Gaspara Stampa



RIME SCELTE




1

      Sacro re, che gli antichi e novi regi,
quanti sono o fur mai eccelsi e degni,
per forza di valor propria e d'ingegni
vinci, e te stesso e tutto 'l mondo fregi,
      ed a' più chiari spirti ed a' più egregi,
a' più felici e più sublimi ingegni
la via d'alzarsi al ciel, scrivendo, insegni
con la materia de' tuoi tanti pregi,
      volgi dal tron de la tua maestade
sereno il ciglio, onde queti e governi
popoli e regni, a la mia umiltade;
      ché, se tu aspiri a' miei disiri interni,
spero, vil donna, a la futura etade
far con tant'altri i tuoi gran fatti eterni.


2

      Alma reina, eterno e vivo sole,
prodotta ad illustrar imperi e regni,
e congiunta al maggior re, ch'oggi regni,
cara sì che con voi vuole e non vuole,
      date a l'ingegno mio rime e parole,
onde possa adombrar con quai può segni
quanto la vostra altezza e pregi degni
il mondo tutto riverisce e cole.
      Lasciate ch'a la fama e agli scrittori,
che parleran di voi sì chiaramente,
io donna da lontan possa andar dietro;
      lasciate ch'io di sì famosi allori
m'adorni il crin a la futura gente.
Oh qual grazia mi fia, se questo impetro!


3

      Tu, che traesti dal natio paese
le nostre muse tutte ed Elicona
là dove regge il Rodano e la Sona
il maggior re che viva e 'l più cortese;
      ed or con voi son tutte ad una intese
insieme col gran figlio di Latona
a celebrar quella real corona,
e le sue tante e gloriose imprese,
      chiaro Alamanni, io vorrei ben anch'io
venir in parte di cotanto onore,
e lodar lui con voi e poi voi anco;
      ma s'oppone a l'immenso mio disio
l'esser io, donna e vil, preda d'Amore.
Lo spirto è pronto, ma lo stil è stanco.


4

      Alma fenice, che con l'auree piume
prendi fra l'altre donne un sì bel volo,
ch'Adria ed Italia e l'uno e l'altro polo
tutto di meraviglia empi e di lume,
      bellezza eterna, angelico costume,
petto d'oneste voglie albergo solo,
deh, perché non poss'io, come vi còlo,
versar, scrivendo, d'eloquenzia un fiume?
      Ché spererei de la più sacra fronde,
così donna qual sono, ornarmi il crine,
e star con Saffo e con Corinna a lato.
      Poi che lo stil al desir non risponde,
fate voi co' be' rai, luci divine,
chiare voi stesse e questo mar beato.


5


      Voi n'andaste, signor, senza me dove
il gran troian fermò le schiere erranti,
ov'io nacqui, ove luce vidi innanti
dolce sì, che lo star mi spiace altrove.
      Ivi vedrete vaghe feste e nove,
schiere di donne e di cortesi amanti,
tanti, che ad onorar vengono, e tanti,
un de li dèi più cari al vero Giove.
      Ed io, rimasa qui dov'Adria regna,
seguo pur voi e 'l mio natio paese
col pensier, ché non è chi lo ritegna.
      Venir col resto il mio signor contese;
ché, senza ordine suo, ch'io vada o vegna
non vuol Amor, poi che di lui m'accese.


6

      Mentre, chiaro signor, per voi s'attende
a poggiar nel camin ch'al ciel vi mena
per via di lingue e di scienzie e vena,
che 'l vostro nome in tutto il mondo stende,
      io, donna e vil, cui desir egual prende,
e l'acque di Castalia ho viste a pena,
vorrei venirvi dietro, e non ho lena,
ché la bassezza mia tant'opra offende.
      Però mi resto, e di lontan sospiro
i nobil frutti de l'ingegno vostro,
che con tant'altri già tant'anni ammiro.
      Quei son la vera porpora e 'l ver'ostro,
gli archi e le statue, se ben dritto miro,
che rendon chiaro e caro il secol nostro.


7

      Se voi non foste a maggior cose vòlto,
onde 'l vostro splendor, Venier, sormonte,
avendo sì gran stil, rime sì pronte,
e de' lacci d'Amore essendo sciolto,
      vi pregherei che 'l valor e 'l bel volto
e l'altre grazie del mio chiaro conte
a la futura età faceste cònte,
poi che 'l poterlo fare a me è tolto;
      e faceste ancor cònto il foco mio
e la mia fede oltra ogni fede ardente,
degna d'eterna vita, e non d'oblio.
      Ma, poi degno rispetto nol consente,
vedrò, tal qual io sono, adombrarn'io
una minima parte solamente.


8

      Speron ch'a l'opre chiare ed onorate
spronate ognun col vostro vivo essempio,
mentre d'ogni atto vile illustre scempio
con l'arme del valor vincendo fate,
      poi che di seguir io vostre pedate
per me l'ardente mio desir non empio,
voi, d'ogni cortesia ricetto e tempio,
a venir dopo voi la man mi date;
      sì che, come ambedue produsse un nido,
ambedue alzi un vol, vostra mercede,
e venga in parte anch'io del vostro grido.
      Così d'Antenor quell'antica sede
e questo d'Adria fortunato lido
faccian de' vostri onor mai sempre fede.


9

      Zanni, quel chiaro e quel felice ingegno,
che splende in voi, e quel sommo valore,
di cui non ha, per quel che s'ode fuore,
Adria più ricco e più leggiadro pegno,
      io quanto posso umìle a inchinar vegno,
serva di cortesia, serva d'Amore,
dogliosa sol che in così santo ardore
non van le forze del disir al segno,
      perché, a ridir per via di rime a pieno
quanto io v'onoro e quanto è 'l vostro merto,
ogn'altro stil, che 'l vostro, verria meno.
      Voi sol col passo saldo e passo certo
in questo d'Adria e fortunato seno
salite al monte faticoso ed erto.


10

      Conte, quel vivo ed onorato raggio,
che splende fuor del vostro chiaro ingegno
per via di rime, ed è già giunto a segno,
che o l'ha con pochi, o non ha alcun paraggio,
      è frutto sol del vostro santo e saggio
petto, d'ogni virtù nido e sostegno;
ch'io per me propria, se a stimarmi vegno,
non pur per darne altrui, lume non aggio.
      E, se talvolta vo spiegando in carte
oscure e basse qualche mio martìre,
Amor, che me lo dà, dammi anche l'arte.
      Voi per voi sol potete al ciel salire,
cigno gentil, sì ch'altri non v'ha parte:
così potess'io il vostro vol seguire!


11

      Quel lume, che 'l mar d'Adria empie ed avampa
di sì bei frutti e di sì degni effetti,
che natura ed Amor, conte, in voi stampa,
      è lume proprio de la vostra lampa,
e frutti de' vostr'alti e bei concetti,
e non reflesso degli oscuri obietti
di me misera, afflitta e lassa Stampa.
      E, se vostra infinita caritade
me bassa e grave di terreno peso
di così rare lode empie ed ingombra,
      alfin ritorna in voi la chiaritade,
che di nessuna indegnità ripreso,
fate sparir la lode altrui qual ombra.


12

      O inaudita e rara cortesia,
donar i pregi del suo proprio onore
ad una donna umìl, che 'l proprio core,
non pur altro, non ha che di lei sia!
      Ben v'avea fra tutti altri alzato pria
a chiaro segno il vostro alto valore,
senza nova cercar gloria e splendore
per questa disusata e rara via;
      sì che non resti modo alcuno in terra,
ond'uom possa poggiar per farsi chiaro,
non cerco da l'illustre Vinciguerra.
      O spirto, in mille guise eccelso e raro,
qual vena d'eloquenzia petto serra,
che possa gir a le tue lodi a paro?


13

      Signor, da poi che l'acqua del mio pianto,
che sì larga e sì spessa versar soglio,
non può rompere il saldo e duro scoglio
del cor del fratel vostro tanto o quanto,
      vedete voi, cui so ch'egli ama tanto,
se, scrivendogli umìle un mezzo foglio,
per vincer l'ostinato e fiero orgoglio
di quel petto poteste aver il vanto.
      Illustre Vinciguerra, io non disio
da lui, se non che mi dica in due versi:
- Pena, spera ed aspetta il tornar mio. -
      Se ciò m'aviene, i miei sensi dispersi,
come pianta piantata appresso il rio,
voi vedrete in un punto riaversi.


14

      Se quanta acqua ha Castalia ed Elicona
beveste tutta e sì felicemente,
chiaro signor, che poi le vene spente
restasser secche ad ogn'altra persona,
      come poss'io, quando desio mi sprona
a dir di voi sì caldo e sì sovente,
sperar di pur adombrar solamente
quanto di voi si stima e si ragiona?
      Anzi, perché non pur i versi miei
non posson dir quant'io v'onoro e còlo,
ma mille Lini meco e mille Orfei
      o voi dite di voi, o di me solo
sappia il mondo ch'io vòlsi e non potei
alzarmi pigra a sì gradito volo.


15

      Io vorrei ben, Molin (ma non ho l'ale
da prender tanto e sì gradito volo),
portar, scrivendo, a l'uno e l'altro polo
l'alta cagion del mio foco immortale;
      ché l'opra e la materia è tanta e tale,
ed io son sì dal mal vinta e dal duolo,
che a ciò non basto, e voi bastate solo,
od altrui stile al vostro stile eguale.
      Voi far fiorir potete esternamente
il colle ch'amo; voi farlo, lodando,
novo Parnaso a la futura gente.
      Io vo ben ciò talor meco provando,
quando mi detta il mio desir ardente;
ma forse scemo sue lode cantando.


16

      Tu, ch'agli antichi spirti vai di paro,
e con le dotte ed onorate rime
rischiari l'acque e fai fiorir le cime
del colle, ove si sale oggi sì raro,
      movi il canto, Molin, canoro e chiaro,
se mai movesti; e 'l mio colle sublime
fa' fiorir fra le cose al mondo prime,
poi ch'a me il ciel di farlo è stato avaro.
      A me dié solo amarlo, e l'amo quanto
si puote amar; ma 'l celebrarlo poi
è d'altro stil incarco, che di donna.
      Qui convien sol la tua cetra e 'l tuo canto,
chiaro signor; tu sol descriver puoi
questa del viver mio salda colonna.


17

      Voi, che fate sonar da Battro a Tile,
onde il sol viene a noi, onde si parte,
quel chiaro stil, che 'l cielo vi comparte,
che può d'orrido verno far aprile,
      o a soggetto men basso e men vile
le vostre rime, in tutto 'l mondo sparte,
rivolgete o pregate Amor ex parte
che faccia me a voi non dissimìle;
      sì che, qual sono i vostri versi gai,
sia egual la materia, e regni e viva
quanto il sol gira, e quanto ne sperai.
      Ché, s'ella è di valor in tutto priva
e quei sì chiari, indegna opra dirai,
d'Adria felice ed onorata riva.


18

      Dotto, saggio, gentil, chiaro Bonetto,
la cui bontà il bel nome ancor pareggia,
e l'alta cortesia, che signoreggia
il nobil cor, ch'a ogniun vi rende accetto,
      saper bramo io dal vostro almo intelletto,
che le cose segrete in Dio vagheggia
quale è più, il danno o l'util che si veggia
il mondo trar da l'amoroso affetto.
      Ditemi ancor perché fu Amor dipinto
già dagli antichi, e da' moderni ancora
si pinge faretrato, ignudo e cieco.
      Questo dubbio da voi mi sia distinto,
che nel mio cor gran tempo già dimora,
mercé de l'ignoranzia ch'è ognor meco.


19

      È sì gradito e sì dolce l'obietto
del mio foco, signor, e tanto e tale,
che di soffrir ardendo non mi cale
ogni acerbo martìr, ogni dispetto.
      Duolmi sol ch'io non sia degno ricetto
di tanto bene e a tanta fiamma eguale,
e che 'l mio stil sia infermo, stanco e frale
a portar l'opra, ove giunge il concetto.
      E sopra tutto duolmi che la ria
mia fortuna s'ingegna sì sovente
a dilungar da me la gloria mia.
      Che mi giova, signor, che fra la gente,
illustre, come dite, e chiara io sia,
se dentro l'alma mia gioia non sente?


20

      Il gran terror de le nimiche squadre,
che sotto il più felice imperadore
frenò sì spesso il tedesco furore,
fatto ribelle a la sua santa madre,
      come hai potuto tu, celeste Padre,
veder degli anni suoi nel più bel fiore,
fra donne imbelli, empia mercé d'Amore,
cader per man servili, indegne et adre?
      Marte il suo bellicoso orrido carme
cangi in sospiri omai, e con lui chiuda
sotterra i suoi trofei, l'insegne e l'arme;
      o d'esse almen la bella amica ignuda
Venere sua, come più degna, n'arme,
poi ch'ella è più di lui sanguigna e cruda.


21

      Se da' vostr'occhi, da l'avorio ed ostro,
ond'Amor manda fuor faci e quadrella,
se dai tesor de l'anima, ch'ancella
nacque d'alto valor nel divin chiostro,
      ciò ch'io scrissi e cantai mi fu dimostro,
per lor d'ogn'atto vil tornai rubella,
e, se mercé di quelle e mercé d'ella,
col tempo avaro e con gl'ingegni giostro,
      a voi deve ogni lingua dotta e chiara
rendervi lode, poi che 'n voi s'accoglie
virtù, che 'l fosco mio sgombra e rischiara.
      A voi de' morte, che tutt'apre e scioglie,
non esser come agli altri empia ed amara,
e 'l mondo ornarvi il crin di doppie foglie.


22

      - Grazie, che fate il ciel fresco e sereno,
quando v'aggrada, e tu, che l'innamori,
sacratissima madre degli Amori,
al cui bel raggio ogn'altra ombra vien meno,
      spargete con cortese e largo seno
nembo odorato di grazie e di fiori
sopra questi chiarissimi pastori,
che me di gioia et Adria han d'onor pieno;
      sì che non turbi il lor felice stato
fortuna avversa o torbida procella,
e sia sempre, come or, dolce e beato. -
      Tal pregando Anassilla, pastorella
d'ardente zelo e 'l cor caldo e 'nfiammato,
le Grazie udîrla e la più chiara stella.


23

      A voi sian Febo e le sorelle amiche,
schiera gentil, che col vivace ingegno,
con l'arte e con lo stil giungete a segno,
ove non giunser le memorie antiche.
      Voi le più gravi cure e le nimiche
voglie acquetate, voi l'ira e lo sdegno;
voi sète dolce altrui triegua e ritegno
ne le lunghe, penose, aspre fatiche.
      Io de la interna mia cura e vivace,
fin ch'è durato il vostro dolce dire,
ho, la vostra mercé, trovato pace.
      Così piaccia ad Amor di stabilire
questa mia breve gioia; e chi mi sface
tenga mai sempre queto il mio disire.


24

      Amica, dolce ed onorata schiera,
schiera di cortesia e d'onestade,
soggiorno di valore e di beltade,
di diporti e di grazie madre vera,
      io prego Amor e 'l ciel ch'unita, intera
ti conservi in felice e lunga etade,
e questi giochi e questa libertade
veggan tardi, o non mai, l'ultima sera.
      Cosa non possa mai perversa e ria
turbar per tempo alcun o disunire
così dolce e gradita compagnia.
      A me si dia per grazia di gioire
con lei molt'anni e con la fiamma mia,
che sovra il ciel mi fa superba gire.


25

      Rivolgete la lingua e le parole
a dir di cosa più degna e più chiara
che non sono io, schiera onorata e cara,
onde tanto Elicona s'orna e còle.
      Come la luna il lume suo dal sole
prende, onde poi la notte apre e rischiara,
io, cui natura è stata in tutto avara,
splendo quanto il mio sol permette e vuole.
      A lui dunque si de' tutta la lode,
perché, s'ei non mi dà del suo vigore,
non è chi mova la mia lingua e snode.
      La mia vita in lui vive ed in me more,
di lui sol parla, pensa, scrive et ode.
Oh pur mi serbi in questo stato Amore!


26

      Voi, ch'a le muse ed al signor di Delo
caro più ch'altri, quasi unico mostro,
la via d'andar a lor m'avete mostro,
pensier cangiati innanzi tempo e pelo;
      e, di Morte schernendo il crudo telo,
chiaro poggiate a quel celeste chiostro,
ov'io con voi d'alzarmi indarno giostro,
ché pur m'atterra il peso grave e 'l gelo;
      fate col vostro stil palese e note
le vostre lode e a tutto 'l mondo e 'l saggio
senno e valor, ch'ogn'altro par ch'adombre,
      perch'io per me, Michiel, cosa non aggio
d'esser cantata da le vostre note,
che tempo e morte tosto non la sgombre.


27

      Deh, perché non poss'io, qual debbo e quale
voi m'imponeste, al mio stil porre i vanni,
sì che 'l vostro bel nome, dagli inganni
del tempo tolto, al ciel spiegasse l'ale,
      coppia onorata, a cui null'altra eguale
si vede, o vedrà mai dopo mill'anni,
per virtute e valor salita a' scanni,
ove raro o non mai si salse o sale?
      Felice Serravalle, a cui per sorte
si diede l'esser retta e governata
da sì gran donna e sì degno consorte!
      Felicissima me, se fosse nata
o con voi prima, o con voi fin a morte
vivesse questa vita che m'è data!


28

      Perché Fortuna, avversa a' miei disiri,
quasi smarrita e stanca navicella
da lunga combattuta e ria procella,
come a lei piace mi rivolva e giri,
      e meco più ad or ad or s'adiri,
e mi percuota in questa parte e 'n quella,
né lassi l'empia e di pietà rubella
che da' suoi colpi il cor punto respiri,
      io pur, Balbi, nel mal mi riconforto,
poi che ho le vostre ornate rime amiche,
onde malgrado suo vivrò mill'anni.
      Queste a la speme mia mostrano il porto,
queste contra de l'aure aspre e nemiche
saran dolce ristoro de' miei danni.


29

      Anima, che secura sei passata
per questo procelloso mar, per questa
vita mortal senza provar tempesta,
dagli onori e dal volgo allontanata,
      ed or con quella angelica brigata
ti vivi vita eterna in gioia e 'n festa,
lassata qui tutta confusa e mesta
la gioventù da te retta e guidata,
      pianga il tuo dipartir, la lontananza
del buon Socrate suo celeste e santo
tutta Italia e tutta Adria in ogni stanza;
      ed io per me, se non che mi fa tanto
pianger Amor per lui, che non m'avanza,
colmerei l'urna tua col mio gran pianto.


30



      Qual a pieno potrà mai prosa o rima
la vostra cortesia lodar e l'arte,
quella, ch'a me di lode dà tal parte,
questa, ch'orna ed illustra il nostro clima?
      Voi sète sol, signor, se 'l ver si stima,
cui altri non pareggia; in voi ha sparte
le grazie il ciel, ch'altrove non comparte
in questa nostra etade o ne la prima.
      Voi sète il Sol, ch'ogn'altra luce avanza;
da voi si prende qualitate e lume
e tutto quel di ben, che splende in nui.
      Felice me, poi c'ho trovato stanza
ne la vostra memoria, per costume
usa a far viver dopo morte altrui.


31

      Ben posso gir de l'altre donne in cima
fin dove il sole a noi nasce e diparte,
poi ch'io son scritta da le vostre carte,
Emo, e polita da la vostra lima.
      Il chiaro Achille ebbe la spoglia opima
d'onor fra gli altri gran figli di Marte,
non perché fusse tale egli in gran parte,
ma perché Omero lui alza e sublima.
      In me è sol amor, e disianza
di ber de l'acque del Castalio fiume,
ove voi spesso ed io ancor non fui.
      Se questo onesto mio disir s'avanza,
se un dì m'infonde Apollo del suo nume,
andrò lodando queste rive e vui.


32

      Porgi man, Febo, a l'erbe, e con quell'arte,
che suol render altrui salute e vita,
il mio buon Emo e 'l Tiepol nostro aita,
due che tengon di noi la miglior parte;
      e l'empia febre e le reliquie sparte,
onde han la faccia pallida e smarrita,
sia da lor, tua mercé, tosto bandita,
se disii presso noi famoso farte.
      Sì vedrai poi d'incensi e d'odor vari
e di votive tavole e di segni
carco il tuo tempio e' tuoi sacrati altari;
      et udrai mille e mille chiari ingegni
dir le tue lode e i fatti egregi e chiari,
onde fra gli altri dèi lodato regni.


33

      Ninfe, che d'Adria i più riposti guadi
sacre abitate, e tu, dea degli Amori,
che da quest'acque prima uscisti fuori,
care sì che 'l tuo Cipro men t'aggradi,
      a' modi adorni a meraviglia e radi,
a la maggior beltà ch'oggi s'onori,
al soggetto più degno di scrittori,
pur che sia stil ch'a sì gran segno vadi,
      a la Barozza, a cui nulla è seconda,
dei più ricchi tesor, che 'l mar vostro aggia,
ornate il crin e l'aurea treccia bionda.
      E lungo questa erbosa e chiara spiaggia
canti l'una di voi, l'altra risponda,
la vostra donna bella, onesta e saggia.


34

      Felice cavalier e fortunato,
a cui toccò fra tutti gli altri in sorte,
aver sì bella e sì nobil consorte,
e di sì chiaro ingegno e sì pregiato,
      voi potete obliar, standole a lato,
i gravi assalti di fortuna e morte,
perch'ella può con le due fide scorte
render tranquillo il ciel fosco e turbato.
      Coppia gentil, dopo mill'anni e mille
de' vostri veri pregi e vero onore
splenderanno fra noi chiare faville.
      Ed ancor fia chi dica pien d'ardore:
- Alme felici, poi che 'l ciel sortille
a sì bel nodo ed a sì santo ardore!


35

      Le virtù vostre e quel cortese affetto,
che mostrate, Guiscardo, avermi a parte,
e quel vergar de l'onorate carte
in lode mia sì chiaro e sì perfetto,
      hanno tanto poter dentro al mio petto,
che con quanto si può mai studio od arte
io son vòlta ad amarte ed onorarte,
quasi di vero onor nido e ricetto.
      Ma con quel sol e non altro disio,
che prescrive onestate, e che conviensi
al voler vostro ed a lo stato mio;
      perché l'amar con questi frali sensi
è amor breve; e spesse volte è rio,
ché n'ancide la strada, ond'al ciel viensi.


36

      Quel, che con tanta e sì larga misura
felice ingegno il nostro alto Fattore
vi diè, Guiscardo, e quel raro valore,
che de' più chiari il vivo raggio oscura,
      quel vago stil, quella cortese cura,
che a lodarmi sì v'infiamma il core,
non per mio merto, a tanta opra minore,
ma per mia rara e mia sola ventura,
      e sopra tutto quello amor, che tanto
mostrate avermi, che l'amato move,
e fa uno il voler quando è diviso,
      son cagion che v'onori ed ami, quanto
può donna chiaro ingegno, stile e viso;
però quanto onestà detti ed approve.


37

      Quel gentil seme di virtute ardente,
che germogliar nel vostro ingegno intende
fin da' primi anni, ed or tal frutto rende,
che n'è pieno Adria omai tutto, e lo sente,
      con quel disio, che sì fervidamente
spiegate in carte, che di me vi prende,
sì viva fiamma nel mio cor accende,
ch'a la vostra è minor o poco o niente.
      È ben ver ch'l disio, con ch'amo voi,
è tutto d'onestà pieno e d'amore,
perch'altramente non convien tra noi.
      Appagate di questo il vostro core,
spirto gentil, e fate noto poi
ne' vostri versi questo santo ardore.


38

      S'io non avessi al cor già fatto un callo
e patteggiato dentro col pensiero
non dar più luogo al despietato arciero,
mal trattata da lui quanto egli sallo;
      di farmi entrar ne l'amoroso ballo
novamente, e più crudo che 'l primiero,
per farmi uscir dal mio preso sentiero,
e commetter del primo un maggior fallo,
      avrian forza i vostr'occhi e quel cortese
atto e tante altre grazie e la beltade,
onde natura a farsi onor intese.
      Ma, per aver di me giusta pietade,
tanto ho di voi, non più, le voglie accese,
quanto permette onor et onestade.


39

      - Pastor, che d'Adria il fortunato seno
di tanti onori e tanti pregi ornate,
e de le rive sue chiare e pregiate
avete omai, cantando, il mondo pieno;
      pastor, ch'alto saper chiudete in seno
ne la più verde e più fiorita etate,
e, da radici uscendo alte e lodate,
fate col canto il ciel fosco e sereno,
      deh potess'io del vostro almo splendore
venir in parte e di quei chiari effetti,
ché non temerei morte o tempo oscuro.
      Così, lodando il suo saggio pastore,
Anassilla dicea, di dolci aspetti
ripieno il cielo, a l'aer chiaro e puro.


40

      Mentre al cielo il pastor d'alma beltate
Coridon alza l'una e l'altra Stampa,
e mentre l'una e l'altra arde ed avvampa
di far lui chiaro a questa nostra etate,
      in note di vivace amor formate,
d'amor, che solo in gentil cor s'accampa,
dice Anassilla al sol volta, che scampa
le forze avendo a più poter legate:
      - Deh, perché stil, vaghezza ed armonia
d'alzar lui non ho io, rime e concento,
a segno ove pastor mai non è stato?
      Perché a voglia sì santa e così pia
non risponde il poter, che in un momento
faria lo stato mio chiaro e beato?


41

      Qual è fresc'aura, a l'estiv'ora ardente,
a la stanca e sudata pastorella,
qual è a chi dorme in riva erbosa e bella
il mormorar d'un bel cristal corrente,
      qual di sol raggio in bel prato ridente
a fior che langue a la stagion novella,
qual certo porto a dubbia navicella,
ch'esce fuor di tempesta aspra e repente;
      tal fu il vostro apparir gradito tanto,
Priuli nostro, a nostre luci meste,
e le rime ch'agli altri han tolto il vanto.
      Quell'a noi stesse ne fu caro, e queste,
dopo il dipor del terren vostro manto,
ne faran chiare ovunque amor si deste.


42

      Chiunque a fama gloriosa intende
per via di chiaro stil, d'alto intelletto,
talor basso e vilissimo soggetto,
per essaltarlo poetando, prende.
      Omero, che per tutto fama stende,
alzò cantando un animal negletto;
e Virgilio, la lingua saggio e 'l petto,
de la zanzala, al ciel, scrivendo, ascende.
      Tal di noi, basso tema, fate vui,
che 'l nostro nome, indegno ch'uom riguardi,
alzate sì che non fia mai che moia.
      A voi, Priuli saggio, ceda lui,
che Mantov'orna e i bei campi lombardi,
e chi cantò Micena insieme a Troia.


43

      Cercando novi versi e nove rime
per poter far le lodi vostre cònte,
Apollo, sceso giù dal sacro monte,
l'orecchie mi tirò ne l'ore prime.
      - Altro ingegno, altro stile ed altre lime,
- mi disse - o d'eloquenzia un maggior fonte
ti converrebbe a poter stare a fronte
con soggetto sì degno e sì sublime.
      Un mar, che non ha fine e non ha fondo,
cerchi solcar, cercando di lodare
il riverendo a null'altro secondo.
      A tutt'altri le stelle fûro avare,
quando mandâr sì chiaro spirto al mondo,
a cui han dato ciò che si può dare.


44

      Soranzo, de l'imenso valor vostro
e de l'alte virtù tante e sì nove
raggio sì vivo e sì possente move
e di sì chiaro lume il secol nostro,
      che, volend'io vergar carta ed inchiostro,
sì come son or qui, sien note altrove,
la grandezza de l'opra mi rimove,
e ritarda lo stil quel che m'è mostro,
      io vinco ben tutt'altre di disio
in amarvi e onorarvi come deggio;
ma l'opra è tal, che vince il poter mio.
      Onde maggior virtute a chi può chieggio
da pagar tanto e sì devuto fio,
o vo' tacer di voi per non far peggio.


45

      Questo felice e glorioso tempio
de la più chiara dea ch'oggi s'onori,
poi ch'io non ho condegni incensi e fiori,
(colpa del duro mio destino ed empio)
      dietro a voi, che di morte fate scempio,
fra i più famosi e più saggi scrittori,
dotti figli d'Esperia, almi pastori,
di queste basse rime adorno ed empio.
      Ché, se m'avesse il cielo alzata dove
alzato ha lei, alzato ha 'l vostro stile,
o me lodata, o paghi e' disir miei!
      Voi dunque in rime disusate e nove
fate udir il suo nome a Battro e Tile,
e tutto quel ch'io vòlsi e non potei.


46

      Signor, s'a quei lodati e chiari segni
il vostro ingegno, i vostri studi e l'arte
v'hanno alzato, e 'l vergar di tante carte,
a' quai s'alzâro i più chiari e più degni,
      come poss'io, come i maggiori ingegni,
entrando in tanto mar con poche sarte,
quanto si vuol, quanto si de' lodarte,
sì che di nostro dir tu non ti sdegni?
      Certo il disire e debito mi sprona,
e via più la vostr'alta cortesia,
che talvolta di me pensa e ragiona.
      Ma l'opra è tal, tal è la penna mia,
tal di voi parla e sente ogni persona,
che, credend'io d'alzar, v'abbasseria.


47

      Voi, che di vari campi e prati vari
con la penna metendo biade e fiori,
mostrate ognor fra i più saggi scrittori,
ond'uomo si diletti ed onde impari;
      o degli ingegni al mondo eletti e rari,
di mille edere degno e mille allori,
il cui splendor non fia che discolori
l'invido oblio o gli anni empi ed avari,
      quante grazie vi rendo, Ortensio, poi
che senza merto mio, per vostri scritti,
n'andrò famosa dagl'Indi agli Eoi
      con tant'altre lodate e chiari invitti,
che per la vostra penna e pregi suoi
di morte o tempo non temon despitti.


48

      S'una sola eccellenzia suol far chiaro
chi la possede, e voi n'avete mille,
gradito cavalier, quai voci o squille
potran mai gire a' vostri merti a paro?
      Voi ne l'età più verde con quel raro
giudicio restingueste le faville
d'Inghilterra e di Francia, ove sopille
non puoté alcun di quanti unqua provâro.
      Voi di grandezza, voi di cortesia,
voi di presenzia, voi di nobiltate
v'alzate a segno, ov'altri non fu pria.
      Cantin di voi le penne più lodate;
che io, quanto potrà la penna mia,
vi farò chiaro a la futura etate.


49

      Mille fiate a voi volgo la mente,
per lodarvi, Fortunio, quanto deggio,
quanto lodarvi e riverirvi io veggio
da la più dotta e la più chiara gente;
      ma da l'opra lo stil vinto si sente,
con cui sì male i vostri onor pareggio;
onde muta rimango, ed al ciel chieggio
o maggior vena o desir meno ardente.
      Io dirò ben che, qualunque io mi sia
per via di stile, io son vostra mercede,
che mi mostraste sì spesso la via;
      perché 'l far poi del valor vostro fede
è opra d'altra penna che la mia,
e 'l mondo per se stesso se lo vede.


50

      Signor, che per sì rara cortesia
con rime degne di futura etate
sì dolcemente cantate e lodate
l'alto mio colle, l'alta fiamma mia,
      io priego Amor che, se spietata e ria
vi fu giamai la donna che ora amate,
ferendo lei di quadrella indorate,
la renda a' desir vostri molle e pia.
      E prego voi che 'l vostro chiaro stile,
lasciato me suggetto senza frutto,
si volga al signor mio chiaro e gentile;
      o per me son quasi un terreno asciutto,
sono una pianta abbandonata e vile,
colta da lui, e suo è 'l pregio in tutto.


51

      Non aspettò giamai focoso amante
la disiata e la bramata vista
di quel, per cui versò lagrime tante;
      non aspettò giamai anima trista,
e distinata nel profondo abisso,
la faccia del Signor di gloria mista;
      non aspettò giamai servo, ch'affisso
fosse a dura ed acerba servitute,
a la sua libertà 'l termine prefisso;
      non disiò giamai la giovintute
cara e gioiosa un uom già carco d'anni,
in cui tutte le forze son perdute;
      non disiò giamai d'uscir d'affanni
un, cui fortuna aversa afflige e preme,
carco e gravato d'infiniti danni;
      non aspettò giamai un uom, che teme
vicin a morte, la sua sanitate,
di cui era già giunto a l'ore estreme;
      non aspettò giamai le luci amate
di dilettoso caro e dolce figlio
benigna madre e carca di pietate;
      non aspettò giamai di gran periglio
sì disiosa uscir nave, a cui l'onde
e nemica tempesta dier di piglio;
      quant'io le carte tue care e gioconde,
Mirtilla mia, Mirtilla, a le cui voglie
ogni mia voglia, ogni disir risponde;
      Mirtilla mia, con la qual mi si toglie
ogni mia gioia ed ogni mio diletto,
restando preda di perpetue doglie;
      col cui leggiadro e grazioso aspetto
mi si rende ogni bene, ogni piacere
dolce, amoroso, caro, alto ed eletto.
      Ché, non potendo te propria vedere,
veder i frutti del tuo vago ingegno
è quanto di conforto io posso avere.
      Però, tosto ch'io vidi il caro pegno
de l'amor tuo, ver' me, l'amiche carte,
de la memoria tua perpetuo segno,
      quel piacer, che può dar a parte a parte
cosa dolce e gradita, ho sentit'io,
sì ch'a gran pena io lo potrei contarte.
      Quel c'ha turbato alquanto il gioir mio,
è stato entr'esse il legger e 'l vedere
cosa tutta contraria al mio disio,
      che la Mirtilla mia, degna d'avere
prospero corso e vera e dolce pace,
sia stata astretta per febre a giacere.
      Questo però fra 'l mezzo mal mi piace,
che la mercé di Dio vi sète presto
convaluta del mal aspro e tenace.
      Or attendete a conservar il resto
del tempo, che da me sarete lunge,
sì ch'anco a me non sia 'l viver molesto.
      Perch'un sol duol due corpi insieme punge,
sì come un solo amor ed una fede
ed una voluntà due cor congiunge.
      E, se talor di voi cerca far prede
qualche cura noiosa, adoperate
quell'estrema virtù, che 'l ciel vi diede,
      e fra tanto di me vi ricordate.


52

      - Di chi ti lagni, o mio diletto e fido,
sovra questo famoso e chiaro lido,
ove fan nido tante onorat'alme
felici ed alme?
      - Io mi lagno, signor, di due begli occhi,
onde eterna dolcezza avien che fiocchi,
né par che tocchi a lor, né dia lor noia,
perch'io mi moia.
      - Per le saette mie, per la mia face
che 'l tuo languir a gran torto mi spiace
ma, s'egli piace a chi vuol che ti sfaccia,
che vòi ch'io faccia?
      - Vo' che tu, che sol pòi soccorso darmi,
tu, che sei nostro dio, tu, ch'hai fort'armi,
onde aitarmi, o tempri il duro core
o 'l mio dolore.
      - Mille fiate e mille mi son messo
per saettar quegli occhi e gir lor presso;
ma 'l lume stesso sì m'ingombra, ch'io
non son più dio.
      - Or se tanto essi, e tu sì poco vali,
perché non cedi lor l'arco e gli strali
e faci ed ali e 'l tuo carro e 'l tuo regno,
come a più degno?
      - Io cederei di grado, pur che loco
mi desser que' begli occhi, e strali e foco,
ond'apro e cuoco; ma lor non aggrada
che seco vada.
      - Com'esser può ch'Amor voglia legarse
e farsi servo altrui, né possa farse,
e son sì scarse quelle vive stelle,
che stii con elle?
      - Elle hanno a schivo che di lor vittoria
abbia io, stando con lor, parte di gloria,
perché d'istoria è men degno colui
ch'è con altrui.
      - Dunque senza speranza e senza aita,
poi ch'è la deitade tua finita,
sarà mia vita il tempo che m'avanza
in disianza?
      - Così fia, lasso! ed io la face e l'arco
e le saette mie gitto ad un varco,
poi che son scarco, mercé di quel lume,
d'ogni mio nume.
      - Piangiamo insieme, l'un la deitate,
l'altro la sua perduta libertate,
senza pietade di colei, che sola
tutto n'invola.
      - Io volo al cielo. - Io resto fra quest'onde.
- Io Giove. - Io chiamerò chi non risponde.
Aure seconde, fate al mondo chiara
cosa sì rara.


53

      Felice in questa e più ne l'altra vita
chi fugge, come voi, prima che provi,
la miseria del secolo infinita;
      prima che dentr'al cor si turbi e movi
per tanti inaspettati uman cordogli,
e poi d'uscirne al fin loco non trovi.
      Felice anima, tu, che qui ti spogli
e de le nostre pene non ti dogli!
di questi affetti miseri e terreni.
      Tutti i tuoi dì saran lieti e sereni,
senz'ira, senza guerra e senza danni,
di pace, di riposo e d'amor pieni.
      Felice chi si fa, sotto umil panni,
di Cristo, signor suo, devot'ancella,
né prova i nostri maritali affanni!
      E, gli occhi alzando a la divina stella,
lascia quest'aspro e periglioso mare,
ch'aura giamai non ha senza procella!
      Felice chi non ha tant'ore amare,
né sente tutto 'l dì pianti e lamenti
o di troppo volere, o poco fare!
      Qui s'odon sol al fin con gran tormenti
o querele di figli o di consorte,
e mai de l'esser tuo non ti contenti.
      Infelice colei, ch'a questa sorte
chiama la trista sua disaventura,
ch'in vita sa che cosa è inferno e morte!
      Questa è una valle lagrimosa e scura,
piena d'ortiche e di pungenti spine,
dove il tuo falso ben passa e non dura.
      Infelici noi povere e meschine,
serve di vanità, figlie del mondo,
lontane, aimè, da l'opre alte e divine!
      Altre per far il crin più crespo e biondo
provan ogn'arte e trovan mille ingegni,
onde van de l'abisso l'alme in fondo.
      Infelice quell'altra move a' sdegni
il marito o l'amante, e s'affatica
di tornar grata e far che lei non sdegni.
      Ad altri più che a se medesma amica,
quella con acque forti il viso offende,
de la salute sua propria nimica.
      Infelice colei, che sol attende
da mezzo dì, da vespro e da mattina,
e tutto 'l giorno a la vaghezza spende;
      per parer fresca, bianca e pellegrina
dorme senza pensar de la famiglia,
e negli empiastri notte e dì s'affina!
      Infelice quest'altra de la figlia
grande, che per voler darle marito,
senza quietar giamai, cura si piglia!
      E, perché al mondo ha perso l'appetito
non fa se non gridar, teme e sospetta
de l'onor suo che non gli sia rapito.
      Infelice qualunque il frutto aspetta
de' cari figli, e sta con questa speme,
lagrimando così sempre soletta!
      Questo l'annoia poi, l'aggrava e preme,
che misera da lor vien disprezzata,
e di continuo ne sospira e geme.
      Infelice chi sta sempre arrabbiata,
e col consorte suo non ha mai posa,
mesta del tutto, afflitta e sconsolata!
      Tropp'accorta al suo mal, vive gelosa,
e col figliuolo suo spesso s'adira,
non gusta cibo mai, mai non riposa.
      Infelice quest'altra, che sospira,
ché sa che 'l suo marito poco l'ama,
e di mal occhio per mal far la mira!
      Alcuna in testimonio il cielo chiama,
che sa di non aver commesso errore,
e pur talor si duol de la sua fama.
      Infelice via più chi porta amore,
e di vane speranze e van desiri
si va pascendo il tormentato core!
      Altre pene infinite, altri martìri,
che narrar non si sanno, il mondo apporta,
mill'altre angosce e mill'altri sospiri.
      Felice chi sue voglie ha vòlte e sparte
al sommo Sole, al ben del paradiso,
e qui con umiltà pon cura ed arte!
      A voi convien, che 'l bel leggiadro viso
celate sotto puro e bianco velo,
avere il cor da uman pensier diviso.
      Felice voi, che, d'amoroso zelo
accesa, v'aggirate al vero Sole,
che luce eternamente in terra e 'n cielo!
      Voi correte qua giù rose e viole,
sarà del viver vostro il fin beato,
ch'altro non à di chi tal vita vuole.
      Felice voi, che avete consacrato
i vaghi occhi divini, il bel crin d'oro
a chi sì bella al mondo v'ha creato!
      È questo il ricco, il caro e bel tesoro,
quest'è la preziosa margherita,
onde, di palme al fin cinta e d'alloro,
      vittoria porterete a Cristo unita.


54

      Alma celeste e pura,
che, casta e verginella
stata tanto fra noi, sei gita al cielo,
dov'or sovra misura
ti stai lucente e bella,
di più perfetto accesa e maggior zelo,
perché nel mortal velo
rade volte altrui lice
unir perfettamente
al suo Fattor la mente,
sì trista è del nostro arbor la radice,
e sì forte n'atterra
questa del senso perigliosa guerra;
      tu vagheggi or beata
quell'infinito Sole,
di cui quest'altro sole è picciol raggio;
e la voglia appagata
hai sì, ch'altro non vuole,
giunta a l'ultimo fin di suo viaggio;
e la noia e l'oltraggio
e l'ombra di quel male,
che sostenesti in vita,
è per sempre sbandita,
salita in parte, ove dolor non sale,
ove si vive sempre
col primo Amor in dilettose tempre.
      Ben può gradirsi altero
il nostro sesso omai
per tanta donna e tanto a Cristo amica,
che, mancato il primiero
valor, spenti que' rai,
ch'illustrar già la santa schiera antica,
in questa età nemica,
dove 'l vizio governa,
sia stata una di noi,
che tutti i pensier suoi
abbia rivolto a quella luce eterna,
e qui fra queste rive
sia vissa sempre come in ciel si vive.
      Adria si lagna parte
del tuo da lei partire,
parte s'allegra, poi ch'al ciel sei gita;
ché, s'udirte e parlarte
le ha tolto il tuo morire,
or che sei sempre al sommo Ben unita,
potrai chiedergli aita,
quando il bisogno fia;
certo soccorso e fido
per lo tuo chiaro nido,
sì che sicuro e glorioso sia,
e fin quanto il sol giri
ciascun lo tema, riverisca e ammiri.
      Da que' superni chiostri,
ov'or sicura siedi,
tutta raccolta in chi di sé ti prese,
gli ardenti sospir nostri
a temprar talor riedi
con le voglie d'amor più vive e accese.
Mira, madre cortese,
i tuoi diletti figli
e la lor mesta casa,
or senza te rimasa
a le terrene noie ed a' perigli;
e siale, ancor lontana,
scorta e più che mai fida tramontana.
      Se 'n te, quant'è disio, fosse valore,
potresti leggiermente
alzarti al ciel fra quella santa gente.


55

      Alma onorata e saggia, che tornando,
dopo sì lungo corso, onde venisti,
vergine e pura qual dal ventre uscisti,
lasciato hai noi piangendo e disiando,
      ed or davanti al tuo principio stando
a cui vivendo ancor qua giù t'unisti,
de le degne opre tue mercede acquisti,
e d'esser gita lui mai sempre amando,
      mira dal cielo i tuoi diletti figli
qual del tuo dipartir cordoglio prema,
et Adria, che con lor t'onora ed ama.
      Quelli non è chi più guidi o consigli
senza il tuo senno, e questa resta scema
di chi le mostri ognor come Dio s'ama.


56

      Casta, cara e di Dio diletta ancella,
che, vivuta fra noi tanti e tant'anni,
ti sei sempre schermita dagli inganni
di questa vita neghittosa e fella,
      ed or semplice e pura verginella
sei gita a volo a quei superni scanni,
vero porto ed eterno degli affanni,
d'ogni nostr'atra e torbida procella,
      Adria ha visto e veder spera ancor segno
de la tua santa e gloriosa vita,
e fiorir frutti del tuo santo ingegno;
      e de' tuoi dolci figli insieme unita
la schiera, che ti fu sì caro pegno,
pur te sospira mesta e sbigottita.


57

      Quelle lagrime spesse e sospir molti,
che mandan fuor i tuoi figli diletti,
poi che salisti al regno degli eletti,
alma felice, che dal ciel n'ascolti,
      sien da la vera tua pietate accolti
qual si conviene a' lor ardenti affetti;
e quei pensier or casti e benedetti
sieno a la cura lor, se mai fûr, vòlti.
      E, sì come qua giù fosti lor guida
e madre e scorta, così su dal cielo
sii lor la vera tramontana e fida;
      sì che tutti infiammati di quel zelo,
che per dritto sentier a te ne guida,
di quest'ombre qua giù squarciamo il velo.


58

      Quando quell'alma, i cui disiri ardenti
sempre resse virtute ed onestate,
finito il corso di sua lunga etate,
salì al cielo, i mortai lumi spenti,
      l'eterno Re de le ben nate genti
raccolse lei ne la sua maestate,
e quelle squadre angeliche e beate
empiêro il ciel di non usati accenti.
      - Vieni, diletta virginella e pura
- s'udia dolce cantare, - a côrre il frutto
de la tua castità, lieta e sicura.
      Vieni, fedel, ché disdiceva in tutto
star sì raro miracol di natura,
sì gentil pianta, in un terreno asciutto.


59

      Di queste tenebrose e fiere voglie,
ch'io drizzai ad amar cosa mortale,
seguendo il van disio fallace e frale,
che sì rio frutto di sue opre coglie,
      s'avien che la tua grazia non mi spoglie,
poi che per me la mia forza non vale,
temo che l'aversario empio infernale
non riporti di me l'amate spoglie.
      Dolce Signor, che sei venuto in terra,
ed hai presa per me terrena vesta
per combatter e vincer questa guerra,
      dammi lo scudo di tua grazia, e desta
in me virtù, sì ch'io getti per terra
ogni affetto terren, che mi molesta.


60

      Quelle piaghe profonde e l'acqua e 'l sangue,
che nel tuo corpo glorioso io veggio,
Signor, che, sceso dal celeste seggio,
per vita al mondo dar restasti essangue,
      che nel mio cor, che del fallir suo langue,
vogli imprimer omai per grazia chieggio,
sì ch'al fin del viaggio, che far deggio,
non trionfi di me l'inimico angue.
      Scancella queste piaghe d'amor vano,
che m'hanno quasi gíà condotta a morte,
pur rimirando un bel sembiante umano.
      Aprimi omai del regno tuo le porte,
e per salir a lui dammi la mano;
perché a ciò far non giovano altre scorte.


61

      Signor, che doni il paradiso e tolli,
doni e tolli a la molta e poca fede
(per opre no, ch'a sì larga mercede
sono i nostri operar deboli e folli),
      da' tuoi alti, celesti e sacri colli,
ov'è 'l soggiorno tuo proprio e la sede,
china gli occhi al mio cor, che mercé chiede
del suo fallir co' miei umidi e molli.
      E, perché suol la tua grazia sovente
abuondare, ove il fallo è via maggiore,
per mostrar la tua gloria maggiormente,
      nel petto mio, ricetto d'ogni errore,
entra col foco tuo vivo ed ardente,
e, spento ogn'altro, accendivi il tu' amore.


62

      - Volgi a me, peccatrice empia, la vista -
mi grida il mio Signor che 'n croce pende;
e dal mio cieco senso non s'intende
la voce sua di vera pietà mista,
      sì mi trasforma Amor empio e contrista,
e d'altro foco il cor arde ed accende;
sì l'alma al proprio e vero ben contende,
che non si perde mai, poi che s'acquista.
      La ragion saria ben facile e pronta
a seguire il suo meglio; ma la svia
questa fral carne, che con lei s'affronta.
      Dunque apparir non può la luce mia,
se 'l sol de la tua grazia non sormonta
a squarciar questa nebbia fosca e ria.


63

      Purga, Signor, omai l'interno affetto
de la mia coscienzia, sì ch'io miri
solo in te, te solo ami, te sospiri,
mio glorioso, eterno e vero obietto.
      Sgombra con la tua grazia dal mio petto
tutt'altre voglie e tutt'altri disiri;
e le cure d'amor tante e i sospiri,
che m'accompagnan dietro al van diletto.
      La bellezza ch'io amo è de le rare
che mai facesti; ma poi ch'è terrena,
a quella del tuo regno non è pare.
      Tu per dritto sentier là su mi mena,
ove per tempo non si può cangiare
l'eterna vita in torbida, e serena.


64

      Volgi, Padre del cielo, a miglior calle
i passi miei, onde ho già cominciato
dietro al folle disio, ch'avea voltato
a te, mio primo e vero ben, le spalle;
      e con la grazia tua, che mai non falle,
a porgermi il tuo lume or sei pregato:
trâmi, onde uscir per me sol m'è vietato,
da questa di miserie oscura valle.
      E donami destrezza e virtù tale,
che, posti i miei disir tutti ad un segno,
saglia ove, amando il nome tuo, si sale,
      a fruire i tesori del tuo regno;
sì ch'inutil per me non resti e frale
la preziosa tua morte e 'l tuo legno.


65

      Dunque io potrò, fattura empia ed ingrata,
amar bellezza umana e fral qual vetro,
e l'eterna e celeste lasciar dietro
de la somma Bontà, che m'ha creata,
      e poi m'ha da la morte liberata
e da l'inferno tenebroso e tetro,
se del fallir mi pento qual fe' Pietro,
poi che tre volte già l'ebbe negata?
      Dunque io potrò veder di piaghe pieno
il mio Fattor, per me sospeso in croce,
e d'amor e di zel non venir meno?
      Dunque non drizzerò pensieri e voce,
ogn'altro affetto uman spento e terreno,
solo a' suoi strazi, a la sua pena atroce?


66

      Mesta e pentita de' miei gravi errori
e del mio vaneggiar tanto e sì lieve,
e d'aver speso questo tempo breve
de la vita fugace in vani amori,
      a te, Signor, ch'intenerisci i cori,
e rendi calda la gelata neve,
e fai soave ogn'aspro peso e greve
a chiunque accendi di tuoi santi ardori,
      ricorro, e prego che mi porghi mano
a trarmi fuor del pelago, onde uscire,
s'io tentassi da me, sarebbe vano.
      Tu volesti per noi, Signor, morire,
tu ricomprasti tutto il seme umano;
dolce Signor, non mi lasciar perire!