Gaspara Stampa
RIME D'AMORE
Poi che le mie pene amorose, che per amor di V. S. porto scritte in diverse lettere e rime, non han possuto, una per una, non pur far pietosa V. S. verso di me, ma farla né anco cortese di scrivermi una parola, io mi son rissoluta di ragunarle tutte in questo libro, per vedere se tutte insieme lo potranno fare. Qui dunque V. S. vedrà non il pelago delle passioni, delle lagrime e de' tormenti miei, perché è mar senza fondo; ma un piccolo ruscello solo di esse; né pensi V. S. ch'io abbia ciò fatto per farla conoscente della sua crudeltà, perché crudeltà non si può dire, dove non è obligo, né per contristarnela; ma per farla più tosto conoscente della sua grandezza ed allegrarla. Perché, vedendo esser usciti dalla durezza vostra verso di me questi frutti, congeturerà quali saranno quelli, che usciranno dalla sua pietà, se averrà mai che i cieli me la faccino pietosa: o obietto nobile, o obietto chiaro, o obietto divino, poi che tormentando ancora giovi e fai frutto. Legga V. S. dunque, quando averà triegua delle sue maggiori e più care cure, le note delle cure amorose e gravi della sua fidissima ed infelicissima Anassilla; e da questa ombra prenda argomento quali ella le debba provare e sentir nell'animo; ché certo, se accaderà giamai che la mia povera e mesta casa sia fatta degna del ricevere il suo grande oste, che è V. S., io son sicura che i letti, le camere, le sale e tutto racconteranno i lamenti, i singulti, i sospiri e le lagrime, che giorno e notte ho sparse, chiamando il nome di V. S., benedicendo però sempre nel mezzo de' miei maggior tormenti i cieli e la mia buona sorte della cagion d'essi: percioché assai meglio è per voi, conte, morire, che gioir per qualunque. Ma che fo io? Perché senza bisogno tengo V. S. troppo lungamente a noia, ingiuriando anco le mie rime, quasi che esse non sappian dir le lor ragioni, ed abbian bisogno dell'altrui aita? Rimettendomi dunque ad esse, farò fine, pregando V. S., per ultimo guiderdone della mia fedelissima servitù, che nel ricever questo povero libretto mi sia cortese sol di un sospiro, il quale refreschi così lontano la memoria della sua dimenticata ed abbandonata Anassilla. E tu, libretto mio, depositario delle mie lagrime, appreséntati nella più umil forma che saprai, dinanzi al signor nostro, in compagnia della mia candida fede. E, se in recevendoti vedrai rasserenar pur un poco quei miei fatali ed eterni lumi, beate tutte le nostre fatiche e felicissime tutte le nostre speranze; e ti resta seco eternamente in pace.
LXXXI
Questo
aspro conte, un cor d'orsa e di tigre,
che 'n così vago
e mansueto aspetto
per forza di valor e d'intelletto
a la
strada di gloria par che migre,
non
so per qual cagion guasti e denigre,
col mancarmi di fé,
sì degno effetto,
e l'ali di sua fama col
difetto
d'infedeltà renda restive e pigre.
Almen
gli foss'io presso, onde potessi
dimostrargli il suo fallo e
'l dolor mio,
sì che fido e pietoso lo
facessi!
Ma i' son qui,
lassa, colma di desio,
e i miei lamenti a l'aure son
commessi:
egli in Francia si sta colmo
d'oblio.
LXXXII
Qui,
dove avien che 'l nostro mar ristagne,
conte, la vostra misera
Anassilla,
quando la luna agghiaccia e 'l sol favilla,
pur
voi chiamando, si lamenta ed agne.
Voi,
dove avien che l'Oceano bagne,
la notte, il giorno, a l'alba
ed a la squilla,
menando vita libera e tranquilla,
mirate
lieto il mar e le campagne.
E
sì l'assenzia e 'l poco amor v'invola
la memoria di
lei, la vostra fede,
che pur non le scrivete una
parola.
O fra tutt'altre
mia miseria sola!
o pena mia, ch'ogn'altra pena eccede!
Ciò
si comporta, Amor, ne la tua scola?
LXXXIII
Oimè,
le notti mie colme di gioia,
i dì tranquilli, e la
serena vita,
come mi tolse amara dipartita,
e converse il
mio stato tutto in noia!
E,
perché temo ancor (che più m'annoia)
che la
memoria mia sia dipartita
da quel conte crudel che m'ha
ferita,
che mi resta altro omai, se non ch'io moia?
E
vo' morir, ché rimirar d'altrui
quel che fu mio
quest'occhi non potranno,
perché mirar non sanno altri
che lui.
Prendano essempio
l'altre che verranno
a non mandar tant'oltre i disir sui,
che
ritrar non si possan da l'inganno.
LXXXIV
O
sacro, amato e grazioso aspetto,
o più che 'l chiaro
sol lucenti lumi,
o sangue illustre, angelici costumi,
o
alto ingegno, altissimo intelletto,
o
colmi di prudenzia e di diletto,
d'eloquenzia profondi e
larghi fiumi,
o finalmente, ond'io più mi
consumi,
d'ogni grazia e virtù, conte,
ricetto,
qual contra a'
miei disir stella empia e cruda
già mi vi tolse, ed or
vi tien discosto
contra la fé che voi mi deste
pria?
O morte dunque
queste luci chiuda,
od apritele voi tornando tosto;
perché
così non so quel ch'io sia.
LXXXV
Quando
talvolta il mio soverchio ardore
m'assale e stringe oltra ogni
stil umano,
userei contra me la propria mano,
per finir
tanti omai con un dolore.
Se
non che dentro mi ragiona Amore,
il qual giamai da me non è
lontano:
- Non por la falce tua ne l'altrui grano:
tu non
sei tua, tu sei del tuo signore,
perché
dal dì, ch'a lui ti diedi in preda,
l'anima e 'l corpo,
e la morte e la vita
divenne sua, e a lui conven che
ceda.
Sì ch'a far
da te stessa dipartita,
senza ch'egli tel dica o tel
conceda,
è troppo ingiusta cosa e troppo
ardita.
LXXXVI
Piangete,
donne, e poi che la mia morte
non move il signor mio crudo e
lontano,
voi che sète di cor dolce ed umano,
aprite
di pietade almen le porte.
Piangete
meco la mia acerba sorte,
chiamando Amor, il ciel empio,
inumano,
e lei, che mi ferì, spietata mano,
che mi
vegga morir e lo comporte.
E,
poi ch'io sarò cenere e favilla,
dica alcuna di voi
mesta e pietosa,
sentita del mio foco una scintilla:
-
Sotto quest'aspra pietra giace ascosa
l'infelice e fidissima
Anassilla,
raro essempio di fede alta
amorosa.
LXXXVII
Prendi
Amor i tuoi strali e la tua face,
ch'io ti rinunzio i torti e
le fatiche,
le voglie a' propri danni sempre amiche,
la
guerra certa e la dubbiosa pace.
Trova
un novo soggetto e più capace,
cui 'l tuo foco arda e
la sua rete intriche,
ch'io per me non vo' più che mi
si diche:
- Questa per altri indarno arde e si
sface.-
Io son dal grave
essilio tuo tornata,
e son resa a me stessa, e non men
pento,
mercé di lui che m'ha la via mostrata.
E
ne' miei danni ho pur questo contento,
ch'almen, s'io fui da
te sì mal trattata,
alta fu la cagion del mio
tormento.
LXXXVIII
Lassa,
chi turba la mia lunga pace?
chi rompe il sonno e l'alta mia
quiete?
chi mi stilla nel cor novella sete
di gir seguendo
quel che più mi sface?
Tu,
Amore, il cui strale e la cui face
ogni contento uman recide e
miete;
tu ber mi desti del tuo fiume Lete,
che più
mi nòce, quanto più mi piace.
Ahi,
quando fia giamai ch'un giorno possa
voler col mio voler, resa
a me stessa,
del grave giogo periglioso scossa?
Quando
fia mai che la sembianza impressa
dentro a le mie midolle e
dentro a l'ossa
mi smaghi Amor, e' miei martìr con
essa?
LXXXIX
Ma
che, sciocca, dich'io? perché vaneggio?
perché
sì sfuggo questo chiaro inganno?
perché
sgravarmi da sì util danno,
pronta ne' danni miei, ad
Amor chieggio?
Come, fuor
di me stessa, non m'aveggio
che quante ebber mai gioie, e
quante avranno,
quante fûr donne mai, quante
saranno,
co' miei chiari martìr passo e
pareggio?
Ché
l'arder per cagion alta e gentile
ogni aspra vita fa dolce e
beata
più che gioir per cosa abietta e vile.
Ed
io ringrazio Amor, che destinata
m'abbia a tal foco, che da
Battro a Tile
spero anche un giorno andar chiara e
lodata.
XC
Voi,
che per l'amoroso, aspro sentiero,
donne care, com'io, forse
passate;
ed avete talor viste e provate
quante pene può
dar quel crudo arciero;
dite
per cortesia, ma dite il vero,
se quante ne son or, quante son
state,
a l'aspre pene mie paragonate,
agguaglian un de'
miei martìr intero.
E
dite se vedeste mai sembianza
più dolce in vista e più
spietata poi
del signor mio, ne l'amorosa stanza.
Così
talvolta amor dia tregua a voi,
mentr'ei con questa dura
lontananza
sfoga in me tutti ad uno i furor
suoi.
XCI
Novo
e raro miracol di natura,
ma non novo né raro a quel
signore,
che 'l mondo tutto va chiamando Amore,
che 'l
tutto adopra fuor d'ogni misura:
il
valor, che degli altri il pregio fura,
del mio signor, che
vince ogni valore,
è vinto, lassa, sol dal mio
dolore,
dolor, a petto a cui null'altro dura.
Quant'ei
tutt'altri cavalieri eccede
un esser bello, nobile ed
ardito,
tanto è vinto da me, da la mia
fede.
Miracol fuor d'amor
mai non udito!
Dolor, che chi nol prova non lo crede!
Lassa,
ch'io sola vinco l'infinito!
XCII
Quasi
quercia di monte urtata e scossa
da ogni lato e da contrari
venti,
che, sendo or questi or quelli più possenti,
per
cader mille volte e mille è mossa,
la
vita mia, questa mia frale possa
combattuta or da speme or da
tormenti,
non sa, lontani i chiari lumi ardenti,
in qual
parte piegar ormai si possa.
Or
m'affidan le carte del mio bene,
or mi disperan poi l'altrui
parole;
ei mi dice: - Io pur vengo; - altri: - Non viene.
-
Sia morte meco almen,
più che non suole,
pietosa a trarmi fuor di tante
pene,
se non debbo veder tosto il mio
sole.
XCIII
Qual
fuggitiva cerva e miserella,
ch'avendo la saetta nel
costato,
seguìta da due veltri in selva e 'n
prato,
fugge la morte che va pur con ella,
tal
io, ferita da l'empie quadrella
del fiero cacciator crudo ed
alato,
gelosia e disio avendo a lato,
fuggo, e schivar non
posso la mia stella.
La
qual mi mena a miserabil morte,
se non ritorna a noi da gente
strana
il sol degli occhi miei, che la conforte:
egli
è 'l dittamo mio, egli risana
la piaga mia; e può
far la mia sorte,
d'aspra e noiosa, dilettosa e
piana.
XCIV
A
che, conte, assalir chi non repugna?
a che gittar per terra
chi si rende?
a che contender con chi non contende?
con chi
avete mai sempre fra l'ugna?
Sapete
che co' morti non si pugna;
ché lo splendor d'un
cavalier offende,
e 'l vostro più, che l'ali oggimai
stende
dove non so s'altrui chiarezza aggiugna.
Guardate
che la fama de le tante
vostre vittorie poi non renda
oscura,
signor, quest'una sola, e non ammante.
Io
per me stimerei mia gran ventura
l'esser veduta al vostro
carro innante;
ma voi del vostro onor abiate
cura.
XCV
Menami,
Amor, ormai, lassa! il mio sole,
che mi solea non pur far
chiaro il giorno,
ma non men che 'l dì chiara anco la
notte,
tal ch'io sprezzava il ritornar de l'alba,
sì
di quest'occhi la sua vaga luce
disgombrava le tenebre e la
nebbia.
Ed ora più
non veggio altro che nebbia,
poi che l'usato mio lucente
sole,
con la sua e del mondo altera luce
lume facendo in
altra parte e giorno,
vuol che mai non si rompa per me
l'alba,
perché da me non fugga unqua la
notte.
Deh discacciasse il
vel di questa notte,
il vel di tanta e sì importuna
nebbia,
e a l'apparir del suo ritorno l'alba
mi rimenasse
il mio bramato sole,
sì che lieta vedessi ancora un
giorno,
pria che chiudessi in tutto esta mia luce!
Ben
fôra chiara e graziosa luce,
che procedesse a sì
beata notte;
ben fôra chiaro e desiato giorno,
e
disgombrato di tempeste e nebbia,
che mostrasse a quest'occhi
il lor bel sole,
spuntando tra le rose e tra i fior
l'alba.
Pur ch'innanzi che
'l ciel mi renda l'alba,
morte amara non spenga la mia
luce,
invidiando a lei l'amato sole;
e chiusi gli occhi in
sempiterna notte,
ne vada, lassa, a star fra quella
nebbia,
dove mai non si vede chiaro giorno.
Tu
dunque, Amor, che fai di notte giorno,
e puoi condurmi in un
momento l'alba
e via cacciar de' miei martìr la
nebbia,
e di tenebre oscure trar la luce,
rompi omai 'l vel
di questa lunga notte,
et adduci a quest'occhi il mio bel
sole.
Vivo sol, che solei
far chiaro il giorno,
mentre la luce mia non vide
nebbia,
perché non meni a la mia notte
l'alba?
XCVI
Deh
perché, com'io son con voi col core,
non vi son, conte,
ancor con la persona,
com'io vorrei, tanto 'l disio mi
sprona,
tanto mi stringe il signor nostro Amore?
Ché,
mirando talor l'aspro furore
sovra di voi, quando arde più
Bellona,
di qualche cavalier, che la corona
cercasse
porsi di sì alto onore,
vedendo
scender qualche colpo crudo,
o pregherei Amor che lo
schifassi,
o io del corpo mio li farei scudo.
Ma
'l ciel pur fiero a le mie voglie stassi,
né m'ode,
benché 'l duol, che dentro chiudo,
rompa per la pietate
i duri sassi.
XCVII
O
gran valor d'un cavalier cortese,
d'aver portato fin in
Francia il core
d'una giovane incauta, ch'Amore
a lo
splendor de' suoi begli occhi prese!
Almen
m'aveste le promesse attese
di temprar con due versi il mio
dolore,
mentre, signor, a procacciarvi onore
tutte le
voglie avete ad una intese.
I'
ho pur letto ne l'antiche carte
che non ebber a sdegno i
grandi eroi
parimente seguir Venere e Marte.
E
del re, che seguite, udito ho poi
che queste cure altamente
comparte
ond'è chiar dagli espèri ai lidi
eoi.
XCVIII
Conte,
il vostro valor ben è infinito
sì che vince
qualunque alto valore,
ma verissimamente è via
minore
del duol, ch'amando io ho per voi patito.
E,
se non s'è fin qui letto et udito
de l'infinito cosa
unqua maggiore,
questi sono i miracoli d'Amore,
che vince
ciò che 'n cielo è stabilito.
Tempo
già fu, che l'alta gioia mia
di gran lunga avanzava
anco il mio duolo
mentre dolce la speme entro fioria:
or
ella è gita, ed ei rimaso è solo,
dal dì
che per mia stella acerba e ria
prendeste, ahi lassa! verso
Francia il volo.
XCIX
Io
pur aspetto, e non veggo che giunga
il mio signor o 'l suo
fidato messo
al termin che da lui mi fu promesso:
lassa!
ché 'l mio piacer troppo s'allunga.
Ond'avien
che temenza il cor mi punga,
che qualche intoppo non gli sia
successo;
o ch'ei sol pensi in me quanto m'è presso,
e
l'assenzia il suo cor da me disgiunga.
Il
che se fosse, io prego morte avara
che venga in vece sua, poi
ch'ei non viene,
a trarmi fuor di tèma e vita
amara.
Ma se giusta cagion
me lo ritiene,
io prego Amor, ch'ogni fosco rischiara,
ch'apra
la via, ond'io vegga il mio bene.
C
O
beata e dolcissima novella,
o caro annunzio, che mi
promettete
che tosto rivedrò le care e liete
luci e
la faccia graziosa e bella;
o
mia ventura, o mia propizia stella,
ch'a tanto ben serbata
ancor m'avete,
o fede, o speme, ch'a me sempre sète
state
compagne in dura, aspra procella;
o
cangiato in un punto viver mio
di mesto in lieto; o queto,
almo e sereno
fatto or di verno tenebroso e rio;
quando
potrò giamai lodarvi a pieno?
come dir qual nel cor
aggio disio?
di che letizia io l'abbia ingombro e
pieno?
CI
Con
quai degne accoglienze o quai parole
raccorrò io il mio
gradito amante,
che torna a me con tante glorie e
tante,
quante un non vide forse il sole?
Qual
color or di rose, or di viole
fia 'l mio? qual cor or saldo ed
or tremante,
condotta innanzi a quel divin sembiante,
ch'ardir
e tèma insieme dar mi suole?
Osarò
io con queste fide braccia
cingerli il caro collo, ed
accostare
la mia tremante a la sua viva faccia?
Lassa,
che pur a tanto ben penare
temo che 'l cor di gioia non si
sfaccia:
chi l'ha provato se lo può
pensare.
CII
Via
da me le tenebre e la nebbia,
che mi son sempre state agli
occhi intorno
sei lune e più, che 'n Francia fe'
soggiorno
lui, che 'l mio cor, come gli piace,
trebbia.
È ben
ragion ch'asserenarmi io debbia,
or che 'l mio sol m'ha
rimenato il giorno;
or c'han pace le guerre, che d'attorno
mi
fûr, qual vide Trasimeno e Trebbia.
Sia
ogni cosa in me di riso piena,
poi che seco una schiera di
diletti
a star meco il mio sol almo rimena.
Sia
la mia vita in mille dolci, eletti
piaceri involta, e tutta
alma e serena,
e se stessa gioendo ognor
diletti.
CIII
Io
benedico, Amor, tutti gli affanni,
tutte l'ingiurie e tutte le
fatiche,
tutte le noie novelle ed antiche,
che m'hai fatto
provar tante e tanti anni;
benedico
le frodi e i tanti inganni,
con che convien che i tuoi seguaci
intriche;
poi che tornando le due stelle amiche
m'hanno in
un tratto ristorati i danni.
Tutto
il passato mal porre in oblio
m'ha fatto la lor viva e nova
luce,
ove sol trova pace il mio disio.
Questa
per dritta strada mi conduce
su a contemplar le belle cose e
Dio,
ferma guida, alta scorta e fida luce.
CIV
O
notte, a me più chiara e più beata
che i più
beati giorni ed i più chiari,
notte degna da' primi e
da' più rari
ingegni esser, non pur da me,
lodata;
tu de le gioie mie
sola sei stata
fida ministra; tu tutti gli amari
de la mia
vita hai fatto dolci e cari,
resomi in braccio lui che m'ha
legata.
Sol mi mancò
che non divenni allora
la fortunata Alcmena, a cui stè
tanto
più de l'usato a ritornar l'aurora.
Pur
così bene io non potrò mai tanto
dir di te,
notte candida, ch'ancora
da la materia non sia vinto il
canto.
CV
Son
pur questi i begli occhi e quelle, c'hanno
vinto il sol tante
volte, alme bellezze;
son pur queste le grazie e le
vaghezze
che luce e vita a la mia morte dànno.
E
tuttavia son sì pronte a l'affanno
le voglie mie ed a'
tormenti avezze
di tanta assenzia omai, che
l'allegrezze
ritornar a star meco più non
sanno:
quasi 'l gran re,
che di sospetto pieno,
fuggendo il crudo zio, per lunga
usanza
si fece natural cibo il veleno.
Qui
fa bisogno, Amor, la tua possanza,
che del primo dolor mi
sgombri il seno,
sì che tanta mia gioia or v'abbia
stanza.
CVI
O
diletti d'amor dubbi e fugaci,
o speranza che s'alza e cade
spesso,
e nasce e more in un momento istesso;
o poca fede,
o poco lunghe paci!
Quegli,
a cui dissi: - Tu solo mi piaci, -
è pur tornato, io
l'ho pur sempre presso,
io pur mi specchio e mi compiaccio in
esso,
e ne' begli occhi suoi chiari e vivaci;
e
tuttavia nel cor mi rode un verme
di fredda gelosia, freddo
timore
di tosto tosto senza lui vederme.
Rendi
tu vana la mia tèma, Amore,
tu, che beata e lieta pòi
tenerme,
conservandomi fido il mio signore.
CVII
Or
che ritorna e si rinova l'anno,
passato il verno e la stagion
più fresca,
l'amoroso desir mio si rinfresca,
e la
mia dolce pena, e 'l dolce affanno.
E
qual i novi umor gravidi fanno
gli arbori, onde lor frutto a
suo tempo esca,
tal umor nel mio petto par che cresca,
al
qual poi pensier dolci a dietro vanno.
Ed
è ben degno che gioia ed umore,
or ch'egli è
meco la mia primavera,
mi rinovelli e mi ridesti
Amore.
Oh pur non giunga a
sì bel giorno sera!
oh pur non cangi il bel tempo in
orrore,
dipartendo da me l'alma mia sfera!
CVIII
Poi
che m'ha reso Amor le vive stelle,
che mi guidano al ciel per
dritta via,
e ne le molte mie gravi tempeste
m'hanno mai
sempre ricondotta in porto
di questo chiaro e fortunato
mare,
ch'indarno turban le procelle e i venti;
udite,
benigne aure, amici venti,
e voi, occhi del cielo, ardenti
stelle;
mentre qui sovra questo altero mare,
da la mia
lunga e faticosa via,
la mercede d'Amor, tornata in
porto,
lodo di lui gli strazi e le tempeste.
Voi,
voci, voi, sospir, voi le tempeste
sète, voi sète
i graziosi venti,
che dimostrate poi sì dolce il
porto,
quando il sol arde e quando ardon le stelle;
voi
sète la sicura e dritta via,
che ci guidate de' diletti
al mare.
Qual d'eloquenzia
fia sì largo mare,
e sì scarco di nubi e di
tempeste,
che possa dir senza arrestar fra via,
mentre stan
quete le procelle e i venti,
la gioia che mi dan le mie due
stelle,
or c'hanno il mio signor ridotto in porto?
Dolce
sicuro e grazioso porto,
che del mio pianto l'infinito
mare
m'hai acquetato al raggio de le stelle,
ch'ovunque
splendon fugan le tempeste,
sì ch'io non posso più
temer ch'i venti
turbin sì cara e dilettosa
via!
Menami, Amor, omai
per questa via,
fin che quest'alma giunga a l'altro
porto,
ch'io non vo' navigar con altri venti,
né di
questo cercar più largo mare,
né nel viaggio mio
vo' ch'altre stelle
mi sieno scorte, e sgombrin le
tempeste.
Aspre tempeste
ed importuni venti
non m'impediran più del mar la
via,
or che le stelle mie m'han mostro il
porto.
CIX
Gioia
somma, infinito, alto diletto,
or che l'amato mio tesoro ho
presso,
or che parlo con lui, che 'l miro
spesso,
m'ingombrerebbe certamente il petto,
se
'l cor non mi turbasse un sol sospetto
di tosto tosto rimaner
senz'esso,
per quel ch'io veggo a qualche segno espresso,
ché
sol apre Amor gli occhi a l'intelletto.
E,
se ciò è, io vo' certo finire
questa misera vita
in un momento,
anzi ch'io provi un tanto aspro
martìre;
perché
conosco chiaramente e sento
che senza lui mi converria
morire,
ch'è l'appoggio, a cui 'l viver mio
sostento.
CX
Chi
può contar il mio felice stato,
l'alta mia gioia e gli
alti miei diletti?
O un di que' del ciel angeli eletti,
o
altro amante che l'abbia provato.
Io
mi sto sempre al mio signor a lato,
godo il lampo degli occhi
e 'l suon dei detti,
vivomi de' divini alti concetti,
ch'escon
da tanto ingegno e sì pregiato.
Io
mi miro sovente il suo bel viso,
e mirando mi par veder
insieme
tutta la gloria e 'l ben del paradiso.
Quel
che sol turba in parte la mia speme,
è 'l timor che da
me non sia diviso;
ché 'l vorrei meco fin a l'ore
estreme.
CXI
Pommi
ove 'l mar irato geme e frange,
ov'ha l'acqua più queta
e più tranquilla;
pommi ove 'l sol più arde e
più sfavilla,
o dove il ghiaccio altrui trafige ed
ange;
pommi al Tanai
gelato, al freddo Gange,
ove dolce rugiada e manna stilla,
ove
per l'aria empio velen scintilla,
o dove per amor si ride e
piange;
pommi ove 'l crudo
Scita ed empio fere,
o dove è queta gente e riposata,
o
dove tosto o tardi uom vive e père:
vivrò
qual vissi, e sarò qual son stata,
pur che le fide mie
due stelle vere
non rivolgan da me la luce
usata.
CXII
Se
voi poteste, o sol degli occhi miei,
qual sète dentro
donno del mio core,
veder coi vostri apertamente fuore,
oh
me beata quattro volte e sei!
Voi
più sicuro, e queta io più sarei:
voi senza
gelosia, senza timore;
io di due sarei scema d'un dolore,
e
più felicemente ardendo andrei.
Anzi
aperto per voi, lassa, si vede,
più che 'l lume del sol
lucido e chiaro,
che dentro e fuori io spiro amor e
fede.
Ma vi mostrate di
credenza avaro,
per tormi ogni speranza di mercede,
e far
il dolce mio viver amaro.
CXIII
Deh
foss'io almen sicura che lo stato,
dov'or mi trovo, non
mancasse presto,
perché, sì come or è
lieto ed or mesto,
sarebbe il più felice che sia
stato.
I' ho Amore e 'l
mio signor a lato,
e mi consolo or con quello, or con
questo;
e, sempre che di loro un m'è molesto,
ricorro
a l'altro, che m'è poi pacato.
S'Amor
m'assale con la gelosia,
mi volgo al viso, che 'n sé
dentro serra
virtù ch'ogni tormento scaccia
via:
se 'l mio signor mi
fa con ira guerra,
viene Amor poi con l'altra compagnia,
vera
umiltà ch'ogni alto sdegno atterra.
CXIV
Mille
volte, signor, movo la penna
per mostrar fuor, qual chiudo
entro il pensiero,
il valor vostro e 'l bel sembiante
altero,
ove Amor e la gloria l'ale impenna;
ma
perché chi cantò Sorga e Gebenna,
e seco il gran
Virgilio e 'l grande Omero
non basteriano a raccontarne il
vero,
ragion ch'io taccia a la memoria accenna.
Però
mi volgo a scriver solamente
l'istoria de le mie gioiose
pene,
che mi fan singolar fra l'altra gente:
e
come Amor ne' be' vostr'occhi tiene
il seggio suo, e come indi
sovente
sì dolce l'alma a tormentar mi
viene.
CXV
Quelle
rime onorate e quell'ingegno,
pari a la beltà vostra e
al gran valore,
rivolgete a voi stesso in far onore,
conte,
come di lor soggetto degno;
o
trovate di me più altero pegno,
se pur uscir da voi
volete fore,
perché a sì larga vena, a tanto
umore
son per me troppo frale e secco legno,
e
non ho parte in me d'esser cantata,
se non perch'amo e
riverisco voi
oltra ogni umana, oltra ogni forma
usata.
Sì chiara
fiamma merta i pregi suoi;
in questa parte io deggio esser
cantata
fin ch'io sia viva, eternamente, e
poi.
CXVI
Lodate
i chiari lumi, ove mirando
perdei me stessa, e quel bel viso
umano,
da cui vibrò lo stral, mosse la mano
Amor,
quando da me mi pose in bando.
Lodate
il valor vostro alto e mirando,
ch'al valor d'Alessandro è
prossimano:
sallo il gran re, sallo il paese strano,
che di
voi e di lui vanno parlando.
Lodate
il senno, a cui non è simile
nel bel verde degli anni;
e, quel che 'n carte
vedrò famoso, il vostro ingegno e
stile.
In me, signor, non
è pur una parte,
che non sia tutta indegna e tutta
vile,
per cui sì vaghe rime sieno
sparte.
CXVII
A
che vergar, signor, carte ed inchiostro
in lodar me, se non ho
cosa degna,
onde tant'alto onor mi si convegna;
e, se ho
pur niente, è tutto vostro?
Entro
i begli occhi, entro l'avorio e l'ostro,
ove Amor tien sua
gloriosa insegna,
ove per me trionfa e per voi regna,
quanto
scrivo e ragiono mi fu mostro.
Perché
ciò che s'onora e 'n me si prezza,
anzi s'io vivo e
spiro, è vostro il vanto,
a voi convien, non a la mia
bassezza.
Ma voi cercate
con sì dolce canto,
lassa, oltra quel che fa vostra
bellezza,
d'accrescermi più foco e maggior
pianto.
CXVIII
Bastan,
conte, que' bei lumi, quelli,
ch'al sol raggi, a Ciprigna alma
beltate,
ad Amor arme, a me la libertate
furâr da
prima che mirai in elli,
a
far ch'arda per voi sempre e favelli,
sì che l'intenda
la futura etate,
senza cercar con pure rime ornate
d'aggiunger
nove al cor piaghe e flagelli.
Ché
col vostr'alto procacciarmi onore
si strigneria, se si
potesse, il laccio,
s'accresceria, se si potesse,
ardore.
Ma di questo e di
quel son fuor d'impaccio,
ché quanto arder e strigner
puote Amore,
io son stretta per voi, conte, e mi
sfaccio.
CXIX
Io
non mi voglio più doler d'Amore,
poi che, quant'ei mi
dà doglia e tormento,
tanto il signor, ch'io amo e
ch'io pavento,
cerca scrivendo procacciarmi onore.
O
di tutte bellezze e grazie il fiore,
nido di cortesia e
d'ardimento,
come posso bramar che resti spento
così
famoso e così chiaro ardore?
Anzi
prego che 'l ciel mi doni vita,
sì che dovunque il sol
nasca e tramonte,
sia la mia fiamma entro tai versi
udita:
e dica alcuna, ove
d'amor si conte:
- Ben fu la sorte di costei gradita,
scritta
e cantata da sì alto conte.
CXX
Se
qualche tema talor non turbasse,
o qualche sdegno, il mio
felice stato,
sarebbe il più tranquillo, il più
beato
di qualunque altra donna altr'uomo amasse.
Ché,
s'avien pur che 'l mio signor mi lasse,
talor a qualche degna
opra chiamato,
dentro il mio core e bello ed onorato,
qual
egli è meco, il suo sembiante stasse;
sì
che avendo mai sempre in compagnia
tutto quel che più
amo e più mi piace,
turbarmi Amor o sorte non
poria,
s'egli, che nel mio
pianto si compiace,
con qualche nova e strana fantasia
non
turbasse o rompesse la mia pace.
CXXI
Chi
vuol veder l'imagin del valore,
l'albergo de la vera
cortesia,
il nido di bellezza e leggiadria,
la stanza de la
gloria alta e d'onore,
venga
a veder l'illustre mio signore,
dove si trova ciò che
si disia,
fino il mio cor e fino l'alma mia,
che gli diè
già, né poi mi rese, Amore.
Ma,
s'ella è donna, non s'affissi molto,
ché resterà
subitamente presa
fra mille meraviglie del bel
volto.
Ivi Amor ha la rete
sempre tesa,
indi saetta, ed ivi giace occolto,
quando vuol
far qualche maggior impresa.
CXXII
Quando
io movo a mirar fissa ed intenta
le ricchezze e i tesor,
ch'Amore e 'l cielo
dentro ne l'alma e fuor nel mortal
velo
poser di lui, ch'ogn'altra luce ha spenta,
resto
del mio martìr tanto contenta,
sì paga del mio
vivo, ardente zelo,
che la ferita e 'l despietato telo,
che
mi trafige il cor, non par che senta.
Sol
mi struggo e mi doglio, quando penso
che da me tosto debba
allontanarse
questo d'ogni mia gloria abisso immenso.
A
questo l'alma sol non può quetarse,
a ciò grida
ed esclama ogni mio senso:
- O tante indarno mie fatiche
sparse!
CXXIII
O
tante indarno mie fatiche sparse,
o tanti indarno miei sparsi
sospiri,
o vivo foco, o fé, che, se ben miri,
di tal
null'altra mai non alse ed arse,
o
carte invan vergate e da vergarse
per lodar quegli ardenti
amanti giri,
o speranze ministre de' disiri,
a cui premio
più degno dovea darse,
tutte
ad un tratto ve ne porta il vento,
poi che da l'empio mio
signore stesso
con queste proprie orecchie dir mi
sento
che tanto pensa a
me, quanto m'è presso,
e, partendo, si parte in un
momento
ogni membranza del mio amor da
esso.
CXXIV
Signor,
io so che 'n me non son più viva,
e veggo omai ch'ancor
in voi son morta,
e l'alma, ch'io vi diedi non sopporta
che
stia più meco vostra voglia schiva.
E
questo pianto, che da me deriva,
non so chi 'l mova per
l'usata porta,
né chi mova la mano e le sia
scorta,
quando avien che di voi talvolta scriva.
Strano
e fiero miracol veramente,
che altri sia viva, e non sia viva,
e pèra,
e senta tutto e non senta niente;
sì
che può dirsi la mia forma vera,
da chi ben mira a sì
vario accidente,
un'imagine d'Eco e di
Chimera.
CXXV
Vorrei
che mi dicessi un poco, Amore,
c'ho da far io con queste tue
sorelle
Temenza e Gelosia? ed ond'è ch'elle
non
sanno star se non dentro il mio core?
Tu
hai mille altre donne, che l'ardore
provan, com'io, de l'empie
tue facelle:
or manda dunque queste a star con quelle,
fa'
ch'un dì n'escan dal mio petto fore.
-
Io ho ben - mi dic'ei - mille persone
a chi mandarle; ma
nessuna d'esse
ha, qual tu, da temer alta cagione.
Le
luci ch'ami son le luci stesse,
che, per dar gelosia e
passione
a tutto il mondo, la mia madre
elesse.
CXXVI
Così
m'acqueto di temer contenta,
e di viver d'amara gelosia,
pur
che l'amato lume lo consenta,
pur che non spiaccia a lui la
pena mia.
Perch'è
più dolce se per lui stenta,
che gioir per ogn'altro
non saria;
ed io per me non fia mai che mi penta
di sì
gradita e nobil prigionia;
perché
capir un'alma tanto bene,
senza provarvi qualche cosa
aversa,
questa terrena vita non sostiene.
Ed
io. che sono in tante pene immersa,
quando avanti il suo
raggio almo mi viene,
resto da quel ch'esser solea
diversa.
CXXVII
Su,
speranza, su fé, prendete l'armi
contra questa crudel
nemica mia,
importuna e spietata gelosia,
che cerca quanto
può di vita trarmi;
diasi
uscita a' sospir, verghinsi carmi,
sì che si sfoghi
tanta pena ria;
trovisi dolce e grata compagnia,
sì
che possa il dolor men danno farmi.
E,
se questo non basta, un altro amore
si prenda, e lassi questo
onde ora avampo,
e così vinca l'un l'altro
dolore.
Perch'ogni fèra
in selva, in prato, in campo
cerca per natural forza e
vigore
di tentar ogni via per lo suo
scampo.
CXXVIII
S'io
'l dissi mai, signor, che mi sia tolto
l'arder per voi,
com'ardo in fiamma viva;
s'io 'l dissi mai, ch'io resti d'amar
priva,
e resti il cor del suo bel laccio sciolto.
S'io
'l dissi mai, che 'l lume del bel volto,
di cui convien
ch'ognor ragioni e scriva,
a la mia luce di tutt'altro
schiva
non si mostri giamai poco né molto.
S'io
'l dissi mai, che gli uomini a vicenda
tutti, e li dèi,
fortuna disdegnosa
a mio danno, a ruina ultima
accenda.
Ma s'io nol
dissi, e non feci mai cosa
degna del vostro sdegno, omai si
renda
la vita mia, qual fu, lieta e gioiosa.
CXXIX
O
mia sventura, o mio perverso fato,
o sentenzia nemica del mio
bene,
poi che senza mia colpa mi conviene
portar la pena de
l'altrui peccato.
Quando
si vide mai reo condannato
a la morte, a l'essilio, a le
catene
per l'altrui fallo e, per maggior sue pene,
senza
esser dal suo giudice ascoltato.
Io
griderò, signor, tanto e sì forte,
che, se non
li vorrete ascoltar voi,
udranno i gridi miei Amore o
Morte;
e forse alcun
pietoso dirà poi:
- Questa locò per sua
contraria sorte
in troppo crudo luogo i pensier
suoi.
CXXX
Qual
fu di me giamai sotto la luna
donna più sventurata e
più confusa,
poi che 'l mio sole, il mio signor
m'accusa
di cosa, ov'io non ho già colpa
alcuna?
E, per farmi
dolente a via più d'una
guisa, non vuol ch'io possa far
mia scusa;
vuol ch'io tenga lo stil, la bocca chiusa,
come
muto, o fanciul piccolo in cuna.
A
qual più sventurato e tristo reo
di non poter usar la
sua difesa
sì dura legge al mondo unqua si
dèo?
Tal è
la fiamma, ond'hai me, Amor, accesa,
tal è il mio fato
dispietato e reo,
tal è 'l laccio crudel, con che m'hai
presa.
CXXXI
Poiché
da voi, signor, m'è pur vietato
che dir le vere mie
ragion non possa,
per consumarmi le midolle e l'ossa
con
questo novo strazio e non usato,
fin
che spirto avrò in corpo ed alma e fiato,
fin che
questa mia lingua averà possa,
griderò sola in
qualche speco o fossa
la mia innocenzia e più l'altrui
peccato.
E forse ch'averrà
quello ch'avenne
de la zampogna di chi vide Mida,
che sonò
poi quel ch'egli ascoso tenne.
L'innocenzia,
signor, troppo in sé fida,
troppo è veloce a
metter ale e penne,
e, quanto più la chiude altri, più
grida.
CXXXII
Quando
io dimando nel mio pianto Amore,
che così male il mio
parlar ascolta,
mille fiate il dì, non una volta,
ché
mi fere e trafigge a tutte l'ore:
-
Come esser può, s'io diedi l'alma e 'l core
al mio
signor dal dì ch'a me l'ho tolta,
e se ogni cosa dentro
a lui raccolta
è riso e gioia, è scema di
dolore,
ch'io senta
gelosia fredda e temenza,
e d'allegrezza e gioia resti
priva,
s'io vivo in lui, e in me di me son senza?
-
Vo' che tu mora al bene ed al mal viva -
mi risponde egli in
ultima sentenza -
questo ti basti, e questo fa' che
scriva.
CXXXIII
Così,
senza aver vita, vivo in pene,
e, vivendo ov'è gioia,
non son lieta;
così fra viva e morta Amor mi tiene,
e
vita e morte ad un tempo mi vieta.
Tal
la sua sorte a ognun nascendo viene,
tal fu il mio aspro e mio
crudo pianeta;
di sì rio frutto in sitibonde
arene,
senza mai sparger seme, avien ch'io mieta.
E
s'io voglio per me stessa finire
con la vita i tormenti, non
m'è dato,
ché senza vita un uom non può
colpire.
Qual fine Amore e
'l ciel m'abbia serbato
io non so, lassa, e non posso
ridire;
so ben ch'io sono in un misero
stato.
CXXXIV
Queste
rive ch'amai sì caldamente,
rive sovra tutt'altre alme
e beate,
fido albergo di cara libertade,
nido d'illustre e
riposata gente,
chi 'l
crederia? mi son novellamente
sì fattamente fuor del
cor andate,
che di passar con lor le mie giornate
mi doglio
meco e mi pento sovente.
E
tutti i miei disiri e i miei pensieri
mirano a quel bel colle,
ove ora stanza
il mio signor e i suoi due lumi
alteri.
Quivi, per
acquetar la desianza,
spenderei tutta seco volentieri
questa
vita penosa che m'avanza.
CXXXV
Quanto
è questo fatto ora aspro e selvaggio
di dolce, ch'esser
suole, e lieto mare!
Dopo il vostro da noi allontanare
quanta
compassione a me propria aggio,
tanto
ho invidia al bel colle, al pino, al faggio,
che gli fanno
ombra, al fiume, che bagnare
gli suole il piede ed a me nome
dare,
che godono or del vostro vivo raggio.
E,
se non che egli è pur quell'il bel nido,
dove nasceste,
io pregherei che fesse
il ciel lui ermo, lor secchi e quel
torbo:
per questo io
resto, e prego voi, o fido
del mio cor speglio, ove mi tergo e
forbo,
a tornar tosto e serbar le
promesse.
CXXXVI
Chi
mi darà di lagrime un gran fonte,
ch'io sfoghi a pieno
il mio dolor immenso,
che m'assale e trafige, quando io
penso
al poco amor del mio spietato conte?
Tosto
che '1 sol degli occhi suoi tramonte
agli occhi miei, a' quali
è raro accenso,
tanto ha di me non più memoria o
senso,
quanto una tigre del più aspro monte.
Ben
è 'l mio stato e 'l destin crudo e fero,
ché
tosto che da me vi dipartite,
voi cangiate, signor, luogo e
pensiero.
- Io ti scriverò
subito - mi dite -
ch'io sarò giunto al loco ove andar
chero; -
e poi la vostra fede a me
tradite.
CXXXVII
Prendete
il volo tutti in quella parte,
ove sta chi può dar fine
a' miei mali
col raggio sol de' lumi suoi fatali,
o sospir,
o querele al vento sparte.
E
con quanta eloquenzia e con quant'arte
vi detterà colui
c'ha face e strali,
dite a la vita mia pietose quali
dì
provo, quando egli da noi si parte.
E
se con vostri umili modi adorni
potrete far pietoso il vago
aspetto,
sì ch'a star oggimai con noi
ritorni,
non tornate più
voi, ch'io non v'aspetto:
rimanetevi pur in que' soggiorni,
e
venga a me con lui gioia e diletto.
CXXXVIII
Sacro
fiume beato, a le cui sponde
scorgi l'antico, vago ed alto
colle,
ove nacque la pianta ch'oggi estolle
al ciel i rami
e le famose fronde,
ben
fûr le stelle ai tuoi desir seconde,
ché 'l sì
spesso veder non ti si tolle
e 'l far talor la bella pianta
molle,
ch'a me, lassa, sì spesso si nasconde.
Tu
mi dài nome, ed io vedrò se 'n carte
posso con
le virtù che la mi rende,
al secol, che verrà,
famoso farte.
Oh pur non
turbi il ciel, cui sempre offende
la gioia mia, i miei disegni
in parte!
Altri ch'ella so ben che non
m'intende.
CXXXIX
Fiume,
che dal mio nome nome prendi,
e bagni i piedi a l'alto colle e
vago,
ove nacque il famoso ed alto fago,
de le cui fronde
alto disio m'accendi,
tu
vedi spesso lui, spesso l'intendi,
e talor rendi la sua bella
imago;
ed a me che d'altr'ombra non m'appago,
così
sovente, lassa, lo contendi.
Pur,
non ostante che la nobil fronde,
ond'io piansi e cantai con
più d'un verso,
la tua mercé, sì spesso
lo nasconde,
prego 'l ciel
ch'altra pioggia o nembo avverso
non turbi, Anasso, mai le tue
chiar'onde
se non quel sol che da quest'occhi
verso.
CXL
O
rive, o lidi, che già foste porto
de le dolci amorose
mie fatiche,
mentre stavan con noi le luci amiche,
che
sempre accese ne l'interno porto,
quanta
mi deste già gioia e conforto,
tanto mi sète ad
or ad or nemiche,
poi che 'l mio sol (lassa, convien che 'l
diche!)
voi e me ha lasciato a sì gran torto.
Io
cangerei con voi campagne e boschi
e colli e fiumi, là
dove dimora
chi partendo lasciò gli occhi mei
foschi,
e di tornar non fa
pensier ancora,
non ostante, crudel, che ben conoschi
che,
se sta molto, converrà ch'io mora.
CXLI
Sovente
Amor, che mi sta sempre a lato,
mi dice: - Miserella, quale or
fia
la vita tua, poi che da te si svia
lui che soleva far
lieto il tuo stato? -
Io
gli rispondo: - E tu perché mostrato
l'hai a questi
occhi, quando 'l vidi pria,
se ne dovea seguir la morte
mia,
subito visto e subito rubbato? -
Ond'ei
si tace, avvisto del suo fallo,
ed io mi resto preda del mio
male:
quanto mesta e dogliosa, il mio cor sallo!
E,
perch'io preghi, il mio pregar non vale,
per ciò che a
chi devrebbe, ed a chi fàllo,
o poco o nulla del mio
danno cale.
CXLII
Rimandatemi
il cor, empio tiranno,
ch'a sì gran torto avete ed
istraziate,
e di lui e di me quel proprio fate,
che le
tigri e i leon di cerva fanno.
Son
passati otto giorni, a me un anno,
ch'io non ho vostre lettre
od imbasciate,
contro le fé che voi m'avete date,
o
fonte di valor, conte, e d'inganno.
Credete
ch'io sia Ercol o Sansone
a poter sostener tanto
dolore,
giovane e donna e fuor d'ogni ragione,
massime
essendo qui senza 'l mio core
e senza voi a mia
difensione,
onde mi suol venir forza e
vigore?
CXLIII
Quando
fia mai ch'io vegga un dì pietosi
gli occhi, che per
mio mal da prima vidi
in queste rive d'Adria, in questi
lidi
dov'Amor mille lacci aveva ascosi?
Quando
fia mai che libera dir osi,
dato bando a' miei pianti ed a'
miei gridi:
- Or ti conforta, anima cara, or ridi,
or tempo
è ben che godi e che riposi? -
Lassa,
non so; so ben che ad ora ad ora
ho cercato placar o lui o
morte,
e né questa né quello ho mosso
ancora.
Tal è,
misera, il fin, tal è la sorte
di chi troppo altamente
s'innamora:
donne mie, siate a l'invescarvi
accorte.
CXLIV
Ricorro
a voi, luci beate e dive,
a voi che sète le mie fide
scorte,
da poi che 'l cielo, Amor, fortuna e sorte
sono ai
soccorsi miei sì tardi e schive.
Se
per me in voi si spera e 'n voi si vive,
come avien che per
voi pur si comporte
a star lunge da me quest'ore corte,
che
'l mio ben la pietà vostra prescrive?
Deh
non state oggimai da me più lunge!
Fate che questo
breve spazio sia
concesso a me d'avervi sempre
presso;
ché
l'ardente disio tanto mi punge,
che certo finirà la
vita mia,
se non m'è 'l vagheggiarvi ognor
concesso.
CXLV
Liete
campagne, dolci colli ameni,
verdi prati, alte selve, erbose
rive,
serrata valle, ov'or soggiorna e vive
chi può
far i miei dì foschi e sereni,
antri
d'ombre amorose e fresche pieni,
ove raggio di sol non è
ch'arrive,
vaghi augei, chiari fiumi ed aure estive,
vezzose
ninfe, Pan, fauni e sileni,
o
rendetemi tosto il mio signore,
voi che l'avete, o fategli
almen cónta
la mia pena e l'acerbo aspro
dolore:
ditegli che la
vita mia tramonta,
s'omai fra pochi giorni, anzi poch'ore
il
suo raggio a quest'occhi non sormonta.
CXLVI
Come
posso far pace col desio,
o farvi tregua, poi ch'egli pur
vuole,
non essendo qui nosco il suo bel sole,
tranquillo
porto e sole al viver mio?
Egli
fa giorno al suo colle natio,
come a chi nulla o poco incresce
e duole
o 'l morir nostro o 'l pianto o le parole:
lassa,
ch'io nacqui sotto destin rio!
Là
dove converrà che tosto ceda
a morte l'alma o tosto a
noi ritorni
la beltà ch'al mio mal non par che
creda.
Tal qui, fra questi
d'Adria almi soggiorni,
io misera Anassilla, d'Amor
preda,
notte e dì chiamo i miei due lumi
adorni.
CXLVII
-
Or sopra il forte e veloce destriero -
io dico meco - segue
lepre o cerva
il mio bel sole, or rapida caterva
d'uccelli
con falconi o con sparviero.
Or
assal con lo spiedo il cignal fiero,
quando animoso il suo
venir osserva;
or a l'opre di Marte or di Minerva
rivolge
l'alto e saggio suo pensiero.
Or
mangia, or dorme, or leva ed or ragiona,
or vagheggia il suo
colle, or con l'umana
sua maniera trattiene ogni persona.
-
Così, signor,
bench'io vi sia lontana,
sì fattamente Amor mi punge e
sprona,
ch'ogni vostr'opra m'è presente e
piana.
CXLVIII
Se
'l cielo ha qui di noi perpetua cura,
e partisce ad ognun,
come conviene,
che maraviglia è, s'a me diede pene,
e
mi diè vita dispietata e dura?
e
se 'l mio sol di me poco si cura?
se mi vede morir e lo
sostiene?
Ei vince il sol con sue luci serene,
illustre e
bel per studio e per natura.
A
lui convien regnare, a me servire,
vil donna e bassa; e parmi
ancora troppo
ch'egli non sdegni il mio per lui
patire.
Queste ragioni ed
altre insieme aggroppo
meco talor, per dar tregua al
martìre
col desir sempre presto e 'l poter
zoppo.
CXLIX
Sì
come tu m'insegni a sospirare,
arder di fiamma tal, che Etna
pareggia,
pianger di pianto tal, che se n'aveggia
omai
quest'onda e cresca questo mare,
insegnami
anche, Amor, tu che 'l puoi fare,
come men duro il mio signor
far deggia,
come, quando adivien che pietà
chieggia,
possa placarlo al suon del mio pregare.
Ch'io
ti perdono e danni e strazi e torti,
che tu m'hai fatto e fai,
tanti e sì gravi,
ch'io non so come il ciel te lo
comporti;
perché
non fia più pena che m'aggravi,
pur ch'io faccia
pietosi e faccia accorti
gli occhi che del mio cor hanno le
chiavi.
CL
Larghe
vene d'umor, vive scintille,
che m'ardete e bagnate in acqua e
'n fiamma,
sì, che di me omai non resta dramma,
che
non sia tutta pelaghi e faville,
fate
che senta almeno una di mille
aspre mie pene chi mi lava e
'nfiamma,
né di foco che m'arda sente squamma,
né
d'umor goccia che dagli occhi stille.
-
Non son - mi dice Amor - le ragion pari;
egli è nobile
e bel, tu brutta e vile;
egli larghi, tu hai li cieli
avari.
Gioia e tormento al
merto tuo simìle
convien ch'io doni. - In questi stati
vari
io peno, ei gode; Amor segue suo
stile.
CLI
Piangete,
donne, e con voi pianga Amore,
poi che non piange lui, che
m'ha ferita
sì, che l'alma farà tosto partita
da
questo corpo tormentato fuore.
E
se mai da pietoso e gentil core
l'estrema voce altrui fu
essaudita,
dapoi ch'io sarò morta e sepelita,
scrivete
la cagion del mio dolore:
"Per
amar molto ed esser poco amata
visse e morì infelice,
ed or qui giace
la più fidel amante che sia
stata.
Pregale, viator,
riposo e pace,
ed impara da lei, sì mal trattata,
a
non seguir un cor crudo e fugace".
CLII
Io
vorrei pur ch'Amor dicesse come
debbo seguirlo e con qual arte
e stile
possa sperar di far chi m'arde umìle,
o
diporr'io queste amorose some.
Io
ho le forze omai sì fiacche e dome,
sì
spaventosa son tornata e vile,
che, quasi ad Eco imagine
simìle,
di donna serbo sol la voce e 'l nome:
né,
perché le vestigia del mio sole
io segua sempre, come
fece anch'ella,
e risponda a l'estreme sue parole,
posso
indur la mia fiera e dura stella
ad oprar sì ch'ei,
crudo come suole,
s'arresti al suon di mia stanca
favella.
CLIII
Se
poteste, signor, con l'occhio interno
penetrar i segreti del
mio core,
come vedete queste ombre di fuore
apertamente con
questo occhio esterno,
vi
vedreste le pene de l'inferno,
un abisso infinito di
dolore,
quanta mai gelosia, quanto timore
Amor ha dato o
può dar in eterno.
E
vedreste voi stesso seder donno
in mezzo a l'alma, cui tanti
tormenti
non han potuto mai cavarvi, o ponno;
e
tutti altri disir vedreste spenti,
od oppressi da grave ed
alto sonno
e sol quei d'aver voi desti ed
ardenti.
CLIV
Straziami,
Amor, se sai, dammi tormento,
tommi pur lui, che vorrei sempre
presso,
tommi pur, crudo e disleal, con esso
ogni mia pace
ed ogni mio contento,
fammi
pur mesta e lieta in un momento,
dammi più morti con un
colpo stesso,
fammi essempio infelice del mio sesso,
che
per ciò di seguirti non mi pento.
Perché,
volgendo a quei lumi il pensiero,
che vicini e lontani mi son
scorta
per l'aspro, periglioso tuo sentiero,
move
da lor virtù, che 'l cor conforta
sì che, quanto
più sei crudele e fiero,
tanto più facilmente ei
ti comporta.
CLV
Due
anni e più ha già voltato il cielo,
ch'io restai
presa a l'amoroso visco
per una beltà tal, che, dirlo
ardisco,
simil mai non si vide in mortal velo;
per
questo io la divolgo, e non la celo,
e non mi pento, anzi
glorio e gioisco;
e, se donna giamai gradì,
gradisco
questa fiamma amorosa e questo gelo;
e
duolmi sol, se sarà mai quell'ora,
che da me si
disciolga e leghi altronde
la beltà ch'ogni cosa arde e
inamora.
E, se Morte a chi
prega unqua risponde,
la prego che permetta, anzi ch'io
mora,
che non vegga d'altrui l'amata
fronde.
CLVI
Mentr'io
penso dolente a l'ora breve,
che del suo lume fien mie luci
prive,
questi lidi lo sanno e queste rive,
io mi disfaccio
com'al sol la neve;
e quel
che par che più m'annoi e aggreve,
è che 'l
termine mio tant'oltra arrive,
e che prima di vita non mi
prive
morte, a tutt'altri grave, a me sol lieve.
Ché,
s'io morissi innanzi a tanta doglia,
l'anima andrebbe altrove
consolata,
lasciando qui la sua terrena spoglia;
ma
fortuna ed Amor m'hanno lasciata,
perché morend'ognora
più mi doglia,
questa vita penosa che m'è
data.
CLVII
A
che pur dir, o mio dolce signore,
ch'esca frutto da me di lode
degno,
a che alzarmi a sì gradito segno,
a che
scrivendo procacciarmi onore,
se
da quel dì, ch'entrar mi fece Amore
con l'arme de'
vostr'occhi entro 'l suo regno,
voi movete lo stil, l'arte,
l'ingegno,
sensi, spirti, pensier, voglie, alma e
core?
Se da me dunque
nasce cosa buona,
è vostra, non è mia; voi mi
guidate,
a voi si deve il pregio e la corona.
Voi,
non me, da qui indietro omai lodate
di quanto per me s'opra e
si ragiona:
ché l'ingegno e lo stil, signor, mi
date.
CLVIII
Deh
lasciate, signor, le maggior cure
d'ir procacciando in questa
età fiorita
con fatiche e periglio de la vita
alti
pregi, alti onori, alte venture;
e
in questi colli, in queste alme e sicure
valli e campagne,
dove Amor n'invita,
viviamo insieme vita alma e gradita
fin
che 'l sol de' nostr'occhi alfin s'oscure.
Perché
tante fatiche e tanti stenti
fan la vita più dura, e
tanti onori
restan per morte poi subito spenti.
Qui
coglieremo a tempo e rose e fiori,
ed erbe e frutti, e con
dolci concenti
canterem con gli uccelli i nostri
amori.
CLIX
Quella
febre amorosa, che m'atterra
due anni e più e quel
gravoso incarco
ch'io sento, poi ch'Amor mi prese al varco
di
duo begli occhi, onde l'uscir mi serra,
potea
bastare a farmi andar sotterra,
lasciar lo spirto del suo
corpo scarco,
senza voler ch'oltra i suoi strali e
l'arco,
altra febre, altro mal mi fesse guerra.
Padre
del ciel, tu vedi in quante pene
questo misero spirto e questa
scorza
a tormentare Amor e febre viene.
Di
queste febri o l'uno o l'altra smorza,
ché due tanti
nemici non sostiene
donna sì frale e di sì poca
forza.
CLX
Care
stelle, che tutte insieme insieme
con Cupido e Ciprigna vaghe
e pronte
deste il mio cor a quell'altero conte,
che per
premio m'ha poi tolto la speme,
poi
che vedete ch'ei, che nulla teme,
contra voi, contra me alza
la fronte,
vendicate le vostre e le mie onte
con vendette
più crude e più supreme.
E
questo sia non che 'l mio cor mi renda,
ma mi dia il suo, e
rendami la spene,
e così si dia otta per
vicenda.
Fate che 'n
quelle ond'io son or catene
presa e legata, il conte i' leghi
e prenda;
questo strazio al superbo si convene.
CLXI
Verso
il bel nido, ove restai partendo,
ove vive di me la miglior
parte,
quando il sol faticoso torna e parte,
mai sempre
l'ale del disir io stendo.
E
me ad or ad or biasmo e riprendo,
ch'a star con voi non usai
forza ed arte,
sapendo che, da voi stando in disparte,
ben
mille volte al dì moro vivendo.
La
speme mosse il mio dubbioso piede,
che deveste venir tosto a
vedermi,
per arrestar questa fugace vita.
Osservate,
signor, la data fede:
fate, venendo, questi lidi, or
ermi,
cari e gioiosi, e me lieta e gradita.
CLXII
Se
'l fin degli occhi miei e del pensiero
è 'l vedervi e
di voi pensar, mia vita,
poi l'un mi tolse l'empia
dipartita
ch'io fei da voi per non dritto
sentiero,
l'imagin del
sembiante vostro vero
mi sta sempre nel cor fissa e
scolpita,
qual donna in parte, ove sia più gradita
che
gemme oriental, oro od impero.
Ma,
perché l'alma disiosa e vaga,
troppo aggravata
d'amorosa sete,
di questo sol rimedio mal s'appaga,
fate
le luci mie gioiose e liete,
signor, di vostra vista, e questa
piaga
saldate, che voi sol saldar
potete.
CLXIII
Quando
mostra a quest'occhi Amor le porte
de l'immensa bellezza ed
infinita
de l'unico mio sol, l'alma invaghita
de le sue
glorie par che si conforte.
Quando
poi mostra a la memoria a sorte
quelle di crudeltà mai
non udita,
tutta a l'incontro afflitta e sbigottita
resta
preda ed imagine di morte.
E
così vita e morte, e gioie e pene,
e temenza e fidanza,
e guerra e pace
per le tue mani, Amor, d'un luogo
viene.
Né questo
vario stato mi dispiace,
sì son dolci i martìri
e le catene;
ma temo che sarà breve e
fugace.
CLXIV
Occhi
miei lassi, non lasciate il pianto,
come non lascian me téma
e spavento
di veder tosto a noi rubato e spento
il lume
ch'amo e riverisco tanto.
Pregate
morte, se si può, fra tanto
che mi venga essa a cavar
fuor di stento;
perché morir a un tratto è men
tormento,
che viver sempre a mille morti a canto.
Io
direi che pregaste prima Amore
che facesse cangiar voglia e
pensiero
al nostro crudo e disleal signore;
ma
so che saria invan, perché sì fiero,
così
indurato ed ostinato core
non ebbe mai illustre
cavaliero.
CLXV
S'una
vera e rarissima umiltate,
una fé più che marmo
e scoglio salda,
una fiamma ch'abbrucia, non pur scalda,
un
non curar de la sua libertate,
un,
per piacer a le due luci amate,
aver l'alma al morir ardita e
balda,
un liquefarsi come neve in falda
mertan per tempo
omai trovar pietate.
io
devrei pur sperar d'aprir lo scoglio,
ch'intorno al core ha il
mio signor sì sodo,
ch'altrui pregare o strazio anco
non franse.
Ed io ne prego
ardente, come soglio,
Amor e lui, che m'hanno stretto il
nodo,
e san quanto per me si piange e
pianse.
CLXVI
Io
accuso talora Amor e lui
ch'io amo; Amor, che mi legò
sì forte;
lui, che mi può dar vita e dammi
morte,
cercando tôrsi a me per darsi altrui;
ma,
meglio avista, poi scuso ambedui,
ed accuso me sol de la mia
sorte,
e le mie voglie al voler poco accorte,
ch'io de le
pene mie ministra fui.
Perché,
vedendo la mia indegnitade,
devea mirar in men gradito
loco,
per poterne sperar maggior pietade.
Fetonte,
Icaro ed io, per poter poco
ed osar molto, in questa e quella
etade
restiamo estinti da troppo alto
foco.
CLXVII
Poi
che disia cangiar pensiero e voglia
l'empio signor, ch'onoro
ed amo tanto,
senza curar de' fiumi del mio pianto,
e del
mancar de la mia frale spoglia,
io
prego morte, che di qua mi toglia,
perché non abbia
questo crudo il vanto;
o prego Amor, che mi rallenti
alquanto,
poi che de' doni suoi tutta mi spoglia;
sì
che o morta non vegga tanto danno,
o viva e sciolta non lo
stimi molto,
allor che gli occhi altro mirar
sapranno.
Dunque o sia
falso il mio temere e stolto,
o resti sciolta al rinovar de
l'anno,
o queti il corpo in bel marmo
sepolto.
CLXVIII
Che
bella lode, Amor, che ricche spoglie
avrai d'una infiammata
giovenetta,
che t'è stata sì fida e sì
soggetta,
seguendo più le tue che le sue
voglie,
se per te così
tosto si discioglie
da la catena, che l'aveva stretta,
la
qual le piace sì, sì le diletta,
ch'a penar
dolcemente par l'invoglie?
Non
conviene ad un dio l'esser sì lieve,
massimamente
quando il cangiar stato
non è diletto altrui, ma doglia
greve.
Ma tu pur segui il
tuo costume usato,
e fai la gioia mia fugace e
breve,
ritogliendomi il ben che m'hai donato.
CLXIX
A
che più saettarmi, arcier spietato?
Se tu lo fai per
mostrar la tua forza,
io ho già tutto dentro e ne la
scorza
questo misero corpo arso e 'mpiagato.
Se
tu lo fai per farmi un dì placato
chi la mia libertà
mi lega e smorza,
tu speri invan, perché tua poggia ed
orza
nulla rileva il suo legno ostinato.
Egli
si pasce del mio crudo strazio,
quanto è maggior, e de
l'aspre mie pene,
non pur che mai ne sia pentito e
sazio;
ed in una gran téma
mi mantiene
che, fatto d'altra donna, in breve spazio
mi
torrà le sue luci alme e serene.
CLXX
Fammi
pur certa, Amor, che non mi toglia
tempo, fortuna, invidia o
crudeltade
la mia viva ed angelica beltade,
quella
ch'appaga e queta ogni mia voglia;
e
dammi quanto sai tormento e doglia:
che tutto mi sarà
gioia e pietade;
tommi riposo, tommi libertade,
e, se ti
par, tommi anco questa spoglia:
che
per certo io morrò lieta e contenta,
morendo sua, pur
che non vegga io
ch'ella sia fatta d'altra donna, o
senta.
Questa sol tèma
turba il piacer mio,
questa fa ch'a' miei danni non
consenta,
e fa la speme ritrosa al desio.
CLXXI
Voi
potete, signor, ben tôrmi voi
con quel cor d'indurato
diamante,
e farvi d'altra donna novo amante;
di che cosa
non è, che più m'annoi;
ma
non potete già ritormi poi
l'imagin vostra, il vostro
almo sembiante,
che giorno e notte mi sta sempre innante,
poi
che mi fece Amor de' servi suoi;
non
potete ritôrmi quei desiri,
che m'acceser di voi sì
caldamente,
il foco, il pianto, che per gli occhi
verso.
Questi mi fien ne'
miei gravi martìri
dolce sostegno, e la memoria
ardente
del diletto provato, c'han
disperso.
CLXXII
S'una
candida fede, un cor sincero,
una gran riverenza, una
infinita
voglia a servir altrui pronta ed ardita,
un servo
grato al suo signor mai fêro,
devrebbe
pur, signor, l'affetto vero
e la mia fede esser da voi
gradita,
se i vostri onor più cari che la vita
mi
fûr mai sempre, e più ch'oro ed impero.
Ma
poi che mia fortuna mi contende
mercé sì giusta,
poi che a sì gran torto
a schivo il servir mio da voi
si prende,
ciò ch'a
voi piace paziente porto,
sperando pur che Dio, che tutto
intende,
vi faccia un dì de la mia fede
accorto.
CLXXIII
Cantate
meco, Progne e Filomena,
anzi piangete il mio grave
martìre,
or che la primavera e 'l suo fiorire
i miei
lamenti e voi, tornando, mena.
A
voi rinova la memoria e pena
de l'onta di Tereo e le
giust'ire;
a me l'acerbo e crudo dipartire
del mio signore
morte empia rimena.
Dunque,
essendo più fresco il mio dolore,
aitatemi amiche a
disfogarlo,
ch'io per me non ho tanto entro vigore.
E,
se piace ad Amor mai di scemarlo,
io piangerò poi 'l
vostro a tutte l'ore
con quanto stile ed arte potrò
farlo.
CLXXIV
Una
inaudita e nova crudeltate,
un esser al fuggir pronto e
leggiero,
un andar troppo di sue doti altero,
un tôrre
ad altri la sua libertate,
un
vedermi penar senza pietate,
un aver sempre a' miei danni il
pensiero,
un rider di mia morte quando pèro,
un aver
voglie ognor fredde e gelate,
un
eterno timor di lontananza,
un verno eterno senza
primavera,
un non dar giamai cibo a la speranza
m'han
fatto divenir una Chimera,
uno abisso confuso, un mar,
ch'avanza
d'onde e tempeste una marina
vera.
CLXXV
Quasi
uom che rimaner de' tosto senza
il cibo, onde nudrir suol la
sua vita,
più dell'usato a prenderne s'aita,
fin che
gli è presso posto in sua presenza;
convien
ch'innanzi a l'aspra dipartenza
ch'a si crudi digiuni l'alma
invita,
ella più de l'usato sia nodrita,
per poter
poi soffrir si dura assenza.
Però,
vaghi occhi miei, mirate fiso
più de l'usato, anzi
bevete il bene
e 'l bel del vostro amato e caro viso.
E
voi, orecchie, oltra l'usato piene
restate del parlar, ché
'l paradiso
certo armonia più dolce non
contiene.
CLXXVI
Se
voi vedete a mille chiari segni
che tanto ho cara, e non più,
questa vita,
quant'è con voi, quant'è da voi
gradita,
ultimo fin de tutti i miei disegni,
a
che pur con nov'arte e novi ingegni
darmi qualche novella
aspra ferita,
tramando or questa, or quella dipartita,
quasi
ogni pace mia da voi si sdegni?
Se
volete ch'io mora, un colpo solo
m'uccida, sì ch'omai
si ponga fine
ai dispiacervi, al vivere ed al
duolo;
perché così
sta sempre sul confine
di morte l'alma, e mai non prende il
volo,
pensando pur a voi, luci divine.
CLXXVII
Poi
che tu mandi a far tanta dimora,
empia Fortuna, in sì
lontan paese
il chiaro e vivo raggio che m'accese,
empia ed
aversa a' miei disiri ognora,
conveniente
e giusto e degno fôra
che tu mi fossi almen tanto
cortese,
che quest'ore sì brevi avesse spese
qui
meco tutte lui che m'innamora;
sì
che 'l cor e gli orecchi e gli occhi insieme
prendesser cibo a
sostenermi in vita
quel lungo tempo poi ch'ei fia
lontano,
Ma tu stai dura,
ed io mi doglio invano,
dal ciel, da te e poi d'Amor
tradita;
però l'alma di ciò sospira e
geme.
CLXXVIII
Perché
mi sii, signor, crudo e selvaggio,
disdegnoso, inumano ed
inclemente,
perché abbi vòlto altrove
ultimamente
spirto, pensieri, cor, anima e raggio,
non
per questo adivien che 'l foco, ch'aggio
nel petto acceso, si
spenga o s'allente;
anzi si fa più vivo e più
cocente,
quant'ha da te più strazi e fiero
oltraggio.
Ché,
s'io t'amassi come l'altre fanno,
t'amerei solo e seguirei fin
tanto
ch'io ne sentissi utile, e non danno;
ma
per ciò ch'amo te, amo quel santo
lume, che gli occhi
miei visto prima hanno,
convien ch'io t'ami a l'allegrezza e
al pianto.
CLXXIX
Meraviglia
non è, se 'n uno istante
ritraeste da me pensieri e
voglie,
ché vi venne cagion di prender moglie,
e
divenir marito, ov'eri amante.
Nodo
e fé, che non è stretto e costante,
per picciola
cagion si rompe e scioglie:
la mia fede e 'l mio nodo il vanto
toglie
al nodo gordiano ed al diamante.
Però
non fia giamai che scioglia questo
e rompa quella, se non
cruda morte,
la qual prego, signor, che venga presto;
sì
ch'io non vegga con le luci scorte
quello ch'or col pensier
atro e funesto
mi fa veder la mia spietata
sorte.
CLXXX
Certo
fate gran torto a la mia fede,
conte, sovra ogni fé
candida e pura,
a dir che 'n Francia è più salda
e più dura
la fé di quelle donne a chi lor
crede.
Se, come Amor ch'i
pensier dentro vede,
e passa ov'occhio uman non
s'assicura,
penetraste anco voi per mia ventura
ove
l'imagin vostra altera siede,
voi
la vedreste salda come scoglio,
immobilmente appresso del mio
core,
e diporreste meco il vostro orgoglio.
Ma
voi vedete sol quel ch'appar fuore;
per questo io resto,
misera, uno scoglio,
e voi credete poco al mio
dolore.
CLXXXI
Diversi
effetti Amor mi fe' vedere
poco anzi; or mi pascea di
gelosia,
dimostrandomi quanto lieve sia
creder suo quel
ch'a molte può piacere;
or
mi pascea di speme e di piacere,
mostrandomi la fé mai
sempre pria
salda e costante de la gloria mia,
e le
promesse sue secure e vere.
Per
questo or fra tempeste, or fra bonaccia
guidai la barca mia
dubbia e sicura,
vedendo Amor or fosco, or chiaro in
faccia.
Or la speranza più
non m'assicura,
e la temenza vuol ch'io mi disfaccia.
Dir
più non oso, e sallo chi n'ha cura.
CLXXXII
La
vita fugge, ed io pur sospirando
trapasso, lassa, il più
degli anni miei,
né di passarli ardendo mi dorrei,
a
la cagion de' miei sospir mirando;
se
non che non so punto il come o 'l quando
den le mie gioie dar
luogo agli omei;
ché forse a poco a poco m'userei
ad
andar le mie pene sopportando.
Anzi,
misera, io so che sarà tosto,
ché per partenza o
per cangiar volere
il fin de' miei piacer non è
discosto.
E, perch'Amor
mel faccia prevedere,
non è per questo il mio petto
disposto
a poter tanta doglia sostenere.
CLXXXIII
Deh
consolate il cor co' vostri rai
questo almen poco spazio, che
m'avanza
de la vostra vicina lontananza,
ch'io non vedrò
con gli occhi asciutti mai.
Lasciate
i vostri amati colli e gai,
a voi sì cara e a me nemica
stanza,
colli, c'hanno imparato per usanza
a farmi
oltraggio sì sovente omai.
Già
senza voi non fia manco fiorita
la chioma de' bei colli,
dov'io forsi
resterò, senza voi, senza la
vita.
Che cosa è,
conte, a la pietate opporsi,
se non negare a chi dimanda
aita
i suoi pietosi, i suoi dolci
soccorsi?
CLXXXIV
Io
non trovo più rime, onde più possa
lodar vostra
beltà, vostro valore,
e contare i tormenti del mio
core;
sì cresce a quelli e a me manca la
possa.
E, quasi fiamma che
sia dentro mossa,
e non possa sfogar l'incendio fore,
questo
interno disio cresce 'l dolore,
e mi consuma le midolle e
l'ossa;
sì che fra
tutti i beni e tutti i mali,
ch'Amor suol dar, io ho questo
vantaggio,
che quanti sien ridir non posso, e
quali.
Dunque, o tu, vivo
mio lucente raggio,
dammi vigore, o tu dammi, Amor,
l'ali,
ch'io saglia a mostrar fuor quel che 'n cor
aggio.
CLXXXV
Io
penso talor meco quanto amaro
fora il mio stato, se per
qualche sdegno,
o per stimarsi il mio signor più
degno,
mi ritogliesse il suo bel lume e chiaro;
e
mi risolvo che 'l vero riparo,
quando ad essaminar ben tutto
vegno,
per finire i miei mal tutti ad un segno,
saria di
morte il colpo aspro ed avaro.
Ché,
s'io restassi in vita, gli occhi e 'l core,
la speranza, il
disio mi farian guerra,
che prendon sol da lui ésca e
vigore;
dove, s'io fossi
morta e posta in terra,
si porria fin ad un tratto al
dolore,
ch'è vita morte che più morti
atterra.
CLXXXVI
-
Che fia di me - dico ad Amor talora, -
poi che del mio signor
gli occhi sereni
lasseran questi miei di pianto pieni,
fatto
esso d'altri infin a l'ultim'ora?
-
Che fia di me - mi rispond'egli allora, -
ch'arco e saette e
faci e teme e speni
tengo in quegli occhi, e tutti altri miei
beni,
né mai ritrarli io ho potuto ancora?
D'indi
soglio infiammar, d'indi ferire;
or, se come tu di', ce li
ritoglie,
caduta è la mia gloria e 'l nostro ardire.
-
In queste amare e
dispietate voglie
restiam noi due, ed ei segue di gire
carco
e superbo de le nostre spoglie.
CLXXXVII
Se
gran temenza non tenesse a freno
la mia lingua bramosa e 'l
mio disio,
sì ch'io potessi dire al signor mio
come
amando e temendo io vengo meno,
io
spererei che quel di grazie pieno
viso leggiadro, onde
tutt'altro oblio,
quant'è 'l mio stato travagliato e
rio,
tanto lo fesse un dì chiaro e sereno;
e
quello, onde m'avinse e strinse, nodo
non cercherebbe, lassa,
di slegarlo,
allor che più credea che fosse
sodo.
Ma per troppo timor
non oso farlo;
così dentro al mio cor mi struggo e
rodo,
e sol con meco e con Amor ne
parlo.
CLXXXVIII
Quasi
vago e purpureo giacinto,
che 'n verde prato, in piaggia
aprica e lieta,
crescendo ai raggi del più bel
pianeta,
che lo mantien degli onor suoi dipinto,
subito
torna languidetto e vinto,
sì che mai non si vide tanta
pièta,
se di veder gli usati rai gli vieta
nube, che
'l sol abbia coperto e cinto;
tal
la mia speme, ch'ognor s'erge e cresce,
dinanzi a' rai de la
beltà infinita,
onde ogni sua virtute e vigor
esce.
Ma la ritorna poi
fiacca e smarrita
oscura téma, che con lei si
mesce,
che la sua luce tosto fia
sparita.
CLXXXIX
Lassa,
in questo fiorito e verde prato
de le delizie mie, fra sì
fresca erba,
onde, la tua mercé, vo sì
superba,
Amor, poi che 'l mio sol m'hai ritornato,
per
quel ch'a certi segni m'è mostrato,
un empio e venenoso
aspe si serba,
per far la vita mia di dolce acerba
e
avelenarmi il mio felice stato.
Il
che se de' seguir, prego che priva
mi faccia morte e di vita e
di senso,
prima che questa téma giunga a
riva;
perch'a dover provar
dolor sì immenso,
assai meglio è morir che
restar viva,
se le provate mie doglie
compenso.
CXC
Acconciatevi,
spirti stanchi e frali,
a sostener la perigliosa guerra
e
'l colpo, che fortuna empia disserra,
da noi partendo i lumi
miei fatali.
Quanti avete
fin qui tormenti e quali
sofferti, poi che crudo Amor
n'atterra,
son sogni ed ombre, a lato a quei che serra
questa
seconda assenzia strazi e mali.
Perché
contra il dolor mi fece ardita
un poco di virtù, che
aveva allora
che fece il mio signor l'altra partita;
or,
essendo mancata quella ancora,
ed essendo cresciuta la
ferita,
altro schermo non ho, se non ch'io
mora.
CXCI
Comincia,
alma infelice, a poco a poco
a ricever di fiera sorte il
colpo,
a cui pensando sol mi snervo e spolpo,
ed in guai si
converte ogni mio gioco.
L'alta
cagion del nostro chiaro foco
partirà tosto, di che,
lassa, io scolpo
Amore, e 'l crudo mio signor incolpo,
sì
veloce a cangiar pensier e loco.
Sì
che, quando si parte e torna il sole,
non vegga l'occhio tuo
di pianto asciutto,
poi che, dove si può, così
si vuole;
ch'un cor saldo
e costante vince il tutto,
e morte alfine, o 'l tempo, come
suole,
ti trarran fuor di vita e fuor di
lutto.
CXCII
Amor,
lo stato tuo è proprio quale
è una ruota, che
mai sempre gira,
e chi v'è suso or canta ed or
sospira,
e senza mai fermarsi or scende or sale.
Or
ti chiama fedele, or disleale;
or fa pace con teco, ed or
s'adira;
ora ti si dà in preda, or si ritira;
or nel
ben teme, ed or spera nel male;
or
s'alza al cielo, or cade ne l'inferno;
or è lunge dal
lido, or giunge in porto;
or trema a mezza state, or suda il
verno.
Io, lassa me, nel
mio maggior conforto
sono assalita d'un sospetto interno,
che
mi tien sempre il cor fra vivo e morto.
CXCIII
Se
quel grave martìr che il cor m'afflige,
non temprasse
talor cortese Amore,
già mi sarei di vita uscita
fuore,
e varcato averei Cocito e Stige;
ma,
perché quant'ei più m'ange e trafige,
tanto la
gioia poi tempra l'ardore,
tenendo sempre fra due, lassa, il
core,
né al sì, né al no l'alma
s'affige.
Così
d'ambrosia vivo e di veleno,
né di vita o di morte sta
sicura
l'anima, ch'or s'aviva ed or vien meno.
O
strana, o nova, o insolita ventura,
o petto di dolor e noia
pieno,
o diletto, o martìr, che poco
dura!
CXCIV
-
Chi darà lena a la tua stanca vita -
talor dentro nel
cor mi dice Amore, -
or che chi ti suol dar lena e
vigore
s'apparecchia di far da te partita?
Pensando
a ciò, sì a lagrimar m'invita
questo vero e
giustissimo dolore,
che sarei già di vita uscita
fore,
se non che 'l raggio di chi può m'aita.
E
rimango pregando o lui o Morte:
lui, che non parta, o lei, che
a me ne vegna,
sì ch'ei vegga presente tanta
pièta.
Ma al mio
gridare e al mio pregar sì forte
di risponder né
questa né quel degna,
e la sua aita ognun di lor mi
vieta.
CXCV
Voi
vi partite, conte, ed io, qual soglio,
mi rimango di duol
preda e di morte,
e questa o quello ingiurioso e forte
userà
contra me l'usato orgoglio.
Né
potrò farmi a' colpi loro scoglio,
non avendo con me
chi mi conforte,
il vostro viso e le due fide scorte,
che
ne' perigli per iscudo toglio.
Deh,
foss'io certa almen che di due cose
seguisse l'una: o voi
tornaste presto,
o fossero anche in voi fiamme
amorose!
Ché mi
sarebbe schermo e quello e questo
in far meno l'assenzie mie
penose,
e 'l vostro dipartir meno
molesto.
CXCVI
Ecco,
Amor, io morrò, perché la vita
si partirà
da me, e senza lei
tu sei certo ch'io viver non potrei,
ché
saria cosa nova ed inaudita.
Quanto
a me, ne sarò poco pentita,
perché la lunga
istoria degli omei,
de' sospir, de' martìr, de' dolor
miei
sarà per questo mezzo almen finita;
mi
dorrà sol per conto tuo, che poi
non avrai cor sì
saldo e sì costante,
dove possi aventar gli strali
tuoi;
e le vittorie tue,
le tante e tante
tue glorie perderanno i pregi suoi,
al
cader di sì fida e salda amante.
CXCVII
Chi
'l crederia? Felice era il mio stato,
quando a vicenda or
doglia ed or diletto,
or téma, or speme m'ingombrava il
petto,
e m'era il cielo or chiaro ed or turbato;
perché
questo d'Amor fiorito prato
non è a mio giudicio a pien
perfetto,
se non è misto di contrario effetto,
quando
la noia fa il piacer più grato.
Ma
or l'ha pieno sì di spine e sterpi
chi lo può
fare, e svelti i fiori e l'erba,
che sol v'albergan venenosi
serpi.
O fé
cangiata, o mia fortuna acerba!
Tu le speranze mie recidi e
sterpi:
la cagion dentro al petto mio si
serba.
CXCVIII
Se
soffrir il dolore è l'esser forte,
e l'esser forte è
virtù bella e rara,
ne la tua corte, Amor, certo
s'impara
questa virtù più ch'in ogn'altra
corte,
perché non è
chi teco non sopporte
de' dolori e di téme le
migliara
per una luce in apparenza chiara,
che poi scure
ombre e tenebre n'apporte.
La
continenzia vi s'impara ancora,
perché da quello, onde
s'ha più disio,
per riverenza altrui s'astien
talora.
Queste virtuti ed
altre ho imparate io
sotto questo signor, che sì
s'onora,
e sotto il dolce ed empio signor
mio.
CXCIX
Signor,
ite felice ove 'l disio
ad or ad or più chiaro vi
richiama
a far volar al ciel la vostra fama,
secura da la
morte e da l'oblio;
ricordatevi
sol come rest'io,
solinga tortorella in secca rama,
che
senza lui, che sol sospira e brama,
fugge ogni verde pianta e
chiaro rio.
Al mio cor
fate cara compagnia,
il vostro ad altra donna non donate,
poi
che a me sì fedel nol deste pria.
Sopra
tutto tornar vi ricordate,
e, s'avien che fia quando estinta
io sia,
de la mia rara fé non vi
scordate.
CC
Al
partir vostro s'è con voi partita
ogni mia gioia ed
ogni mia speranza,
l'ardir, la forza, il core e la baldanza,
e
poco men che l'anima e la vita:
e
restò sol, più che mai fosse ardita,
l'importuna
ed ardente disianza,
la quale in questa vostra lontananza
mi
dà, misera me! doglia infinita.
E,
se da voi non vien qualche conforto
o di lettra o di messo o
di venire,
certo, signor, il viver mio fia corto;
perché
in amor non è altro il morire,
per quel ch'a mille e
mille prove ho scorto,
che aver poca speranza e gran
disire.
CCI
-
È questa quella viva e salda fede,
che promettevi a la
tua pastorella,
quando, partendo a la stagion
novella,
n'andasti ove gran re gallico siede?
O
di quanto il sol scalda e quanto vede
perfido, ingrato in atto
ed in favella;
misera me, che ti divenni ancella
per
riportarne sì scarsa mercede!
Così
l'afflitta e misera Anassilla
lungo i bei lidi d'Adria iva
chiamando
il suo pastor, da cui 'l ciel dipartilla;
e
l'acque e l'aure, dolce risonando,
allor che 'l sol più
arde e più sfavilla,
i suoi sospir al ciel givan
portando.
CCII
Poi
che per mio destin volgeste in parte
piedi e voler, onde
perdei la spene
di riveder più mai quelle serene
luci,
c'ho già lodate in tante carte,
io
mi volsi al gran Sole, e con quell'arte
e quella luce, che da
lui sol viene,
trassi fuor da le sirti e da l'arene
il
legno mio per via di remi e sarte.
La
ragion fu le sarte, e i remi fûro
la volontà, che
a l'ira ed a l'orgoglio
d'Amor si fece poi argine e
muro.
Così, senza
temer di dar in scoglio,
mi vivo in porto omai queto e
sicuro;
d'un sol mi lodo, e di nessun mi
dog1io.
CCIII
Ardente
mio disir, a che, pur vago
de' nostri danni, in parte stendi
l'ale,
ov'è cui de' miei strazi poco cale,
e del mio
trar fuor di quest'occhi un lago?
Ben
si può del mio stato esser presago
il partir de la
speme fiacca e frale,
e la memoria, che sì poco
assale
quel de le voglie mie tiranno e mago.
Egli
a novi diletti aperto ha 'l seno,
e di me sì fedele ha
quella cura,
che di chi non si vede e' si può
meno.
Dunque tu di tornar
a me procura,
ché 'l turbar la mia pace e '1 mio
sereno
è troppo intempestiva cosa e
dura.
CCIV
Virtuti
eccelse e doti illustri e chiare,
ch'alzate al cielo il mio
real signore,
sol co' passi di gloria e d'alto onore
già
giunto in parte, ove non ha più pare;
voi,
voi sol voglio volgermi ad amare,
temprando il mio focoso e
cieco amore,
guidato sol da tenebre ed errore,
ove ambedue
potrà forse annoiare.
Or,
racquistato alquanto del mio lume,
potrò specchiarmi in
quel bel raggio ardente,
che da prima m'elessi per mio
nume;
e di cibo miglior
pascer la mente,
dove io pasceva i sensi per costume
di
cosa, che si fugge via repente.
CCV
Quel
disir, che fu già caldo ed ardente
a bellezza seguir
fugace e frale,
l'alta mercé di Dio, prese ha già
l'ale,
ed è rivolto a più fido
oriente,
seguendo del mio
conte solamente
quella interna bellezza e senza eguale,
che
con fortuna non scende e non sale,
e del tempo e d'altrui cura
niente.
Da qui indietro il
suo sommo valore,
la cortesia e 'l saggio alto
intelletto,
d'alte opre vago e di perpetuo onore,
saran
più degna fiamma del mio petto,
e più degno
ricetto del mio core,
e de le rime mie più degno
oggetto.
CCVI
Canta
tu, musa mia, non più quel volto,
non più quegli
occhi e quell'alme bellezze,
che 'l senso mal accorto par che
prezze,
in quest'ombre terrene impresso e involto;
ma
l'alto senno in saggio petto accolto,
mille tesori e mille
altre vaghezze
del conte mio, e tante sue grandezze,
ond'oggi
il pregio a tutti gli altri ha tolto.
Or
sarà il tuo Castalio e 'l tuo Parnaso
non fumo ed
ombra, ma leggiadra schiera
di virtù vere, chiuse in
nobil vaso.
Quest'è
via da salir a gloria vera,
questo può farti da l'orto
a l'occaso
e di verace onor chiara ed
altera.
CCVII
Poi
che m'hai resa, Amor, la libertade,
mantiemmi in questo dolce
e lieto stato,
sì che 'l mio cor sia mio, sì
come è stato
ne la mia prima giovenil etade;
o,
se pur vuoi che dietro a le tue strade,
amando, segua il mio
costume usato,
fa' ch'io arda di foco più temprato,
e
che, s'io ardo, altrui n'abbia pietade;
perché
mi par veder, a certi segni,
che ordisci novi lacci e nove
faci,
e di ritrarmi al giogo tuo t'ingegni.
Serbami,
Amor, in queste brevi paci,
Amor, che contra me superbo
regni,
Amor, che nel mio mal sol ti
compiaci.
CCVIII
Amor
m'ha fatto tal ch'io vivo in foco,
qual nova salamandra al
mondo, e quale
l'altro di lei non men stranio animale,
che
vive e spira nel medesmo loco.
Le
mie delizie son tutte e 'l mio gioco
viver ardendo e non
sentire il male,
e non curar ch'ei che m'induce a tale
abbia
di me pietà molto né poco.
A
pena era anche estinto il primo ardore,
che accese l'altro
Amore, a quel ch'io sento
fin qui per prova, più vivo e
maggiore.
Ed io d'arder
amando non mi pento,
pur che chi m'ha di novo tolto il
core
resti de l'arder mio pago e contento.
CCIX
Io
non veggio giamai giunger quel giorno,
ove nacque Colui che
carne prese,
essendo Dio, per scancellar l'offese
del
nostro padre al suo Fattor ritorno,
che
non mi risovenga il modo adorno,
col quale, avendo Amor le
reti tese
fra due begli occhi ed un riso, mi prese;
occhi,
ch'or fan da me lunge soggiorno;
e
de l'antico amor qualche puntura
io non senta al desire ed al
cor darmi,
sì fu la piaga mia profonda e dura.
E,
se non che ragion pur prende l'armi
e vince il senso, questa
acerba cura
sarebbe or tal che non potrebbe
aitarmi.
CCX
Veggio
Amor tender l'arco, e novo strale
por ne la corda e saettarmi
il core,
e, non ben saldo ancor l'altro dolore,
nova piaga
rifarmi e novo male;
e sì
il suo foco m'è proprio e fatale,
sì son preda e
mancipio ognor d'Amore,
che, perché l'alma vegga il suo
migliore,
ripararsi da lui né vuol né
vale.
Ben è ver che
la tela, che m'ordisce,
sempre è di ricco stame; e
quindi aviene
che ne' suoi danni il cor père e
gioisce;
e 'l ferro è
tale, onde a ferirmi or viene,
che si può dir che chi
per lui perisce
prova sol una vita e sommo
bene.
CCXI
Qual
sagittario, che sia sempre avezzo
trarre ad un segno, e mai
colpo non falla,
o da propria vaghezza tratto o dalla
spene
c'ha da ritrarne onore e prezzo,
Amor,
che nel mio mal mai non è sezzo,
torna a ferirmi il
cor, né mai si stalla,
e la piaga or risalda apre e
rifalla;
né mi val s'io 'l temo o s'io lo
sprezzo.
Tanto di me ferir
diletto prende,
e tal n'attende e merca onor, ch'omai,
per
quel ch'io provo, ad altro non intende.
Il
vivo foco, ond'io arsi e cantai
molti anni, a pena è
spento, che raccende
d'un altro il cor, che tregua non ha
mai.
CCXII
Che
farai, alma? ove volgerai il piede?
qual sentir prenderai, che
più ti vaglia?
Tornerai a seguir Amor, che smaglia
ogni
lorica, quando irato fiede?
o,
stanca e sazia de le tante prede
fatte di te ne l'aspra sua
battaglia,
t'armerai sì che, perch'ei pur
t'assaglia,
non ti vincerà più qual suole e
crede?
Il ritrarsi è
sicuro, e 'l contrastare
è glorioso; e l'ésca,
che ci mostra,
è tal, che può nocendo anco
giovare.
Non perde e non
vince anco uom che non giostra;
in queste imprese perigliose e
rare
si potria far maggior la gloria
nostra.
CCXIII
Un
veder tôrsi a poco a poco il core,
misera, e non dolersi
de l'offesa;
un veder chiaro la sua fiamma accesa
negli
altrui lumi e non fuggir l'ardore;
un
cercar volontario d'uscir fore
de la sua libertà poco
anzi resa;
un aver sempre a l'altrui voglia intesa
l'alma
vaga e ministra al suo dolore;
un
parer tutto grazia e leggiadria
ciò che si vede in un
aspetto umano,
se parli o taccia, o se si mova o
stia,
son le cagion ch'io
temo non pian piano
cada nel mar del pianto, ov'era pria,
la
vita mia; e prego Dio che 'nvano.
CCXIV
La
piaga, ch'io credea che fosse salda
per la omai molta assenzia
e poco amore
di quell'alpestro ed indurato core,
freddo più
che di neve fredda falda,
si
desta ad or ad ora e si riscalda,
e gitta ad or ad or sangue
ed umore;
sì che l'alma si vive anco in timore
ch'esser
devrebbe omai sicura e balda.
Né,
perché cerchi agiunger novi lacci
al collo mio, so far
che molto o poco
quell'antico mio nodo non m'impacci.
Si
suol pur dir che foco scaccia foco;
ma tu, Amor, che 'l mio
martìr procacci,
fai che questo in me, lassa, or non ha
loco.
CCXV
Qual
darai fine, Amor, a le mie pene,
se dal cenere estinto d'un
ardore
rinasce l'altro, tua mercé, maggiore,
e sì
vivace a consumar mi viene?
Qual
ne le più felici e calde arene,
nel nido acceso sol di
vario odore,
d'una fenice estinta esce poi fore
un verme,
che fenice altra diviene.
In
questo io debbo a' tuoi cortesi strali,
che sempre è
degno ed onorato oggetto
quello, onde mi ferisci, onde
m'assali.
Ed ora è
tale e tanto e sì perfetto,
ha tante doti a la bellezza
eguali,
che arder per lui m'è sommo, alto
diletto.
CCXVI
D'esser
sempre ésca al tuo cocente foco
e sempre segno a' tuoi
pungenti strali,
d'esser sempre ministra de' miei mali
ed
aver sempre i miei tormenti a gioco,
io
non mi doglio, Amor, molto né poco,
poi che dal dì,
che 'l desir prese l'ali,
mi son fatti i martìr propri
e fatali,
e libertade in me non ha più loco.
Pur
che tu mi conservi in questo stato,
dov'or m'hai posta, e
sotto quel signore,
onde il cor novamente m'hai
legato,
o mi fia dolce, o
tornerà minore
quanto son per provar, quanto ho
provato
la sua rara bellezza e 'l suo
valore.
CCXVII
A
che bramar, signor, che venga manco
quel che avete di me
disire e speme,
s'Amor, poi che per lui si spera e teme,
i
più giusti di lor non vide unquanco?
Che
vuol dir ch'ogni dì divien più franco,
quel che
di voi desir m'ingombra e preme?
La speme no, che par ch'ognor
si sceme,
vostra mercede, ond'io mi snervo e 'mbianco.
-
Ama chi t'odia, - grida da lontano, -
non pur chi t'ama, - il
Signor, che la via
ci aperse in croce da salire al
cielo.
Riverite la sua
possente mano,
non cercate, signor, la morte mia,
ché
questo è 'l vero et a Dio caro zelo.
CCXVIII
Dove
volete voi ed in qual parte
voltar speme e disio che più
convegna,
se volete, signor, far cosa degna
di quell'amor,
ch'io vo spiegando in carte?
Forse
a Dio? Già da Dio non si diparte
chi d'Amor segue la
felice insegna:
Ei di sua bocca propria pur c'insegna
ad
amar lui e 'l prossimo in disparte.
Or,
se devete amar, non è via meglio
amar me, che v'adoro e
che ho fatto
del vostro vago viso tempio e
speglio?
Dunque amate, e
servate, amando, il patto
c'ha fatto Cristo; ed amando io vi
sveglio
che amiate cor, che ad amar voi sia
atto.
CCXIX
Ben
si convien, signor, che l'aureo dardo
Amor v'abbia aventato in
mezzo il petto,
rotto quel duro e quel gelato affetto,
tanto
a le fiamme sue ritroso e tardo,
avendo
a me col vostro dolce sguardo,
onde piove disir, gioia e
diletto,
l'alma impiagata e 'l cor legato e stretto
oltra
misura, onde mi struggo ed ardo.
Men
dunque acerbo de' parer a vui
esser nel laccio aviluppato e
preso,
ov'io sì stretta ancor legata fui.
Zelo
d'ardente caritate acceso
esser conviene eguale omai fra
nui
nel nostro dolce ed amoroso peso.
CCXX
Signor,
poi che m'avete il collo avinto
di sì tenace nodo e
così forte,
poi che a me piace, ed Amor vuol ch'io
porte
nel cor voi solo e nullo altro dipinto,
a
voi convien per quel gentil instinto,
che natura e virtù
v'han dato in sorte,
volger pietoso le due fide scorte
verso
chi di suo grado avete vinto.
Carità,
pace, fede ed umiltate
sian le nostr'armi, onde si meni
vita
rado o non mai menata in altra etate.
E
sia chi dica: - O coppia alma e gradita,
ben avesti le stelle
amiche e grate,
sì dolcemente in un voler
unita!
CCXXI
A
mezzo il mare, ch'io varcai tre anni
fra dubbi venti, ed era
quasi in porto,
m'ha ricondotta Amor, che a sì gran
torto
è ne' travagli miei pronto e ne' danni;
e
per doppiare a' miei disiri i vanni
un sì chiaro
oriente agli occhi ha pòrto,
che, rimirando lui, prendo
conforto,
e par che manco il travagliar m'affanni.
Un
foco eguale al primo foco io sento,
e, se in sì poco
spazio questo è tale,
che de l'altro non sia maggior,
pavento.
Ma che poss'io,
se m'è l'arder fatale,
se volontariamente andar
consento
d'un foco in altro, e d'un in altro
male?
CCXXII
-
Dimmi per la tua face,
Amor, e per gli strali,
per questi,
che mi dàn colpi mortali,
e quella, che mi sface,
onde
avien che non osi
ferir il mio signore,
altero de' tuoi
strazi e del mio core,
in sembianti pietosi?
- Ove anniderò
poi -
mi risponde ei, - s'io perdo gli occhi
suoi?
CCXXIII
Così
m'impresse al core
la beltà vostra Amor co' raggi
suoi,
che di me fuor mi trasse e pose in voi;
or che son
voi fatt'io,
voi meco una medesma cosa sète,
onde al
ben, al mal mio,
come al vostro, pensar sempre devete;
ma
pur, se al fin volete
che il vostro orgoglio la mia vita
uccida,
pensate che di voi sète
omicida.
CCXXIV
L'empio
tuo strale, Amore,
è più crudo e più
forte
assai che quel di Morte;
ché per Morte una
volta sol si more,
e tu col tuo colpire
uccidi mille, e non
si può morire.
Dunque, Amore, è men male
la
morte che 'l tuo strale.
CCXXV
Io
veggio spesso Amore
girarsi intorno agli occhi chiari e
vaghi,
dolci del mio cor maghi,
de l'amato e gradito mio
signore.
Quinci par che saetti,
e sian gli strali suoi
gioie e diletti;
queste son armi, che dànno altrui
vita
in luogo di ferita.
CCXXVI
Sapete
voi perché ognun non accende,
e non empie
d'amore
l'infinita beltà del mio signore?
Però
ch'ognun, com'io, non la comprende,
a cui per sorte è
dato
vedervi quel, ch'a tant'altri è vietato;
ché,
se non fosse ciò, le pietre e l'erbe
spirerebbero
ardore,
e girian di tal fiamma alte e
superbe.
CCXXVII
Se
tu credi piacere al mio signore,
come si vede chiaro,
Amor
empio ed avaro,
poi che non gli hai pur tócco l'alma e
'l core;
e, come è anche degno,
poi che con gli
occhi suoi mantieni 'l regno;
perché vuoi pur ch'io
moia?
Per dargli biasmo e noia?
biasmo d'esser
crudele,
avendo uccisa donna sì fedele;
noia,
perché, se vive del mio strazio,
chi lo farà poi
sazio?
CCXXVIII
Il
cor verrebbe teco,
nel tuo partir, signore,
s'egli fosse
più meco,
poi che con gli occhi tuoi mi prese
Amore.
Dunque verranno teco i sospir miei,
che sol mi son
restati
fidi compagni e grati,
e le voci e gli omei;
e,
se vedi mancarti la lor scorta,
pensa ch'io sarò
morta.
CCXXIX
Qual
fosse il mio martìre
nel vostro dipartire,
voi 'l
potete di qui, signor, stimare,
che mi fu tolto infin il
lagrimare.
E l'umor, che, per gli occhi uscendo fore,
suol
sfogarmi 'l dolore,
in quell'amara e cruda dipartita
mi
negò la sua aita.
mio misero stato,
d'altra donna
non mai visto o provato,
poi che quello, ond'Amor è sì
cortese,
nel maggior uopo a me sola
contese!
CCXXX
Signor,
per cortesia,
non mi dite che, quand'andaste via,
Amor mi
negò 'l pianto
perché, vedendo in me già
spento il foco,
l'acqua non v'avea loco
per temperarlo
alquanto;
anzi dite più tosto che fu tanto
in quel
punto l'ardore,
che diseccò l'umore;
e non potei
mostrare
l'acerba pena mia col lagrimare,
per ciò
che 'l corpo mio, d'ogni umor casso,
o restò tutto
foco, o tutto sasso.
CCXXXI
Le
pene de l'inferno insieme insieme,
appresso il mio gran
foco,
tutte son nulla o poco;
perch'ove non è
speme
l'anima risoluta al patir sempre
s'avezza al duol,
che mai non cangia tempre.
La mia è maggior
noia,
perché gusto talor ombra di gioia
mercé
de la speranza,
e questa varia usanza
di gioir e patire
fa
maggior il martìre.
CCXXXII
Se
'l cibo, onde i suoi servi nutre Amore,
è 'l dolore e
'l martìre,
come poss'io morire
nodrita dal
dolore?
Il semplicetto pesce,
che solo ne l'umor vive e
respira,
in un momento spira
tosto che de l'acqua esce;
e
l'animal, che vive in fiamma e 'n foco,
muor come cangia
loco.
Or, se tu vòi ch'io moia,
Amor, trammi di guai
e pommi in gioia;
perché col pianto, mio cibo
vitale,
tu non mi puoi far male.
CCXXXIII
Beato
insogno e caro,
che sotto oscuro velo m'hai mostrato
il mio
felice stato,
qual potrà ingegno chiaro,
quant'io
debbo e vorrei, giamai lodarte
in vive voci o 'n carte?
Io
per me farò fede,
dovunque esser potrà mia voce
udita,
che, sol la tua mercede,
io son restata in
vita.
CCXXXIV
Deh,
farà mai ritorno agli occhi miei
quel vivo e chiaro
lume,
ond'io vivo e quei veggon per costume?
Potran mai le
mie lagrime e gli omei
far molle chi di lor si pasce e
vive,
che sta da me lontano, e non mi scrive?
Aspro e
selvaggio core,
quest'è la fé
d'Amore?
CCXXXV
Conte,
dov'è andata
la fé sì tosto, che m'avete
data?
Che vuol dir che la mia
è più costante,
che non era pria?
Che vuol dir che, da poi
che voi
partiste, io son sempre con voi?
Sapete voi quel che dirà
la gente,
dove forza d'Amor punto si sente?
- O che conte
crudele!
o che donna fedele!
CCXXXVI
Spesso
ch'Amor con le sue tempre usate
assal la vostra misera
Anassilla,
vi prenderia di lei, conte, pietate
in vederla
et udilla;
perché le pene sue, i suoi cordogli
rompono
i duri scogli;
ma voi state lontano,
ed ella piange
invano.
Veggano Amore e 'l ciel, che 'l tutto vede,
la
vostra rotta e la sua salda fede.
CCXXXVII
S'io
credessi por fine al mio martìre,
certo vorrei
morire;
perché una morte sola
non occide,
consola.
Ma temo, lassa me, che dopo morte
l'amoroso martìr
prema più forte;
e questo posso dirlo, perché
io
moro più volte, e pur cresce il disio.
Dunque per
men tormento
di vivere e penar, lassa,
consento.
CCXXXVIII
Con
quai segni, signor, volete ch'io
vi mostri l'amor mio,
se,
amando e morendo ad ora ad ora,
non si crede per voi, lassa,
ch'io mora?
Aprite lo mio cor, ch'avete in mano,
e, se
l'imagin vostra non v'è impressa,
dite ch'io non sia
dessa;
e, s'ella v'è, a che pungermi invano
l'alma
di sì crudi ami
con dir pur ch'io non v'ami?
Io
v'amo ed amerò fin che le ruote
girin del sol, e più,
se più si puote;
e, se voi nol credete,
è
perché crudo séte.
CCXXXIX
Dal
mio vivace foco
nasce un effetto raro,
che non ha forse in
altra donna paro:
che, quando allenta un poco,
egli par che
m'incresca,
sì chiaro è chi l'accende e dolce
l'ésca.
E, dove per costume
par che 'l foco
consume,
me nutre il foco e consuma il pensare
che 'l foco
abbia a mancare.
CCXL
Deh,
perché soffri, Amor, che disiando
la mia vivace
fede
resti senza mercede,
anzi di vita e di me stessa in
bando?
S'io amo ed ardo fuor d'ogni misura,
perché
si prende a gioco
l'amor mio e 'l mio foco
chi mi vede
morir e non ha cura?
Gli orsi, i leoni e le più crude
fère
move talor pietade
di chi con umiltade
nel
maggior uopo suo mercé lor chiere;
e quella cruda
voglia,
che vive di martìre,
allor suol più
gioire,
quand'avien ch'io più sfaccia e più
m'addoglia.
CCXLI
Donne,
voi che fin qui libere e sciolte
degli amorosi lacci vi
trovate,
onde son io e son tant'altre avolte,
se
di saper che cosa sia bramate
quest'Amor, che signor ha fatto
e dio
non pur la nostra, ma l'antica etate,
è
un affetto ardente, un van disio
d'ombre fallaci, un
volontario inganno,
un por se stesso e 'l suo bene in
oblio,
un cercar suo
malgrado con affanno
quel che o mai non si trova, o, se pur
viene,
avuto, arreca penitenzia e danno,
un
nutrir la sua vita sol di spene,
un aver sempre mai pensieri e
voglie
di fredda gelosia, di dubbi piene,
un
laccio che s'allaccia e non si scioglie,
quando altrui piace,
un gir spargendo seme,
di cui buon frutto mai non si
ricoglie,
una cura
mordace, che 'l cor preme,
un la sua libertate e la sua
gioia
e la sua pace andar perdendo insieme,
un
morir, né sentir perché si moia,
un arder dentro
d'un vivace ardore,
un esser mesta e non sentir la
noia,
un mostrar quel
ch'uom chiude dentr'e fore,
un esser sempre pallido e
tremante,
un errar sempre e non veder l'errore,
un
avilirsi al viso amato innante,
un esser fuor di lui franca ed
ardita,
un non saper tener ferme le piante,
un
aver spesso in odio la sua vita
ed amar più l'altrui,
un esser spesso
or mesta e fosca, or lieta e
colorita,
un ogni studio
in non cale aver messo,
un fugir il comerzio de le genti,
un
esser da sé lunge ed altrui presso,
un
far seco ragioni ed argomenti
e disegni ed imagini, che
poi
tutti qual polve via portano i venti,
un
non dormire a pieno i sonni suoi,
un destarsi sdegnosa ed un
sognarsi
sempre cosa contraria a quel che vuoi,
un
aver doglia e non voler lagnarsi
di chi n'offende, anzi
rivolger l'ira
contra se stesso e sol seco sdegnarsi,
un
veder sol un viso ove si mira,
un in esso affissarsi, benché
lunge,
un gioir l'alma, quando si sospira,
e
finalmente un mal che unge e punge.
CCXLII
Da
più lati fra noi, conte, risuona,
che voi sèt'ito,
ove disio d'onore
sotto Bologna vi sospinge e
sprona,
per mostrar ivi il
vostr'alto valore:
valor degno di tanto cavaliero,
ma non
degno però di tant'amore.
Io,
quando a la ragion volgo il pensiero,
godo meco, e gioisco, e
vo lodando
che così prode amante i ciel mi
diêro.
Ma quando poi
ritorno al senso, quando
penso ai perigli, onde la guerra è
piena,
che Marte a' figli suoi va procacciando,
di
timor in timor, di pena in pena
meno questa noiosa e mesta
vita
(mentre voi foste qui, dolce e serena),
me
accusando ch'io non fossi ardita
di finir con un colpo i dolor
miei,
anzi che voi da me fèste partita.
Felice
è quella donna, a cui li dèi
han dato amante men
illustre in sorte,
e men vago di spoglie e di
trofei;
col qual le sue
dimore lunghe e corte
trapassa lieta, avendol sempre a
lato,
fido, costante, valoroso e forte.
Felice
il tempo antico e fortunato,
quando era il mondo semplice e
innocente,
poco a le guerre, a le rapine usato!
Allor
quella beata e queta gente,
sotto una amica e cara
povertate,
menava i giorni suoi sicuramente.
Allor
le pastorelle inamorate
avean mai sempre seco i lor
pastori,
dai quai non eran mai abbandonate.
Con
lor dai primi matutini albori
scherzavan fin al dipartir del
sole,
lietamente cogliendo e frutti e fiori.
Ed
or di vaghe rose e di viole
tessevan vaghe ghirlandette e
care,
come chi sacri altari onora e cole.
Né
le quiete lor potea turbare
l'émpito de le guerre amaro
ed empio,
che l'umane allegrezze suol cangiare:
guerre
che fan di noi sì crudo scempio,
guerre che turban sì
l'umano stato,
guerre suggetto d'ogni crudo
essempio.
Ben fu fiero
colui, per cui trovato
fu prima il ferro, causa a tanti
mali,
quanti il mondo prova ora ed ha provato.
Le
guerre e le battaglie de' mortali
erano tutte in quella età
novella
contra i semplici e poveri animali;
contra'
quali il pastor, la pastorella
con rete in spalla e con lacci
e con cani
givan cingendo questa selva e quella.
Ma
poi quegli appetiti ingordi, insani
di posseder l'altrui robe
e l'avere
da l'antica pietà si fêr
lontani.
Quindi si
cominciâr prima a vedere
le crude guerre e strepiti de
l'armi,
che fan, misere noi, tanto temere.
Allor
sonare i bellicosi carmi
s'udiro per citade e per
campagne,
contra' quai ogni stil convien che s'armi
Di
lor convien ch'io mi lamenti e lagne:
la lor mercede, il mio
signor m'è lunge;
per lor non è chi, lassa,
m'accompagne.
Voi, se zelo
d'Amor pur poco punge,
cavalier onorati, se si trova
alcun,
cui Marte dal suo ben disgiunge,
dimostrate
in altrui la vostra prova,
perdonate cortesi al signor mio,
in
cui morir e viver sol mi giova.
L'aspetto
suo devria sol far restio
l'émpito d'ogni cruda ed
empia mano,
senza che lo chiedessi umilment'io;
la
qual con quanto posso affetto umano,
con quanta posso estrema
cortesia
(e giunga il prego mio presso e lontano)
prego
ch'ardito alcun di voi non sia
d'offender per un poco un
signor tale,
e turbar seco ancor la vita mia.
E
voi, conte, voi, animo reale,
provato e riprovato in ogni
impresa,
deh, se di me pur poco ancor vi cale,
quando
sarà l'aspra battaglia accesa,
andate cauto, ed abbiate
rispetto
a me, tutta per voi dubbia e sospesa.
E
pensate che sia nel vostro petto
l'anima mia con la vostr'alma
unita,
quasi in suo proprio e suo alto ricetto.
E
sì come pensaste a la partita,
pensate, conte, omai
anco al ritorno,
se voi cercate di tenermi in
vita;
ch'io vi vo
richiamando notte e giorno.
CCXLIII
Dettata
dal dolor cieco ed insano,
vattene al mio signor, lettera
amica,
baciando a lui la generosa mano.
E
digli che dal dì, che la nimica
mia stella me lo tolse,
il cibo mio
è sol noia, dolor, pianto e
fatica.
Ben fu 'l ciel al
mio ben contrario e rio,
ch'a pena mi mostrò l'amato
obietto,
che, misera, da me lo dipartìo.
O
brevi gioie, o fral uman diletto!
o nel regno d'Amor tesor
fugace,
subito mostro e subito intercetto!
Il
bel paese, che superbo giace
fra 'l Rodano e la Mosa, or mi
contende
la suprema cagion d'ogni mia pace.
Mentre
ivi il mio signor gradito intende
a l'onorate giostre, a'
pregi, a' ludi,
di cui sì chiara a noi fama
s'estende,
io, misera, che
'n lui tutti i miei studi,
tutte le voglie ho poste, essendo
lunge,
conven che disiando agghiacci e sudi.
E
sì fiero il martìr m'assale e punge,
ch'io mi
vivo sol d'esso e vivrommi anco
fin che 'l ciel, conte, a me
vi ricongiunge.
Voi, qual
guerrier vittorioso e franco,
ferite altrui con l'onorata
lancia;
io son ferita qui dal lato manco.
O
per me poco aventurosa Francia!
o bel paese, avverso a' miei
disiri,
che 'mpallidir mi fai spesso la
guancia!
Dovunque avien
che gli occhi volga e giri,
non vi trovando voi, conte, mi
resto
senza speranza, preda de' sospiri.
Voi
prometteste ben di scriver presto,
non possendo tornar, per
porger èsca
fra tanto al mio disir atro e
funesto:
non possendo
tornar, per porger ésca
da la memoria vostra la mia
fede,
e che del mio dolor poco v'incresca.
È
questa de l'amor mio la mercede?
e de la vostra fede è
questo il pegno?
Misera donna ch'ad amante
crede!
Credetti amar un
cavalier più degno
e 'l più bel che mai fosse,
ed or m'aveggio
che la credenza mia non giunge al
segno.
Empia fortuna, or
che mi pòi far peggio,
rottemi le promesse di
colui,
senza cui, d'ogni mal preda, vaneggio?
Io
non spero giamai che, come fui
vostra, conte, una volta, non
sia sempre;
così non foste voi, conte,
d'altrui!
Non so perché
la vita non si stempre,
non so com'or con voi ragioni e
scriva,
afflitta sì de l'amorose tempre.
Ma,
lassa, che dich'io? perché mi priva
sì 'l duol
del vero mio conoscimento,
ch'io tema d'una fé tenace e
viva?
Non sète voi
quel pieno d'ardimento,
di senno e di valor, ch'a mille
prove
trovato ho fido cento volte e cento?
Perché
debb'io temer ch'essendo altrove,
da me partito a pena, in voi
sì tosto
novo amor a' miei danni si rinove?
Deh,
dolce conte mio, per quelle e queste
fra noi ore lietissime
passate,
ond'io mi piacqui e voi vi compiaceste,
più
lungamente omai non indugiate
a scrivermi due versi
solamente,
se 'l mio diletto e la mia vita amate.
Ché,
non potendo veder voi presente,
il veder vostre carte darà
certo
qualche soccorso a l'affannata mente.
Questo
al mio grand'amor è picciol merto,
ma sarà
nondimeno ampio ristoro
al faticoso mio poggiar ed
erto.
Ben felice è
lo stato di coloro,
che per buona fortuna e destro fato
han
sempre presso il lor caro tesoro!
Misera
me, che m'è 'l mio ben vietato,
allor che più
bramava e più devea
essergli caramente ognor a
lato!
La mia fortuna
instabilmente rea
mi vi diè tosto e tosto mi vi
tolse,
che maggior danno far non mi potea.
Ma
voi, se dentro il vostro cor s'accolse
giamai vera pietà
di chi v'adora,
di chi più voi, che la sua vita,
volse,
non fate, com'ho
detto, più dimora
di scrivermi e poi far tosto
ritorno,
se non volete comportar ch'io mora,
come
sto per morir di giorno in giorno.
CCXLIV
De
le ricche, beate e chiare rive
d'Adria, di cortesia nido e
d'Amore,
ove sì dolce si soggiorna e vive,
donna,
avendo lontano il suo signore,
quando il sol si diparte, e
quando poi
a noi rimena il matutino albore,
per
isfogar gli ardenti disir suoi,
con queste voci lo sospira e
chiama;
voi, rive, che l'udite, ditel voi.
Tu,
che volando vai di rama in rama,
consorte amata e fida
tortorella,
e sai quanto si tema e quanto s'ama,
quando,
volando in questa parte e 'n quella,
sei vicina al mio ben,
mostragli aperto
in note, ch'abbian voce di
favella:
digli quant'è
'l mio stato aspro ed incerto,
or che, lassa, da lui mi trovo
lunge
per ria fortuna mia e non per merto.
E
tu, che 'n cave e solitarie grotte,
Eco, soggiorni, il suon
de' miei lamenti
rendi a l'orecchie sue con voci
rotte.
E voi, dolci aure
ed amorosi venti,
i miei sospir accolti in lunga schiera
deh
fate al signor mio tutti presenti.
E
voi, che lunga e dolce primavera
serbate, ombrose selve, e
sète spesso
fido soggiorno a questa e a quella
fèra,
mostrate
tutte al mio signore espresso
che non pur i diletti mi son
noia,
ma la vita m'è morte anco senz'esso.
Ei
si portò, partendo, ogni mia gioia,
e, se, tornando
omai, non la rimena,
per forza converrà tosto ch'io
moia.
La speme sola al
viver mio dà lena,
la qual, non tornand'ei, non può
durare,
da soverchio disio vinta e da pena.
Quell'ore,
ch'io solea tutte passare
liete e tranquille, mentre er'ei
presente,
or ch'egli è lunge son tornate
amare.
Ma, lassa, a torto
del suo mal si pente,
a torto chiama il suo destin
crudele,
chi volontario al suo morir consente.
Lassa,
io devea con mie giuste querele
far che non andasse, o far
ch'andando
non desse al vento senza me le vele;
ch'or
non m'andrei dolente lamentando,
né temenza d'oblio, né
gelosia
non m'avrebber di me mandata in bando.
Emendate,
signor, la colpa mia
voi, ritornando ove 'l vostro ritorno
più
che la propria vita si disia.
E,
se rimena il sole un dì quel giorno,
non pensate mai
più da me partire,
ch'io non vi sia da presso notte e
giorno,
poi ch'io mi veggo
senza voi morire.
CCXLV
Musa
mia, che sì pronta e sì cortese
a pianger fosti
meco ed a cantare
le mie gioie d'amor tutte, e
l'offese,
in tempre oltra
l'usato aspre ed amare
movi meco dolente e sbigottita
con
le sorelle a pianger e a gridare
in
questa aspra ed amara dipartita,
che per far me da me stessa
partire
hanno Fortuna e 'l mio signor ordita.
E,
perché forse non potrem supplire
noi soli a tanta
doglia, in parte al pianto
queste rive e quest'onde fa'
venire:
onde, che meco si
compiacquer tanto
de la cara presenza di colui,
ch'or lunge
sospirando io chiamo e canto.
Questi,
Amor, son gli usati frutti tui,
brevissimi diletti e lunghe
doglie,
ch'io provo, che tua serva sono e fui.
Ché,
come toglie agli arbori le foglie
tosto l'autunno, così
di tua mano,
se si dona alcun ben, tosto si toglie.
Tu
mi donasti, ed or mi tien lontano
quanto ben tu puoi darmi, e
quanto vede
di caro il sol, tornando a l'oceàno.
E,
bench'io sia sicura di sua fede,
bench'io riposi in quanto
m'ha promesso,
ne le dolci parole che mi diede,
quando
'l disio m'assale, ch'è sì spesso,
non essendo
qui meco chi l'appaga,
la vita mia è un morir
espresso.
Donne, cui punge
l'amorosa piaga,
di lassar dipartir l'amato bene
non sia
alcuna di voi che sia vaga;
perché
son poi maggior assai le pene
di quel ch'altri si crede o che
s'aspetta,
qualor l'amara disianza viene.
Niuna
cosa a noi piace o diletta,
se non v'è quel che ne la
fa piacere,
quel ch'ogni nostra gioia fa perfetta.
Io
quel che voglio non posso volere,
se quel ch'amo non ho presso
o dintorno,
quel che le noie mie torna in piacere.
Tu,
che fai ora a Lendenara giorno,
almo mio sole, ed a me notte
oscura,
sole, a cui sempre col pensier ritorno,
de
l'alta fede mia sincera e pura
tien'almen la memoria che si
deve,
che durerà fin che mia vita dura.
E,
se degna pietà ti move, in breve
scrivi o vieni o
manda, sì ch'io sia
scema di cura dispietata e
greve.
Ché tanto
durerà la vita mia,
quant'io sarò sicura d'esser
cara
e d'esser presso a chi 'l mio cor desia,
il
mio cor, ch'ora alberga in Lendenara.