Gaspara Stampa



RIME D'AMORE





Allo illustre mio Signore

    Poi che le mie pene amorose, che per amor di V. S. porto scritte in diverse lettere e rime, non han possuto, una per una, non pur far pietosa V. S. verso di me, ma farla né anco cortese di scrivermi una parola, io mi son rissoluta di ragunarle tutte in questo libro, per vedere se tutte insieme lo potranno fare. Qui dunque V. S. vedrà non il pelago delle passioni, delle lagrime e de' tormenti miei, perché è mar senza fondo; ma un piccolo ruscello solo di esse; né pensi V. S. ch'io abbia ciò fatto per farla conoscente della sua crudeltà, perché crudeltà non si può dire, dove non è obligo, né per contristarnela; ma per farla più tosto conoscente della sua grandezza ed allegrarla. Perché, vedendo esser usciti dalla durezza vostra verso di me questi frutti, congeturerà quali saranno quelli, che usciranno dalla sua pietà, se averrà mai che i cieli me la faccino pietosa: o obietto nobile, o obietto chiaro, o obietto divino, poi che tormentando ancora giovi e fai frutto. Legga V. S. dunque, quando averà triegua delle sue maggiori e più care cure, le note delle cure amorose e gravi della sua fidissima ed infelicissima Anassilla; e da questa ombra prenda argomento quali ella le debba provare e sentir nell'animo; ché certo, se accaderà giamai che la mia povera e mesta casa sia fatta degna del ricevere il suo grande oste, che è V. S., io son sicura che i letti, le camere, le sale e tutto racconteranno i lamenti, i singulti, i sospiri e le lagrime, che giorno e notte ho sparse, chiamando il nome di V. S., benedicendo però sempre nel mezzo de' miei maggior tormenti i cieli e la mia buona sorte della cagion d'essi: percioché assai meglio è per voi, conte, morire, che gioir per qualunque. Ma che fo io? Perché senza bisogno tengo V. S. troppo lungamente a noia, ingiuriando anco le mie rime, quasi che esse non sappian dir le lor ragioni, ed abbian bisogno dell'altrui aita? Rimettendomi dunque ad esse, farò fine, pregando V. S., per ultimo guiderdone della mia fedelissima servitù, che nel ricever questo povero libretto mi sia cortese sol di un sospiro, il quale refreschi così lontano la memoria della sua dimenticata ed abbandonata Anassilla. E tu, libretto mio, depositario delle mie lagrime, appreséntati nella più umil forma che saprai, dinanzi al signor nostro, in compagnia della mia candida fede. E, se in recevendoti vedrai rasserenar pur un poco quei miei fatali ed eterni lumi, beate tutte le nostre fatiche e felicissime tutte le nostre speranze; e ti resta seco eternamente in pace.



I

      Voi, ch'ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l'altre prime,
      ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de' miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.
      E spero ancor che debba dir qualcuna:
- Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!
      Deh, perché tant'amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?


II

      Era vicino il dì che 'l Creatore,
che ne l'altezza sua potea restarsi,
in forma umana venne a dimostrarsi,
dal ventre virginal uscendo fore,
      quando degnò l'illustre mio signore,
per cui ho tanti poi lamenti sparsi,
potendo in luogo più alto annidarsi,
farsi nido e ricetto del mio core.
      Ond'io sì rara e sì alta ventura
accolsi lieta; e duolmi sol che tardi
mi fe' degna di lei l'eterna cura.
      Da indi in qua pensieri e speme e sguardi
volsi a lui tutti, fuor d'ogni misura
chiaro e gentil, quanto 'l sol giri e guardi.


III

      Se di rozzo pastor di gregge e folle
il giogo ascreo fe' diventar poeta
lui, che poi salse a sì lodata meta,
che quasi a tutti gli altri fama tolle,
      che meraviglia fia s'alza ed estolle
me bassa e vile a scriver tanta pièta
quel che può più che studio e che pianeta,
il mio verde, pregiato ed alto colle?
      La cui sacra, onorata e fatal ombra
dal mio cor, quasi sùbita tempesta,
ogni ignoranza, ogni bassezza sgombra.
      Questa da basso luogo m'erge, e questa
mi rinnova lo stil, la vena adombra;
tanta virtù nell'alma ognor mi desta!


IV

      Quando fu prima il mio signor concetto,
tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle
gli dier le grazie, e queste doti e quelle,
perch'ei fosse tra noi solo perfetto.
      Saturno diègli altezza d'intelletto;
Giove il cercar le cose degne e belle;
Marte appo lui fece ogn'altr'uomo imbelle;
Febo gli empì di stile e senno il petto;
      Vener gli dié bellezza e leggiadria;
eloquenza Mercurio; ma la luna
lo fe' gelato più ch'io non vorria.
      Di queste tante e rare grazie ognuna
m'infiammò de la chiara fiamma mia,
e per agghiacciar lui restò quell'una.


V

      Io assimiglio il mio signor al cielo
meco sovente. Il suo bel viso è 'l sole;
gli occhi, le stelle, e 'l suon de le parole
è l'armonia, che fa 'l signor di Delo.
      Le tempeste, le piogge, i tuoni e 'l gelo
son i suoi sdegni, quando irar si suole;
le bonacce e 'l sereno è quando vuole
squarciar de l'ire sue benigno il velo.
      La primavera e 'l germogliar de' fiori
è quando ei fa fiorir la mia speranza,
promettendo tenermi in questo stato.
      L'orrido verno è poi, quando cangiato
minaccia di mutar pensieri e stanza,
spogliata me de' miei più ricchi onori.


VI

      Un intelletto angelico e divino,
una real natura ed un valore,
un disio vago di fama e d'onore,
un parlar saggio, grave e pellegrino,
      un sangue illustre, agli alti re vicino,
una fortuna a poche altre minore,
un'età nel suo proprio e vero fiore,
un atto onesto, mansueto e chino,
      un viso più che 'l sol lucente e chiaro,
ove bellezza e grazia Amor riserra
in non mai più vedute o udite tempre,
      fûr le catene, che già mi legâro,
e mi fan dolce ed onorata guerra.
O pur piaccia ad Amor che stringan sempre!


VII

      Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
miri un signor di vago e dolce aspetto,
giovane d'anni e vecchio d'intelletto,
imagin de la gloria e del valore:
      di pelo biondo, e di vivo colore,
di persona alta e spazioso petto,
e finalmente in ogni opra perfetto,
fuor ch'un poco (oimè lassa!) empio in amore.
      E chi vuol poi conoscer me, rimiri
una donna in effetti ed in sembiante
imagin de la morte e de' martiri,
      un albergo di fé salda e costante,
una, che, perché pianga, arda e sospiri,
non fa pietoso il suo crudel amante.


VIII

      Se così come sono abietta e vile
donna, posso portar sì alto foco,
perché non debbo aver almeno un poco
di ritraggerlo al mondo e vena e stile?
      S'Amor con novo, insolito focile,
ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco,
perché non può non con usato gioco
far la pena e la penna in me simìle?
      E, se non può per forza di natura,
puollo almen per miracolo, che spesso
vince, trapassa e rompe ogni misura.
      Come ciò sia non posso dir espresso;
io provo ben che per mia gran ventura
mi sento il cor di novo stile impresso.


IX

      S'avien ch'un giorno Amor a me mi renda,
e mi ritolga a questo empio signore;
di che paventa e non vorrebbe, il core,
tal gioia del penar suo par che prenda;
      voi chiamerete invan la mia stupenda
fede, e l'immenso e smisurato amore,
di vostra crudeltà, di vostro errore
tardi pentite, ove non è chi intenda.
      Ed io cantando la mia libertade,
da così duri lacci e crudi sciolta,
passerò lieta a la futura etade.
      E, se giusto pregar in ciel s'ascolta,
vedrò forse anco in man di crudeltade
la vita vostra a mia vendetta involta.


X

      Alto colle, gradito e grazioso,
novo Parnaso mio, novo Elicona,
ove poggiando attendo la corona,
de le fatiche mie dolce riposo:
      quanto sei qui tra noi chiaro e famoso,
e quanto sei a Rodano e a Garona,
a dir in rime alto disio mi sprona,
ma l'opra è tal, che cominciar non oso.
      Anzi quanto averrà che mai ne canti,
fia pura ombra del ver, perciò che 'l vero
va di lungo il mio stil e l'altrui innanti.
      Le tue frondi e 'l tuo giogo verdi e 'ntero
conservi 'l cielo, albergo degli amanti.
colle gentil, dignissimo d'impero.


XI

      Arbor felice, aventuroso e chiaro.
onde i due rami sono al mondo nati,
che vanno in alto, e son già tanto alzati,
quanto raro altri rami unqua s'alzâro:
      rami che vanno ai grandi Scipi a paro,
o s'altri fûr di lor mai più lodati
(ben lo sanno i miei occhi fortunati,
che per bearsi in un d'essi miraro),
      a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo
piova rugiada, sì che non v'offenda
per avversa stagion caldo, né gelo.
      La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda
verde per tutto; e d'onorato zelo
odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.


XII

      Deh, perché così tardo gli occhi apersi
nel divin, non umano amato volto,
ond'io scorgo, mirando, impresso e scolto
un mar d'alti miracoli e diversi?
      Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi
d'inutil pianto in questo viver stolto,
né l'alma avria, com'ha, poco né molto
di Fortuna o d'Amore onde dolersi.
      E sarei forse di sì chiaro grido,
che, mercé de lo stil, ch'indi m'è dato,
risoneria fors'Adria oggi, e 'l suo lido.
      Ond'io sol piango il mio tempo passato,
mirando altrove; e forse anche mi fido
di far in parte il foco mio lodato.


XIII

      Chi darà penne d'aquila o colomba
al mio stil basso, sì ch'ei prenda il volo
da l'Indo al Mauro e d'uno in altro polo,
ove arrivar non può saetta o fromba?
      e, quasi amara e risonante tromba,
la bellezza, il valor, al mondo solo,
di quel bel viso, ch'io sospiro e còlo,
descriva sì, che l'opra non soccomba?
      Ma, poi che ciò m'è tolto, ed io poggiare
per me stessa non posso ove conviene,
sì che l'opra e lo stil vadan di pare,
      l'udranno sol queste felici arene,
questo d'Adria beato e chiaro mare,
porto de' miei diletti e di mie pene.


XIV

      Che meraviglia fu, s'al primo assalto,
giovane e sola, io restai presa al varco,
stando Amor quindi con gli strali e l'arco,
e ferendo per mezzo, or basso or alto,
      indi 'l signor che 'n rime orno ed essalto
quanto più posso, e 'l mio dir resta parco,
con due occhi, anzi strai, che spesso incarco
han fatto al sole e con un cor di smalto?
      Ed essendo da lato anche imboscate,
sì ch'a modo nessun fess'io difesa,
alla virtute e chiara nobiltate?
      Da tanti e ta' nemici restai presa;
né mi duol, pur che l'alma mia beltate,
or che m'ha vinta, non faccia altra impresa.


XV

      Voi, che cercando ornar d'alloro il crine
per via di stile, al bel monte poggiate
con quante si fe' mai salde pedate,
anime sagge, dotte e pellegrine,
      in questo mar, che non ha fondo o fine,
le larghe vele innanzi a me spiegate,
e gli onori e le grazie ad un cantate,
del mio signor sì rare e sì divine:
      perché soggetto sì sublime e solo,
senz'altra aita di felice ingegno,
può per se stesso al cielo alzarci a volo.
      Io per me sola a dimostrar ne vegno
quanto l'amo ad ognun, quanto lo còlo;
ma de le lode sue non giungo al segno.


XVI

      Sì come provo ognor novi diletti,
ne l'amor mio, e gioie non usate,
e veggio in quell'angelica beltate
sempre novi miracoli ed effetti,
      così vorrei aver concetti e detti
e parole a tant'opra appropriate,
sì che fosser da me scritte e cantate,
e fatte cónte a mille alti intelletti.
      Et udissero l'altre che verranno
con quanta invidia lor sia gita altera
de l'amoroso mio felice danno;
      e vedesse anche la mia gloria vera
quanta i begli occhi luce e forza hanno
di far beata altrui, benché si pèra.


XVII

      Io non v'invidio punto, angeli santi,
le vostre tante glorie e tanti beni,
e que' disir di ciò che braman pieni,
stando voi sempre a l'alto Sire avanti;
      perché i diletti miei son tali e tanti,
che non posson capire in cor terreni,
mentr'ho davanti i lumi almi e sereni,
di cui conven che sempre scriva e canti.
      E come in ciel gran refrigerio e vita
dal volto Suo solete voi fruire,
tal io qua giù da la beltà infinita.
      In questo sol vincete il mio gioire,
che la vostra è eterna e stabilita,
e la mia gloria può tosto finire.


XVIII

      Quando i' veggio apparir il mio bel raggio,
parmi veder il sol, quand'esce fòra;
quando fa meco poi dolce dimora,
assembra il sol che faccia suo viaggio.
      E tanta nel cor gioia e vigor aggio,
tanta ne mostro nel sembiante allora,
quanto l'erba, che pinge il sol ancora
a mezzo giorno nel più vago maggio.
      Quando poi parte il mio sol finalmente,
parmi l'altro veder, che scolorita
lasci la terra andando in occidente.
      Ma l'altro torna e rende luce e vita;
e del mio chiaro e lucido oriente
è 'l tornar dubbio e certa la partita.


XIX

      Come chi mira in ciel fisso le stelle,
sempre qualcuna nuova ve ne scorge,
che non più vista pria, fra tanti sorge
chiari lumi del mondo, alme, fiammelle;
      mirando fisso l'alte doti e belle
vostre, signor, di qualcuna s'accorge
l'occhio mio nova, che materia porge,
unde di lei si scriva e si favelle.
      Ma, sì come non può gli occhi del cielo
tutti, perch'occhio vegga, raccontare
lingua mortal e chiusa in uman velo,
      io posso ben i vostri onor mirare,
ma la più parte d'essi ascondo e celo,
perché la lingua a l'opra non è pare.


XX

      Il bel, che fuor per gli occhi appare, e 'l vago
del mio signor e del suo dolce viso,
è tanto e tal, che fa restar conquiso
ognun che 'l mira, di gran lunga, e pago.
      Ma, se qual è un cervier occhio e mago,
potesse altri mirar intento e fiso
quel che fuor non si mostra, un paradiso
di meraviglie vi vedrebbe, un lago.
      E le donne non pur, ma gli animali,
l'erbe, le piante, l'onde, i venti e i sassi
farian arder d'amor gli occhi fatali.
      Quest'una grazia agli occhi miei sol dassi
in guiderdon di tanti e tanti mali,
per onde a tanto ben poggiando vassi.


XXI

      - S'io, che son dio, ed ho meco tant'armi,
non posso star col tuo signor a prova,
ed è la sua bellezza unica e nova
pronta mai sempre a tante ingiurie farmi,
      come a tuo pro poss'ora io consigliarmi,
e darti il modo, con che tu rimova
per via di preghi, di consiglio o carmi?
      Ti bisogna aspettar tempo o fortuna,
quel saldo ghiaccio, che nel cor si trova,
che ti guidino a questo; ed altra via
non ti posso mostrar, se non quest'una. -
      Così mi dice, e poi si vola via;
ed io mi resto, al sole ed a la luna,
piangendo sempre la sventura mia.


XXII

      Rivolgete talor pietoso gli occhi
da le vostre bellezze a le mie pene,
sì che quant'alterezza indi vi viene,
tanta quindi pietate il cor vi tocchi.
      Vedrete qual martìr indi mi fiocchi,
vedrete vòte le faretre e piene,
che preste a' danni miei sempre Amor tiene,
quando avien che ver' me l'arco suo scocchi.
      E forse la pietà del mio tormento
vi moverà, dov'or ne gite altero,
non lo vedendo voi, qual io lo sento;
      così pensosa io meno, e men voi fiero
ritornerete, e cento volte e cento
benedirete i ciel che mi vi diêro.


XXIII

      Grazie, che fate mai sempre soggiorno
negli occhi ch'amo, e quei poi de le prede,
che fan tante di noi, vostra mercede,
fanno il tempio d'Amor ricco et adorno,
      quando scherzate a que' bei rai d'intorno
co' pargoletti Amor, che v'hanno sede,
fate fede a colui de la mia fede,
che 'n tante carte omai celebro ed orno.
      E, se di Grazie avete il nome e l'opra,
fatemi graziosi que' due giri,
ch'a lo splendor del sol stanno di sopra.
      E, poi c'hanno adescato i miei desiri,
fate (così mai morte non li copra)
che non mi lascin preda de' martìri.


XXIV

      Vengan quante fûr mai lingue ed ingegni,
quanti fûr stili in prosa, e quanti in versi,
e quanti in tempi e paesi diversi
spirti di riverenza e d'onor degni;
      non fia mai che descrivan l'ire e' sdegni,
le noie e i danni, che 'n amor soffersi,
perché nel vero tanti e tali fêrsi,
che passan tutti gli amorosi segni.
      E non fia anche alcun, che possa dire,
anzi adombrar la schiera de' diletti
ch'Amor, la sua mercé, mi fa sentire.
      Voi, ch'ad amar per grazia sète eletti,
non vi dolete dunque di patire;
perché i martir d'Amor son benedetti.


XXV

      -Trâmi - dico ad Amor talora - omai
fuor de le man di questo crudo ed empio,
che vive del mio danno e del mio scempio,
per chi arsi ed ardo ancor, canto e cantai.
      Poi che con tanti miei tormenti e guai
sua fiera voglia ancor non pago od empio,
o di Diana avaro e crudo tempio,
quando del sangue mio sazio sarai? -
      Poi torno a me, e del mio dir mi pento:
sì l'ira, il rimembrar pur lui, mi smorza,
che de' miei non vorrei meno un tormento.
      Con sì nov'arte e con sì nova forza
la bellezza ch'io amo, e ch'io pavento,
ogni senso m'intrica, offusca e sforza.


XXVI

      Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;
piangero, arderò, canterò sempre
(fin che Morte o Fortuna o tempo stempre
a l'ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto)
      la bellezza, il valor e 'l senno a canto,
che 'n vaghe, sagge ed onorate tempre
Amor, natura e studio par che tempre
nel volto, petto e cor del lume santo:
      che, quando viene, e quando parte il sole,
la notte e 'l giorno ognor, la state e 'l verno,
tenebre e luce darmi e tôrmi suole,
      tanto con l'occhio fuor, con l'occhio interno,
agli atti suoi, ai modi, a le parole,
splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.


XXVII

      Altri mai foco, stral, prigione o nodo
sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto
non arse, impiagò, tenne e strinse il petto,
quanto 'l mi' ardente, acuto, acerba e sodo.
      Né qual io moro e nasco, e peno e godo,
mor'altra e nasce, e pena ed ha diletto,
per fermo e vario e bello e crudo aspetto,
che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo.
      Né fûro ad altrui mai le gioie care,
quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio,
mirando a le mie luci or fosche or chiare.
      Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio,
fin che potrò e viver ed amare,
lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.


XXVIII

      Quando innanti ai begli occhi almi e lucenti,
per mia rara ventura al mondo, i' vegno,
lo stil, la lingua, l'ardire e l'ingegno,
i pensieri, i concetti e i sentimenti
      o restan tutti oppressi o tutti spenti,
e quasi muta e stupida divegno;
o sia la riverenza, in che li tegno,
o sia che sono in quel bel lume intenti.
      Basta ch'io non so mai formar parola,
sì quel fatale e mio divino aspetto
la forza insieme e l'anima m'invola.
      O mirabil d'Amore e raro effetto,
ch'una sol cosa, una bellezza sola
mi dia la vita, e tolga l'intelletto!


XXIX

      Mentr'io conto fra me minutamente
le doti del mio conte a parte a parte,
nobilitate, bellezza, ingegno ed arte,
che lo fan chiaro sovra l'altra gente,
      tale e tanto piacer l'anima sente,
che, sendo tutte le sue virtù sparte,
mi meraviglio come non si parte,
volando al ciel per starci eternamente.
      E certo v'anderia, se non temesse
che restasse il suo ben da lei diviso,
e men beato il suo stato rendesse;
      perché 'l suo vero e proprio paradiso,
quello che per bearsi ella si elesse,
è 'l mio dolce signor e 'l suo bel viso.


XXX

      Fra quell'illustre e nobil compagnia
di grazie, che vi fan, conte, immortale,
s'erge più d'altra e vaga stende l'ale
del canto la dolcissima armonia.
      Quella in noi ogni acerba cura e ria
può render dolce, e far lieve ogni male;
quella, quand'Euro più fiero l'assale,
può render queto il mar turbato pria.
      Il giuoco, il riso, Venere e gli Amori
si veggon l'aere far sereno intorno,
ovunque suoni il dolce accento fuori.
      Ed io, potendo far con voi soggiorno,
a l'armonia di quei celesti cori
poco mi curerei di far ritorno.


XXXI

      Chi non sa come dolce il cor si fura,
come dolce s'oblia ogni martìre,
come dolce s'acqueta ogni desire,
sì che di nulla più l'alma si cura,
      venga, per sua rarissima ventura,
una sol volta voi, conte, ad udire,
quando solete cantando addolcire
la terra e 'l cielo e ciò che fe' natura.
      Al suon vedrà degli amorosi accenti
farsi l'aere sereno ed arrestare
l'orgoglio l'acque, le tempeste e i venti.
      E, visto poi quel che potete fare,
crederà ben che tigri orsi e serpenti
arrestasse anche Orfeo col suo cantare.


XXXII

      Per le saette tue, Amor, ti giuro,
e per la tua possente e sacra face,
che, se ben questa m'arde e 'l cor mi sface,
e quelle mi feriscon, non mi curo;
      quantunque nel passato e nel futuro
qual l'une acute, e qual l'altra vivace,
donne amorose, e prendi qual ti piace,
che sentisser giamai né fian, né fûro;
      perché nasce virtù da questa pena,
che 'l senso del dolor vince ed abbaglia,
sì che o non duole, o non si sente appena.
      Quel, che l'anima e 'l corpo mi travaglia,
è la temenza ch'a morir mi mena,
che 'l foco mio non sia foco di paglia.


XXXIII

      Quando sarete mai sazie e satolle
del lungo strazio mio, de le mie pene,
luci, assai più che 'l sol chiare e serene,
ch'ora illustrate il vostro amato colle?
      Quando fia che non sia di pianto molle
il petto mio, ch'a gran pena sostiene
l'anima fuggitiva, or che la spene,
ch'era sì poca, ancora Amor ne tolle?
      Quando fia che vi vegga un dì pietose,
e duri la pietà vostra, e non manchi
tosto, come le lievi e frali cose?
      O non fia, lassa, mai, o saran bianchi
questi crin prima, e quei sensi amorosi,
accesi or sì, saranno freddi e stanchi.


XXXIV

      Sai tu, perché ti mise in mano, Amore,
gli stral tua madre, ed agli occhi la benda?
Perché quella saetti, impiaghi e fenda
i cor di questo e quel fido amatore;
      e con questi non possi veder fuore
de' colpi tuoi la crudeltà stupenda,
sì che pietoso affatto non ti renda,
o almen non tempri l'empio tuo furore.
      Che, se vedessi un dì la piaga mia,
o non saresti dio, ma cruda fèra,
o pietoso o men aspro ti faria.
      Non vorrei già che tu vedessi in cera
i raggi del mio sol; ché ti parria
forse a l'incontro picciola e leggera.


XXXV

      Accogliete benigni, o colle, o fiume,
albergo de le Grazie alme e d'Amore,
quella ch'arde del vostro alto signore,
e vive sol de' raggi del suo lume;
      e, se fate ch'amando si consume
men aspramente il mio infiammato core,
pregherò che vi sieno amiche l'ore,
ogni ninfa silvestre ed ogni nume
      e lascerò scolpita in qualche scorza
la memoria di tanta cortesia
quando di lasciar voi mi sarà forza.
      Ma, lassa, io sento che la fiamma mia,
che devrebbe scemar, più si rinforza,
e più ch'altrove qui s'ama e disia.


XXXVI

      Cesare e Ciro, i vostri fidi spegli,
in cui mai sempre, signor, vi mirate,
poi ch'a seguir le lor chiare pedate
par che ciascun di lor v'infiammi e svegli,
      perché, sì come è stato questi e quegli
essempio di clemenzia e di pietate,
solo in questa virtù v'allontanate
da que' due chiari ed onorati vegli?
      Perché non sète voi mite e clemente
a me vostra prigion, vostra fattura,
come fûr essi a l'acquistata gente?
      Anzi forse voi sète di natura
mite con tutti, e meco solamente
d'aspra e spietata. Oh mia somma sventura!


XXXVII

      Altero nido, ove 'l mio vivo sole
prese da prima il suo terreno incarco;
onde però va più leggero e scarco
di quel che da tutt'altri andar si suole;
      i' vorrei dir, ma non so far parole
di tanti e tanti pregi, onde sei carco;
perché lo stil a l'alta impresa è parco,
e via più a chi t'onora entro e ti cole.
      Perciò mi taccio, e prego 'l ciel che sempre
ti serbi un questo lieto e vago stato,
in queste care e graziose tempre;
      e renda ognor più chiaro e più lodato
il tuo signor e mio, e ch'i' mi stempre
sempre nel mio bel foco alto e pregiato.


XXXVIII

      Qualunque dal mio petto esce sospiro,
ch'escono ad or ad or ardenti e spessi
dal dì che per mio sole gli occhi elessi,
ch'a prima vista a morte mi ferîro,
      vanno verso il bel colle, ove pur miro,
benché lontana, e vanno anche con essi
i miei pensieri e tutti i sensi stessi;
né val s'io li ritengo o li ritiro,
      perché la propria loro e vera stanza
son que' begli occhi e quella alma beltade,
che prima mi destâr la desianza.
      O pur sieno ivi accolti da pietade!
di che non spero, poi che per usanza
vi suol sempre aver luogo crudeltade.


XXXIX

      Se con tutto il mio studio e tutta l'arte
io non posso accennar pur quanto e quale
è 'l foco mio dal dì che 'l primo strale
m'aventò Amor ne la sinistra parte,
      come volete voi signor, che ex parte
l'altrui voglie amorose e l'altrui male
con questa forza stanca e così frale
i' dica in vive voci, o scriva in carte?
      Datemi o 'l ciel più stile o voi men pena,
ond'abbia o più vigor o men martìre,
sì che la vostra voglia resti piena.
      E, se ciò non si può, vostro desire
adempiete da voi, ch'avete vena,
stile ed ingegno eguale al vostro dire.


XL

      Onde, che questo mar turbate spesso,
come turba anco me la gelosia,
venite a starvi meco in compagnia,
poi che mi sète sì care e sì presso:
      così fiero Austro ed Aquilon con esso
men importuno e men crudo vi sia;
così triegua talor Eolo vi dia,
quel ch'a me da l'amor non m'è concesso.
      Lassa, ch'io ho da pianger tanto e tanto,
che l'umor, che per gli occhi verso fore,
è poco o nulla, se fosse altrettanto.
      Voi mi darete voi del vostro umore
quanto mi basti a disfogar il pianto,
che si conviene a l'alto mio dolore.


XLI

      Ahi, se così vi distrignesse il laccio,
come, misera, me strigne ed affrena,
non cerchereste d'una in altra pena
girmi traendo, e d'uno in altro impaccio;
      ma perch'io son di foco e voi di ghiaccio
voi sete in libertade ed io 'n catena,
i' son di stanca e voi di franca lena,
voi vivete contento ed io mi sfaccio.
      Voi mi ponete leggi, ch'a portarle
non basterian le spalle di Milone,
non ch'io debile e fral possa osservarle.
      Seguite, poi che 'l ciel così dispone:
forse ch'un giorno Amor potria mutarle;
forse ch'un dì farà la mia ragione.


XLII

      Tu pur mi promettesti amica pace,
Amor, il dì che tua serva divenni,
mostrandomi i begli occhi, i guardi e i cenni,
ove tua madre alberga e si compiace.
      Ed or, quasi signor empio e fallace,
poi ch'una volta il tuo giogo sostenni,
ad or ad or nove saette impenni,
ed accendi una ed or un'altra face;
      e mi trafigi e mi consumi il core
col mezzo de l'orgoglio di colui,
che tanto gode, quanto altri si more.
      Così, misera me, tradita fui,
giovane incauta, sotto fé d'Amore;
e doler mi vorrei, né so di cui.


XLIII

      Dura è la stella mia, maggior durezza
è quella del mio conte: egli mi fugge,
i' seguo lui; altri per me si strugge,
i' non posso mirar altra bellezza.
      Odio chi m'ama, ed amo chi mi sprezza:
verso chi m'è umìle il mio cor rugge,
e son umìl con chi mia speme adugge;
a così stranio cibo ho l'alma avezza.
      Egli ognor dà cagione a novo sdegno,
essi mi cercan dar conforto e pace;
i' lasso questi, ed a quell'un m'attegno.
      Così ne la tua scola, Amor, si face
sempre il contrario di quel ch'egli è degno:
l'umìl si sprezza, e l'empio si compiace.


XLIV

      Se tu vedessi, o madre degli Amori,
e teco insieme il tuo figlio diletto,
l'accese e vive fiamme del mio petto,
a quali altre fûr mai pari o maggiori;
      se tu vedessi i pelaghi d'umori,
che, dapoi che 'l mio cor ti fu soggetto,
mercé del vago e grazioso aspetto,
per questi occhi dolenti verso fuori;
      so ch'avresti pietà del mio gran pianto
e de la fiamma mia spietata e ria,
che per sfogar talor descrivo e canto.
      Ma voi ferite, e poi fuggite via
più che folgor veloci, ed io fra tanto
resto col pianto e con la fiamma mia.


XLV

      Io vo pur descrivendo d'ora in ora
la beltà vostra e 'l vostro raro ingegno,
e 'l valor d'altro stil, che del mio, degno,
se non quant'ei più d'altro mai v'onora;
      né, perch'io m'affatichi, giungo ancora
di tanti pregi vostri al minor segno,
conte, d'ogni virtù nido e sostegno,
senza cui la mia vita morte fôra.
      Così, s'io prendo a scriver, il mio foco
è tanto e tal, da ch'egli da voi nasce
che s'io ne dico assai, ne dico poco.
      Questo e quello il mio cor nutrisce e pasce
e questo e quel mi dà martir e gioco:
così fui destinata entro le fasce.


XLVI

      Alto colle, almo fiume, ove soggiorno
fan le virtuti e le Grazie e gli Amori,
dal dì che dimostraste al mondo fòri
chi fa me, chi fa lui chiaro et adorno,
      asserena tu 'l fronte, alza tu 'l corno,
tu con nove acque, e tu con novi fiori,
or che fa, colmo anch'ei di novi onori,
il signor vostro e mio a voi ritorno.
      E, poi che fia con voi, per cortesia
oprate sì ch'a me ritorni tosto;
ché viver senza lui poco porìa.
      Così stia 'l verno a voi sempre discosto,
così Flora e Pomona in compagnia
vi faccian sempre aprile e sempre agosto.


XLVII

      Io son da l'aspettar omai sì stanca,
sì vinta dal dolor e dal disio,
per la sì poca fede e molto oblio
di chi del suo tornar, lassa, mi manca,
      che lei, che 'l mondo impalidisce e 'mbianca
con la sua falce e dà l'ultimo fio,
chiamo talor per refrigerio mio,
sì 'l dolor nel mio petto si rinfranca.
      Ed ella si fa sorda al mio chiamare,
schernendo i miei pensier fallaci e folli,
come sta sordo anch'egli al suo tornare.
      Così col pianto, ond'ho gli occhi miei molli,
fo pietose quest'onde e questo mare;
ed ei si vive lieto ne' suoi colli.


XLVIII

      Come l'augel, ch'a Febo è grato tanto,
sovra Meandro, ove suol far soggiorno,
quando s'accosta il suo ultimo giorno,
move più dolci le querele e 'l canto,
      tal io, lontana dal bel viso santo,
sovra il superbo d'Adria e ricco corno,
morte, téma ed orror avendo intorno,
affino, lassa, le querele e 'l pianto.
      E sono in questo a quell'uccel minore:
che per quella, onde venne, istessa traccia
ritorna a Febo il suo diletto olore;
      ed io, perché morendo mi disfaccia,
non pur non torno a star col mio signore,
ma temo che di me tutto gli spiaccia.


XLIX

      Qual sempre a' miei disir contraria sorte
fra la spiga e la man mi s'è trasmessa,
sì che la gioia, che mi fu promessa,
tarda tanto a venir per darmi morte?
      Le mie due vive, due fidate scorte
il signor mio, anzi l'anima stessa,
l'imagin, che nel cor m'è sempre impressa,
perché non batte omai, lassa, a le porte?
      L'alma allargata a questa nova speme
che ristretta nel duol prendea vigore,
mancherà tosto certo, se non viene.
      E saran de' miracoli d'Amore,
ch'un'ombra breve di sperato bene
tolga altrui vita, e dia vita il dolore.


L

      Poi ch'Amor mi ferì di crude ponte,
vostra mercé, qual sète vivo e vero,
v'ho scolpito nel fronte e nel pensiero,
sì che nessun sembiante più s'affronte.
      Il viso stesso, il proprio stesso fronte,
il proprio ciglio umilemente altero,
gli occhi stessi, i due sol de l'emisfero,
le stesse grazie e le fattezze conte;
      in questo il mio ritratto è dissimìle:
ché, qual mi sète, vi mostra alteretto,
là dove sète a tutti gli altri umìle.
      Ora, per far ch'anch'io v'abbia perfetto,
per far ch'anch'io pur v'abbia a voi simìle,
emendate anche meco un tal difetto.


LI

      Vieni, Amor, a veder la gloria mia,
e poi la tua; ché l'opra de' tuoi strali
ha fatto ambeduo noi chiari, immortali,
ovunque per Amor s'ama e disia.
      Chiara fe' me, perché non fui restia
ad accettar i tuoi colpi mortali,
essendo gli occhi, onde fui presa, quali
natura non fe' mai poscia, né pria;
      chiaro fe' te, perché a lodarti vegno
quanto più posso in rime ed in parole
con quella, che m'hai dato, vena e ingegno.
      Or a te si convien far che quel sole,
che mi desti per guida e per sostegno,
non lasci oscure queste luci e sole.


LII

      Beate luci, or se mi fate guerra
voi, donde può venir sol la mia pace;
se 'l viver mio a voi, luci alme, spiace
e la mia vita in voi solo si serra;
      mi converrà (e chi nol crede s'erra)
o viver sempre in guerra aspra e tenace,
o tosto tosto l'anima fugace,
lasciato il corpo, se n'andrà sotterra.
      E così rimarrete senza poi
soggetto, ove possiate essercitare
la crudeltade vostra, Amor e voi.
      Io ne verrò al fine a guadagnare;
ché, morend'un senza peccati suoi,
felicemente suol al ciel poggiare.


LIII

      Se d'arder e d'amar io non mi stanco,
anzi crescermi ognor questo e quel sento,
e di questo e di quello io non mi pento,
come Amor sa, che mi sta sempre al fianco,
      onde avien che la speme ognor vien manco,
da me sparendo come nebbia al vento,
la speme che 'l mio cor può far contento,
senza cui non si vive, e non vissi anco?
      Nel mezzo del mio cor spesso mi dice
un'incognita téma: - O miserella,
non fia 'l tuo stato gran tempo felice;
      ché fra non molto poria sparir quella
luce degli occhi tuoi vera beatrice,
ed ogni gioia tua sparir con ella.


LIV

      Se non temprasse il foco del mio core
l'umor, che verso per gli occhi sì spesso,
io avrei visto già di morte il messo,
e l'alma ad ubidirla uscita fore;
      perché la speme omai cede al timore,
ed ogni cosa mia soggiace ad esso,
poi che si vede a mille segni espresso
che chi può farlo vuole il mio dolore.
      Dunque, s'io vivo, è mercé del mio pianto;
s'io moro, è colpa de le crude voglie
del mio signor, in vista dolce tanto.
      Ei mi legò sì ch'altri non mi scioglie,
ei vuol aver de la mia morte il vanto.
O poco chiare ed onorate spoglie!


LV

      Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera
imitate e vincete la natura,
formando questa e quell'altra figura,
che poi somigli a la sua forma vera,
      venite tutti in graziosa schiera
a formar la più bella creatura,
che facesse giamai la prima cura,
poi che con le sue man fe' la primiera.
      Ritraggete il mio conte, e siavi a mente
qual è dentro ritrarlo, e qual è fore;
sì che a tanta opra non manchi niente.
      Fategli solamente doppio il core,
come vedrete ch'egli ha veramente
il suo e 'l mio, che gli ha donato Amore.


LVI

      Ritraggete poi me da l'altra parte,
come vedrete ch'io sono in effetto:
viva senz'alma e senza cor nel petto
per miracol d'Amor raro e nov'arte;
      quasi nave che vada senza sarte,
senza timon, senza vele e trinchetto,
mirando sempre al lume benedetto
de la sua tramontana, ovunque parte.
      Ed avvertite che sia 'l mio sembiante
da la parte sinistra afflitto e mesto;
e da la destra allegro e trionfante:
      il mio stato felice vuol dir questo,
or che mi trovo il mio signor davante;
quello, il timor che sarà d'altra presto.


LVII

      A che, signor affaticar invano
per ritrarvi e scolpirvi in marmi o in carte,
o gli altri c'hanno fama di quest'arte,
o 'l chiaro Buonaroti o Tiziano,
      se scolpito qual sète aperto e piano
v'ho nel petto e nel fronte a parte a parte,
sì che l'imagin d'indi unqua non parte,
perché siate voi presso o pur lontano?
      Ma forse voi volete esser ritratto
in sembiante leale e grazioso,
qual sète a tutti in ogn'opra in ogn'atto;
      dove, lassa, ch'a pena dirvel oso,
vi porto impresso, qual vi provo in fatto,
un pochetto incostante e disdegnoso.


LVIII

      Deh perché non ho io l'ingegno e l'arte
di Lisippo e d'Apelle, onde potessi
il viso, che per sole al mondo elessi,
dipinger e scolpir in qualche parte,
      poi che non posso ben ritrarr'in carte,
com'avrian con lo stile ritratto essi,
le mie due stelle, la cui luce impressi
pria sì nel cor, che d'indi non si parte?
      Perch'io rimarrei sol con un tormento
d'amar e sospirar, e 'l cor saria
d'ogni altra cura poi pago e contento;
      dov'or piango l'acerba pena mia,
e piango ch'atta a pinger non mi sento
al mondo il mio bel sol quanto devria.


LIX

      Quelle lagrime calde e quei sospiri,
che vedete ch'io spargo sì cocenti
da poter arrestar il mar co' venti,
quando avien ch'ei più frema e più s'adiri,
      come potete voi coi vostri giri
rimirar non pur queti, ma contenti ?
O cor di fère tigri e di serpenti,
che vive sol de' duri miei martìri!
      Deh prolungate almen per alcun'ore
questa vostra ostinata dipartita,
fin che m'usi a portar tanto dolore;
      perciò ch'a così sùbita sparita
io potrei de la vita restar fuore,
sol per servir a voi da me gradita.


LX

      Quinci Amor, quindi cruda empia Fortuna
m'affligon sì, che non so com'io possa
riparar questa e quell'altra percossa,
che mi dànno a vicenda or l'altro or l'una.
      Aer, mar, terra, ciel, sol, stelle e luna,
con quant'ha più ciascuna orgoglio e possa
a danno mio, a mia ruina mossa,
lassa, mi si mostrò fin da la cuna.
      E quel ch'è sol il mio fido sostegno,
per accrescermi duol, fra sì brev'ora
partirassi da me senza ritegno.
      Almen venisse acerba morte ancora,
mentr'io dolente mi lamento e sdegno,
da le man di tant'oste a trarmi fòra!


LXI

      Chi mi darà soccorso a l'ora estrema,
che verrà morte a trarmi fuor di vita
tosto, dopo l'acerba dipartita,
onde fin d'ora il cor paventa e trema?
      Madre e sorella no, perché la téma
questa e quella a dolersi meco invita,
e poi per prova omai la lor aita
non giova a questa doglia alta e suprema.
      E le vostre fidate amiche scorte,
che di giovarmi avriano sole il come,
saran lontane in quella altera corte.
      Dunque i' porrò queste terrene some
senza conforto alcun, se non di morte,
sospirando e chiamando il vostro nome.


LXII

      Or che torna la dolce primavera
a tutto il mondo, a me sola si parte;
e va da noi lontana in quella parte,
ov'è del sol più fredda assai la sfera.
      E que' vermigli e bianchi fior, che 'n schiera
Amor nel viso di sua man comparte
del mio signor, del gran figlio di Marte,
daranno agli occhi miei l'ultima sera,
      e fioriranno a gente, ove non fia
chi spiri e viva sol del lor odore,
come fa la penosa vita mia.
      O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore,
a comportar che degli amanti stia
sì lontano l'un l'altro il corpo e 'l core!


LXIII

      Questo poco di tempo che m'è dato,
anzi di vita, avanti il partir vostro,
voi devreste, o del mondo unico mostro,
essermi pur ad or ad or a lato;
      acciò che poi, essendo dilungato
dal felice e natio terreno nostro,
prenda vigor dal vago avorio ed ostro
il mio poi, senza voi, misero stato.
      Perché, se vi partite, ed io non prenda
prima vigor da voi, converrà certo
ch'a morte l'alma subito si renda.
      E, dove al monte faticoso ed erto
d'onor poggiate, temo non offenda
questa macchia il candor del vostro merto.


LXIV

      Voi che novellamente, donne, entrate
in questo pien di tèma e pien d'errore
largo e profondo pelago d'Amore,
ove già tante navi son spezzate,
      siate accorte, e tant'oltra non passate,
che non possiate infine uscirne fore,
né fidare in bonacce o 'n second'ore;
ché come a me vi fian tosto cangiate.
      Sia dal mio essempio il vostro legno scorto,
cui ria fortuna allor diede di piglio,
che più sperai esser vicina al porto.
      Sovra tutto vi do questo consiglio:
prendete amanti nobili; e conforto
questo vi fia in ogni aspro periglio.


LXV

      Deh, se vi fu giamai dolce e soave
la vostra fidelissima Anassilla,
mentre serrata, sì che nullo aprilla,
teneste del suo cor, conte, la chiave;
      leggendo in queste carte il lungo e grave
pianto, a cui Amor per voi, lassa, sortilla,
mostrar almen di pietà una scintilla,
in premio di sua fé, non vi sia grave.
      Accompagnate almen con un sospiro
la schiera immensa de' sospiri suoi,
che mille volte i ciel pietosi udîro.
      Così sia sempre Amor benigno a voi,
quanto a lei fu per voi spietato e diro;
così non sia mai cosa che v'annoi.


LXVI

      Ricevete cortesi i miei lamenti,
e portateli fide al mio signore,
o di Francia beate e felici ore,
che godete or de' begli occhi lucenti.
      E ditegli con tristi e mesti accenti
che, s'ei non move a dar soccorso al core,
o tornando o scrivendo, fra poche ore
resteran gli occhi miei di luce spenti;
      perché le pene mie molte ed estreme
per questa assenzia ormai son giunte in parte,
dove di morte sol si pensa e teme.
      E, s'egli avien che 'ndarno restin sparte
dinanzi a lui le mie voci supreme,
al mio scampo non ho più schermo od arte.


LXVII

      Chi porterà le mie giuste querele
al mio signor, al gran re franco appresso,
d'ogni rara eccellenza essempio espresso
e, fuor ch'a me, a tutti altri fedele?
      Aure de' miei sospir, voi che le vele
de' miei caldi disir gonfiate spesso,
sarete il mio secreto e fido messo,
onde 'l mio stato a lui sol si rivele.
      E, se la lunga e faticosa via
vi sbigottisce, venga con voi anche
la poca e nulla omai speranza mia.
      E, s'egli avien ch'ancor essa si stanche,
quando dinanzi a l'idol nostro fia,
tornate a me, ch'anch'io conven che manche.


LXVIII

      Chiaro e famoso mare,
sovra 'l cui nobil dosso
si posò 'l mio signor, mentre Amor volle;
rive onorate e care
(con sospir dir lo posso),
che 'l petto mio vedeste spesso molle;
soave lido e colle,
che con fiato amoroso
udisti le mie note,
d'ira e di sdegno vòte,
colme d'ogni diletto e di riposo;
udite tutti intenti
il suon or degli acerbi miei lamenti.
I' dico che dal giorno
che fece dipartita
l'idolo, ond'avean pace i miei sospiri,
tolti mi fûr d'attorno
tutti i ben d'esta vita;
e restai preda eterna de' martìri:
e, perch'io pur m'adiri
e chiami Amor ingrato,
che m'involò sì tosto
il ben ch'or sta discosto,
non per questo a pietade è mai tornato;
e tien l'usate tempre,
perch'io mi sfaccia e mi lamenti sempre.
      Deh fosse men lontano
almen chi move il pianto,
e chi move le giuste mie querele!
ché forse non invano
m'affligerei cotanto,
e chiamerei Amor empio e crudele,
ch'amaro assenzio e fele
dopo quel dolce cibo
mi fe', lassa, gustare
in tempre aspre ed amare.
O duro tòsco, che 'n amor delibo,
perché fai sì dogliosa
la vita mia, che fu già sì gioiosa?
      Almen, poi che m'è lunge
il mio terrestre dio,
che sì lontano ancor m'apporta guai,
il duol che sì mi punge
non mandasse in oblio,
e l'udisse ei, per cui piansi e cantai:
men acerbi i miei lai,
men cruda la mia pena,
men fiero il mio tormento,
che giorno e notte sento,
fôra per la sua luce alma e serena;
e sariami 'l dispetto
dolce sovra ogni dolce alto diletto.
      S'egli è pur la mia stella,
e se s'accorda il cielo,
ch'io moia per cagion così gradita,
venga Morte, e con ella
Amor, e questo velo
tolgan, ed esca fuor l'alma smarrita;
che, da suo albergo uscita,
volerà lieta in parte,
dove s'avrà mercede
de la sua viva fede,
fede d'esser cantata in mille carte.
Ma, lassa, a che non torna
chi le tenebre mie con gli occhi adorna?
      Se tu fossi contenta,
canzon, come sei mesta,
n'andresti chiara in quella parte e 'n questa.


LXIX

      Mentre signor, a l'alte cose intento,
v'ornate in Francia l'onorata chioma,
come fecer i figli alti di Roma,
figli sol di valor e d'ardimento,
      io qui sovr'Adria piango e mi lamento,
sì da' martìr, sì da' travagli doma,
gravata sì da l'amorosa soma,
che mi veggo morir, e lo consento.
      E duolmi sol che, sì come s'intende
qui 'l suon da noi de' vostri onor, ch'omai
per tutta Italia sì chiaro si stende,
      non s'oda in Francia il suono de' miei lai,
che così spesso il ciel pietoso rende,
e voi pietoso non ha fatto mai.


LXX

      O ora, o stella dispietata e cruda,
ch'io vidi dipartir la gloria mia,
lasciando di beata ch'era pria
la vita mia d'ogni suo bene ignuda!
      Da indi in qua per me si trema e suda,
si piagne, si dispera e si disia:
e sarà meraviglia, se non fia
che morte tosto queste luci chiuda.
      Che, del lor fatal sol restate senza,
altra luce giamai mirar non ponno,
che lor non sembri notte e dipartenza.
      Dunque o lor tosto, Amor, rendi il lor donno,
o, per non soffrir più sì dura assenza,
tosto le chiudi in sempiterno sonno.


LXXI

      Quando più tardi il sole a noi aggiorna,
e quando avien che poi più tardi annotte,
quand'ei mostra il crin d'òr, quando la notte
mostra la luna l'argentate corna,
      il mio cor lasso a' suoi sospir ritorna,
a le voci, a le lagrime interrotte;
sì l'ha tutte ad un segno ricondotte
l'assenzia di colui che Francia adorna.
      E sì caldo disio di rivederlo
fra tutt'altri martìr mi preme e punge,
che non so come omai più sostenerlo.
      E duolmi più ch'egli è da me sì lunge,
ch'a poter richiamarlo ed a poterlo
mover a pièta il mio gridar non giunge.


LXXII

      La mia vita è un mar: l'acqua è 'l mio pianto,
i venti sono l'aure de' sospiri,
la speranza è la nave, i miei desiri
la vela e i remi, che la caccian tanto.
      La tramontana mia è il lume santo
de' miei duo chiari, due stellanti giri,
a' quai convien ch'ancor lontana i' miri
senza timon, senza nocchier a canto.
      Le perigliose e sùbite tempeste
son le teme e le fredde gelosie,
al dipartirsi tarde, al venir preste.
      Bonacce non vi son, perché dal die
che voi, conte, da me lontan vi feste,
partîr con voi l'ore serene mie.


LXXIII

      Deh foss'io certa almen ch'alcuna volta
voi rivolgeste a me l'alto pensiero,
conte, a cui per mio danno i cieli diêro
sì da' lacci d'Amor l'anima sciolta.
      L'acerba pena mia nel petto accolta,
l'empia mercé del dispietato arciero,
i sospir, che 'n amor sola mi fêro,
avrian triegua talor o poca o molta.
      Ma 'l sentirmi patir carca di fede,
senza muover pietade a chi mi strugge,
a chi contento i miei tormenti vede,
      sì le speranze mie tronca et adugge
che, se Dio di rimedio non provede,
l'alma per dipartirsi freme e rugge.


LXXIV

      La gran sete amorosa che m'afflige,
la memoria del ben onde son priva,
che mi sta dentro al cor tenace e viva,
sì che null'altra più forte s'affige,
      sovra ogni forza mia move et addige
la vena mia per sé muta e restiva,
e fa che 'n queste carte adombri e scriva
quanto aspramente Amor m'arde e trafige.
      Chi fa qual noi parlar la muta pica?
chi 'l nero corvo e gli altri muti uccelli?
La brama sol di quel che li nutrica.
      Però s'avien ch'io scriva e ch'io favelli,
narrando l'amorosa mia fatica,
non son io no, son gli occhi vaghi e belli.


LXXV

      Fa' ch'io rivegga, Amor, anzi ch'io moia,
gli occhi, che di lontan chiamo e sospiro,
fuor de' quai ciò ch'io veggio e ciò ch'io miro
con questi miei mi par tenebre e noia.
      Quante fiamme or vome Etna, arser già Troia
in quell'incendio dispietato e diro,
a petto a le mie fiamme, al mio martiro,
son poco o nulla, anzi son pace e gioia.
      E se 'l sol de le luci mie divine,
chi 'l crederia? tornando non lo smorza,
sento che 'l mio incendio è senza fine.
      Oh mirabil d'Amor e nova forza!
ché dove avien ch'un foco l'altro affine,
qui solo un foco l'altro vince e sforza.


LXXVI

      Quando talor Amor m'assal più forte,
e 'l desir e l'assenzia mi fan guerra,
e questa e quel vorria pormi sotterra,
preda d'oscura e dispietata morte.
      Io mi rivolgo a le mie fide scorte,
onde, benché lontan, virtù si sferra
tal che la nave mia, che dubbiosa erra,
subito par ch'al lido si riporte;
      sì che quanto ho d'Amor onde mi doglia,
tanto ho onde mi lodi, poi ch'io sento
ch'una sol man mi leghi, una mi scioglia.
      O gioia amara, o mio dolce tormento,
io prego il ciel che mai non mi vi toglia,
e sia 'l mio stato or misero, or contento.


LXXVII

      O de le mie fatiche alto ritegno,
mentre ad Amor ed a Fortuna piacque,
conte gentil, a cui giamai non nacque
bellezza egual, valor, sangue ed ingegno;
      se 'l vostro cor di maggior donna degno
una volta in me sola si compiacque,
se fin gli scogli d'Adria, i lidi e l'acque
san che voi sète il mio solo sostegno,
      perché senza mia colpa e mio difetto,
se non d'esser più ch'altra fida stata,
m'avete tratta fuor del vostro petto?
      Questa è la gioia mia da voi sperata?
è questo quel che voi m'avete detto?
questa è la fé che voi m'avete data?


LXXVIII

      Gli occhi onde mi legasti, Amor, affrena,
sì che non veggan mai altra bellezza,
altra creanza ed altra gentilezza
di belle donne onde la Francia è piena;
      acciò che quanto ora è dolce ed amena,
non sia piena di lagrime e d'asprezza
la vita mia, ch'ogn'altra cosa sprezza,
fuor che la luce lor chiara e serena.
      E, s'egli avien che sia lor mostro a sorte,
obietto che sia degno esser amato,
ed accenda quel cor tenace e forte,
      ferisci lui col tuo stral impiombato,
o con quel d'oro dona a me la morte,
perché viver non voglio in tale stato.


LXXIX

      La fé, conte, il più caro e ricco pegno
che possa aver illustre cavaliero,
come cangiaste voi presto e leggiero,
fuor che di lei d'ogni virtù sostegno?
      A pena vide voi 'l gallico regno,
che mutaste con lei voglia e pensiero;
ed Anassilla e 'l suo fedele e vero
amor sparir da voi tutti ad un segno.
      E piaccia pur a lui, che mi governa,
che non sia la ragion di questo oblio
novella fiamma nel cor vostro interna!
      O, se ciò è, acerbo stato mio!
o doglia mia sovra ogni doglia eterna!
o fidanza d'Amor che mi tradìo!


LXXX

      Prendi, Amor, de' tuoi lacci il più possente,
che non abbia né schermo, né difesa,
onde Evadne e Penelope fu presa,
e lega il mio signor novellamente.
      A pena ei fu dagli occhi nostri assente,
per gir a l'alta ed onorata impresa,
che, noi scherniti e sua fé vilipesa,
rivolse altrove la superba mente.
      E, quasi in alto pelago sommerso
d'oblivione, a la sua Anassilla
non ha degnato mai scriver un verso.
      O Nerone, o Mezenzio, o Mario, o Silla,
chi fu di voi sì crudo e sì perverso,
d'amor gustata pur una scintilla?


LXXXI

      Questo aspro conte, un cor d'orsa e di tigre,
che 'n così vago e mansueto aspetto
per forza di valor e d'intelletto
a la strada di gloria par che migre,
      non so per qual cagion guasti e denigre,
col mancarmi di fé, sì degno effetto,
e l'ali di sua fama col difetto
d'infedeltà renda restive e pigre.
      Almen gli foss'io presso, onde potessi
dimostrargli il suo fallo e 'l dolor mio,
sì che fido e pietoso lo facessi!
      Ma i' son qui, lassa, colma di desio,
e i miei lamenti a l'aure son commessi:
egli in Francia si sta colmo d'oblio.


LXXXII

      Qui, dove avien che 'l nostro mar ristagne,
conte, la vostra misera Anassilla,
quando la luna agghiaccia e 'l sol favilla,
pur voi chiamando, si lamenta ed agne.
      Voi, dove avien che l'Oceano bagne,
la notte, il giorno, a l'alba ed a la squilla,
menando vita libera e tranquilla,
mirate lieto il mar e le campagne.
      E sì l'assenzia e 'l poco amor v'invola
la memoria di lei, la vostra fede,
che pur non le scrivete una parola.
      O fra tutt'altre mia miseria sola!
o pena mia, ch'ogn'altra pena eccede!
Ciò si comporta, Amor, ne la tua scola?


LXXXIII

      Oimè, le notti mie colme di gioia,
i dì tranquilli, e la serena vita,
come mi tolse amara dipartita,
e converse il mio stato tutto in noia!
      E, perché temo ancor (che più m'annoia)
che la memoria mia sia dipartita
da quel conte crudel che m'ha ferita,
che mi resta altro omai, se non ch'io moia?
      E vo' morir, ché rimirar d'altrui
quel che fu mio quest'occhi non potranno,
perché mirar non sanno altri che lui.
      Prendano essempio l'altre che verranno
a non mandar tant'oltre i disir sui,
che ritrar non si possan da l'inganno.


LXXXIV

      O sacro, amato e grazioso aspetto,
o più che 'l chiaro sol lucenti lumi,
o sangue illustre, angelici costumi,
o alto ingegno, altissimo intelletto,
      o colmi di prudenzia e di diletto,
d'eloquenzia profondi e larghi fiumi,
o finalmente, ond'io più mi consumi,
d'ogni grazia e virtù, conte, ricetto,
      qual contra a' miei disir stella empia e cruda
già mi vi tolse, ed or vi tien discosto
contra la fé che voi mi deste pria?
      O morte dunque queste luci chiuda,
od apritele voi tornando tosto;
perché così non so quel ch'io sia.


LXXXV

      Quando talvolta il mio soverchio ardore
m'assale e stringe oltra ogni stil umano,
userei contra me la propria mano,
per finir tanti omai con un dolore.
      Se non che dentro mi ragiona Amore,
il qual giamai da me non è lontano:
- Non por la falce tua ne l'altrui grano:
tu non sei tua, tu sei del tuo signore,
      perché dal dì, ch'a lui ti diedi in preda,
l'anima e 'l corpo, e la morte e la vita
divenne sua, e a lui conven che ceda.
      Sì ch'a far da te stessa dipartita,
senza ch'egli tel dica o tel conceda,
è troppo ingiusta cosa e troppo ardita.


LXXXVI

      Piangete, donne, e poi che la mia morte
non move il signor mio crudo e lontano,
voi che sète di cor dolce ed umano,
aprite di pietade almen le porte.
      Piangete meco la mia acerba sorte,
chiamando Amor, il ciel empio, inumano,
e lei, che mi ferì, spietata mano,
che mi vegga morir e lo comporte.
      E, poi ch'io sarò cenere e favilla,
dica alcuna di voi mesta e pietosa,
sentita del mio foco una scintilla:
      - Sotto quest'aspra pietra giace ascosa
l'infelice e fidissima Anassilla,
raro essempio di fede alta amorosa.


LXXXVII

      Prendi Amor i tuoi strali e la tua face,
ch'io ti rinunzio i torti e le fatiche,
le voglie a' propri danni sempre amiche,
la guerra certa e la dubbiosa pace.
      Trova un novo soggetto e più capace,
cui 'l tuo foco arda e la sua rete intriche,
ch'io per me non vo' più che mi si diche:
- Questa per altri indarno arde e si sface.-
      Io son dal grave essilio tuo tornata,
e son resa a me stessa, e non men pento,
mercé di lui che m'ha la via mostrata.
      E ne' miei danni ho pur questo contento,
ch'almen, s'io fui da te sì mal trattata,
alta fu la cagion del mio tormento.


LXXXVIII

      Lassa, chi turba la mia lunga pace?
chi rompe il sonno e l'alta mia quiete?
chi mi stilla nel cor novella sete
di gir seguendo quel che più mi sface?
      Tu, Amore, il cui strale e la cui face
ogni contento uman recide e miete;
tu ber mi desti del tuo fiume Lete,
che più mi nòce, quanto più mi piace.
      Ahi, quando fia giamai ch'un giorno possa
voler col mio voler, resa a me stessa,
del grave giogo periglioso scossa?
      Quando fia mai che la sembianza impressa
dentro a le mie midolle e dentro a l'ossa
mi smaghi Amor, e' miei martìr con essa?


LXXXIX

      Ma che, sciocca, dich'io? perché vaneggio?
perché sì sfuggo questo chiaro inganno?
perché sgravarmi da sì util danno,
pronta ne' danni miei, ad Amor chieggio?
      Come, fuor di me stessa, non m'aveggio
che quante ebber mai gioie, e quante avranno,
quante fûr donne mai, quante saranno,
co' miei chiari martìr passo e pareggio?
      Ché l'arder per cagion alta e gentile
ogni aspra vita fa dolce e beata
più che gioir per cosa abietta e vile.
      Ed io ringrazio Amor, che destinata
m'abbia a tal foco, che da Battro a Tile
spero anche un giorno andar chiara e lodata.


XC

      Voi, che per l'amoroso, aspro sentiero,
donne care, com'io, forse passate;
ed avete talor viste e provate
quante pene può dar quel crudo arciero;
      dite per cortesia, ma dite il vero,
se quante ne son or, quante son state,
a l'aspre pene mie paragonate,
agguaglian un de' miei martìr intero.
      E dite se vedeste mai sembianza
più dolce in vista e più spietata poi
del signor mio, ne l'amorosa stanza.
      Così talvolta amor dia tregua a voi,
mentr'ei con questa dura lontananza
sfoga in me tutti ad uno i furor suoi.


XCI

      Novo e raro miracol di natura,
ma non novo né raro a quel signore,
che 'l mondo tutto va chiamando Amore,
che 'l tutto adopra fuor d'ogni misura:
      il valor, che degli altri il pregio fura,
del mio signor, che vince ogni valore,
è vinto, lassa, sol dal mio dolore,
dolor, a petto a cui null'altro dura.
      Quant'ei tutt'altri cavalieri eccede
un esser bello, nobile ed ardito,
tanto è vinto da me, da la mia fede.
      Miracol fuor d'amor mai non udito!
Dolor, che chi nol prova non lo crede!
Lassa, ch'io sola vinco l'infinito!


XCII

      Quasi quercia di monte urtata e scossa
da ogni lato e da contrari venti,
che, sendo or questi or quelli più possenti,
per cader mille volte e mille è mossa,
      la vita mia, questa mia frale possa
combattuta or da speme or da tormenti,
non sa, lontani i chiari lumi ardenti,
in qual parte piegar ormai si possa.
      Or m'affidan le carte del mio bene,
or mi disperan poi l'altrui parole;
ei mi dice: - Io pur vengo; - altri: - Non viene. -
      Sia morte meco almen, più che non suole,
pietosa a trarmi fuor di tante pene,
se non debbo veder tosto il mio sole.


XCIII

      Qual fuggitiva cerva e miserella,
ch'avendo la saetta nel costato,
seguìta da due veltri in selva e 'n prato,
fugge la morte che va pur con ella,
      tal io, ferita da l'empie quadrella
del fiero cacciator crudo ed alato,
gelosia e disio avendo a lato,
fuggo, e schivar non posso la mia stella.
      La qual mi mena a miserabil morte,
se non ritorna a noi da gente strana
il sol degli occhi miei, che la conforte:
      egli è 'l dittamo mio, egli risana
la piaga mia; e può far la mia sorte,
d'aspra e noiosa, dilettosa e piana.


XCIV

      A che, conte, assalir chi non repugna?
a che gittar per terra chi si rende?
a che contender con chi non contende?
con chi avete mai sempre fra l'ugna?
      Sapete che co' morti non si pugna;
ché lo splendor d'un cavalier offende,
e 'l vostro più, che l'ali oggimai stende
dove non so s'altrui chiarezza aggiugna.
      Guardate che la fama de le tante
vostre vittorie poi non renda oscura,
signor, quest'una sola, e non ammante.
      Io per me stimerei mia gran ventura
l'esser veduta al vostro carro innante;
ma voi del vostro onor abiate cura.


XCV

      Menami, Amor, ormai, lassa! il mio sole,
che mi solea non pur far chiaro il giorno,
ma non men che 'l dì chiara anco la notte,
tal ch'io sprezzava il ritornar de l'alba,
sì di quest'occhi la sua vaga luce
disgombrava le tenebre e la nebbia.
      Ed ora più non veggio altro che nebbia,
poi che l'usato mio lucente sole,
con la sua e del mondo altera luce
lume facendo in altra parte e giorno,
vuol che mai non si rompa per me l'alba,
perché da me non fugga unqua la notte.
      Deh discacciasse il vel di questa notte,
il vel di tanta e sì importuna nebbia,
e a l'apparir del suo ritorno l'alba
mi rimenasse il mio bramato sole,
sì che lieta vedessi ancora un giorno,
pria che chiudessi in tutto esta mia luce!
      Ben fôra chiara e graziosa luce,
che procedesse a sì beata notte;
ben fôra chiaro e desiato giorno,
e disgombrato di tempeste e nebbia,
che mostrasse a quest'occhi il lor bel sole,
spuntando tra le rose e tra i fior l'alba.
      Pur ch'innanzi che 'l ciel mi renda l'alba,
morte amara non spenga la mia luce,
invidiando a lei l'amato sole;
e chiusi gli occhi in sempiterna notte,
ne vada, lassa, a star fra quella nebbia,
dove mai non si vede chiaro giorno.
      Tu dunque, Amor, che fai di notte giorno,
e puoi condurmi in un momento l'alba
e via cacciar de' miei martìr la nebbia,
e di tenebre oscure trar la luce,
rompi omai 'l vel di questa lunga notte,
et adduci a quest'occhi il mio bel sole.
      Vivo sol, che solei far chiaro il giorno,
mentre la luce mia non vide nebbia,
perché non meni a la mia notte l'alba?


XCVI

      Deh perché, com'io son con voi col core,
non vi son, conte, ancor con la persona,
com'io vorrei, tanto 'l disio mi sprona,
tanto mi stringe il signor nostro Amore?
      Ché, mirando talor l'aspro furore
sovra di voi, quando arde più Bellona,
di qualche cavalier, che la corona
cercasse porsi di sì alto onore,
      vedendo scender qualche colpo crudo,
o pregherei Amor che lo schifassi,
o io del corpo mio li farei scudo.
      Ma 'l ciel pur fiero a le mie voglie stassi,
né m'ode, benché 'l duol, che dentro chiudo,
rompa per la pietate i duri sassi.


XCVII

      O gran valor d'un cavalier cortese,
d'aver portato fin in Francia il core
d'una giovane incauta, ch'Amore
a lo splendor de' suoi begli occhi prese!
      Almen m'aveste le promesse attese
di temprar con due versi il mio dolore,
mentre, signor, a procacciarvi onore
tutte le voglie avete ad una intese.
      I' ho pur letto ne l'antiche carte
che non ebber a sdegno i grandi eroi
parimente seguir Venere e Marte.
      E del re, che seguite, udito ho poi
che queste cure altamente comparte
ond'è chiar dagli espèri ai lidi eoi.


XCVIII

      Conte, il vostro valor ben è infinito
sì che vince qualunque alto valore,
ma verissimamente è via minore
del duol, ch'amando io ho per voi patito.
      E, se non s'è fin qui letto et udito
de l'infinito cosa unqua maggiore,
questi sono i miracoli d'Amore,
che vince ciò che 'n cielo è stabilito.
      Tempo già fu, che l'alta gioia mia
di gran lunga avanzava anco il mio duolo
mentre dolce la speme entro fioria:
      or ella è gita, ed ei rimaso è solo,
dal dì che per mia stella acerba e ria
prendeste, ahi lassa! verso Francia il volo.


XCIX

      Io pur aspetto, e non veggo che giunga
il mio signor o 'l suo fidato messo
al termin che da lui mi fu promesso:
lassa! ché 'l mio piacer troppo s'allunga.
      Ond'avien che temenza il cor mi punga,
che qualche intoppo non gli sia successo;
o ch'ei sol pensi in me quanto m'è presso,
e l'assenzia il suo cor da me disgiunga.
      Il che se fosse, io prego morte avara
che venga in vece sua, poi ch'ei non viene,
a trarmi fuor di tèma e vita amara.
      Ma se giusta cagion me lo ritiene,
io prego Amor, ch'ogni fosco rischiara,
ch'apra la via, ond'io vegga il mio bene.


C

      O beata e dolcissima novella,
o caro annunzio, che mi promettete
che tosto rivedrò le care e liete
luci e la faccia graziosa e bella;
      o mia ventura, o mia propizia stella,
ch'a tanto ben serbata ancor m'avete,
o fede, o speme, ch'a me sempre sète
state compagne in dura, aspra procella;
      o cangiato in un punto viver mio
di mesto in lieto; o queto, almo e sereno
fatto or di verno tenebroso e rio;
      quando potrò giamai lodarvi a pieno?
come dir qual nel cor aggio disio?
di che letizia io l'abbia ingombro e pieno?


CI

      Con quai degne accoglienze o quai parole
raccorrò io il mio gradito amante,
che torna a me con tante glorie e tante,
quante un non vide forse il sole?
      Qual color or di rose, or di viole
fia 'l mio? qual cor or saldo ed or tremante,
condotta innanzi a quel divin sembiante,
ch'ardir e tèma insieme dar mi suole?
      Osarò io con queste fide braccia
cingerli il caro collo, ed accostare
la mia tremante a la sua viva faccia?
      Lassa, che pur a tanto ben penare
temo che 'l cor di gioia non si sfaccia:
chi l'ha provato se lo può pensare.


CII

      Via da me le tenebre e la nebbia,
che mi son sempre state agli occhi intorno
sei lune e più, che 'n Francia fe' soggiorno
lui, che 'l mio cor, come gli piace, trebbia.
      È ben ragion ch'asserenarmi io debbia,
or che 'l mio sol m'ha rimenato il giorno;
or c'han pace le guerre, che d'attorno
mi fûr, qual vide Trasimeno e Trebbia.
      Sia ogni cosa in me di riso piena,
poi che seco una schiera di diletti
a star meco il mio sol almo rimena.
      Sia la mia vita in mille dolci, eletti
piaceri involta, e tutta alma e serena,
e se stessa gioendo ognor diletti.


CIII

      Io benedico, Amor, tutti gli affanni,
tutte l'ingiurie e tutte le fatiche,
tutte le noie novelle ed antiche,
che m'hai fatto provar tante e tanti anni;
      benedico le frodi e i tanti inganni,
con che convien che i tuoi seguaci intriche;
poi che tornando le due stelle amiche
m'hanno in un tratto ristorati i danni.
      Tutto il passato mal porre in oblio
m'ha fatto la lor viva e nova luce,
ove sol trova pace il mio disio.
      Questa per dritta strada mi conduce
su a contemplar le belle cose e Dio,
ferma guida, alta scorta e fida luce.


CIV

      O notte, a me più chiara e più beata
che i più beati giorni ed i più chiari,
notte degna da' primi e da' più rari
ingegni esser, non pur da me, lodata;
      tu de le gioie mie sola sei stata
fida ministra; tu tutti gli amari
de la mia vita hai fatto dolci e cari,
resomi in braccio lui che m'ha legata.
      Sol mi mancò che non divenni allora
la fortunata Alcmena, a cui stè tanto
più de l'usato a ritornar l'aurora.
      Pur così bene io non potrò mai tanto
dir di te, notte candida, ch'ancora
da la materia non sia vinto il canto.


CV

      Son pur questi i begli occhi e quelle, c'hanno
vinto il sol tante volte, alme bellezze;
son pur queste le grazie e le vaghezze
che luce e vita a la mia morte dànno.
      E tuttavia son sì pronte a l'affanno
le voglie mie ed a' tormenti avezze
di tanta assenzia omai, che l'allegrezze
ritornar a star meco più non sanno:
      quasi 'l gran re, che di sospetto pieno,
fuggendo il crudo zio, per lunga usanza
si fece natural cibo il veleno.
      Qui fa bisogno, Amor, la tua possanza,
che del primo dolor mi sgombri il seno,
sì che tanta mia gioia or v'abbia stanza.


CVI

      O diletti d'amor dubbi e fugaci,
o speranza che s'alza e cade spesso,
e nasce e more in un momento istesso;
o poca fede, o poco lunghe paci!
      Quegli, a cui dissi: - Tu solo mi piaci, -
è pur tornato, io l'ho pur sempre presso,
io pur mi specchio e mi compiaccio in esso,
e ne' begli occhi suoi chiari e vivaci;
      e tuttavia nel cor mi rode un verme
di fredda gelosia, freddo timore
di tosto tosto senza lui vederme.
      Rendi tu vana la mia tèma, Amore,
tu, che beata e lieta pòi tenerme,
conservandomi fido il mio signore.


CVII

      Or che ritorna e si rinova l'anno,
passato il verno e la stagion più fresca,
l'amoroso desir mio si rinfresca,
e la mia dolce pena, e 'l dolce affanno.
      E qual i novi umor gravidi fanno
gli arbori, onde lor frutto a suo tempo esca,
tal umor nel mio petto par che cresca,
al qual poi pensier dolci a dietro vanno.
      Ed è ben degno che gioia ed umore,
or ch'egli è meco la mia primavera,
mi rinovelli e mi ridesti Amore.
      Oh pur non giunga a sì bel giorno sera!
oh pur non cangi il bel tempo in orrore,
dipartendo da me l'alma mia sfera!


CVIII

      Poi che m'ha reso Amor le vive stelle,
che mi guidano al ciel per dritta via,
e ne le molte mie gravi tempeste
m'hanno mai sempre ricondotta in porto
di questo chiaro e fortunato mare,
ch'indarno turban le procelle e i venti;
      udite, benigne aure, amici venti,
e voi, occhi del cielo, ardenti stelle;
mentre qui sovra questo altero mare,
da la mia lunga e faticosa via,
la mercede d'Amor, tornata in porto,
lodo di lui gli strazi e le tempeste.
      Voi, voci, voi, sospir, voi le tempeste
sète, voi sète i graziosi venti,
che dimostrate poi sì dolce il porto,
quando il sol arde e quando ardon le stelle;
voi sète la sicura e dritta via,
che ci guidate de' diletti al mare.
      Qual d'eloquenzia fia sì largo mare,
e sì scarco di nubi e di tempeste,
che possa dir senza arrestar fra via,
mentre stan quete le procelle e i venti,
la gioia che mi dan le mie due stelle,
or c'hanno il mio signor ridotto in porto?
      Dolce sicuro e grazioso porto,
che del mio pianto l'infinito mare
m'hai acquetato al raggio de le stelle,
ch'ovunque splendon fugan le tempeste,
sì ch'io non posso più temer ch'i venti
turbin sì cara e dilettosa via!
      Menami, Amor, omai per questa via,
fin che quest'alma giunga a l'altro porto,
ch'io non vo' navigar con altri venti,
né di questo cercar più largo mare,
né nel viaggio mio vo' ch'altre stelle
mi sieno scorte, e sgombrin le tempeste.
      Aspre tempeste ed importuni venti
non m'impediran più del mar la via,
or che le stelle mie m'han mostro il porto.


CIX

      Gioia somma, infinito, alto diletto,
or che l'amato mio tesoro ho presso,
or che parlo con lui, che 'l miro spesso,
m'ingombrerebbe certamente il petto,
      se 'l cor non mi turbasse un sol sospetto
di tosto tosto rimaner senz'esso,
per quel ch'io veggo a qualche segno espresso,
ché sol apre Amor gli occhi a l'intelletto.
      E, se ciò è, io vo' certo finire
questa misera vita in un momento,
anzi ch'io provi un tanto aspro martìre;
      perché conosco chiaramente e sento
che senza lui mi converria morire,
ch'è l'appoggio, a cui 'l viver mio sostento.


CX

      Chi può contar il mio felice stato,
l'alta mia gioia e gli alti miei diletti?
O un di que' del ciel angeli eletti,
o altro amante che l'abbia provato.
      Io mi sto sempre al mio signor a lato,
godo il lampo degli occhi e 'l suon dei detti,
vivomi de' divini alti concetti,
ch'escon da tanto ingegno e sì pregiato.
      Io mi miro sovente il suo bel viso,
e mirando mi par veder insieme
tutta la gloria e 'l ben del paradiso.
      Quel che sol turba in parte la mia speme,
è 'l timor che da me non sia diviso;
ché 'l vorrei meco fin a l'ore estreme.


CXI

      Pommi ove 'l mar irato geme e frange,
ov'ha l'acqua più queta e più tranquilla;
pommi ove 'l sol più arde e più sfavilla,
o dove il ghiaccio altrui trafige ed ange;
      pommi al Tanai gelato, al freddo Gange,
ove dolce rugiada e manna stilla,
ove per l'aria empio velen scintilla,
o dove per amor si ride e piange;
      pommi ove 'l crudo Scita ed empio fere,
o dove è queta gente e riposata,
o dove tosto o tardi uom vive e père:
      vivrò qual vissi, e sarò qual son stata,
pur che le fide mie due stelle vere
non rivolgan da me la luce usata.


CXII

      Se voi poteste, o sol degli occhi miei,
qual sète dentro donno del mio core,
veder coi vostri apertamente fuore,
oh me beata quattro volte e sei!
      Voi più sicuro, e queta io più sarei:
voi senza gelosia, senza timore;
io di due sarei scema d'un dolore,
e più felicemente ardendo andrei.
      Anzi aperto per voi, lassa, si vede,
più che 'l lume del sol lucido e chiaro,
che dentro e fuori io spiro amor e fede.
      Ma vi mostrate di credenza avaro,
per tormi ogni speranza di mercede,
e far il dolce mio viver amaro.


CXIII

      Deh foss'io almen sicura che lo stato,
dov'or mi trovo, non mancasse presto,
perché, sì come or è lieto ed or mesto,
sarebbe il più felice che sia stato.
      I' ho Amore e 'l mio signor a lato,
e mi consolo or con quello, or con questo;
e, sempre che di loro un m'è molesto,
ricorro a l'altro, che m'è poi pacato.
      S'Amor m'assale con la gelosia,
mi volgo al viso, che 'n sé dentro serra
virtù ch'ogni tormento scaccia via:
      se 'l mio signor mi fa con ira guerra,
viene Amor poi con l'altra compagnia,
vera umiltà ch'ogni alto sdegno atterra.


CXIV

      Mille volte, signor, movo la penna
per mostrar fuor, qual chiudo entro il pensiero,
il valor vostro e 'l bel sembiante altero,
ove Amor e la gloria l'ale impenna;
      ma perché chi cantò Sorga e Gebenna,
e seco il gran Virgilio e 'l grande Omero
non basteriano a raccontarne il vero,
ragion ch'io taccia a la memoria accenna.
      Però mi volgo a scriver solamente
l'istoria de le mie gioiose pene,
che mi fan singolar fra l'altra gente:
      e come Amor ne' be' vostr'occhi tiene
il seggio suo, e come indi sovente
sì dolce l'alma a tormentar mi viene.


CXV

      Quelle rime onorate e quell'ingegno,
pari a la beltà vostra e al gran valore,
rivolgete a voi stesso in far onore,
conte, come di lor soggetto degno;
      o trovate di me più altero pegno,
se pur uscir da voi volete fore,
perché a sì larga vena, a tanto umore
son per me troppo frale e secco legno,
      e non ho parte in me d'esser cantata,
se non perch'amo e riverisco voi
oltra ogni umana, oltra ogni forma usata.
      Sì chiara fiamma merta i pregi suoi;
in questa parte io deggio esser cantata
fin ch'io sia viva, eternamente, e poi.


CXVI

      Lodate i chiari lumi, ove mirando
perdei me stessa, e quel bel viso umano,
da cui vibrò lo stral, mosse la mano
Amor, quando da me mi pose in bando.
      Lodate il valor vostro alto e mirando,
ch'al valor d'Alessandro è prossimano:
sallo il gran re, sallo il paese strano,
che di voi e di lui vanno parlando.
      Lodate il senno, a cui non è simile
nel bel verde degli anni; e, quel che 'n carte
vedrò famoso, il vostro ingegno e stile.
      In me, signor, non è pur una parte,
che non sia tutta indegna e tutta vile,
per cui sì vaghe rime sieno sparte.


CXVII

      A che vergar, signor, carte ed inchiostro
in lodar me, se non ho cosa degna,
onde tant'alto onor mi si convegna;
e, se ho pur niente, è tutto vostro?
      Entro i begli occhi, entro l'avorio e l'ostro,
ove Amor tien sua gloriosa insegna,
ove per me trionfa e per voi regna,
quanto scrivo e ragiono mi fu mostro.
      Perché ciò che s'onora e 'n me si prezza,
anzi s'io vivo e spiro, è vostro il vanto,
a voi convien, non a la mia bassezza.
      Ma voi cercate con sì dolce canto,
lassa, oltra quel che fa vostra bellezza,
d'accrescermi più foco e maggior pianto.


CXVIII

      Bastan, conte, que' bei lumi, quelli,
ch'al sol raggi, a Ciprigna alma beltate,
ad Amor arme, a me la libertate
furâr da prima che mirai in elli,
      a far ch'arda per voi sempre e favelli,
sì che l'intenda la futura etate,
senza cercar con pure rime ornate
d'aggiunger nove al cor piaghe e flagelli.
      Ché col vostr'alto procacciarmi onore
si strigneria, se si potesse, il laccio,
s'accresceria, se si potesse, ardore.
      Ma di questo e di quel son fuor d'impaccio,
ché quanto arder e strigner puote Amore,
io son stretta per voi, conte, e mi sfaccio.


CXIX

      Io non mi voglio più doler d'Amore,
poi che, quant'ei mi dà doglia e tormento,
tanto il signor, ch'io amo e ch'io pavento,
cerca scrivendo procacciarmi onore.
      O di tutte bellezze e grazie il fiore,
nido di cortesia e d'ardimento,
come posso bramar che resti spento
così famoso e così chiaro ardore?
      Anzi prego che 'l ciel mi doni vita,
sì che dovunque il sol nasca e tramonte,
sia la mia fiamma entro tai versi udita:
      e dica alcuna, ove d'amor si conte:
- Ben fu la sorte di costei gradita,
scritta e cantata da sì alto conte.


CXX

      Se qualche tema talor non turbasse,
o qualche sdegno, il mio felice stato,
sarebbe il più tranquillo, il più beato
di qualunque altra donna altr'uomo amasse.
      Ché, s'avien pur che 'l mio signor mi lasse,
talor a qualche degna opra chiamato,
dentro il mio core e bello ed onorato,
qual egli è meco, il suo sembiante stasse;
      sì che avendo mai sempre in compagnia
tutto quel che più amo e più mi piace,
turbarmi Amor o sorte non poria,
      s'egli, che nel mio pianto si compiace,
con qualche nova e strana fantasia
non turbasse o rompesse la mia pace.


CXXI

      Chi vuol veder l'imagin del valore,
l'albergo de la vera cortesia,
il nido di bellezza e leggiadria,
la stanza de la gloria alta e d'onore,
      venga a veder l'illustre mio signore,
dove si trova ciò che si disia,
fino il mio cor e fino l'alma mia,
che gli diè già, né poi mi rese, Amore.
      Ma, s'ella è donna, non s'affissi molto,
ché resterà subitamente presa
fra mille meraviglie del bel volto.
      Ivi Amor ha la rete sempre tesa,
indi saetta, ed ivi giace occolto,
quando vuol far qualche maggior impresa.


CXXII

      Quando io movo a mirar fissa ed intenta
le ricchezze e i tesor, ch'Amore e 'l cielo
dentro ne l'alma e fuor nel mortal velo
poser di lui, ch'ogn'altra luce ha spenta,
      resto del mio martìr tanto contenta,
sì paga del mio vivo, ardente zelo,
che la ferita e 'l despietato telo,
che mi trafige il cor, non par che senta.
      Sol mi struggo e mi doglio, quando penso
che da me tosto debba allontanarse
questo d'ogni mia gloria abisso immenso.
      A questo l'alma sol non può quetarse,
a ciò grida ed esclama ogni mio senso:
- O tante indarno mie fatiche sparse!


CXXIII

      O tante indarno mie fatiche sparse,
o tanti indarno miei sparsi sospiri,
o vivo foco, o fé, che, se ben miri,
di tal null'altra mai non alse ed arse,
      o carte invan vergate e da vergarse
per lodar quegli ardenti amanti giri,
o speranze ministre de' disiri,
a cui premio più degno dovea darse,
      tutte ad un tratto ve ne porta il vento,
poi che da l'empio mio signore stesso
con queste proprie orecchie dir mi sento
      che tanto pensa a me, quanto m'è presso,
e, partendo, si parte in un momento
ogni membranza del mio amor da esso.


CXXIV

      Signor, io so che 'n me non son più viva,
e veggo omai ch'ancor in voi son morta,
e l'alma, ch'io vi diedi non sopporta
che stia più meco vostra voglia schiva.
      E questo pianto, che da me deriva,
non so chi 'l mova per l'usata porta,
né chi mova la mano e le sia scorta,
quando avien che di voi talvolta scriva.
      Strano e fiero miracol veramente,
che altri sia viva, e non sia viva, e pèra,
e senta tutto e non senta niente;
      sì che può dirsi la mia forma vera,
da chi ben mira a sì vario accidente,
un'imagine d'Eco e di Chimera.


CXXV

      Vorrei che mi dicessi un poco, Amore,
c'ho da far io con queste tue sorelle
Temenza e Gelosia? ed ond'è ch'elle
non sanno star se non dentro il mio core?
      Tu hai mille altre donne, che l'ardore
provan, com'io, de l'empie tue facelle:
or manda dunque queste a star con quelle,
fa' ch'un dì n'escan dal mio petto fore.
      - Io ho ben - mi dic'ei - mille persone
a chi mandarle; ma nessuna d'esse
ha, qual tu, da temer alta cagione.
      Le luci ch'ami son le luci stesse,
che, per dar gelosia e passione
a tutto il mondo, la mia madre elesse.


CXXVI

      Così m'acqueto di temer contenta,
e di viver d'amara gelosia,
pur che l'amato lume lo consenta,
pur che non spiaccia a lui la pena mia.
      Perch'è più dolce se per lui stenta,
che gioir per ogn'altro non saria;
ed io per me non fia mai che mi penta
di sì gradita e nobil prigionia;
      perché capir un'alma tanto bene,
senza provarvi qualche cosa aversa,
questa terrena vita non sostiene.
      Ed io. che sono in tante pene immersa,
quando avanti il suo raggio almo mi viene,
resto da quel ch'esser solea diversa.


CXXVII

      Su, speranza, su fé, prendete l'armi
contra questa crudel nemica mia,
importuna e spietata gelosia,
che cerca quanto può di vita trarmi;
      diasi uscita a' sospir, verghinsi carmi,
sì che si sfoghi tanta pena ria;
trovisi dolce e grata compagnia,
sì che possa il dolor men danno farmi.
      E, se questo non basta, un altro amore
si prenda, e lassi questo onde ora avampo,
e così vinca l'un l'altro dolore.
      Perch'ogni fèra in selva, in prato, in campo
cerca per natural forza e vigore
di tentar ogni via per lo suo scampo.


CXXVIII

      S'io 'l dissi mai, signor, che mi sia tolto
l'arder per voi, com'ardo in fiamma viva;
s'io 'l dissi mai, ch'io resti d'amar priva,
e resti il cor del suo bel laccio sciolto.
      S'io 'l dissi mai, che 'l lume del bel volto,
di cui convien ch'ognor ragioni e scriva,
a la mia luce di tutt'altro schiva
non si mostri giamai poco né molto.
      S'io 'l dissi mai, che gli uomini a vicenda
tutti, e li dèi, fortuna disdegnosa
a mio danno, a ruina ultima accenda.
      Ma s'io nol dissi, e non feci mai cosa
degna del vostro sdegno, omai si renda
la vita mia, qual fu, lieta e gioiosa.


CXXIX

      O mia sventura, o mio perverso fato,
o sentenzia nemica del mio bene,
poi che senza mia colpa mi conviene
portar la pena de l'altrui peccato.
      Quando si vide mai reo condannato
a la morte, a l'essilio, a le catene
per l'altrui fallo e, per maggior sue pene,
senza esser dal suo giudice ascoltato.
      Io griderò, signor, tanto e sì forte,
che, se non li vorrete ascoltar voi,
udranno i gridi miei Amore o Morte;
      e forse alcun pietoso dirà poi:
- Questa locò per sua contraria sorte
in troppo crudo luogo i pensier suoi.


CXXX

      Qual fu di me giamai sotto la luna
donna più sventurata e più confusa,
poi che 'l mio sole, il mio signor m'accusa
di cosa, ov'io non ho già colpa alcuna?
      E, per farmi dolente a via più d'una
guisa, non vuol ch'io possa far mia scusa;
vuol ch'io tenga lo stil, la bocca chiusa,
come muto, o fanciul piccolo in cuna.
      A qual più sventurato e tristo reo
di non poter usar la sua difesa
sì dura legge al mondo unqua si dèo?
      Tal è la fiamma, ond'hai me, Amor, accesa,
tal è il mio fato dispietato e reo,
tal è 'l laccio crudel, con che m'hai presa.


CXXXI

      Poiché da voi, signor, m'è pur vietato
che dir le vere mie ragion non possa,
per consumarmi le midolle e l'ossa
con questo novo strazio e non usato,
      fin che spirto avrò in corpo ed alma e fiato,
fin che questa mia lingua averà possa,
griderò sola in qualche speco o fossa
la mia innocenzia e più l'altrui peccato.
      E forse ch'averrà quello ch'avenne
de la zampogna di chi vide Mida,
che sonò poi quel ch'egli ascoso tenne.
      L'innocenzia, signor, troppo in sé fida,
troppo è veloce a metter ale e penne,
e, quanto più la chiude altri, più grida.


CXXXII

      Quando io dimando nel mio pianto Amore,
che così male il mio parlar ascolta,
mille fiate il dì, non una volta,
ché mi fere e trafigge a tutte l'ore:
      - Come esser può, s'io diedi l'alma e 'l core
al mio signor dal dì ch'a me l'ho tolta,
e se ogni cosa dentro a lui raccolta
è riso e gioia, è scema di dolore,
      ch'io senta gelosia fredda e temenza,
e d'allegrezza e gioia resti priva,
s'io vivo in lui, e in me di me son senza?
      - Vo' che tu mora al bene ed al mal viva -
mi risponde egli in ultima sentenza -
questo ti basti, e questo fa' che scriva.


CXXXIII

      Così, senza aver vita, vivo in pene,
e, vivendo ov'è gioia, non son lieta;
così fra viva e morta Amor mi tiene,
e vita e morte ad un tempo mi vieta.
      Tal la sua sorte a ognun nascendo viene,
tal fu il mio aspro e mio crudo pianeta;
di sì rio frutto in sitibonde arene,
senza mai sparger seme, avien ch'io mieta.
      E s'io voglio per me stessa finire
con la vita i tormenti, non m'è dato,
ché senza vita un uom non può colpire.
      Qual fine Amore e 'l ciel m'abbia serbato
io non so, lassa, e non posso ridire;
so ben ch'io sono in un misero stato.


CXXXIV

      Queste rive ch'amai sì caldamente,
rive sovra tutt'altre alme e beate,
fido albergo di cara libertade,
nido d'illustre e riposata gente,
      chi 'l crederia? mi son novellamente
sì fattamente fuor del cor andate,
che di passar con lor le mie giornate
mi doglio meco e mi pento sovente.
      E tutti i miei disiri e i miei pensieri
mirano a quel bel colle, ove ora stanza
il mio signor e i suoi due lumi alteri.
      Quivi, per acquetar la desianza,
spenderei tutta seco volentieri
questa vita penosa che m'avanza.


CXXXV

      Quanto è questo fatto ora aspro e selvaggio
di dolce, ch'esser suole, e lieto mare!
Dopo il vostro da noi allontanare
quanta compassione a me propria aggio,
      tanto ho invidia al bel colle, al pino, al faggio,
che gli fanno ombra, al fiume, che bagnare
gli suole il piede ed a me nome dare,
che godono or del vostro vivo raggio.
      E, se non che egli è pur quell'il bel nido,
dove nasceste, io pregherei che fesse
il ciel lui ermo, lor secchi e quel torbo:
      per questo io resto, e prego voi, o fido
del mio cor speglio, ove mi tergo e forbo,
a tornar tosto e serbar le promesse.


CXXXVI

      Chi mi darà di lagrime un gran fonte,
ch'io sfoghi a pieno il mio dolor immenso,
che m'assale e trafige, quando io penso
al poco amor del mio spietato conte?
      Tosto che '1 sol degli occhi suoi tramonte
agli occhi miei, a' quali è raro accenso,
tanto ha di me non più memoria o senso,
quanto una tigre del più aspro monte.
      Ben è 'l mio stato e 'l destin crudo e fero,
ché tosto che da me vi dipartite,
voi cangiate, signor, luogo e pensiero.
      - Io ti scriverò subito - mi dite -
ch'io sarò giunto al loco ove andar chero; -
e poi la vostra fede a me tradite.


CXXXVII

      Prendete il volo tutti in quella parte,
ove sta chi può dar fine a' miei mali
col raggio sol de' lumi suoi fatali,
o sospir, o querele al vento sparte.
      E con quanta eloquenzia e con quant'arte
vi detterà colui c'ha face e strali,
dite a la vita mia pietose quali
dì provo, quando egli da noi si parte.
      E se con vostri umili modi adorni
potrete far pietoso il vago aspetto,
sì ch'a star oggimai con noi ritorni,
      non tornate più voi, ch'io non v'aspetto:
rimanetevi pur in que' soggiorni,
e venga a me con lui gioia e diletto.


CXXXVIII

      Sacro fiume beato, a le cui sponde
scorgi l'antico, vago ed alto colle,
ove nacque la pianta ch'oggi estolle
al ciel i rami e le famose fronde,
      ben fûr le stelle ai tuoi desir seconde,
ché 'l sì spesso veder non ti si tolle
e 'l far talor la bella pianta molle,
ch'a me, lassa, sì spesso si nasconde.
      Tu mi dài nome, ed io vedrò se 'n carte
posso con le virtù che la mi rende,
al secol, che verrà, famoso farte.
      Oh pur non turbi il ciel, cui sempre offende
la gioia mia, i miei disegni in parte!
Altri ch'ella so ben che non m'intende.


CXXXIX

      Fiume, che dal mio nome nome prendi,
e bagni i piedi a l'alto colle e vago,
ove nacque il famoso ed alto fago,
de le cui fronde alto disio m'accendi,
      tu vedi spesso lui, spesso l'intendi,
e talor rendi la sua bella imago;
ed a me che d'altr'ombra non m'appago,
così sovente, lassa, lo contendi.
      Pur, non ostante che la nobil fronde,
ond'io piansi e cantai con più d'un verso,
la tua mercé, sì spesso lo nasconde,
      prego 'l ciel ch'altra pioggia o nembo avverso
non turbi, Anasso, mai le tue chiar'onde
se non quel sol che da quest'occhi verso.


CXL

      O rive, o lidi, che già foste porto
de le dolci amorose mie fatiche,
mentre stavan con noi le luci amiche,
che sempre accese ne l'interno porto,
      quanta mi deste già gioia e conforto,
tanto mi sète ad or ad or nemiche,
poi che 'l mio sol (lassa, convien che 'l diche!)
voi e me ha lasciato a sì gran torto.
      Io cangerei con voi campagne e boschi
e colli e fiumi, là dove dimora
chi partendo lasciò gli occhi mei foschi,
      e di tornar non fa pensier ancora,
non ostante, crudel, che ben conoschi
che, se sta molto, converrà ch'io mora.


CXLI

      Sovente Amor, che mi sta sempre a lato,
mi dice: - Miserella, quale or fia
la vita tua, poi che da te si svia
lui che soleva far lieto il tuo stato? -
      Io gli rispondo: - E tu perché mostrato
l'hai a questi occhi, quando 'l vidi pria,
se ne dovea seguir la morte mia,
subito visto e subito rubbato? -
      Ond'ei si tace, avvisto del suo fallo,
ed io mi resto preda del mio male:
quanto mesta e dogliosa, il mio cor sallo!
      E, perch'io preghi, il mio pregar non vale,
per ciò che a chi devrebbe, ed a chi fàllo,
o poco o nulla del mio danno cale.


CXLII

      Rimandatemi il cor, empio tiranno,
ch'a sì gran torto avete ed istraziate,
e di lui e di me quel proprio fate,
che le tigri e i leon di cerva fanno.
      Son passati otto giorni, a me un anno,
ch'io non ho vostre lettre od imbasciate,
contro le fé che voi m'avete date,
o fonte di valor, conte, e d'inganno.
      Credete ch'io sia Ercol o Sansone
a poter sostener tanto dolore,
giovane e donna e fuor d'ogni ragione,
      massime essendo qui senza 'l mio core
e senza voi a mia difensione,
onde mi suol venir forza e vigore?


CXLIII

      Quando fia mai ch'io vegga un dì pietosi
gli occhi, che per mio mal da prima vidi
in queste rive d'Adria, in questi lidi
dov'Amor mille lacci aveva ascosi?
      Quando fia mai che libera dir osi,
dato bando a' miei pianti ed a' miei gridi:
- Or ti conforta, anima cara, or ridi,
or tempo è ben che godi e che riposi? -
      Lassa, non so; so ben che ad ora ad ora
ho cercato placar o lui o morte,
e né questa né quello ho mosso ancora.
      Tal è, misera, il fin, tal è la sorte
di chi troppo altamente s'innamora:
donne mie, siate a l'invescarvi accorte.


CXLIV

      Ricorro a voi, luci beate e dive,
a voi che sète le mie fide scorte,
da poi che 'l cielo, Amor, fortuna e sorte
sono ai soccorsi miei sì tardi e schive.
      Se per me in voi si spera e 'n voi si vive,
come avien che per voi pur si comporte
a star lunge da me quest'ore corte,
che 'l mio ben la pietà vostra prescrive?
      Deh non state oggimai da me più lunge!
Fate che questo breve spazio sia
concesso a me d'avervi sempre presso;
      ché l'ardente disio tanto mi punge,
che certo finirà la vita mia,
se non m'è 'l vagheggiarvi ognor concesso.


CXLV

      Liete campagne, dolci colli ameni,
verdi prati, alte selve, erbose rive,
serrata valle, ov'or soggiorna e vive
chi può far i miei dì foschi e sereni,
      antri d'ombre amorose e fresche pieni,
ove raggio di sol non è ch'arrive,
vaghi augei, chiari fiumi ed aure estive,
vezzose ninfe, Pan, fauni e sileni,
      o rendetemi tosto il mio signore,
voi che l'avete, o fategli almen cónta
la mia pena e l'acerbo aspro dolore:
      ditegli che la vita mia tramonta,
s'omai fra pochi giorni, anzi poch'ore
il suo raggio a quest'occhi non sormonta.


CXLVI

      Come posso far pace col desio,
o farvi tregua, poi ch'egli pur vuole,
non essendo qui nosco il suo bel sole,
tranquillo porto e sole al viver mio?
      Egli fa giorno al suo colle natio,
come a chi nulla o poco incresce e duole
o 'l morir nostro o 'l pianto o le parole:
lassa, ch'io nacqui sotto destin rio!
      Là dove converrà che tosto ceda
a morte l'alma o tosto a noi ritorni
la beltà ch'al mio mal non par che creda.
      Tal qui, fra questi d'Adria almi soggiorni,
io misera Anassilla, d'Amor preda,
notte e dì chiamo i miei due lumi adorni.


CXLVII

      - Or sopra il forte e veloce destriero -
io dico meco - segue lepre o cerva
il mio bel sole, or rapida caterva
d'uccelli con falconi o con sparviero.
      Or assal con lo spiedo il cignal fiero,
quando animoso il suo venir osserva;
or a l'opre di Marte or di Minerva
rivolge l'alto e saggio suo pensiero.
      Or mangia, or dorme, or leva ed or ragiona,
or vagheggia il suo colle, or con l'umana
sua maniera trattiene ogni persona. -
      Così, signor, bench'io vi sia lontana,
sì fattamente Amor mi punge e sprona,
ch'ogni vostr'opra m'è presente e piana.


CXLVIII

      Se 'l cielo ha qui di noi perpetua cura,
e partisce ad ognun, come conviene,
che maraviglia è, s'a me diede pene,
e mi diè vita dispietata e dura?
      e se 'l mio sol di me poco si cura?
se mi vede morir e lo sostiene?
Ei vince il sol con sue luci serene,
illustre e bel per studio e per natura.
      A lui convien regnare, a me servire,
vil donna e bassa; e parmi ancora troppo
ch'egli non sdegni il mio per lui patire.
      Queste ragioni ed altre insieme aggroppo
meco talor, per dar tregua al martìre
col desir sempre presto e 'l poter zoppo.


CXLIX

      Sì come tu m'insegni a sospirare,
arder di fiamma tal, che Etna pareggia,
pianger di pianto tal, che se n'aveggia
omai quest'onda e cresca questo mare,
      insegnami anche, Amor, tu che 'l puoi fare,
come men duro il mio signor far deggia,
come, quando adivien che pietà chieggia,
possa placarlo al suon del mio pregare.
      Ch'io ti perdono e danni e strazi e torti,
che tu m'hai fatto e fai, tanti e sì gravi,
ch'io non so come il ciel te lo comporti;
      perché non fia più pena che m'aggravi,
pur ch'io faccia pietosi e faccia accorti
gli occhi che del mio cor hanno le chiavi.


CL

      Larghe vene d'umor, vive scintille,
che m'ardete e bagnate in acqua e 'n fiamma,
sì, che di me omai non resta dramma,
che non sia tutta pelaghi e faville,
      fate che senta almeno una di mille
aspre mie pene chi mi lava e 'nfiamma,
né di foco che m'arda sente squamma,
né d'umor goccia che dagli occhi stille.
      - Non son - mi dice Amor - le ragion pari;
egli è nobile e bel, tu brutta e vile;
egli larghi, tu hai li cieli avari.
      Gioia e tormento al merto tuo simìle
convien ch'io doni. - In questi stati vari
io peno, ei gode; Amor segue suo stile.


CLI

      Piangete, donne, e con voi pianga Amore,
poi che non piange lui, che m'ha ferita
sì, che l'alma farà tosto partita
da questo corpo tormentato fuore.
      E se mai da pietoso e gentil core
l'estrema voce altrui fu essaudita,
dapoi ch'io sarò morta e sepelita,
scrivete la cagion del mio dolore:
      "Per amar molto ed esser poco amata
visse e morì infelice, ed or qui giace
la più fidel amante che sia stata.
      Pregale, viator, riposo e pace,
ed impara da lei, sì mal trattata,
a non seguir un cor crudo e fugace".


CLII

      Io vorrei pur ch'Amor dicesse come
debbo seguirlo e con qual arte e stile
possa sperar di far chi m'arde umìle,
o diporr'io queste amorose some.
      Io ho le forze omai sì fiacche e dome,
sì spaventosa son tornata e vile,
che, quasi ad Eco imagine simìle,
di donna serbo sol la voce e 'l nome:
      né, perché le vestigia del mio sole
io segua sempre, come fece anch'ella,
e risponda a l'estreme sue parole,
      posso indur la mia fiera e dura stella
ad oprar sì ch'ei, crudo come suole,
s'arresti al suon di mia stanca favella.


CLIII

      Se poteste, signor, con l'occhio interno
penetrar i segreti del mio core,
come vedete queste ombre di fuore
apertamente con questo occhio esterno,
      vi vedreste le pene de l'inferno,
un abisso infinito di dolore,
quanta mai gelosia, quanto timore
Amor ha dato o può dar in eterno.
      E vedreste voi stesso seder donno
in mezzo a l'alma, cui tanti tormenti
non han potuto mai cavarvi, o ponno;
      e tutti altri disir vedreste spenti,
od oppressi da grave ed alto sonno
e sol quei d'aver voi desti ed ardenti.


CLIV

      Straziami, Amor, se sai, dammi tormento,
tommi pur lui, che vorrei sempre presso,
tommi pur, crudo e disleal, con esso
ogni mia pace ed ogni mio contento,
      fammi pur mesta e lieta in un momento,
dammi più morti con un colpo stesso,
fammi essempio infelice del mio sesso,
che per ciò di seguirti non mi pento.
      Perché, volgendo a quei lumi il pensiero,
che vicini e lontani mi son scorta
per l'aspro, periglioso tuo sentiero,
      move da lor virtù, che 'l cor conforta
sì che, quanto più sei crudele e fiero,
tanto più facilmente ei ti comporta.


CLV

      Due anni e più ha già voltato il cielo,
ch'io restai presa a l'amoroso visco
per una beltà tal, che, dirlo ardisco,
simil mai non si vide in mortal velo;
      per questo io la divolgo, e non la celo,
e non mi pento, anzi glorio e gioisco;
e, se donna giamai gradì, gradisco
questa fiamma amorosa e questo gelo;
      e duolmi sol, se sarà mai quell'ora,
che da me si disciolga e leghi altronde
la beltà ch'ogni cosa arde e inamora.
      E, se Morte a chi prega unqua risponde,
la prego che permetta, anzi ch'io mora,
che non vegga d'altrui l'amata fronde.


CLVI

      Mentr'io penso dolente a l'ora breve,
che del suo lume fien mie luci prive,
questi lidi lo sanno e queste rive,
io mi disfaccio com'al sol la neve;
      e quel che par che più m'annoi e aggreve,
è che 'l termine mio tant'oltra arrive,
e che prima di vita non mi prive
morte, a tutt'altri grave, a me sol lieve.
      Ché, s'io morissi innanzi a tanta doglia,
l'anima andrebbe altrove consolata,
lasciando qui la sua terrena spoglia;
      ma fortuna ed Amor m'hanno lasciata,
perché morend'ognora più mi doglia,
questa vita penosa che m'è data.


CLVII

      A che pur dir, o mio dolce signore,
ch'esca frutto da me di lode degno,
a che alzarmi a sì gradito segno,
a che scrivendo procacciarmi onore,
      se da quel dì, ch'entrar mi fece Amore
con l'arme de' vostr'occhi entro 'l suo regno,
voi movete lo stil, l'arte, l'ingegno,
sensi, spirti, pensier, voglie, alma e core?
      Se da me dunque nasce cosa buona,
è vostra, non è mia; voi mi guidate,
a voi si deve il pregio e la corona.
      Voi, non me, da qui indietro omai lodate
di quanto per me s'opra e si ragiona:
ché l'ingegno e lo stil, signor, mi date.


CLVIII

      Deh lasciate, signor, le maggior cure
d'ir procacciando in questa età fiorita
con fatiche e periglio de la vita
alti pregi, alti onori, alte venture;
      e in questi colli, in queste alme e sicure
valli e campagne, dove Amor n'invita,
viviamo insieme vita alma e gradita
fin che 'l sol de' nostr'occhi alfin s'oscure.
      Perché tante fatiche e tanti stenti
fan la vita più dura, e tanti onori
restan per morte poi subito spenti.
      Qui coglieremo a tempo e rose e fiori,
ed erbe e frutti, e con dolci concenti
canterem con gli uccelli i nostri amori.


CLIX

      Quella febre amorosa, che m'atterra
due anni e più e quel gravoso incarco
ch'io sento, poi ch'Amor mi prese al varco
di duo begli occhi, onde l'uscir mi serra,
      potea bastare a farmi andar sotterra,
lasciar lo spirto del suo corpo scarco,
senza voler ch'oltra i suoi strali e l'arco,
altra febre, altro mal mi fesse guerra.
      Padre del ciel, tu vedi in quante pene
questo misero spirto e questa scorza
a tormentare Amor e febre viene.
      Di queste febri o l'uno o l'altra smorza,
ché due tanti nemici non sostiene
donna sì frale e di sì poca forza.


CLX

      Care stelle, che tutte insieme insieme
con Cupido e Ciprigna vaghe e pronte
deste il mio cor a quell'altero conte,
che per premio m'ha poi tolto la speme,
      poi che vedete ch'ei, che nulla teme,
contra voi, contra me alza la fronte,
vendicate le vostre e le mie onte
con vendette più crude e più supreme.
      E questo sia non che 'l mio cor mi renda,
ma mi dia il suo, e rendami la spene,
e così si dia otta per vicenda.
      Fate che 'n quelle ond'io son or catene
presa e legata, il conte i' leghi e prenda;
questo strazio al superbo si convene.







CLXI

      Verso il bel nido, ove restai partendo,
ove vive di me la miglior parte,
quando il sol faticoso torna e parte,
mai sempre l'ale del disir io stendo.
      E me ad or ad or biasmo e riprendo,
ch'a star con voi non usai forza ed arte,
sapendo che, da voi stando in disparte,
ben mille volte al dì moro vivendo.
      La speme mosse il mio dubbioso piede,
che deveste venir tosto a vedermi,
per arrestar questa fugace vita.
      Osservate, signor, la data fede:
fate, venendo, questi lidi, or ermi,
cari e gioiosi, e me lieta e gradita.


CLXII

      Se 'l fin degli occhi miei e del pensiero
è 'l vedervi e di voi pensar, mia vita,
poi l'un mi tolse l'empia dipartita
ch'io fei da voi per non dritto sentiero,
      l'imagin del sembiante vostro vero
mi sta sempre nel cor fissa e scolpita,
qual donna in parte, ove sia più gradita
che gemme oriental, oro od impero.
      Ma, perché l'alma disiosa e vaga,
troppo aggravata d'amorosa sete,
di questo sol rimedio mal s'appaga,
      fate le luci mie gioiose e liete,
signor, di vostra vista, e questa piaga
saldate, che voi sol saldar potete.


CLXIII

      Quando mostra a quest'occhi Amor le porte
de l'immensa bellezza ed infinita
de l'unico mio sol, l'alma invaghita
de le sue glorie par che si conforte.
      Quando poi mostra a la memoria a sorte
quelle di crudeltà mai non udita,
tutta a l'incontro afflitta e sbigottita
resta preda ed imagine di morte.
      E così vita e morte, e gioie e pene,
e temenza e fidanza, e guerra e pace
per le tue mani, Amor, d'un luogo viene.
      Né questo vario stato mi dispiace,
sì son dolci i martìri e le catene;
ma temo che sarà breve e fugace.


CLXIV

      Occhi miei lassi, non lasciate il pianto,
come non lascian me téma e spavento
di veder tosto a noi rubato e spento
il lume ch'amo e riverisco tanto.
      Pregate morte, se si può, fra tanto
che mi venga essa a cavar fuor di stento;
perché morir a un tratto è men tormento,
che viver sempre a mille morti a canto.
      Io direi che pregaste prima Amore
che facesse cangiar voglia e pensiero
al nostro crudo e disleal signore;
      ma so che saria invan, perché sì fiero,
così indurato ed ostinato core
non ebbe mai illustre cavaliero.


CLXV

      S'una vera e rarissima umiltate,
una fé più che marmo e scoglio salda,
una fiamma ch'abbrucia, non pur scalda,
un non curar de la sua libertate,
      un, per piacer a le due luci amate,
aver l'alma al morir ardita e balda,
un liquefarsi come neve in falda
mertan per tempo omai trovar pietate.
      io devrei pur sperar d'aprir lo scoglio,
ch'intorno al core ha il mio signor sì sodo,
ch'altrui pregare o strazio anco non franse.
      Ed io ne prego ardente, come soglio,
Amor e lui, che m'hanno stretto il nodo,
e san quanto per me si piange e pianse.


CLXVI

      Io accuso talora Amor e lui
ch'io amo; Amor, che mi legò sì forte;
lui, che mi può dar vita e dammi morte,
cercando tôrsi a me per darsi altrui;
      ma, meglio avista, poi scuso ambedui,
ed accuso me sol de la mia sorte,
e le mie voglie al voler poco accorte,
ch'io de le pene mie ministra fui.
      Perché, vedendo la mia indegnitade,
devea mirar in men gradito loco,
per poterne sperar maggior pietade.
      Fetonte, Icaro ed io, per poter poco
ed osar molto, in questa e quella etade
restiamo estinti da troppo alto foco.


CLXVII

      Poi che disia cangiar pensiero e voglia
l'empio signor, ch'onoro ed amo tanto,
senza curar de' fiumi del mio pianto,
e del mancar de la mia frale spoglia,
      io prego morte, che di qua mi toglia,
perché non abbia questo crudo il vanto;
o prego Amor, che mi rallenti alquanto,
poi che de' doni suoi tutta mi spoglia;
      sì che o morta non vegga tanto danno,
o viva e sciolta non lo stimi molto,
allor che gli occhi altro mirar sapranno.
      Dunque o sia falso il mio temere e stolto,
o resti sciolta al rinovar de l'anno,
o queti il corpo in bel marmo sepolto.


CLXVIII

      Che bella lode, Amor, che ricche spoglie
avrai d'una infiammata giovenetta,
che t'è stata sì fida e sì soggetta,
seguendo più le tue che le sue voglie,
      se per te così tosto si discioglie
da la catena, che l'aveva stretta,
la qual le piace sì, sì le diletta,
ch'a penar dolcemente par l'invoglie?
      Non conviene ad un dio l'esser sì lieve,
massimamente quando il cangiar stato
non è diletto altrui, ma doglia greve.
      Ma tu pur segui il tuo costume usato,
e fai la gioia mia fugace e breve,
ritogliendomi il ben che m'hai donato.


CLXIX

      A che più saettarmi, arcier spietato?
Se tu lo fai per mostrar la tua forza,
io ho già tutto dentro e ne la scorza
questo misero corpo arso e 'mpiagato.
      Se tu lo fai per farmi un dì placato
chi la mia libertà mi lega e smorza,
tu speri invan, perché tua poggia ed orza
nulla rileva il suo legno ostinato.
      Egli si pasce del mio crudo strazio,
quanto è maggior, e de l'aspre mie pene,
non pur che mai ne sia pentito e sazio;
      ed in una gran téma mi mantiene
che, fatto d'altra donna, in breve spazio
mi torrà le sue luci alme e serene.


CLXX

      Fammi pur certa, Amor, che non mi toglia
tempo, fortuna, invidia o crudeltade
la mia viva ed angelica beltade,
quella ch'appaga e queta ogni mia voglia;
      e dammi quanto sai tormento e doglia:
che tutto mi sarà gioia e pietade;
tommi riposo, tommi libertade,
e, se ti par, tommi anco questa spoglia:
      che per certo io morrò lieta e contenta,
morendo sua, pur che non vegga io
ch'ella sia fatta d'altra donna, o senta.
      Questa sol tèma turba il piacer mio,
questa fa ch'a' miei danni non consenta,
e fa la speme ritrosa al desio.


CLXXI

      Voi potete, signor, ben tôrmi voi
con quel cor d'indurato diamante,
e farvi d'altra donna novo amante;
di che cosa non è, che più m'annoi;
      ma non potete già ritormi poi
l'imagin vostra, il vostro almo sembiante,
che giorno e notte mi sta sempre innante,
poi che mi fece Amor de' servi suoi;
      non potete ritôrmi quei desiri,
che m'acceser di voi sì caldamente,
il foco, il pianto, che per gli occhi verso.
      Questi mi fien ne' miei gravi martìri
dolce sostegno, e la memoria ardente
del diletto provato, c'han disperso.


CLXXII

      S'una candida fede, un cor sincero,
una gran riverenza, una infinita
voglia a servir altrui pronta ed ardita,
un servo grato al suo signor mai fêro,
      devrebbe pur, signor, l'affetto vero
e la mia fede esser da voi gradita,
se i vostri onor più cari che la vita
mi fûr mai sempre, e più ch'oro ed impero.
      Ma poi che mia fortuna mi contende
mercé sì giusta, poi che a sì gran torto
a schivo il servir mio da voi si prende,
      ciò ch'a voi piace paziente porto,
sperando pur che Dio, che tutto intende,
vi faccia un dì de la mia fede accorto.


CLXXIII

      Cantate meco, Progne e Filomena,
anzi piangete il mio grave martìre,
or che la primavera e 'l suo fiorire
i miei lamenti e voi, tornando, mena.
      A voi rinova la memoria e pena
de l'onta di Tereo e le giust'ire;
a me l'acerbo e crudo dipartire
del mio signore morte empia rimena.
      Dunque, essendo più fresco il mio dolore,
aitatemi amiche a disfogarlo,
ch'io per me non ho tanto entro vigore.
      E, se piace ad Amor mai di scemarlo,
io piangerò poi 'l vostro a tutte l'ore
con quanto stile ed arte potrò farlo.


CLXXIV

      Una inaudita e nova crudeltate,
un esser al fuggir pronto e leggiero,
un andar troppo di sue doti altero,
un tôrre ad altri la sua libertate,
      un vedermi penar senza pietate,
un aver sempre a' miei danni il pensiero,
un rider di mia morte quando pèro,
un aver voglie ognor fredde e gelate,
      un eterno timor di lontananza,
un verno eterno senza primavera,
un non dar giamai cibo a la speranza
      m'han fatto divenir una Chimera,
uno abisso confuso, un mar, ch'avanza
d'onde e tempeste una marina vera.


CLXXV

      Quasi uom che rimaner de' tosto senza
il cibo, onde nudrir suol la sua vita,
più dell'usato a prenderne s'aita,
fin che gli è presso posto in sua presenza;
      convien ch'innanzi a l'aspra dipartenza
ch'a si crudi digiuni l'alma invita,
ella più de l'usato sia nodrita,
per poter poi soffrir si dura assenza.
      Però, vaghi occhi miei, mirate fiso
più de l'usato, anzi bevete il bene
e 'l bel del vostro amato e caro viso.
      E voi, orecchie, oltra l'usato piene
restate del parlar, ché 'l paradiso
certo armonia più dolce non contiene.


CLXXVI

      Se voi vedete a mille chiari segni
che tanto ho cara, e non più, questa vita,
quant'è con voi, quant'è da voi gradita,
ultimo fin de tutti i miei disegni,
      a che pur con nov'arte e novi ingegni
darmi qualche novella aspra ferita,
tramando or questa, or quella dipartita,
quasi ogni pace mia da voi si sdegni?
      Se volete ch'io mora, un colpo solo
m'uccida, sì ch'omai si ponga fine
ai dispiacervi, al vivere ed al duolo;
      perché così sta sempre sul confine
di morte l'alma, e mai non prende il volo,
pensando pur a voi, luci divine.


CLXXVII

      Poi che tu mandi a far tanta dimora,
empia Fortuna, in sì lontan paese
il chiaro e vivo raggio che m'accese,
empia ed aversa a' miei disiri ognora,
      conveniente e giusto e degno fôra
che tu mi fossi almen tanto cortese,
che quest'ore sì brevi avesse spese
qui meco tutte lui che m'innamora;
      sì che 'l cor e gli orecchi e gli occhi insieme
prendesser cibo a sostenermi in vita
quel lungo tempo poi ch'ei fia lontano,
      Ma tu stai dura, ed io mi doglio invano,
dal ciel, da te e poi d'Amor tradita;
però l'alma di ciò sospira e geme.


CLXXVIII

      Perché mi sii, signor, crudo e selvaggio,
disdegnoso, inumano ed inclemente,
perché abbi vòlto altrove ultimamente
spirto, pensieri, cor, anima e raggio,
      non per questo adivien che 'l foco, ch'aggio
nel petto acceso, si spenga o s'allente;
anzi si fa più vivo e più cocente,
quant'ha da te più strazi e fiero oltraggio.
      Ché, s'io t'amassi come l'altre fanno,
t'amerei solo e seguirei fin tanto
ch'io ne sentissi utile, e non danno;
      ma per ciò ch'amo te, amo quel santo
lume, che gli occhi miei visto prima hanno,
convien ch'io t'ami a l'allegrezza e al pianto.


CLXXIX

      Meraviglia non è, se 'n uno istante
ritraeste da me pensieri e voglie,
ché vi venne cagion di prender moglie,
e divenir marito, ov'eri amante.
      Nodo e fé, che non è stretto e costante,
per picciola cagion si rompe e scioglie:
la mia fede e 'l mio nodo il vanto toglie
al nodo gordiano ed al diamante.
      Però non fia giamai che scioglia questo
e rompa quella, se non cruda morte,
la qual prego, signor, che venga presto;
      sì ch'io non vegga con le luci scorte
quello ch'or col pensier atro e funesto
mi fa veder la mia spietata sorte.


CLXXX

      Certo fate gran torto a la mia fede,
conte, sovra ogni fé candida e pura,
a dir che 'n Francia è più salda e più dura
la fé di quelle donne a chi lor crede.
      Se, come Amor ch'i pensier dentro vede,
e passa ov'occhio uman non s'assicura,
penetraste anco voi per mia ventura
ove l'imagin vostra altera siede,
      voi la vedreste salda come scoglio,
immobilmente appresso del mio core,
e diporreste meco il vostro orgoglio.
      Ma voi vedete sol quel ch'appar fuore;
per questo io resto, misera, uno scoglio,
e voi credete poco al mio dolore.


CLXXXI

      Diversi effetti Amor mi fe' vedere
poco anzi; or mi pascea di gelosia,
dimostrandomi quanto lieve sia
creder suo quel ch'a molte può piacere;
      or mi pascea di speme e di piacere,
mostrandomi la fé mai sempre pria
salda e costante de la gloria mia,
e le promesse sue secure e vere.
      Per questo or fra tempeste, or fra bonaccia
guidai la barca mia dubbia e sicura,
vedendo Amor or fosco, or chiaro in faccia.
      Or la speranza più non m'assicura,
e la temenza vuol ch'io mi disfaccia.
Dir più non oso, e sallo chi n'ha cura.


CLXXXII

      La vita fugge, ed io pur sospirando
trapasso, lassa, il più degli anni miei,
né di passarli ardendo mi dorrei,
a la cagion de' miei sospir mirando;
      se non che non so punto il come o 'l quando
den le mie gioie dar luogo agli omei;
ché forse a poco a poco m'userei
ad andar le mie pene sopportando.
      Anzi, misera, io so che sarà tosto,
ché per partenza o per cangiar volere
il fin de' miei piacer non è discosto.
      E, perch'Amor mel faccia prevedere,
non è per questo il mio petto disposto
a poter tanta doglia sostenere.


CLXXXIII

      Deh consolate il cor co' vostri rai
questo almen poco spazio, che m'avanza
de la vostra vicina lontananza,
ch'io non vedrò con gli occhi asciutti mai.
      Lasciate i vostri amati colli e gai,
a voi sì cara e a me nemica stanza,
colli, c'hanno imparato per usanza
a farmi oltraggio sì sovente omai.
      Già senza voi non fia manco fiorita
la chioma de' bei colli, dov'io forsi
resterò, senza voi, senza la vita.
      Che cosa è, conte, a la pietate opporsi,
se non negare a chi dimanda aita
i suoi pietosi, i suoi dolci soccorsi?


CLXXXIV

      Io non trovo più rime, onde più possa
lodar vostra beltà, vostro valore,
e contare i tormenti del mio core;
sì cresce a quelli e a me manca la possa.
      E, quasi fiamma che sia dentro mossa,
e non possa sfogar l'incendio fore,
questo interno disio cresce 'l dolore,
e mi consuma le midolle e l'ossa;
      sì che fra tutti i beni e tutti i mali,
ch'Amor suol dar, io ho questo vantaggio,
che quanti sien ridir non posso, e quali.
      Dunque, o tu, vivo mio lucente raggio,
dammi vigore, o tu dammi, Amor, l'ali,
ch'io saglia a mostrar fuor quel che 'n cor aggio.


CLXXXV

      Io penso talor meco quanto amaro
fora il mio stato, se per qualche sdegno,
o per stimarsi il mio signor più degno,
mi ritogliesse il suo bel lume e chiaro;
      e mi risolvo che 'l vero riparo,
quando ad essaminar ben tutto vegno,
per finire i miei mal tutti ad un segno,
saria di morte il colpo aspro ed avaro.
      Ché, s'io restassi in vita, gli occhi e 'l core,
la speranza, il disio mi farian guerra,
che prendon sol da lui ésca e vigore;
      dove, s'io fossi morta e posta in terra,
si porria fin ad un tratto al dolore,
ch'è vita morte che più morti atterra.


CLXXXVI

      - Che fia di me - dico ad Amor talora, -
poi che del mio signor gli occhi sereni
lasseran questi miei di pianto pieni,
fatto esso d'altri infin a l'ultim'ora?
      - Che fia di me - mi rispond'egli allora, -
ch'arco e saette e faci e teme e speni
tengo in quegli occhi, e tutti altri miei beni,
né mai ritrarli io ho potuto ancora?
      D'indi soglio infiammar, d'indi ferire;
or, se come tu di', ce li ritoglie,
caduta è la mia gloria e 'l nostro ardire. -
      In queste amare e dispietate voglie
restiam noi due, ed ei segue di gire
carco e superbo de le nostre spoglie.


CLXXXVII

      Se gran temenza non tenesse a freno
la mia lingua bramosa e 'l mio disio,
sì ch'io potessi dire al signor mio
come amando e temendo io vengo meno,
      io spererei che quel di grazie pieno
viso leggiadro, onde tutt'altro oblio,
quant'è 'l mio stato travagliato e rio,
tanto lo fesse un dì chiaro e sereno;
      e quello, onde m'avinse e strinse, nodo
non cercherebbe, lassa, di slegarlo,
allor che più credea che fosse sodo.
      Ma per troppo timor non oso farlo;
così dentro al mio cor mi struggo e rodo,
e sol con meco e con Amor ne parlo.


CLXXXVIII

      Quasi vago e purpureo giacinto,
che 'n verde prato, in piaggia aprica e lieta,
crescendo ai raggi del più bel pianeta,
che lo mantien degli onor suoi dipinto,
      subito torna languidetto e vinto,
sì che mai non si vide tanta pièta,
se di veder gli usati rai gli vieta
nube, che 'l sol abbia coperto e cinto;
      tal la mia speme, ch'ognor s'erge e cresce,
dinanzi a' rai de la beltà infinita,
onde ogni sua virtute e vigor esce.
      Ma la ritorna poi fiacca e smarrita
oscura téma, che con lei si mesce,
che la sua luce tosto fia sparita.


CLXXXIX

      Lassa, in questo fiorito e verde prato
de le delizie mie, fra sì fresca erba,
onde, la tua mercé, vo sì superba,
Amor, poi che 'l mio sol m'hai ritornato,
      per quel ch'a certi segni m'è mostrato,
un empio e venenoso aspe si serba,
per far la vita mia di dolce acerba
e avelenarmi il mio felice stato.
      Il che se de' seguir, prego che priva
mi faccia morte e di vita e di senso,
prima che questa téma giunga a riva;
      perch'a dover provar dolor sì immenso,
assai meglio è morir che restar viva,
se le provate mie doglie compenso.


CXC

      Acconciatevi, spirti stanchi e frali,
a sostener la perigliosa guerra
e 'l colpo, che fortuna empia disserra,
da noi partendo i lumi miei fatali.
      Quanti avete fin qui tormenti e quali
sofferti, poi che crudo Amor n'atterra,
son sogni ed ombre, a lato a quei che serra
questa seconda assenzia strazi e mali.
      Perché contra il dolor mi fece ardita
un poco di virtù, che aveva allora
che fece il mio signor l'altra partita;
      or, essendo mancata quella ancora,
ed essendo cresciuta la ferita,
altro schermo non ho, se non ch'io mora.


CXCI

      Comincia, alma infelice, a poco a poco
a ricever di fiera sorte il colpo,
a cui pensando sol mi snervo e spolpo,
ed in guai si converte ogni mio gioco.
      L'alta cagion del nostro chiaro foco
partirà tosto, di che, lassa, io scolpo
Amore, e 'l crudo mio signor incolpo,
sì veloce a cangiar pensier e loco.
      Sì che, quando si parte e torna il sole,
non vegga l'occhio tuo di pianto asciutto,
poi che, dove si può, così si vuole;
      ch'un cor saldo e costante vince il tutto,
e morte alfine, o 'l tempo, come suole,
ti trarran fuor di vita e fuor di lutto.


CXCII

      Amor, lo stato tuo è proprio quale
è una ruota, che mai sempre gira,
e chi v'è suso or canta ed or sospira,
e senza mai fermarsi or scende or sale.
      Or ti chiama fedele, or disleale;
or fa pace con teco, ed or s'adira;
ora ti si dà in preda, or si ritira;
or nel ben teme, ed or spera nel male;
      or s'alza al cielo, or cade ne l'inferno;
or è lunge dal lido, or giunge in porto;
or trema a mezza state, or suda il verno.
      Io, lassa me, nel mio maggior conforto
sono assalita d'un sospetto interno,
che mi tien sempre il cor fra vivo e morto.


CXCIII

      Se quel grave martìr che il cor m'afflige,
non temprasse talor cortese Amore,
già mi sarei di vita uscita fuore,
e varcato averei Cocito e Stige;
      ma, perché quant'ei più m'ange e trafige,
tanto la gioia poi tempra l'ardore,
tenendo sempre fra due, lassa, il core,
né al sì, né al no l'alma s'affige.
      Così d'ambrosia vivo e di veleno,
né di vita o di morte sta sicura
l'anima, ch'or s'aviva ed or vien meno.
      O strana, o nova, o insolita ventura,
o petto di dolor e noia pieno,
o diletto, o martìr, che poco dura!


CXCIV

      - Chi darà lena a la tua stanca vita -
talor dentro nel cor mi dice Amore, -
or che chi ti suol dar lena e vigore
s'apparecchia di far da te partita?
      Pensando a ciò, sì a lagrimar m'invita
questo vero e giustissimo dolore,
che sarei già di vita uscita fore,
se non che 'l raggio di chi può m'aita.
      E rimango pregando o lui o Morte:
lui, che non parta, o lei, che a me ne vegna,
sì ch'ei vegga presente tanta pièta.
      Ma al mio gridare e al mio pregar sì forte
di risponder né questa né quel degna,
e la sua aita ognun di lor mi vieta.


CXCV

      Voi vi partite, conte, ed io, qual soglio,
mi rimango di duol preda e di morte,
e questa o quello ingiurioso e forte
userà contra me l'usato orgoglio.
      Né potrò farmi a' colpi loro scoglio,
non avendo con me chi mi conforte,
il vostro viso e le due fide scorte,
che ne' perigli per iscudo toglio.
      Deh, foss'io certa almen che di due cose
seguisse l'una: o voi tornaste presto,
o fossero anche in voi fiamme amorose!
      Ché mi sarebbe schermo e quello e questo
in far meno l'assenzie mie penose,
e 'l vostro dipartir meno molesto.


CXCVI

      Ecco, Amor, io morrò, perché la vita
si partirà da me, e senza lei
tu sei certo ch'io viver non potrei,
ché saria cosa nova ed inaudita.
      Quanto a me, ne sarò poco pentita,
perché la lunga istoria degli omei,
de' sospir, de' martìr, de' dolor miei
sarà per questo mezzo almen finita;
      mi dorrà sol per conto tuo, che poi
non avrai cor sì saldo e sì costante,
dove possi aventar gli strali tuoi;
      e le vittorie tue, le tante e tante
tue glorie perderanno i pregi suoi,
al cader di sì fida e salda amante.


CXCVII

      Chi 'l crederia? Felice era il mio stato,
quando a vicenda or doglia ed or diletto,
or téma, or speme m'ingombrava il petto,
e m'era il cielo or chiaro ed or turbato;
      perché questo d'Amor fiorito prato
non è a mio giudicio a pien perfetto,
se non è misto di contrario effetto,
quando la noia fa il piacer più grato.
      Ma or l'ha pieno sì di spine e sterpi
chi lo può fare, e svelti i fiori e l'erba,
che sol v'albergan venenosi serpi.
      O fé cangiata, o mia fortuna acerba!
Tu le speranze mie recidi e sterpi:
la cagion dentro al petto mio si serba.


CXCVIII

      Se soffrir il dolore è l'esser forte,
e l'esser forte è virtù bella e rara,
ne la tua corte, Amor, certo s'impara
questa virtù più ch'in ogn'altra corte,
      perché non è chi teco non sopporte
de' dolori e di téme le migliara
per una luce in apparenza chiara,
che poi scure ombre e tenebre n'apporte.
      La continenzia vi s'impara ancora,
perché da quello, onde s'ha più disio,
per riverenza altrui s'astien talora.
      Queste virtuti ed altre ho imparate io
sotto questo signor, che sì s'onora,
e sotto il dolce ed empio signor mio.


CXCIX

      Signor, ite felice ove 'l disio
ad or ad or più chiaro vi richiama
a far volar al ciel la vostra fama,
secura da la morte e da l'oblio;
      ricordatevi sol come rest'io,
solinga tortorella in secca rama,
che senza lui, che sol sospira e brama,
fugge ogni verde pianta e chiaro rio.
      Al mio cor fate cara compagnia,
il vostro ad altra donna non donate,
poi che a me sì fedel nol deste pria.
      Sopra tutto tornar vi ricordate,
e, s'avien che fia quando estinta io sia,
de la mia rara fé non vi scordate.


CC

      Al partir vostro s'è con voi partita
ogni mia gioia ed ogni mia speranza,
l'ardir, la forza, il core e la baldanza,
e poco men che l'anima e la vita:
      e restò sol, più che mai fosse ardita,
l'importuna ed ardente disianza,
la quale in questa vostra lontananza
mi dà, misera me! doglia infinita.
      E, se da voi non vien qualche conforto
o di lettra o di messo o di venire,
certo, signor, il viver mio fia corto;
      perché in amor non è altro il morire,
per quel ch'a mille e mille prove ho scorto,
che aver poca speranza e gran disire.


CCI

      - È questa quella viva e salda fede,
che promettevi a la tua pastorella,
quando, partendo a la stagion novella,
n'andasti ove gran re gallico siede?
      O di quanto il sol scalda e quanto vede
perfido, ingrato in atto ed in favella;
misera me, che ti divenni ancella
per riportarne sì scarsa mercede!
      Così l'afflitta e misera Anassilla
lungo i bei lidi d'Adria iva chiamando
il suo pastor, da cui 'l ciel dipartilla;
      e l'acque e l'aure, dolce risonando,
allor che 'l sol più arde e più sfavilla,
i suoi sospir al ciel givan portando.


CCII

      Poi che per mio destin volgeste in parte
piedi e voler, onde perdei la spene
di riveder più mai quelle serene
luci, c'ho già lodate in tante carte,
      io mi volsi al gran Sole, e con quell'arte
e quella luce, che da lui sol viene,
trassi fuor da le sirti e da l'arene
il legno mio per via di remi e sarte.
      La ragion fu le sarte, e i remi fûro
la volontà, che a l'ira ed a l'orgoglio
d'Amor si fece poi argine e muro.
      Così, senza temer di dar in scoglio,
mi vivo in porto omai queto e sicuro;
d'un sol mi lodo, e di nessun mi dog1io.


CCIII

      Ardente mio disir, a che, pur vago
de' nostri danni, in parte stendi l'ale,
ov'è cui de' miei strazi poco cale,
e del mio trar fuor di quest'occhi un lago?
      Ben si può del mio stato esser presago
il partir de la speme fiacca e frale,
e la memoria, che sì poco assale
quel de le voglie mie tiranno e mago.
      Egli a novi diletti aperto ha 'l seno,
e di me sì fedele ha quella cura,
che di chi non si vede e' si può meno.
      Dunque tu di tornar a me procura,
ché 'l turbar la mia pace e '1 mio sereno
è troppo intempestiva cosa e dura.


CCIV

      Virtuti eccelse e doti illustri e chiare,
ch'alzate al cielo il mio real signore,
sol co' passi di gloria e d'alto onore
già giunto in parte, ove non ha più pare;
      voi, voi sol voglio volgermi ad amare,
temprando il mio focoso e cieco amore,
guidato sol da tenebre ed errore,
ove ambedue potrà forse annoiare.
      Or, racquistato alquanto del mio lume,
potrò specchiarmi in quel bel raggio ardente,
che da prima m'elessi per mio nume;
      e di cibo miglior pascer la mente,
dove io pasceva i sensi per costume
di cosa, che si fugge via repente.


CCV

      Quel disir, che fu già caldo ed ardente
a bellezza seguir fugace e frale,
l'alta mercé di Dio, prese ha già l'ale,
ed è rivolto a più fido oriente,
      seguendo del mio conte solamente
quella interna bellezza e senza eguale,
che con fortuna non scende e non sale,
e del tempo e d'altrui cura niente.
      Da qui indietro il suo sommo valore,
la cortesia e 'l saggio alto intelletto,
d'alte opre vago e di perpetuo onore,
      saran più degna fiamma del mio petto,
e più degno ricetto del mio core,
e de le rime mie più degno oggetto.


CCVI

      Canta tu, musa mia, non più quel volto,
non più quegli occhi e quell'alme bellezze,
che 'l senso mal accorto par che prezze,
in quest'ombre terrene impresso e involto;
      ma l'alto senno in saggio petto accolto,
mille tesori e mille altre vaghezze
del conte mio, e tante sue grandezze,
ond'oggi il pregio a tutti gli altri ha tolto.
      Or sarà il tuo Castalio e 'l tuo Parnaso
non fumo ed ombra, ma leggiadra schiera
di virtù vere, chiuse in nobil vaso.
      Quest'è via da salir a gloria vera,
questo può farti da l'orto a l'occaso
e di verace onor chiara ed altera.


CCVII

      Poi che m'hai resa, Amor, la libertade,
mantiemmi in questo dolce e lieto stato,
sì che 'l mio cor sia mio, sì come è stato
ne la mia prima giovenil etade;
      o, se pur vuoi che dietro a le tue strade,
amando, segua il mio costume usato,
fa' ch'io arda di foco più temprato,
e che, s'io ardo, altrui n'abbia pietade;
      perché mi par veder, a certi segni,
che ordisci novi lacci e nove faci,
e di ritrarmi al giogo tuo t'ingegni.
      Serbami, Amor, in queste brevi paci,
Amor, che contra me superbo regni,
Amor, che nel mio mal sol ti compiaci.


CCVIII

      Amor m'ha fatto tal ch'io vivo in foco,
qual nova salamandra al mondo, e quale
l'altro di lei non men stranio animale,
che vive e spira nel medesmo loco.
      Le mie delizie son tutte e 'l mio gioco
viver ardendo e non sentire il male,
e non curar ch'ei che m'induce a tale
abbia di me pietà molto né poco.
      A pena era anche estinto il primo ardore,
che accese l'altro Amore, a quel ch'io sento
fin qui per prova, più vivo e maggiore.
      Ed io d'arder amando non mi pento,
pur che chi m'ha di novo tolto il core
resti de l'arder mio pago e contento.


CCIX

      Io non veggio giamai giunger quel giorno,
ove nacque Colui che carne prese,
essendo Dio, per scancellar l'offese
del nostro padre al suo Fattor ritorno,
      che non mi risovenga il modo adorno,
col quale, avendo Amor le reti tese
fra due begli occhi ed un riso, mi prese;
occhi, ch'or fan da me lunge soggiorno;
      e de l'antico amor qualche puntura
io non senta al desire ed al cor darmi,
sì fu la piaga mia profonda e dura.
      E, se non che ragion pur prende l'armi
e vince il senso, questa acerba cura
sarebbe or tal che non potrebbe aitarmi.


CCX

      Veggio Amor tender l'arco, e novo strale
por ne la corda e saettarmi il core,
e, non ben saldo ancor l'altro dolore,
nova piaga rifarmi e novo male;
      e sì il suo foco m'è proprio e fatale,
sì son preda e mancipio ognor d'Amore,
che, perché l'alma vegga il suo migliore,
ripararsi da lui né vuol né vale.
      Ben è ver che la tela, che m'ordisce,
sempre è di ricco stame; e quindi aviene
che ne' suoi danni il cor père e gioisce;
      e 'l ferro è tale, onde a ferirmi or viene,
che si può dir che chi per lui perisce
prova sol una vita e sommo bene.


CCXI

      Qual sagittario, che sia sempre avezzo
trarre ad un segno, e mai colpo non falla,
o da propria vaghezza tratto o dalla
spene c'ha da ritrarne onore e prezzo,
      Amor, che nel mio mal mai non è sezzo,
torna a ferirmi il cor, né mai si stalla,
e la piaga or risalda apre e rifalla;
né mi val s'io 'l temo o s'io lo sprezzo.
      Tanto di me ferir diletto prende,
e tal n'attende e merca onor, ch'omai,
per quel ch'io provo, ad altro non intende.
      Il vivo foco, ond'io arsi e cantai
molti anni, a pena è spento, che raccende
d'un altro il cor, che tregua non ha mai.


CCXII

      Che farai, alma? ove volgerai il piede?
qual sentir prenderai, che più ti vaglia?
Tornerai a seguir Amor, che smaglia
ogni lorica, quando irato fiede?
      o, stanca e sazia de le tante prede
fatte di te ne l'aspra sua battaglia,
t'armerai sì che, perch'ei pur t'assaglia,
non ti vincerà più qual suole e crede?
      Il ritrarsi è sicuro, e 'l contrastare
è glorioso; e l'ésca, che ci mostra,
è tal, che può nocendo anco giovare.
      Non perde e non vince anco uom che non giostra;
in queste imprese perigliose e rare
si potria far maggior la gloria nostra.


CCXIII

      Un veder tôrsi a poco a poco il core,
misera, e non dolersi de l'offesa;
un veder chiaro la sua fiamma accesa
negli altrui lumi e non fuggir l'ardore;
      un cercar volontario d'uscir fore
de la sua libertà poco anzi resa;
un aver sempre a l'altrui voglia intesa
l'alma vaga e ministra al suo dolore;
      un parer tutto grazia e leggiadria
ciò che si vede in un aspetto umano,
se parli o taccia, o se si mova o stia,
      son le cagion ch'io temo non pian piano
cada nel mar del pianto, ov'era pria,
la vita mia; e prego Dio che 'nvano.


CCXIV

      La piaga, ch'io credea che fosse salda
per la omai molta assenzia e poco amore
di quell'alpestro ed indurato core,
freddo più che di neve fredda falda,
      si desta ad or ad ora e si riscalda,
e gitta ad or ad or sangue ed umore;
sì che l'alma si vive anco in timore
ch'esser devrebbe omai sicura e balda.
      Né, perché cerchi agiunger novi lacci
al collo mio, so far che molto o poco
quell'antico mio nodo non m'impacci.
      Si suol pur dir che foco scaccia foco;
ma tu, Amor, che 'l mio martìr procacci,
fai che questo in me, lassa, or non ha loco.


CCXV

      Qual darai fine, Amor, a le mie pene,
se dal cenere estinto d'un ardore
rinasce l'altro, tua mercé, maggiore,
e sì vivace a consumar mi viene?
      Qual ne le più felici e calde arene,
nel nido acceso sol di vario odore,
d'una fenice estinta esce poi fore
un verme, che fenice altra diviene.
      In questo io debbo a' tuoi cortesi strali,
che sempre è degno ed onorato oggetto
quello, onde mi ferisci, onde m'assali.
      Ed ora è tale e tanto e sì perfetto,
ha tante doti a la bellezza eguali,
che arder per lui m'è sommo, alto diletto.


CCXVI

      D'esser sempre ésca al tuo cocente foco
e sempre segno a' tuoi pungenti strali,
d'esser sempre ministra de' miei mali
ed aver sempre i miei tormenti a gioco,
      io non mi doglio, Amor, molto né poco,
poi che dal dì, che 'l desir prese l'ali,
mi son fatti i martìr propri e fatali,
e libertade in me non ha più loco.
      Pur che tu mi conservi in questo stato,
dov'or m'hai posta, e sotto quel signore,
onde il cor novamente m'hai legato,
      o mi fia dolce, o tornerà minore
quanto son per provar, quanto ho provato
la sua rara bellezza e 'l suo valore.


CCXVII

      A che bramar, signor, che venga manco
quel che avete di me disire e speme,
s'Amor, poi che per lui si spera e teme,
i più giusti di lor non vide unquanco?
      Che vuol dir ch'ogni dì divien più franco,
quel che di voi desir m'ingombra e preme?
La speme no, che par ch'ognor si sceme,
vostra mercede, ond'io mi snervo e 'mbianco.
      - Ama chi t'odia, - grida da lontano, -
non pur chi t'ama, - il Signor, che la via
ci aperse in croce da salire al cielo.
      Riverite la sua possente mano,
non cercate, signor, la morte mia,
ché questo è 'l vero et a Dio caro zelo.


CCXVIII

      Dove volete voi ed in qual parte
voltar speme e disio che più convegna,
se volete, signor, far cosa degna
di quell'amor, ch'io vo spiegando in carte?
      Forse a Dio? Già da Dio non si diparte
chi d'Amor segue la felice insegna:
Ei di sua bocca propria pur c'insegna
ad amar lui e 'l prossimo in disparte.
      Or, se devete amar, non è via meglio
amar me, che v'adoro e che ho fatto
del vostro vago viso tempio e speglio?
      Dunque amate, e servate, amando, il patto
c'ha fatto Cristo; ed amando io vi sveglio
che amiate cor, che ad amar voi sia atto.


CCXIX

      Ben si convien, signor, che l'aureo dardo
Amor v'abbia aventato in mezzo il petto,
rotto quel duro e quel gelato affetto,
tanto a le fiamme sue ritroso e tardo,
      avendo a me col vostro dolce sguardo,
onde piove disir, gioia e diletto,
l'alma impiagata e 'l cor legato e stretto
oltra misura, onde mi struggo ed ardo.
      Men dunque acerbo de' parer a vui
esser nel laccio aviluppato e preso,
ov'io sì stretta ancor legata fui.
      Zelo d'ardente caritate acceso
esser conviene eguale omai fra nui
nel nostro dolce ed amoroso peso.


CCXX

      Signor, poi che m'avete il collo avinto
di sì tenace nodo e così forte,
poi che a me piace, ed Amor vuol ch'io porte
nel cor voi solo e nullo altro dipinto,
      a voi convien per quel gentil instinto,
che natura e virtù v'han dato in sorte,
volger pietoso le due fide scorte
verso chi di suo grado avete vinto.
      Carità, pace, fede ed umiltate
sian le nostr'armi, onde si meni vita
rado o non mai menata in altra etate.
      E sia chi dica: - O coppia alma e gradita,
ben avesti le stelle amiche e grate,
sì dolcemente in un voler unita!


CCXXI

      A mezzo il mare, ch'io varcai tre anni
fra dubbi venti, ed era quasi in porto,
m'ha ricondotta Amor, che a sì gran torto
è ne' travagli miei pronto e ne' danni;
      e per doppiare a' miei disiri i vanni
un sì chiaro oriente agli occhi ha pòrto,
che, rimirando lui, prendo conforto,
e par che manco il travagliar m'affanni.
      Un foco eguale al primo foco io sento,
e, se in sì poco spazio questo è tale,
che de l'altro non sia maggior, pavento.
      Ma che poss'io, se m'è l'arder fatale,
se volontariamente andar consento
d'un foco in altro, e d'un in altro male?


CCXXII

      - Dimmi per la tua face,
Amor, e per gli strali,
per questi, che mi dàn colpi mortali,
e quella, che mi sface,
onde avien che non osi
ferir il mio signore,
altero de' tuoi strazi e del mio core,
in sembianti pietosi?
- Ove anniderò poi -
mi risponde ei, - s'io perdo gli occhi suoi?


CCXXIII

      Così m'impresse al core
la beltà vostra Amor co' raggi suoi,
che di me fuor mi trasse e pose in voi;
or che son voi fatt'io,
voi meco una medesma cosa sète,
onde al ben, al mal mio,
come al vostro, pensar sempre devete;
ma pur, se al fin volete
che il vostro orgoglio la mia vita uccida,
pensate che di voi sète omicida.


CCXXIV

      L'empio tuo strale, Amore,
è più crudo e più forte
assai che quel di Morte;
ché per Morte una volta sol si more,
e tu col tuo colpire
uccidi mille, e non si può morire.
Dunque, Amore, è men male
la morte che 'l tuo strale.


CCXXV

      Io veggio spesso Amore
girarsi intorno agli occhi chiari e vaghi,
dolci del mio cor maghi,
de l'amato e gradito mio signore.
Quinci par che saetti,
e sian gli strali suoi gioie e diletti;
queste son armi, che dànno altrui vita
in luogo di ferita.


CCXXVI

      Sapete voi perché ognun non accende,
e non empie d'amore
l'infinita beltà del mio signore?
Però ch'ognun, com'io, non la comprende,
a cui per sorte è dato
vedervi quel, ch'a tant'altri è vietato;
ché, se non fosse ciò, le pietre e l'erbe
spirerebbero ardore,
e girian di tal fiamma alte e superbe.


CCXXVII

      Se tu credi piacere al mio signore,
come si vede chiaro,
Amor empio ed avaro,
poi che non gli hai pur tócco l'alma e 'l core;
e, come è anche degno,
poi che con gli occhi suoi mantieni 'l regno;
perché vuoi pur ch'io moia?
Per dargli biasmo e noia?
biasmo d'esser crudele,
avendo uccisa donna sì fedele;
noia, perché, se vive del mio strazio,
chi lo farà poi sazio?


CCXXVIII

      Il cor verrebbe teco,
nel tuo partir, signore,
s'egli fosse più meco,
poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore.
Dunque verranno teco i sospir miei,
che sol mi son restati
fidi compagni e grati,
e le voci e gli omei;
e, se vedi mancarti la lor scorta,
pensa ch'io sarò morta.


CCXXIX

      Qual fosse il mio martìre
nel vostro dipartire,
voi 'l potete di qui, signor, stimare,
che mi fu tolto infin il lagrimare.
E l'umor, che, per gli occhi uscendo fore,
suol sfogarmi 'l dolore,
in quell'amara e cruda dipartita
mi negò la sua aita.
mio misero stato,
d'altra donna non mai visto o provato,
poi che quello, ond'Amor è sì cortese,
nel maggior uopo a me sola contese!


CCXXX

      Signor, per cortesia,
non mi dite che, quand'andaste via,
Amor mi negò 'l pianto
perché, vedendo in me già spento il foco,
l'acqua non v'avea loco
per temperarlo alquanto;
anzi dite più tosto che fu tanto
in quel punto l'ardore,
che diseccò l'umore;
e non potei mostrare
l'acerba pena mia col lagrimare,
per ciò che 'l corpo mio, d'ogni umor casso,
o restò tutto foco, o tutto sasso.


CCXXXI

      Le pene de l'inferno insieme insieme,
appresso il mio gran foco,
tutte son nulla o poco;
perch'ove non è speme
l'anima risoluta al patir sempre
s'avezza al duol, che mai non cangia tempre.
La mia è maggior noia,
perché gusto talor ombra di gioia
mercé de la speranza,
e questa varia usanza
di gioir e patire
fa maggior il martìre.


CCXXXII

      Se 'l cibo, onde i suoi servi nutre Amore,
è 'l dolore e 'l martìre,
come poss'io morire
nodrita dal dolore?
Il semplicetto pesce,
che solo ne l'umor vive e respira,
in un momento spira
tosto che de l'acqua esce;
e l'animal, che vive in fiamma e 'n foco,
muor come cangia loco.
Or, se tu vòi ch'io moia,
Amor, trammi di guai e pommi in gioia;
perché col pianto, mio cibo vitale,
tu non mi puoi far male.


CCXXXIII

      Beato insogno e caro,
che sotto oscuro velo m'hai mostrato
il mio felice stato,
qual potrà ingegno chiaro,
quant'io debbo e vorrei, giamai lodarte
in vive voci o 'n carte?
Io per me farò fede,
dovunque esser potrà mia voce udita,
che, sol la tua mercede,
io son restata in vita.


CCXXXIV

      Deh, farà mai ritorno agli occhi miei
quel vivo e chiaro lume,
ond'io vivo e quei veggon per costume?
Potran mai le mie lagrime e gli omei
far molle chi di lor si pasce e vive,
che sta da me lontano, e non mi scrive?
Aspro e selvaggio core,
quest'è la fé d'Amore?


CCXXXV

      Conte, dov'è andata
la fé sì tosto, che m'avete data?
Che vuol dir che la mia
è più costante, che non era pria?
Che vuol dir che, da poi
che voi partiste, io son sempre con voi?
Sapete voi quel che dirà la gente,
dove forza d'Amor punto si sente?
- O che conte crudele!
o che donna fedele!


CCXXXVI

      Spesso ch'Amor con le sue tempre usate
assal la vostra misera Anassilla,
vi prenderia di lei, conte, pietate
in vederla et udilla;
perché le pene sue, i suoi cordogli
rompono i duri scogli;
ma voi state lontano,
ed ella piange invano.
Veggano Amore e 'l ciel, che 'l tutto vede,
la vostra rotta e la sua salda fede.


CCXXXVII

      S'io credessi por fine al mio martìre,
certo vorrei morire;
perché una morte sola
non occide, consola.
Ma temo, lassa me, che dopo morte
l'amoroso martìr prema più forte;
e questo posso dirlo, perché io
moro più volte, e pur cresce il disio.
Dunque per men tormento
di vivere e penar, lassa, consento.


CCXXXVIII

      Con quai segni, signor, volete ch'io
vi mostri l'amor mio,
se, amando e morendo ad ora ad ora,
non si crede per voi, lassa, ch'io mora?
Aprite lo mio cor, ch'avete in mano,
e, se l'imagin vostra non v'è impressa,
dite ch'io non sia dessa;
e, s'ella v'è, a che pungermi invano
l'alma di sì crudi ami
con dir pur ch'io non v'ami?
Io v'amo ed amerò fin che le ruote
girin del sol, e più, se più si puote;
e, se voi nol credete,
è perché crudo séte.


CCXXXIX

      Dal mio vivace foco
nasce un effetto raro,
che non ha forse in altra donna paro:
che, quando allenta un poco,
egli par che m'incresca,
sì chiaro è chi l'accende e dolce l'ésca.
E, dove per costume
par che 'l foco consume,
me nutre il foco e consuma il pensare
che 'l foco abbia a mancare.


CCXL

      Deh, perché soffri, Amor, che disiando
la mia vivace fede
resti senza mercede,
anzi di vita e di me stessa in bando?
S'io amo ed ardo fuor d'ogni misura,
perché si prende a gioco
l'amor mio e 'l mio foco
chi mi vede morir e non ha cura?
Gli orsi, i leoni e le più crude fère
move talor pietade
di chi con umiltade
nel maggior uopo suo mercé lor chiere;
e quella cruda voglia,
che vive di martìre,
allor suol più gioire,
quand'avien ch'io più sfaccia e più m'addoglia.


CCXLI

      Donne, voi che fin qui libere e sciolte
degli amorosi lacci vi trovate,
onde son io e son tant'altre avolte,
      se di saper che cosa sia bramate
quest'Amor, che signor ha fatto e dio
non pur la nostra, ma l'antica etate,
      è un affetto ardente, un van disio
d'ombre fallaci, un volontario inganno,
un por se stesso e 'l suo bene in oblio,
      un cercar suo malgrado con affanno
quel che o mai non si trova, o, se pur viene,
avuto, arreca penitenzia e danno,
      un nutrir la sua vita sol di spene,
un aver sempre mai pensieri e voglie
di fredda gelosia, di dubbi piene,
      un laccio che s'allaccia e non si scioglie,
quando altrui piace, un gir spargendo seme,
di cui buon frutto mai non si ricoglie,
      una cura mordace, che 'l cor preme,
un la sua libertate e la sua gioia
e la sua pace andar perdendo insieme,
      un morir, né sentir perché si moia,
un arder dentro d'un vivace ardore,
un esser mesta e non sentir la noia,
      un mostrar quel ch'uom chiude dentr'e fore,
un esser sempre pallido e tremante,
un errar sempre e non veder l'errore,
      un avilirsi al viso amato innante,
un esser fuor di lui franca ed ardita,
un non saper tener ferme le piante,
      un aver spesso in odio la sua vita
ed amar più l'altrui, un esser spesso
or mesta e fosca, or lieta e colorita,
      un ogni studio in non cale aver messo,
un fugir il comerzio de le genti,
un esser da sé lunge ed altrui presso,
      un far seco ragioni ed argomenti
e disegni ed imagini, che poi
tutti qual polve via portano i venti,
      un non dormire a pieno i sonni suoi,
un destarsi sdegnosa ed un sognarsi
sempre cosa contraria a quel che vuoi,
      un aver doglia e non voler lagnarsi
di chi n'offende, anzi rivolger l'ira
contra se stesso e sol seco sdegnarsi,
      un veder sol un viso ove si mira,
un in esso affissarsi, benché lunge,
un gioir l'alma, quando si sospira,
      e finalmente un mal che unge e punge.


CCXLII

      Da più lati fra noi, conte, risuona,
che voi sèt'ito, ove disio d'onore
sotto Bologna vi sospinge e sprona,
      per mostrar ivi il vostr'alto valore:
valor degno di tanto cavaliero,
ma non degno però di tant'amore.
      Io, quando a la ragion volgo il pensiero,
godo meco, e gioisco, e vo lodando
che così prode amante i ciel mi diêro.
      Ma quando poi ritorno al senso, quando
penso ai perigli, onde la guerra è piena,
che Marte a' figli suoi va procacciando,
      di timor in timor, di pena in pena
meno questa noiosa e mesta vita
(mentre voi foste qui, dolce e serena),
      me accusando ch'io non fossi ardita
di finir con un colpo i dolor miei,
anzi che voi da me fèste partita.
      Felice è quella donna, a cui li dèi
han dato amante men illustre in sorte,
e men vago di spoglie e di trofei;
      col qual le sue dimore lunghe e corte
trapassa lieta, avendol sempre a lato,
fido, costante, valoroso e forte.
      Felice il tempo antico e fortunato,
quando era il mondo semplice e innocente,
poco a le guerre, a le rapine usato!
      Allor quella beata e queta gente,
sotto una amica e cara povertate,
menava i giorni suoi sicuramente.
      Allor le pastorelle inamorate
avean mai sempre seco i lor pastori,
dai quai non eran mai abbandonate.
      Con lor dai primi matutini albori
scherzavan fin al dipartir del sole,
lietamente cogliendo e frutti e fiori.
      Ed or di vaghe rose e di viole
tessevan vaghe ghirlandette e care,
come chi sacri altari onora e cole.
      Né le quiete lor potea turbare
l'émpito de le guerre amaro ed empio,
che l'umane allegrezze suol cangiare:
      guerre che fan di noi sì crudo scempio,
guerre che turban sì l'umano stato,
guerre suggetto d'ogni crudo essempio.
      Ben fu fiero colui, per cui trovato
fu prima il ferro, causa a tanti mali,
quanti il mondo prova ora ed ha provato.
      Le guerre e le battaglie de' mortali
erano tutte in quella età novella
contra i semplici e poveri animali;
      contra' quali il pastor, la pastorella
con rete in spalla e con lacci e con cani
givan cingendo questa selva e quella.
      Ma poi quegli appetiti ingordi, insani
di posseder l'altrui robe e l'avere
da l'antica pietà si fêr lontani.
      Quindi si cominciâr prima a vedere
le crude guerre e strepiti de l'armi,
che fan, misere noi, tanto temere.
      Allor sonare i bellicosi carmi
s'udiro per citade e per campagne,
contra' quai ogni stil convien che s'armi
      Di lor convien ch'io mi lamenti e lagne:
la lor mercede, il mio signor m'è lunge;
per lor non è chi, lassa, m'accompagne.
      Voi, se zelo d'Amor pur poco punge,
cavalier onorati, se si trova
alcun, cui Marte dal suo ben disgiunge,
      dimostrate in altrui la vostra prova,
perdonate cortesi al signor mio,
in cui morir e viver sol mi giova.
      L'aspetto suo devria sol far restio
l'émpito d'ogni cruda ed empia mano,
senza che lo chiedessi umilment'io;
      la qual con quanto posso affetto umano,
con quanta posso estrema cortesia
(e giunga il prego mio presso e lontano)
      prego ch'ardito alcun di voi non sia
d'offender per un poco un signor tale,
e turbar seco ancor la vita mia.
      E voi, conte, voi, animo reale,
provato e riprovato in ogni impresa,
deh, se di me pur poco ancor vi cale,
      quando sarà l'aspra battaglia accesa,
andate cauto, ed abbiate rispetto
a me, tutta per voi dubbia e sospesa.
      E pensate che sia nel vostro petto
l'anima mia con la vostr'alma unita,
quasi in suo proprio e suo alto ricetto.
      E sì come pensaste a la partita,
pensate, conte, omai anco al ritorno,
se voi cercate di tenermi in vita;
      ch'io vi vo richiamando notte e giorno.


CCXLIII

      Dettata dal dolor cieco ed insano,
vattene al mio signor, lettera amica,
baciando a lui la generosa mano.
      E digli che dal dì, che la nimica
mia stella me lo tolse, il cibo mio
è sol noia, dolor, pianto e fatica.
      Ben fu 'l ciel al mio ben contrario e rio,
ch'a pena mi mostrò l'amato obietto,
che, misera, da me lo dipartìo.
      O brevi gioie, o fral uman diletto!
o nel regno d'Amor tesor fugace,
subito mostro e subito intercetto!
      Il bel paese, che superbo giace
fra 'l Rodano e la Mosa, or mi contende
la suprema cagion d'ogni mia pace.
      Mentre ivi il mio signor gradito intende
a l'onorate giostre, a' pregi, a' ludi,
di cui sì chiara a noi fama s'estende,
      io, misera, che 'n lui tutti i miei studi,
tutte le voglie ho poste, essendo lunge,
conven che disiando agghiacci e sudi.
      E sì fiero il martìr m'assale e punge,
ch'io mi vivo sol d'esso e vivrommi anco
fin che 'l ciel, conte, a me vi ricongiunge.
      Voi, qual guerrier vittorioso e franco,
ferite altrui con l'onorata lancia;
io son ferita qui dal lato manco.
      O per me poco aventurosa Francia!
o bel paese, avverso a' miei disiri,
che 'mpallidir mi fai spesso la guancia!
      Dovunque avien che gli occhi volga e giri,
non vi trovando voi, conte, mi resto
senza speranza, preda de' sospiri.
      Voi prometteste ben di scriver presto,
non possendo tornar, per porger èsca
fra tanto al mio disir atro e funesto:
      non possendo tornar, per porger ésca
da la memoria vostra la mia fede,
e che del mio dolor poco v'incresca.
      È questa de l'amor mio la mercede?
e de la vostra fede è questo il pegno?
Misera donna ch'ad amante crede!
      Credetti amar un cavalier più degno
e 'l più bel che mai fosse, ed or m'aveggio
che la credenza mia non giunge al segno.
      Empia fortuna, or che mi pòi far peggio,
rottemi le promesse di colui,
senza cui, d'ogni mal preda, vaneggio?
      Io non spero giamai che, come fui
vostra, conte, una volta, non sia sempre;
così non foste voi, conte, d'altrui!
      Non so perché la vita non si stempre,
non so com'or con voi ragioni e scriva,
afflitta sì de l'amorose tempre.
      Ma, lassa, che dich'io? perché mi priva
sì 'l duol del vero mio conoscimento,
ch'io tema d'una fé tenace e viva?
      Non sète voi quel pieno d'ardimento,
di senno e di valor, ch'a mille prove
trovato ho fido cento volte e cento?
      Perché debb'io temer ch'essendo altrove,
da me partito a pena, in voi sì tosto
novo amor a' miei danni si rinove?
      Deh, dolce conte mio, per quelle e queste
fra noi ore lietissime passate,
ond'io mi piacqui e voi vi compiaceste,
      più lungamente omai non indugiate
a scrivermi due versi solamente,
se 'l mio diletto e la mia vita amate.
      Ché, non potendo veder voi presente,
il veder vostre carte darà certo
qualche soccorso a l'affannata mente.
      Questo al mio grand'amor è picciol merto,
ma sarà nondimeno ampio ristoro
al faticoso mio poggiar ed erto.
      Ben felice è lo stato di coloro,
che per buona fortuna e destro fato
han sempre presso il lor caro tesoro!
      Misera me, che m'è 'l mio ben vietato,
allor che più bramava e più devea
essergli caramente ognor a lato!
      La mia fortuna instabilmente rea
mi vi diè tosto e tosto mi vi tolse,
che maggior danno far non mi potea.
      Ma voi, se dentro il vostro cor s'accolse
giamai vera pietà di chi v'adora,
di chi più voi, che la sua vita, volse,
      non fate, com'ho detto, più dimora
di scrivermi e poi far tosto ritorno,
se non volete comportar ch'io mora,
      come sto per morir di giorno in giorno.


CCXLIV

      De le ricche, beate e chiare rive
d'Adria, di cortesia nido e d'Amore,
ove sì dolce si soggiorna e vive,
      donna, avendo lontano il suo signore,
quando il sol si diparte, e quando poi
a noi rimena il matutino albore,
      per isfogar gli ardenti disir suoi,
con queste voci lo sospira e chiama;
voi, rive, che l'udite, ditel voi.
      Tu, che volando vai di rama in rama,
consorte amata e fida tortorella,
e sai quanto si tema e quanto s'ama,
      quando, volando in questa parte e 'n quella,
sei vicina al mio ben, mostragli aperto
in note, ch'abbian voce di favella:
      digli quant'è 'l mio stato aspro ed incerto,
or che, lassa, da lui mi trovo lunge
per ria fortuna mia e non per merto.
      E tu, che 'n cave e solitarie grotte,
Eco, soggiorni, il suon de' miei lamenti
rendi a l'orecchie sue con voci rotte.
      E voi, dolci aure ed amorosi venti,
i miei sospir accolti in lunga schiera
deh fate al signor mio tutti presenti.
      E voi, che lunga e dolce primavera
serbate, ombrose selve, e sète spesso
fido soggiorno a questa e a quella fèra,
      mostrate tutte al mio signore espresso
che non pur i diletti mi son noia,
ma la vita m'è morte anco senz'esso.
      Ei si portò, partendo, ogni mia gioia,
e, se, tornando omai, non la rimena,
per forza converrà tosto ch'io moia.
      La speme sola al viver mio dà lena,
la qual, non tornand'ei, non può durare,
da soverchio disio vinta e da pena.
      Quell'ore, ch'io solea tutte passare
liete e tranquille, mentre er'ei presente,
or ch'egli è lunge son tornate amare.
      Ma, lassa, a torto del suo mal si pente,
a torto chiama il suo destin crudele,
chi volontario al suo morir consente.
      Lassa, io devea con mie giuste querele
far che non andasse, o far ch'andando
non desse al vento senza me le vele;
      ch'or non m'andrei dolente lamentando,
né temenza d'oblio, né gelosia
non m'avrebber di me mandata in bando.
      Emendate, signor, la colpa mia
voi, ritornando ove 'l vostro ritorno
più che la propria vita si disia.
      E, se rimena il sole un dì quel giorno,
non pensate mai più da me partire,
ch'io non vi sia da presso notte e giorno,
      poi ch'io mi veggo senza voi morire.


CCXLV

      Musa mia, che sì pronta e sì cortese
a pianger fosti meco ed a cantare
le mie gioie d'amor tutte, e l'offese,
      in tempre oltra l'usato aspre ed amare
movi meco dolente e sbigottita
con le sorelle a pianger e a gridare
      in questa aspra ed amara dipartita,
che per far me da me stessa partire
hanno Fortuna e 'l mio signor ordita.
      E, perché forse non potrem supplire
noi soli a tanta doglia, in parte al pianto
queste rive e quest'onde fa' venire:
      onde, che meco si compiacquer tanto
de la cara presenza di colui,
ch'or lunge sospirando io chiamo e canto.
      Questi, Amor, son gli usati frutti tui,
brevissimi diletti e lunghe doglie,
ch'io provo, che tua serva sono e fui.
      Ché, come toglie agli arbori le foglie
tosto l'autunno, così di tua mano,
se si dona alcun ben, tosto si toglie.
      Tu mi donasti, ed or mi tien lontano
quanto ben tu puoi darmi, e quanto vede
di caro il sol, tornando a l'oceàno.
      E, bench'io sia sicura di sua fede,
bench'io riposi in quanto m'ha promesso,
ne le dolci parole che mi diede,
      quando 'l disio m'assale, ch'è sì spesso,
non essendo qui meco chi l'appaga,
la vita mia è un morir espresso.
      Donne, cui punge l'amorosa piaga,
di lassar dipartir l'amato bene
non sia alcuna di voi che sia vaga;
      perché son poi maggior assai le pene
di quel ch'altri si crede o che s'aspetta,
qualor l'amara disianza viene.
      Niuna cosa a noi piace o diletta,
se non v'è quel che ne la fa piacere,
quel ch'ogni nostra gioia fa perfetta.
      Io quel che voglio non posso volere,
se quel ch'amo non ho presso o dintorno,
quel che le noie mie torna in piacere.
      Tu, che fai ora a Lendenara giorno,
almo mio sole, ed a me notte oscura,
sole, a cui sempre col pensier ritorno,
      de l'alta fede mia sincera e pura
tien'almen la memoria che si deve,
che durerà fin che mia vita dura.
      E, se degna pietà ti move, in breve
scrivi o vieni o manda, sì ch'io sia
scema di cura dispietata e greve.
      Ché tanto durerà la vita mia,
quant'io sarò sicura d'esser cara
e d'esser presso a chi 'l mio cor desia,
      il mio cor, ch'ora alberga in Lendenara.