva tuttavia qualche raggio della gioventù. Quei raggi, se pur vibrano splendidi e ardenti quando vibrano, serbano però la pessima qualità dei soli di temporale, che vengono, ma vanno tosto, e lasciano lo spettacolo della natura più desolante di prima. Nell'istante che quei raggi brillano, la giovinezza inesperta e ardente può mostrare per essi delle tendenze affettuose; e allora chi ha avuto la disgrazia di non saper stare sul proprio, se pure riesce a sentir rinnovate per un momento le gioje degli anni giovanili, può anche, quando non sia uno stordito, contare sulla certezza di essere in brevissimo tempo abbandonato e soppiantato. Il conte Achille S... si trovava nel colmo di tutte le condizioni suaccennate; e per disgrazia aveva anche l'ultima, di non essere uno stordito, e di essere espertissimo della vita. Sapeva di aver passata la gioventù; sapeva che, tutt'al più, poteva far l'effetto di un fuoco d'artifizio; ma conoscendo di possedere ancora dei bei momenti, per usare una frase da teatro, cercava le tentazioni, e si adagiava in quelle, e amava illudersi.
D'indole irritabilissima e bisbetica fin dalla prima giovinezza, ossia fin da quel tempo che tutto gli andava a gonfie vele, quei caratteri gli si inviperirono durante la sua più matura virilità, e tra le cause di ciò vi fu appunto quella particolare condizione in cui venne a trovarsi ad onta della sua vita distratta in molte occupazioni e specialmente nelle cure della milizia e della guerra, la quale era in lui una vera passione. Lusingato ancora dalle donne perchè gli rimanevano delle qualità attraenti e brillanti, egli sentendosi del sangue e della foga giovanile, si lasciava attirare nel loro vortice; ma poi, pensando ai proprj anni e alla distanza che intercedeva tra l'età e l'impeto del sentimento, non si fidava della sorte che gli era pur sempre cortese di lusinghiere avventure, e viveva continuamente in timore del domani e sempre iracondo e geloso. Il fatto dell'abbandono della bella vivandiera di Bordeaux, che lo aveva posposto ad una recluta del 17°, finì a renderlo sempre più diffidente. Ma il decrepito e volgarissimo adagio, che il lupo lascia il pelo e non il vizio, basti a spiegare, come, nonostante l'età e la recente sconfitta, e la sfiducia di sè e d'altrui, non sapesse resistere alla tentazione di avvicinarsi alla fanciulla Paolina, e non potesse poi raffrenare l'esaltazione della gioja e della vanità soddisfatta, quando nel contegno di colei gli parve di scorger tutti i segni di una vera simpatia.
Chiunque in fatti si fosse trovato ne' panni del conte S... poteva avere ragionevolmente tutto il diritto di creder che donna Paolina gli si fosse repentinamente incapricciata dietro.
Tanto è ciò vero, che tutti gli astanti credevano lo stesso, sebbene alla maggior parte non paresse nè naturale nè giusto.
Alla stessa fanciulla, una notte, per una sola parola che le disse il conte, il quale del resto, in ogni cosa, sempre erasi comportato seco coi più squisiti riguardi, balzò repentinamente un sospetto, che le fece gelare il sangue, e che la persuase senza più a mettere in esecuzione il proprio disegno.
Quando la fortuna ci è nemica, di quanti elementi si ajuta, e come sa convergerli tutti a danno nostro!
Donna Paolina, staccatasi dal conte S... un momento dopo sentita quella parola che la mise in iscompiglio, s'avvicinò al capitano Baroggi, e gli disse in tronco:
- Stanotte quando partiremo di qui, voglio finir tutto e palesarmi a mio padre.
- Bada a te, che ciò non sia per il peggio.
- Continuar questa vita non è sopportabile in nessun modo. Meglio star peggio che star così.
Detto questo, si distolse da lui e si gettò a sedere, pensando seriamente quello che doveva fare.
Ella, quantunque fosse assai giovine, pure aveva già quel che si dice un carattere, e quell'altra dote ancor più rara nell'adolescenza, la sicurezza determinata delle azioni.
Fermò dunque risolutamente il partito di palesarsi in quella notte stessa al padre; pensò al modo più conveniente di prepararlo; s'immaginò il dialogo che ne sarebbe derivato; le conclusioni che si sarebbero sviluppate. - «Egli ha per me una deferenza speciale, pensava; di questo posso esser certa; d'indole bisbetica, iraconda, insofferente, come lo vuole il giudizio comune; con me, con me sola è gentile, amabile, quasi direi cedevole, obbediente. Quando sentirà, quando saprà ch'io sono la sua figliuola, naturalmente dovrà crescere in lui, in forza di questa rivelazione, quell'affetto che senti spontaneamente senza conoscermi. Non si protragga dunque più oltre un tempo così prezioso, e forse domani sarò felice.»
Ma qui si fermò, e ripensando l'ultima parola che il conte le aveva rivolta, si andava conturbando, e diceva fra sè stessa: - Io ho tardato forse un po' troppo. - Dovevo parlargli jeri - l'altr'jeri. - Ma forse a quella parola io ho dato un significato di cui egli non aveva l'intenzione. Ma, in ogni modo, quand'anche fosse vero quello che penso, non è possibile che si converta a mio danno. - Non è possibile. -
Non sapeva la fanciulla, perchè la naturale acutezza non poteva tener luogo d'esperienza, che l'amore è l'ideale dell'egoismo e dell'avidità; che vuol tutto per sè e a modo suo; che esso, fintantochè gli affari vanno a seconda, è lieto, è caro, è soave, è condiscendente, è tutto quello che si vuole che sia. Ma se la fortuna gli volta l'occhio e gli succede un rovescio, le medesime furie sono lente ministre ai suoi comandi, e diventa un tiranno crudele, vendicativo, implacabile.
Or continuando, donna Paolina, mentre stava meditabonda e grave in quel modo, era, senza che se ne accorgesse, l'oggetto degli sguardi di tutti.
- Oh beato colui, diceva uno, che la rende cotanto pensierosa!
- Oh come è cara, seduta così in quell'abbandono!
- Oh guarda com'ella sembra la meditazione travestita da soldato!
E il conte che la vide in quella posa e la contemplò a lungo, lentamente poi le si accostò, e: - A che pensate? - le disse.
- Pensavo a una cosa, rispose donna Paolina, per cui mi è necessario parlare con voi a lungo.
- Io sono sempre disposto all'obbedienza. Partendo di qui con vostro marito e col resto della compagnia, faremo la via più lunga del solito, e avremo tempo di parlarci.
Il conte S…, dando all'aria estremamente pensosa e preoccupata della giovinetta un'interpretazione troppo lontana dal vero, credette che le parole di lei non fossero altro che un piano inclinato ad una dichiarazione esplicita. L'amore è poeta lirico, e i suoi voli sono spesso temerarj.
Or venne l'ora che gl'intervenuti alla veglia lasciarono gli appartamenti del general Massena. Come avviene in tali ritrovi, nel partire si univano in varie compagnie, a seconda che portava il bisogno di far la medesima via per la vicinanza delle dimore. Il capitano Baroggi diede il braccio ad una Aldobrandini, bellissima donna, la quale credendo che donna Paolina si fosse incapricciata del colonnello, e ciò al capitano non desse molt'ombra, aveva messo l'occhio a quel posto, quando mai fosse rimasto vacante; anzi aveva già inoltrato la sua petizione ambidestra, con quel garbo astuto e insidioso di cui le donne sono maestre inarrivabili. Altri s'erano uniti ad altre. E donna Paolina s'era appoggiata al braccio del conte S..., il quale, rallentando il passo, lo misurò in modo da rimanere l'ultimo della processione.
- Dunque, o cara, che cosa avete a dirmi? Così il conte pel primo cominciò un dialogo, dal quale si attendeva di esser fatto retrocedere al mondo primiero della sua fortunata gioventù.
- Oh! io sono infelice, rispose donna Paolina.
Tanto le donne esperte quanto le fanciulle inesperte vanno sempre d'accordo nel mettere innanzi quest'antifona, allorchè vogliono stringere qualcuno nella loro rete. E però il conte S…, che in tanti amori passati ricevette sempre quelle petizioni muliebri, segnate appunto col perpetuo bollo dell'infelicità, non ebbe torto se a quell'esordio del dragone angelico: - Or ci siamo, pensò; ma non poteva andare altrimenti! - Tanto si teneva certo!
- Io sono infelice, continuava la fanciulla, e voi solo, una vostra parola può farmi la più felice delle donne.
A queste parole fece succedere alcuni istanti di pausa, perchè un grande spavento l'assalì nel punto di avviare un discorso con cui giocava, a dir così, tutta la sua fortuna. Alla sua volta, il conte S... stava in sull'ale, nell'aspettazione ansiosa di quella sentenza risolutiva che, secondo lui, doveva cangiare in certezza il suo desiderio e la sua speranza.
- Perdonatemi, colonnello, riprese poi donna Paolina, se oso farvi una domanda: Che cosa avete pensato di me la prima volta che mi vedeste?
- Che cosa ho pensato... non saprei dirvelo: cento cose e nessuna. Ma spiegatevi meglio.
- Voglio dire, che giudizio avete fatto di me, vedendomi in compagnia di un giovane capitano?
- Ma non siete voi sua moglie?...
Donna Paolina taceva.
- Il mio giudizio dunque fu, proseguiva il conte, che il capitano fu il più fortunato degli uomini nel trovare una così avvenente e cara sposa.
Donna Paolina tacque a lungo; poi, tutto a un tratto, fermandosi e stringendo fortemente la mano al conte:
- Ah, non è vero che noi siamo marito e moglie! Non lo si volle da chi aveva l'autorità di volerlo. Noi siamo fuggiti insieme, per non morire d'affanno.
Il conte cominciò a non capire, e a turbarsi senza sapere perchè.
- Questa nostra condizione, seguiva la fanciulla, è tale che non può continuare. Io mi figuro un giorno o l'altro di venir staccata per forza da lui; Dio! che sarebbe mai di me, se ciò avvenisse. Certo che non potrei più vivere.
Il conte pensava intanto fra sè: - Dunque mi sono ingannato!
Il pensiero formulato non fu che questo, ma l'animo del conte era rimasto stranamente percosso; tanto il colpo era stato inatteso; nè sapeva trovare una parola per risospingere il discorso della fanciulla, che ancora s'era messa a tacere.
Alfine, per non sembrar dappoco e anche per tirare indietro, se fosse stato possibile, quel po' di sospetto che già aveva gettato nell'animo della fanciulla con quella tal parola che il lettore sa, riassunse il consueto suo fare disinvolto e bizzarro, spingendolo fin quasi alla caricatura:
- Cara la mia ragazza, disse poi, vi siete messa in un brutto impiccio; brutto assai, cara. E in un impiccio ancor peggiore si trova il capitano - perchè, in conclusione, voi siete minorenne, e il capitano, volere o non volere, vi ha portato via colla forza della seduzione. Capisco che sarà stato colla migliore intenzione. Diavolo! sono incapace di dubitarne. Capisco che il capitano non avrà dovuto pregar troppo; non è vero, cara mia? Siamo sinceri qualche volta. Voglio anche ammettere che i parenti avranno tutti i torti, e che l'autorità farebbe meglio a non impicciarsi in queste cose; ma i parenti ci sono, e l'autorità dà sempre ragione ai parenti. Povero capitano! Mi rincresce, mi rincresce davvero. Mi rincresce per voi, mi rincresce per lui, tanto mi è simpatico. Ma ora, alla mia volta, devo domandarvi per che ragione avete detto tutto questo a me?
- Per che ragione? perchè so che voi conoscete quei di casa mia, e che...
- Che cosa?
- E che siete conoscentissimo di mio padre.
- Io conosco vostro padre?... Ma chi è vostro padre?... Ma perchè non mi avete mai detto niente?...
- Perchè avevo paura, come ho paura...
- Paura di che?
Qui la fanciulla fermò il passo. Erano ai piedi della scalea di Trinità de' Monti. Gli altri della compagnia erano già saliti.
Ella tirò a sè d'improvviso il braccio che il conte teneva sotto il proprio; con ambe le mani prese e strinse la mano del conte; poi, gettandosi in ginocchio, la baciò bagnandola di lagrime.
- Ma che è questo? ma che fate? diceva il conte. Ma badate che potete esser vista...
- Ah! prima ch'io continui a parlarvi, datemi una promessa.
- Ditemi di che si tratta, e vedrò...
- Promettetemi di aiutarmi, e di far tutto dal canto vostro, perchè io e il capitano possiamo diventar marito e moglie.
- Ma come posso dare una promessa senza conoscere alcuna delle circostanze che...
- Vi assicuro che voi potete tutto; vi assicuro che una parola vostra può bastare a renderci felici..
E continuava a stare in ginocchio, ad onta degli sforzi del conte per rialzarla. Ma il conte, a un tratto, ritirò a sè le mani che la fanciulla stringeva, lasciandosela cadere ai piedi come una Maddalena penitente.
Un lampo, come quello che viene dal fulmine, aveva di repente solcato il bujo del suo pensiero.
Spesse volte, nelle vicende umane, un fatto istantaneo, un motto, un gesto, rischiara a un tratto una successione di accidenti, sui quali per gran tempo il pensiero era trascorso inavvertitamente. Quando il conte sentì dalla bocca del capitano Baroggi ch'esso era nativo di Milano, e che era di Milano anche la fanciulla che avea seco, dovendo pure risovvenirsi d'avere una figliuola di quella età, non par vero, come un tal pensiero non lo dovesse grado grado guidare a scorgere nel volto della fanciulla le traccie evidenti della somiglianza propria e della materna; non par vero, come non abbia sentito la tentazione di domandare qual era il cognome della famiglia di lei; non par vero, come lo stesso attaccamento eccezionale e straordinario ch'essa avea mostrato per lui, non dovesse, insieme colle altre circostanze, condurlo sulla via giusta per la quale si poteva arrivare a scoprire la verità.
E certo, se non ci fossero stati gli estremi avanzi della gioventù che lo portarono issofatto su di un altro terreno, egli avrebbe saputo ogni cosa prima che altri avesse parlato. Ora gli ultimi atti di donna Paolina, rimovendo appunto ogni idea d'amore, gli fecero di colpo balenare dinanzi quella verità che non aveva mai cercata; di modo che, quando donna Paolina tremante singhiozzante gli confessò di essere sua figlia, la rivelazione fu inutile, perchè egli aveva già tutto indovinato. Se non che quella parola pronunciata tolse il conte dall'affannoso stupore in cui trovavasi, e, senza alcun riguardo, mandando un grido, che era tra l'esclamazione dell'uomo e il fremito della fiera, respinse di forza la figlia, che cadde stramazzoni sul terreno, ed egli fuggì.


VIII


Non essendoci noi mai trovati nella condizione del conte S..., la sua ci si presenta come una malattia affatto nuova del cuore umano, sulla quale non abbiamo mai avuta l'occasione di esercitare nessun studio anatomico. Bisogna adunque che tiriamo ad indovinare e a congetturare e a slanciare ipotesi; e poi, colla sfacciataggine di un filosofo che si diverte ad andare a caccia del vero primo, vendere per cose provate le persuasioni del nostro pensiero.
Quando il conte S..., lasciata cadere la propria figliuola, si diede a fuggire come un uomo uscito di senno, bisogna confessare che le cagioni di quella repentina esaltazione erano state così forti, così eccezionali, da rimanere in dubbio chi fosse in quel momento più degno di pietà, se lui o la figliuola. E tra le cagioni mettiamo anche quelle che procedevano dalle cattive e inveterate abitudini della sua vita, dal carattere speciale della sua mente e del suo cuore, dai pregiudizi naturali e avventizj della sua educazione, dalle medesime sue colpe. Al cospetto di un morbo fisico, grave e doloroso, il paziente desta sempre compassione in chiunque non appartenga al tribunale della Santa Inquisizione. Pel filosofo che osserva i dolori umani coll'intendimento della cura e non della vendetta, il primo suo sentimento è la pietà e il desiderio di alleviar le pene. Egli assomiglia al medico razionale e galantuomo, che non abbandona l'ammalato, nè lo maltratta, quand'anche sia stato la cagione del proprio male.
Un padre anche il più mite di carattere, che trovi una propria figliuola nella posizione di donna Paolina, certo che non potrà mai reprimere, a tutta prima, il dolore e l'indignazione. Ora il conte S... era tutt'altro che mite. In aggiunta, quantunque egli ostentasse il più radicale repubblicanismo, pur s'indispettiva quando alcuno affettava di non sapere ch'egli era nobile. Era un fatto interno, ch'egli medesimo quasi ignorava, ma non per questo era men forte. Amava la nobiltà, e con dispiacere vedeva abbattuti i suoi privilegi; e se in una gara, in un duello tra un nobile ed un uomo senza titoli, vinceva o perdeva il primo, senza sapere il perchè, ei gioiva o s'indispettiva per lui. Era quella una malattia del sangue insieme e dell'educazione.
Ora la sua figliuola, secondo lui e secondo tutti, s'era disonorata fuggendo, e si sarebbe disonorata anche fuggendo col più illustre personaggio; ma ciò non bastando, per rendere ancor più grave la colpa, essa era fuggita con un giovane di tanto inferiore alla sua condizione; con un figlio di una guardia di finanza.
Nè qui finivano le esacerbazioni; ma al dolore paterno, che ha una maniera affatto propria di manifestarsi, veniva, nell'istante fuggitivo almeno, a mescolarsi un altro dolore, affatto nuovo, acuto e spasmodico più ancora del primo; e, ciò che è peggio, un dolore che si vergognava di sè stesso, per trovarsi al cospetto e in compagnia di quell'altro dolore, il quale almeno, se era acuto, era anche legittimo. Oh! mettiamoci un momento ne' panni del conte, e se non siamo farisei, confessiamo che era ben degno di compassione, e che nessuno più di lui poteva rendere verosimile l'iperbolica similitudine del poeta, che, per rinfrescarsi, si sarebbe gettato in un vetro bollente.
Lasciando ora da parte le cagioni, e concentrando tutta la riflessione sugli effetti che provò il conte S... quando da Trinità de' Monti volse il passo accelerato alla caserma dove aveva l'alloggio, possiamo assicurare che la conflagrazione del suo cervello fu tale, che un minimo grado al di là di quella misura sarebbe bastato per farne un caso interessante per lo studio di un alienista psicologo. La caserma era presso San Pietro in Vincoli; quel lungo tratto di strada lo fece senza accorgersi, portato macchinalmente dalle gambe. La sentinella che gli gridò il chi va là, lo fece fermare dinanzi alla porta. Qui stette un momento sopra di sè, poi rifece quasi di corsa tutta la strada già fatta. Nel silenzio della notte produceva uno strano effetto in chi vegliava il tintinnio de' suoi grossi sproni, che fioco si annunziava da lungi, facevasi forte e aspro da vicino, e tosto decresceva e moriva nell'aere lontano.
Nel primo tumulto e nel primo scoppio dell'ira, senza quasi la coscienza di quanto operava, era fuggito lasciando la figliuola svenuta; ma, lungo il cammino, quel nodo orrendo di tanti affetti si venne come sciogliendo ne' suoi diversi elementi, tanto che presentandoglisi ad uno ad uno alla riflessione che ritornava, egli potè raccogliere qualche idea, e pensare e prendere alcun partito.
Abbiamo detto in altra occasione, che sotto al cumulo di tante male tendenze ond'era viziato il carattere del conte S…, in fondo in fondo, si poteva rinvenire anche qualche bontà e qualche affetto generoso; egli è per questo che, dopo il primo schianto dell'ira, gli entrò nel cuore un impeto di pietà. Allora, come a rifascio, dietro al pensiero della figliuola conosciuta in così strana guisa, gli si schierarono nella memoria e l'immagine dell'angelica sua Ada, e i tanti affanni che quella poveretta ebbe a provare per lui, e l'idea della disperazione in cui essa doveva trovarsi in quel punto per la fuga della figliuola; e per questa medesima figliuola, attraverso al dolore e all'ira, metteva in lui una affannosa mescolanza di compiacenza paterna e di compassione, la quale grado grado crebbe al punto che fu tutto in affanno pel timore ch'ella avesse dovuto soffrire troppo e per la caduta e pel deliquio, e che, abbandonata e respinta da lui in quel modo spietato, dovesse poi morirne d'angoscia.
Ritornò dunque fino al piede della scala della Trinità de' Monti, ma non vi trovò più, come avrebbe dovuto aspettarsi, se fosse stato più in calma, nè la figlia, nè altri. Pensò allora di recarsi alla casa di lei; ma fu il pensiero d'un istante, perchè, subentrata l'ira, lo risospinse alla caserma, dove entrò a notte altissima, aspettato dall'ordinanza che da tante ore sonnecchiava, svegliandosi spesso di soprassalto, per tema dei rimbrotti di lui.
Egli entrò, e:
- Va, e chiamami qui subito, disse all'ordinanza. il colonnello Paoli e il Ballabio.
- Essi sono già a letto da più ore.
- Va e svegliali, ti dico! - Ma, aspetta che ci andrò io.
Detto questo, uscì seguito dall'ordinanza che gli faceva lume. Bussò alla porta dell'alloggio del colonnello Paoli. Non essendogli risposto, picchiò forte, tanta era l'impazienza ond'era agitato. Alfine s'aprì l'uscio, e comparve l'ordinanza del Paoli; e si sentì la voce iraconda di lui che gridava:
- Che cos'è? chi batte a quest'ora?
- Abbi pazienza! gridò allora colla sua voce sonora il colonnello S...; abbi pazienza; ho bisogno di te.
Le parole contrastavano col tono alto, aspro, iracondo.
Nondimeno il colonnello Paoli:
- Evvia, entra, rispose.
Il conte entrò.
- Scusami, ripetè poi. Domani avrò un duello. - Lo voglio io; faccio conto su di te e sul Ballabio. Sarete, come tante altre volte, i miei padrini.
- Va bene; ma che diavolo è successo? Due ore fa eri l'uomo più gajo e più lieto del mondo.
- Gajo, sì gajo - sentirai. Ma il duello sarà a morte; a morte, capisci tu? Voglio che Roma ne abbia a inorridire. Ora, disse all'ordinanza, va a chiamare il colonnello Ballabio. Digli che venga qui subito.
L'ordinanza partiva, e un quarto d'ora dopo entrava il Ballabio in mutande, cogli stivali alla dragona e il mantello sulle spalle. Intanto il colonnello Paoli, seduto sul letto, seguiva coll'occhio il conte S..., che passeggiava fremebondo.
- Che cosa è successo? chiedeva il giovane Ballabio alla sua volta, messo in apprensione da quella scena muta.
Il conte si fermò - guardò fisso il colonnello macchinalmente, tanto era sprofondato ne' propri pensieri:
- Siedi, gli disse poi, siedi. Domani il capitano Baroggi morirà - o morirò io. - Tu, come al solito, farai da secondo insieme col Paoli.
- Sempre disposto. - Ma che cosa è avvenuto?
- È quel che voglio sapere anch'io, prese allora a dire il Paoli. - È mezz'ora che il colonnello è qui, e non m'ha ancor detto di che si tratta. - Nè vorrei che fosse poi un nonnulla, un affare da ragazze; perchè allora, caro colonnello, scusami, ma è tempo di finirla.
- Tempo di finirla?
- Sì, colonnello, se mai quella fanciulla cogli stivali e gli sproni t'avesse riscaldato il cervello...
Il conte si piantò allora nel mezzo della stanza, e:
- Sapete voi altri chi è quella ragazza? Voi altri non lo sapete.
- No.
- Essa è mia figlia.
- Oh!!...
- Essa è mia figlia - e il capitano l'ha sedotta a fuggire. Ma il capitano morirà, morirà, morirà...
E nel ripetere quella parola, la voce gli si andò innalzando fino all'urlo... dopo di che, spossato dall'angoscia, cadde a sedere sul letto dell'amico.
I colonnelli Paoli e Ballabio, passate alquante ore della notte in compagnia del conte Achille, e tentato indarno di ridurlo a più miti e ragionevoli consigli, alla mattina del dì successivo, nella loro qualità di padrini, si recarono dal capitano Baroggi, che alloggiava in piazza del Popolo.
Il capitano e donna Paolina, in quella desolata condizione che è facile imaginare, stavano risolvendo di lasciar Roma in quel dì stesso, quando i due colonnelli si fecero annunciare. - Non era il caso di rimandarli, per quanto i due giovani desiderassero di star soli, e così furon fatti entrare. - Donna Paolina era in veste femminile, e sul viso portava i segni del pianto recente. - Il giovane capitano era tutto scombujato e stravolto; però, infilata in fretta l'assisa di dragone, accolse i due venuti con tutta quella cortesia che gli fu possibile, e li fece sedere.
- Signor capitano, disse il Ballabio, credo che indovinerete il motivo della nostra visita.
- Potrei sospettare qualche cosa; ma cogliere nel punto giusto non saprei veramente. Sareste forse colleghi ed amici del conte S...?
- Per l'appunto, capitano, e ci rincresce di esser qui con un'altra veste, di cui volontieri avremmo fatto senza.
- Parlate, signori.
- Il conte colonnello S... si crede e si chiama offeso e disonorato da voi; disonorato nei rapporti della famiglia e nella fama dell'unica sua figliuola. Perdoni, signora, disse poi il Ballabio rivolgendosi a donna Paolina, s'io mi faccio lecito di parlare così. Ma pur troppo abbiamo dovuto accettare da vostro padre il delicatissimo mandato. La fortuna potrebbe però fare in modo che ciò sia per il meglio.
- Comprendo tutto, rispose accigliato il Baroggi. Ma il conte avrebbe almeno dovuto sentir noi due prima. Io non ho disonorato nessuno, e fu appunto per conciliare ogni cosa col decoro del casato, che in faccia a Dio e alla santità delle intenzioni ed alla sapienza degli uomini non guasti dagli infesti pregiudizj di casta, io solennemente dichiaro costei mia moglie; è appunto, ripeto, per conciliar tutto col dovere, col decoro della pubblica opinione, che noi intercediamo il perdono e l'ajuto del conte colonnello.
- Il nostro mandato non ci permette di entrar giudici in materia. Soltanto devo dirvi, e potete immaginarvi se ciò mi addolora, che il conte colonnello S... vuole da voi una riparazione d'onore, e col solito mezzo delle armi.
Donna Paolina, a queste parole, si alzò di slancio, fece due passi verso il colonnello Ballabio, tentò di parlare, ma si mise di nuovo a sedere, mandando un lungo sospiro e premendo la fronte sul palmo della mano destra.
Il Ballabio, dopo aver sogguardato a lungo quell'infelice, fece segno al Baroggi che desiderava continuar a parlare fuori della presenza di lei. Ma, il giovine capitano, sempre ad alta voce:
- Vi comprendo, vi ringrazio, esclamò. Ma ella può e deve sentir tutto. Non a caso veste l'assisa e cinge lo squadrone; ha l'intelletto e l'anima affatto virili, e può sentir tutto. Che c'è altro adunque di così grave, ch'ella, s'ella non fosse, dovrebbe lasciarci soli?
- Giacchè lo volete, devo dirvi che il duello porta una condizione.
Donna Paolina alzò la testa e stette attenta.
- E quale?
- Che il duello dev'essere...
- All'ultimo sangue?
- A morte!
- Nè ciò basta, soggiunse l'altro, padrino.
- Proseguite.
- Dobbiam dirvi che il duello, quando non avesse un esito definitivo la prima volta, dovrà ripetersi finchè uno dei due combattenti rimanga morto sul terreno.
- E così sia, proruppe eccitata donna Paolina; ma dite a colui, il quale non solo non è padre, ma non è uomo, che a questa condizione se ne contrappone un'altra (e qui donna Paolina si alzò terribile nell'atteggiamento e nella guardatura), e questa è, che se il capitano rimanesse ucciso, la figlia, sul medesimo terreno, debba combattere col padre. Così faremo inorridire anche Roma, che fu la patria d'ogni più mostruosa virtù.
Il Baroggi guardò a lungo la sua Paolina con un atteggiamento, che non si può rendere a parole; la prese per mano, la baciò sulla fronte; poi si rivolse ai due padrini, come per volger loro la parola, ma stato un momento sopra pensiero, si cavò l'assisa, aperse la camicia sul petto, e:
- Guardate qui, signori, disse... Tolga il cielo, e spero che voi mi crederete, ch'io voglia adesso vantarmi di ciò che non è altro che la conseguenza del mio pretto dovere; ma soltanto mi preme farvi sicuri che io non fui mai un vile, e che non temetti e non temerò mai i pericoli. Tre volte io caddi ferito...
- Non abbisogna che lo diciate. Basta, guardarvi in viso...
- Vi ringrazio... ma ora, in questo momento, al cospetto di codesta circostanza affatto nuova e inattesa e inaudita, non si tratta già di affrontar pericoli vantaggiosi all'umanità, pericoli che possono essere una virtù e una gloria...; si tratta bensì di acconciarsi a diventar un assassino... un parricida... qualche cosa di ben abbominevole...
- Che dite... capitano? interruppe il Paoli; vi prego a non ripetere quanto avete detto, perchè...
- Vi comprendo, colonnello, e vi domando perdono!... Ma vi supplico nel tempo stesso a ponderare seriamente il caso in cui ci troviamo.
- Ho pensato, abbiamo pensato a tutto; potete ben crederlo; ma vi sono circostanze e consuetudini e leggi speciali alle quali bisogna piegarsi e obbedire.
- Consuetudini e leggi dell'arbitrio e del pregiudizio, che sono un'offesa dell'ingenua natura e della ragione assoluta... Dite adunque al colonnello S... che mi domandi un'altra riparazione, e sarò sempre disposto a fare il suo desiderio.
A queste parole, il Ballabio guardò in faccia all'altro padrino, quasi a dire: - Pur troppo, costui ha ragione. E quegli si alzò, e dopo aver misurato la camera innanzi e indietro, si accostò al Baroggi e dolcemente lo prese per mano.
- Molte campagne ho fatte, gli disse poi; ho quarant'anni, attraversai la vita di affanno in affanno, ed ebbi nove duelli, sempre provocato dagli altri, e colla persuasione di essere sempre io dalla parte della ragione; una volta poi mi son trovato in una circostanza pressochè uguale alla vostra. Ci ho pensato, chiesi consigli, volli e disvolli... ma alla fine... mi sono battuto. Io abborro il duello e i duellanti, e il mondo che chiama vile chi rifiuta di battersi... ma non importa che un uomo sia o non sia un vile; importa che sia creduto tale. Ascoltate dunque me, capitano; non rifiutate; battetevi, e mettete ogni cosa nelle mani della fortuna.
- Se si hanno ad osservare i patti come furono posti dal conte, alla fortuna non rimane a far nulla. Uno dei due ha da morire, e le condizioni non sono uguali tra noi. S'io vengo ucciso, che sarà mai di questa mia donna? S'io uccido il conte, come potrà patire costei di vivere coll'uccisore di suo padre? Egli è per questo, o signori, ch'io non potrò mai battermi a giusta gara con lui. Non è questo il momento delle vanterie; ma costei lo sa, nelle sale di scherma io fui chiamato l'invincibile. Non credo che ciò costituisca nessun merito, ci vuol ben altro; è un'abilità affatto materiale, e di cui non tenni e non tengo nessun conto; ma è però una circostanza per la quale, secondo tutte le probabilità, io posso dire di portar sicuri i miei colpi. Ora, accettando di misurarmi col padre di costei, io sentirei obbligo di lasciarmi ammazzare, e di condurre l'orribil gioco in modo, come se io non sapessi tener ferro in mano. Ecco perchè mi rifiuto. Vi prego adunque di riferire tutto ciò al conte; vi prego di protestargli, ch'io non ho mai creduto di portar offesa nè all'onor suo, nè a quello della sua casa. Credevo inoltre che un prode soldato della repubblica francese non dovesse avere gl'illiberali pregiudizj di quella casta, per distruggere la quale una falange gloriosa di pensatori e di eroi riputò azione santa il versar torrenti di sangue sull'altare della patria. Vi ripeto di ripetere ciò al conte; e mi lusingo che vorrà cambiar propositi.


IX


Il Ballabio e il Paoli, ammirati dalle parole del capitano Baroggi, riferirono tutto al conte S…, e si giovarono dell'influenza che sapevano di potere esercitare sull'animo di lui per placarlo e distoglierlo da quel partito disperato ed inumano; e ci fu un momento in cui il conte parve piegarsi a tante rimostranze; e davvero che se i padrini avessero in quel punto troncato ogni discorso, forse ogni cosa sarebbe finita; ma il Ballabio, e fu una mancanza di tatto, che non è possibile perdonargli, venne a toccare al conte dell'incomparabile bravura che il Baroggi aveva nell'uso della spada e dello squadrone, e che per ciò appunto esso aveva protestato di voler piuttosto lasciarsi ammazzare che opporre colpo ai colpi del conte. Un razzo scagliato in una polveriera non può eccitare incendio e rovina più di quello che le parole del Ballabio provocarono nell'animo eccitabile del conte.
Esso balzò da sedere, come se un colpo di scudiscio gli avesse tagliata la faccia; quasi fu per avventarsi e pigliar per il collo il colonnello collega; poi si scaricò con una tempesta tale di ingiurie, di villanie, di bestemmie plebee, di grida, di strepiti bestiali, che chiunque avrebbe potuto credere fosse impazzito di tratto; non però i colleghi suoi, che lo conoscevano troppo bene e, continuando a fumar le loro pipe, aspettarono in silenzio che desse giù la bufera.
E il conte infatti alla fine si calmò, e incrociando le braccia, e accostandosi a lento passo al colonnello Ballabio, che stava seduto:
- Giacchè dunque, gli disse con sarcasmo, colui è un Achille senza il tendine; e un Orlando prima di esser diventato furioso, ho piacere di toccar io stesso con mano se ciò è vero. Però il duello deve andare, ed ora più di prima; e perchè non si vada in cerca di altri pretesti, sia desso al primo sangue. Così la vita e la morte, come allo scacco, come al bigliardo, come al tiro a segno, starà nelle mani dell'abilità e della fortuna. Va bene così? Siete contenti ora?
- Siccome è a tutti noto che tu sei la prima sciabola della divisione, così non si è creduto d'offenderti a dirti ogni cosa. Se colui fu chiamato l'invincibile, nessuno può ancora vantarsi d'averti vinto. Ed ora quasi attendo con impazienza un tale duello; e giacchè è al primo sangue, mi confido che colui accetterà.
- Quand'è così, giacchè aveste una volta la compiacenza di recarvi al suo alloggio, non vogliate ora perder tempo, e tutto sia concluso dentr'oggi.
- Dentr'oggi tutto sarà concluso. In quanto alla scelta dell'arma...
- Il capitano scelga: è il suo diritto; per me, spada, sciabola e squadrone son tutt'uno.
Sul finire di questa giornata, un'ordinanza entrò nell'alloggio del colonnello S... a comunicargli di recarsi subito al Quirinale, dove il generale Massena lo chiamava. Il conte non mise tempo in mezzo, salì a cavallo, e fu dal generale. Questi, allorchè il colonnello entrò, stava seduto su di un'ampia poltrona tutta a oro e a velluto rosso, sormontata dallo stemma pontificio; era in manica di camicia, coi calzoni di daino e gli stivaloni alla dragona. Il generale era sì piccolo e mingherlino, che poteva smarrirsi tra gli stivali e la poltrona; ma aveva una faccia sanguigna, accentata, gelosa, con due occhi neri e lampeggianti, che ben si faceva scorgere nonostante la sua piccolezza.
- Vi ho mandato a chiamare perchè ho da parlarvi, e non è il generale Massena che dà degli ordini al colonnello S..., ma un borghese nato a Nizza, che, da uomo di mondo e d'esperienza, e che ha riconosciuto tutto quanto fu promulgato dal giudizio universale dell'ottantanove, parla, parla a un conte nato a Milano; il quale, credendo forse che i suoi avi sieno più antichi del padre Adamo, pare che non voglia capire sin dove giunga la portata della parola repubblica.
- Generale...
- Vi ho detto che in questo momento non sono generale... ma un semplice repubblicano... Voi domani dovete battervi.
- Battermi?
- Sì, battervi col marito di vostra figlia. Voi vi stupirete ch'io sappia tutto, malgrado il gran segreto in cui vi siete celati tutti quanti. Ma sapete come vanno queste cose... Parlano anche i muri, e allora non serve più che gli uomini tacciano. Ma di ciò poco importa... il consiglio dunque che vi dò, è di non battervi... di riconoscere per marito di vostra figlia il giovane capitano, che mi si dice essere un valoroso soldato e un perfetto cavaliere... e di finir tutto senza scandalo.
Il generale, detto questo, s'appressò al colonnello, ed era sì basso che non gli arrivava agli spallini:
- Questo che vi dò non è che un consiglio: io non comando che nelle cose della guerra e sul campo di battaglia; non crediate nemmeno ch'io pensi a punirvi, quando mai foste per far tutt'all'opposto di quel che v'ho detto; fate quel che volete; tutto quello che mi riserbo è di continuare a stimarvi o di cessare di farlo. Ora andate. Nè sappia alcuno per che oggetto siete venuto qui.
Le parole del generale erano uscite decise, secche, a intervalli, come palle da fucile.
Il conte, il quale sapeva che il generale non amava nè chiacchiere, nè repliche, e una parola detta in fallo lo poteva far salir tosto in furore, non osò rispondere, fece il saluto del soldato e partì.
Or non occorre il dire, che in quel giorno la stessa donna Paolina in persona erasi recata dal generale Massena, ed aveva saputo sì ben fare e sì ben dire, che il terribile generale si lasciò penetrare, sebbene fosse fatto a scaglia di coccodrillo, e, pur essendo alienissimo dall'impacciarsi negli affari altrui, credette opportuno di far quel che fece.
Uscito dal palazzo del Quirinale, il conte pensava tra via chi mai avesse potuto parlare del duello al generale; ma presto si appose al vero, onde sentì crescersi l'ira contro la figlia, la quale avealo esposto ad essere trattato dal generale come una recluta. Punto da quell'accoglimento da caserma che lo feriva nell'orgoglio, e ripensando alle lodi che il Ballabio incautamente aveva fatto della valentia del capitano Baroggi, fermo di mettere sotto i piedi i consigli di Massena, al quale, bestemmiando tra sè e sè, scagliò tali ingiurie, che guai se fossero state sentite da quel tremendo repubblicano nizzardo; e ridottosi al proprio alloggio, si recò nelle camere dei due padrini, per sentire se tutto era stabilito. Essi gli risposero, che il Baroggi accettava le nuove condizioni, ch'esso aveva scelto i proprj padrini; che l'ora erasi fissata al primo sorgere del dì successivo, e il luogo a due miglia fuori di porta S. Sebastiano, dietro il sepolcro di Cecilia Metella.
Le due parti non avevano che a far altro che aspettar l'alba. Ma non era così di donna Paolina. Essa tenevasi certa che l'autorità del general Massena sarebbe stata più che sufficiente a mandar a vuoto il duello, e forse ad ottener dal conte che di nemico si facesse amico e protettore, e, più che gli orgogli di casta, sentisse i doveri di padre. Ella dunque provò fino allo spasimo il martirio dell'aspettare; ad ogni scalpito di cavallo, ad ogni rumor di ruote, ad ogni aprirsi di porte, stava in sull'ale tremante, convulsa, nella credenza che fosse un messo benefico, apportatore di una felice notizia. Ma passò tutto il giorno, passò la sera, la notte si fe' alta, e nessuno venne, e il suo tormento era accresciuto dal non poterlo manifestare altrui, essendosi ella recata dal general Massena all'insaputa del capitano. In quanto a quest'ultimo, ei non s'inquietava che dell'irrequietudine di donna Paolina, la quale, per quanto si sforzasse, non sapeva vincersi e non aveva posa un momento; per sè era tranquillo, avendo una ragionevole coscienza della straordinaria sua perizia nel maneggio dello squadrone, che era l'arma scelta; e pensando che il conte S...., più abituato alla sciabola, doveva, secondo la probabilità, aver la peggio, per la differenza, benchè minima, che passa tra l'uso dell'una e dell'altra arma. Oltrecciò poi lo rassicurava l'idea di potere, appunto per la propria bravura, misurare i colpi in modo da portare la più lieve ferita al suo avversario.


X


Venne l'alba; il capitano e donna Paolina si alzarono. Di lì a pochi minuti due carrozze entrarono nell'albergo dov'essi alloggiavano. I due padrini salirono. Donna Paolina, indossata l'assisa di dragone, passò nel salotto dove il Baroggi erasi già recato a salutare e ringraziare e stringer la mano ai due ufficiali. Donna Paolina ebbe moti e accenti tranquilli e solenni. Perduta ogni speranza di riconciliazione, in lei era cessato l'orgasmo dell'aspettazione e dell'incertezza; d'altra parte, anche l'affanno avendo la sua stanchezza, aveva dato luogo a un sentimento tutto interno e senza espansione, a un sentimento molto simile a quello di un ammalato che, essendosi illuso di poter riacquistare la salute, sente invece che per lui non ci sono che pochi giorni di vita; e in questo pensiero, per le arcane leggi della natura compensatrice, s'adagia in silenzio, e aspetta l'ora del proprio fine. Essa dunque era muta e immobile. I due ufficiali la guardavano con ammirazione e con pietà; nulla v'ha di più bello e affascinante della bellezza femminile e della gioventù, quando, ad onta della calma, rivela nel proprio aspetto le impronte di un immenso dolore.
- Vedrete che tutto finirà bene, le disse uno degli ufficiali.
- Non spero nulla. Soltanto vi supplico a ottenermi qui dal capitano il permesso di venir anch'io presso al luogo del duello. Vi prometto che starò immobile al mio posto, come uno de' sepolcri che stanno lungo la via Appia. Qui sola non potrei resistere allo spasimo. Là, a due passi dal sito fatale, la notizia dell'esito potrà essermi recata da voi in pochi minuti. Non credo che ci sia nessuna sconvenienza in ciò.
- Capitano, soggiunse allora, uno de' due padrini, noi portiamo la persuasione ch'ella possa ben venire a pochi passi di distanza da noi. Costei è una donna uomo. Vi supplichiamo a concederle quanto ella chiede.
- Essa faccia quel che più desidera, rispose il Baroggi, prendendo per mano e baciando la sua Paolina. Costei non sarà mai per far cosa che possa compromettere d'un punto la fama dell'uomo di cui ebbe la generosa bontà di voler dividere i destini.
Proferendo queste parole, preceduto dagli altri, uscì e discese; poi, quando fu al piede dello scalone, riabbracciando e ribaciando e salutando la sua donna, la mise a star sola in una carrozza, ponendo a' suoi ordini un uomo che serviva nell'albergo, ed egli salì nell'altra, insieme coi due ufficiali padrini.
Da porta Pinciana dovendo attraversar tutta Roma per andare a porta S. Sebastiano, e poi percorrere quasi due miglia e mezzo della via Appia per recarsi al sepolcro di Cecilia Metella, il viaggio durò qualche tempo. Il capitano Baroggi, ad ostentare indifferenza, la quale nelle ore che precedono un duello è comandata dalla consuetudine e dalla prammatica, per quanto le più legittime apprensioni debbano travagliare un animo giusto e non spensierato, s'intrattenne con gran disinvoltura, lungo il cammino, delle rovine di Roma; del come, in poco tempo, dovendo essa diventare la capitale d'Italia, la popolazione avrebbe potuto ascendere facilmente a cinquecento, a seicento mila anime, e tutta la parte desolata dell'eterna città, che dal suo centro per più di due miglia si prolunga fino alla porta Appia, avrebbe potuto empirsi di grandiose abitazioni. Fuori di porta, poi, considerò poeticamente e storicamente, come sullo stesso acciottolato su cui rumoreggiava la carrozza in cui esso trovavasi, avevano già rotolato i carri degli antichi Romani, e le bighe e le quadrighe trionfali di Cesare e di Pompeo; e, dimenticandosi per poco della propria condizione, fece voti che la grandezza futura di Roma e dell'Italia potesse divenir tale, che a poco a poco dovesse poi scemare il culto idolatra che si aveva per ogni minima pietra infranta del suo passato. Di tal modo esso giunse a distrarre e a dissimulare l'intima preoccupazione. Ma non potè fare altrettanto donna Paolina; sola nella propria carrozza, dalla campagna solitaria che le si stendeva dintorno, e dai ruderi e dai cippi e dagli avelli infranti, che ad ineguali intervalli profilano la vetusta via, non le derivavano che tetre sensazioni che sempre più l'accasciavano; oltredichè l'abbattimento fisico per la notte vegliata nell'irrequietudine del pensiero l'avevan ridotta sin quasi alla condizione febbrile; e presto sul cielo essa vide staccarsi l'antico sepolcro di Cecilia in sembianza di un torrione merlato, e pochi momenti dopo vide due carrozze ferme nella campagna a sinistra del mausoleo. Mandò un lungo sospiro, volse gli occhi al cielo, si contorse le mani, colle quali poscia si cinse le tempia, e si rannicchiò, come per spavento, in un angolo della carrozza.
Il Baroggi e i due ufficiali discesero, e fecero fermare la carrozza presso all'altra dove stava donna Paolina, alla quale il capitano strinse fortemente la mano incoraggiandola collo sguardo senza aggiunger parola. S'avviarono nel campo dove eran già gli altri. I padrini delle due parti si salutarono, stettero insieme a consulta qualche momento; uno dei padrini del conte S..., presi due squadroni di identica forma e lunghezza, li porse ad uno dei padrini del capitano Baroggi dalla parte dell'elsa, perchè a caso scegliesse il suo. I due avversarj, svestita l'assisa, levato il fazzoletto dal collo, rimboccate le maniche della camicia, si piantarono rimpetto l'uno dell'altro nei due punti della zona determinata dai padrini. Un medico, un chirurgo, due soldati d'ordinanza delle due armi dei dragoni e degli usseri stavano a qualche distanza.
Se lo spettacolo di un duello, per minima che sia la cagione che l'ha provocato, per indifferenti che sieno i combattenti, per poca o nessuna che sia la valentia ch'essi abbiano nell'uso dell'arma, desta sempre un vivo interesse, e tiene sempre gli astanti in affannosa apprensione, è facile immaginare che interesse, che ansia, quali emozioni debba suscitare quando le cagioni onde nacque sieno gravissime, quando sia noto che gli avversari devono essere agitati da fortissimi sentimenti; quando per di più la fama ch'essi hanno di valentissimi, comunichi all'interesse consueto l'interesse e l'aspettazione, quasi diremmo, di uno spettacolo d'arte! Di questo genere era il duello che sotto il cielo di Roma, presso ad uno dei più famosi e vetusti monumenti di quella classica terra che delle proprie memorie investe e fa grandeggiare anche il presente, stava per incominciare.
Un amante, anzi un marito, marito in faccia alle eterne leggi della natura, se non in cospetto delle transitorie consuetudini sociali, stava a fronte al padre della propria sposa; la gioventù nel primo suo vigore, la bellezza nel massimo suo splendore, di contro alla virilità che, presso alla sua decadenza, sembrava riassumere in un estremo sforzo i varj momenti dell'età trascorsa, e celare i guasti del tempo sotto un aspetto affatto eccezionale di jattanza poderosa. Da un lato un raggio calmo di onesta bontà, che rendeva più interessante la gioventù, la bellezza, la sventura; dall'altro un'apparenza fiera e provocatrice, che stornava da sè ogni simpatia ed ogni indulgenza.
Dato e ricambiato il saluto di costume, gli squadroni si toccarono. Il tintinnio risuonò nella profondità del silenzio generale. Quel sonito passò il cuore della sciagurata Paolina, che si gettò in ginocchio, fermandosi in questa posa come un'estatica.
Ma noi non riferiremo tutti gli accidenti del duello, tutti i colpi, le mosse, le gare tra la forza e la destrezza. Soltanto diremo che, senza ferir colpo, i combattenti dovettero riposarsi fino a cinque volte, riuscendo manifesto agli astanti ed allo stesso conte S..., che il capitano avrebbe potuto percuoterlo gravemente una volta alla testa, un'altra al petto. Gli squadroni al sesto assalto si toccaron di nuovo.
Il Baroggi, in tanti assalti rinnovati, aveva studiato i tiri abituali del conte, e scoperto le vie d'entrata per aggiustargli quel colpo che lo ferisse, senza fargli gran danno; ed in ciò consisteva quella suprema e quasi già prodigiosa valentia nell'arte, di cui nessuno può esser sicuro… e l'ingresso fu lasciato aperto, ed egli fu lesto ad approfittarne; ma, nel misurargli il fendente con tal arte da scemargli la gravezza del colpo, perdette quel prezioso minuto secondo che può dar la vittoria; e il conte in quel punto gli calò sulla spalla un forte colpo, pur riparato in tempo, ma non così che non gli ferisse la spalla destra.
- Sangue! gridarono ad una voce i padrini; fermi, basta.
Il conte abbassò lo squadrone, il capitano fe' altrettanto, e si volse verso il padrino che gli denudava la spalla. Macchinalmente alzò poi gli occhi al cielo con quell'atto che dinota ira e disprezzo, e lasciò cadere a terra lo squadrone. Accorsero il chirurgo e il medico, e il conte, appoggiato sull'elsa del proprio squadrone, guardava e non si moveva, e quasi non respirava. Vi fu un momento solenne di silenzio generale... ma a romperlo con violenza, dal ciglio della via balzò nel campo donna Paolina... fu tosto presso al capitano, guardò la ferita, guardò nella faccia del chirurgo, e lettavi la espressione di chi teme più che di chi spera, balzò in piedi come una demente, e, sguainato lo squadrone, fu sì prestamente addosso al padre, che questo appena ebbe il tempo di parare il colpo, e certo avrebbe dovuto pararne altri, se la figliuola nel gridare: - Morite ora voi, scellerato, - non fosse caduta sul terreno istantaneamente e priva di sensi; caduta come piombo, come una statua marmorea che d'improvviso si rovesci; e colà stette.
Ad eccezione del medico e del chirurgo, che non si staccarono dal capitano ferito, tutti furono allora intorno a quella sventurata. Solo il conte... puntato lo squadrone a terra, si appoggiò di nuovo sull'elsa, e stette immobile così. Se non che, venuto a lui, dopo alcuni secondi, il colonnello Ballabio, questi con pietosa meraviglia vide che dagli occhi fissi e attoniti cadevangli a dirotta le lagrime sulla corrugata faccia, ancora atteggiata alla fierezza. Il cuore, impietrito, gli si era come smosso e squagliato sotto a quel colpo estremo. Le emozioni provate da tante ore continue, perfino il suo orgoglio lusingato dall'apparente vittoria, avendogli ammorbidita la fibra, aprirono di repente un varco a que' sentimenti che la natura pareva avergli negati. In un baleno il suo pensiero percorse infinite cose; si rifece indietro tanti e tanti anni; comprese tutti i proprj torti; avrebbe voluto aver lì presente la dolce e pur sempre a lui cara Ada; avrebbe dato tutto il suo sangue perchè non fosse avvenuto tanto disastro; si tormentava di non aver consolata la propria figliuola nel punto ch'ella, supplicante, erasi gettata a' suoi ginocchi; di non averle detto: Sii la moglie felice del tuo felice marito. Pensò a tutte queste cose, che in folla gli si addensavano in petto tremendamente affannose. Pensò e pianse, e dopo aver fissato per qualche istante il Ballabio:
- È viva? esclamò. Oh, faccia Dio ch'ella sia viva!
Ogni cura possibile in que' momenti fu amministrata. La fanciulla, dopo assai tempo, diè segni di vita. Era stata una sincope pericolosa e quasi mortale... Ma il padre non osò avvicinarsi a lei... Soltanto, con parole che non parevano compatibili con quella sua natura di ferro e di fuoco, pregò il Ballabio di chiedere al ferito capitano se gli permetteva di stringergli la mano. Il Baroggi, alla domanda del Ballabio, il quale prima aveagli detto che la donna sua stava riavendosi, nè presentava pericolo alcuno, chinò la testa in segno di adesione. Il conte S... si avvicinò, s'inchinò a lui, gli prese la mano... Il Baroggi se la lasciò stringere, ma non disse nulla.
Il conte interrogò poscia il chirurgo sulla condizione della ferita.
- La ferita è grave... forse sarà indispensabile la disarticolazione, che è una delle più difficili operazioni.
Il conte tacque e si fe' cupo.
Donna Paolina fu messa in carrozza; in una lettiga fatta venire dalla città fu posto a giacere il Baroggi.
Così finì quella triste giornata.
Ed ora dovrà passare assai tempo prima di trovarci ancora con questi personaggi.



LIBRO DECIMOQUARTO


Una festa a palazzo di Corte a Milano nell'anno 1810. - Il vicerè Beauharnais. - La principessa Amalia. - Ministri, soldati. - Letterati. - Poeti. - Il pittor Bossi. - Il conte e la contessa Aquila. - L'avvocato Falchi e l'infernal Dea.


Nel punto di affidare a un libro stampato tutte le notizie arcane che si riferiscono all'estremo periodo del regno italico che tramontò cupamente coll'eccidio del ministro Prina, ci tenne sospesi il timore che la rivelazione di alcuni fatti straordinarj potesse suscitare qualche scandalo e turbare la quiete di alcuni uomini ancor vivi che non ebbero una parte troppo netta in quella orrenda tragedia. Un altro motivo per cui fummo in forse, stava nella qualità di alcuni documenti che abbiamo tra mano; documenti scritti, ma di natura al tutto privata e, per dir così, non ufficiali; documenti, per conseguenza, non bastevoli a convertire le congetture storiche in legale certezza. Se non che abbiamo pensato che anche le semplici congetture, anche le sole opinioni e le credenze degli uomini che furono testimonj di grandi fatti, sono materia legittima alla storia, perchè rappresentano tutto intero il pensiero, il giudizio dei contemporanei; e perchè d'altra parte si danno certe verità che non si consegnano ai pubblici ed officiali documenti, e delle quali tuttavia la posterità non dev'essere defraudata. Se la storia non può giurare sulla verità di alcuni fatti e sulle loro cagioni, ha però l'obbligo di pubblicare e mettere in ordine tutti gli indizj, i quali, se sono moltiplicati, possono talvolta, nella sfera morale almeno, quasi far vece di prova. È il caso di un tribunale che non può condannare un colpevole perchè gli manca la suprema prova irrefragabile; ma tuttavia dal cumulo e dalla qualità degli indizj gli è imposta la convinzione che l'accusato è reo del delitto imputatogli.
Persuasi di questo, ci siam determinati a pubblicare questa parte del nostro libro, sopprimendo i nomi, e talvolta anche le iniziali che possono condurre a indovinarli. Se i lettori, tenendo dietro a quanto pubblicheremo, daranno il vero nome ai personaggi che noi nasconderemo sotto artistici pseudonimi, ciò vorrà dire che anche a loro di padre in figlio son pervenute quelle verità che nessuno ebbe sin qui il coraggio di manifestare, se altri poi non comprendesse nulla, e fosse per rimanere spaventato da certi caratteri troppo infernali e da alcune perfidie che, anche essendo vere, sembrano inverosimili, si dia pace e si consoli col credere e col dire che tutta la nostra storia non è che un romanzo.


I


Siamo nel carnevale dell'anno 1810. Anche la storia, in carnevale, assume qualche cosa di giocondo e di rumoroso, per cui, smesso l'eccessivo suo rigore e le sue cautele che non si tranquillizzano se non sugli atti notarili e sui documenti degli archivj aspersi di molta goccia, si fa più sincera, più alla mano, più ciarliera. È un momento prezioso questo di starle ben presso, d'interrogarla e di farla cantare.
Son corsi dodici anni dagli ultimi avvenimenti a cui abbiamo assistito. Grandi cose sono avvenute in questo intervallo. Prima la repubblica cisalpina si trasmutò attraverso al diaframma degli Austro Russi e della battaglia di Marengo, in repubblica italiana; poi il 18 brumajo portò di punto in bianco Bonaparte ad essere il padrone del mondo; ed è strano come la fortuna, quasi a vendicarsi della prepotenza onde il genio di lui la ebbe costretta ad impegnarsi al suo servizio, si dilettò di farlo parer minore di sè stesso in quel giorno appunto, quasi volesse mostrare che senza l'ajuto di lei sarebbe forse caduto per sempre; e infatti, allor fu chiaro come il sole che quando essa si fa l'alleata del destino, il male partorisce il bene; gli errori sembrano ardimenti di intelletto; l'ignoranza e l'imprevidenza risolvono problemi non possibili alla ragione calcolatrice. Quell'oca di Berthier scongiurò Bonaparte a tacere, per non provocare l'ilarità ed il disprezzo dei Cinquecento. Quel gallo borioso di Murat, non comprendendo nulla e però facendo entrare i granatieri a bajonetta in canna a far saltar giù dalle finestre i membri rappresentanti la maestà della repubblica, tagliò il nodo inestricabile, e liberò il volo all'aquila di Bonaparte.
Al 18 brumajo avea tenuto dietro il consolato, e l'imperatore di fatto erasi già rivelato nella unità di Bonaparte collocato fra gli zeri di Cambacerès e Lebrun; e in seguito venne l'impero e il regno, e l'annuncio di una monarchia universale, e il Giove Ottimo Massimo, cogli stivali alla dragona, e la non olimpica ventraja, ed il capolavoro della battaglia d'Austerlitz, che, al par di tutti i capolavori dell'arte, infranse le regole della grammatica campale, fin quella che ingiunse agli eserciti di non prendere le mosse che in primavera. Al capolavoro d'Austerlitz e alle altre battaglie prodigiose avea seguito quella pace di Tilsit, che segnò il punto più eccelso dell'ascensione di Napoleone; e là, se egli si fosse fermato, ben altri avvenimenti la storia avrebbe avuto da raccontare ai posteri, ed il cammino dell'umanità avrebbe forse dovuto piegare per sentieri non sospettati da noi. Ma l'eccessiva altezza mise il massimo degli uomini troppo presso alla fonte della luce, ed ei ne rimase così abbagliato da non vedere più le proporzioni degli uomini e delle cose.
Siamo in Milano, la capitale del regno italico, la regina di settantanove città, la sede del governo, la gran fiera dei pubblici impieghi, il convegno di tutti gli ambiziosi d'Insubria, il palco scenico di tutti quelli che devono o vogliono rappresentare qualche parte nella grande epopea drammatica di quel tempo; la Babylo Minima, in una parola, di Ugo Foscolo, la quale faceva da succursale alla Babylo Maxima di Parigi. Ci troviamo confusi nella folla davanti al palazzo di corte, in una notte di febbrajo. I dragoni reali rasentano la punta dei piedi dei curiosi, che si accalcano per vedere gli dèi e gli eroi, le dee e le semidee a discendere dai cocchi. L'aere nebbioso risuona dei boati plebei di cocchieri impacciati a stare in fila, periglianti nelle voltate, attraversati dai gendarmi a cavallo, urlanti e minaccianti come Argivi e Trojani nel fitto della mischia.
Ed or s'è fatto un po' di largo; procedono le carrozze. Ecco quella del duca Melzi, il guardasigilli della Corona. Le due livree gallonate e passamantate balzano a terra. Si spalanca la portiera, la gradinata si snoda, e si riversa sino a terra. Sua Eccellenza lentissimamente discende a mostrare una testa veneranda, che nasconde la santa calvizie sotto una crosta fatta di cipria a ricordare i tempi lieti del topé; S.E. è coperta da una assisa ampia, larga, lunga, tesa, non suscettibile di piegatura, come se fosse foderata di legno; tutta quanta aspra di ricami d'oro a rilievo, a somiglianza d'un piviale del Corpus Domini. Egli ascende lo scalone; parte la sua carrozza; altre subentrano. I generali Pino e Solaroli smontano e ascendono a lievi salti. Arriva Fontanelli, il ministro della guerra; arriva il marchese Cagnola nella duplice sua qualità di signore e di artista. Arrivano in un fiacre di gala il medico Monteggia e lo speziale Porati. Arriva il gran giudice Luosi, tutto sprofondato nel suo immenso cravattone bianco. Vaccari e Bovara e Birago e Marescalchi sono già saliti da mezz'ora, dicono gli spettatori irremovibili, indarno ammaccati dal calcio del fucile del granatiere.
Arriva la carrozza del conte Aquila con sua moglie (diciamo Aquila per non dire il vero nome di questo conte), il quale dell'aquila aveva l'occhio, il naso e la tendenza a volare in altissimo. Sua moglie (che chiameremo la contessa Amalia) è una leggiadra giovinetta di vent'anni. Essa porta un berrettoncino alla greca, di seta ponsò, con una stella nel mezzo, di raso bianco, dove un grosso diamante rifrange la luce in iridi fuggitive. Ha un soprabito di velluto ponsò ricamato in argento, da cui trapela un sottabito bianco di stoffa alla greca, tutto con righe a lama, pure d'argento. Il conte Aquila ha l'abito nero di seta, con ricamo color verde a foglie di quercia, con bottoni e spada in acciajo; cappello con piume bianche, bottone e cappio in acciajo e fibbie d'argento.
Questa coppia giovane, che ben potea rappresentare la forza e la grazia, la violenza e la sommessione, è trattenuta in sull'ingresso dello scalone da un'altra coppia discesa allora allora. Era l'avvocato Falchi con sua moglie detta: l'Avvocatessa. Codesto Falchi è un pseudonimo; se il lettore ci sa pescare, ci peschi, e si diverta. Del rimanente questa donna noi l'abbiamo già vista al teatro della Scala la sera del ballo del papa, ed era una delle tre dive seminude. Essa in poco tempo, insieme col suo marito, era ascesa



Dal nulla avito al milionario onore.


L'avvocatessa Falchi, dette alcune parole alla contessina Aquila, e chiesto a una guardia se S.E. il ministro Prina era già venuto, ed avutane la risposta affermativa, ascese con ostentata lentezza le scale, guardando con invidia la giovane contessina. La Falchi aveva passati quei trentacinque anni, che per l'uomo sono il mezzo della vita, secondo il computo dantesco, ma per la donna ne son quasi i due terzi. Bella veramente non era mai stata; ma le forme del corpo ebbe maestose e dense e appetitose; e nel volto, dal naso adunco e dagli occhi grifagni, scorreva una certa protervia salace, che non dispiaceva agli uomini poco esteti e frolli, i quali antepongono lo strutto all'olio di Nizza! E altre dame dell'antica e della recente aristocrazia vennero in seguito; e per più di mezz'ora la processione delle carrozze sostava ogniqualvolta c'era da deporre o qualche principe, o qualche marchese, o conte, o generale, o colonnello, o capo squadrone, o tenente, o sottotenente che appena avesse avuto da pagare il fiacre.
Ma è tempo di uscir dalla folla esclusa dalle aule regali; e d'involarci alle morbose influenze dell'aere nebbioso e rigido, e di approfittare del nostro invito e del nostro frack per salire al piano superiore, a diguazzarci nel mare luminoso, dove la storia può fare i suoi riassunti ballando la contraddanza o bevendo un bicchiere del napoleonico Chambertin.
Entrando nelle sale del palazzo reale di Milano nel 1810, la recente magnificenza era tale, che per alcuni momenti lo sguardo si fermava alle vôlte, alle pareti, agli arazzi, agli specchi, alle statue, ai dipinti prima di guardare alle persone che l'affollavano. Fra tutte poi, la sala del trono era quella per entrar nella quale bisognava attender qualche ora, perchè da non molto tempo erano stati scoperti i dipinti a fresco dell'Appiani, rappresentanti l'Apoteosi di Napoleone colle figure simboliche che le fanno corredo. Il cav. Lamberti ne aveva stesa l'illustrazione, che, stampata in una splendida edizione italo francese e filettata in oro e rilegata in raso e velluto, passava a migliaja di esemplari per le mani degli intervenuti. Allora quell'illustrazione del letterato, professore, bibliotecario, cavaliere e cortigiano parve degna dell'opera pittorica; oggi fa compassione a leggerla, tanto dal linguaggio convenzionale e dalle frasi adulatorie e dalle generalità estetiche trapela l'ignoranza di chi parla d'arte senza averne la cognizione. Ugo Foscolo in abito nero civile, col cappello piumato sotto il braccio, e spada coll'elsa d'acciajo, confuso tra i moltissimi, guardava i dipinti e leggeva l'illustrazione e parlava sommesso al cavaliere Brunetti e all'avvocato Marliani. Ma la sua voce era di quella tempra leonina, sonora e profonda, che le sue parole non si fermavano all'orecchio degli amici a cui le volgeva in confidenza; tanto che i Creonti ne approfittarono per riferirne il sunto al medesimo cavaliere Lamberti, che insieme col cavaliere Vincenzo Monti stava in un angolo di quella sala stessa.
- Lascia gracchiare Nicoletto, disse allora Monti a Lamberti, il quale si scontorceva per le parole sprezzanti di Foscolo che gli erano state riportate. Ben io scuoterò la polvere de' suoi Sepolcri a suo tempo, e vedrete che quella fama ch'egli s'ebbe per me, per me dileguerà.
- Anche senza che voi scuotiate quella polvere, il vento la porterà seco. Or finalmente venite tutti nel mio parere, non essere costui che un gran ciarlatano, e non essere poeta chi ha potuto dettare quell'intralciato e indigesto e fumoso carme dei Sepolcri. Lascia dunque, Lamberti, ch'egli disapprovi la tua prosa. Egli non avrà mai nè la tua lingua, nè la tua correzione, nè la proporzione del tuo disegno.
Così parlava l'arcigno e livido ed esagerato Giordani, che nella critica non aveva nè misura, nè giustizia rigorosa, ma si lasciava prendere dai consigli che gli venivano dal fegato morboso. E questo fegato stillava un fiele tutto speciale ai danni di Foscolo, perchè questi nella sua prolusione sull'ufficio della letteratura, professando il proprio disprezzo ai panegirici, implicitamente aveva condannato anche quello con cui Giordani, il libero Giordani, prosternandosi innanzi a Napoleone, aveva sfoggiato un'adulazione che avrebbe fatto ribrezzo anche ai tempi di Roma imperiale.
Al crocchio di Monti e di Lamberti e di Giordani si unirono il frate prete spretato Lampredi, e Mario Pieri, il quale era indignato con Foscolo perchè non gli aveva mai accordato l'ingegno ch'ei pretendeva di avere; e vi si aggiunse Brunacci ancora sbuffante degli schiaffi che Ugo, sotto gli atrj dell'Università pavese, gli aveva promessi; e fecero circolo don Marzio Anelli e una mezza dozzina di membri dell'Istituto nazionale.
Ugo Foscolo in quell'anno aveva perduta la cattedra, era in ira al vicerè, era lautamente indebitato, disperatamente innamorato: avverso era al mondo e avversi a lui gli eventi. Irritato dalle recenti offese, sparlava del governo; onde tutti coloro che speravano e temevano tutto dall'alto, ed erano protetti e ricompensati ed onorati, lo scansavano come pericolosissimo. E ad accrescergli tanta indignazione s'aggiunse precisamente a quei dì la sua rottura con Vincenzo Monti. La causa era stata Omero. Chi mai lo avrebbe detto al cieco d'Ascra? I più allora accusarono Foscolo d'invidia. Ma oggi possiamo noi dir questo? oggi che, confrontando i sei canti dell'Iliade da lui tradotti con quelli del Monti, si vede quanta differenza interceda tra i due lavori, e come sia stato un vero danno che la eccessiva facilità di Monti abbia scoraggiato il suo rivale di perdurare lunghi anni in quell'impresa, che davvero pareva fatta per lui solo; per lui che era poeta per lo meno quanto Monti, ed aveva più passione e più viscere, e possedeva il privilegio di essere davvero italo greco.
Ma lasciamo la sala del trono e dell'apoteosi, e rechiamoci a vedere altre sale ed altre faccie.


II


Nella sala delle Cariatidi, non al tutto allora compiuta, ma così ornata di velluti e veli e frange auree e festoni e fiori, che a nessuno appariva qual parte di essa avessero lasciato in sospeso l'architettura e le arti sorelle, fervevano le danze, ma fervevano più nei cuori caldissimi degli ufficiali e delle dame sospiranti in segreto agli spallini ed ai petti onorati di aquile ferree, che nel muover dei passi misurati a convenzionale lentezza. La musica era diretta da Alessandro Rolla e dal Pontelibero.
I vecchi, che erano vivissimi nel 1810, e vivono ancora oggi, e tennero dalla natura una tempra così robusta, e il tubere della giovialità così pronunciato, e pilori a macina di costruzione così prodigiosa che ancora s'arrischiano a vegliare ad ora tardissima; e se c'è una festa che esca dalla sfera comune, son là pronti in cravatta bianca prima dei giovani ad assaporarla, ci assicurano colle mani sul petto, che se le beltà femminili, per qualità e quantità, sono oggi in una condizione ancor molto prospera, mezzo secolo fa fiorivano con insuperabile rigoglio; ma sopratutto ci assicurano che oggidì la razza grande è quasi spenta affatto - la razza delle donne, vogliamo dire, dai colli e dalle braccia di Giunone; o che, volendo lasciare in pace le olimpiche deità, potrebbero servire allo statuario per modellare qualcuna delle virtù teologali.
Di quel tempo splendeva una Falchignoni, che poi fece da Semiramide in teatro per usufruttare i grandi occhi e il naso d'antica perfezione e le ineffabili spalle; splendeva una Doria alta trentasei oncie, come una cavalla normanna; splendeva o, per dir meglio, nereggiava una R..., che al pari di Cleopatra avea fermata l'attenzione di Cesare. Splendeva una donna che vive ancora, e serba nella faccia settantenne, più che l'arco di Tito e di Costantino, le prove irrefragabili d'una sontuosità senza esempio. Ella partorì a tutto vantaggio delle arti belle un'inclita figlia, che proseguì poi alla sua volta il lavoro e le benemerenze materne.
Splendevano due contesse, il cognome delle quali cominciava dalla lettera A..., sacerdotesse assidue alle are di Cipro, e velate di devota incontinenza nei riti notturni della pallida Diana.
In quella parte della sala delle Cariatidi, che veramente poteva chiamarsi il dipartimento olimpico della reggia, circondata dalle dame di palazzo, che erano la marchesa Parravicini, la contessa Carcano, la contessa Montecuccoli, la contessa Gallo d'Otimo, la contessa Aquila, sedeva la viceregina principessa Amalia, leggiadra e soavissima d'aspetto:


Novella speme
Di nostra patria, e di tre nuove Grazie
Madre e del popol suo; bella fra tutte
Figlie di regi e agli immortali amica;



come allora, ad onta dei rancori col vicerè e dell'opposizione che esercitava contro il governo imperiale, aveva dettato Foscolo inspirato e placato dalla bellezza e dalla virtù.
Affollatissimi intorno a quel gruppo di stelle si vedevano i senatori, i conti, i baroni, i commendatori di fresca data. Dei senatori si distinguevano Veneri, Boara, Prina, Borioli arcivescovo d'Urbino, giovane di bell'aspetto, trasmutato nelle vesti in modo che di vescovile non mostrava più nulla se non forse il bianco della camicia trinata; Boara e Brême portavano il gran cordone della corona di ferro. Cavalieri recentissimi erano il marchese Trivulzi, il cugino del ministro Prina, che era provveditore del liceo di Novara, il ciambellano Martinengo, i professori Borda e Tamburini brevettati tutti nella grande sfornata dell'ottobre 1809, insieme con tanti altri che avevano avuto il merito di essere arrivati in tempo. A costoro e dalla sala e dalle tribune guardava la curiosità maschile; ma la femminile pareva concentrasse il fuoco collettivo delle sue pupille sull'alta maestosa figura del pittore Giuseppe Bossi, che in assisa di panno color caffè a bottoni d'acciajo volgeva la parola ad un ometto piccolo, tutto vestito di nero con eletta semplicità.
Il pittor Bossi poteva contare trentadue anni, e quantunque fosse tanto trasandato nel vestito, che comunemente lo chiamavano il foldone, era caro alle dame; caro tanto, che i mariti ringhiavano sordamente alla sua comparsa come cani sospettosi. Ma egli era bello di una bellezza all'antica, in istile greco romano. Portava i capelli alla brutus, fitti, lunghi, ricci, fulvo cupi, cadenti a ciocche pittoresche sulla fronte fino a toccare la regione dei sopraccigli, che aveva folti e piegati in così elegante arco, come se Fidia ci avesse messo lo stecco. E come augusto era l'arco del sopracciglio, insigni erano la linea del naso e i contorni della bocca e del mento; dalla qual cosa ognuno può farsi capace guardando uno studio fatto sul vero dal pittore Appiani. Ad una bellezza così eccezionale dava risalto, e fors'egli lo sapeva, la negligenza medesima che metteva nell'acconciatura; negligenza portata a tal segno, che molti sospettavano costasse molto pensiero precisamente a lui che ostentava di non pensarci; ma anche noi, ai nostri giorni, abbiamo conosciuto un elegante giovane, che poi uscì dalla folla, il quale faceva tali studj sulla negligenza del vestito, che tutti i giorni rinnovava sempre lo stesso sbaglio nell'abbottonarsi il bianco panciotto alla Robespierre.
Con tutto ciò le fisiche qualità del pittor Bossi non avrebbero bastato a mettere il capogiro nel bel sesso, se non ci fosse stata in lui quella prodigiosa versatilità di intelletto e di attitudini, che ne costituivano un'individualità veramente distinta. Dopo Leonardo, sebbene in una sfera meno eccelsa, egli fu il primo fra gl'illustri italiani, che abbia rappresentato in sè solo i caratteri di cinque o sei uomini. Pittore, poeta, scrittore, oratore, musico. Come pittore ci diede il disegno del Parnaso; come scrittore i suoi studj d'alta critica intorno a Leonardo; come oratore i suoi discorsi accademici; come poeta, segnatamente nel vernacolo, fu emulo di Porta, e tale emulo che Porta medesimo ne ingelosì; della musica sapeva quanto potea bastare per innestare sul piano delle variazioni leggiadre a quelle poesie che, nel crocchio amico e per puro passatempo, improvvisava declamando.
A ciò si aggiunga una vena inesauribile di epigrammi arguti e di buon genere, una grande scorrevolezza di spirito, un fare penetrante e lusinghiero, un'amabilità continua. Ma rare volte è inamabile chi fu il prediletto della natura e della fortuna. Ci vorrebbe un'indole da cannibale per essere arcigni e rozzi sotto alla pioggia dei dolci sguardi e dei cari sorrisi e delle lodi e dell'ammirazione universale. Diciam questo perchè non si creda che noi facciamo il panegirico al pittor Bossi, il quale aveva poi un gran difetto, quello di lasciarsi troppo facilmente vincere dalle continue tentazioni; anzi se ne gloriava e vantava, e ci annetteva tanta importanza, da tener nota delle sue più minute avventure e speranze amorose, in un diario ch'egli giorno per giorno scriveva, e che noi abbiam potuto vedere. Eccone un saggio: Questa sera, al teatro della Scala, nel corridoio dei palchi, ho baciato la marchesa P..., ed ella mi strinse fortemente la mano: All'erta adunque e avanti. - La moglie del comandante Baraguais d'Hillier è tanto bella e cara quanto è odioso il marito. Ieri sera mi ha pregato e ripregato di lasciarmi rivedere. Io dunque la rivedrò, ma non per niente. - La principessa D.... di Roma fu ieri la regina della festa. Che maestà, che orgoglio! Mi si dice che sia invincibile; ma altre fortezze capitolarono, ed io le ho da fare il ritratto. - Esco adesso dalle stanze della Grassini divina. Chi me lo avesse detto! Ed ora sono cognato di sua Maestà.
Non oziosamente ci siam diffusi nel parlare del pittor Bossi; anzi preghiamo il lettore a tener nota di quanto abbiam detto, per tutto quello che accadrà in avvenire. Ma egli continuava a parlare col suo amico e collega, il cav. Zanoja, canonico di S. Ambrogio, predicatore, professore d'architettura in Brera, e poeta satirico. La saetta dell'epigramma mordace e l'acredine della satira gli si vedevano in volto, segnatamente nel labbro inferiore più sporgente del superiore.
- Sua Altezza pare di buon umore, diceva Bossi.
- Tutte le cingallegre son liete.
- Egli non ha motivo d'esser triste.
- Colla sua testa e col suo cuore no.
- Voi alludete al divorzio cui fu costretta sua madre; ma già era indispensabile.
- Lo so, ma non toccava a lui a far in Senato l'elogio dell'imperatore perchè ripudiava la madre.
- Ora, credete voi che il divorzio avrà per tutti un posto nella legislazione?
- Toccherà al ministro Prina a pensarci.
- Volete dare al dicastero delle finanze gli attributi del culto?
- Quando occorreranno altri danari, e col sistema corrente non c'è oro che basti, il ministro Prina consiglierà la sanzione del divorzio; e valutando la consolazione di tanti mariti liberati una volta per la virtù d'un paragrafo dai ceppi sacramentali, metterà sulla universale consolazione tali tasse da empire due erarj. Avete visto come egli ha fatto l'anno scorso colla caccia? Prima era un privilegio di pochi, che nessuno osava toccare; ma al ministro occorrendo danari, Il tempo dei privilegi è finito, proclamò; tutti gli uomini sono eguali, tutti devono dunque andare a caccia, e mise una tassa enorme sulle licenze. Quando una misura finanziaria può comparire in maschera di salute pubblica e di umanità, è certo che prospera. Così il divorzio entrerà nel regno italico sotto il braccio del ministro di finanza e il settimo sacramento riceverà scacco matto dall'erario esausto.- E chi sa che il primo ad imitare S. M. non debba essere Sua Altezza?
- Bisogna bene che il divorzio gli abbia dato alla fantasia, per dimenticare così indegnamente i riguardi dovuti alla propria madre. Se poi al fatto del divorzio aggiungete l'aumento di un milione all'anno con cui S. M. gli pagò la perfida mediazione, è facile a comprendere l'allegria che brilla sulla faccia del vicerè.
- Caro cavaliere professore, non deve esser questa la ragione, io ci vedo altro. Ma io posso penetrare in luoghi che son vietati a un canonico di S. Ambrogio. Or fatemi un piacere. Per qualche tempo tenete d'occhio il vicerè e la contessa Aquila, che oggi ha ricevuto la nomina di dama di palazzo, e sappiatemi dire il vostro parere. Or va ad avviarsi una monferrina, e il vicerè sta invitando la contessina a volere ballar seco. Credetemi che l'allegria di questa notte non gli deriva nè da Giove, nè dal tesoriere Plutone.
- Fauni, Satiri, Silvani, Dei cornuti... e che cosa dirà il conte Aquila.... il Vice Lucifero?
- L'osso da rodere sarà più duro degli. altri. Ma l'orgoglio del conte lo salverà da qualunque sospetto.
- Ma guai se il sospetto romperà nel suo orgoglio!
- Io mi meraviglio però come esso abbia concesso alla propria moglie di accettare la carica di dama di palazzo.
- È presto pensato.
- Cioè?
- Perchè facesse più rumore il suo rifiuto alla carica di ciambellano. Siccome poi è voce che circola in piazza, che il vicerè è il gallo della Checca, il conte avrà pensato di stornare la taccia di marito geloso coll'ostentare noncuranza e disprezzo. Costui è giovane della più strana e straordinaria natura. È un miscuglio di Catilina e di Giulio Cesare. Ora ei si tiene in disparte dalla cosa pubblica, rifiuta cariche, respinge onori per il solo motivo che non è vacante un posto d'imperatore. Per quello presenterebbe volentieri le sue petizioni. Io lo conosco benissimo.
- Lo conosco anch'io assai bene; e tanto che, se sua moglie fosse mia sorella o mia figlia, io vivrei dì e notte in continuo timore.
- Vada per la moglie, ma la cosa più pericolosa è il nascere suoi figli.... il suo primogenito lo ha provato.
- Possono esser calunnie.
- Lì c'è il dottor Monteggia. Interrogate lui. La cosa fu messa a tacere; ma quel che è avvenuto non si può negare. Pare che il conte abbia voluto imitar Giovanni de' Medici, quando per interrogar l'avvenire ed esplorare a che cosa era destinato il suo unico figliuolo, ingiunse alla moglie di gettarglielo giù in braccio dalla finestra. Ma se Cosimo bambino fu accolto sano e salvo dalle braccia paterne, perchè doveva diventare il Tiberio della Toscana, al figlio del conte non toccò la stessa fortuna.
- Il conte però non fece come il Medici...
- No; ma gettando egli stesso in alto il bambino, come se fosse una palla, e ripetendo, ad onta degli strilli infantili, il giuoco spietato, venne la volta che gli cadde in terra, e là giacque.
Mentre costoro parlavano, avendo il maggiordomo di corte fatto segno al direttore d'orchestra Alessandro Rolla che annunciasse una monferrina, primo il vicerè, dando braccio alla bella contessina Aquila, s'avanzò nel mezzo della sala per aprire la danza.
Beauharnais, quantunque contasse appena ventinove anni, non aveva nessuna fisica attrattiva; era già calvo, era atticciato. Ma, per compenso, aveva modi gentili e insinuanti, e una grand'arte nel darla ad intendere, specialmente alle donne. Era francese in tutta l'estensione della parola, con un viso a zigomatici rilevati e a naso rivoltato, di quelli che tanto abborriva l'italico Alfieri; ma, per sua fortuna, le donne, non essendo sempre profonde in estetica e lasciandosi lusingare troppo facilmente dalla possanza, dalla gloria o dalle sue apparenze, dalle vesti pompose, lo giudicavano assai favorevolmente. Egli poi aveva la prerogativa di essere, sul terreno d'amore, un cacciatore instancabile; ben potevano le beccaccie e le beccaccine deviare, nascondersi, tentar voli subdoli, fargli perdere interi giorni; egli non abbandonava la preda, finchè veniva il punto d'aggiustar bene il tiro, e di lasciar la fuggitiva con qualche ala infranta.
- Queste sale, contessa, posso giurare d'averle aperte espressamente per voi (così nel suo francese diceva Beauharnais alla contessa Amalia). In febbraio io vi attesi invano tutta la notte al ballo che mi diede il Senato: però, quantunque fosse mia intenzione di non dar feste altrimenti in quest'anno, perchè devo partir subito per il matrimonio di S. M., pure ho cambiato consiglio, sapendo che la vostra novella carica vi costringeva a intervenire alle feste di corte.
- Se sono venuta, disse gentilmente la contessa, è perchè mio marito me lo ha permesso.
- Se vostro marito ve lo ha permesso, è perchè non poteva impedirlo.
- Poteva impedirmi di accettare la carica di dama di palazzo.
- Io dunque non ringrazierò che vostro marito.
- Oh.... ma non fate, altezza, ch'io debba lamentarmi della sua condiscendenza....
Il vicerè si sentì esaltato da queste parole, dando loro la più ampia interpretazione.
Dallo sguardo che solo aveva insinuante ed espressivo, gli traspariva l'intima gioja. Nel passare in mezzo alle vive cariatidi dell'impero e del regno, volgeva parole amabili a tutti e loro comunicava quelle notizie che potessero dar piacere e soddisfazione.
- Eccellentissimo signor duca, diceva, passando dinanzi al gran ciambellano Litta, da questo momento ho finito di chiamarvi marchese. Il governo di S.M. ha riconosciuta la dote che voi avete assegnata al ducato cui foste innalzato fin dall'ottobre passato. - Caro marchese Trivulzi, oggi è venuta per voi la nomina di ciambellano; preparate le chiavi. - Il signor conte Annoni permetterà che lo saluti commendatore; - e via su quest'andare.
Ma Rolla diede il segno, e il vicerè aprì la monferrina. Assai presso al vicerè e alla contessa Aquila, trovavasi madama Falchi, atteggiata anch'essa per la danza. Il pittor Bossi, amico suo di casa, staccatosi dal collega Zanoja, s'era messo a sedere al posto di lei, intanto che ella erasi alzata. Appena la monferrina finì, il pittore fu presto a levarsi per restituire il posto a madama.
- Ma, non ho volontà di sedere, - essa gli disse; - piuttosto accompagnatemi a fare un giro per le sale. Se il pittore, ch'era ottimo di cuore, avesse saputo di che si trattava, certo non avrebbe accompagnata quella donna. Però non lamentiamoci della sua condiscendenza fatale; la Falchi in ogni modo avrebbe trovato l'accompagnatore. In quanto a noi, stiamo attenti a ciò che sarà per fare colei, che fu davvero in quell'occasione:



L'infernal dea ch'alla vedetta stava.


III


Mentre la pantera, fiutata l'orma della gazzella, si appiatta adocchiando ed aspettando, diciamo qualche cosa della contessa Aquila; teniam conto de' suoi diporti in casa e in collegio; interroghiamo i suoi maestri, la sua governante; tentiamo di eccitare il suo confessore a svelar qualche segreto; sopratutto vediamo di far cantare qualcuna delle sue più intime amiche, di quelle che dall'infanzia l'accompagnarono fino ai quindici, fino ai vent'anni.
Che interesse desterebbe il nostro racconto se ci fosse concesso di manifestare il nome e cognome di questa nuova eroina! Quando si pensa che vivono ancora tante persone che l'hanno conosciuta più o meno dappresso, ed è infinito il numero di quelle che la conobbero di vista, è un dolore per noi, che siamo artisti nemicissimi del convenzionale, l'essere costretti a trattare questo personaggio come se fosse un ideale, mentre fu vivo e vero e realissimo. Ma se è un dolore, non è un ritegno; anzi, per consolarci, è un'occasione di più per lasciar libera l'uscita a tutta quanta la verità e per mettere allo scoperto tutti i segreti. Però, se non potrà essere appagata la curiosità del bel mondo, troverà maggior pascolo il filosofo investigatore, che, al pari del medico, ha bisogno di conoscere i più minuti elementi che produssero ed esacerbarono malattie ed ammalati celebri.
Cominciamo intanto dal dire, che il titolo di contessina, essa lo trovò in casa, bell'e fatto da molti secoli. Il suo casato, se non ricchissimo, era cospicuo. I suoi genitori, tanto il maschio che la femmina, furono buoni, per taluni anche ottimi, e di costumi assai rigorosi: così rigorosi, da non parer contemporanei di quella generazione lieta e gaudente che inventò il topé e la cipria. Le amiche della fanciulla, che vissero con lei gli anni dell'infanzia nel monastero di S. Giuseppe (d'una delle quali noi abbiam conosciuto il figlio, che dalla madre tenne molte notizie), furon tutte d'accordo nel dire, che indole più mite, più soave, più angelica della sua non ci fu mai; aggiungendo però che tutte queste qualità erano mantenute nel loro più perfetto stato di conservazione da una gran dose di ghiaccio nativo: press'a poco come avviene di alcuni prodotti vegetali, che, se non si tengono in fresco, si corrompono.
Non era per altro del parere comune la madre di quel tal figlio che noi conoscemmo, la quale per combinazione fu la sua amica più intima e più costante. Per suo mezzo potemmo raccogliere che la calma serafica era tutta nell'apparenza di quella creatura, ma di sotto all'onda gelata, non ostante una gran bontà e gentilezza di natura, ferveva e bolliva e scorreva la lava. Di questo però il mondo non ne seppe nulla. Bensì quand'ella fu uscita di monastero, e dopo che, avuta in casa una educazione di perfezionamento più varia, più ampia e più squisita, toccò i quindici anni, fu generale la voce che, tra le adolescenti da marito, non v'era in tutta Milano fanciulla più educata, più bella, più santa. Ora, in quel periodo appunto, tra i giovani patrizj milanesi, per vigore d'intelletto, per suppellettile di cognizioni, per energia di volontà, per prepotenza d'orgoglio aveva un assoluto primato il giovane conte Aquila. E poichè in tutto ei voleva essere il primo - mise gli occhi su quella che si diceva essere la più eletta tra le maritande del patriziato milanese.
Ma più che tutte le distinte qualità della contessina, ciò che davvero aveva determinata la scelta del conte Aquila, era la giovinezza di lei. Tra le fanciulle da marito ch'ei conosceva degne di lui, era la sola che avesse compiuto da pochi giorni gli anni quindici, l'età legale. Se la legge, come in Sicilia, in Egitto, in Arabia, avesse permesso di sposare una fanciulla a dodici anni, egli avrebbe scelta quella che non avesse sorpassata quell'età. E a ciò era portato, non già perchè fosse amante dell'eccessiva giovinezza: il suo gusto lo portava anzi a vagheggiare la donna che, al pari di una mela e di una pesca, avesse tocca la più completa maturanza; ma sì perchè, conoscendo il mondo e gli uomini ed anche le donne, pensava che, a sorprendere in sui primi albori una rosa sbocciata di notte, ancor madida delle gemme della rugiada, si poteva quasi esser certi che altri non aveva potuto accostarvi le nari.
Era sempre l'orgoglio che lavorava; era il tormento del primato. Il conte poneva lo sguardo alla futura sua sposa, press'a poco come un bibliomane lo pone a un libro, che è avido di acquistare non già per la materia che contiene, nè per il pregio del dettato; ma perchè sa che dell'edizione principe, fatta in pochi esemplari e involata dal tempo, è l'unico che sia rimasto. Quando una ragazza che va a marito è destinata a far la figura di un libro in cartapecora, il lettore può ben comprendere che nemmeno la prima luna abbonderà di miele.
Ora, per disgrazia della giovinetta, il signor conte Aquila, ricco di tutte le doti che possono rendere appetitoso uno sposo, più ai padri e alle madri, già s'intende, che alle figliuole, chiese la mano di lei, che senza un ostacolo al mondo gli venne concessa dai parenti, e così fu conchiuso e stretto il matrimonio; matrimonio modello, perchè, come un contratto di compra e vendita, come un atto ipotecario, come un passaporto, recava tutte le firme e tutti i bolli voluti dall'autorità.
Gli uomini che portarono dalla natura il dispotismo e la gelosia, ed hanno sì poca fiducia nelle donne, che se la civiltà lo permettesse, adotterebbero volentieri il sistema orientale degli eunuchi custodi e spie; o rimetterebbero in vigore le consuetudini dei baroni del medio evo, che chiudevano sotto chiave la fedeltà muliebre, hanno sempre fatto malissimo i loro conti. Essi non hanno pensato, che non è il possesso materiale della donna che importa; ma il suo affetto. Ora l'affetto non s'impone, non s'imprigiona, non s'ipoteca; come tutti gl'imponderabili, esso non può essere contenuto in nessun recipiente. I poeti e gli storici ci hanno assicurato, che la donna non fu mai tanto idealizzata, rispettata, idolatrata come nel medio evo, perchè in quel tempo s'introdusse l'invenzione delle così dette regine delle feste e dei cuori. Ma se i nomi sono speciosi e lusinghieri, e se le apparenze sono belle e buone, cari i miei poeti sempre pronti a scaldarvi d'entusiasmo, storici egregi sempre corrivi a far dei sistemi, abbiate la bontà di considerare che invece non fu mai tanto materializzata la donna come dal giorno che, per assicurare la loro fedeltà corporea, fu messa la ceralacca sul loro pudore, come se si trattasse di uno scrigno da consegnarsi al tribunale. Non è così che si rispetta la donna, signori storici e poeti.
Gli uomini del mondo romano, che voi avete condannati come dispregiatori e conculcatori della dignità delle donne, si fidavano, o fingevano almeno di fidarsi, della loro parola. È un bel tratto di cortesia. Le donne, sul terreno dell'amore e della fedeltà, eran le sole custodi responsabili di sè stesse. È a questo patto che si rispettano. Ora il conte Aquila era un vero barone del medio evo. In attestato della più profonda devozione all'onore di sua moglie, se avesse dovuto fare un viaggio armato in Terra Santa, avrebbe prese tutte le misure per assicurarsi che non sarebbe stato violato il casalingo tesoro. Ma il signor conte, al pari di qualunque cavaliere della spedizione di Palestina, faceva i conti senza l'oste. Considerando la donna come se fosse una statua d'inestimabile pregio, ma senz'anima e senza sangue, non pensava che la fedeltà si può rompere con un desiderio, con uno sguardo; non parliamo dei baci, Dio ci liberi; e che i desiderj vengono e che gli sguardi si comincia a mandarli in giro allora appunto che si sente il peso delle catene. Non c'è nessuno che più del prigioniero sia avido di cielo e d'aria. Ben è vero che il proverbio: l'occasione fa l'uomo ladro, consigliò molti mariti a non lasciar mai sole le proprie mogli, a vegliare dappresso, a farle vegliare. Ma se questo proverbio può dar molto da pensare, non fa minor senso quell'altro: la proibizione genera l'appetito. Comprendiamo assai bene che un marito, collocato tra questi due proverbj, sta peggio di un soldato collocato tra due fuochi. Ma bisogna pur pensarci e prendere una risoluzione. Il conte Aquila non ruminò che il primo proverbio, e a quello s'attenne, e non ascoltò che le sue inspirazioni, e qui fu il danno. Quanti guai di meno se da filosofo indulgente, che vive e lascia vivere, non si fosse regolato che col secondo!
Quando la contessina entrò sposa nella casa di lui, oltre ad essere giovine come l'acqua, aveva tutte le virtù di cui può andar fornita una fanciulla. Ma, se la soave timidezza del suo contegno poteva far sospettare quel ghiaccio di cui abbiamo parlato, il ghiaccio non c'era. Noi confessiamo di portare una avversione speciale, accanita, per tutti gli uomini, per tutte le donne che son bravi e virtuosi perchè sono gelati, che non bevono perchè non hanno mai sete. Ora la contessina aveva la sua sete, come il suo sangue aveva i suoi bollori, come il suo cuore i suoi sussulti e i suoi slanci. È appunto per questo che ella era una cara fanciulla; una fanciulla, cioè secondo natura, e secondo la più perfetta e la più florida natura. Tutto però era in germe, nulla v'era di sviluppato. Quindici anni son pochi; e un marito che si piglia in casa una creatura da far crescere e sviluppare, se non ha una dose abbondante d'intelligenza e d'esperienza, ma sopratutto di bontà e d'amabilità, è un affar serio tanto per il coltivatore che per la pianta. L'intelligenza nel conte c'era, c'era l'esperienza; ma la bontà mancava affatto, e l'amabilità. Il conte era un uomo, lo ripetiamo, orgoglioso ed ambizioso; sempre tormentato dall'idea che in tutto il regno, per quanto girasse lo sguardo, non v'era un posto degno di lui; sempre pensieroso del fatto che, fin che durava quell'ordine di cose di cui Napoleone era stato il generatore e il padrone, la fortuna stava tutta per quegli uomini che erano sorti con lui e per lui. Codesto tormento ei lo sentiva tanto più forte in quanto non vedeva per allora nessuna nube, nessun lampo, nessun segno atmosferico che accennasse a un cambiamento di tempo. Il barometro segnava sereno costante. Guai per chi desiderava un temporale! Fantasticava ei dunque continuamente, trasportato da strani desiderj in campi ignoti; press'a poco come chi ambendo vivamente una prodigiosa ricchezza, pensa a fortune ed eredità, senza sapere da che parte gli possano venire.
Sempre pieno di queste idee, era meditabondo e cupo. Non era cortese se non con quegli amici che, tirati nel vortice delle sue idee, la pensavano come lui, e lo applaudivano quando, mettendo l'ipotesi d'una possibile caduta di Napoleone, con quella fantasia e quell'eloquenza che deriva dal pensiero più costante della vita, accennava a future combinazioni europee, alla caduta di tutti quelli che chiamava adulatori e satrapi e schiavi e vili. Una fanciulla di quindici anni che abbia un simile marito, si trova ben peggio che in monastero o in casa. Esso non si pigliava veruna cura della felicità della contessina: a lui bastava che fosse virtuosa, fedele, intangibile. Credeva che non avendo mai conosciuto il mondo non l'avrebbe desiderato; ma spesso la vegetazione prospera in sè stessa e per le occulte virtù della natura; ma il non aver mai provato le passioni prima di quindici anni, non vuol dire che non si debbano provar dopo, perchè l'isolamento non basta a prevenire dei mali, che sono sfoghi necessarj nella vita morale, come certi esantemi nella vita fisica. Il vajuolo può investire anche chi vive da molto tempo isolato dagli uomini; e spesso l'elemento venefico vien recato da regioni nemmen sospettate. E così fu della contessina. Se il conte avesse saputo da che periglio ell'era attesa, l'avrebbe piuttosto gettata nelle braccia di mille spasimanti volgari.


LIBRO DECIMOQUINTO


SOMMARIO


Il figlio del conte Aquila. - L'anno 1809 e il vicerè Beauharnais. - Una festa in casa Litta. - Don Giovanni e fra Cristoforo. - Il vicerè, le classiche reminiscenze e il medio evo. - Beauharnais e la Falchi. - Il conte Aquila e il vicerè. - Ugo Foscolo. - Il colonnello Baroggi. - Un bacio e un colpo di scudiscio. - Il ministro Prina.


I


Il conte Aquila, orgoglioso di posseder la contessina Amalia, in quella guisa onde un Arabo, nell'idea di perpetuare la celebrità della razza, tien preziosa una puledra nata in incliti presepj da inclita coppia, non desiderò altro che di avere un figliuolo: maschio, già si intende, forte, bello, ingegnoso, straordinario. Se gli avessero detto: «per adunare nel tuo primogenito tutte codeste qualità, è necessario che la madre muoja nel parto», ei non avrebbe esitato un istante a rispondere: Muoja. In simile maniera un possidente non ha nessuna pietà del baco morituro, per l'aurifera seta che gli dee produrre.
Da vero fisiologo e teologo, ei non considerava il matrimonio in sè stesso, ma pel suo fine. Il multiplicamini della Bibbia non fu mai interpretato con più spiegato rigore scientifico. La scienza non ha viscere. E il suo desiderio fu presto appagato; appagato in massima; e perchè il figliuolo fu esatto nel venire in luce nel più breve tempo possibile, e perchè fu un maschio. Ma la forza, fin dal primo momento che il fanciullo fece capolino dal nulla, non si rivelò nè al padre ansioso, nè all'ostetrico esperto. Non la forza e non la bellezza: due cose che, ad onta della speranza che stava sempre in aspettativa di qualche benefica sorpresa della natura onnipotente, non comparvero nemmeno in un anno, nemmeno in due.
Il conte Aquila cominciò allora ad amar la madre più del figliuolo, il quale, per dispetto, non accusava neppure svegliatezza di spirito. Il conte diventò cupo più che mai, e bisbetico, ed anche un po' inumano. Voleva come sciogliere e disnodare quella natura inerte e disadatta.
Senza volerlo, egli sfogava l'interna stizza quando al fanciullo, con intento ortopedico, stirava e gambe e braccia e collo, per vedere di migliorare coll'arte lo scarto della natura. Il lettore si ricorderà del dialogo tra il pittor Bossi e il canonico Zanoja, dove vennero a toccare della morte di quel fanciullo. Pur troppo il fatto era vero. Avendo egli l'abitudine di far subire al fanciullo una ginnastica intempestiva, qualche volta lo palleggiava, lo forzava a star dritto sul palmo della mano, lo gettava in alto per riprenderlo nelle proprie braccia. La contessina Amalia tremava e pregava e piangeva a que' giuochi perigliosi; il fanciullo strillava; ma il padre era irremovibile, perchè tenevasi certo di giovare allo sviluppo del figliuolo. E venne il dì che, siccome sappiamo, gli cadde in terra, e là giacque. - La nutrice accorse, ma indarno; la madre svenne; il conte rimase attonito e atterrito. Fu mandato a chiamare il dottor Monteggia. Ma la scienza non risuscita i morti. Al racconto che fecero e nutrice e madre e astanti, il celebre chirurgo, preso di sdegno, stette per rimproverare acerbamente il conte. Ma il conte lo saettò collo sguardo in modo, che al professore non bastò l'animo di parlare. D'altra parte, dal rimprovero non scaturiva un rimedio.
Dopo questo caso funesto, la contessina Amalia sentì nascersi in cuore un'irresistibile avversione; per il conte, prima, non aveva provato che rispetto, stima, soggezione, amore non mai; nemmeno quell'attrazione istintiva e, quasi a dire, meccanica, che una giovinetta può sentire qualche volta per un uomo giovane perfettamente costituito. In ogni modo quando, dopo qualche tempo, venne diminuendo in lei il rammarico per la morte dell'unico figliuolo, diminuì anche l'avversione. Le rimase però nell'animo quanto basta per renderle incresciosa la vita maritale. Nè il conte desisteva dal suo contegno ottomano; la contessina era tenuta in casa il più del tempo; quand'ella riceveva visite così d'uomini come di donne (e a ciò v'era l'ora stabilita), egli non la lasciava mai sola; segnatamente colle donne, che dal punto di vista dei cattivi consigli e delle tentazioni, ei credeva assai più pericolose degli uomini stessi; e in questo non aveva forse torto. Quand'ella poi usciva di casa senza il signor consorte, per l'igienica necessità da lui ben compresa di cambiar aria, c'era l'obbligo della carrozza. Guai s'egli avesse saputo che, per snodare un po' le gambe, ella avesse osato far qualche passo nei pubblici giardini o sulle mura!
Per questa operazione era indispensabile l'accompagnatura maritale. Il tempo però, che cambia tutte le cose di questo mondo, e induce qualche lassitudine perfino negli uomini più rigidi e più tenaci, allentò le redini anche nelle mani del conte. Della sua giovane moglie egli non ebbe mai a lagnarsi; non mai una disobbedienza, non un atto di malavoglia, nè un segno, fosse pur fuggitivo e involontario, di malumore. Ben rassicurato adunque di avere per compagna una donna marmorea, cominciò a lasciarla sola qualche volta in conversazione; le permise d'andare a trovar sola qualche amica. Nell'occasione di alcune feste straordinarie, non già permise, perchè ella non gli domandò mai nulla, ma le ingiunse espressamente di comparire in esse pomposamente foggiata. Assaporando il trionfo di sentirla lodata e ammirata e citata dagli uomini e dalle donne, perfino dai galanti ufficiali, come un modello insuperabile di virtù, anzi come un'eccezione, rinnovò quei comandi. Era sempre la smania del primato che lo consigliava. Nè la contessa, sebbene qualche volta girando lo sguardo sentisse qualche lampo istantaneo di desiderio, poteva correre nessun pericolo. Quantunque bella e leggiadra e soave e simpaticissima, ella, in quanto agli effetti, era nella condizione di una donna diabolicamente deforme; chè nessuno dei giovinotti pretendenti e battaglieri osava accostarla con intenzioni oblique; nessuno si sarebbe fatto lecito di rivolgerle una di quelle frasi, che sono gli scandagli, gli ami e le reti della galanteria.
Non si spera se non ciò che è possibile, anche dando alla possibilità il più esteso confine. Ma l'impossibile non entra mai nel giro delle nostre ambizioni. Bonaparte quand'era colonnello a Tolone non sognò mai di diventare imperatore; ma lo sognò, lo desiderò e potè sperarlo quando fu console. Ora la conquista di quella donna era considerata dal bel mondo fuori affatto di ogni sfera di probabilità. Ella era forte e impenetrabile come il diamante; e, d'altra parte, il marito faceva assolutamente paura; paura mescolata di ammirazione, quando anche non voluta. Egli era uno di quegli uomini rari, che esercitano sugli altri un fascino arcano, sebbene potesse essere un fascino odioso. Anche il duellista più intraprendente, più sfacciato e provocatore, non avrebbe mai voluto aver brighe con quell'uomo là.
E il conte si accorse di tutto ciò; ed anche la contessina leggiadra se ne accorse, e, diciamolo pure, con un certo rammarico. Aveva toccati i venti anni; lo sviluppo fisico avea raggiunta la sua massima pompa; il sangue, che non domanda il permesso al signor curato, cominciava a bollire fieramente, ned ella conosceva il segreto del ghiaccio, tanto usufruttato da S. Francesco. Vedeva pertanto e guardava e contemplava gli attraenti splendori della vita viva, come il povero Mosè condannato a vedere in lontananza i grappoli della terra promessa, ed a morire senza poter mettervi il labbro. Povera contessina Amalia!
Per qualche tempo i nuovi pensieri passavano e ripassavano nella mente di lei senza fermarsi. Ella versava in quello stato di apatia incresciosa, senza gioja e senza dolore, che lascia gli occhi oziosi al pianto e rende il labbro incapace al riso. Stato molto simile a quel malessere indefinito, che alla lontana suole annunziare nel corpo umano lo sviluppo di una malattia di carattere. Ma se la cura profilattica e l'acqua imperiale può giovare talvolta nei turbamenti fisici a far dileguare il germe d'una infiammazione futura, pei turbamenti del cuore, che sono necessità della fisiologia sentimentale, non v'è acqua imperiale che giovi. Se non è oggi sarà domani; ma il giorno dell'eruzione è inevitabile.
Senza annojare il lettore col richiamargli alla memoria le grandi battaglie e le vittorie luminose ottenute da Napoleone nel 1809, gli diremo soltanto che quelle vittorie dovevano portare il disastro nel cuore della contessa. Che colpa ne avea Napoleone? D'altra parte, che relazione può avere la tattica e la strategia e il valor militare con una donna che vive in ritiro? In apparenza, nessuna. Se non fosse che, verso la fine del 1809, il vicerè Eugenio Beauharnais ritornò in Italia. Questi, per quanto ne portò la fama e per attestazione concorde dei prodi che avevano militato sotto di lui, si era coperto di gloria. I cittadini e gli uomini della pace, che da qualche tempo avevano cominciato, per delle cagioni anche giuste, ad avere in qualche uggia il vicerè, dovettero subire, volere o non volere, quel fracassìo di gloria. Gli uomini, che si erano intiepiditi a suo riguardo, lo celebrarono; i maldicenti cangiarono argomento; gli odiatori compresero le ire. Tutto questo in quanto al sesso forte. Rispetto al sesso debole, le cose avean proceduto e procedevano diversamente. Talune delle cagioni giustissime per cui i mariti, gli amanti, i fratelli, i cognati avean preso avversione per il vicerè, eran quelle cagioni medesime per cui alle donne invece era riuscito e riusciva tanto simpatico. La cosa è naturale. Il difetto capitale nel vicerè, lo abbiamo già detto, consisteva in un sistema continuo ed esagerato d'infedeltà conjugali. Il suo lato vulnerabile si scopriva ogni volta che veniva alle prese col nono comandamento. Ma le donne, in generale, che sono dispensate da quel paragrafo del decalogo, hanno un gusto matto che esso venga infranto dagli uomini. Le donne hanno tutti i torti; ma è una questione di gusto come un'altra, e bisogna lasciar andare.
La gloria esercita sulle donne un fascino speciale. Sia dessa d'oro o di princisbecco, fa sempre su di loro il medesimo effetto. Se poi è una gloria cogli spallini e gli sproni, non c'è più nessuno che le tenga. Povere donne, noi almeno le sappiamo compatire! Ad un uomo circondato di gloria, purchè sia un po' giovane (qualche cosa già ci vuole), le donne sono capaci di perdonare la calvizie incipiente, la ventraja incipiente, i labbri grossi, un naso che non sia perfettamente in regola col codice dell'arte greca, ecc., ecc. In questo esse sono assai più soprasensibili e spirituali degli uomini, i quali di solito preferiscono la bella faccia, la pelle fresca, e delle linee curve afrodisiache.
Premesso tutto ciò, quando Beauharnais fece, dopo il suo ritorno, la sua prima rivista in piazza Castello, gli istoriografi notarono che le mani che più applaudirono furono di femmine; notarono che la loro maggioranza aveva conchiuso col dire, che le fatiche delle battaglie lo avevano reso più simpatico; sopratutto che lo avevano fatto dimagrare. La magrezza è un altro ingrediente che, in generale, non dispiace alle donne. Paride era magro, Leandro era magro, Abelardo era magro, Romeo era magro, Jacopo Ortis non lasciò nemmen tempo al tempo di farlo ingrassare; se poi il Petrarca era grasso, è perchè non doveva essere corrisposto; ma andiamo innanzi.
Alle riviste militari tennero dietro le feste a corte; le feste in qualche casa patrizia, dove il vicerè si compiaceva d'intervenire. Fra tutte egli preferiva la casa Litta: casa proverbiale allora per la ricchezza e la cordialità. Il marchese Litta gran ciambellano, creato duca nel 1809, aveva una sostanza di più di 30 milioni, che oggi equivarrebbero a 60. Aveva il primo guardaportone del regno italico; il primo cuoco con nove mila lire di stipendio (la paga di un capo divisione di ministero); sopratutto possedeva il più sontuoso vasellame d'oro e d'argento che allora si conoscesse. La casa reale non arrivava a tanto. Baldassare avrebbe dovuto ricorrere a lui per adornare il suo festino. Il vicerè, che amava le pompe e gli sciali, e teneva dall'imperatore la commissione di eccitare il ricco patriziato a spendere e a rovinarsi, affettava per il duca Litta un'assoluta predilezione, allo scopo di far nascere imitatori e gare. Il vicerè si recò pertanto una notte ad una festa in casa Litta. Il conte Aquila che, sdegnando le aure di corte, si faceva sempre desiderare alle feste vice reali, ostentò di figurare in casa Litta tra i primi amici del duca, non solo facendovi intervenire la moglie, ma adornandola con tanta pompa di gemme e di trine, che fu proclamata la regina della festa. Il vicerè che l'aveva vista altre volte in occasioni comuni e partecipava per lei al sentimento generale, e, diciamolo pure, anche un po' alla paura del marito, in quella notte si sentì fieramente colpito dalla contessa Aquila; non gli era mai sembrata così bella; era la prima volta che la vedeva splendida di vesti, ben si poteva dire, regali.
Il rispetto e la paura, che quasi sempre trattengono dal voler conquistare le cose che piacciono indifferentemente, si trasmutano di tratto in incentivi, che inviperiscono ed esacerbano il desiderio, se l'oggetto altre volte veduto ci sembra diventato prezioso oltre l'usato. Ed il vicerè sentì il coraggio e la irritazione degli ostacoli; e portata repentinamente l'indole sua, già baldanzosa e temeraria, all'estrema sua espressione, colse un momento che il conte non trovavasi nella sala dov'era la contessa: fu guardingo anche nel cogliere il punto che altri non potesse sentire; e con quell'accento francese pieno di fascino e di grazia ch'egli aveva ereditato dalla madre Giuseppina e teneva in serbo nelle grandi occasioni, le rivolse poche parole: poche e tronche e dove l'audacia d'una dichiarazione non preparata da nessun antefatto e che poteva anche venir giudicata come una scortesia, raggiunse invece quell'effetto che viene dall'ispirazione; press'a poco come certi trovati del genio, che sembrano spropositi, e sono miracoli.
Il vicerè parlò e partì e lasciò la festa, ed anche questo fu un capolavoro d'astuzia. Egli conosceva le donne. Povera contessa Amalia! Quelle parole essa non le aveva mai sentite da nessuno. Il superbo marito non ne ebbe mai. Quelle parole furono come un raggio azzurro di cielo, che si rivela dopo una lunga aspettazione a delle pupille desiose! Oh fatalità! Oh tradimento della nemica fortuna!


II


La gioja più intensa e sopracuta che fa provare l'amore, così almeno ci assicurano i professionisti e i dilettanti, succede quand'esso fa la sua annunciazione, come l'arcangelo Gabriele; quella gioja è d'un prezzo inestimabile, perchè in quella prima ora non vedendosi che la faccia radiante della novella condizione in cui l'ingaggiato viene a trovarsi, quella gioja non è alterata da nessun elemento eterogeneo; non ha lega nessuna nè di rame, nè di zinco; è oro puro a mille. Ma l'oro puro a mille convertito in moneta si piega nelle mani, e va soggetto a delle avarie. Gli usurai tosarono senza pietà gli zecchini di Venezia. Ora anche la prima gioja dell'amore si riduce presto ai minimi termini. La gioja, intendiamo bene, non l'amore; questo anzi cresce a dismisura e in ragione inversa della gioja stessa. L'amore s'alimenta d'affanni e di spasimi. Chi ci ha trasmessa quest'asserzione, ci disse altresì di fidarci della sua parola, senz'altre indagini. Dunque proseguiamo. La contessa Amalia, appena il vicerè fu partito, si sentì come tutta inondata dal calore e dalla luce di quella gioja. Fu una rivelazione, fu una scoperta, fu un genere di sensazione intorno a cui ella aveva potuto in addietro far delle congetture in via filosofica. Ma quando quella sensazione si rivelò e la invase, la contessa si accorse che la filosofia era stata assai lontana dal vero. Per dare una giusta idea di quella sensazione, noi avremmo in pronto una similitudine precisa e calzante, ma non potremmo dirla che all'orecchio di un professore di fisiologia. Essa poi è tale che produce per consueto un fenomeno speciale, migliora cioè di tratto l'indole di quanti la subiscono; chi è chiuso diventa loquace e aperto; chi è acre e mordace diventa alla mano e indulgente; chi odia si placa e transige. Però la contessina, quando si trovò col conte marito, fu dolce seco e piena di grazia e pazzericcia anche un poco. Il conte non aveva mai trovata la moglie tanto cara e carezzevole come in quella sera.
Quando le mogli si mostrano cortesi coi mariti oltre l'usato, non è sempre una ragione perchè questi debbano rallegrarsi.
Una tale esaltazione continuò nella contessa tutta la notte; nel tempo dell'apatia e della noja matrimoniale ella aveva sempre dormito le sue otto ore saporitamente e d'un fiato solo; diciamo ore otto, perchè il conte, che s'intendeva d'igiene, decretò che la moglie non dovesse dormire che quelle ore. Se la cameriera l'avesse svegliata qualche momento dopo, poteva correr pericolo di essere scacciata. Tuttavia se esso poteva impedire alla moglie di dormire nove ore, se la sua giurisdizione era implacabile sul più, bisognava pure che si adattasse sul meno. Se gli occhi si fossero potuti chiudere e mettere sotto custodia, certo ch'egli ne avrebbe ritirata la chiave; ma per combinazione la natura decretò diversamente. Ecco perchè la contessa ebbe diritto in quella notte esagitata di non consumare nel sonno nemmeno una di quelle ore statele concesse, e di lasciar vagare liberissimamente il pensiero per campi che non aveva mai nè percorsi, nè sospettati in addietro, ed anche di gettare, durante la veglia rischiarata dalla notturna e opaca lampada, qualche occhiata sulla faccia del conte addormentato. Vi sono dei casi in cui tanto più si guarda un oggetto quanto più dispiace; questo fenomeno strano è forse fratello di quell'altro per cui chi soffre il mal di denti, ritorna spesso colla mano quasi ad esacerbare la parte addolorata. Ella dunque guardò e riguardò e ritornò a guardare il conte; e che frutto ne ricavasse, ognuno lo può pensare. Fu per quella vista e, per quell'esame ripetuto che la prima gioja solenne, sopracuta, completa, quell'oro a mille, senza lega, non potendo snaturarsi affatto, s'accartocciò, si raggrinzì; fece come il sole, che non si oscura, ma le nubi temporalesche non lo lasciano più vedere. Ed infatti sul sereno tutto raggiante del suo pensiero si alzò una fitta nube d'affanno e di spavento. La contessina provò quello che tutte le anime calde, appassionate, ma generose ed oneste, provano ogni, qualvolta sono assalite da uno di quegli amori per cui i mariti e le mogli possono gettare e gettarsi dalla finestra; per cui il confessore non suol dare l'assoluzione alle sue divote; per cui gl'interessati possono adoperare i fulmini delle leggi: gli uomini e le donne, i quali non hanno altro pensiero che quello della digestione, adoperano parole d'ironia e di scherno; e i bigotti inquisitori avventano maledizioni e saette; di quegli amori per cui non sente pietà che qualche uomo il quale tenga un piede nella filosofia e l'altro nel bel mondo, ed abbia potuto essere a un tempo e don Giovanni e fra Cristofaro.
Quando le donne vengono assalite dal tifo erotico, si trovano sempre in una condizione molto più grave e allarmante degli uomini. Questi possono far nascere gli avvenimenti; le donne devono aspettarli: d'altra parte, a meno che non siano vedove, il quale stato dev'essere, a parer nostro, il non plus ultra della felicità muliebre, non possono nè andare, nè stare, nè uscire quando vogliono, nè penetrare in certi luoghi, nè passeggiare sub luna, ecc. Le pene così dette dell'inferno debbono avere qualche analogia con quelle di una donna, che, sia essa nubile o maritata, non aspira che a vedere e trovarsi con colui che gli sta sempre in pensiero. Nè la contessa Amalia potè andar sciolta dalla legge comune. Sebbene in sul principio, come avviene sempre delle donne che non fanno all'amore per capriccio e passatempo, ella avesse fatto proponimento di non dare alcun alimento a quella passione, di troncare di colpo ogni via di comunicazione tra il desiderio e il suo adempimento, di fingersi ammalata, di non uscir più di casa, di non recarsi più a nessuna festa, perfino di palesar tutto al marito, onde terminar ogni cosa in un momento; pure non fece nulla di tutto ciò. Certo che avrebbe fatto assai bene a mettere in atto quei propositi, e chi non lo sa? Ma la cagione del non esserci riuscita sta nel fatto che erale davvero entrato in petto il demonio della passione, il quale vuol quel che vuole, ed è onnipotente. Taluno potrebbe domandare in che modo alcune poche parole, dette in un momento fuggitivo, abbiano potuto suscitare un incendio così pronto e così generale; ma noi risponderemo appunto colla teoria degli incendj. - Una favilla di sigaro acceso, la quale voli per caso in un covone di paglia, basta a distruggere un villaggio; mentre talvolta, se ci proviamo ad accender fuoco per il bisogno di riscaldarci, un mazzo di zolfanelli è poco per arrivare a far sorgere qualche fioca fiammella dalla catasta indarno disposta con arte sugli alari. Quel che è degli incendj materiali è degli incendj morali.
Or continuando, se la contessa non aveva nessuna virtù di far nascere una combinazione per cui potesse rivedere il vicerè, questi non istette ozioso, e dispose le reti in maniera che non dovessero rimaner sempre vuote. Egli aveva bisogno di avvicinarsi alla contessa; di avvicinarsi al conte; di trovarsi un po' a lungo e coll'uno e coll'altra; aveva bisogno che il luogo del ritrovo fosse numerosissimo di persone come una festa; ma che avesse anche una base d'operazione infinitamente più estesa. Pensò quindi ad una partita di caccia. In una partita di caccia c'è rumore e disordine: le compagnie dei cacciatori si sparpagliano; chi va da una parte, chi dall'altra; la maggior parte degli amori del medio evo si manipolarono a caccia sotto gli auspicj degli alani e dei falchi. Virgilio non trovò miglior modo di mandare a perdizione Didone, che con una partita di caccia ajutata da un buon temporale. Noi non sappiamo, se Beauharnais fosse ben forte nelle classiche reminiscenze, nè se avesse pensato ai baroni e ai trovatori dell'evo medio, che ingaggiavano amori col corno da caccia, il fatto sta che pregò il suo carissimo duca Litta a dare un invito per una partita di quel genere a Lainate.
Il duca Litta, che era felicissimo quando poteva appagare un desiderio del vicerè, non si fece pregare due volte; e mandò fuori gl'inviti. Anche il conte Aquila lo ricevette e lo accettò, per la solita ragione di far vedere a tutti che egli non odiava nè le feste, nè i numerosi convegni, ma che soltanto si asteneva da quelli che si davano a corte.
Ora se, invece di scrivere oggi, fossimo addietro quarant'anni, quando Walter Scott era l'autore più avidamente letto in Europa e gli scrittori di Francia e d'Italia se la godevano ad imitarlo, ce la godremmo anche noi a descrivere quella caccia in ogni suo momento, in ogni suo accidente; a fare il nome di tutti i cacciatori illustri che v'intervennero, di tutte le Diane seguaci col cappellino alla Bolivar; a dar l'elenco di tutti i levrieri più celebri che addentarono l'orecchio alle lepri fuggitive.
Sopratutto poi non ci lasceremmo sfuggire la bella occasione di descrivere parte a parte la villa di Lainate, che allora era in tutta la sua voga e la sua celebrità. Ma, per nostra fortuna, la moda delle descrizioni interminabili è passata; onde, lasciando ai lettori il permesso di dipingersi il fondo, ci occuperemo soltanto delle macchiette e dei gruppi che staccano su di esso.


III


Ci siamo diffusi a far la storia dei principj e del processo della malattia di cuore sofferta dalla contessa Aquila non per altro motivo, che perchè fu una delle cagioni che prepararono e resero irreparabile uno dei più funesti avvenimenti che mai abbiano contristata la città di Milano.
Quando di un fatto storico segnalato e celebre s'è rintracciata una delle prime cause, questa, sebbene possa essere lieve in sè stessa, assume di tratto un grande interesse per le conseguenze che sono derivate. Nè crediamo di offendere menomamente la memoria del personaggio reale, che, per la necessaria delicatezza, abbiamo nascosto sotto il pseudonimo assunto. La contessa Aquila, come noi l'abbiamo rappresentata, ci pare sia un modello della donna completa, della donna cioè che, ad onta e della virtù nativa e della educazione squisita e della vita senza rimproveri, ebbe tale esuberanza di sentimento, da accogliere in petto la più possente delle umane passioni.
Gl'ipocriti, che biasimano le anime passionate, pronti a far sempre da Tartufi ed a nascondersi sotto il tavolino dei perpetui Orgoni, dovrebbero compiangere ed ammirare invece la condizione di una donna che, ardente di fantasia, d'affetto, di sangue, pur riesce, dopo lunghe battaglie, a star salda nella propria virtù.
Queste cose le abbiam dette altre volte; ma pare che non sia bastato l'avviso, nè basterà mai. I corvi calanti alle carogne, condannano sempre le donne fatte di carne, di sangue e di cuore.
Quando il duca Litta mandò a invitare per la grande caccia da darsi presso la villa di Lainate, quanti conoscenti patrizj e non patrizj aveva in Milano, si dimenticò, o espressamente omise di comprendervi l'avvocato Falchi con sua moglie, quantunque li conoscesse assai bene.
Siccome gl'inviti furono mandati fuori molti giorni prima, e l'avvocatessa potè vederne alcuni, ella salì in furore per essere stata dimenticata; ed a questo punto giova che il lettore abbia una idea dell'indole di una tal donna.
L'ambizione di lei era di quella natura che non riposa mai, nè si accontenta di un ordine solo di cose. Ella pretendeva di essere la più bella, voleva essere la più corteggiata, ambiva d'essere la più ricca; voleva essere tutto e comandare in tutto. Dava consigli al marito, e guai se non l'obbediva; e il marito, che era volpe e lupo, faceva qualche volta anche l'asino, ostentando di adattarsi a fare assai cose per un'eccessiva condiscendenza alla moglie, ma in fatto, perchè eran atti che gli piacevano, atti d'avidità e rapacità; ella dava consigli anche non pregata, anche allorquando era scansata, a quanti le andavano per casa.
Se poi qualcheduno aveva avuto con essa e coll'avvocato qualche rapporto d'interesse, di clientela, di sudditanza, comandata dalla necessità degli affari, ella era la padrona di tutti loro, faceva la padrona in tutte le loro famiglie; negava l'assenso ai matrimonj, imponeva ella le mogli; teneva la giurisdizione persino sulle vesti e sulle foggie. Conoscere l'avvocatessa Falchi significava aver rinunziato alla libertà personale.
Siccome però era stata assai bella, bella nel senso mercantile e carnoso, non già nella sfera dell'accademia e dell'arte, ed era ancor bella, e veniva molto corteggiata; così quando la sua vanità e i suoi appetiti venivano lusingati e soddisfatti, aveva dei momenti di lieto umore, ed anche, ma questo avvenne rarissime volte, qualche lampo di bontà, di generosità, di cortesia. Appena però la si contrariasse, diventava a un tratto una tigre reale ferocissima, di quelle del Senegal. Anche il marito aveva un bel da fare in quei giorni per sopportare quel temporale in casa. Persino il ministro Prina, che era di Novara, come l'avvocato, ed era suo intrinseco, e frequentava quotidiano quella casa, e perchè aveva molti affari con lui, e perchè anche si giovava dell'acutezza pratica di quell'uomo, spesse volte ebbe a subire le tempeste dell'avvocatessa, che, da uomo di mondo e da uomo superiore, sopportava e compativa, ed anche derideva.
Questa donna singolare era stata sposata in seconde nozze dall'avvocato Falchi, auspici l'avvocato Prina appunto e l'avvocato conte Gambarana. Il Falchi fece passar brevi ma amarissimi giorni alla prima moglie, che era nativa del Genovesato, e che gli avea recate in dote lire d'Italia trecentomila, la spina dorsale deviata, e quella bontà che deriva dalla natura e si fortifica cogli abiti religiosi. Quantunque non si possa ben asserire, pare però che l'avvocato Falchi abbia avuta l'intenzione, fin dal giorno che accettò quel partito, di svincolare le lire trecentomila dalla servitù della rachitide e dalla noja delle giaculatorie. Quando un uomo giovine sposa per la dote una vecchia o una rachitica, si può giurare che quell'uomo è perverso. Intanto che all'altare, in abito festivo, mette l'anello in dito alla compagna, e ode dal curato la figura rettorica del crescite, egli pensa già ai buoni servigi della morte, e in quel crescite mendace sente invece in embrione il requiem æternam. Questo sia detto in via di passaggio, come diciamo di passaggio che la morte fu lesta a servire l'avvocato Falchi, quasi avesse ricevuto una mancia anticipata.
È un fatto strano, ma pur degno della riflessione dei legislatori, che dalla casa della maggior parte di coloro che sposano per la dote una donna o vecchia o deforme, in pochissimo tempo la donna scompare. Noi abbiamo conosciuta una mezza dozzina di cacciatori di doti, che arrivarono giovani ancora alla seconda od alla terza moglie. Sarà una combinazione, sarà un fenomeno puro e semplice; ma, a buoni conti, se noi avessimo una sorella od una figlia, ci guarderemmo bene di gettarla alle bramose canne di questi galantuomini, al cui confronto noi sentiamo quasi una certa simpatia pei famigerati Scorlini.
Vivente ancora la prima moglie, l'avvocato Falchi avea adocchiato sulle rive del Verbano quella che diventò poi la seconda, la quale, a soli quindici anni, veniva già chiamata quella bella giovinotta, alta qual'era e rigogliosa e densa e proterva, e che aveva già tenuta a bada la sua mezza dozzina di amanti. L'avvocato se ne invaghì, e appena fu libero la sposò. Era il rovescio della medaglia della sua prima moglie; era una tacchina grassa e appetitosa e fragrante di rosmarino, in confronto di un osso già gettato a' cani. Il dì delle nozze, la combinazione volle ch'egli in un affare guadagnasse trenta mila lire italiane per fortuito intervento della sposa. La freschezza, i fianchi baldanzosi, la petulanza allettatrice di lei, e quella specie di buon augurio ch'entrò seco in casa, fecero sì ch'ei si gettasse corpo ed anima, per allora e per sempre, nelle ampie sue braccia. Per dare un'idea del genere d'accordo che passò sempre tra l'avvocato Falchi e la nuova moglie, la quale dalla sua ciarla perpetua e dal suo ficcar il naso in tutto, venne dai conoscenti cognominata l'avvocatessa, noi non possiamo che richiamare alla memoria dei lettori i coniugi Macbeth; con questa differenza, che se lady Macbeth per riuscire nei suoi intenti ebbe l'ajuto di Ecate e di tre streghe, l'avvocatessa Falchi fece anche la parte delle streghe di Ecate.
Ora è da ricordare un fatto. Nel primo anno che il principe Beauharnais fu installato vicerè d'Italia, e cominciò, nel tempo che risiedeva in Milano, quel sistema di vita discola e donnajola che, grado grado, doveva poi addensargli contro tanti nemici, ebbe ad adocchiare anche l'avvocatessa Falchi. Allora ella poteva contare ventinove anni, ed era nel massimo fiore della sua beltà da baccante, senza linee greche, nè etrusche; linee, come tutti sanno, caste e severe, e che non possono far nascere che amori seri; ma pomposa invece di quelle forme portate dall'arte carnale della decadenza; la quale se sarebbe fuor di posto nei riti di Vesta, potrebbe fare da frontispizio ad una illustrazione delle feste lupercali. Il vicerè dunque la adocchiò e l'avvicinò, ed ella, quantunque fosse orgogliosa come una Gezabele, fu benigna e cortese con quell'Acabbo, gran cordone della Legion d'onore e della Corona ferrea. Che a lei piacesse il vicerè, come uomo, come giovane, come cavaliere, nessuno lo voglia credere. Ella sorrise al vicerè perchè era il vicerè, senza considerare che avesse piuttosto ventiquattr'anni che sessanta. Il vicerè poteva essere cagione che la ricchezza già considerevole dell'avvocato Falchi crescesse a dismisura. Per suo mezzo infatti, nella compra e vendita di beni nazionali, nel giro delle carte pubbliche, negli appalti, l'amicizia del vicerè equivalse ad una lauta eredità.
Il Falchi era un po' geloso di sua moglie; specialmente se i giovinotti, per cui ella poteva avere qualche debolezza, non presentavano alcuna speranza di speculazione, nè assomigliavano a carte di rendita, nè a beni demaniali. Però, quando si accorse che le maritali corna potevano fruttare qualche migliajo di pertiche di prati irrigatorj, egli tosto offerse il fenomeno di un amore eccezionale, di un amore cioè che cresce col cessare della gelosia. Lasciò pertanto andare, chiuse un occhio, anzi tutti e due, e solo si accinse a cavare il maggior profitto possibile da quella nuova posizione. Tutto questo in quanto ai conjugi; in quanto al vicerè è facile comprendere com'egli non desse nessuna importanza a quella relazione, come per conseguenza, placato il capriccio e satollato a piena gola, sentisse tedio di quella vivanda più nutriente che pruriginosa. La Falchi, insieme al pensiero dell'utile che potea ritrarre dai rapporti col vicerè, si sentiva anche lusingata dalla vanità. Ella non aveva avuta nessuna educazione squisita, e la sua stoffa morale era volgarissima; simili nature sentono la vanità più di tutte; a lei pareva di essere la viceregina. Benchè tanto astuta e perversa, convien confessare che in ciò era stolida la sua parte. Pavoneggiandosi dunque come se fosse una viceregina, non pensava a quel che era davvero, a quel che si diceva di lei, alla trista figura che faceva il suo signor marito. Una donna volgare amoreggiata da un alto personaggio, da un vicerè, da un imperatore, al giudizio degli uomini onesti appar più triviale e disonorata che se fosse amoreggiata da tutt'altra persona.
La grandezza in questo caso e la possanza, invece di dar la luce, ottenebrano e corrompono. La ragione è che la donna non sembra attirata che dall'interesse; la ragione è che l'amore pare una cosa imposta come un tributo, come una tassa. Il sentimento reciproco, che spesso comanda l'indulgenza anche sui trascorsi e sulle colpe, in questi casi non è nemmeno sottinteso, pur se fosse vero.
Tornando a Beauharnais, sebbene colle donne fosse ognora gentile e cortese fin a toccare le linee barocche del Galateo, avvenne che arrivò il tempo che non potè più nascondere il senso d'uggia e di noia che gli destava la presenza dell'avvocatessa Falchi. Com'è naturale, ella se ne accorse, e fremette. Diciamo fremette, perch'ella non era capace di altra sensazione; non fu abbattimento il suo, nè dolore; non sentì che quell'ira, la quale è capace di ulcerare e tormentare come la pece greca.
Non sappiamo in che dramma Metastasio abbia detto che:



.......L'offensore oblia

E non l'offeso il ricevuto oltraggio.


Questo è sì vero, che il vicerè, il quale in cinque anni ebbe tante volte a lasciar Milano, dovette combattere in tante battaglie, adempire a tanti mandati dell'imperatore, si dimenticò quasi affatto della signora Falchi, anche perchè la combinazione volle che non si avessero mai a vedere. Ma se il vicerè che, per certi principj strani di diritto privato, era l'offensore, si dimenticò di tutto, non se ne dimenticò l'avvocatessa. È certo che non dimagrò, anzi ingrassò vistosamente; è certo che continuò a godere giocondamente il bel mondo e il bel tempo e le ricchezze che crescevano in proporzione geometrica; ma è certo altresì che, se anche in mezzo alla gioja convivale, se anche nell'ebbra vivacità provocata dal Gattinara, per cui, da vera laghista, ella aveva una passione dichiarata, un discorso fortuito le richiamasse in memoria quel fatto, ella sentiva ancora fitto in gola quell'osso, che non voleva andar giù, per quanto Lieo ci versasse sopra.


IV


Uditi gli scalpori della Falchi per quella fortuita omissione del duca Litta, il ministro Prina, che stava una sera giuocando all'ombretta spagnuola coll'avvocato:
- La si tranquillizzi, signora Teresa, diss'egli, così tra il buffo e il serio; il signor duca la inviterà. La caccia deve essere dopodomani; dunque a quest'ora tutti gl'inviti non possono esser fuori. Che, se mai fosse stata dimenticata, già ella sa che chi manda fuori gl'inviti è il maggiordomo della casa, il quale è un balordo, e si regola così a vista di naso, e può benissimo essersene dimenticato. Il maggiordomo ha passato i sessantacinque anni; ha altro per la testa che le belle donne della città (il ministro calcò su questa frase, perchè, ridendo fra sè stesso, sapeva che quello era il lato da solleticare per far cessare il temporale). Ma in ogni modo, signora Teresa, faccia conto di essere bell'e invitata. Prima di andare a letto devo passare dal duca, e tutto anderà a suo posto.
- Ma che il signor duca non creda poi che io faccia impegni…
- Il duca non crederà niente... lasci fare a me, signora Teresa, e cessi di riscaldarsi.
- E non vorrei che quelle smorfiose dei quattro quarti venissero a sapere...
- Ma, e che vuol mai, che si venga a sapere?... Cara la mia signora, m'accorgo in conclusione che ha ragione Andrea, il cameriere, quando dice che la signora padrona ha buon tempo...
- Come, come, il cameriere ha avuto coraggio?... Ma io lo scaccerò su due piedi.
- La signora Teresa non verrebbe con ciò che a dare ragione a quel buon diavolo di Andrea, il quale disse per giunta che tutte le belle donne dal più al meno hanno un poco del matto e che chi le rovina sono i cicisbei che lor dànno l'incenso.
L'avvocatessa Falchi si placò di colpo; il ministro partì, passò al duca Litta, il quale, essendo buonissimo e non dando molta importanza a cosa nessuna, accontentò i desiderj e dell'amico e dell'avvocatessa.
Sorse il giorno della caccia: al mattino di quel giorno, dal palazzo di corte, da quasi tutti i palazzi della città uscivano le carrozze col tiro a sei, col tiro a quattro, col tiro a due; uscivano a cavallo i giovinotti ufficiali e non ufficiali, in costumi strani, cosidetti alla cacciatora, come allora portava il Corriere delle Dame del Lattanzi; il poeta Monti sorse anch'egli mattutino, e venne a pigliarlo la carrozza del conte Paradisi; il Foscolo, che allora corteggiava la contessa A..., galoppò a cavallo in soprabito di panno verdolino con pantaloni di casimiro color piombo e stivali a trombini.
La contessa A..., bellissima fra le belle, aveva molto spirito, molto ingegno, molta coltura (parlava quattro lingue); era buona, generosa e affabile; costituiva insomma il complesso rarissimo di egregie qualità; ma tutte parevano sfasciarsi sotto all'uragano di un difetto solo. Ella faceva dell'amore l'unico passatempo; ma un passatempo tumultuoso, fremebondo, irrequieto; nè occorre il dire che quell'amore era parente di quello rimasto nudo in Grecia e nudo in Roma, come disse Foscolo; e che, mancando di un candido velo, non era stato meritevole di riposare in grembo a Venere celeste. Ma Foscolo, nonostante la sua poetica distinzione, si trovò un bel giorno avvolto e impigliato nell'ampia rete che la contessa teneva sempre immersa nella grande peschiera della capitale lombarda.
Il lettore non può immaginarsi quanti belli e cari giovinetti si trovarono a sbatter le pinne convulse in quella rete ognora protesa: giovani cari e belli, e, ciò che fu il danno, senza punto d'esperienza, che pigliando fieramente in sul serio le care lusinghe di quella sirena, ebbero poi a subire disinganni orridi e desolazioni lipemaniache! Ma non solo i giovinetti di prima cottura, non solo i paperi innocenti del ruscelletto; ma frolli don Giovanni, stati più volte immersi nel fiume Lete; ma grossi topi veterani del Seveso, dovettero sovente parer novizj al contatto maliardo di quella donna. Colei, lo ripetiamo, non era cattiva, ma nel suo intelletto e nel suo cuore non era mai penetrata l'idea della costanza in amore. Nè è a credere che non amasse; amava assai, amava ardentemente; e nei primi istanti che le entrava nel sangue la scintilla incendiaria, ella non aveva pace, e si struggeva finchè non avesse potuto accostare l'oggetto de' suoi desiderj. Ma un amante nelle sue mani non era nè più nè meno di un cappone messo in sul piatto di un ghiotto. In pochi momenti non rimanevano che le ossa, e la fame chiedeva tosto altro cibo. Povero Foscolo! indarno ti stettero intorno le sante muse


Del mortale pensiero animatrici.


A ogni modo quella contessa, sebbene fosse così eccezionalmente volubile e cangiasse gli amanti come i guanti e le scarpe, aveva però le sue predilezioni. Nella lunga sfilata dei suoi adoratori, ella si rammentava di taluno che davvero amò, e che forse avrebbe voluto aver sempre seco, sotto condizione peraltro che si adattasse ai capricci suoi, e chiudesse un occhio quando ella sorrideva agli altri. Com'è naturale, non trovò mai nessuno che si acconciasse a codesto patto. Ella era tanto bella e cara e seducente, e nel periodo acuto del suo innamoramento faceva provare tali estasi a chi ne era il passeggiero oggetto, che questi subiva tosto quella passione acuta che non soffre commensali alla medesima tavola. Ognuno voleva essere il solo possessore di quel caro bene. Ma il caro bene non volendo vincoli di sorta, e dando accademia d'amore, come la si darebbe di poesia estemporanea, metteva tosto alla porta i pretendenti che ambivano un trono assoluto, ed erano avversissimi alla monarchia mista.
Ugo Foscolo, che aveva una predilezione particolare pei grandi occhi lucenti, guardò spesso in teatro colei, che in vero ne possedeva un pajo di primissima qualità. Egli, sentendo a sparlare di quella divinità volubile da coloro che erano stati e trionfatori e vittime, ne assunse la difesa con quella sua eloquenza procellosa e invadente, fatta di sentimento e d'erudizione classica. Tuonava in favore del genere di vita ch'ella conduceva, e la raffrontava alla greca Aspasia, che diede lezioni d'amore anche a Socrate. La contessa seppe di quelle arringhe di Foscolo, e come donna di vivacissimo ingegno e di molta coltura, essendo innamorata dell'Ortis e dei Sepolcri e dell'Ode per la Pallavicini, un giorno scrisse un letterino a Foscolo, pregandolo a passare da lei. Foscolo ci andò; le prime parole che la contessa gli rivolse, appena esso comparve sulla soglia del gabinetto, furono precisamente queste: «Ho sentito che voi mi chiamate Aspasia; accetto la lode e, purtroppo, anche il biasimo; ma voi, che siete greco, dovreste fare assai bene la parte di Pericle; se ci state, rinnoveremo i bei tempi di Atene; fra tanti asini che le stanno intorno, se Aspasia è volubile non è poi da condannarla; si provi adunque Pericle a far miracoli.»
Certamente che una dichiarazione così esplicita e più che audace, fatta da donna ad uomo, era un fatto che doveva peggiorare il concetto ch'altri potesse avere di lei, e anche a Foscolo avrebbe dovuto non far buona impressione. Ma se avrebbe dovuto, non lo fu. Con quell'animo ardente di Ugo, con quel temperamento in esaltazione, con quell'entusiasmo per la bellezza, con quel naturale orgoglio che gli fece tosto trovar spiegabile e giusto quella specie di privilegio in cui la contessa costituiva lui solo a petto di tanti; alle lusinghiere parole della contessa, ei si sentì di punto in bianco preso d'amore; uno di quegli amori roventi che lasciano segno e solco e piaga. Povero Foscolo!
Quando ci fu la caccia a Lainate, già da quasi un mese era egli l'assiduo cavalier servente della A..., e in quel tempo non era mai comparsa nessuna nube ad intorbidare quel nuovo cielo in cui la procellosa anima di lui erasi rasserenata. La contessa in sul principio sentì l'orgoglio di avere nel proprio dominio quella fiera generosa e indomita; si compiacque di quei tête à tête, che per lei riuscivano una rivelazione. I dialoghi erano veri capolavori di eloquenza, di poesia, di sentimento. È facile immaginarlo. Se Foscolo non aveva quella che comunemente si chiama bellezza; anzi, allorchè stava immobile e taciturno, potesse sembrare passabilmente brutto alle ragazze che prediligono il bel nasino e i mustacchietti; assumeva, per dir così, una bellezza transitoria, allorchè animavasi, la quale gli derivava dal raggio dell'intelletto che gli balenava tra ciglio e ciglio; oltredichè era ancor giovane d'anni e ben costrutto di membra, e una selva pittoresca di capelli fulvi e inanellati gli comunicava un aspetto poeticamente selvaggio, che lo faceva diverso da tutti gli altri.
Lungo lo stradale egli galoppò accanto al carrozzino della contessa. Altri cavalieri avrebbero assai volontieri fatto corteggio a lei; ma dal giorno che Foscolo fu in carica, nessuno osò più accostarsi, perchè era nota l'indole del poeta soldato, e il suo coraggio e le sue furie e la storia dei duelli, ne' quali a' suoi avversarj non era mai riuscito di ferirlo. Tra via furono raggiunti dalle carrozze del vicerè, che salutò cortesemente la contessa, e non rispose al saluto di Foscolo. Di lì a poco passò la carrozza della contessa Aquila. Il conte la seguiva a cavallo insieme con altri suoi amici. La contessina Aquila e la A... si salutarono gentilmente nell'avvicinarsi delle carrozze. Quando la A... tornò ad esser sola con Foscolo:
- Conoscete voi la contessina? gli disse.
- Non la conosco, ma la vidi più volte, e mi piace, e mi commove la sua santa virtù...
- Siete tanto devoto dei santi?
- Ammiratore, non devoto. Quella donna non mi farebbe mai impazzire d'amore; ma la onoro e l'ammiro e sento una pietà profondissima quand'odo a dire che il marito la tiene in dominio di tirannia. Essa mi fa pietà anche perchè mi son fitto in testa che sia una di quelle creature nate sotto alla cattiva stella!
Così parlava Foscolo, ed era così difatto; chi avrebbe pensato allora che persino la generosa pietà dell'autore dei Sepolcri doveva riuscire a danno di lei?


V


La caccia era incominciata fin dall'alba. Anzi i cacciatori entusiasti, della specie di coloro che opprimono gli amici obbligandoli a star sempre in ascolto di racconti venatorj, e darebbero dei punti ad Esaù, pronti a cedere un regno per una starna, s'eran trovati sul posto che era notte ancora. Però quando i personaggi di nostra conoscenza arrivarono a Lainate, giunsero più in tempo per far colazione che per empire il carnajo. Tra questi personaggi non si poteva defraudare il primato al conte Paradisi, a Vincenzo Monti, al librettista legulejo Anelli, e ad altri dell'inclita classe dei letterati, che il duca Litta voleva invitar sempre. In quanto al vicerè ed ai giovani ufficiali del suo stato maggiore, sebbene sentissero l'obbligo di fare entro la giornata la loro mezza dozzina di fucilate, avevano altro per la testa. Essi erano cacciatori in ogni modo; ma cacciatori di cacciatrici. Le più eleganti e desiderate di queste, dalle carrozze passarono sulle selle inforcate dei leardi più o meno docili ed ammaestrati, che il duca Litta aveva fatto loro apprestare.
Così venne preparandosi una cavalcata, che poteva assomigliare a qualcuna delle più pittoresche del medio evo. Dopo qualche tempo la schiera, che era numerosa, cominciò a scomporsi, a dividersi, a sciogliersi in vari gruppi di otto, di sei, di quattro...
Dopo qualche tempo ancora si potè notare che non v'erano più gruppi ma coppie, e che taluna di queste coppie, a scoprir nuovo terreno e a veder nuovi accidenti di prospettive, s'era sbandata senza domandare il permesso a nessuno. Il vicerè per lungo tratto di via s'era sempre intertenuto a parlare col ciambellano marchese conte Pallavicini; poi a un certo punto, come se fosse per caso, si portò di slancio vicino al conte Aquila. La contessina Amalia, che cavalcava anch'essa, erasi dilungata di tanto quanto misura un cavallo, perchè un suo fratello l'aveva soffermata per raccorciarle la staffa. Il vicerè disse una parola di complimento al conte, e fece fare nello stesso tempo al cavallo due o tre impennate, che lo portarono innanzi d'un gran tratto e si volse come ad attendere il conte; il quale, sebbene di malavoglia, si trovò costretto a portarsegli di fianco. Così l'uno e l'altro si trovarono lontani dalla schiera comune.
- Giacchè i cavalli, disse allora il vicerè al conte Aquila, ci han tratti fin qui, assecondiamo il loro capriccio, e teniamoci un po' in disparte dagli altri.
Il conte non rispose, perchè non comprese. Beauharnais mise allora il cavallo a un trottino sollecito, che costrinse il conte a far lo stesso. Così in pochi secondi furono fuori affatto della vista altrui, e si trovarono in solitudine perfetta.
- Perdonate, signor conte, se vi ho tratto fin qui.
Il conte volse al vicerè uno sguardo, in cui la sorpresa non bastava ad ammorbidire l'orgoglio e un non so che di sdegnosamente imperioso da far dubitare chi dei due fosse il vicerè.
Questi continuava:
- Sapete, signor conte, perchè oggi il duca Litta ha dato questa caccia?
- No, rispose asciutto il conte.
- Perchè io ne l'ho pregato, soggiunse il vicerè.
Il conte fece un movimento lieve colle spalle, quasi pensasse: E che m'importa?
- E sapete perchè l'ho pregato, e a qual condizione?
Il conte taceva.
- L'ho pregato perchè desiderava di trovarmi con voi; e la condizione fu appunto che egli facesse di tutto perchè voi non mancaste. Mi rincresce che la illustrissima signora contessa abbia dovuto affrontar l'aria del mattino; ma io credevo che aveste a venir solo.
Il conte capiva sempre meno; fermò uno sguardo acuto sulla faccia del vicerè, e nel punto stesso, per un movimento spontaneo, fermò il cavallo. Beauharnais fece altrettanto, mentre continuava:
- È precisamente così, caro signor conte. Egli è da qualche tempo ch'io doveva parlarvi. Voi siete stato un mese fa il soggetto interessante di un lungo dialogo tra me e l'imperatore, che durò più di due ore.
Il conte, sebbene non amasse l'imperatore e tenesse in basso conto il vicerè, provò a quelle parole una soddisfazione d'orgoglio che non aveva mai provato in tutta la vita. La sua faccia si colorò, la circolazione del sangue gli si accelerò.
- Per cagion vostra ho dovuto sentir dei rimproveri da Sua Maestà.
- Per cagion mia?
- Vi ripeto le sue parole testuali: - «Io so che a Milano, nella classe dei nobili, c'è un giovine di una straordinaria capacità e di un carattere antico. Perchè non me ne avete mai parlato?» - L'imperatore mi disse precisamente così. Io gli risposi che non glie ne ho mai parlato perchè sarebbe stato inutile, e gli toccai del tenore della vostra vita e dell'ostinazione a tenervi in disparte da ogni pubblico ufficio. - So anche questo, mi replicò allora l'imperatore, e ne so anche la ragione, aggiunse. Ditegli adunque che egli giri uno sguardo per tutto l'impero e tutto il regno; consideri i seggi più difficili, e ne scelga uno. Questo ebbi io l'incarico di riferirvi.
Gli odj e le antipatie bene spesso non sono altro che una conseguenza dell'amor proprio offeso. L'uomo che è avido della stima altrui, sente un'avversione invincibile, per chi egli sospetta non ne abbia punto per lui. Quando uno dice: quel tale mi è orribilmente antipatico, e non so il perchè; non gli credete; il perchè lo sa benissimo; egli teme che colui non lo tenga in quel conto a cui egli aspira. Ma in conseguenza di ciò appunto, se per caso quel tale, contro l'aspettazione, si fa innanzi con degli attentati di grande considerazione, l'antipatia scompare di colpo e si converte nel suo contrario. Ecco perchè soventi volte vediamo diventare amicissimi due che si scansavano per antipatia. Dopo tutto, non è facile dar l'idea della repentina trasformazione che avvenne non solo in tutti i pensieri, ma, quasi diremmo, nello stesso carattere del conte Aquila, durante lo strano colloquio avuto col vicerè. Il suo orgoglio non fu mai sì appagato, lusingato, gonfiato, come in quel giorno. Quello fu per lui il più grande dei suoi trionfi; fu un trionfo inatteso che lo mise sossopra tutto quanto. Fece l'effetto di quei poderosi agenti chimici che improvvisamente decompongono e snaturano una sostanza. Nulla però ne trasparì al di fuori; il conte Aquila si contenne, e rispose pacato:
- Mi fa meraviglia, altezza, come l'imperatore abbia potuto avere il tempo di pensare a me; come altri abbia osato fargli perdere il tempo parlandogli di me. Mi rincresce però che ciò sia avvenuto; che S.M. mi abbia dato un valore mille volte superiore al vero. Il fermo proponimento di rimanere nell'oscurità in cui mi trovo potrebbe parere scortesia e peggio; mentre non è che un bisogno, una necessità della mia vita fisica, morale, intellettuale. Io amo l'oscurità.
- Perdonate, conte; ma lasciatemi dire che è l'oscurità dell'orgoglio.
- Siete in errore, altezza. Dite piuttosto: della disperazione.
- Disperazione... ma di che?
- Dispero degli uomini e delle cose. Gli eventi che la fortuna onnipotente ha scatenati nel mondo da gran tempo, non appagano la mia natura; nè io ho tanta forza da mettere, per trattenerla, le mie braccia tra i razzi della sua ruota. Se però io vivo nell'oscurità e nell'inazione, S. M. mi deve ringraziare.
- E perchè?
- Perchè sarei pericoloso se operassi. Pericoloso a lui, pericoloso alla patria.
- Non vi comprendo.
- Vi dirò tutto. Ancora io dubito... se le mie opinioni avessero raggiunta la certezza, io sarei già stato un ribelle. Così versando ancora e nell'incertezza e nell'investigazione affannosa di chi cerca e ancora non trova, faccio atto di sapienza a star celato in casa nell'aspettazione della parola estrema che mi spieghi tutto il passato; nell'aspettazione dell'ultima pagina, in cui sia consegnata la prova e la riprova dell'idea madre di tutto il libro. Se domani io potessi convincermi che il costrutto architettonico dell'edificio napoleonico è perfetto, io sarei il più operoso capomastro dell'architetto sovrano. Spero, altezza, che voi mi saprete grado della mia sincerità. Io non potrei mai essere uno strumento nella mano di chi non comprendo.
Se il lettore è stato attento alle parole del conte Aquila, si sarà accorto come il disegno del suo edificio, ch'egli improvvisò dopo che la sua ambizione venne lusingata dal discorso del viceré, fosse fatto in modo da lasciare l'addentellato per un edificio di tutt'altro stile. È carattere dell'ambizione, quello di non aver nessun sistema prestabilito e inconcusso, ma di odorare il vento e virare e atteggiarsi a seconda degli avvenimenti e dell'invito delle circostanze. Al conte Aquila non parea vero che Napoleone avesse potuto parlare di lui in quel modo e avere di lui quel concetto; però, quando ebbe quella rivelazione inattesa, il suo pensiero fu tosto di approfittare della fortuna e di giganteggiare con Giove, giacchè era assai arduo il rinnovar l'impresa dei Titani. Così parlò in guisa da innalzarsi sempre più nel concetto di Beauharnais; facendo vedere, coll'apparenza della massima sincerità, quanto egli poteva essere pericoloso, e per conseguenza che magnifico e solenne compenso ci sarebbe voluto per renderselo amico; nel tempo stesso poi lasciò aperto un varco ad una nobile ritirata in quelle parole: Ancora io dubito. Il vicerè rispose:
- Io vi ringrazio, conte; ma posso sapere se questi vostri sentimenti li avete manifestati ad altri prima che a me?
- Ad altri sarebbe stato inutile; con voi, altezza, era indispensabile.
- Io dunque vi ringrazio: ma ben più vi ringrazierò il giorno che vi compiacerete di uscire da una oscurità dannosa. Tutto quello che mi avete detto oggi stesso, lo scriverò all'imperatore, e mi lusingo che ci rivedremo presto. Ma ora ci conviene raggiungere il campo di battaglia. - Sento le fucilate. - Ecco l'Ajace dei cacciatori: il marchese Sannazzaro... È meglio che ci dividiamo, caro conte; questa dev'essere l'ala destra della caccia. Io vado a capitanare la sinistra; a rivederci in casa Litta.
Il marchese Sannazzaro, giovinotto alto, forte, bruno, peloso come un Esaù, era assai intrinseco di Beauharnais, e suo ajutante di campo nelle battaglie di Pafo e di Cipro. Beauharnais, senza dirgli il perchè, lo aveva incaricato di non lasciar più in libertà il conte Aquila, quando gli fosse comparso innanzi. Il vicerè, che era stato tante volte a caccia nei dintorni di Lainate, e conosceva benissimo i luoghi, era andato d'accordo col Sannazzaro, il quale co' suoi cani lo attendeva da qualche tempo a un posto determinato della campagna. Il conte Aquila, che era amico del Sannazzaro, rimase così dunque con lui.
- Se vuoi fare qualche colpo, disse il Sannazzaro al conte, questo è un bel posto. I cani sono in lavoro. Discendi da cavallo, e dàllo lì al palafreniere, che lo condurrà in quel pagliajo.
Il vicerè intanto, di generoso trotto, preso per una scorciatoia che conosceva, raggiunse il grosso della comitiva.
Al generale Saint Hilaire, suo ajutante di campo, aveva dato incombenza di farsi presso al cavallo della contessa Aquila, di allontanarla, con qualche pretesto, dal resto della schiera. Non vedendo adunque nè il Saint-Hilaire, nè la contessa, chiese agli altri dov'era il suo ajutante.
La contessa A..., che parlava enfaticamente con un colonnello dei dragoni reali:
- Sono andati per di qui, rispose; c'è il poeta Foscolo con loro.
Il motivo per cui Foscolo s'era staccato dalla contessa A... fu perchè vide che il generale Saint Hilaire s'era fatto a parlare colla contessa Aquila, e manifestamente aveva voluto allontanarla dal resto della compagnia. Come sa il lettore, egli aveva espresso all'amica un grande interesse per quell'infelice signora. Vedendola cogitabonda e mestissima, gli parve che fosse quel genere di mestizia a lui troppo noto: al vedere poi il vicerè parlare al conte Aquila e trarlo seco, gli entrò il sospetto e si confermò in esso quando osservò l'ajutante di campo di Sua Altezza fare altrettanto colla contessa. Non sapeva nulla, non capiva nulla, ma deliberatamente spronò il cavallo, e si portò ai fianchi della contessa Aquila, la quale un momento prima gli aveva domandato qual'era l'edizione più compiuta e più corretta dell'Ortis. Egli non poteva spiegarlo a sè stesso, ma conoscendo il vicerè e sapendo che l'ajutante lo serviva nelle tresche amorose più che sul campo di battaglia, quei movimenti lo misero in apprensione. Ugo Foscolo poteva essere rimproverato di tutti i peccati, ma era generoso; generoso oltre la sfera comune, generoso e cavalleresco.
Or continuando, Beauharnais mise il cavallo al galoppo. Dopo pochi secondi vide infatti la contessa tra Saint Hilaire e Foscolo, li raggiunse, saettò con occhio iracondo l'ajutante; non osò far nessun atto dispettoso con Foscolo; disse alla contessa:
- Il signor conte vostro marito vi chiama.
Saint Hilaire rallentò il cavallo: Foscolo, incerto, lo rallentò esso pure, e si fece a parlare con Saint Hilaire.
Il vicerè si pose a lato della contessa. Foscolo l'avea veduta smarrirsi alla comparsa di lui. Stette attentissimo durante il breve tempo che si trovò con loro. Quando Foscolo tornò presso alla contessa A...:
- Sentite, le disse, se voi siete pentita di qualche vostro peccato, oggi potete acquistarvi mille anni d'indulgenza, facendo una carità.
- Di che si tratta?
- Quel che vidi e quel che sospetto, lo terrei chiuso in me per sempre; ma tacendo si può lasciar aperta la via ad un gran disastro. Voi siete amica della contessa... Se le siete amica, ditele dunque che stia in guardia. Ditele che quel gallo furfante di vicerè vuol disonorarla; che però sappia ritirarsi a tempo da un vergognoso abisso. Io abborro il conte; ma più di lui abborro il vicerè.
- Ma come ora potete dirmi tutto questo, mentre un momento fa non sapevate nulla?
- Ho l'occhio medico, madama, e quando lo fermo sulla faccia altrui, tutto quello che è di dentro m'appare di fuori. Avvisate dunque la contessa. Ma che ogni cosa stia segreta fra me e voi. Nè che la contessa venga a sapere mai ch'io ho parlato. Siete voi che avete visto, voi che date i consigli. Intanto fate in modo che la contessa ed il vicerè non stiano più soli. A me non conviene accompagnarvi. A rivederci alla villa.
Ugo Foscolo avrebbe fatto molto meglio a tenere in sè il sospetto, e non a incaricare una donna di dar consigli a una donna. È sempre un'impresa pericolosa. Ma è l'indole degli uomini generosi di mettere tutta la propria confidenza nella persona amata, di metterla a parte di tutti i proprj segreti, di desiderare che, in loro vece, s'innalzi con azioni gentili nell'altrui concetto. Ugo Foscolo della contessa A... volea farne una gentildonna perfetta; ma era arrivato troppo tardi.
In ogni modo, essa che non amava il vicerè (la ragione già ci sarà stata), acconsentì al desiderio di Foscolo, girò intorno gli occhi, chiamò il colonnello dei dragoni reali che già abbiam visto seco: - Mettete gente insieme, gli disse, e seguitiamo il vicerè.
E molti si misero al galoppo. Il colonnello stava ai fianchi della contessa A...
Ed ora è certo che il lettore farà gli occhi attoniti, ad onta di tutto quello che abbiam detto sul conto della A...; ma pur troppo le faccende non eran nette con quel colonnello; Jacopo Ortis e all'Ombra dei cipressi non furono rimedj abbastanza eroici per far la cura radicale di colei. Essa in quel giorno sentì per il dragone, che aveva visto altre volte, una di quelle accensioni di cui già parlammo; di quelle accensioni che le facevano cacciar dietro le spalle ogni rispetto. Senza perder tempo, secondo il suo costume, con quei suoi modi, dove la sfacciataggine (già non c'è altra parola) si rendeva amabile per un garbo tutto suo proprio, aveva fatto la sua dichiarazione al colonnello, il quale dal canto suo pare che abbia voluto tener conto del proverbio che a caval donato non si guardi in bocca.
Raggiunsero il vicerè, che rimase sconcertato, e a tale che a un certo punto dovette lasciar la contessa. Questa si mise con altre dame. La A... era tanto infervorata del colonnello, che non si curò più della raccomandazione di Foscolo. L'ora si fece tarda. Scavalcarono alla villa Litta a Lainate. La contessa A… condusse le cose in modo da rimaner sola sotto un androne col colonnello. Questo, tirato nel vortice, baciato, baciò; ma in quella una scudisciata da cavallerizzo infierito fischiò e piombò sul tergo afrodisiaco della contessa A... Era Foscolo, il quale avea visto, e che accompagnò la scudisciata che fu il fulmine, con parole orride d'ingiurie che furono la gragnuola.
Il colonnello guardò Foscolo, che lo guardava furibondo.
Vi fu un momento di silenzio.
- Io sono il colonnello Baroggi.
- Ed io sono Ugo Foscolo.
- Allora a domani.
- A domani.
Fu un parapiglia di un istante, nessuno vide. La A... entrò nelle sale infuocata di erotismo insaziato, di vergogna e di rabbia.
Ma è possibile e probabile questo fatto che abbiamo narrato? È codesta una questione inutile. Dal momento che un fatto è realmente avvenuto, potrà essere strano, inverisimile, incredibile; tutto ciò che si vuole, ma non cessare per questo d'essere avvenuto.
Foscolo, poeta sentimentale; Foscolo, cavaliere degno della Tavola Rotonda; Foscolo che aveva tuonato nei caffè per difendere la rediviva Aspasia, ha potuto percuoterla come una cavalla da maneggio? È un tormento a pensarci, ma non c'è rimedio. Egli è certo che non fece bene; è certo che egli doveva appagarsi di disprezzarla e di abbandonarla. È certo che anch'egli se ne pentì e se ne vergognò nel punto stesso che vide contorcersi sotto il flagello spietato le bianche spalle tanto care un minuto prima. Ma si può disfare e rifare un verso; non distruggere una battitura. D'altra parte, volendo metterci un istante ne' panni di Foscolo; volendo considerare che il suo temperamento era tutto di materia incendiaria, non è possibile pretendere che all'inatteso spettacolo dell'amante che bacia un dragone dovesse imitare quel professore di diritto romano che si accontentò di mostrare al ganzo della moglie infedele che cosa un marito offeso avrebbe potuto fare se si fosse attenuto al codice Giustiniano.
Ma che Foscolo abbia avuto ragione o torto, è una questione affatto secondaria. Le serie conseguenze furono che il segreto ch'esso per generosità comunicò alla A... cessò di essere un segreto; che la contessa in quel dì stesso lo comunicò alle altre sue amiche e alla Falchi e...
Vedremo in seguito quel che avverrà di questa istoria.


VI


Dopo la caccia, verso sera, vi fu un sontuoso banchetto nella gran sala terrena del palazzo di Lainate. Uno di quei banchetti che, per consueto, facevano ombra ai medesimi di corte, e che contribuirono tanto a dare alla casa Litta quella fama di ricchezza stragrande, che passò persino in proverbio.
Il pranzo fu dei più fracassosi e giocondi. Solo quattro faccie erano aggrondate e scomposte: quella del vicerè, quella della contessina Amalia Aquila, quelle di Ugo Foscolo e della contessa A... I loro volti erano trasvolti e abbattuti al punto da dar nell'occhio anche dell'osservatore meno esperto. Altri aspetti non troppo lieti, e che non parevano partecipare della gioja comune, erano quelli del colonnello Baroggi, per una ragione gentile che sapremo dopo, e quello dell'avvocatessa Falchi. Non era per altro malinconia quella di costei; ella non sapeva dove stesse di casa; non era nemmeno malumore. La Falchi aveva precisamente quella che i Milanesi, non sappiamo con quanta proprietà, chiamano luna; luna bisbetica che la spinse fino al punto di uscire in qualche espressione scortese col vicerè, che, stralunato qual era, la mise a tacere con delle parole che manifestamente valevano un insulto. L'avvocato sentì e non sentì; il ministro Prina sentì e crollò la testa; tutti i commensali sentirono ed ebbero un gusto matto di vedere umiliata quella superba sfrontata.
Allorchè si levarono le mense (questa frase è di conio classico) e tutti i convitati passarono nelle altre sale, l'avvocatessa Falchi, simulando indifferenza e disinvoltura, si accostò alla contessa A... e:
-  Che diamine vi è capitato oggi? le disse: siete infuocata come un basilisco e mandate saette dagli occhi. E che diavolo ha in corpo il vostro Foscolo, che non disse una parola in tutto il tempo del pranzo? Qualche cosa vi dev'essere successo. Già ve l'ho detto che non è possibile vivere in pace con quello stravagante.
La A..., buonissima in fondo, e di quelle nature aperte che non sanno tener nascosto nulla anche a loro danno, senza rispondere alle parole della Falchi, si volse, e alzando lo scialle di casimiro, ond'erasi coperte le spalle:
- Guardate, disse.
- Che diamine è questo? chiese la Falchi; avete tutta quanta sollevata la prima pelle, come se vi avessero messo un settone. Ma che cosa è stato?
- Vi dirò piuttosto chi è stato.
- Chi dunque?
- Foscolo.
- Ma perchè?
- Per niente.
- Oh!...
- Non vogliono capirla questi uomini pretensiosi, che da noi si vuole avere la nostra libertà. Curiosa davvero. C'era forse un patto scritto tra me e lui? Eppoi che patti, che scritti! Oggi mi piace un poeta coi capelli rossi, perchè in tutto c'è il suo buono; ma se l'ingegno e la fantasia e il sentimento e l'eloquenza e il diavolo che li porta possono piacere un giorno, una settimana, un mese; viene poi quel dì che si sente proprio la necessità d'un bel giovane e d'una bella faccia e di una bocca con dei baffi su cui dare dei baci; io già son fatta così, e non posso cambiarmi.
- Ma insomma, che cosa avvenne?...
- Una cosa naturalissima. Il colonnello Baroggi mi piace da un pezzo immensamente. Già è un gran bel giovane. Oggi mi son trovata con lui. Ci siamo subito intesi. Gran difficoltà, eh? Qui presso l'uscio dell'anticamera grande l'ho baciato... Ecco tutto. Già tu sai che i baci sono la mia morte...
- Ma e così?...
- E così, Foscolo ha veduto. Se avesse avuto la sciabola, certo che m'avrebbe tagliata in due. - No, no, con tutt'altri potrei fare la pace... Con lui, no. La vita è in pericolo. Che pazzia fu la mia di mettermi a far all'amore con un leone in frac... Ma osserva il colonnello! - Come è caro! Oh! guardando e pensando a lui, non sento più nemmeno il dolore della pelle.
In questo mentre la Falchi fece notare alla A... che il principe Beauharnais da qualche tempo era stretto in colloquio col conte Aquila.
- C'è un mistero che non so comprendere, soggiunse poi.
- Il conte fu sempre nemico e denigratore del vicerè, ed oggi pare che sia tutt'altro. Questa mattina cavalcarono in disparte e soli per lungo tempo. Adesso mi sembrano più amici che mai. Come può essere questa faccenda?
- Come può essere... volete saperlo?...
- Il conte, con tutta la sua prosopopea, è caduto nella rete come un barbagianni... La contessa, con tutta la sua santità... sta per abbracciare un'altra religione... Vi dirò anzi che perciò appunto io ebbi un incarico da... da Foscolo... sì, da Foscolo, il quale volea che io facessi l'angelo custode di questa donna che è alle prese col diavolo...
- Ma in conclusione, di che si tratta?...
- In conclusione, il vicerè desidera una delle solite conclusioni, e Dio sa che cosa dà ad intendere al marito per incantar la moglie. Ma non sarà mai che alla contessina io stia a dare i consigli di Foscolo... Già questi letterati, con tutta la loro pretesa, non hanno nessuna esperienza di mondo... Adorano le donne inginocchiate, ma per farne delle schiave... Bella maniera di compensarle... Chi sono le donne? C'è libertà per tutti, ci sia dunque anche per loro. E in piena regola. Se, per esempio, la contessina Amalia è sazia di quell'originale di suo marito, fa bene a volgersi a un altro; e perchè no? Certamente che io non avrei scelto il vicerè, ma se a lei piace... tocca a me a dirle: fate male? Fa benissimo. Già, io abborro tutte le marmotte superbe, che, perchè sono di sasso, credono di essere sante... Ora sapete, signor Foscolo, cosa dirò alla contessa? Le farò innanzi tutto i miei complimenti, poi mi lamenterò con lei perchè non abbia incominciato prima... poi se le mancasse il coraggio... le farò animo io... e..., in un bisogno, le presterò anche mano.
La Falchi stette un momento senza parlare; poi disse:
- Non credo niente di tutto ciò. Il conte Aquila non è un uomo come un altro. In quanto al vicerè, non sono le donne di tale stampo quelle che piacciono a lui...; che cosa volete che ne faccia di questa santa Cecilia in convalescenza, cogli occhi sempre rivolti al cielo? Finchè ci sono donne della nostra struttura, mi fanno pietà codeste etiche sparute, buone tutt'al più per i collegiali che hanno il capo nella Teresa e Gianfaldoni.
La Falchi, che aveva importunato il ministro Prina per essere invitata del duca Litta, colla speranza di trovarsi ancora col vicerè e ritessere la calza di cui eran cadute le maglie, si sforzò a non voler credere alle parole della A...; ma in conclusione capì che ci doveva essere qualche cosa davvero; e diede il giusto valore ad alcune circostanze che dapprima le erano sembrate enigmi; infine ne ebbe un tal dispetto, che le si converse in arsenico tutta l'abilità del cuoco di casa Litta.
Gli uomini e le donne che hanno l'indole della Falchi non è facile misurare fino a che punto possono riuscire infeste al prossimo. Le bestie feroci c'è l'usanza di chiuderle in gabbia. I delinquenti si mettono in prigione; ma che provvidenza sarebbe se si potesse fare altrettanto cogli uomini, la cui ferocia è di quel genere latente che dilania e divora alla sordina e salta a piè pari, senza nemmeno rasentarli, tutti i paragrafi del codice criminale? La Falchi era ignorante e triviale, ma aveva ingegno acuto e forte; ingegno fatto di perfidia e di veleno, ma ingegno sempre. La sua indole l'abbiamo analizzata alquante pagine addietro, e il lettore si ricorderà come l'ambizione e la smania di soverchiare altrui in tutto fosse la febbre acuta che non la lasciava mai tranquilla. Così fosse stata una febbre acuta da gettarla in un letto e da metterla presto nelle braccia d'una morte benefattrice. Ma se, come la tigre reale, ella aveva indosso una rabbia cronica, come la tigre reale aveva una forza poderosa e una salute inalterabile e un piloro di porfido da macinare anche il diamante. Ella viveva di rabbia mantenutagli costantemente dalla sua eccessiva vanità. Questa vanità che, ad onta della mente svegliata, la vediamo sovente nelle persone ignoranti e presuntuose e che hanno la villania nell'intelletto, fu tale che, quando il vicerè gettò gli occhi sulla sua faccia rosea e sulle sue spalle classiche, ella sognò addirittura e troni e dominazioni e sa Dio che altre strane cose.
Ecco perchè le riuscì così amaro l'abbandono del vicerè; ecco perchè, ammirando sè stessa nello specchio e parendole di veder conservata tutta quanta la propria freschezza voluttuosa, coll'aggiunta di certe rotondità recategli in dono dalla completa maturanza, si tenea certa che un giorno o l'altro il vicerè sarebbe ricascato; ecco perchè quando invece potè convincersi che Beauharnais avea messo gli occhi su di un'altra, e s'accorse (perchè una volta messa in via aveva l'occhio acuto) ch'esso era sollecitato e riscaldato ed esaltato da qualche cosa di diverso dal solito, ella avrebbe dato scacco matto anche a Medea per vendicarsi di quel nuovo Giasone.
Ma ora, tralasciando tutte le cose inutili, dobbiamo ritornare alla festa di corte, con cui abbiamo incominciato questo episodio.


VII


Giova intanto sapere che questa festa fu posteriore di qualche mese alla caccia di Lainate. In tale frattempo le passioni dei personaggi principali del nostro dramma subirono quelle modificazioni e alterazioni che il tempo suol sempre produrre. La contessina Amalia Aquila era stata fatta dama di corte, annuente il marito che non volle nulla per sè, ma che attendeva ben altre cose dall'avvenire, e fiutava gli eventi come il leone fiuta il vento che investe la selva; la viceregina Amalia Beauharnais supplicò ella stessa il conte Aquila perchè concedesse alla moglie di accettare il posto di dama di corte. Veramente fu il vicerè che indusse la vicereale consorte a far quella preghiera; ma anche essa ebbe piacere di accondiscendere al marito, perchè, ingenua e virtuosissima qual era, vedeva nella contessina Aquila una delle più splendide e gloriose eccezioni in quella schiera di voluttuose donne che stavano alla contessina come le abitatrici olimpie a qualcuna delle martiri cristiane.
Quella martire però, degna d'essere dipinta dal Beato Angelico, da qualche tempo volgeva e rivolgeva nell'animo pensieri ed aspirazioni e desii e voti che non eran certamente quelli del paradiso celeste, ma di quell'altro paradiso che si trova dappertutto, anche in un tugurio, anche nelle lande della pianura, anche in una risaja, purchè vi siano un uomo e una donna che si vogliano bene con ardore e con gentilezza. Davvero che la contessina fece malissimo a riposarsi troppo su quei pensieri; davvero ch'ella avrebbe fatto meglio a gettarsi ai piedi di un confessore oblato, e a flagellarsi sette volte al giorno per trenta giorni; ma in conclusione ella non uscì mai dal segreto de' suoi pensieri; ma in tutto e per tutto si ridusse a far dei conti senza l'oste.
Tornando indietro, abbiamo vista la contessina a ballare la sua quadriglia d'obbligo col vicerè; però possiamo congetturare le parole che il vicerè le deve aver dette all'orecchio nei riposi alternati della danza.
Quando una donna ha pensato molto ad un uomo nella solitudine non mai svegliata della casa; ed è stata gran tempo senza vederlo, e col desiderio di vederlo, la prima volta che si trova con lui subisce una tale ebbrezza vertiginosa, che non è più capace di governare sè stessa, malgrado di tutta la sua virtù nativa. Ella si lascia trascinare dal suo affascinatore come una bambina infatuata. La stessa innocenza della vita, la stessa ingenuità dell'indole, invece di essere armi di difesa, espongono i lati più deboli alle ferite. La contessina dunque danzò e ascoltò le parole del vicerè senza sapere quel che si facesse; senza ricordarsi più in che mondo si fosse. Vi fu persino un momento in cui si lasciò andare ad un abbandono così spensierato, che il vicerè medesimo si fece guardingo e riservato per paura che troppi se ne accorgessero. Tanto l'innocenza assume talvolta la sembianza del suo opposto. Alle altre dame e alla Falchi non sarebbe mai capitato di trovarsi come la povera Amalia nella condizione del rosignuolo che trepidando e inconscio sbatte l'ali per volare sulla lingua del crotalo. Ma non si scansa che chi conosce il pericolo; e se è un pericolo ambito, lo vuol rendere più appetitoso protraendolo!
Più d'una volta, anche senza essere stati il vicerè, nè avere avuta un'assisa tutta carica d'oro, sarà capitato a voi tutti, i miei cari giovinetti, che oggimai, al pari di me, siete in liquidazione, d'avere avuto sotto il braccio o tra le braccia taluna di quelle care giovinette o donne sature di sentimento e d'indole ingenua, che per un momento, nell'entusiasmo dell'affetto, vanno soggette ad una specie di sincope mentale; e, se siete stati galantuomini, non avrete abusato di quei momenti, perchè non c'è nè coraggio nè gloria a vincere chi non è in parata. Ebbene, la contessina Amalia, alla festa del 1810, assomigliò appunto per un istante ad una di codeste donne; nel medesimo tempo che il vicerè non pensò nemmeno per un minuto a sfoggiare quel galantomismo del quale voi ed io, probabilmente, avremmo dato un così bel saggio. Egli si mise soltanto in gran riguardo, finchè stette nell'affollatissima sala delle Cariatidi, ma appena cessò la musica, e i danzatori ricondussero agli aurei sedili le sudate Alfesibee, egli passo passo, dopo aver dette due parole al generale ajutante, tirò di lungo colla bella contessina sotto il braccio e, adagio adagio, scivolò con essa attraverso ad una delle porte e passò nelle altre sale. Fu allora che l'avvocatessa Falchi, come fu già detto, attaccatasi sotto al braccio del pittor Bossi, seco lo trasse sui passi della povera contessina.
- Venite con me un momento, avea detto la Falchi al Bossi.
- Dove?
- Si sa; a far un giro per le sale.
- Rechiamoci allora nella sala del buffet, che ci ristoreremo di questo caldo africano.
- Al buffet ci andremo dopo. Venite ora con me...
- Sempre disposto all'obbedienza. Ma di che si tratta?
- Di nulla o di molto. Ma non vorrei che stanotte nascesse qualche tragedia.
- Tragedia?
- Il conte Aquila è qui, e non è cieco; la contessina ha perduta la testa; e quella frasca di vicerè vuol comprometterla in ogni modo.
- Vivere e lasciar vivere, cara signora. Che cosa vuol ella fare? Il conte è là che parla con Marmont da più di un'ora. Ella sa ch'ei non bada più a nulla quando è sprofondato in una disputa. Lasci dunque andare.
Il pittor Bossi conosceva troppo la Falchi e non si fidava, e comprendeva che tutte quelle premure non derivavano da buone intenzioni.
- Sa ella che cosa dovremo fare piuttosto? soggiunse poi.
- Sentiamo.
- Recarci là presso al conte, e quando Marmont si staccasse da lui, metterci tosto al posto del generale; e non lasciar solo il conte, e trattenerlo e annaspargli la vista, e dar tempo al tempo per lasciare che chi vuol cavarsi un piacere se lo cavi senza pericolo e senza conseguenza.
- Ma che propositi son questi, signor pittore? Per chi mi credete?
- O propositi o spropositi, io non disfaccio mai il piatto altrui. Chi ha appetito mangi, e buona notte. Ho altro per la testa io.
Il pittor Bossi non parlò certo con gentilezza cavalleresca, ma disprezzava la Falchi, di cui non poteva sopportare la capricciosa e vanitosa burbanza. In quanto a lei, con sgarbo plebeo e da fantesca si staccò da lui, lo piantò in mezzo alla sala, e mosse incontro, imponendo il proprio braccio a un giovane patrizio, il quale allora poteva avere dai ventiquattro ai venticinque anni, e oggi vive ancora con quasi sessant'anni di più, e sta benone di salute.
Questo vecchio, che nel 1810 era un giovane, veniva da' suoi conoscenti soprannominato il Milordino, perchè aveva fatto due volte il viaggio di Londra, perchè aveva portato dall'Inghilterra tutte le caricature che là si erano diffuse contro Bonaparte generale, console, imperatore; perché preferiva il roast beef alla nostrana coppa di manzo, e perchè portava nel taschino del panciotto, che aveva dovuto far ingrandire, un grosso orologio inglese da capitano di nave, comperato a Londra da un ajutante di Nelson. Non era troppo ben veduto dal governo; ma siccome era tutto dato a cavalli, a donne, al giuoco, così non era per nulla temuto, e lo lasciavan fare, o, per esprimerci più giusto, lo lasciavan dire. Fra tutti quelli che da qualche tempo avevano sulle corna il vicerè, egli primeggiava incontestabilmente, e ciò per il disdoro toccato d'essere stato messo alla porta, senza nemmeno il ben servito nè la concessione degli otto giorni di pratica, dalla sua troppo bella amante, che riuscì troppo cara a Beauharnais. La Falchi sapeva questi antecedenti, onde quando lo vide spuntar da una porta, pensò tosto di abbandonare il buon Bossi per attaccarsi a un confederato più disposto ad una lega offensiva e difensiva. Nè ancora la sua mano era appoggiata al braccio del Milordino, che già questi le aveva detto:
- Ha visto, madama? quasi quasi sarei tentato di andare ad avvisare il conte e di farlo venir qui.
- È facile ingannarsi, caro conte. È meglio prima accertarsi...
- Accertarvi?.. ecco... avete visto?
- Davvero che ho visto... Ma, sapete che se da una parte la petulanza ha passato ogni ritegno, dall'altra l'inesperienza e la leggerezza sono tali che una collegiale di S. Filippo potrebbe darle dei pareri!...
Queste parole furono provocate dal fatto che il vicerè, quando fu in quella camera che precede l'attuale stanza da letto, nonostante che le livree di corte stessero immobili a guardia delle porte, nonostante che alcuno degli intervenuti fossero là per trovare qualche ristoro al caldo soffocante delle sale affollate, non seppe vincersi così, che non baciasse sulla gota la trasognata contessina Amalia. Fu l'atto di un minuto secondo; ma fu tale che la contessina parve come svegliarsi di colpo da quello stato di trasognamento deliro in cui versava da qualche tempo. Si svegliò, sottrasse la gota alla bocca del vicerè, e si sciolse dalle braccia di lui con un movimento così risoluto e quasi guerriero, che il vicerè non valse a trattenerla. I servitori di corte che stavan là immobili addossati agli stipiti delle porte, come statue di terra cotta, videro ogni cosa; ma gl'intervenuti, i quali erano aggruppati in un angolo confabulando in crocchio, non ebbero il tempo di voltarsi, che la contessina, inseguita dal vicerè, era già uscita. La Falchi e il lord contino tirarono di lungo come se fossero dell'altro mondo, e, ritornando nelle sale affollate, si confusero al mare magno.
Un'ora dopo la contessina Aquila, dama di corte, era seduta presso la viceregina Amalia; che, nella sua angelica bontà, le diceva le più gentili parole, le faceva le più affettuose carezze. Il vicerè, in altra parte, diventato di mal umore e asprissimo, si rendeva, senza volerlo, antipatico e uggioso a quanti ebbero a parlar seco. La Falchi, seduta col ministro Prina, gli stava narrando e descrivendo quanto aveva veduto, e il ministro, crollando la testa:
- Che queste cose, osservava, le diciate a me, cara signora Teresa, sta bene, - ma per carità non vi venga la tentazione di dirle ad altri... È già una disgrazia che abbiate avuto un testimonio, e che testimonio!... A proposito, voi dovreste fare una cosa: pregare il conte a non dir niente a nessuno di quanto ha visto. Capisco che sarà difficile chiuder la bocca a un farfallino tale... In ogni modo, giacchè voi avete dell'ascendente su costui, perchè le belle donne fanno fare tutto quello che vogliono ai giovanotti, potreste indurlo, per lo meno, ad essere un po' circospetto... In conclusione, quando avesse parlato e avesse fatto in modo che il conte venisse a saper tutto... su chi verrebbe a cadere la tempesta?... Sulla più innocente di tutti... Nè stia mai a credere di poter vendicarsi del vicerè... Pretendereste che il vicerè potesse aver paura del conte? Ma non state mai a credere una simile corbelleria. Tutto quello che potrebbe succedere, avuto riguardo all'indole superba e terribile del conte, sarebbe di far nascere uno scandalo inaudito da far parlare tutto il paese; il conte potrebbe sfidare il vicerè... e il vicerè, come vicerè, non accetterebbe, e lascerebbe il conte scornato più che mai, e in tale stato d'esacerbazione da far nascere una tragedia domestica. È sempre la povera contessina che ne va di mezzo; la sola contessina. Abbiate pietà di lei, per carità; fate capire al Milordino che a parlare commetterebbe un atto di viltà inaudito... Pigliatelo da questo lato... Lusingatelo nel suo carattere di gentiluomo e di cavaliere... Vedrete che vi ubbidirà; facendo credere agli uomini che noi siamo intimamente persuasi che essi possedono qualche virtù che non hanno, finiscono ad assumerla, per il momento almeno. - Ditegli adunque che un cavaliere onorato e squisito come lui non può trovare nessuna compiacenza a compromettere una povera donna, che è già infelice abbastanza. Che se poi volesse vendicarsi del vicerè... è subito fatto. Si faccia innanzi, e gli rubi alcuna delle sue amanti... È questo il solo genere di sfida e di duello che il vicerè non può rifiutare. Guardate che il contino è lì. Non perdete tempo. Attendete ch'io gli faccia cenno. Eccolo... parlategli chiaro e forte, come sapete far voi. Addio - siamo intesi; e si alzava dicendo al contino che si avvicinava:
- Madama ha bisogno di parlarvi. Io vi lascio con lei.
Il ministro Prina, da uomo di mondo e di retto senso e buono di quella bontà che non vuole gli scandali e le sventure inutili, perorò così fortemente perchè l'avvocatessa serbasse il silenzio, che ella infatti, quantunque fosse d'una caparbietà per lo più invincibile, obbedì per allora e indusse anche il Milordino ad obbedire. Egli è vero che il giovinotto aveva già detto qualche cosa a taluno de' suoi amici, egli è vero inoltre che anche altri in quella notte s'accorsero che qualche cosa c'era stato tra il vicerè e la contessina. Ma le dicerie si fermarono tutte a molti passi di distanza dal conte; ma se il bel mondo parlò e sparlò dell'avvenuto, il conte per assai tempo visse nella più profonda oscurità, e la contessina, ritornata nei silenzj casalinghi, dopo aver ripensato con orrore al pericolo fuggito, giurò, per quanto il cuore le gemesse e la passione la straziasse in mille modi, di non mettersi mai più al punto di trovarsi da sola a solo col vicerè. E attenne la promessa e il giuramento; e non ebbe in seguito ad incolparsi d'altro che di pensieri ed aspirazioni sentimentali, e fu tanto modesta seco, che non si ascrisse a merito, come bene avrebbe potuto, l'essere fuggita così deliberatamente dal vicerè che volea trarla a perdizione. Tutto adunque sembrò finito in quella notte. Il dramma incominciato con grande aspettazione erasi sciolto in nulla, tra un pentimento, un dispetto fuggitivo, uno sbadiglio e un consiglio prudenziale. Ma sinchè si è vivi, se durano le speranze, sono anche incessanti i timori e ognor presenti i pericoli: e dovevano trascorrere due anni prima che quel bacio fatale, come una morsicatura di cane idrofobo, avesse a ricomparire nelle sue conseguenze con sintomi i più esiziali.
Chi avrebbe detto al ministro Prina, quando perorò a vantaggio della felicità domestica dei conjugi Aquila, che più che mai aveva perorato per sè? Chi avrebbe detto ai più veggenti, che la prima volta che fosse giunta all'orecchio del conte la notizia di quell'avventura galante, il destino avrebbe in quel dì stesso segnata una sentenza di morte; e che del famoso eccidio sarebbesi in quel giorno cominciata a tessere la prima trama? Saltiamo ora dunque due anni di piè pari, per trovarci in sul principio dell'anno 1813, sotto la luce sinistra della stella tramontante di Napoleone.


LIBRO DECIMOSESTO




SOMMARIO


Il genio di Napoleone. - Spagna e Russia. - Il corriere Barbisino. - Le satire milanesi. - Il conte Aquila e madama Falchi a Parigi. - Il colonnello Baroggi e il vicerè. - Il testamento del marchese F... e il tribunale di Milano. - I nemici di Beauharnais. - Una vittoria di Napoleone. - I vecchi e i giovani. - La famiglia Baroggi. - Il maestro Galmini. - L'Europa e il Nihil. - Il ministro Prina e il dott. Scappa. - Due milioni. - I coniugi Falchi nella camera da letto. - Ricomparsa del vecchio Galantino.


I


Nel tempo in cui Beauharnais diede quella festa, che fu l'ultima del regno italico, la gloria e la potenza di Napoleone avevano raggiunto il loro apogeo. L'adulazione dei letterati cesarei, che si eran fatti imprestare dal Giove d'Omero i classici predicati d'Ottimo e di Massimo, per darli a Napoleone, rappresenta compiutamente quel periodo. Al pari e più di Nabuccodonosor, esso allora poteva dire: Non son più re, son Dio. Ma è una legge eterna della natura e dell'umanità che il grado massimo delle cose sia transitorio. Bonaparte impiegò quindici anni a toccare il vertice supremo d'una onnipotenza umana, che quasi rendea l'ideale dell'onnipotenza divina; ma in quindici mesi tutto precipitò. Il simbolo biblico del colosso dal capo d'oro e dai piedi di creta è la formola perpetua che riassume la biografia di coloro, i quali abusarono d'un genio smisurato per far violenza ai minori viventi, andando a ritroso delle leggi economiche della società. Con ventotto mila uomini in ciabatta, e dodici cannoni stracchi, Bonaparte in tre mesi spaventò l'Europa. Con ottocentomila soldati e milleduecento cannoni provocò il barbarico ghigno dei pidocchiosi Cosacchi.
Ma coi laceri e mal pasciuti battaglioni il genio aveva operato miracoli, perchè trovò un ausiliario nelle aspirazioni dell'universalità. Armato di una forza materiale quale non s'incontrò mai nella storia, il genio si degradò e fu umiliato perchè pretese di soffocare i desiderj legittimi delle nazioni. Assecondando le leggi della natura, un fanciullo può far portenti, movendo una macchina ben congegnata; ma un braccio d'atleta si spezza se pretende arrestare una ruota mossa dal vapore.
Il genio, essendo l'espressione massima della potenza delle facoltà mentali che si corroborano e si esaltano a vicenda per la virtù di una conflagrazione eccezionale che quasi esce dalla condizione fisiologica, se appena d'un grado sorpassa quell'espressione, tosto si altera in modo da diventare un accidente patologico. L'ingegno e il genio, già lo scrisse il Sarpi, non sono altro che una lenta infiammazione del cervello. Concesso che ciò possa esser vero, appena quell'infiammazione cresca di qualche poco, siamo già allo stato dell'encefalite. Romolo, che senza dubbio fu un uomo di genio, negli ultimi anni del suo regno ebbe tali afflussi di sangue alla testa e diventò così prepotente e insoffribile, che i padri coscritti, tanto per respirare, cogliendo l'occasione di un temporale, lo fecero scomparire dalla terra e lo trasmutarono in una stella meno incomoda a loro e ognor cara alle credule plebi. Il genio di Alessandro il Grande subì a trent'anni una così tremenda flogosi, che trucidava gli amici a titolo di passatempo. Alla possibile encefalite di Giulio Cesare apprestarono i congiurati la cura preventiva di ventitrè salassi.
Tornando a Napoleone, come è noto che a Parigi vi fu un momento critico in cui si pensò a farlo scomparire al pari di Romolo, così è un fatto che dopo la pace di Tilsit, quando si vide ai proprj piedi i troni degli altri re, e ricevette fumate di incenso adulatorio dal fallace Alessandro; e vestì la polacca di velluto verde coll'ermellino e l'oro e i rubini per sembrare più avvenente alla malfida di Varsavia, ei ritornò a Parigi tutto trasmutato e così furioso d'orgoglio che gli si oscurò la vista e non discerse più il vero.
Nelle spedizioni fatali della Spagna e della Russia son consegnate le prove della non breve malattia del suo genio. Ognuno sa come i suoi luogotenenti ad una voce si lamentassero ch'egli fosse diventato inerte e torbido e strano sui campi di battaglia. Ognuno sa come Ney abbia detto che sarebbe stato ben meglio ch'esso si fosse fermato a Parigi a far l'imperatore. Bensì la sventura doveva risanarlo; il ghiaccio di Russia e i disastri di Spagna dovean ricondurre la calma e l'equilibrio nelle sue prodigiose facoltà mentali, sebbene sia stato indarno, perchè fu troppo tardi. Il sansone ricuperò la forza fatale, ma non gli valse che ad infrangere le colonne per rimanere anch'egli schiacciato sotto alle rovine del tempio.
Piegando al concreto delle cose, tutt'Europa, negli ultimi giorni del 1812, era variamente attonita per la notizia degli orrendi disastri di Russia. Più di settecentomila famiglie gemevano in quei giorni o sconsolate o tementi; in quanto all'esercito d'Italia, sapevasi come fosse ognora avvolto in tutti i pericoli d'una disastrosa ritirata. Tutta Milano era in lutto; disotto al lutto scoppiavano gli odj e le ire in addietro compresse. I lodatori del nome napoleonico tacevano per paura; i giusti estimatori, che non si lasciavan vincere nemmeno dalla mutata fortuna, si chiudevano in se stessi, per non insultare alle piangenti famiglie; e tutti, stanchi delle voci vaghe e generali che accrescevano le proporzioni della sventura, col non definirla, aspettavano notizie più particolari, più esatte; aspettavano lettere di qualche attore del sanguinoso dramma; aspettavano con impazienza carriaggi di feriti. Il primo di gennajo del 1813 verso sera si sparse finalmente la voce che era giunto a Milano, insieme collo scudiere Alemagna, il notissimo corriere Barbisino, famosissimo allora per la sua robustezza fisica e per aver fatto più volte quasi d'un fiato il viaggio da Parigi a Milano. Durante la notte, il cortile dell'albergo dei Tre Re, dove il Barbisino alloggiava, fu per più ore gremito di gente che si rinnovava ogni minuto. Il corriere, mentre cenava, descriveva, raccontava, rispondeva a cento domande.
La tavola a cui esso sedeva, era tutt'all'ingiro circondata da una folla stipatissima di ascoltatori.
- Senti, Trasella (così parlava il corriere, e Trasella era il nome del maneggione dei Tre Re), giacchè l'ora è tarda, dovresti far chiudere l'osteria e mandar a casa tutta questa santa croce di gente, che con tanto freddo sta lì ad aspettare in corte. Già è impossibile che io abbia potuto veder tutti i loro parenti e figliuoli che hanno militato in Russia... Bisogna dir loro che si preparino a non veder più nessuno. Di seicento o settecento mila uomini è molto se rivedranno le loro case da dieci a dodici mila giovani. Per duecento leghe continue io non ho visto che morti. Morti di freddo, di fame, di malattia. Chi è morto è morto, e non c'è rimedio. Io credo che, dal diluvio in poi, non sia mai successo un disastro così spaventoso. Il mio collega Brioschi è morto di freddo poco lontano da Vilna, e il corriere Rampini che viaggiava con lui ha dovuto di propria mano scavargli la fossa e seppellirlo. Bisogna averle viste e passate a cavallo quelle pianure sterminate di ghiaccio e di neve. Bisogna aver provato l'effetto di quelle solitudini immense, e di quel silenzio profondo e misterioso, che mi faceva credere d'esser fuori di questo mondo. Vi basti il dire che persin la vista dei cadaveri mi alleggeriva dallo spavento e mi faceva compagnia. Era per essi se m'accorgevo d'essere ancora a questo mondo.
- Ma, e Napoleone?... chiedeva un ascoltatore.
- E di tanto in tanto quell'orrido silenzio veniva rotto da scoppj violenti, i quali mi facevan credere che da lontano continuasse ancora la battaglia… E dite un po', che cosa era? Erano i tanti e tanti cavalli morti, che imputriditi e gonfiati e ingrossati come elefanti, crepavano per dar sfogo ai gas in fermentazione...
- Ma, e Napoleone? chiedeva per la seconda volta il solito ascoltatore.
- Questo signore l'ha sempre con Napoleone. Napoleone sta ora scaldandosi al caminetto... Per adesso non le posso dir altro... Ma a Parigi si sparla assai del suo contegno, e dell'aver abbandonato l'esercito, e dell'aver lasciato tutto nelle mani di Murat, che poi se la cavò per lasciar nell'impaccio il vicerè... Ma, a proposito di caminetto, Napoleone ha detto una parola che irritò tutti i Parigini, e segnatamente coloro che hanno perduto e piangono, o aspettano i loro figliuoli assassinati.
- E che cosa ha detto Napoleone?
- Ha detto, fregandosi le mani, ch'ei si trovava assai meglio al caminetto di Parigi che al ghiaccio di Russia...
- Fin qui non poteva dir altrimenti. Sfido io!
- Certe cose si pensano, e non si dicono... Ma, dopo tutto, non sarebbe mai escito in quelle parole se fosse stato in mezzo ai soldati. Sapete, a proposito, che cosa mi raccontò lo scudiere Alemagna, che ho trovato a Parigi, e che ha perduto a Brescia i dispacci del vicerè? Mi raccontò, dunque, che l'ira e la disperazione e l'insubordinazione erano a tal punto fra gli stessi soldati della guardia, i quali per il freddo soffrivano fino allo spasimo, che non seppero tollerare che Napoleone stesse chiuso in carrozza, e gli gridarono minacciosi: Giù dalla carrozza! e Napoleone, atterrito di quella dimostrazione per lui strana e nuovissima più che del pericolo di cadere nelle mani di Pultow (il quale, se non lo sapete, è un generale cosacco tutto pieno di pidocchi e in tanta famigliarità con essi che allorquando sta riposando si diverte a farne la caccia sulla propria testa)... Dunque... che cosa dicevo? Ah, dunque Napoleone fu così atterrito da quel grido d'indignazione disperata, che discese a piedi, calcando la neve, insieme cogli altri. Ma nemmeno questo bastò, perchè essendo tutto imbacuccato nella pelliccia, i soldati tornarono a gridare: Fuori la pelliccia! Ed egli si mise in redingote, perchè i soldati lo guardavano come chi ha volontà di metter altrui le mani addosso. Questi fatti precisi li seppe il conte Alemagna dall'ajutante del vicerè.
- E che cosa dicono i Parigini?
- Che cosa dicono? Se non fosse per la lingua, un forastiero potrebbe credere di essere piuttosto a Londra che e Parigi.
- Cioè?...
- Cioè... non mi capite? Voi altri sapete quanto Napoleone sia odiato dagli inglesi. Ebbene, fate conto che, in confronto dei Parigini, gli Inglesi possono passare per adulatori. In quarantott'ore che mi son fermato a Parigi, non ho sentito che bestemmie, e ingiurie e satire. In ogni modo, torneranno a tacere, perchè il ministro Fouché è l'uomo dei miracoli, e fra pochi dì chi non saprà parlar bene, starà in silenzio. Intanto è pericoloso a pigliar le difese di S. M. nei pubblici convegni, tanto è vero che (e questa che vi vendo è nuova di zecca) il nostro conte Aquila che trottò a Parigi, per vedere più dappresso il temporale, così almeno mi fu detto, e in un caffè, con quel suo fare altero e dispotico, diede sulla voce a un Francese perchè insultava alla sventura (tali erano le sue parole), poco mancò non venisse maltrattato da quanti erano presenti. E vi dirò inoltre che fu esclusa da qualche casa quell'intrigante petulantissima della moglie dell'avvocato Falchi, la quale andò a Parigi invece del marito; e colà faceva da profetessa, e assicurava vittorie grandi e prossime, e tutto ciò perchè le premeva di smerciar i boni del tesoro che l'avvocato ebbe troppa premura di acquistare. Queste cose io le sentii a Parigi da un commesso viaggiatore, e vi ripeto che due o tre case di banchieri, dove probabilmente ci sarà stato da piangere qualche giovane soldato morto sotto il ghiaccio, la misero sgarbatamente alla porta.
Queste parole franchissime, pronunciate in una pubblica osteria da un corriere pagato dal governo, dimostrano come fosse cessata, per il momento almeno, l'idea della sterminata autorità napoleonica, e come ognuno desse libero sfogo ai proprj sentimenti, avendo ritornato il dio alle proporzioni dell'uomo. I cittadini milanesi, seguendo l'impulso di quell'indole che ne costituisce il carattere speciale (ed è quello di trar materia di ridere anche da qualunque sventura), ricamavano di barzellette e dicerie ed epigrammi la tremenda epopea tragica di Napoleone; ma perchè non si creda che fossero spietati dell'altrui sventura, convien dire che continuavano le celie anche allorquando del gran disastro napoleonico, essi insieme col resto dell'impero, dovettero adattarsi a pagar le spese per tentar di rifare il disfatto colosso.
Ognuno sa come, appena Napoleone fu giunto a Parigi, a tutt'i sudditi del vasto impero fu fatto intendere dai ministri, dai prefetti, dai sottoprefetti, la necessità di fare a Sua Maestà delle oblazioni volontarie. Per fermarci a Milano, tutti i corpi pubblici mandarono copiosi doni all'imperatore; tutti i magistrati, tutti gli impiegati, tutte le classi cittadine, i banchieri, i negozianti, i giojellieri, gli orefici; gli ordini degli avvocati, dei notai, dei ragionieri, dei medici fecero a gara nell'offrir danari e doni, in virtù di quella volontà comandata, che spesso è più forte della volontà spontanea. L'Ospedal Maggiore e quello di S. Corona concorsero anch'essi, per mezzo degli amministratori, ispettori e giù giù fino agli infermieri, a quello scopo. Gli stessi preti in cura di anime nei due nosocomj si tassarono soldi quindici per ciascuno. L'impresario della Scala diede una serata a beneficio di S.M., e in quella sera tutti i virtuosi di canto e di ballo fecero una colletta, che trasmisero alla direzione del R. Teatro. Mad. Ribier, modista della viceregina, mandò al ministro la oblazione di franchi trecento. Ma, come dicemmo, se i Milanesi si distinsero per l'abbondanza delle elargizioni, nel tempo stesso se ne ricattavano con satire. Una mattina di gennajo molta folla s'accalcava per leggerne una, che a grandi caratteri era stata impastata sul portone di mezzo della Metropolitana. La satira era questa:


Milan l'è de vend:
In quaresma l'istrument.
General e uffizial
Hin tucc all'ospedal:
De soldaa ghe n'è pû;
Bonapart el cerca sù.


Questa era l'espressione comica del sentimento generale dei Milanesi, segnatamente della classe operaja e della gente minuta. Ma se l'espressione era comica, conteneva nella sostanza qualche cosa di terribilmente profetico, che potea dar da riflettere agli uomini serj. Il verso - Milan l'è de vend -, come un'effemeride astronomica, annunciava gli accidenti dell'anno successivo.
A queste satire in vernacolo, rappresentanti l'acume popolano che riassumeva il vero senz'odio e senza menzogna, facevano contrapposto altre satire che circolavano manoscritte e si leggevano ne' crocchj del teatro, nelle conversazioni, nei caffè; ed erano l'espressione delle ire e delle antipatie di qualche patrizio incarognito pel passato, di qualche letterato testardo, di qualche prete che aveva perduto la prebenda.
Già fin dal dicembre, quando Napoleone a grandi giornate s'affrettava a Parigi, erano corsi per tutte le mani i seguenti distici:


Napoleon quondam Magnus cognomine dictus,
Nunc merito in castris dicitur exiguus.
Coelo ipsum petiit furibunda superbia regis,
Dementem regem deprimit ipse deus.
Funditus absorpta est, Bonapars, victoria; avitos,
Si poteris, satis est, tutus adire lares.


Nei primi mesi dell'anno 1813 il cavaliere Aldini scriveva incessantemente ai ministri del regno italico, perchè sollecitassero indirizzi da tutte le parti a felicitare l'imperatore, ad assicurargli attaccamento e fedeltà, a lodarlo dell'avere saputo scappare perfino all'ira degli elementi, a far voti per nuove e più gloriose vittorie; e tosto corse per Milano un epigramma, che si disse mandato da Roma da Alessandro Verri al fratello Carlo, che fu poi presidente della reggenza. Il conte Carlo lo lesse in privato a pochi e fidatissimi amici, coll'esortazione preliminare di non parlarne in pubblico, o almeno di tacerne l'origine. Ma, come al solito, il segreto fu sparpagliato ai quattro venti, e l'epigramma lo ebbero anche i cioccolattieri, che se lo fecero tradurre da qualche canonico. Eccolo nell'originale latino:


Napoleon Regum dedecus, furumque magister,
Quem tota abhorret progenies hominum.
Attamen a cunctis laudari mandat et ambit.
Nec pudet heroem se celebrare virum.


A poco a poco però le satire scomparvero; un po' gl'indirizzi, un po' i giornali, un po' le notizie che venivano da Parigi, un po' il falso, un po' il vero; ma più di tutto il fatto che Napoleone delle oblazioni dei sessanta milioni di sudditi e dei mezzi finanziarj improvvisati per miracolo, e del novello esercito che si vedeva a comparire da tutte le parti, accennava di ristaurare il crollante edificio; tutte queste cagioni insieme fecero tale effetto, che l'ammirazione compressa ricominciò ad espandersi, che gli amori che parevano spenti si rinfocarono, che i suoi nemici vecchi si rintanarono, che i suoi devoti intiepiditi si riscaldarono ancora. E di giorno in giorno ritornavano gli avanzi dell'esercito italiano. Il popolo andava ad incontrarli alle porte; erano ovazioni, erano sfoghi d'affetti. Alcuni mesi prima Napoleone veniva maledetto; mentre, ad onta di tanti antecedenti avversi, il principe Beauharnais veniva esaltato pei suoi sagrifizj, per la sua costanza, perchè solo era rimasto a proteggere la ritirata degli estremi avanzi del grand'esercito.
Ma i convogli dei reduci feriti vennero a cambiare il favore popolare in odio; si raccontarono le ingiustizie fatte da Beauharnais ai soldati italiani, si raccontavano le controversie avute col general Pino; l'iniqua malizia con cui impedì alla divisione di quel generale di segnalarsi in più fatti d'armi ove il suo aiuto sarebbe stato tanto salutare. In una parola, Napoleone fu rimesso sul piedestallo, e il vicerè fu generalmente detestato. Ad accrescere quest'odio giunsero da Parigi a Milano il conte Aquila e la moglie dell'avvocato Falchi. Essi avevano fatto il viaggio in compagnia. L'ambizione che aveva spinto a Parigi il conte Aquila, e i boni del tesoro per cui la moglie dell'avvocato erasi recata a scandagliare le banche francesi, furono le cause funeste degli avvenimenti che racconteremo.


II


Come dunque abbiam sentito dal corriere Barbisino, il conte Aquila e l'avvocatessa Falchi erano andati a Parigi sulla fine dell'anno 1812, quando appunto sapevasi che Napoleone a grandi giornate vi ritornava dalla Russia. - Essi eransi recati nella capitale dell'impero per diversi intenti, e senza che l'uno sapesse dell'altra. Il conte Aquila, che non erasi mai più trovato col vicerè ed era stracco di fiutare l'avvenire, ed era più stracco di vivere in un non glorioso riposo, alla notizia dei disastri inauditi del grande esercito che in pochi mesi aveva rovesciato l'edifizio miracoloso di tanti anni, si affrettò a Parigi per vedere più dappresso le cose, per affiatarsi coi personaggi più vicini al trono e più addentrati nella cosa pubblica. L'uomo ambizioso che non aveva potuto trovare un seggio abbastanza alto per sè finchè durò la gloriosa fortuna di Napoleone, sperò che quel repentissimo cambiamento di cose, quella procella furiosa che aveva soffiato nelle viscere del mare, avrebbe slanciato alla superficie tutto ciò che per le circostanze era rimasto al fondo. Le sue idee e le sue aspirazioni però erano tutt'altro che determinate.
Più anguste, più mercantili, ma più precise, erano le cagioni per cui l'avvocatessa Falchi erasi anch'essa recata a Parigi. L'avvocato, speculando sul cattivo andamento delle cose di Spagna, aveva comperato per bassissimo prezzo una grande quantità di boni del tesoro. Secondo il suo modo di vedere, avvalorato assai dai consigli del ministro Prina, erasi tenuto certissimo che le continue disfatte della guerra di Spagna sarebbero presto state riparate dai trionfi del Nord; si gettò dunque audacemente in quella speculazione, la quale, se avessero côlto nel vero le sue previsioni, avrebbegli portato in cassa un pajo di milioni. Ma per le inattese rotte di Russia, che nell'opinione degli uomini non avrebbero dovuto succedere colla presenza di Napoleone, che era mancato in Ispagna, la carta moneta correva pericolo di rimaner carta semplice. L'avvocatessa che, siccome suol dirsi, era una donna coi calzoni, e voleva far l'uomo, e l'uomo d'affari, e ajutava il marito in tutti i modi, si profferse a fare il viaggio di Parigi, e perchè l'avvocato era più necessario a Milano, e perchè a lei, donna ancora avvenente, e, secondo la sua particolare opinione, ancora tale da trovar aperte le porte che comunemente si chiudono in faccia agli uomini, il còmpito sarebbe riuscito assai più facile che al marito. A Milano, se il conte Aquila conosceva la Falchi e s'era trovato secolei in qualche pubblico convegno, non era però null'affatto nè suo amico nè intrinseco; di più, il suo orgoglio e il suo rigore aristocratico gli rendeva spregevole quella donna di plebeo casato e di modi più ancora plebei, al punto che vietò alla propria moglie, ch'era d'indole gentile e affabile oltre l'ordine consueto, di non far troppe parole con quella donna, quando per combinazione si fosse trovata seco in qualche ritrovo.
Quest'avversione superficiale sembrò scomparire quando il conte, per caso, ebbe ad incontrarsi colla Falchi a Parigi. Un uomo che in patria appena si conosca di vista, quando s'imbatte a vederlo in terra lontana tra faccie straniere, improvvisamente si trasmuta in vecchio conoscente. Se una persona di consueto la si scansava per antipatia invincibile, diventa per lo meno tollerabile alla distanza di cinquecento o seicento miglia. Se con un amico ci siam guastati il sangue e s'è venuti alla risoluzione di levarci il saluto, appena lo si vede spuntare da una via d'un paese lontano, ogni rancore scompare, senza bisogno d'intermediarj, e tutto finisce con una risata sonora, che vale per cento scuse e cento dilucidazioni. In virtù di questo fenomeno umano, che si ripete e si verifica costantemente, allorquando il conte vide la Falchi al teatro imperiale, malgrado il proprio orgoglio e la nessuna stima che aveva di quella donna, si recò a farle una visita.
L'avvocatessa, naturalmente, politicava e spoliticava, trinciava sulle questioni le più ardue con una sfacciataggine beata, che qualche volta le permetteva persino di dir qualche cosa di buono. Il conte si sarebbe turate le orecchie per non sentirla; ma quella rosea facciotta, e quel dialetto, e quel pezzo di patria vivo e vero, che valeva almeno come una veduta del Duomo di Milano, gli faceva sopportabile e persino amabile quella compagnia. Siccome poi, sempre in virtù di quella sfacciataggine beata, ella si mescolava a tutti i crocchj e recavasi dappertutto e un po' per commendatizie del ministro Prina, un po' per l'amicizia del cavaliere Aldini, aveva potuto parlare e avrebbe parlato ancora con qualche alto personaggio, e anche con taluno di quelli che stavano vicinissimi all'imperatore, così amava di sentire da lei che cosa aveva pescato nel mare della politica ancor burrascosa; e con tanto più di interesse faceva questo, in quanto considerava che quei personaggi si sarebbero abbottonati con lui che era patrizio ed elettore e tenuto in conto d'uomo di gran levatura, mentre si sarebbero lasciati cogliere spensierati dalle interrogazioni di una donna che a tutta prima pareva una chiacchierona insulsa, ma che all'ultimo era scaltra e svegliata fino a non lasciarsi sopraffare dai monosillabi di Talleyrand.
Per queste ragioni quotidianamente egli andava a visitarla, e più spesso quando l'imperatore tornò a Parigi.
È inutile il dire che il conte si accontentava delle sole notizie, nel tempo stesso che, se il galateo lo avesse permesso, si sarebbe licenziato tutte le volte che cominciavano le di lei considerazioni e congetture e ipotesi e profezie. Era ben contento d'imparar la storia da lei, ma la filosofia della storia assolutamente non poteva mandarla giù, tanto più ch'egli era di opinioni affatto opposte. Ad ogni modo, e l'uno e l'altra, nonostante una così diverga tempra d'ingegno, si sarebbero anche avvicinati nelle vedute se l'uno e l'altra si fossero posti a giudicare a sangue freddo; ma l'avvocatessa dovendo smerciare quel milione di boni del tesoro, avendo urgente bisogno che tutto piegasse in bene, si sforzava così a non vedere che rose nell'avvenire: mentre il conte, a cui premeva che il disastro napoleonico continuasse, nemmeno un momento seppe credere che l'edifizio in isfacelo potesse ricostruirsi. In due altre cose inoltre differivano affatto. Ella voleva che Napoleone si rimettesse sul piedestallo, e cadesse Beauharnais, senza che a ciò vi fosse ragione di sorta, ma soltanto perchè lo desiderava; laddove il conte, vedendo inevitabile l'ultima rovina dell'imperatore, faceva dei conti su Beauharnais, dopo le parole avute con esso lui, e su Milano e sul regno italico.
Or fermiamoci qui, in quanto a pubblici affari, e vediamo come una lieve notizia, di indole affatto privata, cambiando le passioni, abbia influito con tanta efficacia a cangiare anche le opinioni e le simpatie politiche del conte.
Una sera il conte Aquila discese, insieme con madama Falchi, alla tavola rotonda dell'albergo di Marengo, dov'era alloggiato e dove erasi trasferita anche madama, per essere stato chiuso, per ordine del ministro di polizia, l'albergo di Montmorency, dove alloggiava prima, perchè l'albergatore fu indiziato di aver avuto parte nella congiura Malet. Fattasi ora tarda, l'avvocatessa, che beveva forte come un'ostessa del lago Maggiore, alzò la mano più del consueto, eccitata da un eccellente chambertin vecchione, soprannominato il vino Napoleone, dall'uso che ei ne faceva di preferenza ne' suoi pasti campali. Il discorso naturalmente era la politica del giorno. Il conte, per le ragioni addotte, ne sopportava la chiacchiera intemperante, perchè tra tante cose nojose e strambe, ne raccoglieva qualcuna che faceva per lui.
- Mi fa senso, ella venne a dire a un certo punto del suo articolo di fondo improvvisato, come il signor conte non abbia nessuna fiducia in un completo risorgimento della potenza napoleonica. Mi fa più senso ancora, come un uomo del suo talento possa mettere gli occhi addosso a quel gallo insuperbito di Beauharnais, nel caso che dovendo andar per aria il trono di Francia, debbano gl'Italiani pensare seriamente ai casi proprj, e piantare il regno d'Italia su delle fondamenta ben solide.
Il conte non rispondeva quasi mai alle continue domande di madama Falchi, e la propria politica se la teneva per sè. Ma in quella sera non avendo saputo schermirsi abbastanza ogni qualvolta l'avvocatessa gli aveva colmato il bicchiere di vin Napoleone, fu espansivo e men chiuso del solito: però a quelle parole della Falchi, ridendo e celiando ed esprimendosi con modi affatto nuovi in lui:
- Già io so il perchè, disse, a lei sta tanto a cuore la fortuna dell'imperatore.
- Perchè?
- Quando glielo avrò detto, ella avrà la bontà di confessare che ho côlto nel segno. Ma non vada in collera. Se ella non avesse nello scrigno tanta carta, il cui valore non aspetta l'esito delle cannonate, non spasimerebbe tanto per S. M. Vorrei vedere, cara signora napoleonista, se suo marito, invece di acquistare dei boni del tesoro, avesse, prima del sistema continentale, investito un grosso capitale in qualche fabbrica di Londra; vorrei vedere se adesso si tormenterebbe tanto a veder tutto bello e lucido e sereno.
- Cosa c'entra il tormentarsi?
- Ma la mi lasci finire... Io già so come sono i capitalisti che fanno speculazione di borsa. Le loro opinioni politiche durano dalla mattina alla sera, e al dì dopo se soffia una inattesa notizia, volano via tutte le simpatie del dì prima.
- Questo va bene, ma....
- Altro che andar bene! ma se mi ascolta andrà meglio. Io dunque credo fermamente che Napoleone non può più star in piedi: prima però ch'ei cada affatto ella ha tempo di vendere benissimo tutti i suoi boni. È probabilissimo che Napoleone, rientrando in campagna, abbagli ancora il mondo con qualche brillante vittoria. Quello è il momento, cara signora, di vender bene la sua carta. Tutto il mondo crederà che a una vittoria terrà dietro un'altra, come una volta; ma le vittorie non saranno molte, si fidi di me. Ho parlato a due o tre generali dei più intimi di Napoleone: ebbene? crollano la testa, cara signora, e criticano il padrone, perchè son sazj. Non c'è più entusiasmo, perchè non c'è più fede, e, peggio ancora, perchè non c'è più speranza, ossia perchè la speranza non ha più niente da fare. L'uomo mette in pericolo la vita, finchè la vita non val nulla, e colla lusinga, che, se la fortuna è propizia, possa col tempo valer molto. Ma quand'uno ha raggiunto quello che è al di là d'ogni desiderio, che volontà si ha ad avere di farsi ammazzare per un uomo il quale è persuaso che le donne debbano sciuparsi a fabbricar soldati, per dare a lui solo lo spettacolo di una strage perpetua?... Vedrete quel che vi dico io. Vi do tempo sei mesi, un anno; e poi giù, e per sempre.
- In ciò ch'ella dice, c'è del vero. Ma io mi son limitata a credere e a dire che Napoleone farà ancora tremare l'Europa. Non ho parlato della durata io...
- Ah, dunque siamo d'accordo! Lei s'accontenta del tempo che è necessario per liberarsi di tutta la sua carta. Voglia dunque esser sincera; già io non vado a dirlo all'imperatore, e nemmeno al ministro Prina.
La Falchi era esaltata, e un pochino ebbra, e però aggiunse quello che coll'acqua fresca non avrebbe mai detto.
- Al ministro Prina ella può dire benissimo quello che ha detto a me. In fin dei conti, più della metà di questi boni è proprietà del ministro.
- Passa il milione?
- Son più di due milioni...
- Me ne congratulo tanto.
- Era un avvocato... fu messo a fare il custode della pubblica ricchezza... Doveva starsene forse colle mani in mano?
- Va benissimo, e buon pro gli faccia. Pur farebbe meglio a non rovinare il proprio paese... Dato un rovescio napoleonico... quando noi fossimo per riuscir ad aggiustar le cose a casa nostra... quest'uomo potrebb'esser utilissimo. Ma è necessario che si stacchi da Napoleone e appoggi il vicerè.
- Ella, signor conte, l'ha sempre col vicerè. Per me dico, e ora non parlo per l'interesse, che vorrei che andasse tutto a soqquadro anche per noi, piuttosto che veder quell'uomo a diventare il nostro padrone.
- Non è necessario che sia il padrone.
- Voi non lo conoscete.
- Lo conosco benissimo.
- Scusi, signor conte, ma certe cose noi donne le sappiamo meglio di loro signori. E se le dicessi quello che io so, certo che il signor conte cangerebbe d'opinione, qui sull'istante.
Il Conte Aquila, essendo in quella sera di un umore eccellente fuor dell'usato, erasi divertito a discorrere colla Falchi, e rideva nel vederla così un poco ebbra ed espansiva. Pure all'ultima sua parola cessò di pigliarla leggermente:
- E che cosa sapete ch'io non sappia? domandò con una certa apprensione.
Senza saper nulla, ei sentì corrersi qualche brivido per le ossa, come allorquando, anche sotto il limpido sole e il ciel sereno, il corpo fa le veci del barometro e presente che il tempo vuol guastarsi.


III


La Falchi era in quella condizione di mezza ebrietà, che non concede più alla lingua di esser cauta, che addensa le tinte ad ogni nostra qualità caratteristica, e, se un'indole non è buona, la fa diventar bieca e pericolosa:
- Così è, caro signor conte, essa continuava: se io arrivo a dire che Beauharnais sarebbe un pessimo re, bisogna proprio che questa sia una verità chiara come la luce del sole, la quale non si può negare, qualunque sia il colore degli occhiali che portiamo; perchè, se dicesse questo il mio signor marito, vada, si potrebbe dire che parla per dispetto... Ma son io che parlo; io che, siamo sinceri, non mi sono poi fatta pregar tanto allorquando... Il signor conte ride... pure non vorrei per tutto l'oro del mondo che un soldato petulante, un francese che ci disprezza, un re nominato da noi avesse il diritto di penetrar nelle famiglie a mettere sottosopra la pace domestica, a canzonare i mariti, ad insultare i fratelli, a farsi beffe degli amanti... e che so io. Torno a ripetere che non parlo per me; nè me la piglio calda per il mio avvocato... che è il marito più caro e più comodo di questo mondo... un vero scaldaletto... che quando annoja lo si dà alla cameriera da portare in cucina...
Il conte Aquila, contro il suo solito, non potè trattenersi dal ridere a queste parole.
- Or tornando alla prima mia idea, quantunque io non abbia studiato molto, e non conosca molto la storia, più d'una volta ho sentito a dire che fu sempre per cose di donne che i principi e i tiranni furono creduti impossibili, e furono messi fuori di combattimento, da chi non pativa che venisse offesa la nazione nella sua parte più viva e più delicata.
- È vero, o non è vero?
- Dunque, in questo genere, relativamente al vicerè, io so tante e tante cose, che sarebbe veramente pericoloso per noi il mettere nelle sue mani il nostro paese. In questi ultimi anni poi, fors'anche perchè i Milanesi s'inasprirono seco, egli è diventato manifestamente nemico degli Italiani. A tutti è noto quel che avvenne col general Pino: tutti sanno le ingiustizie d'ogni sorta fatte da lui ai soldati italiani, quando per qualche cosa si trovavano in competenza coi soldati francesi. E da qualche tempo, per coronar l'opera, è diventato anche avaro fino alla spilorceria. Il signor conte si ricorderà bene del modo saporito con cui l'incisore Rosaspina si vendicò della di lui avarizia.
- Non me ne ricordo.
- Oh è bella, bella davvero. L'incisore dedicò due anni fa una sua stampa al vicerè, il quale non si degnò nemmeno di far rispondere all'artista, nè di mandargli quel dono consueto per il quale, in conclusione, si fanno le dediche. Or che cosa fece il Rosaspina? quando pubblicò ultimamente una nuova incisione, dica un po', signor conte, a chi ne fece la dedica?
- A chi?
- A Sua Altezza l'uomo di Pietra. Vi piace?
- Davvero che è saporita. Ma, tornando a noi, se le troppo frequenti ingiustizie fatte dal vicerè ai nostri, se l'ostentazione di un disprezzo che sinceramente non può sentire, se la grettezza e l'avarizia, delle quali però è la prima volta che sento a parlare, possono e devono dar da pensare seriamente a chi volesse mettere quest'uomo sul trono d'Italia, per il resto non state a darvi un pensiero. Cara signora, se voi stessa non mi aveste preceduto col dirmi, che sarebbe toccato al vostro signor marito a far di questi lamenti, davvero che mi fa senso come una bella signora come voi, tutt'altro che disposta a imitar le sante, siasi messa a sfoggiar tanta morale sul fatto che al vicerè piacciono le dame. E a chi non piacciono? Bisogna poi tener conto della posizione e delle tentazioni. Se, per un supposto, al luogo del vicerè si potesse mettere S. Luigi Gonzaga o S. Francesco d'Assisi, in meno d'un mese vedremmo impegnati l'uno e l'altro in qualche avventura galante. Sono cose da non badarci nemmeno. Eppoi bisogna considerare che il principe venne giovanissimo a Milano, e col tempo daranno giù i bollori; d'altra parte, sentite, chi è padre, o marito, o fratello, o amoroso, ci pensino loro. State tranquilla, che chi sa fare il padre e sa fare il marito, può mettere alla porta anche il vicerè. Diavolo! non è più il tempo del diritto di coscia.
- Caro conte, io sono disposta a credere e a giurare in tutto quello che ella dice; perchè fui assicurata da chi ne sa, che ella è una gran testa; mi accorgo però che in queste faccende la sua sapienza non vale la mia. Oh... è un pezzo ch'io sento a dire che i buoni mariti fanno le buone mogli, e che quando essi custodiscono bene la casa, non c'è ladro che possa introdursi... Ma c'è un male, caro signor conte, un gran male; ed è che questa sentenza venne pronunciata dai soli uomini, senza sentire il parere delle donne, che in tali argomenti hanno voce in capitolo... Ora io le so dire che è precisamente quando i mariti stanno sempre intorno alle loro mogli, che a queste viene una gran voglia di cambiar aria, e ai cacciatori di professione entra la smania addosso di tentare la caccia proibita. Mi ricordo del mio primo anno di matrimonio, quando anche il mio signor avvocato si mise in testa di fare il cane da pagliajo, e ringhiava se qualche altro cane di razza più fina entrava in casa; ebbene, posso assicurarla, che se ho lasciata passare la luna di miele fu un vero miracolo, e che appena spirato quel termine, proprio in un giorno che mio marito mi fece una scena tragica, che mi pareva il Blanes quando ha il turbante di Frosmane, proprio allora gli piantai il mio primo corno; carissimo corno, saporito tutto quel mai che si può dire. Fu precisamente così; e ancora mi vien voglia di ridere quando penso a quell'avventura.
- Tutto va bene, rispondeva il conte ridendo e divertendosi molto dello spettacolo di quella insolita sfacciataggine; ma pensate che, parlando, siete uscita di strada, e avete trovato la maniera di darvi torto da voi stessa.
- In che maniera?
- È presto capito. - Se voi trovate tanto giusto che le donne facciano il loro comodo...
- Io non ho detto questo...
- Ma all'entusiasmo con cui ne parlate... bisogna conchiudere...
- Io parlo di quello che ho fatto io... eppoi sì... giacchè è detta... la lascio andare... Le donne hanno tutto il diritto di fare il loro piacere; e in ogni modo, anche senza avere l'approvazione del ministro di giustizia e dell'arcivescovo, non verranno mai da voi altri a chiedervi il permesso quando...
- Ebbene, vi piglio in parola; e tornando al punto da cui siamo partiti, il principe Beauharnais è nato fatto per convertire in obbligo legale i vostri desiderj.
- Ed ecco ciò che non voglio. Credevate, signor conte, che queste tre bottiglie da me vuotate mi avessero fatto uscire di testa il mio argomento... Tutt'altro... Anzi sento che lo chambertin mi ha rischiarato mirabilmente le idee... Torno adunque a dirvi che con quella facilità che abbiamo noi donne di fare spuntar le corna anche sulla testa la più grande, la più nobile e la più perfetta, è necessario che il vicerè vada all'inferno...
- Ma non vi accorgete della contraddizione?
- Che altri non mi abbia a comprendere, può esser possibile... ma che voi, signor conte, col vostro ingegno non mi arriviate, è assai strano.
- E vi capisco sempre meno, continuava il conte con quel sorriso tra lo sprezzo e l'indulgenza onde si tien conto delle parole di chi sembra soverchiamente esaltato dai vapori vinosi.
- Oh adesso poi mi sentirete a sfoggiare eloquenza; mi sento in vena, e voglio ripetervi le parole dette una sera da Ugo Foscolo... A proposito del quale mi fanno ridere gli asini che pretendono gli sia stata tolta la cattedra per incapacità. Altro che incapacità! Badate: io che non ho fatto nessun studio e non ho mai potuto pigliar gusto a nessuna lettura, pure ho imparato infinite cose quella sola volta che per tutta una sera l'ho sentito parlare, e a gridare, e a tuonare, e a mettere in un sacco tutti quelli che stavano in conversazione, compresi i chiacchieroni di mestiere, e i colleghi di mio marito, che per la smania di contraddire, non so che cosa direbbero. Ebbene, sapete che cosa ha detto Foscolo? mi pare d'avervene già parlato; ha detto, dunque, che un principe donnajuolo e che pretende abusare della condizione regia nel fatto di donne, è il più detestabile tiranno che mai possa darsi... e citò non so che fatto della storia romana, per cui i re se ne andarono a spasso per una bricconata di un giovinotto che aveva tutto il carattere di Beauharnais.
Oh guardate che cosa vi arrivo a dire... Vi arrivo a dire che se mio marito, fingendo di conoscere il vicerè, gli avesse regalato un carico di legnate, quando mi faceva la corte, quella sarebbe stata la prima e la sola volta che la gelosia d'un marito, che di solito mi fa ridere, mi avrebbe dato piacere. Un marito può, anzi deve chiudere gli occhi su tutti gli zerbinotti che pizzicano sua moglie... ma quando è il vicerè che pizzica... e il marito lascia fare... il marito è un asino se non è un... voi mi capite.
- Qui cominciate ad aver ragione... Ma voi, che sfoggiate delle teorie così splendide… perchè non avete messo alla porta il vicerè, quando...?
- Oh bella! perchè tutte le cose lasciate sono perdute... e perchè le donne hanno l'obbligo di esser deboli... Ci chiamate il sesso debole per disprezzo, e poi pretendete che si debba esser forti soltanto allora che preme a voi. Siete veramente curiosi, i miei cari uomini... Ma ripigliando il filo, ecco perchè è da mandar al diavolo chi, abusando della debolezza delle donne, vuol schiaffeggiare sfacciatamente tutta la nazione nelle persone dei mariti e degli amanti... Ho parlato bene adesso?
- Benissimo... ma mi permettete di dirvi una insolenza?
- Questa sera permetto tutto.
- Ma non andar poi in collera...
- State tranquillo...
- Se molte donne, senza aver le vostre teorie, vi assomigliano in pratica, ve ne sono però alcune, e non poche, di tale e tanta virtù e tanta dignità, da far arrossire e indietreggiare anche un principe il quale avesse tutte le voglie e tutta la forza di farle valere.
- Non sono del vostro parere; in coscienza non posso esserlo. Tutte le donne, dal più al meno, sono le stesse; la virtù che oggi fa meraviglia, cade domani, e non c'è da farsene stupore. Nella mia esperienza, tutte le donne che ho conosciuto, d'ogni risma e d'ogni conio, anche di quelle che parevan nate per far la madre badessa, la santa Teresa, la santa Cecilia, e che so io... ebbene, venne il loro giorno... e alle tentazioni, quando furono fatte da un diavolo simpatico, non seppero resistere e...
- Oh... qui poi vi sfido.
- Accetto qualunque sfida.
- E torno a dire che chi fa la moglie è il marito...
- Davvero?
- Sì.
- Ebbene... io mi do vinta..: se però mi saprete accennare una sola di queste eccezioni, una sola di queste donne che nacquero sante e rimasero sante per la virtù del marito.
Il conte Aquila, quantunque tenesse conto della sbilanciata loquacità della Falchi, pure fu punto da quell'insistenza. Non gli pareva vero che, almeno per complimento, quella donna non avesse fatto eccezione della moglie di lui. - Stette così alquanto in silenzio, perchè avrebbe voluto sentire da altri quello ch'ei fermamente pensava; ma poi, ad onta del suo carattere orgoglioso e duro, non seppe dominarsi così che non prorompesse con accento severo e con voce alterata:
- Ebbene, signora, che cosa mi sapreste dire, per esempio, di mia moglie?
A queste parole la Falchi diede in uno scroscio di risa sfacciato e infernale; così infernale che il conte impallidì in modo da parere un cadavere. Succedette un terribile silenzio. La Falchi vuotò un altro bicchiere di chambertin.


IV


Quand'ella lo ebbe vuotato e deposto sulla tavola, e, tornando a guardare il conte con occhi lucentissimi, accennava di voler continuare a parlare:
- L'ora è assai tarda, disse il conte, con una calma profonda, e come se avesse assistito ad un discorso indifferente. È tardi, e ho bisogno di riposo.
- Ma aspettate, caro conte, chè a me pare d'incominciare adesso la mia giornata, tanto sono in lena...
- Voi potete aver ragione, ma io devo andare a dormire - e tirò furiosamente il campanello per chiamare il cameriere.
A sentire la voce bassa e lenta e quasi dolce del conte, e a vedere il furore convulso con cui non tirò ma strappò il campanello, non parea vero che quei due diversi atti venissero da lui solo.
Il cameriere entrò.
- Fatemi lume, che voglio salire in camera, gli disse; e anche voi vogliate fare altrettanto, soggiunse poi piegandosi tranquillamente verso la Falchi. E si alzò e partì. - Buona notte, madama, esclamò quando fu sulla soglia del salotto.
La Falchi, uscito che fu il conte: «Che originale è costui! pensò tra sè. Un altro mi avrebbe tempestato di domande... Egli invece se ne va a letto... Non avrei mai creduto che un uomo così duro e severo, come mi dicono, fosse anch'esso una così buona stoffa di marito!»; e fermandosi su quest'idea, e pensando ad altre cose, a poco a poco il vapore dello chambertin le lavorò sugli occhi in modo, che chinò il capo e s'addormentò e così profondamente, che la donna di servizio, avvisata dal cameriere, che era stanco di far la guardia fuori dell'uscio, dovette entrare per svegliarla e condurla poscia in camera.
Ma seguiamo il conte Aquila nella sua camera.
L'orgoglio gli aveva comandato di far tutto perchè non uscissero altre parole dalla bocca oscena della Falchi, ed in sul primo, era come fuggito da colei. Non pertanto, quando fu solo, ripensando a quelle risa infernali, si sentì assalito da un desiderio furibondo di appurarne le vere cagioni; e fu per uscire ed entrare dalla Falchi per chiederle conto de' suoi modi oltraggiosi... ma si trattenne e un raggio lieve e fuggitivo di consolazione gli rischiarò l'anima affannata. Si consolò pensando che la Falchi era manifestamente ubbriaca; che, per conseguenza, non era a far caso nessuno delle di lei parole; ch'egli era stato un pazzo a darci peso; che non meritava la pena di più oltre pensarvi. Ma quel lampo, lo ripetiamo, dileguò nel punto che aveva guizzato, e:
- Se non fosse stata ubbriaca, avrebbe taciuto, - pensò... e una tale idea lo percosse in modo, e il dolore che ne provò fu di quel genere che mette gli uomini nella tentazione di ammazzarsi.
Si mise a sedere, e fece ogni guisa di congetture. Riandava colla memoria tutta la vita della contessa sua moglie e non giunse a trovare un momento solo in cui gli sembrasse avere colei meritato un rimprovero; considerava che il metodo rigoroso ch'egli avea imposto alla vita di lei, che il non averla mai perduta di vista un momento, e il non averle mai lasciata libertà di sorta, rendeva assolutamente impossibile che quella donna desse esca alla calunnia e alla maldicenza. E si confortava un istante, ma per immergersi poi subito nei più disperati e strani pensieri. L'indole dura e fortissima del conte Aquila piegò in quella notte allo spasimo del sospetto - del sospetto che è sovente ancora più tormentoso della più crudele verità appurata. Eppure non amava sua moglie; non l'aveva mai amata. Non era mai stata per lui che la donna incaricata di portargli dei figli; il solo sentimento ch'essa ingenerava in lui non era che l'orgoglio di chi possiede una rarità universalmente apprezzata e desiderata. Ma è appunto l'orgoglio, ma è l'amor proprio offeso che alimenta la più tremenda gelosia... perchè la gelosia che non deriva dall'amore, non potrà mai essere placata dalla pietà.
Il giorno dopo, nell'ora della colazione, in cui il conte soleva vedere la Falchi alla table d'hôte, aveva pensato di non vederla altrimenti, e giacchè non c'era più nessun motivo di trattenersi a Parigi, aveva presa la risoluzione di partire senza nemmeno salutarla, per rompere di colpo ogni relazione con quella donna perversa. Ma la puntura tormentosa del dubbio non gli permise di fermarsi in quella risoluzione; e si venne anzi cambiando al punto da sentire irrequietudine ed impazienza nell'aspettazione dell'ora consueta. Giacchè la Falchi aveva lanciato un primo motto, egli voleva saper tutto il resto, e si affannava nel desiderio di conoscere ogni cosa con certezza. E venne l'ora, vide la Falchi, sedette a tavola con lei; ostentò umore lieto e cortesia; e l'impazienza lavorò tanto sull'animo di lui, che fu il primo a riappiccare i fili del discorso lasciato sospeso la notte prima.
- Sono contento, madama, che le vostre belle guance abbiano ripreso il loro incarnato naturale, e che beviate acqua fresca. Jeri notte, bisogna confessarlo, eravate un po' sostentata, e ho troncato la continuazione di un certo discorso che... voi mi capite... jeri notte c'era pericolo di sentir le cose alterate... mentre è la verità rigorosa e intera ch'io voglio conoscere. Voi siete una dama piena d'esperienza. Io sono un uomo di mondo e filosofo, e, in quanto alle donne, so compatirle ed amo l'indulgenza. Abborro i mariti che vanno in furore e sono capaci di commettere delle violenze, se, per combinazione, le loro mogli hanno guardato piuttosto a dritta che a sinistra. Catone il Censore, uomo duro e inesorabile in tutto, e un modello di virtù romana perfino coi Romani, nelle cose che interessavano sua moglie, non guardava tanto per il sottile; bensì amava di sapere, per poter perdonare e sapersi regolare. Era un vero filosofo. Dunque vogliate spiegarmi. madama, la ragione del vostro strano ridere di jeri sera.
La Falchi tacque un momento, poi disse:
- Mi rincresce, caro signor conte, di non aver saputo trattenermi. Ma anche voi un momento fa avete detto ch'io era un po' sostentata. Quando si è un po' allegri, non si misurano le parole, e fanno male a chi le sente. Ma ora non vogliate dare alcuna importanza a quanto io dissi jeri sera. In una certa sfera di cose, non avendo nessuna opinione delle donne, cominciando da me, ho osato di tirar dentro nel coro anche la vostra signora. Ecco tutto. Sia dunque per non detto quello che fu detto, e cambiamo discorso.
Il conte, stato un momento perplesso, soggiunse poi:
- Jeri notte avete fatto male a ridere in quel modo; ma oggi fate peggio a tacere. Se non parlate, io andrò fantasticando cose che forse non son vere, e che possono aggravare la condizione di chi può essere l'oggetto de' miei dubbj.
- Un momento fa mi avete detto che siete filosofo, ma ora parlando così, mi fate vedere che siete un uomo come gli altri.
- Il filosofo non ama l'ignoranza; bensì, quando intravvede un fatto qualunque, vuol conoscerlo appieno, per sapersi regolare con calma e con sapienza. Parlate dunque e dite tutto.
La Falchi stava per rispondere, quando entrarono nella sala comune altri forestieri, coi quali così il conte come la Falchi avevano in quei giorni fatto conoscenza. Il colloquio adunque fu sospeso, e per più di un'ora il conte dovette adattarsi a parlar di cose, che deviandolo dal suo pensiero fisso, lo annojavano terribilmente. Tra quei forestieri v'era l'avvocato Gambarana, venuto da Milano e chiamato a Parigi dal marchese F... che ci stanziava da qualche tempo.
- E così, avvocato, gli chiese la Falchi, che effetto ha fatto al marchese F... la notizia del testamento trovato?
- Quando un ricco signore è in pericolo di perdere la metà di quello che possiede, vedete bene che non può essere molto tranquillo.
- Ma, e credete voi?...
- Io non posso parlare, madama, e molto meno con voi; già vi sarà noto che il colonnello Baroggi scelse per avvocato patrocinatore il vostro signor marito?...
- Avete ragione, e non vado innanzi.
- Ma questo testamento da che parte è saltato fuori? chiese il conte Aquila che conosceva il marchese F...
- È quello che non si sa. Il giorno 14 del passato gennajo, il presidente del tribunale civile di Milano riceve un grosso piego, lo apre, e nell'interno dell'involto trova scritto: Testamento olografo del marchese F... morto il 21 febbraio dell'anno 1750. È una bagatella di sessantatrè anni fa. Da questo testamento appare che l'erede universale del marchese defunto è un tal Baroggi, che morì nel 92 caposquadra delle guardie di finanza, e che fu il padre del colonnello Baroggi che noi tutti conosciamo.
Tra i forastieri che alla tavola comune mangiavano, sentivano e non parlavano, v'era il noto giojelliere e minutiere Giovanni Manini di Milano, il quale aveva bottega sotto il coperchio de' Figini e serviva la Corte. Era venuto a Parigi per liquidare de' conti arretrati, e il giorno prima avea parlato al vicerè Beauharnais, tornato allora allora dalla Russia a Parigi.
Egli dunque ascoltò per un pezzo; poi disse con quell'accento di compiacenza orgogliosa d'un negoziante alla moda che per la sua condizione è ammesso alla confidenza dei grandi che serve:
- Di quest'affare me ne parlò jeri il vicerè stesso. Loro signori già mi conoscono. Io sono il giojelliere di corte.
- Ah sì!… disse il conte Aquila.
- Io ebbi l'onore di fornire le gioje all'illustrissima contessa sua moglie.
- E come ha fatto il vicerè a sapere e a interessarsi già di questa notizia?
- Pochi giorni fa ritornò di Russia lo stesso colonnello Baroggi colla bella sua moglie. Il vicerè ha della predilezione per questo colonnello; le male lingue dicono che sia per la moglie; ma io non so niente. Quello che so è che il vicerè mi disse jeri queste precise parole: «Voi, che non siete più giovane, dovreste sapere qualche cosa di un testamento stato rubato dallo scrigno del marchese F... nel 1750, la notte stessa della sua morte.» Nel 50, io non ero nato, gli risposi, ma di questo fatto mi parlò cento volte mio padre, nominandomi il preteso autore del furto.
- E chi sarebbe questo autore preteso? domandò il vicerè.
- La cosa è delicata, altezza, allora io dissi. Le dicerie fanno presto a compromettere un galantuomo, e non vorrei che un vecchio, il quale deve aver passato di un pezzo gli ottant'anni, dovesse, per cagion mia, avere dei dispiaceri in sull'orlo del sepolcro.


V


I nuovi interlocutori che nella sala dell'hôtel Marengo interruppero il dialogo tra madama Falchi e il conte Aquila, secondo le consuetudini dell'arte, avrebbero dovuto essere introdotti in altra occasione, quando, almeno, il dialogo avesse toccato la sua conclusione. Ma noi non amiamo le consuetudini, e spesso ci piace d'andare a ritroso delle stesse leggi. In questo caso poi, siccome nella realtà storica le cose camminarono precisamente come le abbiamo esposte, e l'innesto inaspettato della nuova notizia relativa a quel testamento, fu ed è il perno maestro di questo lavoro, ebbe una grande influenza su altri fatti importantissimi; così siamo perfettamente in regola se abbiamo obbedito alla legge razionale del vero piuttosto che all'arbitraria dell'arte. Intanto, prima di trovarci soli col conte e colla Falchi, e prima di assistere ai loro intimi discorsi, giova sapere che il conte Aquila, che s'era spesso congratulato col marchese F..., perchè una grande ricchezza, forse destinata a una famiglia oscura e plebea, fosse rimasta in quella casa patrizia, sentì con dispetto, che il vicerè, contro il suo istituto, volesse far pesare la sua autorità nelle decisioni giuridiche che i tribunali avrebbero proferite per la inattesa ricomparsa d'un documento stato smarrito.
Il discorso intorno al testamento del marchese F... si prolungò più tempo che al conte Aquila sarebbe piaciuto, tanto egli era impaziente di trovarsi da solo a solo colla Falchi; tuttavia vi prese abbastanza interesse per dire all'avvocato Gambarana, quando la compagnia si sciolse, che avrebbe desiderato di trovarlo il giorno dopo nell'alloggio del marchese F..., nel desiderio di conoscere con precisione quel fatto, e di far sentire in proposito il proprio parere. Dopo di ciò, quando tutti furono usciti, e la Falchi stava per salire nella propria camera:
- Permettetemi, disse il conte a madama, che io vi segua. Ho bisogno di parlarvi a lungo.
- Signor conte, sono ai vostri ordini.
In silenzio salirono le scale; in silenzio entrarono nell'appartamento di madama Falchi, si misero a sedere in silenzio. Finalmente così prese a dire il conte:
- Vi ripeto, madama, che so di parlare con una signora di grande esperienza, e che sa dare il giusto valore e alle cose...
- Vi ringrazio, signor conte.
- Fate in modo che piuttosto io debba ringraziar voi; intanto comprenderete che io ho ragione di non lasciar cadere in terra il tema che ieri notte, forse contro la volontà vostra, avete messo sul tappeto.
- Voi ne avete tutte le ragioni; ma devo anche dirvi che voi avete data soverchia importanza alle mie parole, e che io sono sicura di vedervi tranquillo, quando conoscerete i fatti precisamente come stanno.
- Dunque?
- Dunque comincio a dirvi che ho avuto torto di ridere quando mi parlaste della virtù di vostra moglie; io non so nulla e non posso dire nulla contro di lei.
Il conte, a queste parole, che per verità dovevano essere tranquillanti, si turbò e si sconvolse invece come se avesse udita una verità crudele. La dissimulazione della Falchi gli fece pensare che trattavasi di una cosa assai più grave de' medesimi suoi sospetti. Egli si alzò agitatissimo:
- Per carità, madama, parlate. Col tacere, sapete che cosa fate voi?... Mi costringete a partir subito per Milano... e là... Non credo che, per quanto abbiate poca stima di mia moglie, voi desideriate ch'io l'ammazzi.
La Falchi, ad onta del suo animo perverso, rimase percossa a queste parole del conte, e:
- Ma io non vi ho detto che avrei taciuto; vi ho detto soltanto che non trattavasi di una cosa seria… e aggiungo adesso, per mettervi tosto in sulla via giusta, che tutta la colpa è del vicerè.
- Del vicerè?... ma come c'entra il vicerè?...
- Se credete alle mie parole, non cominciate a contraddirmi. - Vi ripeto adunque che se la fama di vostra moglie fu in pericolo di essere appannata, la colpa non è di lei, povera donna, ma di quell'imbecille impudente e invanito.
- Ma che diavolo può essere avvenuto, che nulla me ne sia trapelato? - Ciò è inverosimile.
- Vi ricordate, signor conte, dell'ultima festa di corte?
- Sono già trascorsi tre anni.
- Ciò non importa...
- Ebbene…
- Ascoltatemi tranquillo... Il vicerè in quella notte diede un bacio a vostra moglie; ecco tutto.
- Il vicerè baciò mia moglie?...
- Un vostro amico era con me, e vide con me tutto... egli è il conte X che potete interrogare.
- Dunque fu uno spettacolo pubblico?...
- No, il fatto avvenne nelle sale più interne del palazzo. Noi due soli abbiamo veduto, e si voleva in quella notte stessa farvene avvisato... appunto perchè vostra moglie era innocente dell'avvenuto... e forse occorreva che voi, per vostra norma, aveste a saper tutto.
- E perchè non avete parlato?
- Perchè si è poi creduto di far meglio a tacere. E si tacque... scrupolosamente... tanto io che il conte... E ciò è così vero, che il fatto rimase sepolto in modo che non ne trapelò mai nulla a nessuno...
Il conte Aquila si alzò, e passeggiò qualche tempo senza parlare; poi:
- Oh fossi precipitato dal Cenisio col corriere, piuttosto che metter piede qui e veder voi e aver sentito quel che ho sentito!...
E indi dopo qualche pausa:
- E ora che si fa? soggiunse.
- Vendicarsi di quel furfante vicereale, e mandarlo colle gambe in aria...
- Vendicarsi di un uomo perchè ha baciato una donna? la avrebb'egli baciata se lei...
E sedette innanzi ad una tavola, appoggiando su quella i due pugni stretti, e tenendo fissi gli occhi sulla parete opposta come se guardasse un oggetto.
- Quando il vicerè osò baciarla, continuava la Falchi, ella si sciolse da lui con violenza, e lo lasciò senz'altro, e retrocesse sola. Questa è la pura verità.
- Sì?...
E il conte guardava macchinalmente la Falchi, come chi sembra inteso ad una cosa e ne pensa un'altra.
- Davvero, essa continuava, che non avrei mai creduto che un fatto simile fosse per darvi tanto fastidio... Già si sa che quando uno sfacciato s'è messo in testa di baciare una donna, non ha bisogno d'interpellare il suo consenso... È come se un borsaiuolo vi rubasse l'orologio... Sarebbe strano se si pensasse che il derubato è complice.
Stato assai tempo sopra pensiero, il conte a poco a poco si ricompose, si fece dignitoso e quasi solenne:
- Voi avete ragione. So chi è mia moglie e di lei non faccio alcun sospetto... Ora soltanto vorrei che il vicerè fosse un uomo che a ricevere uno schiaffo, mandasse il dì dopo i padrini a casa mia.
- Sarebbe uno schiaffo gettato. Egli è il vicerè... voi siete un privato... quindi, perdonatemi, sareste trattato come un pazzo... E non avreste nemmeno la compiacenza d'andare in prigione... perchè per qualche tempo dovreste assoggettarvi all'aria malsana della Senavra, e a sentire gli urli dei furiosi... Il povero Celestino Marelli, mercante di pannine (credo bene che vi sia nota quella storia), il quale bastonò il vicerè in borghese, fingendo di prenderlo per un altro quando usciva dalle stanze di sua moglie... ha dovuto adattarsi a vivere coi matti sei mesi. Capisco che voi appartenete ad uno dei primi casati di Milano... Capisco che siete riverito in paese pel vostro nobile carattere e per la vostra sapienza... ma, in faccia a chi è padrone d'uno Stato, ed ha la forza ed è prepotente, così i grandi come i piccoli, quando stanno al disotto ed hanno ragione, son tutti eguali.
- Di che paese è padrone il vicerè?... Vorrei saperlo. Noi siamo i padroni, perdio, e con un calcio io sbalzerò colui lontano mille miglia.
- Ah, adesso parlate bene, e cominciamo ad intenderci.
- Fra un anno Napoleone sarà all'inferno; e fra un anno il vicerè non sarà più nè padrone nè servo.
- A questo solo si deve provvedere.
- Ma i servi del servo devono tutti andar a spasso con lui.
- Purchè si sappia fare.
- E cominciando da uno dei più cari e più assidui amici di casa vostra...
- Io non ho amici.
- Se non voi, che non amate i vecchi, si sa però che vostro marito accende tutti i giorni la sua candela all'altare del Prina.
- Se la accende, non è per devozione, fidatevi di me. Eppoi ci sono delle novità. Ecco quel che mi scrive mio marito... guardate qui, leggete: da qui a qui.
Il conte, dopo aver letto un brano di lettera, levò gli occhi in faccia alla Falchi e disse:
- Io me l'aspettavo. Tuttavia, conosco i Milanesi, e i loro malumori sono fuochi di paglia.
- Ma voltate la carta e vedrete di peggio...
- Sì... vedo che due volte hanno affisso sulla porta della sua casa in S. Fedele...
- Avete visto?... un cartello colle parole. Prina, Prina, il giorno si avvicina.
- Oh… ci dò poco valore. Son le solite pasquinate… i Milanesi in ciò son famosi, ma cane che abbaia non morde.
- Sarà come voi dite. Ma io ho scritto a mio marito di pregare il Prina a star lontano da casa nostra.
Intanto che la Falchi parlava, il conte, a caso scorrendo il resto della lettera, s'imbatté in queste parole che gli fecero senso: Oh se andasse al diavolo prima della scrittura.
La Falchi, vedendo che il conte fermava l'occhio oltre il passo della lettera da lei segnatogli, fu presta a cogliere un pretesto per levargliela di mano; ciò che accrebbe la prima sorpresa di lui. Per verità egli non aveva traguardate che quelle sole parole; ed esse potevano riferirsi a tutt'altra persona che al ministro Prina, ma uno strano sospetto gli era penetrato in mente; sospetto che noi ora non possiamo nè distruggere nè accertare, e intorno al quale lasceremo che il lettore pronunzii spontaneo il proprio giudizio, quando si troverà in cospetto di altri fatti.


VI


Lasciando questo incidente, e tornando al tema del precedente dialogo:
- Domani andrò a Milano, proseguì il conte. L'umore d'una popolazione non si può conoscere davvero se non le si vive in mezzo. Vedrò e sentirò. Tutto per altro dipende dall'esito delle nuove battaglie; l'esito momentaneo, intendiamoci, perchè del finale mi tengo sicuro.
- Se andate a Milano, fate di vedere il Milordino che fu con me testimonio della sfacciataggine del principe. Sentendo lui prima di parlargli di me, vedrete che alla pura verità non ho aggiunta nè levata una sillaba. Ed ora vorrei pregarvi di una cosa.
- Che cosa?
- Che la buona e brava signora contessa non debba avere nessun dispiacere per quello che vi ho riferito.
- Siate tranquilla; io sono sicuro della sua innocenza. Io non le parlerò giammai di questa avventura. E voi, madama, dovete promettermi di non parlarne mai con nessuno. Il vostro silenzio vi sarà compensato... con usura... quando si tratteranno cose di ben più grave momento.
- Ho taciuto tre anni, posso ben tacere tutto il resto della mia vita.
- Mi annoja però che il Milordino siasi trovato con voi quella notte.
- Esso è vostro amico, ed è nemico del vicerè. Quando io lo pregai di tacere, mi rispose che se si fosse risolto di parlare, non lo avrebbe fatto che con voi solo.
Dopo queste parole, il conte Aquila, serio ma tranquillo in apparenza, si licenziò da madama Falchi.
Abbiamo detto in apparenza; e in fatti quando fu solo passeggiò agitatissimo lungo la Senna. Il suo orgoglio non gli aveva permesso di dare alla Falchi lo spettacolo d'un marito geloso, furioso e tradito. Egli, come Alboino, non voleva degnarsi di domandar conto ad altri della fedeltà della moglie; egli lo diceva, e doveva bastare. Ma quell'orgoglio, in ragione che gli avea comandato di atteggiarsi da uomo calmo, gli avea addensato tanto livore e fiele nel fegato, che sentiva la tentazione di mordersi le mani per dargli uno sfogo meccanico qualunque. Egli pensava che se sua moglie fosse stata innocente, sarebbe stata e avrebbe dovuto essere la prima a manifestargli l'atto sfacciato del vicerè; pensava che questi doveva avere troppo timore di lui, per osare quell'atto, se non fosse stato certo che la contessa avrebbe taciuto. E qui, richiamandosi in mente le parole del vicerè, e le lodi da lui ricevute a nome dello stesso imperatore, si sentiva doppiamente umiliato, perchè sospettava che quella grande stima di S.M. poteva essere invenzione del vicerè stesso per abbonirlo e ingannarlo e tradirlo.
Sentiva, per conseguenza, che non solo il vicerè non lo stimava, ma lo disprezzava come qualunque altro uomo volgare, credendolo degno di prenderlo al laccio e di scornarlo poi. E qui, invece di provare compassione per sè, che si era lasciato ingannare; di nutrire ira pel vicerè, che lo aveva disprezzato, sentiva colmarsi il petto di un veleno e di un odio mortale contro la propria moglie; argomentando che per sola sua colpa era nato tanto scandalo. - Povera donna! ed era innocentissima!…
Il giorno dopo si recò a far visita al marchese F..., nella cui casa trovò anche l'avvocato Gambarana di Pavia:
- Prima di tornare a Milano, sono venuto a trovarti, marchese.
- Ti ringrazio, e ti prego di un piacere. So che qui l'avvocato t'ha informato della lite che m'è stata intentata dal Baroggi. Ebbene, avrei bisogno che tu parlassi al ministro di giustizia; so che lo conosci... e che ti mettessi in comunicazione coi due presidenti del tribunale e con quanti giudici tu puoi. Qui all'avvocato fu scritto che il vicerè, in tono minaccioso, ha già fatto sapere a quei signori ch'egli voleva essere informato dell'andamento di tutta la procedura, e che avrebbe vegliato perchè si adempisse alla più scrupolosa giustizia. E anch'io voglio la giustizia; ma dico nello stesso tempo che il vicerè comincia ad infrangerla col far pesare la propria autorità sull'opinione dei giudici.
- Il ministro di giustizia è più tremante del vicerè che dell'imperatore. I due presidenti poi tremano del ministro. Dunque per quella via non c'è da fare nulla, marchese: ma io me ne occuperò in ogni modo; è tempo di farla finita anche con questo asino prepotente di vicerè. Eppoi, eppoi... le liti giuridiche sono solite ad andare fino alle calende greche. Dio sa dove sarà Beauharnais quando uscirà la sentenza finale dei tribunali!
- Ma non vorrei che intanto mi si sospendesse l'amministrazione della sostanza in quistione... Starei fresco, caro conte!
- È qui il nodo, soggiunse l'avvocato.
E su questo tema quei signori continuarono a parlarne per un pezzo, e ne parlarono ancora quando accompagnarono il conte fino all'Ufficio delle Messaggerie del Moncenisio, il giorno della partenza di lui per Milano.
Come allorquando vediamo un piccolo nuvolo in sull'orizzonte, che non sembra dover turbare per nulla la tranquillità del cielo; ma poi quasi facendosi incontro ad altro nuvolo che non si sa donde siasi spiccato, si congiunge e s'ingrossa con quello, e a poco a poco altri si accumulano in modo che chi guarda può benissimo aver timore di un temporale; così, per caso, vennero a congiungersi in Parigi e il conte Aquila e la Falchi, poi l'avvocato Gambarana e il marchese F... e il vicerè, e il colonnello Baroggi, che rimasto pochi giorni a Parigi, era tosto partito per Milano.
La rivelazione di un fatto improvvisò di punto in bianco un nemico implacabile a Beauharnais; una quistione giuridica di indole puramente privata, per influenza onnipotente dell'interesse, avvicinò un altro patrizio al conte Aquila, nel desiderio di vedere in rovina il figlio adottivo di Napoleone; la Falchi, sollecitata dall'auri sacra fames, ci fece presentire un altro temporale, che dovrà scaricarsi su altre teste. Vedremo, tornando a Milano, di che qualità sarà la grandine.


VII


La sera del 12 aprile il conte Aquila entrava in Milano da Porta Vercellina. Egli aveva già dato avviso al maggiordomo del proprio arrivo e indicatone anche il giorno e approssimativamente l'ora. Dopo il dialogo avuto colla Falchi non aveva più scritto alla moglie; soltanto nelle lettere dirette al maggiordomo, gli aveva sempre lasciato l'incarico di porgere alla contessa i proprj saluti. Come un re di Spagna non poteva mancare a nessuna legge del cerimoniale domestico; d'altra parte non voleva tradire alle persone di servizio i proprj segreti. La carrozza di casa era a pigliarlo all'Ufficio delle Messaggerie. Era notte tarda quando l'androne del suo palazzo risuonò del rumore delle ruote e dello scalpito dei cavalli.
La contessa si sentì rimescolare il sangue a quel rumore. Era gioja? era dolore? Non lo sappiamo. Probabilmente era l'effetto d'uno di quei sentimenti indefiniti che da qualunque cagione derivino, non fanno mai bene alla salute.
Per quanto ci dà la nostra esperienza, ben di rado avviene che al ritorno d'un marito in casa propria da una lunga assenza, risvegli il buon umore in coloro che hanno l'obbligo di aver sentito un gran vuoto per la sua lontananza. Spesso noi abbiamo assistito al ritorno più o meno atteso di qualche marito, e sempre abbiam dovuto conchiudere che colui avrebbe fatto un gran buon effetto a non ritornare così presto. Per caro che sia un marito, per quanto penelopea possa essere una moglie, la presenza di lui implica sempre sudditanza, obbedienza, impaccio. Perfino gli amici e le amiche di casa se ne risentono. Quante volte, seduti a lieta mensa, a mensa innocente, intendiamoci bene, dove l'allegria la più schietta animava la brigata invitata dalla vice gerente moglie; a un tratto vedemmo dileguare la generale festività all'improvviso annunzio recato in tavola insieme colla zuppiera: È arrivato adesso il signor padrone!
Ben è vero che all'entrare che fa il padrone nella sala comune, la moglie gli si fa tosto incontro con mille gentilezze, ed è perfino capace di baciarlo; gli amici e le amiche di casa vanno in cerca delle più belle espressioni per festeggiarlo; ma non bisogna fidarsi delle apparenze; ma dopo pochi minuti i visi sono tutti aggrondati, cominciando da quello del marito, che non era preparato a trovar tanta gente in casa. Il lettore non può immaginarsi l'avversione che, in generale, noi abbiamo per i mariti; essi sono i veri autocrati della vita intima, senza sindacato e senza equilibrio di poteri; è tanta la paura che abbiamo di loro, che abbiamo paura persino di noi stessi; giacchè il lettore deve sapere, e lo diciamo perchè si accorga che siamo in buona fede, che anche noi, sebbene senza vocazione, ci troviamo ascritti alla sterminata camorra di coloro che hanno rinunziato alla libertà, per il barbaro diletto d'impacciare l'altrui.
Non è dunque ad immaginare come si respirò in casa Aquila durante la lontananza del conte; come la servitù sentì tutta la beatitudine dell'obbedienza volontaria che avea prestato a quell'angelo della contessa; come questa fosse lieta di trovarsi in mezzo a tanta gente che la servivano adorandola; come ella poi, trovandosi a tutto suo agio e libera dall'orrido incubo maritale, avesse già messo sulle guancie, fatte più piene, un lieve color di rosa, il quale era scomparso dal giorno che dal collegio passò nelle spire del suo serpente sacramentale, stato benedetto dal signor curato!
Quando si pensa alla leggerezza crudele onde i genitori gettano le loro figliuole inesperte nelle mani del primo che capita, senza esaminare previamente il carattere intimo, senza conoscere le abitudini, spesso anzi non curando la pubblica fama che, se non sempre, qualche volta è un surrogato delle leggi impotenti: quando si pensa al numero sterminato di agonie tormentose e lunghissime subite da tante e tante infelici che i mariti hanno ammazzato in tutta pace, e persino nell'apparente e recitata bonomia delle pareti domestiche, e senza nessuna revisione legale; quasi si dura fatica a trovare indispensabile l'instituzione del matrimonio; e senza quasi, la coscienza spaventata si ribella ai codici invalsi.
Allorchè il conte Aquila, salito lo scalone, fu per entrare nel proprio appartamento, la contessa, insieme colla propria madre, che per caso quel giorno trovavasi là, fu sollecita a muovergli incontro. Ma il conte la salutò severamente, secondo il suo costume; salutò la madre secco, e comandò al maggiordomo, ch'era là anch'esso, di seguirlo in camera. Dopo alcuni minuti, stando la madre e la figliuola nel gabinetto di questa ultima, sentirono la voce del conte alterata e iraconda, e il maggiordomo che di lì a poco uscendo dalle stanze del padrone, diceva sottovoce:
- Non si può più vivere in questa casa.
S'egli è vero che, per consueto, i padroni di casa, come tutti coloro che esercitano un'autorità qualunque, provocano in chi li avvicina un sentimento il quale, anche allorquando le indoli son buone, insieme coll'amore e col rispetto, tien tuttavia in deposito qualche elemento di tedio e di pena; figuriamoci poi che tristissimo effetto essi sono destinati a produrre quando i caratteri sono orgogliosi, acri e tempestosi, e l'affetto non li riscaldò mai nemmeno durante il fuggitivo corso della luna di miele: un senso assiduo come di paura impaccia ogni pensiero, ogni gesto, ogni atto della povera moglie e di quanti sono condannati ad obbedire ed a servire in casa. Il conte Aquila, già lo sappiamo, apparteneva a questa genìa spaventosa dei tiranni domestici. Il maggiordomo non aveva ricevuto dal padrone che rabbuffi e parole crude per ogni menoma cosa che non gli fosse piaciuta; o un avaro ed un austero silenzio quando ne aveva indovinata ogni volontà. I servi e le cameriere si presentavano ai suoi ordini con pauroso rispetto; la moglie non differiva dai servi che per il posto gerarchico, il quale però contribuiva ad accrescere la sua rispettata servitù.
La contessina chiamò in gabinetto il maggiordomo:
- Che cosa ha il conte? gli disse.
- Io non so più, signora contessa, che cosa fare. Nemmeno il Padre Eterno, se venisse al mio posto, potrebbe accontentarlo. È andato in sulle furie perchè ho affittato al colonnello Baroggi l'appartamento del secondo piano. E consideri, signora contessa, che prima di partire, fu egli stesso a darmi l'ordine di affittarlo anche a qualche ufficiale dell'esercito, se si fosse presentato. Adesso si lamenta perchè ci sarà l'incomodo delle ordinanze e dei cavalli che vanno innanzi e indietro. Ma doveva saperlo anche prima, mi pare.
- Abbiate pazienza. Domani non si lamenterà più, quando saprà che il colonnello e sua moglie sono due buonissime e gentilissime persone... Ora andrò là io a dirgliene qualche cosa.
- Signora contessa, la consiglio a non andarci. Mi ha detto che era stanco, e voleva andar subito a letto, e mi ordinò di non lasciar entrar nessuno da lui: chiunque sia.
- Ma io non sono un conoscente qualunque che venga a fargli visita.
- Questo lo so... ma volevo dire, che nemmeno lei lo troverebbe di lieto umore.
La contessa stette in forse perchè, pur troppo, conosceva suo marito; ma d'altra parte pensò che a non farsi vedere la prima ora del di lui arrivo, era un atto di trascuranza non perdonabile ad una moglie; si recò dunque al di lui appartamento; bussò leggermente alla porta, e con quel suo accento naturalmente soave, e in quel punto fatto più tenue e gentile dalla titubanza:
- Si può entrare? domandò.
- A domani, contessa, rispose bruscamente il conte; sono già a letto, e voglio dormire.
Ella tacque: stette ancora in forse; poi con voce che quasi non si poteva sentire:
- Felice notte, - disse, e partì assai pensierosa, perchè il conte non si era mostrato mai come allora tanto scortese con lei.


VIII


Il giorno dopo il conte ricevette molte visite di conoscenti, e fu con loro affabile e loquacissimo; tra le altre ebbe anche quella del conte X.
- Chi mi avvisò del tuo arrivo fu la moglie dell'avvocato Falchi, la quale mi scrisse da Parigi. M'annunzia che s'è già messa in viaggio, e mi prega di passare da te.
- Non ti scrisse altro?
- Null'altro. Di che si tratta?
- Di un'inezia. - Siedi. - Madama a Parigi mi raccontò la scena comica dell'ultima festa da ballo data a corte.
- Che scena comica? Non so niente io...
- Allora vuol dire che sarà tragica. Tutto dipende dal modo con cui si piglian le cose.
- Ti prego a spiegarti.
- Diavolo! non hai tu visto il vicerè a far la corte a una dama e a darle un bacio?
- Ah... sì... ma passò tanto tempo, che quasi non me ne ricordava più...
- È dunque vero?
- Quello che è vero è vero. Ma la moglie dell'avvocato ha fatto male a mettertene a parte.
- Ha fatto benissimo. - E tu, come amico, avresti dovuto essere il primo a parlarmene. Vedi bene che mia moglie non ci ha nè colpa nè peccato, nè io non avrei mai potuto adirarmi con lei; però, credimi, che se tu avessi detto tutto quella notte stessa, sarebbe stato meglio.
- Son sempre cose che fanno dispiacere... Ma tua moglie non te ne disse nulla?
- Veramente no... cioè... mi diede a capire qualche cosa… e più d'una volta mi fece sentire la sua avversione per il vicerè, e un'altra volta si rifiutò di venire a un pubblico convegno dove il principe doveva venire... Ma io ci passai sopra, nè feci domande... e se non era madama Falchi, non avrei saputo precisamente com'è corso il fatto. In ogni modo, bada di non parlar mai di ciò a mia moglie. Il tempo stringe, gli avvenimenti incalzano; e si vuole mandare colle gambe in aria il vicerè; nè vorrei mai che mia moglie e i suoi parenti e gli amici credessero che io sono diventato un nemico del vicerè per quest'avventura tutta da ridere. Zitto adunque, caro conte, e pensiamo a far cambiar faccia al paese. - Fra due o tre settimane l'imperatore entra in campagna. - Dei prodigi ne farà ancora, ne son certo; ma sarà per poco. - Il suo tempo è finito, e deve cominciare il nostro. Gli elementi devono essere al tutto nuovi. Nessun uomo dovrà salire al potere, il quale sia stato adoperato e straccato dal governo imperiale.
In questo mentre un servitore bussò alla porta, entrò, e disse:
- È in anticamera il signor colonnello Baroggi, il quale prega di essere introdotto.
- Digli che sto chiuso con un amico per affari, e che se vuol ritornare... Ma no, è meglio farlo entrar subito.
- Pare anche a me.
- Ma è il Baroggi dell'eredità?
- Non ce n'è altri; è il colonnello.
- Ma sai tu che tutta Milano parla di questa faccenda?
- È naturale... Ma il testamento anderà in fumo... Sono passati sessantatrè anni; e come si fa ad asserire che il documento presentato in tribunale non sia una mistificazione, una contraffazione, una commedia?
- Sono curioso di vedere in faccia questo signor colonnello.
- Fermati, e lo vedrai.
- Esso è il marito della contessina S...
- E chi non lo sa?
- Quella ragazza stravagante e pazza, degna veramente di esser figlia di quello scavezzacollo del conte S..., porta ancora l'elmo e gli stivali alla dragona?
- Essi abitano in casa mia al secondo piano. Capitando qui potrai vederla.
Il servitore spalancò la porta, e si presentò il colonnello Baroggi col braccio destro avvolto in una custodia di cuojo e appeso al collo, e tenendo l'elmo nella sinistra.


IX


Il lettore che, dopo i fatti di Roma, vide già il Baroggi alla caccia di Lainate impegnato in un grave alterco con Foscolo, che finì poi colla più calda amicizia per parte d'ambedue, ed oggi lo rivede in casa Aquila; avrà desiderio di sapere che cosa è avvenuto di lui e di donna Paolina in tutto il tempo decorso. Il Baroggi, subita l'operazione della spalla, guarì compiutamente in capo a due mesi. Il colonnello S... in quell'occasione fu più volte a visitarlo, e ne' giorni che, dopo l'operazione chirurgica, parve che il capitano versasse in grave pericolo di vita, esso fu il primo a proporre, sposasse dal letto donna Paolina. Le destre furon congiunte, tra le lagrime degli sposi e degli astanti e il dolore più cupo del conte S...; chè in quel dì appunto, infierendo l'infiammazione, il chirurgo avea quasi tolta ogni speranza di guarigione. Ma tante angosce si rivolsero nella più schietta gioja quando il pericolo cessò. Il conte S... parve trasmutato in tutt'altr'uomo e non v'erano carezze che non facesse alla figliuola. Ma venne il dì del distacco. La divisione del general Massena lasciò Roma; e il colonnello S... dovette partire col reggimento.
Il capitano Baroggi, perfettamente ristabilito in salute, raggiunse il presidio di Bologna, lasciando la moglie in Roma, dove diede in luce un figliuolo. Nei rovesci del 99 lasciò l'Italia con lei. Nel 1800 passò il gran San Bernardo col primo console; alla battaglia d'Austerlitz ebbe il piacere di rivedere il suocero, allora generale di brigata, ma dal dì stesso divise colla moglie il dolore per la morte di lui sul campo di battaglia, dove una palla da cannone lo rovesciò da cavallo. Venuto a Milano, nell'occasione che Eugenio Beauharnais fu fatto vicerè d'Italia, entrò nel suo stato maggiore. In quel tempo collocò a pensione nel collegio Calchi Taeggi il proprio figlio, raccomandato alle cure speciali della contessina Ada, che, rimasta sola a Milano, per esser morta nel 1801 in vecchissima età la contessa Clelia, ripose in quel fanciullo ogni affetto, ed ebbe per lui tutte le sollecitudini. Seguito il vicerè in tutte le battaglie in cui questo si trovò, ebbe parte con esso anche nella campagna di Russia, dove fu colto nel braccio da una palla di fucile rimbalzata.
L'accoglimento che il conte fece al colonnello fu quello di un re non costituzionale e affetto dal mal di fegato, che adempie all'etichetta, senza dire nessuna parola confortevole a chi si presenta all'udienza. Discorsero della campagna di Russia; del generale Pino e de' suoi disgusti col vicerè; il conte domandò al colonnello in che luogo e in che modo egli era stato ferito; parlarono anche del testamento, e il conte non mancò di significare al colonnello che la protezione del vicerè gli pareva dover riuscire più di danno che di vantaggio; gli chiese inoltre se esso sapeva da che parte e da che mani quel testamento aveva potuto sbucar fuori. Dal lato suo il Baroggi, disgustato di quell'accoglimento, rispose secco e stando sempre sulle generali, e infine si accommiatò, soggiungendo che si recava negli appartamenti della signora contessa a levare la propria moglie. Il conte allora, spinto dalla curiosità più che dai riguardi del galateo, si alzò anch'esso, e seguì il colonnello, dicendo che gli piaceva di far la conoscenza di una donna ch'era stata di sì forte animo da seguir sempre il marito alla guerra.
Donna Paolina, vestita nella sua completa divisa di dragone, stava seduta accanto alla contessina Aquila, e teneva la mano di lei nella propria, quando il conte ed il colonnello entrarono. Chi non avesse conosciuto l'esser suo, l'avrebbe creduto un giovinotto amante, tutto intento a corteggiare la propria dama. Donna Paolina si alzò all'improvvisa comparsa del conte; alta e snella e leggiadra, e cogli occhi saettanti come quelli della Camilla di Virgilio. Il conte, che non l'aveva mai veduta, fu colpito da quello spettacolo. Esso era duro e non avea cuore; ma il sangue lo aveva, e quella donna, vestita in quella foggia e così diversa da tutte le altre, gli mise sossopra il sangue. Se non che, considerandola una conquista impossibile, l'ebbe tosto in avversione, come un fatto che umiliava il suo orgoglio; e parendogli, sotto il lavoro di quella stessa umiliazione, ch'ella fosse altera e sprezzante, sentì crescere la tentazione di nuocere a lei e a suo marito in quanto poteva. Il conte Aquila era un perfetto cavaliere, nè mai sarebbesi degnato adoperare armi oblique e insidiose a danno di chicchessia; ma in quell'occasione, anche perchè gli premeva che la ricchezza rimanesse al patriziato e non alla gente oscura, si sentì irresistibilmente portato a volere il loro danno.
In quel giorno non avvenne altro di considerevole; i coniugi Baroggi si recarono dall'avvocato Falchi, per sentire in che posizione si mettevano i loro interessi; l'avvocato Falchi diede loro le più belle parole del mondo; ma in quel dì stesso invitò a pranzo l'avvocato Gambarana, perchè non c'è legge la quale proibisca ad un avvocato di mangiare un boccone in compagnia dell'avversario.
Il conte Aquila, incumbenzato dal marchese F…, fece una visita al giudice a cui dal presidente del tribunale era stata affidata la trattazione dell'eredità Baroggi; quel giudice, che era il cavaliere F..., aveva tanto ingegno e criterio e sapere legale quant'era scialacquatore e dissestato ne' proprj affari; circostanza di cui il conte Aquila era stato informato, e della quale avea pensato di trar profitto. Il signor giudice fece intendere al conte che quell'affare era stato chiamato espressamente dal ministro Luosi; non ommettendo però di conchiudere, con quell'arte fina che accenna senza lasciar traccie le quali possano compromettere, che il Luosi doveva pensare ai casi proprj, per la medesima ragione onde il vicerè non era ben sicuro sul proprio cavallo. Per questo affare privato, che pure doveva avere la sua influenza sulla pubblica cosa, il conte non ebbe dunque motivo di lagnarsi in quel giorno; come ebbe assai ragioni di portar la testa più alta e di avere gli occhi più provocanti del solito, allorchè, parlando cogli amici, sentì da tutte le parti che gli elementi del pubblico malumore erano sufficienti a rovesciare due governi, non che uno. Sentì con gioja i fallimenti colossali di tre o quattro case commerciali, che avevano rovinato per consenso tutto il piccolo commercio dipendente; tra gli altri quello del negoziante Bignami, che dovette fuggire perchè già da un anno era creditore verso il governo di più di un milione, e il suicidio d'un fratello di lui; sentì con piacere come il ministro Prina, con acutissimo ingegno, inventando sempre nuovi modi vessatorj per cavar danaro, fosse stato cagione che in quei giorni una grossa mano di popolo tumultuasse minaccioso innanzi al palazzo del Broletto; e in più borgate e villaggi contemporaneamente i contadini insorgessero, e si presentassero al Comune armati di badili e forche per l'accrescimento del testatico.


X


Il cielo rimase così per molto tempo ingombro di nubi minacciose al governo francese; ma un giorno, e fu il 5 maggio, corse una voce che, del resto, da molti era aspettata; la voce di una clamorosa vittoria riportata da Napoleone; essa venne confermata dal bullettino della grande armata, e cento colpi di cannone annunciarono officialmente la vittoria di Lutzen. Il cielo si rischiarò. Il vicerè Beauharnais ebbe l'accorgimento di ritornare a Milano subito dopo i cento colpi. Il negoziante Bignami, che era fuggito a Parigi e che era stato visto dal vicerè stesso, fu da questo confortato a ritornare subito a Milano, colla promessa che tosto il governo lo avrebbe rimborsato; e Beauharnais mantenne la promessa ed ajutò la casa Bignami; lo che fece pure con altre ditte commerciali, che avevano dovuto soffrir danno per i mancati pagamenti delle casse governative.
In que' giorni avvenne a Milano un rivolgimento strano.
Non pochi dei vecchi padri di famiglia, che nel 96 potevano contare dai quaranta ai cinquant'anni, avevano serbato qualche simpatia per il governo di Maria Teresa sotto cui eran nati, per il governo di Giuseppe II e di Leopoldo sotto cui eran cresciuti. Parliamo della parte meno squisita della popolazione; di quegli uomini di pasta volgare, onesti ma pregiudicati, inaccessibili alle idee nuove, testardi nelle loro consuetudini; di quelli che andavano ancora in calzoni corti, in calze e scarpe con fibbie; che portavano ancora la coda col chiodo, che per lungo tempo avevan serbato un austero silenzio con quei figliuoli che l'avevan tagliata senza il permesso; e che avean minacciato di scacciare il giovine di banco se mai avesse osato lo stesso: presso a poco come, in tempi a noi vicinissimi ed anche oggidì, sebbene rarissimamente, non si vuole da qualche padrone di negozio che il maneggiante porti i baffi, perchè crede incompatibile colla onestà il labbro coperto di peli. I figliuoli di costoro, cresciuti nelle idee nuove e attratti dallo splendore della gloria di Napoleone, non avean parole che d'entusiasmo per lui, e avean costretto a tacere i padri incorreggibili che crollavano la testa, ma che avean paura di compromettersi a parlar chiaro. Ora, pel cambiarsi dell'orizzonte politico dalla fine del 12 ai principj del 13, s'era cangiato scena anche nell'interno delle famiglie. I padri che credevano d'aver sempre avuto ragione, cominciarono a investire con sarcasmo e peggio i figliuoli. Questi, che per tanti anni s'erano avvezzati a non aver mai torto, non voleano lasciarsi soverchiare dalle vecchie ostinazioni ricalcitranti. Insomma l'ora del pranzo, che per consueto è consacrata alle consolazioni dello stomaco e alla pace domestica, diventò invece l'ora più tempestosa della giornata.
Non eran molte quelle case dove ogni giorno non succedessero liti d'inferno per argomento politico. E per vero, il pubblico disastro in quegli ultimi giorni era andato tant'oltre, che a poco a poco ai giovani venne a mancar l'eloquenza, crescendo, di rimpatto, la petulanza dei vecchi e dei codini (allora questo vocabolo era in senso proprio e non traslato), al punto che non si poteva più vivere nelle loro mani.
Ora può immaginarsi il lettore come le acque che s'eran gonfiate per deflusso retrogrado, rifiorirano impetuose e rumoreggianti quando venne la notizia della vittoria di Lutzen, quando s'udirono dal Castello i cento colpi di cannone; quando ritornò il vicerè; e come questi ebbe medicate, coll'intento di abbagliare il facile volgo, molte piaghe pubbliche e private, venne vivamente applaudito da quella parte di pubblico che gli stava d'intorno nell'occasione che comparve a una rivista militare. I giovani tornarono ad avere il sopravvento sui vecchi; i gallomani fecero tacere tutti quelli che erano affetti dalla tabe austriaca. E il medesimo avvenne in seno alla terza fazione, la quale era men frequente di uomini di vero ingegno: la fazione di coloro che ripugnavano dai ricordi austriaci come da un cadavere; e volevano sferrarsi dalle braccia della Francia imperiale come da un prepotente. Il conte Aquila, che era il capo di una dozzina di patrizj i quali costituivano appunto il nerbo di questa fazione, ricevette un colpo mortale dagli ultimi fatti, sebbene gli avesse e preveduti e pronosticati, e fosse persuaso che non dovessero aver che l'effetto di una meteora. Ma non s'era aspettato che il pubblico dall'oggi al domani si trasmutasse così repentinamente, ma non s'era immaginato che il vicerè, del quale negli ultimi mesi si era detto tutto il male possibile, e che partendo nel 1812 per la guerra, aveva attraversata la folla in mezzo al più cupo silenzio, dovesse al suo ritorno essere ricevuto da così festose acclamazioni.
All'intento di scrutare il pubblico pensiero, egli s'era confuso nella folla quando il vicerè si mostrò alla rivista. Insieme col seguito di lui aveva veduto il colonnello Baroggi con accanto la moglie in assisa militare: gli parve il vicerè guardasse troppo spesso a quella virago, ricordante i tempi greci e romani; e allora, ricordandosi di ciò che aveva udito a Parigi dal giojelliere Manini relativamente alla protezione che Beauharnais avea accordato al Baroggi, sentì un nuovo e fortissimo dispetto per tal fatto. Non aveva veduto che una volta sola la moglie del Baroggi, e sarebbe morto piuttosto che rivolgere a lei una parola sola che significasse ammirazione e simpatia, tanto egli era superbo e duro e strano; pure il pensare che quella donna poteva essere posseduta precisamente da colui ch'egli da un mese abborriva con tutta la forza di un odio rovente, gli fece provare una sensazione indicibile.
La moglie del Baroggi apparteneva a quel genere di donne fatali, che per dove passano lasciano il segno, anche a loro insaputa, anche contro l'espressa loro volontà. Il suo fascino consisteva non nell'esser più bella delle altre; chè anzi, a rigore di regole accademiche, parecchie potevano superarla; ma nell'essere una specialità che si distingueva da tutte; specialità accresciuta dal suo vestire soldatesco, e dall'elmo e dagli stivali alla dragona.
Ad un maestro di pittura e scultura che avesse voluto far la critica artistica di quella donna, si poteva rispondere quel che rispose Cherubini al suo allievo Halévy, quando questi diceva che Rossini non sapeva l'armonia: Se non la sa, la inventa.
Il lettore però non voglia accogliere le dicerie che allora corsero sul conto di lei. Donna Paolina non aveva amato che il suo Baroggi; esso era stato il primo e l'assiduo amor suo; era stata la liberissima scelta del suo cuore; il matrimonio venne fatto senza interrogar l'interesse, il dio consueto dei connubj; la simpatia reciproca di quei due giovani fu così forte e legittima e onnipotente, ch'era riuscita a superare tutti gli ostacoli che il mondo si affanna ad inventare, quasi iracondo che la natura possa qualche volta avere il suo libero corso. La vita del campo, e i pericoli continui delle battaglie, che alimentano tra i soldati le più profonde amicizie, contribuirono a mantenere ed accrescere quel santissimo affetto. Per quanto e per quante volte quella donna fosse stata tentata, e per quante splendide e geniali apparenze di amatori le fossero comparse dinanzi, ella non sentì per nessuno mai neppure una simpatia leggera; a Roma un ufficiale francese s'era gettato nel Tevere, disperato ch'ella non volesse corrispondere all'amor suo; ella fu dolente di quella sventura, ma non si cangiò. A Dresda un giovane generale di brigata, dopo averle indarno protestato amore, minacciò di vendicarsi, le giurò che avrebbe trovato il modo di rovinare la carriera di suo marito; se non che avendo tentato di mettere su di lei le mani villane, essa col piatto della sciabola gli ammaccò il viso in modo, che comparve deriso fra gli squadroni di cavalleria, e fu poscia degradato.
In quanto al vicerè, è facile imaginarsi come, con quella sua indole procace e sulfurea, rimanesse preso la prima volta che vide quella donna, e, misurato il terreno in lungo e in largo con sguardo rapidissimo, facesse mille disegni di vittoria, di conquiste e d'impero; perciò promosse il Baroggi da capo squadrone a colonnello; gli fece tenere la Corona ferrea che, per verità, avea meritata più volte, ma che allora come adesso e come sempre, quando si tratta di decorazione, se non c'è chi la cerchi e la voglia per forza, non cade mai spontaneamente dall'alto come l'acqua piovana. Ai bivacchi militari e alla tenda vicereale invitò sempre lui, perchè c'era lei. Venne però a sapere le storie di Roma e gli fu poi riferita quella di Dresda, la quale gli fece l'effetto come di chi ha comperato uno stupendo cavallo e poi sente che ha il mal del montone; ed accostatosi a lei e tenutole più d'un discorso e calato qui e là lo scandaglio, non tardò molto ad accorgersi di fenomeni insoliti; d'un clima straordinario; della presenza, insomma, del diamante che taglia, ma non si lascia tagliare.
Nè il vicerè, in questa circostanza, si comportò come tutte le altre volte che gli era riuscita a male una conquista. Non si sentì offeso; non si allontanò dispettosamente dalla donna desiderata; non si vendicò gettando insidie ai parenti, ai fratelli, al marito, o col sospenderli da qualche impiego, o coll'impedire una promozione. Per la prima volta non fece nulla di tutto ciò, e stette contento a poter veder spesse volte quella donna eccezionale, a sentirla parlare, a vederla sorridere. Siccome poi gli giunse all'orecchio che qualche voce maledica aveva messa anche colei nel novero delle donne ch'esso aveva corteggiate e gli avevano corrisposto, si sentì completamente appagato nell'orgoglio, e non cercò altro, senza tentare di distruggere quelle dicerie; che anzi fece di tutto, per quanto era in lui, onde accrescere le apparenze che potessero ajutare l'altrui credulità.
In quanto a donna Paolina, ella si sentiva così in regola colla propria coscienza, così forte e superiore, che non si dava un pensiero al mondo dei sospetti e delle dicerie; nè altrimenti si comportava il colonnello suo marito. Egli, come Bajardo, era un cavaliere senza paura e senza macchia, malgrado quel tal bacio ricevuto dalla contessa A..., che per certe leggi del galateo mascolino non aveva potuto rifiutare; e ai più caldi tra i suoi amici, che, presente donna Paolina, gli avevano fatto osservare come taluno avesse notato la eccessiva deferenza che il vicerè mostrava per loro, rispondeva che, a voler tener dietro a tutte le fluttuazioni dell'opinion pubblica, non era sperabile di avere tregua mai; ch'egli non aveva altro fine al mondo che di essere contento di se stesso; che tutt'al più, se qualche voce più precisa gli fosse andata all'orecchio, e avesse conosciuto l'uomo che avesse parlato di loro, il suo squadrone avrebbe fatto giustizia.
Ma lasciando il sereno ambiente della famiglia Baroggi, passiamo a delinear le scene dell'estrema catastrofe del regno italico.


XI


Siamo ai 27 dicembre dell'anno 1813. Il teatro della Scala è aperto al pubblico; è incominciata la stagione di carnevale; non ostante la notte chiusa e nera, e la neve che cade a larghi fiocchi, il pubblico vi si è affollato, e la fila delle carrozze non manca di far ingombro alle vie del Giardino e di S. Giovanni alle Case. L'opera è l'Aureliano in Palmira del maestro Gioachino Rossini; il ballo è l'Arsinoe del coreografo Gioja. Calata la tela dopo il primo atto, fra clamorosi applausi alla Correa ed al Velluti, qualche frazione della platea e alcuni palchettisti si versano nelle sale del Ridotto dove, fin dalle sette, accigliati e cupi, stanno i professionisti e i dilettanti della rolina, indifferenti ai progressi della musica ed alle coscie della ballerina Millier.
In quella sala del Ridotto che sta dietro alla sala maggiore, e che, nell'inverno, è confortata dalla presenza del camino, un cerchio di persone tutte in piedi stavano intorno ad un cerchio minore di persone sedute al camino, sul quale ardeva della bragia in consunzione. Tra le persone sedute, chi attirava l'attenzione di tutti era un vecchio di anni 127 (diciamo centoventisette anni), ed era quel maestro Galmini, di cui parlammo già indietro, che, nato nel 1687, doveva morire 138 anni dopo; e fu il caso più straordinario di longevità che siasi presentato nell'evo moderno. Ancor sano e vegeto, sebbene un po' indebolito nelle gambe, da Parigi era venuto a Milano nell'autunno, ed aspettava la primavera per ridursi finalmente a Firenze sua patria.
Non aveva mai sentito la musica di Rossini, e quella sera volle recarsi in teatro per farsi un'idea del genio del maestro ventiquattrenne, di cui si pronosticavan prodigi.
- Mi ricordo, diceva quel vecchio, con voce un po' fievole, mi ricordo dello scalpore che si fece quando il maestro Monteverde, io allora era un ragazzotto, mise in rivoluzione tutta la musica; son passati più di cento anni da quel tempo. In confronto di questo giovinotto, che è come l'organo di una cattedrale, quel maestro assomigliava agli organetti che insegnano il canto agli uccelli; eppure allora era detestato da tutti i suoi colleghi per il troppo rumore che aveva introdotto nella musica. Ora io sento a dire lo stesso di questo giovane, e i vecchi gli sono tutti avversi, e anch'io lo sarei, se avessi la metà degli anni che ho. Ma a questa età trovo giusto quello che non mi sarebbe sembrato mezzo secolo fa. In che modo stia quest'affare, non so. Ma forse avendo vissuto il doppio degli, altri, or mi trovo d'accordo coi giovani; press'a poco come chi, alla corsa dei fantini, avendo avanzato gli altri d'un giro intero, finisce col trovarsi in compagnia degli ultimi. E questo non avviene soltanto in musica; parlo della musica perchè sono in teatro, e perchè fu la mia professione; ma in tutto il resto m'è riuscito così. Mi ricordo quando giunsero in Italia le prime opere di Rousseau e di Voltaire. Io allora viaggiavo dai cinquanta ai sessant'anni, e quei libri mi scandolezzavano assai mentre la gioventù vi spasimava dietro. Or venne il famoso 89; io aveva vedute a quel tempo tante e così orrende cose nel mondo, e comprendendo tutt'intera la verità, compresi anche quello che non piaceva agli uomini di 60 anni e metteva in esaltazione i giovani di venti. I giovani capivano per istinto, io per esperienza. Avevo fatto mezzo giro di più che tutti gli altri uomini. Il sangue che si versava in Francia allora, trovavo che non era una strage inumana, ma bensì la cura dei salassi abbondanti fatti all'umanità minacciata di apoplessia. Io mi trovai d'accordo coi giovani in quest'idea. E adesso, anche adesso mi accorgo che io non vado d'accordo che colla gioventù, sempre per la medesima ragione. Tutti i giovani, meno i coscritti che scappano perchè son fatti scappare dagli uomini maturi e dai vecchi, tutti i giovani vedono con dolore i disastri dell'imperatore, mentre i vecchi e gli uomini maturi, anche allorquando non lo dicono, danno a divedere che non hanno altro desiderio che di vederlo caduto, e per sempre. Vissi in questi ultimi mesi a Parigi; nel ritorno ho attraversato lentissimamente la Francia; mi accorsi che dappertutto è così. Ora io domando: che cosa sarà per succedere di bello quando Napoleone sarà caduto? Se adesso mi sento giovane colle idee, allora ritornerò giovane di fatto, perchè il mondo avrà fatto un passo indietro di cento anni. Mi si dice che Napoleone è un tiranno. Ma si diceva lo stesso anche di Giulio Cesare; e vorrei sapere che cosa avvenne di bene nel mondo dopo che quelle teste esaltate di Bruto e Cassio e compagnia, lo han mandato al diavolo?
- Ma se egli cade, perchè i suoi nemici sono più numerosi di lui e perchè l'Europa è stracca, di chi è la colpa, signor maestro?
Chi parlava era il conte Aquila. Il vecchio Galmini volse a quelle parole la testa verso il conte che stava dietro di lui, e gli disse:
- Il signore che parla, quanti anni ha, se è lecito?
- Trentasette, maestro.
- E allora è troppo vecchio per me. Non è possibile che c'intendiamo; e si alzò, un po' tremolante, e dicendo al giovane che gli stava presso e lo ajutava del braccio: - È tempo di ritornare in palco, perchè il secondo atto sarà incominciato, e la musica è men pericolosa della politica.
La maggior parte degli astanti tennero dietro a quel vecchio degno dei patriarchi e della Bibbia, e che faceva l'effetto di un indice e di un sommario storico. Non rimasero vicino al camino che il conte Aquila con cinque o sei amici, tra i quali trovavasi quel Giocondo Bruni di nostra antica conoscenza, che in quel giorno stesso era arrivato da Parigi e da quel tal conte, cognominato il Milordino, era stato presentato all'Aquila.
Tra il conte Aquila e il Bruni si avviò allora un dialogo, che noi abbiamo la fortuna di poter riportare quasi testualmente perchè ci fu riferito dal Bruni medesimo.


XII


- E così, incominciò il conte Aquila, che cosa ci porta di bello da Parigi?
- Le porto un NIHIL, signor conte.
- Che cosa significa questo nihil?
- La vera posizione dell'Europa, della Francia e dell'Italia in tal momento.
- Vale a dire?
- La parola nihil è composta di cinque lettere, ciascuna delle quali rappresenta un regnante che se ne va a spasso. Questa nuova interpretazione della parola latina fu fatta a Parigi in questi ultimi giorni. Dieci dì fa, in tutti i caffè di Parigi, una tale parola metteva in esercizio l'acume di tutti gli avventori.
- Or che cosa le pare, signor conte, che possa significare N?
- Oh! Napoleone.
- Benissimo, ella è già in via, e può andare avanti da sè... dunque prosegua: che cosa significa I?
- Re che comincino coll'I non ne conosco.
- Traduca il nome in latino.
- Allora sarà un fratello di Napoleone.
- Benissimo.
- Joseph.
- Joseph, re di Spagna; poi viene un'H.
- S'ha ancora a far la traduzione latina?
- Mi pare.
- Dunque sarà l'altro fratello: Hieronimus, il re d'Olanda.
- Ottimamente.. e l'altro I?
- L'altro fratello è Luigi... Ludovicus.
- Lo tengo per l'ultimo, e avremo provveduto alla lettera L. Or rimane l'I di mezzo.
- Non può essere che Murat, Giovachino, Joachim.
- Ecco fatta la spiegazione del nihil, l'estremo risultato di tanta potenza, e di tanti re sfumati in nebbia. Queste satire bastano a dimostrare qual è lo spirito pubblico di Parigi. Ma qui ne tengo un'altra, ed è il ritratto dell'imperatore.
- Oh vediamo!
- Ecco qua.
- Come? l'imperatore con quattro gozzi?
- Bisogna guardare a quello che 'è scritto su ciascuno di essi.
- Veggo un S, un I, un R, un E.
- Che vuol dir Sire.
- Il sale non abbonda in questa combinazione di lettere.
- Adagio, signor conte. Tutte insieme significano Sire, ma ad una ad una hanno altri significati: S vuol dir Spagna, I Inghilterra, R Russia, E Egitto, ossia tutti i regni e imperi che Napoleone s'è provato di ingojare, e gli si fermarono nella gola, trasformandosi in quattro enormi gozzi.
- Caro signor Bruni, la ringrazio dei nihil e dei quattro gozzi imperiali. Queste satire sono più fedeli del barometro. I giornali possono dir quello che vogliono; i bullettini dell'armata possono divertirsi ad alterare le cifre del dare e dell'avere come un contabile del demanio; ma la gran voce del pubblico europeo non inganna e non s'inganna quando appende sui canti delle pubbliche vie le sue sentenze capitali in istile bernesco. Anche la mano di Meneghino può scrivere il suo mane thechel phares, e consacrare a morte i contemporanei Baldassari. Oggi, allorchè il domestico venne a riferirmi quel che fu scritto sulla porta della casa del ministro delle finanze, ho pensato che per quell'uomo tutto è finito.
- Io giunsi in tempo di leggere il cartellone.
- Che cosa vi si diceva precisamente?
- Oh, uno scherzo semplicissimo, ma tremendo. V'era scritto: Casa d'affittare: Ricapito al dottor Scappa.
- Il pubblico, malgrado di tutte le bugie del Giornale Italiano; malgrado ch'abbia sempre sentito a magnificare le luminose e continue vittorie dell'esercito francese, è riuscito a comprendere, senza tanti studj, che un esercito di 500 mila uomini che dalla Slesia ritorna al Reno e si concentra nelle fortezze della Francia, non va innanzi ma indietro; e nel tempo stesso ha capito che è un modo affatto nuovo di vincere quello del vicerè, il quale a forza di battere il generale Hiller, ha dovuto cedergli il Tirolo, il Mincio e il territorio Veneto. E la viceregina fu fatta partire immediatamente, nonostante il suo stato di salute. Ho sentito dire che il ministro Veneri s'è messo giù colla febbre; che Luosi è diventato graziosissimo co' suoi subalterni. Soltanto il ministro Prina è insensibile a tutto, e ride dei colleghi tremanti; e questa sera ha voluto perfino mostrarsi dal suo palchetto.
- Egli si diletta a sfidare l'opinione pubblica. Ultimamente, quando si trovò scritto su tutti i muri: Prina, Prina, il giorno si avvicina; poco tempo dopo inventò la tassa sui capitali ipotecarj. Ora non mi farebbe gran senso, se presto mettesse una tassa sugli affitti, a proposito della sua casa d'affittare.
- È una gran testa però, bisogna confessarlo.
- Una gran testa! e chi non saprebbe fare altrettanto? non è questione di testa qui, ma di coscienza. Allorchè la forza costringe all'obbedienza i cittadini, non c'è sacrifizio che lor non si possa imporre. Il talento d'un finanziere non consiste in un sistema perpetuo d'espilazioni vessatorie; ma bensì nell'aprire nuove fonti di pubblica ricchezza, giovando allo Stato senza nuocere al cittadino. Ora il ministro Prina fece tutto all'opposto: non ha servito che ai capricci istantanei dell'imperatore, senza pensare alle conseguenze; egli ha fatto come quegli agenti che, per non sentire i rimproveri del padrone giocatore e violento, invece di pensare a migliorare le campagne, mettono mille angherie sui contadini, i quali un bel giorno finiscono poi col dar fuoco al fienile e col mettere la falce al collo dell'agente. Ora se qui sta la testa, io non so che cosa dire. Ma oramai siamo allo stringere del nodo.
- Dopo tutto, se c'è un uomo al quale il regno d'Italia dovrà render grazie infinite, è appunto il ministro Prina.
- In che modo?
- È presto capito. Avendo messo le mani in tasca a tutti, ha disgustato tutti; e così dato un disastro, ha reso impossibile la durata del governo.
- Per questo lato merita una statua, è verissimo.
- Ma ora mi permetta, signor conte, di fare alcune considerazioni. Quand'io sento parlare d'un governo che cade, domando sempre qual sarà il suo successore. Io vengo da Parigi. A Parigi già si pensa ai Borboni. Posso dire che non v'è altro pensiero colà. Ma c'è una cosa che mi rincresce, ed è che vogliono intrigarsi dei fatti nostri; e pretendono non ci sia altri che l'Austria, la quale possa sanare le nostre piaghe. A Parigi ci sono degli agenti austriaci. Io ne ho conosciuto uno, che, se non mi sono sbagliato, mi pare d'averlo visto là in fondo a un tavolino da giuoco. Sarebbe bene che ciascuno di noi lo avvicinasse. Egli va facendo reclute.
- Fatemelo conoscere, che lo tasterò io, disse il conte Aquila.
- Or vado ad assicurarmi se è lui; dopo il signor conte potrà fare il resto.


XIII


Nel mentre costoro lasciavano il camino, entrava il ministro Luosi, accompagnato dal giudice cavaliere F...
- È arrivato oggi; e stasera è a teatro; diceva il secondo.
- In teatro?
- Ritenete che questo è stato un felicissimo pensiero; fu l'avvocato Strigelli, che lo ha suggerito.
Egli conobbe assai dappresso il Suardi, e non è la prima volta che gli ha teso le reti. L'uccello però è di rapina, e ha sempre rotte le maglie col becco.
- Stando a quello che mi disse lo Strigelli, quest'uomo dovrebbe essere ben vecchio.
- Credo che possa avere da 83 a 84 anni.
- A questa età la testa si confonde; e se la cosa viene da lui, parlerà, lo vedrete.
- Non è facile però a capir la ragione dell'avere esso tenuto presso di sè il testamento per tanti anni.
- La ragione, se non è chiara per gli altri, egli l'avrà avuta.
- E allora, per che motivi ha pensato di mandare il testamento al tribunale?
- Il motivo, secondo l'avvocato Strigelli, ci sarebbe.
- E quale?
- Una vendetta.
- Converrebbe ch'io parlassi allo Strigelli.
- Vi dirò io tutto. Il marchese F... possedeva nel Piacentino un fondo limitrofo a un altro del Suardi. Ora ci fu tra loro una lite per un diritto d'acqua che importava la somma di un mezzo milione; il marchese vinse la lite, e fu lo stesso avvocato Strigelli che lo ha assistito. Il Suardi, il quale, non so per che ragioni, ha sempre fatto dei dispetti al marchese, rimase scornato e indignato per il mal esito della causa; e, com'è probabile, avrà pensato a rovinarlo col far saltar fuori il testamento trafugato. Così almeno la pensa l'avvocato Strigelli.
- La congettura è acuta. Ma non posso credere che un banchiere in ritiro, un vecchio di 80 anni, padrone di due o tre milioni, voglia rischiar d'andare in galera, dopo averla cansata tante volte e con tanta abilità, se almeno si vuol credere a quel che si raccontava e si racconta, per il dispetto d'aver perduto mezzo milione.
- Sapete, signor giudice, cosa dovreste fare?
- V. E. comandi.
- Tentar di parlare al Suardi questa notte medesima. L'ora tarda, la confusione, lo sbalordimento del teatro, la vecchiaja che cede alla stanchezza, il trovarsi con voi non preparato... potrebbe finalmente vincere la natura della volpe, e lasciar aperto uno spiraglio alla verità.
- Davvero che ci ho pensato.
- Se riuscite a fare il colpo, voi fate sbalordire tutta la città, e non so che ricompense potreste aspettarvi dal vicerè...
- Il mio attuaro è in platea; per suo mezzo mando pregare il Suardi a darmi un abboccamento.
- Fate; io ritorno nel mio palchetto.
Partiti che furono il ministro Luosi e il giudice F..., entrarono nella sala e sedettero al camino il ministro Prina e l'avvocato Falchi.
- In questa lite tra il marchese F... e il colonnello, diceva il Prina continuando un discorso incominciato prima, un avvocato, credetelo a me, può farsi un onore immortale.
Il Falchi ascoltava e taceva, ma con una certa espressione del volto, da indicare che era tutt'altro che disposto a far tesoro degli altrui consigli. - Non però sappiamo se il ministro se ne fosse accorto.
- Tutta Milano parla di questa lite; l'importanza le viene innanzi tutto dalla ingente ricchezza che è in controversia; poi dalle persone che sono in conflitto. Il marchese F… colle sue originalità, col suo carattere duro e pretino, co' suoi viaggi in Europa, colla sua antipatia al governo, ha dato nell'occhio a tutti i suoi concittadini; il colonnello Baroggi, per le sue storie passate, per le scene tremende avvenute col suocero, per l'indole romanzesca di sua moglie e per la sua bellezza, ha provocato l'interesse e la simpatia dell'universalità. È una vera fortuna che a voi sia toccato di patrocinarlo. Ma ciò che rende ancor più interessante questo fatto, è la storia antica, e che si credeva dimenticata, di questo testamento; ed oggi è l'improvvisa comparsa a Milano del banchiere Suardi, che sessanta o settant'anni fa era lacchè in casa F..., ed ebbe poi a sostenere un lungo processo per essere stato fortemente indiziato d'aver fatto scomparire il testamento del suo padrone.
- Causa più bella e più strana e più atta a far rumore di questa non mi è mai capitata... Voi dite benissimo, Eccellenza. Ma la decisione di essa non può dipendere che da una perizia calligrafica. L'avvocato ci ha poco o nulla a fare. Aggiungete che questa medesima perizia sarà difficile a compirsi; perchè non si può dare una perizia senza confronto; e del marchese F..., il quale si presume aver lasciato un testamento olografo, non rimangono scritture di sorta. Esso era un gaudente ignorantissimo e fannullone, che non adoperò quasi mai nè penna nè calamajo.
- Ma qui appunto può mettersi in mostra l'abilità dell'avvocato.
- Qui.... dove?
- Nel tentar la via per venire al possesso di qualche sua scrittura; intanto fu un pensiero quello del cavaliere F...
- Quello forse d'aver intimato al Suardi di comparire in tribunale? Scusate, Eccellenza, ma a me sembra un'idea assai storta. Il vecchio Suardi (io ebbi a che fare con lui) è tal volpe da metterci tutti in sacco.
- L'avvocato Strigelli non è del vostro parere.
- Mi piacerebbe tanto a sapere che cosa sia riuscito a far lo Strigelli, quando fu alle prese col Suardi. Costui era un lacchè... ed ora è un milionario beato e trionfante... e se ha qualche cosa di cui debba lamentarsi... è la vecchiaja, la quale non gli fu inflitta nè per l'acume giuridico dello Strigelli, nè per sentenza del tribunale.
- Caro avvocato, io non ho fatto che mettervi in sull'avviso; voi sapete che questa causa sta molto a cuore al vicerè... Egli stesso ha saputo dalla mia bocca che era nelle vostre mani... e Vedremo, mi disse, se colui ha l'abilità che tutti dicono.
- Eccellenza, voi potete bene imaginarvi s'io ho volontà di farmi onore in questa faccenda...
- E allora sono sicuro dell'esito. Or venendo ai fatti nostri, domani verrò a casa vostra. Abbiamo da ultimare quell'affare dei boni del tesoro che la vittoria di Lutzen ci ha fatti vendere così bene... C'è poi anche quel capitale... non indifferente... che è lì da un pezzo... fin da quando i fondi del monastero di S. Giuseppe e di S. Prassede furono incamerati.


XIV


Come chi, dovendo governare una operazione di guerra, spedisce una divisione in un dato punto, un'altra in un altro; dispone una brigata a dominare una via; un distaccamento a proteggere un passo; ciascuno dei quali corpi, in sul primo, sembrano non aver relazioni tra di loro, nè mirare ad un intento comune; ma, a suo tempo, dovranno congiungersi per spiegare le loro forze riunite in una battaglia decisiva, così dobbiamo fare anche noi coi diversi drappelli dei nostri personaggi.
Nell'ultimo capitolo abbiamo spediti il conte Aquila co' suoi aderenti a vegliare i passi di un emissario austriaco. Poi abbiamo messo il lettore nell'aspettazione di due colloquj: l'uno tra il giudice F... e il decrepito Galantino; l'altro tra il ministro Prina e l'avvocato Falchi. Abbiamo inoltre accennato a nuove cose e nuove persone.
Queste disposizioni sembrano estranee affatto l'una all'altra; ma se il lettore avrà pazienza e starà attento, vedrà esservi un punto in cui tutte verranno a convergere e ad unirsi.
Cominciamo intanto dal promesso colloquio tra il ministro Prina e l'avvocato Falchi. Il fatto che ne costituisce il tema non risulta legalmente provato da documenti scritti e d'irrefragabile autorità, ma soltanto dalle relazioni di testimonj auricolari e d'uomini degni di fede. Noi sentiamo l'obbligo di avvisare di ciò il lettore dichiarando che lasciamo a lui la piena libertà di dare al fatto stesso quella valutazione che gli parrà meglio; solo bastando a noi di consegnare alla storia nuovi dati, che possano condurre a trovare il valore di alcune incognite da essa contrapposte, per tutta risposta, alle domande dei contemporanei e dei posteri.
Secondo l'intelligenza, la sera dopo il dialogo nel ridotto della Scala, il ministro Prina, poco oltre le undici di notte, s'incamminò pedestre alla casa dell'avvocato Falchi, che non era lontana nè dal teatro della Scala, nè dalla piazzetta di S. Fedele.
L'avvocato lo attendeva nel proprio studio. Madama Falchi era ancora in teatro.
Nell'anticamera sedeva un servitore, che si chiamava Camillo Guerrini, uomo obbediente, paziente, fedele, imperturbabile agli strapazzi di madama; ma curioso fino all'indiscrezione, e che senza volerlo, ma solo per un bisogno dell'indole sua, aveva l'abitudine di raccontare a' suoi amici, tutta gente inscritta nella camera dei cocchieri e dei cuochi, ogni minimo interesse de' suoi padroni; e, perchè non mancasse mai materia alle sue chiacchiere, non perdeva mai nè d'occhio nè d'orecchio tutto quanto si faceva e si diceva in casa Falchi.
Quel servo aprì la porta al ministro, dopo averlo annunciato. Indi ritornò in anticamera e si mise a sedere con quell'atteggiamento floscio e cascante di chi, non potendo mai dormire abbastanza, ha sempre sonno e sempre dorme. Il lettore però voglia ricordarsi del proverbio: Uomo che dorme, gatto che sbircia. E per ora basti di lui.
Il ministro entrò e disse:
- Bravo, avvocato, siete stato di parola.
- E quando ho mancato?
- Sono venuto a piedi, e non mi son fatto accompagnare da nessuno, nemmen dal servitore. Di più ho lasciato il teatro prima dell'arione di Velluti, perchè so che vostra moglie da quel momento non si potrebbe staccarla dal parapetto del palco nemmen cogli argani. È necessario che siam soli, affatto soli.
- Qui non c'è nessuno.
- Voglio che mi promettiate inoltre che vostra moglie non debba saper nulla degli affari nostri. Ecco perchè ho lasciato il teatro un'ora prima.
- Io non dirò nulla; ma sapete com'è quella donna; eppoi bisognerebbe che non avesse saputo mai nulla...
- Allorquando abbiam comperato per un milione e mezzo in tanti boni del tesoro...
- Non dovete ignorare, eccellenza, ch'ella stessa andò per quest'oggetto a Parigi...
- Lo so... ma vi avevo raccomandato di farle credere, che erano o proprietà vostra, o di qualche altro vostro cliente.
- Ho fatto quello che ho potuto... ma non posso assicurarvi, eccellenza, ch'ella non abbia sospettato sieno roba vostra.
- Ebbene, fin qui non c'è gran male; soltanto è necessario che non sappia il resto. Ed ora veniamo a noi: - per quell'affare si è quasi raddoppiato il capitale, non è vero?
- Ve l'ho già detto: io tengo in deposito due milioni e centocinquantamila lire, che ho collocate sul banco di Genova. Ecco qui la regolare ricevuta e i documenti relativi ch'io depongo nelle vostre mani, per tutto quello che può succedere.
- Se li avessi voluti, ve li avrei già cercati; ma per ora non voglio tener nulla presso di me. Vi conosco per uomo onesto e rettissimo, e mi fido, starei a dire, più di voi che di me.
- Eccellenza, vi ringrazio... ma dalla vita alla morte... è sempre bene...
- Come avvocato dovete avere il vostro repertorio; per conseguenza non potrà esser mai che il mio possa parer vostro...
- Questo è vero... ma... per tutto quello che può succedere... torno a ripetere... amerei di essere in regola.
- Questi sono altri ricapiti.
- Che cosa avete qui, eccellenza?
- Guardate.
- Un vaglia del banchiere Bignami per lire quattrocentosessantamila. Un mese fa, eccellenza, potevate accendere la candela con questo vaglia.
- Ma oggi invece lo dò a voi, perchè domani mandiate al suo banco a riscuotere il denaro. Se la casa Bignami s'è rifatta da morte a vita, lo deve a me. Sono io che ho scritto al vicerè. Sono io che ho consigliato ad ajutar quella casa. Se il fratello del Bignami avesse domandato prima il mio parere, non avrebbe fatto la corbelleria di bruciarsi il cervello. Voi dunque domani vi farete sborsare il denaro: il signor Bignami è già avvisato.
- Sarete obbedito, eccellenza!
- Or veniamo alla conclusione. Io ho potuto salvare la casa del Bignami ed altre case bancarie e commerciali, perchè il vicerè ha eseguito il mio consiglio. Ma non ho potuto salvarle tutte. Il tempo dei miracoli è passato. La casa Bonel ha dovuto fare un capitombolo. Gorio, per le sue prodigalità, è stato messo sotto amministrazione. Raschisi ha rassegnato tutti i suoi beni. Guglietti vuol vendere la sua villa e i suoi fondi sul lago Maggiore. La somma che tenete in mano e i danari che riscuoterete domani, dovrebbero bastare per far l'acquisto delle case e delle campagne di costoro, prima che vadano all'asta pubblica. I danari pronti e sonanti potrebbero essere un'esca alle amministrazioni, e noi potremmo fare un buonissimo affare. Pensate voi a questo, e comperate tutto a nome vostro, o per persona da dichiararsi. Di me non voglio che si sappia e si dica nulla. Non è il momento.
- Eccellenza, con queste vostre disposizioni, che quasi mi sembrano testamentarie, voi mi mettete in grande timore. Ma, in conclusione, che cosa pensate sarà per nascere da questo orrendo temporale che ci minaccia e continua da tre mesi?
- Quello che suol sempre succedere dopo i temporali. L'aria più fresca, il sereno più netto, il sole più ridente.
- Uhm!!! Vorrei crederlo anch'io. Ma intanto, perchè mi avete dato gli ordini che mi avete dato?
- Ma per potere appunto godere a suo tempo dell'aria, del sereno e del sole che verrà. Ora non posso dissimularmi ch'io sono detestato dai Milanesi. È fuoco di paglia, lo so; com'è un fuoco di paglia l'odio che si porta all'imperatore e al vicerè. Ma intanto convien mettere al sicuro quella ricchezza colla quale si è tutto quello che si vuole, e senza della quale si è nulla.
- Ma che cosa dunque, eccellenza, sarà per succedere?
- Io voglio pensare al peggio possibile...
- Ebbene...
- L'imperatore sarà battuto e costretto a ritirarsi in Francia.
- E poi....
- Non vi basta? Ma credete voi che l'imperatore d'Austria voglia lasciar senza regno il marito di sua figlia? Tutto ciò adunque che può accadere di peggio è che Napoleone debba accontentarsi della Francia, e restituire quanto ha tolto agli altri. In questo caso le sconfitte frutteranno a lui e ai sudditi un benessere che non si sarebbe mai potuto ottenere colle vittorie. Le vittorie e le conquiste sono acque di fiume che straripa; tutto è minacciato, tutto va sossopra. Solo la calma ritorna quando le acque si acquietano nel loro letto naturale.
- Ciò potrà andar bene per la Francia. Ma il regno d'Italia? Questa è roba rubata.
- Rubata? a chi?
- All'Austria, che la reclamerebbe per diritto.
- Essa non può vantar diritti nè maggiori nè minori di quelli di Napoleone; ma non parliamo di diritti. Non ci sono diritti a questo mondo. Soltanto s'insegnano nelle Università e si parla d'essi nei codici; e anche alle Università ed anche nei codici, vediamo che non sono altro che un complesso dei fatti stati imposti primitivamente dalle autorità arbitrarie e della forza e della scienza. Ma, tornando al regno d'Italia, se Francesco II non vorrà che sua figlia rimanga senza corona, la viceregina Amalia starà garante perchè suo marito non resti nè a piedi nè a cavallo. Soltanto è necessario che gl'Italiani, e segnatamente i Milanesi, non facciano l'asino e che, per giuocar di puntiglio, non si rovinino per sempre. Ma ciò non accadrà, lo spero; essi saranno fortunati a loro dispetto. Napoleone sarà l'imperator della Francia, Beauharnais sarà il re d'Italia. Fate che vada questa combinazione di cose, ed avremo una pace lunga e beata. Allora si accorgeranno i Milanesi che ho adoperato i loro danari per fare la loro fortuna. Oggi Napoleone dee essere sostenuto. Il pubblico danaro è indispensabile a ciò. Solo allora che l'imperatore starà chiuso nella sua Francia, e Beauharnais sarà il re d'Italia, tutte le tasse saran diminuite della metà e più, se sarà bene. Tutte le classi dei cittadini ad un tratto si troveranno allora più ricche, e proveranno la consolazione di quei pupilli sempre torbidi e malcontenti, i quali, giunti all'età maggiorenne, si accorgono finalmente che il tutore aveva ragione di non aver lasciato loro troppo denaro in tasca, e d'averlo invece impiegato a lauto frutto. I Milanesi mi benediranno, ne son sicuro. Ma intanto bisogna aver pazienza e stare in guardia, perchè se l'amore è futuro, l'odio è presente.
Dette queste parole, il ministro si alzò, salutò l'avvocato Falchi e partì.
L'avvocato uscì con lui dallo studio, ordinò al domestico che sonnecchiava in anticamera di far lume a sua eccellenza; l'accompagnò egli stesso fin sul pianerottolo della scala, poi si ritirò nella stanza da letto. Guardò le ore: erano le dodici e mezzo.


XV


Madama può tardar pochissimo a tornare, pensò tra sè. È inutile ch'io vada a levarla. Una buona fiammata, e andiamo a letto.
Ravvivò il fuoco; mise due fascinetti sugli alari, sedette, scorse le ultime notizie del Giornale Italiano, si alzò, e colle spalle rivolte al camino, stette pensando molte cose; infine si spogliò, si calcò fin sotto le orecchie la berretta da notte, e si cacciò sotto le coltri.
Mezz'ora dopo entrava madama.
- Già a letto, eh? disse ella all'avvocato con accento agro. Potevo dormire in teatro stanotte se aspettavo te.
- Con tanti cavalieri serventi che ti fanno avanguardia e retroguardia, era certo che non avresti dormito in palchetto. E così come ha cantato il musico Velluti?
- Sempre come un dio. La R... ne è innamorata.
- Davvero? Bravissima! questo è un buon affare per suo marito, che si lamentava d'aver troppi figli. Il Velluti è un amante da coltivare; per lui non crescerà la famiglia.
- Che maniera di parlare!
- Sta a vedere che madama si scandalizza...
Madama non rispose, perchè nello spogliarsi e nello slacciarsi il busto, s'incontrò in un nodo così fisso e testardo che la fece prorompere in una filza di bestemmie degne di qualunque briffalda.
Vista discinta a quel modo, malgrado le bestemmie e la faccia proterva e la beltà assai matura, non era niente affatto una donna da gettar via.
Alla fine diede una strappata robusta e violenta alla cordicella, che si spaccò, e potè levarsi il busto.
Allora s'accostò al camino; con un movimento affatto virile e plebeo, pestò con un piede sulla legna, per accostarla e riadattarla; fece un po' di fiamma; poi:
- Stasera, disse, è stato qui il ministro, eh?
- Chi te l'ha detto?
- C'è stato o non c'è stato?
- Sì che c'è stato.
- Dunque, che fa a te se l'ho saputo piuttosto dal Biggia che dal portinajo.
- Niente mi fa.
- Ma quando, stando nel tuo studio, ti capiterà qualche sassata nei vetri, allora ti farà qualche cosa.
- Faremo aggiustare i vetri.
- E la testa te la farai aggiustare quando te l'avran rotta bene?
- Se ho da dirti la verità, non ti capisco.
- In teatro più d'uno e più di due e più di tre, mi han detto che tu fai malissimo a continuare questa maledetta relazione col ministro; m'han detto che perderai ogni clientela e diserterai lo studio; e quando tutti i leccazampa imperiali e vicereali dovranno far fagotto e mettersi in coda ai carriaggi del vicerè, anche tu dovrai fare i tuoi bauli, perchè l'aria di Milano diventerà assai malsana per te. E queste son cose che io già ti dissi mille volte.
- S'io dovessi ascoltar te, farei dei bellissimi affari.
- Come sarebbe a dire?
- Sarebbe a dire che, tanto a te che a' tuoi calabroni, s'è riscaldato un poco il cervello.
- Se io ho il cervello riscaldato, tu hai un cervello d'asino.
- Obbligatissimo alle sue grazie. Deve sapere però, madama, che se il ministro è stato qui, è perchè si trattò d'affari importantissimi; la mia professione la conosco discretamente, e non son di quelli che piglian mosche.
- Cogli altri lo so... ma col ministro, in tanti anni che lavori per lui, non ho sentito che aria ed odor di fumo. Non v'è al mondo uomo più sordido, più avaro e indiscreto di lui.
- Tu parli perchè hai la bocca.
Qui madama investì il marito con parole della più insolente trivialità. L'avvocato sentiva e non parlava. Madama continuò per un pezzo a sagrare con la rapidità di un mulino a vento.
L'avvocato, che subiva al pari di uno schiavo l'influenza e il dominio di quella donna uomo:
- Via, le disse per calmarla, vieni a letto, e dormi tranquilla, che domani ti dirò qualche cosa che non ti spiacerà.
Madama tacque un momento, si mise la cuffia da notte, gettò la cenere sulla bragia del camino, ed entrò nel letto maritale.
L'avvocato dormiva già. Ella stette un momento tranquilla, poi riscosse il marito... che si svegliò.
- Quello che volevi dirmi domani, puoi dirmelo adesso.
- Che cosa? domandò l'avvocato tra sonno e veglia.
- E che hai detto un momento fa?
- Oh lasciami un po' dormire!... che impazienza! da qui a domani non ci sono che poche ore.
- Non dormo sinchè non so tutto.
- Oh che tormento!
- Parla dunque.
L'avvocato, che avea promesso al ministro di non dir nulla, stette un momento in forse; poi, come sempre aveva fatto, mise a parte la moglie d'ogni segreto, e concluse con queste parole:
- Se il ministro fin qui non ha mai compensato le mie prestazioni, bisogna però considerare quanti affari vantaggiosissimi ho fatti per suo consiglio e per suo intervento; in quanto poi alla faccenda di stasera, tu vedi che a far passare per le mani più di due milioni e mezzo, deve ad esse restare attaccato qualche cosa; perchè bisogna anche confessare che, se quell'uomo è avaro, fa eccezione fra tutti gli avari in questo, che non è per nulla diffidente e, se si mette nelle altrui mani, lo fa occhi chiusi. Ne vuoi una prova, e una prova incredibile? Non ha voluto nemmeno la ricevuta de' suoi capitali che ho nelle mani; e la compera dei beni stabili, fino all'ammontare della somma che tengo, devo farla in testa mia. Vedi or tu che, s'io fossi un birbante, potrei fare un brutto tiro al ministro, e senza un timore al mondo e senza nemmeno il pericolo ch'egli avesse a parlare; egli ha troppa paura del pubblico in questi momenti, e non vuol che si sappia ch'egli ha accumulato tanta ricchezza. Credo persino che, se ha rifiutato la ricevuta, gli è perchè teme possa mai essere veduta da qualcuno. Quell'uomo, che ha tanto ingegno e acume veramente straordinario, in certe cose è piccolo come una donnicciuola. Ma è il solito sistema di compensazione che va.
Madama Falchi ascoltò tutto attentamente, e non disse nulla; ma quando l'avvocato dormiva profondamente, ella vegliava ancora, e colla sua mente infernale andò almanaccando sinistri disegni.
A quel modo che lady Macbeth fu la rovina del re Duncano, per una ragione della stessa natura il ministro Prina sarebbe forse morto a suo letto se l'avvocato Falchi avesse taciuto quel fatto alla perfida moglie. Diciamo forse, perchè altre detestabili furie entraron seco in concorrenza.


XVI


Ritornando tre ore indietro, e rientrando nel teatro della Scala, saliamo le scale de' palchetti fino alla quarta fila e facciamo capolino all'ingresso del N. 18 di facciata. Per una strana combinazione le tappezzerie, gli specchi, le dorature di quel palco anche oggi sono ancor quelle dell'anno 1813, e se il lettore se ne vuol persuadere, ne esamini lo stile decorativo, guardi gli specchi pallidi, e smonti, consideri l'oro ridotto al punto da sembrare un signore decaduto. Al parapetto di quel palco sedevano il colonnello Baroggi, che per la ferita ostinata e ribelle non aveva potuto seguire al campo il reggimento; sedeva donna Paolina femminilmente abbigliata, con gran dispiacere di chi amava vederla sempre in assisa di dragone, ma rilevante la nudità delle sue olimpiche braccia in compenso delle gambe scomparse sotto la veste prolissa. Vicino a donna Paolina stava il vecchio Andrea Suardi, il Galantino del 1750. Sessantatrè anni eran passati sulla sua persona; ma nella lunga lotta con essi egli era rimasto in piedi, tutt'altro che disposto a lasciarsi atterrare. Gli occhi aveva vivissimi e viperini, e l'abitudine a volgerli obliqui, per quell'espressione indefinibile di astuzia maligna e sardonica che fu sempre il carattere dominante della sua bella faccia, erasi impadronita dei muscoli al punto, che quel modo di guardatura, in gioventù fuggitivo e a guizzi, in vecchiaja era divenuto costante.
Il colore della sua pelle che, se il lettore se ne ricorda, si protrasse con molle freschezza quasi muliebre fino agli anni virili, aveva cessato di essere equabilmente diffuso su tutta la faccia, ma s'era invece come rappreso e ritirato agli zigomatici, con lievi screpolature salsedinose. Le guancie si erano emunte, mancato il sostegno di parecchi denti molari; a malgrado di ciò, la bocca avea conservata qualcosa della prisca eleganza. I capelli avea bianchi come l'argento, ma lucidi come quello, ma ancor fitti e inanellati e cadenti in una ciocca tra le tempie, a lambire la divisione de' sopraccigli. Era insomma un bellissimo vecchio, com'era stato un bellissimo giovane; nè, in quanto alla foggia del vestire, s'era dimenticato dell'eleganza onde gli venne il soprannome. Portava una giubba color oliva a larghe falde, giusta le prescrizioni dell'antipenultimo figurino di Parigi; calzava stivali di sommacco con fiocco agli orli delle gambiere e increspature al collo del piede. Dai taschini gemelli de' calzoni uscivano, di sotto al panciotto di casimiro bianco, due catenelle con suggelli di corniola e d'ametista, ad indicare il costume non ancora cessato dei due orologi in vicendevole controlleria.
Il musico Velluti aveva finito di cantare il suo arione, quando entrò in palco un servitore di teatro per dire al Suardi che un signore desiderava di parlargli, e domandava il permesso di entrare.
- Ma entri pure, disse Galantino.
Poco dopo entrò infatti il signor attuaro Tagliabue, che il Galantino si fece seder vicino, col solito:
- In che posso servirla?
- Ella avrà ricevuto dal tribunale civile di Milano l'invito a comparire innanzi al signor giudice cavaliere F…
- Per l'appunto, signore; sono arrivato oggi stesso e domani mi lascerò vedere.
- Il signor giudice, che è in teatro e ha saputo che V. S. era qui, a guadagnar tempo e a levarle il disturbo, mi ha mandato a dirle, ch'egli era disposto a parlarle questa sera stessa, e che perciò l'attendeva nella sala del Ridotto.
- Per me tutti i momenti son buoni.
- Allora io l'accompagnerò.
- Mi rincresce che l'opera non sia finita...
- Ella faccia come crede...
- No, no - andiamo pure - a Milano mi fermerò alcuni giorni, e avrò tempo di sentire il resto un'altra volta.
Con queste parole il Galantino si alzò; disse a donna Paolina: torno subito - e partì coll'attuaro.
Il cavaliere F... era seduto al camino nella solita sala del Ridotto; mosse incontro al Suardi, quando questi entrò in compagnia dell'attuaro, se lo fece sedere vicino e:
- Ella mi perdonerà, disse, se l'ho costretto a mettersi in viaggio di questa stagione.
- Non stia a darsi fastidio, signor giudice, fu anzi per me una buona occasione di scuotermi d'addosso la poltroneria.
- Quand'è così, tanto meglio. Intanto mi figuro che ella avrà già indovinato il motivo per cui l'ho fatto chiamare.
- Avendo saputo che la causa del colonnello Baroggi era stata affidata a lei, cavaliere, tosto ho imaginato che la mia chiamata dipendesse da questo oggetto. Le dirò anzi, che sarei venuto a Milano anche senza essere chiamato; perchè ho pensato che avrei forse potuto gettare qualche luce in quella materia imbrogliata. Or dunque, come stanno le cose? Ho sentito dal colonnello, che il suo avvocato non gli dà troppe speranze.
- Non so che dire. Se non si sa da qual parte è saltato fuori il testamento, tanto fa che avesse continuato a dormire dove dormì per sessant'anni.
Qui il giudice diede al Suardi una di quelle occhiate che assomigliano agli specilli dell'arte chirurgica. Esso, dal marchese F... per mezzo del conte Aquila, recentissimamente aveva ricevuto una lauta caparra, in anticipazione d'un più lauto compenso finale; di maniera che le bilancie della Giustizia nelle sue mani eran ridotte alla condizione di un orologio le cui sfere si menano a dito, a seconda dell'ora che meglio si desidera. Ma contuttociò, siccome era stato criminalista e aveva sortito dalla natura la smania dell'indagine legale, e aveva sempre riposta tutta la sua compiacenza nell'abilità di far cantare un delinquente; così e per impulso naturale e per abitudine di mestiere, sentì la tentazione di gettare un laccio al vecchio Galantino. Ma siccome le trappole anche meglio dissimulate sono viste alla lontana e scansate dai topi veterani, così il Galantino, ridendo fra sè e delle parole e dell'occhiata del giudice:
- Eh... pur troppo, rispose, sono anch'io del suo parere, signor cavaliere, e mi rincresce pel colonnello che ho visto nascere e a cui voglio bene; il quale, benchè siasi imparentato con una delle più nobili famiglie di Milano, il fumo non gli ha lasciato mai veder l'arrosto, perchè quello scavezzacollo di suo suocero ha portato via tutto ed ha mangiato tutto. Ma capisco anch'io che tutti i buontemponi, che si divertono alle spalle del prossimo, potrebbero tutti i giorni inventare dei testamenti, così a titolo di passatempo, mettere la confusione nei tribunali e la disperazione nelle famiglie.
- In questo caso però dovrebbero essere stati i buontemponi di sessant'anni fa.
E il giudice scandagliò ancora acutissimamente il Galantino.
- Questo io non lo posso sapere. Bisognerebbe che, al pari del signor giudice, avessi potuto vedere il testamento. La carta, il carattere, l'inchiostro… che so io… Io ho delle scritture di quaranta, di cinquant'anni fa, che nessuno direbbe essere di quest'anno. Una tale diversità, secondo me, dovrebbe già costituire un indizio...
- Come fa ella a dir questo?
- Io sto alle parole del signor giudice; per qual cosa ella ha parlato dei buontemponi di sessant'anni fa?
- Così per modo di dire…
Qui il Galantino diede al giudice una di quelle sue occhiate oblique, saettanti, lunghe. Parve, per un momento, che si fossero scambiate le parti.
Il cavaliere F… taceva.
- Ora, se è lecito, continuava il Galantino, domanderei a che oggetto ella mi ha fatto venire a Milano?
- Per sentire da lei tutto quello che potrebbe sapere in proposito.
- Ciò che so io è ciò che dovrebbero sapere tutti quelli che possono vantare una fede di battesimo al pari della mia...
- Ella però...
- Continui pure; cavaliere, e non abbia paura d'offendermi. Sì… io ebbi più volte dei replicati incomodi per questo malaugurato testamento... e parrebbe di dovere ch'io dovessi saperne più di tutti... ma in conclusione, io non posso dir altro se non che i giudici e avvocati e criminalisti sono come i medici, i quali in presenza di certe malattie, si trovano imbrogliati al pari di qualunque idiota.
- Come sarebbe a dire?....
- Mi perdoni, signor giudice; ma che in sessant'anni non si abbia mai potuto scoprirne nulla... è cosa che fa senso… per cui devo dire che quell'avvocato e quel giudice, il quale in tale occasione arrivasse a coglierne qualche filo, meriterebbe un posto d'onore vicino a quel professore di Pavia che ha inventato la pila.
- Non occorre che sia nè giudice nè avvocato... Ella che fu contemporaneo alla scomparsa inesplicabile di quel testamento, ella solo potrebbe avere i mezzi di acquistare tanta gloria...
E qui un'altra occhiata acuta e profonda.
- Tutto quello che potrò fare, lo farò, perchè mi sta veramente a cuore la sorte del Baroggi e di sua moglie; ma avrei bisogno di essere ajutato.
- Si spieghi.
- Intanto non reticenze.
- Vale a dire?
- Vale a dire che io vorrei sapere da lei se il testamento che tiene in sua mano ha i caratteri di essere stato fatto sessant'anni addietro o adesso? Un momento fa mi pare d'averglielo domandato, e non mi ha risposto.
- Davvero che non dovrei parlare. Ma a lei dirò, che quel documento ha tutti i caratteri della vecchiaia. La carta è ingiallita, l'inchiostro è svanito.
- Allora siamo in casa.
- Cioè?
- Bisogna cercare altre carte dell'autore del testamento.
- È un provvedimento che viene in testa a chicchessia... Ma non c'è più nulla, e non s'è trovato nulla...
- Io m'impegnerei a trovarne.
A queste parole, sul volto del cavaliere F... si svolse un'espressione involontaria che fu notata dal Galantino; non era l'espressione di un giudice che deve essere soddisfatto nel sentire che c'è uno spiraglio per riuscire a scoprire la verità.
Però il Galantino, che conosceva il marchese F…, ed aveva l'idea fissa che i giudici fossero tutti venali, si mise in sospetto.
- Suvvia dunque, continuava il cavaliere, sentiamo i suoi disegni.
- Sono semplicissimi, e non mi par vero non siano già venuti in mente ad altri.
- Ebbene, sentiamo.
- Tutta Milano sa, perchè è un fatto che fece gran rumore, e perchè, se la maggior parte dei padri sono morti, i figli hanno sentito a parlare i padri di tutte le circostanze di quel fatto stesso; che il notajo che assisteva il marchese F.... era il dottor Macchi, morto nel 1802, e di cui ogni due anni vedesi il ritratto esposto sotto i portici dell'Ospedale Maggiore. - Io so, e tra gli altri deve saperlo anche l'avvocato Strigelli, il quale ora è conte del Regno, che fu lo stesso Macchi che stese il testamento, perchè il marchese lo copiasse di proprio pugno. Quel notajo era tanto esatto che, certissimamente, deve aver tenuto copia di quello scritto; di più, è assai probabile che nelle cartelle abbia serbato anche qualche lettera del marchese defunto.
- Tutto va bene, ma se il notajo è morto...
- Mi lasci dire: io so che il notajo Agudio, nipote del famoso avvocato, che fece pratica presso il Macchi, acquistò tutti i libri e tutte le carte di lui. C'è dunque da mettere cento contro uno che presso l'Agudio si deve trovare quanto basta per distruggere ogni dubbio.
- Se tutti i disegni di lei stanno qui, rispose il cavaliere F... accigliato, non ne faremo nulla, caro signore. L'Agudio avrà conservato le carte di qualche valore, non delle lettere inutili, nè una minuta inutile di testamento. In ogni modo vedremo.
E il giudice si alzò, assumendo, per la prima volta in faccia al Suardi, quella dignità gerarchica che prima non aveva mostrato; e dicendo per conclusione del suo discorso:
- Nonostante le parole che abbiam tenute questa sera, avrò ancora ad incomodarla, signor Suardi; però la pregherei a volersi trattenere a Milano per qualche giorno ancora.
- Per un pajo di settimane io mi fermerò qui.
- Spero che basterà; e intanto le do la buona notte.
Ciò detto, partì.


XVII


Il Suardi si alzò, lo inchinò, e pensando fra sè:
- Vedo che siamo nel bosco della Merlata, e converrà tenere il pollice sul grilletto - uscì anch'esso a lenti passi dal Ridotto e risalì in palco.
Il giudice F…,appena partito, si recò nel palco del ministro Luosi a riferirgli il colloquio avuto col Suardi del quale però soppresse tutta l'ultima parte relativa al notajo Macchi ed al notajo Agudio. Lasciato il ministro andò poi subito in traccia dell'avvocato Gambarana, che era in teatro. Trovatolo, lo informò del dialogo avuto col Suardi, ma esponendogli invece esattamente quella parte che aveva taciuto al Luosi.
- Questo è un contrattempo, disse il Gambarana.
- Io non credo però che possano essere rimaste delle carte presso il notajo Agudio.
- Può essere e non essere; in ogni modo converrebbe che noi fossimo i primi a poter esplorare l'archivio del defunto Macchi.
- Fatelo.
- A me, non conviene.
- Con dei denari...
- Non mi conviene.
- Dunque?...
- Dunque tocca all'avvocato Falchi a tentare le indagini colà. Fatto da lui, nella sua qualità di patrocinatore del Baroggi, è un atto giusto e naturale.
- Ma non bisogna perder tempo.
- Domani mattina parlerò all'avvocato.
Scambiatisi di fuga tali disegni, il giudice e l'avvocato si lasciarono, entrando l'uno in un palchetto, l'altro in un altro.
Il giorno dopo, nelle ore pomeridiane (notiamo questo perchè, se fosse stato di mattina, i fatti avrebbero forse avuto altro avviamento), il Suardi si recò dal notajo Agudio.
Si fece annunziare, fu ricevuto, com'è naturale; ma trovò un uomo di un'agrezza quasi villana.
- Ella mi conoscerà.
- Non lo conosco niente affatto.
- Allora le dirò che è il medesimo signor giudice F... che m'ha fatto espressamente venire a Milano, per l'oggetto di cui le parlerò; e che sono qui perchè è già corsa intelligenza con lui.
- Dica presto, dunque, in che cosa posso servirla, perchè non ho tempo da perdere.
- So che ella ha conservato tutto il repertorio lasciato dal dottor Macchi.
- Ho conservato quel che ho conservato.
- È probabile però, che, avendo il Macchi prestato per molto tempo l'opera sua al marchese F... defunto sessantatrè anni fa, sieno rimaste nelle sue cartelle e lettere e carte e documenti di spettanza di quella casa.
- Può essere benissimo. Ma io non so, nè ho tempo di far ricerche. D'altra parte, siccome tutto quello che ho acquistato è di mia proprietà, così io non ho nessun obbligo nè di conservare quello che tengo, nè di mostrarlo altrui, nè di cederlo.
- Non c'è nessuno che voglia venir qui a fare il padrone in casa sua, signor dottore; ma è affare di coscienza, e una sola carta trovata può far saltar fuori quello che si pena a trovare da sessant'anni.
- La prego, signore, a non pigliarsi briga della mia coscienza, perchè di questa ne sono il custode io.
- Non voglio farmi padrone nemmeno della sua coscienza, caro il mio signor dottore; ma, siccome non deve costar molta fatica a guardare o a far guardare nelle cartelle che devono portar la data dell'anno, così pregherei la sua gentilezza, che, del resto, verrebbe pagata come si merita e profumatamente, a fare questa ricerca, la quale, in un minuto, potrebbe risolvere tutto, e determinare la sentenza dei tribunali intorno alla causa ch'ella ben conoscerà.
- La risposta che io ho dato a lei, che in faccia mia non ha veste nessuna nè di giudice, nè d'avvocato, nè di parte interessata, la darei anche all'autorità se venisse qui ad impormi quello che non ha il diritto d'impormi.
Il contegno e i detti dell'Agudio parvero, più che strani, inverosimili al Suardi; però, dopo aver taciuto un istante:
- Dunque, ho capito tutto, signor notajo, proruppe, alzandosi; ho capito tutto.
- Che cosa ha capito?
- Che è vero quel che mi fu detto. Sappia adesso ch'io non sono venuto qui che per fare una verificazione. Ora so di che si tratta... Le carte ed i documenti di cui le parlava, ella li ha già cercati e trovati e ceduti stamattina a chi non si doveva...
Il notajo Agudio fu scosso da queste parole, e si confuse al punto da farne accorto il Galantino, che rimase sorpreso alla sua volta, perchè avendo slanciata quell'asserzione all'avventata, e soltanto per tentare il terreno, non avrebbe mai creduto di dover cogliere così preciso nel segno. Ma rimase ancor più stupito per l'improvvisa scoperta di un turpe intrigo, di cui gli parve complice anche l'autorità.


LIBRO DECIMOSETTIMO


Giocondo Bruni, il conte Ghislieri e il conte di Domodossola. - Un'adunanza in casa del conte Aquila e il regno d'Italia. - Milano nel 1813. - I partiti. - Un dialogo tra il conte Aquila e madama Falchi. - Il vetturale Bernacchi Giosuè e il colonnello Annibale Visconti. — Il giorno 20 aprile 1814 e il ministro Prina. - Il capomastro Granzini, il ritratto di Napoleone dipinto dall'Appiani e il busto in gesso di Beauharnais.


I


Abbiam lasciato i coniugi Falchi al loro sonno, che non fu certamente quello del giusto, per ritornare in teatro onde assistere al colloquio tra il Galantino e il giudice F… e tener dietro alle sue conseguenze; ed ora ci convien staccarci dal notajo Agudio e dal Galantino per rifarci ventiquattr'ore addietro e ritornare di nuovo nelle sale del Ridotto.
Il nostro amico Giocondo Bruni erasi fatto guida al conte Aquila, al conte milord, ed agli altri che costituivano il partito italico assoluto, per vedere la faccia di un conte, che il Bruni aveva conosciuto a Parigi come emissario austriaco.
- È lui, assolutamente lui, disse il Bruni al conte Aquila, allorchè furono vicini a un tavolino da giuoco,
- Quell'ometto là piccino?
- Quello là appunto.
- Con quella faccia da coniglio?
- È una maschera naturale, che a lui serve benissimo.
- Gli avete parlato voi qualche volta?
- Non ho mai voluto mangiare di quella carne; però l'ho sentito a parlare molte volte, nè egli lo sa, nè mi conosce.
- Che cosa credete voi che sia qui per fare?
- Quello che faceva a Parigi: giuocare, perdere spesso, e mettersi al paretajo come la civetta, per attirare gli uccelli di brocca. Adesso giuoca, poi perderà. Scommetto che è già in perdita... Ecco qui, sentite, signor conte?...
Questa interruzione derivò dalle parole di due astanti, i quali dicevano:
- Ha un gran sangue freddo, colui... È già la terza volta che mette sul tappeto cento napoleoni d'oro; e al risolino continuo che fa si direbbe che è in guadagno.
- Vedete se ho detto vero, signor conte?... ebbene, fra un'ora va a cena con tutti quelli a cui ha riempito le saccoccie; e là parla di politica; compera per un pezzo; poi vende e fa propaganda. Alla mattina, poi, credo che riferisca il risultato dell'opera sua e mandi la cacciagione a Metternich e a Bellegarde.
- Converrebbe renderne avvertita l'autorità.
- Converrebbe certo. Ma chi se ne piglierebbe l'incarico? Io, no davvero, che stetti fuor di paese troppo tempo.
In questo punto entrò nella sala un personaggio ancor giovane, bene incravattato, che il conte Aquila salutò ed avvicinò.
- Guarda un po', gli disse questi, tu che sostenevi avere l'Austria deposto ogni pensiero della Lombardia.
- Che cosa?
- Vedi quell'ometto là, che giuoca, perde e ride?
- Sì che lo vedo... lo vedo e lo conosco.
- Oh!... Lo conosci davvero?
- Sì... è un prodigo senza testa. È venuto a Milano da poco tempo, e s'è innamorato della città nostra. Ha voluto persino farsi inscrivere nella guardia civica; per la sua generosità, lo si voleva nominare ufficiale; ma egli si accontentò di essere sergente.
Il conte Aquila guardò il Bruni come se pensasse: or chi di voi due dice il vero? Il Bruni non disse parola.
Questo ci raccontò poscia, tanti e tanti anni dopo, come ebbe a scoprire esservi stato accordo, tra quell'emissario austriaco, e colui al quale il conte Aquila aveva parlato. Chi poi fosse quel personaggio, è subito fatto intendere al nostro lettore, se appena egli ha l'abitudine a sciogliere sciarade e logogrifi.
Colui, dunque, noi lo abbiamo visto molte volte; e alla processione del Corpus Domini e ai Te Deum per gli anniversarj ed i giorni onomastici austriaci, col suo collo torto, colla sua aurata assisa di consigliere intimo, e colla sua fascia traversale bianco rossa dell'Ordine di Maria Teresa. Egli era conte, quantunque i suoi avi di sessant'anni prima avessero fatto carbone presso Ossola. Era ricchissimo, e di una ricchezza ereditata da un padre che, pur avendo usufruttata la pubblica fame, ebbe fama di uomo onesto, forse per l'effetto dei confronti. Ma siccome dev'essere vero che la farina del diavolo si converte in crusca, così tutta quella ricchezza fu da esso adoperata per la massima parte ad alimentare i magazzinieri delle indulgenze plenarie, ad ammorbare le pusille coscienze di pregiudizj e di bigottismo, a scapito della religione vera e del sincero progresso.
E il conte Aquila continuava ad interrogarlo:
- Sai tu almeno come si chiami questo prodigo sventato?...
- Il nome non me lo ricordo. Ma non credo ne valga la pena.
- E voi lo sapete? domandava poscia al Bruni.
- Sto appunto tormentando la memoria per richiamarmelo, ma non mi riesce. So per altro che è un conte, e un conte che conta assai poco in quanto a ricchezza; per ciò non si sa bene a che tesoreria vada a prender il danaro che sparpaglia a piene mani.
- Mi sembra, caro mio, continuava il conte Aquila rivolto all'altro conte, che questo signore, venuto or ora da Parigi, ne sappia più di te.
- Può darsi anche questo; ma torno a ripetere che non vale la pena di far tante indagini sul conto suo. Gli ho parlato due o tre volte, ed è un uomo perfettamente nullo.
Qui, un'onda di pubblico entrò nella sala, e scompaginò quei gruppi di persone che stavano intorno ai tavolieri.
L'Aquila, il Bruni e gli altri si trovarono divisi dal futuro consigliere intimo, e lasciarono il Ridotto.
Di lì a poco, il conte Ghislieri (che così chiamavasi quella civetta al paretajo):
- Per questa notte, disse, possiamo spegnere i lumi: chè s'è perduto abbastanza. Ora, se questi signori mi favoriscono, potrem passare il rimanente della notte al Gallo.
Il futuro consigliere intimo trasse allora per un momento in disparte il conte emissario, e:
- Stanotte, gli disse, continuatela pure in compagnia di quest'allegra brigata, ma domani partite.
- Perchè?
- Qualcuno ha messo gli occhi su di voi.
- Davvero? ma come mai?
- Il come non lo so; ma se vi avviso, è perchè desidero che le cose ben avviate non si guastino.
- Se parto, parto per ritornare.
- Ritornate, ma a suo tempo, ma quando il frutto sarà maturo. Intanto vogliate passar da me, prima di lasciar Milano. È arrivato da Parigi il marchese F..., che, quantunque sia un consigliere di Stato, è dei nostri. Troverete pure in casa mia alcuni de' meglio pensanti. Or vi saluto.
E il piccolo contino Ghislieri, emissario, spia di prima classe, anzi Gran Cordone di quell'Ordine, e sergente intruso della guardia civica, ritornò alla sua brigata e lasciò il teatro.
Il conte Aquila intanto, accompagnato da dieci o dodici del suo partito, era ritornato a casa. Com'era suo costume far sempre colla servitù, entrò accigliato e burbero nella stanza del guardaportone, che stava inferraiuolato innanzi ad un gran braciere:
- Tirate la campana, e chiamate i domestici di settimana. Presto.
Il guardaportone obbedì, s'affrettò, suonò la campana. Discesero i servi.
- Accendete fuoco nel camerone terreno. Presto.
I due servi obbedirono.
Il conte entrò coi colleghi nel camerone. Dopo alcuni momenti, una gran catasta di legna crepitava già e mandava scintille su per la cappa di un camino monumentale, con iscolture rappresentanti gli stemmi del casato.
- Andate a dormire, disse il conte ai due domestici. Solo il guardaportone stia sveglio finchè questi signori partiranno. Andate ad avvisarlo.
Quella società che s'era adunata in casa del conte Aquila, era composta da dodici a quindici persone, la maggior parte patrizj, quasi tutti ricchissimi, e per ciò influenti sul popolo della città e sugli abitanti della campagna. Tra essi v'era un B…, capo battaglione della guardia civica; un E... V…, giovane di straordinario ingegno e di altrettanta coltura, ma eccentrico e strano; un G... di Como; un V... di Lodi; il conte milord, l'avvocato Gambarana, ecc. ecc. Il nostro Giocondo Bruni, dal quale sappiamo tutto quanto verremo raccontando, fece parte anch'esso della comitiva, e come amicissimo del conte milord, e perchè aveva espresso degli intendimenti assai conformi a quelli del conte Aquila.
Intorno al gigantesco camino eran state disposte in semicerchio delle vecchie sedie di bulgaro a bracciuoli. Tutti sedettero. La catasta accesa illuminava la scena. La parte accessoria e pittorica di quell'adunanza pareva ne accrescesse l'importanza e il mistero.
L'E... V…, che era un ingegno letterario e caustico, e soleva parlare con epigrammatica amenità anche delle cose gravissime:
- Chi ora ne sorprendesse, cominciò a dire, ci piglierebbe per altrettanti personaggi del Noce di Benevento. Però sarebbe bene per un'altra volta radunarci più presto e scegliere un luogo men fantastico.
- Più presto non è possibile, osservò il conte Aquila, perchè ci bisogna a noi tutti di lasciarci vedere in teatro. In quanto al luogo, non fu fabbricato apposta, e poi ha il vantaggio di essere lontano da chi può vedere e sentire. Ma veniamo a quel che importa. Che cosa, o signori, pensate di fare? Jeri non si trattava che di cogliere l'opportunità che la Francia si sfasci, per liberarci di lei e fare da noi le cose nostre: oggi ci siamo accorti che, di dietro alla Francia che si va sprofondando come un fantasma da palco scenico, torna a spuntare lo spettro dell'Austria.
- L'affare è spinoso, osservò l'E... V...; pure, se il duca di Lodi avesse vent'anni di meno e non soffrisse di gotta, potrebbe raccogliere nelle proprie mani il supremo potere nel punto che tutte le acque fossero in alluvione. Il fatto di Bernadotte, che era un mangia carte e diventò re di Svezia, non farebbe parer strano che un privato, il quale è stato il vice Napoleone durante la Cisalpina e il Consolato, possa un bel giorno, dal voto nazionale, essere eletto re d'Italia.
- Il duca di Lodi, osservò il conte Aquila, sarebbe sempre un uomo stracco, quand'anche fosse sano e contasse vent'anni meno.
- Questo non sarebbe un ostacolo, basterebbe che piacesse al popolo.
- Ma se non può piacere, non se ne parli più.
- Per tener lontana l'Austria, e per disfarci di Beauharnais, bisognerebbe almeno che ci fosse un italiano, il quale, o negli ordini civili o nei militari, avesse talmente fermata l'attenzione dei suoi connazionali, che l'imitazione dei Longobardi che innalzavano sugli scudi il loro re eletto non sembrasse una burattinata. - Ma dov'è quest'italiano? Lo domando a te, che, per un mal inteso orgoglio, come ti dissi mille e mille volte, hai voluto sempre vivere in disparte.
Il conte Aquila tacque, ma il petto gli ansò forte per la sistole e la diastole dell'ambizione.
Chi aveva parlato non era adulatore, e sebbene per ingegno non fosse inferiore al conte, pur aveva di lui una stima gigantesca.
Questo fenomeno avviene spesso tra gli uomini, che taluni vengono apprezzati in ragione del nulla che fecero, e solo perchè alcune loro attitudini, viste in iscorcio e sotto ad una luce passeggera, lasciarono un'impressione di una grandezza virtuale non provata mai alla cote dell'azione e dei fatti. A ciò si soggiunga che, se essi hanno dato segno di qualità incontestabilmente superiori, e pur tuttavia, in opposizione della tendenza del più degli uomini, si tennero celati o comparvero in pubblico qualche volta per iscomparir subito, come il sole temporalesco; il buon prossimo se ne esagera talmente la potenza, da crearne tosto una divinità in fieri. Questo era veramente il caso del conte Aquila. Il suo carattere altero, la sua coltura ampia, la sua parola forte, cruda, tagliente, e quel mai non aver voluto imbrancarsi col resto dei viventi, avevano fatto concepire di lui un'idea così alta, che qualunque più eccelsa opposizione non pareva soverchia per lui.
- Io non credo, disse egli poi all'E... V..., che tu voglia pigliarmi in canzone: ma se hai la persuasione che, se io mi fossi accostato alle cariche o civili o militari, avrei fermata l'attenzione de' miei connazionali, pensa che non avrei potuto farlo se non imitando tutti quelli che diedero nell'occhio al pubblico: col girare, cioè, come un satellite intorno al sole di Napoleone. Ed è ciò appunto che non ho voluto fare. Se ci ha ad essere un capo italiano, un presidente, un dittatore, che so io? la parola re mi fa ribrezzo (il lettore non ci creda), deve essere appunto un uomo nuovo, che non abbia servito a nessuno, che non abbia avuto onorificenze da nessuno, che non sia stato nè Gran Cordone, nè Grande Ufficiale di nessun Ordine. Tu mi dirai che pure è necessario aver fatto qualche cosa in passato, a saggio e a prova dell'avvenire. Ma in questo caso ritieni che una pagina bianca vale meglio di una pagina tutta coperta di caratteri, dove alcuni luminosi pensieri sieno deturpati da propositi e da concetti servili.
- Tu parli bene, ma bisognerebbe farla intendere al popolo; ma bisognerebbe che Iddio volesse di nuovo pigliarsi l'incarico di ungere i re per mano di qualche Samuele. Anzi, il popolo oggidì non crede più nulla ai sacerdoti, poco a Dio, e vuol fatti e fatti e poi fatti. Non occorre che essi siano meraviglie sostanziali, ma che abbiano almeno la virtù di abbagliare il mondo.
- Tu hai ragione, e parli da quell'uomo che sei. Ma io ti so dire, che se in questi giorni io fossi eletto, per esempio, colonnello della guardia civica, con questa semplice carica, io saprei far miracoli.
- Lo credo, ma il colonnello non è morto e non vuol morire; nè vuol nemmeno cedere il posto.
- Io so, entrò allora a parlare il B..., capo battaglione della civica, io so che tu sei nella terna per essere nominato capitano del mio battaglione...
- E domenica, nell'occasione della rivista, una fascia ricamata in oro da mia moglie sarà appesa alla vostra bandiera e benedetta in piazza Castello…
- Ebbene, allorchè tu sarai nominato capitano, ti cedo subito il mio posto di capo battaglione. Io non faccio nessun sacrificio; e nelle tue mani può essere utile ciò che nelle mie non giova a nulla.
A queste parole succedette un po' di silenzio; l'avvocato Gambarana, uomo torbido, non amico, nè ammiratore di nessuno, e istintivamente oppositore:
- Faccio osservare, uscì a dire, che nelle osterie e nelle bettole si parla talvolta degli interessi del paese con più acume che altrove.
Egli pronunciò queste parole con una certa asprezza sardonica, perchè era stato nauseato dall'eccessiva ammirazione che l'E... V... avea mostrato pel conte Aquila; e perchè, più che strane, gli erano sembrate ridicole (e non aveva tutti i torti) le mal dissimulate aspirazioni di quest'ultimo.
- Allora tocca a voi, caro avvocato, soggiunse tosto l'E... V... colla sua causticità consueta, a fare in modo che noi possiamo aver l'onore di pensare come i frequentatori delle bettole e delle osterie.
- Vi è andata la mosca al naso più che a un filosofo non convenga, soggiunse il Gambarana, ma io non ho fatto che ripetere un passo d'oro di quel Rousseau pel quale voi andate in deliquio.
- Non mi ricordo del passo d'oro; ma quand'è così, continuate.
- Una di queste sere, mi trovavo all'albergo del Gallo col mio praticante Valesi. V'era gente di tutte le qualità; ma il più eran mercanti, giovani di banco, bottegaj, gente che voi altri signori avete il torto di non voler mai nè avvicinare, nè sentire. Parlavan tutti alla distesa e alla libera; e parlavano appunto del tema corrente; si venne persino, come abbiam fatto noi stanotte, a mettere in questione: Chi mai fra gl'Italiani avrebbe avuto le qualità necessarie per tenere in mano, pel momento almeno, le redini del governo, quando mai le grandi potenze, troppo caricate d'affari, ci avessero lasciati in vacanza. Tutti tacevano e pareva che nessuno sapesse dove dar la testa, quando uscì a dire un giovinotto:
«Diavolo! a me pare poi che d'uomini adatti ce ne sia più d'uno. Ma, a caso disperato, v'è un tale che non può a meno di saltare agli occhi di tutti. - Sentiamo, sentiamo, gridavan gli altri. - Non è vero, proseguiva colui, che Murat, il quale nacque in casa di un oste e fece il postiglione per qualche tempo, diventò poi re di Napoli? I tempi si sono cambiati, e Napoleone ha fatto vedere che non è più necessario di trovar la corona bella e fatta nel ventre della madre. Or bene, noi in casa nostra abbiamo un tal uomo, che nacque di casato distinto, che ebbe un'educazione compiuta, che fece prodigi di valore, non in una nè in due, ma in una dozzina di battaglie, al punto da destare l'invidia persino del vicerè; un uomo, un soldato, un generale che è adorato da tutto l'esercito italiano. E non potrebbe dunque costui essere il re d'Italia? Viva il re Pino, gridò allora un altro... Viva, viva, gridarono tutti. - Finalmente abbiamo trovato il re, e un re di cavalli!
«È un gran difetto che abbiam noi Italiani, quegli proseguiva, di disprezzare tutto ciò che è nostrano, e di volere a tutti i costi fare acquisto della roba forastiera. E com'è degli uomini, così è delle mercanzie e di tutto. Il vino di Francia ci avvelena, ma si paga mezzo marengo al boccale: noi con sedici soldi si beve un vino che fa resuscitare i morti: se venisse di Francia, non lo beverebbero che i gran signori. Ma vivaddio, che il re è trovato, e se il nostro disgraziato paese arriverà finalmente ad avere e ad apprezzare un re nostrano, tutto il resto verrà da sè e tutte le piaghe si chiuderanno.» - Così diceva quel giovine, non so se mercante o lavorante; ed ora domando a voi tutti se non parlava con fior di senno?
- Molte volte ho pensato anch'io al general Pino, osservò il conte Aquila; ma senza giro di frasi, vi dichiaro schiettamente che io abborro il regno della sciabola. Quando un soldato si fa capo di uno Stato, tutti gli ordini della società vanno a fascio e la caserma diventa il Sancta sanctorum.
«Del rimanente (continuò) qui non si tratta di andare a cercare dei re; si tratta di provvedere al modo di tener lontana l'Austria; e d'impedire che l'incapacissimo Beauharnais abbia ad acquistare un regno nel punto stesso che Napoleone perde un impero. Pino sia pure, chè lo merita, il generalissimo delle truppe italiane; ma lo Stato deve essere governato dalla toga e non dalla spada. Che se si volessero ancora dei re o, se anche non volendoli, ci fossero imposti dalle grandi potenze vittoriose e tutte monarchiche e tutte paurose d'altre forme di governo; v'è pure in Italia e a poche miglia da noi un re di antichissimo ceppo italiano, la storia della cui dinastia è una epopea continua di battaglie, di vittorie e di gloria. Ma questo, per ora, è un discorso immaturo. Ciò solo che dobbiam pensare a far oggi è di premunirci contro gli attentati dei servili, i quali rappresentando la nazione senza regolare mandato, potrebbero, data l'opportunità, mercanteggiarla a loro beneplacito e per loro uso e consumo. Ma per ciò fare, conviene appunto metterci in possesso di qualche forza, di una forza materiale, voglio dire, di una forza armata; questa noi l'abbiamo in una istituzione a cui oggi nessuno pensa, perché è considerata come uno spettacolo da parata e da teatro; ma che nelle mani di chi avesse la virtù di pensare, di calcolare e sopratutto di volere, potrebbe diventar poderosa e onnipotente da un momento all'altro. Ecco perchè desidero che voi altri tutti entriate a far parte della guardia civica; ecco perchè m'affannai per avervi grado di capitano; ecco perché da mia moglie feci trapuntare una ciarpa da consacrarle in dono; ecco perché avrei carissimo se potessi essere capo battaglione o colonnello. Or m'avrete compreso, o signori, e a rivederci domani».
La seduta fu sciolta; tutti partirono; il conte stesso li accompagnò al portone. Disse al custode, sempre in tuono burbero: - «Ora puoi andare a dormire»; e senza più altro, salì nei proprj appartamenti. Quantunque fosse ora tardissima, il conte, entrato in camera, non andò a letto. L'opposizione dell'avvocato Gambarana gli aveva dato gran noja, e in quanto a sè, pentivasi di aver messo innanzi il nome del re di Piemonte. All'intento di mascherare le proprie aspirazioni, più che temerarie, strane ed incredibili, egli aveva giuocato di dissimulazione e d'astuzia. Ma gli pareva d'essere andato troppo oltre, tanto più che quella proposta ei la stimava di tal natura da mettere d'accordo tutte le opinioni controverse. Esso aveva l'ingegno robusto e la veduta sicura e, quasi diremmo, infallibile, ogni qualvolta pensava e giudicava senza passione. In quel momento che, per mettere a tacere vittoriosamente l'avvocato, gli era occorso dimenticarsi di sè stesso, la sua mente sgombra gli aveva fatto vedere d'un colpo ciò che nessuno allora avrebbe pensato, e che doveva poi sembrare una scoperta tanti anni dopo; ma appena fu solo e lasciò le verità generali per l'interesse proprio; e l'ambizione che in lui quasi toccava il grado di quel che si chiama ramo di pazzia, tornò ad esaltarlo, non sappiamo qual cosa avrebbe fatto per ritirare quella proposta.
Ai nostri lettori, al pari che a noi, un tal fatto potrà sembrare, più che incredibile, assurdo: ma quanti abbiamo interrogato di coloro che avvicinarono il conte e poterono leggergli in fondo all'anima, alla quale di tanto in tanto eran guida ed interprete alcune sue fuggitive espressioni, ci assicurarono che l'idea di poter mettersi alla testa degli Italiani e di recarsi in mano la somma del potere, lusingò davvero per qualche tempo l'amor proprio di quell'uomo strano, le di cui più alte e più nobili attitudini vennero turbate dall'eccesso dell'orgoglio e dalla mancanza di cuore.
Quando il conte fu per mettersi a letto, rammentandosi della ciarpa destinata per la guardia civica; si recò nel gabinetto della contessa, scoperse il telajo, e gli sembrò che il lavoro fosse in ritardo e mancasse il tempo necessario ad apprestarlo pel dì della rivista. Il sangue a tal pensiero gli andò al capo; tirò, strappò più volte il campanello. Comparve un servitore in mantello e mutande, tutto rabbuffato.
- Chiama qui la Maria, presto! gli disse il conte.
Venne una donzella discinta e sgomenta.
- Tu e la tua padrona, che avete fatto in questi giorni? Nemmeno in un mese avrete finito.
Le parole non eran che queste; ma l'aspetto del conte faceva paura, ma la sua voce era così forte, così furibondo l'accento, da mettere a rumore tutta la casa.
Destata infatti da tutto quello schiamazzo, comparve la contessa frettolosa e tremante, e avvolta in un ampio scialle.
Il conte la guatò, la saettò, la coperse di contumelie.
Ella diede in un dirotto pianto; piangeva la donzella, l'una e l'altra supplicavano e promettevano.
Tutta la famiglia era in iscompiglio.
Quasi ci fu men terrore nelle case di Priamo, quando le fiamme avvolsero Troja.
Tanto è feroce e spietata e demente un'anima ambiziosa!


II


La condizione della città di Milano, nel dicembre dell'anno 1813, presentava i sintomi di una malattia, come suol dirsi, di carattere, ma di cui era difficile a prevedersi e a prefinirsi la qualità, la gravezza, la durata e la riuscita. Lavoravano in lei molteplici elementi occulti, che ad esplodere o a ritirarsi inoffensivi aspettano l'esito di circostanze superiori e fatali.
Nei primi mesi dell'anno successivo, quei sintomi si vennero sempre più aggravando. Le cause nascoste di tanti effetti futuri e contingenti a seconda delle funeste notizie che venivan dal campo della guerra, uscivano dallo stato d'aspettazione nel quale ad intervalli si adagiavano, per agitarsi nel campo dell'azione ed accelerare i desiderati rivolgimenti.
Abbiamo detto che molti partiti in quel frattempo si vennero costituendo in Milano. V'era quello di chi voleva un regno d'Italia indipendente con Beauharnais sul trono. E chiamavasi il partito delle marsine ricamate; ma vi appartenevano tutti coloro che, per combinazioni dirette e indirette, avevano potuto raccogliere molte ricchezze sotto al governo francese. A tale partito (ciò che a tutta prima può destar meraviglia, ma che diventa chiaro dopo qualche esame) appartenevano, pure sebbene col semplice desiderio e senza azione efficace, tutti quelli che dalla natura avevano sortito il senso retto dello cose, che nella vita avevano imparato a fare i conti sempre in compagnia dell'oste; e che, vivendo di libere entrate o di pensioni molto ipotecate, o di proventi non attaccabili dal flusso e riflusso degli eventi sociali, potevano vedere la condizione della patria, come spettatori seduti in platea, i quali giudicano il dramma senza essere nè parenti nè amici dell'autore.
Ma costoro, com'è naturale, non solo erano in pochissimo numero, ma conducevano una vita, che equivaleva al non essere, perchè non parlavano mai con nessuno, non dicevano mai il loro parere a nessuno; e se al teatro, all'osteria, al caffè venivano trascinati repentinamente nel vortice del tema consueto, sfoggiavano tosto tutta la loro bravura nella così detta arte delle cavatine. Care persone, ma meno utili delle cariatidi di molera; orologi perfetti e precisi, ma senza sfera che indichi l'ora.
Un altro partito era quello dei vili, degli indifferenti, degli immobili, dei materialoni, degli imbecilli e dei bigotti; per conseguenza era il partito monstre e, pur troppo, era quello che aspettava l'Austria come un tocca e sana.
Quasi tutte le casane milanesi che avevano i servitori coi passamani; quasi tutti i monsignori, i mezzaconici, i canonici, i cappellani corali del Duomo, di S. Ambrogio, di S. Babila e di S. Celso vi erano naturalmente aggregati. Un terzo era il partito di cui abbiam già parlato e del quale conosciamo i personaggi: il partito italiano puro; puro però sino ad un certo segno; perchè il suo agitatore principale, se aveva la mente sana, aveva il cuore guasto. Gli uomini poi di grande ingegno, di gran cuore, infervorati dell'amor di patria, non costituivano veramente un partito; tanto era scarso il loro numero! Essi vedevano l'Italia in quel periglio che avevano preveduto, ma non nutrivano speranze per l'avvenire e non si attentavano di suggerir rimedj. Erano irritati di tutto e contro tutti, e, sebbene lor paresse che delle sventure la men grave fosse ancora il principe Beauharnais fatto re d'Italia, pure non osavano consigliare ai mali d'Italia un rimedio non italiano. Ugo Foscolo era tale da rappresentare la schiera meditabonda e disdegnosa di questi solitari.
Tornando al primo partito, a quello che veniva generalmente chiamato il partito delle marsine ricamate; dobbiamo aggiungere che se l'appellazione era giusta, era pur vero che in mezzo a quelle marsine v'erano degli odiatori accanitissimi del vicerè e del nome francese e di quanti venivan denominati i servili. Odiatori non liberi nè indipendenti nè equi, ma sovreccitati da interessi privati, da offese ricevute, da speranze frustrate.
Tutti gl'impiegati che non erano stati nominati al posto ambito; che s'eran presentati inutilmente a qualche udienza vicereale; che dal principe o da qualcuno dei ministri avevano ricevuto, o credevano d'aver ricevuto, delle ingiustizie, tutti costoro soffiavano a piena gola nel pubblico malcontento, per tenerlo sempre desto e perchè si risolvesse alfine in un vasto incendio.
Per citare qualche esempio, il giudice cavaliere F... da qualche tempo era diventato il più feroce e il più impaziente di tutti. E la ragione ne era chiara. Egli era stato chiamato dal Luosi a dar conto del suo operato nel fatto della causa Baroggi: con sorpresa udì dal ministro, come il vicerè avesse scritto, che, al suo ritorno a Milano, avrebbe dato corso rapidissimo alla giustizia; con terrore apprese inoltre che il colonnello Baroggi e il signor Andrea Suardi s'erano espressamente recati a Lubiana per parlare al vicerè, al quale avean esposto, come nello studio del notajo Agudio dovevano esser state acquistate, allo scopo di farle scomparire, delle carte d'importanza, sufficienti a comprovare l'autenticità del testamento; del qual fatto forse consigliatore e complice, per più indizj, pareva essere lo stesso giudice del tribunale.
Bene avea dovuto accorgersi che il Luosi, timoroso di sè per le future contingenze, mentre con insolita severità gli avea parlato della collera del vicerè, avea tuttavia dato a divedere di non voler farsene l'interprete nè il più attivo nè il più sollecito; e a prova di questo gli bastò avere il gran giudice lasciato passare alcuni giorni prima di chiamare a sè e d'interrogare il notajo Agudio; forse per dar tempo di far scomparire le traccie del fatto a chi aveva potuto aver mano in esso. Ma se il vicerè tornava, ma se quelli che lo volevan re d'Italia avessero avuto il sopravvento; in che tremendo spineto egli veniva a trovarsi! E nello stesso pericolo trovavansi pure avvolti e fatti compagni solidali l'avvocato Falchi, e, più di tutti, il marchese F..., avuto riguardo alla sua carica di consigliere di Stato, cui era stato nominato dallo stesso Napoleone, a dispetto e all'insaputa di Beauharnais che, non si sa per quali ragioni, avea sempre detestato quel patrizio milanese.
Immaginiamoci ora dunque quale efficace e terribile influenza dovessero esercitare tutte queste persone variamente autorevoli e potenti su tutto il pubblico vessato ed espilato in cento modi, e più recentemente percosso da un'ultima requisizione sterminatrice, che fu l'uno per cento messo ai capitali impiegati con ipoteca sui fondi dei debitori, e da pagarsi dai medesimi in proporzione che si spogliavano i registri; requisizione che doveva involare al popolo altri sessanta milioni. Al cospetto di questo fatto enorme, tutti i partiti, tutte le classi si fondevano in una massa sola, vasta, cupa e mugghiante. E il ministro Prima, che era l'autore spietato e imperterrito di quelle tasse, riceveva sopra di sè, perché era presente, tutti i colpi dell'odio pubblico preparati per il vicerè assente, in nome del quale venivano estorte.
La cosa pubblica e le vicende private de' nostri, personaggi versavano in queste condizioni alla seconda metà del mese di marzo dell'anno 1814. La campagna di Francia, nella quale Napoleone inutilmente era stato soprannominato il Centomila uomini, precipitava al suo fine. Il cielo politico, lungo tutta la zona d'Italia e Francia, andava sempre più tempestosamente annottando. In quella notte buja gli uomini dell'azione lavoravan celati. La guerra dei partiti e degli uomini individui che capitanavano opposte fazioni veniva fatta all'oscuro. Il conte Ghislieri sotto mentite spoglie era tornato a Milano in fretta e in furia. Era il corvo che chiamava altri corvi, per calar tutti insieme e d'accordo dello Stato alla carogna. Il conte Aquila coi suoi aderenti, dal proprio palazzo avea trasportato la sede dei convegni in casa Falchi, specie d'albergo politico, molto simile a quelle osterie sinistre, dove l'oste e l'ostessa fanno da manutengoli ai contrabbandieri, e in un bisogno scannano anche gli avventori.
Una sera appunto del marzo di quell'anno fatale, il conte Aquila trovavasi in casa Falchi, solo con madama.
- Sono già le undici e non si vede nessuno, ella diceva.
- Nè verrà nessuno per questa sera. Ho detto ai soliti amici, ch'era meglio sospendere questi ritrovi serali. Nel pubblico è trapelato qualche cosa. È meglio stornare ogni sospetto. D'altra parte, già son gente che bisogna condurli a mano, e non c'è nessuno che abbia iniziativa.
- Me ne sono accorta anch'io. Son brave persone, ma da adoprar solo al momento, senza preavvisi. Ma intanto, signor conte, come vanno le cose e come stiamo a notizie? Lo sparo del cannone di jeri mattina ha fatto cessar per un istante il fermento della popolazione.
- Non ci credete.
- Non ci credo.
- Sono gli estremi giuochi del bussolottiere. Si ha bisogno che il pubblico rimanga sopraffatto dalla notizia di nuove vittorie, e creda in Napoleone sempre morto e sempre vivo. Ma la Pasqua di risurrezione non fu che una privativa di Gesù Cristo. Intanto con questi stratagemmi, la popolazione pagherà senza andare in collera la tassa dei capitali ipotecati che ci ruba una cinquantina di milioni, e la nuova contribuzione di sette milioni, posti sull'estimo, sui piccoli mercanti, e sui possidenti. Intanto la campagna provvederà le recenti requisizioni di frumento, fieno e biada, senza osare di rispondere colle forche e colle zappe.
- Jeri io fui in campagna.
- E così?
- È tutta una polveriera. Un po' di paglia accesa, e lo scoppio si ha da sentir fino a Parigi. Quei villani irritati hanno detto che alla prima mia parola saran tutti qui.
- Lo stesso succede nelle campagne degli altri nostri amici. Ma non basta.
- Come non basta?
- Se io fossi il general Pino, o soltanto il colonnello della Civica, allora direi d'aver le redini in mano e di poter frustare i cavalli per dove meglio mi parrebbe.
- Ma non fate voi le funzioni di capo battaglione?
- Sì... finchè B... si trattiene a Parigi. Ma ciò non basta; caporale e capo battaglione vale lo stesso. Bisognerebbe che tutta la Civica dipendesse da me.
- Se il colonnello Visconti fosse dimesso, o si ritirasse, o gli venisse un accidente, dico così per dire, voi sareste sicuro di salire a quel posto?
- Avrei per me il novanta per cento.
- Allora bisogna pensarci.
- Non c'è via nessuna; è un'idea da mettere in disparte.
Madama Falchi non rispose nulla a quelle parole del conte, perchè non c'era da risponder nulla. Ed in quella sera divagarono ad altri argomenti; nè forse avrebbero pensato mai più alla carica di colonnello, nè al marchese Visconti che la sosteneva, nè alla possibilità di rimoverlo con qualche stratagemma, se non fosse sopravvenuto un accidente dei più strani, e fuori affatto da ogni previsione. Ecco ciò che avvenne.
Tre o quattro giorni dopo, madama Falchi ebbe occasione di far delle visite. Non avendo ancor messo carrozza, ogni qualvolta non voleva andar a piedi, prendeva a nolo un fiacre di lusso da un tal vetturale che stava in Santa Maria Podone e si chiamava Bernacchi Giosuè. Era questi un bel giovinotto di trent'anni; sedeva egli stesso a cassetta quand'era ai comandi di madama e, quantunque fosse il padrone, indossava in quelle occasioni una magnifica livrea con lavorini, panciotto rosso, lucerna con passamani e stivali a trombini. Quando madama mandava a chiamarlo, soleva egli stesso, due o tre ore prima del bisogno, andare in persona a prendere gli ordini da lei. Quest'incomodo che si pigliava non era indispensabile, ma a quel vetturale giovinotto e benissimo piantato piaceva moltissimo madama. Era una bizzarria come qualunque altra; ma anche le bizzarrie hanno le loro origini prime e le loro cause remote. È dunque a sapersi, che, molti mesi addietro, intanto che madama stava abbigliandosi, il Bernacchi venne a prender gli ordini; ed ella, trasandata com'era e proterva, lo aveva fatto entrar senza tante cerimonie.
Colui stuzzicato da un certo spettacolo voluttuoso, ebbe l'ardire di far dei complimenti a madama con certe frasi involute di scherzo e di rispetto, ma non senza qualche presa di petulanza. Madama sorrise, gli diede del matto, ma non andò in collera. Ella era di quella medesima stoffa carnale onde la natura avea largheggiato allorchè mise al mondo colei che doveva diventar la donna dell'impero vasto, che fu l'eroina del Poema tartaro di Casti, e per le solite viltà degli uomini abbacinati, doveva dalla storia venire giudicata una sovrana di genio. E la Falchi, meno l'impero e meno i granatieri, andava molto soggetta agli estri di Caterina la Grande.
Tornando al fatto, madama Falchi mandò a chiamare il vetturale. Questi, secondo il solito, venne di mattino a prendere gli ordini. Fu fatto introdurre. Essa era a letto.
- Oggi, gli disse, verrai alle due dopo mezzodì col tuo più bel fiacre.
- Alle due io sarò a' suoi comandi.
- Hai molto a fare in questi dì?
- La miseria va crescendo tutti i giorni, signora, e chi non ne ha molti, ama d'andar a piedi. Perfino i gran signori, quando hanno bisogno di me, non vogliono pagar quasi più nulla. Anche ieri poco mancò non venissi alle mani con un prepotente.
- Oh, com'è stata? racconta.
- Se mi son frenato, è perchè colui aveva le spalline.
- Qualche generale francese?...
- No... un nostro milanese... il marchese Visconti...
- Quale?
- Il colonnello della guardia civica.
- Hai fatto male a non lasciargli un ricordo.
- Sì, per andare in galera...
La Falchi tacque un momento; era sopra pensiero... infine si alzò in sui gomiti, come per cambiar positura; in quell'atto le trine della camicia si scomposero alquanto.
- Signora, io vado via subito.
- Che diavolo hai?
- Quando mi trovo in questa stanza, mi par di girar sullo spiedo e mi sento bruciare...
- Oh diamine!
- Voglia almeno aver la bontà di nascondersi nella coltre, sino alla testa. Ah signora, che cosa io farei per...
- Bada, briccone, che tiro il campanello; e qui avendo ella steso il braccio e la mano verso la corda, rivelò delle proporzioni romane e delle tinte venete.
- Senti, continuò poi, se io venissi a sapere che tu hai data una buona bastonatura al colonnello, e fosse tale da obbligarlo a letto per qualche mese, ti assicuro che verrebbe la mattina in cui tu saresti contento di me.
Dette queste parole, alzò dietro il capo simmetricamente ambe le braccia, quasi per accomodarsi le treccie; il qual movimento le rovesciò fin alle spalle le maniche della camicia.
- Tu dunque devi avermi compreso, proseguiva intanto; e lo guardò a lungo, come chi adopera gli occhi invece delle parole.
La faccia del giovane vetturale erasi infuocata come quella di un ubbriaco.
- Ora puoi andare, soggiunse. Alle due non mancare; domani o dopo avrò ancora bisogno di te, e ti manderò a chiamare.
Egli la salutò e partì, e quando fu per lasciar la casa, sbagliò l'uscio e si trovò in cucina, tanto era attonito e fuori di sè.
Questo colloquio tra il Bernacchi Giosuè e la Falchi avvenne il 19 marzo. La sera del 25 la bottiglieria del Cambiasi dirimpetto alla Scala era piena zeppa di curiosi che parlavano e s'interrogavano a vicenda.
- Ma dove avvenne l'aggressione? chiedeva uno.
- Precisamente sulla piazzetta del Bocchetto presso al Demanio.
- Il ladro si avventò con uno stilo.
- E il colonnello?
- Il colonnello era stato ad ispezionar le ronde e le pattuglie, e se n'andava pei fatti suoi. Sebbene colto all'impensata, fu lesto a cavar la pistola che mise alla faccia del ladro, il quale venne ferito in una mandibola.
Queste voci corsero la sera del 25 marzo; e il dì successivo, dopo che il chirurgo Monteggia ebbe estratta la palla dalla guancia del presunto ladro, si seppe che l'aggressore non era un ladro altrimenti, sibbene un vetturale che faceva buonissimi affari, e si chiamava Bernacchi Giosuè.


III


Quando la notizia dell'aggressione del colonnello Visconti e del colpo andato a vuoto e della pronta di lui difesa, insieme colla più grave che l'aggressore era stato il vetturale Giosuè Bernacchi, vennero all'orecchio della Falchi, ella, per quanto fosse perversa e imperterrita, ne ebbe un tale sgomento da sentire per la prima volta in vita sua che cosa fossero le irrequietudini convulse. Per un momento ella si tenne perduta, pensando che l'aggressore, sottoposto a un esame criminale, probabilmente avrebbe messo fuori il suo nome, esponendola ad uno scandalo inaudito e facendola segno dell'ira pubblica. Ma la fortuna maledetta, che si compiace di far l'interesse dei malvagi, condusse le cose in maniera che il Bernacchi, o fosse veramente in una violenta alterazione mentale, provocata da una eccezionale esaltazione erotica, quando pensò di assalire il colonnello; o l'operazione chirurgica della mandibola fracassata, interessando le parti più delicate del capo e affini del cervello gli avesse prodotta una infiammazione violentissima, il fatto sta che ei diede in tali escandescenze delire, che dalla perizia medica fu giudicato essere in istato di alienazione mentale; e però, tolto al processo criminale, venne trasportato al manicomio della Senavra, per essere assoggettato a cura normale. La Falchi a questa notizia si riebbe, respirò, e riacquistò quell'appetito vorace ch'erale abituale, e che l'oppressione patologica delle facoltà digestive le aveva per alcuni giorni sospeso.
È inutile il dire che il conte Aquila in quella congiuntura, come di consueto, venne a farle visita, e solo e insieme con qualche suo collega; è inutile il dire che il ferimento del colonnello Visconti fu più d'una volta il tema dei loro discorsi. Ma giova che il lettore sia messo a parte della seguente frazione d'uno di quei dialoghi.
- Anch'io, disse un dì il conte Aquila alla Falchi, vo d'accordo in questo con Napoleone. Voglio dire che ho una grande credenza nel destino. Però questo fatto del colonnello mi ha messo sottosopra. Si vede che il destino ha fatto di tutto per giovarmi, e tentò quella via appunto che a me pareva la sola efficace. Ma non c'è riuscito nemmeno lui. Bisogna dunque cambiar strada. Oggi mi dimetto dalla supplenza di capo battaglione, e rassegno anche il grado di capitano. O tutto o niente - già lo dissi. O aver la Civica in pugno, o uscir dalle sue file, perchè non voglio trovarmi obbligato all'altrui comando, nè essere impedito di tentare quel che ho in testa.
E il conte fece infatti come disse. Prodotta una ragione plausibile, lasciò il grado di capitano, e si recò per alcuni dì in villa a meditare un nuovo piano di battaglia.
Intanto i tristi giorni si venivano avvicinando. Si era già oltre la metà d'aprile; il conte Aquila fece venire a Milano a proprie spese alcuni uomini che vivevano di contrabbando, furiosi tutti contro il governo, e segnatamente contro il ministro Prina, perchè da qualche tempo faceva esercitare dalle guardie di finanza che stavano al confine svizzero una vigilanza così insistente e rigorosa, che a coloro non rimaneva più che consegnarsi o morir di fame. Il conte che, e per il fatto del colonnello Visconti e per altri ostacoli che non gli pareva di poter superare a seconda delle proprie vedute, s'era venuto attiepidendo, si sentì riardere d'ira e di vendetta a certe parole della Falchi che astutamente gli tornò a parlare dell'offesa fatta dal vicerè alla povera contessa di lui moglie.
Alla sua volta, l'avvocato Gambarana avea fatto venire in città alcuni barcajuoli del Ticino, che dalle nuove gabelle erano stati ridotti a mordersi le mani per mangiare. La vasta polveriera dell'ira pubblica era dunque tutta spalancata ai quattro venti, quantunque i tizzi incendiarj stessero in mano di pochi. Non si aspettava che un'estrema notizia da Parigi, la quale, come un colpo di cannone, fosse il segnale di lasciarveli cader dentro. E il colpo alfine tuonò, che doveva provocare il dì nefasto del venti aprile.
Già noi ci siam diffusi intorno ai varj partiti che s'eran costituiti in Milano durante la rovinosa guerra di Francia i quali, nell'aspettazione quasi generale di una catastrofe che inghiottisse l'imperatore e l'impero, stavan tutti in agguato, coll'arme al braccio, pronti a balzar fuori improvvisi e ad operare giusta i preparati disegni e i diversi intenti, all'estremo segnale che fosse venuto da Parigi. Codesto segnale, sebbene per Napoleone fosse tutto finito sin dal giorno 11, non giunse a Milano con tutti i caratteri della certezza che il 16 aprile. I partiti principali e d'azione, il lettore non se lo sarà dimenticato, erano tre. Quello delle marsine ricamate, ossia dei sostenitori del vicerè; quello del regno d'Italia indipendente con un re italiano; il partito austriaco. Il più numeroso era l'ultimo, è inutile dissimularlo. Il più possente avrebbe potuto essere il primo. Ma il secondo partito, non avendo un piano ben determinato e negli estremi giorni essendosi ingrossato di uomini più odiatori del nome francese che desiderosi del bene della patria, non servì che a togliere ogni potenza al primo partito, per darla tutta al terzo, il quale essendo già il più numeroso, diventò presto il più potente. Il partito italiano puro ebbe inoltre a subire delle defezioni in sull'ultimo. Tra gli altri, l'avvocato conte Gambarana, o perchè non patisse la preponderanza soverchiatrice del conte Aquila, o perchè veramente avesse cangiato opinione, s'era staccato da esso e dai colleghi, per unirsi al consigliere di Stato Marchese F... suo cliente, ed al conte di Domodossola. Nella casa di costui iva e rediva, colla alterna prestezza di un postiglione, quel marchese o conte Ghislieri di Bologna, il quale metteva in comunicazione la tenda campale di Bellegarde, col quartier generale del partito austriaco residente in Milano, e capitanato appunto da due patrizj, per stortura d'intelletto funestissimi rinculatori del secolo e ristauratori inclementi di ogni ordine antico che la libertà redentrice del pensiero aveva respinto.
Nè questo partito era destinato a prevalere per le sole ragioni suaccennate; ma più ancora perchè l'azione impaziente e furibonda dei capi del secondo partito doveva cadere a suo totale beneficio.
Ognuno sa come il duca Melzi, nella notte del 16, mandasse invito ai senatori perchè si radunassero il dì dopo, affine di deliberare intorno ad un suo progetto di decreto, e spedire una deputazione alle alte potenze per chiedere la cessazione delle ostilità, l'indipendenza del regno, ed un re nella persona di Beauharnais. Ognuno sa che Prina e Paradisi, nel desiderio del Melzi e di tutti i fautori del principe, dovevano essere i deputati. Ognuno sa che il conte Guicciardi fu il più fiero impugnatore del progetto del duca Melzi; e che il conte Carlo Verri esplicitamente dichiarò in Senato, che il principe non avrebbe mai avuto il suffragio della nazione, chè troppi e da troppo lungo tempo erano i dolori e i lamenti e gli odj che aveva provocati in paese. Ognuno sa inoltre che, sebbene il presidente del Senato Veneri avesse raccomandato che ogni discussione e deliberazione rimanesse nell'alto segreto dell'aula senatoria, pure il pubblico venne invece a sapere tutto quello ch'era avvenuto là dentro, al punto che alla sera, nel ridotto, nella platea, nei palchetti del teatro della Scala, nei caffè, nelle osterie, nelle bettole, la condotta del Senato, il carattere, i diportamenti, le parole di ciascun senatore furono i temi generali di tutte le discussioni e di tutti gli alterchi.
Dai diffusi rumori di questa gran voce del pubblico si potè allora comprendere che il senatore Carlo Verri aveva avuto ragione; si potè comprendere che la maggioranza assoluta dei Milanesi era così avversa al nome di Beauharnais, che i suoi nemici dovevano avere facilissimo il giuoco nell'abbatterlo; e che i due partiti, quello dell'indipendenza e l'austriaco, così contrarj negli intenti, s'eran trovati, senza saperlo, confederati ed uniti nel tentar l'ultima prova sul campo di battaglia. I villici e i barcajuoli del Ticino assoldati dal conte avvocato Gambarana furono per tal modo sostenuti dai contrabbandieri del conte Aquila, e da un capomastro guidatore di una coorte di muratori pagati dalla Falchi.
Sorse così il giorno 20 aprile. Era un giorno cupo e piovigginoso. Si sapeva che il Senato doveva adunarsi, secondo il consueto, verso un'ora dopo mezzodì. Lungo i boschetti vicino al palazzo del Senato da qualche tempo prima di quell'ora passeggiavano sparsi drappelli di persone. Quegli sparsi drappelli rappresentavano tutte le gradazioni della società, tutti i toni dello spirito pubblico; dall'apprensione calma e ragionevole di chi pensa e pondera il male ed il bene senza passione e senza ira, fino all'impazienza e alla concitazione fremebonda di chi vuol tagliare ogni nodo senza indugio e senza ponderare nè il meglio nè il peggio. Si vedevano uomini ben vestiti, giovinotti eleganti, parecchi ufficiali della guardia civica in uniforme; si vedevano gironzare lungo la roggia che lambe il giardino della Villa Reale alquante giacchette di velluto e di fustagno, che di tant'in tanto si fermavano ad adocchiare d'intorno, con guardature sinistre e provocanti.
Alcune persone d'aspetto tranquillo e signorilmente vestite, tenendosi discoste dagli altri crocchj, discorrevano fra di loro.
- La giornata vuol essere torbida.
- Oggi i senatori pagheranno anche la sopratassa del loro stipendio.
- Pare anche a me. Più d'un'uniforme deve andare all'aria.
- Ma quel che più mi fa senso è che, mentre da noi tutti si sente il temporale nelle ossa, l'autorità non se ne dia punto per intesa.
- E a me par tutto il contrario.
- Come?
- Può darsi che io mi pigli un abbaglio; ma l'autorità... voglio dire la polizia e il comando militare... par che desiderino dar mano a quelle berrette e cappello che vedete laggiù. Stamattina dunque tutta la gendarmeria è uscita da porta Orientale; perchè? in Milano non vi è un mezzo battaglione di coscritti; perchè? mentre a Cremona ci son due reggimenti di granatieri e due squadroni di cavalleria, non si potevano far venire a Milano, dopo tutto quello che, in seguito all'ultima seduta del Senato, ad alta voce si disse in pubblico?
- Il general Pino è venuto jeri.
- Questo lo so; ma a far che?
- Che sia stato lui a fare uscire la gendarmeria di città?
- Potrebbe darsi, ma a qual fine?
- Gli avranno scritto che tutta la popolazione di Milano è avversa alla nomina di Beauharnais e vuol fare una tumultuosa dimostrazione al Senato; ed egli avrà pensato di lasciarla in piena libertà di tentar tutto quello che vuole.
- Chi sa che cosa rumina nella sua testa il general Pino?
- Che abbia preso sul serio il progetto di alcuni matti?...
- Non sarei lontano dal crederlo, quantunque ei sia buono, semplice e liberale; ma egli ha tanto il vicerè sulle corna, che per potergli dire: - Io, che tu volevi umiliare, sono diventato il re d'Italia, e tu sei una livrea in fuga, - potrebbe perdere la tramontana e mettersi a discrezione dei matti.
- Frattanto, in tutto ciò che si sta preparando, io vedo una rovina irreparabile.
- Prima di far cattivi pronostici, stiamo a vedere il risultato della deputazione.
- Che risultati vuoi tu attendere? se oggi il Senato va all'aria, domani i Tedeschi son qui. Quel capitano dalmato, col quale fummo jeri sera al caffè dei Servi (mi pare che si chiamasse Radonich) e mi ha tutta l'aria d'essere un emissario e un emissario astuto ed esperto, ha detto che vi è un patto segreto d'alleanza tra l'Austria e le alte potenze, pel quale, quando la pace fosse fermata, essa può conservare dell'Italia soltanto la parte che avrebbe conquistata durante il tempo della guerra.
- Ma questo mi parrebbe un vantaggio per noi.
- Se si stesse queti, sì... e se il Senato avesse ottenuto di proclamare Beauharnais a re d'Italia. Quel Dalmato rivelò il passo del trattato segreto, per stornare ogni sospetto d'ingerenza austriaca. Ma quando parla un agente prezzolato, un emissario, una spia, si coglie la verità a interpretare tutto al rovescio. Bellegarde ha dunque bisogno di trovarsi a Milano prima che la pace sia conchiusa. Vi pare che ciò sia chiaro?
- Fino a un certo punto sì. Ma se Beauharnais si è reso odioso e insopportabile a tutti; che pro se ne avrebbe ad assumerlo per re?
- Allora non si parli d'indipendenza; giacchè per scartare Beauharnais, bisognerebbe che noi avessimo in guardaroba una scorta di re italiani belli e fatti, perchè le alte potenze potessero scegliere. Mi fanno ridere quelli che propongono il general Pino; ma ci vogliono dei precedenti, i miei cari, e il solo Beauharnais sarebbe possibile, e perchè ha ancora un esercito, e perchè è parente di re, e perchè si sa che è carissimo all'imperatore di Russia. Molti dicono: Murat era un postiglione, Bernadotte era un avvocato, ed hanno potuto diventar teste coronate; e il general Pino, se si guarda alla schiatta, è in miglior condizione di loro. Ma fu una mano onnipotente che coronò quei primi, non un popolo in ribellione, che non sa nemmeno quel che si vuole.
Intanto che questi tre galantuomini parlavano tra loro con tutte le doti che dovrebbe avere lo storico di Quintiliano, ossia con tanta tranquillità e freddezza che, se tutti gli abitanti di Milano fossero stati della loro tempra non sarebbe mai avvenuto nulla di sinistro; gli altri sparsi drappelli avean lasciati i boschetti solitari. E a un tratto s'udirono alquanti fischi acutissimi che venivano dalla parte del naviglio, interrotti da alcuni fuggitivi battimani. Quelle persone accorsero allora per vedere di che si trattava. Dinanzi alla porta del Senato era addensata una mediocre folla di popolo. Coloro si avvicinarono, e per quanto fossero amici del quieto vivere, attratti dalla curiosità, s'internarono fra quella al punto da mettersi in prima fila. Da varie parti venivano i carrozzoni dei senatori. La folla faceva ala alla lor venuta. Un uomo che alcuni affermarono essere un cameriere del conte Aquila, altri un servitore del conte Castiglioni, teneva tra mano uno scaleo da sagrestia, e ad ogni carrozzone che si fermava, vi saliva, guardava dentro lo sportello, e diceva ad alta voce i nomi dei senatori che ad uno, a due, perfino a tre vi eran seduti. - Presidente Veneri - gridava quello con voce stentorea. - Un lungo fremito, con fischi lacerati e tali da passar le orecchie, fu l'ora pro eo di quella nuova litania. - Conte Armaroli, Condulmer, Bruti - altri fischi come sopra. - Conte Cavriani - nuovi fischi con esacerbazione. L'astronomo Oriani - battimani d'entusiasmo. La gloria della scienza non aveva lasciato tempo di pensare al colore politico. - Conte Carlo Verri - qui la folla non solo battè palma a palma, ma quando il Verri discese, molti gli furono intorno a complimentarlo in cento maniere e a raccomandargli la salute del paese, e che continuasse a tener le redini a tutta quella canaglia di senatori.
Di tal modo e con tal processo e successo sfilarono quasi tutti i carrozzoni senatorj. - A questo punto la folla era cresciuta. A questo punto quel capo mastro, di cui un nostro amico ci diede il nome e cognome, ed era un Antonio Granzini, staccatosi di mezzo a' suoi compagnoni, andò chiedendo a tutti se non era ancor venuta la carrozza del ministro Prina. A questa domanda, chi si alzava nelle spalle come a dire: ne so molto io? Chi rispondeva: sarà entrato cogli altri senatori. Ma dalla maggior parte de' discorsi e delle risposte colui potè arguire che il ministro Prina non era venuto altrimenti, come non era venuto nemmeno il conte Paradisi, forse perchè, essendo stati esclusi dall'incarico della deputazione, alla quale avevali proposti il duca di Lodi, e avendo trovato una concorde opposizione in tutti i colleghi, avevano creduto bene di non presentarsi in Senato. Quel capomastro rimase assai sconcertato a tale notizia, e ritornò accigliato in mezzo al drappello dei suoi. Questo gruppo d'uomini, che per la qualità speciale del vestito furono dagli astanti giudicati muratori e facchini, finchè non avvenne nulla di nuovo in quella folla ognora crescente, eran l'oggetto degli sguardi e delle congetture universali. Ma a un tratto ogni attenzione si distolse da loro, perchè da Sant'Andrea sboccò sulla piazzetta una compagnia di guardia civica a farsi strada fra la turba, a collocarsi davanti al portone, a dire al capitano di piazza Marini, che volevano essi far la guardia al palazzo, e che però venissero rimandati i soldati di linea, per la maggior parte coscritti, a cui erasi dato quell'incarico.
Il capitano di piazza salì allora nell'aula senatoria a presentare quella domanda al presidente Veneri, il quale subito accordò che il palazzo venisse custodito dalla guardia civica piuttosto che dalla truppa di linea. In questo frattempo il conte Durini, podestà di Milano, aveva spedito al presidente del Senato quella famosa dichiarazione, che venne firmata da più che 140 persone, nella quale si rappresentava al Senato stesso che «nelle straordinarie vicende in cui versava il paese, era necessario invocare straordinarj provvedimenti, e che però i sottoscritti credevano necessario, in coerenza dei principj della costituzione, che fossero convocati i collegi elettorali, nei quali solamente risiedeva la legittima rappresentanza della nazione.» La notizia di questo messaggio del podestà corse tosto tra la folla. Si dicevano i nomi dei primi che comparivano in quella lista, e fece senso che il general Pino fosse in testa a tutti.
A questo punto, disceso il capitano Marini col permesso del presidente, la guardia civica scacciò bruscamente dai loro posti i soldati di linea, e strappò i fucili a quelli ch'erano alla porta immediata della sala della seduta. Avvenuto questo, come quando il temporale s'addensa ed è prossimo lo scroscio della gragnuola, corse un orribile fermento nella folla, che s'addensava sempre più e si stringeva presso alla porta del palazzo. Al di sopra del vasto mormorio della moltitudine si faceva sentire la voce tuonante del conte Aquila: - «Noi vogliamo la convocazione dei collegi elettorali; noi vogliamo che si richiami tosto la deputazione del Senato.» E qui tra il capitano Marini e lui avvenne un fiero alterco. Diceva il capitano al conte, che il Senato era già entrato in seduta, e che invece d'innalzare delle grida plebee, manifestasse i suoi voti ai senatori stessi. Rispose il conte che ciò non potea fare, per non avere nessuna veste di rappresentanza; e senza dar più retta al capitano Marini, continuò per un pezzo a parlar alto al popolo, il quale, eccitato dalle sue parole, irruppe a furia nel palazzo, per impedire che il Senato continuasse nelle sue deliberazioni.
Al rumore che si udiva nell'aula senatoriale, agli urli di minaccia, il conte Verri, come quello ch'erasi accorto d'essere in molta grazia del popolo, si offrì di uscire a parlargli e acquietarlo. Prima comparve accompagnato dai senatori Massari e Felici. Alla vista di lui scoppiò un applauso generale; egli tentò parlare, ma il rumore vasto copriva la sua voce. Rientrò allora nell'aula; e crescendo gli urli e le minaccie, tornò ad uscir solo. Ma parlò ancora inutilmente, perchè non era possibile intendersi tra chi aveva bisogno di calma e una turba d'uomini che schiamazzava per tirar tutto al peggio. Questa intanto, che per un pezzo si era trattenuta nel gran cortile, animata dalla stessa guardia civica, ma più che mai dal conte Aquila, che pallido e tremendo come Catilina, la eccitava «a salvare il paese dall'assassinio dei ladri togati che tentavano di scavare l'ultimo abisso alla patria col volerla prostituita al più scellerato di tutti», ascese irruente le scale, invase i corridoj, si addensò nell'anticamera dell'aula. I senatori tremavano; le parole di minaccia erano esplicite. Allora col conte Verri entrarono nella sala della seduta il capo battaglione Ballabio, l'amico del conte Aquila, e il quale, come uomo di mite animo, tremava di dover essere complice di una strage; ed entrò con lui il capitano Bossi. Gridavano molti senatori: Che cosa infine si vuole da noi? Rispose il Bossi: Richiamate la deputazione. - Convocate i collegi.
Il conte presidente Veneri non era della tempra del senatore Romano che percosse quel Gallo il quale aveva osato toccargli la barba; ned era disposto a morire con arte come un gladiatore. Tremava come una foglia, e si voleva salvare senz'arte e a qualunque costo. Alle parole del capitano scrisse dunque tosto, e senza nemmeno interpellare i colleghi: «Il Senato richiama la deputazione e riunisce i collegi» e consegnò il foglio al Bossi; e allorchè questi rientrò, dichiarando al presidente che il popolo voleva sciolta la seduta, il presidente, a cui tardava di respirare un po' d'aria aperta e sana, incontanente tornò a scrivere con una rapidità desiderabile in uno stenografo: «Il Senato richiama la deputazione, riunisce i collegi elettorali e scioglie la seduta.» Di questo decreto trenta copie furono fatte in sull'istante dai segretarj e distribuite al popolo.
I senatori allora usciron tutti queti queti per una porta segreta. Il Verri prese con sè tre o quattro dei più odiati, e per conseguenza dei più tremanti; li raccolse nel proprio carrozzone, e come il Ferrer di Manzoni aveva fatto col povero vicario di provvisione, raccomandò loro di rannicchiarvisi in fondo in fondo, mentre egli, affacciandosi alternativamente ai due sportelli, avrebbe tentato di stornare la vista del pubblico.
Nè alcun senatore ebbe a patir violenze nè offese, se non ai timpani delle orecchie, orribilmente percosse dai fischi estremi.
Tutto adunque pareva che dovesse esser finito; ma il popolo, quando si è acceso, è come un ebbro: più si tenta di placarlo e più gli si dà ragione, e più s'infuria, peggio poi se c'è qualcuno che ad arte lo riaccenda.
Il conte Aquila, appena irruppe nell'aula senatoria, in capo alla folla ululante, si avventò percuotendo col pomo di uno scudiscio la testa del busto in gesso di Beauharnais, che rotolò giù per i gradini dell'impalcamento dov'era il tavolone presidenziale; e mentre altri, salendo sul tavolone stesso, strappò dalla parete da cui pendeva e trapassò con un colpo d'ombrello il ritratto ad olio di Napoleone dipinto dall'Appiani, egli stette a contemplare quella testa divelta dal busto, la fracassò d'un colpo di piede, e disse: Or regna e bacia le donne altrui. Il Bruni eragli al fianco e udì quelle parole, e supplicandolo di rimettersi in calma, quegli invece, più esasperato che mai, afferrò alcune suppellettili dorate e le scagliò fuori delle finestre. Il popolo lo imitò. Sedie, tavole, specchi, stufe, orologi, perfin le vetriere, perfin le porte, tutto fu manomesso, fracassato, gettato nella strada sottoposta.
Nè bastò ancora; il furore aveva messo la benda a tutti; i più scellerati approfittarono di quella cecità ubbriaca. Gli emissarj austriaci, che non pochi erano già in Milano, ghignavano che gli uomini dell'indipendenza lavorassero così efficacemente a pro dell'Austria.


IV


Appena l'aula senatoria fu smantellata, e le suppellettili, state gettate sulla via che rade i boschetti, furon raccolte da coloro che non mancano mai alle dimostrazioni tumultuose, come gli stelloni alle aste, la folla si diradò e si disperse affatto. Ma c'era quel drappello d'operai in giacchetta, che lasciando il palazzo del Senato e prendendo per la via di S. Andrea, camminava di mala voglia perchè non pativa che il tumulto dovesse finire così presto; e ciò che più loro cuoceva, che l'oggetto principale a cui volevano dar la caccia, miracolosamente non fosse comparso in iscena. Giunti nella via della Sala, trovarono altri sparsi drappelli che si fermavano di tant'intanto. Avevano anch'essi quell'aspetto, quell'andatura, quel piglio tra il tediato e l'iracondo che di solito assumono i bassi operaj quando hanno abbandonato il lavoro consueto e quotidiano, e aspettano impazienti di poter dar opera a qualche cosa di straordinario e di sedizioso. Il capo-mastro Granzini, che, in mezzo a dieci o dodici uomini suoi dipendenti, vide coloro da lunge, capì che eran pasta da usufruttare assai bene e da mescolare a quella ch'egli aveva già sotto mano: affrettò quindi il passo, e come fu loro presso:
- E che si fa? gridò.
Quelli si volsero, e si fermarono, guardando biechi chi loro parlava a quel modo.
- E che si ha da fare? Quel che fatto è fatto.
- Il bello non è ancor venuto, galantuomini. Su, dunque, andiamo a fare una visita al ministro Prina; e se il ministro non c'è, andiamo a vedere il suo appartamento.
Allorchè quella squadra d'uomini fu allo sbocco della via della Sala, un'altra accozzaglia. procedente dalla corsia dei Servi, s'addensava nella via dell'Agnello. Quantunque fossero persone di apparenza civile e tenessero spiegati gli ombrelli, pur camminavano concitati coll'irruenza di un torrente in alluvione. Gridò allora il capo mastro in mezzo a suoi: Alla casa del Prina! Al qual grido, come se fosse una parola d'ordine: Alla casa del Prina! fu risposto da una voce sonora, e che molti asseriscono essere la voce del conte Aquila. Questo grido ebbe l'effetto di un comando militare; tutti si mossero uniti come ad assalto determinato: Il ministro non è in Milano - s'udì allora a gridare un'altra voce. Nessuno seppe da chi fossero pronunciate quelle parole, ma dev'essere stato un cocchiere dello stesso Prina, che, uscito un momento prima dalla casa in cui serviva, e sentendo quelle minaccie, ritornò a corsa indietro e giunse in tempo per avvisare il portinajo di sbarrar subito le imposte. Ecco perchè quando quella torma si presentò e si fermò innanzi alla casa del ministro, ognuno si meravigliava che fosse già chiusa a quel modo. Le persone dalle seriche ombrelle, stettero allora irresolute, quasi pensando che non c'era a far altro. Ma, con sorpresa generale, quei dieci o dodici uomini in giacchetta, a guisa di soldati che sfoderano le armi al comando del capo, prima agitarono in alto i martelli, che seco avevano portato con premeditato proposito; poi si scagliarono percuotendo di conserva sui battenti della porta e gridando: Aprite. E in quel punto per disgrazia venne loro un ajuto inaspettato. D'improvviso fu vista la figura di un vecchio alto, in maniche di camicia, col capo scoperto, canuto ed arruffato. Egli s'era fatto largo tra la folla con impeto giovanile. Volgeva intorno sguardi da ossesso, e colle due braccia alzate mostrava a tutti una spranga di ferro, di quelle che servono di leva; una tanaglia, dei chiodi, e una corda, e gridava a tutti con una concitazione furibonda, che faceva sgomento e ribrezzo a un tempo: Lo inchioderemo qui su questo battente, appena lo avremo ammazzato. Avanti or dunque e sfondiamo la porta.
Vorremmo sapere se Manzoni, quando con tanta efficacia di pennello descrisse quel vecchio vituperoso che aveva proposto di fare altrettanto collo sventurato vicario di provvisione, abbia disegnata l'orrida figura colla reminiscenza di questo modello tolto dal vero.
Ma che cosa avveniva nell'interno del palazzo? Una di quelle scene che rinnovano sempre i brividi nel ripensarle. I servi erano entrati nello studio del ministro, tremanti anche per sè stessi. Signor padrone, gli dicevano, si nasconda, si salvi - scappi. Insieme col ministro era un suo cugino, che per la pietà del parente aveva assunto un aspetto minaccioso con tutti: minaccioso ed iracondo persino col ministro. Ecco il frutto della vostra ostinazione maledetta. Ecco a che ci troviamo per non aver voluto partire. Vi fu un momento di silenzio. Si sentiva dal basso la furia dei martelli percuotenti la porta. La figura alta e scarna del ministro era appoggiata allo scrittojo. L'atteggiamento rivelava uno sforzo di dignità superstite; ma tremava come una foglia dalla testa ai piedi. E in quel punto stesso, perchè un lampo fuggitivo di speranza venisse ad accrescere l'orrore di quella scena, cessò a un tratto nella via il rimbombo dei colpi di martello, tacque il mugghio della folla, e si sentì invece a qualche distanza lo scalpito prolungato della cavalleria. Erano infatti i dragoni della guardia reale che attraversavano la piazzetta della Scala. Come la folla erasi dileguata al sonito della cavalleria, e i manigoldi avevano per poco abbandonata l'infame impresa, così il ministro ebbe un tremito di reazione e si credette salvo. Ma i dragoni della guardia reale procedettero quieti per S. Margherita come se nulla fosse; laonde la folla tornò indietro, e i manigoldi con più furore di prima tornarono all'assalto. I colpi spesseggiarono con più orrendo frastuono. Il ministro uscì allora in uno di quei gridi soffocati che mandano gli epilettici quando vengono assaliti dal loro malore; piegò le ginocchia e sembrò svenire. Il cugino e i servi lo presero, lo trassero fuori dello studio, a braccia lo portarono all'ultimo piano. Incuorato dai servitori, il ministro si riebbe alquanto e tornò in sè. Ma in quel momento tutti si accorsero al rumore più intenso e vicino che il palazzo era invaso. I servi fuggirono. Il cugino disse al ministro: Nascondetevi là in quel camino, presto. Poi uscì anch'esso, calcandosi il cappello in testa, e, senza essere notato da nessuno, s'imbrancò poscia colla marmaglia che ululante saliva per le scale come fiamme di un incendio che già raggiunge e soverchia il tetto.
Quando il popolo invase la casa del Prina, si credeva generalmente che il ministro non fosse in Milano; tanto è vero che in sul primo, senza più darsi pensiero del ministro, tutti quelli che erano entrati si diedero tosto ad abbattere usci ed antiporti, a fracassar vetriere, a gettar nel cortile e nella via tutte quelle suppellettili che non eran portabili a mano, a depredare e ad appropriarsi le più preziose. Quei manuali poi, muratori o fabbri che fossero, capitanati dal Granzini e da quel vecchio vituperoso che si chiamava Fontana, e da un figlio di costui feroce come il padre e notissimo a Milano per la sua vita di prepotenze e di misfatti, salendo sul terrazzo della casa costrutto a giardino pensile e tutto all'intorno circondato da grandi vasi d'agrumi, si diedero tosto a lavorare per demolire, precisamente come se fosse loro stato ordinato da qualche autorità di atterrare quel palazzo per lasciar sgombra un'area. Cominciarono dal levare l'inferriata che circondava il fastigio, dallo smuoverne le pietre che servivano di tetto e di pavimento, dallo scoprirne e denudarne la travatura. Compiuta quest'opera con rapidità non credibile, discesero agli altri piani a levar tutte le inferriate delle scale, delle ringhiere, dei poggiuoli. In questo frattempo il general Pino, chiamato dalla gravità enorme del fatto, pedestre era accorso colà ed era entrato in palazzo. Egli sapeva che il Prina era a Milano, credeva inoltre che fosse in casa, onde s'affrettò per salvarlo; ma dopo aver sfidato tutto l'urto spaventoso della folla, dalla quale, per quanto ei fosse carissimo ai Milanesi, ebbe pure qualche insulto, partì per avere sentito che il Prina era altrove. Una orrenda fatalità avea davvero decretato l'eccidio dello sventurato ministro, perchè se il Pino si fosse indugiato appena alcuni minuti, forse colui sarebbesi potuto strappare al furore del popolo. Ma il Pino non poteva esser giunto in fine della via del Marino, che una voce gridò: Badate che il Prina è in casa nascosto.
Questa voce in un baleno passò di bocca in bocca. Il Granzini capo mastro la sentì e gridò subito ai suoi: Se c'è, si ha a trovare. Cercate e frugate dappertutto. Il Fontana padre e figlio stavano in quel punto strappando l'inferriata della scaletta che metteva alla camera dove il Prina erasi rifugiato. Giunsero in capo alla scaletta, là v'era un uscio: l'uscio era chiuso, chiuso per di dentro; l'atterrarono di un colpo; pareva che quelle belve avessero sentito l'odore della preda. Pochi uomini erano là. Una persona civile, che i Fontana non conoscevano, entrò quasi nel medesimo tempo in quella camera con loro. Entrò nel punto che il ministro stramazzone stava per essere azzannato. Quell'uomo con voce soffocata: Centomila franchi, disse, duecentomila, un milione per voi, se tacete e lo salvate.
Il Fontana figlio mandò un grido feroce a quelle parole; lo sconosciuto atterrito fece in due salti la scaletta e fuggì. (I due Fontana narrarono quel fatto qualche tempo dopo, vantandosi d'aver rifiutato un milione. Chi fosse poi quello sconosciuto non si potè mai sapere; forse era lo stesso cugino del ministro.) Scoperto il Prina, afferrato da quei feroci, tutto fu finito per lui. Lo fecero discendere. Alle grida: È trovato, è trovato, si empì di gente il corridojo che metteva alla scala ed alla stanza fatale. Contemporaneamente il general Pino, sentito da altre voci che il Prina non era uscito, aveva tosto spedito il general Peyri, mantovano, per placar la folla e salvare il ministro. Ma lungo la via, il generale, raffigurato da taluni per lo stesso Prina a cui somigliava, non sarebbe riuscito a salvarsi, se non fosse accorso lo stesso Pino per toglierlo all'ira pubblica col testimoniare chi esso era veramente.
Nè più nessuno ormai avrebbe potuto stornare la catastrofe della tragedia orrenda. Nell'interno del palazzo aveva già cominciato a sfogarsi l'ira pubblica, diventata repentinamente una furiosa demenza. Cogli ombrelli, coi bastoni, coi pugni, coi piedi percuotono il ministro, lo strascinano nel cortile, lo denudano dai panni ond'è coperto, lo portano in una stalla, tutto sudicio e immelmato, lo mostrano per ischerno alla folla da una lurida finestra della stalla medesima. Un urlo spaventoso di gioja diabolica alza la turba a quella vista, mentre quelli che lo tenevano lo lascian cadere a capo in giù tra quella turba istessa.
Nell'atroce parapiglia, alcuni uomini forti e generosi, insieme con altri che forse avevano altro fine, lo strappano alle mani della folla e lo trasportano nel palazzo Blondel già Imbonati. Ma i due Fontana e gli assassini, vedendo quel fatto, furibondi discendono sulla via, spezzano la calca a minaccie di martelli, s'avventano alla porta di casa Blondel. La porta si riapre, succede una mischia; i più feroci vincono, e preso ancora il ministro, lo trascinano di nuovo tra la folla che mugghiante prende per piazza S. Fedele e S. Giovanni alle Case Rotte. Il Prina domandava il confessore. Lo si consegna per questo a un vinattiere, che aveva bottega sull'angolo delle Case Rotte. Succede un po' di tregua. Qualche pietà si fa strada negli animi della moltitudine. Il padrone della bottega nasconde il Prina sotto un tino, colla speranza di salvarlo. Ma il vecchio Fontana, che per poco s'era allontanato, ritornò tra la folla e sembra che della propria rabbia inesplicabile riaccenda tutti quanti. Si chiama a gran voce il Prina, si assalta l'uscio della bottega, si minaccia ferro e fuoco al proprietario - la bottega è aperta - entra il Fontana cogli altri, cercano dappertutto e trovano il Prina che loro si offre semivivo. Qui ebbe fracassata la testa, vuotata una occhiaja, sfiancate le reni - e qui spirò.
Il cadavere fu preda della bordaglia inferocita per altre quattr'ore. Nelle vie per dove esso veniva trascinato, le donne che s'affacciavano esterrefatte cadevano svenute.
Battevano le ore nove all'orologio della piazza dei Mercanti, e il cadavere stava ancora nelle mani della folla. Allo sbocco della via dei Bossi... una squadra di guardie civiche sentì il lungo ululato, e vide le fiaccole che rischiaravano l'orribil scena. Deliberarono di farla finita; incrociarono le bajonette, respinsero la folla, s'impadronirono del cadavere.... lo trasportarono nel Broletto; di qui a notte alta fu trasferito e deposto nella chiesa del Carmine; verso l'alba nel Campo Santo detto La Mojascia.
E in quella sera stessa, e non molti se lo rammentarono, si videro già in volta per la città alquante assise bianche d'ufficiali austriaci. Il conte Aquila si rincasò in preda alla più cupa costernazione. Ma la Falchi, anche dopo aver veduto a passare più volte sotto le proprie finestre la folla assassina, potè tuttavia dormire indifferente la consueta sua notte.
Fidi al nostro intento di non rivelar che cose nuove o assai poco conosciute, avevamo divisato di omettere la relazione di questa famosa giornata; ma assai ragioni ci determinarono a scriverla. Di quella funesta sommossa uscì a Parigi, come i più devono sapere, una memoria storica con documenti fin dal novembre del 1814; nella stupenda lettera apologetica del Foscolo vi sono alquante pagine dedicate a quel fatto; esiste una relazione di esso stesa dallo stesso Carlo Verri, che fu presidente della Reggenza; sul fine dell'anno 1859, quando la verità della storia potè uscire all'aperto, venne pubblicato a Milano un breve racconto di quell'avvenimento, scritto da un cittadino bresciano, che ne fu testimonio oculare; a Novara, nel 1860, coi tipi di Agostino Pedroli, venne in luce un volume intitolato: Milano e il ministro Prina, narrazione storica tratta dai documenti editi ed inediti per M. Fabi. Libro commendevole come riassunto, nel quale senza rivelazioni nuove venne raccolto in fascio tutto quello che prima era stato scritto sparsamente. In tutti questi lavori è deposto, per così dire, il processo verbale di quanto succedette all'aperto e sotto i medesimi occhi del pubblico, ma non si penetra nella vita intima degli uomini e delle famiglie. Sono vedute prospettiche della parte ortografica dell'edificio: ma l'occhio non intravede spaccati; vi si narrano gli effetti e le conclusioni ultime, ma delle origini prime non si tocca, ma non si risale alle cause; o se qualche volta loro si accenna, sono esse volgarissime e già da molti anni di dominio pubblico, nel medesimo tempo che non bastano a sciogliere nessun nodo, nè a distruggere nessun dubbio; nè per loro, rimanendo pur sempre alla superfice delle cose, ci è dato di gettar mai uno scandaglio nel profondo del terreno, che non fu nemmeno smosso. Colla varia forma d'arte, noi dunque abbiam tentato di adempire a ciò che in quelle memorie indarno si cerca.
Ed ora dobbiamo aggiungere, che il sig. Giocondo Bruni seppe da quel Guerrini, domestico in casa Falchi, che all'alba di quel dì stette a lungo colla padrona un uomo mal vestito e di tristo aspetto; che alla sera di quel dì medesimo, allorchè l'orribile tragedia era finita e il cadavere del ministro Prina già stava nella sala anatomica della Mojascia, quell'uomo ritornò in casa Falchi; ch'egli ebbe un lungo alterco colla padrona; che per parte di lei e di quell'omaccio s'udirono frasi e parole che pareva di essere all'ergastolo; e che tutto finì in un lungo silenzio, non rotto che dal suono, per alcuni istanti continuato, come di monete che si contassero.
E qui, se si chiude il periodo storico che potrebbe intitolarsi dal ministro Prina, ci rimangono però a fare altre rivelazioni, per mettere a nudo alquanti misteri ond'è ancor buja la catastrofe di quella tragedia. Ma, come vedrà il lettore, la sede naturale di tali rivelazioni non può essere questa, ma la successiva, che potrà essere designata sotto il nome della Compagnia della Teppa. In essa verrà in iscena l'uomo ignoto che all'alba ed alla sera del 20 aprile ebbe colla Falchi lunghi e torbidi colloqui; in essa farà una nuova comparsa il vetturale Giosuè Bernacchi, nell'occasione che dal manicomio della Senavra sarà licenziato come ristabilito in salute; in essa verranno ripigliate tutte le fila che in questa rimasero sospese.
Intanto, come conclusione al presente episodio, noi faremo al lettore le domande seguenti:
Il conte Aquila sarebbe diventato un così fiero nemico di Beauharnais, se questi non avesse baciato la moglie di lui alla festa di corte dell'anno 1810?
Senza di ciò, non pare al lettore che il conte sarebbe stato invece un gran sostenitore del vicerè?
Se colui, sempre per avversione al vicerè, che aveva il brutto vizio d'impacciarsi per simpatie ed antipatie degli interessi privati e influire arbitrariamente sul corso della giustizia, non avesse subornato un giudice assai autorevole allora a Milano, e ridottolo al punto di abusare della propria carica, avrebbe trovato in esso un complice tanto attivo da rivoltare contro al governo francese quasi tutta la massa dei pubblici funzionarj di secondo e terzo ordine?
Se il conte Aquila avesse adoperato per sostenere il vicerè tutta quell'energia di volontà che adoperò contro di lui, il principe Beauharnais sarebbe caduto? il regno d'Italia sarebbe andato a fascio? gli Austriaci sarebbero ritornati?
Se i due milioni e mezzo del ministro Prina non fossero stati affidati nelle mani dell'avvocato Falchi; oppure se questi avesse serbato il segreto colla moglie, il ministro avrebbe potuto scampare dall'ira pubblica?
Per quanto lo sdegno pubblico fosse generale e forte, esso avrebbe potuto scoppiare ed operare nel modo onde operò, senza i pochi che lo governarono a loro voglia e per i proprj interessi?
Se il vicerè, dai collegi elettorali e dal voto della popolazione, fosse stato proclamato re d'Italia, e le potenze europee, rispettando tal voto, lo avessero confermato, v'erano poi gli elementi duraturi di un governo forte e sapiente, di una nazione risorta e felice?
La teoria inflessibile della provvida sventura non verrebbe qui opportuna per giudicare quei tempi e quegli avvenimenti?
Noi poniamo tali quesiti al lettore, senza comunicargli le nostre soluzioni. Egli deve esser libero di valutare i fatti e di profferire la sua sentenza.
A noi bastò d'aver recato in mezzo nuovi dati, che chiameremo storici, quantunque non sieno desunti che dalla tradizione orale e dal vago mormorio del pubblico contemporaneo, e da relazioni private e da racconti di testimonj. Non sempre i documenti legali e deposti negli archivj svelano intera la verità. Talvolta la intorbidano, perchè la loro serie non è completa. L'induzione soltanto è un documento razionale e perpetuo, che, al pari di un grimaldello, può aprir tutte le porte.


LIBRO DECIMOTTAVO


La notte del 9 marzo 1820. - Una serenata. - Stefania Gentili e la Giulietta e Romeo di Zingarelli. - Giunio Baroggi. - Il figlio del Galantino. - Una notte nella casa di Giocondo Bruni. - Il marchese F. - Monsignore Opizzoni. - Waterloo. - Prometeo e lo scoglio. - Francesco I e la città di Milano. - La gioventù lombarda. - Origine della Compagnia della Teppa. - Sue gesta.


Dei Cento anni, quasi sessanta hanno ormai compiuta la loro evoluzione innanzi a noi. Tre generazioni sono scomparse; tre periodi storici esaurirono il loro processo; a chiudere il centenario ci rimangono poco più di trent'anni, una generazione e un periodo. Chi scrive potrà dunque aver la consolazione di declamare tra poco quei versi con cui il maledetto Oreste inaugurò il suo ritorno in patria; e l'altra non men dolce compiacenza di ripetere il distico famoso che l'autore della Secchia rapita fece incidere sotto al proprio ritratto:


Dextera cur ficum quæris mea gestet inanem?
Longi operis merces hæc fuit, etc.


Ma passiamo al nuovo periodo, che, in mancanza di un altro battesimo più complesso, abbiamo intitolato dalla Compagnia della Teppa.
Di questa compagnia, che fece gran rumore in Milano dal 1818 al 1821, non rimane altra memoria che nella tradizione orale o nella testimonianza di alquanti galantuomini ancor vivi, sebbene non più giovani, che nella loro diversa qualità di bastonatori o di bastonati, furono o parte attiva di essa o vittime tragicomiche. Non v'è libro stampato, nemmeno tra i più fuggitivi di quel tempo, dove se ne tenga parola; soltanto ne esiste il processo firmato dall'attuaro Lomazzi; vi è una relazione scritta da un tal Milesi, che abbiamo tra mano; e se ne parla nel diario manoscritto del canonico Mantovani. Sul Giornale di Napoli, appena quel periodico venne a sapere (com'egli disse con parole per noi lusinghiere) che noi attendevamo a trattarne distesamente, uscì un articolo sulla Compagnia della Teppa. Quasi contemporaneamente ne uscì un altro sul Pungolo, milanese.
Ma noi, ringraziando que' due periodici delle parole gentili espresse a nostro riguardo, osiamo asserire che il ritratto che essi fecero della famosa compagnia non è conforme all'originale, e che però siamo indotti a credere l'abbiano confusa con qualche altra. Essi la fanno scaturire come una guasta propaggine della Carboneria, e pongono la sua durata dal 1821 al 1829. Ma non c'è nulla di men vero; chè, sorta invece nel 1817, essa era già dispersa e soffocata nell'anno 1821. E fu precisamente nei giorni estremi della sua vita che la parte più generosa di quel corpo immorale, sotto la falsa luce delle orgie e delle prepotenze (che il governo austriaco tollerava e forse ajutava), si convertì repentinamente, prestando mano a quella società segreta che si costituì allora tra noi non già col nome di Carbonari, ma di Federali, e tramutando le così dette Vendite in altrettante Chiese, di cui la principale era a Milano, le figliali in tutte le città dell'Alta Italia e dell'Emilia.
Se la Compagnia della Teppa non avesse avuto un tale esito, per verità che non meritava la pena che la storia e l'arte se ne occupassero. Come episodio comico avrebbe forse potuto provocare qualche ilarità; ma gl'intenti quasi sempre bassi e triviali, a lungo andare, avrebbero soffocato anche il riso nelle bocche dei lettori onesti. Soltanto essa diventa un fatto assai degno della riflessione dei pensatori, quando la si considera come una occasione, sebbene fortuita, di gravi avvenimenti.
Dei periodi storici onde constano i Cento anni, questo è forse il più importante; è il punto massimo della parabola. In tutte le sfere e le forme e gli svolgimenti del pensiero e dell'azione, tutto si rinnova, si nobilita, si rafforza. Sorgono nuovi pensatori; una rivoluzione mirabile si compie nella letteratura; le altre arti, quelle del disegno e dei suoni, procedono con essa e per essa. In poche parole, la forza espansiva del corpo italiano tanto più si fa poderosa, quanto più è violenta la pressione del governo straniero.
Il 21 è il padre del 48, è l'avo del 59. Però, ond'essere fedeli al programma del nostro lavoro, noi terremo conto anche di questi elementi. Inoltre, col sistema empirico dell'azione drammatica e senza avvilupparci nel paludamento scientifico, proporremo al lettore alquanti problemi sul diritto di testare, sul matrimonio, sulla patria podestà, sulla maritale. La nuova imbandigione adunque, per la qualità della materia, e per il buon volere, ci lusinghiamo vorrà esser presa in qualche conto dai lettori, i quali vorranno fingere almeno di non essere malcontenti di noi. Non si è mai sentito a dire che un Anfitrione sia stato bastonato dai commensali, nemmen quando il pranzo è riuscito cattivo.


I


Le prime scene dei periodi storici fin qui da noi rappresentati, si aprirono sempre, per combinazione, o in teatro o in qualche festa da ballo, tra la musica, la danza e la bellezza. Sempre si cominciò coll'allegria e il geniale buon tempo, per finir sempre coll'affanno, colle sventure e col beccamorto. Possiamo assicurare che questo per noi non fu mai un sistema adottato. Bensì, contro ogni disegno, fu una riproduzione spontanea della maggior parte delle vicende onde è contesta la vita pubblica e privata degli uomini. Troppo spesso si comincia colla giocondità, colle speranze e coi castelli in aria; quasi sempre si finisce coi disinganni e colla disperazione.
E anche questa volta, se precisamente non ci è dato rimetterci a sedere o in teatro o all'osteria, dobbiamo però incominciare il preludio della nuova opera seria con un andantino allegro, ma che, pur troppo, è destinato a preparar dalla lunga e attraverso a processi e a successioni inattese di toni, le frasi strazianti di una catastrofe degna di un Romeo moltiplicato per tre. A noi vengono i brividi al solo pensarci.
La notte del 19 marzo 1820, giorno consacrato a San Giuseppe, il santo nel cui nome l'autore dei Cento anni è stato battezzato; sulla piazzetta dei santi Pietro e Lino, due inservienti dei Regi Teatri prepararono in gran segreto una orchestrina sotto al balcone di un primo piano d'una delle case che rispondevano su quella piazzetta.
Quasi contemporaneamente vennero là portati un contrabbasso, un violoncello, quattro cassette da violino e viola, ecc. Di lì a non molto sopraggiunsero gli egregi suonatori, o professori, quasi tutti appartenenti all'orchestra della Scala: Merighi il violoncellista, Rabboni il professore di flauto, Yvon d'oboe, Corrado il suonatore di clarinetto, Cavinati e Migliavacca incliti violini di spalla, Majno prima viola. Tra una schiera eletta di dilettanti, vennero in ultimo il tenore della stagione, Claudio Bonoldi, cantante insigne, e più insigne bastonatore di uomini e di giornalisti. Tra lui e il basso Fioravanti, stretti in grande dimestichezza, comparvero due belli ed eleganti giovani; uno era il conte Emilio Belgiojoso, l'altro il figlio del colonnello Baroggi e di donna Paolina S..., che noi non conosciamo ancora, e che era nato nel 1798 a Roma, dopo le luttuose scene dell'avo, d'ingrata memoria. Il suo nome di battesimo era Giunio, perchè, essendo stato battezzato nella chiesa d'Ara Cœli, sul Colle Capitolino, sventolando gli stendardi repubblicani, si volle dargli un nome che ricordasse l'eterna città e l'instauratore della repubblica romana. Questo sia detto di passaggio, e torniamo all'orchestra.
I professori e i dilettanti, messisi al loro posto, diedero principio alla serenata colla sinfonia dell'Aureliano in Palmira, di Rossini, che d'allora in poi, per più di trent'anni, continuò ad essere la sinfonia d'obbligo di tutti i ritrovi musicali. Come avviene in tali occasioni, la piazzetta e la via dei Meravigli, che in principio erano al tutto solitarie per la notte assai inoltrata, a poco a poco si animarono di tutte quelle persone che, avvezze a rincasarsi ad ora tardissima, s'erano accorte, chiamate dai suoni lontani, che la loro giornata non era ancor finita. Le finestre e i balconi delle case rispondenti sulla piazzetta si popolarono d'uomini e donne, che staccavano come ombre sul fioco albore degl'interni lumi trapelanti dalle aperte imposte. Curiosa platea e più curiosi ordini di palchetti, dove le acconciature più appariscenti erano bandeaux e berrette da notte, sottanini e mutande. La sinfonia dell'Aureliano fu applauditissima dal pubblico, che cominciò a diventare affollato, perchè molti giovinotti che abitavano nelle vie circonvicine ebbero il coraggio, giacchè era una bella notte di marzo, di rivestirsi e discendere in istrada. Il tenore Bonoldi cantò di poi l'arione dell'Otello: «Vincemmo, o padri». Il conte Emilio, che diventò in seguito il principe Emilio Belgiojoso, eseguì in unione col basso Fioravanti il duetto del Mosè: «Parlar, spiegar non posso». Ad ogni pezzo gli applausi erano strepitosi e meritati. E negli intermezzi d'aspettazione, il pubblico faceva le chiose, non tanto ai motivi dei pezzi eseguiti, quanto al motivo di quella serenata.
- È strano (notava uno degli ammiratori) che la signorina non si faccia vedere.
- Che signorina?
- Diavolo! quella per cui si canta e si suona. Credi tu che si voglia compromettere la trachea di un tenore di cartello, e far gettare il tempo ai professori della Scala, per solo amore dell'arte? Là al primo piano, dove c'è quel poggiuolo, abita quella giovinetta che in queste ultime tre sere ajutò l'impresario del teatro Re e il Don Giovanni, che faceva fiasco, col cantare in costume l'ultima scena della Giulietta e Romeo di Zingarelli.
- Ah! la Gentili!
- Madamigella Stefania Gentili, sissignore, la quale, se continua come ha cominciato, che Pisaroni e che Colbrand e che Catalani! Ed è la prima volta che mette piedi sulla scena. Qual voce e qual sentimento!
- E quanta bellezza!
- Per carità, non tocchiamo questo tasto, perchè mi va il sangue alla testa; in costume di Romeo, coi capelli cadenti... con quella figura divina, con quelle gambe, con quelle maglie di seta bianca... torno a pregarti…, cangiamo discorso.
- Ma, di ragione, sarà il suo amante quello che avrà fatto allestire una tal serenata.
- Amanti son tutti quelli che l'hanno sentita. Quando penso che, nel momento in cui, disperata, ella si lascia cadere sulla tomba di Giulietta, io ho visto a piangere perfino il barone Gehausen, direttore di polizia! Che cosa vuoi di più? Questo è il suo massimo elogio.
- La presenza però del conte Emilio Belgiojoso mi darebbe a credere...
- No. A quanto mi disse ieri in teatro il primo oboe dell'orchestra, che è quel giovinotto là coi baffi neri, chi avrebbe dato in qualche furore per lei sarebbe quel giovane lì che sta presso al conte Emilio Belgiojoso, e che ora prende in mano la viola... probabilmente suonerà un a solo... È uno dei più bravi dilettanti, allievo del professore Majno che gli siede lì presso. È figlio di quella tale che seguì il colonnello Baroggi in Russia e che vestiva l'uniforme di dragone come il marito... Te ne devi ricordare...
- Sì, sì, ne ho qualche barlume...
Ma qui, i zitto! e i silenzio! della folla, troncarono di tratto questo dialogo; e il Baroggi incominciò il suo a solo sul tema della romanza di Garcia, innestata nel Barbiere di Rossini.
L'a solo fu suonato a meraviglia, perfino a compiacersene lo stesso maestro Majno; se non che, proprio nel punto che si era alle ultime cadenze delle variazioni, dal vicino vicolo Porlezza una schiera di dodici o quattordici giovinotti irruppe nella via, si rovesciò come una tempesta maggenga sulla piazzetta, improvvisando una cadenza di legnate formidabili, dedicate al merito insigne di quei filarmonici notturni.
Il tenore Bonoldi, che era alto, nerboruto e prepotente, e che, figlio di un vetturale di Piacenza, era avvezzo alle baruffe fin da ragazzo, non si lasciò smarrire, e lavorò di rimando colla sua canna d'India; la sua canna d'India fedele ch'egli avea sempre seco per tenere in soggezione la critica. Il suo esempio animò tutti. Il conte Emilio armeggiò benissimo con una sedia di bulgaro. Il Baroggi con un leggìo. I più offesi furono i suonatori, che erano seduti; e in modo speciale se ne risentì la schiena del professore Majno; perchè l'amore sviscerato, del genere dell'amor materno, che egli portava alla sua viola di Stradivari, lo rese dimentico di sè stesso; onde, incurvatosi su di essa e strettasela al seno, non pensò più che la schiena rimaneva affatto senza difesa e tutta esposta alle percosse nemiche. Tutto questo parapiglia avvenne in un minuto. Strillavano le donne dai poggiuoli e dalle finestre; piangevano i ragazzi che si erano alzati colle mamme; tumultuavano e si scompaginavano e fuggivano molti della folla raccolta in piazza.
Ma ad un tratto gridò uno della schiera degli assalitori: Fermi tutti! - e fu una voce sonora, piena, autorevole; tutti si fermarono infatti. Esso guardava il Baroggi, e il Baroggi lui.
- Ma come sei qui tu fra costoro?
- Diavolo, non è permesso fare una serenata, tanto per goder le stelle e provar l'istrumento? Ma costoro poi, che cosa hanno fatto a te?
- Nulla m'han fatto; non li conosco nemmeno - se ne togli qui il tenore della Bianca e Faliero che canta bene e bastona meglio.
- Dunque?
- Dunque si era là all'osteria del Galletto fuori di porta Vercellina, annojati tutti maledettamente, perchè son già tre giorni che non s'è rotta nemmeno una testa... e ve ne sono centotrentamila in Milano. Io dico: che cosa si fa stanotte? È una vergogna per la compagnia... guai s'ella va perdendo del suo credito. Allora questo signore, che è il conte Alberico B... ed è il nostro decano, perchè ha trentasett'anni compiuti... ci sarebbe una serenata da mandar all'aria, - ci dice - una serenata sulla piazzetta di San Pietro e Lino. Bastò la proposta. Non si stette nemmeno un minuto a far consulta; e via tutti, senza nemmen pagare l'oste... La cosa è semplicissima, e non ho ad aggiunger altro.
Dette queste parole all'amico Baroggi, del quale teneva stretta una mano nella propria, colui si rivolse alle due schiere nemiche che avevano abbassate le armi, come quando sui campi trojani Ettore o Ajace davan segno alle falangi di sospendere la pugna:
- Tutto quello che fu detto e fatto, soggiunse poi, sia per non fatto e non detto. Questo è un mio caro amico, e costoro si sono difesi in modo che hanno diritto a tutta la nostra stima e considerazione. Giù dunque le armi, via gli strumenti e ritorniam tutti insieme a santificare la pace all'osteria...
Siccome non v'erano antecedenti rancori né cagioni di odio profondo, l'aspetto, la voce, il contegno del giovine amico del Baroggi, così fra il farabutto e il bizzarro, mise in un istante la pace e l'allegria, dove un momento prima aveva infuriato la tempesta.
Essi partirono. L'orchestra e gli strumenti furon levati, i rimasti della folla si allontanarono, le finestre si chiusero, le virili berrette da notte tornarono a comprimere i guanciali accanto ai muliebri bandeaux; e i silenzj profondi di quella notte non furono più turbati da rumori nè lieti nè tristi.
Giunte che furono le due schiere rappacificate al canto dei Meravigli, che risponde al corso di porta Vercellina:
- Per andare all'osteria, disse il professore Majno, l'ora è troppo tarda. Domani alle 9 debbo dar la solita lezione al Conservatorio. Proporrei dunque di trasportare ad altro giorno la celebrazione della pace.
- Allora troviamoci tutti domani alle ore quattro all'osteria del Galletto, soggiunse il conte Emilio Belgiojoso.
- Domani, signor conte, è l'ultima sera della stagione, osservò il tenore Bonoldi. Ella sa che in queste benedette ultime sere bisogna cantar due volte lo spartito, e contendere colla Camporesi la mia parte di corone e di fiori.
- Ebbene, dopodomani.
- Dopodomani, ripetè il conte Alberico B..., e prego tutti questi signori ad accettare il pranzo da me. La proposta di mandare all'aria la serenata, disgraziatamente, fu mia, tocca dunque a me a pagar la multa. È giusto?
- È giusto. E qui vennero i saluti, i buona notte, gli a rivederci, gli addio. Il conte Alberico prese per via di Brisa; alcuni pel corso; altri per Santa Maria Porta. Il Baroggi, col suo amico, col conte Belgiojoso, con Bonoldi e i professori d'orchestra, ritornarono nella via dei Meravigli. Sulla piazzetta della Scala, Bonoldi diede un fischio, e un servo facendogli lume da una finestra della casa dove ora è la spezieria del Riva Palazzi, gli gettò giù la chiave. Altri saluti ed altri buona notte come sopra. Il conte Emilio fu accompagnato al suo palazzo in piazza Belgiojoso. Ultimi rimasero il Baroggi col suo amico, i quali s'avviarono per San Paolo, tirarono innanzi per San Martino, svoltarono in San Zeno, e qui si fermarono davanti al portone d'una casa molto vecchia.
- Abiti qui?
- Sì... sto in casa del signor Giocondo Bruni, che tu conosci; un caro vecchio, che mi fa da padre, da tutore, da amico e da consigliere. Mia madre, ch'è andata a Parigi, lasciò a lui in custodia tutta la nostra roba, con cui c'è da empire un magazzino da rigattiere e da fare una pinacoteca sussidiaria alla raccolta dei quadri dell'Ospedal Maggiore. Anche il signor Bruni ha una raccolta di oggetti curiosissimi. Anzi ha un ritratto di tuo padre... eseguito a pastello da uno scolaro del pittore Porta... quando tuo padre non aveva che venti anni... Esso è in costume di...
- Di che cosa? Mio padre faceva il lacchè a venti anni. Credi tu ch'io abbia paura di perdere la nobiltà? Ma davvero che vedrei volontieri quel ritratto… mi somiglia?
- Un gemello non somiglia all'altro come tu a lui...
- Già il sangue non traligna mai nella porca plebe... a cui mi vanto d'appartenere... Mio padre era bello come un angelo, era forte come un leone, era veloce come un cervo... Ed io non canzono... Mi fanno ridere questi nobili che piangono sui casi della Fuggitiva del Grossi, e si purgano tutti i giorni per diventare interessanti... Ma giacchè siamo giunti fin qui... si potrebbe dormire da te questa notte?... Mi rincresce di andar laggiù sino a Sant'Ambrogio; d'altra parte ho bisogno di star teco a lungo.
- Letti non ne mancano. Aspetta che apro lo sportello, e fa conto di entrare in casa tua.
Giunio, aperto lo sportello:
- Va innanzi, disse all'amico.
- È meglio che tu mi preceda. Fino al primo d'aprile la mia coscienza non è mai tranquilla abbastanza per quel che riguarda la cura delle mie gambe.
- Perchè?
- Perchè in quel giorno c'è una corsa di fantini a piedi da porta Orientale fino a Loreto. Ho fatto una scommessa, e già sono venute a Milano le gambe più veloci del regno Lombardo Veneto. In questi giorni si concertarono due prove e così nell'una come nell'altra, quand'io era già di ritorno alla porta, i miei competitori arrivavano allora a Loreto. Or si aspettava un Vicentino, del quale si raccontan meraviglie; ma io sono figlio di mio padre, come Achille era figlio di Peléo, e me ne rido.
Giunio andò innanzi, accese un cerino, rischiarò la scala all'amico, e aperse l'uscio della casa. Entrarono ambidue, e passate due o tre stanze, si fermarono in una sala. Giunio accese una fiorentina d'argento.
- Vedi tu questa fiorentina? disse. Ebbene, essa rischiarava le veglie dotte della madre della madre di mia madre. Eccola lì viva e parlante in quel ritratto. Guarda...
- Se questa fiorentina avesse la parola, chi sa che corriere delle dame!...
- Zitto, e rispetto ai morti...
- Ma sai tu che questa tua bisnonna aveva una faccia da far girare la testa anche ad un mazzaconico?
- Lo so bene. E quella lì?
- Oh... cara...
- Questo cara lo disse un altro prima di te trenta o quarant'anni sono.
- Zitto, e rispetto ai morti.
- Questa poi è mia madre.
- Non ha la regolarità nè dell'una nè dell'altra... ma con quell'elmo alla dragona...
- Rispetto ai vivi: ella è una santa.
- Intercede pro nobis.
- E quello lì?
- È il conte colonnello V...
- Quegli che avrebbe dovuto essere il padre di tua nonna... se...
- Che faccia curiosa, non è vero?
- È un testone bovino... Nel contemplarlo, il pensiero corre più facilmente al macello che alla caserma, siamo sinceri, caro Giunio, e lasciando da parte i pregiudizj... Dimmi dunque: se tu, dopo di me, sei il più bel giovane che abbia conosciuto... a chi ne vai debitore? Vien giù liscio. Fu un peccato in cipria e parrucca che si introdusse con garbo nella casa del conte colonnello a far le veci della commissione d'ornato, e aggiustò i profili ai posteri. Guarda che bel naso hai tu! Greco d'alta scuola. Che mai sarebbe stato di te, se questo faccione da profosso, giù per il naviglio del tempo fosse rotolato, come un pioppo del lago Maggiore, fino in casa Baroggi?... Ma tu fai delle smorfie, e mi fai capire che questi discorsi non ti piacciono punto... Ah!... ora comprendo tutto... Qui vedo gli Inni sacri di Alessandro Manzoni.
- E che c'entrano adesso gli inni? ma taci, che sento la voce del signor Bruni...
E il signor Bruni, in vesta da camera e in berretta da notte, comparve sulla soglia d'uno degli usci della sala.
- Sei tu, Giunio? egli disse.
- Son io...
- È tardi, caro, troppo tardi. Manca un quarto alle quattro... Guaj se tua madre sapesse...
- Chi ha imparato a suonar la viola (e questo fu col permesso di mia madre) si espone al pericolo delle serenate... e le serenate cominciano sempre dopo mezzanotte. E oggi ce ne fu una colla coda...
- La coda del diavolo, soggiunse l'amico di Giunio.
- Ma chi è questo bel giovinotto?
- Non lo ravvisa?
- Ah... il figlio del Galantino... oh come mi fa diventar vecchio questo diavolo... Ma da quanto tempo siete a Milano?
- Da più d'un mese.
- E perchè non siete mai venuto qui?
- Precisamente per la grande necessità che ho di intrattenermi con voi e con Giunio a lungo.
- È una ragione curiosa.
- È naturalissima. Ogni qualvolta c'è un affar grave, difficile e disgustoso da disbrigare, lo si tira sempre per le lunghe. Gli è come quando c'è la necessità di un'operazione chirurgica. Si teme più la guarigione che viene collo spasimo, che la cancrena che si sviluppa senza dar tropp'incomodo. Ho trovato due o tre volte Giunio, e sempre l'ho lasciato andar pe' fatti suoi senza dirgli nulla... E se non fosse stata la bell'occasione di questa notte...
- Oh bella davvero... (disse Giunio ridendo), ed io non so trovar le parole per ringraziarti come meriti. Sa ella, signor Giocondo, in che modo ci siamo incontrati stanotte? Non lo indovinerebbe in cento anni. Intanto che io suonavo le variazioni del professor Majno su un tema di Garcia, costui, in compagnia di altri dieci o dodici ammiratori, mi attestò il suo entusiasmo a colpi di bastone.
- Ma tu non sei ragionevole, il mio caro Giunio. Dal momento che uno appartiene ad una corporazione, bisogna bene che ne adempia le leggi. Questa notte toccò a te e a' tuoi amici. Un'altra notte potrebbe toccare allo stesso signor Giocondo, se non si facesse conoscere in tempo. La Compagnia della Teppa bastona tutti quanti, e non ha nessun obbligo di assumere informazioni preventive.
- Ah, siete anche voi uno della compagnia? domandò il Bruni.
- Diavolo!
- Me ne congratulo tanto; è però una gran vergogna per la città di Milano..., e mi fa meraviglia come l'autorità e la polizia non ci provvedano. Ma, in conclusione, a che oggetto questa compagnia s'è instituita, e in che modo va ingrossando tutti i giorni?
- La cosa è semplicissima. Domeneddio, pentito d'aver creato gli uomini, mandò il diluvio per sterminarli tutti, senza aver riguardo ai tanti innocenti che, senza dubbio, ci saranno stati anche allora; perchè la cura doveva essere perentoria, radicale, assoluta, inesorabile. Se il Padre Eterno avesse dovuto istituire prima delle commissioni di scelta, sarebbe stato fresco lui più che le vittime del diluvio... vi pare o non vi pare?
- Va bene... e così?
- E così la Compagnia della Teppa, umilmente, si è proposto il santo scopo di bastonare senza distinzione tutti gli uomini che di notte trova per istrada. Non vi sembra giusto?
- Ma se è così, perchè non cominciate a bastonarvi tra di voi, o membri effettivi della compagnia?
- Potrà darsi che a ciò si provveda in seguito... il progresso va per gradi. Per ora bastoniamo gli altri. Ed io non stetti in dubbio un minuto, quando fui invitato a far parte della nobile compagnia.
- Ma non pensate quante brave persone, quanti padri di famiglia che hanno bisogno di essere lasciati vivere in pace, saranno vittima della vostra brutalità, ben più facilmente che i beoni, gli oziosi, i prepotenti?
- Idee piccole, caro signor Giocondo, idee storte; è impossibile giudicare i tristi dalle apparenze. Chi sa quante ingiustizie un padre collo torto commette in famiglia? Chi sa quanti stranguglioni costa alla moglie un marito che logora il confessionale? Chi sa come alla sordina succhia il sangue dei pupilli un tutore che porta il baldacchino? La legge non ha gli occhi d'Argo nè le braccia di Briareo; non può veder tutto, non può toccar tutto... Ora un buon bastone che alla cieca e indistintamente cada sulla testa di quanti s'incontrano a caso, è l'imagine nodosa e reale della fatalità vendicatrice, tanto rispettata dagli antichi, perfino dagli dèi, perfino da Giove.
- Io sarei disposto ad accettare, disse Giunio, tutti questi tuoi principj di filosofia comica, se nella Compagnia della Teppa non vi fossero che buontemponi colla fedina criminale netta; ma ognuno sa che vi sono furfanti d'ogni risma e d'ogni conio.
- È un errore. Sicuro che nessuno di noi aspira a morire in odore di santità. Una certa inclinazione al buon vino e alle belle donne non mostrerebbe in noi alcuna vocazione ad accettar la regola di S. Francesco; ma furfanti, nel senso che comunemente si suol dare a questa parola, non ne conta la compagnia.
- Ti convinco subito del contrario... Qui il signor Giocondo ti potrà dire chi sia quel conte Alberico B...i che tu m'hai presentato come uno dei vostri decani.
- Che cosa so io...? È nobile, è milionario... paga pranzi e cene... è prodigo, fa il democratico, aspira alla popolarità... giuoca alla morra anche coi facchini e coi toffi... racconta frottole con garbo... è stato a Costantinopoli, è stato in Egitto... fu impresario di virtuosi, fu direttore di palchi scenici...
- Fu cortigiano, lasciate che continui io adesso, soggiunse il Bruni, fu cortigiano e galoppino di biglietti amorosi al servizio di Beauharnais. Fu spia per diporto. Fu Creonte e Jago e Tersite tutt'in una volta. Fu manipolatore di discordie tra amici e amici. Libertino e osceno come Tiberio, come il re di Bitinia, a trent'anni avea già i denti spazzati via dal calomelano. Prepotente e crudele con quelli che hanno bisogno di lui, vile e tremante coi generosi e coi forti; sposò due mogli... che morirono, l'una e l'altra, assassinate da lui alla sordina, senza coltello, senza veleno, senza laccio; perchè in maschera spesso d'onesto uomo, essendo volpe astutissima, teme la legge e sa scansarla; ha sentito parlar della forca, e sa come le si gira d'intorno senza toccarla.
- Vi faccio i miei complimenti, signor Giocondo. D'ora innanzi verrò da voi a imparare lo stile delle lettere commendatizie.
- Dunque?... disse Giunio.
- Dunque, anche in questo caso non voglio discostarmi da una mia teoria... ed è che quando si scopre che un conoscente, un collega, un amico, è uno scellerato, bisogna fingere di non saper nulla, bensì tenerlo d'occhio e averlo sottomano.
- Non si può esprimere con parole, proseguiva Giunio, la ripugnanza ch'io sento per colui. Senza conoscere affatto i suoi antecedenti, mi ricordo che mi rifiutai di sedere ad una mensa comune, per la sola ragione che anch'esso era fra gli invitati. Né sapendo trovar ragione ad un'antipatia così invincibile, e nel medesimo tempo fidandomi assai delle antipatie, che per me son come avvisi del cielo, ne chiesi conto qui al signor Giocondo, il quale press'a poco mi disse quello che ha ripetuto un momento fa.
- Eh, caro mio, se si dovesse sempre far caso alle antipatie, e respingere da sè tutti quelli che per un verso o per un altro hanno bisogno d'un bagno di zolfo o di acqua ragia, sarebbe necessario di ritirarsi in una grotta a viver di radici come i santoni della Tebaide. Ma lasciamo da parte costui; e parliamo piuttosto di ciò che ben più ti deve interessare.
E a questo punto, dopo una lunga pausa, il figlio di Andrea Suardi si cavò di tasca un portafoglio; lo aprì, lo svolse, ne trasse un involto che spiegò, levandone una carta.
- Vedi questa carta, Giunio? disse poi; la vede, signor Giocondo? Ebbene, darei la metà della mia fortuna perchè non mi fosse mai stata consegnata da mio padre. Sono sei anni che l'ho con me, ed è dal giorno precisamente in cui esso morì. Appena l'ebbi letta, il mio primo pensiero fu di volar subito a Milano per consegnarla a' tuoi parenti; ma mi trattenni. Dopo sorvennero gli intrighi dell'eredità; e la storia d'una famiglia e d'una ragazza che pretendeva avere dei diritti al pari di me: poi la vendita ch'io feci dei possedimenti che mio padre aveva sul Modenese, perchè non volevo in nessun modo aver a che fare con quel duca infame che fa da despota, da papa e da boja; poi vennero i miei viaggi... e sapete perchè ho viaggiato per tanto tempo? per togliermi appunto alla tentazione di cavar fuori questa carta e farla di pubblica ragione...
- Ma e che diavolo c'è in quella carta?
- La tua fortuna e il mio disonore.
Il Bruni si alzò aspettando e indovinando. Il giovane Giunio, per un movimento naturale, stese la mano su quella carta, ma la ritrasse subito, quasi vergognandosi di un tale atto.
- Molte volte io fui per abbruciarla, continuò il Suardi; e se non ti avessi conosciuto davvicino... se non mi facesse dispetto quel marchesone, gesuita, ipocrita, scellerato, che fu tra quei ch'hanno ajutato i Tedeschi a tornar qui, e il cui avo fu la rovina della tua casa, e il disonore della tua bisava, e la cagione per cui mio padre fu messo alla tortura, certo che l'avrei abbruciata. Ora leggete. Sono tre facciate, scritte tutte di proprio pugno da mio padre... e qui c'è la sua firma...
Giunio prese la carta, e la lesse con attenzione, con affanno e con impazienza. Il signor Giocondo Bruni, messisi gli occhiali, si collocò dietro la testa del giovane Giunio per tentare di leggerla anch'esso. Il giovane Suardi intanto s'alzò, e dopo aver fatti alcuni passi per la sala, si piantò innanzi al ritratto di donna Clelia colle braccia incrociate sul petto. La baldanza provocatrice e gioviale che abitualmente saettava da tutti i muscoli della sua bella faccia era scomparsa affatto, per dar luogo ad una concentrazione accigliata e cogitabonda. Sì volse poi di tratto a queste parole del signor Giocondo:
- E dire che ci vollero settant'anni per verificar quello che mio padre già aveva indovinato il dì dopo il fatto avvenuto!... ma or venite un momento nella mia camera da letto.
I due giovani seguirono il signor Giocondo.
- Quello là è il ritratto di mio padre, disse il Bruni additando un dipinto ad olio dentro una gran cornice barocca. - Quell'altro è il ritratto della celebre Gaudenzi, mia madre, quella per cui fu creduto avesse il tenore Amorevoli scavalcato il muro di cinta del giardino del palazzo V... in contrada Velasca... la notte che vostro padre trafugò...
Il giovane Suardi si scosse.
- Vostro padre, eccolo lì... continuò il Bruni. Guardate che bell'aria di testa. Aveva vent'anni allora. E adesso vi farò vedere una cosa rara... molto rara oggi, e aperto un armadio e trattane una scatola:
- Questa, disse, è una maschera ritratto, di quelle ch'erano in gran voga a quel tempo; è della più perfetta somiglianza, come fui assicurato; mio padre se la mise sulla faccia a un veglione del teatro ducale per ingannare la contessa Clelia... e costringerla a palesar la verità. È il ritratto del celebre tenore Amorevoli. Guardate bene! è opera del pittore Clavelli, famoso allora in questo genere di lavori.
Così dicendo, il Bruni, gettatosi un ferrajolo intorno alle spalle, si adattò quella maschera al volto. Pareva un'ombra evocata e riplasmata di forme, di carne e di vita.
I due giovani provarono una sensazione che non era di piacere.
- È questa un'ora ben solenne, esclamò il Bruni. Vivi e morti, ci ritroviamo qui tutti uniti, come in un consulto di famiglia.


II


Il Galantino, come abbiamo udito dal giovane Suardi, è dunque morto, assolutamente morto. Gl'impazienti della lunga e, per essi, troppo lunga sua parte sulla scena di questi Cento anni, possono ora consolarsi. Noi qui aggiungeremo che, nato nel 1730, morì nel 1815 a Modena, d'anni 85, lasciando quel figlio che abbiamo conosciuto; figlio naturale, ma ch'ei volle battezzato col proprio nome e cognome, e al quale lasciò tutto il proprio avere, ammontante in terre e capitali a quasi tre milioni di lire milanesi.
E un altro schiarimento è più che mai necessario a questo punto. Che cos'era e che mai stava scritto in quella carta che il giovane Suardi aveva mostrato a Giunio Baroggi e al Bruni?
Il testamento che fin dall'anno 1813 Andrea Suardi, senza scoprirsi, aveva spedito in originale al giudice del tribunale civile nelle cui mani era stata posta la causa tra il Baroggi e il marchese F…, non aveva ottenuto l'effetto che il Suardi se n'era aspettato. I denari del marchese avevano corrotto il giudice, avevano corrotto il notajo Agudio, che a prezzo d'oro aveva vendute le carte e i documenti relativi a quel fatto, e che si trovavano da sessant'anni nell'archivio privato del dottor Macchi. I periti calligrafi non avevano potuto, per mancanza di sufficienti confronti, constatare che la scritturazione di quel testamento fosse di proprio pugno del defunto F... In conseguenza di tutto ciò, per sentenza del tribunal civile venne dichiarato, che «in mancanza di prove assolute, non potendosi asserire essere quel testamento olografo, ed autografo del marchese F...; ed anzi, dovendosi ragionevolmente sospettare fosse una carta ad arte falsificata, a tale sospetto dando fondamento il modo misterioso onde quel documento era stato presentato al tribunale; ripugnando inoltre l'idea che potesse essere in buona fede e avesse in petto i sacrosanti fini della verità e della giustizia chi aveva pensato a stare occulto con tanta circospezione, si respingeva fino a nuove dilucidazioni l'atto di petizione del colonnello Baroggi, rimanendo intanto legittimo possessore dell'eredità F... il marchese F... ecc., ecc.»
Il Suardi che, nell'auge della propria fortuna e negli anni della virilità e della ancor verde vecchiezza, aveva tenuto gelosamente presso di sè il prezioso documento, sempre col pensiero e col proposito di farlo comparire all'aperto inaspettatamente, quando si fosse presentata l'occasione favorevole, e quando il molto tempo trascorso avesse potuto ragionevolmente stornare da lui ogni sospetto, si era accorto in che pericolo erasi messo nello spedire al tribunale di Milano quel documento, e come, dato un altro giudice ed altri avversarj e men corrompibile la giustizia, avrebbe potuto scontare sessant'anni dopo la pena scansata con tanta accortezza, arte e fortuna; onde, dopo la sentenza del tribunale, senza darsene per inteso, e proponendosi di non mettere più le mani in quell'intrigo, ritornò alle proprie terre che aveva acquistate nel Parmigiano e nel Modenese, per vivere fuor della cerchia e della vista di Milano che lo aveva conosciuto ciliegia, come dice la frase paesana, e dove vivevano ancor troppi de' suoi coetanei a rinfacciargli, soltanto col guardarlo, la sua origine, la sua vita e il libro nero delle sue azioni.
Rincresceva però al Galantino che la fortuna del Baroggi dovesse rimanere così inevitabilmente rovinata, e tanto più che delle ricchezze del conte V..., il marito di donna Clelia, per le dilapidazioni continue e forsennate del marito di Ada, non era rimasto quasi più nulla. Come il lettore deve ricordarsi, il Galantino aveva protetto il Baroggi, capo delle guardie di finanza, ed erasi preso cura del figlio di lui, e in ogni occasione aveva dato a divedere di desiderare il loro vantaggio: al punto che, per rimediare al fatto del testamento, era una volta venuto in pensiero di lasciare a loro tutta la propria sostanza. Ma, per una delle più consuete combinazioni della vita, a Parma conobbe una donna e da questa ebbe un figlio, il quale, com'è naturale, gli fece cambiar proposito.
E fu precisamente in quella occasione che, almanaccando dì e notte, non sapendo in che altro modo giovare al Baroggi, venne nella determinazione di spedire il testamento olografo al tribunale. La natura del Galantino non era al tutto perversa; egli non aveva fatto e non faceva il male per il male. L'arte per l'arte veniva detestata da lui. Egli era stato uno scellerato, ma per un fine, ma con logica. La sua individualità lo aveva portato ad amar l'eleganza, a volere la ricchezza e il fasto; per raggiungere questo scopo avrebbe sacrificato tutto il parentado, compreso il padre e la madre; ma appena l'ebbe toccato, e con quella solidità da non fargli più temere un capitombolo, egli diventò, quasi potrebbe dirsi, un buon uomo: generoso, caritatevole, affabile, cortese. Non era di quegli scellerati che, pur nel mezzo dell'abbondanza e di tutte le cortesie della fortuna, pur nel fasto e tra le grandezze, sono sempre rabidi di far male altrui, al pari delle tigri che, anche nella piena sazietà del cibo e colle zanne ancora insanguinate di preda recente, si avventano tuttavia sul primo che passa, non per altro, che per metterlo in brani. Il Galantino, crediamo di averlo già detto, assomigliava al leone che, quando ha ben mangiato, vive e lascia vivere.
Per tutte queste cose, il Suardi ebbe amareggiata la vecchiaja da questo assiduo pensiero di una famiglia che amava, e che, per colpa sua, trovavasi sul pendio della povertà, senza ch'egli potesse venire in suo soccorso. Più volte aveva pensato di istituire eredi in due eguali porzioni il proprio figlio e la famiglia Baroggi. Ma quando il figlio divenne adulto e crebbe in modo da lusingargli ed esaltargli il paterno orgoglio, naturalmente mise da parte anche quel disegno, e provvide ad accrescere anzichè a diminuire le ricchezze da lasciargli. Godeva di vedersi così fedelmente riprodotto nell'aspetto fisico del giovane Andrea; si esaltava all'idea che questo, simile a lui per tutti i doni materiali, più attraente per quelli di una educazione compita, non aveva bisogno di lacerarsi la fama onde mettere insieme quella ricchezza che a lui era costata l'intero sacrificio del buon nome. Così il Suardi passò gli ultimi anni della vita. E nell'ottantesimoterzo cominciò a guastarsegli la salute. Allorché la salute diventa mal ferma, e gli organi della digestione vengono ad infiacchirsi, l'uomo si fa più apprensivo, il mondo gli si scolora; retroguardando sul proprio passato, ha noia e pentimento e rimorso di quegli atti perversi che in una eccezionale vigoria fisica e nella baldanza di una natura ambiziosa non ha avuto il minimo dubbio di commettere, e tanto più questo rimorso si fa acuto, in quanto vede perdurare ed esacerbarsi in altri le tristi conseguenze di quegli atti stessi.
Fu allora che, dopo avere stancata la propria mente in cento consulte, meditò di fare un'ammenda postuma, collo stendere, cioè, la storia del fatto clamoroso togliendola dal mistero in cui era ancora avvolta, e col fare la confessione più ampia della parte principale che in essa egli aveva avuto. Questo disegno lo eseguì compiutamente; scrisse con brevità e con chiarezza la storia del fatto, la convalidò colla formula del suo giuramento, e la suggellò con questa soprascritta: «A mio figlio Andrea, mio erede universale, perchè la spedisca al tribunale civile di Milano».
Nello stendere e nel suggellare questo scritto, egli, a tutta prima, aveva fermato di non farne parola al figlio; ma quando fu colto dall'ultima malattia, cangiò d'avviso; chiamò il giovane Andrea presso di sè, e dopo avergli detto che, come avrebbe trovato nel testamento, lo instituiva erede universale di tutte le proprie sostanze, lo mise a parte dell'alto segreto; dissuggellò la scritta, e gliela diede a leggere, soggiungendo: «Il mio desiderio sarebbe che tu spedissi, appena sarò morto, questo documento al tribunale civile di Milano, o alla famiglia Baroggi. Un desiderio però non è una volontà. Lascio a te dunque di fare di questa carta quello che ti parrà meglio».
Al giovane Andrea era nota in gran parte la vita del padre; era noto il famoso processo (non poteva essere altrimenti) in cui esso era stato avvolto; ma ripugnandogli l'idea che avesse dovuto trafugare un testamento chi non poteva vantare alcun diritto all'eredità della casa F..., egli avea creduto che il padre fosse al tutto innocente di quell'imputazione. Però è facile imaginarsi qual colpo gli desse la rivelazione inattesa. La tempra del giovane Andrea era di quelle così eccezionalmente sane e rigogliose, che per la via della robustezza e della, a dir così, baldanza fisica, esercitano una influenza sullo spirito, sul sentimento e sulle idee morali, inducendovi quel cinismo e quell'indifferentismo che fa guardare con eccessiva indulgenza tutte le azioni umane, e definisce per scrupoli e idee piccole e cavilli quei principj di squisita moralità che rendono inesorabili i giudizj e le sentenze; laonde non si affannava troppo al pensiero che suo padre avesse accumulato tanta ricchezza, senza aver troppo sottilizzato sui mezzi; e che in un mondo così pieno di bricconi e di raggiratori e di ipocriti e di ladri larvati, egli si fosse sempre regolato in modo da non cader mai nelle altrui reti, adottando invece il sistema di tenderle egli stesso a tutti, per ogni buon conto. Nei giocondi ritrovi, quando egli, studente all'università di Pavia, spendeva e spandeva a manate le laute mesate che il padre gli mandava, pel desiderio ch'ei facesse la prima figura pure tra i giovani delle più ricche famiglie patrizie, egli non si era mai acceso d'ira contro chi più volte, quasi a ricattarsi della propria inferiorità, avevagli ripetuto il noto adagio: Benedetti i figli dei padri che vanno all'inferno. Invece avea presa la celia pel suo verso e, rincarando la dose, aveva esternata la propria pietà per quei poveri giovinotti che avevano i parenti in paradiso.
Nonostante però una coscienza così elastica, si corrugò e fremette quando il vecchio padre gli affidò l'inattesa scritta. Il mondo si abitua allo spettacolo di quelle tante azioni che, turpi e vergognose e infeste al pari di qualunque delitto percosso dalla legge, pure non furono contemplate in nessun codice del mondo; ma non soffre la compagnia di coloro che ne abbiano commessa alcuna di quelle le quali figurano nella tariffa delle leggi criminali. Quasi si crederebbe che agli uomini, in generale, non faccia orrore nè l'idea della colpa, nè la colpa in sè stessa e per sè stessa; ma sibbene per la pena che deve subire.
Un fornitore d'armata che, somministrando vettovaglie avariate e corrotte, espone un esercito al flagello dei morbi castrensi ed è la causa certa di più migliaja di morti, non fa quel ribrezzo che comunemente suol eccitare uno sciagurato che sia stato cinque anni in galera, per avere, nel furore d'una passione o nell'impeto di una rissa, ammazzato un uomo.
Il giovine Andrea, il quale considerava senza turbamento, come suo padre, allorchè imperversava il sistema delle ferme, aveva espilato il pubblico a proprio vantaggio; e come in quindici giorni sotto Mantova, pel tritello guasto da lui somministrato, eran morti di colica più di cinquecento vigorosi giovani; non seppe vincere il ribrezzo all'idea che esso aveva trafugato un testamento, e ciò per il pensiero che un tal delitto, prima del codice Giuseppino, era punito colla forca.
Or ripigliando i fatti, il Galantino morì: e dalla straordinaria acutezza della mente, alla quale era stato debitore della propria fortuna durante una lunghissima vita, potè dipendere se la cura che lo aveva affannato negli ultimi anni, gli si alleggerì al letto di morte, perchè colla condizione di lasciar arbitro il proprio figlio intorno alla decisione di quell'affare intricato, esso aveva trovato il modo di liberar la propria coscienza, e d'impedire nel tempo stesso che il figlio gli portasse un postumo odio.
Il giovane Andrea, infatti, se gli fosse venuta la volontà, avrebbe potuto dare alle fiamme il misterioso documento, e lasciare che la fortuna e la contingenza dei casi portassero una decisione definitiva sull'avvenire della famiglia Baroggi.
E come abbiamo sentito da lui stesso, fu sovente tentato di liberarsi e di quel documento e delle cure conseguenti; e la lotta tra il desiderio del buon nome paterno, da cui dipendeva anche il proprio, e la coscienza che gli mostrava trovarsi tutta nelle sue mani la fortuna di un'intiera famiglia, fu così forte e così lunga, da lasciar trascorrere sei anni prima di prendere una risoluzione. E se, nella notte del 19 marzo, ei non si fosse incontrato col giovine Giunio Baroggi in quello strano modo che sappiamo; se l'aver fatto offesa all'amico non gli avesse ingenerato il desiderio di ripararvi; se la stessa esaltazione mentale provocata in lui dall'orgia antecedente e dal tafferuglio notturno non lo avesse tolto a quell'eccessiva cautela che, mantenendo l'uomo nell'egoismo, lo fa spesso autore di molte ingiustizie; forse sarebbe trascorso assai tempo ancora prima che il segreto si sprigionasse da lui e tutto fosse rivelato al Baroggi e al Bruni.
E a quest'ultimo egli disse, dopo un lungo silenzio:
- Ora cessate di fare il morto risuscitato, e provvediamo a regolar quest'affare, che è grave, tanto grave, che a dispetto della mia natura che sfiderebbe a duello anche il diavolo, e troverebbe la volontà di ridere anche nel dì del giudizio, pure di tanto in tanto mi sconvolge il buon umore e mi amareggia l'esistenza.
Il Bruni si tolse il ferrajuolo e la maschera; ripose questa nella scatola, la rimise nell'armadio, e:
- Non c'è poi tanto da amareggiarsi la esistenza, rispose; i figli non sono solidali delle azioni paterne; e voi avete fatto il vostro dovere.
- E se poi tu fossi pentito, soggiunse con slancio il giovane Giunio, tutto si può finir qui colla fiamma di questa fiorentina. Per campar la vita a mia madre è rimasto quanto basta; in quanto a me...
- In quanto a te mi farai il favore di deporre quella carta nelle mani del signor Bruni. Nelle tue non è sicura, e so bene che saresti capacissimo di commettere anche questa pazzia. No. La giustizia deve avere il suo corso; e penso poi che se a me deve dolere della fama paterna... anche il marchese F... dovrà adattarsi a veder messi alla berlina tutti i suoi quarti di nobiltà... Che cosa vuoi? questo pensiero mi consola dell'altro, e mi rimette in allegria.
- Ed or mi viene un'idea, disse il Bruni.
- Quale?
- Che si potrebbe finir tutto alla sordina, senza rumori e senza scandali, e senza che nulla ne trapeli al pubblico.
- In che modo?
- Con una transazione.
- Parlate.
- Da questa relazione risulta che fu il conte F... a tentar vostro padre ed a spingerlo a far quel che ha fatto.
- Ebbene?
- Andate dunque voi stesso in persona dal marchese e lasciategli andar di tutto peso sul capo la notizia di questa carta. Voi avete detto benissimo: se a voi preme la fama del nome vostro, a colui deve premere quella del suo... e tanto più che essendo gesuita e sanfedista, ha bisogno d'ingannare il mondo e d'imbiancare i sepolcri.
- Caro signor Giocondo, meritate un bacio per questo consiglio: ed è così semplice ed ovvio, che non capisco come non mi sia già venuto in testa. Domani vado dal marchese. È in Milano?
- Lo credo.
- Come voglio divertirmi allo spettacolo della sua umiliazione!...
- Per questo non sperate molto... Bisogna conoscerli costoro... Ma or mi viene un'altra idea... Io conosco un tale che ha delle ruggini colla moglie dell'avvocato Falchi... Quest'avvocato e l'avvocatessa devono sapere il come e il quando dal notaio Agudio furon venduti i documenti che si trovavano nell'archivio Macchi, e forse anche essi ne furon complici... Questo tale ha un segreto da spaventar l'avvocatessa; così egli mi disse. Or se una scoperta aiutasse l'altra, che bel colpo!
- Ma chi è questo tale?
- È un tal Granzini, già capomastro, ed ora appaltatore. Un birbone matricolato che ebbe mano nel fatto del Prina. Ma non bisogna aver paura d'imbrattarsi, e tutto serve.
- Io lo conosco. È un socio della compagnia della Teppa.


III


Siamo in casa del marchese F... nella via di... (quasi ci dimenticavamo ch'è proibito il dirlo). La stanza dove siede il marchese in mezzo a cinque o sei persone, è la stessa che mezzo secolo addietro aveva servito di camera da letto al conte F...; dove era morto imitando Cosimo de' Medici, il quale, piuttosto che abdicare al potere per ricevere l'assoluzione dal confessore Savonarola, volse la testa dall'altra parte, non parlò più, e rinunziò all'assoluzione. Il conte F..., infatti, nel punto di svelare al curato di Santa Maria Podone il segreto del testamento fatto trafugare, udendo la voce del proprio figlio, tacque, e si risolse a partire per l'inferno, piuttosto che scemare di tanti milioni la ricchezza dell'unico erede. Rammentiamo queste cose alla memoria di chi legge, perchè, attraversando tanti anni, è permesso non ricordarsi più della pagina dove si parla di questo fatto.
Il marchese F..., in presenza del quale or ci troviamo, è dunque figlio del figlio di quel conte F..., e pronipote del marchese F... che per insinuazione del prevosto di S. Nazaro, prevosto galantuomo, aveva lasciato erede l'unico figliuolo natogli dalla sventurata Baroggi, con testamento olografo steso sull'abbozzo minutato dal notajo Macchi. Questo marchese, come aveva riunita in sè solo la ingente ricchezza provenutagli da due larghe sorgenti, così aveva congiunti nel proprio esteriore fisico, in un complesso che non mancava di una tal quale unità di stile, i varj tratti della fisonomia del padre e dei due avi: l'occhio grigio del marchese senza cuore, il mento quadrato ed ampio del nonno, il naso aquilino del padre. Rispetto alle qualità morali, insieme coll'occhio bigio aveva ereditato dal prozio l'indifferenza spietata; col mento quadrato l'ostinazione del nonno; col naso aquilino l'orgoglio paterno; superando poi tutti e tre gli antenati per le facoltà intellettuali, e più per la coltura letteraria e scientifica.
Onde non dilungarci in una troppo lunga e minuta analisi, e rendere tutt'intera la sua fisonomia con una pennellata a guazzo, diremo che, s'egli fosse nato re o duca, sarebbe riuscito il facsimile del presente re di Prussia, o di Ferdinando IV di Modena. Ci pare che non ci sia molto da consolarsi. Viaggiatore, politicante, economista, bibliofilo, aveva scritto e stampato parecchi opuscoli; aveva raccolta una biblioteca. Era ambiziosissimo, e desiderava che il mondo si occupasse di lui. Parlava di tutto con sentenze recise. Radunava intorno a sè alquante notabilità del terzo e del quarto ordine. Come dotto, l'oblato bibliotecario dell'Ambrosiana; come bibliofilo, il librajo Brizzolara; come direttore di coscienze, monsignore Opizzoni; come letterato, Francesco Pezzi, estensore della Gazzetta di Milano; per la parte poi che potevano avere nella cosa pubblica e nella milizia accoglieva nel proprio palchetto il generale Bubna e il barone Gehausen.
La conversazione enciclopedica quasi quotidianamente ei l'apriva in propria casa dopo il mezzodì, e la chiudeva verso le ore tre, per uscire in carrozza o a piedi, onde dar aria al polmone, mettere in movimento il sangue, e preparare lo stomaco a trovare eccellente l'opera del cuoco.
Nel giorno in cui ci troviamo, che è il successivo alla tragi comica serenata di S. Pietro e Lino, la conversazione verteva su cose d'ordine privato, e il marchese, continuando un discorso coll'Opizzoni, veniva alle conclusioni seguenti:
- Insomma, caro monsignore, giacchè ella è l'uomo della religione e della carità, è necessario si pigli il fastidio di finir questa faccenda. Mio cugino è stato quel ch'è stato; pur troppo non è possibile dimenticarsene. Ma ella m'insegna che il futuro fa spesso l'emenda del passato. Perchè mio cugino metta la testa a partito e diventi un uomo come tutti gli altri, non c'è rimedio migliore che questo matrimonio. Il mondo potrà dire che c'è la figlia dell'ultimo letto, e con un nuovo matrimonio si verrebbe a danneggiare la sua condizione pecuniaria. Ma a queste cose monsignore non suole, come non deve, aver nessun riguardo. Val più un'anima salvata che la prosperità materiale di cinquanta figliuoli. C'è la morte, pur troppo, e la ricchezza è una larva. D'altra parte, a rifletterci bene, io, come tutore della fanciulla, penso che con un matrimonio fatto fare a tempo a questo stranissimo uomo di mio cugino, si può arrivare a salvare qualche parte di quei due milioni che ancora gli rimangono e che, col suo sistema di prodigalità forsennata, e colle cappellate colme di zecchini che profonde sul capo di tutte le donne che gli danno in fantasia (lascio da parte i peccati mortali), finiranno a svanir tutti ben presto, ed a lasciare a me l'obbligo di fargli la carità di due o tremila lire all'anno, perchè non abbia a correre in pubblico la voce che un cugino del marchese F... fu ricoverato a San Marco.
- Caro signor marchese, rispose l'Opizzoni, se io mi lascio indurre a frammettermi in quest'affare, non è tanto (mi perdoni se dico tutto quel che penso) non è tanto per riguardo del conte Alberico suo cugino, quanto per riguardo di quella povera ragazza. Quella ragazza nacque sott'al Duomo, e l'ho battezzata io... una pasta eccellente, ben avviata, religiosa, timorata... Or che va a saltar in testa a suo padre e a sua madre (che pur sono bravissima gente), di farle imparar la musica e di metterla sul teatro?... Fu una vera ispirazione del diavolo... ed ebbi perciò un alterco vivissimo col maestro Brambilla, quello che è organista a San Simpliciano; perchè fu lui che consigliò i parenti a far fare quel pericoloso passo alla figliuola. Il maestro che mi sentì a sgridare di ciò i parenti, ebbe un dì il coraggio d'apostrofarmi con ingiurie... Io già gli ho perdonato tutto... è il mio dovere, è questa una condizione del nostro carattere e del nostro istituto... ma da quel giorno tra me e lui s'impegnò una lotta, una lotta terribile, una di quelle che, se non fosse superbia il dirlo, e tanto più ad un ministro di Dio meschino e indegnissimo come io sono, si vedono impegnarsi nelle sacre istorie tra Satanasso e san Michele; ma voglio vedere chi la vincerà, se un monsignore del Duomo, o un suonatore di organo che, di sopramercato, scrive la musica per i balli di Viganò.
Presente a questo dialogo trovavasi Francesco Pezzi, il proprietario ed estensore della Gazzetta di Milano, e il critico teatrale più in voga e più temuto e, in gran parte, più indipendente che allora si conoscesse. Avendo esso officiato qualche tempo addietro il marchese F..., perchè lo raccomandasse al Governatore di Milano, quando appunto la Gazzetta era stata messa al concorso, il marchese ammise in seguito il giornalista alla propria intimità, per averne ammirata la coltura e lo spirito, e più di tutto, per essere stato preso dalla di lui cortigianeria, molto lusingatrice del suo amor proprio letterario e scientifico. In quanto al Pezzi, se adoperò tutti i mezzi e tutte le seduzioni per rendersi sempre più accetto al facoltoso ed autorevole marchese, la cosa era naturale. La Gazzetta gli rendeva da trenta a quarantamila lire all'anno, ed egli aveva bisogno di tutti coloro che lo tenessero sempre raccomandato presso la presidenza del governo.
Il marchese, quando l'Opizzoni si tacque:
- Ma ella, disse rivolgendosi al Pezzi, ella come giornalista e critico teatrale, di ragione deve conoscere la signora Stefania Gentili.
- La conosco benissimo, ed è un prodigio di natura e d'arte. Ma è costei che il conte Alberico vorrebbe sposare?
- Costei per l'appunto.
- Ed è contenta la ragazza?
- Il conte direbbe di sì... ma ella, caro signor Pezzi, conosce mio cugino... e sa bene che per conoscere la verità, bisogna sempre pigliare a rovescio le sue parole. Ha sempre avuto questo difetto, e convien regolarsi... Ma in conclusione, che ne penserebbe lei di questa idea di mio cugino?...
Il Pezzi stette qualche momento senza parlare... Egli conosceva abbastanza il conte Alberico; al pari di chicchessia, lo disprezzava e detestava; inoltre, come intelligente ed amantissimo dell'arte teatrale, essendo anch'egli preso d'ammirazione per le doti straordinarie di madamigella Gentili, gli aveva fatto addirittura un senso di dispetto e di ribrezzo, che precisamente al più spregevole uomo tra quanti ei conosceva, fosse venuta l'idea d'impadronirsi di quel vago e rarissimo fiore di bellezza, di bontà e di ingegno. Ma non era il caso di manifestar per intero la propria opinione. Relativamente a monsignor Opizzoni, bisognava diportarsi con gran riguardo; e se il marchese tagliava spesso a dritta e a sinistra sul carattere e sulle qualità del suo nobile cugino, facilissimamente si sarebbe adontato di chi, senza essere un pari, si fosse messo a fare altrettanto in sua presenza.
- Non crederei, disse poi, che madamigella Gentili, alla quale ho parlato sul palco scenico del teatro Re, possa per ora avere volontà di prendere marito. Non ha che diciasette anni, ed è tutta assorta nelle cose dell'arte... Tuttavia... trattandosi d'un milionario, d'un uomo che ha tante parentele cospicue... potrebbe benissimo... Ella sa bene, signor marchese, come vanno a finir queste cose...
Il Pezzi, che aveva incominciato il suo discorso coll'intenzione di dargli una conclusione ben diversa di quella che gli diede, cangiò intonazione, essendosi accorto che il marchese erasi già rannuvolato.


IV


Ma non aveva ancora finito di dir queste parole, che un servitore annunciò il lupus in fabula: il conte Alberico B...i.
- Addio, marchese, disse questi entrando... - Ah! Bravo, monsignore... Spero che il marchese le avrà detto che mi occorre di lei... Signor Pezzi, la riverisco. Sono contento di vederla qui per poter farle i miei complimenti pei suoi bellissimi tre articoli contro il Carmagnola di Alessandro Manzoni. Oh quella è la maniera giusta di adoperar la critica! Coloro che, per avere assistito al parto e aver fatto da levatrice, pretendevano che la nuova creatura fosse una divinità non mai più veduta, a quest'ora sono tutti ammutoliti... A proposito, conosce lei, signor Pezzi, l'epigramma che su quest'argomento ho scritto e fatto inserire nel Corriere delle Dame?
- Un epigramma l'ho visto infatti... ma, se è quello ch'io lessi... mi fu detto essere di Davide Bertolotti...
- Il mio è questo...


Si leggeva il Carmagnola,
Gran tragedia al mondo sola:
Chi dormia, chi sbadigliava,
Uno solo lagrimava;
Piango, disse quel buon sere,
Per quel prode cavaliere,
Che, da quanto or qui si sente,
Messo è a morte malamente.


- È questo appunto l'epigramma che mi fu detto...
- Essere mio... Quello di Bertolotti non lo conosco.
Il Pezzi tacque.
- Eppure alcuni pretendono, proseguiva don Alberico, che il signor Alessandro Manzoni, per questo sistema di poesia tragica ad uso oppio, sia destinato a diventare il Dante Alighieri del nostro secolo... Povero secolo, se il pronostico andasse bene!...
- Di questa tragedia, entrò allora a parlare il marchese, rivolgendosi segnatamente al Pezzi, ieri sera ebbi a discorrerne lungamente nel palchetto del governatore.
- Del governatore...?
- Del governatore, sì, che ha voluto leggerla da capo a fondo, perchè qualcuno gli aveva sussurrato all'orecchio, contenere dei passi pericolosi e offensivi al governo. Or sapete che cosa mi disse sua eccellenza?... L'ho trovata tanto cattiva, mi disse, che sebbene ci sia da notar qualche cosa sulla maniera di pensare dell'autore, pure non ho creduto di dare alcun rimprovero al censore che gli ha accordato l'Admittitur. È una produzione nata morta; a proibirla si correva pericolo di farla vivere, anche in mancanza di fiato.
Così nell'anno 1820 venne accolto e giudicato tanto dall'autorità censoria quanto dalla critica superficiale e sistematica quel lavoro letterario, che piantava in Italia le prime basi di una letteratura nuova, la quale, ripudiando le leggi del convenzionalismo arbitrario, si proponeva di non essere fedele che alla ragione e alla verità; ma per tal modo fu lasciata uscire in pubblico, col famoso coro della battaglia di Maclodio, la lirica più alta, più indipendente, più rivoluzionaria che mai abbia avuta l'Italia.
Quel coro fu la prima protesta scritta e divulgata, sotto gli stessi occhi dell'autorità, contro il dominio straniero. Da quella poesia, per la prima volta, spiccò il volo il pensiero emancipatore, che non si fermò più. Una fatalità provvidenziale avea decretato che la stolidezza di un governatore e l'ignoranza di un censore proteggessero quel volo inaspettato e incompreso.
Ma questa breve discussione letteraria fu troncata di colpo dal solito domestico, che entrò a dire al marchese:
- C'è un signore che ha bisogno di parlarle.
- E chi è?
- Ecco il suo biglietto di visita.
- Diamine! esclamò il marchese gettandovi l'occhio e rivolgendosi al conte Alberico: ma non è morto il vecchio Suardi?
- Il vecchio Suardi? Che dite mai? Chi sa da quanti anni non c'è più nemmeno la polvere!
- Ma qui leggo Andrea Suardi.
- Andrea Suardi, va bene: è suo figlio.
- Ma aveva un figlio il vecchio Suardi?
- Chi sa quanti ne avrà avuti! Ma questo è il solo che si conosce.
- E che mai può volere da me? Io lo rimando, che te ne pare Alberico?
- Uhm... è un furfante prepotente e manesco, che potrebbe mettere sossopra tutto il palazzo, se gli negaste di riceverlo.
- Allora gli faccio dire di tornare un altro giorno.
- Fate quel che volete, ma io conosco la bestia; è razza di stalliere, di lacchè e d'ergastolo. Non si sa mai quel che può succedere.
- Ma tu lo conosci?
- Lo conosco benissimo. Chi vive in pubblico, come faccio io, bisogna bene che si trovi spesso questa canaglia fra le gambe.
- Allora va tu stesso a dirgli di tornare un altro giorno.
Il conte B...i, ch'era intrigante e curioso per natura, e avrebbe voluto sapere a ogni costo il motivo di quella strana visita del consocio della Teppa, si pigliò l'incarico di fare l'ambasciata egli stesso.


V


Il Suardi, intanto, fatto entrare in una antisala, stava guardando i ritratti della casa F... Marchio F... leggeva in uno scudo dipinto nell'angolo destro al basso del ritratto ad olio, ed era il marchese nella cui casa suo padre era nato e aveva servito. Comes F... lesse sotto a un altro ritratto, ed era il conte rapace, il vero ladro, il fur magister: stette poi a guardare a lungo il ritratto del nonno del marchese a cui doveva parlare.
- Se l'erede ha il muso di costui, pensava tra sè, ora capisco perchè mi si costringe a un'anticamera così lunga; e fece due o tre giri per la camera impaziente. In questa entrò il conte Alberico.
- Tu qui?
- Qui tu? domanderò piuttosto. Il marchese è mio cugino ed è tutore di una mia figliuola. Ecco perchè troppo spesso devo sopportar la presenza di questo gesuita in cravatta bianca. Ma tu, che puoi vivere lontano da questi, che son come i succursali del Sant'Uffizio, che pessima tentazione hai avuta? Ora il marchese è là con un monsignore del Duomo: un bacchettone inferocito, che farebbe abbruciare tutte le ragazze quando son belle... e non darebbe quartiere che alle sciancate, alle gobbe, alle oppilate. Per accrescere il divertimento, c'è anche un oblato di S. Sepolcro, un erudito che non parla mai; e affinchè poi l'intingolo riesca più saporito, c'è quel chiacchierone superficiale di Francesco Pezzi, che mentre dà giù botte da orbo a quei poveri diavoli che cantano e ballano per cavarsi la fame, vien qui tutti i giorni a dare il turibolo sotto al naso del marchese... il quale l'ha preso a proteggere presso il direttore di Polizia. Figurati che società! Ti consiglio a tornare un altro giorno.
- Non ho tempo d'aspettare; devo parlare al marchese oggi.
- Ma dimmi tutto a me. Di che si tratta?
- Si tratta che devo parlare al marchese, a lui, a lui solo, a lui subito, per un affare della più grande importanza... e sono stanco di fare anticamera; ma che diamine aspetta a tornare il servitore che mi ha annunziato? Teme forse il marchese che io lo mangi?... Non lo mangerò... Va dunque tu stesso a dirglielo.
Il modo riciso ed aspro, onde il Suardi aveva risposto al conte Alberico, determinò quest'ultimo a far l'ambasciata presso il marchese, in maniera da sollecitarlo ad accordare l'udienza domandata; e ciò anche pel desiderio di venire a saper subito egli stesso di che grave affare potesse trattarsi. Il marchese disse dunque al domestico di far passare in un'altra sala quel signore che aspettava.
Il servo fece il suo dovere; il Suardi fu introdotto in un'altra camera; poco di poi v'entrò anche il marchese.
La presunzione, che il vecchio Galantino avesse avuto la parte esecutiva in quella faccenda del testamento, che era la storia arcana di famiglia; e l'altra presunzione, che il conte F... ne fosse stato la parte principale e direttiva, per cento ragioni e cento indizj e per delle rivelazioni sfuggite ai vecchi servitori di casa, eransi radicate nella mente del marchese; ed eran passate al grado di convinzione, allorchè venne presentato al tribunale il testamento in originale. Un'altra sua convinzione poi era, che fosse stato lo stesso Galantino a metter fuori quel documento. A tali presunzioni e convinzioni s'aggiungeva la coscienza, per la quale ben sapeva il marchese di avere, a forza di corruzione, fatta violenza alla giustizia; e che però il vecchio Suardi, con cui era già stato in lizza per altre vertenze private, avrebbe potuto, sollecitato dal puntiglio, che è implacabile più del medesimo interesse, trovare il modo di far saltar fuori, senza proprio danno, tutta la cabala ascosa. Per tutte queste considerazioni, allorchè venne a sapere che il vecchio Galantino era morto, respirò e si tenne salvo, alla scomparsa di quella spada di Damocle, che per tanti anni gli era rimasta sospesa in sul capo.
Non ci vuole pertanto un eccessivo sforzo d'induzione, per imaginarsi che effetto dovesse produrgli quel biglietto sul quale era il nome e cognome di Andrea Suardi; che effetto ancor peggiore l'avere appreso dal conte Alberico B...i che quel nuovo Andrea era figlio del famoso Galantino, e che in un bisogno, poteva riuscire assai più formidabile dell'antico.
Questi effetti però, se furono acuti e lancinanti come le fitte di un dente molare guasto, investito da un colpo d'aria, furono anche passeggieri. Era troppo l'orgoglio suo, troppo grande l'idea che aveva della propria autorità e del nome influentissimo del proprio casato, troppo tenace la sua ostinazione, troppo profondo lo sprezzo che sentiva per chiunque fosse sorto dall'infima plebe, perchè egli pensasse in prevenzione a metter giù le armi in faccia a quel nuovo nemico. Tuttavia, se non ebbe questo pensiero in prevenzione, sentì però un astio furioso per quello che era un giovinastro, secondo le informazioni del maldicente Alberico; che era sorto dal più corrotto fango, ma che era milionario al par di lui; milionario e prepotente, e che veniva d'improvviso a turbare i nobili ozj del suo fastoso e rispettato ritiro.


VI


Il marchese, entrando, percorse con una rapida occhiata riassuntiva tutta la persona del Suardi dalla testa ai piedi.
Il giovane Suardi, ad un aspetto bellissimo, univa una eleganza naturalmente signorile, accresciuta dal suo vestito all'ultima foggia. Portava un abito di panno turchino con bottoni di metallo dorati; un panciotto di velluto verde a stelline d'oro; pantaloni di casimiro color persico. Il cappello che teneva fra le mani era di felpa plumée. Era questo un distintivo di tutti gli addetti della Compagnia della Teppa. La differenza dei loro cappelli non consisteva che nella preziosità della stoffa, la quale dipendeva dalla varia facoltà di ciascuno; ma di qualunque colore fosse la felpa, il pelo ne doveva esser lungo e sollevato e scomposto. Secondo alcuni etimologisti, è anzi da questa usanza che derivò l'appellativo alla compagnia; i quali etimologisti stanno contro ad una schiera più numerosa, la quale pretende che un tale appellativo sia invece derivato dai verdi prati di piazza Castello, situati presso i palazzi Dal Verme e Litta, dove i socj avevano cominciato a tenere le loro adunanze.
Quando il marchese entrò, il Suardi stava in piedi. L'uno salutò l'altro con modo assai contegnoso; era evidente come adempissero alla prammatica del più vetusto galateo, ma nel tempo stesso come la loro espansione cordiale fosse molto simile a quella di due duellanti che si salutano prima di uccidersi. Il marchese però non disse nemmen di sedersi al Suardi, dopo di avergli domandato in che cosa poteva servirlo.
- Il discorso che ho da fare, illustrissimo signor marchese, rispose il Suardi con ostentata gravità, dev'esser lungo, perchè la materia è intralciata e seria; però, se mi permette, mi metto a sedere.
Il marchese non disse parola, non fece nemmeno alcun cenno; lasciò fare, ma rimase in piedi.
- Ella mi ha chiesto in che cosa può servirmi? continuava il Suardi. La ringrazio della domanda, ma le dirò che ho dei motivi di credere d'essere invece venuto io stesso a fare un buon servizio al signor marchese. Vostra signoria sa chi sono. Sa inoltre, lo credo almeno, di chi sono figlio. Mio padre poi è conosciuto dalla illustrissima casa F... da più di novant'anni... è una bella tirata! È dunque per questa vecchia conoscenza ch'io son qui; per dei rapporti intimi, troppo intimi, e così non fossero mai esistiti, passati tra mio padre e il nonno di vostra signoria illustrissima.
- Io non so nulla e non capisco nulla, rispose il marchese appoggiandosi ad una poltrona, senza però sedersi.
- Eppure, ella dovrebbe saper tutto e capir tutto... Io non era nato quando vostra signoria avrà sentito a parlare di cose ch'io venni a conoscere tanti e tanti anni dopo. Io non era nato quando la casa F... era già in questione colla casa Baroggi per una eredità contestata... Questo vossignoria lo saprà, come saprà che nel 1813 fu presentato al tribunale il testamento olografo in originale del suo prozio marchese... Ella poi deve conoscere più di me e più di tutti in che strano modo e per che vie arcane siasi riuscito a far sentenziare dal tribunale che quel testamento era una carta falsificata.
- Di tutto questo io ne so tanto quanto gli altri. La sentenza non l'ho proferita io. Se quel testamento fu giudicato essere un documento falso, fu perchè le prove ne risultarono numerose, chiare, palmari. Però non comprendo a che conclusioni il signor Suardi voglia tirare le sue parole.
- Le conclusioni sono che oggi saltarono fuori dei fatti da cui risulta che quel testamento era tutt'altro che un documento falso; e che per conseguenza, dopo settant'anni, la casa Baroggi deve andare al possesso di quanto le appartiene per diritto.
- Se ciò è, rispose con agrezza e con sarcasmo il marchese, non so per che cosa V. S. sia venuta da me. Io non sono il tribunale.
- Se V. S. non è il tribunale, è però il marchese F...; vale a dire che è il pronipote del conte F..., del quale le deve premere la fama.
- La fama del mio avo?
- Se quello che oggi io so... e che domani, occorrendo, potrà esser fatto noto all'autorità, si fosse conosciuto settant'anni sono, l'illustrissimo signor conte F... avrebbe perduta la nobiltà per sè e pei suoi discendenti, e sarebbe stato condannato ad una pena infamante.
- Signor Suardi, disse il marchese alteratissimo, mi lusingo ch'ella non vorrà abusare della mia tolleranza.
- Voglio vedere invece s'ella saprà far uso della sua sapienza. Io non venni qui per insultar nessuno. Che pro ne avrei per me e per gli altri? Venni invece per proporre al signor marchese i modi di ovviare a tutti gli scandali.
- La mia coscienza mi dice di non avere nessun timore d'affrontar scandali. Chi li teme, provveda a scansarli.
- Ma qual compiacenza, disse il Suardi indignato, può trovare il signor marchese nel sentire che si abbia a sapere da tutto il mondo che il suo signor nonno è stato un ladro!
- Mi stupisco come questa parola debba uscire dalla bocca del figlio del Galantino. Vostro padre fu scacciato dalla casa del mio prozio per infedeltà.
- Ed io so che il vostro nonno eccitò mio padre a togliere il testamento dallo scrigno del defunto fratello. So che per spingerlo a ciò gli fece tenere del denaro; so che, per mezzo del suo maggiordomo, gli promise ventimila lire milanesi di regalo ad opera compiuta, e quando fossero superati tutti i pericoli. So che, scomparso il testamento e rimasti in casa F... quei milioni che dovevano passare in casa Baroggi, il signor conte vostro nonno non si ricordò più nemmeno della promessa, considerato che a mio padre non rimaneva modo di far valere le proprie ragioni innanzi alla giustizia; motivo per cui mio padre tenne sempre presso di sè il testamento involato, nel pensiero che col tempo si sarebbe presentata una occasione di punire la vilissima azione del signor conte. Durante la sua vita, l'occasione non si presentò mai; ma il vostro nonno, accecato dall'avarizia, non fu previdente, ed io sono qui a far le veci di mio padre. Questi lasciò scritta la relazione ampia e circostanziata di tutto ciò che è avvenuto; in essa espone e confessa la parte che ebbe in quel fatto; convalida il tutto con giuramento, e medesimamente asserisce e giura che il testamento stato depositato presso il tribunale è il vero testamento scritto di proprio pugno dal prozio di V. S. Ill...
Una tale relazione mio padre la rimise nelle mie mani al letto di morte, lasciando a me piena facoltà di fare di essa quello che mi fosse parso più conveniente. Ora il signor marchese può dire di essere al fatto di ogni cosa; può indovinare il motivo per cui sono qui; può pensare a condurre le cose in modo perchè un tale mistero, che per settant'anni rimase nel bujo, continui a rimaner nel bujo per sempre. Il signor marchese conceda alla famiglia Baroggi la metà dell'eredità contestata. I tribunali non devono saper nulla, perchè è una transazione da farsi e compirsi in via amichevole. Io tacio, il signor marchese tace, la casa Baroggi tace, e tutto resta finito colla soddisfazione e l'utile di tutti. Che ne pensa il signor marchese?
- Penso, rispose il marchese dopo qualche tempo, che chi ha potuto inventare il testamento e presentarlo al tribunale come un documento autentico, può bene avere inventato anche il romanzo di cui vossignoria, così in digrosso, mi ha dato il sunto, e che mi sembra degno della fantasia dell'abate Chiari.


VII


Il Suardi rimase muto; l'ira che lo investì alle parole del marchese fu di quel genere che pel momento toglie al labbro la facoltà di parlare.
Ma, oltre il dispetto che gli venne dall'imperterrita tracotanza del marchese, ciò che lo fece ammutolire fu il ritorno di un pensiero che già gli si era sollevato in mente; che, cioè, l'autorità giudiziaria, come aveva sentenziato essere falso il testamento, poteva per le ragioni medesime sentenziare essere una invenzione perversa anche la relazione e la confessione di suo padre. La pessima fama paterna, l'antecedente giudicato, la riputazione, la nobiltà, l'autorità di casa F... costituivano degli antecedenti e delle circostanze tutte favorevoli al marchese, tutte contrarie al Baroggi.
Allorchè si è convinti che un fatto è vero; che una ingiustizia si compie; che altri stanno commettendo un'azione iniqua, a gravissimo danno di qualcuno, e nel tempo stesso si considera come la legge non sia sufficiente a venire in soccorso di chi ha ragione, come la fortuna abbia saputo congiurare in tutti i modi perchè la verità stessa e la stessa giustizia si presentino sotto una falsa luce, l'animo riman colto da una specie di disperazione che scompiglia lo spirito e fa dare in tali schianti d'ira da farci uscire dalla necessaria moderazione e da spingerci a commetter degli atti che quasi ci costituiscono in colpa.
Infatti il Suardi, dopo aver taciuto per un pezzo:
- Or ben mi accorgo, proruppe alzando e guatando con occhi biechi il marchese dal capo alle piante; ben mi accorgo che ella è il degnissimo figlio di suo padre e il più degno nipote di suo nonno, razza d'infami e di ladri, che protetti dalla nobiltà, dalle apparenze, dai milioni, dalle parentele, dagli amici satelliti, dai clienti vili, dalla stessa autorità che si lascia corrompere volontieri; che facendo l'ipocrita, biasciando ostie sugli altari per dare pubblico spettacolo di religione e di santità al popolo credenzone, commettono impunemente ogni sorta di colpe. Ladro fu il vostro nonno, ladro il padre vostro e più ladro di tutti, voi, signor marchese; e ve lo dico a chiare note, e se vi credete offeso, vi sfido. In questa faccenda io non ho interesse di sorta. Anzi è a mio danno se mi son lasciato indurre a mettere nelle mani dei Baroggi quella carta di cui io poteva disporre a mio beneplacito. Ma l'idea di una iniquità rimasta impunita per tanti e tanti anni; ma il pensiero che quella povera donna stata tradita dal vostro infame prozio meritava una vendetta postuma; ma il considerare che il vostro padre scellerato non ha mai saputo dare nemmeno un soldo di carità a chi era stato defraudato di tanti milioni; ma più di tutto, il vedere che anche oggi l'ultimo dei Baroggi, che è un mio amico, è sul pendìo della povertà insieme colla madre, nata di famiglia nobilissima e che s'illustrò gloriosamente insieme col marito sui campi napoleonici; tutte queste cose mi han fatto risolvere a dar corso a questa giustizia, mi han fatto risolvere, perfino a turbar la memoria del padre mio. Or vede, signor marchese, che disprezzo ella mi deve inspirare; ma già dovevo sapere che non era a sperar nulla da un nemico del paese, da uno che ha fatto tornar qui quella maledetta peste dell'Austria, da uno che congiura coi Gesuiti a infestar le coscienze, a guastare la gioventù, a corrompere la generazione. Razza di ladri siete voi tutti; razza di ladri e, in un bisogno, anche di spie.
Il marchese aveva gli occhi fuor delle orbite; spalancò l'uscio, chiamò i servi a gran voce.
Tutta la famiglia, accorse.
- Scacciate, gridò il marchese, questo furfante dalla mia casa.
I servi, in quattro o in cinque, si accostarono al Suardi; ma esso non ci vedeva più; e al primo sentirsi tocco dalle loro mani, alzò il nodoso bambù, lasciandolo cadere come un flagello sulle loro schiene passamantate. Nacque un parapiglia e uno strepito che mise a rumore tutta la via.
La folla si fermò sotto le finestre e innanzi al portone.
Molti salirono le scale ed entrarono nell'appartamento. E di lì a non molto un picchetto di poliziotti, di quelli che vennero chiamati in seguito, con poco gloriosa antonomasia i soldàa della sgiaffa, capitanati da due gendarmi, entrarono presso il marchese; e, dopo aver sopportate alquante percosse dall'inferocito Suardi, s'impadronirono di lui e lo trassero a Santa Margherita.


VIII


Taluno potrebbe lamentarsi che, dopo sette capitoli, la Compagnia della Teppa, che fu messa in cima a questo libro come un frontespizio appetitoso per attirar gente, non sia ancora entrata regolarmente in fazione. Ben è vero che nel bel primo capitolo ella è comparsa al mostrone, e ha fatta anche qualche evoluzione colle sue armi di precisione, quantunque non dotte; ma conosciamo i lettori e bisogna accontentarli.
Se non che, siccome abbiam dovuto segnare i contorni delle figure principali del quadro, prima di arrischiare le linee del fondo; e in un angolo, per le nostre buone ragioni, ci convenne far trapelare di già il gruppo futuro dedicato ai sentimenti del cuore; e nel mezzo alcune aspre figure incaricate di rappresentare tre o quattro de' più formidabili peccati capitali; e in altro lato, per l'equilibrio necessario della linea, alcune facce di diversissimo carattere, onde obbedire alla legge estetica dei contrasti; così ora ci sarà necessario di metter giù la tinta generale dell'ambiente storico, prima di far sfilare regolarmente innanzi a noi le macchiette più o meno strane e bizzarre di coloro onde si venne costituendo la veramente brusca Compagnia della Teppa.
Caduto Napoleone a Waterloo, tradito sul Bellerofonte, incatenato come Prometeo allo scoglio di Sant'Elena, tutt'Europa in un giorno si trovò arretrata d'un secolo. La fortuna porgendo ajuti inattesi agli errori militari del mediocre Wellington, aveva fatto cadere il capolavoro campale dell'inarrivabile Bonaparte. Il progresso del mondo che, venuto nelle mani di un genio armato e inesorabile, pareva non dovere trovar più ostacoli nell'avvenire, di improvviso si mostrò al sole come un mucchio di rovine, al pari della Roma di Nerone distrutta dalle fiamme in una notte. Tre secoli di preparazione coraggiosa, insistente, indomabile, una schiera di genj emancipatori, sempre decimata e sempre rinnovata, come il drappello della morte, erano trascorsi indarno, avevano lavorato indarno. Wellington, Schwartzenberg, Blücher, vale a dire un uomo di second'ordine, ajutato da un bue e da un cignale, aveano bastato a tanto. Davvero che a pensarci cadon le braccia, e i supremi concetti della verità, della giustizia e della grandezza sembran larve e menzogne.
Pio VII, rinnovatore di tenebre, era tornato a Roma per ispegnere, riabilitando i Gesuiti, la luce feconda uscita dal Breve Dominus ac Redemptor di Clemente XIV. A Vienna l'alleanza dei nemici dell'umanità s'era chiamata santa, quasi a compromettere il calendario e il martirologio. Il parricida Alessandro era diventato il dittatore d'Europa, Francesco d'Austria, Tiberio casto e bigotto, ma più crudele dell'antico, ricuperava la facoltà di assicurare al suo impero la fama di spavento della civiltà. Tutti i Borboni, in Francia, in Spagna, in Italia, erano ricomparsi, come il ritorno di un contagio, come la peste del bubbone, come il colèra.
Quello di Napoli, morto che fu Murat, s'affrettò a decretar onori a' suoi assassini. Ristaurato era il granducato di Toscana, ristaurato il ducato di Modena. Già il re Emanuele di Piemonte aveva con un decreto fatto scomparire tutto quanto il sedimento fecondo lasciato giù dal regno italico. Già Francesco d'Austria e il re di Napoli s'eran trovati a Roma intorno al papa. Già la città di Milano era stata visitata dall'Imperatore, che aveva nominato il vicerè del regno Lombardo Veneto. Il governo austriaco in Lombardia era compiutamente costituito e ordinato e di qui influiva direttamente e indirettamente su tutta Italia.
Già la popolazione nella sua più larga generalità, stanca di così lungo e incomodo scombussolamento, si era adagiata, intenta ai proprj interessi individuali, nel nuovo ordine di cose. Già nella classe dei pubblici funzionarj, dei nobili, dei negozianti, fatte sempre le debite eccezioni, erasi svegliato un germoglio, se non di simpatia, di tolleranza almeno, verso il ritornato dominio. Ad omettere i frequentati Tedeum ufficiali, comandati sempre dai dispacci governativi, i ciambellani abbondavano intorno al sorridente vicerè Ranieri; le dame di corte affluivano intorno alla viceregina, giovane, bella ed alta come un granatiere. La popolazione accorrente alle processioni della Santa Croce e del Corpus Domini, trovava ameno e soave l'eterno sorriso dell'arcivescovo Gaisruck.
In altra parte e in altro tempo era una gara per ottener biglietti onde assistere alla lavanda dei piedi nella sala delle Cariatidi a corte. Il popolo, stanco di disinganni, aveva trovato il modo di mettere in pratica il detto vetusto: «accontentati di quello che hai»; onde potè acconciarsi a mangiare di buon appetito anche le semplici patate, mentre in addietro gli erano venuti a noja perfino i pruriginosi tartufi.
La platea del teatro della Scala, pur troppo, batteva le mani al comparire delle Loro Altezze nel duplice palchetto.
Le faccende del mondo teatrale, segnatamente dell'opera in musica, avean cominciato a diventar l'occupazione principalissima del bel mondo; però se otto e dieci anni prima era un assiduo tener dietro ai movimenti delle truppe, alle nomine dei marescialli, ai bullettini della grand'armata, questo medesimo interesse erasi tutto rivolto a sapere invece, se, per esempio, Gioachino Rossini scriveva piuttosto per la fiera di Sinigaglia che per il Tordinona di Roma; a disputare se Mozart aveva avuto più fantasia di lui; a domandare se Filippo Galli era di nuovo stato scritturato per la Scala; se si poteva sperare che Tacchinardi avrebbe cantato al teatro Carcano; e sopratutto, per qualche tempo, a chieder notizie sull'incendio del teatro San Carlo di Napoli; e se una volta nelle osterie e nei caffè nascevan feroci dispute per dare la preminenza piuttosto a Ney che a Massena, piuttosto a Murat che a Bessière, caricatori incliti di cavalleria, or quasi venivasi alle mani per la preferenza da darsi piuttosto alla Catalani che alla Pisaroni, piuttosto a Nozari che a David.
Ciò in quanto alla generalità del bel mondo; rispetto agli specialisti, tra chi portava un certo amore, per esempio, all'arte drammatica, era un discorrere assiduo di De Marini e Modena e Barlaffa, e della esordiente Marchionni e dei due Righetti, il milanese e il veronese; e del caratterista Pertica e del padre nobile Verzura, ecc. ecc.; e un discutere alquanto appassionato se i dilettanti del Filo drammatico fossero migliori di quelli del Filo Gambaro o del Filo Fuston o del Filo-Navasc, teatrini di dilettanti allora in gran voga in Milano, ed ora scomparsi tutti. - Se poi erano antiquari, o proprietarj di quadri, o incettatori di nummi e cammei, non facevano che parlare del ritorno di Canova a Roma cogli oggetti di belle arti restituiti dalla ristorazione francese, e della fondazione del Museo borbonico a Napoli, o del Leone alato rimesso sulla colonna della piazzetta di Venezia. - Di tutti costoro, che formavano i quattro quinti del mondo colto e gli undici dodicesimi della popolazione, non v'era chi punto si occupasse delle cose di politica; era un terreno che avea scottato e disgustato troppo: però era molto se correva sottintesa la nozione della Carboneria; quasi ignote eran le sêtte dei Sanfedisti e dei Calderari; il nome poi di Adamo Weishaupt e del suo Illuminismo, chi lo avesse proferito, poteva essere compreso come un professore di meccanica celeste da quelli che appena conoscono le quattro operazioni aritmetiche.


IX


Questo fenomeno storico s'era prolungato dal 15 al 18; soltanto i movimenti di Rimini avevan fatto nascere alquante bolle fuggitive sull'ampia gora stagnante; il tentativo di Macerata aveva per poco sospesa l'attenzione esclusiva per la Gazza ladra di Rossini. Gli arresti dei Carbonari di Rovigo avevan fatto più senso della misera fine di Aristodemo. Ma la calma rimettevasi presto.
Codesta calma tuttavia non piaceva alla gioventù, a qualunque classe appartenesse; a quella gioventù che, nell'infanzia, dalle scuole, dai collegi, dal recinto domestico aveva assistito, con prepostera alacrità, ma senza poter avervi parte, alla turbinosa epopea napoleonica; e nell'assiduo desiderio di uscire una volta dalla condizione di fanciulli e di adolescenti, d'improvviso trovarono che tutto era finito, quando appunto anche per essi parea venuto il momento di pigliar le armi, di aspirare alle spallette, alla Corona ferrea, alla Legion d'onore. I più ardenti che, non sospettando un così repentino cangiamento di cose, aveano adoperato ogni cura per essere più preparati alla lotta, nella delusione rimasero iracondi. Quel che avviene nell'ordine fisico, avviene nell'ordine morale: se un giovane di tempra robustissima, abbisognevole di moto e attività ed espansione, vien condannato, per circostanze non prevedute, ad un tenore di vita sedentario e tranquillo e chiuso, è facile assai che da quella medesima robustezza, da quel medesimo rigoglìo del sangue compresso e respinto, gli derivi qualche malore, che lo renda dannoso a sè e agli altri, mentre sarebbe stato utilissimo, se l'indole sua naturale e le occupazioni a cui si era preparato fossero state assecondate e adempiute. Così press'a poco avvenne di moltissimi tra i giovani lombardi, che, nel punto di lasciare il collegio e l'università per vestir l'assisa militare e passeggiar l'Europa militando, si trovarono condannati all'immobilità, senza sapere a che appigliarsi.
Tutti questi giovinotti, che per essere naturalmente accattabrighe e turbolenti e maneschi, avevan tutta l'attitudine, se fosse continuato il tempo delle guerre, a saltar in mezzo a un battaglione quadrato, ed afferrare un caporale austriaco per la cravatta, a far prodigi investendo il nemico a bajonetta in canna; costretti invece a rimaner chiusi in casa, bisognò pure che sfogassero il loro prurito in qualche modo; in quella guisa onde spesse volte le adolescenti monacande, nei silenziosi chiostri, non essendo mai consolate da nessun bel viso di giovane, eccitate dall'istintivo ardore del sangue, arrivano a trovare appetitoso perfino il faccione dell'ortolano e dello spaccalegna del convento. Se a un torrente si chiude lo sbocco da una parte, esso irrompe da un'altra. È antico l'adagio, che quanto non va nella suola, va nel tomajo. Tra gli anni 1816 e 1817 non pochi di codesti giovani, attratti da un'indole congenere, si trovarono insieme e si confederarono; e non avendo un nemico propriamente detto da combattere, si accinsero, per passatempo e a sfogo di umori acri, a tribolare il prossimo. Cominciarono dapprincipio con alcune risse, spontaneamente offerte dall'occasione; di poi, l'esito più o meno fortunato di quelle li venne impegnando grado grado a un sistema di offesa e di difesa; in seguito, acquistatisi qualche fama per frequenti e chiassose vittorie, si diedero, come avevan fatto un tempo i paladini e poscia i capitani di ventura, a fiutare dappertutto dove vi fosse da menar le mani, da metter la via in rumore, da portar lo scompiglio in qualche pubblico o privato convegno, da disturbare qualche crocchio di persone. Codeste loro imprese, al pari dei melodrammi, si dividevano in serie, semiserie e buffe. In generale però, nella loro intenzione, meno qualche caso di vendetta, non avevano mai fini nè serj, nè colposi; bensì avveniva spesso che una soperchieria fatta da essi per ridere e passare il tempo, producesse poi degli effetti gravi, e qualche volta anche funesti.
Per trovar le prove di ciò in un fatto a cui abbiamo assistito; se il bastone della compagnia brusca avesse fracassata la viola Stradivari del professor Majno, che a lui era costata lire tremila, per metter insieme le quali aveva dovuto sottostare a mille privazioni e tenere allo stecco tutta la famiglia; il mondo poteva ridere fin che voleva, ma l'egregio professore del Conservatorio avrebbe dovuto passare lunghi giorni di lutto e ritornare alle privazioni di prima, e far gemere di nuovo la famiglia; chè non per nulla aveva sagrificata la schiena al troppo caro istrumento. Ma questo è ancor nulla; ma i socj della Teppa avevano un gusto matto di bastonare i mariti per toglier loro le mogli. Non sarà stato frequente il caso che un marito idolatrasse la moglie come il Majno idolatrava la viola; ma, in ogni modo, essere assalito di notte all'impensata, sentirsi bastonato molto, trascinarsi a casa a passo lento come il Cucullino di Ossian, tastarsi le doglie, prepararsi l'empiastro d'olio e cera, applicarsi le fasciature; in ultimo, tra le fitte in crescendo del dolor fisico, volgere intorno lo sguardo, e trovar la casa deserta, e non veder più la moglie, e domandarla indarno, come Enea aveva fatto colla sua Creusa; e poi pensare, oh orrore! che i rapitori eran tutti giovani e anche belli, e che la cara moglie era bella e molto giovane e, per certi sintomi,


Forse non nata a fedeltà modello;



caro lettore, siamo giusti e non neghiamo la nostra pietà a quel migliajo di mariti, de' quali il citato non è che uno smorto ideale.
Queste soperchierie quotidiane avevano suscitato un certo spirito guerriero anche in molta parte di quella popolazione che non apparteneva alla Teppa; chè non creda il lettore che i compagnoni di essa fossero invulnerabili come Achille, concessa la sanatoria anche del tendine. - No - le rappresaglie nascevano, e frequenti e feroci. E molte volte quelli che s'eran mossi per rompere la testa altrui, eran andati a casa colla testa rotta. Per aver un'idea di codesto spirito guerriero passato di quel tempo dai campi aperti delle battaglie europee nelle anguste vie della tortuosa città nostra, basta dare un'occhiata ai bastoni dei nostri padri: bastoni che da quarant'anni giacciono polverosi e dimenticati in qualche angolo di qualche vecchia casa; bastoni di frassino o di spino o del più formidabile corniolo, con pomi d'avorio grossi come biglie, e puntali lunghi di ferro. In quella guisa che gli spadoni a due mani, adoperati dai catafratti, che si trovano in qualche polverosa armeria, ci danno idea dei feroci costumi del medio evo; così que' bastoni ci insegnano senza parlare la storia di quarant'anni fa. Un nostro amico più che ottuagenario, il quale ebbe il vanto di conservare una fanciulla, che si chiamava la bella Celestina, all'affetto di un celebre suonatore di flauto, lavorando senza pietà sulle terga dei rapitori, ci mostrò il suo storico bastone che aveva servito a quell'impresa, e che noi abbiamo guardato ed ammirato e palleggiato con quella divozione onde i visitatori della cappella di Aquisgrana toccano e sollevano la Giojosa di Carlomagno.


X


Però la Compagnia della Teppa, fra tante ribalderie poteva anche, a intervalli, vantarsi d'aver compiuto qualche fatto che collimava persino cogli intenti supremi della giustizia assoluta. I suoi mezzi, come al solito, non furono mai nè legali nè legittimi, e nemmen lodevoli; ma per quanto un filosofo sentimentale avesse pensato e ripensato, non avrebbe mai trovato il modo di far la giustizia più prontamente e più compiutamente che con quei mezzi. Siamo sempre alla vetusta teoria della giustizia sommaria, che sola riesce a tagliare dei nodi che nessun codice umano si attenta nemmen di toccare. Però più di un birbone sotto mentite spoglie, di quelli che alla sordina rovinano la società come fanno i topi nei bastimenti; più d'un funzionario pubblico noto per abusi di potere non intaccabili dalla legge; più d'un padre tiranno, più d'un marito assassino fu messo al dovere dalla minaccia e dall'assaggio del notturno bastone. Queste imprese eccezionali non avvenivano per merito dell'instituzione, ma bensì per la inclinazione speciale di alcuni pochi individui che ne eran membri: giovinotti ardenti, ma acuti e generosi, ma dotati di tempra e d'ingegno affatto eccezionali.
Nessun di costoro erano, come si suol dire, persone serie. Tutt'altro: non avrebbero potuto appartenere alla Compagnia della Teppa; eran tutti uomini dediti al buon tempo, ai bagordi, al fracasso. Taluno, fornito ad esuberanza del tubere della giovialità e della potenza comica e della virtù della satira empirica, per distinguerla dalla poetica, tutti i giorni inventava qualche stranezza, gettava qualche insidia che con modi berneschi andasse a ferire in sul serio qualche mala bestia della società patrizia o della burocratica; o mettesse in ridicolo qualche fatto del pubblico o del privato costume, qualche stolta consuetudine, qualche provvedimento sciocco.
Di tal tempra era, tra gli altri, un certo Mauro Bichinkommer, incisore di cifre, milanese, che aveva dimorato per molti anni a Torino, e poscia di là aveva dovuto ridursi a Milano, in conseguenza di alcuni scherzi serj fatti subire a personaggi collocati in alto. Costui era un famoso imitatore d'ogni mano di scritto. Usando di tale singolarità, una volta, a Torino, aveva spedito un ordine, come se fosse del primo ministro di corte, con cui comandava al castellano di recarsi sulla piazza di Madama Reale nel mattino colle truppe, volendo il re fare una rivista generale. (Il re, contro il genio storico della dinastia Sabauda, s'intendeva di milizia come d'astronomia). La seconda burla fu un invito segnato dal principe di Carignano al provinciale dei Cappuccini, di recarsi alla casa del principe per trasportare alla chiesa la povera principessa sua moglie morta di parto. (Il Carignano non aveva ancora avuto figli). La buffonata ebbe luogo con grande scandalo della casa principesca ed infinite risa del pubblico. La terza burla fu un invito a pranzo fatto a diciotto curati della città e sottoscritto dal segretario di quell'arcivescovo con ordine contemporaneo ai pasticcieri, ai pizzicagnoli, agli osti di mandar dolci, salsiccie, manicaretti. (L'arcivescovo era famoso per la sua sordida avarizia, e i diciotto curati erano stati scelti fra i più ghiottoni).
Vedremo in seguito come i fili della nostra azione drammatica si verranno arruffando per la bizzarria della sua indole e del suo ingegno.


LIBRO DECIMONONO


Mauro Bichinkommer. - Francesco I e i Milanesi. - Il conte Alberico B...i. - I genitori della Stefania. - Monsignore Opizzoni e il filosofo Cardano. - Ritratto di Giunio Baroggi. - L'impresario Barbaja. - Il Monte Tabor. - L'Ildegonda di Tommaso Grossi e il Coro della battaglia di Maclodio. - Rossini e Carlo Porta. - Gaetano Donizetti. - Giunio Bazzoni, Pozzone e Redaelli di Cremona. - Francesco Hayez e Pompeo Marchesi. - La viceregina e Stefania Gentili. - La Compagnia della Teppa e i conjugi Falchi. - Il Palazzo della Simonetta. - Rapimento di dodici nani. - Vendetta longobarda. - I Federati. - Conferenza in casa del calzolajo Ronchetti.


I


Di Mauro Bichinkommer giova delineare e colorire il ritratto più accuratamente che ci sarà possibile, tenendo conto di tutte le notizie che intorno a lui ci diede il vecchio Giocondo Bruni che fu suo amicissimo.
Il suo cognome strano, aspro e di germanica desinenza, potrebbe a tutta prima indisporre il lettore italiano contro di lui. L'Austria ci ha talmente guasto il sangue, che ogni qualvolta ci compare innanzi un galantuomo con cognome tedesco, il cuore, invece di espandersi, imita le corna delle lumache quando sentono il tatto di un corpo straniero. Ci ricorda che, viaggiando in Italia nel 1848 in compagnia d'un nostro caro amico italianissimo, ma che aveva la disgrazia di un cognome che finiva in er, ogni qualvolta ei presentava la carta di passo alla porta di qualche città, tosto era un aggrinzar di ciglia nell'impiegato che guardava la carta, un rientrare sollecito per darne avviso al capo d'ufficio, e quasi un batter a raccolta prima che l'amico indispettito e fuor de' gangheri non avesse dato conto dell'esser proprio, e mostrato di essere nientemeno che un incaricato del governo provvisorio di Venezia.
Non mettiamoci dunque in agitazione se il nuovo nostro personaggio si chiama Bichinkommer. Egli era di origine svizzero; il suo bisavo per commerci era venuto a Milano nella prima metà del secolo passato; qui si era fermato, qui aveva preso moglie, e come di cosa nasce cosa, così d'uno in altro parto venne la volta anche per il nostro eroe, che nacque a Milano in via de' Pennacchiari. Anche la via giova a provare ch'esso era milanese in tutta l'estensione onde si può esserlo. - Messo a scuola, erasi distinto nella calligrafia e nell'imitare con straordinaria esattezza ogni sorta di caratteri sì stampati come manoscritti; era passato poi nelle scuole di Brera a studiare l'ornato sotto Giocondo Albertolli: in seguito sotto a Longhi a imparare l'incisione; ma nel 1808, colto dalla coscrizione, abbandonò l'arte grande ed entrato negli ufficj del genio militare, si applicò a disegnar mappe, piani, ad incidere carte geografiche e topografiche. - Nel 1814, tornato a Milano da Laibach, dove erasi trovato collo stato maggiore di Beauharnais, si diede all'incisione di caratteri e d'ornamenti per indirizzi, per cifre, per oggetti d'oreficeria e d'argenteria. Lavorando per tutto e per tutti con inarrivabile prontezza e bravura, guadagnava spesso la sua mezza sovrana al giorno, impiegando tre o quattr'ore soltanto della mattina; a mezzodì, sgombro di cure e libero e colla borsa piena, trovavasi già nel cortile del Falcone a bere la sua mezzetta di vino bianco razzente. All'esercito aveva acquistato una certa celebrità per i suoi talenti come incisore topografico; poi perchè a Wagram nel 9, a Fortolivo nel 12, quando occorse anche a lui di spianare il fucile, erasi meritate le lodi speciali dei capi, ed era anche stato proposto per la Corona ferrea, se per una delle tante combinazioni che avvengon sempre in tali cose, il suo nome non fosse stato dimenticato sotto lo spolverino del quartiermastro. Ma la dote per cui era prediletto dai camerati e dai colleghi, e benvoluto e festeggiato perfino da' suoi superiori, era la perpetua sua piacevolezza, erano i suoi trovati strani messi innanzi ad ogni occasione per tenere allegri bivacchi e caserme. Sopratutto aveva un'attitudine specialissima ad imitare altrui; e copiava le scritture d'ogni genere da parer facsimili i più perfetti; così contraffaceva la voce, il gesto, l'incesso, lo stile, le frasi, le smorfie caratteristiche di chicchessia. Allorchè gli ufficiali superiori sedevano a qualche banchetto, nell'allegria dei bicchieri, non isdegnavano di mandare ad invitare il sergente Bichinkommer dell'ufficio topografico. Brilli e un po' fuori di bilico, applaudivano a furia quando ei metteva in caricatura qualche generale assente, il vicerè Beauharnais, Murat, qualche volta perfin l'imperatore.
Notissimo per tutte queste cose ai generali dell'esercito italiano, esso ebbe occasione di trovarsi frequentemente con loro, quando ripatriarono.
Nella congiura militare del 1815, essendo conosciuto come uomo di scaltrissimo ingegno e fermezza di carattere (chè questa rara qualità bene spesso si trova nelle nature apparentemente più bizzarre), venne adoperato dai generali Bellotti e Fontanella per missioni di grande delicatezza. Veramente ei non era stato messo a parte della congiura; ma aveva compreso tutto, e i suoi committenti sapevano che, avendo gli occhi di lince, avrebbe penetrato qualunque bujo; segnatamente poi lo avevano caro e prezioso perchè, mentre nelle loro mani era un congegno che lavorava mirabilmente, non correvano pericolo di compromettere e di compromettersi. Quando la congiura venne scoperta per opera di quel falso personaggio parente del Bellegarde, che costui con astuzia felina aveva fatto venire espressamente a Milano a rappresentare la parte di un messo del governo francese onde riscaldare ed incoraggiare i congiurati all'intento di scoprirli, il Bichinkommer, che era stato il primo a sussurrare all'orecchio del Fontanella come colui avesse faccia da traditore, fu anche il primo ad evadere da Milano, allorchè s'avvide che la polizia militare era stata informata di tutto. Da Milano passò a Torino, dove si fermò qualche tempo; poi tornò a Milano come negoziante di minuterie per vedere che aria tirasse, e per fiutare davvicino la polizia nel punto di lasciarsi fare un passaporto in regola pei suoi viaggi commerciali. Accortosi, con sua grande consolazione, di essere perfettamente ignoto all'autorità, ripartì, ma per ritornare e rifermare a Milano la sua dimora, ripigliando la vecchia professione.
Quest'uomo detestava la nazione tedesca quant'altri mai poteva detestarla. Aveva dapprincipio cominciato col disprezzarla considerandone gl'individui dall'unico lato di una caricatura goffa, dura, sciocca e ridicola. Quando egli imitava i modi, la lingua e l'accento di un ufficiale austriaco, se di ciò avesse dato accademia, avrebbe potuto mettere a un tallero il biglietto d'ingresso. Ma il suo disprezzo si convertì in un ben diverso sentimento dopo l'astuzia onde l'Austria aveva ripigliata la Lombardia dopo la sconfitta degl'Italiani di Murat, dopo le inqualificabili canzonature diplomatiche con cui si era promesso tanto per non mantener nulla; segnatamente, dopo la trappola tesa con sì pieno esito dal maresciallo Bellegarde. Non poteva capacitarsi che gl'Italiani avessero potuto acconciarsi a vivere tranquilli sotto il dominio di gente che aveva apparenza più di bestie che d'uomini. Si rodeva entro sè stesso pensando che alcuni uomini italiani, e specialmente alcuni Milanesi, avevano potuto pensare al modo di far risorgere il governo dei buoi della Carinzia, com'egli lo chiamava; e rodevasi tanto più quando vedeva che tutta quella immensa mandra di buoi ch'era venuta a provocare colle inerti e antiestetiche figure le più grasse risa dei Milanesi rifatti lor schiavi, era dominata da due o tre uomini che, senza meriti reali, senza nessun vero ingegno, nè virtù nessuna, nè diritto a stima di sorta; pure a forza di ostinazione, di dissimulazione, di taciturnità, colle doti del gatto, in una parola, erano riusciti a canzonare i più scaltri e ad averli sottomano. Queste idee ei le teneva per sè, e non si sprigionava con nessuno, perchè conosceva il mondo, e degli uomini, in generale, non aveva buona opinione, e non si fidava di chicchessia. Però, valendosi della sua giovialità sarcastica, alimentata dal suo cervello sano in perfetto accordo con un fegato di diamante, si vendicava di tutti, mettendo tutti in canzone.


II


Nel tempo che Francesco I venne in Italia, egli, come tutti i Milanesi, aveva di quell'imperatore quel concetto che si esprime col disprezzo. Ancora non sapevasi nel mondo quanto, rimanendo pur sempre ignorante e inetto a qualunque lodevol cosa, colui fosse astuto e crudele. Prima del 1820 tutte le qualità morali e intellettuali dell'imperatore vennero espresse con inarrivabile breviloquenza da quella parola che finiva in on, uscita dalla bocca dell'ombra di Prina. A questo giudizio dei Milanesi dava appoggio il giudizio stesso degli Austriaci e dei Viennesi. Nel tempo che l'Austria era stata messa al più duro partito dalle vittorie di Napoleone, sul piedestallo della statua equestre di Giuseppe, nella piazza di questo nome a Vienna, fu posta una iscrizione che diceva così: «Discendi, o imperatore Giuseppe, dal tuo cavallo di bronzo, e riprendi le redini del governo. Francesco starà seduto immobile al tuo posto finchè dureranno i travagli dell'impero.» Or quando Francesco fece il viaggio in Italia, venne, vide e non fece nulla; onde i Milanesi ribadirono il giudizio della Prineide di Grossi. Molti epigrammi corsero allora in pubblico intorno a lui, e il nostro Bichinkommer, che non conosceva l'arte di fare versi giusti, ma che facilmente infilava la rima ed era poeta nell'intimo, senza palesarsi mai con nessuno, come al solito, ne fece parecchi che fecero ridere tutta la città. Per citarne alcuni, egli attaccò una notte al piedestallo dell'uomo di pietra questo distico, che fu letto a lume di sole:


Tutti si lagnano; io non mi lagno
Perchè ho Francesco per compagno.


Un altro dì, quando si seppe che Francesco I, dopo avere visitato tutti gli stabilimenti di Milano, aveva lasciato ogni cosa come prima, scrisse egli stesso sui muri delle vie più frequentate:


Nuova aritmetica di fresco:
Zero e zero fa Francesco.


Medesimamente, ad un serraglio di belve ch'era stato aperto al pubblico in San Romano, appose per affisso il motto:


«consiglio aulico in vienna.»


Ma quel che maggiormente fece chiasso e corse di bocca in bocca per gran tratto di paese, fu il seguente epigramma ch'egli dettò quando, partito Franceschino dall'Italia, ognuno commentava l'accoglimento che gli era stato fatto alla sua venuta ed alla sua partenza.
L'epigramma era questo:


Verona, città giuliva,
L'applaude quando arriva;
Milano, che sa l'arte,
L'applaude quando parte;
Le altre città, che la pensan bene,
L'hanno in c... quando parte e quando viene.


I versi non sono tutti versi; ma le rime ci sono e la sostanza fa le spese della forma. Nè si limitava ai versi, ma metteva gli scherzi in pratica, e sempre con qualche intento che racchiudesse una lezione.
A una festa che il Casino dei negozianti aveva sfoggiato, per festeggiare l'arrivo delle LL. AA. il vicerè e la viceregina, le carrozze di corte tenendo ingombra tutta la via di San Paolo con insopportabile disagio degli accorrenti, egli si presentò al battistrada, e parlandogli in lingua tedesca, ch'egli aveva imparato fin da fanciullo, appartenendo, come sappiamo, ad una famiglia d'origine svizzera tedesca; gli ingiunse, mettendo innanzi un ordine del conte Settala, gran cerimoniere, di far tornare tutte le carrozze al palazzo di corte. - Il battistrada, sentendosi parlar tedesco e col piglio autorevole di chi comanda perchè sa di poterlo fare, obbedì e con tanta esattezza, che il vicerè e la viceregina col seguito, quando uscirono dal Casino, non trovarono più le carrozze. Non si può immaginare il furore in cui salì l'ispettore delle stalle vice reali, e il rabbuffo che ne ebbe il battistrada; e il pestar dei piedi onde si sfogò l'impazienza della viceregina italica, indarno tentando d'acquietarla quel sornione ipocrita dell'arciduca Ranieri, che, aspettando senza far motto, andava dondolando il capo come un orso bianco del Baltico.
Nè solo esso prendeva di mira il governo e i personaggi pubblici, ma si dilettava di ferire colle sue canzonature anche le persone d'ordine privato. Infiniti aneddoti potremmo raccontare in proposito da farne un opuscoletto, ma li teniamo in serbo per qualche compilatore d'almanacchi, e tiriamo innanzi.
Allorchè, nel 1818, ei tornò a Milano, la Compagnia della Teppa era già salita in qualche fama, ed egli, mentre si meravigliava che la polizia le lasciasse commettere tante soperchierie impunemente, e, mentre in cuor suo disapprovava che la tranquillità pubblica venisse turbata a quel modo senza ragione e senza scopo, volle nondimeno aggregarvisi, nella persuasione che col tempo avrebbe forse potuto recare anch'essa qualche utile. - Sono i più prepotenti e più maneschi della città, egli rifletteva, che imparano la solidarietà dell'associazione; quantunque per fini indegni, pure si avvezzano ad una scuola perpetua di coraggio e di pericoli; e con tutto ciò l'autorità e la polizia li lascia fare, nell'idea che, finchè la parte più giovane e più ardente del paese spreca le proprie forze nei vizj, nei bagordi e nei tafferugli, il governo può dormire più tranquillo i suoi sonni. Ma il governo s'inganna; e quando venisse il bisogno, questi giovani educati a dare alle gambe dei passeggieri come cani da presa, possono diventar formidabili per qualche cosa migliore. Tutto dipende dal comando e dal fischio del padrone. - Così il Bichinkommer la pensava, e così una sera, trovandosi a mangiare all'osteria del Galletto fuori di porta Vercellina, dove quei della Teppa solevano radunarsi quando in estate tornavano dal bagno o dal nuoto nella vicina Olona, egli fece conoscenza con essi, e fu giudicato da tutti loro aver tali qualità da meritare di essere piuttosto un generale che un gregario.
Nei primi giorni ch'egli entrò in fazione con alcuni di loro, diede un diverso avviamento alle imprese, e avvennero cose che non dispiacquero nemmeno ai cittadini più tranquilli e più timorosi della bastonatura notturna. Fu per lui infatti se una mattina la folla si accalcò alle sbarre di quel tratto di naviglio che corre dal Palazzo del Senato a Porta Nuova, per vedervi galleggiar sull'onde, come se fosse un canotto americano, una garitta dipinta in giallo e nero. Quella navicella di nuovo genere non voleva dir nulla per sè; ma il gran ridere che faceva il pubblico accorso, dipendeva da ciò, che sapevasi come quei della Compagnia della Teppa, colta l'occasione che la notte era stata piovosa e che la sentinella col suo cappotto erasi messa al coperto, presero la garitta e la gettarono con gran disinvoltura nel naviglio, tutt'insieme, guscio e lumaca; con gran stupore di quel biondo gregario del Baumgarten, il quale, temendo l'acqua piovana, si trovò invece inzuppato in un bagno più fitto, e buon per lui che nelle acque del patrio Inn aveva imparata l'arte del nuoto!
Esposti questi preliminari, con cui il lettore può farsi un'idea abbastanza compiuta del carattere eccezionale di questo Bichinkommer, aggiungeremo qui, che egli, nello stato maggiore di Beauharnais, per motivi di servizio, aveva avute intime relazioni col colonnello Baroggi, con sua moglie e col figlio; che nel 1815, avendo il colonnello avuto parte nella congiura militare, fu per un consiglio avuto dal Bichinkommer, se potè fuggire in tempo e riparare a Parigi. Aggiungeremo altresì, ed è ciò che più monta, che a Milano spesse volte andava a far visita al figlio del Baroggi, in casa del Bruni; ch'egli era per i rapporti della Compagnia della Teppa in grande intimità col giovine Suardi. Ora, senza dilungarci a dipanare tutti i fili accessorj della matassa, diremo che, dopo il fatto dell'arresto del Suardi, egli ebbe a trovarsi insieme col Bruni e col Baroggi appunto; che, saputo da essi com'era corso il fatto, e le cagioni che l'avevano provocato, e tutti gli antecedenti del marchese F..., dell'avvocato Falchi, del consigliere F…, del notajo Agudio, meditò un piano di guerra affatto nuovo, il quale ci lusinghiamo farà strabiliare anche il lettore più preparato alle sorprese.


III


Come quando, appena alzato il sipario, alla rappresentazione di un'opera in musica, si sente al di là delle quinte, come se venisse da un camerino, il vocalizzo di una voce femminile, che si sospetta esser quello della prima donna e della quale il pubblico è in grande aspettazione; così, senza vederla, noi abbiam già sentita la presenza della giovinetta Stefania Gentili; ne abbiamo udito gli elogj; e in parte, per bocca del pubblico, ne abbiam conosciute anche le qualità dell'ingegno e del cuore. Ma ora è tempo che anch'essa compaja in iscena, col privilegio quasi sempre accordato dai drammaturghi convenzionali al protagonista, di lasciarsi vedere, cioè, dopo che tutti gli altri personaggi hanno fatta la loro comparsa, e piuttosto al second'atto che al primo, per dar tempo al pubblico di condensare la propria impazienza.
Nella via dei Mercanti d'oro, in una di quelle case dove il portinajo è impossibile; case vecchie, sudice e fetenti; piene zeppe d'inquilini da sembrare alveari, la notte del 10 luglio dell'anno 1803, Caterina Frigerio, ricamatrice in oro, moglie di Giacomo Gentili, impiegato d'ordine presso il tribunale civile di Milano, diede in luce una bambina. Una certa Stefania Corali, cantante in quiescenza, e che alloggiava i virtuosi e le virtuose di terzo ordine che venivano a cantare nei teatri di Milano, fu la matrina che la tenne a battesimo. Il battezzatore della neonata, già lo sappiamo, fu monsignor Opizzoni parroco della metropolitana, notissimo fin d'allora per la sua vita rigorosamente ascetica e per l'instancabile zelo adoperato nella cura delle anime. Monsignore volle egli stesso battezzar la fanciulla, per una predilezione speciale in cui aveva i conjugi Gentili; due ottimi cristiani, di costumi irreprensibili e di esemplare pietà. Essi si confessavano e si comunicavano una volta al mese; piuttosto che mangiare una fetta di salame in venerdì o in sabato, si sarebbero messi in nota per la palma del martirio; astinenza che praticavano rigorosamente tutte le vigilie dei santi di gran riguardo, nelle quattro tempora, tutta la quaresima, tutto il mese di Maria, ecc. Della settimana santa non parliamo; il signor Giacomo, che era piuttosto gracile e cui lo star tante ore al tavolino dell'ufficio a trascriver minute, aveva fiaccato lo stomaco, ebbe spesso in quella settimana turbate le digestioni dal troppo olio. Ascritto alla confraternita del Santissimo, sospirò, con un ardore che non è facile concepire, il felice momento di poter essere uno degli otto che portano il baldacchino; e per un intero anno si astenne dal bere vino, mettendo tutti i giorni nel salvadanaio i risparmiati otto soldi onde in capo all'anno avere i danari per farsi un completo abito nero. Il primo giorno che vestì quell'abito, e che, nella sacrestia occidentale del Duomo, infilò i guanti bianchi di filugello colla rosetta ricamata, la sua gioja fu una di quelle che non comprende umana idea.
La signora Caterina era perfettamente della stoffa del marito, e basta così. - Queste due perle, che avevano quasi la medesima età, s'eran sposati trentenni. Avevano passati tre anni senza aver prole, con vero rammarico di tutti e due; ma il dì della Madonna della Ceriola, avendo fatto accendere in Duomo due candele, di quelle di cera fina miniate, una mattina la signora Caterina, così tra il pudore e la soddisfazione, sussurrò all'orecchio del suo Giacomino, ch'ella credeva finalmente d'avere avuta la grazia per cui tanto erasi rallegrata la moglie d'Abramo. In quel giorno i colleghi di ufficio del Gentili s'accorsero ch'egli aveva in corpo una allegrietta insolita, e si dava spesso delle vivacissime fregatine di mano; onde taluno dei più celiatori si fe' di domandargli se aveva vinto al lotto. - E veramente la signora Caterina aveva indovinato; la gestazione fu delle meno incomode; il parto fu un capolavoro di spontaneità; e venne in luce una bambina che si chiamò Stefania; fu data a balia, e dopo venti mesi tornò a casa, bella, tonda e grassina come un puttino dell'Albani; bianca e rasata che parea carta da scrivere, con due occhi poi che parevan due stelle. Siccome il signor Giacomino era piuttosto brutto, fors'anche per le abitudini devote che gli avevan tolto ogni attraenza; e la signora Caterina, ad eccezione di una certa aggiustatezza d'ossatura, non aveva nulla di straordinario, così avrebbero dovuto esultare di quel piccolo prodigio; ma, tant'egli è vero che se si ottiene molto, subito si vuole aver di più, essi trovarono d'affliggersi perchè, in mezzo a tante bellezze, la ragazzina avesse il nasino troppo piccolo e alquanto schiacciatello. Bene le donnicciuole blaterone del vicinato li assicuravano che tutti i nasi, quando sono destinati a diventar belli, i fanciulli debbono averli a quel modo. Bene lor citavano molti quadri di chiesa, dove gli angiolini avevano il naso simile a quello della loro bambina; ma essi non si capacitarono di ciò se non allorquando, verso gli anni otto, il nasino di Stefania si mise nel più perfetto accordo colle altre parti del suo viso, e, a tutti i sintomi, dava indizio di diventar ancora più bello.
- Che te ne pare, Caterina? disse un dì il marito a sua moglie; avevan proprio ragione quelle donne.
- Sì davvero, Giacomino. Ma bada che Stefania non ci senta, perchè comincia a mettersi in superbia.
Non ancora tredicenne, Stefania aveva raggiunta una sì compiuta armonia di bellezza e di leggiadria, con tale espressione nello sguardo, innocente e affatto inconscia, ma per ciò stesso esercitante un caro fascino su quanti la vedevano, che divenne l'oggetto della predilezione di tutti. A ciò si aggiunga, che, trovandosi nella casa dell'ex cantante Corali, dove provavansi ogni giorno sul pianoforte i pezzi delle opere in musica allora più celebri, ella, per sola virtù d'imitazione, ripeteva tutto quello che sentiva, con una voce così toccante nella sua acerbezza, con una intonazione sì perfetta e una espressione tanto superiore alla sua età, da fermar l'attenzione di quei medesimi cantanti che nelle stanze della Corali attendevano alle loro esercitazioni mattinali. Se non che, dobbiamo qui tener conto di un fatto strano, ed è che, in ragione che ella diventava sempre più cara e interessante a quanti la vedevano, veniva per contrapposto a perdere sempre più della benevolenza di un uomo.


IV


Monsignor Opizzoni aveva l'abitudine di visitare una volta o due alla settimana quelli tra i suoi devoti che più aveva in petto. I conjugi Gentili erano tra gli eletti, e come esso prediligeva i genitori, così per qualche tempo prodigò le sue gentilezze sante anche alla bambina, regalandole Agnus Dei, immagini di santi, libretti da messa, ecc. ecc.; ma, di tratto, e quasi senza accorgersene, egli provò una certa avversione per lei, quando appunto si vennero in essa sviluppando tutte quelle qualità per cui era diventata tanto cara agli altri. Quell'uomo aveva sortito dalla natura, e aveva avvalorate colla più rigida costanza nelle abitudini della vita, tutte le qualità che costituiscono i santi; ma i santi senza talento. Il sentimento, il cuore, le intenzioni erano mirabili; ma la mente non era di quelle che Romagnosi, a scrupolo di scienza, chiamò sane.
Egli aveva preso con soverchio rigore matematico il detto e il fatto, che il mondo non è che un luogo di passaggio. Per questa ragione, riputando che l'uomo non deve mai nè pensare nè operare se non nell'intento supremo di meritarsi un posto nel regno de' cieli, aveva sgomento e avversione di tutto ciò che può rendere più cara e più attraente ai mortali la vita mondana; in certi momenti in cui lo invadeva più del consueto il sacro furore dell'ascetismo, avrebbe voluto che la luce del firmamento fosse lugubre e uggiosa, che le stelle inviassero sulla terra un raggio sinistro, che i fiori non avessero fragranze, che le donne non avessero avvenenza. A forza d'adorare Iddio, di non pensare che a lui, di credere che ogni cosa si dovesse fare quaggiù onde glorificarlo, per uno strano pervertimento del suo giudizio, di cui non aveva la consapevolezza, veniva di tal modo ad offendere Dio stesso, rifiutando e biasimando gran parte delle opere sue mirabili. Non arrivò mai a sospettare che il fattore del mondo, se ha dato alla più squisita delle sue creature tanti doni seducenti, non lo deve aver fatto a caso; che il rifiutare quei doni stessi era un cessare dalla sua adorazione. Ma sopratutto egli aveva un'istintiva ripugnanza per le donne, sempre inteso, quand'erano giovani e belle; aveva paura di loro, come di un serpente insidioso; paura non egoistica ma tutta oggettiva, convinto come era che la maggior parte dei peccati ricevevano da esse il più succoso loro alimento, che esse erano le confederate più attive e più fedeli del diavolo; che, pur senza volerlo ed anche colle più virtuose attitudini del mondo, ma soltanto collo spettacolo inevitabile delle loro grazie e delle loro attrattive, riuscivano funeste agli altri e, per consenso, anche a se stesse. Dopo la bellezza egli temeva l'ingegno, sempre inteso quando usciva dalla misura vulgare. Ei soleva dire che per amar Dio non occorreva tanta sublimità di mente nè tanto slancio di fantasia; senza aver lette le opere del Cardano, e con tanta discrepanza di intelletto e d'intendimenti, egli concordava con lui in quella balzana e audace opinione, che le condizioni della società furono sempre peggiorate dalla comparsa degli uomini di gran talento.
Con tutto ciò egli era un lettore indefesso di quanto si veniva pubblicando per le stampe; non v'era opera o brochure francese, per quanto eterodossa, e rivoluzionaria, e diabolica ch'egli non raccogliesse nel proprio studio. Chi, senza conoscerlo, avesse dato un'occhiata alla sua libreria segreta avrebbe detto ch'essa apparteneva a qualche volterriano libertino. Nè in ciò v'era contraddizione. Per far la caccia al demonio, ei lo inseguiva dappertutto, onde non perderlo di vista, e attraversarsi in un bisogno alle sue insidie perverse; e come un processante attivo e inesorabile, teneva sempre i corpi del delitto sul suo tavolino. Paventava dunque l'ingegno e non amava la bellezza. Delle arti poi, fra tutte, detestava la musica, quella che usciva dalla sfera del canto fermo e del Pange lingua. E, più della musica da camera, abborriva la teatrale, tanto che, per questo lato, aveva fieramente in sulle corna l'Italia stata inventrice di quel mostro infame del melodramma.
Con questi precedenti il lettore può immaginarsi con che cipiglio monsignore si trattenne stupefatto sulla soglia della casa dei conjugi Gentili, quando sentì la loro figliuola cantare quell'aria fatta celebre dalla Gafforini


Chi vuol la bella Rosa
L'ortolanella è qua.



Aria che più volte la fanciulletta aveva sentito a cantare da un mezzo soprano in casa Corali, e che, inconscia e innocentissima, ma solo eccitata dall'istinto prepotente per l'arte, ripeteva a perfezione con un certo garbo pieno di smanceria onde risultava lo stile di quell'aria proterva. Cogli occhi aperti, come chi è colpito da una scena d'orrore, esso lasciò che la tenera cantatrice terminasse l'aria fino all'ultima sua cadenza per vedere fino a che punto il diavolo l'aveva assassinata; poi irruppe nella casa, con voce asprissima intimò alla fanciulla di tacere e di non cantare mai più quell'aria; il suo rabbuffo fu così violento, che la ragazza si mise a piangere, e tanto più ch'ella aveva una terribile soggezione di monsignore, il quale da qualche tempo non aveva più avuto nè un sorriso nè una parola dolce per lei, per la ragione che non gli piaceva niente affatto quel suo modo di volgere gli occhi pieno di grazia e di mollezza affettuosa.
Nè l'Opizzoni si fermò qui, ma diede una tremenda lavata di capo ai genitori, e tenne loro sospesa l'assoluzione quando gli si presentarono al confessionale. Ebbe anche il coraggio (il vero zelo è imperterrito) di entrare dalla signora Corali a intimarle che proibisse ai suoi alloggianti di scandolezzare il vicinato con quelle invereconde canzoni. La signora Corali, com'è naturale, gli rispose che aveva buon tempo; da quel giorno monsignore circuì la casa Gentili e la piccola Stefania di mille precauzioni vessatorie.


V


Alcune egregie persone che conobbero dappresso questo personaggio, distinto per celebrità municipale, ci dissero molte cose in lode sua. Esse ci fecero sapere che monsignore, nei penetrali domestici, era tutt'altro che un uomo da spaventare col suo rigoroso ascetismo, ma che anzi si mostrava sovente pieno di amabile gajezza; ci assicurarono inoltre che, per quanto a loro constò, non era per nulla avverso alle cose mondane, in prova di che addussero che era contrario al monachismo; e, in quanto alle fanciulle, desiderava che si maritassero e presto. Ma ora noi vorremmo pregare quelle egregie persone a voler credere che, a tutto rigore di coscienza, noi abbiamo appurato sul vero le nostre asserzioni, a tener conto delle considerazioni che faremo in proposito, a valutare i fatti che ci furono riferiti da uomini degnissimi di fede, e che da noi stessi furono verificati. - Abbiamo detto che quel personaggio, se aveva il cuore, il sentimento e le intenzioni ottime, non aveva poi quella che il Romagnosi chiamò mente sana. Ciò lasciando intatta la santità dell'uomo, non viene a toccare che i suoi errori di giudizio, i quali, per loro natura, come ognuno sa, non lo costituiscono in colpa. A mostrare com'ei fosse eccessivamente rigoroso nel suo ascetismo e nel mettere in pratica gli assunti del suo arduo ministero, annunciamo questo fatto, che siamo sicurissimi di poter garantire. Ad una ragazzetta di dieci anni, nell'occasione che si presentò per fare la prima comunione, ei negò inesorabilmente il permesso di presentarsi alla mensa eucaristica insieme colle altre sue coetanee, per la sola ragione ch'ella era avviata ad una delle carriere teatrali. Noi non facciamo commenti: giudichi il lettore.
Se l'età infantile, se l'innocenza, se l'adempiuto sacramento della penitenza, se l'assoluzione ricevuta permisero ad essa di ricevere l'ostia santa a un altro altare, perchè ciò le doveva essere conteso all'altare apprestato per le sue giovinette compagne? Un fatto può bastare a svolgere un ordine completo di principj, e in questa circostanza i principj dell'Opizzoni, per un errore della sua mente, lo portarono all'ingiustizia, lo portarono a fare un privilegio d'un sacramento; a far credere che vi fossero due Cristi e due ostie diverse. Esso era avverso al monachismo, ci vien detto, e consigliava le fanciulle a prender marito piuttosto che farsi monache. Questo è vero. Ma, in troppi casi, per lo sgomento che aveva della pericolosa condizione delle fanciulle troppo a lungo lasciate nubili, influì, benchè ognora coll'intento del bene, a combinare e ad accelerare matrimonj, che qualunque altro uomo più esperto di lui della vita e più scaltrito dalla scuola delle umane passioni e degli interessi umani, avrebbe fatto di tutto per stornare e rompere a mezzo, scorgendo in essi i germi di disastri futuri inevitabili. In quanto alla sua amabile gajezza, questa non è sempre il sintomo della spregiudicata indulgenza. La coscienza tranquilla può dare la contentezza e l'amabilità. Ma la coscienza scrive sotto la dettatura del criterio. Se questo sbaglia, la coscienza si atteggia alla sua misura. San Carlo, quando comandò i roggi della Valtellina, era tranquillo e pago.


VI


Premesse queste considerazioni, proseguiamo con fiducia la nostra narrazione. Non per obliquo desiderio di offendere un uomo di chiesa, abbiamo stimato a proposito di mettere in iscena quel monsignore di popolarissima fama, ma per un intento che, a parer nostro, ben ci può dare il permesso di rinnovare il sindacato su tutti gli uomini che esercitarono una forte influenza sul pubblico e privato costume, sulla pubblica e privata felicità.
Or tornando alla fanciulla Stefania, essa per molto tempo stette zitta e non cantò più. Il signor Giacomo e la signora Caterina, dopo che eran rimasti in asso una volta coll'assoluzione, provarono una specie di terrore nel pensiero che quel fatto potesse mai ripetersi. In casa della signora Corali però continuavasi a far musica, come suol dirsi; ed or dall'una or dall'altra cantante venivan ripetute, per esercizio, tutte le cavatine e tutte le arie del repertorio musicale allora più in voga. È inutile il dire che trattavasi quasi sempre di qualche pezzo di Rossini. La piccola Stefania poteva bensì, per obbedienza, tener chiusa la bocca; ma l'orecchio era indipendente da qualunque comando, precetto e volontà, e non poteva rifiutarsi a sentire; e la memoria, per suo mezzo, non poteva rifiutarsi a ricevere le successive impressioni delle note e delle frasi e dei concetti musicali. Ora avvenne che quando la sua memoria fu piena di quella folla di motivi deliziosi onde rigurgitano le opere di Rossini della prima maniera, ella provasse come una specie di replessione dolorosa a contenerle con violenza entro di sè. Allora si verificò anche in lei quella legge di natura espressa così bene dall'expellas furca del poeta. Seguendo così il sistema delle capinere e delle filomele e di tutti gli augelli canori, che stanno muti e muti un pezzo, per dar fuori poi tutt'a un tratto con una piena repentina di pipillamenti e di gorgheggi e note tenute, a svegliare il vicinato; la fanciulla una sera, essendo salita su un terrazzo insieme con alcune sue amiche, credendo di non essere sentita dai genitori, si mise a eseguire per la prima volta, quasi a titolo di prova, la famosa aria del Tancredi:


Di tanti palpiti,
Di tante pene,
Dolce mio bene, ecc.


E la prova le riuscì così a meraviglia, che tutte le sue giovinette amiche smisero ogni lor giuoco, per stare attente a udirla a bocca aperta; i casigliani che avevano qualche pratica del teatro e del loggione della Scala, e vi avevano spesso fatto capolino per sentire o la Belloc o la Camporesi o la Catalani, ecc. ecc., si fecero tutti alle finestre e alle loggie, attratti irresistibilmente dall'incanto che esercita una voce soave quando esprime soavi concenti musicali. E il signor Giacomo e la signora Caterina ascoltarono anch'essi, e come no? In que' sei mesi che la fanciulla aveva taciuto, dal gennajo al giugno circa, essa aveva varcati i tredici anni e s'innoltrava ai quattordici; in tutto il suo organismo era avvenuto, sebben precocissimo, uno sviluppo completo; la voce non era più acerba, ma erasi fatta rotonda e flautata. Quel riposo di sei mesi fece sì che il suo svolgersi non venisse menomamente offeso da un soverchio esercizio, che poteva riuscire funesto in que' mesi della crisi corporea. Il più guardingo maestro di canto non avrebbe potuto essere più sapiente del semplice caso. Monsignor Opizzoni, condannandola al silenzio, ottenne effetti non sempre concessi al prof. Bordogni. Quando la fanciulla cessò di cantare, uomini, donne, vecchi, fanciulli, dalle finestre, dalle loggie, dai poggiuoli, si diedero a batter le mani con quella sincera esplosione d'entusiasmo, così raramente accordata anche agli artisti di professione. In quanto al signor Giacomo e alla signora Caterina, avvenne un fatto singolare. Al primo udir la voce della figliuola, si sentiron tentati a salire per sgridarla; ma Stefania aveva cantato in modo, che essi, contro voglia, stetter fermi al loro posto; poi, quando risuonò per il recinto della casa quello strepitoso e concorde applauso, l'uno e l'altra, guardandosi scambievolmente in faccia, si trovarono gli occhi pieni di lagrime.


VII


Quando la fanciulla discese, non la sgridarono, ma tacquero e stettero chiusi come se non avessero sentito nulla.
La signora Corali, che, più di tutti quegli uditori, poteva apprezzare quella straordinaria vocazione della fanciulla all'arte del canto, ne parlò un giorno al maestro Brambilla, il quale, per caso, avendola sentita, anche lui, senza aspettar altro, salì in compagnia della Corali a fare una visita ai genitori di Stefania, per proporre loro di farle studiar la musica e il canto; e, a distruggere tutte le objezioni che a quella proposta essi gli fecero, egli stesso si esibì ad istruirla gratuitamente fintanto che fosse stata al punto di salir le scene; chè allora soltanto avrebbe richiesto un compenso delle sue fatiche. Ma nemmeno a questa generosa esibizione i signori Gentili per allora si lasciarono persuadere.
- Io non comprendo, diceva il maestro Brambilla, maravigliato di tanta ostinazione; non comprendo come si possa dir di no a chi in poche parole vien loro a proporre nientemeno che di diventare ricchissimi. Loro signori saranno contenti del loro stato; ciò va bene; ma se hanno il diritto di far tutto quello che vogliono per sè, non hanno poi quello di rubare alla loro figliuola quella ricchezza che la natura le ha dato. Mi perdonino se, non avendo il bene di essere un loro amico intimo, parlo con tanta franchezza. Ma, ripeto, che è un peccato, un sacrilegio il lasciare che vada perduto un talento così straordinario. Questa ragazza, in un anno di tempo (so quel che dico e non posso ingannarmi, nè voglio ingannar nessuno) può essere in grado di guadagnare venti, trenta, cinquantamila lire all'anno. Mi pare che non sia una bagatella da guardare con occhio indifferente.
- È vero, rispose il signor Giacomo; ma è quella benedetta carriera teatrale che mi fa paura.
- Bisogna che sappiate, caro maestro, entrò allora a parlar la Corali, che queste due perle hanno la disgrazia di conoscere un prete, un monsignore del Duomo, che viene spesso a scompigliar loro la testa e a spaventarli con cento scrupoli.
- Non dica così, che è anche troppo un sant'uomo monsignore, osservò la signora Caterina.
- Sarà un santo, voglio crederlo; sarà tutto quel che volete, ma meno preti vengono per casa, e meglio si sta. Figuratevi, caro maestro, che un bel giorno m'entrò in casa a farmi la dottrinetta e pretendeva nientemeno che proibissi a' miei dozzinanti di cantar le arie amorose per non scandolezzare il vicinato.
- Ma è dunque perchè hanno paura di questo monsignore che non sanno risolversi a fare quel che ho proposto? Ma non è possibile che, se loro vuol bene, esso non veda di buon occhio la loro fortuna. E non è poi sempre vero che il teatro sia tanto pericoloso, come generalmente si crede. Quando poi una prima donna diventa di gran cartello, può passeggiar sicura su tutti i trabocchetti. È ben più pericolosa la povertà per una fanciulla, che, come sento dire, è di una bellezza straordinaria.
- Ebbene, faremo così, rispose allora il signor Giacomo; domani probabilmente monsignore verrà qui; sentiremo lui.
- E se dicesse di no?
- Allora bisognerà aver pazienza.
- Allora gli farò dir di sì io, conchiuse il maestro Brambilla, e partì colla signora Corali.


VIII


Allorchè monsignore Opizzoni capitò in casa dei conjugi Gentili, questi, dopo una lunga titubanza, gli fecero motto della proposta del maestro Brambilla. L'Opizzoni salì sulle furie al sentire quello, per lui, più che strano progetto; e disse cose che persino al signor Giacomo parvero eccessive. In altri casi, se il reverendo personaggio avesse trasmodato nel suo rigoroso ascetismo, egli non si sarebbe mai accorto della stortura di quel cervello; ma nel caso presente, il paterno orgoglio e le straordinarie attitudini della figliuola e la conseguente idea della ricchezza stata così asseverantemente promessa dal maestro Brambilla (le informazioni assunte sul quale lo avevano pienamente rassicurato) gli servirono come di lume e di scorta per distinguere il vero dal falso, e per comprendere che nel modo di vedere del venerabile uomo c'era qualche cosa di esagerato e di stravolto. Quest'idea lo padroneggiò al punto che per la prima volta da che era nell'intimità di monsignore, si fece lecito, quantunque rimessamente, di fare qualche opposizione alle sue parole. È facile immaginarsi come siasi risentito monsignore a quell'inattesa resistenza; se non che a portare un improvviso ajuto al signor Giacomo gli entrò in casa il maestro Brambilla, il quale, avendo visto salir l'Opizzoni in un momento ch'ei trovavasi in casa Corali, pensò, franco com'era e risoluto, a coglier subito quell'occasione per trovarsi col prete e giungere in tempo ad impedire che per eccesso di zelo rovinasse una famiglia.
- Ecco il maestro Brambilla, disse tosto il signor Giacomo all'Opizzoni, felice di vedere un soccorso inaspettato in un momento che non sapeva più cosa rispondere alla tempesta dei rimproveri e delle argomentazioni onde l'Opizzoni lo andava soffocando.
Nel loro genere, così il maestro come monsignore, avevano quell'individualità distinta e caratteristica, da meritare di essere collocati, secondo l'espressione volgare, nella classe degli originali.
Tanto l'uno quanto l'altro erano due galantuomini della più specchiata onestà; tanto l'uno quanto l'altro erano continuamente sovreccitati dagli slanci del cuore, al punto da uscire quasi sempre da quei confini che la prudenza dell'egoismo suole imporre agli uomini: ma l'uno era agli antipodi dell'altro in quanto al modo di pensare. Questi due originali, se non si conoscevano ancora di vista, si conoscevano per fama, onde al primo trovarsi a contatto, si diedero un'occhiata vicendevole lunga ed acuta. Come tutti gli uomini di cuore, che sono convinti delle proprie idee, essi erano intrepidi, per così dire, ed espansivi, e non balbettavan mai quando si trattava di esporre il loro pensiero, nè si lasciavano imporre da nessun ostacolo, da nessun rispetto umano, da nessuna autorità. Però non è a fare alcuna meraviglia se alle prime parole l'Opizzoni investì il maestro ex-abrupto e senza flessuose circonlocuzioni.
- Ella è il signor maestro Brambilla?
- Per l'appunto.
- Ella ha dunque voluto togliere a questa buona famiglia quella pace modesta, che nella vita mondana si cerca sempre e non si trova quasi mai?
- Io faccio il maestro di musica, e non faccio il prete; ma avendo, con grande mia soddisfazione, scoperto nella loro figliuola un vero prodigio di natura, così ho creduto mio dovere di avvisarne i genitori, i quali lo avrebbero certamente trascurato.
- E adesso questi due cristiani hanno già per la testa dei grilli che non ebbero mai; e già son tutti agitati da cento desiderj e certe speranze, e vedono già la loro figliuola diventare una principessa. Se poi tutto questo andasse in fumo, ella avrebbe fatto veramente un'opera meritoria.
- Io non ho detto a questi signori che la loro figliuola diventerà una principessa; ho detto che, mettendo a buon partito le qualità straordinarie che la natura le ha dato, diventerà certissimamente, collo studio e col tempo, una grande artista: questo io ho detto e promesso, e questo oggi ripeto e mantengo.
- E quando, concedendo pure tutto ciò ch'ella dice, costei sarà diventata una grande artista, che cosa crederebbe lei d'aver fatto?
- Che cosa ho da credere?... Credo che se io fossi venuto in questa casa, e dopo aver sentito a cantare questa ragazza, avessi taciuto e non avessi fatto quel che ho fatto, sarei stato o un grand'asino, o un gran birbone; sempre, inteso, nella mia qualità di maestro di musica, che conosce l'arte propria, e l'ama, e desidera il suo maggior progresso.
- Sarebbe ben meglio che quest'arte non fosse mai venuta nel mondo.
- La musica?
- La musica, sì, la musica.
- Ma davvero che ella, monsignore, non mi sembra quel prete dotto che ho sentito tanto a decantare! Ma la creazione non è forse un'armonia sola? E non si suol sempre dire: il concento, l'armonia delle sfere? Ma gli angioli non cantano in cielo? E non si vedono a suonare la viola e il violoncello in tanti quadri di chiesa? Il re Davide non cantava? Santa Cecilia non ha un posto riservato in paradiso come suonatrice d'organo emerita? Ma cosa dice mai, monsignore? bestemmiar la musica, volerla proscrivere, crederla funesta al mondo!... Ma so bene che mi canzona... A questi patti bisognerebbe mettere in pensione anche il Padre Eterno, che è il primo maestro di musica!
- Ella ben sa, signor maestro, ch'io non parlo della musica sacra. Così la musica non fosse mai uscita di chiesa! Parlo della musica teatrale; parlo dell'arte melodrammatica. La corruzione del costume, l'effeminatezza, i peccati divenuti oggetti di moda e di gara nel bel mondo, datano precisamente dal giorno che la più pericolosa delle umane passioni fu portata sul palco scenico, e, vestita di melodie maliarde, accese di più fatali ardori il sangue della gioventù.
- Ma, in questo caso, monsignore, bisognerà incolparne il sangue che si lascia accendere, e non la musica. Del rimanente, quando la pioggia di fuoco cadde sovra Sodoma e Gomorra, il melodramma era forse stato inventato da Peri? la Gafforini aveva cantato? Rossini aveva scritto il Barbiere di Siviglia? Se si dovessero abolire e manomettere e distruggere tutte le cose che possono diventare pericolose, non so più che cosa dovrebbe conservarsi. Taglieremo i vigneti perchè vi sono degli uomini che si ubbriacano? Estirperemo i gelsi perchè vi sono delle donne che vestono di seta a scapito della saccoccia dei mariti? Romperemo la faccia a tutte le belle ragazze, perchè i giovanotti corron pericolo d'andar in rovina per loro? Idee piccole, monsignore, idee false, idee storte.
- Io sto in confessionale, caro signor maestro, e lei sta all'organo. Dal confessionale io vedo tutto il mondo sotterraneo che agli altri non è dato di penetrare. Io posso sapere quali sono le classi sociali, quali le professioni, quali le condizioni, dove il cattivo costume si fa strada più facilmente. Ora devo dirle, signor maestro, che per la mia esperienza ormai lunga, mi riesce provato che la corruzione imperversa colla sua massima forza appunto in quella, ora pur troppo numerosissima, schiera d'uomini e donne che, o cantando o recitando o ballando, divertono il pubblico in teatro. Queste orecchie hanno sentito orrori da far fremere non solo un prete, ma anche un libertino a cui fosse rimasto appena un barlume di onestà. Se pertanto, conoscendo questa buona famiglia; se assistendo con vera e continua mia gioja ad uno spettacolo quotidiano e veramente esemplare di pace domestica, di onestà, di modestia, di abitudini religiose, e per conseguenza d'inalterabile contento, desidero col più intenso ardore, e Iddio mi è testimonio, che ciò si mantenga, mi pare d'aver ragione. Onde farò uso di tutte le mie forze e di tutta la mia fermezza affinchè, per un apparente fortuna, che io ritengo invece una disgrazia sostanziale, per la porta dell'arte corruttrice e della ricchezza non entrino in questa casa tutte le miserie di cui il mondo si lagna, e che sino ad oggi questa casa, per una benedizione speciale del cielo, affatto non conosceva.


IX


Queste parole monsignore le proferì senza quel consueto impeto acre onde soleva esprimersi allorchè, colla convinzione di aver ragione, credeva di combattere il male; ma le porse invece con mansuetudine, con emozione, e con un certo tremito nella voce; il quale significava che quanto diceva, lo sentiva con vivissima passione.
Lo stesso maestro Brambilla ne fu commosso; onde si tacque per un momento, pensando al bene che quel reverendo personaggio avrebbe potuto fare, se la sua testa avesse sortita la forza e la virtù del suo cuore.
- In ciò ch'ella dice, monsignore, ci può essere qualche cosa di vero. Ma risponda intanto ad una mia domanda: se questi signori avessero fatto una pingue eredità, li consiglierebbe forse a rifiutarla, per la paura che la ricchezza potesse mai spostare ed alterare la loro beata condizione di adesso?
- La ricchezza nelle mani di questa buona gente non potrebbe essere che un mezzo felice di beneficare largamente il prossimo.
- Dunque non è sempre vero che la ricchezza sia corruttrice. Dunque l'essere essa di vantaggio o di danno non dipende che dalla qualità delle persone che la posseggono. E quale è della ricchezza, tale è pure d'ogni altra cosa del mondo. L'abuso che si fa di tutto, non vuol dire che sia impossibile un uso ragionevole e lodevole. Io conosco delle donne di teatro, che non sono certo un esempio da proporsi; ma ne conosco anche di tali che, se fossero imitate da tutte le donne delle altre classi, il mondo sarebbe una meraviglia di costumatezza. E son qui con un esempio, monsignore. In questi due anni, nell'arte drammatica, è divenuta celebre una giovinetta, quella che l'anno scorso recitò con grande successo al Lentasio la Francesca da Rimini di Silvio Pellico: Carlotta Marchionni, insomma. Questa giovinetta è un modello di virtù, e il suo esempio frutta alle altre sue compagne; perchè il proverbio dice che i buoni fanno i buoni, e perchè anche la virtù, per fortuna, è attaccaticcia. Siccome questo teatro c'è, perchè ci dev'essere ed è una necessità inevitabile della convivenza sociale; così, per purgarlo della corruzione che ella teme tanto, il miglior mezzo è quello di avviarvi anche le persone che, avendo un talento fatto apposta per far prosperar l'arte, hanno anche sortito un'indole così buona, ed hanno avuta un'educazione così costumata, da far venir di moda la virtù anche là dove, secondo quello che troppo facilmente crede il mondo, sarebbe impossibile.
- Di questa Marchionni ho sentito anch'io parlar con gran lode. Ma so anche che ella non ha il dono funestissimo dell'avvenenza. Quanti guai si stornano allorchè una ragazza non fa nè freddo nè caldo! ma la bella ragazza provoca la tentazione; e la tentazione, se non trionfa oggi, trionfa domani...
- Per la medesima ragione trionferà sulla figliuola di costoro qualunque fosse il tenore di vita che dovesse seguire, anche rimanendo in casa, anche fuggendo il teatro, anche trascurando quel talento straordinario che la natura le ha dato. Queste due oneste persone, senza loro colpa, non sono ricche. Lei, monsignore, m'insegna che la povertà è l'ausiliaria più obbediente della tentazione. Se la fanciulla avesse a far la ricamatrice, come sua madre, o la sarta, o la modista, crederebbe, monsignore, di poterla salvare da tutti i pericoli del mondo?
- C'è il matrimonio per questo... basta ch'ella trovi un uomo della sua condizione... e tutto è aggiustato; e per questo m'impegnerò sempre io.
- Mi pare che dovrebbe toccare alla fanciulla a scegliersi il marito... non al parroco della metropolitana. Non mancherebbe altro che i preti dovessero avere il diritto di far da arbitri anche nelle questioni dell'affetto! Ma ella, insomma, a forza di zelo, vuol condannare alla miseria questa famiglia; vuol negare alla fanciulla il diritto più incontrastabile che ha di non sprecare quel talento onde la Provvidenza le fu benefica; vuol, infine, impacciarla anche nel fatto del suo marito futuro, e condannarla, se le venisse mal scelto, ad una vita perpetuamente scontenta e infelice.


X


A questo punto s'impegnò più viva che mai la lotta tra monsignore e il maestro Brambilla, dopo la quale, nessuno dei due si smosse dalle proprie idee. Monsignore dichiarò solennemente ai conjugi Gentili, che se essi avessero avviata la loro figliuola sul teatro, non avrebbero mai più veduta la sua faccia; perchè egli non voleva essere testimonio inerte e complice indiretto di tanta disgrazia... Così dicendo, partì, lasciando i signori Gentili immersi nella costernazione, nell'esitanza e nell'imbroglio; e raddoppiando nel maestro Brambilla la voglia e il proposito di liberare quella buona famiglia da una protezione che, se era santa nel desiderio, poteva riuscire dannosissima nelle conseguenze.
Passarono più mesi. La fanciulla compì i quattordici anni. Siccome aveva assai svegliatezza d'ingegno, così cominciò a comprendere di avere il diritto di esprimere la propria volontà. I genitori non le avevano mai detto del diverbio avvenuto per lei tra l'Opizzoni e il maestro Brambilla; ma ella seppe ogni cosa dalla signora Corali, onde un giorno ebbe il coraggio di risentirsi con sua madre, e lamentarsi che la si sacrificasse in quel modo, col rifiutare le generose esibizioni del maestro Brambilla d'istruirla nel canto. Era quella la prima volta che essa, buona qual'era e sommessa per indole e per educazione, parlava in tuon sì alto a sua madre, laonde questa, pel dispetto, sebbene la mattina si fosse confessata e comunicata, le diede due sonori schiaffi. Non ci mancava altro! lo seppe la signora Corali, la quale fece gran chiasso; lo seppe il maestro Brambilla, che rimproverò la madre, già pentita d'aver percossa la propria figliuola; la quale, alla sua volta, tenne il broncio per un pezzo, dicendo e ripetendo e gridando, che se avessero continuato ad attraversarsi così ostinatamente alla sua inclinazione, un bel giorno sarebbe fuggita di casa.
Queste non erano che parole, ed ella era tanto buona, che non so che cosa avrebbe fatto piuttosto che abbandonare i genitori. Ma alla fine i parenti si risolsero a prendere un partito. Mandarono a chiamare il maestro Brambilla; questi, per tranquillare la loro coscienza, li consigliò a sentire anche qualche altro prete, un uomo di vaglia, e propose loro il prevosto di San Simpliciano, della qual chiesa egli era l'organista. Per tagliar corto, una mattina il maestro Brambilla fece portare un pianoforte in casa Gentili, e cominciò le sue lezioni. I progressi furono rapidi e straordinarj. Di lì a un anno fece sentire la sua allieva in varie accademie: la giovinetta sorprese tutti. Cantò al Casino dei Negozianti, e la vice regina le regalò uno smeraldo e la baciò in volto; chè la bellezza di quella fanciulla era di quel genere che eccita la simpatia e l'ammirazione perfino nelle donne. Cantò più volte al teatro Filodrammatico; là i giovinotti galanti cominciarono a farle intorno le loro evoluzioni d'idolatria e di spasimo; i socj del Casino s'addensarono sul palco scenico, per vederla dappresso e farle i loro complimenti nel punto che rientrava nelle quinte. I mercanti della via dei Pennacchiari s'accorsero presto che più d'un damerino passava e ripassava per di là, onde cogliere il momento fortunato ch'ella s'affacciasse; e molti s'accontentavano persino di far la sola conoscenza dalla finestra.
Di tutte queste evoluzioni galanti, ella, assorta come era nell'arte sua, e naturalmente modesta, non se ne dava nemmen per dedita. Bensì, di quanti complimenti le avean fatti i giovani nelle sale accademiche dove aveva cantato, ella non tenne a mente che quelli d'un solo; non ci fu nulla di serio, però; ella vide colui più volte, e lo sentì a suonar la viola con un interesse speciale, ma vago e non profondo; colui le rivolse più volte la parola, ma ella, contegnosa e riservata, non adempì, rispondendogli, che alle leggi imprescindibili del galateo.
Nè si ricordò di lui solo, ma con più frequenza, sebbene con suo gran dispetto, si ricordò delle parole enfatiche, in cui eran trascorse più gocce corrosive di lubricità, che le aveva rivolte il conte Alberico B...i sul palco scenico del Teatro Filodrammatico.
E qui dobbiamo occuparci un po' a lungo di questo conte: il crotalo infesto, destinato a spander bava e veleno su quanti lo avvicinano.


XI


Di questo personaggio abbiamo già avuto un abbozzo fatto alla sfuggita dal signor Giocondo Bruni. Ora tocca a noi, se ci riuscirà, a farne il ritratto compiuto.
Vi sono famiglie, segnatamente patrizie (e ciò per la ragione che dànno più nell'occhio, e il pubblico ha il modo di seguirle coll'attenzione), nelle quali s'è potuto notare, essere ereditarie certe tempre di carattere, certe qualità morali, certe attitudini d'intelletto. La dinastia sabauda conta una serie non interrotta d'uomini di studio. La casa Capponi, da colui che fece cader la cresta dello spavaldo Carlo di Francia al vivente Gino, non annovera che uomini di gran senno e di gran propositi.
In casa Belgiojoso si può far conto del perfetto gusto musicale, delle voci di basso e di tenore sempre avvicendate e di una intonazione impuntabile, che in questi tempi può diventare un oggetto d'affezione. In certe case è


D'età in età

Ereditaria

L'asinità.



In alcune l'avarizia, in altre la prodigalità; in queste l'orgoglio, in quelle la modestia, ecc. ecc. Il contino Alberico B...i nacque in una casa dove dal capostipite fino a lui si alternarono, col sistema delle piastrelle e della pila voltaica, un birbone d'ingegno e un birbone volgare; un ramo pronunciatissimo di pazzia esaltata dalla protervia era poi stato comune a tutti, e fu, come il cartone bagnato, mantenitore della corrente elettrica. Il contino, fin da ragazzo, a chiarissimi segni mostrò di non essere un bastardo; mostrò di poter appartenere alla classe dei birboni volgarissimi. Manesco e crudele coi fanciullini più piccoli e più deboli di lui, per trafugar loro un balocco, fu colto spesso dai servitori e dall'ajo a commettere tali atti da far raccapricciare, e quando questi venivano riferiti alla madre, piuttosto severa, allora dava saggi così cospicui d'indole bugiarda, che non era possibile cavargli di bocca la verità nemmeno a strozzarlo. Ma, ciò che è peggio, questa sua avversione a confessare la verità non si limitava a difendere sè stesso, ma invadeva il campo dell'invenzione; per vendicarsi, si godeva a raccontar cose gravissime a danno dei servitori, e con tale malizia e astuzia, che, a tutta prima, non era possibile negargli fede; quindi, più d'una volta, accadde che qualche servitore venne scacciato, che qualche frequentatore della casa si vide, senza poter mai indovinare il perchè, male accolto dai padroni, e anche messo alla porta.
Collocato in un collegio di gesuiti, primeggiò fra i condiscepoli per una memoria straordinaria. Delle facoltà dello spirito, in quell'età che esse si spiegano e si sviluppano, diede poi a divedere di non avere di distinta che quella sola; le altre erano tutte mediocrissime. Però, quando fu a quel punto degli studi che non basta soltanto imparare e ritenere, ma bisogna produrre; più di un condiscepolo lo sopravanzò e di molto; e allora quell'orgoglio, che in lui non aveva potuto destarsi prima, balzò fuori di colpo, e insieme coll'orgoglio anche l'invidia; bugiardo com'era, e in quel modo più infesto che abbiamo detto dianzi, mise sovente i condiscepoli in gravi condizioni al cospetto dei maestri. Scoperto, ebbe più d'una volta, dai compagni più generosi e più espansivi, delle formidabili tambussate, ch'egli subiva a capo chino senza far motto, per rapportare poi tutto ai superiori. In un collegio di gesuiti poteva essere tollerata la bugia, la calunnia, la viltà, la denunzia; ma i cazzotti dati a buona guerra non potevano figurare mai nella tabella delle cose permesse: onde esso riusciva sempre a trionfare, e i generosi a portar sempre la pena di tutto.
Uscito di collegio, passato all'università, risparmiato dalla coscrizione militare per esser figlio unico; studiò legge dapprincipio, poi si ascrisse alla facoltà medica, sollecitato non già dal nobile amore della scienza, ma da un intento stranissimo e turpe, che noi non troviamo la parola per poter definirlo. Egli nella sala anatomica si pasceva della vista dei cadaveri muliebri sottoposti alla sezione; nè l'indole sua simulatrice bastò a nascondere ai condiscepoli quella orrida sua bramosia; perciò un suo compagno, osservatore acuto, lo chiamò la satiriaca jena. E questo fu l'altro istinto che si sviluppò tra gli anni dell'adolescenza e della giovinezza; «chè ad ogni fase della vita era destino che gli desser fuori tutte le prave tendenze onde, nei tristi, ciascuna età dell'uomo può essere contaminata. Fu dunque un libertino dei più dissoluti e osceni, e dello spettacolo delle donne andava sì preso, che le divorava cogli occhi, e i suoi occhi assomigliavano, nella movenza maligna e procace e in quel senso d'ineffabile disgusto che eccitava, a quelli dell'ourang-outang e del mandrillo. A ventun anni s'invaghì d'una bellissima giovinetta di nobile casato. Il suo non fu l'amore che deriva dalla squisitezza del sentimento; ma quel furore voluttuoso fatto di grascia bollente; quel furore ributtante che, in alcuni quadri barocchi, vediamo nei fauni che inseguono qualche ninfa.
Siccome era profondamente dissimulatore, e nel collegio dei gesuiti aveva condotta all'ultima perfezione quella sua qualità, così nella casa di lei recitò così bene la parte di bravo giovine, che alla fanciulla non dispiacque del tutto, e i parenti furono contentissimi di dargliela in isposa, quand'egli ne fece la domanda. Povera giovinetta! Un canarino gentile dato in dono a un fanciullo perverso, che in sul primo lo accarezza e lo bacia per la novità, poi gli strappa la coda, poi gli spenna le ali, poi gli cava un occhio con uno spillo, può dare qualche idea del come si trovò quella disgraziata nelle mani di quel tartufo maniaco inferocito. Di tal modo ella visse con lui cinque anni, e, per sua fortuna, morì di febbre perniciosa. Egli stette solo per assai tempo, durante il quale gettò dietro alle donne danari a manate; poi, venutogli un altro capriccio indomabilmente rapido, prese in moglie un'altra giovine e ricca. Contava allora ventisette anni, e di fresco aveva accresciuto l'asse paterno, alquanto dilapidato, coll'eredità di un grosso milione. Questa seconda moglie era di carattere altero e forte, ed a coloro che si fecer lecito di dirle, si guardasse bene di unirsi a quella bestia feroce, rispose: la domerò io.


XII


Quando al conte B...i morì la prima moglie, si disse da taluno che quella morte immatura era stata la conseguenza degli assidui patimenti onde il marito l'aveva torturata. Questa diceria però era corsa vagamente pel mondo; chi lo conosceva intimamente, non si rifiutava a prestar fede a quanto si andava buccinando; quelli che lo conoscevano superficialmente, e che al teatro, al caffè, nelle liete brigate lo trovavano uomo compagnevole e festoso, credettero e non credettero; nessuno però diede a quella voce l'importanza che meritava. Nessuno sapeva immaginarsi in che modo l'avesse potuta torturare al punto da farla morire. Agli egoisti gaudenti del bel mondo non pareva vero che si potesse uccidere una donna senza pistola, senza coltello, senza corda, senza veleno... La novella sposa pensò anch'essa come costoro, e piena di fiducia entrò nella casa maritale. Per qualche tempo le cose camminaron bene; anzi trionfalmente, al segno che essa ebbe a dire che tutti gli uomini possono essere e buoni e cattivi, e che dipende dalle donne il farli piegare piuttosto in un verso che nell'altro.
Ma i gaudj non si protrassero nemmeno un anno. La nuova donna aveva cessato di piacere al conte; però dalle gentilezze ei passò tosto alle persecuzioni. Queste persecuzioni non erano gravi; anzi eran minute; ma quotidiane, assidue, incessanti, e non lasciavan tempo al fiato di rifarsi nel polmone. L'indiano si difende e si salva dal leone e dalla tigre, ma cade affranto se nugoli di vespe lo assalgono e gli avventano senza tregua il loro pungiglione. Il conte Alberico contraddiceva a tutto: il suo studio maligno consisteva nell'osservare che cosa piacesse o non piacesse alla moglie, per far sempre tutt'all'opposto; se essa prediligeva la compagnia di qualche cara amica, egli si comportava in modo che questa fosse costretta a non entrargli più in casa. Se a lei era antipatico qualche omaccio parassita e vile, che facesse la corte a lui per scroccargli i pranzi, ei gli prodigava ogni maniera di gentilezze, e sopratutto lo voleva aver sempre seco in casa, in carrozza, in palco, in villa.
Ma, quello che costituì il tormento massimo di quella donna che, nonostante la sua forza d'animo, cominciò a perdere l'allegria, la freschezza e la rotondità, fu la continua burrasca in cui venne a trovarsi avvolta per ciò che riguardava la servitù. Egli pretendeva, senza dirlo (ma ciascuno se ne accorgeva) che la servitù odiasse e trattasse male la padrona; e siccome ciò, se avveniva per qualche poco, non poteva continuare, allora egli si rivoltava contro la servitù, ed or con un pretesto, or con un altro, scacciava la cameriera, scacciava il cocchiere, scacciava il cuoco. I servi si rinnovavano; sobillati da lui, in sul principio si comportavano indegnamente colla padrona, ma presto, accorgendosi della tristizia inqualificabile di lui, piegavano pentiti verso di lei, e si studiavano di risarcirla dell'offese. E allora egli ricominciava le persecuzioni, gridava, strepitava, qualche volta percuoteva; e i servi si licenziavano uno dopo l'altro, ed altri comparivano, e si tornava sempre al medesimo barbaro giuoco. In un mese si cambiarono tanti servi e camerieri e cuochi, che la casa del conte B...i pareva l'ufficio d'indicazione del mediatore Mustorgi. Nè le vessazioni dovevano fermarsi qui. La signora si trovò incinta. In quella circostanza i suoi portamenti furono tali, a giudizio dei servi impietositi, da far sospettare che egli, intendente com'era di medicina, cogliesse ogni occasione per sconcertarla nella gestazione.
Quando giunse il giorno che la signora si sgravò, egli col pretesto che, invece d'un maschio, era venuta in luce una bambina, s'infuriò, gridò, ululò, sbattè imposte, e, a tutti gl'indizj, parve che, coi sussulti e gli sgomenti tanto pericolosi alle puerpere, mirasse a provocare una flogosi violenta che gli portasse via la moglie in poco tempo. Il professor Strambio, chiamato dalla levatrice inorridita, prese allora di fronte il conte Alberico, e gli diede un lavacapo con minaccia di peggio. E allora colui a infingersi, a umiliarsi, a protestare un immenso affetto per la sua cara moglie, a dichiarare ch'egli era tutto stravolto pel timore che aveva di perderla; laonde il dottor Strambio, non sapendo a chi credere, se ne andò crollando il capo, e non si fece più vedere.
Queste scene atroci si ripeterono: la madre e la sorella di quella povera donna stavan sempre in timore di qualche sventura quand'ella trovavasi incinta; condizione già pericolosa per sè stessa, ma che in quella casa e con quel marito assomigliava ad una sentenza di morte sempre sospesa sul capo. Di tre figlie che ebbe, l'ultima nacque morta, e la disgraziata madre ebbe a subire una malattia lunga, che le guastò al tutto la complessione.


XIII


In questo tempo, il conte parve più sopportabile in casa; ma ciò potè dipendere da un nuovo vizio datogli fuori: il vizio dell'ambizione. - Presentato a corte, desiderò di essere qualche cosa, di esser fatto ciambellano, di aver decorazioni, di aver titolo di duca come il Litta, di esser fatto consigliere di Stato. E, a quest'intento, perchè quando una passione l'invadeva, ei le si dedicava corpo ed anima, si accostò al vicerè, e fu il suo lecca zampa più fedele, più obbediente e più vile. Indovinando le voglie di lui, spesso, con impudenza codarda, fu il suo manutengolo in tresche amorose; spesso, e ciò con maggior danno del prossimo, o riferendo il vero che non poteva piacere al vicerè, o inventando cose compromettenti, con ingegno diabolicamente astuto mise in gravissimi imbarazzi conoscenti e amici. Ma il vicerè se lo adoperava, lo disprezzava anche, e non gli concesse mai nulla di ciò che con insistenza domandava; laonde nel 1814 il conte B...i se gli voltò contro, e sebbene respinto dai galantuomini, nondimeno, scaltro com'era e matricolato nella simulazione, riuscì a ingraziarsi al partito italico.
Nella famosa giornata del Prina, a rendersi accetto al popolaccio inferocito, fisse e rifisse nel cadavere sfigurato il puntale dell'ombrello. Ritornati gli Austriaci, fu presto ai pranzi di Bellegarde; poscia alle feste di corte, quando vennero il vicerè e la viceregina. Nel tempo stesso però aveva fatto di tutto per aver parte nella congiura militare del 15; continuava a infastidire con proteste di devozione gli uomini del partito italico. Era una pecora codarda ed importuna, che ad ogni costo voleva introdursi tra le gambe dei cavalli generosi.
Quando quelli di cui si vantava amico, lo respingevano con qualche sgarbo; quando non trovava il modo di ficcarsi dov'egli voleva, allora i malumori e le procelle e le tempeste casalinghe ricominciavano.
Nel 1817 ci fu altro cambiamento di scena. Esso venne ad incapricciarsi bestialmente di una giovine cortigiana di meravigliosa bellezza, venuta allora a tender le sue reti ai paperi milanesi della classe nobile e ricca. Al solito, quel capriccio fu una mania e un furore. Mantenne lei, il padre, la madre, le sorelle di lei; le apprestò carrozze, cavalli, palco in teatro, villa sul lago di Como. Ma in breve venne a mancare il denaro per la moglie e per le figlie; ma i servi non eran pagati puntualmente; ma il fieno fatto passar nelle stalle della cortigiana, venne meno al servizio della casa. E qui i lamenti della moglie e le querele dei parenti di lei; e i furori di lui e minacce ogni sorta, e più che minacce, perchè una notte misurò sulla testa della disgraziata moglie un colpo colle molle del caminetto, intanto che vi stava attizzando il fuoco.
Questo fatto, saputo dai parenti di lei, li determinò a procedere per una divisione legale di mensa e di letto. La petizione fu presentata ai tribunali. Chiamato a dar conto di sè, esso calunniò la moglie con oscenissime invenzioni; ma non operò che a danno proprio, perchè i giudici indignati sentenziarono per la divisione legale, per la pensione alla moglie, per l'interdizione di lui. Questa volta tutto camminò col trionfo della giustizia. Ma fu per poco. Essa morì in capo all'anno, lacerata d'animo, disfatta di corpo, ridotta a tal condizione che pareva una larva, anzichè una persona viva. Quando gli giunse la notizia della morte di lei diede un banchetto ai contadini della villa dov'egli erasi ritirato colla concubina, e la notte volle che il palazzo fosse illuminato a giorno.
Vedremo in seguito, come, nonostante questi orribili precedenti, quest'uomo, in conseguenza di pessime istituzioni sociali, per alcune leggi improvvide, per una podestà lasciata con soverchio abbandono a chi non deve averla e non la merita; per l'onnipotenza del denaro che dà la ragione a chi ha torto; per la viltà degli uomini, complice troppo spesso l'autorità stessa, fu lasciato ancor padrone del campo: come un lupo, che, dopo essere stato lo spavento delle madri e dei bambini nel villaggio remoto, non si provvede a prenderlo nel laccio, nè a coglierlo coll'archibugio, ma lo si lascia ancora vagar liberamente per le campagne.


XIV


Quando vedemmo il conte Alberico mescolato ai soci della Compagnia della Teppa sulla piazzetta di San Pietro e Lino, egli era nella massima esaltazione di un furore amoroso per madamigella Gentili; aveva già mandato persone a parlare ai parenti di lei, a far proposte di matrimonio. Aveva anche ricevuto due rifiuti, che sempre più gl'irritarono quel suo desiderio ardente; era inoltre tutto sossopra per le smanie gelose che alcuni suoi conoscenti gli avevano messo in cuore, col dirgli che la fanciulla era innamorata di un altro. Fu allora che avendo sentito a parlare di una serenata, aveva eccitato i compagni per scompaginarla a suon di bastone, nella speranza che si sarebbe potuto spezzar la testa anche al rivale, dal quale presuntivamente quella serenata doveva essere stata ordinata. Le cose camminarono come camminarono: avendo scorto tra i suonatori e i cantanti il conte Emilio Belgiojoso, a tutta prima s'era perduto di coraggio, vedendo in lui un rivale formidabile; ma poi, assicurato dal suonatore d'oboe, Yvon, il quale aveva una speciale predilezione per la cronaca urbana e s'interessava d'ogni fatterello privato, che il conte aveva tutt'altro per la testa, e che invece il presunto amante doveva essere quel Giunio Baroggi dilettante di viola, il conte Alberico a tale notizia si sentì riposto in sella, perchè comprese che coi milioni non era difficile a scavalcare un giovine non ricco. Tornò pertanto a tempestare il cugino marchese F..., tutore delle sue figlie, perchè s'interessasse a tal faccenda; il marchese aveva creduto bene, come sappiamo, di parlarne a monsignor Opizzoni, suo conoscente intimo, siccome all'unico personaggio adatto a compor simili negozj. Le cose erano a questo punto, quando avvenne la scena procellosa tra il giovine Suardi e il marchese F...
Questa scena, non tanto per sè stessa, ma per le sue conseguenze, venne a sconcertar le speranze e i disegni di Alberico. Ma prima di spiegarne il modo, dobbiamo intrattenere il lettore d'altri fatti.
Monsignore Opizzoni erasi assunto l'impegno di parlare coi conjugi Gentili, dimentico, nella sua qualità di santo, di ogni rancore avuto secoloro, e certo d'altra parte di fare un'opera meritoria, col salvare cioè un'anima già ipotecata al diavolo, e col togliere con un colpo maestro una fanciulla ancora innocente dagli orrendi pericoli che la carriera del teatro le veniva minacciando. Salvare un'anima perduta, e assicurare il paradiso a un'anima nata fatta per esso, furono le due idee che esaltarono la carità entusiasta di monsignore. A ciò s'aggiunga una specie di puntiglio, che, a sua insaputa, gli si era fitto nell'animo, e nol lasciava tranquillo da un pezzo, di riuscire ad avere il disopra su quel petulante di maestro Brambilla. Il conte Alberico, dal canto suo, avendo recitato maravigliosamente con lui la parte d'impostore, col protestare d'essere stanco e pentito della propria vita peccatrice, coll'assicurare di sentirsi purificato da quell'amore, e di non scorgere per sè altra via di salvamento che nel matrimonio con quella fanciulla santa, era pervenuto a far veder chiaro a monsignore che la Provvidenza in quella occasione avea voluto dar la più evidente prova della sua presenza, e che però bisognava assecondarla con tutta l'anima e con tutto lo zelo.
Quando monsignor Opizzoni riprese le sue visite ai conjugi Gentili per fare quella proposta che, secondo il suo concetto, doveva riuscir salutare come un miracolo di Gesù Cristo; madamigella Stefania stava per conchiudere una scrittura coll'impresario Barbaja. Quest'uomo, che avea cominciato la sua carriera col fare il guattero nei fondaci delle bottiglierie, poi, spinto dal suo genio, nell'anno medesimo che Volta inventò la pila, scoperse l'alto segreto di mescolare la panna col caffè e colla cioccolata onde nell'imperitura parola di barbajata si fece un monumento più saldo del granito; poi, diventato appaltatore dei giuochi d'azzardo nel ridotto della Scala, arricchì straordinariamente, di modo che presto assunse l'impresa del teatro stesso e quella del San Carlo di Napoli; quest'uomo dunque, meno le sue speciali cognizioni sul cacao e sul moka, era di una ignoranza mitica; ma aveva il genio del far danaro, senza guardare ai mezzi, senza idee di onestà, non fido che all'ultimo intento; come un condottiero il quale divorato dal furore delle conquiste, move innanzi senza badare al diritto, calpestando le popolazioni e moltiplicando le stragi. Nella sua condizione d'impresario era perciò uno strozzino inesorabile di maestri, di cantanti e di ballerini. Fiutava così in di grosso il vero merito, come una volpe che, così anche da lontano, alzando il muso nell'aria, sente odor di pollastro; e tosto gli era sopra per impadronirsene e divorarlo. Quando sentì l'entusiasmo che madamigella Gentili aveva destato al teatro Re, senza por tempo in mezzo, pensò ad ipotecarla a suo vantaggio. Si recò dalla fanciulla, la lodò, ma in modo da farle capire che valeva molto meno di quello che essa potesse credere; le fece capire così vagamente che, se possedeva una voce simpatica, essa era però debole, segnatamente nelle corde di mezzo, e per di più, aveva un certo tremulo che a lui, pratico del mestiere, accusava i sintomi di un facile e vicino scadimento. Dietro questo esordio le propose una scrittura per sei anni, nel primo dei quali le avrebbe corrisposto lire cinque mila, sei nei tre successivi, otto mila negli ultimi due.
I genitori rimasero sbalorditi di così misere proposte, e si guardarono in faccia quasi a dire: Il maestro Brambilla ci ha dunque ingannati. - E madamigella Stefania rispose che non poteva accettare quei patti in nessun modo, e che piuttosto avrebbe rinunziato per sempre alla carriera teatrale: l'impresario replicò, ragionò e sragionò, e conchiuse che sarebbe tornato entro tre giorni a sentir la risposta definitiva. Ma nel secondo di questi giorni comparve invece monsignor Opizzoni, impresario d'anime, a fare la sua proposta inaspettata. I parenti della ragazza conoscevano il conte B...i appena di nome; tuttavia, per quanto vivessero fuori del mondo, era giunta fino a loro la notizia della torbida vita di colui, e ne fecero motto a monsignore; ma egli tosto lor contrappose. che se esso aveva avuto un cattivo passato, era da ascriversi al bollore della gioventù, all'inesperienza, all'essere stato disgraziato nella scelta delle mogli; che, di presente, quantunque fosse ancora in freschissima età, non era però più in quella procellosa stagione della vita, in cui tutti gli uomini, quelli eziandio destinati a diventare sapientissimi, non mancano di fare sovente i loro stramazzoni; che esso avea parlato in modo, aveva espressa una tale deferenza per la fanciulla, aveva così altamente protestato che soltanto per quel matrimonio avrebbe ottenuta quella tranquillità d'animo che non ebbe mai prima e per mancanza della quale potè far cose di cui tanto si vergognava e si pentiva; che meritava assolutamente di esser preso in considerazione; e per conseguenza, dal lato di loro e della ragazza, l'annuire a una tale proposta, non era soltanto un colpo di fortuna inaspettato, un beneficio della Provvidenza, la quale esibiva alla ragazza tutti gli agi della vita, mentre le faceva scansare tanti pericoli; ma era una buona azione, un'opera meritoria, un mettersi sicuramente sulla via del Signore. I genitori guardarono alla figlia, come a dire: Che te ne pare? Ma la figlia non rispose nulla: onde monsignore, conchiudendo che, in ogni modo, la questione di un matrimonio essendo sempre una cosa gravissima, meritava il più maturo consiglio, si licenziò dicendo ai genitori che sarebbe ritornato a sentire le loro deliberazioni, e che intanto egli avrebbe pregato il cielo perchè volesse inspirarli.


XV


L'idea della ricchezza possibile aveva in addietro lavorato così fortemente nella testa di quelle due sante persone del signor Giacomino e della sua metà, ch'eransi rassegnati a non più veder monsignore per casa, e a lasciar che la fanciulla seguisse la propria vocazione. Ma l'idea della ricchezza certa, subentrata in un momento che l'impresario Barbaja aveva ridotta ad una inaspettata diminuzione di prezzo il merito vocale di Stefania, fu così forte e formidabile da far loro conchiudere, che i figliuoli devono sempre obbedire; che la giovinezza non sa quel che si fa; che se Stefania aveva tanta passione per il canto, poteva continuar a cantare anche in casa del conte B...i. Ma Stefania, interrogata, rispose ricisamente che non voleva maritarsi; che quel signore lo conosceva di vista, e non gli piaceva niente affatto, perchè era brutto e perchè, per certe parole che aveva avuto la sfacciataggine di rivolgerle sul palco scenico del teatro Filodrammatico, doveva anche essere disonesto. Allora il signor Giacomino che frequentava le quarant'ore montò sulle furie; disse che il conte Alberico era abbastanza un brav'uomo ed anche un bell'uomo, senza essere una meraviglia; che in quanto alle parole dette o non dette, tutti i giovanotti quando parlano a donne di teatro hanno sempre quei modi e quello stile, e che era ridicolo il pigliarne scandalo.
Stefania rispose con un certo slancio stizzoso, che all'uomo delle quarant'ore parve insopportabile, e al tutto sconveniente col rispetto che i figliuoli devono ai genitori; onde su quella cara e leggiadra testina lasciò andare uno scappellotto plebeo, che fece dar la fanciulla in un dirotto pianto di dolore e di rabbia. Il diavolo insomma era rientrato in casa Gentili, nascosto sotto la sottana del suo gran nemico Opizzoni. È difficile immaginare le vessazioni assidue che quei due santi fecero soffrire alla loro figliuola. Una mattina la madre la prese alle strette, perchè confessasse se mai avesse un altro amante: Stefania rispose di no; e alle repliche materne protestò e giurò, per finire a piangere come una disperata. Nel frattempo monsignore tornò più volte in casa Gentili. I genitori parlarono sempre in nome della figliuola; e questa sentì una mattina che monsignore tutto beatificato: - «Ah son ben contento, esclamò, ch'ella sia felice d'accettar la mano di colui.» Il conte B...i ebbe così il permesso d'andarle in casa. E i modi di lui, siccome aveva dell'ingegno ed era educatissimo ed ipocritissimo, furono così cortesi ed anche così ameni e disinvolti che, per la prima volta, Stefania si sentì alquanto placata e risolse di dir di sì, anche per fuggire le domestiche torture, e benchè non le paresse vero di dover sposare un uomo la cui bocca, allorchè s'apriva, presentava il desolante spettacolo dei troppo felici esperimenti dell'in allora celebrato dentista Bonella.
I parenti di Stefania che, finchè durò l'opposizione di essa, avean sentito in fondo alla coscienza certe fitte intermittenti di rimorso, pur nell'esaltazione e nel dispetto che provavano nel trovare la figliuola tanto indocile e nella certezza di far l'uso il più legittimo della potestà paterna; assaporarono l'ebbrezza di una felicità non mai provata prima, nel vedere che finalmente non solo ell'erasi piegata al loro desiderio, ma pareva anche contenta: onde diede lor fuori un amor paterno e materno così sviscerato che le prodigarono ogni sorta di carezze, di gentilezze, di delicatezze. Pareva quasi ch'ella fosse diventata la padrona di casa, perchè la madre adempiva ad ogni suo desiderio colla sollecitudine e la sommessione quasi d'una fantesca; e il padre era diventato dell'umore il più gajo, e al desco quotidiano era sollecito di servir la figliuola per la prima, chiamandola già contessa Stefania, così tra il serio e il buffo. Monsignor Opizzoni, che, essendosi accorto in principio dell'avversione della fanciulla per quel matrimonio, rigorosamente coscienzioso com'era, aveva già pensato di non parlarne altro; provò una soddisfazione ineffabile quando fu convinto che la fanciulla era contenta. Ringraziò il cielo con tutta la espansione del suo animo santo, e recatosi in casa del conte Alberico, gli fece, come suol dirsi, una paterna così calda, così eloquente, nel mettergli innanzi tutti gli obblighi a cui andava incontro nel legare per sempre alla propria vita quella della fanciulla; gli parlò con tanta effusione delle qualità squisite e maravigliose di lei, gli raccomandò con un fervore così appassionato, perfino colle lagrime agli occhi di provvedere con ogni sforzo, con ogni cura a farla felice, che per verità, chi avesse ascoltato quel discorso, avrebbe dovuto piangere di tenerezza.


XVI


In quanto al conte, il delirio che lo invase nel pensiero che avrebbe realmente posseduto quel capolavoro di bellezza femminile, fu tale che in realtà era diventato quasi buono; non era più invidioso di nessuno, aveva smesse le menzogne e le calunnie; e stette intorno alla fidanzata con ogni maniera di gentilezze. Chicchessia pertanto (non chi scrive però, perchè di tali cose se ne intende troppo) avrebbe dovuto invidiare quella giovane creatura cullata dai genitori come se fosse una neonata, raccomandata espressamente al cielo dalle preghiere di un venerando sacerdote, idolatrata dal futuro sposo; al che si aggiunga la splendida prospettiva del cocchio, del palco in teatro, delle livree, dei viaggi a Parigi, a Londra, a Madrid, delle conversazioni serali e vocali, dov'ella necessariamente sarebbe stata la regina legittima e perpetua della festa.
Esultavano dunque tutti, ma tutti a danno di una sola, e precisamente quelli che, esaurita la maggior parte della vita, avean raggiunta l'età in cui gli uomini non dovrebbero avere altro obbligo che di provvedere al bene della gioventù che sorge, di apprestarle tutte le occasioni della felicità possibile, di soccorrerla, di salvarla, di colmarla di beneficj. Esultavano tutti a danno di una sola. La giovinetta Stefania, leggiadra, bella fra le bellissime, dotata di un talento straordinario e in quella sfera dell'arte che è la più lusinghiera e la più affascinante di tutte; essendo alimenti naturali di questo medesimo ingegno il sentimento, l'entusiasmo, l'amore ardente del bello, e attraverso e intorno e dentro a tutte codeste attitudini, una serpigine occulta, persino a lei stessa, ma prepotente e fortissima, di una sensualità gentile, che non offendeva la castità nativa, ma le metteva in ebollizione il sangue con tentazioni arcane; l'unica figliuola di due santi testardi e inconsciamente spietati, eletta creatura che cresceva allora e per la quale quanti le stavano intorno avean l'obbligo di sacrificarsi, era predestinata invece, come Ifigenia, per i fatali responsi di un sacerdote, ad essere immolata sull'ara paterna, e a diventare, come Andromaca o come Angelica, pasto consacrato alle zanne d'una belva affamata.
E la belva affamata, divenuta transitoriamente mansueta nell'aspettazione del pruriginoso cibo adocchiato e presentito, si recò una mattina dal suo nobile cugino marchese F..., amministratore della di lui sostanza e di quella delle sue figlie, per pregarlo di anticipargli un centinajo di mila lire per le spese degli sponsali. Ma il marchese, contro ogni sua aspettazione e con sua dolorosa sorpresa:
- Io non ti anticipo nulla, disse. - Ho altro per la testa in questi dì.
- Ma, e che è avvenuto?
- È avvenuto che non ho danari da dare altrui: segnatamente quando si tratta di soddisfar capricci, e probabilmente di far nascere dei disordini.
- Disordini?
- Peggio che disordini, perchè una bellissima ragazza di diciott'anni, vagheggiata e desiderata dalla più avvenente gioventù di Milano, e che si adatta a congiungersi con un tuo pari, è una tale anomalia da non potersi comprendere. Io ti ho raccomandato a monsignore, perchè credevo che quel sant'uomo, liberando me dal fastidio di fare il sensale di matrimonj, avrebbe detto tutto ai parenti della fanciulla; non omettendo di far loro presente che a soli trentasei anni ti son già morte due mogli, giovanissime l'una e l'altra.
- Ma che discorsi son questi, caro marchese? Ma quando uno sposa una donna, ha forse l'obbligo di garantirle la vita?
- Non so nulla. Ma io non darei mai mia figlia ad un uomo ancor giovine, che si è già trangugiato due mogli come due uova fresche. Ma queste sono parole; il fatto è che i danari non te li do.
Questo repentino cangiamento nell'umore del marchese F…, che in quella mattina si mostrò col conte Alberico bisbetico fino alla provocazione e all'ingiuria, e che il conte Alberico sopportò per quella viltà che lo faceva tacer sempre innanzi a quelli che potevano più di lui e non dipendevano da lui, era stato provocato da un incidente tutt'altro che atteso dal marchese, il quale si trovò risospinto nel mare pericoloso del tribunale, e si vide di nuovo nel pericolo di perdere quei tanto contestati milioni della lite centenaria, per una lettera che il notajo Agudio da una sua campagna presso Varese, dove era gravissimamente ammalato, aveva scritto al Direttore di polizia.
Il marchese nell'ozio fastoso della sua ricchezza non contrastata, nella compiacenza beata d'essere un gran facoltoso rispettato e temuto, soleva assecondar volontieri chi gli si raccomandava, e non si lasciava troppo pregare nel far piaceri a parenti ed amici, e perciò aveva trovato giustissimo che suo cugino si preparasse ad assassinare un'altra moglie. Ma l'inatteso pericolo sorgiunto gli rovesciò l'animo, lo fece diventare bisbetico e intrattabile. Parendogli che tutti fossero in miglior condizione di lui, sentì il morso della più dispettosa invidia pur contro quel vile briccone di Alberico che, senza cure di nessun genere, pensava a soddisfare a nuovi capricci. Non sperar nulla però, o lettore di buon cuore; bensì preparati a fatti strani.


XVII


Una quarantina d'anni sono, il corso festivo del popolo milanese, disertato dall'antica via Marina, e poscia dai giardini e dal bastione di porta Orientale, erasi ridotto a porta Romana. Pare che questa deviazione, che infranse per cinque o sei anni la secolare consuetudine, sia stata occasionata da un tale, che, avendo viaggiato in Russia, introdusse nell'osteria del Monte Tabor, posta ai fianchi della porta Romana, il divertimento della slitta. Costui, traendo profitto degli accidenti di giacitura di quella parte di bastione che si venne col tempo addossando ed innalzando sulle vetuste mura di Milano, vi praticò una discesa precipitosa di centocinquanta passi, pavimentata in legno liscio con solchi paralleli, in cui scorrevano delle ruotelle in ferro portanti una seggiola per una persona, od anche per due, quando l'una avesse caro di sedere in grembo all'altra.
Questo divertimento, per quanto fosse puerile, come dicevano gli uomini gravi e non più giovani d'allora, fu potente a far cambiar direzione a centomila gambe. Fosse la novità della cosa; fosse che (siccome si usa nelle feste da ballo, che il cavaliere si piglia seco la dama o la damigella, e anche senza conoscerla, dalla usanza tiene la sanatoria di danzare con essa e di abbracciarla a suon di musica), fosse dunque che i giovanotti e i cacciatori d'amore avessero il permesso di tirarsi in grembo le signore più o meno maritate, le fanciulle più o meno custodite, e che alle fanciulle e alle signore non dispiacesse niente affatto di sedere a quel modo, il fatto sta che l'insolito gioco ebbe un successo di entusiasmo e di delirio. Nelle giornate di giugno il concorso cominciava all'alba e finiva a mezzanotte; cosa che si comprende facilmente quando si sappia che con soli 50 centesimi si pagava l'ingresso e tre slitte.
Nei giorni di festa e di giovedì l'affluenza delle carrozze era tale, che dal ponte alla porta dovevano procedere lentissime in due file, ed anche far lunghe soste. Il fortunato importatore di questa slitta senza ghiaccio guadagnò per molto tempo più di mille lire al giorno. Quando uno, nel caso di metter fuori una ditta, sceglie per socio il peccato, è quasi sempre sicuro di far fortuna. In conseguenza però di parecchi disordini avvenuti, la polizia dovette sospendere quel divertimento per qualche tempo; e non ne concesse di nuovo l'esercizio che col primo maggio del 1820. Fu allora che il Monte Tabor, abbellito di nuove piantagioni, ornato di pergolati e padiglioni, rallegrato dalle bande musicali, col libero ingresso alla slitta accordato a chi desinava in quell'osteria, tornò ad attirare a sè tutta la folla gaudente della città di Milano.
Nel dopopranzo del 24 settembre, giorno di domenica, era, come di consueto, affollatissimo lungo il corso di porta Romana il passaggio dei pedoni, prolungato e lento e ad ogni istante interrotto il procedere delle carrozze, dei pesanti e maestosi landò, dei bombé non ancora scomparsi, dei birbini, dei cabriolets; piena la corsia interposta tra le due file di eleganti cavalieri, che si fermavano al fermarsi de' cocchi, a' cui sportelli apparivano tutte le foggie dei cappelli femminini che in quei giorni erano stati incisi e dipinti sul Corriere delle Dame, redatto allora da Angelo Lambertini; cappelli di crepon, di raso, di treccie di cotone, di paglia di Firenze con penne di struzzo, con marabouts, con piume scozzesi, ecc., ecc. Presso all'osteria del Monte Tabor era un ingombro inestricabile di cocchi, di cavalli tenuti a mano dai palafrenieri, dalla più minuta gente del popolo, la quale, mancante degli indispensabili cinquanta centesimi per entrare, si accontentava di vedere lo spettacolo esterno e di sentire la musica delle due bande militari, che, collocate alle parti estreme dell'osteria, si alternavano nell'eseguire i pezzi delle opere teatrali allora più in voga. In quel dopopranzo, il concorso alla slitta era forse maggiore del solito, perchè si sapeva che, per la prima volta, vi dovevano intervenire il vicerè e la viceregina, i quali tenevano dall'imperiale parente il mandato di aspirare alla popolarità, mescolandosi ai cittadini e al popolo.
L'interno dell'osteria, dai bassi piani, dalle falde sino all'ultima vetta del Tabor, era un vero alveare rumoroso e gozzovigliante, percorso e ripercorso senza posa da camerieri trafelati. Verso le ore sei arrivarono, preceduti dal giallo battistrada, i due tiri a sei vicereali, il che se, pel momento, produsse una sosta nella agitata faccenda della cucina e della cantina, accrebbe il movimento e il fracasso del pubblico accorso, e non mancarono, pur troppo, i battimani prolungati all'entrare delle loro Altezze Imperiali nel locale della slitta. Vi fu, com'è naturale, qualche faccia pesta, qualche costa indolenzita, allorchè i curiosi pretesero tutti di vedere dappresso la viceregina ad assidersi nel calessino della slitta, ed a fare i suoi cinque o sei giri in pochi minuti. Possiamo assicurare che la viceregina ebbe un successo di fanatismo anche perchè era una bellissima donna, più alta di una Patagona, e perchè forse nella rapida discesa, squarciando il vento, permise che le candide gonne, alzandosi in barocchi svolazzi, lasciassero vedere un pajo di gambe dense e poderose, di quelle che di solito non sembrano concesse alle Altezze Imperiali. Non mai artista, nè cantante, nè ballerino o cavalcatore, nemmeno la Malibran, nemmeno la Elssler, nemmeno Miss Ella, fecero girar la testa al pubblico, affrontando tutte le difficoltà dell'arte e il pericolo di rompersi il collo, come la viceregina sedendo comodissimamente in slitta.
Qualunque straniero, di quelli che non stancano gli occhi sui giornali e non tengon dietro alle politiche altalene, se si fosse trovato allora in Milano raggirato nel vortice di quella baraonda, avrebbe dovuto dire che l'età dell'oro era tornata fra noi; che i sudditi italiani andavano in amore per i sovrani tedeschi; che questi non avevano a temere più nulla; che il barometro della storia assicurava un sereno dei più costanti; che una specie di beatitudine asinesca aveva avvolto nella sua tepida atmosfera tutta la nostra popolazione. Eppure non era così, anzi era precisamente il contrario. Pochi giorni prima era stata mandata ai parroci una notificazione da leggere in pubblico, portante obbligo a tutti di notificarla, pene gravi ai delinquenti, perdono e impunità ai complici che li denunziassero.
Numerose truppe e treni d'artiglieria arrivavano e passavano per Milano, diretti a Pavia a guardare il Ticino ed il Po. Al console di Napoli era stato ingiunto di partire immediatamente da Milano, quasi che la costituzione imposta al suo re, per suo mezzo dovesse diventar contagiosa qui come la febbre gialla e il vajuolo nero.
In quanto all'ordine interno e alla sicurezza pubblica, le strade suburbane eran continuamente infestate da bande di assassini; nella città quasi quotidiani gli assalti notturni, le uccisioni e i furti. L'allegria cittadina assomigliava dunque alla luce del sole, che rischiara indifferentemente tanto il male quanto il bene.
Come quando il corpo umano dev'essere travagliato da qualche malore critico, che porterà lo scompiglio in tutte le sorgenti della vita, per ispegnerle o per rinnovarle tutte, che il colore vivace della salute è mantenuto in viso pur dalle stesse accensioni della febbre, così appariva alla superficie lo spirito della società di quel tempo, in cui diedero fuori i primi sintomi di una profonda trasformazione in tutte le sfere della vita pubblica e privata, del pensiero e delle aspirazioni nazionali, in tutti i rami della scienza, in tutti i campi dell'arte.
In quella stessa gazzarra del Monte Tabor erano ostensibili tutti gli elementi vivi della rigenerazione che stava per succedere in tutto l'organismo della società.
Giunio Baroggi, salito sur uno dei poggi più elevati dell'osteria, da cui si poteva dominare tutta la scena che gli si svolgeva dintorno e di sotto, guardando ora a un gruppo ora all'altro, stava immobile riflettendo appunto al contrario tra l'apparenza e la realtà di quello spettacolo.


XVIIII


Ma di questo Giunio, che è destinato ad essere una specie di Childe Harold, ed avrà poi l'incarico di congedare i cari lettori del nostro libro, ne pare, che prima di continuare ad accompagnarlo ad ogni passo, sia necessario sapere minutamente com'egli era fatto di fuori e di dentro.
Già ne uscì dalla penna la notizia ch'egli era un bel giovane; bello al punto che l'Accademia di belle arti e l'Ateneo delle donne e delle fanciulle milanesi avrebbero dovuto disputare assai, prima di conchiudere se il primo premio in beltà doveva concedersi a lui o al conte Emilio Belgiojoso o al Marliani.
Coloro che propendevano per le proporzioni atletiche, avrebbero scelto il conte Emilio; quelli per cui non v'è bellezza se non è garantita dai capelli neri e dagli occhi neri stavano pel Marliani; ma quanti propendevano per quella beltà che riceve tutta la sua espressione dal sentimento e dallo spirito, non avrebber tardato un minuto a dar la palma al nostro Giunio. Concepito nel 1798, quando la giovinetta sua madre era tenuta in continuo sussulto da cento ansie e paure, erasi insinuato nel suo organismo una tale eccentricità che, sebbene ei fosse sanissimo e perfettamente costituito, pur gli dava talvolta l'apparenza di un giovane travagliato da qualche malore. Ma, per sua fortuna, col tramontare del classicismo carnale, allora era già incominciata la moda delle faccie languenti; la sua poi era di quelle che non son sempre eguali; la mobilità dello spirito e le varie impressioni l'alteravano in un momento. I pensieri si vedevano a passare tutti su di essa, come le nubi sul cielo. - Codeste alterazioni erano tali e sì forti, che in certi istanti il suo volto, tanto era lo spostamento e la battaglia dei muscoli, poteva persino parer brutto, per lo meno disgustoso. Se però una subita gioja lo esaltava, s'egli animavasi in qualche disputa gentile, se trovavasi al contatto di una persona cara, se una musica agitante gli metteva il tumulto nel sangue, tosto pareva che gli si togliesse dinanzi come un velo cupo; tutta la sua fisonomia si esilarava, le linee quasi sgominate ripigliavan di tratto il loro posto regolare; gli occhi mandavano lampi ed esercitavano un tal fascino, che quanti lo vedevano e lo ascoltavano, si animavan seco.
Codesta eccitabilità, che alterava sì facilmente il suo aspetto, alterava e modificava, com'è naturale, anche le manifestazioni della sua mente e dell'animo suo.
Talvolta era chiuso, taciturno, triste, timido, circospetto; talvolta ilare, espansivo, loquace, epigrammatico, imperterrito. Talora il suo ingegno era riflessivo, preciso, misurato come la geometria: più spesso traboccante, disordinato, concitato, pieno di voli audaci come la poesia lirica. Impressionabile qual era al pari di un barometro, riceveva e riteneva tenacemente in sè le impronte di tutte le parvenze anche fuggevolissime del mondo oggettivo. Dotato di uno spirito d'osservazione acuto e penetrante, un'occhiata dal capo al piè bastava sovente a rilevargli un uomo; da ciò una straordinaria facilità, che potea parer precipitazione, a portar giudizio degli altri; da ciò altrettanta facilità a sentire propensione o avversione per quelli che avvicinava; propensione che si cangiava tosto nella più calda amicizia; avversione che lo portava spesso a non dissimulare le più violenti antipatie. Nei lunghi e frequenti viaggi in compagnia del padre e della madre, aveva acquistata esperienza di mondo oltre il diritto dell'età sua. Datosi agli studj con intensità quasi febbrile, ne' due anni che dimorò a Parigi (chè era nell'indole sua il portar tutto all'eccesso nel tempo che applicava la mente e il cuore a qualche cosa), s'era così arricchito di cognizioni, che in una compagnia di letterati e di dotti potea giocar buonamente la sua partita con chicchessia.
La tempra però del suo ingegno e del suo sentimento lo inclinava più al culto dell'arte che a quello della scienza. La sua era anima di poeta, e idolatrava il grato della beltà spettacolo, e credeva che i prodotti dell'arte consolassero l'umanità più direttamente e più istantaneamente che quelli della scienza. Nella sua mente aveva spinto fino alle più esagerate conseguenze quel detto di Foscolo «che le discipline più utili ai mortali son quelle che diradano gli affanni e le noje della vita.» La sua eccitabilità stessa, che lo rendeva sensibilissimo ai patimenti altrui, e per conseguenza manteneva lui medesimo quasi sempre in uno stato di dolore morale, lo aveva confermato sempre più in quell'opinione. «Val più, egli solea dire, la corrente elettrica messa in movimento in tutti i teatri dei due mondi dalla musica poderosa di Rossini, che quella eccitata dalla pila di Volta.
«Colla scienza arida e sola, l'umanità rimane sempre infelice; soltanto per mezzo dell'arte può avere dei quarti d'ora passabili.»
Riferendo questi suoi detti, non crediamo di metterci la nostra firma; intendiamo soltanto a mostrare che strana tempra di giovane era il nostro Giunio.
Essendosi trovato più volte in compagnia di Ugo Foscolo, quando questi, al pari di tanti altri, sebbene indarno, aveva fatto la corte a donna Paolina, la sua fantasia adolescente era stata scossa e penetrata dalla fiera e generosa misantropia di colui. Però, fosse che l'indole sua lo avesse portato spontaneamente a pensare come Foscolo, o un po' di vanità giovanile lo avesse spinto ad ostentar d'imitarlo, abborriva romanamente ogni sorta di tirannide; sentiva un'avversione invincibile per l'invadente autorità, fosse pur quella che deriva dalla superiorità dell'ingegno. Degli uomini, in generale, avea disistima e sgomento, salvo i pochissimi che gli paressero egregi; questi poi amava con entusiasmo e con efficacia operosa, e credeva con ciò di confortarli ed ajutarli, e di stringersi ad essi quasi in lega di mutua difesa contro all'attentato dell'universalità.
Allorchè gli pareva che uno fosse buonissimo, lo frequentava con intimità, fosse il falegname, fosse il calzolajo, segnatamente se mostrava d'avere abbondanza d'ingegno naturale: chè l'ingegno spontaneo e il vergine buon senso anteponeva a qualunque dottrina.
Portato a studiare gli uomini, come un medico che si affanna nello studio di una malattia creduta incurabile, li andava a cercare in tutte le classi della società. Oggi passeggiava sotto al braccio del duca Litta, del conte Belgiojoso, dell'Archinto; domani sedeva nel cortile del Falcone a bere il vin bianco magro col Bichinkommer, che prediligeva in modo particolarissimo. Dopo aver passata qualche ora in discussioni letterarie al caffè della Palla, dove convenivano parecchi professori del ginnasio e del liceo di Sant'Alessandro, lo si vedeva al caffè della Cecchina a intrattenersi a lungo con cantanti e ballerini. Rimaneva spesso delle intere giornate nella Biblioteca Ambrosiana a leggere, a studiare, a consultare gli Oblati che ne erano i dottori. Un altro giorno, ammesso a suonare il quartetto in casa Castelbarco, si, deliziava colle composizioni di Beethoven, di Kromer, di Haendel, di Boccherini, ecc. Sosteneva lunghe discussioni estetico musicali col maestro Soliva, con Minoia, con Federici, con Alessandro Rolla, con Lichtenthal, coll'energumeno Prividali, agente, giornalista-librettista, che dalla cronica bolletta e dal fegato guasto era mantenuto in continua esacerbazione, e nella disputa schizzava veleno e acido solforico. Un altro dì, assistendo alle prove del circo equestre ai Giardini pubblici, perchè era grande conoscente di Alessandro Guerra, allora primo cavallerizzo della compagnia di Bach di Vienna, vi si tratteneva a lungo, suggerendo pose eleganti alle belle amazzoni cavalcanti, e incoraggiando il Guerra al non ancora tentato Non plus ultra. Codesta varietà di studj vivi e di divagazioni gli era imposta non tanto dalla mobilità dell'indole che non gli permetteva di fissarsi troppo a lungo in una occupazione esclusiva, ma dal proposito che vagamente gli era sorto in mente, dopo aver letta la traduzione squisita del Viaggio sentimentale di Sterne fatta dal Foscolo, di portare cioè alle più ampie proporzioni possibili quel modo di componimento, e di fare un lavoro letterario che riflettesse gli infiniti colori dell'umanità.
A Venezia, dove noi conoscemmo il Baroggi del 1849, abbiam potuto vedere l'abbozzo ed alcune parti compiute di quell'opera vasta. E, secondo il parer nostro, quel lavoro condotto a compimento, avrebbe fatto un gran rumore nel mondo letterario; l'Italia avrebbe certissimamente avuto un uomo illustre di più, se eccezionali sventure e dolori fierissimi non avessero affranto quel generoso ed originalissimo ingegno.
Intanto che il Baroggi stava, come fu detto, guardando ora una parte, or l'altra, or l'altra del fracassoso spettacolo del Monte Tabor, sentì battersi una spalla, e contemporaneamente udì la voce di Andrea Suardi. Con questi trovavasi un giovane di aspetto e di modi assai distinti.
- Eccovi il vostro amico, gli disse questi. Stando laggiù, vi abbiam conosciuto. Si veniva in cerca di voi appunto... Siamo già stati alla vostra casa, e non avendovi trovato, abbiam detto che, siccome tutto il mondo corre qui, così vi sareste venuto anche voi. Non è un'ora del resto che il vostro amico ha potuto lasciare, e speriamo che sarà per sempre, la sua cella di Santa Margherita. Io mi lodo di aver potuto giovare tanto a voi che a lui, e mi lodo tanto più che avendovi promessa la mia assistenza, questa ha portato il miglior frutto possibile.
Ed ecco un altro personaggio, dirà il lettore. Sì, un personaggio, e di che importanza e di che natura fatta apposta per esercitare lo spirito d'indagine di chi studia gli uomini nella vita viva!


XIX


Il giovine che con tanta gentilezza di modi e di parola presentò il Suardi al nostro Giunio, era impiegato nell'alta gerarchia della polizia di Milano. Benché fosse noto che egli era ammesso alla famigliarità del barone Gehausen, allora direttore di quel dicastero, e amico intrinseco del Pagani, consigliere di governo e vicem gerens del Gehausen, pure la sua presenza non solo era tollerata, ma ricercata nelle conversazioni delle case più distinte e nei crocchi degli uomini più intemerati e illustri. Per assai riguardi noi non ne diremo il nome, quantunque crediamo che riuscirà ben facile d'indovinarlo a quei lettori che non sono più giovani, ed hanno chi sa quante volte parlato con lui. Di aspetto simpaticissimo ed attraente, di modi gentili ed insinuanti, di ampio ingegno e di eguale coltura, segnatamente nelle cose della giurisprudenza, che era stata prima e diventò poscia la sua professione, era uno di quegli uomini che dalla natura tengono una specie di sanatoria di poter fare tutto ciò che vogliono, senza incontrare la così pronta e inesorabile censura pubblica. Chi avesse occupato il suo posto, anche senza il pericolo d'incontrar l'odio altrui (perchè quel posto era nella pianta del dicastero, e qualcuno bisognava pur che l'occupasse), sarebbe stato per lo meno gentilmente sfuggito da quanti non amavano il governo austriaco, e guardavano il palazzo della polizia con quell'apprensione indefinibile, ma molto simile all'istinto onde la lepre scansa il levriere; chiunque poi avesse avute le pratiche cittadine ch'esso aveva e fosse stato come lui tanto intimo delle persone ch'erano in uggia al governo, certissimamente che non l'avrebbero scelto a sedere tra il barone Gehausen e il consiglier Pagani. Ma egli aveva quel - parlar facondo lusinghiero e scorto - ond'è caratteristico l'Alete della Gerusalemme, sebbene non fosse sorto come Alete tra le brutture della plebe, chè anzi era nato da una famiglia onestissima e stimata, e non fosse perverso e calunniatore come quel personaggio del Tasso.
Ma il suo parlar facondo e i suoi modi flessuosi e un viso dove pareva che la sincerità e il candore avessero posta la loro sede preferita, facevan di specchietto incantatore con tutti, e lo mettevan tosto nelle grazie di quanti avvicinava. Avendo fatto letture svariate, essendo fornito di straordinaria memoria, di percezione prontissima e sagace, parlava d'ogni cosa e in qualunque ramo, come se quello fosse l'oggetto appunto della sua professione. Dato il caso che, per modo d'esempio, il discorso fosse caduto sui cinti elastici, avrebbe dato da pensare anche al Pioroni, anche al Corbetta. Questa eccezionale qualità gli metteva nelle mani quasi a dire il biglietto d'ingresso per tutte le classi, per tutte le professioni, per ogni qualità di persone, sapendo opportunamente toccar le corde che oscillavano più grate all'orecchio di ciascuno. E codesto ei faceva anche senza intenti speciali, ma soltanto per appagare un bisogno spontaneo della sua mente e dell'indole sua.
Se ne vogliamo una prova, possiamo ottenerla subito a proposito del nostro Baroggi.
Dopo avere intrattenuto quest'ultimo colla relazione delle pratiche ch'egli aveva fatto presso il marchese F..., affinchè questi si piegasse a levar la querela mossa contro il Suardi; dopo avergli detto come la prima volta lo aveva trovato inesorabile, e la seconda invece, con sua gran meraviglia, arrendevolissimo, al punto che gli parve avesse più volontà il marchese di far mettere in libertà il Suardi, che questi di uscire all'aperto; dopo aver dato le più belle speranze al Baroggi relativamente all'eredità in contestazione pel fatto inatteso che il notajo Agudio aveva scritto una lettera al direttore Gehausen, e un'altra al presidente del Tribunale Civile, informandoli come egli avesse consegnati nelle mani dell'avvocato Gambarana e dell'avvocato Falchi dei documenti importanti trovati nell'archivio del defunto dottor Macchi, dopo aver risposto ad alcune domande del Bichinkommer, che in quel punto erasi presentato per congratularsi e stringer la mano al Suardi:
- Ma io scommetterei, concluse, che con quell'anima di poeta che avete e coll'amore che portate all'arte e alla gloria, voi cedereste tutti i vostri diritti alla ricchezza che probabilmente vi aspetta, per assaporare un giorno solo di compiacenza letteraria simile a quella onde oggi esulta il nostro Tommaso Grossi, che siede laggiù, come potete vedere, in mezzo a quella schiera numerosa di donne che gli fanno crocchio intorno, e lo guardano e lo esaminano e lo perlustrano da tutte le parti per vedere se chi ha scritto l'Ildegonda, e in questi giorni ha saputo far versare tante lagrime alle nostre belle impietosite, abbia gli occhi, o il naso, o la bocca diversi da quelli di tutti gli altri. Sono tre dì che la novella è uscita, e l'edizione è quasi tutta smaltita. Ben m'immagino che voi l'avrete letta e straletta.
- L'albero del Conciliatore, osservò il Baroggi, sebbene vandalicamente troncato, comincia a dare oggi frutti saporiti e maturi; in aprile uscì il Carmagnola, in settembre l'Ildegonda. Due battaglie e due vittorie in un anno solo, non è poco, per Dio; e non so che cosa dirà il Monti, che vedo laggiù in carrozza in compagnia dell'avvocato Marliani.
- Il Carmagnola non fu che una battaglia indecisa. Ma la vittoria compiuta è dell'Ildegonda.
- Il genio di Napoleone sfolgorò più assai nei capolavori sventurati delle battaglie di Francia che nell'orbata fortunatissima di Marengo.
- Che cosa vorresti dire?
- Ch'io vorrei aver fatto fiasco con Manzoni, piuttosto che aver trionfato con Grossi. Mi conforta però che il campo dell'arte non è quello della politica e della guerra. Qui l'esito momentaneo è tutto; là, se non è duraturo, non può deporre nessun germe che fecondi l'avvenire.
- Dunque voi non siete, un ammiratore dell'Ildegonda.
- Immensamente l'ammiro, e mi godo che l'esito suo fortunatissimo troncherà tutte le questioni di colpo; ma sostengo altresì che gli elementi legittimi del trionfo completo della rivoluzione letteraria son deposti soltanto nel coro del Carmagnola.
- Potete aver ragione, ed io non m'attento di confutarvi. I paragrafi del codice non mi danno tempo di percorrere da padrone il campo vostro; però, senza poter percorrerlo, mi basta la vista per misurarlo, e da tutti i sintomi mi par di vedere che in tutte le cose nostre è incominciata una primavera novella. Guardate là a quel circolo di persone che stanno intorno al Grossi... La combinazione ha voluto che in questo momento si trovino riuniti tutti i portabandiera del nostro avvenire; parlo del pensiero, e delle arti, e della civiltà.
- Se mai vi fosse Manzoni, vi prego a farmelo conoscere
- Il Manzoni non c'è. Ma v'è uno de' suoi più grandi amici, Giovanni Torti; e v'è Pietro Borsieri, giovane di altissimo ingegno e che, come saprete meglio di me, sta attendendo a un gran lavoro letterario... una trilogia intitolata: Torquato Tasso.
- Che non compirà mai. Io ebbi a parlar seco più volte, ma non mi sembrò di trovare in lui le più legittime qualità dell'ingegno. Ha molta memoria, molta facilità di parola, una grande smania di primeggiare nel crocchio e di brillare contraddicendo a tutto e a tutti. Posso sbagliare, ma costui non farà mai nulla di veramente grande in letteratura. L'opuscolo che pubblicò qualche tempo fa, ha spolvero, e chiacchiera superficiale; ma nulla più. All'età sua (credo bene ch'egli abbia passato i trentacinque anni), bisognerebbe aver già dato fuori qualche frutto maturo. Costui è uno di quelli che han l'arte di metter in movimento la fama, facendo poco o nulla, e tenendo sospeso il mondo con grandi promesse e colossali frontispizj. Sapete piuttosto, egregio signore, chi, a mio parere, sarà per far parlar molto de' fatti proprj?... è Giovanni Berchet.
- Anch'egli ha i suoi trentasei anni, e secondo la vostra opinione, non avendo ancor fatto nulla, non potrà più far nulla in avvenire.
- Badate però a tutto quello che ha scritto nel Conciliatore sotto il pseudonimo di Giovanni Crisostomo, e forse sarete per dir meco ch'egli ha già fatto moltissimo; nella sfera almeno della teoria, se non in quella dell'esempio pratico. Ermes Visconti e lui sono i veri evangelisti della nuova legge che si promulgò nel mondo letterario; Manzoni è il Cristo che illumina coll'esempio, lasciando agli altri l'incarico di dettar la legge.
- Per questa parte io credo che il Visconti sia il più grande di tutti.
- Divido perfettamente la vostra opinione; ingegno straordinario, conoscitore di tutte le letterature, acuto, penetrante, intollerante, dalla stessa eccentricità dell'indole portato necessariamente al novo e all'intentato, egli è forse quegli che primo gridò l'en avant a tutta la nostra gioventù. Ma temo ch'ei sia per somigliare a quegli eroi che cadono sotto alle mura prima che sia compiuto l'assalto; o a quegl'infusorj che rimangono estinti nell'atto della fecondazione.
- Vi sono gl'ingegni che additano, e gli ingegni che fanno. I primi hanno il merito, i secondi la ricompensa.
- Benissimo detto. Ma, senza i secondi, i primi sarebbero inutili. A che sarebbe valso 1'Orlando del Bojardo, senza il Furioso dell'Ariosto; a che la leggenda del Faust senza il dramma di Goethe; a che il crescendo di Generali, senza Rossini che lo ha fatto trionfare?
- A proposito di Rossini, guardate che entrò adesso Carlo Porta.
- Mi piace quell'a proposito. Carlo Porta è davvero il Rossini della nostra poesia vernacola. Questi due ingegni si assomigliano così negli ultimi risultati a cui portano l'arte loro, come nelle precedenze storiche che li hanno preparati. Il Maggi, per l'originalità e la potenza dell'invenzione, è il più grande poeta in vernacolo che mai sia esistito; come in musica il Marcello, che viveva contemporaneo al Maggi, è il più sublime, il più originale e il più lirico. Ma Rossini e Porta sono più trasparenti, più veloci, più lusinghieri, più popolari. L'arte, che non è accessibile alla moltitudine, quasi cessa di essere arte e però rimane solitaria e non compensata. Se alcuno ci udisse, forse si riderebbe nel sentirci a mettere in compagnia Maggi e Marcello, Porta e Rossini. Ma l'arte è sempre la stessa, nonostante l'infinita varietà de' suoi mezzi; e chi si sgomenta dei troppo arditi ravvicinamenti, non è nato nè all'arte nè alla critica. Ma chi è quel caporale dei granatieri del Bellegarde, che ora sta parlando con Grossi?
- È un giovanotto di Bergamo, che ha studiato musica sotto Simone Mayr. Egli, non potendo andar d'accordo col padre, il quale non voleva assolutamente che si dedicasse alla musica teatrale, uscì di casa e si fece militare un anno prima della coscrizione. Il Mayr però, che è il più buon tedesco del mondo ed è il padre dei suoi scolari, lo ha raccomandato caldamente al general Bubna, e questi ha dato ordine che si desse tempo e modo al giovane granatiere di scrivere pel teatro.
- Ma sarebbe mai quel Donizetti, che scrisse già il Falegname di Livonia per il San Moisè di Venezia; e che, quest'inverno, fece fanatismo a Mantova colle Nozze in villa?
- È lui appunto.
- Il Falegname di Livonia l'ho sentito, ed è una musica piena di vivacità e d'estro.
- Or chi direbbe che un granatiere sì grande e grosso e rubicondo, possa essere un maestro melodrammatico? ma la musica dev'essere un'arte che ingrassa come il lichene. Cimarosa era tondo al pari di un pallone; Jomelli aveva parti così colossali, che ci volevan due scranne per dargli agio a sedere. Rossini ha un faccione sì paffuto e lucente, che non si sa capire come abbia potuto far piangere Desdemona a quel modo, e dar tinte così terribilmente tragiche a tutto il terzo atto dell'Otello.
- Le battaglie dello spirito possono essere dissimulate anche dalla più gioconda maschera carnale. Al genio basta anche un momento fuggitivo, in cui gli si riveli il dolore, o un altro sentimento, per comprendere tutta l'estensione ed applicarlo all'arte. Anzi, la condizione essenziale del vero genio artistico è questa. Il genio è un'arpa a mille corde. Ciascuna, alla sua volta, manda il suo suono. La luce dell'umanità si decompone nell'anima sua in raggi infiniti, o, per dir meglio, i raggi infiniti dell'umanità vanno tutti a metter capo nell'anima sua, che li rimanda e li riverbera e li restituisce al mondo sotto le molteplici forme dell'arte. È a questo modo che si comprende Shakespeare. È a questo modo che si dee comprendere Rossini.


XX


Il Baroggi non aveva finito di pronunziare il nome di Rossini, che la banda del reggimento Bakony, per indulgenza al gusto pubblico, si mise a suonare la sinfonia della Gazza ladra; diciamo per indulgenza, perchè il maestro direttore di quella banda, cresciuto alla scuola esclusivamente germanica e alla frazione di quella scuola stessa che farebbe inscrivere la disciplina dei suoni tra i rami della facoltà matematica, detestava Rossini, e perchè questo, alle prove della Bianca e Faliero, colla sua celia mordace lo aveva preso di mira, e aveva fatto ridere alle sue spalle tutto il palco scenico. Allorchè si fu al passo di carattere della celebre sinfonia, dove l'immaginazione, la forza, l'eleganza, la grazia si fondono in quel complesso maraviglioso, non raggiunto fin qui che da Rossini, e, mettendo in effervescenza il sangue, par che comunichi allo spirito insolite attitudini:
- Ecco l'arte, esclamò il Baroggi, alzando gli occhi e sorridendo coll'esaltazione dell'ebbrezza; ecco l'arte, l'arte vera, l'arte sola; quella che, costringendo a commuoversi anche il maestro della cantoria del Duomo, perchè i sensi non hanno scuola nè sistemi e si esaltano a loro beneplacito senza domandare il permesso a nessuno, arriva ad agitare, senza che ne abbia neppur la coscienza, anche il facchino di dogana, anche il beccajo. Se l'arte non arriva a tenere nel proprio dominio gli estremi della scala intellettuale dall'alfa fino all'omega, è una cosa bastarda, che importuna i galantuomini, e non ha nessuna ragione di essere; un maestro che tedia e disgusta e tormenta gli uditori in nome della dottrina e del diploma ottenuto dal padre Mattei, vorrei che fosse contemplato da qualche paragrafo del codice penale.
Così parlando, si misero a passeggiare in su e in giù pei viali, in mezzo alla folla ognora crescente, tra la quale incontrarono Pompeo Marchesi.
- Addio, Giunio.
- Addio, Pompeo, come va coll'arte?
- Potrà andar bene col tempo, ma ora le acque son basse; vengo anch'io al Monte Tabor, perchè con cinquanta centesimi mi par di esser ricco.
- Canova è morto; e tutte le arti si rinnovano. È il momento questo di tirare alla fortuna che passa veloce. Quel diavolo che ha fatto questa musica, ha sfidato il passato che pareva insuperabile, e ha vinto. Tutta Milano è sottosopra; e le ragazze singhiozzano e si tormentano se han le guancie rubiconde, perchè Ildegonda doveva averle pallidissime; Hayez quest'anno ha trionfato nelle sale di Brera, e, lasciando l'antichità, ha fatto il suo ingresso nel medio evo. Non si parla più d'Appiani, meno di Bossi. Camuccini è un pedante; Benvenuti è convenzionale. Landi e Serangeli fanno pietà; Palagi si arrabatta nel circo per atterrar l'avversario di Venezia; ma non ci riuscirà; or dunque tocca a te a dar le mosse al terremoto; e va pur là, che non sei uomo da perderti nella polvere.
- Non pare nemmeno a me; e Pompeo Marchesi, coi capelli dietro l'orecchio, cadenti sulle spalle, colla testa alta e come fiutante l'aria del proprio avvenire, tirò innanzi facendo far la ruota a un modesto bastone, di quelli che si chiamavano pagadebiti, perchè anch'esso, insieme col pittore Comerio, apparteneva alla Compagnia della Teppa; memori e orgogliosi entrambi delle pericolose fazioni compiute quand'erano studenti a Roma, dove per aver insultato un cardinale, sarebbero stati chiusi in Castel Sant'Angelo, se il console di Francia non li avesse fatti fuggir nottetempo.
E il Baroggi tirò innanzi passeggiando e chiacchierando, e di lì a poco s'incontrò in due giovani da lui amatissimi: il Bazzoni Giunio di Milano e l'abate Giuseppe Pozzone; nato il primo a lasciar traccie luminose nella poesia italiana, se l'indole austera, e una modestia eccessiva, e una misantropia selvaggia non gli avessero impedito di alzare più audace e più lungo il suo volo; e il secondo, carissimo anch'egli alle Muse, di gusto più squisito, e che se l'abito sacerdotale non gli avesse contristata la vita, avrebbe avuto salute più florida, vita più lunga e fama poetica più duratura. Con questi il Baroggi continuò parlando di letteratura e discutendo sul merito del poeta Redaelli di Cremona, morto giovanissimo due anni prima, e già celebre allora per alcune anacreontiche leggiadre, per delle terzine sui disastri della campagna di Russia; ma specialmente per un componimento a tinte lugubri, in cui si cominciava ad aprire il varco alle nordiche influenze, alla moda dei singulti disperati, e dove si accennava che il chiaro di luna, le ombre, le upupe e le strigi immonde, dovevano essere i novelli ingredienti dell'estro poetico; di quell'estro però che non è genio, ma una specie di convulsione intellettuale e di lusinghiero pervertimento del gusto.
Intanto che il Baroggi e il segretario di governo e gli altri passeggiavano discutendo, dietro di loro venivano il Suardi e il Bichinkommer, tutt'intesi essi pure a parlar di cose, che, se non erano tanto ideali ed alte, avevano però un'importanza più vicina, più diretta e più necessaria. Il motivo, anzi, per cui il Baroggi si lasciò andare alle sue volate letterario artistiche senza intrattenersi col suo amico uscito allor allora di Santa Margherita, era perchè il Bichinkommer lo aveva tratto da parte come per comunicargli cose d'interesse privato.



XXI


Il lettore che sia avvezzo al metodo onde generalmente son fatti i libri come il nostro, si sarà annojato delle digressioni del Baroggí, e avrà fatto le meraviglie nel trovarsi invitato all'osteria del Monte Tabor per sentir poi a parlare di letteratura e d'arti, come se si fosse a qualche ateneo od accademia; ma gli elementi della vita pubblica e privata sono infiniti, e noi ci siam proposti di tener dietro alla maggior parte di essi ogni qualvolta ci si presentan spontanei. Nella società, i fatti più disparati succedono simultaneamente, e senza che l'uno attraversi all'altro. Intanto che un negoziante rimane atterrito alla notizia di un fallimento, un verseggiatore è capace di essere infelice perchè non gli vien spontaneo un tronco che gli chiuda la strofa.
- Hai fatto malissimo, diceva il Bichinkommer al Suardi, a venir qui in compagnia di questo signor segretario.
- Fu egli stesso che venne a levarmi dalla mia cella; fu lui che mi usò tutte le gentilezze di cui può esser capace il più compìto gentiluomo; fu lui, infine, che si esibì di accompagnarmi fino alla casa del Baroggi e fin qui.
- Di costui non ho sentito che parole di elogio dappertutto e da tutti. Ma io non posso capire come il mondo trovi giusto che uno oggi passeggi sotto a braccio del diavolo, domani di Sant'Antonio. Non ti par egli che, per riuscir gradito tanto al diavolo che al santo, bisogna che di necessità inganni qualcuno?
- Generalmente parlando, sì; ma costui mi sembra qualche cosa di eccezionale. - D'uomini me ne intendo anch'io, e ti assicuro che io vidi sulla sua faccia i segni più manifesti della soddisfazione e della contentezza, quando mi lesse la lettera con cui il notajo Agudio domandava la mia liberazione, ed esponeva il fatto d'aver ceduto al marchese F... i documenti trovati nell'archivio del dottor Macchi. Ma, a proposito di questo Agudio, come spieghi tu, ch'egli siasi preso tanta cura di me, mentre io non so nemmen chi egli sia?
- In che modo la lettera venne nelle mani di questo segretario, mentre fu indirizzata al direttore di polizia?
- Il direttore lascia far tutto al consiglier Pagani. E questi, per certe materie, lascia far tutto al segretario. Ecco spiegata la cosa.
- Costui ha detto un momento fa ch'erasi recato dal marchese F... per officiarlo a tuo vantaggio.
- È così, infatti; e col mostrare la lettera al marchese, ottenne tutto quello che domandò. Il marchese ne fu spaventato, e si recò issofatto dal barone Gehausen a levar la querela contro di me, e a intercedere perchè fossi tosto rimesso in libertà.
- Ma che si fece della lettera spedita dal notajo Agudio?
- Io non so più niente.
- Qui c'è sotto un nuovo imbroglio. Son due giorni che la lettera venne recapitata al direttore, contemporaneamente ad un'altra che fu spedita al tribunale civile; ma, ad eccezione della tua liberazione, non vedo gli effetti che quelle lettere dovevano produrre. Pur troppo il marchese è onnipotente, e...
- Pare che questo segretario voglia avviare un aggiustamento tra il marchese e il Baroggi...
- Che aggiustamento! Se i documenti saltan fuori il Baroggi deve ottenere tutto il fatto suo, senza bisogno di transazioni.
- È vero... e allora posso prepararmi a godere una parte dello spettacolo tutto a mio beneficio...
- Quale?
- Lo spettacolo d'un marchese collarone e gesuita che per combinazione possa aspirare alla berlina. Che cosa vuoi? Io amo il Baroggi, e desidero che si volti e rivolti in mezzo a zecchini... ma ciò che più esalta la mia fantasia, e mi mette la smania in corpo è il progresso dell'umanità...
- E che c'entra adesso il progresso dell'umanità?
- Nel trovare il modo che i titoli, le aderenze, la ricchezza, non bastino più a coprir le magagne degli uomini e a far chiudere la bocca anche alla legge.
- Il desiderio è bello e buono; ma i titoli e la ricchezza avran sempre in saccoccia il ventun di tarocco.
A questo punto i quattro passeggianti salirono fin sulla rotonda a piattaforma, dove si entrava nella slitta e da cui si poteva dominare la sua discesa precipitosa. Quella rotonda era quasi sempre affollata; in quel momento poi era stipatissima di spettatori perchè le Loro Altezze Imperiali trovavansi là. Ci pare di aver detto come, in una delle accademie vocali date a Milano, dov'era intervenuta la viceregina, questa aveva donato a madamigella Gentili un grosso smeraldo, accompagnando il dono con parole cortesi e carezze senza fine. Ora in quel dopopranzo del 24 settembre, i coniugi Gentili vollero condurre la loro figliuola a quel divertimento popolare. Come dicemmo, la notizia dell'intervento delle Loro Altezze aveva fatto accorrere al Monte Tabor quasi tutta Milano, e la madre di Stefania, a cui, dopo il fatto dello smeraldo, pareva d'essere diventata un po' parente della viceregina e sentiva un segreto orgoglio di avere una figlia stata onorata di tanta distinzione, pregò il docile marito a non lasciar passare quell'occasione. Il conte Alberico B...i, che aveva saputo la cosa, erasi trovato là colla carrozza, e nella sua qualità di futuro sposo, quantunque i parenti, per certi riguardi portati all'esagerazione, lo tenessero alquanto discosto dalla figliuola, erasi tuttavia accompagnato seco loro. In una parte della rotonda v'eran delle sedie privilegiate, che si pagavan due lire austriache l'una; e il conte Alberico, com'è naturale, ne pagò tre, perchè madamigella potesse sedere tra il papà e la mamma, e godere agiatamente lo spettacolo.


XXII


Ora avvenne, che quando la viceregina tornò colassù per assistere alla corsa che dovevan fare alcune sue dame di compagnia, girando l'occhio intorno, vide madamigella Gentili, e ravvisandola, le si accostò, rinnovando seco le affabili cortesie della prima volta. La folla s'era stipata in giro a quel gruppo, e madamigella divenne l'oggetto dell'attenzione universale. Essa vestiva un bianco abito semplicissimo di mussola d'India con guarnizione ricamata e forata, e con una lieve orlatura di raso celeste; un nastro parimente di raso celeste le cingeva la vita, una vita sottile, leggiadra, come snodata, di quelle che i francesi chiamano à guêpe. La testa della Gentili (noi abbiam visto il suo ritratto miniato dal Romanin) era di quelle che disarmano anche la critica; aveva capelli neri lievemente crespi, pettinati come portava la più semplice delle mode d'allora, e press'a poco come li ha la Tersicore o l'Ebe di Canova; bianchissima avea la pelle, di quelle che non hanno color fisso, ed ora impallidiscono, come il chiaro di luna, ora s'invermigliano come il carmino; agli occhi neri e vellutati, dove di tanto in tanto pareva scorresse una lieve scintilla quasi a scuotere un languore abituale, che poteva essere desiderio e poteva essere noncuranza, sovrastavano due sopraccigli neri e folti oltre le leggi della bellezza accademica, ma per ciò stesso produttori di quel fascino che deriva dal contrasto: sopraccigli neri e folti, e di quelli che fan fare dei computi indiscreti. Su quel caro viso era soffusa una tinta di bonarietà che, nel momento del massimo languore, potea parer persino melensa, ma che in certi istanti scompariva di tratto, e dava luogo a una vivacità, che parea perfin maliziosa.
La Gentili, insomma, era di quelle beltà che non vanno soggette a scrutinio, ma ottengono la maggioranza assoluta di voti e vengono prescelte per acclamazione; di quelle, inoltre, che, se lo abbiam già detto, lo ripetiamo, piacciono anche alle donne. Alla viceregina, poi, che aveva diciannove anni appena, ed era bella anch'essa, e non poteva sentire invidia, quella fanciulla aveva fermato l'attenzione in un modo particolarissimo, onde le carezze che le aveva prodigate e la prima volta e questa erano affatto naturali e cordialissime. Però le fece molte domande; tra le altre, se pensava ad accasarsi; al che la madre rispose tosto di sì, parlando in luogo della figlia, come le madri fan sempre, e additando nel tempo stesso il futuro sposo Alberico B...i, ch'era lì presente. La viceregina diede dall'alto al basso una rapida occhiata a colui, e a' segni manifesti ne rimase disgustata, quasi sdegnata. Non disse nulla però, quantunque fosse vivacissima e balda, e, ad onta della educazione principesca, ancora in quell'età che si lascia trasportare alle imprudenze. Ma, fosse che anch'ella avesse dovuto, per obbedire ai regi parenti, sposare un marito che, quantunque grande, grosso e sano, non erale mai entrato in fantasia, e perciò le venisse agevole il sospetto che alla povera fanciulla si facesse forza; fosse che il conte Alberico le riuscisse in ispecial modo antipatico per istintivo presentimento, il fatto sta che, accostando il labbro all'orecchio della giovinetta, le domandò s'ell'era contenta di quello sposo.
La viceregina aveva sempre a' fianchi il marito arciduca, che, stando alla stregua del volgo, era un bell'uomo dal lato della salute e del trabucco. Grande, florido, robusto, con un volto in cui la fisonomia caratteristica della dinastia lorenese aveva trovato il modo di ridurre alla maggior possibile regolarità le sue forme; l'ogivale della sua faccia non era così eccezionalmente oblungo come quello di Francesco I; il labbro inferiore non era sì grosso come quello di tutti gli altri arciduchi fratelli; ma questa regolarità era tutta a spese dell'intelletto e dello spirito; egli era un uomo semplice e melenso; piacendogli assai quella sua giovane sposa, alta, bella, rigogliosa, vivace, si compiaceva a far da testimonio a tutto quello che ella faceva, anche allorquando uscisse dalla misura che l'etichetta impone alle Altezze Imperiali. Egli teneva dietro a tutti i passi di lei, con quell'apparente bonarietà onde il can bracco, quando non è preoccupato dalla caccia, segue obbediente il padrone, s'adagia tra le sue gambe, cambia posizione ad ogni suo movimento, e gli tien sempre l'occhio in volto con un misto di amorevolezza e d'indolenza. La viceregina non poteva adunque aver soggezione alcuna di quel placido ed annuente marito, e nei pubblici convegni ella si prendeva sempre l'iniziativa di tutto. Quando pertanto s'accostò alla Gentili, il vicerè non fece altro che stare un passo indietro di lei, e guardare anch'esso, non senza un certo piacere, quel caro volto di fanciulla; nè trovò da opporsi in nulla quando la viceregina disse a colei:
- Ora vi troverò io chi vi farà da cavaliere in slitta.
Invitata dalla folla, la folla sempre più cresceva e s'accalcava per vedere che cos'era avvenuto di nuovo. Anche il Baroggi in compagnia del signor segretario, anche il Suardi in compagnia del Bichinkommer, s'introdussero tra gente e gente, e si portarono sulla prima fila del semicerchio fittissimo di spettatori. Il Baroggi, animato dall'artistico colloquio avuto col segretario, concitato dalla musica rossiniana, più concitato dalla vista inattesa della Gentili, era in uno di quei momenti in cui gli occhi e il volto gli folgoreggiavano di sensazioni vivissime. La viceregina, che volendo soddisfare un capriccio quasi infantile, ma pur generoso, di fare un dispetto a chi le pareva indegno di metter le mani su quel fiore vaghissimo e fragrante, voleva scegliere il più bel giovane che per avventura si trovasse là tra gli altri, sentì fermarsi lo sguardo dallo sguardo lampeggiante e da certa audacia piena di onestà ch'era improntata in viso del giovane Baroggi, il quale, per soprappiù, aveva aspetto assai signorile, e vestiva con eleganza e all'ultima foggia.
Fissato adunque il viso del Baroggi, che avrebbe assai di buon grado trascelto anche per sè, perchè tra gli occhi del giovane milanese e quelli del vicerè passava la differenza che esiste tra un carbonchio e un opale, coll'avventatezza che dà l'inesperienza giovanile e col piglio autorevole che l'alta sua posizione e la maritale condiscendenza le concedeva:
- A voi, disse rivolgendosi al giovane; vogliate essere il cavaliere di questa fanciulla, e accompagnatela in slitta.
La strana proposta, messa innanzi colla solennità del comando, fece senso a tutti gli astanti, stupore ai genitori bigotti della Gentili, dispetto al conte Alberico, e mise in un grande imbarazzo il Baroggi, il quale, assalito repentinamente in quel punto da quella timidezza passeggiera che talvolta lo rendeva impacciato e inerte, ed era così in opposizione col fondo dell'indole sua franca, coraggiosa e talvolta persino audace, non seppe nè muoversi, nè rispondere. In quanto alla giovinetta Stefania, or guardava perplessa la viceregina, ora interrogava coglii occhi i parenti, ora fissava il Baroggi, con una espressione indefinibile. Solo il crotalo Alberico rimase dimenticato da lei, dalla viceregina, da tutti, fuorchè dai parenti, che lo guardavano come a dirgli: «Provvedete ora voi ad impedire questo scandalo». Ma il crotalo si rannicchiò in se stesso, condensando veleno e bava per il futuro, e lasciò fare.


XXIII


Il Bichinkommer, che stava seduto dietro al Baroggi:
- Su via, coraggio, gli disse; mi sembrate un collegiale: lasciatevi ajutare da questa pollastrona di sangue reale, che mentre non sa quel che si fa, pare incaricata dal destino a strappare la tortorella dagli artigli del nibbio. Avanti, e disinvoltura, e siate quel che siete. È una viceregina che vi fa da mezzana. Il gran Luigi di Francia non poteva pretendere di più.
Come accade quasi sempre degli uomini eccitabili, allorchè vengono sopraffatti da quella timidezza che può chiamarsi fisica, che, se arrivano a dominarla colla volontà, passano di punto in bianco al suo eccesso opposto; così fu del Baroggi, il quale, uscito di tratto dalla sua immobilità, ringraziò inchinandosi alla viceregina, si volse alla Gentili, le porse la mano, le disse molte cose cortesi ed eleganti; eppoi, quando il calessino della slitta fu apprestato, la invitò ad entrarvi. Dopo i disordini avvenuti, quando si riaperse il giuoco nel 1820, non venne più permesso agli uomini di farsi sedere le donne in grembo lungo il corso della slitta; bensì le donne s'assidevano sole nel calessino e gli uomini, come i napoletani guidatori del curricolo, o come i cosacchi, stavano in piedi di dietro. Madamigella Gentili s'assise, come voleva l'usanza, e il Baroggi le si pose a tergo, e di tal modo discesero insieme lungo la precipitosa curva. Egli aveva ventidue anni ed ella diciasette; l'affare era piuttosto serio. Il termometro, immerso nel sangue di quei due giovani, in due secondi sarebbe di certo salito al grado della massima ebollizione. Al di fuori però non appariva nulla. Egli, colla faccia inclinata sul capo leggiadro della fanciulla, inspirava con ineffabile voluttà la fragranza che usciva dalle sue chiome inanellate. Non si sa da che dipende, ma l'odore che esala da una giovane chioma femminea può assassinare un galantuomo più che la punta di un pugnale di Damasco vibrata da un traditore. Il giovine s'inchinò ancora di più; osò varcar la linea della convenienza; baciò quei capegli; la fanciulla tacque, ma un brivido sacro la percorse tutta lungo la colonna vertebrale.
In pochi minuti due o tre giri furono compiuti. Nel discendere dalla slitta: - Fate di svincolarvi da quello scellerato! - disse il Baroggi alla fanciulla, accennando al conte Alberico. - Ah, non s'è più in tempo! - rispose Stefania, senza guardare in volto al Baroggi, perchè era già in presenza dei genitori e del futuro sposo. La viceregina, che era già in pronto per partire col seguito, quando Stefania fu di ritorno, le mise in dito un anello di brillanti, la baciò in fronte e le disse sommessa: - Se qualcuno vi facesse violenza, e vi costringesse, contro il vostro genio, a sposare quell'uomo là, fate conto della mia protezione. - Stefania non fece motto, la Corte partì. I signori Gentili e il conte Alberico, chiudendo in mezzo la fanciulla, quasi temessero che qualcuno la trafugasse, la tempestarono di cento interrogazioni. Sulla faccia del conte, alterata dal dispetto e dalla gelosia, si poteva leggere, come su di una tabella, l'elenco di tutte le sue perfide qualità. Stefania lo guardò con ribrezzo, e quasi contemporaneamente rivolse e posò uno sguardo lento sul gruppo di persone in mezzo alle quali spiccava ancora la bella figura del Baroggi. Nè altro avvenne per allora, ma quel complesso di accidenti, ben lievi in sè stessi, bastò a gettar le fila d'altri accidenti futuri.


XXIV


Frattanto il sole era tramontato, e cominciava ad imbrunire. Due uomini s'accostarono al Bichinkommer, e lo trassero in disparte:
- Ci sono, gli dissero ad una voce.
- Chi?
- La Falchi e l'avvocato, ma sono in compagnia di molti altri.
- Son venuti a piedi o in carrozza?
- In carrozza.
- Dei socj chi è con voi?
- Il Milesi, che è disposto a fracassarli a stangate. Il Paltumi, che non può più dalla smania di pigliare a schiaffi quella sfacciata pu... L'Inverningo, il Carulli, il Besozzo, ciascuno dei quali val per tre e per quattro.
- Le stangate e gli schiaffi bisogna tenerli in serbo. Altre occasioni non mancheranno; quel che oggi più importa è di aver l'avvocatessa tra le mani.
I due che parlavano col Bichinkommer erano nientemeno che quel vetturale Giosuè Bernacchi, che in un momento di esaltazione encefalica, provocata in lui dalle messaliniche promesse della Falchi, aveva tentato di assassinare il maresciallino Visconti, ed era stato sì fortunato, che la perizia medica, involandolo alla forca, lo aveva fatto passare al manicomio della Senavra. L'altro era il capomastro Granzini, che nella notte successiva all'eccidio del ministro Prina aveva avuto quel misterioso alterco coll'avvocatessa nella medesima sua casa.
Costoro appartenevano alla Compagnia della Teppa, e in diverse occasioni quando il tema s'era offerto spontaneo, parlando col Bichinkommer, gli manifestarono tutte quelle cose che credettero di non tacere relativamente all'avvocato Falchi e sua moglie. Sopratutto espressero il desiderio di vendicarsi di lei. Il Bernacchi disse i fatti come stavano; ma il Granzini, capomastro, diventato appaltatore e ricco, non disse che quanto gli accomodava. Tanto però bastò perchè il Bichinkommer facesse assegnamento su di loro. Egli sapeva come nel fatto dell'eredità contestata, l'avvocato Falchi, sebbene patrocinatore del Baroggi, aveva avuto mano nel far scomparire dall'archivio del dottor Macchi, passato in proprietà del notajo Agudio, i documenti che potevano risolvere definitivamente la questione. Sapeva come l'avvocatessa fosse a parte d'ogni segreto del marito. Aveva dunque, per l'amore che portava alla casa Baroggi e per l'avversione profonda che nutriva naturalmente contro i birbanti fortunati, pensato più volte alla possibilità di fare una sorpresa a colei, di averla tra le mani, di costringerla, col timore, a confessare e a rivelare quello che in nessun altro modo legale s'era potuto verificare.
E prima di ciò, per preparar meglio la strada, aveva messo gli occhi sul medesimo notajo Agudio. Essendo riuscito a poter vedere e tener presso di sè due o tre lettere che quel notajo, per gli elementi preliminari di un rogito di compra e vendita, aveva scritto al fittabile signor Mario Bosio, suo grande amico; con quell'attitudine straordinaria che aveva ad imitare tutti i caratteri calligrafici, come il lettore ben sa, studiò attentamente anche la scrittura e la firma del dottor Agudio; scrisse quelle due lettere, di cui più volte abbiamo parlato, una diretta al direttore di polizia Gehausen, l'altra al presidente del tribunale. Però, se il lettore avesse potuto credere che quelle fossero di mano dello stesso Agudio, ora può accorgersi d'essersi ingannato a partito. Il notajo da qualche tempo giaceva malato in una sua villa presso Varese, e il Bichinkommer approfittò anche di questa occasione per colorir meglio il proprio disegno; del qual disegno egli non fece parte a nessuno, nemmeno al Baroggi; fido al vetusto adagio:


Non lo saprai perchè son solo.


Ei sapeva assai bene che quelle lettere a suo tempo sarebbero state disconfessate dall'Agudio; ma pensava anche che cento inattese combinazioni potevan sorgere dalla comparsa di esse; che gli aventi interesse alla perpetrata frode, sgomentati dall'apparente confessione del notajo, potevano essere indotti a fare una confessione sostanziale e decisiva; che, infine, la perizia calligrafica avrebbe dovuto penar molto per trovar il modo di dar ragione al notajo, quando questi, chiamato in giudizio, avesse sconfessate quelle lettere, anche colla formalità del giuramento.
Non si può negare che un tal piano di battaglia era degno dell'astuzia di Annibale e di Napoleone, colla differenza, che accresce sempre più in loro confronto il merito del Bichinkommer, che cioè questi lavorava in segreto e alla sordina, senza pretesa nè di fama nè di gloria, ma pel solo desiderio di fare il vantaggio di un altro, senza che quest'altro potesse nemmen ringraziarlo; per l'intento ancor più nobile di tentar che la giustizia, svincolata dagli ostacoli, dalle insidie e dai trabocchetti dei tristi, potesse finalmente avere il suo libero corso; e nel pericolo, sebben lontano e improbabile, ma che stava pur sempre nella sfera del possibile, di essere condannato per falsario, se, per circostanze fatali, l'opera sua avesse mai potuto venire scoperta.
Giusta le informazioni, che, adoperando que' mezzi che erano in sua mano, aveva potuto assumere, quelle lettere non avevano prodotto tutti gli effetti ch'egli erasene aspettato. Già prima che il Suardi avesse parlato, seppe come il segretario del consigliere Pagani aveva fatto una visita al marchese F...; seppe che il marchese erasi recato tanto dal direttore di polizia quanto dal Presidente del Tribunale; da un giovane di studio dell'avvocato Falchi venne a conoscere, che il marchese aveva invitato a pranzo l'avvocato medesimo; dal cavallante del borgo dove il notajo Agudio teneva la villa e giaceva ammalato, seppe che presso colui erasi recato un attuaro del tribunale civile; ma che il medico, per la gravezza del male, non aveva permesso che il signor notajo gli desse udienza. Tutti questi fatti indicavano, che per quel sasso da lui scagliato nel torbido stagno, la belletta era venuta a galla; ma ciò non poteva bastare, onde credette che per dare una risoluzione pronta a quella malattia misteriosa, lunga ed ostinata, la Falchi poteva riuscire opportunissima se, cedendo alla necessità, avesse cantato e fatto cantar altri.
Da due o tre giorni egli e i compagnoni sunnominati stavan sulle peste dei signori Falchi per coglierli alla impensata, e, previo un buratto più o meno incruento all'avvocato marito, pigliar lei di forza, come erasi fatto dalla Compagnia della Teppa con tante altre mogli e amanti; e tirarla in luogo, dove l'ingiustizia, l'illegalità e l'arbitrio, divenuti onnipotenti, potessero far le veci della giustizia troppo spesso nominale e invalida.
Con questi pensieri, a guisa di un generale che ha da comandare una difficile e importante fazione, disse ai due: aspettatemi fuori dell'osteria, raccoglietevi prima intorno tutti gli altri, e, confusi nella folla, non perdete mai d'occhio la carrozza della Falchi. È bene che, per ora, io non sia visto con voi. In ogni modo, qualunque contrattempo possa nascere, sapete che il luogo dove ella dev'essere condotta è alla Simonetta, dove quel pazzo di... ha organizzato un'altra strana burla, la quale gioverà anche a noi, perchè, dato mai che la Falchi strillasse e, lasciata poi in libertà, facesse chiasso presso le autorità, di cui conosce tutti gli aditi, l'apparenza della pazzia e dello scherzo e del disordine senza costrutto e senza scopo, potrà dare un altro colore ad un'impresa fatta sul serio e per un intento serio. Andate, che vengo subito.
Quelli partirono, e il Bichinkommer s'accostò al Baroggi, il quale parlava ancora col Suardi e col segretario del Pagani. La Gentili era partita co' proprj genitori nella carrozza del futuro sposo. Questi erasi fermato, e simulando il più lieto umore del mondo, erasi avvicinato a quel crocchio, sotto pretesto di fare le più sentite congratulazioni allo scarcerato Suardi. Il Baroggi, visto il Bichinkommer, gli disse piano all'orecchio: Stasera non ci vedremo. - Nemmeno io posso vedervi.
- Ho già parlato di te al conte; oggi sarai formalmente accettato; domani verrai anche tu, e farai la nota di tutti quelli della Compagnia della Teppa che sono degni di lasciare le birbonate per le grandi azioni.
- Va bene; e dov'è il luogo del convegno?
- Stasera in casa del calzolaio Ronchetti. Domani in casa del conte. Il luogo si cambia sempre. Addio.
E si lasciarono.
Quanta carne a bollire! dirà il lettore. Ma non si sgomenti, chè la legna non manca.


XXV


Il Bichinkommer, congedatosi dal Baroggi, discese all'ingresso dell'osteria, per vedere co' propri occhi dov'erasi fermata la carrozza dell'avvocato Falchi. Era quella un phaëton, foggia di cocchio estivo venuto allora dall'Inghilterra. Non aveva cocchiere a cassetta, ma un jockey in livrea di postiglione con calzoni di daino bianco teneva i cavalli.
Il Bichinkommer disse al Bernacchi vetturale:
- Sarebbe stato assai meglio se fossero venuti a piedi.
- È facile a capirsi.
- Voglio dire, che bisogna governarsi in modo, da rendere questa carrozza inservibile.
- Come si fa?
- Far nascere qualche scompiglio... spaventare i cavalli... qualche cosa, insomma; i milionarj non amano di affrontare i pericoli.
- Questo si sa...
- Per combinazione, ci sarebbe qui tra gli altri qualche fiacre guidato da qualcuno de' tuoi uomini?
- Più d'uno ce ne sarà.
- Fa dunque in modo che si trovi un fiacre fuori della porta, sulla strada di circonvallazione che mette a porta Tosa.
- È presto fatto.
- Ora io rientro nell'osteria, e mi metto sui passi loro.
- Son là seduti, presso la banda militare... Ella momenti fa parlava col general Bubna.
- Per fortuna non mi conoscono, e potrò tenerli d'occhio senza metterli in sospetto. Or lascia ch'io dia una occhiata al postiglione.
Detto ciò, fece tre o quattro passi, attraversò il bastione, e si piantò presso la carrozza, ambe le mani nelle saccoccie e il cappello bianco plumé in sugli occhi. Pareva un mercante di cavalli che esaminasse le sue bestie, per accertarsi se potevasi fare un negozio, ma di sott'occhio egli sbirciava il postiglione.
- La faccia è abbastanza di mammalucco, ei diceva fra sè. Va benone. Questi milionarj di nova data si fan sempre scorgere a qualche indizio: il phaëton è inglese, ma il jockey è tolto di certo al cavallo dell'erpice. L'abito è nuovo e ben tagliato, ma la schiena tradisce l'abitudine della vanga. Può darsi che mi sbagli, ma questo villanzone deve sgomentarsi per nulla.
Ciò detto, o meglio, pensato, si ritrasse lentamente, e come chi va almanaccando tra sè, diede di nuovo un'occhiata d'intelligenza al Bernacchi, al Granzini e agli altri; rientrò nell'osteria, e si portò sull'ingresso della cucina. Colà, senza perder mai di vista il pergolato presso la banda militare, dove trovavasi la Falchi, disse alto al cuoco:
- Avresti ancora del fegato crudo?
- Aspetti... sì... c'è quest'ultimo pezzo... Vuol forse una buona frittura?
- Dammelo come sta. Ognuno ha i suoi gusti.
- Ma...
- Te lo pagherò come se fosse fritto e rifritto; sta di buon animo.
- Si serva; badi a non imbrattarsi.
E il Bichinkommer, nascosta la mano che teneva l'involto sotto la falda della giubba, uscì di nuovo.
L'osteria del Monte Tabor, alle ore sette, quando cessò il giuoco della slitta, cominciò a versar fuori gente, gente e gente, con quel rigurgito profluente onde la birra in fermentazione, tolto il turacciolo, si versa in quella misura che par superare le proporzioni della bottiglia. Il fiacre del vetturale Bernacchi era già fermo fuori della porta; e un altro fiacre fu mandato ad aspettare sul bastione per il caso che d'improvviso si dovesse cambiare il piano di battaglia. Presso alla carrozza della Falchi, a conveniente distanza, stavano quelli fra i compagnoni della Teppa ch'erano men noti al pubblico. Altri s'eran recati a bere ad un'osterietta posta allo sbocco della strada di circonvallazione, e che serviva di succursale al Monte Tabor, quando questo minacciava di lasciar morire di sete la folla soverchiante. Il Granzini capo mastro passeggiava sul bastione a dritta, il Bernacchi sul bastione a sinistra della porta. Il Bichinkommer, col cappello sugli occhi, teneva tutto nel dominio del proprio sguardo, lasciandosi sospingere e respingere dalla folla, come uno di quei ceppi del lago, a cui fan capo le reti, e che vengon di continuo sobbalzati dall'onda. A misura che i signori proprietari delle carrozze uscivan dall'osteria, i cocchieri, avvisati dal noto fischio delle livree che ricevevan l'ordine dai padroni, facevano avanzare i cavalli. In quel momento adunque l'ordine delle file non poteva essere molto rispettato. E venne anche la volta del phaëton di casa Falchi. Il jockey venne chiamato. Questi d'un tratto fu al suo posto. Il Bichinkommer, colto a volo quell'istante, s'era recato presso al cavallo che doveva portare il jockey, e intanto che questo, messo il piè sinistro nella staffa, colla gamba dritta girava la sella, per mettervisi a sedere, ei gl'intromise di volo l'involto del fegato insanguinato, senza che colui nè altri se ne avvedessero. Il jockey fece avanzare i cavalli; il Falchi colla moglie salirono; il phaëton si rimise nella fila de' cocchi che procedevano non senza disordine. Ma a un tratto i monelli spettatori gridano: Ferma, ferma. - Guarda, guarda. - È ferito. - Siete ferito; versate sangue da tutte le parti. Il jockey, alla luce crepuscolare, si volge, guarda, si spaventa, si smarrisce, grida ajuto, e governa sì male le briglie, che i cavalli s'impennano, sconvolgono le file, fanno urlare donne e ragazze, che si mettono in fuga, mentre altri accorrono. Nel disordine, nella confusione e nel parapiglia, alcuni, ed eran socj della Teppa, pigliano nelle braccia il jockey quasi svenuto, fermano i cavalli, fingono di far coraggio ai seduti in carrozza; intanto il Bernacchi, dietro consiglio improvvisato lì per lì dal Bichinkommer, monta in sella, guida i cavalli, li fa uscir di fila, e approfittando dello scompiglio generale, li spinge a gran carriera fuori di Porta Romana.
Senza perder tempo, il Bichinkommer dà ordine al Milesi e a due altri di salir nel fiacre che stava fermo sul bastione, e di uscir tosto per mettersi in coda al phaëton, e di concerto coll'altro fiacre, far nascere un nuovo parapiglia, simulare un alterco, una rissa, un qualche inferno, per ottener l'intento di tagliare in due il matrimonio seduto in cocchio, trasportando la Falchi alla Simonetta, e lasciando per una notte in piena e desolata vedovanza il milionario avvocato. Audaces fortuna juvat; le cose camminarono a seconda delle previsioni e dei desiderj. Il fiacre situato sul bastione tenne dietro al phaëton; dopo qualche istante, il fiacre che attendeva sulla strada di Circonvallazione, avvisato in tempo debito, si mise a carriera, come per inseguire le altre due carrozze, sotto pretesto d'esser stato attraversato e insultato. In quest'ultimo erasi gettato il Bichinkommer. Egli vomita ingiurie contro quelli dell'altro fiacre; questi rispondono di conformità, e versano tutta la colpa sul guidatore del phaëton. Il Bernacchi, recitando benissimo la propria parte, si mette a sagrare come un indemoniato. Tutte e tre le carrozze si fermano. Gli uomini nei due fiacres discendono, e fanno le viste di assalire il Bernacchi. La Falchi grida, l'avvocato strepita, e tutti si volgono a quest'ultimo, portandolo di viva forza fuori della carrozza. Il Bernacchi, avvertito dal Bichinkommer, finge allora di svincolarsi dall'impaccio dei due fiacres, e mette i cavalli alla più precipitosa carriera, indarno gridando la Falchi che il marito era rimasto a terra. Il qual marito, dopo essere stato urtato e riurtato e anche tambussato, fu lasciato solo in mezzo alla strada e all'oscurità della notte già caduta; e i compagnoni della Teppa risalirono tutti nei fiacres e via di gran galoppo.


XXVI


Tutti questi fatti seguirono con tanta rapidità, che coloro i quali dovettero subirli per forza, non ebbero il tempo necessario nè di fermarli, nè di comprenderne lo scopo, nè di conoscerne gli autori. Tanto il Falchi quanto sua moglie rimasero così sbalorditi e confusi, che non raffigurarono il Bernacchi quando questi montò in sella, e non s'accorsero d'essere portati piuttosto fuori che dentro la città. E dopo il simulato alterco, a tacere dell'avvocato che, restato solo nella solitudine e nell'oscurità della Circonvallazione, non mise in iscritto per nostro uso le sue impressioni, la paura s'era per siffatta guisa impadronita dell'animo di madama Falchi, che la sua carrozza svoltò entro il portone di un palazzo, prima che si fosse riavuta; sebbene confidasse nelle parole del Bernacchi, da lei non ravvisato, il quale, lungo la precipitosa corsa, andò ammonendola e persuadendola ch'ei l'avrebbe tratta in salvo. Al rumore della carrozza accorsero i famigli del palazzo, che era quello della Simonetta appunto, situata tra porta Tenaglia e porta Comasina, e celeberrima per il suo eco. Parve che quella visita fosse aspettata. La Falchi fu fatta discendere. Giosuè Bernacchi allora le si presentò, e dandosi a conoscere: - Ringraziatemi, le disse, se ho saputo trarvi di pericolo.
Di lì a poco giunsero gli altri due fiacres. Ne uscirono nove uomini, fra i quali il Bichinkommer. Tutti fecero cerchio intorno alla Falchi che, vedendo il capomastro Granzini, si smarrì, senza che però potesse comprender nulla.
A rendere più ampia la linea del semicerchio discese un uomo alto e di forme robuste, affatto calvo, quantunque ancor giovane, tinto fortemente di quel color di mattone, che di consueto è il deposito della triplice concorrenza della salute, del sole e del vino. Sebbene in abiti da caccia, aveva aspetto e modi signorili, indarno dissimulati da una, poteva dirsi, abitudine di prepotenza ostentata e da uno sguardo particolarissimo, nel quale un osservatore esperto poteva vedere a lampeggiare un duplice raggio di sinistra gravità e di vivezza comica. Pareva un miscuglio d'innominato e di don Giovanni, col naso pavonazzo di Falstaff e il ghigno provocatore di don Cesare di Bazan. Colui aveva due soprannomi; da' suoi pari e in città veniva chiamato il barone Bontempo; in villa e dai contadini era denominato El Mazzases, per aver ucciso sei aggressori, mentre viaggiava affatto solo in sediolo. Non era il padrone della Simonetta; ma la teneva soltanto a pigione e da poco tempo; e ciò sia detto a scanso d'equivoci.
- Quantunque non abbia il bene di conoscervi, disse egli alla Falchi, nè voi sappiate ch'io mi sia, ho caro siate venuta a trovarmi. Qui avrete buonissima compagnia d'uomini e donne; donne degne di voi, uomini superiori ai vostri desiderj, sebbene forse contrarj ad ogni vostra aspettazione. Non parlo di quelli che vedete qui, noi siamo uomini volgari.
La Falchi, benchè fosse compresa di sgomento, fissò in volto l'interlocutore con una cert'aria di sussiego.
- Voi dite di non conoscermi, disse poi, ed io pure non vi conosco. Abbiate dunque la bontà di dirmi per qual ragione adesso io mi trovo in questa casa, che, a quanto mi sembra, è casa vostra.
- Parlate voi, signor Giosuè, disse il barone al Bernacchi.
- Mi riconoscete voi? chiese allora il vetturale alla Falchi.
- Sì, ella rispose.
- Per colpa di chi un certo tale ha dovuto passare due anni nel manicomio della Senavra?
- La colpa dovrebbe essere di quel tale, se i pazzi fossero colpevoli.
- Se dunque i pazzi non sono colpevoli, la colpa sarà di chi con arti diaboliche incaricò un pazzo di ferire un uomo. Signori, ecco la strega infame che spinse un giovane onesto a vibrare il colpo dell'assassino. Il resto lo sapete.
- Avete dunque capito, o signora, esclamò il barone; siete qui per essere giudicata e condannata.
- Mi riconoscete voi, signora? le chiese allora ad alta voce il capo mastro Granzini.
- Sì, vi riconosco.
- Ebbene?
- Non so che vi vogliate dire.
- A poca distanza di qui c'è il cimitero della Mojascia. Fra i mille cadaveri che giaciono colà, non ve n'è uno che vi tolga il sonno la notte, e vi assedii con paure e con rimorsi?
- Non vi comprendo, e non so nulla.
- Si tratta dunque di far sapere a tutti quello che voi dite d'ignorare.
- E noi la giudicheremo e la condanneremo, esclamò il barone con voce profonda e con gravità ostentata.
- Conoscete voi, entrò allora a parlare il Bichinkommer, conoscete voi il notajo Agudio?
- Non lo conosco.
- Voi lo conoscete, e sapete anche in qual modo si comperarono da lui delle carte preziose, a danno di una povera famiglia, e a vantaggio di un ricco potente.
- Io non so nulla.
- Allora si troverà il modo di farvi confessare la verità, vostro malgrado.
- E noi la giudicheremo e la condanneremo, concluse il barone, caricando la profondità della voce e mettendo fuori le parole come se fossero una formola tremenda della Santa-Vehme.
La notte era profonda; i fanali dei fiacres, portati a mano da quattro socj della Teppa, rischiaravano lugubremente quella scena. La Falchi pareva la Lucrezia Borgia nel famoso sestetto dell'opera di Donizetti.
Ma la varietà del finale del sestetto consistette in ciò, che la Falchi venne condotta in una gran sala terrena tutta illuminata, dove alcune belle donne, mostranti tutt'altro che allegria, sedevano in mezzo a dodici mostruosissimi nani. Ed ora narreremo la storia dei nani.
Una notte s'impegnò un vivissimo alterco tra alcuni soci della Teppa e un nano assai noto nella via dei Pennacchiari, soprannominato el nan Gasgiott, il quale lavorava a far fiori artificiali. Apparteneva esso alla specie superlativa di que' nani che, nel dialetto milanese, con vocabolo intraducibile, si chiamano besios: forti di salute, tarchiati di spalle, presuntuosi e maneschi, e che diventan feroci se alcuno ha l'audacia di arrischiar qualche critica sul sistema delle loro gambe. Questo nano era prepotente anco non provocato, e faceva professione di tentar tutte le donne del circondario con parole e con fatti, pe' quali avvennero innumerevoli risse, e si appoggiaron randellate famose, e corse anche qualche coltellata. Tra i socj della Teppa che s'incontrarono in costui quella tal notte, v'era l'atletico Milesi, il quale amoreggiando una servotta che stava ne' Pennacchiari, aveva sentito da lei che el nan Gasgiott le aveva dette parole non mica belle. Ognuno può immaginarsi che tempesta di cazzotti cadde sull'ampia schiena del nano, e come esso non riuscisse a svincolarsi dalle ferree mani del Milesi, che lo trasportò seco all'osteria del Falcone, e qui, incontratosi coi barone Bontempo, questi propose al Milesi di portare il famoso nano in campagna e colà sottoporlo ad un regime severo, che lo preparasse a diventar più calmo e trattabile per l'avvenire.
Siccome da pensiero nasce pensiero, così nelle teste di quei giovinotti buontemponi, che talvolta spingevan le pazzie fino all'ingiustizia ed alla crudeltà, nacque la idea di organizzare un rapimento di tutti i nani più vistosi della città. I Romani fecero il ratto delle Sabine; i pirati greci e turchi rapivano le beltà delle isole greche e dell'Eritreo o della Cascemira per provvedere odalische ai voluttuosi emiri. La Compagnia della Teppa tese invece i suoi agguati a quanti ebbero gambe tortuose e menti da gnomo. Se il fatto fosse continuato per molto tempo, i nani, diventati oggetti di lusso, sarebber saliti a prezzi d'affezione.


XXVII


Come già fu detto, la polizia austriaca, così instancabile e vessatrice nel sorprendere e punire le azioni che più o meno le paressero dannose al governo, chiudeva poi un occhio, con iscopo deliberato, su tutti quegli atti che turbavano la pace e la sicurezza cittadina. Non è possibile ammettere che la polizia austriaca non abbia repressa e distrutta in sul primo suo nascere la Compagnia della Teppa per aver trovato degli ostacoli insormontabili. Come vedremo, appena lo volle, potè farlo. Ma a lei premeva di deviare la gioventù dalla serietà della vita; e godeva che si fiaccasse nella corruzione e nel disordine; e però, per tre anni consecutivi, permise che i placidi cittadini fossero esposti ad ogni sorta d'insulti e di soperchierie, le quali, se non toccavano la sfera rigorosamente criminale, offendevano però il pubblico e privato costume, e più d'una volta furon cagione di mali assai gravi.
Nè ai reclami de' cittadini la giustizia provvide mai a soddisfare compiutamente. A ciò s'aggiunga, che le ingiurie e le persecuzioni di cui tante buone persone eran fatte segno, appartenevano a un ordine di cose che insieme colla pietà provocavano anche il ridicolo.
Quindi nella maggior parte un'invincibile ritrosia a mettere in pubblico gli scandali ch'erano avvenuti nelle tenebre; perchè più d'una volta accadde che, portate ai circondarj le querele, i pubblici funzionarj, per quanto fossero onesti e disposti a far giustizia, non seppero sempre comprimere gli scoppî di risa, allorchè gli offensori, quasi tutti giovinotti senza pensieri e senza cure, pieni di salute e di allegria e di comica giovialità, esponevano le loro storie di fatto, a rettifica delle querele avversarie; onde succedeva che, a processo chiuso, chi aveva avuto il danno in segreto, non avea ottenuta altra soddisfazione che di trovare anche le beffe in pubblico. Per questa condizione di cose, i disordini vennero ad aggravarsi ed a moltiplicarsi sempre più. Quasi tutta la gioventù di Milano, quella eziandio che era portata alla vita ragionevole e tranquilla, trovò opportuno di aggregarsi alla Compagnia della Teppa, se non foss'altro, per essere rispettata dai colleghi prepotenti; laonde sempre più vennero a mancare i difensori alle persone oltraggiate. Una tale comodità imbaldanzì ad affrontar imprese d'un ordine più pericoloso e più alto; si pensò a maltrattare anche persone distinte; si concertarono vendette d'ogni genere, contro uomini e donne della classe ricca e patrizia; se non che, per fortuna, la famigerata compagnia, in questo medesimo eccesso, venne a trovare il germe della propria distruzione. E un fatto curioso è da notare, che negli ultimi mesi della sua vita, per insinuazione dei migliori, tra' quali il Bichinkommer, essendosi voluto assegnare qualche scopo utile alle imprese bizzarre e violenti, e quasi tentar di giustificare col fine l'iniquità dei mezzi, questa per avventura fu la causa principalissima che le diede il tracollo, perchè avendo essa preso di mira alcuni uomini tristi e potenti, incontrò in essi quella reazione valida e distruttrice che non trovò mai nel tribolare il prossimo innocente e tranquillo. Tra le ultime imprese bizzarre e comiche, ma nel tempo stesso violenti e turpi, quella che abbiamo incominciato a raccontare fu probabilmente la più efficace ad accelerare il suo termine; e fu precisamente allora che si adoperarono i mezzi più strani ed iniqui coll'intento di fare la giustizia più generosa.
Il rapimento del nano fiorajo della via dei Pennacchiari e la sua deportazione alla Simonetta, suggerì dunque a quei capi strani il ratto dei nani più noti e più velenosi che possedeva Milano. La caccia durò qualche tempo; le imboscate furono molte; i nani celebri, i quali sapevano che si volevano metter le mani su di loro, giocarono per un pezzo di astuzia onde involarsi e trafugarsi; ma i monelli della città tenevan bordone alla compagnia, e al pari dei levrieri e dei bracchi che avvisano il cacciatore della presenza del selvatico, svelavano il nascondiglio dei nani inseguiti, il come e il quando ne uscivano, e, colto il punto, eran tutti addosso, come sul cignale, quando, tentato e ritentato, finalmente sbuca infuriato dal covo. Allorchè i compagnoni ebbero messo insieme una cacciagione di una dozzina di nani, pensarono di non farne altro, e di raccoglierli tutti in un luogo solo per dar loro un lauto banchetto, e poi rinviarli in pace alle loro dimore. Ma il Bichinkommer fu causa che di quella schiera di gnomi si cavasse un partito, e si venisse in seguito a stabilire il modo onde poter dare una pratica applicazione a quella stramberia che non aveva nessun fine in se stessa.


XXVIII


- Molte volte ho pensato fra me, disse un giorno il Bichinkommer al barone Bontempo, come si potrebbero punire quelle donne che fanno uso della propria bellezza per tormentare e tener continuamente in sulla corda i giovani inesperti; quelle tra le elegantissime patrizie, che, dopo aver dato un calcio al marito, all'amante italiano, fanno sfacciatamente all'amore coll'ufficialità austriaca; come si potrebbero punire quelle, che, sebbene agiate, permettono che i giovani vadano in malora per soddisfare alla loro ambizione e ai loro capricci, e, rovinati, li abbandonano poi alle risate, alle fischiate del bel mondo. Come si potrebbe, tanto per venire a qualche caso pratico, far piangere a calde lagrime, siano poi d'ira o di pentimento non importa, quella signora C... (e qui nominò una famosissima beltà perfida, della quale noi dobbiamo tacere il cognome) che fu vista a ridere in palchetto il dì dopo che il suo adoratore erasi abbruciato il cervello per lei; e ballar tutta notte al veglione con un ulano, il quale sparlava poi animalescamente di tutte le nostre donne, facendo un sol fascio delle Messaline e delle Lucrezie? E non converrebbe una lezione tremenda a quella contessina che rubò il fidanzato alla figliuola dell'avvocato B... e fu causa che si sciogliesse un matrimonio, quasi pervenuto alla presenza dell'altare, non per altra ragione che perchè quell'innocente ragazza aveva meritate le lodi del suo cavalier servente? La legge non arriva e non può arrivare sin qui, ma nel tempo stesso è duro che certe colpe speciali non debbano aver pene speciali e proporzionate. Queste donne io vorrei che si potessero condannare a un perpetuo disonore, ma a un disonor fisico e materiale, non ideale; ci vuol altro. Io, per esempio, le metterei in compagnia di questi gnomi ributtanti e furibondi, farei chiudere le porte, e buona notte. Non capisco, come nell'Inferno di Dante, che, sebbene ignorante, ho voluto leggere per averne un'idea, non siasi immaginata una pena consimile per tormentare sino alla disperazione l'orgoglio e la crudeltà di tali scelleratissime carogne.
Questa strana idea il Bichinkommer la mise fuori così per passatempo e senza credere che si potesse in nessun modo attuare; ma il barone Bontempo:
- È un peccato, soggiunse, che un progetto simile non abbia ad effettuarsi. Però bisogna pensarci, caro mio; come si son trafugate altre donne e ragazze, trafugheremo anche queste; così rideremo noi e vendicheremo gli altri.
- La cosa è pericolosa più di quel che sembra. Son tutte signore altolocate, e che hanno aderenze cospicue e potenti.
- Tanto meglio; l'auto da fè sarà così più segnalato e meritorio.
E qui adesso non istaremo a raccontare minutamente come questo disegno, messo là per bizzarria, fu poi maturato seriamente e messo in esecuzione con tutti i mezzi necessarj perchè riuscisse. Le insidie, gli agguati, i trabocchetti, i rapimenti hanno un modo quasi sempre uguale di processo e di sviluppo, onde, senza annojare il lettore, lasceremo la sua fantasia in piena libertà di far le nostre veci, concludendo solo che quando la Falchi fu tratta alla Simonetta, quelle donne di cui parliamo più sopra, vi erano state trasferite fin dal giorno prima.
Esse erano tutte della classe più alta e più ricca; scelte tutte fra le più orgogliose e beffarde che avevano abusato della beltà, come i più tristi dei dodici Cesari avevano abusato del potere. Non parliamo delle tre nominate dal Bichinkommer, e che furono le prime ad esser rapite e trasportate alla Simonetta. Quelle eran già famigerate in Milano per le colpe che sappiamo, le altre avevan tutta la capacità a delinquere, e se non si erano segnalate per la profondità della perfidia, era estesissimo il terreno sul quale l'aveano esercitata. Una poi era stata amante riamata del barone Bontempo; ma, dopo le più fervide proteste, dopo il più infuocato epistolario, dopo l'assicurazione di un amore duraturo vita natural durante, un bel dì il barone si trovò accolto come un estraneo, licenziato su due piedi, senza nemmeno il beneficio degli otto giorni che suole accordarsi ai servitori; e tutto ciò perchè un principe di Lichtenstein, che vestiva la sfarzosa uniforme d'ussero, sembrò più conveniente alle mire della damina.
Il barone Bontempo, quantunque avesse fermato di non vendicarsi altrimenti di quell'ingiuria, riputando essere la vendetta indegna d'un gentiluomo, non seppe poi resistere alla tentazione di metter colei nel novero delle condannate, quando il Bichinkommer con fantasia ariostesca gl'improvvisò lo strano progetto. E così anch'essa, come una starna ferita, fu messa nel carnaio ed inviata al cuoco perchè l'acconciasse in salmì. Allorchè la Falchi, condotta a mano dal barone, con apparenza di cortesia cavalleresca, comparve sulla soglia della sala, quelle donne avevan l'aspetto di altrettante regine Zenobie trascinate dietro al carro del trionfatore; ed eran cupe ed acide come le Longobarde quando videro le proprie dimore invase dai Franchi. I dodici nani, per un'altra idea bizzarra, erano stati travestiti in abiti teatrali, somministrati dal vestiarista della Scala, e potevan benissimo far la prima figura in qualunque cenacolo di Paolo Veronese.
- Eccovi, o nobilissime signore, disse allora il barone, un'altra compagna assai degna di voi. Credo bene ch'ella vi sia nota. Fu per aspettar lei che vi ho fatto attendere quarantott'ore in questa casa. Non credo però che vi possiate lamentare. Ora vi annunzio che domani potrete far ritorno alle vostre case, e intanto vi prego ad accettare una cena. Ho anche pensato a non lasciarvi sole; ma siccome nè io nè questi miei amici non siamo abbastanza degni di voi, così, come vedete, ho fatto ricerca dappertutto per mettervi in mezzo ad una schiera d'uomini rari e sperati come ova di Pasqua. Ciò che determina l'alto prezzo delle cose, più che la bontà e la bellezza, è la rarità. Tutto quello adunque che si è potuto fare per voi, s'è fatto con amore e con coscienza, e mi lusingo che ci sarete grate. Questi signori, che per renderli sempre più degni delle vostre signorie ho fatto vestire in costumi di re, di duchi, di baroni, spero sapranno rendersi amabili al vostro gusto squisito; e tanto più quando si saran diguazzati come anitre nel fumoso liquore spremuto da' miei vigneti, e quando sentiranno gli effetti di un certo ingrediente gentile, che è tratto da quell'insetto che i naturalisti iscrissero nell'elenco dei Coleotteri, ed appartiene alla famiglia degli epispastici. Or vi lascio alle gioje che vi ho preparate, e la fortuna vi sia propizia.
Quando il barone ebbe ciò detto, un servo gallonato spalancò una porta, da cui trapelava un gran chiarore; vi si fermò, e disse ad alta voce: In tavola, signori.


XXIX


Il precetto di Orazio - Nec pueros coram populo Medea trucidet, ci comanda di calar il sipario e d'impedire che l'occhio del pubblico penetri ad assistere all'orrenda cena che i compagnoni della Teppa imbandirono alle colpevoli dame che fecero parlar troppo di sè nell'anno 1820, e delle quali non vogliamo che oggidì si sospetti nemmanco il nome. La cena d'Alboino e il cranio di Cunimondo poterono esser narrati e descritti e dipinti; ma la vendetta dei Teppisti non potrebbe trovar grazia presso nessun'arte, nè posto in alcun libro che non venisse inspirato dalla nefaria musa dell'Aretino. Che se noi l'abbiamo accennata di volo e in ombra, fu solo per mostrar come un governo corruttore, lasciando libero il freno al disordine ed alla scostumatezza per avvelenare tutte le fonti della virtù, sia occasione che anche degli uomini non perversi e perfino onesti, tentati dall'invito o dalle circostanze, possano di cosa in cosa e di abuso in abuso pervenire a tali eccessi, che essi medesimi ne debbano poi rimaner pentiti. Il Bichinkommer fu il primo ad accorgersi che si era andato troppo oltre nell'esecuzione di quel disegno, ch'egli avrebbe voluto non aver mai pensato; e fu anche il primo, quando, per molti indizj, potè intravedere che la barbara commedia, in quella notte minacciava di convertirsi in un'atrocissima tragedia, a consigliare di entrare presso le dame e i loro commensali onde impedir conseguenze ancor peggiori.
Per fortuna esso fu ascoltato ed obbedito; le dame furon fatte uscire, e i nani inferociti si dovettero placare a bastonate; tanto è vero che troppo spesso una serie di violenze non può essere troncata che da una violenza estrema.
Il giorno dopo, tutte le signore, in altrettanti fiacres che furono fatti venire dal Bernacchi, vennero rinviate a Milano, con tutte le precauzioni necessarie perchè non potessero sapere in che luogo erano state. Madama Falchi fu trattenuta per l'ultima alla Simonetta, onde sottoporla alle interrogazioni del Bichinkommer ed alle intimazioni del Granzini e del Bernacchi, e cavarle di bocca come furon fatti sparire i documenti appartenenti all'archivio dello studio Macchi Agudio. Se non che la Falchi, dotata, come sappiamo, d'una natura assai affine a quella delle tigri, invece di subire l'effetto delle umiliazioni e degli insulti, s'era venuta inferocendo pel dolore stesso delle ferite. Così stette forte e chiusa e imperterrita, e perfino minacciosa, tanto che fu rimandata anch'essa in città senza nessun'utile conclusione. I compagnoni tornarono a Milano; il barone Bontempo, che, ad eccezione del Granzini e del Bernacchi, era il solo conosciuto dalle dame, lasciò a buoni conti il Palazzo della Simonetta, e si recò nel Cantone Ticino ad aggiustare i conti col fattore delle terre che possedeva a Mendrisio, e ad informarsi come era andata la vendemmia in quelle parti là. Ma se il palazzo della Simonetta e il suo eco rimasero silenziosi, un rumor sordo era già corso per tutta Milano. I padri, i mariti, i fratelli, i parenti delle dame malcapitate, sebbene queste avessero volontà di tacere, le costrinsero a parlare, e il poco che palesarono di quel ch'era loro seguito, bastò perchè tutte quelle famiglie strepitassero: e rimostrando questi e tanti altri disordini avvenuti di quei giorni per opera della Compagnia della Teppa, con un ricorso sottoscritto da molte persone, invocarono dalle autorità competenti un provvedimento che mettesse fine a quel flagello pari e peggiore d'ogni altra peste. È poi facile immaginare ciò che fece l'avvocato Falchi, sebbene la reduce avvocatessa, per timore delle rivelazioni del Granzini intorno all'assassinio del ministro Prina, raccomandasse il silenzio e la prudenza.
E questa volta, tutta l'astuzia e il talento e il fervore generoso del Bichinkommer non valsero che ad accrescere le disgrazie vecchie ed a crearne delle nuove, come già era accaduto al grande Napoleone, che nelle battaglie di Francia, che sono il capolavoro del suo genio, non trovò che disastri e l'ultima rovina.
Il notajo Agudio, migliorando di salute e fatto interrogare dal marchese F... sul fatto delle lettere che aveva scritto al barone Gehausen, mandò a dire e a protestare ch'egli non sapeva nulla, e che quegli scritti presentati in suo nome e colla sua firma non potevano essere che una falsificazione. Le minaccie fatte dal Bichinkommer alla Falchi e riferite da lei al marito, mostrarono che ci doveva essere un piano prestabilito, in cui più d'una persona poteva aver parte a danno del marchese F... e a vantaggio del Baroggi; e per ultima conclusione si venne a sospettare di quest'ultimo, siccome della sola persona interessata in quest'intrigo. Il crotalo Alberico, che strisciava sott'erba e tirava a farsi prestare i centomila franchi dal marchese; e che dopo la scena del Monte Tabor, volentieri, data l'occasione, avrebbe messo l'arsenico nel bicchiere del Baroggi, lavorò con perfidissima e vile astuzia contro di lui, per rovinarlo in tutti i modi.


XXX


Quel dì stesso il Bichinkommer e il Baroggi pranzarono insieme all'osteria della Stadera. Il secondo non sapeva nulla di quello che aveva fatto il primo, e tutto sprofondato com'era da qualche giorno nei pensieri e nelle cure del paese, non conosceva nulla affatto del così detto Gazzettino di quel mondo che, quando non fa nulla, fa peggio. Ma alla tavola ove pranzavano e a tutti i tavolini che lor stavano intorno e dappresso, non si parlava che del rapimento dei nani e dello scandalo fatto subire ad alcune dame milanesi. Queste, com'è naturale, avevan taciuto quello che ai nani premeva invece di raccontare, perchè un certo senso d'orgoglio e l'idea di una specie di trionfo aveva fatto passare il dolore e l'avvilimento delle bastonate ricevute. Tenuto conto di tutto, e messo insieme il dare e l'avere, all'ultimo essi furono ben contenti d'essere stati rapiti; onde fu precisamente per opera loro se lo scandalo venne a propalarsi. Il Baroggi, che non comprendeva nulla di quei discorsi, ne domandò la spiegazione all'amico, che gliela diede amplissima, confessando la brutta parte che, colle buone intenzioni del mondo, esso aveva avuto in quel fatto.
- Oh mi pento davvero, esclamò allora il Baroggi, di aver dato ascolto al Suardi e d'essere entrato a far parte di questa compagnia; ma come ti dissi già altre volte, per ammenda degli altrui falli e dei nostri, come si pensa a convertire in medicina anche i veleni, bisogna provvedere a convertire in qualche bene anche questo malanno. Molti giovani gli ho già convertiti, e trovai buonissimi terreni. Adesso bisognerà pensare a cavar partito anche dalle schiume più ribelli. Tu ci penserai. Stasera verrai con me, e ti presenterò alla società. Ti farò conoscere a suo tempo anche il conte, che è quello che sta al timone e governa tutti gli avvenimenti. Abbiamo bisogno di qualcuno che conosca il Piemonte come la Lombardia, e sia pronto a viaggiare innanzi e indietro per tutto quello che può abbisognare. Ho già parlato di te, sei già noto ed accettato; per cui stasera non ci sarà che la formalità della presentazione. Intanto è bene che sappi quali sono tra noi i segni di riconoscimento. Eccoti spiegato il tutto in poche parole: - Tu vai, per esempio, in un luogo ignoto, e ti trovi tra persone ignote, nel tempo stesso che desideri sapere che aria tiri e che discorsi si possono arrischiare e che reti gettare: ebbene: se tu adocchi uno che ti dia nel genio più degli altri, e ti venga in sospetto che per avventura sia un affigliato alla Società dei Federati, non devi far altro che unire ambe le mani nell'atto di salutarlo; se l'altro non ti comprende, è indizio che bisogna parlar di cose indifferenti, e troncare ogni discorso pericoloso; ma se invece quegli a cui tu guardi si pone la mano destra al fianco, come facendo mostra di mettersela sulla spada, allora è segno che è un federato, e che, all'occorrenza, puoi far capitale di lui.
- Ma questa società che, siccome ho sentito dire, è assai diversa da quella dei Carbonari e dei Frammassoni, ha però, al pari di quella, una gerarchia?
- La Società dei Federati non ha che due gradi: quello di capitano e quello di semplice addetto.
- Ma in che differisce il capitano dal semplice federato?
- In ciò, che il primo ha il diritto o l'obbligo, come tu vuoi, di far quattro proseliti. Io, per esempio, son capitano, e tu sei il quarto dei proseliti che ho fatto.
- L'altro dì m'hai detto che la Società si convoca in casa del calzolajo Ronchetti?
- Le adunanze generali si tengono sempre in un sito; le speciali in varj luoghi. La casa del calzolajo Ronchetti è uno di questi. Devi inoltre sapere che questa Società si divide in due centri, quello dei nobili e quello dei plebei.
- Ahimè, caro Giunio, si comincia male.
- Comprendo che cosa vuoi dire, e sono anch'io del tuo sentimento; ma ho dovuto accorgermi che, per ora, questa distinzione era necessaria.
- Ma, e perchè?
- Gli uomini che amano la patria sono più frequenti di quelli che odiano i privilegj. Ecco perchè, onde attrarre nell'ardua impresa anche i nobili, bisognava far loro toccar con mano che coll'entrare nella nuova Società e col far parte dei lavori che devono concorrere alla creazione vera e non fittizia della nostra patria, i blasoni rimanevano intatti. Col tempo andranno per aria anche questi. Un tal tempo però sarà lungo, lungo assai; press'a poco come uno dei sette giorni o delle sette epoche della creazione. Noi, i nostri figli, i figli dei nostri figli, e continua pure colla litania delle generazioni, saremo morti tutti, e ancora ci saran duchi e marchesi e conti. Bisogna adattarsi, caro mio; chè, se cominciamo a prender ombra dei titoli, addio speranze; non si fa più nulla.
Continuando su quest'andare, essi finirono di desinare, lasciarono l'osteria, passeggiarono per qualche ora, si recarono fuori di Porta Orientale all'osteria dei Tre Merli, allora famosissima, a bere un bicchiere di Villacortese, pure di quel tempo in gran voga; finalmente, verso le ore otto, entrarono nella casa Ronchetti, in via della Cervia, situata in quell'angolo vicino alla chiesa, che, per il consueto alto e basso delle cose umane e divine, ora somministra le legna a quanti fanno bollire pentole in casa, e si riscaldano al caminetto ed alla stufa.


XXXI


Milano, nel principio di questo secolo, forse per essere stata la capitale del regno italico, ebbe il privilegio di raccogliere in sè i prototipi dell'intelligenza italiana in tutte le sue sfere e manifestazioni, dall'alfa all'omega, dalla testa ai piedi: da Vincenzo Monti e Romagnosi e Sabatelli e Appiani e Carlo Porta, ecc., sino al calzolajo Ronchetti, prototipo dell'intelligenza operaja, dell'onestà plebea, dell'espansione popolana. È noto come questi, nato a Parabiago, per infortunj domestici sia stato costretto a riparare a Milano, e qui, sotto la scorta di una madre tanto bella quanto virtuosa, per trovar pane pronto, abbia dovuto acconciarsi alla professione di calzolajo, la quale per sua virtù meritò quasi di ottenere un posto nell'Istituto e nell'Accademia delle Belle Arti; dell'Istituto di Scienze, perchè coll'invenzione delle forme e con appositi congegni consolò le conformazioni viziate, le perfide gotte, i calli inclementi; dell'Accademia, perchè, facendo risaltare tutta la bellezza che può avere la linea di un piede sì maschile come femminile, l'occhio imparò ad innamorarsi di qualche cara persona cominciando dai piedi, invece che dalla testa.
Ma, lasciando da parte la calzoleria, ciò che rendeva distintissimo il Ronchetti era la svegliatezza del suo ingegno, e l'amore quasi febbrile per tutto che v'è di grande tra gli uomini, le idee e le cose: per codesta qualità, siccome egli ambiva di avvicinare le persone più eminenti del suo tempo; così queste facevano a gara nell'avvicinar lui, nel complimentarlo, nell'esaltarlo; i poeti gli mandavavano le loro opere; i pittori e gli scultori le produzioni del loro pennello e del loro scalpello; gli alti dignitarj lo onoravano di lettere; così che la raccolta degli autografi posseduti dal Ronchetti parrebbe quella di Voltaire, dell'Algarotti, di Talleyrand, di Nesselrode; tanto è vero che un primato, qualunque sia la sfera delle umane discipline, può mettere un individuo al livello e al disopra di chicchessia. Aveva ragione il ciabattino del Giulio Cesare di Shakespeare, quando esclamò, pieno di giusto orgoglio: «Io sono il primo cittadino di Roma; tutta Roma passeggia sull'opera delle mie mani». Ma, tagliando corto, la sua umile casetta fu scelta anzi da lui stesso, tanto amava il progresso e il bene del paese, fu esibita per conventicolo segnatamente dagli operaj ed industriali, e di quanti s'erano incaricati di fare entrare anche costoro nella santa impresa di rigenerare la patria comune. In quella sera molti eransi là raccolti, compresi il padre Ronchetti e il maggiore dei suoi figli, ancora adolescente, ma di tale ingegno e di tempra così severa, che quanti lo conoscevano tra i Federati frequentatori della casa Ronchetti, permisero che anch'egli assistesse alle conferenze.
E noi adesso, come parrebbe farci invito l'argomento, non ci dilungheremo a parlare dei Federati, nè della loro origine e dei loro intenti. Sul movimento italiano fu parlato con tanta abbondanza e da tanti autori, che non c'è lettore, per quanto scarsamente istruito, che non ne conosca tutte le vicende e le fasi principali. Qualche cosa però, che non è senza importanza, fu omessa nelle opere stampate. La conferenza, per esempio, che si tenne quella sera in casa Ronchetti, e che a noi fu riferita oralmente dal Bruni che vi assistette, mette in luce qualche fatto sfuggito altrui; ed ecco perchè amiamo accompagnarci colà insieme col Baroggi.


XXXII


Dopo i preliminari d'ordine e dopo alquanti discorsi vaghi e varj, Giunio Bazzoni, che trovavasi là insieme col Marliani, col prete Camisana, che fu poi vice prefetto del ginnasio di Sant'Alessandro, e con altri giovani ingegni i quali volevano che il progresso si facesse forte attraversando le vie delle classi operaje, così prese a parlare:
«Siccome alcuni son d'opinione che a scacciare i Tedeschi è cosa facile, e che tutto il difficile sta nel trovare gli uomini che poi sappiano governare il paese, così, in più conferenze tenute in casa del conte, abbiamo passato in rivista tutti i nostri uomini più distinti, e, fatte le debite valutazioni, e tenuto conto di ciascuna specialità, siam venuti redigendo questo elenco della reggenza o governo provvisorio, come lo volete chiamare, che dovrà succedere al governo austriaco, appena questo sarà decaduto.
«Ministri per gli affari esteri sarebbero dunque il marchese Giorgio Trivulzio e il conte Federico Confalonieri. Per gli affari interni l'avvocato Carlo Marocco e il consigliere aulico Paolo De Capitani. Per la giustizia e la legislazione il consigliere Alberti e il Bellani. Per le finanze il Pecoroni. Per la guerra il colonnello Arese e il Locatelli, già commissario generale nel ministero della guerra. Pel culto monsignor Sozzi, vicario della Metropolitana.
«Per la sicurezza pubblica si è pensato al barone Smancini, già prefetto del dipartimento dell'Adige; oppure al Luini, già direttore generale di polizia. Segretari degli ordini e della corrispondenza sarebbero poi Carlo De Castillia, Pietro Borsieri, ora protocollista di consiglio all'Appello, Tagliabò e Berchet.»
Il Bazzoni fece pausa, e invitò gli astanti a fare le loro osservazioni. Allora sorse il Baroggi, e disse:
«Non si può negare che quest'elenco sia stato redatto con sapienza e con sufficiente cognizione degli uomini, ma mi sembra che siasi data più importanza alla posizione già occupata dai diversi nominati, all'alta loro condizione sociale e alla ricchezza, che alla prevalenza dell'ingegno, avuto riguardo segnatamente a coloro che godono già di una gran fama in Europa e in Italia. - Mi fa senso, per esempio, come pel ministero di giustizia e legislazione, nessuno abbia pensato a Romagnosi, per i consigli e l'assidua collaborazione del quale il mediocrissimo Luosi sembrò l'ideale del giustiziere; e invece che a lui, siansi gettati gli occhi sovra un semplice amministratore d'ospedale. Non comprendo perchè siasi dimenticato il barone Custodi, tanto amato e stimato da Pietro Verri, e il quale fu presidente del Magistrato camerale e l'innovatore più coraggioso, più fecondo e più utile che abbia avuto la Lombardia in tutto ciò che riguarda l'erogazione della ricchezza pubblica. Il consigliere Pecoroni è un uomo di pratica e non di teoria, e se la seconda non va senza l'ajuto della prima, negli alti ordini dell'amministrazione finanziaria non è possibile che chi è sprovveduto di apparato scientifico riesca mai a far cose grandi. Così come non comprendo l'omissione del Romagnosi e del barone Custodi, non comprendo la dimenticanza di Melchiorre Gioja.
«Del ministero della guerra non parlo, perchè bisogna star paghi di quello che si ha in casa; non parlo dell'interna amministrazione, per la quale però l'avvocato Marocco e il De Capitani mi sembrano più che sufficienti. In quanto al culto, perchè far capo a monsignor Sozzi? Non sarebbe forse più adatto il professor Prina dell'Università di Pavia o il consiglier Giudici? Un'altra ommissione mi fa senso, ed è quella del ministero importantissimo d'istruzione pubblica. C'è forse mancanza d'uomini per questo? Vincenzo Monti è forse morto? Ermes Visconti non ha forse dato il più vigoroso impulso a tutta la nostra gioventù studiosa? Dunque io penso che si debba provvedere anche ad instituire il Ministero della pubblica istruzione.
- Di tutte queste osservazioni sarà tenuto conto, rispose il Bazzoni, e le svilupperete di nuovo in una delle adunanze generali. Ora vi leggerò l'elenco della guardia nazionale.
«Il comandante in capo sarebbe dunque ancora il marchese Annibale Visconti; l'Arese il quartier mastro generale; colonnelli sarebbero il cavalier Vacani barone di Fortolivo, Galeazzo Fontana, Bianchi d'Adda e Litta Pompeo; tenenti colonnelli, i banchieri Soresi, Ciani e Ballabio; capi battaglioni, il marchese Arconati, D. Benigno Bossi, Emilio Belgiojoso, Renato Borromeo, Giorgio Pallavicini e Raffaele Bossi; capitani sarebbero, tra gli altri, il visconte d'Aragona, Leopoldo Incisa, il Prinetti, figlio del banchiere, i due Negri banchieri, il Manzi, il Zoppis, il figlio dell'avvocato Marocco, ecc., ecc.»
Dopo alquanti commenti fatti dal Bichinkommer, perchè aveva appartenuto alla milizia, sul carattere e sui meriti degli ufficiali superiori della guardia nazionale, la conferenza politica si sciolse in una conversazione comune, e il discorso cadde segnatamente sugli ultimi fatti della Compagnia della Teppa.
- Pur troppo, disse il Baroggi, questa compagnia, alla quale io e molti di quelli che stanno qui apparteniamo, in questi ultimi tempi raggiunse l'estremo della prepotenza, dell'arbitrio e della violenza.
«Al pari di molti uomini generosi, i quali rimediarono alle intemperanze della gioventù colla virtù, coi nobili propositi e con altre imprese degli anni maturi, così dovremo fare anche noi. Propongo pertanto si conducano le cose in modo che un massiccio numero di compagnoni si riunisca in uno dei soliti convegni, per tentare di dare un nuovo indirizzo alla nostra esistenza. La Società dei Federati ha bisogno così delle forti intelligenze come delle braccia robuste e dei cuori imperterriti. Nella nostra compagnia vi ha un gran numero di giovani che, bene indirizzati, potranno essere di gran vantaggio alla patria comune. E con queste parole, se l'egregio Bazzoni lo vuole, possiamo chiudere l'adunanza di questa sera.»
Ed essa si chiuse di fatto, e tutti uscirono e si dispersero.
E in quella sera, nell'umile casa dell'ottimo Ronchetti, con quell'adunanza si venne a rappresentare la crisi che subiva la società milanese in quel periodo storico. I membri della Compagnia della Teppa, che pure si erano ascritti alla Società dei Federati, rappresentavano in sè medesimi la lotta tra gli sforzi di un governo che voleva portare in tutto la corruzione, e l'elemento antico, indistruttibile, ognora risorgente sotto la medesima pressione della tirannide, che si opponeva a questi sforzi con altrettanti e più tremendi; e che a lungo andare dovevano rimaner vittoriosi sul troppo a lungo conteso campo di battaglia.
Se non che, i rimedj che il Baroggi allora aveva proposti, riuscirono intempestivi. Gli ultimi arbitrj, probabilmente il fatto enorme delle dame disonorate provocò una tale tempesta, che il governo e la direzione della polizia stabilirono finalmente di distruggere quella compagnia con un colpo improvviso e decisivo. Allora fu manifesto che l'autorità non aveva mai voluto quello che poteva, perchè in una giornata sola fece eseguire l'arresto di più che sessanta individui, i quali, per mancanza d'altro locale adatto, furono in prima tutti chiusi nel convento di San Marco, e in seguito inviati a Szegedin e a Komorn, o costretti al servizio militare. Altri molti arresti si compirono dopo, a non contare un numero straordinario di giovanotti che, avvisati in tempo, ripararono altrove fuggendo. In quanto al Baroggi, una mattina il suo amico e tutore Giocondo Bruni ricevette un letterino, non firmato da alcuno, nel quale gli si raccomandava di far fuggir lui e i suoi amici. Baroggi conobbe, esaminando la lettera, il carattere del segretario di governo presso la polizia, che aveva agevolata la liberazione del Suardi.
Esso pertanto lasciò Milano, e il Bruni venne a saper poi che il conte Alberico B...i aveva ajutato il marchese F..., facendo ciò che il marchese per se stesso non avrebbe mai voluto fare. Quale altro dei compagnoni della Teppa, sotto colore di essere indignato di tanti scandali e di sentir l'obbligo di farli cessare, in una conversazione tenuta nel palazzo del governatore, parlando col consiglier Pagani e simulando di raccomandargli molti giovani sui quali la polizia avrebbe potuto far pesare la propria severità, li venne nominando tutti, e calcò principalmente sul Baroggi, il solo che gli premeva fosse tolto di mezzo, e per odio del quale non ebbe ribrezzo di commettere quella vile perfidia.

LIBRO VENTESIMO


La città di Parigi. - La lingua e l'indole francese. - L'Italia e gli Italiani illustri. - Detto di Ugo Foscolo. - Chateaubriand e gli scolari della Politecnica. - Heine e Rossini. - Il Guglielmo Tell. - Serenata a Rossini sul boulevard des Variétés. Giunio Baroggi e i suoi amici d'Italia e Francia, al caffè Tortoni. - Parole di Giunio Baroggi sull'arte italiana. - L'avvocato Montanara e l'eredità F... - La contessa Stefania B...i Gentili. - Del divorzio. - I giuristi e i teologi. - Il quarto piano e il cannocchiale. - Il dott. Broussais. - Il biglietto della lotteria di Baden Baden. - Il Viatico. - Il Baroggi e il conte B...i.



I


La massima parte della nostra storia si svolse a Milano, una parte a Venezia, un'altra a Roma, nè ciò per sfuggire all'accusa di non presentare che un interesse municipale, ma veramente perchè quanto avvenne a Roma e a Venezia non avvenne altrove; e perchè la necessità del vero e del reale ci comandò di tramutarci ora in un luogo, ora nell'altro. Ed ora per la medesima ragione, correndo l'anno 1829, dobbiamo recarci a Parigi e dimorarvi per qualche tempo.
Milano, Venezia e Roma, senza nessun merito nostro, bastano a far sì che il presente lavoro assuma un interesse quasi italico. Ed ora, se dall'onda impetuosa degli avvenimenti ci troviamo trasportati a Parigi ciò significa che la fortuna sospettando che non ci bastassero i confini italiani, ha fatto di tutto per metterci in comunicazione con tutt'Europa.


II


Parigi è la capitale del mondo; anche senza essere francesi bisogna confessarlo. Essa, in questo primato, è succeduta alla vetusta Roma. Nè vale che Londra abbia un milione d'abitanti più di lei; se il numero degli abitanti fosse il sintomo della superiorità d'una capitale, i Chinesi, già orgogliosi d'aver avuto un Adamo di dieci millenarj più vecchio del nostro, potrebbero contendere questo vanto così a Londra come a Parigi. - Ma questa è la capitale del mondo per il fatto della lingua; della sua lingua, che successe alla latina. Quand'essa diventò l'indispensabile interprete nei bisogni della diplomazia, nella necessità delle comunicazioni del sapere universale, allora Parigi fu dichiarata erede della fortuna di Roma. - Un dotto, un letterato, anche senza l'obbligo di rinnovare il miracolo di Mezzofanti, può conversare con tutti i tesmofori dei due mondi, i quali in quella perpetua fornace del pensiero, spogliati della vesta nativa, lasciano vedere trasparente la sostanza dell'idea, che talvolta si migliora colà, rendendosi meno scabra e più accessibile. Il longanime alemanno che, nelle ricerche ostinate della scienza e dell'arte, e più dell'erudizione, mostra tutti i caratteri d'una affannata monotonia, non varcherebbe i patrj confini, se l'agile francese, liberandolo delle scorie importune, non ne presentasse al mondo il carbonchio lucente.
L'altra ragione del suo primato sta nel sapersi espandere compenetrando.
Parigi, nella schiera delle città illustri, assomiglia a quegli ingegni fortunati che sanno approfittare delle fatiche altrui, e riproducono assimilando e completando. - Se la si considera come un individuo, non ha il genio della invenzione, ma della perfezione. Non è il Boiardo che inutilmente per sè crea e trova i personaggi dell'Orlando, ma è l'Ariosto che, adottandoli e trattandoli come figli proprj, li rende immortali, e appena permette che il suo antecessore abbia un posto fra i poeti di terz'ordine.
Parigi non è l'ignoto autore della prima leggenda del Faust, ma è Goethe, che trovando un edificio compiuto, ma chiuso da tutte le parti, lo apre, lo adorna, lo illumina e lo rende accessibile a tutt'Europa leggente. ­- Non è Galvani, ma è Volta. - Nell'89 essa non ha fatto che dar consistenza e attitudini pratiche al pensiero rivoluzionario, annunciato già tre secoli prima da altre nazioni che maltrattarono i loro veggenti, e dai veggenti che pagarono le divinazioni colla testa. - Rousseau e Voltaire, preparatori dell'89, non dissero nulla di nuovo; ma il loro eco poderoso perfezionò i rauchi suoni dei loro predecessori e li converse in una vasta e tremenda armonia che, come la Marsigliese, conflagrò tutte le menti, le quali, trovandosi confederate, diventarono invincibili.
Parigi è la capitale del mondo, perchè in ogni tempo e per qualunque circostanza, si fece il suo interprete perfino del male, e s'affrettò a mettere in esecuzione gli sparsi e mal repressi desiderj della società. È la capitale del mondo, perchè il suo genio è tale da spingerla a maltrattare anche sè stessa, per l'ambizione d'essere la prima a convertire in fulmine l'elettricità che ognora serpeggia nel serbatojo terrestre. - Nel 1815 essa, al pari di Saturno, divorò il proprio figlio onde placare tutta Europa allora fremente. La borghesia mercante di Parigi comprese la classe usuraja di tutto il mondo, e sacrificò la gloria all'interesse e alla certezza di un tanto per cento.
Oltre a ciò, è la capitale del mondo, perchè seppe costituirsi in patria universale di tutti i grandi ingegni.
Parigi venera l'intelligenza da qualunque parte venga, comunque si presenti; già s'intende, quando esca dalle mediocri proporzioni, e quando la sua virtù non stia soltanto nella forma, ma nella sostanza.
Heine, scacciato da Berlino, povero ed ammalato ricovera a Parigi; e qui è provveduto di quattro mila lire all'anno, malgrado che nella Lutezia egli sfoghi la sua gratitudine dicendo tutto il male possibile de' parigini. - Un'altra nazione non l'avrebbe tollerato.
Mentre un critico in Sicilia ostentava, or non son molti anni, di appena conoscere Manzoni; mentre il napoletano Emiliani Giudici lo insultava obbliquamente in un libro che ebbe spaccio in Italia; e il toscano Ranalli lo copriva d'ingiurie; a Parigi Artaud l'aveva già chiamato il primo de' poeti viventi; Chateaubriand l'aveva dichiarato più grande di Scott; Dumas diceva che da Davide a lui non aveva mai trovato inspirazione lirica più potente della sua. «Apprendete, o Italiani, a rispettare gl'ingegni», tuonava Foscolo mezzo secolo fa, e mezzo secolo dopo si è ancora condannati a dire che a Parigi trova ricovero e giustizia chi è svillaneggiato o maltrattato in casa propria. - Nè giova che altri c'interrompa mettendo innanzi il pretesto delle credenze, delle scuole, delle fazioni. - Questo pretesto sarebbe una colpa di più; e quando pure non fosse, il vero merito copre e scuole e sêtte, ed una nazione deve rispettare sempre il merito dell'ingegno e della virtù, in qualunque fede ei versi. Nelle tre giornate di luglio gli studenti della Politecnica portarono sulle braccia in trionfo Chateaubriand, che pure aveva parlato contro di loro. È a questi patti che una nazione è una Nazione. - O Italiani, rispettate gli ingegni! - ripetiamo le parole di Foscolo, senza delle quali le nostre andrebbero disperse o fraintese.
Rossini in dodici anni scrive quaranta spartiti che fanno di lui il più rivoluzionario, il più immaginoso, il più versatile, il più grande dei maestri melodrammatici d'Italia e d'Europa; ma presto la sua patria, volubile come l'antica Grecia, annojata di lui e de' suoi trionfi, lo coglie al varco in un momento di stanchezza e d'indolenza, e lo umilia con quel trasporto onde in addietro lo aveva esaltato; poscia ostenta di non comprenderlo nel punto massimo della sua sterminata abbondanza, allorchè nella Semiramide aveva gettate a profusione le ricchezze della sua fantasia, come i principi del medio evo in un giorno di corte bandita; e lo lascia deluso, iracondo e ancora povero.
Gli Italiani trattano gl'ingegni come gli agricoltori i filugelli: arricchiscono della loro seta e li gettano poi, conversi in bruchi, nel letamajo. - Ma Parigi accoglie Rossini, il quale in quella Babilonia era andato a cercar nuovi amori per divagare gl'importuni pensieri, al pari di un amante che ha trovato la sua donna infedele; e la capitale del mondo lo vendica, lo esalta, lo tratta come un trionfatore coronato, erigendo simulacri marmorei a lui vivo, e intitolando le pubbliche vie del nome suo.
Parigi è la capitale del mondo, perchè nelle cose della scienza e dell'arte l'entusiasmo sempre sveglio non permette mai di sconfessare la verità che sfolgora. A Vienna, in tanto oceano di note rossiniane, appena si trovò grande la prima metà della sinfonia del Guglielmo Tell: a Berlino, un'accademia di maestri algebristi quasi fu per negargli l'onor del ritratto nella serie dei grandi compositori, e stette in procinto di punirlo come Marin Faliero.
Ma vediamo Parigi nel momento appunto che a Rossini si tributano onori più che a un mortale, e l'Italia, per consenso, viene esaltata nel trionfo di lui.



III


Era la mezzanotte del 10 agosto 1829; una folla immensa erasi raccolta sul boulevard des Variétés, innanzi alla casa di Rossini, essendo corsa la voce che gli artisti dell'Opéra volevano offrire una serenata al re della musica contemporanea, all'autore del Guglielmo Tell. A mezzanotte infatti cantanti e suonatori occupavano una delle terrazze dell'elegante abitazione di Rossini, e allora al tumulto popolare della folla impaziente successe il più profondo silenzio. L'orchestra incominciò coll'eseguire la stretta della sinfonia del Guglielmo Tell, che, ridomandata a forti grida, venne di nuovo eseguita e di nuovo ricoperta d'applausi. Dopo questo pezzo fu cantata la tirolese Un oiseau ne suivrait pas, che rapì di piacere la platea a cielo aperto, e i cantanti dovettero ripetere questa musica, tanto avea infuriato la tempesta del bis. In seguito fu cantato il coro dei balestrieri, e quello, senza accompagnamento, del Conte Ory: Noble Châtelaine, che le voci sonore di Nourit, della Debadie e di Levasseur fecero giungere fino all'orecchio dei più lontani spettatori.
La notte molle, il cielo stellato, la musica incantevole eseguita con amore speciale, l'attenzione religiosa di un intero popolo di dilettanti entusiasti, tutto concorse a rendere straordinaria e solenne quella festa del genio, la quale era nel tempo stesso la festa dell'addio; chè Rossini doveva fra poco lasciar la Francia.
Giunio Baroggi, che dimorava a Parigi da qualche tempo, trovavasi compreso tra quella folla, insieme co' suoi amici di Parigi e d'Italia. Vi era Nodier, Ingres, Halévy, Marliani, Suardi. Dopo la serenata si recarono tutti al caffè Tortoni. - Com'è naturale, il discorso cadde sull'arte e su Rossini e sull'Italia. Halévy sosteneva che il Guglielmo Tell era il capolavoro di Rossini, e che se questi non avesse dimorato a lungo in Francia, il suo genio sarebbe rimasto incompleto.
Baroggi, esaltato dalla serenata, versava in uno stato eccezionale di vivacità, d'estro e di vena. - Si mise a parlare per rispondere ad Halévy ed agli altri:
- Non è possibile, ei disse, non dividere in gran parte la vostra opinione - il Guglielmo Tell è un serbatoio d'inesauribile arte e di scienza musicale, dove un'intera generazione di maestri potranno attingere la loro parte di melodia e d'armonia per acquistar fama e denaro; dove anche un maestro di scarsa levatura, in un momento di peritanza e di dubbio, potrà pigliarsi quello che farà pel caso suo, senza nemmeno parere un copista. Sì, io sono felice che codesta specie di Bibbia dell'arte musicale sia uscita dalla testa prodigiosa di Rossini; ma non sarò mai per sacrificarle il Mosè, dove il genio lampeggia di una luce ancora più abbagliante, abbagliante sì che par quasi eccedere la natura umana. Ma tra il Guglielmo Tell e le altre opere della scuola germanico francese e i capolavori della scuola italiana corre quella differenza che intercede fra il dramma diffuso, fatto per la lettura, e il dramma concentrato, fatto per la rappresentazione. Ma io non posso ammettere che sì debbano far drammi per la sola lettura, perchè allora vien più opportuna un'altra forma dell'arte; e per la stessa ragione non posso ammettere che ci debbano essere opere in musica che condannino il pubblico a star confitto sulle panche cinque o sei ore; perchè la lunghezza non è una condizione dell'arte, perchè nemmeno il genio sa scongiurare la noja, e la stessa bellezza genera sazietà quando non sappia scomparire a tempo.
- Voi altri Italiani, disse allora Halévy col modo il più educato, ma con tale accento che rivelava qualche dispetto; voi altri Italiani avete ragione di aggrapparvi unicamente e sempre al gigante Rossini, come alla nave ammiraglia, perchè egli è il solo che anche oggidì rappresenti l'Italia con antica grandezza.
- No, rispose il Baroggi, colla prontezza e l'impeto onde Massimo soleva rimettere un pallone traditore. Non posso ammettere che l'Italia non abbia nelle altre arti un genio che faccia degno corteggio a Rossini. - Intanto, tra le spire della colonna Vendôme, il bassorilievo della battaglia d'Austerlitz, scolpito da Bartolini, è il vanto di quella colonna, e la più gran cosa che in scoltura siasi fatto in Europa dopo la morte di Canova, anche a fronte della grandezza di Thorwaldsen. - Ma nella poesia e nella letteratura v'è un uomo in Italia che può benissimo far degno riscontro a Rossini; ed è Manzoni; e se la fama di quest'ultimo non risuonò così rapidamente e vastamente come quella del primo, bisogna trovarne la ragione nell'indole e nella diversa fortuna delle due arti. - Il primo fatto intanto per cui Rossini e Manzoni si fanno riscontro l'un l'altro è il primato che ciascuno occupa in Italia e fuori per consenso universale e concorde. - Ma lasciando da parte la fama e la gloria, che sono le conseguenze e i compensi del merito, anzichè il merito stesso; è nella sostanza, è nell'originalità, è nella grandezza che Rossini e Manzoni sono veramente i re di due diversi regni. - Un'altra virtù caratteristica poi che hanno in pari grado (ed è il distintivo dei veri genj nell'arte, perchè li fa esser varj e vasti come il pensiero e la vita), è la potenza di esercitare il riso ed il pianto, come se in ciascuno fosse unita la natura di due uomini diversi. - Gl'ingegni i quali non sanno fare altro che ridere o piangere, non sono completi, sono uomini a mezzo, perchè della vita non riflettono che un lato solo - Dante piange e ride, alla sua foggia, s'intende; è sublime ed è grottesco; accanto alle creazioni più pure e celestiali pone le più strane figure; Michelangelo nel suo Giudizio sotto al Cristo ha messo in caricatura il diavolo; Ofelia e Falstaff uscirono dall'unica mente di Shakespeare. - Il largo al factotum e il pianto di Desdemona da quella di Rossini. - Così è il Manzoni; l'elemento comico corre e serpeggia per tutto il suo romanzo, sbizzarrisce persino tra le lugubri scene del Lazzaretto. È alle spalle di don Abbondio che un'intera generazione ha riso e rideranno i futuri. - Ma se questa figura ci allarga i precordi di giovialità, Cristoforo e Federico ci appianano il volto di una severità compunta; e nell'Adelchi il dolore raggiunge una grandezza tragica, che non si trova nemmanco in Alfieri, ma è quella medesima altezza tragica che, allorchè vien raggiunta dal gioviale Rossini, lo fa superiore allo stesso Gluck appassionato.
«Un'altra qualità caratteristica per cui Rossini e Manzoni non possono confondersi cogli altri ingegni che fioriscono in questo tempo, sta in quell'originalità indipendente, per la quale diedero un movimento affatto nuovo all'arte loro; sta in quella pienezza di facoltà per la quale, anche allorquando non riformarono del tutto un ramo dell'arte, lo completarono almeno. Monti riprodusse, non completò, non riformò.
«In esso vedonsi distinti tutti gli elementi coi quali eran nati molti poeti, prima di lui; ma non ebbe mai la virtù di assimilare tanta varietà di caratteri in una pasta unica, da cui potesse uscire, se non la novità assoluta, almeno l'apparenza della novità. Non così fu di Manzoni; egli fece in letteratura precisamente quello che fece Rossini in musica. Mise a contribuzione tutti quanti, ma lo fece in modo che non apparisse più traccia d'essi nel nuovo edificio letterario ch'egli costrusse sulle loro fondamenta e coi loro materiali; egli non invase alla spicciolata i dominj altrui per trasportare in casa propria un'ibrida varietà di maniere e una veste screziata di più colori, ma trasse gli altri nel proprio dominio e li sottomise alle proprie leggi, unificandoli. È precisamente la stessa grande elaborazione che operò Rossini in musica. - Ecco perchè questi uomini nella storia del pensiero vanno collocati a paro. La musica fu condotta all'ultima maturanza da Rossini, come da Manzoni fu condotta all'ultima maturanza la letteratura.»
Gli astanti applaudirono vivamente alle parole del Baroggi. - L'Italia in quel punto veniva glorificata in Francia.


IV


A notte altissima (erano le tre passate) il Baroggi, accompagnato da Musset, da Vigny, da Nodier, da Armand Carrel, da Vernet, da Delaroche, da Rossetti, dal milanese Berchet, dall'amico Andrea Suardi, tornò al suo alloggio che era un terzo piano d'una casetta semplice ed elegante situata nella Cité presso al ponte Double. Al caffè Tortoni egli aveva comandata l'attenzione e spesso l'ammirazione a quanti lo circondavano, colla sua faconda ed inspirata parola. Al pari di un termometro che, secondo le circostanze, discende sino al freddo di Danzica o sale fino al calore del Senegal, in quella notte, esaltato dalla musica di Rossini, dallo spettacolo dell'entusiasmo frenetico che tutta Parigi aveva mostrato al Maestrone con quella serenata musicale, e, non possiamo tacerlo, esaltato dal vapore generoso di un bordeaux che un segretario d'ambasciata aveva potuto avere dalle stesse cantine di Carlo X; le sue facoltà intellettuali avevano raggiunta la massima effervescenza. La mente del Baroggi assomigliava a que' fogli bianchi sui quali è stato scritto con inchiostro simpatico; perchè sul bianco risaltasse il nero e perchè se ne potessero leggere i caratteri, era necessario un reagente chimico. Toccato da circostanze speciali, il suo ingegno, chiuso nel silenzio, e nella mestizia, erompeva di tratto come un congegno pirotecnico che d'improvviso mandi un'eruzione di razzi e stelle e colori bengalini. - Accompagnato fino alla porta della sua casa, fu salutato con trasporto e lasciato coll'amico Suardi quando battevano le tre e mezzo all'orologio di Notre Dame.


V


Entrato nella propria camera, una voce dalla vicina gli gridò:
- Ben venuto! Pare che manchi poco all'alba; e sì che ho sentito che a Parigi c'è l'abitudine di rincasarsi per tempo.
- Caro mio, è stata una notte eccezionale questa. Ho assistito al trionfo dell'Italia in Francia, e se tu, uscendo dal teatro, m'avessi accompagnato alla serenata fatta a Rossini e al brindisi del caffè Tortoni, non avresti perduto il tuo tempo.
E dicendo questo entrò col Suardi nella camera di chi aveva aperto il dialogo.
Quegli che stava a letto era l'avvocato Montanara di Milano, venuto espressamente a Parigi, come arbitro nelle ultime vertenze della causa F... Baroggi.
- Hai gli occhi che mandan raggi e la faccia color di carmino, disse l'avvocato al Baroggi. In che felice maniera è scomparsa la tua pallidezza abituale?
- Attendi un momento, rispose Giunio, e la pallidezza ritornerà. Questo rosso fuggitivo che mi riscalda le guance, assomiglia ad una maschera modellata al riso, e gettata per passatempo sopra una testa da morto. Sento già gli effetti della reazione nervosa. Il tempo di far sei scale e due minuti di silenzio bastarono per ritornarmi al tristissimo vero dond'era uscito:


Sento gli avversi numi e le segrete
Cure che al viver mio saran tempesta.


- Io so che tu dici la verità, povero Giunio; eppure qui in Parigi quanti mi han parlato di te, credono che tu sii uomo piuttosto strano che infelice, piuttosto spensierato che cogitabondo.
- Lo crede questo volgo elegante e ricco del caffè Tortoni, ch'io rallegro spesso coll'epigramma che mi è abituale; ma non i pochi che hanno l'attitudine del pensare, e coi quali alcuna volta mi sprigiono.
- Eppure cagioni reali e visibili d'infelicità tu non ne hai. Sei nel fiore della giovinezza, sei avvenente, e di quell'avvenenza non pomposa la quale tanto piace al sesso gentile che tu non odii; sei d'ingegno acutissimo e di facile e simpatica facondia. Per di più, se in addietro non hai conosciuto la povertà, sebbene costretto a viver parco, d'ora innanzi ti adagerai nella ricchezza.
- Ventimila lire di rendita!... esclamò il Suardi.
- Dite trentamila, osservò il Montanara. Ma questo Giunio è sempre stato dello stesso umore. Ci siam conosciuti a Pavia; io studiavo il quarto di legge, lui il primo. E fin d'allora vedendolo sì tristo e sospettandone la cagione: Quando sarò laureato, gli dissi, e passerò avvocato, penserò io a distrigarti di tutto. E così fu.
- Ma, e come mai, domandava il Suardi all'avvocato, a voi riesce nella vostra professione di ottener cose che per gli altri son dichiarate quasi impossibili?
L'avvocato Montanara in fatti, come sapranno tutti i nostri lettori che lo hanno conosciuto o ne han sentito parlare, oltre a una gran dottrina legale, possedeva un tatto così squisito e acuto, che a lui riusciva spesso di dipanar matasse credute inestricabili.
- Un avvocato è come un generale, rispondeva il Montanara. Egli non dee limitarsi a conoscere la propria professione; ei dev'essere versatile, deve conoscer gli uomini, deve trar partito da tutte le circostanze anche non legali che gli si presentano. Ad un avvocato non dee bastare d'esser reputato un gran giureconsulto. - In questo caso scriva opere giuridiche, si sfoghi nella teoria, ma non s'impacci della pratica. - Egli, precisamente come un generale, innanzi deve vincere. - Giulio Cesare a Farsaglia, sapendo che i giovani patrizj che appartenevano alla cavalleria romana avevano cara la freschezza del viso, disse a' proprj veterani: Abbiate cura di rivolger l'arme alla faccia di costoro; e la cavalleria fu tosto sgominata, perchè i bellimbusti d'allora avrebber fatto qualunque sacrificio piuttosto che avere il volto sfregiato. Ora questa regola non la troverete in nessun trattato di strategia e di tattica. - Tornando ora all'avvocato e tornando a me, anche senza la conoscenza del codice, avrei ottenuto quel che ottenni; perchè più di tutto mi valse il conoscer gli uomini e l'arte di saper pigliarli dov'è il loro lato debole. - Nel caso qui del mio Baroggi, saputo che il marchese erasi piegato verso la chiesa, e più ancora, saputo che il suo più intrinseco amico era più bigotto, e diciamolo pure, più galantuomo di lui, mi rivolsi ad esso innanzi tutto, schierandogli innanzi tutta la batteria buona e non buona dei miei argomenti legali, e dei tanti indizj che sussistevano, ma che tutti insieme non costituivano una prova. Chiesi inoltre un'udienza privata al presidente Mazzetti, che fin dal 1820 era stato a Milano, credo come ispettore dei tribunali. - Gli parlai in modo che rimase convinto, perchè l'esistenza del testamento, tuttochè giudicato apocrifo, e parecchie deposizioni di due scrivani del notajo Agudio, sebbene insufficienti a far prova rigorosamente legale, non potevano a meno di piantarlo nella persuasione, che l'edificio che durava da tanti anni, non doveva essere affatto un edificio immaginario. Dichiarai inoltre ch'io era disposto a trattar la causa ab ovo, e che infinite cose avrei rivelate, che al marchese non sarebbero certo piaciute. Il Mazzetti, nelle sale del governatore, parlò all'amico del marchese, e questi, dopo alcuni giorni, mandò a chiamarmi, e sotto colore di cedere alla gran bontà dell'animo suo, mi invitò a far delle proposizioni: siamo a casa, dissi fra me, e cominciai dal chiedere moltissimo. Il marchese s'impennò di nuovo. Io stetti forte e irremovibile, e non mi lasciai più vedere. Ma un bel giorno ricevo un bigliettino dal conte amico del marchese, col quale mi invita a casa sua. - Ci vado senza farmi aspettar troppo. - Il conte mi dice: il marchese è pronto a pagare settecentomila lire milanesi al signor Giunio Baroggi. Per finirla, rispondo, giacchè vi spaventa la cifra del milione, aggiustiamola in novecentomila lire. Il conte non disse nè sì nè no per allora; ma, dopo molto tempestare, si concluse che stava egli garante di tutto, e si sarebbe finito l'affare a quel modo. - Ora sai tu, caro Suardi, perchè ho dovuto venire a Parigi? Perchè dalle lettere di risposta di questo originale di Giunio io non poteva raccogliere nessun costrutto. Mi trovavo d'aver fatto un miracolo, e costui quasi lo rifiutava. Però appena giunsi a Parigi, lo costrinsi a farmi la sua buona procura, e così sarà ricco a suo dispetto; non è vero, il mio caro originale?
- Se tu ti trovassi continuamente, al pari di me, disse il Baroggi, sotto l'incubo di un affanno al quale non c'è rimedio, non diresti così, caro avvocato.
- Ma, in conclusione, domandò l'avvocato, che diamine t'è mai capitato che l'animo tuo, ad eccezione di alcuni istanti di giocondità, che dirò artificiale e meglio ancora morbosa, è avvolto in una perpetua tetraggine? Negli otto giorni che son teco, non mi è riuscito di cavarti una parola. Parla dunque una volta. Io ho l'abitudine di vedere e giudicar le cose non colla stregua volgare del mondo incarognito ne' pregiudizj, ma coi criterj del buon diavolo che è filosofo e nel tempo stesso ha viscere. Parla.
- Dunque vi dirò tutto, i miei cari amici, ma se ne avrete tedio, non incolpate me.
- Sta pur tranquillo su ciò. Noi non desideriamo che di poterti giovare in misura del poter nostro.


VI


- E allora ascoltate: Io vivo come un uomo che, per necessità di circostanze, deve attendere di essere percosso da un dì all'altro da una sventura suprema e irreparabile; da una di quelle sventure che fanno incanutire in ventiquattr'ore. La mia vita è attaccata alla vita ognora in pericolo di una donna bella e leggiadra fin dove può immaginarsi; virtuosa sino ad essere in assidua violenza tra le aspirazioni più legittime del cuore e le leggi crudeli di un dovere arbitrario; infelice in tutta quell'intensità ed estensione che può derivare dalla più sensitiva indole propria e dalla più spietata persecuzione altrui. Io amo questa donna; ed ella, pur senza volerlo, mi ama; dico senza volerlo, perch'ella condanna codesto amore e vorrebbe liberarsene, ma deve subirlo come un morbo affannoso, come uno spasimo fisico, perchè i preti le spaventarono la coscienza fino a farle credere ch'è vietata ogni spontanea affezione, pur se rimanga nella sfera più alta ed immateriale. I preti hanno fatto il sensale di matrimonio nella sua casa. I parenti le han fatto violenza perchè sposasse un uomo che i preti hanno scelto; i preti l'avvolsero in una rete di paure inestricabili. E l'uomo alla cui vita essa fu legata, come quando s'intrecciavan le membra de' condannati nella ruota del tormentatore, quest'uomo è un assassino; ma un assassino protetto dalla legge, titolato milionario; che ha voluto impadronirsi di questa donna divinamente bella, non per altro che per placare i momentanei ardori del senso lascivo, e punirla poi di morte, saziata la fame; press'a poco come quando l'orrida Caterina si faceva accarezzare dall'improvvido coscritto, per consegnarlo poi al boja.
«Quest'uomo aveva già ammazzate due donne prima di sposare quest'infelicissima. Per il complesso delle sue abitudini perverse, nel momento d'andar all'altare, era l'oggetto dello schifo e del ribrezzo generale. Or sai tu per che strano motivo i preti non solo permisero ma vollero questo? il motivo è specioso e acuto. Con un matrimonio provvidenziale, pensarono, placando la torbida natura di un tal uomo, potremo salvare un'anima. - A queste possibilità fu sacrificata l'innocenza, come quando nella gabbia del leone febbricitante, per tentar di placarne le irrequietudini, si mette una gazzella, nella presunzione che il leone la risparmii e faccia amicizia seco.»
- Ma, domandò il Montanara, conosco io le persone di cui parli?
- È facilissimo che tu le conosca. L'assassino è il conte Alberico B...i - La vittima infelice è quella Stefania Gentili che avrete sentito a cantar al teatro Re, se siete arrivati in tempo, perchè non vi cantò che due o tre sere sole, non avendo i preti permesso che si contaminasse sul palco scenico.
- Ma chi sono questi preti?
- Ho detto i preti, ma il prete veramente fatale fu uno solo: un monsignore del Duomo.
- Ma ora dove stanno costoro?
- Il monsignore è a Milano, vivo e vegeto e santo; tutt'intento, senza saperlo, a rovinar famiglie, a guastar teste, a spaventar coscienze. Il conte Alberico è qui in Parigi con sua moglie; se voi spingete l'occhio oltre il ponte e, saltando due case, lo fermate all'angolo della terza, potete vedere dove abita. È al terzo piano di quel palazzo barocco. Col cannocchiale io posso vedere la leggiadra figura di quella vittima moribonda. - Egli la condusse qui; innanzi tutto perchè, fuori dell'aria nativa, ella non può avere il più efficace dei rimedj al male che l'affligge; in secondo luogo perchè, sotto colore di viaggiare, non ha preso con sè nè servi, nè cameriere, che la proteggessero e curassero; poi perchè, non essendo conosciuto a Parigi, può dar ad intendere tutto quello che vuole, può persino calunniare sua moglie ed essere creduto; infine per non aver testimonj agli assidui maltrattamenti ond'egli, esacerbando di continuo il malore di lei, riuscirà a troncare prestissimo quel tenue filo di vita che ancora le è rimasto. E nemmeno vuol permettere che ella si ponga sotto la cura di un medico valente. - Men danno che io la faccio visitare dal dottore Broussais; ma ella è condannata a medicarsi di nascosto, perchè il conte, dopo aver scialacquato due o tre milioni, ora è diventato avaro fino alla demenza, e mette a rumore tutta la casa e rovescia tavole e sbatte usci e minaccia tutti, se gli è posta tra le mani la polizza dello speziale.
- Ma in che relazione sei tu con lui?
- Ora in nessuna; benchè egli sappia che io mi trovo a Parigi, e fors'anche per qual ragione son qui.
«Per amor di lei io ebbi in addietro la debolezza di farmi intrinseco suo, sebbene sapessi quant'egli mi fosse avverso, e come in più circostanze avesse tentato di rovinarmi in tutti i modi possibili. Ma trovatomi seco nell'occasione d'un viaggio che insieme colla moglie ei fece a Firenze, accolti come buona moneta i complimenti della sua bocca bugiarda, finsi di non sapere nulla; e per pietà di lei e, dirò anche, per l'estrema simpatia, che, come sempre ella mi aveva ispirata, m'ispirava ancora, ebbi per molto tempo l'abitudine della sua casa, dove con tutti gli sforzi dell'animo ond'io ero capace, comprimeva gli sdegni, per tentar colla mia presenza di rendere più ammansata quella bestia feroce.
- E cominciò allora il tuo amore con lei?
- Amore no. Ella mi pareva troppo bella e troppo preziosa per me. Non era che amicizia e pietà. Bensì il mondo, considerando le apparenze, credette altrimenti, ma s'ingannò... e se voi non mi credeste ora, ascoltate, e ne avrete le prove. Lasciata Firenze per certi miei affari, e passato a Napoli, qui la mia avversa fortuna mi diede a conoscere una giovinetta; infelicissima quando io la conobbi, perchè ciò avvenne nel punto che il fidanzato l'aveva abbandonata. È il mio destino di non interessarmi che agli infelici. Questa fanciulla, dopo qualche tempo, mi fece capire che, per trovar pace, ella riponeva ogni sua speranza in me. Bellissima qual'era e d'indole straordinaria e di cuore ardentissimo, mi mise addosso un sì terribile incendio, che allora per la prima volta compresi l'antica sapienza, la quale inventò la formola della camicia di Nesso che arse ed esulcerò le membra del fortissimo Ercole. Tutto l'entusiasmo che può suscitare l'amore, lo provai a quel tempo. Credetti di avere finalmente raggiunto un lato della possibile felicità.
«Ma fu per poco; e quella felicità, cotanto acuta, sembra che la nemica fortuna abbia voluto farmela assaggiare compiutamente, perchè mi dovessero poi riuscire più terribili le amarezze del disinganno. Assentatomi da Napoli per poco tempo, quando ci tornai, tutto era cangiato. Quella fanciulla erasi lasciata cogliere dalle insidie di un altro, che pure l'abbandonò prestissimo; e fu sì procelloso il travolgimento, che quando ella mi rivide ne fu atterrita, e non ebbe nemmeno le forze di dissimulare un istante. Io mi trovai così posposto ad uno scalzacane mentitore, che a lei si era annunziato addirittura come sposo, e ai parenti di lei come milionario, senza voler far l'una cosa ned esser l'altra. Chiusi dentro di me tutto il mio tormento, e mi affrettai per le poste, onde parteciparlo a colei che, sentendo per me la santità dell'amicizia, sola mi poteva consolare. Quell'angelo di donna mi confortò, e mi disse ch'ella non mi avrebbe di certo trattato così; e me lo disse in modo da farmi comprendere ciò che mai non avrei sospettato. Ti ripeto che io non sapeva credere che quella donna potesse degnarsi di amar me.
«La cosa si rinfuocò sempre più, sebbene ella non esprimesse chiaramente, nè io parlassi. Passò qualche anno. Io frequentava la casa. Il conte perdurava nelle sue assidue vessazioni, ed io gli venni in odio, non per altro motivo che perchè vedeva in me un naturale protettore di sua moglie; chè di me e di lei non poteva, per altre ragioni, lamentarsi in nessun modo. Un dì si venne a un sì fiero alterco, che non mi fu più permesso di vegliar da vicino quella cara ed infelicissima donna. Il conte abbandonò Firenze, licenziò tutti i servi; seppi dappoi da un amico che egli pretese che ella viaggiasse affatto sola con lui a Parigi, per fermar in questa città la loro dimora. Ed ecco perchè son qui. Ed ora voglio tu mi dia il tuo parere in una grave questione, tu che sei fortissimo in giurisprudenza.»


VII


«Il pensare continuamente, proseguiva il Baroggi, alla condizione orrenda di quella infelicissima donna, mi popolò la mente di tante idee, per le quali io mi attenderei di scrivere un libro così logico, così facondo, così rovente d'ira generosa e tenero di pietà, da costringere tutti quanti a riconoscere la necessità del divorzio. - Se ci fosse il divorzio, quella donna sarebbe salva; e chi sa quante e quante migliaja di donne vanno consumandosi nel perpetuo tormento di questa vera Gehenna del matrimonio indissolubile, dove l'uomo è il tiranno protetto dalla legge, e la donna è la schiava in lagrime, a cui la legge non si degnò mai di volgere uno sguardo affettuoso. - Ah pur troppo, e già altri lo disse, dopo tante migliaja di volumi compilati dai giuristi, manca perfino la definizione esatta dei diritti e dei doveri degli uomini; restano ancora da determinare l'origine e i limiti della patria podestà; e l'autorità coniugale vacilla in mezzo alle eterne dissensioni dei legisti, i quali, per consueto, trattando le più gravi quistioni dell'umanità, studiandola nell'interminabile apparato d'una fossile dottrina, e non nella vita e non nella verità che, cercandola con amore, si presenta continuamente agli occhi nostri.
«Che ne pensi or tu?»
- Io concordo perfettamente nella tua opinione; ma le persone di carattere severo e d'imaginazione paurosa si schierarono tutte a difesa del matrimonio indissolubile. - Esse credettero che, gettato il divorzio in mezzo alla società, dovessero tosto sciogliersi tutte le famiglie e brulicar le piazze di vedove afflitte e di figli abbandonati; il timore tenne luogo di ragione, e fu riguardato come la miglior risposta alle objezioni degli avversarj. I vecchi, in cui tutte le abitudini sono catene infrangibili e che guardano con invidia i piaceri che non possono più gustare, senza rammentarsi che spesso la sola stanchezza della vaga venere li condusse al talamo nuziale; i vecchi tacciarono il divorzio di novità scandalosa, e credettero che questa taccia bastasse per proscriverlo. I teologi, senza pensare che altro è lo stato, altro la ragione, pretesero che le loro idee fossero norma a tutto l'universo.
- Ma, più che coi giuristi (disse il Baroggi), io l'ho coi teologi, i quali audacemente si misero a trattare quest'arduo e delicato argomento senza conoscerne la materia. Solitarj, senza famiglia, senza affetti, essi non seppero e non poterono contare la somma de' tormenti che portava seco il matrimonio indissolubile.
«Non è l'ordine domestico che predicano i teologi, ma l'assoluta tirannia. Non s'accorsero che, in quel modo che l'esservi il padrone in casa, non porta la conseguenza che i servi debbano star sempre sotto il suo dominio quando egli viola i diritti della servitù, così la donna, la moglie, che è qualche cosa più di un domestico, dovrebbe per lo meno essere costituita nei diritti di un servo volgare.
«Il contratto matrimoniale racchiude un impegno di protezione e d'obbedienza. Se il marito cessa di proteggere la moglie, questa dovrebbe essere dispensata dall'obbedire. Se la protezione si cangia in tirannia, non si dee condannar la donna ad essere perpetuamente la vittima.
«La coscienza respinge tra ira e pietà quella legge che riduce allo stato passivo di schiavitù quel sesso, a cui, attesa la debolezza e i bisogni, è necessaria la protezione della giustizia più che all'uomo, più forte e naturalmente soverchiatore. I teologi parlano delle donne come un sultano in mezzo al serraglio.
«Ma giacchè parliamo di teologi, che sono gli avversarj più ostinati del divorzio, io voglio per un momento mettermi nei loro panni, e far da teologo. Però, al pari di un uomo in cura d'anime, come un sacerdote pio e casto, che cosa mi dovrebbe premere di più, se non che le leggi divine e umane siano tali da rendere meno ovvio il sentiero de' peccati? Avendo perciò in orrore l'adulterio, io devo dunque suggerire una legge, che spontaneamente gli tolga le occasioni più tentatrici. E appunto col divorzio ottengono questo. I teologi, ajutati dai giureconsulti teoristi e senza viscere, hanno creduto di accordar molto proponendo e sancendo la semplice separazione a mensa et thoro. E nella loro cecità non si sono accorti che hanno aperto con questo mezzo un varco sterminato all'adulterio. In generale i teologi, atrofizzati dall'ascetismo, perchè voglio concedere che non sieno impostori; e i legulej, sotto l'inspirazione di una coscienza senile, hanno meditato sugli interessi più gravi dell'umanità senza tener mai conto del fatto capitale che l'uomo innanzi tutto è fatto di carne e d'ossa; che, per una legge naturale, necessaria, irrevocabile, ha delle tendenze che non dipendono dalla sua volontà, ma dall'economia fisiologica del corpo umano...»
- Tanto è ciò vero, osservò l'avvocato, che questi avversarj del divorzio ebbero la franchezza di dir seriamente, che ogni donna separata dal suo sposo dovrebbe ritirarsi in una società religiosa, che è la sola alla quale possa ancora appartenere. Essi dissero che questo asilo aperto al pentimento, alla debolezza, alla infelicità, le offrirebbe nell'unione più intima colla divinità la sola consolazione che debba ricercare e che debba gustare una donna virtuosa che si è disgiunta da un marito ingiusto; così si farebbe sparire dalla società lo scandalo di un essere che è fuori del suo posto naturale, d'una sposa che non è più sotto la dipendenza del suo sposo, d'una madre che non ha più autorità sopra i propri figli.
- Ma sai tu che cosa fu già risposto a questi sragionatori di professione? fu risposto che essi sentenziano colla logica di quel chirurgo, il quale facendo un'operazione sopra una mano fratturata, dopo aver tagliato quattro dita, tagliò in seguito anche il quinto affatto illeso, adducendo per ragione che quel dito, rimanendo solo, potea sembrar ridicolo. Ma, continuando il nostro discorso, se la filosofia razionale aprì le porte dei monasteri alle vittime della superstizione, e ricusò di sancire dei voti eterni che, dettati da un momentaneo entusiasmo, sono quasi sempre seguiti da un lungo pentimento; perchè ciò non dee succedere anche per lo stato conjugale? La debolezza, l'errore, le passioni inseparabili dell'uomo sembrano annunziare che un contratto conjugale, che tiene il marito congiunto indissolubilmente alla moglie per tutta la vita, in tutte le vicende variabilissime della fortuna, è imprudente, e crudele, è assurdo.
«Nè la semplice separazione distrugge tanto male. Essa vieta ad una donna onorata, disgiunta da un marito brutale, i sentimenti d'un nuovo matrimonio, che soli possono consolarla; per essa ciascuno degli sposi isolato, in preda alla noja, al dolore, al vuoto dell'animo, respinto da una nuova legittima unione, costretto a fuggir sè stesso, a cercar distrazioni, si trova insensibilmente trascinato in mezzo alla dissipazione ed alla dissolutezza, giacchè sussiste in esso ed agisce con tutta forza ciò che Tacito chiama irritamenta malorum
- Mi ricordo d'aver letto in un libro, dove tra l'altre cose si svolgeva tale questione, queste parole che tenni a memoria, dove c'è il rigore scientifico e la filosofia del sentimento: «Se la legislazione si propone il problema: dato un desiderio costante negli uomini, fare in modo che venga soddisfatto con pubblico vantaggio, senza pubblico pregiudizio, o col minor pregiudizio possibile, il divorzio viene appunto a soddisfare i desiderj più costanti del cuore umano, non solo senza pubblico pregiudizio, ma in modo vantaggioso alla società; mentre la semplice separazione, tormentando questi desiderj, nel soffocarli li costringe a sfogarsi in un modo scandaloso e nocivo.»
- E ad onta di tale evidenza, rimane ancora nel mondo questa piaga tremenda della società; nè valsero i consigli della storia, che ha sempre dato ragione ai propugnatori del divorzio. Percorrendo in questi giorni, alla biblioteca reale, un libro che parlava della giurisprudenza romana, lessi, che, avendo l'imperatore Giustino ristabilita la legge che autorizzava il divorzio di buona grazia, dopo aver protestato che operava contro il proprio volere, che riconosceva giusta l'abrogazione fattane da Giustiniano, conchiudeva d'esser stato costretto a ripristinarla, per i mali che immediatamente erano avvenuti dopo l'abrogazione.
«L'esperienza lo aveva persuaso che quando i conjugi avevan concepito vero odio l'uno contro l'altro, era impossibile riconciliarli, e che un tal odio cagionava una guerra domestica, crudele e perpetua.»
- In coda al divorzio viene poi la tremenda questione del celibato. È grande il numero dei celibi, perchè sono spaventati dall'indissolubilità del nodo conjugale, e perchè, in generale, sia che si parli di matrimonj, di servigi, di condizioni, o di paesi, la proibizione d'uscire equivale alla proibizione d'entrare.
- E ciò è tanto vero, che voglio raccontarvi un fatto, lievissimo in sè, ma che viene a provar molto, e si può riferire a un infinito ordine di cose. Nell'occasione di una vittoria napoleonica, a Fontainebleau si doveva dare uno spettacolo di fuochi d'artificio. La quantità della popolazione accorsa fu tale, che un segretario di Corte propose all'imperatore di chiudere l'ingresso ai nuovi accorrenti. - Non è giusto, rispose Napoleone; piuttosto fate una cosa: alle porte di Parigi i gabellieri dicano ai cittadini che, chi vuol uscire, per tutta la notte non potrà rientrare. Quest'ordine bastò. Una folla innumerevole ritornò indietro, anzi che divertirsi a quella condizione.
- Un tal fatto rivela la penetrazione e il tatto sicuro di quel genio universale.
- Se la giurisprudenza avesse i mezzi di prova che ha la matematica, il matrimonio indissolubile non sarebbe entrato nel mondo ad accrescere le miserie dell'umanità. Ma, dopo tutto, se i più ostinati avversarj del divorzio potessero, anche per pochissimo, assistere alle scene che tuttodì avvengono nella casa del conte B...i, scommetterei che non rimarrebbe più un sostenitore del matrimonio indissolubile.
- E intanto quella donna non può essere strappata al suo destino, ed io devo tormentarmi senza speranza di poter alleviare tanta miseria; ora invidiatemi, se potete, e continuate a dire che sono un capo strano, un uomo incontentabile. Anche senza tener conto di questa piaga speciale e tutta mia, non potete immaginarvi che strazio orrendo mi dà lo spettacolo di tante miserie che la società ha inventate, che l'ingegno umano si affaticò ad accrescere, e per le quali il buon senso impietosito non può versar che lagrime impotenti.
Il Montanara e il Suardi non seppero che cosa aggiungere. Il discorso languì. - Il Suardi andò a dormire. - L'avvocato uscì a prender aria e a veder com'era fatta una bell'alba di Parigi.


VIII


Trattenutisi in questa città parecchi giorni ancora, il Suardi partì poscia per Londra in compagnia di Giovanni Berchet; e l'avvocato Montanara tornò a Milano.
I soli intimi amici che rimasero al Baroggi tra i Parigini erano il dottor Broussais, autore del celebre libro Della Irritazione e della Pazzia, allora medico in capite e professore all'Ospedale militare, uomo d'ingegno sterminato, di costumi semplici e di cuore eccezionalmente buono. Esso era a parte d'ogni segreto del Baroggi insieme col poeta Musset, giovanissimo allora e di una tale, quasi diremmo, ammalata squisitezza di sentimento, che accresceva anzichè alleggerire le pene del nostro Giunio.
Questi, per coloro che si accontentavano di giudicare un uomo dal di fuori e nella sola stima della condizione fisica e materiale, pareva invidiabile. Il bel mondo parigino, tra cui qualche volta egli si mescolava, facea le meraviglie nel vederlo così spesso meditabondo e chiuso, e talora stravolto. Anche i più leggieri e increduli osservatori dovevano persuadersi ch'egli soffriva sinceramente, ed era ben lontano dal recitar la parte dell'infelice, come allora correva la moda tra' giovani, per rendersi più interessanti ed andare a seconda di quel dolor tragico che allora s'era accampato nelle produzioni dell'arte, specialmente della musica e della letteratura.
Allorchè, un mese dopo che l'avvocato Montanara era venuto a Milano colla procura di conchiudere amichevolmente ogni controversia col marchese F..., ei ricevette, insieme coll'avviso che tutto era finito, anche le credenziali per ritirare dal banchiere Aguado le convenute novecentomila lire; si diede, com'era naturale, a più largo vivere, e si acconciò d'un cavallo da sella e d'un calessino; ma i suoi conoscenti, i quali avevan sospettato prima che qualche angustia domestica potesse, fra l'altre cagioni, avere influenza sull'umor suo, tanto più si meravigliarono, quanto più videro accrescersi la sua tristezza insieme collo spettacolo di quella nuova ricchezza.
In sul principio, a dir tutto, egli ne aveva provato qualche soddisfazione e contento; ma fu per poco. Egli si era illuso un istante che con quella ricchezza avrebbe potuto di punto in bianco cangiar la propria e l'altrui condizione; ma è anche vero che non sempre l'oro è onnipotente, perchè con esso non si piegano certe volontà inflessibili, come non si scongiura la morte.
Trovandosi, qualche volta, insieme colla contessa Stefania, manifestò a lei con una certa gioja le conclusioni definitive di quella tanto a lungo disputata lite giuridica; ma la sua gioja derivava solo dalla speranza di poter finalmente tradurre in atto alcuno almeno di quei tanti castelli in aria fantasticati durante l'aspettazione di quella ricchezza.
Egli aveva pensato: se la contessa fosse ricca del proprio, se un'improvvisa eredità, se qualunque altra inattesa fortuna le desse il modo di svincolarsi dal marito, e di provvedere col proprio denaro al mantenimento dei proprj genitori, le cui pensioni, per l'arte infesta di un notajo, servo devoto della ricchezza e nemico naturale dei poveri, erano state vincolate in modo nel rogito insidioso che tutti, padre, madre e lei, dovessero ripiombare nella miseria, senza l'adempimento di certi patti; se dunque fosse ricca del proprio, egli aveva pensato, cesserebbe di tratto ogni cagione di tormento; ora non potrò io, ripensò poi, quando ricevette le credenziali sulla banca dell'Aguado, condurre adesso le cose in modo che, salvando tutte le apparenze, ella raggiunga quell'agiatezza sufficiente per diventar libera e padrona assoluta della propria volontà? Nel punto però che il Baroggi manifestò alla contessa l'avvenimento della sua mutata fortuna, sorpreso di colpo da un pensiero della più scrupolosa delicatezza, e sapendo quanto ella fosse naturalmente dignitosa e fiera, non osò al primo farle quella proposta, ed aspettò si presentasse un'occasione, che rendesse l'animo di lei più accessibile ad accoglierla: e l'occasione venne.


IX


Il Baroggi dimorava, come sappiamo, presso al ponte Double che mette in comunicazione l'atrio di Notre-Dame col Quai Montebello; egli aveva scelto quel luogo e s'era acconciato in un terzo piano, perchè di là poteva spingere lo sguardo fino all'angolo della Rue du Plâtre, dov'era la casa in cui abitava il conte Alberico; e ad una delle cui finestre poteva, col cannocchiale, vedere la contessa, la quale, alla sua volta, allorchè era sicura di non essere sorpresa dal marito, faceva lo stesso per vedere il Baroggi quando s'affacciava. Questi fervidi e gentili sotterfugi, che fanno tanto ridere i cuori adiposi e le menti obese, e provocano le sacre escandescenze nelle persone rese crudeli dalla falsa pietà, costituivano il solo conforto di quelle due anime addolorate; tutte le domeniche poi, quando la contessa recavasi a sentir messa in Notre Dame, egli l'attendeva in una viuzza poco frequentata, onde parlare per alcuni minuti fuggitivi; e codesta era per loro la sola e la suprema consolazione. Ora avvenne che una domenica ella non comparve in Notre Dame, e il povero Baroggi, che viveva continuamente nell'affannosa aspettazione di una qualche disgrazia, rimase percosso da quel senso profondo di desolazione, che nell'ordine morale assomiglia allo spasimo fisico.
Risalì in camera; s'affacciò alla finestra, appuntò il cannocchiale, nè in molte ore gli venne fatto di veder mai la desiata figura di Stefania. - Temette il peggio - fece mille congetture e mille disegni; e sebbene riguardoso fino allo scrupolo per non compromettere in nulla la sua cara donna, si recò sino alla casa dov'era l'abitazione del conte, con quella speranza irragionevole, ma che è appunto un delirio del desiderio irrequieto, che i muri, le porte, le finestre, i balconi avessero in loro qualche cosa che valessero a dargli alcuna notizia. Abbandonata ogni idea di precauzione, si sentì persin tentato di aspettare ed affrontare il conte; lo scandalo che con ogni arte aveva sempre scansato, e del quale era in una continua apprensione, in quel momento gli parve assai desiderabile, in confronto di quell'orrido ignoto in cui dibattevasi indarno. Tornato più volte in quella via, quando Dio volle, vide finalmente uscir dalla casa del conte il dottor Broussais. La vista del medico, sebbene recasse con sè l'annunzio di una disgrazia, pure gli fece provare un soprassalto di gioja. Il dottore lo scorse e, senza aspettare d'essere interrogato, leggendo tutto nel volto stravolto di Giunio:
- Tranquillatevi, disse, la contessa è a letto, ma non c'è nulla di veramente serio.
Il Baroggi respirò, e trasse di lungo in compagnia del dottore.
- Non c'è nulla di serio, continuò questi, ma se non si rimove la causa, la gravità del male può diventare irreparabile. Quell'infelicissima donna ha bisogno del ristoro della pace domestica. Vi assicuro che con sei mesi d'inalterata tranquillità essa potrebbe guarire radicalmente. Bisogna dunque che pigliate una risoluzione, se volete salvarla. Siete ricco, involatela a suo dispetto; l'amore che vi porta è immenso; l'occhio medico me ne avvisa; ma è un ardore che la divora, perchè è combattuta da una trascendente idea del dovere.
- Lo so.
- Dunque ci vuole una risoluzione e un colpo inaspettato. La mano del chirurgo assale spesso a tradimento l'ammalato che si rifiuta a sottoporsi ad un'operazione dolorosa. Io parlo da medico; il solo modo di guarire colei, è di trasportarla violentemente da un ordine ad un altro d'idee, e di toglierle d'attorno la vista abborrita di quell'uomo infame di suo marito, il quale, nonostante le sue inconcepibili stranezze e una morbosa volubilità di carattere, in un certo ordine di cose e d'intenti, è longanime e irrevocabile. Quel che voi mi avete detto, l'ho già verificato. L'odio ch'ei sente per quella donna gli prorompe da tutti gli atti, da tutti i movimenti, da tutti i muscoli della sua laidissima faccia, sebbene talvolta, fisicamente, ei l'adocchi ancora con bramosia. Pare che voglia disfarsi di lei in ogni modo; ma essendo vilissimo senza essere scemo, sa trattenersi sempre con astuzia d'inferno entro i limiti di certe azioni, che sembrano imposte dall'autorità maritale; ma non abbandona mai un momento la sua vittima, che investe e solca e scava col lento, ma certo lavoro della sega e della goccia.
A queste parole il Baroggi si scolorava e rabbrividiva.
- Fra pochi giorni potrete riveder la contessa, proseguiva il dottor Broussais; il solo rimedio efficace, ve lo ripeto, sta in un atto di violenza, che si risolverà in un atto supremo di pietà e di carità.
Il Baroggi accompagnò il dottor Broussais fino alla porta dell'ospedale militare, e, messo sulla via delle speranze, andò tutto solo a passeggiare ai Campi Elisi, ingolfandosi in una fitta di pensieri e di progetti.


X


Passarono sei giorni; rivide la contessa.
- Se il dottor Broussais non mi avesse ogni dì informato dello stato della tua salute, certo sarei morto di affanno.
La contessa, guardando il suo Giunio coll'espressione indefinita di un'anima innamorata che sente la più profonda gratitudine, gli strinse la mano.
- Or vedo che stai meglio.
- Sto meglio di fatto.
- E come si porta colui?
- Da qualche giorno sembra un po' ammansato; il dottor Broussais ebbe un lungo dialogo con lui; non so che cosa gli abbia detto, ma mi pare gli abbia messo qualche spavento nell'animo...
- Ammansato per un giorno o due, ritornerà presto, come di consueto, alle sue demenze omicide.
- Pur troppo!
— Dunque bisogna prendere un partito.
- Gli è un pezzo ch'è preso.
- Quale?
- Aspettar la morte.
- Ed è così che cerchi la via di consolarmi?
- Piuttosto che vivere d'inutili speranze, è meglio tener l'animo preparato.
- Se al tuo male non ci fosse un rimedio, avresti ragione di dir così; ma il rimedio c'è; e se tu lo rifiuti, ti fai rea di suicidio.
- E dunque?
- Dunque, dimmi se il tuo amore per me è sincero e profondo.
- Non farmi ridire quello che sai: sentire una affezione è un fatto irresistibile del cuore, che può essere perdonato; esprimerla, spiegarla, riposarvi sopra colle parole è un accrescere la colpa.
- Non parlare di colpa; e che cosa hai, da rimproverarti?
- Guarda al modo onde tutti quelli che passano ci guardano. La loro curiosità indiscreta e beffarda ti avvisa, che hanno già compreso quel che passa tra me e te. Pensa a quel che direbbero se sapessero chi sono io, chi sei tu... Spesso tu tenti di fare opposizione alle mie convinzioni religiose... Il mondo vuol le cose a modo suo, ed è più inesorabile dello stesso Iddio che punisce i peccatori coll'inferno. Tutti quelli che entrarono nella mia casa e conoscono il conte, sono convinti che sono stata spietatamente sacrificata; ma non mi risparmierebbero però nessun biasimo se sapessero in che condizione il mio cuore è verso il tuo; ma c'è di più: essi m'insulterebbero, nel loro pensiero almeno, sospettando cose che non avvennero e non avverranno mai. Voi altri increduli l'avete sempre col Dio inesorabile e colla religione di spavento e coi sacerdoti funesti; ma se Dio punisce le sole colpe consumate, il mondo va più innanzi di Lui; esso inventa e punisce le colpe che non furono mai commesse.
- Dunque non bisogna curarsi del mondo, e non pensare ad altro che ad essere in regola con noi stessi. Il tuo confessore, quando non sia un cretino inferocito, credo non avrà potuto rimproverare la tua condotta.
- Mi rimprovera la debolezza onde son troppo indulgente col mio cuore; mi rimprovera questa pratica, quantunque non sia mai uscita dalla sfera della più pura simpatia, perchè dice che è un atto d'orgoglio l'affrontare i pericoli, e il tenersi certi di poterli sempre superare… mi riprovera…
- E non ti ha rimproverato il disprezzo che hai per la tua salute? e non ti ha detto che non a caso Iddio deve averci fatto dono della vita, e che è nostro primo dovere il conservarla con ogni cura, e che è un disprezzar Dio il non tener conto di tutto ciò che ci diede in dono? Io parlo adesso come un prete, e vorrei ben sapere come farebbe il tuo confessore a rispondermi. - Ma lasciamo codeste inutili discussioni, e pensa a prendere un partito, e a lasciar la casa di tuo marito. Tra me e te c'è una tale solidarietà di affetto purissimo e fuori affatto d'ogni ordine volgare, che non devono esistere tra noi quei miserabili rispetti umani per cui talvolta si respingono gli ajuti fraterni per un mal inteso orgoglio. Tu avrai dunque da me centomila franchi; nessuno saprà mai da chi li hai avuti. Scegli per tua dimora quella città che ti parrà meglio, fai venir teco i tuoi parenti. Avrai giorni tranquilli, se non giocondi, e il mondo che tanto temi, non avrà mai nulla a dire contro te... Io mi riserberò soltanto il puro diritto di venire a vederti qualche volta, come un amico che non si dimentica degli amici.
Nel dir queste cose, gli occhi del Baroggi s'inumidirono, e due lagrime lente gli corsero sulle guancie.
Stefania non seppe rispondere che versando altre lagrime uguali.
- E che risolvi?
- La tua immensa bontà ti fa prestar fede a cose impossibili.
- Possibili non solo, ma di facilissima esecuzione. Tutto dipende dal tuo volere; per carità, rispetta e pensa a conservare quella vita da cui dipende la mia. - Se tu persisti nel rifiuto, è indizio manifesto che credi di amarmi, ma non è vero. - L'amore è imperterrito, e non trova ostacolo in cosa nessuna.
Quella proposta di Giunio aveva sollevato nell'anima di Stefania una folla di speranze nuove. Compresa d'una insolita gioja, e parendole d'intravedere un avvenire del quale non aveva mai sospettato nemmen la più lontana possibilità, sentì la tentazione di accettarla e di far pago il generoso desiderio di Giunio; ma assalita da nuove paure, si tacque crollando la testa.
- E che pensi di fare?
- Non so che cosa risponderti; la mia testa è confusa. - Lasciami tempo a riflettere. - Domani uscirò di casa; alle ore due mi troverò nel tempio della Maddalena.
E si lasciarono.
Il dì dopo venne; ma Stefania era tutta mutata; non vedeva che i pericoli ed occasioni di disonorarsi in faccia al mondo..
Il Baroggi si aperse allora col dottore Broussais, e lo supplicò d'adoperare la sua autorevole parola di medico e di filosofo per indurre quella donna a salvare se stessa.
Il dottore parlò, ma con poco frutto; e Stefania trasse innanzi assai tempo, sempre tentennando tra il desiderio ardente di appagare il suo Giunio, e lo sgomento di compromettersi e di fare un passo falso.


XI


Una mattina il Baroggi sente picchiare all'uscio dell'abitazione. - Era il dottor Broussais.
- Caro Giunio, forse ho trovato il mezzo di poter indurre quella vostra infelice donna ad accettare la proposta. Un tal Samuele Mircki, banchiere di Berlino, si ammalò a Parigi, ed è in mia cura da un mese. Della lotteria di Baden-Baden possiede, tra gli altri, il biglietto che gli dà la vincita di quarantacinque mila fiorini. Stamattina mi parlò egli stesso di questa vincita. Questo fatto mi fece balenare un pensiero. Voi pagate al banchiere i quarantacinque mila fiorini, e ritirate il biglietto. Siccome è da un anno che su tutti i canti di Parigi l'avviso gigante di tal lotteria offende gli occhi anche dei ciechi, e la contessa può benissimo aver preso di que' biglietti; così voi lo passate a lei; ella lo mostra al marito; niente di più naturale che chi ha comperato un biglietto, possa anche vincere. Il segreto rimane fra noi due. Nessuno potrà sospettar nulla. Ed ella si capaciterà che a questo modo non c'è più nessun pericolo di provocare nè dicerie nè scandali.
- La vostra fu un'inspirazione del cielo!!
- E così?
- Tutto è fatto. Ora esco per prendere i danari che tengo presso Aguado.
- Portateli a codesto signor Mircki, e ritirate il biglietto.
- E quella povera troppo squisita mia donna vedrà in questa strana combinazione un espresso ajuto del cielo, e si piegherà. - Oh quante obbligazioni vi ho, caro dottore; ma voi avete l'ingegno sterminato come immensa la bontà del cuore!
Quest'affare, com'è facile a comprendere, fu tosto combinato e conchiuso; Baroggi ritirò il biglietto, e quando potè parlare alla contessa:
- La fortuna, per un indizio manifesto, ha voluto ajutarci. Ecco di che si tratta; e mostrando il biglietto, le raccontò com'era corsa la cosa.
- Or vedi che non è possibile salvar le apparenze più di così. Il conte non potrà nemmeno far le meraviglie. - Di queste vincite a Parigi se ne fanno ad ogni momento. L'anno passato la modista che sta presso il teatro delle Variétés guadagnò centomila lire a questo modo... Che mi rispondi adunque...?
- Mi par di sognare.
- Accetti? per carità, parla... bada che se tu stai ancor forte in sul negare, io farò certissimamente quello che potrà gettarti nella disperazione...
- Accetto...
- Che tu sii ringraziata... sei libera finalmente... potrai svincolarti dai nodi del tuo serpente... Per carità, non pentirti di nuovo; prendi il biglietto e provvedi tosto a convertirlo in danaro. È un'operazione che devi far tu, perchè così è chiusa ogni via al benché minimo sospetto; puoi andare da qualunque banchiere. - Addio, per ora; non puoi immaginarti la mia gioia... Riavrai la salute; sarai felice, meno infelice almanco.


XII


Stefania, sbalordita, confusa, commossa, si avviò a casa. Mille volte aveva pensato, che se fosse stata ricca, avrebbe potuto esser padrona di sè e ridursi a viver sola; ed ora che aveva in mano la facoltà di farlo, non sapeva come risolversi; non sapeva come dirlo al conte; le pareva che questi dovesse leggerle in volto ogni mistero, ogni segreto. Venne l'ora del pranzo..
Il conte e la contessa sedettero a tavola. È inutile dire che il conte da anni non aveva mai una parola cortese per lei. Nelle occorrenze quotidiane della casa, quando la necessità voleva che si parlassero, eran risposte tronche e acerbe per parte di lui, erano sguardi obliqui e severi. Sedettero adunque a tavola, la contessa taceva; il tumulto che aveva nell'animo le aveva colorite le guancie straordinariamente, ond'essa pareva tornata alla soave freschezza de' suoi diciott'anni. La leggiadria del suo volto e della sua figura era un incanto anche allorquando il pallore del patimento investiva le sue guancie; possiam dunque immaginare quel che dovesse parere con quelle rose ricomparse, sebben fittizie.
Il conte la guardò di sott'occhio, e la riguardò più volte:
- Che cos'hai oggi che sei così rossa? le disse. So che il principe Demidoff, che ha dieci milioni di rendita ed è un bel giovane, ti ha lodata... Sei stata forse a fargli visita?...
- Non so nemmen chi sia questo principe Demidoff, e non capisco che cosa tu voglia dire...
Il conte si diede a ghignare con disprezzo.
La contessa si alzò da tavola, saettando il conte con uno sguardo di nobilissimo sdegno. L'esordio strano con cui il conte l'aveva interrogata relativamente al suo rossore, diede a lei il coraggio di parlare.
- Sai tu perché sono infuocata in viso?
- Che?
- È la gioia che provo nel doverti dare una consolazione.
- Oh!
- Sì, signore; potrò finalmente liberarti della mia presenza odiosa...
- Diamine! che cosa è successo?
- È successo che, siccome non passa giorno che non ti lamenti d'aver dovuto spendere e spandere per me, al punto da ridurti quasi in miseria per colpa mia, il cielo ha voluto ajutar te e me.
Il conte, senza parlare, guardava fissa la contessa.
- Su tutti gli angoli di Parigi avrai visti gli avvisi della grande lotteria di Baden Baden...
Il conte si alzò, protendendo il collo e il muso, e strabuzzando l'occhio felino...
- Un dì, saranno or due mesi, entrai da un cambiavalute che teneva quell'affisso a' lati della bottega, presi un biglietto di quindici franchi. Stamattina passando da quello stesso cambiavalute seppi d'aver guadagnato quarantacinque mila fiorini - novantamila franchi circa. - Ecco tutto. - Ora posso cessare di vuotare la povera tua cassa.
Il conte si staccò dalla tavola repentinamente, e misurò tre o quattro volte innanzi e indietro la camera, come una jena in gabbia.
- Perchè non m'hai detto mai nulla? gridò poscia.
- Perchè era inutile, e, secondo il tuo costume, potevi rimproverarmi d'aver sciupato quindici franchi; or te lo dico, perchè ti deve far piacere che anch'io possieda un capitale che dà un'entrata sufficiente per vivere con decoro.
La risposta che diede il conte fu un calcio nella tavola che rovesciò in terra piatti e bottiglie.
Accorse una fantesca.
- Che volete voi qui? le gridò il conte; e accompagnò l'urlo ferino collo scagliarle dietro una terrina, che le s'infranse sulla schiena.
La contessa dignitosamente e fieramente atteggiata, era riparata dietro una poltrona; teneva fra le mani un trinciante, non a caso ma ad arte, perchè sapeva che al conte, tanto vile quanto perverso, bisognava far paura in qualche modo. - La sventurata però tremava dal capo a' piedi come una foglia investita dal vento.
Ed ora chiederà il lettore: come si può spiegare quella repentina escandescenza del conte?
Una infesta mescolanza di cause tutte morbose aveva fatto impeto sul suo sangue.
Egli aveva bisogno di una vittima su cui sfogare i suoi perversi umori; quella povera donna, e perchè era moglie e perchè era inesorabilmente avvinta alla povertà dei genitori, era la sola su cui potesse esercitare un'autorità assoluta e continua; i domestici potevano schiaffeggiarlo e piantarlo su due piedi, com'era successo tante volte. Ma la moglie bisognava che s'acconciasse a star lì sempre stretta a quella catena d'inferno.
C'era un altro fenomeno stranissimo, ma vero. Egli, nei momenti men truci e quando nel corpo incarognito gli si ridestava il titillamento erotico, considerando la bellezza sempre superstite della moglie e udendola lodare da quanti la vedevano, sentiva l'orgoglio di essere nel pieno dominio di quella creatura; però mentre la martoriava di continuo, pur talvolta si compiaceva di possederla, e nei giorni che, per il malore, la bellezza di lei scompariva nella pallidezza eccessiva, la insultava con parole di spregio, ma non perchè la spregiasse, sì perchè, sebbene ei ne fosse la causa volontaria, vedeva che, continuando ella a dar giù a quel modo, ei non avrebbe potuto più dire: - Fra quante donne conosco, la mia è ancora la più leggiadra di tutte. Ora all'annunzio inaspettato ch'ella possedeva quasi centomila franchi, comprese di colpo tutto quello che poteva nascer da ciò. Non poteva più insultarla, perch'ella era in condizione di abbandonarlo quando voleva; vedendola, per quel rossore che aveva provocate le sue prime strane interrogazioni, più attraente del consueto, le parve più tormentosa l'idea di doverla perdere, e per conseguenza di essere costretto a deporre le armi ai piedi di lei, se pur voleva conservarla; oltre a ciò sentì anche la fitta dell'invidia nel pensiero ch'egli non poteva più umiliare la moglie col richiamarle la sua povertà; e prima e dopo e in mezzo a tutto ciò serpeggiava anche il truce pensiero che ella, mettendosi in salvo, poteva guarire, onde a lui non rimaneva più mezzo di disfarsene. Queste cause che noi designiamo ad una ad una, lo assalirono insieme e lo irritarono sino a quell'estremo da dar prova di tutti i fenomeni della vera pazzia. Ma egli non era pazzo nè sempre nè abbastanza per essere chiuso in un manicomio; come non era così legalmente scellerato da poter essere appeso ad una forca.
Ah! pur troppo quell'improvvisa scoperta del dottor Broussais e l'atto delicato e generoso ed eccezionale del Baroggi, che pareva dovesse togliere di mezzo ogni ulteriore occasione di sventure possibili, fu invece la causa definitiva di altri e irreparabili disastri.


XIII


Quelle espressioni dei fatalisti, trovate al tempo dell'astrologia: - Egli è nato sotto la cattiva stella. - Ella è la vittima degli astri -, e che tanto ripugnano al buon senso ed alla schietta ragione, troppo spesso par che abbiano la loro riprova nel labirinto delle miserie umane.
Il conte non fu più sopportabile; la contessa in quella casa fatale si trovò condannata ad una specie di quaresima di Galeazzo applicata all'ordine delle pene morali. Ciò che il conte ebbe detto per uno scherzo atroce allorchè domandò alla contessa s'ell'erasi forse recata a far visita al principe Demidoff, lo replicò sempre e con tutta l'apparenza di parlar sul serio in tutti i momenti delle sue furiose escandescenze. Gridava come un ossesso, e in modo da farsi udire da quanti abitavano nella sua medesima casa, e adoperando l'idioma francese, nell'intento di passar egli per vittima e di render la contessa dispregevole ed obbrobriosa in faccia agli altri.
Ella raccontò tutto al Baroggi, il quale rimase costernato e incertissimo su quel che dovesse consigliarle; tuttavia continuò ad esortarla perchè si determinasse all'unico partito utile e si staccasse dal marito carnefice. Ma ella non ebbe mai il coraggio, e sotto al lavoro assiduo di quell'orribile contrasto, il suo fisico, sempre sofferente e sempre più indebolito, non resse. Non potè più uscire di casa; il malore aveva ripresa la sua invasione devastatrice, ed ella non si alzò più dal letto.
Il dottor Broussais, chiamati a consulta anche i suoi più riputati colleghi, non omise studio di sorta per vedere di salvare quella povera e preziosa esistenza.
E noi possiamo immaginarci come il Baroggi disperatamente traesse la vita in que' lunghi giorni, senza poter veder mai la contessa; e col solo malinconico conforto delle quotidiane informazioni del dottore, il quale, mentre desiderava sostenere le di lui speranze, non voleva nel tempo stesso far sì che, colpito, non preparato, da una estrema sventura, dovesse poi rimaner vittima di un'angoscia insopportabile.


XIV


Dall'agosto, in cui c'incontrammo per la prima volta a Parigi col Baroggi, si venne sino al giorno sette novembre. Era un'alba parigina dell'estremo autunno, nebbiosa e fuliginosa. Il Baroggi dormiva, ma di quel sonno che è piuttosto un sopore patologico, e si direbbe prodotto più dalla virtù di un narcotico che dall'intima legge del corpo tranquillamente stanco. Era da molte notti ch'ei non poteva chiuder occhio, e da molti albori che sonnecchiava per qualche istante in quell'ora appunto.
A un tratto si sveglia e balza giù dal letto: un suono speciale lo aveva scosso, ma egli non lo sapeva. Stette così un poco su due piedi come smemorato, ma nella via, intercalato a un sordo mormorio come di vento che mugghia in basso tono, sente lo squillo di un campanello. Un brivido gelato lo percorre tutto... Spalanca i vetri della finestra e s'affaccia. Era il viatico, che venendo da Notre Dame passava sul Pont Double. Molte volte il viatico era passato per di là, e non c'era ragione ch'egli ne rimanesse tanto atterrito; ma l'irrequietudine convulsa che lo agitò fu tale, che quasi senza mettere a consulta i proprj pensieri, si vestì frettolosamente per uscire, e le mani gli tremavano come a paralitico, nell'abbottonarsi il pastrano. Esce, e dette alcune cose al domestico, discende le scale a saltelloni. - Pareva uscito di ragione affatto. - Segue la processione del viatico. - Ah, pur troppo tra l'affannosa alternativa di un baleno di speranze che rischiarava il suo sgomento, ei vede che il viatico tien la via che dal Pont Double mette alla Rue du Plâtre. Tende l'orecchio con faticosa attenzione alle voci delle devote del Santissimo, che rispondevano in lugubre cadenza alle litanie intuonate da una vecchia:
- Consolatrix afflictorum - Ora pro ea.
- Refugium peccatorum - Ora pro ea.
Si fa ancor più attento per accertarsi se le devote mormorassero pro eo o pro ea; ma nell'afferrare quell'orrenda certezza, collo scarso lume degli occhi che per lieve deliquio gli fuggiva, vede nel tempo stesso piegare il baldacchino verso la casa del conte.
Non era più il caso d'attenersi a quella scrupolosa osservanza d'ogni riguardosa cautela per non scoprire sè stesso e per non compromettere la contessa. - Il dolore soverchiava. - Egli entrò nel cortile della casa, in coda alle devote. Stette un momento perplesso sul limitare, e fece alcune confuse domande al portinajo, che, indifferente come lo stipite di sasso al quale si appoggiava, rispose che il viatico era per la contessa B...i. gravemente ammalata. Intanto il parroco di Notre Dame era salito. Il Baroggi, senza pensare ch'era in mezzo a una fitta di persone che lo vedevano, misurava a gran passi il cortile. A un tratto si ferma parlando tra sè, e facendo gesti come se fosse impegnato in un discorso con qualcuno; poi, risoluto, a due, a tre gradini per volta, ascende le scale. È all'uscio dell'abitazione del conte. Era spalancato, ma alcune donne in ginocchio ne ingombravan l'ingresso. - Egli va oltre, passa d'un'in altra camera. Le donne di casa, vedendolo e conoscendolo, perchè i domestici sanno tutto, non sapendo che si pensare, lo lasciano fare e andare innanzi. Quando il Baroggi s'accorse d'esser presso la camera dove la contessa giaceva a letto, e dove era entrato il parroco, si fermò quasi colpito da un sacro spavento.
Alla fine entrò; la contessa travide e vide, s'alzò in sul gomito raccogliendo tutte le sue forze, mandò un gemito nel quale pur si ripercuoteva un suono ineffabile di gioja, e ricadde col capo indietro sul guanciale. Il Baroggi s'accosta al letto, cade in ginocchio, le prende la mano, che bacia e ribacia e torna a baciare.
Il parroco, che era un prete gallicano dei più tremendi, e che rappresentava la vendetta di Dio più della misericordia: Che è questo? gridò; e afferrò un campanello.
Accorse la servente; dopo alcuni istanti si fermò sulla soglia il padrone di casa, il conte B...i.
La contessa aveva la testa abbandonata sul guanciale, e di traverso fissava uno sguardo lento e profondo in volto al Baroggi, che, tenendo il labbro sulla mano di lei, la fissava terribilmente immoto.
D'improvviso grida il conte: - Chi è l'infame che profana la mia casa, che profana la dimora di una moribonda? Lei, che rappresenta Iddio qui, scacci l'abbominando sacrilego. - Il prete, che aveva l'aspetto di un Domenicano inquisitore, colla pretenziosa prepotenza di chi ha fede di tenere dall'alto un mandato sacro, santo, mise la scarna sua mano, come se fosse quella di Samuele, sulla spalla del Baroggi, e lo rovesciò sul pavimento. Ma il Baroggi, rovesciato, si rialzò di tratto... Il conte intanto aveva aperta la finestra e gridava all'accorr'uomo. Cessò il mormorio devoto nelle anticamere e nel cortile. Il conte continuava a gridare.
La campana minore di Notre-Dame suonava a lenti rintocchi. Stefania spirò in quel punto.
Il parroco, nel benedirla: - Voi avete forse impedito, disse al Baroggi, che quest'anima volasse in cielo.
L'appartamento del conte erasi affollato di gente accorsa alle grida.
- Questo scellerato, diceva il conte a quanti gli entravano in casa, è venuto ad assassinare la povera mia moglie.
Il Baroggi non si moveva - guardava attonito; sentiva macchinalmente, e taceva.
Il conte ebbe l'audacia di accostarsegli, e di mettergli una mano sul braccio, come per iscacciarlo.
A quell'atto il Baroggi si scosse, afferrò il conte per il collo, e di peso l'alzò, trasportandolo presso la finestra. Il suo primo pensiero fu di rovesciarlo nella via sottoposta. Ma si trattenne.
Le persone astanti, imprecando al Baroggi, gli si serrarono intorno, tentando di strappare il conte dalle sue mani.
Egli taceva e guardava, e tenendo colla sinistra sempre il conte per il collo, colla destra vibrò a rovescio uno schiaffo furibondo ad un giovinotto che osò toccarlo, e lo respinse fino a percuoter la testa in una delle pareti della stanza.
Scorsero alcuni minuti d'immobilità generale, quando il Baroggi trasse violentemente il conte nella camera attigua. Tutti lo seguirono, ma nessuno osava nè farglisi presso, nè parlare.
- Assassino di tre mogli, urlò allora il Baroggi, oggi tu pagherai tutti i tuoi misfatti. E in te sia punita la legge che permette ai tuoi pari di vivere e di operare impunemente a danno di tutti; e in te sia punita la vile umanità che alla sola ricchezza si prostra e si fa complice d'ogni suo delitto; e in te sia punito il prete funesto che legò quella povera vittima al tuo corpo infracidito, e all'anima tua più laida del tuo corpo. Una lezione voglio io oggi dar qui a tutti, e sia di me quello che vorrà essere.
E accostatosi a un caminetto su cui ardevano tre pezzi di legno, ne prese uno pel capo ancora intatto, e prima che alcuno sospettasse quel che fosse per fare, compresse la parte infuocata con violenza repentina nelle occhiaie del conte, che grugnì come una scrofa scuoiata; e cadde, abbandonato che fu dalla ferrea mano del Baroggi, ad arrotolarsi urlando sul pavimento.
Entrò in quella il dottor Broussais.
CONCLUSIONE


Venezia nel 1849. - La Germania e l'Italia. - Hegel e i suoi proseliti. - La scienza e il senso comune. - La camera di Winkelmann a Roma. - Un'iscrizione latina nel cimitero del Père Lachaise.



I


Nell'agosto dell'anno 1849, dimorando a Venezia, entrai una notte, in compagnia di alcuni amici, nell'osteria del Cavalletto. - V'erano là ufficiali di tutte le armi, costituenti il presidio di quella gloriosa e sventurata città, che, in que' giorni, stava dibattendosi tra la vita e la morte. V'erano Italiani di tutta Italia: Polacchi, Ungheresi, Dalmati, Greci, militanti per noi.
Venezia in que' dì offeriva uno spettacolo sublime insieme ed angoscioso. Milano era ricaduta sotto il gioco austriaco; Toscana erasi ridata al granduca; Roma, indarno difesa da Garibaldi, era stata occupata da Oudinot: Italia tutta era sommersa. — Venezia sola sporgeva ancora il capo dall'onda mugghiante, ma le braccia spossate più non potevan reggere contro all'impeto di essa.
In quell'osteria era incessante il fracassìo di chi andava e veniva, dei tanti che parlavano, dei camerieri che servivano e gridavano: a tutti i tavolini, pur fra tanta varietà di discorsi, campeggiava sempre il tema unico della patria in pericolo. - A una tavola stavano il colonnello Belluzzi e il colonnello Morandi, mio amico. - Sedeva con loro un uomo tra i quarantacinque e i cinquant'anni, in abito nero. - La figura di lui, le pose, il piglio erano giovanili ancora; ma i capelli prolissi erano sparsi di striscie senili, la fronte solcata da lunghe rughe, l'occhio, sebben di linee grandiose e pure, era patito e stanco.
Salutato il colonnello Morandi, sedetti lor presso; feci portar un pan fresco di tritello, che in quell'estreme traversie del blocco, poteva dirsi un pane di lusso; e un bicchiere di vino di Barletta, il quale costava quanto lo Château Lafitte delle cantine dell'imperatore dei Francesi; e stetti così ascoltando i discorsi avviati.
- A quanto m'avete raccontato, diceva quel signore in abito nero, vedo che la difesa non potrà prolungarsi molto.
- Due o tre settimane al più, e non c'è altro, disse il Morandi.
- Purtroppo! soggiunse il Belluzzi.
- È una fatalità, osservò quel signore, che in quest'anno, dovunque io capiti, debba sempre essere l'augello del malaugurio. Arrivai a Torino due giorni prima del disastro di Novara. - Giunsi a Roma e mi son messo con Garibaldi poco tempo innanzi la sua caduta. - Or venni qui per mettermi con voi, colonnello Morandi...
- E non c'è a far altro, credetelo a me. La difesa poteva protrarsi molto più a lungo; ma il Governo non seppe e non volle.
- Manin, rispose quel signore, era convinto (e lo provano le sue note alla Francia e all'Inghilterra) che Venezia, per un riguardo dovutole dalle potenze, sarebbe stata costituita come città anseatica: e questa speranza fu appunto cagione degli errori del governo. - La conveniente posizione politica che Manin era certissimo sarebbesi data a Venezia, gli ha fatto credere impossibile un lungo assedio; è per ciò se la marina non fu allestita in tempo; se l'esercito non fu bene organizzato; se la guardia civica non fu resa abbastanza numerosa; se le provvigioni da guerra non furono accumulate in tempo e in quantità sufficiente a sostenere l'assedio anche per qualche anno.
- E così, osservò il colonnello Belluzzi, di questa popolazione straordinaria nella costanza; dei soldati venuti da tutt'Italia, gloriosi per prove di coraggio uniche nella storia, non si trasse il vantaggio che certamente si sarebbe potuto; ed oggi le cose sono al tutto disperate.
Il colonnello parlava ancora, quando entrò a cercarmi il filologo e poeta Sternitz, prussiano, col quale io m'era stretto in amicizia; uomo di grande ingegno, di vasta dottrina e d'abitudini semplicissime, sebbene talvolta alquanto strane ed eccezionali. - Dimorava da anni a Venezia, ed era innamorato dell'Italia, della quale conosceva profondamente la letteratura, ed era iracondo verso i proprj compatrioti.
- E che fate qui, mi disse, con questa caldura che opprime? Usciamo all'aperto.
Io chiesi al colonnello Morandi s'ei voleva uscire.
- E si esca, ei mi rispose, con quel suo fare schietto e soldatesco.
Belluzzi e il signore vestito di nero uscirono del pari; e così tutt'insieme, collo Sternitz, il capitano De Luigi della legione lombarda, ed altri, ce ne andammo a passeggiare sul molo.


II


Io chiesi allora al Morandi, chi era quel signore vestito di nero.
- È un lombardo; io l'ho conosciuto prima a Parigi, poi in Atene; è un signore assai distinto, e si chiama Giunio Baroggi.
- Che? io esclamai commosso; io so la storia della sua vita; io conobbi un vecchio che fu amicissimo suo. Quasi glielo nominerei, ma non so che ben fare; non potete immaginarvi, colonnello, il vivo interesse che m'ha inspirato e m'inspira questo signore.
- Comportatevi con gran riguardo, mi disse allora il Morandi, perchè a toccargli certi tasti del suo passato, si riscuote tutto e si conturba e si sprofonda in una tristezza senza pari. In conseguenza d'un fatto orribile, è stato rinchiuso un anno nel manicomio di Parigi; e fu il celebre dottor Broussais che di tal modo lo ha salvato, facendolo passar per demente onde liberarlo da un processo criminale.
- So tutto, io dissi, e so anche che lo scellerato che egli punì abbruciandogli gli occhi, morì nel 1839.
- Nel '31 io vidi colui, affatto cieco, trascinarsi lento per le vie di Parigi, appoggiato a un servo.
- Un fatto orribile, ma fu anche una giustizia.
- Ad ogni modo, abbiate gran riguardo nel parlargli.


III


Passeggiando lungo il molo, i discorsi continuarono sempre sul medesimo tema di Venezia. - Si parlò dell'origine e del procedimento della sua rivoluzione; si parlò di Daniele Manin e di Tommaseo. - Il colonnello Morandi non aveva grande stima di Manin, ed essendo venuto a Venezia assai tardi, non conosceva i precedenti storici, e giudicava con troppa severità il popolo veneziano. - Su tal proposito udii il Baroggi a fare le seguenti osservazioni:
- Avendo io, egli disse, viaggiato tutta Italia, prima che scoppiasse la rivoluzione, all'intento di veder dappresso le popolazioni e di esplorare i sintomi della crisi italiana, mi trovai a Venezia nei primi mesi del 1848; quel che avvenne in que' mesi di preparazione, fuori di Venezia non è noto che in parte. - Le carneficine di Milano e quelle di Padova assorbivano allora l'attenzione generale. - Ma io, che in quel tempo ho potuto osservar da vicino quel che qui si operò, debbo dire che i Veneziani, una volta messi in via, guadagnarono con alacrità straordinaria il tempo prima perduto. - A mantener vivo lo spirito pubblico e ad incuorare Venezia ad operare più che a far dimostrazioni, contribuì principalmente la prigionia di Manin e di Tommaseo, e la loro dignità affatto antica in faccia alla ingiustizia e alla sventura.
«Crocchi segreti d'uomini pronti se ne improvvisarono molti; alcuni, più esperti dei mezzi speciali che Venezia aveva in sè, guardavano alla marina veneta; considerando quello che, volendo, avrebbe potuto, vedevano facile la riuscita, se si fosse tentata qualche impresa audace. - A tale intento, alcuni più astutamente volonterosi, s'accomunavano, quantunque la diversa condizione non paresse comportarlo, ai soldati della fanteria di marina; e versando con essi in famigliare colloquio nelle taverne del buon popolo, e mescendo loro con mano liberale, li mettevano a parte de' proprj pensieri, li istruivano intorno alle pubbliche faccende, e li esortavano a star pronti. E così facevasi cogli arsenalotti, siccome quelli che potevano, all'occasione, impadronirsi del punto più importante della città.
«Di questi sforzi veneziani e di questo senno che mostrarono nell'adoperare quei mezzi, è tempo che si parli, perchè fin qui si è creduto e si crede anche da parecchi che dappresso esplorarono il movimento italiano, che la rivoluzione di Venezia sia stata l'affare d'un giorno; e che la sua riuscita così felice e completa sia dovuta a fortuna più che a fatica. Credetelo a me: in que' giorni pieni di vita e di speranza, il popolo veneziano e i suoi capi fecero prodigi. Tommaseo e Manin furon veramente benemeriti, e Manin ebbe istanti luminosi ed eccezionali di prontezza, di sagacità, di coraggio.»
- Ma, a parer mio, osservò il Morandi, fu atto improvvido l'aver proclamata la repubblica prima di sentire il voto delle altre città d'Italia.
- Oggi è facile dir così, rispose il Baroggi, ma bisognava trovarsi qui allora. È necessario tener conto delle tradizioni speciali di questa città, e allora converrete che, se quello fu un errore, fu però un errore sublime.
Il Baroggi tacque un momento, e, fermatosi tra le colonne di Todero e del leone, girò l'occhio sugli edifizj augusti della piazzetta e della piazza. Muggiva cupo il cannone di Campalto e Campaltone. Nel silenzio e nella solitudine della notte si sentiva ad intervalli quel suono particolare, come di stoffa serica lacerata, che produce l'aria quand'è investita da una palla. Da un mese i cannoni alla Pexens, collocati a quarantacinque gradi, percorrevano quattromila e cinquecento metri di spazio, e tenevano in assiduo pericolo due terzi della città.
Il Baroggi era come assorto e gli altri per un istante lo guardarono in silenzio.


IV


- Oh! voi, proruppe di poi, non eravate qui nel marzo dell'anno scorso. Che giorno sublime fu il 22 di quel mese!
Qui fece ancora una breve pausa; poi, come se leggesse una pagina, con accento d'entusiasmo continuò:
- Allorchè Manin fu padrone dell'arsenale, e fu sicuro dell'ajuto di tutti i soldati della marina veneta, che avevano saputo uccidere il maggior Bodai quando loro comandò di far fuoco sulle guardie cittadine; infiammato d'entusiasmo per un concorso d'accidenti così fatale, che parve davvero che in questa città si fosse allora rinnovato il prodigio delle trombe di Gerico; alla testa delle sue guardie portanti un'asta sormontata dal simbolico berretto, venne in piazza, e là, salito su d'una tavola, alla presenza di non molto popolo, proclamò la repubblica. Alla parola repubblica di San Marco, fatta risuonare dalla poderosa e veramente rivoluzionaria voce di Daniele Manin, una vertigine sublime occupò tutte le menti. Non era quello il momento delle misure prudenziali. La realtà aveva sembianza di una visione. Questa repubblica gloriosa di una vita di quattordici secoli, fatta segno, è vero, di gravi accuse dalla storia troppo severa, ma per le stesse colpe imputate, poeticamente misteriosa, e, non ostante, ammirata da' suoi detrattori e idoleggiata poi dalle più squisite intelligenze, era scomparsa in un giorno obbrobrioso; caduta e scomparsa, erasi detto, per sempre dalla faccia del mondo politico: e invece la si udiva proclamata, e la si vedeva risorta. Allorchè disotto alle aquile tedesche, in un baleno atterrate e sparite quasi per virtù d'incanto, si vide balzar fuori l'alato leone di bronzo che non s'era osato distruggere; e sulle antenne, a un punto rovesciate e svestite dalla bandiera non nostra, e a un punto rialzate, sventolò il vessillo del vetusto San Marco, e tutte le campane delle chiese di questa tanto storica Vinegia risposero in giocondo e vasto concento ai più profondi rintocchi del campanone maggiore, che prima aveva comunicato ai venti la novella inaspettata; e sulla piazza un popolo fittissimo si vide inginocchiato innanzi alla metropolitana, perchè nell'avvenimento straordinario, forse gli parea vedere il Dio degli eserciti; in presenza di questo continuo prodigio, credetelo a me, l'entusiasmo, il delirio non poteva più aver misura; ed oggi, pensandovi nell'aspettazione in cui siamo dell'estrema sventura, il sangue si gonfia nel cuore, e la memoria ha bisogno di velarsi un tratto, perchè il giudizio riprenda la sua calma.


V


Il Baroggi a queste parole s'interruppe; e, dopo un breve silenzio, continuò:
- Da quel giorno gli errori si accumularono agli errori. Ma tutti i governi d'Italia ne commisero. A Milano si lasciarono in ingiusta dimenticanza gli uomini che, per la vastità della mente, più eran fatti per governare la cosa pubblica. Il popolo sapiente ebbe colà dei capi incompleti. Quando, nell'aprile da Venezia passai a Milano, la piaga pubblica era già per incancrenirsi là. - A Firenze invece un popolo troppo simile alla garrula e volubile Atene, non volle aver fiducia nel fortissimo ingegno di Guerrazzi. Qui in Venezia i ladri si introdussero a manomettere il pubblico danaro, non accorgendosene l'intemerato Manin, dall'ideale della sua onestà fatto incapace a sospettare l'altrui perfidia. In pochi giorni scomparvero diciasette milioni dalla cassa dell'erario: - a Parigi vive un ricco che prima era un povero operajo qui, e non si sa dove abbia preso i denari. Io non lo nomino, ma voi già sapete a chi accenno. Io vorrei che i giuristi inventassero una pena speciale, infamante, straziante, per questi ladri del pubblico patrimonio. In quanto a Manin e Tommaseo, certo che furono i primi, i più coraggiosi e più virtuosi cittadini di Venezia; ma la fatalità volle che tra loro ci fosse uno strano squilibrio di pensiero e d'aspirazioni. Manin innamorato di questa sua cara Venezia smarrì nell'intensità dell'affetto municipale l'estensione dell'ambito italiano; ecco perchè respinse in principio la proposta di un governo lombardo veneto; poi di far centro Venezia di un governo italiano; in ultimo di aderire alla Costituente. Tommaseo invece, portato, dalle contratte abitudini della sua mente e de' suoi studj, a percorrere le indefinite regioni dell'ideale, ed a considerare l'umanità nel suo più vasto significato, non istette contento ai limiti della sua cara Italia; ma delle affezioni sue amò far parte a tutti i popoli della terra. Scrisse note diplomatiche di consiglio e d'amore a tutti, perfino alla Germania. - Non vi scuotete, signor Sternitz, io vi conosco, vi amo, e vi ammiro, perchè non mi sembrate un uomo nato in quelle parti là; ma io non amo la Germania, l'incorreggibile Germania, incorreggibile perchè la sede del suo morbo cronico sta nella testa de' suoi pensatori e nella sua filosofia. Quasi dappertutto la scienza va innanzi beneficando; là invece si affatica a' danni dell'umanità.


VI


«Agli indirizzi, proseguiva, che l'anno scorso i più generosi Italiani, pur nell'impeto del combattimento e nell'odio implacabile del dominio austriaco inviarono a tutti gli Stati di quella nazione a proposta di fratellanza; la patria di Schiller, il poeta più innamorato dell'umanità, lasciò cadere indifferente quelle parole d'invito, e si chiuse sospettosa in sè stessa. Il canto di Manzoni dedicato a Koerner, il Tirteo della Germania, non trovò un eco in mezzo ai cuori fatti muti dalla passione e dall'egoismo.
«Il nostro popolo, che ha sentito a parlare della Germania come dell'officina più operosa della scienza e del centro più fitto d'instancabili cercatori del vero, domanda come un sì tristo frutto abbia potuto uscire da così faticose preparazioni.
«Questa domanda del popolo incolto rivela che, nella sua intuizione spontanea, ha compreso ciò che gli uomini dotti non seppero scorgere nell'abbagliata ammirazione per una scienza che, nelle sue intemperanze e nelle sue improbe elucubrazioni, ha smarrito il senso retto, ed è rimasta senza viscere.
«In Germania è la così detta filosofia quella che governa e impiglia la politica. Filosofia e politica si abbracciano colà e si compenetrano. Guai se la prima si contorce nell'indeterminato e nel falso! la politica ne risente il contagio, e il senso giusto e pratico della vita si adultera e si smarrisce.
«Hegel, il Maometto della Germania, le comunicò un sentimento così entusiasta per sè stessa, un'idea così orgogliosa della sua missione nel mondo, che tutte le altre nazioni, specialmente quelle del mezzodì, debbono parere agli occhi di lei come nazioni diseredate e decadute, e perciò indegne di risorgere a rifare una grandezza che comprometterebbe il nuovissimo genio del Nord, al quale, secondo le enfatiche parole del suo falso profeta, è assegnato l'incarico nientemeno che di rifare Iddio.
«Dopo Hegel, i suoi proseliti, dilungandosi da lui e più che mai compromettendo le teorie del maestro, si divisero in più sêtte, le quali, sforzando a sempre nuove trasformazioni i principj raccolti dalla bocca di lui, misero dapprima il capogiro nelle menti giovanili, per non lasciar poi negli animi che aridità e indifferenza.
«L'ateista Feuerbach giunse a combattere perfino il sentimento della patria, e di cosa in cosa a propugnare principj che derivano dall'infame teoria dell'homo sibi deus.
«Nelle teorie di Stirner, che sono un tessuto cangiante delle enormità di Feuerbach, sta il codice completo dell'egoismo.
«Rouge provò come due e due quattro che l'amore della patria è un sentimento ipocrita ed una virtù impossibile; perchè l'amore, secondo lui, ha orrore delle astrazioni e vuole delle vive realtà. E così d'argomento in argomento, venne a santificare l'inesorabile tornaconto.
«Nel campo dell'economia politica, Federico Lizt; il più celebrato della sua nazione perchè ne lusingò più di tutti l'egoismo, colla sua dottrina isolatrice, rinserrò la Germania in sè medesima, barricandola colle dogane protettive, ed ammonendola a non ammettere sul suo mercato roba straniera, per non introdurre nelle mura della patria il perfido cavallo di Troja (son sue parole).
«La giurisprudenza respinse colà dalle cattedre il diritto naturale e razionale, incatenandosi schiava dell'unico diritto storico.
«Perfino la filologia, nel labirinto di una prodigiosa, ma gelida dottrina, affogando le più care e generose aspirazioni della fantasia inventrice e del sentimento, tolse allo studio dell'arte classica l'intento suo più legittimo: quello di educare al bello estetico, che, ingentilendo gli animi, li prepara al bello morale.
«L'Eneide di Virgilio non fu più il poema latino-italico per eccellenza, il modello eterno del più perfetto stile, ma un'occasione di sommovere questioni di geografia e di etnografia.
«L'Iliade di Omero parve più preziosa ai filologi tedeschi per il catalogo delle navi che per la preghiera di Priamo ad Achille, o per l'addio di Ettore ad Andromaca.
«E nella storia e nella letteratura e nella poesia, lo studio del medio evo, che in Italia, evocando le memorie della Lega Lombarda, preparò le libere aspirazioni del periodo in cui viviamo, là invece non servì che ad innamorare le menti delle consuetudini feudali, a far desiderare il ritorno di un passato impossibile, e a consigliare l'anacronismo dell'immobilità delle caste.
«Questo hanno fruttato le intemperanze di una dottrina, che del proprio eccesso fa velo ai limpidi giudizj del senso comune.
«Ora voi, signor Sternitz, che tanto amate l'Italia, e avete tanto ingegno, dovreste parlare in questo tono a' vostri. - Un Tedesco di mente e di cuore, che severamente ammonisse i suoi compatrioti, potrebbe finalmente ridestare qualche eco generoso.»


VII


Spuntavano i primi crepuscoli; lo Sternitz che era un Tedesco straordinario, strinse lagrimando la mano al Baroggi.
- Piango, esclamò poi, per la mia patria che abborrite, e per questa Italia tanto sventurata!
Una tal scena ci commosse tutti. - Si partì muti e pensosi, e per quella notte dai nostri labbri non uscirono che le parole ultime dei vicendevoli saluti.
Il dì dopo io fui sollecito di vedere ancora il Baroggi. - M'intrattenni a lungo con lui. Mi sprigionai; si sprigionò; e quantunque io fossi giovinissimo e di tanto inferiore a lui nell'esperienza e nella dottrina, venne spesso a cercarmi, e si degnò molte volte di parlar meco a lungo. Fu in una di queste volte che, discorrendo, tra le altre cose, della condizione della letteratura in Italia, mi fe' cenno di quel suo lavoro del quale abbiamo parlato alquante pagine addietro. - Pregato e ripregato, mi diede un dì a leggerne gli sparsi frammenti. - Che originalità, che grandezza, che vastità, che sentimento! Io passavo continuamente dalla meraviglia al dolore, dal dolore alla meraviglia; perchè, esaltandomi in una sfera altissima di bellezze, consideravo poi che, per la condizione infelice dell'animo suo, non gli sarebbe mai stato possibile, com'egli disse molte volte, di condurre a termine quel lavoro.
La sventura lo aveva percosso in modo, che il dolore per lui erasi fatto natura. Bensì, facendo uso di liquori generosi, con abitudine che pareva toccare il soverchio, talvolta assumeva l'apparenza della giocondità, che si espandeva in un profluvio d'epigrammi. Ma, di tratto, a una svolta inattesa di qualche parola che gli facesse risentire la fitta del dolore inclemente, si concentrava in sè stesso, si faceva cupo e taciturno, e qualche volta dava anche in lagrime dirotte. - Un dì, essendogli ciò avvenuto in mia presenza: - Non vi faccia meraviglia, mi disse; è questo una specie di vomito morale che, prorompendo dagli occhi a furia, permette poi allo spirito di rifarsi alquanto, e di respingere la tentazione del suicidio.


VIII


Vennero i giorni estremi per Venezia libera, il cannone tacque per la prima volta, dopo tanti mesi che aveva tuonato incessantemente. - Quel silenzio insolito, come il silenzio della morte, piombò sugli animi di tutti, producendovi un'angoscia che non ha riscontri. - Una commissione veneta già erasi recata al quartier generale austriaco ad offrirvi la sommissione dei Veneziani. - La capitolazione venne segnata. - Il dì 27 agosto, per la via di terra io uscii da Venezia per ridurmi a Genova. Il Baroggi m'avea salutato ed abbracciato prima di salire a bordo d'un vapore da guerra inglese; chè aveva stabilito di recarsi in Inghilterra. - Nè più lo vidi. - Seppi in seguito che da Londra erasi tramutato a Roma, per applicare di nuovo l'ingegno alle lettere e alle arti, a sollievo dei proprj dolori e delle sventure della patria. - Nel 1850 ebbe un duello, se non erro, col segretario dell'ambasciata di Russia; e nell'ottobre di quell'anno stesso morì di febbre intermittente.
Ai 27 di quel mese, un nostro amico di Roma ci dava il doloroso annunzio della morte di quell'uomo straordinario. Ecco un brano di quella lettera:
...«Ieri è morto Giunio Baroggi in età di 52 anni. La sua camera che, come sapete, era quella che già aveva appartenuto a Winkelmann, era ieri piena d'amici e d'ammiratori, che piangevano nel vedere vicinissimo il termine di quell'uomo raro. - Negli estremi momenti, fece aprir le finestre per vedere il sole che dietro la cupola di San Pietro tramontava in globi di fuoco; le ultime sue parole furono: «Il sole di Roma vecchia è in tramonto; sorgerà il sole di Roma nuova, e tutta Italia verrà a riscaldarsi in hac luce - Exoriare aliquis


IX


Nell'anno 1862, trovandoci noi a Parigi, ci recammo al Père Lachaise, e là, cercando con insistenza una lapide di cui ci aveva parlato il Bruni, ci venne fatto finalmente di rinvenirla tra quella selva di tombe e cippi e statue. - Su quella pietra leggemmo la seguente iscrizione:


stephania gentili
comitissa b…
decora forma
anima suavi
ingenio in melodia præclaro
liberalis eam fecit natura
interfecit dira fortuna
anno mdcccxix


E qui la nostra storia si chiude. Ripetere gl'intenti che si sono avuti nello scriverla, e le lezioni che se ne volevano far scaturire, è inutile. - Se il lettore non le vede, non vale che l'autore le manifesti.